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Tavola dei Contenuti (TOC)

PREFAZIONE DEL CURATORE


IL PARADOSSO DELL’ABNEGAZIONE
DIVENTA CIÒ CHE SEI
IL DITO E LA LUNA
IMPORTANZA
TAO E WU-WEI
LEGGEREZZA DEL TOCCO
UCCELLI NEL CIELO
CAMMINANDO SULLA RUOTA
IL LINGUAGGIO DELL’ESPERIENZA METAFISICA
BUONE INTENZIONI
ZEN
L’UNICO
ESISTE UN INCONSCIO?
QUEL LONTANO EVENTO DIVINO
LA PARABOLA DELLA CODA DI MUCCA
IL SECONDO IMMORTALE
IL PROBLEMA DELLA FEDE E DELLE OPERE NEL BUDDHISMO
IL DOMANI NON ARRIVA MAI
CHE COS’È LA REALTÀ?
LA NASCITA DEL FIGLIO DIVINO. STUDIO DI UN SIMBOLO CRISTIANO
Titolo originale dell'opera
Become What You Are
©1993, 2003 Mark Watts

Italian edition published by arrangement with


Shambala Publications Inc., Boston

Traduzione di Antonio Tozzi

Tutti i diritti sono riservati

©2017 Piano B edizioni srl, Prato


www.pianobedizioni.com

Prima edizione digitale maggio 2017

ISBN: 9788893710305
PREFAZIONE DEL CURATORE

Come suggerisce il titolo, Diventa ciò che sei è una raccolta di scritti di Alan Watts che
vertono sul tema della ricerca del vero io, una ricerca spesso intrapresa nel tentativo di cogliere la
propria vita “così com’è”. Come scrisse lo stesso autore:

La vita esiste solo in questo momento, e in questo momento è infinita ed eterna. Poiché il momento presente è
infinitamente piccolo; prima di riuscire a misurarlo se ne è già andato – eppure persiste per sempre. I cinesi hanno
chiamato questo movimento e cambiamento Tao… Un saggio ha detto che se si cerca di accordarsi ad esso, si finisce per
allontanarsene. Ma non aveva del tutto ragione. Poiché la cosa curiosa è che non si può uscire dall’accordo con esso
neppure se si vuole; anche se i tuoi pensieri fuggono nel passato o nel futuro, essi non possono sfuggire al momento
presente.

In questo senso, “diventare ciò che si è” è allo stesso tempo una direttiva impossibile e un
fatto inevitabile. Il libro raccoglie articoli di Alan Watts scritti alla metà degli anni Cinquanta,
intervallati con saggi brevi risalenti alla fine degli anni Trenta, scritti prima di arrivare in
America dall’Inghilterra. I pezzi più brevi apparvero originariamente in «The Middle Way», una
rivista pubblicata dalla Buddhist Lodge di Londra.
L’antologia inizia con Il paradosso dell’abnegazione. Sebbene il manoscritto originale non
sia datato, la macchina da scrivere utilizzata per scrivere questo pezzo fu acquistata nel 1953, e il
contenuto e la lunghezza sono coerenti con altri articoli che furono originariamente letti da Watts
su Radio KPFA, a Berkeley, in California, a partire dal 1955. Queste trasmissioni erano
abbastanza popolari, e continuarono per oltre trent’anni. Il secondo capitolo, e il primo dei saggi
brevi, è lo scritto che dà il titolo a questo volume, ed è tratto dal quaderno dei primi articoli di
Watts. Un esame del retro di questi appunti rivela l’annuncio della riunione della Buddhist
Lodge nei mesi di marzo, aprile e maggio del 1938.
Il terzo scritto, Il dito e la luna, fu intitolato così dallo stesso Watts in luogo dell’originale Il
regno dello spirito. È datato 17 aprile 1955 e affronta le carenze della pratica religiosa
occidentale nel contesto dello Zen e del pensiero asiatico in generale. Poi, col quarto articolo, si
ritorna agli scritti tratti da «The Middle Way» con Importanza, un breve e bel saggio sulla
prospettiva di una poetica buddhista.
In Tao e Wu-wei, il quinto saggio, Watts accenna al tema del «non agire» e del «non
forzare», idee centrali del taoismo cinese. A metà del testo egli menziona «questi due anni di
colloqui», riferendosi all’inizio della sua trasmissione radiofonica. Questo fu probabilmente uno
degli ultimi interventi di quella serie, e le sue revisioni autografe nelle ultime quattro pagine
dell’originale suggeriscono che questo articolo fosse la trascrizione della registrazione audio, il
che lo rende forse una delle sue prime trasmissioni non lette da un testo ma originariamente
eseguite in diretta per un pubblico radiofonico.
Camminando sulla ruota, il sesto saggio, è ancora un breve scritto tratto da «The Middle
Way». Qui leggiamo dell’«uomo perfetto» di Chuang-tzu intento a «camminare sulla ruota»
indisturbato dal desiderio, dall’attaccamento, dalla paura o dal rimpianto. Sul retro di questo
articolo si trova un’interessante citazione attribuita a Tan Ching, che recita:

Se lasciamo che i nostri pensieri, quelli del passato, del presente o del futuro, siano legati l’un l’altro, poniamo noi stessi
in soggezione. D’altra parte, se lasciamo che la nostra mente non si attacchi a nulla, a nessun tempo e a nessuna cosa,
raggiungiamo l’emancipazione.

Poiché all’epoca Watts era il direttore di «The Middle Way», egli selezionava probabilmente
le citazioni per la pubblicazione. Un tema simile venne sviluppato lungo tutte le sue opere
successive, e questa citazione dà una dimostrazione delle influenze filosofiche che ne
plasmarono il pensiero.
Il settimo capitolo segna il passaggio dagli articoli radio a un articolo scritto per «The Journal
of Religious Thought», pubblicato nel 1953 dalla Howard University, a Washington D.C. Il
linguaggio dell’esperienza metafisica è un’eccellente analisi delle analogie tra la conoscenza
acquisita dall’esperienza mistica, la scienza naturale e i problemi linguistici che si pongono
nell’esprimere in parole una tale varietà di conoscenze. L’articolo è sotto diversi aspetti molto
avanzato rispetto al suo tempo, poiché fonde pensiero orientale, fisica, filosofia occidentale e
religione verso una comprensione della vita radicata nella meraviglia, poiché, come dice Goethe:

Il vertice che l’uomo può toccare è la meraviglia; e se il fenomeno originario lo fa meravigliare, che sia soddisfatto,
poiché niente di più alto può essergli donato e nient’altro dovrebbe cercare al di là di essa; lì è posto il limite.

A Il linguaggio dell’esperienza metafisica seguono una serie di articoli tratti da «The Middle
Way», tra cui Buone intenzioni, Zen, L’unico, Esiste un inconscio?, Quel lontano evento divino,
La parabola della coda di mucca e Il secondo immortale. La prospettiva zenista dei primi
contributi di Watts a «The Middle Way» viene giustamente rappresentata in questa serie di
articoli, seguita da un più articolato trattamento del buddhismo ne Il problema della fede e delle
opere nel buddhismo. La selezione da «The Middle Way» (poi raccolta in Modern Mystic) si
conclude con due scritti brevi, Il domani non arriva mai e Cos’è la realtà? che introducono un
più lungo lavoro di quel periodo, La nascita del figlio divino. Studio di un simbolo cristiano che
fu originariamente pubblicato in «The Sufi» alla fine degli anni Trenta. Si tratta di un
interessante articolo in cui Watts scava nelle basi mistiche della tradizione cristiana e dove
confronta il simbolismo della sua divinità con quello di altre religioni, più spesso apprezzate per
la loro natura mistica. Come egli stesso scrive:

Ma accogliere l’universo in se stessi, nel modo di qualche “mistico”, è semplicemente un gonfiarsi con l’idea di essere
Dio e dunque impostare l’ennesima contrapposizione tra il potente tutto e la sua parte degradata. Donarsi totalmente e
pedissequamente al mondo implica invece il divenire una nullità spirituale, un meccanismo, una conchiglia, una foglia
mossa dai venti delle circostanze. Ma se allo stesso tempo il mondo è accolto e il sé donato, allora prevale quell’unione
che conduce alla Seconda Nascita.

Questo ricorda l’idea buddhista della Via di Mezzo, come è naturale che sia, e Watts
prosegue lungo questa linea di pensiero per concludere con una vena in certo modo taoista:

Così, quando diciamo che dall’unione tra sé e la vita (o mondo) nasce il Cristo, intendiamo dire che l’uomo si solleva
verso un nuovo centro di coscienza che non è solo in se stesso, né solo nel mondo… In verità, un tale centro esiste già,
che lo si sappia o meno, poiché due opposti non possono esistere a meno che non vi sia una relazione tra di loro.

MARK WATTS
San Anselmo, California
IL PARADOSSO DELL’ABNEGAZIONE

Mentre vivi, sii un uomo morto, assolutamente morto.


Qualunque cosa allora farai, come tu la vuoi, sarà sempre bene.

Questi versi buddhisti, scritti in Cina diversi secoli fa, tentano di trovare le parole giuste per
descrivere un’intuizione che è comune a quasi ogni cultura nel mondo. Quando viene tradotta nel
linguaggio familiare della tradizione cristiana, quest’intuizione è così ben nota da essere quasi
diventata un luogo comune: «Colui che avrà perduto la sua anima, la troverà». Ma ciò che
sempre salvaguarda questo pensiero dalla banalità – dal mero fastidio di quei precetti che tutti
sanno di dover osservare ma che nessuno osserva davvero – è che tale precetto non può essere
osservato, da nessuno. Perché finché c’è qualcosa che posso ancora fare, io non sono morto – io
non ho ancora perso completamente la mia vita. Tuttavia, questa non è una semplice assurdità
espressa da un precetto impossibile da soddisfare. Si tratta piuttosto di una comunicazione reale,
di una descrizione di qualcosa che accade alle persone – come la pioggia, o il soffio del vento. È
la semplice espressione di una scoperta universale: che in realtà l’uomo non inizia davvero a
vivere finché non ha perduto se stesso, finché non ha rilasciato la stretta ansiosa che tiene
normalmente sulla sua vita, la sua proprietà, la sua reputazione, la sua posizione. È l’irriducibile
verità dell’idea monastica della “santa povertà”, dello stile di vita privo di legami, in cui – poiché
tutto è perduto – non c’è più niente da perdere, in cui è presente l’euforia per quel tipo di libertà
poeticamente associata agli uccelli nel vento, o alle nuvole alla deriva nel cielo sconfinato. È la
vita di cui parla san Paolo: «Poveri, ma rendendo ricchi i molti; non avendo nulla, ma
possedendo ogni cosa».
Che chimerica nostalgia nutriamo per tutto ciò! Maria Antonietta che gioca a fare la
pastorella nei giardini di Versailles… Presidenti di grandi multinazionali che si ritirano in solitari
capanni da pescatore nell’Alta Sierra… L’impiegato assicurativo che cammina da solo lungo le
sterminate spiagge oceaniche, chiedendosi se avrebbe mai il coraggio di lasciare tutto… O
l’idealista morale, che si rimprovera perché non ha abbastanza forza per rinunciare a un comodo
salario e cacciarsi nei bassifondi, come Peter Maurin e Dorothy Day, o come i grandi modelli san
Francesco e san Vincent de Paul. Ma la gran parte di noi sa bene che non vorrà, e forse, che non
potrà farlo – e che continueremo ad aggrapparci ai nostri confortevoli modelli di vita con tutta
l’impotenza di chi è preda di una passione distruttiva.
Chiedo scusa se tutto ciò inizia a suonare come un sermone, poiché non l’intendo davvero in
quel modo; anzi, ho già detto all’inizio che le parole su come trovare la propria vita perdendola
non siano in realtà un precetto a cui si possa semplicemente obbedire o mettere in pratica. Questo
è ciò che rende tutte le chiacchiere sulla necessità dell’altruismo o sul compito di trascendere
l’ego così incredibilmente fraintese. Considerate come precetto producono ogni tipo di falsità,
morale e spirituale. Quando incontrate qualcuno che parla di provare a rinunciare a se stessi, di
superare il proprio ego, prendetelo sempre cum grano salis. Mi viene in mente il dialogo
apocrifo tra Confucio e Lao-tzu, quando il primo stava chiacchierando di amore universale,
privato dell’elemento dell’io.
«Che sciocchezza!» esclamò Lao-tzu. «L’amore universale non contraddice se stesso? La tua
eliminazione dell’io non è essa stessa una manifestazione positiva dell’io? Signore, se vuoi che il
mondo non perda la sua fonte di nutrimento, considera l’universo, la sua regolarità è incessante;
vi sono il sole e la luna, il loro risplendere è infinito; vi sono le stelle, i loro schieramenti non
mutano mai; vi sono uccelli e bestie, si radunano in greggi senza variare; vi sono alberi e arbusti,
si sviluppano verso l’alto, senza eccezioni. Sii come questi: segui il Tao – l’andamento delle cose
– e sarai perfetto. Perché, dunque, queste vane lotte per la carità e per il dovere verso il prossimo,
che assomigliano al battere su un tamburo in cerca di un fuggitivo? Ahimè, signore, hai arrecato
molta confusione nella mente dell’uomo!».
Come detto, la verità sul trovare la propria vita perdendola non è un precetto; piuttosto, è un
segnale di qualcosa che accade, e che accade in molti modi diversi. Non a tutti è dato essere un
eroe morale o un famoso santo. Non a tutti è dato vagabondare senza le responsabilità di mogli e
figli. Né, dovrei aggiungere, è privilegio di tutti essere una moglie altruista o un marito modello.
E ancora – non è dono di tutti essere il fatalista soddisfatto, capace di accettare se stesso e i
propri limiti per come sono, sapendo di essere gramigna e non cercando di essere rosa. Alcuni di
noi proveranno sempre – con un grado esasperante di relativo successo – a migliorare se stessi in
un modo o nell’altro, e nessuna quantità di auto-accettazione riuscirà a soddisfarli. Rinuncia di
sé, accettazione di sé – sono tutti nomi per una stessa cosa: un ideale verso il quale non c’è
strada, un’arte per la quale non esiste tecnica.
Perché, dunque, questa idea indossa così comunemente l’abito del precetto, di un consiglio
da seguire, di un metodo da applicare? Poiché ovviamente c’è una contraddizione fondamentale
nella nozione stessa di rinuncia dell’io, così come in quella di accettazione dell’io. Le persone
provano ad accettare se stesse al fine di essere diverse, e provano a rinunciare al proprio io per
guadagnare un maggior rispetto ai propri occhi – o per attingere a una qualche forma di
esperienza spirituale, a una qualche esaltazione della coscienza il cui desiderio rappresenta la
forma stessa dell’interesse personale. Restiamo davvero bloccati in noi stessi, e i nostri tentativi
di respingere o accettare sono ugualmente sterili, poiché non riescono a raggiungere
l’inaccessibile centro della nostra individualità che sta tentando di respingere o di accettare. La
parte del nostro io che vuole cambiare noi stessi è quella stessa parte che ha bisogno di essere
cambiata; ma questa resta inaccessibile come lo è un ago alla puntura della sua stessa punta.
Ma la ragione per cui l’idea della rinuncia di sé appare nella forma di un precetto impossibile,
è che si tratta di una forma di ciò che i buddhisti chiamerebbero upaya – un termine sanscrito che
significa “mezzi abili”, e più precisamente i mezzi abili impiegati da un insegnante per
risvegliare il proprio studente a una qualche verità, che può essere raggiunta solo in modo
indiretto. Poiché l’egoismo dell’io prospera sull’idea di comando, sull’idea di essere il signore e
il padrone dei propri processi, delle proprie motivazioni e dei propri desideri. Così, l’unico
risultato importante di qualsiasi serio tentativo verso la rinuncia o l’accettazione di sé, è
l’umiliante scoperta che tutto ciò è impossibile. Ed è proprio in questo che consiste quella morte
dell’io che è l’improbabile origine di un modo di vivere così nuovo e vitale da farci sentire come
rinati. In questo senso metaforico, l’ego muore nello scoprire la propria stessa incapacità, la
propria incapacità di fare alcuna differenza su di sé che abbia davvero importanza. Ecco perché,
nel Buddhismo Zen, il compito della trascendenza dell’io viene paragonato a una zanzara che
prova a pungere un toro di ferro; anzi, nelle parole di uno degli antichi maestri, la morte che
trasforma arriva nel momento stesso in cui la pelle metallica del toro respinge assolutamente e
definitivamente la fragile proboscide della zanzara.
C’è, ovviamente, ancora un qualche rifugio per la nostra illusione di grandezza: l’idea per cui
si debba prima profondere un risoluto sforzo nel vano tentativo di mordere il toro. Ogni “in-
group” distingue se stesso da un “out-group” – gli iniziati dal volgo – per mezzo di qualche
processo che metta a dura prova, passando per lunghe sofferenze che vengono successivamente
indossate come un fiero distintivo di laurea. Così, uno degli aspetti più nauseanti di questa
ipocrisia spirituale è l’insinuazione solitamente piuttosto sottile per cui, dopo tutto, si è «sofferto
così tanto». Così, anche per colui che è ancora un mero aspirante a uno stato di grazia, lo stesso
tipo di ipocrisia assume la forma risoluta di chi vuol mordere il toro profondendo il massimo
sforzo possibile – in modo da convincersi una volta per tutte che l’impresa è davvero
impossibile.
Ho sempre trovato che le persone che riescono – in modo abbastanza genuino – a rinunciare
a se stesse, non fanno di solito rivendicazioni di alcun genere riguardo al loro ruolo in tale
processo. Essi pensano a se stessi più come a dei pigri o dei fortunati. Se hanno fatto qualcosa, è
stata così semplice che chiunque altro sarebbe riuscito a farla – poiché tutto ciò che hanno fatto è
stato riconoscere un fatto universale della vita, qualcosa di vero per il debole e stolto così come
per il saggio e forte. Direbbero anche che in questo aspetto c’è un qualche vantaggio nell’essere
debole e stolto, poiché il possesso di una forte volontà e di una testa pensante rendono alcune
cose molto più difficili da cogliere. Un commerciante di successo sarà forse meno pronto del
semplice vagabondo a cogliere quello stesso oblìo che inghiotte entrambi. Per l’autentico saggio,
mistico, buddha, jivanmukta, o ciò che volete, l’idea di aver raggiunto questo stato di grazia in
virtù di un qualche sforzo o per qualche capacità speciale che possiede è sempre assurda, e
impossibile.
Si può essere quasi certi, dunque, che un qualche tipo di clericalismo, un certo tipo di racket
spirituale altamente raffinato, sia sempre all’opera quando l’accento viene posto sulla sofferenza
e la disciplina, sulla resistenza e la forza di volontà, che si dicono essere i prerequisiti essenziali
per accedere al regno dei cieli. Tale discorso è a volte solo un fare buon viso a cattivo gioco – un
provare a fingere a se stessi che una vita di costante frustrazione sia in effetti una grande
realizzazione spirituale. Talvolta può essere un semplice errore in buona fede, poiché ci sono
persone che riescono a vedere ciò che è sempre stato loro vicino solo dopo un lungo e doloroso
viaggio, e restano dell’impressione che la strada più difficile fosse anche l’unica strada
percorribile. Altre volte, tuttavia, discorsi di questo genere rappresentano quel tipo di nauseante
predicazione messa in atto da chi presume di essere maestro per il prossimo. Ma tali prediche
non hanno mai il minimo effetto creativo, poiché le uniche motivazioni che riescono a offrire
sono vergogna o paura o colpa, e quando reagiamo a tali motivazioni troviamo infine solo un
balsamo per il ferito orgoglio dell’ego – un balsamo su cui il nostro stesso egocentrismo
rifiorisce con gusto speciale.
Con tali fraintendimenti tolti di mezzo, possiamo forse considerare più intimamente cosa
significa davvero l’idea di trovare la propria vita perdendola. Il punto principale, credo, è che
quello stato metaforicamente chiamato morte, o abbandono di sé, non è una condizione futuribile
che si possa acquisire. In verità, è piuttosto uno stato presente. È nelle piccole cose che il nostro
ego mostra alcuni segni di vita. Ma fondamentalmente, in presenza di grande spazio e tempo,
come nel grande amore e nella grande paura, noi siamo come foglie scosse dal vento. Quando
iniziamo a pensare a ciò in modo chiaro, evochiamo in noi stessi emozioni assai disturbanti che
vorremmo essere in grado di controllare. Le nostre resistenze a queste emozioni sono naturali
come le stesse emozioni. Anzi, sono queste in realtà le stesse emozioni, poiché le emozioni
appaiono solo come manifestazioni di uno stato di tensione e resistenza. Se non provassi
avversione per la paura, non sarebbe paura. Tuttavia non c’è, a mio avviso, nessuna difficoltà a
scoprire che il nostro risentimento per quelle emozioni, la nostra mancanza di volontà di farne
esperienza, è totalmente inefficace. È ancora la zanzara che tenta di pungere il toro di ferro. La
fragilità e la debolezza dei nostri corpi umani entro il torrente spietato e meraviglioso della vita
evoca ogni emozione di questo agonizzante organismo sensibile – amore, rabbia, tristezza,
terrore e paura del terrore. E i nostri tentativi di stare al di sopra di tali emozioni e di controllarle
sono le stesse emozioni in gioco; poiché l’amore è anche essere innamorati dell’amore, e
tristezza è anche essere dispiaciuti di essere tristi. La nostra riluttanza a sentire ci dà l’esatta
misura della nostra abilità di sentire, poiché più sensibile è lo strumento e più grande è la sua
capacità di dolore, e così la sua riluttanza a essere ferito.
Ora, ci sono alcuni psicologi che hanno battuto, piuttosto maldestramente forse, su
un’importante verità – e cioè che commettiamo un grave errore nel non rispondere ai nostri
sentimenti, o nel provare a sentire in qualche altro modo rispetto a quello che in realtà proviamo.
Qui, occorre notare, si riferiscono ai sentimenti interiori, e non ad azioni esterne o esteriori. In
altre parole, se tu, in quanto madre, odi tuo figlio, non devi provare a fingere a te stessa di
esserne innamorata. Tuttavia – messa in questi termini troppo semplicistici – questa intuizione
degenera in un altro precetto: «Accetta i tuoi sentimenti; asseconda le tue emozioni». Non è così
semplice, perché i nostri sentimenti confliggono l’un con l’altro – come quando ad esempio
siamo troppo orgogliosi per piangere, o troppo impauriti per innamorarci. In questo caso, quale
sentimento dobbiamo accogliere? Il dolore o l’orgoglio, la paura o l’amore?
Ora, questo è un esempio più istruttivo del difficile compito dell’accettazione di sé, poiché in
tale situazione scopriamo di non poter accettare nessuno dei due sentimenti. Il conflitto non
permetterà di essere risolto con una decisione, in un verso o nell’altro, e ci troveremo come
bloccati – impotenti – nel conflitto.
Ma la reale importanza di ciò che questi psicologi stanno cercando di dire è che c’è una
saggezza quasi inquietante nelle reazioni spontanee e naturali del nostro organismo al corso degli
eventi. Una straordinaria capacità di sentire un evento interiormente, a differenza dal prorompere
in un’azione precipitosa per evitare la tensione della sensazione: questa capacità è infatti un
meraviglioso potere di adattamento alla vita, non così diverso dall’istantanea risposta dell’acqua
che si adatta ai contorni del terreno su cui scorre. Spero che questo sia chiaro. Non sto parlando
delle nostre risposte in termini di azione, ma delle nostre risposte soggettive, interiori, del
sentimento. Il punto è che in realtà i nostri sentimenti non sono davvero un tipo di resistenza, una
sorta di lotta contro il corso degli eventi. Piuttosto, essi sono una reazione armoniosa e
intelligente. Una persona che non prova paura di fronte alla minaccia di un pericolo è come un
grattacielo incapace di “offrirsi” al vento. Una mente che non si scioglierà – con il dolore o
l’amore – è una mente che – fin troppo facilmente – finirà per spezzarsi.
La ragione per cui sto parlando di sentimento piuttosto che di azione è che sto considerando
la difficile situazione di un uomo posto di fronte a eventi rispetto ai quali è del tutto impotente –
eventi rispetto ai quali la nostra sola risposta è una risposta di sentimento. Sto pensando alla
certezza definitiva della morte, all’impotenza generale dell’uomo entro la vasta marea della vita,
e infine a quei sentimenti molto speciali che sorgono quando ci troviamo davanti a un conflitto
emotivo che non può essere risolto. Tutte queste situazioni evocano sentimenti che, a lungo
andare, sono tanto irresistibili quanto sono insolubili le situazioni da cui derivano. Sono i
sentimenti definitivi – e gran parte di ciò che è chiamato filosofia è l’inutile tentativo di trarsene
d’impaccio.
Così, ciò che ho chiamato la morte dell’ego, accade nel momento stesso in cui si scopre e si
ammette che tali sentimenti definitivi sono irresistibili. Essi sono definitivi in due sensi; primo,
che a volte hanno a che fare con eventi fondamentali e catastrofici, e secondo, che essi sono a
volte i nostri sentimenti più profondi e radicali rispetto a una data situazione – come la basilare
frustrazione provata da un conflitto tra dolore e vergogna. Il punto è che questi sentimenti sono
saggi come tutti gli altri, e la loro saggezza emerge solo quando smettiamo di resistergli –
quando realizziamo di essere semplicemente incapaci di farlo. Quando, ad esempio, la vita ci
costringe finalmente a cedere – a cedere al gioco completo di ciò che è ordinariamente chiamato
il terrore dell’ignoto, il sentimento soppresso esplode improvvisamente verso l’alto, come una
fonte della gioia più pura. Quel che prima era sentito come l’orrore per la nostra inevitabile
mortalità si trasforma per un’alchimia interiore in un senso quasi estatico di libertà dai vincoli
dell’individualità. Ma di solito non scopriamo la saggezza dei nostri sentimenti perché non li
lasciamo finire l’opera; proviamo a sopprimerli o li releghiamo a un’azione prematura, senza
renderci conto che sono un processo di creazione che, come la nascita, inizia come dolore e poi
si trasforma in un bambino.
Spero che sia possibile dire tutto questo senza legarlo all’atmosfera del “dover essere”, senza
dare ad alcuno la nozione che questo tipo di dedizione sia qualcosa che uno dovrebbe o potrebbe
fare. Questo approccio volontaristico e moralistico alla trasformazione di un uomo ostruisce
sempre – poiché implica ancora quella stessa illusione di controllo e dominio che sbarra la
strada. Ma è proprio quando scopro di non poter arrendermi che sono arreso; proprio quando
scopro di non poter accettare me stesso che sono accettato. Poiché nel raggiungere questa ardua
roccia dell’impossibile si raggiunge la sincerità, dove non può più esserci il velato nascondino
dell’Io e del Me, del “buon Io” che prova a cambiare il “cattivo Me”, che altro non è che lo
stesso “buon Io”. Nell’immaginario espressivo Zen, tutto questo sforzo per l’abbandono dell’io è
descritto come un cercare di mettere le gambe a un serpente – o, potrei dire, come un uomo nudo
che cerca di strapparsi i vestiti di dosso. Per citare quel geniale taoista, Chuang-tzu: dal punto di
vista del saggio, «congiunto non è unito, né il separato è a parte, né il lungo in eccesso, né il
corto carente. Poiché proprio come le zampe dell’anatra, benché corte, non possono essere
allungate senza che l’anatra soffra; e come le lunghe zampe della gru non possono essere
accorciate senza che la gru patisca. Perciò non si toglie a quello che per natura è lungo, né si
aggiunge a quel che per natura è corto – così quel che è lungo nella natura morale dell’uomo non
può essere tagliato via, né ciò che è corto può essere allungato».
DIVENTA CIÒ CHE SEI

È detto che la massima saggezza consiste nel distacco, o per usare le parole di Chuang-tzu:
«L’uomo perfetto impiega la sua mente come uno specchio: non afferra nulla; non rifiuta nulla;
riceve, ma non trattiene». Distacco significa non avere rimpianti per il passato né timori per il
futuro, lasciare che la vita faccia il suo corso, senza interferire con i suoi movimenti e
cambiamenti, non provare a prolungare la permanenza delle cose piacevoli né affrettare la
dipartita delle cose spiacevoli. Fare ciò è muoversi nel tempo con la vita, essere in perfetto
accordo con la sua musica mutante. Tutto questo viene chiamato Illuminazione. In breve, è
l’essere indipendenti sia dal passato che dal futuro; è il vivere nell’eterno Ora. Poiché in verità né
il passato né il futuro hanno alcuna esistenza al di là di questo Ora: di per sé sono mere illusioni.
La vita esiste solo in questo momento, e in questo momento è infinita ed eterna. Poiché il
momento presente è infinitamente piccolo; prima di riuscire a misurarlo, se ne è già andato –
eppure persiste per sempre. I cinesi hanno chiamato questo movimento e cambiamento Tao,
eppure in realtà non c’è movimento, poiché l'attimo è la sola realtà e non vi è nulla accanto ad
esso in relazione del quale si possa dire che si muova. Così può essere chiamato al contempo sia
l’eternamente in movimento che l’eternamente in riposo.
Come possiamo accordarci con questo Tao? Un saggio ha detto che se si cerca di accordarsi
ad esso, si finisce per allontanarsene. Ma non aveva del tutto ragione. Poiché la cosa curiosa è
che non si può uscire dall’accordo con esso neppure se lo si vuole; anche se i tuoi pensieri
fuggono nel passato o nel futuro, essi non possono sfuggire al momento presente. Per quanto
distanti in avanti o indietro essi provino ad andare, non possono mai essere separati dal
momento, poiché questi pensieri sono essi stessi parte del momento; proprio come tutto il resto,
essi ne prendono parte, e anzi, sono il movimento della vita, che è Tao. Si può credersi in
disarmonia con la vita e il suo eterno Ora; ma non si può esserlo, perché tu sei la vita ed esisti
Ora – altrimenti non saresti qui. Da qui l’infinito Tao è qualcosa da cui non si può né sottrarsi
con la fuga né afferrare con la presa; non c’è arrivo, né dipartita da esso – esso è, e tu sei esso.
Allora, diventa ciò che sei.
IL DITO E LA LUNA

