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OPERAZIONI DI SCAMBIO TERMICO

SCAMBIO TERMICO NELL’INDUSTRIA DI PROCESSO


Le operazioni di scambio termico sono quelle attraverso cui viene variata la temperatura
di un fluido o, più raramente, di un solido, oppure ne viene provocato il cambiamento di
fase (ossia il passaggio dalla fase gassosa a quella liquida, o dalla fase liquida a quella
solida, o viceversa). Nel seguito si considereranno soltanto le operazioni di scambio
termico in cui sono coinvolte fasi fluide che sono quelle che si incontrano più di
frequente.
Affinché si abbia scambio di calore è necessario che esista una differenza di
temperatura tra un fluido più caldo ed uno più freddo e lo scambio termico agisce nel
senso di portare ad un riequilibrio delle temperature. Il sistema più semplice per
riscaldare o raffreddare un fluido sarebbe quello di mescolarlo direttamente con un
fluido più caldo o più freddo, ma ciò non viene quasi mai fatto in pratica per gli ovvi
inconvenienti che ciò comporterebbe. Infatti, mescolando i due fluidi, se ne ottiene una
miscela, che può essere molto complicato separare, e ciò non è accettabile in gran
parte delle applicazioni: il mescolamento diretto viene adottato solo se fluido caldo e
freddo hanno la stessa composizione chimica e purezza (ad esempio acqua calda e
acqua fredda) o se essi si possono separare facilmente (ad esempio sono due liquidi
immiscibili). In tutti gli altri casi lo scambio termico viene realizzato senza contatto
diretto tra i fluidi, ma interponendo tra di essi una parete solida di un materiale che
scambi bene il calore. A tale scopo si usano generalmente i metalli (soprattutto acciai)
che sono caratterizzati, oltre che da una elevata conducibilità termica, anche da una
ottima resistenza meccanica, il che consente di realizzare pareti di piccolo spessore.
La interposizione di una parete tra i fluidi che scambiano calore comporta una riduzione
assai modesta nell’efficienza dello scambio termico; quest’ultimo può invece peggiorare
sensibilmente in presenza di deposizioni e incrostazioni, causate da morchie, calcare,
ecc., che presentano bassa conducibilità termica. La superficie attraverso cui avviene lo
scambio termico va quindi mantenuta pulita, rimuovendo periodicamente le
incrostazioni, in modo da evitare che lo scambio termico venga eccessivamente
ostacolato dallo spessore progressivamente crescente del deposito.
Analizziamo ora lo scambio termico tra un fluido freddo, che si riscalda, ed un fluido
caldo, che si raffredda, ipotizzando che nessuno dei due fluidi cambi di fase, ed
immaginando di utilizzare un apparecchio costituito da due tubi concentrici, facendo
fluire il fluido freddo nel tubo interno ed il fluido caldo nella zona anulare tra i due tubi
(vedi figura 64).

Figura 64 [8]

In linea generale, in un problema di scambio termico, saranno specificati portata,


proprietà fisiche e temperature di ingresso e di uscita di uno dei due fluidi (ad esempio

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quello freddo) e sarà quindi possibile calcolare la quantità di calore che deve essere
scambiata:
Q = w f c pf (Tfin,f − Tin,f )
dove
Q = calore scambiato (W)
wf = portata del fluido freddo (kg/s)
cpf = calore specifico (a pressione costante) del fluido freddo (J/kg°C)
Tfin,f = temperatura finale del fluido freddo (°C)
Tin,f = temperatura iniziale del fluido freddo (°C)
In un problema di scambio termico, inoltre, è generalmente nota la temperatura a cui è
disponibile l’altro fluido (in questo caso quello caldo), nonché le sue proprietà fisiche;
inoltre, in base al bilancio termico, anche il fluido caldo scambierà la stessa quantità di
calore:
Q = w c c pc (Tin,c − Tfin,c )
dove i simboli hanno il significato precedente ed il pedice c indica che le grandezze si
riferiscono al fluido caldo. Poiché in questa equazione si hanno due incognite, ossia la
temperatura di uscita del fluido caldo Tfin,c e la sua portata wc ne consegue che occorre
fissare una di queste grandezze per poi ricavare l’altra. Quanto viene generalmente
fatto è di fissare, in base a considerazioni di scambio termico, la temperatura di uscita
del secondo fluido e ricavare la sua portata dall’equazione di bilancio termico. Per
fissare la temperatura di uscita del fluido caldo occorre tenere conto delle modalità di
flusso dei due fluidi: infatti essi possono entrare dalla stessa estremità dell’apparecchio
(moto equicorrente) o da estremità opposte (moto controcorrente) ed il valore che può
assumere la temperatura nei due casi è assai diverso. Infatti, affinché lo scambio
termico sia caratterizzato da una sufficiente efficienza, va garantito che il salto termico
tra i due fluidi non sia inferiore a 5-10°C: questa esigenza si traduce in un valore
minimo della temperatura di uscita del fluido caldo, Tmin,fin,c pari a:
Tmin,fin,c = Tin,f + 5 controcorrente
Tmin,fin,c = Tfin,f + 5 equicorrente
Nel caso di moto (e quindi scambio di calore) equicorrente, la temperatura di uscita del
fluido caldo risulta maggiore, quindi il salto termico dello stesso fluido caldo risulta
minore, e la portata necessaria maggiore, che non nel caso controcorrente. In tutte le
situazioni pratiche si preferisce quindi lo scambio termico con modalità controcorrente.

Esempio
Calcolare la temperatura minima di uscita e la portata di fluido caldo, disponibile a
90°C, in caso di scambio equicorrente e controcorrente per riscaldare 1 kg/s di fluido
freddo da 30 a 80°C. Proprietà fisiche: cpf = 3 000 J/kg°C; cpc = 5 000 J/kg°C.
Q = w f c pf (Tfin,f − Tin,f ) = 1 ⋅ 3000 (80 − 30 ) = 150000 W

Q 150000
Controcorrente : Tmin,fin,c = 35°C wc = = = 0.55 kg / s
c pc (Tin,c − Tfin,c ) 5000 (90 − 35)
Q 150000
Equicorrente : Tmin,fin,c = 85°C wc = = =6 kg / s
c pc (Tin,c − Tfin,c ) 5000 (90 − 85 )

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Quanto sopra esposto è più evidente se si rappresentano le equazioni di bilancio del
fluido freddo e del fluido caldo sul piano Q-T, dove esse risultano delle rette con
pendenza pari al prodotto w⋅cp, considerato costante. Affinché lo scambio termico
avvenga nel senso desiderato le due rette non possono incrociarsi, ma al più avvicinarsi
tra loro: la figura 65 mostra l’andamento delle rette per lo scambio termico in
equicorrente (figura 65a) e in controcorrente (figura 65b) per il caso riportato
nell’esempio precedente.

90 90
fluido caldo
80 80

70 70
T, t (°C)

T, t (°C)
fluido caldo
60 60

50 50 fluido freddo
fluido freddo
40 40

30 30
0 50 100 150 0 50 100 150

(a) Q (kW) (b) Q (kW)

Figura 65

Oltre alle relazioni di bilancio termico va considerata quella di trasferimento di calore


che, per il caso di scambio in controcorrente, si scrive nella forma:
Q = U D ⋅ A0 ⋅ ∆TML
dove
Q = calore scambiato tra i fluidi (W)
UD = coefficiente globale di scambio termico (W/m2°C)
A0 = superficie di scambio termico (m2)
∆TML = salto medio logaritmico di temperatura tra i fluidi (°C) definito come

(T1 − t 2 ) − (T2 − t1 )
∆TML =
⎛T −t ⎞
ln⎜⎜ 1 2 ⎟⎟
⎝ T2 − t1 ⎠
dove
T1 = temperatura del fluido caldo al suo ingresso dello scambiatore (°C)
T2 = temperatura del fluido caldo all’uscita dello scambiatore (°C)
t1 = temperatura del fluido freddo al suo ingresso dello scambiatore (°C)
t2 = temperatura del fluido freddo all’uscita dello scambiatore (°C)
Nella relazione del salto medio logaritmico di temperatura, se si verifica la condizione
(T1 – t2) = (T2 – t1) si ha che ∆TML = (T1 – t2)
La superficie di scambio termico A0 è quella misurata sulla superficie esterna del
dispositivo di scambio termico, ed anche i coefficienti di scambio termico vanno riferiti a
questa superficie.

