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Ordinario XV (C)

Testi della Liturgia


Commenti:
Rinaudo
Garofalo
Stock
Vanhoye
I Padri della Chiesa
Briciole
San Tommaso
Caffarra
Sant’Agostino

Testi della Liturgia:

Antifona d'Ingresso: Nella giustizia contemplerò il tuo volto, al


mio risveglio mi sazierò della tua presenza.
 
Colletta: Padre misericordioso, che nel comandamento dell'amore
hai posto il compendio e l'anima di tutta la legge, donaci un cuore
attento e generoso verso le sofferenze e le miserie dei fratelli per
essere simili a Cristo, buon samaritano del mondo. Egli è Dio...
 
I Lettura: Dt 30, 10-14
Mosè parlò al popolo dicendo: “Obbedirai alla voce del Signore
tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo
libro della legge; quando ti sarai convertito al Signore tuo Dio con
tutto il cuore e con tutta l'anima.
Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né
troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per
noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?
Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare
per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?
Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo
cuore, perché tu la metta in pratica”.
 
Salmo 18: I tuoi giudizi, Signore, danno gioia.
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l'anima;
la testimonianza del Signore è verace,
rende saggio il semplice.
Gli ordini del Signore sono giusti,
fanno gioire il cuore;
i comandi del Signore sono limpidi,
danno luce agli occhi.
Il timore del Signore è puro,
dura sempre;
i giudizi del Signore sono tutti fedeli e giusti,
più preziosi dell'oro,
di molto oro fino,
più dolci del miele e di un favo stillante.
 
II Lettura: Col 1, 15-20
Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni
creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state
create per mezzo di lui e in vista di lui.
Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è anche
il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di
coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le
cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per
mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il
sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla
terra e quelle nei cieli.
 
 
Alleluia, alleluia. Vi dò un comandamento nuovo, dice il
Signore: che vi amiate a vicenda
come io ho amato voi. Alleluia.
  Vangelo: Lc 10, 25-37
In quel tempo, un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova:
“Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse:
“Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?”.
Costui rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore,
con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e
il prossimo tuo come te stesso”. E Gesù: “Hai risposto bene; fà
questo e vivrai”.
Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio
prossimo?”.
Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e
incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne
andarono, lasciandolo mezzo morto.
Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e
quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in
quel luogo, lo vide e passò oltre.
Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo
vide e n'ebbe compassione.
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi,
caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese
cura di lui.
Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore,
dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al
mio ritorno.
Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è
incappato nei briganti?”. Quegli rispose: “Chi ha avuto compassione
di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.
 
Sulle Offerte: Guarda, Signore, i doni della tua Chiesa in
preghiera, e trasformali in cibo spirituale per la santificazione di tutti
i credenti. Per Cristo nostro Signore.
 
Dopo la Comunione: Signore, che ci hai nutriti alla tua mensa,
fa’ che per la comunione a questi santi misteri si affermi sempre più
nella nostra vita l'opera della redenzione. Per Cristo nostro Signore.

Commenti:

Rinaudo
Meditazione sul Salmo 18
Senso Cristologico
Scrive san Paolo che il Cristo, Verbo creatore di Dio, è la
Ragione intima e universale di tutte le cose, principio assoluto
dell'ordine e dell'armonia del cosmo: «Egli è immagine del Dio
invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui
sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili. ... Tutte le cose sono state create per
mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte le
cose sussistono in lui» (Col 1, 15-17).
Avendo origine e consistenza nella Ragione, cioè nella Parola
eterna di Dio, in colui che è il fulgore della sua gloria (cf Ebr 1,3),
l'universo parla e manifesta la gloria di Dio.
Dopo il peccato, Cristo è il restauratore dell'universo, il principio
di un nuovo mondo e di una nuova umanità, il nuovo Adamo che
viene dal cielo, come spirito che vivifica ogni cosa, per elevare ad
una condizione di vita soprannaturale (cf 1 Cor 15, 45-49).
«Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il
primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il
primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di far abitare in lui
ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose,
rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui,
le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (Col 1, 18-20).
I nuovi cieli e la nuova terra che sono in formazione e nei quali
abita la giustizia (cf 1 Pt 3, 13), «non hanno bisogno della luce del
sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio illumina e la
sua lampada è l'Agnello» (Apoc 21, 23).
La liturgia ha interpretato la prima parte del salmo alla luce di
questa rivelazione.
Essa vede nel Cristo il sole di giustizia del mondo, da lui redento
e rinnovato.
La sua tenda è nel cielo e nel seno verginale di Maria; «come uno
Sposo, nell'utero della Vergine trovò un talamo, quando si fece
carne, e congiunto, in tal modo, all'umana natura, uscì da questa
castissima abitazione, umile al di sotto di tutti, con un volto di
misericordia, ma forte al di sopra di tutti per la sua potestà» (S.
Agostino, Enarr. sul salmo 18)
Il Cristo esultò come un prode che percorre la strada: nacque,
crebbe, insegnò, patì, risuscitò e ascese al cielo.
Queste sono le tappe della sua corsa nel mondo e non c'è niente
che si sottrae al suo calore (v. 7).
«Sono uscito dal Padre, disse Gesù, e sono venuto nel mondo;
ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre» (Giov 16, 28). Così
facendo, Gesù ha manifestato nel mondo la gloria del Padre, e ha
aperto una strada dal mondo verso le regioni celesti.
Questo sole divino, con la sua luce e il suo calore, rinnova la terra
e l'universo; verrà il giorno in cui esso inonderà il mondo con la sua
luce abbagliante. «Come la folgore viene dall'Oriente e brilla fino a
Occidente, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo» (Mt 24, 27);
allora, «egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le
intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio» (1 Cor
4, 5).
«Cristo, venuto a compiere la legge, è egli stesso la legge del
nuovo popolo di Dio: legge immacolata, perché egli non fece
peccato; legge che ristora le anime, perché non opprime col giogo
della schiavitù ma le induce nella libertà a imitare i suoi esempi; egli
è la verità che il Padre ha nascosto ai sapienti e rivelato ai piccoli»
(S. Agostino, Enarr. sul salmo 18)
Egli è la luce del mondo: chi lo segue non cammina nelle tenebre,
ma avrà la luce della vita (cf Giov 8, 12).
L'osservanza della legge naturale (i dieci comandamenti) e
soprannaturale (carità) si risolve nel cristianesimo in un rapporto
personale d'amore tra Cristo e il cristiano.
Cristo diviene principio di vita e di operazione nel cristiano. La
vita cristiana è la manifestazione della sua presenza nell'uomo: Cristo
è la legge che vive e opera nel cristiano, apportando ordine e
armonia; lo Spirito di Cristo è la forza necessaria per attuare tale
ordine.
Gesù è lo specchio che la Chiesa tiene costantemente davanti a
noi in ogni giorno dell'anno e nel quale abbiamo la visione di ciò che
dobbiamo essere. In Gesù, contempliamo e attingiamo la pietà filiale
verso il Padre, la purezza e la libertà di fronte alle cose del mondo, la
giustizia, la carità e la misericordia verso i fratelli. Secondo ciò che
contempliamo e riceviamo da lui, dobbiamo rifare in noi l'immagine
e la somiglianza con Dio, che è stata deturpata dal peccato.
La legge perfetta che ci dona Gesù risorto non è più il giogo
pesante che incombeva sugli uomini disorientati e deboli prima della
redenzione: «Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Mt
11, 30). Lo Spirito di Cristo è in noi, per soccorrere la nostra
debolezza. Una tale legge è, per il cristiano, espressione di vita, è
sviluppo e crescita che impone uno sforzo; ma questo sforzo dà
respiro alla vita, è fonte di gioia, è conquista di sé, è dominio del
mondo, elevazione e scoperta di nuove mete.
Doveri di giustizia, di onestà nella vita professionale, di lealtà e di
coerenza, di purezza, di carità nel parlare e nell'operare diventano
esigenza di vita; non si tratta evidentemente solo di evitare il male,
ma di impegnarsi e di operare con senso di responsabilità: portiamo
in noi Cristo ed egli vuole agire in noi.
Il rapporto personale tra Cristo e il cristiano comporta un uguale
rapporto di rispetto e di amore verso gli uomini, perché in essi vive
Cristo: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può
amare Dio che non vede» (1 Giov 4, 20).
La morale cristiana non è che una conseguenza della comunione
di vita instaurata tra Gesù e le membra sue, perché siano perfette,
com'è perfetto il Padre celeste (cf Mt 5, 48).
(Rinaudo S., I salmi preghiera di Cristo e della Chiesa, Elledici,
Torino-Leumann, 1981, pp. 143-145)