C’è un antico detto cristiano – Crux medicina mundi – la croce, medicina del mondo – un
detto piuttosto significativo poiché ci suggerisce che la religione sia una medicina piuttosto che
una dieta. La differenza, di certo, è che un farmaco è un qualcosa da prendere occasionalmente –
come la penicillina – mentre una dieta rappresenta il nostro regolare nutrimento. Forse questa
analogia non può essere spinta troppo oltre, poiché esistono medicine, come l’insulina, che
alcune persone sono costrette a prendere per tutta la vita. Ma c’è un punto nell’analogia – un
punto espresso in un altro detto latino, affatto cristiano, poiché il suo autore era Lucrezio:
Tantum religio potuit suadere malorum (Troppa religione può incoraggiare il male). Non sto
pensando tanto allo sfruttamento del povero da parte di un clero corrotto, o all’ovvio male di un
eccessivo zelo e del fanatismo. Sto pensando piuttosto alla vecchia metafora buddhista che
rappresenta la dottrina come una zattera con la quale attraversare il fiume: quando si raggiunge la
sponda opposta non ci si carica la zattera sulla schiena, ma la si lascia indietro, sulla sponda del
fiume.
C’è qualcosa qui che non si applica solo a quella manciata di uomini di cui si possa dire che
abbiano raggiunto l’altra sponda del fiume, ma anche a molti di noi. Per ampliare un po’ la
metafora: se si sta per attraversare il fiume, è necessario fare in fretta, perché se ci gingilliamo
troppo sulla zattera la corrente finirà per trascinarci a valle, e oltre, fino all’oceano – e allora
resteremo bloccati per sempre sulla zattera.
Ed è così facile restare bloccati – sulla zattera, sulla religione, sulla psicoterapia, sulla
filosofia. Per usare un’altra similitudine buddhista: la dottrina è come un dito che indica la luna,
e bisogna fare attenzione a non confondere il dito per la luna. Troppi di noi, temo, si fissano sul
dito che punta alla luna per comodità, invece di guardare davvero dove il dito sta puntando.
Ora, a me pare che ciò a cui il dito della religione punti sia qualcosa di non del tutto
religioso. La religione, con tutto il suo apparato di idee e pratiche, è nel complesso un puntare –
ma non punta a se stessa. Né punta a Dio, poiché la nozione di Dio è parte integrante della
religione. Potrei dire che ciò a cui la religione punta sia la realtà, se non che questo sarebbe un
sostituire una nozione filosofica a un concetto religioso. E mi vengono in mente dozzine di altri
sostituti per Dio o realtà. Potrei dire che essa punta al proprio vero io, all’eterno Ora, al mondo
non verbale, all’infinito e ineffabile – ma in realtà niente di tutto ciò è veramente d’aiuto. È solo
un mettere un dito al posto di un altro. Quando Joshu chiese al suo maestro Nansen: «Che cos’è
il Tao, La Via?». Nansen rispose: «La tua mente di tutti i giorni è il Tao».
Ma neppure questo ci aiuta, poiché non appena cerco di capire che cosa s’intende con «la mia
mente di tutti i giorni», e quindi provo ad afferrarne il senso, mi trovo di nuovo bloccato su un
altro dito. Ma perché sorge questa difficoltà? Se qualcuno punta effettivamente il dito verso la
luna, io non ho alcuna difficoltà a girarmi e osservare la luna. Ma la cosa a cui queste dita
religiose e filosofiche stanno puntando sembra essere invisibile, così che quando mi volto per
guardare non trovo nulla, e sono costretto a tornare a guardare di nuovo il dito per capire se abbia
ben inteso la direzione verso cui sta puntando. E infatti, più e più volte mi rendo conto di non
aver fatto errori riguardo la direzione – ma, nonostante tutto, io semplicemente non riesco a
cogliere quello che il dito sta indicando.
Tutto questo è altrettanto frustrante per la persona che sta puntando il dito, poiché vuole
mostrarmi qualcosa che per lui è così ovvia da pensare che qualsiasi sciocco sia in grado di
vederla. Egli deve sentirsi come tutti noi ci sentiamo quando si prova a spiegare a un bambino
tonto che due volte zero è sempre zero, e non due, o qualche altro piccolo fatto perfettamente
logico. E c’è qualcosa di ancor più esasperante. Sono certo che molti di voi, forse per un
momento fugace, possono aver avuto un chiaro barlume di ciò a cui il dito stava puntando – un
barlume in cui avete condiviso lo stupore di chi punta e che non avevate mai visto prima, in cui
avete visto tutto quel che c’era da vedere così chiaramente da sapere che non l’avreste mai più
dimenticato… e poi l’avete perso. In seguito, può subentrare una struggente nostalgia che va
avanti per anni. Su come ritrovare la via del ritorno, per tornare a quella porta nel muro che non
sembra più essere lì, per tornare alla svolta che conduce in paradiso – che non era sulla mappa
eppure avete visto, chiaramente, proprio lì. Ma ora non c’è più niente. È come cercare di
rintracciare qualcuno di cui ci si è innamorati a prima vista, e di cui avete perso i contatti; e
tornate indietro nel primo luogo dove vi siete incontrati, e ancora e ancora, cercando invano di
riallacciare quel filo interrotto.
Se posso dirlo in un modo che è tremendamente goffo e inadeguato, quel barlume fugace è la
percezione che improvvisamente – un momento del tutto ordinario della vostra vita ordinaria,
vissuta dal vostro ordinario io, così com’è e così come siete – che questo immediato qui-e-ora è
perfetto e auto-sufficiente al di là di ogni possibile descrizione. Sapete che non c’è niente da
desiderare o da cercare – che nessuna tecnica, nessun apparato spirituale, nessun credo o
disciplina è necessario, nessun sistema filosofico o religione. L’obiettivo è qui. È questa
esperienza presente, così come essa è. Questo, ovviamente, è cio a cui il dito stava puntando. Ma
il momento dopo, mentre guardate di nuovo, l’istante che state vivendo è ordinario – come
sempre – anche se il dito sta puntando ancora lì, proprio ad esso.
Tuttavia questa qualità fastidiosamente elusiva della visione a cui il dito punta ha una
spiegazione estremamente semplice, una spiegazione che ha a che fare con ciò che ho detto
all’inizio sullo sbarazzarsi della zattera una volta attraversato il fiume, sul prendere la religione
come medicina e non come dieta. Allo scopo di comprendere questo punto, si deve intendere la
zattera come ciò che rappresenta le idee o le parole o altri simboli in cui una religione o una
filosofia si esprimono, e per mezzo dei quali puntano alla luna della realtà. Non appena si è
compreso le parole nel loro senso chiaro e lineare, avete già usato la zattera. Avete raggiunto la
sponda opposta del fiume. Tutto ciò che resta è fare quello che le parole non dicono – lasciare la
zattera e andare a piedi, sulla terraferma. E per farlo, è necessario lasciare la zattera. In altre
parole, non si può, a questo punto, pensare alla religione e praticarla allo stesso tempo. Per
vedere la luna si deve dimenticare il dito che punta – e osservare semplicemente la luna.
Questo è il motivo per cui tutte le grandi filosofie asiatiche iniziano con la pratica della
concentrazione, ossia, del guardare con attenzione, del contemplare. È come se ci dicessero: «Se
vuoi sapere cos’è la realtà, devi guardare direttamente ad essa e vedere di persona. Ma questo ha
bisogno di un certo tipo di concentrazione, perché la realtà non è simboli, non è parole e pensieri,
non è riflessioni e fantasie. Dunque, se vuoi vederla chiaramente, la tua mente deve essere libera
dalle parole erranti e dalle fluttuanti fantasticherie della memoria». Al che saremo probabilmente
inclini a replicare: «Va bene, ma questo è più facile a dirsi che a farsi». Sembra esserci sempre
un problema quando si vuole tradurre le parole in azioni, e questo problema sembra
particolarmente acuto quando si arriva alla cosidetta “vita spirituale”. Di fronte a questo
problema, ci arrestiamo e iniziamo a indaffararci con un sacco di discussioni riguardo metodi,
tecniche e altri sostegni della contemplazione. Ma dovrebbe essere abbastanza semplice capire
che tutto ciò non è altro che procrastinazione e rinvio. Non si può, allo stesso tempo, concentrarsi
e pensare alla concentrazione. Sembra quasi sciocco da dire, ma il solo modo per concentrarsi è
concentrarsi. Nel farlo davvero, l’idea di farlo scompare – ed è come dire che la religione
scompare quando diviene reale ed efficace.
Ora, una gran quantità di chiacchiere sulla difficoltà dell’azione, o difficoltà della
concentrazione, è pura sciocchezza. Se siamo seduti insieme al tavolo, a pranzo, e ti dico: «Per
favore, passami il sale», tu lo fai e basta, e non c’è alcuna difficoltà a riguardo. Non ti fermi a
considerare il giusto metodo per farlo. Non ti prendi la briga di riflettere sul come e sul quando:
appena hai afferrato la saliera sei in grado di concentrarti su di essa abbastanza a lungo per
passarmela in fondo al tavolo. E non c’è assolutamente alcuna differenza tra questo e il
concentrare l’attenzione della mente per scorgere nella natura della realtà. Se puoi concentrare la
mente per due secondi, puoi farlo per due minuti e se puoi farlo per due minuti, puoi farlo per
due ore. Di certo, se si vuol fare questo genere di cosa terribilmente difficile, si inizia a pensare
di cronometrarsi. Invece di concentrarti, inizi a pensare se ti stai concentrando, da quanto tempo
lo stai facendo e per quanto a lungo puoi tenere il passo. Ma è tutto completamente inutile.
Concentrati per un secondo. Se alla fine di quel secondo la tua mente si è allontanata, concentrati
per un altro secondo, e poi un altro. Non si deve mai concentrarsi per più di un secondo – questo
secondo. Questo è il motivo per cui è letteralmente irrilevante voler competere con se stessi,
preoccuparsi dei propri progressi e del successo nella tecnica. È semplicemente la vecchia storia
di fare un passo alla volta per rendere facile un lavoro difficile.
C’è forse un’altra difficoltà – ossia, che nello stato di concentrazione, di contemplazione
chiara e incrollabile, ci si trova privati dell’io, della consapevolezza di sé. Questo accade perché
il cosiddetto io è un costrutto di parole, memorie e fantasie che non hanno esistenza nella realtà
immediata. Il blocco o l’arresto che molti di noi sentono tra parole e azione, tra simbolo e realtà,
è davvero un caso di botte piena e moglie ubriaca. Noi vogliamo intrattenere noi stessi, e
temiamo che se ci dimentichiamo di noi stessi non ci sarà divertimento – uno spettacolo senza
nessuno presente da essere intrattenuto. Perché la coscienza di sé è una costante inibizione
all’azione creativa, una sorta di autofrustrazione cronica, e le civiltà che soffrono di un’overdose
di essa diventano folli, inventano bombe atomiche e si fanno saltare in aria. La coscienza di sé è
un blocco: è come interrompere una canzone dopo ogni nota in modo da ascoltarne l’eco, e poi
sentirsi irritati perché si è perso il ritmo.
Tutto questo è davvero il caso del nostro proverbio: «Se fissi una pentola sul fuoco, l’acqua
non bolle mai». Poiché se si tenta di guardare la propria mente concentrarsi, non si concentrerà.
E se quando è concentrata iniziate ad aspettarvi l’arrivo di una certa comprensione della realtà,
avete smesso di concentrarvi. La reale concentrazione è uno stato piuttosto curioso e
apparentemente paradossale, poiché è allo stesso tempo il massimo della consapevolezza e il
minimo del sentimento dell’ego, il quale in parte smentisce quei sistemi di psicologia occidentale
che identificano il principio cosciente con l’ego. Analogamente, è il massimo dell’attività
mentale – o dell’efficienza – e il minimo dell’intenzionalità mentale, dal momento che non si
può simultaneamente concentrarsi e attendersi un risultato dalla concentrazione.
Il solo modo per entrare in questo stato è farlo precipitosamente – senza esitazione o indugio
– farlo e basta. È per questo che io di solito evito le discussioni su tutti i vari tipi di tecniche di
meditazione asiatiche, come lo Yoga. Sono incline a pensare che per molti occidentali questi non
siano aiuti, ma ostacoli alla concentrazione. Per noi non è spontaneo né naturale assumere la
posizione del loto e passare attraverso tutti i tipi di ginnastica spirituale. Così tanti occidentali
che fanno questo genere di cose sono a disagio a riguardo, così preoccupati dall’idea di farlo
bene che non lo fanno affatto. Per la stessa ragione, sono piuttosto diffidente sul troppo Zen –
specialmente quando significa importare dal Giappone tutto l’apparato puramente accidentale
dello Zen, tutte le formalità strettamente tecniche e tutte le infinite e inutili discussioni su chi ha
o non ha raggiunto il satori, o su quanti kōan uno ha risolto, o su quante ore al giorno uno si
siede in zazen, o in meditazione.
Questo genere di cose non è Zen o Yoga, ma moda e mera religiosità, e in tali atteggiamenti è
all’opera proprio la consapevolezza di sé: l’ostentazione piuttosto che la spontaneità e la
naturalezza. Se, tuttavia, si può davvero fare la cosa in sé – ossia, se si può imparare a svegliarsi
e concentrarsi senza esitazione o indugio – si possono prendere o lasciare tutti gli orpelli, come
più si desidera. Poiché la paura dell’esotismo non dovrebbe impedirci di godere a pieno dei bei
doni che la cultura asiatica ha da offrirci – pittura cinese, architettura giapponese, filosofia
indiana e tutto il resto. Ma il punto è che non possiamo entrare davvero nello spirito di queste
cose a meno che, in primo luogo, non si sia in grado di acquisire il particolare tipo di rilassata
concentrazione e lucidità che è essenziale per il loro corretto apprezzamento.
Di per sé, esse non ci daranno quella capacità – che è qualcosa di innato. Se si deve importare
dall’Asia, non ne ricaveremo nulla. Pertanto, la cosa importante è semplicemente iniziare –
dovunque, in qualsiasi posto vi troviate. Se vi capita di essere seduti, sedete e basta. Se state
fumando una pipa, fumate e basta. Se state pensando a un problema, pensate e basta. Ma non
pensate e riflettete inutilmente, compulsivamente, per pura forza d’abitudine nervosa. Nello Zen
ciò viene chiamato «avere una mente che perde» – come una vecchia botte con le saldature
aperte non riesce a contenere ciò che tiene al suo interno. Bene, penso che per ora ci sia
abbastanza medicina. Allora cerchiamo di metterla da parte, e usciamo a guardare la luna.
IMPORTANZA

Il buddhismo viene spesso accusato di essere una religione così immersa nell’impersonale e
nell’eterno da trascurare l’importanza delle cose individuali e temporali. Secondo il suo
insegnamento, tutte le cose che hanno forma sono soggette a cambiamento e prive di qualsiasi
durevole “sé”, ma ciò non implica che tali cose non siano importanti. L’importanza non è
misurata dal tempo, e il cambiamento è un sintomo della presenza della vita. Una poesia
giapponese recita:

La campanula fiorisce per un’ora


Eppure in fondo non differisce
Dal pino gigante che vive mille anni.

Se posto di fianco all’immensità del Tempo e dello Spazio, l’uomo sembra un essere della
più assoluta insignificanza. In confronto ai problemi immensamente complessi del mondo
moderno, le inferiori speranze e paure dell’uomo sembrano prive di qualunque valore. Ma il
buddhismo è la Via di Mezzo, e deve necessariamente considerare una tale attitudine estrema
come una falsa filosofia. È bene che chi è troppo occupato dai propri affari prenda in
considerazione l’immensità dell’universo e il destino della razza umana. Ma non lasciate che ci
rifletta troppo a lungo, affinché non dimentichi che la responsabilità per l’ordine dell’universo –
e non solo per la prosperità umana – è la sua. Mentre l’astronomia moderna ci racconta della
nostra insignificanza sotto le stelle, essa ci dice pure che se riusciamo a elevarci anche solo di un
dito, riusciamo a influenzarle. È vero che siamo esseri effimeri – privi di un costante sé –, ma il
tessuto della vita è tale che un solo filo spezzato può provocare rovine incommensurabili. La
vastità del mondo al cui destino siamo legati aumenta, e non diminuisce, la nostra importanza.
Sembra che la natura abbia ben poco riguardo per le persone; può lasciarle morire a milioni,
come se non contassero nulla. Ma il valore si esprime in qualità, non in quantità. Un pisello può
essere rotondo come il mondo, ma per quanto concerne la rotondità, nessuno dei due è migliore
dell’altro. Un uomo è in sé un piccolo universo; l’ordinamento della sua mente e del suo corpo è
tanto complesso quanto l’ordinamento delle stelle. Possiamo dire, allora, che il governo
dell’universo di un uomo sia meno importante solo perché di dimensioni differenti?
TAO E WU-WEI

L’essenza della filosofia di Lao-tzu è la difficile arte di smetterla di ostacolarsi – di imparare


ad agire senza forzare le conclusioni, di vivere in armonia con i processi della natura invece di
provare a vessarli. In questo senso il taoismo di Lao-tzu è l’equivalente filosofico del jujitsu, o
judo, che significa Via della Cedevolezza. La sua base è il principio del Tao, che può essere
tradotto come Via della Natura. Ma nel linguaggio cinese la parola che rendiamo come Natura ha
un significato particolare che nella nostra lingua non ha equivalente. Tradotta letteralmente essa
significa “da se stessa”. Poiché per i cinesi la natura è ciò che funziona e si muove da sé, senza
dover essere spinta, sollecitata o controllata da uno sforzo cosciente. Il tuo cuore batte “da se
stesso”, e se gli daresti mezza possibilità anche la tua mente potrebbe funzionare “da se stessa” –
sebbene molti di noi abbiano troppa paura di se stessi per tentare l’esperimento.
Oltre a ciò, Lao-tzu non ha in realtà detto molto di più riguardo al significato del Tao. Egli
era troppo saggio per tentare di definire la Via della Natura, la via del Divenire da sé, o se si
preferisce, il processo stesso della vita. Poiché cercare di dire qualsiasi cosa di definitivo sul Tao
è come provare a mangiare la propria bocca: non si può uscire da essa e morderla. Per dirla al
contrario: qualsiasi cosa tu possa mordere non è la tua bocca. Così, pure, tutto quello che puoi
definire o immaginare, qualsiasi cosa puoi capire o desiderare, non è Tao. Non si può conoscerlo,
né sentire o percepire, per la semplice ragione che esso è l’intera sostanza del sapere, sentire e
percepire, di vivente ed esistente. È troppo vicino per essere visto e troppo ovvio per essere
notato o capito. Se posso dire qualcosa che suona assolutamente ridicolo, è più noi di quanto lo
siamo noi stessi – più te di te, più io di me. Per usare un’altra metafora, esso è il te che sviluppa
il tuo sistema nervoso piuttosto che il te che usa i nervi per decidere, pensare e agire. Questo per
il momento può bastare, anche se non è del tutto esatto. Se tento di renderlo più chiaro, diventerà
ancora più complicato.
Ora, io credo che quasi tutti gli esseri umani facciano qualche sorta di distinzione tra il sé che
vuole e agisce e il sé subconscio che dirige i nostri cuori, ghiandole e nervi. Parole come
autocontrollo e autocoscienza suggeriscono questa divisione in due parti del nostro essere,
conoscitore e conosciuto, pensatore e pensieri. Nella misura in cui sentiamo questa divisione,
stiamo sempre provando a controllare, capire e dominare il nostro sé subconscio con il nostro sé
cosciente e intenzionale. Ma nella filosofia di Lao-tzu questo è letteralmente un essere del tutto
in confusione – essere nella condizione disperata e assolutamente frustrante di
autostrangolamento di chi inciampa nei propri piedi e ne è perpetuamente intralciato – che di
certo non è il Tao, la Via della Natura. Questo perché il nostro principale problema nella vita è
rappresentato da noi stessi – perché siamo così tormentati dall’ansia dell’autoconservazione e
dall’autocontrollo, perché siamo così confusi da dover imporci leggi per regolare il nostro
comportamento, impiegare polizia per tenerci in ordine ed equipaggiare eserciti con esplosivi per
evitare di farci saltare in aria. Nella sfera più intima della vita personale, il problema è il dolore
del cercare di evitare la sofferenza e la paura di provare a non avere paura.
Ovviamente, chiunque realizzi l’enormità e l’assurdità di questa difficile situazione desidera
uscirne, vuole togliersi dal caos e tornare alla distaccata sanità del Tao. Ma questo è molto più
facile a farsi che a dirsi, che in effetti è molto difficile. Poiché, secondo Lao-tzu, la via del
tornare – o dell’andare – verso l’armonia con il Tao è, nel senso più profondo e radicale, un non
fare niente di niente. Avevo detto che era molto più facile a farsi che a dirsi, perché nel momento
in cui iniziamo a parlare o pensare ad esso, diventa immensamente difficile da comprendere, da
chiarire dagli innumerevoli fraintendimenti. Nel linguaggio cinese questo speciale tipo di non far
niente è chiamato wu-wei – letteralmente, “non agire” o “non forzare”.
Quando Lao-tzu disse che wu-wei, non agire, era il segreto dell’armonia con il Tao, diceva
sul serio. Ma ciò che intendeva deve essere distinto molto attentamente da altri due percorsi che
sembrano assai diversi fra loro, sebbene in realtà siano lo stesso. Il primo percorso, che chiamerò
la via della deliberata imitazione, suppone che in realtà noi sappiamo quale sia il modo sano e
naturale di vivere, sappiamo incarnarlo in leggi e princìpi, in tecniche e ideali, e dunque
dobbiamo provare a seguirlo con un deliberato sforzo di imitazione. Ciò conduce a tutte quelle
contraddizioni che ci sono tanto familiari, ossia la contraddizione dell’uomo che rimprovera se
stesso di non fare ciò che dice a se stesso di fare.
Chiamerò il secondo percorso, apparentemente opposto, la via del deliberato rilassamento, la
via del “al diavolo tutto”. Questo implica il non provare a controllare se stessi, il tentare di
rilassare la mente e lasciarla pensare qualsiasi cosa voglia, prefiggersi di accettare il proprio sé
così com’è senza fare alcuno sforzo per cambiarlo. Questo conduce a un subbuglio disordinato,
sciatto e vasto, a una specie di immobilità compulsiva, o a volte a un altrettanto compulsiva
logorrea psicologica.
Entrambe le vie sono ben al di sotto del reale wu-wei, del profondo e radicale non-agire. Ciò
che le porta alla stessa conclusione, in modi diversi, è che queste due vie hanno entrambe un
risultato in mente. Esse implicano allo stesso modo un qualcosa da fare – o da non fare – per
raggiungere un obiettivo. L’obiettivo in questione era una qualche sorta di immagine, una
qualche rappresentazione o un vago sentire di un ideale, di uno stato di accordo con il Tao, di
armonia con la Via della Natura.
Ma è proprio in relazione a tali nozioni e ideali che Lao-tzu disse: «Sbarazzatevi della
conoscenza; espellete la saggezza, e le persone ne saranno beneficiate cento volte». Egli si
riferiva alla presunta conoscenza di quale sia l’ideale modo di vivere. Come ho detto al principio,
semplicemente non c’è modo di sapere cosa sia il Tao. Se non possiamo definirlo, certamente
non possiamo definire cosa sia l’essere in armonia con il Tao. Semplicemente, non abbiamo idea
di quale debba essere l’obiettivo.
Se dunque agiamo, o ci asteniamo dal farlo, con un risultato in mente – questo risultato non è
il Tao. Noi possiamo dire, allora, che wu-wei è il non tentare di trovare un risultato. Di certo,
questo non significa che un taoista arriva alla tavola senza aspettarsi di cenare, o che entra in un
bus senza aspettarsi di andare da qualche parte in particolare. Sto parlando di risultati nella sfera
morale e spirituale – cose come la bontà, la pace e la sanità mentale, la felicità, la personalità, il
coraggio e così via.
Ebbene, è possibile smetterla di cercare simili risultati? Non vi è dubbio che questa stessa
domanda implichi che io abbia ancora un risultato in mente, anche se questo è lo stato di non
cercare risultati. Sembra dunque che io sia impotente, che senza un qualche risultato in mente sia
semplicemente incapace di pensare o agire. Non fa differenza che io lo faccia o meno: io sono
ancora, compulsivamente, impotente, alla ricerca di un risultato. Così mi ritrovo in una trappola
teleologica. Io necessito di uno scopo. Potrei quasi dire, io sono lo scopo.
Ora, questa è una scoperta immensamente importante. Poiché significa aver scoperto che
cosa io sia – cosa il mio ego in realtà è: un meccanismo che ricerca risultati. Tale meccanismo è
un gadget piuttosto utile quando i risultati in questione sono cose come il cibo o un riparo per il
corpo. Ma quando i risultati che il meccanismo cerca non sono oggetti esterni ma stati del sé,
come la felicità, il meccanismo si ritrova completamente inceppato. Cerca di sollevarsi coi propri
mezzi. Agisce risolutamente, al meglio che può, ma inutilmente. Sta cercando risultati in termini
di sé. Vuole ottenere risultati dal processo di cercare risultati. Questo è un feedback del
meccanismo irrimediabilmente e selvaggiamente caotico. Tuttavia esiste questa sola possibilità.
Esso può rendersi conto dell’intero circuito della trappola in cui si trova. Può vedere l’intera
futilità e l’autocontraddizione della sua posizione. E può vedere che non può fare niente per
trarsene fuori. E questo rendersi conto che «Io non posso fare nulla» è precisamente wu-wei. E si
è misteriosamente riusciti nel fare nulla.
In questo momento avviene un cambiamento improvviso nel centro di gravità di tutta la
propria personalità. Semplicemente, ci si trova fuori dalla trappola, fuori dal meccanismo cerca-
risultati, il quale ci appare adesso come una sorta di oggetto che ha obiettivi senza alcun
obiettivo. Si scorge se stessi come una creatura in cerca di scopi, ma si realizza che non esiste
scopo per l’esistenza di una tale creatura. In relazione al tutto e a parte la propria conservazione,
si è meravigliosamente inutili. Il nostro scopo è di preservare e perpetuare noi stessi, ma nel più
vasto contesto dell’universo non c’è alcuna ragione, nessun fine, per questo scopo.
In precedenza, questo vi avrebbe depressi. Adesso non vi preoccupa affatto. Poiché come
detto il centro di gravità si è spostato, e non scorgete più la vostra identità con questo assurdo
meccanismo che ricerca scopi senza scopo. Nelle stesse parole di Lao-tzu: «L’universo è eterno.
La ragione per cui l’universo è eterno è che esso non vive per sé. Pertanto dura. Quindi il saggio
si mette dietro, e si ritrova davanti, osserva la sua persona come fuori da sé, e la sua persona è
preservata. Non è perché egli non vive per sé che egli realizza se stesso?». In altre parole, quando
il cambiamento ha avuto luogo, quando egli trova se stesso fuori di sé, al di fuori della trappola
teleologica, la trappola si snoda, il meccanismo cerca-risultati si chiarisce e non va più in cerca di
sé o di stati del sé.
Ma tutto questo è wu-wei – di cui un’altra buona traduzione potrebbe essere “nessun-modo”,
in quanto distinta da “in qualche modo”. Non c’è modo, alcun metodo, nessuna tecnica che tu o
io possiamo usare per giungere in accordo con il Tao, la Via della Natura, perché ogni “come”,
ogni metodo, implica un fine, un obiettivo. E non possiamo fare del Tao un fine, non più di
quanto possiamo puntare una freccia verso se stessa. Una volta entrati nell’ingarbugliato stato
della freccia che sta provando a colpire se stessa, del sé che tenta di mutare se stesso, non
possiamo fare nulla per fermarlo. Finché pensiamo o sentiamo che forse potremo fermarlo, che
esiste un qualche modo, violento o sottile, difficile o facile, per renderci distaccati, la
contraddizione continuerà o peggiorerà. Dobbiamo vedere che non c’è modo. Ma nello stato in
cui abbiamo realizzato che non c’è alcun modo da trovare, nessun risultato da guadagnare, il
circolo vizioso si spezza. L’Uroboro, il serpente che divora la sua coda, è divenuto pienamente
consapevole, e alla fine sa che la coda è solo l’altra estremità della sua testa.
Ci ritroviamo in questi circoli a causa dell’ignoranza, dell’incoscienza circa la natura della
nostra mente, dei nostri processi intellettuali, di noi stessi. E l’antidoto all’ignoranza non è
l’azione, ma la conoscenza – non cosa facciamo, ma cosa sappiamo. Di nuovo, la conoscenza
necessaria non sembra, in superficie, essere nulla di molto promettente o piena di speranza.
Poiché l’unica conoscenza di cui si possa parlare in questa sfera è conoscenza negativa –
conoscenza della trappola, della nostra impotente prigionia nella ricerca dell’inutile. Conoscenza
positiva – del Tao, di Dio, dell’eterna realtà – è una questione di esperienza momentanea e
immediata. Non può mai esser tradotta in parole, e ogni tentativo di farlo la converte solo in un
altro aspetto della trappola.
Mi rendo conto che non è bello sentirsi dire di essere in una trappola, e che non c’è niente
che possiamo fare per tirarsene fuori; ancor meno ci piace capirlo attraverso una vivida
esperienza. Ma non c’è altra via di liberazione. Un proverbio dice che l’estremità dell’uomo è
un’opportunità di Dio. Non possiamo trovare l’uscita finché non abbiamo conosciuto la reale
estremità della nostra situazione, e vedere che tutta la lotta per gl’ideali spirituali è
completamente inutile – dal momento che è la stessa ricerca a sospingerli lontano. Ma perché
dovrebbe sorprenderci? Non è stato detto più e più volte che dobbiamo morire per tornare alla
vita, che il paradiso è sempre sull’altro lato della valle dell’ombra della morte – la valle di cui la
morte fisica è meramente un simbolo – dove il corpo inerme, legato mani e piedi nel suo sudario,
è solo una figura della morte in cui noi viviamo fin quando la confondiamo per vita?… Da dove
andiamo da qui? Non andiamo. Noi siamo arrivati a una fine. Ma questa è la fine della notte.
LEGGEREZZA DEL TOCCO

Una volta Chesterton disse che gli angeli, poiché si prendono così alla leggera, possono
volare. In giro si vedono così tante facce offuscate da una serietà che, se nascesse dal dolore,
sarebbe comprensibile. Ma il tipo di serietà che trascina l’uomo a terra e uccide la vita dello
spirito non è figlia del dolore, ma è una sorta di recita in cui l’attore è ingannato nell’identificarsi
col suo ruolo. C’è gravità anche nel gioco dei bambini, ma questa è ben diversa, poiché il
bambino è consapevole del fatto di star solo giocando e la serietà non è che una forma indiretta
di divertimento. Ma nell’adulto questa serietà diventa un vizio, perché fa di questo gioco una
religione, così da identificare se stesso con la sua parte o il suo ruolo nella vita che egli teme di
perdere. Questo è particolarmente vero quando l’uomo non illuminato raggiunge un qualsiasi
livello di responsabilità; egli sviluppa una pesantezza nel tocco, una mancanza di abbandono,
una rigidità che indica come egli stia usando la sua dignità come dei trampoli per tenere la sua
testa al di sopra delle avversità. Il suo problema è che invece di recitare la sua parte, è la sua
parte a recitare se stesso, e lo rende uno zimbello agli occhi di tutti coloro che riescono a vedere
attraverso la maschera. Il messaggio della saggezza orientale è che le forme della vita sono maya
e pertanto profondamente carenti in serietà dal punto di vista della realtà. Poiché il mondo della
forma e dell’illusione che la maggioranza considera essere il mondo reale, non è altro che il
gioco dello spirito, o come l’hanno chiamato gli Hindu, la Danza di Shiva. È illuminato chi si
unisce in questo gioco sapendo che è solo un gioco; l’uomo soffre solo perché prende troppo sul
serio ciò che gli dèi hanno fatto per diletto. Così l’uomo diventa uomo solo quando perde il senso
di leggerezza degli dèi. Giacché gli dèi (o Buddha, o quello che preferite) sono semplicemente la
nostra più intima essenza, e questa potrebbe frantumare l’universo in un nulla e in un solo
momento, se solo volesse. Ma così non è, ed essa mantiene i mondi in movimento per lo scopo
divino del gioco, perché, come un musicista, crea e si diletta nel modellare un ritmo e una
melodia. Giocare con esso non è dunque un dovere, ma una gioia, e colui che non vede tutto ciò
come una gioia non può farlo e neppure comprenderlo.
UCCELLI NEL CIELO

Mentre passano nel cielo, un uccello o una freccia non lasciano tracce. Nella filosofia indiana
e cinese questa metafora è spesso usata, piuttosto stranamente, per cose che non sembrano
somigliarsi affatto l’una con l’altra. Il volo rapido e senza tracce della freccia è usato come
immagine dell’impermanenza, del passaggio della vita umana attraverso il tempo,
dell’inevitabile verità per cui ogni cosa deve infine dissolversi, e lo deve fare “senza lasciar
traccia”…Tuttavia, in uno dei detti del Buddha, l’invisibile traiettoria degli uccelli nel cielo viene
paragonata al modo di vita del saggio, al tipo d’uomo superbamente modesto di cui una poesia
cinese dice:

Entrando nel bosco, non disturba un filo d’erba.


Entrando in acqua, non provoca un’increspatura.

Poiché l’immagine rappresenta una serie di qualità che sono, infatti, aspetti della stessa cosa.
Essa rappresenta la libertà del saggio e il distacco della mente, una consapevolezza celeste in cui
l’esperienza si muove senza lasciare alcuna macchia. Come dice un’altra poesia:

Le ombre di bamboo spazzano le scale,


ma non alzano la polvere.

