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*+ai Gracchi alla guerra sociale


Tiberio Gracco
A partire dalla seconda metà del II secolo a.C. la società romana fu attraversata da
profonde trasformazioni economiche e violentemente travolta dalla “questione
agraria”, sollevata inizialmente dal console Caio Lelio e poi dai tribuni della plebe in
un momento cruciale del confronto politico all’interno dell’oligarchia senatoria:
siamo all’indomani della distruzione di Cartagine e dopo la fine di quel salutare
metus hostilis, la paura per un nemico invincibile immaginario, forse un nuovo
Annibale, che fino a quel momento aveva mantenuto unita la classe dirigente romana
e aveva tenuto nascoste le discordie civili che pure covavano sotto la cenere. Secondo
Plutarco (che scriveva dopo l’età dei Flavi) la sedizione antisenatoria del tribuno
Tiberio Gracco, alla fine del 133 a.C., fu la prima vicenda che dopo quattro secoli
dalla cacciata dei re etruschi si risolse nel sangue e nell’uccisione di cittadini: oltre
trecento partigiani di Tiberio furono allora uccisi con bastoni e pietre, nessuno col
ferro.
Figlio del console che aveva sottomesso i Celtiberi, gli Iliensi e i Balari della
Sardegna, e di Cornelia, la figlia di Scipione l’Africano, Tiberio aveva combattuto la
terza guerra punica agli ordini del cognato Scipione Emiliano e nel 146 a.C. era stato
il primo a salire sulle mura di Cartagine assediata, che subito dopo sarebbe stata rasa
al suolo e distrutta col fuoco dalle fondamenta: il comandante romano era riuscito
così a travolgere le straordinarie difese della metropoli punica, concepita per resistere
agli assedi nemici come una nave fortificata ancorata al continente africano, con le
torri e le mura che accoglievano elefanti, case, necropoli e templi, proteggendo nei
due porti navi militari e navi mercantili. Oggi possiamo dire che si trattò di un
incredibile esempio di urbanistica concepita al servizio alla strategia militare. Meno
coraggiosamente Tiberio si era invece comportato nella guerra celtiberica a
Numanzia (alla confluenza dei fiumi Tera e Duero), tanto che venne poi chiamato a
rispondere della sconfitta davanti al senato, come questore al servizio del console
Ostilio Mancino.
Il fratello Caio qualche anno dopo avrebbe scritto che era stato proprio il viaggio
verso la penisola iberica attraverso l’Etruria ad aprirgli gli occhi non tanto sulla
condizione di sfruttamento degli schiavi addetti all’agricoltura e alla pastorizia
quanto sull’ingiusta distribuzione delle terre pubbliche, finite in mano a pochi
oligarchi che, violando sfacciatamente una delle leggi Licinie Sestie e una successiva
legge de modo agrorum, avevano impedito ai soldati e ai contadini liberi di possedere
e mettere a coltura porzioni di agro pubblico del popolo romano. È quella che Arnold
J. Toynbee ha chiamato la drammatica “eredità di Annibale”, che aveva causato
devastazioni generalizzate e la nascita del latifondo in un’Italia impoverita dalle
lunghe campagne militari. Per la prima volta una fortissima pressione sociale si
manifestò apertamente a causa delle tante contraddizioni interne alla città-stato, che
erano rimaste sotto traccia durante la lunga fase delle campagne militari nel
Mediterraneo: nobilitas senatoria, contadini-soldati e proletari inurbati avevano ora
obiettivi diversi e si dovevano confrontare con i nuovi ceti emergenti, in particolare
gli equites dediti ad attività commerciali e finanziarie, dopo che con la legge Claudia
del 218 ai senatori erano rimasti solo gli investimenti immobiliari; si allargava lo
sfruttamento della manodopera schiavile che in parte proveniva dal mercato del porto
franco di Delos creato alla fine della terza macedonica con lo scopo di schiacciare
l’autonomia della repubblica di Rodi. Infine, la distribuzione delle terre pubbliche
ben al di là dell’agro romano antico e del Latium vetus, avrebbe finito per porre con
forza il rapporto tra cittadini e alleati italici, questi ultimi espropriati, esclusi dai
benefici, sempre più desiderosi di entrare nella cittadinanza romana. Naturalmente
siamo molto condizionati nella ricostruzione degli obiettivi politici di Tiberio dalla
visione di Appiano, che recentemente Luciano Perelli ha dichiarato in parte
anacronistica e inattendibile, almeno per quanto riguarda le dimensioni del latifondo.
Fondamentale per orientare l’azione politica “rivoluzionaria” di Tiberio Gracco era
stato l’insegnamento di due suoi maestri greci, l’oratore Diofane di Mitilene
nell’isola di Lesbo (dove Aristotele aveva scritto la Fisica) e il filosofo Caio Blossio
di Cuma, allievo di Antipatro di Tarso: entrambi predicavano la necessità di difendere
il bene comune e di preservare gli interessi generali del Populus; Blossio più tardi,
fuggito in Asia, avrebbe sostenuto l’usurpatore Aristonico in quello che era stato il
regno di Pergamo e fondato un’utopica “città degli schiavi”. Questo spiega il
carattere torrentizio e sdegnato dell’oratoria del tribuno, quando rivolgendosi al
popolo romano nei suoi primi discorsi richiamava il tema della sovranità popolare, a
fondamento di un’azione politica “rivoluzionaria”: <<Gli animali selvaggi che
vivono in Italia hanno ciascuno una tana, un covo, un rifugio, mentre coloro che
combattono e muoiono per l’Italia non hanno nient’altro che l’aria e la luce e vagano
con i figli e con le mogli, senza casa e senza fissa dimora; nessuno ha un altare né un
sepolcro degli antenati>>, anche se vengono chiamati signori e padroni
dell’ecumene: l’ispirazione stoica è evidente, in un irrisolto tentativo di collegare
egalitarismo utopico e tradizionali politiche che avevano avvantaggiato soltanto
coloro che avevano la piena disponibilità delle ricchezze conquistate nel corso delle
guerre in Grecia, in Macedonia, in Africa e in Oriente. Ad aiutare Tiberio furono
anche alcuni senatori come Fulvio Flacco e in particolare alcuni giuristi come Publio
Licinio Crasso Muciano e il console in carica Publio Mucio Scevola, che si rifiutò di
reprimere con la violenza l’agitazione popolare, provocando l’intervento del feroce
Scipione Nasica, che agì con l’intento dichiarato di difendere la libertà garantita dalla
costituzione mista contro la tirannide del tribuno.