Garofalo 
Il prossimo.
Il momento culminante della pagina evangelica di questa
domenica è senza dubbio la parabola del Buon Samaritano,
conservata soltanto da Luca, che fa parte di una serie di parabole
destinate a proporre un modello di comportamento. (cf. Lc 12, 16-21;
28-32; 16, 1-8; 18, 9-4). L'introduzione è comune ai Sinottici, ma
con prospettiva diversa; mentre infatti in Matteo (22, 34-40) e in
Marco (12, 28-30) il problema proposto a Gesù appartiene all'ambito
culturale ebraico – quale sia il primo o più grande comandamento
della Legge – in Luca si tratta di sapere chi è per tutti il prossimo da
amare secondo la volontà di Dio.
Chi propone il problema è un esperto della Legge – un dottore, uno
scriba – che Marco presenta in buona luce, mentre in Matteo e in
Luca egli intende mettere alla prova Gesù, saggiandone la dottrina.
È' chiaro che Luca ha profittato della splendida parabola da lui
conosciuta per darle un contesto che gli consenta di offrire ai suoi
lettori una norma di vita più che un insegnamento teorico, diretto a
risolvere una polemica teologica giudaica.
Il dottore della Legge riconosce in Gesù un maestro, anche se non
ha il crisma delle scuole di Gerusalemme, e imposta una questione
concreta: «Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna». Invece di
dare una sua risposta, Gesù provoca l'interlocutore a darla,
riferendosi alla Legge che questi dovrebbe conoscere a perfezione;
infatti, il dottore non esita un istante a citare il duplice
comandamento dell'amore di Dio e del prossimo (Dt 6,5 e Lv 19,
18),
In ogni caso, la punta della parabola è l'intervento di un
Samaritano – le parabole a tre personaggi sono secondo il gusto
popolare e caratteristiche di Luca (14, 18-20; 19, 16-24; 20, 10-12) --
la cui meritando la piena approvazione di Cristo: «Fa' questo e
vivrai». Ma è sul piano della pratica che l'interlocutore di Cristo
manifesta la sua perplessità, o quanto meno esige che Gesù si
spieghi; «volendo giustificarsi» d'aver posto un problema di cui
conosceva già l'esatta soluzione – o forse per dichiarare il suo
desiderio di essere giusto a norma della Legge – domanda: «E chi è il
mio prossimo?».
Un buon giudeo sapeva che il prossimo o il «compagno» –
secondo il significato etimologico del termine ebraico corrispondente
– era un uomo della stessa fede e dello stesso sangue, al quale veniva
assimilato lo straniero residente in mezzo al popolo di Dio (Lv 17, 8.
10. 13. 19, 34) e, ai tempi del vangelo, il pagano convertito alla
religione d'Israele. Con la parabola del Buon Samaritano, Gesù,
invece, scopre un orizzonte senza fine.
L'esempio prende lo spunto dalla cronaca nera contemporanea: la
via che conduceva da Gerusalemme all'oasi di Gerico, cioè dalle
montagne della Giudea al punto della massima depressione terrestre,
superando un dislivello di oltre mille metri su un percorso di una
trentina di chilometri, attraversava gole e dirupi deserti con ampie
possibilità di imboscate e aggressioni: la fantasia popolare vedeva
nella marna rossa di quelle montagne il sangue delle vittime dei
ladroni. Nella parabola, Gesù parla di un uomo incappato nei
briganti, depredato, duramente percosso e abbandonato mezzo morto
sulla strada.
Nell'oasi di Gerico abitavano molti sacerdoti e leviti, che si
recavano al tempio per il loro turno di servizio. I primi a imbattersi
nel malcapitato furono appunto un sacerdote e un levita – ministro
sacro in sott'ordine – i quali, dato uno sguardo all'uomo pesto e
sanguinante, si scansano, spostandosi sull'altro lato della strada.
Si è voluto trovare una ragione a questo comportamento
all'apparenza cinico e impietoso nel fatto che sacerdoti e leviti non
potevano aver contatti con i cadaveri per non contrarre l'impurità
legale, che li avrebbe resi inabili alle funzioni. sacre (Lv 21, 1; Nm
19, 11). I sadducei, ai quali di solito apparteneva il personale del
tempio, specificavano che bisognava evitare i cadaveri anche
occasionalmente incontrati sulla strada. I due della parabola,
temendo che l'uomo potesse essere già morto, sarebbero stati indotti
da uno scrupolo religioso a girare al largo; ma non è chiaro, tra
l'altro, se essi si rechino a Gerusalemme oppure ne ritornino.
La deplorazione di Cristo per il modo di agire di quei due sembra
però implicita e vengono in mente ciò che il divino Maestro dice,
appellandosi alle Sacre Scritture (Os 6, 6), a proposito della
preferenza che Dio dà alla misericordia sul sacrificio (Mt 9, 13; 12,
7) e agli innumerevoli casi in cui, guarendo gli infermi nel giorno di
sabato, Gesù dimostrò l'eccellenza della carità nei confronti di
osservanze cultuali ridotte a formalismo inerte.
In ogni caso, la punta della parabola è l’intervento di un
Samaritano – le parabole a tre personaggi, sono secondo il gusto
popolare e caratteristico di Lc (14, 18-20; 19, 16-21;20, 10-12) la cui
menzione dovette provocare nel dottore della Legge un irrefrenabile
moto di repulsione.
Un samaritano era per lui un eretico, un uomo, come dice un testo
talmudico, che non aveva «comandamenti e neppure un resto di
comandamento» e perciò era da «disprezzare e considerare un
pervertito». Eppure, è proprio un tipo di questo genere che Gesù
propone drasticamente ad esempio, compiacendosi di descrivere nei
minuti particolari il suo comportamento: vedendo il ferito ne ha
compassione, gli si fa vicino, gli fascia le ferite con olio per lenirle
(Is 1, 6) e vino per disinfettarle, lo carica sul suo giumento e lo porta
a una locanda. La cura che egli si prende del poveretto non finisce
qui; costretto il giorno dopo a continuare la strada; anticipa al
locandiere due denari – l'importo di due giornate di salario – con
l'incarico di sostituirlo presso il ferito e di non fargli mancare nulla,
promettendo di rimborsargli ogni spesa eccedente l'anticipo.
A questo punto, Gesù ancora una volta chiama in causa il suo
interlocutore e dà un diverso indirizzo alla di lui domanda iniziale –
«chi è il mio prossimo» – chiedendogli chi, secondo lui, è stato il
prossimo per il ferito, quasi a dirgli: se tu fossi nei panni del
disgraziato, chi avresti considerato come prossimo tuo, cioè come
colui che ti ha amato secondo la Legge? A malincuore il dottore deve
riconoscere che la qualifica spetta ovviamente al Samaritano, il quale
ha avuto una fattiva compassione per il ferito.
Il problema non è dunque la corretta identificazione del prossimo,
con eventuale graduatoria: il prossimo è chiunque sia in necessità,
chiunque abbia bisogno di essere amato non teoricamente, ma con
gesti tempestivi e concreti. Il Samaritano non si è domandato chi era
il ferito, se apparteneva alla sua razza o alla sua fede: ha guardato
semplicemente allo stato in cui si trovava ed ha provveduto a fare per
lui tutto il possibile, senza esitazione e avarizia.
Nel brano evangelico ricorre ben quattro volte il verbo «fare» (vv.
25.28.37: due volte); l'eloquente martellamento ha un'eco con meno
significativa nella predicazione apostolica: «Se un fratello o una
sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di
voi dice loro: "Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi", ma non
date loro íl necessario per il corpo a che giova?» (Gc 2, 15-16). «Non
amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità» (1 Gv 3,
18).
Il grandioso affresco del giudizio in Matteo (25, 31-46) dirà che il
prossimo ha un solo volto: quello di Cristo, ed Origene attribuiva a
«un certo presbitero», cioè a un membro dell'antichissima comunità
giudeo-cristiana palestinese, l'interpretazione, assai diffusa nella
tradizione patristica fin dal II secolo, secondo la quale il Buon
Samaritano rappresenta Cristo, venuto a soccorrere l'uomo aggredito
e portato da Satana a un passo dalla morte. In realtà, la
«compassione» del Samaritano è espressa con un termine greco –
«commuoversi nelle viscere» – che nei vangeli sinottici indica
costantemente la pietà profonda e benefica di Cristo, la tenerezza che
egli ha in comune col Padre (Lc 15, 20) per i bisogni spirituali e
terreni dell'umanità.
L'autentico amore, in chi lo esercita e in chi ne è l'oggetto, riflette
sempre il volto di Cristo, nasce dal suo cuore, dal suo amore per noi
e dal nostro amore per lui, e irradia in tutte le direzioni la sua grazia,
superando ogni barriera.
(Garofalo S., Parole di vita, Vaticano 1981, 289-293).

Stock
Chi è il mio prossimo?
Il racconto dell'uomo caduto nelle mani dei briganti e del buon
samaritano è tra i più impressionanti e noti di tutto il Vangelo. La
strada da Gerusalemme a Gerico conduce attraverso il deserto; fino
al secolo scorso è stata una strada insicura, continuamente minacciata
dagli assalti di briganti. Cadere nelle loro mani, giacere in questo
luogo dopo essere stato bastonato a sangue, rappresenta una
situazione di estrema necessità. Che un uomo in una tale situazione
abbia bisogno di aiuto e che solo colui che lo aiuta è il suo prossimo,
questo è evidente per tutti. Ma non si deve neppure ignorare che
questo aiuto impegna fortemente, può comportare un pericolo
personale e disturba la propria tranquillità e il proprio programma.
Due persone hanno visto quest'uomo mezzo morto, ma sono passate
oltre dall' altra parte. La preoccupazione per la propria sicurezza e
comodità è stata più forte della compassione per questo uomo
abbandonato. Tanto più significativo è il comportamento del
samaritano. Egli agisce in modo esemplare, fa passare tutto il resto in
secondo piano e vede solo la necessità di quest'uomo che giace sul
ciglio della strada mezzo morto. Fa di tutto per tirarlo fuori da questo
disagio nel modo più completo possibile.
Non dovremmo dimenticare qual è la domanda che ha
occasionato questo racconto. Un dottore della legge ha chiesto a
Gesù: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?».
Egli è interessato alla vita eterna. È convinto che deve fare qualcosa
per questo, che la vita eterna non gli piove dal cielo. Vorrebbe sapere
che cosa deve fare. La sua domanda ci può stimolare, se noi stessi ne
siamo colpiti e mossi, se anche noi siamo interessati alla vita eterna.
Questa domanda va oltre le preoccupazioni e gli interessi quotidiani.
Presuppone che con la morte non finisca tutto, ma che ci sia una vita
eterna, imperitura; che non ci sia solo la vita destinata certamente a
finire con la morte, ma che ci sia anche la vita che supera la morte.
Con consapevole preoccupazione e responsabilità per questa vita
oltre la morte, il dottore della legge domanda: «Che cosa devo fare
perché questa esistenza oltre la morte non diventi per me una
situazione di pena, ma una vita eterna piena di gioia?».
C'è anche l'atteggiamento contrario: «Non m'interessa affatto
sapere se dopo la morte la vita continui e come ciò avvenga. Ho già
abbastanza preoccupazioni con la vita presente e non voglio
caricarmi anche di quelle che riguardano la vita eterna. D'altronde,
non si sa niente di sicuro. Per questo lascio fare al caso; io cerco di
soddisfare le mie attese nella mia vita presente e di non prendere in
considerazione una possibile vita eterna». Un tale atteggiamento
viene qualificato espressamente da Gesù come «stoltezza» (12,13-
21). Anche in altri casi, una questione non può essere risolta
chiudendo gli occhi e non volendo ammetterla. Quindi, si può evitare
di rispondere in modo responsabile alla domanda sulla vita eterna,
dicendo che non si vuol avere nulla a che fare con essa. Per Gesù
invece la vita eterna è la realtà decisiva. Solo su questo sfondo egli
dà la sua risposta, e solo su questo sfondo la sua risposta ha il suo
fondamento ultimo. Se non c'è la vita eterna, se non c'è la
responsabilità di fronte al Dio vivente, allora in definitiva è
indifferente come ci si comporta sulla strada che porta a Gerico.
Presto tutto sarà dimenticato. Nessuno m'interpellerà e a nessuno
dovrò rendere conto. Ma la responsabilità davanti a Dio non è
qualcosa di estraneo al mondo; essa conduce al centro della nostra
vita presente e ne determina la forma. Determina che cosa è giusto o
falso sulla strada che porta a Gerico. Senza questa responsabilità,
resta solo il problema di come mantenersi in vita il più a lungo e il
più comodamente possibile.
Come Gesù, anche il dottore della legge parte dal presupposto che
ci sia una vita eterna. Egli è completamente d'accordo che, per
raggiungerla, è assolutamente necessario amare Dio e il prossimo
nella vita presente. Il suo problema è: «Chi è il mio prossimo? Chi fa
parte della cerchia di persone che io devo amare come me stesso?».
Non è chiaro quale sia la sua idea riguardo a questa cerchia di
persone. In ogni caso egli sembra convinto che qui ci debbano essere
dei limiti. Per gli ebrei, solo il connazionale era considerato come il
prossimo che si è obbligati ad amare e aiutare.
La risposta di Gesù presuppone che in questo campo non si possa
tracciare un limite preciso. Non si può dire: «Il mio prossimo può
essere ancora il parente di terzo grado, chi abita nella mia stessa
strada, chi lavora nella mia stessa fabbrica, chi mi è simpatico ecc.».
Gesù rifiuta un tale criterio, o anche altri criteri simili, una tale
limitazione, o anche altre limitazioni della cerchia di persone che si
devono amare. Come in tante altre occasioni, fa cambiare la
prospettiva, allarga l'orizzonte. Il dottore della legge gli aveva
domandato: «Chi è il mio prossimo, colui che io devo amare?». Gesù
capovolge la domanda: «Chi è stato il prossimo di colui che è caduto
nelle mani dei banditi?». Così Gesù cambia la prospettiva. Per
quanto riguarda l'amore del prossimo, io non devo pensare, a partire
da me stesso: «A chi devo dare ancora qualcosa? Chi devo (ancora)
aiutare? A partire da quale punto la cosa non mi riguarda più?». Non
è il grado di parentela o la simpatia a determinare chi è il mio
prossimo, ma il bisogno reale di aiuto in cui l'altro si trova. Qualsiasi
persona che si presenta sul mio cammino e che è in una situazione di
necessità, è il prossimo a cui io devo rivolgere il mio amore e il mio
aiuto. Dobbiamo saper vedere chi è bisognoso di aiuto e aiutarlo
secondo le nostre possibilità e capacità. Solo allora la nostra via
diventa la via verso la vita eterna. Non dobbiamo fare calcoli su
come riuscire a cavarcela nel modo più semplice, comodo,
indisturbato e innocuo possibile. L'aiuto comporta noie e pesi. Ma,
con occhi aperti e con cuore pronto ad aiutare, dobbiamo renderci
conto di chi veramente ha bisogno del nostro aiuto, e in che modo
noi dobbiamo aiutarlo. Ci sono tanti «banditi»; in tanti modi si può
giocare un brutto tiro a una persona, riducendola in uno stato di
necessità. Ci sono tante persone cadute nelle mani dei banditi che
giacciono sulla nostra strada e dipendono dal nostro aiuto. Da esse
noi dobbiamo lasciarci disturbare nella nostra tranquillità. Esse sono
il prossimo che dobbiamo amare.
La domanda sulla vita eterna porta direttamente alla nostra vita di
tutti i giorni. Dobbiamo essere responsabili del nostro cammino
quotidiano in modo che esso diventi per noi il cammino verso la vita
eterna. Ciò avviene se su questa strada non ci affrettiamo a causa
della nostra continua preoccupazione per noi stessi e per i nostri
progetti, ma ci fermiamo e aiutiamo coloro che stanno al ciglio di
essa bisognosi di aiuto.
  Domande
1. In che modo Gesù fa cambiare la direzione dello sguardo del
dottore della legge? Quali altri esempi si possono portare?
2. Come sono legati tra loro la vita eterna e il comportamento
nella vita terrena?
3. Ho occhi aperti e un cuore pronto ad aiutare? Quali necessità
incontro sulla mia strada? Chi ha bisogno del mio aiuto?
  (Stock K., La Liturgia de la Parola. Spiegazione dei Vangeli
domenicali e festivi, Anno C (Luca), ADP, Roma 2003, 251-254).