Eppure, paradossalmente, questo distacco da è anche un’armonia con, poiché l’uomo che va
nel bosco senza smuovere un filo d’erba è colui che non è in conflitto con la natura. Come gli
esploratori nativi americani, cammina senza che un solo ramoscello si spezzi sotto i suoi piedi.
Come gli architetti giapponesi, costruisce una casa che sembra essere parte integrante del suo
ambiente naturale. Quest’immagine rappresenta anche il fatto che la via del saggio non può
essere tracciata e seguita, poiché l’autentica saggezza non può essere imitata. Ciascuno deve
trovarla da sé, perché non c’è davvero alcun modo di metterla in parole o di raggiungerla grazie a
un qualsiasi metodo o a un’indicazione specifica.
Ma vi è in realtà una più intima connessione tra questi due usi – apparentemente separati –
della metafora: la via del saggio da un lato e l’impermanenza della vita dall’altro. E la
connessione rivela un più profondo e centrale principio di quelle filosofie asiatiche che hanno
confuso così tanto la mente occidentale, e che identificano la più alta saggezza con ciò che, a noi,
sembra una dottrina della più abietta disperazione. In effetti la parola disperazione è in un senso
particolare la corretta traduzione del termine buddhista nirvana – de-spirare, espirare, “rendere
l’anima”. Non riusciamo a capire come gli asiatici riescano a equiparare questa disperazione con
la beatitudine ultima – a meno che, come si è inclini a supporre, essi non siano dopo tutto un
popolo depravato e senza spina dorsale, a lungo abituato al fatalismo e alla rassegnazione.
Resto sempre stupito dal modo in cui i riflessivi occidentali – i cristiani in particolare –
sembrano quasi determinati a non capire il punto di tale connessione. Perché non è forse
l’immaginario cristiano pieno del tema della morte come dell’essenziale preludio a una vita
eterna? Non è forse scritto che Cristo stesso «rese l’anima» dopo aver gridato di esser stato
abbandonato da Dio? E non vi è, nelle scritture cristiane, una sufficiente abbondanza di paradossi
sull’«avere nulla, eppure possedere ogni cosa», sul trovare l’anima perdendola, e sul chicco di
grano che giunge a buona fine solo passando dalla sua stessa morte?
«Sì, infatti» dicono i sacerdoti, «ma il cristiano in realtà non dispera mai, non muore mai
davvero. Attraverso ogni tragedia, attraverso la morte esteriore e la disperazione, egli è
fortificato da una fede interiore e dalla speranza che “il meglio deve ancora venire”. Egli affronta
il peggio che la vita può offrire con la ferma convinzione che la realtà ultima è il Dio dell’amore
e della giustizia, nel quale è riposta la speranza di una vita “nel mondo a venire”».
Ora, io penso che noi occidentali diciamo, sentiamo e pensiamo così tanto a questa speranza
da non riuscire a cogliere la meravigliosa eloquenza del silenzio buddhista su tutta la faccenda.
Per quanto concerne parole, pensieri, idee e immagini coinvolte, le dottrine del buddhismo e
molte forme dell’induismo sono così negative e senza speranza che esse paiono essere un sorta di
glorificazione del nichilismo. Esse non si limitano a insistere sul fatto che la vita umana è
impermanente, che l’uomo non ha anima immortale e che ogni traccia della nostra esistenza è
destinata a svanire nel tempo. Esse vanno oltre, indicando come obiettivo del saggio una
liberazione da questa vita transitoria che non sembra essere affatto libera – uno stato chiamato
nirvana, che può essere tradotto come “disperazione”, e il raggiungimento di una condizione
metafisica chiamata shunyata – una vacuità così vuota da non essere né esistente né inesistente!
Poiché la non esistenza implica l’esistenza come suo correlato logico – mentre shunyata è così
vuoto da non implicare nulla di nulla.
Al di là di questo, se si può crederlo possibile, essi vanno ancora un poco oltre. Il nirvana,
che è già una negazione in sé sufficiente, viene descritto in un testo come qualcosa di non
superiore a un ceppo morto a cui legare il vostro asino, e si insiste che quando lo si raggiunge ci
si rende conto di non aver raggiunto alcunché. Forse posso provare a dirlo in modo più
intelligibile. Queste dottrine enfatizzano anzitutto il fatto, in qualche modo tristemente ovvio, che
l’uomo non ha un futuro durevole. Senza alcuna eccezione, tutto ciò che noi raggiungiamo o
creiamo, anche i memoriali che sopravvivono alla nostra morte, devono scomparire senza lasciar
traccia, e che dunque la nostra ricerca di permanenza è mera futilità. Poiché, inoltre, la felicità
esiste solo in relazione alla miseria, e il piacere in relazione al dolore, l’uomo percettivo non
cerca di separarli. La relazione è così inscindibile che, in un certo senso, la felicità è miseria, e il
piacere è dolore – poiché entrambi implicano sempre il proprio correlato. Comprendendo questo,
egli impara ad abbandonare tutto il desiderio di qualsiasi felicità separata dalla miseria, o di
qualsiasi piacere separato dal dolore.
Ma naturalmente tutto ciò è molto difficile da realizzare. Io posso, forse, comprendere
verbalmente e intellettualmente che nel desiderare piacere sto solo provando a placare la mia sete
con dell’acqua salata – poiché più ottengo piacere e più devo ottenerne. Volere piacere è
mancanza di esso. Ma ancora, io sembro incapace di liberarmi dell’abitudine emozionale di
desiderarne. Se dunque vedo che il desiderio del piacere mi scotta con la sua implicazione di
dolore, io inizio a desiderare di non desiderare, di desiderare il nirvana, di cercare di arrendermi.
Con ciò, tuttavia, io ho semplicemente convertito il nirvana in un altro nome di desiderio. È ciò
che ora mi piace, ossia ciò che ora desidero. Se io scopro che desiderio è sofferenza, e dunque
desidero di non desiderare… beh, comincio a ottenere quel genere di sentimento del “non siamo
già stati qui?”.
È per questa ragione, dunque, che il buddhismo indica il nirvana con termini che sono
negativi e vuoti, e non ricorrendo all’immaginario positivo e desiderabile che circonda la nostra
concezione di Dio. Nirvana è identificato con shunyata, il Nulla al di là del nulla, per suggerire
che è semplicemente impossibile desiderarlo. Qualuque cosa siamo in grado di desiderare è
ancora piacere che implica dolore. Nirvana, liberazione da sofferenza e dolore, è detto
irraggiungibile – e non perché non accada, ma perché non c’è alcun modo di cercarlo.
Ora, il punto dell’enfasi posta sull’impermanenza è che ogni oggetto di ricerca, di desiderio,
è alla fine inafferrabile e futile. Per essere liberi dalla futilità dobbiamo smetterla di cercare.
Cercare Dio, desiderare Dio, è semplicemente un degradarlo al livello di obiettivo futile, o nel
linguaggio cristiano, confondere il creatore con le sue creature. Allo stesso modo, desiderare il
nirvana è semplicemente fare del nirvana un altro nome per il piacere sempre elusivo. Fintanto,
dunque, che pensiamo a Dio, parliamo di Dio, cerchiamo Dio, non ci sarà alcun Dio da trovare.
Ecco, dal punto di vista della cultura occidentale – antica o moderna, cristiana o secolare,
capitalista o comunista – è questa la grande eresia. Poiché la cultura occidentale è votata al credo
che vi sia una formula per la felicità – una risposta alla domanda: «Cosa devo fare per essere
salvato?». Tutta la propaganda politica, tutta la pubblicità e gran parte di ciò che chiamiamo
educazione è basato sull’assunzione che “c’è un modo”, e che sia solo una questione di “know-
how”, di sapere come fare. (Se alcuni dettagli non sono stati ancora risolti, basta dare agli
scienziati ancora qualche mese e avremo la risposta.)
Bene – quando cresciamo? In una professione che combina filosofia, religione, psicologia ed
educazione, si incontrano così tante persone che hanno la risposta, la grande formula per la
felicità umana – se solo potessimo metterla in pratica, cosa che, per una ragione o per l’altra,
manchiamo sempre di fare. Così si suppone che colui che parla molto di filosofia e psicologia sia
uno di quelli che ha la risposta, e si ritrova a esser più o meno lanciato nel ruolo sociale di
saggio, predicatore, consigliere e guida. L’uomo che conosce il modo!
Ma non esiste modo. Nessuno conosce la Via. L’unica via che esiste è la traiettoria disegnata
da un uccello mentre attraversa il cielo – ora la vedi, ora non la vedi. Non una traccia resta nel
cielo. La vita non va da nessuna parte; non c’è nulla da raggiungere. Tutti gli sforzi e le
conquiste sono fumo che si dissolve nel pugno stretto di una mano. Noi tutti siamo persi – gettati
nel vuoto nel momento in cui nasciamo – e l’unica via è quella di cadere nell’oblio.
Tutto ciò sembra terribile. Ma sembra terribile perché è una mezza verità. L’altra metà non
può esser messa in parole. Non può essere descritta, immaginata, pensata. A parole, questa
sarebbe l’ultima parola: tutti si dissolvono nel nulla, e nessuno può farci niente.
È possibile, solo per un attimo, realizzare tutto ciò senza saltare alle conclusioni, senza
parlare di Pessimismo, Disperazione o Nichilismo? È impossibile anche ammettere che tutte le
nostre trappole ben congegnate per la felicità non siano che altrettanti modi per ingannarci? Che
grazie alla meditazione, alla psicoanalisi, alla dianetica, al raja yoga, al buddhismo zen, o alla
scienza della mente, noi riusciremo in qualche modo a salvarci dal tonfo finale nel nulla?
Perché se non vediamo questo, allora tutto il resto nella filosofia asiatica, nell’induismo,
buddhismo, taoismo, deve restare un libro chiuso. Sapere che non puoi farci nulla è l’inizio.
Lezione uno: “Mi arrendo”.
Che cosa accade ora? Ci si ritrova in uno stato della mente piuttosto sconosciuto. Guarda e
basta. Non cercare di ottenere qualcosa. Non aspettarti nulla. Non sperare. Non cercare. Non
provare a rilassarti. Guarda e basta, senza uno scopo.
Non dovrei dire nulla su ciò che accade dopo. Essere ottimista, promettere un risultato,
rovina tutto. La parola finale deve essere: «Non c’è speranza, non c’è via». Eppure non c’è nulla
di male nell’aggiungere una sola parola – ancora una parola su ciò che giace dall’altra parte della
disperazione, a condizione che noi tutti comprendiamo che questo qualcosa dall’altra parte della
disperazione non è auspicabile ed è in ogni caso spinto via dallo sperare.
Il proverbio dice: «La pentola fissata non bolle mai». Noi tutti abbiamo familiarità con molti
atti involontari del corpo umano che non accadono mai finché proviamo a farli accadere, finché
siamo ansiosi di farli accadere – addormentarsi, ricordare un nome dimenticato, o in certe
circostanze, l’eccitazione sessuale. Bene, c’è qualcosa del genere che accade alla sola condizione
di non cercare di farla accadere, per cui abbiamo realizzato abbastanza chiaramente che noi non
possiamo farla accadere. Nello Zen, è chiamato satori, il risveglio improvviso.
Forse adesso possiamo vedere la ragione del doppio significato nella metafora del percorso
degli uccelli nel cielo. Proprio come l’uccello non lascia traccia, nessun segno del suo volo
attraverso il vuoto, così il desiderio umano non può ottenere nulla dalla vita. Ma realizzare ciò è
al contempo diventare il sapiente. Poiché la più grande saggezza si trova sul lato opposto –
immediatamente dall’altro lato – della massima disperazione. È di certo qualcosa più della
disperazione – una gioia, un senso di vita creativa, di potere, potrei anche dire una sicurezza e
una certezza, oltre ogni immaginazione. Ma questo è un modo di sentire che la volontà e
l’immaginazione sono incapaci di realizzare, proprio come sono incapaci di far crescere le ossa
di qualcuno o di controllarne il battito del cuore. Essi devono accadere da se stessi.
Allo stesso modo, tutto ciò che è positivo, l’intero contenuto creativo di quell’esperienza
spirituale che è chiamata risveglio, nirvana, deve necessariamente accadere da sé. Esso non solo
non può, ma non deve essere indotto da tentativi e sforzi di volontà, dal momento che qualsiasi
cosa uno potrebbe fare non sarebbe ancora la cosa stessa.
CAMMINANDO SULLA RUOTA

Quasi ogni fondamentale principio di vita può essere espresso in due modi opposti. Alcuni
dicono che per raggiungere la massima saggezza dobbiamo restare tranquilli e calmi, immobili
nel mezzo delle turbolenze. Altri dicono che dobbiamo muoverci con il movimento della vita,
senza mai fermarsi un attimo né per paura di ciò che deve accadere, né per volgere uno sguardo
di rammarico a ciò che è accaduto. I primi sono quelli che ascoltano la melodia, lasciando che il
flusso delle note passi attraverso le loro menti senza cercare di arrestarle né di accelerarle. Come
il perfett’uomo di Chuang-tzu, essi impiegano la propria mente come uno specchio: non afferra
nulla, non rifiuta nulla, riceve senza trattenere. Gli altri sono coloro che danzano alla musica,
tenendo il passo con il suo movimento e lasciando che le loro membra fluiscano incessantemente
e senza esitazione con esso, proprio come le nuvole rispondono al soffiare del vento. Gli uni
sembrano riflettere gli eventi mentre passano, gli altri si muovono insieme a essi. Entrambi i
punti di vista, comunque, sono veri, poiché per raggiungere la suprema saggezza dobbiamo al
contempo sia continuare a camminare che restare fermi. Considerate la vita come una ruota, con
l’uomo che vi cammina sopra. Mentre cammina, la ruota sta girando verso di lui, sotto i suoi
piedi, e se egli non vuol essere trascinato indietro e gettato a terra deve camminare alla stessa
velocità a cui gira la ruota. Se egli eccede quella velocità, cadrà in avanti finendo con la faccia
sulla ruota. In ogni momento ci troviamo, per così dire, sulla parte superiore della ruota; subito
proviamo ad aggrapparci a quel momento, a quel particolare punto della ruota, ma esso non è più
nel punto più alto e perdiamo il nostro equilibrio. Così, solo non tentando di cogliere quel
momento noi lo preserviamo, poiché nell’attimo in cui non riusciamo a continuare a camminare,
cessiamo di restare fermi. Eppure all’interno di ciò vi è una verità ancor più profonda. Dal punto
di vista dell’eternità noi non possiamo, né mai lasciamo, la parte superiore della ruota; poiché un
cerchio posto nello spazio infinito non ha né alto né basso. Ovunque ci troviamo è l’alto, ed essa
ruota soltanto perché siamo noi che la stiamo spingendo avanti coi nostri passi.
IL LINGUAGGIO DELL’ESPERIENZA METAFISICA

C’è un’area dell’esperienza umana per la quale – nelle nostre lingue occidentali – non
abbiamo davvero alcun nome adatto, poiché sebbene sia essenziale per questioni come religione,
metafisica e misticismo, non si identifica con nessuno di questi campi. Mi riferisco al tipo di
esperienza perenne che viene descritta come una più o meno immediata conoscenza di Dio, o
della realtà ultima, fondamento o essenza dell’universo, o con qualsiasi altro nome essa possa
venire rappresentata1.
Secondo le antiche tradizioni spirituali europee e asiatiche, che includono stili di vita e di
pensiero così diversi come il buddhismo e il cattolicesimo, questa esperienza è il supremo
compimento della vita dell’uomo – l’obiettivo, il fine ultimo verso cui è ordinata l’esistenza
umana.
Tuttavia, secondo la moderna filosofia logica – empirismo scientifico, positivismo logico e
simili – dichiarazioni di questo genere sono semplicemente prive di senso. Mentre si ammette
che ci possano essere esperienze interessanti e piacevoli del tipo “mistico”, la filosofia logica
trova del tutto illegittimo considerarle come esperienze in grado di veicolare una qualche
conoscenza di carattere metafisico – capaci di costituire un’esperienza della “realtà ultima” o
dell’Assoluto.
Questa critica non si basa tanto su un’analisi psicologica dell’esperienza in sé, quanto
sull’analisi puramente logica di concetti universali come Dio, Realtà Ultima, Essere Assoluto e
simili – i quali sono ritenuti termini privi di significato. Scopo di questo scritto non è riportare
nei dettagli i passaggi di questa critica, poiché questi dovrebbero essere abbastanza familiari a
ogni studente moderno di filosofia, e perché non sembra esserci alcun bisogno di mettere in
discussione l’argomento logico in se stesso. Il punto di partenza di questo scritto tenta di
mostrare – perversamente, a prima vista – come l’argomento fondamentale della moderna
filosofia logica abbia reso un contributo molto importante al pensiero metafisico – consentendoci
di valutare il carattere e la funzione dei termini e dei simboli metafisici in modo molto meno
confuso di quanto sia stato finora possibile.
Questa valutazione, tuttavia, non è il tipo di svalutazione che i singoli esponenti della
filosofia logica – come Russell, Ayer e Reichenbach – propongono. Poiché il contributo positivo
della filosofia logica alla metafisica e alla religione è stato oscurato dal fatto che tali esponenti
non si sono accontentati di essere logici. A causa di un certo pregiudizio emotivo contro il punto
di vista religioso e metafisico, questa critica logica è stata usata come uno strumento in una
polemica, anche una propaganda, con motivazioni emotive piuttosto che, appunto, logiche.
Una cosa è dimostrare che il concetto di Essere è privo di significato logico. È tutta un’altra
cosa andare oltre e sostenere che questo e simili concetti metafisici non sono filosofia ma poesia,
dove il termine “poesia” reca un forte sottinteso di “ridicolo”. L’implicazione è che la “poesia”
dei simboli religiosi e metafisici possa essere causa o effetto di esperienze emozionali molto
autentiche e stimolanti, ma queste, come “le arti” in tempo di guerra, sono fra le cose non
essenziali della vita. Il filosofo serio le considera come affascinanti giocattoli – mezzi per
decorare la vita, e non per comprenderla – più o meno come un medico può adornare il suo
ufficio con una maschera da guaritore dei Mari del Sud. In un certo senso, è una sorta di dileggio
sotto forma di lusinga.
Mentre gli esponenti della filosofia logica hanno cercato di svalutare le intuizioni della
metafisica e della religione, la maggior parte degli aspiranti difensori della fede ha tentato – un
po’ inutilmente – di trovare mezzi per difendersi dalla logica sul suo stesso terreno. Nel
complesso, il contrattacco di maggior successo è parso essere un restituire ridicolezza alla
ridicolezza, come per esempio la battuta che accusava Reichenbach e compagnia di aver confuso
la filosofia per grammatica.
Ma nel contesto della filosofia e della religione occidentale questa situazione non è affatto
sorprendente, poiché abbiamo sempre avuto l’impressione che le affermazioni religiose e
metafisiche fossero dello stesso ordine delle dichiarazioni scientifiche e storiche. Noi diamo
generalmente per scontato che la proposizione «c’è un Dio» sia una dichiarazione dello stesso
genere di «ci sono le stelle nel cielo». L’asserzione per cui «tutte le cose sono state» ci è sempre
parsa trasmettere informazioni nello stesso modo di «tutti gli uomini sono mortali». Allo stesso
modo, l’affermazione «l’universo fu creato da Dio», sembra ricalcare un’asserzione di tipo
storico come «il telefono fu inventato da Alexander Graham Bell».
Il dottor F.S.C. Nothrop ha perfettamente ragione nel far notare l’essenziale somiglianza tra
scienza da una parte e tradizione giudaico-cristiana dall’altra, nella misura in cui entrambe si
occupano di “verità” in quanto struttura della realtà oggettiva avente natura determinata, anche se
invisibile. In effetti, lo spirito scientifico ha le sue origini storiche nel tipo di mentalità che è
interessata a conoscere il soprannaturale e l’invisibile in termini di proposizioni positive, che
vuole sapere quali fatti giacciono sotto la superficie degli eventi. In questo senso, la teologia
cristiana e la scienza moderna stanno entrambe entro la stessa relazione storica, così come
l’astrologia sta all’astronomia, l’alchimia alla chimica, ed entrambe intendono costituire un
proprio corpo di teorie per spiegare il passato e predire il futuro2.
Ma il cristianesimo non è scomparso con gli alchimisti. Dalla nascita della scienza moderna
la teologia ha giocato un ruolo assai più complicato. Ha tenuto vari e diversi atteggiamenti nei
confronti della scienza, dalla denuncia di essere una dottrina rivale passando per la conciliazione
e l’adattamento, fino a una sorta di ritirata secondo cui, infine, la teologia parla di un regno
dell’essere che deve restare inaccessibile all’indagine scientifica. In tutto questo processo, il
presupposto generale sia da parte dei teologi che degli stessi scienziati era che entrambe le
discipline utilizzavano lo stesso tipo di linguaggio, ed erano interessate allo stesso genere di
verità oggettive e determinate. Infatti, quando alcuni teologi parlano di Dio come di qualcosa che
ha «una realtà oggettiva, indipendente dalle nostre menti e dal mondo sensibile», è impossibile
vedere come questo tipo di linguaggio differisca in qualche modo da quello della scienza. Poiché
sembra che Dio sia un qualche fatto specifico – un’esistenza oggettiva – o una cosa
soprannaturale, nel senso che è impercettibile entro la “lunghezza d’onda” della nostra
percezione e dei nostri strumenti scientifici.
Se questa confusione tra la natura delle dichiarazioni religiose o metafisiche da un lato, e
scientifiche e storiche dall’altro, resta non chiarita, sarà in effetti piuttosto difficile capire come
la moderna filosofia logica possa aver dato un qualsiasi contributo positivo al pensiero
metafisico. In un sistema teologico dove Dio gioca la parte di un’ipotesi scientifica, ossia di un
mezzo per spiegare e predire il corso degli eventi, è abbastanza facile mostrare come un’ipotesi
del genere non aggiunga nulla alla nostra conoscenza. Non si spiega ciò che accade dicendo che
Dio vuole che accada. Perché se tutto ciò che accade è per intenzione o concessione divina,
allora la volontà di Dio diviene semplicemente un altro nome per «tutto ciò che accade». Per
l’analisi logica l’affermazione «tutto ciò che accade è volontà di Dio» non risulta essere altro che
una tautologia: «Tutto ciò che accade è tutto ciò che accade».
Per farla breve, fin qui il contributo della logica alla metafisica sembra essere interamente
negativo. Il verdetto sembra essere che, sotto scrutinio logico, l’intero corpo della dottrina
metafisica consiste sia di tautologie che di nonsense. Ma questo equivale a un totale
“smascheramento” della metafisica solo per come è stata intesa in Occidente – come una serie di
dichiarazioni che esprimono informazioni di significato positivo riguardo a “oggetti
trascendentali”. La filosofia asiatica non è mai stata dell’opinione per cui le dichiarazioni
metafisiche debbano esprimere informazioni di carattere positivo. La loro funzione non è di
denotare la “realtà” in quanto oggetto di conoscenza, ma di “curare” un processo psicologico per
mezzo del quale l’uomo frustra e tortura se stesso con ogni genere di problema irreale. Per la
mente asiatica “realtà” è un concetto che non può essere espresso; essa può essere solo
intuitivamente conosciuta sbarazzandosi dell’irrealtà, ossia, dei modi contraddittori e assurdi di
pensare e sentire.
Il contributo principale della filosofia logica in questo ambito è semplicemente la conferma
di un punto che è stato a lungo chiaro sia agli indù che ai buddhisti, sebbene forse meno
ampiamente compreso nella tradizione cristiana. Il punto è che il tentativo di parlare, pensare o
conoscere la Realtà ultima costituisce un compito impossibile. Se l’epistemologia è il tentativo di
conoscere cosa conosce, e l’ontologia il tentativo di definire “l’essere delle cose”, esse si
rivelano chiaramente procedure circolari e futili. È come provare a mordere la propria bocca. In
un commento sul Kena Upanishad, Shankara dice:

Una distinta e definita conoscenza è possibile in rapporto a ogni cosa capace di divenire un oggetto di conoscenza: ma
non è possibile nel caso di Quello che non può divenire un tale oggetto. Quello è Brahama, poiché Esso è il Conoscitore,
e il Conoscitore può sapere altre cose, ma non può render se stesso l’oggetto della propria conoscenza, così come il fuoco
può bruciare altre cose ma non può bruciare se stesso.

Allo stesso modo Brihadaranyaka Upanishad dice:

Tu non puoi vedere colui che vede mediante la vista; non puoi udire colui che ode mediante l’udito; non puoi pensare
colui che pensa mediante il pensiero; non puoi conoscere il conoscente mediante la conoscenza (III, 4.2).

O nelle parole di una poesia buddhista cinese:

È come una spada che ferisce, ma non può ferir se stessa,


Come un occhio che vede, ma non può veder se stesso.3

La fisica incontra una difficoltà simile nel tentativo di indagare la natura dell’energia. Poiché
vi è un punto in cui la fisica, proprio come la metafisica, entra nel regno della tautologia e del
nonsense a causa del carattere circolare del compito che si è data – studiare gli elettroni con
strumenti che sono, dopo tutto, elettroni stessi. A rischio di citare una fonte un po’ datata, la
classica enunciazione di questo problema si trova in Eddington, The Nature of the Physical
World:

Abbiamo forse dimenticato che c’è stato un tempo in cui ci si voleva sentir dire cosa fosse un elettrone. A questa
domanda non c’era mai risposta… Qualcosa di sconosciuto è all’opera e noi non sappiamo cosa – questo è tutto ciò a
cui ammonta la nostra teoria. E non sembra una teoria particolarmente illuminante. Ho letto qualcosa di simile altrove:

The slithy toves


Did gyre and gimble in the wabe.4

Vi è la stessa suggestione di attività. Vi è la stessa indeterminatezza circa la natura di tale attività e di cos’è che sta
agendo.5

Eddington continua sottolineando che, nonostante tale indeterminatezza, la fisica può


comunque «ottenere risultati» perché gli elettroni, le incognite all’interno dell’atomo, sono
numerabili.
Otto alacridi tossi succhiellano e scabbiano in ossigeno; sette in azoto. Ammettendo qualche
numero, persino Jabberwocky può divenire scientifica. Possiamo ora avventurarci in una
previsione: se uno dei suoi alacridi si sottrae, l’ossigeno indosserà una veste propriamente
appartenente all’azoto… Non sarebbe un cattivo promemoria sull’essenziale inconoscibilità delle
entità fondamentali della fisica il tradurla in Jabberwocky; ammesso che tutti i numeri – tutti gli
attributi metrici – restino invariati, essa non ne soffrirebbe minimamente6. Il punto che emerge è
il seguente: ciò che noi stiamo contando o misurando in fisica, e ciò che noi esperiamo nella vita
di tutti i giorni come dato sensoriale, è alla radice sconosciuto e probabilmente inconoscibile.
Giunta a questo punto la moderna filosofia logica respinge il problema per rivolgere la sua
attenzione su qualcos’altro, basandosi sul presupposto che l’inconoscibile non necessita
d’indagine e non deve riguardarci ulteriormente. Essa afferma che le questioni che non hanno
possibilità di risposta, né logica né fisica, non sono in effetti delle vere domande. Ma una tale
affermazione non può sbarazzarsi del comune sentimento umano per cui tali enti sconosciuti o
inconoscibili – come elettroni, energia, esistenza, coscienza o “Realtà” – sono in qualche modo
curiosi. Il fatto stesso di non essere in grado di conoscerli li rende ancor più estranei. Solo un
certo tipo di mente piuttosto arida desidera allontanarsene – una mente interessata a nient’altro
che alle strutture logiche. Un più completo tipo di mente, capace di sentire così come di pensare,
tende a “indulgere” sulla strana sensazione di mistero che giunge dalla contemplazione del fatto
che ogni cosa, essenzialmente, sia qualcosa che non può essere conosciuta. Ogni affermazione
che facciamo riguardo a questo “qualcosa” si rivela essere nonsense. E ciò che è particolarmente
strano è che questo inconoscibile “qualcosa” è anche la base di ciò che altrimenti io conosco così
intimamente – me stesso.
L’uomo occidentale ha una peculiare passione per l’ordine e la logica; per lui l’intero
significato della vita consiste nel porre l’esperienza in ordine. Ciò che è ordinato è prevedibile, e
costituisce dunque una base solida per “avere certezze”. Vi è la tendenza a mostrare una
resistenza psicologica per quelle aree della vita e dell’esperienza dove logica, definizione e
ordine – ossia “conoscenza”, nel nostro senso – si rivelano inapplicabili. Per questo tipo di mente
il regno dell’indeterminatezza e del moto browniano è francamente imbarazzante, e la
contemplazione del fatto che ogni cosa sia riducibile a qualcosa a cui non siamo capaci di
pensare è addirittura inquietante. Eppure non c’è una reale “ragione” per cui dovrebbe essere
inquietante, perché la nostra incapacità di conoscere cosa sono gli elettroni non sembra
interferire con la nostra capacità di predirre il loro comportamento nel nostro mondo
macroscopico.
La resistenza non si basa su qualche timore di un’azione imprevedibile che l’ignoto può
produrre, sebbene io sospetti che persino il più incallito positivista logico finirebbe per
ammettere una qualche strana sensazione di fronte all’ignoto chiamato morte. La resistenza è
piuttosto la fondamentale riluttanza per questo tipo di mente di contemplare i limiti del suo
potere di avere successo, ordine e controllo. Si ritiene che se esistano aree della vita che essa non
può ordinare, è senz’altro ragionevole (ossia, ordinato) dimenticarle e rivolgersi a settori della
vita che possano essere ordinati – così che il senso di successo e di competenza della propria
mente sia al sicuro. La contemplazione di tali limiti intellettuali è, per il puro intellettuale,
un’umiliazione. Ma per l’uomo che è qualcosa più di una calcolatrice, lo sconcertante è anche il
meraviglioso. Di fronte all’inconoscibile egli si sente come Goethe, per cui:

Il vertice che l’uomo può toccare è la meraviglia; e se il fenomeno originario lo fa meravigliare, che sia soddisfatto,
poiché niente di più alto può essergli donato e nient’altro dovrebbe cercare al di là di esso; lì è il limite.

