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R. V. F.

CXXVI, «CHIARE FRESCHE ET DOLCI ACQUE»


Author(s): Enrico Fenzi
Source: Italianistica: Rivista di letteratura italiana , SETTEMBRE/DICEMBRE 1991, Vol.
20, No. 3 (SETTEMBRE/DICEMBRE 1991), pp. 455-486
Published by: Accademia Editoriale

Stable URL: https://www.jstor.org/stable/23933953

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Enrico Fenzi

R. V. F. CXXVI, «CHIARE FRESCHE ET DOLCI ACQUE»

Sono molti gli incanti della canzone CXXVI del Petrarca, Chiare fres
dolci acque; ne hanno fatto esperienza intere generazioni di lettori e com
tatori. Nelle sue stanze, più e meglio che altrove, appare insolubile il
che il linguaggio della poesia ha stretto tra l'attualità delle immagin
presente continuo della coscienza e l'effimero corso della loro vita:
nascere e fissarsi e dissolversi lungo una linea di torsione di cui le imma
stesse, nella loro paradossale e puntualmente smentita eternità, costituis
il nerbo, la sostanza. Borges ha scritto, di sé: «Il tempo è la sostanza
son fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una
che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io s
fuoco». Con metafore più tranquille, potremmo dire lo stesso della canzo
Il tempo è la materia di cui è fatta, ed essa stessa è prima di tutto un'im
ne del tempo, ma il tempo non è infine altra cosa dalla canzone che lo r
senta ... Ed è precisamente qui che si nasconde ciò che fa di Chiare fresc
dolci acque, in modo intimo e diretto, un testo dall'inconfondibile impr
agostiniana, un frutto maturato con prodigiosa naturalezza dalle pagi
libro undecimo delle Confessioni, dedicate, appunto, a definire che co
il tempo. Proprio questo, nelle brevi note che seguono, vorrei rius
dimostrare.

1. La partitura temporale della canzone si sviluppa essenzialmente sec


due momenti/movimenti. Il primo, dal presente dell'evocazione e del
ghiera va verso il fantasticato futuro in cui Laura forse tornerà al luogo
co dove già è apparsa, e piangerà sulla tomba del poeta morto (stanze 1-3
secondo, dalle dispiegate splendide immagini del passato («Da' be' ra
scendea ... ») risale al presente, finalmente raggiunto, nel distico fina
l'ultima stanza, come stato, come durata attuale e pervasiva del desid
amoroso; «Da indi in qua mi piace / questa erba sì, ch'altrove non ò
(stanze 4-5). In schema:

futuro

presente i presente

dove il piano del presen


semplicissima rappresen

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quella della massima chiarezza


particolare, la prima stanza vu
debolissimo, votato al ricordo d
di cui continua a nutrirsi - e pe
futuro delle sue stesse parole: «
extreme».

Il tempo della prima stanza, insomma, è quello ambivalen


squisitamente aperto e introduttivo della memoria e dell'attesa:
treme sono già le parole del morente che immagina la propria to
dalla donna amata e, con più esatta corrispondenza, la memor
data a quel punto del passato dal quale la quarta stanza ripart
abbandono — e con l'esplicita ripresa dell'inciso che segna l'i
stanza: «con sospir mi rimembra», e «dolce ne la memoria».
Se il grafico, dunque, non dà conto di un primo tempo che in
gli sviluppi successivi, riesce però a mettere in evidenza alm
l'andamento per dir così ascendente dei due diversi movimenti,
al futuro e dal passato al presente, e quel precipizio, quel balz
che li divide là dove, tra la terza e la quarta stanza, dalla pun
quel protendersi in avanti si ricade istantaneamente al punto
regressione nel passato: a «quel dì» nel quale Laura apparve, a
pioggia di fiori, su quell'erba, presso quelle acque.
Questa caduta nel vuoto che si apre tra una stanza e l'altra
tempo medesimo, l'essenziale percezione mentale del suo tr
spazio è immobile e perfetto: le acque, i rami, i fiori, le erbe
attraverso il tempo, gli stessi. Così, è rovesciato il tema top
nanza: non lo stesso tempo in luoghi diversi ('che sarà ora de
mentre io sono qui, lontano da lei, di là dai monti, oltre il mare
l'identico luogo, di un'identità puntuale, insistita, assoluta, in te
Ancora, la caduta oltrepassa il piano del presente. Il fragile p
prima stanza, che teneva insieme ricordi e attese, si è scisso
cessato di imporsi come forma attuale della durata. Radical
provviso non esiste altro modo del presente che non consista ne
immagine di ciò che sarà e di ciò che non è più. Nessuna mediazi
altro tempo allenta la frizione tra futuro e passato.
Credo che a questo proposito la reazione di lettura più sin
stata, sin qui, quella di Ludovico Antonio Muratori, che scriveva
e la quarta stanza: «Questo è un gran salto, e un salto quasi mort
ché il P. non pian piano, e non con qualche preparazione si lascia
da un oggetto mestissimo ad uno totalmente opposto, ma vi piom
senza che i lettori possano, se non per avventura con gran fat
qual ordine, qual verisimile sia in sì fatto disordine. Pare inso
rimasta nella penna al P. o siasi smarrita un'altra stanza, ch
passaggio dalla terza a questa. Non oserei però io qui condannare

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so che Pindaro ne fa di più belle; e non è facile il determinare i confini a i
salti poetici; e la presente stanza ha finalmente qualche attacco e relazione
alla stanza prima...».
Il salto c'è, abbiamo visto, e vertiginoso. E la pedagogica provocazione del
Muratori — è come se mancasse una stanza — riesce a sottolinearlo con grande
efficacia. Anche se non è certo il passaggio da un «oggetto mestissimo» a uno
lieto, notato di un eccesso di audacia, che ci intriga; e anche se la sostanza
sensibile, la materialità di un tale sprofondamento nel tempo coglie noi,
lettori moderni, in modo tutt'affatto diverso dai nostri predecessori: se non
altro, perché nel gran vuoto che ci si spalanca di colpo nel cuore abbiamo
imparato a cadere almeno un'altra volta, con tanta intensità, dinanzi all'ulti
ma parte della leopardiana Sera del dì di festa. Dove però l'attimo della
caduta, lo scatto, è dato non già dal totale ossessivo abbandono all'immagine
interiore e al tempo suo proprio, ma da un pungente stimolo fisico che arriva
dall'esterno, «il solitario canto / dell'artigian» che risuona nella notte e muo
re a poco a poco. Dal futuro al passato, dunque. Proprio come fa il tempo, il
quale non «può passare che dal futuro, attraverso il presente, verso il passa
to, ossia da ciò che non è ancora, attraverso ciò che non ha estensione, verso
ciò che non è più ... finché con la consumazione del futuro tutto non è che
passato»1. Agostino continua con l'esempio, memorabile, della canzone:
«Accingendomi a cantare una canzone che mi è nota, prima dell'inizio la mia
attesa si protende verso l'intera canzone; dopo l'inizio, con i brani che vado
consegnando al passato si tende anche la mia memoria. L'energia vitale del
l'azione è distesa verso la memoria, per ciò che dissi, e verso l'attesa, per ciò
che dirò: presente è però la mia attenzione, per la quale il futuro si traduce in
passato. Via via che si compie questa azione, di tanto si abbrevia l'attesa e si
prolunga la memoria, finché tutta l'attesa si esaurisce, quando l'azione è
finita e passata interamente nella memoria. Ciò che avviene per la canzone
intera, avviene anche per ciascuna delle sue particelle, per ciascuna delle
sue sillabe, come pure per un'azione più lunga, di cui la canzone non fosse
che una particella; per l'intera vita dell'uomo, di cui sono parti tutte le azioni
dell'uomo; e infine per l'intera storia dei figli degli uomini (Sai. 30, 20), di
i»2.
cui sono parti tutte le vite degli uomini*

1. «Unde nisi ex futuro? Qua nisi per praesens? Quo nisi in praeteritum? Ex ilio ergo, quod nondum
est, per illud quod spatio caret, in illud, quod iam non est»; «donec consumptione futuri sit totum
praeteritum» (Conf. XI 21, 27 e 27, 36). Nel testo, qui e in seguito, riporto la traduzione di Carlo
Carena, in Sant'Agostino, Le confessioni, Milano, Mondadori 1984. Sulle pagine agostiniane dedicate
al problema del tempo la bibliografia è assai vasta: mi limito a segnalare la recente rilettura di Paul
Ricoeur, nel primo capitolo del suo Tempo e racconto. I (1983), Milano, Jaca Book 1986.
2. «Dicturus sum canticum, quod novi: antequam incipiam, in totum expectatio mea tenditur, cum
autem coepero, quantum ex illa in praeteritum decerpsero, tenditur et memoria mea, atque distenditur
vita huius actionis meae in memoriam propter quod dixi et in expectationem propter quod dicturus sum:
praesens tarnen adest attentio mea, per quam traicìtur quod erat futurum, ut fiat praeteritum. Quod

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458 Enrico Fenzi

Di una tale esperienza e del


fa essa stessa figura concre
sacri alla devozione amorosa —
rappresi in immagini che de
che le ha rese percepibili e
tempo. Ne risulta così ricomp
resta invece distinto nella l
quando il pensiero di Petra
vastità dello spazio che lo c
inde animum nova cogitatio
19). Ma c'è qualcosa di speci
rimanere: prima di tutto qu
passato — l'attesa e la memor
canto a sua volta pieno del
mento, sino al punto finale
Petrarca fissa, infatti, in for
di grande effetto alla 'fine d
anche ogni vita e ogni storia.
presente e compiuta e reale
cro della tensione verso il fu
e verserà le sue lacrime sulla
il suo tempo, ormai tutto c
compie questo tragitto men
come memoria del futuro —
proprio tempo, da un 'oltre
vicenda che si è interament
sua fine, del suo essere tut
lacrime di Laura, sublime te
salvarsi e continuare ad esis
Supponiamo che Agostino
verso la parte restante, che
equamente spartita con la m
supponiamo che in Chiare fre
vicenda amorosa nei termin
vive, quando l'atto del cantar
di una tale doppia memoria, m
di tempo ... Le due memorie

quanto magis agitur et agitur, tanto b


consumatur, cum tota illa actio finita
particulis eius fit atque in singulis syl
canticum, hoc in tota vita hominis,
filiorum hominum, cuius partes sunt