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Il coefficiente globale di scambio termico dipende dal coefficiente di scambio termico dei
due fluidi, dalla resistenza allo scambio termico offerta dalla parete metallica
(generalmente trascurabile) e dallo sporcamento (depositi e incrostazioni) sulle pareti a
contatto con ognuno dei due fluidi:
1 1 1
= + + Rw + R ' d + R " d
U D h0 hi 0
dove:
h0 = coefficiente di scambio per il fluido lato esterno (W/m2K)
hi0 = coefficiente di scambio per il fluido lato interno, riportato sulla superficie esterna
del dispositivo di scambio termico (W/m2K)
R’d = sporcamento per la parete a contatto con il fluido lato esterno (m2K/W)
R”d = sporcamento per la parete a contatto con il fluido lato interno (m2K/W)
Rw = resistenza allo scambio termico della parete (m2K/W)
Data la forma dell’espressione con cui viene calcolato, il coefficiente di scambio globale
ha quindi un valore che è nettamente inferiore ad entrambi i coefficienti dei fluidi (anche
trascurando lo sporcamento e la resistenza offerta dalla parete). Il valore massimo del
coefficiente di scambio termico globale si ha quando i coefficienti di scambio dei singoli
fluidi sono uguali tra loro ed è pari alla metà di quelli dei singoli fluidi. Il coefficiente
globale è comunque inferiore al valore del coefficienti di scambio più basso tra quelli dei
singoli fluidi che, diviene quindi quello “controllante” lo scambio termico.
Il meccanismo di scambio termico prevalente tra i fluidi è quello della convezione ed il
coefficiente di scambio dipende essenzialmente dalla turbolenza del flusso e quindi
dalla velocità del fluido, per cui, per aumentare il coefficiente di scambio termico, si può
agire su questo parametro, ad esempio diminuendo la sezione di passaggio. Tuttavia,
all’aumentare della velocità aumentano anche (e più sensibilmente che non lo scambio
termico) le perdite di carico, e quindi l’energia di pompaggio necessaria, per cui il valore
della velocità di flusso viene fissato come compromesso tra le esigenze di scambio
termico e quelle di movimentazione del fluido.
La relazione del trasferimento di calore viene utilizzata per calcolare la superficie di
scambio termico, A0, calcolata sulla parete esterna attraverso cui avviene lo scambio
termico (nell’esempio precedente, la parete esterna del tubo interno):
Q
A0 =
U D ⋅ ∆TML
dove le altre grandezze sono note (Q e ∆TML) o calcolabili (UD), seppure con procedure
iterative.
A parità di calore scambiato, la superficie di scambio termico risulta tanto più piccola
quanto maggiori sono il coefficiente di scambio termico ed il salto medio logaritmico di
temperatura: il valore minimo di 5-10°C utilizzato in precedenza deriva proprio da
considerazioni legate all’esigenza di non aumentare eccessivamente tale superficie.
In realtà il valore minimo accettabile per il salto termico dipende anche dal valore del
coefficiente di scambio termico globale (e quindi da quelli dei singoli fluidi). Se il
coefficiente globale è alto (come accade nel caso di liquidi, soprattutto acqua) il salto
termico minimo si aggira intorno ai 5°C, mentre se il coefficiente globale è basso (come
accade nel caso di scambio termico tra gas a bassa pressione) il salto termico minimo
può superare i 20°C.
Alcuni valori tipici di coefficienti di scambio di fluidi (h0 e hio) e di valori dello
sporcamento (Rd’ e Rd”) sono riportati nella tabella seguente.

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Fluido Coefficiente di scambio Sporcamento (m2°C/W)
termico (W/m2°C)
Acqua industriale 1 500 – 4 000 0.00015-0.00035
Aria e gas industriali 20 - 300 0.0001-0.0002
Fluidi termici 1 000 – 2 000 0.0002
Liquidi organici 600 - 1 500 0.0002
Vapor d’acqua (condensante) 4 000 - 10 000 0.0002-0.0005
Vapori organici (condensanti) 900 – 2 500 0.0002

Fluidi termici
Le operazioni di scambio termico negli impianti dell’industria di processo possono
riguardare due correnti cosiddette di “processo”, ossia costituite da materie prime,
semilavorati o prodotti, oppure una corrente di processo ed una costituita da un fluido di
“servizio” (detto fluido termico) che presenta temperature e proprietà fisiche tali da poter
favorevolmente realizzare l’operazione richiesta.
Tra i fluidi termici quello maggiormente utilizzato è l’acqua che presenta numerosi
vantaggi, primo dei quali un’ottima capacità di scambio termico, allo stato liquido, che
migliora ancora in condizioni di liquido bollente e di vapore condensante.
L’acqua maggiormente utilizzata a scopi di refrigerazione è la cosiddetta acqua
industriale, che subisce un trattamento di depurazione sommario e viene utilizzata in
ciclo chiuso: per limitare la formazione di incrostazioni è bene far si che la temperatura
finale dell’acqua non superi i 40-45°C. La temperatura minima a cui l’acqua è
disponibile dipende invece dalle condizioni di funzionamento delle torri di
raffreddamento dell’acqua, in cui l’acqua calda viene messa a contatto con aria
ambiente per raffreddarsi prima di essere reimmessa nel ciclo, come sarà visto in
dettaglio nel prossimo capitolo: ai nostri climi tale temperatura oscilla generalmente tra
25 e 30°C.
In alternativa all’acqua, come fluido refrigerante molto economico, ma che presenta
bassa efficienza di scambio termico, si può utilizzare aria ambiente per raffreddare fluidi
di processo fino a temperature minime di circa 50-60°C.
L’acqua viene anche impiegata, allo stato di liquido bollente e di vapore saturo,
rispettivamente come fluido refrigerante e come fluido riscaldante, per temperature che
arrivano fino a circa 250°C, valore che non viene superato per limitare la pressione di
saturazione al di sotto di circa 40 atm. L’acqua bollente ed il vapore saturo presentano
infatti eccezionali capacità di scambio termico, sia per gli elevati valori dei coefficienti di
scambio termico (intorno a 1 500 W/m2°C per l’acqua bollente ed a 5 000 W/m2°C per il
vapore saturo condensante) che per l’elevato valore del calore latente di
condensazione. Quest’ultimo vale circa 2.2 MJ/kg alla temperatura di 100°C e
diminuisce all’aumentare della temperatura. L’acqua demineralizzata, utilizzata come
refrigerante ad alta temperatura, viene vaporizzata dal calore ricevuto ed il vapore che
si forma può essere utilizzato come fonte di calore in altra parte dell’impianto. Il vapore
d’acqua utilizzato come fluido di riscaldamento viene prodotto in caldaia alla massima
pressione utile ed è quindi inviato, dopo averlo espanso in turbina, in reti di distribuzione
a diversa pressione: ad ogni livello di pressione utilizzato corrisponde un diverso valore
della temperatura di condensazione (e quindi di utilizzo) del vapore.
Altri fluidi termici si utilizzano nei casi in cui non sia possibile utilizzare l’acqua, ossia per
temperature basse o molto alte. Per temperature al di sotto dei 30°C si può utilizzare

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acqua di pozzo o acqua refrigerata; sotto i 5°C c’è il rischio del congelamento
dell’acqua e si utilizzano salamoie, ossia soluzioni acquose di sali, che presentano un
abbassamento crioscopico del punto di congelamento che consente di operare fino a
circa –15°C; al di sotto di questa temperatura si utilizzano fluidi frigoriferi, ossia liquidi
con punto di ebollizione molto basso, come etilene, ammoniaca, ecc.
Al di sopra di 200°C si utilizzano oli termici e miscele speciali che possono arrivare fino
a circa 300-350°C; temperature superiori si raggiungono per scambio termico con fumi
di combustione nei forni. Si arriva fino a circa 500-550°C, temperature limite per
l’utilizzo dell’acciaio come materiale da costruzione, utilizzando circuiti con sali fusi (di
impiego quasi esclusivo nel settore nucleare).
La tabella seguente riporta alcuni fluidi termici, con i rispettivi campi di impiego.

Fluido termico Campo di impiego (°C)


Fluidi frigoriferi (etilene, ammoniaca, ecc.) -80/-10
Salamoie (soluzioni acquose di sali) -15/+5
Acqua refrigerata +5/+20
Acqua di pozzo +10/+30
Acqua industriale +20/+40
Aria +50/+150
Acqua demineralizzata +40/+150
Acqua demineralizzata (vaporizzante, per raffreddare) +90/+250
Vapor d’acqua (condensante, per riscaldare)
Oli termici +50/+300
Oli termici speciali (Dowtherm) +200/+350
Fumi di combustione (forni) +200/+1000
Sali fusi +350/+700

APPARECCHI DI SCAMBIO TERMICO


Sono possibili varie classificazioni delle apparecchiature di scambio termico, in base
alla destinazione e alla forma costruttiva. Considerando lo scambio termico dal punto di
vista del fluido di processo, si possono distinguere:
• refrigeranti (il fluido di processo viene raffreddato)
• riscaldatori (il fluido di processo viene riscaldato)
• condensatori (il fluido di processo passa dallo stato vapore a quello liquido)
• ribollitori (il fluido di processo passa dallo stato liquido a quello vapore)
• evaporatori (il fluido di processo è una soluzione ed il solvente viene evaporato)
Dal punto di vista della forma costruttiva si hanno:
• dispositivi di scambio termico per recipienti (camicie e serpentini)
• scambiatori di calore a doppio tubo
• scambiatori di calore a fascio tubiero
• ribollitori Ketlle
• ribollitori a termosifone verticale
• scambiatori a tubi alettati

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• scambiatori a piastre
• evaporatori
• forni
Le tipologie principali di apparecchiature di scambio termico utilizzate negli impianti
dell’industria di processo saranno ora esaminate basandosi prevalentemente su questa
seconda classificazione.

Dispositivi di scambio termico per recipienti [8]


I recipienti utilizzati nell’industria di processo sono generalmente cilindrici, ad asse
verticale od orizzontale, muniti di fondi curvilinei: in alcuni casi (soprattutto per recipienti
adibiti a funzioni di processo, come i reattori) sono muniti di agitazione. In questo caso il
diametro dell’agitatore è generalmente compreso tra ½ e ¼ del diametro del recipiente
e la velocità dell’agitazione è tanto minore quanto maggiore è il suo diametro: valori
tipici sono 0.5-2 giri/min per agitatori del diametro di 1-2 m.
Le necessità di scambio termico possono essere svariate: riscaldare per mantenere
fluido un liquido in un serbatoio di stoccaggio o per coadiuvare una dissoluzione,
refrigerare un prodotto, ma soprattutto riscaldare o raffreddare un reattore a tino agitato,
che è tra quelli più comunemente utilizzati per realizzare reazioni chimiche.
I dispositivi di scambio termico possono essere posti:
• all’interno del recipiente: serpentini (coils), fasci tubieri;
• all’esterno del recipiente: camicie (jackets) e scambiatori di calore.

