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letteratura italiana
Sono molti gli incanti della canzone CXXVI del Petrarca, Chiare fres
dolci acque; ne hanno fatto esperienza intere generazioni di lettori e com
tatori. Nelle sue stanze, più e meglio che altrove, appare insolubile il
che il linguaggio della poesia ha stretto tra l'attualità delle immagin
presente continuo della coscienza e l'effimero corso della loro vita:
nascere e fissarsi e dissolversi lungo una linea di torsione di cui le imma
stesse, nella loro paradossale e puntualmente smentita eternità, costituis
il nerbo, la sostanza. Borges ha scritto, di sé: «Il tempo è la sostanza
son fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una
che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io s
fuoco». Con metafore più tranquille, potremmo dire lo stesso della canzo
Il tempo è la materia di cui è fatta, ed essa stessa è prima di tutto un'im
ne del tempo, ma il tempo non è infine altra cosa dalla canzone che lo r
senta ... Ed è precisamente qui che si nasconde ciò che fa di Chiare fresc
dolci acque, in modo intimo e diretto, un testo dall'inconfondibile impr
agostiniana, un frutto maturato con prodigiosa naturalezza dalle pagi
libro undecimo delle Confessioni, dedicate, appunto, a definire che co
il tempo. Proprio questo, nelle brevi note che seguono, vorrei rius
dimostrare.
futuro
presente i presente
1. «Unde nisi ex futuro? Qua nisi per praesens? Quo nisi in praeteritum? Ex ilio ergo, quod nondum
est, per illud quod spatio caret, in illud, quod iam non est»; «donec consumptione futuri sit totum
praeteritum» (Conf. XI 21, 27 e 27, 36). Nel testo, qui e in seguito, riporto la traduzione di Carlo
Carena, in Sant'Agostino, Le confessioni, Milano, Mondadori 1984. Sulle pagine agostiniane dedicate
al problema del tempo la bibliografia è assai vasta: mi limito a segnalare la recente rilettura di Paul
Ricoeur, nel primo capitolo del suo Tempo e racconto. I (1983), Milano, Jaca Book 1986.
2. «Dicturus sum canticum, quod novi: antequam incipiam, in totum expectatio mea tenditur, cum
autem coepero, quantum ex illa in praeteritum decerpsero, tenditur et memoria mea, atque distenditur
vita huius actionis meae in memoriam propter quod dixi et in expectationem propter quod dicturus sum:
praesens tarnen adest attentio mea, per quam traicìtur quod erat futurum, ut fiat praeteritum. Quod
3. «Quod autem nunc liquet et claret, nec futura sunt nec praeterita, nec proprie dicitur: tempora sunt
tria, praeteritum, praesens et futurum, sed fortasse proprie diceretur: tempora sunt tria, praesens de
praeteritis, praesens de praesentibus, praesens de futuris. Sunt enim haec in anima tria quaedam et alibi
ea non video, praesens de praeteritis memoria, praesens de praesentibus contuitus, praesent de futuris
expectatio. Si haec permittimur dicere, tria tempora video fateorque, tria sunt» (Conf. XI, 20, 26).
In tema di fonti, a proposito di questi versi che tanto hanno contribuito all'u
niversale fama della canzone, i commentatori sono sempre stati assai parchi.
Per lo più, sulle orme dello Scarano (ma l'osservazione risale almeno al Bia
gioli), si allega l'apparizione di Beatrice a Dante, al sommo del Purgatorio
(Purg. XXX 28 sgg.):
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel cinta d'uliva
donna m'apparve ...
dicerem, hec inter, ut assolet, papirum vacuam inverso calamo feriebam. Res ipsa materiam obtulit
cogitanti inter dimensionis morulas tempus labi, meque interim collabi abire defìcere et, ut proprie
dicam, mori» (Fam. XXIV 1, 26). Sopra, ho riportato la traduzione di Enrico Bianchi, in Petrarca,
Opere, Firenze, Sansoni 1975, p. 1245, prendendomi la libertà di mutare in intervalli l'originale indugi.
Credo che questo passo, spesso citato, sia stato messo in risalto la prima volta dal Bosco, nelle pagine
sue appena ricordate.
