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F.

Motta
Introduzione alla storia della lingua e della letteratura irlandese medioevale

Nella loro lunga storia i Celti hanno visto grandi fortune e subito smacchi
altrettanto grandi. Cominciamo dalle fortune.
I Celti sono l’etnia che nell’antichità ha occupato il territorio europeo (e non
solo europeo) più vasto perché popoli celtici sono stanziati dalle sponde
dell’Atlantico alle pianure danubiane, passando per Spagna, Francia, Belgio,
buona parte della Germania, l’Italia settentrionale e di qui, attraverso la
penisola balcanica e la Tracia, fino all’Asia minore. In secondo luogo, vista la
loro distribuzione massiccia e diffusa sul continente, possono essere
considerati a pieno titolo il primo popolo “europeo” e quindi fu giusto
intitolare la grande mostra veneziana sui Celti di qualche anno fa “La prima
Europa”. Ancora: le grandi letterature europee hanno tratto da quelle celtiche,
più o meno profondamente rielaborandoli, alcuni dei più corposi e importanti
cicli, temi, figure leggendarie e favolistiche che le caratterizzano e per
rendersi conto di questo debito letterario e culturale nostro nei confronti dei
Celti basterà pensare a cosa sarebbe la cultura europea senza il ciclo
bretone e la tavola Rotanda, Artù, Mago Merlino, Morgana, Lancillotto,
Tristano, Isotta. E poi ci sarebbero da ricordare quella particolare architettura
di epoca imperiale e medievale diffusa in Francia e che viene detta gallo-
romana proprio per sottolinearne la inconfondibile componente celtica;
l’oreficeria celtica continentale e insulare; le tecniche e i motivi decorativi dei
Celti antichi e medievali in cui molti studiosi di storia dell’arte rintracciano a
ragione le fonti d’ispirazione per il Liberty. Infine, altro motivo di vanto
“postumo” per i nostri Celti potrebbe a buon diritto essere rappresentato
dalle periodiche e sempre più fitte riscoperte e revivals del celtismo, dai falsi
ossianici di Macpherson fino a Tolkien e (perché no?) e ad Asterix, senza
dimenticare le “reintroduzioni”, quasi sempre inconsapevoli, di qualche
tradizione come, ad esempio, quella di Halloween che altro non è che la
cristianizzazione di Shamain, la festa d’inizio dell’anno celtico in cui avveniva
l’incontro fra i due mondi, terreno e divino: una festa portata in America dagli

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immigrati irlandesi e di là reintrodotta, or sono non molti anni, in Europa. Ma
ora sto parlando dello Halloween “pubbistico” (nel senso che spesso si
celebra nei pub), discotecaro e consumistico cui ci ha abituato la TV di questi
ultimi anni perché, a dire il vero, io sarei propenso ad attribuire certe usanze
che per Ognissanti troviamo in varie vallate alpine e appenniniche più a quel
retaggio antichissimo che non a questi stucchevoli e provinciali recuperi.
Ma, come dicevo, nella storia dei Celti si registrano anche singolari rovesci di
fortuna e non mi riferisco solo alle battaglie e alle guerre perdute (via via
contro Romani, Anglo-Sassoni, e poi Inglesi e Francesi) ma a qualcosa di
ancor più insidioso per la sopravvivenza di un popolo: l’ignoranza diffusa
sulla sua identità. Tanti, troppi, anche fra persone di buona cultura non sanno
chi furono (e sono tuttora) davvero i Celti o hanno le idee molto confuse in
proposito. C’è chi crede, ad esempio, che i Celti rappresentino un ramo -
importante quanto si vuole ma pur sempre un ramo-, dei Germani o che
celtiche siano solo le popolazioni antiche, quelle sconfitte o assimilate dai
Romani: e sbagliano entrambi perché, da un lato, “celtico” è un concetto
etno-linguistico autonomo e i contatti che ci sono stati con il mondo
germanico sono avvenuti fra due etnie distinte, mentre, dall’altro, se è vero
che non esistono più né Galli, né Celtiberi, né Galati, né Leponzi, sono
celtiche optimo iure anche tutte quelle comunità che in epoca medievale,
moderna e contemporanea parlavano o addirittura parlano tuttora una lingua
celtica come oggi nel Gaeltacht irlandese, nel Galles, in Scozia, in Bretagna e
fino al secolo scorso e al XVIII rispettivamente nell’Isola di Man e in
Cornovaglia.
Ma, forse, il fraintendimento più curioso (e spiacevole per i poveri Celti) è
quello di cui essi furono vittima molti anni fa proprio a Pisa, quando la
Facoltà di Lettere e Filosofia chiese al Ministero della Pubblica Istruzione
(allora, in epoca pre-autonomia questa era la via obbligata per accendere un
nuovo insegnamento universitario) l’istituzione di una cattedra di Filologia
celtica e gli alti burocrati, supremi custodi del sapere accademico italiano,
risposero con una bella lettera al Consiglio di Facoltà in cui dicevano che
certamente si trattava di un’eccellente idea e che volentieri avrebbero
consentito che l’Università di Pisa potesse fregiarsi di una tale cattedra ma,

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allo stesso tempo, che non capivano perché la richiesta venisse dalla Facoltà
di Lettere e non da quella di ..........Medicina! Dopo un momento di
comprensibile stupore in Consiglio fu subito chiaro da cosa era stato
generato l’equivoco: il fatto è che celtico (come, del resto il suo quasi
sinonimo gallico) era fino a qualche anno fa un aggettivo comunemente
associato al sostantivo morbo per indicare quella malattia di cui ci fecero
regalo le truppe discese in Italia nel 1495 al seguito di Carlo VIII di Francia
per l’assedio di Napoli, la sifilide, insomma, non a caso detta anche mal
francese (ma dai Francesi, naturalmente, mal napolitain!); del resto, qualcuno
anche qui ricorderà che il reparto dermosifilopatico dell’Ospedale Militare di
Livorno si chiamava appunto Padiglione Celtico!
Certo, oggi le cose sono cambiate e, grazie soprattutto ad alcune iniziative
espositive di grande risonanza come quella di Palazzo Grassi sopra ricordata
del 1991, al consolidamento della celtistica in alcune Università italiane, alla
pubblicazione di ottime sintesi storiche o archeologiche (ma anche alla
benemerità attività di associazioni culturali locali come Terra Insubre di
Varese o Capodanno Celtico di Milano che fanno buona divulgazione) i livelli
dell’informazione di base sui Celti si sono decisamente alzati. Ma certo non si
può dire che una soddisfacente informazione sulla cultura celtica sia ormai
alla portata di tutti, per cui anche un corso universitario come questo, a
prescindere dall’argomento specifico che ne forma l’ossatura portante, non
può non iniziare cin qualche informazione di base
***
Innanzitutto, come già accennato, “celtico”, non diversamente da
“germanico”, “slavo”, “baltico”, ecc. è un concetto prima di tutto linguistico,
nel senso che prima di poter qualificare con tale etichetta questo o quel
popolo o comunità, bisogna essere certi che questa parli (o abbia parlato)
una lingua celtica: non c’è molta diversità, da questo punto di vista, con un
qualsivoglia testo, del quale non ci sogneremmo mai di dire che è celtico (o
germanico o slavo) se non è scritto in una lingua appartenente a una di
queste sottofamiglie indoeuropee. La storia e l’archeologia possono dare
contributi preziosi per la conoscenza dei Celti ma non possono mai avere
l’ultima parola in un’eventuale questione di attribuzione etnica giacché è

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noto, da un lato, che spesso gli storici classici confondono fra Celti e
Germani o che la cultura La Têne (così chiamata dal nome di un villaggio
sulle sponde del lago di Neuchȃtel dove alla metà dell’800 fu scoperto un
importante sito dell’età del ferro con caratteristiche originali), pur costituendo
il risvolto archeologico di grandissima parte della celticità, non è patrimonio
esclusivo di genti celtofone, giacché da un lato la cultura lateniana fu in parte
adottata anche da popolazioni parlanti altri idiomi (ad esempio, i Piceni) e,
dall’altro, esistono popolazioni parlanti lingue sicuramente celtiche che
presentano facies archeologiche non lateniane, come in Celtiberia o nell’area
lepontica.
Vediamo allora queste lingue celtiche, cominciando da quelle che erano
parlate sul continente europeo negli ultimi secoli dell’era antica, quella della
maggiore diffusione dei Celti. Il gallico è senz’altro quella più importante per
diffusione (Gallia Transalpina e Cisalpina, parte della Germania e della
Svizzera) e ampiezza di documentazione diretta (iscrizioni) che va dal III sec.
a.C. al II-III (forse addirittura IV) d.C. e indiretta (toponimi, voci di sostrato nei
dialetti gallo-romanzi). Il leponzio (da alcuni considerato una variante arcaica
e periferica del gallico) era parlato in Val d’Ossola, aree intorno alle due
sponde del lago Maggiore e Canton Ticino come ci testimoniano poco meno
di duecento iscrizioni (dal VII sec. al II a.C.) fin, la gran parte delle quali,
purtroppo, assai brevi e in frammenti e costituite per lo più da nomi propri. Il
galatico era la lingua di quei Galli che passarono nel III sec. a.C. in Asia
Minore fondandovi il regno della Galazia (corrispondente in parte all’attuale
Turchia) e che dovette sopravvivere a lungo prima di soccombere al greco
visto che ancora S. Girolamo ci dice che ai suoi tempi era ancora parlato ma
di cui conosciamo solo glosse in autori classici e nomi di persona. Infine, il
celtiberico è la lingua celtica di alcune centinaia di iscrizioni in una sorta di
semisillabario iberico o in alfabeto latino comprese in un arco cronologico dal
III al I sec. a.C. provenienti dal centro della Spagna. Tutte queste lingue, dette
appunto lingue celtiche antiche o continentali furono, in momenti e con tempi
diversi, comunque soppiantate in epoca imperiale dal latino (e, nel caso del
galatico anche dal greco). Vorrei far notare già a questo punto (ma ritornerò
più avanti sull’argomento perché di importanza cruciale) che rispetto un arco

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cronologico e una arealità così ampi come quelli pertinenti ai Celti antichi le
testimonianze scritte lasciate da questi sono numericamente insignificanti
(siamo abbondantemente al di sotto del migliaio fra quelle galliche, leponzie,
celtiberiche), non arrivando neppure a interessare tutte le aree europee che
altri indizi linguistici (in primis la toponomastica) ci assicurano essere state
occupate dai Celti. Inoltre, queste testimonianze scritte consistono in
iscrizioni votive, funerarie, marchi di proprietà o di fabbrica, calendari,
formule magiche, brevi testi scherzosi e pochi altri tipi mentre non abbiamo
neppure un testo che possa essere definito “letterario” e sono rarissimi e
limitati alla celticità ispanica e a un’iscrizione gallica a Vercelli, entrambi spia
di contatto con il mondo romano) i documenti di tipo giuridico e politico.
Avremo occasione di ritornare più avanti durante il corso sull’oralità come
caratteristica tipica della cultura celtica antica ma ora, prima di concludere
questa rapida informazione sulle lingue celtiche continentali, occorre
precisare che le nostre informazioni su di esse non si limitano alle epigrafi
scritte dai Celti stessi ma ne abbiamo anche testimonianza indiretta, vale a
dire elementi e sopravvivenze in altre tradizioni linguistiche e in diversi settori.
Queste fonti indirette sono rappresentate in primo luogo dalle glosse di autori
classici, cioè quelle numerose voci che gli autori latini e greci ci dicono
essere impiegate dai Celti, come il gallo-lat. ambactus “servo” (la parola che,
attraverso successive mediazioni germaniche e francese è alla base del
nostro ambasciata), o il galatico drunemeton “tempio”. Un’altra fonte
indiretta di conoscenza del celtico antico sono le tante parole che il latino ha
preso in prestito dal gallico come gladius, lancea, carpentum; di queste,
molte delle quali entrate nelle lingue romanze: mi limito qui a ricordarne solo
alcune francesi e italiane (in molti casi ricorrono in entrambe le lingue):
cervoise “birra” (attraverso il lat. cervisia dal gallico kurmi, come lo spagnolo
cerveza), crème, grève, if, quai, cavallo, carro, benna, brigante, camicia,
braca, drappo allodola, betulla, segugio, garrese, paiolo, ecc. Altre voci di
origine gallica sono quelle cosiddette di sostrato, cioè quelle parole che,
anche se non necessariamente impiegate nel latino standard sono penetrate
in quello regionale e di qui in italiano, in francese e nei vari dialetti gallo-
romanzi: bresc. bénola “donnola”, ven. bar “cespuglio”, emil. bèga “ape”, it.