Nel tipo di esperienza metafisica o mistica che stiamo discutendo, questo senso di meraviglia
– che ha ogni genere di profondità e sottigliezza – è una delle due componenti principali. L’altra
è una sensazione di liberazione (l’indu Moksha) che partecipa alla comprensione del fatto che
un’immensa quantità di attività umana è diretta alla soluzione di problemi irreali e puramente
fantastici – al raggiungimento di obiettivi che in realtà noi non desideriamo.
Le metafisiche speculative – ontologia ed epistemologia – sono aspetti intellettuali di
fantastici problemi che sono fondamentalmente psicologici, e in nessun modo ristretti a persone
di inclinazione filosofica o anche religiosa. Come già indicato, la natura essenziale di questo tipo
di problema è circolare – il tentativo di conoscere il conoscitore, di far sì che il fuoco bruci il
fuoco. Questo è il motivo per cui il buddhismo parla di liberazione, nirvana, come di liberazione
dalla Ruota, e di cercare la Realtà come il tentativo di «cercare un bue quando se ne sta
cavalcando uno».
La base psicologica di questi problemi circolari diviene chiara quando guardiamo ai
presupposti su cui, per esempio, si basano i problemi dell’ontologia. Quali premesse di pensiero
e sentimento sono alla base degli sforzi umani di conoscere l’“essere”, l’“esistenza” o l’“energia”
in quanto oggetti? Chiaramente, un presupposto è che questi nomi si riferiscano a oggetti –
un’assunzione che non potrebbe esser fatta se alla radice di questa non ci fosse l’ulteriore
assunzione per cui “Io”, il soggetto conoscente, sono in qualche modo diverso da “essere”, il
supposto oggetto da conoscere. Se fosse perfettamente chiaro che la domanda «Che cos’è
l’essere?» è, in ultima analisi, la stessa domanda di «Che cosa sono io?» il carattere circolare e
futile della questione sarebbe evidente sin dal principio. Ma che sia tutt’altro che chiaro è
mostrato dal fatto che l’epistemologia metafisica potrebbe fare la domanda «Che cosa sono io?»
o «Che cosa è che è cosciente?» senza riconoscere un ancor più evidente circolo. Ovviamente,
domande del genere potrebbero essere prese sul serio solo a causa di un qualche non logico
sentimento del bisogno di una risposta…
Questo sentimento – comune, forse, a gran parte degli esseri umani – è sicuramente la
sensazione che “Io”, il soggetto, sia un’entità unica, isolata. Non ci sarebbe alcun bisogno di
chiedersi che cosa io sia a meno che in qualche modo io non mi senta a disagio con me stesso.
Ma finché la mia coscienza si sente estranea, isolata e separata dalle proprie radici, io riesco a
sentire significato in una domanda epistemologica che – di per sé – non ha senso logico. Poiché
io sento che la coscienza è una funzione di “Io” – non riconoscendo che “Io”, l’ego, è soltanto un
altro nome di coscienza. L’affermazione «Io sono consapevole» è dunque un’occulta tautologia
che dice soltanto che la coscienza è una funzione della coscienza. Si può uscire da questa
circolarità alla sola condizione che “Io” sia preso per significare molto più che la coscienza o i
suoi contenuti. Ma in Occidente questo non è un uso consueto del termine. Noi identifichiamo
“Io” con la volontà cosciente, e non ammettiamo autorità o responsabilità morale per ciò che
facciamo involontariamente o inconsciamente – con l’implicazione che tali atti non sono le
nostre stesse azioni ma solo eventi che “accadono” in noi. Quando “Io” è identificato con
“coscienza”, l’uomo si sente come un’entità distaccata, separata e sradicata, che agisce
“liberamente” nel vuoto.
Questa sensazione di sradicatezza è senza dubbio responsabile dell’insicurezza psicologica
dell’uomo occidentale, e della sua passione d’imporre i valori di ordine e logica su tutta la sua
esperienza. Eppure, mentre è ovviamente assurdo dire che la coscienza è una funzione della
coscienza, non sembrano esserci modi di sapere ciò di cui la coscienza è una funzione. Ciò che
conosce – e che gli psicologi chiamano paradossalmente l’inconscio – non è mai l’oggetto della
sua propria conoscenza.
Ora, la coscienza, l’ego, si sente sradicata finché evita e rifiuta di accettare il fatto che essa
non conosce né può conoscere la propria base o fondamento. Ma quando ciò viene infine
riconosciuto, la coscienza si sente connessa, radicata, sebbene ancora non sappia a che cosa sia
connessa, in che cosa sia radicata. Fintantoché serba i deliri di autosufficienza, onnicompetenza e
libero arbitrio individuale, essa ignora l’ignoto su cui poggia. Per mezzo della familiare “legge
dello sforzo inverso” questo rifiuto dell’ignoto porta con sé il sentimento d’insicurezza, e come
suo strascico tutti i problemi frustranti e impossibili, tutti i circoli viziosi della vita umana,
dall’esaltato nonsense dell’ontologia fino ai volgari regni del potere politico, dove gli individui
giocano a fare Dio. Gli orribili apparati dello stato di polizia (al 100 percento sicuro e ordinato)
per la pianificazione dei pianificatori, la guardia delle guardie e il controllo dei controllori sono
semplicemente gli equivalenti politici e sociali degli obiettivi della speculazione metafisica. Allo
stesso modo, entrambi hanno la loro origine psicologica nella riluttanza della coscienza, dell’ego,
ad affrontare i propri limiti, e ad ammettere che il terreno e l’essenza del noto è l’ignoto stesso.
Non importa davvero molto che questo ignoto si chiami Brahma o Blah, sebbene l’ultimo
termine indichi di solito l’intenzione di dimenticare, e il primo di tenerlo a mente. Tenendolo a
mente, la legge dello sforzo inverso lavora nell’altra direzione. E si comprende che la mia stessa
sostanza – ciò che io sono – va del tutto oltre l’afferrare o il conoscere. Essa non è “Io”, un
parola che sembra significare qualcosa; essa è non-senso o non-cosa, ed è il motivo per cui il
Buddhismo Mahayana la chiama Tathata, di cui una buona traduzione potrebbe essere “talità” e
shunyata, il “vuoto” o indeterminato. In modo simile, i vedantini dicono «Tat tvam asi» – «Tu
sei Quello» – senza mai dare una designazione positiva a che cosa quello sia. L’uomo che cerca
di conoscere, di afferrare se stesso, diventa insicuro, proprio come finisce per soffocare se
trattiene il respiro. Al contrario, l’uomo che davvero sa di non poter cogliere se stesso si arrende,
si rilassa, ed è a suo agio. Ma egli non sa mai se respinge semplicemente il problema, e non si
ferma a chiedersi, a sentire, a divenire vividamente consapevole della reale impossibilità della
consapevolezza di sé.
Per la mentalità religiosa del moderno occidente questo approccio interamente negativo verso
la realtà è quasi incomprensibile, poiché sembra suggerire che il mondo sia basato sulle sabbie
mobili del nonsense e della fantasticheria. Per coloro che equiparano la sanità con l’ordine, una
tale dottrina appare come mera disperazione. Eppure, poco più di cinquecento anni fa un mistico
cattolico disse di Dio: «Egli può essere raggiunto per mezzo dell’amore, mai per mezzo del
pensiero», e che «Dio deve essere conosciuto attraverso “l’incoscienza”, grazie all’“ignoranza
mistica”»7. E l’amore di cui parlava non era emozione. Era quel generale stato della mente che
ha luogo quando un uomo, dopo averne realizzato l’impossibilità, non cerca più di afferrare se
stesso, di ordinare ogni cosa e di essere il dittatore dell’universo.
Ai nostri giorni la filosofia logica fornisce la stessa tecnica di negazione, dicendoci che ogni
affermazione con cui pensiamo di aver afferrato o definito o semplicemente designato la Realtà,
è in effetti solo un proferire nonsense. Quando la lingua prova a mettersi in parole, il massimo
che ci si può aspettare è uno scioglilingua. Per questa ragione la procedura della filosofia logica
inquieterà solo quei teologi e metafisici che immaginano che le loro definizioni dell’Assoluto in
realtà definiscano qualcosa. Ma ciò che è sempre stato perfettamente chiaro ai filosofi
dell’Induismo e del Buddhismo, e in misura minore ad alcuni mistici cattolici, è che parole come
“Brahma”, “Tathata” e “Dio” non significano qualcosa, ma nessuna-cosa. Indicano un vuoto
della conoscenza, proprio come una finestra viene delineata dalla sua cornice.
Tuttavia la filosofia logica spinge la sua critica ancora oltre, e sostiene che le dichiarazioni
senza senso e le affermazioni di questo genere non costituiscono filosofia perché non
contribuiscono in nulla alla conoscenza – intendendo con ciò che esse non ci aiutano a prevedere
nulla, e non offrono indicazioni per la condotta umana. Questo è in parte vero, sebbene manchi il
punto più evidente: la filosofia – la saggezza – consiste nel riconoscimento di che cosa non è e
non può essere conosciuto come nel contrario. Ma dobbiamo andare oltre tale truismo. La
conoscenza è più di saper-fare, e la saggezza è più di predire e ordinare. La vita umana diviene
un fantastico circolo vizioso quando l’uomo prova a ordinare e controllare se stesso e il mondo
oltre certi limiti, e queste cosiddette “metafisiche negative” esprimono almeno l’ingiunzione
positiva di rilassare questo eccesso di sforzo.
Ma oltre a questo hanno una conseguenza positiva che è ben più importante. Esse
“integrano” la logica e il pensiero cosciente con la matrice indeterminata, il nonsense, che
troviamo alla radice di tutte le cose. L’ipotesi secondo cui il compito della filosofia, come della
vita umana, sia realizzato solo nella predizione e nell’ordinazione, e che il “senza senso” non
abbia valore, poggia su una sorta di “schizofrenia” filosofica. Se il lavoro dell’uomo è esaurito
nel dichiarare guerra al caos con la logica e nel determinare l’indeterminato; se il “bene” è il
logico e il “male” il bizzarro; allora la logica, la coscienza e il cervello umano si trovano in
conflitto con l’origine stessa della sua vita e del suo talento. Non dobbiamo mai dimenticare che
i processi che formano questo cervello sono inconsci, e che sotto tutti gli ordini sensibili del
mondo macroscopico giace l’indeterminato nonsense del microscopico, il succhiellare e lo
scabbiare di un alacride chiamato energia – riguardo al quale noi non sappiamo nulla. Ex nihilo
omnia fuint. Ma questo nulla è una cosa ben strana.
La filosofia logica non sembra aver affrontato il fatto che il termine nonsense, lungi
dall’essere privo di valore, è essenziale per ogni sistema di pensiero. Sarebbe del tutto
impossibile costruire una filosofia o una scienza come un “sistema chiuso” in grado di definire
rigorosamente ogni termine che impiega. Gödel ci ha dato una chiara prova matematica del fatto
che nessun sistema può definire i suoi stessi assiomi senza contraddizione, e con Hilbert la
moderna matematica impiega il punto come un concetto del tutto indefinito. Così come la lama
taglia altre cose ma non se stessa, così come il pensiero usa strumenti che definiscono, ma che
non possono definirlo – la stessa filosofia logica non sfugge in alcun modo a questa limitazione.
Ad esempio, quando la filosofia logica afferma che «il vero significato è un’ipotesi
verificabile», essa deve riconoscere che questa stessa affermazione è priva di significato se non è
verificabile. Allo stesso modo, quando essa insiste che le sole realtà sono quei “fatti” che sono
ricavati dall’“osservazione scientifica”, essa deve riconoscere che essa non può – e non sa –
rispondere alla domanda «Che cos’è un fatto?». Se diciamo che i “fatti” o le “cose” sono
segmenti dell’esperienza simboleggiati da sostantivi, noi stiamo semplicemente spostando
l’irriducibile elemento di nonsense nella nostra definizione da “fatto” a “esperienza”. Qualche
basilare nonsense è del tutto inevitabile, e il tentativo di costruire un sistema di pensiero
completamente auto-definente è un circolo vizioso della tautologia. Difficilmente il linguaggio
può fare a meno della parola “è”, e tuttavia il dizionario può solo informarci che “ciò che è” è
“ciò che esiste”, e che “ciò che esiste” è “ciò che è”. Se, dunque, si deve ammettere che anche un
solo nonsense –un termine privo di significato o indefinito – è necessario a tutto il pensiero,
abbiamo già ammesso il principio metafisico per cui la base o il fondamento di tutte le “cose” è
un indefinibile (o infinito) nulla al di là del senso, sempre in fuga dalla nostra comprensione e dal
nostro controllo. Questo è il soprannaturale – nel senso stesso di ciò che non può essere
“caratterizzato” o classificato – e l’immateriale – nel senso di ciò che non può essere misurato,
contato, o “significato”. In tutta la sua pienezza, questa ammissione è precisamente la fede, ossia
il riconoscimento che, in ultima analisi, dobbiamo “arrenderci” a una fonte di vita, a un Sé oltre
l’ego, che giace al di là delle definizioni del pensiero e del controllo dell’azione.
Il credo, nel popolare senso cristiano, non è all’altezza di questa fede, poiché il suo oggetto è
un Dio concepito come avente natura determinata. Ma nella misura in cui Dio può essere un
oggetto noto di natura definita, Lui si traforma in idolo, e credere in tale Dio è idolatria. Così,
nell’atto stesso di demolire il concetto di Assoluto come “cosa” o “fatto” su cui si possono fare
dichiarazioni e determinazioni di significato, la filosofia logica rende il suo contributo più vitale
alla fede religiosa – al prezzo della sua antitesi, il “credo” religioso. Mentre i positivisti logici
uniscono inconsapevolmente le proprie forze a quelle dei profeti ebrei nella denuncia
dell’idolatria, i profeti si trovano a essere in linea con quella grande tradizione metafisica che,
nell’Induismo e nel Buddhismo, è giunta all’abbandono degli idoli come alla sua corretta
conclusione.
In sintesi, dunque, la funzione delle “affermazioni” metafisiche nell’Induismo e nel
Buddhismo non è quella di trasmettere informazioni positive circa un Assoluto, né d’indicare
un’esperienza in cui questo assoluto diventa un oggetto di conoscenza. Nelle parole della Kena
Upanishad: «Brahma è sconosciuto a coloro che lo conoscono, ed è conosciuto a coloro che non
lo conoscono affatto». Questo “sapere la Realtà non sapendo” è lo stato psicologico dell’uomo il
cui ego non è più diviso e dissociato dalle sue esperienze, che non si sente più come un’isolata
personificazione di logica e coscienza, separata dal succhiellare e dallo scabbiare dell’ignoto.
Egli viene così liberato dal samsara – la Ruota –, dalla gabbia psicologica di tutti quegli uomini
che frustrano eternamente se stessi con gli impossibili compiti di conoscere il conoscitore, di
controllare il controllore, di organizzare l’organizzatore – come Uroboro, il serpente folle, che
divorò la sua stessa coda.
BUONE INTENZIONI

Un vecchio proverbio dice che la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Coloro
che credono che la motivazione sia il fattore più importante di ogni impresa resteranno perplessi
nel sentire un tale detto. Poiché non è forse la Giusta Motivazione il primo passo nella Via del
Buddha? E non è forse sottolineato ancora e ancora che ogni passo inizia nel pericolo se la
motivazione per intraprenderlo non è pura? Ma fate attenzione alle buone intenzioni. Ci sono
buone intenzioni e buone intenzioni, e le cose non sono sempre ciò che sembrano. Niente è più
facile che rinunciare al mondo perché si è incompetenti negli affari del mondo. Non c’è saggezza
nel disprezzare le ricchezze solo perché si è incapaci di ottenerle, né nel disprezzare il piacere dei
sensi perché non si dispone dei mezzi per appagarlo. Se esiste desiderio per queste cose, e se
quel desiderio è ostacolato dalle circostanze, aggiungere l’autoinganno alla frustrazione è come
scambiare un inferno minore per uno maggiore. Nessun inferno è peggiore di quello in cui si
vive senza saperlo.
Poiché il più temibile dei nemici dell’uomo è il desiderio che viene disprezzato per
nessun’altra ragione che quella di non essere in grado di poterlo soddisfare. Si può far finta che
non esista, di essersi arresi, ma si deve rispondere sinceramente alla domanda: «Se potessi
soddisfare questo desiderio, lo farei?». Se a ciò non si risponde, fingere di arrendersi al mondo,
intraprendere la vita ascetica non perché lo si vuole ma per necessità e orgoglio, significa
vergognarsi del proprio nemico e dunque divenire doppiamente vulnerabile. Così il primo passo
sul Sentiero è conoscere che cosa si vuole, non ciò che si dovrebbe volere. Solo in questo modo
il pellegrino può iniziare il suo viaggio perfettamente preparato. Altrimenti egli è come un
generale che dirige una campagna in un territorio sconosciuto, e che invece di stabilire la propria
forza e la forza e la posizione del nemico, si preoccupa solo d’immaginare come tali cose
dovrebbero essere. E per quanto grande possa essere la sua immaginazione, egli finirà per
condurre, senza alcun dubbio, il suo esercito all’inferno.
ZEN

Sebbene la parola Zen consista di sole tre lettere, tre volumi non basterebbero a spiegarlo, e
neppure tre biblioteche piene di volumi. Se si dovessero scrivere libri sull’argomento fino alla
fine del tempo, essi non riuscirebbero ancora a spiegarlo, perché tutto ciò che potrebbe essere
scritto sarebbero solo idee sullo Zen, e mai lo Zen stesso. Infatti, chiunque immagini di aver
spiegato lo Zen l’ha in effetti solo minimizzato; non può essere costretto in una definizione
proprio come il vento non può essere chiuso in una scatola, senza che cessi di essere vento.
Dunque, qualsiasi tentativo di scrivere sullo Zen potrebbe sembrare sin dall’inizio un’assurdità, e
così sarà se il lettore o lo scrittore immagineranno che lo Zen possa essere racchiuso in un
insieme di idee. Un libro su Londra non è in alcun senso Londra stessa, e nessun uomo sano di
mente si sognerebbe di pensarlo. Eppure, persone apparentemente intelligenti commettono
spesso l’errore altrettanto ridicolo di identificare un sistema filosofico, un dogma, un credo, con
la Verità Ultima, immaginando di aver trovato quella Verità abbracciata in un insieme di
proposizioni che fanno appello alla loro ragione. Ci sono migliaia di uomini e donne che leggono
libri su libri, che visitano società religiose, partecipano a conferenze di famosi maestri, con la
vana speranza d’imbattersi un giorno in una qualche spiegazione dei misteri della vita: qualche
detto, qualche idea, che conterrà la soluzione dell’Infinito Enigma. Alcuni continuano a cercare
finché vivono, altri immaginano di aver trovato ciò che cercavano in varie ideologie, ma pochi
riusciranno a penetrare oltre le idee sulla Verità fino alla Verità stessa. Ci sono alcune religioni e
filosofie che si prestano più facilmente di altre all’errore di confondere l’idea per la realtà,
religioni nelle quali il credo e il simbolo sono enfatizzati a spese dell’esperienza spirituale che
sono destinati a incarnare. Ciò, tuttavia, è più una critica all’ignoranza dei loro devoti che alle
stesse religioni. Ma esiste almeno un culto in cui quest’errore è quasi impossibile, e proprio
perché non possiede nessun culto, non ha alcun sistema filosofico, nessun canone di scritture,
nessuna dottrina intellettualmente intelligibile. Nella misura in cui può essere definito un culto,
esso consiste di tecniche per liberare l’anima dalle sue catene, mezzi che sono pittorescamente
descritti come dita che indicano la luna – ed è folle colui che confonde il dito per la luna. Questo
culto è Zen, una forma di Buddhismo che si è sviluppata in Cina e oggi fiorisce soprattutto in
Giappone. Zen è in sé un termine giapponese, derivato dal cinese Ch’an o Ch’an-na, una forma
del sanscrito dhyana, che è solitamente tradotto come “meditazione” o “contemplazione”. Questa
è tuttavia una traduzione fuorviante, poiché sebbene nella terminologia yoga dhyana indichi un
certo stato di contemplazione, uno stato che in qualche modo impreciso potremmo chiamare
“trance”, Zen è un termine ben più inclusivo. Giungiamo più vicini al suo significato se
ricordiamo che la parola dhyana è legata a gñana (il greco gnosis) o Conoscenza, nel senso più
alto della parola, ossia la suprema illuminazione spirituale. Gñana (a volte anche scritto dzyan) è
assai vicina a Zen, tanto più se si pensa che lo Zen si dice esser venuto al mondo nel momento in
cui Gautama Buddha trovò l’illuminazione mentre sedeva di notte sotto il famoso albero della
Bodhi, a Bodh-Gaya nel nord dell’India. Là, secondo i maestri Zen, egli trovò qualcosa che non
può essere espresso in alcuna forma verbale; un’esperienza che ogni uomo deve affrontare da sé;
che non può essere trasmessa da uomo a uomo più di quanto si possa mangiare del cibo per
nutrire il corpo di un’altra persona.
Ma lo Zen, come culto specifico, è soprattutto un prodotto della mente cinese. Il Buddhismo
si sviluppò in India come un sistema filosofico sottile e altamente astratto, un culto di sublime
spiritualità perfettamente adatto agli abitanti di una regione calda, dove la vita è in grado di
prosperare con poco lavoro. Per contro i cinesi e i giapponesi hanno un clima molto più simile al
nostro e la stessa disposizione pratica dei popoli del nord Europa, e forse il più grande trionfo del
Buddhismo è l’essere stato in grado di adattarsi a una mentalità così lontana da quella indiana.
Perciò lo Zen è stato descritto come la rivolta cinese contro il Buddhismo. Sarebbe più vicino
alla verità chiamarla interpretazione cinese del Buddhismo, sebbene il termine “rivolta” indichi
certamente il carattere fiero e quasi iconoclasta dello Zen – un culto che non mostra alcuna
pazienza verso qualsiasi pratica o formula che non abbia immediata relazione con l’unica cosa
che conta davvero: l’Illuminazione. Per comprendere questa rivolta o interpretazione (o forse
meglio dire “interpretazione rivoluzionaria”) devono essere tenuti a mente alcuni dei princìpi
fondamentali del Buddhismo.
Il Buddha, che visse circa seicento anni prima di Cristo, insegnò che la vita, come la viviamo,
è necessariamente disarmonica a causa dell’atteggiamento egoista e possessivo che adottiamo
verso di essa. In sanscrito questa attitudine è chiamata trishna (spesso erroneamente tradotta
come “desiderio”), e seppure nella nostra lingua non esista equivalente per questa parola, essa
può essere intesa come il desiderio di resistere al cambiamento, di “salvarsi la pelle” a tutti i
costi, di possedere coloro che amiamo: è l’attaccarsi alla vita “con le unghie e con i denti”.
Proprio quest’ultima frase in particolare ha una sua morale. Se tutto ciò che vive e si muove
viene afferrato, esso muore come muore un fiore che è stato raccolto. L’egotismo è il feroce
attaccamento a se stessi; è l’ergersi come altera roccaforte, rifiutandosi di partecipare al gioco
della vita, rifiutando di accettare le eterne leggi di cambiamento e movimento a cui tutti noi
siamo soggetti. Ma tale rifiuto è solo illusione. Che ci piaccia o meno, il cambiamento arriva, e
maggiore è la nostra resistenza e maggiore sarà il dolore. Il Buddhismo abbraccia la bellezza del
cambiamento poiché la vita è come la musica: se qualche nota o strofa viene trattenuta troppo a
lungo, la melodia è perduta. Così il Buddhismo potrebbe essere riassunto in due frasi: “lasciare
andare” e “andare avanti”. Abbandona la brama del sé, di permanenza, di circostanze particolari,
e asseconda il movimento della vita. Un tale stato della mente è chiamato Nirvana. Tuttavia un
insegnamento del genere è facile da fraintendere, poiché è assai semplice rappresentare la
dottrina del “lasciar andare” come la negazione assoluta della vita e del mondo, e il Nirvana
come uno stato infinitamente separato da tutte le circostanze terrene.
Lo Zen, tuttavia, corresse quest’errore in modo sorprendente e unico – a tal punto che una
gran parte dei suoi insegnamenti possono apparire a prima vista come semplici buffonerie e
nonsense.
Un discepolo arrivò al maestro Zen Chao-chou e chiese: «Sono appena arrivato a questo
monastero. Ti dispiacerebbe darmi qualche insegnamento, maestro?».
Il maestro replicò: «Hai già fatto colazione?».
«Sì, l’ho fatta» rispose il monaco.
«Allora puoi lavare i piatti.»
È detto che in seguito a questa osservazione il discepolo fu improvvisamente illuminato
riguardo a tutto il significato dello Zen.
In un’altra occasione il maestro stava per parlare a un gruppo di studenti, quando un uccello
prese a cantare su di un albero vicino. Il maestro rimase in silenzio fin quando l’uccello ebbe
finito di cantare, poi annunciò che la sua lezione era finita, e se ne andò.
Un altro maestro sistemò una brocca davanti a due dei suoi discepoli. «Non chiamatela
brocca» disse, «ma ditemi che cos’è». Uno disse: «Non si può dire che sia un pezzo di legno». Il
maestro, tuttavia, non fu soddisfatto dalla risposta e si girò verso l’altro discepolo, il quale,
semplicemente, fece cadere la brocca e se ne andò. E questa azione suscitò la piena approvazione
del maestro.
Ci si chiederà se simili storielle abbiano minimamente a che fare con la religione, e finanche
con un’ordinaria sanità mentale. Esse sono considerate dagli esponenti Zen come ricche dei più
profondi significati, e quando pensiamo che la filosofia Zen è stata, oltre ogni dubbio, una delle
influenze più potenti nel plasmare l’arte e la cultura dell’Estremo Oriente, tale considerazione ha
diritto al nostro rispetto. Ha un qualche significato simbolico? Di cosa parla? La risposta è che
non ha alcun significato simbolico, e non riguarda nulla. Eppure è qualcosa, e questo qualcosa è
ciò che è molto ovvio e tuttavia molto ignorato: vita. Il maestro Zen sta infatti dimostrando la
vita nella sua effettività; senza ricorrere a parole o idee egli sta insegnando ai suoi discepoli a
conoscere la vita direttamente. A volte, nel rispondere ad astratte questioni religiose, egli darà
uno schiaffo in faccia all’allievo, restituendo realtà per astrazione. Se egli desse una risposta
motivata, il discepolo sarebbe in grado di analizzarla, di sottoporla a dissezione intellettuale e
finirebbe per scambiare una semplice formula priva di vita per una verità vivente. Ma con uno
schiaffo, un uccello, una brocca, una pila di piatti sporchi da lavare, non può esserci errore. Uno
schiaffo è qui, in questo momento, e il momento dopo se n’è andato. Non c’è niente che si possa
afferrare – nient’altro che un fatto vivente, tanto vivo quanto il momento che passa e che non può
esser trattenuto dal passare. E un uccello è un uccello, puoi ascoltarne la melodia, ma non puoi
impadronirti di quelle note per farle continuare.

Semplicemente è, e se n’è andato, e senti la bellezza del suo canto proprio perché le note non
aspettano che tu le analizzi. Pertanto il maestro Zen non sta provando a darti delle idee sulla vita:
sta provando a darti la vita stessa, a farti capire la vita dentro e intorno a te, a farti vivere anziché
essere un semplice spettatore, un mero saccente assorbito nello sterile scheletro di qualcosa che
la vita ha da tempo abbandonato. Una sinfonia non può essere spiegata dall’analisi matematica
delle sue note; il mistero della bellezza di una donna non viene rivelato dalla sua dissezione post-
mortem; e nessuno mai ha compreso la meraviglia di un uccello in volo imbalsamandolo e
riponendolo in una teca di vetro. Per capire queste cose, si deve vivere e muoversi con loro
mentre esse vivono. Lo stesso è vero dell’universo: nessuna analisi intellettuale, per quanto
vasta, potrà mai spiegarlo, poiché filosofia e scienza potranno solo rivelarne i meccanismi, ma
mai il suo significato o, come dicono i cinesi, il suo Tao.
«Che cos’è il Tao?»
Un maestro Zen rispose: «La tua vita quotidiana è Tao».
«Come si fa a giungere in accordo con esso?»
«Se provi ad accordarti con esso, finirai per allontanartene.»
Poiché immaginare che esista un “tu” separato dalla vita, che in qualche modo debba
accordarsi con la vita stessa, significa cadere dritti in una trappola. Se si tenta di trovare il Tao, si
presuppone già una differenza tra te stesso e il Tao. Pertanto i maestri Zen non suggeriscono
niente a proposito dei mezzi per raggiungere l’illuminazione, per la comprensione del Tao. Essi
si concentrano semplicemente sul Tao stesso. Quando stai leggendo un libro, non puoi riuscire a
farlo se pensi a te stesso che sta provando a concentrarsi sul libro; invece di pensare a ciò che è
scritto, la tua attenzione finisce per essere assorbita dal tuo sforzo di concentrarti. Il segreto è
quello di pensare al libro e dimenticare se stessi. Ma questo non è tutto. Il libro è di scarsa utilità
se si finisce all’altro estremo, lasciando semplicemente che il libro “ci porti via”. Al contrario, è
necessario portare al libro il proprio intendimento e la propria intelligenza, e così, attraverso
l’unione dei propri pensieri e dei pensieri del libro, piò nascere qualcosa di nuovo. Questa unione
è il compito più importante; si deve solo farlo, e non sprecare energie nel pensare di farlo. Lo
stesso vale per lo Zen. Non ci chiede di sottometterci alla vita così che il mondo ci domini e ci
annulli. Alcuni non vivono, sempre presi dai pensieri e dai sentimenti sulla vita; altri vengono
spazzati via dalle maree della circostanza, così travolti dagli eventi che non gli resta niente di
proprio.
Il Buddhismo, tuttavia, è la Via di Mezzo; e questo non è un semplice compromesso: è
l’unione tra gli opposti per produrre “un più alto terzo”; proprio come un uomo e una donna si
uniscono per generare un figlio. Lo stesso processo si trova in quasi ogni religione, in qualcuna
più profondamente celato, in altre chiaramente rivelato. Nel cristianesimo l’uomo deve rinascere
d’acqua e spirito, simboli di sostanza ed energia, vita concreta e pensiero umano. Così la
preghiera rivolta a Cristo di essere «nato in noi» è la speranza della stessa illuminazione che
ritroviamo nel Buddhismo, e la storia della nascita di Cristo è la sua allegoria. Poiché lo Spirito
Santo è lo spirito, e Maria (dal latino mare – mare, acqua) è il mondo, chiamato in sanscrito
maya. E anche la madre di Buddha era chiamata Maya, e anche lui sarebbe stato
miracolosamente concepito. Pertanto la realizzazione del Cristo interiore, il Buddha interiore, il
Tao interiore o il Khrishna interiore, è in ciascun caso il risultato di un processo che lo Zen ci
presenta in questo modo unico e quasi sorprendente. È la comprensione dell’Uno che sta dietro i
Molti; la riunione degli opposti, di soggetto e oggetto, ego e universo, per creare il Bambino
Santo.
E tuttavia dobbiamo fare attenzione a tale definizione, come a un utile riepilogo dell’impegno
religioso. Può divenire facilmente un mero slogan, una verità racchiusa in poche parole che cessa
di avere la benché minima utilità. Nella sua prigione appassisce e muore. Perciò lo Zen giunge a
questa fase con una domanda ancor più scomoda: «Quando i molti sono ridotti all’Uno, a cosa
può essere ridotto l’Uno?». Solo colui che conosce la risposta comprende lo Zen. Sarebbe futile
provare a spiegare oltre, perché farlo sarebbe la sconfitta del vero scopo dello Zen, che è quello
di far sì che ognuno lo scopra da sé. È come un giallo a cui manca l’ultimo capitolo: resta un
mistero, una sorta di fascio di luce che può essere visto, ma mai afferrato – amato, ma mai
posseduto. E da ciò possiamo sapere che Zen è vita.
L’UNICO

Le dottrine della religione sono simboli usati da santi e saggi per descrivere le esperienze
spirituali, proprio come gli uomini comuni usano le parole per descrivere le proprie esperienze
mentali e fisiche. Gli studiosi di religione riconoscono due tipi di esperienza spirituale: la prima
assomiglia a ciò che chiamiamo stato della mente, come ad esempio la felicità, l’amore o la
paura; la seconda a un’esperienza di qualcosa che è posta al di fuori di noi, come quando
vediamo le stelle, gli alberi o le colline. Nel linguaggio della religione, il primo tipo di esperienza
può essere chiamato senso di libertà, di salvezza o liberazione, e il secondo una visione beatifica.
Le dottrine religiose hanno la loro origine nei tentativi di comunicare queste esperienze ad altri,
consacrando uno stato mentale entro un’idea dell’universo, o testimoniando di una visione come
base per un articolo di fede. Le visioni sono in qualche modo più spettacolari e sensazionali degli
stati della mente e, poiché esse hanno forma, colore e movimento, sono più facili da descrivere.
Così esse sono comuni in tutte le religioni, ma non necessariamente recano con sé quel senso di
libertà, salvezza o liberazione che è la più profonda, appagante e durevole delle esperienze
religiose. Sono pochi coloro che non preferirebbero avere questa percezione piuttosto che un
migliaio di visioni.

Sono stati fatti molti tentativi per descrivere la sensazione di salvezza che i buddhisti
chiamano Nirvana e gli induisti Moksha. Dove tali descrizioni appaiono sotto forma di dottrine
notiamo che fra tali dottrine esiste una gran varietà di differenze, fatto che spesso inganna gli
studiosi di religione. Se le dottrine del cristianesimo sono diverse da quelle dell’induismo, non ne
consegue necessariamente che anche le religioni siano differenti, poiché un singolo stato della
mente può essere descritto da più di una dottrina, e senza un tale stato mentale la religione, intesa
come una semplice collezione di dottrine, non ha alcun significato: sarebbe come un balbettio di
parole incomprensibili. Ma le dottrine differiscono perché le persone hanno formazioni e
tradizioni mentali diverse; un inglese e un cinese potranno avere lo stesso sentimento eppure ne
parleranno in modo molto diverso, perché si riferiranno a quel sentimento sulla base di differenti
contesti mentali. Non è quindi saggio studiare la religione dal punto di vista della dottrina – in
quanto dottrina – poiché essa rappresenta la più pura superficialità. Dottrine e concetti variano al
variare del linguaggio, ma uno stesso e medesimo significato può essere trasmesso sia in inglese
che in francese. I cristiani credono in un Dio personale e i buddhisti no, ma per quanto riguarda i
vari elementi essenziali della religione questa differenza è tanto superficiale quanto il fatto che in
francese ogni sostantivo abbia un genere, mentre non è così nell’inglese.
Pertanto, per ricavare il vero significato di una dottrina religiosa, dobbiamo chiedere: «Che
cosa intende questa dottrina in termini di stati della mente? Che genere di sentimenti verso la vita
e l’universo porterebbe un uomo a pensarla in questo modo?». Poiché l’esperienza religiosa è
come l’esperienza della bellezza; anzi, è qualcosa di strettamente affine al sentire la bellezza
nella totalità della vita, invece che in un quadro, in un luogo, in un’immagine o in una melodia.
Sia Beethoven che Stravinsky riescono a suscitare il senso di bellezza, eppure sono abbastanza
diversi fra loro come lo sono il buddhismo e il cristianesimo. La cosa che conta davvero, tuttavia,
è che entrambi riescono a suscitare quel sentimento; potremmo discutere e argomentare sui loro
rispettivi “meriti” fino allo sfinimento, senza raggiungere alcuna conclusione. Potremmo
interrogare un uomo che sente la bellezza in Beethoven e un altro che la sente in Stravinsky, e
poi passare a considerare i vari gradi di profondità dei loro rispettivi sentimenti. In questo caso
avremmo a che fare con elementi così intangibili e immateriali che l’ordinario metodo critico e
l’intera discussione diverrebbero inutili, e potremmo giudicare solo per intuizione. Lo stesso
principio si applica alla religione, dove il sentimento di bellezza che c’è nell’arte o in musica
diviene in essa sentimento di salvezza. Con ciò non intendo la libertà della coscienza morale e
neppure la certezza di una vita eterna dopo la morte, sebbene entrambe le cose possano essere
previste da un numero qualsiasi di diversi sistemi religiosi. Queste elementari forme di
“salvezza” stanno alle sue forme più profonde più o meno come il semplice brivido sensuale sta
all’autentica percezione della bellezza.
Allora, che cos’è l’autentico e profondo senso di salvezza? Nella misura in cui a una tale
domanda si possa rispondere del tutto, è forse meglio considerare una delle più grandi dottrine di
tutte le religioni in termini di stati mentali. A questo scopo la scelta migliore è probabilmente la
concezione induista o vedanta del Brahman, poiché è allo stesso tempo la più semplice e più
sottile delle dottrine – sottile proprio perché è così semplice. La stessa dottrina si trova in altri
sistemi, ma il Vedanta gli conferisce la miglior espressione filosofica. Essa ci dice che tutte le
cose possibili, eventi, pensieri e qualità, sono aspetti di una singola Realtà che a volte è chiamata
il Sé dell’universo. In se stessi questi molti aspetti non hanno realtà, essi sono reali solo in
quanto ciascuno di loro è una manifestazione del Brahman o del Sé. Per dirla in un altro modo, il
vero sé di ogni cosa è Brahman, e non qualcosa che appartiene esclusivamente alla cosa in
questione. Ogni individuo è quindi un aspetto del Brahman, e non ci sono due aspetti che
possano dirsi uguali. Ma il sé dell’uomo è molto più di ciò che egli considera essere il suo ego, la
sua personalità chiamata John Smith o William Jones. L’ego è un espediente, o trucco (maya),
impiegato in modo che il Brahman possa manifestare se stesso, e il sé più profondo dell’uomo è
dunque identico al Sé di tutte le cose. Così se qualcuno vuol sapere che cos’è Brahman deve solo
guardarsi intorno, pensare, agire, essere conscio, vivere, poiché tutto ciò che egli conosce per
mezzo dei sensi, pensa nella mente o sente nel cuore, è Brahman.

