Tiberio Gracco A partire dalla seconda metà del II secolo a.C. la società romana fu attraversata da profonde trasformazioni economiche e violentemente travolta dalla “questione agraria”, sollevata inizialmente dal console Caio Lelio e poi dai tribuni della plebe in un momento cruciale del confronto politico all’interno dell’oligarchia senatoria: siamo all’indomani della distruzione di Cartagine e dopo la fine di quel salutare metus hostilis, la paura per un nemico invincibile immaginario, forse un nuovo Annibale, che fino a quel momento aveva mantenuto unita la classe dirigente romana e aveva tenuto nascoste le discordie civili che pure covavano sotto la cenere. Secondo Plutarco (che scriveva dopo l’età dei Flavi) la sedizione antisenatoria del tribuno Tiberio Gracco, alla fine del 133 a.C., fu la prima vicenda che dopo quattro secoli dalla cacciata dei re etruschi si risolse nel sangue e nell’uccisione di cittadini: oltre trecento partigiani di Tiberio furono allora uccisi con bastoni e pietre, nessuno col ferro. Figlio del console che aveva sottomesso i Celtiberi, gli Iliensi e i Balari della Sardegna, e di Cornelia, la figlia di Scipione l’Africano, Tiberio aveva combattuto la terza guerra punica agli ordini del cognato Scipione Emiliano e nel 146 a.C. era stato il primo a salire sulle mura di Cartagine assediata, che subito dopo sarebbe stata rasa al suolo e distrutta col fuoco dalle fondamenta: il comandante romano era riuscito così a travolgere le straordinarie difese della metropoli punica, concepita per resistere agli assedi nemici come una nave fortificata ancorata al continente africano, con le torri e le mura che accoglievano elefanti, case, necropoli e templi, proteggendo nei due porti navi militari e navi mercantili. Oggi possiamo dire che si trattò di un incredibile esempio di urbanistica concepita al servizio alla strategia militare. Meno coraggiosamente Tiberio si era invece comportato nella guerra celtiberica a Numanzia (alla confluenza dei fiumi Tera e Duero), tanto che venne poi chiamato a rispondere della sconfitta davanti al senato, come questore al servizio del console Ostilio Mancino. Il fratello Caio qualche anno dopo avrebbe scritto che era stato proprio il viaggio verso la penisola iberica attraverso l’Etruria ad aprirgli gli occhi non tanto sulla condizione di sfruttamento degli schiavi addetti all’agricoltura e alla pastorizia quanto sull’ingiusta distribuzione delle terre pubbliche, finite in mano a pochi oligarchi che, violando sfacciatamente una delle leggi Licinie Sestie e una successiva legge de modo agrorum, avevano impedito ai soldati e ai contadini liberi di possedere e mettere a coltura porzioni di agro pubblico del popolo romano. È quella che Arnold J. Toynbee ha chiamato la drammatica “eredità di Annibale”, che aveva causato devastazioni generalizzate e la nascita del latifondo in un’Italia impoverita dalle lunghe campagne militari. Per la prima volta una fortissima pressione sociale si manifestò apertamente a causa delle tante contraddizioni interne alla città-stato, che erano rimaste sotto traccia durante la lunga fase delle campagne militari nel Mediterraneo: nobilitas senatoria, contadini-soldati e proletari inurbati avevano ora obiettivi diversi e si dovevano confrontare con i nuovi ceti emergenti, in particolare gli equites dediti ad attività commerciali e finanziarie, dopo che con la legge Claudia del 218 ai senatori erano rimasti solo gli investimenti immobiliari; si allargava lo sfruttamento della manodopera schiavile che in parte proveniva dal mercato del porto franco di Delos creato alla fine della terza macedonica con lo scopo di schiacciare l’autonomia della repubblica di Rodi. Infine, la distribuzione delle terre pubbliche ben al di là dell’agro romano antico e del Latium vetus, avrebbe finito per porre con forza il rapporto tra cittadini e alleati italici, questi ultimi espropriati, esclusi dai benefici, sempre più desiderosi di entrare nella cittadinanza romana. Naturalmente siamo molto condizionati nella ricostruzione degli obiettivi politici di Tiberio dalla visione di Appiano, che recentemente Luciano Perelli ha dichiarato in parte anacronistica e inattendibile, almeno per quanto riguarda le dimensioni del latifondo. Fondamentale per orientare l’azione politica “rivoluzionaria” di Tiberio Gracco era stato l’insegnamento di due suoi maestri greci, l’oratore Diofane di Mitilene nell’isola di Lesbo (dove Aristotele aveva scritto la Fisica) e il filosofo Caio Blossio di Cuma, allievo di Antipatro di Tarso: entrambi predicavano la necessità di difendere il bene comune e di preservare gli interessi generali del Populus; Blossio più tardi, fuggito in Asia, avrebbe sostenuto l’usurpatore Aristonico in quello che era stato il regno di Pergamo e fondato un’utopica “città degli schiavi”. Questo spiega il carattere torrentizio e sdegnato dell’oratoria del tribuno, quando rivolgendosi al popolo romano nei suoi primi discorsi richiamava il tema della sovranità popolare, a fondamento di un’azione politica “rivoluzionaria”: <<Gli animali selvaggi che vivono in Italia hanno ciascuno una tana, un covo, un rifugio, mentre coloro che combattono e muoiono per l’Italia non hanno nient’altro che l’aria e la luce e vagano con i figli e con le mogli, senza casa e senza fissa dimora; nessuno ha un altare né un sepolcro degli antenati>>, anche se vengono chiamati signori e padroni dell’ecumene: l’ispirazione stoica è evidente, in un irrisolto tentativo di collegare egalitarismo utopico e tradizionali politiche che avevano avvantaggiato soltanto coloro che avevano la piena disponibilità delle ricchezze conquistate nel corso delle guerre in Grecia, in Macedonia, in Africa e in Oriente. Ad aiutare Tiberio furono anche alcuni senatori come Fulvio Flacco e in particolare alcuni giuristi come Publio Licinio Crasso Muciano e il console in carica Publio Mucio Scevola, che si rifiutò di reprimere con la violenza l’agitazione popolare, provocando l’intervento del feroce Scipione Nasica, che agì con l’intento dichiarato