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R. V. F. CXXVI, «Chiare fresche et dolci acque» 459
lo divora; quella di ciò che non è ancora e quella di ciò che non è più — si
scoprono della medesima natura, fatte dell'identica sostanza che si sovrappo
ne, si alterna, ruota vertiginosa attorno al punto «senza estensione» del pre
sente. Ed ecco allora che l'istantaneo salto dal futuro della terza stanza al
passato della quarta appare, nella canzone, in un luce alquanto diversa. E
ancora un salto, sì, come il Muratori avvertiva, ma un salto du même au
même: un istantaneo passaggio tra due momenti lontani eppure in qualche
modo entrambi presenti; divaricati eppure entrambi attuali nella coscienza
del poeta che inscrive la sua storia d'amore tra i poli della memoria e dell'at
tesa. E il presente, che sembrava risucchiato via da una parte e dall'altra,
finisce dunque per rivelarsi paradossalmente esistente proprio in ciò che lo
nega, che lo priva di estensione, in questa immediata frizione e coesistenza
di futuro e passato: esistente lungo l'invisibile asse della canzone, quello che
passa per la 'stanza mancante'... Perché questa appunto è la dimensione sua
propria. E perché questa appunto appare essere la natura stessa del tempo,
secondo Agostino: «Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato
esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro.
Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente
del presente, presente del futuro. Queste specie di tempi esistono in qualche
modo nell'animo e non vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il
presente del presente la visione, il presente del futuro l'attesa. Mi si permet
tano queste espressioni, e allora vedo e ammetto tre tempi, e tre tempi ci
sono»3. Solo nello spirito si misura il tempo — «In te, anime meus, tempora
metior» —, il quale è una sorta di distensione dell'anima («tempus esse quan
dam distentionem ...»: Conf. XI 23, 30) che rende possibile, nel presente, la
coesistenza di futuro e passato e fa sì, in ispecie, che una delle operazioni
fondamentali della coscienza sia proprio la percezione della durata. Agostino
ancora: «Ma come diminuirebbe il futuro, che ancora non è, e come cresce
rebbe il passato, che non è più, se non per l'esistenza nello spirito, autore di
questa operazione, dei tre momenti dell'attesa, dell'attenzione e della memo
ria? Così l'oggetto dell'attesa fatto oggetto dell'attenzione passa nella memo
ria. Chi nega che il futuro non esiste ancora? Tuttavia esiste già nello spirito
l'attesa del futuro. E chi nega che il passato non esiste più? Tuttavia esiste
ancora nello spirito la memoria del passato. E chi nega che il tempo presente
manca di estensione, essendo un punto che passa? Tuttavia perdura l'atten
zione, davanti alla quale corre verso la sua scomparsa ciò che vi appare.
Dunque il futuro, inesistente, non è lungo, ma un lungo futuro è l'attesa

3. «Quod autem nunc liquet et claret, nec futura sunt nec praeterita, nec proprie dicitur: tempora sunt
tria, praeteritum, praesens et futurum, sed fortasse proprie diceretur: tempora sunt tria, praesens de
praeteritis, praesens de praesentibus, praesens de futuris. Sunt enim haec in anima tria quaedam et alibi
ea non video, praesens de praeteritis memoria, praesens de praesentibus contuitus, praesent de futuris
expectatio. Si haec permittimur dicere, tria tempora video fateorque, tria sunt» (Conf. XI, 20, 26).

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460 Enrico Fenzi

lunga di un futuro; così non


passato è la memoria lunga d
Tornando a Chiare fresche et
sempre più essa mi appare co
di dimostrazioni: applicazione
strutturata; nei modi della l
che ribadisce il valore per di
di un presente che fa vivere
disposti secondo una circolar
to sopra) che traduce nel respi
con la quale lo spirito si 'disten
minuzioso presente della vision
degli incipit della prima e de
intrisa di questo presente, ago
ogni esperienza umana del tem
bilità e pensabilità. E ciò è pr
nel conclusivo e lungo present
mente più forte di quel: «Da in
non ò pace», che mi pare suon
delle petrose dantesche, la se
pascendo l'erba», non fosse
trarca, con grande bravura, co
che di tale fissazione e di ta
quella che caratterizza, appun
suto sotto l'imperio dell'amo
escursioni nel futuro e nel p
Questa osservazione sottolin
e cioè che Petrarca non desum
(fedele in ciò al suo insegnam
l'analisi esaustiva di un fatt
intendo qui prendere la via d

4. «Sed quomodo minuitur aut consumit


tum, quod iam non est, nisi quia in an
meminit, ut id quod expectat per id quod
nondum esse? Sed tarnen iam est in anim
Sed tarnen est adhuc in animo memoria
in puncto praeterit? Sed tarnen perdurât
tempus futurum, quod non est, sed long
tum tempus, quod non est, sed longum
5. Ciò valga solo come leggera atten
canzone sarebbe «praticamente esente
Italiennes», n. s. XXIX, 1-3 (1983), p. 2
i lavori di Marco Santagata, ora raccolti
Bologna, Il Mulino 1990).

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R. V. F. CXXVI, «Chiare fresche et dolci acque» 461
inevitabilmente e giustamente raddoppiato dall'altro, sul 'senso della
labilità'6, ma vorrei invece restare nei limiti assai brevi che mi sono prefissa
to, notando ancora come la canzone petrarchesca viva di quella memoria che
Agostino definiva «luce degli intervalli di durata» («memoria, quod quasi
lumen est temporalium spatiorum»: De Musica VI 8, 21), e come questa luce,
manzonianamente, «piove di cosa in cosa, / e i color vari suscita / dovunque
si riposa». E il colpo di genio di Petrarca, se posso dir così, non sta tanto nel
nominarla (e pure la nomina: «con sospir' mi rimembra ... dolce ne la memo
ria»), quanto nel farla agire in modo tale che i luoghi e le cose evocate e la
sua vicenda d'amore in essi diventino, direttamente, emanazioni, corpi, cri
stalli di tempo. Onde l'infinita risonanza del loro potere evocativo, una volta
che siano stati intimamente associati e, per dir meglio, fatti materia di quella
distensione dell'anima in cui propriamente il tempo consiste.
Acque, rami, erbe, fiori... Queste «sostanze sottratte all'azione (perciò alla
violenza) e al tempo» (Contini) sono tanto cose concrete quanto, appunto,
intervalli di durata, segni di continuità, presenze che valicano i vortici del
tempo e riemergono ogni volta che la luce della memoria torna a illuminarle,
legando in maniera indissolubile la fissità al moto che la comprende, il non
tempo al tempo che lo contiene. Facendo della fissità e del non-tempo l'es
senza ultima del moto e del tempo, e rendendo per questa via l'evidenza del
loro trascorrere attraverso l'abisso che si fa compiutamente e dolorosamente
percepibile solo nell'istantaneo presente della memoria, e che di là da questo
non cessa un istante di rinviare allo sprofondamento finale: «Pervenuto a
questo punto della mia lettera, stavo pensando se altro dire o non dire di più,
e frattanto, com'è mio costume, battevo sulla carta bianca col manico della
penna. Questo fatto stesso mi diede occasione a pensare che durante i più
piccoli intervalli il tempo corre, e anch'io intanto corro, parto, vengo meno e,
a parlar propriamente, muoio»7.

6. Rinvio, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, al bell'intervento di Gianfranco Folena,


L'orologio del Petrarca, «Libri e Documenti» (rivista dell'Archivio Storico Civico e della Biblioteca
Trivulziana di Milano), V, 3 (1979), pp. 1-12, e all'ampio lavoro, in due puntate, di EDOARDO Taddeo,
Petrarca e il tempo: la prima, Il tempo come tema nelle opere latine, «Studi e problemi di critica testua
le», XXV (1982), pp. 53-76; la seconda, Il tempo come tema nelle 'Rime', ibid. XXVIÏ (1983), pp.
69-108. Ma, tra molti, va ricordato Umberto Bosco, per il capitolo II senso della labilità nel suo
Francesco Petrarca (1946), Bari, Laterza 19612, pp. 54-67, in cui si individua appunto il 'senso della
labilità' come il nucleo più profondo dell'ispirazione petrarchesca, e Gianfranco Contini, per molti
del 'cappelli' alle poesie di Petrarca nell'antologia Letteratura italiana delle origini, Firenze, Sansoni
1970: per es. al son. 1, p. 579 («La lacerante novità [...] è che la presenza dell'esperienza (un presente
che nella più alta pratica medievale tendeva all'eternità, valida per tutti) qui è perennemente schermata
attraverso un velo, il senso del tempo che scorre»); al son. CLXVIII, p. 607 («Patetica specificazione del
tema generale del Canzoniere, che è: amore nel tempo»); al son. CCLXXII, p. 613 («Il sentimento del
tempo petrarchesco tocca qui modernamente il suo limite: né passato né presente né futuro danno
affidamento e consolazione. Questa intellettualistica e come grammaticale concezione a tre termini cede
però alla reale dialettica d'un'opposizione bipolare: ricordo e attesa ...»), ecc.
7. «Ecce ad hunc locum epystole perveneram deliberansque quid dicerem amplius seu quid non

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462 Enrico Fenzi

2. Rileggiamo ancora una vo


Da' be' rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior' sovra '1 suo grembo;
et ella si sedea
humìle in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch'oro forbito et perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra, et qual su l'onde;
qual con un vago errore
girando parea dir: «Qui regna Amore».

In tema di fonti, a proposito di questi versi che tanto hanno contribuito all'u
niversale fama della canzone, i commentatori sono sempre stati assai parchi.
Per lo più, sulle orme dello Scarano (ma l'osservazione risale almeno al Bia
gioli), si allega l'apparizione di Beatrice a Dante, al sommo del Purgatorio
(Purg. XXX 28 sgg.):
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel cinta d'uliva
donna m'apparve ...

E questo rimando, s'intende, va subito allargato ai versi appena precedenti,


in cui gli angeli, «fior gittando e di sopra e dintorno» ricantano il virgiliano:
«Manibus date liba plenis» (Aen. VI 883), detto da Anchise in lode del
nipote di Ottaviano, Marcello, immaturamente scomparso. Non è davvero
molto, pur aggiungendo da un lato che il richiamo alla Commedia ha prodotto
interessanti interpretazioni che implicano un più complesso rapporto di Pe
trarca con il modello dantesco; e dall'altro, che recentemente uno studioso
francese ha ampliato l'area dei possibili riscontri ricordando sia il mito di
Giove, che sedusse Danae sotto forma di pioggia d'oro8, sia le parole dell'ar
cangelo Gabriele a Maria: « ... et virtus Altissimi obumbravit tibi» (Luca 1,

dicerem, hec inter, ut assolet, papirum vacuam inverso calamo feriebam. Res ipsa materiam obtulit
cogitanti inter dimensionis morulas tempus labi, meque interim collabi abire defìcere et, ut proprie
dicam, mori» (Fam. XXIV 1, 26). Sopra, ho riportato la traduzione di Enrico Bianchi, in Petrarca,
Opere, Firenze, Sansoni 1975, p. 1245, prendendomi la libertà di mutare in intervalli l'originale indugi.
Credo che questo passo, spesso citato, sia stato messo in risalto la prima volta dal Bosco, nelle pagine
sue appena ricordate.
8. Come aveva già fatto, in precedenza, una studiosa americana, Nancy J. VlCKERS: vd. avanti, n. 25.

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141.20.10ff:ffff:ffff:ffff on Thu, 01 Jan 1976 12:34:56 UTC
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R. V. F. CXXVI, «Chiare fresche et dolci acque» 463
35), attribuendo dunque alla pioggia di fiori che avvolge Laura una portata
metaforica, quale epifania di un atto di fecondazione divina9.
La proposta è, oltre che seducente, appropriata, e va senz'altro raccolta.
Ma, prima di proseguire su strade particolari, vorrei aggiungere che si riesce
facilmente a smentire quanto più volte è stato detto, e cioè che l'immagine
petrarchesca sarebbe priva di precedenti classici. Basta richiamare, per co
minciare, un altro passo di Virgilio che, seppure in modo più sottile, non è
meno significativo di quello sopra ricordato. Nell'atmosfera ricca di presagi e
di tensione messianica della quarta egloga, l'ignoto puer che riporterà sulla
terra l'età dell'oro sarà accolto da una pioggia di fiori, che la culla stessa
riverserà su di lui (IV 23):

Ipsa tibi blandos fundent cunabula flores.