8. Come aveva già fatto, in precedenza, una studiosa americana, Nancy J. VlCKERS: vd. avanti, n. 25.
9. P. Blanc, nel commento alla trad. francese dei R. V. F., Paris, Garnier 1988, pp. 242-243. Il
passo del Blanc è citato da Michel David, La canzone 126 dei 'rerum vulgarium fragmenta', Padova,
Soc. Coop. Tip. 1989, p. 142 (estr. dagli «Atti e Memorie dell'Accad. Patavina di Scienze, Lettere ed
Arti», vol. C, 1987-1988, p. III). A questo ricco e importante contributo rimando in modo particolare,
anche per le tante cose che restano fuori da questo mio. Il quale vorrebbe almeno cominciare a soddisfa
re l'esplicita richiesta del David, che scrive: «Sulla pioggia di fiori, la ricerca del topos è da fare. Monti
nella Proposta si è lamentato che i latini non avessero in questo preceduto il P. Catullo è floreale ma non
mi pare che accenni a una pioggia di petali. Il tema sarà invece sfruttato ossessivamente da D'Annunzio
...» (ibid.).
10. Od. Ili 4, 9-19. Giorgio Pasquali, Orazio lirico. Studi ..., a cura di A. La Penna, Firenze, Le
Monnier 1964, p. 693, per questo avvenimento soprannaturale che presagisce la futura grandezza del
poeta, rinvia a Pindaro, Olimp. VI 54 ss. Cfr. pure E. Fraenkel, Horace, Oxford, Clarendon Press
1957, pp. 273 ss., e V. Cremona, La poesia civile di Orazio, Milano, Vita e Pensiero 1982, pp.
228-238, con ampia bibliografia.
11. E ancora nel Tr. Fame III 18: «et un al cui passar l'erba fioriva» (per il quale si veda pure PERSIO,
Sat. II 38: «quicquid calcaverit hic, rosa fiat»), detto di Cicerone, il quale dunque «tende a condividere
con l'Amante unimagery affine» (così Marco Ariani, nella nota ad 1. nella sua ed. dei Triumphi,
Milano, Mursia 1988, p. 333: ma i rimandi che egli offre non sono, in questo caso, molto pertinenti). Si
veda ancora, almeno, l'attacco del son. CXCIV: «L'aura gentil, che rasserena i poggi / destando i fior'
per questo ombroso bosco, / al soave suo spirto riconosco ... », e soprattutti CLXV 1-4: «Come '1 candido
pie' per l'erba fresca / i dolci passi honestamente move, / vertù che 'ntorno apra et rinove, / de le tenere
piante sue par ch'esca».
mentre in quello per le nozze di Onorio e Maria sono i soldati che festeggiano
12. Cfr. E. PANOFSKY, Rinascimento e rinascenze nell'arte occidentale, Milano, Feltrinelli 1984, pp.
223-232, con il rinvio a una serie di studi tanto importanti quanto famosi di Aby Warburg (1983), di
Jean Seznec, (1940), di Ernst H. Gombrich (1945), di Edgar Wind (1950), ecc. La citazione sopra
allegata di Stazio, e poi Lucrezio e Botticelli ... Non si può dunque non ricordare un testo nel quale tale
pregnanza erotica è ripresa e fatta, se possibile, ancora più esplicita: le Stanze del POLIZIANO, I 122,
5-6: «di rose sovra a lor pioveva un nembo / per rinnovarli all'amorosa traccia».
17. Sulle quali si è soffermato molto bene KENELM Foster, in un passo che mi piace riferire per
intero: «The hidden import of the change of tenses at the opening of stanza 4 is metaphysical and
religious; from a mere dream of the future (st. 2-3) Petrarch passes to the contemplation of a real
experience in the past, 'sweet in the memory', line 41; and then, in st. 5, to a new kind of unreality
inasmuch as the résultant ecstasy has an illusory object. Isolating the Laura revealed in that moment of
time, from time, he misconceives that experience as 'paradisal' (55), as though it were a glimpse of that
Beauty which alone is both truly eternai (in contrast with the flux of time) and finally beatific (in contrast
with ali temporal joys). In short, misconceiving the 'trascendance' of memory with respect to the time
flow, he makes of Laura a false final end, a Substitute for God. That this indeed is the implication of st.