Vanhoye
Prossimo è ogni uomo
Il Vangelo di oggi è molto importante, perché ci indica come
dobbiamo concepire la carità, come dobbiamo amare il prossimo.
Si presenta a Gesù un dottore della legge, che vuole metterlo alla
prova con una domanda interessante: «Maestro, che devo fare per
ereditare la vita eterna?». In seguito sarà Gesù stesso a mettere alla
prova quest'uomo, costringendolo a cambiare la sua mentalità di
dottore della legge.
Nella sua risposta, Gesù comincia con l'interrogarlo. Il dottore
della legge deve sapere che cosa sta scritto nella legge; perciò Gesù
gli chiede: «Che cosa sta scritto nella legge? Che cosa vi leggi?».
L'interlocutore dà una risposta eccellente, che corrisponde
all'insegnamento di Gesù: «Amerai il Signore Dio con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua
mente e il prossimo tuo come te stesso». Gesù lo approva, dicendo:
«Hai risposto bene; fa' questo e vivrai».
Ma il dottore della legge vuole giustificare la sua domanda, e ne
propone un'altra: «Chi è il mio prossimo?». Vuole sapere come va
interpretato il comandamento dell'amore per il prossimo; chiede a
Gesù di precisare i limiti di tale amore.
Di per sé, non tutte le persone sono il nostro prossimo.
«Prossimo» infatti vuol dire ciò che ci è molto vicino; i lontani non
sono il nostro prossimo. Allora, fino a che punto si deve andare nel
considerare le persone nostro prossimo? Basta amare le persone della
propria famiglia? O bisogna amare anche quelle della propria città,
della propria nazione? Secondo la mentalità degli ebrei, non si può
andare più in là di questo punto. Ad ogni modo, il dottore della legge
vuole conoscere un limite.
Gesù però non risponde direttamente a questa domanda, dicendo,
ad esempio: «Il tuo prossimo va fino a questo punto, dopo di che le
persone non sono più il tuo prossimo e tu te ne puoi disinteressare».
Egli porta un esempio, racconta una parabola molto significativa.
«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico...». Qui Gesù
parla semplicemente di «un uomo»: non specifica se è ebreo, o
samaritano, o pagano; non dice quali sono le sue opinioni, le sue
credenze ecc. Di questo personaggio sappiamo soltanto che è «un
uomo».
Egli va da Gerusalemme a Gerico e s'imbatte nei briganti, che lo
spogliano, lo percuotono e poi se ne vanno, lasciandolo mezzo
morto. Si tratta dunque di un uomo che si trova in una situazione di
estrema necessità. Questo è tutto ciò che si sa di lui.
Un sacerdote scende per quella strada e, quando lo vede, passa
oltre dall'altra parte. Gesù non spiega i motivi di questo
comportamento. Probabilmente il sacerdote non vuole avere contatto
con il sangue di un ferito, o di un morto, perché questo lo renderebbe
inabile a compiere le cerimonie del culto. Ad ogni modo, il sacerdote
passa oltre.
Anche un levita scende per quella strada, vede quell'uomo, ma
passa oltre dall'altra parte.
Il sacerdote e il levita sono due persone che hanno una posizione
particolare nel popolo eletto e il cui comportamento di per sé
dovrebbe essere esemplare.
Poi passa un samaritano, che è in viaggio. I samaritani sono
persone disprezzate dagli ebrei. Nel libro del Siracide c'è un passo
molto duro nei confronti del popolo samaritano, che viene definito
«stolto» (Sir 50,26).
Questo samaritano dunque passa, vede l'uomo ferito e si lascia
commuovere dalla situazione di questo sconosciuto. Vede la sua
necessità, vede la sua sofferenza, vede che ha bisogno di aiuto, e ne
ha compassione. La cosa importante è avere compassione, essere
aperti alle necessità e alle sofferenze degli altri.
Gesù nel Vangelo è un modello di compassione. Le espressioni
«sentire compassione», «commuoversi» vengono applicate diverse
volte a lui: egli ha compassione della folla (Mt 9,36; 14,14 e par.),
della vedova di Nain (Lc 7,13), del lebbroso (Mc 1,40-42), dei ciechi
(Mt 20,34)... Si tratta di un atteggiamento fondamentale.
La compassione del samaritano non rimane sterile. Egli si fa
vicino al povero malcapitato, ne fascia le ferite, lo carica sul suo
giumento – vuol dire che ora il samaritano cammina a piedi, accanto
al ferito, come un servo –, poi lo porta in una locanda e si prende
cura di lui. Lo affida all'albergatore, con la promessa di ritornare e di
pagare le eventuali spese. Si tratta di un atteggiamento bellissimo di
solidarietà umana.
Alla fine Gesù chiede al dottore della legge: «Chi di questi tre ti
sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?».
Così la domanda iniziale fatta dal dottore della legge viene capovolta
da Gesù. Invece di chiedere se questo uomo ferito debba essere
considerato prossimo, egli chiede: Chi «si è fatto prossimo» a lui?
Gesù vuole spingerci a farci prossimi delle persone che sono nella
necessità, ad avere nei loro confronti un atteggiamento generoso di
solidarietà.
Ovviamente il dottore della legge risponde: «Chi ha avuto
compassione di lui». E Gesù allora conclude: «Va' e anche tu fa' lo
stesso».
Così Gesù ha spinto il dottore della legge a una conversione.
Abbiamo bisogno innanzitutto di una conversione di mentalità: non
avere pregiudizi, non mettere separazioni, non fare discriminazioni,
ma essere aperti a tutte le persone che si trovano vicino a noi e sono
nella necessità. Per loro dobbiamo fare tutto ciò che è nelle nostre
possibilità.
  La prima lettura c'invita a credere che questo insegnamento è
molto chiaro; perciò non bisogna andare al di là del cielo o del mare
per cercarne la spiegazione. Si tratta di una realtà concreta, evidente,
che si trova nel nostro cuore e sulla nostra bocca, perché la mettiamo
in pratica. La cosa importante è proprio metterla in pratica.
L'insegnamento di Gesù è quello di un amore universale, senza
limiti. Perciò dobbiamo abbattere tutte le barriere, i pregiudizi, e
diventare il prossimo di tutti.
  La seconda lettura ci mostra qual è il fondamento di questo
amore universale insegnatoci da Gesù: il fatto che egli è il Verbo di
Dio che ha creato tutto l'universo.
Afferma Paolo: «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e
in vista di lui». Nella creazione il Verbo non mette separazioni, ma
dà a tutte le cose e a tutte le persone l'essere, la vita e la felicità.
E dopo che l'umanità si è divisa a causa del peccato, il Verbo di
Dio si fa uomo, per riconciliare tutto il mondo con Dio,
«rappacificando con il sangue della sua croce le cose che stanno
sulla terra e quelle dei cieli». Si tratta di una riconciliazione
universale. Le dimensioni dell'opera di Cristo superano ogni limite.
Perciò Gesù chiede anche a noi di avere un cuore aperto a tutti.
Egli, che è presente dappertutto come Figlio di Dio e che ha salvato
tutti, ci chiede di aiutarlo a far giungere la sua grazia a tutti gli
uomini, con grande generosità, restando uniti a lui e spinti dalla sua
carità.
  (Vanhoye A., Le Letture Bibliche delle Domeniche, Anno C,
ADP, Roma 2003, 229-232).

Benedetto XVI
Chi è il mio prossimo?
«Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc
10, 25). Sapendolo esperto nelle Sacre Scritture, il Signore invita
quell'uomo a dare lui stesso la risposta, che infatti egli formula
perfettamente, citando i due comandamenti principali: amare Dio con
tutto il cuore, tutta la mente e tutte le forze e amare il prossimo come
se stessi. Allora il dottore della Legge, quasi per giustificarsi, chiede:
E chi è mio prossimo? (Lc l 0,29). Questa volta, Gesù risponde con la
celebre parabola del "buon Samaritano" (cfr. Lc 10, 30-37), per
indicare che sta a noi farci "prossimo" di chiunque abbia bisogno di
aiuto. Il Samaritano, infatti, si fa carico della condizione di uno
sconosciuto, che i briganti hanno lasciato mezzo morto lungo la
strada; mentre un sacerdote e un levita erano passati oltre, forse
pensando che a contatto con il sangue, in base ad un precetto, si
sarebbero contaminati. La parabola, pertanto, deve indurci a
trasformare la nostra mentalità secondo la logica di Cristo, che è la
logica della carità: Dio è amore, e rendergli culto significa servire i
fratelli con amore sincero e generoso. Questo racconto evangelico
offre il "criterio di misura", cioè "l'universalità dell'amore che si
volge verso il bisognoso incontrato «per caso» (cfr. Lc l 0, 31 ),
chiunque egli sia" (Enc. Deus earitas est, 25). Accanto a questa
regola universale, vi è anche un’esigenza specificamente ecclesiale:
che "nella Chiesa stessa, in quanto famiglia, nessun membro soffra
perché nel bisogno" (ibid.). Il programma del cristiano, appreso
dall'insegnamento di Gesù, è "un cuore che vede" dove c'è bisogno di
amore, e agisce in modo conseguente (cfr. ivi, 31 ).
(Angelus, 11 luglio 2010).

I Padri della Chiesa


 
1. La carità e il Samaritano. Il maestro interrogato circa il più
grande comandamento risponde: "Amerai il Signore Dio con tutta la
tua anima e con tutte le tue forze" (Mt 12,36). Questo è certamente il
più grande comandamento e ben a ragione, perché riguarda Dio, che
è primo e massimo, nostro Padre, per il quale esistono tutte le cose e
al quale tutte ritornano. E per noi, amati e creati da lui, non ci può
essere nulla di più importante che rendergli almeno grazie degli
immensi doni che ci ha fatti, tanto più che, in ricambio, non
possiamo dargli nulla, perché lui non ha bisogno di niente; intanto,
amando Dio con amore di figli possiamo ottenere il dono
dell’immortalità. Poiché quanto più uno ama Dio, tanto più
intimamente s’innesta a Dio.
L’altro comandamento, ma non inferiore, è: "Amerai il tuo
prossimo come te stesso" (Mt 22,39). Dunque, Dio sta al di sopra.
Poiché quel tale insisteva domandando: "E chi è il mio prossimo?"
(Lc 10,29), non definì il prossimo, come facevano i Giudei,
nominando un consanguineo, un concittadino, un proselita, un
arconciso o uno che osservasse la stessa legge; ma si riferisce a un
uomo che da Gerusalemme si recava a Gerico e lo descrive ferito dai
ladri e lasciato mezzo morto per la strada un sacerdote lo lascia lì, un
levita non se ne cura; ma un Samaritano (disprezzato ed emarginato
dai Giudei) ne ha compassione; ma l’incontro non fu a caso, egli era
fornito delle cose necessarie a un ferito, come l’olio, le fasce, la
cavalcatura; ed egli in parte dà e in parte promette la mercede
all’oste. "Chi di questi", domanda, "fu prossimo al ferito"? E avendo
quegli risposto: "Colui che n’ebbe misericordia", "Va’", disse, "e fa’
anche tu lo stesso (ibid.". 36, 37); cioè la carità è madre di bontà.
La base dell’uno e dell’altro comandamento è la carità; l’ordine è
diverso: Dio sta al primo posto, il prossimo al secondo. E chi è quel
Samaritano se non lo stesso Salvatore? O chi fa una maggiore
misericordia a noi quasi uccisi dalle potenze delle tenebre con ferite,
paure, desideri, furori, tristezze, frodi, piaceri? Di queste ferite solo
Gesù è medico; lui sradica i vizi dalle radici. È lui che infonde il vino
(il sangue della vite davidica) alle anime ferite; è lui che dalle viscere
dello Spirito trae l’olio e lo diffonde largamente. È lui che tiene
strette le fasce della salvezza: la carità, la fede, la speranza. È lui che
impegna angeli e arcangeli, perché ci assistano col loro ministero.
Bisogna amarlo, allora, come amiamo Dio. Ama Cristo, chi fa la sua
volontà e ne osserva i precetti. "Non chi dice Signore, Signore,
entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio" (Gv
14,23). E: "Perché mi chiamate Signore, se non fate ciò che vi
dico?" (Lc 6,40).
(Clemente di Ales., Quis dives, 27-29).
 