E ancora un simile evento, portentoso simbolo di consacrazione divina, torna


in una delle 'odi romane' di Orazio, là dove il poeta racconta come, fanciullo
stanco di giochi, si fosse addormentato all'aperto, e come le colombe l'aves
sero tutto ricoperto di tenere fronde d'alloro e di mirto:

[me] ludo fatigatumque somno


fronde nova puerum palumbes
texere; mirum quod foret omnibus

ut tuto ab atris corpore viperis


dormirem et ursis, ut premerer sacra
lauroque collataque myrto10.

Queste consacranti - e protettive - aspersioni di fiori e fronde già arricchi


scono, mi pare, l'alone allusivo dei versi petrarcheschi, e ancor più precisa
mente lo fanno se le associamo, con qualche libertà, al diverso e però affine
prodigio che prevede lo sbocciare dei fiori al passaggio della creatura privile
giata: una creatura divina, prima di tutto, come la Venere dell'inno lucrezia

9. P. Blanc, nel commento alla trad. francese dei R. V. F., Paris, Garnier 1988, pp. 242-243. Il
passo del Blanc è citato da Michel David, La canzone 126 dei 'rerum vulgarium fragmenta', Padova,
Soc. Coop. Tip. 1989, p. 142 (estr. dagli «Atti e Memorie dell'Accad. Patavina di Scienze, Lettere ed
Arti», vol. C, 1987-1988, p. III). A questo ricco e importante contributo rimando in modo particolare,
anche per le tante cose che restano fuori da questo mio. Il quale vorrebbe almeno cominciare a soddisfa
re l'esplicita richiesta del David, che scrive: «Sulla pioggia di fiori, la ricerca del topos è da fare. Monti
nella Proposta si è lamentato che i latini non avessero in questo preceduto il P. Catullo è floreale ma non
mi pare che accenni a una pioggia di petali. Il tema sarà invece sfruttato ossessivamente da D'Annunzio
...» (ibid.).
10. Od. Ili 4, 9-19. Giorgio Pasquali, Orazio lirico. Studi ..., a cura di A. La Penna, Firenze, Le
Monnier 1964, p. 693, per questo avvenimento soprannaturale che presagisce la futura grandezza del
poeta, rinvia a Pindaro, Olimp. VI 54 ss. Cfr. pure E. Fraenkel, Horace, Oxford, Clarendon Press
1957, pp. 273 ss., e V. Cremona, La poesia civile di Orazio, Milano, Vita e Pensiero 1982, pp.
228-238, con ampia bibliografia.

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464 Enrico Fenzi

no (De rer. nat. I 7-8), o in


Claudiano (Laus Ser. 89-91):
...Quacumque per herbam
reptares, fulgere rosae, cande
lilia.

Il quale Claudiano proprio qu


offre lo spunto decisivo a Petr
una Laura ancora bambina ch
tutto ciò che tocca rende ver
«fiorir coi belli occhi le cam
samente, fa Zefiro, quando la
ga come un vero e proprio 'trio
il sonetto Zephiro torna e '/
ricapitolazione in chiave classic
dell'esordio primaverile, e, ind
323 ss.; III 242 ss.), e Lucre
Zefiro è chiamato a far sbocci
88-91):
...ille novo madidantes nectare pennas
concutit et glebas fecundo rore maritat,
quaque volat vernus sequitur rubor; omnis in herbas
turget humus medioque patent convexa sereno.

Spero non si tratti di indicazioni divaganti, ma piuttosto di un essenziale giro


d'orizzonte, dove molto sarebbe da vedere con più cura di quanto si faccia
qui, ma dove pure qualcosa si riesce a fermare. Prima di tutto, il fatto che
quei canonici rimandi all'apparizione di Beatrice e al verso di Virgilio quali
uniche e decisive auctoritates hanno probabilmente velato la speciale pre
gnanza amorosa e persino tecnicamente erotica della petrarchesca pioggia di
fiori, dichiarata, per es., in un testo ancora sconosciuto all'età di Petrarca,
l'epitalamio per Stella e Violentilla di Stazio, Sylv. I 2, 19-23:
nec blandus Amor, nec Gratia cessât
amplexum niveos optatae coniugis artus
floribus innumeris et olenti spargere nimbo.

11. E ancora nel Tr. Fame III 18: «et un al cui passar l'erba fioriva» (per il quale si veda pure PERSIO,
Sat. II 38: «quicquid calcaverit hic, rosa fiat»), detto di Cicerone, il quale dunque «tende a condividere
con l'Amante unimagery affine» (così Marco Ariani, nella nota ad 1. nella sua ed. dei Triumphi,
Milano, Mursia 1988, p. 333: ma i rimandi che egli offre non sono, in questo caso, molto pertinenti). Si
veda ancora, almeno, l'attacco del son. CXCIV: «L'aura gentil, che rasserena i poggi / destando i fior'
per questo ombroso bosco, / al soave suo spirto riconosco ... », e soprattutti CLXV 1-4: «Come '1 candido
pie' per l'erba fresca / i dolci passi honestamente move, / vertù che 'ntorno apra et rinove, / de le tenere
piante sue par ch'esca».

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R. V. F. CXXVI, «Chiare fresche et dolci acque» 465
Tu modo fronte rosas, violis modo lilia mixta
excipis, et dominae niveis a vultibus ostas.

Quella pioggia è dunque legata in modo delicato ma sicuro alle immagini


topiche della forza generativa e perciò amorosa, nel suo pieno senso cosmico,
che scuote e anima la natura primaverile, quando «l'aria et l'acqua et la terra
è d'amor piena», e «ogni animai d'amar si riconsiglia» (sì che, per parte mia,
ancora in tema di pioggia amorosa e fecondante, non posso non ricordare la
concentrata potenza di Dante, nel congedo di Io son venuto, 66-68: «Canzo
ne, or che sarà di me ne l'altro / dolce tempo novello, quando piove / amore in
terra da tutti li cieli ...?»). Ho ricordato sopra il celebre passo di Lucrezio
(«It ver et Venus, et Veneris praenuntius ...»), e dunque La primavera del
Botticelli, e la Nascita di Venere, con la traboccante pioggia di fiori in cui, là,
si trasforma il respiro di Clori raggiunta da Zefiro (secondo Ovidio, Fast. V
193-214), e qui, con le rose che cadono ondeggiando verso il mare spumoso,
avvolgendo, ancora, Zefiro e Clori, mentre con il loro soffio spingono Venere
a riva12. Ora, dopo sortite tanto elementari quanto inevitabili, è più facile
tornare a Petrarca e agli autori che gli erano noti, ed è soprattutto più facile
collocare nel largo àmbito che le compete l'immagine supremamente evocati
va che riempie di sé la stanza quarta della canzone. Ed è, a tutta prima,
l'àmbito che riguarda le vittorie di Amore, la sua affermazione nel mondo, nei
confronti di ogni creatura. Così, è proprio assistendo alla sfilata del suo
corteo trionfale che Venere, dall'alto dell'Olimpo, versa su di lui una pioggia
di rose (Ovidio, Amores I 2, 39-40):

Laeta triumphanti de summo mater Olympo


plaudet et adpositas sparget in ore rosas.

E ancora una siffatta pioggia torna in entrambi gli epitalami di Claudiano. In


quello per Palladio e Celerina sono gli Amori che versano fiori sul talamo
nuziale (116-119):

Ut thalami tetigere fores, tum vere rubentes


desuper invertunt calathos largosque rosarum
imbres et violas plenis sparsere pharetris
collectas Veneris prato ...

mentre in quello per le nozze di Onorio e Maria sono i soldati che festeggiano

12. Cfr. E. PANOFSKY, Rinascimento e rinascenze nell'arte occidentale, Milano, Feltrinelli 1984, pp.
223-232, con il rinvio a una serie di studi tanto importanti quanto famosi di Aby Warburg (1983), di
Jean Seznec, (1940), di Ernst H. Gombrich (1945), di Edgar Wind (1950), ecc. La citazione sopra
allegata di Stazio, e poi Lucrezio e Botticelli ... Non si può dunque non ricordare un testo nel quale tale
pregnanza erotica è ripresa e fatta, se possibile, ancora più esplicita: le Stanze del POLIZIANO, I 122,
5-6: «di rose sovra a lor pioveva un nembo / per rinnovarli all'amorosa traccia».

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466 Enrico Fenzi

il padre della sposa, Stilicon


298):

...nec signifer ullus


nec miles pluviae flores disper
cessât purpureoque ducem per

A questo punto, oltre all'inc


motivo, emerge un filo tutt'af
porta interessanti conferme.
per Onorio e Maria di Claudi
fale ch'è in cima al Purgatorio
per il Tr. Cupidinis, in ispe
documentato da Martellotti co
res abbia contribuito in modo
sa del 'trionfo' d'Amore, strut
dei generali vittoriosi14; co
confermato Martellotti, il De
regno di Venere in Cipro, è la
trova nel cap. quarto del Tr. C
perciò che l'orizzonte ideale n
fiori sovra 'l grembo di Laura
non solo le 'vittorie' di Amore
suggella, nella cornice di un
regno di Amore, e dunque d
azzardata. Se il «chiuso loco»
Cupidinis IV 103 (qui siamo
nella quale Venere ha il suo r

13. Cfr. E. Fenzi, Per un sonetto del P


e le note dell'Ariani ai luoghi dei Triu
l'«epifania» di Beatrice in Purg. XXX 1
rappresentato col capo circondato da u
rose» (Dante e il «Roman de la Rose». S
in questione, 895-898 della prima Rose: «
qui entor son chief voletoient, / les foi
14. Cfr. G. Martellotti, Il 'Triumphu
petrarcheschi, a cura di M. Feo e S. Ri
accennava già il Castelvetro, ripreso poi
che scriveva: «Enfin c'est au recueil des A
où certain morceaux développent ingén
trarque et l'humanisme, Paris, Champ
15. Cfr. G. Melodia, Studio su 7 Trion
ti, Il 'Triumphus Cupidinis', cit., p. 52
16. Confermando un'indicazione già
definisce, ibid. p. 144, la stanza quarta

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R. V. F. CXXVI, «Chiare fresche et dolci acque» 467

sottolineare come la Valchiusa di Chiare fresche et dolci acque assuma, nel


ricordo del «benedetto giorno», le illusorie, favolose fattezze di quel regno
medesimo. Rileggiamo:
qual [/ìor] con un vago errore
girando parea dir: «Qui regna Amore».

