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CENTRO ITALIANO DI STUDI DI STORIA E D’ARTE

PISTOIA

COMUNE DI PISTOIA - PROVINCIA DI PISTOIA


CAMERA DI COMMERCIO, INDUSTRIA, ARTIGIANATO E AGRICOLTURA DI PISTOIA
FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI PISTOIA E PESCIA

La costruzione della città comunale italiana


VENTUNESIMO CONVEGNO
INTERNAZIONALE DI STUDI

La costruzione della città comunale italiana

(secoli XII-inizio XIV)


(secoli XII−inizio XIV)

Pistoia, 11-14 maggio 2007

Pistoia, presso la sede del Centro


2009
In memoria di Linetto
CENTRO ITALIANO DI STUDI DI STORIA E D’ARTE
PISTOIA

COMUNE DI PISTOIA - PROVINCIA DI PISTOIA


CAMERA DI COMMERCIO, INDUSTRIA, ARTIGIANATO E AGRICOLTURA DI PISTOIA
FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI PISTOIA E PESCIA

VENTUNESIMO CONVEGNO
INTERNAZIONALE DI STUDI

La costruzione della città comunale


italiana
(secoli XII–inizio XIV)

Pistoia, 11-14 maggio 2007

Pistoia, presso la sede del Centro


2009
© Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte - Pistoia 2009
ENTI PROMOTORI

comune di pistoia
provincia di pistoia
camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di pistoia
fondazione cassa di risparmio di pistoia e pescia

IN COLLABORAZIONE CON

azienda di promozione turistica


«Abetone - Pistoia - Montagna Pistoiese»

VII
COMITATO SCIENTIFICO

Prof. Giovanni Cherubini, Presidente


Prof. Silvana Collodo
Prof. Emilio Cristiani
Prof. Lucia Gai
Prof. Giovanna Petti Balbi
Prof. Gabriella Piccinni
Prof. Giuliano Pinto
Prof. Mauro Ronzani

SEGRETERIA DEL CONVEGNO

Linetto Neri
Giovanna Guerrieri
Massimo Guerrieri
Francesco Leoni

CENTRO ITALIANO DI STUDI DI STORIA E D’ARTE


c/o Assessorato alla Cultura della Provincia di Pistoia
Piazzetta San Leone, 1 - PISTOIA
Casella Postale 78 - Poste Centrali
I - 51100 PISTOIA
VIII
RELATORI

Prof. Anna Benvenuti


Prof. Francesca Bocchi
Prof. Sante Bortolami
Prof. Dario Canzian
Prof. Giovanni Cherubini
Prof. Elisabeth Crouzet-Pavan
Prof. Franco Franceschi
Prof. Lucia Gai
Prof. Maria Ginatempo
Prof. Roberto Greci
Prof. Etienne Hubert
Prof. Cristina La Rocca
Prof. Italo Moretti
Prof. Roberta Mucciarelli
Prof. Mauro Ronzani
Prof. Carmela Maria Rugolo
Prof. Aldo A. Settia
Prof. Thomas Szabò
Prof. Salvatore Tramontana
Prof. Andrea Zorzi

IX
Presentazione

L’improvvisa morte del nostro carissimo Segretario Linetto Neri, la


cui figura sarà ricordata nel volume di Atti del successivo Convegno, ci ha
creato, come è facile immaginare, qualche problema. Linetto, come del re-
sto era sua consuetudine, ci aveva lasciato tutti i conti economici sistema-
ti, ma non è stato facile sostituirlo nella funzione da lui esercitata. Ora
riteniamo che questo sia avvenuto e in maniera soddisfacente. Ma giova
aggiungere che la dipartita del nostro collaboratore, ma sarebbe più giu-
sto dire amico, ha in ogni caso creato sconcerto anche fra chi aveva par-
tecipato al Convegno e aveva tenuto una relazione. C’è voluto quindi un
po’ di tempo in più per mettere a posto le cose e far ripartire la «macchi-
na». Devo dire che per fare questo mi sono stati particolarmente vicini ol-
tre a Paolo Nanni, anche Francesco Leoni, Giovanna Guerrieri e Massimo
Guerrieri. Ma a ulteriore conferma di quanto la figura di un «giusto» che
se ne va possa incidere sul futuro, il Convegno successivo a questo si è po-
tuto basare felicemente sulla collaborazione attenta ed entusiasta di un
terzetto di giovani amici. Ma vengo ora, come di consueto, agli Atti con-
tenuti in questo volume, dal quale qualche relazione fra quelle previste,
come risulta dalla mia Introduzione, manca all’appello. La «costruzione
della città comunale italiana» a cui si intitola il Convegno prevede, nel-
la sua prima parte, la «costruzione materiale della città», successivamen-
te «la costruzione dell’identità cittadina». Tutto questo senza dimenticare,
come dimostra la bella relazione di una specialista, quella che fu l’eredità
materiale del passato cittadino che le città comunali si trovavano di fronte.
E senza dimenticare neppure le diversità che segnarono le città comprese
nel regno meridionale rispetto ai caratteri dell’Italia centro-settentrionale:
storiografia vecchia potrà dire qualcuno, forse un po’ stanco di questa lon-
tana origine del dualismo italiano, ma rinnovabile, se questo si vuole, e
certo qualcuno già lo vuole con maggiore chiarezza di altri, soprattutto, se
un’analisi sempre più attenta di tutte le diversità cittadine non si fisserà su
una impossibile equiparazione tra entità dotate di poteri politici generali e
complessi come quelli delle città comunali ed entità di organismi cittadini
XI
come quelli contenuti entro i confini della monarchia meridionale ovvia-
mente privi di quei poteri politici generali e cercherà invece di evidenziar-
ne tutti i margini di autonomia, le attività economiche, le strutture, la vita
culturale. Il confronto fra le due entità della storia italiana diventerà allo-
ra più facile e più produttivo. Ma è anche auspicabile che il confronto non
si fermi ai confini italiani, perché è sempre più necessario che si allarghi
al confronto tra il regno meridionale e le altre formazioni statali europee.
La cosa non è naturalmente nuova, ma se praticata con un po’ più di con-
vinzione si finirebbe per scoprire — e sembra una banalità — che almeno
istituzionalmente il nostro Mezzogiorno, soprattutto sotto il punto di vi-
sta degli organismi cittadini, trovava altrove le somiglianze che non poteva
trovare con l’area delle nostre città comunali, soprattutto prima dell’av-
vento delle signorie, perché quest’area, quest’insieme di città, costituiva
un «unicum» anche nel più generale contesto dell’intera Europa, come
emerge con facilità anche da uno sguardo sommario. Ma non voglio conti-
nuare su questa strada, su questi confronti, su questa ricerca di somiglian-
ze o di diversità. Nel rinnovato o, da noi, se si vuole, mai spento interesse
per la storia urbana, le nuove cose da scoprire sono sempre tante, anche
perché il trascorrere del tempo e il mutare delle sensibilità da un lato con-
solida le certezze, dall’altro spinge verso direzioni nuove.

Pistoia, 23 settembre 2009

Giovanni Cherubini
Presidente del Centro Studi

XII
Venerdì 11 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Giovanni Cherubini

Giovanni Cherubini
Introduzione

Ad evitare qualsiasi possibile equivoco sul significato da attri-


buire alla «costruzione della città comunale italiana» a cui si intitola
il Convegno, le prime due parti dei lavori in cui esso si articola preve-
dono prima «la costruzione materiale della città» e, successivamente
«la costruzione dell’identità cittadina», quindi potremmo dire, molto
sommariamente e un po’ riduttivamente, sia la crescita e lo sviluppo
fisico dei centri urbani, in alcuni dei loro caratteri e dei loro luoghi
caratteristici, sia la descrizione di alcuni aspetti almeno della loro
identità ideale. E tutto questo senza dimenticare l’eredità materiale
del passato cittadino 1, che aveva preceduto la città comunale, e quel-
 

la caratterizzazione finale della città, che una riconosciuta esperta


di storia urbana ha intitolato alla sua «modernizzazione» nei se-
coli XIII e XIV 2. Ma si deve aggiungere che il Convegno non ha,
 

molto opportunamente, neppure dimenticato quella fondamenta-


le caratteristica della storia italiana che fu la convivenza tra le città
comunali del Centro-Nord e le città inserite sin dai tempi norman-
ni nella monarchia dell’Italia meridionale, offrendoci sia un quadro

1 C. La Rocca, L’eredità del passato.


2 F. Bocchi, La «modernizzazione» della città alla fine del Medioevo (secc.
XIII-XIV).


Giovanni Cherubini

generale attraverso la riflessione di una delle sue migliori intelligen-


ze storiche 3, sia la ricostruzione di un caso rilevante come quello di
 

Bari 4. Questa diversità tra le «due Italie» persiste, naturalmente, nel-


 

la nostra storiografia, non ostante qualche tentativo in contrario da


parte di qualche studioso, come un connotato del paese, ma può ov-
viamente, anche alla luce di nuove ricerche, mettere in rilievo, più
anche di quanto non sia avvenuto nel passato, somiglianze e diffe-
renze. Il Convegno, infine, così come si apre con queste mie pagine
di premessa, si chiuderà con delle «conclusioni» 5 che ne porranno in
 

rilievo le risultanze.
I temi presenti nel progetto del Convegno sono stati ovviamen-
te raggruppati dal punto di vista più logico, anche se, come sempre
avviene, si conviene facilmente che alla nostra logica un’altra o più
d’una, altrettanto o anche più degne potrebbero essere sostituite.
Cominciando dunque dalla «costruzione materiale» della città, era
difficile, dopo il ricordato riferimento all’eredità del passato, non
porre subito l’accento sulle cerchie murarie e le torri private urba-
ne 6. Le prime tracciano la «forma urbis», l’aspetto che per primo si
 

presentava al forestiero in arrivo e che, tradizionalmente, costituiva


l’immagine prevalente della propria città nell’animo dell’abitatore.
Le torri private intrecciano invece subito due diverse forme di pro-
prietà, due diverse prese di possesso dei cittadini con gli elementi da
cui la città traeva la propria sicurezza verso l’esterno oppure faceva
valere il suo potere all’interno delle mura. Due fatti, il primo come
il secondo, per i quali la costruzione della città che abbiamo definito
come materiale mostra tutta la sua insufficienza e consiglia subito di
considerare il problema in modo più largo e complesso, non dimen-
ticando il senso di sicurezza più o meno grande fornito agli abitanti
dalla cinta muraria, oppure il senso del potere o quello dei legami
familiari, di ceto o di gruppo facilmente avvertibile dietro la dispo-
nibilità di una torre.
Ma per un altro aspetto ancora, previsto dal programma del
Convegno, cioè l’evoluzione demografica delle città comunali, nella

3 S. Tramontana, L’altra Italia: la costruzione delle città nel Mezzogiorno e in


Sicilia.
4 C.M. Rugolo, L’altra Italia: Bari.
5 M. Ronzani, Conclusioni.
6 A.A. Settia, Cerchie murarie e torri private urbane.


Introduzione

sua ben nota fase di incremento, di arresto e poi di crollo tra l’inizio
dell’XI e la metà del XIV secolo, questo senso della materialità della
crescita dei centri urbani finisce per apparirci un po’ stretto, anche
se non proprio inadeguato 7. Perché è certo che per questo settore
 

vengono tirati in campo soprattutto i numeri, le tendenze naturali, le


condizioni, di varia natura, positive o negative, che possono spiegar-
ci la crescita o il crollo della popolazione. Ma è altrettanto certo che
dietro quei fatti, apparentemente indipendenti dalla vita mentale o
spirituale degli uomini, è invece facilmente avvertibile la pressione
degli insegnamenti religiosi, il senso della famiglia, il desiderio, sia
pure condizionato dai fattori della materialità, di incidere in qual-
che modo sulle dimensioni della propria famiglia, e persino sul sesso
dei suoi componenti. Perché si può facilmente comprendere che la
stessa diffusione degli aborti, dell’infanticidio e degli abbandoni dei
bambini, pur condizionati dalle dure necessità dell’esistenza consen-
tivano tuttavia una qualche libertà di scelta in direzione dell’una o
dell’altra decisione.
Ma è poi con una massiccia dose di materialità che la città co-
munale giunge alla nostra percezione, con la creazione di nuove aree
abitate 8, la creazione e la sistemazione della viabilità urbana 9, l’isti-
   

tuzione di chiese, monasteri, conventi e ospizi 10, la realizzazione di


 

luoghi ed edifici di mercato 11, di luoghi ed edifici della produzio-


 

ne 12, ed infine dei grandi spazi pubblici 13. Senza che vengano tuttavia
   

tralasciati i palazzi pubblici e la loro edificazione 14, così come la defi-


 

nizione e la modesta dotazione, prime fra tutte le forche, dei luoghi


della giustizia 15. Tuttavia anche questa immissione di materialità
 

nel nostro quadro, che si sostanzia, in primissimo luogo, attraverso


molteplici immagini di materiali edilizi come pietre, marmi, laterizi,
legnami, ci offre poi ben altre suggestioni di vita. Da un lato vediamo

7 M. Ginatempo, L’evoluzione demografica delle città tra XI e XIV secolo.


8 É. Hubert, La creazione di nuove aree abitate.
9 Th. Szabó, La viabilità urbana.
10 S. Collodo, Chiese, monasteri, conventi e ospizi. Questa relazione manche-
rà (v. più avanti).
11 R. Greci, Luoghi ed edifici di mercato.
12 F. Franceschi, Luoghi ed edifici della produzione.
13 É. Crouzet-Pavan, La realizzazione dei grandi spazi pubblici.
14 I. Moretti, I palazzi pubblici.
15 A. Zorzi, I luoghi della giustizia.


Giovanni Cherubini

allargarsi le nuove aree abitate, in zone più ricche o in zone popo-


lari della città, dall’altro vediamo allungarsi ed essere rese più belle
e più funzionali le strade. E non manca neppure un esame di quelle
demolizioni punitive di edifici che furono i «guasti», dai quali tal-
volta interi angoli cittadini furono trasformati ed antiche presenze
familiari cancellate dal suolo urbano in conseguenza degli scontri di
fazione 16. In luoghi numerosi e diversi, talvolta a spese pubbliche,
 

talaltra per carità ed impegno cristiano di privati, vediamo sorgere


invece monasteri e conventi, chiese ed ospizi.
Grazie a questo quadro che immagino ricco la vita della città,
apparentemente confinata allo studio e alla ricostruzione dei suoi
aspetti materiali, si anima con facilità. Alla nostra fantasia il teatro
molteplice e variegato che ci viene offerto si riempie di protagonisti e
di comprimari. Vi troviamo ecclesiastici e laici, uomini, donne, bam-
bini, che percorrono e popolano vie e piazze, che espongono agli altri
la loro ricchezza sin dal vestiario che indossano oppure i loro stracci.
Vi incontriamo individui e gruppi diversi di lavoratori, intendiamo
il colorito e rumoroso svolgersi dei mercati. Intravediamo i delin-
quenti e le feroci condanne che vengono contro di loro comminate,
spesso come sappiamo in contumacia, perché alla velocità dei tribu-
nali nel pronunciare le proprie condanne si accosta e si contrappone
la facilità con cui è possibile sfuggire alla giustizia, magari anche sol-
tanto rifugiandosi in qualche area boscosa e spopolata tra l’uno e
l’altro distretto urbano. Il delinquente magari occasionale diventa
così un delinquente già condannato e destinato ancora a delinquere,
da solo o in gruppo, contro i viandanti che passino in luoghi solitari.
Sino a che egli non finisca i suoi giorni sulla forca. A questa umani-
tà così varia tra la ricchezza, la povertà e la delinquenza, è possibile
accostare, anche con la sola immaginazione quella che vive e sof-
fre negli ospizi-ospedali, che cerca Dio nei conventi, che prega nelle
chiese, che vive di carità o che cerca di guadagnarsi la salvezza eterna
offrendo la propria carità a chi ne ha bisogno, e soprattutto ai po-
veri che non mettono in pericolo la vita collettiva e le regole di una
società che ammette per principio anche le diversità sociali e di vita
quotidiana più grandi.
Ma su questa vita sociale evocata dalle tematiche del nostro
Convegno si sovrappone poi un secondo, fondamentale aspet-

16 R. Mucciarelli, Demolizioni punitive: «guasti» in città.


Introduzione

to, quello che abbiamo deciso di definire dell’identità cittadina, e


che abbiamo già intaccato accennando alle distruzioni dei «guasti»,
all’inseguimento dell’immagine cittadina attraverso la nozione sto-
riografica della «quasi città», alla «modernizzazione» della città alla
fine del Medioevo. Non c’è bisogno di dire quale ampio spazio idea-
le si possa occupare parlando di questi temi. Mi piace ora piuttosto
accennare ad altre due relazioni che tratteranno invece, ex professo,
dell’identità cittadina, dei suoi miti e dei suoi scopi 17. Presumo che
 

verranno presi in esame tutti quei sogni, quei ricordi di un passa-


to, vero, presunto o costruito, quegli stessi programmi di un futuro
per la propria città, o per il proprio luogo natale, che per la grandez-
za, la forza economica, le ambizioni accresciute sognava appunto di
assurgere al rango di città, costruendosi ricordi illustri o benemeren-
ze diverse, ponendosi per questo, almeno idealmente, a fianco delle
vere città, che da secoli propagandavano appunto quelle loro bene-
merenze, senza tuttavia fermarsi, ma allargandole o rinnovandole o
modificandole alla luce e sotto i bisogni dei tempi. Basti ricordare
soltanto, ad esempio, la nuova dedicazione alla Vergine che i senesi
decisero per la loro città in prossimità dello scontro di Montaperti. Il
fascino che l’identità cittadina assume deriva, in primo luogo, dalla
ricchezza della sue componenti: la storia antica, le memorie religiose
e quelle laiche, che noi tendiamo forse a dividere più di quanto non
sia necessario, le glorie crociate, le grandezze via via acquisite, ricor-
date e propagandate attraverso la storia e la ripetitività pubblica e
domestica (chi non ricorda le donne fiorentine di Dante che favoleg-
giavano nell’intimo della casa sui Troiani, su Fiesole e su Roma?).
Ma la storia delle città italiane, pur unitaria sotto molti aspetti,
assunse via via, soprattutto a partire dalla costituzione del regno me-
ridionale, una caratteristica spiccata, che ha pesato e continua ancora
a pesare sulla storia complessiva del paese, vale a dire il suo spicca-
to dualismo tra una parte centro-settentrionale, o meglio della parte
che fece parte del regno d’Italia e fu collegata all’impero, con l’ag-
giunta di Venezia ed in certa misura dello Stato pontificio, e le città
del regno meridionale dall’altro. È questa una verità assodata da tem-
po, ma che viene qualche volta dimenticata in una parte almeno della
più giovane medievistica meridionale, quasi che il fatto suoni offesa

17 A. Benvenuti, Luoghi, simboli e immagini dell’identità cittadina; D.


Canzian, I miti fondativi.


Giovanni Cherubini

al Mezzogiorno. Che in realtà, al di là dei differenti esiti tra le città


dell’una o dell’altra porzione del paese e la loro differente fortuna, si
collegava istituzionalmente alla situazione del continente. Era in ef-
fetti la condizione dell’Italia centro-settentrionale o comunale e non
di quella meridionale a costituire l’eccezione non soltanto in Italia,
ma nel continente. E questo avveniva per un fatto elementare, an-
che se centrale, vale a dire l’estensione del potere politico conseguito
dalle città del centro-nord, le città «comunali», che fu un fatto unico
in Europa, con l’eccezione, forse, e parziale, della sola Novgorod. È
questa condizione di città-stato a costituire la particolarità e la diver-
sità essenziali, indipendentemente da tutto il resto, anche se il resto
non poteva non essere a questo fatto elementare strettamente colle-
gato. Ma per quanto questo fatto elementare sia noto da tempo, pare
venga qualche volta dimenticato. Ma questo non vuol dire, natural-
mente, ed io non intendo affatto dire che non si possa continuare a
fare confronti tra l’una e l’altra Italia, a precisare o anche scoprire
nuove diversità e nuove somiglianze e nuove sfumature. Proprio per
tutti questi fatti un esame delle città del Mezzogiorno, come abbia-
mo detto all’inizio, non poteva essere assente dal nostro quadro.
Di tre particolari problemi vorrei a questo punto far memo-
ria. L’uno è collegato con l’impossibilità di tener conto in qualsiasi
riunione collettiva come appunto un Convegno, di tutto ciò che di
significativo e importante è stato scritto intorno alla tematica prescel-
ta. Nel nostro caso, anche se a nostra scusante può essere addotta la
circolazione reale dell’opera quando l’organizzazione del Convegno
era già ultimata, ci sembra quanto mai utile ricordare che sulla cat-
tedrale di una delle maggiori e più belle città italiane, Siena, è stata
pubblicata da due autori noti per la loro serietà e la loro laboriosità
un’opera di straordinario rilievo per l’abbondanza della documenta-
zione utilizzata, le preziose elaborazioni quantitative, la nettezza, la
ricchezza e la sicurezza dei contorni. Un’opera di cui non è facile, in
definitiva, trovare l’uguale per altre città italiane e per la stessa epo-
ca, e che si giova per di più del sottofondo generale e ben noto di
un’ampia ricostruzione dell’edilizia e dell’urbanistica cittadine 18. La  

cattedrale ne emerge infatti insieme all’assetto urbanistico assunto

18 D. Balestracci - G. Piccinni, Siena nel Trecento. Assetto urbano e struttu-


re edilizie, Firenze 1977.


Introduzione

dall’area in cui essa sorse, ma anche attraverso lo studio dell’istitu-


zione che ne fu incaricata, vale a dire l’Opera di Santa Maria, e poi,
concretamente, con la descrizione e lo studio attento del lavoro e
del cantiere, reso più prezioso, e non soltanto per la storia della cat-
tedrale, dalle tabelle, dai grafici, dalle tavole, dalle Appendici edite
negli Apparati, cui segue un prezioso Indice analitico 19. Ma lasciate
 

ancora che io, parlando di Siena, approfitti un momento del tempo


concessomi per ricordare con commozione la tragica scomparsa del
carissimo amico Riccardo Francovich, che proprio alla scoperta del
sottosuolo di quella città ha dedicato con successo una parte del suo
lavoro di archeologo.
Del secondo problema di cui vorrei far memoria è protagonista
invece questa bella città che generosamente ci ospita, e che troppo
spesso, ma non per nostra volontà o almeno non per nostra volontà
soltanto, è stata assente dai nostri lavori. Questa volta la città com-
pare invece attraverso l’indagine di una sua studiosa universalmente
apprezzata, che tratterà dei riti e dei segni dell’identità cittadina 20,  

e se questa presenza può far piacere ai pistoiesi fa particolare piace-


re a noi del Comitato Scientifico e a chi ama, in generale, gli studi
sulla città e la società comunale. Come è ben noto a tutti Pistoia vi
occupò a lungo un posto di tutto rispetto e soprattutto dette alla sua
presenza dei connotati particolari, di città battagliera, amante del
rischio, assetata di libertà, sfortunatamente e ferocemente divisa al
proprio interno, collocata in una posizione difficilmente eguagliabile
per difficoltà, con la sempre più grande Bologna al nord, per quan-
to a distanza di sicurezza, e vicine ed incombenti Lucca e Firenze,
e soltanto un po’ troppo lontane Pisa, Siena, Arezzo, con le quali
si sarebbe potuto intrecciare qualche legame che alleggerisse quella
pressione incombente. Eppure questa città così infelice territorial-
mente e così potenzialmente in pericolo, almeno a partire da una
certa data, riuscì, e possiamo ancora ammirarne i risultati stupendi,
a darsi una grande cattedrale, un grande campanile-torre civica, un
bel battistero, tante chiese rilevanti, un palazzo pubblico e un palaz-
zo vescovile di straordinario rilievo. Lasciate che io dedichi a questa
città questi brevi pensieri di ammirazione e di gratitudine.

19 A. Giorgi - S. Moscadelli, Costruire una cattedrale. L’Opera di Santa Maria


di Siena tra XII e XIV secolo, Deutscher Kunstverlag, München, 2005.
20 L. Gai, Riti e segni dell’identità cittadina a Pistoia.


Giovanni Cherubini

Il terzo problema è d’ordine più semplice, ma almeno altrettan-


to rilevante per i nostri lavori. Ci è stato due giorni fa comunicato
da una relatrice che le sarebbe stato impossibile, per motivi indipen-
denti dalla sua volontà, essere presente al Convegno. Essa vi avrebbe
dovuto trattare — e la relazione sarà forse presente negli Atti —, di
chiese, monasteri, conventi e ospizi nelle città dell’Italia da noi con-
siderate, quanto a dire di connotati in primo luogo urbanistici, poi
anche edilizi, che ampiamente ne marcarono i caratteri. E li marca-
rono come segni evidenti della crescita materiale della città, come
fattori essenziali della sua suddivisione interna — penso in primo
luogo alle chiese parrocchiali —, ma anche come manifestazione del-
la religiosità e della carità da un lato, delle manifestazioni artistiche
dall’altro. È questa, per certi aspetti, una storia nota, alla quale han-
no contribuito e continuano a contribuire con i loro scritti gli storici
dell’urbanistica, quelli della religiosità e della carità — si ricordino
almeno, per l’ultimo aspetto, gli ospedali e gli ospizi —, gli stori-
ci della società, gli storici generali. Si pensi infine, per fare un altro
esempio particolarmente cospicuo, al ruolo che nella crescita del-
le città, nella loro formazione materiale, nei loro caratteri, ma anche
nella vita religiosa dei cittadini hanno avuto le chiese e i conventi de-
gli ordini mendicanti. Costruiti al margine delle zone edificate o se
si vuole nelle ultime aree urbanizzate, l’uno lontano dagli altri, qua-
si per una visiva ripartizione del controllo delle anime e dello spazio
urbano, talvolta, almeno nelle città maggiori e più grandi, nel nu-
mero di cinque (francescani, domenicani, agostiniani, carmelitani,
serviti) essi determinarono, accanto alla edificazione di chiese mo-
numentali, l’apertura di ampie piazze, un nuovo orientamento della
viabilità, una vita quotidiana e religiosa circostante largamente se-
gnata da queste nuove presenze, come ben mostra, ancora una volta,
la storia della città di Pistoia 21.  

Ma vorrei, a questo punto, concludere questa mia premessa con


qualche breve considerazione relativa ai caratteri delle città comu-
nali italiane nel contesto europeo. La loro particolarità è nota, ma
non guasta forse ripeterne, in breve, qualche specificità, anche per-

21 Rinvio, a questo proposito, alle pagine che ne ha scritto I. Moretti, Le pie-


tre della città, in Aa.Vv., L’età del libero comune. Dall’inizio del XII alla metà del XIV
secolo, a cura di G. Cherubini (vol. II della Storia di Pistoia della Cassa di Risparmio
di Pistoia e Pescia), Firenze 1998, pp. 227sgg.


Introduzione

ché sempre più numerose sono le pubblicazioni che si riferiscono ad


ampi settori territoriali e politici del continente, onde diventa sempre
più necessario chiarire i caratteri dell’uno o dell’altro paese anche per
il tema che qui ci occupa. Le città italiane si caratterizzavano dunque
per una straordinaria rigidezza della loro personalità istituzionale.
Nel nostro Medioevo non poteva dirsi città, civitas, alla latina, quel-
l’abitato, magari anche grande e circondato da mura, che non fosse
congiuntamente sede diocesana. Né inganni il senso di questa rigi-
dezza. Certo la presenza del papato nel paese (ma nel corso del XIV
secolo quello pur mancò, come si sa, per un settantennio, senza che
questo fatto venisse rovesciato), certo la presenza del papato con-
tinuò a pesare nella storia delle città dopo che alla fine del vecchio
impero romano civitas ed episcopio si erano formalmente uniti. Non
si deve tuttavia dimenticare che il fatto che rese le città italiane così
particolari nel contesto delle città europee fu la vicenda che esso
si combinò, soprattutto nelle regioni centro-settentrionali, sulla scia
della diocesi, con una superiorità del centro urbano, almeno ideale
e rivendicata, su quell’intero territorio (del resto il senso originario
di civitas riguardava effettivamente quell’unione territorio-capoluo-
go, né fu ovviamente esclusivo dell’Italia, ma si manifestò in Gallia e
si dimostrò vitale anche in Spagna, anche a dispetto della lunga do-
minazione musulmana). Nell’età comunale quel carattere della città
italiana esplose in tutta la sua potenzialità, ed i poteri sulla città, sulla
scia del vescovo, dei suoi poteri, formali o non formalizzati ma tutta-
via reali, si trasferirono al governo dei cittadini. Questa particolarità
italiana fu sentita sia dalle forze esterne e dai forestieri nei riguardi
delle città comunali della penisola, sia ancora più tardi, almeno sino
all’inizio dell’età moderna, dagli stessi italiani nei confronti delle cit-
tà d’Europa, che venivano da loro riconosciute come tali soltanto
se sede di vescovi, esattamente come avveniva nella penisola. Per
quanto ben note gioverà ricordare, a questo proposito, le testimo-
nianze che ci offrono subito dopo la metà del XII secolo l’ebreo
spagnolo Beniamino di Tudela ed il vescovo Ottone di Frisinga, zio
di Federico Barbarossa. Il primo colse con sicurezza i caratteri politi-
ci delle città marinare di Genova e di Pisa, che non erano sottoposte
né a re né a principi, ma governate da propri magistrati, potenti in
mare grazie alle loro galere, forti anche grazie alle fortificazioni, e fra
di sé forzatamente nemiche per il dominio del mare. Il secondo così
scrive: «I latini imitano ancor oggi la saggezza degli antichi Romani
nella struttura delle città e nel governo dello Stato. Essi amano in-

Giovanni Cherubini

fatti la libertà tanto che, per sfuggire alla prepotenza dell’autorità si


reggono con un governo di consoli anziché di signori. Essendovi tra
di essi tre ceti sociali, cioè quello dei grandi feudatari, dei valvassori
e della plebe, per contenerne l’ambizione eleggono i predetti consoli
non da uno solo di questi ordini, ma da tutti, e perché non si lasci-
no prendere dalla libidine del potere, li cambiano quasi ogni anno.
Ne viene che, essendo la terra suddivisa fra le città, ciascuna di esse
costringe quanti abitano nella diocesi a stare dalla sua parte, ed a
stento si può trovare in tutto il territorio qualche nobile o qualche
personaggio importante che non obbedisca agli ordini delle città.
Esse hanno anche preso l’abitudine di indicare questi territori come
loro “comitati”, e per non mancare di mezzi con cui contenere i loro
vicini, non disdegnano di elevare alla condizione di cavaliere e ai più
alti uffici giovani di bassa condizione e addirittura artigiani prati-
canti spregevoli arti meccaniche, che le altre genti tengono lontano
come la peste dagli uffici più onorevoli e liberali. Ne viene che esse
sono di gran lunga superiori a tutte le città del mondo per ricchezza e
potenza». Quella potenza e quella profonda evoluzione sociale delle
società urbane dell’Italia superiore aveva tuttavia, agli occhi del ve-
scovo di Frisinga, una colpa non perdonabile. Esse si avvantaggiano,
infatti, non soltanto «per la saggezza delle loro istituzioni, ma anche
per l’assenza dei sovrani, che abitualmente rimangono al di là delle
Alpi. In un punto tuttavia si mostrano immemori dell’antica nobiltà
e rivelano i segni della rozzezza barbarica, cioè che mentre si vanta-
no di vivere secondo le leggi, non obbediscono alle leggi. Infatti mai
o quasi mai accolgono con il dovuto rispetto il sovrano a cui dovreb-
bero mostrare volenterosa obbedienza». Ma un’ultima precisazione
mi sembra necessaria. Se il termine di città ebbe da noi il significato
che ebbe, questo non mancò tuttavia di sollevare dei problemi prati-
ci quando la città non oltrepassò, per dimensioni ed attività interne,
i caratteri di un modesto abitato o poco più. Questo avvenne soprat-
tutto in alcune aree del Mezzogiorno, ma non fu estraneo neppure
all’Italia centro-settentrionale 22.  

22 Per tutto ciò che precede vedi G. Cherubini, Le città italiane dell’età di
Dante, Ospedaletto (Pisa) 1991; Id., Le città europee del Medioevo, Milano 2009;
Id., Federico II e le città del regno di Sicilia, in Aa.Vv., L’eredità culturale di Gina
Fasoli. Atti del Convegno di Studi per il centenario della nascita (1905-2005), a cura
di F. Bocchi - G.M. Varanini, Roma 2008, pp. 241-59. Per le testimonianze lascia-
teci da Beniamino di Tudela ed Ottone di Frisinga vedi, rispettivamente, Beniamino

10
Introduzione

Mi resta da accennare soltanto ad un altro fenomeno, cioè a


quello che verrà qui esaminato come «l’inseguimento dell’immagine
cittadina» intrapreso, se bene intendo il titolo, dalle «quasi città» 23,  

espressione intelligente coniata da uno studioso molto sorvegliato


come Giorgio Chittolini per indicare appunto l’esistenza di grossi
agglomerati di popolazione, quali Prato o Fabriano 24, che pur do-  

tati di popolazione, di attività e in una certa misura anche di altri


caratteri di vita urbana, restarono pur tuttavia lontane, nel caso non
venissero innalzate a capoluoghi diocesani, dal poter essere consi-
derate città, e venivano magari, in qualche misura, gratificate con
l’abbandono del troppo generico termine di castrum e l’uso dell’ap-
pellativo di terra o di terra magna. È tuttavia opportuno segnalare
che quella pur intelligente espressione di «quasi città» ed il pensiero
chiaramente espresso in proposito dall’autore hanno forse ingene-
rato qualche equivoco in un certo numero di ricercatori, anche in
conseguenza di una loro frequentazione della storiografia europea
non abbastanza sorvegliata. Mi pare giusto ricordare questo non se-
condario problema di definizione al momento della nostra apertura
dei lavori. Questi si dovranno appunto occupare della città comuna-
le italiana, materiale ma anche mentale, e sarà quindi indispensabile
tener conto anche dei problemi istituzionali oltre che di tutta la mol-
teplice realtà della vita urbana.

di Tudela, Itinerarium, rist. anastatica, Bologna 1967, p. 18, e G. Fasoli - F. Bocchi,


La città medievale italiana, Firenze 1973, pp. 153sgg.
23 S. Bortolami, All’inseguimento dell’immagine cittadina: la nozione di «qua-
si città».
24 Sulle quali vedi, rispettivamente, G. Cherubini, Ascesa e declino di Prato
tra l’XI e il XV secolo, in Id., Città comunali di Toscana, Bologna 2003, pp. 187-250,
e F. Pirani, Fabriano in età comunale. Nascita e affermazione di una città manifattu-
riera, Firenze 2003.

11
Venerdì 11 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Giovanni Cherubini

Cristina La Rocca
L’eredità e la memoria dell’antico
nelle città comunali *  

1. Nel 1986 Salvatore Settis, in un contributo giustamente fa-


moso, definiva con chiarezza la fondamentale differenza che si può
riscontrare tra l’eredità del passato e la memoria di esso: si trattava
di proporre un nuovo modello «che non solo allinei tanti e succes-
sivi rinascimenti di una civiltà conclusa o defunta» ma «distingua in
quella continuità [di rinascimenti], i fili della tradizione consapevole
dell’antico, districandoli dal tessuto ben più vasto delle linee tradi-
zionali inconsapevoli». Settis osservava infatti che la caratteristica
della «tradizione classica nella cultura occidentale non è certo […]
la conservazione inerziale di fossili delle generazioni precedenti; ma
piuttosto l’aura che circonda questi frammenti del passato»: a dif-
ferenza della tradizione inconsapevole di usanze e gesti, il recupero
cosciente è volto infatti a «frenare l’inesorabile corso del tempo, e
anzi quasi capovolgerlo, rinnovando l’antichità per scelta» 1. La se-  

lezione del passato implica insomma la capacità di identificare come


tali alcuni ricordi, isolandoli e distinguendoli da un eterno e indiffe-

* Desidero dedicare questo lavoro alla memoria di Riccardo Francovich,


padre dell’archeologia medievale italiana, infaticabile e generoso ricercatore, indi-
menticabile amico.
1 S. Settis, Continuità, distanza, conoscenza. Tre usi dell’antico, in Dalla tradi-
zione all’archeologia, Torino 1986 (Memoria dell’antico nell’arte italiana, III, a cura
di S. Settis), pp. 375-486: 417-418.

13
Cristina La Rocca

renziato presente 2.  

L’eredità materiale del passato nella costruzione, materiale e sim-


bolica, delle città comunali, può dunque essere osservata attraverso
due diverse lenti prospettiche: da un lato il patrimonio monumen-
tale e strutturale della città altomedievale su cui le città comunali si
innestarono e presero forma; dall’altro, l’utilizzo consapevole degli
elementi antichi (fossero essi di età classica oppure altomedievale)
durante il corso dell’età comunale con lo scopo di proporre legitti-
mazioni, avviare o sanare conflitti, avanzare diritti. Difatti durante
il corso del medioevo la definizione del presente fu spesso attuata
mediante il confronto con il passato, utilizzandolo, di volta in volta,
per valorizzare o deplorare il presente, per difendere la tradizione o
per proporre soluzioni radicalmente nuove.
Entrambi questi aspetti sono stati oggetto di ricerche recen-
ti, relative a due distinti filoni di indagine. Per il primo (l’eredità
inconsapevole) le ricerche si sono impegnate a contestualizzare le
trasformazioni delle città altomedievali attraverso un’intensa attività
di scavi archeologici e di studi tipologici sulle caratteristiche mate-
riali degli edifici, monumentali e residenziali: si sono così individuati
dei modelli medievali di trasformazione edilizia, a prescindere dal
dibattito ottocentesco sulla continuità o meno tra città medievale e
città antica 3. Per il secondo aspetto, relativo al recupero cosciente
 

del passato durante il basso medioevo, resta invece molta ricerca


da fare, non tanto per ciò che riguarda la mera catalogazione degli
oggetti antichi reimpiegati in chiese ed edifici di età comunale — og-
getto di svariati lavori da parte di storici dell’arte e di archeologi di
età classica —, ma piuttosto sui contesti politici in cui tale reimpiego
fu utilizzato e proclamato e sui tramiti culturali che determinarono
la selezione, tra tutti i possibili passati a disposizione, di una specifica
tranche di passato da valorizzare, fosse essa vicina o molto lontana
nel tempo 4. Finora, in quest’ultimo ambito, si è scelto di privilegiare
 

2 R. Le Jan, Introduction, in L’autorité du Passé dans les sociétés médiévales, a


cura di F. Bougard - R. Le Jan - J.M. Sansterre, Rome 2004, pp. 1-11.
3 Si vedano, a questo proposito, i contributi compresi nei due importanti e re-
centi volumi: Les cités de l’Italie tardo-antique, IVe-VIe siècle: institutions, économie,
société, culture et religion, a cura di M. Ghilardi - C.J. Goddard - P. Porena, Rome
2006; Le città italiane tra la tarda antichità e l’alto Medioevo, a cura di A. Augenti,
Firenze 2004.
4 M. Greenhalgh, The survival of Roman antiquities in the Middle Ages,
Oxford 1989.

14
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali

l’aspetto inerente alla definizione di una identità legittimante delle


singole città tramite il riutilizzo del passato classico (come nel celebre
caso pisano 5): come spero di mostrare questa non è tuttavia l’unica
 

direzione possibile per una tale ricerca, poiché il passato romano


— anche se quello di gran lunga più utilizzato 6 — non fu tuttavia
 

l’unico a essere individuato e valorizzato in età comunale.


2. Il dibattito tra storici ed archeologi sulla struttura delle città
nell’alto medioevo ha avuto una sua svolta importante nel progetto
europeo “The Transformation of the Roman World” che ha per-
messo di confrontare le diverse attese sull’altomedioevo createsi in
Europa a partire dall’Ottocento nei confronti delle caratteristiche
‘originali’ dell’identità nazionale. Si è infatti constatato che l’altome-
dioevo ha costituito in questa importante fase di elaborazione degli
‘specialismi storiografici’ un arco di passato fondante, ove proiettare
ambizioni, specificità, tradizioni originarie. Come ha efficacemente
sottolineato Bryan Ward-Perkins, «per gli Inglesi, la decadenza delle
città romane della Britannia e il tramonto della civiltà romano-bri-
tannica non sono temi particolarmente controversi. Ciò è dovuto
in parte alla totale mancanza di fonti fino al VI secolo, ma anche
al fatto che noi pensiamo che le nostre origini siano solidamente
anglo-sassoni, e quindi siamo perfettamente soddisfatti (anzi più
soddisfatti) di pensare che la nostra storia nazionale incominci da
una base nettamente post romana» 7. In Italia invece, anziché come
 

momento originario della nazione, l’alto medioevo si configurò come


momento in cui le libertà nazionali si erano progressivamente attu-
tite ed erano poi state del tutto soppresse in seguito alle ‘invasioni
barbariche’: in Italia si prospettò difatti una linea di continuità nono-
stante l’alto medioevo, che collegava la nascita del comune italiano al
riemergere delle antiche libertà romane, sopravvissute — quasi per

5 G. Scalia, Il Carme pisano dell’impresa contro i Saraceni del 1087, in Studi


di Filologia Romanza. Scritti in onore di Silvio Pellegrini, Padova 1971, pp. 565-627;
G. Scalia, Romanitas pisana tra XI e XII secolo. Le iscrizioni romane del Duomo e la
statua del console Rodolfo, «Studi Medievali», s. 3a, 13 (1972), pp. 791-843.
6 A partire dal caso fiorentino, nel classico studio di C.T. Davis, Topographical
and historical propaganda in early florentine chronicles and in Villani, «Medioevo e
Rinascimento», II (1988), pp. 33-51.
7 B. Ward-Perkins, Urban continuity?, in Towns in transition. Urban evolu-
tion in Late Antiquity and the early Middle Ages, a cura di N. Christie - S. Loseby,
London 1996, p. 7.

15
Cristina La Rocca

necessità — tra il V e l’XI secolo 8. Rispetto al quadro europeo, anche


 

il passato altomedievale italiano risultava dunque uno specchio del


presente ottocentesco, sebbene non come positivo momento origi-
nario, bensì come momento detestabile di soggezione, da rifiutare
e da superare. Questa interpretazione ha pesantemente condiziona-
to la ricerca successiva: la conclamata ‘rivoluzione interpretativa’ di
Gian Piero Bognetti sul ruolo attivo dell’alto medioevo nella sto-
ria d’Italia operava infatti, a ben vedere, all’interno di questi stessi
parametri: il postulare il carattere di totale frattura degli sviluppi
della storia italiana rispetto al passato romano, portava infatti alle
conseguenze più estreme la contrapposizione tra due presunte sfere
politiche e culturali — quella romano-bizantina e quella germani-
ca — attribuendo però a quest’ultima un fresco valore propulsivo
anziché distruttivo o inerte 9. Frutto di tale contrapposizione (oggi
 

considerata superata) fu la cristallizzazione di coppie antitetiche, che


si sarebbero manifestate nel momento della migrazione longobar-
da: i Longobardi pagani/ariani — i Romani cattolici; i Longobardi
rurali — i Romani cittadini; i Longobardi militari — i Romani buro-
crati. Tali categorie binarie condizionarono vistosamente non solo i
risultati delle ricerche sul tema dell’alto medioevo italiano, ma imbri-
gliarono e costrinsero le ricerche stesse all’interno di una prospettiva
molto rigida, che di fatto impedì il dialogo con i risultati delle ricer-
che nel frattempo avviate in altri contesti europei. Tuttavia, questo
non è l’unico limite di un tale approccio. Si dice normalmente che
l’interpretazione dell’alto medioevo italiano effettuata dal Bognetti
portò con sé la valorizzazione dei dati materiali, che anteriormente
erano sostanzialmente sconosciuti. Occorre tuttavia rimarcare che
i quadri interpretativi proposti da Bognetti non si avvalsero affat-
to dei dati archeologici: più che considerare, nelle sue ricerche, i
nuovi dati provenienti da scavi già compiuti, egli tese piuttosto ad
anticiparne i risultati ancor prima che essi fossero effettuati, creando

8 Le ricerche in questo campo si sono molto sviluppate. Tra i contributi più


recenti si vedano in particolare E. Artifoni, Le questioni longobarde. Osservazioni
su alcuni testi del primo Ottocento, «Mélanges de l’École Française de Rome»,
119.2 (2007), pp. 297-304; I. Wood, “Adelchi” and “Attila”: the barbarians and the
Risorgimento, «Papers of the British School at Rome», 76 (2008), pp. 233-255.
9 Cfr. G. Tabacco, Espedienti politici e persuasioni religiose nel Medioevo
di Gian Piero Bognetti, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 24 (1970), pp.
504-523.

16
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali

perciò una nuova tipologia di fonti che potremmo chiamare ‘i dati


archeologici prima dello scavo’. Gli archeologi erano infatti invitati
a organizzare le loro indagini all’interno di un quadro interpretativo
già pronto e non vi è da stupirsi se i dati archeologici successivamen-
te raccolti si orientarono, di norma, a confermare quanto presunto
dal Bognetti. Così, nelle ricostruzioni d’insieme, i dati archeologici
‘veri’ furono utilizzati insieme con altri ‘altamente probabili’, dando
luogo a un surreale e inestricabile groviglio di prove, supposizioni e
invenzioni di cui è oggi assai difficile, se non impossibile, stabilire i
confini 10. Credo che, in definitiva, la sostanziale distanza che attual-
 

mente ancora separa gli altomedievisti dagli specialisti dell’età basso


medievale in Italia sia un’eredità di tale impostazione: il carattere di
semplice adeguamento a risposte preconfezionate imprimeva infatti
a molte ricerche sull’alto medioevo italiano (e in particolare sull’età
longobarda) un andamento di sconfortante monotonia, fornendo la
concreta impressione che tutto fosse già stato detto e che, in nome
di una conclamata quanto erronea mancanza di fonti, l’altomedioevo
italiano potesse essere tutt’al più utilizzabile solo come inevitabile
‘premessa’ alle ricerche vere relative all’età successiva 11.  

Il confronto con storici e archeologi europei ha invece permesso


di constatare che l’approccio binario, espresso anzitutto nei termini
di contrapposizione culturale su base etnica, non è né l’unico, né ne-
cessariamente quello più fruttuoso per definire le caratteristiche del
fenomeno urbano altomedievale. Sotto il profilo materiale, si tende
oggi a sottolineare il fenomeno di omogeneizzazione nell’organizza-
zione degli spazi urbani che si sarebbe realizzato tra ambito rurale e
ambito cittadino, al di là delle barriere e delle dominazioni politiche:
esso è chiamato da alcuni “cristianizzazione”, da altri “ruralizzazio-
ne” 12. Suoi elementi costitutivi sono anzitutto la frantumazione del
 

tessuto urbano di età antica, la sua polverizzazione in nuclei separati

10 Sulla stessa linea di queste osservazioni anche A. Melucco Vaccaro, I


Longobardi in Italia. Materiali e problemi, Milano 1982, p. 15-16.
11 Cfr. C. La Rocca, Lo spazio urbano tra VI e VIlI secolo, in Uomo e spazio
nell’Alto Medioevo, Spoleto 2003 (Settimane di studio del Centro italiano di studi
sull’alto medioevo, LI), pp. 397-436.
12 N. Gauthier, La topographie chrétienne entre idéologie et pragmatisme, in
The idea and ideal of the towns in Late Antiquity and the Early Middle Ages, a cura
di G.P. Brogiolo - B. Ward-Perkins, Leiden - Boston - Köln 1999, pp. 195-210 con
rinvio alla bibliografia precedente.

17
Cristina La Rocca

e distinti, ognuno dotato di elementari forme distintive e identita-


rie, intervallati da aree aperte, poste all’interno e nelle immediate
vicinanze delle città; infine il prevalere, in città così come nelle aree
all’esterno di essa, dell’edilizia in legno.
Un primo punto da sottolineare è il carattere al contempo aper-
to e chiuso della città nel periodo qui esaminato: le carte private
presentano le città dal secolo VIII anzitutto come spazio delimitato
da una cinta muraria, ma nella pratica descrittiva dei documenti le
definizioni di terreni e case ignorano di fatto questa delimitazione
materiale, articolandosi senza nessuna soluzione di continuità all’in-
terno e all’esterno della cinta stessa. Pertanto la presenza della cinta
muraria (normalmente edificata in età tardo antica), se serviva a qua-
lificare materialmente lo status urbano di ciò che essa racchiudeva,
non per questo delimitava la città in senso geografico: le ricerche de-
gli archeologi e degli storici della tarda antichità hanno infatti messo
in rilievo che la delimitazione fortificata dello spazio urbano andò di
pari passo con il fenomeno dell’articolazione, all’esterno delle mura
stesse, di nuovi punti di aggregazione insediativa, di culti e di de-
vozioni incentrati sulla presenza sia in città, sia nelle sue immediate
vicinanze, di corpi santi, intesi come specifico patrimonio urbano 13.  

Questo fenomeno di decentramento si accompagnò a quello di un


nuovo utilizzo funzionale degli spazi monumentali all’interno del-
le città, ridisegnando in questo modo, in seguito a mutate esigenze,
«una nuova linea di demarcazione tra pubblico e privato»; pertanto
non si esitarono a sacrificare gli spazi pubblici ridondanti in favore
di un loro utilizzo pratico 14. 

Dunque le città altomedievali furono diverse da quelle di età an-


tica per l’elaborazione di una diversa modalità gerarchica degli spazi
urbani, in primis una diversa nozione di centro e di periferia. Con un
processo che si avvia in alcuni casi già nel corso del IV secolo, il tes-
suto urbano si disarticolò gradualmente. Se la logica della città antica
era anzitutto quella di evidenziare come centrali i luoghi che erano
topograficamente posti al centro dell’impianto cittadino (primo tra
tutti il foro), durante la tarda antichità e l’alto medioevo si assiste al

13 G. Cantino Wataghin, The ideology of urban burials, in The idea and ideal,
cit., pp. 147-163.
14 S.T. Loseby, Arles in Late Antiquity: “Gallula Roma Arelas” and “Urbs
Genesii”, in Towns in transition, cit., pp. 45-70.

18
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali

graduale slittamento del concetto di centralità topografica in favo-


re della valorizzazione delle autorità personali: all’interno delle città
altomedievali, divennero cioè luoghi centrali delle città quelli in cui
risiedevano le autorità maggiormente prestigiose, indipendentemen-
te dalla loro ubicazione topografica, centrale o periferica, all’interno
dell’impianto urbano.
Uno dei fattori che è considerato dare l’avvio a una tale disar-
ticolazione e scomposizione tra centralità e rilevanza, è l’ingresso
dell’episcopium in città: la scelta della collocazione della domus epi-
scopale risultava infatti fortemente condizionata da fattori pratici,
primo fra tutti quello della disponibilità o meno di aree libere da
edifici all’interno delle città 15. Le difficoltà incontrate dai vescovi nel
 

reperire una sede collocata nel centro topografico della città, spes-
so ebbero come esito che la sede vescovile fosse impiantata in aree
marginali e periferiche della città antica (spesso presso le mura ur-
bane), quando non addirittura (sebbene in casi assai radi in Italia)
all’esterno della città stessa. Nondimeno, con il rafforzarsi del pre-
stigio dell’autorità episcopale, la domus vescovile veniva ad acquisire
un ruolo ‘centrale’ nella gerarchia dei luoghi e degli spazi urbani,
poiché essa, indipendentemente dalla sua collocazione topografica,
costituiva comunque il fulcro della comunità cristiana locale.
Risponde alla stessa logica di scissione tra centralità topogra-
fica e rilevanza delle autorità personali, la fondazione, all’interno
delle città o nelle sue immediate propaggini, di monasteri e di chie-
se private, che si proposero come altrettanti punti di aggregazione
familiare e rituale. Paradossalmente, tale processo fu più intenso e
vistoso proprio in quelle città per le quali la trasformazione degli
equilibri politici territoriali aveva significato — tramite l’attivismo
delle proprie élites — una promozione funzionale nella gerarchia ur-
bana, come si è molto ben dimostrato per la città di Ravenna tra VI
e VII secolo 16. La nuova centralità di Ravenna si riverberò non solo
 

nella monumentalizzazione di aree precedentemente prive di edifici,

15 Questa la puntuale osservazione di S.T. Loseby, Bishops and cathedrals:


order and diversity in the Fifth century urban landscape of Southern Gaul, in Fifth
century Gaul. A crisis of identity?, a cura di J. Drinkwater - H. Elton, Cambridge
1992, pp. 144-155.
16 Cfr. E. Cirelli, Ravenna. Archeologia di una città, Firenze 2008, in cui sono
raccolti i dati più recenti sull’archeologia urbana ravennate e la bibliografia aggior-
nata su questi temi, a lungo discussi.

19
Cristina La Rocca

ma soprattutto nella costruzione di nuove chiese e nella polverizza-


zione delle aree funerarie, condizionando in parallelo le modalità di
manifestazione dello status sociale nelle città vicine e nel suo terri-
torio, come ben si rileva dalla diffusione di un’edilizia privata assai
elaborata sotto il profilo decorativo e planimetrico 17.  

La valorizzazione delle autorità individuali — fossero esse re-


lative a autorità viventi (come i vescovi) o ad autorità già defunte
(come i corpi o le reliquie dei santi) — favorì la moltiplicazione dei
punti di attrazione e dello sviluppo urbano, abbattendo, di fatto, la
barriera fisica della cinta muraria. L’entrata delle sepolture all’inter-
no della città, un fenomeno che si verifica a partire dal VI secolo,
ne è la testimonianza archeologicamente più significativa: l’accen-
tuazione del ruolo dei rituali funerari come strumento essenziale per
rivendicare la continuità delle prerogative materiali e immateriali dei
gruppi parentali si estese rapidamente dall’esterno delle mura all’in-
terno del perimetro urbano. Punti focali delle aggregazioni funerarie
divennero le chiese private familiari, ma anche gli spazi pubblici ur-
bani — come gli antichi edifici pubblici in abbandono —, oppure
i selciati stradali 18. Le mura non costituirono cioè un elemento di
 

separazione tra lo spazio interno e lo spazio interno della città per ciò
che concerneva le pratiche rituali della memoria familiare, in totale
rottura con la modalità antica che separava rigidamente lo spazio dei
vivi da quello dei morti.
La città altomedievale fu dunque allo stesso tempo una città
delimitata, racchiusa da una cinta di mura che rappresentava ma-
terialmente il suo status nella gerarchia dei luoghi, e dall’altro lato
una città aperta, perché il limite della cinta muraria non sembrò né
distinguere né separare le modalità di utilizzo degli spazi.
Gli scavi archeologici all’interno delle città hanno dimostrato
che le città altomedievali erano edificate meno fittamente rispetto a
quelle antiche e che la tipologia edilizia residenziale utilizzò materiali
deperibili, anzitutto il legno. Questi due fenomeni hanno portato a

17 J. Ortalli, Edilizia residenziale e crisi urbana nella tarda antichità: fonti


archeologiche per la Cispadania, in XXXIX Corso di Cultura sull’arte ravennate e
bizantina, Ravenna 1992, pp. 557-605.
18 Si veda, ad esempio, il caso di Roma, illustrato da R. Meneghini - R.
Santangeli Valenzani, Sepolture intramuranee e paesaggio a Roma tra V e VII se-
colo, in La storia economica di Roma nell’alto Medioevo alla luce dei recenti scavi
archeologici, a cura di P. Delogu - L. Paroli, Firenze 1993, pp. 89-111.

20
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali

parlare di ‘ruralizzazione’ delle città: a partire dal VII secolo sarebbe


infatti difficile distinguere l’ambito urbano da quello rurale, poiché
entrambi condividevano sia tecniche edilizie povere sia l’alternarsi
di aree abitate e di aree aperte. L’immagine dell’habitat urbano or-
ganizzato ‘a macchia di leopardo’, è stata proposta anche per Lucca,
cioè per la città che conserva la migliore serie documentaria privata
altomedievale italiana: si è infatti dimostrato che la documentazione
scritta lucchese relativa ai secoli VIII e IX si riferisce in gran parte
a transazioni fondiarie effettuate presso le mura urbane da parte di
un gruppo ristretto di individui, strettamente raccordati all’episco-
pio lucchese. Si tratta di una vera e propria élite urbana, definita
attraverso il suo rapporto clientelare con il vescovo. La distribuzione
topografica delle loro residenze, ricostruita attraverso le carte priva-
te, permette di verificarne l’addensamento in alcune zone della città,
strutturate in nuclei distinti e separati l’uno dall’altro 19. Tuttavia oc-
 

corre osservare che, proprio a Lucca, tali nuclei non acquisirono loro
nomi specifici, bensì furono definiti essere situati infra civitate. Se dal
punto di vista materiale essi potrebbero essere equiparati a realtà in-
sediative sparse, di tipo rurale, la pratica descrittiva di ubicarli infra
civitate differisce totalmente da quella di designazione dei siti rurali,
che sono invece di norma contraddistinti da un loro specifico nome
(per esempio attraverso l’espressione in loco ubi dicitur). Nell’area
interna alle mura, la molteplicità dei nuclei di habitat urbano non
fu cioè sottolineata dagli abitanti della città per definire né la loro
identità né quella dei loro beni. Per quanto la realtà materiale do-
cumenti uno spazio urbano frammentato, la sua rappresentazione
scritta nelle carte private è invece quella di uno spazio compatto,
articolato in modo binario, all’interno o all’esterno delle mura. Ciò
vale soprattutto per gli uomini e le terre ‘border line’, vale a dire
quelle ubicate accanto alle mura e presso le porte urbane, presso i
confini della zona infra civitate, per le quali si precisa frequentemen-
te la loro collocazione dentro o fuori le mura 20.  

In conclusione, per ciò che riguarda le modalità di individuazio-

19 A. De Conno, L’insediamento longobardo a Lucca, in Pisa e la Toscana oc-


cidentale nel Medioevo. A Cinzio Violante nei suoi 70 anni, I, a cura di G. Rossetti,
Pisa 1991, pp. 59-128.
20 Per la relativa documentazione, si vedano i casi menzionati in La Rocca, Lo
spazio urbano, cit., pp. 419-424.

21
Cristina La Rocca

ne di proprietà e di soggetti, cioè l’aspetto fondamentale per ciò che


riguarda gli scambi fondiari e la definizione delle identità patrimo-
niali, la distribuzione materiale dell’abitato urbano in nuclei dispersi
— attestata dall’archeologia — non impedì una percezione unitaria
dello spazio dentro le mura. L’articolazione dello spazio urbano in
punti separati da ampie aree vuote non pare esser stata vissuta dalle
élites urbane secondo modalità rurali: fino a tutto il IX secolo esse
infatti preferirono sottolineare la loro identità e la loro residenza in-
dicandole con l’espressione infra civitate.
Soltanto nel X secolo, in puntuale rapporto con un intensifi-
carsi della documentazione scritta, il criterio di individuazione e di
ubicazione dei beni urbani pare mutare, in parallelo con un diver-
so modello di identificazione dei singoli. Prendiamo per esempio
Verona. Qui, a partire dal X secolo, gli attori urbani dei documenti
e coloro che compaiono come sottoscrittori delle carte private uti-
lizzano espressioni che si rifanno a due modalità di identificazione:
la prima segnala l’appartenenza familiare (filius quondam oppure fi-
lius bone memorie), la seconda è invece volta a indicare la propria
residenza in una zona della città. Quest’ultimo criterio appare as-
sai interessante poiché segnala il costituirsi di identità di gruppo in
relazione a spazi e luoghi noti. L’indistinto spazio infra civitate dei
documenti di epoca precedente appare infatti articolato in riferi-
mento ad antichi monumenti, che sono menzionati attraverso veri e
propri ‘soprannomi’. Vi sono infatti persone che si dicono de ante-
voltus, altre de Muro longo, non longe ab carcere, altre de Arco, altre
de ante Arena, altre ancora de ponte e de super foro, oppure de palacio
antiquo. Se questi soprannomi non sono di alcun aiuto per compren-
dere il degrado o la conservazione di singoli monumenti o la loro
utilizzazione, essi indicano che tali strutture (oppure solo il ricordo
di esse) costituivano dei punti di riferimento topografici condivisi e
valorizzati dagli abitanti della città. Nel momento in cui Verona ac-
quisì una rilevanza centrale di ‘sede regia’ all’interno della strategia
clientelare effettuata da re Berengario — come ha ben sottolineato
Barbara Rosenwein 21 — si assiste a uno scatto di consapevolezza che
 

21 B. Rosenwein, The family politics of Berengar I, king of Italy (888-924),


«Speculum», 71 (1996), pp. 247-289; B. Rosenwein, Negotiating space. Power,
restraint and privileges of immunity in early medieval Europe, Ithaca 1999, pp.
145-147.

22
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali

permette a gruppi di individui di identificarsi con maggiore preci-


sione tramite la loro contiguità fisica con antichi resti. L’espressione
infra civitate risulta invece gradualmente abbandonata: essa risultava
evidentemente troppo generica oltre che per l’incremento delle aree
edificate all’interno della città, anche perché essa aveva perduto il
suo carattere distintivo per esprimere compiutamente le caratteristi-
che di alcuni abitanti della città.
Per ciò che riguarda la qualità delle case urbane e la sua rap-
presentazione nelle carte private, i lavori sull’edilizia residenziale
altomedievale si sono fondati sul presupposto che la logica che sot-
tende alle descrizioni delle case nella documentazione privata sia di
tipo descrittivo ed esaustivo: si è cioè ritenuto che gli attori delle
singole carte si sentissero in un certo senso ‘obbligati’ a fornire una
fotografia precisa delle proprie residenze e dei loro annessi. Perciò
la semplice menzione di una casa senza ulteriori specificazioni corri-
sponderebbe senz’altro a un tipo edilizio molto semplice, a un solo
piano, prevalentemente in legno; al contrario, le citazioni più artico-
late, indicanti partizioni interne e annessi, sarebbero da connettere
a un’edilizia più complessa, in materiale durevole, ereditata dalla
tradizione tardo antica. Sotto questo aspetto, l’Italia di tradizione
longobarda (con povere case monovano in legno, di tradizione “ger-
manica”) si differenzierebbe nettamente dall’Italia bizantina (con
case di pietra e mattoni, ben articolate al loro interno).
I dati archeologici impediscono tuttavia questa interpretazione.
Recenti indagini hanno dimostrato che, sotto il profilo materiale, le
case dell’Emilia longobarda non si differenziano affatto da quelle
della Romania bizantina: in entrambe le zone la linea di tendenza,
diffusa sia in ambito rurale sia in città, è quella di costruire case con
una parte dell’elevato in legno, normalmente di dimensioni piuttosto
ridotte 22. I dati archeologici indicano quindi che tra le casae della
 

documentazione di area longobarda tra VIII e X secolo e le coeve do-


mus dell’area bizantina non vi era una sostanziale diversità, bensì una
differenziazione di termini e di rappresentazione, che non trova la

22 In generale, S. Gelichi, Note sulle città bizantine dell’esarcato e della penta-


poli tra IV e IX secolo, in Early Medieval Towns in the Western Mediterranean, a cura
di G.P. Brogiolo, Mantova 1996, pp. 67-76, sul caso di Rimini, cfr. C. Negrelli,
Rimini bizantina: topografia e cultura materiale, in Ariminum, storia e archeologia,
Roma 2006 («Adrias», 2), pp. 189-122.

23
Cristina La Rocca

sua linea di discrimine nella frontiera politica e culturale, ma in quella


sociale. Infatti in entrambe le aree (longobarda e bizantina) si assiste
alla compresenza di modalità diverse di descrizione delle abitazioni
urbane e dei loro annessi: le descrizioni più articolate — specifican-
do gli annessi, i proprietari coerenti, la parte della città in cui le case
sono ubicate — non sono caratteristiche di tutti gli abitanti delle
città, bensì soltanto di coloro il cui profilo sociale è di livello me-
dio, con ambiti di relazioni prevalentemente locali. Al livello più alto
della società tale tipo di descrizione appare infatti sostanzialmente
sconosciuto. Pare proprio di poter suggerire che le rappresentazioni
delle residenze urbane contenute nelle carte pubbliche e private a
partire dagli ultimi anni del IX secolo non rispondessero alla logica
della descrizione puntuale ed esaustiva: le menzioni delle parti della
casa, l’individuazione delle particolarità edilizie (a un piano o con un
solarium) paiono invece derivare dalla precisa volontà di sottolineare
tali caratteristiche, presentandole come elementi riconoscibili di di-
stinzione sociale. È interessante sottolineare quanto ha concluso di
recente Mayke De Jong in merito all’uso del termine solarium in alcu-
ne fonti della prima età carolingia: esso pare infatti consapevolmente
utilizzato per indicare uno specifico luogo sopraelevato e separato
dal resto del palatium regio, uno spazio ad accesso riservato che solo
a pochissimi era concesso di condividere insieme con l’imperatore 23.  

La diffusione del termine solarium nelle carte del X secolo indica


dunque qualcosa di più della semplice comparsa delle case a due
piani, come prosasticamente si potrebbe sostenere: essa pare infatti
sottendere un processo di imitazione terminologica e strutturale di
uno dei luoghi più intimamente connessi con la dimensione fisica e
materiale del potere e del controllo aristocratico.
Mostrare una maggiore sensibilità all’elenco dei dettagli archi-
tettonici e costruttivi delle proprie residenze appare sintomatico della
tendenza a proporre proprio questi elementi visibili come ‘prove’ di
emergenza sociale, e al contempo ci presenta il costituirsi di una sen-
sibilità specificamente urbana da parte dei gruppi ‘medi’, di cui non
si trova minima traccia nella coeva documentazione di ambito rurale
e neppure in quella prodotta in città dalle aristocrazie d’ufficio. Lo

23 M. De Jong, Charlemagne’s balcony: the Solarium in Ninth century nar-


ratives, in The long Morning of Medieval Europe. New directions in early medieval
studies, a cura di J.R. Davis - M. McCormick, London 2008, pp. 277-290.

24
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali

spazio competitivo delle città sembra aver dunque prodotto l’emer-


sione di modalità di distinzione espresse tramite l’enfatizzazione
delle qualità costruttive delle proprie residenze, un aspetto che ri-
sultava invece del tutto indifferente (a prescindere dalle realizzazioni
concrete) sia per coloro che incentravano le proprie attività e rela-
zioni in area rurale, sia per coloro che dovevano la propria posizione
eminente a un legame diretto con il potere pubblico.
Allo stesso tempo si può assistere alla tendenza, da parte regia,
a concedere a singoli individui parti di edifici antichi: oggetto speci-
fico della munificenza regia, essi diventano di per sé un segno dello
status speciale del loro detentore, e, parallelamente, la prova della
generosità regia nei confronti di alcuni prescelti. Fa parte integrante
di questo fenomeno di ‘occupazione autorizzata’ degli edifici monu-
mentali, un aspetto studiato anni fa da Aldo Settia. È infatti a partire
dall’inizio del X secolo che la documentazione scritta dell’Italia set-
tentrionale incomincia a presentare un certo numero di personaggi
il cui nome è indissolubilmente legato a quello di una torre urbana:
nel 911 a Verona Pedelbertus de Turre Alta, nel 913 a Vercelli una tur-
ricella Arialdi; nel 931 a Novara la turris que dicitur Bosoni; nel 951
a Milano una turris Tauri, nel 908 e nel 930 a Verona una pusterula
Totonis, e sappiamo che Raterio, vescovo di Verona, fu imprigionato
a Pavia in una torre chiamata turricula Walperti 24. Come ha chiarito
 

Settia, non vi è dubbio che queste torri facessero parte della cinta
urbana tardoantica e che fossero a suo tempo state concesse dai re
italici ad alcuni esponenti delle élites locali 25. Anteriormente all’ini-
 

zio del X secolo, le menzioni di singoli che risiedono all’interno di


fortificazioni urbane è assai limitato e compaiono comunque attestate
con caratteristiche diverse da quelle sopra presentate: per esempio,

24 I Diplomi di Berengario I, a cura di L. Schiaparelli, Roma 1903 (Fonti per la


storia d’Italia, 35), doc. 81 (911), p. 214; doc. 87 (913), p. 234; Le carte dell’Archivio
capitolare di S. Maria di Novara, I, a cura di F. Gabotto - A. Lizier - A. Leone - G.B.
Morandi - O. Scarzello, Pinerolo 1913, doc. 44 (931), p. 61; Codex Diplomaticus
Langobardiae, a cura di G. Porro Lambertenghi, Torino 1873, doc. 608 (951), col.
1039; Codice Diplomatico Veronese, II, a cura di V. Fainelli, doc. 82 (908), doc. 89
(830); F. Weigle, Die Briefe des Bischofs Rather von Verona, Weimar 1949, n. 7, p.
36: «cepit me, retrusit in custodiam in quadam Papiae turricola»; p. 39: «mallem in
Walberti ut quondam turricola quam sedere in Veronensi cathedra».
25 A.A. Settia, Lo sviluppo di un modello: origine e funzioni delle torri private
urbane nell’Italia centrosettentrionale, in La maison forte au Moyen Age, Paris 1986,
pp. 325-330.

25
Cristina La Rocca

se tra il 744 e il 769 il magister militum Mauricius richiedeva in affitto


all’arcivescovo di Ravenna una casa con torre a Rimini, questa torre
non diventò mai, nella topografia riminese, la turris Mauricii 26.  

A partire dalla fine del IX secolo, le menzioni di donazioni di


parti delle mura cittadine a singoli individui si infittiscono: potrem-
mo anzi dire, con Barbara Rosenwein, che donare parti della cinta
muraria diventa per re e imperatori uno strumento per enfatizzare le
proprie speciali caratteristiche di generosi gift givers, come accadde
per le immunità 27. È stato giustamente osservato, in parallelo, che
 

coloro verso i quali si indirizza la munificenza regia «in buon numero


sono ecclesiastici, ma non sono rari individui di estrazione che oggi
diremmo ‘borghese’ come giudici, negotiatores cioè rappresentanti
del niveau medio in via di prepotente affermazione» 28.  

L’occupazione delle fortificazioni urbane tardo antiche a sco-


po residenziale si accosta alle concessioni regie di parti di teatri e
anfiteatri urbani. Certamente la più celebre tra esse è quella vero-
nese, effettuata a più riprese dal re Berengario I a partire dal 905:
si tratta di una vera e propria lottizzazione del teatro romano della
città, donato in parti separate che vanno dalla cavea fino alla sommità
dell’edificio, rispettandone la forma a spicchi 29.  

Possiamo allora specificare meglio quanto detto sopra a pro-


posito dell’articolarsi e dell’addensarsi della toponomastica urbana
in rapporto all’identità di un’elite media emergente: essa, a partire
dal X secolo, propone con strumenti nuovi la propria ascesa sociale,
sia definendosi come residente accanto a un edificio antico, sia at-
traverso il possesso di una parte di esso. Anche se gli edifici furono
realizzati in legno, il fatto che essi trovassero posto all’interno di an-
tiche strutture monumentali, concesse ufficialmente da un diploma
regio, e che in alcuni casi gli edifici antichi diventino parte integrante
del nome di singoli individui, indica la precisa coscienza degli aspetti
di distinzione che tali strutture antiche permettevano di evocare e
di proporre. Assistiamo alla diffusione di un modello residenziale

26 Breviarium ecclesie Ravennatis (Codice Bavaro), secoli VII-X, a cura di G.


Rabotti, Roma 1985, n. 71, p. 35; cfr. le osservazioni di B. Bavant, Cadre de vie et
habitat urbain en Italie centrale byzantine (VIe-VIIIe siècle), «Mélanges de l’Ecole
Française de Rome», 1989, pp. 465-532: 510- 512.
27 Rosenwein, Negotiating space, cit., pp. 152-156.
28 Settia, Lo sviluppo, cit., p. 330.
29 I Diplomi di Berengario I, cit., doc. 89, (913), pp. 240-242.

26
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali

delle élites medie — cioè quelle caratterizzate da uno spazio d’azio-


ne locale 30 — che tende a sottolineare la connessione (reale oppure
 

immaginaria) con il potere regio, che si presenta, in definitiva, come


l’esito e il frutto delle opportunità locali fornite dal conflitto per il
potere regio. La base regionale delle alleanze dei singoli candidati al
trono regio pare infatti aver stimolato, tra le altre cose, una politica
di valorizzazione e di innalzamento delle responsabilità e del presti-
gio delle élites locali che trova nell’aspetto residenziale un aspetto
importante e finora poco indagato.
3. Veniamo ora al secondo degli aspetti individuati da Salvatore
Settis per declinare l’utilizzo dell’antico nelle età successive, vale a
dire quello della ‘conoscenza’. Ciò che anzitutto preme sottolinea-
re è che il ricorso ai precedenti di età classica, nella loro funzione
legittimante, non pare attualmente configurarsi come uno dei tratti
costitutivi della città comunale sin dai suoi esordi: al contrario si è
sottolineato come fino alla seconda metà del secolo XII essa apparis-
se una terra tutto sommato sconosciuta e interpretabile liberamente.
Come ha opportunamente rilevato Chris Wickham, esaminando la
produzione annalistica della prima età comunale genovese e pisana,
le espressioni utilizzate per descrivere le istituzioni contemporanee
sono la testimonianza più evidente dell’emergere della novità, non
tanto di quella coscientemente conclamata come tale, bensì di quella
che appare talmente disancorata e scissa dal passato che non necessi-
ta del passato per definirsi tale. Sotto questo profilo la cronachistica
di Pisa e la produzione poetica celebrante le imprese militari com-
piute dai pisani contro gli Arabi, pur contenendo entrambe ampi
riferimenti al passato classico, non rappresentano in alcun modo
la nascita di una sensibilità storica: gli esempi tratti dal passato ap-
paiono utilizzati alla stregua di efficaci modelli di paragone, volti a
esprimere compiutamente «that the Pisans felt good about them-
selves». È soltanto dalla metà del secolo XII, cioè con l’apparizione
del Barbarossa in Italia settentrionale, che il carattere rivoluziona-
rio dei comuni apparve evidente ai contemporanei stimolando da
un lato il riconoscimento e l’individuazione storica del consolato,
dall’altro il puntuale riferimento alle origini romane dei propri fon-

30 S.M. Collavini, Spazi politici e irraggiamento sociale delle élite laiche


intermedie (Italia centrale, secoli VIII-X), in Les élites et leur espaces. Mobilité, rayon-
nement, domination (du 6. au 11. siècle), a cura di F. Bougard - P. Depreux - R. Le
Jan, Turnhout 2007, pp. 319-322.

27
Cristina La Rocca

datori e dunque all’antico status di civitas del proprio centro urbano,


entrambi elementi volti a legittimare l’espansione del territorio co-
munale. Secondo Wickham, la seconda metà del XII secolo segna
dunque una svolta importante nella coscienza dei cives, mentre tra X
e XI secolo la memoria storica in Italia appare debolissima 31.  

Queste osservazioni possono essere verificate se si osservano


in concreto i riferimenti, operati all’interno delle carte dell’XI seco-
lo, a strutture e a edifici antichi. Facciamo un esempio concreto. A
Pisa, a partire dal 1029 le carte individuano un’area, chiamata civitas
vetera, che appare contraddistinta da alcuni edifici monumentali in
rovina: un murus vetus, delle Grotte, un parlascio (forse un luogo di
spettacolo), un castellum: in base a questi dati Cinzio Violante aveva
supposto che la città romana di Pisa si fosse estesa su un’area molto
ampia, mentre durante l’alto medioevo la sua estensione si sarebbe
notevolmente diminuita, secondo il modello della “città retratta” at-
testato nella Gallia nord orientale. A Pisa, durante l’alto medioevo,
sarebbero state edificate delle nuove mura che avrebbero circondato
un perimetro assai più modesto di quello individuato dal murus ve-
tus. Di recente, comunque, Sauro Gelichi ha messo in rilievo che i
toponimi identificati dal Violante come sicuro indice di antiche pre-
senze romane (in quanto contraddistinte dall’appellativo di vetus)
non riflettevano affatto la specifica consapevolezza dell’effettiva per-
tinenza alla città antica delle aree associate al termine civitas vetera;
esse non erano neppure volte a identificare puntualmente né l’uso
né la funzione originaria di tali strutture. In particolare il termine
murus vetus non appare designare la presunta cinta urbana retratta
altomedievale, bensì un tratto dell’antico acquedotto. Nello specifi-
co caso pisano, l’esistenza di un’area denominata civitas vetera nelle
carte dell’XI secolo non identificava l’estensione della città in epoca
classica; al contrario, era stata proprio la sopravvivenza di impreci-
sati ruderi antichi a suggerire ad alcuni abitanti di Pisa un’ipotesi di
questo genere 32. Se per l’XI secolo si può allora facilmente verificare
 

una chiara percezione della differenza costruttiva tra le strutture ro-

31 Ch. Wickham, The sense of the Past in Italian communal narratives, in The
perception of the Past in twelfth century Europe, a cura di P. Magdalino, London -
Rio Grande 1992, pp. 173-189.
32 S. Gelichi, Le mura inesistenti e la città dimezzata. Note di topografia pisa-
na altomedievale, «Archeologia Medievale», XXV (1998), pp. 75-88; per l’analogo

28
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali

mane e quelle contemporanee, nondimeno essa si accompagnava al


fraintendimento interpretativo delle funzioni originarie di tali strut-
ture, il che testimonia la maturazione di una profonda distanza tra la
struttura della città comunale e quella di età classica.
All’opposto, vi sono alcuni dati che permettono di supporre
che la città altomedievale non costituì soltanto la premessa su cui si
innestò la città comunale. Ricerche recenti, di ambito istituzionale e
archeologico, mostrano infatti come, almeno fino alla metà del XII
secolo, la tradizione locale urbana elaborata durante l’altomedioevo
abbia costituito anche un bacino di ‘passato consapevole’, utilizzabi-
le per promuovere vecchie e nuove istituzioni, oppure per criticarle,
come è evidente nel caso dell’evoluzione terminologica utilizzata per
indicare la sede del potere episcopale.
Lo studio di Maureen Miller ha dimostrato quanto il vocabola-
rio del potere pubblico abbia influenzato, nelle città dell’XI secolo,
la scelta di mutare la designazione del nome della sede vescovile da
domus (come si può riscontrare per la maggioranza delle città italia-
ne fino al X secolo inoltrato), a palatium, vale a dire un termine che
dall’età tardoantica indicava il luogo ove gli imperatori esercitava-
no le loro prerogative e successivamente, attraverso un processo di
astrazione, il potere pubblico imperiale tout court 33. L’acquisizione
 

del vocabolario pubblico per la residenza vescovile fu di natura


consapevole e ufficiale e fin dalle sue prime attestazioni, relative al-
l’inizio dell’XI secolo, essa fu espressa tramite il termine palatium
accompagnato dal nome del suo occupante espresso in genitivo 34.  

Il modello edilizio che ho poc’anzi delineato, che dalla fine del IX


secolo si volgeva ad attribuire il nome del suo detentore a parti di
edifici antichi, come torri e monumenti, fu dunque utilizzato nel se-
colo XI per segnalare la natura pubblica del potere vescovile. Questo
è tanto più notevole dal momento che il cambiamento di denomina-
zione della residenza vescovile non sembra rapportarsi di necessità
con la costruzione di un edificio nuovo. Se in qualche caso la nuova
denominazione del palatium episcopale si accompagnò a una nuova

caso bolognese, cfr. Id., Ripensando la transizione. La trasformazione dell’abitato tra


antichità e medioevo, in Bologna nell’Antichità, a cura di G. Sassatelli - A. Donati,
Bologna 2005, pp. 715-734.
33 P. Liverani, Dal palatium imperiale al palatium pontificium, in Acta ad
Archaeologiam et Artium Pertinentia, XVII, 2003, pp. 143-163.
34 M. Miller, The bishop’s Palace. Architecture and Authority in Medieval

29
Cristina La Rocca

costruzione (come a Padova, Modena e Mantova), in altri (come a


Como, Pavia, Piacenza, Parma) essa ne costituì semmai lo stimolo. A
Parma, per esempio, il termine palatium risulta utilizzato fin dal 1020
mentre l’edificazione della nuova residenza vescovile è successiva di
circa 30 anni. In modo convincente Maureen Miller ha collegato
l’appropriazione terminologica da parte vescovile di un palatium con
il maturare delle istanze comunali nelle diverse città, dimostrando,
attraverso di esso, la precisa volontà di ribadire e significare il ruolo
pubblico svolto dai vescovi in quanto rappresentanti della collettività
cittadina. Tale scelta non esprimeva allora la contrapposizione tra il
vescovo e i cives, bensì, all’opposto, la coesione interna alle città 35.  

È notevole che l’acquisizione da parte episcopale di una ter-


minologia che esprimeva la natura stessa della presenza imperiale
in un luogo, si accompagni alla rielaborazione in senso antico che
gli imperatori dell’XI secolo effettuarono di sé stessi e dei confi-
ni della propria autorità: a partire dagli anni ’20 dell’XI secolo, i
diplomi utilizzano con sempre maggiore frequenza l’espressione
di rex Romanorum, una definizione raramente utilizzata nel perio-
do precedente 36. La comparsa del termine palatium nel definire la
 

sede vescovile appare un sintomo molto significativo non già della


trasformazione del potere episcopale, come si è da molti suggerito,
bensì della trasformazione della coscienza cittadina e dell’evoluzio-
ne in senso pubblico delle sue prerogative: l’adozione del termine
palatium all’interno delle città comunali italiane moltiplicava infatti
il numero dei palatia all’interno del regno e li proponeva come al-
trettante presenze pubbliche, indipendentemente dalle sedi regie o
imperiali. In questo contesto, il termine antico di palatium serviva
dunque a esprimere la novità delle aspirazioni del presente e attra-
verso di esso memoria vescovile e memoria cittadina trovavano una

Italy, Ithaca London 2000; M. Miller, From Episcopal to Communal Palaces. Places
and Power in Northern Italy (1000-1200), «Journal of the Society of Architectural
Historians», LIV (1995), pp. 175-185.
35 Miller, The bishop’s Palace, cit., pp. 89-97.
36 Se l’espressione Imperator Romanorum è riscontrabile nei diplomi di
Ottone I nell’anno 966, redatti in Germania e diretti a destinatari non italiani
(Ottonis I diplomata, in Conradi I, Heinrici I et Ottonis I diplomata, a cura di Th.
Sickel, Hannover 1879-1884 (Monumenta Germaniae Historica [da ora in avanti
M.G.H.], Diplomata regum et imperatorum Germaniae, I), n. 318, 322, 324, 326,
329), quella di Rex Romanorum risulta rispondere al titolo delegittimante di Rex
Teutonicorum coniato da Gregorio VII per indicare i re tedeschi non ancora in-

30
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali

forma di intreccio profondo, ancorandosi a simboli, parole e luoghi


che esprimevano per entrambi i gruppi la dignità pubblica.
Per paradosso la progressiva parcellizzazione del potere pubbli-
co tra XI e XII secolo aveva stimolato localmente l’accentuazione e
la valorizzazione degli aspetti simbolici e ideologici della regalità, che
risultavano puntualmente evocati attraverso i rituali di incoronazio-
ne e i luoghi — veri o presunti — delle sepolture regie. La presenza
fisica dei re del passato altomedievale, di età gota, longobarda e caro-
lingia, all’interno delle città risultava infatti puntualmente connessa
con edifici ecclesiastici che, attraverso di esse, si volgevano a legitti-
mare e ad attestare gli equilibri e i rapporti di potere del presente.
I numerosi casi in cui, durante l’età comunale, si disputò tra enti di
città diverse il possesso di un corpo regio dimostrano come le spoglie
regali costituirono l’oggetto non solo di rivendicazioni e di inven-
zioni, ma furono parte integrante della costruzione della memoria
locale 37. Si tratta di un fenomeno totalmente nuovo che ci prospetta
 

l’arco variegato di possibilità con il quale il passato altomedievale


poteva essere utilizzato e valorizzato.
4. La valorizzazione del passato altomedievale può però anche
essere letta, come ha suggerito Tim Reuter, come una ‘strategia’ di
recupero del passato che permetteva di fronteggiare, in una prospet-
tiva policentrica, proprio il declino dell‘autorità imperiale 38. Questo  

aspetto è particolarmente evidente nelle memorie materiali delle cit-


tà che si erano schierate a favore degli imperatori nel corso del secolo
XII, agli esordi dell’età comunale. L’esempio fornito dalla città di
Padova è particolarmente significativo a tale proposito. Come ha sot-
tolineato Andrea Tilatti, qui l’identità cittadina si era fondata su un
patriottismo ove l’elemento civico e quello religioso erano profon-
damente coesi, e il collegamento della città con l’impero costituiva
un elemento costantemente ricercato e valorizzato. La formulazione

coronati imperatori: E. Müller-Mertens, Regnum Teutonicum. Aufkommen und


Verbreitung der deutschen Reichs- Königsauffassung im früheren Mittelalter, Berlin
1970 (Forschungen zur mittelalterlichen Geschichte, 15).
37 Cfr. le opportune osservazioni di P. Majocchi, Pavia città regia. Storia e me-
moria di una capitale medievale, Roma 2008, pp. 117-148; si vedano poi i singoli casi
di rivendicazioni di sepolture regie altomedievali, con le relative fonti e bibliografia,
in P. Majocchi, Le sepolture regie nel regno italico (secoli VI-X), in < http://sepoltu-
re.storia.unipd.it >.
38 T. Reuter, Past, Present and No future in the Twelfth century Regnum
Teutonicum, in Perception of the Past, cit., pp. 15-36.

31
Cristina La Rocca

dell’identità urbana si accompagnò infatti con la puntuale ripresa


delle gesta dei vescovi del passato — anzitutto Prosdocimo e il suo
successore Massimo (1053) — e successivamente portò alla inven-
tio di martiri locali come Daniele 39. Tali ricordi di matrice religiosa
 

si manifestavano comunque in parallelo con la valorizzazione, pure


operata dai vescovi padovani dell’XI secolo, del proprio raccordo
personale con l’autorità imperiale, trasformandola in ricordi fisici e
visivi all’interno della città.
Priva di antichi luoghi imperiali e di ricordi imperiali del passato
(come statue e monumenti antichi), Padova, tramite i propri vescovi,
ne creò di nuovi, che si vennero anzitutto a disporre nei luoghi che
più puntualmente identificavano il potere episcopale. È possibile rin-
tracciare le origini del rapporto di collaborazione e di valorizzazione
del prestigio dell’autorità episcopale padovana durante il regno di
Berengario I, tra la fine del IX e l’inizio del X secolo. Durante questo
momento, contraddistinto sotto il profilo dell’azione politica, dal-
la cosciente enfatizzazione della rilevanza delle città dell’Italia nord
orientale, si realizzò l’importante coincidenza tra il prestigio per-
sonale di singoli individui, particolarmente valorizzati e impegnati
durante l’età berengariana, e il prestigio delle sedi in cui essi erano
chiamati a operare. Una delle rare testimonianze padovane relative
alla fine del IX secolo è infatti un modesto dossier documentario di
età berengariana che si apre con la donazione, effettuata dallo stesso
Berengario, a Pietro, vescovo della città, datata all’897, in cui il re
dona in piena proprietà all’episcopio patavino «in honore sanctae
Dei genitricis virginis Marie sanctaeque Iustine martiris constructo»
la corte fiscale di Sacco con tutte le sue pertinenze, conferendo al
vescovo i diritti di giurisdizione insiti nella piena proprietà 40.  

L’importanza della carta risiede nel fatto che, come è stato più
volte osservato, per tutta l’età longobarda fino alla metà del seco-
lo IX, le menzioni documentarie relative alla città di Padova sono
del tutto inconsistenti e nessuno dei re longobardi e degli impera-
tori carolingi — fino a Ludovico II dell’855 — risulta aver emanato
diplomi a favore del vescovo di Padova, nonostante la presenza di

39 A. Tilatti, Istituzioni e culto dei santi a Padova tra VI e XII secolo, Roma
1997 (Italia Sacra, Studi e documenti di storia ecclesiastica, 56), pp. 203-239.
40 I diplomi di Berengario I, cit., doc. 18 (897 maggio 5), pp. 56-58. Cfr. A.
Castagnetti, Regno, signoria vescovile, arimanni e vassalli nella Saccisica dalla tarda
età longobarda all’età comunale, Verona 1997.

32
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali

carte più antiche risulti evocata in diplomi successivi 41. Come ha no-
 

tato Andrea Tilatti, Pietro fu il primo dei vescovi veneti a ottenere


tali diritti: il dono di Sacco pare dunque volto a rafforzare sia lo
stretto rapporto che collegava Berengario a Pietro, sia a potenziare
le capacità e le specificità vescovili della chiesa retta da uno dei suoi
più fedeli funzionari 42. I recenti lavori di Barbara Rosenwein hanno
 

infatti permesso di osservare come l’azione politica di Berengario


fosse anzitutto fondata sull’orchestrazione molto raffinata di un
network di doni, che proponeva il re come il protagonista indispen-
sabile dell’ascesa sociale e delle speciali prerogative di un gruppo
assai selezionato e ristretto: esso si articolava da un lato nelle élite
della marca friulana — cioè la circoscrizione territoriale pubblica
dove, sin dalla prima metà del IX secolo, il padre di Berengario,
Everardo, aveva esercitato la funzione comitale 43 — e dall’altro nel-
 

l’area circostante Pavia, la capitale del regno, dove invece il re aveva


necessità di procurarsi un sostegno politico più ampio. L’attenta con-
siderazione delle relazioni di affinità degli individui coinvolti nella
munificenza regia ha cioè permesso di capovolgere la prospettiva
interpretativa precedente e di presentando le donazioni regie non
già come uno sperpero necessario, bensì come un investimento ope-
rato da Berengario in vista del potenziamento della cerchia dei suoi
fedeli, ergendosi a promotore dell’ascesa sociale del gruppo dei suoi
sostenitori, e prospettando la stessa opportunità per i suoi nemici.
La ricostruzione della logica interna alle donazioni berengaria-
ne ha parallelamente portato a rivisitare profondamente il significato
delle immunità, una parola in uso nei diplomi regi di età merovingi
a partire dal secolo VII, inizialmente volta a delimitare un territo-
rio in cui gli ufficiali pubblici regi non potevano avere accesso 44. Le  

41 Ludovici II Diplomata, a cura di K. Wanner, München 1994 (M.G.H.,


Diplomata Karolinorum, 4), doc. 16, febbraio 8, 855 Mantova, pp. 96-97. Nella
carta si dice infatti che il vescovo Rorigus aveva mostrato all’imperatore Ludovico II
i diplomi emanati a favore della sua chiesa da Carlo Magno e da Lotario. Purtroppo
di essi non è rimasta traccia.
42 A. Tilatti, Istituzioni e culto dei santi, cit., pp. 28-29.
43 C. La Rocca - L. Provero, The dead and their gifts. The will of Eberhard,
count of Friuli and his wife Gisela, daughter of Louis the Pious (867), in Rituals of
Power from late antiquity to the early middle ages, a cura di J.L. Nelson - F. Theuws,
Leiden Boston Köln 2000, pp. 225-280.
44 P. Fouracre, Eternal light and earthly needs: practical aspects of the develop-
ment of frankish immunities, in Property and power in the early middle ages, a cura
di W. Davies - P. Fouracre, Cambridge 1995, pp. 53-81.

33
Cristina La Rocca

concessioni di immunità non sono allora il sintomo della intrinseca


debolezza di un re, ma sono inversamente volte a manifestare la spe-
ciale capacità regia di controllare i suoi funzionari, escludendoli dalle
ingerenze in uno specifico territorio, delimitato e reso intoccabile
grazie alla volontà regia. L’immunità fu dunque consapevolmen-
te utilizzata da Berengario non tanto come cosciente spreco, bensì
come un vero e proprio investimento da parte regia, all’interno di
un rapporto di reciprocità e di scambio di doni con l’aristocrazia che
solo un re poteva attivare.
Gli aspetti fin qui delineati sono tutti presenti proprio nella
donazione berengariana a Pietro vescovo, specialmente se ci si sof-
ferma a osservare la carriera di questo personaggio. La sua attività
è attestata sin dall’888 con la designazione di cancellarius, in primo
luogo a Pavia (888), poi a Verona nell’890 e nell’893 45. A partire  

dall’896 fino al marzo del 900 egli appare ricoprire la carica di archi-
cancellarius 46, cioè di capo della cancelleria regia; la sua carriera ha
 

termine nel maggio 900 quando è Liutuardo a ricoprire tale mansio-


ne 47. Pietro apparteneva dunque alla cerchia dei fedeli di Berengario
 

anche anteriormente all’elezione pavese di Berengario al titolo re-


gio, un gruppo che si era sviluppato proprio negli anni più difficili e
controversi del regno, quelli compresi tra 888 e 898, successivi alla
sconfitta subita da Berengario dal rivale Guido di Spoleto sul fiume
Trebbia 48. Durante questo decennio Berengario concentrò infatti i
 

suoi sforzi anzitutto nella marca friulana, consolidando i rapporti e le


clientele locali, e accrescendone le prerogative. Pietro, fu indubbia-
mente un supporto molto importante per il re. L’unico documento
a noi noto rogato personalmente da Pietro mette infatti in risalto la
fortissima consonanza di intenti tra lui e il sovrano. La carta emes-
sa a favore della vedova di Ludovico II, Angelberga, con la quale

45 I diplomi di Berengario I, cit., doc. 2 (888), 4 (888); 8 (890), pp. 33-35;


11 (893), pp. 39-41. È inoltre ben possibile che il Petrus notarius attestato nel 888
come redattore del diploma in copia per il monastero di Bobbio costituisca la prima
attestazione di questo stesso personaggio: I diplomi di Berengario I, cit., doc. 1, 888
Verona, p. 7 (copia sec. IX-X).
46 Ivi, doc. 15 (896), pp. 49-51; 18 (897), pp. 56-58; 20 (898), pp. 60-62; 22
(898), pp. 65-68; 23 (898), pp. 69-71; 24 (898), pp. 72-74; 25 (899), pp. 89-92.
47 Ibidem, doc. 31, 900 maggio 24 pp. 93-95.
48 G. Sergi, The kingdom of Italy, in The New Cambridge Medieval History,
III, a cura di T. Reuter, Cambridge 1998, pp. 346-371.

34
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali

Berengario, da poco eletto re a Pavia, confermava i possessi dell’ex


imperatrice a lei donati dal defunto marito, non perde occasione di
ribadire la linea di continuità carolingia, e dunque di piena legitti-
mità, che collegava Berengario agli imperatori Ludovico II e Carlo
il Grosso: il primo, in quest’occasione, è chiamato ‘avunculus et se-
nior noster’, mentre il secondo è detto «noster avunculus nosterque
carissimus senior Karolus vide licet invictissimus imperator» 49. La  

carta per Angelberga rafforzava, per l’esplicita intensità legittimante


delle connessioni di parentela con la dinastia carolingia, quelle certo
più deboli coniate da Pietro per Berengario nei primi diplomi da lui
stesso redatti 50. Possiamo dunque identificare in Pietro uno dei prin-
 

cipali collaboratori intellettuali del re, anzitutto a dare forma scritta


alla legittimità delle sue aspirazioni regie.
Come ebbe a notare lo Schiaparelli, si conserva un solo docu-
mento redatto dalla mano di Pietro 51, ma la sua presenza nei diplomi
 

di Berengario è ben più intensa poiché essa è attestata anzitutto come


intermediario tra il re e coloro che richiedono i suoi favori. Come ha
notato François Bougard, è a partire dalla seconda metà del IX secolo,
grazie alla figura dell’imperatrice Angelberga — moglie di Ludovico
II 52 —, che la struttura della regalità carolingia tende a complicarsi e
 

a mostrare, anche sotto il profilo diplomatistico, l’autorità regia come


un’entità sempre più lontana, raggiungibile direttamente soltanto da
una cerchia ristrettissima di persone 53. Il favore del re non appare
 

49 Una analoga formula si trova successivamente nel documento di conferma


dei beni dei canonici di Novara, datato tra 911 e 915, nel quale gli imperatori caro-
lingi Ludovico, Carlomanno e Carlo il Grosso sono chiamati «insignibus augustis,
quorum prosapie nostra coruscat origo»: I diplomi di Berengario I, cit., doc. 105, s.l.,
pp. 271-273: 272, r. 2-3.
50 Non si tratta comunque di carte conservate in originale, ma in copie più
tarde. I diplomi di Berengario I, cit., doc. 1, Verona 888, p. 5: «degnissime recor-
dationis domni Karolis imperatoris senioris et consobrini» (per il monastero di
Bobbio); doc. 2, 888 marzo 21, Mantova, p. 9, r. 11-12: «pie recordationis Karoli
necnon et Ludovici seu et domni Karoli seniori set consobrini» (per il monastero di
Sesto in Silvis).
51 L. Schiaparelli, Ricerche storico-diplomatiche. I. I Diplomi di Berengario I,
«Bullettino dell’Istituto Storico Italiano», 23 (1902), pp. 1-167: 9-11.
52 F. Bougard, Les Supponides échec à la reine, in Les élites au haut Moyen Âge.
Crises et renouvellements, a cura di F. Bougard - L. Feller - R. Le Jan, Turnhout
2006, pp. 381-402.
53 F. Bougard, Engelberga, in Dizionario Biografico degli Italiani, 42, Roma
1993, pp. 668-676.

35
Cristina La Rocca

più, a partire da questo momento, essere richiesto direttamente da


colui che lo necessita, bensì le petizioni giungono alle orecchie regie
soltanto tramite l’intermediazione di coloro che sono prossimi al re
e godono dunque del sommo privilegio di interloquire direttamente
con lui. La tradizione iniziatasi con Angelberga, volta a individuare
nella moglie del sovrano il suo interlocutore privilegiato, andò succes-
sivamente ad ampliarsi, comprendendo, al suo interno, un ristretto
gruppo di individui: pertanto, a partire dalla metà del IX secolo, la
concessione di ogni dono regio implicava, di norma, la presenza di
tre e non più soltanto di due soggetti (il donatore e il ricevente), com-
prendendo invece nel mezzo la figura del postulante, vero e proprio
mediatore della generosità regia. Si determina perciò una complessa
politica basata sulla concatenazione di doni regi: ogni concessione
forma una vera e propria catena tra donazioni concesse nel passato e
donazioni future allo stesso gruppo di persone; inoltre ogni conces-
sione comprende in sé ciò che Barbara Rosenwein ha efficacemente
chiamato ‘lateral gift’: dopo aver funzionato come intercessore per
doni verso altri individui, lo stesso soggetto diventa a sua volta il ri-
cevente di un dono in un diploma successivo. Questa dinamica può
agevolmente essere verificata nel caso di Pietro: dopo aver agito due
volte da intermediario presso Berengario nell’893 e nell’896, a favore
del monastero di San Zeno (con il titolo di «cancellarium nostrum
nobisque fidissimum») 54, e insieme a Egilulfo vescovo di Mantova
 

in favore di Aginone, vasso del conte Sigefredo di Parma 55, nell’897


 

egli è a sua volta beneficiario della corte di Sacco, in qualità di ve-


scovo di Padova. Nella carta dell’896 Pietro è designato per la prima
volta come «venerabilis episcopus» e «insignis archicancellarius»: è
dunque nello stesso frangente che si deve datare la promozione di
Pietro sia nel suo ruolo episcopale, sia in quello di responsabile della
cancelleria regia, in sostituzione del veronese Adalardo, che con tut-
ta probabilità si era schierato a favore di Arnolfo di Carinzia 56.  

Nel documento dell’897, concernente la donazione della ter-


ra fiscale di Sacco all’episcopio padovano, Pietro è menzionato con
l’appellativo di «reverendissimum episcopum dilectumque fidelem

54 I diplomi di Berengario I, cit., doc. 11 (893), pp. 39-41.


55 Ivi, doc. 15 (896), pp. 49-51.
56 G. Arnaldi, Berengario, in Dizionario Biografico degli Italiani, 9, Roma
1967, pp. 1-26: 15.

36
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali

et archicancellarium nostrum», tre epiteti che riassumono in sé sia


le cariche istituzionali da lui ricoperte, sia il legame di reciprocità
personale intrattenuto con il sovrano. In questo diploma Pietro ap-
pare aver compiuto un ulteriore passo avanti nel suo rapporto con il
re poiché egli rivolge direttamente al re la sua richiesta, apparendo
perciò all’interno della cerchia di quanti non necessitano di interme-
diari, data la loro prossimità al re.
L’assegnazione della corte di Sacco all’episcopio di Padova e
l’assunzione della carica vescovile della città, paiono ulteriormente
incrementare il ruolo e il prestigio di Pietro quale intercessore regio.
Nell’898, anche in seguito alla morte di Lamberto, figlio di Guido di
Spoleto, Pietro («reverendissimum episcopum sacrique palatii no-
stri archicancellarium») compare come unico intermediario per la
richiesta da parte di una nemica storica di Berengario — Ageltrude,
la vedova di Guido di Spoleto e la madre di Lamberto — di due
monasteri presso Camerino e Assisi 57, oltre che in due altri diplomi
 

a favore di Giovanni, medico del re e abate del monastero di santa


Cristina a Corte Olona, del vescovo di Modena Gamenolfo e infine
per una complessa donazione a favore di Vulferio, «fideli nostro», ri-
chiesta — tramite Pietro — da Sigefredo conte di Parma 58. Nell’899,  

pur conservando il suo ruolo di arcicancelliere, Pietro appare re-


golarmente sostituito nei diplomi emanati da Berengario a Pavia 59,  

possiamo cioè ritenere che, pur mantenendo la carica egi risiedesse


stabilmente a Padova, a differenza che nel passato.
È certo allora che la carta del 897, oltre che ad aprire una nuova
stagione per la dignità dell’episcopio padovano, costituisce la prova
dell’importanza crescente della città, alla cui guida vescovile fu indi-
rizzato uno dei principali sostenitori del re: i successori di Pietro, a
differenza che nel passato, furono costantemente oggetto della mu-
nificenza e dell’attenzione regia e imperiale.
Il ricordo di questo momento fondante dell’autorità episcopale
padovana, che risultava anzitutto promanare dal rapporto personale
e diretto con l’autorità regia ed imperiale, è uno dei tratti distintivi

57 I diplomi di Berengario I, cit., doc. 22 (898), pp. 65-68; su Ageltrude, C. La


Rocca, Les cadeaux nuptiaux de la famille royale en Italie, in Dots et douaires dans
le haut Moyen Âge, a cura di F. Bougard - L. Feller - R. Le Jan, Roma 2002, pp.
521-524.
58 I diplomi di Berengario I, cit., doc. 23 (898), pp. 69-71.
59 I diplomi di Berengario I, cit., doc. 26, 27, 28, 30, tutti dell’899.

37
Cristina La Rocca

della memoria cittadina, che si andò progressivamente a costruire nei


secoli successivi, anche grazie alla costante riproposizione del rappor-
to di reciprocità che, nei secoli, aveva collegato le due istituzioni.
Tale connessione originaria fu puntualmente evocata nei mo-
menti di rifondazione degli equilibri interni alla città, dei quali la fine
del periodo ezzeliniano costituisce uno degli episodi più significativi.
Alla metà circa del XIII secolo, la cronaca di Rolandino, notaio, può
essere letta come versione ufficiale del rapporto che la città aveva
instaurato con il proprio passato recente, ove i concetti di origini,
identità e gloria e degradazione urbana sono presentati come corsi e
ricorsi nella storia della città 60. Rolandino narra infatti che, per volere
 

di Ezzelino, il carroccio di Padova giaceva fradicio e sfigurato, «per


platheam apud palacium Paduanum”» così da essere la testimonian-
za permanente del disonore collettivo. Le origini nobili del carroccio
si potevano però ancora vedere dipinte sopra l’altare maggiore della
cattedrale di Padova, ove erano rappresentati il vescovo Milone, il re
Corrado (sic per Enrico) e sua moglie Berta. Quest’ultima era ritrat-
ta, così come effettivamente compariva nei diplomi imperiali, nel suo
ruolo di intercessore presso il sovrano 61, affinché egli concedesse ai
 

padovani di ricostruire il proprio carroccio, distrutto da Attila tyrap-


nus. A ricordo dell’intercessione svolta da Berta, il carroccio aveva
infatti assunto il nome della regina «quo quidam nomine vocatur
hodie et vocabitur in eternum» 62. Rolandino presentava dunque l’ar-
 

ticolarsi del passato padovano collegando le libertà comunali — di


cui il carroccio era espressione — all’intercessione della moglie del re
presso il marito, volgendosi a ripristinare un’antica prerogativa della
città infranta da Attila, tiranno del passato, allo stesso modo in cui
essa appariva sfregiata da Ezzelino, tiranno del presente. Se il richia-
mo negativo ad Attila serviva a riportare all’indietro nel tempo, come

60 Rolandini Patavini, Cronica in factis et circa factis Marchie Trivixane, a cura


di A. Bonardi, Città di Castello 1905-1908 (Rerum Italicarum Scriptores. Raccolta
degli storici italiani dal Cinquecento al Millecinquecento ordinata da L.A. Muratori,
VIII). Cito seguendo la recente edizione critica e traduzione italiana: Rolandino,
Vita e morte di Ezzelino da Romano, a cura di F. Fiorese, Roma 2004.
61 Heinrici IV diplomata, a cura di D. von Gladiss - A. Gawlick, 1946-1978
(M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, VI/1/2/3), doc. 182 (1066)
«istinctu quoque Berthe regine regni nostrique thori consortis dilectissime»; 183
(1066); 184-186,187,188, 191, 193,197, 198, 199, 200, 201-210 etc.
62 Rolandino, Vita e morte di Ezzelino da Romano, IX 2, p. 404.

38
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali

in molta cronachistica di ambito veneto 63, l’inizio di un’età buia pri-


 

va di libertà ‘padovane’ e di una identità propriamente urbana, esso


fungeva al contempo come strumento per valutare la nefandezza di
Ezzelino, ma anche per identificare un tempo felice — quello di Berta
e delle libertà riconquistate — che si trovava ritratto all’interno della
chiesa vescovile ed era collocato saldamente nell’XI secolo. Secondo
Rolandino il ricordo di tali libertà collettive risultava strettamente
connesso con la munificenza imperiale, presentando il raccordo con
l’imperatore come uno dei fili identitari della memoria cittadina vei-
colata dalle rappresentazioni materiali collocate all’interno di edifici
ecclesiastici.
Al tempo di Rolandino, Berta fu infatti oggetto specifico di
memoria padovana, in unione con suo marito, l’imperatore Enrico
IV. Una lastra funeraria romana, risalente al III secolo, ritraente una
coppia di coniugi, fu infatti rilavorata nel corso del XIII secolo, tra-
sformandola nel ritratto della coppia imperiale del secolo XI. Vi fu
infatti scolpita l’iscrizione che permetteva di identificare l’uomo in
Henricus Quartus rex e la donna in Berta regina (tav. 1). In essa il
tempo pre-Attila e quello pre-Ezzelino risultavano dunque material-
mente fusi insieme. Come ha dimostrato Tilmar Struve, è del tutto
probabile che il rilievo — che attualmente è inserito sopra il portale
di accesso del palazzo episcopale — fosse un tempo posto all’interno
della chiesa vescovile, e che a essa fosse da collegare la tradizione che
voleva la regina Berta essere sepolta al suo interno, come sembrereb-
be indicare una analoga lapide tardo romana, anch’essa rilavorata,
attualmente conservata presso il Museo Diocesano 64. Una secon-  

da lapide funeraria era poi collocata all’interno della chiesa di S.


Giustina, presentandosi come il luogo di sepoltura della stessa Berta,
mentre l’imperatore si trasformava in rex Patavii 65. Tramite questi
 

63 S. Collodo, Attila e le origini di Venezia nella cultura veneta tardomedievale,


«Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti», 26 (1972-1973), pp. 531-567.
64 Anche questa lapide ritrae una coppia di coniugi, successivamente iden-
tificati come Bertha regina e Henricus quartus rex: cfr. C. Bellinati, La Cattedrale
di Padova e le memorie della regina Berta, in Dal castello di Montagnon alla torre
di Berta. Storia e leggenda di un manufatto difensivo dei Colli Euganei, a cura di A.
Pallaro, Padova 1999, p. 118.
65 Il testo dell’epigrafe, tradito da B. Scardeonii, De antiquitate urbis Patavii
et claris civibus Patavinis libri tres, Basileae 1560, p. 382, era infatti: «Presulis et
cleri praesenti praedia phano / Donavit regina iacens hoc marmore erta / Henrici
regis Patavi celeberrima quarti / Coniux: tam grandi dono veneranda per aevum».

39
Cristina La Rocca

ricordi di pietra, mediati da luoghi vescovili, Padova poteva essere


inserita nella lista dei luoghi ove la regalità e la presenza pubblica del
passato poteva essere verificata e toccata con mano. Se patriottismo
civico e patriottismo religioso appaiono a Padova inscindibili, il trait
d’union di tale memoria appare fondarsi nell’antico collegamento
della città con il regno, avviatosi nell’età berengariana.
5. In ultimo aspetto a cui desidero far cenno riguarda un uti-
lizzo dell’antico che è forse stato meno studiato, cioè quello che
riguarda il richiamo a concetti e a usi antichi per mascherare e am-
mantare di elementi tradizionali la novità del presente, rendendoli
così più accettabili. La novità, così come il rispetto della tradizio-
ne, sono infatti due concetti assai scivolosi. Anni fa Eric Hobsbawm
osservava acutamente che l’ostentazione degli elementi di novità in
contrapposizione netta con un passato deplorevole è sovente intesa
a celare la sopravvivenza di persone, di idee, di interessi. Allo stesso
modo, però, le dichiarazioni di rispetto meticoloso della tradizione
sono ugualmente volte ad ammantare di antico le novità implicite e
striscianti, che apparirebbero troppo dirompenti se presentate come
decise rotture 66. Vediamo, a questo proposito, ancora un esempio
 

padovano. Come è noto, la fine del periodo ezzeliniano portò con


sé la ridefinizione di nuovi equilibri all’interno alla città, la puni-
zione degli alleati di Ezzelino, e soprattutto la riproposizione di
una nuova identità civica. Tale momento, scandito dalla pubblica
lettura della versione ufficiale dei fatti del passato recente data dal
notaio Rolandino, fu interpretato anche come occasione per propor-
re diversi modelli di riferimento, anche in competizione tra di loro,
attraverso i quali progettare il futuro della città. Tale confronto si
effettuò anzitutto attraverso una vera e propria ricerca delle origi-
ni e una simbolica rifondazione della città: mi riferisco ovviamente
all’invenctio, nel 1280, del sepolcro di Antenore, l’eroe troiano mi-
tico fondatore di Patavium, e la translatio del suo sarcofago presso

T. Struve, Heinrich IV., Bischof Milo von Padua und der Paduaner Fahnenwagen.
Zu einem wenig beachteten Bildnis des salichen Kaisers und seiner Gemalin, in
«Frühmittelalterliche Studien», 30 (1996), pp. 294-314. Collega le immagini impe-
riali padovane alla itineranza ritualizzata dell’imperatore e alla necessità di strumenti
codificati di comunicazione più ampia, il lavoro di N. D’Acunto, L’età dell’obbe-
dienza. Papato, impero e poteri locali nel secolo XI, Napoli 2007, pp. 217-218.
66 E.J. Hobsbawm, The social function of the past: some questions, in «Past &
Present», 55 (1972), pp. 3-17.

40
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali

la chiesa di S. Lorenzo, cioè in un punto nevralgico della città, oltre


che nelle immediate vicinanze della casa dello scopritore, Lovato
Lovati. Il sarcofago, databile al IV secolo, fu corredato da una nuova
iscrizione — tratta dall’Eneide — e il Lovati si fece successivamente
seppellire, anch’egli in un sarcofago di marmo, proprio accanto ad
Antenore, rinnovando — come si è giustamente osservato — la tipo-
logia della sepoltura ad sanctos di età tardoantica 67.  

Si è da più parti sottolineato il valore rifondante di tale riscoper-


ta, che era in grado di proporre idealmente una nuova base condivisa
della convivenza civile, sui fondamenti di una tradizione che risaliva
a Tito Livio. Come ha sottolineato Giuseppe Billanovich 68, Lovati  

e i suoi amici vollero disperatamente trovare Antenore: la scoperta


e la sua valorizzazione monumentale presso la residenza del Lovati
stesso serviva anzitutto a definire l’identità culturale e politica del
gruppo dei cosiddetti ‘preumanisti’ padovani, presentandoli come i
veri protagonisti del recupero, anche materiale, delle autentiche ori-
gini della città.
Ma non tutti erano d’accordo sul fatto che il richiamo all’antico
dovesse per forza significare ed evocare un sicuro miglioramento. Il
XII libro, quello conclusivo della Cronica di Rolandino, in un testo
che, è bene ricordarlo, si presentava come la versione ufficiale del
dipanarsi della vicenda ezzeliniana, si apre proponendo al lettore un
paragone tra la città di Padova e Roma, nel bene e nel male. Dice in-
fatti Rolandino che Padova imitò Roma in molte cose, nella sua fede
ma anche nelle molte offese ricevute «per diversa genera tyrapnie».
Se Padova fu fondata da Antenore, troiano come Enea, essa patì,
come Roma, «multas tribulaciones et werras»; fu «offensa crudeliter»
da Ezzelino, anzitutto distruggendo il decoro urbano della città. In
questo senso di desolazione e distruzione, «Padua dici potest quasi
secunda Roma» 69. Il paragone con Roma è dunque effettuato come
 

richiamo in negativo: il tempo di Ezzelino, rispetto a un passato glo-


rioso di nobili abitanti, di splendidi edifici e di santi uomini — vale

67 L’intera vicenda è stata complessivamente riesaminata, anche sotto il profilo


materiale, da G. Valenzano, ‘Hic iacet Anthenor Patavine conditor urbis’. Immagine
politica, identità civica nelle tombe mausoleo a Padova nel Duecento, «Hortus Artium
Medievalium», 10 (2004), pp. 169-174.
68 G. Billanovich, Il preumanesimo padovano, in Il Trecento, Vicenza 1976
(Storia della cultura veneta, II), pp. 94-98.
69 Rolandino, Vita e morte di Ezzelino da Romano, cit., XII 1, pp. 522-524.

41
Cristina La Rocca

a dire il tempo di Berta e di Enrico —, è un tempo di desolazione,


simile all’antica desolazione prodotta a Roma dai «principes perdi-
cionis» evocando, nella distruzione fisica dell’Urbe, le offese subite
dalla città sul piano materiale e su quello politico.
Sia la polemica contro l’utilità dell’antico, se non come memen-
to di sventura, proposta da Rolandino, sia invece la sua esaltazione
come momento originario e fondativo della città, il richiamo all’an-
tichità profonda e a Roma servì anzitutto — come ha ben osservato
tempo fa Gilmo Arnaldi 70 — a liquidare il passato recente, legitti-
 

mando nei fatti una transizione assai morbida tra il prima e il dopo
Ezzelino, che diede luogo ad un assetto politico di sostanziale ripresa
delle grandi famiglie, anche quelle più gravemente compromesse con
il tiranno. Queste, come ebbe a notare lo Hyde «fecero dimenticare
presto il loro passato e col tempo occuparono di nuovo nella società
e nelle istituzioni del secondo comune una posizione di rilevo» 71.  

Sia l’invenctio di Antenore sia la deplorazione di Padova, seconda


Roma, servivano dunque, nella ‘nuova’ Padova post-ezzeliniana,
ad ammantare di mitica antichità la sostanziale continuazione degli
equilibri preesistenti e degli assetti delle élites locali. Ma il parago-
ne tra Padova e Roma, seppur declinato nel suo versante negativo,
serviva a Rolandino anche in un’altra prospettiva: esso gli consentiva
infatti di annoverare anche Padova tra quelle città che, nel corso del
tempo, si erano vantate dell’epiteto di ‘seconda Roma’ 72, esprimendo
 

attraverso di esso le prospettive e le ambizioni delle élites padovane


in una città in cui il passato di Roma non aveva lasciato che tracce
invisibili.

70 G. Arnaldi, Studi sui cronisti della Marca trevigiana dell’età di Ezzelino da


Romano, Roma 1963.
71 J.K. Hyde, Padua in the age of Dante, Manchester New York 1966, pp. 298-
306 (trad. ital. Trieste 1985, pp. 258-265).
72 Una bibliografia completa sul tema delle città ‘seconda Roma’ è in P.
Tomea, Tradizione apostolica e coscienza cittadina a Milano nel Medioevo, Milano,
n. 42, pp. 368-371.

42
1. Bertha regina ed Henricus quartus rex.
Venerdì 11 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Giovanni Cherubini

Aldo A. Settia
CERCHIE MURARIE E TORRI PRIVATE URBANE

Certi intraprendenti macellai bresciani nel primo decennio del


XII secolo avevano casa a ridosso delle mura ed esercivano banchi
di vendita posti «extra murum civitatis»; si capisce così che fossero
tentati di ricavare brecce per mettere in collegamento casa e bottega
e cercare di proteggere quest’ultima mediante un pontile di legno.
Ma la realizzazione del progetto incontrò la decisa opposizione del
comune, e «prope post terremotum» (cioè poco dopo il 1117) i var-
chi aperti vennero chiusi e il legname rimosso.
Lungo il muro esterno i banchi di vendita continuarono non-
dimeno a proliferare disponendosi in più ordini; in seguito, anzi, il
gruppo familiare dei Cagnola costruì sul luogo una torre e, dopo il
suo crollo, ne realizzò una seconda: nonostante i divieti, dunque,
l’espansione fuori delle mura romane continuava e si stabilizzava.
Altri decenni dovettero però trascorrere prima che le autorità prov-
vedessero a sancirne l’allargamento, e solo nel 1174 — ricorda un
cronista — «facte sunt cortine pro porta Sancti Iohannis» 1. Sotto la  

pressione di una crescita demografica ed economica inarrestabile ve-

1 Per tutto quanto precede cfr. G. Andenna, Il monastero e l’evoluzione ur-


banistica di Brescia tra XI e XII secolo, in Santa Giulia di Brescia. Archeologia, arte,
storia di un monastero regio dai Longobardi al Barbarossa, Atti del convegno, a cura
di C. Stella - G. Brentegani, Brescia 1992, pp. 93-103.

45
Aldo A. Settia

diamo qui la città dilatarsi irresistibilmente fuori dell’antica cerchia e


questa adeguarsi lentamente alla nuova situazione.

1. La costruzione delle nuove cerchie

Si è calcolato che in Italia dall’XI al XIII secolo la costante cre-


scita demografica radunò entro le città forse il 20-25% dell’intera
popolazione provocando, come primo effetto, una consistente esten-
sione delle superfici urbane che, quando le ultime cerchie medievali
furono terminate, si trovarono moltiplicate da cinque sino a venti
volte. Le mura verrebbero pertanto a costituire la traccia più evi-
dente e duratura di una crescita chiaramente misurabile, come se
fossero state erette solo per segnalare ai posteri le fasi positive del
popolamento urbano 2.  

La cinta muraria, come si sa, è invece ben di più: si dà nor-


malmente per acquisito che la città medievale sia «caratterizzata e
definita in primo luogo e principalmente con la costruzione della
prima cerchia, e la sua fine con la distruzione dell’ultima»; le mura,
lungi dal ridursi a un «arabesco romantico», esprimono la «dura ne-
cessità di un’epoca che lotta disperatamente per la pace senza mai
raggiungerla» 3. Per i medievisti poi, la cerchia muraria è «connotato
 

essenziale della città, mezzo di difesa e segno di distinzione fra il


territorio urbano e il territorio extraurbano, i cui residenti godono
di una diversa protezione giuridica, di una diversa partecipazione
politica, di un diverso regime fiscale» 4.  

Un bel caso in cui i periodi di sviluppo appaiono di volta in


volta suggellati dalla creazione di una nuova cerchia, si ha nella nota
descrizione di Pavia di Opicino de Canistris: la città intorno al 1330
risultava infatti cinta «da una triplice cerchia di mura»: una più in-
terna di eccezionale spessore, quadrangolare e dotata di nove porte;
2 E. Hubert, La construction de la ville. Sur l’urbanisation dans l’Italie médié-
vale, «Annales. Histoire, sciences sociales», 59 (2004), n. 1, pp. 125-126. Mette in
discussione l’estensione delle cerchie come indice di crescita demografica J. Heers,
La città nel medioevo in Occidente. Paesaggi, poteri e conflitti, Milano 1995, pp.
371-372.
3 Rispettivamente: Y. Renouard, Le città italiane dal X al XIV secolo, I, Milano
1975, pp. 11 e 16; E. Ennen, Storia della città medievale, Roma-Bari 1975, p. 93.
4 G. Fasoli, Storia urbanistica e discipline medievistiche, in La storiografia ur-
banistica, Atti del 1° convegno internazionale di storia urbanistica. Gli studi di storia
urbanistica: confronto di metodologie e risultati (Lucca, 24-28 settembre 1975), a
cura di R. Martinelli - L. Nuti, Lucca 1975, p. 162.

46
Cerchie murarie e torri private urbane

una seconda, ancora quadrangolare, «di convenienti proporzioni», e


infine la terza «quasi rotonda» circondata da «fossati profondi e as-
sai ampi, colmi d’acqua perenne per un circuito di due miglia» fuori
del quale erano però già cresciuti altri «proporzionati sobborghi» 5.  

Tale immagine, statica e semplificata, riassume secolari e complessi


fenomeni di incremento urbanistico che è impossibile documentare
in altro modo 6.  

La regola della crescita misurabile attraverso il succedersi delle


cerchie murarie non vale comunque per tutte le città italiane di tra-
dizione antica (alle quali limitiamo qui le nostre osservazioni): alcune
di esse, infatti, non ebbero bisogno di allargare le loro mura, rimaste
sempre le stesse per tutta l’età medievale, senza che ciò sia necessa-
riamente da interpretare come il segno di una crescita prossima allo
zero.
Il perimetro delle mura medievali di Alba, ricostruito su quello
romano, rimase invariato sino all’età moderna. La cerchia muraria di
Ravenna, allestita nel V secolo d.C., non subì mutamenti di ampiezza
pur essendo oggetto di riparazioni e ripristini, attestati soprattutto
verso la fine del secolo XII e nei primi decenni del successivo. Torino
vide certo, attraverso i secoli, rifare in parte le mura romane, che fu-
rono dotate di fossato esterno non prima del 1218, quando peraltro
esistevano borghi esterni difesi a loro volta da fossati 7.  

5 F. Gianani, Opicino de Canistris. L’“Anonimo ticinese” e la sua descrizione


di Pavia (cod. Vaticano palatino latino 1993), Pavia 1976, pp. 212-214; cfr. Opicino
De Canistris, Il Libro delle lodi della città di Pavia, a cura di D. Ambaglio, Pavia
1984, pp. 53-56.
6 Cfr. P. Hudson, Pavia: l’evoluzione urbanistica di una capitale altomedievale,
in Storia di Pavia, II, L’alto medioevo, Milano 1987, pp. 273-279 (la seconda cerchia
è databile agli anni fra 1130 e 1140); D. Vicini, Lineamenti urbanistici dal XII secolo
all’età sforzesca, in Storia di Pavia, III/3, L’arte dall’XI al XVI secolo, Milano 1996,
pp. 10-11.
7 Rispettivamente: F. Panero, Aspetti urbanistici della città di Alba nel basso
medioevo, in Id., Comuni e borghi franchi nel Piemonte medievale, Bologna 1988,
pp. 168-177; cfr. anche M. Viglino Davico, Mura, porte urbane e castelli di Alba
nel basso medioevo, in Una città nel medioevo. Archeologia e architettura ad Alba dal
VI al XV secolo, a cura di E. Micheletto, Alba 1999, pp. 109-121; L. Mascanzoni,
Edilizia e urbanistica dopo il mille: alcune linee di sviluppo, in Storia di Ravenna, III,
Dal mille alla fine della signoria polentana, a cura di A. Vasina, Ravenna 1993, pp.
396-399, 418; A.A. Settia, Fisionomia urbanistica e inserimento nel territorio (secoli
XI-XIII), in Storia di Torino, I, Dalla preistoria al comune medievale, a cura di G.
Sergi, Torino 1997, pp. 787-792.

47
Aldo A. Settia

La cerchia anulare di Vicenza, che si ritiene tracciata nel secolo


X sul corso naturale del Bacchiglione, fu «proseguita, consolidata e
mantenuta efficiente», sin oltre il secolo XIII quando, fuori di essa, i
borghi avevano già raggiunto un grande sviluppo. Almeno dal 1188
si provvide a chiuderli con fossati, terrapieni e steccati elevando
porte in capo alle principali vie di accesso, ma bisognò giungere al
tramonto della signoria scaligera perché questa, nel 1370, si deci-
desse a recingerli almeno in parte di mura; il resto dovette attendere
l’avvento del dominio veneziano che vi provvide solo nel secolo
successivo 8. 

Nelle città che godettero di maggiore sviluppo la creazione di


una cerchia più ampia comportava un doppio problema: incorpora-
re nel tessuto urbano l’ormai inutile apparato difensivo precedente
ed equiparare giuridicamente ai cittadini gli abitanti divenuti intra-
muranei. A Perugia la crescita dei cinque borghi a ridosso delle mura
etrusco romane, in atto almeno dal secolo XI, raggiunse il culmine
nel corso del successivo: i vecchi fossati vennero presto colmati e
trasformati in via di circonvallazione interna, ma le antiche mura di
travertino furono accuratamente conservate e protette anche per ra-
gioni pratiche, come la necessità di evitare frane.
Nel 1222 si avviò la costruzione di mura e fossati nuovi senza
tener conto che essi venivano a insistere su terreni appartenenti al
ceto dei milites; costoro l’anno dopo imposero pertanto il ripristino
della situazione precedente, e solo nel 1276 i borghi poterono essere
equiparati alla città rimovendo semplicemente le porte della cerchia
antica 9. Capiamo così perché, anche nella Pavia di Opicino, le due
 

cerchie divenute interne avessero le porte prive di battenti 10.  

8 F. Barbieri, L’immagine urbana, in Storia di Vicenza, II, L’età medievale, a


cura di G. Cracco, Vicenza 1988, pp. 247-249.
9 U. Niccolini, Le mura medioevali di Perugia, in Storia e arte in Umbria nel-
l’età comunale, Atti del VI convegno di studi umbri (Gubbio, 26-30 maggio 1968),
II, Perugia 1971, pp. 695-769; Id., Mura della città e mura dei borghi: la coscienza
urbanistica di Perugia medievale, in Mura e torri di Perugia, Roma 1989, pp. 49-
77; cfr. anche J.C. Maire Vigueur, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio,
Torino 1987, p. 146; M.G. Nico Ottaviani - C. Regni, Mura della città e mura dei
borghi nella legislazione perugina duecentesca, in Castelli e cinte murarie nell’età di
Federico II, Atti del convegno di studio (Montefalco, 27-28 maggio 1994), a cura di
B. Ulianich - G. Vitolo, Roma 2001, pp. 11-25.
10 Cfr. infatti Gianani, Opicino de Canistris, cit., p. 213: «licet non sint valve
nec in primo nec in secundo»; Opicino De Canistris, Il Libro delle lodi, cit., p. 55.

48
Cerchie murarie e torri private urbane

In altri casi il vecchio apparato difensivo, trascurato, almeno


inizialmente, dal governo comunale, non tarda a diventare oggetto
di usurpazioni e di appropriazioni indebite. A Piacenza negli anni
1227-1229, poco più di un decennio dopo lo spostamento della
cerchia, si procedette alla lottizzazione dei fossati interni e alla loro
vendita o affitto, operazioni di cui profittarono specialmente certi
enti ecclesiastici. Tale esempio di buona amministrazione ha riscon-
tro a Brescia dove mura, terrapieno e fossati, dapprima tacitamente
passati nelle mani di privati, vennero recuperati, e tutto il terreno,
debitamente descritto e stimato, fu nel 1284 concesso in affitto me-
diante regolari contratti 11.  

Anche in una piccola città come Acqui l’incremento urbano


aveva portato, nel corso del Duecento, alla costruzione di una nuova
cerchia di mura salvaguardando tuttavia la più antica. Gli statuti re-
datti negli ultimi decenni del secolo permettevano infatti di stendere
panni sui «muris civitatis veteris» vietando nondimeno di rimuover-
ne le pietre e di farvi «aliquid vituperium» 12.  

Più negligente fu, sotto tale aspetto, l’atteggiamento tenuto dal


comune di Firenze: le mura romane, ormai inutili e fatiscenti dopo
la costruzione della seconda cerchia (completata nel 1175), vennero
abbandonate a se stesse e occupate come res nullius da case, botte-
ghe e officine. Soltanto dopo oltre un cinquantennio, in un momento
in cui era necessario rinsanguare le finanze pubbliche, fu imposto
il pagamento di un canone a carico di chi occupava indebitamente
suolo pubblico, e quando magnati o potenti enti religiosi rifiutarono
di pagare, furono obbligati ad acquistare il tratto di mura usurpato.
L’imposizione si ripeté poi periodicamente, ma ancora nel 1301,
in periodo di particolare emergenza, si decise di non vendere le mura
del secondo cerchio finché non fossero terminate quelle del terzo,

11 Rispettivamente: P. Racine, La città nel XIII secolo, in Storia di Piacenza,


II, Dal vescovo conte alla signoria (996-1313), Piacenza 1984, p. 212; G. Panazza,
Il volto storico di Brescia fino al secolo XIX, in Storia di Brescia, III, La dominazione
veneta, a cura di G. Treccani Degli Alfieri, Brescia 1961, pp. 1079 e 1086.
12 E. Colla, Gli statuti acquesi, Borgo San Dalmazzo 1987, p. 226; cfr. G.
Rebora, Il duomo e la città nel Mille: ipotesi restitutive di strutture e rapporti spaziali,
in Il tempo di san Guido, vescovo e signore di Acqui, Atti del convegno di studi (Acqui
Terme,10 settembre 1995), Acqui Terme 2003, pp. 233-237. Sulla “fagocitazione”
delle vecchie mura cfr. anche L. Nuti, Lo spazio urbano: realtà e rappresentazione,
in Arti e storia nel medioevo, a cura di E. Castelnuovo - G. Sergi, Tempi, spazi,
istituzioni, Torino 2002, p. 245.

49
Aldo A. Settia

anzi persino le porte del primo furono considerate ancora atte alla
difesa 13 rendendo così difficile distinguere tra situazione di diritto e
 

situazione di fatto. In ogni caso sembra che l’urbanizzazione di tali


aree interne sia stata semplicemente lasciata alla spontanea iniziativa
dei privati.

2. Siepi e fossati ovvero la prevalenza dell’accessorio

Per l’oneroso allestimento di una cinta muraria rimane sempre


valido, da un punto di vista strettamente militare, il suggerimento dato
a suo tempo da re Teodorico e raccolto nel secolo X da un anonimo
annotatore bresciano: «Cum securus es, tunc te munias. Teodoricus
dicit quod munitio semper aptanda est in otio». Qualunque opera di
fortificazione ottiene infatti migliore risultato se viene predisposta
con calma in tempo di pace anziché affrettatamente realizzata sotto
la pressione di una minaccia incombente 14. La saggezza del consiglio
 

è fuori discussione, ma non altrettanto la sua messa in pratica poiché


fa parte della natura umana rimuovere i gravi e importuni impegni
della difesa quando non siano imposti dalla necessità di un pericolo
imminente, o almeno ritenuto tale.
Federico I, prima con la presa e la distruzione di Tortona, e
poi con l’annientamento di Crema e di Milano, dimostrò in modo
chiarissimo che esigeva dalle città del regno un’obbedienza non
solo formale, era disposto a ricorrere alle maniere forti per otte-
nerla e disponeva dei mezzi necessari per sostenere le sue pretese.
La prima età sveva fu pertanto un periodo che indusse i cittadini
«terrore comoti», a elargire al re — come dice il cronista genovese
Caffaro — «magnam et inmensam peccuniam», e a prendere con-
creti provvedimenti per la propria difesa che, per quanto frettolosi e
improvvisati, non mancarono di incidere in modo permanente sugli
sviluppi futuri.
Un’eco dell’atmosfera diffusasi allora in Italia si coglie negli

13 R. Davidsohn, Storia di Firenze, rispettivamente: II, Guelfi e Ghibellini,


Parte prima, Lotte sveve, Firenze 1972, pp. 143-144; Parte seconda, L’egemonia guel-
fa e la vittoria del popolo, pp. 672-673; III, Le ultime lotte contro l’impero, Firenze
1973, p. 246 e ivi nota 2; cfr. inoltre F. Sznura, L’espansione urbana nel Dugento,
Firenze 1975, pp. 41-54, specialmente p. 50.
14 Cfr. A.A. Settia, Le fortificazioni dei Goti in Italia, in Teodorico il Grande
e i Goti d’Italia, Atti del XIII congresso internazionale di studi sull’alto medioevo
(Milano, 2-6 novembre 1992), I, Spoleto 1993, pp. 128-129.

50
Cerchie murarie e torri private urbane

Annali genovesi: sin dal 1155 i consoli «murum et portas ex utroque


latere civitatis edificare ceperunt», e nei due anni seguenti i Genovesi,
uomini e donne, lavorarono febbrilmente realizzando in otto giorni
— vanta Caffaro — mura tali che nessun’altra città d’Italia sarebbe
riuscita a costruire nemmeno in un anno; e per le parti della città non
ancora protette da muro si ricorse a robusti elementi di terra e di
legno allestiti nel giro di tre giorni. L’opera fu portata a termine nel
1159, sempre con la partecipazione corale di tutti i cittadini, in soli
53 giorni: un exploit, sottolinea ancora il cronista, da parere incredi-
bile. Le mura furono infine coronate da 1700 merli, sia per favorire
la difesa sia per conferire ad esse forza e bellezza 15.  

Sin dal 1154, non a caso, anche i Pisani «fecerunt barbacanas»


attorno alla città e al borgo di Cinzica, e l’anno dopo cominciarono
a costruire le mura — dice espressamente il loro cronista — «pro
timore Frederici regis Romam venientis»; nel frattempo l’intero
circuito fu rapidamente munito con «ligneis turribus et castellis et
britischis». Pur essendo, nel frattempo, venuta meno la tensione po-
litica, il muramento fu assiduamente continuato negli anni seguenti,
sino al completamento avvenuto nel 1161 16: l’opera, di enorme im-
 

pegno economico e costruttivo, portò la superficie urbana di Pisa


a 185 ettari, allora senza precedenti in Italia. L’impresa rispondeva
evidentemente a precise ragioni di sviluppo interno, ma aveva avuto
inizio solo dietro il pungolo di ragioni contingenti.
La stessa psicosi di insicurezza provocò, nella prima età sve-
va, iniziative simili, seppure di portata minore, a Milano, Brescia e
Piacenza 17; ed esse si propagarono, di rimando, anche a città di parte
 

15 Annali genovesi di Caffaro e de’ suoi continuatori dal MXCIX al MCCXCIII,


I, a cura di L.T. Belgrano, Roma 1890, pp. 41-42, 48, 51. 54; cfr. L. Grossi Bianchi - 

E. Poleggi, Una città portuale del medioevo. Genova nei secoli X-XVI, Genova 1980,
pp. 60-61.
16 Gli “Annales Pisani” di Bernardo Maragone, a cura di M. Lupo Gentile,
Bologna 1936 (Rerum Italicarum Scriptores, 2a edizione, VI/2), pp. 16-18. cfr.
F. Redi, Pisa com’era: archeologia, urbanistica e strutture materiali (secoli V-XIV),
Napoli 1991, pp. 139-161 e, per la data d’inizio dei lavori, M. Ronzani, La formazio-
ne della piazza del Duomo di Pisa (secoli XI-XIV), in La piazza del Duomo nella città
medievale (nord e media Italia, secoli XI-XVI), Atti della giornata di studio (Orvieto,
4 giugno 1994), a cura di L. Riccetti, Orvieto 1997, pp. 20-21 e 45-54 (= «Bollettino
dell’Istituto storico artistico orvietano», XLVI-XLVII, 1990-91).
17 Rispettivamente: M.T. Donati, La cinta muraria milanese, in Milano e la
Lombardia in età comunale. Secoli XI-XIII, Milano 1993, p. 150; Panazza, Il volto
storico di Brescia, cit., p. 1067; Racine, La città nel XIII secolo, cit., p. 212.

51
Aldo A. Settia

imperiale come Cremona e Pavia 18. Un’analoga atmosfera non man-


 

cò di riproporsi, qualche decennio, dopo al tempo di Federico II 19.  

Si tratta di elementi che, pur senza essere gli unici, certo contribuiro-
no all’incremento numerico delle cerchie cittadine dell’Italia centro
settentrionale, che sembra aver toccato il massimo appunto tra 1150
e 1200 20.
 

Le iniziative fortificatorie prese a Genova e a Pisa e che, nei casi


specifici, approdarono a realizzazioni rapide e di valore fondamen-
tale per il futuro delle rispettive città, mettono contemporaneamente
in luce certi atteggiamenti, spontanei e molto diffusi, nei confronti
delle cerchie urbane, diametralmente opposti a quelli che Teodorico
consigliava: essi si riassumono nella tendenza a far fronte ai proble-
mi della sicurezza collettiva con provvedimenti occasionali e limitati
presi all’ultimo momento solo quando si è spinti dal bisogno, con
ricorso a materiali di facile reperimento e con la minore spesa possi-
bile. Quando, al contrario, si giunga a progettare e a programmare
per tempo la costruzione di una cerchia muraria, è normale che la sua
realizzazione si trascini per decenni e talora addirittura per secoli.
Più decenni ci vollero, ad esempio, per realizzare le mura di
Pistoia iniziate nel 1148; la stessa operazione si prolungò a Cremona
dal 1169 al 1187 e a Reggio Emilia dal 1199 al 1245; poco meno di
trent’anni richiese la realizzazione delle mura avviata dal comune di
Brescia nel 1237 21. Non meno di 75 anni trascorsero a Firenze dalla
 

progettazione al completamento della terza cerchia, e si calcola in


circa un secolo il tempo per costruire la seconda (e ultima) cerchia

18 Cfr. L. Astegiano, Ricerche sulla storia civile del comune di Cremona, in


Id., Codice diplomatico cremonese, II, Augustae Taurinorum 1898, p. 393: la nuova
cerchia, iniziata nel 1169, fu forse terminata nel 1187. Per Pavia vedi avanti, testo
corrispondente alla nota 30.
19 Cfr., ad esempio, per Piacenza: Racine, La città nel XIII secolo, cit., p. 214;
per Bologna F. Bocchi, Bologna, II, Il Duecento, a cura di F. Bocchi, Bologna 1995
(Atlante storico delle città italiane. Emilia e Romagna), p. 33. Vedi, in generale, S.
Bortolami, Le cinte urbane dell’Italia settentrionale nell’età di Federico II: realtà
materiale e valori simbolici, in Castelli e cinte murarie, cit., pp. 135-175.
20 Renouard, Le città italiane, cit., pp. 169-170; cfr. anche R.S. Lopez, La
nascita dell’Europa. Secoli V-XIV, Torino 1966, p. 147.
21 Rispettivamente: I. Moretti, Le pietre della città, in Storia di Pistoia, II, a
cura di G. Cherubini, Firenze 1998, pp. 229-230; per Cremona vedi sopra la nota 18;
A. Balletti, Le mura di Reggio dell’Emilia, Reggio Emilia 1917, pp. 15-23; Panazza,
Il volto storico di Brescia, cit., p. 1078. Sulla dilazione dei tempi nella realizzazione
delle cerchie vedi anche Heers, La città nel medioevo, cit., pp. 373-376; Nuti, Lo
spazio urbano, cit., pp. 246-247.

52
Cerchie murarie e torri private urbane

a Vercelli e a Perugia 22, altrettanto per la terza cerchia di Bologna e


 

poco meno ad Asti dove, secondo il cronista Ogerio Alfieri, la città,


che appariva ancora «de sepis clausa» nel 1190, risultò «clausa bonis
muris et novi» soltanto intorno al 1280 23.  

Nelle more di tempi così lunghi il perimetro esterno dei bor-


ghi rimaneva protetto semplicemente da fossato e terrapieno, e da
qualche elemento accessorio, i quali costituivano di fatto la difesa
dell’intera città. A Vercelli, ad esempio, «il comune si preoccupò su-
bito di delimitare l’insediamento con il fossatum» tanto per definire
lo spazio a cui si estendeva il diritto di cittadinanza concesso agli
abitanti dei sobborghi esterni, quanto «per esercitare l’indispensabi-
le controllo militare e fiscale sulla popolazione» 24, e tale situazione
 

rimase invariata, come si è visto, per circa un secolo.


Non va peraltro dimenticato che Milano nel 1158 e nel 1163
impostò la sua difesa lungo il tracciato anulare dei fossati, allestiti
pochi anni prima e semplicemente rafforzati da terrapieno e da toli-
men, ossia palizzata 25; su di esso gli unici elementi in muratura erano
 

costituiti dalle porte, in asse con quelle della cerchia romana rimasta
all’interno; al momento della resa l’imperatore si limitò appunto a
far abbattere le porte e a riempire il fossato senza toccare le mura
antiche 26.
 

Oltre un secolo dopo Bonvesin dalla Riva annoverava tra le

22 Rispettivamente: E. Guidoni, Firenze nei secoli XIII e XIV, Roma 2002


(Atlante storico delle città italiane, Toscana, 10), p. 12; G. Gullino, Uomini e spazio
urbano. L’evoluzione topografica di Vercelli tra X e XIII secolo, Vercelli 1987, p. 17;
Nicolini, Le mura medievali di Perugia, cit., pp. 710-715.
23 Rispettivamente: Bocchi, Bologna, cit., p. 33; C. Vassallo, Le mura della
città di Asti, «Atti della regia Accademia delle scienze di Torino», XXV (1889), pp.
3-4 dell’estratto; cfr. anche G. Bera, Asti. Edifici e palazzi nel medioevo, Asti 2004,
pp. 41-53.
24 Gullino, Uomini e spazio urbano, cit., pp. 18, 29, 41-42.
25 Otto Morena et continuatores, Historia Frederici I, a cura di F. Güterbock,
Berolini 1930, p. 56; per il significato di tolimen cfr. A.A. Settia, Castelli e villag-
gi nell’Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fra IX e XIII secolo, Napoli
1984, pp. 202-203; Id., Il tempo della terra e del legno. Elementi difensivi esterni
nei castelli italiani (secoli X-XIII), in Oltre le mura, L’apparato delle cinte fortificate
medievali. Riconoscimento, salvaguardia, valorizzazione, Atti del convegno di studi
(Montagnana, 18 novembre 2006), Montagnana 2008, pp. 19-24.
26 Cfr. A.A. Settia, Milano. Storia e urbanistica, in Enciclopedia dell’arte me-
dievale, VIII, Roma 1997, pp. 376-377; vedi anche G. Fantoni, L’acqua a Milano,
uso e gestione nel basso medioevo (1385-1535), Bologna 1990, pp. 76-80.

53
Aldo A. Settia

«meraviglie di Milano» non le mura, ma appunto «il fossato di mira-


bile bellezza e larghezza» che circondava da ogni lato la città; «non
uno stagno putrido o melmoso — aggiunge — ma con acqua viva
di sorgente, ricca di pesci e di gamberi»; e il «magnifico muro che
lo delimita all’esterno» non era che il rivestimento della scarpata.
All’interno si andavano allora urbanizzando gli spazi prima occupati
dalla cerchia massimianea ormai del tutto demolita: ben a ragione
quindi lo stesso autore retoricamente si domanda: «Dov’è ora quel
muro altissimo e solidissimo che da ogni lato ti circondava? Dove le
tue torri mirabili?» 27. 

Del resto anche altrove quando si parla di “cerchia” si tratta


spesso solo di fossati. Federico I nel 1158 rifonda Lodi, e la nuo-
va città dispone bensì di porte, ma appare perimetrata soltanto da
fossato e da tolimen sui quali i Lodigiani resistono validamente agli
attacchi milanesi; si pose mano al «murus civitatis de Laude» non
prima dell’agosto 1160 28. L’imperatore nel 1158 — dice Giovanni
 

Codagnello — fece distruggere le torri di Piacenza, ma rimane dub-


bio se si trattasse delle torri delle mura e persino se queste ultime vi
fossero davvero. Nel 1196, secondo lo stesso cronista, non mura ma
«fossata nova fuerunt palificata et terminata et ordinata» comincian-
done lo scavo il 29 aprile; e di nuovo nel 1213 «fossata nova fuere
fodita». Sappiamo del resto che più volte, prima del 1184, i rustici
del contado furono costretti a eseguire lavori «ad fossata Placencie» 29  

senza che di mura si faccia mai parola.


A Pavia almeno dal 1163 il monastero di S. Pietro in Ciel d’oro,
che sorgeva originariamente fuori città, comincia a essere considera-
to (sia pure in modo non definitivo) come posto «in civitate Papia»
per effetto del tracciamento della terza cerchia; ma ancora nel 1215
si parla solo di «via et fossatum civitatis», né si sa quando le mura
vere e proprie siano state costruite. D’altronde anche qui prima del

27 Bonvesin Da la Riva, De magnalibus Mediolani. Meraviglie di Milano, a


cura di P. Chiesa, Milano 1998, pp. 66-67, 132-133.
28 Morena, Historia, cit., pp. 52, 114, 117.
29 Rispettivamente: Iohannes Codagnellus, Annales Placentini, a cura di O.
Holder Egger, Hannoverae et Lipsiae 1901, pp. 6, 23, 42; Documenti degli archivi
di Pavia relativi alla storia di Voghera, a cura di L.C. Bollea, Pinerolo 1909, docc. 45
(15 novembre 1184), p. 76; 47 (stessa data), p. 97; 57 (15 novembre 1184), p. 178.
Racine, La città nel XIII secolo, cit., p. 212, intende sempre mura anche là dove si
parla invece solo di fossati.

54
Cerchie murarie e torri private urbane

1184 i comitatini furono comandati «ad faciendum fossata civitatis


Papie»; la comunità di Pieve di Parpanese, in specie, inviò nel 1162
due uomini «ad destructionem Mediolani» e, forse nello stesso tem-
po, altri due «ad fossatum civitatis Papie» 30.  

Non si pensi, tuttavia, che l’allestimento di ostacoli come fos-


sati, terrapieni e palizzate fosse lavoro scarsamente impegnativo sul
piano finanziario e risolvibile in un tempo limitato: il fossato della
terza cerchia di Bologna, che misurava poco meno di otto chilometri,
fu guarnito da palizzata, ovvero palancatum, alto circa quattro metri
e mezzo, spesso 38 centimetri e fornito tutto intorno di ballatoio,
per il quale — si è calcolato — furono necessari almeno 25.000 me-
tri cubi di legname; e solo per il suo restauro si dovette in seguito
affrontare una spesa di 900 lire in cinque anni. Seguì probabilmente
l’elevazione delle porte, che nel 1250 erano peraltro già da riparare,
mentre la cortina muraria non fu realizzata prima del 1327 31.  

La speciale importanza attribuita alla costruzione delle porte


viene messa in rilievo, per esempio, a Reggio Emilia dove la loro
progressiva realizzazione è scandita, dal 1199 al 1242, da iscrizioni
in onore dei podestà che ordinarono i lavori, come altrettante tappe
significative di un lungo impegno costruttivo. Gli edifici delle porte
urbiche rappresentano di fatto simbolicamente l’intera cerchia mu-
raria, ma anche a Reggio, là dove essa manca, si sopperisce con fosse,
terrapieni e palizzate 32.  

3. Il valore difensivo

Ora, alla prova dei fatti — cioè per resistere a un assedio in


piena regola — quanto vale una cerchia muraria completa rispetto
a difese più elementari? Occorrerebbe naturalmente poter tenere
conto, di volta in volta, dei mezzi a disposizione delle due parti in
lotta e, soprattutto, delle risorse umane, della capacità organizzativa

30 Rispettivamente: Le carte del monastero di San Pietro in Ciel d’oro di Pavia.


Il fondo Cittadella (1200-1250), a cura di E. Barbieri - C.M. Cantu’ - E. Cau,
Introduzione, pp. XXI-XXII; Documenti degli archivi di Pavia, cit., doc, 50 (15 no-
vembre 1184), p. 111, e doc. 54 (stessa data), p. 148.
31 Bocchi, Bologna, cit., pp. 33 e 36.
32 Balletti, Le mura di Reggio, cit., pp. 28-29. Sull’importanza simbolica
delle porte cfr., in generale, Fortifications, portes de villes, places publiques dans le
monde méditerranéen, a cura di J. Heers, Paris s.d.; Id., La città nel medioevo, cit.,
pp. 355-357; Nuti, Lo spazio urbano, cit., pp. 250-252.

55
Aldo A. Settia

e della determinazione spiegata da attaccanti e difensori, fattori spes-


so impossibili da accertare. Senza attardarci in troppo minute analisi
possiamo constatare che Milano fra 1107 e 1110 riuscì a domare la
piccola Lodi solo dopo anni di estenuante assedio, e nel 1127 per
avere ragione delle mura di Como dovette ricorrere ad alleanze a
largo raggio e all’assoldamento di tecnici forestieri.
Nel 1132 l’imperatore Lotario rimase impotente davanti alle
mura di Crema che trent’anni dopo cedettero invece di fronte allo
spiegamento di mezzi messo in campo da Federico I e dai suoi alleati
italici; la stessa sorte era toccata nel 1155 a Tortona, che non mancava
né di una forte cerchia muraria né di difensori valorosi. Risultati non
diversi furono ottenuti nel 1158 e nel 1163 contro Milano che, come
già sappiamo non disponeva di nuove mura. In condizioni simili si
trovò nel 1174 Alessandria che, pur essendo difesa solo da ampio
fossato e da spalti di terra battuta, condusse, contro lo stesso agguer-
rito avversario, una difesa pienamente vittoriosa; persino il cronista
tedesco Ottone di S. Biagio dovette riconoscere che «mai ci fu un
assedio paragonabile a questo, sia per la fortificazione del luogo, sia
per la determinazione dei cittadini a difendersi» 33.  

