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Autore: Du bist die nacht

Le Rune e la Scienza sacra

Introduzione

Chi abbia almeno un poco di familiarità con gli studi tradizionali potrebbe non esitare
a definire “guénoniano” l’approccio presente in molte delle pagine a seguire. E tuttavia
“guénoniano” non significa molto, e René Guénon sarebbe il primo a non capire il
senso di questa definizione. Ciò non toglie che lo studioso di Blois rappresenti un caso
più unico che raro nella letteratura novecentesca, e che il suo modo di procedere,
“originale poiché così rigoroso”, abbia fatto “involontariamente” scuola. E qui sta il
nocciolo, la vera essenza: chi meglio di Guénon in Occidente ha parlato della Scienza
sacra e delle sue manifestazioni simboliche in modo così aderente alle informazioni
che gli erano state trasmesse? Giusto per fare due nomi, e cogliere le importanti
differenze: Julius Evola si protese verso la dimensione ideologica del contemporaneo,
e la distanza necessaria da una disciplina così delicata venne talvolta meno, e questo al
di là della rilevanza dei suoi contributi che qui non mancheremo di citare; Titus
Burckhardt annebbiò invece i contorni della dottrina con un afflato quasi religioso, dato
dalla sua conversione all’Islam. Il lavoro di Guénon che, benché se ne dica, all’Islam
non si convertì mai, come molti hanno “voluto” credere1, è dunque quanto di più neutro
e neutrale rimanga sul territorio degli studi tradizionali, e non può che essere il
riferimento più accreditato per chi voglia tracciare una ricostruzione di un corpus di
simboli da ascrivere a tale ambito, come appunto lo sono i Futhark runici; fermo
restando che in questo caso si tratta di una materia decisamente fraintesa nel corso dei
secoli, soprattutto in quello che ci ha preceduto. Innanzitutto lo stesso Guénon, a quanto
se ne sa fino a oggi, le rune non le sviscerò mai, s’ipotizza per non finire nel calderone
ideologico scoppiato negli anni tra le due guerre, compromissione involontaria che
avrebbe offuscato il senso dei suoi studi2. Basta infatti vedere come vengano

1
Si rimanda in tal senso, tra gli altri, a David Gattegno, René Guénon - La sua vita, il suo pensiero,
Edizioni L’Età dell’acquario, Torino, 2006, dove viene riportato il chiarimento che nel 1938 Guénon
forniva in una lettera a P. Collard: “Non ho affatto <<abbracciato la religione musulmana>>, in una
data più o meno recente, come alcuni vogliono far credere per ragioni che sfuggono alla mia
comprensione; la verità è che sono legato a organizzazioni iniziatiche islamiche da una trentina
d’anni, il che è evidentemente diverso”, cit. p. 55.
2
E’ insomma verosimile che Guénon intendesse evitare ogni tipo di fraintendimento ideologico
allorché le rune diventavano uno dei vessilli più esportati dalla cultura “magica” del Reich, fenomeno
che sorvoleremo con alcuni rimandi bibliografici. Evidentemente Guénon non voleva dare eccessivo
spazio a una cultura esoterica, la cui analisi avrebbe rischiato di capovolgere totalmente la portata del
suo messaggio, dato il rilievo che, delle rune e della tradizione germanica, veniva dato negli ambienti
di Hitler. Ciò non toglie che lo stesso Guénon attendesse segnali dalla Germania, ma mentre nella
maggior parte dei casi la temperie ideologica nazista era intesa nei circoli occulti dell’epoca con
estrema curiosità, se non con un senso d’attesa messianica, riesce difficile pensare che Guénon fosse
interessato al “fenomeno Hitler”, ritenendo quest’ultimo il salvatore di un mondo in dissoluzione.
Tutt’al più egli doveva pensare che Hitler potesse agire come “facilitatore” della crisi in essere,
1
interpretate oggigiorno le rune per capire il livello al quale siamo giunti nel frattempo.
Esse rientrano nell’esperienza divinatoria, dal quale anche il sottoscritto non è immune,
tanto per essere chiari; oppure troneggiano quali simboli di un’identità destroide ed
élitaria; e ancora figurano come icone di un revival neo-pagano o servono come
strumento di diagnosi psicologica, come se l’esperienza spirituale ad altro non si
riducesse che ai tratti di uno psichismo inferiore. Addirittura sono presentate come
segni del “buon umore”, al punto da essere definite all’occorrenza “rune celtiche” o
“rune magiche”, in ossequio ai revival tanto in voga che comunque fanno sempre presa
in un periodo, come il nostro, sensibile a qualsivoglia “merchandising” esoterico. Non
che siano mancati in questi anni degli approfondimenti accreditati e interessanti sulle
rune, ma allora è accaduto che esse venissero, sebbene citando analogie con altre
diramazioni tradizionali, ricondotte per lo più al mondo germanico e norreno. E se ciò
e sacrosanto, e comprensibile, per chi scrive non è abbastanza: ecco perché in questa
opera di investigazione dei significati intrinseci delle rune, delle “rune dentro le rune”
verrebbe quasi da dire, adotteremo tutta la neutralità possibile giovandoci di quel “noi”,
che non è appunto “guénoniano” ma semplicemente tradizionale. Un “noi” che tuttavia
non nasconde nessuna filiazione diretta: le considerazioni alle quali si giunge in questa
miscellanea sono date dal confronto tra le informazioni presenti in Guénon e in alcuni
studi sui Futhark, e non solo, debitamente citati, e quanto il sottoscritto è riuscito a
captare osservando le rune, notando analogie numeriche, fonetiche e strutturali. La
convinzione è che questo sia inevitabilmente un lavoro in movimento e l’attuale analisi
resta un fermo immagine di quanto è stato possibile recuperare fino ad ora. In ogni caso
andiamo a dedicarla a chiunque abbia ancora la pazienza di guardare oltre la superficie:
se non possiamo arrestare le lancette della nostra epoca, se non altro crediamo sia utile
tentare un’opera di focalizzazione, avvicinandoci, almeno in linea di principio, al senso
originale che questi simboli dovevano possedere. Qualche barlume di verità, anche in
tempi di così acuta sconnessione, può contribuire a fare perlomeno un po’ di pulizia.
Pure solo per una manciata di individui e per ristretti ambiti dell’esistenza.