In realtà i decenni precedenti avevano visto l’avvio di un’ampia politica di
colonizzazione viritana (individuale) che aveva riguardato l’Etruria (ad es. Luna al
confine con la Liguria, Gravisca, Lucca), la Pianura Padana (Mutina e Parma), l’alto
Adriatico (la colonia latina di Aquileia era stata fondata nella Venetia nel 181 a.C.),
mentre procedeva rapidamente la costruzione di importanti vie di penetrazione verso
la Gallia Cisalpina, che favorivano la messa a coltura delle terre pubbliche, con
assegnazioni individuali in contrasto con l’estendersi del latifondo nel resto
dell’Italia. I tempi sembrarono maturi per riattivare alcune antiche leggi che fissavano
in 500 iugeri (125 ettari) i lotti di ager publicus assegnati in uso ai singoli cittadini; si
volevano così rendere disponibili centinaia di migliaia di iugeri da assegnare ai
proletari urbani che progressivamente dovevano essere riammessi all’interno del
comizio centuriato, con un abbassamento anche dei livelli minimi di censo che
consentivano di entrare nell’ultima classe, la quinta; le assegnazioni dei lotti
dovevano essere accompagnate dal pagamento di un vectigal, che ben presto sarebbe
stato abolito. Il processo avrebbe da un lato di nuovo allargato la base di reclutamento
dell’esercito legionario e dall’altro avrebbe ridotto il fenomeno dello sfruttamento
estensivo delle terre pubbliche con le greggi transumanti affidate alla mano d’opera
schiavile e aumentato il numero dei piccoli proprietari terrieri, che avrebbero ottenuto
porzioni di ager publicus non superiori ai 30 iugeri non alienabili, perché
inizialmente non potevano essere ceduti a terzi. I poveri, che avrebbero tratto dai
terreni demaniali un minimo di reddito, erano gli stessi che avevano costituito l’asse
portante del sistema politico-militare sul quale si era retta sino allora la res publica.
Ben si comprende come tutta l’operazione fosse estremamente complessa e piena di
incognite, per quanto sostenuta dal favore popolare: i possessori che illegalmente si
erano impadroniti dell’agro pubblico in contrasto con le leggi precedenti non
dovevano essere puniti, ma anzi dovevano diventare proprietari e parzialmente
indennizzati.
Il progetto, fortemente sostenuto dal suocero di Tiberio Gracco (il princeps senatus
Appio Claudio), con alcuni aspetti che gli storici ritengono fortemente populisti, fu
osteggiato da coloro che avevano potuto fino a quel momento avere la piena
disponibilità delle terre occupate in guerra, facendone un uso spregiudicato a danno
delle popolazioni italiche. L’aristocrazia più chiusa e parassitaria utilizzò
paradossalmente l’azione di un altro tribuno della plebe, Marco Ottavio, per bloccare
la riforma tramite l’intercessio, il veto tribunizio, col quale tentò di impedire il
processo riformatore nel corso del comizio tributo che doveva procedere
all’approvazione della legge agraria. A sua volta Tiberio Gracco, facendo leva
anch’egli sullo ius intercessionis e sullo ius auxilii, arrivò a impedire l’attività di tutti
i magistrati (iustitium), a chiudere con sigilli il tesoro conservato nelle cripte del
tempio di Saturno nel foro Romano e a far deliberare alle 35 tribù l’illegale
deposizione del tribuno che si era messo al servizio dei latifondisti, tradendo il
mandato fiduciario ricevuto dal popolo sovrano; aveva utilizzato in modo un po’
spregiudicato lo ius agendi cum populo che consentiva piena libertà di movimento ai
tribuni all’interno del comizio. Nei disordini che si svilupparono nel corso
dell’assemblea popolare, il popolo riunito nel comizio tributo, esasperato per i
continui rinvii, accecò uno schiavo del tribuno Ottavio, deposto col voto della
maggioranza delle tribù territoriali; egli fu subito sostituito da un cliente di Tiberio
poco conosciuto. Eppure l’illegale deposizione del tribuno risultò odiosa al popolo,
che per secoli aveva difeso la sacralità e l’inviolabilità dei tribuni della plebe; Tiberio
dové giustificarsi pubblicamente, spiegando che se il tribuno consacrato al popolo e
tenuto a proteggerlo inizia a danneggiare gli interessi del popolo, ne diminuisce la
potenza e l’autorità e gli impedisce di votare, si priva da solo di quella magistratura
alla quale è stato chiamato con l’obiettivo di mettersi al servizio della sovranità
popolare, la sola che giustifica l’inviolabilità dei tribuni.
Deposto Ottavio, prima della fine del mandato Tiberio riuscì dunque faticosamente e
con molti contrasti a conseguire tutti i suoi obiettivi e a far approvare la legge agraria,
che aveva finalità dichiarate (intenti di progresso, sul piano demografico e militare) e
finalità non dichiarate (intenti conservatori, di ritorno alla figura del contadino-
soldato); fu allora nominata una commissione triumvirale che doveva concretamente
sovrintendere all’accatastamento delle terre, al recupero delle aree occupate
abusivamente e all’assegnazione dei lotti così resi disponibili a favore dei proletari
urbani. La commissione, costituita da Tiberio, suo fratello Caio (che allora si trovava
a Numanzia per combattere i Celtiberi) e il suocero del tribuno Appio Claudio Pulcro,
fu incaricata di coordinare l’azione degli agrimensori, istituire un primo catasto,
accertare il titolo di possesso della terra pubblica da parte degli oligarchi, effettuare le
assegnazioni dei lotti recuperati ai cittadini non abbienti e privi di mezzi che ne
avevano fatto richiesta. Alla morte di Tiberio sarebbe subentrato il padre di Licinia,
sposa di Caio Gracco, P. Licinio Crasso; successivamente Fulvio Flacco e Papirio
Carbone.
Tiberio finì poi per inimicarsi completamente gli oligarchi, invadendo le tradizionali
competenze del senato in politica estera e proponendo una legge che consentiva di
utilizzare le enormi ricchezze del re di Pergamo Attalo Filometore (che con
testamento aveva nominato erede del regno orientale il popolo romano): l’eredità
doveva essere utilizzata per raccogliere i capitali necessari per acquistare attrezzi
agricoli ed effettuare investimenti che consentissero ai nuovi coloni di mettere a
coltura le terre a loro assegnate.