Contro l’esercito di Federico II i Bresciani nel 1238 resistettero


validamente giovandosi dell’ormai vetusta seconda cerchia, essendo
la terza ancora in progetto, mentre i cittadini «nundum spaldis mu-
niverant fossata civitatis» 34. In compenso Ravenna nel 1240 fu presa
 

dall’imperatore in soli quattro giorni dopo avere, a suo dire, dissec-


cato con fulminea rapidità paludi e deviato fiumi, che, come si lascia
intendere, costituivano la vera difesa della città 35.  

Solidamente fortificata doveva essere Faenza: Federico aveva


previsto che obbedisse ai suoi ordini «infra paucos dies», essa resi-

33 Cfr. R. Rogers, Latin siege warfare in the twelfth century, Oxford 1992,
rispettivamente pp. 129-130 (Lodi), 130-132 (Como), 135-143 (Crema), 134-135
(Tortona), 143-146 (Milano), 147-150 (Alessandria), con le fonti ivi citate; vedi an-
che A.A. Settia, Le mura e la guerra. Sviluppi medievali della poliorcetica, in Castelli
e cinte murarie, cit., pp. 38-41; Id., L’assedio di Crema nel 1159: esperienze d’oltre-
mare e suggestioni classiche, in Id., Comuni in guerra. Armi ed eserciti nell’Italia delle
città, Bologna 1993, pp. 261-276.
34 Annales Placentini Gibellini, Hannoverae 1863 (Monumenta Germaniae
Historica, Scriptores, 18), p. 479; cfr. Panazza, Il volto storico di Brescia, cit., pp.
1077-1078.
35 A.A. Settia, Ingegneri e ingegneria militare nel secolo XIII, in Id., Comuni
in guerra, cit., p. 295; cfr. Mascanzoni, Edilizia e urbanistica, cit., pp. 423-424.

56
Cerchie murarie e torri private urbane

stette invece per ben otto mesi cedendo infine solo per fame 36. Ma  

fu Parma a provocare di fatto la definitiva sconfitta di Federico II


proprio facendo massiccio ricorso a quegli elementi accessori di ter-
ra e di legno che difendevano ogni città sprovvista di mura. Appena
fatta la scelta di schierarsi contro l’impero, nel giugno del 1247,
«Parmenses civitatem eorum fossis et spaldis die noctuque incessabi-
li mora aptabant». E durante il lungo assedio «sine intervallo circe et
fovee fiebant die noctuque palanchata, bitifreda et alia necessaria ad
defensionem». Di rimando l’imperatore una mattina prima dell’alba
«subito et furtive» si appressò alla porta dell’Olmo, fece gettare una
catena con uncini di ferro contro la palizzata e la distrusse per la lun-
ghezza di tre pertiche, ma senza riuscire ad averne ragione 37.  

Tutto ciò non dimostra che le cerchie murarie fossero senz’altro


inutili ai fini di una efficace difesa, ma certo esse non risultano sem-
pre indispensabili, e si può così in parte comprendere le riluttanze
dei cittadini nei riguardi della loro costosa realizzazione. È da rileva-
re, inoltre, un altro elemento di non minore interesse: a Firenze nel
1292 sulle mura della seconda cerchia, che era allora l’unica opera-
tivamente efficiente, alcuni magnati come Corso Donati e Chierico
dei Pazzi, avevano installato pergolati e impalcature di legno adatte
(suggerisce Robert Davidsohn) a godersi il fresco nelle afose sere
d’estate. E ci si sentiva così sicuri — sappiamo da Giovanni Villani —  

che di notte «non si serravano porte alla città […] e per bisogno di
moneta, per non fare libbra, si venderono le mura vecchie, e’ terreni
d’entro e di fuori a chi v’era acostato» 38.  

Bastava, in breve, un momento di pace perché ogni significato


difensivo e ogni idealità legati alla cerchia muraria fossero negletti e
dimenticati. Viene allora da domandarsi se davvero sia da credere a
quel carico di funzioni e di valori che si sogliono attribuire alle mura
urbane: «segno di sicurezza e di potenza — si è scritto — allegoria di
un’indomita volontà di dominio e di sovranità sul territorio, cesura

36 Annales Placentini Gibellini, cit., p. 484; cfr. L. Simeoni, Federico II all’asse-


dio di Faenza, «Atti e memorie della regia Deputazione di storia patria per l’Emilia
e la Romagna», XVI (1937-38), pp. 165-199.
37 Rispettivamente: Annales Placentini Gibellini, cit., p. 494; Chronicon
Parmense ab anno 1038 usque ad annum 1338, a cura di G. Bonazzi, Città di Castello
1902-1904 (Rerum Italicarum Scriptores, 2a edizione, IX/9), pp. 14, 17.
38 Davidsohn, Storia di Firenze, II/1, cit., p. 672; G. Villani, Nuova cronica, a
cura di G. Porta, II, Parma 1991, p. 12 (IX, 2).

57
Aldo A. Settia

simbolica tra il mondo della rusticità e quello della civilitas, confine


giuridico tra lo spazio del diritto e quello del disordine, teca di reli-
quie e materializzazione di un alto, celeste concetto di custodia» 39.  

4. Cerchie antiche e torri private urbane: lo sviluppo di un modello

Se definire le città medievali italiane come «foreste di torri» è


solo indulgere a una vecchia immagine retorica, già sfruttata da Leon
Battista Alberti 40, è però un dato di fatto che torri private nelle città
 

italiane esistevano probabilmente sin dal secolo IX e poi, in nume-


ro sempre crescente, nei due successivi 41; non stupisce quindi che a
 

Brescia nei primi decenni del secolo XII, come si è visto, irrompes-
sero fuori dalle vecchie mura, insieme con le bancarelle dei macellai,
anche le torri dei Cagnola 42, entrambe elementi costitutivi, sia pure a
 

diverso livello, di una vita cittadina in pieno fermento.


Ci fu in origine, un rapporto genetico tra le torri pubbliche che
munivano la cerchia urbana e le torri private? La risposta deve essere
affermativa e anzi si dovrà senz’altro intendere che le seconde nasca-
no dalle prime, sia pure in modo non esclusivo né attraverso passaggi
facilmente dimostrabili.
Dovette innanzitutto contribuire all’affermazione della dimora
privata a torre la suggestione esercitata dalle superstiti cerchie urba-
ne dell’antichità giunte integre sino all’alto medioevo, e le loro torri
cui le Laudes civitatum di Milano e di Verona attribuiscono partico-
lare rilievo 43. E d’altra parte, fra i resti monumentali presenti nelle
 

antiche città romane d’Occidente, le torri e le porte urbiche furono


numerose tanto che alcune esistono ancora ai nostri giorni. Basterà
ricordare la poligonale “torre rossa”di Asti, che richiama nella forma
le superstiti torri della porta Palatina di Torino; a Pavia, poi, fu nota
sino al suo abbattimento, avvenuto nel XVI secolo, la torre detta di

39 S. Bortolami, Le cinte urbane dell’Italia settentrionale, cit., p. 153.


40 L.B. Alberti, De re aedificatoria, a cura di G. Orlandi, Milano 1966, p.
699: «hinc passim silvae surgebant turrium»; altri esempi antichi reca Nuti, Lo spa-
zio urbano, cit., p. 261; per un riscontro moderno vedi ad esempio Heers, La città
nel medioevo, cit., pp. 308-309.
41 Rimandiamo ai dati raccolti in A.A. Settia, “Erme torri”: simboli di potere
fra città e campagna, Cuneo-Vercelli 2007, pp. 84, 101, 135-139.
42 Vedi sopra, testo corrispondente alla nota 1.
43 Cfr. G.B. Pighi, Versus de Verona. Versum de Mediolano civitate, Bologna
1960, pp. 143-144, 152-154.

58
Cerchie murarie e torri private urbane

Boezio, decorata di figure umane e portatrice di un suo «perdurante


carattere emblematico, come se fosse delegata ad esprimere l’antichi-
tà delle origini pavesi» 44. 

Ora si dà normalmente per certo che, all’atto della conquista, i


Longobardi si stanziarono nelle città italiane occupando le antiche
mura in modo da garantirsi «il possesso e la difesa, la governabili-
tà degli abitanti e il controllo di coloro che dalla città entravano e
uscivano» 45. A riprova vengono per lo più addotti solo indizi topo-
 

nimici scarsamente verisimili, ma la circostanza risulta attestata in


modo esplicito almeno nella passio di s. Ceteo vescovo di Amiterno,
una fonte che raccoglie tradizioni locali giudicate attendibili. Negli
anni fra 590 e 592 la città abruzzese sarebbe infatti stata occupata da
due «pessimi et ignobiles viri» di nome Alais e Umbolus, il primo
dei quali, narra l’agiografo, «tenebat portam Orientalem» e l’altro la
porta occidentale 46.  

Certo non si ha la prova che ciò sia sistematicamente avvenuto


in tutte le città nelle quali in seguito si sviluppò il modello della casa
turrita; è inoltre probabile che, quando il regno longobardo assun-
se un’organizzazione centralizzata, le cerchie urbane siano ritornate
sotto il controllo pubblico, ma a Benevento, ancora nei secoli IX
e X, è documentata l’usanza, da parte del principe, di concedere
a personaggi di spicco le torri della cinta 47. Là dove, dunque, tale
 

usanza perdurò poté senza dubbio costituire un precedente di non


trascurabile importanza nel creare l’immagine della casa turrita come
abitazione di prestigio e a tramandarla all’età successiva.
Le cerchie fortificate urbane e gli edifici pubblici ad esse con-
nessi, nominalmente sempre soggetti al potere regio, durante l’età

44 Rispettivamente: R. Bordone, Società e territorio nell’alto medioevo, La so-


cietà astigiana dal dominio dei Franchi all’affermazione comunale, Torino 1980, pp.
15-17; Settia, Fisionomia urbanistica, cit., pp. 790-799; C. Maccabruni, La tradizio-
ne dell’antico nella città medievale, Pavia 1991, p. 16.
45 M. Cagiano De Azevedo, Casa, città e campagna nel tardo antico e nell’alto
medioevo, a cura di C.D. Fonseca - D. Adamesteanu - F. D’Andrea, Galatina 1986,
pp. 80-81 e 190. Sugli aspetti metodologici delle ipotesi ivi formulate vedi comun-
que C. La Rocca, Lo spazio urbano tra VI e VIII secolo, in Uomo e spazio nell’alto
medioevo, Spoleto 2003, pp. 431-436.
46 Acta sanctorum Iunii, II, Venetiis 1742, p. 691.
47 M. Rotili, Benevento romana e longobarda. L’immagine urbana, Benevento
1986, pp. 108-109; l’usanza era peraltro diffusa anche fuori d’Italia, come provano
gli esempi addotti da Heers, La città nel medioevo, cit., pp. 296-297.

59
Aldo A. Settia

carolingia dovettero rimanere di fatto abbandonati a se stessi e, pri-


ma di altri, legittimamente o illegittimamente, approfittarono di tale
situazione i rappresentanti locali del sovrano. Già nell’817, infatti, il
gastaldo Ilderico donava all’abbazia di Farfa una casa in Rieti collo-
cata «sulle mura della città» e «una torre con casa vecchia posta in
capo della torre» 48. Siamo qui, evidentemente, di fronte a un edificio
 

collegato a una torre dell’antica cerchia urbana che, assai per tempo,
era passato nelle mani di un ufficiale pubblico.
Prima del 929 una torre posta entro la città di Torino era stata
acquisita dal marchese Adalberto; non è chiaro se essa fosse o no con-
nessa alle mura urbiche, ma di esse facevano parte, nella stessa città,
le porte turrite che fungevano da residenza dei marchesi anscarici da
un tempo certo assai anteriore a quello effettivamente documentato;
e gli si avvicina il caso del conte e della contessa di Collalto i quali nel
1091 rogano un loro documento «nella città di Treviso entro la torre
dei suddetti coniugi» 49. Accanto a rappresentanti del potere laico un
 

posto preminente in tale appropriazione doveva essere tenuto dai


vescovi, spesso ricostruttori (con o senza approvazione regia) del-
le mura cittadine sin dalla tarda età carolingia, e poi, nella seconda
metà del secolo X, talora ufficialmente messi in possesso di intere
cerchie urbane o di singole porte turrite 50.  

In altri casi il rapporto fra torri e antiche mura è dato da beni


privati. A Pavia nell’agosto del 1018 due coniugi donano al vesco-
vo di Modena abitazioni dotate di una torre con «capella una infra
ipsa turre edificata»; si trattava di edifici situati presso la porta «que
dicitur de Viridario» e che, sapremo in seguito, erano coerenti con
il «murum urbis». Nell’anno 1100, sempre a Pavia, altri privati alie-
nano la terza parte di una torre posta «supra murum ipsius civitatis»

48 I. Giorgi - U. Balzani, Il regesto di Farfa compilato da Gregorio di Catino,


II, Roma 1879, doc. 230 (a. 817), p. 190.
49 Rispettivamente: I diplomi di Ugo e Lotario, di Berengario II e Adalberto, a
cura L. Schiaparelli, Roma 1924, doc. 21 (24 luglio 929), p. 64; Settia, Fisionomia
urbanistica, cit., pp. 792-794; L.A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, II,
Mediolani 1739, coll. 267-270.
50 Basterà qui rinviare a E. Dupre’ Theseider, Vescovi e città nell’età preco-
munale, in Id., Mondo cittadino e movimenti ereticali nel medioevo, Bologna 1978,
pp. 77-80, con le considerazioni di G. Sergi, Poteri temporali del vescovo: il pro-
blema storiografico, in Vescovo e città nell’alto medioevo: quadri generali e realtà
toscana, Convegno internazionale di studi (Pistoia, 16-17 maggio 1998), a cura di G.
Francesconi, Pistoia 2001, pp. 1-16.

60
Cerchie murarie e torri private urbane

presso la chiesa di S. Agata, non lontano dalla porta di S. Pietro al


Muro, e in coerenza appunto con le mura urbane 51. Sembra anche  

qui evidente che si tratti di una torre dell’antica cerchia romana il


cui possesso da parte degli alienanti datava certo da più generazio-
ni poiché essa risulta suddivisa in porzioni, verisimilmente dovute a
successione ereditaria.
A Verona, nello stesso anno 1100, Epone, membro della fami-
glia capitaneale poi detta dei Turrisendi, risulta comproprietario di
una chiesa di S. Matteo e di un appezzamento di terra sul quale sor-
gono case, corte e torre. La medesima famiglia è detentrice di diritti
di dazio che si riscuotono alla porta di S. Zeno (detta dei Borsari)
nei pressi della quale è probabile si trovassero le suddette proprietà.
La prossimità topografica di un complesso familiare, precocemente
munito di torre, con l’antica porta cittadina, merita anche qui di es-
sere sottolineata. Più tardi, del resto, si registrano a Verona casi di
torri private poste in coerenza con il «murus antiquus civitatis»; nel
1241 a Padova la «domus lapidea cum turri» in possesso del giudice
Lamizone di Menigini Ardenghi era parimenti coerente da un lato
con il «murus comunis Padue», e anche in altre città, come Asti e
Vercelli, alcune torri attestate nel XII secolo occupano siti «attigui o
vicini alle porte» 52. 

A Bologna, in particolare, si è osservato che la quasi totalità


delle torri cosiddette «gentilizie» sorse entro il ristretto giro delle
mura «di selenite» (costruite in un momento imprecisabile tra tardo
antico e alto medioevo) e un certo numero di tali torri «insisteva

51 Rispettivamente: Regesto della Chiesa cattedrale di Modena, a cura di E.P.


Vicini, I, Roma 1931, docc. 81 (28 ottobre 1007), pp. 114-115; 91 (2 agosto 1018),
pp. 122-123; 134 (18 aprile 1122), pp. 290-291; cfr. anche A.A. Settia, Pavia caro-
lingia e postcarolingia, in Storia di Pavia, II, p. 136; F. Fagnani, Il tracciato delle mura
romane di “Ticinum”, «Bollettino della Società pavese di storia patria», LIX (1959),
p. 15 e ivi nota 45.
52 Rispettivamente: A. Castagnetti, “Ut nullus incipiat hedificare forticiam”.
Comune veronese e signorie rurali nell’età di Federico I, Verona 1984, p. 38; G.M.
Varanini, Torri e case torri a Verona in età comunale: assetto urbano e classe dirigente,
in Paesaggi urbani dell’Italia padana nei secoli VIII-XIV, Bologna 1988, p. 200; T.
Pesenti Marangon, Università, giudici e notai a Padova nei primi anni del domi-
nio ezzeliniano (1257-1241), «Quaderni per la storia dell’Università di Padova», 12
(1979), pp. 49-50; C. Bonardi, Le torri di Asti e altri paesaggi urbani subalpini fra
XII e XV secolo, in Case e torri medievali, III, a cura di E. De Minicis - E. Guidoni,
Roma 2005, p. 17.

61
Aldo A. Settia

precisamente sul circuito murario». Occorre naturalmente la dovu-


ta cautela prima di asserire che esse coincidessero senz’altro con le
presunte torri di cortina della cerchia altomedievale e non fossero
semplicemente impostate sulle rovine precedenti con reimpiego dei
materiali.
Non si può neppure sostenere che tutte le torri esistenti in
corrispondenza dell’antica cerchia di selenite siano eredi dirette di
altrettante torri di cortina, ma la coincidenza sembra accertabile in
almeno due casi: la torre dei Lapi e la torre degli Orti, che forse
corrispondono rispettivamente alle originarie torri della porta Nova
e della porta Ravegnana. Rimane perciò ipotizzabile che, anche a
Bologna, l’origine delle torri private urbane sia da riportare a tempi
alquanto precedenti alla lotta per le investiture quando — come si è
supposto — le torri urbiche sarebbero state utilizzate nel corso dei
dissensi interni. Esse avrebbero avuto così tutto il tempo per passare
«da strumento militare a status symbol», un mutamento che ben dif-
ficilmente poteva avvenire «nel breve giro di pochi decenni» 53.  

Non si potrà comunque pensare che sempre, ovunque e nello


stesso tempo, le torri delle antiche cerchie urbane abbiano mec-
canicamente subito una tale metamorfosi. Innanzitutto si deve
ammettere una certa diversità di situazioni locali e, in secondo luogo,
va considerato che l’adattamento delle torri urbane è solo una delle
componenti del “modello”; a Roma, per esempio, l’ampiezza delle
mura aureliane fece sì che esse fossero troppo periferiche per poter
influenzare direttamente la genesi delle torri private 54.  

Ovunque poi, a una certa epoca, le mura antiche, in un modo


o nell’altro, furono occupate da privati. Nel 1099 l’arcivescovo di
Milano disponeva che «nessun cappellano venisse in possesso di
qualche edificio sulle torri o sul muro della città», in un certo suo
tratto, perché di là lo sguardo non potesse violare l’intimità di un
monastero di Umiliate. Se ne è perciò giustamente dedotto che, a
quell’epoca, le mura e le torri «dovevano essere in gran parte occupa-

53 Rispettivamente: P. Foschi, Torri, mura, porte della Bologna altomedievale,


«Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna»,
n.s., XLIII (1992), pp. 102-105, 127; F. Bocchi, Dalla grande crisi all’età comuna-
le (secoli IV-XIII), in Bologna, I, Da Felsina a Bononia dalle origini al XII secolo,
Bologna 1991 (Atlante storico delle città italiane), pp. 82-84.
54 Cfr. A. Katermaa Ottela, Le case torri medievali in Roma, Helsinki 1981,
pp. 86-87 e 39.

62
Cerchie murarie e torri private urbane

te dai cittadini pe’ loro usi privati» 55, mentre il fenomeno delle torri
 

private, aveva già raggiunto, anche a Milano, un rilevante sviluppo.


In situazioni diverse, come a Torino, dove le porte e le torri
della cerchia romana, almeno dal secolo X, risultano controllate
dall’autorità pubblica, non si può escludere che fossero state in pre-
cedenza temporaneamente occupate da privati. Anche a Susa le torri
murarie «sembrano svolgere un ruolo di primaria importanza» per
quanto esso appaia «poco aderente a quello attribuito dall’immagi-
nario comune». Ma va tenuto conto che altre città, come Siena, pur
non avendo avuto a portata di mano il modello offerto da una cer-
chia muraria antica, raggiungono egualmente, nel pieno medioevo,
la fama di città «turrite» 56.  

Certo nell’ultima età medievale, quando il prestigio delle torri


private urbane è ormai decaduto, l’occupazione delle torri della cer-
chia avviene senza assumere più alcun significato “nobilitante”: nel
’400 il duca di Milano cedette infatti molte torri a privati cittadini «i
quali in genere le richiedevano per comodità, in quanto site vicino
alle loro case o atte a ricavarvi dentro locali per usi svariati, tra i
quali persino una fornace». Ecco allora le monache dell’Annunziata
protestare preoccupate perché le torri poste presso il loro monastero
«porriano essere habitate da persone che dariano puocho onore»
compromettendo così la loro riservatezza 57.  

5. Torri, cerchie e violenze urbane

Prima le fonti narrative e poi, sulla scorta di esse, tutta la storio-


grafia dall’800 a oggi, si sono compiaciute di insistere sui sanguinosi
scontri tra le fazioni cittadine collegandoli senz’altro all’esistenza
delle torri private. Le “case torri” (come preferibilmente vengono

55 E. Giulini, Memorie spettanti alla storia, al governo ed alla descrizione della


città e campagna di Milano ne’ secoli bassi, II, Milano 1854, p. 671.
56 Rispettivamente: Settia, Fisionomia urbanistica, cit., pp. 792-799; Id., Il
castello del principe, in Storia di Torino, II, Il basso medioevo e la prima età moderna
(1280-1536), a cura di R. Comba, Torino 1997, pp. 22-49; C. Natoli, Susa: l’occupa-
zione dei “moenia vetera” fra XII e XV secolo, in Case e case torri medievali, III, cit.,
pp. 37 e 41; R. Parenti, Torri e case torri senesi: i risultati della prime ricognizioni di
superficie, in Case e torri medievali, I, a cura di E. De Minicis - E. Guidoni, Roma
1996, p. 84.
57 E. Saita, Una città “turrita”? Milano e le sue torri nel medioevo, «Nuova
rivista storica», LXXX (1996), pp. 324-328.

63
Aldo A. Settia

chiamate, anche quando tale definizione non si trova nelle fonti o


risulta inappropriata) sono viste tout court come la principale espres-
sione di una società urbana perennemente organizzata per la guerra
fratricida giungendo anzi a formulare l’ipotesi di un vero e proprio
«determinismo urbanistico» che considera «la stessa disposizione
strutturale della città» come un «invito alla violenza» 58.  

Non insisteremo sulla necessità di porre un freno a tale modo


di vedere le cose evidenziando, al contrario, il valore simbolico delle
torri che mira innanzitutto alla ricerca del prestigio e all’ostentazio-
ne simbolica della potenza familiare, obiettivi che passano certo in
secondo piano nel corso di quei periodi brevi e violenti in cui le
fazioni, pur di nuocere all’avversario, mettono in campo ogni risorsa
giungendo talora a utilizzare anche le torri pubbliche della cerchia
urbana.
Tra gli edifici che a Genova nel 1157 si impone ai privati di
non occupare sono compresi «neque murum neque portam civitatis,
neque turres eiusdem muri»: è evidente dunque che anche le difese
periferiche costruite dai cittadini contro i nemici esterni sono talora
utilizzate nelle guerre civili; a Genova lo erano state prima del 1157
e certo lo furono anche in seguito se nel 1239 il podestà, per precau-
zione, credette bene di munire e far parare di legname, insieme con
altre, anche la torre muraria che si trovava presso la casa di Giovanni
Spinola 59.
 

Ma ad assumere maggiore importanza sono, anche qui, le porte


della cerchia urbana: disporre di una o più porte permetteva innan-
zitutto alle parti in lotta di far affluire tempestivamente soccorsi dalla
campagna, caso di cui le tumultuose vicende genovesi offrono esempi
numerosi 60. Per consentire aiuti dall’esterno o un colpo di mano di
 

fuorusciti, non è raro che una porta sia presa con la forza, non senza
il consenso o l’aiuto di complici interni 61. Il controllo di una porta,
 

da lasciare aperta, può anche servire, al contrario, per garantire una

58 Così L. Martinez, Political violence in the thirteenth century, in Violence


and civil desorder in italian cities, 1200-1500, a cura di L. Martinez, Berkeley-Los
Angeles-London 1972, p. 345.
59 Codice diplomatico della repubblica di Genova dal MCLXIII al MCLXXXX,
a cura di C. Imperiale di Sant’Angelo, I, Roma 1936, doc. 285, p. 352; Annali ge-
novesi di Caffaro, cit., III, p. 97.
60 Così, ad esempio: Annali genovesi di Caffaro, cit., I, pp. 214-215 (a. 1109);
III, pp. 3-33 (1227), 95-96 (1239); IV, p. 46 (1262).
61 Così, ad esempio: Salimbene de Adam, Cronica, a cura di G. Scalia, Bari

64
Cerchie murarie e torri private urbane

via di fuga alla fazione sconfitta verso quella parte del contado in cui
essa conta più aderenti: ecco quindi all’inizio del ’300 comparire fra
i compiti consueti delle compagnie del popolo anche il presidio delle
porte di dentro e di fuori 62.  

L’occupazione di una torre o di una porta muraria a fini privati


doveva essere tutt’altro che rara se una rubrica degli statuti di Torino
giunge a decretare lapidariamente: «Item si quis turrim vel portam
murorum Taurini ceperit vel munierit vel iudici vel rectori deffende-
rit, moriatur» 63. Ci sembra assai difficile, per non dire impossibile,
 

invece, il caso esattamente opposto, di torri private che si vorrebbero


predisposte per la difesa della città da nemici esterni. È vero che
il famoso “lodo delle torri” pisano proibisce apprestamenti adatti
al combattimento entro e intorno alle case «nisi forte pro comuni
utilitate faciat civitatis» 64; non si specificano meglio le circostanze,
 

ma occorre ricordare che si trattava, in quel caso, di torri sorte in


un borgo non ancora difeso da mura urbane alle quali appunto era
demandata la difesa contro i pericoli esterni.
La tentazione di attribuire alle torri private, costruite accanto
alle abitazioni all’interno della città, intenti difensivi “strategici” non
è nuovo, ma rimane del tutto immotivato. Un autore ottocentesco
ritenne, ad esempio, che le più antiche torri pavesi fossero state
costruite al tempo dei Goti per la protezione del palazzo regio, e

1966, pp. 256 e 262; Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei, in Poeti del Duecento,
I, a cura di G. Contini, Milano-Napoli 1960, p. 872; Annales Placentini Gibellini,
cit., p. 518; Villani, Nuova cronica, cit., I, p. 392; II, pp. 77-78.
62 Così, ad esempio, Salimbene, Cronica, cit., p. 921 (a. 1287, Reggio Emilia);
presidio di porte: Statuti delle compagnie del popolo di Pisa, in Documenti per ser-
vire alla storia della milizia italiana dal XIII secolo al XVI, a cura di G. Canestrini,
«Archivio storico italiano», XV (1851), p. 8 (a. 1300); pp. 10-11 (1302), pp. 20-22
(Siena, sec. XIV); Statuti della repubblica fiorentina, I, Statuto del capitano del popolo
degli anni 1322-25, a cura di R. Caggese, Firenze 1910, pp. 297-298; Respublica
Mutinensis (1306-1307), a cura di E.P. Vicini, I, Milano 1929, pp. 287-288 (a. 1306).
Cfr. A.A. Settia, I luoghi e le tecniche dello scontro, in Magnati e popolani nell’Italia
comunale, XV convegno di studi (Pistoia, 15-18 maggio 1995), Pistoia 1997, pp.
93-94, ora anche in Id., Tecniche e spazi della guerra medievale, Roma 2006, pp.
141-143.
63 D. Bizzarri, Gli statuti del comune di Torino del 1360, Torino 1933, p. 99,
rubrica 219.
64 G. Rossetti, Il lodo del vescovo Daiberto sull’altezza delle torri: prima carta
costituzionale della repubblica pisana, in Pisa e la Toscana occidentale nel medioevo.
A Cinzio Violante nei suoi 70 anni, II, Pisa 1991, p. 39.

65
Aldo A. Settia

si sforzò di vedere nella loro dislocazione un razionale sistema di-


fensivo volto a tale scopo; ma già nello stesso secolo gli si obiettò
giustamente che esse erano state innalzate solo quando il palazzo era
ormai da lungo tempo in rovina o distrutto per sempre 65.  

Nella piena età comunale la costruzione di torri entro le mura


viene bensì controllata dal comune secondo criteri che tendono a
limitarne l’altezza e l’impiego bellico durante le guerre civili 66, ma  

non certo in vista di un “progetto logico di difesa” contro nemici


esterni che fossero penetrati entro le mura 67. Quest’ultima evenienza
 

era certo possibile poiché nessuna difesa perimetrale, quale che sia
la sua efficienza, si può dire invulnerabile ad attacchi né, a maggior
ragione, a tradimenti, ma, in linea di principio, essa era considerata
invalicabile e non risulta pertanto esistessero difese sussidiarie inter-
ne predisposte a tale scopo.
Se le torri private si trovano spesso in prossimità degli spazi
pubblici aperti si deve intendere che così avveniva non per presunte
ragioni di carattere “strategico”, ma perché là esse acquistavano il
massimo della visibilità, funzione da ritenere una delle più importan-
ti, e tale anzi da giustificare da sola l’esistenza delle torri, benché ciò
non venga mai esplicitamente dichiarato dalle fonti.

65 C. Zuradelli, Le torri di Pavia, Pavia 1888, pp. 69-75 e 98-99, con le osser-
vazioni di C. Magenta, Prefazione, ivi, p. X.
66 Un buon esempio in Varanini, Torri e casetorri, cit., pp. 194-197.
67 Come propone Bonardi, Le torri di Asti, cit., pp. 18-19.

66
Sabato 12 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Jean-Claude Maire Vigueur

Italo Moretti
I palazzi pubblici

Il tema dell’architettura dei palazzi pubblici delle città comu-


nali è quanto mai vasto e vario, se si tiene presente che soltanto in
Toscana, “terra di città” per eccellenza, ma anche di “quasi città” e
d’innumerevoli castelli e terre murate di buona consistenza, si con-
tano almeno un centinaio di edifici del genere e, come si vedrà, si
tratta di un campionario diversificato nelle dimensioni e nelle inter-
pretazioni costruttive. Svolgere delle considerazioni sull’intera area
di diffusione della civiltà comunale diventa, si può dire, proibitivo
anche limitandosi a delle considerazioni essenziali.
Oltretutto non esiste un’esauriente letteratura sul tema dei pa-
lazzi pubblici delle città comunali italiane, né un’adeguata presenza
di monografie regionali, come quelle, ad esempio, di cui si dispone
per la Toscana 1. Di conseguenza, non possedendo una capillare co-
 

noscenza in materia di quell’Italia in cui fiorì la civiltà comunale, è


ben difficile offrire un quadro completo del fenomeno, a meno di

1 I palazzi del popolo nei comuni toscani del Medio Evo, notizie storiche di N.
Rodolico, commento artistico e Catalogo di G. Marchini, Milano, Electa, 1962; F.
Cardini - S. Raveggi, Palazzi pubblici di Toscana. I centri minori, Firenze, Sansoni,
1983; si veda anche C. Uberti, I palazzi pubblici, in L’architettura civile in Toscana.
Il Medioevo, a cura di A. Restucci, Siena, Monte dei Paschi di Siena, 1995, pp. 151-
223, con un taglio dove prevalgono caratteri semiologici.

67
Italo Moretti

non parlare per concetti generali, scendendo ad occasionali, anche


se indicative esemplificazioni.
A queste lacune conoscitive d’ordine generale, scendendo nel
particolare, occorre aggiungere che spesso il palazzo pubblico, a
causa di un ininterrotto uso plurisecolare, ha subito profonde alte-
razioni dell’organismo architettonico originale, divenendo così un
terreno fertile per l’applicazione degli ideali romantici di recupero
del Medioevo, oltretutto essendo uno dei suoi simboli fondamentali:
quello del libero comune. I restauri integrativi — non di rado del-
le vere e proprie reinvenzioni — attuati tra Otto e Novecento sono
stati così numerosi che gli esempi si sprecano non solo per gli episo-
di minori 2, ma anche per i monumenti più noti, quelli che di solito si
 

considerano al di sopra di ogni sospetto quali, ad esempio, il Palazzo


Vecchio di Firenze, come è stato ben evidenziato nella interessan-
te rassegna condotta a suo tempo da Marco Dezzi Bardeschi 3. Si  

possono comprendere quindi le difficoltà di lettura alle quali si va


incontro allorché s’intenda approfondire le conoscenze sui caratteri
architettonici originali dei palazzi pubblici, basandosi soltanto sulla
semplice osservazione, anche se supportata da qualche documento
scritto o iconografico.
Una dedicatio come quella affrescata da Sano di Pietro nel-
l’attuale Sala delle Lupe nel Palazzo Pubblico di Siena, seppur
quattrocentesca, rende bene la sintesi della città comunale al momen-
to del suo apogeo 4. La città appare racchiusa dentro il contenitore
 

delle mura — destinato in genere a mantenere tale funzione almeno


fino alla metà dell’Ottocento — dal quale emergono la Cattedrale e il

2 Tra i casi più eclatanti si vedano, in Toscana, il Palazzo Vicariale di Certaldo


(cfr. Certaldo alto. Studi e documenti per la salvaguardia dei beni culturali e per il piano
di restauro conservativo del centro antico, catalogo a cura di M. Dezzi Bardeschi - G.
Cruciani Fabozzi, Certaldo, Comune di Certaldo, Associazione pro-Certaldo, 1975,
p. 226sgg., fig. a p. 242) e il Palazzo Comunale di San Gimignano (cfr. l’eloquente
rassegna fotografica San Gimignano ieri & oggi, San Gimignano, Associazione Pro
Loco, maggio 1988).
3 M. Dezzi Bardeschi, Il monumento simbolo: Palazzo Vecchio, in Il monumen-
to e il suo doppio. Firenze, a cura di M. Dezzi Bardeschi, Firenze, Fratelli Alinari,
1981, pp. 8-11 e in part. figg. 7-11.
4 Si tratta di un affresco dipinto nel 1446, che raffigura San Pietro Alessandrino
tra i beati Andrea Gallerani e Ambrogio Sansedoni; cfr. G. Borghini, La decorazione,
in Palazzo Pubblico di Siena. Vicende costruttive e decorazione, a cura di C. Brandi,
Siena, Monte dei Paschi di Siena, 1983, p. 167 e fig. 189.

68
I palazzi pubblici

Palazzo Pubblico. Un accenno soltanto vi è dedicato al tessuto urba-


no, che pure era ricco di case, di palazzi, di edifici religiosi, tra i quali
le grandi chiese degli ordini mendicanti, ultimo ma non trascurabile
contributo alla definitiva immagine della città medievale 5.  

Dal punto di vista della struttura materiale la città medievale


tocca il suo apogeo nei decenni, se non addirittura negli anni che
stanno a cavallo tra Due e Trecento, quando il suo paesaggio urba-
no è ancora dominato dalle torri dell’età romanica «svettate in parte
ché tra tutte doveva essere più alta la ‘torre del comune’» 6 che ospi-  

tava la campana civica. Per avere un’idea del fervore costruttivo del
tempo si pensi, ad esempio, ai cantieri contemporaneamente aper-
ti nella Firenze del 1300: l’ultimo giro delle mura, Santa Maria del
Fiore, il nuovo Palazzo dei Priori, Santa Croce, Santa Maria Novella,
il primo Orsanmichele, per non citare che i maggiori tra i molti al-
tri d’iniziativa privata 7. Naturalmente Firenze non è un’eccezione
 

e basterà pensare, per fare un altro esempio rilevante, a quanto av-


veniva a Siena nei settant’anni circa del governo dei Nove 8, il più  

stabile e prolifico conosciuto dal libero comune. A parte il cantiere


del Duomo, che s’intendeva ampliare con dimensioni grandiose, non
solo si costruivano, rinnovandole, le chiese degli ordini mendicanti,
il Palazzo Pubblico, le fonti, le mura e chissà quanti edifici privati,
ma, soprattutto, lo si faceva mettendo in atto degli stilemi talmente
caratterizzanti 9 e così diffusi da dare l’impressione che l’immagine
 

della città medievale sia stato il prodotto di un’unica fase creativa.


Il palazzo pubblico è il simbolo più rilevante della società co-
munale e la sua origine come edificio rappresentativo di questa si
colloca nei primi decenni del XIII secolo — se non addirittura negli

5 Anche sotto questo aspetto il panorama urbano di Siena è emblematico:


basta osservare la città dall’altro della Torre del Mangia per constatare come il suo
abitato storico sia segnato ai suoi margini dalle grandi chiese di San Domenico, di
San Francesco, dei Servi, di Sant’Agostino e, più modesta, del Carmine.
6 P. Toesca, Il Medioevo, Torino, UTET, 1965 (Storia dell’arte italiana, I), p.
717.
7 G. Fanelli, Firenze. Architettura e città, Firenze, Vallecchi, 1973, passim.
8 Sulla costruzione della città in questo periodo si rimanda a D. Balestracci -
G. Piccinni, Siena nel Trecento. Assetto urbano e strutture edilizie, Firenze, CLUSF,
1977; L. Bortolotti, Siena, Bari, Laterza, 1983 (Le città nella storia d’Italia), in
part. cap. II, pp. 13-56.
9 Cfr. F. Gabbrielli, Stilemi senesi e linguaggi architettonici nella Toscana del
Due-Trecento, in L’architettura civile in Toscana. Il Medioevo, cit., pp. 305-367.

69
Italo Moretti

ultimi anni del XII secolo — e in ciò 10 l’Italia settentrionale sembra


 

precedere quella centrale e, in particolare, la Toscana. Il palatium co-


munis di Bergamo si fa risalire agli anni 1182-1198 — ma più volte
modificato e rielaborato in forme venete nel XV secolo 11 —, il pri-  

mo Palazzo Comunale di Cremona fu edificato a partire dal 1206 e


ampliato alcuni decenni dopo 12, il Broletto di Como, con un raffi-
 

nato paramento murario bicromo e una robusta torre campanaria


che lo affianca, fu costruito intorno al 1215, per volontà del podestà
Bernardo da Cadazzo 13.  

I palazzi dell’area lombarda, denominati in varia maniera — ‘del-  

la ragione’, ‘broletto’, ‘arengario’, ‘credenza’ 14 — si distinguono per


 

un’impostazione essenziale, definita «a due aule uniche sovrapposte:


portico a terreno, aperto originariamente sui quattro lati, e salone al
primo piano, entrambe di ugual pianta rettangolare ed entrambe in
origine, a tetto a vista» 15. Il loggiato al piano terreno, era destinato
 

alle riunioni di cittadini o ai mercati, il grande salone al primo piano,


per le assemblee delle magistrature. Si tratta di uno schema costrut-
tivo che sarà ripetuto fino al XIV secolo 16, ma non mancano esempi
 

posteriori, anche illustri, come la cosiddetta Basilica di Vicenza, rifa-


cimento esterno del preesistente Palazzo della Ragione operato dal
Palladio a partire dal 1549 17.  

Di palazzi pubblici che seguono questa tipologia ne potrebbero


essere indicati molti, anche semplicemente rimanendo in Lombardia,
dal Palazzo della Ragione di Milano, la cui costruzione fu portata a
termine nel 1233 dal podestà Oldrado da Tresseno di Lodi, celebra-

10 Toesca, Il Medioevo, cit., p. 720.


11 M.T. Donati - S. Masseroli, L’affermazione del comune: un nuovo protago-
nista, in C. Bertelli, Lombardia medievale. Arte e architettura, Milano, Skira, 2002,
p. 296.
12 Ivi, dove si dice ampliato nel 1245 e costruito sull’area di un edificio più an-
tico del quale rimane la torre.
13 Ibidem, che le «proporzioni dell’edificio sono state falsate dalla demoli-
zione di una campata e dell’ingresso originale, per far posto alla costruzione di due
campate della cattedrale»; si informa anche che la torre è stata riedificata in parte
nel 1927.
14 Toesca, Il Medioevo, cit., p. 720.
15 A.M. Romanini, L’architettura gotica in Lombardia, 2 voll., Milano, Ceschina,
1964 (Architetture delle regioni d’Italia, II), p. 182.
16 Donati - Masseroli, L’affermazione del comune, cit., p. 293.
17 Cfr. C. Perogalli, Architettura italiana dall’Antichità al Liberty, Milano,
Edizioni Martello, 1994, pp. 479-480.

70
I palazzi pubblici

to con un monumento equestre collocato in una nicchia e attribuito


alla scuola dell’Antelami 18, all’Arengario di Monza, ormai della fine
 

del Duecento ed ispirato al modello milanese ma inglobante una tor-


re 19. Ed ancora si può ricordare il Broletto di Brescia, d’impianto
 

più complesso e i cui lavori, tra il 1223 e il 1254, furono diretti da


Bonaventura Medico 20, e il Palazzo del Popolo, o Cittanova, costrui-
 

to a Cremona subito dopo la metà del Duecento, secondo lo schema


classico 21.
 

Il modello del palazzo pubblico lombardo si diffuse anche nel-


le regioni dell’Italia settentrionale, talora con esempi pregevoli, tanto
che, ad esempio, il Palazzo Pubblico di Piacenza, iniziato nel 1280,
rimasto incompiuto e pesantemente restaurato nella seconda metà
dell’Ottocento 22, è considerato il capolavoro dell’ultima genera-
 

zione di questo tipo di edificio pubblico 23. Ma non sono mancati


 

casi del genere anche nell’Italia centrale, come dimostra, ad esem-


pio, il Palazzo del Popolo di Orvieto, che in origine ebbe le arcate
del piano terra a formare un loggiato 24. Il Palazzo Pubblico — poi
 

del Vicario — che la Repubblica fiorentina fece costruire al centro


della “terra nuova” di Castel San Giovanni — oggi San Giovanni
Valdarno — ed attribuito ad Arnolfo, nella sua versione originale

18 Cfr. R. Cassanelli, Il Broletto Nuovo di Milano e l’Arengario di Monza,


in Lombardia gotica, a cura di R. Cassanelli, Milano, Jaca Book, 2002, pp. 91-93;
Donati - Masseroli, L’affermazione del comune, cit., p. 296. La sopraelevazio-
ne settecentesca fu eseguita per ospitare l’archivio notarile. Cfr. anche M. Dezzi
Bardeschi, Ricerche sulle architetture lombarde dimenticate, «A-Letheia», 1, Firenze,
Alinea, 1990, p. 15.
19 Cassanelli, Il Broletto Nuovo di Milano e l’Arengario di Monza, cit., pp.
93-94.
20 Donati - Masseroli, L’affermazione del comune, cit., p. 296, dove si scrive
che «Il palazzo si compone infatti di una corte a pianta quadrata intorno alla qua-
le sono disposti un edificio a sud, il Palatium novum maius, costruito in pietra, con
il consueto portico in basso e il salone al piano superiore, e uno di poco più tardo a
est, il Palatium novum minus, anch’esso con portici al piano terreno e due sale con
soffitto ligneo al primo piano». Si informa anche che il portico occidentale venne
sopraelevato da Bernardo Maggi tra il 1282 e il 1284 e che la Torre del Popolo, risa-
lente all’XI secolo è stata rialzata successivamente.
21 Ivi.
22 Cfr. I. Moretti, Pietro Selvatico Estense architetto e restauratore, «Quaderni
di studi e ricerche di restauro architettonico e territoriale», Firenze, 1976-1977, n.
2, pp. 7-27.
23 Toesca, Il Medioevo, cit., p. 720.
24 Ivi, pp. 729-730 e fig. 456.

71
Italo Moretti

appare ispirato ai modelli aperti dell’Italia settentrionale 25. Anche  

certi palazzi pubblici toscani più tardi ebbero struttura aperta in bas-
so da loggiati, come il Palazzo degli Anziani — o del Comune — di
Pistoia, che assunse l’aspetto attuale durante la seconda metà del
Trecento e che forse era sorto là dove era ubicato quel palatium co-
munis ricordato nel 1211 26.  

Per quanto riguarda l’Italia centrale è stato detto che «i palazzi


pubblici ebbero, pressoché tutti, forma assai diversa dalla lombarda.
Destinati non soltanto all’arringo del popolo ma a residenza dei ma-
gistrati cittadini — del capitano del popolo, del podestà, dei consoli
o dei priori — che, presto, cresciuti di numero, vollero sedi distin-
te e variamente adatte al loro ufficio» 27. I casi di città toscane ove si
 

ebbero vari palazzi pubblici sono numerosi: si citerà come esempio


Pistoia dove, oltre al ricordato Palazzo del Comune, sono il palaz-
zo detto ‘del Capitano del Popolo’ e il Palazzo del Podestà — o
Pretorio —, iniziato poco dopo la metà del Trecento, nel cui cor-
 

tile si conservano ancora, realizzati in pietra, il banco e i sedili dei


magistrati 28. A Siena però il Palazzo Pubblico, indicato da Cesare
 

Brandi come l’edificio gotico civile più grande in assoluto del suo
tempo 29, ebbe la Sala del Consiglio nella parte centrale e più anti-
 

ca, fu residenza dei signori Nove nel corpo di sinistra, residenza del
Podestà in quello di destra, anche se il Capitano di Guerra — poi il
Conservatore — ebbe un proprio palazzo in altra parte della città 30.  

25 Si veda I. Moretti, Le “terre nuove” del contado fiorentino, Firenze,


Salimbeni, 1980, p. 71sgg. Cfr. anche D. Friedman, Terre nuove. La creazione delle
città fiorentine nel tardo medioevo, Torino, Einaudi, 1996, passim.
26 Cfr. I. Moretti, Le pietre della città, in Storia di Pistoia, II, L’età del libero
comune. Dall’inizio del XII alla metà del XIV secolo, a cura di G. Cherubini, Firenze,
Le Monnier, 1998, p. 271.
27 Toesca, Il Medioevo, cit., p. 722.
28 Moretti, Le pietre della città, cit., pp. 269-274 e, per il Palazzo Pretorio,
Id., Le città e le sue trasformazioni, in Storia di Pistoia, III, Dentro lo stato fiorenti-
no. Dalla metà del XIV alla fine del XVIII secolo, a cura di G. Pinto, Firenze, Le
Monnier, 1999, pp. 316-318.
29 C. Brandi, Il Palazzo Pubblico di Siena, in Palazzo Pubblico di Siena. Vicende
costruttive e decorazione, a cura di C. Brandi, Milano, Silvana Editoriale, 1983, p. 7.
30 Il palazzo, oggi fortemente rivisitato in chiave neogotica e ubicato nella
omonima via al n. 13, fu in origine residenza della nobile famiglia Squarcialupi e da
questa prima preso in affitto e poi acquistato dal Comune di Siena. Si veda la sche-
da di A. Bruno, Palazzo del Capitano, in L’Università di Siena 750 anni di storia,
Siena-Cinisello Balsamo, Monte dei Paschi di Siena-Amilcare Pizzi Editore, 1991,

72
I palazzi pubblici

Nelle due fondamentali tipologie edilizie dei palazzi pubblici


sembra dunque d’intravedere un governo comunale più maturo e
stabile nell’Italia settentrionale, una vita cittadina più travagliata in
Toscana dove il palazzo-residenza di una magistratura assunse talo-
ra il carattere di una dimora fortificata, che non ha nulla da invidiare
ad un munito castello, come dimostra l’esempio forse più illustre: il
Palazzo Vecchio di Firenze. Un affresco dell’Orcagna, raffigurante
La cacciata del Duca d’Atene, proveniente dal carcere delle Stinche,
lo mostra con gli accessi muniti addirittitura di antiporte, fatte co-
struire da Gualtieri di Brienne nel 1342 31.  

La vocazione difensiva del maggior palazzo fiorentino si con-


ferma quando la città promosse la costruzione della “terra nuova”
di Castel San Barnaba — oggi Scarperia — in un’area di forti contra-
sti con il potere feudale locale: il Palazzo dei Vicari — per il quale si
è fatto il nome di Andrea Pisano — ebbe, a somiglianza di Palazzo
Vecchio e del Bargello, un carattere marcatamente fortificato, tanto
da essere raccordato, nella parte posteriore, con il poderoso cassero
che intercetta la cinta muraria 32.  

Il confronto tra i due più importanti palazzi pubblici espres-


si dalla civiltà comunale, il Palazzo Vecchio di Firenze e il Palazzo
Pubblico di Siena riconduce anche al rapporto tra architettura e ur-
banistica. In proposito vale la pena di ricordare le parole di Bruno
Zevi, allorché vuole efficacemente sottolineare il condizionamento
urbanistico della visione architettonica:
«Il Palazzo Vecchio di Firenze rimarrebbe sempre un
capolavoro, anche se si alterassero la piazza e le strade che do-
mina, benché diverrebbe difficile rendersi conto delle ragioni
che spinsero Arnolfo a far incombere la torre in polemica asim-
metria; ma il Palazzo Comunale di Siena, rotto il senso della
Piazza del Campo, non susciterebbe più interessi artistici vitali e
meno ancora la Torre del Mangia che non è fastigio del palazzo e

pp. 407-408 (per gli aspetti decorativi le schede di E. Avanzati - L. Cateni - M.


Ciampolini, ivi, pp. 410-412) e anche M. Tuliani, A proposito del palazzo detto degli
Squarcialupi. Un’attribuzione errata, «Bullettino senese di storia patria» (dedicato a
Gino Garosi), CXII, 2005 (Siena 2006), pp. 463-469.
31 Per la notizia e l’affresco, ora in Palazzo Vecchio, cfr. S. Blasio, La rappre-
sentazione simbolica: i monumenti illustri nella pittura e nelle scenografie teatrali, in
M. Gregori - S. Blasio, Firenze nella pittura e nel disegno dal Trecento al Settecento,
Cinisello Balsamo, Silvana, 1994, p. 25 e fig. 16.
32 Cfr. Moretti, Le “terre nuove”, cit., p. 72sgg., ed anche Friedman, Terre
nuove, cit., passim.

73
Italo Moretti

nemmeno della piazza, ma dell’intero organismo urbano. Ciò si-


gnifica che il palazzo fiorentino è autentica opera d’arte, mentre
quello senese è fatto letterario, non autonomo liricamente? In tal
caso, il tema metodologico qui esaminato troverebbe una solu-
zione: distinguere la storia architettonica da quella urbanistica,
considerando la prima storia di poeti e la seconda storia lettera-
ria; ma la formula non appare convincente» 33.  

Del resto che la Piazza del Campo sia un episodio urbanistico


coerente ed eccezionale per il Medioevo lo dimostra tanto la consa-
pevolezza che ne avevano i contemporanei, allorchè veniva definita
come «la più bela che si truovi» 34, quanto le norme statutarie relative
 

ai palazzi costruiti nella piazza, che dovevano avere finestre coerenti


con quelle del Palazzo Pubblico, cioè bifore e/o trifore dotate di «co-
lonnelli» e senza ballatoi 35.  

Riguardo all’ubicazione dei palazzi pubblici, occorre osserva-


re che, nella maggior parte dei casi, essi si affacciano su una piazza.
Questa può costituire il solo polo laico della città, come Piazza del-
la Signoria a Firenze, o la Piazza del Campo a Siena, città nelle quali
la cattedrale si trova in altra posizione. In altri casi, invece, come a
Pistoia, la maggior piazza cittadina accoglie sia i palazzi pubblici, sia
gli edifici religiosi principali, come il duomo e il battistero.
Va anche ricordato che, in molti casi, la formazione della piaz-
za del comune non fu un fatto unitario come la Piazza del Campo
di Siena, bensì il frutto d’interventi successivi, come, ad esempio a
Pistoia 36 o la Piazza della Signoria di Firenze, portata alla conforma-
 

zione attuale almeno in tre fasi distinte 37.  

Un altro dibattito che si pone è quello del rapporto tra il model-


lo del palazzo pubblico e la coeva edilizia civile, cioè se il primo sia
ispirato all’architettura delle grandi residenze private, oppure se sia

33 B. Zevi, Architettura, in Enciclopedia universale dell’arte, vol. I, Novara,


Istituto Geografico De Agostini, 19804, col. 641.
34 Cfr. G. Fasoli - F. Bocchi, La città medievale italiana, Firenze, Sansoni,
1973 (Scuola aperta/Storia), p. 178, doc. 38.
35 Si veda in Bortolotti, Siena, cit., p. 36. Cfr. anche E. Guidoni, Il Campo
di Siena, Roma, Multigrafica Editrice, 1971 (Biblioteca di storia della cultura urba-
na, Saggi, 1), p. 47.
36 Cfr. Moretti, La città e le sue trasformazioni, cit., p. 315sgg.
37 Si veda la sintesi grafica in M. Trachtenberg, What Brunelleschi Saw:
Monument and Site at the Palazzo Vecchio in Florence, «Journal of the Society of
Architectural Historians», XLVII, 1988, fig. 16, passim.

74
I palazzi pubblici

avvenuto l’opposto. Ancora una volta Siena può essere un interes-


sante campo d’indagine, stando agli innegabili legami che l’edilizia
pubblica — si veda anche l’arredo architettonico delle fonti, delle
porte e delle strutture fortificate in genere — presenta con i palazzi e
le numerose case-torri, vuoi anche per essere queste architetture ac-
comunate dall’uso del cotto. Fabio Gabbrielli ha dato un’esauriente
risposta riguardo al caso senese, facendo notare che edifici riferi-
bili agli ultimi decenni del XIII secolo — a cominciare dal Palazzo
del Rettore dello Spedale di Santa Maria della Scala degli anni set-
tanta-ottanta — «sembrano attestare un cambiamento di linguaggio
che in modo più diretto condurrà alle forme del Palazzo Pubblico
e dell’architettura trecentesca» 38. Non occorre essere degli addet-
 

ti ai lavori per cogliere la stretta somiglianza della parte centrale del


Palazzo pubblico con molti edifici civili senesi, anche se rimaneg-
giati, a cominciare dal cosidetto palazzo Lombardi, in via di Città,
di fronte alla Costarella. La parte basamentale in pietra e quella su-
periore in mattoni, la foggia dei portali e delle finestre — anche se
queste hanno perduto l’originale spartizione a colonnette — le cor-
nici, il coronamento a finto apparato a sporgere con archetti ricassati
su mansole a piramide rovesciata.
Se il Palazzo Pubblico di Siena attinge al repertorio di ele-
menti architettonici «in larga parte […] già elaborato e portato a
maturazione nell’architettura civile, pubblica e privata, degli ultimi
trent’anni del Duecento» 39, a sua volta, e forse proprio per questo,
 

esso divenne «il punto di riferimento, anche simbolico, per gran par-
te dell’edilizia civile tre-quattrocentesca della città e del contado» 40.  

Vale la pena di ricordare, a conferma di ciò, il contratto stilato nel


1340 da Gontieri di Goro de’ Sansedoni con alcuni maestri per la
realizzazione della facciata del suo palazzo, che doveva esser con-
cluso «cho’ merlli e sporti di fuore dal muro, e chon archetti; sì che
sieno belli: e choperti e detti merlli di sopra di pietre choncie» 41.  

38 F. Gabbrielli, Stilemi senesi e linguaggi architettonici nella Toscana del Due-


Trecento, in L’architettura civile in Toscana. Il Medioevo, a cura di A. Restucci, Siena,
Monte dei Paschi di Siena, 1995, p. 322.
39 Ivi, p. 326.
40 Ibidem.
41 G. Milanesi, Documenti per la storia dell’arte senese, I, Secoli XIII e XIV,
Siena, presso Onorato Pozzi, 1854, doc. 51, 1339-40, 4 febbraio, pp. 232-233, ma
anche F. Toker, Gothic Architecture by Remote Control: an illustrated Building
Contract of 1340, «The Art Bullettin», LXVII, 1985, p. 90, ed anche Id., Il contrat-

75
Italo Moretti

A Firenze, invece, non vi è alcun particolare contatto, se si


eccettua l’uso e la conseguente lavorazione della pietra forte, e qual-
che raro caso di apparato a sporgere 42. Ad esempio, l’elemento più
 

caratterizzante del prospetto di un palazzo — la foggia delle fine-


stre — differisce assai tra il Palazzo Vecchio, ove si aprono finestre
 

bifore entro un arco a tutto sesto, e i palazzi privati, dove le finestre


hanno immancabilmente l’arco a sesto ribassato. Occorrerà atten-
dere il Quattrocento e Michelozzo per vedere le finestre bifore di
Palazzo Medici palesemente ispirate a quelle di Palazzo Vecchio 43.  

Sul possibile «rapporto tra codici architettonici e trasmissione


di messaggi ideologici e politico territoriali» 44, gli stilemi del palaz-
 

zo pubblico possono essere sicuramente un punto di riferimento.


Ancora una volta il caso di Siena è quanto mai significativo del rifles-
so prodotto dalla facciata del Palazzo Pubblico in edifici del contado
(Palazzo dei Priori a Magliano, Palazzo Pretorio e Porta Senese a
Buonconvento, Rocca e porta del Cassero a Montalcino, Cassero di
Casole d’Elsa, etc.), a sottolineare «un simbolo del legame politico e
culturale con la città dominante» 45.  

A Firenze questo collegamento con il contado è forse meno vi-


sibile, a meno di un episodio eclatante come il rifacimento dopo il

to del 1340: un ‘unicun’ nell’architettura europea, in Palazzo Sansedoni, a cura di F.


Gabbrielli, Siena, Fondazione Monte dei Paschi di Siena/Protagon Editori, 2004,
p. 193sgg.
42 Si vedano almeno il palazzo Spini (poi Feroni), all’inizio di via Tornabuoni,
sulla destra, e il dirimpettaio palazzo Gianfigliazzi, assai restaurato, ed anche il pa-
lazzo Acciaioli, in borgo Santissimi Apostoli, 9, dove oggi gli originali mensoloni
dell’apparato a sporgere sostengono lo sporto del tetto. Per il riferimento alle fami-
glie cfr. W. Limburger, Die Gebäude von Florenz. Architekten, Strassen und Plätze in
alphabetischen verzlichnissen, Lipsia, F.A. Brockhaus, 1910, ad vocem.
43 Cfr. I. Moretti, Il palazzo fiorentino del primo Rinascimento, «Erba d’Ar-
no», n. 107, 2007, p. 56, con riferimenti bibliografici alla nota 115.
44 Ivi, p. 342 nota 82, dove si rimanda a V. Franchetti Pardo, Segnali archi-
tettonici e riconoscibilità politica di un territorio: Considerazioni metodologiche, in
D’une ville à l’autre: structures matérielles et organisation de l’espace dans les villes
européennes (XIIIe-XVIe siècle), Actes du colloque organisé par l’École française
de Rome avec le concours de l’Université de Rome, (Rome 1er-4 dècembre 1986),
Roma, École française de Rome, 1989 (Collection de l’ École Française de Rome,
122), p. 739.
45 Gabbrielli, Stilemi senesi, cit., p. 342, dove si fa notare che, trovandosi
certi segni architettonici anche al di fuori del territorio senese — si veda, ad esem-
pio, Colle di Val d’Elsa —, il concetto di territorialità va considerato con una certa
cautela.

76
I palazzi pubblici

1440 — uniformazione di precedenti edifici pubblici — del Palazzo


Comunale di Montepulciano con il disegno, per certo della faccia-
ta, di Michelozzo, che lasciò l’esecuzione ad un capomastro della sua
cerchia, Checho di Meo da Settignano 46.  

Naturalmente, si pone un distinguo tra i palazzi pubblici co-


struiti dai liberi comuni, quindi come emanazione autonoma locale
— si veda il caso di San Gimignano —, e quelli che sono il frutto di
operazioni promosse dalla città dominante, magari ristrutturando la
preesistente residenza di una signoria locale, come, ad esempio, a
Certaldo accadde per il palazzo degli Alberti o a Poppi per quello
dei Guidi.
Un altro aspetto interessante, al quale vale la pena di dedicare
qualche considerazione conclusiva in questa occasione, è la nascita
di una soluzione architettonica di grosso impatto visivo e simboli-
co come la struttura ‘a rocca’ della torre di Palazzo Vecchio e della
Torre del Mangia, che comunque è più tarda di oltre un decennio 47.  

Pertanto questa, più nella sostanza che nella forma, può aver attin-
to suggerimenti da quella fiorentina e, a sua volta, divenne la torre
civica che ha avuto il maggior numero d’imitazioni, logicamente con-
centrate nel territorio senese 48.  

In questo dibattito s’inserisce un altro importante edificio civile,


stilisticamente legato al Palazzo Vecchio — ma anche al Bargello — di  

Firenze: il Palazzo dei Conti Guidi di Poppi, in Casentino. Il colle-


gamento è tanto forte che Giorgio Vasari, a proposito di Arnolfo
di Cambio, nell’attribuirgli — senza prove documentarie — la pa-
ternità del Palazzo Vecchio di Firenze, affermava che il maestro
colligiano «diede al Palazzo de’ Signori principio e disegno, a so-

46 Cfr. H. Saalman, Il Palazzo comunale di Montepulciano. Un lavoro sco-


nosciuto di Michelozzo, a cura e con una introduzione di M. Russo, traduzione
dall’inglese di F. Fé, edito a cura di F. Caroti, Siena, Monte dei Paschi di Siena,
1973, p. 6, passim.
47 Riguardo alla cronologia della Torre del Mangia è noto che fu fondata nel
1325, verosimilmente insieme all’ala sinistra del Palazzo, e che nel 1343 può essere
considerata conclusa; cfr. Cfr. M. Cordaro, Le fasi costruttive del Palazzo, in Palazzo
Pubblico di Siena, cit., pp. 34-35.
48 Si vedano i palazzi pubblici di Buonconvento, Montalcino e Sinalunga, per
finire con quello quattrocentesco di Pienza; il tardo-trecentesco Palazzo Comunale
di Montepulciano, appare invece di palese influenza fiorentina. Per notizie essen-
ziali su questi palazzi si rimanda a Marchini, I palazzi del popolo, Catalogo, cit., ad
indicem.

77
Italo Moretti

miglianza di quello che in Casentino aveva fatto Lapo suo padre ai


Conti di Poppi» 49. Questo fantomatico Lapo è personaggio senza
 

possibilità di riscontro, ma il palazzo-fortezza dei conti Guidi è un


edificio che si colloca tra le architetture civili toscane del Duecento,
come esempio dei più rilevanti in quella ricerca di equilibrio tra fun-
zioni difensive e funzioni abitative, che è una delle caratteristiche che
segnano la maggior parte dei palazzi pubblici della Toscana.
Senza entrare nel vasto dibattito che interessa il Palazzo di
Poppi ed i suoi evidenti rapporti con l’architettura pubblica fioren-
tina — Palazzo Vecchio e Bargello —, per il quale si rimanda ad un
recente intervento di chi scrive 50, occorre però ricordare che il pa-
 

lazzo casentinese ebbe in origine la torre conclusa in alto da una


struttura ‘a rocca’ sormontata da una cella campanaria a edicola,
che doveva essere assai simile a quella di Palazzo Vecchio. Di questo
coronamento, eliminato nel 1817 perché ritenuto pericolante e sosti-
tuito dalla terminazione attuale 51, ne danno un ricordo visivo sia un
 

dipinto vasariano in Palazzo Vecchio, sia un disegno seicentesco 52.  

49 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, I, a cura di


G. Milanesi, Firenze, Sansoni, 1906, p. 289.
50 I. Moretti, I conti Guidi e l’architettura toscana del loro tempo, in La lunga
storia di una stirpe comitale: i conti Guidi tra Romagna e Toscana, Atti del convegno
di studi (Modigliana-Poppi, 28-31 agosto 2003), a cura di F. Canaccini, Firenze,
Olschki, 2008 («Biblioteca storica toscana», 57; «Quaderni della Rilliana», 32), pp.
157-179.
51 G. Beni, Guida illustrata del Casentino, Firenze, R. Bemporad & Figlio,
19083, p. 285. Tracce delle mensole dei baccatelli dell’apparato a sporgere si intra-
vedono sul lato della torre verso il cortile.
52 Per il dipinto si veda, ad esempio, E. Allegri - A. Cecchi, Palazzo Vecchio
e i Medici. Guida storica, Firenze, S.P.E.S., 1980, Salone dei Cinquecento, p. 238, n.
5, Allegoria del Casentino. Poppi, con il suo palazzo, si ravvisa anche in margine
alla Sconfitta dei Veneziani nel Casentino (ivi, p. 246, n. 32). Il disegno è tratto da
una sanguigna del XVII secolo, ora perduta, che si conservava presso la Biblioteca
Comunale «Rilliana» di Poppi; si veda l’immagine in F. Pasetto, Il conduttore elet-
trico della torre di Palazzo in Poppi. Una pagina di storia della scienza tra la fine
del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, Firenze, Octavio, 1994 («Quaderni della
Rilliana», 12), fig. 10. A titolo di curiosità si può ricordare che, negli anni Trenta, al-
lorché venne progettata una sistemazione monumentale nell’area del nuovo accesso
al centro storico di Poppi, solo parzialmente realizzata, si prevedeva, o almeno si au-
spicava il ripristino more antiquo della cella campanaria della torre del Palazzo dei
conti Guidi; cfr. il bozzetto di Ugo Tarchi, dove la torre del Palazzo dei Guidi viene
raffigurata con la terminazione “a ròcca”; cfr. A. Brezzi - M. Rengo, Poppi com’era,
Poppi, Edizioni della Biblioteca Rilliana, 1987, p. 56, fig. 24.

78
I palazzi pubblici

Purtroppo di questo palazzo non è possibile stabilire una cronolo-


gia accettabile delle parti più antiche e significative 53, né, tantomeno,
 

della sistemazione originale della parte terminale della torre e quin-


di il rapporto con l’analoga soluzione del palazzo fiorentino che, alla
luce di un’ipotesi cui verrà in seguito accennato apre ulteriori possi-
bilità di dibattito.
Il Palazzo dei Priori di Volterra, considerato «il più antico pa-
lazzo pubblico della Toscana» 54, per essere stato iniziato entro il
 

primo decennio del Duecento e compiuto nel 1257, avrebbe potuto


fornire interessanti indicazioni in proposito, avendo la torre sormon-
tata da un’edicola. Ma la torre fu ricostruita nella posizione attuale
all’inizio del Cinquecento, forse per rendere il palazzo volterrano più
simile al Palazzo Vecchio di Firenze e nuovamente rifatta a seguito
dei danni subiti in occasione del terremoto del 1846 55, cosicché non  

offre indicazioni utili. Ne consegue che la prima torre in Toscana ad


aver ricevuto alla sommità un’edicola risulta essere quella del cas-
sero federiciano di San Miniato, la cui costruzione è assegnata al
1217-1221 56. Oggi la sommità della cosiddetta Torre di Federico II,
 

illustrata in iconografie che vanno dal XVI al XIX secolo 57, si pre-  

senta nella ricostruzione che riproduce fedelmente lo stato di rudere


in cui già si trovava prima della distruzione bellica nel 1944.
Tornando alla torre di Palazzo Vecchio, non è noto se la struttura
attuale fu prevista fin dal 1299, essendo più verosimile una torre tipo
quella del Bargello, e quando e come fu deciso di usare la struttura

53 Cfr. Moretti, I conti Guidi, cit., p. 158sgg.


54 A. Furiesi, Il Palazzo dei Priori, in Volterra d’oro e di pietra, catalogo della
mostra, Volterra, Palazzo dei Priori-Pinacoteca civica, 20 luglio-1 novembre 2006, a
cura di M. Burresi - A. Caleca, Ospedaletto (Pisa), Pacini, 2006, p. 35.
55 Il Furiesi (ivi, p. 36) informa che la torre medievale si trovava in corri-
spondenza dell’angolo nord-ovest del palazzo e che quella ricostruita all’inizio del
Cinquecento «in origine era a pianta quadrata e terminava con quattro pilastri che
sostenevano una travatura a cui era sospeso il campanone del Comune». Anche il
Marchini (I palazzi del popolo, Catalogo, cit., pp. 170-171, v. Volterra) riferisce che
la torre «terminava con quattro pilastri ottagoni in un castello per le campane», ma
sembra riferirsi a quella medievale, sulla quale non emerge alcuna indicazione.
56 Cfr. M.L. Cristiani Testi, San Miniato al Tedesco. Saggio di storia urbanisti-
ca e architettonica, Firenze, Marchi & Bertolli, 1967, p. 23.
57 Cfr. L. Bianchetti - P.N. Imbesi, San Miniato (Pisa), Roma, Buonsignori
Editore, 1998 («Atlante storico delle città italiane», Toscana, 6), pp. 51-52 (Rocca e
torre di Federico II), passim.

79
Italo Moretti

della preesistente torre dei Foraboschi per realizzare la torre attuale,


preceduta da una più bassa con in alto un castello ligneo provvisorio
per sostenere la campana magna commissionata nel 1306 58. La torre  

non era ancora terminata nel 1310-1311 59, quando i priori chiesero
 

«di costruire e completare la torre del palazzo del popolo», e forse


non lo era neppure nel 1313 60. In sostanza, il progetto originale, che
 

aveva incorporato la vecchia torre dei Foraboschi, sarebbe stato mo-


dificato dopo che, nel 1307, era stata fusa la campana magna; la torre,
nella sua versione definitiva, si elevava per 150 braccia, ben tre volte
la massima altezza consentita per le torri private 61. È indubbiamen-
 

te affascinante l’ipotesi avanzata da Marvin Trachtenberg, secondo


la quale i Fiorentini, in occasione dell’assedio della città da parte di
Arrigo VII nel 1311-13, avrebbero risposto in maniera provocatoria
alla minaccia dell’imperatore dando alla torre simbolo del libero co-
mune una terminazione ispirata a quella della rocca imperiale di San
Miniato 62.
 

Se davvero la terminazione della torre di Palazzo Vecchio fosse


il frutto di una scelta ideologica, anche la torre del Palazzo dei con-
ti Guidi a Poppi si caricherebbe di significati simbolici. Se anteriore
al palazzo fiorentino sarebbe la prima ad ispirarsi ad un modello im-
periale, a conferma di una scelta di campo dei conti casentinesi; se
posteriore potrebbe indicare la soggezione dei conti a Firenze, ma
anche l’ambizione di prendere a modello per la propria residenza il
palazzo simbolo della città 63. Ma, com’è stato detto in altra occasio-
 

ne, in mancanza di dati certi, si tratta d’ipotesi, anche se fascinose 64.  

58 Cfr. Trachtenberg, What Brunelleschi Saw, cit., p. 17sgg. e figg. 6, 10,


11, 13, 15, 22. Secondo N. Rubinstein, The Palazzo Vecchio, 1289-1532, New
York, Oxford University Press, 1995, p. 10, che pure mostra di accettare le tesi del
Trachtenberg, la struttura lignea sarebbe stata eretta direttamente sulla piazza.
59 Ivi, pp. 10 e 13 nota 30.
60 Ivi, p. 10. Sulla costruzione della torre si veda in modo particolare
Trachtenberg, What Brunelleschi Saw, cit., pp. 16-25. Cfr. anche Marchini,
Catalogo, cit., p. 157 (v. Firenze).
61 Rubinstein, The Palazzo Vecchio, cit., pp. 10 e 13.
62 Trachtenberg, What Brunelleschi Saw, cit., p. 25.
63 Cfr. Moretti, I conti Guidi, cit., pp. 163-164.
64 Ivi, p. 164.

80
1 — Certaldo, il Palazzo Pretorio, o Vicariale, in una immagine
ottocentesca, prima del restauro (cfr. nota 2).
2 — Certaldo, il Palazzo Pretorio o Vicariale, allo stato attuale (da
Rodolico e Marchini).
3 — Siena, Palazzo Pubblico, Sano di Pietro, San Pietro Alessandrino
tra i beati Andrea Gallerani e Ambrogio Sansedoni (1446),
particolare.
4 — Piacenza, Palazzo Pubblico, la facciata dopo i restauri
ottocenteschi.
5 — San Giovanni Valdarno, Palazzo Vicariale, detto ‘di Arnolfo’,
particolare della facciata (da Rodolico e Marchini).
6 — Pistoia, Palazzo del Comune, detto ‘degli Anziani’, la facciata.
7 — Firenze, Museo di Palazzo Vecchio, La cacciata del Duca d’Atene,
con il palazzo dotato delle antiporte fatte costruire da Gualtieri di
Brienne nel 1342.
8 — Siena, Palazzo Pubblico, rilievo del coronamento (da G.
Chierici).
9 — Montepulciano, Palazzo Comunale, la facciata.
10 — Poppi, Palazzo Pretorio, già dimora dei conti Guidi,
ricostruzione dello stato originale, acquerello di Massimo Tosi.
Sabato 12 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Jean-Claude Maire Vigueur

Elisabeth Crouzet-Pavan
La cité communale en quête d’elle-même:
la fabrique des grands espaces publics

Commençons avec une série d’images. Elles furent peintes du-


rant la période qu’il nous est donné d’analyser et, à leur manière,
elles produisent, si ce n’est un espace réel et une image fidèle, un
système de représentations, l’idée de ce que la cité des hommes de-
vait être. Il y a Duccio, ses Scènes de la Vie du Christ, les Episodes de
la vie publique ou les Scènes de la Passion et on découvre, comme
dans la Tentation sur la montagne, des murs d’enceinte, des tourelles
et des campaniles, une architecture jaillissante, une ville compacte
même si elle est faite de verticalité, à moins que, située à l’intérieur
des murs, la scène, à l’exemple du Christ et la Samaritaine ou de la
Guérison de l’aveugle, ne soit jouée devant d’imposants édifices cré-
nelés qui sont, de par leur présence massive et malgré le nombre des
fenêtres et des ouvertures qui les perce, les envahissants arrière-plans
de la figuration. L’échappée d’une rue aère parfois le paysage et per-
met aux personnages d’être regroupés. Il faut aussi que les hommes
puissent se presser avec leurs palmes sur le passage du Christ en
chemin vers la porte de son Entrée dans Jérusalem. Mais toujours
l’espace urbain est là, représenté dans ses pierres. Ou bien, il y a
Giotto et, inlassablement, des paysages urbains composent dans les
fresques l’indispensable décor devant lequel les hommes se meuvent:
91
Élisabeth Crouzet-Pavan

murailles crénelées encore, maisons hautes, tours et toitures, larges


basiliques gothiques ou architectures imaginaires comme dans La
Vision du Char du feu ou l’Extase de saint François. C’est assurément
dans les Démons chassés d’Arezzo que l’image atteint sa plus grande
force expressive. Arezzo, ou plus exactement l’ensemble bâti qui,
face à l’église, située de l’autre côté de la scène, figure Arezzo, ap-
paraît serré jusqu’à l’étouffement dans ses murailles. La cité respire
donc vers ce ciel que le saint est en train de purger de ses démons,
elle projette vers le haut, l’air et la lumière, la forêt de ses tours, de
ses cheminées et de ses belvédères. Tout a été dit sur ces choix figu-
ratifs sur lesquels pèsent encore les traditions antérieures, sur cette
ville de la verticalité, faite de toits et de maisons désertes, où les hom-
mes et les éléments du décor urbain paraissent ne pas communiquer
entre eux.
Avec Lorenzetti et les images tant commentées du Bon
Gouvernement de Sienne, ce bref préambule peut s’achever car, cette
fois, le dialogue des hommes et des pierres se noue. La cité s’anime:
ouvriers au travail sur un toit, artisans dans leurs boutiques, maî-
tre d’école devant son auditoire, femmes à leur balcon, je ne referai
pas la liste connue de tous les acteurs qui peuplent ces «images trop
belles» et font vivre les boutiques, les maisons et la rue 1. Mais, alors
 

même que l’artiste a pour mission d’illustrer l’union harmonieuse,


grâce au Gouvernement des Neuf, d’une communauté à son lieu
de vie, je remarque l’étroitesse des espaces publics. La rue seule est
mise en scène et c’est un carrefour qui crée le dégagement où danse
et chante le groupe des dix jeunes filles. En outre, nous retrouvons
cette sensation d’une compacité du bâti. L’espace de la rue, pourtant
net, propre et bien dessiné, n’est pas seulement en communication
étroite avec celui de l’atelier-boutique et des rez-de-chaussée qui
s’ouvrent vers lui. Il est dominé par la hauteur des murs qui l’entou-
re et, quand les hommes produisent et commercent, ses frontières
paraissent fragiles, menacées qu’elles sont par les empiètements des
auvents, des bancs et tables.

1 C. Frugoni, Una lontana città. Sentimenti e immagini nel Medioevo, Turin


1983. Dans le cadre de cette introduction, on ne citera pas l’abondante bibliogra-
phie consacrée à l’analyse de la fresque de Lorenzetti. Voir pour un aperçu: E.
Crouzet-Pavan, Enfers et Paradis. L’Italie de Dante et de Giotto, Paris 2001 (rééd.
2004), p. 292 (tr.it., Rome 2007).

92
La cité communale en quête d’elle-même

De ces représentations à celles de la ville renaissante, il est aisé


de mesurer le chemin parcouru. On m’objectera que ce sont les mo-
dalités de représentation de l’espace qui ont alors changé. On sait
qu’il y a eu un processus de développement technologique propre
aux arts visuels qui exerça ses conséquences sur leur histoire interne
et cette trajectoire influa puissamment 2. Il n’empêche. A l’heure où
 

les peintres maîtrisent la perspective, les visiteurs, à Venise, à Rome,


prennent l’habitude de monter au sommet d’un campanile pour em-
brasser la totalité d’un panorama, la ville déployée dans son ampleur
et son horizontalité. Ils agissent alors comme ces deux Florentins
accoudés par Ghirlandaio dans la Visitation, qui contemplent le spec-
tacle de Florence présente en contre-bas 3. La ville vaut désormais
 

dans sa plénitude et les articulations de ses pleins et de ses vides, non


plus les seules silhouettes de ses campaniles mais aussi les lignes de
fuite de ses places. Je n’entends bien sûr pas traquer dans ces peintu-
res autant de portraits de la ville aux âges successifs de sa vie. Mais j’y
vois au moins des images signifiantes de la réalité. D’où ce paradoxe
à souligner. Dans ces décennies, dernières du XIIIe siècle, premières
du siècle suivant, où les espaces publics commencent, grâce à des
aménagements cumulés, à plus fermement articuler l’espace urbain,
la rue seule est figurée. A l’inverse, les représentations postérieures,
et l’on pourrait citer toutes ces Vues de l’époque moderne, mettent
l’accent sur les amples dégagements, ces vastes trouées que l’époque
communale précisément s’employa à dégager.
De fait, ces espaces figurent aujourd’hui parmi les traces les
plus manifestes laissées par l’histoire communale. Le complexe des
places a en effet généralement résisté, mieux même parfois que les
réalisations monumentales. Un seul exemple. Quand changent les
sièges du pouvoir, à mesure que s’accomplit l’évolution des sei-
gneuries, même pour une part dévitalisées, les anciennes places ne
disparaissent pas et il arrive parfois, dans une histoire qui est faite
aussi d’involutions, qu’elles réacquièrent un temps leurs fonctions
et leur centralité. Les historiens de la ville peuvent donc aujourd’hui

2 E.H. Gombrich, The Renaissance Conception of Artistic Progress and Its


Consequences, Id., Norm and Form: The stylistic Categories of Art History and their
Origins in Renaissance Ideals, tous les deux réimprimés dans Id., Norm and Form:
Studies in the Art of the Renaissance, Londres 1966, pp. 1-10 et pp. 81-98.
3 Il s’agit de la Vie de saint Jean-Baptiste, Florence, Santa Maria Novella.

93
Élisabeth Crouzet-Pavan

relever l’importance des places dans la ville de l’Italie du Nord et


du Centre et récuser l’image traditionnelle d’un urbanisme médiéval
incapable d’aménager et de transformer en profondeur les structures
urbaines 4. Pourtant, alors que, dans ces dernières années, les infor-
 

mations sur la cité construite n’ont cessé de se multiplier, les données


qui concernent la création des espaces publics sont loin d’être parmi
les plus nombreuses. Nous retrouvons le paradoxe déjà signalé. Bien
que ces espaces soient appelés à perdurer, qu’ils continuent dans
nombre de cas à structurer les centres urbains et comptent parmi
les travaux les plus spectaculaires de l’urbanisme communal, leur
genèse n’est pas toujours aisée à retracer. La documentation, à l’égal
des images d’abord commentées, éclaire beaucoup plus nettement,
dans la chronique de l’expansion de l’espace public, la mise en place
et l’entretien du réseau des rues: c’est qu’il y a de nombreuses rues
à ouvrir, à élargir, à rectifier, à paver, à protéger des empiétements.
Surtout, l’objet de notre étude tend en fait à se dissoudre dans une
histoire d’ensemble qui est celle de la construction de la cité commu-
nale. Comment ne pas voir les liens structurels qu’il entretient avec
l’organisation du réseau viaire, en ville et dans le contado? Comment
dissocier ses rythmes de ceux de la construction des palais publics
ou la mise en place des grandes infrastructures économiques? Enfin,
même si toujours l’analyse tend à souligner la complexité de la
synthèse, il est possible pour qui s’intéresse à l’histoire des palais
communaux ou à celle des grands lotissements d’individualiser au
moins des modèles régionaux, quelques scansions généralement ac-
ceptables. En matière de grands espaces publics, une infinie variété

4 «Le touriste qui s’attarde à flâner dans les villes italiennes, émiliennes ou
lombardes, ne manque jamais d’être frappé par l’importance des places qui accom-
pagnent les grands monuments hérités de l’époque communale: cathédrales et palais
publics», P. Racine, Naissance de la place civique en Italie, dans Fortifications, portes
de villes, places publiques dans le monde méditerranéen, J. Heers éd., Paris s.d., pp.
301-322, p. 301. «L’urbanisme, c’est d’abord, dans l’opinion courante, l’aménage-
ment des espaces publics […] Dans ce domaine, le Moyen Age a longtemps joui
d’une réputation peu flatteuse». «Aujourd’hui encore, le paysage urbain des villes
italiennes reste très fortement marqué, au nord de Rome, par l’existence de quel-
ques grands ensembles monumentaux dont la configuration générale et même, pour
la plupart des éléments qui les composent, la création sont l’œuvre des régimes
communaux», J.-C. Maire Vigueur, L’essor urbain dans l’Italie médiévale: aspects et
modalités de la croissance, dans Europa en los umbrales de la crisis (1250-1350), XXI
Semana de Estudios medievales, Estella 1994, pp. 171-204, pp. 182-183.

94
La cité communale en quête d’elle-même

des situations prévaut au contraire. Une illustration suffit. Ouvrant,


il y a dix ans, une rencontre consacrée à la place du Dôme dans les
cités de l’Italie du Centre et du Nord, G. Cherubini d’entrée égrenait
une très longue liste de cités, les cas où la place du Dôme n’abritait
que la cathédrale et d’autres édifices religieux, ceux au contraire où
elle regroupait aussi les grands édifices civils, et puis les villes où les
places étaient dissociées, celles où, séparées, elles étaient toutefois
fort proches 5… 

A ce point de l’exposé problématique, mieux vaut alors partir


des textes pour y trouver des définitions et un premier fil conducteur.
Les sources vénitiennes sont à cet égard instructives. Ainsi, le livre
des sentences des juges du Piovego qui, au terme d’une instruction
serrée, rendent au domaine public des terres et des eaux usurpées
par les particuliers fournit-il, durant les années 1282-1337 où l’ac-
tivité de la cour est documentée, un certain nombre d’informations
sémantiques 6. Une affaire après l’autre, les procès font apparaître
 

une hiérarchie d’espaces. Il existe des espaces privés et le proprié-


taire peut y «facere omnes utilitates et necessitates», les ouvrir et
les fermer à son gré. Il existe des espaces communs à un groupe
de voisins et ceux-là, rue, terre, eau, doivent demeurer «ouverts et
non occupés» afin que «secure in die et in nocte» «cum amicis et
inimicis», la jouissance en soit pour le groupe assurée. Il existe enfin
ces étangs et ces pièces de terre sur lesquels la commune impose
son droit et ceux-là demeurent «ad comunem utilitatem», toujours
ouverts et non occupés au bénéfice du voisinage mais surtout de
«tocius comunis veneciarum». C’est à ces espaces qu’il faut nous
intéresser pour retracer comment ils se dilatent et se structurent.
Non que des lieux de circulation ou de rassemblement, ouverts au
groupe, n’aient pas plus tôt existé. Mais les territoires qui nous inté-
ressent sont définis, protégés, authentifiés en somme, par un statut
et par l’institution publique d’où émane ce statut. A quelle date com-

5 La Piazza del Duomo nella città medievale (nord e media Italia, secoli XII-
XVI), «Bollettino dell’Istituto storico artistico Orvietano», 1990-1991, XLVI-XLVII,
Orvieto 1997.
6 Archivio di Stato di Venezia, Giudici del Piovego, Busta 3, Codice del
Piovego; Codex Publicorum (Codice del Piovego), vol. 1 (1282-1298), B. Lanfranchi
Strina éd., Venise 1895 (Fonti per la storia di Venezia, sez. 1, Archivi pubblici); E.
Crouzet-Pavan, Sopra le acque salse. Espaces, pouvoir et société à Venise à la fin du
Moyen Age, Rome 1992, 2 vol., t. 1, p. 142 et suiv.

95
Élisabeth Crouzet-Pavan

mencent-ils à être documentés? Partons à la recherche de quelques


repères chronologiques.

Les villes maritimes et l’utilité publique

Or la chronologie qui se découvre n’est pas forcément la plus at-


tendue. Il ne faut pas ici invoquer Legnano ou la paix de Constance,
la victoire sur l’empereur et la fierté des communes attentives à ins-
crire dans la ville les marques de leur nouvelle capacité politique. Les
premiers grands espaces publics ne se confondent pas avec le péri-
mètre des places civiques, parfois dégagées en même temps qu’une
génération de palais communaux était construite. Un décalage vers
l’amont s’impose et Venise offre un premier jalon.
Au centre géographique de la cité, à la courbe du Grand Canal,
mais sur la rive droite quand, sur l’autre rive, un abattoir est simple-
ment installé, une activité de marché est attestée dès les origines de
Rialto-Venise, aux IXe et Xe siècles. Un siècle plus tard, la rive gauche
a pris le mieux et les premières infrastructures marchandes appar-
tiennent aux lignages qui résident dans cette insula du Rialto et en
mènent la bonification, les Gradenigo et les Orio 7. Quelques repères
 

documentaires éclairent la zone et les propriétés des deux familles.


Deux blocs de maisons et de terrains, largement parallèles, s’éten-
daient alors du Grand Canal à l’église de S. Giovanni Elemosinario.
Le macellum, cerné par des terrains marécageux, alors que, selon un
schéma assez général, les deux lignages avaient colonisé la périphérie
à partir des berges du Grand Canal, échappait à leur contrôle.
En 1097, les fils et héritiers de Stefano Orio, âgés et sans descen-
dants directs, font donation à la puissance dogale et au peuple, des
boutiques qui leur appartenaient à Rialto. Du Grand Canal à la calle
qui dessert l’église de San Giovanni, la donation concerne terrains et
stationes, un espace qui mérite déjà le qualificatif de marché. Dans les
décennies qui suivent, les offices publics indispensables aux échan-
ges sont transférés ici, d’abord peut-être celui des poids et mesures,
avant, au début du XIIe siècle, la Monnaie. Le rôle et l’attraction de
Rialto dès lors s’intensifient 8 et les revenus du marché servent à ga-
 

7 R. Cessi - A. Alberti, Rialto. L’isola. Il ponte. Il mercato, Bologne 1934, p.


8 et suiv.
8 Voir ici E. Crouzet-Pavan, Sopra le acque salse, cit., t. 1, pp. 175-176.

96
La cité communale en quête d’elle-même

rantir dès 1164 le montant des prêts souscrits pour la guerre 9. Dans  

la première moitié du XIIe siècle, un espace public a donc été mis


en place. Toute l’insula n’est certes pas encore placée sous l’autorité
du public, mais la dynamique est lancée. Après 1150, les installations
marchandes se multiplient et, dans ces rughe de boutiques, les diffé-
rents groupes de métier sont distribués. Puis, et nous sommes dans
les années 1220, les infrastructures débordent le territoire primitif
de la donation Orio et la bonification permet à l’emprise du public
de progresser. Arrêtons là l’histoire de cette croissance conquérante
du marché public. Au cœur de la cité, un espace des échanges a été
organisé mais pas seulement. A mesure que, déplacés ou nouvelle-
ment institués du fait de l’affinement de l’appareil administratif, les
offices économiques s’installaient à Rialto 10, un second espace de
 

décision et de référence s’imposait. En cette seconde moitié du XIIe


siècle, l’espace public se construit aussi à l’autre extrémité de la ville.
A la fin du siècle, l’Arsenal est fondé aux marges orientales de l’ag-
glomération, au milieu de marais qui, précieuses réserves d’espace,
furent utilisés, avalées au rythme des extensions successives 11. De là,  

les communications étaient assez aisées avec la rive méridionale de la


lagune qui, parce qu’elle était située au débouché naturel du chenal
qui unissait Venise à la passe littorale de San Nicolò, affirma sans
doute précocement l’orientation maritime que la géographie lagu-
naire lui imposait. Autant d’avantages qui expliquent la localisation
du chantier public 12.  

Qu’on n’invoque pas ici d’éventuelles particularités tenant à

9 I prestiti della repubblica di Venezia (sec. XIII-XIV), G. Luzzatto éd., Padoue


1920 (R. Accademia dei Lincei, Documenti finanziari della repubblica di Venezia,
serie III, vol. I, parte I), p. 34.
10 Les officia dans le Liber Officiorum du Maggior Consiglio sont répartis selon
les deux catégories de palatio et de Rialto.
11 E. Concina, L’Arsenale della Repubblica di Venezia, Milan 1984, p. 9.
Lorsque la documentation, dans les premières décennies du XIIIe siècle, commence
à éclairer plus nettement le chantier, il est évident qu’il y a déjà un véritable com-
plexe même s’il n’est bien sûr pas capable de satisfaire seul aux besoins de la flotte
vénitienne.
12 L’Arsenal assume donc une fonction décisive dans l’histoire de la forma-
tion de la puissance vénitienne même s’il ne détient aucun monopole en matière
de construction navale. Des chantiers privés, des squeri, sort en effet une produc-
tion importante, véritablement indispensable à l’armement commercial. F.C. Lane,
Navires et constructeurs à Venise pendant la Renaissance, Paris 1964, pp. 94‑108.

97
Élisabeth Crouzet-Pavan

l’histoire d’une ville qui n’appartenait pas au Regnum. Cette chro-


nologie n’a, quoiqu’il y paraisse, rien d’exceptionnel. Les deux
autres grandes cités portuaires viennent en effet la confirmer. Gênes
d’abord, où l’archéologie, puis les textes, attestent l’existence d’un
môle dans le premier tiers du XIIe siècle et où la commune lance en
1133-1334 une opération d’aménagement de la rive portuaire. Tout
au long de la Ripa, les riverains sont contraints d’édifier des porti-
ques réguliers: dix pieds de haut, neuf de profondeur. Les consuls
de comuni statuent non seulement sur les dimensions à respecter,
les matériaux de construction à employer. Ils font, devant les ha-
bitations, sortir de terre une structure nouvelle et originale. Une
voie couverte publique, à destination marchande, voit le jour et il
lui faut être libre de tout obstacle en hauteur comme en profon-
deur. La commune en effet affirme son droit sur les comptoirs et les
bancs, les emboli, installés sous ces portiques et loués. Elle encaisse
donc les loyers de la ripa maris, qualifiée dès 1164 de vacuum merca-
ti civitatis, alors que l’opération a été financée par les propriétaires
riverains. Il s’affirme ici ces principes, appelés dans les opérations
d’urbanisme, à se généraliser qui font reposer la charge des travaux
sur les riverains, les habitants de la paroisse ou le groupe qui en tire
une utilité. Puis, en 1163, les consuls font procéder à des expro-
priations à l’ouest du port afin d’ouvrir, près de San Giovanni du
Pré, de nouveaux scali pour les bâtiments 13 tandis qu’en bordure
 

de mer une voie est aménagée. Ce sont 3640 m2 qui sont alors récu-
pérés et, même si cette zone périphérique, où la valeur des maisons
et des terrains est faible, ne compte pas, à l’exception du monastère
de San Tomaso, de propriétaires importants, l’opération n’en est pas
moins riche de sens. De manière exactement contemporaine com-
mence aussi le processus d’où résultera la création de l’Arsenal et
des darses, avec le déplacement au couchant de la nouvelle muraille
des anciens scali, en particulier de celui qui servait à la réparation na-
vale. Etape suivante, et nous sommes en 1186, trois aires pour servir
de marché sont définies par la commune 14. Là encore, le droit du
 

public est sans conteste instauré puisque, comme sur la rive, la com-

13 Grève où tirer les navires et chantier naval.


14 Il s’agit de S. Giorgio, de S. Pietro in Banchi et Soziglia, L. Grossi Bianchi -
 

E. Poleggi, Una città portuale del medioevo. Genova nei secoli X-XVI, Gênes 1980.
p. 60.

98
La cité communale en quête d’elle-même

mune lève la gabella embulorum sive terraticorum 15. Si l’on ajoute  

que, dans ces mêmes décennies, la commune délimite d’autres aires


réservées à l’usage public, ou au moins collectif, à l’exemple, sur le
môle, du terrain concédé à la famille des Streggiaporci pour qu’elle
puisse y édifier l’église des gens de mer, dédiée à San Marco, on
mesurera à quel point, en trente ans 16, l’espace public, au bénéfice
 

de l’activité portuaire et marchande, pénètre Gênes: môle, pontons


et grèves, lieux de vente, d’approvisionnement et de débarquement
des marchandises, marchés sont donc ouverts à l’utilité générale.
Un véritable ensemble est structuré qui, autour d’un centre, la Ripa
maris, organise fonctionnellement les périmètres du marché, de la
construction et de la réparation navales.
Avec un léger décalage, s’ouvre la saison des grands travaux
pisans. Le long de l’Arno 17, tout un espace est réservé en 1162 à
 

l’aménagement d’une darse 18 tandis que les offices liés à la douane


 

levée sur les embarcations qui remontent l’Arno se situent, au nord


du fleuve, à l’entrée de la cité 19. Il faut dire que le bref des consuls,
 

juré à cette date, oblige ces magistrats à un programme contraignant


d’armement de galères. La commune s’est lourdement endettée pour

15 Ivi, p. 66. Voir aussi, J. Heers, Paysages urbains et sociétés dans les différents
types de «villes portuaires» en Méditerranée occidentale au Moyen Age, dans Città
portuali del Mediterraneo. Storia e archeologia, E. Poleggi éd., Gênes 1989, pp.
11-24.
16 L. Grossi Bianchi - E. Poleggi, Una città portuale nel Medioevo. Genova
nei secoli X-XVI, Gênes 1980, ont pu parler de «décennies épiques», p. 66.
17 «Una magna domus pro communi utilitate» est construite ici à partir de
1160 avec une fonction sans doute liée aux activités portuaires mais sur laquelle les
spécialistes de l’histoire de Pise ne s’accordent pas, voir G. Rossetti, Pisa: assetto
urbano e infrastruttura portuale, dans Città portuali, cit., p. 263-286 et G. Garzella,
Pisa com’era: topografia e insediamento dall’impianto tardoantico alla città murata del
secolo XII, Naples 1990, p. 171, n. 44 qui cite les Annales Pisani et fait état de ces
divergences.
18 Le breve consulum de 1162 réserve à cette darse l’espace compris entre
la via de Santa Maria et l’église de S. Donato, («De darsana facienda a vie maiori
sanctae mariae quae iuxta terram filiorum […] usque ad ecclesiam santi Donati», F.
Bonaini, Statuti inediti della città di Pisa, Florence 1854, vol. 1, p. 15); cette darse
est bien connue au siècle suivant car elle sert au déchargement des marchandises
vendues sur la place de S. Donato ou réexpédiées; G. Garzella, Pisa com’era, cit.,
p. 171-173. Voir aussi G. Rossetti, Pisa: assetto urbano e infrastruttura portuale, cit.,
p. 264.
19 Sur la localisation entre «porta Degathie» et le monastère de S. Vito, G.
Garzella, Pisa com’era, cit.

99
Élisabeth Crouzet-Pavan

soutenir la dépense et divers revenus publics sont engagés pour onze


ans pour garantir le remboursement 20. C’est peut-être dans cette
 

même zone, contiguë au monastère de San Vito, que se situe l’Ar-


senal. Mais peut-on, à cette date, déjà parler d’un arsenal? Il y a au
moins des chantiers qui travaillent pour la commune et un périmètre
placé sous l’autorité des consuls. C’est là qu’en 1200, le chantier est
installé tandis qu’est organisée l’opera della Tersana, en charge de la
construction et de l’entretien des installations 21. Un peu plus tôt, et
 

ce sont les Annales de Pise de Maragone qui documentent aussi ces


interventions, d’importants travaux publics avaient touché le port de
Porto Pisano. La tour de la Meloria avait été construite, le «portus
magnalis» avait été fortifié par deux tours, les capacités de fourniture
en eau potable avaient été accrues et des canaux avaient été creusés
pour relier Pise à son port 22.  

De ces premières informations, tirons trois séries d’observations.


On soulignera d’abord que notre chronologie paraît venir confirmer
les temps forts d’une histoire générale. Des signaux répétés mar-
quent que s’ouvre une séquence nouvelle et elle concerne d’abord le
réseau des communications. Même si le réseau routier n’avait jamais
été abandonné durant le Haut Moyen Age 23, partout dans l’Europe
 

chrétienne, sa gestion change durant le XIIe siècle et un phéno-


mène explique la transformation en œuvre: les pouvoirs politiques
«redécouvrent» la route. Routes et ponts rentrent dans la sphère
d’intervention des pouvoirs publics 24 et bénéficient par là même de
 

nombreuses améliorations. Il suffit de lire les brefs des consuls de


Pise 25. La cité n’est éclairée que dans certaines de ses composantes
 

essentielles: le fleuve et ses rives, la cathédrale, les tours dont on sur-


veille les dimensions, quelques maisons… Mais sont aussi cités, avec

20 G. Garzella, L’arsenale medievale di Pisa: i primi sondaggi sulle fonti scrit-


te, Arsenali e città nell’Occidente europeo, E. Concina éd., Rome 1987, p. 52.
21 Ivi, p. 53.
22 G. Garzella, Pisa come era, cit., p. 163; E. Tolaini, Pisa, Rome-Bari 1992,
p. 34.
23 Th. Szabó, Comuni e politica stradale in Toscana e in Italia nel medioevo,
Bologne 1992, p. 15 et suiv. et Id., Il controllo dello spazio e la genesi della rete via-
ria comunale nel Medioevo, dans Spazio, società, potere nell’Italia dei Comuni, G.
Rossetti éd., Naples 1986, pp. 27-36.
24 Id., Comuni e politica, cit., pp. 4 et suiv., pp. 83 et suiv.
25 Statuti inediti, cit., p. 3, p. 6, p. 11, p. 12, p. 13, p. 35.

100
La cité communale en quête d’elle-même

les fossés et les murailles, le pont et quelques rues, à mesure que les
textes redisent l’existence d’une «communis populi pisani utilitas»
et qu’ils statuent au sujet des «viis publicis». Le bref des consuls de
Pistoia qui réglementent la hauteur des tours et protègent les voies
publiques ne diverge pas 26. D’autre part, de la croissance urbaine ré-
 

sulte souvent, au cours du XIIe siècle, la construction d’une enceinte


qui vient remplacer les premiers murs romains, partiellement relevés
au haut Moyen Age autour des cités contractées et ces fortifications
marquent une forte extension de la surface bâtie.
Il n’en demeure pas moins que nos trois villes portuaires, et
j’insiste sur ce deuxième point, témoignent d’un dynamisme tout
particulier. Gênes et Pise se dotent d’une nouvelle enceinte et,
dans l’un et l’autre cas, l’affaire est rondement menée 27. Davantage  

même, le début de ces travaux marque une rupture dans le récit de


Maragone qui mentionne les consuls, jamais cités jusqu’alors, tan-
dis que Caffaro, à Gênes, fait du chantier un des moments forts de
l’histoire de la cité. En outre, dans l’un et l’autre cas, le tracé des
murailles et la localisation des portes purent permettre à la commune
d’orienter et de contrôler, dans une certaine mesure, les lignes di-
rectrices de l’urbanisation. A Pise, M. Ronzani l’a remarqué, l’aire
destinée à devenir la place du Dôme est ainsi délimitée en 1154 par le
tracé des remparts 28. Ce sont les particularités du site qui expliquent
 

que Venise ne se dote pas de semblables fortifications. Cette ville,


tout au long de son histoire, ignore la muraille. Il reste que Venise
poursuit au XIIe siècle son irrésistible mouvement de conquête. Au
cours du XIIe siècle, les dernières constructions d’églises paroissia-
les touchent aux confins lagunaires: Santa Lucia ou San Marziale.
La création du maillage paroissial paraît, dans ses grandes lignes,

26 Breve dei consoli [1140-1180], dans Statuti pistoiesi del secolo XII, N. Rauty
éd., Pistoia 1996, p. 146.
27 Voir ici M. Ronzani, La piazza del Duomo di Pisa, dans La Piazza del
Duomo, cit., pp. 19-134, pp. 49-50. Commencée en 1155, la construction de l’en-
ceinte de Pise est achevée en 1161 et la commune peut, à cette date, passer à la
défense de l’Oltrarno, G. Garzella, Pisa com’era, cit., pp. 163-164. A Gênes, les tra-
vaux démarrent en 1157 et s’intensifient en 1158 et 1159 ce qui permet à Caffaro de
souligner leur rapidité extrême et de louer la parfaite organisation du chantier: les
habitants travaillent en effet selon les subdivisions territoriales, tour à tour. Enfin,
en 1160, des tours sont élevées qui achèvent l’ouvrage.
28 M. Ronzani, La piazza del Duomo di Pisa, cit., p. 20.

101
Élisabeth Crouzet-Pavan

achevée. Les limites sont repoussées et redessinées. Sur les zones du


contact lagunaire, les frontières sont modifiées, la ville gagne aux
dépens de l’eau. Mais la colonisation se mène autant sur un front in-
terne. Les noyaux de peuplement se multiplient et les communautés
aménagent graduellement l’espace entier de leur îlot 29. Sans donc  

que la construction d’une muraille ne vienne, de manière éclatan-


te, manifester la vigueur de l’expansion et la capacité de l’autorité
communale en matière urbaine, dans ses modalités et sa force, la
croissance vénitienne ne diffère pas.
En outre, la liste des opérations spectaculaires ne s’arrête pas là.
A Pise, intervient en 1161, la fondation par les consuls d’une domus
communis 30, un premier lieu de réunion donc pour les instances de
 

la commune qui jusqu’alors siégeaient dans diverses églises, une éta-


pe d’importance même si l’articulation d’un véritable centre civique
va longuement s’accomplir. A Venise, une opération d’une tout autre
ampleur est conduite. Depuis la seconde décennie du IXe siècle, les
doges résidaient dans un palais, construit sur une parcelle faisant
partie du broglio de l’église San Zaccaria et muni de fortes défenses.
En prolongement de ce premier édifice, la basilique avait été bientôt
construite et autour de ces deux monuments, le palais et la basilique,
chapelle du doge 31, ainsi que l’attestent les chroniques, l’espace avait
 

commencé à manifester certains caractères originaux: une ouverture


à l’ensemble de la communauté naissante, des fonctions et des usages
qui, vite, se surimposent sur ceux des différents campi paroissiaux 32.  

Le premier palais était fortifié, muni de plusieurs tours défensives.


Cette première structure, malgré diverses vicissitudes, demeure en
place jusqu’au dogat de Sebastiano Ziani 33. Entre 1172 et 1178, un
 

nouveau palazzo comune est construit. Dans le même temps, des tra-
vaux précipitent l’aménagement de la place San Marco: la partie du
bassin qui s’avançait jusqu’à hauteur du campanile est asséchée, les

29 E. Crouzet-Pavan, Sopra le acque salse, cit., t. 1, pp. 65-66.


30 Sur sa localisation, près de l’église S. Ambrogio al Castelletto, G. Garzella,
Pisa com’era, cit., p. 166.
31 E. Crouzet-Pavan, Sopra le acque salse, cit., t. 1, pp. 165-173.
32 Les places paroissiales portent à Venise le nom de campo, le terme de pla-
tea, piazza, étant réservé à la seule place San Marco. Ces campi sont à l’origine des
étendues herbeuses, allongées entre l’église paroissiale et les maisons de la famille,
ou des familles fondatrices, de l’église.
33 R. Cattaneo, La basilica di San Marco, Venise 1888.

102
La cité communale en quête d’elle-même

canaux qui traversaient la place et la piazzetta sont comblés, l’église


San Geminiano qui se dressait au milieu de la place est déplacée.
Ainsi est élargie une surface déjà considérable. Mais, pour des siècles,
sont aussi fixés le décor et l’organisation du périmètre, la structure
de la place, ses relations avec le reste du corps urbain. La place, arri-
mée à la ville et au tissu urbain, est également située à la convergence
des voies d’eau principales, au lieu de leur rencontre dans le bassin
de San Marco. Ainsi bénéficie-t-elle d’un double ancrage, significa-
tif du milieu et des rapports constitutifs de la terre et de l’eau. Ses
frontières connaissent, au temps du doge Ziani, une redéfinition ma-
térielle et symbolique. Aux confins de la Piazzetta, au-dessus de la
rive et de l’eau, deux immenses colonnes sont levées tandis que, sur
le flanc nord, les maisons des procurateurs de Saint-Marc, alignées
en construction continue, tracent une nouvelle limite régulière. Au
terme de ces opérations, il a donc été dégagé à San Marco une place
à la taille et à la structure inouïes dans la cité occidentale du temps.
D’ailleurs, l’image de Constantinople et l’organisation des espaces
centraux dans cette capitale impériale inspirèrent très certainement
l’entreprise 34. Autant de données qui me paraissent établir que les
 

autorités politiques des grandes villes maritimes démontrèrent un


souci précoce de la gestion urbaine.
Elles disposaient sans doute de davantage de ressources éco-
nomiques et humaines. Mais les murailles, plus que les modestes
infrastructures économiques, requéraient des moyens importants. Il
faut donc plutôt observer que les dirigeants communaux surent dans
ces trois villes répondre aux nécessités induites par le développe-
ment des trafics. Avec l’œuvre de défense, ce sont les infrastructures
économiques qui furent en effet dans ces trois ports l’objet des inter-
ventions les plus systématiques. A Venise, à Gênes et à Pise, et là est
la particularité commune à l’histoire urbaine de ces trois villes, l’es-

34 Il faut ici renvoyer aux analyses très convaincantes de M. Agazzi, Platea


Sancti Marci. I luoghi marciani dall’XI al XII secolo e la formazione della piazza,
Venise 1991, p. 149-152 pour les très significatives opérations décoratives du XIIIe
siècle: chevaux sur la basilique, ajout des sculptures sur les deux colonnes de la
Piazzetta, groupe des tétrarques ainsi qu’à celles de J. Schulz, Urbanism in Medieval
Venice, dans City-States in Classical Antiquity and medieval Italy. Athens and Rome,
Florence and Venice, A. Molho - K. Raaflaub - J. Emlen éd., Stuttgart 1991, pp.
419-441, pp. 438-440; cet auteur examine plus précisément ce que les Vénitiens
pouvaient connaître des différents fori de Constantinople.

103
Élisabeth Crouzet-Pavan

pace public naît et croît au bénéfice de l’expansion maritime. Bien


sûr, Venise offre l’exception de sa place San Marco mais il faut ici
invoquer l’héritage byzantin et les particularités de la situation politi-
que. A Pise, les consuls se contentent d’une simple domus comunis 35  

et l’on ne sait rien du périmètre adjacent. Quant à Gênes, pas de


construction d’un tel siège, et ce n’est que tard dans le XIIIe siècle
que la commune renonce à se réunir dans le palais archiépiscopal
ou des palais privés pour édifier un bâtiment spécifique. Dans cette
histoire du palais public et de la place qui l’entoure, la ville de Rome
fait bien davantage montre de précocité puisque, après la renova-
tio senatus de 1143, un palatium novum est édifié sur le Capitole 36.  

La conclusion s’impose. Dans le paysage de nos trois villes mariti-


mes, les effets de l’intervention du pouvoir sont dans le cours du
XIIe siècle clairement marqués. Des travaux s’attachent à agrandir
et à moderniser les installations portuaires, à aménager les lieux des
échanges, à faciliter l’accès aux entrepôts, à dégager les espaces de la
construction et de la réparation navale. La commune, que dominent
les artisans et les soutiens de l’expansion maritime, travaille pour
l’utilité de sa flotte de guerre comme le profit de ses marchands et
armateurs. Dans ces trois villes, on le sait, l’histoire de la commune
— et à Venise, celle même de la cité —, a ontologiquement partie
liée avec l’aventure maritime. L’histoire des espaces publics et celle
de l’expansion marchande suivent, durant cette première séquence,
des trajectoires communes.
A lire l’historiographie, et c’est une troisième remarque, il
faudrait toutefois se garder de surestimer ces opérations. Il est ef-
fectif que même à Venise, si l’on observe les deux périmètres du
Rialto et de l’Arsenal, l’œuvre de création des espaces publics est
longuement continuée 37. Longtemps, les infrastructures sont rudi-
 

mentaires. La rive portuaire ne devient un véritable quai que dans les


dernières décennies du XIIIe siècle. A Gênes, si l’on excepte le Môle,

35 Domus qui devait être au plan architectural un édifice assez modeste.


36 J.-C. Maire Vigueur, Les inscriptions du pouvoir dans la ville: le cas de
l’Italie communale. XIIe-XIVe siècles, dans Villes de Flandre et d’Italie. Les ensei-
gnements d’une comparaison, E. Crouzet-Pavan - E. Lecuppre - Desjardins éd.,
Turnhout 2008.
37 E. Crouzet-Pavan, Sopra le acque salse, cit., t. 1, pp. 177 et suiv. et Ead.,
Venise triomphante. Les horizons d’un mythe, Paris 1999 (trad.it. 2001), pp. 195 et
suiv.

104
La cité communale en quête d’elle-même

les portiques de la Ripa et quelques entrepôts pour les céréales, des


structures légères, tout au long de la grève, permettaient l’accostage,
le chargement et le débarquement des marchandises. Sans doute
encore, les modalités de financement ne sont pas encore toujours
clairement fixées. Quand il apparaît pour la première fois dans la
documentation, le môle génois est défini comme opera pia 38. On sait  

que dans la ville du XIe siècle, les quelques ponts qui sont construits
le sont à l’exemple des institutions d’assistance, grâce à la charité,
aux dons et aumônes 39. Libres, ou sollicités, des legs testamentaires
 

plus fréquents alimentent l’œuvre des ponts qui figurent désormais


dans cette liste d’édifices pieux pour lesquels les innombrables quê-
teurs s’en vont demandant la charité des fidèles 40. Œuvre pieuse,
 

bien sûr, que la fondation et l’entretien d’établissements d’assistance.


Il n’est pas besoin d’y insister puisque, partout, les exemples sont
nombreux qui montrent comment essaiment de telles institutions 41.  

Mais, dorénavant, l’édification des ponts et l’entretien des chemins


deviennent aussi œuvre pie et acte de foi. Les aides à la fabrique des
églises étaient courantes et elles soutenaient, dans des proportions
variables, les chantiers des édifices anciens ou nouveaux. Pour être
moins fréquentes, les contributions à la construction ou à la réno-
vation de quelques ouvrages sont de même nature. L’Eglise devient
donc un des protagonistes des travaux. Mais à côté d’elle les fidèles
laïcs peuvent aussi agir. Pise est dotée d’un second pont sur l’Arno
en 1182: il faut dire qu’au long du XIIe siècle, l’urbanisation avait,

38 L. Grossi Bianchi - E. Poleggi, Una città portuale del medioevo, cit., pp.
100-101.
39 E. Crouzet-Pavan, Pour le bien commun… A propos des politiques urbaines
dans l’Italie communale, dans Pouvoir et édilité. Les grands chantiers dans l’Italie
communale et seigneuriale, E. Crouzet-Pavan éd., Rome 2003 (Collection de l’Ecole
française de Rome, 302), pp. 11-40.
40 On doit à D. Balestracci une analyse très fine de ces évolutions dans sa
contribution, Gli edifici di pubblica utilità nella Toscana medievale, dans L’Architettura
civile in Toscana. Il Medioevo, A. Restucci éd., Sienne 1995, pp. 227-267; je suis ici
son commentaire.
41 Voir par exemple, pour se limiter à ces quelques références, dans le vo-
lume Città e servizi sociali nell’Italia dei secoli XII-XV, Pistoia 1990: G. Albini,
L’assistenza all’infanzia nelle città dell’Italia padana (secoli XII-XV), pp. 115-140;
G.M. Varanini - G. De Sandre Gasparini, Gli ospedali dei “malsani” nella società ve-
 

neta del XII-XIII secolo, et particulièrement la première partie L’iniziativa pubblica e


privata, pp. 141-165, ainsi que G. Albini, Città e ospedali nella Lombardia medievale,
Bologne 1993.

105
Élisabeth Crouzet-Pavan

Oltrarno, progressé à un rythme rapide 42. Or, pour l’édification de


 

cet ouvrage, deux groupes de familles s’opposent durement jusqu’à


ce qu’un compromis soit trouvé. L’intérêt de ces informations n’est
pas mince. Les travaux sur le môle, à l’égal du financement des
ponts, sont donc des œuvres qui participent de l’entreprise de salut
commun et qui glorifient Dieu en servant les créatures qu’il a faites
à son image. Le service de Dieu, l’utilité de la commune, celle des
hommes et des familles qui comptent et entreprennent, le bien de
la communauté, ne se dissocient pas. Comme si Dieu favorisait les
interventions et les choix par lesquels les hommes modifiaient leur
environnement immédiat.
Il apparaît donc que se réalisent au cours du XIIe siècle des évo-
lutions sensibles au plan matériel et idéologique. Un cadre juridique
et des instruments d’intervention sont mis en place. Mais, dans les
villes qu’anime un véritable décollage économique, seuls quelques
périmètres, ou quelques installations, bénéficient encore de l’essence
publique et des privilèges qui lui sont liés.
De nets progrès sont ensuite marqués dans les dernières décen-
nies du siècle et l’on invoque, pour les expliquer, l’affirmation, nette
après la paix de Constance, de l’organisme communal tandis que le
recours au droit se généralise dans la vie citadine. Mais les progrès
portent cette fois prioritairement sur les sièges du pouvoir.

2. La commune, le palais public et la ville

Par ses interventions édilitaires, l’instance communale choisit


de faciliter les conditions de son exercice et celles de sa mise en scène
dans l’espace citadin. Une génération de palais publics est construite
et l’Italie du Nord fait montre d’une certaine précocité puisque ces
palais communaux sont élevés dans les bornes d’une séquence très
ramassée. En Lombardie et dans la Marche trévisane, en Piémont
comme au sud de la plaine du Pô, à Lodi, à Bergame (1188-1196) 43,  

à Côme, à Milan, à Brescia (1193), à Pavie, à Vérone (1193) ou à

42 G. Garzella, Pisa com’era, cit., pp. 115-116.


43 F. Reggiori, Aspetti urbanistici ed architettonici della civiltà comunale, in
I problemi della civiltà comunale, Atti del Congresso Storico Internazionale per
l’VIII° Centenario della prima Lega Lombarda, C.D. Fonseca éd., Bergame 1971,
pp. 97-106, p. 103.

106
La cité communale en quête d’elle-même

Vicence (1195) 44, à Modène (1194) mais aussi à Asti (1197), Vercelli
 

(1202), Novare (1208) 45, un palatium est bâti. Ces lieux du pouvoir
 

paraissent alors sanctionner au plan monumental la consolidation


des institutions communales et la mise en place du régime des po-
destats. Ils remplacent en effet les anciennes domus consulum ou
case Credentiae, édifiées quand les palais des évêques, devenus les
seigneurs de la cité, étaient les seuls palais urbains. Affermi insti-
tutionnellement, le pouvoir entend se symboliser en même temps
qu’il se dote, très concrètement, des lieux utiles à son fonctionne-
ment 46. Construits dans leur simplicité structurelle à l’imitation des
 

précédents sièges du pouvoir impérial 47, ces palais servent en effet


 

à abriter la suite nombreuse de juges, de notaires et d’hommes d’ar-


mes et les nouveaux organes administratifs et judiciaires qui étaient
alors institués. Puis en Italie centrale, à Pérouse 48, où la construc-
 

tion démarre en 1205, à Todi 49 où elle est attestée à partir de 1214,


 

à Orvieto, la révolution institutionnelle, avec quelque retard, peut


faire surgir, dans les premières décennies du XIIIe siècle, un premier
palais, souvent modeste. A Florence et à Sienne, il est de même fait

44 G. Panazza, Appunti per la storia dei Palazzi comunali di Brescia e di Pavia,


«Archivio Storico Lombardo», 91-92, 1966, pp. 181-203; C. Tocco, I palazzi co-
munali nell’Italia nord-occidentale: dalla pace di Costanza a Cortenuova, in Cultura
artistica, città e architettura nell’età federiciana, Atti del Convegno Internazionale di
studi, Reggia di Caserta-Cappella Palatina, A. Gambardella éd., Rome 2000, pp.
395-422. p. 403; G. Soldi Rondinini, Evoluzione politico-sociale e forme urbanistiche
nella Padania dei secoli XII-XIII: i palazzi pubblici, dans La pace di Costanza 1183.
Un difficile equilibrio di poteri fra società italiana ed impero, Milan 1984, p. 85-98;
P. Racine, Les palais publics dans les communes italiennes (XIIe-XIIIe siècles), dans
Le paysage urbain au Moyen-Age, Actes du XIe Congrès des historiens médiévistes
de l’enseignement supérieur, Lyon 1981, p. 133-153; L. Castellani - C. Tocco, La
città comunale e gli spazi del potere, Asti 1188-1312, «Società e Storia», 76 (1997),
p. 253-283.
45 C. Tocco, I palazzi comunali, cit.
46 Il ne faut pas oublier en effet que ces opérations purent avoir aussi des
objectifs patiques.
47 G. Andenna, La simbologia del potere nelle città comunali lombarde: i pa-
lazzi pubblici, dans Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, Rome
1994, p. 369-393.
48 M.R. Silvestrelli, L’edilizia pubblica del Comune di Perugia: dal “Palatium
communis” al “Palatium novum populi”, dans Società e istituzioni dell’Italia comuna-
le: l’esempio di Perugia (secoli XII-XIV), Pérouse 1988, pp. 479-604, pp. 485-486.
49 C. Martini, Todi e Perugia. Il “Palazzo pubblico” e le istituzioni comunali,
dans La coscienza cittadina nei comuni italiani del Duecento, Todi 1972 (Atti del
Convegno del Centro di Studi sulla spiritualità medievale, XI), p. 359-364.

107
Élisabeth Crouzet-Pavan

mention dès le début du XIIIe siècle d’un palatium Communis mais


il n’est guère possible d’en dire plus 50.  

Le palatium et la cathédrale

Voilà donc des chantiers ouverts dans de nombreuses villes de


l’Italie du Nord, dès lors dotées d’un nouvel édifice public. Voilà
encore que ces constructions présentent des traits architecturaux
communs parce que les modèles et la main d’œuvre circulèrent et
que certains podestats jouèrent un rôle décisif dans ces opérations
monumentales. Pour l’un ou l’autre de ces magistrats, la carrière, les
mandats successifs furent ponctués par de tels travaux. Demeurent
donc le nom et le renom de ces podestats bâtisseurs même si on
aimerait en savoir plus sur les conditions concrètes d’exécution des
travaux. Ces opérations, quoique imparfaitement éclairées par la do-
cumentation, n’en captent pas moins traditionnellement le regard
et l’attention. Il faut en revanche sur l’histoire des espaces proches
constater un net déficit d’observations. Les raisons ne manquent
pas pour expliquer cette différence de traitement historiographique.
L’attrait pour l’histoire des monuments, même quand leur qualité es-
thétique n’est pas comme ici très développée, n’est pas seul en cause.
C’est qu’une histoire générale semble, pour ces places en formation,
difficile à dégager 51.
 

Reprenons la séquence pour une part parcourue. En 1179, les


consuls de Plaisance, note le chroniqueur Codagnello, décident de
déplacer le lieu de réunion de l’assemblée populaire. La concio se
tenait jusqu’alors près de l’ancienne cathédrale dédiée à S. Antonino,
qu’une nouvelle cathédrale, dédiée à Santa Giustina et construite à
l’intérieur de la muraille, avait toutefois supplantée au IXe siècle.
L’assemblée est désormais convoquée près de la nouvelle cathédrale
qui avait été, sait-on, reconstruite au cours du XIIe siècle. Les chapi-
teaux des colonnes de la nef centrale portent les symboles des métiers

50 G. Fanelli, Firenze, Rome-Bari 1966, pp. 29-30; ce bâtiment s’élevait à


Florence pas très loin du lieu où sera construit plus tard le Palazzo Vecchio; D.
Balestracci - G. Piccinni, Siena nel Trecento. Assetto urbano e strutture edilizie,
Florence 1977, p. 103.
51 On considère que la platea publica fait son apparition dans la Lodi recons-
truite sur ordre de Frédéric Barberousse, en 1158. Il faut en effet rappeler que le
terme de platea maior, comme à Bologne, désigne d’abord, une rue principale.

108
La cité communale en quête d’elle-même

qui ont participé au financement du chantier puisque, et ce n’est


qu’une attestation parmi d’autres, jusqu’à la fin du XIIe siècle, les
énergies et les ressources de la communauté s’employaient d’abord
à embellir l’église mère. C’est dire qu’à l’heure de l’affirmation des
institutions communales, il est décidé qu’il n’est pas de lieu plus
propice à la discussion des affaires publiques que celui situé à proxi-
mité de l’ecclesia matrix, du monument symbole de la cité. L’espace
disponible, cependant, ne suffit pas: la place est donc agrandie par
des expropriations et des démolitions 52 et, bien vite, elle assume des
 

fonctions diversifiées. Elle est ainsi appelée à devenir, à côté de la


place du Bourg, la seconde place du marché, et là s’installent les
marchands de denrées alimentaires, les pelletiers et les fourreurs.
L’instance publique est donc capable ici de mener une opération ur-
baine d’envergure, d’imposer ses contraintes au plus central et au
plus densément bâti de l’espace urbain. Mais, dans ces années, ce
nouveau lieu du politique entretient encore des liens immédiats et
naturels avec le quartier épiscopal. De même à Brescia. La commune
achète en 1187 aux chanoines le terrain nécessaire à la construction
du palacium: il se situe au nord de la cathédrale où jusqu’alors les
consuls se réunissaient et le nouvel édifice est utilisé dès 1193. La
construction du palais de Bergame démarre un an plus tard, en 1188,
et sa localisation est bien connue. Il donne d’un côté sur la place du
Dôme, de l’autre sur la Piazza Vecchia, A Milan, la commune entre-
prend à peu d’années de distance la construction de deux palais:
le premier, destiné aux consuls, est construit entre 1188 et 1196 et
reçoit très vite le nom de vetus pour le distinguer du second, le pa-
latium novum Communis Mediolani, qui abrite les tribunaux 53. Ils  

s’élèvent dans le broleto de l’évêque, ce lieu ouvert où la justice était


rendue et où, déjà, la domus des consuls de la ville, attestée avant
1138, avait été bâtie 54.  

De même, à Lodi, à Pavie, à Côme, à Modène, à Novare, cette


même proximité se retrouve comme si la commune peinait à s’éloigner

52 P. Racine, Naissance de la place civique, cit., pp. 301-321; le consilium se


réunit dans le palais de l’évêque.
53 F. Bocchi, Il Broletto, Milano e la Lombardia in età comunale secoli XI-XIII,
Cinisello Balsamo-Milan 1993, pp. 38-42. G. Soldi Rondinini, cit., pp. 85-98.
54 R. Comba, La città come spazio vissuto: l’Italia centro-settentrionale fra XII e
XV secolo, dans Spazi, temi, misure e percorsi nell’Europa del basso medioevo, Spolète
1996, pp. 183-209, pp. 196-197.

109
Élisabeth Crouzet-Pavan

du pouvoir épiscopal, de la cathédrale et de sa charge symbolique et


identitaire. Sans compter qu’un espace dégagé était nécessaire pour
réunir la concio et que les broletti épiscopaux se prêtaient bien à ce
type de rassemblement. Sans compter surtout que toute la morpho-
genèse précédente de la ville avait été précisément conditionnée par
la situation du palais épiscopal, au temps où la capacité politique se
structurait dans l’entourage de l’évêque, alors que les palais impé-
riaux, ducaux, et comtaux s’élevaient, depuis la seconde moitié du
XIe siècle, à l’écart du centre urbain. Moins les inévitables excep-
tions 55, un caractère commun semble donc s’affirmer. La dignité du
 

siège de l’instance communale change. Les consuls se réunissaient


dans une simple domus, voire dans une église alors que le palais épis-
copal, véritable palacium, jouissait d’une qualité architecturale que
des travaux récents ont bien mis en lumière 56. L’historiographie, à
 

juste titre, a relevé, quand est adopté le terme de palatium comunis,


l’importance du tournant politique et sémantique. Il demeure que
la construction de ce palais communal n’engendre pas immédiate-
ment et nécessairement le dégagement d’un espace public. Autour
du nouveau siège de l’instance politique, il y a bien un espace ouvert
et toute la structure de l’édifice s’ouvre vers lui, qu’il s’agisse des
portiques et loggias du rez-de-chaussée ou de l’escalier extérieur qui
mène à la grande salle du premier étage ou de la loggia. Mais cet
espace, que les sources narratives qualifient parfois rétrospective-
ment de platea maior, préexistait. Il était lié ontologiquement à la
cathédrale et à l’évêque, à l’organisation ancienne du pouvoir dans
la ville. Là même où, comme à Brescia, la construction du palais
s’accompagne de l’aménagement d’une cour carrée, close, conçue
pour réunir les assemblées de citoyens, le terrain devenu, à la suite de
cette transaction, propriété communale, avait été, je l’ai dit, acheté
aux chanoines 57. Il en va comme si la commune et son nouveau siège,
 

même au temps des premiers podestats, maintenait ses liens avec le


pouvoir dont elle avait pris la relève, comme si une continuité, pas
seulement topographique, prévalait encore. Mais faut-il s’en étonner
lorsque l’on sait que pendant des décennies le pouvoir des consuls
et celui de l’évêque interagirent dans une véritable contiguïté des

55
G. Andenna, La simbologia, cit., p. 382 qui cite Verceil, Asti et Mantoue.
56
M.C. Miller, The Bishop’s Palace. Architecture and Authority in Medieval
Italy, New-York 2000.
57 G. Andenna, La simbologia, cit.

110
La cité communale en quête d’elle-même

institutions?

Quand la place réinvente le centre

Puis la rupture topographique parfois intervient, ou plutôt elle


opère dans quelques villes grâce à des entreprises spectaculaires.
L’exemple de Bologne peut ouvrir l’analyse. La commune se
lance entre 1200 et 1203 dans une politique d’acquisitions systéma-
tiques qui permet l’aménagement de la Piazza Maggiore (nommée
alors curia comunis, puis platea comunis). L’affaire est d’envergure:
quarante-neuf contrats de vente conservés documentent, à partir de
ce qui sera le futur centre de la place, achats et démolitions. Elle
est rapide puisque dès le printemps 1201 un espace suffisant a été
dégagé. Le portique du palais, sous lequel est installé le notaire de
la commune en charge de l’opération, y est construit. Le chantier
prouve surtout une volonté politique: la place alors ouverte, comme
le palais qui s’élève bientôt sur l’un de ses côtés, se situe au centre de
la cité, à égale distance entre la cathédrale et l’ancienne curia Santi
Ambrosii, premier siège de l’autorité communale. Dans ce périmè-
tre, véritable insula où l’organisation du réseau viaire antique était
conservée, dans cet espace où la cité du haut Moyen Age avait vécu,
protégée par ses murs, il est aisé d’imaginer la densité de l’urbanisa-
tion. La documentation éclaire un peu du tissu urbain et du paysage
social appelés à disparaître du fait des travaux. Quelques édifices
modestes et des artisans mais surtout des propriétés ecclésiastiques
et les demeures de puissantes familles aristocratiques comme les
Torelli-Salinguerra. La valeur d’un des complexes, cédé par ces der-
niers, représente près de la moitié du coût total de l’investissement
foncier (1500 livres). Les confronts révèlent encore la résidence dans
la zone d’autres lignages anciens, comme les Lambertazzi. Un col-
lège d’experts fixe la valeur des biens sur la base des estimi et les
familles sont contraintes de vendre au prix indiqué, tandis que la
commune, avec une célérité remarquable, exécute et finance l’opé-
ration. Au prix des lots achetés, il faut encore ajouter le coût de la
démolition des édifices et de l’aplanissement du terrain, peut-être
du pavage, celui du réaménagement du pourtour avant le chantier
du palais communal que flanque un campanile de bois 58. Difficile  

58 F. Bocchi, Atlante storico di Bologna, vol. II, Il Duecento, Bologne 1995.

111
Élisabeth Crouzet-Pavan

de trouver une manifestation plus spectaculaire de la restauration de


la notion d’espace public. Le périmètre est libéré et la place civique
est réinventée car elle devient le théâtre des cérémonies communales
comme le siège d’un marché permanent 59: sous les portiques du pa-
 

lais, dès 1208, on vend le sel, le blé, le vin…


Les opera Parmensium, ainsi que le nomme frà Salimbene, per-
mettent de progresser dans l’étude. C’est en 1221 que le podestat
Taurello della Strada, «citoyen de Pavie et podestat de Parme», dé-
cide de la construction d’un palais public en un lieu qui était celui
de l’antique forum. Jusqu’alors les actes de la commune étaient pris
dans le palatium vetus de l’évêque ou le porticus comunis voisin 60.  

Le transfert définitif a lieu en 1224 et les statuts de l’année suivante


éclairent le nouvel espace public. Au podestat, il incombe en effet de
la conserver libre et propre. La platea nova quand, «près du palais de
l’évêque», l’autre place devient la «piazza vecchia» 61, est ainsi pré-
 

servée des souillures et des empiétements puisque même la longueur


des gouttières est réglementée. C’est une activité commerciale que
les statuts éclairent quand ils interdisent qu’on y stocke du bois ou
que le samedi y circulent les charrettes de bois, de paille et de foin
pour laisser libre cours à la vente des blés, du vin et du poisson 62.  

Ce premier périmètre est encore agrandi quand le premier palais


est doublé d’un nouvel édifice commencé en 1282, achevé en 1286:
le Palacium comunis de subtus platea. L’année suivante, sont donc
achetées «pour le compte de la commune, toutes les maisons qui
étaient autour de la place; et ils devaient faire un nouveau palais et
des loges pour le compte de la commune, là où autrefois se trouvait
la demeure des Pagani […]. Mais plus tard, la commune acheta la
demeure de messer Manfredo di Scipione, et ensuite le marché des
bouchers, et enfin l’ensemble, avec les maisons et la tour de messer

59 P. Grillo, Essere cittadino nell’Italia comunale (sec. XIII), Milan 2003, p.


50.
60 L’évêque, à partir de 1175, réside dans le palatium novum: G. Albini, Vescovo,
 

comune. Il governo della città tra XI e XIII secolo, dans Il governo del vescovo. Chiesa,
città territorio nel Medioevo parmense, R. Greci éd., Parme 2005, pp. 75-76.
61 O. Guyotjeannin, Salimbene de Adam, un chroniqueur franciscain, Brepols
1995, p. 123.
62 Monumenta Historica ad provincias parmensem et placentinam pertinentia,
Parme 1855: Statuta communis Parmae anno 1255. Il s’agit du statut de 1255, rédigé
au temps du podestat Giberto da Gente mais ce texte reprend une bonne part des
normes du statut précédent: l. 1, p. 86.

112
La cité communale en quête d’elle-même

Roffino dei Vernarci, qui étaient du côté de l’église San Pietro» 63.  

Les «choses utiles» que les Parmesans firent dans leur ville sont ainsi
décrites par Salimbene.
Retenons enfin un troisième exemple, celui de l’opération mila-
naise. Sous le mandat du podestat brescian, Alfredo da Consesio, la
construction du Broletto Nuovo et l’organisation des espaces adjacents
commencent en 1228. Le centre du pouvoir migre et s’installe à 200
m environ du premier broletto. Certaines lectures ont pu minimiser
ce changement d’implantation 64. A tort, sans nul doute. Comme à
 

Bologne, est dégagé, en droit comme dans le territoire urbain, un vé-


ritable espace public acquis là encore par des expropriations réalisées
aux dépens d’un monastère et d’une famille. Autrement dit, par des
voies juridiques, mais qui ne font que masquer une réelle contrainte,
la commune conquiert des espaces qu’elle contrôle et qu’elle ouvre
à l’utilité générale au détriment, même si elle les dédommage, des
anciens maîtres du sol. On est donc loin de la réalité première quand
un terrain, de propriété de l’évêque abritait les sièges du pouvoir
communal. Sur cette place, le nouveau palais est construit avant que
d’autres édifices publics, comme le palais du podestat, ne viennent
progressivement l’entourer. Et la restructuration continue. Comme
à Bologne, un certain nombre d’activités commerciales sont trans-
férées sur la place et là encore ce sont les denrées alimentaires, le
plus important du ravitaillement, qui sont échangés sur ces terrains
publics, dans l’immédiat voisinage du centre du pouvoir politique.
Sur cette curia comunis, parfois nommée aussi forum Mediolani ou
forum iudicalis, les notaires, et peut-être les changeurs, puis les réser-
ves de sel, ne tardent pas à s’installer et, a pu compter P. Grillo, une
bonne part des transactions économiques s’effectue désormais en ce
lieu 65. Le forum, et il n’est pas besoin d’insister sur les significations
 

attachées à ce terme qui resurgit dans les sources, ne fait pas que se
séparer du pôle épiscopal. Il tend à le supplanter.
Là est l’important. La place, je l’ai dit, peut réinventer le cen-
tre. Elle gomme l’histoire qui précède le plein épanouissement de la
commune pour retrouver le passé romain, se réapproprier le souve-

63
O. Guyotjeannin, Salimbene de Adam, cit., pp. 292-294.
64
J. Heers, La ville au Moyen Age, Paris 1993, p. 433.
65
P. Grillo, Milano in età comunale (1183-1276). Istituzioni, società, econo-
mia, Spolète, 2001, p. 56 et suiv. que je suis ici.

113
Élisabeth Crouzet-Pavan

nir du forum au point d’intersection du cardo et du decumanus. C’est


vrai à Bologne comme à Trévise où dès 1202 la commune achète des
maisons in Carubio avant de nouvelles acquisitions en 1207, 1212 et
1217 pour édifier la nouvelle domus comunis, auprès de l’église de
San Vito in foro 66. Mais la place publique ne fait pas qu’être ouverte
 

au centre. Elle est et s’impose comme le centre et le réseau urbain est


orienté autour d’elle. Le plan d’intervention urbanistique lancé en
1211 par la commune de Bologne conduisit, on le sait, à urbaniser un
peu plus d’un hectare et demi de terrain pour loger une population
que l’on peut estimer entre mille et mille deux cents habitants. Douze
nouvelles rues sont donc tracées. Comment ce nouveau groupe de
rues est-il greffé sur la voirie préexistante? Il est orienté vers la gran-
de place publique et le palais de la commune 67. Le Broletto milanais
 

devient, quant à lui, le lieu d’une nouvelle centralité. Décision est


prise de percer à partir de cette place huit grandes voies publiques
qui traversent la ville jusqu’aux six portes et à deux des poternes de
l’enceinte. De nouveau, des vagues d’expropriations accompagnent
la progression de ces grandes percées. Du centre civique irradient les
grandes voies qui mènent aux portes, puis aux routes qui innervent
le contado et conduisent aux autres cités lombardes. Une nouvelle
polarisation est ainsi imprimée et le tissu urbain tend désormais à
s’organiser autour d’un centre rayonnant pour l’agglomération en-
tière. Ce broletto n’a rien en effet d’une citadelle comme certaines
lectures erronées de Galvano Fiamma purent parfois le faire penser.
Il est bien au contraire, longuement, le nouveau cœur battant de la
ville. Ou bien, à Parme, et je cite à nouveau Salimbene, furent faites
«trois grandes rues larges et belles: une rue de l’église Santa Cristina
jusqu’au palais de la Commune; une autre de la Piazza Nuova, là où
le podestat réunit les assemblées, jusqu’à l’église San Tommaso: la
troisième, de la place de la Commune jusqu’à l’église San Paolo» 68.  

Le nouveau centre laïc place ainsi la curia épiscopale dans une situa-
tion décalée.
Notre histoire emprunte donc des voies singularisées qui ex-

66 E. Manzato, Architettura, pittura e scultura nel medioevo trevigiano (se-


coli XII-XIV), dans Storia di Treviso, II Medioevo, D. Rando - G.M. Varanini éd.,
Venise, 1991, pp. 415 et suiv., pp. 421-422.
67 A.I. Pini, Une planification urbanistique précoce à l’époque communale,
«Histoire urbaine», 8 (déc. 2003), pp. 187-212.
68 O. Guyotjeannin, Salimbene de Adam, cit., p. 293.

114
La cité communale en quête d’elle-même

pliquent que le paysage des villes italiennes ne soit pas agencé de


manière uniforme. Que déduire de ces données et de ces destins ur-
bains contrastés? Dans les premières années du XIIIe siècle, pour
des raisons fiscales et juridictionnelles, des motifs religieux aussi,
liés aux poursuites contre les hérétiques, les conflits entre les ins-
tances communales et les autorités ecclésiastiques se multiplient. Le
libellus que présente au pape en 1218 l’évêque Obizzo Fieschi, rend
bien compte du conflit long et violent qui oppose à Parme, durant
toutes ces années, pour l’exercice des droits de justice, la commune
et l’évêque 69. En parfaite synchronie, les sièges des deux pouvoirs
 

s’éloignent l’un de l’autre et le pouvoir communal affirme dans la to-


pographie urbaine sa nouvelle indépendance. Mais il faut faire aussi
les comptes avec la montée en puissance du popolo 70. Un exemple  

éclaire le propos. La division de Bologne en quartiers intervient sans


doute en 1219 ou, dans tous les cas, dans ces années 1217-1219 qui
voient le premier populus parvenir à participer à la conduite des
affaires publiques. Le quartier vient dès lors se superposer sur les
autres divisions urbaines. Toute la logique de l’exercice du pouvoir
comme l’appareil administratif, fiscal et militaire, surtout après les
nouveaux succès en 1228 du popolo, sont liés à cette organisation
territoriale 71. Or les limites de ces quatre quartiers se rencontrent
 

au cœur du palais, là où se situe la cloche, et l’on voit bien comment


le palais où tout naît et tout converge se présente comme le lieu où
s’unissent les composantes de la cité et où se résolvent symbolique-
ment les tensions qui peuvent exister entre elles.
Pour autant, faut-il considérer que l’aménagement d’un nou-
veau centre civique traduirait mécaniquement ces phénomènes
politiques comme si dans les villes où la structuration ancienne de
l’espace public demeurait inchangée ces réalités auraient agi avec
une moindre ampleur? Les faits ne s’agencent peut-être pas de ma-
nière aussi mécanique.

69 G. Albini, Vescovo, comune. Il governo della città, cit.


70 Pour l’analyse de l’ascension politique d’un certain nombre de familles du
popolo à Milan: P. Grillo, Milano, cit., pp. 373 et suiv.: le palais de la société du
peuple est construit face au broletto, de l’autre côté de la contrada dei mercanti, cit.,
p. 62.
71 A.I. Pini, Le ripartizioni territoriali urbane di Bologna medievale. Quartiere,
contrada, borgo, morello e quartirolo, «Quaderni culturali bolognesi», I (fev. 1977),
pp. 5-40; voir aussi E. Guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento, Bari-Rome
1981, rééd. 1989, pp. 77-78.

115
Élisabeth Crouzet-Pavan

A Novare, le conflit sévère qui oppose, pour des questions fisca-


les, la commune à l’Eglise entre 1208 et 1210, aboutit à l’édification
d’un nouveau siège, à l’écart de la cathédrale. Mais il en va diffé-
remment à Brescia, à Bergame et à Côme 72. Plus tôt, on chercherait
 

de même en vain à établir un rapport entre la chronologie de l’édi-


fication des palais communaux et le poids relatif des villes 73. Il ne  

convient pas en tout cas de comprendre le fait de l’édification d’un


nouveau palais comme le signe d’un intérêt communal plus marqué
en matière de réalisations urbaines. La commune de Brescia, où le
divorce d’avec l’ancien centre n’intervient pas, puisque le pallacium
novus magnus en pierres vient simplement substituer l’ancien palla-
cium lignorum, se lance en 1237 dans une expérience urbanistique
de grande ampleur. Parallèlement à la construction de nouveaux
remparts, on décide de percer 16 nouvelles rues qui raccordent les
vieux faubourgs au centre et il y a là une programmation de grande
ampleur, révélatrice d’une parfaite maîtrise du territoire urbain: l’ar-
pentage procède, l’office en charge de l’opération fixe les bornes qui
délimitent l’espace public, les voies rectilignes inter-sécantes sont
dessinées 74. Il est vrai en revanche que les chantiers des nouveaux
 

palais communaux ne sont pas isolés. Il en allait déjà ainsi au XIIe


siècle quand, à Pise ou à Gênes, la construction de la muraille allait
de pair avec l’ouverture de premiers espaces publics. Il y eut, dans
toutes les cités, au-delà d’une chronologie générale bien connue, des
séquences de travaux qui furent plus particulièrement fécondes.
Enfin, cette situation du siège du pouvoir communal à l’ombre
de la cathédrale, cette permanence topographique n’empêchèrent
pas, à Brescia par exemple encore, que se développe un véritable
complexe civique 75: c’est dans le pallatium novus minus, à côté du pa-
 

72 G. Andenna, La simbologia del potere, cit., pp. 384-385.


73 A Padoue, le palais n’est construit que dans les années 1218-1219: G.
Rippe, Padoue et son contado (Xe-XIIIe siècle). Société et pouvoir, Rome 2003, p. 855.
Guglielmo da Osa, podestat milanais sous le mandat duquel avait été commencé
la construction des palais de Brescia et de Vérone y avait pourtant été podestat de
1189 à 1191: E. Guidoni, Appunti per una storia dell’urbanistica nella Lombardia
tardo-medievale, dans Lombardia. Il territorio, l’ambiente, il paesaggio, Milan 1981,
pp. 109-127.
74 E. Guidoni, Un monumento della tecnica urbanistica duecentesca: l’espansio-
ne di Brescia del 1237, ivi, et les remarques d’A.I. Pini, Bologne 1211: une planification
urbanistique précoce à l’époque communale, «Histoire urbaine», 8 (2003), p. 207.
75 Le complexe civique, progressivement constitué au cours du XIIe siècle,

116
La cité communale en quête d’elle-même

latium novus magnus, que les représentants du popolo siègent quand


ils ont pris le pouvoir dans la ville 76. Il en va de même à Modène
 

où la commune, autour de la piazza grande, procède à des achats


et à des constructions successives ou à Reggio Emilie 77. Enfin, et il
 

y a là une dernière remarque, à l’espace public aménagé autour du


palais public ne sont pas dévolues que de seules fonctions civiques.
Je l’ai dit, les échanges qui portent sur quelques produits essentiels
au ravitaillement, peuvent être, installés qu’ils sont sur cette place,
voire sous les loggias du palais, plus aisément contrôlés par les of-
ficiers de la commune. Ainsi peut-être décrit le palais de Padoue
«qui associe en une symbolique sans complexe le pouvoir politique
et celui de l’argent», puisqu’il est investi par les boutiques et les étals
(changeurs, drapiers, pelletiers, tailleurs mais aussi produits d’ali-
mentation) installés au rez-de-chaussée comme autour de la place
dont il occupe le centre 78.  

Espaces du marché

Ce lien fondamental entre le siège de l’instance politique et


l’activité marchande n’empêche pas l’ouverture d’autres espaces
publics utiles à l’activité commerciale. L’exemple de Parme est éclai-
rant où, en 1228, un vaste espace dans la «Ghiaia», proche du cours
d’eau qui traverse la cité, est réservé au marché. Il faudrait de même
citer les piazze delle Erbe de Vérone ou de Vicence comme les cel-
les du marché de Ferrare et des cités romagnoles, Ravenne, Forli,
Imola, Rimini, Cesena 79. Je préfère en revenir une autre fois au cas
 

de Bologne. La place de Porta Ravegnana abritait un actif et sans


doute encombré marché permanent. Dès 1219, la commune achète
donc un vaste terrain en dehors de l’enceinte des torresoti: le marché

qui regroupait les différents édifices utiles à un pouvoir communal, dont on sait
qu’il fonctionnait grâce à des institutions successivement établies, a pu donc s’ar-
ticuler comme à Milan ou à Novare dans l’espace civique autonome disjoint de la
cathédrale ou comme à Brescia dans le lieu qui fut celui de la mise en place du tout
premier palais.
76 G. Andenna, La simbologia del potere, cit., pp. 388-389, ce qui n’est pas le
cas à Bergame, à Lodi, à Pavie et à Côme.
77 Lo specchio della città. Le piazze nella storia dell’Emilia Romagna, F. Bocchi
éd., Bologne 1997, pp. 186 et suiv. et pp. 244 et suiv.
78 G. Rippe, Padoue et son contado, cit., pp. 855-856.
79 A.I. Pini, Le città nel Medioevo. Le origini e i linguaggi, dans Cultura popo-
lare nell’Emilia Romagna, estr., pp. 158-183.

117
Élisabeth Crouzet-Pavan

hebdomadaire s’y tient comme les deux foires annuelles de mai et


d’août. Celui, quotidien, des denrées alimentaires demeure près de
Porta Ravegnana et la commune part à la conquête de cet espace. En
1245, l’aire de la place est délimitée par des pieux; puis les statuts
de 1250 s’emploient à garantir que cet espace demeure dégagé. Il
s’agit surtout de protéger, là où se dressait la croix, le carrefour des
cinq voies qui innervaient la zone, de tout encombrement 80. Mais  

les statuts tendent à protéger le périmètre des empiètements dura-


bles, n’autorisant les cages, les tables, les barriques ou les toiles qu’à
certains vendeurs, pendant la vente. Les chariots ne peuvent pas tra-
verser la place, les marchandises doivent être déchargées à distance;
quant à tous ceux qui tiennent les boutiques autour du marché, il
leur est interdit d’envahir l’espace public. Les statuts de 1288 sont
explicites. Diverses rubriques associent, dans un même souci d’hy-
giène et de protection, ces deux espaces, celui de la place, public dès
son ouverture, celui du marché où la commune a affirmé son droit 81:  

«quod… in platea comunis vel in trivio Porte Ravegnane…». Rien


d’étonnant à ce que parfois ces deux espaces publics soient struc-
turellement liés. Citons Vicence et ses divers palais communaux:
deux tours garantissent la sécurité du centre; la première jouxte le
palais du podestat, côté place politique et elle porte les cloches de
la commune; la deuxième surplombe l’actuelle piazza delle Erbe.
L’ensemble compte trois palais, deux tours, chacune située sur l’une
des deux places et il faut encore associer à cet ensemble, d’un côté
une petite place où se localise le commerce des vins et des blés, de
l’autre une rue qui est celle du poisson 82.  

Réflexions sur «l’utilité publique»

De tant d’informations, il faut tenter de dégager quelques

80 A.I. Pini, Mura e porta di Bologna medievale: la piazza di porta Ravegnana,


dans Fortifications, portes de villes, cit., pp. 197-231, p. 220.
81 Ainsi, dans le très riche livre X, la rubrique I, «Et idem de trivio porte
Ravagnane», p. 133, la rubrique III, la rubrique LXII: Statuti di Bologna dell’anno
1288, G. Fasoli - P. Sella éd., Città del Vaticano 1937.
82 F. Lomastro, Spazio urbano e potere politico a Vicenza nel XIII secolo. Dal
regestum possessionum comunis del 1262, Vicence 1981, pp. 29 et suiv.; F. Barbieri,
L’immagine urbana, dans Storia di Vicenza, L’età medievale, vol. 2, G. Cracco éd.,
Vicence 1988, pp. 288-290.