Serpentini
I serpentini si usano preferibilmente per recipienti ad asse verticale e sono costituiti da
uno o più tubi avvolti ad elica ed immersi nel liquido: (figura 66a)
• il diametro del tubo è tipicamente 1/30 del diametro del recipiente;
• il diametro dell’elica è tale da poter essere collocata facilmente nel recipiente;
• si possono usare più serpentini concentrici.

(a) (b)

Figura 66 [11,12]

Con un serpentino si può realizzare una superficie di scambio abbastanza grande, ma,
essendo esso immerso nel liquido del recipiente, può essere soggetto a problemi di
corrosione o incrostazioni. Inoltre, occorre dotare il recipiente di aperture per poter
disporre ed estrarre il serpentino, con possibili problemi di tenuta.
I valori tipici dei coefficienti di scambio totali per recipienti agitati dotati di serpentino
variano tra 100 e 800 W/m2°C.

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Fasci tubieri immersi
I fasci tubieri sono costituti dalla parte tubi di uno scambiatore a fascio tubiero (che sarà
esaminato in uno dei prossimi paragrafi) e sono generalmente disposti orizzontalmente,
come mostra la figura 66b. Con i fasci tubieri immersi, le problematiche sono simili a
quelle dei serpentini, ma è possibile aumentare il coefficiente di scambio del fluido di
servizio realizzando più passaggi nei tubi.

Camicie
Le camicie si usano preferibilmente per recipienti ad asse verticale e sono costituite da
una intercapedine posta esternamente al recipiente, nella zona bagnata dal liquido
(figura 67) dove il coefficiente di scambio termico è più elevato.

Figura 67 [8]

• se nella camicia passa un liquido, l’ingresso è dal basso e l’uscita dall’alto, in modo
che in fase di riempimento non rimangano bolle gassose all’interno della camicia;
• se nella camicia entra un vapore che viene fatto condensare, l’ingresso è dall’alto e
l’uscita del condensato è dal basso.
Esistono varie tipologie di camicie:
• convenzionali: l’intercapedine ha uno spessore tra 50 e 300 mm (aumenta
all’aumentare del diametro del recipiente) e spesso contiene dei diaframmi per
aumentare la turbolenza (figura 68a);
• a semi tubo: ottenuta saldando sulla parete mezzo tubo avvolto a spirale: si usano
tubi con diametro esterno tra 60 e 120 mm (figura 68b e 68c). Questa
configurazione resiste meglio alla pressione.

(c)
(a) (b)

Figura 68 [8]

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Una camicia offre una superficie di scambio più limitata rispetto agli altri dispositivi, dato
che essa è al massimo pari alla superficie esterna della parte di recipiente bagnata dal
liquido. Poiché la camicia non è in contatto con il liquido nel recipiente, si può però
utilizzare un materiale più economico anche in caso di liquido incrostante o corrosivo. I
coefficienti globali di scambio per recipienti agitati muniti di camicia variano tipicamente
tra 200 e 700 W/m2°C.

Scambiatore di calore esterno


L’utilizzo di uno scambiatore di calore esterno richiede che il liquido sia prelevato dal
recipiente mediante una pompa, fatto passare nello scambiatore e ricircolato al
recipiente. Con gli scambiatori di calore esterni il coefficiente di scambio del calore è
generalmente alto e non esistono limiti sulla superficie di scambio, ma aumentano i
costi (scambiatore, pompa, tubazioni, sistema di regolazione).

Scambiatori di calore a doppio tubo


Lo scambiatore a doppio tubo si utilizza solo per scambiare di piccole quantità di calore,
ossia per superfici di scambio modeste, poiché la sua complicazione costruttiva, e gli
ingombri, aumentano di molto all’aumentare delle sue dimensioni.
Esso è costituito da due tubi concentrici, generalmente formati da tratte rettilinee, in cui
avviene lo scambio termico: i tratti sono raccordati con curve a 180°, per il fluido che
passa nel tubo interno e mediante raccordi rettilinei flangiati, per il fluido che passa nella
sezione anulare (figura 69). L’attacco tra il tubo interno e quello esterno è generalmente
realizzato per saldatura, per evitare perdite.

Figura 69

Sono possibili realizzazioni in cui manca il tubo esterno: il fluido, se gassoso, passa tra i
tubi, mentre, se liquido, viene spruzzato dall’alto: in questo caso lo scambiatore viene
detto a ”trombone”.

Scambiatori di calore a fascio tubiero


Sono costituiti da un insieme di tubi paralleli (detto fascio tubiero o “tube bundle”) fissati
almeno ad una estremità ad una piastra, e racchiusi dentro un involucro cilindrico (detto
mantello o “shell”), come mostra la figura 70. Lo scambio di calore avviene tra il fluido
che passa all’interno del fascio tubiero (lato tubi) e quello che passa all’esterno del
fascio tubiero stesso (lato mantello). Questi fluidi entrano attraverso bocchelli posti
rispettivamente sui fondi dello scambiatore (ingresso e uscita fluido lato tubi) e sul
mantello, in prossimità delle piastre di attacco dei tubi (ingresso e uscita fluido lato
mantello).

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Figura 70 [11]

Gli scambiatori di calore a fascio tubiero sono solitamente a montaggio orizzontale,


appoggiati su selle di sostegno, ma ne esistono anche tipi a montaggio verticale. Il
rapporto lunghezza diametro varia generalmente tra 5:1 e 10:1, dove i valori più bassi
sono tipici degli scambiatori montati in verticale.
Gli scambiatori a fascio tubiero costituiscono la tipologia di dispositivo di scambio
termico di gran lunga più diffuso nell’industria di processo perché presentano numerosi
vantaggi, quali la grande superficie di scambio per unità di volume, una configurazione
geometrica che garantisce una buona resistenza meccanica (adatti a lavorare in
pressione) e la facilità di pulizia. Inoltre, le procedure di progetto sono affidabili e ormai
consolidate.
Gli scambiatori a fascio tubiero si utilizzano come refrigeranti e riscaldatori, ma anche
come condensatori e ribollitori.
La superficie di scambio termico offerta da uno scambiatore a fascio tubiero, calcolata
sulla superficie esterna dei tubi, è pari a:
A0 = nt ⋅ π ⋅ d 0 ⋅ L
dove
nt = numero dei tubi
d0 = diametro esterno dei tubi (m)
L = lunghezza dei tubi (m)
Valori tipici dei coefficienti di scambio termico globale per gli scambiatori a fascio
tubiero sono riportati nella tabella seguente [8].

Fluido caldo Fluido freddo UD (W/m2°C)


Gas Acqua 20 - 300
Liquido organico Acqua 100 – 900
Liquido organico Salamoia 150 – 500
Dowtherm Olio pesante 50 – 300
Gas di combustione Vapori d’acqua 30 – 100
Vapor d’acqua Acqua 1 500 – 4 000
Vapor d’acqua Gas 30 – 300
Vapor d’acqua Liquido organico 300 – 900
Acqua Acqua 800 –1 500
Gas Gas 10 - 50
Liquido organico Liquido organico 100 - 300

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Le perdite di carico per gli scambiatori a fascio tubiero si aggirano intorno a 0.35 –0.7
atm (35 000 - 70 000 Pa) per liquidi, dove i valori maggiori sono validi per liquidi più
viscosi, mentre si aggirano intorno a 0.1⋅P, dove P è il valore della pressione operativa,
per gas e vapori.

Tipologie
Gli scambiatori di calore si differenziano nei tipi a teste fisse (figura 70), in cui i tubi
sono bloccati tra due piastre collegate al mantello, e nei tipi con tubi ad U (figura 71a) e
teste flottanti (figura 71b) in cui c’è un unico attacco tra piastra tubiera e mantello,
dipendentemente dalla necessità di compensare le dilatazioni termiche differenziali.
Infatti, in uno scambiatore di calore i tubi ed il mantello sono generalmente a
temperatura diversa tra di loro ed entrambi subiranno una dilatazione termica tra
temperatura di montaggio e quella di esercizio. Se tubi e mantello sono costituiti dello
stesso materiale, l’allungamento relativo dei tubi rispetto al mantello è dato da:
ε = α (Tt − Tm ) :
dove
ε = frazione di allungamento (m / m lineare di lunghezza)
α = coefficiente di dilatazione lineare del materiale, pari a 1-1.5⋅10-5 1/°C per gli acciai
Tt = temperatura dei tubi (°C)
Tm = temperatura del mantello (°C)
Tale dilatazione termica differenziale genera sul tubo una forza assiale (di sfilaggio).

(a)

(b)

Figura 71 [11, 8]

La giunzione tra tubo e piastra deve garantire che non si abbia lo sfilaggio dei tubi: può
essere realizzata per saldatura (figura 72a), mandrinatura (figura 72b) o mediante
premistoppa (figura 72c). La saldatura è una lavorazione a caldo e consente la migliore
tenuta; la mandrinatura è una lavorazione a freddo in cui si espande un mandrino posto
dentro il tubo, che viene deformato permanentemente contro la piastra; la giunzione a
premistoppa consente di rimuovere facilmente i tubi per una loro eventuale sostituzione

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ma la tenuta può perdere se la pressione è elevata. La tecniche maggiormente
utilizzate sono la mandrinatura, perché economica, e la saldatura, quando la pressione
di esercizio è più elevata. In ogni caso le piastre tubiere hanno uno spessore pari
almeno al diametro esterno dei tubi.

(a) (c)
(b)

Figura 72 [11]

Quando non si hanno grossi problemi di dilatazioni termiche differenziali si sceglie uno
scambiatore a teste fisse, ossia che presenta due piastre tubiere collegate in modo
fisso al mantello (figura 70), che ha il vantaggio di essere il tipo più economico. Se la
differenza di temperatura tra tubi e mantello supera i 30°C è tuttavia necessario
compensare le dilatazioni inserendo dei corrugamenti sul mantello (vedi figura 73):
questi giunti di dilatazione riducono però la resistenza meccanica del mantello.