«Qui regna Amore», insomma, è pregnante, e vale esattamente: questo è il


regno di Amore, l'isola incantata, la dimora di Venere ... (e Petrarca dirà,
dopo la morte di Laura, «né credo già ch'Amore in Cipro avessi / o in altra
riva sì soavi nidi»: R. V. F. CCLXXX 7-8).
Tutto questo non vale a mutare il senso normale e piano dei versi, ma lo
rafforza, invece, di un chiaroscuro più rilevato. Permette di cogliere meglio,
per esempio, il passaggio alla palinodia che è nella quinta e ultima stanza,
ove il mito della perfezione terrena e pagana — quella del 'regno di Venere' —
sconfina nell'illusione della perfezione paradisiaca (e per l'ambiguo statuto di
tale paradiso terreno si veda almeno il son. CLXXIII), sì che lo stesso poeta/
narratore si stacca dalle immagini della propria memoria e sottolinea con
speciale puntiglio come si tratti appunto di mera illusione, di cosa non vera,
frutto di obnubilamento («carco d'oblio»), di perdita di senso della realtà («sì
diviso / da l'imagine vera»), e infine di vero e proprio errore («credendo
essere in ciel, non là dov'era»). Ora, se si riportano queste espressioni17 ai
giudizi pur essi interni, contestuali, che concludono il Tr. Cupidinis: al 're
gno di Venere' e agli errori e sogni e false opinioni che lo popolano, si vedrà,
quanto meno, come la trama della canzone sia più mossa di quanto la sua
perfetta chiusura formale lasci a tutta prima trapelare. Si vedrà quanto sia

17. Sulle quali si è soffermato molto bene KENELM Foster, in un passo che mi piace riferire per
intero: «The hidden import of the change of tenses at the opening of stanza 4 is metaphysical and
religious; from a mere dream of the future (st. 2-3) Petrarch passes to the contemplation of a real
experience in the past, 'sweet in the memory', line 41; and then, in st. 5, to a new kind of unreality
inasmuch as the résultant ecstasy has an illusory object. Isolating the Laura revealed in that moment of
time, from time, he misconceives that experience as 'paradisal' (55), as though it were a glimpse of that
Beauty which alone is both truly eternai (in contrast with the flux of time) and finally beatific (in contrast
with ali temporal joys). In short, misconceiving the 'trascendance' of memory with respect to the time
flow, he makes of Laura a false final end, a Substitute for God. That this indeed is the implication of st.
4-5 -above ali of '... diss'io / allor pien di spavento: / Costei per fermo nacque in paradiso. / Così carco
d'oblio / il divin portamento ...' (53-57)- cannot however be established by purely stylistic analysis, but
only by a careful study of such key-words here as 'spavento' and above ali 'oblio'; the former being, I
think, équivalent here to the Latin 'stupori as used in Secretum III (Prose, p. 152) to describe the first
dazzling effect on Petrarch of Laura's beauty; and the latter to the conséquent 'oblivio Dei', 'God
forgetfulness' (ibid., pp. 265-71)» (Petrarch Poet and Humanist, Edinburgh Univ. Press 1984, p. 135: i
corsivi sono dell'autore, che termina rinviando opportunamente alle pagine di Adelia Noferi, L'espe
rienza poetica del Petrarca, Firenze, Le Monnier 1962, pp. 265-271). Anche se io non credo, come si
vedrà, che Voblio sia il perfetto equivalente o il frutto immediato di quella memoria 'trascendente' che
ricorda l'apparizione di Laura; al contrario, è proprio la memoria a vincere su quella particolare forma di
oblio, ed a restituire quell'apparizione al tempo: a restituirla, e dunque a salvarla nell'unico modo
umanamente possibile.

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468 Enrico Fenzi

stretto eppur finissimamente d


dell'innamoramento e del travi
terzo libro del Secretum, là do
incalzanti domande di Agostino
ha imboccato la via sinistra d
tempora. Fr. -Profecto et illius
inciderunt. Aug. -Habeo quod
punto di vista è ovvio che quel
una Laura-dea quella che ne r
la palinodia finale ripeta, in fo
samente toccato da Agostino,
mensione idolatrica in cui quel
tuttavia, questo discorso, pur
zioni appena fatte in una dire
inducono.

Sommariamente, per pochi ma centrali esempi, abbiamo considerato il


valore di consacrazione divina che ha la pioggia di fiori, e quello amoroso e
fecondante, e la sua pertinenza a una concreta celebrazione trionfale. Que
st'ultimo caso, da sé, è senz'altro abbastanza comune nei classici, specie
quando si tratti di solenni entrate in città (non dimenticando neppure, dun
que, l'ingresso di Gesù in Gerusalemme: Matteo 21,8; Marco 11, 8 e Giovan
ni 12, 13): si spargono fiori su Tito Quinzio Flaminino, dopo Cinocefale
(Floro, Epit. II 7, 14); se ne spargono a coprire le vie che percorrerà il trionfo
di Germanico (Ovidio, Trist. IV 2, 50 e Ex Ponto II 1, 36), e le vie che
portano Alessandro Magno dentro Babilonia (Curzio Rufo, V 1, 20), e di
croco sono sparse quelle di Roma, per Nerone che torna dalla Grecia (Sveto
nio, Nero XXV 1: ma, restando a Svetonio, ibid. XXXI, lo stesso Nerone nel
suo palazzo, la domus aurea, fece costruire una sala dei banchetti il cui
soffitto, a pannelli mobili, lasciava cadere una pioggia di fiori sui convitati).
Ora, a questo univoco ventaglio di significati va infine aggiunto qualcosa che,
almeno per me, complica fortemente il senso complessivo dell'immagine.
Torniamo, per questo, a Virgilio.
Le parole sopra citate, da Aen. VI 883: «Manibus date lilia plenis», sono
dette dallo spirito di Anchise che, negli Inferi, mostra al figlio i grandi roma
ni che verranno, e conclude la rassegna con il giovinetto Marcello, il nipote
di Augusto, morto a diciannove anni, nel 23 a. C. Nel quadro della triste e

18. Secretum III, p. 152 dell'ed. a cura di E. Carrara, in Petrarca, Prose, Milano-Napoli, Ricciardi
1955: i corsivi, che sottolineano i momenti deìYoccursus, dell'exhorbitatio e dello Stupor, sono miei.
19. Secretum III, ed. cit., p. 146. Cfr. ancora R. V. F. CCLXIV 99-101; CCCLX 31-32. E YEp. ad
Rom. I 21-25, ripresa da s. AGOSTINO, Conf. V 3, 5 (e vd. pure ibid. IV 12, 18 e X 6, 8); De civitate Dei
XV 22; De vera religione XXXVII 68.

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R. V. F. CXXVI, «Chiare fresche et dolci acque» 469
commossa rievocazione della sua morte immatura, Anchise vuole dunque
adempiere al rito funebre di spargere fiori sulla tomba del defunto:

...Manibus date liba plenis,


purpureos spargam flores animamque nepotis
hic saltem adcumulem donis et fungar inani
munere.

Ed è ciò che già ha fatto Enea, sulla tomba del padre, pr


giochi in suo onore, nella terra di Aceste (Aen. V 77
Hic duo rite mero libans carchesia Baccho
fundit humi, duo lacte novo, duo sanguine sacro,
purpureosque iacit flores ...

Questa funebre aspersione di fiori, che ha naturalmente valenze diverse,


perché accoppia ai miti della rigenerazione il senso della labilità tradizional
mente legata all'immagine del fiore, compare altrove: per es. in Svetonio, là
dove Augusto fa aprire il mausoleo di Alessandro Magno, e ne ricopre il
corpo di fiori e lo venera {Aug. XVIII 1: « ... corona aurea imposita ac
floribus aspersis veneratus est»; ma cfr. pure Nero LVII 1, e Stazio, Theb. VI
57-58, ecc.). E sui vari usi dei fiori per onorare le immagini degli dei e le
tombe si diffonde Plinio, nei primi capitoli del l.XXI della Naturalis histo
ria, con la significativa osservazione, in apertura: «Flores vero odoresque in
diem [natura] gignit: magna, ut palam est, admonitione hominum, quae
spectatissime floreant, celerrime marcescere», cui farà eco, suggestivamen
te, Isidoro, Etym. XVII 6, 21: «Flores nominati quod cito defluant de arbori
bus, quasi fluorés, quod cito solvantur» (ed è appena il caso di ricordare la
ripresa quattrocentesca del motivo, in ambiente mediceo)20. Dell'uso di spar
gere fiori sulle tombe parlano poi gli autori cristiani: per es. Prudenzio, Cat
hem. X 169-172: «nos tecta fovebimus ossa violis et fronde frequenti» (ma v.
anche Perist. III 201 ss.), e s. Gerolamo, Epist. LXVI 5, 3: «ceteri mariti
super tumulos coniugum spargunt violas, rosas, liba, floresque purpureos et
dolorem pectoris his officiis consolantur». E soprattutto s. Ambrogio, in mo
do polemico e alludendo, forse, proprio ai versi di Virgilio (e riprendendo in
ogni caso uno spunto di Minucio Felice, nel cap. XXXVIII delVOctavius):
«non ego floribus tumulum eius aspergam, sed spiritum eius Christi odore
perfundam. Spargant alii plenis liba calathis, nobis lilium est Christus» {De
obitu Valent. 56).

20. Mi limito qui a rinviare al commento alla 'canzone a ballo' CU del POLIZIANO, /' mi trovai,
fanciulle, un bel mattino, nella recente ed. delle sue Rime, a cura di D. Delcorno Branca, Venezia,
Marsilio 1990, pp. 191 ss. Ma sull'uso antico di spargere fiori sopra i sepolcri, si vedano ancora i passi
greci e latini elencati da Filippo Buonarroti, Osservazioni sopra alcuni frammenti di vasi antichi di vetro
ornati di figure..., Firenze, Guiducci e Franchi 1716, p. 189.

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470 Enrico Fenzi

Da una parte il rito pagan


lucidamente sconsolato; dall
rato vedere qualcosa di sim
successivo richiamo ai limiti
vero che lo sia, se si volesse
non posso impedirmi di senti
magine dal mònito di s. Amb
fatto è certo: il salto dalla ter
al passato — è il salto dall'imm
di fiori. Da una morte a un tr
guamente convengono a una c
volta imboccata la precipite
marsi. Ed è soprattutto diffi
del testo, che sconsiglia di
pure esso stesso alimenta.
imagery petrarchesca nascon
altri termini: chi è davvero
qualche modo una lettura in n
là dove Laura gli era apparsa
sostituendosi a lei nel sepol
ritorno dell'amata, mentre n
trionfo tanto esaltante nella
to dalla sua sperimentata labi
« ... sì diviso da l'imagine ve
tempo della memoria e della
morte di lei? il presente de
perfetto l'arco di una conclu
È meglio fermarsi, anche p
controprove che possano sost
lo che la poesia dice è chiar
questione si riduce a un'inq
mente solo a una soggettiva
per appuntarsi, concretame
scritta: una canzone 'in vita',
via, il tarlo può essere utile p
meglio percepibili quando le
ma, che riesce ad agire in o
che per rifiutarla subito. Il
esempio. Un ritorno soccorre

Tempo verrà anchor forse


ch'a l'usato soggiorno
torni la fera bella et mansueta

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R. V. F. CXXVI, «Chiare fresche et dolci acque» 471
ch'è, in prospettiva rovesciata, quanto meno profetico del ritorno altrettanto
pietoso di lei morta a lui vivo, in serie memorabili, ancora là, sullo sfondo
dell'usato soggiorno (CCLXXXII 1 sgg.):
Alma felice che sovente torni
a consolar le mie notti dolenti

così comincio a ritrovar presenti


le tue bellezze a' suoi usati soggiorni.

E ancora, almeno, CCLXXXIII 9-10; CCLXXXV 7-8; CCLXXXVI 6-7;


CCCXLI, CCCXLII e CCCXLIII, e CCCLVI, e, forse con più intima corri
spondenza con la nostra canzone, CCCXXXIV, in part. 9-11:
Ond'i' spero che 'nfin al ciel si doglia
di miei tanti sospiri, et così mostra,
tornando a me sì piena di pietate.

Ove non è troppo sofistico osservare come l'intento propriamente salvifico, il


far forza al cielo, appaia non primario, ma per dir così deducibile dall'inten
sità dell'atteggiamento pietoso con cui essa finalmente torna al poeta. Come
in Chiare fresche et dolci acque, ove si potrebbe ben sostenere che tale intento
sia in Laura perfettamente preterintenzionale, dato che, di per sé, né i sospiri
né le lacrime di lei paiono chiedere nulla al cielo, e tuttavia agiscono per
l'oggettiva forza che Amore vi immette (35-39)21:

... Amor l'inspiri


in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercé m'impetre,
et faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.