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sett. brolo, broletto, lig. crösa “viottolo”, mil. cròppa “sudiciume, tartaro delle
botti” che muove da un gall. *krouppā. confrontabile con parole britanniche
dallo stesso ambito semantico.
Infine, altra fonte importantissima di informazione indiretta sulle lingue
celtiche antiche è costituita dalla toponomastica, giacché sono di derivazione
gallica una grandissima parte dei nomi di città e regioni europee: Parigi (e
Lutetia), Londra, Lione, Berry, Brouges, Auvergne, Leyda, Coimbra, Vienna,
Ivrea, Milano, Brescia, Verona, Senigallia, Cadore ,ecc. cui si affiancano quelli
seriali composti con le parole o formanti celtiche come –dunum
“fortezza” (Verdun, Induno, ecc.), -ako- (in Francia sono i toponimi in –ac
come Larzac, Banassac, in Italia quelli in –ago come Assago, Legnago ), e
forse (la questione è oggi assai dibattuta) –ate, il suffisso che faceva dire a
Mario Soldati che i Lombardi sono così gentili da dare del “Voi” perfino….. ai
paesi: Malnate, Novate, Alzate, ecc.
Queste sono dunque le nostre fonti, dirette e indirette, per la conoscenza
delle lingue dei Celti antichi: non è granché, è vero, e nulla di neppure
paragonabile alla nostra documentazione in altre lingue antiche come il
sanscrito, l’iranico, il latino o il greco; è altrettanto vero, però, che negli ultimi
decenni, grazie a importantissime scoperte epigrafiche e archeologiche si è
registrato un notevole incremento di testi che, se non ne hanno ancora
modificato lo status di Restsprachen (come noi glottologi chiamiamo le
lingue di attestazione frammentaria), hanno consentito comunque un
notevole incremento delle nostre conoscenze sul lessico e la grammatica del
gallico e del celtiberico. Ma veniamo agli “altri Celti”.
***
Sconfitti e/o assimilati sul continente, i Celti restano nelle isole britanniche
dove, anche dopo l’invasione sassone dell’Inghilterra mantengono per tutto il
Medioevo e anche oltre non solo l’Irlanda e la Scozia ma anche importanti
enclaves come il Galles e la Cornovaglia; ed è dalla Britannia sotto pressione
anglo-sassone che provengono fra il V e il VI sec. d.C. quei Celti nell’antica
Armoricia, la regione della Francia nord occidentale che per tale ragione fu
detta Bretagna. E con questo siamo all’altro grande settore delle lingue

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celtiche, detto insulare perché quelle lingue erano (e in alcuni casi sono
tuttora) parlate nelle isole britanniche.
Di queste l’irlandese è di gran lunga la più importante sia perché ha dato vita
alla letteratura celtica più ampia e diversificata sia perché, dato che è
fortemente conservativa, presenta il maggiore interesse anche per il
glottologo comparatista: non a caso il nostro Graziadio Isaia Ascoli e i primi
studiosi di lingue celtiche (Zeuss, Ebel, Windish, Zimmer, Strachan, Rhys) si
dedicarono appunto soprattutto all’irlandese.
Ma qui occorre fare una digressione perché l’Irlanda è anche l’unica area
celtica ad avere elaborato un proprio specifico alfabeto, laddove i Celti
continentali si servirono, a seconda delle aree dove entrarono in contatto con
culture alfabetizzate, di quelli greco, iberico, nord-etrusco e latino mentre
Gallesi, Cornici e Bretoni non conobbero altro che quello latino. In Irlanda,
invece, prima dell’alfabeto latino fu in vigore l’alfabeto ogamico, quel
complicato sistema scrittorio la cui invenzione la tradizione irlandese fa
risalire al dio Ogma (certamente imparentato con Ogmios, l’Ercole gallico di
cui parla Luciano di Samosata) e che fu utilizzato fra il V ed il VII secolo (con
inizi, forse, già dal IV e prosecuzioni tarde e "scolastiche" in vari mss. assai
posteriori) per redarre brevi e stereotipe iscrizioni funerarie. Iscrizioni in
ogamiche si trovano anche nelle colonie gaeliche del Galles e di Scozia (qui
l’alfabeto ogamico servì anche per redarre le iscrizioni nella lingua dei Pitti, a
tutt’oggi incomprensibili) e sull’isola di Man. In questa scrittura, realizzata
con l'intaglio di tacche e di puntini lungo lo spigolo di una pietra, i valori
alfabetici sono dati dal raggruppamento numerico e dalla collocazione degli
intagli: le quindici consonanti si raggruppano in tre serie di tacche (ogni serie
è costituita da un minimo di una ad un massimo di cinque) disposte
perpendicolarmente a destra, a sinistra e trasversalmente rispetto a quella
linea di riferimento, mentre le vocali sono rappresentate da punti (ancora da
uno a cinque) scalpellati sullo spigolo vivo. Non a caso, però, ho parlato di
“elaborazione” e non di “invenzione” perché l’ogam non nacque come
alfabeto ma come codice non scrittorio (probabilmente digitale, visto il ruolo
cardine svolto dal numero cinque) di comunicazione fra iniziati di cui non ci è
rimasta nessuna testimonianza diretta (se ne fa invece menzione nelle saghe,

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come vedremo nell’appendice) perché inciso su materiale deperibile e di cui
e al di là della "morfologia" dei segni impiegati, che sono appunto quelli
precedenti, diventò un vero e proprio sistema alfabetico in virtù di un
complesso rapporto fra riflessione autonoma sul sistema fonologico
irlandese e assimilazione dell'insegnamento grammaticale di Donato e
Prisciano. Come impiego pratico, l’ogam rimase circoscritto al solo uso
sepolcrale, con testi brevissimi e stereotipi (in pratica si tratta di epitaffi
costituiti dalla sola formula onomastica, mono- o plurimebre, al genitivo,
dove è sottinteso qualcosa "(tomba) di X " e la sua diffusione, in pratica,
restò limitata all'Irlanda sud-occidentale, sì che sarebbe sbagliato, a
proposito dell'ogam epigrafico, parlare in termini di alfabeto nazionale
irlandese. La definizione potrebbe invece andar bene per un altro tipo di
impiego di quell’alfabeto, il cosiddetto ogam "scolastico", conservato con la
sua chiave, i nomi delle “lettere”, ecc. in vari mss. tardi e che costituiva
materia di insegnamento nelle scuole per poeti fino al XIV secolo, ma senza
più alcuna funzione pratica: è grazie a tale tradizione "scolastica" che l'ogam
non ha mai conosciuto le vicende della decifrazione e che, in tempi recenti, è
assurto, in talune pubblicazioni per dilettanti e nell'oggettistica per turisti, ad
emblema della cultura irlandese più antica, con una delle tante operazioni di
revival tanto fortunate quanto, nella sostanza, storicamente infondate.
Dopo il periodo delle iscrizioni ogamiche l’irlandese è attestato a partire
dall’ottavo secolo in glosse per dar luogo, nei secoli successivi, ad un’ampia
letteratura fatta di racconti epici e mitologici in prosa (fissazione e
rielaborazione delle storie tradizionali trasmessi fino ad allora oralmente),
trattati giuridici, opere storiche e annalistiche, racconti di viaggi meravigliosi,
vite di santi, composizioni poetiche di natura religiosa, liriche naturalistiche e
amorose, ecc.; oggi è parlato da circa un centinaio di migliaia di persone
delle zone occidentali e nordoccidentali dell'isola (Gaeltacht).
Lo scozzese, impiegato oggi da non più di 70.000 individui nelle isole Ebridi e
negli Highlands, è l'evoluzione della forma linguistica importato da coloni
irlandesi nel V sec. d. C ed è attestato a partire dal XVI secolo con l'antologia
poetica di Sir James Mac Gregor e continua con opere di traduzione in
prosa, liriche e con un'abbondante produzione di canzoni popolari e ballate

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rielaborazioni del patrimonio tramandato fino ad allora oralmente,
conosciuto nel circuito culturale europeo soprattutto tramite i falsi ossianici
di Macpershon.
Il mannese è (o, meglio, era) il dialetto dell'isola di Man il cui primo
documento è la "Ballata di Manannan", poema risalente al XVI sec. nel quale
si narra la storia dell'isola partendo dalle origini leggendarie (Manannán è il
dio pagano gettato in mare dall'arrivo di San Patrizio in Irlanda), mentre gli
altri testi, tutti posteriori al XVII sec., consistono soprattutto in traduzioni della
Bibbia e in libri di preghiere. Del mannese possiamo fornire (caso abbastanza
raro negli studi linguistici) la data esatta di estinzione e abbiamo addirittura la
foto del suo ultimo parlante, il pescatore Ned Maddrell morto nel 1974.
L'irlandese, lo scozzese e il mannese (questi ultimi due assai più vicini fra
loro che non al primo) costituiscono il gruppo gaelico (Gael è il nome
dell'Irlanda in irlandese moderno, mentre quello medievale era Goidel, da cui
la variante goidelico per il glottonimo).
A parte un paio di testi dei II sec. d. C. assai controversi, reperiti nel
santuario di Minerva Sulis a Bath e scritti, con ogni verosimiglianza in una
sorta di “britannico comune”, il gruppo britannico o brittonico (Brython è il
nome gallese degli abitanti della Britannia) è costituito da tre dialetti. Il gallese
ancora oggi parlato nel Galles, presenta, dopo le prime glosse del IX sec.,
una letteratura copiosa fatta di poemi epici come il Canu Aneirin o il Canu
Talieisin, redatti a partire dal XII sec. ma frutto anch'essi, come in Irlanda,
della fissazione in manoscritto di racconti e miti di epoca precristiana, poesia
elegistica e di corte, annali, trattati giuridici, traduzioni di testi religiosi, ecc.
Da segnalare che la poesia gallese è stata la più importante ed ancora oggi la
più fiorente nelle letterature in lingua celtica; per la fase antica e media del
gallese è diffusa anche l'etichetta di cimrico (Kymru è il nome del Galles in
gallese). Il bretone rappresenta l'evoluzione del britannico importato sul
continente da Britanni sospinti dalla pressione degli invasori angli e sassoni
ed è ancora oggi parlato in Bretagna (per lo più da persone anziane dedite
all'agricoltura e alla pesca delle quali si ignora il numero) con una notevole
varietà di dialetti e, all'interno di questi, numerose varianti locali. I suoi primi
documenti sono glosse in manoscritti latini a partire dal IX sec. mentre