2. Il buon Samaritano. "Un uomo scendeva da Gerusalemme a
Gerico" (Lc 10,29ss). Cristo si serve di una definizione specifica.
Non dice: «Qualcuno scendeva», ma «un uomo scendeva», poiché
questo versetto riguarda tutta l’umanità. Per il peccato di Adamo
l’umanità ha perduto il diritto di stare nel paradiso, luogo posto in
alto, tranquillo, libero dalle sofferenze e meraviglioso, che
giustamente viene chiamato qui Gerusalemme, in quanto questo
nome vuol dire «pace divina». Ed essa scende a Gerico, paese
squallido e infossato in cui regna un caldo soffocante. Gerico è la
vita febbrile del mondo, vita lontana da Dio e che trascina in basso. Il
fuoco dei piaceri più impudichi causa lì afa ed esaurimento.
Quando dunque l’umanità è scesa dalla retta via verso una vita del
genere, quando si è lasciata trascinare dall’alto verso il basso, una
torma di demoni come una banda di malfattori l’ha assalita sulla
china. L’hanno depredata delle vesti della perfezione, non lasciando
in essa la minima traccia né della forza dello spirito, né di purezza,
né di giustizia e prudenza, né nulla che mostri l’immagine divina.
Aggredendola molte volte, le hanno provocato un gran numero di
ferite di peccati diversi, per abbandonarla poi in terra tramortita... La
Legge data da Mosè è passata oltre. Ha visto l’umanità a terra e
agonizzante. Il sacerdote ed il levita, infatti, rappresentano nella
parabola l’Antico Testamento che ha istituito il sacerdozio dei leviti.
La Legge ha visto veramente l’umanità, ma le è mancata la forza, è
stata impotente. Non ha condotto l’umanità alla completa guarigione,
non l’ha sollevata da terra. E poiché le è mancata la forza, ha dovuto
necessariamente allontanarsi per l’inefficacia dei suoi interventi. Ha
dovuto allontanarsi, poiché - come insegna Paolo - i suoi "doni e
sacrifici non possono rendere perfetto, nella coscienza, l’offerente"
(Eb 9,9), "poiché è impossibile eliminare i peccati con il sangue di
tori e di capri" (Eb 10,4).
Finalmente passa un samaritano. Cristo, volutamente, si fa
chiamare Samaritano. Rivolgendosi a chi conosce bene la Legge a
chi sa perfettamente parlare della Legge, egli vuole in tal modo
dimostrare che né il sacerdote, né il levita, né in generale nessuno di
quelli che presumibilmente seguono le prescrizioni della Legge di
Mosè, ma lui solo è venuto ad adempiere la Legge e a dimostrare con
i fatti chi è il prossimo e che cosa significa «amare il prossimo come
se stesso»; egli di cui i Giudei dicevano, volendolo oltraggiare: "Non
diciamo con ragione che sei un samaritano e hai un demonio?" (Gv
8,48).
Il Samaritano che passa - ed è Cristo che veramente è in viaggio -
vede il ferito. Non va oltre, poiché lo scopo del suo viaggio è quello
di «visitare» noi; noi per i quali è sceso sulla terra e in mezzo ai quali
ha abitato. Perciò non solo si è manifestato agli uomini, ma è stato
veramente in mezzo a loro... "Sulle sue ferite ha versato del vino", il
vino della parola... E poiché le ferite gravi non hanno potuto
sopportare la sua forza, ecco che ha aggiunto dell’olio, così che con
la sua dolce «filantropia» si è attirato il biasimo dei farisei e ha
dovuto rispondere spiegando loro il significato delle parole: "Voglio
misericordia, non sacrifici" (Os 6,6).
Quindi ha messo il ferito su una bestia da soma, mostrandoci con
ciò che egli ci innalza al di sopra delle passioni bestiali, egli che
anche ci porta in sé, rendendoci così membra del suo Corpo.
Poi, ha condotto l’uomo in una locanda, chiamando così la
Chiesa, luogo di dimora e di adunata per tutti; infatti, mai abbiamo
sentito che impedendo agli Ammoniti e ai Moabiti l’entrata in
Chiesa, l’abbia limitata solo all’Antico Patto che è ombra della
Legge, o al culto delle immagini e delle profezie. Al contrario, egli
ordina agli apostoli: "Andate e ammaestrate tutte le nazioni" (Mt
28,19) e insegna che il Signore ama in ogni popolo colui che lo teme
e vive secondo giustizia. Giunto nella locanda, il buon Samaritano ha
ancora di più cura di colui che ha salvato.
Infatti, quando la Chiesa si formò dalla comunità dei martiri, in
essa era Cristo dispensatore di grazie.
Al padrone della locanda - che rappresenta gli apostoli, i pastori e
i dottori - consegna, andando via, entrando in cielo, due denari,
perché abbia cura del ferito. Questi due denari vanno intesi come i
due Testamenti: il Vecchio e il Nuovo, l’Antica Legge e i profeti, la
Nuova Legge dataci dal Vangelo e le istituzioni apostoliche. Come i
due Testamenti discendono da Dio stesso dall’alto dei cieli, così i
denari recano l’effigie di un re. Tutti e due - per mezzo delle Sacre
Scritture - imprimono il marchio regale, poiché uno ed uno stesso
Spirito dice codeste parole.
I pastori delle sante Chiese, una volta ricevuti i due denari, li
fanno fruttare nuovi soldi nel faticoso lavoro di maestri, ed anche con
lo spenderli per i propri bisogni, poiché il denaro spirituale, parola di
dottrina, ha la proprietà di non diminuire, bensí di aumentare con lo
spenderlo. Ognuno di loro dirà nell’ultimo giorno, quando il Signore
tornerà: "Signore, mi hai consegnati due talenti; vedi, ne ho
guadagnati altri due" (Mt 25,22); con essi ho ingrandito il tuo
gregge. E il Signore rispondendo dirà: "Bene, servo buono e fedele,
sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla
gioia del tuo padrone" (Mt 25,23).
(Severo di Antiochia, Hom., 89, passim).
 
3. Il prossimo è ogni uomo. Dimmi ora, o dottore della Legge,
senza guardarmi con i tuoi occhi cattivi e indagatori, chi è per te il
prossimo? Non deve essere forse chi è diventato tale per il semplice
fatto che era nel bisogno? Tu credi spesso nella tua ignoranza che tuo
prossimo sia semplicemente chi professa la tua religione o un tuo
connazionale. Ma io dico e sostengo che prossimo è ogni uomo, ogni
essere che partecipa della natura umana. Come vedi, ci alza anche il
capo per il fatto di essere sacerdote, e colui che si vanta di essere
levita e svolge le sacre funzioni del servizio sacerdotale secondo la
Legge, ambedue - come te - dicono con orgoglio di conoscere i
comandamenti divini. Eppure, a loro non viene nemmeno in mente il
pensiero che il loro fratello abbandonato in terra nudo, coperto di
ferite e morente, è un uomo della loro stessa nazione. Lo disprezzano
come un sasso, come un pezzo di legno gettato via.
Ma il Samaritano riconosce la natura umana e comprende chi è il
prossimo, anche se ignora i comandamenti e voi lo ritenete uno
zotico... Così, dunque, colui che voi considerate troppo lontano,
eccolo vicino a chi ha bisogno di cure.
Perciò, non rimanere attaccato alla lettera delle tue leggi
giudaiche, quando devi riconoscere il tuo prossimo, non vederlo solo
in quelli del tuo sangue, poiché è prossimo ogni persona e su di essa
deve scendere lo spirito di carità.
(Severo di Antiochia, Hom., 89, passim).

Briciole

I. Dal Catechismo della Chiesa Cattolica


CChC 299, 381: l’uomo è creato a immagine di Dio; il
primogenito
CChC 1931-1933: il prossimo deve essere considerato come «un
altro se stesso»
CChC 2447: le opere di misericordia corporale
CChC 1465: nella celebrazione del sacramento della Penitenza il
prete è come il buon Samaritano
CChC 203, 291, 331, 703: il Verbo e la creazione, visibile e
invisibile

II. Dal Compendio:


  520. A che cosa si ispira l'amore per i poveri? L'amore per i
poveri si ispira al Vangelo delle beatitudini e all'esempio di Gesù
nella sua costante attenzione per i poveri. Gesù ha detto: «Ogni volta
che avete fatto queste cose a uno solo di questi fratelli più piccoli,
l'avete fatto a me» (Mt 25,40). L'amore per i poveri si attua
attraverso l'impegno contro la povertà materiale e anche contro le
numerose forme di povertà culturale, morale e religiosa. Le opere di
misericordia, spirituali e corporali, e le numerose istituzioni
benefiche sorte lungo i secoli, sono una concreta testimonianza
dell'amore preferenziale per i poveri che caratterizza i discepoli di
Gesù. Cf. CCC 2443-2449. 2462-2463
  Le sette opere di misericordia corporale
1. Dar da mangiare agli affamati.
2. Dar da bere agli assetati.
3. Vestire gli ignudi.
4. Alloggiare i pellegrini.
5. Visitare gli infermi.
6. Visitare i carcerati.
7. Seppellire i morti.
 
Le sette opere di misericordia spirituale
1. Consigliare i dubbiosi.
2. Insegnare agli ignoranti.
3. Ammonire i peccatori.
4. Consolare gli afflitti.
5. Perdonare le offese.
6. Sopportare pazientemente le persone moleste.
7. Pregare Dio per i vivi e per i morti.

San Tommaso
Samaritano: miseria e misericordia
 
Introduzione. Questo vangelo ci insegna tre cose: - La poliedrica
miseria del peccatore: un uomo scendeva; - La misericordia di Dio
verso di lui: un samaritano che passava di lì lo vide; - Il precetto di
imitare il samaritano: vai e fa lo stesso.
 
I. Molteplice miseria del peccatore
Quattro sono le miserie principali del peccatore:
- è privato della gloria celeste. Venga tolto di mezzo l'empio
perché non veda la gloria di Dio (Is 26, 10). Le parole scendeva da
Gerusalemme verso Gerico significano che ogni volta che l'uomo
pecca, discende dalla celeste Gerusalemme, simbolo di ogni
giustizia, a Gerico, simbolo della miseria della vita peccaminosa.
- diventa schiavo del demonio. Come il poveretto della
parabola: ogni peccatore cade nelle mani dei ladroni, che sono
simbolo dei demoni. A questa conseguenza nefasta allude la Scrittura
esortandoci a correggere con dolcezza gli avversari, perché rientrati
in se stessi, si liberino dai lacci del demoni che si è impadronito di
loro per soggiogarli a sua volontà (2Tim 2, 25-26).
- viene spogliato di ogni dono di grazia. Il vangelo allude con le
parole: e lo spogliarono. La sapienza non entra in un anima abituata
al male, né dimora in un uomo, schiavo del peccato (Sap 1,4).
- viene menomato anche nei suoi doni naturali. Il vangelo allude
con le parole: e lo ferirono. Ci sono peccati che intaccano la stessa
integrità della natura. "Se le nature non fossero buone, i vizi non
nuocerebbero ad esse. Ora che fanno i vizi, se non sfaldare la loro
integrità, bellezza, forza, salute? " (S. Agostino).
 
II. La grande misericordia di Cristo
Rifulge in quattro fatti:
- L'avere assunta la natura umana. Il Samaritano che si accosta al
poveretto, è simbolo di Cristo che per noi si è fatto uomo e volle
essere nostro compagno nel viaggio della vita presente.
- L'aver istituiti i sacramenti per la salvezza dei peccatori. Come il
Samaritano fascio le ferite del poveretto, così il Cristo fascia le
nostre ferite peccaminose col Battesimo e gli altri sacramenti. Egli è
veramente colui che risana i cuori affranti e ne lenisce le loro
ferite (Sal 146, 3).
- L'infusione della grazia dello Spirito Santo. L'olio che il
samaritano versa sulle ferite è simbolo dei carismi dello Spirito che il
Padre avrebbe mandato, mandò e manda in nome di Gesù, perché ci
insegni quanto Gesù ci a detto (Gv 14, 26).
- L'atrocità della passione, sofferta per noi. Quel suo giumento su
cui il samaritano pone il poveretto, è simbolo della santissima carne
del Cristo sulla quale fummo posti tutti noi, piagati dai nostri peccati,
prima che essa venisse immolata sulla croce.
 