In altri sistemi di pensiero Brahman ha molti altri nomi – in cinese è “Tao”, mentre i mistici
di tutto il mondo trovano simili significati con “Dio”, “Allah”, “Vita infinita” “Élan vital”,
“Assoluto” o qualsiasi altro termine possa essere usato. Poiché l’intuizione dell’Unica Realtà è
l’essenza di tutte le religioni mistiche, ma poche persone comprendono chiaramente cosa voglia
dire accogliere in se stessi una tale intuizione. Siamo forse più inclini a pensare a quest’idea
come a una speculazione metafisica, come a una teoria più o meno ragionevole circa la struttura
fondamentale della vita. Un giorno, pensiamo, riusciremo anche noi a scavare nei più profondi
recessi delle nostre anime, a porre le dita su questa misteriosa essenza universale e avvalerci
finalmente dei suoi enormi poteri. Questo, tuttavia, non sembra essere il modo giusto di
rapportarsi. Innanzitutto essa non si troverà solo «nei più profondi recessi delle nostre anime», e
in secondo luogo, la parola “essenza” lo fa sembrare una potenza altamente raffinata, qualcosa di
gassoso o di elettrico e del tutto priva di forma, che in qualche modo “abita” dentro le cose. Ma
in relazione a Brahman non vi è né dentro né fuori; talvolta è chiamato principio di “non-dualità”
perché accanto ad esso non esiste nient’altro e niente è escluso da esso. Esso si trova in
superficie e in profondità, nel finito e nell’infinito – com’è stato saggiamente detto: «Non c’è
nulla di infinito a parte le cose finite». Così esso non può essere né trovato né perduto e non è
possibile avvalersi dei suoi poteri non più di quanto si possa fare a meno di loro, poiché tutte
queste concezioni di avere e non avere, di guadagno e perdita, finito e infinito, appartengono al
principio di dualità. Ogni dualismo è esclusivo; è questo e non quello; quello e non questo. Ma
Brahman in quanto Unica Realtà è un tutto inclusivo, come si legge nelle Upanishad:

È fatto di coscienza e mente. È fatto di vita e visione. È fatto di terra e di acque. È fatto di aria e di spazio. È fatto di luce
e tenebre. È fatto di desiderio e pace. È fatto di rabbia e amore. È fatto di virtù e vizio. È fatto di tutto ciò che è vicino. È
fatto di tutto ciò che è lontano. È fatto di tutto.

Che cos’è allora la non-dualità in termini di stato della mente, di stato d’animo? Come pensa
e sente il mistico che ha realizzato la sua identità con l’Unica Realtà? La sua coscienza si
espande dal suo corpo ed entra in tutte le cose, così che egli può vedere con occhi di altri e
pensare con cervelli di altri? Solo in senso figurato, poiché il Sé che è in lui e in tutti gli altri non
necessariamente comunica al cervello fisico di John Smith, mistico, ciò che è visto dagli occhi di
Pei-wang, operaio edile, all’altro capo del mondo. Ma non credo che l’illuminazione spirituale
sia da intendere in questo modo piuttosto sensazionale. Possiamo rispondere alla domanda in
modo soddisfacente solo se riusciamo a scoprire che cosa sia uno stato mentale non-dualistico.
Significa una mente posta in uno stato di concentrazione così intenso da contenere un solo
pensiero? In senso stretto, la mente non contiene mai più di un pensiero alla volta: tale è la natura
del pensiero. Ma se spiritualità significa pensare solo e sempre a una particolare cosa, allora le
altre cose sono escluse, e questa è ancora dualità. Significa allora uno stato della mente in cui
tutto è pensato in una volta? Anche se fosse possibile, ciò escluderebbe l’utile facoltà di pensare
una cosa alla volta, e sarebbe ancora dualistico. Ovviamente queste due interpretazioni sono
assurde, ma c’è un’altra via di approccio.
L’illuminazione spirituale è spesso descritta come l’assoluta libertà dell’anima, e abbiamo
visto che l’Unica Realtà è inclusiva di tutto. La mente del mistico è dunque singolarmente libera
e inclusiva di tutto? Se è così, sembrerebbe che la sua spiritualità non dipenda dal pensare a un
qualche speciale tipo di pensiero, o dall’avere un particolare sentimento sempre sullo sfondo
della sua anima. Egli è libero di pensare a qualsiasi cosa e a nulla, di amare e temere, di essere
allegro o triste, di occupare la sua mente con la filosofia o con le banali preoccupazioni
mondane; egli è libero di essere sia un saggio che uno stolto, di sentire compassione e rabbia, di
sperimentare beatitudine e tormento.
E in tutto ciò egli non spezza mai la sua identità con l’Unica Realtà – Dio, «il cui servizio è
perfetta libertà». Poiché egli sa che in qualsiasi direzione egli vada e in qualsiasi di questi molti
opposti s’impegni, egli è ancora in perfetta armonia con l’Unico che include tutte le direzioni e
tutti gli opposti. In questo senso, servire Dio è semplicemente vivere, e non è questione del modo
in cui si vive, poiché tutti i modi sono inclusi in Dio. Comprendere questo è rendersi finalmente
conto della libertà di essere vivi.
Ma è tutto qui? Possibile che la spiritualità possa essere qualcosa di così assurdamente
semplice? Sembra voler dire che per raggiungere la spiritualità si debba solo continuare a vivere
come si è sempre vissuto: essendo Dio la totalità della vita, ogni tipo di vita è spirituale. Si
potrebbe pensare che se l’idea non fosse così ridicola sarebbe estremamente pericolosa.
Dobbiamo allora ricordarci di un detto di Lao-tzu, il saggio cinese:

Quando il saggio sente parlare del Tao, lo mette in pratica… Quando lo sente lo stolto, si mette a ridere. Infatti, non
sarebbe degno di esser chiamato Tao se lo stolto non ne ridesse.

L’idea secondo cui qualsiasi tipo di vita è spirituale, è un colpo terribile per l’orgoglio
dell’uomo; dal punto di vista spirituale ci pone sullo stesso piano di pietre, piante, vermi e
scarafaggi; rende il giusto non più vicino alla salvezza dell’ingiusto e il saggio non più vicino del
pazzo. Se anche fosse follia, quest’idea rappresenta almeno un potente antidoto contro l’orgoglio
spirituale e l’autogratificazione per esser stato un “bravo ragazzo”; in realtà, non è qualcosa che
si possa raggiungere del tutto, per quanto feroci siano i vostri sforzi, per quanto grande sia il
vostro apprendimento e per quanto instancabile sia la vostra virtù. Nel mondo spirituale non
esiste alto e basso; lì tutti gli uomini e tutte le cose sono uguali e qualsiasi cosa facciano non
vanno né su né giù. La sola differenza tra saggio e uomo ordinario, è che uno realizza la sua
identità con Dio o Brahman, mentre l’altro non lo fa. Ma la mancanza di tale realizzazione non
altera il fatto fondamentale.

In che modo, dunque, si può ottenere questa realizzazione? Si tratta solo di vivere come si è
sempre vissuto, sapendosi liberi di fare esattamente ciò che si vuole? Attenzione alla falsa libertà
di fare come si desidera; per essere davvero liberi si deve essere liberi di fare anche ciò che non
si desidera, perché se si è soltanto liberi di fare ciò che ci piace si è ancora legati nel dualismo,
intrappolati dai propri capricci. Un modo migliore di raggiungere tale realizzazione è il
permettersi di essere ignoranti, perché anche gli sciocchi sono uno con Dio. Se vi sforzate di
raggiungere tale realizzazione e provate a farvi Dio, scivolerete soltanto nell’egotismo più
intenso. Ma se vi permettete la libertà di essere voi stessi, scoprirete che Dio non è ciò che
dovete diventare, ma ciò che già siete – a dispetto di voi stessi. Non abbiamo forse sempre
sentito dire che Dio si trova nei luoghi più umili?
«Il Tao» ha detto Lao-tzu, «è come l’acqua; essa cerca l’umile livello che gli uomini
aborriscono». E mentre siamo occupati a provare ad aggiungere cubiti alla nostra statura così da
poter raggiungere il cielo, dimentichiamo che in realtà noi non ci stiamo né avvicinando né
allontanando da esso. Perché «il regno dei cieli è dentro di voi».
ESISTE UN INCONSCIO?

Quando diciamo che il principale contributo della moderna psicologia alla conoscenza umana
è il concetto d’inconscio, dobbiamo fare attenzione ad alcune condizioni, poiché l’idea
d’inconscio non appartiene in alcun modo alla psicologia moderna, e quelle scuole a cui si fa
appartenere hanno punti di vista piuttosto diversi sul tema. Il concetto si associa principalmente
ai nomi di Freud, Jung e Adler, ma non esiste un termine che comprenda le loro tre scuole. Il
sistema di Freud è la psicoanalisi; quello di Jung la psicologia analitica; quello di Adler la
psicologia individuale. Non vi è alcun motivo valido, tuttavia, perché esse non debbano essere
tutte riconosciute come “psicoanalisi”; sotto il nome di “psicologia moderna”, infatti, si è soliti
individuare anche altre importanti scuole entro cui il concetto d’inconscio non gioca alcun ruolo,
come ad esempio nella psicologia della Gestalt. Generalmente si crede che la psicoanalisi insegni
che l’uomo sia dotato di una mente inconscia; questo non è completamente vero, poiché
l’inconscio non deve essere inteso come un’entità o un organismo mentale dotato di una
posizione e un’identità definita. Non vi è alcuna divisione effettiva tra l’inconscio e il resto
dell’organismo umano; piuttosto esso sta in relazione alla mente come le ghiandole, il fegato, i
reni stanno al corpo: sono parti integranti del corpo tuttavia, ordinariamente, noi non ci
accorgiamo della loro esistenza. La sola differenza è che l’inconscio non ha confini specifici.
Esso consiste nella condizione di essere inconsapevoli di certi desideri, impulsi, tendenze,
reazioni e fantasie nella nostra composizione mentale ed emozionale. Esso ha il suo parallelo
fisico nella condizione di essere inconsapevoli dei nostri vari organi e processi corporei.
Tuttavia, sembra che nel mondo della filosofia religiosa, mistica e occulta, si faccia poca o
nessuna menzione dell’inconscio. In effetti per molti studiosi di queste materie l’idea è
sgradevole, e Freud, il padre della psicoanalisi, non è mai stato perdonato per aver considerato la
religione alla stregua di una nevrosi. Infatti la gran parte delle persone religiose, che siano
ortodosse o eterodosse, considerano la psicoanalisi in tutte le sue forme come una scienza
parvenu, il cui dichiarato oggetto non è altro che lo “smascheramento” di tutti i nobili impulsi
dell’umanità e l’attribuizione di questi alla sessualità repressa. Gran parte del disprezzo che
ricade sulla psicoanalisi è ben meritato, ma ciò non deve indurci a gettare via il bambino con
l’acqua sporca. Il problema di questa nuova scienza non è tanto la psicoanalisi, quanto gi
psicoanalisti. Potrei menzionare il professore a capo di una ben nota clinica che ha dedicato la
sua vita allo studio dei test inkblot. Davanti al paziente viene fatta cadere una macchia
d’inchiostro su un pezzo di carta e gli viene improvvisamente domandato a che cosa la macchia
assomigli. Essendo piuttosto perplesso e divertito il paziente di solito sorride e dice qualcosa
come «Oh, potrebbe essere un elefante con le verruche», al che il professore assume
un’espressione assente, e mormora «Molto significativo. Molto interessante. Un elefante, sì. Con
le verruche. Estremamente interessante».
Un caso del genere non è così insolito: con i bizzarri sistemi di psicoanalisti e psichiatri si
potrebbero riempire diversi volumi. Ho sentito di professori pienamente qualificati discutere il
caso di un ragazzo la cui propensione a bagnare il letto era da attribuire indubbiamente alla sua
identificazione inconscia con Giove Pluvio. Ancor più significativi sono i meeting fra medici e
pazienti, dove alcune persone vi prendono per mano, vi fissano negli occhi, e vi chiedono se siete
estroversi o introversi. Ovviamente queste forme di psicologia hanno rapidamente acquisito tutti
i sintomi di strampalate religioni. Proprio come nel campo religioso e mistico esistono ciarlatani
e veri studiosi, così anche in psicologia vi sono altezze e mediocrità, sia per quanto riguarda le
sue idee che per i suoi medici. Ci sono, inoltre, gli stessi conflitti interni, lo stesso bigottismo, lo
stesso dogmatismo, la stessa idolatria personale, ma sarebbe difficile immaginarsi altrimenti: il
disprezzo reciproco di religione e psicologia è un caso tipico di «bue che dà del cornuto
all’asino».
Nonostante tutto, però, la psicoanalisi ha dato un contributo preciso e prezioso per gli
studiosi di religione del nostro tempo. Dico del «nostro tempo» perché la psicoanalisi è
essenzialmente un rimedio moderno per una malattia moderna; essa ha senso per quel periodo
della storia umana in cui l’inconscio è diventato un problema, da quando l’uomo ha iniziato a
immaginare che tutte le sue difficoltà di anima e sorte potessero essere risolte dal solo potere
dell’umana ragione. Gli antichi sentieri del misticismo e dell’occultismo risolvevano il problema
sin dall’inizio, ancor prima che diventasse un problema, poiché il loro primo requisito era che
l’uomo dovesse conoscere se stesso. E l’uomo si accorse ben presto che le enormi, brute forze
della natura avevano la loro controparte all’interno della sua anima, che il suo essere non era una
semplice unità, ma un pantheon di dèi e demoni. Del resto, tutte le divinità delle antiche teologie
erano note agli iniziati non tanto come gli abitanti dell’olimpo, quanto dell’anima umana. Non
erano semplici prodotti della fantasia dell’uomo, non più di quanto il suo cuore, polmoni e
stomaco sono prodotti della sua immaginazione. Al contrario, esse erano le forze davvero reali
appartenenti sia alla natura (il macrocosmo) che all’uomo (il microcosmo). L’occultismo era
dunque l’arte di saper vivere coi propri dèi e demoni, e si doveva prima imparare a trattare con
essi al proprio interno, e solo dopo trattare con essi nell’universo. Gli antichi compresero le leggi
che l’uomo deve seguire in modo da vivere con loro, e come per mezzo dell’amore gli dèi
sarebbero diventati suoi amici e i demoni i suoi servi. In ogni rituale di iniziazione era necessario
passare attraverso la valle oscura in cui il neofita arrivava faccia a faccia con il Guardiano della
Soglia e con tutti i terribili poteri della psiche. Ma il rito poteva aver successo solo se egli li
affrontava con amore, riconoscendoli come manifestazioni della stessa divinità che era il suo
vero Sé. Con questo amore egli poteva spezzare il loro incantesimo e divenire un vero iniziato.
Ma l’uomo – divenuto iper-razionale – ha finito per dimenticare i suoi dèi e demoni,
relegandoli nel regno di superstizioni passate. Li ha cercati nei cieli e vi ha trovato solo spazi
infiniti, rocce morte e sfere di gas in combustione; li ha cercati nei tuoni e nel vento e vi ha
trovato solo le forze brute dell’atmosfera; li ha cercati nei boschi e nelle caverne e vi ha trovato
solo animali in fuga, rami spezzati e ombre. Allora pensò che gli dèi fossero morti, mentre in
realtà stavano facendosi sempre più vivi e pericolosi, perché adesso potevano operare senza
essere riconosciuti. Poiché mentre i vecchi occultisti iniziavano con il principio del conosci te
stesso, i razionalisti iniziano con il principio del governa te stesso. Scelgono qualche ragionevole
modello di carattere e si sforzano di imporlo alle proprie vite, senza alcuna esplorazione
preliminare. Ma dimenticano che per l’uomo è impossibile comportarsi in modo saggio finché
non ha fatto i conti con il suo pantheon interiore. E il risultato che può scaturire è solo una
povera imitazione del comportamento del saggio, perché non viene compiuto alcun lavoro
preliminare. Per questa ragione la mente razionalistica, puritana, è come una mano di vernice
sopra un letamaio, un tentativo di copiare la grandezza indossandone solo le vesti.
L’idea dell’inconscio non è stata che la semplice riscoperta dei perduti demoni e dèi
dell’uomo. Naturalmente agli esperti occultisti sia d’Oriente che d’Occidente scappò un sorriso,
poiché per loro questa “nuova forza” chiamata inconscio non era mai esistita di per sé. E quando
gli psicologi hanno iniziato a parlare d’inconscio come se fosse solo un ricettacolo di sessualità
repressa, gli occultisti risero apertamente, sapendo che esso conteneva divinità ben più potenti
della libido, che tutt’al più era solo un piccolo diavoletto danzante in superficie. Deve essere
sembrato loro ancora più divertente sentire di nuovo discutere dell’inconscio come se si trattasse
di una sorta di individuo con dei segreti, oscuri progetti e la sfortunata tendenza di pensare e
volere in diretta opposizione del sé conscio. Poiché l’inconscio non è un individuo; esso è
semplicemente ciò che riguarda il sé che l’uomo non conosce. Come tale è un termine puramente
relativo, perché alcune persone conoscono di sé ben più di altre. Simbolicamente può essere
rappresentato come un individuo, poiché nei sogni l’aspetto ignoto degli uomini si presenta come
una donna, e viceversa con le donne. Ma in realtà quando si dice che l’inconscio fa questo o
quello, s’intende che certi particolari aspetti del vostro universo interno sono all’opera senza la
vostra conoscenza consapevole.
Il concetto di inconscio è comunque importante per i moderni studiosi di religione e
occultismo poiché rappresenta un promemoria degli dèi dimenticati e del luogo in cui essi si
trovano. Troppi aspiranti mistici e occultisti provano a seguire la tecnica razionalistica di imporre
a se stessi una disciplina, senza prima comprendere la natura delle cose che debbono essere
disciplinate. Bisogna fare i conti con gli dèi prima di poterli ignorare, e coloro che saltano
direttamente dalle ordinarie modalità di vita alle complesse discipline dell’occultismo vanno in
cerca di guai. Poiché finché tali conti non sono stati fatti, gli dèi continuano a governarci,
sebbene siamo soliti persuaderci che i loro dettami spesso irragionevoli siano una nostra libera e
ponderata scelta. Così l’imitazione del saggio è spesso un artificio messo in piedi dai demoni per
la nostra stessa distruzione, poiché l’uomo moderno, semplicemente, non realizza che la sua vita
non gli appartiene davvero finché non è passato per quella valle oscura. Finché egli non guarda
dentro di sé, cercando di trovare il nascosto pantheon per sopraffarlo con l’amore (o ciò che gli
psicologi chiamano “accettazione”), egli rimane il loro inconsapevole strumento.
In tutte le antiche filosofie – Yoga, Buddhismo, misteri greci, misteri egizi – questa
esplorazione del sé ignoto era il primo passo essenziale, e la stessa cosa è ora intrapresa dagli
psicoanalisti, usando tecniche e terminologie diverse. Che ci siano fallimenti ed errori è
prevedibile, poiché con la psicoanalisi gli uomini cercano di capire da soli la divina scienza
facendo ben poco ricorso alla preziosa esperienza accumulata nei secoli, seppure a questo ci
siano alcune eccezioni di rilievo. E sebbene gli studiosi di religione possano sentirsi offesi
quando la religione viene riferita alla sessualità repressa, si deve ricordare che in molti casi
questo può effettivamente essere vero, e che gli psicologi hanno avuto insufficienti opportunità
per studiare quel fenomeno relativamente raro, l’autentico mistico o occultista. Poiché che cosa
dovrebbe volere dalla psicoanalisi un tal uomo? L’avvertimento al principiante, comunque, resta
valido, poiché a meno che tu non conosca davvero te stesso, come puoi dire che le tue
aspirazioni apparentemente nobili siano ciò che sembrano essere? I pensieri sono spesso lupi in
abiti da pecora.
La via della psicoanalisi potrebbe essere dunque il primo passo? Purtroppo la questione non è
così semplice. Se si riesce a trovare un analista competente, forse, ma la professione di analista
attrae molti uomini che avrebbero bisogno di un’analisi ben più dei propri pazienti. La ragione è
che la psicoanalisi non ha ancora raggiunto una sufficiente profondità di esperienza per giudicare
i propri stessi risultati, per istituire una gerarchia di “iniziati” che possano essere credibili nel
dire chi è e chi non è adatto a intraprendere la professione. C’è un’altra alternativa, anche se
l’analista la riguarda di solito con orrore: ossia di analizzare se stessi. C’è bisogno di attenzione e
un paio di piedi saldamente piantati a terra, ma con il dovuto riguardo è una cosa che può essere
fatta. È possibile seguire le antiche tecniche di meditazione, e vi capiterà spesso di sentirvi più
sicuri nelle vostre mani che in quelle di un’analista. Di certo è rischioso, ma di questi tempi
troppe persone si aspettano una via “garantita” alla saggezza. La via per la saggezza è senza
alcun dubbio molto meno “sicura” della via del fare fortuna; è forse la cosa più rischiosa e più
utile al mondo, ma non si dovrebbe iniziare a meno di non essere pronti a rompersi il collo.
QUEL LONTANO EVENTO DIVINO

Cos’è quel che Tennyson descriveva con «quel lontano evento divino, verso cui tende ogni
cosa creata»8? Nella filosofia mistica e occulta è il ritorno di tutte le cose individuali alla
sorgente divina da cui sono originariamente scaturite – un evento che la cosmologia indù pone al
termine di un eccezionale periodo di tempo chiamato mahamanvantara, o “grande
manifestazione” di Brahman. Poiché secondo gli insegnamenti indù e teosofici l’attività
dell’universo è un susseguirsi di giorni e notti di Brahman, l’espirazione e l’inspirazione
dell’Unica Realtà della Vita, il cui nome deriva dal sanscrito “brih-”, da cui discende anche la
nostra parola “breath” (respiro, N.d.R.). La scienza moderna ha oggi iniziato, in un certo qual
modo, a concepire il tempo in termini simili a quelli degli antichi indù, che misuravano questi
giorni e notti di Brahman in gruppi di kalpas, essendo un kalpa quattro miliardi e 320 milioni di
anni9. Ora, se tali cose sono vere, l’uomo o la donna comune devono accettarle, in pratica, con
un atto di fede; per la gente comune è infatti difficile, se non impossibile, saggiarne la verità, sia
perché i periodi di tempo in questione vanno al di là dell’immaginazione – e ci si chiederà se tali
idee siano del più remoto valore pratico – sia perché gli eventi di cui stiamo parlando sono
certamente attribuiti al divino e indubitabilmente lontani – e potrebbe sembrare che gli antichi
indù indulgessero in oziose speculazioni in mancanza di meglio da fare.
Questa concezione induista del «lontano evento divino» – quando tutte le cose dovranno
diventare di nuovo uno con Brahman – è per noi assai difficile e, intesa per ciò che sembra, porta
alla disperazione dell’anima. Poiché non solo tra l’oggi e il riposo finale dell’universo nella
Divina Beatitudine corre un periodo di tempo tanto terrificante, ma perché la dottrina va oltre e
dice che, alla fine, l’universo tornerà di nuovo in una manifestazione, e poi in un’altra, e un’altra
e un’altra ancora: una ripetizione dell’intero processo ad infinitum. È importante ricordare,
tuttavia, che gli antichi maestri di queste dottrine descrivevano spesso questi processi
cosmologici in termini di tempo al semplice scopo di illustrare, mentre in realtà essi dovrebbero
essere intesi in termini di eternità. In questo senso eternità non è solo tempo eterno; l’eternità è
oltre il tempo: è ora. I giorni e le notti di Brahman sono distribuiti nel tempo più o meno nello
stesso modo in cui un gomitolo di un pollice di diametro si srotola per un centinaio di yard in
lunghezza. Il suo stato reale assomiglia al gomitolo, ma per essere presentato alla mente umana
deve essere srotolato. Poiché la nostra idea del tempo è spaziale; esso ha lunghezza, che è una
dimensione spaziale. Ma l’eternità non ha lunghezza, e la cosa più vicina a essa nella nostra
esperienza è ciò che chiamiamo “momento presente”. Esso non può essere misurato, eppure è
sempre qui.
Il valore di questa idea induista diviene evidente quando la si concepisce in questo modo.
Poiché essa significa che il «lontano evento divino» non è affatto distante milioni di anni nel
futuro: è ora. È in questo momento che l’universo si manifesta come una collezione di cose
individuali e separate, eppure, allo stesso tempo, ciascuna di queste cose conserva assolutà unità
e identità con la sua origine divina. Lo scopo dell’induismo, e se è per questo di quasi tutte le
religioni asiatiche, è risvegliare nell’uomo la comprensione di questa unità e identità. Tale
comprensione è chiamata moksha o kaivalya nell’Induismo e Nirvana nel Buddhismo; ed è
sorprendente quanto raramente l’Occidente raggiunga una reale comprensione di ciò che
comporta questa condizione dello spirito. La vecchia idea ottocentesca per cui nirvana
significava semplicemente oblio è ormai generalmente discreditata, ma alcune delle concezioni
che ne hanno preso il posto sono altrettanto bizzarre. Una certa tolleranza per tali fraintendimenti
deve comunque esser concessa, poiché come in Occidente esistono concezioni mature e
immature della cristianità, allo stesso modo in Oriente esistono concezioni mature e immature di
induismo e buddhismo.
È quindi piuttosto comune vedere moksha o nirvana descritti in alcuni testi orientali come
una condizione simile alla trance, in cui tutte le percezioni delle forme e degli oggetti
dell’universo scompaiono per essere sostituite da uno stato di “coscienza infinita” entro cui
l’individuo è completamente assorbito, sebbene il suo corpo fisico possa continuare a vivere. E
se mai egli esce da questa condizione di trance questa resta sempre sullo sfondo della sua mente;
e le cose che lo circondano sembrano insostanziali ombre di un sogno, poiché:

La vita, come una cupola di vetro variopinto, tinge il bianco fulgore dell’eternità finché la morte la riduce in frammenti…

Al momento della morte egli fonde per sempre la sua individualità nell’infinità, a meno che
non voglia tornare di nuovo sulla terra per insegnare dharma (la Legge) agli uomini. Ma uno dei
principali errori dell’interpretazione occidentale del pensiero asiatico è quello di equiparare
Brahman con l’infinito e la realizzazione della propria identità con Brahman come un
cambiamento dalla coscienza finita alla coscienza infinita. È bene ricordare le pertinenti parole
dell’Isa Upanishad:

Nell’oscurità sono coloro che adorano il mondo solo, ma nella più grande oscurità sono coloro che adorano l’infinito
solo. Con la conoscenza del primo siamo salvati dalla morte, e con la conoscenza del secondo siamo preservati
all’immortalità.

La più alta filosofia indù porta il nome advaita, ossia il principio di “non-dualità”, il che
significa che Brahman è ciò a cui niente può essere opposto, come il lungo si oppone al corto, la
luce al buio, il piacere al dolore, il positivo al negativo e l’infinito al finito. Questo è anche un
principio cardinale del Buddhismo Mahayana, da cui è chiaro che né per l’induismo né per il
buddhismo si può dire che la massima realizzazione spirituale sia quella di fondersi in un
qualsiasi tipo di infinito.
L’uomo realizza la sua identità con Brahman. In altre parole, non si può dire che Nirvana sia
infinito e non finito, o viceversa, o anche che sia la consapevolezza di unità e non diversità. Di
nuovo, questa è una concezione asiatica ben poco compresa in occidente, dove si pensa che la
suprema Realtà Universale dell’Induismo e del Buddhismo abbia la qualità di unità in quanto
distinta dalla molteplicità, e che la realizzazione sia la consapevolezza che le forme e gli oggetti
dell’universo siano in realtà uno, sebbene appaiano essere molti. La loro apparente diversità è
detta essere un’illusione (maya) che il saggio dovrà superare. Ma questa Realtà non è del tutto
“uno” nel senso che noi diamo alla parola; per usare un’espressione Vedanta, la Realtà è «Uno-
senza-secondo». Generalmente l’idea di uno suggerisce immediatamente l’idea di molti o di
nessuno, poiché nel momento in cui si realizza il concetto di niente si trova anche il concetto di
qualcosa, e allo stesso modo non possiamo avere l’idea di molte cose senza avere quella di una
cosa sola. La ragione di ciò è che l’idea di unità appartiene alle innumerevoli “coppie di opposti”
(dvandva) di cui la vita è composta, poiché l’uno rimanda ai molti come il lungo rimanda al
corto; i due concetti sono reciprocamente essenziali e l’uno può essere conosciuto solo per
mezzo dell’altro. Ma Brahman o Realtà è oltre gli opposti, essendo ciò che, per la sua esistenza,
non richiede distinzione. Poiché Brahman è tutte le cose; è questo mondo che vediamo intorno a
noi, è la consapevolezza e il pensiero nelle nostre menti; è il sentimento nei nostri cuori. Per
vedere Brahman dobbiamo solo guardare coi nostri occhi, poiché Brahman non è altro che ciò
che stiamo vedendo in questo momento. «E allora?» si chiede. «In questo momento sto
guardando un libro. C’è qualcosa in particolare per cui dovrei essere eccitato? Dovrei sentirmi
sollevato e spiritualmente illuminato solo perché questo libro è Brahman? Io non vedo niente di
divino e potente in questo insieme di carta e inchiostro.»
Oltre a ciò, ci sarà anche chiesto qual è la differenza tra un saggio e l’ignorante uomo
comune. Siamo abituati a pensare che un saggio o un mistico sia colui che scorge Dio o Brahman
in tutte le cose; ma se Brahman è tutte le cose, allora, nel vederle, l’uomo comune non sta
facendo niente di meno del saggio? Questo è perfettamente vero, ma la differenza tra il saggio e
l’uomo comune è che quest’ultimo manca di comprenderlo. La ragione è che poiché non c’è
niente a parte Brahman, Brahman non può essere visto in modo del tutto ordinario. Per vedere le
cose dobbiamo essere in grado di distinguerle, ossia, dobbiamo essere in grado di separarle dalle
altre cose o dai noi stessi. Ma con Brahman questo non può essere fatto, poiché mentre tu stai
guardando questo libro, Brahman sta guardando Brahman. Dobbiamo quindi considerare il modo
in cui il saggio giunge a comprendere questo, e in che modo una tale comprensione sia di valore
pratico.
Naturalmente il saggio non lo comprende solo concettualmente; per lui non è soltanto
un’idea intellettuale, come l’idea per cui lo spazio è curvo. Un matematico può essere in grado di
dimostrare, in teoria, che lo spazio è curvo, ma egli non può vederlo curvo coi propri occhi; tale
conoscenza è per lui puramente concettuale e non fa alcuna differenza per il suo comportamento
ordinario. Egli non inizia a camminare seguendo curve immaginarie; e a meno che non sia
piuttosto distratto non ha alcuna difficoltà nell’andare da San Francisco a New York senza
passare per Città del Messico. Ma per il saggio la consapevolezza della sua identità con Brahman
è di enorme importanza pratica; egli lo sa così bene e pienamente come sa di essere vivo. Ma
questo certamente non significa che al posto di se stesso, delle altre persone, case, stelle, colline
e alberi, egli veda un’infinita, pervasiva e informe luminosità, che pare essere l’idea che alcune
persone hanno della Divina Realtà. Se un tale stato di coscienza fosse possibile, sarebbe ancora
dualistico, e implicherebbe una differenza assoluta tra Realtà e mondo ordinario. Piuttosto, si
dovrebbe dire che egli percepisce che Brahman, la forza dell’universo, è all’opera in tutto ciò che
fa, pensa e sente, e questo dà un impulso potente e liberatorio al suo spirito. In ciò egli si sente
libero e redento, che è l’esatto significato di kaivalya. Egli si è liberato da se stesso, ossia,
dall’unica cosa che abbia mai legato chiunque: si è lasciato andare. L’uomo non illuminato tiene
una stretta sulla propria vita perché ha paura di perdere se stesso; egli non può fidarsi né delle
circostanze né della sua stessa natura; egli è terrorizzato dall’essere autentico, dall’accettare se
stesso così com’è; e prova a ingannare se stesso credendo di essere come egli vuole che sia. Ma
questi sono desideri, i desideri che lo legano, e tali desideri erano indicati dal Buddha come la
causa principale della miseria umana.
Gli uomini immaginano che il lasciarsi andare porterebbe loro risultati disastrosi; senza
confidare nelle circostanze né in se stessi – che insieme costituiscono la vita – sono sempre
pronti a interferire e a provare a conformare le proprie anime e il mondo a dei modelli
preconcetti. Questa interferenza è semplicemente il tentativo dell’ego di dominare la vita. Ma
quando vi accorgete che tutti i tentativi sono infruttuosi, e sentite allentarsi quell’innata e
timorosa resistenza alla vita in se stessi e intorno a sé che è chiamata egoismo, allora si realizza
la libertà dell’unione con Brahman. In realtà avete sempre avuto questa libertà, poiché lo stato di
unione con Brahman non può essere guadagnato né perduto; tutte le cose e tutti gli uomini, loro
malgrado, ne dispongono. Essa può essere realizzata, ossia resa reale per voi, solo lasciandosi
vivere dalla vita per un po’, invece di provare a far vivere la vita. Raggiungerete presto il punto
in cui sarete incapaci di dire se i vostri pensieri e sentimenti siano proprio i vostri o se la vita li
ha messi in voi, poiché la distinzione tra sé e vita si è dissolta. A dire il vero, non c’è mai stata
alcuna distinzione, salvo che nella nostra immaginazione. Questa è chiamata unione con
Brahman, poiché «colui che perderà la sua vita, la troverà».
LA PARABOLA DELLA CODA DI MUCCA

Un famoso kōan Zen chiede:

Quando una mucca esce dal suo recinto ai bordi dell’abisso, le corna, la testa e gli zoccoli passano attraverso il cancello,
ma perché la coda non riesce a passare?