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l'epoca medioevale vede il fiorire di drammi religiosi (i “Misteri”), testi poetici
di varia natura (rari quelli in prosa), traduzioni ed adattamenti di testi francesi,
ecc. . A partire dal XVII sec. si hanno testi teatrali, canzoni popolari,
componimenti poetici e in prosa di varia natura , vite di santi. Il cornico,
infine, è un dialetto britannico assai più vicino al bretone che al gallese, sì che
di fronte a glosse del IX sec. si resta talvolta incerti circa l'attribuzione. Il
primo documento certamente cornico, il Vocabularium Cornicum (circa
1200), è un glossario cornico-latino basato su uno latino- antico inglese
mentre dal XV sec. si datano poemi e drammi scenici a soggetto religioso e
svariate vite di santi. Il cornico è estinto verso la fine del XVIII secolo e i
ripetuti tentativi di riportarlo in vita da parte di associazioni varie o singoli
intellettuali, negli ultimi due secoli, denunciano più l'attaccamento alle proprie
radici culturali che non la reale possibilità di un recupero.
Nel loro complessole letterature scritte in lingue celtiche insulari, pur traendo
origine da un lunghissimo periodo di trasmissione orale, si configurano come
tradizioni ricche di documentazione, articolate in numerosi generi e tematiche
e fondamentalmente conservative e unitarie nei nuclei narrativi e mitici
fondamentali, ma anche, per certi versi, di grande innovazione e originalità,
come è il caso, tanto per fare un esempio, della lirica di contemplazione della
natura, un genere che ebbe nell’Irlanda del IX e X secolo una delle prime
manifestazioni nella letteratura europea, come ampiamente ignorato dalla
comparatistica. Anche se ampie e importanti, le letterature scritte in
irlandese, scozzese, gallese, bretone, ecc. non avrebbero avuto, tuttavia, il
ruolo che loro spetta nella letterature e nella cultura occidentali se fossero
rimaste confinate a quel tipo di documentazione giacché, al contrario, il
grosso di quei temi e di quelle tradizioni letterarie è stato filtrato attraverso
altre lingue e tradizioni che celtiche non sono. I bardi celtici rimasti operanti
per lungo tempo in Irlanda anche dopo la cristianizzazione e relegati nel
Galles dalle invasioni sassoni ebbero lunghi secoli a disposizione per
rielaborare in maniera indipendente gli uni dagli altri il fondo antico e unitario
di tradizioni, miti e leggende celtiche finché non avvenne un fatto destinato a
imprimere una svolta epocale nella cultura europea. Con l'assunzione da
parte dei Normanni della sovranità sulla Bretagna e poi sull'Inghilterra le due

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sponde divennero culturalmente unite e nelle corti dei signori normanni si
rielaboraronono e si misero per iscritto le storie udite dai bardi gallesi. E' da
questa tradizione che nasce (oltre gli altrettanto famosi lais bretoni) la
celeberrima Matière de Bretagne di Chrétien de Troyes, cioè tutta quella
massa di romanzi e di storie che hanno come protagonisti Artù, Merlino,
Morgana, Parsifal e Tristano e che conobbero innumerevoli continuazioni nel
corso dei secoli un po' in tutta Europa, Italia compresa, subendo
inevitabilmente profondi rimaneggiamenti ed evidenti processi di
cristianizzazione, sotto i quali, tuttavia, continuano a scorgersi gli originari
tratti celtici unitari: nomi, luoghi d'azione, prerogative e vicende di gran parte
dei personaggi di quei racconti si ritrovano, infatti, puntualmente, nei
componimenti in lingua irlandese o gallese.
Ma, anche prescindendo da questo ulteriore sviluppo di temi e cicli narrativi
celtici in letterature in lingue non celtiche (sviluppo che tipologicamente si
avvicina a tanti altri episodi, soprattutto continentali, di conservazione per
fonte indiretta di elementi della celticità linguistica e culturale), si impone con
tutta evidenza un dato che rischia, se non spiegato, di avere del paradossale.
E’, infatti, solo apparentemente paradossale il fatto che le lingue celtiche
insulari (o medioevali), ancorché parlate in aree geografiche assai più
circoscritte, abbiano dato vita a ampie e articolate letterature mentre nulla di
neppure paragonabile si è verificato su quell’amplissima parte del continente
europeo dove erano parlate quelle antiche. La spiegazione del fatto che i
Celti delle isole, detto molto alla buona, abbiano scritto tanto di più dei loro
predecessori continentali, stanziati dall’Atlantico alle pianure danubiane,
l’Italia settentrionale e l’Anatolia, non può esaurirsi nella banale constatazione
che le lingue celtiche insulari hanno avuto un periodo di impiego assai più
lungo (e in alcuni casi sono addirittura tuttora in vita) di quelle continentali, sì
da rendere a priori probabile, una sproporzione documentale orientata in quel
modo. Voglio dire che il gallico, ad esempio, ha avuto certamente una vita più
breve dell’irlandese ma, insomma, non così breve da impedire che nei suoi
(almeno) sei secoli di impiego dopo che in alcune zone della Gallia si era
appreso a scrivere e prima della sua estinzione completa spuntasse un solo
testo letterario. La ragione della differenza deve essere più profonda e, per

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semplificare, la descriverei in questo modo: i Celti continentali appresero da
altre popolazioni un alfabeto, quelli insulari una cultura. Detto più
esplicitamente: i Celti del continente, ogni volta che appresero da altri (Greci,
Etruschi, Latini) a scrivere, applicarono la nuova risorsa esclusivamente a
quegli impieghi pratici e circoscritti cui facevo sopra riferimento (quando non
addirittura imitativi delle tipologie epigrafiche degli “altri”) e, per così dire, non
“fecero in tempo” o non vollero comunque rinunciare alle fondamenta orali
della loro cultura né compiere il salto fondamentale che avrebbe consentito
loro il trasferimento allo scritto del patrimonio letterario celtico antico. Tale
salto fondamentale avvenne invece nelle isole, dove ancor prima che
all’apprendimento di un alfabeto si addivenne all’idea stessa che potesse
essere affidato allo scritto ciò che fino ad allora era stato affidato all’oralità. E
se si considera che la cultura “straniera” che portò insieme a quell’idea
l’alfabetizzazione era quella latina, diffusasi di pari passo con la
cristianizzazione dell’isola, si comprende anche come la vera differenza fra
l’alfabetizzazione dei Celti del continente e quella dei Celti insulari sia una
differenza fra il grado di prestigio dei fattori che le determinarono. Ma su tutto
ciò avremo occasione di tornare più volte durante il corso, sia quando
esamineremo testi continentali che quando analizzeremo i più complessi (e
interessanti) documenti irlandesi e gallesi.
***
Vediamo ora alcuni dei tratti linguistici comuni fra tutte queste lingue che
consentono di parlare di una famiglia celtica all’interno della grande famiglia
indoeuropea:
1) perdita della consonante p iniziale e intervocalica: cfr. lat.
pater, ant. ind. pitā : gallico atrebo (dat. pl.), irl. athir “padre”:
lat. nepos, ant. ind. napāt, alb. nip : irl. níae, corn. noi “nipote”;
questo è il fenomeno che spiega, fra l’altro, il nome di Milano
che non è *Miplano perché il suo antecedente Mediolanum,
denuncia una pronuncia a sostrato gallico di quella che in zone
libere da quell’influsso sarebbe stato *Medioplanum;

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2) trasformazione della e lunga indoeuropea in i lunga: cfr. lat
rēx : irl. rí, cimr. rhí, gall. -r īx, nei nomi propri come
Vercingetorix, Albiorix (e, naturalmente, Asterix);
3) trasformazione della o lunga non finale indoeuropea in a lunga:
cfr. lat. dōnum, gr. dōron :irl dán, cimr. dawn (il digramma
<aw> indica appunto una o lunga); lat. nōtus, gr. gnōtós : irl.
gnáth, cimr. gnawd.
4) trasformazione della o lunga indoeuropea di sillaba finale in u
lunga: cfr. lat sorōr : irl. siur, lat. ferō :irl biur o la desinenza
indoeuropea di acc. pl. -ōs (lat. amicōs) rispetto a –u del
celtico
Altri esempi si potrebbero fare, ancora tratti dal livello fonetico ma esistono
isoglosse celtiche (meno significative e esclusive, comunque) anche per il
livello morfologico, mentre è assolutamente impossibile ricostruire una
sintassi celtica comune. Di un certo significato anche un buon numero di
vocaboli esclusivamente celtici, ma, a proposito di lessico, il fatto più
importante è certamente l’alto numero di vocaboli che il celtico ha in comune
con il germanico, relativi soprattutto all’ambito della guerra, dei suoi
strumenti e delle sue conseguenze (cfr. ant. irl. bág : ant. isl. bagr “battaglia”;
ant. irl. slacc : got. slahan “spada”; gall. gaison : ant. isl. geirr “giavellotto”;
cimr. budd : med. a. ted. büte “bottino”, ecc.), i quali vocaboli costituiscono
la conferma più eloquente di quanto già potevamo intuire dall’archeologia, e
cioè l’elaborazione di una tecnologia militare comune fra le popolazioni
celtiche e quelle germaniche insediate sulle due sponde del Reno. Troppo
lontano ci porterebbe dilungarci qui su tali aspetti, i quali saranno, tuttavia,
puntualmente esaminati ogni volta se ne darà l’occasione nel commento di
un testo.
Oltre questi tratti che individuano una famiglia celtica all’interno di quella
indoeuropea esistono anche differenze fra le varie lingue celtiche che
consentono vari, possibili raggruppamenti. Un tempo aveva molto credito fra
gli studiosi (ed era anche ciò che si imparava alle lezioni di Glottologia e di
Filologia celtica) che la divisione fondamentale era fra celtico-Q e celtico-P,
cioè fra il gruppo gaelico che conserva (e poi velarizza) l’antica labiovelare