di difendere la libertà garantita dalla costituzione mista contro la tirannide del tribuno. In realtà i decenni precedenti avevano visto l’avvio di un’ampia politica di colonizzazione viritana (individuale) che aveva riguardato l’Etruria (ad es. Luna al confine con la Liguria, Gravisca, Lucca), la Pianura Padana (Mutina e Parma), l’alto Adriatico (la colonia latina di Aquileia era stata fondata nella Venetia nel 181 a.C.), mentre procedeva rapidamente la costruzione di importanti vie di penetrazione verso la Gallia Cisalpina, che favorivano la messa a coltura delle terre pubbliche, con assegnazioni individuali in contrasto con l’estendersi del latifondo nel resto dell’Italia. I tempi sembrarono maturi per riattivare alcune antiche leggi che fissavano in 500 iugeri (125 ettari) i lotti di ager publicus assegnati in uso ai singoli cittadini; si volevano così rendere disponibili centinaia di migliaia di iugeri da assegnare ai proletari urbani che progressivamente dovevano essere riammessi all’interno del comizio centuriato, con un abbassamento anche dei livelli minimi di censo che consentivano di entrare nell’ultima classe, la quinta; le assegnazioni dei lotti dovevano essere accompagnate dal pagamento di un vectigal, che ben presto sarebbe stato abolito. Il processo avrebbe da un lato di nuovo allargato la base di reclutamento dell’esercito legionario e dall’altro avrebbe ridotto il fenomeno dello sfruttamento estensivo delle terre pubbliche con le greggi transumanti affidate alla mano d’opera schiavile e aumentato il numero dei piccoli proprietari terrieri, che avrebbero ottenuto porzioni di ager publicus non superiori ai 30 iugeri non alienabili, perché inizialmente non potevano essere ceduti a terzi. I poveri, che avrebbero tratto dai terreni demaniali un minimo di reddito, erano gli stessi che avevano costituito l’asse portante del sistema politico-militare sul quale si era retta sino allora la res publica. Ben si comprende come tutta l’operazione fosse estremamente complessa e piena di incognite, per quanto sostenuta dal favore popolare: i possessori che illegalmente si erano impadroniti dell’agro pubblico in contrasto con le leggi precedenti non dovevano essere puniti, ma anzi dovevano diventare proprietari e parzialmente indennizzati. Il progetto, fortemente sostenuto dal suocero di Tiberio Gracco (il princeps senatus Appio Claudio), con alcuni aspetti che gli storici ritengono fortemente populisti, fu osteggiato da coloro che avevano potuto fino a quel momento avere la piena disponibilità delle terre occupate in guerra, facendone un uso spregiudicato a danno delle popolazioni italiche. L’aristocrazia più chiusa e parassitaria utilizzò paradossalmente l’azione di un altro tribuno della plebe, Marco Ottavio, per bloccare la riforma tramite l’intercessio, il veto tribunizio, col quale tentò di impedire il processo riformatore nel corso del comizio tributo che doveva procedere all’approvazione della legge agraria. A sua volta Tiberio Gracco, facendo leva anch’egli sullo ius intercessionis e sullo ius auxilii, arrivò a impedire l’attività di tutti i magistrati (iustitium), a chiudere con sigilli il tesoro conservato nelle cripte del tempio di Saturno nel foro Romano e a far deliberare alle 35 tribù l’illegale deposizione del tribuno che si era messo al servizio dei latifondisti, tradendo il mandato fiduciario ricevuto dal popolo sovrano; aveva utilizzato in modo un po’ spregiudicato lo ius agendi cum populo che consentiva piena libertà di movimento ai tribuni all’interno del comizio. Nei disordini che si svilupparono nel corso dell’assemblea popolare, il popolo riunito nel comizio tributo, esasperato per i continui rinvii, accecò uno schiavo del tribuno Ottavio, deposto col voto della maggioranza delle tribù territoriali; egli fu subito sostituito da un cliente di Tiberio poco conosciuto. Eppure l’illegale deposizione del tribuno risultò odiosa al popolo, che per secoli aveva difeso la sacralità e l’inviolabilità dei tribuni della plebe; Tiberio dové giustificarsi pubblicamente, spiegando che se il tribuno consacrato al popolo e tenuto a proteggerlo inizia a danneggiare gli interessi del popolo, ne diminuisce la potenza e l’autorità e gli impedisce di votare, si priva da solo di quella magistratura alla quale è stato chiamato con l’obiettivo di mettersi al servizio della sovranità popolare, la sola che giustifica l’inviolabilità dei tribuni. Deposto Ottavio, prima della fine del mandato Tiberio riuscì dunque faticosamente e con molti contrasti a conseguire tutti i suoi obiettivi e a far approvare la legge agraria, che aveva finalità dichiarate (intenti di progresso, sul piano demografico e militare) e finalità non dichiarate (intenti conservatori, di ritorno alla figura del contadino- soldato); fu allora nominata una commissione triumvirale che doveva concretamente sovrintendere all’accatastamento delle terre, al recupero delle aree occupate abusivamente e all’assegnazione dei lotti così resi disponibili a favore dei proletari urbani. La commissione, costituita da Tiberio, suo fratello Caio (che allora si trovava a Numanzia per combattere i Celtiberi) e il suocero del tribuno Appio Claudio Pulcro, fu incaricata di coordinare l’azione degli agrimensori, istituire un primo catasto, accertare il titolo di possesso della terra pubblica da parte degli oligarchi, effettuare le assegnazioni dei lotti recuperati ai cittadini non abbienti e privi di mezzi che ne avevano fatto richiesta. Alla morte di Tiberio sarebbe subentrato il padre di Licinia, sposa di Caio Gracco, P. Licinio Crasso; successivamente Fulvio Flacco e Papirio Carbone. Tiberio finì poi per inimicarsi completamente gli oligarchi, invadendo le tradizionali competenze del senato in politica estera e proponendo una legge che consentiva di utilizzare le enormi ricchezze del re di Pergamo Attalo Filometore (che con testamento aveva nominato erede del regno orientale il popolo romano): l’eredità doveva essere utilizzata per raccogliere i capitali necessari per acquistare attrezzi