118
La cité communale en quête d’elle-même

considérations générales. La première conduit à nuancer le jugement


qui est à l’ordinaire porté sur la politique urbaine menée au cours
de la première moitié du XIIIe siècle. L’habitude est de périodiser
l’histoire de cette politique en phases bien différenciées pour mettre
plutôt l’accent sur l’action des gouvernements populaires. Une cé-
sure interviendrait dans la seconde moitié du XIIIe siècle, plus nette
à partir des années 1270-1280 quand les magistratures populaires
imposent leur contrôle sur l’ensemble de l’appareil communal. Le
changement d’échelle est en effet évident et l’exposé y reviendra.
Il demeure que les interventions sont nombreuses et qu’elles sont
entreprises au nom d’une utilitas toujours invoquée quand il s’agis-
sait d’acheter des terrains, de démolir des maisons, de dégager des
rues, de créer un marché… Que doit faire le podestat de Parme?
Tenir libre la place de la commune 83 pour la commodité de ceux
 

qui vendent le blé: ils peuvent ainsi en temps de pluie abriter leur
marchandise. Le souci d’une même commodité explique qu’il est
interdit aux bouchers et poissonniers de polluer la place et le marché
avec charognes et autres saletés et qu’il leur incombe, comme à tous
les marchands, de procéder au nettoyage tous les huit jours 84. Sans
 

doute ces gouvernements vont-ils à l’essentiel, un essentiel qui peut


être mis entre parenthèse quand des séquences de conflits pertur-
bent la ville, raison pour laquelle, dans chaque cité, il conviendrait
de rapporter notre histoire des espaces publics à une chronologie
fine des événements politiques.
Il n’empêche. Un certain nombre de réalités marquent fer-
mement les premières décennies du siècle. Certes, la priorité était
d’assurer la liberté de circulation des hommes et des marchandises,
propice à l’activité marchande, au profit et au bon ravitaillement de
la ville, de créer et de protéger des espaces utiles à la vie politique
communale comme à l’activité marchande. Toutefois, le recours
généralisé à la notion d’utilitas permet la dilatation dans la cité de
véritables espaces publics, non plus seulement quelques axes ou
quelques terrains que les consuls protégeaient, non pas ces espaces
qui, au voisinage de la cathédrale et du palais épiscopal, étaient placés
sous l’autorité de l’évêque. Mais des espaces gérés par la commune
et qui sont conquérants. Certes, on rappellera avec M. Sbriccoli que

83 Statuta comunis Parmae, 1255, cit., pp. 182-183.


84 Statuti di Bologna dell’anno 1288, cit., pp. 1333-134.

119
Élisabeth Crouzet-Pavan

souvent cette utilité publique s’identifiait en fait avec le pouvoir éco-


nomique de certaines catégories de la population. Il faut donc se
garder de la manipulation des contenus d’un tel concept quand il est
utilisé au bénéfice de la conservation de l’organisation politique 85. Il  

importe de souligner que cette utilité publique fut aussi un instru-


ment au service de ceux qui tenaient le pouvoir dans ces décennies
comme plus tard dans le siècle 86. Pour autant, il ne faut pas, à mon
 

sens, interpréter de façon un peu réductrice l’action du politique.


Cette gestion de l’espace servit bien sûr la puissance politique mais
la défense de l’utilité publique fut aussi ce par quoi la commune
justifiait sa présence dominante, un des moyens par lesquels elle
énonçait, dans la trame urbaine, sa nécessité politique 87.  

En outre, le recours à l’argument de l’utilité publique permit


aussi ce que le monde romain n’utilisait pas, du fait de sa conception
du dominium, l’expropriation 88. En effet, si, comme l’a remarqué U.
 

Niccolini, les statuts ne formalisent pas un véritable droit de l’expro-


priation 89 puisqu’il faut, pour ce faire, attendre Bartole, d’une ville
 

à l’autre, les dispositions normatives attestent toutefois en nombre


des cas d’expropriation, au bénéfice des espaces publics. Aux droits
des maîtres du sol, on l’a dit, au plus central de l’espace urbain, la
commune oppose l’utilité publique. Dans le recours bien documenté
à cet instrument, il faut voir une des expressions parmi les plus dy-
namiques de la politique urbaine des communes dans ces premières
années du XIIIe siècle.
Une deuxième remarque doit être associée. Dès ces premières

85 M. Sbriccoli, L’interpretazione dello statuto. Contributo allo studio dei giu-


risti nell’età comunale, Milan 1969, pp. 445 et suiv.
86 C’est l’interprétation des guasti qu’expose J. Heers dans son analyse consa-
crée à Bologne: «Ainsi, d’une part des prétextes au nom de l’intérêt de tous et, de
l’autre, de véritables accaparements», Espaces publics, espaces privés dans la ville. Le
Liber Terminorum de Bologne (1294), Paris 1984, pp. 70 par exemple.
87 U. Niccolini, L’ordinamento giuridico nel comune medievale, Scritti di sto-
ria del diritto italiano, Milan 1983, pp. 433-469.
88 M. Sbriccoli, L’interpretazione dello statuto, cit. Cela étant, il faut quand
même préciser que la notion d’expropriation n’était pas absente du droit romain.
L’expropriation pouvait être imposée sans indemnité au propriétaire riverain d’une
voie publique détruite par les eaux, par exemple et, avec indemnité, aux riverains
des aqueducs pour le service de ces équipements. Mais il n’existe pas un droit géné-
ral d’expropriation au profit de l’«Etat» romain.
89 U. Niccolini, Espropriazione per pubblica utilità, dans Enciclopedia del di-
ritto, XV, Milan 1966, pp. 802-806, p. 805.

120
La cité communale en quête d’elle-même

décennies du XIIIe siècle, une pluralité d’espaces publics a été par-


tout instituée. Je rappelle seulement pour mémoire, puisque mon
analyse n’a pas à les prendre en compte, l’existence de ces placettes,
carrefours, loggias, souvent contrôlés par une famille et son tène-
ment, mais cependant ouverts à la collectivité, utiles à la vie et aux
échanges d’un quartier, que la commune, parfois, transforma graduel-
lement en espaces publics. J’observe plutôt que dans toutes les villes
ont été bouleversés le maillage, l’organisation du bâti et des espaces
de circulation, la géographie politique, économique et symbolique
de la ville. Il peut y avoir deux, voire trois espaces principaux qui
sont distribués dans la cité. Il peut y avoir un espace central, appelé
encore à se développer à l’exemple de Pérouse où la place abrite la
première cathédrale, l’église de San Severo, la résidence épiscopale
et le palais du podestat 90. Partout donc, le tissu urbain a bougé.
 

Enfin, dernier élément, la commune, désormais, gère les es-


paces publics, la place de la cathédrale comme celle du palais. Le
cas de Pise est éclairant quand l’Opera de Santa Maria passe sous le
contrôle de la commune au début du XIIIe siècle et qu’est ainsi signé
le «véritable acte de naissance de la place du Dôme» 91. Les statuts de
 

Parme ne le sont pas moins qui lient dans leurs dispositions la platea
nova et la platea vetus ou qui protègent de toute souillure les murs de
la cathédrale et du baptistère autant que la place. Dès lors, ceux qui
détiennent le pouvoir, explicitement, reconnaissent et confortent en-
core la complémentarité de ces espaces, depuis longtemps effective
pour les habitants de la cité. Comment ne pas rappeler en effet que
les pas des citadins les portaient vers le baptistère et la cathédrale
pour les cérémonies religieuses, ordinaires et extraordinaires, mais
pas seulement puisque la place de la cathédrale était un des lieux où
battait, jour après jour, le cœur de la ville?
J’en viens ainsi de manière plus rapide à une troisième sé-
quence, active entre les dernières décennies du XIIIe siècle et les
premières du siècle suivant. Il est possible, en effet, de la traiter plus
brièvement puisqu’à l’instar de l’abondance documentaire qui la ca-
ractérise, les données fournies par les études deviennent plus encore
nombreuses.

90 M.R. Silvestrelli, Dal “palatium comunis”, cit., pp. 482 et suiv.


91 M. Ronzani, La piazza del Duomo di Pisa, cit., p. 73 et suiv. pour une chro-
nologie fine.

121
Élisabeth Crouzet-Pavan

3. «Pro disoccupatione et comodo et pulcritudine terre»

Quelques traits peuvent être marqués avec netteté. Il est d’usa-


ge de dire et de répéter que tout change avec les gouvernements
populaires. Il se produirait, lorsque le popolo parvient à contrôler les
institutions communales, en matière d’urbanisme et de grands tra-
vaux publics, un moment décisif du fait du nombre et de la taille des
chantiers alors impulsés, de l’énergie et des moyens mobilisés comme
de l’importance matérielle, idéologique et symbolique conférée à ces
opérations. Je ne conteste pas cette observation. Les réalisations à
l’actif des communes populaires sont, dans la ville et dans le contado,
nombreuses et variées. Elles concernent projets monumentaux, in-
frastructures, équipements collectifs. Mais pas seulement. J.-C. Maire
Vigueur a raison de souligner que les mutations sont également de
nature idéologique. Dans le discours des statuts ou des délibérations
communales à l’origine des travaux, les motivations changent durant
le siècle. Nombre de projets sont engagés au nom d’une recherche
affichée du beau. L’idée de l’honor n’était certes pas absente des
textes adoptés dans la première moitié du XIIIe siècle. Elle devient
désormais dominante. En somme, une véritable politique de la ville
est mise en œuvre.
Il reste que ces observations ne sont pas d’une égale pertinence
pour tous les centres urbains et pour tous les secteurs de l’action.
Gardons-nous de considérer l’exemple de la Florence du deuxième
peuple, où les travaux s’emballent à partir des années 1280, encore
et toujours comme un paradigme.
Il va de soi que ce sont les villes d’Italie centrale qui viennent
le plus aisément nourrir cette analyse: à Florence, à Sienne ou à
Pérouse, les régimes populaires bénéficièrent en effet d’une durée
suffisante pour être en mesure de déployer dans l’espace urbain une
telle politique. Il faut également relever une autre coïncidence. A
l’instar des faits observés plus tôt, c’est la construction d’un siège
du pouvoir qui entraîne le plus souvent le dégagement d’un nou-
vel espace public. Trois exemples, et celui de Florence d’abord où
le gouvernement des Arts confie à Arnolfo di Cambio la charge de
construire un palais pour les Prieurs. La construction 92 démarre en
 

1298: elle s’accompagne, dans le but de dégager une place publique,

92 C’est le nom qu’il porte au XIVe siècle avant d’être connu comme le palais
de la Seigneurie: G. Fanelli, Firenze, cit., p. 37.

122
La cité communale en quête d’elle-même

d’une vaste opération. Le palais s’élève là où s’élevaient des mai-


sons des Uberti, «ribelli di Firenze e ghibelini», écrit Villani mais
d’autres terrains ont été achetés puisque, et ce sont les actes publics
qui cette fois le disent, la commune peut, «pro platea», acheter «ter-
rena, casolaria et hedeffitia quaruncumquesingularium personarum
et universitatum» 93. Passons au cas de Sienne, aussi significatif. Le
 

palais est édifié à partir de 1297, sur l’emplacement d’anciens édifi-


ces communaux. Le dégagement du Campo suit et il permet comme
à Florence — où la place n’est pas achevée en 1330 — de mettre en
valeur les dimensions de l’édifice 94. Ou bien, à Pérouse, la construc-
 

tion de ce que l’on appelle aujourd’hui le palais des Prieurs nécessite


différentes phases de travaux qui entraînent l’agrandissement de la
place grâce à l’expropriation de terrains et à la démolition d’une
église, reconstruite sur un nouveau site 95.  

A ces informations bien connues, je préfère lier deux observa-


tions. D’une part, tous ces palais voulus par le Peuple n’aboutissent
pas à définir un vaste espace adjacent. Il suffit de penser au palais du
Bargello à Florence. Il domine le paysage alentour, il l’écrase même
puisque seule une placette l’entoure 96. En outre, il faut se garder
 

de se focaliser sur les seuls espaces centraux rayonnants et ne pas


oublier que le polycentrisme des lieux du pouvoir put persister. La
ville de Pise en offre une bonne illustration. Les divers palais sont
localisés d’une part à Sant’Ambrogio, où s’élevait la première domus
communis, d’autre part sur la place des Sette Vie où s’installent les
magistratures instituées par le régime populaire. Mais les éléments
à disposition documentent davantage à nouveau, plus que l’agence-
ment des espaces adjacents, les chantiers successifs et l’acquisition
des terrains sur lesquels ces édifices sont construits 97. C’est encore
 

le fait d’une pluralité des espaces publics qui est illuminé quand la
commune de Pise entreprend d’aménager l’espace derrière le cam-

93 G. Pampaloni, Firenze al tempo di Dante. Documenti sull’urbanistica fioren-


tina, Rome 1973, 12 déc. 1307, pp. 18-19 et pp. 31-34.
94 N. Rodolico - G. Marchini, I palazzi del popolo nei comuni toscani del
Medioevo, Milan 1962, p. 47-51; E. Guidoni, Il Campo di Siena, «Quaderni dell’Isti-
tuto di Storia dell’Architettura», LXX-LXXII (1965-1966), pp. 1-52..
95 M.R. Silvestrelli, Dal castello di San Lorenzo alla platea magna comunis
Perusii, dans La piazza del Duomo, cit., pp. 167-188 et Id., Grandi cantieri e palazzi
pubblici: l’esempio di Perugia, dans Pouvoir et édilité, cit., pp. 105-158.
96 G. Fanelli, Firenze, cit., p. 30.
97 G. Garzella, Pisa come era, cit., pp. 245-246.

123
Élisabeth Crouzet-Pavan

panile pour agrandir l’arrigum equorum qui servait aux exercices de


la cavalerie communale 98. Avec une chronologie décalée, l’histoire
 

de la création et de l’expansion des espaces centraux produit dans


nos villes d’Italie centrale une même variabilité typologique que celle
observée pour l’Italie padane. Il est des cas où deux places s’articu-
lent et l’une est liée au Dôme quand l’autre naît grâce à l’intervention
du politique (Florence, Sienne…). Il en est d’autres où une unique
polarité s’impose (Pérouse ou Pistoia).
Sans plus se concentrer sur les seuls régimes populaires, et tout
en ne minorant pas bien sûr leurs réalisations, leur détermination
et leurs motivations politiques et idéologiques, il convient toutefois
de rappeler que la chronologie de ces chantiers correspondit aussi
à celle de l’apogée médiéval 99. Pression démographique, nécessités
 

économiques, demande sociale, souci de légitimation politique, ef-


forts de propagande, autant de facteurs qui expliquent que l’autorité
intervienne dans la ville pour adapter son réseau de communications,
ses équipements et ses services, faciliter ses activités économiques,
multiplier les messages au sein du territoire urbain. Durant ces dé-
cennies «heureuses», chaque cité propose donc l’exemple de sa
chronologie particulière, liée à la conjoncture. Que se passe-t-il en
effet à Venise durant les premières décennies du XIVe siècle? Les
lieux de la construction navale et du marché, ceux-là même que
l’on avait vu avec précocité marquer la cité en construction, sont
profondément modifiés. Dans les années 1324-25, l’Arsenal voit sa
surface quadrupler et tout ce quartier oriental subit l’attraction de
cet immense chantier et de ses activités. Quelques années plus tôt,
un train de mesures avait permis d’améliorer la circulation au long
de la rive portuaire et l’accès aux greniers communaux qui s’éle-
vaient dans la zone. Puis, autour du bassin de San Marco, sur l’îlot
de Terranova, qui jouxtait la place, comme sur l’autre rive, autour
de la pointe de la Trinité 100, des quais sont aménagés. Sur l’eau et la
 

terre, là où convergeaient les voies d’eau principales, face au cœur


politique et symbolique de San Marco, un immense espace public est
défini et unifié et il sert, animé par le mouvement des bateaux et des
marchandises, à la vie des échanges. Mais, riche de ces entrepôts du

98 Ivi, p. 246.
99 Pour un panorama général: Le città del Mediterraneo all’apogeo dello svilup-
po medievale: aspetti economici e sociali, Pistoia 2003.
100 Pointe plus tard nommée pointe de la Douane.

124
La cité communale en quête d’elle-même

blé, du sel, élevés sur les quais, il met en scène aussi, pour tous ceux
qui débarquent en ces lieux, la prospérité et le bon gouvernement de
Venise. Quant au marché du Rialto, il connaît également des trans-
formations radicales. Elles sont engagées dès la fin de la décennie
1280. Elles reprennent au début du siècle et, après une première
phase de travaux de grande ampleur, vient, à partir de 1341, une
nouvelle réforme générale, guidée par un souci de rationalisation,
un effort de modernisation économique. Mais, dans le bassin de San
Marco et au Rialto, la volonté de faciliter les trafics maritimes et le
commerce, d’être utile à la «commodité de tous et à celle des mar-
chands», n’empêche pas qu’un souci esthétique prenne forme.
Les travaux sont engagés «pro disoccupatione... et comodo et
pulcritudine terre». Le beau sanctionne l’action communale et, cette
définition qualitative de l’espace public, si elle devient avec le temps
une référence banale des textes normatifs, dont le contenu s’avère
difficile à saisir, recouvre toutefois, dans ces années où elle s’élabore,
des contenus concrets. La rationalité de l’action politique n’est pas
seulement le fait de la montée en puissance d’une structure. Elle s’ex-
plique aussi par une nécessité esthétique. Légitimée par la quête, plus
sacrale encore que politique, d’une ville idéale, l’action publique se
veut œuvre d’harmonie et de beauté: une beauté qui est d’abord sy-
nonyme d’ordre, de distribution claire des fonctions et des activités
mais qui se confond plus généralement avec un nouveau rapport à
l’espace. La croissance des espaces publics aboutissait jusqu’alors au
triomphe de quelques principes, à la protection d’un usage collectif
garanti par l’autorité publique. Des nécessités d’ordre, de dignité des
activités sont désormais plus clairement énoncés et les contraintes de
l’esthétique s’ajoutent aux impératifs de la viabilité et de l’accès. Une
recherche du «decus» et de la «pulchritudo» se diffuse donc.
L’organisation des espaces publics n’obéit alors plus aux seuls
impératifs précédents. Ces périmètres doivent être ouverts, entrete-
nus et protégés mais pas seulement. Les préoccupations esthétiques
s’appliquent de manière contemporaine aux monuments et à l’es-
pace qui les entoure. Il ne s’agit certes pas de dire que serait inventée
la perspective avant la perspective. Mais un certain nombre de faits
sont frappants. A Venise, le bassin de San Marco est conçu comme
une introduction à la beauté de la place San Marco: il en favorise la
découverte esthétique. Ailleurs, de la même façon, les palais bâtis
ne sont pas seulement plus grands, plus impressionnants et ornés.
La place qui leur est associée est mobilisée au service de leur puis-
125
Élisabeth Crouzet-Pavan

sance architecturale. La nouveauté réside donc dans ce rapport qui


lie étroitement le monument et son espace, dans l’intégration qui
tend à se réaliser entre ces deux réalités. La masse du palais de la
Seigneurie à Florence, l’élancement de sa tour prennent leur plein
sens architectural et symbolique grâce à la place. Comment imaginer
ce monument, écrasé par un bâti dense et étouffant, accessible par
quelques ruelles étroites et sinueuses? A Sienne, de même, le palais
découvre son immense façade à qui entre sur le Campo et, ici comme
à Venise, ses dimensions comme la beauté régulière de sa façade sont
conçus comme un spectacle que la scène même de la place exalte.
Puis, lorsque la commune impose aux propriétaires des maisons ri-
veraines le respect de certaines normes de construction, un ensemble
architectural est conçu dans son unité. Les mêmes remarques valent
pour le palais des Prieurs de Pérouse. Les nouvelles formes d’expres-
sion artistique - le décor ou la recherche d’unité et d’harmonie qui
caractérise les façades - trouvent à se réaliser parce que ces façades
peuvent être pleinement vues et diffuser leurs messages.
En outre, les places civiques ne sont pas seules concernées. A
Florence, les travaux sur la place du Dôme «pro reparando inalzando
adequando et mactonando plateam beati Iohannis Baptiste», enga-
gés en 1289 101, sont prolongés par une intervention plus radicale en
 

1298: la place, jugée trop petite pour l’affluence des fidèles lors des
grandes prédications ou des fêtes religieuses solennelles, est agran-
die. L’hôpital de San Giovanni est donc démoli pour être reconstruit
sur un terrain communal, situé juste au-delà de la deuxième encein-
te 102. On connaît la suite. Parce que la nouvelle cathédrale paraît
 

comme écrasée («dicte ecclesie Sancti Iohannis et Sancte Reparate


videntur ita basse»), une des rues qui y mène et la place elle-même
sont abaissées pour que «decor dictarum ecclesiarum multum auge-
retur et ipse ecclesie apparerent satis altiores» 103. Mais il n’y a pas
 

non plus que la place du Dôme à catalyser la conscience civique et

101 G. Pampaloni, Firenze al tempo di Dante, cit., pp. 50 et suiv.


102 Ivi, pp. 57 et suiv. Il faut bien sûr rappeler qu’est posée cette année-là la
première place de la nouvelle cathédrale «puisque les citoyens décidèrent de refaire
à neuf l’église majeure de Florence», G. Villani, Nuova Cronica, IX, chap. IX, G.
Porta éd., Parme 1991, vol. 2, pp. 26. Voir aussi M. Haines, Attorno a Santa Maria
del Fiore: la conquista dello spazio per una cattedrale, dans La Piazza del Duomo, cit.,
pp. 303-332.
103 G. Pampaloni, Firenze al tempo di Dante, cit., p. 66, 9 juin 1339: il s’agit
du corso Adimari.

126
La cité communale en quête d’elle-même

urbanistique. Devant l’église dominicaine de Santa Maria Novella,


considérablement agrandie, une place est ouverte et il revient à cer-
tains des Prieurs d’estimer les maisons et les terrains nécessaires.
On suit alors le détail des opérations, une acquisition après l’autre:
en 1300, 1301, 1310 par exemple, de nouveaux achats sont encore
documentés pour la platea iuxta ecclesiam Sancte Marie Novelle 104.  

En 1325, le chantier paraît près de s’achever mais le statut du po-


destat reprend encore la rubrique: de faciendo fieri plateam Sancte
Marie Novelle 105. Au bénéfice de la place de l’église Santo Spirito,
 

des maisons, au nom de la commune, sont également achetées pour


être démolies et des officiers élus sont, en 1294, en charge de l’opéra-
tion d’expropriation 106. Les exemples ne s’arrêtent pas là. En 1299,
 

vient le tour de la place ecclesie fratrum Servorum Sancte Marie de


Caffagio 107, en 1317, celui de Santa Maria del Carmine 108; en vue de
   

leur desserte, le réseau des rues est donc bientôt modifié. L’ensemble
des espaces de circulation est désormais soumis à l’autorité de la
commune et le périmètre qui entoure un couvent mendiant est pris
en charge et orné, au même titre que les rues que l’on ouvre, rectifie
et pave, que les quais qui sont construits le long de l’Arno. Toutes les
indications vont dans le même sens et l’on citera la délibération qui
transforme «en place communale» le terrain compris entre la porte
de San Frediano et l’église du Carmine. Il y avait là un lieu immonde,
réceptacle de toutes les ordures puisque ceux qui y passaient, grands
et petits, hommes et femmes, s’en servaient comme d’une latrine
pour l’horreur et le dégoût du voisinage. La commune a le pouvoir
de transformer ce qui était vil et dégoûtant en un lieu delectabile
et elle le fait «ad decore ac utilitate dicte ecclesie atque loci, et per
consequens civitatis Florentie» 109.  

On mesure l’ampleur de l’évolution parcourue. Dans bien des


communes, les espaces civiques avaient été créés au nom d’une vo-
lonté de rupture, selon un choix d’éloignement du siège du pouvoir
ecclésiastique. Dans la ville du début du XIVe siècle, le pouvoir

104 Ivi, p. 77, pp. 79-80, pp. 80-87.


105 Statuti della repubblica fiorentina, R. Caggese éd., n. éd. G. Pinto - A.
Zorzi, Florence 1999, p. 314.
106 Ivi, pp. 80-81, p. 85.
107 Ibidem, pp. 92-95.
108 Ibidem, pp. 135-137.
109 Ibidem, p. 136.

127
Élisabeth Crouzet-Pavan

contrôle et protège tous les espaces, la place du Dôme comme celle


de la commune, le périmètre du marché autant que les places des
couvents mendiants. Le changement d’échelle est donc considérable.
Il est quantitatif quand les trouées, au cœur de l’espace urbain, se
multiplient pour y installer l’espace public. Et on ne saurait oublier,
même si l’analyse se concentre sur les grands espaces publics, les
opérations qui sont conduites en parallèle sur le réseau viaire car il
ne suffit pas que la place donne sa pleine importance et sa beauté au
monument. Il faut encore que les rues qui y mènent soient amples,
parfois rectilignes, souvent pavées. Les chantier concernent donc
l’ensemble du système des voies de communication qui, partout,
déverrouille les quartiers. Elles éclairent à Venise, à Bologne ou à
Pérouse une avancée du «public» du «commun» qui, bien qu’elle
soit présentée comme une récupération, vaut en fait une véritable en-
treprise de conquête 110. L’autorité communale élargit donc la sphère
 

de son intervention et les statuts témoignent de cet accroissement


constant, à la fois géographique et conceptuel 111. Les textes, initiale-
 

ment, n’individualisaient que quelques secteurs, nommés d’un statut


à l’autre, toujours identiques, reconnus, protégés: la place commu-
nale et ses accès, celle du marché, les portiques, une ou deux rues
principales, les abords de la cathédrale ou de l’église principale. Les
châtiments, par exemple, en un premier temps, ne concernaient que
les infractions commises au sein de ces enclaves réservées. Désormais,
les normes du public se diffusent hors de ces espaces du centre sur
lesquels s’exerçaient une «sanctuarisation» première. Les statuts de
Parme traduisent ainsi, à chacune de leurs modifications, comment
gonfle l’aire de la décision communale qui finit par concerner rues
et ruelles, places et placettes, tous les espaces de circulation ouverts
entre les murs et les frontières de la construction privée 112.  

110 Là encore les normes statutaires sont éclairantes qui énumèrent avec pré-
cision l’ensemble des rues et des espaces concernés, qui citent des confronts et des
mesures: ibidem, p. 321 et suiv. par exemple.
111 On citera le Statuto del comune di Perugia del 1279, S. Caprioli éd.,
Pérouse 1996 con la collaborazione di A. Bartoli Langeli, pp. 203 et suiv., p. 209,
p. 211.
112 Les statuts sont régulièrement modifiés entre 1255 et 1347. De texte en
texte, les mêmes dispositions en matière de viabilité, d’ordonnance édilitaire, de
protection des eaux, d’hygiène urbaine sont reprises, preuve probable de leurs diffi-
cultés d’application. Mais la sphère de l’intervention de l’autorité publique s’élargit

128
La cité communale en quête d’elle-même

Mais le changement d’échelle s’observe aussi dans les motiva-


tions exposées quand on suit une nouvelle extension du concept
d’utilité publique, ou, pour reprendre une expression de M.
Sbriccoli, une autre manipulation de ses contenus, puisque l’utilité
publique ne sert plus seulement la commodité, mais qu’elle œuvre au
service du beau, de l’orné, de l’ordonné… C’est dire que la «sanctua-
risation» des espaces centraux se fait plus rigoureuse. On s’efforçait
plus tôt d’éviter que la place ne soit souillée par la vie du marché, on
prévoyait son nettoiement, on éloignait déjà quelques activités pol-
luantes ou trop encombrantes. La dignité des lieux exige que soient
formalisées des exigences plus radicales. A Pérouse, pas de porcs, de
vaches, de sable, de briques ou de chaux sur le forum 113. A Bologne,
 

pas davantage de porc sur la place sauf si l’animal est destiné à être
vendu. A Bologne encore, sur cette même place, la rigole d’écoule-
ment doit être couverte tandis que son entretien doit être assuré par
une circulation d’eau régulière 114. J’interromps ici la liste des exem-
 

ples pour citer une dernière fois les statuts de Parme, en date de
1347 cette fois. Ils illustrent en effet ce double phénomène. À l’heure
où le dispositif punitif embrasse un espace élargi, la cité, le diocèse,
le district, la tarification des peines est toujours mieux modulée. Elle
ne punit plus durement l’effusio sanguinis ou les blessures au visage.
Mais elle distingue aussi entre les espaces et l’amende peut être jus-
qu’à deux fois plus lourde lorsque la percussio a été faite sur la place,
une place dont les confins sont à nouveau précisés, une place qui est
comme sacralisée.

Pour les nouveaux pouvoirs, en quête de légitimité, l’espoir est,


avec ces chantiers, de gagner une légitimité, de créer de l’adhésion
sociale. Le but, sans doute, est aussi de répondre à des besoins et de
faciliter, grâce à des infrastructures, un réseau de communications,
des marchés bien ordonnés, la circulation des hommes, l’activité

aussi, les règlements d’urbanisme se précisent et s’alourdissent, une véritable admi-


nistration de l’espace se met en place. Statuta comunis Parmae anno 1255. Statuta
communis Parmae ab anno 1266 ad annum 1304. Statuta comunis Parmae ab anno
1316 ad annum 1325. Statuta comunis Parmae anno 1347, dans Monumenta historica
pertinentia ad provincias parmensem et placentinam, A. Ronchini éd., 4 vol., Parme
1855-1857-1859-1860.
113 Statuto del comune di Perugia, cit., p. 215.
114 Statuti di Bologna dell’anno 1288, cit., pp. 136-137, pp. 146-147.

129
Élisabeth Crouzet-Pavan

économique, les échanges, la vie d’agglomérations peuplées et dy-


namiques. Mais il faut aller au-delà de ces premiers commentaires.
Une interprétation fonctionnaliste réduirait la richesse de sens de la
politique urbaine. L’autorité publique ne fait pas que répondre aux
multiples besoins de ces villes surpeuplées. Il n’agit pas simplement
au nom de ce que l’on pourrait trop vite qualifier de logique de pro-
pagande. Proclamant la nécessité de l’ordre et la beauté inhérente à
cet ordre, le pouvoir communal manifeste la finalité profonde de son
action. Il se présente pour une part comme une instance d’adhésion
à l’ordre divin sur lequel la vie des hommes doit se régler. La ville,
dans son «paysage» qui est toujours en recherche d’une perfection
plus grande, trouve là sa vérité. Il faut donc reconnaître, toujours
présente dans l’œuvre urbaine, cette quête de sacralité. Et puis, de
manière aussi fondamentale, à travers le territoire de la ville, et prio-
ritairement dans ses grands espaces publics, le pouvoir entend se
manifester. Dans ce lieux privilégiés, il exprime, il affiche, il fait vi-
vre, ou du moins aspire-t-il à le faire, ses idéaux, son programme, ses
principes. Avec ces messages qui répandent des idéaux d’ordre et de
commodité, une aspiration à l’harmonie et à la rationalité, il nous
est expliqué comment la cité communale fut construite, construi-
te matériellement et symboliquement, construite par les pierres et
l’idéologie.

130
Sabato 12 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Jean-Claude Maire Vigueur

Etienne Hubert
URBANIZZAZIONE, IMMIGRAZIONE E
CITTADINANZA (XII–METÀ XIV SECOLO).
ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI *  

Il tema affidatomi dal presidente e dal comitato scientifico del


Centro di Studi di Storia e d’Arte per il suo XXI convegno, al quale
mi hanno fatto l’onore di invitarmi, è quello della creazione delle
nuove aree abitate nelle città comunali italiane tra il XII secolo e
l’inizio del XIV secolo: in altre parole quello del processo straordi-
nario di urbanizzazione che cambiò in modo radicale il volto delle
città, i cui primordi si manifestarono tra X e XI secolo e che rag-
giunse il suo apice nel XIII secolo. In questa stessa sede dieci anni fa
mi era stato chiesto per il XVI convegno sugli spazi economici della
Chiesa di presentare il ruolo svolto dalla proprietà ecclesiastica nel-
la crescita urbana dell’Italia centro-settentrionale, i cui legami sono
stretti con l’argomento che mi è stato affidato oggi. Per non ripeter-
mi troppo da un intervento all’altro mi sia consentito rimandare il
lettore al testo pubblicato negli atti relativi 1. Dato il tema del nostro
 

convegno, cercherò di proporre alcune considerazioni del tutto pre-

* Viene pubblicato qui il testo della relazione presentata a Pistoia con lievi mo-
difiche e con l’aggiunta di alcuni riferimenti documentari e bibliografici. Ringrazio
Roberta Mucciarelli per la rilettura del testo italiano e per i suoi suggerimenti.
1 E. Hubert, Propriété ecclésiastique et croissance urbaine (à propos de l’Italie
centro-septentrionale, XIIe-début du XIVe siècle), in Gli Spazi economici della Chiesa
nell’Occidente mediterraneo (sec. XII-metà XIV), Atti del XVI Convegno internazio-
nale del Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte, Pistoia 1999, pp. 125-155.

131
Etienne Hubert

liminari sulle modalità con cui le città comunali hanno gestito la loro
crescita demografica e topografica, vale a dire sulle relazioni tra ur-
banizzazione, immigrazione e cittadinanza tra il XII secolo e la metà
del XIV secolo.

Incremento demografico

L’importanza eccezionale dell’espansione urbana — demogra-


fica, topografica, economica, sociale — e dei suoi sviluppi politici e
culturali, in particolare nell’Italia centro-settentrionale, è un feno-
meno ben conosciuto. Ma come testimoniano del resto le relazioni
al nostro convegno alcuni processi di questa crescita sono ancora da
approfondire. Il retaggio dell’antichità, la continuità di una certa vita
urbana nell’alto medioevo, il vigore della crescita economica e demo-
grafica nelle campagne che nutre quella delle città dove concorrono
produzione manifatturiera, commercio, attività finanziarie spiegano
questo processo i cui primi segni si manifestarono in modo più o
meno precoce a seconda dei casi ma che furono ovunque in atto dai
secoli X e XI 2. Mancano dati per valutare la cifra della popolazione
 

cittadina all’inizio del processo e, di conseguenza, per misurare l’am-


piezza del fenomeno fino al suo apice a cavallo tra il XIII e il XIV
secolo 3. Paolo Malanima ha proposto a titolo di ipotesi di stabilire
 

il tasso di urbanizzazione tra 5% e 8% nel 1000, che porterebbe la


popolazione cittadina tra un minimo di 250.000 e un massimo di
400.000 abitanti per una popolazione complessiva di cinque milioni
circa 4. Secondo Giuliano Pinto, sui dodici milioni e mezzo abitanti
 

che contava la penisola tre secoli dopo, tre milioni erano cittadini,
rappresentando il terzo della popolazione cittadina europea. Il tas-
so di urbanizzazione, pari al 24%, giunse fino al 30% in Toscana
mentre non superava il 10% circa nel resto dell’Europa, tranne nelle
Fiandre (22%) o nella Penisola iberica (21%) 5.  

2 Per questi diversi argomenti si vedano in questo volume i contributi di


Cristina La Rocca, di Franco Franceschi e di Roberto Greci.
3 Vedi il contributo di Maria Ginatempo in questo stesso volume.
4 P. Malanima, L’economia italiana. Dalla crescita medievale alla cresci-
ta contemporanea, Bologna 2002, pp. 49, 77, 360-361, 377-381; Id., Italian Cities
1300-1800. A quantitative approach, «Rivista di storia economica», XIV (1998),
pp. 91-126; Id., Urbanisation and the Italian economy during the last millennium,
«European Review of Economic History», 9 (2005), pp. 97-122.
5 G. Pinto, Dalla tarda antichità alla metà del XVI secolo, in L. Del Panta -

132
Urbanizzazione, immigrazione e cittadinanza

Per alcune città disponiamo di stime o di dati che consento-


no di misurare l’ampiezza della crescita demografica che si accelera
nel corso del XIII secolo. Milano sarebbe passata da circa 20.000
abitanti nel X secolo a un numero compreso tra 150.000 e 200.000
nel 1300 6. La popolazione fiorentina si sarebbe moltiplicata per tre
 

o quattro tra il 1200 e l’inizio del XIV, passando da forse 30.000


abitanti a 110.000; la popolazione pisana sarebbe quasi raddoppiata
passando, tra 1228 e la fine del ’200, da 25.000 a più di 40.000, come
quella di Padova tra la metà del secolo XIII e il 1320, mentre da forse
80.000 abitanti nel 1200 ca. Venezia ne avrebbe compreso 120.000
all’inizio del ’300 7. A questa data, la penisola contava dodici città
 

con oltre 40.000 abitanti (otto o nove nel resto dell’Europa), di cui
tre superavano i 100.000 (Milano, Venezia, Firenze), tredici città tra
20.000 e 40.000, quarantasei tra 10.000 e 20.000 e centodiciassette
tra 5.000 e 10.000 8.  

Modalità contrattuali della costruzione di alloggi

L’aumento straordinario del bisogno di nuovi alloggi fu la prima


conseguenza di questa crescita demografica ingente. L’offerta dispo-

M. Livi Bacci - G. Pinto - E. Sonnino, La popolazione italiana dal Medioevo a oggi,


Roma-Bari 1996, pp. 15-71; G. Pinto - E. Sonnino, L’Italie, in Histoire des popu-
lations de l’Europe, I, Des origines aux prémices de la révolution démographique,
sous la dir. de J.-P. Bardet et J. Dupâquier, Parigi 1997, pp. 486-496; P. Bairoch -
J. Batou - P. Chèvre, La population des villes européennes. Banque de données et
analyse sommaire des résultats, 800-1850, Ginevra 1988, pp. 254-259; Malanima,
L’economia italiana, cit., pp. 81-83.
6 G. Albini, Evoluzione della popolazione e trends demografici (secoli XI-XV),
in Storia illustrata di Milano, Milano antica e medievale, a cura di F. Della Peruta,
vol. 2, Milano 1992, pp. 381-400.
7 Cfr. Ch.-M. de La Roncière, Prix et salaires à Florence au XIVe siècle (1280-
1380), Roma 1982, pp. 629-636; E. Salvatori, La popolazione pisana nel Duecento. Il
patto di alleanza di Pisa con Siena, Pistoia e Poggibonsi del 1288, Pisa 1994, pp. 116-
123; E. Cristiani, Nobiltà e popolo nel comune di Pisa. Dalle origini del podestariato
alla signoria dei Donoratico, Napoli 1962, p. 168; G.M. Varanini, La popolazione di
Verona, Vicenza e Padova nel Duecento e Trecento: fonti e problemi, in Demografia
e società nell’Italia medievale. Secoli IX-XIV, a cura di R. Comba - I. Naso, Cuneo
1994, pp. 167-202: pp. 183-187; F.C. Lane, Venice. A maritime republic, Baltimore-
Londra 1973, p. 18 e R.C. Mueller, Peste e demografia. Medioevo e Rinascimento,
in Venezia e la peste, 1348-1797, Venezia 1979, pp. 93-96: p. 94.
8 M. Ginatempo - L. Sandri, L’Italia delle città. Il popolamento urbano tra
Medioevo e Rinascimento (secoli XIII-XVI), Firenze 1990, tabella alla p. 224.

133
Etienne Hubert

nibile non poteva rispondere alla domanda per due motivi principali.
Gli edifici a uso abitativo conosciuti grazie all’archeologia e alle fonti
scritte presentavano una scarsa capacità domiciliare. Inoltre, dalla
fine dell’antichità fino agli ultimi secoli del medioevo, il modello
abitativo era definito dalla coincidenza tra edificio e abitazione mo-
nofamiliare, nonostante le variazioni notevoli della composizione del
gruppo domestico e della struttura dell’edificio: la domus, la casa,
costituiva sia l’unità costruttiva sia l’unità familiare fino ai secoli XIII
e XIV quando la pressione demografica impose la divisione di edifici
in più abitazioni nel cuore delle città più popolate 9. Ne risulta che
 

l’edilizia privata fu senza dubbio uno dei settori più dinamici, anche
se meno studiato per diverse ragioni sulle quali non posso soffermar-
mi qui, nell’economia delle città comunali.
Riassumerò in questa sede brevemente quello che ho già pub-
blicato altrove sulle modalità giuridiche del processo per capire le
motivazioni delle politiche promosse dalle autorità comunali nel set-
tore fondiario e immobiliare nel periodo qui esaminato 10. Le fonti  

mostrano — e non c’è da stupirsi più di tanto — che una parte im-
portante se non addirittura l’essenziale dell’urbanizzazione dall’XI
secolo fino all’inizio del XIV fu promossa dai proprietari fondiari
grandi e meno grandi all’interno delle mura e nelle periferie subur-
bane, fossero enti ecclesiastici, i quali erano i più numerosi perchè
possedevano patrimoni ingenti, o laici, il cui ruolo documentato
in numerose città non dovrebbe essere sottovalutato. Questi gran-
di proprietari non hanno edificato a loro spese alloggi nuovi che
avrebbero poi affittato o venduto per trarne rendita o realizzare
plusvalore; in altri termini non si verificarono investimenti finanziari
nel settore edilizio neppure speculazione immobiliare vera e propria
tranne alcuni casi isolati 11. I proprietari hanno elaborato invece ri-
 

sposte razionali al fabbisogno di alloggi nutrito dai flussi massicci


dell’immigrazione urbana.
Un processo unico sembra prevalere dappertutto con variazio-

9 Vedi per Firenze F. Sznura, L’espansione urbana di Firenze nel Dugento,


Firenze 1975, pp. 137ss. o per Roma E. Hubert, Espace urbain et habitat à Rome du
Xe siècle à la fin du XIIIe siècle, Roma 1990, pp. 169-213 e 233-261.
10 E. Hubert, La construction de la ville. Sur l’urbanisation dans l’Italie médié-
vale, «Annales, Histoire, Sciences sociales», 2004/1, pp. 109-139.
11 Ma vedi F. Sznura, Le città toscane nel XIV secolo. Aspetti edilizi e urba-
nistici, in La Toscana nel secolo XIV. Caratteri di una civiltà regionale, a cura di S.
Gensini, Pisa 1988, pp. 385-402: p. 394.

134
Urbanizzazione, immigrazione e cittadinanza

ni di dettaglio più o meno significative e importanti a seconda dei


proprietari, delle città e della cronologia. I proprietari del suolo of-
frirono terreni edificabili secondo condizioni, prezzi, scadenze varie,
lasciando ai concessionari l’onere e la spesa della costruzione, che
presuppose l’organizzazione dei cantieri di edilizia privata, dell’of-
ferta in materiali e della mano d’opera, del resto attestate da diversi
statuti comunali e da statuti di singole corporazioni. Dappertutto si
verificò una dissociazione tra il momento della concessione dei ter-
reni edificabili, che in taluni casi prese la forma di lottizzazioni vere
e proprie, e quello dell’edificazione delle case.
Alcune soluzioni a volte opposte sono attestate sia dalla dot-
trina giuridica civilista e canonica, sia dal diritto consuetudinario e
statutario, sia dai formulari notarili, sia e soprattutto dagli atti nota-
rili sin dall’alto medioevo. Gli archivi conservano una mole ingente
di contratti «ad edificandum», «ad domum construendam» ecc., che
si possono dividere in due categorie principali: i contratti rinnovabili
e quelli che non lo erano.
Questi ultimi imponevano, alla scadenza del contratto, la re-
stituzione del fondo al proprietario ma con una differenza. Alcuni
contratti, concessi per scadenze di solito inferiori a trent’anni, im-
ponevano al beneficiario di costruire la sua casa e di risiedervi per
tutta la durata del contratto; al suo scadere era costretto a smon-
tarla, ad asportarne i materiali costruttivi e a restituire «ipsa terra
vacua» al proprietario 12. Attestato nell’Italia meridionale a Salerno o
 

a Benevento, lo smontaggio di case edificate — in legno — su terreni


concessi è documentato nelle campagne e in varie città dell’Italia cen-
trale e settentrionale fino al XII secolo e nel XIII secolo ancora 13.  

12 Vedi ad esempio Codex Diplomaticus Cavensis, a cura di M. Morcaldo - M.


Schiano - S. De Stefano, IV, Milano-Pisa-Napoli 1877, doc. n. 705, pp. 285-286
(1018, Salerno).
13 P. Delogu, Mito di una città meridionale (Salerno, secoli VIII-XI), Napoli
1977, pp. 127-141; J.-M. Martin, Quelques données textuelles sur la maison en
Campanie et en Pouille (Xe-XIIe siècle), in Castrum 6: Maisons et espaces domesti-
ques dans le monde méditerranéen au Moyen Âge, a cura di A. Bazzana - E. Hubert,
Roma-Madrid 2000, pp. 75-87; E. Hubert, Maisons urbaines et maisons rurales dans
le Latium médiéval. L’apport de la documentation écrite, ivi, pp. 89-103: pp. 97-98;
D. Balestracci, Immigrazione e morfologia urbana nella Toscana bassomedievale, in
D’une ville à l’autre: structures matérielles et organisation de l’espace dans les villes
européennes (XIIIe-XVIe siècle), a cura di J.-C. Maire Vigueur, Roma 1989, pp. 87-
105: pp. 99-100; L. Grossi Bianchi - E. Poleggi, Una città portuale del Medioevo.
Genova nei secoli X-XVI [1979], Genova 1987, p. 148.

135
Etienne Hubert

Altri contratti, conclusi per durate lunghe, vitalizie o a più ge-


nerazioni, imponevano invece al beneficiario di restituire il fondo
«prout fuerit melioratus» vale a dire con la casa edificata sul terre-
no 14. Dal momento che ne diventava proprietario allo scadere del
 

contratto, non a caso il concedente richiedeva spesso al concessiona-


rio di utilizzare materiali perenni, pietre o mattoni e calce per i muri,
tegole per il tetto, valorizzando così il suo patrimonio senza nessun
investimento da parte sua.
Più numerosi, attestati ovunque nelle città e nelle campagne
italiane sin dall’VIII secolo, i contratti a breve scadenza ma rin-
novabili o perpetui non consideravano la restituzione del fondo e
dunque neppure la sorte delle migliorie. Ne consegue l’appropria-
zione, prima di fatto poi di diritto, da parte del concessionario della
casa, chiamata «hedificium» oppure «superficies domus», edificata
su terreno altrui 15. Emerge così una dissociazione tra la proprietà del
 

suolo e quella dell’edificio. In tali casi l’obbligo di costruire stipulato


nei contratti «ad edificandum», «ad domum construendam», non
ebbe la conseguenza automatica di incorporare le accessioni alla pro-
prietà del suolo. Pressoché sconosciuto nel diritto romano classico
per il quale «superficies solo cedit» 16, il diritto di superficie comin-
 

ciò a formarsi in epoca giustinianea e conobbe grandi sviluppi nel


medioevo. Sancisce una certa prevalenza del lavoro sulla proprietà.
Tale situazione consente di supporre che le motivazioni principali
dei promotori ecclesiastici e laici nel lottizzare i loro terreni furono
senza dubbio di trarne profitti economici diretti e indiretti, ma anche
o soprattutto di creare e consolidare le loro reti di fedeli sia nel senso
religioso sia nel senso laico della parola.
Mi sono dilungato troppo, anche se in modo molto schemati-

14 Cfr. ad esempio Tabularium Sanctae Mariae Novae ab an. 982 ad an. 1200, a
cura di P. Fedele, Roma 1903, doc. n. 81 (1160, Roma).
15 Vedi ad esempio Le carte del monastero di San Siro di Genova, a cura di
M. Calleri, vol. III (1254-1278), Genova 1997, doc. n. 635, pp. 112-113 (1261,
Genova): il monastero di San Siro concede a un tale Casale «solum unius domus
sive terram dicti monasterii positam in Ianua […] super quod est hedificium tui
Casalis».
16 Gaius, Institutes, texte établi et traduit par J. Reinach, Paris 1950, p. 42:
«Praeterea id quod in solo nostro ab aliquo aedificatum est, quamvis ille suo nomine
aedificaverit, iure naturali nostrum fit, quia superficies solo cedit»; cfr. J.-P. Coriat,
La notion romaine de propriété: une vue d’ensemble, in Le sol et l’immeuble. Les for-
mes dissociées de propriété immobilière dans les villes de France et d’Italie (XIIe-XIXe
siècle), a cura di O. Faron - E. Hubert, Roma-Lione 1995, pp. 17-26.

136
Urbanizzazione, immigrazione e cittadinanza

co, sulle modalità giuridiche particolari con cui diverse centinaia di


migliaia (milioni?) di case furono edificate nelle città italiane tra l’XI
e il XIV secolo e sulle ragioni sociali ed economiche probabili che
spinsero i proprietari: i quali cercarono di promuovere l’insediamen-
to di nuovi residenti sulle loro terre piuttosto che di possedere beni
immobili da cui avrebbero tratto entrate maggiori.

Espansione topografica e definizione giuridico-politica degli spazi

Ora conviene esaminare se e come i comuni hanno gestito un


fenomeno così massiccio. La crescita urbana eccezionale (bisognerà
aspettare la rivoluzione industriale e la fortissima emigrazione rurale
consecutiva per riscontrare in Europa un nuovo periodo di urbaniz-
zazione massiccia), l’ampliamento straordinario degli spazi edificati
e urbanizzati alla periferia della «civitas vetus» posero problemi mol-
to concreti e di natura diversa alle autorità comunali. La definizione
giuridica dello spazio e della sua strutturazione fu una delle questio-
ni principali perchè legata alla determinazione dello statuto politico
degli uomini, differenziato in particolare a secondo della loro zona di
residenza. Per i comuni, il mondo era diviso secondo tre fasce: la cit-
tà, il contado e il mondo forestiero, i cui abitanti, cittadini, comitatini
e forestieri, non godevano dello stesso statuto politico né degli stessi
diritti. La legislazione comunale non fornisce una definizione fossi-
lizzata dello spazio urbano, che sarebbe stato limitato dal perimetro
delle mura, né dello spazio rurale che si sarebbe esteso subito oltre
le porte della cerchia muraria. Se in teoria la civitas era definita dal
circuito delle sue mura, la definizione risultava inadeguata mentre la
crescita urbana allargava a dismisura lo spazio urbanizzato e in via di
urbanizzazione e il territorio fortificato.
L’edificazione delle mura successive, che conobbe due fasi di
maggior accelerazione tra l’XI e il XIV secolo, ne fornisce l’indizio
più eclatante: le città si fortificarono e ingrandirono maggiormente
nella seconda metà del XII secolo e dalla seconda metà del Duecento
fino all’inizio del Trecento quando la costruzione delle mura non si
prolungò oltre la metà del secolo 17. Con questo processo, la superfi-
 

cie dello spazio fortificato si moltiplicò a seconda dei casi per due o
tre volte fino addirittura a sedici o diciasette tra il X secolo e il XIV
secolo: per due o tre a Piacenza (da 43 ettari a 75), Lucca (da 39 a

17 Vedi in questo volume il contributo di Aldo Settia.

137
Etienne Hubert

75), Pavia (da 57 a 150); per sei o sette ad Arezzo (da 17 a 107), Pisa
(da 30 a 185), Genova (da 22 a 155); per dodici a Pistoia (da 10 a
117); per sedici o diciassette a Bologna (da 25 a 417) e Firenze (da
27 a 430) per limitarsi ad alcune città 18. Ben si sa che non esiste un
 

rapporto stretto tra il perimetro delle mura e lo spazio urbanizzato


e neanche tra questo e la popolazione cittadina. Venezia e Roma,
per esempio, che non sono state circoscritte da mura medievali, si
estendevano su un spazio urbanizzato di circa 400 ettari nel 1300,
pressoché equivalente alla superficie fortificata a Bologna o a Firenze.
Ma dall’una all’altra, la popolazione raddoppiava: Venezia e Firenze
superavano 100.000 abitanti mentre Bologna ne contava 50.000, allo
stesso modo di Roma forse la cui popolazione doveva essere compre-
sa tra 40.000 e 80.000, per riprendere le categorie utilizzate da Maria
Ginatempo e Lucia Sandri. Comunque sia, il periodo è caratterizzato
da una espansione ingente dello spazio urbanizzato, abitato, fortifi-
cato le cui conseguenze giuridiche e politiche furono molteplici.
Per le autorità comunali, non furono tanto le mura a definire
la città quanto lo spazio abitato costituito dalla «civitas», i «burgi»,
«suburgi», «suburbia», «appendicia», «confines», «vicinancia»,
«adiacences» per riprendere la terminologia variegata ricorrente in
molti statuti comunali. Questi due insiemi, città e borghi, erano defi-
niti ovviamente dalla loro ubicazione originaria rispettiva all’interno
e al di fuori della cerchia muraria. Ma la delimitazione dei borghi
prima con fossati, terrapieni, palancate, poi con l’edificazione del-
le nuove mura determinò un processo di riqualificazione continua
dello spazio urbano fino alla costruzione dell’ultima cinta di cui gli
statuti forniscono numerosi esempi 19.  

Signorie fondiarie cittadine e politiche comunali

Le modalità contrattuali con cui fu promossa l’urbanizzazio-

18 Hubert, La construction de la ville, cit., pp. 112-119.


19 Eloquenti a questo riguardo sono gli statuti di Arezzo del 1327, coevi alla
costruzione dell’ultima cinta muraria, cfr. Statuto di Arezzo (1327), a cura di G.
Marri Camerani, Firenze 1946, I, 36, p. 39: «De diffinitione ac terminis camparie
civitatis Aretii. Ad tollendas questiones que cotidie oriuntur occasione camparie
civitatis Aretii, declarando firmamus quod ipsa camparia sit et esse intelligatur extra
cerchias vel muros novos dicte civitatis per unum miliare et dimidium. Civitas vero
intelligatur et sit a dictis cerchiis vel muris novis intra, ita quod singule domus et
burgi qui sunt inter dictas cerchias, esse de ipsa civitate ab omnibus habeantur». Per

138
Urbanizzazione, immigrazione e cittadinanza

ne delle periferie tramite la lottizzazione della grande proprietà


fondiaria cittadina, sia ecclesiastica sia laica, ebbero conseguenze
giuridiche, economiche, sociali e perfino politiche fondamentali.
Nelle città comunali italiane come nelle città europee coeve, il suolo
urbano non era libero nella sua totalità. Una parte importante, for-
se la maggioranza dei residenti nei burgi formatisi attorno al corpus
civitatis e poi inclusi nel perimetro delle nuove cerchie murarie abi-
tavano in case di cui possedevano i muri e il tetto ma non il suolo
sul quale furono edificate. I concessionari-superficiari erano sotto-
messi a obblighi reali di natura economica (canone, rinnovamento
della concessione ecc.), ma dovevano anche, spesso, «prestationes»
di natura personale ai «domini proprietarii» del fondo 20. Esistevano  

infatti signorie fondiarie ecclesiastiche e laiche all’interno delle mura


e alla loro periferia. Questo fatto di grande peso non era solo un «re-
siduo feudale», per riprendere una espressione di Gina Fasoli 21, ma  

spiega la natura degli interventi politici promossi da diverse autorità


comunali nel settore immobiliare dai primi decenni del Duecento
fino a tutto il Trecento.

Residenza e cittadinanza

Le norme relative alla concessione del diritto di cittadinanza


per i nuovi inurbati forniscono un indizio valido delle politiche co-
munali in questo settore fondamentale 22. Queste norme variavano
 

la definizione delle fasce suburbane, vedi F. Bocchi, Suburbi e fasce suburbane nelle
città dell’Italia medievale, «Storia della città», 5 (1977), pp. 15-33.
20 Vedi ad esempio il caso di Reggio Emilia nel 1242: Consuetudini e statuti
reggiani del secolo XIII, a cura di A. Cerlini, Milano 1933, pp. 17-20.
21 G. Fasoli, Città e feudalità, in Structures féodales et féodalisme dans l’Oc-
cident méditerranéen (Xe-XIIIe siècles): bilans et perspectives de recherches, Roma
1980, pp. 365-385.
22 D. Bizzarri, Ricerche sul diritto di cittadinanza nella costituzione comunale,
«Studi senesi», XXXII (1916), pp. 19-136 (ripubblicato in Ead., Studi di storia del
diritto italiano, Torino 1937, pp. 61-158); P. Cammarosano, L’esclusione politica nel
medioevo, in Cittadinanza, a cura di G. Manganaro Favaretto, Trieste 2001, pp.
127-133; E. Cortese, Cittadinanza. Diritto intermedio, in Enciclopedia del Diritto,
VII, Milano 1960, pp. 132-140; P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa.
1. Dalla civiltà comunale al Settecento, Roma-Bari 1999, pp. 3-50; L. De Angelis,
Immigrazione e concessioni di cittadinanza a Firenze e nei comuni italiani tra XIV e
XV secolo, in Città e vita cittadina nei paesi dell’area mediterranea. Secoli XI-XV, a
cura di B. Saitta, Roma 2006, pp. 423-437.

139
Etienne Hubert

molto a secondo delle città e della cronologia e furono più o meno


favorevoli a secondo delle fasi del movimento demografico come ha
dimostrato Antonio Ivan Pini 23. Mi limiterò qui all’esame di alcune
 

norme statutarie relative alla residenza, strettamente connesse con il


nostro argomento 24.  

Ovunque il candidato alla cittadinanza doveva risiedere nel ter-


ritorio chiuso dalle mura o nella periferia urbanizzata, «in civitate,
in burgis, in suburgis» 25. La legislazione fornisce a volta precisazio-
 

ni sulle condizioni giuridiche del domicilio. A Perugia nel 1279, a


Tivoli nel 1305 o a Roma nel 1360 gli statuti non specificano a quale
titolo bisognava «habere domum» 26. In altre città la normativa non
 

imponeva limitazioni di nessun tipo al riguardo: a Siena nel 1262, a


Verona nel 1276, residenti in case «proprie vel conducte, ad pensio-
nem vel alio modo» potevano candidarsi alla cittadinanza 27. Tuttavia  

tali casi sembrano l’eccezione.


Varie città invece escludevano dall’accesso alla cittadinanza co-
loro che non possedevano la loro residenza a pieno titolo. I candidati
dovevano acquisire una casa o un terreno edificabile e costruirvi una
casa il cui valore non era specificato a Viterbo a metà Duecento o
lasciato alle possibilità finanziarie del candidato a Padova nel 1262 28.  

Altrove invece i comuni imponevano regole più dure, introducendo

23 A.I. Pini, Un aspetto dei rapporti tra città e territorio nel Medioevo: la politi-
ca demografica ‘ad elastico’ di Bologna fra il XII e il XIV secolo, in Studi in memoria
di Federigo Melis, I, Napoli 1978, pp. 365-408 (ripubblicato in Id., Città medievali
e demografia storica. Bologna, Romagna, Italia (secc. XIII-XV), Bologna 1996, pp.
105-147).
24 Questa connessione appare chiaramente a contrario, quando la perdita del-
la cittadinanza comporta la demolizione della residenza come dimostra qui Roberta
Mucciarelli.
25 Così a Pistoia nella seconda metà del XII secolo, a Volterra nel 1217, a
Verona nel 1276, a Perugia nel 1279, a Firenze nel 1325, a Bergamo nel 1353 ecc.
26 Statuto del comune di Perugia del 1279, a cura di S. Caprioli et al., I, Perugia
1996, cap. 390, pp. 364-365; Statuto di Tivoli del MCCCV, a cura di V. Federici, in
Statuti della provincia romana, I, Roma 1910, IV, 294, p. 241; Statuti della città di
Roma, a cura di C. Re, Roma 1880, III, 142, p. 274.
27 Il constituto del comune di Siena dell’anno 1262 [1897], a cura di L.
Zdekauer, Bologna 1983, IV, 47, p. 416; Gli statuti veronesi del 1276, a cura di G.
Sandri, Verona 1940, vol. I, I, 213, pp. 169-170.
28 Gli statuti viterbesi del 1237-38, 1251-52 e 1356, a cura di V. Federici, in
Statuti della provincia romana, II, Roma 1930, III, 102, p. 179; Statuti del comune di
Padova dal secolo XII all’anno 1285, a cura di A. Gloria, Padova 1873, III, XXVIII,
866, p. 292.

140
Urbanizzazione, immigrazione e cittadinanza

un filtro socio-economico e politico nella selezione dei cittadini fu-


turi e pianificando nello stesso tempo il tessuto materiale e sociale
di alcune aree urbane: il terreno da comprare doveva essere ubicato
in settori specifici della città e la casa da edificare doveva raggiunge-
re un valore minimo, fissato a venticinque lire a Brescia nell’ultimo
quarto del XIII secolo, a cento lire per i comitatini e a centocinquan-
ta lire per i forestieri immigrati a Ferrara nel 1287 29. Gli statuti di
 

Arezzo del 1327 forniscono dettagli numerosi in proposito: il co-


mune attribuiva ai nuovi inurbati candidati alla cittadinanza terreni
ubicati tra la seconda e la terza cerchia in corso di edificazione, che
i loro proprietari, chiamati «domini», erano costretti a vendere al
prezzo stabilito dai «estimatores»; i nuovi immigrati dovevano edi-
ficarvi case murate con calce e coperte di tegole, le cui dimensioni
erano specificate ed il valore minimo stabilito in duecento lire per i
comitatini e in trecento lire per i forestieri. Solo quelli che avevano
costruito la loro casa «in solo proprio per eos empto, vel aliter acqui-
sito, non conducto libellario nomine seu in emphyteosim accepto»,
potevano acquisire la cittadinanza aretina di cui erano esclusi i livel-
lari ed enfiteuti perchè dipendenti dal dominus del fondo30.

Lottizzazioni e pianificazioni comunali

Altrove le autorità comunali non si accontentarono di con-


trollare la dinamica dell’urbanizzazione, riservando l’accesso alla
cittadinanza ai soli proprietari e limitando, o cercando di limitare
l’impronta territoriale dei grandi proprietari ecclesiastici e laici.
Talvolta promossero programmi di lottizzazione e di pianificazione
vera e propria dell’espansione urbana e delle sue condizioni eco-
nomiche e sociali. Alcuni casi di urbanizzazione pianificata sono
attestati dal XII secolo, a Bologna nel 1117-1118, a Ferrara a metà
secolo, a Bologna di nuovo nel 1211, a Brescia nel 1237, a San
Gimignano a metà Duecento ma l’intervento più significativo, stu-
diato da Cesarina De Giovanni nel 1975, avvenne ad Assisi nel 1316

29 Statuti bresciani del secolo XIII, a cura di F. Odorici, in Monumenta


Historiae Patriae, XVI, Leges Municipales, t. II, pars altera, Torino 1876, col.
1584/112-1584/113; Statuta Ferrariae anno MCCLXXXVII, a cura di W. Montorsi,
Ferrara 1955, II, 41, pp. 57-58.
30 Statuto di Arezzo (1327), cit., L. II, r. 48, pp. 102-106: «Capitula de novis
civibus fiendis».

141
Etienne Hubert

quando fu programmata l’urbanizzazione dello spazio meridionale


compreso tra le vecchie mura e la nuova cerchia appena edificata 31.  

Dopo aver chiesto un «consilium» allo Studium di Perugia, il comu-


ne detta un «ordinamentum super augmentatione, affrancatione et
decoratione civitatis Assisii». Le vendite immobiliari e le costruzioni
in corso furono sospese, i beni enfiteutici affrancati, i terreni ubicati
nelle zone da urbanizzare espropriati e acquisiti dal comune che spe-
se più di diecimila lire; lotti di dimensioni costanti furono assegnati
dal comune a contadini scelti a sorte con l’obbligo di costruirvi case
di pietre murate con calce nei due anni successivi: più di ottocento
parcelle furono vendute al doppio del prezzo pagato dal comune
per finanziare lavori di utilità pubblica (apertura e sistemazione della
rete viaria, costruzione di acquedotto e fontane). Ne consegue l’im-
migrazione pianificata di più di ottocento famiglie, insediate in case
di piena proprietà, l’abolizione dell’enfiteusi e l’affrancazione dai di-
ritti signorili negli spazi nuovamente urbanizzati.

Affrancazione del suolo e abolizione delle signorie cittadine

Dall’inizio del Duecento, altri comuni promossero o tentarono


di promuovere politiche antimagnatizie più radicali, decretando mi-
sure generali per liberare il suolo urbano e peri-urbano 32. Mantova  

sembra aprire la strada nel 1217 quando decise «ut ficta et decimas
in alodium fiant secundum tenorem statuti Mantue»: negli anni
successivi è documentata l’attività di una commissione «ad alodia
facienda omnia ficta et decimas a tribus millibus infra versus civi-
tatem Mantue»; per ovviare all’eventuale richiesta di allodiazione
da parte del concessionario, numerosi contratti coevi specificano di
«non facere alodium» o precisano che le parti «inter se promiserunt
quod alter alterum non compellet dictam terram allodiare renun-
ciando statuto Mantue» 33. Negli stessi anni, lo statuto padovano «ut
 

nullus possit vel debeat uti iurisditione aliqua vel comitatu in Padua

31 C. De Giovanni, L’ampliamento di Assisi nel 1316, «Bollettino della depu-


tazione di storia patria per l’Umbria», 72 (1975), pp. 1-78; accenno in U. Nicolini,
La struttura urbana di Assisi, in Assisi al tempo di san Francesco, Atti del V convegno
internazionale (Assisi, 1977), Assisi 1978, pp. 247-270: p. 266.
32 D’obbligo il rimando a G. Fasoli, Ricerche sulla legislazione antimagnatizia
in Italia, «Rivista di storia del diritto italiano», 12 (1939), pp. 86-133.
33 P. Torelli, Un comune cittadino in territorio ad economia agricola, Mantova
1930, vol. I, pp. 248ss.

142
Urbanizzazione, immigrazione e cittadinanza

vel Paduano districtu» non impediva ad alcuni signori fondiari di


concedere case in ricompensa o in cambio di servizi come ha mo-
strato Sante Bortolami: nel 1228 il concessionario di una casa era
tenuto «ad aiuvandum ipsum dominum cum sua propria persona in
suis propriis werris» 34. A Modena il patto tra il comune e il vesco-
 

vo concluso nel 1227 sancisce la possibilità per il concessionario di


chiedere l’allodiazione dei beni di proprietà vescovile e delle chiese
dipendenti concessi, compensata da cessioni di terre del valore di
cinque soldi per ogni denaro di censo pagato 35. Questa disposizione
 

diventò di seguito norma statutarie come ricorda un documento del


1268 alludendo agli «statuta civitatis Mutine loquentia de terris infra
decem miliarum ad civitatem in allodium convertendum» 36.  

A Reggio Emilia, nel 1242, il diritto consuetudinario impo-


se ai proprietari laici ed ecclesiastici di vendere loro case e terreni
urbani, al prezzo stabilito da arbitri nominati dal comune, ai con-
cessionari che dovevano, oltre il pagamento del «fictum», «aliquam
prestationem» al loro «dominus»; lo stesso provvedimento fu esteso
ai «suburbia et iusta civitatem per medium miliare pro utilitate et
libertate cuiuscumque» 37. Uno statuto particolare ribadì lo stesso
 

ordinamento nel 1258 38. Nel 1327, Modena generalizzò la misura


 

decretata un secolo prima, statuendo, con il motivo «ut homines et


persone civitatis Mutine vivant et permaneant in libertate, quod om-
nia casamenta civitatis Mutine et burgorum et quod omnes terre que
sunt a decem milliariis infra versus civitatem et circumquaque civitate
[...] sint et esse debeant allodium sive allodia proprium vel propria»:
nello stesso tempo furono proibiti alienazioni «nisi per allodium et
proprium» e giuramenti feudo-vassallatici «aliqua occasione vel in-

34 S. Bortolami, Fra ‘alte domus’ e ‘populares homines’: il comune di Padova e


il suo sviluppo prima di Ezzelino, in Storia e cultura a Padova nell’età di Sant’Antonio,
Padova 1985, pp. 3-73: pp. 44-45 e 63-64.
35 Registrum privilegiorum comunis Mutinae, a cura di L. Simeoni - E.P. Vicini,
Modena 1949, vol. II, doc. n. 273, pp. 82-92.
36 R. Rölker, Nobiltà e comune a Modena. Potere e amministrazione nei secoli
XII e XIII, Modena 1997, p. 235.
37 Consuetudini e statuti reggiani del secolo XIII, cit., pp. 17-20: «XXVI. Ut
omnes possessiones et omnia hedifitia et casamenta que sunt infra civitatem fiant
alodium. XXVIII. Quod omnes terre et domus et possessiones civitatis et suburbio-
rum et iusta civitatem per medium miliare fiant alodium».
38 Liber Grossus Antiquus Comunis Regii («Liber Pax Constantiae»), a cura di
F.S. Gatta, vol. III, Reggio nell’Emilia 1960, doc. n. 389, pp. 209-213. Cfr. anche E.
Conte, Servi medievali. Dinamiche del diritto comune, Roma 1996, pp. 250-252.

143
Etienne Hubert

genio que excogitare possit» 39. La stessa cosa avvenne a Savona nel
 

1345 quando gli statuti proibirono ai cittadini di «facere sacramen-


tum fidelitatis alicui persone, cuiuscumque condictionis sit, excepto
potestati vel eius vicario», pena dieci lire e la privazione perpetua
del diritto di cittadinanza, o ad Ascoli Piceno nel 1377 40. I cittadini
 

dovevano essere uomini liberi da qualsiasi legame personale.


Questa politica antimagnatizia, ribadita in alcune città nel XIV
secolo, non fu sempre coronata da successi: esemplare il caso di
Roma dove nel 1347 Cola di Rienzo tentò di abolire qualsiasi for-
ma di feudalità cittadina, materializzata dalla pittura dello stemma
signorile sulla facciata delle case incluse nei territori sotto il loro
dominio, ma le signorie fondiarie cittadine, chiamate «vicinantie» a
Roma, sopravvissero a lungo al tribuno 41.  

* * *

La restituzione delle modalità che consentirono la realizzazio-


ne dell’espansione urbana medievale costituisce il punto di partenza
fondamentale per capire il significato delle politiche promulgate
dalle autorità comunali in numerose città ma non ovunque. Queste
politiche contrastarono le motivazioni che avevano spinto i pro-
prietari ecclesiastici e laici a promuovere l’urbanizzazione del loro
patrimonio fondiario. In vari casi, i comuni cercarono di controllare
e di limitare le conseguenze sociali e politiche dello strumento giu-
ridico utilizzato, l’enfiteusi, per abolire le giurisdizioni private o al
minimo per ridurre la loro importanza. Infatti i comuni italiani non

39 Statuta civitatis Mutine anno 1327 reformata, a cura di C. Campori,


Parma 1864, III, 61, pp. 337-341: «De terris, domibus, possessionibus, affictis
francandis».
40 Statuta antiquissima Saone (1345), a cura di L. Balletto, Genova 1971, III,
57, vol. II, pp. 80-81; Statuti di Ascoli Piceno dell’anno MCCCLXXVII, a cura di L.
Zdekauer - P. Sella, Roma 1910, II, 39, p. 43.
41 Vedi la lettera di Cola di Rienzo al papa Clemente VI datata 8 luglio
1347, Epistolario di Cola di Rienzo, a cura di A. Gabrielli, Roma 1890, pp. 21-22;
Briefwechsel des Cola di Rienzo, a cura di K. Burdach - P. Piur, Berlino 1913-1939,
t. 3, pp. 42-43; Statuti della città di Roma, cit., II, 150, p. 171; II, 154, p. 172. Su
questo tema vedi S. Carocci, Baroni in città. Considerazioni sull’insediamento e i
diritti urbani della grande nobiltà, in Roma nei secoli XIII e XIV. Cinque saggi, a
cura di E. Hubert, Roma 1993, pp. 137-173 e E. Hubert, Noblesse romaine et espace
urbain (Xe-XVe siècle), in La nobiltà romana nel Medioevo, a cura di S. Carocci,
Rome 2006, pp. 171-186.

144
Urbanizzazione, immigrazione e cittadinanza

sono cresciuti al di fuori dalla società feudale e presentano nei secoli


XII, XIII e a volte ancora nel XIV secolo, più che dei «residui feu-
dali». Solo a questo prezzo i comuni poterono esercitare pienamente
il loro potere e la loro autorità sulla totalità del territorio cittadino
ed attivare i grandi programmi urbanistici e di decoro urbano che
trasformarono il volto delle città italiane 42.
 

42 Su questi aspetti si vedano in questo volume i contributi di Elisabeth


Crouzet-Pavan, di Italo Moretti e di Thomas Szabó.

145
Lunedì 12 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Giovanna Petti Balbi

Thomas Szabó
Genesi e sviluppo della viabilità urbana *  

La città comunale italiana, alle soglie del secolo XII, avendo


subito una forte crescita demografica e trovandosi collocata in un
contesto politico assai insicuro, era costretta a cingersi di nuove cer-
chie murarie. Intanto la vita sociale ferveva: le grandi famiglie urbane
erigevano le torri per difendersi dalle inimicizie coi vicini, i religio-
si o i cosiddetti laici-religiosi si impegnavano nella costruzione di
ospedali per i bisognosi e per i pellegrini, si edificavano monasteri e
chiese sempre più capienti a beneficio dell’aumentata popolazione
urbana e il reggimento civile, da poco tempo impegnato nell’autogo-
verno ma già contraddistinto da un folto apparato amministrativo,
necessitava di grandi palazzi comunali, mentre gli inurbati, dal canto
loro, costruivano nuove dimore e la vita politica ed economica abbi-
sognava di spazi via via più estesi, sotto forma di piazze.
Si tratta, come è evidente, di necessità primarie — ed ovvie al
contempo — per la complessa vita cittadina. Ma perché il Comune
doveva occuparsi anche delle vie, ovvero di quelle strisce di terreno
libere da fabbricati e che si incuneavano tra il profilo delle case che si
susseguivano a destra e a sinistra? Per quali motivi, considerazioni e
forse anche necessità il Comune, ancor giovane, era chiamato a farsi
carico dello spazio che serviva solamente per passare di qua e di là?
Si tratta di domande alle quali dobbiamo cercare di risponde-
re in questa sede, ben consapevoli del fatto che oltre ad esse si pone
la questione del pregresso: la città comunale italiana del secolo XII

* Ringrazio sentitamente Isabella Gagliardi per la revisione del testo italiano.

147
Thomas Szabó

era erede della città altomedievale e, per suo tramite, della città anti-
ca. Ci dobbiamo, dunque, chiedere anche se il contenuto delle azioni
comunali che ci accingiamo ad esporre fosse del tutto nuovo o se in-
vece non fosse già stato proposto in passato, seppur in parte, e se
dunque non venisse soltanto “risuscitato” a nuova vita.

Chiariamo subito che il Comune fondamentalmente interveniva


per quattro gravi motivi: in primo luogo perché si era creato un certo
disordine intorno alle strade urbane nei secoli di mezzo tra il tardo
antico e la fine del secolo XI — disordine in parte causato della man-
cata cura da parte dei rappresentanti dell’ordine pubblico e in parte
provocato dagli abusi dei privati che approfittavano della negligen-
za nel governo della città. In secondo luogo il reggimento cittadino
affrontava la questione perché sollecitato dall’immigrazione dalle
campagne e dalla crescita vertiginosa dello spazio abitato della cit-
tà, che richiedeva una nuova rete viaria. Un terzo motivo dipendeva
poi dalla necessità di rendere visibile e “tangibile” l’estensione delle
strade e di mostrare ai vari confinanti dove correva la linea che di-
videva il suolo pubblico dalle proprietà private. E infine dobbiamo
considerare un quarto motivo: la volontà di creare condizioni amene
e comode per la vita quotidiana dei cives. Nel periodo da noi tratta-
to i quattro motivi si intrecciano, sebbene nel secolo XII e nel primo
ventennio del secolo XIII prevalga l’intento di creare un nuovo siste-
ma d’ordine e di abituare i cives al rigore delle nuove regole, mentre
dalla metà del secolo XIII in poi ci si dedichi prevalentemente a ren-
dere vivibile e comodo lo spazio ordinato e sistemato di recente.
Cominciamo dunque a esaminare la situazione per vedere poi
quanto le fonti ci raccontano sulla viabilità della città.

1. Abusi del suolo pubblico


La città italiana del secolo XII deriva da insediamenti antichi,
di epoca romana, e, in molti casi, rivela questa sua lontana matri-
ce ancor oggi. Esaminando più da vicino le piante stradali di Pavia,
Piacenza, Parma, Bologna, o, per rimanere in Toscana, di Lucca e di
Firenze, si riconosce la griglia stradale della fondazione antica seb-
bene qua e là risulti intaccata in grado e misura variabili di volta in
volta. Se per esempio prendiamo l’odierna pianta stradale di Firenze
e la sovrapponiamo alla pianta archeologica della città e al traccia-
148
Genesi e sviluppo della viabilità urbana

to originale del lastricato antico, scorgiamo subito quanto è rimasto


— come sembra — inalterato dai tempi antichi e quanto invece è
stato modificato: i fabbricati infatti sono avanzati su quello che un
tempo era il suolo stradale o addirittura notiamo come esso sia com-
pletamente sparito sotto i palazzi.
Eseguendo un esame del genere, confrontando il reticola-
to stradale antico con quello odierno e costatando le concordanze,
dobbiamo far attenzione a non ingannarci, è infatti possibile che
si finisca per perdere di vista la cronologia dei cambiamenti, non
distinguendo quante invasioni dell’area stradale si siano verificate
durante il primo medioevo e quante siano state rimesse in ordine già
dal Comune medievale. I tanti capitoli degli statuti comunali che im-
pongono di raddrizzare le strade della città si riferivano non solo alle
nuove vie medievali tortuose, ma anche a strade in linea di princi-
pio rettilinee, lungo le quali, però, i frontoni delle case sporgevano e
rientravano in continua alternanza: quanto era accaduto dipendeva
dal disuso secolare della strada verificatosi dal tardo antico al seco-
lo XII.
Quali esempi di costruzioni abusive che andavano ad occupare
il suolo stradale si possono citare casi verificatisi a Pisa o Vicenza. A
Pisa vediamo radunarsi, nel 1155, nella via Santa Cecilia, undici con-
soli del Comune accompagnati da un agrimensore e da un notaio. Su
indicazione dei consoli il notaio stende un protocollo in cui si dichia-
ra che la via, larga 14 piedi (uguale a 6,73 m.), per un certo tratto si
ristringe a 7 piedi (uguali a 3,36 m.) a causa della presenza di un edi-
ficio 1. Non ci viene riferita la conclusione della faccenda, ma sembra
 

certo che, alla fine, la parte dell’edificio sporgente sulla strada sia sta-
ta demolita. Nel secolo XIII, infatti, quella stessa via si chiama ormai
carraria Sancte Cecilie e ciò significa che nel frattempo era diventata
abbastanza larga da consentire il traffico dei carri. A Vicenza invece
è documentato come nel 1193 il Comune abbia imposto a un certo
Gerardino di Marco di arretrare la facciata della propria casa quan-
to necessario perché risultasse allineata con quelle delle abitazioni

1 Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, per cura di F. Bonaini,
vol. I., Firenze 1854, S. 470; cfr. G. Garzella, Pisa com’era: topografia e insedia-
mento dall’impianto tardoantico alla città murata del secolo XII, Presentazione di
G. Rossetti, Napoli 1990, p. 177; Per il piede di Liutprando da 0,481 metri cfr. la
misurazione di Gabriella Garzella, Il Campanile di S. Pietro in Vincoli a Pisa e il
piede di Liutprando, «Bollettino storico pisano», 58 (1989), pp. 163-171.

149
Thomas Szabó

limitrofe 2.
 

Non sappiamo a spese di chi avvenissero tali interventi. In ogni


caso è certo che quando la costruzione abusiva era recente, la demoli-
zione era a carico del trasgressore che con la sua costruzione occupava
una parte della via e così ostacolava la libera circolazione dei vicini.
In altri casi invece, quando l’occupazione era avvenuta ormai da lun-
ga data o da tempo imprecisabile ed era rimasta incontestata sino ad
allora, il Comune contribuiva alle spese dell’abbattimento e della ri-
costruzione. Questo fu quanto avvenne, per esempio, nel 1221 nella
contrada del termine a Siena, quando il proprietario della casa la cui
facciata sporgeva sulla via e doveva essere smantellata, ottenne un in-
dennizzo di 60 libbre 3.  

Nel secolo XII il flusso stradale era ostacolato non solo dalle
case sporgenti ma anche dalle scale esterne, che dalla strada porta-
vano nelle abitazioni. Il Breve consulum di Pisa del 1162 obbliga i
consoli a far demolire tali costruzioni qualora la maggior parte dei vi-
cini lo chieda 4. Nel Breve di due anni posteriore si è più intransigenti
 

e per ordinare la demolizione si considera sufficiente che due o tre


vicini avanzino la richiesta 5. E di nuovo a Vicenza, nel 1193, vediamo
 

che il Comune obbliga un certo Giovanni di Diana a distruggere una


scala esterna della sua dimora 6. Si possono citare anche gli Statuti di
 

Volterra del 1210-22 che, come accadeva in tanti altri comuni, va-
lutano le scale esterne alle case nei sensi di un ostacolo alla libera
circolazione sulle vie 7.  

C’è poi da considerare l’occupazione delle strade per scopi


commerciali, con tende e banchi. Questi ultimi ingombravano le vie
impedendo il traffico e, oltre a ciò, venivano a confliggere con i dirit-
ti fiscali rivendicati dal Comune. Il Breve pisano del 1162 affermava

2 F. Bocchi, Federico II e la cultura urbanistica, in Federico II e le nuove cul-


ture, Atti del XXXI Convegno storico internazionale (Todi, 9-12 ottobre 1994),
Spoleto 1995, pp. 489sgg.
3 Il Caleffo vecchio del Comune di Siena, pubblicato da G. Cecchini, vol. I,
Siena 1931, n. 171. Il documento riferisce solo del fatto della vendita menzionata.
4 I Brevi dei consoli del comune di Pisa degli anni 1162 e 1164. Studio intro-
duttivo, testi e note con un’appendice di documenti, a cura di O. Banti, Roma 1997
(Fonti per la storia dell’Italia medievale, Antiquitates, 7), (38), p. 63.
5 Ivi, (36), p. 93.
6 F. Bocchi, Federico II e la cultura urbanistica, cit., pp. 489sgg.
7 Statuti di Volterra I (1210-1224), a cura di E. Fiumi, Firenze 1951, LXXXX,
p. 45.

150
Genesi e sviluppo della viabilità urbana

in questo contesto che i tributi per le attività commerciali praticate


lungo le vie della città e sulle rive dell’Arno spettavano esclusivamen-
te al Comune 8. Per eliminare ogni dubbio su quanto fosse larga la
 

via lungo il fiume, il Comune fece determinare i Lungarni nella lar-


ghezza di 3,5 pertiche (circa 20 metri), come viene riferito dal Breve
del 1164 9.  

Nella serie dei — da noi così chiamati — ‘disordini’ si annove-


rano anche i porticati o ballatoi, eretti sulle vie lungo la facciata delle
case, che, allo stesso modo, rallentavano o impedivano il flusso del
traffico. A Pisa, stando al racconto del cronista Bernardo Maragone,
nel 1157, dopo un incendio divampato nei porticati di legno e che
distrusse una larga area della città, i consoli adirati fecero demolire i
ballatoi 10. Le dimensioni di un simile provvedimento non sono chia-
 

re. Sembra però che un riflesso di tale misura si proietti nei Brevia
consulum del 1162 e del 1164. La fonte più antica obbliga i conso-
li a distruggere i ballatoi dei convicinia — se la maggior parte dei
convicini lo ritiene opportuno 11 — mentre il Breve consulum di due
 

anni posteriore giudica auspicabile un simile trattamento anche per


i porticati di Borgo San Michele e di via Santa Maria, ma vincola la
decisione definitiva al parere dei senatores espresso sotto giuramen-
to. La questione è infatti estremamente delicata poiché si tratterebbe
di agire in una parte centrale della città, dove ci si potrebbero aspet-
tare forti resistenze 12. 

Provvedimenti simili furono adottati pure a Pistoia anche se la


situazione di questa città doveva essere assai peculiare: se ne riceve
infatti l’impressione che i provvedimenti/decreti del Comune in ma-
teria o non venissero eseguiti o non fossero presi sul serio dai diretti
interessati. Lo statuto pistoiese del 1162-1180 obbligava il podestà
a far spianare tutti i porticati: sia quelli la cui demolizione era stata
decisa dai suoi predecessori ma non eseguita, sia gli altri che erano
stati costruiti nel frattempo 13. E anche il summenzionato provvedi-
 

8 I Brevi dei consoli, cit., (34), p. 62.


9 Ivi, (32), p. 92.
10 Cfr. ibidem, p. 63: il commento dell’editore al paragrafo (38).
11 Ibidem, (38), p. 63.
12 Ibidem, (36), p. 93.
13 Statuti Pistoiesi del secolo XII. Breve dei Consoli [1140-1180].
Statuto del
Podestà [1162-1180], a cura e traduzione di N. Rauty, Pistoia 1996 (Fonti Storiche
Pistoiesi, 14), p. 273 [S. 37].

151
Thomas Szabó

mento vicentino del 1193 costringeva un certo Vito di Martino Xoco


e il già ricordato Gerardino di Marco a eliminare i porticati davan-
ti alle loro case 14.
 

Dobbiamo però tener presente che le misure citate non sono


generalizzabili o, più precisamente, che riguardavano — almeno in
Toscana — i porticati di legno poiché in caso di incendio costitui-
vano un pericolo oggettivo. Al contrario di quanto abbiamo visto
accadere sin qui altri comuni, nonostante si trattasse di occupazione
del suolo pubblico, favorivano o addirittura prescrivevano la costru-
zione di porticati, perché in estate proteggevano dal sole cocente e
nella stagione piovosa riparavano dall’acqua.
È il caso di Genova, dove nel 1134 i tre consoli decretarono tra
l’altro che davanti alle case lungo la ripa maris si potesse erigere un
colonnato, a patto che non fosse di legno ma soltanto di pietra, co-
struirvi sopra alcune gallerie e usare lo spazio sovrastante per le case.
L’esecuzione del decreto, se l’interpretazione data da Ennio Poleggi e
Paolo Cevini è esatta, comportò la messa in opera di colonnati per un
tratto di oltre 900 metri lungo la riva del mare 15. I vani creati sopra
 

le gallerie, dunque, dovevano essere privati. La via attraverso la gal-


leria — cioè lo spazio tra le mura delle case e il colonnato — doveva
invece rimanere libera da ogni impedimento o panca 16. Per interpre-
 

tare il documento liberamente: i consoli concessero che un’area fino


ad allora di libera circolazione fosse occupata da parte dei proprie-
tari delle case adiacenti con gallerie, decretando però che lo spazio
sottostante rimanesse di demanio comunale.
E non solo il Comune di Genova favoriva tali costruzioni ma
anche quello di Volterra, dal momento che gli statuti volterrano del
1222 prevedevano che le case nuovamente costruite nella città do-
vessero essere tutte fornite di portici 17.  

In modo analogo già nel 1211 il Comune di Bologna obbligava


i proprietari di case lungo la via circolare, sorta sul posto del fossato

14 F. Bocchi, Federico II e la cultura urbanistica, cit., pp. 489sgg.


15 Cfr. E. Poleggi - P. Cevini, Genova (Le città nella storia d’Italia), Roma-
Bari 1981, p. 32: «Alla conclusione tutto l’opera, lunga oltre 900 metri».
16 Codice Diplomatico della Repubblica di Genova, a cura di C. Imperiale Di
Sant’Angelo, Roma 1936 (Fonti per la Storia d’Italia, LXXVII), n. 67 (1133 no-
vembre), pp. 81-82.
17 Statuti di Volterra I (1210-1224), a cura di E. Fiumi, Firenze 1951, p. 180,
CXXXXIII.

152
Genesi e sviluppo della viabilità urbana

altomedievale, a edificare dei portici. Nel 1288 poi il Comune este-


se quel provvedimento a tutte le strade della città 18. Eredità di tali
 

provvedimenti sono — come si è detto — i ben conosciuti portica-


ti bolognesi che si sviluppano lungo le strade della città per circa 40
chilometri 19.
 

Chiudiamo dunque questa serie di esempi di occupazione abu-


siva del suolo pubblico e veniamo alla seconda motivazione che il
Comune aveva per occuparsi delle strade, cioè alla crescita vertigi-
nosa della città nel periodo qui preso in esame.

2. Nuove vie per nuovi quartieri


Davanti alle mura altomedievali erano sorte nuove zone abita-
te, dei borghi con una popolazione cospicua, che avevano altrettanto
bisogno di essere difesi. Le città, dunque, costruivano nuove cerchie
murarie che necessitavano anche di nuove vie per essere velocemen-
te raggiungibili in caso di pericolo.
Il Breve consulum di Pistoia del 1140-80 sancisce che tali nuove
strade intorno a tutta la città dovessero esser larghe 12 piedi (circa 6
metri) 20. Il Breve consulum pisano del 1162 parla di «viis iuxta mu-
 

ros noviter factis» e di espropriazioni avvenute a tale scopo e che


dovevano essere indennizzate 21. Per illustrare la mole di questo tipo
 

di imprese per gli organi del Comune basti notare come a Pisa la via
che correva lungo le mura nuovamente progettate per circondare i
tre quartieri maggiori della città (‘Ponte’, ‘Mezzo’ e ‘Fuoriporta’),
misurava oltre 4300 metri. Si trattava, come veniamo a sapere dal
Breve, non solo di tracciare il percorso di tali vie, di decidere a qua-
li proprietari limitrofi si doveva confiscare la terra necessaria, di far
stimare il valore dei terreni confiscati, ma anche di decidere se il
Comune fosse in grado di indennizzare gli ex proprietari, ovvero se
si ritenesse opportuno detrarre tali somme dall’imponibile dovuto
in occasione degli estimi futuri. A Firenze si comincia nel 1172 a
tracciare nuove vie intorno alle nuove mura 22. Qui l’ultima cerchia
 

18 F. Bocchi, Federico II e la cultura urbanistica, cit., p. 491.


19 Ivi, p. 490.
20 Statuti Pistoiesi del secolo XII, cit., [B. 42], p. 173.
21 I Brevi dei consoli, cit., (43), p. 65.
22 F. Sznura, L’espansione urbana di Firenze nel Dugento, Presentazione di E.
Conti, Firenze 1975, p. 85.

153
Thomas Szabó

muraria — tracciata a partire dal 1283 23 — misurava in tutto circa


 

8500 metri 24, ma allo sforzo di costruzione della cinta muraria va ag-
 

giunto anche il progetto relativo alla realizzazione di strade interne


ed esterne lungo il circuito, come decretato dagli statuti.
A parte gli esempi citati di Pistoia, Pisa e Firenze nell’Italia
centro settentrionale si contavano, come ha stimato recentemente
Étienne Hubert, circa 113 Comuni con una popolazione di più di
5000 abitanti 25. Tali Comuni hanno tutti sperimentato processi di
 

crescita e tutti sono stati costretti, analogamente ai tre comuni citati,


a tener conto dei cambiamenti verificatisi tra il XII e XIV secolo.

La costruzione di nuove vie circolari intorno alle mura recen-


ti fu solo una delle necessità sorte in conseguenza della crescita dello
spazio urbano. L’altra necessità, che poneva problemi più complicati
e impegnativi, fu quella di rendere organici gli spazi inglobati ex novo
nell’abitato con il tessuto urbano preesistente e di renderli accessibi-
li predisponendo una nuova viabilità. Il problema di fondo non era
sconosciuto e si era posto dentro la città e davanti alle sue mura dal
momento che i nuovi immigrati avevano acquistato dei sedimi (ter-
reni) per costruirvi le loro dimore. In genere si trattava di particelle
sino ad allora coltivate, appartenenti a privati o a istituzioni ecclesia-
stiche, che venivano lottizzate e messe — a diverse condizioni — a
disposizione dei nuovi immigrati.
Tali sviluppi, come mostrano le nostre fonti, crearono sempre
seri problemi di accessibilità in quanto le parcelle derivate da una
unità maggiore solo in parte disponevano di un accesso diretto a vie
già esistenti. Molti dei terreni non disponevano di una via per colle-
garsi alla circolazione generale e, nei primi tempi, i nuovi proprietari
dovevano creare da soli i passaggi necessari per avere libero accesso
alle future dimore.
Esempi di questa problematica si trovano, dagli anni ’60 del se-

23 Ivi., p. 86sgg.
24 D. Balestracci, Immigrazione e morfologia urbana nella Toscana basso-
medievale, in D’une ville à l’autre. Structures, matérielles et organisation de l’espace
dans les villes européennes (XIIe-XVIe siècle), Actes du colloque organisé par l’École
française de Rome avec le concours de l’Université de Rome (Rome 1er-4 décembre
1986), éd. par J.-Cl. Maire Vigueur (Collection de l’École française de Rome, 122),
Rome 1989, pp. 87-105: p. 88.
25 É. Hubert, La construction de la ville. Sur l’urbanisation dans l’Italie médié-
vale, «Annales», 59 (2004) pp. 109-139.

154
Genesi e sviluppo della viabilità urbana

colo XI, nelle carte pisane, esaminate minuziosamente da Gabriella


Garzella 26. Gli interessati, nei casi appena descritti, contribuivano
 

con una striscia del loro terreno alla costituzione di una via o clas-
sus comunalis, che da allora in poi diventava loro proprietà privata o
era in proprietà comune con un altro proprietario. In un documento
del 1109 si legge, per esempio, che uno dei lati di un certo sedimen
«tenet unum caput in via mea comunale» 27. Un altro documento,
 

del 1129, ci presenta un caso nel quale da tre terreni limitrofi si rag-
giunge la via publica solo attraverso una via comunalis 28. Grazie a un
 

terzo documento, del 1151, siamo testimoni di come la chiesa di S.


Lorenzo avesse venduto a un privato un pezzo di terra e le due parti
avessero deciso di costituire una via comunalis di 5 piedi (circa 2,50
metri), contribuendo entrambe a mettere a disposizione una striscia
di terra per la futura via 29. 

Il problema del libero accesso ai sedimi si pose durante tutto


il periodo qui esaminato ed è un problema che in certe circostan-
ze si pone tuttora. Per il periodo comunale ci accontentiamo qui
dell’esempio degli statuti di Arezzo dell’anno 1327 ove si legge che
molti cittadini — e anche contadini — non hanno accesso diretto
ai loro fondi o terreni. Di conseguenza gli statuti decretano che il
vicino il cui terreno risulti prossimo all’appezzamento in questione
venda una striscia di tre braccia del suo terreno a colui che non po-
teva usufruire di un accesso diretto alle sue proprietà. Coloro che al
contrario non trovino un accordo con il rispettivo vicino, sono auto-
rizzati a passare attraverso quel fondo 30.  

Ma per tornare al caso pisano or ora menzionato constatiamo


come di vie-, classi-, classatelli comunales del genere ne siano attestati
più di una dozzina, e ciò rivela una situazione complicata. Nel cor-
so degli anni ’50 del secolo XII il Comune sembra essere intervenuto

26 G. Garzella, Pisa com’era, cit., pp. 72, 123, 129, 130 etc.
27 Carte dell’Archivio capitolare di Pisa, 4, 1101-1120, a cura di M. Tirelli
Carli, presentazione di C. Violante, Roma 1969 (Thesaurus ecclesiarum Italiae, 7,
4), n. 40 (1109 Jul. 15).
28 Carte dell’archivio della Certosa di Calci, 2 (1100-1151), a cura di Silio
P.P. Scalfati. Presentazione di C. Violante, Roma 1971 (Thesaurus Ecclesiarum
Italiane, VII, 18), n. 57 1129 Apr. 9 [Pisa].
29 Cfr. il rinvio da Garzella, Pisa com’era, cit., p. 150 alla tesi S. Caroti, Le
pergamene dell’Archivio di Stato di Pisa dal 1145 al 1155/1158, Pisa a.a. 1969-1970,
n. 34, 1151 ago. 26).
30 Statuto di Arezzo (1327), a cura di G. Camerani Marri, Firenze 1946, I, 72.
Similmente decretano anche gli statuti del 1342 e del 1345.

155
Thomas Szabó

direttamente nella questione tracciando nuove strade. Così almeno


interpretiamo il passo del Breve del 1164, laddove si dice che c’erano
«vie publice incepte […] et nondum complete» 31. La nostra ipotesi
 

sembra essere confermata anche dal fatto che la serie di attestazio-


ni di vie e classi comunales si ferma al 1151-1168. Se non sbagliamo,
dunque, queste vie incepte schiudevano spazi di una complicata
viabilità ove prima i proprietari di sedimi dovevano arrangiarsi e ac-
cordarsi coi vicini — situazione che il Comune probabilmente risolse
convertendo anche vie comunales in vie pubbliche.
La creazione di nuove aree abitative e il tracciato di nuove stra-
de che davano accesso ai nuovi sedimi è documentato tra l’altro
per Firenze e Brescia. A Firenze si conosce, attraverso lo studio di
Franek Sznura, tutta una serie di lottizzazioni e di nuove strade ad
esse relative. Nel 1208, per esempio, si cominciano a concedere lot-
ti edificabili in un’area coperta di vigne, e pochi anni dopo si attiva
anche una via nuova, l’odierna via della Vigna Nuova 32. In questi  

medesimi anni, più precisamente nel 1218, viene aperta pure una via
nova de Placza 33, nel 1252 una via nova de Casellino 34, nel 1255 una
   

«via nova que de novo mitti debet per ipsum Cafadium venendo a
porta de Balla recta linea» 35 e nel 1279 si apre la odierna via Santa
 

Monaca 36.  

Uno tra gli esempi meglio documentati proviene da Brescia,


ove è conservato, dagli anni 1237-49, un Liber de viis factis et de-
signatis … civitatis Brixie, che contiene un ‘piano regolatore’ per
l’ampliamento della città 37. Nel corso di quell’operazione viaria si
 

crea un tracciato di circa 12 chilometri di strade nuove, larghe 8,55


metri, con una circonvallazione interna larga 21,38 metri, e si proce-
de di conseguenza, a 488 espropriazioni tra le quali 138 relative ad
abitazioni e 350 relative a terreni 38.  

31 I Brevi dei consoli, cit., (35), p. 63.


32 F. Sznura, L’espansione urbana, cit., p. 71.
33 Ivi, p. 120.
34 Ibidem, p. 122sgg.
35 Ibidem, p. 57.
36 Ibidem, p. 125.
37 Liber potheris communis civitatis Brixiae, Augustae Taurinorum 1899 (Hi­
storiae Patriae Monumenta edita iussu Regis Caroli Alberti, XIX), coll. 501-516.
38 G. Panazza, Il volto storico di Brescia, pp. 45-46, citato in Storia di Brescia,
I, Brescia 1963, p. 673.

156
Genesi e sviluppo della viabilità urbana

3. Designazione del suolo pubblico


Il terzo motivo che sta alla base dell’intervento del Comune
coincide con la necessità di rendere visibile e “tangibile” l’estensione
delle strade, di solito attraverso la sistemazione di termini e cippi che
segnavano i confini tra il suolo pubblico e le proprietà private. Un si-
mile intervento comunale è attestato a partire dal secolo XII.
A questa categoria appartiene una misurazione avvenuta nel
1133 a Genova. Nel corso di tale operazione i tre consoli decidono
l’estensione di quattro vie: la prima deve essere larga 10 piedi (ca. 3
metri) lungo tutto il suo percorso, la seconda 4 piedi (ca. 1,20 metri),
la terza 8 piedi (2,40 metri) e per la quarta non si danno misure. Per
tutte e quattro vie si decreta che su di esse non ci deve essere nessun
impedimento 39.  

A Treviso gli statuti del 1211 obbligano il podestà a controlla-


re le strade e le piazze che sono state misurate negli anni precedenti,
per vedere se nel frattempo non siano state occupate dai vicini 40.  

A Siena è documentata una grande azione di delimitazione che


fu condotta nel 1218 sotto il podestà Ugolino Salamone di Parma 41.  

Nel 1249 incontriamo una commissione di tre uomini incaricati di


determinare vie e platee affinché non fossero occupate da privati 42.  

Il Costitutum senese del 1262, infine, obbliga il Podestà a difendere


dai soprusi le vie tracciate nel 1246 43.  

Le azioni di questo genere forse meglio documentate, e per ciò


particolarmente eccellenti ai nostri occhi, sono le due grandi misura-
zioni eseguite a Bologna nel corso del secolo XIII. La prima avvenne
nell’anno 1245 e riguardava le strade di circonvallazione interno
alle mura 44. Ben quaranta anni dopo, nel 1286, si misuravano le due
 

39 Codice Diplomatico della Repubblica di Genova, cit., n. 67, pp. 81-82.


40 Gli Statuti del comune di Treviso, I, ed. G. Liberali, Treviso 1951, S. 45.
41 Il Costituto del Comune di Siena dell’anno 1262, pubblicato da L. Zdekauer,
Milano 1897, III, 66.
42 Libri dell’entrata e dell’uscita della Repubblica di Siena detti del Camarlingo
e dei Quattro Provveditori della Biccherna. Nono Libro a. 1249, [a cura di A. Liberati]
Firenze 1933, p. 119.
43 Il Constituto del Comune di Siena, cit., III, 74.
44 M. Venticelli, I Libri terminorum bolognesi, in Medieval metropolises –
Metropoli medievali, Proceedings of the Congress of the Atlas Working Group,
International Commission for the History of Towns (Bologna 8-10 maggio 1997),
a cura di F. Bocchi, Casalecchio di Reno (Bologna) 1999, pp. 223-330; R. Smurra,
Prassi amministrativa e spazi urbani di circolazione come immagine della città, in
Imago urbis. L’immagine della città nella storia d’Italia, Atti del convegno interna-

157
Thomas Szabó

principali piazze della città, la Piazza Maggiore e quella di Porta


Ravegnana 45. Nel 1294, infine, seguì una terza azione, nel corso della
 

quale una commissione di 8 domini, accompagnati da un agrimensor


e da 4 notai, misurò e picchettò prima le vie circolari dentro e fuori
le mura, poi le piazze e le strade adiacenti. Nel corso di questa rico-
gnizione fu protocollata la posizione di 460 cippi vecchi e ne furono
sistemati circa 260 nuovi 46.  

Per chiudere l’argomento delle terminazioni si deve ancora


aggiungere qualche esempio, volto ad illustrare la larghezza delle di-
verse strade cittadine, che venne stabilita nel corso di queste azioni.
A Bologna nel 1245 le strade di circonvallazione all’interno del-
le mura non dovevano essere più strette di 8 piedi (m. 3,04) e quelle
esterne più strette di 10 piedi (m. 3,80) 47. A Pistoia il Breve consulum
 

del 1140-80 sanciva che le vie circolari interne alle mura misurasse-
ro 12 piedi (quasi 6 metri) 48. All’interno di Bologna una via costruita
 

sul luogo ove correva la cerchia muraria altomedievale demolita mi-


surava tra gli 8 49 e i 10 50 piedi (rispettivamente 3,05 e 3,85 metri). A
   

Firenze nel 1279 si determinava la futura via Santa Monaca, che do-
veva essere larga 12 braccia 51. Stando a questi esempi — la cui serie
 

si potrebbe prolungare — la larghezza ideale delle strade urbane nel


secolo XIII sembra essere stata tra i 10 e i 12 piedi.

4. Sanità, pulizia e decoro


Veniamo dunque al quarto motivo per cui il Comune inter-

zionale (Bologna 5-7 settembre 2001), a cura di F. Bocchi - R. Smurra, Roma 2003,
p. 426.
45 Ivi.
46 J. Heers, Espaces publics, espaces privés dans la ville. Le liber terminorum de
Bologne (1294), Paris 1984 (Cultures et civilisations médiévales, III); cfr. anche M.
Venticelli, I Libri terminorum bolognesi, cit., p. 228sgg.
47 A.I. Pini, Le ripartizioni territoriali urbane di Bologna medievale. Quartiere,
contrada, borgo, morello e quartirolo, Bologna 1977 (Quaderni Culturali Bolognesi,
1), p. 12: « Nel 1245 il comune di Bologna decise di uniformare le strade di circon-
vallazione all’interno e all’esterno della seconda cerchia di mura, facendo in modo
che le prime non fossero minori di 8 piedi (m. 3,04) e le altre di 10 piedi (m. 3,80).
In tale occasione furono posti anche dei picchetti (termini) per delimitare il suolo
pubblico».
48 Cfr. sopra, nota 20.
49 Heers, Espaces, cit., p. 83.
50 F. Bocchi, Federico II e la cultura urbanistica, cit., p. 491.
51 F. Sznura, L’espansione urbana, cit., p. 125, nota 113.

158
Genesi e sviluppo della viabilità urbana

veniva sulla viabilità, cioè la volontà di creare condizioni amene e


comode per la vita quotidiana dei cives.
Si tratta di un nuovo capitolo delle attività comunali. Dopo che
i diversi ostacoli alla libera circolazione sulle vie della città erano sta-
ti rimossi, che nei nuovi quartieri erano state tracciate le nuove vie
e che l’integrità di queste ultime era stata garantita dagli abusi per
mezzo della limitazione confinaria, ebbe inizio il periodo del grande
miglioramento qualitativo della rete stradale cittadina, nel corso del
quale le strade di tutte le città maggiori avrebbero ottenuto una su-
perficie lastricata.
Tale processo si inaugura, naturalmente, già all’inizio del seco-
lo XIII e in qualche caso addirittura prima. Le ragioni che portarono
alla realizzazione di tali opere furono molteplici. Si voleva, anzitut-
to, eliminare il fango dalle strade che, sino ad allora, erano sterrate.
A Firenze fu il Podestà milanese Rubaconte da Mandello a far lastri-
care tutta la città di mattoni nel 1237. Prima di questa data, aggiunge
Giovanni Villani, solo poche strade maestre di Firenze erano lastri-
cate. Grazie al Podestà milanese la città divenne, come dice Villani,
più netta, bella e sana 52. A Siena, secondo lo storico cinquecente-
 

sco Orlando Malavolti, si iniziò a lastricare le strade nel 1241 53. La  

notizia viene confermata anche dai Libri della Biccherna, nei quali si
cominciano a rammentare i lastricati dagli anni 1247. Dal Costituto
del 1262 si apprende che le strate — come recita il testo latino — di
Siena erano ormai tutte siliciate, ma talune delle vie che sboccavano
nelle strade non erano ancora dotate di un lastrico, «ita quod sucçu-
ra et lutus ipsarum viarum redeunt in stratas». Perciò si ordinò che a
partire dal gennaio successivo venissero lastricate anch’esse 54.  

Dell’esistenza di lavori di lastricamento apprendiamo, in ordi-


ne cronologico, anche dalle fonti di altre città: Parma (1231), Reggio
(1242, 1265), Bologna (1250, 1259-60), Pisa (1287), Ferrara (1288),
Spoleto (1296), per nominarne soltanto alcune.
Il materiale normalmente usato per il lastrico era costituito da
mattoni. Così a Firenze nel 1218 si lastrica con mattoni una strada

52 Giovanni Villani, Nuova cronica, I, a cura di G. Porta, Parma 1990, VII,


XXVI, p. 310. Marchionne di Coppo Stefani precisa che fino ad allora erano lastri-
cate solo le quattro vie dei cinque sestieri.
53 O. Malavolti, Dell’historia di Siena, Venezia 1599 [Reprint Forni 1968],
p. 61.
54 Il Constituto del Comune di Siena, cit., III, 79.

159
Thomas Szabó

non meglio precisata 55. Anche Giovanni Villani rammenta, come ab-
 

biamo visto, l’uso del mattone 56, tuttavia sappiamo che nella città del
 

cronista si utilizzavano anche le pietre, come mostra la denominazio-


ne via litostrata 57.
 

Secondo gli statuti di Pisa (1287) il lastrico in genere era realiz-


zato in mattoni o in lastre di pietra 58, per i Lungarni invece sembra
 

che fossero stati preferiti i mattoni, le «tegulae sive lateres» 59.  

Dallo Statuto dei Viarii di Siena degli anni ’90 del secolo XIII
si apprende che la via ripida diretta alla Fonte Branda era lastrica-
ta di silice. A causa delle frequenti cadute degli animali sul lastrico
nel 1294 si ordinava di rimuovere il lastricato di silice e di sostituir-
lo con i mattoni 60.  

Una riforma pistoiese degli anni ’30 del secolo XIV lascia al
miles potestatis — responsabile per le strade — la decisione se ado-
perare lapidi o mattoni per la riparazione dei lastrici della città 61.  

Gli statuti di San Gimignano del 1314 prevedevano ugualmente


un lastricato con mattoni 62. Ad Arezzo si usavano, secondo gli statu-
 

ti del 1327, entrambi i materiali. I mattoni erano considerati materia


nobile, ma si potevano adoperare anche le pietre (lapides) a condi-
zione però che fossero regolari e piane 63.  

Il finanziamento sia del primo lastrico, sia dei rinnovamen-


ti successivi costituiva un problema ulteriore, risolto a carico dei
proprietari che confinavano con i percorsi stradali, comprese le isti-
tuzioni religiose. I Francescani di Arezzo, per esempio, ottenevano
certamente dal Comune un regolare contributo finanziario di 500

55 F. Sznura, L’espansione urbana, cit., p. 120.


56 Cfr. sopra, nota 52.
57 G. Pampaloni, Firenze al tempo di Dante. Documenti sull’urbanistica fioren-
tina, Premessa di N. Rodolico, Roma 1973, n. 98 (1290 luglio 18), p. 175.
58 I Brevi del Comune e del Popolo di Pisa dell’anno 1287, a cura di Antonella
Ghignoli, Roma 1998 (Fonti per la storia dell’Italia medievale, Antiquitates,
11), p. 411 (= Statuti inediti della città di Pisa, cit., IV. 1, p. 467: «de tegulis sive
lapidibus»).
59 Ivi, p. 412 (= Statuti inediti della città di Pisa, cit., p. 469, IV. 1).
60 Viabilità e legislazione di uno Stato cittadino del Duecento. Lo Statuto dei
Viarii di Siena, a cura di D. Ciampoli - Th. Szabó, Premessa di M. Ascheri, Siena
1992, c. [ccclxiii].
61 Archivio di Stato di Pistoia, Comune di Pistoia, Raccolte, 5, f. 100v.
62 Gli albori del Comune di San Gimignano e lo statuto del 1314, a cura di M.
Brogi, Siena 1995, p. 115, I. 37.
63 Statuto di Arezzo (1327), cit., I. 58; IV. 58.

160
Genesi e sviluppo della viabilità urbana

libbre, ma dovevano pagare la lastricatura dei fondi posti davanti


alla loro chiesa 64.
 

A Pistoia negli anni ’30 del secolo XIV si precisa che i confi-
nanti erano tenuti a lastricare il pezzo di strada di fronte alla loro
casa, fino alla metà della strada 65. E anche a Firenze si seguiva que-
 

sta regola 66.


 

Da queste testimonianze si desume l’impressione che nel cen-


tro dei comuni maggiori, all’inizio del secolo XIV, il programma di
lastricatura fosse concluso. A titolo di esempio si potrebbe citare il
Liber de laudibus civitatis Ticinensis di Opicinus de Canistris secon-
do il quale «tota […] civitas vetus [est] lapidibus strata» 67.  

Il mattonato serviva non solo a rendere la circolazione in città


più comoda e pulita, ma anche a favorire il deflusso delle acque pio-
vane. Il Breve pisano del 1287 ordina di assicurare alle vie la pendenza
necessaria affinché «aqua inde facillime labatur et exeat» e accenna
anche alla procedura opportuna: si faccia la livellazione — della via
Santa Maria — «ad archipendulum et lensam positam» in modo tale
che la strada recepisca anche l’acqua dai classus laterali 68. Nel caso  

della già menzionata via Santa Monaca di Firenze nel 1279 si ordi-
na di preparare la strada su tutta la sua lunghezza in modo tale che
«pendeat propter cursum aque» 69. Il testé menzionato Opicino de
 

Canistris riferisce invece che a Pavia l’acqua piovana defluisce trami-


te canali sotterranei: «totius civitatis strate […] tempore pluviali per
subterraneas et profundas cloacas emondantur» 70.  

Il lastrico di mattoni era naturalmente un materiale deperibile e


necessitava di ripristini frequenti. Il logoro della superficie stradale
fu accelerato dal traffico di carri le cui ruote erano cerchiate di me-

64 Ivi, II. 44; Archivio di Stato di Arezzo, Statuti, 1 (1342), II. 41; Statuti, 2
(1345), II. 39.
65 Archivio di Stato di Pistoia, Comune di Pistoia, Raccolte, 5, f. 100v.
66 Cfr. il caso del Mercato Vecchio, R. Davidsohn, Geschichte von Florenz, 4:
Die Frühzeit der Florentiner Kultur, 3: Kirchliches und geistiges Leben, Kunst, öffent-
liches und häusliches Dasein, Berlin 1927, p. 252.
67 Anonymus Ticinensis, Liber de laudibus civitatis Ticinensis, I, a cura di R.
Maiocchi - F. Quintavalle, Città di Castello 1903 (Rerum Italicarum Scriptores.
Raccolta degli storici italiani dal Cinquecento al Millecinquecento ordinata da L.A.
Muratori, XI, 1), p. 18. 5-6.
68 I Brevi del Comune e del Popolo di Pisa dell’anno 1287, cit., p. 411 ( =
Statuti inediti della città di Pisa, cit., IV, 1, pp. 467-469).
69 F. Sznura, L’espansione urbana, cit., p. 126, nota 113.
70 Cfr. sotto, nota 87.

161
Thomas Szabó

tallo e rinforzate dai chiodi. Perciò nel 1287 a Pisa fu interdetta la


circolazione di carri ferrati su tutti i ponti e tutte le strade della città
e furono ammessi soltanto carri non ferrati 71. Di contro, anche la cir-
 

colazione di carri non ferrati causava tanti danni che nel 1313 si vietò
persino ai carri vuoti di attraversare i ponti sull’Arno 72. Tale divie-  

to costituiva un fattore deterrente per la vita economica della città,


pertanto sollecitò le proteste in conseguenza delle quali il Comune,
più tardi, fu costretto ad aprire uno dei ponti, il ponte della Spina, al
traffico dei carri 73. Firenze non sembra aver avuto simili problemi: la
 

circolazione era interdetta soltanto ai carri che trasportavano legna e


solo nel giorno di sabato attraverso il forum vetus e la Callemala 74.  

Il fondamento giuridico degli interventi del Comune


In questa sede tralasciamo l’istituzione e lo sviluppo dell’uffi-
cio viario — che all’inizio consisteva in diverse commissioni di due
o più boni viri e che alla fine del secolo XIII nella maggior parte dei
Comuni era divenuto un ufficio unico con larghe competenze — per
affrontare invece due ultime domande, cioè: qual’era il fondamen-
to giuridico dell’intervento del Comune in materia viaria e quanto il
Comune aveva ereditato dai tempi antichi.
Per quel che riguarda il fondamento giuridico dell’intervento
in materia viaria, si potrebbe chiamare in causa la Pace di Costanza
conclusa dopo una lotta ventennale tra Federico Barbarossa e i
Comuni lombardi — pace le cui clausole investirono i Comuni lom-
bardi delle regalie nel cui novero si contavano anche le vie pubbliche.
Rammentare la Pace di Costanza sicuramente non è del tutto fuor-
viante, sembra però essere solo una risposta parziale perché i Comuni
si occupavano di strade già prima della Pace di Costanza, come ci ha
mostrato l’esempio del Comune di Genova che nel 1133 determinò
il corso di quattro vie. L’esempio di Genova induce a ipotizzare che
nel periodo precomunale con ogni probabilità le questioni di viabi-
lità si risolvevano localmente, in forme più o meno autogovernative,

71 I Brevi del Comune e del Popolo di Pisa dell’anno 1287, cit., p. 274 (= Statuti
inediti della città di Pisa, cit., I. 170, p. 317).
72 Statuti inediti delle città di Pisa dal XII al XIV secolo, cit., II, s. I. 222, p.
238.
73 Ivi, p. 239, riforma del 1337.
74 Statuti della Repubblica Fiorentina, I, Statuto del Capitano del Popolo degli
anni 1322-1325, a cura di R. Caggese, Firenze 1910, V. 22, p. 236.

162
Genesi e sviluppo della viabilità urbana

davanti ai fori del tempo deputati alla soluzione di vertenze legali. In


ogni caso, i vescovi delle diverse città investiti, dal secolo X in poi,
con le regalie, sicuramente si dovevano occupare anche dei proble-
mi della viabilità.
Questa tradizione da noi ipotizzata e al momento non meglio
definibile si consolidò nel corso del secolo XII, attraverso la rinasci-
ta del diritto romano e la conoscenza dei suoi principi, come si può
osservare prima a Pisa e poi, nel secolo XIII, a Firenze e Bologna.
Nel più antico documento statutario di Pisa, nel Constitutum
usus del 1186, presentato recentemente in una bella edizione di gran-
de interesse da Paola Vignoli, si legge la rubrica: «De viis publicis
que in civitate sunt vel eius burgis vel eius districtu» 75. Sotto la ru-
 

brica si legge un passo, desunto letteralmente dai Digesti del Codice


giustinianeo, nel quale si vieta ogni intromissione in una «via publi-
ca vel comunale» che possa alterare o peggiorare il suo stato 76. E la  

citazione dal diritto romano è seguita dall’intimazione — che si tro-


va anche nel Breve Consulum del 1287 — di disfare i ballatoi nelle
convicinie 77. Il diritto romano, dunque, è stato adoperato, come mo-
 

stra questo capitolo del Consitutum usus pisano, per risolvere in città
— tra l’altro — anche problemi di viabilità.
Pure a Firenze il Comune ricorreva al diritto romano per risol-
vere i problemi relativi alla viabilità, come documenta il De regimine
principum composto da Giovanni di Viterbo — probabilmente tra
gli anni 1215-1216 78 — in un periodo in cui era membro della fa-
 

miglia del Podestà. Nel suo opuscolo, rivolto non ai principi ma al


Podestà, il capitolo 108 è intitolato «De viis publicis actandis et refi-
ciendis» 79 e rinvia a un passo del Digesto del Corpus Iuris che obbliga
 

75 I Costituti della Legge e dell’Uso di Pisa (sec. XII). Edizione critica integrale
del testo tràdito del “Codice Yale” (ms. Beinecke Library 415). Studio introduttivo e
testo, con appendici, a cura di P. Vignoli, Roma 2003 (Fonti per la storia dell’Italia
medievale, Antiquitates, 23), xliii (= xliiii), p. 287.
76 Dig., 43.8.2.20.
77 I Costituti della Legge e dell’Uso, cit., p. 287.
78 A. Zorzi, Giovanni da Viterbo, in Dizionario biografico degli italiani, LVI,
Roma 2001, p. 268.
79 Iohannis Viterbiensis Liber de regimine civitatum, prodit curante C.
Salvemini, in Scripta anecdota glossatorum vel glossatorum aetate composita, prodeunt
curantibus I.B. Palmerio, F. Schupfer, H. Solmio, C. Salvemini, C. Cicognario,
H. Besta, A. Palmerio, Bononiae 1901 (Biblioteca juridica Medii Aevi, ed. A.
Gaudentius, 3), pp. 215-280.

163
Thomas Szabó

l’autorità pubblica alla tutela delle vie 80, fornendo così al Podestà un
 

argomento giuridico forte per dirimere i casi problematici.


Il nostro terzo esempio proviene dagli statuti di Bologna dal
1250, ove, in una rubrica 81, si cita un passo del Codex giustinianeo 82
   

per affermare che tutta la popolazione di Bologna e del suo contado


era obbligata a partecipare alla manutenzione delle strade.
I tre esempi dimostrano in modo incontestabile che i Comuni,
per controllare e migliorare la viabilità — non solo urbana —, attin-
sero a piene mani anche al prestigio del diritto romano.

Tracce di tradizione materiale dell’Antichità


Infine, dobbiamo chiederci quanto della struttura materiale ed
organizzativa della città antica si fosse conservato fino alle soglie del-
l’età comunale.
Il celebre Versum de Mediolano composto da un autore ignoto
nella prima metà del secolo VIII, ai tempi di re Liutprando, comin-
cia con le parole famose «Alta urbs et spatiosa manet in Italia» e
qualche verso più avanti auspica che la città abbia «omnem ambitum
viarum firme stratum silice», cioè tutte le sue vie ben lastricate 83. Le  

Laudes Veronensis civitatis dagli anni ’90 parlano con un tono ana-
logo del «Foro lato spazioso sternuto lapidibus» e di «plateae mire
sternutae de sectis silicibus» 84. Si potrebbe anche aggiungere che nel
 

secolo VIII, stando ai Capitolari, si usava ancora riparare le strade


della città, perché in un capitolare italiano, non datato ma probabil-
mente emanato da Carlomagno o da Lodovico II, si legge: «Volumus
etiam et statuimus de plateis vel cloacis curandis uniuscuiusque civi-
tatis de regno Italiae pertientibus, ut singulis annis curentur» 85.  

80 Dig., 9.3.1.
81 Statuti di Bologna dall’anno 1245 all’anno 1267, a cura di L. Frati, in
«Monumenti storici pertinenti alle Provincie della Romagna», Bologna 1869-1880,
II (1876), p. 617.
82 Cfr. C., 1.2.7 e C., 11.75.4.
83 Laudes Mediolanensis civitatis (Versum de Mediolano civitate), in Poetae
Latini aevi carolini, I, rec. E. Duemmler, Berolini 1881 (Monumenta Germaniae
Historica, Antiquitates, I), pp. 24-26: 25.6.
84 Laudes Veronensis civitatis (Versus de Verona), ibidem, pp. 119-122, ibidem,
p. 120, 4.
85 Capitularia regum Francorum, I, ed. A. Boretius et V. Krause, Hannover
1883 (Monumenta Germaniae Historica, Legum sectio, II), c. 3, n. 105: Capitula

164
Genesi e sviluppo della viabilità urbana

Purtroppo non sappiamo quanto, durante i secoli che seguiro-


no l’età carolingia, si fosse conservato sia dei manufatti tardoantichi,
sia dell’attitudine al mantenimento del manto stradale cittadino. Ma
sembra che, secolo dopo secolo, il livello stradale dell’antichità si sia
ricoperto di nuovi strati fino a diventare, col tempo, una curiosità
archeologica del profondo sottosuolo. Basta pensare alla Firenze ro-
mana, che oggi si trova tra i 3 e i 4 metri sotto la superficie stradale 86,  

con punte massime a Piazza S. Trinità e a Piazza della Signoria, dove


le vestigia antiche si collocano a una profondità di circa 6-7 metri 87.  

Nel tratto urbano della via Cassia, a Pistoia, la pavimentazione roma-


na è stata ritrovata alla profondità di 2,70 metri sotto il livello attuale
della piazza del Duomo 88. A Roma invece in alcune parti della cit-
 

tà il suolo dai tempi antichi si è innalzato persino tra i 7 e i 12 metri.


Dobbiamo tuttavia tener presente che le cifre si riferiscono all’attua-
le livello stradale. Esse lasciano dunque in ombra il rialzamento del
livello stradale avvenuto tra il secolo XII — quando il Comune inizia
le sue azioni di tutela delle strade — e i tempi attuali, e, pertanto, c’è
un certo margine di probabilità che l’ancor giovane Comune, qua e
là, si imbattesse in vestigia stradali romane.
Migliore fu la sorte, in ogni caso, delle costruzioni sotterranee,
che funzionarono per un periodo lunghissimo. Secondo il succitato
Opicino de Canistris la canalizzazione romana di Pavia che portava
le acque piovane al Ticino, era così alta che poteva passarci un caval-
lo al di sotto 89, e tale notizia è confermata dall’editore delle Laudes
 

civitatis Ticinensis che nel febbraio del 1902 vide con i propri occhi i
condotti di scarico scavati di queste dimensioni.

Per concludere, nonostante il suolo delle ex città romane si fos-


se alzato di qualche metro, il tracciato delle strade principali, in molti
luoghi, grosso modo si conservò. In altre parole, la loro delimitazio-

italica. Vedi ivi la nota dell’editore, che è incerto se si tratti di un capitolare di


Carlomagno o di Lodovico II.
86 M. Lopez Pegna, Firenze dalle origini al Medioevo. Prefazione di G.
Giannelli, Firenze 19742, pp. 70 e 26.
87 Ivi, pp. 15 e 429.
88 N. Rauty, Storia di Pistoia, I, Dall’alto Medioevo all’età comunale, Firenze
1988, p. 15.
89 Anonymus Ticinensis, Liber de laudibus civitatis Ticinensis, cit., p. 20,
11sgg.

165
Thomas Szabó

ne non venne invasa né da destra né da sinistra dall’edilizia privata.


Pure questa osservazione depone a favore dell’ipotesi che anche le
autorità dei secoli di mezzo abbiano praticato un certo controllo vol-
to a garantire l’integrità delle vie cittadine. Collegandosi a questa
pratica, sopravvissuta almeno per linee generali, e appoggiandosi alle
norme del rinato diritto romano, il Comune medievale ha creato, nei
secoli XII-XIV, la sua viabilità urbana che costituisce la base delle
nostre città.

166
Sabato 12 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Giovanna Petti Balbi

Franco Franceschi
I paesaggi della produzione

1. Le dimensioni, le tipologie e le forme organizzative dell’attività


produttiva — ma potrei dire semplicemente dell’attività economica,
visto che è oggettivamente difficile separare in modo netto produ-
zione e commercio — costituivano una componente essenziale della
realtà urbana, ne definivano l’assetto materiale e la tonalità, condi-
zionavano la percezione e la rappresentazione della città e dei suoi
abitanti. Nei Versus Eporedienses, opera di un chierico della secon-
da metà dell’XI secolo, la fiera di Ivrea si trasfigura in uno scrigno di
meraviglie dove i monili appesi nella «strada degli orafi», la cui «mi-
rabile fattura vince in pregio il valore intrinseco del vario metallo»,
«risplendono più del sole» 1. Nella pagina di uno scrittore andaluso
 

della prima metà del XII secolo, al-Zuhrî, Pisa «è più importante di
Genova» e i Pisani, oltre che bravissimi combattenti, «ingegnosi ma-
rinai» e «mercanti, di terra e di mare», sono «tra i migliori costruttori
di mangani, torri e strumenti di fortificazioni. [...] Abbondano in le-
gno da costruzione ma lavorano anche il ferro, di cui fanno ogni sorta
di equipaggiamento di qualità» 2. All’incirca negli stessi anni Lucca
 

1 Versus Eporedienses, in Scritture e scrittori del secolo XI, a cura di A. Viscardi -


G. Vidossi, Torino 1977, pp. 151-165: p. 163.
2 Cit. in C. Renzi Rizzo, Pisarum et Pisanorum descriptiones in una fonte ara-
ba della metà del XI secolo, in G. Berti - C. Renzi Rizzo - M. Tangheroni, Il mare,
la terra, il ferro. Ricerche su Pisa medievale (secoli VII-XIII), Pisa 2004, pp. 279-311:
pp. 279-280.

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Franco Franceschi

appare ad al-Idrisi come una città «di costruzione mirabile e salde


strutture», dove si contano «mercati fiorenti e prospere industrie» 3.  

All’epoca cui risalgono queste testimonianze, almeno quelle


dei due autori musulmani, si era già messo in moto il processo che
avrebbe portato le città dell’Italia centro-settentrionale a costituire il
centro della vita economica della Penisola ed uno dei cuori pulsanti
dell’intero spazio euro-mediterraneo. È qui che i fenomeni caratteri-
stici di quella che in tutto l’Occidente si presentava come una fase di
vigorosa espansione trovarono il loro fulcro e il loro moltiplicatore.
Poli di scambio e di intensa vita mercantile, queste città erano, pur
con differenze sensibili fra loro, anche sedi di produzioni artigianali
e manifatturiere che nel corso del periodo qui considerato crebbero
in numero e ampiezza, spesso ben oltre i bisogni indotti dall’incre-
mento della popolazione, determinando un consistente aumento
della quota di addetti al settore secondario. In molti casi queste at-
tività erano finalizzate al soddisfacimento della domanda interna e
di quella della regione circostante, in altri i manufatti, in virtù del-
le loro caratteristiche qualitative e dell’intraprendenza degli uomini
d’affari, divennero oggetto di traffici su lunghe distanze. Laddove
si verificò questa seconda eventualità la produzione assunse forme
più complesse, conobbe un grado più elevato di specializzazione e
divisione del lavoro, stabilì un rapporto di interazione (e talvolta di
dipendenza) con la mercatura, che ne garantì a sua volta il successo
sui mercati sovraregionali e internazionali.
In queste economie urbane, più che nelle campagne, le inno-
vazioni favorirono un aumento della produttività che consentì loro
di raggiungere, fra XIII e XIV secolo, un livello di sviluppo di cui
si sarebbe registrato l’uguale solo all’inizio del Novecento, con la
crescita contemporanea 4. Una ‘grandezza’ ben documentata dalla
 

cronistica cittadina, e innanzitutto dalle descrizioni di Bonvesin da


la Riva, dell’Anonimo Ticinese, di Giovanni Villani, dove la celebra-
zione della potenza economica della città — affidata anche al potere
affabulatorio delle liste di mercanzie e dei numeri delle artes o degli
artifices — diveniva cardine di una narrazione fortemente ideolo-

3 Idrisi, Il Libro di Ruggero. Il diletto di chi è appassionato per le peregrinazio-


ni attraverso il mondo, traduzione e note di U. Rizzitano, Palermo 1994, Quinto
Clima, Secondo Compartimento - Roma, p. 87.
4 Cfr. P. Malanima, L’economia italiana. Dalla crescita medievale alla crescita
contemporanea, Bologna 2002, p. 151.

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I paesaggi della produzione

gizzata 5. Un risultato ancora più straordinario se consideriamo che


 

il contesto in cui venne raggiunto fu spesso quello di una marca-


ta conflittualità interna ed esterna, perché le città delle botteghe e
dei mercati, dei cantieri e delle tintorie, dei mulini e delle concerie
furono a lungo le stesse delle torri, delle battaglie di strada e delle
espulsioni, delle confische di beni e delle distruzioni ‘rituali’ imposte
dai vincitori di turno agli sconfitti 6.  

2. Paesaggi della produzione è un titolo che ha bisogno di una


qualche illustrazione. La scelta del primo termine, declinato al plu-
rale, nasce dalla convinzione che all’interno di quel particolarissimo
territorio costruito dall’uomo che chiamiamo città sia possibile iden-
tificare un insieme di emergenze materiali e di relazioni spaziali
generate dall’attività economica: una serie di ‘paesaggi’, appunto, e di
paesaggi in trasformazione. Quanto al secondo vocabolo, ho preferi-
to evitare l’aggettivo ‘industriali’, più ambiguo e connesso soprattutto
all’idea di una capacità produttiva su larga scala, sostituendolo con
l’espressione ‘della produzione’, più adatta a dare conto della molte-
plicità di forme organizzative tipica della società cittadina, tanto più
in una fase di espansione economica e di definizione della forma ur-
bis quale fu, nel complesso, quella corrispondente all’età comunale.
A volerlo percorrere per intero, d’altra parte, il campo delimitato da
questo titolo sarebbe immenso. La creazione e la gestione degli spazi
produttivi in area urbana e suburbana, infatti, interessava una molte-
plicità di settori diversi: l’attività edilizia e la lavorazione delle pelli,
la trasformazione dei prodotti alimentari e le manifatture tessili, le
produzioni ceramiche e gli arsenali, la metallurgia e lo sfruttamen-
to delle aree agricole intramurarie, la lavorazione del legname e la
fabbricazione della carta. Ho dovuto conseguentemente effettuare
alcune scelte di temi e di ambiti economici agendo secondo un cri-
terio di rilevanza, ma anche, pragmaticamente, tenendo conto della
quantità e della qualità dei materiali disponibili.
È difficile cominciare un discorso sui paesaggi della produzione
senza partire dalle botteghe, dalla loro proliferazione e dissemina-

5 Cfr. R. Bordone - B. Garofani, Les chroniqueurs italiens (XIe-XVe siècle),


in I. Heullant-Donat, Cultures italiennes (XIIe-XVe siècle), Paris 2000, pp. 169-
191: p. 177.
6 Su quest’ultimo aspetto si veda ora, nel presente volume, il contributo di R.
Mucciarelli, Demolizioni punitive: “guasti in città”.

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Franco Franceschi

zione nel tessuto urbano. Del resto — come ha scritto Fernand


Braudel — «a tenere bottega sono stati per primi gli artigiani. I ‘veri’
bottegai sono arrivati dopo» 7. Nella società dei secoli che ci interes-
 

sano la bottega (apotheca, e talvolta statio, volta, stallum) 8 costituiva  

la cellula-base dell’attività economica cittadina, ma proprio per que-


sto assumeva connotazioni diverse e abbracciava realtà anche assai
distanti tra loro. Se escludiamo il caso in cui si presentava come un
puro esercizio commerciale, una classificazione ideale potrebbe pre-
vedere tre tipologie. La prima, quella che corrisponde meglio ai
nostri stereotipi sull’economia urbana medievale, è la bottega in cui
operava un artigiano indipendente, proprietario dei mezzi e degli
strumenti di lavoro, che produceva e vendeva il risultato materia-
le della sua quotidiana fatica o un determinato servizio: tali erano
i luoghi di attività dei calzolai, dei fabbri, degli orefici, dei barbie-
ri e anche dei pittori. Un secondo modello è quello della bottega
che funzionava da officina ma non da punto di vendita: ciò accade-
va soprattutto nei mestieri della manifattura tessile o in quelli della
metallurgia, dove le esigenze di un ciclo di produzione articolato in
più fasi — si trattasse della realizzazione di un tessuto di lana o del-
la fabbricazione di un’armatura — avevano determinato la nascita di
un sistema che collegava varie sedi di lavoro, in ognuna delle qua-
li veniva svolta generalmente una sola operazione. Sempre restando
in questi settori ‘industriali’, con il termine bottega si definiva infi-
ne anche lo spazio in cui si muovevano coloro i quali (imprenditori,
mercanti-imprenditori e talvolta artigiani-imprenditori) prendevano
in carico l’intero processo di produzione 9.  

7 F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), trad.


it., Torino 1981, II, I giochi dello scambio, p. 38.
8 Per citare solo alcuni dei nomi che troviamo associati agli spazi deputati al-
l’attività produttiva e commerciale: cfr. F. Sznura, L’espansione urbana di Firenze
nel Dugento, Firenze 1975, p. 36; D. Balestracci - G. Piccinni, Siena nel Trecento.
Assetto urbano e strutture edilizie, Firenze 1977, pp. 93-94; L. Grossi Bianchi -
E. Poleggi, Una città portuale del Medioevo: Genova nei secoli X-XVI, Genova
1979, pp. 168-169; J. Heers, Espaces publics, espaces privés dans la ville. Le Liber
Terminorum de Bologne (1294), Paris 1984, p. 41; M. Spinelli, Uso dello spazio
e vita urbana a Milano tra XII e XIII secolo: l’esempio delle botteghe di piazza del
Duomo, in Paesaggi urbani dell’Italia padana nei secoli VIII-XIV, Bologna 1988, pp.
251-273: pp. 264-268.
9 Ho elaborato questa classificazione soprattutto sulla base delle osservazioni
di G. Cherubini, I lavoratori nell’Italia dei secoli XIII-XV: considerazioni storiografi-
che e prospettive di ricerca, in Artigiani e salariati. Il mondo del lavoro nell’Italia dei

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I paesaggi della produzione

Naturalmente alle esigenze dettate dalla diversa natura e scala


delle attività effettuate corrispondevano sedi e attrezzature differen-
ti, compresi spazi di lavoro — come i cantieri, le gualchiere, i tiratoi,
i mulini da grano o da carta — specificamente concepiti in rapporto
alla funzione produttiva cui erano destinati. Ciò non toglie che, al di
là di questi casi particolari, non si possano identificare alcuni tratti
comuni, anche perché, se è vero che ovunque un’alta percentuale di
botteghe veniva condotta in affitto e che alla scadenza del contratto
non necessariamente il nuovo locatario svolgeva la stessa professione
del precedente, è ipotizzabile che si trattasse, entro certi limiti, «di
vani o ambienti polivalenti e di elementari strutture intercambiabi-
li» 10. Sebbene siano documentate botteghe localizzate al mezzanino
 

o sul ballatoio delle torri 11 e officine seminterrate come la borea ri-


 

cordata dagli Statuta antiqua mercatorum di Piacenza 12, il caso più  

frequente era quello di un locale situato al piano terra dell’edificio


che lo ospitava, talvolta diviso da tramezzi in legno per ricavare un
retrobottega, normalmente dotato di un soppalco da utilizzare come
deposito delle merci e degli attrezzi o come ricovero degli apprendi-
sti, con un’ampia apertura sul fronte stradale delimitata da un muro
continuo o da due muretti che potevano essere sfruttati come banco
di lavoro e vetrina dei manufatti 13.  

Un’accurata indagine condotta da Fabio Redi per Pisa, su un


campione di oltre 500 costruzioni medievali superstiti, ha appura-
to che tra XI e XIV secolo non esistevano edifici civili, dalle dimore
signorili alle semplici abitazioni della piccola borghesia o degli ar-

secoli XII-XV, Decimo Convegno internazionale del Centro italiano di studi di sto-
ria e d’arte (Pistoia, 9-13.X.1981), Pistoia 1984, pp. 1-26: p. 17. Ma cfr. anche D.
Degrassi, L’economia artigiana nell’Italia medievale, Roma 1996, pp. 66-67.
10 F. Redi, Le strutture produttive e di distribuzione nell’edilizia e nel tessuto
urbano di Pisa medievale: fonti documentarie, iconografiche, materiali, in Mercati e
consumi: organizzazione e qualificazione del commercio in Italia dal XII al XX secolo,
I Convegno Nazionale di Storia del Commercio in Italia (Reggio Emilia-Modena, 6-
9.VI.1984), Bologna 1986, pp. 647-670: p. 648.
11 Ivi, p. 647.
12 Cfr. P. Racine, Il paesaggio urbano di Piacenza nel Medioevo (sec. X-XIII),
«Archivio storico per le province parmensi», ser. IV, XXXIII (1981), pp. 227-241:
p. 236 e nota 39.
13 Cfr. Degrassi, L’economia artigiana, cit., pp. 65-66; L. Gai, Artigiani e ar-
tisti nella società pistoiese del Basso Medioevo. Spunti per una ricerca, in Artigiani e
salariati, cit., pp. 225-292: p. 272; Redi, Le strutture produttive, cit., pp. 647-648;
Sznura, L’espansione urbana di Firenze, cit., pp. 36-37.

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Franco Franceschi

tifices, che non fossero concepiti come unità comprendenti «nello


stesso organismo funzionale spazi per l’abitazione e altri, volumetri-
camente simili, destinati alla produzione o al deposito e alla vendita
dei prodotti commerciali» 14. Talvolta, poi, le botteghe più propria-
 

mente artigiane disponevano di annessi, situati solitamente nella


corte retrostante, nei quali trovavano accoglienza strutture produt-
tive come forni da pane o fornaci da vasi, da laterizi e da vetro, pile
per tenere in ammollo il cuoio, il lino e la canapa, vasche per tinge-
re lana e tessuti 15. Anche questi laboratori, tuttavia, vivevano in un
 

rapporto di osmosi con la via o la piazza sulla quale si aprivano e la


tendenza degli artigiani a proiettare la loro attività nell’area antistan-
te la bottega — fossero i bastieri e ferratori senesi che ingombravano
con i loro attrezzi la via del Casato 16, gli spadai del Lungarno pisano
 

che forgiavano le lame su ‘cavalletti’ sistemati in strada 17 o i cordai 

genovesi che tendevano le funi per tutta la lunghezza del piazzale di


Sarzano 18 — è ben documentata, così come i disagi che queste abi-
 

tudini causavano alla circolazione e le misure adottate dai governi


comunali per mantenere libere e agibili le strade 19. Assai ambìto era
 

lo spazio delimitato da loggiati e portici, che permettevano agli ar-


tigiani di esporre e vendere con più agio i loro articoli, ma anche di
lavorare fuori dall’officina sfruttando al massimo la luce naturale in

14 F. Redi, Spazi e strutture mercantili-produttive a Pisa tra XI e XV secolo, in


Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medievale, Atti della Session
C23 dell’Eleventh International Economic History Congress (Milano, 12-16.IX
1994), a cura di A. Grohmann, Napoli 1995, pp. 285-320: p. 308.
15 Ivi, p. 310.
16 Cfr. G. Piccinni, Modelli di organizzazione dello spazio urbano dei ceti do-
minanti del Tre e Quattrocento. Considerazioni sul caso senese, in I ceti dirigenti nella
Toscana tardo comunale, Atti del III convegno sulla storia dei ceti dirigenti in Toscana
(Firenze, 5-7.XII.1980), Monte Oriolo (Firenze) 1983, pp. 221-236: p. 225.
17 Cfr. Redi, Le strutture produttive, cit., p. 650.
18 Grossi Bianchi - Poleggi, Una città portuale, cit., p. 237.
19 Considerazioni generali ed esempi in J. Heers, La ville au Moyen Âge
en Occident. Paysages, pouvoirs et conflits, Paris 1990, pp. 354-355; F. Bocchi,
Normativa urbanistica, spazi pubblici, disposizioni antinquinamento nella legislazio-
ne comunale delle città emiliane, in Ead., Attraverso le città italiane nel Medioevo,
Casalecchio di Reno (Bologna) 1987, pp. 107-124: pp. 109-111. Per un caso specifi-
co cfr. R. Smurra, Prassi amministrativa e spazi urbani di circolazione come immagine
della città: Bologna alla fine del Duecento, in Imago urbis. L’immagine della città nel-
la storia d’Italia, Atti del Convegno internazionale (Bologna, 5-7.IX.2001), Roma
2003, pp. 417-439.

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I paesaggi della produzione

qualsiasi periodo dell’anno 20: come faceva Nicholaus de Rasiglio, il


 

magister ritratto in una miniatura dello statuto dei falegnami bologne-


si del 1248, del quale si dice che «cotidie laborat sub po[r]ticu» 21.  

3. La questione della distribuzione delle attività produttive nel


tessuto cittadino, decisiva per comprendere le interrelazioni fra dina-
mica economica e costruzione della forma urbis, è stata spesso agitata
dagli studiosi di storia dell’economia urbana, che però l’hanno af-
frontata in maniera approfondita solo in pochi casi e con risultati
non univoci. Vediamo qualche esempio. A Genova la frequenza di
alcuni toponimi e i riferimenti a precise località cittadine («campe-
tus fabrorum», «contrata scutariorum», «contrata barileriorum»,
«contrata corrigiariorum», «carrubeus pellipariorum», «carrubeus
ferrariorum», «carrubeus tintorum», «carrubeus campanariorum») 22  

sembrano confermare l’accenno che l’Anonimo poeta in vernacolo


di inizio Trecento fa alla presenza di contrade segnate dalla concen-
trazione degli esercenti la stessa arte 23; mentre si configura come un
 

dato di lungo periodo l’installazione «di lanaioli, conciatori, tintori


e di altre attività industriali ai bordi della città, lungo il Rivotorbido,
presso gli orti di Sant’Andrea, nel borgo di Santo Stefano o a ridosso
della cinta muraria fuori della porta di Sant’Agnese, in un ambien-
te particolarmente congeniale, per la presenza di corsi d’acqua e di
ampi spazi, alla preparazione, al lavaggio dei materiali e allo sfrutta-
mento dell’energia idraulica» 24. Anche a Pisa si delinea una tendenza
 

simile. Gabriella Garzella ha notato che nella seconda metà del XII
secolo prese corpo in taluni settori cittadini — segno eloquente delle
trasformazioni economiche, ma forse anche di un qualche mutamen-
to di sensibilità — una micro-toponomastica che poneva «in primo

20 Cfr. Degrassi, L’economia artigiana, cit., pp. 65-66; F. Bocchi, Storia urbani-
stica e genesi del portico a Bologna, in I portici di Bologna e l’edilizia civile medievale,
Casalecchio di Reno (Bologna) 1990, pp. 65-87: p. 79.
21 Ivi, nota 29, p. 87.
22 Cfr. Grossi Bianchi - Poleggi, Una città portuale, cit., pp. 32, 71, 75-76,
229; R. Greci, Forme di organizzazione del lavoro nelle città italiane tra età comunale
e signorile, ora in Id., Corporazioni e mondo del lavoro nell’Italia padana medievale,
Bologna 1988, pp. 129-155: p. 140.
23 Anonimo Genovese, Poesie, a cura di L. Cocito, Roma 1974, p. 564.
24 G. Petti Balbi, Simon Boccanegra e la Genova del ’300, Genova 1991, p.
240.

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Franco Franceschi

piano l’uomo con le sue attività» 25, mentre Enrica Salvatori ha sot-
 

tolineato come, «nella prima metà del XIII secolo, il processo di


definizione e designazione di aree urbane sulla base delle professio-
ni aveva già raggiunto un elevato grado di evoluzione» e come «in
esso aveva giocato un ruolo non secondario il contemporaneo or-
ganizzarsi degli artigiani in associazioni corporative. Il fenomeno è
chiaro per cuoiai, pellai, fabbri, scudai: questi si concentrano nel luo-
go più adatto alla lavorazione o alla vendita del loro materiale e di
questa concentrazione rimane traccia stabile nella toponomastica» 26.  

Per Bologna, invece, Antonio Ivan Pini ha concluso che «non esiste-
va alcun concentramento artigiano dovuto alla semplice volontà di
singoli artieri di tenersi l’un l’altro vicini per reciproco aiuto o per
reciproco controllo, ma soltanto un concentramento molto relativo
dettato da motivi tecnico-produttivi, come può essere, ad esempio,
la presenza di un corso d’acqua indispensabile per la lavorazione del-
le pelli (cartolai, conciatori, callegari), dei tessili (lanaioli e linaioli),
del ferro (fabbri, armaioli, spadai). Il concentramento del luogo di
lavoro (ma non d’abitazione!) dei beccai, dei pescatori e dei cambia-
tori è dovuto [...] più ad esigenze di controllo igienico-sanitario e di
facilità di esazione fiscale che a volontà di razionalizzazione urbani-
stica o di controllo politico da parte della pubblica autorità» 27.  

Un approccio corretto al problema, tuttavia, deve tenere in con-


siderazione più di quanto non si sia finora fatto, spesso per oggettiva
inadeguatezza della documentazione, la dimensione evolutiva dei fe-
nomeni. Paradigmatico, sotto questo profilo, è il caso di Vercelli,
analizzato da Andrea Degrandi. Qui fin dall’inizio del XII secolo
esisteva una rua calegaria, nel 1169 è attestata una rua ferraria, men-
tre le fonti del secolo successivo ricordano una rua testorum ed una
rua fornariorum. Con l’eccezione della prima nominata, tuttavia,
l’esistenza di strade ‘dedicate’ ad una specifica attività non trovava
corrispondenza in una maggiore concentrazione delle abitazioni de-
gli esercenti quel mestiere. Questa discrasia può significare che luogo
di residenza e luogo di lavoro degli artigiani erano spesso separati o

25 G. Garzella, Pisa com’era. Topografia e insediamento dall’impianto tar-


doantico alla città murata del secolo XII, Napoli 1991, p. 195.
26 E. Salvatori, La popolazione pisana nel Duecento (dal patto di alleanza di
Pisa con Siena, Pistoia e Poggibonsi del 1228), Pisa 1994, pp. 177-178.
27 A.I. Pini, La ripartizione topografica degli artigiani a Bologna nel 1294: un
esempio di demografia sociale, in Artigiani e salariati, cit., pp. 189-224: p. 214.

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I paesaggi della produzione

anche che le aree toponomasticamente connotate in base a funzio-


ni produttive avevano assunto la loro denominazione in un’epoca
precedente rispetto a quella della crescita economica e dei flussi mi-
gratori dei secoli XII e XIII, fenomeni che avevano poi modificato la
dislocazione delle attività artigianali in città 28. Una conferma in que-
 

sto senso viene dalla situazione di Pistoia, studiata da Lucia Gai. Qui
nel corso del Duecento gli artifices si distribuivano sia nell’area cor-
rispondente alla superficie racchiusa dalla prima cerchia di mura,
sia in quella compresa entro la seconda cinta «senza criteri selettivi
[...] se si eccettuano le attività connesse in particolare all’utilizzo dei
corsi d’acqua». Il quadro iniziò però a modificarsi nei primi decen-
ni del Trecento, a causa della tendenza delle famiglie più eminenti a
stabilirsi intorno alla piazza principale, nel centro politico e religioso
della città: in questo settore urbano si concentrarono allora i titolari
delle professioni più prestigiose (mercanti di panni di lusso, lanaioli,
speziali, orafi, notai), mentre i mestieri più propriamente artigiana-
li cominciarono ad addensarsi fra la prima e la seconda cerchia per
espandersi, già a partire dalla metà del XIV secolo, lungo le princi-
pali via di accesso alla città, nella zona racchiusa dalle ultime mura
comunali 29.  

Anche da questa sintetica rassegna, dunque, emerge tutta


la difficoltà di ridurre a modello le dinamiche di organizzazione e
articolazione delle attività produttive nello spazio delle città comu-
nali. Fattori condizionanti sono stati individuati dagli studiosi — e
ne ha ripercorso il vario intrecciarsi Donata Degrassi 30 — nella re-  

distribuzione della popolazione legata alla crescita demografica e


all’espansione materiale dell’abitato, nelle scelte insediative delle
élites politiche ed economiche, nella volontà degli stessi artifices di
creare solidi gruppi a dimensione sovra-familiare cementati da lega-
mi di vicinato, nell’attuazione di forme di controllo e disciplinamento
dei produttori da parte delle Corporazioni e dei governi comunali,
nell’andamento del mercato immobiliare, nelle caratteristiche della
viabilità e dei flussi di traffico, nelle specificità tecniche di alcune at-

28 A. Degrandi, Artigiani nel Vercellese dei secoli XII e XIII, Pisa 1996, pp.
130-132.
29 Gai, Artigiani e artisti nella società pistoiese, cit., pp. 269-271, citazione a
p. 269.
30 Degrassi, L’economia artigiana, cit., pp. 170-176.