III. Il precetto di imitare il samaritano
Esso deve tradursi nella pratica di quattro misericordie
reciproche:
- la misericordia della sopportazione. Questa misericordia
riguarda non solo gli altri, ma anche se stessi. Gli altri: Sopportate
gli uni il peso degli altri e così adempierete la legge di Cristo (Gal 6,
2). Se stessi: esamini ciascuno la propria condotta e si convincerà
che deve giudicare di se stesso più umilmente, attenendosi dal
vantarsi nel confronto degli altri: ciascuno infatti, porterà il proprio
peso (Gal 6, 2-5).
- la misericordia della preghiera. Pregate a vicenda per essere
salvi (Gc 5, 16), e se uno vede il proprio fratello commettere un
peccato che non lo conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà la
vita (1Gv 5, 16).
- La misericordia del buon consiglio. Se peccherà contro di te un
tuo fratello, vai e correggilo tra te e lui solo (Mt 18, 15). Se uno
viene sorpreso in qualche fallo, voi che siete spirituali correggetelo
con spirito di dolcezza e bada bene a te stesso, perché anche tu puoi
essere tentato (Gal 6, 1). Fratelli miei se qualcuno di voi si è
smarrito lontano dalla verità e uno ve lo riconduce, sappiate che
colui che ricondurrà un peccatore dalla via del suo traviamento,
salverà l'anima propria dalla morte e coprirà una moltitudine di
peccati (Gc 5, 19).
- la misericordia del perdono e della compassione. Accostatosi
Pietro al Signore disse se un mio fratello peccherà contro di me, gli
perdonerò fino a sette volte? Rispose Gesù non ti dico, sette volte,
ma settanta volte sette (Mt 18, 21). Non disprezzare chi si sta
allontanato dal male, né mandargli improperi, ricordati che siamo
tutti nella corruzione (Ecl 8, 5).
(Discorso 113).

Caffarra

I. Parabola del samaritano.


  Due sono i significati profondi di questa pagina del Vangelo,
della parabola del Samaritano. Questo racconto infatti narra in primo
luogo la vicenda stessa di Gesù: parla di Lui. In secondo luogo,
questo racconto parla di ciascuno di noi: provoca la nostra libertà.
Ma per capire bene questa pagina stupenda, dobbiamo fare molta
attenzione al dialogo fra Gesù e il dottore della legge, al botta-
risposta fra i due.
 In sostanza, il dotto della Legge pone a Gesù una domanda che tutti
noi ci portiamo dentro al cuore, una domanda indelebile per ogni
uomo: “che devo fare per avere la vita eterna?” È la domanda
riguardante il bene morale da praticare, il modo giusto cioè di essere
liberi, e il destino finale della nostra vita. Noi tutti abbiamo la
certezza che fra il nostro modo di essere liberi, il nostro agire, e la
sorte eterna della nostra persona esiste un legame inscindibile. Gesù
lo rimanda alla Legge rivelata da Dio e donata all’uomo: “che cosa
sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?” Perché Gesù anziché
rispondere lo rimanda alla Legge? Perché Egli richiama così ad una
verità che è fondamentale per la nostra vita. “Solo Dio può
rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il Bene. Ma Dio ha
già dato risposta a questa domanda: lo ha fatto creando l’uomo e
ordinandolo con sapienza ed amore al suo fine, mediante la legge
inscritta nel suo cuore (cfr. Rom 2,15), la «legge naturale» (Veritatis
splendor 12,1). Lo ha fatto poi insegnando ad Israele norme di vita,
in particolare dieci comandamenti. Ma giustamente, tutta la legge
donataci dal Signore si riassume interamente in questo: “amerai …”.
E’ il riconoscimento di Dio come Dio e della persona umana nel suo
valore, nella sua dignità: questo è tutto il bene.
  Ed è a questo punto che l’interlocutore di Gesù, fa una domanda
singolare e strana: “e chi è il mio prossimo?” Cioè: “quali sono le
persone umane che io devo amare e quali sono le persone umane che
posso non amare?” A questo punto, Gesù racconta la storia del
Samaritano.
  1. Essa prima di tutto parla di Lui stesso. Chi è quel “disgraziato”
che scendendo da Gerusalemme a Gerico, “incappò nei briganti che
lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono lasciandolo mezzo
morto”? Siamo ciascuno di noi. Siamo discesi da Gerusalemme a
Gerico, poiché, a causa del nostro peccato, siamo decaduti dalla
nostra originaria dignità: abbiamo perduto la grazia di essere figli di
Dio, feriti dall’ignoranza nella nostra ragione e dalla malizia nella
nostra volontà.
  “Un samaritano … ne ebbe compassione”. Qui è racchiuso tutto il
mistero della nostra redenzione, contemplato nella sua origine divina.
“Ne ebbe compassione”: Dio sente compassione dell’uomo; non
resta indifferente alla nostra degradazione; sente il male dell’uomo
come il suo proprio male; ne ebbe, appunto, compassione. E che cosa
fa Iddio? “gli si fece vicino”. Ecco tutto il mistero della compassione
di Dio! Farsi vicino all’uomo, facendosi Lui stesso uomo. “Si fece
simile a noi avendo preso sopra di sé la nostra compassione, e si fece
vicino donandoci la sua misericordia” (S. Ambrogio). “E si prese
cura di lui”. Non solo si fece uomo come noi, ma facendosi uomo ci
ha ridonato il nostro antico splendore. Ne ebbe compassione; gli si
fece vicino; e si prese cura di lui: ecco narrata l’intera vicenda del
Figlio di Dio; ecco svelata l’intera verità del suo amore per noi.
  2. Gesù narra la storia del suo amore per noi, perché uno gli aveva
chiesto: “quali sono le persone umana che io devo amare e quali sono
le persone umane che posso non amare?”. Da questa storia, emerge
una risposta sconcertante: questa domanda non ha un senso; non
esistono persona umane che possono non essere amate. Cioè: non
devi chiedere chi è il mio prossimo, ma devi chiederti come divenire
prossimo di ogni persona. E la parabola ti insegna precisamente
questo: come si diviene prossimo di ogni persona.
Nei confronti di un altro noi possiamo avere uno dei seguenti tre
atteggiamenti.
  - Atteggiamento dei “briganti”: “lo spogliarono, lo percossero e
poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto”. È l’atteggiamento di
chi spoglia l’altro di ciò che è suo, della sua dignità, dei suoi
fondamentali diritti; di chi lo percuote in ciò che l’uomo ha di più
grande e più santo: i beni fondamentali della persona umana.
  - Atteggiamento del sacerdote e levita: “lo vide, passò oltre
dall’altra parte”. È l’atteggiamento di chi è indifferente di fronte al
male altrui: non lo riguarda. Egli passa oltre e dall’altra parte: alla
larga, non si sa mai! È l’indifferenza con cui il povero è ascoltato,
con cui è spesso trattato negli uffici pubblici; è l’indifferenza con cui
il povero è abbandonato al suo quotidiano dramma.
 - Atteggiamento del Samaritano: è di colui che sente
compassione dei bisogni altrui; se ne interessa, mettendoci del suo:
del suo tempo, del suo denaro.
  La domanda di Gesù: chi di questi tre ti sembra sia stato il
prossimo…?”, cioè; chi è diventato prossimo di colui che aveva
bisogno? Ormai ha ricevuto una risposta chiara.
   Il dottore della Legge aveva fatto una grande domanda: quale è il
modo giusto di essere liberi? La risposta è semplice: facendoti
prossimo di ogni uomo. Così tu sarai vero figlio di Colui che fa
piovere sul campo del giusto e dell’ingiusto, vero fratello di Colui
che per farsi nostro prossimo, si è fatto uomo pur essendo Dio.
  “Effettivamente, non è la parentela che fa il prossimo, ma la
misericordia … non c’è altra cosa che corrisponda tanto alla natura
quanto prestare aiuto a chi è partecipe della stessa natura” (S.
Ambrogio)
(12 luglio 1998).
 
II. Chi è il mio prossimo?
  1. "E chi è il mio prossimo?". La domanda fatta da un dottore
della legge a Gesù offre a questi l’occasione per donarci il suo
insegnamento sulla società umana, sui rapporti fra le persone umane.
Cerchiamo di capire bene, in primo luogo, il senso della
domanda. Gesù aveva ricordato al dottore della legge che la volontà
di Dio, rivelata nella Legge di Mosè, si riassumeva interamente
nell’amore a Dio e nell’amore al prossimo. Ora mentre l’attuazione
del precetto dell’amore a Dio può essere inculcata ed insegnata senza
difficoltà, è l’attuazione del secondo precetto che solleva più
domande a causa delle tante divisioni e stratificazioni sociali. La
domanda del dottore della Legge aveva quindi il seguente
significato: chi deve essere oggetto del mio amore? Chi deve essere
amato da me? Ogni uomo oppure solo una categoria di persone?
Gesù costruisce la sua risposta attraverso una parabola,
inventando cioè un racconto di vita concreta. E qui dobbiamo notare
che in realtà nella sua risposta Gesù opera uno spostamento di
accento. Mentre il dottore della legge aveva chiesto; "chi deve essere
oggetto del mio amore?", Gesù in realtà fa vedere chi è colui che
ama veramente: non chi è il tuo prossimo, ma come tu diventi
prossimo. Gesù cioè chiede al dottore della legge di rientrare per così
dire in se stesso e di verificare in che modo egli si pone nei confronti
degli altri, quali relazioni costruisce cogli altri.
La parabola infatti mostra che ciascuno di noi può porsi nei
confronti degli altri in tre modi: "s’imbatte nei briganti, i quali,
avendolo spogliato e percosso, se ne andarono lasciandolo mezzo
morto": gente che spoglia e percuote; "un sacerdote … quando vide
l’uomo, passò oltre, dall’altra parte": gente che rimane indifferente
ed estranea; "un samaritano ne ebbe compassione, s’accostò … e si
prese cura di lui": gente che si prende cura degli altri. Il rapporto
sociale può essere o un rapporto di violenza in cui il più forte
violenta e depreda il più debole, o un rapporto di estraneità in cui
ciascuno pensa esclusivamente a se stesso, o un rapporto di
compassione e cura in cui ciascuno pensa al bene di chi si trova nel
bisogno.
Questa triplice possibilità di configurare il rapporto sociale è
presente in ogni comunità umana: nella comunità coniugale, nella
comunità cittadina, nella comunità nazionale, nella comunità
internazionale.
"Gli disse Gesù: va e anche tu fa allo stesso modo". A questo
punto la parola di Dio esige che ci poniamo di fronte a noi stessi per
chiederci: a chi mi sento più simile? A chi spoglia, o a chi è
indifferente, o a chi aiuta? La qualifica di "prossimo" non è stabilita
in base ad una medesima appartenenza religiosa, razziale o sociale,
ma unicamente dal bisogno. Chi è nel bisogno è il tuo prossimo e tu
sei prossimo quando ti prendi cura di ogni persona che è nel bisogno.
  2. La Chiesa però ha letto questa parabola anche in un modo più
profondo [cfr. Origene, Omelie su Luca XXXIV; Sch 87, pag. 401.
S. Ambrogio, Esp. sul Vangelo di Luca VII, 73-84; BA 12, pag. 147-
153. S. Agostino, Questioni sui Vangeli 2,19; NBAX/2, pag. 357-
358]. Nell’uomo che scende da Gerusalemme a Gerico è raffigurato
ognuno di noi che a causa del peccato decade dalla sua originaria
dignità: dalla vita alla morte. Nel samaritano è raffigurato il Figlio
stesso di Dio che ha compassione dell’uomo, [e ne ebbe
compassione] facendosi uomo come noi.
Egli ci cura e ci guarisce, prendendoci con Sé e consegnandoci
alla Chiesa, perché attraverso i sacramenti rientriamo in possesso
della giustizia e della vita.
Carissimi fratelli e sorelle, le due interpretazioni che possiamo
dare di questa pagina evangelica sono strettamente connesse. Noi
saremo capaci di essere il prossimo di ogni uomo solo se saremo
aiutati dalla carità di Cristo verso l’uomo: solo se saremo in Lui. La
fonte della nostra carità è l’Eucarestia.
  (Lido di Spina – Zerbinate, 15 luglio 2001).