Figura 73 [11]

Quando i problemi relativi alle dilatazioni termiche differenziali sono maggiori si


utilizzano gli scambiatori con tubi ad U (figura 71a) o a testa flottante (figura 71b): in
questo caso i tubi sono liberi di muoversi (allungandosi o contraendosi) rispetto al
mantello, poiché una sola delle piastre tubiere è fissata al mantello. Nello scambiatore
con tubi ad U, la seconda piastra tubiera manca completamente, mentre in quello a
testa flottante essa ha diametro inferiore a quello del mantello. La tipologia con tubi ad
U è più economica, ma non si può effettuare la pulizia meccanica all’interno dei tubi; la
tipologia a testa flottante può presentare problemi di tenuta tra il mantello e la testa
flottante. In entrambi i casi il fascio tubiero è completamente estraibile dal mantello per
effettuare la pulizia della parte esterna dei tubi, cosa che non è invece fattibile per gli
scambiatori a teste fisse.
Esiste una classificazione degli scambiatori, da parte della TEMA (Thermal Exchangers
Manufacturer Association) che identifica ogni tipologia di scambiatore mediante 3
lettere, di cui la prima identifica la tipologia della testa fissa, la seconda la tipologia del
mantello, e la terza la tipologia della testa terminale (fissa, flottante o con tubi ad U),
secondo la classificazione riportata in figura 74. Ad esempio, uno scambiatore tipo
AEN, è caratterizzato da una testa fissa di tipo A, un mantello di tipo E, che realizza un
solo passaggio per il fluido lato mantello, ed un’altra testa fissa di tipo N.
103
Figura 74 [14]

Tubi
I tubi utilizzati comunemente hanno diametro esterno tra 16 e 30 mm e lunghezze
comprese tra 3.6 e 7.2 m, standardizzate con passo di 1.2 m (4 ft). I tubi hanno
interasse (passo) costante e sono disposti secondo una maglia regolare, solitamente
triangolare, con un passo tipicamente pari a 1.25 volte il diametro esterno dei tubi. Per
realizzare la superficie di scambio desiderata sono spesso necessarie varie centinaia di
tubi, che vengono disposti in modo da occupare quasi tutto lo spazio disponibile nella
piastra, fatto salvo un bordo che viene lasciato libero per realizzare l’accoppiamento
con il mantello (figura 75).
Qualora il coefficiente di scambio del calore del fluido che passa lato tubi sia basso, per
incrementarlo occorre aumentare la velocità di passaggio del fluido nei tubi. Ciò viene
realizzato, a parità di numero di tubi, facendo fare al fluido più passaggi (ad esempio
facendogli percorrere metà dei tubi fluendo in una direzione, e l’altra metà fluendo in

104
direzione opposta). Lo schema di figura 76a mostra uno scambiatore con 2 passaggi
lato tubi (gli scambiatori con tubi ad U sono tutti almeno con 2 passaggi lato tubi) e la
figura 76b uno scambiatore con 4 passaggi lato tubi.

Figura 75

(a)
(b)

Figura 76 [12]

Per realizzare più passaggi lato tubi occorre inserire dei setti trasversali nei fondelli di
ingresso e uscita del fluido lato tubi: la figura 77 mostra la configurazione delle due
piastre tubiere (di testa, figura 77a, e di fondo, figura 77b) per uno scambiatore con 4
passaggi lato tubi. Si può arrivare fino a 16 passaggi: aumentando il numero dei
passaggi, oltre al coefficiente di scambio termico, per effetto dell’aumento della velocità
aumentano anche (e considerevolmente) le perdite di carico. Inoltre, aumentando il
numero di passaggi lato tubi (posto che vi sia un solo passaggio lato mantello) lo
scambiatore non si trova più a funzionare in condizioni di controcorrente e quindi si ha
una riduzione dell’efficienza dello scambio termico.

(a) (b)

Figura 87

105
Mantello
Il mantello ha dimensioni standard che vanno generalmente da 150 mm a 1.5 m: nelle
realizzazioni fino a 700 mm si usano tubi commerciali, mentre al di sopra di questo
valore si utilizza lamiera tagliata, sagomata e saldata.
Per aumentare la turbolenza (e quindi il coefficiente di scambio termico) del fluido che
passa lato mantello, si inseriscono dei diaframmi, che costringono il fluido ad effettuare
un percorso più tortuoso e più lungo, come mostra la figura 70, già citata in precedenza.
I diaframmi sono dei dischi metallici, posti nella sezione trasversale dello scambiatore,
attraverso cui passano i tubi: i diaframmi esplicano quindi anche una funzione di
supporto e distanziamento dei tubi, nella zona lontana dalle piastre. I diaframmi non
occupano completamente la sezione, ma presentano un 20-25% di area libera per il
passaggio del fluido lato mantello: inoltre, la sezione libera, è posta in posizioni
alternate tra due diaframmi successivi, come mostra la figura 78 (a sinistra e a destra,
oppure nella zona centrale e nella zona anulare), in modo da rendere più tortuoso il
percorso del fluido.

Figura 78 [8]

La distanza tra i diaframmi va dal 20 al 100% del valore del diametro del mantello: al
diminuire della distanza aumentano la turbolenza ed il coefficiente di scambio (e quindi
anche le perdite di carico). I diaframmi sono tenuti in posizione da 4-8 barre che
passano attraverso fori appositi praticati nei diaframmi, e da distanziatori, spezzoni di
tubo che vengono infilati nelle barre tra diaframma e diaframma e che hanno diametro
tale da non passare attraverso i fori dei diaframmi stessi (vedi figura 89); le barre sono
bloccate con dado e rondella dopo l’ultimo diaframma.

Figura 79 [8]

Qualora si utilizzino 2 o più passaggi lato tubi, si possono realizzare anche 2 (o assai
raramente 4) passaggi lato mantello, inserendo un setto longitudinale (vedi figura 80).
Lo scopo principale di tale operazione è quello di far funzionare lo scambiatore
esattamente in controcorrente, aumentando l’efficienza dello scambio termico.

106
Figura 80 [8]

Fluido lato tubi e fluido lato mantello


Se non si ha cambiamento di fase nello scambiatore si possono adottare questi criteri
per scegliere quale fluido far passare lato tubi e quale lato mantello:
• il fluido più corrosivo va nei tubi (si evita di fare anche il mantello di materiale
resistente alla corrosione);
• il fluido più incrostante va nei tubi (si puliscono meglio);
• il fluido a pressione maggiore va nei tubi (il diametro è inferiore e quindi resistono
meglio alla pressione);
• il fluido per cui si tollerano perdite di carico più alte va nel mantello (dove le perdite
di carico sono più alte che nei tubi);

Condensatori
I condensatori sono gli apparecchi in cui si ha la condensazione, totale o parziale, di un
vapore di processo, ovvero si ha la condensazione di un vapore di un fluido di servizio
(tipicamente vapor d’acqua), purché il fluido di processo non subisca cambiamenti di
fase. Infatti, se esso dovesse vaporizzare, l’apparecchio prenderebbe il nome di
ribollitore, poiché è questa la funzione che svolge nei confronti dei fluido si processo.
Per la condensazione si utilizzano prevalentemente scambiatori a fascio tubiero. Fanno
eccezione i condensatori utilizzati per elevati quantitativi di fluidi di processo ad alta
temperatura, che sono spesso degli scambiatori a tubi alettati raffreddati ad aria.
Nella realizzazione dei condensatori si deve prestare attenzione alla scelta corretta dei
bocchelli di ingresso del vapore e di uscita del condensato: data la differenza di densità
tra vapore e liquido, il primo deve entrare dall’alto, mentre il secondo deve essere
scaricato in basso. Con questa avvertenza sono possibili tutte le combinazioni tra tipi
orizzontali e verticali di scambiatori e condensazione lato tubi e lato mantello.
Cionostante, le combinazioni più convenienti risultano, generalmente, quelle con
scambiatore orizzontale con condensazione lato mantello, e quella con scambiatore
verticale, sempre con condensazione lato mantello. La condensazione lato tubi
all’interno di un apparecchio orizzontale, con l’avvertenza di inclinare leggermente i tubi
per favorire l’uscita della condensa, si utilizza quasi esclusivamente nei condensatori
raffreddati ad aria, in un prossimo paragrafo.
Di norma, nel caso di condensazione, non si effettuano più passaggi dal lato del vapore
condensante.

107
Condensazione del vapore di un singolo componente
Se il vapore è costituito da un solo componente, esso, a pressione costante, condensa
a temperatura costante. Nella condensazione di un vapore puro saturo, il calore che è
necessario sottrarre è pari al calore latente di condensazione:
Q = wc ⋅ λc
dove
Q = calore scambiato (W)
wc = portata del fluido caldo (kg/s)
λc = calore latente di condensazione del fluido caldo, calcolato alla temperatura di
condensazione (J/kg)
Si rammenta che il calore latente di condensazione diminuisce all’aumentare della
temperatura.
La temperatura di condensazione di un vapore puro ad una certa pressione si può
valutare imponendo l’uguaglianza tra pressione e tensione di vapore del prodotto;
quest’ultima si può esprimere mediante l’equazione di Antoine, già citata in altra parte
del testo:
B
ln ps = A −
T
dove
ps = tensione di vapore, espressa in unità di pressione (ad esempio atm)
T = temperatura assoluta (K)
AeB = costanti caratteristiche del prodotto
La relazione esistente tra pressione e temperatura nel caso di vapori (e di liquidi) saturi
comporta anche il fatto che ad un abbassamento di temperatura corrisponda una
riduzione della pressione. Ciò può avere conseguenze pericolose nel caso di liquidi
saturi che si trovino all’interno di recipienti chiusi, come potrebbe accadere in un
condensatore di cui siano state chiuse le valvole di intercettazione senza provvedere ad
un preventivo svuotamento dell’apparecchio. In tal caso, infatti, mentre la temperatura si
abbassa fino a raggiungere quella ambiente anche la pressione si riduce e potrebbe
portare l’apparecchio a trovarsi sotto vuoto. Questa sollecitazione è particolarmente
gravosa dal punto di vista meccanico e potrebbe portare al cedimento dell’apparecchio.
Per prevenire questo problema occorre evitare di isolare apparecchi contenenti liquidi
saturi o prevedere l’ingresso di aria (o gas inerti) se si ha timore che l’apparecchio
possa portarsi sotto vuoto.