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Franco Franceschi

tività: pericolose, inquinanti, legate all’uso dell’acqua, del fuoco, di


materie prime reperibili in luoghi circoscritti.
Al discorso sulla topografia professionale cittadina si lega
strettamente, come è stato giustamente osservato, quello sulla micro-
toponomastica: l’innegabile evidenza dell’esistenza di aree cittadine
‘dedicate’ dimostra che le attività produttive rappresentavano, nel-
l’epoca qui considerata, un elemento fortemente caratterizzante del
paesaggio urbano, al punto da influenzare in modo decisivo l’imma-
gine collettiva dello spazio e lo stesso meccanismo di attribuzione dei
nomi alle strade e alle piazze 31.  

4. Niente rappresenta meglio della proliferazione dei cantie-


ri la straordinaria espansione delle città comunali fra il XII secolo
e i primi decenni del XIV. L’edificazione di più estese cerchie di
mura e l’ampliamento delle piazze; la costruzione o il rifacimento di
chiese e monasteri, palazzi pubblici, torri, abitazioni comuni, pon-
ti, logge, ospedali, mulini e acquedotti; l’allargamento delle strade e
l’allineamento delle facciate; la pavimentazione del suolo pubblico
e l’allestimento degli arsenali nelle città portuali; le demolizioni le-
gate a progetti di ristrutturazione urbanistica e i guasti originati dai
conflitti di fazione: tutte queste diverse e spesso simultanee iniziati-
ve implicavano una continua attività edilizia, disseminata all’interno
delle mura cittadine e nel suburbio, di scala e impegno variabili, ma
che aveva comunque l’effetto di convertire in potenziale luogo della
produzione qualsiasi area urbana, indipendentemente dalla sua vo-
cazione economica.
Non è mio compito affrontare questo imponente ed appas-
sionante fenomeno 32: mi limiterò ad osservare come lo slancio
 

dell’edilizia impresse una vigorosa accelerazione all’industria dei


materiali da costruzione, che divenne uno dei principali settori del-

31 Su questo aspetto cfr. le stimolanti considerazioni di A. Degrandi, Vivere


gli spazi, appartenere agli spazi. Gli artigiani cittadini e la percezione dell’ambien-
te (Vercelli nei secoli XII-XIII), in Scritti in onore di Girolamo Arnaldi offerti dalla
Scuola nazionale di studi medioevali, Roma 2001, pp. 163-182: pp. 175-176.
32 Lo fanno, in questo stesso volume, i contributi di A.A. Settia, Cerchie
murarie e torri private urbane; E. Crouzet-Pavan, La realizzazione dei grandi spazi
pubblici; S. Collodo, Chiese, monasteri, conventi e ospizi; I. Moretti, I palazzi pub-
blici; E. Hubert, La creazione di nuove aree abitate; T. Szabó, Genesi e sviluppo della
viabilità urbana; Mucciarelli, Demolizioni punitive, cit.

176
I paesaggi della produzione

l’economia urbana e assunse un significato strategico per i governi


locali; questi, infatti, si impegnarono spesso a controllare la produ-
zione e la commercializzazione dei laterizi con le stesse modalità che
riservavano ai generi alimentari di prima necessità 33. L’esempio dei
 

centri toscani, ed in particolare di Pisa, Siena e Lucca, dove il matto-


ne rimpiazzò quasi totalmente la pietra, indica che le prime fornaci
vennero impiantate in città presso i cantieri delle cattedrali e che solo
successivamente si dispiegò una politica pubblica volta ad allontana-
re questi impianti pericolosi ed inquinanti dagli abitati, anche con lo
scopo di approfittare dei vantaggi legati alla facilità di reperimento
dell’argilla e della legna da ardere 34. Tali misure, però, non ottennero
 

sempre i risultati sperati, se ancora nel Trecento e nel Quattrocento


fornaci da calce e laterizi vengono ripetutamente segnalate nelle aree
urbane 35.
 

Considerazioni analoghe valgono per la produzione di oggetti


d’uso in ceramica e, in una certa misura, per quella dei manufatti in
vetro, fortemente condizionata dall’aumento e dalla differenziazio-
ne dei consumi. Verso il 1330 l’Anonimo Ticinese, nella sua opera in
lode di Pavia, scrive con voluta precisione: «sunt in civitate furnaces,
ubi fiunt vasa vitrea et alie in quibus fiunt vasa fictilia, et prope civi-

33 R. Parenti - J.A. Quirós Castillo, La produzione dei mattoni della


Toscana medievale (XII-XVI secolo). Un tentativo di sintesi, in La Brique Antique
et Médiévale. Production et commercialisation d’un matériau, Actes du Colloque in-
ternational (Saint-Cloud, 16-18.XI.1995), a cura di P. Boucheron - H. Broise - Y.
Thébert, Roma 2000, pp. 217-235: p. 235.
34 Ivi, p. 234 e J.A. Quirós Castillo, Produrre mattoni nella Toscana medie-
vale: sistemi di controllo delle produzioni e metrologia storica, in Atti del XXVIII e
XXIX Convegno internazionale della ceramica (Albisola, 26-28.V.1995; 24-25.V.1996),
Firenze 1998, pp. 259-268: p. 265.
35 Per Roma cfr. M. Vaquero Piñeiro, La gabella dei calcarari. Note sulla
produzione di calce e laterizi a Roma nel Quattrocento, in Maestranze e cantieri edi-
li a Roma e nel Lazio. Lavoro, tecniche, materiali nei secoli XIII-XV, a cura di A.
Lanconelli - I. Ait, Manziana (Roma) 2002, pp. 137-154: p. 145; per Firenze M.
Frati, “De bonis lapidibus conciis”: la costruzione di Firenze ai tempi di Arnolfo di
Cambio. Strumenti, tecniche e maestranze nei cantieri fra XIII e XIV secolo, Firenze
2006, p. 71; per Siena D. Balestracci, Produzione ed uso del mattone a Siena nel
Medioevo, in La brique Antique et Médiévale, cit., pp. 417-428: p. 420. All’interno
delle mura erano talvolta ubicate anche le fornaci direttamente gestite dai Comuni,
come accadde a Pistoia negli anni Trenta del Trecento: N. Bottari Scarfantoni,
La produzione di mattoni nel XIV secolo a Pistoia e il loro utilizzo, in Le dimore di
Pistoia e della Valdinievole. L’arte dell’abitare tra ville e residenze urbane, a cura di E.
Daniele, Pistoia 2004, pp. 225-229: pp. 227-228.

177
Franco Franceschi

tatem alie plures, in quibus lateres et tegulae decoquuntur» 36. A San  

Gimignano, nel 1265, il Comune accordò ad un certo Chermonino la


licenza di aprire una fornace da bicchieri all’interno delle mura ed al-
tre officine vetrarie vi si insediarono negli anni successivi 37. Analogo
 

il caso di Modena, dove nel 1339 alcuni artigiani fiorentini potero-


no impiantare questa stessa attività in via dei Grasolfi, che fu poi
chiamata «de Miolis», dal nome con cui venivano anche indicati i
bicchieri 38. Anche Siena, malgrado la severità delle sue prescrizio-
 

ni statutarie, era piena di fornaci 39. Ancora nella Milano del primo
 

Quattrocento fu consentito ai Montaione, vetrai valdelsani, di allesti-


re un’officina in pieno centro 40. A Savona invece, uno dei maggiori
 

centri di produzione della ceramica, gli statuti del 1345 sancivano il


divieto di costruire «aliqua fornacha pignatariorum» all’interno del-
la cinta muraria, pena la distruzione dell’impianto ed una multa di
25 lire genovesi, ma ammettevano una deroga per l’officina di Saono
Jaffa, presso porta Bellaria, evidentemente preesistente all’amplia-
mento delle mura del 1317-26 che l’avevano inglobata: non poteva
però più essere restaurata, né ricostruita in caso di crollo 41. Ma non  

tutti i comuni mostrarono il rigore di quello savonese o la deter-


minazione del Maggior Consiglio di Venezia, che con il ben noto
provvedimento del 1291 espulse i vetrai dall’area urbana determi-
nandone la concentrazione a Murano 42. Al di là del dettato delle
 

36 Anonymi Ticinensis Liber de laudibus civitatis Ticinensis, a cura di R.


Maiocchi - F. Quintavalle, in Rerum Italicarum Scriptores, XI, parte I, Città di
Castello 1903, p. 24.
37 M.C. Galgani - M. Mendera, Produzione e consumo del vetro medieva-
le a San Gimignano: testimonianze archeologiche e storiche, in Vetri di ogni tempo.
Scoperte, produzione, commercio, iconografia, Atti della V Giornata Nazionale di
Studio (Massa Martana, Perugia, 30.X.1999), a cura di D. Ferrari, Milano 2001,
pp. 87-99: pp. 87-88.
38 R. Greci, Le botteghe artigiane in Emilia-Romagna, ora in Id., Corporazioni
e mondo del lavoro, cit., pp. 245-281: p. 279.
39 D. Balestracci, La produzione ceramica, Firenze 2001, p. 25.
40 M.P. Zanoboni, Giovanni da Montaione e la manifattura vetraria a Milano,
ora in Ead., Rinascimento sforzesco. Innovazioni tecniche, arte e società nella Milano
del secondo Quattrocento, Milano 2005, pp. 87-117: pp. 91-93.
41 C. Varaldo, Organizzazione del lavoro nelle fornaci ceramiche medievali sa-
vonesi attraverso le fonti statutarie, in Atti del XXVIII e XXIX Convegno, cit., pp.
31-36: p. 32.
42 Cfr. F. Lane, Storia di Venezia, trad. it., Torino 1978, pp. 187-188; E.
Crouzet-Pavan, Venezia trionfante. Gli orizzonti di un mito, trad. it., Torino 2001,
p. 196.

178
I paesaggi della produzione

norme sembrava prevalere un certo pragmatismo, come è testimo-


niato per Siena e per Cuneo, dove ai fornaciai venne imposto di
coprire le loro strutture con voltature mattonate per evitare la pro-
pagazione di fiamme libere 43. A San Gimignano fin dalla metà del
 

XIII secolo il Comune incaricò una commissione di esperti di veri-


ficare con continui sopralluoghi il livello di sicurezza delle fornaci e
in generale di tutte le strutture la cui attività poteva generare incen-
di, mentre in numerosi centri maggiori, fra cui Pisa, Lucca, Firenze
e Venezia, furono fissati limiti massimi alla quantità di combustibili
consentita 44: combustibili che — come mostrano documenti relati-
 

vi ai barattolai pisani — comprendevano anche materiali leggeri (e


dunque ancora più pericolosi) come la paglia 45.  

L’ubicazione urbana, certamente raccomandabile per l’imme-


diata possibilità di collocare gli articoli sul mercato, poneva qualche
problema in più in relazione al reperimento delle materie prime e al-
l’organizzazione del lavoro. Le argille dovevano essere trasportate
sui luoghi di lavorazione ed è quindi ipotizzabile che i siti non ve-
nissero scelti ad una eccessiva distanza dalle aree di scavo. Nel 1341
due olarii di Ferrara dichiararono di avere ricevuto «penes se et in
sua cura et custodia» sei carri di argilla 46. Ad Arezzo bicchierai e va-
 

sai, i cui laboratori si addensavano «in Burgo inter duos fontes» e nel
«Burgus bicherarie» 47, gestivano in proprio l’approvvigionamento
 

della terra prendendo in affitto fosse predisposte in appositi terre-


ni, come rivela l’esempio del contratto stipulato nel 1325 fra il vasaio
Dino di Ventura e Feo di Ser Tanella relativo ad «unam foveam sive
fossam» posta «in loco dicto Orciolaio» 48. A Pisa, i contratti di affitto
 

di appezzamenti di terreno, in genere situati presso la foce dell’Ar-


no, riguardavano la già ricordata paglia 49. Per l’acqua, quando non vi
 

43 Balestracci, La produzione ceramica, cit., p. 25.


44 Ivi, p. 24.
45 G. Berti - C. Renzi Rizzo, Ceramiche e ceramisti nella realtà pisana, in Il
mare, la terra, il ferro, cit., pp. 62-63.
46 A. Faoro, Ceramisti e vetrai a Ferrara nel tardo Medioevo. Studi e documen-
ti d’archivio, Prefazione di S. Gelichi, Ferrara 2002, p. 18.
47 F. Canaccini, Città e Contado ad Arezzo al tempo di Guido Tarlati negli
atti notarili di Ser Feo di Rodolfo, «Annali Aretini», X (2002), pp. 155-170: pp.
163-166.
48 F. Franceschi, Arezzo all’apogeo dello sviluppo medievale. Aspetti economi-
ci e sociali, in Petrarca politico, Atti del Convegno (Roma-Arezzo, 19-20.III.2004),
Roma 2006, pp. 159-182: p. 168 e nota 52.
49 Berti - Renzi Rizzo, Ceramiche e ceramisti, cit., pp. 38sgg.

179
Franco Franceschi

erano fiumi o canali a disposizione, si ricercavano le fontane, ma è at-


testata anche l’esistenza di pozzi a servizio delle fornaci. Documenti
romani dei secoli XI-XIII alludono poi alla pratica di utilizzare come
luoghi di lavoro le criptae, gallerie cimiteriali sotterranee scavate nel
tufo, oppure i ruderi delle arene: se infatti le prime si prestavano
egregiamente alla decantazione dell’argilla, così come alla cottura e
allo stoccaggio dei manufatti, gli spazi aperti erano i più indicati per
l’essiccazione 50. I vetrai, inoltre, si insediavano spesso vicino a fabbri
 

e calderai, poiché si servivano degli ossidi metallici risultanti dagli


scarti di lavorazione di questi artigiani per colorare il vetro 51, instau-
 

rando una di quelle complementarità che dovevano caratterizzare


l’economia urbana tardo-medievale e che ancora attendono di essere
adeguatamente evidenziate.

5. Uno dei paesaggi più consueti nelle città comunali italiane


era quello disegnato dalla produzione dei tessuti, legata al soddisfa-
cimento di bisogni che erano al tempo stesso materiali e connotati
da forti valenze simboliche. La lavorazione della lana, del cotone e
in misura più limitata della seta assorbiva quote rilevanti degli inve-
stimenti nel settore manifatturiero e assicurava la sopravvivenza di
migliaia di nuclei familiari, talvolta impegnati con tutti i loro compo-
nenti (compresi i più giovani) nelle numerose fasi che portavano alla
realizzazione dei prodotti finiti.
La manifattura dei tessuti di cotone è quella in cui l’orienta-
mento verso il mercato appare più precoce. Nei secoli XII e XIII la
lavorazione si concentrava nelle città della pianura padana e di al-
cuni territori a questa limitrofi: le attestazioni più precoci si hanno
per Milano, Pavia, Cremona, Piacenza, e, leggermente più tardi, per
Verona. Soprattutto attraverso la migrazione di artigiani specializ-
zati questa attività conquistò poi Brescia, Monza, Bergamo, Parma,
Mantova, Padova, Treviso, Venezia, Bologna, Rimini, Genova 52.  

50 E. De Minicis, Ceramica e città: dalla produzione al butto. Riflessioni sul-


l’incidenza delle produzioni ceramiche sull’organizzazione urbana tra medioevo ed età
moderna, in Le ceramiche di Roma e del Lazio in età medievale e moderna, III, Atti
del Convegno di Studi (Roma, 19-20.IV.1996), a cura di E. De Minicis, Roma 1998,
pp. 92-99: p. 94.
51 Faoro, Ceramisti e vetrai a Ferrara, cit., p. 21.
52 Cfr. M. Fennell Mazzaoui, The Italian Cotton Industry in the Later Middle
Ages, Cambridge 1981, pp. 59-72; S.R. Epstein, Freedom and Growth. The Rise of
States and Markets in Europe, 1300-1750, London 2000, pp. 106-146.

180
I paesaggi della produzione

Particolarmente rilevante era il peso della manifattura nelle città


lombarde, specializzate nella realizzazione dei fustagni, ma sfortu-
natamente sono davvero pochi gli elementi che ci permettono di
ricostruire una mappa dei luoghi e delle strutture produttive. Dagli
statuti relativi all’uso delle acque del Nirone, redatti nel 1262, sap-
piamo che su questo torrente, presso porta Cumana a Milano,
gravitavano gli azaroli (ovvero i produttori delle trame di lino utiliz-
zate insieme al cotone per la realizzazione dei fustagni), i tintori e i
dealbatores (ossia gli sbiancatori di tessuti) 53. Sempre a Milano, se-
 

condo una fonte pubblica, nel 1338 le persone che vivevano grazie
alla lavorazione dei fustagni erano innumerabiles 54. La manifattura,
 

nelle mani di un agguerrito gruppo di artigiani-imprenditori 55, pre-  

vedeva in alcune fasi concentrazioni di lavoratori tutt’altro che esigue


per l’epoca: vi erano infatti officine che ospitavano più di quindici te-
lai 56, configurandosi come spazi dalla fisionomia organizzativa assai
 

diversa rispetto a quella della bottega artigiana comune.


Per far rivivere con maggiore nettezza il profilo e l’atmosfera dei
grandi centri tessili, comunque, occorre guardare alla produzione dei
panni di lana, un altro punto di forza dei centri lombardi, veneti e
più tardi toscani, Firenze in testa 57. Nella metropoli del giglio l’indu-
 

stria laniera segnava in maniera indelebile, soprattutto nella seconda


metà del XIII secolo e nei primi decenni del XIV, quando la dispo-
nibilità di manodopera era massima e le condizioni del mercato dei
panni erano migliori, la vita economica e sociale e lo stesso territorio

53 P. Grillo, Milano in età comunale (1183-1276). Istituzioni, società, econo-


mia, Spoleto 2001, p. 215.
54 Cfr. P. Mainoni, La fisionomia economica delle città lombarde dalla fine del
Duecento alla prima metà del Trecento. Materiali per un confronto, in Le città del
Mediterraneo all’apogeo dello sviluppo medievale: aspetti economici e sociali, Atti del
Diciottesimo Convegno internazionale del Centro italiano di studi di storia e d’arte
(Pistoia, 18-21.V.2001), Pistoia 2003, pp. 141-221: p. 183.
55 Cfr. L. Frangioni, Sui modi di produzione e sul commercio dei fustagni mi-
lanesi alla fine del Trecento. Problemi economici e giuridici, «Nuova rivista storica»,
XLI (1977), pp. 493-554.
56 Fennell Mazzaoui, The Italian Cotton Industry, cit., p. 145; Mainoni, La
fisionomia economica, cit., p. 183.
57 B. Dini, L’industria tessile italiana nel tardo Medioevo, ora in Id., Saggi su una
economia-mondo: Firenze e l’Italia fra Mediterraneo ed Europa (secc. XIII-XVI), Pisa
1995, pp. 13-49; J.H. Munro, I panni di lana, in Il Rinascimento italiano e l’Europa,
IV, Commercio e cultura mercantile, a cura di F. Franceschi - R.A. Goldthwaite -
R.C. Mueller, Treviso - Costabissara (Vicenza) 2007, pp. 105-141: pp. 110-122.

181
Franco Franceschi

urbano 58. Un viavai continuo di uomini, merci ed animali da traspor-


 

to affollava le strade disegnando percorsi che univano le due rive e le


sedi di produzione urbane con i sobborghi e la campagna circostan-
te, punteggiati dai laboratori domestici dei tessitori, delle tessitrici
e soprattutto delle filatrici. L’impressione è quella di una città inva-
sa dalle balle di lana grezza, dalle tele appese alle finestre, dai panni
appena tinti tesi su fili o pertiche che attraversavano le strade, dalle
pezze lavate e distese ad asciugare negli spiazzi, sul greto del fiume,
perfino sulle porte che si aprivano nel circuito murario 59.  

Le botteghe dei lanaioli erano distribuite a nebulosa in quattro


distretti o conventi, tre sulla riva destra (fra cui la centralissima area
costituita dalla serie di piazzette intorno alla chiesa di San Martino
del Vescovo), e uno nell’Oltrarno, in via Maggio. Questa ripartizione
non valeva invece per le officine dei rifinitori, né tanto meno per le
sedi produttive dei lavoratori a domicilio. Molte tintorie, per esem-
pio, erano installate presso il fiume, in particolare nella strada lungo
l’Arno che le fonti del primo Trecento indicano ormai come Corso
dei Tintori 60; altre si trovavano nel cuore della città, vicino al Duomo
 

e al palazzo del Capitano, come documenta una petizione presen-


tata ai Priori nel 1296 dagli abitanti di diverse parrocchie in cui si
invocavano provvedimenti contro i tintori, accusati di sporcare le
strade e provocare un «fetor intollerabilis» 61. Nel 1319, per evitare
 

che le acque maleodoranti scorressero per centinaia di metri — da


via Sant’Egidio alla fogna di piazza Santa Croce — si autorizzaro-
no Uberto di Lando degli Albizzi e i suoi fratelli, membri di una

58 Per la vasta bibliografia sulla manifattura laniera fiorentina cfr. Hoshino,


L’arte della lana in Firenze nel Basso Medioevo: il commercio della lana e il mer-
cato dei panni fiorentini nei secoli XIII-XV, Firenze 1980; F. Franceschi, Oltre il
«Tumulto». I lavoratori fiorentini dell’Arte della Lana fra Tre e Quattrocento, Firenze
1993; B. Dini, I lavoratori dell’Arte della lana a Firenze nel XIV e XV secolo, ora
in Id., Manifattura, commercio e banca nella Firenze medievale, Firenze 2001, pp.
141-171.
59 Statuti della Repubblica fiorentina, editi a cura di R. Caggese, nuova ed.
a cura di G. Pinto - F. Salvestrini - A. Zorzi, 2 voll., Firenze 1999, II, Statuto del
Podestà dell’anno 1325, lib. III, rub. LXVII, p. 207: «Ad hoc ut introitus et exitus
per portas civitatis Florentie cuique pateat statutum et ordinatum est sive firmatum
ne quis supra portas civitatis ponat vel protendat petias pannorum aut stamina vel
pannos aut quodlibet aliud simile ad siccandum».
60 R. Davidsohn, Storia di Firenze, trad. it, Firenze 1956-1968, VI, p. 135.
61 G. Pampaloni, Firenze al tempo di Dante. Documenti sull’urbanistica fioren-
tina, Roma 1973, doc. 88, p. 157.

182
I paesaggi della produzione

famiglia con corposi interessi nel settore tessile 62, a costruire a loro
 

spese una «fovea sive fongna [...] subtus terram» lungo tutto questo
percorso 63.  

Anche i ‘tiratoi’ costruiti nel corso del XIII secolo, malgrado le


loro grandi moli, potevano trovare posto in settori urbani fittamente
popolati 64. Un’indagine effettuata per la Siena della prima metà del
 

Trecento, e che conta pochi paralleli in altre città tessili, ricostruisce


in dettaglio la fisionomia di questi peculiari manufatti destinati alla
tenditura e all’asciugatura dei panni sottolineandone l’evoluzione
tecnica. Dai tiratoi ‘piani’, disposti parallelamente al suolo, si passò
infatti a quelli ‘retti’, perpendicolari al terreno, costituiti da un’inte-
laiatura di colonne in legno destinata ad accogliere le pezze in tutta
la loro lunghezza (anche più di 30 metri): questi ultimi occupava-
no uno spazio minore e assicuravano un’asciugatura più rapida. Tale
processo si accompagnò ad un’altra innovazione: i tiratoi, normal-
mente situati in spazi aperti, vennero collocati in appositi «edificia
tiratoriorum», costruzioni a pianta rettangolare, normalmente a due
piani, che negli esempi senesi avevano fondamenta e tetto in mura-
tura ma strutture lignee 65. A Firenze alcuni tiratoi di proprietà dei
 

Guidalotti posti nell’attuale via dei Servi, uno dei quali sistemato in
un giardino, furono fatti abbattere per ritorsione dal governo ghi-
bellino dopo il 1260; gli impianti facevano parte di un insieme di
ventotto fabbricati, tutti distrutti, comprendenti anche tre tintorie,
una fornace, locali adibiti a depositi di legna da ardere e fondaci 66:  

un vero e proprio complesso commerciale-manifatturiero a due pas-


si dalla cattedrale. Altre strutture per la tiratura, comunque, sorsero
nei decenni successivi in diverse parrocchie cittadine per iniziativa di

62 Cfr. H. Hoshino, L’arte della lana in Firenze, cit., pp. 305sgg.


63 Pampaloni, Firenze al tempo di Dante, cit., doc. 89, p. 158.
64 E non solo a Firenze. A Gubbio, per esempio, una di queste strutture
sorgeva sulla piazza del mercato e, pur trasformata, è giunta fino a noi; negli anni
Ottanta fu addirittura oggetto di una campagna di salvaguardia promossa da «Italia
Nostra»: F. Raffi, Il tiratoio, stravolto, diventa una banca?, «Italia nostra», XXVII
(1983), n. 219, pp. 10-11; Id., Il tiratoio non è un gran che, dice il Soprintendente: si
ristrutturi! «Italia nostra», XXVIII (1984), n. 225-226, pp. 22-23.
65 S. Tortoli, I tiratoi dell’Arte della lana di Siena nel Trecento: un contribu-
to all’archeologia dell’industria manifatturiera, «Archeologia medievale», III (1976),
pp. 400-412: pp. 401-403.
66 Davidsohn, Storia di Firenze, cit., III, p. 562.

183
Franco Franceschi

famiglie di rango quali i Cerchi, i Falconieri, gli Albizzi, i Pitti 67.  

In questo sistema di manifattura diffusa, profondamente incar-


dinato nel tessuto cittadino, anche macchine complesse e rumorose
come le gualchiere, alla cui azione si ricorreva per conferire resi-
stenza e compattezza ai tessuti, furono dislocate sul tratto urbano
dell’Arno fin dal sesto decennio del XII secolo. Fra gli anni Settanta
del Duecento e gli anni Trenta del Trecento in particolare, quan-
do i disastrosi effetti dell’alluvione del 1333 e le mutate necessità
degli imprenditori tessili convinsero le autorità cittadine a sposta-
re gli impianti a monte dell’abitato 68, alcune di esse furono attive
 

presso Santa Croce, all’inizio del Corso dei Tintori 69, ma anche sui
 

terreni dell’ordine degli Umiliati, che nel 1250 si era stanziato nel
settore occidentale della città, alla confluenza fra l’Arno e il torrente
Mugnone, avviandovi un’attività tessile di cui purtroppo ignoriamo
quasi tutto 70.
 

Una scelta, quella di investire capitali in strutture per la lavo-


razione della lana, che era comune ad altre case umiliate operanti in
questo periodo nell’Italia centro-settentrionale, come la domus mi-
lanese di frate Pietro de Casate, in via Levata, dove prima del 1275
venne edificata una «testoria» 71, o quella bergamasca di Galgario,
 

«ubi est» — secondo un documento del 1301 — «tenctorìa fra-


trum» 72. Insomma, «Vangelo e tiratoi», come sintetizzava l’azzeccato
 

titolo di uno studio di Anna Benvenuti 73. Gli Umiliati, del resto, non
 

67 Ivi, VI, pp. 109-110.


68 Sulle ragioni che portarono alla formazione di una sorta di bacino della gual-
catura nel tratto dell’Arno compreso fra Sant’Andrea a Rovezzano e Quintole cfr. F.
Franceschi, Un “distretto industriale” fiorentino?, in Alle porte della città. Il territo-
rio di Bagno a Ripoli in età medievale, Atti del Convegno dello Spedale del Bigallo
(Bagno a Ripoli, Firenze, 26.X.2006), a cura di P. Pirillo, Roma 2008, pp. 213-228:
pp. 218-222. Secondo John Muendel alcuni dei nuovi impianti ebbero caratteristi-
che tecniche diverse rispetto alle strutture già esistenti: J. Muendel, The Orientation
of Strikers in Medieval Fulling Mills: The Role of the “French” Gualchiera, «Medieval
Clothing and Textiles», I (2005), pp. 67-79.
69 Sznura, L’espansione urbana di Firenze, cit., p. 49, nota 31.
70 Ivi, pp. 77-81; F. Salvestrini, Libera città su fiume regale. Firenze e l’Arno
dall’Antichità al Quattrocento, Firenze 2005, p. 29.
71 Grillo, Milano in età comunale, cit., p. 220.
72 M.T. Brolis, Gli Umiliati a Bergamo nei secoli XIII e XIV, Milano 1991,
p. 152.
73 A. Benvenuti, Vangelo e tiratoi. Gli Umiliati e il loro insediamento fiorenti-
no, in La Madonna d’Ognissanti di Giotto restaurata, «Gli Uffizi. Studi e ricerche»,
VIII (1992), pp. 75-84.

184
I paesaggi della produzione

costituivano l’unico ordine religioso ad essere attratto dai profitti de-


rivanti dalla gestione dei grandi impianti necessari alla produzione
tessile: nelle prime fasi di sviluppo della manifattura vicentina, per
esempio, gualchiere e tiratoi, oltre a stationes di panni, sono segna-
lati fra i beni dei due conventi di San Bartolomeo e San Tommaso di
Berica, entrambi saldamente inseriti «nel tessuto socio-economico
del borgo suburbano rispettivo» 74.  

Il ‘modello industriale’ fiorentino — se così mi posso esprime-


re — non era certo l’unico, anzi. Quella che spesso riscontriamo,
infatti, è una localizzazione delle strutture per la fabbricazione dei
tessuti più compatta e coincidente con aree periferiche ed extra-mu-
rarie: come avviene nel caso già citato di Genova, o a Venezia, dove
nel Trecento prese corpo una sorta di perimetro laniero il cui cuore
coincideva con la zona del Rio Marin e dal quale tendevano a sfug-
gire soltanto le chiovere, i grandi spazi destinati all’asciugatura dei
panni dopo la tintura 75; come accade a Pisa, dove le gualchiere, i la-
 

vatoi e la gran parte delle tintorie non erano dislocati sull’Arno ma


lungo l’Auser, a nord della città, fuori Porta a Lucca, mentre i tiratoi
si concentravano intorno alla chiesa di San Martino in Chinzica e nel
quartiere di Foriporta, verso est 76; come si riscontra a Verona, dove
 

aree manifatturiere si costituirono all’esterno delle mura comunali,


nel vicus o burgus Sancti Zenonis e sul Fibbio, un corso d’acqua dalla
portata più regolare e costante di quella dell’Adige, sul quale a parti-
re dalla fine dell’XI secolo vennero costruite diverse gualchiere 77.  

6. Di importanza decisiva per la comunità urbana, ma anche


di potente impatto visivo, era l’attività dei mulini da grano. In una
recente sintesi, dedicata all’Europa occidentale, Pierre Racine ha

74 G.M. Varanini, Vicenza nel Trecento. Istituzioni, classe dirigente, economia


(1312-1404), in Storia di Vicenza, II, L’età medievale, a cura di G. Cracco, Vicenza
1988, pp. 139-245: p. 233.
75 E. Crouzet-Pavan, «Sopra le acque salse». Espaces, pouvoir et société à
Venise à la fin du Moyen Âge, 2 voll., Roma 1992, I, p. 752.
76 Cfr. P. Castagneto, L’Arte della Lana a Pisa nel Duecento e nei primi decen-
ni del Trecento. Commercio, industria e istituzioni, Pisa 1996, pp. 130-134; Redi, Le
strutture produttive, cit., p. 655.
77 G.M. Varanini, Trasformazioni economiche e modificazioni dell’ambiente
urbano: il caso di Verona fra commercio, industria tessile e rendita fondiaria (seco-
li XII-XVI), in Spazio urbano e organizzazione economica, cit., pp. 341-360: pp.
346-350.

185
Franco Franceschi

utilizzato fin dal titolo l’espressione «paysage des moulins» 78; un  

paesaggio di cui Maria Luisa Chiappa Mauri ha colto alcuni caratte-


ri peculiari: «i complessi edilizi dei molendina» — ha scritto — «con
i loro edifici murati, spesso a due piani, col tetto coperto di tegole e
la facciata coperta da portici, con le costruzioni sussidiarie articolate
intorno a cortili più o meno cintati, con le grandi ruote di legno […],
dovevano stagliarsi con evidenza sullo sfondo delle modeste abita-
zioni suburbane, assiepate lungo le direttrici stradali, attirandole
a sé in quanto centri di aggregazione economica» 79. Lo «spettaco-
 

lo di un ordinato e complesso sistema di mulini perennemente in


moto colle loro grandi ruote» 80 — per citare invece le parole di
 

Sante Bortolami — era senz’altro uno degli elementi che connotava-


no maggiormente la fisionomia cittadina e catturavano l’attenzione
dei cronisti e degli osservatori. Così l’Anonimo Ticinese non manca
di registrare la «quantitas copiosa» degli impianti situati sul Ticino
e i «molendinis terrestribus» costruiti su ambo i lati del torren-
te Carona a Pavia 81, mentre un altro autore del primo Trecento, il
 

giudice Giovanni da Nono, riferisce che a Padova, in prossimità del-


la porta di ponte Molino, giravano «triginta quatuor rote molentes
bladum omnis generis» 82. Nessuno dei due, tuttavia, si spinge ad af-
 

fermare, come fa il legato pontificio a Bologna nel 1371, che il canale


di Reno con i suoi mulini contribuiva a nobilitare la città 83.  

I numerosi studi intrapresi sul tema a partire dagli anni Settanta


del Novecento costituiscono un prezioso contributo alla conoscenza
delle complesse dinamiche di interazione fra la presenza dell’acqua,
la costruzione delle macchine idrauliche e lo sviluppo dei centri ur-
bani 84. Vediamo qualche esempio.
 

78 P. Racine, Le paysage des moulins en Europe occidentale au Moyen Age,


«Nuova rivista storica», XC (2006), pp. 409-445.
79 M.L. Chiappa Mauri, I mulini ad acqua nel Milanese (secoli X-XV), rist.
anast. dell’ed. 1984, Milano 1998, p. 76.
80 S. Bortolami, Acque, mulini e folloni nella formazione del paesaggio urbano
medievale (secoli XI-XIV): l’esempio di Padova, in Paesaggi urbani dell’Italia padana,
cit., pp. 277-321: p. 279.
81 Anonymi Ticinensis Liber de laudibus, cit., pp. 18-19.
82 Bortolami, Acque, mulini e folloni, cit., p. 280.
83 A.I. Pini, Energia e industria tra Sàvena e Reno, ora, con il titolo Canali e
mulini a Bologna tra XI e XV secolo, in Id., Campagne bolognesi. Le radici agrarie di
una metropoli medievale, Firenze 1993, pp. 16-38: pp. 17-18.
84 Per un primo approccio a questa letteratura cfr. M.L. Chiappa Mauri,
Prefazione, in Ead., I mulini ad acqua nel Milanese, cit., pp. 11-31; G. Papaccio, I

186
I paesaggi della produzione

A Milano, dove la presenza di diversi mulini è documentata in


prossimità delle mura fin dalla fine del X secolo, si delinearono gra-
dualmente, in età comunale, due aree di più compatto insediamento
degli impianti: quella fuori porta Ticinese, dove le ruote erano mosse
innanzitutto dalle acque del fossato perimurario, e che trovava una
prosecuzione nel settore occidentale, lungo l’Olona ed il suo tratto
cittadino, la Vepra; e quella formata dalla striscia di terra che si esten-
deva per una decina di chilometri lungo il Lambro, tra Crescenzago
e Triulzo, in aperta campagna. Ma gli edifici idraulici si spingevano
fin nel cuore della città, compresa la zona in cui sarebbe poi sorto il
Duomo, e la proliferazione di mulini urbani, spiegabile anche con il
fatto che quasi tutti gli enti ecclesiastici tendevano a costruire macine
da grano nelle immediate vicinanze delle loro sedi, trova conferma
in un documento del 1238 nel quale, accanto ai consoli dei mugnai
dei mulini suburbani, è citato un «consul molendinariorum qui ha-
bebant molendina in civitate Mediolani» 85.  

A Padova, in età precomunale, i mulini erano dislocati lungo


l’anello fluviale che delimitava la civitas ed in particolare intorno al
già citato Ponte Molino (originariamente denominato pons vicenti-
nus), sul Bacchiglione. Con la crescita demografica del secolo XII il
numero delle ruote idrauliche aumentò e correlativamente si sviluppa-
rono — favorite dall’iniziativa del Capitolo del Duomo, proprietario
di numerosi impianti e promotore di un piano di lottizzazione dei
terreni più vicini al ponte — le infrastrutture, gli insediamenti dei
mugnai e tutto un ‘indotto’ costituito da falegnami, fabbri, barcaio-
li, mercanti di biade, venditori di corde e mole, fornai: all’inizio del
Duecento il ponte Molino, che era divenuto il perno dello sviluppo
socio-economico ed urbanistico dell’area settentrionale, cominciò a
designare anche uno dei quartieri in cui sarebbe stata suddivisa per
secoli la città 86.
 

A Bologna, dove non esisteva un fiume in grado di muovere


le ruote indispensabili all’approvvigionamento urbano, la diffusione
dei mulini idraulici fu piuttosto lenta, almeno fino all’ultimo venticin-

mulini del Comune di Firenze. Uso e gestione nella città trecentesca, in La città e il
fiume (secoli XIII-XIX), a cura di C.M. Travaglini, Roma 2008, pp. 61-79: pp. 61-
68 e relative note.
85 Chiappa Mauri, I mulini ad acqua nel Milanese, cit., in particolare pp.
69-83.
86 Bortolami, Acque, mulini e folloni, cit., pp. 287-292.

187
Franco Franceschi

quennio del XII secolo, quando la situazione cambiò radicalmente:


nel 1176, infatti, il Comune provvide alla realizzazione di un canale
che portava nel settore orientale della città le acque del fiume Sàvena,
mentre pochi anni dopo, probabilmente nel 1183, un altro canale,
stavolta costruito grazie all’iniziativa di un consorzio formato da una
quarantina di proprietari privati, assicurava il rifornimento idrico al-
l’area occidentale. Qui, raggruppati due a due in unità denominate
«capanne», sorsero immediatamente numerosi mulini, del tipo a pala
verticale: trentadue sul canale di Sàvena, concessi in usufrutto ai pro-
prietari dei terreni sui quali era stata scavata la via d’acqua nonché
alle famiglie che avevano prestato al Comune il denaro necessario a
finanziare l’impresa, e un numero analogo sul canale di Reno, in pos-
sesso degli stessi membri dell’associazione che aveva promosso la
canalizzazione 87.
 

A Firenze, nel corso del Duecento, una consistente serie di strut-


ture di proprietà di alcune ricche famiglie e di enti ecclesiastici si era
addensata lungo il corso cittadino dell’Arno. Tra la foce del Mugnone
e il ponte alla Carraia erano situati gli opifici idraulici detti di Santa
Lucia Ognissanti, cui facevano riscontro sulla riva opposta del fiu-
me, serviti dalla medesima pescaia, quelli di borgo San Frediano; nel
tratto compreso fra il ponte Rubaconte e il castello di Altafronte, in
un tratto di riva su cui accampava diritti la famiglia Bagnesi, ne sor-
gevano altri; un terzo nucleo di mulini era localizzato nei pressi del
già ricordato Corso dei Tintori, ed anche in questo caso la concentra-
zione si ripeteva nella corrispondente sezione dell’Oltrarno, presso
porta San Niccolò 88. Si trattava di strutture di almeno tre diversi tipi:
 

i mulini penduli, in legno, sospesi sul fiume ma costruiti lungo il gre-


to; quelli galleggianti (in navibus), ancorati alle rive, senz’altro i più
facili da realizzare e suscettibili di essere spostati nei punti in cui la
forza dell’acqua era maggiore; ed infine i terragni (terranei), solita-
mente in muratura, edificati sulle sponde 89.  

«En ville» — ha scritto efficacemente Philippe Braunstein —


«l’eau fixe l’industrie» 90. In effetti dovrebbero essere almeno
 

87 Pini, Canali e mulini a Bologna, cit., pp. 24-30.


88 Papaccio, I mulini del Comune di Firenze, cit., pp. 69-73.
89 Salvestrini, Libera città su fiume regale, cit., pp. 26-27.
90 Ph. Braunstein, L’industrie à la fin du Moyen Âge: un objet historique nou-
veau?, ora in Id., Travail et entreprise au Moyen Âge, Bruxelles 2003, pp. 93-111: p.
102.

188
I paesaggi della produzione

ricordate, in mancanza del tempo per esaminarle in dettaglio, diverse


altre attività legate alla presenza dell’acqua, oltre che alla disponibili-
tà di siti adeguati: l’industria conciaria, la trasformazione dei metalli,
la lavorazione del legno, la produzione della carta, la torcitura della
seta; attività che, verso la fine dell’epoca qui considerata, potevano
anche usufruire dell’energia idraulica, come avveniva nel caso delle
segherie documentate dalla fine del XIII secolo nel cosiddetto Isolo
di Verona e sull’Adigetto 91, della macchina «ad frangendum dein-
 

de macinandum lapides pro vitro confitiendo» che i proprietari di


mulini pavesi richiesero negli stessi decenni al Comune 92, dei torci-  

toi da seta attestati negli anni Trenta del Trecento a Lucca, Bologna
e Venezia 93, del «casalinum cum gualcheriis ad gualcandum pestum
 

cartarum bombacinarum» ricordato nel 1331 a Colle Valdelsa 94. E  

proprio da questo grosso centro toscano a vocazione urbana arriva


un bell’esempio di quella che è stata definita la polifunzionalità de-
gli «opifici andanti ad acqua»: la riconversione, indotta anche dalle
conseguenze della peste del 1348, delle «ruote da arrotare ogni sorta
di acciari e ferri grossi» in mulini da carta 95.  

7. L’espansione urbana dei secoli XII e XIII si tradusse anche


in un generale irrobustimento delle strutture dell’attività produtti-
va. Questa fase di intenso e talvolta tumultuoso sviluppo contribuì,
insieme ad altri fattori, a riplasmare la fisionomia dei centri urbani,
disseminandoli con i segni di paesaggi nuovi, modificando i rapporti
fra i diversi settori cittadini, alterando la dialettica fra aree mura-
te e borghi. Avviate dall’agire di forze in buona parte spontanee,
le trasformazioni furono assecondate, stimolate e talvolta guida-
te dalle volontà di protagonisti diversi: privati, istituzioni religiose,

91 G.M. Varanini, Energia idraulica e attività economiche nella Verona comu-


nale: l’Adige, il Fiumicello, il Fibbio (secoli XII-XIII), in Paesaggi urbani dell’Italia
padana, cit., pp. 350-351.
92 C. Nepoti, Dati sulla produzione del vetro nell’area padana centrale, in
Archeologia e storia della produzione del vetro preindustriale, a cura di M. Mendera,
Firenze 1991, pp. 117-131: p. 122.
93 Cfr. L. Molà, La comunità dei Lucchesi a Venezia. Immigrazione e industria
della seta nel tardo Medioevo, Venezia 1994, pp. 140-143.
94 R. Ninci, La polifunzionalità degli opifici “andanti ad acqua”. Il caso di Colle
Val d’Elsa, «Miscellanea storica della Valdelsa», CVIII (2002), pp. 151-162: p. 157
e nota 23.
95 Ivi, p. 154.

189
Franco Franceschi

Corporazioni, potere pubblico.


Il caso degli opifici idraulici appena ricordati è paradigmati-
co di questo intreccio di interessi e di attori, ma al tempo stesso è
indicativo di una tendenza che si affermò in maniera sempre più
chiara dopo la pace di Costanza e la nascita del Comune podesta-
rile: il crescente intervento dei governi locali, sebbene in forme non
riconducibili ad una politica omogenea. Ben nota è la vicenda di
Bologna, dove a partire dal 1208 l’autorità comunale intervenne pri-
ma acquistando dal consorzio che l’aveva realizzato il canale di Reno
e successivamente, fra il 1219 e il 1222, espropriando i mulini qui
localizzati, che andarono ad aggiungersi a quelli già in mano pub-
blica, per un totale di 82. In questo modo veniva tolta ai privati (ma
non ai proprietari ecclesiastici, che poterono scegliere se accettare
o meno l’offerta di acquisto) ogni possibilità di interferire in uno
dei settori più importanti e delicati per l’approvvigionamento citta-
dino e assicurata un’entrata non trascurabile per le finanze comunali.
Contemporaneamente il Comune fece costruire nuovi opifici idrauli-
ci, ed in particolare 11 gualchiere 96.  

La strada dell’esproprio fu seguita, negli anni Quaranta del


Duecento, da Reggio, dove non rappresentò tuttavia un danneggia-
mento per le famiglie aristocratiche proprietarie dei mulini, visto
che esse ottennero in cambio beni comunali in feudo o cedettero
«in falsa vendita la proprietà della struttura e della terra intorno in-
tascando il denaro e facendosi restituire gli stessi beni dal comune
con una forma di feudo oblato» 97; da Ravenna, dove buona parte de-
 

gli impianti fu acquisita dall’autorità pubblica prima del 1253 98; da  

Comuni marchigiani come Jesi e San Severino alla fine del secolo 99.  

All’acquisizione dei mulini non risulta invece essere stato mai inte-
ressato il Comune di Verona, né quello di Padova, che preferì farsi
direttamente promotore della costruzione di nuove macine a parti-
re dal 1217, mentre a Pistoia il governo cittadino acquistò alla fine
del XIII secolo diritti di derivazione di acque ed opifici idraulici da

96 Pini, Canali e mulini a Bologna, cit., pp. 30-32.


97 D. Balestracci, La politica delle acque urbane nell’Italia comunale,
«Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Age», 104 (1992), pp. 431-479:
p. 449.
98 Cfr. A.I. Pini, L’economia “anomala” di Ravenna in un’età doppiamente di
transizione (secc. XI-XIV), in Storia di Ravenna, III, Dal Mille alla fine della signoria
polentana, a cura di A. Vasina, Venezia 1993, pp. 509-554: p. 533.
99 Id., Canali e mulini a Bologna, cit., p. 32.

190
I paesaggi della produzione

privati 100.
 

Le diverse forme di intervento elaborate dal potere pubblico


in età comunale riguardarono, come è stato ben documentato, an-
che altri settori della vita economica: Duccio Balestracci ha ricordato
come fra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII si sviluppassero i pri-
mi tentativi di acquisire i diritti sulle miniere e sulle saline 101, Jacques
 

Heers ha rilevato che quasi ovunque i governi cittadini si fecero ca-


rico della costruzione e dell’allestimento dei mercati, dei macelli, dei
grandi depositi per il grano, le farine e naturalmente il sale 102. Meno  

intraprendenti sembrano essere state le municipalità nell’organizza-


zione degli spazi della produzione artigianale e manifatturiera, un
ambito nel quale assunsero talvolta un ruolo attivo le Corporazioni,
che provvidero alla creazione e alla gestione di botteghe, magazzi-
ni e altri impianti necessari alle attività dei propri iscritti. Lo statuto
dei Callegari di Bologna del 1254, per esempio, dettava i criteri per
l’assegnazione dei banchi di vendita appartenenti all’Arte e prevede-
va l’acquisto di un mulino destinato alla macinazione della galla 103,  

una sostanza necessaria alla concia delle pelli. Da fonti senesi, inve-
ce, sappiamo che all’inizio del Trecento le Corporazioni dei Cuoiai
e dei Calzolai possedevano fuori dalle mura della città toscana alcu-
ne piscine destinate alla lavorazione e al lavaggio dei loro prodotti, e
lo stesso valeva per l’Arte della Lana, che aveva fatto edificare anche
un certo numero di tiratoi 104. Un’altra Corporazione laniera, quella
 

di Firenze, aveva previsto già nel suo primo statuto la costruzione del
cosiddetto Fondaco del guado, un magazzino deputato allo stoccag-
gio delle materie tintorie che venne effettivamente realizzato verso la
fine degli anni Trenta del Trecento 105.  

100 Balestracci, La politica delle acque urbane, cit., p. 450.


101 Ivi, pp. 436-437.
102 J. Heers, En Italie centrale: les paysages construits, reflets d’une politique
urbaine, in D’une ville à l’autre: structures matérielles et organisation de l’espace dans
les villes européennes (XIIIe-XVIe siècle), Actes du Colloque (Roma, 1-4.XII.1986),
a cura di J.-C. Maire Vigueur, Roma 1989, pp. 279-322: p. 292. Sulla politica citta-
dina in relazione alle aree commerciali cfr. ora, in questo stesso volume, il contributo
di R. Greci, Luoghi ed edifici di mercato.
103 Degrassi, L’economia artigiana, cit., nota 22, p. 33.
104 Balestracci - Piccinni, Siena nel Trecento, cit., pp. 159-163.
105 Cfr. F. Franceschi, Istituzioni e attività economica a Firenze: considerazio-
ni sul governo del settore industriale (1350-1450), in Istituzioni e società in Toscana
nell’età moderna, Atti delle giornate di studio dedicate a Giuseppe Pansini (Firenze,
4-5.XII.1992 ), 2 voll., Roma 1994, I, pp. 76-117: p. 90.

191
Franco Franceschi

Resta il fatto che in mani pubbliche, accanto ad altri beni, si


concentravano normalmente anche immobili da destinare alle fun-
zioni produttive e commerciali 106, e vi furono amministrazioni che
 

acquisirono tali strutture proprio dalle Corporazioni: è quanto av-


venne a Fabriano, dove il Comune, interessato a controllare un
settore divenuto centrale nell’economia locale, acquistò nel 1297 le
38 fucine che l’Arte dei Fabbri possedeva sul fiume Castellano per
poi riconcederle in affitto ai singoli artigiani 107. Una forma di in-
 

coraggiamento all’attività economica da non sottovalutare era poi


quella di dare agli operatori la possibilità di stabilirsi su terreni di
proprietà comunale 108.  

È ampiamente noto che i governi cittadini, in particolare quel-


li ‘di popolo’, imposero o almeno favorirono il raggruppamento e il
trasferimento nelle zone periferiche delle attività pericolose, rumo-
rose o suscettibili di inquinare l’aria e l’acqua 109. Meno conosciute,
 

ma non meno significative, sono invece le iniziative volte a ingloba-


re le aree produttive suburbane nel tessuto cittadino. A Vercelli la
presenza di cospicui insediamenti commerciali e produttivi fra il nu-
cleo antico e la chiesa di Sant’Eusebio rappresentò uno dei fattori
che dapprima portarono, nell’uso comune, ad estendere il concetto
di civitas anche al suburbio, poi, nella seconda metà del XII secolo,
ad una trasformazione della stessa struttura materiale della città, con
l’ampliamento delle mura a protezione di un’area di interesse econo-
mico 110. A Bergamo la creazione di un polo molitorio ad ovest del
 

106 Degrassi, L’economia artigiana, cit., p. 64. Un esempio eloquente è quel-


lo delle numerose stationes elencate fra i beni del Comune di Vicenza (Il Regestum
possessionum Comunis Vincencie del 1262, a cura di N. Carlotto - G.M. Varanini,
Roma 2006, pp. 3-16).
107 Cfr. F. Pirani, Fabriano in età comunale. Nascita ed affermazione di una cit-
tà manifatturiera, Firenze 2003, pp. 34-35.
108 J.-C. Maire Vigueur, L’essor urbain dans l’Italie médiévale: aspects et mo-
dalité de la croissance, in Europa en los umbrales de la crisis: 1250-1350, Atti della
XXI Semana de Estudios Medievales (Estella, 18-22.VII.1994), Pamplona 1995, pp.
171-204: p. 199.
109 Cfr. A.I. Pini, La città medievale, ora in Id., Città, comuni e corporazioni nel
Medioevo italiano, Bologna 1986, pp. 11-47: p. 39; Maire Vigueur, L’essor urbain
dans l’Italie médiévale, cit., p. 199; Heers, La ville au Moyen Âge, cit., pp. 373-377;
R. Greci, Il problema dello smaltimento dei rifiuti nei centri urbani dell’Italia me-
dievale, in Città e servizi sociali nell’Italia dei secoli XII-XV, Atti del Dodicesimo
Convegno del Centro italiano di studi di storia e d’arte (Pistoia 9-12.X.1987), Pistoia
1990, pp. 439-464: pp. 445-446.
110 Cfr. G. Gullino, Uomini e spazio urbano. L’evoluzione topografica di

192
I paesaggi della produzione

Serio si accompagnò all’edificazione di una nuova cinta difensiva, av-


viata sullo scorcio del secolo XII e completata entro i primi decenni
del successivo 111. Anche a Milano — secondo Galvano Flamma —
 

all’inizio del Trecento Azzone Visconti fece ampliare il circuito


murario verso sud fino a comprendere il borgo di Sant’Eustorgio per
proteggere i mulini («ad tutellam molendinorum») e gli insediamen-
ti manifatturieri (soprattutto le concerie) qui esistenti 112. A Padova
 

torri, porte e robusti baluardi sorsero fra Due e Trecento in corri-


spondenza di tutti i principali aggregati industriali scaglionati lungo
i corsi d’acqua cittadini 113. 

Ma, nella costruzione della fisionomia produttiva della città co-


munale, il peso delle istanze di razionalizzazione, di programmazione
e di indirizzo non deve essere esagerato, come insegna proprio la ri-
cordata vicenda della canalizzazione bolognese. A distanza di una
trentina d’anni dagli espropri, infatti, gli statuti municipali fissarono
criteri cogenti per lo sfruttamento delle acque e la dislocazione degli
opifici idraulici. L’area ‘industriale’ doveva coincidere con il settore
meridionale della città: qui venne aperta la via delle cartolerie lungo
il Sàvena, dove si concentrarono conciatori, cartolai e tintori; qui si
prescriveva che dovessero insediarsi tutte le fornaci e gli scolatoi di
metalli. Queste norme eccessivamente rigide, però, non rispondeva-
no alle esigenze di un settore manifatturiero in espansione, per cui
già nel 1259 il Comune fu costretto ad ammettere una prima dero-
ga al suo piano, concedendo l’autorizzazione ad aprire fornaci anche
nella zona settentrionale della città: dove in effetti, nella seconda
metà del Trecento, si addensavano fucine, battitoi, magli, mulini da
galla, segherie idrauliche, vetrerie, cartiere e torcitoi da seta 114. È un  

esempio che si aggiunge alle notizie — cui abbiamo già accennato —

Vercelli tra X e XIII secolo, Vercelli 1987, pp. 29-37.


111 M.L. Chiappa Mauri, Acque e mulini nella Lombardia medievale. Alcune
riflessioni, in I mulini nell’Europa medievale, Atti del convegno (San Quirico d’Or-
cia, Siena, 21-23.IX.2000), a cura di P. Galetti - P. Racine, Bologna 2003, pp.
233-268: p. 255.
112 Ead., I mulini ad acqua nel Milanese, cit., p. 75. A Torino, invece, dove per
motivi tecnici i mulini si trovavano fuori dalle mura cittadine, gli impianti subiro-
no nel corso del Trecento frequenti assalti e distruzioni (cfr. M.T. Bonardi, Canali
e macchine idrauliche nel paesaggio suburbano, in Acque, ruote e mulini a Torino, a
cura di G. Bracco, Torino 1988, pp. 105-128: p. 115).
113 Bortolami, Acque, mulini e folloni, cit., p. 318.
114 Pini, Canali e mulini a Bologna tra XI e XV secolo, cit., pp. 36-37.

193
Franco Franceschi

di attività pericolose o inquinanti ancora tenacemente attestate in


settori urbani cui il potere pubblico attribuiva funzioni diverse, atti-
vità per le quali erano state previste altre localizzazioni.
Vi era dunque una capacità di resistenza delle categorie produt-
tive che non sarebbe giusto sottovalutare, e che talvolta aveva modo
di esprimersi palesemente. È quanto avvenne nel 1319 a Siena, dove
i lavoratori del cuoio, di fronte alla prospettiva di dover abbandona-
re le loro sedi di lavoro per le intuibili proteste dei residenti, non si
lasciarono per niente intimorire ma portarono di fronte al Consiglio
generale della città il loro punto di vista: il provvedimento adottato
dal Comune — osservarono — risponde a interessi particolari e non
a quelli della collettività ed è la prova che chi prende le decisioni non
concepisce Siena come una città che si fonda sul lavoro degli artigia-
ni, a differenza di quanto accade a Firenze ed in altre buone città e
terre di Toscana, dove questi vengono chiamati ad esercitare la loro
attività nelle zone migliori 115.  

115 Piccinni, Modelli di organizzazione, cit., pp. 224-225.

194
Lunedì 12 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Giovanna Petti Balbi

Roberto Greci
Luoghi ed edifici di mercato

Parlare di città e luoghi di mercato per l’età medievale signifi-


ca solitamente affrontare la questione della genesi della città, dunque
ricordare i lavori ormai lontani di Henri Pirenne 1. Al Pirenne, infat-
 

ti, risale l’idea che la città medievale europea si generi da un luogo di


mercato. Secondo lo storico belga, la favorevole posizione geografica
(ai fini delle attività commerciali) di preesistenti civitates episcopa-
li e di borghi fortificati, costituì un elemento di forte attrazione per
lo sviluppo di attività e di associazioni mercantili. Dopo la decaden-
za commerciale dell’alto medioevo, i centri urbani sopravvissuti si
trovarono privi dei due attributi fondamentali della città medieva-
le e moderna (cioè una popolazione borghese e un’organizzazione
municipale). Non erano dunque propriamente ancora città in sen-
so sociale, economico, giuridico, ma solo fulcri dell’amministrazione
ecclesiastica o piazzeforti militari. Equiparabili ai castra, sarebbero
stati «completamente estranei all’attività commerciale e industriale,
coerenti com’erano con la civiltà agricola del loro tempo».
Ma la ripresa commerciale, già avvertibile nel X secolo, avreb-
be fatto sì che accanto a civitates e castra, apparissero i portus e cioè
luoghi chiusi originariamente utilizzati come depositi o tappe per le

1 In particolare H. Pirenne, Les villes du Moyen Age, Bruxelles 1927 (trad.


ital. Le città del Medioevo, con un’introduzione di O. Capitani, Bari 1971).

195
Roberto Greci

merci. Queste nuove emergenze, che al contrario delle fiere o dei


mercati periodici si distinguono per caratteri di permanenza e di sta-
bilità, avrebbero rivelato ben presto una forte capacità di attrazione
anche nei confronti di uomini non direttamente coinvolti in attività
mercantili, ma in qualche misura da esse dipendenti. In essi dobbia-
mo vedere dei “pezzi di raccordo” che garantirono la formazione,
attorno alle loro mura, delle “nuove e vere città”; queste sì centri ur-
bani a pieno titolo, che nel XII secolo maturarono in ampiezza e in
richiesta di privilegi (libertates) quali esenzione dal teloneum, ammi-
nistrazione e magistrature proprie, insomma una fisionomia giuridica
precisa quanto inedita. Dal portus, dunque, dal mercato stabile, ele-
mento estraneo alla precedente organizzazione insediativa e sociale,
ecco farsi strada la città medievale fino ai suoi estremi sviluppi co-
munali. Ognuno vede, in questa ricostruzione, la forza riconosciuta
al mercato, assunto addirittura ad elemento genetico della città, del-
la sua originaria costruzione.
Sappiamo della ridotta preferenza di Pirenne per analisi pun-
tuali su singoli casi e della propensione per le teorie generali 2. Una  

propensione che, proprio sul fronte della storia urbana, è stata am-
piamente discussa e criticata dagli studiosi 3. Eppure non possiamo
 

certo dire che sia superata l’idea pirenniana che «la ville était avant
tout un concept économique» 4. Non citerò le varie posizioni di
 

Ganshof e di Mumford sulla valutazione di questo nesso; mi limiterò


di ricordare che anche Pini, che tanto ha indagato sulla città italia-

2 In qualche misura già preannunciata nel saggio L’origine des constitutions ur-
baines au Moyen Age, «Revue historique», LIII (1893), pp. 52-83 e circolante poi in
tutti i suoi scritti di storia urbana, raccolti nei tre volumi Les villes et les institutions
urbaines, Bruxelles-Paris 1939.
3 Per questo basti rinviare alle riflessioni di Jan Dhondt, Henri Pirenne:
historien des institutions urbaines, «Annali della Fondazione italiana per la Storia
amministrativa», III, 1 (1966), pp. 81-129, riprese poi da Ovidio Capitani nell’intro-
duzione a Pirenne, Le città, cit., pp. XVII-XVII.
4 F.L. Ganshof invitava a prenderne decisamente atto; cfr. la discussione intrat-
tenuta dal discepolo di Pirenne con Dupré-Theseider in La città nell’Alto Medioevo,
Spoleto 1959, p. 224. Un riduzionismo avversato da Mumford, che — quasi capo-
volgendo la tesi pirenniana, ma comunque ribadendo il nesso inscindibile tra città
e mercato all’interno della relazione fondamentale tra campagna e città — ebbe a
sostenere che la città è elemento genetico del mercato e non viceversa: «fu la rina-
scita della città murata che permise la riapertura delle rotte commerciali nazionali e
internazionali e che determinò la circolazione attraverso l’Europa dei beni in ecce-
denza…»: vd. L. Mumford, La città nella storia, trad.it., Milano 1963, p. 329.

196
Luoghi ed edifici di mercato

na e sulla sua economia, rigettando l’idea genetica di Pirenne (per


l’enfasi riservata ai casi fiamminghi, per il silenzio sul contesto ibe-
rico, per lo scarso peso riservato all’Italia) indicava, tra gli elementi
fondamentali che distinguono insediamenti da città, la dimensione
economica e specificamente quella commerciale 5. Nel mercato, dun-
 

que, se è giusta questa impostazione, calibrata sul contesto italico,


dobbiamo ravvisare un elemento non genetico, ma costitutivo del-
la città medievale. E questo perché città e mercato cittadino in Italia
esistono da sempre e da sempre costituiscono una realtà intrecciata.
Inoltre il mercato è elemento costitutivo, ma assieme ad altri elemen-
ti costitutivi parimenti importanti. Ma nel momento in cui definisco
il mercato elemento costitutivo della città medievale, a causa della
novità insita nel termine “città medievale”, devo riconoscere che il
nesso mercato-città si presenta nell’età medievale in termini nuovi.
Si tratta dunque di valutare l’emersione di un rapporto mercato-cit-
tà inedito e quindi di inseguire una genesi. Per questa novità, inoltre,
possiamo tranquillamente avvalerci della cronologia pirenniana,
giacché il XII secolo è davvero un discrimine.
Già nella prima età comunale infatti si manifestano intense
sollecitazioni economiche e, per conseguenza, istanze di regolamen-
tazione delle attività mercantili (così come di quelle produttive,
peraltro); da ciò il mercato deriva una grande evidenza. Evidenza
nell’aumentata mole delle testimonianze, prima di tutto; in partico-
lare in quelle tipologie di testimonianze che intendono porsi — pur
con finalità diverse — come specchi della realtà urbana nel suo com-
plesso; con differenze grandi, tuttavia, tra libri iurium e statuti da
un lato e, dall’altro, fonti culturali: laudes civitatum, cronache (un
genere sbilanciato sull’informazione politica) e testi letterari (tra i
quali però possiamo ricordare anche i più recenti ma utilissimi trat-
tati di urbanistica). La scarsità di notizie in certe tipologie di fonti
sembra riflettere, cioè, la sostanziale inferiorità delle attività mer-
cantili-artigianali nella costruzione ideologica delle rappresentazioni
fornite; una inferiorità che può essere ascritta a ragioni economico-
sociali (il peso ancora sostanzialmente limitato, in certi casi, degli
strati inferiori sulla scena politica cittadina), ma anche a più pro-

5 A.I. Pini, La città medievale, in Città, comuni e corporazioni nel medioevo ita-
liano, Bologna 1986, p. 17: «Il terzo elemento [dopo mura e vescovo] che caratterizza
la città medievale, è un’attività economica, sia artigianale sia e soprattutto commer-
ciale, molto più pronunciata di quanto avvenisse nella città romana.»

197
Roberto Greci

fonde ragioni culturali, quali l’incapacità dei ceti in ascesa sociale di


produrre modelli culturali alternativi, capaci di contrastare soprav-
vivenze ideologiche radicate.
Più che mai dunque il contesto italiano reclama il rifiuto di ogni
schematismo generalizzante per privilegiare il ricorso ad una co-
struzione di tipologie 6, a puntuali indagini economico-sociali — ma
 

anche politico-istituzionali — che tengano conto della rilevanza del


commercio nelle città, del rapporto della città con la campagna, de-
gli orientamenti economici delle classi sociali egemoni per ricchezza
e per pratiche di esercizio del potere 7. Il caso cremonese sottolinea
 

la continuità del ruolo economico della città, ravvisabile nella persi-


stenza di un ceto di cives forti di questi interessi economici; ma nel
contempo indica come questi interessi si pongano, tra X e XI se-
colo, topograficamente parlando, in un contesto non propriamente
urbano, in un’area portuale extracittadina, cioè, di difficile colloca-
zione, ma — pare — non vicinissima al nucleo della civitas di antica
ascendenza. Distanze a parte, sono i cives che garantiscono il solido
raccordo tra poli topografici lontani e differenti risolvendo questa
aporia pur sempre nella città. È che in città, nonostante la limitata
estensione dei centri, diverse sono le zone di interesse commerciale.
Basti ricordare le osservazioni che una trentina di anni fa muoveva
Carlo Guido Mor, sottolineando il ruolo delle porte cittadine e delle
curtes in esse ricomprese (Aosta, Torino, Verona), teso ad un effica-
ce controllo militare e fiscale dei transiti e degli scambi 8. Controlli
 

e prelievi esercitati anche nel luogo per eccellenza del mercato gior-
naliero, dislocato — nelle città italiane di ascendenza romana — nel
centrale spazio del foro, dove infatti si ritrovano torri con nomi di
ascendenza germanica erette per esercitare un diritto-dovere colle-
gato al luogo di mercato: quello di proteggere gli scambi (più avanti

6 Sulla scia di E. Ennen, Les différents types de formation des villes européen-
nes, «Le Moyen Age», LXII (1956), pp. 397-411.
7 Nel rispetto dell’idea volpiana che «tante città, altrettanti procedimenti di-
versi nella formazione del capitale, altrettanto diverse dosi nella quantità dei vari
elementi che vi concorsero, terra, industria, commercio del denaro o dei manufatti»
perché «il problema delle origini del moderno capitalismo non è suscettibile di una
soluzione unica»; cfr. G. Volpe, Medioevo italiano, Firenze 1961, p. 264.
8 C.G. Mor, Topografia giuridica: stato giuridico delle diverse zone urbane, in
Topografia urbana e vita cittadina nell’alto medioevo in Occidente, XXI Settimana
di Studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1974, I, pp.
333-350.

198
Luoghi ed edifici di mercato

nel tempo si parlerà di «custodia mercati») e quello di prelevare tas-


se collegate all’occupazione del suolo “pubblico” (Verona, Brescia,
Pistoia, Firenze, Lucca).
Se poi osserviamo Pavia, capitale prima politica e poi, in età
carolingia, anche amministrativa del Regnum 9, vediamo aggiungersi
 

numerosi magazzini, quelle famose cellae, documentate fino alla crisi


coeva alla distruzione del palatium (1024) che erano in parte concen-
trate in zone prospicienti le mura (dunque su aree fiscali) e in parte
disseminate per la città; ed anche le fiere di San Martino, esterne alle
mura, erano ubicate nella zona del palatium 10. Pur avendo funzio-
 

ni prevalenti di ospitalità e ricovero merci, le cellae erano comunque


raccordate al mercato, dove infatti gli enti proprietari si vedevano
riservati banchi per la vendita dei loro prodotti. È evidente una si-
tuazione multipolare che genera una rete di percorsi e di interessi sul
territorio cittadino destinata tuttavia a trovare una sintesi nel merca-
to vero e proprio. Quest’ultimo era quasi certamente ubicato sul sito
del foro romano, ma si presentava come frutto di modificazioni di un
certo rilievo. Le fonti pavesi, ad esempio, parlano di un foro cluso e
di un foro aperto, vicino ai quali era situato anche il «locus ubi beca-
ricia dicitur», antecedente di quello che, secondo il Bullough, sarà il
mercato di carne basso medievale, la beccaria maior. Hudson sotto-
linea l’estremo interesse di questa situazione, illuminata in parte dai
risultati della ricerca archeologica. La compresenza di un foro chiu-
so e uno aperto nel luogo del foro romano fa pensare alla progressiva
occupazione dello spazio antico da parte di edifici (case e negozi)
che lentamente delimitarono con grande evidenza lo spazio usato
per le attività commerciali di piazza. L’accesso al foro aperto, esente
da questa occupazione, continuava invece ad essere direttamente ga-
rantito dal lato meridionale del decumano massimo. Accanto a questi
spazi era ubicata anche la zecca, un edificio imponente che — nella
parte sud-occidentale dell’attuale piazza della Vittoria — si estende-
va a cavallo del decumano massimo 11. Continuità forte della qualità
 

9 P. Majocchi, Pavia città regia. Storia e memoria di una capitale medievale,


Roma 2008.
10 Cfr. P. Hudson, Pavia: l’evoluzione urbanistica di una capitale medievale, in
Storia di Pavia, II, Pavia 1987, pp. 237-315 (a p. 279sgg.).
11 L’estensione dell’area su cui insisteva l’edificio sarebbe comprovata dai to-
ponimi dell’XI secolo (in una carta del 1030 relativa alla chiesa di Santa Cristina
si parla del monastero «ubi moneta publica dicitur») e del Trecento (Opicino de

199
Roberto Greci

commerciale della zona centrale, dunque, pur nella trasformazione


profonda, che tende a configurare il mercato come un sistema com-
plesso destinato a una molteplicità di funzioni e di operazioni.
Non molto dissimile, su questo, il caso parmense, ove, in età
precomunale, il mercato periodico (fiera di S. Ercolano) trovava
spazio nel Prato Regio, un’area fiscale collocata fuori dal tracciato
settentrionale delle mura, in posizione strategica per i collegamen-
ti col Po, vicino alla cattedrale, saldamente controllata dal vescovo
detentore di un’autorità para-comitale. Nel caso parmense la città
poteva disporre di diversi mercati regolari: il mercato presso il foro,
di spettanza del monastero di S. Paolo, e quello addossato alle mura
nord-occidentali, di spettanza dei monasteri di S. Bartolomeo e di S.
Alessandro. Dunque siamo in presenza di una pluralità di enti, che
potevano disporre di spazi originariamente pubblici, dal momen-
to che entrambe queste fondazioni vantavano una fondazione regia.
L’apparizione e il consolidamento del comune, alla fine, dovrà fare
i conti con questa molteplicità di soggetti per cercare di ricondurre
all’unità, rendendo il mercato in senso proprio cittadino, la situazio-
ne precedente. Nel caso parmense il processo — risalente al primo
Duecento in concomitanza con il progressivo distaccarsi (anche sot-
to il profilo della topografia urbana) del comune da quell’autorità
vescovile alla cui ombra si era sviluppato — comportò l’acquisizione
degli spazi destinati a disegnare la Piazza grande e cioè un robusto
sforzo di progettualità alternativa e un cospicuo esborso di danaro,
ma poté anche contare, per quanto riguardava gli spazi destinati ai
mercati periodici, su un po’ di fortuna. Un’esondazione del torrente
che attraversava la città liberò infatti, in modo imprevedibile, un’am-
pia zona golenale (la Ghiaia) che venne in seguito sostituendosi,
non senza fatica, al mercato vescovile del Prato regio di ascenden-
za alto-medievale 12. Resta confermato che, al pari delle accelerate
 

Canistris, infatti, ricorda la chiesa di S. Nicolò in moneta); Hudson, Pavia, cit., p.


288.
12 Nel 1227, quindi, il comune decretò lo spostamento delle più imponen-
ti attività mercantili e fieristiche «in glarea Parmae», «ita quod draparia et aliae
mercimoniae ibi collocentur». Il luogo era strategico perché corrispondeva al pun-
to di ingresso della via Emilia in città (dal lato occidentale) e al raccordo della via
Emilia, nel suo tratto urbano con l’imbocco dell’itinerario transappenninico della
via Francigena; cfr. R. Greci, Luoghi di fiera e di mercato nelle città medievali del-
l’Italia padana, in Studi in onore di Gino Barbieri, II, Verona 1983, pp. 943-966, a
p. 953.

200
Luoghi ed edifici di mercato

trasformazioni politico istituzionali, la questione che qui ci interessa


vede una cesura netta tra XII e XIII secolo.
E uno sviluppo ancor più complesso è riscontrabile a Piacenza 13.  

Da una piazza polivalente (religiosa, ma anche commerciale poiché


di sabato si vendono in essa alimentari, tessuti, pellami e negli altri
giorni pesce e vino) sottoposta al controllo del vescovo detentore di
privilegi imperiali, si passa progressivamente ad una situazione in cui
è possibile cogliere forme di concorrenza (con momenti di aspre con-
tese) tra chiesa, comune e paratici, sempre più attivi, questi ultimi,
nell’amministrazione della giustizia mercantile, nel prelievo fiscale,
nel controllo dei comportamenti spettanti alle attività commerciali.
Solo ad un certo momento vediamo il comune in grado di procedere
alla definizione degli spazi commerciali della piazza, distinti in co-
perti e scoperti, nonché il tempo entro il quale dovevano svolgersi le
attività mercantili, scandito dal suono di una campana. Un’incipiente
egemonia che, nel XV secolo, avrebbe lasciato spazio ad una sorta di
gestione gerarchizzata di questo centrale spazio commerciale: il co-
mune assegnava blocchi di punti vendita alle corporazioni che, a loro
volta, li avrebbero destinati ai singoli commercianti. Continuavano
ciononostante ad esistere momenti decentrati delle attività commer-
ciali. La platea Burgi, ad esempio, che ci appare come il primo vero
quartiere commerciale urbano, in origine si trovava al di fuori della
città, in un punto di convergenza di importanti vie di comunicazione,
vicino a chiese e ad aree cimiteriali. Sede nel IX secolo di una fiera fa-
cente capo al monastero di S. Sisto, vide, nel corso del secolo XII, lo
sviluppo di una fiorente industria tessile, anche per la presenza di un
corso d’acqua indispensabile alla manifattura. Qui fu la Mercanzia,
intesa come federazione dei paratici, che si assunse il ruolo di sogget-
to regolatore del mercato, un mercato che registra l’esistenza di una
torre e la progressiva formazione di una platea — sulla quale si effet-
tua la vendita dei panni, ma — nella giornata del mercato anche di
generi alimentari e di legname 14 — con tanto di portici e osterie.
 

13 Vd. A. Zaninoni, Piazze e mercati a Piacenza (secoli IX-XV), in Spazio urba-


no e organizzazione economica nell’Europa medievale, Atti della Session C3, Eleventh
International Economic History Congress (Milano, 12-16 settembre 1994), a cura
di A. Grohmann, in «Annali della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di
Perugia», 29 (1993-94), pp. 267-284; ma, in particolare, A. Zaninoni - M. Spigaroli,
Il secondo medioevo, in Piacenza. La città e le piazze, a cura di M. Spigaroli, Piacenza,
s.a., pp. 39-89 (a p. 49sgg.).
14 Ivi, p. 54.

201
Roberto Greci

Trasformazioni e continuità, diffusione e accentramento sono


parimenti ravvisabili nel caso ravennate, reso anche più comples-
so dagli scali collegati all’unico porto cittadino (Vidicla) collocato
sul Badareno. Esso era ubicato fuori porta S. Anastasia (poi «por-
ta Serrata») nell’unico (fino al Duecento) e precoce burgus Ravenne
che includeva il monastero di S. Maria della Rotonda (Mausoleo di
Teodorico). Qui si addensavano i magazzini del sale, estratto in loco,
ma anche i depositi delle merci e gli uffici della dogana o catena e i
carichi giunti per via di terra; qui avveniva il pagamento dei dazi pri-
ma che le merci raggiungessero il terminale del mercato cittadino.
Quest’ultimo, in realtà, era un sistema complesso di luoghi diversi,
sia per tipologia (giornaliero, settimanale, periodico) sia per specia-
lizzazione (pesce, carne, pollame e selvaggina, ortaggi, grano, abiti
ecc.). Ulteriore complicazione venne dallo spostamento, avvenuto a
metà del XIII secolo, del palazzo pubblico, che — come sappiamo —
vive solitamente in simbiosi con i luoghi di mercato per le facilmente
comprensibili ragioni di controllo fiscale. Il suo trasferimento dalla
zona dell’arcivescovato (sul campo di fronte alla basilica Ursiana) alla
zona in cui anche ora è situato, comportò lo spostamento del merca-
to giornaliero. Nel vecchio sito, di proprietà arcivescovile, sappiamo
dell’esistenza di un edificio dei canonici chiamato «Tricoli», il cui
nome sembra chiaramente rinviare all’esistenza di un punto di ven-
dita stabile per venditori di pollame, di formaggi, di frutta e verdura.
Accanto a questo edificio dei canonici era inoltre situata la sede del
tribunale arcivescovile, la cui denominazione («Palatium Mercurii»)
sembra rinviare anch’esso alle attività mercantili. Questo complesso
si disarticolò tra 1253 (quando il mercato del sabato era ancora situa-
to nel solito campus communis presso la basilica Ursiana) e il 1262,
quando la primitiva sede del mercato comunale, perdendo significa-
to poteva essere assegnata dall’arcivescovo ai canonici (il broilum in
cui «quondam fiebat forum sabbati») 15. Se nel periodo precedente,
 

dunque, il mercato giornaliero, situato presso enti ecclesiastici, era


stato elemento di attrazione per le nuove istituzioni comunali, ora si
verificava il contrario; ora sono i palazzi del nuovo potere che attrag-

15 Per Ravenna in età comunale e signorile, vd. L. Mascanzoni, Edilizia e ur-


banistica dopo il Mille: alcune linee di sviluppo, in Storia di Ravenna, III, Dal Mille
alla fine della signoria polentana, a cura di A. Vasina, Venezia 1993, pp. 395-445, a
p. 434sgg. Ma, per un inquadramento più generale, vd. anche C. Giovannini - G.
Ricci, Ravenna, Bari 1985.

202
Luoghi ed edifici di mercato

gono il luogo di mercato.


Dinamiche analoghe si riscontrano a Milano, in cui l’edificazio-
ne del nuovo broletto, stando agli ordinamenti del podestà Aliprando
Fava del 1228, determinò lo spostamento del mercato del grano, pri-
ma ubicato presso la cattedrale. Che la finalità fosse quella di attrarre
le attività mercantili — specie le compravendite di generi annona-
ri — su spazi di proprietà civica, è evidente anche nella costruzione
di una pescheria comunale o maggiore, destinata a concorrere con il
mercato del pesce, anch’esso fino ad allora svolto su terreno vesco-
vile, presso Santa Tecla. Sono operazioni che sottendono un forte
significato “ideologico”, di rafforzamento istituzionale dell’autorità
comunale, la quale si pone non solo come erede delle funzioni pub-
bliche (in questo caso quelle connesse al mercato), ma anche come
garante del bene comune e dell’equità degli scambi. Nella pescheria
comunale milanese, dotata di loggiato sotto il quale passava la stra-
da che dal Broletto andava a Santa Tecla, infatti, dovevano essere
conservati pesi e misure. Si andava davvero costruendo un legame
evidente e forte tra la nuova piazza del comune e i luoghi di mercato,
che contribuiva a generare un modo nuovo di sentire la città 16.  

Ma ritornando al caso ravennate, non potremo dimenticare che


in questa città, oltre al regolare mercato urbano, esisteva il mercato
del Borgo (1227) 17. La distinzione tra i due luoghi è chiara negli sta-
 

tuti del 1253: il primo era riservato alle merci trasportate via terra e
soprattutto ai generi annonari, nella fattispecie i cereali, frutta, ver-
dura, pollame, selvaggina, formaggi, generi solitamente trasportati e
venduti in città dai rustici; il secondo, quello del Borgo appunto, era
destinato invece alle merci “navigate”, cioè trasportate per via d’ac-
qua. L’area del Borgo era — o divenne — anche il luogo deputato
alle fiere periodiche, volute dal comune poco prima del 1184 («mer-
cato noviter constituto, videlicet in festivitate S. Michaelis»), i cui
ufficiali (che a metà Duecento saranno 2, tratti significativamente e
con logica tutta politico-istituzionale dal ceto dei milites e dal ceto
del populus) dovevano assegnare nell’occasione stationes e tabernae
rispettando un ordine di precedenza comunque detto, significati-

16 E. Salvatori, Spazi mercantili e commerciali a Milano nel Medioevo: la voca-


zione del centro, in Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medievale,
cit., pp. 243-266.
17 A.I. Pini, L’economia “anomala” di Ravenna in un’età doppiamente di transi-
zione (secc. XI-XIV), in Storia di Ravenna, III, cit., pp. 509-554 (p. 531).

203
Roberto Greci

vamente, consuetudinario; questo può fare pensare più che ad una


invenzione ad una ristrutturazione dell’attività fieristica. Tali ufficiali
dovevano infatti riscuotere con una sistematicità inedita i dazi e ga-
rantire l’ordine applicando, nel caso, le dovute multe 18.  

Questa situazione “mista”, fatta di continuità e di innovazioni


e di una pluralità di luoghi, trova, in certi casi, una sintesi, una sin-
tesi che tuttavia non si risolve mai in un drastico accentramento, ma
semmai in una coerenza derivante da un consapevole principio or-
dinatore. Uno studio di Massimo Montanari relativo alla situazione
imolese, ci presenta un vero e proprio sistema di piazza, intenden-
do con questo termine un agglomerato di «spazi pubblici destinati
a usi di pubblica utilità, gestiti e protetti con particolare attenzio-
ne» 19. Luoghi aperti di mercato, strutture per i mercati specializzati
 

(ad esempio quello del pesce) a fianco di portici e di agglomerati di


botteghe, vengono ricompresi tutti nel termine platea, che dunque
non corrisponde propriamente all’accezione odierna, ma designa
diverse zone (più o meno regolari) collegate alla piazza principale;
un insieme dalla funzionalità poliedrica, dotato nella sua totalità di
un simbolismo civico forte, quasi sacrale, in cui persiste una emi-
nente valenza commerciale e in cui si situano — entro nuovi spazi
ora appositamente individuati (San Lorenzo) — anche le sedi delle
istituzioni comunali. Nel XIV secolo questo sistema solleciterà misu-
razioni precise, “millimetriche”, per scopi ancora una volta di natura
giudiziaria più che urbanistica. Entro questi confini — frastagliati
e differenziati — vigono infatti pene quadruplicate rispetto a quel-
le ordinarie e norme straordinarie di controllo igienico. Procedure,
queste, che ritroviamo, a fine Duecento, in altri centri urbani ben
documentati: a Vicenza, ad esempio, col Regestum possessionum
(1262) 20 o a Bologna col Liber Terminorum (1294) 21.
   

Conferme e ulteriori riflessioni sollecita la descrizione trecente-


sca di Pavia tramandataci da Opicino de Canistris, nella quale spazi
diversi in luoghi diversi ospitano mercati differenziati per generi

18 Ivi, p. 532.
19 M. Montanari, Le piazze, i portici: un mito cittadino, in Imola, il comune, le
piazze, a cura di M. Montanari - T. Lazzari, Imola 2003, pp. 11-25.
20 Il «Regestum possessionum comunis Vincencie» del 1262, a cura di N.
Carlotto - G.M. Varanini, Roma 2006.
21 J. Heers, Espaces publics, espaces privés dans la ville: le liber terminorum de
Bologne (1294), Paris 1984.

204
Luoghi ed edifici di mercato

venduti e per tipologia di mercato. Come se le aumentate esigenze


della città, partendo dai luoghi tradizionali delle attività dei com-
mercianti, spingessero i mercati e le loro espansioni intus, subtus, in
circuitu, retro, ante a quei complessi architettonici nelle cui vicinanze
si erano radicati senza stravolgere per questo l’impianto urbanisti-
co 22, ma certo creando problemi e frizioni tra la varietà di soggetti
 

interessati alla gestione degli spazi economici. Proprio a Pavia le cre-


scenti necessità fecero emergere, nella seconda metà del Duecento,
conflitti tra il comune e le corporazioni (nello specifico il paratico
dei pattari o venditori di vesti usate) che solevano prendere in affit-
to dal vescovo la terza parte della piazza di San Savino (prossima al
palatium comunis) per affittarla a loro volta, tramite i consoli, ai sin-
goli commercianti che in essa avrebbero disposto i propri loca 23. Nel  

1267, però, il comune, che si presentava come soggetto eminente


nell’organizzazione dei luoghi di mercato, concedeva ad una societas
di venditori di panni usati, che non faceva parte del paratico dei pat-
tari, il permesso di vendere le loro merci in qualsiasi giorno, in platea
de atrio Sancti Syri e ovunque in città, innescando così una lite giudi-
ziaria con la corporazione che si riteneva lesa nei propri diritti 24.  

Tendenze simili si determinano anche a Brescia, dove pure ap-


paiono più coraggiose velleità progettuali già alla fine del XII secolo;
è del 1173, ad esempio, la creazione ex novo su rovine romane e
ortaglie di una vasta piazza del mercato (il Mercato Nuovo e Foro
Fortunato, ora Piazza Brusato) 25. I luoghi di mercato, comunque,
 

anche in questo caso, non vengono pensati come elementi di sovver-


timento dell’impianto regolare della città; vengono piuttosto collocati
al centro o ai margini di giunzione delle squadre, di cui potevano

22 Cfr. Greci, Luoghi di fiera, cit., pp. 959-60; cfr. Anonymi Ticinensis, Liber de
laudibus civitatis Ticinensis, a cura di R. Maiocchi - F. Quintavalle, Città di Castello
1903 (Rerum Italicarum Scriptores, Raccolta degli storici italiani dal Cinquecento
al Millecinquecento ordinata da L.A. Muratori, XI/I), pp. 18-19, 26, 28, 44, 48-49 e
F. Gianani, Opicino de Canistris, l’Anonimo Ticinese: Cod. Vaticano palatino latino
1993, Pavia 1927, p. 117. Più in generale, vd. D. Vicini, Lineamenti urbanistici dal
XII secolo all’età sforzesca, in Storia di Pavia, III, Pavia 1996, pp. 9-81.
23 La consuetudine è documentata da un contratto del 1276; cfr. R. Soriga,
Sulle corporazioni artigiane in Pavia nell’età comunale, «Bollettino della Società
Pavese di Storia Patria», 15 (1915), pp. 91-93.
24 Vd. R. Crotti, Economia e strutture corporative tra medioevo ed età moder-
na. Il caso pavese, Milano 2005, p. 58.
25 Storia di Brescia, Brescia 1961, I, p. 277 e III, p. 1075sgg.

205
Roberto Greci

tutt’al più favorire l’estensione modulare. Né si arriva a ideare uno


spazio unico, evidentemente per la forza della tradizione, oppure per
la vischiosa persistenza di antichi interessi collegati a soggetti diver-
si. Così, nei due secoli seguenti, troviamo continuamente altri punti
di mercato in città: l’antico horreum sempre funzionante, il merca-
tum fori, il mercato nuovo “in castello” (1218), la platea sive mercatus
Arcus (1313), senza parlare di mercati specializzati: quello del be-
stiame (porta Paganora), quello delle beccherie (del Ponticello, sec.
XIII), quello del lino (o dei Rabotti, sec. XIV), quello del pesce (pla-
tea publica pescariorum sita a mane parte Broleti, sec. XV). E ciò non
accade neppure a Mantova, ove i decisi interventi di razionalizzazio-
ne sono chiaramente da collegarsi all’affermazione e al radicamento
dei poteri signorili. Purtuttavia la progettualità risulta sempre molto
concreta e rispettosa delle tradizionali vocazioni delle aree urbane,
quasi cauta direi, con l’eccezione, tra Due e Trecento, della risiste-
mazione dell’area compresa tra piazza delle Erbe e il Rio, la quale
determinò effettivamente l’ampliamento del cuore economico della
città, ma solo grazie agli esiti — imprevedibili — delle lotte di fazio-
ne, che determinarono utili guasti nel centro cittadino (così vicino a
S. Lorenzo poterono sorgere il palazzo e la torre del sale, la zecca e
il purgo delle lane) 26. 

Potremmo continuare a presentare casi singoli, magari tornan-


do a quanto ho avuto occasione di rilevare in un precedente saggio
ed arricchendo quelle mie riflessioni con una più ricca presentazio-
ne di situazioni, ora possibile grazie alla comparsa, in anni recenti,
di molte storie cittadine che regolarmente trattano questo tema.
Possiamo ricordare i numerosi studi su Bologna, su Milano, su Siena,
su Roma 27. Ma credo che ciò ci condurrebbe verso un descrittivismo
 

esasperato; inoltre la scarsità del tempo penalizzerebbe ingiustamen-


te l’importanza di questi studi.

26 M. Vaini, Dal comune alla signoria. Mantova dal 1200 al 1328, Milano 1986,
pp. 22sgg.
27 Per Bologna, vd. A.I. Pini, Le piazze medievali di Bologna, «Annali di archi-
tettura», 4-5 (1992-93), pp. 122-133; F. Bocchi, Bologna nei secoli IV-XIV. Mille anni
di storia urbanistica di una metropoli medievale, Bologna 2008; per Milano, vd. P.
Grillo, Milano in età comunale (1183-1276). Istituzioni, società, economia, Spoleto
2001, cap. IV, p. 177sgg.; per Siena, vd. D. Balestracci, Approvvigionamento e di-
stribuzione dei prodotti alimentari a Siena nell’epoca comunale. Mulini, mercati e
botteghe, «Archeologia medievale», VIII (1981), pp. 127-154; per Roma, vd. I. Ait,
Il commercio delle derrate alimentari a Roma, ivi, pp. 155-172.

206
Luoghi ed edifici di mercato

Mi limiterò a citare il caso pisano perché è significativo che in


questa città il termine mercato (definizione secca ed inequivoca) ap-
paia, a metà dell’XI secolo, come strumento topografico primario
per collocare con precisione, in Foriporta, un edificio religioso, la
chiesa di San Iacopo 28. In questa zona, che in seguito continuerà ad
 

essere la sede delle attività commerciali cittadine, evidentemente si


teneva già il mercato, capace di attrarre una considerevole varietà
di attività commerciali (riguardanti generi prevalentemente alimen-
tari), di porsi per questo come zona centrale del contesto urbano e,
quindi, di qualificare col suo nome non solo la chiesa, ma anche altre
e più laiche emergenze architettoniche (torri) nonché gruppi fami-
liari ivi residenti. Nel frattempo, o meglio qualche decennio dopo,
nella documentazione appaiono chiese in cui si radunano (e vici-
no alle quali esercitano il proprio mestiere) particolari artigiani (San
Sebastiano «de Fabricis», San Lorenzo dei Pellicciai) o venditori di
generi specifici (San Martino d’Arno o «de Piscibus» chiesa presso la
quale, lungo il fiume, si svolgeva la vendita del pesce).
Ma nonostante questa diffusione “specialistica”, il luogo di
mercato dedicato alla generalità dei beni alimentari conservava la
sua preminenza, nell’area posta sulla riva dell’Arno, in corrispon-
denza con il ponte Vecchio (oggi di Mezzo): un punto che, per varie
ragioni, evoca interessi pubblici e nel quale, di lì a poco (1162), a
conferma di ciò, vedremo agire per la prima volta i consules merca-
torum, espressione di un sicuro e ufficiale intervento comunale in
questo specifico contesto. Presso il mercato (per eccellenza), di fron-
te a San Clemente e prima del mercato del pesce di San Martino,
si trovava la piazza del Grano, punto di convergenza di tradiziona-
li interessi proprietari e daziari dell’Opera del Duomo, rafforzati da
interventi normativi dell’autorità imperiale (Federico I, 1178) inte-
si a preservarla dall’indiscriminato dilagare delle costruzioni; ma è
comunque doveroso ricordare anche qui una sempre più ravvicina-
ta presenza dell’autorità comunale, intenta a controllare il tratto di
Lungarno da San Pietro in Vincoli al cantone di San Martino (1162 e
1164), che era venuto ospitando un diffuso e ancora non facilmente
controllabile mercato ambulante, e ad incrementare, tramite op-
portune esenzioni fiscali (1154), le «nundinae» del 6 agosto, che si

28 Vd. G. Garzella, Pisa com’era: topografia e insediamento dall’impianto tar-


doantico alla città murata del secolo XII, Napoli 1990, p. 195 e p. 200sgg.

207
Roberto Greci

tenevano nei pressi della chiesa civica di San Sisto, un’area per tra-
dizione deputata ad ospitare le sedi del potere pubblico in città. Il
Comune, d’altronde, garantiva anche la percorribilità del pons Sarni
sul quale sorgevano alcune botteghe concesse dai consoli cittadini ai
fiorentini dimoranti in Pisa assieme ad una domus, appositamente ri-
servata a questa presenza mercantile forestiera, ubicata nella zona
mercantile di Foriporta (1171).
La pluralità di punti di riferimento, di soggetti, di poteri gra-
vitanti sulle aree di mercato, ancora presenti in piena età comunale
lascia dunque spazio ad una decisa e inequivoca iniziativa pubblica.
Mi soffermo ora anche sul caso di Torino, che mi pare degno
di nota perché solitamente poco considerato. Siamo alla presenza, in
questo caso, di una città che, in età medievale, appare ancora limi-
tatamente sviluppata dal punto di vista produttivo e commerciale e,
quindi, potenzialmente diversa dai molti altri centri centro-settentrio-
nali più precocemente e più celermente tese allo sviluppo economico
e demografico. Eppure anche in questo caso abbiamo tracce di si-
tuazioni tutto sommato sintoniche rispetto al quadro generale. Se
è vero che, come suggerisce Settia, le «presunzioni di continuità,
proposte in passato con eccessiva disinvoltura, devono essere […]
sempre accolte con somma cautela sia per le strutture materiali sia,
a maggior ragione, per i fatti istituzionali» 29, anche qui riscontriamo
 

interazioni tra diversi soggetti, modificazioni di assetti materiali, ma


pur sempre una costante capacità di attrazione di alcune aree urba-
ne “naturalmente” privilegiate. Infatti, dall’XI secolo, il mercato, al
pari di mura, porte, chiese è attestato come un punto di riferimento
topografico efficace, qualificandosi anch’esso, cioè, come uno spa-
zio pubblico. Anche qui, come in altri contesti urbani, ritroviamo la
“torre del mercato”, forse coincidente con la torre che dominava la
vicina «curia grani» (si tratta di una delle rare torri menzionate, nel
Duecento, dai documenti) a testimonianza di una forte concentra-
zione delle attività e degli spazi mercantili e, quindi, di uno speciale
bisogno di controllo. Sappiamo che metà del mercato torinese era,

29 Per Torino, vd. A.A. Settia, Fisionomia urbanistica e inserimento nel territo-
rio (secoli XI-XII), in Storia di Torino, I, Dalla preistoria al comune medievale, a cura
di G. Sergi, Torino 1997, pp. 799sgg.; R. Bordone, Vita economica del Duecento, ivi,
pp. 759sgg.; M.T. Bonardi, L’organizzazione degli spazi urbani, in Storia di Torino,
II, Il basso medioevo e la prima età moderna (1280-1536), a cura di R. Comba, Torino
1997, pp. 7-21.

208
Luoghi ed edifici di mercato

all’inizio di questo secolo, nelle mani del monastero di Nonantola,


ma sappiamo anche che negli anni Trenta i diritti dell’ente religioso
passarono ai conti di Pombia e poi alla famiglia marchionale torine-
se, poteri da tempo attratti dal luogo e dalle attività in esso svolte. È
vero che la zona vedeva la presenza di diversi enti religiosi per l’ovvio
motivo che nel mercato cittadino si intravvedeva il luogo deputato
allo smercio della produzione agricola delle grandi proprietà (per
questo le sedi di diverse famiglie facoltose, nonostante il ricambio
dovuto alle alterne fortune politiche due e trecentesche, avrebbero
continuato ad insistere in quest’area), ma è anche vero che il fulcro
di questo spazio “pubblico” sarebbe stata la «platea fori comunis
Taurini»; dalla attuale piazza Palazzo di Città i punti di vendita si sa-
rebbero limitati a sconfinare nelle piazze minori ad essa adiacenti e
nelle vie più centrali del nucleo urbano, occupando parte del suolo
pubblico.
Tutto ciò farà sì che il comune non avrà esitazione a dettare nor-
me tendenti a disciplinare la disordinata esuberanza dell’iniziativa
privata in zona (ad esempio tollerando solo portici sufficientemente
spaziosi per consentire il passaggio di cavalcature e di carri), a rea-
lizzare opere di pubblica utilità (quali la pavimentazione dell’area di
mercato, lo scavo di canali per lo scorrimento delle acque 30), a riba-  

dire la pubblicità delle aree tramite perimetrazioni idonee e, ancora


una volta, tramite la presenza vigile della torre. È da questo nu-
cleo forte che si dipanano gli ulteriori spazi mercantili e si allarga il
controllo delle autorità comunali: a fianco del mercato e della curia
del grano, ecco che appaiono luoghi deputati alle beccherie (vendi-
ta di carne macellata) e alle caligarie (vendita di calzature). Su queste
escrescenze e sui banchi di vendita di proprietà di privati, il comune
non esiterà, in caso di pubblica necessità, ad intervenire esproprian-
do, indennizzando, imponendo l’accorpamento dei nuovi esercizi.
Pur se nelle beccherie, che occupavano uno spazio precisamente
individuato dal comune, insistevano spazi commerciali posseduti di-
rettamente da esercenti o da possidenti che li affittavano ad esercenti
(e ciò, ancor più frequentemente, riguardava anche i forni), il co-

30 La presenza di canali in area di mercato è chiaramente funzionale alle ope-


razioni di pulizia dell’area destinata alla presenza di punti di vendita; per questi
aspetti, così come per gli interventi di pavimentazione, vd. R. Greci, Il controllo
della città: l’ufficio dei fanghi e strade a Bologna nel XIII secolo, «Nuova Rivista
Storica», 47 (1989), pp. 119-124.

209
Roberto Greci

mune, a seguito dell’assenza di strutture corporative, dovette essere


l’unico ente di riferimento per regolamentare la pluralità degli inte-
ressi privati altrimenti non coordinabili. In un’economia locale in cui
il grande commercio e le attività artigianali erano scarse se non as-
senti (pur in assenza di concentrazioni coatte delle attività, di fatto la
quasi totalità dei punti vendita era ubicata nella zona del mercato),
i proventi derivanti dal commercio quotidiano, fosse esso di generi
alimentari o di beni comunque indispensabili quali calzature e abiti,
erano necessariamente ambiti dall’ente pubblico, interessato a gestire
gli spazi di mercato e a preservarne la concentrazione, comoda sotto
il profilo amministrativo. E ciò è confermato dalla stabilità dei luoghi
e degli assetti degli spazi riservati al mercato. Ancora nella seconda
metà del Trecento, nella stessa area commerciale di Porta Doranea
ritroviamo le strutture porticate delle beccherie e delle pescherie, i
settori “specializzati” per la vendita di grano, generi commestibili,
calzature. Solo per ovvie necessità logistiche gli spazi per il merca-
to settimanale del bestiame (piazza del Duomo) e degli asini (chiesa
di San Simone) e per le fiere periodiche (San Giorgio di aprile e
Ognissanti di novembre) venivano collocate in aree extraurbane.
Si tratta di situazioni urbanistiche e di dinamiche ammini-
strative rinvenibili in centri a minore proiezione urbana, ove, pur a
dimensioni mutate, si ritrova puntualmente il modello prevalente e
cioè il mercato ubicato nelle piazze centrali a testimonianza di persi-
stenze d’uso, di processi omogenei o, nel caso di centri di più recente
impianto, di circolazione di modelli consolidati utili per confermare
la funzionalità del modello. A tal fine basti guardare a centri tan-
to dell’Italia settentrionale (Crema, Cherasco, Borgo San Donnino),
quanto dell’Italia centrale (Fabriano, Borgo San Sepolcro) 31.  

Accennando, come si è fatto per Pisa, a luoghi di vendita e a

31 Per Crema, vd. D. Edallo, Crema: la formazione del tessuto urba-


no, in L’immagine di Crema. 1. La città, Crema 1995, pp. 13-100, a p. 42sgg.; per
Cherasco, vd. I. Naso, Attività economiche e sistemi produttivi a Cherasco fra Tre e
Quattrocento, in Cherasco. Origine e sviluppo di una villanuova, a cura di F. Panero,
Cuneo 1994, pp. 177-192, a p. 183sgg.; per Borgo San Donnino, vd. R. Greci, Tra
Emilia e Toscana. Borgo San Donnino e la ricerca di una dignità cittadina, in Quel mar
che la terra inghirlanda. In ricordo di Marco Tangheroni, a cura di F. Cardini - M.L.
Ceccarelli Lemut, Pisa 2007, II, pp. 419-448; per Fabriano, vd. F. Pirani, Fabriano
in età comunale. Nascita e affermazione di una città manifatturiera, Firenze 2003, pp.
27, 34sgg.; per Borgo San Sepolcro, vd. G.P.G. Scharf, Borgo San Sepolcro a metà
del Quattrocento. Istituzioni e società, 1440-1460, Firenze 2003, p. 171sgg.

210
Luoghi ed edifici di mercato

botteghe situate su ponti, non possiamo non pensare a situazioni fa-


mose e ancora vive, ad esempio, a Firenze o a Venezia. Emblematico
il caso veneziano ove, tra 1200 e 1250, in sostituzione di un ponte di
barche assai frequentato che collegava la Loggia dei Mercanti con
l’antico fondaco pubblico, venne eretta una «macchina lignea» sul
Canal Grande, destinata a diventare sede di molti venditori esclu-
si dai luoghi di mercato tradizionali, di fatto monopolizzati, col
consenso dei pubblici poteri, dalle associazioni di mestiere. Siamo
dunque di fronte ad una situazione creatasi per spontanea necessità,
divenuta poi definitiva per i vantaggi sia dei commercianti sia delle
casse della Repubblica e alla fine risoltasi, nella prima età moderna,
in una soluzione urbanistico-architettonica monumentale perfetta-
mente coerente con il contesto delle arcate delle Fabbriche Vecchie
del mercato di Rialto e perfino esportata. Ma si tratta di una soluzio-
ne non totalmente inedita se guardiamo a Firenze, dove la muratura
di Ponte Vecchio precedette di ben oltre due secoli quella di Rialto;
realizzato nel 1345 dopo dodici anni di lavori, il ponte fiorentino
previde fin da subito la presenza di botteghe, fino ad allora limitate
(come nel caso pisano sopracitato) alle due testate, ai lati opposti del
fiume. Anche i questo caso il progetto, del tutto consapevole, ave-
va il merito di garantire da subito al Comune una cospicua rendita
annua (80 fiorini d’oro) 32. Si tratta di soluzioni “monumentali” che
 

preannunciano, in qualche misura, la soluzione “estetica” degli spa-


zi commerciali (o meglio delle più decorose attività commerciali) che
troverà spazio nella trattatistica architettonica ed urbanistica di età
rinascimentale 33. 

Da queste rapide e non esaustive esemplificazioni emergono già,


in ogni caso, alcune considerazioni, certo non nuove, ma che è utile
ribadire. Prima considerazione: una basilare distinzione tra mercato
quotidiano o settimanale (per i bisogni primari della popolazione ur-
bana, per il consumo diretto) radicato sicuramente in città e spesso

32 D. Calabi, Il fiume nelle grandi città commerciali di età moderna, in La cit-


tà e il fiume. Secoli XIII-XIX, a cura di C. Travaglini, Roma 2008, pp. 137-146, a p.
140sgg.; vd. anche R. Cessi - A. Alberti, Rialto. L’isola, il ponte, il mercato, Bologna
1934.
33 Si veda L.B. Alberti, L’architettura (De re aedificatoria), a cura di G.
Orlandi - P. Portoghesi, Milano 1966, II, p. 714 e A. Averlino (il Filarete), Trattato
di architettura, a cura di A.M. Finoli - L. Grassi, Milano 1972, I, pp. 279-280;
per un commento ai contenuti di questi passi, vd. Greci, Luoghi di fiera, cit., pp.
964-965.

211
Roberto Greci

addirittura continuativamente sul luogo dell’antico foro romano, e


raduni periodici per il commercio di generi grossi o rari, ubicati pre-
valentemente fuori città, dove esistevano spazi che la città medievale,
contratta e sempre più affollata, non poteva certo garantire. Seconda
considerazione: chiaro ruolo in tutti i casi dell’autorità pubblica che
risulta essere — almeno all’origine — proprietaria degli spazi e alla
quale quindi spesso risale l’assetto dei luoghi di mercato che ritro-
veremo “ereditati” dall’autorità pubblica anche in età comunale. La
dissipazione o meglio il trasferimento dei pubblici poteri connessi
originariamente al mercato nelle mani di soggetti diversi passa spes-
so attraverso i rapporti privilegiati della autorità regia con i poteri
monastici ed episcopali, capaci di gestire in loco i problemi connes-
si alle attività mercantili (assenti o deboli i funzionari pubblici), ma è
anche collegata alla disponibilità di ampi spazi derivanti agli enti dal-
le concessioni sovrane. In ogni caso, per le vicende dei rapporti tra
istituzioni comunali ed autorità comitali o vescovili, il filo rosso del-
la pubblicità di questi spazi non si perde e può riapparire in tutta la
sua pienezza nell’età comunale.
Tuttavia possiamo anche dire che, già in età precomunale, as-
sistiamo ad un impianto razionale nella dislocazione/organizzazione
degli spazi commerciali e che in certe realtà, quelle in cui enti religio-
si od ecclesiastici o l’autorità vescovile avevano conservato — come
proprietari e gestori degli spazi — un ruolo importante e ricono-
sciuto, si evidenziano difficoltà da parte del comune ad assorbire
un ruolo già ben assestato, ma soprattutto a mettere in discussione
la tradizionale vocazione degli spazi riservati alle attività di merca-
to. Possiamo ricordare il caso veronese: nel 1220 le monache di S.
Michele si vedevano riconosciuti i diritti di teloneo pro stazonatico da
parte di Federico II (consistenti in 12 o 6 denari per ciascuna delle
stationes che la badessa approntava per i mercanti o per ciascun po-
sto sul quale i mercanti avrebbero provveduto da sé a erigersi i punti
di vendita) e, ancora nel 1388, il mercato del Foro era in mani vesco-
vili, se il vescovo poteva — contro le aspettative viscontee — vantare
i diritti di riscuotere dazi sulle merci in cambio della fornitura di se-
die, bilance e altre simili strumenti utili ai commercianti 34. A Milano,
 

34 L. Simeoni, Dazi e telonei medievali di diritto privato a Verona, in Id., Studi


su Verona nel Medioevo, a cura di V. Cavallari, I, Verona 1962, pp. 191-248, a p.
209sgg.

212
Luoghi ed edifici di mercato

nel 1217, si arrivò ad una sentenza per risolvere la lite intercorsa tra
canonica dei decumani e comune per la gestione dei banchi situati
presso la canonica e sul mercato appresso. Infatti questi banchi era-
no collocati, a detta del comune, supra commune, per cui il comune
esigeva affitti o imponeva rimozioni 35. La sentenza fu favorevole alla
 

canonica; questo ci induce a pensare che l’antico diritto sul mercato


valesse più del diritto di proprietà del suolo (se le pretese del comu-
ne non erano pretestuose) e che grande fosse comunque la capacità
dello scritto nel fare valere (rafforzandoli o creandoli) pretese e dirit-
ti in una fase di aumentata fame di spazi commerciali vecchi e nuovi.
A Parma, per converso, la fiera di S. Ercolano sembra fare concor-
renza, perfino in età viscontea, ai mercati periodici del comune 36.  

Alla fine, la piena età comunale presenta un quadro come sem-


pre articolato, ma tutto sommato coerente, di situazioni; tale quadro
marcia di pari passo con la forte somiglianza e con l’intreccio degli
interessi pratici tra le varie città, con il comune riferimento a struttu-
re giuridiche condivise, con la circolazione più accentuata di modelli
culturali e perfino istituzionali. Per questo, se scorriamo fonti e stu-
di di questa età, pur nella specificità delle situazioni, l’impressione
che ne deriviamo è di significative somiglianze, se si escludono alcu-
ni casi dovuti alla posizione eccezionale di centri urbani decisamente
egemoni sotto il profilo demografico, economico e di sperimenta-
zione istituzionale. In questa fase mi sembra possibile sostenere che
anche nei centri medi la dimensione commerciale della città, sempre
presente ma ora gestita dal comune, acquista realmente maggiore ri-
levanza e incisività, superando il dato dell’ovvia visibilità.
Concludendo, vorrei accennare rapidamente allo spazio riser-
vato a questi luoghi, essenziali per la città medievale, nelle fonti che
si pongono consapevolmente come specchi della realtà urbana del
tempo e quindi come interpretazioni “ideologiche” (per così dire)
del fenomeno, come riflessi culturali della dimensione commerciale.
Nella descrizione di chi vuole presentare la città come un organismo
complesso e funzionale, quanto spazio e come viene rappresentato il
mercato? Bonvesin de la Riva dimostra che l’elemento commerciale
comincia ad essere percepito come un importante elemento di digni-

35 Greci, Luoghi di fiera, cit., p. 960; cfr. Gli atti del Comune di Milano nel se-
colo XIII, a cura di M.F. Baroni, Milano 1976, pp. 12-14.
36 Vd. G. La Ferla, Parma nei secoli IX e X: “civitas” e “suburbium”, «Storia
della città», 18 (1981), pp. 5-32, a p. 9.

213
Roberto Greci

tà da chi si accinga appunto a descrivere la città. Il De magnalibus


Mediolani è suddiviso in otto capitoli. In essi si tratta, nell’ordine,
della posizione di Milano, degli edifici, degli abitanti, della fertilità,
della fortezza, della fedeltà, della libertà, della dignità 37. È evidente
 

che l’autore ha seguito uno schema di trattazione che va dalla real-


tà più concreta alla realtà più immateriale. Prima viene il quadro in
cui si inscrivono le doti della città, quadro anch’esso meraviglioso,
ma — come si diceva — di contesto. Poi si affrontano temi meno
tangibili, di cui è impossibile parlare senza avere prima introdotto
la componente umana del quadro: quegli abitanti che, a mio pare-
re, occupano una posizione non centrale dal punto di vista per così
dire “geometrico”, ma centralissima per la finalità globale della fon-
te. Ebbene è proprio in questo capitolo (il terzo) che si accenna alle
questioni che ci riguardano. L’autore ricorda infatti le notazioni dei
registri del Comune, che danno 300 forni (i quali si aggiungono a
quelli privati e religiosi), più di 1000 bottegai che vendono al minu-
to un numero incredibile di mercanzie, 440 macellai che vendono
nei loro macelli, 470 pescatori che pescano ovunque e che portano
pesce in città, oltre alle attività artigianali che curavano la confezio-
ne di stoffe, pelli e prodotti vari destinati alla vendita. Ricorda come
in città si tenga, quattro volte l’anno, il mercato generale, il vener-
dì e il sabato mercati rionali, mentre tutti i giorni ognuno, non solo
in luoghi determinati ma perfino nelle piazze, può rifornirsi di tutte
le cose necessarie alla vita. Nella città acquistano evidenza le piazze,
spesso coperte, quindi utili ad una più agevole trattazione di negozi
e affari: «I tetti o portici su le piazze sono in uso a tutti; si chiamano
volgarmente coperti e se ne contano fino a sessanta» («Tecta vicinis
platearum earum comunia, que vulgo coperta vocatur, LX fere nu-
meri culmen ascendunt»). Insomma Bonvesin de la Riva ci presenta
una città che già supera il modello medievale perché in se stessa è
un mercato disseminato. Poco bisognosa (come Venezia) di raduni
fieristici estemporanei, perché dotata (o per produzione propria, o
per attivismo dei suoi mercanti) di ogni sorta di beni commerciabili
e di luoghi di mercato (a noi noti anche dalle fonti documentarie) 38.  

37 Bonvesin de la Riva, De Magnalibus Mediolani. Le Meraviglie di Milano,


traduzione di G. Pontiggia, introduzione e note di M. Corti, Milano 1974, cap.
III, p. 66sgg.
38 G. Luzzatto, Vi furono fiere a Venezia?, in La foire, Bruxelles 1953 (Recueils
de la Société Jean Bodin, 5), pp. 267-279.

214
Luoghi ed edifici di mercato

Per concludere va detto che senza dubbio l’età comunale tra XII e
XIII secolo ha mostrato razionalità e progettualità, spinta soprattut-
to dal bisogno di controllare generi alimentari e procacciarsi introiti
fiscali derivanti dal commercio. Ma va detto anche che tale iter non
fu sovvertitore, rapido, immediato, intimamente connesso, com’è,
alla storia culturale e giuridica, nonché alla costante e progressiva
crescita, del generale fenomeno urbano e che le eventuali anomalie
del quadro possono forse contribuire a segnalare specificità non ir-
rilevanti nello sviluppo economico-sociale, ma anche politico, delle
singole città.

215
Domenica 13 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Giuliano Pinto

Andrea Zorzi
La costruzione della città giudiziaria

1. Introduzione
Quando gli organizzatori di questo convegno mi hanno chiesto
di affrontare il tema del rapporto tra la città materiale e l’esercizio
della giustizia, mi è parso che un’analisi limitata ai soli “luoghi” del-
la giustizia potesse correre il rischio di richiamare alla mente quella
città «teatro dei supplizi» che è stata celebrata da storici dell’archi-
tettura come Lionello Puppi, ma che è una prospettiva d’indagine
che si limita ai soli aspetti repressivi dell’azione giudiziaria 1. Più ap-  

propriato mi è sembrato essere invece un approccio più articolato al


tema della costruzione della città comunale, che la declinasse nei ter-
mini della «costruzione della città giudiziaria» e che contemplasse
sia i luoghi delle esecuzioni sia gli edifici giudiziari sia gli spazi delle
dei rituali di giustizia. La città, cioè, non come statico luogo di pietra
ma come spazio dell’azione sociale.
La città italiana in età comunale fu infatti oggetto della costru-
zione di un ordine sociale e giudiziario, sia pure incerto e instabile,
ma chiaramente rilevabile nel suo dipanarsi nel tempo. Questa co-

1 Cfr. L. Puppi, Lo splendore dei supplizi: liturgia delle esecuzioni capitali e ico-
nografia del martirio nell’arte europea dal XII al XIV secolo, Milano 1990 .

217
Andrea Zorzi

struzione non si limitò all’erezione degli edifici e alla definizione dei


luoghi, ma sviluppò una prossemica specifica, che si espresse, per
esempio, nella formazione di una città inaccessibile in alcuni luoghi,
proibita ad alcuni suoi abitanti in determinati spazi, distrutta puniti-
vamente in altri, malfamata in varie aree, e così via 2.  

L’approccio che vorrei proporre in questa sede non si limita


pertanto alla mera dimensione materiale della costruzione della città
giudiziaria, ma si allarga a comprendere anche gli usi sociali che degli
spazi e dei luoghi urbani furono elaborati. Con una serie di esemplifi-
cazioni relative ad alcune città padane e dell’Italia centrale dei secoli
XIII-XIV (con qualche proiezione nel XV), mi concentrerò in par-
ticolare su tre nuclei tematici: dapprima sul processo di costruzione
degli edifici giudiziari, sedi di residenza dei rettori e dei tribunali, e
delle prigioni; poi sull’identificazione dei luoghi di esecuzione delle
pene (corporali, afflittive e infamanti), che pur progressivamente sta-
bilizzandosi diedero comunque corpo a variegate topografie penali;
e infine, più brevemente, sull’illustrazione degli spazi urbani agiti dai
rituali giudiziari.

2. Gli edifici giudiziari


2.1. Se una linea di fondo della trasformazione della città giudi-
ziaria può essere colta sul lungo periodo essa è certamente costituita
dalla progressiva costruzione di appositi edifici destinati ad acco-
gliere le sedi di residenza dei giusdicenti e le corti dei tribunali. Il
fenomeno non era originale in sé, ma parte del più generale processo
di costruzione dell’edilizia pubblica e di rinnovamento urbanistico
dei comuni italiani 3.  

In origine, le sedi dei primi tribunali comunali furono ospita-


te — come quelle delle altre magistrature consolari e consiliari — in

2 Alcuni di questi aspetti sono affrontati in altri testi raccolti in questo volu-
me, in particolare in quello di Roberta Mucciarelli, cui rinvio per una trattazione
sistematica.
3 Sul quale cfr. alcuni testi nel presente volume, in particolare quelli di Italo
Moretti ed Elisabeth Crouzet-Pavan. Si vedano anche le recenti raccolte Pouvoir
et édilité. Les grands chantiers dans l’Italie communale et seigneuriale, a cura di E.
Crouzet-Pavan, Rome 2003; e Les palais dans la ville. Espaces urbains et lieux de
la puissance publique dans la Méditerranée médiévale, a cura di P. Boucheron - J.
Chiffoleau, Lyon 2004.

218
La costruzione della città giudiziaria

edifici privati. Per distinguerle le une dalle altre entrò in uso se-
gnalarle esternamente con emblemi araldici, in genere di animali: a
Firenze, per esempio, le curie civili dei primi decenni del Duecento si
riconoscevano per le immagini del leone, del cavallo, dell’aquila, del-
la rosa, etc. 4. Dai decenni centrali del secolo, con l’edificazione dei
 

palazzi del podestà, in molte città le istituzioni giudiziarie vennero


a collocarsi in contesti spaziali di peculiare significato e a disegna-
re una mappa topografica degli spazi e dei luoghi entro i quali si
faceva concreta e percepibile la presenza e l’immagine della sua quo-
tidiana amministrazione, e vi si svolgevano i suoi rituali. Lo spazio
urbano comunale venne individuando al proprio interno una serie di
aree destinate a funzioni specifiche (politiche, religiose, economiche,
etc.), che rispondevano a un sistema di costruzione simbolica che
spesso collocava al suo centro l’area del potere civile, secondo una
gerarchia, certo mutevole di città in città, di significati 5.  

Per questa via, i tribunali trovarono una sede stabile quasi sem-
pre nel cuore della città, quando cominciarono a essere costruiti
appositi edifici. A questa polarità, sede del giudizio e della pubblica
lettura della sentenza, facevano da contraltare — come vedremo nel
paragrafo successivo — i luoghi di esecuzione delle condanne. Gli
esempi di costruzione di palazzi del podestà e degli altri ufficiali giu-
diziari possono essere molteplici. Mi limiterò a qualche caso.
Uno dei più precoci è quello della costruzione iniziata negli anni
1200-1203 del palazzo del podestà a Bologna, contemporaneamen-
te alla creazione della piazza Maggiore attraverso espropri di case ed
edifici religiosi. Al 1244-1246 risale invece l’erezione degli adiacenti
palazzo “nuovo”, destinato a ospitare altri uffici del comune (ma poi
adibito a “residenza” di re Enzo di Sardegna, figlio di Federico II,
fatto prigioniero nella battaglia di Fossalta del 1249, da cui poi prese
il nome di palazzo di Re Enzo), e del palazzo del capitano del popo-
lo, l’altro rettore giudiziario 6.  

4 Cfr. R. Davidsohn, Storia di Firenze, 8 voll., Firenze 1973, vol. IV, p. 465, e
vol. V, pp. 142, 151, 156-157, 484-486 e 576.
5 Su questo punto, cfr. J. Le Goff, L’immaginario urbano nell’Italia medieva-
le (secoli V-XV), in Storia d’Italia. Annali. 5: Il paesaggio, Torino 1982, pp. 3-43; e
D’une ville à l’autre. Structures matérielles et organisation de l’espace dans les villes
européennes (XIIIe-XVIe siècle), a cura di J.-C. Maire Vigueur, Rome 1989.
6 Cfr. G. Zucchini, Il palazzo del podestà di Bologna. Nuovi documenti e note,
Bologna 1912; P. Foschi, I palazzi del podestà, di re Enzo e del capitano del popolo:
problemi e proposte di interpretazione, «Il carrobbio», 24 (1998), pp. 13-42; Ead.,

219
Andrea Zorzi

Del 1227 è invece il palazzo del podestà di Mantova costruito


sulla piazza principale, ora detta delle Erbe, accanto all’edificio del
Broletto. Sulla stessa piazza fu costruito nel 1250 il «palatium no-
vum», che fu sede privilegiata dell’amministrazione della giustizia,
e prese il nome di palazzo della Ragione: nella grande sala superio-
re sono tuttora visibili affreschi duecenteschi con scene del giudizio
universale 7. 

Al 1218-1219 risale la costruzione del palazzo della Ragione di


Padova — forse il più noto del nord Italia, per quanto gli affreschi
dipinti da Giotto siano andati perduti in un incendio del 1420 —,
indicato nei documenti come palazzo del comune, e che fu sede sin
dall’inizio dei tribunali cittadini, nell’area del mercato, tuttora atti-
vo — come è noto — tra piazza delle Erbe e piazza delle Frutta. Sul
suo lato orientale sorsero poi il palazzo del podestà (ora ampiamente
rimaneggiato), come ampliamento del preesistente palazzo del comu-
ne (attestato fin dal 1166), con le estensioni del palazzo del consiglio
(eretto nel 1283) e del palazzo degli anziani (eretto nel 1285) 8.  

Più tarde e diverse sono invece le dislocazioni dei palazzi giu-


diziari a Firenze. Il palazzo del podestà, l’attuale Bargello, fu eretto
dal 1255 di fronte al complesso monastico della Badia, all’imboc-
co della lunga via che conduceva alla porta Ghibellina, che prese il
nome dalla fede politica del podestà, Guido Novello dei conti Guidi,
che nei primi anni sessanta del Duecento dispose la sua apertura
e contribuì decisivamente alla costruzione del palazzo 9. Il palazzo  

dei priori e la piazza adiacente furono invece costruiti tardivamen-


te solo dall’ultimo decennio del Duecento in un’area non contigua
a quella del palazzo del podestà, benché vicina: l’edificazione passò

I palazzi del comune di Bologna nel Duecento, in Bologna re Enzo e il suo mito, a
cura di A.I. Pini - A.L. Trombetti Budriesi, Bologna 2001, pp. 65-102; e Ead. - F.
Giordano, Palazzo di re Enzo. Storia e restauri, Bologna 2003.
7 Cfr. P. Gazzola, Il palazzo del podestà a Mantova, Mantova 1973.
8 Cfr. G. Fabris, Il palazzo del podestà e quello degli anziani in una guida tre-
centesca di Padova, in Id., Scritti di arte e storia padovana, Padova 1977, pp. 23-36;
C.G. Mor, Il palazzo della Ragione nella vita di Padova, in Il palazzo della Ragione, a
cura di Id., Venezia 1953, pp. 1-20; e E. Frojmovič, Giotto’s allegories of justice and
the commune in the palazzo della Ragione in Padua: a reconstruction, «Journal of the
Warburg and Courtauld Institutes», 59 (1996), in particolare le pp. 24-26.
9 Sul palazzo del podestà cfr. le notizie ancora valide di G.B. Uccelli, Il pa-
lazzo del podestà. Illustrazione storica, Firenze 1865, in particolare alle pp. 25-90 e
128-210.

220
La costruzione della città giudiziaria

attraverso espropri e distruzioni di preesistenti palazzi privati e chie-


se e si protrasse inizialmente dal 1299 al 1314 10. Contiguamente al
 

palazzo dei priori, nei primi decenni del Trecento vennero innalzati
anche i palazzi degli altri due principali rettori giudiziari, il capi-
tano del popolo e l’esecutore degli Ordinamenti di giustizia, l’uno
accanto all’altro tra la piazza e la via che scendeva all’attuale piaz-
za S. Firenze 11.
 

Una variabile ulteriore è data infine — ma, ripeto, la casisti-


ca possibile è molto varia — dall’esempio umbro di Todi, dove sulla
piazza cittadina principale (che — si noti —, rispetto agli esempi
precedenti, ospitava anche il duomo e il palazzo vescovile) fu eret-
to uno dei più antichi palazzi pubblici comunali, come probabile
residenza del podestà; nel 1213 esso fu ampliato per accogliervi le
riunioni del consiglio, e nel 1228 arricchito del piano superiore. Solo
nel 1293 fu realizzato l’adiacente palazzo del capitano del popolo, e
ancora più tarda fu la costruzione, tra il 1334 e il 1347, del palazzo
dei priori, realizzato sul lato sud della piazza 12.  

2.2. Al più generale processo di costruzione di una specifica


edilizia giudiziaria appartiene anche l’erezione di edifici apposita-
mente adibiti a prigione. Il fenomeno è meno esteso rispetto alla
realizzazione di palazzi sede delle attività di tribunale, ed è anche
cronologicamente più tardo.
L’uso del carcere cominciò ad assumere una diffusione sistema-
tica, non solo nelle città comunali italiane ma anche nei principali
regni europei del tempo, proprio dalla metà del secolo XIII, come
aspetto dell’affermazione di nuovi regimi più disciplinatori (o, se si
vuole, orientati in senso statale). Studi recenti stanno mettendo in
evidenza come il ricorso al carcere non fu solo di carattere preventi-
vo, come a lungo si è ritenuto, ma assunse anche carattere di vera e
propria pena 13. Ciò aiuta a comprendere perché in più di una città a
 

10 Sul palazzo dei priori, cfr. ora N. Rubinstein, The Palazzo Vecchio 1298-
1532. Government, architecture, and imagery in the civic palace of the Florentine
republic, Oxford 1995.
11 Cfr. ivi, pp. 87-88; e le notizie in Davidsohn, Storia di Firenze, cit., vol. IV,
p. 465, e vol. V, pp. 156-157, 161 e 576.
12 Cfr. G. Ceci - U. Bartolini, Piazze e palazzi comunali di Todi, Todi 1979.
13 Cfr. G. Geltner, The medieval prison. A social history, Princeton 2008 (per
una ricognizione degli studi precedenti, cfr. ivi, pp. 3-10).

221
Andrea Zorzi

un certo punto si abbandonò la pratica di affittare torri o case priva-


te per la custodia dei carcerati — come, per esempio, le Burelle o la
torre della Pagliazza a Firenze 14 — e si decise di costruire apposite
 

prigioni. La tendenza non era inerziale, ma segno di una discontinui-


tà delle politiche giudiziarie, che contemplavano crescentemente il
carcere come pena, talora anche a vita. E che dunque sollecitavano
condizioni di detenzione meno precarie e più sicure.
Firenze fu probabilmente il primo comune a costruire, tra il
1300 e il 1320, un apposito edificio nel quale furono concentrate,
sotto il controllo amministrativo del comune, tutte le prigioni che
fino ad allora erano state ricavate da altri edifici. Nello stesso perio-
do solo Londra, con la Newgate e la Fleet Prison, e Parigi, con lo
Châtelet, si dotarono di equivalenti amministrazioni carcerarie 15. A  

Firenze, la costruzione fu ricavata in un unico isolato nel popolo di


San Simone, lungo quella via Ghibellina che muoveva dal palazzo
del podestà, nell’area dell’odierno teatro Verdi (il carcere fu distrut-
to nel primo Ottocento) 16. L’edificio era una costruzione quadrata,
 

recintata da un muro altissimo, con una piccola porta come unico


ingresso 17: per questo fu chiamata «Isola delle Stinche» o semplice-
 

mente «Le Stinche», dal nome dell’omonimo castello presso Greve in


Chianti appartenente ai Cavalcanti i cui ribelli furono fatti prigionie-
ri nel 1304 e reclusi, appunto, nel nuovo carcere che, per struttura,

14 Cfr. Uccelli, Il palazzo del podestà, cit., pp. 142-159; e Davidsohn, Storia di
Firenze, cit., vol. I, pp. 983-984, vol. III, pp. 247, 648-649; vol. V, pp. 615-627.
15 Cfr., rispettivamente, M. Bassett, Newgate Prison in the middle ages,
«Speculum», 18 (1943), pp. 233-246; Ead., The Fleet Prison in the middle ages,
«University of Toronto law journal», 5 (1944), pp. 383-402; e Ch.A. Desmaze, Le
Chatelet, son organisation, ses privilèges, Paris, 1863; C. Gauvard - M.A. Rouse -
R.H. Rouse - A. Soman, Le Châtelet de Paris au début du XVe siècle, d’après les
fragments d’un registre d’écrous de 1412, «Bibliothèque de l’Ecole des Chartes», 157
(1999), pp. 565-606.
16 Cfr. P.I. Fraticelli, Delle antiche carceri di Firenze denominate Le Stinche,
ora demolite e degli edifizi in quel luogo eretti l’anno 1834. Illustrazione storica,
Firenze 1834; F. Becchi, Sulle Stinche di Firenze e su’ nuovi edifizi eretti in quel
luogo, Firenze 1839; M. Wolfgang, A Florentine prison. Le carceri delle Stinche,
«Studies in the Renaissance», VII (1960), pp. 148-166; G. Magherini - V. Biotti,
L’Isola delle Stinche e i percorsi della follia a Firenze nei secoli XIV-XVIII, Firenze
1992; H. Manikowska, The Florentine communal prison - le Stinche - in the four-
teenth century, «Acta Poloniae Historica», LXXI (1995), pp. 133-160; G. Geltner,
Isola non isolata. Le Stinche in the middle ages, «Annali di Storia di Firenze», III
(2008), pp. 7-28; Id., The medieval prison, cit., pp. 17-21 e passim.
17 Per una ricostruzione grafica, cfr. ora ivi, pp. 122-124.

222
La costruzione della città giudiziaria

poteva ricordare un castello.


A Padova la Visio Egidii regis Pataviae, una sorta di lauda civi-
tatis che descrive i principali edifici e monumenti della città, redatta
probabilmente nel 1318 da Giovanni da Nono, giudice nel palaz-
zo della Ragione 18, attesta la presenza di un «novus carcer […] qui
 

fortissimus erit», edificato nell’area occidentale delle piazze dove


sorgevano i diversi palazzi comunali che abbiamo appena citato 19.  

Il carcere (poi distrutto all’inizio del secolo XIX) appare anche nel-
l’affresco della cappella di San Luca nella basilica del Santo 20. Anche  

a Siena un’apposita prigione fu costruita tra il 1327 e il 1330 come


estensione del palazzo pubblico in un’area adiacente dove furono
espropriate case ed edifici religiosi per essere abbattuti; dagli anni
quaranta del Duecento i carcerati erano stati alloggiati in torri e
palazzi privati, da ultimo nel palazzo Cerretani (Alessi), anch’esso
prospiciente sul Campo 21.  

A Venezia, invece, non si assistette alla costruzione di un nuovo


edificio (il palazzo delle Prigioni nuove, cui si accedeva dal Ducale
attraverso il Ponte cosiddetto, non a caso, dei Sospiri, fu costruito
solo nel 1610), ma alla concentrazione dei carcerati nel palazzo co-
munale, dal secondo Duecento, in apposite celle ricavate a piano
terra («pozzi») e nel sottotetto («piombi»). In precedenza i detenuti
venivano reclusi in apposite stanze («casoni») allestite in ogni sestie-
re 22. Anche a Bologna la tendenza fu quella di concentrare le carceri
 

nell’area della Piazza maggiore, con la costruzione della prigione del-


le Malpaghe nel palazzo del podestà a cominciare dagli anni sessanta

18 Cfr. G. Fabris, La cronaca di Giovanni da Nono, in Id., Cronache e cronisti


padovani, cit., pp. 35-168; e M. Zabbia, Giovanni da Nono, in Dizionario biografico
degli italiani, Roma 2001, vol. LVI, pp. 114-117.
19 L’autore distingue il carcere in tre parti, paragonabili al Limbo, al Purgatorio
e all’Inferno: cfr. l’analisi in Geltner, The medieval prison, cit., pp. 89sgg.
20 Ivi, p. 91, per l’immagine.
21 Cfr. D. Balestracci, From development to crisis. Changing urban structures
in Siena between the thirteenth and fifteenth centuries, in The “other Tuscany”. Essays
in the history of Lucca, Pisa, and Siena during the 13th, 14th and 15th centuries, ed.
by Th.W. Blomquist, Kalamazoo 1994, pp. 200-201; Geltner, The medieval pris-
on, cit., pp. 1-3; e, per le carceri private precedenti, P.R. Pazzaglini, Comments on
the comparable practices of medieval imprisonment, «Studi senesi», 86 (1974), pp.
154-167.
22 Cfr. U. Franzoi, Le prigioni della Repubblica di Venezia, Venezia 1966;
G. Scarabello, Carcerati e carceri a Venezia nell’età moderna, Roma 1979; e ora
Geltner, The medieval prison, cit., pp. 12-17, e passim.

223
Andrea Zorzi

del Duecento, della Predacolaria nel 1318 intorno alla torre del-
l’Arengo, di alcune celle nel palazzo della Biava, nucleo del Palazzo
pubblico, nel 1326, e infine delle carceri del Torrone, la torre nord
occidentale del Palazzo pubblico nel 1352 23.  

3. I luoghi delle esecuzioni


3.1. Se dall’edilizia giudiziaria ci spostiamo ora a considerare i
luoghi di esercizio della giustizia possiamo considerare perlomeno
due aspetti: uno più tradizionale negli studi, quello relativo cioè ai
luoghi delle esecuzioni giudiziarie, l’altro meno usuale, forse, vale a
dire i luoghi dove veniva consumata la vendetta. Entrambi risponde-
vano ai principi della pubblicità dell’evento.
Comincerò con l’esaminare proprio la prossemica della vendet-
ta. Rammenterò come alcune indagini recenti abbiano evidenziato
le logiche e i diversi piani di legittimazione culturale e giuridica del-
la vendetta nell’Italia comunale, che non appare più una barbarica
sopravvivenza di costumi aristocratici ma un modo ordinario delle
relazioni sociali, un’espressione del pluralismo giudiziario di siste-
mi di conduzione e di soluzione dei conflitti 24. Alcune disposizioni
 

statutarie ne rivelano alcuni usi pubblici dello spazio. Lo statuto di


Parma del 1255, per esempio, dispone «Quod vindicta sanguinis
non fiat in platea, nisi necessitate» 25: l’attenuativo («nisi necessita-
 

te») confermava la legittimità della vendetta, ma la norma cercava

23 Cfr. Zucchini, Il palazzo del podestà di Bologna, cit., pp. 51-52; Foschi, I pa-
lazzi del podestà, di re Enzo e del capitano del popolo, cit., pp. 13-17; e ora Geltner,
The medieval prison, cit., pp. 21-27.
24 Cfr. Ch. Wickham, Legge, pratiche e conflitti. La risoluzione delle dispute
nella Toscana del XII secolo, Roma 2000; J.-C. Maire Vigueur, Cavaliers et citoyens.
Guerre, conflits et société dans l’Italie communale, XIIe-XIIIe siècles, Paris 2003, in
particolare le pp. 307-335; e A. Zorzi, La cultura della vendetta nel conflitto po-
litico in età comunale, in Le storie e la memoria. In onore di Arnold Esch, a cura
di R. Delle Donne - A. Zorzi, Firenze 2002, pp. 135-170; Id., Pluralismo giudi-
ziario e documentazione. Il caso di Firenze in età comunale, in Pratiques sociales et
politiques judiciaires dans les villes de l’Occident à la fin du Moyen Age, a cura di J.
Chiffoleau - C. Gauvard - A. Zorzi, Rome 2007, pp. 125-187; Id., La faida Cerchi-
Donati [1995], in Id., La trasformazione di un quadro politico. Ricerche su politica e
giustizia a Firenze dal comune allo Stato territoriale, Firenze 2008, pp. 95-120; e Id.,
“Fracta est civitas magna in tres partes”. Conflitto e costituzione nell’Italia comunale,
«Scienza e politica. Per una storia delle dottrine politiche», 39 (2008), pp. 61-87.
25 Cfr. Statuta communis Parmae digesta anno MCCLV, a cura di A. Ronchini,
Parma 1856, p. 280.

224
La costruzione della città giudiziaria

di evitare che le pubbliche inimicizie si manifestassero clamorosa-


mente, come era evidentemente abitudine, nella piazza maggiore del
comune. Lo statuto di Lucca del 1308 svela un’altra pratica spazia-
le del conflitto, quella di provocare la parte offesa recandosi davanti
alle case dei parenti della vittima: come misura preventiva, il podestà
era infatti tenuto a costringere gli assassini «ut non eant ante domum
patris, vel germani aut filii eius quem interfecerint; et hoc per sacra-
mentum et banno» 26.  

La vendetta non era un comportamento privato e impulsivo,


bensì una pratica ben meditata che perseguiva la pubblicità dell’atto
di ritorsione che ricomponeva l’equilibrio sociale. Gli usi spaziali che
la normativa appena citata si preoccupava di fronteggiare per evita-
re l’allargarsi della spirale della violenza, trovano conferma in alcuni
episodi fiorentini, nei quali alcuni luoghi centrali della città assunse-
ro particolari significati simbolici.
Nella famosa vendetta del 1216 di Oddo Arrighi dei Fifanti
su Buondelmonte Buondelmonti (che la cronachistica trecentesca
avrebbe poi posto all’origine della formazione delle parti guelfa e
ghibellina fiorentine 27), Buondelmonte, che aveva ferito il Fifanti e
 

che aveva clamorosamente infranto la promessa di matrimonio ri-


paratore con la nipote fidanzandosi con un’altra donna nel giorno
fissato per le nozze, compì la provocazione di recarsi dalla futura
sposa passando «per Porta Sancte Marie» 28, vale a dire sotto le case
 

di Oddo Arrighi dei Fifanti 29: all’offesa fisica aggiunse cioè una pro-
 

vocatoria offesa all’onore del suo nemico. Questi si consigliò con


gli amici e i parenti e deliberò «che lla vendetta fosse fatta in quello
loco, dove la gente era raunata a fare il giuramento del matrimonio»,
come ricordano i cronisti. La vendetta fu così consumata davanti alla
casa della promessa sposa tradita, che era a capo del Ponte Vecchio,
nel luogo dove la gente era invano convenuta per partecipare al ma-
trimonio. Per dare maggiore pubblicità alla ritorsione fu atteso il
giorno di Pasqua, quando Buondelmonte attraversò il ponte a caval-

26 Cfr. Statutum Lucani Communis An. MCCCVIII, a cura di S. Bongi - L.


Del Prete, Lucca 1867, l. III, r. 50.
27 Cfr. E. Faini, Il convito del 1216. La vendetta all’origine del fazionalismo fio-
rentino, «Annali di Storia di Firenze», I (2006), pp. 9-36.
28 Cronica fiorentina compilata nel secolo XIII, in Testi fiorentini del Dugento e
dei primi del Trecento, a cura di A. Schiaffini, Firenze 1954, p. 118.
29 Come notato da Faini, Il convito del 1216, cit., p. 15.

225
Andrea Zorzi

lo per recarsi alla festa 30.


 

I lungarni prospicienti il Ponte Vecchio furono teatro anche


delle offese consumate tra le famiglie dei Mannelli e dei Velluti. Nel
giorno di sabato santo del 1266, Tommasino de’ Mannelli fu ferito
al volto con un «mannerese o forcone» da Fornaino de’ Rossi «in su
la piazza del Ponte Vecchio dal lato d’Oltrarno» 31; il Rossi fu «trat-
 

to di bando» da Ghino di Donato Velluti, che per questo fu ucciso


da Mannello di Tommasino Mannelli nell’autunno 1267; a distan-
za di 28 anni, il giorno della festa patronale di S. Giovanni nel 1295,
i Velluti si vendicarono assalendo e uccidendo Lippo di Simone
Mannelli, nipote di Mannello di Tommasino, mentre stava rincasan-
do dall’aver visto correre il palio, «presso al Ponte Vecchio meno di
40 braccia dal lato di là nel popolo di Santo Stefano, credo lungar-
no» 32, scrive Donato Velluti figlio di uno dei vendicatori materiali,
 

Lamberto, nelle sue ricordanze familiari. Come mostrano sia le fonti


normative sia quelle cronachistiche le pratiche della vendetta spesso
prediligevano luoghi centralissimi delle città per sottolineare pubbli-
camente la consumazione della ritorsione.

3.2. Analogamente, anche il sistema penale che venne pro-


gressivamente prendendo corpo nelle città comunali nel corso del
Duecento 33 ebbe nella pubblicità delle pene uno dei suoi fini, a sco-
 

pi parenetici. Tali finalità furono esplicitate dalla trattatistica penale.

30 «Sì che lla mattina della passqua di Risorexio, appiè di Marzo, in capo del
Ponte Vecchio, messer Bondelmonte cavalcando a palafreno in giubba di sendado
e in mantello con una ghirlanda in testa, messer Ischiatta delli Uberti li corse ados-
so e dielli d’una maçça in sulla tessta e miselo a terra del cavallo, e tantosto messer
Odd’Arrighi con un coltello li seghò le vene, e lasciarlo morto. E questa possta fue
fatta in casa gli Amidei. Allora lo romore fue grande; e fue messo in una bara, e la
molgle istava nella bara e tenea il capo in grembo for[te]mente piangendo; e per tut-
ta Firenze in questo modo il portarono»: Cronica fiorentina, cit., pp. 118-119.
31 Paolino Pieri, Cronica delle cose d’Italia dall’anno 1080 all’anno 1305, a
cura di A.F. Adami, Roma 1755, p. 33.
32 Donato Velluti, La cronica domestica, a cura di I. Del Lungo - G. Volpi,
Firenze 1914, p. 11.
33 Cfr. M. Sbriccoli, «Vidi communiter observari». L’emersione di un ordine
penale pubblico nelle città italiane del secolo XIII, «Quaderni fiorentini per la sto-
ria del pensiero giuridico moderno», 27, 1998, pp. 231-268; A. Zorzi, Negoziazione
penale, legittimazione giuridica e poteri urbani nell’Italia comunale, in Criminalità
e giustizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tar-
do medioevo ed età moderna, a cura di M. Bellabarba - G. Schwerhoff - A. Zorzi,
Bologna 2001, pp. 13-34.

226
La costruzione della città giudiziaria

Alberto da Gandino, autore intorno al 1300 del primo Tractatus de


maleficiis, è molto chiaro in proposito: «opus est exemplo ut pena
unius sit metus multorum» 34; Angelo Gambiglioni nel XV secolo, e
 

Paolo Grilandi agli inizi di quello succesivo, ne ribadirono l’interpre-


tazione, il primo sottolineando «ut publice videatur ab omnibus»,
il secondo legandolo direttamente alla natura dei luoghi: «executio
poenarum corporalium debet esse publica et in locis publicis fieri
[...], ut unius exemplo caeteri pertinescant et unius poena sit metus
multorum» 35.  

Perseguendo le finalità intimidative della pena i poteri giudi-


ziari cominciarono a utilizzare alcuni luoghi urbani di particolare
rilievo. Una distinzione di massima è possibile tracciarla tra i luo-
ghi di esecuzione delle pene corporali e infamanti posti in genere
nel centro urbano, e i luoghi di esecuzione delle condanne a morte
situati al di fuori del circuito delle mura, peraltro secondo una topo-
grafia molto variabile, soprattutto nei primi tempi, da città a città, in
funzione anche del tipo di reato o di condizione sociale del condan-
nato. Nelle piazze e nei luoghi principali delle città venne erigendosi
così lo stabile corredo dell’attrezzeria penale, fatto di gogne, berline,
gabbie, colonne, corbelli, etc., che sostanziavano, nella quotidianità
del panorama urbano, l’afflittività e l’infamia, dal contenuto anche
gestuale, delle pene de­risorie, come la frusta adoprata nelle fusti-
gazioni, o le mitre sulle quali venivano scritti i nomi dei puniti a
por­tarle sulla testa in giro per la città, spesso in groppa a un asino 36.  

Localmente si davano situazioni specifiche. Sul ponte di Pavia,


per esempio, stava eretta stabilmente una pertica con un corbello
dalla quale venivano immersi nel Ticino i bestemmiatori insolven-
ti, come a Piacenza dove lo statuto del 1264 prevedeva che costoro
fossero sommersi «ter cum cicognola in aqua» 37. A Firenze, invece,
 

fu costruita nella piazza dei Priori una vasca in cui venivano immersi

34 Alberto De Gandino, Tractatus de maleficiis, in H.U. Kantorowicz,


Albertus Gandinus und das Strafrecht des Scholastik, Leipzig 1926, vol. II, p. 348.
35 Angelo Gambiglioni, Tractatus de maleficiis, Venetiis 1486, § Caium qui
duci debeat; Paolo Grilandi, De relaxatione carceratorum, Venetiis, 1556, § De sen-
tentiae et poenarum executione.
36 Cfr. le ricognizioni di A. Pertile, Storia del diritto penale, in Id., Storia del
diritto italiano, Torino 1892, vol. V, pp. 341-348; e G. Rezasco, Dizionario del lin-
guaggio italiano storico ed amministrativo, Firenze 1881, alle voci Berlina, Frusta,
Gabbia, Gogna, Mitera e Scopa.
37 Cfr. Pertile, Storia del diritto penale, cit., p. 346.

227
Andrea Zorzi

e «perfusi sive baptizati», come indicano gli atti giudiziari e le atte­


stazioni dei cronisti, i giocatori d’azzardo in un rituale dagli evidenti
caratteri purificatori 38. A Roma il messo comunale inobbediente do-
 

veva essere condotto ai piedi del «leone marmoris existente in palatiis


Capitolii, cum quadam mitera in capite in qua sit scriptus Inobediens
mandati [...] et faciam habeat untam de melu et debeat manere ibi
quousque duraverit mercatum» 39. A Venezia invece i falsari erano
 

condannati, come accadde nel 1295 a una donna, «quod coquus do-
mini Ducis debeat ei dare de capice coquine per faciem super scalis
Palacii, et quod debeat duci super scalis Rivoalti et ibi eam clamari
falsariam et quod ei de cetero non credatur» 40. A Faenza lo statuto
 

del 1410 attesta la pena di fare battere pubblicamente su una pietra


il sedere denudato: «anum nudum, de die et non de nocte» 41.  

La pubblicità delle esecuzioni veniva infatti rafforzata dalla


solennità delle procedure formali, a cominciare dalla lettura della
sentenza ad alta voce e in volgare dal notaio della curia giudiziaria,
in genere nelle sale dei palazzi di giustizia, ma anche all’aperto nei
luoghi di esecuzione 42, le cui aggettivazioni — del genere: «homo
 

38 Cfr., per esempio, Archivio di Stato di Firenze, Podestà, 3786, cc. 5r, 9r
e passim (registro degli arrestati «pro ludo vetito ludentium ad azardi et seu ad
alia luda prohibita»); i documenti citati in A. Zorzi, Battagliole e giochi d’azzardo
a Firenze nel tardo medioevo: due pratiche sociali tra disciplinamento e repressione,
in Gioco e giustizia nell’Italia di Comune, a cura di G. Ortalli, Roma 1993, pp.
104-105; e la normativa in Statuta Populi et Communis Florentiæ publica auctoritate
collecta castigata et præposita, anno sal. MCCCCXV [d’ora in avanti Statuti di Firenze
del 1415], 3 voll., Friburgi [ma Firenze], 1777-1781, l. III, r. CXCII, vol. I, pp. 534-
535, l. IV, rr. XXVIII e XXX, vol. II, pp. 406 e 407. Su questo rituale penale, che
talora veniva eseguito direttamente calando nel fiume da un ponte il condannato
legato a una fune, cfr. anche Pertile, Storia del diritto penale, cit., pp. 343-344 e 434-
439; e J. Kohler, Das Strafrecht der italienischen Statuten vom 12.-16. Jahrhundert,
Mannheim 1897, pp. 606-615. Più in generale, per i significati purificatori dell’im-
mersione nell’acqua, cfr. anche R. Gerardi, Rinati nell’acqua e nello spirito. Studio
sui sacramenti del battesimo e della confermazione, Napoli 1982.
39 Statuta almae urbis Romae auctoritate S.D.N.D. Gregorii Papae XIII Pont.
Max., a Senatu populoque romano reformata et edita, Roma 1580, l. II, r. 120.
40 Documento citato in Pertile, Storia del diritto penale, cit., p. 343.
41 Citato in T. Gatti, L’imputabilità, i moventi del reato e la prevenzione crimi-
nale negli statuti italiani dei secoli XII-XVI, Padova 1933, p. 695.
42 Esempi per Firenze in A. Zorzi, Le esecuzioni delle condanne a morte a
Firenze nel tardo medioevo tra repressione penale e cerimoniale pubblico, in Simbolo
e realtà della vita urbana nel tardo medioevo, a cura di M. Miglio - G. Lombardi,
Manziana 1993, p. 182. Sul potere della parola, cfr. anche M. Miglio, Parola e gesto
nella società comunale, in Ceti sociali ed am­bienti urbani nel teatro religioso europeo
del ’300 e del ’400, a cura di F. Doglio, Viterbo 1986, pp. 54-55.

228
La costruzione della città giudiziaria

male condicionis, vite et conversationis et fame», «ex toto deditus


potius humane nature vestigia hostis sequi quam preceptis optimis
Dei omnipotentis et virtutibus», «Deum pre oculis non habendum
sed potius humani generis inimicum», «spiritu diabolico instigatus et
temerario ausu motus dolose scienter et apensate», «divino timore et
reipublice amore postpo­sito», etc. 43 — conclamavano pubblicamen-
 

te le connotazioni infamanti della pena. La scelta di luoghi pubblici


si accompagnava quasi sempre a quella di ore o di giorni di massimo
affollamento: gli statuti disponevano, per esempio, che a Piacenza
«ponatur ad berlinam et ibi stet per medium diem», a Brescia «ab
ortu solis usque ad occasum»; a Parma i condannati a portare la mi-
tra in capo «tribus diebus in publico producantur» 44.  