fornendo il colpo di grazia alla degenerazione del Kaly-Yuga. Ciò in parte spiegherebbe il
coinvolgimento di Guénon nel cosiddetto affare dei “Polaires”, a cui fa un rapido cenno anche Giorgio
Galli nel suo recente Hitler e la cultura occulta, RCS libri, Milano, 2013 (p. 25); sulla questione dei
“Polaires” anche http://www.superzeko.net/doc_incanus/IncanusLAffaireDeiPolaires.pdf. D’altro
canto, l’interesse per le rune e l’esoterismo nordico non mancò in Julius Evola che, tutt’al contrario
di Guénon, era disposto a capire in che modo i suoi studi tradizionali potessero incrociarsi con la
portata ideologica delle rivoluzioni della destra dell’epoca. Anche se Marco Zagni, documenti alla
mano, ha dimostrato delle evidenti differenze di prospettiva che, dopo qualche interessamento
preliminare, convinsero i piani alti di Ahnenerbe, il collegio del Reich dedicato agli studi scientifici,
esoterici e antropologici, a non approfondire oltre i legami con lo studioso italiano. Evola poteva
diventare un collaboratore dell’organo SS, ma ciò non accadde. Si veda in proposito Marco Zagni,
La svastica e la runa – Cultura ed esoterismo nella SS Ahnenerbe, Mursia, Milano, 2011; con
riferimento specifico alle pagine 273-275.

2
Il Futhark antico come codice iniziatico e riproduzione dei cicli cosmici

Purtroppo le rune, per l’uso che se ne fa oggigiorno, un livello quasi esclusivamente


divinatorio3 e “psicologico”, a causa del processo di monopolizzazione operato dai
nazisti 4, che prosegue peraltro con attribuzioni che non colgono le basi di partenza dei
simboli in questione, ma anche in ragione della “gelosia” di un certo tradizionalismo
germanico/nordico che le ha ridotte a segni identificativi di una cultura precisa -il che
seppur comprensibile (anche perché accade ed è accaduto con ogni ambito

3
Un livello che riguarda in parte anche il sottoscritto. Le rune possono indubbiamente fornire
l’occasione per una crescita individuale, e consegnare le chiavi per rispondere a dilemmi insoluti del
proprio “io”. Quanto questo abbia a che fare con un percorso strettamente tradizionale, la risposta
non può che essere negativa, e chi scrive ne è assolutamente cosciente. Ma il fatto che le rune siano
presenti anche in questo modo nell’esperienza di chi scrive non impedisce di analizzarne gli aspetti
più profondi ed esoterici, e le pagine seguenti hanno lo scopo di dimostrarlo.