4-5 -above ali of '... diss'io / allor pien di spavento: / Costei per fermo nacque in paradiso. / Così carco
d'oblio / il divin portamento ...' (53-57)- cannot however be established by purely stylistic analysis, but
only by a careful study of such key-words here as 'spavento' and above ali 'oblio'; the former being, I
think, équivalent here to the Latin 'stupori as used in Secretum III (Prose, p. 152) to describe the first
dazzling effect on Petrarch of Laura's beauty; and the latter to the conséquent 'oblivio Dei', 'God
forgetfulness' (ibid., pp. 265-71)» (Petrarch Poet and Humanist, Edinburgh Univ. Press 1984, p. 135: i
corsivi sono dell'autore, che termina rinviando opportunamente alle pagine di Adelia Noferi, L'espe
rienza poetica del Petrarca, Firenze, Le Monnier 1962, pp. 265-271). Anche se io non credo, come si
vedrà, che Voblio sia il perfetto equivalente o il frutto immediato di quella memoria 'trascendente' che
ricorda l'apparizione di Laura; al contrario, è proprio la memoria a vincere su quella particolare forma di
oblio, ed a restituire quell'apparizione al tempo: a restituirla, e dunque a salvarla nell'unico modo
umanamente possibile.
18. Secretum III, p. 152 dell'ed. a cura di E. Carrara, in Petrarca, Prose, Milano-Napoli, Ricciardi
1955: i corsivi, che sottolineano i momenti deìYoccursus, dell'exhorbitatio e dello Stupor, sono miei.
19. Secretum III, ed. cit., p. 146. Cfr. ancora R. V. F. CCLXIV 99-101; CCCLX 31-32. E YEp. ad
Rom. I 21-25, ripresa da s. AGOSTINO, Conf. V 3, 5 (e vd. pure ibid. IV 12, 18 e X 6, 8); De civitate Dei
XV 22; De vera religione XXXVII 68.
20. Mi limito qui a rinviare al commento alla 'canzone a ballo' CU del POLIZIANO, /' mi trovai,
fanciulle, un bel mattino, nella recente ed. delle sue Rime, a cura di D. Delcorno Branca, Venezia,
Marsilio 1990, pp. 191 ss. Ma sull'uso antico di spargere fiori sopra i sepolcri, si vedano ancora i passi
greci e latini elencati da Filippo Buonarroti, Osservazioni sopra alcuni frammenti di vasi antichi di vetro
ornati di figure..., Firenze, Guiducci e Franchi 1716, p. 189.
21. Ma, com'è sempre stato fatto, si può anche leggervi un tale intento, chiosando appunto che a un
risultato celeste mira in effetti L'ispirazione' di Amore: onde il valore finale da attribuire a quel «si
dolcemente che mercé m'impetre». Non vedo che i commentatori abbiano notato questa ambiguità del
testo (per la quale non può essere risolutivo il rinvio a Dante, Inf II 94-96, relativo a quel far forza al
cielo), occupati piuttosto da una vecchia interpretazione del Gesualdo e del Castelvetro, poi saltuaria
mente ripresa, secondo la quale qui non c'è nulla che abbia a che fare con la salvezza dell'anima del
poeta, dovendosi intendere che Amore, per il tramite della pietà, riesce ad ottenere l'amore di lei per lui,
e a forzare dunque il decreto del destino che non prevede un tale contraccambio. Questa interpretazione,
che il Carducci-Ferrari riferisce senza commento e che il Chiòrboli liquida sbrigativamente, pare anche
a me da rifiutare, per l'improbabile alternanza di soggetti ch'essa esige: Laura sospira, e Amore impetra e
fa forza, mentre è ancora Laura che si asciuga gli occhi ...
22. 7r. Mortis II 21-24 (e si vedano in proposito le pagine introduttive dell'Ariani, ed. cit., in part. pp.
255 sgg., e le sue note ad 1., con vari pertinenti rimandi).
23. Per le varie opinioni sin qui espresse in merito, vd. avanti, n. 36.
24. Per il quale accetto la data proposta dal Rico (1347-1353 circa) e di fatto accolta, seppur con
alcuni anche notevoli spostamenti d'accento, dal Baron. La proposta del Rico, del resto, è stata adottata
da quasi tutti gli studiosi, e io stesso ho creduto di doverla accogliere e riargomentare, nell'introduzione
a una nuova ed. del dialogo ora in corso di stampa per l'editore Mursia, di Milano (vd. F. Rico, Vida u
obra de Petrarca. /. Lectura del «Secretairi», Padova, Antenore 1974; Hans Baron, Petrarch's «Secre
timi», Cambridge (Mass.), The Med. Acad. of America 1985). Si è invece opposto il Martinelli, con più
interventi, fermo alla data tradizionale del 1342-43, e da ultimo il Ponte, al quale rimando per le
integrazioni bibliografiche del caso (Giovanni Ponte, Nella selva del Petrarca: la discussa data del
«Secretum», «GSLI», CLXVII, 1990, pp. 1-63).