13
sorda idoeuropea (si tratta del suono iniziale dell’italiano questo) e il gruppo
britannico che invece la labializza: cfr. irl. og. MAQI (gen.) : cimr. map “figlio”;
irl. cethair : cimr. pedwar “quattro”, ecc.) ma oggi è si considera tale
isoglossa strutturalmente banale (come ci insegna il linguaggio infantile che
alterna in continuazione nelle stesse parole suoni labiovelari e labiali), senza
contare il fatto che le nuove testimonianze celtiche continentali (galliche e
leponzie, soprattutto) forniscono dati contraddittori, cioè oscillazioni nella
stessa lingua (e talvolta nella stessa parola) parola fra varianti con labiovelare
conservata e forme che labializzano.
D’altro canto non si è ancora riusciti a elaborare altri criteri che consentano di
tracciare una dialettologia celtica più convincente di quella, abbastanza
banale, che divide le lingue celtiche fra insulari e continentali Per esempio si
può dire che mentre le lingue celtiche insulari si caratterizzano, nella sintassi,
per l’ordine Verbo-Soggetto-Oggetto, quelle continentali presentano, almeno
nei documenti più antichi) quello Soggetto-Oggetto- Verbo, oppure che
mentre le lingue celtiche insulari hanno il fenomeno della lenizione
(indebolimento articolatorio delle consonanti intervocaliche) quelle
continentali non ce l’hanno. Ma è intuitivo che una dialettologia siffatta dice
poco perché, in pratica distingue fra lingue più antiche e lingue più recenti:
nulla ci assicura cioè, che le lingue celtiche continentali, se fossero vissute
più a lungo avrebbero sviluppato gli stessi fenomeni (o fenomeni analoghi) a
quelli delle lingue insulari. Per convincerci a tale disposizione intellettuale
dovrebbe bastare l’osservazione di altri fatti che si interpretano da soli, come,
ad esempio, la caduta nelle lingue celtiche insulari delle sillabe finali,
conservate invece in quelle continentali: è chiaro che qui siamo di fronte a un
processo solo insulare perché ha avuto inizio solo dopo la fine delle lingue
celtiche antiche e addirittura successivamente al periodo ogamico (dove tali
sillabe sono mantenute): chi potrebbe seriamente istituire una dialettologia
celtica su tali basi, che sarebbero le stesse su cui si fonderebbe chi ne
volesse tracciare una italiana comparando il veneziano di oggi con il siciliano
del Trecento?
Concludo questa sommaria informazione sugli aspetti più propriamente
linguistici rimandando alla tabella in appendice dove sono i riportati i nomi

14
dei numerali ordinali da “primo” a “decimo” rispettivamente in gallico,
irlandese e cimrico e che servirà a far apprezzare, da un lato il carattere più
arcaico del gallico (dove sono assenti non solo la lenizione o la perdita delle
sillabe finali, come abbiamo visto, ma anche altri fenomeni presenti in
irlandese e cimrico come la sincope di vocale interna) rispetto alle altre due
e, dall’altro, le vistose differenze che da un fondo celtico comune si sono
sviluppate dando vita alle unità discrete concretamente attestate, le quali
unità, beninteso, in altri casi sono restate coralmente fedeli a quel fondo
comune: si noti, ad esempio, la spirantizzazione del nesso kt (graficamente
resa in gallico con <xt >, con <cht >in irlandese e approdata alla
vocalizzazione in cimrico), nei nomi per “settimo” e “ottavo”: un fenomeno
panceltico, dunque, che è alla base anche delle forme francesi lait e nuit,
rispettivamente da NOCTEM e LACTEM del latino, ma di un latino regionale,
pronunciato “alla gallica”, dove esisteva quella spirantizzazione dell’elemento
velare del nesso, poi approdata, come in cimrico, alla vocalizzazione.
***
Questa introduzione (e tutto il corso) potrebbero intitolarsi a buon diritto Le
lingue e la cultura celtiche perché, con il contrasto fra plurale e singolare, ho
voluto subito dichiarare che rispetto alla parentela fra le varie lingue celtiche,
forte e innegabile, è senz’altro ancora più forte e innegabile è l’unitarietà della
cultura celtica: noi ritroviamo nell’Irlanda e nel Galles medioevali istituzioni,
leggi, temi letterari, tradizioni e financo tratti della vita religiosa identici o
quasi a quelli descritte dagli autori classici per i Celti antichi o desunte da
altre fonti (come quelle iconografiche) a questi relative. Una motivazione
appena esauriente di simile affermazione rischia di tradursi in pagine e
pagine e pagine di citazioni da testi o da studi specialistici, tante sono le
esemplificazioni che se ne potrebbero addurre a conferma; sarà più
ragionevole dunque operare, nel corso, una drastica selezione affatto
personale ma che reputo comunque già sufficiente almeno a dare l’idea di
quanto appena affermato circa il carattere fortemente unitario e conservativo
della cultura celtica, colto ai suoi diversi livelli (materiale, sociale,
intellettuale).

15
A un aspetto di questa ho in qualche modo già accennato quando, a
proposito del rapporto fra oralità e scrittura, ho sottolineato come, se le
manifestazioni e le conseguenze dell’approccio alla seconda furono
inevitabilmente diverse per i Celti del continente e per quelli delle isole in
conseguenza della diversità delle rispettive storie, la prima dimensione è
invece comune a entrambi e quindi, può essere assegnata senza esitazione
alla fase celtica comune. Restano qui da fare solo una precisazione e da dare
alcune ulteriori informazioni. La precisazione consiste nella rimozione del
vecchio pregiudizio sull’interdizione druidica della scrittura fondato su un
famoso passo cesariano: Magnum numerum versuum ediscere dicuntur (scil.
Druides). Itaque annos nonnulli vicenos in disciplina permanent. Neque fas
esse existimant eas litteris mandare, cum in reliquis fere rebus, publicis
privatisque rationibus Graecis literis utantur (De bello Gallico 6.14). Qui come
in tanti altri luoghi dell’opera cesariana, la stringatezza della prosa non deve
trarre in inganno impedendoci di distinguere fra ciò che rappresenta
descrizione neutra e oggettiva della realtà e sua interpretazione. Cesare è
certamente ben informato e riferisce correttamente quando parla del gran
numero di versi che i Druidi erano tenuti a imparare a memoria e del fatto
che, in conseguenza di tale mole di materiale, l’apprendistato poteva durare
anche vent’anni, così come è nel giusto quando informa che, invece, per le
cose pratiche era impiegata la scrittura (nella fattispecie quella greca e anche
ciò è vero, come abbiamo visto), come, del resto, aveva già direttamente
informato in 1.29 quando riferisce che nel campo degli Elvezi erano state
rinvenute tavolette scritte in caratteri greci dove erano elencati gli effettivi in
grado di combattere e, a parte, donne, vecchi e bambini :
In castris Helvetiorum tabulae repertae sunt litteris Graecis confectae et ad
Caesarem relatae, quibus in tabulis nominatim ratio confecta erat, qui
numerus domo exisset eorum qui arma ferre possent, et item separatim, quot
pueri, senes mulieresque.
Al contrario, Cesare prende una bella cantonata quando, nel primo passo
sopra riportato, parla espressamente di interdizione della pratica druidica per
ciò che riguarda la “letteratura” (neque fas esse ea literis mandare) giacché,
non si trattava affatto di proibizione ma semplicemente di attaccamento alle

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forme e alle tecniche tradizionali di conservazione e trasmissione della
cultura, di cui Cesare doveva pur essere al corrente se, poco più avanti, fra le
possibili ragioni di quella interdizione avanza (in sintonia col ben noto
racconto del Fedro platonico sulla diffidenza del Faraone dinanzi
all’invenzione della scrittura presentatagli dal dio Toth) quella del timore dei
Druidi di indebolire –fornendo loro un sussidio così potente- le capacità
mnemoniche dei discepoli. L’errore cesariano consiste dunque nello
scambiare, a proposito dell’atteggiamento dei Druidi nei confronti della
scrittura, una mancanza di reale necessità con un presunto pericolo e un
guasto delle virtù intellettuali, da esorcizzare, allora, con un’esplicita
interdizione. Del resto un Romano, profondamente immerso in una
dimensione che oserei chiamare “grafocentrica”, non poteva assolutamente
capire le vere ragioni per cui fra i Galli proprio il ceto intellettuale
rappresentato dai Druidi non si servisse della scrittura e aveva bisogno di
trovare un motivo grave –la proibizione, appunto- per spiegare (prima di tutto
a se stesso) quell’assenza. Un errore speculare a quello commesso nel
secolo scorso da un grande celtista francese che per spiegare l’assenza di
testi letterari in gallico sosteneva in tale lingua erano un tempo esistiti
migliaia di testi scritti che ci avrebbero tramandato un’amplissima letteratura
(comprendente anche qualcosa di analogo alle odi di Pindaro) se un
malvagio destino non ce li avesse fatti perdere tutti: non voglio essere così
malizioso da pensare che in questo autore affiori anche quel sentimento di
forte attaccamento alla componente non latina delle proprie origini che è un
po’ di tutti i francesi (i quali non a caso amano parlare di Nos ancêtres les
Gaulois), ma è indubbio che a fondamento di una spiegazione così
improbabile per la perdita di tutti (sottolineo “tutti”) i tesori della letteratura
gallica scritta c’è lo stesso pregiudizio grafocentrico appena visto in Cesare,
anche se rovesciato, pregiudizio secondo cui la spiegazione dell’assenza di
letteratura scritta in Gallia deve stare in un fatto comunque assai grave come
un’esplicita proibizione o un gigantesco incendio.
Infine, prima di abbandonare definitivamente questo tema cruciale del
carattere orale della cultura celtica più antica bisogna forse chiarire meglio in
base a quali elementi noi siamo legittimati a desumerlo -sì da farcelo

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considerare appunto celtico comune- anche per i Celti medieovali delle isole
che pure, al contrario dei loro antecessori continentali, hanno affidato, come
abbiamo visto più sopra, il loro patrimonio letterario a una grande quantità di
manoscritti. Sono varie e di diversa natura le ragioni della nostra certezza in
proposito. Intanto c’è la particolare scalatura cronologica fra le tipologie di
testi scritti in lingue celtiche insulari. Lasciando da parte il periodo delle
iscrizioni ogamiche irlandesi (il quale presuppone, comunque, anch’esso un
periodo di impiego non scritto del codice) i primi documenti scritti che
appaiono, tanto in irlandese che in bretone, cornico e cimrico sono glosse e
commenti a testi religiosi latini e tale resta la tipologia fondamentale per
lungo tempo mentre solo in epoca di molto successiva cominciano ad
apparire testi letterari veri e propri appartenenti alla tradizione indigena come
i racconti mitologici e le saghe che descrivono però una società ancora
interamente pagana: farò qui solo pochi esempi in tal senso attinenti
l’ideologia e la vita materiale (ma altri scaturiranno più o meno esplicitamente
da quanto vedremo concretamente durante il corso). Nella letteratura del
Medioevo irlandese, i cui primi manoscritti risalgono a epoca ormai
pienamente cristiana la formula di giuramento tradizionale Tongu do día
toinges mo thúath “giuro sul dio su cui giura il mio popolo” rimanda
chiaramente, con la rappresentazione di un’Irlanda divisa in popoli veneranti
ciascuno un proprio dio, al lontano passato pagano dell’isola. Lo stesso
scarto fra epoca di redazione di testi e quella della dimensione ideologica
che questi conservano si ha nella definizione di un re irlandese come “re in
terra” che si incontra talora nell’epica, per esempio a proposito di
Conchobar, re dell’Ulster che da questo punto di vista può ben essere
accostato a quel Maricco che –racconta Tacito- per farsi re dei Galli Boi e
condurli alla rivolta contro Roma dovette anche proclamarsi dio. Allo stesso
modo nell’Irlanda cristiana non si combatteva certamente più dai carri da
guerra, né si tagliavano più le teste ai nemici uccisi pensando che lì
risiedesse il loro valore, né, infine, si vedevano più e da tempo ormai,
guerrieri nudi “vestiti” solo del torques, la collana maschile celtica di cui ci
parlano gli autori romani a proposito dei Galli e che possiamo ammirare in un
gran numero di esemplari (alcuni splendidi e in oro) nei musei di mezza