Commentando ciò, un vecchio maestro dice:

Se la mucca corre cadrà nel fosso, se ritorna verrà macellata.

Quella piccola coda è una ben strana cosa.


Nella ricerca della comprensione della vita arriva un momento in cui ciascuno di noi si
confronta con «quella piccola coda» – quel piccolo ostacolo che si frappone alla piena
realizzazione. Noi sappiamo che è solo una frazione di spessore infinitesimale, eppure la
sentiamo come se fosse larga un milione di miglia. In matematica c’è un’equazione che, quando
viene disegnata come un grafico, appare come una curva che si avvicina costantemente a una
data linea, eppure non la raggiunge mai. Al principio la curva si distende arditamente verso
quella linea, e la testa, le corna e gli zoccoli attraversano tranquillamente il cancello, ma nel
momento in cui la coda sta per passare, la curva si raddrizza, lasciando solo una frazione
infinitesimale tra lei e la linea. Nel procedere, quella frazione continua ad assottigliarsi, ma
ancora la curva e la linea non s’incontrano, e se anche dovesse continuare per un migliaio o un
miliardo di miglia il divario persisterebbe, sebbene a ogni punto successivo diventerebbe sempre
più piccolo. Questa curva rappresenta il progresso della mente umana verso l’illuminazione,
mentre afferra sfumature di significato sempre più sottili a ogni fase del suo viaggio. È come se
un filo ci tenesse legati a un’illusione; per indebolirlo lo dividiamo con la lama dell’intelletto, e
ancora e ancora, finché le sue divisioni divengono così sottili che per fare i suoi tagli la mente
deve essere indefinitamente affilata. Eppure, per quanto abbiamo diviso questo filo, la somma
totale delle sue divisioni non è un briciolo più sottile del filo originario, poiché più fragili
rendiamo i nostri legami, maggiore è il loro numero.
Filosoficamente questa condizione è nota come regressione infinita, e psicologicamente è
quello stato folle ed esasperante che precede sempre l’esperienza finale del risveglio. Possiamo
vederlo grazie al famoso triangolo enigma della filosofia Mahayana. I due punti base di questo
triangolo rappresentano le coppie di opposti che ci troviamo di fronte in ogni momento della
nostra esperienza – soggetto e oggetto, io e tu, positivo e negativo, qualcosa e nulla. L’apice
rappresenta la relazione, il significato tra di essi, il principio che dà loro realtà, l’Uno come
distinto dai Molti. Ma nel momento in cui fissiamo questo Uno come separato dai Molti, noi
creiamo un’altra coppia di opposti, iniziando così un processo che continuerà a tempo
indeterminato e con complicazioni sempre crescenti. Nella Bhagavad Gita ci viene detto di farci
da parte dai nostri pensieri e sentimenti, di realizzare che essi non sono il Sé e d’imparare che il
Sé non è l’attore, ma lo Spettatore delle azioni. Ma di nuovo, perché non farsi da parte da quel
primo farsi da parte, e realizzare che non è il Sé che si fa da parte, poiché il Sé non esegue alcuna
azione? Anche questo potrebbe continuare all’infinito.
Il primo passo nel Buddhismo è il Giusto Movente, ed è detto che per raggiungere
l’Illuminazione si deve farla finita con il desiderio egoistico. Ma se fin dal principio abbiamo
desiderio egoistico, sicuramente anche il desiderio di sbarazzarsi di esso è ancora egoismo.
Desideriamo sbarazzarci del nostro egoismo per una ragione egoistica, e di nuovo possiamo
facilmente avere una ragione egoistica per sbarazzarci della ragione egoistica di voler essere
altruista. Un’illustrazione ancora più fondamentale del problema può essere trovata nella più
semplice dichiarazione della filosofia orientale, per la quale esiste solo una Realtà e secondo la
quale tutta la diversità è mera illusione. Questa è un’affermazione che quasi tutti gli studenti di
saggezza orientale danno per scontato: è la prima cosa che imparano eppure è quasi tutto quello
che c’è da imparare, poiché il resto è semplicemente orpello. È, allo stesso modo, il principio
centrale del Vedanta, del Buddhismo Mahayana e del Taoismo: non esistono due princìpi
nell’universo; c’è un solo Brahman, Tathata o Tao, e l’Illuminazione non è che la realizzazione
della propria identità con esso. Ma qui cominciano le complicazioni, dove la coda della mucca
resta bloccata nel recinto; poiché nel momento in cui pensiamo, “Questo è Tao” o “Quello è
Tao” immediatamente compiamo una distinzione tra Tao e questo o quello. Inoltre, non appena
pensiamo che l’oggetto della religione sia quello di identificarci con il Tao, creiamo il dualismo
del Tao e di noi stessi che devono identificarsi con esso. Il dualismo appare nel momento stesso
in cui facciamo un’asserzione o una negazione riguardo a qualsiasi cosa; non appena pensiamo
che Questo è Quello o che Questo non è Quello, siamo in presenza di una distinzione tra Questo
e Quello. E anche quando diciamo che in realtà non ci sono distinzioni, abbiamo l’opposizione di
Realtà e distinzioni.
Inoltre, consideriamo questo problema: se c’è solo Tao, come può esserci una qualsiasi
divergenza da esso? Se c’è una sola Realtà, i nostri pensieri, illuminati o non illuminati, devono
già essere essa stessa. Se c’è solo Realtà non può esserci distinzione tra Realtà e illusione. Che
concentriate i vostri pensieri o meno, siano essi di compassione o odio, che stiate pensando al
Buddhismo o a mordervi le unghie, in ogni caso non potete divergere dal Tao. Potete amare la
vita o potete detestarla, eppure il vostro amore e disgusto sono esse stesse manifestazioni della
vita. Se cercate unione con la Realtà, il vostro stesso cercare è Realtà, e come si può dire di aver
mai perso l’unione?
Per dirla in un altro modo: si dice che per essere illuminati si deve vivere nell’eterno Ora, in
quell’infinitamente piccolo eppure infinitamente grande punto del tempo che è chiamato
momento presente. L’universo esiste solo in quel momento, ed è detto che il saggio si muove con
esso, senza aggrapparsi né al passato né al futuro, impiegando la sua mente come uno specchio,
riflettendo tutto ciò che gli giunge davanti, istantaneamente, ma senza fare alcuno sforzo per
mantenere la riflessione quando l’oggetto è rimosso. «L’uomo perfetto» dice Chuang-tzu,
«impiega la sua mente come uno specchio. Non afferra niente; non rifiuta niente. Riceve, ma non
trattiene».
Eppure, quando si considera la questione con attenzione, troviamo che questa non è una
descrizione di ciò che dobbiamo fare, ma di ciò che in ogni caso non possiamo evitare di fare.
Poiché se pensiamo al passato o al futuro, qualsiasi cosa pensiamo di loro, i nostri pensieri
esistono e prendono parte di quest’eterno Ora; altrimenti non esisterebbero affatto. Non
possiamo separarci da questo momento presente, ma se immaginiamo che l’Illuminazione
consista semplicemente nel vivere nel presente, nel pensare solo a ciò che sta accadendo ora, noi
ci troviamo nel dualismo di ora e dopo. Il punto è che possiamo solo pensare a ciò che sta
accadendo ora, anche se stiamo pensando al passato o al futuro. Poiché i nostri pensieri sul
passato e il futuro sono in corso ora, e noi stiamo pensando a loro. C’è solo una Realtà! Sarà
quindi chiesto: «L’Illuminazione è semplicemente vivere e pensare come ogni idiota ignorante,
senza preoccuparsi di filosofia, moralità o misticismo, sapendo che qualsasi cosa si faccia non si
può comunque uscire dall’armonia con il Tao?».
Se rispondiamo «Sì», affermiamo; se diciamo «No», neghiamo. La coda è ancora
intrappolata nel recinto. Ma se pensate di raggiungere l’Illuminazione vivendo come uno sciocco
ignorante, sarete ancora presi nella trappola del dualismo – del te che deve ottenere
l’illuminazione. In verità non vi è alcuna ricetta per l’illuminazione, poiché non appena iniziamo
a dire che si tratta di questo o non si tratta di quest’altro, noi proviamo a fare due realtà
nell’universo invece di una. In effetti, si può pensare alla filosofia o a bere e mangiare, si può
amare l’umanità, si può odiarla, si può fare come si vuole, si può fare come non si vuole, si può
avere disciplina, si può essere selvaggi, si può cercare la saggezza, si può ignorarla, ma non si
può divergere dal Tao, poiché ogni cosa, qualsiasi cosa e niente, è Tao. Esso è? Attenzione a
quell’“è”. Il veleno è nella coda.
IL SECONDO IMMORTALE

C’era una volta un uomo che viveva esattamente come chiunque altro. Aveva una moglie, tre
bambini e un negozio dove vendeva torte, verdure e sottaceti dolci. Si alzava all’alba e andava a
letto al tramonto, mangiava riso tre volte al giorno; fumava due pipe di tabacco all’ora; parlava di
comprare e vendere coi suoi vicini; usava lo stuzzicadenti dopo aver mangiato e nell’afa di
mezzogiorno si faceva grattare la schiena dalla moglie. In primavera guardava la giovane erba far
capolino da dietro le rocce; in estate alzava gli occhi verso le nuvole pigre; in autunno seguiva le
foglie che danzavano nel vento; e in inverno si svegliava per vedere le tracce degli uccelli sulla
neve. E in tutte le stagioni, tra parlare e fumare e vendere torte, masticava semi di melone e si
divertiva a intrecciare corde di paglia tra le dita dei piedi.

Un giorno, quando andò a bruciare l’incenso al tempio dell’Amabile Dragone, il suo amico
sacerdote gli si avvicinò, e gli disse: «Stai invecchiando e tuo figlio maggiore ha l’età per
prendersi cura del negozio. Per un uomo come te non sarebbe appropriato trascorrere il resto dei
tuoi giorni in vuote attività, finirai nella tomba in modo insignificante, proprio come i vecchi
rifiuti che sono gettati nel fiume».
«Questa è la sorte dell’uomo» rispose il venditore di torte, «come potrei lamentarmi?».
«Tanti uomini sono meri vegetali» disse il sacerdote. «Ma se sei disposto a prenderti la briga
puoi trovare un posto fra gli Immortali.»
«E chi sono gli Immortali?» chiese il venditore di torte.
«Sono coloro che per mantenersi in vita non dipendono dal proprio potere. L’uomo è una
piccola creatura e la sua vita è come un fiocco di neve. Ma il vento soffia per sempre; il sole e la
luna mantengono eternamente i loro corsi e i fiumi scorrono sin da quando è iniziato il tempo.
Gli Immortali sono coloro che imparano i segreti di tutte queste cose; invece di basarsi sulle
proprie risorse, essi permettono a se stessi di essere mantenuti e diretti da ciò che mantiene e
dirige il vento, il sole, la luna e i fiumi.»
«Ma come si può diventare uno di loro, un Immortale?»
«Dovrai trovarne uno che te lo insegni» disse il sacerdote, «perché io non sono abbastanza
saggio».
«Bene» disse il venditore di torte «ne troverò uno. Ma ci sono così tante persone al mondo,
come posso riconoscere un Immortale?».
«Quello non dovrebbe essere difficile» rispose il sacerdote. «Si dice che il loro respiro sia
prodotto dal vento; che il sole dia loro la luce all’occhio destro e la luna all’occhio sinistro, che le
loro grida siano assistite dal tuono, il loro sussurrare dal mormorio delle onde e le loro risa dai
torrenti di montagna. Si dice che la terra nutra la loro carne, mentre le loro ossa e i loro fluidi
vitali siano forniti dalle rocce e dalle piogge. I loro pensieri e stati d’animo sono diretti
dall’andare e venire delle stagioni e degli elementi, e avendo tali poteri come motori di tutte le
loro funzioni si dice che siano liberi da tutte le limitazioni ordinarie, e più potenti degli stessi
dèi.»
«Un tale essere» osservò il venditore di torte, «dovrebbe essere facile da riconoscere» e
immediatamente ritornò a casa, sistemò le sue cose, istruì il figlio più grande su come prendersi
cura del negozio e la sera stessa lasciò la città per il suo viaggio alla ricerca di un Immortale.
Dopo molte settimane passate sulla strada giunse a una capanna abitata da un vecchio
personaggio dall’aspetto severo, che sembrava avere almeno duecento anni. La sua barba bianca
accarezzava la parte superiore delle sue scarpe e la parte superiore della sua testa luccicava come
i gomiti di un vecchio cappotto. Notando il suo aspetto venerabile e i molti volumi di classici di
cui si circondava, il venditore di torte gli si avvicinò e lo pregò di dargli qualche istruzione,
pensando che dovesse essere sicuramente un Immortale, poiché era la persona più vecchia che
avesse mai visto. «È passato molto tempo» disse il vecchio venerabile, «da quando il mio
consiglio è stato richiesto per qualsiasi cosa, poiché questa è un’epoca dissoluta, e la padronanza
della vita non è compresa da coloro che non riescono a rispettare i quarantotto precetti e non
riescono a evitare le novantuno imprudenze. Siedi, e ti istruirò sulle parole degli antichi saggi».
Al che cominciò a leggere i classici, e il venditore di torte ascoltò finché il sole non tramontò. E
nel giorno seguente egli lesse ancora, e ancora il giorno successivo e il successivo e il successivo
e il successivo, e così via, finché il venditore di torte non perse il senso del tempo. Ed egli fu
istruito e disciplinato nelle otto azioni virtuose, sui ventinove pensieri lodevoli, sulle cento e otto
osservanze cerimoniali, sui quarantadue segni di carattere superiore, i trentasette atti di pietà
filiale e le quattrocentotré propiziazioni di spiriti mal disposti. E nel frattempo il venditore di
torte crebbe in giustizia e condotta, e iniziò a credersi ben avviato sulla strada dell’immortalità.
Ma un giorno si accorse improvvisamente che erano già passati una ventina di anni da quando
aveva incontrato il venerando studioso; i giorni della sua vita si stavano facendo più brevi e
ancora non sapeva nulla dei segreti del sole, della luna, dei fiumi, del vento e degli elementi. Al
pensiero di tutto ciò fu preso dall’agitazione, e nella notte riprese di nuovo il suo cammino.
Dopo alcune settimane passate a vagare in montagna giunse all’entrata di una grotta dove
stava seduto uno strano essere. Le sue membra erano come il tronco di un pino nodoso, i suoi
capelli come fili di fumo trasportati dal vento e i suoi occhi fissi e ardenti come quelli di un
serpente. Debitamente impressionato, il venditore di torte pregò di nuovo per ricevere istruzioni.
«Immortali…» disse quest’uomo. «Essi hanno il vento come respiro, dunque è necessario che tu
impari l’arte dell’espansione dei polmoni. Ma questo non può essere appreso se si masticano i
semi di melone e si fumano pipe di tabacco in un’ora e si mangia tre volte al giorno. Se vuoi
avere il vento come respiro, devi mangiare un solo chicco di riso e bere una tazza d’acqua al
giorno. Devi eliminare il fumo dalla trachea e imparare a respirare, ma solo due volte al giorno.
Solo allora i tuoi polmoni saranno capaci di contenere il vento.»
Così il venditore di torte si mise a sedere all’entrata della grotta, mangiò un solo chicco di
riso e bevve una sola tazza d’acqua al giorno. E con le istruzioni del saggio egli riuscì a ridurre e
a ridurre la velocità del suo respiro, finché arrivò a credere che gli occhi stessero per
abbandonare le proprie orbite e i timpani delle orecchie fossero sul punto di scoppiare e
disturbare tutti gli uccelli del bosco. Ma per molti anni egli continuò e continuò, finché non riuscì
effettivamente a respirare solo due volte al giorno. Dopo tanto tempo si accorse che la pelle gli
ricopriva il corpo come le ragnatele ricoprono i rami secchi di un cespuglio, e le conseguenze di
una condotta così eccessiva ed estrema lo spaventarono a tal punto che egli fuggì dalla grotta.
Per molti mesi cercò un maestro, e non trovando nessuno cominciò a chiedersi se forse non
avesse perseverato abbastanza con il vecchio maestro nella grotta. Così s’incamminò di nuovo
verso le montagne. Sulla strada s’imbatté in un venditore ambulante che portava una pertica sulle
spalle a cui era attaccato un pacchetto contenente un assortimento di pentole, perline, pettini,
bambole, utensili da cucina, materiale per scrivere, semi, forbici, bastoni e incenso. Per un po’ si
fecero compagnia a vicenda, conversando su materie oziose come la cucina, i modi migliori di
scacciare le pulci, i piaceri di una morbida pioggerellina e i vari tipi di carbone per accendere il
fuoco. Alla fine il venditore di torte disse all’uomo del suo desiderio di trovare un Immortale che
potesse istruirlo, e chiese se egli avesse mai conosciuto una persona del genere. «Prendi un seme
di melone» gli disse l’ambulante, offrendogliene una manciata. «Ti ringrazio, ma preferisco non
mangiarli; se li mangio annulleranno il mio potere dei polmoni espansi». Il commerciante si
strinse nelle spalle e per un po’ continuarono a camminare; il silenzio veniva rotto soltanto dal
rumore che facevano i semi di melone tra i denti del commerciante – un suono che riempiva
l’animo del venditore di torte con una gran varietà di emozioni. Da un lato sentiva il bisogno di
spezzare la sua disciplina, e una volta di più udì il suono eminentemente soddisfacente dei semi
che si spezzavano tra i denti; dall’altro lato sentiva di dover persistere nella sua ricerca e chiese
ancora all’ambulante se conoscesse gli Immortali. Forse, pensò, l’ambulante non ne aveva mai
sentito parlare, ma se sapeva come erano fatti avrebbe potuto riconoscerne uno. «Mi chiedevo»
disse il venditore di torte, «se nei tuoi viaggi ti è mai capitato di incontrare qualcuno dall’aspetto
strano e potente, il cui respiro è prodotto dal vento, i cui occhi destro e sinistro sono
rispettivamente illuminati dal sole e dalla luna, il cui grido è assistito dal tuono, il sussurro dal
mormorio delle onde e le risate dai torrenti di montagna, le cui ossa e fluidi sono forniti dalle
rocce e dalle piogge, e i cui pensieri e stati d’animo sono diretti dall’andare e venire delle
stagioni e degli elementi».
«Oh, sì» rispose il commerciante, «ho visto molti di questi esseri. Anzi, credo che due di essi
stiano camminando su questa strada».
«Cosa!» gridò il venditore di torte. «Proprio su questa strada? Sbrighiamoci allora, dobbiamo
raggiungerli!» Così aumentarono l’andatura dei loro passi, e quando arrivò la notte non si
fermarono a riposare poiché il venditore di torte aveva convinto l’ambulante che viaggiando di
notte li avrebbero raggiunti. All’alba si trovarono in cima a una collina da cui potevano vedere la
strada dinanzi a loro per diverse miglia, ma mentre guardavano dall’alto in basso non c’era
nessuno, da nessuna parte, che poteva essere visto.
«Forse» disse il venditore di torte, «li abbiamo superati durante la notte».
Al che guardarono indietro, e di nuovo una vista di molte miglia rivelava loro la strada vuota.
Nel vedere ciò il venditore di torte si fece molto triste. «Devono aver preso un sentiero di
montagna» disse, «noi due siamo le sole persone su questa strada». «Ah» disse l’ambulante, «mi
sono dimenticato di dirti una cosa: quando vanno in coppia uno di loro due è sempre invisibile.
Ma tu stai cercando due uomini che viaggiano insieme. Guardiamo di nuovo». Ancora una volta
il venditore di torte guardò su e giù per la strada, ma non vide nessun altro uomo a parte il suo
compagno, l’ambulante.
«No» sospirò il venditore di torte «li abbiamo persi. Non ne vedo né uno né due».
«Sei sicuro?» rispose il commerciante. «Io credo di riuscire a vederne uno.»
«No» disse il venditore di torte. «Non c’è nessuno sulla strada, a parte te.»
A questo punto il commerciante iniziò a ridere, e mentre rideva la sua risata ricordò al
venditore di torte il suono di un torrente di montagna.
«Tu!» esclamò, «tu sei un Immortale? Ma tu sei del tutto ordinario!».
«È la verità» sorrise l’ambulante «devo ammetterlo. Vedi, io devo girare in incognito, perché
altrimenti sarei seguito dappertutto, e sarebbe ben più scomodo».
«Ma il tuo compagno invisibile» chiese il venditore di torte, «anche lui è qui? Ha l’aspetto di
un Immortale? Descrivimelo!».
«Certamente» rispose l’ambulante. «Il suo respiro è mosso dal vento, ma non lo noti; la luce
del suo occhio destro e sinistro è data dal sole e dalla luna, ma non la vedi; il suo grido è del
tuono, il suo sussurrare delle onde e il suo sorridere del torrente, ma non lo senti; la sua carne è
mantenuta dalla terra e le sue ossa e i suoi fluidi vitali dalle rocce e dalle piogge, ma non lo
comprendi; i suoi pensieri e stati d’animo sono diretti dall’andare e venire delle stagioni e degli
elementi, ma non ne sei consapevole. Egli non si affida a risorse proprie, ma consente a se stesso
di essere mantenuto e diretto da ciò che mantiene e dirige il vento, il sole, la luna e i fiumi, ma
non lo riconosci.»
«Dev’essere meraviglioso» esclamò il venditore di torte. «Per favore, chiedigli di farsi
vedere, così che io possa carpirne i segreti.»
«Faresti meglio a chiederlo a te stesso» replicò l’ambulante. «Solo tu hai il potere di renderlo
visibile. C’è una magia con cui ti è possibile farlo apparire.»
«Raccontami!»
«La magia» rispose il commerciante, «è questa: in primavera, guarda la giovane erba far
capolino tra le rocce; in estate, solleva un occhio verso le nuovole pigre; in autunno, segui le
foglie danzare nel vento; in inverno, scova le tracce degli uccelli sulla neve. Alzati all’alba e vai
a letto al tramonto; mangia riso tre volte al giorno; parla di comprare e vendere coi tuoi vicini;
mastica semi di melone e intreccia corde di paglia intorno alle dita dei piedi».
E nell’udire queste parole il venditore di torte scoprì chi era il secondo Immortale.
IL PROBLEMA DELLA FEDE E DELLE OPERE NEL BUDDHISMO

È generalmente ritenuto che il Buddhismo filosofico, e soprattutto quella sua forma espressa
nel Canone Pāli, sia la via par excellence per raggiungere coi propri mezzi la salvezza o
l’illuminazione; poiché nella filosofia attribuita a Gautama dai primi scritti non viene accordato
alcun ruolo a Dio o agli dèi nell’assistere l’uomo sulla via dello sviluppo della sua vita spirituale;
l’esistenza di tali esseri divini non viene semplicemente negata: viene ignorata. Il principio base
è che nessun potere, in terra o in cielo, può interferire con il karma di qualcun’altro. E il karma
(nel Pāli, kamma) è un termine assai inclusivo, poiché primariamente significa “azione” o
“agire”, sebbene in un senso secondario sia giunto a indicare la legge di causa ed effetto – un
senso che le interpretazioni teosofiche occidentali hanno sin troppo enfatizzato. Il Buddhismo
originale, però, non mette da parte solo la possibilità di interferenza con il karma per il fatto che
è impossibile separare una causa dal suo effetto (nel senso cristiano di assoluzione). In esso vi è
anche il rifiuto della possibilità di intervento divino alla fine causale del processo, non avendo
parallelo col concetto cristiano di Grazia. Nella cristianità non esiste potere umano che possa, per
risorse proprie, causare giustizia e salvezza, poiché in virtù del peccato originale è per l’uomo
impossibile elevarsi senza il dono della grazia divina.
Il Buddhismo, tuttavia, sembra essere un metodo per elevarsi con le proprie forze; infatti, in
un famoso passaggio nella Mahaparinibbana-sutta (v. II, 27-35), ci viene detto: «Siate luce a voi
stessi; siate rifugio a voi stessi; non affidatevi a nessun rifugio esterno; aggrappatevi saldamente
alla Verità quale unica luce; aggrappatevi saldamente alla Verità quale unico vostro rifugio; non
cercate rifugio in altri se non in voi stessi».
Sia il Buddhismo Hinayana che Mahayana, nello sviluppo storico delle loro filosofie e
pratiche, si sono per la gran parte attenute a questo principio di assoluta fiducia in se stessi. Se vi
è un qualsiasi accenno alla fede è solo fede nelle proprie capacità di raggiungere la salvezza,
oltre alla fede nell’abilità del Buddhismo di fornire il metodo necessario. Nel sistema Hinayana il
metodo era quello di esaurire il processo del karma realizzando la fondamentale irrealtà
dell’individuo (atta), che mette il karma in azione. Col metodo Mahayana s’indica una
variazione di tale sistema, ma sotto l’influenza del pensiero brahamanico esso completava l’idea
d’irrealtà individuale con il concetto di Realtà universale, non-duale, simile all’idea Vedanta del
Brahman. In un certo senso questa Realtà – indicata con termini come Tathata, Shunyata e
Dharmakaya – era al di là del karma (akarma), e così la realizzazione della sua sola esistenza
partecipava della liberazione dalle fatiche del karma, seppur continuando a vivere nel «mondo di
nascita-e-morte». Ma il radicale non-dualismo, ad esempio, del Lankavatara-sutra rifiutava
addirittura di fare alcuna distinzione assoluta tra karma e akarma, il mondo dell’illusione e il
principio di Realtà, l’individuo separato, transitorio, e l’eterna, indifferenziata, “Talità”
(Tathata).
Non vi è alcun Nirvana tranne dov’è Samsara; non c’è Samsara tranne dov’è Nirvana, poiché la condizione dell’esistenza
non è di carattere reciprocamente esclusivo. Pertanto, è detto che tutte le cose sono non-duali come lo sono Nirvana e
Samsara.10

Il problema della fede e delle opere nel Buddhismo, come vedremo, sarà interamente
discusso nei termini della scuola Mahayana. Per comprenderne lo sfondo dottrinale e psicologico
dovremo fare particolare attenzione alla dottrina Mahayana della non-dualità, tenendo anche
presente che solo in Mahayana vi è una via di salvezza che risulta per fede. La nostra attenzione
sarà rivolta, tuttavia, agli aspetti dottrinali e psicologici del problema piuttosto che a quelli
storici, poiché non possiamo dire con esattezza se lo sviluppo storico della via della fede sia il
risultato logico di alcune tendenze filosofiche o la risposta a un naturale bisogno umano. Inoltre,
l’aspetto storico del problema è complicato dall’incertezza riguardo l’esatta epoca di molti degli
importanti sutra coinvolti. Sappiamo però che la via della fede si sviluppò abbastanza presto
nella storia Mahayana, giocando un importante ruolo nei lavori dei primi patriarchi della scuola
come Nagarjuna, Ashvaghosha e Vasubandhu.
La filosofia Mahayana è incentrata su due idee strettamente correlate. La prima, discendente
dal Vedanta, è che l’Illuminazione (l’obiettivo della vita buddhista) consiste nella realizzazione
interiore della non-dualità. Tutte le cose da cui l’uomo non illuminato dipende per la sua felicità
sono duali, e dunque, condizionate dai loro opposti. Non si può avere vita senza morte, né
piacere senza dolore. Dunque, non possiamo far dipendere la nostra salvezza ultima da qualsiasi
coppia di opposti (dvandva), poiché i due termini sono tanto essenziali l’uno per l’altro come
l’anteriore e il posteriore sono essenziali alla totalità di qualsiasi oggetto. Così, nel guardare a tali
stati limitati per la nostra salvezza, siamo coinvolti in un mondo di alti e bassi che va sotto il
nome generico di Samsara, la ruota della nascita e della morte.

Lo scopo del buddhismo, sin dal principio, era quello di giungere alla liberazione da questa
ruota, di scoprire lo stato del Nirvana, di differire da tali stati limitati cercando l’esistenza eterna,
immutevole e non soggetta ad alcun basso né alto. Nel Canone Pāli non viene posta enfasi
particolare sulla non-dualità del Nirvana. Vi è qui qualcosa di abbastanza estraneo e diverso dal
Samsara – una via di fuga. Ma nella scuola Mahayana il Nirvana viene descritto più o meno con
lo stesso linguaggio con cui le Upanishad descrivono il Brahman, l’«Uno-senza-secondo». In tal
senso Nirvana è l’esperienza che – non avendo opposto – differisce da tutte queste esperienze
limitate. I sutra Mahayana si sforzano di sottolineare la non-dualità di Nirvana e Illuminazione
(bodhi), da non consentire neppure che Nirvana sia opposto a Samsara, o che l’Illuminazione sia
opposta all’Ignoranza (avidya). Per l’uomo pienamente illuminato, Samsara è Nirvana;
l’esperienza ordinaria, di tutti i giorni, del mondo degli opposti, si trasforma per lui nella
suprema esperienza spirituale di salvezza o libertà.

Il secondo importante principio del Mahayana è l’ideale del Bodhisattva. Il Bodhisattva, per
un verso, è un Buddha minore. In un altro senso è colui il quale, con sforzo paziente e dopo
innumerevoli incarnazioni, ha ottenuto il diritto al Nirvana, ma che rinvia la sua entrata finale
nell’eterno riposo al fine di tornare nel mondo e operare per la liberazione di «tutti gli esseri
senzienti». Ma questa visione piuttosto suggestiva del Bodhisattva è in realtà tratta dal punto di
vista Hinayana. Nirvana è ancora una fuga da Samsara, anche se il Bodhisattva ha rinunciato
temporaneamente ad esso. Ma secondo il radicale punto di vista Mahayana l’ideale Bodhisattva è
la conseguenza necessaria di una filosofia che nega la dualità di Nirvana e Samsara. Il
Bodhisattva non ha bisogno di fuggire da Samsara perché ha realizzato che Samsara è Nirvana.
Così, per citare ancora il Lankavatara-sutra:

Poi vi sono altri che, impauriti dalla sofferenza inerente alle discriminazioni sulla vita e la morte, incautamente cercano il
Nirvana. Essi sono giunti a vedere che tutte le cose soggette alla discriminazione non hanno alcuna realtà e così
immaginano che il Nirvana debba consistere nell’annientamento dei sensi e dei loro campi di sensazione; essi non
apprezzano il fatto che nascita-e-morte e Nirvana non siano disgiunti l’uno dall’altro. Essi non sanno… che il Nirvana è
la Mente Universale nella sua purezza…

Ma qualunque sia la visione del Nirvana, il Bodhisattva è il salvatore, colui che fa voto
(pranidhana) di posporre qualsiasi ritiro definitivo dal mondo fin quando non ha visto tutte le
cose viventi liberate e sollevate al livello della sua stessa comprensione. Così, in una serie di
sette buddhiste, il monaco ripete ogni giorno la seguente promessa d’identificare se stesso con
l’ideale Bodhisattva:

Per quanti innumerevoli siano gli esseri, faccio voto di salvarli tutti.
Per quanto inesauribili siano le passioni, faccio voto di estinguerle tutte.
Per quanto siano incommensurabili le sante dottrine, faccio voto di studiarle tutte.
Per quanto sia incomparabile la verità del Buddha, faccio voto di raggiungerla.