25. N. J. VlCKERS, Re-memberìng Dante: Petrarch's «Chiare, fresche et dolci acque», «Modem Lan
guage Notes», 96, 1 (1981), pp. 1-11. Anche il David, La canzone 126, cit., p. 158, sottolinea come «i
lacerti purgatoriali (cioè edenici) ... sembrano costituire la più forte presenza di una auctoritas specifica
nella canzone».
26. VlCKERS, Re-memberingDante, cit., pp. 8-9. Circa i versi della canzone XXIII relativi a Diana e a
Danae, va ricordato che essi appartengono alla seconda metà della canzone, quella che, dal v. 89 in
fine, è stata trascritta 'in ordine' dal poeta (e poi ancora lungamente elaborata) nel 1350-1351, sul
'codice degli abbozzi', il Vat. lat. 3196, sul verso del foglio 11, lasciato sino a quel punto in bianco, dopo
che nel recto, forse dodici-tredici anni prima, erano stati trascritti i vv. 1-88. Per la lunga e importante
discussione sul punto, rinvio a Angelo Romanò, Il codice degli abbozzi (Vat. lat. 3196) di Francesco
Petrarca, Roma, Bardi 1955, pp. 152-176 (in part., pp. 168 ss.); Dennis Dutschke, Francesco Petrar
ca: Canzone XXIIIfront First to Final Version, Ravenna, Longo 1977, in part. pp. 10-31, pp. 194-195 e
pp. 210-219; Santagata, Per moderne carte, cit., pp. 273-325. Per i versi che in particolare ci interes
sano — quelli relativi a Diana e Danae — le varianti redazionali non offrono nulla di significativo.
27. VlCKERS, Re-membering Dante, cit., p. 10.
(ma allora s'aggiunga pure che nella canzone, v. 34, sono le membra del
poeta ad essere addirittura diventate terra)28, e opportunamente accosta quel
«diviso / da l'imagine vera» a Purg. XXX 130-131:
e volse i passi miei per via non vera,
imagini di ben seguendo false.
28. Giudica inoltre che «sola a me per donna» sia «surely a play on the donna m'apparve» di P
XXX 32. Non mi pare che sia così. Piuttosto, occorrerà allegare, di Dante ancora, Tre donne 26: «e
di sé par donna» (per cui cfr. pure la ballata, tra le dubbie del Cavalcanti, /' vidi donne 2: «non
neuna sembrasse donna»: v. F. SuiTNER, Petrarca e la tradizione stilnovistica, Firenze, Olschki 1
pp. 57-58). I due riscontri con il Purgatorio furono già fatti dallo Scarano (vd. ora nel voi. Fran
Petrarca, a cura di I. Scarano, Ercolano, s. ed., 1971, pp. 114 e 198), e sono ripresi (unici, per qu
riguarda Chiare fresche et dolci acque) da P. Trovato, Dante in Petrarca, Firenze, Olschki 1
rispett. pp. 56 e 132. Aggiungo che, secondo CONTINI, modello del congedo petrarchesco è la canzo
'montanina' di Dante, Amor da che convien (in Letteratura italiana delle origini, Firenze, Sansoni 1
p. 598).
29. David, La canzone 126, cit., pp. 143-144: «se non proprio mariale dichiaratamente, è almeno
imbevuto di tanta meditazione cristiana relativamente 'moderna' che lo rende d'impossibile filiazione
antica ... La lettura attenta di Dante, ben prima di Griselda, ne rivelava ad ogni passo la trasposizione
lirica, anzi epica. L'ipotesi di Blanc deìYobumbravit, con la sua metaforizzazione luminosa della fecon
dazione divina ne sarebbe confermata ...» (per ciò, vd. sopra, n. 9).
30. G. CONTINI, Esercizio d'interpretazione sopra un sonetto di Dante, ora in Varianti e altra linguisti
ca,, Torino, Einaudi 1970, p. 164.
ed è umile qui, in Chiare fresche et dolci acque, «in tanta gloria» cioè nel
momento culminante della sua apoteosi. Umile perché la accoglie senza su
perbia, così come accoglie la lode: ma umile due volte, perché ciò comporta
ch'essa sia sottomessa, disposta a lasciarsi invadere dalla forza di Amore.
Così dunque essa apparve la prima volta al poeta: una creatura che lo avreb
be amato. Tale egli la ricorda, e così immagina ch'essa torni a lui, dopo la
sua morte, «fera bella et mansueta». La fabula è rifluita tutta verso i suoi
termini estremi, ai confini del tempo che la contiene. L'arco della vicenda è
concluso, e il tragitto mentale della canzone sta nella sovrapposizione di
quella lontana, rammemorata promessa d'amore e del sogno di un adempi
mento, che avrà luogo ancora là, nell'usato soggiorno, e che una morte e una
tomba renderanno finalmente possibile.