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Europa e ornare il collo del Galata morente capitolino: ebbene, per ognuno di
questi tre tratti troviamo abbondanza di testimonianza nelle saghe epiche e
nei racconti mitologici irlandesi, benché, come ormai dovrebbe essere stato
abbondantemente chiarito, la redazione scritta di questi testi sia avvenuta in
data molto successiva alla scomparsa di quelle credenze e di quelle usanze.
Infiniti altri esempi si potrebbero fare di conservazione, direi quasi
“sottovuoto”, di elementi della vita materiale e intellettuale ma credo sia
ormai sufficientemente chiaro cosa voglio sottolineare nel discorso che sto
facendo: per essere poi travasata nello scritto bisogna che quella tradizione
celtica precristiana –come dovrebbe essere perfino superfluo precisare-
fosse in qualche modo sopravvissuta e tramandata più o meno intatta fino al
momento in cui ci si adattò definitivamente all’idea di metterla per iscritto e
l’unico mezzo per tale conservazione non può essere stato che l’oralità.
Ma a dimostrazione dell’origine orale di tanta letteratura celtica insulare
parlano anche altri fatti, di cui mi limito a ricordarne solo alcuni, tratti da
quella irlandese che è la più adatta a fornire chiari esempi in tal senso. E,
comunque, quanto non sarà detto in questa sede, si troverà il modo di
illustrare a proposito di questo o quel testo che leggeremoIl primo è ricavato
dalla struttura testuale dell’epica, il secondo le forme concrete e i contenuti
ideologici di certi componimenti poetici: in entrambi i casi si vedrà
confermata quella non corrispondenza fra il momento della prima redazione
scritta da un lato e l’epoca della loro prima elaborazione orale seguita da
una lunghissima stagione di trasmissione, parimenti orale, dall’altro.
L’epica irlandese, i cui primi manoscritti sono tutti di molto posteriori la
penetrazione del mezzo scritto che accompagnò l’affermazione del
Cristianesimo, è tutta in prosa e ciò rappresenta se non un unicum un tratto
abbastanza singolare nel panorama delle altre tradizioni indoeuropee. I
racconti epici irlandesi assomigliano più a sceneggiature di film che non a
romanzi: descrizioni di paesaggi ridotte al minimo, a zero quelle dei caratteri
dei personaggi, solo monotone successioni di avvenimenti intercalati da
dialoghi ridotti all’osso, il tutto finalizzato a “mandare avanti” il racconto e a
costruire l’arida intelaiatura che, di fatto, coincide con la trama stessa della
storia. Ogni tanto, però, ecco che questa noiosissima lettura è interrotta da

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ampi squarci poetici in cui gli dei e gli eroi pronunciano incantesimi, esortano
al combattimento, si abbandonano a magniloquenti esaltazioni del proprio e
altrui valore o altro: il tutto in una veste linguistica talora di difficile
comprensione, in quella forma di poesia celtica precristiana, cioè, in cui la
dimensione poetica è data unicamente dall’ allitterazione e dall’uso abnorme
di metafore (tipologicamente analoghe alle kenningar dell’epica germanica) e
che precedette quella isosillabica e rimata introdotta su imitazione
dell’innologia tardo-latina. Ora, io credo che la ragione di una simile
alternanza fra ampie zone di calma piatta e picchi improvvisi nella struttura di
questi testi –un’alternanza che la prassi manoscritta irlandese marcava
facendo precedere a quei brani “poetici” la dizione retoiric (spesso
abbreviata in r.), prestito dal latino rhetorice “alla maniera dei sapienti”- si
spieghi proprio col fatto che quei racconti conobbero, prima di essere fissati
per iscritto, una lunghissima fase in cui erano appresi, tramandati ed
elaborati oralmente. Se non è ancora chiaro cosa voglio dire pensiamo a
cosa sarebbe successo, se, poniamo il caso, la messa per iscritto della
Divina Commedia o dell’Orlando Furioso –che in tale exemplum fictum
possiamo a piacer nostro immaginare tanto come frutto di geniale invenzione
poetica individuale quanto come prodotto finale di una collettiva e lunga
elaborazione- fosse avvenuta dopo secoli e secoli di recitazione e di
trasmissione orale da parte di cantori professionisti, selezionati con un
severo apprendistato e da un lungo allenamento della memoria. Senza
sottovalutare né la diligenza professionale né le capacità mnemoniche di
questi immaginari rapsodi e dei loro maestri e anzi facendo loro credito delle
più raffinate mnemotecniche apprese nelle migliori scuole che si possano
immaginare, è facile prevedere che, alla fine di questa plurisecolare fase di
trasmissione orale e quando qualcuno si decidesse finalmente a mettere nero
su bianco quelle opere, questo qualcuno si accorgerebbe che ne domina,
magari anche interamente, ormai però solo la trama, ma delle migliaia e
miglia di versi in cui questa si realizzava testualmente ne ricorda solo alcune
centinaia, selezionate in base ai più vari criteri (vividezza descrittiva, efficacia
espressiva, popolarità dei personaggi di cui si parla, ecc.). A questo punto
per il nostro immaginario e volenteroso primo redattore della Commedia e

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dell’Orlando sarebbe pressoché inevitabile scrivere un testo in prosa
intervallato da quei più o meno numerosi brani poetici che la memoria sua e
dei suoi predecessori ha miracolosamente preservato e che per ciò stesso
costituiscono il centro della sua attenzione e il vero “tesoro” da salvare
definitivamente, ora che egli dispone di un mezzo, la scrittura, ben più
potente di quelli impiegati dalle generazioni precedenti. Proseguendo ancora
nel nostro scenario immaginario, è molto probabile che il lettore di qualche
secolo dopo si troverebbe davanti a qualcosa di molto diverso dalla
Commedia e dall’Orlando che conosciamo e strutturalmente molto simile,
invece, a certi sussidi didattici che usavano quando andavo a scuola io e
che di un poema ci fornivano una scarna trama e i brani più noti: la nostra
Commedia e il nostro Orlando immaginari, insomma, sarebbero testi che
alternano poesia e prosa e dove la prima continua a essere usata per quegli
episodi e momenti di ispirazione lirica la cui forma –poetica, appunto-, è
giunta più o meno intatta attraverso i secoli grazie a una trasmissione orale
che è riuscita a conservare molto ma non tutto (o, se preferiamo, ha voluto
operare tale selezione giacché, come sappiamo, l’arte di ricordare è
soprattutto l’arte di dimenticare). Così, tanto per essere chiari, ci troveremmo
a godere come i nostri predecessori dei versi della preghiera alla Vergine,
dell’incontro con Farinata, dell’invettiva contro l’Italia, della pazzia di Orlando,
del viaggio di Astolfo sulla luna (e a nostro gusto possiamo immaginare tutti i
salvataggi che vogliamo), ma dovremmo accontentarci per tutto il resto di
una trama essenziale e scarna che serve unicamente a cucire fra loro quei
brani e a contestualizzarli: ebbene, io credo che la ragione della particolare
struttura dei poemi epici irlandesi alternanti prosa e poesia non sia molto
diversa da quella che abbiamo messo a fondamento del nostro exemplum
fictum. Del resto, anche il fatto che quegli squarci poetici nei testi epici in
prosa vengano contrassegnati nei manoscritti come quelli fatti “alla maniera
dei sapienti (v. oltre) denuncia una chiara consapevolezza negli stessi
amanuensi di trovarsi di fronte alla preziosa conservazione di “merce”
diversa e di ben altro valore di quella che al contrario erano ormai costretti a
trascrivere in forma prosastica e riassuntiva.

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Ma se dall’epica volgiamo lo sguardo almeno verso altri due generi letterari
sono abbondanti gli ulteriori esempi della stessa sopravvivenza in testi scritti
di elementi della cultura dell’oralità. Il primo di questi generi è rappresentato
dalla posia eulogistica classica, quella che canta le lodi di principi, di
guerrieri, di santi (e figure comunque importanti della Chiesa irlandese) o di
poeti stessi: nonostante questa sia per la massima parte fondata su
isosillabismo e rima –i quali si affermarono in Irlanda per imitazione
dell’innologia latino cristiana- conserva in modo frequente quegli stessi
elementi strutturali della poesia di epoca precristiana, quali l’allitterazione, le
assonanze, le figure etimologiche, l’uso della kenning, gli stessi elementi,
cioè, tipici degli squarci poetici dei testi epici in prosa e che abbiamo già
ricordato essere retaggio di una poesia celtica precristiana esclusivamente
orale (a sua volta eredità, in ultima analisi, della poesia di epoca indoeuropea
comune), il tutto a restituirci una lingua poetica orale, concepita cioè per
essere soprattutto ascoltata.
Perfino la preghiera cristiana (le cosiddette loriche irlandesi), come vedremo,
ripete moduli pagani risalenti all’epoca prescrittoria, ad esempio invocando,
tramite ossessive ripetizioni, tanto le forze della natura che le figure della
nuova religione: anche qui la dipendenza da una cultura dell’oralità è duplice,
vale a dire sia sul piano del contenuto che della forma. Ma qui voglio aprire
una parentesi su una questione che sto studiando in questo periodo e che
attiene ad un nuovo, possibile esempio di presenza e persistenza celtiche
nella cultura europea: si tratta della preghiera dei Templari alla Vergine,
recentemente portata alla luce da Barbara Frale, nella quale io ritrovo
l’andamento enumeratorio tipico delle loriche :
"Santa Maria, madre di Dio, piissima, gloriosa, santa genitrice di Dio,
preziosa e sempre vergine Maria, salvezza di chi è alla deriva,
consolazione di chi spera, tu che conforti e difendi chi si pente dei suoi
peccati, dona a noi consiglio e difesa; e proteggi l'ordine religioso tuo, che fu
fondato dal beato Bernardo tuo santo confessore con altri uomini buoni della
Santa Chiesa di Roma, e dedicato a te, santissima e gloriosissima. Te
imploriamo umilmente, concedi la libertà per il nostro ordine, con

22
l'intercessione degli angeli, degli arcangeli, dei profeti, degli evangelisti,
degli apostoli, dei martiri, dei confessori, delle vergini,
Come vedremo, quest’ultimo elenco di potenze invocate a protezione è
sorprendentemente simile se non identico a quello della lorica di S. Patrizio.