Condensazione di miscele di vapori


Se il vapore non è costituito da un unico componente, la miscela non condensa più a
temperatura costante, ma presenta una temperatura di inizio condensazione (a cui
appunto inizia a condensare) distinta e superiore rispetto alla temperatura di fine
condensazione: quest’ultima coincide con la temperatura di inizio ebollizione (a cui la
miscela inizia a bollire). I valori delle temperature di inizio e fine condensazione si
ricavano applicando l’equazione dell’equilibrio liquido-vapore, che per un generico
componente i si può scrivere:
yi = ki ⋅ xi
dove
yi = frazione molare del componente i in fase vapore

108
P = pressione
ki = costante di equilibrio del componente i (funzione di temperatura e composizione)
xi = frazione molare del componente i in fase liquida
Per un sistema ideale, la costante di equilibrio è funzione solo della temperatura ed è
pari al rapporto tra la tensione di vapore e la pressione del sistema:
k j = p sj (T ) / P
e la relazione precedente si trasforma nella:

y i ⋅ P = psi (T ) ⋅ x i
Questa relazione si applica ad ognuno dei componenti della miscela. Nel momento in
cui la condensazione ha inizio, è nota la composizione del vapore (ossia i valori di yi),
mentre è incognita quella del liquido (ossia i valori di xi); tuttavia, per congruenza la
somma di tutti i valori di xi dovrà essere pari ad 1. Si procede quindi per tentativi,
assegnando un valore della temperatura T, calcolando le tensioni di vapore dei
componenti e quindi i valori delle composizioni del liquido xi, fino a che non si abbia:
y ⋅P
∑i x i = ∑i p i (T ) = 1
si

Analogamente, la temperatura di fine condensazione (coincidente con quella di inizio


ebollizione) si determina per tentativi, tenendo conto che in questo caso è nota la
composizione del liquido (ossia i valori di xi), mentre è incognita quella del vapore (ossia
yi) a cui si va ad applicare la condizione di congruenza:
x ⋅ p (T )
∑i y i = ∑i i Psi = 1
In ogni caso, se tutti i componenti della miscela sono vapori condensabili, si ottiene la
condensazione completa del vapore.
Sia nel caso di vapori puri che di miscele di vapori è pure possibile effettuare una
condensazione parziale, ossia fare uscire dal condensatore una fase liquida ed una
vapore tra loro in equilibrio.

Condensazione in presenza di gas incondensabili


E’ diverso invece il caso in cui, insieme ad uno o più vapori, entri nell’apparecchio un
gas incondensabile: una situazione di questo tipo si presenta, ad esempio, per una
miscela di vapori di solvente e azoto derivante da un’operazione di essiccamento. In
questo caso non è possibile ottenere la condensazione completa dei vapori. Ne
consegue che dall’apparecchio, oltre al liquido condensato, uscirà anche un gas
incondensabile che conterrà una certa quantità dei vapori originari.
Supponendo per semplicità di avere un solo vapore insieme al gas incondensabile,
dalla relazione di equilibrio liquido-vapore per questo componente, supposto ideale, si
ha:
x p (T ) 1⋅ psv (T ) psv (T )
y v = v sv = =
P P P
dove si è tenuto conto che la fase liquida è costituita dal solo vapore condensato (e
quindi la sua frazione molare è pari ad 1).
Dalla relazione precedente si evince che, per minimizzare la quantità di vapore che non
condensa (ossia la sua frazione molare yv) occorre ridurre la temperatura T, riducendo
in tal modo la tensione di vapore psv, e/o aumentare la pressione del sistema P. Si

109
rimarca che non è possibile ottenere la condensazione completa del vapore presente
nella miscela a meno di raggiungere le condizioni di temperatura e pressione a cui si ha
anche la condensazione del gas “incondensabile”.

Scarico della condensa


In ogni operazione di condensazione occorre assicurarsi che essa avvenga
effettivamente, ossia che non si abbia l’uscita di vapore insieme con il condensato. A
tale scopo si può prevedere nel condensatore una guardia idraulica, facendo in modo
che il liquido, per uscire debba superare un livello minimo prefissato. In alternativa si
può prevedere un recipiente, detto accumulatore di condensa, posto immediatamente al
di sotto del condensatore, dove fare avvenire la separazione tra fase liquida e fase
gassosa. Se l’apparecchio è un condensatore totale l’accumulatore avrà solo un’uscita
per il liquido sul fondo, con un sistema a guardia idraulica (ad esempio un dispositivo
basato sul controllo del livello liquido). Nel caso invece di condensatore parziale o di
condensatore in presenza di incondensabili, l'accumulatore avrà, oltre ad un'uscita sul
fondo analoga alla precedente, anche un'uscita in alto per la fase gassosa.
Un caso particolare di condensazione è quello in cui viene utilizzato come fluido di
riscaldamento vapore d’acqua saturo condensante: ciò è piuttosto frequente nella
pratica, quando il vapor d’acqua costituisce il fluido di servizio per un fluido di processo
che va riscaldato o portato ad ebollizione. Nel caso in cui il flusso di vapore venga
intercettato ed esso condensi e si raffreddi all’interno del condensatore, la sua tensione
di vapore si abbassa corrispondentemente e l’apparecchio può trovarsi sotto vuoto: se
ciò rappresenta un problema occorre prevedere l’ingresso di aria o inerti.
Quando la pressione di esercizio del condensatore è inferiore a quella atmosferica, la
condensa non esce spontaneamente dall’apparecchio, ma occorre prevedere una
pompa di estrazione (rispettando comunque i vincoli sul valore di NPSH visti in
precedenza, se si usa una pompa centrifuga) ovvero effettuare uno scarico barometrico
(vedi figura 81). In tal caso si sopraeleva il recipiente da cui si deve estrarre il liquido,
dotandolo di una tubazione verticale che scarica in una vasca contenente liquido: si può
scaricare liquido anche da un recipiente in cui si sia creato il vuoto assoluto: nel caso di
acqua, l’altezza necessaria sarebbe di 10.33 m.

Figura 81 [11]

Ribollitori
I ribollitori sono apparecchiature in cui viene realizzata la vaporizzazione totale o
parziale di una fase liquida, escludendo le soluzioni contenenti soluti solidi, che

110
vengono vaporizzate parzialmente negli evaporatori. La maggior parte delle applicazioni
i ribollitori sono al fondo di colonne di distillazione e nei circuiti frigoriferi.
I ribollitori sono per lo più apparecchi a fascio tubiero, verticali od orizzontali, utilizzati
prevalentemente come vaporizzatori parziali: in questo caso la separazione tra il liquido
ed il vapore viene effettuata esternamente all’apparecchio, in modo analogo a quanto
visto per i condensatori; nel tipo Kettle, invece, una zona dell’apparecchio viene
dedicata alla separazione del vapore dal liquido ed è possibile effettuare la
vaporizzazione totale.

Circolazione a termosifone naturale e circolazione forzata


Dal punto di vista della circolazione del liquido i ribollitori possono funzionare con
circolazione a termosifone naturale e con circolazione forzata.
La circolazione a termosifone naturale si instaura per effetto della differenza di densità
tra il ramo di adduzione in cui è presente solo liquido e quello in cui è presente il
ribollitore ed il liquido è parzialmente vaporizzato: in pratica il livello del liquido nel
recipiente di origine viene mantenuto all’incirca pari a quello nel ribollitore e la portata
circolante dipende dal grado di vaporizzazione e dalle perdite di carico incontrate lungo
il circuito. I ribollitori con circolazione a termosifone naturale, nei tipi Kettle ed a
termosifone verticale sono quelli maggiormente utilizzati.
I ribollitori a circolazione forzata si utilizzano quasi esclusivamente per liquidi viscosi o
molto incrostanti, per i quali la circolazione a termosifone non assicurerebbe un flusso
sufficiente: in questo caso il flusso del liquido è assicurato da una pompa.

Ribollitore Kettle
Il ribollitore Kettle (a caldaia) è un apparecchio orizzontale, in cui il fascio tubiero è
situato nella sezione inferiore dell’apparecchio mentre in quella superiore realizza la
separazione del vapore dal liquido (figura 82). Si utilizzano fasci tubieri estraibili con tubi
ad U o a teste flottanti, con due o più passaggi.

Figura 82 [11]

Quando il Kettle è utilizzato come vaporizzatore parziale, alla fine del fascio tubiero è
presente un diaframma metallico (stramazzo) alto poco più del fascio tubiero: esso
assicura che il liquido ricopra sempre il fascio tubiero e crea una zona, al di là dello
stramazzo, in cui si raccoglie il liquido uscente. Quando la vaporizzazione è completa
manca il diaframma ed il bocchello di uscita del liquido. Questo tipo di ribollitore si
utilizza anche per vaporizzare liquidi frigoriferi, cioè che bollono a bassa temperatura: in
tal caso prende il nome di “chiller” (refrigerante), in quanto raffredda il fluido di
processo, cui il calore viene sottratto a spese dell’ebollizione del fluido frigorifero.
I vantaggi del Kettle sono rappresentati dal fatto che l’ebollizione avviene lato mantello,
e quindi eventuali sostanze sospese si depositano sul fondo senza influenzare lo
111
scambio termico, e dal fatto che il liquido da vaporizzare passa nel ribollitore una sola
volta, senza dover ricircolare all’apparecchio di provenienza: ciò lo rende adatto a liquidi
termosensibili, ossia soggetti a modifiche delle proprie proprietà chimico-fisiche se
mantenuti a lungo ad alta temperatura.