Protetto dalla sacrosantitas dei tribuni della plebe, Tiberio resisté fino al mese di
dicembre 133 a.C.: una legge impediva la sua ricandidatura per l’anno tribunizio
successivo e, dopo aver tentato illegalmente di presentare la sua seconda candidatura,
finì per essere abbandonato dai suoi sostenitori, anche se aveva cercato di
riconquistare la fiducia del popolo con nuove leggi: quella che riduceva il lungo
servizio militare fissato ad oltre 10 anni; quella relativa al diritto di appello al popolo
in caso di condanna di un cittadino; quella sulla composizione delle giurie nominate
per processare i governatori provinciali in forza della lex Calpurnia di 15 anni prima,
riducendo il peso dei senatori a favore dei cavalieri. Provvedimenti che appaiono in
realtà solo un’anticipazione di quelli proposti dieci anni dopo dal fratello Caio.
La discussione in senato fu accesissima, anche per le preoccupazioni suscitate dalla
rivolta degli schiavi in Sicilia guidati dal siriaco Euno: protetto dal console Scevola,
che si rifiutò di <<provvedere alla salvezza della città e annientare il tiranno>>,
Tiberio subì l’iniziativa del pontefice massimo Scipione Nasica, che guidò quasi una
solenne processione religiosa che si incaricò di interrompere l’assemblea popolare e
punire il tribuno ribelle all’autorità del senato. Armati di mazze e bastoni, i seguaci di
Nasica percorsero il sentiero che dalla curia arrivava al Campidoglio, alle spalle del
tempio di Giove, dove Tiberio aveva radunato circa tremila seguaci che opposero
scarsa resistenza: egli fu allora violentemente colpito da un suo collega tribuno col
piede di un sedile; altri suoi amici furono uccisi con bastoni e pietre. Tutti i cadaveri
rimasero insepolti e furono gettati nel Tevere; si raccontava che Caio Villio ancora
vivo fu rinchiuso in un sacco pieno di vipere e serpenti e morì tra atroci sofferenze.
Blossio di Cuma si difese dalle accuse, ricordando di aver obbedito agli ordini
ricevuti da Tiberio: sarebbe arrivato anche a incendiare il tempio di Giove Capitolino
se Tiberio avesse ritenuto utile al popolo un tale delitto. Fu dunque assolto e partì per
Pergamo, convinto di dover lottare per la libertà degli schiavi.
Caio Gracco
La notizia della morte di Tiberio arrivò qualche giorno dopo a Numanzia (metà
dicembre 133 a.C.), dove Scipione l’Emiliano era ancora accampato alla vigilia della
caduta della città celtiberica, con un esercito rafforzato da un contingente numida
guidato dal principe Giugurta, figliastro del re Micipsa. Del suo stato maggiore
faceva parte anche il cognato Caio Gracco, ospitato nella stessa tenda del
comandante. Scipione si lasciò scappare una frase infelice giustificando l’uccisione di
Tiberio, frase che in famiglia non gli sarebbe stata mai perdonata; qualche anno dopo,
forse per volontà della moglie Sempronia (sorella dei Gracchi), il distruttore di
Cartagine e di Numanzia, il figlio adottivo dell’Africano, sarebbe morto
misteriosamente nella sua casa a Roma, forse strangolato; finiva così un lungo
periodo di umiliazioni e di rimproveri da parte del popolo romano che non perdonava
all’erede dell’Africano la sua politica antigraccana. Del resto anche il pontefice
massimo Scipione Nasica avrebbe pagato le sue colpe, odiatissimo dal popolo ed
inviato quasi in esilio a Pergamo nella nuova provincia d’Asia, dove sarebbe morto
dopo pochi mesi, a breve distanza dalla morte del nemico Blossio.
Mentre i disordini venivano repressi anche con la distruzione della città di Fregelle
(tra Frosinone e Cassino), proseguiva l’attività della commissione triumvirale
incaricata di distribuire le terre ai proletari; intanto il giovane Caio Gracco terminava
i 12 anni di servizio militare combattendo nella Barbaria sarda come questore, in
attesa di essere eletto tribuno della plebe, per poter riprendere con più vigore la
politica dei populares: alla fine del 124 a.C. Caio abbandonò senza autorizzazione
l’isola per partecipare alle elezioni per l’anno successivo. Accusato dai censori di
insubordinazione e di aver fomentato i disordini fra gli Italici, Caio si difese con un
acceso discorso, del quale alcuni stralci sono conservati da Plutarco e Gellio, in cui
illustrava il suo irreprensibile operato in Sardegna, il suo valore in guerra, la sua
integrità morale, l’oculatezza nel maneggiare il denaro pubblico, le spese sostenute
attingendo al patrimonio personale, la generosità e l’imparzialità verso i Sardi,
confrontando queste virtù con quelle dei predecessori. Ricordava l’anomala
lunghezza del suo servizio militare e la sua onestà: «nel governo della provincia io mi
sono comportato nel modo che ho ritenuto corrispondente al vostro interesse e non
invece nel modo che mi dettava la mia ambizione. In casa mia non ebbe luogo alcuna
crapula da taverna e non vennero accolti giovanetti dall’aspetto aggraziato, ma nel
mio convivio i vostri figli assumevano una discrezione maggiore che nei luoghi più
venerati. Mi sono comportato durante il mio governo in modo tale che nessuno
potesse mai dire che io abbia accettato come regalie dai provinciali l’equivalente di
un solo asse o che per ragioni inerenti la mia attività io sia stato causa di una qualsiasi
piccola spesa. Sono stato per ben due anni al governo della Sardegna; se mai una
meretrice ha profanato la mia soglia o se un giovane schiavo per mia iniziativa venne
condotto al vizio, che io venga giudicato il più perverso ed il più abietto di tutte le
genti. Dal momento che io mi sono mostrato di tanta continenza presso i servi dei
Sardi, come del resto potete constatare, giudicate voi come io ho vissuto con i vostri
figli». Caio fu allora completamente prosciolto da ogni accusa e riuscì subito a farsi
nominare tribuno della plebe per i due anni successivi, visto che nel frattempo era
stata abolita la legge che impediva l’immediata rielezione di un tribuno, che aveva
esposto Tiberio alla vendetta degli oligarchi dopo la perdita della sacrosantitas
tribunizia.