agricoli ed effettuare investimenti che consentissero ai nuovi coloni di mettere a coltura le terre a loro assegnate. Protetto dalla sacrosantitas dei tribuni della plebe, Tiberio resisté fino al mese di dicembre 133 a.C.: una legge impediva la sua ricandidatura per l’anno tribunizio successivo e, dopo aver tentato illegalmente di presentare la sua seconda candidatura, finì per essere abbandonato dai suoi sostenitori, anche se aveva cercato di riconquistare la fiducia del popolo con nuove leggi: quella che riduceva il lungo servizio militare fissato ad oltre 10 anni; quella relativa al diritto di appello al popolo in caso di condanna di un cittadino; quella sulla composizione delle giurie nominate per processare i governatori provinciali in forza della lex Calpurnia di 15 anni prima, riducendo il peso dei senatori a favore dei cavalieri. Provvedimenti che appaiono in realtà solo un’anticipazione di quelli proposti dieci anni dopo dal fratello Caio. La discussione in senato fu accesissima, anche per le preoccupazioni suscitate dalla rivolta degli schiavi in Sicilia guidati dal siriaco Euno: protetto dal console Scevola, che si rifiutò di <<provvedere alla salvezza della città e annientare il tiranno>>, Tiberio subì l’iniziativa del pontefice massimo Scipione Nasica, che guidò quasi una solenne processione religiosa che si incaricò di interrompere l’assemblea popolare e punire il tribuno ribelle all’autorità del senato. Armati di mazze e bastoni, i seguaci di Nasica percorsero il sentiero che dalla curia arrivava al Campidoglio, alle spalle del tempio di Giove, dove Tiberio aveva radunato circa tremila seguaci che opposero scarsa resistenza: egli fu allora violentemente colpito da un suo collega tribuno col piede di un sedile; altri suoi amici furono uccisi con bastoni e pietre. Tutti i cadaveri rimasero insepolti e furono gettati nel Tevere; si raccontava che Caio Villio ancora vivo fu rinchiuso in un sacco pieno di vipere e serpenti e morì tra atroci sofferenze. Blossio di Cuma si difese dalle accuse, ricordando di aver obbedito agli ordini ricevuti da Tiberio: sarebbe arrivato anche a incendiare il tempio di Giove Capitolino se Tiberio avesse ritenuto utile al popolo un tale delitto. Fu dunque assolto e partì per Pergamo, convinto di dover lottare per la libertà degli schiavi. Caio Gracco La notizia della morte di Tiberio arrivò qualche giorno dopo a Numanzia (metà dicembre 133 a.C.), dove Scipione l’Emiliano era ancora accampato alla vigilia della caduta della città celtiberica, con un esercito rafforzato da un contingente numida guidato dal principe Giugurta, figliastro del re Micipsa. Del suo stato maggiore faceva parte anche il cognato Caio Gracco, ospitato nella stessa tenda del comandante. Scipione si lasciò scappare una frase infelice giustificando l’uccisione di Tiberio, frase che in famiglia non gli sarebbe stata mai perdonata; qualche anno dopo, forse per volontà della moglie Sempronia (sorella dei Gracchi), il distruttore di Cartagine e di Numanzia, il figlio adottivo dell’Africano, sarebbe morto misteriosamente nella sua casa a Roma, forse strangolato; finiva così un lungo periodo di umiliazioni e di rimproveri da parte del popolo romano che non perdonava all’erede dell’Africano la sua politica antigraccana. Del resto anche il pontefice massimo Scipione Nasica avrebbe pagato le sue colpe, odiatissimo dal popolo ed inviato quasi in esilio a Pergamo nella nuova provincia d’Asia, dove sarebbe morto dopo pochi mesi, a breve distanza dalla morte del nemico Blossio. Mentre i disordini venivano repressi anche con la distruzione della città di Fregelle (tra Frosinone e Cassino), proseguiva l’attività della commissione triumvirale incaricata di distribuire le terre ai proletari; intanto il giovane Caio Gracco terminava i 12 anni di servizio militare combattendo nella Barbaria sarda come questore, in attesa di essere eletto tribuno della plebe, per poter riprendere con più vigore la politica dei populares: alla fine del 124 a.C. Caio abbandonò senza autorizzazione l’isola per partecipare alle elezioni per l’anno successivo. Accusato dai censori di insubordinazione e di aver fomentato i disordini fra gli Italici, Caio si difese con un acceso discorso, del quale alcuni stralci sono conservati da Plutarco e Gellio, in cui illustrava il suo irreprensibile operato in Sardegna, il suo valore in guerra, la sua integrità morale, l’oculatezza nel maneggiare il denaro pubblico, le spese sostenute attingendo al patrimonio personale, la generosità e l’imparzialità verso i Sardi, confrontando queste virtù con quelle dei predecessori. Ricordava l’anomala lunghezza del suo servizio militare e la sua onestà: «nel governo della provincia io mi sono comportato nel modo che ho ritenuto corrispondente al vostro interesse e non invece nel modo che mi dettava la mia ambizione. In casa mia non ebbe luogo alcuna crapula da taverna e non vennero accolti giovanetti dall’aspetto aggraziato, ma nel mio convivio i vostri figli assumevano una discrezione maggiore che nei luoghi più venerati. Mi sono comportato durante il mio governo in modo tale che nessuno potesse mai dire che io abbia accettato come regalie dai provinciali l’equivalente di un solo asse o che per ragioni inerenti la mia attività io sia stato causa di una qualsiasi piccola spesa. Sono stato per ben due anni al governo della Sardegna; se mai una meretrice ha profanato la mia soglia o se un giovane schiavo per mia iniziativa venne condotto al vizio, che io venga giudicato il più perverso ed il più abietto di tutte le genti. Dal momento che io mi sono mostrato di tanta continenza presso i servi dei Sardi, come del resto potete constatare, giudicate voi come io ho vissuto con i vostri figli». Caio fu allora completamente prosciolto da ogni accusa e riuscì subito a farsi nominare tribuno della plebe per i due anni successivi, visto che nel frattempo era stata abolita la legge che impediva l’immediata rielezione di un tribuno, che aveva esposto Tiberio alla vendetta degli oligarchi dopo la perdita della