Questo 'ritorno pietoso', insomma, che dà corpo, prima di tutto, al mito di


un'altrimenti impossibile complicità amorosa, esige una morte, perché solo
la memoria può ricomporre la totalità della trascorsa esperienza d'amore e
fondarne, a posteriori, quel senso che l'intenzione o comunque l'approdo

21. Ma, com'è sempre stato fatto, si può anche leggervi un tale intento, chiosando appunto che a un
risultato celeste mira in effetti L'ispirazione' di Amore: onde il valore finale da attribuire a quel «si
dolcemente che mercé m'impetre». Non vedo che i commentatori abbiano notato questa ambiguità del
testo (per la quale non può essere risolutivo il rinvio a Dante, Inf II 94-96, relativo a quel far forza al
cielo), occupati piuttosto da una vecchia interpretazione del Gesualdo e del Castelvetro, poi saltuaria
mente ripresa, secondo la quale qui non c'è nulla che abbia a che fare con la salvezza dell'anima del
poeta, dovendosi intendere che Amore, per il tramite della pietà, riesce ad ottenere l'amore di lei per lui,
e a forzare dunque il decreto del destino che non prevede un tale contraccambio. Questa interpretazione,
che il Carducci-Ferrari riferisce senza commento e che il Chiòrboli liquida sbrigativamente, pare anche
a me da rifiutare, per l'improbabile alternanza di soggetti ch'essa esige: Laura sospira, e Amore impetra e
fa forza, mentre è ancora Laura che si asciuga gli occhi ...

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472 Enrico Fenzi

salvifico raccoglie e sublima. S


tra un poeta che sogna la sua
morto, e la donna morta che tor
lui sopravvissuto, è troppo str
tratti di un dittico concepito e
que, appunto, 'in morte'. Dici
resto, il più dilatato e narrati
proprio il cap. II del Tr. Mortis
aggiunta, sulla base dell'ant
prigione, è liricamente formali
poeta chiede all'immagine del
24 )22:

Dimmi pur, prego, s'tu se' morta o viva


— Viva son io, e tu se' morto ancora
— diss'ella — e sarai sempre, in fin che giunga
per levarti di terra l'ultima ora.

Lo scambio, insomma, anche sotto questo rispetto parrebbe iscritto nell'ordi


ne delle possibilità fantastiche, così come l'intrigante serie di equivoci incro
ciati che verrebbe fomentata quando ci si soffermasse a combinare un'ultra
terrena e perciò vera vita/morte con una condizione reale di morte/vita alter
nativamente spartita tra il poeta e la donna ...
Torniamo tuttavia all'argomento, appena più solido, della data della can
zone, per osservare che le parti che meglio potrebbero suggerire un abbassa
mento della cronologia 'in vita' normalmente accettata23 sono due: quella
relativa al ritorno di Laura, come abbiamo visto, proprio per la dialettica che
esso instaura con il mito poetico dell'analogo ritorno, costitutivo delle rime
'in morte', e quella dedicata alla palinodia, nella quinta e ultima stanza,
perché in essa è almeno delineato quello stesso atteggiamento di distacco e di
autocritica che tanto spazio avrà, per esempio, nel Secretum2i. Ed è proprio a
questo proposito che è opportuno riprendere il discorso sulla complessa in

22. 7r. Mortis II 21-24 (e si vedano in proposito le pagine introduttive dell'Ariani, ed. cit., in part. pp.
255 sgg., e le sue note ad 1., con vari pertinenti rimandi).
23. Per le varie opinioni sin qui espresse in merito, vd. avanti, n. 36.
24. Per il quale accetto la data proposta dal Rico (1347-1353 circa) e di fatto accolta, seppur con
alcuni anche notevoli spostamenti d'accento, dal Baron. La proposta del Rico, del resto, è stata adottata
da quasi tutti gli studiosi, e io stesso ho creduto di doverla accogliere e riargomentare, nell'introduzione
a una nuova ed. del dialogo ora in corso di stampa per l'editore Mursia, di Milano (vd. F. Rico, Vida u
obra de Petrarca. /. Lectura del «Secretairi», Padova, Antenore 1974; Hans Baron, Petrarch's «Secre
timi», Cambridge (Mass.), The Med. Acad. of America 1985). Si è invece opposto il Martinelli, con più
interventi, fermo alla data tradizionale del 1342-43, e da ultimo il Ponte, al quale rimando per le
integrazioni bibliografiche del caso (Giovanni Ponte, Nella selva del Petrarca: la discussa data del
«Secretum», «GSLI», CLXVII, 1990, pp. 1-63).

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R. V. F. CXXVI, «Chiare fresche et dolci acque» 473
fluenza che gli ultimi canti del Purgatorio hanno esercitato sulla canzone,
almeno a partire dal saggio con il quale una studiosa americana, Nancy Vic
kers, ha cercato di delinearne il senso complessivo2,0. Il quale senso andreb
be appunto ravvisato nell'intreccio tra quell'immagine trionfale, l'intervento
salvifico di Laura e la finale palinodia, quali momenti di una situazione
'purgatoriale' che Petrarca avrebbe costruito avendo come continuo punto di
riferimento l'incontro di Dante con Beatrice al sommo del Purgatorio. Non
solo questo, però. La Vickers, infatti, nota come l'immagine dei primi versi
della canzone richiami con forza l'associazione Laura-Diana, e come la piog
gia di fiori richiami altrettanto indubitabilmente l'altra, Laura-Danae. E Dia
na e Danae sono ricordate nella canzone XXIII, Nel dolce tempo de la prima
etade, in termini che, di là dalla sostanza del rapporto, appaiono intenzional
mente ripresi in Chiare fresche et dolci acque. Sì che, nella nostra canzone,
«Laura becomes on the one hand Beatrice (médiation leading to eventual
salvation) and, on the other, first Diana (erotic temptation resulting in silen
ce, dismemberment and death without grace) and next Danae (erotic tempta
tion, resulting in consummation). Clearly, Qui regna Amore (1. 52), but wit
hin the Diana-Danae context it is that of sinful cupiditas, within Beatrice's,
that of divine Caritas»26. La canzone vivrebbe dunque della tensione che
scaturisce da questo irrisolto fascio di significati, visto che Petrarca non attua
quel superamento che invece attua Dante attraversando il Lete e cancellando
così il proprio peccaminoso passato: no, egli ricorda, con puntiglio («con
sospir' mi rimembra ... dolce ne la memoria»), e non rinuncia alle sue fanta
sie amorose. «Petrarch not only persists in remembering what Dante is made
to forget, but also uses Dante's text to underscore that persistence. He refuses
to cross the waters, to treat the Edenic moment as a transitory one»27. Anche
per la Vickers il motivo che soprattutto lega la canzone a quei canti del
Purgatorio è quello della pioggia di fiori. Ma, per i vv. 2-3:

25. N. J. VlCKERS, Re-memberìng Dante: Petrarch's «Chiare, fresche et dolci acque», «Modem Lan
guage Notes», 96, 1 (1981), pp. 1-11. Anche il David, La canzone 126, cit., p. 158, sottolinea come «i
lacerti purgatoriali (cioè edenici) ... sembrano costituire la più forte presenza di una auctoritas specifica
nella canzone».

26. VlCKERS, Re-memberingDante, cit., pp. 8-9. Circa i versi della canzone XXIII relativi a Diana e a
Danae, va ricordato che essi appartengono alla seconda metà della canzone, quella che, dal v. 89 in
fine, è stata trascritta 'in ordine' dal poeta (e poi ancora lungamente elaborata) nel 1350-1351, sul
'codice degli abbozzi', il Vat. lat. 3196, sul verso del foglio 11, lasciato sino a quel punto in bianco, dopo
che nel recto, forse dodici-tredici anni prima, erano stati trascritti i vv. 1-88. Per la lunga e importante
discussione sul punto, rinvio a Angelo Romanò, Il codice degli abbozzi (Vat. lat. 3196) di Francesco
Petrarca, Roma, Bardi 1955, pp. 152-176 (in part., pp. 168 ss.); Dennis Dutschke, Francesco Petrar
ca: Canzone XXIIIfront First to Final Version, Ravenna, Longo 1977, in part. pp. 10-31, pp. 194-195 e
pp. 210-219; Santagata, Per moderne carte, cit., pp. 273-325. Per i versi che in particolare ci interes
sano — quelli relativi a Diana e Danae — le varianti redazionali non offrono nulla di significativo.
27. VlCKERS, Re-membering Dante, cit., p. 10.

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474 Enrico Fenzi

ove le belle membra


pose colei che sola a me par donna

la studiosa ricorda Purg. XXXI 49-51:


Mai non t'appresentò natura o arte
piacer, quanto le belle membra in ch'io
rinchiusa fui, e che so' 'n terra sparte

(ma allora s'aggiunga pure che nella canzone, v. 34, sono le membra del
poeta ad essere addirittura diventate terra)28, e opportunamente accosta quel
«diviso / da l'imagine vera» a Purg. XXX 130-131:
e volse i passi miei per via non vera,
imagini di ben seguendo false.

Avrebbe potuto, tuttavia, sottolineare ancora quel (vv. 43-44):


... ella si sedea
umile in tanta gloria,

poi riportato a Dante, per un accenno assai fine, da Michel David29. L


chiosa puntuale resta però da fare, e può, o meglio deve cominciare dal son
Tanto gentile 5-6 (Vita nuova XXVI): «Ella si va, sentendosi laudare, / b
gnamente d'umiltà vestuta», e dal commento di Contini: «quell'u/reiZtò, co
fermata dal benignamente, è al modo cortese l'opposto della crudeltà e fier
za della insensibile, è la benevolenza»30. Il che è giusto, certo, purché l
integri con la considerazione che tale umiltà spicca sul coro delle lodi,
dunque non solo caratterizzata da un atteggiamento attivo di benevole
verso gli altri, ma pure da uno passivo, che sta nel modo, umile appunto, d
accogliere la lode e quasi di sottomettersi ad essa. E del resto per que
speciale passività che modello ultimo e inarrivabile di umiltà è Maria,

28. Giudica inoltre che «sola a me per donna» sia «surely a play on the donna m'apparve» di P
XXX 32. Non mi pare che sia così. Piuttosto, occorrerà allegare, di Dante ancora, Tre donne 26: «e
di sé par donna» (per cui cfr. pure la ballata, tra le dubbie del Cavalcanti, /' vidi donne 2: «non
neuna sembrasse donna»: v. F. SuiTNER, Petrarca e la tradizione stilnovistica, Firenze, Olschki 1
pp. 57-58). I due riscontri con il Purgatorio furono già fatti dallo Scarano (vd. ora nel voi. Fran
Petrarca, a cura di I. Scarano, Ercolano, s. ed., 1971, pp. 114 e 198), e sono ripresi (unici, per qu
riguarda Chiare fresche et dolci acque) da P. Trovato, Dante in Petrarca, Firenze, Olschki 1
rispett. pp. 56 e 132. Aggiungo che, secondo CONTINI, modello del congedo petrarchesco è la canzo
'montanina' di Dante, Amor da che convien (in Letteratura italiana delle origini, Firenze, Sansoni 1
p. 598).
29. David, La canzone 126, cit., pp. 143-144: «se non proprio mariale dichiaratamente, è almeno
imbevuto di tanta meditazione cristiana relativamente 'moderna' che lo rende d'impossibile filiazione
antica ... La lettura attenta di Dante, ben prima di Griselda, ne rivelava ad ogni passo la trasposizione
lirica, anzi epica. L'ipotesi di Blanc deìYobumbravit, con la sua metaforizzazione luminosa della fecon
dazione divina ne sarebbe confermata ...» (per ciò, vd. sopra, n. 9).
30. G. CONTINI, Esercizio d'interpretazione sopra un sonetto di Dante, ora in Varianti e altra linguisti
ca,, Torino, Einaudi 1970, p. 164.