L’azione politica di Caio fu ispirata da un ampio programma riformatore, con
un’accurata preparazione e un sostegno più ampio. La sua lunga esperienza militare, i
disagi subìti dai commilitoni durante le carestie e nel rigido inverno (che Caio come
questore aveva cercato di risolvere chiedendo aiuto al re di Numidia e alle città della
provincia) furono alla base di una delle prime leggi che il tribuno fece approvare, la
legge militare, che disponeva che fosse la res publica a dover fornire il vestiario ai
soldati, senza trattenere nulla a tale scopo dal soldo; e insieme il divieto di arruolare i
giovani con meno di 17 anni.
Le altre leggi ricordate da Plutarco riguardano i tribuni deposti per volontà del popolo
(Marco Ottavio), che non avrebbero potuto sviluppare il tradizionale cursus honorum;
un’altra puniva i magistrati che avevano bandito un cittadino senza processo, che
dovevano essere a loro volta processati (Popillio Lenate); una nuova legge agraria
divideva tra i poveri ulteriori porzioni di agro pubblico a titolo individuale. Una
proposta riguardava poi la concessione agli Italici dello stesso diritto di voto di cui
godevano i cittadini romani. Furono invece approvate per la prima volta una legge
frumentaria che riduceva al massimo il prezzo del grano per migliaia di poveri e una
legge giudiziaria che costituiva un ampio collegio di 600 cittadini, 300 senatori e 300
cavalieri (scelti dal tribuno), candidabili alle giurie che avrebbero dovuto processare i
governatori disonesti. I propositi dichiarati erano quelli di moralizzare la vita
pubblica e limitare gli abusi sui provinciali da parte dei consoli e dei pretori, ma
l’effetto fu esattamente il contrario, con un evidente conflitto di interessi degli
equites, desiderosi di gestire in piena libertà le rendite provinciali direttamente o
tramite società di pubblicani, ormai capaci di ricattare i governatori, spesso chiamati
a rispondere in sede giudiziaria al termine del loro mandato. A favore dei cavalieri fu
poi approvata la legge che attribuiva ai pubblicani a condizioni vantaggiose le decime
dell’Asia pergamena, una grande provincia di nuova formazione. Fu poi decisa la
deduzione delle colonie, la costruzione di strade, la collocazione di miliari stradali,
l’approntamento di nuovi granai; opere che Caio tentò di seguire personalmente con
una schiera di impresari, operai, ambasciatori, magistrati, soldati e letterati.
Nel suo secondo anno tribunizio riuscì a far eleggere console un amico, Caio Fannio
e a proporre nuove leggi, come quelle per la deduzione di colonie a Taranto e Capua
e per la concessione della cittadinanza romana ai Latini e della cittadinanza latina agli
Italici. Fortemente ostacolato dal tribuno Marco Livio Druso, espressione del senato e
portatore di istanze demagogiche, in forza della lex Rubria approvata dai comizi
tributi, Caio decise di occuparsi personalmente della rifondazione della città di
Cartagine distrutta venticinque anni prima dal cognato Emiliano, violando tutte le
prescrizioni rituali: è la prima colonia fondata fuori dall’Italia, se non consideriamo
Italica fondata dall’Africano in Spagna, che raggiunse la condizione di colonia solo
con Adriano (Narbo Martius fu fondata nella Gallia meridionale solo nel 118 a.C.).
Secondo Appiano lo accompagnava il console del 125 a.C. M. Fulvio Flacco, con
circa 6000 coloni ai quali dovevano essere assegnati i lotti all’interno della fertile
provincia d’Africa, tra il mare e il confine con il regno di Numidia (la Fossa Regia).
Caio si trattenne poco più di due mesi in Africa avviando la colonizzazione attraverso
l’azione degli agrimensori incaricati dell’accatastamento delle terre pubbliche,
definendo il disegno urbanistico e avviando la costruzione della colonia Iunonia di
Cartagine, che si sviluppò a poca distanza dalla collina Byrsa, nell'antico quartiere
punico di Megara. I proletari ottennero un appezzamento di terreno (fino a 200 iugeri,
cioè 50 ettari) e si installarono nell'immediato retroterra di Cartagine e lungo la
vallata del fiume Bagradas (l’attuale Medjerda). Dopo la morte di Caio Gracco,
interpretando una serie di segni infausti (alcuni sicuramente inventati a posteriori), il
console del 121 a.C. Lucio Opimio sarebbe riuscito a far votare una legge che decretò
formalmente l'abolizione della prima colonia africana; non tutti i proletari tornarono a
Roma, non tutti abbandonarono la nuova città né rinunciarono alle vaste assegnazioni
di terra che avevano ottenuto; una legge agraria del 111 a.C., votata alla vigilia della
guerra contro Giugurta, regolamentò la condizione giuridica dei coloni graccani,
confermando il possesso dei lotti per quanti avessero fatto denuncia entro 25 giorni
dei rispettivi diritti sulle singole porzioni di ager publicus, mentre i lotti ormai
abbandonati venivano messi in vendita per essere coltivati. Il divieto di alienazione
delle singole parcelle era già stato revocato, il vectigal dovuto dagli assegnatari
abolito e tutto ciò poneva le premesse per lo sviluppo successivo del latifondo
africano. Ma la strada indicata dal tribuno non fu abbandonata dai populares: un
secolo dopo sarebbero stati Cesare e Ottaviano a rifondare la Colonia Concordia
Iulia Carthago, destinata a diventare la grande capitale della provincia unificata
dell’Africa Proconsolare.
Tornato a Roma, Gracco riuscì a far eleggere tribuno della plebe per la seconda volta
l’amico Fulvio Flacco, eroe della guerra contro i Galli; l’uno e l’altro si presentarono
poi candidati per la terza volta per il 121 a.C. ma non furono eletti, mentre il console
Lucio Opimio avviò già nei primi giorni del suo mandato una sistematica opera di
smantellamento della legislazione graccana. A seguito di disordini che si
svilupparono nel corso dell’assemblea popolare, il senato decretò la legge marziale, il
senatus consultum ultimum, che impegnava il console a salvare la res publica con
qualunque mezzo e a distruggere i tiranni (Caio Gracco e Fulvio Flacco).