Sant’Agostino
I precetti del Signore fanno gioire il cuore
1.[v 1.] Per la fine, salmo di David. È noto questo titolo: non è il
Signore Gesù Cristo che dice queste cose, ma è di lui che si dicono.
2.[v 2.] I cieli narrano la gloria di Dio: i giusti Evangelisti, nei
quali Dio abita come nei cieli, raccontano la gloria del Signore
nostro Gesù Cristo o la gloria con la quale il Figlio ha glorificato il
Padre sulla terra. E il firmamento annunzia le opere delle sue mani:
annunzia le opere prodigiose del Signore quel firmamento che ora, in
virtù dello Spirito Santo, è divenuto cielo, mentre prima era terra per
timore.
3.[v 3.] Il giorno passa la parola al giorno: lo Spirito rivela agli
uomini spirituali la pienezza dell'immutabile Sapienza di Dio, e cioè
che il Verbo era nel principio Dio presso Dio (Cf. Gv 1, 1). E la
notte alla notte annunzia la scienza: la mortalità della carne,
suggerendo la fede, annunzia la scienza futura a quegli uomini
carnali che si trovano lontani.
4.[v 4.] Non vi sono parole né discorsi dei quali non si oda la
loro voce, per mezzo di tali discorsi si sono senz'altro udite le voci
degli Evangelisti, dato che essi hanno annunziato il Vangelo in ogni
lingua.
5.[v 5.] In tutta la terra si è diffusa la loro voce, e le loro parole
sino ai confini della terra.
Cristo nel tempo e nell'eternità.
6.[v 6.] Nel sole ha posto il suo tabernacolo: il Signore, che
doveva inviare non la pace ma la spada sulla terra (Cf. Mt 10, 34),
per combattere contro i regni degli errori temporali, ha posto nel
tempo, ovvero nel suo manifestarsi, come una sua tenda militare,
cioè il dono della sua Incarnazione. Ed egli stesso come sposo che
esce dal suo talamo: egli stesso cioè esce dal seno verginale in cui
Dio si è unito alla natura umana, come uno sposo alla sposa. È
balzato esultante come un gigante per correre la via. È balzato
esultante come il più forte di tutti, che per la sua incomparabile forza
vince ogni altro uomo, non per fermarsi lungo la via, ma per correrla.
Non si è infatti fermato sulla via dei peccatori (Cf. Sal l, 1).
7.[v 7.] Da una estremità del cielo la sua levata: è la sua
processione dal Padre non nel tempo ma nell'eternità, per la quale è
nato dal Padre. E la sua corsa fino all'altra estremità del cielo. E ha
corso con la pienezza della divinità fino ad essere uguale al Padre. E
non v'è chi si nasconda al suo calore. Quando poi il Verbo si è fatto
anche carne ed ha abitato in noi (Cf. Gv 1, 14) assumendo la nostra
mortalità, non ha consentito che alcun mortale si sottraesse all'ombra
della morte; infatti anch'essa è stata penetrata dal calore del Verbo.
Manifestazione del Cristo.
8.[v 8.] Immacolata è la Legge del Signore, converte le anime.
Egli stesso è la Legge del Signore, perché è venuto ad adempiere la
Legge, non ad abrogarla (Cf. Mt 5, 17); e Legge immacolata poiché
non ha commesso peccato, né è stato trovato inganno nella sua bocca
(Cf. 1 Pt 2, 22), e non schiaccia le anime sotto il giogo della servitù,
ma le converte in libertà all'imitazione di se stesso. Fedele è la
testimonianza del Signore che porge la sapienza ai fanciulli.
Fedele è la testimonianza del Signore, perché nessuno ha conosciuto
il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio ha voluto rivelarlo
(Cf. 1 Pt 2, 22); cose queste che sono nascoste ai sapienti e rivelate ai
fanciulli, poiché Dio resiste ai superbi mentre dona la grazia agli
umili (Cf. Gc 4, 6).
9.[v 9.] Le giustizie del Signore sono rette, allietano il cuore.
Tutte le giustizie del Signore sono rette in Lui, che non ha insegnato
niente che non abbia fatto egli stesso, di modo che quanti lo
imiteranno possano gioire nel loro cuore di quelle cose che fanno
liberamente per amore e non servilmente per timore. Il
comandamento del Signore è nitido, illumina gli occhi: è limpido il
comandamento del Signore che senza il velo delle osservanze carnali
illumina il volto dell'uomo interiore.
10.[v 10.] Il timore del Signore è puro e rimane eternamente: il
timore del Signore, non quello che è posto sotto la legge della pena e
che ha terrore che gli siano sottratti i beni temporali, nell'amore dei
quali fornica l'anima; ma quello puro con il quale la Chiesa quanto
più ardentemente ama il suo sposo, tanto più diligentemente teme di
offenderlo; e perciò l'amore perfetto non scaccia via questo timore

(Cf. 1 Gv 4, 18) che invece rimane eternamente.


11.[vv 10.11.] I giudizi del Signore sono veraci, giusti in se
stessi: i giudizi di colui che non giudica nessuno ma ha dato al Figlio
ogni potere di giudicare (Cf. Gv 5, 22), sono senz'altro
immutabilmente giusti. Perché né Dio ha ingannato qualcuno nel
minacciare o nel promettere, né alcuno può togliere agli empi il
supplizio, o ai pii il premio che egli dà. Più desiderabili dell'oro e di
molte pietre preziose: sia pur molto lo stesso oro e le pietre, e molto
preziosi e molto desiderabili, tuttavia i giudizi di Dio sono più
desiderabili delle pompe di questo secolo, il cui desiderio fa sì che i
giudizi di Dio non siano desiderati, ma temuti o disprezzati o non
creduti. E se qualcuno è egli stesso oro o pietra preziosa, tanto da
non essere consumato dal fuoco ma da essere assunto nel tesoro di
Dio, ebbene costui desidera più di se stesso i giudizi di Dio, la cui
volontà antepone alla sua. E dolci più del miele e del favo: e sia uno
già miele, in quanto, sciolto già dai vincoli di questa vita, attenda il
giorno in cui possa giungere al banchetto di Dio; oppure sia ancora
favo, cioè avvolto da questa vita come da cera, non mescolato ad
essa ma riempiendola, ed abbia bisogno di una certa pressione della
mano di Dio, che non opprime ma trae fuori, per poter passare
purificato dalla vita temporale a quella eterna; ebbene per lui sono
più dolci i giudizi di Dio che se stesso, perché per lui essi sono più
dolci del miele e del favo.
12.[v 12.] Perciò il tuo servo li custodisce: perché è amaro il
giorno del Signore per chi non li custodisce. Molta è la ricompensa
nel custodirli: molta è la ricompensa, ma non in qualche bene
esteriore, bensì proprio nel fatto stesso di custodire i giudizi di Dio,
ed è molta poiché si gioisce in essi.
13.[v 13.] I delitti chi li comprende? Quale mai dolcezza può
esservi nei delitti, in cui non c'è conoscenza? Invero chi può
comprendere i delitti, i quali chiudono quel medesimo occhio cui
soave è la verità, per cui sono dolci e desiderabili i giudizi di Dio; e,
come le tenebre, gli occhi, così i delitti chiudono la mente, e non
lasciano scorgere né la luce né se stesso?
L'apostasia.
14.[vv 13.14.] Dai miei [peccati] occulti purificami, o Signore!
Dalle passioni celate in me purificami, o Signore. E da quelli degli
altri guarda il tuo servo: perché io non sia sedotto dagli altri; non
diviene infatti prigioniero degli altrui peccati chi è libero dai suoi.
Libera dunque dalle cupidigie altrui non il superbo e chi desidera
esser indipendente, ma il tuo servo. Se non mi avranno dominato,
allora sarò immacolato: se non mi avranno dominato i miei peccati
occulti e quelli altrui, allora sarò senza macchia. Non c'è infatti una
terza origine del peccato, oltre quello proprio e occulto, in cui cadde
il diavolo, e quello altrui da cui fu sedotto l'uomo tanto che col suo
consenso lo fece suo. E sarò purificato dal grande delitto: da quale
altro delitto se non da quello della superbia? Non c'è infatti delitto
maggiore del disertare da Dio, in cui sta l'inizio della superbia umana
(Cf. Sir 10, 14). E davvero è senza macchia chi è privo anche di
questo peccato; perché esso è l'ultimo [a scomparire] in coloro che
ritornano a Dio, come fu il primo [ad apparire] in coloro che si
allontanarono [da lui].
15.[v 15.] E incontreranno favore le parole della mia bocca, e la
meditazione del mio cuore sarà sempre al tuo cospetto: la
meditazione del mio cuore non ha per scopo di piacere agli uomini,
perché è già annientata la superbia; ma è sempre al tuo cospetto,
perché tu scruti la coscienza pura. Signore mio aiuto e mio
redentore: Signore, tu aiuti me che tendo a te; poiché mi hai redento
affinché io tenda a te; nessuno attribuisca alla sua sapienza il
convertirsi a te o alle sue forze il giungere a te, se non vuole essere
respinto ancora di più da te, che resisti ai superbi; costui infatti non
si è purificato dal grande peccato né incontra favore innanzi a te, che
ci redimi perché ci convertiamo, e ci aiuti perché giungiamo a te.
(Agostino S., Commento al Salmo 18, ed. digitale, pp. 146-151).

Sullo stesso salmo 18


È rivolto a Cristo.
1.Dopo aver supplicato il Signore che ci purifichi dalle nostre
colpe occulte e guardi i suoi servi dalle altrui, dobbiamo intendere
che cosa questo significhi, per poter cantare secondo la ragione
umana e non quasi con voce di uccelli. Infatti i merli, i pappagalli, i
corvi, le gazze ed altri simili uccelli spesso sono ammaestrati dagli
uomini ad emettere suoni che non comprendono. Alla natura umana
invece è concesso dalla divina volontà di cantare consapevolmente.
Che molti malvagi e impuri cantino in tal modo cose degne dei loro
orecchi e dei loro cuori, è cosa che sappiamo e ci addolora; ed essi
sono tanto più detestabili in quanto non possono ignorare ciò che
cantano. Sanno bene di cantare sconcezze, eppure lo fanno con tanta
maggior passione quanto più sono immonde; perché maggiormente
si considerano felici quanto più sono abietti. Noi invece che nella
Chiesa abbiamo imparato a cantare le divine parole, dobbiamo nel
contempo fare in modo che si compia ciò che sta scritto: beato il
popolo che ha l'intelligenza del suo giubilo (cf. Sal 88, 16). Perciò,
carissimi, quanto abbiamo cantato a una sola voce dobbiamo anche
con cuore sereno conoscere e vedere. Ciascuno di noi ha infatti
pregato in questo salmo il Signore e ha detto a Dio: dai miei nascosti
[peccati] purificami, o Signore, e dagli altrui guarda il tuo servo.
Se essi non mi avranno dominato, allora sarò immacolato, e sarò
purificato dal grande peccato. Per ben conoscere il significato e la
natura di questo salmo, scorriamone brevemente il testo, per quanto
il Signore ci concede.
Grazia perché gratuita.
2.[v 1.] Si canta infatti di Cristo: il che è chiaramente manifesto in
quanto nel salmo sta scritto: egli è come sposo che esce dal suo
talamo. Orbene, chi è questo sposo, se non Colui al quale
dall'Apostolo è promessa in sposa una vergine? Per lei il casto amico
dello sposo teme castamente che così come il serpente ingannò Eva
con la sua astuzia, allo stesso modo si corrompano dalla castità che è