sacrosantitas tribunizia. L’azione politica di Caio fu ispirata da un ampio programma riformatore, con un’accurata preparazione e un sostegno più ampio. La sua lunga esperienza militare, i disagi subìti dai commilitoni durante le carestie e nel rigido inverno (che Caio come questore aveva cercato di risolvere chiedendo aiuto al re di Numidia e alle città della provincia) furono alla base di una delle prime leggi che il tribuno fece approvare, la legge militare, che disponeva che fosse la res publica a dover fornire il vestiario ai soldati, senza trattenere nulla a tale scopo dal soldo; e insieme il divieto di arruolare i giovani con meno di 17 anni. Le altre leggi ricordate da Plutarco riguardano i tribuni deposti per volontà del popolo (Marco Ottavio), che non avrebbero potuto sviluppare il tradizionale cursus honorum; un’altra puniva i magistrati che avevano bandito un cittadino senza processo, che dovevano essere a loro volta processati (Popillio Lenate); una nuova legge agraria divideva tra i poveri ulteriori porzioni di agro pubblico a titolo individuale. Una proposta riguardava poi la concessione agli Italici dello stesso diritto di voto di cui godevano i cittadini romani. Furono invece approvate per la prima volta una legge frumentaria che riduceva al massimo il prezzo del grano per migliaia di poveri e una legge giudiziaria che costituiva un ampio collegio di 600 cittadini, 300 senatori e 300 cavalieri (scelti dal tribuno), candidabili alle giurie che avrebbero dovuto processare i governatori disonesti. I propositi dichiarati erano quelli di moralizzare la vita pubblica e limitare gli abusi sui provinciali da parte dei consoli e dei pretori, ma l’effetto fu esattamente il contrario, con un evidente conflitto di interessi degli equites, desiderosi di gestire in piena libertà le rendite provinciali direttamente o tramite società di pubblicani, ormai capaci di ricattare i governatori, spesso chiamati a rispondere in sede giudiziaria al termine del loro mandato. A favore dei cavalieri fu poi approvata la legge che attribuiva ai pubblicani a condizioni vantaggiose le decime dell’Asia pergamena, una grande provincia di nuova formazione. Fu poi decisa la deduzione delle colonie, la costruzione di strade, la collocazione di miliari stradali, l’approntamento di nuovi granai; opere che Caio tentò di seguire personalmente con una schiera di impresari, operai, ambasciatori, magistrati, soldati e letterati. Nel suo secondo anno tribunizio riuscì a far eleggere console un amico, Caio Fannio e a proporre nuove leggi, come quelle per la deduzione di colonie a Taranto e Capua e per la concessione della cittadinanza romana ai Latini e della cittadinanza latina agli Italici. Fortemente ostacolato dal tribuno Marco Livio Druso, espressione del senato e portatore di istanze demagogiche, in forza della lex Rubria approvata dai comizi tributi, Caio decise di occuparsi personalmente della rifondazione della città di Cartagine distrutta venticinque anni prima dal cognato Emiliano, violando tutte le prescrizioni rituali: è la prima colonia fondata fuori dall’Italia, se non consideriamo Italica fondata dall’Africano in Spagna, che raggiunse la condizione di colonia solo con Adriano (Narbo Martius fu fondata nella Gallia meridionale solo nel 118 a.C.). Secondo Appiano lo accompagnava il console del 125 a.C. M. Fulvio Flacco, con circa 6000 coloni ai quali dovevano essere assegnati i lotti all’interno della fertile provincia d’Africa, tra il mare e il confine con il regno di Numidia (la Fossa Regia). Caio si trattenne poco più di due mesi in Africa avviando la colonizzazione attraverso l’azione degli agrimensori incaricati dell’accatastamento delle terre pubbliche, definendo il disegno urbanistico e avviando la costruzione della colonia Iunonia di Cartagine, che si sviluppò a poca distanza dalla collina Byrsa, nell'antico quartiere punico di Megara. I proletari ottennero un appezzamento di terreno (fino a 200 iugeri, cioè 50 ettari) e si installarono nell'immediato retroterra di Cartagine e lungo la vallata del fiume Bagradas (l’attuale Medjerda). Dopo la morte di Caio Gracco, interpretando una serie di segni infausti (alcuni sicuramente inventati a posteriori), il console del 121 a.C. Lucio Opimio sarebbe riuscito a far votare una legge che decretò formalmente l'abolizione della prima colonia africana; non tutti i proletari tornarono a Roma, non tutti abbandonarono la nuova città né rinunciarono alle vaste assegnazioni di terra che avevano ottenuto; una legge agraria del 111 a.C., votata alla vigilia della guerra contro Giugurta, regolamentò la condizione giuridica dei coloni graccani, confermando il possesso dei lotti per quanti avessero fatto denuncia entro 25 giorni dei rispettivi diritti sulle singole porzioni di ager publicus, mentre i lotti ormai abbandonati venivano messi in vendita per essere coltivati. Il divieto di alienazione delle singole parcelle era già stato revocato, il vectigal dovuto dagli assegnatari abolito e tutto ciò poneva le premesse per lo sviluppo successivo del latifondo africano. Ma la strada indicata dal tribuno non fu abbandonata dai populares: un secolo dopo sarebbero stati Cesare e Ottaviano a rifondare la Colonia Concordia Iulia Carthago, destinata a diventare la grande capitale della provincia unificata dell’Africa Proconsolare. Tornato a Roma, Gracco riuscì a far eleggere tribuno della plebe per la seconda volta l’amico Fulvio Flacco, eroe della guerra contro i Galli; l’uno e l’altro si presentarono poi candidati per la terza volta per il 121 a.C. ma non furono eletti, mentre il console Lucio Opimio avviò già nei primi giorni del suo mandato una sistematica opera di smantellamento della legislazione graccana. A seguito di disordini che si svilupparono nel corso dell’assemblea popolare, il senato decretò la legge marziale, il senatus consultum ultimum, che impegnava il console a salvare la res publica con qualunque mezzo e a distruggere i tiranni (Caio Gracco e Fulvio Flacco). Sorprendentemente, per la prima volta nella