4
Un’appropriazione che tuttavia non esclude che alla base della temperie ideologica, che poi diede
vita al Nazismo tra la prima e la seconda guerra mondiale, ci siano stati degli studi interessanti di
recupero dell’antico significato delle rune, tra cui ad esempio quello operato da Guido Von List,
ispiratore misticheggiante che influenzò poi tutta la generazione che si accorpò attorno al
messianismo del Führer. Il problema è che negli anni delle “bünd” e del neo-misticismo pagano,
proprio le rune furono ricondotte quasi esclusivamente al patrimonio germanico, peraltro sporcandosi
con quegli influssi teosofici e pseudo-spiritualisti di cui lo stesso Von List fu alla fin fine interprete.
Sull’argomento si rimanda, tra gli altri, a Giorgio Galli, Hitler e il Nazismo magico – Le componenti
esoteriche del Reich millenario, RCS Rizzoli, Milano, 1989. Si tratta di uno sguardo che lo stesso
Galli ha avuto modo di ribadire, e sistematizzare, nel più recente, e poc’anzi citato, Hitler e la cultura
occulta. Non è questa la sede per approfondire tali analisi, che hanno ovviamente un loro peso
specifico ma che non bastano a spiegare il fenomeno nazista, come del resto non è sufficiente solo un
approccio “materialista” alla questione; proprio la storia del terzo Reich è la testimonianza che la
realtà non può essere spiegata, affidandosi a un solo piano fenomenologico. Ciò detto, l’associazione
tra rune e antica cultura germanica fu uno dei tratti portanti di quel clima acceso che sfociò poi nella
dittatura hitleriana. Sulla questione della cultura tedesca prima dell’avvento del Nazismo,
rimandiamo anche all’ampio studio di George L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Il
Saggiatore, Milano, 2008, che pur mantenendo un approccio più storico, e se vogliamo “positivista”,
al problema, consente di capire lo scenario sociale e ideologico su cui si innescò la rivoluzione nazista.
Più in dettaglio, con particolare riferimento agli studi di Ahnenerbe, ovvero l’organo ufficiale SS
incaricato di organizzare le ricerche razziali, esoteriche e geopolitiche del Nsdap, si rimanda al già
citato Marco Zagni, La svastica e la runa, e al contributo di Gianfranco Drioli, Ahnenerbe – Appunti
su scienza e magia del Nazionalsocialismo, Ritter, Milano, 2011. Se è riduttivo vedere le rune ancora
così intensamente associate al fenomeno nazista, ciò non toglie che esse abbiano rappresentato un
punto importante di una certa cultura, in un determinato spaccato storico. Il nostro studio si propone
di tornare indietro, al di là proprio dei tempi storici, figuriamoci quelli così recenti, anche perché le
rune impiegate come elementi magici, come veicoli di potenza, costituiscono una miscela pericolosa,
a maggior ragione se associata a una qualsiasi politica di aggressione.
3
tradizionale) non è sufficiente5- non sono da tempo ricondotte6 al territorio più credibile
del loro significato, quello della Scienza sacra7.
Come anticipato nell’introduzione, proprio abbinando allo studio di René Guénon la
conoscenza dei significati delle rune, pur anche inserite nelle limitazioni di cui sopra,
vi è modo di ripristinare l’origine di questi simboli che, lungi dall’essere un prodotto
esclusivo della cultura germanica, al limite localizzano un processo di trasmissione8
che va riportato alle specifiche di un retaggio più datato.
Nel corso di questa analisi cercheremo soprattutto di recuperare gli indizi, neanche
tanto sepolti, che giustificano la definizione di “codice iniziatico di simboli” a
proposito del Futhark germanico, precisando come la sequenza del più antico alfabeto9
runico non possa sussistere senza nemmeno una delle sue parti e sia di fatto
“infallibile”, perlomeno nell’ottica del messaggio che intende veicolare. Alluderemo
pertanto al significato di alcune di queste sue componenti, ma sempre nel rispetto di un
inquadramento generale che ha lo scopo di riportare le rune “a casa propria”, ossia in
un serbatoio di tipo tradizionale. E in questo primo capitolo, concentrandoci in
particolare su ciò che questi segni, coerentemente all’opera di Guénon, possano dirci
sulla scansione ciclica delle ere e sul loro funzionamento, soprattutto alla luce del
delicato passaggio che stiamo vivendo oggi.