Sorprendentemente, per la prima volta nella storia, in una guerra civile fu allora
impiegato un contingente di fanti e arcieri cretesi che assediarono l’Aventino dove i
sostenitori dei populares si erano rifugiati, secondo l’antica tradizione delle
secessioni della plebe della prima repubblica. Caio si rifugiò inizialmente nel tempio
di Diana, maledicendo chi non l’aveva aiutato e chiedendo alla dea che il popolo
romano restasse per sempre schiavo per la sua ingratitudine e il suo tradimento.
Inseguito tra l’Aventino e il ponte di legno (il ponte Sublicio, al margine del
Testaccio), raggiunse Trastevere, il Gianicolo e il lucus Furinae, quello che Plutarco
erroneamente chiama “il bosco sacro alle Furie”. Qui, inseguito sempre più da vicino
dalle truppe cretesi, si fece uccidere dallo schiavo Filocrate, che morì abbracciando il
padrone. Perirono oltre tremila sostenitori di Caio, i cui corpi furono gettati nel
Tevere; la testa di Caio, fraudolentemente riempita di piombo, fu pagata a peso d’oro
dal console Opimio, che fece poi erigere nel foro un tempio alla Concordia,
nell’ambito della propaganda politica senatoria che intendeva ridimensionare
drasticamente l’iniziativa tribunizia. Una mano anonima scrisse di notte sulla
facciata: <<La Discordia ha edificato questo tempio alla Concordia>>. Pochi anni
dopo sul letto di morte, il re della Numidia Micipsa avrebbe ricordato l’episodio:
concordia parvae res crescunt, discordia maxume dilabuntur. Del resto Opimio,
condannato per corruzione per i suoi rapporti proprio con Giugurta, sarebbe
invecchiato nel disonore, odiato e insultato dal popolo.
Oggi gli studiosi si interrogano sulle cause di quello che fu il fallimento di Caio
Gracco; eppure, tra le macerie, dopo gli scontri armati, si sviluppò a Roma un
generale sentimento di rimpianto per i due giovani tribuni periti tragicamente per
difendere il principio della sovranità popolare; financo un senso collettivo di colpa
che si diffuse tra il popolo romano, con il desiderio di rivalsa nei confronti del senato:
sentimenti che avrebbero alimentato gli sviluppi successivi.

Giugurta e Caio Mario


Dobbiamo ora spostarci in Africa per seguire lo sviluppo mediterraneo dello politiche
della repubblica. La morte in combattimento in Sardegna di Tiberio Sempronio
Gracco, figlio dell’omonimo tribuno, avvenuta alla fine del II secolo a.C. potrebbe
spiegare la ragione per la quale fu invitato in Africa un lontano discendente di
Scipione, Marco Porcio Catone, console del 118 a.C., deceduto ad Utica, forse dopo
aver regolato la successione di Micipsa in Numidia. Comunque per decisione del
senato il regno fu smembrato tra Iempsale, Aderbale e il cugino Giugurta, maggiore
per età ma nato da una concubina; quest’ultimo pensava ad una Numidia numida,
progressivamente indipendente da Roma. Giugurta, eroe della guerra combattuta a
Numanzia e designato alla successione di Micipsa già dall’Emiliano, cercava
l’alleanza con il senato romano contro i populares e gli equites, interessati ad una
progressiva penetrazione nell’Africa mediterranea, oltre i confini della provincia.
Sallustio ci presenta Giugurta come una figura positiva nel sesto capitolo del Bellum
Iugurthinum, subito dopo il proemio indirizzato contro la degenerazione morale della
nobilitas romana, che gli provoca una profonda indignazione e un totale disgusto per
la politica. La figura di Giugurta richiama per tanti aspetti quella di suo nonno
Massinissa: egli appariva fin dalla prima adolescenza come gagliardo fisicamente, di
bell'aspetto, ma soprattutto forte di mente; d'indole attiva e di acuto ingegno, non si
lasciava corrompere né dai piaceri né dall'inerzia; ma seguendo il costume del popolo
dei Numidi, andava a cavallo, si esercitava al lancio del giavellotto, gareggiava con
gli amici nella corsa, si dedicava alla pratica aristocratica della caccia al leone e, pur
superando gli altri per fama, tuttavia era caro a tutti. Sallustio elenca le qualità
personali del principe numida e segue con ammirazione il suo percorso educativo:
Giugurta da un'iniziale emarginazione a corte raggiunse in seguito una prestigiosa
posizione, che indicava in lui un capo carismatico, un protagonista, destinato a
regnare, grazie all'esercizio della virtus ed all'impegno accompagnato dalla
moderazione; la sua figura era riconosciuta al centro del sistema politico e culturale
del regno di Numidia. La virtus di Giugurta, valoroso e desideroso di conseguire la
gloria sarebbe stata apprezzata inizialmente dallo stesso Micipsa, che riteneva
positiva l'azione che un personaggio tanto amato - homo tam acceptus popularibus -
avrebbe potuto svolgere per il regno, soprattutto a causa dell'acceso favore dei
Numidi. Il patrigno Micipsa avrebbe però riconosciuto precocemente i sintomi di
alcuni gravi difetti, la natura umana avida di comando, e pronta a soddisfare la
propria ambizione. Le sue altre virtù erano la generosità dell'animo, l'acutezza di
ingegno, il rifiuto della mediocrità, la stessa astuzia barbara, la calliditas, una dote
che lo faceva avvicinare ad Annibale. Fu proprio la maxuma virtus del principe
numida a spingere l’Emiliano a collocarlo tra i suoi amici ed a promettergli il regno,
che invece fu diviso con i cugini, con lo scopo di frazionare la potenza dei re africani:
Giugurta ebbe inizialmente il paese dei Numidi Masaesyli (confinante con la
Mauretania), mentre Aderbale ottenne Cirta, la capitale di Massinissa, e il territorio
dell’attuale Algeria centro-orientale; a Iempsale restò l’area a ridosso della provincia
romana (che poi sarebbe entrata nella pertica della colonia augustea di Cartagine). Il
primo ad essere eliminato fu Iempsale, assassinato a tradimento e in violazione della
fides, forse a Thimida Bure a breve distanza da Thugga, mentre Aderbale riuscì
laciare di notte l’altopiano di Cirta e a fuggire a Roma; qui fu dichiarato erede del
regno che era stato del fratello, con un compromesso che vide Giugurta impegnato in
un’attiva azione di corruzione di alcuni senatori, a iniziare da Lucio Opimio. Il
concetto della dipendenza della Numidia da Roma è espresso limpidamente nel
discorso di Aderbale in senato: Micipsa morendo aveva precisato che lasciava ai figli
solo l'amministrazione del regno, mentre il dominio su di esso di diritto e di fatto
sarebbe spettato ai Romani; nella visione di Micipsa e di Aderbale, i Romani
sarebbero dovuti essere considerati non solo alleati, ma anche consanguinei e parenti