storia, in una guerra civile fu allora impiegato un contingente di fanti e arcieri cretesi che assediarono l’Aventino dove i sostenitori dei populares si erano rifugiati, secondo l’antica tradizione delle secessioni della plebe della prima repubblica. Caio si rifugiò inizialmente nel tempio di Diana, maledicendo chi non l’aveva aiutato e chiedendo alla dea che il popolo romano restasse per sempre schiavo per la sua ingratitudine e il suo tradimento. Inseguito tra l’Aventino e il ponte di legno (il ponte Sublicio, al margine del Testaccio), raggiunse Trastevere, il Gianicolo e il lucus Furinae, quello che Plutarco erroneamente chiama “il bosco sacro alle Furie”. Qui, inseguito sempre più da vicino dalle truppe cretesi, si fece uccidere dallo schiavo Filocrate, che morì abbracciando il padrone. Perirono oltre tremila sostenitori di Caio, i cui corpi furono gettati nel Tevere; la testa di Caio, fraudolentemente riempita di piombo, fu pagata a peso d’oro dal console Opimio, che fece poi erigere nel foro un tempio alla Concordia, nell’ambito della propaganda politica senatoria che intendeva ridimensionare drasticamente l’iniziativa tribunizia. Una mano anonima scrisse di notte sulla facciata: <<La Discordia ha edificato questo tempio alla Concordia>>. Pochi anni dopo sul letto di morte, il re della Numidia Micipsa avrebbe ricordato l’episodio: concordia parvae res crescunt, discordia maxume dilabuntur. Del resto Opimio, condannato per corruzione per i suoi rapporti proprio con Giugurta, sarebbe invecchiato nel disonore, odiato e insultato dal popolo. Oggi gli studiosi si interrogano sulle cause di quello che fu il fallimento di Caio Gracco; eppure, tra le macerie, dopo gli scontri armati, si sviluppò a Roma un generale sentimento di rimpianto per i due giovani tribuni periti tragicamente per difendere il principio della sovranità popolare; financo un senso collettivo di colpa che si diffuse tra il popolo romano, con il desiderio di rivalsa nei confronti del senato: sentimenti che avrebbero alimentato gli sviluppi successivi.
Giugurta e Caio Mario
Dobbiamo ora spostarci in Africa per seguire lo sviluppo mediterraneo dello politiche della repubblica. La morte in combattimento in Sardegna di Tiberio Sempronio Gracco, figlio dell’omonimo tribuno, avvenuta alla fine del II secolo a.C. potrebbe spiegare la ragione per la quale fu invitato in Africa un lontano discendente di Scipione, Marco Porcio Catone, console del 118 a.C., deceduto ad Utica, forse dopo aver regolato la successione di Micipsa in Numidia. Comunque per decisione del senato il regno fu smembrato tra Iempsale, Aderbale e il cugino Giugurta, maggiore per età ma nato da una concubina; quest’ultimo pensava ad una Numidia numida, progressivamente indipendente da Roma. Giugurta, eroe della guerra combattuta a Numanzia e designato alla successione di Micipsa già dall’Emiliano, cercava l’alleanza con il senato romano contro i populares e gli equites, interessati ad una progressiva penetrazione nell’Africa mediterranea, oltre i confini della provincia. Sallustio ci presenta Giugurta come una figura positiva nel sesto capitolo del Bellum Iugurthinum, subito dopo il proemio indirizzato contro la degenerazione morale della nobilitas romana, che gli provoca una profonda indignazione e un totale disgusto per la politica. La figura di Giugurta richiama per tanti aspetti quella di suo nonno Massinissa: egli appariva fin dalla prima adolescenza come gagliardo fisicamente, di bell'aspetto, ma soprattutto forte di mente; d'indole attiva e di acuto ingegno, non si lasciava corrompere né dai piaceri né dall'inerzia; ma seguendo il costume del popolo dei Numidi, andava a cavallo, si esercitava al lancio del giavellotto, gareggiava con gli amici nella corsa, si dedicava alla pratica aristocratica della caccia al leone e, pur superando gli altri per fama, tuttavia era caro a tutti. Sallustio elenca le qualità personali del principe numida e segue con ammirazione il suo percorso educativo: Giugurta da un'iniziale emarginazione a corte raggiunse in seguito una prestigiosa posizione, che indicava in lui un capo carismatico, un protagonista, destinato a regnare, grazie all'esercizio della virtus ed all'impegno accompagnato dalla moderazione; la sua figura era riconosciuta al centro del sistema politico e culturale del regno di Numidia. La virtus di Giugurta, valoroso e desideroso di conseguire la gloria sarebbe stata apprezzata inizialmente dallo stesso Micipsa, che riteneva positiva l'azione che un personaggio tanto amato - homo tam acceptus popularibus - avrebbe potuto svolgere per il regno, soprattutto a causa dell'acceso favore dei Numidi. Il patrigno Micipsa avrebbe però riconosciuto precocemente i sintomi di alcuni gravi difetti, la natura umana avida di comando, e pronta a soddisfare la propria ambizione. Le sue altre virtù erano la generosità dell'animo, l'acutezza di ingegno, il rifiuto della mediocrità, la stessa astuzia barbara, la calliditas, una dote che lo faceva avvicinare ad Annibale. Fu proprio la maxuma virtus del principe numida a spingere l’Emiliano a collocarlo tra i suoi amici ed a promettergli il regno, che invece fu diviso con i cugini, con lo scopo di frazionare la potenza dei re africani: Giugurta ebbe inizialmente il paese dei Numidi Masaesyli (confinante con la Mauretania), mentre Aderbale ottenne Cirta, la capitale di Massinissa, e il territorio dell’attuale Algeria centro-orientale; a Iempsale restò l’area a ridosso della provincia romana (che poi sarebbe entrata nella pertica della colonia augustea di Cartagine). Il primo ad essere eliminato fu Iempsale, assassinato a tradimento e in violazione della fides, forse a Thimida Bure a breve distanza da Thugga, mentre Aderbale riuscì laciare di notte l’altopiano di Cirta e a fuggire a Roma; qui fu dichiarato erede del regno che era stato del fratello, con un compromesso che vide Giugurta impegnato in un’attiva azione di corruzione di alcuni senatori, a iniziare da Lucio Opimio. Il concetto della dipendenza della Numidia da Roma è espresso