in Cristo (Cf. 2 Cor 11, 3) i sentimenti di questa vergine sposa di


Cristo. In questo Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo è posta la
ricca e piena grazia, di cui dice l'apostolo Giovanni: E abbiamo visto
la sua gloria, gloria quale ha l'Unigenito del Padre, pieno di grazia
e di verità (cf. Gv 1, 14). Questa gloria narrano i cieli. I cieli, sono i
santi: innalzati dalla terra, portano il Signore. Tuttavia anche il cielo
in un certo qual modo ha narrato la gloria di Cristo. Quando la
narrò? Quando, alla nascita del medesimo Signore, apparve una
nuova stella prima mai vista. Peraltro sono più veraci e più sublimi i
cieli di cui è detto: non vi sono parole né discorsi, dei quali non si
oda la voce loro. In tutta la terra si è diffusa la loro voce, e le loro
parole sino ai confini della terra. Di chi, se non dei cieli? E di chi
dunque se non degli Apostoli? Essi ci narrano la gloria di Dio, posta
nel Cristo Gesù, per la grazia concessa in remissione dei peccati.
Tutti infatti hanno peccato e hanno bisogno della gloria di Dio, e
sono gratuitamente giustificati dal suo sangue (cf. Rm 3, 23):
gratuitamente, cioè per grazia. Infatti non è grazia, se non è gratuita.
Poiché niente di buono avevamo compiuto prima, per meritarci tali
doni; a maggior ragione, proprio perché non senza motivo ci sarebbe
stata inflitta la pena, gratuitamente ci è stato offerto il beneficio. Da
parte nostra non avevamo meritato precedentemente nulla, se non di
dover essere condannati. Egli invece, non per nostra giustizia ma per