Ribollitore a termosifone verticale


E’ un apparecchio a fascio tubiero tradizionale, ad asse verticale, in cui l’ebollizione
avviene lato tubi. Si utilizzano tubi di diametro esterno 25-50 mm piuttosto corti (da 1.8
a 3.6 m), per evitare di sopraelevare troppo sia il ribollitore che l’apparecchio a cui esso
è collegato. Infatti, per ragioni legate alla circolazione a termosifone naturale, il livello
del liquido nel recipiente che alimenta il ribollitore va mantenuto circa alla stessa altezza
della piastra tubiera superiore del ribollitore (figura 83).

Figura 83 [11]

l ribollitore a termosifone verticale non è un vaporizzatore totale e, anzi, il grado di


vaporizzazione viene mantenuto basso (tra l’8 e il 30%), per far si che nei tubi si instauri
un flusso a bolle, favorevole allo scambio termico.
La separazione liquido-vapore non viene effettuata nel ribollitore, ma nell’apparecchio a
cui esso è collegato: ne consegue che il liquido può ricircolare più volte prima di uscire
definitivamente dal circuito e ciò può costituire un problema in caso di liquidi
termosensibili.
Il ribollitore a termosifone verticale è il tipo di ribollitore più economico e presenta
coefficienti di scambio più alti che per il Kettle. Il ribollitore a termosifone verticale non è
però adatto a fluidi incrostanti o termosensibili e presenta un limite sulla superficie
realizzabile, che arriva al massimo intorno ai 400 m2, per via della limitazione sulla
lunghezza dei tubi; è tuttavia possibile installare più ribollitori (fino a tre) in parallelo
sullo stesso apparecchio.

Scambiatori a tubi alettati


Questa tipologia di scambiatori si utilizza quasi esclusivamente quando uno dei fluidi
che scambia calore è un gas a bassa pressione. I gas a bassa pressione sono

112
caratterizzati da valori molto bassi del coefficiente di scambio, che non risulta
economico tentare di aumentare aumentando la velocità del gas poiché questa
soluzione comporterebbe perdite di carico eccessive. Per ovviare ai bassi coefficienti di
scambio si utilizza una alettatura che incrementa la superficie di scambio termico a
disposizione del gas, senza modificare quella a disposizione dell’altro fluido. Il principio
dell’alettatura è lo stesso che viene utilizzato nei radiatori di auto e motocicli, come pure
nei dispositivi di dissipazione del calore dei frigoriferi e dei condizionatori domestici.
Le alette possono essere in forma di sottili corone anulari metalliche poste
coassialmente al tubo (figura 84a) o di lamine metalliche disposte radialmente sul tubo
(figura 84b). La loro temperatura è pari a quella del tubo nei punti di giunzione ad esso,
e varia gradualmente lungo l’aletta: all’aumentare della superficie dell’aletta cresce
quindi la superficie di scambio termico a contatto con il gas ma, al tempo stesso
diminuisce il salto termico a disposizione per cui nella pratica si realizza di alette non
troppo grandi. Affinché l’alettatura funzioni correttamente è necessario che il gas possa
fluire tra le alette: il flusso del gas deve quindi essere tangenziale alle alette.

(a)

(b)

Figura 84 [11]

Negli scambiatori a tubi alettati il flusso del gas a bassa pressione è quindi all’esterno
dei tubi: iI gas passa intorno ai tubi, che sono disposti in schiere parallele, sfalsate tra
loro. Poiché allo scambiatore, lato gas, non è richiesta particolare resistenza meccanica
(il gas è a bassa pressione) la forma della sezione è quadrata o parallelepipeda: se il
gas viaggia in un condotto, tra questo e lo scambiatore vi sono delle sezioni di raccordo
a forma di tronco di piramide (vedi figura 85).

Figura 85 [12]

A parità di superficie di scambio termico, per mantenere basse le perdite di carico del
gas, si incrementa il numero di tubi per schiera, diminuendo il numero delle schiere.
113
Questa considerazione è particolarmente importante per gli air cooler, refrigeranti a tubi
alettati raffreddati mediante aria ambiente, utilizzati per raffreddare il fluido di processo
fino a temperature di 60-65°C. La portata di aria necessaria è generalmente alta e non
si utilizzano più di 2 o, al massimo, 3 schiere di tubi: la figura 86 mostra due possibili
realizzazioni di air cooler, con il ventilatore che assicura il movimento dell’aria posto al
di sopra o al di sotto delle schiere di tubi orizzontali.

Figura 86 [8]

Gli scambiatori a tubi alettati possono essere pure utilizzati per realizzare la
condensazione di miscele vapori-gas incondensabili, in cui questi ultimi siano
largamente preponderanti, dando luogo a bassi coefficienti di scambio termico. In
questo caso i tubi sono disposti orizzontalmente e la miscela gassosa entra dall’alto: il
condensato si raccoglie in un’apposita zona sul fondo ed il gas incondensabile ed i
vapori residui escono appena al di sopra di questa zona.

Scambiatori a piastre
Gli scambiatori a piastre sono caratterizzati da coefficienti di scambio termico molto
elevati (maggiori di quelli realizzabili con scambiatori a fascio tubiero) e sono quindi
utilizzati nelle situazioni che richiedono uno scambio termico ad alta efficienza, ossia
per esigenze di:
• superficie di scambio termico ridotta (perché si richiedono materiali speciali e
costosi, per problemi di spazio disponibile, ecc.)
• breve tempo di permanenza dei fluidi nell’apparecchio (perché i fluidi sono
termosensibili, ecc.)
• facile pulizia dello scambiatore
• possibilità di variare facilmente la superficie di scambio termico
Di fatto questi scambiatori sono largamente impiegati per fluidi corrosivi e, soprattutto,
per prodotti alimentari (ad esempio per il trattamento UHT del latte) e che presentano
problemi di sterilità.
Gli scambiatori a piastre sono però decisamente più costosi di quelli a fascio tubiero,
non sono in grado di resistere a pressioni elevate né a temperature elevate (al massimo
possono lavorare a 16-20 atm e circa 200°C).
Gli scambiatori a piastre sono formati da un certo numero di piastre metalliche, di forma
rettangolare e di spessore sottile: la superficie delle piastre è corrugata, in modo da
aumentare la turbolenza (e quindi il coefficiente di scambio termico). Le piastre
presentano 4 fori nei 4 angoli e sono pressate tra due piastre terminali di forte spessore,
una fissa ed una mobile, agendo su bulloni o con un meccanismo idraulico (figura 87).
In tale maniera, si realizzano 4 condotti all’interno del pacco delle piastre: queste ultime
114
sono munite di guarnizioni sagomate il modo da consentire il flusso, sulla piastra
considerata, solo al fluido che entra da un certo angolo ed esce dall’angolo opposto; la
piastra successiva ha una guarnizione sagomata in maniera simmetrica, per cui il fluido
entra ed esce dagli altri due angoli. In tale maniera si creano condotti separati per
l’ingresso e l’uscita dei due fluidi che scambiano calore.

Figura 87 [8]

Le dimensioni delle piastre arrivano fino a circa 1 m2 ed il loro numero a qualche


centinaio: lo spessore dell’intercapedine tra le piastre è tuttavia molto modesto (qualche
millimetro) per cui l’ingombro dello scambiatore raramente supera i 2 m. La struttura
dello scambiatore consente facilmente di accedere alle piastre per la pulizia, una volta
disserrato il pacco, come pure di inserire o togliere piastre per variare la superficie di
scambio termico. I limiti operativi di temperatura e pressione sono legati al materiale
utilizzato per le guarnizioni (gomma al silicone) ed alla pressione di serraggio
necessaria per la tenuta dello scambiatore.

Evaporatori
Gli evaporatori sono utilizzati per vaporizzare parzialmente soluzioni, ossia miscele
liquide contenenti un solvente ed un solido disciolto in esso: lo scopo dell’operazione
può essere quello di concentrare la soluzione (ossia aumentare la concentrazione del
solido disciolto), come pure quello di recuperare il solvente. Un esempio del primo caso
si ha nella concentrazione della soda o dei succhi di frutta; un esempio del secondo
caso nella dissalazione dell’acqua marina. Quando l’evaporazione viene spinta fino ad
avere la precipitazione del solido, si ha la cosiddetta cristallizzazione per evaporazione
che non sarà qui presa in esame.
Nell’evaporazione si assume che la tensione di vapore del solido sia trascurabile
rispetto a quella del solvente e che quindi sia solo questo ad evaporare; tuttavia,
occorre tener presente che, in presenza di solidi disciolti, la temperatura di ebollizione
del solvente aumenta per effetto del cosiddetto ∆T ebullioscopico, che può arrivare ad
alcune decine di gradi per soluzioni netta concentrate.
Come fluido riscaldante viene quasi sempre utilizzato vapor d’acqua condensante e,
spesso, l’acqua costituisce anche il solvente che si desidera evaporare. In questo caso
115
occorre tener presente che, per ogni kg di acqua evaporata, occorrono 1.1-1.3 kg di
vapor d’acqua di riscaldamento. Infatti, anche escludendo il calore disperso
dall’apparecchio, affinché si realizzi lo scambio termico il vapore condensante deve
trovarsi a temperatura superiore (di almeno 5-10°C) rispetto alla soluzione in ebollizione
e, all’aumentare della temperatura il calore latente di vaporizzazione diminuisce. La
situazione peggiora, inoltre, poiché la soluzione, per via del ∆T ebullioscopico, bollirà a
temperatura superiore rispetto a quella a cui bollirebbe il solvente puro alla medesima
pressione.