limpidamente nel discorso di Aderbale in senato: Micipsa morendo aveva precisato che lasciava ai figli solo l'amministrazione del regno, mentre il dominio su di esso di diritto e di fatto sarebbe spettato ai Romani; nella visione di Micipsa e di Aderbale, i Romani sarebbero dovuti essere considerati non solo alleati, ma anche consanguinei e parenti del re, quasi cognati ed affines; in particolare i re della Numidia dovevano considerarsi clienti dei Cornelii, a loro volta patroni in un rapporto che durava da decenni. Di più, la Numidia tolta a Siface era stato un dono, un beneficium, dei Romani a Massinissa: ed ora, aggiungeva Aderbale, vostra beneficia mihi erepta sunt. Il problema in discussione a Roma, tra la nobilitas ed i populares, sembra potesse consistere nel fatto che il regno di Numidia fosse considerato un elemento del patrimonio romano, uno stato vassallo, una "Numidia romana", secondo la tesi dei populares e dello stesso Aderbale, oppure se fosse uno stato indipendente legato a Roma solo attraverso accordi internazionali, un regno alleato, una "Numidia numida", secondo la convinzione della nobilitas e dello stesso Giugurta, vincitore di una guerra civile nella quale Roma intendeva interferire per imporre i propri interessi. Assediato per quasi un anno a Cirta, Aderbale si arrese a Giugurta e fu ucciso assieme a centinaia di mercanti italici. La reazione dei comizi popolari fu rabbiosa e il senato non poté impedire la guerra, condotta con molta negligenza da Lucio Calpurnio Bestia, che comunque riuscì a convocare a Roma il re africano: l'iniziale deditio di Giugurta non fu convalidata dai comizi proprio perché agli occhi dei populares il re non poteva pretendere di essere altro che un funzionario di Roma; esclusa la possibilità di una redditio, non rimaneva che la strada della revoca del procurator ribelle all'imperium: una soluzione certo non gradita al re Giugurta, che aveva visto nella deditio non una resa incondizionata, ma solo uno strumento per mantenere il proprio potere, secondo le assicurazioni ricevute dagli ottimati; e questo anche più tardi, in occasione delle trattative avviate da Bomilcare e dopo la sconfitta finale. Chiamato a Roma come imputato e come testimone per le pressioni del sanguigno tribuno C. Memmio (dell'autunno111 a.C. è la lex Memmia de Iugurtha Romam ducendo), il re barbaro rischiava però di trasformarsi in un imprevedibile giudice dell'onore di alcuni tra i più illustri personaggi romani. Da qui il veto del tribuno C. Bebio, che tanto scandalo determinò tra i contemporanei, l'espulsione di Giugurta e la successiva lex de bello Iugurthae indicendo votata dai comizi centuriati all'indomani dell'uccisione del principe Massiva; fu allora costituito un tribunale speciale presieduto da Scauro, voluto dalla lex Mamilia de coniuratione Iugurthina, che portò alla condanna di alcuni tra i più autorevoli esponenti della nobilitas romana. In quegli stessi mesi, la legge agraria del 111 a.C. che liquidava la colonia Iunonia di Cartagine fondata da Caio Gracco riconosceva comunque i diritti dei re della Numidia per le terre collocate entro la provincia romana. La guerra riprese perciò in Africa sotto il comando di Spurio Postumio Albino e del fratello Aulo, che fu però sconfitto a Suthul e poi costretto a Calama ad una pace infamante, quando i suoi soldati furono costretti a passare sotto il giogo con una cerimonia che ricordava tragicamente le Forche Caudine della seconda sannitica, dove un antenato di Albino era stato umiliato. Il comando passò allora al più alto esponente del senato, Quinto Cecilio Metello, legato al ceto equestre, accompagnato da due valorosissimi legati, Publio Rutilio Rufo e Gaio Mario: i risultati furono immediati, con la vittoria di Metello sul fiume Muthul (l’oued Tessa nella Tunisia centro-occidentale), con l’occupazione romana di Leptis Magna in Tripolitania e l’arrivo di contingenti Getuli dal Sahara. Da parte sua Giugurta riusciva a definire una forte alleanza militare con il re di Mauretania Bocco, divenuto suo suocero, e ad ottenere una significativa vittoria a Vaga, l’attuale Beja, durante la festa di Cerere. Metello continuò implacabile la guerra, che ormai durava da cinque anni, mentre il senato voleva evitare un impegno gravoso per le truppe romane in Africa nell'imminenza di un'invasione di Cimbri e Teutoni, dopo la sconfitta di Noreia (nell’attuale Austria): abbandonato da Gaio Mario che presentò a Roma la candidatura al consolato per il 107 pur essendo un homo novus, Metello lasciò sdegnosamente la provincia assumendo il cognomen ex virtute di Numidico, per ricordare al suo sleale successore che la guerra era stata quasi conclusa quando gli era stato revocato il comando. Mario, il capo dei populares, fu chiamato a concludere la guerra africana in forza della lex Manlia de bello Iuguthino (un plebiscito proposto dal tribuno C. Manlio Mancino che rettificava un precedente senatoconsulto favorevole a Metello): per Sallustio egli aveva un integrum ingenium dalla nascita ed era riuscito ad elevarsi tra i suoi pari; la sua umile origine non aveva rappresentato un ostacolo; era cresciuto immerso nelle attività fisiche ma aveva completamente trascurato la formazione culturale, specie in lingua greca. Dopo l'avaritia del corrotto Calpurnio Bestia, dopo l'imperitia di Albino e dopo la superbia di Metello, la scelta di Mario rappresentava una svolta rigeneratrice per Roma: la sua industria, la sua innocentia, la sua probitas, la sua virtus, il suo valore ne giustificavano il successo finale; le cicatrici per le ferite ricevute sui campi di battaglia valevano più delle imagines degli antenati esibite da Metello. Eppure Sallustio sorvola sul debito politico di Mario nei confronti della famiglia dei Metelli e manifesta perplessità sulla riforma che avrebbe portato ad una professionalizzazione dell'esercito, non nascondendo l'ambitio consulis. Il senato rifiutò di fornire truppe a Mario, che organizzò un arruolamento volontario di proletari, che si mettevano agli ordini del console