del re, quasi cognati ed affines; in particolare i re della Numidia dovevano
considerarsi clienti dei Cornelii, a loro volta patroni in un rapporto che durava da
decenni. Di più, la Numidia tolta a Siface era stato un dono, un beneficium, dei
Romani a Massinissa: ed ora, aggiungeva Aderbale, vostra beneficia mihi erepta
sunt. Il problema in discussione a Roma, tra la nobilitas ed i populares, sembra
potesse consistere nel fatto che il regno di Numidia fosse considerato un elemento del
patrimonio romano, uno stato vassallo, una "Numidia romana", secondo la tesi dei
populares e dello stesso Aderbale, oppure se fosse uno stato indipendente legato a
Roma solo attraverso accordi internazionali, un regno alleato, una "Numidia numida",
secondo la convinzione della nobilitas e dello stesso Giugurta, vincitore di una guerra
civile nella quale Roma intendeva interferire per imporre i propri interessi. Assediato
per quasi un anno a Cirta, Aderbale si arrese a Giugurta e fu ucciso assieme a
centinaia di mercanti italici. La reazione dei comizi popolari fu rabbiosa e il senato
non poté impedire la guerra, condotta con molta negligenza da Lucio Calpurnio
Bestia, che comunque riuscì a convocare a Roma il re africano: l'iniziale deditio di
Giugurta non fu convalidata dai comizi proprio perché agli occhi dei populares il re
non poteva pretendere di essere altro che un funzionario di Roma; esclusa la
possibilità di una redditio, non rimaneva che la strada della revoca del procurator
ribelle all'imperium: una soluzione certo non gradita al re Giugurta, che aveva visto
nella deditio non una resa incondizionata, ma solo uno strumento per mantenere il
proprio potere, secondo le assicurazioni ricevute dagli ottimati; e questo anche più
tardi, in occasione delle trattative avviate da Bomilcare e dopo la sconfitta finale.
Chiamato a Roma come imputato e come testimone per le pressioni del sanguigno
tribuno C. Memmio (dell'autunno111 a.C. è la lex Memmia de Iugurtha Romam
ducendo), il re barbaro rischiava però di trasformarsi in un imprevedibile giudice
dell'onore di alcuni tra i più illustri personaggi romani. Da qui il veto del tribuno C.
Bebio, che tanto scandalo determinò tra i contemporanei, l'espulsione di Giugurta e la
successiva lex de bello Iugurthae indicendo votata dai comizi centuriati all'indomani
dell'uccisione del principe Massiva; fu allora costituito un tribunale speciale
presieduto da Scauro, voluto dalla lex Mamilia de coniuratione Iugurthina, che portò
alla condanna di alcuni tra i più autorevoli esponenti della nobilitas romana. In quegli
stessi mesi, la legge agraria del 111 a.C. che liquidava la colonia Iunonia di Cartagine
fondata da Caio Gracco riconosceva comunque i diritti dei re della Numidia per le
terre collocate entro la provincia romana.
La guerra riprese perciò in Africa sotto il comando di Spurio Postumio Albino e del
fratello Aulo, che fu però sconfitto a Suthul e poi costretto a Calama ad una pace
infamante, quando i suoi soldati furono costretti a passare sotto il giogo con una
cerimonia che ricordava tragicamente le Forche Caudine della seconda sannitica,
dove un antenato di Albino era stato umiliato. Il comando passò allora al più alto
esponente del senato, Quinto Cecilio Metello, legato al ceto equestre, accompagnato
da due valorosissimi legati, Publio Rutilio Rufo e Gaio Mario: i risultati furono
immediati, con la vittoria di Metello sul fiume Muthul (l’oued Tessa nella Tunisia
centro-occidentale), con l’occupazione romana di Leptis Magna in Tripolitania e
l’arrivo di contingenti Getuli dal Sahara. Da parte sua Giugurta riusciva a definire
una forte alleanza militare con il re di Mauretania Bocco, divenuto suo suocero, e ad
ottenere una significativa vittoria a Vaga, l’attuale Beja, durante la festa di Cerere.
Metello continuò implacabile la guerra, che ormai durava da cinque anni, mentre il
senato voleva evitare un impegno gravoso per le truppe romane in Africa
nell'imminenza di un'invasione di Cimbri e Teutoni, dopo la sconfitta di Noreia
(nell’attuale Austria): abbandonato da Gaio Mario che presentò a Roma la
candidatura al consolato per il 107 pur essendo un homo novus, Metello lasciò
sdegnosamente la provincia assumendo il cognomen ex virtute di Numidico, per
ricordare al suo sleale successore che la guerra era stata quasi conclusa quando gli era
stato revocato il comando.
Mario, il capo dei populares, fu chiamato a concludere la guerra africana in forza
della lex Manlia de bello Iuguthino (un plebiscito proposto dal tribuno C. Manlio
Mancino che rettificava un precedente senatoconsulto favorevole a Metello): per
Sallustio egli aveva un integrum ingenium dalla nascita ed era riuscito ad elevarsi tra
i suoi pari; la sua umile origine non aveva rappresentato un ostacolo; era cresciuto
immerso nelle attività fisiche ma aveva completamente trascurato la formazione
culturale, specie in lingua greca. Dopo l'avaritia del corrotto Calpurnio Bestia, dopo
l'imperitia di Albino e dopo la superbia di Metello, la scelta di Mario rappresentava
una svolta rigeneratrice per Roma: la sua industria, la sua innocentia, la sua probitas,
la sua virtus, il suo valore ne giustificavano il successo finale; le cicatrici per le ferite
ricevute sui campi di battaglia valevano più delle imagines degli antenati esibite da
Metello. Eppure Sallustio sorvola sul debito politico di Mario nei confronti della
famiglia dei Metelli e manifesta perplessità sulla riforma che avrebbe portato ad una
professionalizzazione dell'esercito, non nascondendo l'ambitio consulis. Il senato
rifiutò di fornire truppe a Mario, che organizzò un arruolamento volontario di
proletari, che si mettevano agli ordini del console e ne ricevevano lo stipendium: una
riforma che è alla base del rapporto diretto tra soldati e i loro comandanti. La
campagna militare si estese tra Cirta e l’oasi di Capsa e si concluse grazie al
tradimento di Bocco, che consegnò il genero in catene al questore Lucio Cornelio
Silla. Assumendo il suo secondo consolato, il I gennaio 104, Mario avrebbe trascinato
il re numida nel suo trionfo, come una belva impazzita. Eppure, nella descrizione di
Plutarco, Giugurta pazzo di dolore appare un gigante, rispetto ai suoi civilissimi
aguzzini: gettato nudo nei sotterranei del carcere Tulliano, alcuni gli lacerarono con
violenza la tunica, altri nella fretta di togliergli gli orecchini d'oro gli strapparono
insieme i lobi delle orecchie; sconvolto, il re rise sarcasticamente dei suoi nemici.