Esempio
Si desidera concentrare un succo di frutta dal 10% al 50% di solido alla pressione di 1
atm: valutare quanti kg di acqua vanno evaporati per ogni kg di soluzione e quanti kg di
vapore di riscaldamento sono necessari per ogni kg di acqua evaporata.
Il calore latente di vaporizzazione dell’acqua vale λvap=540 kcal/kg a 100°C e λvap=520
kcal/kg a 120°C, il calore specifico del vapor d’acqua vale cp,vap = 0.45 kcal/kg°C.
Per valutare quanta acqua occorre evaporare, per ogni kg di soluzione entrante, si
effettua il bilancio di materia, ricordando che il solido non evapora:
w solido = w soluz . iniziale ⋅ c iniziale = w soluz . finale ⋅ c finale = 1 ⋅ 0.1 = w soluz . finale ⋅ 0.5
w soluz . finale = 0.2 kg w acqua evaporata = w soluz . iniziale − w soluz . finale = 1 − 0.2 = 0.8 kg
Alla pressione di 1 atm la temperatura di ebollizione dell’acqua è 100°C: ipotizzando di
avere un ∆Tebullioscopico di 10°C, la soluzione bollirà a 110°C. Ipotizzando un salto termico
di 10°C tra soluzione bollente e vapore di riscaldamento, quest’ultimo dovrà trovarsi a
120°C. Il calore da fornire per avere l’ebollizione di 1 kg di acqua è:
Q =λ vap (100 °C ) + c p,vap (110 − 100 ) = 540 + 0.45 ⋅ 10 = 544 .5 kcal / kg acqua evaporata
La quantità di vapore di riscaldamento necessaria è quindi:
Q 544.5
w vapore riscaldamento = = = 1.05 kg vapore riscaldamento / kg acqua evaporata
λvap (120°C ) 520
Se si tiene conto anche dei disperdimenti termici questo valore va aumentato di circa il
5% e diviene pari a 1.10 kgvapore riscaldamento/kgacqua evaporata.

Il consumo di vapore di riscaldamento nelle operazioni di evaporazione può divenire


quindi assai consistente e ciò ha portato all’individuazione di strategie per ridurre i
consumi, la più utilizzata delle quali è l’evaporazione a multiplo effetto. Essa consiste
nel collegare tra loro più apparecchi, assegnando ad ognuno di essi il compito di
realizzare una parte della concentrazione della soluzione, e nell’inviare il vapore di
riscaldamento solo al primo evaporatore. Il vapore che evapora dalla soluzione nel
primo evaporatore viene quindi utilizzato come vapore di riscaldamento per il secondo
evaporatore; il vapore che evapora dal secondo evaporatore viene utilizzato come
vapore di riscaldamento per il terzo e così via. Affinché il sistema possa funzionare
occorre che le temperature di evaporazione della soluzione vadano diminuendo man
mano che ci si sposta dal primo al secondo, al terzo evaporatore e così via, e ciò viene
ottenuto riducendo progressivamente la pressione, per cui spesso gli ultimi evaporatori
lavorano sotto vuoto.
Le tipologie di evaporatori maggiormente utilizzati sono gli evaporatori a fascio tubiero
corto e quelli a tubi lunghi.

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Evaporatori a fascio tubiero corto
Sono apparecchi cilindrici ad asse verticale, dotati di un fascio tubiero verticale,
costituito da tubi corti (lunghi al massimo 2.4 m) posto nella parte inferiore. Il livello del
liquido è tale da mantenere sommerso il fascio tubiero e arriva circa al 50% dell’altezza
dell’apparecchio; la parte superiore dell’evaporatore costituisce una zona in cui il vapore
che si sviluppa si libera dalle goccioline eventualmente trascinate prima di uscire dal
bocchello superiore. Il fascio tubiero non occupa l’intera sezione dell’apparecchio, ma
una zona anulare (evaporatore a calandria, figura 88a) o una zona centrale
(evaporatore a basket, figura 88b). L’ebollizione del liquido avviene all’interno dei tubi
del fascio tubiero: la densità diminuisce, per effetto della presenza di bolle di vapore e
nei tubi si ha dunque un moto ascendente. Sul pelo libero ha luogo la separazione del
vapore, che sale, dal liquido che ridiscende, sfruttando lo spazio centrale
(nell’evaporatore a calandria) o quello anulare (nell’evaporatore a basket).

(a (b
)

Figura 88 [12]

Evaporatori a tubi lunghi


Gli evaporatori a tubi lunghi sono anch’essi cilindrici ad asse verticale, ma i tubi sono
lunghi 4-7 m. La soluzione occupa solo una piccola parte dell’evaporatore e vi permane
un tempo molto breve: essa può entrare dal basso e risalire nei tubi insieme al vapore
che si sviluppa o essere distribuita nella parte alta in modo da formare un film cadente
all’interno di ogni tubo. Questa soluzione è molto efficiente ed preferita per la
concentrazione di soluzioni termosensibili, come i succhi di frutta.

Forni
I forni differiscono da tutte le altre apparecchiature di scambio termico sin qui
esaminate, poiché il calore è ottenuto mediante la combustione controllata di un
combustibile con aria. Il combustibile può essere solido (ad esempio carbone), liquido
(ad esempio gasolio o olio combustibile) o gassoso (ad esempio metano).
Il potere calorifico dei combustibili più comunemente utilizzati si aggira intorno a 10 000
kcal/kg: per sfruttare completamente questo calore occorre che la combustione sia
totale, ossia, nel caso di idrocarburi, porti alla produzione di CO2 e H2O, e non si abbia
un’ossidazione parziale con formazione di CO. A tal fine i combustibili vengono bruciati
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inviando aria in eccesso rispetto alla quantità stechiometrica. L’eccesso d’aria è basso
(circa il 5%) per i combustibili gassosi e aumenta passando a quelli liquidi (20-30%) ed
a quelli solidi (fino al 50% e più). Molto spesso, per regolare l’eccesso d’aria, si effettua
un controllo sulla concentrazione dell’ossigeno residuo nei fumi uscenti.
Nella combustione si ha la formazione di fumi caldi, costituiti, per circa l’80% del loro
volume, da azoto, cui si aggiungono i prodotti di combustione e l’ossigeno residuo.
Questi fumi si trovano a temperatura molto elevata (800 - 1 200°C) e cedono il loro
calore al fluido di processo, che passa entro dei tubi. Data la temperatura dei fumi, il
meccanismo di scambio di calore prevalente è quello per irraggiamento, invece che
quello convettivo, che è quello tipico per tutti gli altri apparecchi di scambio termico fin
qui esaminati. Perché si realizzi lo scambio termico per irraggiamento i tubi devono
“vedere” la fiamma e quindi possono essere disposti su una o, al massimo, due file
sfalsate; la camera in cui sistemare i tubi può però avere dimensioni piuttosto ampie,
poiché lo scambio termico non è influenzato dalla velocità con cui i fumi la attraversano.
I forni sono quindi dotati di una camera radiante, di forma cilindrica (figura 89a, 89b,
89c) o parallelepipeda (forno “a cattedrale”, figura 89d), in cui i bruciatori sono disposti
generalmente sul fondo ed i tubi lungo le pareti laterali. Superiormente c’è un’apertura
per l’uscita dei fumi (figura 89a, 89b): questi sono ancora decisamente caldi quando
abbandonano la sezione radiante, per cui si può sfruttare ancora il loro calore prima di
inviarli al camino. Ciò si può fare in una seconda camera, detta convettiva, posta per lo
più al di sopra i quella radiante (figura 89c e 89d). Nella sezione convettiva lo scambio
avviene sia con modalità radianti, prevalenti nella parte iniziale in cui i fumi sono più
caldi, sia con modalità convettive. La camera presenta infatti una sezione minore, per
aumentare la velocità del gas e quindi lo scambio convettivo, e vi sono disposte più
serie di tubi, generalmente alettati.