Questo apparenta la nostra canzone alle rime 'in morte' (a suo modo, non è
forse anch'essa 'in morte'?), quale che sia l'epoca che si assegnerà alla sua
composizione, ed è ancora questo che, infine, dà senso all'indubitabile sep
pur discreta presenza dantesca. La quale essenzialmente riposa - direi -
proprio sul fatto che è un'esperienza conclusa quella che la canzone contem
pla, sì che dinanzi ad essa si capisce come si sia potuto parlare, con tutte le
31. Dante s Lyric Poetry, [a cura di] K. Foster and P. Boyde, Oxford, Clarendon Press 1967, vol. II p.
132.
ma le parti supreme
eran avolte d'una nebbia oscura.
Ov'è da osservare che il verso di Virgilio qui ripreso («Sed nox atra caput
tristi circumvolat umbra», da Aen. VI 866)33 riguarda l'aspetto del giovane
Marcello, così come appare ad Enea nell'oltretomba: quello stesso Marcello
di cui Anchise profetizza l'acerba morte, e per il quale chiede fiori, da spar
gere a piene mani sulla sua tomba: «Manibus date lilia plenis ...». Siamo
così tornati a una auctoritas già considerata, e a un nodo cruciale del discor
so. E Virgilio, a questo punto, sembra farsi garante del nesso che lega e
contrappone la pioggia di fiori della canzone CXXVI con la «nebbia oscura»
che avvolge il capo di Laura nella CCCXXIII, sì che l'ombra funerea che
velerebbe quella gloriosa pioggia ne riuscirebbe confermata. Né manchereb
be, al proposito, un segnale esplicito, neìYincipit della quarta stanza:
Contro ogni apparenza, è però assai dubbio che si tratti qui di una sort
citazione interna34, a rinsaldare un legame che emergeva già nella stan
precedente, la terza, ove è la folgore che distrugge l'illusione paradisiaca ch
aveva diviso il poeta dal mondo (25 sgg.):
'quando sarai morto' costituisce di fatto la risposta alla domanda qui posta, vv. 21-26, sia, appunto,
la situazione delineata, pur con le diversità del caso, nei vv. 30-39.
33. Il Chiappelli, Studi sul linguaggio del Petrarca. La canzone delle visioni, Firenze, Olschki 1
p. 167, rinvia a Georg. IV 497-500, là dov'è la definitiva sparizione di Euridicè.
34. L'esclude, credo, l'intenso lavoro di correzione su questi versi, tra i più tormentati dell'in
canzone. Le cui ultime quattro stanze e il congedo furono composti, più o meno, nel 1365, e trascritt
'codice degli abbozzi' nell'ottobre del 1368. Ora, la tavola delle diverse redazioni dei vv. 37-39 regis
secondo la ricostruzione del RomanÒ, Il codice degli abbozzi, cit., pp. 60-61, undici tappe. Le p
dieci, che sono appunto del codice degli abbozzi, vedono una generale prevalenza delle acque chi
dolci, mentre la fontana è senza aggettivi. Solo nell'undicesima e definitiva forma, quella del Vat.
3195, la fontana è chiara e le acque fresche e dolci: ma è ancora da notare che qui, in un testo pur
autografo, chiara è su rasura, come fresche del v. seguente, sì che se ne deve dedurre che la forma i
leggiamo i versi è frutto dell'elaborazione non solo dell'ultimo anno di vita di Petrarca, ma forse add
tura dei suoi ultimi mesi. E tutto ciò comporta che la serie Chiara .. .fresche e dolci non si sia presen
con la forza e l'intenzionalità originarie di un'autocitazione, ma sia stata raggiunta pazientemente pe
tutte interne. La cosa può parere curiosa, proprio a fronte della memorabilità di un incipit quale qu
della canzone CXXVI, e meritava osservarla.