Dalla metà del Duecento si sviluppò soprattutto nelle città


toscane ed emiliane — a Parma, Bologna, Pistoia, Firenze, Siena,
etc., risalgono le prime attestazioni — la pena di tracciare in luoghi
esposti, quasi sempre sulle pareti dei palazzi civici (del podestà, del
comune, delle arti), dipinti che degradassero la dignità dei rei di tra-
dimento, falso e bancarotta (in genere contumaci), maturando nel
tempo anche moduli iconografici più stabili, a cominciare, per esem-
pio, dall’immagine dell’impiccato a testa in giù che assunse il ruolo
di tipica figura infamante 45. Scarsissimi — stante anche la provvi-
 

sorietà di questo tipo di pittura — sono i monumenti superstiti. Da


altre fonti, però, sappiamo che l’uso fu molto esteso: a Bologna, per
esempio, Gherardo Ortalli ha calcolato in non meno di 112 indivi-
dui i condannati in effigie tra il 1283 e il 1303 46. In altre città entrò
 

in uso anche la semplice scrittura a grandi lettere dei soli nomi dei
condannati per falso o tradimento: così, per esempio a Vercelli se-
condo gli statuti del 1242, gli infamati dovevano essere scritti su un
tratto di muro del palazzo comunale appositamente imbiancato; o a
Piacenza, qualche tempo dopo, sui muri della cattedrale o del palaz-
zo del comune 47.  

I luoghi delle esecuzioni potevano dunque essere i più diver-

43 Sulle componenti processuali infamanti, cfr. F. Migliorino, Fama e infa-


mia. Problemi della società me­dievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII,
Catania 1985, pp. 45sgg. e 85sgg.
44 Citazioni in Gatti, L’imputabilità, cit., p. 698.
45 Sulla pittura infamante, cfr. G. Ortalli, “...pingatur in Palatio...”. La pittu-
ra infamante nei secoli XIII-XVI, Roma 1979.
46 Ivi, pp. 55-56.
47 Ibidem, pp. 65-66.

229
Andrea Zorzi

si. La varietà è bene documentata per Parma dagli statuti e dalle


cronache: la pittura infamante doveva essere esposta «in palatio co-
munis et subscribatur litteris grossis nomen praenomen et causa»,
nella piazza del Comune «ponatur ad catenam», e ancora nello stes-
so luogo «ad collonnellos palatii communis in spectaculo omnium»
erano «appensi cum laqueo ad gullam» i condannati a morte per rea-
ti politici, mentre i giustiziati per furto, o perché malfattori abituali
o gente di vile condizione, erano invece «appensi ad furcas in glareis
fluminis» 48. Appare evidente da questo caso come a determinare la
 

scelta dei luoghi di esecuzione fossero soprattutto lo status sociale


del condannato e la tipologia del crimine.

3.3. A questo proposito possiamo rilevare un’altra tendenza di


fondo comune a quasi tutte le città comunali. I luoghi delle esecuzioni
erano, inizialmente, i più diversi. Nel corso del tempo venne indivi-
duato un sito specifico quale luogo deputato alle esecuzioni, come
appare dal ripetersi nella documentazione dei riferimenti «ad locum
iustitie consuetum», collocato, quasi sempre, al di fuori delle mura
cittadine e spesso in un’area degradata per segnare la connotazione
infamante della pena 49. Come hanno messo in rilievo alcuni studi,
 

la cerchia delle mura segnava nell’immaginario urbano il confine tra


l’ordine e il caos, tra lo spazio organizzato e la natura selvaggia 50.  

Condurre il condannato dai palazzi di giustizia, situati nel cuore del-


la città, fuori delle mura per essere giustiziato intendeva significare
l’espulsione del reo dal corpo sociale, la sua esclusione rituale dal
“recinto sacro” della comunità, la sua “cancellazione” civile 51.  

48 Cfr. Statuta communis Parmae digesta anno MCCLV, cit., p. 319; Statuta
Communis Parmae ab anno MCCLXVI ad annum circiter MCCCIV, a cura di A.
Ronchini, Parma 1857, p. 441; Cronica gestorum in partibus Lombardie et reliquis
Italie [1476-1482], a cura di G. Bonazzi, in Rerum Italicarum Scriptores [d’ora in
avanti RR.II.SS.], XXII/III, Città di Castello 1904-1911, pp. 15, 17, 24, 34, 47, 72.
49 Cfr., per un approfondimento, A. Zorzi, Rituali e cerimoniali penali nel-
le città italiane (secc. XIII-XVI), in Riti e rituali nelle società medievali, a cura di J.
Chiffoleau - L. Martines - A. Paravicini Bagliani, Spoleto 1994, pp. 141-157; e
Id., Le esecuzioni delle condanne a morte, cit.
50 Su questo punto, cfr. C. Frugoni, Una lontana città. Sentimenti e immagi-
ni nel Medioevo, Torino 1983, pp. 9sgg: 10-11; e La città e le mura, a cura di C. De
Seta - J. Le Goff, Roma-Bari 1989, in partico­lare i saggi dei curatori alle pp. 1-10
e 11-57.
51 Sull’espulsione/esclusione del rito penale, cfr. anche H. Von Hentig, La
pena. Origine scopo psicologia, Milano 1942, pp. 17-20.

230
La costruzione della città giudiziaria

Ecco allora che gli statuti disposero, per esempio, che a Treviso
gli impiccati fossero sospesi «longe a portis civitatis Tarvisii per
unum miliare ad minus» 52, o a Firenze a una distanza minima di
 

1.000 braccia (circa 600 metri) dalle mura 53. Allo stesso modo si de-
 

finirono le aree dove si tenevano le esecuzioni: siti, come a Perugia, il


«campus batallie», o, a Bologna, il Campo del Mercato, oppure an-
che, come a Parma, la riva del fiume 54.  

A Venezia, invece, città senza mura dove era l’acqua a segnare


il confine tra l’abitato e lo spazio esterno, il «locum justitie» fu in-
dividuato «in medio duarum columnarum» nella Piazzetta 55, tra le  

due colonne reggenti le immagini dei santi patroni della città — San
Marco e San Teodoro (Todaro) —, vere e proprie porte d’acqua del-
la città 56. Altre forche erano stabilmente erette sulle vie pubbliche
 

di accesso acqueo alla città: una lungo la via per Mestre, «in loco so-
lito», un’altra «ultra Sanctam Martam ad via qua itur Paduam» 57,  

un’altra ancora «ultra sanctum Georgium Majorem, loco solito» 58  

verso Chioggia («ad viam Clugie» 59) e l’ultima «ad viam portus
 

Sancti Nicolai de Littore Maris» 60, cioè al Lido. A queste forche,


 

52 Citato in Gatti, L’imputabilità, cit., p. 693.


53 Cfr. Statuti della repubblica fiorentina. Statuto del podestà dell’anno 1325
[d’ora in avanti Statuto del podestà dell’anno 1325], a cura di R. Caggese [1910-
1921], nuova edizione con introduzioni di G. Pinto - F. Salvestrini - A. Zorzi,
Firenze 1999, l. III, r. 87, p. 220; e anche in Statuti di Firenze del 1415, cit., l. I, r.
27, vol. I, p. 247.
54 Cfr., rispettivamente, C. Cutini, I condannati a morte e l’attività assisten-
ziale della confraternita della Giustizia di Perugia, «Bollettino della Deputazione di
storia patria per l’Umbria», LXXXII (1985), pp. 181-182; Cronica gestorum in par-
tibus Lombardie et reliquis Italie, cit., p. 72; e Corpus chronicorum bononiensium, a
cura di A. Sorbelli, in RR.II.SS., XVIII/I, Città di Castello 1939, pp. 161 e 462.
55 Luogo di esecuzioni attestato già dal 1297: cfr. Puppi, Lo splendore dei sup-
plizi, cit., p. 16.
56 Cfr. E. Crouzet-Pavan, Espaces, pouvoir et société à Venise à la fin du moyen
âge: “sopra le acque salse”, 2 voll., Roma 1992, pp. 913-919. Le due colonne per
lungo tempo si dissero erette da tale Niccolò de’ Barattieri, probabilmente per l’as-
sonanza del nome (i «barattieri») alle figure marginali dei carnefici e dei reggitori
di gioco: cfr. L. Zdekauer, Il giuoco in Italia nei secoli XIII e XIV e specialmente in
Firenze [1886], in Id., Il gioco d’azzardo nell’Italia dei comuni, Firenze 1993, p. 38.
57 Documento citato in Puppi, Lo splendore dei supplizi cit., p. 20.
58 Cfr. ivi, p. 20, nota 74.
59 Documento citato in G. Ruggiero, Constructing civic morality, deconstruct-
ing the body. Civic rituals of punishment in Renaissance Venice, in Riti e rituali nelle
società medievali, cit., p. 175.
60 Ivi.

231
Andrea Zorzi

che emergevano sulle barene, erano in genere appesi i corpi, interi o


squartati, dei giustiziati cui era negata la sepoltura: la scena, per chi
giungeva in barca, magari nelle brume dell’alba o nei giorni di neb-
bia, doveva risultare impressionante e sicuramente parenetica.
Vediamo qualche altro esempio più in dettaglio. A Firenze, le
attestazioni più antiche, fra XIII e XIV secolo, illustrano la pratica di
ese­guire le sentenze di morte in vari luoghi al di fuori delle mura cit-
tadine: fuori porta S. Piero Gat­tolini a sud, o fuori porta S. Gallo a
nord, o fuori porta S. Frediano a ovest, o anche fuori porta alla Croce
ad est 61; lo stesso statuto del 1325 che stabiliva in 1.000 braccia dalle
 

mura la distanza minima del luogo di esecuzione, non indicava una


sede particolare o preferenziale 62. Da lì a poco, tale luogo venne sta-
 

bilizzandosi nel cosiddetto «prato» o «pratello della giustizia», uno


spiazzo sulla riva destra dell’Arno appena fuori le mura a est della
città, prospiciente la porta di S. Francesco eretta nel 1317 e poi det-
ta, non a caso, porta della Giustizia 63. L’area corrispondeva grosso
 

modo all’attuale piazza Piave, nella zona di piazza Beccaria, la cui


toponomastica intese riscattare in epoca recente quei luoghi tristi e
dolorosi. Nelle memorie di Benedetto Dei, intorno al 1470, il luo-
go è rammentato come la «piazza di S. Noferi la ove è il Prato della
giustizia» 64. La coeva Pianta della catena vi mostra un palco con le
 

forche stabilmente innalzate 65, a pochi passi dal fiume: l’immagine


 

consente anche di notare come le forche fossero costituite da tre pali


verticali di legno congiunti tra loro da altrettante traverse di egua-
le lunghezza, a formare una struttura triangolare, largamente diffusa
in Europa 66, che consentiva l’impiccagione di più individui; una sca-
 

61 Cfr. Dino Compagni, La cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, a cura
di I. Del Lungo, in RR.II.SS., IX/II, Città di Castello, 1913-1916, p. 264, l. III, cap.
XLI: «dove la giu­stizia si fa e punisconsi i malifattori di mala morte»; e Davidsohn,
Storia di Firenze, cit., vol. II, p. 833, e vol. V, pp. 603-604.
62 Cfr. Statuto del podestà dell’anno 1325, cit., l. III, r. 87, p. 220.
63 Cfr. F. Cesati, La grande guida delle strade di Firenze, Roma 2003, p. 473.
64 Benedetto Dei, Memorie notate, 1470, in G.C. Romby, Descrizioni e rap-
presentazioni della città di Firenze nel XV secolo, Firenze 1976, pp. 56-57.
65 Così anche nella pianta di Stefano Bonsignori (che mostra però la di­
slocazione tardo cinquecentesca, al 1584, più a nord, delle forche): cfr. A. Mori - G.
Boffito, Firenze nelle vedute e piante. Studio storico topografico cartografico, Firenze
1926, pp. 144-145 e XXIV-XXV, rispettivamente, per le due immagini.
66 Cfr. S.Y. Edgerton, Pictures and punishment. Art and criminal prosecution
during the Florentine Renaissance, Ithaca 1985, pp. 141-142.

232
La costruzione della città giudiziaria

la per il boia vi era perennemente appoggiata 67. A poca distanza, nel


 

tratto tra la porta S. Francesco e l’Arno il Comune destinò dal 1361


alla confraternita di S. Maria della Croce al Tempio, che assisteva i
condannati a morte, un terreno sul quale essa adibì un lembo di terra
prospiciente le mura alla sepoltura dei cadaveri dei giustiziati fore-
stieri, ed eresse una cappella — presto detta il Tempio — ove fare
udire messa ai condannati 68.  

Questa zona periferica del quartiere di S. Croce dove trovò sta-


bile ubicazione il luogo deputato delle esecuzioni costituiva un’area
degradata, segnata da un certo dissesto urbanistico e dalle lavorazio-
ni manifatturiere più inquinanti. Fin dal Duecento si ha infatti notizia
dell’esistenza di terreni melmosi e di rigagnoli non irregimen­tati, che
lungo il fiume andavano a mescolarsi con i mate­riali organici resi-
dui, col sangue e con i resti delle carcasse degli animali, e con i rifiuti
prodotti dalle lavo­razioni del cuoio e dalle attività tintorie 69. Il quar-
 

tiere conobbe poi, forse anche per l’insediamento dei Francescani e


per le attività di assistenza che da esso trassero impulso, una prolife­
razione di ospizi non solo per viandanti, ma anche, lungo la via della
Giustizia che portava alla omonima porta — che, non a caso, conser-
va tutt’oggi il triste nome di via dei Malcontenti —, di un ospedale,
con annesso oratorio, della confraternita di S. Maria della Croce al
Tempio 70, di un ospizio per infermi e orfani dell’arte dei tintori, e
 

di un lazzaretto per ammor­bati costruito a metà Quattrocento dal-


l’ospedale di S. Maria Nuova, quando evidentemente l’area si era
ormai definitiva­mente configurata come quella del do­lore, della re-
clusione e della disperazione 71.  

In altre città attraversate da corsi d’acqua un «locus iustitiae


consuetus» venne progressivamente definendosi direttamente sul

67 Una vivida descrizione ravvicinata del «pratello» e delle forche lì erette


è nella novella I, 9 de Le cene di Anton Francesco Grazzini, Opere, a cura di G.
Davico Bonino, Torino 1974, pp. 520-524.
68 Cfr. G. Rondoni, I “giustiziati” a Firenze dal sec. XV al sec. XVIII, «Archivio
storico italiano», s. V, XXVIII (1901), p. 212; e E. Cappelli, La compagnia dei Neri.
L’arciconfraternita dei bat­tuti di Santa Maria della Croce al Tempio, Firenze 1927,
pp. 30-35.
69 Cfr. F. Sznura, L’espansione urbana di Firenze nel Dugento, Firenze 1975,
pp. 48-54; e G. Fanelli, Firenze. Architettura e città, Firenze 1973, pp. 129-130.
70 Cfr. Cappelli, La compagnia dei Neri, cit., pp. 35-36; e G.M. Monti, Le con-
fraternite medievali dell’alta e media Italia, Venezia 1927, vol. I, p. 160.
71 Sugli edifici sorti lungo la strada, cfr. anche P. Bargellini - E. Guarnieri,
Le strade di Firenze, Firenze 1977, vol. II, pp. 190-192.

233
Andrea Zorzi

greto del fiume. In un’area anch’essa segnata dalla presenza di mani-


fatture e ospedali, anche a Parma — per fare un altro esempio — il
luogo deputato delle esecuzioni venne definendosi sul greto, sulla
«ghiara», del torrente omonimo, sulla riva destra antistante al quar-
tiere di Codiponte (l’attuale Oltretorrente) posto a capo del ponte
più antico, quello detto della Pietra 72. Sulla «glarea fluminis Parme»
 

si tenevano le fiere, i mercati e le esecuzioni capitali. Come a Firenze,


il letto del fiume era situato, in quel punto, al di fuori delle mura cit-
tadine, cui si accedeva attraverso la porta Cappellina 73. A Parma il  

greto del fiume fu destinato «ad locum justitie solitum» 74 sin dal se-  

colo XIII, come attesta il Chronicon parmense, scritto da un anonimo


(con ogni probabilità giudice o notaio) vissuto tra la fine del seco-
lo e la metà del Trecento 75. Egli dà notizia di alcune esecuzioni di
 

particolare rilievo: il rogo di un’eretica nel 1279, l’impiccagione di


due sicari nel 1287, la decapitazione di Magnano dei da Cornazzano,
bandito e ribelle, nel 1292; l’impiccagione di un assassino sacrile-
go nel 1307; la decapitazione di alcuni congiurati nel 1335 76. Senza  

apparente soluzione di continuità la «glarea fluminis Parme» era an-


cora alla fine del secolo XV un luogo di giustizia 77. Anche a Ferrara
 

il «logo de la iustitia» 78 era situato, perlomeno dalla metà del secolo


 

XV, al di fuori delle mura, «de là da Po», nel borgo sud occiden-
tale che ruotava intorno al Castel Tedaldo, eretto «super Padum»
dai Canossa sin dal secolo X 79. Secondo un documento del 1459, «a
 

mezo il ponte de Castel Tialto» erano poste «un paro de forche» 80.  

72 Cfr. Chronicon Parmense ab anno MXXXVIII usque ad annum


MCCCXXXVIII, a cura di G. Bonazzi, RR.II.SS., IX/IX, Città di Castello 1902, p.
7, nota 2.
73 Cfr. ivi, p. 35.
74 Cfr. ibidem, p. 241.
75 Il testo si interrompe, probabilmente mutilo, all’anno 1338: cfr. G. Bonazzi,
Prefazione, ibidem, p. VII.
76 Cfr. Chronicon Parmense, cit., pp. 35, 54, 79, 100, e 241.
77 A darne conto è la Cronica gestorum in partibus Lombardie et reliquis Italie,
cit., pp. 47, 72, 119.
78 M.S. Mazzi, «Gente a cui si fa notte innanzi sera». Esecuzioni capitali e po-
tere nella Ferrara estense, Roma 2003, pp. 42-43.
79 Documento citato in M. Roberti, Il libro dei giustiziati di Ferrara, aa. 1441-
1577, «Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti», 66 (1906-1907), p. 834,
nota 2; cfr. anche D. Balestracci, Il gioco dell’esecuzione capitale. Note e proposte in-
terpretative, in Gioco e giustizia nell’Italia di Comune, cit., p. 201, nota 58.
80 Documento citato in M. Roberti, Il libro dei giustiziati di Ferrara, cit., p.
836, nota 5.

234
La costruzione della città giudiziaria

Come altrove, l’area era sede di ospedali e lazzaretti, come quello di


San Matteo dei Crociferi in Mizzana, rifugio per appestati.
Nelle città di mare invece il luogo deputato delle esecuzioni
non sempre era situato sulle sue rive. I dati che sono riuscito a racco-
gliere non sono molti, a dire il vero, ma interessanti. A Genova, per
esempio, si ha notizia di esecuzioni che sin dal secolo XIII si teneva-
no, fuori le mura, sul promontorio di San Benigno, sul Capo Faro,
presso la torre della Lanterna. Altri luoghi penali erano invece situati
all’interno della cinta: per esempio, sempre fuori le mura, alla Porta
dei Vacca (dal nome della famiglia proprietaria di alcune abitazio-
ni in zona), costruita sulla terza cerchia all’epoca del Barbarossa. A
Napoli il luogo delle esecuzioni fu sempre la Piazza del Mercato 81,  

vicina al porto, ma non affacciata sul mare, perché da esso separa-


to dalla cinta muraria fatta costruire da Carlo I d’Angiò. A Ragusa,
in età veneziana, al contrario, la riva del mare fu teatro stabile delle
esecuzioni capitali. Da uno studio recente sappiamo che due furo-
no i luoghi deputati, entrambi fuori le mura: a sud est, nella località
detta Ploče, si tenevano le decapitazioni; a nord ovest, sulla collina a
picco sul mare detta Danče, erano erette stabilmente le forche per le
impiccagioni, come appare anche da fonti iconografiche 82. Entrambi  

i luoghi si trovavano sul mare, poco distanti dalle mura e lungo le


principali vie di accesso alla città. Come a Firenze, entrambe le lo-
calità erano connotate dalla marginalità: sin dal secolo XIV a Ploče
erano confinati i lebbrosi, mentre a Danče nel secolo XV fu costrui-
to un complesso per gli appestati 83.  

3.4. L’uso di giustiziare fuori delle mura non era però sistema-
tico. Anche nelle città finora illustrate molti luoghi di esecuzione, a
cominciare dalle piazze principali (del comune, del mercato, etc.),
erano situati al loro interno. Prevaleva una pluralità di situazioni,
dettate spesso dallo status del condannato, dal tipo di reato, dalle
contingenze politiche. Quando l’eccezionalità del momento o la ten­
sione della piazza richiedevano un’esecuzione esemplare, rapida e di

81 Cfr. G. Pa­nico, Il carnefice e la piazza. Crudeltà di Stato e violenza popola-


re a Napoli in età moderna, Napoli 1985, pp. 22, 25, 27 e passim (con mappe alle
pp. 29-32).
82 N. Lonza, La giustizia in scena: punizione e spazio pubblico nella Repubblica
di Ragusa, «Acta Histriae», 10 (2002), pp. 177-182.
83 Ivi, pp. 181-182.

235
Andrea Zorzi

forte risonanza, tale da ribadire la forza e l’autorità del potere, questa


veniva mandata a compimento nelle strade o nelle piazze delle città.
Le fonti privilegiate per queste situazioni eccezionali sono so-
prattutto le cronache o i registri delle confraternite che confortavano
i condannati e ne curavano la sepoltura. Ho qualche esempio per
Firenze di varia tipologia. Nelle giornate del tumulto dei Ciompi,
«certi fiamminghi ch’andavano rubando» furono giustiziati nel cuo-
re della vita pub­blica: «l’un fu impiccato al Prato Ogniessanti, l’altro
in sulla piazza di Santa Maria Novella a una finestra ferrata, alla-
to a l’Ospedale de’ Pin­zocheri, e l’altro in Mercato Vecchio, allato
a una colonna sotto un di que’ tetti della loggia de’ Tavernai; l’al-
tro quarto fu [tratto] in sulla piazza di nostri Signori, ed ivi subito fu
fatto un paio di forche e [...] fu impiccato [...]. Onde i ladri e ruba-
tori, veggiendo così impiccare, si ristettono», chiosa il cronista 84. In  

altri casi, le esecuzioni furono consumate sullo stesso luogo del cri-
mine: un giovane ladro pregiudicato, venne per esempio «inpiccato
quivi dal campanile» di S. Maria del Fiore il 1 aprile 1475 per aver
ru­bato nella canonica; Domenico di Meo fu impiccato il 30 marzo
1476 davanti alla sede della gabella del Sale «dove haveva rubato»;
Tommaso da Venezia il 9 marzo di tre anni dopo in Mercato Nuovo
«per avere rubato in un bancho di un mercante» 85. In altri ancora,
 

i luoghi di esecuzione si rapportavano allo status del giustiziato: nel


1458, per esempio, quattro gabellieri furono impiccati alle porte di
S. Frediano, S.Gallo e alla Croce — cioè sui luoghi di lavoro — per
avervi commesso delle malversazioni; nel 1472 un tale Giulio «ruffia-
no» fu impiccato nella piazza del Frascato — nel cuore della zona dei
bordelli — per omicidio; nel 1496 un Gherardo «gualcheraio» venne
impiccato «su la piazza d’Arno di rinpecto al Tiratorio» 86.  

La pratica di erigere le forche sul luogo del delitto fu legittimata


degli stessi giuristi. Il Gambiglioni riteneva che «executio aliquando
fit in loco delicti ad maiorem exaggerationem [...], ut ibi puniatur ubi
deliquit ut caeteris sit exemplum [...], ut ante domum in qua furtum

84 Diario d’anonimo fiorentino dall’anno 1358 al 1389, a cura di A. Gherardi,


in Cronache dei secoli XIII e XIV, Documenti di storia italiana, Firenze 1876, vol.
VI, pp. 359-360.
85 Cfr., rispettivamente, Luca Landucci, Diario fiorentino dal 1450 al 1516, a
cura di I. Del Badia, Firenze 1883, p. 14; Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze,
II.I.138, c. 77r; ivi, Cappugi, 428, p. 6.
86 Cfr. ibidem, II.I.138, cc. 75r, 76v, e 80r.

236
La costruzione della città giudiziaria

commissum est furcae aliquando eriguntur» 87. Anche le cronache


 

bolognesi confermano tali usi. Nel 1448 un omicida fu impiccato «in


quello luogho dove lui havea morto Aniballe di Bentivogli, zoè [...]
drieto el guasto di Ghixilieri: et taiatoli la testa, fu impichato per li
piedi in mezo della strada, et stetili dui zorni»; nel 1481, un famiglio
di un oste che aveva compiuto un furto nell’albergo «fu apichado da
l’albergo dal Lione con uno chapestro d’oro» 88. La topografia delle
 

esecuzioni disegnava dunque una variegata città giudiziaria.

4. Gli spazi dei rituali


Siamo venuti identificando finora le due polarità urbanistiche
principali: le sedi di tribunale e i luoghi delle esecuzioni. Tra i due
estremi stavano gli spazi — le vie e le piazze — percorsi dai cortei giu-
diziari che accompagnavano i condan­nati, conferendo solennità alla
pubblica esecuzione delle condanne, attraverso alcuni elementi di
comunicazione: le campane che segnalavano l’imminenza della pro-
cedura, le trombe suonate per richiamare l’attenzione per la lettura
delle sentenze, le grida dei banditori che richiamavano l’attenzio-
ne, la mostra di insegne e pennoni, le soste del corteo giudiziario nei
luoghi pubblici di rilievo, il carro su cui erano talora innalzati, e tor-
turati, i condannati a morte, e così via 89.  

I percorsi urbani seguiti dai cortei giudiziari vennero indivi-


duando progressivamente degli itinerari preferenziali. In taluni casi,
essi erano recepiti dalla normativa, secondo percorsi predefiniti.
Così, per esempio, a Belluno i ladruncoli dovevano essere frustati per
la città secondo un itinerario prestabilito «a porta Drioni usque ad
illam de Rudo», mentre a Pisa i condannati per falsa testimonianza
dovevano essere condotti «per civitatem ab ecclesia S. Mathei usque
ad ecclesiam S. Viti» trascinati da una corda uncinata alla lingua, che
poi sarebbe stata loro amputata 90. In altri statuti l’indicazione era
 

generica: a Vercelli, nel 1211, «scopetur cum uvis ad collum per civi-
tatem»; a Bologna, nel 1250, «scuvetur per civitatem»; a Parma, nel
1255, «per civitatem debeat ducere lignum ad collum et verberari»;
a Lucca, nel 1308, «strascinetur per civitatem»; a Modena, nel 1327,

87 Gambiglioni, Tractatus de maleficiis, Venetiis 1486, § Usque ad locum.


88 Corpus chronicorum bononiensium, cit., XVIII/I, 4, pp. 462 e 161.
89 Cfr. Zorzi, Le esecuzioni delle condanne a morte, cit., pp. 176-205.
90 Citazione in Gatti, L’imputabilità, cit., p. 693.

237
Andrea Zorzi

«fustigetur per civitatem» 91.  

Le fonti di tipo cronachistico e memorialistico mettono in evi-


denza come i percorsi potessero variare per motivi diversi — in primo
luogo, in funzione dello status del condannato o della qualità del rea-
to — caricandosi di signi­ficati differenti in relazione alla sim­bolicità
dei luoghi attraversati 92. Limiterò gli esempi dell’uso giudiziario de-
 

gli spazi a due città molto diverse per conformazione urbanistica:


Venezia e Firenze.
A Venezia i luoghi e i rituali di giustizia appaiono segnati dal
legame che la città intrecciò da sempre con le «acque salse» su cui
sorse. Alla metà del Trecento i luoghi di giustizia appaiono ormai
stabilizzati nell’area di piazza San Marco: tra le due colonne rosse
della loggia di Palazzo Ducale, «ad columnas rubeas palatii super
plateam» 93, da cui solitamente si affacciava il doge, e, soprattutto —
 

come già detto —, «ad locum justitie in medio duarum columnarum»


nella Piazzetta 94. In genere i condannati vi erano condotti dopo un
 

lungo percorso rituale, che intrecciava vie d’acqua e di terra 95. Dalle  

prigioni di Palazzo Ducale il sentenziato era legato a un palo su una


chiatta e condotto «per canalle usque ad Sanctan Crucem cum uno
precone qui continuo clamet culpam suam» 96: il corteo acqueo risali-
 

va dal bacino di San Marco il Canal Grande fino all’estrema periferia


nord occidentale della città, ai confini del sestiere di Santa Croce, se-
gnati all’epoca da acque stagnanti e saline, dove sorgevano la chiesa e
il monastero che davano nome al rione nell’area degli attuali Giardini
Papadopoli 97. Il significato era evidente: in assenza di mura, il con-
 

dannato veniva espulso simbolicamente dalla città portandolo fino ai

91 Cfr. ivi, pp. 690-691 e 695.


92 Sulla simbolicità dei luoghi delle pene, cfr. anche le osservazioni di Ortalli,
“...pingatur in Palatio...”, cit., pp. 43-48.
93 Citato in Puppi, Lo splendore dei supplizi, cit., p. 20. Le colonne rosse do-
gali sono attestate come luogo di impiccagione sin dal 1355: cfr. G. Tassini, Alcune
delle più clamorose condanne capitali eseguite in Venezia sotto la Repubblica, Venezia
1892, p. 24, nota 9.
94 Luogo di esecuzioni attestato già dal 1297: cfr. ivi, p. 16.
95 Vari esempi in Puppi, Lo splendore dei supplizi, cit., pp. 19-21; E. Muir, Il
rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984, pp. 293-276; G. Ruggiero,
Patrizi e malfattori. La violenza a Venezia nel primo Rinascimento, Bologna 1982, pp.
109-111; e, soprattutto, Id., Constructing civic morality, cit., pp. 174-190.
96 Ivi, p. 175.
97 Cfr. Tassini, Alcune delle più clamorose condanne capitali, cit., p. 27, nota
5.

238
La costruzione della città giudiziaria

suoi estremi confini più degradati, dopo averne attraversato la prin-


cipale via d’acqua. Da Santa Croce il percorso si faceva terrestre.
Il condannato era trascinato «ad caudam unius equi […] usque ad
Sanctum Marcum»: la via di terra consentiva di condurlo «ad locum
ubi commisit delictum», dove veniva in genere mutilato 98. La morte  

veniva data, invece, nelle più varie tipologie, quasi sempre tra le due
colonne della Piazzetta, all’altezza dell’angolo del Palazzo Ducale,
sotto l’immagine in altorilievo dell’allegoria di Venezia nei panni del-
la Giustizia con la spada 99.  

Le fonti fiorentine consentono, invece, di distinguere due tipi


di percorsi: uno breve, diretto, tra il palazzo di giu­stizia e il luo-
go delle esecuzioni; e uno più lungo, che sostanziava la pubblicità e
l’esemplarità della pena attraverso un vero e proprio giro per la cit-
tà. Il tragitto più breve era coperto dal corteo nei casi di esecuzioni
di minore rilevanza, e, soprattutto, nelle occasioni in cui si temevano
disordini lungo il percorso e aggressioni alla scorta intesi a liberare
o a linciare il condannato. In questi casi l’autorità cercava di per-
correre il tratto di strada più diretto: se muoveva dal palazzo del
podestà, il corteo percorreva la antica via della Vigna e, costeggian-
do l’isolato delle Stinche, giungeva in piazza S. Croce per im­boccare
la lunga strada — nel primo tratto via S. Giuseppe, nell’ultimo via
della Giustizia (oggi dei Malcontenti) — che attraverso la porta di S.
Francesco sbucava sul luogo delle esecuzioni; se in­vece muoveva da
uno dei palazzi che avevano sede in piazza della Signoria, il corteo
scendeva in piazza S. Firenze per imboccare Borgo de’ Greci e sbu-
care in piazza S. Croce, dove l’itinerario si unificava al precedente.
Nelle esecuzioni per motivi politici il corteo della giustizia
percorreva itinerari più lunghi, toccando i luoghi eminenti della ge-
rarchia urbana. Se la piazza dei Signori era quasi sempre il punto di
partenza del corteo, i mercati e Or San Michele erano a loro volta luo-
ghi privilegiati dell’itinerario, in quanto quoti­diani punti di incontro
di una multitudine di persone: una processione partita dal palazzo
del podestà giunse, per esempio, «infino in Mercato Vechio, e volti
per Chalimala e per Merchato Nuovo e su per Vachereccia [si avviò

98 Ruggiero, Constructing civic morality, cit., p. 175.


99 Simbolo della giustizia penale in affermazione, “egemonica”, secondo M.
Sbriccoli, La benda della Giustizia. Iconografia, diritto e leggi penali dal medioevo al-
l’età moderna, in Ordo iuris. Storia e forme dell’esperienza giuridica, a cura di Id. et
al., Milano 2003, pp. 92-95.

239
Andrea Zorzi

infine al luogo di giustizia passando] giù da la piaça del Grano» 100.  

Eccezionale per ricchezza di informazioni sul tragitto percorso dal


corteo della giustizia è infine la narrazione del supplizio del minorita
Michele da Calci, condannato per eresia nel 1389, stesa da un ano-
nimo seguace. Dalla piazza dei Priori fra Michele fu condotto per S.
Firenze, via del Proconsolo, S. Reparata, S. Giovanni, al Vescovado,
e poi al Mercato Vec­chio, in Ca­limala, in Mercato Nuovo, nuova-
mente sulla piaz­za dei Priori — quasi a compiere per intero il giro
del quadrato romano di fondazione della città —, e quindi giù alla
piazza del Grano, in S. Remigio, in S. Croce, e infine, «volto il can-
to», verso la porta della Giustizia e al prato fuori della porta 101.  

5. Conclusioni
Il processo di costruzione della città giudiziaria tra XIII e XIV
secolo appare indubbio. Quasi tutte le città italiane si diedero in quel
periodo palazzi di giustizia, costruirono prigioni, identificarono luo-
ghi deputati alle esecuzioni, definirono percorsi urbani per i rituali
giudiziari. Il dato di fondo fu quello dell’espansione demografica e
urbanistica, che raggiunse l’apogeo proprio nei decenni a cavallo tra i
due secoli. Come è noto, essa si tradusse anche in scelte architettoni-
che nuove, caratterizzate dallo sviluppo dell’edilizia pubblica e dalla
ricerca del decoro urbano 102. Al nuovo ordine architettonico contri-
 

buì anche la definizione di un nuovo ordine pubblico e giudiziario.


La discontinuità fu data dallo sviluppo del sistema penale. Un
po’ semplificando — ma non senza ragione — possiamo osservare
come i regimi precedenti a quello comunale e il primo secolo del suo
svolgimento esercitarono forme di giustizia prevalentemente arbitra-
rie e compositive, in cui la componente penale era limitata a qualche
esecuzione capitale di carattere eccezionale 103. Furono soprattutto i
 

100 Alle bocche della piazza. Diario di anonimo fiorentino (1382-1401), a cura
di A. Molho - F. Sznura, Firenze 1986, p. 218 (22 novembre 1400).
101 Anonimo Trecentista, Storia di fra Michele minorita, a cura di F. Flora,
Firenze 1942, pp. 62-75.
102 Cfr. E. Crouzet-Pavan, “Pour le bien commun” ...: à propos des politiques
urbaines dans l’Italie communale, in Pouvoir et édilité, cit., pp. 11-40; e, per uno
sguardo d’insieme, A. Grohmann, La città medievale, Roma-Bari 2003.
103 Cfr. A. Padoa Schioppa, Il ruolo della cultura giuridica in alcuni atti giu-
diziari italiani dei secoli XI e XII, «Nuova rivista storica», 64 (1980), pp. 265-289;
Id., Aspetti della giustizia milanese dal X al XII secolo, in Milano e il suo territorio

240
La costruzione della città giudiziaria

regimi di “popolo” a mettere in campo un nuovo arsenale giudizia-


rio fondato sull’espansione del sistema penale e sull’estension di una
gamma variegatissima di punizioni corporali, afflittive e infamantie a
una serie di comportamenti sempre più criminalizzati 104.  

Ciò aiuta a meglio interpretare la spanna cronologica avanza-


ta — di fatto dagli ultimi decenni del Duecento — in cui la giustizia
cominciò a definirsi come un esercizio crescentemente materiale e
progressivamente presente nell’immagine urbana, all’esterno delle
aule di tribunale, nei molti luoghi e spazi in cui si vennero stabilizzan-
do gli usi amministrativi e rituali da parte della giustizia cittadina.
Sarebbe però schematico ricondurre lo sviluppo della città giu-
diziaria all’affermazione di determinati regimi politici, tanto meno
alla messa in campo di politiche di disciplinamento da parte dei re-
gimi popolari. A ben vedere, tale sviluppo non corrispose nemmeno
alla stabilizzazione di poteri più saldi e autorevoli, come potremmo
credere per via teleologica, perché i fenomeni che abbiamo analiz-
zato corrisposero semmai ai decenni più turbolenti e di crisi delle
istituzioni comunali e continuarono anche quando il quadro politi-
co mutò decisamente verso soluzioni signorili e sovracittadine. Più
semplicemente, si potrebbe osservare come la costruzione materiale
della giustizia fu soprattutto espressione della più generale fioritura
della civiltà comunale.

in età comunale, Spoleto 1989, pp. 459-549; Id., Note sulla giustizia milanese del se-
colo XII, in Miscellanea Domenico Maffei dicata. Historia Jus Studium, a cura di A.
García García - P. Weimar, Goldbach 1995, vol. IV, pp. 219-230; Wickham, Legge,
pratiche e conflitti, cit.; e M. Vallerani, Procedura e giustizia nelle città italiane del
basso medioevo (XII-XIV secolo), in Pratiques sociales et politiques judiciaires dans
les villes de l’Occident à la fin du Moyen Age, cit., pp. 439-494; Id., Tra astrazione
e prassi. Le forme del processo nelle città dell’Italia settentrionale del secolo XII, in
Praxis der Gerichtsbarkeit in europäischen Städten des Spätmittelalters, a cura di F.J.
Arlinghaus et al., Frankfurt 2006, pp. 135-154.
104 Cfr. Zorzi, Negoziazione penale, legittimazione giuridica e poteri urbani
nell’Italia comunale, cit.; G. Milani, Giuristi, giudici e fuoriusciti nelle città italia-
ne del Duecento: note sul reato politico comunale, in Pratiques sociales et politiques
judiciaires dans les villes de l’Occident à la fin du Moyen Age, cit., pp. 595-642; Id.,
L’esclusione dal comune. Conflitti e bandi politici a Bologna e in altre città italiane tra
XII e XIV secolo, Roma 2003; e M. Vallerani, Il potere inquisitorio del podestà di
fine Duecento, in Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, a cura di G. Barone - L.
Capo - S. Gasparri, Roma 2001, pp. 379-417; Id., La giustizia pubblica medievale,
Bologna 2005.

241
Domenica 13 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Giuliano Pinto

Anna Benvenuti
Sotto la volta del cielo. Luoghi, simboli e
immagini dell’identità cittadina

Beati gli ultimi, dice il precetto evangelico, ma a condizione


che i primi siano discreti, suggerisce la prudenza popolare: e non
è questo il mio caso, almeno nei confronti del giovane amico Dario
Canzian, destinato a venire dopo di me nell’ordine odierno dei lavo-
ri, al quale intendo ‘saccheggiare’ ai fini della mia esposizione una
interessante fonte padovana che mi consentirà di non richiamare
una esemplificazione ormai assai nota dopo i tanti lavori dedicati
al tema della simbolica sacra nel mondo cittadino 1. Lascerò così da
 

parte la tomba di Antenore o il Regisol pavese così come le devozio-


ni civiche riservate a Virgilio in area mantovana o napoletana, o le

1 A.M. Orselli, Tempo, città e simbolo fra tardoantico e alto Medioevo,


Ravenna, Edizioni del Girasole, 1984; Ead., L’immaginario religioso della città me-
dievale, Ravenna, Edizioni del Girasole, 1985; Ead., Simboli della città cristiana fra
tardoantico e medioevo, in La città e il sacro, a cura di F. Cardini, Milano, Scheiwiller,
1994, pp. 421-450; Ead., Coscienza e immagini della città nelle fonti tra V e IX seco-
lo, in Early medieval towns in the Western Mediterranean, Ravello (22-24 September
1994), a cura di G. P. Brogiolo, Mantova, Società Archeologica Padana, 1996, pp.
9-16; Ead., L’idée chrétienne de la ville: quelques suggestions pour l’Antiquité Tardive
et le haut Moyen Age, in The idea and ideal of the town between late Antiquity and
the early Middle Ages, edited by G.P. Brogiolo - B. Ward-Perkins, Leiden, Brill,
1999, pp. 181-193; Ead., Imagines urbium alla fine del tardo antico, in Imago urbis:

243
Anna Benvenuti

prosopografie fantastiche della mitografia perugina 2; un argomento  

così ampio e diversificabile come quello che mi è stato assegnato


nel contesto di questo convegno obbliga alla scelta esemplificativa
ed alla selezione tematica, non potendo essere sviluppato in breve
tempo nella sua disparata morfologia. Mi avvarrò quindi di un pre-
testo (la Visione trecentesca della città di Padova che, sotto la specie
della profezia, il giudice Giovanni da Nono attribuiva al mitico ‘re
Egidio’ testimone della distruzione della città nel tempo di Attila 3)  

per richiamare solo alcuni tra i tanti temi possibili, trascurando quelli
altrove sviluppati, come i rituali della religiosità civica o i culti patro-
nali nei quali si esprime compiutamente la creazione di un sistema
di riferimenti identitari nel mondo cittadino 4. È doveroso parlare
 

di ‘sistema’ per comprendere le polisemie dell’autorappresentazione


e dell’autoconsapevolezza municipale medievale, tenendo presen-
te l’intreccio di elementi extra-storiografici, cioè avulsi dal registro
formale della scrittura ed ancorati a quello semiologico del visivo e
dell’oralità, che collabora alla costruzione di questo patrimonio me-
moriale comune 5.  

l’immagine della città nella storia d’Italia, a cura di F. Bocchi, Roma, Viella, 2003,
pp. 233-250; Ead., Lo spazio dei santi, in Uomo e spazio nell’alto Medioevo, Spoleto,
CISAM, 2003, pp. 855-890.
2 Per i simboli identitari di carattere ‘laico’ cfr. P. Golinelli, Quando il san-
to non basta più: simboli cittadini non religiosi nell’Italia bassomedievale, in La
religion civique à l’époque médiévale et moderne (Chrétienté et Islam). Actes du col-
loque de Nanterre (21-23 juin 1993), sous la direction d’André Vauchez, Rome,
École Française de Rome, 1995, pp. 375-389. Per lo specifico sacro padovano cfr.
A. Tilatti, Istituzioni e culto dei santi a Padova fra VI e XII secolo, Roma, Herder,
1997.
3 Per la presentazione dell’autore e l’edizione del testo cfr. G. Fabris, Cronache
e cronisti padovani, introduzione di L. Lazzarini, Cittadella (PD), Rebellato, 1997
[ripreso dall’edizione e studio del medesimo Fabris pubblicato in «Bollettino
del Museo civico di Padova», XXV (1932), pp. 1-33; XXVI (1933), pp. 167-200;
XXVII-XXVIII (1934-1939), pp. 1-30], pp. 35-168: per la Visio in particolare le pp.
139-168; della ristampa del 1997 si utilizza anche la traduzione italiana. L’opera sarà
d’ora in avanti indicata in forma abbreviata come Visio Egidij.
4 Per questo vasto e ormai articolato sistema rappresentativo cfr. La religion
civique, cit.; si veda anche A. Benvenuti, Introduzione, in H.C. Peyer, Città e patro-
ni cittadini nell’Italia medievale, ed. ital. a cura di A. Benvenuti, Firenze, Le Lettere,
1998 (ed. orig., Stadt und Stadtpatron in mittelalterlichen Italien, Zürich, Europa
Verlag, 1955), pp. 7-37 e, più recentemente, Ead., La civiltà urbana, in Storia della
santità nel cristianesimo occidentale, Roma, Viella, 2005, pp. 157-222.
5 Per una esemplificazione fiorentina di questi percorsi mitografici mi per-

244
Sotto la volta del cielo

Proiettata sullo sfondo onirico-scritturale di una profezia di


fondazione, questa straordinaria ‘guida’ alla Padova trecentesca si
presta particolarmente ad essere assunta ad esempio di percezione
simbolica oltre che descrittiva: Giovanni è infatti testimone non solo
della forma urbis ma anche dei suoi significati e delle sue funzio-
ni, a riprova di quella capacità tutta medievale di coniugare (nella
creazione di un paradigma di eccellenza competitiva tale da assicu-
rare alla propria città il primato su tutte le altre) il registro razionale
del più realistico pragmatismo con quello metaforico del mito. Per
Giovanni Padova, definita in prima istanza dalla cerchia delle mura e
poi dall’importanza dei suoi edifici principali, si presenta come urbs,
secondo la classica definizione isidoriana, prima ancora che come
civitas: anche se è poi in sostanza questo secondo aspetto (l’insieme,
cioè, di uomini che la abitano e partecipano di una comune identità
fondata sulla comunanza di leggi, ma anche di storia e di memoria 6)  

a prevalere nella visione del giudice e ad ispirare la trilogia narrativa


nella quale egli inscrive il doppio registro, simbolico e reale, della
vicenda patavina: nel De hedificatione urbis Patholomie egli aveva
infatti delineato in chiave romanzesca il tracciato mitico-genealogi-
co della città riconnettendolo al filone delle origini troiane caro alla
tradizione storiografica comunale dell’Italia centro-settentrionale.
Su queste fondamenta legittimanti egli avrebbe costruito l’immagine
(trionfale) del suo presente storico affidandola, nell’artificio lettera-
rio, ad una metacronica Visio con cui un angelo avrebbe mostrato ad
un «quidem Egidius patavorum rex» il futuro della città dopo la
tenebra ‘barbarica’ (non a caso riferita ad un Attila ungarico) 7.  

Questo potenziale futuro era destinato ad attualizzarsi solo


dopo un lungo periodo di tribolazioni, quando la città, risol-

metto di rinviare ancora ad A. Benvenuti, “Secondo che raccontano le storie”: il mito


delle origini cittadine nella Firenze comunale, in Il senso della storia nella cultura
medievale italiana, Atti del XIV convegno del Centro Italiano di Studi di Storia e
d’Arte (Pistoia, 14-17 maggio 1993), Pistoia, Centro Italiano di Studi di Storia e
d’Arte, 1995, pp. 205-252.
6 Sia per l’inquadramento biografico di Giovanni da Nono (1276-1346) sia
per quello della sua ‘trilogia’ storiografica (comprendente il De hedificatione urbis
Patholomie, la Visio Aegidij regis Pataviae che qui ci interessa, e il De generatione
aliquorum civium urbis Paduae tam nobilium quam ignobiliuum) si rinvia alle sem-
pre indispensabili osservazioni del Fabris in Id., Cronache e cronisti padovani, cit.,
pp. 63-72.
7 Visio Aegidij, p. 139.

245
Anna Benvenuti

levatasi dalla tirannide ezzelinana e prima delle nuove turbolenze


aperte con le guerre scaligere, avrebbe conosciuto un effettivo boom
edilizio racchiudendo la sua nuova forma entro una straordinaria
cinta muraria: ‘cornice’ urbanistica di una civitas fatta di uomini e
di lignaggi nei quali il giudice identificava la vera fisionomia sociale
della città ed alla quale avrebbe dedicato la sua terza ed ultima fatica,
il De generatione aliquorum civium urbis Paduae tam nobilium quam
ignobilium 8. 

La cornice ucronica del mito di fondazione, così come il rinvio


profetico e provvidenziale della Visio nel quale si inscrive ab origine
la storia padovana, non è pretesto narrativo ma metafora signifi-
cante quel patto tra Dio e gli uomini a proposito del loro destino
storico che, traslato dal Vecchio al Nuovo Israele, faceva si che ogni
città potesse sentirsi «Nova Jerusalem», reificazione della società
perfetta rappresentata nell’Apocalisse giovannea. Nutrita di figure
teologiche, ma al contempo solidamente poggiata sul sedimento del-
le historie profane di Roma, la cultura di transizione del Duecento
italiano avrebbe a più riprese sintetizzato questi due registri nella
elaborazione del proprio sistema di rappresentazioni storiche, specie
laddove esse rievocavano l’alfa della vicenda cittadina. Non stupirà
così trovare, come explicit di un racconto avviato dalla apparizione
dell’Angelo, latore del libro contenente le profezie relative al destino
storico di Padova e della Marca Trevigiana, il ricordo della grande
‘carta del cielo’ commissionata a Giotto per la loggia del Palazzo
della Ragione 9 nella quale «per astrologia», per dirla come Giovanni
 

Villani, si fissava l’ascendente astrale della città e con esso la sua vir-
tus. Quasi tutte le città dell’Italia comunale attinsero alla immutabile
mantica delle stelle rifacendosi al mito liviano della fondazione di
Roma e ad esse legarono anche buona parte del proprio sistema di
percezione temporale, creando una vera e propria strumentazione
astronomico-monumentale di supporto al computo calendariale: così

8 Cfr. Fabris, Cronache e cronisti padovani, cit., pp. 63-72.


9 F. Saxl, Un ciclo astrologico del tardo medioevo: il Salone della Ragione a
Padova, in Id., La fede negli astri: dall’antichità al Rinascimento, a cura di S. Settis,
Torino, Boringhieri, 1985, pp. 280-286; G. Bozzolato, Dalle pitture di Giotto agli
affreschi del ’400, in Il Palazzo della Ragione a Padova. Dalle pitture di Giotto agli
affreschi del ’400, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 1992, pp. 9-70;
E. Berti, Filosofia, astrologia e vita quotidiana nella Padova del Trecento, ivi, pp.
97-108.

246
Sotto la volta del cielo

ad esempio Firenze, che avrebbe inscritto il proprio ‘compleanno’


patronale nella struttura architettonica del Battistero 10 facendone  

uno gnomone monumentale idoneo a segnalare, con il raggio di


sole che nel giorno dell’equinozio di primavera raggiungeva il cen-
tro dello zodiaco pavimentale, un evento astronomico dalla difficile
percezione fisica. Luogo d’incontro tra macrocosmo e microcosmo,
le chiese furono spesso chiamate a questo uso strumentale che co-
niugava necessità tecniche, come l’altezza o la stabilità costruttiva,
con un composito sistema mitico-rituale a sua volta accolto, con
disparato processo acculturante, entro le coordinate cristiane del-
la liturgia. L’analisi dei calendari, singolarmente trascurata dalla
storiografia, rivela compiutamente queste interazioni nei sistemi di
computo 11. Anche la Padova evocata nelle visione ucronica del suo
 

destino monumentale dalla penna del giudice Giovanni attribuisce


al cielo il proprio segno, commissionando a Giotto, e proprio sotto
la volta del Palazzo della Ragione, la raffigurazione del proprio oro-
scopo pubblico: «Duodecim celestia signa et septem planete cum
suis proprietatibus in hac cohopertura fulgebunt, a Zotho sum-
mo pictorum mirifice laborata, et alia sidera aurea cum speculis
et alie figurationes similiter fulgebunt inte­rius» 12. Declinato in
 

molteplici modi, il tema del destino cittadino e della sua prefigura-


zione astrale si esprime in una polisemia di rappresentazioni che non
è qui possibile richiamare analiticamente, ma che meriterebbe una
maggiore attenzione.
Tornando alla Visio Egidij, il profilo della città suggerito dallo
scrittore si definisce anche attraverso la gerarchia delle sue attività
economiche e politico amministrative. Come nella storiografia fioren-
tina, che attribuiva ai periodi di tirannide significative recessioni sul
piano della vitalità civica, anche la prosperità municipale di Padova
restava affidata alla libertas dei suoi cittadini ed alla dinamica inurba-
tiva che attraeva verso di essa le migliori risorse comitatine: «In illo
autem tempore renovabitur civitas Padue et incipiet prosperari.
A longe venient nobiles et ignobiles viri habitare in illam, qui tot
palacia totque turres in ipsa construent, quod quasi nemus unum

10 La linea del sole: le grandi meridiane fiorentine, a cura di F. Camerota,


Firenze, Edizioni della Meridiana, 2007.
11 G. Romano, Orientamenti “ad sidera”: astronomia, riti e calendari per la fon-
dazione di templi e città: un esempio a Ravenna, Ravenna, Essegi, 1995.
12 Visio Egidij, p. 155.

247
Anna Benvenuti

videbitur. Et pacem dabo civibus suis, usque ad tempus illud, in


quo aquila magna exiet de nido Suevie, que cum pullis suis ve-
niet ad volandum» 13.  

Puniti da Dio per i loro peccato con le ‘crisi’ ezzelinana («Sed


quia patavi facti erunt aliorum raptores bonorum, sicque bibentes
et comedentes pauperum sanguinem, Ecerinum de Honarìa illis
dabo, qui super eos horrendum exercebit dominium»), e scalige-
ra, i padovani avrebbero conosciuto un nuovo periodo di splendore
durante il quale l’intera forma cittadina sarebbe stata ridisegnata gra-
zie alla costruzione della nuova, magnifica cerchia muraria 14. Segno  

determinante della definizione urbana, essa costituisce il tema prin-


cipale della Visio, restituendo al sistema difensivo cittadino quella
centralità rappresentativa che spesso pare trascurata nella ricostru-
zione storiografica della percezione urbana 15 e che di contro, come
 

bene evidenzia l’iconografia, dovette invece costituirne il nucleo fon-


dante. Giovanni è particolarmente analitico nella descrizione delle
‘quattro porte regali’ 16, la cui bellezza architettonica viene declinata
 

anche in ragione della loro funzionalità economica in relazione al


dispiegarsi del sistema di viabilità terrestre e fluviale che fa capo alla
città. Anche le 15 porte minori che interrompono il circuito murario
meritano la particolare attenzione del giudice che, fornendo la loro
giustificazione onomastica, dettaglierà anche il contesto urbanistico
in cui esse sono inserite. Salvo poche eccezioni — come nel caso del-

13 Ivi, p. 140.
14 «In illo tempore urbis Padue pulcherrimus murus nempe a tuis hedifica-
tus patavis unum circumdabit miliare, qui ad similitudinem equini ferri volvetur
in girum, lapidibus terre atque montanis, in altitudinem cubitorum quinquaginta
deductus et quem Bachiglonis et Thesene aqua, usque dum Vicentia per Catulum
veronensem de manibus paduanorum erit erepta, ordinate circumdabit. Et eius
postea fons nobilissime Brente resanabit aerem. Altitudo fundamenti eius erit cu-
bitorum quindecim ac latitudo cubitorum decem»; ibidem, pp. 141-142.
15C. De Seta - J. Le Goff, La città e le mura, Milano, CDE, 1990.
16 «Quatuor portas regales patavi ordinabunt in ilio. Harum prima dice-
tur Janua pontis molendinorum, eo quod triginta quatuor rote molentes
bladum omnis generis iuxta illam erunt hedificate. Pons istius porte ce-
teros urbis Padue pontes superabit pulchritudine et huius porte revolucio
ab omnibus, tam civibus quam forensibus, sua pulchritudine collaudabitur.
Per hanc portam septentrionalem erit hominum egressus ad ultrabren-
tanas partes precìpue et ad alias similiter. Secunda nominabitur porta
Sancti Johannis a Navibus, cum uno ponte pulcherrimo trium revolucio-
num hedificata occidentem versus. Extra hanc portam et in capite huius

248
Sotto la volta del cielo

la porta di Ezzelino, tristemente famosa per la presenza sotterranea


di un carcere malfamato 17, o quelle definite dalla limitrofa presenza
 

di insediamenti consortili, come la porta dei Tadi o dei Contarini —


quasi tutte — non esclusa una delle maggiori, quella di San Giovanni
delle Navi, così chiamata per la vicinanza dell’ospedale degli omo-
nimi cavalieri — derivavano il loro nome da quello dell’edificio
ecclesiastico più prossimo: San Leonardo, San Pietro (per la pre-
senza accanto alla porta di un omonimo monastero femminile), San
Tommaso vescovo (detta anche di Sant’Agostino «quia ex opposito
illius et ultra flumen in palude uno hedificabitur a patavis tem-
plum magnum beati Augustini, ordinis predicatorum» 18), San  

Luca (per la presenza di un antico edificio sacro posto sotto il titolo


dell’evangelista che, demolito in occasione della costruzione delle
mura sarebbe stato ricostruito a breve distanza, ospitando le reliquie
di san Crescenzio vescovo 19); e ancora Sant’Egidio («propter eccle-
 

pontis, ex lapidibus coctis atque montanis laborati, hedificabitur una ec-


clesia fratrum et militum hospitalis sancti Johannis Baptiste. Erit etiam
ibi prope navium portus, in quibus navigabitur ad Montem Silicem, civi-
tatem Hestensem atque ad ceteros montes Heuganeos. Per hanc similiter
portam erit hominum iter ad Montem Rubeum iuxta quem fuit hedifica-
ta Heuganee civitas, cuius burgi usque ad villam Bursegane indubitanter
extendebantur. Per eam ducentur latrones et homicide et alii malefactores
ad campum unum qui dicetur campus sanctus, in quo super eos iusticia se-
cundum delicta exequetur illorum.Tercia dicetur porta turrisellarum, que
versus meridìem erit hedificata. Nam in ista quarta parte civitatis Padue
erunt multo plures hedificate turres, quam in aliqua alia parte illius. Juxta
hanc portam erunt hedificate octo molendinarie rote, que erunt urbis
Padue. Per hanc portam erit hominum iter ad Montem Silicem, civitatem
Hestensem et ad reliquas partes illius. Quarta dicetur porta pontis altinati,
cum uno ponte duarum magnarum revolucionum, qui ex lapidibus monta-
nis et coctis contextus erit. Per hanc portam ibitur ad trivisinas partes et
ad civitatem Altini, que prius quam Patavia ab Anthenore rege hedificata fuit»;
Visio Egidij, p. 142.
17 «Quinta dicetur porta Castri Ecerini, nam ibi Ecerinus de Honaria castrum
unum cum turri magna, tempore sue tyrampnidis, hedificari facìet. Atque intra
illud et sub terra horrendum carcerem construet, intra quem multas dominas
nobiles et ignobiles cum viris poni faciet, qui fame peribunt et ipsi comeden-
tur a suis parasidibus; mures, qui alia pena eos afficient, expellere non valebunt;
mulieres ut homines, tam magnos quam parvos, volet castrari facere, quod con-
tra naturam est. Sed hic Ecerinus, post amissionem Padue, morte canis rabidi
se mordentis, in Soncìni castro ita morietur»: ivi, p. 144.
18 Ibidem.
19 Ibidem.

249
Anna Benvenuti

siam illius, que prope ipsam ab uno magno Karulo francorum


rege hedificabitur» 20), Santa Giuliana, Santo Stefano, («propter
 

monasterium dominarum illius que habitu nigro et velis nigris


incedent ornate» 21), e via dicendo.
 

Grazie a questo confine sacro che confermava le invocazioni


rituali del momento della fondazione delle mura — ed è utile anche
in questo caso ricordare come non sempre si sia evocato il registro
apotropaico della santità, ma anche quello epico degli eroi, come
nel caso del paladino Orlando che la legenda voleva sepolto sotto
le mura di Spello, o di mitici giganti fondatori, come nel caso di
Fiesole — le porte ribadivano, con le immagini devozionali dipinte
nelle lunette o sulle volte, quella richiesta di intercessione e di tui-
tio che si rendeva particolarmente necessaria nei momenti di guerra,
quando i patroni si libravano sugli spalti per scoraggiare gli assedianti
o l’oste comunale sfilava sotto i santi dipinti invocando la loro prote-
zione in battaglia. Luogo ‘critico’ del complesso difensivo 22, la porta  

addensa spesso su di sé una quantità di riferimenti di cui forniscono


ampia esemplificazione iscrizioni, dipinti, opere plastiche ancora su-
persiti negli apparati murari. Erede dell’antica superstizione romana
che attribuiva ai varchi apposite divinità tutelari, anche la sensibilità
medievale caricò queste aree liminali di segni di protezione: non fu,
ad esempio, infrequente che intercapedini particolari ricavate nella
struttura architettonica delle porte servissero da rifugio a reclusi il
cui sacrificio penitenziale poteva essere volto a favore di una inter-

20 Ibidem.
21 Ibidem.
22 Fortifications, portes de villes, places publiques, dans le monde méditerra-
néen, textes réunis par J. Heers, Paris, Presses de l’Université de Paris-Sorbonne,
[s.a.], in particolare F. Robin, Les portes de villes: symboles et représentations dans la
peinture et l’enluminure italienne (XIVe - XVe siècles), ivi, pp. 81-96 e N. Guglielmi,
L’image de la porte et des enceintes d’après les chroniques du moyen âge (Italie du
Nord et du Centre), ibidem, pp. 103-120; per alcune esemplificazioni cfr. A. Pitto,
Delle antiche immagini di Maria Santissima sopra le porte principali della città di
Genova, Genova, Tipografia delle Letture Cattoliche, 1877; F. D’Angelo, Le mura e
le porte di Palermo dal XII al XIV secolo, in Le città medievali dell’Italia meridionale
e insulare, Atti del convegno, Palermo, Palazzo Chiaromonte (Steri) (28-29 novem-
bre 2002), a cura di A. Casamento - E. Guidoni, Roma, Edizioni Kappa, 2004, pp.
224-230; G. Perbellini, Le porte di città nel medioevo in Europa e nel Veneto oc-
cidentale, «Castellum», XXVIII (1996), pp. 45-60; R. Manetti - M.C. Pozzana,
Firenze: le porte dell’ultima cerchia di mura, Firenze, CLUSF, 1979.

250
Sotto la volta del cielo

cessione specializzata 23. Senza spingersi oltre il buon senso — come


 

faceva anni fa Richard Trexler 24 sostenendo che la frequenza di mo-


 

nasteri femminili in prossimità delle porte si giustificava entro una


esclusiva funzione apotropaica —, l’idea che una seconda cerchia
immateriale di protettori celesti residenti nelle chiese prossime alle
porte potesse rafforzare il presidio materiale delle pietre trova non
poche conferme nelle fonti.
L’attenzione prestata dal giudice Giovanni ai torrenti che nel
loro percorso urbano venivano impiegati come integrazione al siste-
ma difensivo delle mura civiche, e più in genere la nota cura prestata
nel mondo cittadino medievale al sistema degli approvvigionamenti
idrici bene esemplifica quella tendenza a coniugare le necessità prati-
che con un ricarico simbolico cui accennavo all’inizio 25. Com’è noto,
 

la costruzione di grandi e scenografiche fontane nelle quali l’abilità


tecnica della costruzione di condotte si coniugò con ampiezza di ri-
ferimenti al sistema semantico della glorificazione municipale è stata
particolarmente evidenziata nel caso della dugentesca (1275-78)
Fontana Maggiore di Perugia, la cui valenza di simbolo monumen-
tale della città si sarebbe manifestata con chiarezza nel complesso
programma iconografico realizzato da Nicola e Giovanni Pisano
sotto la direzione di Fra’ Bevignate. Espressione di una raffinata
simbolica volta a ribadire, attraverso una serie di amplificazioni, i
segni del dominio pubblico sullo spazio — si pensi ai quattro grifoni
araldici in bronzo insediati a dominarne i punti cardinali — e sul
tempo cittadini, questa sintesi dei segni identitari perugini chiama-
va in causa sia il registro delle storie sacre dedotte dalla tradizione
veterotestamentaria, sia spunti di quella vitalissima ‘materia epica’
classica o troiana che avrebbe supportato, come anche nel caso di

23 Emblematico in questa prospettiva è il caso di san Simeone di Treviri:


Acta Sanctorum, Iunii I, edidit D. Papebroch, Parigi - Roma, apud Victorem Palmé,
1847, pp. 89-104; A. Heintz, Der heilige Simeon von Trier. Seine Kanonisation
und seine Reliquien, in Festschrift für Alois Thomas. Archaeologische, Kirchen-
und Kunsthistorische Beitrage, Trier, Selbst Verlag des Bistumsarchivs, 1967, pp.
163-73.
24 R.C. Trexler, Le célibat à la fin du Moyen-Âge. Les religieuses de Florence,
«Annales E.S.C.», XXVII (1972), pp. 1329-1350.
25 Si veda ad esempio l’importante esemplificazione senese: I bottini: acque-
dotti medievali senesi, Siena, Gielle, 1984 e, più recentemente D. Balestracci - L.
Vigni - A. Costantini, Memoria dell’acqua: i bottini di Siena, Siena, Protagon,
[2006].

251
Anna Benvenuti

Firenze e dei suoi contrastanti rapporti con Fiesole, la creazione di


un immaginario romano posto alla base della topografia leggendaria
cittadina 26. Anche nel caso della Fontana Maggiore, come del resto
 

nei riferimenti astronomici della edilizia sacra, spicca l’uso integrato


di simboli calendariali e zodiacali coi quali si ribadiva il destino del-
la città fissato negli esordi della sua storia, quando l’ascendente di
fondazione ne aveva in qualche modo predefinito l’identità genetica.
Analogamente, a L’Aquila la mitografia delle origini cittadine avrebbe
richiamato, attribuendolo alle intenzioni di Federico II, il carattere
idrico della città sorta sul presupposto di un diritto d’uso da parte
dei 99 soggetti fondatori — i castelli o le famiglie costretti dall’im-
peratore a consorziarsi per la creazione del centro urbano — sulle
altrettante cannelle della monumentale fontana pubblica 27. Il diritto  

di includere le fonti monumentali nel novero dei luoghi deputati ad


assolvere ad una funzione rappresentativa della identità municipale
trova una non facile conferma nello spettacolare caso iconografico
della fonte pubblica che affiancava a Massa Marittima il magazzi-
no annonario del Comune 28. Realizzata negli anni ’60 del Duecento,
 

essa tramanda un raro motivo pittorico — un albero ricolmo di falli


maschili la cui raccolta ingenera una contesa tra alcune delle donne
rappresentate ai suoi piedi — nel quale l’evidente richiamo alla fer-
tilità ha fatto supporre l‘esistenza di una consuetudine iconografica
popolare che, evocando contenuti licenziosi e rituali di fecondità tra-
dizionalmente riferibili al valore sacrale e terapeutico attribuito alle
acque, sarebbe poi stata rimossa in seguito all’imporsi, a partire dal
Quattrocento, di una nuova morfologia cultuale. Marina Montesano,
che ha evidenziato la lunga durata di queste superstitiones nel mondo
rurale e negli ambienti popolari oggetto della evangelizzazione osser-
vantina 29, ha illustrato la singolare crociata antipagana condotta da
 

26 C. Santini, Il linguaggio figurativo della Fontana Maggiore di Perugia, Atti


del Convegno, Perugia, Calzetti - Mariucci, 1996; A. Bartoli Langeli, - L. Zurli,
L’iscrizione in versi della Fontana maggiore di Perugia, 1278, Roma, Herder, 1996.
27 F. Bologna, La Fontana della Rivera all’Aquila detta delle “Novantanove
Cannelle”, L’Aquila, Textus, 1997, pp. 39-71; M.R. Berardi, I monti d’oro: identi-
tà urbana e conflitti territoriali nella storia dell’Aquila medievale, Napoli, Liguori,
2005, p. 155.
28 G. Ferzoco, Il murale di Massa Marittima = The Massa Marittima mural,
Firenze, Regione Toscana, [2000]; Massa Marittima: l’albero della fecondità, Massa
Marittima, [s.n.], 2000.
29 M. Montesano, L’Osservanza francescana e la lotta contro le credenze ma-

252
Sotto la volta del cielo

Bernardino di Siena contro la aretina Fons tecta 30, forse a sua volta
 

sede di una narrazione iconografica analoga a quella riemersa sotto


le scialbature della fonte dell’abbondanza massetana.
L’impiantarsi di una prassi devozionale di segno santuariale
avrebbe comportato, con la frequente esaugurazione mariana di anti-
che sorgenti sacre, la progressiva eliminazione di queste concrezioni
remote, ormai definitivamente perdute sotto le scialbature dell’età
moderna. Tuttavia proprio l’imponenza del residuo pittorico masse-
tano, il cui significato culturale non va disgiunto dall’ambientazione
topografica della fonte, collocata appunto presso i magazzini del gra-
no, richiama per la sua complessità antropologica il caso fiorentino
della loggia del grano di Orsanmichele e la sua valenza ‘religiosa’
in quanto luogo di pubblica utilità. Altrove ho richiamato le linee
di sviluppo di questo importante tempio civile innalzato in lode
alla Vergine ed a presidio del grano prima di essere assunto al ruo-
lo di santuario del sistema corporativo ed a quelle pagine rimando,
limitandomi qui a ricordare solo il processo di progressiva concen-
trazione sacrale che trasformò un mercato coperto in uno dei luoghi
più rappresentativi della città e della sua devozione, rendendolo ful-
cro della ritualità pubblica e privata fiorentina 31.  

Tra XII e XIII secolo, gli anni assunti a campione di questo con-
vegno, in quasi tutte le città italiane andò componendosi una nuova
topografia sacra in cui si espresse la mutazione culturale indotta
dalle religiones novae: nuove chiese, nuovi corpi santi, nuove reli-
quie cariche di suggestioni ‘fresche’ di un Oltremare sempre meno
lontano andarono a rinnovare l’antico sedimento delle consuetudini
religiose locali 32. Anch’esse, del resto, venero rilette e metabolizzate
 

all’interno di una complessiva ricostruzione delle historie cittadine

gico-superstiziose. Vecchie e nuove prospettive di ricerca, «Quaderni Medievali», 41


(1996), pp. 138-151; Ead., “Supra acqua et supra ad vento”. Superstizioni, maleficia
e incantamenta nei predicatori francescani osservanti (Italia, sec. XV), Roma, Istituto
Storico Italiano per il Medio Evo, 1999.
30 M. Montesano, Distruggere, fondare, sacralizzare, in La città e il sacro, cit.,
pp. 371-418.
31 A. Benvenuti, I culti patronali tra memoria ecclesiastica e costruzione del-
l’identità civica: l’esempio di Firenze, in La religion civique, cit., pp. 99-118, 513-515;
Ead., Il sovramondo delle arti fiorentine. Tra i santi delle corporazioni, in Arti fio-
rentine. La grande storia dell’artigianato, I, Il Medioevo, Firenze, Giunti, 1998, pp.
103-128.
32 A. Benvenuti, Reliquie e identità cittadina. Il ruolo delle memorie d’Oltre-

253
Anna Benvenuti

che compose il vasto affresco mitografico delle antiquitates locali.


Questo patrimonio di memorie divenne una sorta di bene comune e
come tale fu progressivamente integrato nel lessico dell’autorappre-
sentazione civica, consentendo un aggiornamento nell’uso semantico
degli antichi segni patronali elaborati dalla memoria ecclesiastica
ed amministrati entro il grande contenitore simbolico della ecclesia
mater cittadina. Non mi soffermerò su questo argomento, già altro-
ve trattato 33, salvo il ricordare come l’assunzione di quei marcatori
 

agiologici di identità collettiva da parte delle autorità comunali si fos-


se compendiata anche nella progressiva assunzione di responsabilità
‘civiche’ nell’amministrazione del patrimonio sacro cittadino: indizio
questo di una crescente disponibilità a considerare la sfera religiosa
come parte integrante di quel ‘bene comune’ soggetto alla cura ed
alla responsabilità pubbliche. Tendenzialmente questo ammoderna-
mento del santorale antico e dei suoi luoghi rappresentativi convisse
con le nuove proposte devozionali della pastorale mendicante, così
come l’antica dignità delle cattedrali continuò ad emblematizzare
l’universitas cristiana cittadina. Tuttavia proprio Padova ci offre una
interessante esemplificazione del fenomeno opposto: la nascita di
un nuovo polo devozionale urbano in grado di soppiantare la tra-
dizione antica. Se è pur vero, infatti, che Giovanni da Nono aveva
risolto i suoi obblighi verso santa Giustina ricordando il ponte ove
ella era stata martirizzata, conferendo alla città il diritto ‘araldico’
di rappresentare nello stemma cittadino «le sue due trecce dipinte
d’oro sul campo di color celeste», il vaticinio dell’angelo sui futuri
splendori municipali della città si sarebbe concentrato sulla basi-
lica di Sant’Antonio: il grande tempio civico su cui si riversava la
gratitudine pubblica dei padovani per la ritrovata libertà dopo la
tirannide ezzeliniana. Secondo la profezia fatta dall’angelo a Egidio,
«Hoc tam magnum templus per fratrem Antonium, qui erit de
ordine fratrum minorum, prius ex cannis surgalibus quam ex la-

mare nella costruzione del prestigio civico, in Taumaturgia e miracoli tra alto e basso
medioevo. Prospettive metodologiche generali e casistiche locali, Atti del Convegno di
Studio, Gubbio, Accademia Sperelliana (20-21 aprile 2007), a cura di P. Castelli -
S. Geruzzi, Pisa - Roma, Fabrizio Serra, 2007, pp. 101-118.
33 A. Benvenuti, Stratigrafie della memoria: scritture agiografiche e muta-
menti architettonici nella vicenda del “Complesso cattedrale” fiorentino, in Il bel San
Giovanni e Santa Maria del Fiore. Il centro religioso a Firenze dal tardo antico al
Rinascimento, a cura di D. Cardini, Firenze, Le Lettere, 1996, pp. 95-128.

254
Sotto la volta del cielo

pidibus construetur. Et in octava die mortìs illius, cuius anima


ad celestem gloriam deducetur, Paduam recuperabunt sui cives
de mense Junii. Ob hanc gratiam, quam a Deo habebunt padua-
nì, huius beati Anthonii confessoris precibus intervenientibus,
tale statuent ordinamentum, quod anno quolibet fratres illius
loci sancti Anthonii prò hedificanda ecclesia una quatuor milia
librarum parvorum habeant et quod singulo anno quartadecima
die Junii ad vesperas festi huius beati debeant ire omnes clerici
Padue et sìnguli fratalearum homines singulas candelas grossas
seu cyriotos debeant portare; et quod in octava huius festì decem
equi debeant currere ad bravium unum de scarleto. At equus,
qui citius iuxta bravium cucurrerit, habebit illud; et equus, qui
secundus erit in cursu, habebit unum ancipitrem, et tercius gal-
lum unum» 34.  

Onorato secondo lo schema classico dei festeggiamenti patrona-


li, Antonio si sarebbe imposto come santo di vittoria sulla tirannide,
giustificando la straordinaria elaborazione architettonica della grande
basilica che con pedanteria notarile ser Giovanni avrebbe descritto
nei più minuti dettagli 35. Nessun accenno, in questa nuova fisiono-
 

mia sacra padovana, al ruolo della cattedrale o al tessuto antico delle


chiese cittadine. Le complesse ritualità di cui le fonti liturgiche sono
importantissima testimonianza ci attestano una serrata gerarchia di
prestigio esplicitata nella pratica processionale, come evidente nel

34 Visio Egidij, p. 145.


35 «Hoc grande templum, quod patavi hedificari facient, sex habebit revolu-
ciones in rotunditatem deductas. At in prima facie huius templi erit hedificatum
unum parvum campanile, cuius muro adherebunt triginta sex columpnelle albi
marmoris. Hee columpnelle spacio interposito divise erunt et bine posite. Post
secundam revolucionem erit alterum positum campanile, quod ad similitudinem
primi construetur. In summitate tercie revolucionis ordinabitur unum campanile
parve altitudinis ex lignis aericis laboratum atque cohopertum plumbo. Ac in eius
summitate ponetur unus angelus eneus et auro cohopertus, qui tubam unam
auream suis tenebit manibus. Et a lateribus tercìe revolucionis hedificabuntur
due revoluciones, que crucis formam ecclesie dabunt. Insuper et a lateribus sexti
turli seu revolucionis, ex lapidibus albis et nigris hedificabuntur duo campani-
lia, que lante erunt altitudinis in quantam ab arcu fere posset extendi sagitta.
Horum cohopertura ex lignis aericis ad similitudinem acus formata erit, altitudi-
nis cubitorum sexaginta, et velata plumbo. Sepultura beati Antonii confessoris
ordinabitur ex lapidibus porphereticìs, que sub tercia revolucione ponetur. Et
in annis mille trecentis et septem de hoc loco ad alium mutabitur locum. Sub
septima vero revolucione ponetur altare maìus, circa quod erunt hedificata altaria

255
Anna Benvenuti

grande ludus liturgico delle rogazioni. In quella occasione in Padova,


ancora negli anni centrali del Duecento, dragoni processionali at-
traversavano la città immettendo nel severo sistema stazionale di
questa cerimonia cristiana il gene arcaico dei riti lustrali pagani e
chiamando in causa, utile evocazione di chiusura anche per questa
mia disomogenea presentazione di un problema, la molteplicità dei
linguaggi simbolici cui attingeva il registro della cerimonialità nel
mondo cittadino dell’Italia comunale 36.  

novem cum pulcherrimis fenestrìs vitri diversis laborati coloribus. Post hec altaria
per fratres manentes in hoc tempio locus unus ordinabitur, qui dicetur Paradisus
et in quo sepelientur defunctorum corpora patavorum. Hec omnes revoluciones ro-
tunde, que turli dicentur, ex lapidibus coctis et lignis aerids constructe, erunt
cooperte plumbo»: ivi, pp. 145-146.
36 Per questo importantissimo documento liturgico si veda la recente edizione
Il Liber ordinarius della Chiesa padovana, a cura di G. Cattin - A. Vildera, Padova,
Istituto per la storia ecclesiastica padovana, 2002; anche A. Benvenuti, Draghi e con-
fini. Rogazioni e litanie nelle consuetudini liturgiche, in Simboli e rituali nelle città
toscane fra medioevo e prima età moderna, Atti del convegno internazionale (Arezzo
21-22 maggio 2004), in «Annali aretini», XIII (2006), pp. 49-63, pubblicato anche
in formato digitale in «Reti medievali»:
< http://fermi.univr.it/RM/biblioteca/scaffale/Download/Autori_B/RM-
Benvenuti-Draghi.zip >

256
Domenica 13 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Giuliano Pinto

Dario Canzian
L’identità cittadina tra storia e leggenda:
i miti fondativi

I templi, le cità, provincie e regni,


se denno star tranquilli, uniti e in pace,
convien che, como al fondator più piace,
ciascuno a qualche deità se assegni 1.
 

(Niccolò da Correggio, Rime, 2, vv. 1-4)

1. Introduzione
Mi siano consentite, prima di entrare nel vivo della questione,
alcune riflessioni preliminari sulle coordinate entro cui si muoverà
il contributo che segue. Occorre infatti un chiarimento su che cosa
si intende con l’espressione ‘mito fondativo’ in relazione al contesto
politico-culturale dell’Italia dei secoli XI-XIV.
Agli occhi dello studioso moderno questo problema trova il
suo fondamento epistemologico prima di tutto nell’interesse per le
espressioni dell’autocoscienza civica delle élites urbane. Da questo
punto di vista, il modo in cui gli uomini che abitavano le città medie-
vali interpretarono «l’idolo delle origini» è chiave interpretativa del

1 Niccolò da Correggio [1450-1508], Opere. Cefalo, Psiche, Silva, Rime, a


cura di A. Tissoni Benvenuti, Bari 1969.

257
Dario Canzian

tempo in cui il mito era stato codificato, o revisionato e ricodificato.


Il mito, insomma, parla sempre del presente, pur essendo colloca-
to di preferenza fuori dal tempo o in un tempo del quale gli autori
avevano comunque vaga consapevolezza. Inoltre, analizzato secon-
do questo schema, il mito si presenta con un carattere conservativo.
Sia che esso, per usare l’espressione di Renato Bordone, possedes-
se carattere eziologico-strumentale, sia che esso fosse di tipo storico
(ad esempio il mito del buon tempo andato), la sua ragion d’essere
sta nella cristallizzazione del presente. In tal modo il mito fondativo
diventava «strumento di persuasione politica», uno strumento di ef-
ficacia commisurata al peso politico dei proponenti 2.  

In secondo luogo, va detto che, come si può facilmente com-


prendere, gli elementi propagandistici connessi al ripensamento
delle proprie origini certamente erano condizionati, e in parte de-
terminati, dal confronto con i competitori per l’egemonia politica,
confronto che appunto investiva, oltre al piano diplomatico, militare
ed economico, quello dell’elaborazione intellettuale e artistica.
Da ultimo, vorrei sottolineare come le considerazioni fin qui
svolte guardino al tema dei miti fondativi come a uno dei molti filo-
ni di ricerca sulle modalità di strutturazione della società medievale
urbana, ravvisandone una struttura profonda, ma sempre nella pro-
spettiva delle ricadute sul consolidamento di un determinato ordine
politico interno e regionale. È questa una griglia interpretativa le-
gittima e senza dubbio foriera in passato di importanti acquisizioni
storiografiche ancora oggi largamente condivisibili. Tuttavia, tale gri-
glia da un lato tende a costringere il dato storico entro uno schema
rigido che assegna alla dimensione del politico la cifra privilegiata dei
fenomeni umani; dall’altro, proprio per questo, rischia di escludere
dalla valutazione fattori che per la loro difficile misurabilità sono
refrattari ad una ricerca condotta attraverso l’armamentario tradi-
zionale dell’indagine storiografica, dovendo piuttosto attingere agli
strumenti della psicologia storica collettiva, della sociologia, dell’an-
tropologia, della filologia, della critica d’arte e dell’archeologia. Del
resto, il ricorso a queste discipline è postulato quando si ha a che
fare con concetti come quelli di origine, paternità/maternità, nascita,
identità, sia pure applicati non ad individui ma a gruppi umani.
Nel saggio che segue si cercherà di non trascurare questi al-

2 R. Bordone, Il passato storico come tempo mitico nel mondo cittadino italia-
no del medioevo, «Società e storia», 14, n. 51 (1991), pp. 3-22.

258
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

tri strumenti di indagine, compatibilmente con le competenze di chi


scrive, pur adottando un approccio per lo più di tipo ‘tradizionale’,
ovvero storico-politico. La vastità della casistica ha suggerito l’appli-
cazione di una ricerca a campione, focalizzata su alcuni casi giudicati
particolarmente significativi per il rilievo delle testimonianze da essi
tramandateci. L’arco cronologico contemplato sarà compreso sostan-
zialmente tra i secoli XI-inizio XIV, anche se con alcune incursioni
sia in fasi precedenti, sia in quelle successive il periodo individuato.

2. Tra storia, letteratura e cronaca: alcuni esempi di miti fondativi in


area germanica nel XII secolo
Entrando dunque nel merito, occorre innanzitutto, a tal pro-
posito, circoscrivere la materia. Va detto allora che la mitografia
fondativa urbana medievale è sostanzialmente scomponibile in due
grandi tradizioni: quella ecclesiastica, legata alle memorie episcopa-
li, ovvero alla fondazione della chiesa urbana da parte del vescovo o
addirittura dei primi evangelizzatori 3; quella ‘profana’, che si delinea
 

nella storiografia urbana a partire dal Duecento, ed è riconducibile


per lo più alle leggende di ambito troiano o romano. Un terzo tipo,
quello biblico, che traccia la storia urbana a partire da eventi narrati
nell’Antico Testamento, tende a svilupparsi parallelamente a quella
romano-troiana, con questa sovente collegandosi, in modo da fornire
una cornice cristiana a vicende pagane. Si tratta di filoni distinguibili
solo in parte per la cronologia e l’area di diffusione, poiché era pras-
si molto frequente risemantizzare racconti già conosciuti, ricorrendo
a intrecci e contaminazioni. Verso la fine del XII secolo, ad esempio,
le leggende romano-troiane, non sconosciute in epoche anche molto

3 Si potrà forse contestare il fatto che le tradizioni episcopalistiche locali pos-


sano essere ascritte al tipo del mito fondativo. Io credo che lo possano in relazione
non tanto alle strutture materiali urbane, quanto piuttosto alla civitas, al corpo so-
ciale della cittadinanza in quanto comunità cristiana. Il culto attribuito a queste
leggende, del resto, è prova del loro carattere mitico. Secondo Kerényi non esiste
culto senza mito: «Anche se si afferma che il culto sia precedente al mito — affer-
mazione che dal suo canto non ha alcun fondamento nella storia — si deve subito
ricorrere all’ipotesi di miti esplicativi che avrebbero fondato a-posteriori le azioni
del culto» (K. Kerényi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in Tecnica e casistica.
Tecnica, escatologia e casistica, a cura di E. Castelli, Roma 1964, p. 155). Il culto e i
riti ad esso connessi, ai quali la comunità affida la mediazione della propria relazione
con la sfera ultraterrena, rivestono del resto un ruolo fondamentale nei meccanismi
di aggregazione civica.

259
Dario Canzian

precedenti, entreranno a far parte in misura apprezzabile di narra-


zioni più propriamente storiografiche, dando luogo ad un mélange il
cui senso può essere colto solo alla luce delle valenze celebrative di
cui erano portatrici le cronache basso-medievali.
A questo proposito, Chris Wickham, in un suo contributo del
1992 4, nel considerare le fonti narrative italiche del XII e XIII seco-
 

lo, rileva una netta cesura rappresentata dall’età del Barbarossa; fino
ad allora la memoria delle cronache (Genova, Pisa, Milano) non si
interessa delle ragioni costitutive delle proprie organizzazioni poli-
tiche. È l’impatto rappresentato dalle guerre contro l’imperatore a
instillare negli stessi cives la precisa coscienza del carattere rivolu-
zionario della loro iniziativa politica e dunque a spingerli a ricercare
nel passato i fondamenti della legittimità delle loro istituzioni. Alla
fine del XII secolo, dunque, comincia presso i cronisti cittadini la
«reconstruction of a usable past» 5, senza peraltro risalire mai trop-
 

po indietro nel tempo. Con il Duecento, dice Wickham, si assiste


ad un’altra evoluzione, ovvero alla diffusione — pressoché universa-
le — dei miti fondativi romani e iliaci, come quello che riguarda la
fondazione di Firenze e Fiesole 6.  

Quest’ultimo passaggio segnalato da Wickham è, prima di tut-


to, l’esito di una potente suggestione letteraria, giustificabile con la
crescente diffusione, a partire dal XII secolo, delle rielaborazioni
della materia greco-romana, nella specifica accezione che se ne diede
fino al XIV secolo. Il fenomeno è di portata europea 7 e, per quanto 

riguarda il basso medioevo, prende le mosse dalle reinterpretazioni


dei miti romani e troiani diffusisi a partire dall’area francese nei de-

4 Ch. Wickham, The sense of the Past in Italian Communal Narratives, in The
Perception of the Past in Twelfth-Century Europe, edited by P. Magdalino, London
1992, pp. 173-189.
5 Ivi, p. 188.
6 Sul quale si veda A. Benvenuti, Secondo che raccontano le storie: il mito delle
origini cittadine nella Firenze comunale, in Il senso della storia nella cultura medie-
vale italiana (1100-1350), Pistoia 1995, pp. 205-252. Peraltro, secondo lo studioso
inglese sopra citato, l’inserimento delle tradizioni mitiche nelle cronache cittadine
del XIII secolo viene effettuato attraverso la trasposizione in età classica dei tradi-
zionali «points of reference» della storiografia della fine del XII secolo: Codagnello
proietta la Lega lombarda nel tardo Impero; lo scontro Firenze-Fiesole del 1125,
momento fondativo della storiografia fiorentina dal XII secolo in poi, viene ricon-
dotto indietro nei testi più tardi fino ad individuarne l’antecedente nel conflitto tra
Cesare e Catilina (Wickham, The sense of the past, cit., p. 189).
7 Va precisato, infatti, che il richiamo ad antenati antichi, e in particolare

260
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

cenni attorno alla metà, appunto, del XII secolo. Risale infatti agli
anni attorno al 1150, o immediatamente dopo, la composizione del
Roman de Troie, ad opera di Benoît de Saint Maure, un poeta attivo
alla corte di Enrico II Plantageneto. Accanto all’Eneas, di anonimo
coevo, e a Li fets de Romains, di anonimo dei primi del Duecento 8,  

quest’opera conobbe enorme diffusione e fortunati volgarizzamenti


per tutto il XIII secolo e oltre. La materia troiana, in particolare, fu
rimaneggiata e divulgata in molte varianti e forme letterarie. A metà
del Duecento, ad esempio, trovano diffusione a Roma le Storie de
Troia e de Roma e le Miracole de Roma 9; negli anni ’80 dello stesso se-
 

colo il messinese Guido delle Colonne tradusse in latino, con il titolo


Historia destructionis Troiae 10, il citato romanzo di Benoît de Saint
 

Maure; entro il 1322, poi, il misterioso senese Binduccio dello Scelto

troiani, emerge per così dire carsicamente lungo l’intera età medievale. Nella tra-
dizione franca altomedievale, ad esempio, esisteva la leggenda della derivazione di
quel popolo da un figlio di Ettore, chiamato Franco o Francione. Il riferimento è
alla cronaca di Fredegario (E. Gorra, Testi inediti di storia trojana. Preceduti da uno
studio sulla leggenda trojana in Italia, Torino 1887, pp. 68-69 e nota 5), un intellet-
tuale vissuto alla metà del VII secolo e probabilmente formatosi nell’ambiente di
Luxeuil (cfr. R. Le Jean, Histoire de la France: origine et premier essor 480-1180,
Paris 1996, p. 79).
8 C. Segre, La prosa del Duecento, in Lingua, stile e società. Studi sulla storia
della prosa italiana, Milano, 1991, p. 30; S. Marroni, I fatti dei Romani. Saggio di edi-
zione critica di un volgarizzamento fiorentino del Duecento, presentazione di Ignazio
Baldelli, Roma 2004, pp. 11-12.
9 Segre, La prosa del Duecento, cit., p. 16.
10 Cfr. C. Dionisotti, Proposta per Guido giudice, «Rivista di cultura classica
e medioevale», VII (1965), pp. 453-466. Dionisotti rileva qui che la traduzione in
latino di un testo in lingua volgare è circostanza davvero singolare («un caso piutto-
sto unico che raro», p. 459), sulla quale poco si sono esercitati gli esegeti. Eppure, si
tratta di un fatto di grande rilievo poiché, secondo il critico, essa segna un momento
importante del processo di emancipazione della letteratura italica dall’influsso fran-
cese. Non si tratta, dice Dionisotti, di un passo indietro in direzione delle origini
classiche, ma di una «frattura netta altrimenti operata nella continuità tradiziona-
le in Italia della moda letteraria francese». Questa frattura, dalla quale deriverà il
decollo della prosa trecentesca al di qua delle Alpi, presuppone certo Dante, «ma
anzitutto presuppone il vigore proprio della cultura veneta fra Due e Trecento, che
è tutta altra cosa: presuppone Lovato e Mussato, un frattura latina, non toscana»
(p. 461). I nomi dei padovani Lovato e Mussato, come vedremo, incroceranno an-
cora questa ricerca, ad indicare che attorno a queste figure e nei decenni compresi
tra la fine del Duecento e i primi del Trecento si colloca uno snodo fondamentale
per la storia dell’elaborazione mitografica delle città italiche. Sul tema si veda an-
che M. Zabbia, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Roma 1999,
pp. 2-10.

261
Dario Canzian

volgarizzò il testo di Benoît nella sua Storia di Troia.


La ripresa della cornice mitica entro cui si inscrivevano quei
racconti leggendari nelle cronistorie cittadine è, in prossimità dei
centri in cui fu elaborata la prima produzione letteraria cui abbiamo
fatto riferimento, pressoché immediata, segno che forse gli uni e le
altre erano ascrivibili ad una comune matrice intellettuale.
Nelle Historiae Tornacenses, ad esempio, opera composta da
più mani che si succedettero a partire dalla metà del secolo duode-
cimo, una apposita sezione sulla costruzione della città di Tournais,
compilata negli anni ’60 del secolo, mostra già evidentissimo l’‘influs-
so romano-troiano’. Secondo l’anonimo 11, la città era stata fondata
 

dai Romani nel decimo anno di regno di Tarquino Prisco, e chiama-


ta «altera vel minor Roma»; più altera che minor, visto che, secondo
il classico modulo della laus civitatis, per imponenza delle mura, ro-
bustezza delle porte, eccellenza dei palazzi e delle torri, nobiltà dei
cives, amenità del sito, il centro si imponeva su tutte le altre città cir-
convicine. Sotto il regno di Servio Tullio, però, i futuri Tornacensi
presero a trattenere per sé i tributi che avevano avuto l’incarico di
raccogliere nelle 125 città e oppida che i Romani avevano sottomesso
loro proprio per convogliarli a Roma. Dimostrando di non apprezza-
re affatto questo precoce esperimento di autodeterminazione fiscale,
i Romani inviarono un esercito che distrusse le mura della città e la
resero inabitabile. Fecero seguito fasi alterne di ricostruzione e nuo-
ve distruzioni, con conseguenti mutazioni del nome: da Altera Roma,
a Hostilis, fino al nome di Nervia. Contro Nervia combatté, fiera-
mente avversato, Giulio Cesare, come risulterebbe dal secondo libro
del De bello gallico 12. A questo punto, i Nervi decidono di darsi un
 

nuovo re di nome Turno, dal nome di colui che aveva combattuto


contro Enea, e nel contempo «Cesaremque Eneam vocaverunt ad

11 Historiae Tornacenses, Hannover 1883, (Monumenta Germaniae Historica,


Scriptores, XIV), pp. 327-330.
12 Qui l’autore fa riferimento alla guerra che Cesare condusse, tra il 58 e il 51
a.C., contro le tribù belgiche, tra le quali, appunto, secondo lo stesso racconto cesa-
riano, si distinguevano per la loro severa disciplina militare proprio i Nervi. Cesare
però non parla mai di un assalto ad una città che si chiami Nervia. Qui l’autore del-
le Historiae se la cava dicendo che, per quelli che non conoscano il De bello gallico,
lui ha provveduto a spiegare come siano andate le cose desumendole «de libello me-
morato de quo supra excerpsimus» (ivi, p. 330), cioè da quel testo da cui erano state
ricavate le notizie precedenti («De cuius prima constructione sive descritione qui-
dam apud nos libellus habetur», ibidem, pp. 327-328).

262
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

instar Enee, qui Troiam devicit»(!) 13. Turno, poi, si sarebbe reso re-
 

sponsabile di un terribile scelus: mal consigliato dal responso degli


dei, e indotto dalla sua natura generosa che lo spingeva ad antepor-
re il bene pubblico a quello suo personale, «pro ereptione civitatis»
sacrificò il giovane figlio Mallio, bruciandolo in una fornace. Ne
derivò la disfatta totale e la devastazione del sito, che «quasi Troia
destructa videbatur». Solo molti decenni dopo, nel 59 d.C., la cit-
tà venne rifondata e chiamata Tornacus, in memoria dell’ultimo eroe
che aveva affrontato Cesare. E qui, con la definitiva acquisizione del
nome, si chiude la sezione dedicata alla constructio urbis.
Ancora ad una origine romana, e precisamente all’iniziativa di
Giulio Cesare, l’anonimo estensore — probabilmente un canonico
magdeburgense vissuto nella seconda metà del XII secolo — della
prima sezione dei Gesta archiepiscoporum Magdeburgensium 14, ri-  

conduceva la nascita del centro sassone. Anche in questo caso alla


prima fondazione fanno seguito altre; non più, però, collocate nel-
la leggendaria età classica, bensì cadenzate sui recenti momenti di
affermazione di nuovi progetti di sintesi politica legati alle stirpi
germaniche.
Il carattere apologetico della leggenda di fondazione è qui
evidente. Scomparsa la città romana, toccò a Carlo Magno, il con-
quistatore ed ‘evangelizzatore’ dei Sassoni, distruggere gli idoli e
fondare in quello stesso luogo una nuova chiesa episcopale, intitolata
al protomartire Stefano, alla quale Carlo aveva ‘annesso’ («adiecit»)
la città con tutte le sue pertinenze. Quella carolingia, però, era solo
un’anticipazione effimera; infatti, accadde che l’Elba spinse il pro-
prio letto fino alle «ecclesie parietes», inghiottendo l’edificio sacro,
al posto del quale la «vulgi paupertas» ne edificò un altro piccolissi-
mo. Dopo questa falsa (ri)partenza, fu Ottone il grande di Sassonia,
nel 938, a porre un «novum civitatis […] fundamentum» 15, attraver-  

so la fondazione di un’abbazia cui vennero affidate le spoglie di san

13 Ibidem, p. 330. Come spiegare questa visione di Enea come vincitore di


Troia? Forse è un riferimento alla lezione che fa di Enea un traditore dei Troiani,
insieme ad Antenore, lezione già presente nella tradizione latina, ripresa proprio in
quegli anni dal citato Roman de Troie.
14 Gesta archiepiscoporum Magdeburgensium, edidit G. Schum, Hannover
1893 (Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, XIV), p. 377. La prima par-
te dell’opera si chiude con il 1142, ed era certamente già nota nel 1190 all’estensore
della cronaca della fondazione del monastero Gratiae Dei (ivi, p. 365).
15 Ibidem, p. 377.

263
Dario Canzian

Maurizio, già donategli dal re burgundo Rodolfo. Poco dopo, nel


968, la città diveniva sede di arcivescovato e si compiva così la sua
‘missione storica’.
Il richiamo ‘storicizzante’ alle origini romane e gli echi troiani a
cui si è accennato lasciano trasparire in questi casi, come si è detto,
una più che probabile influenza letteraria; ma non si tratta certo solo
di questo. In realtà, ad un’analisi più dettagliata emergono evidenti
le ragioni ideologiche che informano questi racconti. Conviene dun-
que soffermarcisi con qualche riguardo.
Per quanto concerne Magdeburgo, il suo ruolo di avamposto
orientale ai limiti dell’area di espansione dei principi tedeschi al di
là dell’Elba nel XII e XIII secolo, e di fulcro arcivescovile della cri-
stianizzazione in quegli stessi spazi, ne giustifica il pedigree regio,
accreditato dalla leggenda in legame strettissimo con le fortune della
casa di Sassonia. Il richiamo alle origini cesariane aveva chiaramente
lo scopo di collegare la vicenda della città a quelli che si ritenevano
i momenti fondanti della civiltà latino-germanica: da Cesare, ap-
punto, agli Ottoni, non senza attraversare l’esperienza carolingia; e
nel contempo, allineava anche Magdeburgo a quei non molti centri
germanici la cui sede episcopale si era innestata nel tessuto urbano
romano. Peraltro, non va dimenticato che proprio nel 1142, l’an-
no con il quale si chiude la prima parte dei Gesta, la Sassonia, nel
contesto di un riassetto dei poteri regionali germanici, veniva affi-
data al duca di Baviera, Enrico il Leone, che aveva sposato la figlia
di Lotario II il Sassone, morto nel 1138. La stesura della leggenda,
allora, poteva rappresentare la reazione della chiesa locale di fron-
te alla temporanea emarginazione della dinastia locale, artefice della
sua fortuna, sia dal vertice della monarchia che dal governo locale.
Riprendendo il caso di Tournais, qui la narrazione si presenta
nella forma di un resoconto — fornito da un canonico della chie-
sa locale — molto più complesso e articolato di quello sulle vicende
di Magdeburgo. Il racconto della fondazione tornacense, infatti,
rappresenta una sezione all’interno di un testo molto più ampio, il
cui oggetto sono le prodigiose rivelazioni di un «adolescens conca-
nonicus noster nomine Henricus». Questi, in una sera del periodo
pasquale del 1141, mentre attraversava da solo «sine aliquo timore»
la fabbrica della nuova chiesa di Santa Maria, fu investito da un im-
peto terribile di voci e da un torrente di fiamme. Caduto in una sorta
di trance, al giovane canonico apparvero, disposti ‘a tridente’, i san-
ti Eleuterio, Eligio e Acario, primi vescovi tornacensi, riconoscibili
264
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

dai nomi che recavano sulle rispettive mitre. Dietro di loro veniva il
prete Gerardo, che era stato, presumibilmente da poco, elemosiniere
della chiesa di Santa Maria. Eleuterio ed Eligio propongono al gio-
vane la lettura dei libri con le loro vite: il primo ingiungendo che il
libro sia letto davanti a lui, il secondo semplicemente proponendolo
e ottenendo un cortese ma fermo diniego dal canonico, il quale soste-
neva di conoscere già bene quella lettura; Acario reca soltanto nella
mano destra uno scriptum che dice: «In nomine domini Jhesu per me
mortuus resuscitatus est»; l’elemosiniere, infine, sembra avere unica-
mente una funzione di scorta, forse di garanzia della credibilità della
visione. Letta dunque molto attentamente la vita di Eleuterio, il ca-
nonico restituisce il relativo liber al santo, che lo ripone «in sinu suo»
e ritorna nel non meglio precisato «locum in quo prius steterat». Le
visioni, sottoposte per una valutazione, tra gli altri, a san Bernardo,
si susseguono nei mesi seguenti, e si producono anche pubblicamen-
te, nel contesto di rituali precisi che prevedono dapprima gli annunci
della prossima visita del santo vescovo, la confessione e la comunio-
ne del canonico, il suo ingresso nel secretarium dove è custodita la
spoglia di Eleuterio, quindi la trance e le pubbliche rivelazioni. Tra
queste, l’autore ricorda in primo luogo la profezia per cui entro poco
la chiesa tornacense avrebbe avuto un suo proprio vescovo e sareb-
be tornata all’antica dignità.
È a questo punto che si inserisce il racconto della costruzio-
ne della città, di cui si è detto, racconto che ha evidentemente la
funzione di corroborare la pretesa all’elevazione a sede episcopa-
le autonoma sulla base dell’antica, presunta, tradizione romana del
centro. La ripresa dell’antefatto romano, alla metà del sec. XII, attra-
verso la mediazione della primigenia matrice episcopale merita però
di essere meglio chiarita. Occorre per questo fare un passo indietro.
La diocesi di Tournais era stata autonoma soltanto fino al 626, quan-
do, in corrispondenza con l’assunzione al soglio episcopale da parte
di Acario (di cui Eligio fu diretto successore), quella chiesa era stata
associata alla diocesi di Noyon, città nella quale si era anche trasfe-
rito il vescovo. Le due diocesi rimasero unite in questo modo fino
al 1146, quando Tournais riebbe una sede propria. Come si vede,
siamo esattamente negli anni i cui si verificarono gli eventi narrati
dal cronista. Ben si capisce, allora, perché, nel racconto dell’ano-
nimo, dei tre vescovi il solo Eleuterio abbia avuto diritto di parola:
gli altri due recavano la responsabilità del declassamento ecclesiasti-
co di Tournais. Ma soprattutto, il racconto della gloriosa storia della
265
Dario Canzian

città doveva essere per forza affidato al suo primo vescovo, deposi-
tario e tramite di quella nobile tradizione che lo aveva preceduto e
che costituiva il fondamento della legittimazione storico-ideologica
dell’istituzione della diocesi autonoma nel 1146. Non si dimenti-
chi, a tal proposito, che, come accennato, proprio negli anni ’40 del
XII secolo si era edificata a Tournais la nuova chiesa di Notre Dame.
Tutti questi elementi ci mettono dunque di fronte ad un preciso pro-
gramma di promozione cittadina sul piano delle strutture e su quello
dell’ideologia: il mito fondativo di Tournais era stato elaborato in un
contesto di ri-fondazione della civitas, o, meglio ancora, della sua
chiesa; il che, evidentemente, era tutt’uno 16.  

Come si è visto, motivi ideologici e mitografici diversi vengo-


no ad intersecarsi in questi racconti a definire il nucleo fondante
dell’identità cittadina, motivi che possono essere ricondotti sostan-
zialmente al nesso circolare di alcuni elementi di base: il possesso
di reliquie venerate, la tradizione episcopale, l’antecedente fondati-
vo romano — e in particolare cesariano. Si tratta, in fin dei conti, di
uno dei riflessi di quell’ambiguità avviata in età carolingia, per cui,
com’è noto, il profilo religioso e quello civile delle istituzioni si in-
trecciavano e si confondevano in un nuovo quadro di sintesi politica
coordinato da un potere regio fortemente esposto sul piano ideolo-
gico e programmatico.

3. Tradizioni agiografiche e identità urbane nell’area padana tra XI e


XII secolo
Al di qua delle Alpi le cose si presentano in modo in parte diver-
so, perché la tradizione urbana è qui per un verso generalmente più
robusta e risalente, per un altro indirizzata tra XI e XII secolo ver-

16 Ripercorre rapidamente questo mito a partire da un adattamento realizza-


to verso il 1290, intitolato le Chroniques de Tournai, O. Collet, ‘Translatio imperii’:
la route des Flandres, in Roma antica nel Medioevo. Mito, rappresentazioni, soprav-
vivenze nella ‘Respublica Christiana’ dei secoli IX-XIII, Milano 2001, pp. 321-322.
Prescindendo dal problema della rifondazione episcopale, l’autore interpreta la leg-
genda come espressione di una «orgueilleuse rivalité entre telle cité picarde, ou
flamande, et Rome». Considera invece la questione del rinato episcopio tornacense,
ma senza procedere ad un’esegesi delle visioni del canonico, I. Glorieux, Tournai,
une ville fondée par un soldat de Tullus Hostilius? À propos des origines légendaires de
la cité des Cinq clochers, «Folia Electronica Classica» (Louvain-la-Neuve) - Numéro
8 - juillet-décembre 2004
(<http://bcs.fltr.ucl.ac.be/FE/08/Tournai.html>).

266
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

so esiti politico istituzionali differenti da quelli transalpini. Non che


manchi anche nell’Italia precomunale e comunale una dimensione
mitica nelle espressioni dell’autocoscienza civica dei secoli centrali
del medioevo. Anche nelle città italiche, peraltro, questa dimensione
emerge nel contesto del ripensamento delle tradizioni vescovili loca-
li, perché, come ha scritto Paolo Golinelli, l’agiografia rappresentava
«il principale fattore di autocoscienza della città medievale dei se-
coli IX, X ed anche XI», sia per le élites che per le collettività 17. La  

matrice identitaria di partenza, dunque, è comune all’intera civiltà


urbana occidentale. Ma, mentre nei casi transalpini sopra considera-
ti tale matrice si risolveva nel quadro dell’adesione ideologica delle
chiese episcopali al potere sovraordinato, nelle città italiche essa fu
uno degli elementi costitutivi del processo di formazione delle auto-
nomie comunali 18.  

Questa divaricazione negli esiti istituzionali del nesso città-chie-


sa comportava anche delle variationes contenutistiche all’interno dei
testi destinati all’autocelebrazione civica elaborati nei secoli VIII-
XII. Consideriamo, ad esempio, le laudes civitatum, genere praticato
tanto in area transalpina quanto in quella italica 19. Nei casi italici
 

le origini nobili della civitas risultano ascrivibili al passato romano,


comprovato dalle emergenze monumentali risalenti a quel periodo,
ancora ben visibili nel tessuto urbano. Fuori d’Italia non si rinun-

17 P. Golinelli, L’agiografia cittadina: dall’autocoscienza all’autorappresenta-


zione (sec. IX-XII; Italia settentrionale), in Il senso della storia nella cultura medievale
italiana (1100-1350), Atti del Convegno (Pistoia, 14-17 maggio 1993), Pistoia 1995,
p. 265.
18 Con riferimento all’episodio della traslazione delle reliquie di san Marco a
Venezia, nell’828, Antonio Carile parlava di un: «meccanismo storico che si vedrà
in opera, in tempi ed occasioni diverse, in tutte le città italiane in cui operò il pro-
cesso di formazione e autonomia comunale: simbiosi del centro politico e del centro
religioso all’insegna della protezione di un santo patrono», A. Carile, La coscien-
za civica di Venezia nella sua prima storiografia, in La coscienza cittadina nei comuni
italiani del Duecento, Atti del convegno (Todi, 11-14 ottobre 1970), Todi 1972, p.
100; e ancora: «Di fatto nell’828 si corresse la leggenda marciana aquileiese in sen-
so veneziano, creando quell’emblematica associazione di san Marco con la città di
Venezia, che costituiva il fondamento e al tempo stesso l’espressione della coscien-
za civica veneziani» (Id., Le origini di Venezia nella tradizione storiografica, in Storia
della cultura veneta. Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, p. 141).
19 Si vedano, al riguardo, G. Fasoli, La coscienza civica nelle “Laudes civita-
tum”, in La coscienza cittadina, cit., pp. 9-44; E. Occhipinti, Immagini di città. Le
«Laudes civitatum» e le rappresentazioni dei centri urbani nell’Italia settentrionale,
«Società e storia», 51 (1991), pp. 23-52.

267
Dario Canzian

cia a questo parametro valutativo, ma, laddove, come spesso accade,


manchino i resti romani, è necessario ricorrere ad altri elementi di
romanizzazione, come le etimologie fantastiche 20, o, come si è vi-
 

sto nei casi di Tournais e Magdeburgo, il richiamo a quel particolare


monumento immateriale rappresentato dalle memorie cesariane.
L’assenza di resti concreti — unita alle mancanze rilevabili nel testo
di Cesare, che non poteva spiegare tutto — doveva aver agevolato,
almeno nei due casi considerati, l’invenzione di leggende di fonda-
zione romana 21.  

Le città dell’Italia fino al XII secolo non sembrano avverti-


re questa necessità. Le rovine romane stanno lì, davanti a tutti, a
dichiarare l’antichità della civitas, la sua preistoria, cioè la sua predi-
sposizione ad accogliere la ‘vera’ fondazione, ovvero la fondazione
della comunità cristiana 22. È su questo piano che le città si confron-
 

tano e competono, specialmente nel momento in cui lo sfaldamento


dell’ordinamento pubblico le svincola dall’appartenenza ad un or-
ganismo di rango superiore e le mette una di fronte all’altra senza
intermediazioni di poteri terzi.

20 Golinelli, L’agiografia cittadina, cit., p. 261.


21 Nel caso di Magdeburgo, durante il regno di Ottone I è attestata l’im-
portazione dall’Italia di fusti di colonne e capitelli antichi, da reimpiegare nella
costruzione del duomo, in modo da conferirgli credenziali ‘romane’. Cfr. A. Esch,
L’uso dell’antico nell’ideologia papale, imperiale e comunale, in Roma antica nel
Medioevo, cit., pp. 6-7). Rimanendo in area germanica, diverso è l’esempio fornito
da Treviri. In quanto capitale tardo-imperiale, la città conservava molti ed eviden-
ti resti romani; la pubblicistica locale ne esalta il significato a partire dalla seconda
metà dell’XI secolo, fino a proporre l’immagine di Treviri, ancora una volta, come
altera Roma. Curiosamente, il mito fondativo qui elaborato si spinge però molto più
indietro di Roma, attribuendo la nascita della città ad un principe assiro (1250 anni
prima della fondazione dell’Urbe). Vi si può leggere, probabilmente, il tentativo di
accreditare un primato della chiesa treverense rispetto alle metropoli concorrenti di
Reims e Magonza (ivi, pp. 22-25).
22 Avverte però Arnold Esch che «spesso si parte dall’idea che, nelle città me-
dievali italiane che si erano sviluppate sulle rovine di città antiche, il riferimento
all’antico sarebbe per così dire nato da sé […]. No: l’idea che la sola disponibi-
lità in loco di resti antichi avesse portato logicamente alla percezione e recezione
dell’antico è errata». Secondo lo studioso, infatti, «la semplice disponibilità, dell’an-
tico, la semplice presenza in loco non spiega assolutamente niente […]. Se non c’è la
sensibilità, la ricettività delle persone, allora non serve neanche lo spettacolare ritro-
vamento di 100 belle statue! L’importante era saper farne qualcosa, bisogna volere
l’antico! [corsivi nel testo, n.d.a.]». A riprova di questa teoria Esch osserva come vi
siano «città piene di antichità come Roma, che, ad eccezione di brevi periodi, non

268
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

4. Leggende apostoliche nelle città-metropoli nell’XI secolo


Consideriamo, a questo riguardo, le due metropoli dell’area
padano-adriatica, Milano e Venezia. Si tratta di centri che, pur pre-
sentando tratti distintivi molto forti — a partire dall’origine antica
della prima rispetto a quella alto medievale della seconda —, sa-
ranno accomunati dal destino di assumere, alla lunga, ad un ruolo
egemone entro i rispettivi contesti regionali e sovraregionali. Prima
che ciò accadesse, nell’un caso e nell’altro si sviluppò un processo di
elaborazione ideologica teso alla definizione di una superiorità ori-
ginaria, giocata, come vedremo, sia sul piano locale, sia su quello
generale. La costruzione di una identità originaria leggendaria di ma-
trice ecclesiastica è parte integrante di questo processo. Entriamo
quindi nel dettaglio.
Vediamo il caso di Milano. Occorre considerare la città secondo
un profilo almeno duplice: da un lato vi è la tradizione ‘profonda’,
‘verticale’, della città, antica capitale imperiale, e nel contempo sede
di un episcopato di grandissimo prestigio che ambiva a competere
con la stessa sede pontificia; dall’altro, vi è il centro comunale che
diventa già a partire dal XII secolo il fulcro politico e militare di
quello spazio che chiamiamo Lombardia. Non occorre specificare
che le due dimensioni si intrecciano continuamente: la celebrazio-
ne della gloriosa tradizione, a partire dal Versum de Mediolano, di
età liutprandea, supporta la candidatura a città capofila dei comu-
ni lombardi e ne legittima anche le azioni violente contro alcuni di
essi. I tratti fondanti di questa autopromozione riposano, nel caso
milanese, non tanto in un imprinting ricevuto con la fondazione
della città (pure attribuita al gallo Brenno, vincitore sui Romani e
depositario, insieme alle virtù naturali del luogo, dell’ ‘apparato ge-
netico’ che fa dei milanesi uomini meglio fatti e più belli degli altri 23,  

sanno che farsene della propria antichità», mentre città prive di testimonianze ro-
mane, come Pisa, Firenze e Venezia, cerchino in tutti i modi di procurarsi l’agognata
antichità (Esch, L’uso dell’antico, cit., pp. 14-15). In effetti, città con clamorose evi-
denze romane, come Verona, o Pola, non elaborarono miti medievali di fondazione.
E tuttavia si può osservare che nel caso di Roma il richiamo «intenzionale» al pas-
sato ‘romano’, si scusi il bisticcio, avrebbe potuto essere pleonastico proprio per la
sua ovvietà (e il mito virgiliano era talmente affermato da rendere impossibile ul-
teriori elaborazioni); mentre l’osservazione relativa alle città che non possiedono
resti antichi mi sembra possa dimostrare anche il contrario di quanto sostenuto dal-
lo studioso.
23 P. Tomea, Tradizione apostolica e coscienza cittadina a Milano nel medioevo.

269
Dario Canzian

quanto piuttosto nel titolo di nobiltà connesso alla fondazione del-


la chiesa milanese. A questo proposito, come è già stato rilevato, due
tradizioni si contendevano il primato: quella ambrosiana e quella di
Barnaba, entrambe di altissimo contenuto nobilitante. Mi soffermo,
per ragioni che si capiranno, sulla leggenda di Barnaba, su cui si è
ampiamente diffuso Paolo Tomea 24.  

La leggenda che ci narra della venuta di Barnaba a Milano ha


la sua fonte più antica nel Libellus de situ civitatis Mediolani, da-
tato dallo stesso Tomea tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, e
di autore anonimo. Si tratta di un’opera composta, come dichiara-
to dal compilatore, su imitazione del Liber pontificalis della Chiesa
romana. Come si desume dal titolo, l’opera comprende una descri-
zione del luogo in cui sorge la città, ed inoltre la leggenda di san
Barnaba. Questi era stato compagno di peregrinazioni dell’aposto-
lo Paolo (che lo nomina nelle sue epistole attribuendogli la missione
di evangelizzazione dei Gentili); aveva poi raggiunto Roma nel 41,
dove aveva convertito il futuro papa Clemente. Quindi, «poiché
dopo Roma la città più famosa era considerata Milano, arruolati al-
cuni sodali, tra cui Anatalone (primo vescovo di Milano), vi si recò» 25.  

Anatalone viene poi inviato da Barnaba a compiere il suo apostolato


a Brescia; quindi, Barnaba tornò in Palestina, pronunciando alla sua
partenza parole che consacravano la chiesa di Milano, «quam ipse
fundaverat», sede metropolitica, capo di tutte le altre chiese di quella
provincia. Il De Situ, dunque, accreditava quella milanese come una
chiesa apostolica, e dava avvio ad una tradizione che troverà fedeli
epigoni negli storiografi di epoca successiva, da Landolfo Seniore a
Bonizone, fino a Bonvesin de la Riva, a Galvano Fiamma e oltre 26.  

È stato sostenuto che l’apostolicità della chiesa milanese nel-


l’XI secolo è certamente un argomento forte nella polemica contro il
primato petrino, sviluppatasi com’è noto nel contesto della riforma.

La leggenda di san Barnaba, Milano 1993, p. 434.


24 Cfr. supra.
25 P. Tomea, Tradizione apostolica, cit., pp. 367-384.
26 Ivi, p. 112sgg.; inoltre, L. Ferrai, Le cronache di Galvano Fiamma e le fonti
della Galvagnana, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano», 10 (1891), pp. 93-129
(in particolare pp. 120-129) e G. Martini, Lo spirito cittadino e le origini della sto-
riografia comunale lombarda, in I problemi della civiltà comunale, a cura di C.D.
Fonseca, Bergamo 1971, pp. 137-156 (in particolare p. 142). Si veda ora, nella pro-
spettiva della competizione tra Milano e Pavia, anche P. Majocchi, Pavia città regia.
Storia e memoria di una capitale medievale, Roma 2008, p. 80.

270
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

Tuttavia, lo stesso testo del De situ colloca dichiaratamente Milano


dopo Roma; subito dopo, ma pur sempre dopo. Il contesto di ri-
ferimento è piuttosto il confronto con le altre sedi metropolitiche
italiche, Ravenna, in primo luogo, ed anche Aquileia, complicato ul-
teriormente in questa fase storica dalla competizione tra Aquileia e
Grado. A queste sedi bisogna poi aggiungere quella di Pavia, a sua
volta in competizione con Milano in quanto sottratta per antico pri-
vilegio alla suffraganeità alla vicina metropoli 27.  

Mantenendo la datazione per il De situ proposta e solidamen-


te argomentata da Tomea (fine X-inizio XI sec.), possiamo istituire
un raffronto con la produzione cronachistica veneziana dell’epoca.
In particolare, possiamo guardare alla cronaca di Giovanni Diacono,
della fine del X secolo, e all’Origo civitatum Italie seu Venetiarum,
opera composita di cui sono state stilate tre redazioni elaborate
tra la seconda metà dell’XI e il XIII secolo 28. Anche in questi casi
 

— stiamo parlando delle prime testimonianze cronachistiche vene-


ziane — incontriamo la leggenda dell’apostolicità della chiesa locale,
da ricondurre alla predicazione di Marco evangelista, evangelizzato-
re della prima Venezia, che aveva in realtà il suo centro in Aquileia 29.  

L’aggancio della chiesa di Venezia a Marco risaliva all’828, quando,


com’è noto, le spoglie del santo erano state traslate da Alessandria
alla cappella ducale, all’indomani della sinodo mantovana che ave-
va sancito il ruolo primaziale della chiesa aquileiese rispetto a quella
gradense 30. La formulazione del mito marciano obbedisce quindi
 

alla necessità di costituire una identità religiosa ‘competitiva’ prima


di tutto rispetto ad Aquileia, patriarcato concorrente di Grado, di

27 Tomea, Tradizione apostolica, cit., pp. 367-384; Tomea sostiene la polifun-


zionalità polemica del De situ, nel senso che per lui comunque «il rango apostolico
di Barnaba, il fatto che egli predichi a Roma ‘primus ex apostolis’, la sua spontanea
venuta a Milano, circa un ventennio prima che Pietro fondasse la Chiesa romana, ri-
velano, […], che le intenzioni dell’autore si muovevano anche in questa direzione»
(p. 392). Sul confronto per la definizione di una gerarchia metropolitica tra Milano
e Ravenna, e sul problema del rapporto tra Milano e Pavia cfr. Majocchi, Pavia cit-
tà regia, cit., pp. 78-82.
28 Origo civitatum Italie seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon
Gradense), a cura di R. Cessi, Roma 1933.
29 Si veda Carile, Le origini di Venezia, cit., p. 145.
30 G. Cracco, I testi agiografici: religione e politica nella Venezia del Mille, in
Storia di Venezia, I, Origini-età ducale, a cura di L. Cracco Ruggini - M. Pavan - G.
Cracco - G. Ortalli, Roma 1992, p. 935sgg.; D. Rando, Una chiesa di frontiera. Le
istituzioni ecclesiastiche veneziane nei secoli VI-XII, Bologna 1994, pp. 18-20.

271
Dario Canzian

cui Venezia aveva assunto il patrocinio politico e ideologico 31, essen-  

do il centro collocato entro i confini del Ducato.


Ma, la difesa delle prerogative metropolitiche di una delle ‘sue’
chiese, proiettava fatalmente Venezia in una dimensione istituzionale
che la travalicava ampiamente, ovvero la dimensione della res publi-
ca cristiana, in cui operavano chiese e città dalle tradizioni di gran
lunga più consolidate di quelle lagunari. Sotto questo profilo, infatti,
Venezia partiva da una condizione deficitaria, poiché il suo episco-
pato era frazionato in piccole sedi isolane quasi prive di territorio e
politicamente pressoché sterili; inoltre, non aveva alle spalle alcun
monumento, né materiale, né immateriale, che le conferisse il presti-
gio dell’antichità; né poteva vantare una tradizione regia o imperiale,
come era invece nel caso di Ravenna, Milano e Pavia. In questo conte-
sto l’avocazione, la promozione e la difesa delle prerogative gradensi
(sempre contestate dalla pressoché dirimpettaia Aquileia) era una
opzione che consentiva a Venezia, certo, di disporre di un ulteriore
strumento di legittimazione del controllo degli spazi costieri alto-
adriatici, poiché diversi episcopati di quell’area erano suffraganei
della chiesa matrice di Grado. Questa linea politico-religiosa aveva
però come conseguenza, come anticipato, l’inserimento di Venezia
nel circuito delle città-metropoli, ovvero l’aggregazione della città ad
una compagine interpretata prima di tutto ecclesiasticamente come
un complesso al cui vertice doveva spiccare, per un prestigio non
passibile di messa in discussione, la sede romana. L’organizzazione
di questa compagine prevedeva che, accanto al pontefice, e subito
al di sotto della sua figura, alcuni primati, segnalati, appunto, per il
blasone della propria sede, esercitassero più di altri il loro peso nella
vita della chiesa (ad esempio nei concili, nei cui documenti conclu-
sivi l’ordine delle sottoscrizioni mostra la gerarchia) o farsi latori di
istanze provenienti da altri, in special luogo dal potere regio 32. Per  

31 Il rapporto tra Venezia e il patriarcato di Grado è in realtà una relazione


complessa e non riducibile certo per i secoli che stiamo considerando a una identi-
ficazione priva di sfumature. Basti pensare che il trasferimento definitivo del titolo
patriarcale da Grado a Venezia, mediante la promozione metropolitica dell’episco-
pato veneziano di Castello e l’estinzione di quello originario avvenne solo nel 1451
(cfr. Rando, Una chiesa di frontiera, cit., pp. 165-193). Adottiamo dunque in questa
sede la visione semplificata della chiesa gradense come chiesa veneziana perché nel-
la sostanza, il processo completatosi nel XV secolo già si delinea a partire dal IX.
32 Paolo Tomea (Tradizione apostolica, cit., p. 35) parla di «clima arroventato
tra Milano e Ravenna, che raggiunsero uno dei momenti di maggiore accanimento
durante la prima metà dell’XI secolo. Suo oggetto è appunto l’incidente verificatosi

272
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

queste ragioni il profilo dei grandi dignitari ecclesiastici era sì auto-


nomo, ma nel contempo esso subiva anche il riverbero derivante da
questa appartenenza sovralocale, destinata, peraltro, ad accrescere il
proprio peso con l’avanzamento delle istanze riformistiche e con l’af-
fermarsi del primato petrino 33.  

a Roma nel 1027 tra gli arcivescovi milanese e ravennate circa il diritto di tenere la
destra del re dei Romani nella cerimonia della consacrazione imperiale di Corrado
II».
33 La sanzione della superiorità del vescovo di Roma su tutti gli altri episco-
pati, infatti, accelerò la strutturazione gerarchica dell’organizzazione ecclesiastica,
conferendo peraltro nuova linfa al ‘mito romano’, che già aveva attraversato con
varia fortuna i secoli dell’alto medioevo (F. Stella, Roma antica nella poesia medio-
latina. Alterità e integrazione di un segno poetico, in Roma antica nel Medioevo, cit.,
pp. 277-308. In particolare, si vedano le pagine dedicate a Roma nella poesia caro-
lingia, pp. 280-284, ove si ricorda la fondazione di Aquisgrana, contenuta nel De
Karolo rege et Leone papa, «presentata come nuova Roma e “Roma del futuro”, de-
scritta in ossequio pedissequo alla descrizione virgiliana dell’erigenda Cartagine»,
p. 281). Lo provano la corsa all’auto accreditamento in termini di «altera Roma»,
o «Roma secunda» da parte di molte città dell’occidente. Si tratta di una qualifica
che comincia a ricorrere a partire appunto dalla metà dell’XI secolo e che riguarda
un manipolo di centri urbani: Treviri, Tournai, Reims, Milano, Venezia, Pavia; W.
Hammer, The Concept of a New or Second Rome in the Middle Ages, «Speculum»,
19 (1944), pp. 50-62. Per il caso di Pavia, «Roma secunda» nel Libellus de laudibus
civitatis Ticinensis di Opicino de Canistris, si veda Majocchi, Pavia città regia, cit.,
pp. 145-149). In questi casi, non si proponeva più l’immagine di «nuova Roma»,
come nel caso di Aquisgrana, poiché l’obiettivo non era la legittimazione di una
primazia politica; queste città si candidavano piuttosto al ruolo di «vice Roma»,
un piazzamento d’onore nella gerarchia delle dignità episcopali che rappresentava
una condizione non necessariamente esclusiva, ma comunque foriera di grandissi-
mo prestigio, da spendere prima di tutto sul teatro regionale per rafforzare l’autorità
sulle chiese viciniori o suffraganee. Anche se bisogna dire che in questo quadro gli
elementi di ambiguità non mancano. Bonvesin de la Riva sosteneva, ad esempio,
che gli sarebbe sembrato giusto addirittura che Milano sostituisse Roma come sede
pontificia: «patet quod non tantum secunda Roma vocari meretur, ymo, si michi li-
ceret quod fari liberet, ut non imputaretur michi presumptioni, meo quasi dignum
et iustum videretur iudicio sedem papalem et reliquas dignitates ad eam totaliter
hunc transferri»; Bonvesin De La Riva, De magnalibus urbis Mediolani, a cura di
F. Novati, «Bollettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo», XX (1898),
pp. 171-172. In quel «quasi» è compendiata però la consapevolezza della straor-
dinarietà e dell’arditezza della proposta, che, su ammissione dello stesso autore,
travalica l’ordinario, ovvero la collocazione di Milano al secondo posto dopo Roma.
Sempre un passo del frate milanese lascia trapelare come la concorrenza tra le sedi
non mirasse al conseguimento di un ‘secondo posto assoluto’; infatti, sebbene egli
dedichi un passo molto serrato alla dimostrazione della precedenza della chiesa mi-
lanese rispetto a quella ravennate (basandosi sul fatto che la chiesa milanese sarebbe
stata fondata da Barnaba, apostolo, mentre quella ravennate da Apollinare, «tan-

273
Dario Canzian

Che a Venezia ci fosse una chiara consapevolezza di questa pro-


blematica e della necessità di una sua gestione politica vi sono pochi
dubbi. Tra il sesto e il settimo decennio dell’XI secolo, infatti, la
cattedra gradense fu occupata da un patriarca, Domenico Marango
(1050 ca.-1074 ca.), noto più per la sua fattiva collaborazione con
la curia pontificia, per la quale svolse anche importanti missioni a
Bisanzio, che per l’impegno speso nella sua chiesa 34. Tale era la sua
 

contiguità rispetto al papa da aver indotto Cinzio Violante a formula-


re l’ipotesi — ridimensionata poi dagli studi di Daniela Rando — di
una divergenza tra gli orientamenti del Marango e quelli del Ducato,
interessato quest’ultimo «ad una politica di equilibrio tra i due impe-
ri», in contrasto con gli interessi del papato 35.  

Ad ogni modo, tirando le somme, appare evidente che sotto


il profilo ideologico e politico l’elaborazione di una mitologia fon-
dativa legata all’evangelizzazione delle Venezie e alla costituzione
della chiesa gradense, elaborazione testimoniata, come si è detto,
nelle formulazioni cronistiche veneziane dell’XI secolo, sanava un
‘vizio d’origine’ nella coscienza identitaria cittadina; e nel contem-
po, forniva alla città e alla sua chiesa uno strumento per collocarsi
nel grande confronto internazionale ad armi pari rispetto ai protago-
nisti più accreditati.
Vorrei però sottolineare, chiudendo questa sezione, che, se tali
sono gli esiti politici della creazione del primo mito veneziano (ma la
considerazione vale anche negli altri esempi considerati), non possia-
mo a mio avviso stabilire con chiarezza un discrimine tra la creazione
a freddo di una leggenda fondativa da parte di una élite determinata

tum appostolorum discipulus»), non manca di segnalare che «in Decretis legitur
quod Mediolani pontifex et Aquilegie patriarcha condam poterant sese alterutrum
consecrare».
34 Dal papa, nel 1053, il Marango ottenne per la sua chiesa la definizione di
«nova Aquileia totius Venetiae et Istriae caput et metropolis», e nel contempo il de-
classamento del patriarca di Aquileia a semplice «Foroiuliensis antistes». Su questo
patriarca mi permetto di rinviare alla voce Marango Domenico a cura di D. Canzian,
in Dizionario bibliografico degli italiani, Roma 2007, vol. 69, pp. 415-418.
35 C. Violante, Venezia fra papato e impero nel secolo XI, in Studi sulla cristia-
nità medioevale. Società, istituzioni, spiritualità, raccolti da P. Zerbi, Milano 19752
[già in La Venezia del mille, Firenze 1965], p. 309. Da questa divergenza sarebbe
derivata addirittura una compressione delle facoltà di goveno autonomo della chie-
sa gradense (R. Cessi, Venezia ducale, II/1, Commune Venetiarum, Venezia 1965, pp.
44-45). Sulla revisione di questa interpretazione si veda Rando, Una chiesa di fron-
tiera, cit., p. 79.

274
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

al conseguimento di specifiche finalità politiche — il mito «tecniciz-


zato», per riprendere la definizione di Furio Jesi 36 —, e l’adesione
 

‘intellettualmente spontanea’ da parte di questa medesima élite ad


un modello antropologico che permeava l’intera società, laica ed ec-
clesiastica, negli anni che stiamo considerando.

5. Cives e mitologia civica in età comunale


A causa dell’intreccio tra dimensione ecclesiastica e tempora-
le che contraddistinse le istituzioni chiesastiche dei secoli centrali
del medioevo, la gerarchia delle sedi diocesane, fondata su elementi
storico-ideologici, facilmente scivolava dal piano delle chiese a quel-
lo delle identità civiche, in un gioco biunivoco di rimandi nel quale
le due componenti si supportavano a vicenda nel promuovere la di-
gnità e il prestigio di ogni sede urbana. L’autopromozione della sede
episcopale trascinava infatti con sé la promozione della città nel suo
complesso. Nelle laudes civitatum, ad esempio, la prosperità urba-
na è conseguenza della dignità della sua chiesa, comprovata dalle
preziose reliquie custodite e dalla santità dei suoi vescovi, e in parti-
colare del vescovo padre-fondatore. È un fenomeno di lunga durata,
che, com’è noto, si avvia ben prima dei casi che abbiamo conside-
rato. L’XI secolo, però, rappresenta uno snodo, come anticipato,
una fase che lascia un’eredità diffusa. In area italica nord-orientale,
ad esempio, è questo il periodo di alcune spettacolari inventiones: a
Mantova, nel 1048, nientemeno che alla presenza del papa e dell’im-
peratore, si scopre l’ampolla con il «lateral sangue di Cristo». Nel
1053 a Padova, nella basilica di S. Giustina, forse alla presenza di
Leone IX, vennero alla luce le reliquie dei santi Massimo, Giuliana,
Felicita e di tre Innocenti; il secolo poi si chiuse in gloria nel 1094
con il miracoloso reperimento a Venezia delle spoglie di san Marco,
‘dimenticate’ dall’828 37. È evidente che questi ritrovamenti si spie-
 

36 Furio Jesi desume la distinzione tra miti genuini e miti ‘tecnicizzati’ dal
Kerényi (vedi supra, nota 3), precisandola ulteriormente nel senso che ai primi viene
dallo studioso attribuito carattere collettivo, condiviso, ai secondi, invece, carattere
«comune solo ad un determinato gruppo sociale», gruppo che esprime anche at-
traverso questo tipo di elaborazione la propria vocazione egemone; F. Jesi, Mito e
linguaggio della collettività, in Letteratura e mito, Torino 1968 e 2002, pp. 35-36.
37 Si veda per il caso mantovano P. Golinelli, Culto dei santi nella politi-
ca dei Canossa, in Indiscreta sanctitas. Studi sui rapporti tra culti, poteri e città nel
pieno medioevo, Roma 1988, pp. 22-25; per san Marco, Cracco, I testi agiografici,
cit., pp. 935sgg. e Id., Santità straniera in terra veneta (sec. XI-XII), in Les fonctions

275
Dario Canzian

gano in un contesto di competizione urbana, dato che il loro valore


si proietta sulle città nelle quali si sono verificati.
Nel contempo si hanno le prime avvisaglie di uno slittamento
verso l’appropriazione da parte dei cives dei simboli dell’identità re-
ligiosa cittadina. Ce ne dà testimonianza un episodio verificatosi a
Padova, durante l’episcopato di Odelrico (1064-1080). In quella cir-
costanza vennero infatti rinvenute, sempre nella chiesa cenobitica di
S. Giustina, le reliquie del santo vescovo Daniele; il vescovo le fece
traslare nella cattedrale, ma una parte dei cives si oppose in nome del
diritto di Giustina di avere presso di sé il ‘suo’ vescovo 38. Affiora in
 

questa vicenda un elemento significativo: nel momento in cui i grup-


pi dirigenti urbani si avviano ad accogliere direttamente il governo
della città (a Padova il comune è testimoniato a partire dal 1138),
emancipandosi dalla tutela episcopale, questa lascia ai cives come
struttura profonda della loro identità pubblica il marchio episcopali-
stico originario, maturato in età precomunale.
Questo fil rouge intesse l’elaborazione dei miti originari, pensati
o ripensati in età comunale, intrecciandosi con altri di antica e nuo-
va provenienza, ma rimanendo sempre perfettamente distinguibile,
ed anzi, riemergendo con vivacità in alcuni momenti particolari del-
la storia urbana, quando appunto è necessario fare appello alle radici
più profonde della solidarietà civica 39.  

Il dato risalta con maggiore evidenza quando si fa più acuta la


competizione tra centri urbani. L’anonimo lodigiano che tra il 1253
e il 1259 scrive il De laude civitatis Laude, in polemica con Milano,
celebra le buone relazioni tra Lodi e Federico I, e contestualmen-
te esalta la rettitudine dei suoi concittadini protetti dal patrono san
Bassiano 40.
 

des saints dans le monde occidental (IIIe-XIIIe siècle), Rome 1991, pp. 446-465; su
Padova, A. Tilatti, Istituzioni e culto dei santi a Padova fra VI e XII secolo, Roma
1997, pp. 119-239.
38 Ivi, p. 195.
39 Esemplare da questo punto il caso del bolognese san Petronio, vescovo, mi-
tico ri-edificatore della città dopo la distruzione teodosiana, riscoperto come vessillo
civico a partire dal 1284, in A.M. Orselli, Spirito cittadino e temi politico-cultura-
li nel culto di San Petronio, in La coscienza cittadina, cit., pp. 283-343. Indicativa,
se letta in negativo, è anche la critica che ad inizio Trecento un anonimo sermo-
nista francescano rivolse ai Padovani, dimentichi dell’antico culto per il vescovo
Prosdocimo in nome del nuovo ‘patrono laico’, Antenore (vedi infra).
40 Occhipinti, Immagini di città, cit., pp. 30-31. Alla provocazione risponde-
rà poi («abboccherà», dice la Occhipinti) Galvano Fiamma.

276
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

Tra fine XII e XIV secolo, a diverse riprese, si combatte un’al-


tra schermaglia propagandistica che vede ancora una volta Milano
protagonista, con antagonista Pavia. La polemica divampa nelle cro-
nache due-trecentesche (Opicino de Canistris, Bonvesin de la Riva,
Galvano Fiamma, Giovanni Codagnello, Benzo d’Alessandria e
altri), scegliendo come argomento polemico il confronto tra le al-
tissime tradizioni delle due città, fondate come si è detto sul passato
regio di entrambe. Ma anche in questa diatriba, in cui la storia civile
delle contendenti forniva all’elaborazione delle rispettive identità ci-
viche un materiale straordinario, che pochissimi altri centri potevano
vantare, il richiamo alle origini ecclesiastiche appare supporto fonda-
mentale, poiché il prestigio episcopale diviene il segno di una speciale
predilezione delle potenze superiori 41. L’interrelazione continua tra
 

la memoria regia e quella ecclesiastica segna in questo scontro un ele-


mento di specificità che nel contempo rimarca la distanza dai moduli
più consueti della riflessione sulle origini. In merito ai quali, sarà la
tradizione ecclesiastica a fornire ancora per buona parte del XIII se-
colo la fonte a cui attingere.

6. L’identità dalla competizione: alcuni esempi in area alto-adriatica

a. Trieste e Capodistria
Potrà essere utile, a ulteriore dimostrazione di questa ipotesi,
prendere in considerazione un caso di costruzione di una identi-
tà civica in fieri, ovvero quello del centro di Capodistria tra XII e
XIV secolo. Il caso di questo capoluogo istriano è particolarmen-
te interessante perché la sua promozione a sede diocesana avviene
tardivamente, attraverso l’emancipazione dalla diocesi confinante di
Trieste.
Trieste e Capodistria, come si sa, avevano avuto origine diver-
sa. La prima è città romana, sede in età medievale di un episcopato
forte, di tipo ‘tedesco’, potremmo dire, nel senso che anche quan-
do si sviluppa il comune la città rimane comunque sotto una non
eludibile egemonia vescovile 42. La suffraganeità di questa diocesi al
 

41 Se ne veda la puntuale ricostruzione in Majocchi, Pavia città regia, cit., pp.


69-187.
42 Istria nel tempo. Manuale di storia regionale dell’Istria con riferimenti alla
città di Fiume, a cura di E. Ivetic, Rovigno 2006, pp. 230-234.

277
Dario Canzian

patriarcato aquileiese non è mai messa in discussione. Momento for-


te di enfatizzazione dell’identità urbana è, ancora una volta, la metà
dell’XI secolo. A Trieste, infatti, trovò compimento entro quel termi-
ne, sotto l’episcopato di Adalgero, la nuova cattedrale dove venivano
custodite le reliquie di san Giusto e di san Servolo, come dimostra-
to di recente da Monica Mason. Adalgero era forse un congiunto
di Enrico III, e sembra abbia tratto ispirazione per la realizzazione
dell’ambizioso progetto, completato a fine secolo dalla realizzazio-
ne dei mosaici absidali, dalla costruzione della basilica aquileiese,
definita ‘popponiana’, consacrata nel 1031. Poppone, a sua volta,
aveva voluto la nuova chiesa per custodire le reliquie del protovesco-
vo Ermagora e del suo diacono Fortunato 43.  

Per quanto riguarda Capodistria, meglio nota nelle fonti medie-


vali con il nome di Giustinopoli, la sua promozione urbana risale al
1177, quando a Venezia, dove si teneva il summit per la pacificazione
tra il Barbarossa e i comuni, Alessandro III provvide a ripristinar-
vi la sede diocesana. Dapprima essa venne affidata al vescovo di
Trieste, Wernardo, il quale, secondo una fonte processuale poste-
riore 44, aveva in realtà osteggiato in tutti i modi la costituzione del
 

43 «Soprattutto l’erezione di un edificio autonomo espressamente destinato


ad accogliere i corpi dei patroni della città appare nei contenuti un atto di emu-
lazione dell’iniziativa popponiana e si colloca nel contesto di un ben più vasto e
generalizzato clima culturale di portata europea cresciuto nel corso dell’XI secolo in
cui le pretese di singole comunità ecclesiastiche, monastiche o cittadine erano soste-
nute attraverso la promozione e l’orchestrazione del culto delle reliquie dei propri
santi: il sacello di San Giusto costituiva l’ostentazione materiale del possesso del-
le reliquie dei martiri, e la sfolgorante rappresentazione musiva di Giusto e Servolo
la manifestazione della presenza fisica dei loro corpi, unione tangibile con le origi-
ni cristiane della Chiesa di Trieste e per questo segno e simbolo dell’antichità e del
prestigio della sede episcopale tergestina»; M. Mason, Il complesso cattedrale di San
Giusto a Trieste e la sua decorazione musiva. La genesi degli edifici medievali in una
prospettiva storica, in San Giusto e la tradizione martiriale tergestina, a cura di G.
Cuscito, Trieste 2005, pp. 314-315.
44 P. Kandler, Codice diplomatico istriano [= CDI], Varese 2003 [rist. fo-
tomeccanica dell’edizione Trieste 1862], II, p. 353, n. 190, anno 1201 (esame di
testimoni nella lite tra Vescovo Adalgero di Capodistria ed Abbadessa di S. Maria
di Aquileja per le decime di Isola): «Presbiter Iohannes iurando dicit quod […].
Item dixit quod Insula numquam habuit baptismum ut in Ecclesia Justinopolitana,
et canonici illius Ecclesie habent quartisium predicte decimationis Episcopatus,
excepto corpore civitatis. Interrogatus quomodo scit, respondit, quod quartisium
quod canonici habent, quia et ego canonicus sum […] Tum dicit quod episcopus
G[uernardus] fuit homo incompositus et inordinatus, dissipator et cosumptor bono-
rum ecclesie, et alienationes plures fecisse.. Item dicit quod abbatia illa longe ditior

278
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

nuovo episcopato. Dal 1186 le diocesi si erano definitivamente se-


parate 45. La chiesa giustinopolitana, pur suffraganea di Aquileia, in
 

realtà gravitava fortemente verso Venezia, sia per il numero elevato


di presenze religiose veneziane in città, sia per i plurisecolari diritti
patrimoniali goduti in quella sede dal patriarca di Grado 46. Sulle ra-  

gioni dell’intervento di Alessandro III non abbiamo notizie dirette.


La storiografia erudita istriana sostiene che il papa intervenne su ri-
chiesta dei ‘Giustinopolitani’, appena costituitisi a comune, e con il
sostegno del doge veneziano 47. È una ipotesi credibile, specialmente
 

alla luce degli sviluppi del contemporaneo conflitto papato-comuni-


impero: il papa avrebbe concesso a Giustinopoli la sede diocesana,
premiando la comunità locale costituitasi a comune, e danneggiando
l’episcopato triestino, schierato col patriarcato di Aquileia, ovvero
con l’impero.
Fondamento di questa operazione era il riconoscimento di una
identità ecclesiasticamente forte a Giustinopoli. Ma quali erano le
tradizioni ecclesiastiche e civiche che giustificavano il rarissimo con-
ferimento della sede diocesana?
Capodistria, sorta forse sul sito dell’oppidum romano di Egida,
secondo una tradizione non confermata da dati certi, venne fondata
da Giustino II, nipote di Giustiniano, tra il 565 e il 578 48. Per que-  

est quam episcopatus et non est subiecta episcopatui […] quod dictus episcopus G.
multum laboravit ut destrueret episcopatum Iustinopolitanum. Interrogatus quo-
modo scit, repsondit quod fuit cum eo quando papa et imperator fuerunt Venetiis
ubi ipse laboravit et dedit operam cum domino patriarcha W. ut destrueret episco-
patum, quod ego, et alii qui cum eo eramus, sentientes, versi sumus ad patriam eo
relicto».
45 Kandler, CDI, I, p. 325, n. 172: «Il Comune di Capodistria costituisce la
dote ai Vescovi di Giustinopoli per occasione che dopo morte di Vescovo Bernardo
di Trieste e Capodistria, era per rivivere la serie dei Vescovi propri».
46 Per le presenze veneziane mi permetto di rinviare al mio L’espansione pa-
trimoniale dei monasteri veneziani in Istria tra XII e XIV secolo, in Letteratura, arte
e cultura tra le due sponde dell’Adriatico, a cura di G. Baldassarri - N. Jaksǐć - Ž.
Nizíc, Università di Zara (Sveućilište u Zadru), Zara 2008, pp. 169-200; si veda inol-
tre, B. Benussi, Nel Medio Evo. Pagine di storia istriana, Trieste - Fiume 2004 [rist.
anastatica dell’edizione Parenzo 1897], I, pp. 196-197.
47 Ivi, p. 321.
48 La tradizione viene fortemente messa in dubbio da Camillo De Franceschi,
figura importante dell’erudizione documentaria istriana del secolo scorso. Per lui,
il nome di Giustinopoli, non attestato prima del 932, sorge «per l’artificio di qual-
che addottrinato ecclesiastico», in considerazione della rozzezza del nome con cui il
centro era popolarmente noto, almeno dall’epoca del placito di Risano (804), ovvero

279
Dario Canzian

sto avrebbe recato il nome di Giustinopoli, a cui soltanto nel corso


dei secoli bassomedievali andò sostituendosi quello di Capodistria.
Sembra, ma non è certo, che in effetti fin dall’inizio questo cen-
tro fosse stato dotato di episcopato, poi estintosi per mancanza
di sostentamento. Dopo una breve riemersione nel 756, di vesco-
vi di Capodistria non sentiamo più parlare fino al 1177, appunto 49,  

quando la città va incontro, in un certo senso, ad una rifondazione


ecclesiastica, peraltro in qualche modo annunciata, visto che le fon-
ti designavano il centro con il termine di civitas già qualche decennio
prima che vi si ripristinasse la diocesi 50.  

Come si sarà notato, questa vicenda presenta diverse affinità con


il caso di Tournai, delineato nella prima parte di questo contributo;
anche lì, come segnalato, quasi negli stessi anni veniva ripristinata
un’antica sede diocesana, staccandola da quella che l’aveva assor-
bita nei secoli alto medievali. In quella circostanza, abbiamo visto,
alla promozione era corrisposta l’elaborazione nell’ambiente del cle-
ro urbano di un complesso mito di fondazione romano-episcopale.
A Capodistria-Giustinopoli, invece, nonostante non mancassero gli
spunti e i motivi — un’origine in teoria nobilissima, immediatamente
percepibile dal nome stesso della città; la concorrenza con una sede
urbana e diocesana forte, come Trieste; il ruolo di città-guida di uno
spazio dinamico, come l’Istria —, ciò non accadde. Difficile dire se
non se ne avvertì la necessità o se mancarono le capacità. Tuttavia,
una indicazione di età posteriore ci rende edotti sulla necessità av-
vertita, ad un certo punto, anche qui, di produrre una memoria
fondativa legata ad una tradizione agiografica propria. Nel 1380, in-
fatti, nel corso della guerra di Chioggia, i Genovesi misero in atto
un’incursione ai danni di Capodistria, occupandola per un breve pe-
riodo; ebbene, in quell’occasione vennero asportate dalla cattedrale

quello di Capris (C. De Franceschi, Delle origini di Capodistria e del suo vescova-
to, Venezia 1951, pp. 2-3, dall’estratto custodito presso la Biblioteca Universitaria
di Padova).
49 P.F. Kehr, Italia pontificia, VII, Venetiae et Histria, Berlino 1961 [rist. ana-
statica dell’edizione Berlino 1925], pp. 214-225; Benussi, Nel medioevo, cit., p. 96;
L. Margetic, Le prime notizie su alcuni vescovati istriani, in Histrica et adriatica.
Raccolta di saggi storico-giuridici e storici, Trieste 1983, pp. 113-123.
50 Cfr., ad esempio, Archivio di Stato di Venezia, Codice diplomatico vene-
ziano (1135-1140), S. Cipriano di Murano, p. 2, n. 799 (1135 marzo 5), p. 7, n. 803
(1135 maggio 6), p. 114, n. 884 (1138 agosto 29): «Actum in civitate Iustinopoli»;
S. Giorgio Maggiore, III, Documenti 1160-1199 e notizie di documenti, a cura di
L. Lanfranchi, Venezia 1968, p. 45, n. 308 (1165 febbraio 2): «Acta in civitate

280
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

le reliquie di San Nazario, nume tutelare della città 51.  