Figura 89 [8]

L’uscita definitiva dei fumi dal forno e la loro dispersione in atmosfera avviene mediante
un camino, che può essere alto anche parecchie decine di metri. La temperatura
minima dei fumi all’uscita dal camino deve essere superiore a 150°C, per evitare
possibili problemi in presenza di SO3 (tracce di zolfo sono presenti in quasi tutti i
combustibili: per combustione si ha formazione di SO2 accompagnata da piccoli
quantitativi di SO3) e H2O, con possibilità di condensazione di acido solforico.
Il tiraggio dal camino può essere naturale, per la differenza di densità tra i fumi, più

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leggeri perché caldi, e l’aria ambiente, o forzato, se i fumi incontrano perdite di carico
sensibili nel passaggio attraverso il forno. Per ragioni di sicurezza, la sezione radiante
opera a pressione appena al di sotto di quella atmosferica (in tal modo, in caso di
problemi di tenuta si ha l’ingresso di aria esterna nel forno e non la fuoriuscita di fumi
caldi): le perdite di carico sono trascurabili nella sezione radiante ma possono essere
sensibili in quella convettiva.
I forni di dimensioni maggiori hanno generalmente sia la sezione radiante che quella
convettiva, mentre quelli più piccoli possono presentare la sola sezione radiante.
Quando sono presenti entrambe le sezioni, il fluido di processo percorre per primi i tubi
posti nella sezione convettiva e quindi quelli posti nella sezione radiante.
Le temperature molto elevate raggiunte nei forni pongono dei problemi relativamente ai
materiali da costruzione. Le pareti sono rivestite con materiale refrattario, che ha il
duplice scopo di riparare la struttura esterna in acciaio e di incrementare lo scambio
termico all’interno per riflessione del calore da parte delle pareti. I tubi sono però
metallici e, se in acciaio al carbonio, possono andare incontro a problemi di scorrimento
viscoso se la temperatura raggiunge i 500°C. La temperatura a cui si portano i tubi
dipende dalle loro modalità di scambio termico con i fumi, all’esterno, e con il fluido di
processo, all’interno. Per la progettazione dei forni si fa riferimento ad una grandezza,
detta carico termico, che rappresenta il valore del flusso termico per unità di superficie.
Il valore massimo ammesso per il carico termico oscilla tra 10 000 e 54 000 kcal/m2h
dipendentemente dalle applicazioni. Dato il valore del carico termico è agevole
calcolare la temperatura della parete metallica del tubo dalla relazione seguente:
Q
q= = hfluido (Ttubo − Tfluido )
A0
dove
q = carico termico (kcal/m2h)
Q= calore scambiato (kcal/h)
A0= superficie di scambio termico (m2)
hfluido = coefficiente di scambio termico del fluido di processo (kcal/m2h°C)
Ttubo = temperatura del tubo (°C)
Tfluido = temperatura del fluido (°C)
Se la temperatura del tubo è troppo elevata occorre cercare di aumentare il coefficiente
di scambio termico del fluido, ad esempio incrementandone la velocità realizzando più
passaggi nei tubi, oppure ridurre il carico termico, incrementando la superficie di
scambio termico, ossia il numero dei tubi

Esempio
Calcolare la temperatura della parete del tubo di un forno per il riscaldamento di olio
termico a 250°C. Il valore massimo del carico termico è 40 000 kcal/m2h ed il
coefficiente di scambio termico dell’olio termico vale 500 kcal/m2h°C.
q 40000
Ttubo = + Tfluido = + 250 = 330°C
hfluido 500

I problemi di surriscaldamento dei tubi possono però sorgere tutte le volte in cui, per
una qualche ragione, la portata del fluido di processo diminuisce, poiché ciò comporta
una diminuzione del coefficiente di scambio termico, o peggio ancora se il flusso si

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arresta completamente.
I forni si utilizzano per fornire grosse quantità di calore (da 3 a 100 MW) a temperatura
elevata. Le applicazioni dei forni nell’industria di processo comprendono:
• riscaldatori per correnti di processo, come ad esempio per il greggio di petrolio che
viene vaporizzato fino al 60% prima di essere inviato al topping;
• ribollitori per colonne di distillazione, quando le quantità di calore e le temperature in
gioco lo suggeriscano;
• reattori a fuoco diretto, come i forni di pirolisi del dicloroetano a dare cloruro di vinile;
• reattori di reforming per la produzione di idrogeno con temperature di 800-900°C;
• produzione di vapor d’acqua a pressione.

PROBLEMATICHE DI SICUREZZA DEGLI APPARECCHI DI SCAMBIO TERMICO [6]

Scambiatori di calore
Sotto questa voce rientrano gli scambiatori di calore, i refrigeranti e riscaldatori, i
vaporizzatori, i ribollitori ed i condensatori. I principali problemi di sicurezza sono
collegati alla formazione di incrostazioni, a possibili polimerizzazioni o solidificazioni,
perdite nelle connessioni tra tubi e piastre, vibrazioni e rotture dei tubi.
Quando si formano incrostazioni in un’apparecchiatura di scambio termico ci sono
ripercussioni sul trasferimento di calore e sulle perdite di carico. Una riduzione delle
capacità di scambio termico può avere conseguenze particolarmente gravi nel caso di
una refrigerazione critica, come nel caso del raffreddamento di un reattore esotermico.
L’incremento delle perdite di carico porta ad una riduzione delle portate. In fase di
progetto si tiene conto dell’entità delle incrostazioni che si formeranno nel corso delle
vita operativa dell’apparecchio attraverso il fattore di sporcamento, che dipende dai
fluidi che passano nell’apparecchio. Dipendentemente dalle caratteristiche dei fluidi, si
possono anche verificare solidificazioni a bassa temperatura o polimerizzazioni ad alta
temperatura, che hanno effetti simili a quello delle incrostazioni e possono anche
portare al blocco del flusso.
Il problema delle vibrazioni dei tubi è sensibile soprattutto negli scambiatori di calore
con alte velocità di flusso e tubi lunghi. Le vibrazioni possono causare danni ai tubi
stessi, al mantello, ai supporti ed alle tubazioni collegate all’apparecchio: in caso di
vibrazioni si può arrivare alla rottura di più tubi, e quindi alla fermata dell’apparecchio, in
uno o due giorni. In caso di rottura di uno o più tubi ci possono essere problemi se il
fluido che passa nei tubi è a pressione maggiore di quello che passa lato mantello,
poiché la rottura dei tubi comporta una sovrapressurizzazione del mantello
dell’apparecchio. In particolare, si verifica dapprima un aumento di pressione locale nel
punto in cui si è verificata la rottura e quindi un picco di pressione complessivo nel
mantello. Se i fluidi lato tubi e lato mantello sono liquidi, il primo fenomeno si verifica nel
giro di 1 ms, e il secondo in circa 10 ms: questi tempi si allungano considerevolmente
se sono presenti fasi gassose. Anche se il picco locale di sovrapressione è inferiore al
picco complessivo, spesso è il primo a creare maggiori problemi, mentre il secondo
viene smaltito senza eccessivi problemi dalla valvola di sicurezza.

Forni
Sotto questa voce rientrano i forni e le altre apparecchiature a fuoco diretto che
costituiscono una importante fonte di pericolo negli impianti di processo. Il rischio è

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legato principalmente alla possibilità di esplosioni nella zona radiante e alla rottura dei
tubi. La prima tipologia di incidente si verifica tipicamente in fase di accensione o nel
caso in cui la fiamma si spenga, la seconda in caso di interruzione dell’alimentazione o
surriscaldamento. Ovviamente tutte le apparecchiature a fuoco diretto possono anche
costituire punti di innesco in caso di perdite di prodotti infiammabili nell’impianto.
Gran parte delle esplosioni nei forni si verificano in fase di avviamento quando si tenta
di accendere il forno. La situazione tipica è quella in cui c’è un trafilamento di
combustibile mentre l’impianto è fermo, per cui nella camera di combustione si forma
una miscela infiammabile che esplode quando si cerca di accendere il bruciatore al
successivo riavvio dell’impianto. Per prevenire questo tipo di incidente è importante
impedire che il combustibile non innescato arrivi nella camera di combustione. A tal fine
è bene non fare affidamento su una sola valvola: vanno utilizzate due valvole, tra cui è
interposta un disco cieco, oppure una valvola di drenaggio. La prima soluzione è più
adatta per combustibili gassosi, la seconda si può adottare per combustibili liquidi.
Occorre comunque evitare che rimanga del combustibile nella tubazione tra valvola e
bruciatore. Prima di avviare il bruciatore occorre purgare con aria la camera di
combustione, analizzando quindi l’atmosfera nella camera per verificare che non sia
infiammabile. Come mezzo di accensione va preferita una fiamma pilota che si
interrompe alcuni secondi dopo l’accensione della fiamma principale. In fase di avvio,
del bruciatore si utilizza un flusso di combustibile inferiore a quello normale: segue un
periodo iniziale di non più di 5 secondi in cui si controlla che vi sia stato l’innesco e un
secondo periodo, di almeno 5 secondi, in cui viene verificata la stabilità della fiamma. E’
essenziale che il bruciatore venga arrestato immediatamente se la fiamma non prende,
come pure se viene a mancare l’aria di combustione. A tale scopo si utilizzano dei
dispositivi per verificare la presenza di fiamma e per misurare la pressione dell’aria.
Tutta la sequenza delle operazioni di avvio del bruciatore deve essere ben specificata:
ad esempio, occorre stabilire il flusso d’aria, purgare la camera di combustione,
controllare la composizione dell’atmosfera della camera, innescare una fiamma stabile.
Se si verificano inconvenienti non si può procedere con l’avviamento ed occorre
riprendere la sequenza da capo.
La rottura dei tubi in un’apparecchiatura a fuoco diretto si può verificare quando il flusso
del fluido di processo si interrompe o cessa completamente. Se ciò si verifica va spenta
immediatamente la fiamma. Occorre tenere presente che una riduzione della portata in
un forno progettato per fornire una certa quantità di calore per riscaldare o vaporizzare il
fluido di processo può comportare un notevole aumento della temperatura dei tubi. Il
surriscaldamento è un’altra causa di rottura, poiché la resistenza meccanica diminuisce
alle alte temperature. Vanno previsti dispositivi di controllo per evitare problemi e, se
necessario, arrestare il funzionamento del forno. Normalmente vengono misurati portata
e pressione del fluido di processo, portata dell’aria di combustione, rapporto
aria/combustibile, tenore di ossigeno dei gas di combustione, stato della fiamma e
temperatura dei tubi.

Incidenti in forni
Tra i vari incidenti verificatisi nei forni, si cita quello di Porto Marghera nel 1984,
avvenuto in fase di manutenzione di un forno, arrestato in precedenza. Una valvola di
intercettazione non chiudeva bene, per cui si verificava una perdita di virgin nafta
mentre si tentava di inserire un disco cieco. La virgin nafta in pressione (circa 12 atm)
usciva nebulizzata e trovava un innesco in un altro forno. Nell’incendio successivo
cedeva una linea di trasferimento del prodotto, posta a 10 m dal suolo, che esplodeva
nel giro di una decina di minuti.

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