Al proposito, Chiappelli scrive: «Dalla strofe del lauro [la terza] in poi, i
momento della descrizione, quello del pericolo ecc., sono complicati dall'e
spressione indiretta di uno stato estatico suscitato dalla contemplazione della
figura; ed ivi viene rivelandosi il nucleo critico dell'episodio, sia in quant
l'incanto è il risultato necessario delle proprietà straordinarie dell'appariz
ne, sia in quanto determina nel testimone il presupposto del suo precipitare
nello sgomento. Tale stato estatico non è mai esplicitamente descritto nel
canzone, essendo implicito nella descrizione della figura per la fase del su
sorgere, in quella dell'improvvisa minaccia per la sua fase di sospensione, in
quella del disastro per la fase del crollo; ma se ne ha ampio documento nella
canzone Chiare fresche e dolci acque, dove il poeta ne ha fatto un tema centr
le di rappresentazione [...] Lo stato paradisiaco, il trasporto fatto di impr
sione straordinaria (spavento) che conduce all'oblio totale e al credersi so
tratto alle contingenze, è sviluppato qui esplicitamente come soggetto propri
della lirica [...] E a tale descrizione compiuta [sempre quella della canz.
CXXVI] che ci si deve riferire quando nello studio dei singoli episodi si
alluderà al momento dell'estasi»35.
Lo studioso si ferma qui, dopo aver indicato in Chiare fresche et dolci acque
una sorta di archetipo del 'momento estatico', al quale è d'obbligo tornare, in
ispecie, per la canzone CCCXXIII. È molto, ma torno a dire che occorre
trarne qualcosa di più stringente, di più vicino. Il rapporto tra le due canzon
insomma, definisce un complesso gioco delle parti tra situazione 'in vita'
situazione 'in morte' di cui non credo si possa fare responsabile solo la tarda
stesura della 'canzone delle visioni'. E continua dunque ad apparirmi veri
mile che anche Chiare fresche et dolci acque sia stata composta più tardi di
quanto si sia sempre pensato36, per l'insieme delle cose dette, grossolana
35. Chiappelli, Studi sul linguaggio del Petrarca, cit., pp. 45-47. Per la 'morte del lauro', rinvio
M. Feo, Il sogno di Cerere e la morte del lauro petrarchesco, nel voi. mise. Il Petrarca ad Arquà, Padov
Antenore 1975, in part. pp. 133-145 (con importanti precisazioni di carattere cronologico e compositiv
a proposito della canzone).
36. La canzone, sicuramente presente nei R.V.F. sin dalla 'forma Correggio' (1356-1358), in gene
non ha sollevato problemi di cronologia, apparendo pressocché pacifica l'epoca di composizione,
cavallo tra gli anni '30 e '40, e il luogo, Valchiusa. Più diffuso in merito 1'Amaturo, Petrarca, Bari,
Laterza [Lett. it. 6] 1971, pp. 283-286, che la sposta in avanti, al 1345, sulla base delle indicazioni che
derivano dalla serie delle diciannove liriche precedenti (CVII-CXXV), e che soprattutto cerca di mutare
l'angolazione critica dalla quale considerarla, insistendo sulla sua «estrema consapevolezza critica», sul
suo carattere di sintesi d'un'intera esperienza, quasi una postuma architettura della memoria. Raccoglie
e arricchisce queste indicazioni il David, La canzone 126, cit., pp. 157-159, che si ferma in particolare
sullo 'stilnovismo' petrarchesco, per concludere che la «canzone è pura di questo noviziato e semmai
tradisce un ritorno maturo a qualche rilettura antologica per affinità più profonde. La stessa lode della la
strofa non è più al presente, ma all'imperfetto della memoria lontana», ecc. In altri termini, pur propo
nendo anch'egli il 1345, è chiaro che, anche da altri accenni suoi — v. la nota seguente —, una data
ancora più bassa non contrasterebbe affatto ma piuttosto s'accorderebbe con il tono generale delle sue
proposte di lettura (e ciò mi pare che dovrebbe valere anche per l'Amaturo). Infine, il Battisti, sin qui
solo, ch'io sappia, ha scritto che la canzone potrebbe essere stata scritta nel 1350, in Italia: ma la sua è
una breve osservazione di carattere insieme marginale e personale, che non s'appoggia ad altre conside
razioni in merito (E. Battisti, Non chiare acque, nel vol. mise. Fr. Petrarch Six Centuries Later. A
Symposium ..., Univ. of North Carolina, Chapell Hill and The Newberry Library (Chicago) 1975, p.
308).
37. Per tali ragioni, non trovo affatto generico quanto il David, scrive nelle ultime righe del suo saggio:
«Questa, la meno petrarchista delle rime petrarchesche ... è lei ad illuminare di una luce interna l'intera
raccolta, o diciamo pure tutta la quadreria, sia verso l'itinerario che la precede, sia verso quello che sale
fino alla Canzone 366. Sembra quasi autonoma, ma è necessaria per dare un senso 'moderno' a tutta
l'elisse del percorso ...» (La canzone 126, cit., p. 161).