Era questo il santo che una tradizione a noi nota a partire dal
secolo XV riconosceva come il primo vescovo di Giustinopoli (ini-
zio VI secolo). Il furto sacrilego che lo riguardò non era in sé una
rarità. Esso aveva lo scopo di infliggere alla città che lo subiva un de-
classamento, colpendola nel simbolo principale della sua dignità 52.  

È proprio questo il punto. La tradizione agiografica di Nazario a


Capodistria non sembra infatti poter risalire oltre la metà del secolo
XIV, perché la chiesa maggiore nella documentazione dei secoli XII-
XIV compare intitolata a santa Maria, e solo oggi reca una doppia
titolatura, all’Assunta e a San Nazario, appunto. Insomma, non è im-
probabile che la comparsa di questo culto si debba ad una iniziativa
di autopromozione, a partire da elementi presenti forse già nell’alto
medioevo. Questi elementi, però, dovevano essersi rivelati insuffi-
cienti nei secoli del pieno e basso medioevo, proprio in relazione al
momento fondante della collettività. Il percorso di promozione ur-
bana quindi si completava con un andamento, per dir così a ritroso:
si ritrovava, o si inventava, un vescovo padre della città, collocato
nella tradizione agiografica più usuale.

b. Venezia e Padova
In area alto-adriatica la competizione dai tratti ideologici più
evidenti è quella tra Venezia e Padova. Venezia, naturalmente, è città
del mito per antonomasia. Le si riconosce una stratificazione mito-
grafica e una compresenza di motivi mitici che compendiano una
casistica pressoché completa. Il dato è stato acclarato da molti studi 53,  

Iustinopoli».
51 De Franceschi, Delle origini di Capodistria, cit. p. 7; F. Semi, Un inedito
dialettale veneto-istriano trecentesco: la «Mariegola di San Nazario» di Capodistria,
«Ateneo veneto», 172/33 n.s. (1985), p. 36;
<http://www.istrianet.org/istria/religion/saints/snazario1.htm> (con indica-
zioni sulla bibliografia locale).
52 Analogamente, ad esempio, nel 1199 i Trevigiani avevano bruciato la cat-
tedrale di Ceneda e asportato le reliquie dei santi, tra cui quelle del protovescovo
Tiziano, col pretesto di dare loro una sede più acconcia (A.S. Minotto, Acta et
diplomata e R. Tabulario veneto, II/1, Documenta ad Belunum, Cenetam, Feltria,
Tarvisium spectantia, Venetiis 1871, p. 25 — edito con data 1198).
53 Si vedano in chiave di sintesi Carile, Le origini di Venezia, cit., pp. 136-166;
G. Ortalli, I cronisti e la determinazione di Venezia città, in Storia di Venezia. Dalle
origini alla caduta della Serenissima, II, L’età del comune, a cura di G. Cracco - G.

281
Dario Canzian

e quindi non ci soffermeremo sul groviglio delle leggende veneziane


se non per evocarle in veloce rassegna: nel patrimonio cronachistico
veneziano tra XI e XIV secolo, in un intreccio aperto alle più am-
pie contaminazioni, il mito della fuga verso le lagune (per sfuggire
ad Attila o ai Longobardi), ossia delle cosiddette ‘origini selvagge’,
si intrecciava con quello della fondazione troiana (nella doppia ver-
sione della colonizzazione della prima Venezia e della successiva
rifondazione antenorea, alla quale si attribuiva anche l’edificazione
di Aquileia), e con la nascita di Cittanova Eracliana, il centro del-
l’area perilagunare fondato dall’imperatore Eraclio, prima sede della
nascente Venezia. Ancora, il mito della predicazione di Marco si in-
tersecava a quello della traslazione della sede patriarcale da Aquileia
a Grado. A queste leggende fondative se ne aggiungeva anche una ri-
fondativa, ovvero quella relativa all’assedio di Pipino, figlio di Carlo
Magno, nell’809-810, e della geniale capacità di difesa che avrebbe
dimostrato il popolo veneziano in quella circostanza 54.  

Proprio per il ruolo assunto precocemente da Venezia di fulcro


di uno spazio che andava molto al di là dei propri confini territoriali,
com’è noto piuttosto angusti, i miti di fondazione della città lagunare
si intrecciarono con quelli di un’altra città ‘adriatica’, anch’essa dalle
tradizioni leggendarie molto spiccate, ovvero Padova. L’esempio del
mito antenoreo, a cui si è accennato, da questo punto di vista è il più
eloquente, ma non mancano anche testimonianze cronachistiche tre-
centesche che addirittura riconducevano la fondazione di Venezia ad
una iniziativa padovana 55.  

Ortalli, Roma 1995, pp. 761-782; Id., Storia e miti per una Venezia dalle molte ori-
gini, in Venezia nella sua storia: morti e rinascite, a cura di C. Ossola, Venezia 2003,
pp. 81-109.
54 L’apologo, presente nel Chronicon Altinate, racconta che una eroica ma-
trona, unica a non fuggire di fronte al nemico, avrebbe salvato i venetici assediati
dal figlio di Carlo Magno, Pipino, convincendo i franchi ad attraversare di notte un
ponte-trappola costruito su suo suggerimento, ponte che sotto il peso dei cavalieri
si sfascerà precipitando in laguna gli assalitori. Si veda al riguardo Ortalli, Storia e
miti, cit., pp. 91-106.
55 Il fatto avrebbe anche una data precisa: il 25 marzo 421. Sarebbe esistito
addirittura un decreto promulgato dai consoli e dai primati del popolo padovano
che comproverebbe questa fondazione in Rialto, dove sarebbero stati designati tre
notabili col titolo di consoli. La questione è nota, essendo stata illustrata da Vittorio
Lazzarini, il quale ha individuato la notizia, comparsa anche nell’Extensa di Andrea
Dandolo, in una cronachetta primo-trecentesca attribuita a Giacomo Dondi, me-
dico, botanico, lettore di medicina e astronomia nello studio. Come dimostrato da
Lazzarini, in età successiva questa notizia fu utilizzata da cronisti ed eruditi pado-

282
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

L’identità padovana, per parte sua, riposava su due tradizioni


parallele. Da un lato vi era quella ecclesiastica, a sua volta innerva-
ta su due filoni: quello legato alla memoria di Giustina, la martire
alla quale era stato dedicato un tempio che, a partire dall’XI secolo
cominciò a rivelare la sua natura di grande reliquiario; e quello epi-
scopalistico, fondato sulla figura dell’evangelizzatore Prosdocimo e
poi sui vescovi che, a partire dal X secolo, tornarono a promuovere
il ruolo della città 56, dopo la parziale eclissi longobarda e carolin-
 

gia, quando il ruolo di capoluogo del territorio compreso tra i colli


Euganei e il basso corso del Bacchiglione fu rivestito da Monselice 57.  

L’altra tradizione, la tradizione alternativa, per così dire, era quella


iliaca, legata ai versi virgiliani che raccontavano di come Antenore,
profugo da Troia alla guida degli anatolici Eneti, navigatore nell’alto
Adriatico, avesse sconfitto gli Euganei e fondato Padova 58.  

Come si vede, non si tratta in nessuno dei due casi di patrimo-


ni mitografici esclusivi: il modello episcopalistico, corroborato dal
possesso delle reliquie, era comune a gran parte delle città italiche;
quello antenoreo era stato fatto proprio — almeno in alcuni auto-
ri — anche dalla storiografia veneziana, che, nel caso della cosiddetta
cronaca di Marco, di fine Duecento 59, l’aveva applicato a tutte le cit-
 

tà della pianura veneta, facendo di Antenore il padre di un intero


territorio, non solo di una o due città 60.  

Tuttavia, a mio avviso, proprio sul terreno del confronto con

vani come titolo nobilitante per la propria città, madre della stessa Dominante (cfr.
V. Lazzarini, Il preteso documento della fondazione di Venezia e la cronaca del me-
dico Jacopo Dondi, in Scritti di paleografia e diplomatica, seconda edizione ampliata
con sei saggi, Padova 1969, pp. 99-116); si veda anche S. Collodo, Attila e le origini
di Venezia nella cultura veneta tardomedievale, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze,
Lettere ed Arti», 131 (1972-73), pp. 531-567.
56 Tilatti, Istituzioni e culto dei santi a Padova, cit., pp. 57-118.
57A. Settia, Monselice nell’alto medioevo, in Monselice. Storia, cultura e arte
di un centro “minore” del Veneto, a cura di A. Rigon, Monselice - Treviso 1994, pp.
83-99; S. Collodo, Ricerche sugli assetti territoriali dei Colli Euganei nel Medioevo,
«Terra d’Este», 31 (2006), pp. 7-55.
58 L. Braccesi, La leggenda di Antenore. Dalla Troade al Veneto, Venezia
19972.
59 Vedi infra.
60 È questo, peraltro, un rilievo che mi pare di grande interesse, perché segna-
la una visuale non lagunare dell’identità veneziana, quale difatti si era manifestata
nel corso del X secolo con la famiglia dei Candiani, che furono dogi e anche comi-
tes in terraferma (Padova e Vicenza); M Pozza, Vitale -Ugo Candiano. Alle origini di

283
Dario Canzian

Venezia maturano le specificità delle tradizioni padovane.


Nel 1177, tre anni dopo un incendio che aveva devastato la cit-
tà, venne condotta una ‘campagna di scavi’, la terza a partire dalla
metà dell’XI secolo. In un clima di eccitata devozione e di piena col-
laborazione tra il clero e i cittadini, secondo l’immagine tramandataci
dall’inventio, l’indagine predisposta dal vescovo Gerardo entro la
basilica di Santa Giustina sotto la coordinazione delle autorità cit-
tadine portò alla luce numerosi sacelli di martiri, tra i quali l’arca
della stessa Giustina e dell’apostolo Mattia; ma soprattutto venne
scoperto in quella circostanza il corpo dell’evangelista Luca 61. La  

ricerca era motivata dalla necessità di rinvigorire l’intraprendenza ci-


vica padovana, duramente provata dall’esperienza dell’incendio, e
di coagulare attorno ad un progetto ideologicamente significativo le
intelligenze e le istituzioni più eminenti della città. Tuttavia, occor-
re ricordare che il 1177 è anche l’anno della pace di Venezia, ovvero
del grande consesso riunito nella città lagunare allo scopo di defi-
nire la tregua tra Federico I, Alessandro III, i comuni padani. Per
Venezia quella fu una grande vetrina: la città era sotto gli occhi dei
vertici della cristianità. Non si può non notare, allora, che nel mo-
mento in cui Venezia era tanto esposta, Padova, che aveva alle spalle
decenni di competizione e conflitti con il commune Veneciarum, le si
affiancava sul piano del prestigio fregiandosi a sua volta del corpo di
un evangelista 62. 

7. La scoperta del sepolcro di Antenore a Padova (1283): una rifonda-


zione laica?
Nella competizione con Venezia il vero asso nella manica i di-
rigenti padovani lo calarono con il ritrovamento niente meno del
fondatore leggendario, Antenore. Il fatto dovette verificarsi — su
questo non tutti concordano — nel 1274 o, più probabilmente, nel
1283 63. Durante gli scavi effettuati nella zona del monastero di S.
 

Stefano per la costruzione della Ca’ di Dio, venne alla luce una dop-

una famiglia comitale del regno italico, «Studi veneziani», n.s. V (1981), pp. 15-32.
61 Tilatti, Istituzioni e culto dei santi a Padova, cit., pp. 318-333; G. Zampieri,
La tomba di San Luca evangelista. La cassa di piombo e l’area funeraria della basilica
di Santa Giustina di Padova, Roma 2003, pp. 199sgg.
62 Tilatti, Istituzioni e culto dei santi a Padova, cit., pp. 318-330.
63 Guido Billanovich, Il preumanesimo padovano, in Storia della cultura ve-

284
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

pia cassa che conteneva lo scheletro di un guerriero e un’iscrizione su


lamina di bronzo che, interpretata dal giudice Lovato Lovati, lettera-
to appassionato appartenente alla cerchia dei cosiddetti preumanisti
padovani, identificava il guerriero come Antenore 64.  

Padova, in realtà, coltivava questa memoria laica da quasi un


secolo. Già nel 1210, infatti, su una porta della città era stata appo-
sta una lapide che ricordava il mitico fondatore 65. È chiaro però che,
 

in qualunque modo siano andate le cose nel 1283, in quell’occasio-


ne si riservò alla leggenda fondativa un’attenzione tutta particolare.
Antonio Rigon, parla, al riguardo, di una vera e propria «inventio
laica», cui fece seguito una sorta di «translatio», accompagnata, se-
condo la fonte (definita però dallo stesso Rigon «tarda e non proprio
affidabile»), da un così gran «concorso de populo che fo de necessi-
tade e torno torno assarare la ditta archa con molti provisionadi che

neta, II, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 93-94.


64 Cfr. Braccesi, La leggenda di Antenore, pp. 131-133 e 162-163; A. Rigon,
S. Antonio da «pater Padue» a «patronus civitatis», in Dal libro alla folla. Antonio di
Padova e il francescanesimo medioevale, Roma 2002, pp. 183-185 [già in La religion
civique à l’époque médiévale et moderne (Chrétienté et islam), École Française de
Rome 1995, pp. 74-76]. L’ipotesi della scoperta tardo-duecentesca delle ossa del mi-
tico fondatore, la cui principale testimonianza è rappresentata da una fonte risalente
al tardo Cinquecento [G. Fabris, Il presunto cronista padovano del sec. XV Guglielmo
di Paolo Ongarello, «Atti e memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere e Arti
in Padova», n.s., 53 (1936-37), pp. 167sgg.] era stata negata sulla base di una disa-
mina complessiva delle fonti disponibili da Cesira Gasparotto (C. Gasparotto, Alla
origine del mito della tomba di Antenore, in Medioevo e Rinascimento veneto. Con
altri studi in onore di Lino Lazzarini, I, Dal Duecento al Quattrocento, Padova 1979,
pp. 3-12); la Gasparotto ritiene che la tomba fosse presente in sede da prima del
1260, che fosse stata quindi restaurata nel 1283 (data riportata da un’iscrizione del
manufatto) e che in quell’occasione «il Lovato […] può aver declamato un magni-
loquente discorso celebrativo di Antenore e di Patavium» (p. 10). L’ipotesi non ha
trovato però accoglienza presso gli studiosi. Un unico precedente di questo episodio
viene ricordato in letteratura, ovvero la scoperta a Roma, nel 1045, di una sepoltura
identificata con Pallante, figlio di Evandro; G. Bodon, Petrarca, Padova e le memo-
rie dell’antichità: Antenore, Tito Livio e i Viri illustres, in Petrarca e il suo tempo,
Catalogo della mostra (Padova 8 maggio - 31 luglio 2004), Milano 2006, p. 126.
65 Gasparotto, Alla origine, cit., p. 7, nota 21; la notizia è ripresa da Silvana
Collodo (S. Collodo, Identità e coscienza politica di una società urbana, introdu-
zione a Una società in trasformazione. Padova tra XI e XV secolo, Padova 1995, p.
LIV), che vi vede, più che non nelle celebrazioni del 1283, «la volontà di supera-
re la tradizione delle origini cristiane e di ‘inventare’ un passato della città che fosse
disancorato da quello della sede vescovile […] affinché esso risultasse autonomo in
via assoluta così come ormai la cittadinanza si vedeva essere rispetto ad ogni potere
esterno e interno». Sull’argomento si veda anche Tilatti, Istituzioni e culto dei san-

285
Dario Canzian

la guardava» 66. Il giudice Lovato, per parte sua, volle legare per sem-
 

pre la sua memoria a quella di Antenore, facendosi seppellire in un


monumento funebre pubblico, accostato a quello antenoreo.
L’enfasi riservata al conditor urbis a Padova, pur segnata da
elementi specifici — basti pensare al salto di qualità nella considera-
zione della leggenda originaria rappresentato dalla trasposizione di
una memoria immateriale in una realtà fisica, corporea — in quegli
anni deve essere messa in relazione con il contesto culturale e ideo-
logico italico dell’epoca, al quale in parte si è già accennato. Come
si ricorderà, gli anni ’80 sono proprio quelli della composizione del-
l’Historia destructionis Troiae di Guido delle Colonne. Inoltre, a una
decina d’anni dopo, nel 1293, risale la composizione dell’Eulistea,
il poema che Bonifacio da Verona compose sul mitico fondatore di
Perugia, anch’egli profugo da Troia 67. Se, dunque, l’attribuzione
 

della fondazione urbica ad un eroe troiano non è novità di questo


periodo 68, possiamo dire che a partire da questa fase si avvia un pro-
 

cesso di divulgazione di questo tipo di leggende, che proliferano


ovunque capillarmente e hanno fortuna plurisecolare 69.  

ti a Padova, cit., pp. 341-351.


66 Rigon, S. Antonio, cit., p. 183.
67 Il componimento di Bonifacio giunge «a conclusione e sigillo di un proces-
so di costruzione dell’identità cittadina che ha già visto il consolidamento del culto
del santo patrono, la fabbrica dei due grandi simboli araldici della città, il grifo e il
leone, il compimento della Fontana Maggiore»; A.I. Galletti, Materiali per una sto-
ria del mito di fondazione di Perugia, in Renaissance Studies in Honor of Craig Hugh
Smyth, edited by A. Morrogh - F. Superbi Gioffredi - P. Morselli - E. Borsook, I,
History, Literature, Music, Firenze 1985, p. 76.
68 Si pensi alla presenza di questa leggenda nell’Origo, di cui si è detto; ag-
giungo almeno l’analoga attribuzione operata per Cremona dal suo vescovo Sicardo
(1185-1215) nella Chronica universalis (1213), per la quale si veda Zabbia, I notai e la
cronachistica, cit., p. 27. In generale, il rimando è al classico A. Graf, Roma nella me-
moria e nelle immaginazioni del Medio Evo, con un’appendice sulla leggenda di Gog e
Magog, Bologna 1987 (rist. anastatica dell’edizione Torino 1923), pp. 14-21.
69 È significativo, a questo proposito, che anche piccoli centri, come
Conegliano (TV), si dotano a fine ’500 del loro bravo mito di fondazione troia-
na; nella fattispecie, l’ecista, di cui ci parla la cronaca del notabile Giovan Battista
Coderta, sarebbe stato Giano (da cui la paretimologia: Conegliano/Colle di Giano),
compagno di ventura di Antenore, fondatore di Padova, e di Aquilo, fabbricatore
di Aquileia (L. Caniato, Da Giano a Giano: il mito necessario, «Storiadentro. Rivista
di studi storici», n.s. 5, 2008, pp. 9-104); anche Trieste si vale di miti troiani a par-
tire dall’età rinascimentale (M.L. Iona, Miti delle origini in alcune cronache antiche
e nella storiografia locale nei secoli XVII-XX, in Scritti in onore di Ruggero Fauro
Rossi, vol. CV-2 della Raccolta di «Atti e memorie della società istriana di archeo-

286
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

Il fenomeno non è certo passato inosservato agli studiosi. La


spiegazione più ovvia affianca alla valorizzazione duecentesca del-
le componenti classicheggianti della cultura medievale (ben presenti
nella formazione dei ceti intellettuali, e del notariato in particolare),
l’emulazione del modello virgiliano e la volontà di affermazione di
una precedenza cronologica, sentita di per sé come nobilitante, ri-
spetto al riferimento romano. Paolo Golinelli ha spostato un po’ più
in là l’interpretazione, evidenziando come l’intervento di nuovi miti
(e simboli, come la statua pavese del Regisole), che superavano quelli
tradizionali della religione civica, fosse determinato da nuove esigen-
ze e, pare di capire, da una rinnovata autocoscienza cittadina nella
quale la civitas emerge per il suo valore intrinseco, per le sue parti-
colari strutture, per essere il luogo nel quale l’umanità esprime le sue
massime potenzialità 70.  

Allineandoci a questa interpretazione, possiamo aggiungere che


con l’invenzione di miti fondativi iliaci le élites intellettuali che se
ne occupavano intendevano conferire profondità cronologica alle ri-
spettive vicende urbane, non tanto per senso storico, quanto per la
necessità di proporre ciascuna di esse come assoluta e nel contem-
po come unica: la città è in quest’ottica un corpo collettivo che esiste
pressoché da sempre 71. Il senso della sua comparsa sulla faccia del-
 

la terra deve essere cercato in un atto deliberato di un eroe, che, sul


modello virgiliano, ha la missione di trasmettere l’eredità di quello
che rappresentava l’archetipo urbano per eccellenza, ovvero Troia.

logia e storia patria», Trieste 2005, pp. 361-381). Più in generale, sui miti fonfativi
urbani umanistici e rinascimentali si veda R. Villard, Le héros introvable: les réci-
ts de fondation de cités en Italie. XIVe-XVIe sècles, «Histoire, économie et société»,
19/1 (2000), pp. 5-24.
70 P. Golinelli, Quando il santo non basta più: simboli cittadini non religio-
si nell’Italia bassomedievale, in La religion civique à l’époque médiévale et moderne
(Chrétienté et islam), cit., p. 389: «ad una simbologia unica e unificante della picco-
la città altomedievale si era sostituita nella più vasta e vivace città bassomedievale
una religione a più simboli e a più soggetti, ovvero i simboli religiosi o non religiosi
divenivano secondari rispetto alla città stessa, essa cioè aveva acquisito una tale au-
toconsapevolezza da farsi simbolo di sé».
71 Si veda l’esempio fiesolano, nel quale la storia della città prende le mosse
dall’episodio della Torre di Babele; oppure Ravenna, dove il punto di partenza è in-
dividuato nel diluvio universale; cfr. Benvenuti, «Secondo che raccontano le storie»,
cit., p. 216; Cronaca Rampona, in A. Sorbelli, Corpus Chronicorum Bononensium,
I, Città di Castello 1906 (Rerum Italicarum Scriptores. Raccolta degli storici italia-
ni dal Cinquecento al Millecinquecento ordinata da L.A. Muratori, XVIII, 1, tomo
I), pp. 26-27.

287
Dario Canzian

Troia è a sua volta città ‘assoluta’, anzi, città assoluta per antonoma-
sia. La sua identità è legata infatti all’assedio decennale, che la isola
completamente dal resto del mondo — un’esperienza che, peraltro,
le collettività urbane medievali dovevano avvertire con forte imme-
desimazione —, affratellando i suoi abitanti sotto l’ala protettrice di
un re-padre e di guerrieri forti, generosi e sfortunati. La fine di Troia
in questa prospettiva è il sacrificio di una madre; ai figli superstiti
l’incarico di rinnovare altrove la sua esperienza e trasmettere il san-
gue di quegli eroi alle nuove Ilio sparse nel mondo.
Ma torniamo a Padova, perché ancora qualche cosa resta da
dire su questo caso. A voler dar credito alla fonte cinquecentesca, un
grande afflusso di ‘popolo’ avrebbe accompagnato la translatio delle
spoglie di Antenore, come si è detto. L’iniziativa padovana era stata
del resto davvero clamorosa, e lo prova anche la decisione di monu-
mentalizzare la memoria antenorea, secondo modalità che, mi pare,
superano qualunque altro esempio in ambito italico 72. L’intento,  

mi sembra, era quello di divulgare il più possibile la leggenda an-


tenorea, fino al quel momento appannaggio di una ristretta élite di
intellettuali, proponendo un nuovo elemento di aggregazione civica.
In questa chiave, si potrebbe ben comprendere il dispetto dell’ano-
nimo sermonista francescano che, a inizio Trecento, intravedeva nel
culto per Antenore una minaccia alla devozione a san Prodocimo
protovescovo 73. 

Sembra insomma materializzarsi nelle parole del frate quel-


la crisi del tradizionale riferimento identitario religioso sottolineata,
come si è detto, dal Golinelli, a favore di un nuovo fulcro di aggre-
gazione civica.
Eppure, è possibile, a mio avviso, anche una seconda lettura di
quei fatti. Prima di tutto, bisognerebbe capire se quel progetto di
pubblicizzazione del mito fondativo sortì davvero gli effetti propo-
sti. La notizia dell’accorrere delle genti al momento della traslazione

72 A quest’altezza cronologica, a quanto ne so, si può menzionare per raffron-


to soltanto la figurazione di Euliste nella Fontana Maggiore di Perugia; l’esempio
della statua imperiale equestre pavese, il Regisole, pur investita di altissimo valore
simbolico in relazione al passato regio della città, non sembra possa essere colle-
gata a una mitologia fondativa (cfr. Golinelli, Quando il santo, cit., pp. 387-389,
Majocchi, Pavia città regia, cit., p. 149).
73 Cfr. P. Marangon, Alle origini dell’aristotelismo padovano (sec. XII-XIII),
Padova 1977, p. 105, nota 126 (ripreso poi da Collodo, Identità e coscienza, cit., p.
LIII, e Rigon, Da «pater Padue», cit., p. 184).

288
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

di Antenore parrebbe confermarlo, ma è notizia cinquecentesca, che


si adatta molto bene ad una caratterizzazione rituale rinascimenta-
le, mentre tutto da verificare appare il dato per la fine del Duecento.
Anche la rampogna del frate può essere considerata rivolta non tanto
al ‘popolo’ padovano, quanto piuttosto al gruppo dirigente del co-
mune, di cui il Lovato era insigne rappresentante 74, e con il quale i
 

Francescani di Padova avevano allora in corso un duro contenzioso.


Autorità pubblica e vescovo di Padova, infatti, proprio entro il 1302
avevano raccolto e avviato alla Santa Sede un corposissimo dossier
contenente le prove documentarie delle gravi malversazioni operate
dai frati di Sant’Antonio nella gestione dell’Inquisizione 75.  

Insomma, considerato anche che ai fatti, certo rilevanti, del


1283 non sembra abbia fatto seguito alcuna altra forma di celebra-
zione o di commemorazione istituzionalizzata — o, se ci fu, non ebbe
sufficiente rilevanza da trasmetterne la memoria fino a noi —, si può
concludere che l’‘operazione Antenore’, per quanto clamorosa, ri-
mase confinata a quella élite che l’aveva coordinata.
Resta da capire il perché di quel tentativo ‘tecnicizzante’ di
divulgazione del mito antenoreo da parte dei dirigenti comunali pa-
dovani. Lo speciale clima culturale certo ebbe la sua importanza:
come si ricorderà, Carlo Dionisotti assegnava proprio ai padova-
ni Lovato e Mussato il ruolo di protagonisti e ispiratori della svolta
che il laboratorio letterario italico sperimentò tra XIII e XIV seco-
lo 76 e di cui l’Historia destructionis Troiae di Guido dalle Colonne fu
 

uno degli esiti. Ora, proprio l’Historia è uno dei principali veicoli di
un’immagine di Antenore tutt’altro che edificante. L’eroe troiano,
infatti, a partire dall’opera di Benoît de Saint Maure, era divenuto
emblema del tradimento (avrebbe consigliato insistentemente la re-
stituzione di Elena, e poi avrebbe consegnato la città in cambio della
vita). Secondo gli studi condotti da Lorenzo Braccesi, nel XIII seco-
lo era proprio questa l’immagine vulgata del fondatore di Padova,
tanto che, com’è noto, Dante (che chiamava i padovani «antenòri»)

74 Cfr. S. Collodo, Un intellettuale del basso medioevo: il giudice umanista


Lovato di Rolando, in Una società in trasformazione, cit., pp. 157-168.
75 Cfr. A. Rigon, Frati minori, inquisizione e comune a Padova nel secon-
do Duecento, introduzione a Il «Liber contractuum» dei frati minori di Padova e di
Vicenza (1263-1302), a cura di E. Bonato, Roma 2002, pp. V-XXXVI. Peraltro il
contenzioso si concluse nel 1303 con la decisione da parte di Bonifacio VIII di de-
stituire i frati dall’ufficio.
76 Vedi supra, nota 10.

289
Dario Canzian

ne derivò il nome del settore infernale destinato ai traditori della pa-


tria, l’Antenora, per l’appunto 77. Dunque il transfuga troiano era a
 

fine Duecento un pater patriae ben poco presentabile.


Padova, in quella stessa contingenza storica, era al massimo del
suo fulgore comunale e covava progetti ancora più ambiziosi, che
di lì a poco in effetti sarebbero stati realizzati 78. Antenore, guerrie-
 

ro errante fondatore di Padova, si prestava meglio di Prosdocimo ad


incarnare mitograficamente le aspirazioni espansionistiche padova-
ne dell’epoca. Riabilitarlo diventava allora necessario, e quale mezzo
migliore di ammantare il suo ritrovamento dell’aura miracolosa del-
le inventiones dei resti dei santi? Proprio nelle modalità raccontate
del ritrovamento sta il vero elemento di interesse, a mio avviso, del-
la riesumazione antenorea, perché ci segnala un’urgenza legata alla
pubblica immagine della città, risolta — anche se bisogna ammette-
re che è difficile dire con quanta consapevolezza — secondo moduli
riconducibili ad una matrice antropologica di tipo religioso. Credo
quindi che se di una rifondazione ‘laica’, preumanistica si può parla-
re in questo caso, bisogna anche dire che essa dovette inseguire, per
sorreggersi, i consueti modi del sacro, gli unici sentiti come davvero
capaci da un lato di purificare una reputazione screditata, dall’al-
tro di proporre ad un pubblico ampio un linguaggio mitografico che
fosse davvero comprensibile in quanto tale.
Quale fosse stata la risposta della collettività è difficile dire,
anche se, come già anticipato, rimane l’impressione che si sia trat-
tato di un’operazione d’élite. Antenore, del resto, non aveva alcuna
possibilità di affermarsi come intercessore tra la città e la sfera ultra-
terrena. Questa rimaneva infatti una facoltà esclusiva dei fondatori
ecclesiastici, ai quali la comunità poteva rivolgersi ricorrendo all’ar-
mamentario rituale che ovunque rappresentava una parte integrante
dei culti patronali.
La ‘provocazione’ padovana fu accolta piuttosto fuori di
Padova, presso i competitori che la città dovette affrontare negli anni
successivi. Infatti, sull’onda forse dello choc provocato dal ritrova-
mento padovano, a Venezia si provvide ad una pronta rielaborazione
della leggenda antenorea. Nell’opera del cronista Marco, compilata

77 Dante Alighieri, Inferno, XXXII, 88; Id., Purgatorio, V, 75.


78 Si veda al riguardo J.K. Hyde, Padua in the Age of Dante, Manchester 1966,
pp. 220-251.

290
L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti fondativi

nel 1292, l’eroe ecista sbarca dapprima in una Venezia (a Castello)


già fondata da precedenti colonizzatori troiani (segno che qualche
dubbio sulla presentabilità di Antenore ancora sussisteva), e poi da
qui la diaspora troiana si allarga al resto della Venetia continentale
dove vengono fondate varie città, delle quali Padova è solo l’ultima,
come era inevitabile dedurre proprio dal recente ritrovamento del
sepolcro 79. A distanza di qualche decennio, poi, negli anni ’30 del
 

Trecento, quando Padova era soggetta ai signori di Verona, un poe-


metto filo-scaligero non mancava di definire traditore Antenore «et
quinque sequuntur eundem» 80, a ricordare ai Padovani, da poco as-
 

soggettati il loro marchio d’infamia originario.


Ma ormai la polemica rimaneva definitivamente confinata ad un
circolo di dotti cultori delle humanitates, in un quadro socio-politico
segnato dall’affermarsi di poteri, signorili o repubblicani, autoritari e
pluricittadini. Il prestigio della fondazione si riverberava allora, pri-
ma ancora che sulla collettività, sui signori e i gruppi egemoni che la
governavano, determinando il tramonto della funzione aggregativa
estesa dei miti fondativi. Rimaneva quella celebrativa, encomiastica,
monopolio di un drappello di operatori professionisti della memo-
ria, per lo più operanti all’interno dell’apparato di governo 81.  

79 Carile, Le origini di Venezia, cit., p. 151.


80 Braccesi, La leggenda di Antenore, cit., p. 132.
81 Non a caso, forse, l’autore della più significativa cronaca trecentesca vene-
ziana è un doge, Andrea Dandolo, con la sua Chronica per extensum descripta (cfr.
G. Arnaldi - L. Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana, in Storia della
cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 287-289).

291
Domenica 13 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Gabriella Piccinni

Roberta Mucciarelli
Demolizioni punitive: guasti in città *  

Senza, non è dato concepire la città medievale — «urbs ipsa


moenia sunt» — secondo la nota definizione di Isidoro — e nem-
meno percepirla: senza mura la città non è, la città non c’è. Le mura
sposano valori simbolici e fatti funzionali: sono il banco di prova
della tecnologia difensiva, sono un introito fiscale, sono l’onda che
avanza e rifluisce sotto l’urto della spinta demografica. Le mura sono
il segno di una frontiera ambigua ed ambivalente che include ed
esclude, che separa e distingue ma al contempo mette in contatto. Le
mura sono il disegno che modella, dà figura, cinge lo spazio infinito e
inafferrabile e lo trasforma in ‘luogo’, dunque, in sostanza, in realtà 1.  

Dall’inconsistenza del nulla le mura traggono e consegnano la cit-


tà alla percezione, alla raffigurazione, le danno vita e significato. Per
rappresentare in forma sommaria, realisticamente o simbolicamente
una città, nei sigilli, nei medaglioni, nei dipinti, nelle miniature, nella
coeva cartografia se ne rappresentano le mura; nelle mura i cronisti
condensano ed individuano l’idea di città 2. Insomma sine moeniis,
 

* Dedicato a E.
1 J. Baschet, I mondi del medioevo: i luoghi dell’aldilà, in Arte e Storia nel
Medioevo, a cura di E. Castelnuovo - G. Sergi, Torino 2002, pp. 317-368.
2 Così ad esempio, per l’anonimo autore di una cronaca senese — che scri-
ve a proposito del tradimento di certi cittadini: «ma la Vergine Maria aiutò e difese

293
Roberta Mucciarelli

nulla civitas, parafrasando quanto aveva detto Isidoro.


Malcerte, fragili, inesistenti sono il segno della città in perico-
lo, minacciata, nuda: di fronte all’attacco di Carlo d’Angiò, nel 1282,
Messina deve riattare in tutta fretta le proprie, schiuse e rotte in più
parti: e sono le sue donne che, capelli al vento e figli al seguito, «por-
tando pietre e calcina» in tre giorni di lavoro ricostituiscono le difese
salvando la città 3.  

Distrutte, esse sono la cifra sintetica della città distrutta: cerchi


di massi disfatti, pezzi di porte crollate: il 28 giugno del 450 la siste-
matica distruzione di Firenze ad opera del pessimo Totila, «flagellum
Dei», è rappresentata dall’illustratore della Cronica di Giovanni
Villani attraverso il battistero di San Giovanni, sopravvissuto al gua-
sto, circondato da un cerchio di massi disfatti, di pezzi di porte ed
edifici crollati 4. La conquista da parte dei fiorentini e la successiva
 

questa città de le mani de traditori e de’ nemici di queste mura», Cronica senese di
autore anonimo della metà del secolo XIV, in Cronache senesi, a cura di A. Lisini - F.
Iacometti, Bologna 1931-1939 (Rerum Italicarum Scriptores. Raccolta degli stori-
ci italiani dal Cinquecento al Millecinquecento ordinata da L.A. Muratori — da ora
RIS2 —, XV/ VI), pp. 39-172: 62.
3 Così nel resoconto di Villani è narrato l’attacco e la subitanea difesa della
città: «tegnendo lo re consiglio di quello ch’avesse a ffare, i più de’ conti e baroni
consigliaro ch’lla si combattesse aspramente da più parti, e spezialmente dall’una
parte che lla tera nonn avea muro ma eravi barrata di botti e altro legname; e assai
era possibile di poterla vincere per battaglia […]. Stette lo re con sua oste intorno
a Messina da due mesi, e dando la sua gente alcuna battaglia dalla parte ove nonn
era murata, i Missinesi colle loro donne, le migliori e maggiori della terra, e con loro
figliuoli piccioli e grandi, subitamente in tre dì feciono il detto muro, e ripararono
francamente agli asalti de’ Franceschi. E allora si fece una canzonetta che disse: Deh,
com’egli è gran pietade / Delle donne di Messina / Veggendole scapigliate / Portando
pietre e calcina. / Iddio gli dea briga e travaglia / A chi Messina vuole guastare etc.»:
Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, 3 voll., Parma 1991, la cita-
zione è tratta da 1, VIII, LXVIII, pp. 519-520 (Come Messina fu combattuta dalla
gente del re Carlo, e come si difesono). Vedi immagine in fine del contributo. Simile
concetto espresso ivi, 2, IX, LXXI, p. 137: «vegnendo l’altra gente, entraro nel bor-
go di San Gallo sanza nulla contasto, che allora non erano a la città le cerchie delle
mura nuove, né fossi, e le vecchie mura erano schiuse e rotte in più parti» (Come i
Bianchi e’ Ghibellini vennero a le porte di Firenze, e andarne in sconfitta).
4 Con i suoi 253 disegni, l’unico manoscritto illustrato della Nuova Cronica di
Giovanni Villani, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, rappresen-
ta una vero giacimento di immagini del Medioevo italiano: sull’apparato illustrativo
del codice vedi il recente Il Villani illustrato. Firenze e l’Italia medievale nelle 253 im-
magini del ms. Chigiano L. VIII. 296 della Biblioteca Vaticana, a cura di C. Frugoni,
Città del Vaticano - Firenze 2005. L’illustrazione della distruzione a p. 101 (f. 36r)
— riprodotta alla fine del contributo — ma vedi anche a p. 104 (f. 43r) dove cam-

294
Demolizioni punitive: guasti in città

distruzione di Fiesole, nel 1010, di Prato, nel 1107, la sottomissio-


ne, con gli alleati lucchesi, di Pistoia, nel 1305-1306, è raccontata dal
disegnatore attraverso la rovina a terra di quelli che prima erano pos-
senti e saldi scudi di pietra: al loro posto una bava semicircolare di
grasse macerie ad ingombrare il terreno 5.  

Anche nel racconto del cronista, lunghe e defatiganti operazio-


ni di assedio, conquiste, devastazioni di castelli e città nemiche sono
tutte risolte ed abbreviate in quel potente iconogramma narrativo del
«disfare le mura» 6. Racconta la Cronaca detta di Fredegario, sotto il
 

peggia un paesaggio di mura rovinate a terra (Come la città di Firenze istette guasta
e disfatta CCCL anni). «E veggendo che per assedio no·lla potea avere, imperciò
ch’era fortissima di torri, e di mura, e di molta buona gente, per inganno, e lusin-
ghe, e tradimento s’ingegnò d’averla […] Molti e più de’ cittadini ne furono morti,
e tagliati, e presi, e la città fue tutta spogliata d’ogni sustanzia e ricchezza per gli
detti Gotti, Vandali, e Ungari. E poi che Totile l’ebbe così consumata di genti e del-
l’avere, comandò che fosse distrutta e arsa e guasta, e non vi rimanesse pietra sopra
pietra; e così fu fatto […] E così fu distrutta la nobile città di Firenze dal pessimo
Totile a dì XXVIII di giugno negli anni di Cristo CCCCL, e anni VcXX da la sua
edificazione; e nella detta città fu morto il beato Maurizio vescovo di Firenze a gran
tormento per la gente di Totile, e il suo corpo giace in Santa Reparata»: G. Villani,
Nuova Cronica, cit., la citazione è tratta da 1, III, I, pp. 96-98. Vedi immagini in fine
del contributo.
5 Vedi le illustrazioni in Il Villani illustrato, cit., pp. 109 (f. 49v); 115 (f. 56v);
214 (f. 188r).
6 Qualche esempio desunto da G. Villani, Nuova Cronica cit: (anno 1258):
«v’andarono i fiorentini subitamente, e entrati nel castello, presono la terra per di-
sfare le mura e fortezze» (Come i fiorentini disfecero la prima volta il castello di
Poggibonizzi, 1, VII, LXIII, p. 358); (anno 1259) «essendo podestà d’Arezzo messe-
re Stoldo Giacoppi de’ Rossi di Firenze, per suo senno e valentia menò gli Aretini e
di notte con iscale entraro in Cortona, la quale era molto fortissima, ma per la mala
guardia la perdero i Cortonesi; e gli Aretini disfeciono le mura e le fortezze e fecio-
gli loro suggetti» (Come gli Aretini presono e disfeciono Cortona, 1, VIII, LXVI, p.
361); Altre volte si parla più genericamente di disfare e abbattere: (anno 1270) «i
Fiorentini cavalcarono Poggibonizzi, e feciono abattere e disfare tutto il castello»
(Come i Fiorentini presono il castello di Piano di Mezzo in Valdarno, e come disfecio-
no Poggibonizzi, 1, VIII, XXXVI, p. 467); (1260): «i Fiorentini andarono ad oste a
uno castello del vescovo d’Arezzo, ch’avea nome Gressa, molto forte con due cinte
di mura, in Casentino, e quello per forza e per assedio ebbono, e poi il feciono di-
sfare» (Come i Fiorentini presono e disfeciono il castello di Gressa, 1, VII, LXVII), p.
362. Nelle Croniche di Sercambi vari esempi: Le croniche di Giovanni Sercambi luc-
chese, pubblicate sui manoscritti originali, a cura di S. Bongi, Lucca 1892, 1, LXXIV
(«Come si disferon le mura di Pistoia»), p. 35; 1, CVII: «L’anno di MCCCIII, Lucha
e Firenze feceno hoste a Pistoia […] e guastònno in fine alle mura» p. 51; 1, CVIII,
p. 51: «E im quell’anno, Lucha disfecie le mura di Verucola»; 1, CX, pp. 53-54:
«L’anno di MCCCVI […] Luccha e Firenza ebbeno Pistoia per fame, con certi pac-

295
Roberta Mucciarelli

cui nome si comprendono più autori del VII e VIII secolo, che ne-
gli anni intorno al 640 Rotari conquista le città di Genova, Varigotti,
Albenga, Savona, Odengo e Luna: devasta, distrugge, dà alle fiam-
me, fa razzie, riduce la popolazione in prigionia poi, rase al suolo fino
alle fondamenta le mura di queste città, ordina che da quel momento
in poi esse vengano chiamate villaggi («murus civitatebus supscriptis
usque ad fondamento distruens, vicus has civitates nomenare prae-
cepit») 7. Più che azione tecnica di ostilità, l’abbattimento delle mura
 

appare nello specchio iconografico e narrativo gesto dotato di alta


carica simbolica: è l’offesa malvagia e la memorabile umiliazione in-
flitta dalla mano nemica che con quel gesto spoglia la città della sua
protezione e della sua dignità, mortificandola, declassandola. È l’atto
di umiltà e sottomissione che i cives avviliti costretti alla resa offro-
no al vincitore 8. 

Scrive Yves Renouard: la città medievale comincia con la co-


struzione della prima cinta di mura e finisce con la distruzione
dell’ultima 9. 

Nel 1158 Milano viene assediata dalle truppe dell’imperatore


Federico: non è la prima volta: alle spalle della città comunale, tut-
ta una lunga preistoria di saccheggi e distruzioni e la città, racconta

ti, essendovi stato l’assedio mesi XI; et era capitano dell’oste lo marcheze Morovello,
et disfeceno le mura»; 1, CXIV, pp. 57-58: «L’anno di MCCCXI, lo dicto messer
Arrigo fu incoronato in Milano della corona di ferro […] Fu in Milano romore
e messer Guidecto usciò fuori di Milano con tucti suoi seguaci e fu ribello de’ re.
Allora elli co’ guelfi di Cremona ribellò Cremona, et l’altre terre tornòro a mercè de
re. E poi lo re chavalcò a Cremona e ’l populo di Cremona aperseno le porti e diede-
no la terra liberamente; et per paura messer Guidecto et li altri guelfi se n’uscirono
fuori. E il dicto re fe’ disfare le mura a Cremona, e contra li guelfi che ribellònno la
terra fecie grandi processi […]. E nel dicto anno lo re ebbe Brescia per fame e die-
de loro sentenza adosso che fusse loro disfacte le mura».
7 Fredegarii et aliorum, Chronica, a cura di B. Krusch, Hannover 1888
(Monumenta Germaniae Historica — da ora MGH —, Scriptores Rerum
Merovingicarum, tomo II), pp. 1-193 (citazione pp. 156-57).
8 È questo il caso dei milanesi che — secondo il resoconto del notaio impe-
riale Burcardo che descrive con minuzia di particolari la caduta di Milano — il 21
febbraio 1162 offrirono all’imperatore la loro resa con una serie di condizioni, fra
cui si menziona esplicitamente la promessa «totum fossatum planare; muros et om-
nes turres destruere»: il documento è pubblicato in F. Guterbock, Le lettere del
notaio imperiale Burcardo intorno alla politica del Barbarossa nello scisma ed alla di-
struzione di Milano, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e
Archivio Muratoriano», 61 (1949), pp. 1-65, citazione alle pp. 60-61.
9 Y. Renouard, Le città italiane dal X al XIV secolo, Milano 1975 (ed. or. Paris,

296
Demolizioni punitive: guasti in città

Landolfo Seniore, ha sviluppato capacità tecniche, saperi scientifici,


organizzazione militare 10: nel 1037, di fronte all’attacco di Corrado
 

II, apparecchia difese murarie eccezionali: porte, serraglie, antipor-


te; trecentodieci torri murali fanno da sentinella alla città 11. Milano,  

tuttavia, non regge alla furia del Barbarossa. Nel 1162, costretta alla
fame, si arrende 12; il 20 marzo cominciano le demolizioni. «Precepit
 

Laudensibus, ut portam Orientalem, que vulgo Arienza dicitur, totam


destruerent; Cremonensibus vero portam Romanam demoliendam
comisit, Papiensibus portam Ticinensem, Novariensibus portam
Cumacinam, illis vero de Seprio ac de Martexana portam Novam»:
l’area di porta Orientale è attaccata dai lodigiani, porta Romana dai
cremonesi, porta Vercellina dai novaresi, porta Comacina dai coma-
schi, porta Ticinese dai pavesi, Porta Nuova da quelli di Seprio e
Martesana 13; i nemici di Milano e gli alleati lombardi dell’impera-
 

1969), p. 11.
10 Già il Versum de Mediolano civitate celebrava, secondo un modulo che
troverà piena fioritura in età comunale, la solidità edilizia di una città «firmiter edi-
ficata», dotata di mura larghe dodici piedi su cui si aprono nove porte; circa settanta
anni dopo, il Versus de Verona, composto durante il regno di Pipino, tra 796 e 805,
probabilmente da un ecclesiastico veronese, descriveva la solidità edilizia della città
«murificata firmiter», difesa da forti mura in cui risplendono quarantotto torri. Da
quelle mura, alte e robuste, i milanesi «credono di essere protetti», osservava due
secoli dopo, nel 930, il re di Svevia Burcardo, nella memoria composta del vesco-
vo di Cremona Liutprando (liutprandi, Liber Antapodoseos): documenti pubblicati
da G. Fasoli - F. Bocchi, La città medievale italiana, Firenze 1973, pp. 100-104 e
104-109.
11 Il passo tratto dalla cronaca milanese di Landolfo Seniore è edito da R.
Bordone, La società urbana nell’Italia comunale (secoli XI-XIV), Torino 1984, p.
102.
12 Ci si riferisce a Das Geschichtswerk des Otto Morena und seiner Fortsetzer
Über die Taten Friederichs I in der Lombardei. Ottonis Morenae et continuatorum hi-
storia Frederici I (da ora indicato Ottonis Morenae et continuatorum), a cura di F.
Guterbock, Berlin 1930 (MGH, Scriptores Rerum Germanicarum, Nova Series,
t. VII). Vedi G.M. Cantarella, I ritratti di Acerbo Morena, in Milano e il suo ter-
ritorio in età comunale, Atti dell’XI Congresso internazionale di studi sull’alto
Medioevo (Milano 26-30 ottobre 1987), Spoleto 1989, pp. 989-1010, vd. soprattut-
to pp. 997-98.
13 La descrizione tratta dalla Historia di Ottone e Acerbo Morena (si deve
ad Acerbo): «Et, ut vere opinior, quinquagesima pars Mediolani non remansit ad
destruendum. Remansit tamen fere totus murus civitatem circumdans»: Ottonis
Morenae et continuatorum, cit., ad a. 1162, p. 157. Vedi anche F. Cardini, Il
Barbarossa. Vita, trionfi e illusioni di Federico I imperatore, Milano1985, p. 234. Sulla
reazione dei cittadini: «nel momento cruciale dello scontro i monaci di S. Ambrogio
si schierarono con l’Impero. Quando il Barbarossa fece radere al suolo Milano la

297
Roberta Mucciarelli

tore eseguono la demolizione. Che il 1 aprile è terminata 14. Uguale  

destino avevano subìto Crema — testa di ponte della politica terri-


toriale milanese di fronte a Cremona —, Tortona, Spoleto, Brescia e
Piacenza: tuttavia l’assedio e la distruzione di Milano era destinata a
rimanere un unicum.
L’immagine dei cittadini costretti ad assistere allo spettacolo
polveroso della ruina, il «crosciar de le trecento torri de la cerchia,
una ad una, le case spezzate, smozzicate, sgretolate», che riverbera
dalla Canzone di Legnano, è forse l’ultimo anello nella catena del-
le desolate visioni legate all’episodio 15: il primo fotogramma ce lo
 

offre probabilmente Burcardo, notarius imperatoris, che nella lette-


ra indirizzata proprio in quei giorni dell’assedio all’abate Nicola di
Siegburg descrive come «deinde muri civitatis et fossata et turres
paulatim destructe sunt; et sic tota civitas de die in diem magis ac
magis in ruinam et desolationem detracta est» 16. Nel resoconto di
 

un fervente partigiano del Barbarossa qual era il cronista lodigiano


Acerbo Morena l’attacco alla città travalica da subito l’ordinario, per
assumere connotati apocalittici; si parlò di un guasto straordinario:
i quarantanove cinquantesimi di Milano erano andati distrutti affer-
mava Acerbo: computo da fervente partigiano, diciamo noi: ciò non
toglie che per gli altri comuni dovette trattarsi di un duro monito:
Bologna — è ancora Acerbo a raccontare — si affrettò ad offrire la
sua obbedienza, non volendo i bolognesi fare la fine di Milano («ne
sicut Mediolanum, si rebelles imperatori existerent, funditus subver-
terentur, maxime timebant») 17.  

basilica di S. Ambrogio venne risparmiata così che a demolizione avvenuta la si vide


stagliarsi intatta in mezzo alle rovine delle case e mura circostanti. E l’odio dei mi-
lanesi per l’evento fu tale che per cinque anni in S. Ambrogio non fu più possibile
celebrare messa»: P. Brezzi, Gli alleati italiani di Federico Barbarossa, in Federico
Barbarossa nel dibattito storiografico in Italia e Germania, a cura di R. Manselli - J.
Riedmann, Bologna 1982, pp. 157-197, vedi p. 173sgg. (Annali dell’Istituto Storico
italo-gemanico, Quaderno 10).
14 Sulla condizione dei milanesi, costretti a trasferirsi nei borghi non distanti
dalla città: G.P. Bognetti, La condizione giuridica dei cittadini milanesi dopo la di-
struzione di Milano (1162-1167), «Rivista di storia del diritto italiano», I (1928), pp.
311-335; vd. p. 317sgg.
15 «Da i quattro corpi santi ad una ad una / crosciar vedemmo le trecento tor-
ri / de la cerchia; ed al fin per la ruina / polverosa ci apparvero le case / spezzate,
smozzicate, sgretolate / parean file di scheltri in cimitero»: G. Carducci, Canzone di
Legnano, XI, vv. 105-109.
16 Guterbock, Le lettere, cit., p. 64.
17 Citato da R. Manselli, Milano e la Lega lombarda, in I problemi della civiltà

298
Demolizioni punitive: guasti in città

L’arrivo del Barbarossa in Italia innescò una generale riflessione


sulla natura della iurisdictio e, in tale contesto, una ridefinizione del
reato politico. Giuliano Milani ha individuato proprio a questa altez-
za cronologica una mutazione del significato del bannum: subire il
bannum imperiale, significava meritare la qualifica di nemici dell’Im-
pero, comportante la confisca dei beni, spesso la loro distruzione, e
l’allontanamento dalla città: fu in tale accezione che il bando fu usato
da Federico contro i disobbedienti, fossero essi individui o città, ne-
gli anni della distruzione di Milano 18. Sollecitati dagli avvenimenti,
 

a partire da questi stessi anni, anche i comuni impegnati nella for-


mazione della Lega lombarda cominciarono ad allestire una nuova
immagine del reato politico. Nel trattato firmato il 24 ottobre 1169 i
comuni della Lega dichiaravano solennemente che chi avesse aderito
alla pars imperii sarebbe stato cacciato dalla città «et res eius degua-
standas»: così, conformemente, quando nel 1170 entrò nell’alleanza
Pavia, i suoi consoli dovettero giurare di espellere dalla città e far di-
struggere i beni di coloro «qui sunt processi ad imperatorem».
Nella documentazione strutturalmente frammentaria di età con-
solare, alcuni indizi, lungi dall’offrire un quadro coerente, consentono
di cogliere il carattere di novità innescato dallo scontro con l’Impe-
ro. L’analisi dei brevi consolari più antichi mostra che la distruzione
dei beni, già associata all’esilio, andava a colpire i comportamenti le-
sivi della pace, garantita dal comune: a Pistoia (1140-1180) il console
si impegnava ad allontanare («espellere») dalla città e a distruggere
«turrim vel partem turris, meliorem casam» di chiunque uccidesse
intenzionalmente un suo concittadino, a meno che il reo non facesse
pace con colui con il quale è in lite 19. Genova (1143), a differenza di
 

comunale, Atti del Congresso Storico Internazionale per l’VIII° centenario della pri-
ma Lega Lombarda (Bergamo 4-8 settembre 1967), a cura di C.D. Fonseca, Milano
1971, pp. 9-22: 14. Per gli avvenimenti di questi anni, vedi anche la cronaca mila-
nese Gesta Federici I imperatoris in Lombardia autore cive Mediolanensi (=Annales
Mediolanenses madiores), a cura di O. Holder-Egger, Hannover 1892 (MGH,
Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum), pp. 38sgg. Per Acerbo
Morena, Ottonis Morenae et continuatorum, cit.
18 Ad esempio nel 1159 contro cremesi, milanesi e bresciani; e all’indoma-
ni della distruzione di Milano, per i potenziali nemici dei pisani e degli astigiani,
alleati del Barbarossa: G. Milani, L’esclusione dal comune. Conflitti e bandi politi-
ci a Bologna e in altre città italiane tra XII e XIV secolo, Roma 2003 (Istituto Storico
Italiano per il Medioevo, Nuovi studi storici, 63), p. 39.
19 «Si cognovero aliquem civem alterum concivem studiose interfecisse, nisi

299
Roberta Mucciarelli

Pistoia, se ne servì come pena deterrente: passibile della punizione


dell’esilio e della distruzione di «omnia bona» era chiunque si fosse
macchiato di un omicidio volontario 20.  

Adesso, nell’urgenza dello scontro con il Barbarossa, e in con-


seguenza di quello, i comuni ampliano e modificano la nozione e
l’immagine del crimine politico, qualificando come nemico non
più solo chi si sottraeva ai percorsi pacificatori, non più solo, chi si
rendeva protagonista di azioni e comportamenti che turbavano la
concordia cittadina, ma anche chi minacciava il sostegno al governo
comunale, non condividendone schieramenti di campo, scelte poli-
tiche e militari.
Nel corso dei secoli oggetto della nostra attenzione l’idea del
nemico si articolò in diverse immagini. Le peculiarità locali della con-
figurazione sociale, della posizione politico-diplomatica dei comuni
ebbero un grande peso nel determinare variabili in questo proces-
so di delimitazione concettuale; ma la direzione appare largamente
condivisa e procede nel senso, già individuato, di una progressiva di-
latazione dell’idea di delitto politico, speculare ad una progressiva
capacità di definizione degli avversari da parte dei poteri comunali in
via di consolidamento e ad un progressivo vigore nella predisposizio-
ne dei dispositivi di condanna per punire i disordini interni.
La configurazione degli scontri interni come scontri fra la <par-
te della chiesa> e <parte dell’impero> — affermatasi dagli anni
Trenta del Duecento — ebbe un rilievo enorme nel marcare la fisio-
nomia degli avversari del comune. Come già il confronto e l’affronto
con Federico I, aveva messo in circolazione materiali giuridici, rifles-
sioni, termini, consegnando ai governi comunali possibilità nuove
per la ritorsione e la punizione dei nemici, allo stesso modo nell’epo-

pro difendendo fecerit, si habuerit turrim vel partem turris meliorem casam ei fa-
ciam destrui et de civitate illum expellam et per quinquennium in civitate Pistoria
eum habitare non permittam nec in suis burgis nec infra tria miliaria prope civita-
tem, me sciente, nisi pacificatus fuerit cum eo cum quo litem habuerit»: la norma,
tratta dagli Statuti pistoiesi del secolo XII, è citata in Milani, L’esclusione, cit., p
30.
20 «Si aliquis homo vel femina specialiter et meditative in homine nostre
Compagne homicidium fecerit, vel in illis qui non fuerint vocati, vel quos cognove-
rimus non esse utiles entrare in nostram Compagnam, vel in clerico sive in minore
qui habitant in nostra Compagna, homicidam illum exiliabimus bona fide, et omnia
bona illius que invenire poterimus diripiemus, et devastabimus». Codice diplomati-
co della Repubblica di Genova dal DCCCCLVIII al MCLXIII, a cura di C. Imperiale

300
Demolizioni punitive: guasti in città

ca di Federico II, i due schieramenti politici manifestano l’attitudine


a suggerire comportamenti che tendono a durare nel tempo. Allora,
e per molti decenni, i comuni, subendo direttamente l’influenza del-
la cancelleria imperiale e per altro verso della propaganda pontificia
— che avevano sacralizzato la lotta, contribuendo a radicare nelle
città l’assimilazione tra crimine politico ed eresia e l’equiparazione
tra rei e favoreggiatori — cominciarono ad invocare, come dimo-
strano le rubriche statutarie di molti comuni, anche per gli eretici,
sospetti d’eresia, e loro favoreggiatori, e dunque per un numero sem-
pre più grande di individui, il ricorso all’esilio e alla distruzione dei
beni, a quello correlato 21.  

Su questa contiguità occorre fermarsi. Dalle prime attestazioni


delle fonti cronistiche — Gerardo Maurisio che narra i guasti di «do-
mos et turres» seguenti l’espulsione del 1194 della «pars Vivarensium»
da Vicenza 22, gli Annales Brixiensis, che nel descrivere l’esclusione
 

Di S’Antangelo, I, Roma 1936, p. 155.


21 Nel caleidoscopio del cortocircuito tra momento generale e momento par-
ticolare della lotta politica, alcuni episodi offrono un chiaro esempio della capacità
di influenza esercitata dall’azione di papato e impero sui quadri comunali e cittadi-
ni: a Verona, nel 1228, una norma contro i nemici del comune, coloro che facevano
parte delle fazioni e minavano la pace interna, prevedeva l’exilium, la confisca e la
distruzione dei beni per chi si fosse impossessato di alcuni castelli del contado, e
stessa pena, distruzione della casa e allontanamento definitivo, era stabilita per chi
avesse attaccato il palazzo comunale e per gli eretici. Nel 1237 furono banditi da
Bergamo, i signori rurali che avevano consegnato a Milano, i castelli di Cortenuova
e Mura; nello statuto si stabilì che nessuno dovesse più sentirsi stretto a legami feu-
dali con i conti, e che nessun cittadino potesse recarsi nei luoghi da loro controllati,
pena il bannum perpetuo, la distruzione dei beni immobili e il sequestro: i due esem-
pi tratti da Milani, L’esclusione, cit., pp. 124-25. Per l’influenza della Constitutio
sulla giustizia politica, pp. 115sgg. L’inserimento della federiciana Constitutio contra
infedeles imperii, emanata nel 1239, nello statuto bergamasco rivela da quale auto-
rità fosse ispirato il testo normativo. Inserito negli statuti delle città alleate, l’editto
federiciano costituì fondamento per tutta la successiva normativa politica dei comu-
ni. A distanza di molti anni, a Siena, il Costituto guelfo del 1309-1310, straordinario
monumento del ceto guelfo al governo, si apriva richiamando il programma antie-
reticale di Federico e di papa Chimento, giurato dal podestà in carica: agli eretici,
questi «lupi rapaci dimostranti di fuore mansuetudine di pecore, angeli pessimi,
serpenti ingannatori de le colombe», era fatto divieto di abitare nella città; per i ri-
cettatori, favoreggiatori, e per i sospetti di soçura eretica, si spalancavano le porte
dell’esilio in perpetuo, la confisca dei beni e la demolizione della casa «infino al fon-
do» («et quella casa, sença sperança di rehedificare, infino al fondo sia disfatta»:
Il Costituto del Comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX, a cura di M.
Salem El Sheikh, 4 voll., Siena 2002, I, dist. I, cap. 3/24, p. 9.
22 L’esclusione dei da Vivaro da Vicenza nel 1194: «et sic inter ipso sorta

301
Roberta Mucciarelli

della «pars populi» di Brescia, registrano come in quell’occasione


«omnes tures eorum et eorum difici dirupta sunt» 23 — fino ai gran-
 

di processi di espulsione delle parti perdenti di metà Duecento, la


centralità dell’associazione fra la pratica della demolizione e l’uscita
dalla città suggerisce che non è possibile comprendere fino in fondo
la valenza del guasto se non si guarda al tema della cittadinanza.
Il bannum esprime in negativo, con grande efficacia nella sua
radicalità, il senso insieme dell’estraneità e dell’appartenenza: il ban-
nitus è un non-cittadino trasformato improvvisamente in nemico,
strappato all’appartenenza alla comunità. La distruzione della domus,
esprime, con la stessa radicalità, il senso insieme dell’appartenenza e
dell’estraneità: la domus lega il soggetto alla comunità, lo trasforma
in civis; la sua demolizione rende non solo visibile, e dunque pub-
blica, l’espulsione e la sua raffigurazione, ma anche più drammatica:
perché essa è il risultato di una traumatica rottura, di un materiale
venir meno del nesso che lega la città ad un suo membro.
La cittadinanza, l’ha definita Pietro Costa, è il legame di ap-
partenenza di un individuo alla comunità politica, ma le forme di
realizzazione di questa sono molteplici 24. Eppure, nella varietà delle
 

soluzioni che caratterizza nell’Italia comunale l’effettivo regime giu-


ridico della cittadinanza, nel viluppo di diritti e pratiche giuridiche
che di volta in volta scaturiscono da quel legame specifico fra indivi-
duo e civitas, la domus appare filtro privilegiato. È attraverso la domus
che la civitas vede l’uomo. Esplicitamente, alcuni statuti decretano
che chi non è proprietario, non può essere cittadino a tutti gli effetti
(«cum honoribus et oneribus»); gli esempi sono molteplici; nelle car-
te di cittadinanza frequentissima è la promessa di acquistare possessi
nel territorio comunale o case nella città 25. La domus — scriveva agli
 

discordia partes insimul pugnaverunt et tunc pro magna parte civitate combusta,
tandem pars Vivarensium cum ispo domino Ecelino expulsa est de civitate, cum
qua pars exivit tunc bone memorie Pistor episcopus vicentinus […]. Tunc domos et
turres quamplures amicorum domini Ecelini, ipsi fugatis, destruxerunt»: Gerardi
Maurisii, Cronica dominorum Ecelini et Alberici fratrum de Romano (aa. 1183-1237),
a cura di G. Soranzo, Città di Castello 1914 (RIS2, VIII/14), pp. 6, 12.
23 «et circa festum sancti Faustini expulsi sunt de civitate Iacobus confano-
nerius cum filiis Bocacci et cum societate eorum et Thomas potestas, et acceperunt
Vielminum de Lendera pro protestate et omnes tures eorum et eorum dificia dirup-
ta sunt» (dagli Annales Brixienses, citato da Milani, L’esclusione, cit., p. 65, nota).
24 P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 1, Roma-Bari 1999
p. 13.
25 Da una sentenza dei consoli di Milano del 1184 risulta infatti essere con-

302
Demolizioni punitive: guasti in città

inizi del Novecento Dina Bizzarri — rappresenta «la materializzazio-


ne della presenza del consociato nel comune, la realizzazione della
sua volontà di fissare nella città la propria dimora stabile, il simbo-
lo della famiglia entrata a far parte della comunità». Per questo chi si
unisce al comune, chi si aggrega alla città deve acquistare una casa,
per questo all’espulsione, all’allontanamento, segue la confisca o la
distruzione di quella, pubblica attestazione che egli è cancellato dal
novero della societas comunale 26. Ma la cancellazione dal corpo della
 

civitas, dalla comunità politica come tale, non è possibile per l’in-
dividuo, se non ad un prezzo insostenibile. «Si non est civis, non
est homo»: nel discorso politico-filosofico, nelle argomentazioni che
la cultura comunale elabora sulla cittadinanza, l’individuo — come
attesta Remigio de’ Girolami — non è pensabile al di fuori della rela-
zione costitutiva con la città. Di cui la domus è medium.
Non insisterò sul ruolo pregnante della domus: sistema di rap-
porti interpersonali, centro di fondamentali funzioni economiche,
luogo unitario di vita e attività produttiva, la domus è un microcosmo
regolato, sorretto da strutture memoriali e potestative. La storiogra-
fia ne ha illuminato bene il polivalente significato. Residenza comune
e indivisa di un gruppo parentale, la domus consortile inscrive nel
quadro del paesaggio urbano il vigore del ceppo originario e quel-
lo delle sue diramazioni più recenti; centro delle reti di clientele e
di amicizie, in essa affondano i sentimenti più profondi che deter-

dizione indispensabile per diventare cittadino milanese aver posseduto «ex longis
retro temporibus» una casa in città; possesso urbano e partecipazione agli oneri
collettivi di difesa indicano il carattere selettivo che assume la concessione di cittadi-
nanza, lo stesso carattere selettivo che ha assunto nel primo periodo l’immigrazione
dalla campagna alla città: solo chi è in grado di acquistare casa e di usare le armi,
semplificando, si sposta dal contado per entrare a far parte delle cittadinanza, come
civis a pieno diritto: Bordone, La società urbana, cit., pp. 34 e 56-57. A Siena, nel
1262, un decreto comunale stabilisce che un centinaio di uomini devono essere fatti
venire dal contado a vivere a Siena: essi devono essere fra i migliori, i più ricchi e in
età giovanile, e ciascuno sarà obbligato entro l’anno a costruire una casa in città: «e
ciascuno di loro sarà obbligato a costruirsi casa in città, in modo che tutti costruisca-
no le loro case entro l’anno in cui si sono trasferiti»: Il costituto del comune di Siena
dell’anno 1262, a cura di L. Zdekauer, Milano 1897, dist. IIII, rubriche L-LI, pp.
417-20). Spesso il comune interviene per stabilire il valore dell’immobile e il luogo
dove l’edificio doveva sorgere: ad esempio, a Brescia, nel 1313, lo statuto richiede la
costruzione delle case «in locis vastis sive in locis vacuis»; lo stesso a Siena, nel 1337
(«in loco ordinando per dominos novem»): citati in D. Bizzarri, Ricerche sul diritto
di cittadinanza nella costituzione comunale, Torino 1916, pp. 14-15 e nota.
26 Ivi, p. 15.

303
Roberta Mucciarelli

minano l’appartenenza ad un gruppo: ed è questo che esprime, in


molte città, a Firenze, a Pisa, a Siena, la comune denominazione (do-
mus, casa), usata per indicare sia la dimora che il lignaggio. Il palazzo
costruito dagli antenati, all’interno del dispositivo che stabilisce l’an-
tichità e la condizione del gruppo di consanguinei, assume la stessa
funzione simbolica dello stemma e del nome. È lo scoglio a cui può
appigliarsi in modo durevole la memoria dei membri del lignaggio:
e il lignaggio ha bisogno di memoria, si nutre di memoria, perché la
memoria crea gruppo, plasma solidarietà 27.  

Si comprende perché la domus magnatizia fu l’obiettivo delle


politiche punitive dei comuni popolari. Alla metà del XIII secolo, i
gruppi che si fronteggiano in città presentano ormai, ovunque, una
forma simile. Sorretto dall’idea guida che sono la concordia, la pace, il
bene comune, le finalità dell’uomo e della politica, pensata come arte
del buon governo — una cristallizzazione in questi termini può dir-
si compiuta nel XIV secolo ma l’auspicio alla concordia cittadina e il
timore che essa sia minata dalle partes, appare già, in età podestarile,
nelle prime codificazioni statutarie — il comune popolare contra-
sta, con un ventaglio ampio di azioni punitive chiunque ostacoli la
realizzazione di quel progetto. Nell’ampio ventaglio della normativa
antimagnatizia prodotta dai comuni a partire dalla seconda metà del
XIII secolo, Gina Fasoli notava nel 1939 28, «la straordinaria frequen-
 

za» con cui il comune popolare ricorreva alla distruzione dei beni dei
grandi, «tanto per punire in nome della giustizia […] quanto per
indebolire la potenza economica della casata» 29. Bologna, Firenze,
 

Parma, Modena, Reggio, Ascoli Piceno, Asti, Verona, Chieri, Città


di Castello, Siena. Gli esempi sono molteplici.
Cinquanta anni prima, di fronte alle faide e ai conflitti che op-
ponevano i milites cittadini, la giustizia comunale aveva cominciato
a prendere provvedimenti significativi: traccia documentaria più evi-
dente di questa dialettica tra milites litigiosi e interventi podestarili

27 La bibliografia è vastissima: ne richiamo solo alcuni elementi: Art, Memory


and Family in Renaissance Florence, a cura di G. Ciappelli - P.L. Rubin, Cambridge
2000; Ch. Klapisch, La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Roma-Bari
1988; Famiglia e parentela nell’Italia medievale, a cura di G. Duby - J. Le Goff,
Bologna 1981.
28 G. Fasoli, Ricerche sulla legislazione antimagnatiza nei comuni dell’alta e
media Italia, «Rivista di Storia del Diritto Italiano», 12 (1939), pp. 86-133.
29 Ivi, p. 257.

304
Demolizioni punitive: guasti in città

erano state le azioni condotte sulle torri: per esempio a Bologna,


nel 1195, il podestà aveva fatto abbassare quella dei Sabbatini 30; a  

Volterra, nel 1220, per ordine di Ildebrandino di Romeo, i Belforti


si erano visti distruggere le proprie 31. Ma, rispetto alla capillarità
 

del programma popolare, all’estensione degli interventi di secondo


Duecento, si era trattato di operazioni chirurgiche. E quegli episo-
di di guerriglia nobiliare, giocata dall’alto delle torri, che avevano
turbato le città in tempi anteriori, acquistavano ora, un rilievo tanto
maggiore, quanto più risultavano intollerabili.
La distruzione è una esecuzione pubblica: che rende visibile la
colpa attraverso la visibilità della pena. Un gioco di specchi. È un
atto di giustizia esemplare, gesto pubblico, violento, esplicito, tutt’al-
tro che ambiguo nelle sue intenzioni di affermare un diritto (diritto
di punire) attraverso un gesto esemplarmente punitivo, ammonitivo.
Essa ha i suoi ritmi, i suoi elementi scenografici, di spettacolarizza-
zione. È un rituale scandito dai colpi degli scalpelli, dei picconi; dal
cadere delle pietre, dei mattoni, che rotolano sulle strade, si deposita-
no, piccoli mucchi via via più grandi; dal crepitare del fuoco, grande
attore drammatico sul palcoscenico della distruzione 32. E poi picco-
 

ni, mannaie, seghe. Nell’arena urbana il cantiere della demolizione


è una macchina potente. Le fatiche e gli oneri per far funzionare
questa macchina non sono di poco conto: il comune deve reperire e
pagare la manodopera, fabbri, maestri di pietra e di legname; mae-
stranze specializzate che fa arrivare da fuori, come in questo caso, dai
centri minerari dello stato, sono i picconatori di Montieri, Travale,
Gerfalco — detti «guerchi», utilizzati in tutte le operazioni belliche,
quando le mura di una città o di un castello resistono a tutti i mezzi

30 Milani, L’esclusione, cit., p. 88.


31 E. Fiumi, Topografia volterrana e sviluppo urbanistico al sorgere del comune,
in Id., Volterra e San Gimignano nel medioevo, a cura di G. Pinto, San Gimignano
1983, p. 99-100.
32 Per esempio a Siena, il comune acquista certe quantità «panettolarum de
sepo pro faciendo ignem in domo Belmontorum»: Archivio di Stato di Siena (da ora
in poi ASS), Biccherna 80, c. 172r. Sulla spettacolarizzazione dei rituali di giustizia,
vd. A. Zorzi, Le esecuzioni delle condanne a morte a Firenze nel tardo Medioevo tra
repressione penale e cerimoniale pubblico, in Simbolo e realtà della vita urbana nel
tardo Medioevo, Atti del V Convegno storico italo-canadese (Viterbo 11-15 maggio
1988), a cura di M. Miglio - G. Lombardi, Roma [1993?], pp. 153-253; sul linguag-
gio scenografico della derisione politica: I. Taddei, Il linguaggio dell’insulto. Palii e
altri rituali di derisione (secoli XIII-XIV), «Annali Aretini» XIII, 2005, pp. 65-77.

305
Roberta Mucciarelli

di attacco 33 —; e poi operai comuni, gente dei vari ‘popoli’ cittadini;


 

il comune fornisce castaldi, fanti, e nunzi che con compiti di vigi-


lanza, assistenza, coadiuvano le maestranze; il comune incarica un
notaio di registrare le spese; il comune compra gli attrezzi, «piccho-
nibus novis, et sappis et aliis ferramentis», insomma tutto ciò che è
necessario al compimento dell’opera, panetti «de sepo» (sego) «pro
faciendo ignem», coppi di laterizi per spegnere gli incendi, e poi ac-
qua, vino, cibo per il cantiere; il comune provvede insomma a tutte
le spese, generali e «ad minutum»; poi a lavoro ultimato, c’è da far
sgombrare le strade delle pietre e «de mactonibus et calcinaccis»
che si sono depositati in attesa di raccolta, cernita, trasporto, riu-
tilizzazione: una squadra di 12 uomini lavora per un giorno, sotto i
«casamenta» distrutti.
Il costo di questo cantiere, che è possibile ricostruire grazie
alle registrazioni di pagamento effettuate dal comune di Siena nel
II semestre del 1281, all’indomani di una rivolta ghibellina, subi-
to sedata 34, è presto fissato: 340 lire circa, per una squadra di 170
 

maestri, 40 picconatori, 15 operai, un piccolo stuolo di funziona-


ri comunali 35. Obbedendo ad una normativa comunale che obbliga
 

33 Anche Firenze fece ricorso negli assedi ai cavatori delle minieri argentifere
volterrane di Montieri: R. Davidsohn, Storia di Firenze, 8 voll., Firenze 1956-1968
[ed. or. Berlin 1896-1927], IV, p. I, p. 443.
34 Cronaca senese conosciuta sotto il nome di Paolo di Tommaso Montauri, in
Cronache senesi, cit., pp. 179-252 e 689-835: la ribellione alle pp. 225-6. Davidsohn,
Storia di Firenze, cit., II, p. II: pp. 272-73: «La domenica del 13 luglio del 1281
scoppiò per le vie di Siena un tumulto […]. Nicola di Bonifazio Buonsignori […]
credette di potere con una congiura rovesciare il podestà e il governo del ceto me-
dio, organo del quale erano i Quindici, e che faceva causa comune con i magnati
[…]. Attraverso una porta apertagli a tradimento da uno dei congiurati, egli pene-
trò in città con cento cavalieri, di cui facevano parte suo suocero, il conte palatino
Aldobrandino, Gherardo di Prata ed altri feudatari della Maremma. Ma del popo-
lo non si sollevò che una piccola parte […]. Essi poterono avanzare fino alla piazza
del Campo, e furono accolti in alcuni torri e palazzi. Sembra che lo scontro più vio-
lento avvenisse intorno al palazzo dei Belmonti, ma il podestà romano, che dovette
essere spronato a farlo con la promessa di una ricompensa in denaro, occupò il pa-
lazzo; e subito i cavalieri, con quelli che si erano uniti a loro, Grandi e popolani,
furono cacciati dalla città […] come di solito i palazzi fortificati e le torri dei congiu-
rati venivano rase al suolo». La documentazione sulla demolizione in ASS, Consiglio
Generale, 25, foglietto incollato al fo. 41 (25 agosto); fo. 37 (19 settembre); fogliet-
to incollato dopo il fo. 37 (dicembre 1281); ASS, Biccherna, 80 (II sem. 1281), cc.
169r-211.
35 ASS, Biccherna, 80, cc. 170v-177r.

306
Demolizioni punitive: guasti in città

alla distruzione delle case, delle torri, dei palazzi, focolai di ribellio-
ne urbana 36, come era stata quella scoppiata il 12 luglio per le vie
 

cittadine, il comune procede: mancano informazioni dettagliate sul-


l’entità dell’intervento, si parla genericamente al plurale di «palatia»,
di «bona rebellium»; probabile che il cantiere fosse dislocato in più
zone della città.
Le giornate lavorative pagate, furono complessivamente 1211
a fronte delle 458 operae prestate: il sistema retributivo dunque ap-
pare fondato sia sulla remunerazione ‘a giornata’ sia su quella ‘a
cottimo’ (in seguito definita a rischio) che è la formula di ingaggio
assolutamente prevalente fra i maestri: ben 141 su 170. Nel periodo
in questione, nei cantieri urbani della città, il ricorso a forme di re-
tribuzione assimilabili al rischio, è assolutamente minoritario: risulta
adottato nel caso di alcuni artigiani, fabbri (retribuiti in base alla
quantità di lavori di affilatura eseguiti), per la realizzazione di ma-
nufatti di particolare raffinatezza e complessità, concepiti per scopi
decorativi, artistici o con funzioni di arredo, e per rispondere a ne-
cessità urgenti e impreviste. Il lavoro ‘a opera’ che prosegue quasi
ininterrottamente, come si evince dagli acquisti di candele per illu-
minare le fatiche notturne, forse meno conveniente per il comune
committente che è tenuto alla fornitura di attrezzi da lavoro, appare
del tutto adeguato alle esigenze specifiche dell’esecuzione: il cantie-
re della demolizione pretende una rapidità, sconosciuta al cantiere
tradizionale.
Se i calcoli non sono errati, la demolizione delle case e delle tor-
ri dei ribelli, comprese le operazioni di sgombro delle vie, dovette
svolgersi in 12 giorni. È proprio l’esigenza di rapidità 37 ad imporre la
 

messa in moto di una macchina potente quanto efficiente.


Le competenze tecniche che essa attiva sono eccezionali: l’uso
del fuoco controllato, tecnica speditiva, meccanica, per provocare il
crollo rapido di una struttura, richiede larga esperienza e forte go-
verno di un meccanismo potenzialmente pericolosissimo.
La caduta senza danni agli edifici limitrofi, della torre
Guardamorto, alta 70 metri, principale baluardo del complesso im-
mobiliare degli Adimari, era stata resa possibile proprio da questo

36 Il Costituto del comune di Siena, cit., V, 9 (p. 236-7).


37 Anche le descrizioni dei cronisti insistono sul carattere rapido delle ope-
razioni: «e per lo comandamento imediate fu disfatto»: Cronica senese di autore
anonimo, cit., p. 117.

307
Roberta Mucciarelli

meccanismo: essa fu scalzata e fatta posare solo su appoggi di legno


ai quali fu appiccato il fuoco per provocare una caduta controllata
(nell’intento le pietre dovevano riversarsi su san Giovanni); quando i
ghibellini fiorentini nel 1248, scrive Giovanni Villani, «vennero a di-
sfare le torri dei guelfi, intra l’altre una molto grande e bella ch’era in
sulla piazza di San Giovanni […] chiamata la torre del Guardamorto,
i ghibellini feciono tagliare dal piè la detta torre, sì lla feciono pun-
tellare per modo che, quando si mettesse il fuoco a’puntelli, cadesse
in su la chiesa di Santo Giovanni, e così fu fatto. Ma come piacque a
Dio, per miracolo del beato Giovanni, la torre ch’era alta CXX brac-
cia, parve manifestamente, quando venne a cadere, ch’ella schifasse
la santa chiesa, e rivolsesi, e cadde per lo diritto della piazza […]
onde tutti i fiorentini si maravigliaro» 38.  

Il sistema di scalzare le mura alla base, sostituendo la parte mu-


raria con delle travi che consumate dal fuoco cedono, causando il
crollo dell’edificio, è tecnica adottata largamente nelle operazioni
belliche: già nel racconto villaniano della prima distruzione di Troia
— ad opera del possente Ercole — l’immagine che correda il testo ci
mostra una città in fiamme, minata alle fondamenta 39. Nelle opera-  

zioni di assedio a città e castelli, scavatori e genieri erano deputati a


scavare cunicoli sotto la città e il castello assediato e poi, quando lo
scavo avesse raggiunto le fondazioni delle mura, ad appiccare il fuo-
co alle travature che puntellavano la galleria per provocare il crollo
delle difese sovrastanti 40. Nei guasti degli edifici e dei palazzi urbani,
 

quella che vediamo in azione è la stessa tecnica di ‘mina’ usata negli


assedi alle città 41 quando il vessillo della devastazione sventolava mi-
 

naccioso sopra ai corpi speciali dell’esercito assegnati alle azioni di

38 Villani, Nuova Cronica, cit., 1, VII, XXXIII, p. 319.


39 La raffigurazione, riprodotta in fine del presente contributo, è ne Il Villani
illustrato, cit., p. 84; il passo in Villani, Nuova cronica, cit., 1, I, 12 (p. 18).
40 Il Villani illustrato, cit., pp. 39-41; per le operazioni di assedio, vd. Guerra
e guerrieri nella Toscana medievale, a cura di F. Cardini - M. Tangheroni, Firenze
1990.
41 Per alcuni esempi dell’uso della tecnica di mina tratti dalla cronistica:
(anno 1285) «i Saracini col soldano d’Egitto vennono ad oste a la terra di Margatto
in Soria, la quale era della magione dello Spedale di Santo Giovanni, e era molto
fortissimo, e quello con cave misono grande parte in puntelli, e sicurarono i capi-
tani d’entro che venissono a vedere com’era puntellato; per la qual cosa i Cristiani
che v’erano dentro, veggendo che non si poteano tenere, s’arrenderono» (Villani,
Nuova cronica, cit., 1, VIII, CI, pp. 563-64: Come i Saracini presono e distrussono
Margatto in Soria); (anno 1289): «il soldano di Babbillonia d’Egitto con grandissi-

308
Demolizioni punitive: guasti in città

assedio, offesa, guasto sistematico, in un agitarsi di picconi, mannaie,


seghe, badili… 42 La squadra dei ribaldi, riunita sotto uno stendardo
 

«bianco co’ ribaldi dipinti in gualdana e giucando» 43, era parte inte-
 

grante degli eserciti comunali: i «barattieri», così chiamati nelle fonti


toscane, partecipavano alle operazioni militari come guastatores, con
il compito di saccheggiare, devastare, bruciare le terre nemiche, ma
in tempo di pace, fuori dalle operazioni belliche, erano chiamati ad
assolvere funzioni di guasto urbano: distruzione di edifici e traspor-
to del materiale (legname e pietre) che spesso i ribaldi riuscivano a
rubare per vendita di contrabbando 44.  

L’alta ingegneria utilizzata nell’opera di demolizione della tor-


re di Guardamorto era tale che i fiorentini ebbero consapevolezza di
assistere a qualcosa di «maraviglioso» e infatti gridarono al miraco-
lo: cinquant’anni più tardi, circa, Firenze vanta un corpo speciale di
guastatori urbani, formato da due squadre, l’una di 150 maestri di
pietra e di legname, l’altra, composta da 50 esperti a lavorar di pic-
cone, dotate di una loro insegna, e significativamente chiamate — è
il tempo degli Ordinamenti — dei «maestri» e dei «picconatori del-
la giustizia» 45.
 

Alle competenze esterne, anche extraurbane, cui spesso i comu-


ni devono far ricorso 46, soprattutto in una prima fase, si sostituisce,
 

mo esercito di Saracini a cavallo e a piè venne in Soria, e puosesi ad oste alla città di
Tripoli […] e quella per dificii e cave ebbe per forza […]. E ciò fatto la feciono abat-
tere e disfare insino alle fondamenta» (ibidem, 1, VIII, CXXIX, pp. 595-96, Come i
Saracini presono Tripoli di Soria).
42 Guerra e guerrieri nella Toscana medievale, cit., p. 204.
43 Villani, Nuova cronica, cit., 1, VII, XL (Delle insegne per guerra ch’usava il
Comune di Firenze), p. 330.
44 Per una analisi, anche semantica, si veda I. Taddei, I ribaldi-barattieri nella
Toscana tardo-medievale: ruoli e rituali urbani, «Ricerche Storiche», XXVI (1996),
pp. 26-58, soprattutto pp. 38-40. Ringrazio Ilaria Taddei per la segnalazione.
45 Davidsohn, Storia di Firenze, cit., II, parte II, p. 652.
46 Così nella distruzione del castello di Lucca, il consiglio di quella città de-
liberò l’intervento di maestri di pietra fiorentini: «Veggendo li antiani di Lucchi
e loro consiglo che la voluntà de’ Lucesi era che il dicto castello, colle sue fortez-
ze si mandasse per terra, fu deliberato mandare a Firenza per maestri, & a quelli di
Lucca feron comandamento che si taglasse tucto. Et così si seguìo, chè il comune di
Firenza mandò a Luccha alquanti maestri di pietra & di mura, li quali cominciònno
a taglare dalla porta di san Iohanni infine alla porta della posterla di san Martino, e
li altri maestri in nelli altri luoghi: & in concluisone i predicti maestri fiorentini e lu-
cesi taglino et missero per terra le mura, torri & ogni fortezza del dicto castello […].
Et perché il comune di Firenze avea mandato tali maestri, fu deliberato che a tali

309
Roberta Mucciarelli

almeno nei comuni maggiori, un corpo scelto: nessuna prospettiva


evoluzionista: la cronologia e la diffusione del fenomeno dei guasti
disegnano, nell’Italia comunale, una mappa disomogenea, un tessuto
a maglie larghe, irregolare, dove accanto a vuoti frequenti si riscon-
trano infittirsi di tramature: mentre a Firenze, agli inizi del Trecento,
la scissione guelfa fra ‘bianchi’ e ‘neri’, riproduceva con rinnovata
violenza le consuete divisioni fra consorterie magnatizie, alimentan-
do il gioco delle vendette e la catena delle ritorsioni governative, a
Venezia, sfuggita per lunghi anni alle lotte intestine e alle violenze di-
struttrici della folla, quando nel 1310 «que’ da ca’ Quercini e loro
seguaci guelfi furono vinti e cacciati dalla terra, e guasti i loro palaz-
zi» il cronista notò che si trattava de «la prima disfazione di casa mai
fatta in Vinegia» 47.
 

In quell’evoluzione di organi e competenze, va còlto semmai


il senso di un passaggio generale tra il carattere — vorrei dire —
‘straordinario’ che ebbe la pratica della demolizione fra XII e primo
XIII secolo, quando i nemici del comune appaiono ancora eccezio-
ni all’ordine pacificato, e il suo consolidarsi in strumento ordinario
della giustizia comunale, via via che l’intreccio dei conflitti sociali e
politici complicava e stabilizzava la presenza di forze antagoniste nel-
la civitas.
A partire dalla seconda metà del Duecento, al consolidamento
della pratica, si associò un suo potenziamento in senso ideologico. A
questa altezza cronologica, si tratta di operazioni sistematiche, rego-
lamentate, accuratamente programmate.
Nella demolizione dei palazzi magnatizi, i cui tempi di esecu-
zione, rapidissimi erano stringentemente fissati dagli statuti — a
Firenze, Torino, Asti, Chieri, è espressamente richiesto che si debba
procedere alla distruzione dei beni del colpevole addirittura il gior-
no stesso in cui viene presentata l’accusa 48; ad Ascoli Piceno «entro
 

cinque giorni dalla denuncia» 49 — l’aspetto rituale e spettacolare era


 

maestri si donase uno pailio d’oro con alquanti fiorini; sì che rimaserno contenti»:
Le croniche di Giovanni Sercambi lucchese, pubblicate su manoscritti originali, a cura
di S. Bongi, Lucca 1892, p. 189 («CCXVI. Chome lo castello di Luccha si disfecie e
donòsi uno palio a’ maestri fiorentini»): vedi immagine in fine.
47 Villani, Nuova Cronica, cit., IX, 2 (anno 1310); sulla vicenda vedi anche E.
Crouzet-Pavan, Sopra le acque salse. Espaces, pouvoir et société à Venise à la fin du
Moyen Age, 2 voll., Roma 1992, vol II, pp. 921sgg.
48 Fasoli, Ricerche, cit., p. 258 (Firenze, Reggio, Chieri, Asti, Torino).
49 Ivi, p. 301.

310
Demolizioni punitive: guasti in città

esaltato da una gestualità e da tutto un apparato di segni e pratiche


riconducibili alla sfera della propaganda politica: ad Ascoli Piceno,
nel 1340, il popolo inalberava il gonfalone sul cantiere del guasto;
a Chieri, il guasto — una vera e propria azione di guerra: si parla
di uno spiegamento di cento uomini guidati dai rettori della socie-
tà di San Giorgio che guidano falegnami e muratori a spianare la
casa — doveva essere accompagnato da «cerimonie, che rendesse-
ro più terribile e ammonitore lo spettacolo della distruzione» 50; ad  

Asti, mentre si procedeva al guasto completo dei beni, il popolare


ucciso dal magnate era esposto sulla piazza del mercato 51; a Modena,  

i consanguinei del popolare offeso, si facevano autori essi stessi del


guasto insieme ai soldati del comune 52. Insomma, il guasto, almeno
 

nella cristallizzazione statutaria, non è un gioco chiuso in sé stesso,


di fronte ad una popolazione passiva. In quel gioco, proprio perché
aperto su tutta la cittadinanza, la cittadinanza, quando non il furor di
popolo, entrava mescolandosi all’iniziativa comunale: per ragioni di
privata vendetta, per motivi personali o familiari.
Esempio vivace di questa attiva partecipazione ce la offre la
Cronica illustrata di Giovanni Sercambi nel racconto relativo alla
partenza da Lucca del vicario imperiale, Guido di Boulogne, il 26
marzo 1370, data che rappresenta un punto culminante nella storia
della città poiché, da quel momento, dopo lunghi decenni di domi-
nio straniero i cives lucchesi ritrovavano la loro libertas. Subito dopo
la partenza del cardinale — fotografato nell’atto di uscire dalla cit-
tà a cavallo con un piccolissimo seguito, e alle sue spalle già in atto
la distruzione 53 — tutta la popolazione si riversa sulle fortificazioni
 

imperiali e come in preda ad una febbre distruttiva — nonostante il


bando che «a pena della testa» vietava di «disfare» e «smurare mato-
ne» del castello — comincia a picconare l’Augusta: simbolo imperiale
ghibellino, segno di rappresentanza del potere sovrano la cui costru-
zione (ed il cui mantenimento) andava a pesare sulle casse dello stato
e dunque sulle spalle dei cittadini, il castello imperiale materializza-
va le ragioni delle vessazioni e dell’iniqua soggezione che Lucca e i
lucchesi avevano dovuto subire per più di 48 anni e dunque andava

50 Ibidem, p. 280; per Chieri L. Cibrario, Storia di Chieri, 2 voll., Torino 1827,
II, p. 237.
51 Fasoli, Ricerche, cit., p. 281.
52 Ivi p. 285.
53 Vedi immagine in fine del contributo.

311
Roberta Mucciarelli

«mandato a terra». Così tutti a disfare: uomini, donne, bambini, laici


ed ecclesiastici: con quel che c’era a disposizione: mani, picconi, se-
ghe: «Sentendo ciò quelli che socto giugho di servitù erano vissuti, si
ridussero a Sa Romano, et di quine […] subito si mossero, non aven-
do pensieri di tal bando; perché si vedea tucta la comunità, overo la
magior parte di Luccha, star contenti al disfacimento di tal castel-
lo; andarono alla dicta porta et quine le porti gictaron per terra, et il
muro smurando, in tal modo che, inanti che fusse ora di vespro, non
rimase homo né femina, grande né picciolo, che non montasse in su
le dicte mura, chi con marsecuri, chi con sicuri, chi con altri ferra-
menti, chi colle mani, a disfare i merli di tale muro. Et non ci fu prete
né frate che alcuna cosa non disfacesse. E con tanto inpito d’allegrez-
za, che molti d’allegrezza lacrimavano et molti parevano macti e fuori
di loro. E di vero l’alegrezza fu tale che lingua d’omo dire nol potre’;
et così tucto quel giorno s’andò ongnuno su per quel muro piglando
piacere et tanto quanto si puose a disfare. E chi non avea altro, colle
mani smurava tal matoni, tal pietre, tal calcina, biasimando che tan-
to per quello erano stati sottoposti. Et perché là, do’ non si può vero
discrivere, non si dicie tucto ciò che altri facea, chi dansava, chi sta-
va a sedere, chi cantava, chi dimostrava combactere, chi chiamava le
guardie, altri facea comandamento in modo di signore, chi ricordava
i signori stati lì dentro, chi piangeva i danni che per quello era stato
seguito, chi si dolea della morte del padre e de’ parenti, chi dell’ave-
re ch’era stato tolto loro, chi delle violense, altri del dizonoramento
delle donne, chi della fortuna che tanto tempo l’avea conservato, chi
si piglava piacere avendo vissuto tanto che quello potea calcare et di-
sfare, intanto che li parea essere in nel secondo paradizo…» 54  

L’azione di guasto assume nell’interpretazione del cronista i


toni e l’atmosfera di una «allegrezza» collettiva in cui l’entusiastica
distruzione ai simboli del potere sovrano, mescolandosi ai «balli» e
ai «canti» e ai più diversi sentimenti, alle più disparate memorie, di-
venta celebrazione di una ritrovata e bramata libertas. Straordinarie
scene di gioiosa distruzione: è il dicembre 1989 quando bambini,
uomini e donne di ogni età vengono immortalati nell’atto festoso di
strappare con le mani, con i picconi, con i martelli, brandelli dell’or-
mai cadente muro di Berlino.

54 Le croniche di Giovanni Sercambi, cit., vol. I, CCXV («Chome si cominciò


a disfare parte delle fortezze e del castello di Luccha»), pp. 188-89.

312
Demolizioni punitive: guasti in città

Le parole chiave della distruzione (guastare, destruere, dissipare,


levare, disolare, emergi, cadi) presentano a prima vista un alto livel-
lo di uniformità che rende difficile distinguerne sfumature e valenze.
Guastare, disfare: terre, castelli, città, mura, edifici. Operazioni bel-
liche, interventi di giustizia comunale, vendette e ritorsioni. Eppure
grazie al cronista contemporaneo che vede coi suoi occhi, e vedendo
distingue ciò che vede, vediamo anche noi la differenza che intercor-
re tra il «ghuasto di fondamento», tra quel «levare di fondamento,
disolargli per infino alle fondamenta», e gli interventi limitati: alcu-
ne braccia delle torri, alcune sezioni del palazzo corrispondenti alle
quote di proprietà del reo 55, il tetto, i palchi («solamente a palchi e’l
 

tetto»), il guasto fatto in modo che «rimanesseno solamente le mura


di fuore» 56. Alle due tipologie di intervento individuate, il totale e
 

il parziale, occorrerebbe aggiungerne una terza: guasto totale con


divieto di riedificazione. Perché se è vero che devastazioni estem-
poranee o distruzioni bene organizzate pongono da subito, per il
danneggiato, necessità e urgenza di ricostruzione, spingono i privati
al doversi rimettere in piedi senza indugi — negli archivi dell’aristo-
crazia toscana non è raro incontrare contabilità dei guasti subìti dai
palazzi di famiglia e delle successive riedificazioni — i divieti di co-
struire o ricostruire intervennero spesso a frenare quella spinta.
Il vuoto fu una strategia, una strategia deliberata, mantenuta,
rafforzata, perseguita dai divieti statutari di costruire «ullo modo»
sui guasti 57 e da severi controlli praticati da uffici addetti 58: testimo-
   

55 La proprietà indivisa dell’immobile fra i diversi consorti spinge talvolta a


dettagliare e specificare la quota o le quote da distruggere: il casamento viene ideal-
mente diviso, si danno indicazioni precise, le parole del provvedimento tracciano
la geometria di un disegno distruttivo, con la stessa perizia, la stessa minuzia del
progettista, perché tutto sia fatto nel migliore dei modi: così una provvisione del
Consiglio generale a Siena: ASS, Consiglio Generale, 10, c. 95r (1261-1262): «domus
vel casamentum comunem filiorum Renaldini et Renaldini quondam domini Ranerii
[…] versus S. Viggilium usque stratam in partiendo eum et in dissipando parte fi-
liorum dicti Renaldini debeat dividi per longitudinem et non per traversum ut pars
eorum melius dissipetur».
56 Cronaca senese di autore anonimo, cit., pp. 111 e 117.
57 J. Heers, L’esilio, la vita politica e la società nel Medioevo, Napoli 1997 [ed.
orig. 1995], p. 99.
58 Per sorvegliare le rovine dei beni immobiliari dei Lambertazzi distrutti
dopo la loro espulsione, il comune e la parte guelfa su iniziativa del podestà, misero
in piedi nel 1286 un Officium Fangorum incaricato di recensire i guasti e descriver-
ne lo stato. L’ufficio si adoperava per tenerli vuoti: ivi, p. 100.

313
Roberta Mucciarelli

ne silenzioso di una disfatta, capace di provocare un grande impatto


emotivo e psicologico sulla popolazione, il vuoto è la tabula rasa che
reca impressa la volontà politica di annientamento, di cancellazio-
ne, di oblìo del nemico, non molto distante — nelle aspettative o
nell’eco simbolica — da quella damnatio memoriae con cui, esem-
plarmente, il mondo antico eliminava il ricordo dei suoi hostes.
Capitò naturalmente che nello scarto fra legge e prassi, fra volon-
tà e capacità di controllo, il divieto di ricostruzione rimanesse lettera
morta: l’esempio più celebre ci viene ancora da Milano che fra 1171
e 1172 cominciò a ricostruire la nuova cinta muraria nonostante il
divieto formale dell’imperatore, e lo fece, ci dicono gli storici dell’ar-
chitettura, con inaudita creatività 59.  

Altre volte il vuoto si offrì al comune come opportunità di


riassetto urbanistico: nelle città demograficamente compresse, nel
tutto-costruito urbano, improvvisamente il vuoto poteva rappresen-
tare un bene prezioso: che fu riempito con un di più di senso, il
senso del pubblico: gli esempi più noti: Firenze l’attuale piazza del-
la Signoria, che si connette alla costruzione del palazzo del comune,
creata sul suolo liberato dalle demolizioni delle case degli Uberti 60;  

a Bologna, la piazza Maggiore, che sfruttò l’area dove sorgevano i


casamenti delle famiglie nemiche dei Geremei 61. Come è noto, gra-
 

zie agli studi condotti da Milani, proprio a Bologna, in seguito alla


cacciata dei Lambertazzi nel 1274, il comune acquisì — confiscan-
dolo — un patrimonio immobile ricco e articolato. Poiché quello
immobiliare era un mercato notevolmente fiorente nella Bologna di
fine Duecento, attraverso i sequestri, al comune si apriva teorica-
mente la possibilità di entrare in quel mercato su solide basi. Le case
sequestrate ai ghibellini, costituivano beni di grandissimo valore, so-
prattutto dal punto di vista dell’ubicazione, dato che molti erano
gli edifici nel centro. Il comune diveniva potenzialmente in grado
di avviare una politica di riassetto urbanistico: la distruzione di in-
teri isolati avrebbe potuto consentire di ricavare terreni prestigiosi.

59 E. Arslan, La scultura romanica, in Storia di Milano, III, Milano 1954 p.


521: «è un dato di fatto che la cinta muraria condotta a termine in quegli anni dai
milanesi e le porte che in essa si aprono, solenni e agili come archi di trionfo, il ni-
tido impianto, la stesura parietale bicroma, esatta ed essenziale, sono una cosa mai
vista, niente di simile a ciò che si era costruito fino a quel momento a Milano e si an-
dava costruendo».
60 Davidsohn, Storia di Firenze, cit., II, p. I, p. 858.
61 Heers, L’esilio, cit., p. 98.

314
Demolizioni punitive: guasti in città

E invece le scelte non furono orientate ad una massimizzazione del


profitto. Preferì il comune farsi protagonista di una potente opera-
zione giuridica ed ideologica, da sfruttare in termini di immagine e
di propaganda politica.
Procedette in modo massiccio alla vendita sottocosto delle case
confiscate «ad destruendum»: per poi affittarne il terreno. Le abi-
tazioni messe in vendita assumevano il doppio valore di riserve di
legname e mattoni e di terreni destinati all’affitto, senza che fosse
intaccato il diritto di proprietà del comune sul suolo. Un banditore
invitava coloro che fossero interessati, a presentarsi nel consiglio del
popolo, dove le case venivano poste all’incanto. Sappiamo che una
casa integra era valutata 25 lire; 10 nel caso in cui fosse stata alienata
ad destruendum. Fortemente sottostimate rispetto ai valori di merca-
to (media 40-70 lire; case-torri 400), le case dei Lambertazzi, furono
svendute affinché venissero distrutte, in tempi brevissimi e sotto mi-
naccia di altissime pene in caso contrario, e al compratore restasse
l’usufrutto dei materiali da costruzione 62.  

Il materiale da costruzione, mattoni, tegole, pietre, legna-


me, calcina, rappresenta un bene prezioso: il costo elevato fa sì che
ci si ingegni a riutilizzare tutto ciò che è recuperabile dagli edifi-
ci fatti abbattere, che è di proprietà del comune 63. Il riuso è tecnica
 

diffusa e generalizzata: «si innalzi in un muro ciò che non può gio-
vare se resta disperso al suolo»: già in età gota, a stare a Cassiodoro,
Teoderico invitava i catanesi ad usare a vantaggio comune, per il
bene della loro città, «i sassi […] a terra, caduti» 64. Si legge negli
 

Annales Mediolanenses che all’indomani dell’attacco del Barbarossa


i milanesi furono costretti, sotto la scorta degli ufficiali imperiali, a
togliere dalle rovine «lapides et sabulum» per i palatia di Monza, di
Vicentino, di Nosedo, per il castello di Mandriano, per le case dei
pavesi 65; Castruccio Castracani, nel 1310, fece costruire a Lucca un
 

62 Milani, L’esclusione, cit., pp. 342-344.


63 D. Balestracci - G. Piccinni, Siena nel Trecento:assetto urbano e strutture
edilizie, Firenze 1977, pp. 74-5: nel 1270 «erano state guaste le case de’ Salvani di
Siena […] e de le pietre se ne fe’ la porta a Camollia di fuore e mensi drento el pra-
to a Camollia e anco parte d’essa pietra se ne fe’ el palazo Talomei».
64 Le lettere di Cassiodoro sono tratte da Fasoli - Bocchi, La città medieva-
le, cit., pp. 97-98.
65 Bognetti, La condizione giuridica, cit., pp. 321, 323 (la citazione dagli
Annales Mediolanenses, p. 375).

315
Roberta Mucciarelli

castello per il quale racconta il cronista, «disfece molte case e torri di


rebelle per avere le pietre e mattoni» 66; nella tradizione sospesa fra
 

la storia e la leggenda che avvolge la vita e la morte di Semifonte, le


pietre delle disfatte mura del castello, fondato dai conti Alberti nel
1178 e distrutto violentemente dai fiorentini nel 1203, sarebbero sta-
te riutilizzate per la cinta muraria della vicina Barberino che insieme
al lascito materiale raccolse anche l’anima della scomparsa città: ap-
propriandosi, con le pietre, della legittimità di vantare la successione
semifontese 67. 

Il recupero dei materiali non procede in modo sempre rapido:


il loro cammino lungo la strada dell’utilità economica deve sottosta-
re, in alcuni casi, ad inevitabili tempi di attesa e di stoccaggio: in fasi
particolarmente acute della lotta politica, il valzer delle demolizioni
procede a ritmo tanto serrato che il meccanismo anti-spreco si incep-
pa. Poderosi interventi distruttivi, cicli di demolizioni ripetuti a poca
distanza, hanno effetti di lunga durata sulla morfologia della città 68.  

Quando all’indomani della battaglia di Benevento, i guelfi esi-


liati rientrarono nelle loro città, a Firenze si compilò una stima dei

66 Villani, Nuova Cronica, cit., IX, 2 (anno 1310): Castruccio Castracani per
meglio tenere in suo potere la città di Lucca fece costruire un meraviglioso castello
«che quasi la quinta parte della città di verso Pisa prese […] disfece molti case e tor-
ri di rebelle per avere le pietre e mattoni»: e ancora «negli anni di Cristo MCCLVIII
[…] quegli della casa degli Uberti co loro sèguito de’ Ghibellini, per sodducimen-
to di Manfredi, ordinarono di rompere il popolo di Firenze […]. Iscoperto il detto
trattato per lo popolo, fatti richiedere e citare da la signoria, non vollono comparire
né venire dinanzi […], per la qual cosa il popolo corse ad arme, e a furore corso-
no alle case degli Uberti […]; e gli altri della casa degli Uberti con più altre case de’
Ghibellini uscirono di Firenze. I nomi delle case di rinnomo ghibelline ch’usciro da
Firenze furo queste: gli Uberti, i Fifanti, i Guidi […], più altre case e schiatte di po-
polari e grandi scaduti, che tutti non si possono nominare, e altre case de’ nobili di
contado; e andarne a Siena la quale si reggea a parte ghibellina e erano nimici de’
Fiorentini: e furono disfatti i loro palagi e torri, che n’aveano assai, e di quelle pietre
si murarono le mura di San Giorgio Oltrarno, che’l popolo di Firenze fece in quelli
tempi cominciare per la guerra de’ Sanesi»: ivi, 1, VII, LXV, pp. 359-60.
67 P. Pirillo, Semifonte: nascita e morte di un centro fondato, in Semifonte
in Val d’Elsa e i centri di nuova fondazione dell’Italia medievale, Atti del Convegno
nazionale organizzato dal Comune di Barberino Val d’Elsa (Barberino Val d’Elsa,
12-13 ottobre 2002), a cura di P. Pirillo, Firenze 2004, pp. 235-271: p. 268.
68 Le demolizioni ordinate dai guelfi fiorentini nel 1267 delle case, i palazzi,
le torri ghibelline ebbero effetti di lunga durata sulla morfologia della città: i terreni
così ricavati rimasero per anni, in alcuni casi un quarto di secolo, «ammassi di rovi-
ne inutilizzati»: Davidsohn, Storia di Firenze, cit., II, parte I, p. 858.

316
Demolizioni punitive: guasti in città

danni subìti sotto il governo ghibellino: il Liber Extimationum ci dice


che durante il periodo settembre 1260 — novembre 1266, furono
distrutti in città 47 palazzi, 198 case, 39 torri oltre a 9 botteghe, 1
fondaco, 1 tiratoio, per un valore stimato di 115.884 librae 69. In 211  

capifamiglia si presentarono a chiedere l’indennizzo. Poiché a quel-


la data, alcune zone della città ancora soffrivano delle precedenti
distruzioni contro i ghibellini, e poiché, di nuovo, si procedette, a
nuove ritorsioni sui palazzi e le case di quelli, a Firenze il paesaggio
urbano sul finire degli anni Sessanta doveva mostrare tracce eviden-
tissime delle lotte fra partes e delle alterne vicende di queste.
La distruzione è sempre destinata a marcare la città di pietra,
alterandone la morfologia, deviando funzioni, modificandone la
toponomastica 70: e la città ne tiene testardamente memoria, nella to-
 

ponomastica — a Milano, nei primi anni del Trecento, il luogo dove


sorgevano le case distrutte dei Torriani comincia ad essere indicato
come «Guasti Torriani» o «Alle case rotte» 71 (i cronisti milanesi par-
 

lano di «Turriana vasta») — ma anche attraverso i suoi discorsi: nella


descrizione trecentesca della città verticale di Opicino de Canistris,
dietro il velo celebrativo, Pavia soffre ancora nel segno delle antiche
amputazioni alle sue torri 72.  

69 Liber Extimationum, a cura di O. Bratto, Goteborg 1956: le stime par-


ziali alle pp. 26 (16.700 lib.), 54 (7.7885 lib.), p. 64 (8.746 lib.), 74 (17.900 lib.), 81
(6.778 lib.).
70 Nel 1270 a Siena la distruzione delle case dei Salvani ha riversato sulla piaz-
za limitrofa macerie tali da investire e rovinare la chiesa di San Cristoforo che da
allora non potrà più essere adibita a sede di riunione del Consiglio Generale. Il gua-
sto ha prodotto anche un cambiamento sostanziale della morfologia urbana: in quel
tratto, negli anni, si è accumulato un monte di detriti e terra, che la gente del luo-
go ha nominato El monte di Salvani. Questo monte che si è sostituito, coprendola,
alla silex antiqua della via quando piove riversa sulla strada tanta terra che provoca
problemi di viabilità, intralciando il transito di cose e persone: così, trascorsi quasi
settanta anni dall’attacco al palazzo e alle case di Provenzano e della sua famiglia, si
esprimono i cittadini indirizzando la loro petizione al consiglio generale chiedendo
di riparare con la costruzione di un muro, ai disagi provocati dal quell’antico guasto.
ASS, Consiglio Generale, 124 c. 12 (5 febbraio 1339). Ringrazio Gabriella Piccinni
per la segnalazione documentaria.
71 Dino compagni, Cronica, a cura di G. Luzzatto, Torino 1968, libro III,
XXVII, v. 16: «presono l’arme e abbarroronsi nel Guasto di quelli della Torre».
72 «Meravigliosamente grande è il numero delle torri eccelse che sorgono
sopra le case, molte delle quali caddero per l’antichità quanto per l’odio dei citta-
dini che combattevano fra loro»: Opicini de Canistris, Liber de laudibus civitatis
Ticinensis, a cura di R. Maiocchi - F. Quintavalle, Città di Castello, 1903 (RIS2,

317
Roberta Mucciarelli

Si è sempre nel tempo in cui siamo feriti: il tempo della distru-


zione non scorre, bensì dura, si fissa.

Per concludere. Da Cartagine, città maledetta cosparsa di sale,


alla Cisgiordania, dove i bulldozer israeliani radono al suolo le case
dei palestinesi, la distruzione può apparire allo sguardo gettato a ri-
troso una procedura standard dell’annientamento del nemico.
È una tentazione irresistibile: rappresentarsi la distruzione
sempre identica, corollario necessario di ogni guerra dichiarata, mec-
canismo ripetitivo, regolare, a grandi linee prevedibile.
Sembra che anche il notaio imperiale Burcardo, intimo di
Federico I, non abbia saputo sottrarsi a questo laccio incantatore,
quando nel rievocare la vittoria di Federico e l’assedio di Milano del
1162, sentì di doverlo inanellare in una lunga, esemplare sequenza
di conquiste e sottomissioni — Milano, Troia, Cartagine, Aquileia,
Ravenna, eccetera 73 — se non fosse che quel passo costringe in real-
 

tà piuttosto a interrogarsi sul peso dei modelli, su quanto il modello


interferisca con la messa a memoria, su quanto la memoria interferi-
sca con la pratica.
Secondo un modulo non inconsueto di interpretazione dei fatti,
riutilizzando e riconvertendo un cospicuo materiale di derivazione

XI, 1), pp. 17-19.


73 Nella seconda lettera di Burcardo all’abate Nicola, De victoria Friderici
imperatoris et excidio Mediolanensis epistola, sulla distruzione di Milano nel mar-
zo 1162, si legge: «Troia siquidem decem annis obsessa equi fraudibus et traditione
mulieris est capta. Romanis etiam non solum multis annis sed et multis aetatibus
Carthagine laborantibus, cum Carthaginenses sub duce Cannibale exercitum in
Europam per Hispaniam moverent, Scipio Romanus, qui post Africanus, prope
Siciliam clam mare traiecit cum exercitu Carthaginemque civibus ac defensoribus
vacuam inveniens cepit et subvertit. Aquileienses, qui nunc Veneti, novem annis
obsessi, tandem relictis moenibus, salvis tamen rebus et personis, nihilominus rebel-
les extiterunt nec de se sed de lapidibus Attile victoriam reliquerunt. Ravennates a
Theodorico rege Gothorum septem annis obsessi, tandem illum dominum compo-
sitionem media sustinuerunt, ipsi nec rebus nec loco cedentes. Sed quid in pluribus
huiusmodi queramus exempla! Fridericus imperator specialiter prae cunctis vi-
dit diem magnum, quando iudicio divino in Nova Lauda cum gladiis in cervicibus
cum crucibus in manibus ad pedes misericordiae eius sine omni conditione pros-
tratum et redditum est totum Mediolanum; contra quod tamen nec fraude nec dolo
sed tantum viribus et con stantia atque veritate constat esse laboratum. Ne igitur
pro variis rumoribus a tramite veritatis aberretis, de singulis certitudinem audietis»:
Guterbock, Le lettere, cit., pp. 1-65: 60.

318
Demolizioni punitive: guasti in città

antica, Giovanni Villani nel raccontare i guasti e i saccheggi di mol-


te città italiane per mano del goto Totila, ricorre a scene desunte
dalla tradizione, richiama versi biblici: le profetiche parole di Gesù
sulla distruzione del tempio — «e verranno giorni in cui di tutto
quello che ammirate non resterà pietra su pietra che non venga di-
strutta»74 — trapassano come lontana eco nel racconto del guasto
ordinato ai danni di Firenze «comandò che fosse distrutta […] e non
vi rimanesse pietra sopra pietra» 75; nella stessa Cronica la distruzione
 

di Arezzo si sovrappone all’immagine, sospesa fra mito e tradizio-


ne antica, della distruzione di Cartagine: «e prese e distrusse la città
d’Arezzo, e quella fece arare e seminare di sale» 76. La città maledet-
 

ta cosparsa di sale: efficace iconografia di ogni Distruzione ostinata


ed intransigente.
La distruzione della città, non solo nel racconto del cronista,
ma anche nelle illustrazioni, nei disegni, nelle miniature, negli af-
freschi, rivela di avere alcune tipologie fisse: essa rivive attraverso
pochi ripetuti simboli: mura rovinate, spesso a terra, talvolta fiam-
me che la divorano alle fondamenta, operai con seghe e picconi sono
gli elementi ineludibili del paesaggio della distruzione. Il manoscrit-
to chigiano della Nuova Cronica di Giovanni Villani, nel raffigurare
la distruzione di Troia, quella di Fiesole, Prato, dei castelli di Monte
di Croce, Monternano e Poggibonsi, ci fa vedere come le mura fos-
sero state estesamente scalzate alla base, tagliate «dal piè» 77 — dice  

Villani — e puntellate provvisoriamente con travi che una volta con-


sumate dal fuoco avrebbero ceduto, provocando il crollo 78. Gli  

74 Luca, 21, 6.
75 Villani, Nuova Cronica, cit., 1, III, I, p. 98. Ma ripetuta in molti passi:
vd. ad esempio, ivi, 2, IX, LXXXVI, pp. 171-2 (Come i Fiorentini assediaro e eb-
bono il forte castello di Monte Accenico e disfeciollo, e feciono fare la Scarperia)
a proposito dell’assedio e della distruzione del castello di Montacciànico da parte
dei fiorentini (anno 1306): «i Fiorentini andarono ad oste sopra’l castello di Monte
Accenico in Mugello e puosonvi l’assedio; il quale castello […] era fortissimo di sito
e di doppie mura […] E al detto castello stette l’oste […] gittandovi difici e faccen-
dovi cave […]. E ‘l castello fue tutto abattuto e disfatto per gli Fiorentini, che non
vi rimase casa né pietra su pietra».
76 Ibidem, 1, III, 3, p. 100.
77 Ibidem, vol. I, libro VII, cap. 33, p 319.
78 Un’altra testimonianza figurata di questa tecnica di demolizione ci vie-
ne dalle Croniche di Sercambi: Le croniche di Giovanni Sercambi lucchese, cit., 1,
CCCCVI, p. 351 («Chome lo comune di Lucha riebbe Dallo e disfece la fortezza e
come s’arse Sillano e parte di Dallo e Soragio»).

319
Roberta Mucciarelli

effetti di questa pratica di «disfare insino a’ fondamenti» 79 sono evi-  

denziati in varie illustrazioni: dalle quattro torri del Porto Pisano,


delle quali, dopo l’azione di guasto combinata di genovesi, fiorenti-
ni e lucchesi, rimanevano solo le tracce delle due basi quadrate 80, al  

terreno ingombro di grosse rovine di Pistoia 81, Brescia — disfatta da


 

Enrico VII — 82, della ghibellina Assisi, conquistata dopo lungo as-
 

sedio dai perugini 83; a Fiesole, dove in una collina già ingombra di
 

macerie il geniere con in mano la torcia ha appena appiccato il fuo-


co alle travature che si intravedono attraverso le fiamme e che ancora
per poco sorreggeranno le mura del ridotto 84.  

La pratica della distruzione ha molte facce, parla molti linguag-


gi. Ha una faccia rivolta al centro — verso il potere — e una alla
periferia — che guarda alla città, agli uomini. Dunque va seguita
lungo l’asse della verticalità: guardando alla sua disposizione nella
gerarchia dei dispositivi penali, al suo spazio nelle politiche giudizia-
rie del comune, al suo porsi come strumento di un potere, sostenuto
dal diritto e dal discorso politico-giuridico. Quando ci si muova in-
vece sulla linea orizzontale viene al pettine il problema del rapporto
con la città, con le modificazioni urbanistiche e morfologiche; il pro-
blema dei costi, finanziari e sociali; della realizzabilità tecnica; quello
della ricezione, del consenso sociale, quello della memoria: ogni di-
struzione partorisce una memoria che molto spesso diventa mito,
altre volte si sdoppia e dà luogo a memorie antagoniste (quella dei
vinti e quella dei vincitori). Viene al pettine il problema delle iner-
zie e delle resistenze, perché è possibile tracciare anche una storia in
negativo della distruzione: ovvero quando non avvenne. Tra le molte
rappresentazioni ne vorrei indicare un segno riassuntivo, di potente
icasticità, nella figura di Farinata degli Uberti, ingessato dalla cor-
nice autoritativa di Dante nell’atto di difendere da solo e a «viso

79 Villani, Nuova Cronica, cit., I, VIII, 150, p. 625.


80 Il Villani illustrato, cit., p. 183 (f. 149r) (Come fu preso e guasto Porto Pisano
per gli Fiorentini e Genovesi e Lucchesi).
81 Ivi, f. 188r, p. 214 (I fiorentini e i Lucchesi fanno abbattere le mura della vin-
ta Pistoia).
82 Ibidem, f. 200v, p. 223 (Come lo ‘mperadore Arrigo ebbe la città di Brescia
per assedio).
83 Ibidem, f. 226r, p. 248 (I perugini conquistano Assisi).
84 Ibidem, f. 27r, p. 91 (I romani distruggono Fiesole); vedi R. Luisi, Le armi, i
luoghi e i monumenti nella immagini del codice Chigiano, in Il Villani illustrato, cit.,
pp. 23-52: 41.

320
Demolizioni punitive: guasti in città

aperto» la sua città dalla distruzione voluta da Manfredi 85.  

Nulla nasce dal nulla: il diritto barbarico, le consuetudini la-


sciano in eredità alla nascente città comunale una pratica che dopo
il picco duecentesco, perde progressivamente vigore: inserita in una
normativa antimagnatizia, formalmente operante fino al Cinquecento,
pur continuando ad essere attestata lungo tutto il XIV secolo 86 per i  

traditori, gli omicida, gli eretici, è un fatto che seguendo lo sgonfiarsi


dei conflitti e lo sfaldamento degli antichi schieramenti, smarrisce via
via anch’essa forza e contenuto: mentre salgono le preoccupazioni
dei governi cittadini per l’aspetto decoroso della città: i guasti sem-
pre peggio si conciliano con l’ honorem civitatis 87. La sentenza della
 

sua morte ce la offre Milano quando, come narra Galvano Fiamma,


la prassi fu abolita da Luchino e Giovanni Visconti 88: ma la sop-  

85 «Ma fu’ io solo, là dove sofferto / per ciascun di tòrre via Fiorenza / colui
che la difesi a viso aperto»: Dante alighieri, Divina Commedia, Inferno, X, 91-93.
Villani, Nuova Cronica, cit., VII, LXXXI (Come i ghibellini di Toscana ordinaro di
disfare la città di Firenze, e come messer Farinata degli Uberti la difese), pp. 384-87:
«A la qual proposta si levò e contradisse il valente e savio cavaliere messer Farinata
degli Uberti, e nella sua diceria propuose gli antichi due grossi proverbi che dicono:
<Com’asino sape, così minuzza rape> e <vassi capra zoppa, se’l lupo no lla ‘ntop-
pa>; e questi due proverbi rinestò in uno, dicendo: <com’asino sape, sì va capra
zoppa; così minuzza rape, se’l lupo no lla ‘ntoppa> recando poi con savie paro-
le assempro e comparazioni sopra il grosso proverbio, com’era follia di ciò parlare,
e come gran pericolo e danno ne potea avenire; e s’altri ch’egli non fosse, mentre
ch’egli avesse vita in corpo, colla spada in mano la difenderebbe […]. Sicchè per
uno buono uomo cittadino scampò la nostra città di Firenze da tanta furia, distrug-
gimento, ruina».
86 A Siena ancora nel 1371 la pratica della distruzione è attestata: alle fami-
glie condannate nel 1371 «fero disfare le loro case in fino a le fondamenta. E fero
guastare ancora quella di Magio […] e quella di Pietro Maniscalco e di più altri»:
Cronaca senese di Donato di Neri e di suo figlio Neri in Cronache senesi, cit., pp. 565-
865: 642.
87 Il comune scrive Pini si impegnò nel proibire la demolizione delle case. Col
passare del tempo e il moltiplicarsi dei guasti il comune si rese conto che le demo-
lizioni giudiziarie erano più un danno che un utile: molto meglio requisire le case
e affittarle, devolvendo gli introiti alle casse comunali. La legislazione mutò radi-
calmente. Si vietò a chiunque di demolire anche la propria casa a meno che non si
intendesse ricostruirla (Parma 1255). La ricostruzione doveva essere fatta in tempi
molto brevi (6 mesi, Reggio). Faceva capolino un fondamentale concetto urbanisti-
co sociale: gli edifici privati devono essere considerati ad honorem civitatis, A.I. Pini,
Città, comuni e corporazioni nel medioevo italiano, Bologna 1986 pp. 39-40.
88 «Quod domus exbannitorum seu proditorum non destruantur ymo pro co-
munis utilitate observantur»: Galvaneus De La Flamma, Opusculum de rebus gestis
ab Azone et Iohanne Vicecomitibus, in RIS2, XII, parte IV.

321
Roberta Mucciarelli

pressione formale di una norma dai codici di legge, suggerisce che


qualcosa nella società, nella cultura, nella sensibilità di un popolo
va mutando, è mutato; indica, nel passo lento della legge, l’avvenuta
derubricazione di un comportamento dai codici culturali, dalla sen-
sibilità, dalla mentalità di un’epoca.
«Fu ucciso Baroccino, è vero […] e poniamo che nella perso-
na di lui venisse offesa la publica maestà, e che perciò convenisse
severamente e gravemente procedere contro gli uccisori, che colpa
hanno nell’homicidio le torri, che parte hanno nell’eccesso i palaz-
zi»? 89: così nello specchio della tradizione erudita senese di primo
 

Seicento appariva riflessa la reazione ad un episodio duecentesco di


giustizia comunale che aveva punito, con l’abbattimento dei palazzi
dei magnati colpevoli, l’omicidio di un membro della signoria popo-
lare. Giugurta Tommasi, l’autore, raccoglieva, interpretando certo
dalla sua posizione aristocratica, il senso tuttavia di un trapasso. La
natura non fa salti, ma la cultura sì: e quel salto si era compiuto: per
la sua epoca quei guasti erano diventati inaccettabili; decodificabili
solo attraverso la lente dell’invidia dei giudici popolari nei confronti
di chi aveva edificato quegli antichi palazzi distrutti.
E proviamo a risalire la corrente e fermiamoci di fronte al cele-
berrimo Buongoverno dipinto da Ambrogio Lorenzetti nel 1338 nelle
pareti del palazzo pubblico di Siena, e guardiamo quel paesaggio
perlustrato e restituito con una fedeltà che non ha riscontro altrove
in questo periodo, secondo Erwin Panofsky: due maestri sono al la-
voro con i loro scalpelli, colpo dopo colpo demoliscono un edificio,
che appare già parzialmente scarnificato, se ne intravede lo schele-
tro. In pieno Trecento, Lorenzetti suggerisce già uno slittamento: i
due operai al lavoro non sono la mano della Giustizia ordinatrice
che veglia sulla città lieta e opulenta; maschere tetre di una città de-
solata e senza speranza, essi sono i tristi figli del governo immorale
e mostruoso.
«A mio credere, i buoni prìncipi fabbricano città, e i cattivi le
distruggono» 90: proprio lo stesso pensiero, proprio lo stesso giudi-
 

zio esprimeva Antonio Ludovico Muratori ripercorrendo nei suoi


Annali la storia d’Italia.

89 G. Tommasi, Dell’historie di Siena, Venetia 1625-1626, 2 voll., (rist. fo-


tomeccanica, Bologna 1973), libro VI, p. 26.
90 L.A. Muratori, Annali d’Italia, in Opere di Ludovico Antonio Muratori, a
cura di G. Falco - F. Forti, Milano - Napoli 1964, 2 voll., vol. I, p. 233.

322
Demolizioni punitive: guasti in città

Le immagini sono tratte da:

Il Villani illustrato. Firenze e l’Italia medievale nelle 253 imma-


gini del ms. Chigiano L. VIII. 296 della Biblioteca Vaticana, a cura
di C. Frugoni, Città del Vaticano - Firenze, Biblioteca Apostolica
Vaticana - Casa Editrice Le Lettere, 2005.

1) «La prima distruzione di Troia», p. 84.


2) «Totila fa distruggere la città di Firenze», p. 101.
3) «I Fiorentini conquistano e distruggono Fiesole», p. 109.
4) «I Fiorentini distruggono Poggibonsi», p. 157.
5) «I messinesi si difendono da Carlo I d’Angiò, particolare: le
donne ricostruiscono le mura», p. 169.
6) «I Fiorentini assediano e distruggono Montacciànico», p.
214.

Le croniche di Giovanni Sercambi lucchese pubblicate sui mano-


scritti originali a cura di Salvatore Bongi, Lucca, Tip. Giusti, 1892, 3
voll. (Fonti pe la Storia d’Italia, 19-21).

7) «“Chome si cominciò a disfare parte delle fortezze e del ca-


stello di Luccha”», 1, CCXIV, p. 187.
8) «“Come li frati di Sa Romano disfeceno la porta del chastel-
lo, che era contra alla chieza di Sa Romano”», 1, CCXV, p. 188.
9) «“Chome lo castello di Luccha si disfecie e donòsi uno palio
a’ maestri fiorentini”», 1, CCXVI, p. 189.

323
1) «La prima distruzione di Troia».
2) «Totila fa distruggere la città di Firenze».
3) «I Fiorentini conquistano e distruggono Fiesole».
4) «I Fiorentini distruggono Poggibonsi».
5) «I messinesi si difendono da Carlo I d’Angiò, particolare: le donne rico-
struiscono le mura».
6) «I Fiorentini assediano e distruggono Montacciànico».
7) «“Chome si cominciò a disfare parte delle fortezze e del castello di
Luccha”».

8) «“Come li frati di Sa Romano disfeceno la porta del chastello, che era


contra alla chieza di Sa Romano”»

9) «“Chome lo castello di Luccha si disfecie e donòsi uno palio a’ maestri


fiorentini”»
Domenica 13 maggio, pomeriggio
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Gabriella Piccinni

Francesca Bocchi
La “modernizzazione” delle città medievali

Quando noi parliamo della nostra contemporaneità e pensiamo


allo sviluppo, usiamo la parola modernizzazione senza le virgolet­
te, perché si definisce moderno tutto quello che è all’avanguardia
ed è proiettato verso il futuro; consideriamo però tale termine solo
come elemento che riguarda il presente, fatalmente destinato a di­
ventare vecchio, dimenticando talora che, se si aspetta un po’ di più,
diventerà antico. La modernità è labile, ma nel momento in cui la
realizziamo è ben presente e viva.
Se però per processo di modernizzazione intendiamo un pro­
getto tendente a dare sviluppo, ogni società, in ogni tempo, proprio
nel momento in cui ha elaborato tali progetti, ha anche espresso la
volontà di superare quanto riteneva vecchio e non più al passo con i
tempi. Ha quindi progettato la propria modernizzazione.
Anche nel passato ci furono dei momenti in cui si fece partico­
larmente forte la spinta innovativa, in cui si manifestò un progetto
di sviluppo che poi trovò realizzazioni significative, ovviamente.
in rapporto alle condizioni di partenza. Ci furono quindi momen­
ti particolarmente decisivi sulla strada del rinnovamento e della
modernizzazione, dei passi che segnarono dei tagli cronologici nel­
la storia delle nostre città, proprio sulla strada del superamento di
quella che per loro era già la “città storica”.
Che cosa mette in campo oggi una città per svilupparsi, per
“modernizzarsi”: progetta vie di comunicazione sempre più efficien­
ti, implementa il sistema energetico, migliora la qualità della vita dei
331
Francesca Bocchi

suoi abitanti.
Nel medioevo, in particolare nel XIII secolo e all’inizio di quello
successivo, le cose andavano più o meno allo stesso modo: si cerca­
rono sempre più efficaci fonti energetiche e di approvvigionamento,
si immaginò un’urbanistica più rispondente ad una popolazione in
rapido sviluppo demografico, una città di cui si doveva governare lo
sviluppo in maniera ordinata e rispondente alle necessità della popo­
lazione, che, allora come ora, aveva bisogno di produrre e di vivere
nelle città senza dissipare le risorse e perseguendo una buona quali­
tà della vita.
Oltre a costruire acquedotti, bottini sotterranei e canali si mise
mano anche a perfezionare e a sviluppare un più complesso sistema
di regole che riguardavano la gestione della città e il governo del­
lo sviluppo, regole che potessero possibilmente essere applicate a
tutti superando, se possibile, le disposizioni ad hoc per ogni singo­
lo caso, come si era sempre fatto. Questo insieme di norme, regole,
disposizioni, provvedimenti, deliberazioni è confluito negli statuti
comunali, alcune volte in maniera assai ordinata e molto articolata,
in altre con meno attenzione, a seconda del livello di interesse che la
materia suscitava nella comunità a cui era diretta. Questo insieme di
regole per comodità di espressione e di comprensione lo chiamerò
“normativa urbanistica”, ben consapevole che il concetto moderno
di urbanistica non è applicabile ad una città medievale, ma altrettan­
to consapevole che lo scopo che tale tipo di legislazione perseguiva
allora non è troppo diverso da quello di ora.
Infatti tutte le città italiane, che dal XII secolo si sono costitui­
te in comune autonomo, hanno desiderato darsi al più presto una
normativa che ne regolasse la crescita ordinata. Fu quello il periodo
del maggior sviluppo urbanistico, sviluppo che avrebbe proseguito
fino al Trecento. Per affrontare in maniera efficace le esigenze della
popolazione cittadina si adeguò la città aumentandone la superficie
con una progressione tale che in realtà poterono poi essere soddi­
sfatte le necessità urbane fino all’Ottocento, e in molti casi anche
all’inizio del Novecento. Ma fu anche necessario modernizzare quel­
la che allora era già la città storica, non solo dal punto di vista del
rinnovamento edilizio, ma anche con la messa a norma degli impian­
ti igienici delle case, con la ristrutturazione del sistema fognante, con
l’adduzione di abbondante acqua potabile, con la riqualificazione
del sistema di scolo e dei grandi collettori, senza deteriorare le acque
di superficie adibite a forza motrice.
332
La “modernizzazione” delle città medievali

Per lo più la legislazione è pervenuta all’interno degli statuti


comunali — in alcune città risalgono anche al XII secolo — legisla­
zione che si andò intensificando fra Due e Trecento. I temi trattati
riguardavano proprio lo sviluppo verso il futuro, a cominciare dalla
difesa del suolo pubblico che significava la difesa del patrimonio co­
mune, ma soprattutto la disciplina delle acque, l’igiene e la salute, la
difesa dell’ambiente urbano attraverso la salvaguardia del patrimo­
nio edilizio e le disposizioni antinquinamento.

Il XII secolo
Uno dei paragrafi più significativi delle consuetudini milanesi,
la cui applicazione ha contribuito a determinare il volto della città, è
quello che stabiliva la distanza minima di un piede (corrispondente
a Milano a cm. 43,5) fra il muro della casa e la linea di confine del­
la proprietà, cosa che permetteva lo sgrondo delle acque e l’apertura
di finestre su quel lato della casa. Si consentiva inoltre di costruire
gli edifici addossati gli uni agli altri, purché non ci fossero aperture
e finestre nei muri in comunione, né si scaricassero le acque piova­
ne sul proprio vicino.
Questa normativa, che sembrerebbe dedicata a risolvere la liti­
giosità fra i vicini, in realtà ha contribuito a modificare l’aspetto della
città e a darle quella continuità nei fronti stradali che ancora oggi,
per quanto l’edilizia sia stata più volte sostituita e siano intervenu­
ti piani regolatori a mutare la struttura viaria, essa mantiene. Infatti
l’antica norma che obbligava a rispettare una distanza minima dal­
la linea di confine nella costruzione degli edifici, aveva determinato
un certo intervallo fra un edificio e l’altro: sono i passaggi privati che
tutti gli statuti dei secoli seguenti, anche quelli delle altre città, ri­
cordano con terminologia locale (androne, o chiassi, o intercaselle,
o piazzole, o calli, o treseppi, etc.) che separavano una casa dall’al­
tra, permettendo di scaricarvi per caduta libera i servizi igienici e le
acque nere delle case. I liquami da lì venivano poi convogliati diret­
tamente sulla strada pubblica. Infatti la legislazione comunale del
Duecento in tutte le città fu dedicata ad obbligare la chiusura di tali
passaggi e a tombare gli scarichi per motivi non solo di decoro, ma
anche di igiene e di salute dei cittadini 1.
 

1 F. Bocchi, Attraverso le città italiane nel Medioevo, Bologna 1987, pp.


115-117.

333
Francesca Bocchi

L’addossamento di un edificio all’altro, consentito dalle con­


suetudini milanesi e applicato ovunque, è segno di un altro tipo di
edilizia e di un’al­tra struttura patrimoniale. Infatti l’addossamento di
un edificio all’altro è tipico delle lottizzazioni — cioè della suddivi­
sione del terreno in parcelle (lotti) per la costruzione della casa —,
che sono state realizzate nei momenti di maggior domanda di case,
cioè all’epoca degli inurbamenti, delle esplosioni demografiche, del­
le congiunture economiche favorevoli, quando anche i ceti sociali
meno forti potevano accedere, se non alla proprietà, per lo meno
al possesso di un suolo in città su cui costruire la casa. Non si trat­
tava certo delle zone centrali dove c’erano le sedi del potere civile e
religioso e le residenze delle famiglie più potenti, ma delle zone pe­
riferiche, o all’interno delle mura, se c’era spazio, o immediatamente
fuori, se il Comune vi aveva portato quelle che oggi si chiamerebbe­
ro “opere di urbanizzazione” (difese, fossati, collettori per lo scolo
delle chiaviche), trasformando le aree così incluse nella città da ru­
rali in urbane.
Questa fase della trasformazione è stata vissuta, da chi più in­
tensamente da chi meno, da tutte le città comunali italiane nel corso
del XII e del XIII secolo. Si sono originate con quelle operazioni del­
le intere zone in cui gli isolati sono ancora oggi distinti da parcelle
catastali dalla forma molto allungata e con fronti stradali assai stretti,
dove lo scolo dei liquami domestici non poteva più avvenire sui fian­
chi delle case, nelle androne, ma con altre soluzioni urbanistiche.

Norme igieniche e disposizioni antinquinamento (dagli statuti del XIII


e XIV sec.)
La normativa elaborata al fine di definire il regime dello scolo
delle acque nere delle case e dei servizi igienici ha avuto una parte ri­
levante nella storia delle nostre città, non solo perché è il segno che
era giunta a maturazione l’idea che insieme al decoro dei centri ur­
bani era necessario salvaguardare pure la salute pubblica, ma anche
perché con quelle decisioni si contribuì in maniera decisiva a cam­
biare il volto delle città.
In generale, come si è detto, i secchiai e i servizi igienici delle
case scaricavano i liquami per caduta libera negli spazi laterali che
separavano una casa dall’altra. Prima di quell’epoca molti secchiai
scaricavano direttamente sulla strada, tanto che fin dal XII seco­
lo si era provveduto a farli rimuovere, insieme agli sporti (a Pistoia
334
La “modernizzazione” delle città medievali

balchi) 2. Era poi cura degli abitanti delle case, se non vi aveva già
 

pensato la pioggia, provvedere alla pulizia di quegli stretti spazi, fa­


cendo confluire tutti i liquami sulla strada.
Nel corso del Duecento questo tipo di spazio fra una casa e l’al­
tra comincia ad essere vietato e nella legislazione superstite si vede
apparire un’altra struttura destinata allo stesso scopo, realizzata nelle
aree di nuova urbanizzazione. Si trattava di una canalizzazione (col-
lettore, o chiavica), che correva al centro degli isolati, parallela alle
facciate e tangente le aree cortilive interne, sul confine dei singoli
lotti, che serviva per raccogliere le acque nere domestiche 3. Questo  

collettore rappresenta in un certo senso un elemento più maturo di


organizzazione dei servizi, perché, convogliando gli scoli di tutte le
case dell’isolato, consentiva un collegamento con la rete idrica della
città e la possibilità di ricevere dall’amministrazione pubblica perio­
dicamente acque bianche per la pulizia. Inoltre la chiavica centrale
permetteva di collocare in luogo non visibile dalla strada i servizi
igienici, così che lo spurgo era garantito sia con le acque piovane, sia
con i collettori pubblici.
Questo sistema evoluto era il frutto della necessità di togliere
dalla strada gli antigienici e antiestetici servizi che scaricavano negli
spazi laterali, per i quali si elaborò quasi ovunque una normativa che
obbligava a tombare lo scarico che giungeva alla strada, soprattut­
to se passava sotto al portico, e a chiuderlo con un muro, alto per lo
meno fino ai primi piani delle case. Queste disposizioni hanno deter­
minato dei cambiamenti piuttosto radicali, perché con la costruzione
del muro si sono eliminati i passaggi privati e si sono unificate le
facciate delle case. Inoltre con la copertura degli scarichi e la co­
struzione dei collettori si è imboccata la strada che avrebbe presto
portato alla ricostituzione completa del sistema fognante che le cit­
tà avevano avuto nell’Antichità, ma che nell’alto Medioevo si era in
larga parte perduto 4 per mancanza di manutenzione, sostituito da
 

scoli a cielo aperto che inquinavano l’aria ed erano dannosi per la sa­

2 Statuto del podestà [1162-1180], in Statuti pistoiesi del secolo XII, a cura di
N. Rauty, Pistoia 1997, r. 37.
3 Gli statuti di Bologna dell’anno 1288, a cura di G. Fasoli - P. Sella, 2 voll.,
Città del Vaticano 1937 e 1939 (Studi e Testi, 73, 85), d’ora in poi Fasoli - Sella,
II, p. 139.
4 È esempio di mantenimento efficiente del sistema fognante antico la cit­
tà di Pavia.

335
Francesca Bocchi

lute. Già molte città nel Duecento avevano realizzato per lo meno le
strutture principali dei collettori e avevano obbligato i privati a tom­
bare gli scoli, ma solo nel Trecento il sistema fognante poté diventare
efficiente e nel secolo successivo le città più grandi, quelle che nel
contempo erano diventate capitali di grandi stati regionali, avrebbe­
ro portato a compimento questo importante servizio pubblico.
L’esigenza di razionalizzare il sistema degli scoli pubblici e priva­
ti è particolarmente viva negli statuti di Milano, le cui norme giunsero
a maturazione alla metà del Trecento 5. Tutta la normativa là elabora­
 

ta aveva lo scopo di “modernizzare” la città, togliendole tutto quello


che di “medievale” le era rimasto: si vietava agli artigiani di lavorare
fuori dalla bottega, si ordinava l’allargamento e la rettifica delle stra­
de, si prestava molta attenzione all’igiene e alla pulizia delle piazze
e delle vie e si voleva evitare l’inquinamento dell’aria e dell’acqua 6.  

Gli statuti milanesi del Trecento tendono a fare di Milano una cit­
tà ordinata, dove si proteggeva la salute dei cittadini, individuando
discariche extraurbane per i prodotti inquinanti (lavorazione delle
pelli, tinture e macellazione) e disciplinando in modo assai avanza­
to gli scarichi dei servizi igienici delle case che «facevano amorbare
l’airo». Proibito il sistema antico degli scarichi negli spazi fra le case
che davano sulle strade, e disciplinato il deflusso delle acque piova­
ne, l’amministrazione pubblica milanese si riservava di determinare
le modalità degli scarichi privati a seconda dei casi, obbligando a
farne richiesta per ogni nuova installazione, che, comunque, doveva
avere uno scarico sotterraneo e profondo.
Questa normativa segna una svolta nella sistemazione igienico-
sanitaria non solo di Milano, ma anche di tutte le altre città — nelle
sue linee principali è quella tuttora in uso — perché sottintende da
una parte la costruzione di collettori sotterranei per convogliare le
acque piovane nei fossati urbani, e dall’altra l’installazione nelle case
di scarichi a dispersione nel terreno, se non di veri e propri poz­
zi neri, cosa che per altro avveniva sotto il controllo di tecnici del
comune.

5 G. Porro Lambertenghi, Statuti delle strade ed acque del contado di Milano


fatti nel 1346, in Miscellanea di storia italiana, Torino 1869 (R. Deputazione di Storia
Patria, VII).
6 F. Bocchi, Il disegno della città negli atti pubblici dal XII al XIV secolo,
in Il Millennio ambrosiano. La nuova città dal Comune alla Signoria, a cura di C.
Bertelli, Milano 1989, pp. 227-236.

336
La “modernizzazione” delle città medievali

Rientra nel progetto legislativo di gestione delle città — cono­


sciamo quello delle città di cui sono pervenuti gli statuti — per una
migliore qualità della vita anche la disciplina dell’igiene pubblica,
non solo nell’organizzazione per la distribuzione delle acque desti­
nate allo spurgo degli spazi fra le case, ma anche nella capacità di
convincimento degli amministratori nei confronti dei cittadini a non
rendere inutilizzabili i pozzi di acqua potabile con sostanze che in­
quinavano la falda; a far sì che la piazza, lo spazio politico e pubblico
per eccellenza, fosse lo specchio della città; a rimuovere, entro i ter­
mini stabiliti, il prodotto dello spurgo; a ripulire periodicamente la
piazza, soprattutto dopo che vi si era svolto il mercato settimanale;
ad allontanare dal centro gli impianti industriali che producevano
inquinamento idrico, acustico e atmosferico; ad individuare disca­
riche pubbliche dove raccogliere i rifiuti; a garantire agli studenti
le migliori condizioni per l’apprendimento tenendo lontani fabbri
e maestri di grammatica con i loro chiassosi scolari 7; ad impedire la
 

confezione di prodotti alimentari che causassero cattivi odori 8 e ru­  

mori 9, a rispettare l’ambiente naturale da cui provenivano le risorse


 

e gli altri esseri viventi.


La normativa generale è presente in tutte le città di cui è per­
venuta la legislazione. Dalle più grandi alle più piccole, si nota un
interesse preciso non solo per regolare lo sviluppo, ma anche per
gestire la vita quotidiana della comunità in rapporto alla materia ur­
banistica. Inoltre le città maggiori hanno elaborato anche una serie
di disposizioni con le quali salvaguardavano la propria identità urba­
na. Non sappiamo quanto fossero consapevoli in questa loro volontà,
ma l’analisi del complesso dell’attività legislativa che hanno attuato,
ci lascia intendere quanto ogni atto fosse frutto non certo di improv­
visazione e quanto sia ricorrente la consapevolezza che la città avesse
i parametri della “bellezza” 10, che nella mentalità dell’epoca signi­
 

7
Fasoli - Sella, II, pp. 103-104.
8
Fasoli - Sella, II, p. 141.
9
Statuta Communis Parmae digesta anno MCCLV, Parma 1857 (Monumenta
historica ad Provincias Parmensem et Placentinam pertinentia), p. 345, divieto agli
speziali di confezionare la piperata fuori dalla bottega.
10 È particolarmente presente negli statuti senesi, ma anche per esempio ad
Ascoli, la preoccupazione di salvaguardare la «bellessa della ciptà», che era con­
tinuamente chiamata in causa, anche se poi gli interessi di gestione del territorio
cittadino non erano solo di carattere estetico (libro III, rubrica 19: «De la pena di
quilli che retene porci, scrofe et verri et che vando per la ciptà d’Asculi et de li bec­

337
Francesca Bocchi

ficava ordine e trasmissione dell’idea di un “buon governo” che


rassicurasse gli operatori economici stranieri.

L’acquedotto e la fontana di piazza di Perugia


L’adduzione di abbondante acqua potabile in ambito urbano è
stato uno dei temi che hanno creato la svolta decisiva nella moder­
nizzazione delle città.
Palermo musulmana conobbe la realizzazione di un sistema di
canalizzazioni dalla tecnologia sofisticata, i qanat, che consentì l’ad­
duzione di acque per mezzo di canali sotterranei, che raccoglievano
le acque sorgive dal territorio circostante e le acque di falda, collega­
ti agli edifici della città mediante numerosi pozzi 11.  

Nell’Italia centro-settentrionale, il grande precedente della


tecnica idraulica antica, che era ancora evidente con i suoi pode­
rosi archi nelle campagne romane e con i suoi percorsi sotterranei,
anche se in larga parte non più efficienti, non fu completamente di­
menticato. Per moltissimi secoli non ci furono le condizioni perché
si realizzassero dei progetti grandiosi come quelli antichi, ma non
appena si presentarono le condizioni, cioè nel periodo di maggior
sviluppo delle città italiane, in particolare all’epoca dei governi po­
polari, non si perse l’occasione. Il primo grande progetto italiano,
che sfruttò anche le esperienze maturate nell’Europa centrale in
ambito monastico (per esempio a Ratisbona), fu quello di Perugia,
immaginato ed iniziato a realizzare nel 1254-56 da frate Plenerio e da
Bonomo da Orte. Ma fu comunque un fiorire di iniziative simili nel
medesimo torno di anni nelle città in cui la configurazione orografi­
ca era tale da aver sempre creato difficoltà di approvvigionamento:
Orvieto, Viterbo, Sulmona, e poi molti altri, fino ai bottini di Siena
(Bottino Maggiore, 1334), che sarebbero diventati quella stupefa­
cente realtà di tecnica idraulica e di simbolo cittadino che Gabriella
Piccinni e Duccio Balestracci hanno così ben illustrato 12. A questi  

chari et hosteri che retinesse overo receptasse et cura havesse de verri et scrofe de le
frati de Sancto Antonio»).
11 P. Todaro, Utilizzazioni del sottosuolo di Palermo in età medievale, in
Palermo medievale, a cura di C. Roccaro, «Schede Medievali», nn. 30-31 (1996),
pp. 109-128.
12 D. Balestracci - C. Piccinni, Siena nel Trecento. Assetto urbano e strutture
edilizie, Firenze 1977; D. Balestracci - L. Vigni - A. Costantini, La memoria del-
l’acqua. I bottini di Siena, Siena 2006.

338
La “modernizzazione” delle città medievali

si può aggiungere il complesso sistema di adduzione delle acque ai


piani alti del Palazzo dei Consoli di Gubbio, descritto con grande
meraviglia da Leandro Alberti (1525-28): «una fontana, che salisce
sopra tutti gli edifici d’esso, et getta abbondanti et chiare acque nel
mezo d’una larga sala, con gran piacere de’ riguardanti. Et è con­
dutta etiandio l’acqua di detta fontana per tutte le stanze di detto
Palagio». Ma anche il ponte-acquedotto di Spoleto rientra nel nove­
ro delle imprese di quest’epoca. Si trattava di opere che presentano
il recupero dei modelli classici — trasmessi attraverso Vitruvio che
nel Medioevo ebbe sempre una buona e ininterrotta circolazione —
che a loro volta con le loro imponenti arcate richiamavano l’antica
pubblica utilità 13. Ma anche a Sulmona, città sede del giustiziere al­
 

l’epoca del regno di Manfredi, l’acquedotto era ad un tempo utile e


celebrativo, come il classicismo delle architetture sveve, che evocava­
no archetipi politici e istituzionali grandiosi.
La modernizzazione però non consisteva solamente nella tec­
nica idraulica applicata, sebbene decisiva per la buona riuscita dei
progetti, ma va vista — per quanto riguarda Perugia — anche nella
capacità politica di comprendere quale fosse la strada per lo svi­
luppo, nella tenacia nel perseguirla, anche attraverso le alterne e
complesse vicende che seguirono il momento della decisione, nella
consapevolezza che quella era una via da cui non si poteva e non si
doveva tornar indietro.
L’acquedotto perugino di Montepacciano contava 4000 passi
dal luogo di captazione dell’acqua alla piazza in cui sarebbe sca­
turita, ma doveva superare avvallamenti e creste. Le difficoltà, la
sospensione dei lavori, la ripresa, il completamento, le trasformazioni
trecentesche apportate da Lorenzo Maitani, sono stati ben illustra­
ti da Giuliano Romalli. Si trattava di un manufatto imponente con le
sue arcate della Conca, e i suoi percorsi sotterranei, le sue conduttu­
re di piombo, ma delicatissimo, anche dopo i rifacimenti, e ancora
più delicato era il manufatto da cui scaturiva l’acqua, a cui gli statu­
ti perugini del 1342 dedicarono larga parte del quarto libro: «De la

13 G. Romalli, L’acquedotto medievale di Perugia e l’adduzione idrica nelle


realtà comunali centroitaliane, in Arnolfo di Cambio e la sua epoca. Costruire, scol-
pire, dipingere, decorare, Atti del convegno internazionale di studi (Firenze - Colle
Val d’Elsa, 7-10 marzo 2006), a cura di V. Franchetti Pardo, Roma 2006, pp. 317-
330. Si veda inoltre A. Bartoli Langeli - L. Zurli, L’iscrizione in versi della Fontana
Maggiore di Perugia, 1278, Roma 1996.