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R. V. F. CXXVI, «Chiare fresche et dolci acque» 475
per essa si rimette tutta alla volontà divina: «Ecce ancilla domini ...». E
Beatrice propriamente assomiglia a Maria là dove, nella visione di Dante,
accoglie in perfetta letizia e mansuetudine la propria morte: «... ed avea seco
umiltà verace, / che parea che dicesse: -Io sono in pace» {Donna pietosa
69-70: Vita nuova XXIII). Per questa via si può intendere come l'umiltà
designi una condizione spirituale comune sia alla donna che all'amante, visto
che, in entrambi, essa importa, negativamente, l'assenza dei vizi che impedi
scono all'anima di accogliere in sé e lasciar agire la beatifica virtù d'Amore.
Per questo anche Dante, come ogni altro perfetto amante, è umile: v. per
esempio Ne li occhi porta 9-12 (Vita nuova XXI), o Vede perfettamente 9 (Vita
nuova XXVI), ecc., e in particolare la stanza di canzone Sì lungiamente (Vita
nuova XXVII), in cui la condizione del poeta è in fine definita umil, che
Foster e Boyde nel loro commento interpretano: «Umil denotes the general
serenity of D's condition, abandoned now to the working of Love on him»31.
Sono, queste parole, perfettamente adatte al caso nostro. Esse infatti conven
gono a Laura, la quale sarà umile e modesta nell'accogliere la lode che la
circonda nella canzone 'in morte' CCLXX 84-85, con preciso ricordo della
Beatrice di Tanto gentile:

l'angelica sembianza, humile et piana,


ch'or quinci or quindi udia tanto lodarsi,

ed è umile qui, in Chiare fresche et dolci acque, «in tanta gloria» cioè nel
momento culminante della sua apoteosi. Umile perché la accoglie senza su
perbia, così come accoglie la lode: ma umile due volte, perché ciò comporta
ch'essa sia sottomessa, disposta a lasciarsi invadere dalla forza di Amore.
Così dunque essa apparve la prima volta al poeta: una creatura che lo avreb
be amato. Tale egli la ricorda, e così immagina ch'essa torni a lui, dopo la
sua morte, «fera bella et mansueta». La fabula è rifluita tutta verso i suoi
termini estremi, ai confini del tempo che la contiene. L'arco della vicenda è
concluso, e il tragitto mentale della canzone sta nella sovrapposizione di
quella lontana, rammemorata promessa d'amore e del sogno di un adempi
mento, che avrà luogo ancora là, nell'usato soggiorno, e che una morte e una
tomba renderanno finalmente possibile.
Questo apparenta la nostra canzone alle rime 'in morte' (a suo modo, non è
forse anch'essa 'in morte'?), quale che sia l'epoca che si assegnerà alla sua
composizione, ed è ancora questo che, infine, dà senso all'indubitabile sep
pur discreta presenza dantesca. La quale essenzialmente riposa - direi -
proprio sul fatto che è un'esperienza conclusa quella che la canzone contem
pla, sì che dinanzi ad essa si capisce come si sia potuto parlare, con tutte le

31. Dante s Lyric Poetry, [a cura di] K. Foster and P. Boyde, Oxford, Clarendon Press 1967, vol. II p.
132.

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476 Enrico Fenzi

differenze del caso, di una si


che aspetta un bilancio, un giu
assumere Dante come 'principi
tabilmente schiacciare Petrar
L'intreccio delle reminiscenze
una dialettica tutt'affatto dive
se Beatrice avvolta dalla nuv
antecedenti di Laura similm
Beatrice che rimprovera Dante
denunciare la falsità di questo
mai corrisposto ad alcuna «i
della quinta stanza, e due son
l'autocritica del poeta circa i
l'epifania di Laura, proprio pe
via attivo e potente, della vice
nuovo, insomma, è determin
termini proprio perché l'arc
dire concluso, quanto meno
seconda cosa (intimamente co
per allora, sì da riproporre a
neo presente della memoria co
della canzone alimentano il mi
stasi, la palinodia, con splen
intatta, miracolosamente, ma
passata. Si noti, in particolare,
che rompa la condizione esta
tempo sta la sua radicale critic
del tempo, una sofferta verif
senso, dunque, la palinodia r
canzone, riproponendo con g
vertigine, del vuoto tempor
intendere, una semplice corr
va. Del resto l'inganno subito
Petrarca parla nella canzone CX
composta in Selvapiana, nel 1
be poter continuare ad appaga
nel miraggio di Laura che co
aspetti della natura. La trama
fresche et dolci acque32, ma in
ficativa ripresa e variazione di

32. Della quale per qualche aspetto la c

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R. V. F. CXXVI, «Chiare fresche et dolci acque» 477

re avanti, alla 'canzone delle metamorfosi', la CCCXXIII, Standomi un gior


no solo a la fenestra. Soprattutto (e non mi pare che sia stato notato) per
l'ultima stanza, quella 'di Euridice', che stravolge l'apoteosi floreale di Laura
in un'immagine di oscura, incombente minaccia (61 sgg.):

Alfin vid'io per entro i fiori et l'erba


pensosa ir sì leggiadra et bella donna

ma le parti supreme
eran avolte d'una nebbia oscura.

Ov'è da osservare che il verso di Virgilio qui ripreso («Sed nox atra caput
tristi circumvolat umbra», da Aen. VI 866)33 riguarda l'aspetto del giovane
Marcello, così come appare ad Enea nell'oltretomba: quello stesso Marcello
di cui Anchise profetizza l'acerba morte, e per il quale chiede fiori, da spar
gere a piene mani sulla sua tomba: «Manibus date lilia plenis ...». Siamo
così tornati a una auctoritas già considerata, e a un nodo cruciale del discor
so. E Virgilio, a questo punto, sembra farsi garante del nesso che lega e
contrappone la pioggia di fiori della canzone CXXVI con la «nebbia oscura»
che avvolge il capo di Laura nella CCCXXIII, sì che l'ombra funerea che
velerebbe quella gloriosa pioggia ne riuscirebbe confermata. Né manchereb
be, al proposito, un segnale esplicito, neìYincipit della quarta stanza:

Chiara fontana in quel medesmo bosco


sorgea d'un sasso, et acque fresche et dolci
spargea ...

Contro ogni apparenza, è però assai dubbio che si tratti qui di una sort
citazione interna34, a rinsaldare un legame che emergeva già nella stan
precedente, la terza, ove è la folgore che distrugge l'illusione paradisiaca ch
aveva diviso il poeta dal mondo (25 sgg.):

'quando sarai morto' costituisce di fatto la risposta alla domanda qui posta, vv. 21-26, sia, appunto,
la situazione delineata, pur con le diversità del caso, nei vv. 30-39.
33. Il Chiappelli, Studi sul linguaggio del Petrarca. La canzone delle visioni, Firenze, Olschki 1
p. 167, rinvia a Georg. IV 497-500, là dov'è la definitiva sparizione di Euridicè.
34. L'esclude, credo, l'intenso lavoro di correzione su questi versi, tra i più tormentati dell'in
canzone. Le cui ultime quattro stanze e il congedo furono composti, più o meno, nel 1365, e trascritt
'codice degli abbozzi' nell'ottobre del 1368. Ora, la tavola delle diverse redazioni dei vv. 37-39 regis
secondo la ricostruzione del RomanÒ, Il codice degli abbozzi, cit., pp. 60-61, undici tappe. Le p
dieci, che sono appunto del codice degli abbozzi, vedono una generale prevalenza delle acque chi
dolci, mentre la fontana è senza aggettivi. Solo nell'undicesima e definitiva forma, quella del Vat.
3195, la fontana è chiara e le acque fresche e dolci: ma è ancora da notare che qui, in un testo pur
autografo, chiara è su rasura, come fresche del v. seguente, sì che se ne deve dedurre che la forma i
leggiamo i versi è frutto dell'elaborazione non solo dell'ultimo anno di vita di Petrarca, ma forse add
tura dei suoi ultimi mesi. E tutto ciò comporta che la serie Chiara .. .fresche e dolci non si sia presen
con la forza e l'intenzionalità originarie di un'autocitazione, ma sia stata raggiunta pazientemente pe
tutte interne. La cosa può parere curiosa, proprio a fronte della memorabilità di un incipit quale qu
della canzone CXXVI, e meritava osservarla.

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478 Enrico Fenzi

In un boschetto novo, i rami s


fiorian d'un lauro giovenetto
ch'un delli arbor' parea di pa
et di sua ombra uscian sì dolci canti
di vari augelli, et tant'altro diletto,
che dal mondo m'avean tutto diviso;
et mirandol io fiso,
cangiossi '1 cielo intorno, et tinto in vista,
folgorando '1 percosse, et da radice
quella pianta felice
subito svelse ...

Al proposito, Chiappelli scrive: «Dalla strofe del lauro [la terza] in poi, i
momento della descrizione, quello del pericolo ecc., sono complicati dall'e
spressione indiretta di uno stato estatico suscitato dalla contemplazione della
figura; ed ivi viene rivelandosi il nucleo critico dell'episodio, sia in quant
l'incanto è il risultato necessario delle proprietà straordinarie dell'appariz
ne, sia in quanto determina nel testimone il presupposto del suo precipitare
nello sgomento. Tale stato estatico non è mai esplicitamente descritto nel
canzone, essendo implicito nella descrizione della figura per la fase del su
sorgere, in quella dell'improvvisa minaccia per la sua fase di sospensione, in
quella del disastro per la fase del crollo; ma se ne ha ampio documento nella
canzone Chiare fresche e dolci acque, dove il poeta ne ha fatto un tema centr
le di rappresentazione [...] Lo stato paradisiaco, il trasporto fatto di impr
sione straordinaria (spavento) che conduce all'oblio totale e al credersi so
tratto alle contingenze, è sviluppato qui esplicitamente come soggetto propri
della lirica [...] E a tale descrizione compiuta [sempre quella della canz.
CXXVI] che ci si deve riferire quando nello studio dei singoli episodi si
alluderà al momento dell'estasi»35.
Lo studioso si ferma qui, dopo aver indicato in Chiare fresche et dolci acque
una sorta di archetipo del 'momento estatico', al quale è d'obbligo tornare, in
ispecie, per la canzone CCCXXIII. È molto, ma torno a dire che occorre
trarne qualcosa di più stringente, di più vicino. Il rapporto tra le due canzon
insomma, definisce un complesso gioco delle parti tra situazione 'in vita'
situazione 'in morte' di cui non credo si possa fare responsabile solo la tarda
stesura della 'canzone delle visioni'. E continua dunque ad apparirmi veri
mile che anche Chiare fresche et dolci acque sia stata composta più tardi di
quanto si sia sempre pensato36, per l'insieme delle cose dette, grossolana

35. Chiappelli, Studi sul linguaggio del Petrarca, cit., pp. 45-47. Per la 'morte del lauro', rinvio
M. Feo, Il sogno di Cerere e la morte del lauro petrarchesco, nel voi. mise. Il Petrarca ad Arquà, Padov
Antenore 1975, in part. pp. 133-145 (con importanti precisazioni di carattere cronologico e compositiv
a proposito della canzone).
36. La canzone, sicuramente presente nei R.V.F. sin dalla 'forma Correggio' (1356-1358), in gene
non ha sollevato problemi di cronologia, apparendo pressocché pacifica l'epoca di composizione,