sua misericordia (Cf. Tt 3, 5) ci ha salvato nel lavacro della


rigenerazione. Questa è, dico, la gloria di Dio; e questa i cieli hanno
narrato. Questa è, ripeto, gloria di Dio, non tua. Poiché tu non hai
fatto niente di buono, e nondimeno hai ricevuto tanto bene. Ebbene,
se tu miri alla gloria che i cieli hanno narrato, di' al Signore Dio tuo:
Dio mio, la sua misericordia mi preverrà (cf. Sal 58, 11). Ti
previene: sì, ti previene, perché niente di buono ha trovato in te. Tu
hai prevenuta la sua pena facendoti superbo; egli previene la tua
pena distruggendo i peccati. Orbene, come da peccatore [reso]
giustificato, da empio fatto pio, e da dannato assunto nel Regno, di'
al Signore Dio tuo: non a noi, o Signore, non a noi, ma al tuo nome
da' gloria (cf Sal 113, 9). Diciamo: non a noi. A chi di noi, infatti, se
tale gloria fosse rivolta a noi? Diciamo, ripeto: non a noi, perché se
egli si comportasse come noi meritiamo, dovrebbe infliggerci
soltanto castighi. Non a noi, ma al suo nome dia gloria, perché ha
agito con noi non secondo le nostre iniquità (cf. Sal 102, 10).
Dunque, non a noi, o Signore, non a noi: la ripetizione è una
conferma. Non a noi, o Signore, ma al nome tuo da’ gloria. Questo
avevano conosciuto quei cieli che hanno narrato la gloria di Dio.
Creazione e gloria di Dio.
3.[v 2.] E il firmamento annunzia le opere delle sue mani.
Quanto è stato detto a proposito della gloria di Dio, è ripetuto per le
opere delle sue mani. Quali sono le opere delle sue mani? Non è
come alcuni pensano, che Dio abbia fatto tutte le cose con la sua
Parola, e l'uomo, essendo la più insigne di tutte le creature, l'abbia
fatto con le sue mani. Non è così che si deve intendere: è questa
un'opinione imperfetta e non sufficientemente elaborata, perché Dio
ha fatto ogni cosa per mezzo del Verbo. Infatti, anche se si narrano
diverse opere di Dio, tra le quali fece l'uomo a sua immagine (Cf. Gn
1), nondimeno tutte furon fatte per mezzo di lui e senza di lui niente
è stato fatto (cf. Gv 1, 3). E per quanto concerne le mani di Dio è
detto anche a proposito dei cieli (cf. Sal 101, 26): e opere delle tue
mani sono i cieli. Perché tu non creda che anche qui i santi siano
detti cieli, aggiunge: essi periranno, tu invece resti (cf. Sal 101, 27).
Dunque Dio ha fatto con le sue mani non solo gli uomini, ma anche i
cieli che periranno, e a Dio sono rivolte le parole: opere delle tue
mani sono i cieli. Similmente è detto della terra: poiché di lui è il
mare, ed egli l'ha fatto, e le sue mani hanno formata la terra (cf.
Sal 94, 5). Dunque, se ha fatto con le mani i cieli e la terra, non ha
fatto con le mani soltanto l'uomo; e se [ha fatto] i cieli e la terra con
la Parola, anche l'uomo ha fatto con la Parola. Ciò che ha fatto con il
Verbo, l'ha fatto con la mano; e ciò che ha fatto con la mano l'ha
fatto con il Verbo. La grandezza di Dio non è distinta in membra
umane: Egli è ovunque tutto intero, e da nessun luogo è circoscritto.
Perciò quel che ha fatto con il Verbo lo ha fatto con la Sapienza, e
quello che ha fatto con le mani lo ha fatto con la Potenza. Ma Cristo
è Potenza di Dio e Sapienza di Dio (Cf. 1 Cor 1, 24). Dunque ogni
cosa è stata fatta per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto.
Hanno narrato, narrano e narreranno i cieli la gloria di Dio.
Narreranno - ripeto - i cieli, cioè i santi, la gloria di Dio, innalzati da
terra portando Dio, tuonando con i comandamenti, brillando con la
sapienza, [narreranno], come ho detto, quella gloria di Dio per la
quale siamo stati salvati pur essendone indegni. Il figlio minore,
ridotto alla miseria, riconosce questa indegnità, per cui noi non
eravamo degni; riconosce - ripeto - questa indegnità il figlio minore,
ramingo lontano dal padre, adoratore di demoni e pastore di porci:
riconosce questa indegnità, ma perché è pressato dal bisogno. E
siccome da quella gloria di Dio siamo stati fatti quali non eravamo
degni di essere, dice al padre suo: non sono degno di essere
chiamato tuo figlio (cf. Lc 15, 21). L'infelice, per mezzo dell'umiltà,
impetra la felicità; e se ne mostra degno nel confessare la sua
indegnità. Questa gloria di Dio i cieli narrano, e le opere delle sue
mani annunzia il firmamento. Il cielo-firmamento sta a significare il
cuore saldo, non quello timoroso. Queste verità infatti sono state
annunziate in mezzo agli empi, agli avversari di Dio, agli amici del
mondo e ai persecutori dei giusti: insomma in un mondo che
incrudeliva [da ogni parte]. Ma che poteva fare un mondo infuriato,
dal momento che era il firmamento ad annunziarle? E che cosa
annunzia il firmamento? Le opere delle sue mani. Quali sono le
opere delle sue mani? Quella gloria di Dio per la quale siamo stati
salvati, e creati per il bene. Perché noi siamo sua fattura, creati in
Cristo Gesù per le opere buone (cf. Ef 2, 10). Ecco che ci ha creati
non soltanto uomini, ma anche giusti, se noi lo siamo: sì, egli ci ha
fatti, e non da noi stessi ci siamo fatti (cf. Sal 99, 3).
4.[v 3.] Il giorno passa la parola al giorno, e la notte alla notte
annunzia la conoscenza. Che significa? Forse chiare e manifeste
sono le parole il giorno passa la parola al giorno: chiare e manifeste
come il giorno. Ma la notte alla notte annunzia la conoscenza è
oscuro, come la notte. Il giorno al giorno, cioè i santi ai santi, gli
Apostoli ai fedeli, Cristo stesso agli Apostoli, ai quali ha detto: Voi
siete la luce del mondo (cf. Mt 5, 14). Mi sembra che questo sia
chiaro e facile a capirsi. Ma in qual modo la notte alla notte
annunzia la conoscenza? Alcuni hanno interpretato con semplicità
queste parole, e forse con verità: ritennero che esse significassero
che quanto avevano udito gli Apostoli al tempo in cui il Signore
nostro Gesù Cristo abitava in terra, fosse stato trasmesso ai posteri
come da un tempo all'altro: il giorno al giorno, la notte alla notte, il
giorno precedente al giorno successivo, la notte avanti a quella
seguente, perché questa dottrina è annunziata di giorno e di notte. A
chi si contenta può bastare questa semplice interpretazione. Ma
alcune parole delle Scritture, proprio per la loro oscurità, ci sono
state di grande utilità perché hanno dato luogo a molte
interpretazioni. Perciò, se queste parole fossero chiare, udreste una
sola spiegazione; ma poiché esse sono oscure ne ascolterete molte.
C'è infatti un'altra interpretazione: il giorno al giorno, la notte alla
notte, cioè lo spirito allo spirito, la carne alla carne. E un'altra
ancora: il giorno al giorno, gli uomini spirituali agli uomini
spirituali, e la notte alla notte, i carnali ai carnali. Gli uni e gli altri
ascoltano infatti [la parola] ma con un gusto ben diverso. Quelli
l'ascoltano come parola proferita, questi invece come conoscenza
annunziata: quel che si pronuncia vale per i presenti, mentre ciò che
si annunzia, si annunzia a chi si trova lontano. Si possono trovare
anche più significati per spiegare i cieli, ma dobbiamo contenerci per
la brevità del tempo a nostra disposizione. Ne aggiungiamo peraltro
uno che alcuni hanno avanzato come ipotesi. Quando Cristo Signore
- essi dicono - parlava agli Apostoli, allora il giorno passava la
parola al giorno: quando invece Giuda ha consegnato Cristo Signore
ai Giudei, la notte annunziava la conoscenza alla notte.
5.[vv 4.5.] Non vi sono parole, né discorsi, dei quali non si oda
la voce loro. Di chi, se non di quei cieli che narrano la gloria di Dio?
Non vi sono parole, né discorsi, dei quali non si oda la voce loro.
Leggete gli Atti degli Apostoli, [e vedrete] in qual modo, scendendo
su di essi lo Spirito Santo, tutti ne furono ricolmati e parlavano nelle
lingue di tutte le genti, secondo che lo Spirito dava ad essi di
esprimersi (cf. At 2 4). Ecco dunque che non vi sono parole, né
discorsi, dei quali non si oda la voce loro. Ma non soltanto qui, ove
sono stati ricolmati [dallo Spirito], si sono fatti sentire. Perché: in
tutta la terra è uscita la loro voce, e le loro parole sino ai confini
della terra. Per questo anche noi qui parliamo. La loro voce è giunta
sino a noi, quella voce che è uscita in tutta la terra, mentre l'eretico
non entra nella Chiesa. La voce pertanto è uscita in tutta la terra,
perché tu possa entrare nel cielo. O appestato, litigioso, malvagio,
che ancora insisti nell'errore; o figlio superbo, ascolta il testamento
del Padre tuo. Ecco, che cosa c'è di più facile, di più evidente? In
tutta la terra è uscita la loro voce, e le loro parole sino ai confini
della terra. C'è forse bisogno di spiegazione? Perché ti sforzi contro
te stesso? Vuoi ritenere [solo] una parte nella disputa, tu che puoi
possedere il tutto nella concordia?
La carità fraterna.
6.[v 6.] Nel sole ha posto il suo tabernacolo, cioè ha posto la sua
Chiesa in evidenza e non nel segreto, perché stia nascosta e quasi
celata: affinché non sia come una [donna] velata dietro il gregge
degli eretici. Di qualcuno è detto nella Sacra Scrittura: Perché tu hai
agito in segreto, sopporterai nel sole (cf. 2 Sam 12, 12): cioè, di
nascosto hai fatto il male, e subirai la condanna dinanzi agli occhi di
tutti. Nel sole dunque ha posto il suo tabernacolo. Perché tu, o
eretico, fuggi nelle tenebre? Sei cristiano? Ascolta Cristo. Sei servo?
ascolta il padrone. Sei figlio? Ascolta il padre: correggiti e riprendi a
vivere. Si dica anche di te: era morto ed è risuscitato; si era perduto
ed è stato trovato (cf. Lc 15, 32). Non dirmi: perché mi cerchi, se
sono perduto? Proprio per questo ti cerco, perché ti sei perduto. Non
cercarmi, egli dice. Questo è quanto vuole l'iniquità, per la quale
siamo divisi; ma non lo vuole la carità, per la quale siamo fratelli.
Non sarei malvagio, se cercassi il mio servo; e verrò ritenuto tale,
perché cerco il mio fratello? Pensi pure così colui nel quale non
risiede carità fraterna, quanto a me cerco il mio fratello. Si adiri pure,
mentre è cercato, colui che si placherà appena sarà stato trovato. Io
cerco, ripeto, il mio fratello, e supplico non contro di lui ma per lui il
mio Signore. Non dirò, nel pregare: Signore di' al mio fratello che
divida con me l'eredità (cf. Lc 12, 13); ma: di' a mio fratello che
possegga l'eredità insieme con me. Perché dunque vai errando
fratello? Perché fuggi in luoghi remoti? Perché cerchi di occultarti?
Nel sole ha posto il suo tabernacolo. Ed egli stesso è come sposo
che esce dal suo talamo. Credo che tu lo conosca. Egli, come sposo
che esce dal suo talamo, ha esultato come un gigante nel correre la
sua via; egli nel sole ha posto il suo tabernacolo; cioè egli, come
sposo, quando il Verbo si è fatto carne, ha trovato il suo talamo nel
seno della Vergine, e da qui, unitosi alla natura umana, è uscito come
da un castissimo letto, umile fra tutti per la misericordia, e forte più
di tutti per la maestà. Questo significa infatti: il gigante ha esultato
nel correre la sua via, cioè è nato, è cresciuto, ha insegnato, ha
patito, è risuscitato, è asceso al cielo; ha percorso in fretta la via e
non vi si è fermato. Quello stesso sposo che ha fatto tutto ciò ha
anche posto nel sole, cioè in piena evidenza, la sua tenda, ossia la
sua santa Chiesa.
Lo Spirito Santo.
7.[v 7.] Vuoi sapere quale via ha percorso così rapidamente?
Dalla sommità del cielo fu la sua uscita, e la sua corsa fino
all'altro estremo. Ma dopo esserne uscito in fretta e ritornato indietro
di corsa, ha mandato il suo Spirito; e coloro sui quali esso è disceso
hanno visto delle lingue separate, come di fuoco (cf. At 2, 3). Come
fuoco è venuto lo Spirito Santo, per consumare l'erba della carne, per
crogiolare l'oro e purificarlo; come fuoco è venuto e per questo
leggiamo: e non vi è chi si nasconda al suo calore.
8.[v 8.] La legge immacolata del Signore converte le anime. È lo
Spirito Santo. La testimonianza del Signore è fedele e porge la
sapienza ai fanciulli, non ai superbi. Questo è lo Spirito Santo.
9.[v 9.] I precetti del Signore sono retti, e non spaventano, ma
allietano i cuori. Ecco lo Spirito Santo. Il comandamento del
Signore è nitido; rischiara gli occhi, non abbaglia: non gli occhi
della carne, ma quelli del cuore; non quelli dell'uomo esteriore, ma
dell'uomo interiore. Ecco lo Spirito Santo.
10.[v 10.] Il timore di Dio, non il servile ma il puro; che ama
gratuitamente e non teme di essere punito da colui per il quale
trepida, ma di essere separato da colui che ama. Questo è il timore
puro, che non manda fuori la perfetta carità (cf. Gv 4, 18), ma che
permane eternamente. Tale è lo Spirito Santo; cioè, questo dona,
conferisce, infonde lo Spirito Santo. I giudizi del Signore sono
veraci, giusti in se stessi, destinati non alle liti che dividono, ma alla
riunione nell'unità. Questo vuol dire in se stessi. Ecco lo Spirito
Santo. Per questo ha fatto parlare nelle lingue di tutti coloro nei quali
per la prima volta è venuto, poiché ha annunziato che avrebbe riunito
nell'unità le lingue di tutte le genti. Ciò che allora faceva un solo
uomo dopo aver ricevuto lo Spirito Santo, cioè parlare in tutte le
lingue, ora lo fa l'unità medesima: parla in tutte le lingue. Ed anche
ora un solo uomo parla a tutte le genti in tutte le lingue, un solo
uomo Capo e Corpo, un solo uomo: Cristo e la Chiesa, l'Uomo
perfetto, lui Sposo e lei Sposa. Saranno, dice infatti, due in una
carne sola (cf. Gn 2, 24). E i giudizi del Signore sono veraci e
giustificati in se stessi: in grazia dell'unità.
11.[v 11.] Più desiderabili dell'oro e di molte pietre preziose. O
molto oro, o molto prezioso, o molto desiderabili; tuttavia sempre
molto, mentre per l'eretico è poco. Non amano con noi il medesimo
Cristo, che con noi confessano. Ebbene quello stesso Cristo che con
me confessi, amalo con me. E colui che non vuole la stessa cosa,
rifiuta, recalcitra, respinge: per lui questo non è desiderabile molto
più dell'oro e delle pietre preziose. Ascolta quest'altra cosa: e più
dolci - dice - del miele e del favo. Ma queste parole suonano contro
l'errante: il miele è amaro per il febbricitante, mentre dolce e
gradevole è per chi è guarito, perché è prezioso per la salute. Più
desiderabili dell'oro e di molte pietre preziose, e dolci più del miele
e del favo.
12.[v 12.] Perciò il tuo servo li custodisce. Quanto essi siano
dolci lo dimostra il tuo servo nel custodirli, non nel parlarne. Li
custodisce il tuo servo, perché ora sono dolci e nel futuro saranno
salutari. Infatti grande è la ricompensa nel custodirli. Amando
invece la propria animosità, l'eretico né vede questo splendore né
gusta questa dolcezza.
Due specie di peccati.
13.[vv 13.14.] I delitti infatti, chi li comprende? Padre, perdona
loro perché non sanno quello che fanno (cf. Lc 23, 34). Perciò, dice,
il servo è colui che custodisce questa dolcezza, soavità di carità e
amore per l'unità. Ma io stesso che la custodisco, aggiunge, ti prego -
dato che i delitti chi li comprende? - perché nessuna colpa si insinui
furtivamente in me che sono uomo e perché non sia sorpreso come
uomo da qualcuna di quelle colpe e ti dico: dai miei occulti [peccati]
purificami, o Signore. Queste parole abbiamo cantato ed ecco che ad
esse, parlando, siamo giunti. Diciamole e cantiamole con
intelligenza: e cantando preghiamo e pregando supplichiamo.
Diciamo: Dai miei nascosti [peccati] purificami, o Signore. E chi
comprende i delitti? Se si potessero vedere le tenebre, sarebbero
conosciuti i delitti. Quindi, allorché noi ci pentiamo del delitto,
siamo nella luce. Infatti, quando uno è avvoltolato nel delitto stesso,
come se avesse gli occhi chiusi e ottenebrati, non vede il delitto; è
come se ti coprissero gli occhi della carne: non vedresti niente,
neppure ciò che ti copre gli occhi. Diciamo dunque a Dio, il quale
vede perfettamente ciò che ci può purificarne distingue ciò che ci
può risanare, diciamo a Lui: dai miei [peccati] nascosti purificami,
o Signore, e dagli altrui guarda il tuo servo. I miei delitti, dice, mi
contaminano; gli altrui mi affliggono: da questi purificami, da quelli
perdonami. Estirpa dal mio cuore ogni cattivo desiderio, allontana da
me il malvagio tentatore. Questo vuol dire: dai miei [peccati]
nascosti purificami, e dagli altrui guarda il tuo servo. Infatti questi
due generi di peccati, i propri e insieme gli altrui, anche in principio
si manifestarono per primi. Il diavolo cadde per il delitto suo, mentre
Adamo per quello altrui. Questo stesso servo di Dio che ne
custodisce i precetti, per i quali sarà abbondantemente ricompensato,
anche in un altro salmo prega così: non mi venga addosso il piede
della superbia, e non mi smuovano le mani dei peccatori (cf. Sal 35,
12). Non mi venga addosso, dice, il piede della superbia, cioè: dai
miei occulti [peccati] purificami o Signore; e le mani dei peccatori
non mi smuovano, cioè: dagli estranei guarda il tuo servo.
Schiavitù del peccato.
14. Se non mi avranno dominato, cioè i miei [peccati] segreti e
gli altrui delitti, allora sarò immacolato. Non osa [sperare] questo
con le sue forze, ma prega che lo compia il Signore, cui è detto nel
salmo: dirigi i miei passi secondo la tua parola, e non mi domini
alcuna iniquità (cf. Sal 118, 133). Se sei cristiano, non voler temere
esternamente la signoria dell'uomo, ma temi sempre il Signore tuo
Dio. Temi il male che è in te, cioè la tua concupiscenza; non ciò che
in te ha fatto Dio, ma ciò che tu stesso ti sei fatto. Il Signore ti fece
servo buono, e tu ti sei formato nel tuo cuore un malvagio padrone.
Giustamente sei soggetto all'iniquità, giustamente sei soggetto al
padrone che tu stesso hai scelto: perché non hai voluto assoggettarti
a colui che ti ha fatto.
15.Ma soggiunge: se non mi avranno dominato, allora sarò
immacolato; e sarò purificato dal grande peccato. Di quale peccato
crediamo si tratti? Che cosa è questo grande peccato? Potrebbe anche
trattarsi di un altro, diverso da quello che ora dico, ma tuttavia non
terrò celato il mio pensiero. Credo che il gravissimo peccato sia la
superbia. Probabilmente questo è significato anche in altro modo
laddove si dice: e sarò purificato dal grande peccato. Chiedete
quanto sia grande questo peccato che fece precipitare l'angelo, che
dell'angelo fece il diavolo e gli sbarrò per sempre il Regno dei Cieli?
Grande è questo peccato, ed è l'origine e la causa di tutti i peccati.
Sta scritto infatti: l'inizio di ogni peccato è la superbia. E, perché tu
non lo trascuri, quasi fosse una colpa lieve, aggiunge: l'inizio della
superbia è l'apostasia da Dio (cf. Sir 10, 15 14) . Non piccola
sciagura è questo vizio, fratelli miei; non s'accorda con esso l'umiltà
cristiana nelle persone che vedete piene di sé. Per questo vizio esse
sdegnano di sottomettere il collo al giogo di Cristo, e poi sono
incatenate più duramente al giogo del peccato. Perché toccherà loro
essere servi; non vogliono servire, ma conviene pure che lo facciano.
Ricusando di servire, ottengono non già di non servire affatto, ma di
non servire ad un buon Padrone; poiché chi non vuol servire alla
carità, sarà inevitabilmente servo dell'iniquità. Con questo vizio, che
è la sorgente di tutti gli altri perché da esso sono nati gli altri vizi, è
avvenuta la apostasia da Dio, poiché l'anima è caduta nelle tenebre e
ha fatto cattivo uso del libero arbitrio, conseguendo da qui anche tutti
gli altri peccati. E così, colui che era compagno degli angeli, vivendo
prodigalmente, sciupa la sua sostanza con le meretrici, e diviene per
la sua miseria pastore di porci (cf. Lc 15, 13). Per colpa di questo
vizio, a causa di questo grande peccato della superbia, Dio è venuto
nell'umiltà. Ecco il motivo, ecco il grande peccato, il grave male
dell'anima, che ha fatto scendere dal cielo il Medico onnipotente, e lo
ha umiliato fino alla forma di servo, lo ha coperto di scherno, lo ha
inchiodato alla croce, perché questo tumore fosse curato per mezzo
di una tanto salutare medicina. Arrossisca finalmente di esser
superbo l'uomo, per il quale Dio si è fatto umile. Così, è scritto, sarò
purificato dal grande peccato, perché Dio resiste ai superbi, e dona
invece la grazia agli umili (cf. Gc 4, 6; 1 Pt 5, 5).
16.[v 15.] E incontreranno favore le parole della mia bocca, e la
meditazione del mio cuore alla tua presenza, sempre. Infatti, se non
sarò purificato da questo grave peccato, le mie parole incontreranno
il favore degli uomini, non il tuo. L'anima superba vuol piacere agli
sguardi degli uomini; l'anima umile vuole piacere in segreto, dove
solo Dio vede. Perciò, se incontrerà l'approvazione degli uomini per
le sue buone azioni, si congratuli con quelli ai quali piace l'opera
buona ma non con se stessa, cui deve bastare averla compiuta. La
nostra gloria - dice l'Apostolo - è questa, la testimonianza della
nostra coscienza (cf. 2 Cor 1, 12). Diciamo quindi anche quanto
segue: Signore mio aiuto e mio redentore. Aiuto nelle buone azioni,
redentore dalle malvage; aiuto affinché io dimori nella tua carità,
redentore per liberarmi dalla mia iniquità.
(Agostino S., Commento al Salmo 18, ed. digitale, pp. 151-161).

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