Si può anche notare che sebbene il monaco prometta di salvare tutti gli esseri senzienti, egli
non sembra aspettarsi che qualcuno salvi lui. I suoi voti sono decise asserzioni di autosufficienza,
e questo è in linea con la tendenza principale della filosofia e pratica Mahayana in tutte le sette,
eccezion fatta per quelle popolari, che pongono il Bodhisattva nella posizione di salvatore,
meritevole di adorazione e da cui dipendere, attribuendogli più o meno il potere salvifico che i
cristiani riconoscono al Cristo. Sembrerebbe dunque esserci un’enorme contraddizione tra il
Buddhismo popolare e quello filosofico all’interno della scuola Mahayana. Tuttavia, l’intento di
questo scritto è mostrare che tale incoerenza è più apparente che reale.

La forma di gran lunga più popolare di Buddhismo nella Cina e nel Giappone moderno è una
via di salvezza attraverso la fede. Essa ha raggiunto il suo sviluppo più radicale e interessante in
Giappone, ma come abbiamo visto le sue origini sono in India, nei primi lontani giorni della
storia Mahayana. La maggior parte degli studiosi buddhisti non riesce a trovare una vera
somiglianza d’intenti tra questi culti popolari e il buddhismo radicalmente autosufficiente di
Gautama e della filosofia Mahayana. Tali culti vengono di solito considerati come mere
degenerazioni del credo, una pura concessione alla natura umana non rigenerata, che richiede
esseri soprannaturali per raggiungere ciò che gli uomini, troppo pigri e troppo spaventati, non
riescono a raggiungere da soli. Non c’è alcun dubbio che vi siano un sacco di esseri umani
troppo pigri e spaventati, e che un semplice metodo di salvezza per fede faccia naturalmente
appello a loro, soprattutto quelle sue forme più estreme che non assegnano alcun credito
all’efficacia delle opere. Ma vi sono altre considerazioni da fare, e da un certo punto di vista tali
forme estreme assumono per noi il più profondo interesse. Questo punto di vista lo devo
principalmente al dottor D.T. Suzuki, che nel suo saggio The Shin Sect of Buddhism (Eastern
Buddhist, vol. VII, nos. -, luglio ) ha condotto uno studio particolare e suggestivo della
filosofia e della psicologia che stanno alla base del Buddhismo della fede. Ma finora egli non ha
fatto uno studio approfondito sulle relazioni psicologiche della via della fede e della via delle
opere. Questa mi pare una linea d’indagine necessaria, poiché credo che gli studiosi occidentali
di origine cristiana non possano riuscire a capire davvero il Buddhismo delle opere a meno che
essi non passino prima per il Buddhismo della fede, di per sé così vicino al credo cristiano.
In generale, il Buddhismo della fede si fonda sul Sukhavati-vyuha, il quale, per quanto ne
sappiamo, fu compilato circa trecento anni dopo la morte di Gautama. Il Sukhavati-vyuha
racconta di un Dharmakara, che, in qualche età incommensurabilmente lontana, fece quarantotto
voti riguardanti la liberazione degli esseri senzienti. Prima di fare questi voti egli si era dedicato,
per un altrettanto incommensurabile arco di tempo, in innumerevoli buone opere, in modo da
acquisire per se stesso un merito sufficiente per dare un grande aiuto a tutto il mondo. Ma egli
rinunciò alla ricompensa dell’Alto Raggiungimento che gli spettava in virtù di tali opere, in
modo da poter presiedere nella terra del Buddha (buddha-kshetra) di Sukhavati – il Paradiso
Occidentale – e da lì guardare il mondo fino a quando tutti gli esseri viventi fossero rinati nella
sua Terra Pura e così certi dell’illuminazione finale. Da allora in avanti egli divenne noto come il
Buddha Amitabha (Luce senza fine) o Amitayus (Vita Eterna). La forma cinese del nome è O-
mi-to-fo, e quella giapponese è Amida, con la quale è più generalmente noto. Nella seconda parte
del sutra si dichiara che coloro i quali, in completa fede, si volgeranno verso Amida e ripeteranno
il suo nome risorgeranno dopo la morte nella Terra Pura.
Ma è difficile trovare nel Sutra stesso una base sufficiente per alcune delle sue interpretazioni
successive, e fu così fino all’epoca dell’amidista giapponese Shinran Shonin, che sviluppò una
reale filosofia di salvezza raggiungibile per pura fede. Nel sutra, Amida è in grado di trasferire il
suo merito ad altri perché, in accordo alla filosofia rappresentata dall’Avatamsaka-sutra, ciascun
singolo atomo contiene in se stesso l’intero universo. Pertanto, le opere di un individuo
influenzano tutti gli altri; se un uomo si eleva, egli eleva al contempo l’intero universo. Ma qui
Amida non è la sola fonte di merito come il Dio cristiano è la sola fonte di bontà. Nel Mahayana
il trasferimento del merito (parina mana) è un processo che può operare reciprocamente tra tutti
gli esseri, e sebbene l’individuo sia aiutato dal condividere il merito di Amida, egli è ancora in
grado di acquisire meriti con i suoi soli sforzi e senza aiuto, aggiungendo così il proprio
contributo allo sforzo universale. Così, nel Sukhavati-vyuha la possibilità di autosufficienza non
è per niente esclusa, e Amida resta uno fra i tanti Buddha; egli non si trova ancora elevato nella
posizione di unica sorgente di luce e vita – personificazione par excellence della Realtà finale e
suprema. La sua distinzione consiste solo nel fatto che lui ha reso un contributo particolarmente
grande alle riserve di merito che tutti possono condividere, e dall’aver messo la sua Terra di
Buddha a disposizione di tutti coloro che la cercano nella fede. C’è tuttavia differenza tra “nella
fede” e “per fede”.

La crescita di un culto attorno ad Amida fu sostenuta dalla comune visione secondo cui in
questa epoca oscura della storia (kali yuga) è impossibile per chiunque ottenere l’Illuminazione
sulla Terra, anche se alcuni progressi verso di essa possono comunque essere compiuti; da qui il
vantaggio di essere rinato in un regno libero dai lacci e dalle impurità della vita terrena durante il
suo ciclo oscuro. Qui siamo in grado di rilevare sia una razionalizzazione della pura pigrizia, ma
anche il sorgere di ciò che il cristianesimo chiama la convinzione del peccato, la realizzazione
dell’impotenza dell’uomo separato da Dio. Troviamo inoltre un notevole parallelo tra questo
graduale allontanamento dalla fiducia in se stessi legalistica ed etica del buddhismo, con la
rivolta di san Paolo contro le leggi ebraiche – e per analoghi motivi psicologici. Così, nel settimo
capitolo della sua Lettera ai romani, san Paolo scrive: «Però io non ho conosciuto il peccato se
non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: non
desiderare. Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me
ogni sorta di desideri. Senza la legge infatti il peccato è morto e io un tempo vivevo senza la
legge». Proprio allo stesso modo c’erano buddhisti che vedevano come la rigida moralità dello
stato monastico, con la sua insistenza sul precetto negativo, servisse solo ad aggravare il
desiderio interiore del vizio. Essi si trovarono in un vicolo cieco spirituale, incapaci di cambiare
se stessi poiché il sé che doveva essere cambiato era lo stesso sé che doveva fare il cambiamento
– un’impresa impossibile, com’è impossibile baciare le proprie labbra. Certamente, una profonda
comprensione della psicologia del Lankavatara-sutra e del Avatamsaka-sutra avrebbe mostrato
una via d’uscita da tale vicolo cieco, una via che molte scuole dell’iniziativa individuale
indicarono (come verrà mostrato), ma che molti non riuscirono a cogliere. Il problema non
consisteva tanto nelle peculiari difficoltà di quella psicologia, quanto negli ostacoli da dover
superare prima di poter avere un assaggio di essa. Poiché era nascosta sotto un’imponente
struttura metafisica, e non poteva essere penetrata – setacciando il grano dal loglio – da coloro
che non erano dotati di notevoli capacità intellettuali. E se anche un tale grano gli fosse stato
donato, essi non sarebbero stati in grado di apprezzarlo.
Non deve quindi sorprendere che il Buddhismo dell’Estremo Oriente si ribellò in due modi
ben distinti da una combinazione di metafisica e autodisciplina, che potevano essere sopportate
separatamente ma non insieme. La prima rivoluzione fu contro la metafisica, e questo dette vita
alla scuola cinese di Ch’an (in giapponese, Zen) la cui profonda comprensione intuitiva degli
elementi essenziali di Mahayana rese il suo pesante intellettualismo non più necessario. Zen
scoprì un modo di comunicare il significato senza ricorrere alle parole, e infine Mahayana
divenne, in sostanza, una psicologia e una religione in quanto distinta da una filosofia. Ma nella
dottrina e disciplina lo Zen rimase essenzialmente un sistema di iniziativa individuale. La vera
rivoluzione contro l’assoluta dipendenza dalle opere e dall’autodisciplina giunse, infine, in
Giappone. Il suo leader fu Shinran Shonin (1173-1262), un discepolo del grande maestro della
Terra Pura (Jodo), Honen Shonin.
Prima di Shinran, la scuola della Terra Pura era stata solo parzialmente una via di salvezza
per fede, e ancora oggi in Giappone esistono due forme distinte di Buddhismo della Terra Pura –
Jodo-shu e Shin-shu, con il primo di questi che pone un forte accento sull’efficacia delle opere.
Così il buddhismo giapponese si divide nelle due grandi distinzioni di jiriki (forza propria) e
tariki (forza dell’altro), la via dell’Illuminazione per mezzo della fiducia in se stessi e la via
dell’affidamento al Voto Originale (purvapranidhana) di Amida. Sotto jiriki noi includiamo le
scuole Zen, Shingon, Tendai, Kegon e Nichirem, sotto tariki la Shin-shu11, mentre Jodo-shu sta
più o meno a metà, anche se con una tendenza verso tariki.
Shinran iniziò i suoi studi buddhisti presso la famosa comunità Tendai di Monte Heiei, vicino
a Kyoto, dove raggiunse un grado di una certa importanza. Ma nonostante tali conseguimenti egli
fu travolto dal problema morale, riconoscendo che nel suo cuore egli non era migliore del più
semplice dei novizi. Shinran era profondamente consapevole della sua umanità e ben
consapevole che la semplice autodisciplina fosse del tutto inadeguata per liberarlo dalla schiavitù
del karma. Tentare di risolvere il karma con l’autodisciplina era come tentare di raccogliere il
sapone con le dita bagnate; più forte è la presa, più velocemente il sapone scivola via.
(L’analogia è mia, non di Shinran). Più di tutti i suoi predecessori, egli era consapevole
dell’opprimente schiavitù della vita terrena nel suo ciclo attuale, e in quanto uomo di sentimento
più che di intelletto, fu infine attratto al bhakti-marga della Terra Pura nella persona di Honen
Shonin (1133-1212). Con Honen egli alleggerì la sua mente, e fu consigliato di riporre la sua
fiducia in Amida e di abbandonare la vita monastica, sposandosi. Successivamente i preti Shin
non si votarono mai al celibato. Shinran non rimase nella scuola della Terra Pura a cui
apparteneva Honen; egli fondò la sua scuola per preservare la purezza di una fede che secondo
lui gli ordinari preti Jodo non comprendevano appieno.
Ci sono due caratteristiche principali della religione di Shinran. La prima è la sua concezione
di parinamana, o trasferimento del merito. Per lui, Amida era l’unica e originale fonte di merito.
La nascita nella Terra Pura non era più una questione di dirigere il proprio bagaglio di meriti
verso Amida – come indicherebbe una lettura rigorosa della Sukhavati-vyuha. Shinran trasformò
il senso delle parole, rendendo la nascita nella Terra Pura dipendente dal trasferimento dei meriti
di Amida verso l’individuo. La seconda caratteristica deriva dalla prima, ed è la dottrina della
pura fede. Secondo Shinran, nessun possibile merito umano potrebbe mai far guadagnare il
formidabile diritto di nascere nella Terra Pura, e immaginare che una così grande benedizione
potesse essere reclamata come giusta ricompensa per lo sforzo umano rappresentava per lui la
vetta dell’orgoglio spirituale. Alla luce dell’infinita compassione di Amida (karuna), tutti gli
esseri – che siano vermi, demoni, santi o peccatori – erano ugualmente meritevoli di amore,
come se Amida dicesse «ho lo stesso sentimento per il basso come per l’alto, per il giusto come
per l’ingiusto, per il virtuoso come per il depravato, per i settari e per chi ha false opinioni e per
coloro i cui credi sono buoni e giusti». Coloro che riponevano fede in Amida dovevano dunque
offrirsi a lui proprio come erano, non immaginando che la Terra Pura potesse essere una
ricompensa per la virtù umana. L’amore di Amida non è da guadagnare; è proprietà universale –
come il sole, la luna e le stelle – qualcosa che deve essere accettato con umiltà e gratitudine, ma
mai misurato sulla base del merito umano. Così Shinran disse:

Non devi immaginare che non saresti accolto da Amida nella sua Terra a causa della tua peccaminosità. Come gli esseri
ordinari tu sei in possesso di tutti i tipi di passioni malvagie e destinato ad essere peccaminoso. Né devi immaginare di
aver garantita la tua nascita nella Terra Pura a causa della tua bontà. Finché il tuo jiriki ti trattiene, non sarai mai
benvenuto nella vera Terra della Ricompensa di Amida.12

Tutto ciò che serve è rinunciare per sempre all’idea di raggiungere il merito in virtù del
proprio potere, e dunque aver fede di essere accettato sin dal principio – in virtù della
compassione di Amida – a prescindere da quale sia la propria condizione morale. Si deve anche
rinunciare all’idea che la stessa fede sia raggiungibile grazie al proprio potere, poiché anche la
fede è un dono di Amida. Così l’uomo in quanto uomo diviene spiritualmente passivo e, per
grazia di Amida, lascia che l’eterno amore fluisca in lui e lo salvi così come egli è,
simboleggiando la sua fede nel ripetere il Nembutsu, la formula Namu Amida Butsu (Ripongo la
mia fiducia nel Buddha Amida). Secondo il Anjin-ketsujo-sho:

Comprendere il Voto significa comprendere il Nome, e comprendere il Nome è comprendere che quando Amida,
portando a maturità il suo Voto e Virtù (o opera) in luogo di tutti gli esseri, compie la loro rinascita anche prima del loro
effettivo conseguimento.13 (corsivo mio)

Il fatto che Amida stesso sia la sola sorgente di grazia è ulteriormente sottolineato in questo
passaggio citato da Shinran nel Tannisho (capitolo 8):
Il Nembutsu è non-pratica e non-bontà per i suoi devoti. È non-pratica perché egli non la pratica a sua discrezione, ed è
non-bontà perché egli non la crea a sua discrezione. Tutto è attraverso il solo potere di Amida, non attraverso il nostro
potere, che è vano.14

A prima vista sembrerebbe che l’efficacia di Shin dipenda da certe sanzioni soprannaturali di
un genere che l’ordinario buddhista jiriki avrebbe grande difficoltà a credere. Tali difficoltà
saranno sempre esperite finché Shin è studiato nei termini della sua teologia, poiché per
chiunque, eccetto un cristiano, sembrerebbe la più semplice delle illusioni. Poiché equivale a
questo: che sia possibile diventare un Buddha per mezzo della pura fede. Secondo Suzuki:

Esser nato nella Terra di Amida non significa altro che raggiungere l’illuminazione – i due termini sono del tutto
sinonimi. Il fine ultimo della vita Shin è l’illuminazione e non la salvezza.15

Così i devoti Shin si riferiscono alla loro morte come Mi hotoke, o “Onorati Buddha”. Ma
non appena si esamina la psicologia Shin come distinta dalla sua teologia, diviene possibile porla
in relazione con le più profonde esperienze di Mahayana, come espressa, per esempio, nel
Lankavatara-sutra e in alcuni degli scritti dei maestri Zen, in particolare Lin-chi-lu (in
giapponese Rinzai-roku). Poiché non dobbiamo chiedere che cosa Shin crede, ma quali sono le
cause e i risultati di quel credo in termini di sentimento interiore, di quelle esperienze spirituali
interiori che le parole da sole non possono mai comunicare pienamente.
Ad esempio, prendiamo il caso di una persona vivamente consapevole dei suoi difetti, delle
sue paure, desideri e passioni, della sua mancanza di conoscenza, e di qualsiasi senso di unione o
armonia con la vita dell’universo – in effetti, un uomo come Shinran. Poi qualcuno gli dice che
se solo aprirà gli occhi, vedrà che egli è un Buddha (è salvato da Amida) esattamente per come è,
e che qualsiasi tentativo di diventare un Buddha grazie alla propria abilità è in realtà mero
orgoglio spirituale. Adottando jiriki egli sta ignorando ciò che gli viene offerto sin dal principio
dalle leggi dell’universo, per tentare di costruirselo da sé, così da potersi prendere il merito di
averlo ottenuto. Quando noi diciamo che un uomo è un Buddha per come egli è, cosa significa in
termini psicologici? Significa che egli è divino, o fondamentalmente accettabile proprio così
com’è, che sia santo o peccatore, saggio o stupido. Nel linguaggio amidista diremmo che è
accettato per la nascita nella Terra Pura, in virtù della compassione di Amida, che «non fa
distinzione tra le persone»16 – in altre parole, a quell’uomo è dato il senso di libertà di essere ciò
che egli è in questo e in qualsiasi altro momento, libero di essere sia il punto massimo che il
punto minimo che si trova in lui. Tutto ciò si traduce in un grande rilassamento della tensione
psichica. Tutti gli sforzi auto-alimentati ed escogitati (hakarai) vengono messi da parte con la
realizzazione che la buddhità non può essere né raggiunta né abbandonata, perché essa sola è.
Poiché, nel non-dualismo Mahayana, il principio del Buddha, Tathata (Talità), non ha opposto ed
è la sola realtà. E mentre l’Anjin-ketsujo-sho dice che Amida ha compiuto la nostra rinascita
nella Terra Pura «anche prima del conseguimento vero e proprio», il Lankavatara-sutra dice che,
se solo lo realizzano, tutti gli esseri sono nel Nirvana fin dal principio. Qui ci sono due dottrine,
ma una sola esperienza psicologica.
In termini pratici è un’esperienza di inebriante libertà spirituale, pari quasi alla santificazione
dell’ordinario, della vita di ogni giorno. Perché quando l’uomo si sente libero di essere tutto ciò
che davvero è, c’è come una magia in ogni sua più piccola azione e pensiero. Così il poeta Zen
Hokoji dice:

Meraviglioso potere e attività soprannaturale: attinger l’acqua, portar la legna.

Non si può resistere dal citare Herbert dal punto di vista cristiano:

Tutte le cose di Te partecipano; nulla può essere così meschino.

Questa esperienza può essere chiarita e più strettamente legata alla via jiriki da un’ulteriore
considerazione del Lankavatara-sutra e degli scritti di alcuni maestri Zen. Sarà ora chiaro che la
fede Shinran ha il diritto di essere considerata Mahayana filosofico espresso in modo piuttosto
colorato e simbolico, sebbene sembri essere piuttosto dualistica nella concezione. Il Mahayana
filosofico non avrebbe permesso il dualismo di sé e dell’altro, uomo e Amida; ma, se seguito più
a fondo, Shin giunge a esperire ciò che Mahayana afferma in filosofia – sebbene la completa non
dualità sia in realtà al di là della descrizione filosofica. Inoltre, il Lankavatara-sutra insiste che
Samsara, il mondo della vita e della morte, è Nirvana, e Samsara così com’è, con tutto il suo
dolore e la sua sofferenza. Così, anche Shinran sottolinea che noi siamo salvati da Amida così
come siamo, con tutte le nostre imperfezioni. In altre parole, gli uomini comuni – così come sono
– sono Buddha, e in accordo a Hui-neng, della scuola Zen, coloro che chiamiamo i Buddha sono
semplicemente coloro che hanno compreso una tale verità. Perciò si è spesso osservato nella
letteratura Zen che i propri «pensieri ordinari» o «la mente di ogni giorno» è Illuminazione
(satori). Cito un passaggio particolarmente suggestivo dal Rinzai-roku:

Non devi ingegnarti. Sii il tuo ordinario io… Sii te stesso così come sei – questo è Buddha Dharma. Mi alzo o mi siedo;
mi vesto o mangio; dormo quando sono stanco. L’ignorante mi deriderà, ma il saggio capirà.17

E più oltre il testo dice: «Poiché è detto che la mente di tutti i giorni è la vera legge». Suzuki
traduce un altro passaggio da questo testo; qui Rinzai dice:

L’uomo veramente religioso non deve far altro se non andare avanti con la propria vita come la trova nelle varie
circostanze di questa esistenza mondana. Si alza con calma al mattino, si veste e va a fare il suo lavoro. Quando vuole
camminare, cammina, quando vuole sedere, siede. Non ha brama per la Buddhità, né il suo più remoto pensiero è rivolto
a ciò. Com’è possibile? Un uomo saggio dei tempi antichi dice, nonostante ti sforzi per raggiungere la buddhità con
qualsiasi espediente cosciente, in realtà il tuo buddha è la fonte dell’eterna trasmigrazione.18

Questo tipo di scrittura è assai facilmente fraintesa, poiché sarebbe naturale chiedere: «Se la
vita ordinaria è Nirvana e i pensieri ordinari sono Illuminazione, cosa potrà mai insegnarci il
buddhismo a parte continuare a vivere esattamente come abbiamo vissuto fino a ora?». Prima di
provare a rispondere dobbiamo citare due mondo, o dialoghi Zen. Il primo è tratto dal Mumonkan
(XIX):

Joshu chiese a Nansen: «Cos’è il Tao?». «La vita ordinaria» rispose Nansen, «è il vero Tao». «Come possiamo
accordarci con esso?» «Se tenti di accordarti con esso, ti allontanerai da esso.»19

Assomiglia molto alla pura psicologia tariki. Poi Suzuki aggiunge il seguente mondo dal
Bokushu (Mu-chou):
Un monaco gli chiese: «Dobbiamo vestirci e mangiare ogni giorno, come possiamo sfuggire da tutto ciò?». Bokushu
rispose: «Ci vestiamo, mangiamo». «Io non capisco.» «Se non capisci, mettiti i vestiti e mangia il tuo cibo.»

Chiaramente la domanda del monaco implica molto più del semplice vestirsi e mangiare:
indica la vita nel Samsara nel suo complesso – «le cose da nulla, il lavoro quotidiano».20
Applicando la filosofia a questo linguaggio più diretto, troviamo che i maestri Zen stanno
dimostrando che Samsara – così com’è – è Nirvana, e che l’uomo – così com’è – è Buddha. Lo
Zen non vuole affermare ciò come regola, perché i termini Nirvana e Buddha sono concetti che
non smuovono profondamente l’anima e conducono facilmente al mero intellettualismo. Lo Zen
vuole farci sentire la non-dualità; non vuole che sia solo il pensiero a concepirla. Dunque quando
diciamo «Nirvana è Samsara», stiamo unendo due cose che non hanno mai avuto bisogno di
essere unite. Poiché sia Zen che Shin mirano, in modi diversi, a rendere effettivo uno stato
psicologico o spirituale in grado di muovere tutto l’essere, non solo la testa. Cercano di liberarci
al nostro interno, di farci sentire a nostro agio con noi stessi e con l’universo in cui viviamo.
Conosciamo questa libertà quando la smettiamo di “sforzarci”, e accettiamo noi stessi per come
siamo; tuttavia non credo che l’esperienza possa dirsi efficace a meno che non ci sia stato prima
un tale stato di lotta e di sforzo. Nello Zen questo è autodisciplina; nello Shin è il giungere a
un’acuta consapevolezza della propria insufficienza per mezzo di un precedente tentativo di
autodisciplina. È difficile che l’esperienza Shin possa essere pienamente apprezzata a meno che,
come Shinran, non si sia prima intentata la via jiriki. Il pericolo di persistere sulla via jiriki è che
si può così facilmente diventare vittima dell’orgoglio spirituale, aspettandosi di fare di sé un
Buddha; il pericolo del tariki è che l’esperienza può giungere così facilmente che il suo vero
significato resta nascosto e la sua forza non sentita.
La libertà spirituale, tuttavia, implica molto più che il continuare a vivere esattamente come
si è vissuto finora. Essa implica un particolare tipo di gioia, o ciò che indica il termine buddhista
ananda (beatitudine). È la scoperta che per accordarsi all’universo, per esprimere il Tao, non si
deve che vivere, e quando ciò è pienamente compreso diventa possibile vivere la propria vita con
un peculiare entusiasmo e abbandono. Non ci sono più ostacoli al pensare e al sentire; puoi
lasciare che la tua mente vada in qualsiasi direzione tu desideri, poiché tutte le possibili direzioni
divengono accettabili, e puoi sentirti libero di abbandonarti a ciascuna di esse. Da nessuna parte
vi è possibilità di fuga dal principio di non-dualità; dunque «sii te stesso come sei – ciò è Buddha
Dharma». In tale stato non può esserci orgoglio spirituale, poiché l’unione o identità con il
principio buddha non è qualcosa che l’uomo può raggiungere; è raggiunto per lui dal principio
del tempo, proprio come il sole è posto in alto per donargli luce e vita.
Eppure, nella vita dello spirito, è molto più difficile ricevere che dare; è spesso un tale colpo
per l’orgoglio umano dover accettare da Amida – o Dio, o la vita – quel che sarebbe molto più
distintivo ottenere da sé. In termini Shin, dovremmo dire che il significato della libertà è il poter
pensare qualsiasi tipo di pensiero, essere qualsiasi tipo di persona e fare qualsiasi cosa senza mai
essere in grado di allontanarsi dall’amore onnicomprensivo e dalla generosità di Amida. Tu sei
libero di fare come desideri, e anche di fare come non desideri, di essere libero e legato, di essere
un saggio ed essere uno stupido. Non ci sono ostacoli all’attività spirituale. Allo stesso tempo,
c’è un’intensa consapevolezza della gioia di tale attività; ci si sente spinti a esercitarla e sentire
l’estasi del suo abbandono, così come immaginiamo debba sentirsi un uccello nel librarsi in alto
nell’aria, libero di ascendere, di piombare in basso, di volare a nord, sud, est, ovest, di tracciare
un cerchio, arrampicarsi, cadere o vagare. Poiché «il vento soffia dove vuole, e tu ne odi il
suono, ma non sai da dove viene né dove va. È lo stesso per chiunque è nato dallo spirito». O, nel
linguaggio più fattuale di un maestro Zen: «Qui non ci sono strade secondarie né incroci. Per
tutto l’anno le colline sono fresche e verdi; est o ovest, in qualsiasi direzione si può fare una bella
passeggiata».
Resta il problema morale. A una lettura superficiale la libertà della non-dualità pare essere un
invito al libertinismo più plateale. In termini filosofici, i sutra Mahayana affermano molto
francamente che il principio di non-dualità è al di là del bene e del male, e che il suo ottenimento
non ha alcuna essenziale connessione con la moralità. E con moralità s’intende qui ogni genere
di opera, sia sociale che spirituale. Certamente i sutra parlano di sila, o moralità, come una delle
tappe necessarie, ma a volte sembra quasi che sila sia semplicemente sostenuto come
salvaguardia contro l’uso improprio dell’enorme, amorale potere della conoscenza suprema. Così
il Lankavatara-sutra dice:

Nella realtà ultima non c’è degradazione né continua successione; [solo] la verità dell’assoluta solitudine (viviktadharma)
è insegnata qui dove la discriminazione di tutte le immagini è acquietata… Ma [dal punto di vista assoluto] la decima
tappa è la prima, e la prima è l’ottava; e la nona è la settima, e la settima è l’ottava… che gradazione c’è laddove prevale
l’assenza di immagini?21

In un altro passaggio leggiamo:

Un giorno tutti e ciascuno saranno influenzati dalla saggezza e l’amore del Tathagata della Trasformazione per far scorta
di meriti e ascendere le tappe. Ma, se essi solo lo realizzassero, essi sono già nel Tathagata del Nirvana poiché, nella
Nobile Saggezza, tutte le cose sono in Nirvana sin dal principio.