38. Almeno, per quanto risulta a me. Aggiungo che l'ipotesi alla quale accenno troppo brevemente
qui, conto di riprenderla e argomentarla meglio in altra sede.
42. Per altri rinvìi, cfr. Trovato, Dante in Petrarca, cit., p. 34 (v. 37); p. 35 (v. 12); p. 128 (v. 15);
p. 152 (vv. 4-6). Per la verità, Trovato, p. 127, ricorda, per il v. 62: «che la mia vita acerba», Yacerba
vita della dantesca Li occhi dolenti 65 (Vita nuova XXXI) e, p. 71, per il primo verso del congedo: «0
poverella mia, come se' rozza!», Purg. XXXII 129: «0 navicella mia, com' mal se' carca». Ma non mi
pare che la qualità di questi rimandi intacchi anche minimamente quanto sopra s'afferma.
43. Nelle diciotto famiglie di rime delle prime tre stanze, ben diciassette rientrano nella categoria (e
solo sette, per le restanti diciotto delle altre tre). I miei spogli — devo dire — danno risultati diversi da
quelli deducibili dal Trovato, ma la sostanza non cambia.
44. De Robertis, Petrarca petroso, cit., p. 24 (ma vd. sopra, n. 5).
E sino al congedo:
0 poverella mia, come se' rozza!
Credo che tei conoschi:
rimanti in questi boschi,
Santagata, nel suo importante saggio sulle 'connessioni intertestuali' nel can
zoniere del Petrarca, ha brevemente isolato e considerato questi due congedi,
alla luce degli specifici fenomeni di equivalenza da lui fissati45; ma il caso,
assolutamente anomalo e perciò assai interessante, è in verità quello di una
canzone che, giunta a metà del proprio corso, muta stile e contenuto, e si
trasforma in una sorta di lunga pròtasi della canzone successiva: dove la
corrispondenza dei rispettivi congedi non fa che rendere ufficiale ed esplicito
questo processo.
Tornando al punto, mi sentirei perciò di sostenere che la netta divaricazio
ne di Se '/ pensier in due parti fa sospettare una vicenda compositiva non
lineare, e soprattutto che la seconda parte della canzone, interamente cala
mitata verso la successiva Chiare fresche et dolci acque, testimonia di una
fortissima e affatto speciale esigenza di 'connessione', della quale occorre
rebbe cercar di capire le altrettanto speciali ragioni46. E ne concluderei, per
45. SANTAGATA, Connessioni intertestuali nel «Canzoniere» del Petrarca, nel voi. Dal sonetto al Canzo
niere, Padova, Liviana 1979, pp. 42 ss.
46. Al proposito, si veda come già il Chiòrboli sottolinei con forza il legame tra le due canzoni, e come,
senza trarne esplicite conseguenze, paia attribuirle a un momento che potrebbe ben essere quello del
l'ultimo soggiorno del Petrarca in Provenza (1351-1353): «Una tristezza cupa grava su l'anima del poeta
e la vela una fredda ombra come di morte; simile a chi sia per allontanarsi per sempre da ogni cosa più
caramente diletta e tema di non ritornare mai più, egli si rivolge addietro a rimirare ciò che ancora può
per un pcco ... non c'è qui il canto, qui non ce ne sono che alcune note sole, quelle delle due ultime
stanze: il canto vero è la canzone che segue ... Poiché questa è in verità preludio all'altra canzone», ecc.
(nell'ed. dei R. V. F. da lui commentata, Milano, Trevisini 1924, p. 292).
47. Il nodo della proposta resta, naturalmente, l'eventuale abbassamento 'in morte' della seconda
parte di Se 7 pensier, in armonia con quanto ipotizzato per Chiare fresche et dolci acque. Al proposito, sia
lecito almeno accennare che la memoria di un passato che non pare possa più essere richiamato in vita è
tema del tutto estraneo alla prima parte di Se 7 pensier, e ne caratterizza invece la seconda parte, e in
ispecie l'ultima stanza. Nella quale suona ambiguo quel: «Spirto beato, quale / se', quando altrui fai
tale?» (vv. 77-78), quasi Laura, appunto, fosse morta. E appena sopra, i due versi: «Cosi nulla se 'n
perde, / et più certezza averne fora il peggio» mostrano di resistere ancora alla spiegazione che di essi
viene data, sulla scorta del De Sanctis: m'illudo che ogni erba o fiore che raccolgo conservi traccia del
suo passaggio, «così il mio pensiero, universalmente immaginando, non perde nulla di ciò che fu o potè
essere particolarmente» (Carducci-Ferrari). Il poeta, infatti, nella stanza precedente, si augura invano,
per suo sollievo, di veder conservati i «bei vestigi» di lei, ed è precisamente questo il motivo ch'egli
svolge: sì che, per questo e in generale, non intendo bene come potrebbe poi essere peggio l'individuare
con certezza proprio ciò che si va cercando (forse perché il dolore dell'assenza ne riuscirebbe di colpo
più pungente? rovesciando così quanto ha appena detto?). In ogni caso, la certezza, e cioè la verità, la
realtà, pur celata tra quell'erba, è rifiutata, censurata perché fonte di troppo dolore ... Osservo, ancora,
che anche I'Amaturo, citando questi stessi versi, pur senza trarne esplicite conseguenze lascia intende
re d'essere favorevole a un abbassamento della tradizionale datazione 'in vita' (Petrarca, cit., pp. 284
285).