Ma tutto questo lungo discorso sul rapporto fra oralità e scrittura aveva preso
le mosse da una necessità di motivare la nostra affermazione circa l’unitarietà
e la conservatività della cultura celtica, unitarietà e conservatività che
risaltano in primo luogo dalle forme e dai contenuti dei testi redatti nelle
diverse lingue celtiche, ma anche, accanto a questi, da altre dimensioni
comunicative. Innnazitutto, la sfera religiosa, dove pure, sia dai testi che dalle
fonti iconografiche che dalle informazioni degli autori latini e greci, si ricavano
le stesse linee di continuità: pochi esempi basteranno a motivare quanto
appena affermato. La massima divinità celtica è quella che troviamo in
Irlanda come Lug e la cui festa si celebrava il primo di agosto: questa
compare anche in Galles (Lleu), Gallia (Lugudunum è il nome antico di Lione)
e in Celtiberia (dove il graffito rupestre di Peñalba de Villastar lo celebra
espressamente). Motivi mitologici e frammentarie informazioni sulle divinità
pagane (Lug, Dagda, Nuadu, Ogma) dell’isola troviamo soprattutto in due
opere irlandesi, il Lebor Gabála Hérenn e il Cath Maige Tuired, così come
conosciamo, ad esempio, la già ricordata formula di giuramento tradizionale,
tongu do día toinges mo túath “giuro sul dio su cui giura la mia tribù”, che
allude certamente a divinità pagane, anche se è conservata in testi letterari di
epoca ormai pienamente cristiana. Né la generale e profonda rielaborazione
in senso cristiano si spinge fino a impedire il riconoscimento in alcune
importanti figure della pietà irlandese le trasfigurazioni di rappresentanti
altrettanto illustri della vecchia religione come è il caso, ad esempio, di santa
Brigitta, cui nella tradizione letteraria e nella pietà popolare viene anteposto
solo S. Patrizio e che, in un inno, è chiamata addirittura “la Madre di Gesù”,
con una significativa identificazione con la Madonna. Ebbene, Brigitta, a
differenza di Patrizio, non ha realtà storica (le sue biografie sono molto tarde
e contraddittorie) ma rappresenta la trasformazione in santa cristiana di
un’antica divinità celtica, la stessa che nelle epigrafi latine di Britannia

23
compare come Brigantia e che, come questa, si lascia agevolmente
etimologizzare come “colei che sta in alto”; le storie della sua vita associano
poi Brigitta al carro del sole, alle nubi nel cielo mattutino (“le vacche bianche
dalle orecchie rosse” delle quali sole ella da piccola voleva il latte!), al
passaggio dal buio alla luce e dalla notte al giorno: si tratta, insomma, con
ogni certezza della manifestazione irlandese e celtica dell’ancor più antica
divinità indoeuropea dell’Aurora, poi in Irlanda integrata dal cristianesimo fra i
rappresentantii della nuova religione .
Bisognerebbe poi accennare alla figura del druido, centrale tanto nella Gallia
che nell’ Irlanda precristiana, figura allo stesso tempo gerarchizzata per gradi
di iniziazione e totalitaria per competenze: sacerdote, giudice, medico,
storico, poeta che esercita le sue molteplici attività tramite la parola e il cui
patrimonio di conoscenze viene conservato e tramandato oralmente (e qui
Cesare era andato vicino a cogliere la realtà quando ci dice che le scuole
druidiche duravano vent’anni).
Altri fatti di continuità culturale sono l’identità lessicale fra la festa irlandese
di Samain e il nome di mese Samonios del calendario gallico di Coligny o la
valenza sacrale del “centro topografico” che traspare dall’associazione fra i
nomi di luoghi come Mediolanom (quasi una ventina in Europa) e Mide
(Irlanda) e i racconti storico-mitologici che li riguardano.
Infine, sul piano “istituzionale”, mi sia consentito ricordare la figura del
briugu, quel ricco signore cui le leggi irlandesi medievali imponevano di
dispensare ospitalità illimitata a chiunque si presentasse alla sua porta,
proprio come quell’Ariamne galata che invitò a pranzo tutti i Galati per un
anno intero. Anzi, per la precisione,“dichiarò di invitare” (come ci dice Filarco
attraverso Ateneo), con un istruttivo parallelismo con la parola irlandese che
si analizza appunto come “il dichiarante”: ma possiamo star sicuri che tanto
nella Galazia del III sec. a.C che nell’Irlanda antica quella dichiarazione -là
espressamente menzionata, qui implicata dall’etimologia del titolo- avesse
valore performativo e di assunzione formale di un impegno assolutamente
vincolante per una cultura come quella celtica antica dove le “cose
importanti” si dicevano.

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APPENDICE

Testi

I numerali celtici
gallico irlandese cimrico

cintuxos cetnae kyntaf


allos aile eil
tritos trys trydyd
petuarios cethramad pedwyryd
pinpetos cóiced pymhet
suexos seissed chwechet
sextametos sechtmad seithvet
oxtumetos ochtmad uythvet
nametos nómad nawet
decametos dechmad decvet

I nomi dei popoli celtici antichi


Celtae,Galli,Celtiberi,Belgae,Britanni,Hiberni,Leponti,Volcae,
Allobrogae, Arverni, Aremorici, Haedui, Bituriges, Scot(t)i

I nomi dei paesi e dei popoli celtici medioevali

Ériu Goídil
Alba Goídil
Mannin Mannin
Cymru Brython, Cymry
Kernow Kerny

25
Breizh Breizh, Bretons,
Armoricains

CELTICO CONTINENTALE
Leponzio (alfabeto nord-etrusco)

1) (Vergiate)
pelkui pruiam teu karite iśos karite palam

2) (Davesco)
slaniai uerkalai pala
tisiui piuotialui pala

3) (Mezzovico)
kuaśoni pala terialui

4) (Carcegna)
metelui maeśilaui uenia metelikna aśmina krasanikna

5) (Ornavasso)
latumarui sapsutai pe uinom natoś

6) (Prestino)
uvamokozis plialeθu uvltiauiopos ariuonepos siteś tetu

7) (Castelletto Ticino)
χosioiso

8) (Como)
plioiso

9) (Como)
sekezos

10) (Carona)
zaśu poininos kopenatis tonoiso

11) (Como)
aev

26
27
Gallico (alfabeto nord-etrusco)
1) (Novara)

tanotaliknoi kuitos lekatos anokopokios setupokios

eśanekoti anareuiśos tanotalos karnitus

2) (Vercelli)

FINIS CAMPO QUEM DEDIT ACISIUS ARGANTOCOMATERECUS


COMMVNEM DEIS ET HOMINIBUS ITA VTI LAPIDES IIII STATUTI
SUNT
akisios arkatokomaterekos tośokote atom teuoXtom

koneu

3) (Todi, faccia "lokan" )


… C]OISIS DRVTI F [F]RATER EIVS [M]INIMVS LOCAV[I]<T> [ST]
ATVITQV<E>
[at]eknati truti[k]ni [kar]nitu lokan ko[i]sis [tr]utiknos

(faccia " artuaś ")


… COI]SIS DRVTEI F FRATER EIVS MINIMVS LOCAV IT ET STATVIT
ateknati trutikni karnitu artuaś koisis trutiknos

4) (Oleggio)
rikanas

28
Gallico (alfabeto greco)

1) (Cavaillon)

KABIROS OUINDIAKOS

2) (Vaison)

SEGOMAROS OUILLONEOS TOOUTIOUS NAMAUSATIS EIROU


BELESAMI SOSIN NEMETON

3) (Orgon, Bouches-du-Rhône)

OUEBROMAROSDEDETARANOUBRATOUDEKANTEM

4) (Glanum)

MATREBOGLANEIKABOBRATOUDEKANTEN

5) (Nîmes)

]ARTAROSILLANOUIAKOSDEDEMATREBONAMAUSIKABO

6) (Saint Germain-Sources-Seine)

DAGOLITOS AUOOUT

Gallico (alfabeto latino su pietra)

1) (Ventabren)

29
VECTIT[ BIRACI[

2) (Coudoux)
BOVDILATIS LEMISVNIA

3) (Naintré)
RATIN BRIVATIOM FRONTU TARBETISONIOS IEVRV

4) (Genouilly)
ELVONTIV IEVRV ANEVNO OCLICNO LUGVRIX ANEVNICNO
ANEOUNOS EPOEI (alfabeto greco)

6) (Autun)

LICNOS CONTEXTOS IEVRV ANVALONNACV CANECOSEDLON

7) (Auxey)

ICCAVOS OPPIANICNOS IEVRV BRIGINDONI CANTALON

8) (Alise-Sainte-Reine)

MARTIALIS DANNOTALI IEVRV SOSIN CELICNON VCVETE ETIC


GOBEDBI DVGIIONTIIO VCVETIN IN ALISIA

Gallico (alfabeto latino su instrumentum)

1) (Caudebec-en-Caux))
REXTUGENOS SVLLIAS AVVOT
2) (Bourges)
BUSCILLA SOSIO LEGASIT IN ALIXIA MAGALU
3) (Banassac)
lubi rutenica onobia
tiedi ulano celicnu

4) (Lezoux)

30
ieurui rigani rosmertiac

5) (Autun)
NATA VIMPI CURMI DA

6) (Sens)
GENETA IMI DAGA VIMPI

7) (Saint-Révérien)
MONI GNATHA GABI BVĐĐVTTON IMON

8) (Autun)
GENETA VIS CARA

9) (Autun)
TAVRINA VIMPI

10) (Auxerre)
NATA VIMPI POTA VINUM

11) (Langres)
SALVE TU PVELLA

Gallico (alfabeto latino. Testi magici)

1) (Chamalières)
andedíon uediíumí diíiuion risunartiu mapon aruerniíatim lopites
sníeθθic sos brixtía anderon c lucion floron adgarion aemilíon paterin
claudíon legitumon caelion pelign claudío pelign marcion uictorin
asiatícon aθθedillí etic secoui toncnaman toncsií meíon tonsesit buetid
ollon reguccambion exops pissíiummítsoccantí rissuis onson bissíet
luge dessummiíis luge dessummiíis luge dessummiíis luxe

2) (Hospitalet-du-Larzac)
insinde se bnanom brictom in eianom anuana sananderna brictom
uidluias uidlu[ tigontias so adsagona seuerim tertionicnim lidssatim
liciatim eianom uoduoioderce lunge …utonid ponc nitixsintor sies

31
duscelineatia ineianon anuana esi andernados brictom banona flatucias
paulla dona potitius iaia duxtir adiegias potita matir paullias seuera
duxtir ualentos dona paullius adiega matir alias potita dona primius
abesias