Circa quindici anni dopo la conclusione della guerra, il ricordo di Giugurta avrebbe
continuato a suscitare incredibili entusiasmi, quando sarebbe ricomparso a Venosa al
fianco dei Sanniti il principe Oxyntas; la lunga durata della guerra è del resto un
indizio del consenso e dei sostegni sui quali il re aveva potuto contare in chiave anti-
romana, dal momento che anche tra i Mauri di Bocco Iugurtha carus et Romani invisi
erant.
Solo a conclusione della guerra Mario recuperò le terre dei sovrani numidi che ancora
nel 111 a.C. erano state riconosciute ai re di Numidia all’interno della provincia
romana e insediò nel vicino regno di Numidia affidato a Gauda, al di qua della Fossa
Regia, nell'area di Thibaris, di Uchi Maius, di Thuburnica e di Mustis, suoi veterani
in forza della lex Appuleia de colonis in Africam deducendis del 103, per la quale
circa diecimila soldati mariani ottennero assegnazioni di terra fino a 100 iugeri, pari
a 25 ettari. Nella stessa occasione gruppi di Getuli favorevoli a Roma furono
largamente beneficati con terre e con la cittadinanza romana, prendendo il gentilizio
del loro comandante.
I Cimbri e i Teutoni
La prudenza del senato nel corso della guerra contro Giugurta è stata collegata con la
minaccia delle popolazioni germaniche dei Cimbri e Teutoni in rapido trasferimento
dallo Jutland verso il Norico e la Gallia libera: decine di migliaia di barbari si
scontrarono a Noreia nel 113 con il console Papirio Carbone, che, vinto, finì per
suicidarsi. Sei anni dopo fu la volta di Servilio Cepione, che occupò la città di Tolosa
impadronendosi dell’oro che i Celti avevano raccolto nel santuario di Delfi un secolo
e mezzo prima, nella scorreria che in parte li aveva portati fino alla Galazia, nell’area
centrale dell’Anatolia. Dopo il sacrilegio, la maledizione dell’oro di Tolosa ricadde
sull’esercito romano, sconfitto clamorosamente sul Rodano ad Arausio (Orange in
Provenza) il 6 ottobre105 a.C. a causa di una serie di errori strategici attribuiti a
Servilio Cepione. Si apriva la possibilità che i Cimbri e i Teutoni oltrepassassero le
Alpi ed entrassero in Italia: il terrore spinse i Romani a mettersi nelle mani di Gaio
Mario, che fu ininterrottamente rieletto al consolato negli anni successivi al trionfo
africano, con un’evidente violazione delle leggi, che imponevano un intervallo di 10
anni tra un consolato e l’altro. Mario organizzò la difesa della provincia della Gallia
Narbonense e del contiguo territorio di Marsiglia, trincerandosi sul Rodano, in attesa
che i Teutoni tornassero a Sud dopo aver devastato la Gallia Comata; lo scontro si
svolse ad Aquae Sextiae (Aix-en-Provence) nel 102 a.C. con un’incredibile vittoria
romana; attraversate le Alpi, Mario affrontò poi i Cimbri, sconfitti l’anno dopo
sull’Adige ai Campi Raudii, ancora una volta grazie all’impegno del legato L.
Cornelio Silla. Prima ancora della conclusione della guerra in Gallia il tribuno del
103 a.C. Lucio Apuleio Saturnino aveva provveduto a sistemare a cavallo tra il
territorio romano e quello del regno di Numida i veterani della guerra africana vinta
da Mario contro Giugurta, testimoniando così la visione dei populares, che faceva
leva sull’idea della piena sovranità romana sui regni clienti. Per ottenere questo
risultato aveva proposto e fatto approvare una legge de maiestate, che colpiva gli
oligarchi istituendo un tribunale permanente che doveva giudicare i senatori che non
avessero rispettato gli indirizzi dei comizi popolari. Il programma di Apuleio
Saturnino e del suo alleato Servilio Glaucia compendeva anche l’approvazione di una
legge frumentaria e il ritorno dei cavalieri all’interno dei tribunali istituiti per
giudicare i governatori senatorii accusati di concussione, ripristinando le giurie
graccane modificate nel 106. Il secondo tribunato di Saturnino e la pretura di Glaucia
furono un disastro per i populares: la legge agraria per le assegnazioni di lotti nella
Pianura Padana prevedeva l’obbligo per i senatori di non opporsi all’applicazione
della volontà popolare; a farne inizialmente le spese fu allora Metello Numidico,
costretto a partire in esilio per non sottoporsi al giuramento previsto. I disordini
successivi, consentirono al senato di imporre la legge marziale attraverso lo
strumento del senatus consultum ultimum, che era stato vent’anni prima decisivo
nell’uccisione di Caio Gracco. Per un paradosso il senato incaricò dell’esecuzione del
suo mandato Caio Maio, console nel 100 a.C., rappresentante proprio della fazione
che si intendeva soffocare; per lui Saturnino e Glaucia avevano fin qui lavorato,
anche se con contraddizioni e senza riuscire a comporre il dissidio tra proletari urbani
e proletari italici, che pian piano dovevano essere inclusi all’interno delle
assegnazioni dei lotti di terra in Cisalpina. Imprigionati all’interno della curia
senatoria, i due rivoltosi e i loro seguaci furono uccisi con il lancio dall’alto di tegole
e pietre, senza che Mario riuscisse ad evitare la loro morte; il console alla fine preferì
restare nell’ambito della legalità repubblicana e abbandonare la fazione che l’aveva
sostenuto; né i tempi erano ancora maturi per la mobilitazione delle truppe fedeli a
Mario in funzione antisenatoria. Tutto ciò costò al console la rottura con i populares e
contemporaneamente la freddezza del senato che non si sentiva rappresentato dal
vincitore di Giugurta e dei Cimbri e Teutoni. Col pretesto di seguire per conto della
repubblica l’evolversi della situazione in Asia, Mario fu allora inviato in oriente per
riferire sull’attività del re del Ponto Mitridate VI, che nei decenni successivi sarebbe
stato il catalizzatore degli umori antiromani nell’area a ridosso dell’antico regno di
Pergamo trasformato in provincia nel 133 a.C., perfino nei vicini regni alleati di
Bitinia e Cappadocia.