339
Francesca Bocchi

fonte de la piazza. E del conducto d’essa. E de le citerne da fare» 14.  

La fontana che stava tanto a cuore ai perugini è quella che ador­


na la piazza fra la cattedrale e il palazzo dei Priori, che fra’ Bevignate
da Cingoli ha ideato e che Nicola Pisano e il figlio Giovanni hanno
costruito e adornato, concludendola nel 1287, con sculture celebri,
illustrate in tutti i manuali di storia dell’arte italiana.
Dalla lettura della lunga rubrica degli statuti, risulta che le
preoccupazioni degli amministratori erano di vario ordine: in pri­
mo luogo decisero che l’uso della fonte fosse solo ed esclusivamente
quello del prelievo delle acque potabili e che in alcun modo potesse­
ro essere inquinate. Ma per il legislatore era altrettanto importante la
protezione di tutto il condotto che consentiva all’acqua di sgorgare e
di tutti coloro che accedevano alla fonte per utilizzarne il servizio.
Per dare efficacia a questi propositi gli statutari perugini indivi­
duarono una zona di rispetto del raggio di tre passi attorno ai gradini
e disposero la costruzione di cinque o sette vasi di pietra da colloca­
re presso i gradini stessi, nei quali coloro che andavano ad attingere
l’acqua dovevano lavare le brocche e gli altri recipienti e in particolar
modo la parte esterna del fondo che poteva addurre sostanze inqui­
nanti durante il prelievo.
Un altro dispositivo, che aveva lo scopo di evitare la contamina­
zione dell’acqua e allo stesso tempo di fornire un servizio, fu quello
di far costruire tredici tazze di rame, stagnate all’interno, da lega­
re ciascuna con una catena di ferro ad ogni cannella da cui sgorgava
l’acqua, per consentire di bere e di riempire i recipienti.
Solo gli strumenti indicati erano consentiti per l’uso della fon­
te, onde evitare che si potesse danneggiare il manufatto e inquinare
le acque. Fra l’altro si indicava espressamente il divieto di attinge­
re l’acqua con botti che potessero essere intrise di olio o di mosto
o altrimenti sporche, a cui si aggiungevano altri divieti che mo­
strano, indirettamente, quali fossero le abitudini dei perugini, dal
momento che l’individuazione del reato sottin­tende che c’era chi lo
commetteva.
I divieti appaiono in larga parte legati al fatto che quella era an­
che la piazza del mercato. Infatti si proibiva di usare l’acqua della
fonte per abbeverare gli animali, che per altro non potevano nemme­

14 Statuti di Perugia dell’anno MCCCXLII, II, a cura di G. Degli Azzi, Roma


1916 (Corpus statutorum italicorum), pp. 263-268.

340
La “modernizzazione” delle città medievali

no avvicinarsi ai gradini, né si poteva accedervi per lavarsi, per fare


il bucato, per pulire il cibo, né tantomeno si poteva attingere l’acqua
per fare la calce, o lavorare il cuoio, o preparare la pergamena, lavo­
razioni altamente inquinanti.
Divieti che comportavano pene pecuniarie molto forti erano
previsti per chi avesse imbrattato il manufatto e le acque e ancora
più dure erano per chi l’avesse danneggiata. Un riferimento ben pre­
ciso venne fatto alle sculture, quando si formulò la pena per chi con
pietra, ferro o legno «romperà [...] alcuna de l’emagene sculpite» o
le cannelle, o i catini. Per tale reato era prevista una sanzione pecu­
niaria molto alta, di cento lire, che, se il reo non fosse stato in grado
di pagare, era commutata nell’amputazione della mano destra.
Un’altra preoccupazione degli statutari perugini fu quella di
proteggere coloro che si recavano alla fonte, con particolare riguar­
do per i soggetti più indifesi, che erano le donne: «Niuno huomo
faccia alcuna engiuria overo violentia ad alcuna femmena andante
overo retornante da l’acqua trare».
Anche quei colpevoli di danneggiamento dei condotti sotterra­
nei, che portavano l’acqua dalla montagna, che non fossero stati in
grado di pagare la sanzione pecuniaria, avrebbero avuto tagliata la
mano destra, che diventava pena capitale se il danno provocato bloc­
cava completamente il deflusso delle acque. Per questo, come per
tutti gli altri reati, i padri erano responsabili per i figli minori e non
emancipati, ma se era una donna ad aver lesionato le cannelle — cosa
che poteva accadere, dato che l’attingere acqua è sempre stato un la­
voro femminile — «per tucta la piazza del comuno de Peroscia se
degga frustare».
La responsabilità del funzionamento della fonte spettava alla
suprema autorità dello stato che aveva potere esecutivo, il podestà, il
quale, dopo una revisione generale fatta con il capitano del popolo,
con i priori delle arti e con due delegati per ogni quartiere, era tenuto
ogni mese «a zaminare [revisionare] el viaggio e ’l lecto del l’acque­
ducto e del canelato de la fonte de la piazza». Per questa sua attività
istituzionale egli era espressamente sottoposto a sindacato, ma anche
sostenuto dai priori delle arti che gli mettevano a disposizione le fi­
nanze del comune e tutte le risorse che fossero state necessarie alla
manutenzione ordinaria e straordinaria «a ciò che l’acqua abundan­
temente s’aggia e benga ne la fonte predicta».

341
Francesca Bocchi

La sistemazione dei servizi e la qualità della vita urbana a Bologna nel


Duecento
Studi recenti su tutto lo spettro di interventi eseguiti dal
Comune di Bologna nel corso del XII e XIII secolo 15, mettono in  

luce come l’attività svolta dal Comune dimostri, senza possibilità di


dubbio, che già alla metà del Duecento il livello del controllo sul­
la città messo in atto dall’amministrazione pubblica era molto alto:
il suolo e lo spazio appartenenti alla comunità non potevano esse­
re privatizzati in alcun modo; le grandi infrastrutture erano già state
realizzate (piazze, mercati, palazzi comunali, rifornimento energeti­
co); le strade vecchie erano state raddrizzate e allargate, quelle nuove
stavano formandosi nella periferia; l’edilizia privata era sottoposta
alla normativa generale che esigeva che una parte del suolo privato
fosse adibito ad uso pubblico con la costruzione del portico 16; si re­  

golavano grondaie, scarichi e stillicidi.


Il Comune di Bologna era quindi perfettamente in grado di
portare ancora più avanti le proprie decisioni per perseguire quei
fini che non si trovano mai indicati in alcuna delibera, ma che sono
espliciti nei risultati: rendere la città funzionale ed efficiente.
Tralascio di parlare dell’impulso dato in quel periodo al siste­
ma fognante della città e alle operazioni di ammodernamento del
complesso urbano, soprattutto nella sua parte storica con la chiusu­
ra delle androne, cioè gli stretti spazi privati fra una casa e l’altra, per
soffermarmi un poco sul problema dello smaltimento delle acque
nere domestiche e dei rifiuti.

Secchiai, stillicidi e servizi igienici


Anche lo scarico dei secchiai domestici non poteva essere con­
dotto senza le regole stabilite dal Comune. Tutti i secchiai, le situle,
i trogoli e le cannelle di ferro, che facessero cadere le acque dome­
stiche sulle vie pubbliche o costituissero un pericolo per i passanti,
erano proibiti. Se gli scarichi avvenivano su piazze pubbliche in cui

15 F. Bocchi, Dalla grande crisi all’età comunale, “Atlante Storico delle cit­
tà Italiane”, Bologna, I, Bologna 1996, pp. 49-114; F. Bocchi, Il Duecento, “Atlante
Storico…”, cit., Bologna, II, Bologna 1995. Cfr. Inoltre F. Bocchi, Bologna nei secoli
IV-XIV. Mille anni di storia urbanistica di una metropoli medievale, Bologna 2008.
16 I Portici di Bologna e l’edilizia civile medievale, a cura di F. Bocchi, Bologna
1990.

342
La “modernizzazione” delle città medievali

c’erano già le chiaviche sotterranee, dovevano esservi condotti. Per i


secchiai e le grondaie, i cui scarichi davano sulle androne, era neces­
sario che ci fosse almeno mezzo piede (19 cm) di proprietà privata
oltre il punto di caduta. Il controllo spettava ai ministrali delle con­
trade, che avevano l’obbligo di far eseguire i lavori o di denunciare
gli inadempienti ai funzionari addetti, che li punivano con una san­
zione pecuniaria, con l’obbligo di mettere a norma gli scarichi e di
risarcire eventuali danni 17.  

Gronde e stillicidi non a norma furono le prime vittime del­


la modernizzazione, non solo perché lo scarico delle acque piovane
poteva infastidire i passanti o i vicini, ma anche perché, cresciuti nel
disordine urbanistico, costituivano un tramite di propagazione degli
incendi nei fabbricati vicini e restringevano esageratamente gli spa­
zi aerei, già stretti per loro natura 18, così, «ad removendum incendii
 

timorem», si procedeva all’allargamento della strada e alla rimozio­


ne delle gronde.
Posti tradizionalmente sui fianchi delle case in minuscoli am­
bienti che sporgevano dal muro 19, i gabinetti avevano lo scarico per
 

caduta libera nelle androne. Lo statuto del 1250 affronta l’argomento


da due punti di vista diversi: da una parte è preso in considerazio­
ne il servizio pubblico che era necessario organizzare nei luoghi di
maggior frequentazione; dall’altra è manifesta la preoccupazione di
nascondere alla vista dei passanti, soprattutto nelle piazze, alle porte
urbiche e presso i grandi complessi ecclesiastici, degli impianti che si
ritenevano non idonei alla dignità e al decoro della città.
Nel 1255 erano state definite le caratteristiche dell’androna che
poteva consentire la presenza dei gabinetti, non solo per risolvere
dei problemi di igiene facilmente comprensibili, ma anche perché,
come dice lo statuto, «si sopiscano e cessino gli odi e la litigiosità che
scoppiano a causa delle androne in cui ci sono i gabinetti e si get­

17 L. Frati, Statuti di Bologna dall’anno 1245 all’anno 1267, in «Monumenti


storici pertinenti alle Provincie della Romagna», s. I, 3 voll., Bologna 1869-1880»
[d’ora in poi Frati, seguito dalla data dello statuto], 1255, I, pp. 200-201, libro I, ru­
brica 33: «Quod super viis non sint sayguatoria».
18 Frati, 1250, II, pp. 403, libro IX, r. 100: «Quod grondaria domorum con­
trate in qua habitat dominus Jacobinus de Allegracore debeat reaptari».
19 Dalla dimensione dell’ambiente deriva il termine della lingua italiana (=
piccola cabina) e quello di uso popolare camerino.
20 Bocchi, Il Duecento, cit., pp. 199-200.

343
Francesca Bocchi

tano tutte le altre putredini» 20, litigiosità che probabilmente aveva


 

origine nel fatto che non si trovava l’accordo sul da farsi e ciascuno
cercava di gestire in proprio lo spazio che invece era comune: vere e
proprie liti di condominio. La normativa stabilì che, se un proprie­
tario aveva nell’androna un proprio spazio inferiore ad un piede di
larghezza (38 cm) e a quattro di lunghezza (1,12 m), non poteva te­
nervi il gabinetto, perché era necessario almeno un altro piede di
distanza oltre il muro del gabinetto. Solo nel caso in cui fosse pre­
sente una fascia di almeno un piede di terreno di proprietà oltre la
caduta dei rifiuti, poteva essere costruito il gabinetto. Questa dispo­
sizione conferma una norma, che aveva origini lontanissime, relativa
allo spazio di almeno un piede necessario fra la linea di confine della
proprietà e l’inizio della muratura, per consentire l’apertura di fine­
stre. Se tali spazi risultavano stretti furono chiusi, se, invece, erano
più larghi e si era instaurata una consuetudine di passaggio, divenne­
ro di uso pubblico.
La disposizione, che stabiliva che oltre la caduta dei liquami ci
dovesse essere ancora un piede di proprietà privata, interpretava la
norma antica in modo estensivo, considerando la parete del gabinet­
to parte integrante dell’abitazione, cosa che probabilmente non era
così ben recepita, dato che si trattava di un manufatto quasi sempre
di materiali deperibili, che non poggiava sul suolo e che si trovava
all’interno di spazi privati per quanto comuni: la regola definita dal
Comune si basava sulla stessa metodologia e sui principi giuridici
che avevano sorretto la regolamentazione dei portici 21.  

Un luogo particolarmente curato dagli statutari fu la chiesa di S.


Ambrogio, non solo per la venerazione del santo a cui era dedicata,
legato a Bologna da molte ragioni anche politiche 22, ma soprattutto
 

perché la chiesa apparteneva al complesso nel quale si trovava la pri­


ma sede del Comune, quella che era stata abbandonata all’inizio del
XIII secolo con la costruzione in Piazza Maggiore del Palazzo Nuovo
(ora Palazzo del Podestà), più grande e più adatto alle necessità di
quel momento 23. La situazione ambientale doveva essere molto di­
 

sagevole, se — come affermava lo statuto — il sacerdote, mentre era

21Bocchi, Il Duecento, cit., p. 45-49.


22Si veda il vol. I dell’Atlante storico di Bologna, cit., pp. 51-55.
23 È stata abbattuta alla fine del Trecento per far posto alla basilica di S.
Petronio.

344
La “modernizzazione” delle città medievali

all’altare per celebrare gli offici, poteva vedere e sentire la putredi­


ne dei gabinetti, cosa che disturbava anche i fedeli che assistevano
alla messa 24. Anche in questo caso, come in molti altri illustrati nella
 

fonte, per risanare il luogo fu necessario ristrutturare radicalmen­


te tutto, anche l’edilizia, tant’è vero che furono rimossi i portici e gli
sporti da cui proveniva la putredine, mettendo a nudo i muri di fac­
ciata delle case. Da allora in poi dalle case di quella via non potevano
più fuoruscire gli scarichi né dei secchiai, né dei gabinetti, e la stra­
da doveva essere tenuta sgombra e pulita, per consentire un accesso
ordinato alle funzioni religiose. È evidente che questo tipo di siste­
mazione degli scarichi era quello più obsoleto e al quale si cercava
di porre rimedio, perché utilizzava la via pubblica a scopo priva­
to danneggiandola, arrecava disagio ai passanti proprio in un punto
tradizionalmente frequentato e non aiutava la città a costruire l’im­
magine e la sostanza dell’efficienza a cui tendeva.

Rifiuti industriali inquinanti


Una città in piena espansione economica produceva dei rifiuti
tossici, che inquinavano l’aria e l’acqua.
Per queste ragioni fu necessario pianificare la città tenendo
conto di due diversi fattori: da una parte mantenere pulite le ac­
que, dall’altra non impedire agli operatori di produrre. Tutte e due
le cose insieme non era possibile ottenerle, bisognava raggiungere
un giusto equilibrio fra lo sviluppo e il deterioramento delle risorse
disponibili. Per farlo si cercò di individuare delle acque che fossero
specificatamente dedicate a certi servizi e destinarne altre a smaltire
i rifiuti inquinanti.
Un’acqua intoccabile era quella del canale Navile, per lo meno
per tutto il tratto di attraversamento della città dalla Circla, fino a
dopo aver servito il canale Cavaticcio e i mulini 25. A quel punto le
 

acque avrebbero potuto anche sporcarsi, ma non troppo, perché era


utilizzato per la navigazione verso le valli del Ferrarese. Le acque

24 Frati, 1250, II, p. 387, libro IX, rubrica 65: «quia nemo potest stare in ipsa
ecclesia propter fetorem et sedilia et putredine, que videtur a sacerdote et ab homi­
nibus et mulieribus stando ad officium...»
25 Frati, 1250, I, pp. 185-188, libro I, rubrica 26. Il divieto riguardava anche
la macerazione del lino, che era proibita da Casalecchio fino alle gualchiere della
Beverara.

345
Francesca Bocchi

del Navile erano quindi salvaguardate con tutte le norme possibili,


soprattutto non si consentiva che fossero inquinate da alcun resi­
duo della lavorazione delle pelli, e anche le vie che lo costeggiavano
non potevano essere utilizzate come discarica per il letame o per al­
tri rifiuti 26.
 

Tutte le acque della parte meridionale della città verso la col­


lina, compresa fra le ultime mura (la Circla) e i due rami adduttori
delle acque del Sàvena, dovevano quindi essere mantenute quanto
più possibile pulite, proprio per poter servire per le attività economi­
che di giorno e per pulire le strade della città di notte.
La salvaguardia delle acque urbane ha prodotto la necessità di
dislocare gli impianti inquinanti nelle zone meno abitate, nei punti
a valle, dopo che le acque avevano già svolto i loro servizi: anche se
non fu elaborato uno strumento urbanistico unitario, ampio ed esau­
stivo come si fa ora con i piani regolatori, furono individuate delle
aree a destinazione d’uso prevalente dove andarono a collocarsi i di­
versi impianti.
Le caratteristiche di disponibilità di spazi e di acque invece le
aveva sia la zona del Campo del Mercato a nord, sia la zona meri­
dionale della fascia dei borghi, che però era anche il luogo in cui
bisognava salvaguardare le acque. Gli statutari infatti si affrettaro­
no a proibire l’installazione di qualsiasi impianto di fornaci e fucine
soprattutto per la lavorazione dell’argento e degli altri metalli, pre­
cisando che la zona andava dalla porta di Castiglione a quella di S.
Procolo, cioè proprio a protezione dei due rami adduttori delle ac­
que del Sàvena. Le ragioni indicate nello statuto erano quelle che più
chiaramente erano visibili al cittadino, cioè l’inquinamento e l’am­
morbamento dell’aria: «quod aera corrumpit et inflat» 27.  

Se non nella zona sud, bisognava che questi impianti fosse­


ro collocati in un altro posto. Fu così individuata nel 1259 la zona
settentrionale dei borghi, a margine del Campo del Mercato, dove
giungevano le acque del Sàvena dopo aver esaurito i suoi compiti di
forza motrice e di lavaggio delle strade 28. Lì potevano installarsi le
 

fucine per la lavorazione dei metalli e le fornaci da calce, probabil­


mente su terreni che erano, o erano stati, di proprietà del Comune,

26 Frati, 1255, I, pp. 204-206, libro I, rubrica 35, penultimo comma.


27 Frati, 1250, II, p. 231.
28 Frati, 1259-67, p. 230, aggiunta alla rubrica 33 del libro VIII.

346
La “modernizzazione” delle città medievali

che ne aveva comprato in grande abbondanza nel 1219 per l’apertu­


ra della piazza, che occupava, e occupa, assai meno dei 17 ettari di
terreno che furono comprati dal Comune in quella circostanza.

Conclusioni
Nel corso del Trecento i temi urbanistici avviati nel secolo
precedente, quando i governi cittadini avevano acquisito la forza ne­
cessaria per imporre a tutti delle regole, sono stati sviluppati con
rigore: le città costruirono acquedotti, raddrizzarono e allargarono
le strade, razionalizzarono il sistema fognante, impiantarono o ter­
minarono nuovi circuiti di mura. Usando una terminologia attuale, si
potrebbe dire che in quel periodo le città da “medievali” divennero
“moderne”, poiché non si tollerarono più abusi edilizi, invasioni di
suolo pubblico, artigiani che lavoravano sulla strada, inquinamenti
del suolo, dell’aria e dell’acqua. Alla metà del secolo ci fu una dram­
matica battuta d’arresto dovuta alla crisi e culminata nell’epidemia
di peste che ha colpito tutta l’Europa, ma da quella tragedia ci si ri­
prese abbastanza presto, sostituendo l’edilizia fatiscente con edifici
che erano sempre meno di legno e sempre più di pietra e mattoni.
L’importante attività legislativa, messa in atto dai comuni nei
secoli centrali del Medioevo, ha poi determinato la struttura urba­
na delle città italiane per secoli e anche oggi la maggior parte di esse
conserva le caratteristiche che allora furono attuate e protette. Gli
interventi urbanistici dell’età moderna per lo più sono stati limitati
a piccoli aggiustamenti, a miglioramenti nella qualità edilizia, all’al­
largamento delle vie, ad accorpamenti di parcelle catastali per la
costruzione dei palazzi signorili, ma l’identità urbana italiana non è
mutata. In tempi più recenti qualche parte di città è stata sacrificata
al risanamento, alla scorrevolezza del traffico, all’attuazione di pia­
ni regolatori. Ma in generale, a parte qualche eccezione, si è saputo
conciliare antico e moderno, consentendo agli uomini di oggi di vi­
vere nelle città di ieri, in città nelle quali però, proprio nel Medioevo,
si è attuata una politica che ha consentito loro di modernizzarsi sen­
za perdere la propria identità.

347
Lunedì 14 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Giovanni Cherubini

Salvatore Tramontana
L’altra Italia.
La costruzione delle città
nel Mezzogiorno e in Sicilia

Nessun Convegno potrebbe concedere a una relazione il tempo


necessario per esporre la problematica relativa a un argomento che,
per le città del Centro-Nord, è spalmata su 18 interventi. L’unica
scelta che mi consente di evitare la genericità di una sintesi sembre-
rebbe quella di limitare l’esposizione a una sola delle cifre espressive
che caratterizzavano le trame esplorative e i percorsi preferenziali
delle valenze urbane delle città del Mezzogiorno e della Sicilia qua-
li, nella concretezza e nell’immaginario, erano percepite dai coevi.
Presentare del resto in termini sintetici un quadro generale della “co-
struzione” delle città del Regnum comporterebbe difficoltà notevoli
e il rischio di non cogliere, nell’effettiva concretezza, le peculiarità
locali, le diversificazioni dei siti e delle convivenze, le direttrici po-
litiche e le efficienze amministrative, le capacità e operatività delle
scelte architettoniche e degli interventi urbanistici. Ogni città aveva,
nel contesto di un’articolazione economica e politica che faceva capo
alla monarchia, i suoi problemi specifici, connessi anzitutto alla collo-
cazione geografica e quindi alle vicende, legate anche alla natura del
suolo, che ne avevano consentito la continuità, segnata l’operatività,
causato lo sviluppo o la crisi, determinato il mutamento di sito 1 o  

1 C’è stato infatti, a partire dal secolo VII — e via via accentuato nei secoli

349
Salvatore Tramontana

addirittura la scomparsa 2. Le fonti registrano infatti il deperimento,


 

la rovina, la sparizione di tanti centri urbani in Campania, in Puglia,


in Calabria, in Sicilia, ma testimoniano anche, fin dal secolo X, un
processo di ricostruzione, talvolta in un sito diverso, di qualche città
scomparsa, come Capua e Avellino in Campania, il riadattamento di
centri a mutate e accresciute esigenze, la fondazione di nuove città.
Basti ricordare, per la Campania, Ariano Irpino, Avellino, Aversa,
Capua 3; per la Puglia Altamura, Andria, Carminiano, Foggia, Gioia
 

del Colle, Siponto, Salpi, Troia 4; per la Calabria Catanzaro, Rota


 

Greca, San Marco Argentano 5; per la Sicilia Augusta e Terranova col


 

cui insediamento, nell’età di Federico II, si occupava il sito dove era


progressivamente deperito l’impianto urbano dell’antica Gela 6.  

Costruire, fin dal tempo di Teodorico, ma in fondo per tutta


l’età preindustriale, aveva del resto quasi sempre significato riadat-
tare, ristrutturare a nuovi usi edifici e templi antichi o trasferire da
un luogo all’altro pietre, marmi, colonne 7. A Catania, per esempio,
 

ciò era stato fatto pure con gli edifici islamici, se dobbiamo credere
a Bartolomeo da Neocastro che, nella sua cronaca, riferisce di una
colonna marmorea rovesciata a terra, e sulla quale era scolpita l’im-

successivi — un ritorno a quegli insediamenti collinari abbandonati in epoca roma-


na. Un ritorno dovuto a vari fattori — non ultimi i pericoli dal mare e quelli della
malaria causati dall’espandersi delle paludi — che veniva per lo pù a coincidere col
precedente sito romano sul quale il nuovo insediamento si appiattiva con un impian-
to a fuso che seguiva l’andamento orografico. E il caso di Paestum, abbandonato per
l’impaludarsi del Sele e per il pericolo saraceno, e trasferitosi in collina, a Capaccio
Vecchia, è assai significativo: N. Cilento, Centri urbani antichi, scomparsi e nuovi
nella Campania medievale, in Atti del Colloquio internazionale di archeologia medie-
vale (Palermo-Erice, 20-22 settembre 1974), I, Palermo 1976, p. 160.
2 È questo l’aspetto drammatico di vicende che, in Campania, impressiona-
rono Paolo Diacono, Historia Langobardorum, a cura di G. Vaitz, Hannover 1878
(Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum Germanicarum in usum scho-
larum separatim editi), II, c. 4, p. 74, per lo svolgimento dell’assetto territoriale,
per lo sfaldamento dell’economia, per la sofferenza di intere popolazioni, per la
solitudine paurosa di uno spazio «in antiquum reductum silentium».
3 G. Vitolo, Tra Napoli e Salerno. La costruzione dell’identità cittadina nel
Mezzogiorno medievale, Salerno 2001, pp. 47-48.
4 J.M. Martin, Foggia, Lucera, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno
normanno-svevo, Atti delle decime Giornate normanno-sveve (Bari, 21-24 ottobre
1991), a cura di G. Musca, Bari 1993, pp. 339-40 e 342-45.
5 S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, Torino 1994, pp. 7 e 19.
6 Ivi, pp. 14-25.
7 Cassiodoro, Variae, a cura di Th. Mommsen, Berlin 1894 (Monumenta Ger­
maniae Historica, Auctores antiquissimi, XII), I, 25, p. 28 e III, 9, p. 84.

350
L’altra Italia. La costruzione delle città in Mezzogiorno e in Sicilia

magine di un saraceno di nome Tristaino che l’aveva utilizzata per la


costruzione del proprio palazzo 8. Ad Agrigento la pratica di questo
 

sistema era stata ripetuta più volte: lo si legge nel Libellus de succesio-
ne pontificum in cui sta scritto che il vescovo Gualtiero, per costruire
la torre «ad munimen ecclesie, fecit trahi lapides magnos de civitate
veteri» 9. Il vescovo rendeva cioè operativo un sistema che le fonti
 

testimoniano per l’abbazia di Venosa, per la cui costruzione veni-


vano utilizzati blocchi squadrati provenienti dall’antica Venusia 10,  

per la cattedrale di Caserta Vecchia, vale a dire della casa irta di cui
parla Erchemperto 11, e per la cattedrale di Acerenza, costruita con
 

i materiali di spoglio dell’antica Acherentium 12. Strutture tutte per


 

le quali, attraverso lo studio della dislocazione, della dimensione,


della profondità e della sezione (quadrata, semicircolare, circolare)
dei fori utilizzati per la sistemazione delle impalcature, è stato pos-
sibile fissare le fasi più importanti del funzionamento dei cantieri
e della tecnica edilizia adoperata. La quale, fra l’altro, sembrereb-
be sfatare, per gli edifici sacri, la tesi corrente secondo cui l’inizio
della costruzione «partiva dall’abside, cioè dall’estremità orientale,
per poi mettere mano alle altre parti dell’opera» 13. Anche Augusta,
 

del resto, per la cui costruzione era stato richiesto largo impiego di
manodopera, veniva edificata con materiale recuperato in gran parte
dalle rovine dell’antica vicina Megara 14. Cioè da quei luoghi in cui,
 

ancora nel 1240, Federico sperava, attraverso la programmazione


di sistematici scavi archeologici affidati a Oberto Commenale, «fir-
miter inventiones maximas invenire» 15. Sperava cioè di recuperare
 

8 Bartolomeo da Neocastro, Historia sicula: 1250-1293, a cura di G.


Paladino, Bologna 1922 (Rerum Italicarum Scriptores2, XIII), c. 110, p. 92.
9 Le più antiche carte dell’Archivio capitolare di Agrigento: 1092-1282, a cura
di P. Collura, Palermo 1960 (Documenti per Servire alla Storia di Sicilia, serie I,
XXV), p. 307.
10 H. Houben, Melfi, Venosa, in Itinerari e centri urbani, cit., pp. 321-22.
11 Cilento, Centri urbani antichi, cit., p. 161.
12 E. Zinzi, Le città morte: un problema e tre schede: Mileto, Cerenzia, Cirella,
in Per un atlante aperto dei beni culturali della Calabria: situazione, problemi, prospet-
tive, Atti del VII Congresso storico calabrese (Vibo Valentia-Mileto, 11-14 marzo
1982), Roma 1985, I, pp. 214-222.
13 G. Coppola, La costruzione nel medioevo, Avellino 1999, p. 156.
14 E. Dupré Theseider, Federico II, ideatore di castelli e città, in Atti del-
le Seconde Giornate federiciane (Oria, 16-17 ottobre 1971), Bari s.d., pp. 75-77.
Dettagliata descrizione di Augusta alla fine del secolo XIII in Bartolomeo da
Neocastro, Historia sicula, cit., c. 110, p. 92.
15 J.L.A. Huillard Breholles, Historia diplomatica Friderici secundi, Paris

351
Salvatore Tramontana

dai procedimenti antichi, e romani in ispecie — la cui tecnica era


in parte nota grazie al De architectura di Vitruvio Pollione — nuove
informazioni sul pensiero e sulla pratica architettonica, urbanistica e
dei nessi fra geometria e impianti anche idraulici 16.  

A qualcuno il sovrano svevo è apparso più come distruttore che


non «iniziatore di nuove esistenze urbane» 17. Ed è indubbio che le
 

esigenze della politica lo hanno spesso spinto a durissimi interventi


punitivi nei riguardi di città e cittadini. A prescindere però da un’ar-
ticolata attività costruttiva di un impegno che non era solo edilizio e
architettonico, c’era in Federico II un’ansia di sapere, un desiderio di
costruire una realtà diversa attraverso un circuito di scambi e di dia-
logo coi dotti, che testimonia, come si ricava da tante fonti, e specie
dai Quesiti, la sua disponibilità per la cultura scientifica da rendere
operativa pure per l’organizzazione e ristrutturazione del territorio.
Anche perché Federico II sembrerebbe convinto della necessità di
una fase di distruzione creativa per arrivare alla costruzione del po-
tere imperiale del quale le città erano componenti fondamentali ma
non privilegiate.
È del resto sufficiente leggere le Assise capuane per cogliere già,
fin dal 1220, la volontà di Federico II di trasformare radicalmente il
regno sul piano politico, e su quello materiale con la distruzione e la
costruzione di manufatti edilizi eliminati o edificati per frantuma-
re ogni interesse locale, ogni spinta autonomistica, e portare avanti
l’idea unitaria del potere imperiale 18. Secondo un progetto dal quale
 

emerge, con indiscutibile chiarezza, il nesso strettissimo fra politica e


ordinamento del territorio 19, fra politica e programma edilizio. Alla
 

cui concretezza architettonica e al cui linguaggio compositivo veniva


affidata l’immagine della monarchia che Federico II si era proposto

1852, I, p. DXLV e nota 6.


16 De architectura libri decem, a cura di C. Fenssterbusch, Darmstadt 1901,
X, 10, pp. 408-502. Per gli impianti idraulici in età normanna e sveva si veda S.
Tramontana, Il regno di Sicilia. Uomo e natura dall’XI al XIII secolo, Torino 1999,
pp. 411-415.
17 Dupré Theseider, Federico II, cit., pp. 70-71.
18 Riccardo di San Germano, Chronica, a cura di C.A. Garufi, Bologna 1937-
1938 (Rerum Italicarum Scriptores2, VII), pp. 83-96.
19 Territorio, il cui concreto significato deriva da terreno sul quale poggiamo
i piedi, abitiamo, camminiamo, operiamo anche per creare rapporti con gli altri.
L’uomo infatti — scrive il fisico tedesco Friedrich Dessauer, Filosofia della tecnica,
a cura e con traduzione di A. Bendiscioli, Brescia 1933, p. 81 — da isolato non
progredisce. Solo nel momento in cui crea oggetti e si confronta con ciò che con

352
L’altra Italia. La costruzione delle città in Mezzogiorno e in Sicilia

di costruire 20.
 

L’uomo, diceva del resto Filarete, è portato per natura a co-


struire: «non è altro lo edificare, se non piacere voluttuario, come
quando l’uomo è innamorato» 21. Ma è la necessità, la necessità di
 

difesa, e soprattutto quella di controllo del potere, scriveva Leon


Battista Alberti, che spinge a costruire, «per scandire le differenze di
ceto e per adeguare nelle mura e negli edifici una struttura politica
precisa». Costruire città e fare interventi di riqualificazione nei centri
abitati diventava così sinonimo di regolamentazione della conviven-
za e dell’abitare, e l’impianto urbano «più che essere connesso con la
politica fa corpo con essa e quasi l’esprime esemplarmente» 22.  

Certo, le costruzioni di città rispondevano ai bisogni delle popo-


lazioni. E tale può essere considerata la fondazione di Manfredonia,
determinata dalle necessità di insediarvi le popolazioni di Siponto
«propter ipsius loci intemperiem et imminentem ibi corruptionem
aeris» 23. Ma le costruzioni di città rispondevano anche alle esigenze
 

dei sovrani: Altamura, per esempio, veniva fondata, si legge nel do-
cumento del 1243, per «procurare dimore» agli uomini «de mandato
nostro translato», che detto con linguaggio semplice significava: per-
sone che, su ordine del sovrano, erano state costrette a trasferirsi in
quel centro de novo fundato 24.  

essi ha ottenuto, egli riesce a manifestare la sua personalità, che è appunto quella
dell’inventore, del costruttore, dell’organizzatore.
20 A. Marino Guidoni, Architettura, paesaggio e territorio dell’Italia meridio-
nale nella cultura federiciana, in Federico II e l’arte del Duecento italiano, Atti della
III Settimana di studi di Storia dell’arte medievale dell’Università di Roma (15-20
maggio 1978), a cura di A.M. Romanini, Galatina 1980, I, pp. 75-77.
21 E. Garin, Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Bari 1965, p. 51.
22 Della architettura libri dieci. Traduzione di C. Bartoli, Milano 1833, pp.
135-36. Si veda Garin, Scienza e vita, cit., pp. 48-49.
23 P.F. Palumbo, Contributi alla storia dell’età di Manfredi, Roma 1959, p.
85, che trascrive da un documento del Registro angioino del 1300-1301 edito da
M. Camera, Annali delle due Sicilie, Napoli 1841-60, I, pp. 253-56. Sul significa-
to strategico della fondazione di Manfredonia nei rapporti di Manfredi con alcuni
baroni, e specie nei rapporti con la costa albanese, si veda E. Pispisa, Il regno di
Manfredi. Proposte di interpretazione, Messina 1991, pp. 118-19 e 323. Significativo
comunque, pure nell’evidente esagerazione che Salimbene de Adam, Cronica, nuova
edizione critica a cura di G. Scalia, Bari 1966, p. 685, scrive di Manfredonia: «si
vixisset princeps de paucis annos amplius […] fuisset una de pulcrioribus civitati-
bus de mundo».
24 H. Niese, Normannische und Staufische Urkunden aus Apulien. Altamura,
«Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», IX (1906),

353
Salvatore Tramontana

Trasferimento determinato quindi da esigenze di ordine inter-


no, come, tra il 1224 e il 1246, il popolamento di Lucera coi saraceni
di Sicilia divenuti elementi di disordine nell’isola 25, come quello di
 

Bugamo a Scribla 26 o come l’insediamento dei “lombardi” in molti


 

abitati della Sicilia centro-orientale 27 e nel Seralcadio di Palermo 28.


   

Trasferimenti programmati e concretizzati tutti per esigenze politi-


che, religiose, e di difesa di un ordine interno al quale è in fondo
da ricondurre la gran parte degli impianti urbani dei centri abitati.
Programmati e strutturati appunto dalle necessità di difendersi da
tutto quello che, sul piano concreto e sul piano simbolico, rappre-
sentava il diverso, e quindi l’ignoto, e dunque il pericolo. E senza
dubbio per questo uno degli elementi fondamentali della costruzio-
ne, dell’assetto e della delimitazione dello spazio da abitare era la
cinta muraria. La cinta come struttura architettonica di protezione
e di identificazione che, nell’offrire al singolo e alla collettività la
consapevolezza dell’appartenenza, delimitava il sito, lo spazio, il ter-
ritorio, anche in termini di possesso, di uguaglianze e di differenze
sociali 29, e quindi di ordinamento politico, giuridico e di dialettica
 

pp. 257-61; V. Tirelli, La fondazione di Altamura, «Archivio storico pugliese», IX


(1956), pp. 63-69; P. Corsi, Comunità bizantine di Puglia in età normanno-sveva, in
Città e vita cittadina nei paesi dell’area mediterranea: secoli XI-XV, Atti del Convegno
internazionale in onore di Salvatore Tramontana (Adrano-Bronte-Catania-Palermo,
18-22 novembre 2003), a cura di B. Saitta, Roma 2006, pp. 389-90.
25 Martin, Foggia, Lucera, cit., pp. 333-61.
26 G. Noyé, Le château de Scribla et les fortifications normandes du bassin du
Crati de 1044 à 1139, in Società, potere e popolo nell’età di Ruggero II, Atti delle terze
Giornate normanno-sveve (Bari, 23-25 maggio 1977), Bari 1979, pp. 207-224.
27 I. Peri, La questione delle colonie «lombarde» in Sicilia, «Bollettino storico-
bibliografico subalpino», LVII (1959), pp. 253-80.
28 S. Tramontana, Palermo dai normanni al Vespro, in Storia di Palermo, III,
a cura di R. La Duca, Palermo 2003, p. 42; M. Scarlata, Configurazione urbana e
habitat a Palermo tra XII e XIII, ivi, pp. 158-63.
29 J.M. Greverus, Grenzen und Kontakte. Zur territorialität des Menschen, in
Kontakte und Grenzen. Probleme der Volks, Kultur, und Sozialforschung. Festschrift
für G. Heilfurth, Gottingen 1969, p. 16; W. Brepohl, Heimat und Heimatgesinnung
als sozialogische Begriffe und Wirklichkeiten, in Das Recht auf Heimat. Vorträge,
Thesen, Kritik, a cura di K. Rabl, München 1965, p. 31. È del resto noto che il
bisogno, la necessità di avere propri confini è caratteristica di ogni essere vivente:
R. Ardrey, The territorial Imperative. A Personal Inquiry into the Animal Origins of
Property and nations, New York 1966, pp. 170-74. In tal senso, del resto, nel senso
cioè di esigenze naturali, comportamenti, abitudini, nella convivenza umana, molto
si apprende dal bel libro di D. Morris, La scimmia nuda. Studio zoologico sull’ani-
male uomo, Milano 1968.

354
L’altra Italia. La costruzione delle città in Mezzogiorno e in Sicilia

fra interno ed esterno 30.  

Ne era consapevole Falcone di Benevento. Il quale nel suo


Chronicon, che è la voce più significativa della resistenza cittadina
alla politica accentratrice dei normanni, riferisce che Ruggero II,
nel 1140, cioè subito dopo la promulgazione delle Assise di Ariano,
nell’entrare a Napoli e nel prenderne materiale possesso, volle cono-
scerne i confini per fissare e quantificare lo spazio del suo potere, e
per precisare quindi i termini dei rapporti politici, giuridici, ammi-
nistrativi fra centro urbano e monarchia. Accolto con grande giubilo
dai napoletani, il re, spiega Falcone, «trattò di alcuni affari relativi
alle libertates e agli interessi della città», e subito dopo «cavalcò per
tutto il centro abitato, all’interno e all’esterno», osservò attentamen-
te la disposizione urbana e la collocazione topografica di «palatia et
edificia», si recò «ad castellum Sancti Salvatoris» e, durante la notte,
fece misurare dall’esterno l’estensione della cerchia muraria per co-
noscere il perimetro della città, che risultò di 2363 passi, e che oggi
diremmo di 2263 metri 31.  

Nell’età di Ruggero II era del resto già viva la tendenza a fare


coincidere spazio topografico e spazio giuridico, e a dare corpo a
un’identità territoriale marcata dai confini il cui valore avesse, al-
l’interno del regno — oltre che nei riguardi della Chiesa di Roma,
dell’Impero, di Bisanzio, del mondo islamico — anche un significa-
to simbolico. Cioè un’identità territoriale misurabile e verificabile,
nei suoi dati essenziali di organizzazione e di operatività, con una
dimensione che, per dirla con Claude Lévi-Strauss, «si definiva per
diversità e contrasto e si sosteneva sulla svalutazione degli altri». Se
ne ha appunto conferma nella legislazione di Ariano, nel cui Proemio
si auspicava fra l’altro «l’integrità del regno» e la sua organicità uni-
taria, sul piano materiale e spirituale, nei riguardi di baroni e città 32.  

30 L. Dufour, Atlante storico della Sicilia. Le città costiere nella cartografia


manoscritta (1500-1823). Presentazione di C. De Seta, introduzione di M. Ganci,
Palermo-Siracusa-Venezia 1992, p. 42. Le mura di Napoli, dice, per esempio,
E. Cuozzo, Napoli e la terra, in Itinerari e centri urbani, cit., p. 42, non indicano
«un’entità a se stante», cioè uno spazio sociale conchiuso, ma una città che rappre-
senta «una sorta di palcoscenico in cui operava un sistema sociale e politico, con le
proprie classi, le proprie distinzioni di status, le proprie divisioni».
31 Falcone di Benevento, Chronicon Beneventanum. Città e feudi nell’Italia
dei normanni, a cura di E. D’Angelo, Firenze 1998 (Fondazione Ezio Franceschini.
“Per Verba”. Testi mediolatini con traduzione, 9), p. 236.
32 Le assise di Ariano, a cura di O. Zecchino, Cava dei Tirreni 1984, Proemio,
pp. 22-26.

355
Salvatore Tramontana

E dal quale emerge il concetto di pianificazione territoriale e di so-


vranità che, acquisito attraverso la conoscenza geofisica, topografica
e urbanistica dei luoghi, permetteva al sovrano di potere dislocare, in
tutto il Regnum, una rete di città, di castelli e di opere fortificate.
Potere del resto disporre di una razionale ed efficace distribu-
zione di strutture cittadine organizzate e fortificate rappresentava
uno strumento di governo e non solo di difesa, uno strumento di
ordine pubblico e di controllo burocratico e politico teso a rendere
tangibile la superiorità della jurisdictio regia attraverso funzionari del
sovrano 33. Lo sapeva bene Ruggero II, e lo avevano subito compreso
 

i primi normanni giunti al Sud, la cui conquista quasi ovunque, nel


Mezzogiorno e in Sicilia, era stata all’origine di «notevoli mutamenti
nell’organizzazione dell’habitat nei centri cittadini e in quelli rurali,
e più in generale dell’occupazione del suolo».
Il Chronicon di San Vincenzo al Volturno lo dice esplicitamen-
te quando precisa che i normanni, giunti al Sud, cominciarono a
costruire castra, cioè centri urbani fortificati, là dove c’erano villae
autonome o indipendenti 34. E i più recenti studi hanno dimostrato
 

— sia pure con le necessarie cautele nei riguardi di un complesso


problema ancora aperto, e caratterizzato da peculiarità specifiche
nel susseguirsi degli anni e nelle diversificazioni del Mezzogiorno e
della Sicilia — che la costruzione di castelli e di strutture di difesa in
campagna e in città, era quasi sempre dovuta, direttamente o tramite
autorizzazione del sovrano, all’iniziativa del potere centrale. Cioè a
esigenze che, più e prima che di ordine economico e sociale, sembre-
rebbero di ordine pubblico e di ordine politico. Vale a dire di assetto
dello Stato e dei suoi ordinamenti pubblici, come anticipatori, nelle
campagne e nelle città, della sacralità del re e del peculiare impianto
burocratico della monarchia.
Oltre che a Napoli — la cui cinta muraria, «fatta ad quadroni di
pietra dolce senza calce» 35, richiedeva, dopo l’ampliamento operato
 

33 G. Coppola, Castelli e motte nell’Italia meridionale normanna: XI-XII se-


colo, in Studi in onore di Salvatore Tramontana, a cura di E. Cuozzo, Avellino 2003
(Centro Europeo di Studi normanni di Ariano Irpino, Medievalia, 4), pp. 111-124.
34 “Chronicon Vulturnense” del monaco Giovanni (sec. XII-XIII), a cura di V.
Federici, Roma 1925-38 (Fonti per la storia d’Italia, LVIII-LX), p. 231: «Qui [cioè
i normanni] sibi omnia diripientes, castella ex villis edificare coeperunt, quibus ex
locorum vocabulis nomina indiderunt».
35 Matteo Spinelli di Giovinazzo, Diurnali: 1247-68, in Cronisti e scrittori
sincroni napoletani editi e inediti ordinati per serie e pubblicati, a cura di G. Del Re,

356
L’altra Italia. La costruzione delle città in Mezzogiorno e in Sicilia

da Valentiniano III nel 440 36, consistenti modifiche nel secolo X 37,
   

nel secolo XII, durante l’assedio di Enrico VI 38, e lavori continui


 

iniziati dopo la morte di re Corrado e ancora non ultimati durante


il regno di Carlo d’Angiò 39 — oltre che a Napoli, dicevo, per tut-
 

te le altre città del Mezzogiorno e della Sicilia le fonti segnalano la


presenza di cinte murarie. Come a Palermo, dove i documenti regi-
strano continua manutenzione e ampi rifacimenti in età bizantina 40,  

sostanziali ristrutturazioni, innalzamenti e allargamenti al principio


del secolo XIV 41. Cioè impegni tecnici sul piano costruttivo, sull’uti-
 

lizzazione di manodopera e di materiali, e soprattutto uno sforzo


finanziario notevole che gravava sulle comunità. E non solo per mo-
tivi di difesa, venuti sostanzialmente meno dopo l’assestamento della
monarchia, ma per le progressive trasformazioni culturali, economi-
che, demografiche e sociali del regnum, e all’interno delle singole
città, nel cui ambito l’impianto urbano subiva lente ma profonde
modifiche 42. Determinate anche dal radicarsi di una mentalità che
 

Napoli 1868, II, pp. 636-37.


36 L. Ruggini, Economia e società nell’«Italia annonaria». Rapporti fra agricol-
tura e commercio dal IV al VI secolo d.C., Milano 1961, pp. 79-80 e nota 197.
37 G. Galasso, Mezzogiorno medievale e moderno, Torino 1965, pp. 74-75 e
80-81.
38 Pietro da Eboli, De rebus siculis carmen, a cura di E. Rota, Città di Castello
1904-10 (Rerum Italicarum Scriptores2, XXXI), vv. 352-63, pp. 59-60, il quale, nel
descrivere la città durante l’assedio di Enrico VI, fa vari riferimenti alla struttura
difensiva di Napoli e alle mura, intercalate, egli dice, da torri che circondavano il
centro urbano. Dalle miniature che corredano la cronaca emergono poi significa-
tivi dettagli, come nella tav. XV, p. 57, in cui si coglie l’ampio scorcio di una torre
circondata da truppe che lanciavano frecce e disponevano di una macchina bellica
fissata al terreno e munita di un dispositivo in grado di scagliare grossi macigni, o
come nella tav. XIX, p. 74, nella quale è raffigurata una rappresentazione schemati-
ca delle mura e delle torri che circondavano Napoli.
39 Matteo Spinelli, Diurnali, cit., pp. 636-37. Vari riferimenti alle mura e
alle strutture difensive di Napoli anche in età angioina in Ricerche sul Medioevo
napoletano. Aspetti e momenti della vita economica e sociale tra decimo e quindice-
simo secolo, a cura di A. Leone, Napoli 1996. A p. 112, per esempio, si accenna a
una «scrittura del 1264» in cui è registrata «distructionem» di una chiesa a causa
dell’abbattimento di un tratto delle mura voluto da Corrado IV. Nelle pp. 136-37
è riportato un Rilievo della iunctura civitatis che mette in evidenza le vicende delle
mura urbane fra i secoli X e XIII.
40 I. Peri, Il porto di Palermo dagli arabi agli aragonesi, «Economia e storia»,
III (1958), p. 424.
41 I. Peri, La Sicilia dopo il vespro. Uomini, città e campagne: 1292-1376,
Roma-Bari 1981, pp. 105-106.
42 Dalla lettura dei documenti e delle cronache si ha spesso l’impressione che

357
Salvatore Tramontana

considerava l’interno dei centri urbani spazio ordinato e simmetrico


riservato alla convivenza e operosità regolata dalle leggi, e il territorio
fuori le mura, o comunque collocato al di là dell’area intensamente
coltivata che le mura non erano in grado di controllare e proteggere,
il luogo ferino del caos, del mistero, da dove proveniva il disordine,
«dove le epidemie colpivano più duramente che nelle città, dove le
carestie imperversavano più feroci che entro le mura urbane, dove
malfattori, disertori, sbandati, spesso uniti in branco di vagabondi,
grassavano e violentavano, bruciavano e ricattavano, diffondevano
timori e paure» 43.  

Un ordinamento materiale e simbolico, lo spazio delimitato dal-


le mura, che esprimeva in fondo un modo di pensare assai diffuso in
quegli anni, un universo mentale alla cui base stava l’idea dell’hortus
conclusus con al centro una fontana come simbolo originario di pu-
rezza o come sorgente di giovinezza 44. E il cui sentimento trova per
 

esempio forma iconografica netta e vigorosa nel Carmen di Pietro


da Eboli quando, per dare rilievo figurativo al concetto della conso-
lidata pace, il miniaturista dipinge il teatrum del palazzo imperiale
rappresentato all’interno delle mura come un chiostro a 24 colonne
sui cui archi appaiono elencate tutte le regioni sulle quali Enrico VI
aveva esteso i suoi diritti, e con al centro la fonte di Aretusa dalla
quale sgorga abbondante getto d’acqua 45.  

nel medioevo la città nient’altro fosse che una fortezza difesa dalla cinta muraria,
nel cui spazio il progressivo e talvolta tumultuoso concentrarsi della popolazione
provocava “l’affastellarsi” di case addossate le une alle altre e persino alle mura.
Con scelte che avevano una dinamica di sviluppo che preannunciava, in tanti luoghi,
il concretizzarsi delle città industriali dei secoli XVIII-XIX, e il successivo sorgere
delle metropoli con le «attuali contraddizioni dell’urbanistica contemporanea che
— scrive K. Lynch, The Image of the City, Cambridge Mass. 1960, pp. 21-22 — si
situano al di là delle forme architettoniche». Per le quali va via via prendendo corpo
una sempre più attenta riflessione sulla necessità di progettare «la rappresentazione
delle città non più dal lato dei produttori dello spazio, ma da quello dell’abitante,
del cittadino».
43 P. Camporesi, Il pane selvaggio, Bologna 1980, p. 193. Significativo il richia-
mo a L.A. Muratori, Li tre governi, politico medico et ecclesiastico, utilissimi, anzi
necessari in tempo di peste, Milano 17213, p. 21.
44 M.S. Calo’ Mariani, I fenomeni artistici come espressione del potere, in
Potere, società e popolo in età normanna ed età sveva, 1189-1210, Atti delle quinte
Giornate normanno-sveve (Bari, Conversano, 26-28 ottobre 1981), Bari 1983, p.
225.
45 Pietro da Eboli, De rebus siculis carmen, cit., tav. L, p. 50. Negli archi
del colonnato superiore si leggono i nomi delle seguenti regioni: Frisia, Bavaria,

358
L’altra Italia. La costruzione delle città in Mezzogiorno e in Sicilia

Che i luoghi del resto fossero solo la cornice di quel che ac-
cadeva e non qualcosa di intrinseco, di connesso ai comportamenti
umani lo testimonia fra gli altri Ugo Falcando quando scrive che la
nobiltà del Regnum — la cui psicologia e i cui quadri mentali erano
espressione di ambienti rurali e feudali — risiedeva abitualmente in
città, dove aveva beni, giardini e palazzi talvolta fortificati 46. Ed è  

assai eloquente sul piano simbolico, oltre che su quello politico, la


scelta di Federico II che, per attestare la preminenza dell’autorità
regia su qualsiasi altra, compresa quella delle città, nel 1229 faceva
colmare i fossati e abbattere le mura di Foggia, di Casale novum,
di San Severo e di Troia, dimostratesi sensibili alle sollecitazioni
antisveve di Gregorio IX 47. Imponeva cioè «un argine alle velleità
 

sovvertitrici delle città» 48 che, sul piano simbolico dei rapporti di


 

potere costituiva, per il sovrano, il brutale ricorso alle repressioni


esemplari, per i centri urbani forse il maggiore trauma che potesse
accader loro, l’onta che doveva essere sempre ricordata, e quando
possibile, vendicata 49.  

Austria, Turingia, Saxonia, Boemia, Olsatia, Scavia, Pomarania, Polonia, Mestfalia


[ma Westfalia], Brabancia. In quelli del colonnato inferiore: Tuscia, Lombardia,
Marcria, Burgudia [ma Burgundia], Liguria, Svevia, Francia, Lotharingia, Alsatia,
Belgia, Anglia, Flandia. Nell’interspazio fra il colonnato superiore e quello inferiore
il cancelliere Corrado riceve i tributi dei popoli, omaggio all’imperatore, mentre un
cavaliere tiene la spada sguainata levata verso l’alto.
46 Liber de regno Sicilie, a cura di G.B. Siragusa, Roma 1897 (Fonti per la
storia d’Italia, XXII), c. 9, p. 23 e c. 21, p. 69. Un fenomeno, quello di insediarsi in
città, già sottolineato da Amato di Montecassino, Storia dei normanni volgarizzata
in antico francese [Ystoire de li Normant], a cura di V. De Bartholomaeis, Roma
1935 (Fonti per la storia d’Italia, LXXVI), I, c. 42, p. 54, e II, c. 32, pp. 97-98, il qua-
le riferisce che il primo insediamento normanno si era concretizzato proprio in uno
spazio dove veniva costruita la città di Aversa. Guglielmo di Puglia, Gesta Roberti
Guiscardi, a cura di M. Mathieu Palermo 1961 (Istituto siciliano di Studi bizantini e
neoellenici, Testi, 4), I, vv. 316-17, p. 116, precisa d’altronde che a Melfi ognuno dei
12 capi normanni possedeva una strada e un palazzo: «pro numero comitum bis sex
statuere plateas / Atque domus comitum totidem fabricantur in urbe».
47 J.M. Martin, Pouvoir, geographie de l’habitat et topographie urbaine en
Pouille sous le règne de Frédéric II, «Archivio storico pugliese», 38 (1985), p. 78.
48 Una norma appunto che intendeva «ripristinare un ordine antico»: E.
Sestan, Il significato storico della «Constitutio in favorem principum» di Federico II,
in Atti del Convegno internazionale di Studi Federiciani (Palermo-Catania-Messina,
10-18 dicembre 1950), Palermo 1952, p. 478.
49 Al di là delle valenze metaforiche e al di là della vocazione pacifica che
Rabelais, come Erasmo (Adagia, III, 10.I), vedeva nel nesso fra uomo e sua nudità
«nel venire al mondo», significativo è quanto si legge in Gargantua e Pantagruele,

359
Salvatore Tramontana

Nel Regnum infatti la Corona, soprattutto in età sveva, tendeva


a limitare le autonomie cittadine e spesso a privare i centri urbani
della territorialità del diritto. E quindi anche del valore simbolico
che l’impianto della città, la sua articolazione, la sua struttura viaria
e architettonica potevano esprimere in termini di ordinamento poli-
tico e amministrativo, in termini appunto di autonomia o addirittura
di indipendenza, alla stregua cioè «di comuni», si legge in qualche
fonte. Il titolo 50 delle Constitutiones è abbastanza esplicito quan-
do detta che «nel nostro regno ufficiali, maestri giustizieri, camerari,
baiuli e giudici siano nominati dalla nostra maestà […] e qualunque
universitas ordinerà tali personaggi, patirà la perpetua desolazione e
tutti gli uomini di quella stessa città saranno per sempre considera-
ti sottoposti ad angaria. Stabiliamo invece che venga punito con la
pena capitale chi avrà assunto anche parzialmente una delle suddette
cariche» 50.
 

Queste le norme giuridiche, abbastanza esplicite durante il


regno di Federico II, che regolavano i rapporti fra città e monar-
chia. E si ha impressione, confortata dalle fonti scritte e da quelle
archeologiche, architettoniche e urbanistiche, che pure nelle strut-
ture materiali, nella dislocazione stessa dell’impianto urbano, nella
configurazione delle mura, nella collocazione delle porte, le città
avessero importanza, per la monarchia, in quanto utili strumento di
governo, di difesa militare, di prelievo fiscale. Preoccupazione fiscale
di Federico II, e sostanzialmente degli altri sovrani, rimaneva infatti
il dissidio di fondo, di solito velato, spesso aperto, talvolta esplosi-
vo, col papato col quale dialogavano spesso e tramavano le città 51.  

E in tal senso, nel senso cioè del significato materiale e simbolico

in cui, nel rappresentare grottescamente le mura che Panurge proponeva di fare


costruire, è ricordato quello che disse Agesilao a proposito della «gran città di
Lacedemone» che non era cinta di mura: «additando gli abitanti e cittadini del suo
paese, tutti così bene esercitati nell’arte militare, così forti e ben armati, “eccovi
— disse — le mura della città”, volendo dire che non c’è una muraglia vera se non
fatta d’ossi, e che città e piazzeforti non possono avere mai mura più salde e più dure
dei loro abitanti e cittadini»: M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare.
Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino 1979, pp.
342-44.
50 Huillard Breholles, Historia diplomatica, cit., IV/1, pp. 53-54.
51 Le fonti testimoniano del resto, a iniziare dall’età normanna, che — al di
là di ogni apparenza, e malgrado il tentativo di Gugliemo I di introdurre e rendere
operativa una burocrazia centralizzata — la monarchia non riuscì a impedire, nean-
che nelle città, il consolidarsi dei ceti feudali. I quali, grazie soprattutto alla continua

360
L’altra Italia. La costruzione delle città in Mezzogiorno e in Sicilia

che avevano le cinte murarie e le loro porte, l’architettura e l’inge-


gneria venivano incaricate di offrire strumenti necessari a fissare i
modelli e le tecniche della loro costruzione, gli aggregati necessari al
consolidamento dei nessi economici, sociali e soprattutto politici col
territorio, il vocabolario visivo e rappresentativo del loro impianto e
del loro significato.
Si consideri per esempio Capua, le cui vicende vanno oltre i
confini strettamente urbani e sono emblematiche del significato del-
le città del Sud e del loro nesso con la Corona. Dopo la ricostruzione
dell’841 in un sito ritenuto più sicuro anche in termini geologici,
e dopo varie vicissitudini che ne ricostituivano l’impianto urbano
«chiuso intorno a strade strettissime, con rare piazze, con frequenti
spazi tenuti a orto o a giardino», Capua, nel secolo XII, aveva già,
come rappresentato da tre miniature di Pietro da Eboli 52, e come te-  

stimoniato da Alessandro di Telese, l’identità di una urbs metropolis,


«situata in un ampio spazio, molto ben fortificato, con mura di cinta
tutt’intorno e torri» 53. Di una città molto grande attraversata dal fiu-
 

me Volturno e sostanzialmente costretta, come Napoli, «a piegarsi


al suo solo cenno, senza combattere», a Ruggero II 54. Cioè costretta
 

a rinunciare a quella autonomia la cui perdita marcherà la differen-

presenza di loro componenti maschili e femminili negli ordinamenti ecclesiastici,


riuscivano a controllare i gangli vitali della dinamica cittadina, e a tenere stretti
rapporti con la Chiesa di Roma. Valga per tutti l’esempio di Napoli le cui vicende
e le cui dinamiche sociali sono testimoniate da una lunga tradizione storiografica:
B. Capasso, Sulla circoscrizione civile ed ecclesiastica e sulla popolazione della città di
Napoli dalla fine del secolo XIII fino al 1809, «Atti dell’Accademia pontaniana», XV
(1883), pp. 99-225; M. Schipa, Contese sociali napoletane nel medioevo, «Archivio
storico per le Provincie napoletane», XXXI (1906), pp. 411-12; M. Fuiano,
Napoli nel medioevo: secoli XI-XIII, Napoli 1972, pp. 86-96 e 117-20; E. Cuozzo,
L’unificazione normanna e il regno normanno-svevo, in Storia del Mezzogiorno, diret-
ta da G. Galasso, II/2, Portici 1989, pp. 660-67
52 Pietro da Eboli, De rebus siculis carmen, cit., tav. XIV, p. 54, nella cui parte
inferiore, che raffigura l’arcivescovo di Capua che va incontro a Enrico VI, si vede
uno scorcio della città; tav. XXVIII, p. 112, dalla quale emergono alcune strutture
fortilizie della città con sullo sfondo un paesaggio ricco di vegetazione; tav. XXIX,
p. 116, nella quale è raffigurato lo scontro armato fra l’esercito di Tancredi e quello
di Enrico VI fuori le mura cittadine con merlature alternate a intervalli per lo più di
pari ampiezza, e con torri di diversa struttura da una delle quali un soldato imperiale
si lancia, con la spada sguainata, su Riccardo di Acerra, cognato di Tancredi, che a
cavallo attraversava il campo.
53 Ystoria Rogerii regis, Calabriae atque Apuliae, a cura di L. De Nava - D.
Clementi, Roma 1991 (Fonti per la storia d’Italia, CXII), II, c. 66, pp. 55 e 135.
54 Ivi, II, c. 67, p. 56 e 136.

361
Salvatore Tramontana

za fra città del Sud e città del Centro-nord, e che è testimoniata da


numerose fonti, e per Capua anche dalla famosa porta biturrita fatta
costruire da Federico II nel 1234 — ultimata nel 1240 — a cavaliere
del ponte sul Volturno, all’ingresso della città 55.  

Una porta purtroppo demolita nel 1557 per consentire l’impiego


delle armi da fuoco, e che, al di là della sua struttura architettonica che
modificava notevolmente le singole valenze dell’impianto urbano, e
al di là delle raffinate sculture corredate da «un complesso sistema di
scrittura e di titoli» che ne ornavano la tessitura della facciata 56, più  

che rappresentare la città, incarnavano il potere regio, anzi imperiale


di Federico II. Il quale proprio a Capua, dove il castrum lapidum
era a ridosso della cinta muraria, faceva costruire, con la direzione
dei lavori di Nicolò da Cicala, la «porta delle due torri», detta ap-
punto federiciana o di Capua. Una porta di notevole rilievo edilizio
e architettonico, collocata non in Sicilia o in Capitanata, ma sulla
convergenza delle strade provenienti da Roma, al confine col terri-
torio pontificio, per svolgere la funzione pratica di guardiana della
monarchia e per rappresentare la contrapposizione laica del regnum
Caesaris alla Chiesa di Roma 57. L’immagine dello stesso Federico II,
 

«seduto e con i simboli del suo dominio […] e, con le braccia tese
[…], il volto tumido d’ira […] e i veresetti di minacce […] scolpi-
ti sulla facciata della porta veniva del resto considerata, da Andrea
Ungaro, già cappellano dei re d’Ungheria Bela e Stefano e cronista
che nel 1266 era al seguito di Carlo I d’Angiò, come emblema di

55 F. Bologna, «Caesaris imperii regni custodia fio». La porta di Capua e la


«interpretatio imperialis» del classicismo, in Nel segno di Federico II. Unità politica
e pluralità culturale del Mezzogiorno, Atti del IV Convegno internazionale di stu-
di della Fondazione Napoli novantanove (Napoli, 30 settembre-1 ottobre 1988),
Napoli 1989, pp. 159-89.
56 Ivi, p. 161; M. D’Onofrio, Capua, in Itinerari e centri urbani, cit., pp.
286-89.
57 F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli (1266-1414) e un riesame
dell’arte nell’età federiciana, Roma 1969, pp. 29-31. Ho detto confine, fra il Regnum
e il territorio pontificio, ma avrei forse dovuto dire frontiera perché, secondo i geo-
grafi — e si veda Frontiere, a cura di A. Calabrò, Roma 2005 — frontiere starebbe a
indicare «una linea, o una zona, in cui due contendenti vengono a contatto» e si di-
sputano lo spazio attiguo, mentre confine segnerebbe un limite dove, diceva Michel
Foucault, il tempo, sotto forma di storia, si incontra o si scontra con lo spazio. Le
frontiere infatti sono sempre meno geografiche, e attraversano, mentre il confine
delimita lo spazio non solo in termini geografici e politici, ma etici. E sarebbe questo
il limite difficile da attraversare, il limite che segna la diversità, intralcia lo scambio
e impedisce di comunicare.

362
L’altra Italia. La costruzione delle città in Mezzogiorno e in Sicilia

difesa collocato ai confini del Regno per rendere visibile il grande sì


all’assimilazione con l’Impero e «per provocare timore non meno a
tutti coloro che entrano, che a quelli per i quali furono dettati» 58.  

Non è d’altronde privo di significato che in quasi tutte le cit-


tà del Mezzogiorno peninsulare e della Sicilia fossero presenti, e
sempre più curati, restaurati, riadattati i palazzi e i castelli in cui ri-
siedevano i rappresentanti del potere centrale e gli edifici pubblici
a fini economici e soprattutto fiscali direttamente controllati dalla
monarchia, come il mattatoio, la tintoria, la duana, il fundicum 59,  

ma quasi del tutto assenti o trascurati — se si eccettua il pretorium


di Messina 60 e la sua curia juratorum 61, l’amalfitanum palatium 62, la
     

logia magna civitatis Catanie che era la sede dei giurati cittadini 63 e  

più tardi i «sedili napoletani» 64 — i palazzi pubblici riservati alle


 

funzioni amministrative del potere locale e al controllo del territorio,


sia per garantire un ordinato sviluppo degli impianti urbani che per

58 Descriptio victoriae a Karolo Provinciae comite reportatae, in Ex rerum


Francogallicarum scriptoribus, a cura di G. Waitz, Hannover 1882 (Monumenta
Germaniae Historica, Scriptores (in Folio), XXVI), p. 571. Si veda comunque O.
Morisani, Considerazioni sulla cultura di Capua, «Bollettino di storia dell’arte del-
l’Istituto universitario di Magistero di Salerno», II (1952), p. 3, e, ovviamente, E.
Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, Paris 1903, II, p. 708.
59 J.M. Martin, Le città demaniali, in Federico II e le città italiane, a cura di P.
Toubert - A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994, III, p. 193.
60 Huillard Breholles, Historia diplomatica, cit., VI/2, pp. 784-85; Il
Tabulario di S. Maria di Malfinò: 1093-1302, a cura di D. Ciccarelli, Messina 1986
(Biblioteca dell’Archivio storico messinese, VI), doc. 3 (gennaio 1214), pp. 8-10,
redatto «per manus Salomonis regie et puplici Messane notarii, residente stratigoto
in regio pretorio Messane».
61 C. Giardina, Capitoli e privilegi di Messina, Palermo 1937, doc. 45, pp.
130-32, ma per epoca più tarda.
62 Il codice Perris. Cartulario Amalfitano: secoli X-XV, a cura di J. Mazzoleni -
R. Orefice, Napoli 1985-86, II, p. 202.
63 Michele Da Piazza, Historia sicula, in R. Gregorio, Bibliotheca Scriptorum
qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere, Palermo 1791-92, I, c. 52, pp.
614-15, dalla quale emerge chiaramente che trattasi del palazzo pubblico del potere
locale, diverso dal castrum in cui risiedeva il rappresentante del potere centrale. Ma
per la valenza del potere cittadino a Catania, in un momento di particolare debolez-
za della monarchia alla quale accenna appunto il cronista, si veda S. Tramontana,
Michele da Piazza e il potere baronale in Sicilia, Messina-Firenze 1963. pp. 305-306.
64 Che era l’organo cittadino costituito dai rappresentanti dei vari rioni che
si riunivano in un edificio quadrangolare con portico coperto e con cancelli: C. De
Seta, Storia della città di Napoli dalle origini al Settecento, Roma-Bari 1973, pp.
77-80 e G. Vitolo, Dinamiche politico-sociali nella Napoli angioina, in Città e vita
cittadina, cit., pp. 558-59.

363
Salvatore Tramontana

preservare il suolo pubblico da abusi e indebite appropriazioni.


In tal senso, nel senso cioè di un ordinamento politico-istitu-
zionale e di un piano urbanistico-architettonico che costringevano i
rappresentanti delle città a tenere le proprie riunioni ante castellum
come a Molfetta 65; sub capella Venusini monasterii come ad Ascoli
 

Satriano 66, in cimitero ecclesie Sancti Jacobi come a Barletta 67, nella
   

chiesa di San Paolo Maggiore come a Napoli 68, nella chiesa di Santa
 

Maria La Nuova come a Messina 69, o in quella di San Giacomo della


 

Marina come a Palermo 70, credo sia assai importante sottolineare


 

anche la mentalità che ne stava alla base. Da cogliere non tanto in


vari autori che, come Ugo Falcando nella Lettera a un tesoriere di
Palermo, dimostravano particolare interesse per un paesaggio urba-
no dominato da strutture edilizie che erano a un tempo strumenti di
difesa ed emblemi di potenza della monarchia 71, ma in quegli autori
 

che, forse inconsapevolmente, esprimevano un’istintiva e mal celata


diffidenza verso le città.
Basti ricordare il disgusto e la sorpresa di un cronista come

65 Codice diplomatico barese, VII, Le carte di Molfetta (1076-1309), a cura di F.


Carabellese, Bari 1912, p. 87, in cui appunto si fa riferimento alla riunione del 1220
convocata da Ruggero di Conversano.
66 Codice diplomatico pugliese, XX, Le pergamene di Conversano (901-1265),
a cura di G. Coniglio, Bari 1975, p. 153.
67 Codice diplomatico barese, VIII, Le pergamene di Barletta. Archivio capito-
lare (897-1285), a cura di F. Nitti, Bari 1914, p. 183.
68 Huillard Breholles, Historia diplomatica, cit., VI/1, pp. 41-43.
69 Ramon Muntaner, Cronaca, in Cronache catalane del secolo XIII e XIV, a
cura di F. Moisé, con introduzione di L. Sciascia, Palermo 1984, c. 163, p. 213.
70 M. De Vio, Felicis et fidelissimae urbis Panormitanae aliquot ad civitatis
decus et commodum spectantia privilegia, Palermo 1706, p. 110. Si ha comunque
l’impressione che, in linea di massima, bisognasse arrivare al secolo XV perché,
come a Lecce, «il castello diventasse, in modo stabile, sede dell’autorità locale»: B.
Vetere, «Civitas» e «urbs». Dalla rifondazione normanna al primato del Quattrocento,
in Storia di Lecce dai bizantini agli aragonesi, a cura di B. Vetere, Roma-Bari 1993,
pp. 169-70.
71 Epistola ad Petrum panormitanae ecclesiae thesaurarium de calamitate
Siciliae, a cura di G.B. Siragusa, Roma 1987 (Fonti per la storia d’Italia, XXII),
p. 174. Dalla confluenza di cultura figurativa e valori spaziali prende infatti corpo,
nel cronista, il modo tutto personale di evidenziare il contrasto tra le forme volu-
metriche concretamente raffigurate «dai castelli marittimi, dalle fortificazioni dei
monti (p. 173), e dal giro delle mura delle città guarnite da spesse torri e frequenti
bastioni» (pp. 174-75), e i valori spaziali del paesaggio agrario. Si veda comunque
S. Tramontana, Lettera a un tesoriere di Palermo sulla conquista sveva di Sicilia,
Palermo 1988, passim.

364
L’altra Italia. La costruzione delle città in Mezzogiorno e in Sicilia

Goffredo Malaterra per gli strani comportamenti dei pisani che si


dedicavano più «commercialibus lucris» che alla guerra 72; il fastidio  

di Gugliemo di Puglia per i mercimonia dei veneziani che trascorro-


no la loro vita nell’acqua, grandeggiano nell’arte del navigare e sono
scarsamente coinvolti dall’agricoltura 73; la sorpresa di Beniamino da
 

Tudela di fronte agli amalfitani che «non seminano e non mietono


perché preferivano commerciare» 74; il disinteresse di Michele Scoto
 

per le città 75; il brutale realismo di Amato di Montecassino il quale


 

scriveva che i normanni costituivano le loro sedi in modo da tenere


sotto controllo «la male volonté de cil de la cité» 76, e soprattutto il
 

modo di pensare di un sovrano come Federico IV che, angosciato


per quel che, a causa dello strapotere dei baroni, accadeva nel suo
regno, confidava al conte Francesco Ventimiglia di essere costret-
to a vivere «comu in terra di comuni» 77. Cioè con quel disordine e
 

quelle sopraffazioni che, nei suoi quadri mentali, non potevano non

72 De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi fra-


tris eius, a cura di E. Pontieri, Bologna 1927 (Rerum Italicarum Scriptores2, V),
II, c. 34, p. 45. Significative, d’altronde, della diversificazione di mentalità le scelte
dei pisani di ritenersi «re in Sardegna / ed in Pisa cittadini». Di adottare cioè, nei
possessi d’oltremare, comportamenti diversi da quelli che, sul piano economico,
sociale e politico caratterizzavano il loro sistema di convivenza: E. Cristiani, Nobiltà
e popolo nel comune di Pisa dalle origini del podestariato alla signoria dei Donoratico,
Napoli 1962, pp. 47-57 e C. Vivanti, La storia politica e sociale dall’avvento delle
signorie all’Italia spagnola, in Storia d’Italia, 2/1, a cura di C. Vivanti - R. Romano,
Torino 1974, p. 299.
73 Guglielmo di Puglia, Gesta Roberti Guiscardi, cit., IV, vv. 284-85, p. 220.
G. La Farina, che fu lettore attento e assai preciso delle fonti, nel ricostruire, nel suo
Studi storici nove sul secolo decimoterzo. Parte storica: volume unico, Bastia 1857, p.
539, nota 1, “L’immagine di Venezia nel medioevo”, fra le varie testimonianze cita
anche Innocenzo III, il quale scriveva che la città «non agriculturis inservit, sed
navigiis potius et mercimoniis est intenta».
74 N.N. Adler, Itinerary of Beniamin of Tudela, London 1907, p. 10.
75 F. Porsia, Scienza finalizzata nel Mezzogiorno d’Italia nel periodo normanno-
svevo, in Città e vita cittadina, cit., p. 739, in cui si precisa che Scoto era rinchiuso
«nella riservatezza del suo mondo castellare e pastorale naturalistico, e che solo
nel 1260, dopo la prima traduzione latina della Politica di Aristotele a cura del do-
menicano fiammingo Gugliemo di Moerbeke, si incominciò a «porre, su basi più
scientifiche e meno personalistiche, il rapporto tra risorse e carico demografico».
76 Storia dei normanni volgarizzata in antico francese [Ystoire de li Normant],
cit., VI, c. 14, p. 276.
77 Il documento, datato Catania, 18 ottobre 1363, si conserva nell’Archivio
di Stato di Palermo, Real cancelleria, reg. 7, f. 312v, ed è trascritto da R. Gregorio,
Considerazioni sulla storia di Sicilia, in Id., Opere, Palermo 1847, pp. 371-75, in
nota.

365
Salvatore Tramontana

essere legati al particolare tipo di ordinamento politico delle città


comunali.
Anche se, almeno per non dare l’impressione di essere, io, un
meridionale troppo ossequiente alle libertà cittadine, credo sia op-
portuno ricordare che Guicciardini riconduceva la mancata unità
nazionale d’Italia alla presenza — positiva precisava — di «tante cit-
tà floride, che non arebbe avuto sotto una republica» 78. Non sono  

del resto mancati, e non mancano, autori che, come Vicens Vives 79  

o William Bouwsma nel volume History and theory 80, hanno legato  

l’angoscia, e lo stato di inquietudine del mondo odierno, alle insi-


die della vita urbana che la tradizione che si ricollega alla Bibbia ha
sempre considerato regno del male 81. Autori che hanno sottolineato
 

che, se nei secoli XI-XIV, l’avvenire sembrava aperto ai centri ur-


bani dell’Italia centro-settentrionale, non si può non prendere atto
che l’Europa moderna «non si è fatta con le città, ma con gli Stati»,
cioè con le concentrazioni territoriali che prendevano corpo là dove
meno accentuato era stato l’ostacolo urbano 82.  

78 F. Guicciardini, Considerazioni intorno ai “Discorsi” del Machiavelli so-


pra la prima deca di Tito Livio, in Opere inedite di F. Guicciardini, illustrate da G.
Canestrini, Firenze 1857, I, p. 28.
79 J. Vicens Vives, Estructura administrativa estatal en los siglos XVI y XVII,
in XI Congrès International des Sciences Historiques. Rapports, IV, Histoire moderne,
Göteberg-Stockholm-Uppsala 1960, pp. 1-24.
80 London 1965, p. 308.
81 Ma anche il disprezzo — e pure la meraviglia — per l’arroganza delle
città nei riguardi delle tradizioni e del potere imperiale: significativa, a metà del
secolo XII, l’indignazione di Ottone di Frisinga per quel che vedeva nei comu-
ni di Lombardia, dove mercanti e artigiani godevano di grande considerazione:
Gesta Friderici I imperatoris, Hannover 1978 (Monumenta Germaniae Historica,
Scriptores rerum germanicarum in usum scholarum separatim editi, [XLVI]), II, c.
13, p. 116.
82 F. Braudel, L’Italia fuori d’Italia. Due secoli e tre Italie, in Storia d’Italia,
2/2, a cura di C. Vivanti - R. Romano, Torino 1974, cit., pp. 2112-16; J. Le Goff, La
civiltà dell’Occidente medievale, Firenze 1969, pp. 134-35. Del resto già H. Pirenne,
Le città del medioevo, Bari 1971, aveva precisato che la «naturale tendenza portava
le città a trasformarsi in repubbliche municipali», e dove «ne ebbero la forza», cioè
«in Italia, fin dal XII secolo, e più tardi in Germania». A tal proposito credo non sia
inutile leggere il volume di Z. Bauman, La società sotto assedio, Roma 2002, in cui, di
fronte al pericolo di una globalizzazione tesa a indebolire i compiti dello Stato, dice
«che la sostanziale identità tra Stato e nazione è stato il fulcro di ogni articolazione
di interessi collettivi, di progetti di cambiamenti, di riforme, ma anche delle nostre
vite individuali».

366
Lunedì 14 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Giovanni Cherubini

Carmela M. Rugolo
L’altra Italia: Bari

È ormai qualche decennio che Antonio Ivan Pini, proprio al-


l’inizio di una sua ben nota ricerca su Città, comuni e corporazioni nel
Medioevo italiano 1, sottolineava la difficoltà, anzi il disorientamento
 

che sorprende chiunque voglia racchiudere in una definizione onni-


comprensiva il concetto di città. Difficoltà a tal punto smisurate da
avere indotto lo studioso ad affermare che si tratta di un concetto
«praticamente indefinibile, se non con una proposizione tautologi-
ca, tipo “la città è la città, così come la vita è la vita”» 2. La scelta di
 

dedicare alla città comunale i lavori di queste giornate, sia pure nelle
innumerevoli sfaccettature sulle quali si è venuto via via discutendo,
è già dunque di per sé significativa. E lo è ancor più se si considera la
mole davvero imponente di analisi, digressioni, ricostruzioni, indagi-
ni, precisazioni che nel corso degli ultimi anni sono state dedicate al
tema in questione e che, proponendosi, ampliandosi, stratificandosi,
servendosi peraltro di metodologie e tecniche oltremodo raffinate,
hanno costruito un sistema concettuale tanto complesso da avere
reso desueto lo schema in gran parte tuttora utilizzato, risultato dalle
non sempre pacifiche, anzi talvolta sofferte riflessioni emerse dal di-

1 Bologna 1989.
2 Ivi, p. 13.

367
Carmela M. Rugolo

battito storiografico avviatosi almeno dalla seconda metà del secolo


scorso. Insomma, oggi in quest’ambito non basta più parlare di in-
terdisciplinarità o di multidisciplinarità, ma di metadisciplinarità o
di transdisciplinarità, come di recente è stato sottolineato 3.  

Scelta coraggiosa dunque quella effettuata, al cui interno, e in


modo certo non casuale, è stata riservata una sezione alle città del-
l’altra Italia, con ciò volendo senza dubbio non approfondire il solco
che un certo modello interpretativo, radicato nella visione di stampo
ottocentesca delle ‘due Italie’, ha finito inevitabilmente col rende-
re operante. E tuttavia, di fatto, si è come evocata una certa aria di
separatezza, di dualità, si è data consistenza ad un divario che è cer-
tamente nei fatti, ma del quale le più recenti indagini propongono
ormai soluzioni articolate di superamento 4. Volendo parafrasare la
 

felice espressione di Ivan Pini, si può dire che “la città meridiona-
le è la città meridionale”, con il suo carico di specificità che Mario
del Treppo ha rivendicato fin dagli anni Settanta dello scorso secolo,
quando appunto attribuiva alla persistenza di un mito storiografico
che affondava nella «trasfigurazione illuministica e risorgimentale del
regno normanno-svevo» la decisione di dedicare un’unica relazione
ai problemi del Mezzogiorno nel contesto di uno degli ultimi conve-
gni organizzati dall’allora Associazione dei Medievalisti Italiani 5.  

Con ciò si vuole soltanto mettere in evidenza la difficoltà di


delineare, nel tempo a disposizione, i tratti salienti che hanno ca-
ratterizzato la vita di Bari, città scelta — e non a caso — come
esemplificativa di una realtà territoriale diversa; tratti innumerevo-
li alla stessa stregua di ogni altra qualsiasi città in un periodo lungo
quale quello considerato e che per altri luoghi sono stati singolar-
mente oggetto del vivace dibattito di questi giorni. Il percorso lungo
il quale ci si sta avviando è frutto di una dura selezione, della neces-
sità di privilegiare taluni connotati piuttosto che altri, di effettuare

3 R. Bordone, Nuove prospettive di ricerca sulla storia urbana medieva-


le, in Città e vita cittadina nei paesi dell’area mediterranea. Secoli XI-XV, Atti del
Convegno Internazionale in onore di Salvatore Tramontana (Adrano - Bronte -
Catania - Palermo, 18-22 nov. 2003), Roma 2006, p. 78.
4 Cfr. per esempio G. Piccinni, Regimi signorili e conduzione delle terre nel
Mezzogiorno continentale, in I caratteri originari della conquista normanna. Diversità
e identità nel Mezzogiorno (1030-1130), Atti delle sedicesime giornate norman-
no-sveve (Bari 5-8 ott. 2004), a cura di R. Licinio - F. Violante, Bari 2006, pp.
181-215.
5 Medioevo e Mezzogiorno, «Nord e Sud», XXIV (1977), p. 73.

368
L’altra Italia: Bari

opzioni che corrispondono talvolta più ad una visione personale,


forse anche un po’ ideologica, che non all’effettivo grado di impor-
tanza che le tipologie assunte a modello hanno avuto nel momento
in cui sono state fissate.

«Città ragguardevole per estensione e popolazione, situata in


fondo ad un golfo. Essa è la capitale del territorio dei Longobardi
ed una delle celebri metropoli dei Rum» 6: queste le parole con
 

cui Edrisi descriveva Bari nel commentario al grande planisfero di


argento del peso di 500 libbre costruito in onore, e anche con la col-
laborazione del suo sovrano; parole lusinghiere, ma, come è noto, il
famoso geografo e cartografo musulmano era propenso a guardare i
luoghi con occhio disincantato e benevolo, cogliendone le suggestio-
ni oltre che i tratti compiuti e, soprattutto, utilizzando un linguaggio
che, secondo Umberto Rizzitano, «affondava le radici nei più estrosi
virtuosismi della retorica araba» 7. E tuttavia, val la pena di verificare
 

in che misura l’immagine cui le parole di Edrisi conferiscono spesso-


re materiale corrisponda alla effettiva fisionomia della città allorché
essa è stata colta e accertarne la veridicità in base alle notizie che al-
tre fonti coeve hanno tramandato.
Quanto al tempo, il riferimento è alla seconda metà del secolo
XII, momento in cui si era già consolidata la nuova impalcatura po-
litico-istituzionale che la conquista e l’insediamento dei Normanni
nel Meridione d’Italia avevano introdotto. Sulle questioni che tali vi-
cende hanno significato per la storia del Mezzogiorno e della Sicilia,
e che sono emerse con incontestabile evidenza dalle considerazioni

6 Idrisi, Il libro di re Ruggero, a cura di U. Rizzitano, Palermo s. d., p. 113.


Una suggestiva chiave di lettura del ‘Libro’, «proiezione vivida, anche se schema-
tica, cartografica, del Mezzogiorno d’Italia del XII secolo, certo da decifrare, ma
talvolta anche da godere», tesa a cogliere il grado di attendibilità della rappresenta-
zione edrisiana, ha dimostrato come l’uomo di Ceuta avesse chiara consapevolezza
delle reti e dei fenomeni insediativi in genere, della forza dell’amministrazione e del
dominio sul territorio, dell’importanza degli scambi e delle relazioni economiche,
«insomma un buon geografo, con una percezione piuttosto chiara della civiltà urba-
na»: F. Porsia, I segni sul territorio. Città e fortificazioni, in I caratteri originari, cit.,
pp. 238, 240sgg.
7 Idrisi, Il libro di re Ruggero, cit., p. 12. Ma non si dimentichi che, già secon-
do Guillaume de Pouille, La geste de Robert Guiscard, a cura e traduzione di M.
Mathieu, Palermo 1961 (Istituto Siciliano di studi bizantini e neoellenici, Testi 4), l.
II, vv. 480-481, p. 158, «appula nulla erat urbs, quam non opulentia Bari».

369
Carmela M. Rugolo

del prof. Tramontana, è inutile ritornare se non per sottolineare il ra-


dicale e robusto lavorio storiografico da cui sono emersi di recente
nuovi modelli di comparazione e più consone categorie di analisi 8.  

Valga per tutti, trattandosi del regnum considerato per antonoma-


sia esempio di monarchia feudale, ma nello stesso tempo modello
anticipatore di unità territoriale e, non ultimo, prototipo delle na-
scenti monarchie nazionali europee, il riferimento alla necessità di
ridefinire il concetto stesso di feudalesimo, allargandolo a quello di
‘feudalesimo mediterraneo’ — fortunata espressione usata da Pierre
Toubert come titolo della sua tesi di dottorato 9 — con ciò volen-
 

do indicare «un sistema socio-istituzionale dotato di uno sviluppo


peculiare per quanto riguarda non solo le forme, ma anche i tempi
dell’evoluzione» 10.  

Bene, secondo Edrisi Bari era ai suoi tempi una città grande
e densamente popolata, collocata in una insenatura della costie-
ra adriatica. Le estremità di tale insenatura, la stessa che racchiude
oggi il porto nuovo, tra i meglio organizzati e più trafficati porti ita-
liani, sono costituite da due brevi penisole: in alto era quella detta
di S. Cataldo, sede adesso delle strutture della Fiera Mediterranea,
ma allora disabitata. Sull’istmo inferiore, quello che accoglie l’attua-
le ‘città vecchia’, sono stati rinvenuti segni di popolamento a partire
dal XII secolo a.C. 11. Sembra che tale sporgenza della costa, ormai
 

piatta e con una bassa elevazione sul livello del mare, fosse in età
preistorica un promontorio roccioso, separato dalla terraferma da
un terreno alluvionale, una sorta di acropoli naturale che si prestava
facilmente all’approdo e ad una agevole difesa 12. L’insediamento in
 

8 Una puntuale segnalazione bibliografica dello straordinario lavoro condotto


negli ultimi decenni sugli argomenti in questione necessiterebbe di una lunghis-
sima, quanto superflua, elencazione. Ai testi citati nel corso di questa indagine si
vogliono solo aggiungere gli Atti pubblicati dal Centro di Studi normanno-svevi di
Bari a seguito di ben diciassette Giornate, che raccolgono senz’altro le novità più
significative.
9 Ora in Les structures du Latium médiéval et la Sabine du IX e siècle à la fin du
 

XIIe siècle, Roma 1973 (ed. it. Jaca Book, Milano 1980).
10 L. Provero, Feudalesimi a confronto. A proposito di due volumi recenti,
«Storica», VIII (2002), 23, p. 94.
11 M. Petrignani - F. Porsia, Bari, Bari 1982 (Le città nella storia d’Italia),
p. 6.
12 G. Musca, Sviluppo urbano e vicende politiche in Puglia. Il caso di Bari me-
dievale, in La Puglia tra Medioevo ed età moderna. Città e campagna, Milano 1981,
p. 15.

370
L’altra Italia: Bari

situ e le vicende stesse della città risalgono dunque ad un passato ul-


tramillenario che sopravvive nella molteplice e fantasiosa varietà di
miti fondanti presenti ancora nella memoria collettiva.
Edrisi però non solo definiva Bari una grande città, ne parla-
va come di una metropoli e di una capitale. Fatto significativo se si
considera che nella vasta opera edrisiana tali appellativi sono riferiti
soltanto ad un’altra città, questa sì davvero notevole per dimensioni
e intensità di vita economica e culturale: si trattava di Cordova, detta
appunto «capitale e metropoli di Spagna», splendida per le sue ric-
chezze e per la sua architettura, sede di dottrina e di sapere e i cui
abitanti eccellevano in doti intellettuali e in saggezza 13. Non si vuole
 

certo stabilire un confronto del tutto improponibile tra due ordini di


grandezza abissalmente diversi. Invece si vuole sottolineare la con-
siderazione riservata a questo centro della costa pugliese da parte di
uno scienziato tutt’altro che privo di esperienza e di erudizione, rite-
nuto anzi tra i più grandi del tempo 14. E si vuole anche capire quali
 

elementi possono averlo indotto a esprimere su questa città un giu-


dizio così elevato.
Una prima riflessione va fatta circa il legame instaurato tra due
momenti diversi, seppure consequenziali, della storia della città,
vale a dire tra il breve periodo del dominio dei longobardi bene-
ventani, rientrati a Bari nell’871 a seguito della riconquista da parte
dell’imperatore Ludovico II che cancellò definitivamente la vicenda
trentennale dell’emirato arabo 15, e la fase ben più lunga e duratura
 

del potere costantinopolitano. Benché di breve durata, la presenza


dei longobardi ha lasciato tracce indelebili nella facies urbana 16 e nel  

13 Géographie d’Édrisi, traduite de l’arabe en français, a cura di A. Jaubert,


Paris 1836, t. II, pp. 57-58.
14 U. Rizzitano, Prefazione, cit., passim.
15 Si tratta di avvenimenti ormai abbastanza noti, largamente esplorati nelle
numerose indagini sulla storia della città, di molte delle quali si dà conto nei rin-
vii bibliografici di questo lavoro. Rimane sempre attuale tuttavia la ricostruzione di
G. Musca, L’emirato di Bari. 847-871, Bari 1978, pp. 91sgg., in cui, alla luce di una
puntuale lettura delle fonti e di una ampia analisi della bibliografia, l’autore riper-
corre non solo le tappe del lungo processo di riconquista della città, ma mette anche
in luce la complessità del panorama politico del tempo, nel quale agli interessi del-
l’imperatore franco si mescolavano i progetti perseguiti da Basilio I il Macedone e
dal papa di Roma.
16 Come per esempio nella strutturazione dell’edilizia ‘a corti’, cioè nella di-
slocazione degli edifici intorno ad una corte comune, dalla quale si aveva accesso da

371
Carmela M. Rugolo

comune patrimonio di tradizioni dei suoi abitanti. Vi fu insediato un


gastaldo e divenne dunque centro amministrativo, come dimostra il
lacerto superstite di una antica struttura identificata con una laubia,
cioè un loggiato con sala superiore, elemento tipico delle sedi di po-
tere longobardo, rinvenuta durante i lavori di restauro del ‘Portico
dei Pellegrini’ antistante la basilica nicolaiana 17. Ma Bari era già en-
 

trata da almeno due secoli «nell’orbita del potere e della mentalità


terriera delle genti longobarde, accogliendone il diritto che rimar-
rà radicato per così lungo tempo nella consuetudine e nei costumi»
cittadini 18.
 

Nessuno stupore dunque se Edrisi considerava la città territorial-


mente e politicamente eminente, attribuendole una denominazione,
cioè quella di capitale, che diverrà pregnante di lì a poco, allorché,
passata ai Bizantini, vide crescere in modo esponenziale il ruolo che
negli ultimi decenni era venuto progressivamente incrementandosi,
sia pure in maniera non lineare. Ecco dunque avviarsi per Bari quel
lungo periodo che è stato indicato come la fase «del massimo splen-
dore per la città medievale» 19, le cui tracce dovevano essere ancora
 

leggibili a distanza di almeno due secoli se un intellettuale musul-


mano, organico alla corte normanna, ne dava conto in quella che,
a ragione, è stata considerata una vera e propria opera di geografia
scientifica e non più soltanto descrittiva come era nella tradizione
della cultura araba e orientale.
E in verità non si capirebbe l’evolversi delle vicende successi-
ve o, per meglio dire, non si coglierebbero i vari stadi di formazione
delle strutture urbane e architettoniche e soprattutto di quelle col-
lettive e identitarie, in breve del farsi città, se non si desse il giusto
peso a taluni indizi che dimostrano il lento, talvolta contrastato, ma
in definitiva inarrestabile processo di trasformazione attraverso il
quale Bari assunse la fisionomia di una città indiscutibilmente bi-

una parte alle abitazioni, dall’altra alla via pubblica. Si trattava, come è stato sottoli-
neato — M. Cagiano de Azevedo, Problemi archeologici di Longobardi in Puglia, in
Puglia paleocristiana, sezione Apuliae res, II, Galatina 1974, p. 11 — «di un sistema
urbanistico a cellule, che consentiva una difesa isolata per ogni nucleo e che organiz-
zava la città in una serie di unità fortificate». Ma su tutto ciò cfr. M. Petrignani - F.
 

Porsia, Bari, cit., p. 13.


17 Ivi, p. 14.
18 Ibidem, p. 13. Cfr. anche G. Musca, Sviluppo urbano, cit., p. 26.
19 Ivi, p. 16.

372
L’altra Italia: Bari

zantina. Residenza dell’autorità civile e militare, capitale del tema di


Longobardia e in seguito del Catepanato d’Italia, dimora di una clas-
se dirigente immigrata, sede di rappresentanza del potere centrale,
ad essa può senz’altro essere riconosciuta quella funzione di ‘metro-
poli dei Rum’ che Edrisi le aveva assegnato.

Nell’anno 1071 «Bari a Northmannis capta est»: così secca-


mente negli Annales barenses 20 è registrata la notizia dell’evento che
 

avrebbe cambiato il destino della città e avrebbe impresso una svol-


ta radicale certo alla storia della regione, forse a quella dell’intero
Mezzogiorno 21. L’avvenimento per i modi e i tempi in cui si con-
 

cretizzò ebbe una eco grandissima nei contemporanei: non ci sono


annali o cronache che non riferiscano, talvolta in forma non del tutto
attendibile, le fasi del lungo assedio che portò alla conquista della cit-
tà. Le prime azioni messe in atto dal Guiscardo per impossessarsi del
centro più opulento, più vivace, più popoloso della Puglia risalgono
all’agosto del 1068, quando, saltati gli accordi giurati solennemen-
te con la popolazione nel tentativo di risolvere in modo concordato
una vicenda che anche ai più convinti oppositori sembrava ormai
senza via di uscita 22, il duca dava il via ad un poderoso programma
 

di armamento che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto consentire


una rapida conclusione. Ordinò la costruzione di fortificazioni (cha-
stelz, come precisa Amato di Montecassino 23), fece urbem vallare,
 

20 Annales barenses, a cura di G.H. Pertz, Hannover 1844 (Monumenta


Germaniae Historica, Scriptores, V), p. 60.
21 G. Musca, Sviluppo urbano, cit., p. 29, sottolinea le difficoltà incontrate dal
Guiscardo nelle diverse fasi della conquista e l’aperta ostilità dimostrata non solo
dalle popolazioni ma da molti capi normanni, tra i quali i suoi stessi nipoti. Precisa
ancora tuttavia che, quando riuscì ad impossessarsi della città, il condottiero nor-
manno aveva «ormai l’appoggio delle forze politiche e religiose che conducevano,
sotto la guida del papa Alessandro II, la politica di riscossa dell’Occidente latino in
funzione antigermanica e antibizantina».
22 P. Corsi, I Normanni a Bari, in AA.VV., Storia di Bari, diretta da F. Tateo,
II, Dalla conquista normanna al ducato sforzesco, Bari 1990, p. 24. Del resto, aggiun-
ge l’autore — ivi — «la spinta a cercare un modus vivendi era assecondata da due
fattori: l’esistenza in città di un partito filonormanno, fiducioso di meglio tutelare in
tal modo gli interessi di Bari, e la consapevolezza che le forze di Bisanzio non erano
più in grado, se non episodicamente, di respingere i rovinosi attacchi normanni».
23 Storia de’ Normanni volgarizzata in antico francese, a cura di V. De
Bartholomaeis, Roma 1935 (Fonti per la Storia d’Italia, 76), l. V, c. XXVII, p.
248.

373
Carmela M. Rugolo

vale a dire circondare la città di fossati, e dispose l’approntamento di


arietes e machinamenta, come dichiara Goffredo Malaterra 24. Non  

solo, perché — e lo racconta nei particolari Guglielmo di Puglia —


«turrim fabricat, quae lignea muris prominet; ac iuxta de quaque
petraria parte ponitur, adiuncto muros quo evertere possit diversi
generis tormento» 25: fece cioè costruire una torre di legno più alta
 

delle mura, vi collocò ai lati congegni per il lancio delle pietre in


modo da distruggere la cinta muraria con diversi generi di tormen-
ta; parola quest’ultima che evoca sì le macchine da lancio, ma anche
la pena e le sofferenze che si era in grado di infliggere. Malgrado ciò,
Bari si arrese solo dopo tre lunghi anni 26.  

Ma che città era questa in grado di resistere così a lungo ad un


nutrito manipolo di armati sulla cui ferocia, sulla cui brutalità, sul-
la cui efferatezza non si può aggiungere nulla che non sia già stato
detto? In che modo era venuta assemblandosi attraverso le comples-
se vicende che, come si è detto rapidamente, avevano caratterizzato
gli ultimi secoli della sua storia? E quale grado di appartenenza, qua-
le idea di comune interesse circolava tra i suoi abitanti se, pure tra
opposte fazioni, aggregati in una compagine sociale tutt’altro che
compatta, erano riusciti ad evitare una capitolazione disonorevole e
a siglare col duca normanno degli accordi di resa che ne salvaguarda-
vano la vita e i beni 27? Non è questa la sede per insistere nell’analisi
 

dettagliata di fatti che esulano dal tema di questo discorso. Non sem-
bra inopportuno tuttavia richiamare ancora un passo di Guglielmo
di Puglia, che può offrire una qualche risposta alle domande appena
formulate. Scrive il cronista, descrivendo le operazioni di assedio, che
non meno audacemente degli attaccanti «urbem Cives defendunt;

24 De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi du-


cis fratris eius, a cura di E. Pontieri, Bologna 1928 (Rerum Italicarum Scriptores,
Raccolta degli storici italiani dal Cinquecento al Millecinquecento ordinata da L. A.
Muratori, V, 1), l. II, XL, p. 49.
25 Guillaume de Pouille, La geste, cit., l. II, vv. 499-502, p. 158.
26 Di queste vicende esiste ormai una puntuale e assai documentata rico-
struzione, alla quale si rinvia per più dettagliati particolari: R. Bünemann, L’assedio
di Bari, 1068-1071. Una difficile vittoria per Roberto il Guiscardo, «Quaderni
Medievali», 27 (1989), pp. 39-66. Ma si veda anche P. Corsi, I Normanni a Bari, cit.,
pp. 25-31 e le considerazioni di S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, in
Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, III, Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II,
Torino 1983, pp. 500-503.
27 R. Bünemann, L’assedio di Bari, cit., pp. 63-64.

374
L’altra Italia: Bari

non intra moenia clausi, cum duce pugnantes astant pro moenibus
urbis» 28: dunque i cittadini combattevano in difesa della loro città
 

non clausi al riparo delle mura, ma ergendosi di fronte ad esse.


La forte carica simbolica dell’episodio è immediatamente evi-
dente. Al di là dei risvolti pratici, ad esso si possono infatti attribuire
tutte quelle valenze che sono state ravvisate nel fiero attaccamento
alla cerchia muraria manifestato dalle comunità urbane medievali.
Che la consideravano non solo un poderoso strumento di attacco e
di difesa, ma garanzia di efficienza economica e fiscale e, soprattutto,
immagine concreta di identità collettiva 29. Nella rappresentazione
 

stessa della città le mura giocavano un ruolo preponderante: la forma


diventava sostanza e il profilo che si componeva immaginifica proie-
zione della realtà. Ancora nella prima metà del secolo XVII il gesuita
Antonio Beatillo, autore di una Historia di Bari, osservava con amo-
revole partecipazione che essa aveva figura «d’una nave o galea, la
cui poppa è quel poco che sta congionto con terra ferma e la prora è
il bastione […] qual sporge in mare verso greco levante» 30. Allora si  

capisce perché l’abbattimento delle mura era vissuto, ancor più che
offesa, come insopportabile umiliazione: quella iattura spogliava gli
abitanti non solo della protezione, ma della stessa dignità di cives 31.  

Comunque, a metà del secolo XI Bari era una città saldamente


fortificata, circondata da una robusta cinta muraria, come si conve-
niva peraltro ad un luogo sede di potere, seppure decentrata rispetto
a quella centrale. Si trattava di un circuito poderoso che le fonti al
momento dell’assedio normanno descrivono concluso, interrotto
soltanto da due porte che si aprivano ai due estremi sul lato della ter-
raferma 32. Del resto non sembra che la città abbia mai difettato in
 

questo senso: il rinvenimento di alcuni tratti di un opus quadratum


nell’estremità più avanzata della penisola la danno murata già nel IV

28 Guillaume de Pouille, La geste, cit., l. II, vv. 502-504, p. 158.


29 Significative le considerazioni di J. Le Goff, Costruzione e distruzione del-
la città murata. Un programma di riflessione e ricerca, in AA.VV., La città e le mura,
a cura di C. De Seta - J. Le Goff, Bari 1989, pp. 1-9 e di C. De Seta, Le mura sim-
bolo della città, ivi, passim.
30 Historia di Bari, principal città della Puglia nel Regno di Napoli, Napoli
1637, p. 3.
31 F. Porsia, Lo spazio urbano, in Vita civile degli italiani. Uomini, terre e città
nel Medioevo, Milano 1986, pp. 84-86.
32 G. Musca, L’espansione urbana di Bari nel secolo XI, «Quaderni Medievali»,
2 (1976), p. 52.

375
Carmela M. Rugolo

secolo a.C.; lo era certamente in età romana e tale dovette rimane-


re anche in seguito se nell’847 i Saraceni prima di penetrare in città
si stanziarono «iuxta murum urbis et ora maris» 33. Una prima breve
 

descrizione è da attribuirsi a Bernardo, un monaco pellegrino che, in


viaggio verso la Terrasanta tra l’864 e l’866, vide Bari «munita a mez-
zogiorno da due larghissimi muri, mentre a settentrione sporge alta
sul mare» 34.  

È più che probabile che il consolidamento della murazione


urbana sia stato tra i punti prioritari del vasto programma di rior-
ganizzazione messo in atto dalla classe dirigente bizantina. Nella
povertà di testimonianze lo dimostra un documento del 999, dal qua-
le risulta che i chierici della cattedrale erano chiamati a contribuire
alla ricostruzione delle mura della città 35 e non può essere casuale il
 

fatto che risalga a breve distanza dalla prima attestazione di una por-
ta, detta appunto nuova, realizzata sul lato sud-orientale della cinta
muraria 36, settore in cui gli interventi sembrerebbero essere stati di
 

maggior peso 37. L’apertura di questo nuovo varco è stata messa in


 

diretta corrispondenza con la realizzazione dell’opera maggiormen-


te rappresentativa portata a termine dal potere bizantino, che non
solo doveva dare lustro alla classe dirigente locale, ma gloria all’im-
peratore. La porta immetteva infatti nella direzione della corte del
catapano, vera e propria cittadella fortificata eretta nel cuore del-

33 Erchempertus, Historia Langobardorum Beneventanorum, a cura di G.


Waitz, Hannover 1878 (Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum lan-
gobardicarum et italicarum saec. VI-IX), p. 240. Ma cfr. M. Petrignani - F. Porsia,
Bari, cit., p. 14.
34 Bernardus Monachus Francus, Itinerarium in loca sancta anno 870 fac-
tum, in Itinera Hierosolymitana latina, a cura di T. Tobler - A. Molinier, I, Genevae
1879, p. 310. Ma cfr. M. Petrignani - F. Porsia, Bari, cit., p. 16 e G. Musca, Sviluppo
urbano, cit., p. 16.
35 Tutto ciò nell’ambito di una concessione di privilegi in favore di
Crisostomo, arcivescovo di Bari e Trani: G. Beltrani, Documenti longobardi e greci
per la storia dell’Italia meridionale nel Medio Evo, Roma 1877, 9, pp. 11-13 e V. Von
Falkenhausen, La dominazione bizantina nell’Italia meridionale dal IX all’XI secolo,
trad. it., Bari 1978, 27, p. 187.
36 Codice Diplomatico Barese (da ora CDB), IV, Bari 1900, 37, p. 78.
37 M. Petrignani - F. Porsia, Bari, cit., pp. 18-22. Tale porta — precisa G.
Musca, Sviluppo urbano, cit., p. 28 — «può trovarsi solo a sud del pretorio, nell’area
in cui la città si va ampliando: le vicende della regione e dell’entroterra barese han-
no spinto molti a rifugiarsi in città, che vede aumentare la sua popolazione mentre
le campagne circostanti si vanno spopolando».

376
L’altra Italia: Bari

la città e sulla quale meno di un secolo dopo sarebbe stata edificata,


nell’ambito di un deliberato piano di riorganizzazione urbana, la ba-
silica di San Nicola.
Definito variamente nelle fonti — castellum, castrum, preto-
rium, ma anche curtis, curtis domnica, curtis imperialis 38 — il luogo  

si presentava come complesso edilizio polifunzionale, munito e mi-


litarizzato, nel quale i compiti della politica e dell’amministrazione
si mescolavano con i segni della rappresentanza e del comando 39.  

Era, ha scritto Giosué Musca, una rocca fortificata, costruita «sul


modello dei palazzi imperiali di Bisanzio, proiezione in pietra di
una ideologia del potere vigente sulle rive del Bosforo» 40. Secondo  

André Guillou, che ha dato una versione definitiva dell’epigrafe in


lingua greca che ne celebra la ricostruzione 41, al suo interno erano
 

collocati «la dimora del catepano, alcuni uffici, un alloggiamento per


la guardia se non per la guarnigione della città, una prigione», varie
chiese e cappelle, ma anche terre coltivabili come quelle presenti al-
l’esterno della cinta perimetrale 42.  

38 A. Guillou, L’iscrizione metrica di Bari. Un documento sul governo del-


la provincia (1011), in Aspetti della civiltà bizantina in Italia. Società e cultura, Bari
1976, pp. 200-201, fornisce una documentata esemplificazione delle definizioni più
ricorrenti. Ma si veda anche V. Von Falkenhausen, La dominazione bizantina, cit.,
p. 151 e note.
39 M. Petrignani - F. Porsia, Bari, cit., pp. 22-23; G. Musca, Sviluppo urba-
no, cit., pp. 22-23.
40 Ivi, p. 22.
41 Si tratta di una iscrizione incisa su una pietra in forma di tronco di pi-
ramide che sembra dovesse servire alla costruzione della basilica prima della fine
dell’XI secolo. Rinvenuta mutila nel 1932 e variamente studiata e ricostruita — M.
Petrignani - F. Porsia, Bari, cit., nota 63 — è stata più attentamente trascritta da A.
Guillou, L’iscrizione metrica di Bari, cit., p. 189, e tradotta nel modo che segue: «A
prezzo di grande fatica e con molta saggezza il potentissimo Basilio Mesardonita,
primo dei notabili, di razza imperiale, ha innalzato l’asti con tecnica consumata ri-
mettendolo a nuovo, con mattoni duri quanto la pietra avendo (così) costruito una
nuova arca fortificata; egli ha costruito anche il vestibolo per liberare dalle loro pau-
re i soldati del campo, e per la gloria e la fierezza del Palazzo. D’altra parte, spinto
da una sincera devozione, egli ha eretto la santa chiesa del glorioso Demetrio co-
struita in pietra affinché, simile a un faro, essa brilli chiaramente nella sua gloria
onnipossente per tutti coloro che abitano e coloro che qui verranno ad abitare…».
A parte la complessa analisi del contenuto, lo studioso offre anche una convincen-
te ricostruzione dei fatti e dei personaggi a cui rinviano le parole dell’incisione: ivi,
passim.
42 Ibidem, p. 202.

377
Carmela M. Rugolo

L’episodio che aveva fornito al catapano Basilio Mesardonite


l’occasione per portare a compimento un’opera che ha tutte le ca-
ratteristiche di un atto punitivo nei confronti della città, era stata
l’ennesima ribellione antibizantina, quella capeggiata da Melo, no-
bile di origine longobarda definito da Leone Ostiense Marsicano tra
tutti «primus ac clarior», nonché uomo «strenuissimus valde ac pru-
dentissimus» 43. La rivolta, scoppiata nel 1009 44, non fu certo un caso
   

isolato. Tumulti e sommosse hanno rappresentato una costante nel-


la storia di Bari: volendone fare una sorta di inventario, si scopre
che esplodevano con cadenza assai ravvicinata 45. Più che nel carat-
 

tere degli abitanti, ritenuti «eccezionalmente battaglieri» 46, o nella  

composizione variegata e multiforme della popolazione, costituita,


come tutte le genti dell’Italia meridionale, da elementi di diverse et-
nie, una motivazione può forse essere individuata nel comune senso
di appartenenza che, malgrado le fazioni o le posizioni settarie che
si coagulavano a difesa di questi o quegli interessi, faceva dei bare-
si una comunità.
Se la porta nova si apriva in asse con il polo politico emi-
nente, quella vetus, già documentata come occidentalis da Lupo
Protospatario 47, entrava direttamente nel cuore antico della città, là
 

dove segno di forte rappresentanza era l’antico Episcopio, secondo


elemento inequivocabile del potere urbano 48. Rimase a lungo ful-
 

cro dell’edilizia cittadina e, sul piano ideologico, sicuro punto di


riferimento per quanti non si riconoscevano nell’assetto politico do-

43 Chronica monasterii casinensis, a cura di W. Wattenbach, Hannover 1846


(Monumenta Germaniae Historica, Scriptores VII), II, 37.
44 Su tutta la vicenda cfr. G. Musca, Da Melo al regno normanno, in AA.VV.,
Storia di Bari, II, cit., pp. 5-13.
45 Esse, è stato detto, si ricomporranno solo nel momento in cui si attuerà «la
piena definizione dell’identità storica della comunità urbana»: R. Licinio, Castelli
medievali. Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo d’Angiò, Bari 1994,
p. 74. Del resto «le decennali lotte e gli aspri contrasti tra fazioni e famiglie, le con-
tinue rivolte, le contrapposizioni tra quartieri (vicinia) sono spie rivelatrici di una
conflittualità che era insieme ricerca di nuovi assetti ed inediti equilibri»: ivi, pp. 73-
74. Ma anche G. Musca, Sviluppo urbano, cit., p. 26sgg.; M. Petrignani - F. Porsia,
Bari, cit., p. 23.
46 R. Bünemann, L’assedio di Bari, cit., p. 45.
47 Annales, a cura di G.H. Pertz, Hannover 1844 (Monumenta Germaniae
Historica, Scriptores, V), p. 56. La notizia risale al 998; la porta è probabilmente la
stessa che viene detta “vecchia” in un documento del 1003: CDB, IV, 8, pp. 16-17.
48 M. Petrignani - F. Porsia, Bari, cit., p. 23.

378
L’altra Italia: Bari

minante, sia che fossero di antica origine longobarda o di altro ceppo


etnico, sia di dichiarata inclinazione normanna. Non è certo indice di
eccessiva diffidenza sospettare che proprio da questa parte venisse
un sostegno forse più che ideale alle ripetute sedizioni, malgrado la
costante attenzione del gruppo dirigente bizantino ad evitare quanto
più possibile ogni pretesto di ostilità. Sia come sia, l’iniziativa dell’ar-
civescovo Bisanzio, che nel 1034 diede il via al radicale rifacimento
della chiesa e dell’annessa sede episcopale — «dirupavit episcopium
Barinum et coepit laborare», è detto nell’anonimo Chronicon bare-
se 49 — non sembra abbia trovato opposizione, anzi si spiegherebbe
 

proprio «nel quadro del potere politico bizantino, che affidò alla cit-
tà, alla sua accresciuta popolazione, alla sua Chiesa, alle sue capacità
difensive una funzione sempre più impegnativa in relazione alla cre-
scente minacciosa presenza dei Normanni» 50.  

L’opera di Bisanzio, che «rappresenta indubbiamente l’episodio


di più cospicuo rilievo nel panorama architettonico» del tempo 51,  

ebbe risvolti importanti sulla struttura urbanistica della città, non


solo perché divenne modello dell’architettura sacra coeva e suc-
cessiva, ma perché innescò una fase di rinnovamento quanto meno
nell’edilizia civile circostante. La cattedrale-episcopio e la residen-
za fortificata del catapano sono da considerare due elementi di forte
polarizzazione urbana, peraltro altamente invasivi, che dominavano
l’inestricabile tessuto abitativo della città. Nel quale le fonti permet-
tono di registrare ampliamenti e ristrutturazioni, spia eloquente di
una più intensa attività edilizia, regolamentata da un quadro norma-
tivo in via di allestimento, ma suggeriscono anche una più attenta
scelta dei materiali e più avanzate tecniche di costruzione. Numerosi
i riferimenti ad «abitazioni costruite in pietra, a più di un piano e
con soffitta, alle quali si accedeva da cortili interni», spesso di pro-
prietà di esponenti di un «ceto medio titolare di beni immobili e di
rendite agrarie». A questa tipologia per così dire aristocratica, forte-
mente integrata e compatta, ma comunque interrotta dall’insinuarsi
di orti e giardini e dall’aprirsi di «corti e piccoli spazi liberi», faceva-

49 Anonymus Barensis, Chronicon (855-1149), a cura di C. Pellegrino,


Milano 1724 (Rerum Italicarum Scriptores, V), p. 149.
50 G. Musca, Sviluppo urbano, cit., p. 25.
51 P. Belli D’Elia, Architettura e arti figurative: dai Bizantini agli Svevi. Dai
Bizantini ai Normanni, in AA.VV., Storia di Bari, cit., p. 282.

379
Carmela M. Rugolo

no da contraltare altre superfici «coperte da abitazioni più modeste,


costruite con materiali deperibili e con tecniche costruttive più eco-
nomiche: legno e pietre non squadrate tenute insieme da fango» 52.  

Al momento della conquista normanna, Bari era dunque una


città vivace, forse tra le «meglio fortificate dell’Italia meridionale» 53;  

importante per la presenza di una classe burocratica addetta alla ge-


stione politica e amministrativa di una capitale, sia pure piccola e
di provincia; con una economia in continua espansione grazie alla
presenza di mercatores e negociatores ai quali la presenza di un por-
to ben protetto e con strutture funzionanti e operative consentiva
di muoversi e accendere affari in tutto il bacino del Mediterraneo,
e non solo orientale 54. Era inoltre piazza di raccolta e di smercio
 

di tutte le derrate provenienti dal fertile entroterra, di cui era inso-


stituibile punto di riferimento. Insomma, come dice Guglielmo di
Puglia, nella regione «nulla erat urbs, quam non opulentia Bari» 55.  

Il pensiero corre subito a quel gustoso quadretto di ambiente rap-


presentato con subdolo compiacimento da Goffredo Malaterra, che,
nel descrivere le operazioni di assedio, non manca di sottolineare
l’impudenza con cui i baresi, fiduciosi nella robustezza delle loro for-
tificazioni — «turribus suis fidentes» — e mostrando noncuranza per
 

le iniziative del Guiscardo, «ornamenta sua thesaurumque pretiosa


dependentia ostentare […] coeperunt», facevano cioè spavaldamen-
te sfoggio della loro ricchezza 56.  

I mutamenti determinatisi in città dopo la conquista furono


decisivi, benché le fonti siano al riguardo particolarmente reticen-
ti. I normanni come è noto calarono con pugno di ferro sui territori
conquistati, non ultimo sui centri urbani nei cui confronti, almeno
nella fase iniziale della costruzione dello Stato, più che instaurare un
feeling di reciproco giovamento, diedero il via ad una politica di con-

52 G. Musca, Da Melo al regno normanno. Lo sviluppo urbano, in AA.VV.,


Storia di Bari, cit., pp.46-48 e anche Id., Sviluppo urbano, cit., p. 37sgg.
53 S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, cit., p. 501.
54 G. Musca, Sviluppo urbano, cit., p. 36; M. Petrignani - F. Porsia, Bari,
cit., p. 24, ma soprattutto P. Corsi, Bari e il mare, in Itinerari e centri urbani nel
Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle decime giornate normanno-sveve (Bari, 21-
24 ott. 1991), a cura di G. Musca, Bari 1993, passim.
55 La geste de Robert Guiscard, cit., l. II, vv. 480-81, p. 158.
56 De rebus gestis, cit., l. II, XL, p. 49.

380
L’altra Italia: Bari

trollo e di dominio 57. Il Guiscardo, che pure sembra abbia voluto


 

avviare a Bari una fase di gestione conciliativa 58, non riuscì a entra-
 

re in sintonia con la comunità cittadina. Non disponeva di strumenti


culturali sufficienti, legato com’era a modelli comportamentali total-
mente estranei a quelli delle genti sottomesse. Del resto, nel petto dei
cavalieri normanni continuava a battere il cuore scontroso e solitario
dei loro avi. Essi, è stato di recente sottolineato, si ritrovarono a scor-
razzare, ad occupare e a dominare, sotto l’egida del vexillum Petri, in
una terra di antiche e consolidate tradizioni urbane senza compren-
derle, «animati da quegli impulsi di energia individuale, mobilità,
inclinazione all’avventura, dedizione alle armi (doti proprie dei no-
madi), e, di converso, dal sospetto, l’intolleranza e il disprezzo verso
quanto è sedentario, urbano, sociale, civile» 59.  

Al di là di ogni altra considerazione e di una analisi che esu-


la dall’economia di questo discorso, si vuole soltanto ricordare che
qualche anno dopo scoppiò a Bari l’ennesima, sanguinosa rivolta:
il presidio normanno venne scacciato e fu abbattuto il castello di

57 Esiste ormai una quantità notevole di indagini e ricerche che hanno chia-
rito aspetti assai diversificati delle vicende normanne nel Mezzogiorno e in Sicilia,
delle quali sarebbe impensabile dare conto in maniera esaustiva. Alcune di esse of-
frono anche chiavi di lettura per cogliere la complessa caratterizzazione culturale
e umana che si innescò tra i conquistatori e le popolazioni delle terre del sud, del-
le quali i nuovi venuti non compresero organizzazione e mentalità. Ciò è ancora
più evidente in relazione alle città, estranee ai loro quadri mentali. A tale riguar-
do è ormai definitivamente acquisito come «l’assillo di conquistarsi un futuro con
tutti i mezzi, la giovanile forza aggressiva, la cavalleria, la nobiltà di sangue, l’indi-
vidualismo e la devozione non furono sufficienti per entrare in un rapporto non
esclusivamente predatorio con un diversificato ma consolidato quadro urbano»: F.
Porsia, I segni sul territorio, cit., p. 228 e note. A questo testo si rinvia anche per la
accurata bibliografia. Va detto tuttavia che già S. Tramontana, La monarchia nor-
manna e sveva, cit., pp. 528-540, 593sgg., aveva evidenziato l’incapacità della nuova
classe dirigente di avviare un progetto di sviluppo condiviso con i ceti urbani, che ne
avrebbe potuto favorire il consolidamento e una diversa evoluzione.
58 Ivi, p. 501.
59 F. Porsia, Scienza finalizzata nel Mezzogiorno d’Italia nel periodo norman-
no-svevo, in Città e vita cittadina nei paesi dell’area mediterranea, cit., pp. 739-40.
Una città — Bari — fortemente integrata nella fittissima rete di centri urbani che
costellava il Meridione d’Italia; centri che, ha scritto Ernst Mayer più di un seco-
lo fa, erano vicini gli uni agli altri come in poche altre parti d’Europa: Italienische
Verfassungsgeschichte von den Gothenzeit bis zur Zunftherrschaft, Leipzig 1909, II,
p. 432. Cfr. anche M. Bellomo, Società e istituzioni dal Medioevo agli inizi dell’età
moderna, Roma 1997, pp. 82-83.

381
Carmela M. Rugolo

Portanuova, nel quale si può forse identificare quell’edificio di pietra


— la petrineam domum di cui parla Goffredo Malaterra 60 — edifi-  

cato dal Guiscardo durante l’assedio e sede del governo nella prima
fase dell’assetto organizzativo 61. Com’è ovvio la reazione fu immedia-
 

ta e senza scampo: nel giro di pochi mesi il duca riuscì a ricompattare


le posizioni e, soprattutto, a mettere in atto contromisure in grado di
controllare una situazione comunque instabile. Certo, non era facile
per una città che aveva mantenuto per secoli un indiscusso primato e
forme sia pure elementari di autonomia sottomettersi docilmente ai
nuovi conquistatori. Divenuta suddita dopo essere stata capitale, per
usare due parole che Marino Berengo ha utilizzato in maniera assai
cogente 62, avvertiva la necessità, forse in modo non del tutto consa-
 

pevole, di ritessere la trama connettiva della società intorno a nuovi


cardini di aggregazione.
È questo il contesto nel quale venne maturando l’evento più
emblematico della storia barese, quello in cui confluirono un input
economico e sociale senza precedenti e una carica simbolica di indi-
scussa intensità e che, in maniera se non paradossale senza dubbio
eccessiva, è stato letto come momento fondante — si badi bene fon-
dante, non rifondante, quale in effetti fu 63 — della vita urbana 64. Si
   

tratta, è subito evidente, del trasferimento a Bari delle reliquie di


San Nicola, antico vescovo di Mira, trafugate con grande spregiudi-
catezza da un gruppo di nauclerii e mercatores baresi 65 e introdotte  

nottetempo in città. La scelta era stata avveduta: il santo infatti era di


quelli sulle cui virtù taumaturgiche e sui cui poteri di patrocinio e di

60 De rebus gestis, cit., l. II, XL, p. 49.


61 M. Petrignani - F. Porsia, Bari, cit., p. 26. La stessa collocazione dell’edi-
ficio rispondeva ad una precisa scelta politica, cioè quella di «spostare le funzioni
militari dall’area orientale, troppo segnata dalla presenza bizantina e dalla corte ca-
tepanale, ad un’altra zona della città» ed appare in piena «sintonia con la concezione
normanna dell’insediamento castellare, periferico e decentrato rispetto ai poli prin-
cipali della struttura urbana»: R. Licinio, Castelli medievali, cit., p. 73.
62 L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed Età
moderna, Torino 1999, pp. 3sgg., 39sgg.
63 M. Petrignani - F. Porsia, Bari, cit., p. 26.
64 Come attraverso una lettura sofisticata, sia pure sul filo del paradosso, di
fonti e letteratura dice R. Licinio, Bari e la terra, in Itinerari e centri urbani, cit., p.
121sgg.
65 Sulla collocazione di costoro nella diversificata società barese del tempo
cfr. A. Pertusi, Ai confini tra religione e politica. La contesa per le reliquie di S. Nicola
tra Bari, Venezia e Genova, «Quaderni Medievali», 5 (1978), pp. 42-45.

382
L’altra Italia: Bari

protezione non correva alcun dubbio, venerato in oriente e in occi-


dente fino ai più remoti confini di penetrazione e di diffusione della
fede cristiana 66. I fatti, ampiamente noti, non necessitano di ulterio-
 

ri particolari, se non per quel tanto che permette di ricostruire le fasi


salienti di un processo attraverso il quale venne istituzionalizzata una
forma di sacralizzazione della città.
Protagonisti della vicenda, a parte coloro che materialmente
si occuparono della translatio Sancti Nicolai, furono Elia, abate del
monastero di S. Benedetto 67, grande propugnatore degli ideali ri-
 

formatori di papa Gregorio 68, e il ceto medio cittadino, soprattutto


 

quella categoria di operatori che avevano accumulato ingenti patri-


moni, sfruttando con profitto le concrete potenzialità e le numerose
occasioni offerte da un meccanismo economico in progressiva espan-
sione, quale era il porto 69. La data è di per sé significativa: tutto
 

accadde nel maggio 1087, momento in cui era radicalmente mutato il


quadro politico-istituzionale di riferimento. Quello in atto, sia pure
ancora in fase di definizione, era dominato dalle ragioni di cui i nuo-
vi attori presenti sulla scena si facevano singolarmente portatori: in
primo luogo dei normanni che, malgrado una diffusa conflittualità,
avevano ormai sostituito a pieno titolo la classe dirigente bizanti-
na, definitivamente sconfitta dopo un lento ma inesorabile declino 70,  

66 E che, «per essere stato un vescovo orientale, sarebbe potuto divenire nella
prospettiva papale un veicolo di unione tra cristiani d’Oriente e cristianesimo ro-
mano»: G. Musca, Sviluppo urbano, cit., p. 34. Ma anche A. Pertusi, Ai confini tra
religione e politica, cit, p. 47.
67 Fondato fuori dalle mura della città nel 978-979, fu insieme con il vecchio
episcopio il più importante edificio religioso fino ai primi decenni del secolo XI e
fulcro dell’edilizia urbana: M. Petrignani - F. Porsia, Bari, cit., p. 18 e note. Ma indi-
cazioni soprattutto in F. Porsia, Il primo secolo di vita dell’Abbazia di San Benedetto
di Bari, in Insediamenti benedettini in Puglia. Per una storia dell’arte dall’XI al XVIII
secolo, a cura di M.S. Calo’ Mariani, Galatina 1980, I, pp.153-165. Cfr. anche G.
Musca, Sviluppo urbano, cit., p. 20.
68 Ivi, p. 34. Personaggio di grande prestigio, l’abate, nel momento in cui
assunse la carica, era «uomo non sgradito alla dirigenza bizantina e, insieme, già
ampiamente beneficiato dai Normanni»: F. Porsia, Il primo secolo di vita, cit., pp.
158-159. Ma era anche uomo «di cultura e di rango molto elevati […] abbastanza
ambizioso, tale almeno da assumersi il ruolo di mediatore nella questione della de-
positio delle reliquie di san Nicola»: A. Pertusi, Ai confini tra religione e politica, cit.,
p. 40, ma anche pp. 42, 48.
69 M. Petrignani - F. Porsia, Bari, cit., pp. 26-30. Ma anche P. Corsi, Bari e il
mare, cit., p. 110sgg. e G. Musca, Sviluppo urbano, cit., p. 36.
70 Ivi, pp. 29-37.

383
Carmela M. Rugolo

e in secondo luogo del papato, che si dibatteva nei circuiti inestri-


cabili e insondabili della riforma e che in Puglia, ma in genere nel
Mezzogiorno e in Sicilia, era impegnato in un processo di capillare
diffusione del rito latino e di contenimento del clero greco, nei cui
confronti si erano peraltro accentuati sostanziali motivi di distacco a
seguito dello scisma già consumatosi con Costantinopoli 71. Al terzo,  

ma non ultimo posto, va infine collocata la ferma e robusta reazio-


ne con cui la comunità cittadina seppe colmare il vuoto seguito alla
perdita di un ruolo di prestigio proiettando la città sul piano di una
nuova egemonia, quella del sacro, infinito orizzonte sul quale ogni
resistenza, ogni rifiuto, ogni decremento oltrepassa la dimensione
umana e finisce per configurarsi come sacrilega profanazione 72.  

Arrivate le reliquie ed affidatele, con una scelta già di per sé elo-


quente, alla temporanea custodia dell’abate Elia 73, si aprì per Bari
 

una fase nuova, colma di inediti significati sul piano della identità
collettiva e di non meno importanti conseguenze sull’assetto urbani-
stico della città. Perché non è tanto la decisione di erigere un nuovo
tempio in onore del Santo, quanto il luogo scelto per edificarlo ciò
che va decisamente rimarcato. Dopo accesi contrasti, si stabilì cun-
ctus populus 74 — ed entrambi i termini si commentano da soli — di
 

costruire una grande basilica-reliquiario all’interno della cittadella


catapanale, sede e simbolo del potere per circa un secolo, oltre che
polo alternativo di sviluppo della città, con un risultato dirompente

71 S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, cit., p. 542sgg.


72 Su tali avvenimenti la bibliografia è ormai numerosissima e assai diversifi-
cata, al punto da rendere impossibile anche un tentativo di puntuale elencazione. Si
rinvia ai testi già citati e alle indicazioni in essi contenuti.
73 M. Petrignani - F. Porsia, Bari, cit., p. 26: dal monastero di S. Benedetto
si mosse «il primo percorso processionale noto della storia di Bari, che trasportava
il sacro pegno in curte domnica, fondando sacralmente il nuovo asse orientale del-
la città. Dalla processione fu evitata la cattedrale, con chiaro timore di una rivalsa
dell’arcivescovo Ursone, le cui aspirazioni a collocare le reliquie nella sua chiesa era-
no state frustrate». Su tutto l’episodio cfr. il documentato lavoro di A. Pertusi, Ai
confini tra religione e politica, cit., pp. 6-56, che non rileva tuttavia un contrasto in-
sanabile tra l’abate e l’arcivescovo: ivi, p. 39sgg. Delle fonti della translatio si veda
l’accurata traduzione in La traslazione di San Nicola: le fonti, a cura di P. Corsi, Bari
1987. Utile la rassegna di M. Spagnoletti, La traslazione di S. Nicola di Mira e la sto-
riografia barese, «Archivio storico pugliese», XXXIX (1986), pp. 101-132.
74 Iohannes Archidiaconus Barensis, Translatio S. Nicolai Episcopi ex Mira
Lyciae urbe ad Apuliae oppidum Barium, a cura di F. Nitti de Vito, in Id., La trasla-
zione delle reliquie di S. Nicola, «Iapigia», VIII (1937), p. 365.

384
L’altra Italia: Bari

sul piano della destinazione, ma di minore incidenza nella prospetti-


va 75. Il complesso infatti, che mantenne inalterati tutti i suoi caratteri
 

di centro fortificato, divenne nella mentalità collettiva luogo di me-


diazione e di sintesi tra l’azione completamente umana della difesa
militare e civile e il ruolo divino della protezione e della salvezza.
A Bari in quegli anni si consumò, per così dire, una esplosio-
ne di sacralità: la nuova cittadella venne via via sovrapponendosi a
quella più antica con ritmi talmente accelerati da permettere nel giro
di appena due anni la solenne consacrazione della cripta da parte
di Urbano II e la deposizione sotto l’altare delle ossa del santo 76.  

Mirificam sedem, secondo l’anonimo Chronicon barese 77, del con-  

cilio indetto dopo qualche anno dallo stesso papa Urbano al fine di
sanare lo scisma fra le due chiese 78, il santuario si trasformò in breve
 

in un amalgama fecondo di possibilità economiche senza precedenti


e delle misteriose sollecitazioni del mistero e della fede. La fama uni-
versale di San Nicola proiettò immediatamente la città nel circuito
internazionale dei pellegrinaggi, ne fece una delle mete privilegiate
dei viaggi religiosi e devozionali al punto che, nel tempo, il percor-

75 Oltre i testi già indicati, cfr. P. Belli D’Elia, I segni sul territorio. L’architettura
sacra, in I caratteri originari, cit., pp. 282-284, e soprattutto Ead., Architettura e arti
figurative, cit. pp. 287- 311. «Si ha l’impressione — sottolinea A. Pertusi, Ai confi-
ni tra religione e politica, cit., pp. 46-47 — che in una parte della popolazione barese
(nobili e non nobili, ex-bizantini e latino-longobardi), sostenuta dalle autorità poli-
tiche e dall’abate Elia, ci sia l’intenzione ben precisa di elevare la ‘curtis domnica’ a
sede di culto, in modo che, come un tempo essa era il centro politico e il baluardo di
difesa della città, ora divenisse con la depositio delle reliquie il centro religioso della
venerazione del patrono e il palladio della città».
76 In quel momento il papa «attribuiva a Bari un ruolo di primo piano nel suo
programma»; la città diveniva «un centro religioso che attirava pellegrini» da ogni
dove. Forse fu proprio allora — prosegue G. Musca, Sviluppo urbano, cit., p. 34 —
«che Urbano affidò al poeta Guglielmo di Puglia l’incarico di scrivere un poema
epico che celebrasse la conquista normanna della regione, un poema che si richia-
ma alla tradizione classica e latina». Vedi anche M. Petrignani - F. Porsia, Bari, cit.,
p. 26 e A. Pertusi, Ai confini tra religione e politica, cit., p. 26sgg., che legge l’evol-
versi degli avvenimenti sul filo di un complesso meccanismo ai confini appunto tra
religione e politica.
77 Anonymus Barensis, Chronicon, cit., p. 155.
78 La celebrazione del concilio «ebbe come scopo ufficiale la composizione
dello scisma tra le due Chiese romana e bizantina (cioè cattolica e ortodossa), ma
come obbiettivo immediato e reale quello della sottomissione del clero greco del
Mezzogiorno e della sua completa latinizzazione»: G. Musca, Sviluppo urbano, cit.,
p. 34. Ma cfr. supra, nota 73.

385
Carmela M. Rugolo

so che attraverso la porta nova conduceva alla corte del catapano


si disse ruga francigena, cioè ‘strada dei pellegrini’ per antonoma-
sia 79. Un solo esempio per confermare quanto detto: una incisione
 

boema di fine Quattrocento ritrae santa Brigida, la nota principessa


pellegrina che finì a Roma la sua vita di ritorno dalla Terrasanta, che
esibisce «sul cappello le immagini di una conchiglia, di una chiesa
gotica e di tre piccole palle, insegne di pellegrinaggio rispettivamente
di Compostella, Colonia e Bari», luoghi nei quali si recò realmente,
come racconta lei stessa nei suoi scritti, indicando la successione in
cui li aveva visitati 80.
 

Insomma, in breve la città finì per identificarsi con il suo san-


to. «Colo di Bari, la grande città che il re Guglielmo di Sicilia ha
distrutto», scriveva Beniamino da Tudela che vi fece tappa intorno
al 1160 81, cioè in uno dei momenti più tragici della storia barese, al-
 

lorché non solo la città, ma il toponimo stesso sembrò scomparire,


salvandosi solo nella totale coincidenza con la realtà nicolaiana 82. Ma  

già quarant’anni prima, nel pieno delle tribolate vicende che fecero
seguito alla morte del Guiscardo, Grimoaldo Alfaranite, nobile espo-
nente di una corrente autonomistica e antinormanna, protagonista di
una stagione politica che è stata vista come «il solo momento in cui
Bari agì se non come Comune almeno come signoria indipendente da
ogni potere esterno» 83, si intitolava gratia dei et beati Nicolai Barensis
 

princeps 84, assegnando al taumaturgico patrono della città una for-


 

te carica simbolica di derivazione e rappresentazione del potere. La

79 G. Musca, Sotto la monarchia normanno-sveva, in Storia di Bari, cit., pp.


86-87; R. Licinio, Bari e la terra, cit., pp. 127-128 e note. Una rassegna critica della
imponente bibliografia sul significato del pellegrinaggio per la gente del Medioevo
in G. Cherubini, Pellegrini, pellegrinaggi, giubileo nel Medioevo, Napoli 2005, cui si
rinvia anche per il documentato apparato bibliografico.
80 G. Palumbo, Viaggi delle donne. Annotazioni per una ricerca di lunga du-
rata sulle insegne di pellegrinaggio, in Viaggiare nel Medioevo, a cura di S. Gensini,
Pisa 2000, pp. 410-11.
81 Libro di viaggi, a cura di L. Minervini, Palermo 1989, p. 47 (traduzio-
ne dall’inglese The Itinerary of Benjamin of Tudela, a cura di M.N. Adler, London
1907, rist. New York 1964). Ma si veda pure C. Colafemmina, L’itinerario pugliese
di Beniamino, «Archivio storico pugliese», XXVIII (1975), p. 99.
82 Le vicende e le conseguenze sul piano sociale e urbanistico in G. Musca,
Sviluppo urbano, cit., p. 48sgg.; M. Petrignani - F. Porsia, Bari, cit., pp. 34-35; R.
Iorio, Sotto la monarchia normanno-sveva, in Storia di Bari, cit., pp. 63-68.
83 G. Musca, Sviluppo urbano, cit., p. 40.
84 CDB, V, 69, pp. 121-123.

386
L’altra Italia: Bari

stessa che si coglie sul piano della propaganda e della legittimazio-


ne della sovranità anche nello smalto limosino conservato nel tesoro
della basilica, dove si vede Ruggero II avvolto nelle insegne del pote-
re nell’atto di ricevere la corona regale da San Nicola 85.  

Contestualmente agli episodi sui quali ci si è soffermati, andava


via via prendendo corpo una intenzionale, quanto radicale, trasfor-
mazione dell’assetto urbanistico della città, che acquisiva sempre più
i caratteri di un centro fortemente gerarchizzato e militarizzato. Il
processo si coglie sia sul fronte dell’edilizia civile, che sul versante
delle costruzioni progettate e realizzate dai normanni nell’ambito del
disegno di potere che con determinazione procedevano ad attuare e
nei cui confronti la collettività cittadina espresse una carica di con-
trapposizione mai completamente risolta: Bari, come è stato detto,
fu nello stesso tempo «rifugio e base di resistenza antinormanna» 86  

e in questa dicotomia convergono le specificità che l’hanno di volta


in volta connotata. Se a questo si aggiunge la forte caratterizzazione
della società, percorsa al suo interno da un alto tasso di antagoni-
smo, da una frammentazione che si coagulava in fazioni capeggiate
da gruppi ricchi e potenti, rivali tra di loro e usi non di rado allo
scontro e all’aperta competizione, il cerchio si chiude e prende corpo
la fisionomia della città così come era venuta assemblandosi.
Ecco allora configurarsi la trama di un tessuto urbano dove da
un lato svettavano gli orrea, «torri a diversi piani che appaiono come
roccaforti delle famiglie più potenti, torri che venivano espugnate
con lunghe scale di legno ed abbattute in tutto o in parte, torri che
spesso erano molto vicine tra loro e danno una immagine singolare
di ciò che era divenuta anche fisicamente la convivenza urbana» 87, e  

dall’altra si imponeva la mole distaccata e minacciosa del castello, il


castrum fortificato, funzionale all’idea di potere che i normanni in-
tendevano attuare e che rispondeva a «modelli inappropriati e non
raramente ostili alla cultura urbana, di controllo e di dominio, non di
governo e di sviluppo delle città» 88. Va precisato del resto che in tal
 

85 P. Belli D’Elia, Architettura e arti figurative, cit., p. 301.


86 G. Musca, Da Melo al regno normanno, cit., p. 50.
87 Id., Sviluppo urbano, cit., p. 40. Anche P. Belli D’Elia, Architettura e arti
figurative, cit., p. 303.
88 F. Porsia, Scienza finalizzata, cit., p. 727. Insomma — sottolinea R. Licinio,

387
Carmela M. Rugolo

senso si mossero, e con determinazione certamente degna di miglior


esito, tutti coloro che si succedettero nel possesso del regnum: «in
qua civitate, in qua dominium habuit, voluit habere imperator pa-
latium aut castrum», dice di Federico II fra’ Salimbene de Adam 89,  

sintetizzando, forse in modo inconsapevole, ma sicuramente in for-


ma magistrale, il sostrato di valori, rappresentazioni, credenze che
improntarono il sistema di potere federiciano.
Che la collocazione logistica delle strutture castellari rispon-
desse ad una progettualità improntata alla ideologia dell’obbedienza
e della subordinazione lo lasciano intendere le fonti e lo ha ormai
dimostrato in maniera incontrovertibile la storiografia: non è dun-
que il caso di soffermarvisi. Più che sull’impianto del castrum, voluto
da Ruggero II semotum ab urbe, discosto appunto dalla città, come
certifica Alessandro di Telese 90, o su altri fattori specifici, come per
 

esempio le tecniche costruttive, influenzate senza dubbio da modelli


orientali dal momento che, come sottolinea lo stesso cronista, l’ese-
cuzione dell’opera venne affidata a maestranze saracene 91; più che  

a problemi di datazione, cioè relativi all’anno in cui materialmen-


te si diede avvio ai lavori, o all’eventuale sovrapporsi della struttura
ruggeriana a preesistenti fortificazioni normanne, tutte questioni
analizzate e sviscerate fin nei minimi particolari e sulle quali indagi-
ni recenti hanno fornito soluzioni oltremodo persuasive 92, più che su  

tutto ciò, è invece sull’impatto che l’edificio produsse sulla collettivi-


tà che val la pena soffermarsi.
I baresi che, tra le altre concessioni ottenute da Ruggero II al
momento della resa, sembra avessero avuto assicurazione circa una

Castelli medievali, cit., p. 62 — «un castello imposto o comunque voluto dal sovra-
no non tanto per rafforzare il sistema difensivo urbano, quanto per sottolineare la
centralità del potere regio. Una fortificazione, se si vuole sintetizzare con una for-
mula, contro più che per la città: formula tipica degli impianti castellari normanni».
Chiave di lettura già proposta da P. Delogu, I Normanni in città. Schemi politici e
urbanistici, in Società, potere e popolo nell’età di Ruggero II, Atti delle terze giornate
normanno-sveve (Bari 23-25 maggio 1977), Bari 1979, pp. 187-195.
89 Chronica, a cura di G. Scalia, Bari 1966, II, p. 647.
90 De rebus gestis Rogerii Siciliae regis libri IV, in G. Del Re, Cronisti e scritto-
ri sincroni napoletani, I, Napoli 1845, pp. 114-115.
91 Ivi.
92 In tal senso gli studi sono numerosissimi. Si rinvia ai testi citati nelle note
precedenti; da ultimo, alla documentata analisi di R. Licinio, Castelli medievali, cit.,
p. 63sgg. e alla bibliografia ivi indicata.

388
L’altra Italia: Bari

presunta rinuncia del sovrano normanno a costruire in città «castel-


lum […] aliud» 93, vissero l’evento come una gravezza insopportabile,
 

insopportabile non solo sul piano morale, ma proprio carnale, istin-


tuale: esso, intendendo sia la struttura che la sua realizzazione,
fece loro lo stesso effetto di uno «stecco sù gli occhi», come ebbe
a puntualizzare il già citato Beatillo con dolente partecipazione 94,  

ma, soprattutto, aprì in città una fase di sopraffazioni e di violenze.


Insomma, una sorta di tragedia annunciata, una ferita aperta che non
guarì mai completamente, ché anzi conobbe crudeli recrudescenze.
Gli anni che seguirono fanno registrare un’alternanza di tregue e
sommovimenti, di accordi e di ribellioni, in una escalation senza fine
che vedrà sempre il castello come protagonista, e sullo sfondo una
realtà urbana complessa e a volte contraddittoria, certamente assai
articolata, comunque non facilmente riconducibile a schemi preor-
dinati. Una realtà in cui il destino della città, come quello dell’intero
Mezzogiorno, si dissolse in un magma inestricabile in cui prevalsero
le necessità della neonata monarchia e le ragioni delle grandi poten-
ze saldate in un unico fronte 95. E se la durezza di Ruggero II, che nel
 

1139 «de civitate illa Barensi inauditam fecit ultionem» 96 arrivando  

a distruggere le torri, le mura e i palazzi urbani, preluse tuttavia ad


un lungo periodo di quiete, foriero di pace sociale e prosperità eco-
nomica 97, non così il suo successore, che costrinse il regno e i sudditi
 

entro le maglie sempre più rigide di un miope, quanto ostinato dise-


gno di accentramento del potere.
La reazione dei baresi non si fece attendere. Nel 1155 «scelsero
— come è stato detto — nuovamente la ‘libertà’» 98, o almeno quella
 

93 CDB, V, 80, p. 138.


94 Historia di Bari, cit., p. 97
95 G. Musca, Sviluppo urbano, cit., pp. 43-44, offre una sintesi efficace di tali
avvenimenti. Più in generale si veda S. Tramontana, La monarchia normanna e sve-
va, cit., pp. 572-580.
96 Falco Beneventanus, Chronicon de rebus aetate sua gestis, in G. Del Re,
Cronisti e scrittori, I, cit., p. 249. Una puntuale e documentata analisi degli avveni-
menti in R. Licinio, Castelli medievali, cit., pp. 85-102.
97 G. Musca, Sviluppo urbano, cit., p. 43: «Il re ottenne la sottomissione di
molte città concedendo loro le cosiddette ‘carte di franchigia’, contenenti non liber-
tà politiche, ma limitati privilegi, autonomie amministrative ed esenzioni fiscali. Fu
politica felice: gli ultimi quattordici anni del suo regno sono stati definiti ‘anni tran-
quilli’, almeno nella situazione interna».
98 M. Petrignani - F. Porsia, Bari, cit., p. 34.

389
Carmela M. Rugolo

che ad una parte di essi sembrava la libertà. I fatti sono ampiamen-


te noti: a seguito del sostegno offerto dagli abitanti al tentativo di
Michele Paleologo, cugino dell’imperatore d’Oriente, di occupare
Bari, esplose la cieca vendetta di Guglielmo I, che ebbe dimensioni
inenarrabili. In un estremo atto di ribellione la città, «militarmente
ben difesa, ma politicamente debole e divisa» 99, si schierò di nuovo
 

contro il castello e contro ciò che esso rappresentava: la fortezza nor-


manna, progettata e costruita in odio al desiderio di identità e al senso
di appartenenza dei cittadini 100, venne rasa al suolo. La reazione del
 

sovrano non si fece attendere: riconquistata la città e accordata una


tregua di due giorni per permettere agli abitanti di allontanarsi con i
loro beni, Bari venne rasa al suolo e ridotta in macerie. «Ita — scri-
ve Ugo Falcando — prepotens Apulie civitas, fama celebris, opibus
pollens, nobilissima superba civibus, edificiorum structura mirabi-
lis, iacet nunc in acervos lapidum transformata» 101. Lentamente e
 

a distanza di alcuni decenni si sarebbe avviata e realizzata la rico-


struzione, ma sotto il segno dell’adeguamento e della sottomissione,
con una chiara rinuncia sul piano politico e ideologico a quelle aspi-
razioni di autonomia e autodecisione che con tanta tenacia e tanta
determinazione erano state così a lungo perseguite 102.  

99 R. Licinio, Castelli medievali, cit., p. 106.


100 «Barensis populus castellum civitatis quod pro eorum afflictione Rex
Rogerius fabricari iusserat», scrive Falcone Beneventano (Chronicon, cit, p. 232),
aggiungendo che si trattava di una fortezza terribilis e inespugnabile. Tutti gli au-
tori citati sottolineano molto bene il significato autoritario dell’impianto castellare,
«realizzazione in pietra dell’egemonia sulla città»: R. Licinio, Castelli medievali, cit.,
p. 94, ma anche sgg.
101 Liber de Regno Sicilie, a cura di G.B. Siragusa, Roma 1897 (Fonti per la
Storia d’Italia), p. 21.
102 «Che Bari sia rimasta pressoché deserta per vari anni non è da dubitar-
si». Sembra anzi che il divieto per i baresi di abitare la loro città sia durato per
quarant’anni. Ma fu «sul luogo stesso dei ruderi e delle case dirute che si tornò a co-
struire ed è presumibile che, nonostante tutto, poche furono le zone che, una volta
distrutte, rimasero dopo il rientro dei cittadini disabitate e abbandonate all’ulterio-
re degrado»: M. Petrignani - F. Porsia, Bari, cit., pp. 34-35.