Una dichiarazione ancora più forte della filosofia si troverà nel Saptasatikaprajnaparamita
Sutra:

O Sariputra, commettere gli oltraggi è raggiungere l’inconcepibile, raggiungere l’inconcepibile è produrre Realtà. E la
Realtà è non-duale. Quegli esseri dotati di inconcepibilità non possono andare né in cielo, né per i cattivi sentieri, né al
Nirvana. Coloro che commettono offese non sono vincolati all’inferno. Sia le offese che le inconcepibilità sono della
Realtà, e la Realtà è per natura non-duale… Nel reale Dharmadhatu (Regno della Legge) non c’è nulla di buono o
cattivo, niente alto o basso, niente prima o dopo… Bodhi (illuminazione) è le cinque offese e le cinque offese sono
Bodhi; se uno considera Bodhi come qualcosa da ottenere, qualcosa in cui la disciplina è possibile, quell’uno pecca di
arroganza.22

Qui, oltre a un’inequivocabile dichiarazione della non-dualità, c’è di nuovo un esempio di


psicologia tariki, parlando dell’arroganza di chi si sforza di ottenere Bodhi per mezzo della
disciplina.
Mahayana non nasconde il fatto che la sua saggezza sia pericolosa e noi sappiamo che i
monaci delle scuole jiriki sono soggetti a rigide discipline volte proprio al precondizionamento
contro l’abuso della conoscenza, che è purtroppo un evento abbastanza frequente. Ma
sembrerebbe che tale abuso sia possibile solo quando l’esperienza di libertà sia troppo
flebilmente apprezzata o non correttamente compresa. Stranamente, sebbene l’esperienza stessa e
la cosa sperimentata (Tathata) sia non-duale e al di là del bene e del male, il risultato di
un’esperienza veramente profonda è la moralità. Shinran si scaglia fermamente contro coloro che
fanno uso del voto di Amida e poi vanno comportandosi immoralmente come sempre. Egli
paragona tali uomini a coloro che, poiché hanno trovato un antidoto per un veleno, continuano a
prenderlo. Ma questo è un modo piuttosto negativo di guardare al problema. Da un punto di vista
positivo, Shin direbbe che la compassione di Amida per noi e per tutti gli altri esseri, quando
compresa, fa appello a una corrispondente compassione in noi stessi. In termini Mahayana,
significa che, avendo compreso che noi e tutte le creature siamo Buddha, dobbiamo dunque
trattare con loro con la reverenza dovuta al principio di Buddha.
Un secondo fattore che si dirige verso la moralità è la gratitudine sentita per la libertà di
essere completamente se stessi, una gratitudine così profonda che gli uomini spesso rinunciano a
un po’ di quella libertà come a un’offerta per grazia ricevuta. Ovviamente c’è maggior
opportunità di crescita per questo sentimento di gratitudine quando la Realtà Ultima è
personalizzata nella forma di Amida. Dal punto di vista filosofico non esiste un vero fondamento
per la gratitudine, perché nella non dualità non esiste né donatore né ricevente. Da qui il pericolo
di una comprensione meramente filosofica. Ma da un punto di vista emotivo sembra esserci ogni
ragione per essere grati. Nello scoprire la libertà di essere completamente se stessi vi è
un’esperienza simile al perdono dei peccati cristiano; per quanto nera sia la tua anima, essa non è
posta al di fuori dell’amore di dio, il quale è onnipresente, come dio stesso; e in questo contesto
vale la pena di citare un notevole passaggio dal lavoro di un teologo cattolico:

Poiché noi non siamo mai davvero al di fuori di Dio né egli è al di fuori di noi. Lui è più con noi di quanto noi siamo con
noi stessi. L’anima è meno intimamente con il corpo di quanto Lui sia nei nostri corpi e anime. È come se egli fluisse in
noi, o come se noi fossimo in Lui come pesci nel mare. Noi usiamo Dio, se possiamo osare dire così, ogni volta che
facciamo un atto di volontà, e quando procediamo a eseguire uno scopo. Egli non ci ha semplicemente dato la chiarezza
della mente, la tenerezza del cuore e la forza degli arti come doni che possiamo usare indipendentemente da Lui una
volta che egli li ha conferiti su di noi. Ma Egli permette distintamente e in realtà concorre con ogni loro uso nel modo di
pensare, amare o agire. Questo influsso e concorso di Dio, come i teologi lo chiamano, dovrebbe darci per tutte le nostre
vite la sensazione di essere in un terribile santuario, dove ogni vista e ogni suono è degno di culto. Esso dà un peculiare e
terribile carattere all’atto del peccato… Ogni cosa è penetrata da Dio, mentre la Sua purezza indicibile è tutta
incontaminata, e la sua adorabile semplicità non mescolata con ciò che egli pervade così intimamente, illumina, anima e
sostiene. Le nostre azioni più comuni, i nostri divertimenti più leggeri, le libertà in cui più ci distendiamo – tutte queste
cose hanno luogo e sono trattate, non così tanto sulla terra e nell’aria, quanto nel petto del Dio onnipresente.23 (corsivo
mio)

Ci sono punti importanti in cui queste parole di Faber divergono dalla filosofia Mahayana,
poiché nella cristianità Dio è essenzialmente Altro. Ma nella misura in cui una dottrina è un
simbolo di un’esperienza interiore, io non riesco a vedere notevoli differenze tra il sentimento
interiore suggerito dalle parole di Faber e il sentimento interiore del buddhismo Mahayana,
soprattutto nei culti amidista. Così l’esperienza di libertà o Illuminazione è come scoprire una
perla incommensurabilmente preziosa in un atto insignificante e nel pensiero più basso. Essa si
scopre dove qualsiasi gioiello può esser trovato – nelle profondità della terra, o nel fango. E i
gioielli non sono lasciati dove stanno; sono sollevati dal fondo, lucidati, riposti sul velluto o
incastonati nell’oro. Un tale lucidare e ornare è il nostro simbolo di moralità, l’espressione della
nostra gioia e gratitudine nel realizzare che: «Questa stessa terra è la Terra del Loto della
Purezza, e questo stesso corpo è il corpo del Buddha»24.
È interessante notare la grande importanza che viene data al culto nella scuola Zen il quale,
filosoficamente, è la forma più iconoclasta del Buddhismo. C’è forse un indizio per l’apparente
incompatibilità del culto e della non-dualità nel seguente episodio dall’Hekigan-roku:
Huang-po (in giapponese Obaku) dichiarò: «Io semplicemente adoro Buddha. Non chiedo niente a Buddha. Non chiedo
niente a Dharma. Non chiedo niente a Sangha». Poi qualcuno disse: «Tu non chiedi niente a Buddha. Tu non chiedi
niente a Dharma. Tu non chiedi niente a Sangha. A che cosa serve, allora, l’utilizzo del culto?». Nell’udire quel
commento Huang-po gli dette uno schiaffo in faccia!25

Il sentimento buddhista di culto e gratitudine è soprattutto espresso, tuttavia, nell’ideale


Bodhisattva, basato su una profonda intuizione dell’unità fondamentale di tutte le creature e cose.
Coloro che, avendo raggiunto l’Illuminazione, non divengono Bodhisattva, aiutanti del mondo,
sono chiamati pratyeka-buddha, che nella filosofia Mahayana è quasi un termine offensivo. Essi
non sono disposti a condividere la loro esperienza di libertà con i loro altri sé, e parlando
rettamente, l’Illuminazione non è Illuminazione a meno che non sia condivisa e diffusa. Non è
proprietà di alcuno, e coloro che provano a possederla per sé non la comprendono. Servizio,
moralità e gratitudine sono le nostre risposte come uomini per un dono al quale non possiamo
rispondere come Buddha. Il principio di Buddha è al di là della moralità, ma non così il principio
umano. Dal punto di vista della non-dualità, questi due princìpi sono uno; eppure ciò che è
spesso trascurato nello studio del Mahayana è che dallo stesso punto di vista essi sono due.
Poiché la non-dualità non esclude niente; essa contiene sia unità che diversità, uno e molti,
identità e separazione. Il Buddhismo giapponese esprime ciò nella formula byodo soku shabetsu,
shabetsu soku byodo – unità nella diversità e diversità nell’unità. Per questa ragione,
filosoficamente, moralmente e spiritualmente, il buddhismo è chiamato la Via di Mezzo.
IL DOMANI NON ARRIVA MAI

Quando diciamo che tutte le cose nell’universo sono l’attività creativa di Dio, questo è
davvero come mettere delle gambe a un serpente o dipingere il riflesso su uno specchio. Essa
non deve essere paragonata al vedere di fatto quell’attività, sebbene noi la chiamiamo «attività di
Dio» per porre su di essa un’attenzione particolare. Ma il problema è che gli uomini spendono
così tanta energia alla ricerca di Dio da non riuscire a vederne l’attività, e questo è davvero un
triste stato di cose. Che cos’è questa attività? I fiumi scorrono; i fiori sbocciano; tu cammini per
strada. In realtà non ci sarebbe bisogno di dire altro che questo; tuttavia, a volte, diciamo «attività
di Dio» per mostrare una certa comprensione a quel tipo di persona che potrebbe ribattere: «I
fiumi scorrono; i fiori sbocciano; tu cammini per strada – e allora?».
E allora? Ebbene, che cosa stai cercando? Ecco qualcuno che sta mangiando al ristorante e
ancora si lamenta di star morendo di fame. Ma in realtà, la parola e il concetto di Dio – o
Brahmin, Tao o quel che volete – fu introdotto proprio per tali stomaci ingrati. È un modo per
enfatizzare la vita reale, per porre l’attenzione su di essa più o meno nello stesso modo in cui
enfatizziamo le parole sottolineandole o mettendole in corsivo. Così noi chiamiamo l’universo
«l’attività di Dio» per indurre quel «e allora?» e per suscitare attenzione e rispetto, poiché un tale
individuo inchioda la sua vita invece di farla roteare con gratitudine intorno alla sua lingua. Egli
pensa al secondo e terzo pezzo di torta mentre sta mangiando il primo, e così non è mai
soddisfatto di quel che sta mangiando e finisce per avere una terribile indigestione. Questo è
chiamato il circolo vizioso di volere il pranzo a colazione – o di vivere per il domani. Ma il
domani non arriva mai.
La neve sta cadendo sul davanzale della finestra. È questa l’attività di Dio? Forse. Ma se
qualcuno la guarda allo scopo di vederci Dio, rimarrà sicuramente deluso. «Nessuno ha mai visto
Dio.» No, e nel cercare Dio si potrebbe finire per non vedere la neve. «Tu sei il Brahman!» Ma
se guardi a te stesso allo scopo di trovare Brahman, resterai molto deluso. Tutti questi problemi
sono iniziati perché le persone hanno spinto troppo oltre un semplice espediente. L’idea di Dio è
un dito che indica la via della Realtà, ma quando le persone provano a unire Dio e Realtà, a
identificare l’uno con l’altro, a trovare il primo nell’ultimo, esse provano a unire due cose che
non hanno alcun bisogno di essere unite. È come provare a guardare i propri occhi.
Ma come si giunge in quello stato in cui guardare la neve cadere è così tanto uno con Dio da
non avere più bisogno di introdurre Dio, non più di quanto abbiamo bisogno di mettere della
vernice rossa su un cespuglio di rose? Da dove arriva tutta questa fretta di arrivare a uno stato?
Non stai già guardando la neve? Non sei già faccia a faccia con il mistero eterno? Prenditela
comoda per un po’; guarda soltanto la neve che cade, o il bollitore che che fa bollire l’acqua, e
non avere tanta fretta. Cosa c’è di sbagliato nel guardare la neve o il bollitore e non voler per
forza arrivare a un qualche stato? È possibile che qualsiasi deficiente possa farlo altrettanto bene,
e perché non potrebbe farlo meglio? Com’è splendida la sua ignoranza! Come le pietre, l’erba e
il vento, egli ha Illuminazione senza conoscerla, e non riesce ad apprezzare la sua buona fortuna.
Eppure, anche lui, quando gli altri vanno alla ricerca di Dio, finisce per chiedersi «E allora?».
Egli non è libero di guardare la neve perché non può fare nient’altro, e soprattutto perché non
apprezza la sua libertà.
Ma tu sei libero di abbandonarti alla vita reale e sapere che vivere in Dio non è che un altro
nome per tale abbandono, per guardare la neve e camminare per strada. E sei libero non solo
perché una volta eri solito dire «e allora?», ma anche perché hai vissuto in questo abbandono per
tutto il tempo, pur senza saperlo. Se dovessi davvero entrare in esso, giungere in uno stato di
abbandono dove non sei mai stato prima, non saresti libero poiché questo comporterebbe andare
da qualche parte, giungere domani in un luogo in cui non eri ieri. E domani non arriva mai.
Dici che in questo momento non ti senti in simile abbandono. Che cosa ti aspetti di sentire?
Non è un sentimento; è sentire. Non è un pensiero; è pensare. Se si trattasse di un particolare
pensiero o sentimento si potrebbe entrare e uscire da esso; ma Dio è uno e comprende tutto, e qui
non ci può essere né un andare né un venire, né dentro né fuori. Di più: il grande abbandono
dell’Illuminazione non dipende neanche dal sentire e pensare, coscienza o incoscienza, vivere o
morire. Come dice il verso:

Questo non puoi descriverlo, né dipingerlo,


non puoi contemplare, né sentire.

È il tuo vero io, che non ha alcun nascondiglio. Distruggi l’universo, ed esso persiste. No,
non puoi sentirlo – ma allora come puoi saperne qualcosa? Perché puoi usarlo e sentirne
l’utilizzo, proprio come «il vento soffia dove vuole e tu ne odi il suono, ma non sai da dove viene
né dove va»26. Che cosa si prova a sentire il suo utilizzo? Ciò è detto in un altro verso:

Improvvise le fredde arie si agitano. Da solo, a voce alta,


Un suono di campane mette le ali. E vola con la nube.27
CHE COS’È LA REALTÀ?

Spesso le persone dicono di essere alla ricerca della Realtà e di star cercando di vivere. Ma
che significa tutto ciò? Tempo fa un gruppo di persone stavano sedute al tavolo di un ristorante, e
uno di loro chiese agli altri di dire che cosa intendessero con “Realtà”. Seguì una discussione
piuttosto vaga, un gran parlare di metafisica e psicologia, ma uno dei presenti, quando gli fu
richiesta un’opinione, semplicemente si strinse nelle spalle e indicò la saliera. Restò sorpreso nel
vedere che nessuno lo capiva, eppure non aveva alcuna intenzione di apparire intelligente o
oscuro. La sua idea era di dare una risposta di buon senso basandosi sull’ordinaria assunzione per
cui “Realtà” è tutto ciò che esiste. Egli non fu capito perché i suoi amici, come molti altri,
consideravano la Realtà come uno speciale tipo di esistenza, e la Vita (con la v maiuscola), come
un particolare modo di vivere. Allo stesso modo capita spesso d’incontrare persone che parlano
della differenza tra essere un mero idiota, un mero “stomaco parlante”, e una persona vera; tra
chi semplicemente esiste e chi davvero vive.
Nella filosofia cinese la Vita è chiamata Tao, e per il cinese l’uomo saggio è colui che ha
realizzato (ossia, reso reale a se stesso) il suo accordo e armonia con il Tao. Pertanto, ci si
domanda se Tao significa Vita nel senso di semplice esistenza, oppure se Tao è Vita in qualche
modo speciale, una vita vissuta con lealtà, a fondo, con vitalità e con un certo entusiasmo nato
dalla gioia di essere vivo.
La risposta a questa domanda dipende esclusivamente dal perché la si chiede. Vediamo cosa
gli stessi cinesi hanno da dire a riguardo.

Uno studente chiese al suo maestro: «Che cos’è Tao?». Egli rispose: «La tua vita ordinaria è
Tao».
«Come si fa ad entrare in armonia con esso?» continuò lo studente.
«Se tenti di accordarti a esso» disse il maestro, «ti allontanerai da esso».
In effetti a tutti noi capita d’incontrare persone che stanno cercando, molto duramente, di
essere persone vere – ossia uomini che tentano di dare Realtà (o significato) alle proprie vite, di
vivere e non semplicemente esistere. Questi cercatori sono di vario tipo – intellettuali e ignoranti
– e vanno dagli studiosi di saggezza arcana fino al pubblico di popolari conferenzieri esperti in
spiritualità e psicologia – esperti nell’arte di vendere se stessi e nell’avere una vita di successo.
Finora non ho incontrato nessuno che sia riuscito, con successo, a diventare una persona vera. Il
risultato di tali tentativi comporta invariabilmente la perdita di personalità, poiché c’è un antico
paradosso della vita spirituale per cui coloro che cercano di farsi grandi diventano piccoli. Il
paradosso è anche un po’ più complicato; significa anche che se tu cerchi, indirettamente, di farti
grande rendendoti piccolo, otterrai successo solo nel restare piccolo. È tutta una questione di
motivazione, di cosa tu vuoi davvero. Le motivazioni possono essere sottilmente celate, e non
possiamo dire che il desiderio di essere una persona reale sia il desiderio di essere una grande
persona; ma questa, in fondo, è solo una questione di parole.

Così tante religioni e psicologie moderne compiono quest’errore fondamentale: il provare a


far sì che la coda comandi il cane, che è tutto ciò a cui ammonta la “ricerca della personalità”. Il
cristianesimo vecchio stile non è mai stato così stupido, poiché il suo scopo non fu mai, per
l’uomo, di raggiungere la grandezza (o la grande personalità). Il suo scopo era semplicemente
quello di servire Dio e attribuire a Lui tutta la grandezza. Ma in questi giorni così tanti uomini si
scoprono incapaci di credere nel Dio cristiano, e i suoi più astratti sostituti non riescono a
ispirare una qualsiasi genuina devozione o riverenza.
Torniamo quindi alla domanda iniziale: «Che cos’è, dunque, la Vita; cos’è la Realtà che
potrebbe riempirci di devozione?». Se la consideriamo come un peculiare modo di vivere o come
un particolare tipo di esistenza, e accordiamo a ciò la nostra devozione, che cosa stiamo facendo?
Stiamo riverendo la sua espressione nella grande personalità, nel comportamento di coloro che
consideriamo essere “persone vere”. Ma qui è l’ostacolo. Quando noi riveriamo in altri la vera
personalità, siamo suscettibili di diventare meri imitatori; quando la riveriamo come un ideale
per noi stessi, si arriva al vecchio problema di volersi fare grandi. È tutta una questione di
orgoglio, poiché se tu attribuisci Vita e Realtà solo a particolari tipi di vita personale, tu neghi
Vita e Realtà a cose così umili come, per esempio, saliere, granelli di polvere, vermi, fiori e le
grandi masse non rigenerate della razza umana. Rammentiamo della preghiera del fariseo, che
ringrazia Dio per non averlo reso peccaminoso come tutti gli altri uomini. Ma una Vita, una
Realtà, un Tao può essere allo stesso tempo un Cristo, un Buddha, un Lao-tzu, un pazzo
ignorante o un verme – e questo è qualcosa di veramente misterioso e meraviglioso e che vale
davvero la pena di devozione se riusciamo a considerarlo anche solo per un attimo.
Le scritture buddhiste dicono: «Quando ogni fase della nostra mente è in accordo con la
mente di Buddha, non c’è un atomo di polvere che non entri nella buddhità». Poiché Vita e
Realtà non sono cose che si possa avere per sé a meno che tu non le accordi a tutto il resto. Non
appartengono a persone particolari più del sole, la luna e le stelle.
LA NASCITA DEL FIGLIO DIVINO. STUDIO DI UN SIMBOLO CRISTIANO

Anche per l’agnostico la storia della divina Incarnazione resta una delle più affascinanti
leggende tramandateci dal passato. Anche se è generalmente accettata come una storia cristiana,
è uno dei miti più antichi della razza umana, qualcosa di così profondamente incastonato nelle
fondamenta del pensiero che nessun mero scetticismo intellettuale è in grado di rimuoverlo.
Poiché la ragione opera solo sulla superficie della mente, e per quanto puramente razionale un
uomo possa supporre di essere, quando egli cade nel sonno si trova còlto di sorpresa da pensieri
che credeva svaniti. Nei suoi sogni i vecchi miti riappaiono di nuovo, e provano dell’esistenza di
una regione dell’anima di cui egli non conosce niente, e rispetto alla quale non ha alcun
controllo. Il potere della Chiesa cattolica risiede proprio in questo fatto: che più di ogni altro
credo occidentale essa si è fatta custode di questi miti-simboli che scuotono le profondità del
pensiero e del sentimento. Il razionalismo scientifico può alterarne la superficie, può rivestire lo
spirito in una veste diversa, può fargli recitare un’altra parte. Ma il risultato è solo
rappresentazione, una finzione, una mostra esteriore, contro il quale l’essere interiore si ribella e
porta a compimento quei gravi conflitti mentali che estraneano l’uomo dalla vita.
La Chiesa, tuttavia, si rivela spesso inadeguata nel curare la malattia spirituale dell’uomo
moderno, perché un tal uomo reputa oggi impossibile credere nella sua esclusiva interpretazione
di quegli antichi simboli. Per coloro che riescono a credere, la Chiesa è soddisfacente, meno per
quanto concerne l’interpretazione che per quanto riguarda i simboli stessi. Qualsiasi cosa
possiamo leggerci, essi sembrano mantenere un potere in se stessi che nessuna quantità di
equivoci può distruggere. L’errore dello scetticismo moderno è che nel respingere le dottrine
della Chiesa esso ne respinge anche i simboli, e dunque, se l’espressione non è troppo cruda,
finisce per gettar via il bambino con l’aqua sporca. E il riferimento al bambino è particolarmente
adatto, poiché il simbolo forse più importante fra tutti è proprio quello che riguarda il bambino, il
Santo Bambino «concepito dallo Spirito Santo e nato dalla Vergine Maria». A tal proposito,
l’attenzione della Chiesa è stata spesso attratta da uno spiacevole inconveniente: che tale storia è
narrata in altre e più antiche religioni, come per esempio nella leggenda di Maya e il Buddha, o
di Isis e Horus. Al che gli eruditi padri replicarono con argomentazioni un po’ zoppe,
richiamandosi al demone ex machina, il Diavolo, suggerendo che fu proprio il Diavolo a mettere
la stessa storia in altre religioni al fine di confondere i fedeli. Oppure suggerirono che la Grazia
di Dio conferì una certa porzione di Verità ultima ai pagani, così che essi potessero essere
preparati per la rivelazione cristiana – un suggerimento che è al tempo stesso più superficiale e
profondo di quanto i suoi stessi autori intendessero. Poiché tale idea crea un precedente scomodo
e pericoloso: che la Grazia di Dio sia stata impartita con mezzi differenti e precedenti da quelli
della Chiesa, e sembra propedeutica sia alla conversione dei pagani che allo scetticismo della
scienza. E se l’argomento fosse portato fino alla sua logica conclusione, esso condurrebbe alla
difficile questione dell’identità di Dio e del Diavolo. Poiché ciò che per uno è fonte di Grazia per
l’altro è fonte di Tentazione.
Ma prima di avvicinarsi al significato essenziale dell’Incarnazione, è interessante sottolineare
alcune importanti e suggestive corrispondenze. Nel terzo capitolo del vangelo di san Giovanni, si
riferisce che Gesù disse che se un uomo vuole entrare nel Regno dei Cieli, dovrà rinascere
d’acqua e spirito. Inoltre, nel primo capitolo della Genesi, è detto che prima della creazione del
mondo lo spirito aleggiava sulla superficie dell’acqua. Sembra quindi che questi due elementi,
acqua e spirito, siano necessari alla divina creazione, sia essa la creazione di un universo o del
figlio di Dio. Così è interessante verificare se questi due elementi fossero coinvolti nella nascita
di quel particolare Figlio di Dio che è chiamato Gesù Cristo. Al principio, in accordo con
l’insegnamento ortodosso, troviamo lo Spirito – lo Spirito Santo. Il fatto che esista una stretta
somiglianza tra Maria e mare non può essere del tutto casuale, mentre altre significative parole
ricavate dalla stessa radice sanscrita ma- sono Maya (la madre di Buddha, che significa anche il
mondo della forma, dei fenomeni), mater (madre), e l’inglese matter28. In tutte le antiche
cosmogonie l’acqua è simbolo di materia che, in unione con lo spirito, produce il mondo della
forma. E proprio come lo spirito è attivo e mascolino, l’acqua è passiva e femminile. Così, in
senso figurato, l’acqua è madre del mondo, e da ciò possiamo dedurre che la storia
dell’incarnazione può avere un gran numero di significati altrettanto veri. Sul piano cosmogonico
essa rappresenta la nascita del mondo dall’unione dello spirito con la materia vergine, la messa a
dimora del seme della vita nella terra intatta. Ma il suo significato più importante riguarda lo
sviluppo spirituale dell’uomo, con l’idea della Seconda Nascita, con la consapevolezza che
attraverso la rinascita l’uomo non rigenerato possa divenire Cristo, Figlio di Dio e Figlio
dell’Uomo.
L’ignoranza e l’oscurità spirituale sono il risultato dell’essere coinvolti in un dualismo, un
conflitto tra opposti, che sia divino e umano, io e mondo, conscio e inconscio. Questa è la
condizione in cui quasi ogni uomo si ritrova al risveglio dell’autocoscienza. C’è un’opposizione
tra noi stessi e l’universo in cui viviamo, tra noi stessi e la società a cui apparteniamo, perché più
e più volte troviamo che le esigenze della vita confliggono con i nostri desideri personali. Vi è
quindi la tendenza ad attrarre tutto verso noi stessi, a porci in una roccaforte e a portare entro le
sue mura qualsiasi cosa nella vita noi desideriamo particolarmente. È come se si tentasse di
selezionare certi aspetti del carattere della propria moglie, o figlio, o genitori, separandoli dal
tutto e conservandoli in un isolamento immutabile. O ancora, è come provare a persuadere il
tempo ad essere sempre bello e caldo, o come prendere un corpo umano e separarne le parti belle
da quelle brutte, con il risultato che entrambe le parti muoiono. Poiché questa separazione,
quest’isolamento del sé dalla vita, può solo produrre miseria e morte spirituale. Separato dalla
vita, il sé è come privato di senso, come una nota solitaria separata dalla sinfonia, morto come un
dito mozzato dalla sua mano e stagnante come l’aria catturata dal vento e rinchiusa in una stanza.
Lo stesso può esser detto anche di qualunque persona, idea, oggetto o qualità che il sé prova ad
afferrare e tenere come sua esclusiva proprietà. Dall’altro lato, il contrario di questa posizione è
altrettanto infruttuosa. Se il sé è del tutto sopraffatto dal mondo o totalmente assorbito in Dio o
nella comunità, allora esso è inutile come un corpo che è tutt’uno con l’arto, sordo come la
melodia di una nota interrotta (o di ogni plausibile nota suonata nel tumulto generale), e assurdo
come un quadro privo di particolare colore e di particolare forma.
Ma tra questi due opposti, il sé e l’universo, può esserci un’unione – non un fondersi insieme,
come l’acqua con il vino, ma un’unione come quella tra uomo e donna in cui entrambi gli
opposti mantengono la loro individualità e tuttavia generano il frutto nella forma di un bimbo. Si
è spesso pensato che l’oggetto del misticismo fosse quello di rivelare l’identità di tutte le cose
separate, di negare completamente tutta l’esistenza particolare e di individuare quell’Unica
Realtà la cui molteplicità di espressione è il mero risultato di un’illusione. Ma c’è un vecchio
detto buddhista: «Per chi non sa nulla del buddhismo, le montagne sono montagne, le acque
acque, e gli alberi alberi. Quando egli ha letto le scritture e compreso un poco della dottrina, le
montagne non sono più montagne, le acque non più acque, e gli alberi non più alberi. Ma quando
egli è completamente illuminato, allora le montagne sono di nuovo montagne, le acque acque, gli
alberi alberi». Poiché prima di poter davvero apprezzare la mutevole individualità delle cose noi
dobbiamo, in un certo senso, realizzarne l’irrealtà. Ossia, dobbiamo comprendere che non solo
noi stessi, ma tutte le cose nell’universo sono prive di significato – e morte – quando sono
considerate solo per se stesse, come entità permanenti, isolate e autosufficienti. Se non è
connessa al tutto la singola parte è priva di valore, ed è proprio questo porsi in relazione della
parte al tutto, o meglio, questa realizzazione di una relazione già esistente, che è l’unione da cui è
nato il Bambino Santo.
Proprio come il marito – se davvero ama – deve accogliere sua moglie in se stesso e
accettarla pienamente, dandosi altrettanto pienamente a lei, così l’uomo deve saper accettare il
mondo e donare se stesso al mondo. Ma accogliere l’universo in se stessi, nel modo di qualche
“mistico”, è semplicemente un gonfiarsi con l’idea di essere Dio e dunque impostare l’ennesima
contrapposizione tra il potente tutto e la sua parte degradata. Donarsi totalmente e
pedissequamente al mondo implica invece il divenire una nullità spirituale, un meccanismo, una
conchiglia, una foglia mossa dai venti delle circostanze. Ma se allo stesso tempo il mondo è
accolto e il sé donato, allora prevale quell’unione che conduce alla Seconda Nascita. Solo in
questo stato è possibile apprezzare la vita in un senso reale, accettare ciò che è gradito in altre
creature insieme a ciò che non lo è, e farlo con amore, gratitudine e rispetto. Questo è reso
possibile dal sapere che la gioia è sconosciuta senza dolore, come la vita senza la morte e il
piacere senza dolore. Di più: dolore e morte non sono accettati semplicemente perché, per
contrasto, essi producono vita e piacere, ma perché sono parte integrante di una Più grande vita e
di un Più grande piacere. Questa Più grande vita è più della vita rispetto alla morte; come una
melodia è più del suono; è presenza ritmica e assenza di suono in cui il silenzio e lo svanire delle
note sono tanto importanti quanto il loro suonare. Non è questione di limitarsi a tollerare la pausa
per il bene della nota, a meno che non si possa dire di star tollerando la nota per il bene della
pausa. Poiché ben poco potrebbe essere più orrendo di un’eternità di suono o di un’eternità di
silenzio, e c’è poco da scegliere tra un’eternità di vita e un’eternità di morte. Ma vi è
un’alternanza, un ritmo, una varietà di cose – una sinfonia universale. E questa sinfonia è il
Figlio del Padre – il Suono – e della Madre – il Silenzio.
Così, quando diciamo che dall’unione tra sé e vita (o mondo) nasce il Cristo, intendiamo dire
che l’uomo si solleva verso un nuovo centro di coscienza che non è solo in se stesso, né solo nel
mondo. Invece, egli trova il proprio centro nell’armonia che scaturisce dal donare e ricevere
dall’uno all’altro. In verità, un tale centro esiste già, che lo si sappia o meno, poiché due opposti
non possono esistere a meno che non vi sia una relazione tra di loro. E questa relazione, il Figlio,
è Senso, o ciò che Keyserling chiama significato e la parola cinese indica con Tao, proprio come
il figlio dà un senso, una raison d’être, ai due opposti uomo e donna. In questo senso il figlio è
veramente “padre dell’uomo” e Cristo è veramente uno con il Padre. Poiché che cos’è mera
sostanza, mera energia, mero tutto, mera parte, mero mondo, mero sé? Ciascuno preso di per sé
non è altro che uno strumento, un attrezzo, una quantità senza vita che il Tao riunisce e modella
con il suo stesso significato; infatti, senza quel significato, essi non potrebbero esistere affatto.
Quanto al significato stesso, non può essere descritto; può solo essere esperito, e può essere
esperito solo quando c’è un tale amore tra se stessi e il mondo che qualsiasi cosa ciascuno faccia
insieme è sempre più dell’uno o dell’altro, proprio come per il padre e la madre il figlio è più di
loro stessi.
1)
Non ho semplicemente identificato questa esperienza con il “misticismo”
poiché quest’ultimo contiene frequentemente elementi simbolici e affettivi
che non sono in alcun modo essenziali all’ordine di esperienza che sto
discutendo.

2)
Di certo, esistono altre interpretazioni delle funzioni specifiche dell’alchimia
e dell’astrologia che esprimono i loro scopi come completamente diversi da
quelli della scienza. Pienamente comprese, né l’alchimia né l’astrologia
hanno a che fare con la predizione e il controllo degli eventi futuri, ma sono
piuttosto un simbolismo di “eventi” eterni e il processo della loro
realizzazione nel presente.

3)
Zenrin Kushu, un’antologia di poesie cinesi usate nello studio e nella pratica
del Buddhismo Zen.

4)
E gli alacridi tossi / Succhiellavano scabbi nel pantùle. (Traduzione italiana
di Masolino D’Amico, Longanesi, 1971.) Il riferimento di Eddington (e in
seguito di Watts) è a una poesia nonsense di Lewis Carroll, Jabberwocky,
scritta nel 1871. È considerata il più illustre esempio di poesia nonsense in
lingua inglese. I versi presenti sono costituiti da parole inventate da Carroll.
Slithy (la combinazione di lithe, agile e slimy, viscido); Toves (un fantastico
incrocio fra un tasso e un cavatappi); gyre (indica il girare come un
giroscopio); Wabe (lo spazio erboso intorno a una meridiana). (N.d.R.)

5)
Eddington, sir Arthur Stanley, The Nature of the Physical World, Londra,
1935, p. 280.

6)
Ibid., p. 281.

7)
Don Justin McCann, The Cloud of Unknowing, Londra, 1943. La dottrina del
“conoscere Dio attraverso l’ignoranza (agnosia)” deriva dalla metafisica
siriana del Sedicesimo secolo scritta con il nome di Dionigi l’Areopagita, e in
particolare dalla sua Theologia Mystica, in Migne, Patrologia Graeca, vol. 3.
Una traduzione di quest’ultimo lavoro si trova nella precedente edizione di
McCann.

8)
Alfred Tennyson, In Memoriam A.H.H., 1849. (N.d.R.)

9)
Secondo i più recenti studi l’età della Terra è stimata essere tra i 4,3 e i 4,4
miliardi di anni. Vedi John W. Valley et al., Hadean age for a post-magma-
ocean zirconconfirmed by atom-probe tomography, in «Nature Geoscience»,
2014. (N.d.R.)

10)
D.T. Suzuki, trad., Lankavatara Sutra, Londra, , p. .

11)
In realtà il nome completo della setta Shin è Jodo-shin-shu, ma utilizzo solo
Shin per evitare confusione con Jodo.

12)
Suzuki, Eastern Buddhist, vii, , .

13)
Ibid., . L’Anjin è opera di anonimo, vedi p. .

14)
Tannisho, tradotto da Ryukyo Fujimoto, Kyoto, , p. .

15)
D.T. Suzuki, Eastern Buddhist, vii, . Con «salvezza» Suzuki intende
semplicemente la nascita nel Paradiso di Amida dopo la morte, usando la
parola nel suo senso escatologico piuttosto che mistico. In quest’ultimo
senso, salvezza sarebbe quasi un sinonimo di Illuminazione.

16)
Il riferimento è ad Atti 10,34: «Allora Pietro, aperta la bocca, disse: “In verità
io comprendo che Dio non usa alcuna parzialità”». (N.d.R.)

17)
Essays in Zen Buddhism, , p. .

18)
Seguo la traduzione di Sohaku Ogata, Essays in Zen Buddhism, , p. .

19)
Traduzione di Suzuki, p. .

20)
Il riferimento è ai versi di John Keble: The trivial round, the common task,
Would furnish all we ought to ask. (N.d.R.)

21)
Yeh-hsien, D.T. Suzuki, The Training of the Zen Buddhist Monk, Kyoto,
, p. .

22)
Saptasatika, pp. -. D.T. Suzuki, Essays in Zen Buddhism, vol. ,
pp.
-. ↵
23)
F.W. Faber, The Creator and the Creature, Baltimora, , p. .

24)
Da Canto della Meditazione di Hakuin (-), uno dei più famosi
maestri Zen giapponesi.

25)
Riporto la versione di Kaiten Nukariya. Cfr. la sua Religione del samurai.
Buddha, Dharma e Sangha (il Buddha, la Legge e l’Ordine dei monaci) sono i
Tre Rifugi (trisharana) adottati da tutti i buddhisti.

26)
Giovanni 3, 7-9: «Non meravigliarti se ti ho detto: “Dovete nascere di
nuovo”. Il vento soffia dove vuole e tu ne odi il suono, ma non sai da dove
viene né dove va, così è per chiunque è nato dallo Spirito». (N.d.R.)

27)
Alice Meynell, Chimes, 1917. (N.d.R.)

28)
Materia/sostanza. (N.d.R.)

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