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R. V. F. CXXVI, «Chiare fresche et dolci acque» 479
mente riassumibili nel fatto che con rara puntualità ed efficacia strategica
tale canzone costituisce il necessario antecedente dialettico di motivi e situa
zioni che saranno propri delle 'rime in morte'37. Con ciò, del resto, generaliz
zando ancora, si finisce per dire qualcosa che ormai sfiora l'ovvio, e cioè che
non solo la costruzione e l'organizzazione interna del canzoniere ma anche la
sua scrittura, per una percentuale certo più ampia di quella già grande sin
qui documentabile, è cosa della piena maturità di Petrarca. 0, per usare la
solita espressione di comodo, che il canzoniere è, in effetti, un'opera 'in
morte'.
Un'ultima osservazione. Si può obiettare che è impossibile abbassare la
data di composizione di Chiare fresche et dolci acque, senza abbassare anche
quella della canzone 'sorella' CXXV, Se 'l pensier che mi strugge. E così,
infatti. E la cosa non è però tanto difficile, sulla base di una considerazione
che subito s'impone e che, per la verità, è curioso che non sia mai stata
fatta38: la canzone è costituita di due parti - tre e tre stanze - talmente
incongrue sul piano stilistico (e diverse pure per il contenuto proprio ad
ognuna di esse), da far inevitabilmente pensare a una giustapposizione di
momenti assai lontani tra loro. E se ciò di per sé non prova una effettiva
divaricazione cronologica, è però, nel caso, una sorta di importante precon
dizione per un'ipotesi siffatta.
Efficacissima pietra di paragone è Dante. Gli spogli del Trovato, accolti e
incrementati da Santagata e De Robertis, precisano la matrice tutta dantesca
della ricercata asperità della canzone, che non s'appoggia solo all'altissima

cavallo tra gli anni '30 e '40, e il luogo, Valchiusa. Più diffuso in merito 1'Amaturo, Petrarca, Bari,
Laterza [Lett. it. 6] 1971, pp. 283-286, che la sposta in avanti, al 1345, sulla base delle indicazioni che
derivano dalla serie delle diciannove liriche precedenti (CVII-CXXV), e che soprattutto cerca di mutare
l'angolazione critica dalla quale considerarla, insistendo sulla sua «estrema consapevolezza critica», sul
suo carattere di sintesi d'un'intera esperienza, quasi una postuma architettura della memoria. Raccoglie
e arricchisce queste indicazioni il David, La canzone 126, cit., pp. 157-159, che si ferma in particolare
sullo 'stilnovismo' petrarchesco, per concludere che la «canzone è pura di questo noviziato e semmai
tradisce un ritorno maturo a qualche rilettura antologica per affinità più profonde. La stessa lode della la
strofa non è più al presente, ma all'imperfetto della memoria lontana», ecc. In altri termini, pur propo
nendo anch'egli il 1345, è chiaro che, anche da altri accenni suoi — v. la nota seguente —, una data
ancora più bassa non contrasterebbe affatto ma piuttosto s'accorderebbe con il tono generale delle sue
proposte di lettura (e ciò mi pare che dovrebbe valere anche per l'Amaturo). Infine, il Battisti, sin qui
solo, ch'io sappia, ha scritto che la canzone potrebbe essere stata scritta nel 1350, in Italia: ma la sua è
una breve osservazione di carattere insieme marginale e personale, che non s'appoggia ad altre conside
razioni in merito (E. Battisti, Non chiare acque, nel vol. mise. Fr. Petrarch Six Centuries Later. A
Symposium ..., Univ. of North Carolina, Chapell Hill and The Newberry Library (Chicago) 1975, p.
308).
37. Per tali ragioni, non trovo affatto generico quanto il David, scrive nelle ultime righe del suo saggio:
«Questa, la meno petrarchista delle rime petrarchesche ... è lei ad illuminare di una luce interna l'intera
raccolta, o diciamo pure tutta la quadreria, sia verso l'itinerario che la precede, sia verso quello che sale
fino alla Canzone 366. Sembra quasi autonoma, ma è necessaria per dare un senso 'moderno' a tutta
l'elisse del percorso ...» (La canzone 126, cit., p. 161).
38. Almeno, per quanto risulta a me. Aggiungo che l'ipotesi alla quale accenno troppo brevemente
qui, conto di riprenderla e argomentarla meglio in altra sede.

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480 Enrico Fenzi

percentuale di rime «ad elevata


li rare, e a una tensione progra
crudo imperio d'Amore, il poet
dolcezza ignude» (v. 16). Questo
rime e Così nel mio parlar. No
della canzone petrarchesca:
Dolci rime leggiadre
che nel primiero assalto
d'Amor usai, quand'io non ebbi
chi verrà mai che squadre
questo mio cor di smalto
ch'almen com'io solea possa sfo

ove sarà ancora indispensabile


usar dolci e leggiadre», e, per Y
parlar 54, «la crudele che '1 mio
in rima nell'altra petrosa Io son
acerba» tornano qui, in Se '/ pe

ma non sempre a la scorza


ramo, né in fior, né 'n foglia
mostra di for sua naturai vertud

come De Robertis ha osservato4


insomma, attraverso questa poe
strazione amorosa, è fitta e conti
una casistica che altri ha già p
tensione che finisce per scaricars
ne ricava circa il rapporto con
rara scaltro, per 'scaltrisco', alt
stanza della canzone, deriva, in
XXVI 3, «... ch'io ti scaltro».
Nessuna novità, in questo. Ma
denunciato: questa dantesca asp

39. Per le quali, vd. Trovato, Dante in P


moderne carte, cit., p. 315, e De Robertis,
affianca la nostra canzone, in testa alla cla
40. Quel «com'io solea», riportato alle dolci
dolci rime d'amor ch'i' solia» (mentre appa
in Per moderne carte, cit., p. 34 n. 21).
41. De Robertis, Petrarca petroso, cit., p. 23
siano anche in Così nel mio parlar 25-26.
ghiaccio stassi» (Se '/ pensier 9 e 11) rinviin
piani e per colli», e 8: «si sta gelata come

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R. V. F. CXXVI, «Chiare fresche et dolci acque» 481
brevità si sono tralasciati, è tutta confinata entro le prime tre stanze42. Al
punto che, se tenessimo conto solo di queste per i possibili computi statistici,
saremmo obbligati a dedurne non già che Se '/ pensier divide con Nel dolce
tempo il record della «densità consonantica» (per limitarci a un aspetto, nep
pur decisivo, della questione), ma addirittura lo raddoppia43. Così, quando
De Robertis scrive che Se 'lpensier «si carica d'asprezza», mentre la succes
siva Chiare fresche et dolci acque «è praticamente esente da riscontri
petrosi»44, dice e non dice il vero. E la prima metà di Se 'l pensier, infatti,
che è dantescamente aspra (e non certo per esclusiva responsabilità delle
petrose), mentre la seconda metà abbandona il motivo della tormentosa, di
sperante condanna alle «rime aspre, et di dolcezza ignude» e l'oltranza stili
stica che tecnicamente le compete, e si fa dolce, distesa, e s'abbandona a
quella memoria che sarà sostanza poetica e cifra stilistica della contigua
Chiare fresche et dolci acque. Ecco la stanza della svolta, la quarta (che non
ha neppure una delle forti rime consonantiche che caratterizzavano per intero
le stanze precedenti):

Come fanciul ch'a pena


volge la lingua et snoda,
che dir non sa, ma '1 più tacer gli è noia,
così '1 desir mi mena
a dire, e vo' che m'oda
la dolce mia nemica anzi ch'io moia.
Se forse ogni sua gioia
nel suo bel viso è solo,
et di tutt'altro è schiva,
odil tu, verde riva,
e presta a' miei sospir' sì largo volo,
che sempre si ridica
come tu m'eri amica.

Il paragone con il fanciullo dà inflessione diversa al motivo dell'impaccio,


della fatica a parlare, e da esso si congeda. E se ne stacca piena e convinta,
quasi canto del cigno («m'oda ... anzi ch'io moia»), l'onda dell'eloquenza, e
l'apostrofe alla natura amica, abbracciata dal «largo volo» delle proprie paro
le («odil tu, verde riva ...»: non è, di nuovo, Leopardi?). Chiare fresche et

42. Per altri rinvìi, cfr. Trovato, Dante in Petrarca, cit., p. 34 (v. 37); p. 35 (v. 12); p. 128 (v. 15);
p. 152 (vv. 4-6). Per la verità, Trovato, p. 127, ricorda, per il v. 62: «che la mia vita acerba», Yacerba
vita della dantesca Li occhi dolenti 65 (Vita nuova XXXI) e, p. 71, per il primo verso del congedo: «0
poverella mia, come se' rozza!», Purg. XXXII 129: «0 navicella mia, com' mal se' carca». Ma non mi
pare che la qualità di questi rimandi intacchi anche minimamente quanto sopra s'afferma.
43. Nelle diciotto famiglie di rime delle prime tre stanze, ben diciassette rientrano nella categoria (e
solo sette, per le restanti diciotto delle altre tre). I miei spogli — devo dire — danno risultati diversi da
quelli deducibili dal Trovato, ma la sostanza non cambia.
44. De Robertis, Petrarca petroso, cit., p. 24 (ma vd. sopra, n. 5).

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482 Enrico Fenzi

dolci acque (non so come dir


questa apostrofe e da questa pe
verà la sua prima stanza. Ed è
fine della canzone, con la ricer
ormai irrecuperabile, tra le e
... ov'ella ebbe in costume
gir fra le piagge e '1 fiume,
et talor farsi un seggio
fresco, fiorito et verde.

E sino al congedo:
0 poverella mia, come se' rozza!
Credo che tei conoschi:
rimanti in questi boschi,

ripreso e variato, in logica sequenza, in Chiare fresche et dolci acque:


Se tu avessi ornamenti quant'ài voglia,
potresti arditamente
uscir del boscho, et gir in fra la gente.

Santagata, nel suo importante saggio sulle 'connessioni intertestuali' nel can
zoniere del Petrarca, ha brevemente isolato e considerato questi due congedi,
alla luce degli specifici fenomeni di equivalenza da lui fissati45; ma il caso,
assolutamente anomalo e perciò assai interessante, è in verità quello di una
canzone che, giunta a metà del proprio corso, muta stile e contenuto, e si
trasforma in una sorta di lunga pròtasi della canzone successiva: dove la
corrispondenza dei rispettivi congedi non fa che rendere ufficiale ed esplicito
questo processo.
Tornando al punto, mi sentirei perciò di sostenere che la netta divaricazio
ne di Se '/ pensier in due parti fa sospettare una vicenda compositiva non
lineare, e soprattutto che la seconda parte della canzone, interamente cala
mitata verso la successiva Chiare fresche et dolci acque, testimonia di una
fortissima e affatto speciale esigenza di 'connessione', della quale occorre
rebbe cercar di capire le altrettanto speciali ragioni46. E ne concluderei, per

45. SANTAGATA, Connessioni intertestuali nel «Canzoniere» del Petrarca, nel voi. Dal sonetto al Canzo
niere, Padova, Liviana 1979, pp. 42 ss.
46. Al proposito, si veda come già il Chiòrboli sottolinei con forza il legame tra le due canzoni, e come,
senza trarne esplicite conseguenze, paia attribuirle a un momento che potrebbe ben essere quello del
l'ultimo soggiorno del Petrarca in Provenza (1351-1353): «Una tristezza cupa grava su l'anima del poeta
e la vela una fredda ombra come di morte; simile a chi sia per allontanarsi per sempre da ogni cosa più
caramente diletta e tema di non ritornare mai più, egli si rivolge addietro a rimirare ciò che ancora può
per un pcco ... non c'è qui il canto, qui non ce ne sono che alcune note sole, quelle delle due ultime
stanze: il canto vero è la canzone che segue ... Poiché questa è in verità preludio all'altra canzone», ecc.
(nell'ed. dei R. V. F. da lui commentata, Milano, Trevisini 1924, p. 292).