3) (Marcello di Bordeaux)
..Item ipso oculo clauso qui carminatus erit,patentem perfricabis et ter
carmen hoc dices et totiens spues : in mon dercomarcos axatison: scito
remedium hoc in huiusmodi casibus esse mirificum

Una frase in gallico

Vita di San Sinforiano (V sec. d.C)

nate nate Synforiane mentobeto to divo

Galatico

Galatas, excepto sermone graeco, quo omnis oriens loquitur,


propriam linguam paene habere quam Treviros
(S. Gerolamo, Comm. Epist. Galat., 2.3)

droungos, markan, trimarkisia, adarkos

Ambitouti, Tectosages,Trocmi, Tolistobogii

Drunaimeton, Agitorigiaco, Eccobriga, Ipetobrogen

Boussorigios, Temrogeios, Ouendeinos

Ateuritus, Brogorix, Boudoris, Kassignatos, Cintaretus,

32
33
Celtiberico (semisillabario iberico)

1) Ibiza)
tirtanos abulokum letontunos ke belikios

2) (Parigi)
lubos alizokum aualo ke kontebias belaiskaz

2) (Botorrita I)
A.1. tirikantam berkunetakam tokoitoscue sarnikio kue sua kombalkez
nelitom
A.2. nekue [u]ertaunei litom nekue taunei litom nekue masnai tizaunei
litom soz auku
A.3. arestaio tamai uta oskues stena uerzoniti silabur sleitom
konskilitom kabizeti
A.4. kantom sankilistara otanaum tokoitei eni: uta oskuez boustomue
koruinomue
A.5. makasiamue ailamue ambitiseti kamanom usabituz ozas sues sailo
kusta bizetuz iom
A.6. asekati ambitinkounei stena es uertai entara tiris matus tinbituz
neito tirikantam
A.7. eni onsatuz iomui listas titas zizonti somui iom arznas bionti iom
kustaikos
A.8. arznas kuati ias ozias uertatosue temeiue robiseti saum
tekametinas tatuz somei
A.9. enitouzei iste ankios iste esankios uze areitena sarnikiei
akainakubos
A.10. nebintor tokoitei ios ur antiomue auzeti aratimue tekametam tatuz
iom tokoitoskue
A.11. sarnikiokue aiuizas kombalkores aleites iste ikues ruzimuz abulu
ubokum

B.1. lubos kounesikum melnunos bintis letontu litokum


B.2. abulos bintis melmu barauzanko lesunos bintis
B.3. letontu ubokum turo bintis lubinaz aiu berkanticum
B.4. abulos bintis tirtu aiankum abulos bintis abulu louzokum
B.5. uzeisunos bintis akainaz letontu uikanokum suostunos
B.6. bintis tirtanos statulikum lesunos bintis nouantutaz
B.7. letontu aiankum melmunos bintis useizu aiankum tauro [bin]/tis
B.8. abulu aiankum tauro bintis letontu letikum abulos bintis
B.9. [ ]ukontaz letontu esokum abulos bintis

34
Celtiberico (alfabeto latino)

1) (Peñalba de Villastar)

ENIOROSEI VTA TIGINO TIATVMEI TRECAIAS TOLVGVEI ARAIANOM


COMEIMV ENIOROSEI
EQVOISVIQVE OGRIS OIOCAS TOGIAS SISTAT LVGVEI TIASO TOGIAS

2) (Peñalba de Villastar)

TVLLOS CALOQ TVRRO G

3) (Peñalba de Villastar)

TVROS CARORVM VIROS VERAMOS

Iscrizioni della Lunigiana (alfabeto nord-etrusco)

1) (Zignago)
mezunemuśos

2) (Aulla)

35
vemetuvis

Lusitano (alfabeto latino)


1) (Lamas de Moledo)
RUFINVS ET TIRO SCRIPSERVNT VEAMINICORI DOENTI ANGOM
LAMATICOM CROVCEAI MACA REAICOI PETRANOI RADOM PORCOM
IOVEAS(?) CAELOBRICOI

2) (Cabeço das Fráguas)


OILAM TREBOPALA INDO PORCOM LAEBO COMAIAM ICONA LOIMINNA
OILAM VSSEAM TREBARVNE INDI TAVROM IFADEM REVE

3) (Santa Maria de Ribeira)

CROVGIN TOVDADIGOE RUFONIA SEVERI

Pittico (alfabeto ogamico)


1) (Burrian, Orkney)
URRACT C[E]RROCCS

2) (Cunningsburgh,Shetland)
EHTECONMORS

3) (Lunnasting,Shetland)
E]TTECUHETTS : AHEHHTTANNN : HCCVVEVV : NEHHTONN

CELTICO INSULARE

Britannico antico

1) (Bath)
luciumio cittimediu …..xs …uibec… traceos
estaidimaui…..tittlemacatacimluci…………
2) (Bath)
adixoui deiana deieda andagin vindiorix cuamin

36
Cumbrico

Leges inter Brettos et Scotos (1124 – 1153)


galnes (cfr. cimr. galanas “ostilità”)
mercheta (cfr. cimr. merch “figlia”)
celchyn (cfr. cimr. cylch “circolo”

Gallese
(dal Canu Aneirin)

Gwyr a aeth gatraeth gan’wawr

dygymyrrws eu hoeth eu hauyanawr

Gododin gomynnaf oth blegyt


Yg gwyd cant en aryal en emwyt
A guarchan mab dwywei da wrhyt
Poet yno en vn tyno treissyt
Er pan want maws mor trin
Er pan aeth daear ar aneirin
Mi neut ysgaras nat a gododin

37
Bretone

1) (un Natale)

Neuse ez conceuas a scler hon Saluer en e quer mam

dr’ez voo dezy profeciet gant Proffeted a het cam ez deuzye


plen da laouhenat da peochat lignez Adam

2) (un Natale)

Map un merch guerches, hon caress


nessaf hs y pechet pur ganet quentaff,
deuet eo don prenaff ha da bezaff den. Joa
plen en effau, quehelaou laouen

Antico cornico

dal Vocabularium Cornicum

tat pater faeder


mam mater môdor
mab filius sunu
much filia dohtor
noi nepos neua
modereb matertera môdrige
a b a r ϸ
mam
impoc l. osculum coss
cussin
nef celum heofen
mor mare sâe
pen caput hêafod
da bonum gôd
hethen avis fugel
march equus hors

38
Scozzese

Incantamenti per guarire i cavalli azzoppati


1) Char Bride mach
Maduinn mhoch,
Le caraid each;
Bhris each a chas,
Le uinich och,
Bha sid mu seach,
Chuir i cnamh ri cnamh,
Chuir i feoil ri feoil,
Chuir i feithe ri feithe,
Chuir i cuisle ri cuisle;
Mar a leighis ise sin
Gun leighis mise seo.

2) Chaidh Criosd a mach


Maduinn moch,
Fhuair e cas nan each
’Nan spruilleach bog;
Chuir e smior ri smior,
Chuir e smuais ri smuais….
…. Mar a leighis Righ nam buadh sin
Is dual gun leighis e seo,
Ma ’s e thoil fein a dheanamh.
A uchd Ti nan dul,
Agus Tiur na Trianaid.

Mannese

(dalla Ballata di Manannan)

Manannan beg va Mac Y Leirr


Shen yn chied er ec row rieau ee
Agh my share oddym’s cur-my-ner
Cha row eh hene agh Anchreestee

39
Irlandese

Iscrizioni ogamiche

1) (Ballintaggart)
MAILAGNI
2) (Ballycnock)
GRILAGNI MAQI SCILAGNI
3) (Ballycnock)
CLIUCOANAS MAQI MAQI-TRENI
4) (Glennawillen)
COLOMAGNI AVI DUCURI
5) (Ballintaggart)
TRIA MAQA MAILAGNI CURCITTI
6) (Ballintaggart)
NETTA LAMINACCA KOI MAQQI ERCIAS MUCOI DOVINIAS
7) (Rushens East)
ALATTOS CELI BATTIGNI
8) (Ballycnock)
ANM MEDDOGENI

L’ogam nell’epica:

Ogum i llia, lia úas lecht

Scríbthair a ainm n-ogaim

40
Poesia antica

Brani in retoiric (dagli Scéla Mucce Meic Dathó)

And asbert Cet:


‘Fochen Conall,
cride licce,
londbruth loga,
luchair ega,
guss flann ferge
fo chích curad
créchtaig cathbúadaig’

Et dixit Conall:
‘Fochen Cet,
Cet mac Mágach, magen curad,
cride n-ega,
ethre n-ela,
err trén tressa,
trethan ágach,
caín tarb tnúthach,
Cet mac Mágach’.

41
Inno a San Patrizio

Admuinemmar noéb Patraic


prímapstal Hérenn
airdirc a ainm n-adamrae
bréo batses genti;
cathaigestar fri druídea dúrchridi
dedaig díumsachu
la fortacht ar Fíadat findnime
fonenaig Hérenn íatmaige,
mórgein.
Guidmit do Patraic primapstail
donnesmarr in brithemnacht
do mídutrachtaib demnae ndorchaide.
Día lenn
la itge Patraic primapstail

42
Amra Choluimb Chille

Día, Día do-rrogus

ré tías ina gnúis

culu tre néit.

Día nime, nim-reilge

(5) i llurgu i n-égthiar

ar múichthe[o] méit.

Día már mo anacol

de múr teintide,

diudercc dér.

(10) Día fírien fírfocus,

c[h]luines mo donúaill

do nimíath nél.

Lorica di San Patrizio

Atomriug indiu
niurt gráid Hiruphin;

43
i n-aurlattaid aingel
i frestul archaingel
i frescisin esséirgi ar chenn fochraicce
i n-ernaigdib úasalathrach
i tairchetlaib fáthe
i praiceptaib apstal
i n-iressaib foísmedach
i n-enccai noebingen
i ngnímaib fer fíríen.

Atomriug indiu
niurt nime
soilsi gréine
étrochtai ésci
áini thened
déini lóchet
lúaithi gaíthe
fudomnai maro
tairismigi thalman
cobsaidi ailech…

… Tocuirir etrum indiu inna huli nertso


fri cach nert n-amnas fristaí dom churp ocus dom anmain
fri tairchetla saebḟáthe
fri dubrechtu gentliuchtae
fri saebrechtu eretecdae
fri imchellacht n-idlachtae
fri brichtu ban ocus gobann ocus druad
fri cach fiss arachuili corp ocus anmain duini…

44
Lirica

Ho un annunzio per voi

Scél lem dúib:


dordaid dam;
snigid gaim;
ro fáith sam.

Scél lem dúib:


dordaid dam;
snigid gaim;
ro fáith sam.

Gáeth ard úar;


ísel grían;
gair a r-rith;
ruirthech rían.

Rorúad rath;
ro cleth cruth;
ro gab gnáth
giugrann guth.

Ro gab úacht
etti én;
aigre ré;
é mo scél.

45
Io e il bianco Pangur

Messe ocus Pangur Bán,


cechtar nathar fri saindán:
bíth a menma-sam fri seilgg,
mu menma céin im saincheirdd

Caraim-se fos, ferr cach clú,


oc mu lebrán, léir ingnu;
ní foirmtech frimm Pangur Bán:
caraid cesin a maccdán.