e ne ricevevano lo stipendium: una riforma che è alla base del rapporto diretto tra soldati e i loro comandanti. La campagna militare si estese tra Cirta e l’oasi di Capsa e si concluse grazie al tradimento di Bocco, che consegnò il genero in catene al questore Lucio Cornelio Silla. Assumendo il suo secondo consolato, il I gennaio 104, Mario avrebbe trascinato il re numida nel suo trionfo, come una belva impazzita. Eppure, nella descrizione di Plutarco, Giugurta pazzo di dolore appare un gigante, rispetto ai suoi civilissimi aguzzini: gettato nudo nei sotterranei del carcere Tulliano, alcuni gli lacerarono con violenza la tunica, altri nella fretta di togliergli gli orecchini d'oro gli strapparono insieme i lobi delle orecchie; sconvolto, il re rise sarcasticamente dei suoi nemici. Circa quindici anni dopo la conclusione della guerra, il ricordo di Giugurta avrebbe continuato a suscitare incredibili entusiasmi, quando sarebbe ricomparso a Venosa al fianco dei Sanniti il principe Oxyntas; la lunga durata della guerra è del resto un indizio del consenso e dei sostegni sui quali il re aveva potuto contare in chiave anti- romana, dal momento che anche tra i Mauri di Bocco Iugurtha carus et Romani invisi erant. Solo a conclusione della guerra Mario recuperò le terre dei sovrani numidi che ancora nel 111 a.C. erano state riconosciute ai re di Numidia all’interno della provincia romana e insediò nel vicino regno di Numidia affidato a Gauda, al di qua della Fossa Regia, nell'area di Thibaris, di Uchi Maius, di Thuburnica e di Mustis, suoi veterani in forza della lex Appuleia de colonis in Africam deducendis del 103, per la quale circa diecimila soldati mariani ottennero assegnazioni di terra fino a 100 iugeri, pari a 25 ettari. Nella stessa occasione gruppi di Getuli favorevoli a Roma furono largamente beneficati con terre e con la cittadinanza romana, prendendo il gentilizio del loro comandante. I Cimbri e i Teutoni La prudenza del senato nel corso della guerra contro Giugurta è stata collegata con la minaccia delle popolazioni germaniche dei Cimbri e Teutoni in rapido trasferimento dallo Jutland verso il Norico e la Gallia libera: decine di migliaia di barbari si scontrarono a Noreia nel 113 con il console Papirio Carbone, che, vinto, finì per suicidarsi. Sei anni dopo fu la volta di Servilio Cepione, che occupò la città di Tolosa impadronendosi dell’oro che i Celti avevano raccolto nel santuario di Delfi un secolo e mezzo prima, nella scorreria che in parte li aveva portati fino alla Galazia, nell’area centrale dell’Anatolia. Dopo il sacrilegio, la maledizione dell’oro di Tolosa ricadde sull’esercito romano, sconfitto clamorosamente sul Rodano ad Arausio (Orange in Provenza) il 6 ottobre105 a.C. a causa di una serie di errori strategici attribuiti a Servilio Cepione. Si apriva la possibilità che i Cimbri e i Teutoni oltrepassassero le Alpi ed entrassero in Italia: il terrore spinse i Romani a mettersi nelle mani di Gaio Mario, che fu ininterrottamente rieletto al consolato negli anni successivi al trionfo africano, con un’evidente violazione delle leggi, che imponevano un intervallo di 10 anni tra un consolato e l’altro. Mario organizzò la difesa della provincia della Gallia Narbonense e del contiguo territorio di Marsiglia, trincerandosi sul Rodano, in attesa che i Teutoni tornassero a Sud dopo aver devastato la Gallia Comata; lo scontro si svolse ad Aquae Sextiae (Aix-en-Provence) nel 102 a.C. con un’incredibile vittoria romana; attraversate le Alpi, Mario affrontò poi i Cimbri, sconfitti l’anno dopo sull’Adige ai Campi Raudii, ancora una volta grazie all’impegno del legato L. Cornelio Silla. Prima ancora della conclusione della guerra in Gallia il tribuno del 103 a.C. Lucio Apuleio Saturnino aveva provveduto a sistemare a cavallo tra il territorio romano e quello del regno di Numida i veterani della guerra africana vinta da Mario contro Giugurta, testimoniando così la visione dei populares, che faceva leva sull’idea della piena sovranità romana sui regni clienti. Per ottenere questo risultato aveva proposto e fatto approvare una legge de maiestate, che colpiva gli oligarchi istituendo un tribunale permanente che doveva giudicare i senatori che non avessero rispettato gli indirizzi dei comizi popolari. Il programma di Apuleio Saturnino e del suo alleato Servilio Glaucia compendeva anche l’approvazione di una legge frumentaria e il ritorno dei cavalieri all’interno dei tribunali istituiti per giudicare i governatori senatorii accusati di concussione, ripristinando le giurie graccane modificate nel 106. Il secondo tribunato di Saturnino e la pretura di Glaucia furono un disastro per i populares: la legge agraria per le assegnazioni di lotti nella Pianura Padana prevedeva l’obbligo per i senatori di non opporsi all’applicazione della volontà popolare; a farne inizialmente le spese fu allora Metello Numidico, costretto a partire in esilio per non sottoporsi al giuramento previsto. I disordini successivi, consentirono al senato di imporre la legge marziale attraverso lo strumento del senatus consultum ultimum, che era stato vent’anni prima decisivo nell’uccisione di Caio Gracco. Per un paradosso il senato incaricò dell’esecuzione del suo mandato Caio Maio, console nel 100 a.C., rappresentante proprio della fazione che si intendeva soffocare; per lui Saturnino e Glaucia avevano fin qui lavorato, anche se con contraddizioni e senza riuscire a comporre il dissidio tra proletari urbani e proletari italici, che pian piano dovevano essere inclusi all’interno delle assegnazioni dei lotti di terra in Cisalpina. Imprigionati all’interno della curia senatoria, i due rivoltosi e i loro seguaci furono uccisi con il lancio dall’alto di tegole e pietre, senza che Mario riuscisse ad evitare la loro morte; il console alla fine preferì restare nell’ambito della legalità repubblicana e abbandonare la fazione che l’aveva sostenuto; né i tempi erano ancora maturi per la mobilitazione delle truppe fedeli a Mario in funzione antisenatoria. Tutto ciò costò al console