48. «... ut cum aliquid cogitât, intelligere se credat, umbris illusus phantasmatum. Si quando autem
non tenens integram divinae providentiae disciplinam, sed tenere se arbitrans, carni resistere conatur,
usque ad visibilium rerum imagines pervenit, et lucis huius quam certis terminis circumscriptam videt,
immensa spatia cogitatione format inaniter: et hanc speciem sibi futurae habitationis pollicetur; nesciens
oculorum concupiscentiam se trahere, et cum hoc mundo ire velie extra mundum; quem propterea ipsum
esse non putat, quia eius clariorem partem per infinitum falsa cogitatione distendit» (De vera religione
XX 40: la trad. è di Marco Vannini, nella ed. da lui curata, Milano, Mursia 1987, pp. 83-85). Petrarca
ha postillato con un «Nota» le parole da nesciens a mundum, sul suo codice dell'opera, il Par. lat. 2201,
f. 35: vd. F. Rico, Petrarca y el «De vera religione», «Italia medioevale e umanistica», XVII (1974), p.
326.
L'epifania della bellezza non può sottrarsi al tempo, ma non cessa per questo
d'essere tale: e sul tempo prende una paradossale quanto obbligata rivincita,
trasformando la sospesa, fragile eternità della contemplazione nel desiderio
che non ha pace ...
Si può aggiungere, infine, che anche le fonti sopra allegate avrebbero
potuto, per la loro parte e su tutt'altro piano, favorire una trascrizione della
visione in termini, appunto, di mitica e astratta atemporalità. Ma ciò non è
avvenuto. Il sentimento del tempo, come ha attraversato quell'oblio e se n'è
impadronito, così ha vinto contro le forme rigide e sovrapersonali del mito e
della stilizzazione letteraria, e le ha personalizzate e fatte cosa propria, me
moria propria. Credo che il fascino di questi versi debba moltissimo a tutto
ciò, perché è qui che ha radice la distentio animi di Petrarca, cioè la capacità
tutta particolare che egli possiede di cogliere insieme il senso della durata
con tutta la sua preziosa e prodigiosa precarietà, e di fare di questo senso il
contenuto più intimo e drammatico della coscienza e della memoria. Che non
è memoria di una 'cosa', ma memoria del tempo di quella cosa, memoria di
un moto, di una traccia, di un farsi del tempo ...
Da' be' rami scendea
49. «... multi temporalia diligunt, conditricem vero ac moderatricem temporum divinam providentiam
non requirunt; atque in ipsa dilectione temporalium nolunt transire quod amant, et tarn sunt absurdi,
quam si quisquam in recitatione praeclari carminis unam aliquam syllabam solam perpetuo vellet audi
re. Sed tales auditores carminum non inveniuntur, talibus autem rerum existimatoribus piena sunt omnia
propterea quia nemo est, qui non facile non modo totum versum, sed etiam totum Carmen possit audire:
totum autem ordinem saeculorum sentire nullus hominum potest. Huc accedit quod carminis non sumus
partes, saeculorum vero partes damnatione facti sumus. Illud ergo canitur sub judicio nostro, ista pera
guntur de labore nostro. Nulli autem vieto ludi agonistici placent, sed tarnen cum eius dedecore decori
sunt: et haec enim quaedam imitatio veritatis est» {De vera religione XXII 43: trad. Vannini, cit., p. 89).
Anche le prime righe di questo passo, sino a «vellet audire», sono state postillate da Petrarca con un
«Nota bene»: vd. Rico, Petrarca y el «De vera religione», cit., p. 326.
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior' sovra '1 suo g