La guerra sociale
Il tribunato di Caio Gracco aveva creato speranze e illusioni tra i latini e gli italici, in
rapporto alla concessione della cittadinanza romana, il vero strumento che consentiva
di partecipare effettivamente alla vita politica e godere delle assegnazioni di terre e
degli altri vantaggi, ad esempio sul piano giudiziario, che spettavano solo ai cives. Le
guerre, le attività commerciali, le grandi imprese produttive, gli appalti avevano
messo però gli italici che operavano in provincia progressivamente sullo stesso piano
dei cittadini romani; si era inoltre sviluppata la prassi dell’ingresso arbitrario nella
cittadinanza di migliaia di italici, che in qualche modo usurpavano un diritto
ufficialmente mai riconosciuto. La revisione delle liste dei cittadini, l’espulsione
degli abusivi, la paura dei tribunali dopo la legge approvata dai comizi nel 95 su
proposta dei consoli Licinio Crasso e Mucio Scevola finirono per creare una
divaricazione nettissima tra l’oligarchia romana e l’aristocrazia italica, decisa ad
ottenere il riconoscimento di uno stato di fatto fondato sul contributo di fatica e di
sangue effettivamente fornito nelle guerre di conquista. Il momento di tensione più
alta fu rappresentato dal tribunato di Marco Livio Druso, il figlio di quel Druso che il
senato aveva utilizzato per bloccare il riformismo di Caio Gracco. Paradossalmente
fu proprio il figlio del tribuno antigraccano a proporre le leggi che concedevano la
cittadinanza agli italici nel 91 a.C., inserivano 300 equites all’interno del senato,
modificavano nuovamente le giurie chiamate a processare i governatori accusati del
crimine di concussione, riprendevano il programma di assegnazioni agrarie e di
frumentationes, strumenti tradizionali utilizzati dai populares. Ma l’obiettivo era
quello di arrivare ad un equilibrio più alto, nel quale il potere del senato nella sua
nuova composizione doveva essere non indebolito ma rafforzato: tutto questo
precedeva il programma di Silla, spregiudicato interprete degli interessi senatorii. Gli
obiettivi di Druso non furono condivisi dal console Marcio Filippo, le leggi furono
dichiarate illegali perché imposte con la violenza, le speranze degli italici sfumarono
e il tribuno fu ucciso.
Il fallimento di Druso provocò immediatamente la rivolta dei socii italici e lo scoppio
di quella che chiamiamo la guerra sociale, sanguinosissima e alla radice di quasi
cinquanta anni di guerre civili. Il primo focolaio si sviluppò ad Ascoli nel Piceno, il
centro sannita che rivendicava origini sabine, da sempre collegato alla costa laziale
attraverso l’arcaica cerimonia del ver sacrum. Qui fu ucciso il pretore Servilio; dopo
due anni di lotte sanguinosissime, la città fu conquistata da un esercito arruolato a sue
spese da Gneo Pompeo Strabone, il padre di Pompeo Magno. I nuclei principali della
rivolta sono rappresentati dai Sanniti del Molise, dell’Abruzzo, della Campania e dai
Marsi dell’Appennino; ad essi si allearono svariati popoli italici e numerose città e
villaggi, dichiarando la costituzione di una res publica parallela, con un esercito
formidabile guidato da due comandanti secondo il modello romano, con un senato,
una capitale (Corfinio che fu ribattezzata Italica), una moneta, dei santuari e dei centri
religiosi collocati all’interno delle ampie pianure delle vallate appenniniche come a
Pietrabbondante. Per reprimere la rivolta, furono allora mobilitati i principali
esponenti dell’aristocrazia romana; fu richiamato in servizio Caio Mario, ma fu
riconosciuto un ruolo attivo a Cornelio Silla, destinato a diventare il difensore
dell’aristocrazia senatoria e il vero erede del programma politico di Druso.
Più che sul campo militare la guerra fu risolta con l’adozione nel 90 della legge
proposta dal console Caio Giulio Cesare, che concedeva la cittadinanza a tutti gli
italici che non si erano ribellati; l’anno dopo con la legge Plauzia-Papiria di fatto la
rivolta fu svuotata di contenuti con la concessione della cittadinanza a tutti coloro che
avessero deposto le armi entro due mesi. L’ultimo focolaio di guerra si manteneva
acceso a Nola in Campania, assediata dal console Silla ancora nell’88 a.C., alla
vigilia della partenza per la provincia d’Asia che gli era stata formalmente assegnata.
I populares decisero di colpire il campione dell’aristocrazia, che era stato incaricato
di guidare una decisa campagna militare contro Mitridate; il re del Ponto aveva
reagito agli abusi e all’avidità dei governatori d’Asia massacrando Romani e Italici. Il
tribuno Sulpicio Rufo fece approvare una legge che toglieva il comando a Silla e lo
passava a Mario. La reazione di Silla dimostra il carattere spregiudicato e violento del
personaggio: licenziato tutto lo stato maggiore del suo esercito (con l’eccezione di
Lucullo), Silla indirizzò il suo esercito contro la città di Roma, occupando la capitale
ed eliminando uno dopo l’altro i maggiori esponenti del partito dei populares. Mario
riuscì a stento a fuggire in Africa, ma, respinto dal re di Numidia Iempsale II, si
rifugiò per qualche mese nell’isola di Cercina sulla costa orientale della provincia
africana, a Nord della Piccola Sirte. Insediato un governo che gli sembrava
favorevole agli ottimati, nominati i consoli dell’87 (Cinna e Ottavio), Silla dopo
poche settimane partì per vendicare il massacro degli Italici voluto da Mitridate e per
liberare la Grecia e l’Asia dagli eserciti del Ponto, lasciando però dietro di se migliaia
di morti.

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