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R. V. F. CXXVI, «Chiare fresche et dolci acque» 483
ora, che queste considerazioni possono intanto aiutarci a sbloccare il discor
so strettamente cronologico, rendendolo più problematico e aperto a soluzioni
sin qui non più che vagamente adombrate47.

3. Il discorso è stato molto lungo, ed è il momento di riportarne le ipotesi


entro quello più ampio sulla temporalità. A una cosa credo si sia arrivati, in
ogni caso: a staccare la canzone da una nicchia cronologica - e, in definitiva,
interpretativa - troppo angusta, e dai limiti aneddotici dell'occasione che
l'avrebbe prodotta.
Ciò dà spazio nuovo alla memoria che ne costituisce la sostanza, e soprat
tutto permette di sentire con maggiore intensità l'energia che la percorre, e
che la finale punta critica e autocritica rivela in modo particolarmente acuto.
Voglio dire che Chiare fresche et dolci acque la si può definire in un modo
ancora diverso (e questo non è, evidentemente, che un ulteriore risultato
della sua qualità poetica): un lungo, complesso ossimoro fondato su un dop
pio movimento di memoria e di oblio; sulla memoria di un oblio, concepita
appunto come la riconquista e la riattualizzazione attraverso il tempo e nel
tempo di un'estatica fuoriuscita dal tempo. Anche in questa luce la palinodia
torna a rivelare la sua intima necessità, ristabilendo il primato di quella
stessa memoria a più riprese invocata quale connettivo e infine dimensione
costitutiva della visione e dell'atto poetico che la fonda. In altre parole, è
vero che l'ultima stanza introduce un elemento di riflessione che investe
l'intera rievocazione di quel 'trionfo d'Amore', ma è ancora più vero (mi si
passi l'espressione) che tale riflessione immediatamente colpisce un'altra co
sa, e cioè la perniciosa illusione insita nella divinizzazione dell'attimo, l'in
ganno di un'estatica quanto fittizia atemporalità. Non saprei portare migliore
illustrazione ai versi della quinta stanza delle parole di Agostino, nel De vera

47. Il nodo della proposta resta, naturalmente, l'eventuale abbassamento 'in morte' della seconda
parte di Se 7 pensier, in armonia con quanto ipotizzato per Chiare fresche et dolci acque. Al proposito, sia
lecito almeno accennare che la memoria di un passato che non pare possa più essere richiamato in vita è
tema del tutto estraneo alla prima parte di Se 7 pensier, e ne caratterizza invece la seconda parte, e in
ispecie l'ultima stanza. Nella quale suona ambiguo quel: «Spirto beato, quale / se', quando altrui fai
tale?» (vv. 77-78), quasi Laura, appunto, fosse morta. E appena sopra, i due versi: «Cosi nulla se 'n
perde, / et più certezza averne fora il peggio» mostrano di resistere ancora alla spiegazione che di essi
viene data, sulla scorta del De Sanctis: m'illudo che ogni erba o fiore che raccolgo conservi traccia del
suo passaggio, «così il mio pensiero, universalmente immaginando, non perde nulla di ciò che fu o potè
essere particolarmente» (Carducci-Ferrari). Il poeta, infatti, nella stanza precedente, si augura invano,
per suo sollievo, di veder conservati i «bei vestigi» di lei, ed è precisamente questo il motivo ch'egli
svolge: sì che, per questo e in generale, non intendo bene come potrebbe poi essere peggio l'individuare
con certezza proprio ciò che si va cercando (forse perché il dolore dell'assenza ne riuscirebbe di colpo
più pungente? rovesciando così quanto ha appena detto?). In ogni caso, la certezza, e cioè la verità, la
realtà, pur celata tra quell'erba, è rifiutata, censurata perché fonte di troppo dolore ... Osservo, ancora,
che anche I'Amaturo, citando questi stessi versi, pur senza trarne esplicite conseguenze lascia intende
re d'essere favorevole a un abbassamento della tradizionale datazione 'in vita' (Petrarca, cit., pp. 284
285).

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484 Enrico Fenzi

religione, entro un capitolo ch


la morte di Laura: chi è affas
crede di comprendere, ma in e
voli. Se poi talvolta, non rispet
videnza, ma ritenendo di farlo
alle immagini delle cose sens
spazi immensi di quella luce ch
gina che questa sia per lui la di
dalla concupiscenza degli occh
del mondo, che non si accorge
sua falsa immaginazione, ne p
In tale senso, Chiare fresche e
memoria contro la tentazione che l'attira in un oblio siffatto e contro i suoi
inganni, e ristabilisce dunque il primato di una coscienza che coincide, es
senzialmente, con il sentimento profondo, esistenziale, della temporalità. La
pioggia di fiori su Laura è, con sublime ambivalenza, immagine di quell'atti
mo di smarrimento, di abbagliante fuoriuscita dal tempo, ed è insieme l'im
magine salvata per sempre da una memoria che da una parte si presenta come
l'unica umana virtù contro la labilità del tempo — come l'unico 'tempo' pro
priamente umano, come lo spazio medesimo della coscienza di sé - e dall'al
tra parte, proprio per questo suo perenne e drammatico confronto con il tem
po e il mutamento e la morte, è l'unica medicina contro la folle tentazione «di
voler andare, con questo mondo, fuori del mondo». Il male non sta nel fatto
che le cose passino, ma nel fatto che l'uomo, al culmine dell'esperienza
sensibile, vuole illudersi che così non sia, e dimentica che la sua esistenza è
immersa nel fiume del tempo, e ne perde così il senso e persino la speciale,
dolorosa bellezza: « ... molti amano le cose temporali, e non cercano la
divina provvidenza, che è la causa e la regola dei tempi. Nell'amore delle
cose temporali, non vorrebbero che esse passassero, e sono perciò stolti come
chi volesse, nella recitazione di una splendida poesia, sentire sempre e sol
tanto la medesima sillaba. Certo non si trovano amatori della poesia di questo
genere, mentre il mondo è pieno di gente che stima così le cose: infatti tutti
possono facilmente ascoltare non solo l'intero verso, ma l'intera poesia, men

48. «... ut cum aliquid cogitât, intelligere se credat, umbris illusus phantasmatum. Si quando autem
non tenens integram divinae providentiae disciplinam, sed tenere se arbitrans, carni resistere conatur,
usque ad visibilium rerum imagines pervenit, et lucis huius quam certis terminis circumscriptam videt,
immensa spatia cogitatione format inaniter: et hanc speciem sibi futurae habitationis pollicetur; nesciens
oculorum concupiscentiam se trahere, et cum hoc mundo ire velie extra mundum; quem propterea ipsum
esse non putat, quia eius clariorem partem per infinitum falsa cogitatione distendit» (De vera religione
XX 40: la trad. è di Marco Vannini, nella ed. da lui curata, Milano, Mursia 1987, pp. 83-85). Petrarca
ha postillato con un «Nota» le parole da nesciens a mundum, sul suo codice dell'opera, il Par. lat. 2201,
f. 35: vd. F. Rico, Petrarca y el «De vera religione», «Italia medioevale e umanistica», XVII (1974), p.
326.

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R. V. F. CXXVI, «Chiare fresche et dolci acque» 485
tre nessuno può avvertire tutta la successione dei secoli. A ciò si aggiunge il
fatto che non siamo parte della poesia, mentre siamo condannati ad essere
parte dei secoli. Quella è recitata sotto il nostro giudizio; questi si svolgono
grazie al nostro affanno. Al vinto non piacciono i giochi agonistici, eppure
sono belli nonostante la sua sconfitta; e in ciò è una certa immagine della
verità»49. L'adesione di Petrarca a s. Agostino è, di nuovo, profonda. L'illu
sione edenica è cancellata; l'apparizione di Laura è restituita al tempo; del
l'inganno è fatta ammenda. Eppure la passione per tanta bellezza finisce per
vivere oltre la sconfitta, nella memoria e nel tempo cui la memoria tutto deve
(63-65):

Da indi in qua mi piace


questa herba sì, ch'altrove non ò pace.

L'epifania della bellezza non può sottrarsi al tempo, ma non cessa per questo
d'essere tale: e sul tempo prende una paradossale quanto obbligata rivincita,
trasformando la sospesa, fragile eternità della contemplazione nel desiderio
che non ha pace ...
Si può aggiungere, infine, che anche le fonti sopra allegate avrebbero
potuto, per la loro parte e su tutt'altro piano, favorire una trascrizione della
visione in termini, appunto, di mitica e astratta atemporalità. Ma ciò non è
avvenuto. Il sentimento del tempo, come ha attraversato quell'oblio e se n'è
impadronito, così ha vinto contro le forme rigide e sovrapersonali del mito e
della stilizzazione letteraria, e le ha personalizzate e fatte cosa propria, me
moria propria. Credo che il fascino di questi versi debba moltissimo a tutto
ciò, perché è qui che ha radice la distentio animi di Petrarca, cioè la capacità
tutta particolare che egli possiede di cogliere insieme il senso della durata
con tutta la sua preziosa e prodigiosa precarietà, e di fare di questo senso il
contenuto più intimo e drammatico della coscienza e della memoria. Che non
è memoria di una 'cosa', ma memoria del tempo di quella cosa, memoria di
un moto, di una traccia, di un farsi del tempo ...
Da' be' rami scendea

49. «... multi temporalia diligunt, conditricem vero ac moderatricem temporum divinam providentiam
non requirunt; atque in ipsa dilectione temporalium nolunt transire quod amant, et tarn sunt absurdi,
quam si quisquam in recitatione praeclari carminis unam aliquam syllabam solam perpetuo vellet audi
re. Sed tales auditores carminum non inveniuntur, talibus autem rerum existimatoribus piena sunt omnia
propterea quia nemo est, qui non facile non modo totum versum, sed etiam totum Carmen possit audire:
totum autem ordinem saeculorum sentire nullus hominum potest. Huc accedit quod carminis non sumus
partes, saeculorum vero partes damnatione facti sumus. Illud ergo canitur sub judicio nostro, ista pera
guntur de labore nostro. Nulli autem vieto ludi agonistici placent, sed tarnen cum eius dedecore decori
sunt: et haec enim quaedam imitatio veritatis est» {De vera religione XXII 43: trad. Vannini, cit., p. 89).
Anche le prime righe di questo passo, sino a «vellet audire», sono state postillate da Petrarca con un
«Nota bene»: vd. Rico, Petrarca y el «De vera religione», cit., p. 326.

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486 Enrico Fenzi

(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior' sovra '1 suo g

Non è tanto la pioggia a impre


rallentata, sospesa quel tanto ch
to, del suo durare, sino all'estr
all'estrema illusione che con esso
posato, si sia interamente consum
esperienza-limite del tempo stess
illusoria, visto che, come sempre
di restituirla al corso inarrestabile della vita.

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