Ó ru biam, scél cen scís,


innar tegdais, ar n-óendís,
táithiunn, díchríchide clius,
ní fris tarddam ar n-áthius.

Gnáth, h-úaraib, ar gressaib gal


glenaid luch inna línsam;
os mé, du-fuit im lín chéin
dliged n-doraid cu n-dronchéill.

Fúaichaid-sem fri frega fál


a rosc, a n-glése comlán;
fúachimm chéin fri fégi fis
mu rosc réil, cesu imdis.

Fáelid-sem cu n-déne dul


hi n-glen luch inna gérchrub;
hi tucu cheist n-doraid n-dil
os mé chene am fáelid.

Cia beimmi a-min nach ré


ní derban cách a chéle:
maith la cechtar nár a dán;
subaigthius a óenurán.

h-É fesin as choimsid dáu


in muid du-ngní cach óenláu;
du thabairt doraid du glé
for mo mud céin am messe.

46
Il piccolo uccello

Int én bec
ro léic feit
do rinn guip
glanbuidi:
fo-ceird faíd
ós Loch Laíg,
lon do chraíb
charnbuidi.

47
Campanella armoniosa

Clocán binn
benar i n-aidchi gaíthe:
ba ferr lim dul ina dáil
indás i n-dáil mná baíthe.

48
Il merlo che chiama dal salice

Int én gaires asin t-sail


álainn guilbnén as glan gair:
rinn binn buide fir duib druin:
cas cor cuirther, guth ind luin.

49
Guardate innanzi a voi

Fégaid úaib
sair fo thúaid
in muir múaid
milach.

Adba rón
ríabac rán,
rogab lán
linad

50
La mia celletta a Túaim Inbir

M' airiuclán h-i Túaim Inbir barr edin


ní lántechdais be séstu
cona rétglannaib a réir
cona gréin, cona éscu.
Gobbán du-rigni in sin
(co n-écestar dúib a stoir);
mu chridecán, Día du nim,
is hé tugatóir rod-toig.
Tech inná fera flechod,
maigen 'ná áigder rindi;
soilsidir bid hi lugburt
os é cen udnucht n-imbi.

51
Il piccolo Gesù

Ísucán
alar lium im dísiurtán;
cía beith cléirech co lín sét,
is bréc uile acht Ísucán.

Altram alar lium im thig,


ní altram nach dóerathaig
Ísu co feraib nime,
frim chride cech n-óenadaig.

Ísucán óc mo bithmaith:
ernaid, ocus ní maithmech.
In Rí con-ic na uili
cen a guidi bid aithrech.

Ísu úasal ainglide,


noco cléirech dergnaide,
alar lium im dísirtán,
Ísu mac na Ebraide.

Maic na ruirech, maic na ríg,


im thír cía do-ísatán,
ní úaidib saílim sochor:
is tochu lium Ísucán.

Canaid cóir, a ingena,


d' fir dliges bar císucán;

52
atá 'na phurt túasucán
cía beith im ucht Ísucán.

Andare a Roma

Teicht do Róim:
mór saído, becc torbai;
in rí chondaigi hi foss
manimbera latt ní fogbai

53
Addio all’Irlanda

Fil súil n-glais


fégbas Éirinn dar a h-ais;
noco n-aceba íarmo-thá
firu Érenn nách a mná.

54
E’ lui il mio cuoricino

Cride hé
daire cnó
ocán hé
pócán do

55
O Dorchaide dalla figura bellicosa

A Dorchaide delbchathaig,
a deol thressa tromthoraig
a mind marcṡlúaig muinchoraig
a meic chorprúaid Chonchobair

56
Il re di Campofresco

Rí Achaid Úir ibairdraignig


crathaid in lúin lethanmerlig
oconn mai gin muiredruimnig
Laigin ina lebargemlib.

57
Per San Findbarr di Cork

Bairri bréo bithbúadhach


búaid mbetha brethadbail
ruithen réil rathamra
ruithniges Ébermag
lia lúagmar lainderda
ní lúad nach liuin

Éo órda ilchrothach
húasliu cach caíncumtach
aire ard ollairbrech
ernes cach n-olladlaic
do buidhnib balc Banba
barr broga Briuin.

58
Inno a Santa Brigitta

Brigit bé bithmaith,
bréo órdai óiblech;
donfé don bith ẛlaith,
in grén tind tóidlech.

Ronsóera Brigit
sech drungu demna;
roróena remunn
cathu cach thedme.

Dorodba indiunn
ar colno císu;
in chr óeb co mbl áthaib,
in mátahir ĺsu.

Ind firóg inmain


co n-orddon adbil
be sóer cach n-inbaid
lam nóeb do Laignib.

Lethcholba flatha
la Patraic prímda
in tlacht úas lígaib
ind rígan rígda.

Robet íar sinit


ar cuirp hi cilicc;

59
dia rath ronbróena,
ronsóera Brigit.
O Illustre Amorgein

A Amorgein ánmoltaig
ara fésser márfodla
ferbae filed féith.
Furim sensamaisc
ar déin dronchori.
Dligid boin mbáninláeg
ar maín sáer sétnatha.
Síasi lulgach lánmesaib
ar lérláidi léirigther.
Ech dá bó belfotach
lúath a réim, ar ardemain
biaid bó fo caínchethair
ar anair n-ilchoraich.
Cóic baí cacha mórnatha
nad ecressa ceramna
carpat cumaile cachae anamna

L’ho udito
Ro-cúala
ní tabair eochu ar dúana;
do-beir a n-í as dúthaig dó,
bó.
Ro-cúala
lasin cách légas libru
intí ainges in mbidbaid
is é fesin as bidbu

60
E’aspro il vento stanotte

Is acher in gaíth innocht,


fufúasna fairggae findẛolt.
ni ágor réimm mora minn
dond láechraid lainn úa Lothlind.

(e qualche secolo dopo, a Killaloe….) :


THURGRIM RISTI KRUS THINA
BENDACHT AR TOROQRIM

61
Con chi andrà a letto stanotte?

Ní fetar
cía lassa fífea Etan
acht ro-fetar Etan bán
nícon fífea a hóenurán

Le “Triadi” (dalle Istruzioni per Cormac)

Trí caindle forosnat cach ndorcha: fír, aicned, ecna.


Trí ségainni Hérenn : fáthrann , adbann a cruit , berrad aigthe

62
Trí fuiric thige degduni : cuirm, fothrucud, tene mór.
Trí dorchæ ná dlegat mná do imthecht : dorcha cíach, dorcha aidche,
dorcha feda.
Trí túa ata ferr labra : túa fri forcital, túa fri hairfitiud, túa fri procept .
Tréde neimthigedar cruitire: golltraige, gentraige, súantraige .
Trí aithgine in domuin: brú mná , uth bó, ness gobann.
Trí sóir dogníat dóeru díb féin : tigerna renas a déiss , rígan téite co
haithech, mac filed léces a cheird.
Trí gena ata messu brón: gen snechta oc legad, gen do mná frit íar mbith
fir aili lé, gen chon foilmnich.

Epica

dagli Scéla Muicce Meic Dathó:

63
Boí rí amrae for Laignib, Mac Dathó a ainm. Boí cú occo. Im-díched in cú
Laigniu huili. Ailbe ainm in chon, ocus ba lán Hériu dia airdircus in chon.
Do- eth ó Ailill ocus ó Meidb do chungid in chon. Immalle dano táncatar
ocus techta Ulad ocus Conchobair do chungid in chon chétna. Ro-ferad
fáilte friu huili, ocus ructha cuci-sium isin mbruidin. Is {s}í sin in chóiced
bruden ro- boí i nHérinn isind aimsir sin, ocus bruden Da-Derg i crích
Cúalann ocus bruden Forgaill Manaich ocus bruden Me[i]c Da-Réo i
mBréfni ocus bruden Da-Choca i níarthur Midi. Secht ndoruis isin
bruidin ocus sechtsligeda trethe ocus secht tellaige indi ocus secht cori.
Dam ocus tinne in cach coiri. In fer no-t{h}éged iarsint sligi do-bered in
n- aél isin coiri, ocus a-taibred din chétgabáil, iss ed no-ithed. Mani-
tucad immurgu ní din chéttadall ni-bered a n-aill. Ructha trá na techta
ina imdai cuci- sium do airiuc thuile dóib ríasíu do-berthae a mbiad dóib.
Ro-ráidset a n-athesca. ‘Do chungid in chon do-dechammar-ni’ ol techta
Connacht ‘.i. ó Ailill ocus ó Meidb ; ocus do-bértar tri fichit cét lilgach hi
cétóir ocus carpat ocus da ech bas dech la Connachta, ocus a
chommaín cinn bliadna cen- mothá sin.’ ‘Dia chungid dano do-
dechammar-ni ó Chonchobur’ mol techta Ulad; ‘ocus ni messa
Conchobar do charait ocus dano do thabairt sét ocus indile, ocus a
chomméit cétna a túaith, ocus biaid degcaratrad de.’

64
Alla maniera di Adelung: Il Pater Noster in gallese, bretone, scozzese e
irlandese

Ein Tad yn y nefoedd,


sancteiddier dy enw;
deled dy deyrnas;
gwneler dy ewyllys,
ar y ddaear fel yn y nef.
Dyro inni heddiw ein bara beunyddiol;
a maddau inni ein troseddau,
fel yr ŷm ni wedi maddau i'r rhai a droseddodd yn ein herbyn;
a phaid â'n dwyn i brawf,
ond gwared ni rhag yr Un drwg.
[Oherwydd eiddot ti yw'r deyrnas a'r gallu a'r gogoniant am byth. Amen.]

Hon Tad a zo en neñv,


Hoc’h anv bezet santelaet,
Ho rouantelezh deuet dimp,
Ho polontez bezet graet
War an douar evel en Neñv,
Roit dimp hiziv hor bara pemdeziek,
Pardonit dimp hor pec’hedoù
Evel ma pardonomp d’ar re
O deus manket ouzhimp.
Ha n’hon lezit ket da gouezhañ en temptadur,
Met hon diwallit diouzh an droug.

Ar n-Athair a tha air nèamh,

65
Gu naomhaichear d'ainm.
Thigeadh do rìoghachd.
Dèanar do thoil
air an talamh mar a nithear air nèamh.
Tabhair dhuinn an-diugh
ar n-aran làitheil.
Maith dhuinn ar fiachan,
amhail a mhaitheas sinne
dar luchd-fiach.
Sàbhail sinn bho àm na deuchainne,
agus saor sinn o olc.

Ar nAthair, atá ar neamh


Go naofar d'ainm
Go dtaga do ríocht,
Go ndéantar do thoil,
Ar an talamh
Mar a níthear ar neamh.
Ár n-arán laethúil tabhair dúinn inniu,
Agus maith dúinn ár bhfiacha,
Mar a mhaithimidne dár bhféichiúna féin,
Agus ná lig sinn i gcathú,
Ach saor sinn ó olc. Amen

66

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