390
Lunedì 14 maggio, mattina
Pistoia, Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
Presidente Prof. Giovanni Cherubini

Mauro Ronzani
Conclusioni

È per me un grande onore pronunciare queste parole conclu-


sive, dopo essere stato chiamato, nel 2005, a far parte del Comitato
scientifico del Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte, e aver po-
tuto perciò contribuire alla preparazione di questo XXI convegno,
la cui ideazione è peraltro merito precipuo del Presidente Giovanni
Cherubini. E che la sua idea di dedicare l’incontro di quest’anno
alla “costruzione della città comunale” sia stata particolarmente fe-
lice, lo ha dimostrato l’andamento stesso delle sei sedute tenutesi in
questa bella “sala sinodale”: un pubblico sempre numeroso (cosa
niente affatto scontata per un convegno scientifico di storia medie-
vale!) ha seguito con viva attenzione ben diciannove oratori, le cui
relazioni sono state così armoniche da dare veramente, a chi le ha
ascoltate, l’impressione di partecipare all’elaborazione di un discor-
so coerente, quasi una grande ‘sinfonia’ distesa in più movimenti,
ma profondamente unitaria. A tale riguardo, il compito del ventesi-
mo (e ultimo!) oratore è sicuramente agevole; anche se la ricchezza,
la varietà e l’originalità dei contributi presentati non potrà esse-
re rispecchiata a dovere dalle rapide notazioni che seguiranno. Nel
caso delle due relazioni di questa mattina, dedicate la prima — te-
nuta da Salvatore Tramontana — al quadro generale delle città del
Mezzogiorno e della Sicilia, e la seconda — tenuta da Maria Carmela
Rugolo — all’esempio illustre e significativo di Bari, rinuncerò anzi
391
Mauro Ronzani

del tutto a tentare di costringerne i contenuti in poche frasi improv-


visate: i presenti le hanno appena ascoltate, e i lettori degli Atti le
troveranno in forma definitiva e corredata di note. Gli appunti rac-
colti in questi giorni sono d’altronde così consistenti, da sembrare
quasi già le ‘bozze’ degli Atti. Cominciamo allora a sfogliarli.
Dopo l’Introduzione di Giovanni Cherubini, che ha presenta-
to e motivato l’impostazione del convegno, la sezione dedicata alla
“costruzione materiale della città” è stata aperta dalla relazione di
Cristina La Rocca, volta a tratteggiare le caratteristiche di fondo del-
le città dell’Italia centrosettentrionale fra il tardoantico e il secolo X,
quali risultano dal confronto fra la documentazione scritta e le fon-
ti materiali. Ne ricordo qui due: innanzitutto la fine di ogni netta
demarcazione fra l’interno e l’esterno della città (nonostante la per-
sistenza della cinta muraria tardoantica), resa spesso evidente dalla
localizzazione in entrambi gli ambiti di edifici cultuali importanti, e
soprattutto dall’ingresso delle sepolture all’interno della città; e la
tendenza dell’abitato urbano ad addensarsi in nuclei distinti, pur se
sempre localizzati dai documenti “infra civitatem”.
Mentre il riferimento alle pratiche cimiteriali è rimasto purtrop-
po isolato (in mancanza di una relazione dedicata specificamente alla
‘città dei morti’, tema oggi indagato con crescente attenzione tanto
dagli archeologi quanto dagli storici), altri punti toccati da La Rocca
sono stati ripresi nel corso del convegno. Così, il tema della funzio-
ne (e della percezione) delle strutture difensive di delimitazione è
stato affrontato (e seguito fino all’inizio del secolo XIV) da Aldo A.
Settia. Lo studioso ha efficacemente messo in discussione una certa
idea ‘ottimistica’ dell’ampliamento progressivo delle cerchie murarie
urbane fra il XII secolo e il Trecento. In primo luogo, la costruzione
degli apparati difensivi era faticosa e dispendiosa, e spesso era ef-
fettuata (o quantomeno avviata) solo in momenti d’emergenza, con
interventi ‘tampone’ e impiego di materiali poco costosi (e la prose-
cuzione dei lavori si trascinava poi per decenni). E in secondo luogo,
al posto delle vere e proprie mura vi erano spesso — almeno fino al
Due o Trecento — terrapieni e fossati, eventualmente protetti da pa-
lizzate: di tal genere erano ad esempio le fortificazioni milanesi nel
1162, e la famosa distruzione disposta dal Barbarossa riguardò per-
ciò essenzialmente le porte, esse sì costruite in muratura, in asse con i
varchi della cerchia più interna risalente al IV secolo. Da fossati, ter-
rapieni e palizzate era protetta alla metà del Duecento anche Parma,
che Federico II, come è noto, non riuscì ad espugnare. In questo
392
Conclusioni

quadro, ad avere una rilevanza anche simbolica erano proprio le por-


te urbane, la cui costruzione è spesso ricordata da iscrizioni. Chi ha
seguito il convegno, si sarà accorto che quest’aspetto è emerso anche
in una relazione riguardante un tema apparentemente assai lontano,
ossia quella dedicata da Anna Benvenuti a “luoghi, simboli e imma-
gini dell’identità cittadina”. Nella sua puntuale lettura del famoso
testo trecentesco padovano noto come “la visione del re Egidio” (un
re mitico, testimone fantastico della distruzione della città al tem-
po di Attila), la studiosa ha infatti notato con quanta attenzione il
suo autore, il giudice Giovanni da Nono, si soffermi sulle “quattro
porte regali” e sulle quindici porte minori della cerchia muraria pa-
dovana; e molto efficacemente la stessa Benvenuti ha aggiunto che
la sensibilità medievale caricò quelle particolari “aree liminali” che
erano le porte urbane di molti segni di protezione, fra i quali, talora,
anche la presenza di celle di “reclusi” dediti alla penitenza. Per tor-
nare a Settia, bisogna aggiungere che lo studioso ha dedicato ampio
spazio ad un altro tema congeniale ai suoi interessi di ricerca: l’ori-
gine della tipologia delle torri urbane adibite ad abitazioni private,
rintracciata nelle torri di difesa che costellavano le cerchie murarie
tardoantiche.
Un’analoga, spiccata sensibilità per gli aspetti materiali del feno-
meno urbano ha improntato anche la relazione di Maria Ginatempo,
volta per così dire programmaticamente a calare lo studio della “evo-
luzione demografica delle città” entro il ‘contenitore’ rappresentato
dalle strutture insediative nel loro concreto trasformarsi ed ampliarsi
dall’XI secolo in poi. Un secolo, l’XI, che si potrebbe definire l’ul-
timo dell’alto Medioevo piuttosto che il primo dell’età comunale,
giacché il rapporto fra spazio interno e spazio esterno appare anco-
ra simile a quello tratteggiato da Cristina La Rocca (alle cui ricerche
di topografia urbana altomedievale la Ginatempo si è esplicitamen-
te riferita). Solo con il secolo XII l’espansione urbana nei borghi e la
progressiva lottizzazione dei suoli edificabili diventano fenomeni più
chiari e perciò — entro certi limiti — esprimibili in misure di super-
ficie, sulle quali rapportare l’indagine demografica. Con quest’ultima
osservazione, la studiosa ha ripreso e in certo senso sviluppato il di-
scorso svolto il giorno precedente da Étienne Hubert. Mettendo a
frutto le sue profonde competenze in materia, lo studioso france-
se aveva affrontato il fenomeno dell’espansione dell’abitato urbano
dapprima dal punto di vista del quadro giuridico che regolava l’edifi-
cazione delle nuove case di abitazione (il più delle volte su terreni di
393
Mauro Ronzani

grandi proprietari, ecclesiastici e laici), e quindi da quello delle poli-


tiche di concessione della cittadinanza praticate dai Comuni. Questi
ultimi furono molto attenti a che i nuovi cives fossero proprietari
delle case in cui abitavano (giacché la condizione di livellario o di en-
fiteuta comportava un certo grado di dipendenza e persino obblighi
di fedeltà nei confronti del concessionario), e talora, come nei casi di
Bologna o di Assisi, promossero direttamente interventi di lottizza-
zione e popolamento.
L’intreccio fra gli aspetti materiali e quelli politici è riappar-
so ieri pomeriggio nell’intervento, pur esso assai ricco, di Roberta
Mucciarelli, che ha spostato l’attenzione dal momento dell’edifi-
cazione delle case e della concessione della cittadinanza a quello
— opposto — della “esclusione dal Comune” e della demolizione
delle case degli sbanditi. In questa relazione mi ha colpito in parti-
colare lo studio — condotto soprattutto sulla ricca documentazione
senese — degli aspetti organizzativi dell’attività di demolizione, che
la rendevano un vero e proprio ‘cantiere pubblico’, nel quale opera-
vano e si avvicendavano maestranze specializzate pagate dal Comune,
interessato sia alla rapidità dell’esecuzione, sia al carattere spettaco-
lare e quasi ‘rituale’ di essa.
In un convegno come il nostro, non poteva certo mancare una
relazione dedicata ai palazzi pubblici. Italo Moretti, nel presentar-
la, ha messo a frutto sia la sua attitudine al confronto tipologico (in
riguardo alla struttura architettonica dei palazzi e alla loro collocazio-
ne nello spazio urbano), sia la sua capacità di ‘leggere’ le architetture
anche nei più piccoli particolari. Originali e certamente preziose mi
sono parse le sua osservazioni sulle “strutture a rocca” con le qua-
li culminano le torri del Palazzo Vecchio di Firenze e del Palazzo
Pubblico di Siena: già sperimentata nella prima metà del Duecento
nella rocca imperiale di San Miniato, questa soluzione fu adottata
nel secolo successivo dai due grandi Comuni guelfi, con il probabile
intento di mostrare che, dopo la fine del sogno di Arrigo VII, l’esibi-
zione della forza militare non era più appannaggio dell’Impero, ma
delle città.
Ma il potere comunale non necessitava solo di sedi per le pro-
prie magistrature e i propri consigli: gli servivano anche edifici
‘giudiziari’ che ospitassero i suoi tribunali e custodissero i prigionie-
ri. Da qui è partita la relazione di Andrea Zorzi, dedicata appunto
ai “luoghi della giustizia”. Nell’esporla, lo studioso ha progressiva-
mente spostato l’attenzione dagli edifici agli spazi aperti; dai luoghi
394
Conclusioni

di detenzione ai luoghi di esecuzione delle pene, che dovevano es-


sere pubbliche e visibili per evidenti fini parenetici. E se gli spazi
specialmente deputati alle esecuzioni capitali erano di norma esterni
alla cinta muraria, tutta la città, almeno nei suoi settori nevralgici, era
toccata dai cortei giudiziari che accompagnavano i condannati fino
al luogo del supplizio, seguendo itinerari fissi.
A dire il vero, il grande tema degli “spazi pubblici” era già
stato affrontato dalla relazione di Elisabeth Crouzet-Pavan, op-
portunamente programmata subito dopo quella di Moretti, come a
sottolineare che i palazzi sono a loro volta collocati in uno spazio, la
cui organizzazione fu appunto il frutto del clima politico e cultura-
le dell’età comunale. Tre le fasi principali individuate dalla studiosa:
dapprima la sistemazione di spazi per le attività economiche (con gli
esempi eloquenti del porto di Genova e dell’arsenale di Pisa); poi la
costruzione di vere e proprie sedi del potere (viste soprattutto nella
loro funzione di “generatrici di piazze”, come nel caso di Bologna);
e quindi, fra Due e Trecento, la comparsa nelle fonti di riferimenti
espliciti all’ideale dell’utilitas civitatis, realizzato non solo dalla ‘co-
modità’, ma anche dal decoro, dall’ordine, e perciò dal ‘bello’.
Il quadro generale lucidamente delineato da Crouzet-Pavan è
stato arricchito dalle relazioni dedicate a singoli temi rilevanti qua-
li i mercati, le strade e le localizzazione delle attività produttive.
Dell’ampio intervento di Roberto Greci mi ha colpito in particolar
modo l’accenno — sostanziato dall’esempio del Broletto milanese —
al fatto che la costruzione del palazzo comunale poté aver l’effetto di
“attirare” il mercato, che in precedenza era vicino ai centri del pote-
re ecclesiastico. Ma ho apprezzato anche l’attenzione del relatore per
la concreta configurazione materiale delle piazze cittadine del mer-
cato, caratterizzate dalla coesistenza di spazi scoperti e spazi coperti
da portici o tettoie.
Se nella regolamentazione degli spazi destinati ai mercati il ruo-
lo del Comune fu sicuramente molto forte, ancor di più lo fu nella
cura della viabilità cittadina, di cui Thomas Szabó — specialista rico-
nosciuto di quest’argomento — ha fornito un gran numero d’esempi.
Molto efficace la sua citazione della rubrica De viis publicis conte-
nuta nella redazione del 1186 del Constitutum Usus di Pisa: qui, il
divieto di occupare le strade pubbliche — sia al livello del suolo, sia
in elevato, con l’abuso di ballatoi di legno troppo sporgenti rispetto
agli edifici in muratura di cui costituivano l’ampliamento e la proie-
zione all’esterno — era motivato da un brano del Digesto. Il quadro
395
Mauro Ronzani

di norme e provvisioni in materia di strade offerto da Szabó è stato


completato dalla relazione di Francesca Bocchi, che ha dedicato par-
ticolare attenzione (riferendosi soprattutto al ben documentato caso
di Bologna) ad aspetti direttamente connessi con le strade, come lo
scolo delle acque e dei liquami (di origine sia civile sia ‘industriale’)
e la rimozione dei rifiuti, nonché al grande tema dell’approvvigio-
namento di acqua potabile mediante acquedotti e fontane. Le vie
d’acqua — dai grandi fiumi come l’Arno, ai canali padovani, ai fos-
sati di protezione — sono state trattate ampiamente anche dalla
relazione di Franco Franceschi sui “paesaggi della produzione”; ma
oltre che alla lavorazione dei tessuti (intrinsecamente legata come è
noto alla vicinanza di corsi d’acqua), egli si è soffermato incisivamen-
te sulla presenza in città di produzioni ad alto impatto ambientale
come quella dei laterizi e quella del vetro, che talora si cercò di allon-
tanare dagli abitati, ma più spesso ci si accontentò di regolamentare,
soprattutto in riguardo al tipo e alla quantità dei combustibili da usa-
re nelle fornaci e nelle vetrerie.
Leggendo il programma del convegno, si sarebbe potuto pensa-
re che il passaggio dalle relazioni incentrate sull’ambiente materiale
a quelle dedicate ai “miti” e ai “simboli” della “identità cittadina”
avrebbe comportato un salto brusco e un po’ forzato. Non è stato
così, grazie al fatto che — come già accennato —, il testo che Anna
Benvenuti ha scelto di mettere al centro del proprio contributo (os-
sia la Visio Egidii), mostra con esemplare chiarezza che, nell’intento
di assicurare alla propria città un primato su tutte le altre, Giovanni
da Nono seppe (per usare le parole della studiosa) “coniugare il regi-
stro razionale del più realistico pragmatismo con quello irrazionale e
onirico della metafora e del mito”. Donde la pari attenzione riserva-
ta alla configurazione materiale della città di Padova, e ai suoi valori
religiosi e mitologici, dei quali tanta parte era ovviamente il privi-
legio di ospitare la tomba e la basilica di sant’Antonio. A Padova
— città illustrata da una ormai lunga e felice tradizione di studi —
si è riferito anche Dario Canzian, cui era stato affidato il non facile
compito di tracciare un quadro dei “miti fondativi” delle città. Lo
studioso è partito dai secoli X-XI, con le rivendicazioni dell’origi-
ne ‘apostolica’ della Chiesa locale elaborate a Milano e a Venezia;
e ha individuato nel passaggio fra XI e XII secolo il momento in
cui i cives cominciarono ad appropriarsi del culto dei santi al fine
di esaltare la nobiltà delle origini della propria città. Nei due seco-
li successivi, questi processi si sarebbero sempre più sviluppati, e un
396
Conclusioni

ottimo esempio della ricchezza e complessità delle costruzioni mi-


tologiche si può ricavare dal confronto fra Padova e Venezia, che in
questo campo — e non solo — furono divise da una forte rivalità.
Molto efficace il riferimento alla inventio del corpo dell’evangelista
Luca nella chiesa padovana di S. Giustina, avvenuta nel 1177, in con-
comitanza con l’incontro veneziano di rappacificazione fra Federico
I e Alessandro III (sul quale era appuntata l’attenzione di tutta la cri-
stianità!): dimostrazione lampante, che l’elaborazione dei miti e delle
leggende fondative era sempre inserita nella cornice della ‘attualità’.
Un secolo dopo, come è noto, Padova fu sede di un’altra inventio
eclatante: quella del troiano Antenore. E se Canzian ha concluso la
propria relazione ricordando che un siffatto allargarsi e complicarsi
dei miti fondativi anche al di là degli aspetti più strettamente eccle-
siastici non si ebbe in centri minori come Capodistria e Ceneda, per i
quali l’essere sedi vescovili restò sempre la principale giustificazione
dell’aspirazione ad una compiuta identità urbana, la successiva rela-
zione di Sante Bortolami (tanto ricca che egli ha potuto presentarne
al convegno solo una parte) ha ben mostrato come la crescita di tan-
ti centri abitati fino alla soglia dell’ “essere città”, solo raramente fu
sanzionata nel Due e Trecento dalla promozione a sede vescovile:
tale riconoscimento sarebbe arrivato di solito molto più tardi, come
dimostrano i casi toscani di Prato e San Miniato, e quelli settentrio-
nali di Vigevano e Casale Monferrato.
Città vescovile sin dall’età tardoantica fu sicuramente Pistoia
(alla cui diocesi appartenne Prato fino all’età moderna); e la relazio-
ne dedicatale da Lucia Gai ha mostrato come il culto dell’apostolo
Iacopo il Maggiore, istituito dal vescovo Atto nel 1145, acquistò ra-
pidamente un grande rilievo per la città, senza però che il Comune
riuscisse a “strumentalizzarlo” entro lo schema di un vero e proprio
patrocinio ufficiale, del quale, fino alla fine del Medioevo, si ebbero
sì alcuni segni, ma non un’elaborazione compiuta.
Arrivato alla fine di questo rapido riepilogo, ho l’impressione
di aver tralasciato il più e il meglio di quel che abbiamo ascoltato nei
tre giorni trascorsi in questo suggestivo Antico Palazzo dei Vescovi.
Spero però di aver fatto almeno intravvedere come il nostro con-
vegno, grazie alla competenza di chi lo ha ideato e organizzato, e
soprattutto all’impegno generoso dei relatori, abbia a tal punto ‘ade-
rito’ al proprio tema, da finire per assomigliargli: come una vera
‘città’, ha allestito spazi per le attività produttive e commerciali; ha
visto costruire e demolire mura di cinta, porte urbane e case, am-
397
Mauro Ronzani

pliare e pavimentare strade, condurre acquedotti e scavare canali di


scolo; dai palazzi è sfilato in corteo ai luoghi delle esecuzioni capita-
li, come anche ai luoghi di custodia dei corpi e delle reliquie dei santi
patroni e persino dei fondatori mitici. Ci si potrebbe chiedere, in-
vero, se questa nostra ‘città’ abbia soddisfatto il requisito principale
che nell’Italia medievale giustificava l’uso dell’impegnativo termine
di civitas, visto che abbiamo parlato poco (e solo per tangenza) della
cattedrale e della sua costruzione, come pure dei conventi mendican-
ti che, come ci hanno insegnato Jacques Le Goff e (per l’Italia) Luigi
Pellegrini, sono anch’essi un ottimo indicatore del carattere ‘urbano’
di un centro abitato; e forse potremmo rimproverarci di aver trascu-
rato anche altri aspetti.
Ma sarebbero domande e scrupoli oziosi. Quando, raccolti in
volume, gli “Atti” dei lavori svolti in questi giorni si presenteranno
alla comunità degli studiosi, saranno accolti come uno dei contributi
più importanti, completi e aggiornati al tema così vivo e affascinan-
te della città comunale.

398
Indice dei nomi e dei luoghi
(a cura di Francesco Leoni)

Abruzzo, 59 Alessandro II, papa, 373n


Acario, santo, vescovo di Tournais, Alessandro III, papa, 278, 279, 284,
264, 265 397
Acerenza, 351 Alfieri, Ogerio, cronista, 53
Acherentium, 351 Alfredo da Consesio, bresciano, po-
Acqui Terme, 49 destà a Milano, 113
Adalardo, archicancellarius verone- Alighieri, Dante, intellettuale e poe-
se, 36 ta, 5, 289, 290n, 320, 321n
Adalberto, marchese, 60 Alpi, 10
Adalgero di Capodistria, vescovo di Alsazia, 359n
Trieste, 278 e n Altamura, 350, 353
Adige, fiume, 185 Altino (Altinum, Quarto d’Altino),
Adigetto, corso d’acqua, 189 249n
Adimari, famiglia fiorentina, 307 Amalfi, 363, 365
Adriatico, mare, 283 Amato di Montecassino, cronista,
Agata, santa, 61 359n, 365, 373
Ageltrude, moglie di Guido di Spo- Ambrogio, santo, 270, 344
leto, madre di Lamberto, 37 e n Amidei, famiglia fiorentina, 226n
Agrigento, 351 Amiterno, 59
Alais, cittadino di Amiterno, 59 Anatalone, primo vescovo di Mila-
Alba, 47 no, 270
Albania, 353n Anatolia, 283
Albenga, 296 Andalusia, 167
Alberti, famiglia comitale, 77, 316 Andrea Pisano, artista, 73
Alberti, Leandro, cartografo dome- Andria, 350
nicano, 339 Angelberga, moglie di Ludovico II
Alberti, Leon Battista, umanista, 58 imperatore, 34, 35, 36
e n, 211n, 353 Angiò, Carlo I di, re di Sicilia, 294,
Albizzi, famiglia fiorentina, 184 323, 328, 357, 362
— Uberto di Lando, 182 Annibale (Cannibale), generale car-
Aldobrandino, conte palatino ma- taginese, 318n
remmano, 306n Annibale di Bentivogli, bolognese,
Alessandria $, 56 e n 237
Alessandria d’Egitto, 271 Anonimo Barese, 379 e n, 385n
399
Anonimo Genovese, 173 e n — S. Antonio, convento di, 338n
Anonimo Ticinese, vd. De Canistris, Ascoli Satriano, 364
Opicino Assisi, 37, 141, 142, 320 e n, 394
Anonimo Trecentista, 240n Asti, 53, 58, 61, 107, 110n, 299n,
Antelami, Benedetto, architetto e 304, 310 e n, 311
scultore, 71 — Torre Rossa, 58
Antenore, mitico fondatore di Pa- Attila, khan unno, 38, 39, 244, 282,
dova (re), 40, 41, 42, 249n, 263n, 318n, 393
276n, 282, 283, 284, 285 e n, 286, Atto, vescovo di Pistoia, 397
288, 289, 290, 291, 397 Augusta, 350, 351 e n
Antonio Averlino (il Filarete), archi- Austria, 359n
tetto e scultore, 211n, 353 Avellino, 350
Antonio, santo, 255 e n Averlino, Antonio (il Filarete), ar-
Aosta, 198 chitetto, 211n, 353
Apollinare, santo, 273n Aversa, 350, 359n
Aquileia, 267n, 271, 272, 278 e n, Avignone, 36
279, 282, 318 e n Babbillonia d’Egitto, 308n
— S. Maria, basilica di, 278 Bacchiglione, corso d’acqua, canale,
— S. Maria, monastero di, 278n 48, 187, 248n, 283
Aquilo, mitico fondatore di Aqui- Barattieri, Niccolò dei, ingegnere,
leia, 286n 231n
Aquisgrana, 273n Barberino Val d’Elsa, 316
Ardenghi, Lamizone di Menigini, Bari, 2, 368, 369 e n, 370 e n, 371,
giudice, 61 372, 373 e n, 374, 375, 376 e n,
Arezzo, 7, 92, 138 e n, 141, 155, 160, 378, 379, 380, 381 e n, 382 e n,
161, 179, 295n, 319 384 e n, 385 e n, 386, 387, 388,
— Burgus bicherarie, 179 389, 390 e n, 391
— Burgus inter due fontes, 179 — ‘città vecchia’, 370
— Fons tecta, 253 — castrum, 387, 388 e n, 389, 390
— Orciolaio, 179 en
Ariano Irpino, 350, 355 — cattedrale-episcopio, 378, 379,
Aristotele, filosofo, 365n 383n
Arno, fiume, 99, 105, 151, 162, 179, — corte del catapano, 376, 379,
182, 184 e n, 185, 188, 207, 232, 382n, 384, 386
233, 237, 396 — curtis domnica, 384n, 385n
Arnolfo di Cambio, architetto e — opus quadratum, 375
scultore, 71, 73, 77, 122 — penisola di S. Cataldo, 370
Arnolfo di Carinzia, re di Germania, — porta nova, 376, 378, 386
imperatore, 36 — porta vetus (occidentalis, “vec-
Arrigo VII, vd. Enrico VII chia”), 378
Ascoli Piceno, 144, 304, 310, 311, — Portanuova, castello di (petrinea
337n domus), 382
400
— Portico dei Pellegrini, 372 Berta, moglie di Enrico IV impera-
— porto nuovo, 370 tore, 38 e n, 39 e n, 42, 43
— ruga francigena, 386 Binduccio dello Scelto, letterato se-
— S. Benedetto, monastero di, 383, nese, 261
384n Bisanzio, arcivescovo di Bari, 379
— S. Demetrio, chiesa di, 377n Bisanzio, vd. Costantinopoli
— S. Nicola, basilica di, 372, 377 e Bobbio, monastero di, 34n, 35
n, 387 Bocacius, bresciano, 302n
Barletta, 364 Boemia, 359n
Barnaba, santo, 270, 271n, 273n Bologna, 7, 29n, 52n, 53, 55, 61,
Basilio I (il Macedone), imperatore 111, 113, 114, 115, 117, 120n,
bizantino, 371n 128, 129, 138, 141, 148, 152, 153,
Basilio Mesardonita, catapano, 157, 158 e n, 159, 163, 164, 173,
377n, 378 174, 180, 186, 187, 188, 189, 190,
Bavaria, 358n 191, 193, 204, 206 e n, 219, 237,
Baviera, 264 276n, 298, 304, 305, 314, 342,
Beatillo, Antonio, gesuita, 375, 389 344 e n, 395, 396
Bela, re di Ungheria, 362 — albergo dal Lione, 237
Belforti, famiglia volterrana, 305 — Beverara, gualchiere di, 345n
Belgio, 195, 262n — Campo del Mercato, 231, 346
Belluno, porta de Rudo, 237 — Canale Cavaticcio, 345
Belluno, porta Drioni, 237 — Canale del Navile, 345, 346
Belmonti, famiglia senese, 306n — Canale del Savena, 188, 346
Benevento, 59, 135, 316 — Canale di Reno, 186, 188, 190
Beniamino di Tudela, ebreo spagno- — Carceri del Torrone, 224
lo, 9, 10n, 11n, 365, 386 — Circla, 345, 346
Benzo di Alessandria, cronista, 277 — curia comunis, 111
Berengario I, re d’Italia, imperatore, — curia Santi Ambrosii, 111
22, 26, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 40 — guasto di Ghixilieri, 236
Bergamo, 106, 109, 116, 117n, 140n, — Palazzo del Capitano del Popo-
180, 184, 192, 301n lo, 219
— Duomo, 109 — Palazzo della Biava, 224
— palatium comunis, 70 — Palazzo di re Enzo, 219
— piazza vecchia, 109 — Palazzo Nuovo (Palazzo del Po-
Berlino, 312 destà), 344
Bernardino da Siena, santo, frate — Piazza Maggiore, 111, 158, 219,
predicatore, 253 223, 344, 347
Bernardo, monaco pellegrino, 376 — platea comunis, 111, 118
en — Platea maior, 108n
Bernardo di Chiaravalle, santo, 265 — Porta di Castiglione, 346
Bernardo, vescovo di Trieste e Ca- — Porta di S. Procolo, 346
podistria, 279n — Porta Nova, 62
401
— Porta Ravegnana, 62, 117, 118, — palacium, 109
158 — pallacium lignorum, 116
— Predacolaria, 224 — platea sive mercati Arcus, 206
— Prigione delle Malpaghe, 223 — Ponticello, 206
— S. Ambrogio, chiesa di, 344 — Porta Paganora, 206
— S. Petronio, basilica di, 344n Brienne, Gualtieri di, duca di Ate-
— Torre degli Orti, 62 ne, 73, 87
— Torre dei Lapi, 62 Brigida, santa, 386
— Torre dell’Arengo, 224 Britannia, 15
— trivio Porte Ravegnane, 118 e n Bugamo, 354
Bonaventura Medico, costruttore, Buonconvento, 77n
71 — Palazzo Pretorio, 76
Bonifacio da Verona, poeta, 286 e n — Porta Senese, 76
Bonifacio VIII, papa, 289n Buondelmonti, Buondelmonte, fio-
Bonizone, vescovo di Sutri, 270 rentino, 225, 226 e n
Bonsignori, Nicola di Bonifazio dei, Burcardo, notarius imperatoris,
306n 296n, 298, 318 e n
Bonsignori, Stefano, artista, 232n Burcardo, re di Svevia, 297n
Borgo San Donnino, 210 e n Burgundia, 359n
Borgo San Sepolcro, 210 e n Cadazzo, Bernardo da, podestà di
Bosforo, 377 Como, 70
Boulogne, Guido di, cardinale, vica- Caffaro, cronista, 50, 51, 101 e n
rio imperiale, 311 Cagnola, famiglia bresciana, 45, 58
Brabancia, 359n Calabria, 350
Brenno, capo gallo, 269 Calci, Michele da, minorita, ereti-
Brenta, fonte del, 248n co, 240
Brescia, 45, 49, 50, 51, 52, 56, 58, Camerino, 37
106, 109, 110, 116 e n, 117n, 141, Campania, 350 e n
156, 180, 199, 205, 229, 296n, Candiani, famiglia veneziana, 283n
298, 299n, 302, 303n, 320 e n Cannibale, vd. Annibale
— Broletto, 71, 206 Canossa, famiglia, 235
— cattedrale, 109 Capaccio Vecchia, 350n
— cortine pro porta Sancti Iohannis, Capitanata, 362
45 Capodistria (Capris, Giustinopoli),
— Foro Fortunato (Piazza Brusa- 277, 278 e n, 279 e n, 280 e n, 281
to), 205 e n, 397
— horreum, 206 — Cattedrale di S. Nazzario e del-
— mercato dei Rabotti, 206 l’Assunta (di S. Maria), 281
— Mercato Nuovo (Piazza Brusa- Capua, 350, 352, 361 e n, 362
to), 205 Carducci, Giosuè, 298n
— mercatum forum, 206 Carlo I (Magno), re dei Franchi, im-
— palacium novus magnus, 116 peratore, 33n, 164n, 165n, 250,
402
263, 273n, 282 e n Cherasco, 210 e n
Carlo III (il Grosso), imperatore, 35 Chermonino, sangimignanese, 178
en Chieri, 304, 310 e n, 311 e n
Carlomanno, re d’Italia, 35n Chimento, papa, 301n
Carminiano, 350 Chioggia, 280
Carona, torrente, 186 Cicala, Nicolò da, architetto, 362
Cartagine, 273n, 318 e n, 319 Cingoli, fra’ Bevignate da, architetto
Casale Monferrato, 397 benedettino, 251
Casale novum, 359 Cisgiordania, 318
Casalecchio di Reno, 345n Città di Castello, 304
Casentino, 77, 78, 80, 295n Cittanova Eracliana (Eraclea), 282
Caserta Vecchia, cattedrale (casa Clemente VI, papa, 144n
irta) di, 351 Clemente I, papa, 270
Cassiodoro (Flavio Magno Aurelio), Codagnello, Giovanni, cronista, 54
politico, 315 e n, 350n e n, 108, 260n, 277
Castel San Barnaba, vd. Scarperia Coderta, Giovan Battista, notaio
Castel San Giovanni, vd. San Gio- erudito, 286n
vanni Valdarno Cola di Rienzo, Tribuno e riforma-
Castellano, fiume, 192 tore di Roma , 144 e n
Castracani degli Antelminelli, Ca- Collalto, 60, 179n
struccio, signore di Lucca, 315, Colle di Giano, vd. Conegliano
316n Colle Valdelsa, 76n, 77, 189
Catania, 315, 350, 363 e n, 365n Colli Euganei, 249n, 283
Catanzaro, 350 Colonia, 386
Catepanato d’Italia, 373 Colonne, Guido dalle, letterato,
Catilina, Lucio Sergio, imperatore, 261, 286, 289
260n Commenale, Oberto, 351
Cavalcanti, famiglia fiorentina, 222 Como —, 30, 56 e n, 106, 109, 116,
Ceneda, 281n, 397 117
Cerchi, famiglia fiorentina, 184 — Broletto, 70
Certaldo, Palazzo Pretorio (P. Vica- Compagni, Dino, cronista, 232 e n,
riale, P. degli Alberti) di, 68n, 77, 317n
81, 82 Compostella, 386
Cesare, Gaio Giulio, tiranno roma- Conegliano (Colle di Giano), 286n
no, 260n, 262 e n, 262, 264, 266, Consesio, 113
268 Cordova, 371
Cesena, 117 Cornazzano, Magnano dei da, par-
Ceteo, santo, vescovo di Amiterno, mense, 234
59 Corrado II, imperatore, 273n, 297
Ceuta, 369n Corrado IV, re di Sicilia, 357
Checo di Meo da Settignano, capo- Correggio, Niccolò da, poeta, 257
mastro di Michelozzo, 77 en
403
Corte Olona, 37 179
Cortenuova, castello di, 301n Domenico di Meo, ladro a Firenze,
Cortona, 295n 236
Costantinopoli (Bisanzio), 103 e n, Donati, Corso, magnate fiorentino,
274 57
Costanza, 96, 106, 162, 190 Dondi, Gia como, medico e croni-
Crema, 50, 56 e n, 210 e n, 298, sta, 282n
299n Dubrovnik, vd. Ragusa
Cremona, 52 e n, 180, 198, 286n, Duccio di Boninsegna, artista, 91
296n, 297 e n, 298 Edrisi, vd. Idrisi
— Palazzo Comunale, 70 Egida, 279
— Palazzo del Popolo (Cittanova), Egidio, mitico re di Padova, 223,
71 244, 245 e n, 254, 393, 396
Crescenzago, 187 Egilulfo, vescovo di Mantova, 36
Crescenzio, santo, vescovo, 249 Egitto, 308n
Crisostomo, arcivescovo di Bari e Elba, fiume, 263, 264
Trani, 376n Elena, figura mitica, 289
Cristina, santa, 37 Eleuterio, santo, vescovo di Tour-
Cuneo, 179 nais, 264, 265
Dallo (Lucca), fortezza di, 319n Elia, abate di S. Benedetto di Bari,
Danče, collina di, 235 383, 384, 385n
Dandolo, Andrea, giurista, doge, Eligio, santo, vescovo di Tournais,
cronista, 282, 291n 264, 265
Daniele, santo martire, vescovo pa- Emilia, 229
dovano, 32, 276 — longobarda, 23, 24, 94n
De Adam, Salimbene, frate, croni- Emilia, via, 200n
sta parmense, 64n, 65n, 112, 113, Emirato di Bari, 371
114, 353n, 388 Enea, eroe mitico, 262, 263 e n
De Canistris, Opicino, cronista, 46, Enrico (il Leone), duca di Baviera,
47n, 48 e n, 161 e n, 165 e n, 168, 264
177, 178n, 186 e n, 199n, 200n, Enrico II (il Plantageneto), re, 261
204, 205n, 273n, 277, 317 e n Enrico III, imperatore, 278
De la Riva, Bonvesin, cronista, 53, Enrico IV, imperatore, 38, 39 e n,
54n, 168, 213, 214 e n, 270, 273n, 42, 43
277 Enrico VI, imperatore, 357 e n, 358,
Dei, Benedetto, memorialista, 232 361n
en Enrico VII, imperatore, 80, 296n,
Della Strada, Taurello, pavese, po- 320 e n, 394
destà di Parma, 112 Enrico, canonico di Tournais, 264
Della Torre (Torriani), famiglia mi- Enzo, re di Sardegna, 219
lanese, 317 e n Epone, vd. Turrisendi, famiglia
Dino di Ventura, vasaio aretino, Eraclio I, imperatore, 282
404
Erchemperto, storico, 351, 376n — ponte di Castel Tialto (C. Tedal-
Ercole, eroe mitico, 308 do), 234
Ermagora, martire santo, 278 Ferrarese, 345
Este (Civitas Hestensis), 249n Fiamma, Galvano (De la Flamma,
Ettore, eroe mitico, 261 Galvaneus), cronista, 114, 193,
Euliste, vd. Ulisse 276n, 321n
Europa, XII, 6, 8, 9, 11, 15, 16, 17, Fiandre, 132, 197, 236, 266n
100, 132, 137, 195, 196n, 221, Fibbio, corso d’acqua, 185
232, 260, 278n, 318n, 347, 366, Fieschi, Obizzo, vescovo di Parma,
381n 115
— centrale, 338 Fiesole, 5, 250, 252, 260 e n, 287n,
— centro-settentrionale, 10 295, 319, 320 e n, 323, 326
— occidentale, 185 Fifanti, famiglia fiorentina, 316n
Evandro, re degli Arcadi, sodale di — Oddo Arrighi, fiorentino, 225,
Enea, 285n 226n
Everardo, conte friulano, 33 Firenze, 5, 7, 15n, 49, 52, 57, 69, 77,
Ezzelino da Romano, vd. Romano, 78, 79, 80, 93, 107, 108n, 122,
Ezzelino III da 133, 138, 140n, 156, 159, 163,
Fabriano, 11, 192, 210 e n 177n, 178, 181, 182n, 184, 185,
Faderico IV, re di Sicilia, 365 188, 191, 199, 208, 219, 220, 222,
Faenza, 56 226 e n, 228n, 229, 231, 232, 235,
Falcando, Ugo, storico, 359, 364, 236, 237n, 238, 239, 246, 252,
390 e n 260 e n, 269n, 294 e n, 295n, 304,
Falcone di Benevento, cronista, 355 306n, 308, 309 e n, 310 e n, 316
e n, 389n, 390n e n, 317, 319 e n, 320 e n, 321n,
Falconieri, famiglia fiorentina, 184 323, 325, 326, 327, 329, 330
Farfa, abbazia di, 60 — Badia fiorentina, 220
Faustino, santo, 302n — Bargello (palazzo del podestà),
Fava, Aliprando, podestà a Milano, 73, 77, 78, 79, 123, 220, 221, 239
203 — Borgo dei Greci, 239
Federico I (Barbarossa), impera- — Borgo S. Gallo, 294n
tore, 9, 27, 50, 51, 54, 56, 108n, — Borgo SS. Apostoli, 76n
162, 207, 235, 260, 276, 277, 284, — Burelle, 222
296, 297 e n, 298, 299, 300, 315, — Cafadium, 156
318 e n, 392, 397 — Callemala (Chalimala), 162, 239
Federico II, imperatore, 52, 56, 57, — Campanile di Giotto, 236
212, 219, 252, 301 e n, 350, 351, — Castello di Altafronte, 188
352, 359, 360, 362, 388, 392 — Corso Adimari, 126n
Felicita, santa, 275 — Corso dei Tintori, 182, 184, 188
Ferrara, 117, 141, 159, 179, 234 — Fondaco del Guado, 191
— Castel Tedaldo (Castel Tialto), — forum vetus, 162
borgo presso, 235 — Gabella del Sale, sede della, 236
405
— Isola delle Stinche, vd. Stinche — Piazza S. Noferi, 232
— Loggia de’ Tavernai, 236 — Piazza S. Spirito, 127
— Loggia del Grano di Orsanmi- — Piazza S. Trinità, 165
chele, 236 — Ponte alla Carraia, 188
— Lungarni, 226 — Ponte di Rubaconte, 188
— Mercato Nuovo, 236, 239 — Ponte Vecchio, 211, 225, 226 e n
— Mercato Vecchio, 161n, 236, 239 — popolo di S. Simone, 222
— Oltrarno, 182, 188, 226 — Porta alla Croce, 232, 236
— Orsanmichele, chiesa di, 69, 240 — porta de Balla, 156
— Ospedale de’ Pinzocheri, 236 — Porta Ghibellina, 220
— Palazzo Acciaiuoli, 76n — Porta S. Francesco (porta della
— palazzo del capitano del popo- Giustizia), 232, 233, 239
lo, 182 — Porta S. Frediano, 127, 232, 236
— palazzo dell’esecutore degli Or- — Porta S. Gallo, 232, 236
dinamenti di giustizia, 221 — Porta S. Niccolò, 188
— Palazzo Gianfigliazzi, 76n — Porta S. Piero Gattolini, 232
— Palazzo Medici, 76 — porta Sancte Marie, 225
— Palazzo Spini (poi Feroni), 76n — Prato (pratello) della giustizia,
— Palazzo Vecchio (P. dei priori, P. 232, 233n, 240
della Signoria), 68, 69, 73 e n, 76, — Prato Ognissanti, 236
77, 78, 79, 80, 87, 108n, 122, 124, — Quartiere di S. Croce, 233
125, 127, 133, 134n, 148, 153, — S. Croce, chiesa di, 69, 184, 240
165, 179, 182 e n, 183 e n, 194, — S. Giorgio Oltrarno, 316n
211, 220, 221 e n, 227, 314, 394 — S. Giovanni Battista e S. Repara-
— piaça del Grano, 240 ta, chiesa cattedrale di, 126 e n,
— Piazza Beccaria, 232 240, 295n, 308
— piazza d’Arno, 236 — S. Giovanni Battista, battistero
— Piazza del Duomo (P. S. Giovan- di, 240, 294, 308
ni Battista), 126 — S. Giovanni Battista, Spedale di,
— piazza del Frascato, 236 126
— Piazza del Ponte Vecchio, 226 — S. Lucia Ognissanti, 188
— Piazza della Signoria (P. dei prio- — S. Maria del Carmine, chiesa di,
ri, p. dei signori), 74, 165, 228, 127
236, 240, 314 — S. Maria del Fiore, chiesa catte-
— Piazza ecclesie fratrum Servorum drale di, 69, 182, 236
Sancte Marie de Caffagio, 127 — S. Maria della Croce al Tempio,
— Piazza Piave, 232 cappella di (il Tempio), 233
— Piazza S. Croce, 182, 239 — S. Maria della Croce al Tempio,
— Piazza S. Firenze, 221, 239 ospedale di, 233, 234
— Piazza S. Giovanni Battista, 308 — S. Maria Novella, chiesa di, 69,
— Piazza S. Maria Novella, 127, 93n, 127
236 — S. Maria Nuova, lazzaretto di,
406
234 Franco (Francione), figlio dell’eroe
— S. Maria Nuova, ospedale di, troiano Ettore, 261
234 Fredegario, intellettuale, 261n, 295,
— S. Martino del Vescovo, chiesa 296n
di, 182 Frisia, 358n
— S. Remigio, chiesa di, 240 Gaio, giurista, 136n
— S. Spirito, chiesa di, 127 Galgario, frate, 184
— Servi di Maria, chiesa dei, 127 Gallia, 9; vd. anche Francia
— Stinche (Isola delle S., le S.), car- — nord-orientale, 28
cere delle, 72, 222, 239 Galvano Fiamma, vd. Fiamma,
— Teatro Verdi, 222 Galvano
— Tempio, il, 233 Gambiglioni, Angelo, giurista, 227 e
— Tiratoio, 236 n, 236, 237n
— torre dei Foraboschi, 80 Gamenolfo, vescovo di Modena, 37
— torre del Guardamorto, 307, 308, Gandino, Alberto da, giurista, 227
309 en
— Torre della Pagliazza, 222 Gela, 350
— Vachereccia, 239 Genova, 9, 27, 50, 51, 52, 64, 99,
— Vescovado, 240 101 e n, 103, 104, 116, 138, 152,
— Via dei Servi, 183 157, 162, 167, 172, 173, 180, 185,
— Via del Proconsolo, 240 235, 260, 280, 296, 299, 320 e n
— Via della Giustizia (dei Malcon- — borgo di S. Stefano, 173
tenti), 233, 239 — Capo Faro, 235
— Via della Vigna Nuova, 156 — Molo (Ripa maris), 99, 104, 105,
— Via della Vigna Vecchia, 240 152, 395
— Via della Vigna, 240 — orti di S. Andrea, 173
— Via Ghibellina, 222 — Piazzale di Sarzano, 172
— Via Maggio, 182 — Porta dei Vacca, 235
— via nova de Casellino, 156 — Porta di S. Agnese, 173
— via nova de Placza, 156 — San Benigno, promontorio di,
— Via S. Giuseppe, 239 235
— Via S. Monaca, 156, 158, 161 — Torre della Lanterna, 235
— Via Tornabuoni, 76n Gente, Gilberto da, podestà di Par-
Foggia, 350, 359 ma, 112n
Fonte Branda, 160 Gerardino di Marco, vicentino, 149,
Foraboschi, famiglia fiorentina, 80 152
Forlì, 117 Gerardo, prete di S. Maria di Tour-
Fortunato, martire santo, 278 nais, 265
Fossalta, 219 Gerardo, vescovo di Padova, 284
Francia, 260, 261n, 294n, 359n; vd. Geremei, famiglia bolognese, 314
anche Gallia Gerfalco, 305
Francigena, via, 200n Germania, 30, 264, 366n
407
Gherardo, gualcheraio a Firenze, se, 386
237 Gualtiero, vescovo di Agrigento,
Ghirlandaio, artista, 93 351
Giacomo (Iacopo) il Maggiore, apo- Gubbio, 183
stolo, 397 — Palazzo dei Consoli, 339
Giano, compagno del re Antenore, Guerrieri, Giovanna, XI
286n Guerrieri, Massimo, XI
Gioia del Colle, 350 Guglielmo de Osa, milanese, pode-
Giotto, artista, 91, 220, 246, 247 stà, 116n
Giovanni (Battista), santo, 308 Guglielmo di Puglia, poeta, 365 e n,
Giovanni da Nono, giudice e stori- 369, 374 e n, 375n, 380, 385n
co, 186, 223, 244, 245 e n, 247, Guglielmo I d’Altavilla, re norman-
248, 251, 254, 255, 396 no, 361, 386, 390
Giovanni di Diana, vicentino, 150 Guicciardini, Francesco, umanista,
Giovanni Diacono, cronista, 271 366 e n
Giovanni Pisano, artista, 251, 340 Guidalotti, famiglia fiorentina, 183
Giovanni, abate di Santa Cristina a Guidecto, messer, milanese, 296n
Corte Olona, medico di Berenga- Guidi, famiglia comitale, 77, 78 e n,
rio I, 37 80, 90
Giovanni, evangelista, 246 — Guido Novello dei, podestà a Fi-
Girolami, Remigio de’, teologo, 303 renze, 220
Giuliana, santa, 275 Guidi, famiglia fiorentina, 316n
Giulio, ruffiano fiorentino, 237 Guido II di Spoleto, re d’Italia, im-
Giustina, martire e santa, 32, 39, peratore, 34, 37
254, 276, 283 Iacobus, gonfaloniere di Brescia,
Giustiniano, imperatore, 163, 164, 302n
279 Iacopo il Maggiore, vd. Giacomo il
Giustino II, imperatore, 279 Maggiore
Giustinopoli, vd. Capodistria Idrisi, al-, geografo, 168 e n, 369 e n,
Giusto, santo, 278 e n 370, 371, 372, 373
Grado, 271, 272 e n, 274 e n, 279, Ildebrandino di Romeo, podestà a
282 Volterra, 305
Grandenigo, famiglia veneziana, 96 Ilderico, gastaldo, 60
Grazzini, Anton Francesco, novel- Imola, 117, 204
liere, 233n — S. Lorenzo, 204
Gregorio VII, papa, 30n, 383 Inghilterra, 15, 260n
Gregorio IX, papa, 359 Innocenzo III, papa, 365n
Gressa, castello di, 295n Iohannes Archidiaconus Barensis,
Greve in Chianti, Castello delle Stin- 384n
che di, 222 Isidoro di Siviglia, lessicografo, ve-
Grilandi, Paolo, giurista, 227 e n scovo, 245, 293, 294
Grimoaldo Alfaranite, nobile bare- Isola, 278n
408
Isolo, corso d’acqua, 189 Lapo, padre di Arnolfo di Cambio,
Israele, stato di, 318 78
Istria, 277, 279 e n, 280 Lecce, 364n
Italia, XI, XII, 5, 8, 9, 11, 13n, 15, Legnano, 96, 298
16, 17, 19, 23, 28, 29, 50, 51, 56, Leone III, papa, 273n
59, 67, 94n, 115, 145, 147, 148, Leone IX, papa, 275
164, 180, 196, 197, 198, 217, 218, Leoni, Francesco, XI
221, 224, 240, 246, 256, 257, Liguria, 359n
261n, 267 e n, 268 e n, 271, 286, Liutprando, re longobardo, 149n,
288, 289, 294n, 299, 302, 310, 164, 269
319, 322, 323, 332, 334, 338, 347, Liutprando, vescovo di Cremona,
366 e n, 367, 368, 370, 398 297n
— centrale, 70, 71, 72, 94, 95, 107, Liutuardo, archicancellarius, 34
122, 124, 210, 218 Livio, Tito, storico latino, 41, 246
— centro-settentrionale, XI, 1, 2, Lodi, 54, 56, 70, 106, 109, 117n,
5, 6, 9, 10, 30, 52, 131, 132, 154, 276, 297, 298
158, 184, 245, 338, 349, 362, 366, — platea publica, 108n
392 Lombardia, 70, 71, 72, 94n, 106,
— meridionale, XI, XII, 1, 2, 5, 6, 114, 162, 181, 260n, 269, 297,
10, 135, 349, 356, 357, 361, 362, 299, 359n, 366n
363, 368, 369 e n, 373, 378, 380, Londra, Fleet Prison, 222
381n, 384, 385n, 389, 391 Londra, Newgate, 222
— nord-orientale, 32, 269, 275, 277, Longobardia, tema di, 373
282 Lorenzetti, Ambrogio, artista, 92 e
— padana, vd. Italia settentrionale n, 322
— settentrionale, 25, 27, 70, 71, 72, Lorenzo, santo, 41
73, 94, 95, 106, 108, 124, 210, Lotaringia, 359n
218, 220, 266, 284 Lotario I, imperatore, re d’Italia, fi-
«Italia Nostra», 183n glio di Ludovico il Pio, 33n
Ivrea, 167 Lotario II di Supplimburgo (il Sas-
Jacobinus de Allegracore, dominus, sone), imperatore, 56, 264
343n Lovati, Lovato, giudice, 41, 261n,
Jesi, 190 285 e n, 286, 289
L’Aquila, 252 Luca, evangelista, 249, 284, 319 e n,
Labro, corso d’acqua, 187 397
Lambertazzi, famiglia bolognese, Lucca, 7, 21, 137, 148, 167, 177,
111, 313n, 314, 315 179, 189, 199, 225, 237, 295 e n,
Lamberto, re d’Italia, imperatore, 309n, 310n, 311, 312, 315, 316n,
figlio di Guido di Spoleto, 37 319n, 320 e n, 323, 330
Landolfo Seniore, cronista, 270, 297 — castello, 312n, 316n, 330
en — porta della posterla di S. Martino,
Landucci, Luca, memorialista, 236n 309n
409
— porta di S. Giovanni, 309n novum), 220
— S. Romano, chiesa di, 312, 323, — Piazza delle Erbe, 206, 220
330 — Rio, 206
Lucera, 354 — S. Lorenzo, 206
Ludovico II, re d’Italia, imperatore, — Sesto in Silvis, monastero di, 35n
figlio di Lotario, 32, 33n, 34, 35 e Maragone, Bernardo, cronista, 100,
n, 164, 165n, 371 e n 101, 151
Lupo Protospatario, annalista, 378 Marango, Domenico, patriarca gra-
Luxeuil, 261n dense, 274 e n
Magdeburgo, 262, 264, 268 e n Marca Friulana, 33, 34
— monastero Gratiae Dei di, 263n Marca Trevigiana, 106, 246
Maggi, Bernardo, ingegnere, 71n Marche, 190
Magio, senese, 321n Marco, cronista, 283, 290
Magliano, Palazzo dei Priori di, 76 Marco, evangelista, 231, 267n, 271,
Magonza, 268n 275, 282
Maitani, Lorenzo, architetto e scul- Marcria, 359n
tore, 339 Margatto in Soria, terra di, 308n
Malaspina, Morovello, marchese, Martino, santo, 199
militare e politico, 296n Massa Marittima, fonte dell’abbon-
Malaterra, Goffredo, cronista, 365, danza di, 253
374, 380, 382 Massa Marittima, magazzino anno-
Malavolti, Orlando, storico erudito, nario di, 252
159 e n Massimo, vescovo di Padova, 32,
Mallio, figlio di Turno, re dei Ner- 275
vi, 263 Matteo, evangelista, 61
Mandello, Rubaconte da, milanese, Mattia, apostolo, 284
podestà a Firenze, 159 Mauricius, magister militum, 26
Mandriano, castello di, 315 Maurisio, Gerardo, cronista, 301,
Manfredi, re di Sicilia, 316n, 321, 302n
339, 353n Maurizio, santo, 264
Manfredo di Scipione, messer, par- Maurizio, vescovo di Firenze, bea-
mense, 112 to, 295n
Manfredonia, 353 e n Mediterraneo, 380
Mannelli, famiglia fiorentina, 226 Megara, 351
— Lippo di Simone dei, 226 Melfi, 359n
— Mannello di Tommasino dei, Melo, nobile barese di origine lon-
226 gobarda, 378
— Tommasino dei, 226 Meloria, isola, 100
Mantova, 30, 35n, 36, 110n, 142, Mertesana, 297
180, 206, 243, 271, 275 e n Messina, 261, 294 e n, 323, 328, 363
— Broletto, 220 e n, 364
— Palazzo della Ragione (palatium Mestfalia, vd. Westfalia
410
Mestre, 231 — Porta Vercellina, 297
Mezzogiorno (d’Italia), vd. Italia — S. Ambrogio, basilica di, 298n
meridionale — S. Ambrogio, monastero di,
Michele Paleologo, nobile bizanti- 297n
no, 390 — Santa Tecla, basilica di, 203
Michelozzo, 77 — turris Tauri, 25
Michelozzo, artista, 76, 77 — via Levata, 184
Milano, 25, 50, 51, 53, 54, 55, 56 e n, Milone, vescovo di Padova, 38
58, 62, 63, 70, 71, 106, 109, 113, Mizzana, lazzaretto di S. Matteo dei
114, 115, 117n, 133, 164, 178, Crociferi, 235
180, 181, 184, 187, 193, 203, 206 Modena, 30, 37, 60, 107, 109, 143,
e n, 212, 214, 260, 269, 270 e n, 178, 238, 304
271 e n, 272 e n, 273n, 276, 296 e — piazza grande, 117
n, 297 e n, 298 e n, 299 e n, 301n, — via dei Grasolfi (poi de Miolis),
302n, 303n, 314 e n, 315, 317, 178
318 e n, 321, 333, 334, 336, 392, Moerbeke, Guglielmo di, domenica-
395, 396 no, arcivescovo di Corinto, 365n
— borgo di S. Eustorgio, 193 Molfetta, 364
— broleto del vescovo, 109, 113 Monselice, 249n, 283
— Broletto Nuovo, 113, 114, 115n, Montaccianico, castello di, 319n,
395 323, 329
— case rotte (Guasti Torriani), 317 Montaione, da, vetrai valdelsani,
— contrada dei mercanti, 115n 178
— curia comunis, 113 Montalcino, 77n
— domus dei consoli, 109 — Palazzo Comunale, 77
— Duomo, 187 — Porta del Cassero, 76
— forum iudicalis, 113 — Rocca, 76
— forum Mediolani, 113 Montaperti, 5
— Guasti Torriani (Turriana vasta, Monte di Croce, castello di, 319
case rotte), 317 Montepacciano (Perugia), 339
— palatium novum Communis Me- Montepulciano, Palazzo Comunale
diolani, 109 di, 77n, 88
— palatium vetus, 109 Monternano, castello di, 319
— Palazzo della Ragione, 70 Montieri, 305, 306n
— palazzo della società del Popo- Monza, 180, 315
lo, 115n — Arengario, 71
— Porta Cumana (Porta Cumacina), Morena, Acerbo, cronista, 297n,
181, 297 298, 299n
— Porta Nova, 297 Morena, Otto, cronista, 53n, 54n,
— Porta Orientale (Arienza), 297 297n
— Porta Romana, 297 Mugello, 319n
— Porta Ticinese, 187, 297 Mugnone, corso d’acqua, 184, 188
411
Muntaner, Ramon, cronista, 364n — Palazzo del Popolo, 71
Mura, castello di, 301n Osa, 116n
Murano, 178 Ostiense Marsicano, Leone, croni-
Mussato, Albertino, storico, lette- sta, 378
rato e politico padovano, 261n, Ottone di Frisinga, cronista, 9, 10 e
289 n, 366n
Nanni, Paolo, XI Ottone di S. Biagio, cronista, 56
Napoli, 243, 355 e n, 356, 357 e n, Ottone I di Sassonia (il Grande),
361, 363, 364 imperatore, re di Germania, re
— Piazza del Mercato, 235 d’Italia, 30n, 263, 268
— S. Salvatore, castello di, 355 Padania, vd. Italia settentrionale
Navile, corso d’acqua, 346 Padova, 30, 31, 32, 33, 36, 37, 38,
Nazario, santo, 281 39 e n, 40 e n, 41, 42, 61, 116n,
Neocastro, Bartolomeo da, cronista, 117, 133, 140, 142, 143, 180, 186,
350, 351n 187, 190, 193, 223, 231, 243, 244,
Neri, Linetto, XI 245 e n, 246, 247, 248 e n, 249 e
Nicola Pisano, artista, 251, 340 n, 254, 255 e n, 256, 261n, 276 e
Nicola, santo, vescovo di Mira, 382, n, 281, 282 e n, 283 e n, 284, 285
383 e n, 384, 385, 386, 387 e n, 286, 288, 289, 290, 291, 393,
Nirone, torrente, 181 396, 397
Nonantola, monastero di, 209 — Ca’ di Dio, ospedale della, 284
Nosedo, 315 — cattedrale, 38, 187
Novara, 35n, 107, 109, 116, 117n, — chiesa vescovile, 39
297 — Mons Rubeus, 249n
— turris que dicitur Bosoni, 25 — Museo Diocesano, 39
Novgorod, 6 — novus carcer, 223
Noyon, 265 — Ospedale dei cavalieri di S. Gio-
Odelrico, vescovo di Padova, 276 vanni, 249 e n
Odengo, 296 — palacium paduanum, 38
Oldrado da Tresseno di Lodi, pode- — Palazzo degli anziani, 220
stà di Milano, 70 — Palazzo del consiglio, 220
Olona, torrente, 187 — Palazzo della Ragione, 220, 223,
Olsazia, 359n 246, 247
Oltremare, 253 — Piazza della Frutta, 220
Orcagna, artista, 73 — Piazza delle Erbe, 220
Orio, famiglia veneziana, 96 — Ponte Molino, 186, 187
— Stefano, 96, 97 — Porta (p. castri) di Ezzelino,
Orlando, eroe mitico carolingio, 249n
250 — Porta dei Tadi o dei Contarini,
Orte, Bonomo da, maestro costrut- 249
tore, 338 — Porta di Ezzelino, 249
Orvieto, 107, 338 — Porta di ponte Molino, 186,
412
248n 200, 213, 224, 229, 230, 231, 234,
— porta pontis altinati, 249 237, 321n, 392
— Porta S. Agostino (S. Tommaso — Foro antico, 112, 200
vescovo), 249 — Ghiaia, 117, 200
— Porta S. Egidio, 249 — glarea, 200n
— Porta S. Giovanni delle Navi (a — glarea comunis Parme, 234
Navibus), 248n, 249 — Palacium comunis de subtus pla-
— Porta S. Giuliana, 250 tea, 112
— Porta S. Leonardo, 249 — Palatium novum, 112n
— Porta S. Luca, 249 — Palatium vetus, 112
— Porta S. Pietro, 249 — Piazza Nuova, 114
— Porta S. Stefano, 250 — Piazza vecchia, 112
— porta turrisellarum, 249n — Platea nova, 112, 121
— S. Agostino, convento di (tem- — Platea vetus, 121
plum magnum Beati Augustini, — Ponte della Pietra, 234
ordinis predicatorum), 249 — Porta Cappellina, 234
— S. Antonio, basilica di, 223, 254, — Porta dell’Olmo, 57
396 — Porticus comunis, 112
— S. Antonio, basilica di, Cappella — Prato Regio, 200
di S. Luca, 223 — Quartiere di Codiponte (Oltre-
— S. Giustina, basilica di, 39, 275, torrente), 234
276, 284, 397 — S. Alessandro, monastero di, 200
— S. Lorenzo, chiesa di, 41 — S. Bartolomeo, monastero di,
— S. Pietro, monastero femminile 200
di, 249 — S. Cristina, chiesa di, 114
— S. Stefano, monastero femminile — S. Paolo, chiesa di, 114
di, 250, 284 — S. Paolo, monastero di, 200
— S. Zeno, monastero di, 36 — S. Pietro, chiesa di, 113
— Tomba di Antenore, 40, 243 — S. Tommaso, chiesa di, 114
— villa Bursegane, 249n — Via Emilia, 200n
Paestum, 350n — Via Francigena, 200n
Pagani, famiglia parmense, 112 Pavia, 30, 33, 34, 35, 37, 46, 48, 52
Palermo — Seralcadio, 354 e n, 54, 55, 58, 59, 60, 106, 109,
Palermo, 338, 354, 357, 364, 365n 117n, 138, 148, 161, 165, 177,
Palestina, 270, 318 180, 180, 186, 199, 204, 205, 227,
Palladio, Andrea, architetto, 70 270n, 271 e n, 272, 273n, 277,
Pallante, figlio di re Evardo, 285n 297, 299, 315, 317, 335n
Paolo di Tarso, apostolo, 270 — Becaricia, 199
Paolo Diacono, storiografo, 350n — Beccaria maior, 199
Parigi, Châtelet, 222 — Foro aperto, 199
Parma, 30, 36, 37, 57, 112, 113, 114, — Foro cluso, 199
117, 119, 128, 129, 148, 159, 180, — Palatium comunis, 205
413
— Palatium, 199 Piano di Mezzo (Valdarno), castel-
— Piazza della Vittoria, 199 lo di, 295n
— Piazza di S. Savino, 205 Piazza, Michele da, storico, 363n
— Platea de atrio Sancti Syri, 205 Piccardia, 266n
— Porta detta de Viridario, 60 Picolomini, famiglia senese, 313n
— porta di S. Pietro al Muro, 61 Piemonte, 106
— Regisole, 243, 287, 288n Pienza, 77n
— S. Agata, chiesa di, 61 Pieri, Paolino, cronista, 226n
— S. Niccolò in moneta, chiesa di, Pietro (Petrus notarius), vescovo di
200n Padova, 32, 33, 34 e n, 35, 36, 37
— S. Pietro in Ciel d’oro, monaste- Pietro da Eboli, poeta, 357n, 358 e
ro di, 54 n, 361 e n
— Torre di Boezio, 58, 59 Pietro de Casate, frate, 184
— Turricula Walperti, 25 e n Pietro Maniscalco, senese, 321n
Pazzi, Chierico dei, magnate fioren- Pietro, apostolo, 54, 61, 271n
tino, 57 Pieve di Parpanese, 55
Pedelbertus de Turre Alta, verone- Pipino, re d’Italia, 282 e n, 297n
se, 25 Pisa, 7, 9, 15, 27, 28, 51, 52, 65, 74,
Penisola iberica, 132, 197 99 e n, 100, 101 e n, 102, 103,
Perugia, 48, 53, 107, 121, 122, 123, 104, 105, 116, 121, 123, 124, 133,
124, 128, 129, 140 e n, 142, 244, 138, 149, 151, 153, 154, 155, 159,
251, 286, 320 e n, 338, 339, 340, 160, 161, 162, 163, 167, 171, 172,
341 173, 177, 179, 185, 207, 211, 260,
— campus batallie, 231 299n, 304, 316n, 365 e n, 395; vd.
— Conca, 339n anche Porto Pisano
— Fontana Maggiore, 251, 252, — aringum equorum, 124
286n, 288n, 338, 340, 341 — Arsenale, 100, 395
— Palazzo dei Priori, 123, 126, 340 — borgo di Chinzica, 51
— S. Severo (chiesa cattedrale), 121 — carraria Sancte Cecilie, 149
Petronio, santo, 276n — castellum, 28
Petrus notarius, vd. Pietro, vescovo — civitas vetera, 28
di Padova — domus communis, 102, 104, 123
Piacenza, 30, 49, 51, 52n, 54, 108, — ecclesia S. Mathei, 237
137, 148, 171, 180, 201, 227, 229 — ecclesia S. Viti, 237
— Palazzo Pubblico, 71, 84 — Grotte, 28
— palazzo vescovile, 109 e n — Lungarni, 151, 160, 172, 207
— piazza del Borgo, 109, 201 — murus vetus, 28
— S. Antonino (chiesa cattedrale), — Oltrarno, 101n, 106
108 — parlascio, 28
— S. Giustina (chiesa cattedrale), — Piazza del Duomo, 101, 121
108 — piazza delle Sette Vie, 123
— S. Sisto, monastero di, 201 — piazza di S. Donato, 99n
414
— pons Sarni, 208 lo, 72
— ponte della Spina, 162 — Palazzo del Comune (P. degli An-
— ponte di Mezzo (p. Vecchio), ziani), 7, 72, 86
207 — Palazzo del Podestà (P. Pretorio),
— porta a Lucca, 185 72 e n
— porta Degathie, 99n — Piazza del Duomo, 165
— Quartiere di Foriporta, 185, 207, — S. Zenone, cattedrale di, 7
208 — via Cassia, 165
— S. Ambrogio al Castelletto, chie- Pitti, famiglia fiorentina, 184
sa di, 102n, 123 Plenerio, frate, 338
— S. Clemente, 207 Ploče, 235
— S. Donato, chiesa di, 99n Po, fiume, 106, 200, 234
— S. Iacopo, chiesa di, 207 Poggibonsi, castello di, 295n, 319,
— S. Lorenzo dei Pellicciai, chiesa 323, 327
di, 207 Pola, 269n
— S. Lorenzo, chiesa di, 155 Polonia, 359n
— S. Maria (chiesa cattedrale), 121, Pomarania, 359n
207 Pombia, conti di, 209
— S. Maria in Chinzica, chiesa di, Poppi, 78 e n
185 — Biblioteca Comunale «Rilliana»,
— S. Martino d’Arno (de Piscibus), 78n
chiesa di, 207 — palazzo dei conti Guidi, 77, 78 e
— S. Martino, 207 n, 80, 90
— S. Michele, borgo di, 151 Poppone di Carinzia, patriarca di
— S. Pietro in Vincoli, chiesa di, Aquileia, 278 e n
207 Porto Pisano, 100, 320 e n
— S. Sebastiano de Fabricis, chiesa Prata, Gherardo di, feudatario ma-
di, 207 remmano, 306n
— S. Sisto, chiesa di, 208 Prato, 11, 295, 319, 397
— S. Vito, monastero di, 99n, 100 Prosdocimo, santo, 32, 276n, 283,
— Tersana, 100 288, 290
— via di S. Maria, 99n, 151, 161 Puglia, 350, 371, 373, 384, 390
Pistoia, 7, 8, 52, 101, 131n, 138, Quarto d’Altino, vd. Altino
140n, 151, 153, 154, 158, 160 e n, Quercini, famiglia veneziana, 310
161 e n, 165, 175, 177n, 190, 199, Quintole, 184n
229, 295 e n, 299, 300 e n, 320 e Rabelais, François, scrittore, 359n
n, 334, 397 Ragusa (Dubrovnik), 235
— Antico Palazzo dei Vescovi, 7, Rasiglio, Nicholaus de, bolognese,
397 magister falegname, 173
— battistero, 7 Raterio, vescovo di Verona, 25
— campanile-torre civica, 7 Ratisbona, 338
— Palazzo del Capitano del Popo- Ravenna, 19 e n, 26, 47, 56, 117, 202
415
e n, 271 e n, 272 e n, 273n, 287n, 302n
318 e n Rorigus, vescovo di Padova, 33
— basilica Ursiana, 202 Rossi, Fornaino dei, fiorentino, 226
— burgus Ravenne, 202, 203 Rossi, Stoldo Giacoppi dei, podestà
— Palatium Mercurii, 202 fiorentino, 295n
— porta S. Anastasia (porta Serra- Rota Greca, 350
ta), 202 Rotari, re longobardo, 296
— S. Maria della Rotonda, mona- Rotterdam, Erasmo da, umanista,
stero di (Mausoleo di Teodori- 359
co), 202 Ruggero di Conversano, 364n
— Tricoli, 202 Ruggero II d’Altavilla, re norman-
— Vidicla, 202 no, 355, 356, 361, 388, 389, 390n
Reggio Emilia, 52, 55, 65n, 117, Sabbatini, famiglia bolognese, 305
139n, 143, 159, 190, 304, 310n, Sacco, corte fiscale di, 32, 33, 36,
321n 37
Reims, 268n, 273n Saint Maure, Benoît de, poeta, 261,
Riccardo di Acerra, cognato di Tan- 262, 289
credi d’Altavilla, 361n Salerno, 135
Rieti, 60 Salpi, 350
Rimini, 23n, 26, 117, 180 Salvani, famiglia senese, 315n, 317n
Risano, 279n — Provenzano, 315n, 317n
Rivotorbido, torrente, 173 San Benigno, promontorio di, vd.
Roberto il Guiscardo, duca di Pu- Genova
glia e di Calabria, 373 e n, 380, San Gimignano, 77, 141, 160, 178
381, 382, 386 — Palazzo Comunale, 68n
Rodolfo, re burgundo, 264 San Giovanni Valdarno (Castel San
Rolandino da Padova, cronista, 38 e Giovanni), Palazzo Pubblico (P.
n, 39, 40, 41 e n, 42 del Vicario, P. di Arnolfo) di, 71,
Roma, 5, 20n, 41, 42 e n, 93, 94n, 85
134n, 138, 140, 144, 165, 177n, San Marco Argentano, 350
180, 206 e n, 228, 246, 260, 261, San Miniato al Tedesco, 79, 394,
266 e n, 269n, 270, 271 e n, 272, 397
273n, 285n, 306n, 320n, 338, — Torre di Federico II, 79, 80
362, 386 San Severino, 190
— Capitolium, 228 San Severo, 359
— Capitolo, 104 San Vincenzo al Volturno, 356
— mura aureliane, 62 Sano di Pietro, artista, 68, 83
— palatium novum, 104 Sansedoni, Gontieri di Goro dei, se-
Romagna (Romania bizantina), 23, nese, 75
24, 117 Sant’Andrea a Rovezzano, 184n
Romano, Ezzelino III da, 38, 39, 40, Santa Cristina a Corte Olona, mona-
41, 42, 246, 248, 249 e n, 254, stero di, 37
416
Saono Jaffa, ceramista savonese, — Camollia, terzo di, 315n
178 — Carmine, chiesa del, 69n
Sardegna, 365n — casamentum comune filiorum Re-
Sassoferrato, Bartolo da, giurista, naldini et Renaldini quondam do-
120 mini Ranerii (Piccolomini), 313n
Sassonia, 263, 264, 359n — Cattedrale, 6, 68, 69, 74
Savena, fiume, 188, 193, 346 — Costarella, 75
Savona, 144, 178, 296 — El monte dei Salvani, 317n
— porta Bellaria, 178 — Palazzo Cerretani (Alessi), 223
Scala, della, famiglia, 48, 246, 248, — Palazzo dei Lombardi, 75
291 — Palazzo del Capitano di Guerra
Scarperia, 319n (P. del Conservatore), 72
— Palazzo dei Vicari, 73 — Palazzo del Rettore di S. Maria
Scavia, 359n della Scala, 75
Scipione l’Africano, generale e — Palazzo Pubblico, 68, 69, 72, 73,
uomo politico, 318n 74, 76, 77n, 83, 88, 123, 172, 322,
Scoto, Michele, filosofo, 365 e n 394
Scribla, 354 — Palazzo Tolomei, 315n
Sele, fiume, 350n — Piazza del Campo, 73, 74, 123,
Semifonte, 316 125, 223, 306n
Seprio, 297 — Porta di Camollia, 315n
Sercambi, Giovanni, cronista, 295n, — S. Agostino, chiesa di, 69n
311, 319n, 323 — S. Cristoforo, chiesa di, 317n
Serchio (Auser), fiume, 185 — S. Domenico, chiesa di, 69n
Serio, fiume, 193 — S. Francesco, chiesa di, 69n
Servio Tullio, re di Roma, 262 — S. Maria della Scala, Spedale di,
Servolo, santo, 278 e n 7
Settignano, 77 — S. Vigilio, monastero di, 313n
Sicardo, vescovo di Cremona, 286n — Servi, chiesa dei, 69n
Sicilia, 318n, 349, 350, 354, 356, — Torre del Mangia, 69n, 73, 77 e
362, 363, 369, 384, 386, 391 n
— centro-orientale, 354 — via del Capitano di Guerra (v. del
Siegburg, Nicola, abate di, 298, Conservatore), 72
318n — via del Casato, 172
Siena, 5, 6, 7, 63, 65n, 68, 69 e n, 72 — via di Città, 75
e n, 73, 74, 75, 77, 92, 107, 122, Sigefredo di Parma, conte, 36, 37
123, 124, 140, 150, 157, 159, 160, Sillano (Lucca), 319n
172, 177 e n, 178, 179, 183, 206 Simeone di Treviri, santo, 251n
e n, 223, 229, 251n, 261, 293n, Sinalunga, 77n
303n, 304, 305n, 306 e n, 313n, Siponto, 350, 353
317n, 321n, 322, 337n, 338, 394 Siria (Soria), 308n, 309n
— Bottino Maggiore, 338 Soncino, castello di (castrum Soncì-
417
ni) 249 gnese, 111
Soraggio (Lucca), 319n Torino, 47, 58, 60, 65, 193n, 198,
Spagna, 9, 318n, 371 208 e n, 209, 310 e n
Sparta (Lacedemone), 360n — cerchia romana, 63
Spello, 250 — Piazza del Duomo, 210
Spinelli di Giovinazzo, Matteo, cro- — Piazza Palazzo di Città, 209
nista, 356n, 357n — Porta Doranea, 210
Spinola, Giovanni, genovese, 64 — porta Palatina, 58
Spoleto, 159, 298, 339 — S. Simone, chiesa di, 210
Squarcialupi, famiglia senese, 72n Torriani, vd. Della Torre, famiglia
Stefani, Marchionne di Coppo, cro- Tortona, 50, 56 e n, 298
nista, 159n Toscana, 67, 68n,, 72, 73, 78, 79,
Stefano, protomartire, 263 132, 148, 177, 181, 189, 194, 229,
Stefano, re di Ungheria, 362 261n, 313, 321n, 397
Stinche, castello delle, 223 Totila, re ostrogoto, 294, 295n, 319,
Streggiaporci, famiglia genovese, 323, 325
99n Tournais (Nervia, Tornacus), 262 e
Sulmona, 338, 339 n, 264, 265, 266 e n, 268, 273n,
Susa, 63 280
Svevia, 297n, 359n — S. Maria (Notre Dame), chiesa di,
Tancredi d’Altavilla, principe nor- 262 e n, 264, 265, 266
manno, 361n Trani, 376n
Tarchi, Ugo, bozzettista, 78 Travale, 305
Tarquinio Prisco, re di Roma, 262 Trebbia, fiume, 34
Telese, Alessandro di, cronista, 361, Tresseno, 70
388 Treviri, 268n, 273n
Teodorico (Teoderico), re ostrogo- Treviso, 60, 114, 157, 180, 231,
to, 50, 52, 315, 318n, 350 281n
Teodoro (Todaro), santo, 231 — Carubio, 114
Terranova, 350 — S. Vito in foro, chiesa di, 114
Terrasanta, 376, 386 Trieste, 277, 278 e n, 279 e n, 280,
Ticino, fiume, 165, 186, 227 286n
Tivoli, 140 — Cattedrale di S. Giusto, 278 e n
Tiziano, santo, 281 Tripoli di Soria, 309n
Todi, 107, 221 Tristaino, saraceno in Catania, 351
Tolomei, famiglia senese, 315n Triulzo, 187
Tommasi, Giugurta, erudito sene- Troia (Campania), 350, 359
se, 322 Troia (Ilio), 5, 40, 41, 245, 255, 259,
Tommaso da Venezia, ladro a Firen- 260, 261, 262, 263 e n, 282, 283,
ze, 236 286 e n, 287, 288, 289, 290, 308,
Tommaso, podestà di Brescia, 302n 318 e n, 319, 323, 324
Torelli-Salinguerra, famiglia bolo- Turingia, 359n
418
Turno, mitologico re dei Nervi, 262 125
Turrisendi (famiglia veronese), Epo- — Canal Grande, 96, 211, 238
ne dei, 61 — Castello, 272n
Tuscia, 359n — Fabbriche Vecchie, 211
Uberti, famiglia fiorentina, 123, 314, — Fondaco pubblico, 211
316n — Giardini Papadopoli, 238
— Farinata degli, 320, 321n — Lido (Littor Maris), 231
— Ischiatta degli, 226n — Palazzo comune, 102
Ugolino Salamone, parmense, pode- — Palazzo delle Prigioni nuove,
stà a Siena, 157 223
Ulisse (Euliste), eroe mitico greco, — Palazzo Ducale, 223, 228, 238,
286, 288n 239
Umbolus, cittadino di Amiterno, 59 — Piazza S. Marco, 102n e n, 104,
Ungaro, Andrea, cronista, 362 125, 238
Ungheria, 362 — Piazzetta, 103 e n, 231, 238, 239
Urbano II, papa, 385 e n — Piovego, 95 e n
Ursone, arcivescovo di Bari, 384 — Ponte dei Sospiri, 223
Vacca, famiglia genovese, 235 — Punta della Dogana (P. della Tri-
Val d’Elsa, 178 nità), 124 e n
Valdarno, 295n — Rialto, 96, 97 e n, 104, 125, 211,
Valentiniano III, imperatore, 357 228, 282n
Valois, Carlo, conte di, 235 — Rio Marin, 185
Varigotti, 296 — Ripa, 98
Vasari, Giorgio, artista e scrittore, — S. Croce, chiesa di, 238, 239
77, 78 e n — S. Croce, monastero di, 238
Vaticano, stato del, 294n — S. Croce, sestiere di, 238
Velluti, famiglia fiorentina, 226 — S. Geminiano, chiesa di, 103
— Donato, 226 — S. Giorgio, 98n
— Ghino di Donato, 226 — S. Giovanni del Pré, 98
— Lamberto, 226 — S. Giovanni Elemosinario, chie-
Veneto, 33, 39, 70, 181, 283, 291 sa di, 96
Venezia, 5, 48, 93, 95 e n, 96, 97 e n, — S. Lucia, parrocchia di, 101
101, 102, 103 e n, 104, 124, 125, — S. Marco, basilica di, 99n, 102 e
128, 133, 138, 178, 179, 180, 185, n, 124, 239
189, 211, 214n, 223, 231, 235, — S. Marziale, parrocchia di, 101
236, 238, 239, 367n, 269 e n, 271, — S. Nicolò, passaggio litorale di,
272 e n, 274 e n, 275, 278, 279 97
e n, 280n, 281, 282 e n, 283 e n, — S. Pietro in Banchi, 98n
284, 290, 291 e n, 318n, 365 e n, — S. Tomaso, monastero di, 98
396, 397 — S. Zaccaria, chiesa di, 102
— Arsenale, 97 e n, 98, 104, 124 — Sanctus Georgius Major, sestiere
— Bacino di S. Marco, 103, 124, di, 232
419
— Soziglia, 98n en
— Terranova, 124 — “Basilica”, vd. Palazzo della
— Vacuum mercatum civitatis, 98 Ragione
— via del porto di S. Nicolò de Lit- — Palazzo della Ragione, 70
tore Maris, 231 — Piazza delle Erbe, 117, 118
— via di Chioggia, 231 — S. Bartolomeo, monastero di,
Venezie, 274 185
Venosa, 351 — S. Tommaso di Berica, monaste-
— abbazia di, 351 ro di, 185
Ventimiglia, Francesco, conte, 365 Vielminus de Lendera, podestà di
Venusia, vd. Venosa Brescia, 302n
Vepra, torrente, 187 Vigevano, 397
Vercelli, 53, 61, 107, 110n, 174, 192, Villani, Giovanni, cronista, 57 e n,
229, 237 123, 126n, 159, 160, 168, 246,
— S. Eusebio, chiesa di, 192 294 e n, 295n, 308 e n, 309n,
— turricella Arialdi, 25 310n, 316n, 319 e n, 320n, 321n,
Vernarci, Roffino dei, messer, par- 323
mense, 113 Virgilio (Publio V. Marone), poeta,
Verona, 22, 25 e n, 26, 34 e n, 35n, 243, 269n, 273n, 283, 287
36, 58, 61, 106, 116n, 140 e n, Visconti, famiglia milanese, Azzone
164, 180, 185, 190, 198, 199, 212, dei, signore di Milano, 193
248n, 269n, 291, 297n, 301n, Visconti, famiglia milanese, Giovan-
304 ni dei, signore di Milano, 321
— Arcus, 22 Visconti, famiglia milanese, Luchi-
— Arena, 22 no dei, signore di Milano, 321
— carcer, 22 Viterbo, 140, 338
— forum, 22, 164, 212 Viterbo, Giovanni da, giurista, 163
— palacium antiquum, 22 Vito di Martino Xoco, vicentino,
— Piazza delle Erbe, 117 152
— porta di S. Zeno (poi dei Borsa- Vitruvio Pollione, trattatista latino
ri), 61 di architettura, 339, 352
— pusterula Totonis, 25 Vivaro, da, famiglia, 301 e n, 302n
— S. Matteo, chiesa di, 61 Volterra, 140n, 150, 152, 305, 306n
— S. Michele, convento di, 212 — Palazzo dei Priori, 79 e n
— teatro romano, 26 Volturno, fiume, 361, 362
— Turre Alta, 25 Wernardo (Guernardus), vescovo di
— vicus (burgus) Sancti Zenonis, Trieste, 278 e n, 279n
185 Westfalia (Mestfalia), 359n
Verucola, 295n Zeno, santo, 36, 61
Vicentino, 315 Ziani, Sebastiano, doge veneziano,
Vicenza, 48, 107, 118, 149, 150, 152, 102, 103
185, 192n, 204, 248n, 283n, 301 Zuhrî, al-, geografo, 167
420
Indice degli autori e dei curatori
(a cura di Francesco Leoni)

Adamesteanu, D., 059n Bargellini, P., 233n


Adami, A.F., 226n Barone, G., 241n
Adler, N.N., 365n, 386n Bartoli, C., 353n
Agazzi, M., 103n Bartoli Langeli, A., 128n, 252n,
Ait, I., 177n, 206n 339n
Alberti, A., 096n, 211n Bartolini, U., 221n
Albini, G., 105n, 112n, 115n, 133n Baschet, J., 293n
Allegri, E., 078n Bassett, M., 222n
Ambaglio, D., 047n Batou, J., 133n
Andenna, G., 045n, 107n, 110n, Bauman, Z., 366n
116n, 117n Bavant, B., 026n
Ardrey, R., 354n Bazzana, A., 135n
Arlinghaus, F.J., 241n Becchi, F., 222n
Arnaldi, G., 036n, 42 e n, 291n Belgrano, L.T., 051n
Arslan, E., 314n Bellabarba, M., 226n
Artifoni, E., 016n Belli D’Elia, P., 379n, 385n
Ascheri, M., 160n Bellinati, C., 039n
Astegiano, L., 052n Bellomo, M., 381n
Augenti, A., 014n Beltrani, G., 376n
Avanzati, E., 073n Bendiscioli, A., 352n
Bachtin, M., 360n Beni, G., 078n
Bairoch, P., 133n Benussi, B., 279n, 280n
Baldassarri, G. 279n Benvenuti, A., 005n, 184 e n, 244n,
Balestracci, D., 006n, 69n, 105n, 245n, 253n, 254n, 256n, 260n,
108n, 135n, 154n, 170n, 177n, 287n, 392, 396
178n, 179n, 190n, 191 n, 206n, Bera, G., 053n
223n, 234n, 251n, 315n, 338 e n Berardi, M.R., 252n
Balletti, A., 052n, 55n Berengo, M., 382
Balletto, L., 144n Bertaux, E., 363n
Balzani, U., 060n Bertelli, C., 070n, 336n
Banti, O., 150n Berti, E., 246n
Barbieri, E., 055n Berti, G., 167n, 179n
Barbieri, F., 048n, 118n Besta, E., 163n
Bardet, J.-P., 133n Bianchetti, L., 079n
421
Billanovich, G., 041 e n, 284n Braunstein, Ph., 188 e n
Biotti, V., 222n Brentegani, G., 045n
Bizzarri, D., 065n, 139n, 303 e n Brepohl, W., 354n
Blasio, S., 073n Brezzi, A., 078n, 298n
Blomquist, Th.W., 223n Brogi, M., 160n
Bocchi, F., 001n, 10n, 11n, 52n, Brogiolo, G.P., 017n, 23n, 243n
53n, 55n, 62n, 74n, 109n, 111n, Broise, H., 177n
117n, 139n, 150n, 152n, 153n, Brolis, M.T., 184n
157n, 158n, 172n, 173n, 206n, Bruno, A., 072n
244n, 297n, 315n, 333n, 336n, Bünemann, R., 374n, 378n
342n, 343n, 344n, 396 Bullough, D., 199
Bodon, G., 285n Burdach, K., 144n
Boffito, G., 232n Burresi, M., 079n
Bognetti, G.P., 016, 17, 298n, Caggese, R., 065n, 127n, 162n,
315n 182n, 231n
Bollea, L.C., 054n Cagiano De Azevedo, M., 059n,
Bologna, F., 252n, 362n 372n
Bonaini, F., 099n, 149n Calabi, D., 211n
Bonardi, A., 038n Calabrò, A., 362n
Bonardi, C., 061n, 66 Caleca, A., 079n
Bonardi, M.T., 193n, 208n Calleri, M., 136n
Bonato, E., 289n Calo’ Mariani, M.S., 358n, 383n
Bonazzi, G., 057n, 230n, 234n Camera, M., 353n
Bongi, S., 225n, 295n, 310n, 323 Camerani Marri, G., 155n
Bordone, R., 059n, 169n, 208n, 258 Camerota, F., 247n
e n, 297n, 303n, 368n Cammarosano, P., 139n
Boretius, A., 164n Camporesi, P., 358n
Borghini, G., 068n Campori, C., 144n
Borsook, E, 286n Canaccini, F., 078n, 179n
Bortolami, S., 011n, 52n, 58n, 143 Canestrini, G., 065n, 366n
e n, 186n, 187n, 193n, 397 Caniato, L., 286n
Bortolotti, L., 069n, 74n Cantarella, G.M., 297n
Bottari Scarfantoni, N., 177n Cantino Wataghin, G., 018n
Boucheron, P., 177n, 218n Cantu’, C.M., 055n
Bougard, F., 014n, 27n, 35 e n, 37n Canzian, D., 005n, 243, 274n, 396,
Bouwsma, W., 366 397
Bozzolato, G., 246n Capasso, B., 361n
Braccesi, L., 283n, 285n, 289, 291n Capitani, O., 195n, 196n
Bracco, G., 193n Capo, L., 241n, 291n
Brandi, C., 068n, 72 e n Cappelli, E., 233n
Bratto, O., 317n Caprioli, S., 128n, 140n
Braudel, F., 170 e n, 366n Carabellese, F., 364n
422
Cardini, F., 067, 210n, 243n, 254n, Cicognario, 163n
297n, 308n Cilento, N., 350n, 351n
Carile, A., 267n, 271n, 281n, 291n Cirelli, E., 019n
Carlotto, N., 192n, 204n Clementi, D., 361n
Carocci, S., 144n Cocito, L., 173n
Caroti, F., 077n Colafemmina, C., 386n
Caroti, S., 155n Colla, E., 049n
Casamento, A., 250n Collavini, S.M., 027n
Cassanelli, R., 071n Collet, O., 266n
Castagneto, P., 185n Collodo, S., 003n, 39, 176n, 283n,
Castagnetti, A., 032n, 61n 285n, 288n, 289n
Castellani, L., 107n Collura, P., 351n
Castelli, E., 259n Comba, R., 063n, 109n, 133n, 208n
Castelli, P., 254n Concina, E., 097n, 100n
Castelnuovo, E., 049n, 293n Coniglio, G., 364n
Cateni, L., 073n Conte, E., 143n
Cattaneo, R., 102n Conti, E., 153n
Cattin, G., 256n Contini, G., 065n
Cau, E., 055n Coppola, G., 351n, 356n
Cavallari, V., 212n Cordaro, M., 077n
Ceccarelli Lemut, M.L., 210n Coriat, J.-P., 136n
Cecchi, 078n Corsi, P., 354n, 373n, 374n, 380n,
Cecchini, G., 150n 383n, 384n
Ceci, G., 221n Cortese, E., 139n
Cesati, F., 232n Corti, M., 214n
Cessi, R., 096n, 211n, 271n, 274n Costa, P., 139n, 302 e n
Cevini, P., 152 e n Costantini, A., 251n
Cherubini, G., 008n, 10n, 11n, 52n, Cracco, G., 048n, 118n, 185n, 271n,
72n, 95, 170n, 386n, 391, 392 275n, 281n
Chèvre, P., 133n Cracco Ruggini, L., 271n
Chiappa Mauri, M.L., 186 e n, 187n, Cristiani, E., 133n, 365n
193n Cristiani Testi, M.L., 079n
Chierici, G., 088 Crotti, R., 205n
Chiesa, P., 054n Crouzet-Pavan, E., 003n, 92n, 95n,
Chiffoleau, J., 218n, 224n, 230n 96n, 102n, 104n, 105n, 145n,
Chittolini, G., 011 176n, 178n, 185n, 218n, 231n,
Christie, N., 015n 240n, 310n, 395
Ciampoli, D., 160n Cruciani Fabozzi, G., 068n
Ciampolini, M., 073n Cuozzo, E., 355n, 356n, 361n
Ciappelli, G., 304n Cuscito, G., 278n
Cibrario, L., 311n Cutini, C., 231n
Ciccarelli, D., 363n D’Acunto, N., 040n
423
D’Andrea, F., 059n Dessauer, F., 352n
D’Angelo, E., 355n Dezzi Bardeschi, M., 068 e n, 71n
D’Angelo, F., 250n Dhondt, J., 196n
D’Onofrio, M., 362n Dini, B., 181n, 182n
Daniele, E., 177n Dionisotti, C., 289
Davico Bonino, G., 233n Doglio, F., 228n
Davidsohn, R., 050n, 57 e n, 161n, Donati, A., 029n
182n, 183n, 219n, 221n, 222n, Donati, M.T., 051n, 70n, 71n
232n, 309n, 314n, 316n Drinkwater, J., 019n
Davis, C.T., 015n Duby, G., 304n
Davis, J.R., 024n Duemmler, E., 164n
Davis, W., 033n Dufour, L., 355n
De Angelis, L., 139n Dupàquier, J., 133n
De Bartholomaeis, V., 359n, 373n Dupré Theseider, E., 060n, 196n,
De Franceschi, C., 279n, 280n, 351n, 352n
281n Edallo, D., 210n
De Giovanni, C., 141, 142n Edgerton, S.Y., 232n
De Jong, M., 024 e n Elton, H., 019n
de La Roncière, Ch.-M., 133n Emlen, J., 103
De Minicis, E., 061n, 63n, 180n Ennen, E., 046n, 198n
De Nava, L., 361n Epstein, S.R., 180n
De Sandre Gasparini, G., 105n Esch, A., 268n, 269n
De Seta, C., 230n, 248n, 355n, Fabris, G., 220n, 223n, 244n, 245n,
363n, 375n 246n, 285n
De Stefano, S., 135n Fagnani, F., 061n
De Vio, M., 364n Fainelli, V., 025n
Degli Azzi, G., 340n Faini, E., 225n
Degrandi, A., 174, 175n, 176n Fanelli, G., 069n, 108n, 122n,
Degrassi, D., 171n, 173, 175 e n, 123n, 220n, 233n
191n, 192n Fantoni, G., 053n
Del Badia, I., 236n Faoro, A., 179n, 180n
Del Conno, A., 021n Faron, O., 136n
Del Lungo, I., 226n, 232n Fasoli, G., 011n, 46n, 74n, 118n,
Del Panta, L., 132n 139 e n, 142n, 267n, 297n, 304n,
Del Prete, L., 225n 310n, 311n, 315n, 335n, 337n
Del Re, G., 356n, 388n, 389n Fé, F., 077n
Del Treppo, M., 368 Fedele, P., 136n
Della Peruta, F., 133n Federici, V., 140n, 356n
Delle Donne, R., 224n Feller, L., 035, 37n
Delogu, P., 020n, 135n, 388n Fennel Mazzoui, M., 180n, 181n
Depreux, P., 027n Fenssterbusch, C., 352n
Desmazed, Ch.A., 222n Ferrai, L., 270n
424
Ferrari, D., 178n 102n, 106n, 123n, 149n, 155 e n,
Ferzoco, G., 252n 173, 174n, 207n
Finoli, A.M., 211n Gasparotto, C., 285n
Fiorese, F., 038n Gasparri, S., 241n
Fiumi, E., 150n, 152n, 305n Gatta, F.S., 143n
Flora, F., 240n Gatti, T., 228n, 229n, 231n, 237n
Fonseca, C.D., 059n, 106n, 270n Gaudenzi, A., 163n
Foschi, P., 062n, 219n, 224n Gauthier, N., 017n
Foucault, M., 362n Gauvard, C., 222n, 224n
Fouracre, P., 033n Gawlick, A., 038n
Franceschi, F., 003n, 132n, 179n, Gazzola, P., 220n
181n, 396, 182n, 184n, 191n Gelichi, S., 023n, 28 e n, 179n
Francesconi, G., 060n Geltner, G., 221n, 223n
Franchetti Pardo, V., 076n, 339n Gensini, S., 134n, 386n
Francovich, R., 007, 13n Gerardi, R., 228n
Frangioni, L., 181n Geruzzi, S., 254n
Franzoi, U., 223n Gherardi, A., 236n
Frati, L., 343n, 345n, 346n Ghignoli, A., 160n
Frati, M., 177n Ghilardi, M., 014n
Fraticelli, P.I., 222n Gianani, F., 047n, 48n, 205n
Friedman, D., 072n, 73n Giannelli, G., 165n
Frojmovič, E., 220n Giardina, C., 363n
Frugoni, C., 092n, 230n, 294n, 323 Ginatempo, M., 003n, 132n, 133n,
Fuiano, M., 361n 138, 393
Furiesi, A., 079n Giordano, F., 220n
Gabotto, F., 025n Giorgi, A., 007n
Gabrielli, A., 144n Giorgi, I., 060n
Gabrielli, F., 069n, 75n, 76n Giovannini, C., 202n
Gagliardi, I., 147n Giulini, E., 063n
Gai, L., 007n, 171n, 175 e n, 397 Gloria, A., 140n
Galasso, G., 357n, 361n, 374n Glorieux, I., 266n
Galetti, P., 193n Goddard, C.J., 014n
Galgani, M.C., 178n Goldthwaite, R.A., 181n
Galletti, A.I., 286n Golinelli, P., 244n, 267 e n, 268n,
Gambardella, A., 107n 275n, 287 e n, 288 e n
Ganci, M., 355n Gombrich, E.H., 093n
Ganshof, F.L., 196 e n Graf, A., 286n
García García, A., 241n Grassi, L., 211n
Garin, E., 353n Greci, R., 003n, 112n, 132n, 173n,
Garofani, B., 169 178n, 191n, 192n, 200n, 205n,
Garufi, C.A., 352n 209n, 210n, 211n, 213n, 395
Garzella, G., 099n, 100n, 101n, Greehalgh, M., 014n
425
Gregori, M., 073n Iorio, R., 386n
Gregorio, R., 363n, 365n Ivetic, E., 277n
Greverus, J.M., 354n Jaksǐć, N., 279n
Grillo, P., 112n, 113 e n, 115n, Jaubert, A., 371n
181n, 184n, 206n Jesi, F., 275 e n
Grohmann, A., 172n, 201n, 240n Kandler, P., 278n, 279n
Grossi Bianchi, L., 051n, 98n, 99n, Kantorowicz, H.U., 227n
105n, 135n, 170n, 172n, 173n Katermaa Ottela, A., 062n
Guarnieri, E., 233n Kehr, P.F., 280n
Güterbock, F., 053n Kerényi, K., 259n, 275n
Guglielmi, N., 250n Klapisch-Zuber, Ch., 304n
Guidoni, E., 053n, 61n, 63n, 74n, Kohler, J., 228n
115n, 116n, 123n, 250n Krause, V., 164n
Guillou, A., 377 e n Krusch, B., 296n
Gullino, G., 053n, 192n La Duca, R., 354n
Guterbock, F., 296n, 297n, 318n La Farina, G., 365n
Guyotjeannin, O., 112n, 113n, La Ferla, G., 213n
114n La Rocca, C., 001n, 17n, 21n, 33n,
Haines, M., 126n 37n, 59n, 132n, 392, 393
Hammer, W., 273n Lanconelli, A., 177n
Heers, J., 046n, 55n, 58n, 59n, 99n, Lane, F.C., 097n, 133n, 178n
113n, 120n, 158n, 170n, 172n, Lanfranchi, L., 280n
191 n, 192n, 204n, 250n, 313n, Lanfranchi Strina, B., 95n
314n Lazzari, T., 204n
Heintz, A., 251n Lazzarini, L., 244n
Heullant-Donat, I., 169n Lazzarini, V., 282n, 283n
Hobsbawm, E., 40 e n Le Goff, J., 230n, 248n, 304n, 366n,
Holder Hegger, O., 054n, 299n 375n, 398
Hoshino, H., 182n, 183n Le Jan, R., 014, 27n, 35n, 37n
Houben, H., 351n Lecuppre-Desjardins, E., 104n
Hubert, E., 003n, 46n, 131n, 134n, Leone, A., 025n, 357n
135n, 136n, 138n, 144n, 154 e n, Lévi-Strauss, Cl., 355
176n, 393 Liberali, G., 157n
Hudson, P., 047n, 199 e n, 200n Liberati, A., 157n
Huillard Breholles, J.L.A., 351n, Licinio, R., 368n, 378n, 382n, 388n,
360n, 363n, 364n 389n, 390n
Hyde, J.K., 042 e n, 290n Limburger, W., 076n
Iacometti, F., 294n Lisini, A., 294n
Imbesi, P.N., 079n Liverani, P., 029n
Imperiale di Sant’Angelo, C., 064n, Livi Bacci, M., 133n
152n, 300n, 301n Lizier, A., 025n
Iona, M.L., 286n Lomastro, F., 118n
426
Lombardi, G., 228n, 305n Mathieu, M., 359n, 369n
Lonza, N., 235n Mayer, E., 381n
Lopez, R.S., 052n Mazzi, M.S., 234n
Lopez Pegna, M., 165n Mazzoleni, J., 363n
Loseby, S.T., 015n, 18n, 19n McCormick, M., 024n
Luisi, R., 320n Melucco Vaccaro, A., 017n
Lupo Gentile, M., 051n Mendera, M., 178n, 189n
Luzzatto, G., 097n, 214n, 317n Meneghini, R., 020n
Lynch, K., 358n Micheletto, E., 047n
Maccabruni, C., 059n Miglio, M., 228n, 305n
Magdalino, P., 028n, 260n Migliorino, F., 229n
Magenta, C., 066n Milanesi, G., 075n
Magherini, G., 222n Milani, G., 241n, 299 e n, 300n,
Mainoni, P., 181n 301n, 302n, 305n, 315n
Maiocchi, R., 161n, 178n, 205n, Miller, M.C., 29 e n, 30 e n, 110n
277n, 317n Minervini, L., 386n
Maire Vigueur, J.-C., 048n, 94n, Minotto, A.S., 281n
104n, 122, 135n, 154n, 191n, Moisé, F., 364n
192n, 219n, 224n Molà, L., 189n
Majocchi, P., 031n, 199, 270n, Molho, A. 103n, 240n
273n, 288n Molinier, A., 376n
Malanima, P., 132 e n, 133n, 168n Mommsen, Th., 350n
Manetti, R., 250n Montanari, M., 204 e n
Manganaro Favaretto, G., 139n Montesano, M., 252 e n, 253n
Manikowska, H., 222n Monti, G.M., 233n
Manselli, R., 298n Montorsi, W., 141n
Manzato, E., 114n Mor, C.G., 198 e n, 220n
Marangon, P., 288n Morandi, G.B., 025n
Marchini, G., 067, 77n, 80n, 82, 85, Morcaldo, M., 135n
123n Moretti, I., 003n, 8n, 71n, 72n, 73n,
Margetic, L., 280n 74n, 76n, 78n, 79n, 80n, 145n,
Marino Guidoni, M., 353n 176n, 218n, 394, 395
Marri Camerani, G., 138n Mori, A., 232n
Martin, J.-M., 135n, 350n, 354n, Morisani, O., 363n
359n, 363n Morris, D., 354n
Martinelli, R., 046n Morrogh, A., 286n
Martinez, L., 064n, 230n Morselli, P., 286n
Martini, C., 107n Moscadelli, S., 007n
Martini, G., 270n Mucciarelli, R., 004n, 131n, 140n,
Mascanzoni, L., 047n, 56n, 202n 169n, 176n, 218n, 394
Mason, M., 278 e n Mueller, R.C., 133n, 181n
Masseroli, S., 070n, 71n Müller-Mertens, E., 031n
427
Muendel, J., 184n Panero, F., 047n, 210n
Muir, E., 238n Panico, G., 235n
Mumford, L., 196 e n Papaccio, G., 186n, 188n
Munro, J.H., 181n Papebroch, D., 251n
Muratori, L.A., 060n, 322 e n, Paravicini Bagliani, A., 230n, 363n
358n Parenti, R., 063n, 177n
Musca, G., 370n, 371n, 372n, 373n, Paroli, L., 020n
375n, 377 e n, 378n, 379n, 380n, Pasetto, F., 078n
383n, 385n, 389n Pavan, M, 271n
Naso, I., 133n, 210n Pazzaglini, P.R., 223n
Natoli, C., 063n Pellegrini, L., 398
Negrelli, C., 023n Pellegrino, C., 379n
Nelson, J.L., 033n Perbellini, G., 250n
Nepoti, C., 189n Peri, I., 354n, 357n
Niccolini, U., 048n, 53n, 120 e n Perogalli, C., 070n
Nico Ottaviani, M.G., 048n Pertile, A., 227n
Nicolini, U., 142n Pertusi, A., 382n, 383n, 384n, 385n
Niese, H., 253n Pertz, G.H., 373n, 378n
Ninci, R., 189n Pesenti Marangon, T., 061n
Nitti de Vito, F., 384n Petrignani, M., 370n, 372n, 376n,
Nizíc, Ž., 279n 377n, 378n, 380n, 382n, 383n,
Novati, F., 273n 384n, 385n, 386n, 389n, 390n
Noyè, G., 354n Petti Balbi, G., 173n
Nuti, L., 046n, 49n, 55n, 58n Peyer, H.C., 244n
Occhipinti, E., 267n, 276 Piccinni, G., 006n, 69n, 108n, 170n,
Odorici, F., 131n 172n, 191n, 194n, 315n, 317n,
Orefice, R., 363n 338 e n, 368n
Orlandi, G., 058n, 211n Pighi, G.B., 058n
Orselli, A.M., 243n, 276 Pini, A.I., 114n, 115n, 116n, 117n,
Ortalli, G., 020n, 228n, 229 e n, 118n, 140 e n, 158n, 174 e n,
238n, 271n, 281n, 282n 186n, 188n, 190n, 192n, 193n,
Ossola, C., 282n 196, 203n, 206n, 220n, 321n,
Padoa Schioppa, A., 240n 367, 368
Paladino, G., 351n Pinto, G., 072n, 127n, 132 e n,
Pallaro, A., 039n 133n, 182n, 231n, 305n
Palmieri, A., 163n Pirani, F., 011n, 192n
Palmieri, G.B., 163n Pirenne, H., 195 e n, 196n, 197,
Palumbo, P.E., 353n, 386n 366n
Pampaloni, G., 123n, 126n, 160n, Pirillo, P., 184n, 316n
182n, 183n Pispisa, E., 353n
Panazza, G., 049n, 51n, 56n, 107n, Pitto, A., 250n
156n Piur, P. 144n
428
Poleggi, E., 051n, 98n, 99n, 105n, Riccetti, L., 051n
135n, 152 e n, 170n, 172n Ricci, G., 202n
Pontieri, E., 365n, 374n Riedmann, J., 298n
Pontiggia, G, 214n Rigon, A., 283n, 285 e n, 286n,
Porena, P., 014n 288n, 289n
Porro Lambertenghi, G., 025n, Rippe, G., 116n, 117n
336n Rizzitano, U., 168n, 369 e n, 371n
Porsia, F., 365n, 369n, 370n, 372n, Roberti, M., 234n
375n, 376n, 377n, 378n, 380n, Robin, F., 250n
381n, 382n, 383n, 384n, 387n, Roccaro, C., 338n
389n, 390n Rodolico, N., 067n, 82, 85, 123n,
Porta, G., 057n, 126n, 294n 160n
Portoghesi, P., 211n Rölker, R., 143n
Pozza, M., 283n Rogers, R., 056n
Pozzana, M.C., 250n Romalli, G., 339 e n
Provero, L., 033n, 370n Romanini, A.M., 070n, 353n
Puppi, L., 217 e n, 231n, 238n Romano, R., 247n, 365n, 366n
Quintavalle, F., 161n, 178n, 317n Romby, G.C., 232n
Quirós Castillo, L.A., 177n Ronchini, A., 129n, 224n, 230n
Raaflaub, K., 103n Rondoni, G., 233n
Rabl, K., 354n Ronzani, M., 002n, 51n, 101 e n,
Rabotti, G., 026n 121n
Racine, P., 049n, 51n, 54n, 94n, Rosenwein, B., 022 e n, 26 e n, 33,
107n, 109n, 171n, 186n, 193n 36
Raffi, F., 183n Rossetti, G., 021n, 65n, 99n, 100n,
Rando, D., 114n, 271n, 272, 274 e 149n
n Rota, 357n
Rauty, N., 101n, 151n, 165n, 335n Rotili, M., 059n
Raveggi, S., 067 Rouse, M.A., 222n
Re, C., 140n Rouse, R.H., 222n
Rebora, G., 049n Rubin, P.L., 304n
Redi, F., 051n, 171 e n, 172n, 185n Rubinstein, N., 080n, 221n
Reggiori, F., 106n Ruggiero, G., 231n, 238n, 239n
Regni, C., 048n Ruggini, L., 357n
Reinach, J., 136n Rugolo, C.M., 002n, 391
Rengo, M., 078n Russo, M., 077n
Renouard, Y., 046n, 52, 296n Saalman, H., 077n
Renzi Rizzo, C., 167n, 179n Saita, E., 063n
Restucci, A., 067, 75n, 105n Saitta, B., 139n, 354n
Reuter, R., 031 e n Salm El Sheikh, M., 301n
Reuter, T., 034n Salvatori, E., 133n, 174 e n, 203n
Rezasco, G., 227n Salvemini, G., 163n
429
Salvestrini, F., 182n, 184n, 188n, Smurra, R., 157n, 158n, 172n
231n Soldi Rondinini, G., 107n
Sandri, G., 140n Solmi, E., 163n
Sandri, L., 133n, 138 Soman, A., 222n
Sansterre, J.M., 014n Sonnino, E., 133n
Santangeli Valenzani, R., 020n Soranzo, G., 302n
Santini, C., 252n Sorbelli, A., 231n, 287n
Sassatelli, G., 029n Soriga, R., 205n
Saxl, F., 246n Spagnoletti, M., 384n
Sbriccoli, M., 119, 120n, 129, 226n, Spigaroli, M., 201n
239n Spinelli, M., 170n
Scalfati, S.P.P., 155n Stella, C., 045n
Scalia, G., 015n, 64n, 353n, 388n Stella, F., 273n
Scarabello, G., 223n Struve, T., 039, 040n
Scardeoni, B., 039n Superbi Gioffredi, F., 286n
Scarlata, M., 354n Szabó, Th., 003n, 100n, 145n, 160n,
Scarzello, O., 025n 176n, 395, 396
Scharf, G.P.G., 210n Sznura, F., 050n, 134n, 153n, 156 e
Schiaffini, A., 225n n, 158n, 160n, 161n, 170n, 171n,
Schiano, M., 135n 184n, 220n, 233n, 240n
Schiaparelli, L., 025n, 35 e n, 60n Tabacco, G., 016n
Schipa, M., 361n Taddei, I., 305n, 309n
Schulz, J., 103n Tangheroni, M., 167n, 308n
Schum, G., 263n Tassini, G., 238n
Schupfer, F., 163n Tateo, F., 373n
Schwerhoff, G., 226n Thébert, Y., 177n
Sciascia, L., 364n Theuws, F., 033n
Sella, P., 118n, 144n, 335n, 337n Tilatti, A., 031, 32n, 33 e n, 244n,
Semi, F., 281n 276, 283n, 284n, 285n
Sergi, G., 034n, 47n, 49n, 60n, Tirelli Carli, M., 155n
293n Tirelli, V., 354n
Sestan, E., 359n Tissoni Benvenuti, A., 257n
Settia, A.A., 002n, 25 e n, 26n, Tobler, T., 376n
47n, 50n, 53n, 56n, 58n, 59n, Tocco, C., 107n
61n, 63n, 65n, 137n, 176n, 208n, Todaro, P., 338n
283n, 392, 393 Toesca, P., 069n, 70n
Settis, S., 013 e n, 27, 246n Toker, F., 075n
Sickel, Th., 030n Tolaini, E., 100n
Silvestrelli, M.R., 107n, 121n, Tomea, P., 042n, 71n, 72n, 269n,
123n 270 e n, 271 e n, 272
Simeoni, L., 057n, 143n, 212n Torelli, P., 142n
Siragusa, G.B., 359n, 364n, 390n Tortoli, S., 183n
430
Tosi, M., 090 Volpe, G., 198n
Toubert, P., 363n, 370 Volpi, G., 226n
Trachtenberg, M., 074n, 80 e n
Tramontana, S., 002n, 350n, 352n, Von Falkenhausen, V., 376n, 377n
354n, 363n, 364n, 370, 374n, von Gladiss, D., 038n
380n, 381n, 389n, 391 Von Hentig, H., 230n
Travaglini, C.M., 187n, 211n
Treccani Degli Alfieri, G., 049n Waitz, G., 363n, 376n
Trexler, R.C., 251 e n Wanner, K., 033n
Trombetti Budriesi, A.L., 220n Ward-Perkins, B., 015 e n, 17n,
Tuliani, M., 073n
243n
Uberti, C., 067
Uccelli, G.B., 220n, 222n Wattembach, W., 378n
Ulianich, B., 048n Weigle, F., 025n
Vaini, M., 206n
Weimar, P., 241n
Vaitz, G., 350n
Valenzano, G., 041n Wickham, Ch., 027, 28 e n, 224n,
Vallerani, M., 241n 241n, 260 e n
Vaquero Piñeiro, M., 177n
Wolfgang, M., 222n
Varaldo, C., 178n
Varanini, G.M., 010n, 61n, 66n, Wood, I., 016n
105n, 114n, 133n, 185n, 189n, Zabbia, M., 223n, 286n
192n, 204n
Zampieri, G., 284n
Vasina, A., 047n, 190n, 202n
Vassallo, C., 053n Zaninoni, A., 201n
Vauchez, A., 244n Zanoboni, M.P., 178n
Venticelli, M., 157n, 158n
Zdekauer, L., 140n, 144n, 157n,
Vetere, B., 364n
Vicens Vives, J., 366 e n 231n, 303n
Vicini, D., 047n, 205n Zecchino, O., 355n
Vicini, E.P., 061n, 65n, 143n
Zerbi, P., 274n
Vidossi, G., 167n
Viglino Davico, M., 047n Zevi, B., 073, 74n
Vigni, L., 251n Zinzi, E., 351n
Vignoli, P., 163n Zorzi, A., 003n, 127n, 163n, 182n,
Vildera, A., 256n
Villard, R., 287n 224n, 226n, 228n, 229n, 230n,
Violante, C., 028, 155n, 274 e n 231n, 241n, 305n, 394a
Violante, F., 368n Zucchini, G., 219n
Viscardi, A., 167n
Vitolo, G., 048n, 350n, 363n Zuradelli, C., 066n
Vivanti, C., 365n, 366n Zurli, L., 252n, 339n
431
Indice generale

Enti Promotori pag. VII


Comitato scientifico » VIII
Relatori » IX
Presentazione » XI
Giovanni Cherubini, Introduzione » 1
Cristina La Rocca, L’eredità e la memoria dell’antico nelle cit-
tà comunali » 13
Aldo A. Settia, Cerchie murarie e torri private urbane » 45
Italo Moretti, I palazzi pubblici » 67
Elisabeth Crouzet-Pavan, La cité communale en quête d’elle-
même: la fabrique des grands espaces publics » 91
Etienne Hubert, Urbanizzazione, immigrazione e cittadinanza
(XII – metà XIV secolo). Alcune considerazioni generali » 131
Thomas Szabò, Genesi e sviluppo della viabilità urbana » 147
Franco Franceschi, I paesaggi della produzione » 167
Roberto Greci, Luoghi ed edifici di mercato » 195
Andrea Zorzi, La costruzione della città giudiziaria » 217
Anna Benvenuti, Sotto la volta del cielo. Luoghi, simboli e
immagini dell’identità cittadina » 243
Dario Canzian, L’identità cittadina tra storia e leggenda: i miti
fondativi » 257
Roberta Mucciarelli, Demolizioni punitive: guasti in città » 293
433
Francesca Bocchi, La “modernizzazione” delle città medievali » 331
Salvatore Tramontana, L’altra Italia. La costruzione delle città
nel Mezzogiorno e in Sicilia » 349
Carmela Maria Rugolo, L’altra Italia: Bari » 367
Mauro Ronzani, Conclusioni » 391
Indice dei nomi e dei luoghi » 399
Indice degli autori e dei curatori » 421
Indice generale » 433

434
PUBBLICAZIONI DEL CENTRO

atti dei convegni

Il Romanico pistoiese nei suoi rapporti con l’arte romanica dell’Occidente (Atti del I Convegno
Internazionale di Studi medioevali di Storia e d’Arte, 1964)
Mario Salmi, Prolusione — Giuseppe Marchini, La Cattedrale di Pistoia — Guido Morozzi,
Le chiese romaniche del Monte Albano — Giovanni Miccoli, Aspetti del monachesimo toscano
nel secolo XI — Raffaello Delogu, Pistoia e la Sardegna nella architettura romanica — Albino
Secchi, Restauro ai monumenti romanici pistoiesi — Wolfgang Braunfels, Tre domande a pro-
posito del problema «Vescovo e città nell’alto medioevo» — Knut Berg, Miniature pistoiesi del
XII secolo — Roberto Salvini, La scultura romanica pistoiese — Jean Hubert, La crypte de Saint-
Jean-de-Maurienne et l’expansion de l’art lombard en France — Maria Pia Puccinelli, La via-
bilità nel Contado Pistoiese in rapporto con i monumenti romanici — Sabatino Ferrali, Pievi e
parrocchie nel territorio pistoiese — Piero Sanpaolesi, I rapporti artistici tra Pistoia ed altri cen-
tri in relazione alla civiltà artistica romanica — Cinzio Violante - Cosimo Damiano Fonseca,
Ubicazione e dedicazione delle cattedrali dalle origini al periodo romanico nelle città dell’Italia
centro-settentrionale — Ugo Procacci, La pittura romanica pistoiese — Giulia Brunetti, Indagini
e problemi intorno al pulpito di Guido da Como in S. Bartolomeo a Pistoia — Emilio Cristiani,
Discorso di chiusura.
Il Gotico a Pistoia nei suoi rapporti con l’arte gotica italiana (Atti del II Convegno Internazionale
di Studi, 1966) (Esaurito)
Mario Salmi, Prolusione — Armando Sapori, I mercanti e le compagnie mercantili e bancarie
toscane fino ai primi del Quattrocento — Laura Becciani, La rocca di Montemurlo — Gerard
Gilles Meersermann, Origini del tipo di chiesa umbro-toscano degli Ordini mendicanti —
Ulrich Middeldorf, Gli inizi figurativi del Gotico a Pistoia — Albino Secchi, La cappella di S.
Jacopo a Pistoia e la «Sacrestia dei belli arredi» — Natale Rauty, Le finestre a crociera del palaz-
zo Panciatichi a Pistoia — Albino Secchi, Il tetto di San Francesco di Pistoia e la policromia de-
corativa del XIV sec. — Emilio Cristiani, Note sui rapporti tra il Comune e il contado di Pistoia
nel corso del secolo XIII — Zoltan Kádár, Il nuovo senso della natura nella scultura di Giovanni
Pisano — Giuseppe Marchini, L’altare argenteo di S. Iacopo e l’oreficeria gotica a Pistoia —
Enzo Carli, Scultori senesi a Pistoia — Cesare Gnudi, Il pulpito di Giovanni Pisano a Pistoia —
Sabatino Ferrali, L’ordine ospitaliero di S. Antonio Abate o del Tau e la sua casa a Pistoia —
Ugo Procacci, Gli affreschi della chiesa del Tau e la pittura a Pistoia nella seconda metà del sec.
XIV — Guido Morozzi, Caratteri stilistici e restauro del Palazzo di Giano — Maria Maddalena
Gauthier, L’art de l’émail champlevé à l’époque primitive du gothique — Mario Salmi, Due note
pistoiesi: I. Il fonte battesimale e il San Giovanni di Pistoia; II. Il «Compianto» dell’Ospedale del
Ceppo — Marco Chiarini, Oggetti gotici d’arte minore e il futuro Museo diocesano di Pistoia —
Raffaello Melani, Pistoia ed i pistoiesi nel canto XXIV dell’Inferno — Mario Apollonio, Dante:
figuratività gotica e drammaticità romanica ed umanistica della «Commedia».
Le zecche minori toscane fino al XIV secolo (Atti del III Convegno Internazionale di Studi,
1967)
Mario Salmi, Parole di apertura — Federico Melis, L’economia delle città minori della Toscana —
Jean Lafaurie, Le trésor carolingien de Sarzana-Luni — Antonio Bertino, La monetazione alto-
medievale di Luni — Giovanni Gorini, Osservazioni preliminari per lo studio dei rapporti tra
l’area monetale toscana e quella veneta nei secoli XIII e XIV — Gian Guido Belloni, La zecca di
Lucca dalle origini a Carlo Magno — Enrico Coturri, Note e documenti relativi ad alcune monete
lucchesi del secolo XIV — Antonio Del Mancino, La zecca di Siena al tempo del governo dei Nove
(1292-1355) — Franco Panvini Rosati, La monetazione delle zecche minori toscane nel periodo
comunale — Mario Bernocchi, Una originale manifestazione della zecca di Prato 1336-1343 —
Carlo Meloni, Sui due bianchi di Pisa attribuiti alla zecca di Villa di Chiesa — David Herlihy,
Pisan coinage and the monetary history of Tuscany, 1150-1250 — Emilio Cristiani, Problemi di
datazione delle monete comunali pisane — Franco Panvini Rosati, Discorso di chiusura.
Il Restauro delle opere d’arte (Atti del IV Convegno Internazionale di Studi, 1968)
Emilio Cristiani, Presentazione — Mario Salmi, Prolusione — Pietro Gazzola, L’opera dell’UNE-
SCO per la salvaguardia dei monumenti e delle opere d’arte (beni culturali) — Ugo Procacci, Le
tecniche ed il restauro degli affreschi — Ugo Procacci, Le tecniche ed il restauro dei dipinti su ta-
vola e su tela — Pasquale Rotondi, Azione e responsabilità dello Stato nel campo del restauro —
Guglielmo De Angelis d’Ossat, Il restauro dei monumenti ieri ed oggi — Francesco Nicosia,
Problemi del restauro archeologico — Rosario Jurlaro, Conservazione delle pitture rupestri in
Puglia — Lidia Bianchi, Conservazione e restauro dei disegni e delle stampe — Emerenziana
Vaccaro, Tecniche del restauro dei codici miniati e dei manoscritti — Luciano Berti, Il restau-
ro delle sculture — Carlo Muttinelli, La conservazione delle armi e degli oggetti metallici lon-
gobardi — Lidia Becherucci, Problemi di museologia — Giuseppe Marchini, Il restauro de-
gli oggetti delle arti minori — Marie Madeleine Gauthier, Antichi ripristini e restauri moderni
su smalti e oreficerie medioevali — Enzo Carli, Relazione sulla attività della Soprintendenza ai
Monumenti e Gallerie di Siena — Guido Morozzi, Problemi ed attività relativi al restauro dei
monumenti — Albino Secchi, Restauro di monumenti a Pistoia ed Arezzo — Juan Bassegoda
Nonell, Restauro di un’opera di Gaudí — Ubaldo Lumini, Immagini storico-tecniche sul disse-
sto della Torre di Pisa.
Egemonia fiorentina ed autonomie locali nella Toscana nord-occidentale del primo Rinascimento:
vita, arte, cultura (Atti del VII Convegno Internazionale di Studi, 1975)
Emilio Cristiani, Presentazione — Mario Salmi, Discorso inaugurale — Giorgio Chittolini, La
formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado: ricerche sull’ordinamento territoria-
le del dominio fiorentino agli inizi del secolo XV — David Herlihy, Le relazioni economiche di
Firenze con le città soggette nel secolo XV — Riccardo Fubini, Antonio Ivani da Sarzana: un teo-
rizzatore del declino delle autonomie comunali — Ezzelinda Altieri Magliozzi, Istituzioni comu-
nali a Pistoia prima e dopo l’inizio della dominazione fiorentina — Francesco Negri Arnoldi, Il
monumento sepolcrale del Card. Niccolò Forteguerri in Santa Cecilia a Roma e il suo cenotafio
nella Cattedrale di Pistoia — Ugo Procacci, Il pittore pistoiese Bartolommeo di Andrea Bocchi —
Francesco Negri Arnoldi, Matteo Civitali, scultore lucchese — Luisa Cogliati Arano, Influssi
toscani sulla scultura padana: Maffiolo da Carrara — Guido Pampaloni, Ricordo di Federigo
Melis — Sabatino Ferrali, “Omelia in memoria di Federigo Melis” — Lucia Gai, Rapporti fra
l’ambiente artistico pistoiese e fiorentino alla fine del Trecento ed ai primi anni del Quattrocento:
riesame di un problema critico — Enzo Carli, Il pittore Gerino da Pistoia — Sabatino Ferrali,
Rapporti religiosi ed ecclesiastici tra Pistoia e Firenze nel secolo XV — Giancarlo Savino, Libri
ed amici di Sozomeno da Pistoia negli anni del Concilio di Costanza — Enrico Coturri, La me-
dicina a Firenze nel Quattrocento e i suoi riflessi nelle altre città della Toscana settentrionale —
Gino Arrighi, La matematica nella Toscana nord-occidentale nei secoli XII-XV — Alessandro
Gambuti, L’architettura del primo Rinascimento nella Toscana nord-occidentale: influssi fiorenti-
ni e caratteristiche locali — Francesco Guerrieri, Cultura architettonica del primo Rinascimento
in territorio pratese — Giuseppe Marchini, Castelli, fortezze e ville del primo Rinascimento nel-
la Toscana del Nord — Michele Luzzati, Politica di salvaguardia dell’autonomia lucchese nel-
la seconda metà del secolo XV — Guglielmo Lera, Forme associative, condizioni economiche e
sensibilità artistica di alcuni paesi della campagna lucchese nel primo Rinascimento — Emilio
Cristiani, Discorso di chiusura.
Civiltà ed economia agricola in Toscana nei secc. XIII-XV: problemi della vita delle campagne
nel Tardo Medioevo (Atti dell’VIII Convegno Internazionale di Studi, 1977)
Emilio Cristiani, Presentazione — Raffaello Melani, La vita dei campi e il contadino nella Divina
Commedia — Christian Bec, Le paysan dans la nouvelle toscane (1350-1430) — Alessandro
Guidotti, Agricoltura e vita agricola nell’arte toscana del Tre e Quattrocento (di alcune miniatu-
re fiorentine e senesi del XV secolo) — Giovanni Cherubini, Risorse, paesaggio ed utilizzazione
agricola del territorio della Toscana sud-occidentale nei secoli XIV-XV — Charles de la Roncière,
Solidarités familiales et lignagères dans la campagne toscane au XIV s.: l’exemple d’un village de
Valdelsa (1280-1350) — Christiane Klapisch-Zuber, Mezzadria e insediamenti rurali alla fine del
Medio Evo — Maria Serena Mazzi - Sergio Raveggi, Masserizie contadine nella prima metà del
Quattrocento: alcuni esempi del territorio fiorentino e pistoiese — Laura De Angelis, Tecniche
di coltura agraria e attrezzi agricoli alla fine del Medioevo — Giuliano Pinto, Coltura e produzio-
ne dei cereali in Toscana nei secoli XIII-XV — Riccardo Francovich, Il contributo dell’archeolo-
gia medievale alla storia della cultura materiale e dell’insediamento nella Toscana basso medie-
vale — Fabio Redi, Opere di bonifica dei terreni agricoli nel territorio pisano-lucchese a cavallo
fra i secc. XIII e XV — Natale Rauty, Intervento del Comune nel controllo delle misure a Pistoia
(secoli XII-XV) — Gino Arrighi, Fra’ Leonardo da Pistoia trattatista di «geometria pratica» —
David Herlihy, The problem of the «return to the land» in Tuscan economic history of the four-
teenth and fifteenth centuries — Emilio Cristiani, Discorso di chiusura.
Università e società nei secoli XII-XVI (Atti del IX Convegno Internazionale di Studi, 1979)
Emilio Cristiani, Presentazione — Gina Fasoli, Rapporti tra le città e gli «Studia» — Johannes
Fried, Vermögensbildung der Bologneser Juristen im 12 und 13 Jahrhundert — Manlio Bellomo,
Studenti e «Populus» nelle città universitarie italiane dal secolo XII al XIV — Girolamo Arnaldi,
Fondazione e rifondazioni dello Studio di Napoli in età sveva — Gino Arrighi, La matemati-
ca fra bottega d’abaco e Studio in Toscana nel Medio Evo — Giuliano Catoni, Il Comune di
Siena e l’amministrazione della Sapienza nel sec. XV — Enrico Coturri, L’insegnamento del-
l’anatomia nelle università medioevali — Jacques Verger, Les rapports entre Universités italien-
nes et Universités françaises méridionales (XIIe-XVe siècles) — Walter Steffen, Il potere studen-
tesco a Bologna nei secoli XIII e XIV — Ennio Cortese, Legisti, canonisti e feudisti: la forma-
zione di un ceto medievale — Rodolfo Del Gratta, Spigolature storiche sull’Università di Pisa
nel 1400 e 1500 — Giovanni Santini, Università e società a Modena tra il XII e il XIII secolo —
Paolo Sambin, Giuristi padovani del Quattrocento tra attività universitaria e attività pubbli-
ca. I. Paolo d’Arezzo († 1433) e i suoi libri — Jean Leclerq, Lo sviluppo dell’atteggiamento cri-
tico degli allievi verso i maestri dal X al XIII secolo — Renzo Grandi, Le tombe dei dottori bo-
lognesi: ideologia e cultura — Stefano Zamponi, Manoscritti con indicazioni di pecia nell’Archi-
vio Capitolare di Pistoia — Alessandro Conti, Appunti sulla miniatura nei codici giuridici del
Duecento a Bologna — Armando F. Verde, Vita universitaria nello Studio della Repubblica fio-
rentina alla fine del Quattrocento — Tiziana Pesente, Generi e pubblico della letteratura medi-
ca padovana nel Tre e Quattrocento — Maria Carla Zorzoli, Interventi dei Duchi e del Senato di
Milano per l’Università di Pavia (secoli XV-XVI).
Artigiani e salariati: il mondo del lavoro nell’Italia dei secoli XII-XV (Atti del X Convegno
Internazionale di Studi, 1981)
Emilio Cristiani, Presentazione — Giovanni Cherubini, I lavoratori nell’Italia dei secoli XIII-
XV: considerazioni storiografiche e prospettive di ricerca — Bruno Dini, I lavoratori dell’Arte del-
la Lana a Firenze nel XIV e XV secolo — Giuliano Pinto, L’organizzazione del lavoro nei cantieri
edili (Italia centro-settentrionale) — Laura Balletto, I lavoratori nei cantieri navali (Liguria, secc.
XII-XV) — Marco Tangheroni, La vita a bordo delle navi — Antonio Ivan Pini, La ripartizio-
ne topografica degli artigiani a Bologna nel 1294: un esempio di demografia sociale — Lucia Gai,
Artigiani e artisti nella società pistoiese del basso Medioevo. Spunti per una ricerca — Amleto
Spicciani, Solidarietà, previdenza e assistenza per gli artigiani nell’Italia nell’Italia medioeva-
le (secoli XII-XV) — Duccio Balestracci, I lavoratori poveri e i «disciplinati» senesi. Una forma
di assistenza alla fine del Quattrocento — Rosa Maria Dentici Buccellato, Lavoro e salari nella
Sicilia del Quattrocento (la terra e il mare) — Odile Redon, Images des travailleurs dans les nou-
velles toscanes des XIVe et XVe siècles — Emilio Cristiani, Artigiani e salariati nelle prescrizioni
statutarie — Francesco Gandolfo, Lavoro e lavoratori nelle fonti artistiche.
Tecnica e società nell’Italia dei secoli XII-XVI (Atti dell’XI Convegno Internazionale di Studi,
1984)
Emilio Cristiani, Presentazione — Antonio Ivan Pini, Energia e industria tra Sàvena e Reno: i
mulini idraulici bolognesi tra XI e XV secolo — Riccardo Berretti - Egidio Iacopi, I molini ad
acqua di Valleriana — Renzo Sabbatini, La produzione della carta dal XIII al XVI secolo: strut-
ture, tecniche, maestri cartai — Leandro Perini, Stamperie quattrocentesche: vocabolario, tecni-
che e rapporti giuridici — Walter Endrei, Rouet italien et métier de Flandre à tisser au large —
Bruno Dini, Una manifattura di battiloro nel Quattrocento — Angela Ghinato, Tecnica e socie-
tà nell’Italia dei secoli XII-XVI. Tecniche e organizzazione del lavoro nell’arazzeria a Ferrara al-
l’epoca di Borso d’Este — Natale Rauty, Tecniche di costruzione e di cantiere nell’antico palaz-
zo dei Vescovi di Pistoia (secoli XI-XIV) — Gino Arrighi, Nozioni ad uso degli architetti del
basso Medio Evo — Maureen Fennel Mazzaoui, La diffusione delle tecniche tessili del coto-
ne nell’Italia dei secoli XII-XVI — M.E. Bratchel, The Silk Industry of Lucca in the Fifteenth
Century — Luciana Frangioni, La tecnica di lavorazione dei bacinetti: un esempio avignone-
se del 1379 — Enrico Coturri, Gli strumenti chirurgici nel medioevo e la loro fabbricazione —
Emanuela Guidoboni, «Delli rimedi contra terremoti per la sicurezza degli edifici»: la casa anti-
sismica di Pirro Ligorio (sec. XVI) — Francesco Guerrieri, Considerazioni sulle tecniche del can-
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Città e servizi sociali nell’Italia dei secoli XII-XV (Atti del XII Convegno Internazionale di
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stici nell’Italia centro-settentrionale tra XIII e XV secolo — Anna Maria Nada Patrone, «Super
providendo bonum et sufficientem magistrum scholarum». L’organizzazione scolastica delle cit-
tà nel tardo medioevo — Francesca Luzzati Laganà, Un maestro di scuola toscano del Duecento:
Mino da Colle di Valdelsa — Giuliana Albini, L’assistenza all’infanzia nelle città dell’Italia pa-
dana (secoli XIII-XV) — Gian Maria Varanini - Giuseppina De Sandre Gasparini, Gli ospeda-
li dei «malsani» nella società veneta del XII-XIII secolo. Tra assistenza e disciplinamento urba-
no. I. L’iniziativa pubblica e privata. II. Organizzazione, uomini e società: due casi a confronto —
Mauro Ronzani, Nascita e affermazione di un grande «hospitale» cittadino: lo Spedale Nuovo di
Pisa dal 1257 alla metà del Trecento — Lucia Sandri, Aspetti dell’assistenza ospedaliera a Firenze
nel XV secolo — Enrico Coturri, Spedali della città e del contado a Pistoia nel medioevo — Irma
Naso, L’assistenza sanitaria negli ultimi secoli del medioevo. I medici «condotti» delle comuni-
tà piemontesi — Gabriella Piccinni, L’ospedale di Santa Maria della Scala di Siena. Note sulle
origini dell’assistenza sanitaria in Toscana (XIV-XV secolo) — Anna Benvenuti Papi, «In domo
bighittarum seu viduarum». Pubblica assistenza e marginalità femminile nella Firenze medieva-
le — Pierre Racine, Il sistema ospedaliero lombardo (secoli XII-XV) — Silvana Collodo, Il siste-
ma annonario delle città venete: da pubblica utilità a servizio sociale (secoli XIII-XVI) — Duccio
Balestracci, La lotta contro il fuoco (XIII-XVI secolo) — Roberto Greci, Il problema dello smal-
timento dei rifiuti nei centri urbani dell’Italia medievale — Maria Serena Mazzi, Un «dilettoso
luogo»: l’organizzazione della prostituzione nel tardo Medioevo — Halina Manikowska, Il con-
trollo sulle città. Le istituzioni dell’ordine pubblico nelle città italiane dei secoli XIV e XV.
Italia 1350-1450: tra crisi, trasformazione, sviluppo (Atti del XIII Convegno Internazionale
di Studi, 1991) (Esaurito)
Giovanni Cherubini, Presentazione — Emilio Cristiani, Introduzione — Antonio Ivan Pini,
La demografia italiana dalla Peste Nera alla metà del Quattrocento: bilancio di studi e proble-
mi di ricerca — Maria Ginatempo, Dietro un’eclissi: considerazioni su alcune città minori del-
l’Italia centrale — Silvana Collodo, Governanti e governati. Aspetti dell’esperienza politica nel-
le città dell’Italia centro-settentrionale — Giovanna Petti Balbi, Dinamiche sociali ed esperien-
ze istituzionali a Genova tra Tre e Quattrocento — Francesco Tateo, Le trasformazioni del gu-
sto letterario — Bruno Dini, L’evoluzione del commercio e della banca nelle città dell’Italia cen-
tro-settentrionale dal 1350 al 1450 — Alberto Cipriani, Economia e società a Pistoia tra metà
Trecento e metà Quattrocento — Anthony Molho, Tre città-stato e i loro debiti pubblici. Quesiti
e ipotesi sulla storia di Firenze, Genova e Venezia — Reinhold C. Mueller, Il circolante manipo-
lato: l’impatto di imitazione, contraffazione e tosatura di monete a Venezia nel tardo Medioevo —
Gabriella Piccinni, L’evoluzione della rendita fondiaria in Italia: 1350-1450 — Donata Degrassi,
Il Friuli tra continuità e cambiamento: aspetti economico-sociali e istituzionali — Giovanni
Vitolo, Il Mezzogiorno tra crisi e trasformazione. Secoli XIV-XV — Henri Bresc, Changer pour
durer: la noblesse en Sicile 1380-1450 — Rosa Maria Dentici Buccellato, Centri demaniali e cen-
tri feudali: due esempi siciliani — Marco Tangheroni, La Sardegna tra Tre e Quattrocento —
Giorgio Cracco, Aspetti della religiosità italiana del Tre-Quattrocento: costanti e mutamenti —
Maria Laura Cristiani Testi, Il «Trionfo della Morte» nel Camposanto monumentale di Pisa – e
la cultura artistica letteraria religiosa di metà Trecento — Andrea Zorzi, Ordine pubblico e am-
ministrazione della giustizia nelle formazioni politiche toscane tra Tre e Quattrocento — Ovidio
Capitani, L’etica economica: considerazioni e riconsiderazioni di un vecchio studioso — Giuliano
Pinto, Conclusioni.
Il senso della storia nella cultura medievale italiana (1110-1350) (Atti del XIV Convegno
Internazionale di Studi, 1993)
Giovanni Cherubini, Presentazione — Massimo Oldoni, Sentimento del tempo e del silenzio
d’un medioevo italiano. Introduzione a «Il senso della storia nella cultura medievale italiana
(1110-1350)» — Maria Consiglia De Matteis, Il senso della storia in Dante — Giovanna Petti
Balbi, Il presente e il senso della storia in Caffaro e nei suoi continuatori — Sante Bortolami,
Da Rolandino al Mussato: tensioni ideali e senso della storia nella storiografia padovana di tra-
dizione «repubblicana» — Augusto Vasina, Le cronache emiliane e romagnole: dal Tolosano a
Riccobaldo (secoli XII-XIV) — Giuseppe Scalia, Annalistica e poesia epico-storica pisana nel se-
colo XII — Giuseppe Porta, La costruzione della storia in Giovanni Villani — Natale Rauty,
Le «Storie pistoresi» — Agostino Paravicini Bagliani, Le biografie papali duecentesche e il sen-
so della storia — Massimo Miglio, Anonimo romano — Salvatore Tramontana, Il senso del-
la storia e del quotidiano nelle parole e nelle immagini dei cronisti normanni e svevi — Anna
Benvenuti, «Secondo che raccontano le storie»: il mito delle origini cittadine nella Firenze co-
munale — Paolo Golinelli, L’agiografia cittadina: dall’autocoscienza all’autorappresentazio-
ne (sec. IX-XII; Italia settentrionale) — Franco Cardini, Le crociate nella memoria storica —
Grado G. Merlo, Coscienza storica della presenza ereticale nell’Italia degli inizi del Duecento —
Paolo Cammarosano, I «libri iurium» e la memoria storica delle città comunali — Pierre Racine,
Mythes et mémoires dans les familles nobles de Plaisance — Giancarlo Andenna, La storia con-
temporanea in età comunale: l’esecrazione degli avversari e l’esaltazione della signoria nel lin-
guaggio figurativo. L’esempio bresciano — Lucia Gai, La memoria storica e le sue immagini nel-
la civiltà comunale di Pistoia: alcuni esempi dei secoli XII e XIII — Carlo Delcorno, «Antico» e
«moderno» nella predicazione medievale — Cesare Vasoli, La storia nella meditazione filosofica,
da Alberto Magno a Marsilio da Padova — Pierre Toubert, Conclusions — Giovanni Cherubini,
Alfredo Bonzi non è più con noi.
Magnati e popolani nell’Italia comunale (Atti del XV Convegno Internazionale di Studi,
1995)
Giovanni Cherubini, Presentazione — Jean-Claude Maire Vigueur, Il problema storiografico:
Firenze come modello (e mito) di regime popolare — Paolo Cammarosano, Il ricambio e l’evolu-
zione dei ceti dirigenti nel corso del XIII secolo — Sante Bortolami, Le forme «societarie» di or-
ganizzazione del popolo — Aldo A. Settia, I luoghi e le tecniche dello scontro — Antonio Rigon,
Il ruolo delle chiese locali nelle lotte tra magnati e popolani — Andrea Giorgi, Il conflitto ma-
gnati/popolani nelle campagne: il caso senese — Sandro Carocci, Comuni, nobiltà e papato nel
Lazio — Giovanna Petti Balbi, Magnati e popolani in area ligure — Christiane Klapisch-Zuber,
Vrais et faux magnats. L’application des Ordonnances de Justice au XIVe siècle — Gabriella
Garzella, L’edilizia pubblica comunale in Toscana — Silvana Collodo, Ceti e cittadinanze nei co-
muni della pianura veneta durante il secolo XIII — Pierre Racine, Le «popolo» à Plaisance: du
régime «populaire» à la Seigneurie — Antonio Ivan Pini, Magnati e popolani a Bologna nella se-
conda metà del XIII secolo — Renato Bordone, Magnati e popolani in area piemontese, con par-
ticolare riguardo al caso di Asti — Alberto Cipriani, Gli affari sono affari: le grandi famiglie pi-
stoiesi tra potere economico e potere politico — Giovanni Cherubini, Parole di saluto.
Gli spazi economici della Chiesa nell’Occidente mediterraneo (secoli XII-metà XIV) (Atti del
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Giovanni Cherubini, Presentazione — Paolo Cammarosano, Il ruolo della proprietà ecclesiastica
nella vita economica e sociale del medioevo europeo — Agostino Paravicini Bagliani, Per una sto-
ria economica e finanziaria della corte papale preavignonese — Bruno Dini, I mercanti-banchieri
e la Sede apostolica (XIII - prima metà del XIV secolo) — Luisa Chiappa Mauri, L’economia ci-
stercense tra normativa e prassi. Alcune riflessioni — Alfio Cortonesi, Contrattualistica agraria e
proprietà ecclesiastica (metà sec. XII - inizi sec. XIV). Qualche osservazione — Etienne Hubert,
Propriété ecclésiastique et croissance urbaine (à propos de l’Italie centro-septentrionale, XIIe-dé-
but du XIVe siècle) — Antonio Ivan Pini, Proprietà vescovili e comune di Bologna fra XII e XIII
secolo — Francesco Panero, I vescovadi subalpini: trasformazioni e gestione della grande pro-
prietà fondiaria nei secoli XII-XIII — Valeria Polonio, Gli spazi economici della Chiesa geno-
vese — Vincenzo D’Alessandro, Il ruolo economico e sociale della Chiesa in Sicilia dalla rina-
scita normanna all’età aragonese — Gian Maria Varanini, Gli spazi economici e politici di una
Chiesa vescovile: assestamento e crisi nel principato di Trento fra fine XII e inizi XIV sec. —
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le, rurale e urbano, nell’Europa meridionale, XII-XV secoli (osservazioni da lavori recenti) —
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José Ángel García De Cortázar, Reconquista, economía e Iglesia en Castilla en los siglos XII
y XIII — Lorenzo Paolini, Le finanze dell’Inquisizione in Italia (XIII-XIV sec.) — Wilhelm
Kurze, Accenni sugli aspetti economici dei monasteri toscani — Amleto Spicciani, L’ospedale di
Altopascio nella Lucchesia del secolo XII. Donazioni, acquisti e prestiti — Renzo Nelli, La pro-
prietà ecclesiastica in città e nelle campagne pistoiesi — Adriano Peroni, «Opera», cantieri, archi-
tetti nelle cattedrali dell’Italia centrosettentrionale: qualche spunto per la ricerca.
Vescovo e città nell’alto Medioevo: quadri generali e realtà toscane (Atti del Convegno
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cura di Giampaolo Francesconi, 1998)
Giovanni Cherubini - Giuliano Pinto, Premessa — Giuseppe Sergi, Poteri temporali del ve-
scovo: il problema storiografico — Annamaria Ambrosioni, Vescovo e città nell’alto Medioevo:
l’Italia settentrionale — Natale Rauty, Poteri civili del vescovo a Pistoia fino all’età comunale —
Raffaele Savigni, Episcopato, capitolo cattedrale e società cittadina a Lucca nei secoli X-XI —
Mauro Ronzani, Vescovi e città a Pisa nei secoli X e XI — Maria Luisa Ceccarelli Lemut, I rap-
porti tra vescovo e città a Volterra fino alla metà dell’XI secolo — Paolo Pirillo, Firenze: il ve-
scovo e la città nell’Alto Medioevo — Anna Benvenuti, Fiesole: una diocesi tra smembramenti e
rapine — Jean Pierre Delumeau, Vescovi e città ad Arezzo dal periodo carolingio al sorgere del
Comune (secoli IX-XII) — Michele Pellegrini, “Sancta pastoralis dignitas”. Poteri, funzioni e pre-
stigio dei vescovi a Siena nell’altomedioevo — Gabriella Garzella, Vescovo e città nella diocesi
di Populonia-Massa Marittima fino al XII secolo — Wilhelm Kurze, Roselle – Sovana — Mario
Marrocchi, Chiusi e i suoi vescovi (secc. VII-XI). Prospettive di ricerca.
Ceti, modelli, comportamenti nella società medievale (secoli XIII-metà XIV) (Atti del XVII
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Giovanni Cherubini, Presentazione — Giovanna Petti Balbi, Il mercante — Attilio Bartoli
Langeli, Il notaio — Cecilia Iannella, La predicazione: il caso di Giordano da Pisa — Antonio
Rigon, Il clero curato — Jean-Claude Maire Vigueur, L’ufficiale forestiero — Aldo A. Settia,
«Viriliter et competenter»: l’uomo di guerra — Antonio Ivan Pini, Il mondo universitario:
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tamenti nel Decameron — Giuliano Pinto, Parole di saluto.
Le città del Mediterraneo all’apogeo dello sviluppo medievale: aspetti economici e sociali (Atti
del XVIII Convegno Internazionale di Studi, 2001)
Giovanni Cherubini, Presentazione — Michel Balard, Costantinopoli e le città pontiche al-
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Medioevo, tra oralità e produzioni scritte — Philippe Bernardi, Métier et mystère: l’enseigne-
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di arrangiarsi — Elisabeth Crouzet-Pavan, Le verre vénitien: les savoirs au travail — Philippe
Braunstein, Imparare il tedesco a Venezia intorno al 1420 — Anna Benvenuti, Le conoscenze re-
ligiose dei fedeli — Franco Franceschi, La grande manifattura tessile — Giovanni Cherubini,
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Tra economia e politica: le corporazioni nell’Europa medievale (Atti del XX Convegno
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Giovanni Cherubini, Presentazione — Giovanni Cherubini, Itroduzione — Duccio Balestracci,
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fin du Moyen Age — Roberto Greci, Le corporazioni dell’Italia settentrionale — Salvatore
Tramontana − Carmela M. Rugolo, Le città dell’Italia meridionale — Arnaldo Sousa Melo,
Les metiers en ville au Portugal (XIIIe-XVe siècles) — Juan Ignacio Ruiz de la Peña Solar,
Solidaridades profesionales en las ciudades de la Corona de Castilla. Las cofradías de marean-
tes — José Ángel Sesma Muñoz, L’organizzazione del mondo urbano e le corporazioni nella
Corona d’Aragona (XIII secolo) — Marc Boone, «Les anciennes démocraties des Pays-Bas?».
Les corporations flamandes au bas Moyen Age (XIVe-XVIe siècles): intérêts économiques, en-
jeux politiques et identités urbaines — Knut Schulz, Le città tedesche: lo sviluppo dalle con-
fraternite e corporazioni alle «politische Zünfte». Campanilismo contro migrazione — Halina
Manikowska, Le corporazioni e il potere cittadino nelle città dell’Europa centro-orientale —
Vanessa Gabelli, Confronto fra stemmi di corporazioni: analogie e difformità di scelte — Franco
Franceschi, L’organizzazione corporativa delle grandi manifatture tessili nell’Europa occidentale:
spunti comparativi — Donata Degrassi, Tra vincoli corporativi e libertà d’azione: le corporazioni
e l’organizzazione della bottega artigiana — Giovanna Petti Balbi, Parole conclusive.
La costruzione della città comunale italiana (secoli XII-inizio XIV) (Atti del XXI Convegno
Internazionale di Studi, 2007).
Giovanni Cherubini, Presentazione — Giovanni Cherubini, Introduzione — Cristina La Rocca,
L’eredità e la memoria dell’antico nelle città comunali — Aldo A. Settia, Cerchie murarie e
torri private urbane — Italo Moretti, I palazzi pubblici — Elisabeth Crouzet-Pavan, La cité
communale en quête d’elle-même: la fabrique des grands espaces publics — Etienne Hubert,
Urbanizzazione, immigrazione e cittadinanza (XII – metà XIV secolo). Alcune considerazioni
generali — Thomas Szabò, Genesi e sviluppo della viabilità urbana — Franco Franceschi, I
paesaggi della produzione — Roberto Greci, Luoghi ed edifici di mercato — Andrea Zorzi, La
costruzione della città giudiziaria — Anna Benvenuti, Sotto la volta del cielo. Luoghi, simboli
e immagini dell’identità cittadina — Dario Canzian, L’identità cittadina tra storia e leggenda: i
miti fondativi — Roberta Mucciarelli, Demolizioni punitive: guasti in città — Francesca Bocchi,
La “modernizzazione” delle città medievali — Salvatore Tramontana, L’altra Italia. La costruzio-
ne delle città nel Mezzogiorno e in Sicilia — Carmela Maria Rugolo, L’altra Italia: Bari — Mauro
Ronzani, Conclusioni.

quaderni

Studi storici pistoiesi, I


Mario Salmi, Premessa — Francesco Guerrieri, La fortezza di Santa Barbara — Natale Rauty, Un
documento pistoiese per la storia dei prezzi nella seconda metà del sec. XII — Lucia Gai, Niccolò
Forteguerri nei suoi rapporti con l’ambiente culturale pistoiese.
Studi storici pistoiesi, II
Sabatino Ferrali, Presentazione — Lettere familiari di Enrico Bindi, a cura di Amerigo Bucci.
Studi storici pistoiesi, III
Emilio Cristiani, Presentazione — Giorgio Luti, Cultura e letteratura nell’opera di Enrico Bindi —
Enrico Coturri, Un grande anatomico pistoiese dell’Ottocento: Filippo Pacini.
Finito di stampare
nel mese di dicembre 2009
dall’Editografica,
Rastignano (Bologna)

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