la rottura con i populares e contemporaneamente la freddezza del senato che non si sentiva rappresentato dal vincitore di Giugurta e dei Cimbri e Teutoni. Col pretesto di seguire per conto della repubblica l’evolversi della situazione in Asia, Mario fu allora inviato in oriente per riferire sull’attività del re del Ponto Mitridate VI, che nei decenni successivi sarebbe stato il catalizzatore degli umori antiromani nell’area a ridosso dell’antico regno di Pergamo trasformato in provincia nel 133 a.C., perfino nei vicini regni alleati di Bitinia e Cappadocia. La guerra sociale Il tribunato di Caio Gracco aveva creato speranze e illusioni tra i latini e gli italici, in rapporto alla concessione della cittadinanza romana, il vero strumento che consentiva di partecipare effettivamente alla vita politica e godere delle assegnazioni di terre e degli altri vantaggi, ad esempio sul piano giudiziario, che spettavano solo ai cives. Le guerre, le attività commerciali, le grandi imprese produttive, gli appalti avevano messo però gli italici che operavano in provincia progressivamente sullo stesso piano dei cittadini romani; si era inoltre sviluppata la prassi dell’ingresso arbitrario nella cittadinanza di migliaia di italici, che in qualche modo usurpavano un diritto ufficialmente mai riconosciuto. La revisione delle liste dei cittadini, l’espulsione degli abusivi, la paura dei tribunali dopo la legge approvata dai comizi nel 95 su proposta dei consoli Licinio Crasso e Mucio Scevola finirono per creare una divaricazione nettissima tra l’oligarchia romana e l’aristocrazia italica, decisa ad ottenere il riconoscimento di uno stato di fatto fondato sul contributo di fatica e di sangue effettivamente fornito nelle guerre di conquista. Il momento di tensione più alta fu rappresentato dal tribunato di Marco Livio Druso, il figlio di quel Druso che il senato aveva utilizzato per bloccare il riformismo di Caio Gracco. Paradossalmente fu proprio il figlio del tribuno antigraccano a proporre le leggi che concedevano la cittadinanza agli italici nel 91 a.C., inserivano 300 equites all’interno del senato, modificavano nuovamente le giurie chiamate a processare i governatori accusati del crimine di concussione, riprendevano il programma di assegnazioni agrarie e di frumentationes, strumenti tradizionali utilizzati dai populares. Ma l’obiettivo era quello di arrivare ad un equilibrio più alto, nel quale il potere del senato nella sua nuova composizione doveva essere non indebolito ma rafforzato: tutto questo precedeva il programma di Silla, spregiudicato interprete degli interessi senatorii. Gli obiettivi di Druso non furono condivisi dal console Marcio Filippo, le leggi furono dichiarate illegali perché imposte con la violenza, le speranze degli italici sfumarono e il tribuno fu ucciso. Il fallimento di Druso provocò immediatamente la rivolta dei socii italici e lo scoppio di quella che chiamiamo la guerra sociale, sanguinosissima e alla radice di quasi cinquanta anni di guerre civili. Il primo focolaio si sviluppò ad Ascoli nel Piceno, il centro sannita che rivendicava origini sabine, da sempre collegato alla costa laziale attraverso l’arcaica cerimonia del ver sacrum. Qui fu ucciso il pretore Servilio; dopo due anni di lotte sanguinosissime, la città fu conquistata da un esercito arruolato a sue spese da Gneo Pompeo Strabone, il padre di Pompeo Magno. I nuclei principali della rivolta sono rappresentati dai Sanniti del Molise, dell’Abruzzo, della Campania e dai Marsi dell’Appennino; ad essi si allearono svariati popoli italici e numerose città e villaggi, dichiarando la costituzione di una res publica parallela, con un esercito formidabile guidato da due comandanti secondo il modello romano, con un senato, una capitale (Corfinio che fu ribattezzata Italica), una moneta, dei santuari e dei centri religiosi collocati all’interno delle ampie pianure delle vallate appenniniche come a Pietrabbondante. Per reprimere la rivolta, furono allora mobilitati i principali esponenti dell’aristocrazia romana; fu richiamato in servizio Caio Mario, ma fu riconosciuto un ruolo attivo a Cornelio Silla, destinato a diventare il difensore dell’aristocrazia senatoria e il vero erede del programma politico di Druso. Più che sul campo militare la guerra fu risolta con l’adozione nel 90 della legge proposta dal console Caio Giulio Cesare, che concedeva la cittadinanza a tutti gli italici che non si erano ribellati; l’anno dopo con la legge Plauzia-Papiria di fatto la rivolta fu svuotata di contenuti con la concessione della cittadinanza a tutti coloro che avessero deposto le armi entro due mesi. L’ultimo focolaio di guerra si manteneva acceso a Nola in Campania, assediata dal console Silla ancora nell’88 a.C., alla vigilia della partenza per la provincia d’Asia che gli era stata formalmente assegnata. I populares decisero di colpire il campione dell’aristocrazia, che era stato incaricato di guidare una decisa campagna militare contro Mitridate; il re del Ponto aveva reagito agli abusi e all’avidità dei governatori d’Asia massacrando Romani e Italici. Il tribuno Sulpicio Rufo fece approvare una legge che toglieva il comando a Silla e lo passava a Mario. La reazione di Silla dimostra il carattere spregiudicato e violento del personaggio: licenziato tutto lo stato maggiore del suo esercito (con l’eccezione di Lucullo), Silla indirizzò il suo esercito contro la città di Roma, occupando la capitale ed eliminando uno dopo l’altro i maggiori esponenti del partito dei populares. Mario riuscì a stento a fuggire in Africa, ma, respinto dal re di Numidia Iempsale II, si rifugiò per qualche mese nell’isola di Cercina sulla costa orientale della provincia africana, a Nord della Piccola Sirte. Insediato un governo che gli sembrava favorevole agli ottimati, nominati i consoli dell’87 (Cinna e Ottavio), Silla dopo poche settimane partì per vendicare il massacro degli Italici voluto da Mitridate e per liberare la Grecia e l’Asia dagli eserciti del Ponto, lasciando però dietro di se migliaia di morti.