5
Non si possono in effetti comprendere le rune come fenomeno mito-storico e culturale, se non si
recuperano testi come l’Hávamál e la Völuspá Saga insieme ai passaggi dell’Edda di Snorri
Sturluson. A tal proposito si rimanda a Snorri Sturluson, Edda, a cura di Giorgio Dolfini, Adelphi,
Milano, 1975.
6
Proprio il confronto tra “riduzione” e “riconduzione”, che abbiamo utilizzato in questo paragrafo
iniziale, dà la misura, anche linguistica, di come la riduzione si compia nel momento in cui le cose
non sono ricondotte, come dovrebbe essere, alla loro vera origine.
7
Un tentativo del genere fu al limite quello operato dallo svedese Johannes Bureus (1568-1652),
profeta del goticismo, che nel corso del XVII secolo escogitò una sorta di cabala runica, teorizzata
nei sistemi dell’Adulruna, in cui alcuni di questi segni furono ricollegati all’ermetismo, al pensiero
di Paracelso e al “Rosacrocianesimo” di quegli anni. Parimenti va osservato che, pur nell’interesse
dell’operazione, le rune ne uscirono anche fin troppo allontanate dal loro contesto di origine,
diventando i codici di un’escatologia cristiano/ebraica piuttosto lontana dalla cosmogonia nordica.
Bureus addirittura arrivò a proclamare le rune quale manifestazione originaria del sapere divino, un
approccio che si inseriva chiaramente nel processo d’identificazione culturale operato alla corte di
Gustavo Adolfo, sovrano di quella Svezia che fu astro nascente dello scacchiere europeo ai tempi
della Guerra dei Trent’anni. Chiunque volesse rispolverare il sincretismo operato da Bureus sulle sue
rune gotiche, può ad ogni modo consultare lo studio di Thomas Karlsson, Le rune e la kabbala,
Atanòr, Roma, 2005.
8
Avremo modo di tornare sul senso di questa trasmissione e di riferirla, per ciò che concerne le rune,
ai significati di Raido.
9
Poiché di alfabeto si tratta.“Futhark” nasce dalla composizione delle prime sei rune, proprio come
la parola “alfabeto” prende notoriamente la sua denominazione da alpha e beta, le prime due lettere
dell’alfabeto greco.
4
Innanzitutto le rune accreditate come originali, quelle propriamente appartenenti al
Futhark germanico10 (altrimenti detto “antico”, per l’appunto), sono ventiquattro. Tale
cifra rimanda, ad esempio, ai Vecchi dell’Apocalisse11 e ai Tîrthamkara, come
osservato dallo stesso Guénon in una nota del suo Il Re del Mondo12. I Tîrthamkara, i
cosiddetti “attraversatori del guado”, sono i maestri del Giainismo13, coloro che hanno
varcato le acque inferiori per raggiungere l’illuminazione, così come del resto i Vecchi
dell’Apocalisse presiedono a una rivelazione che consente il ritorno di un sapere
originale. Che cosa sono dunque le rune, sempre nel numero di ventiquattro, se non
strumenti atti ad attraversare quel guado o ad aprire quei sigilli apocalittici che in
qualche modo devono ricondurre a una rivelazione di tipo trascendente? È utile
ricordare che anche realtà che abbiano preso il sentiero della decadenza, o che abbiano
affrontato derive significativamente critiche, sono riuscite nel corso delle ere a
individuare forme, più o meno alte, di conservazione. Pensiamo solo al simbolo
dell’Arca di Noè, vascello/Graal temporaneo che ha consentito alla Tradizione di
mantenersi nel passaggio da una fase ad un’altra. Le rune, comparse in un periodo
recente, al di là delle loro origini storiche14 che qui interessano relativamente, hanno
proposto temi che si riallacciano a una metafisica superiore, sebbene le simmetrie poste
in atto dal Futhark abbiano anche messo in luce un decadimento rispetto a un’età
qualitativamente più elevata, e oramai perduta.

10
E di cui emanazione successiva sono lo “Younger Futhark”, altrimenti detto “Futhark Scandinavo”,
e l’ “Anglo-Saxon Futhark”, ripreso poi dallo stesso Tolkien nell’elaborazione dei codici linguistici
della sua opera.
11
Giovanni li descrive così: “Intorno al trono c’erano altri ventiquattro troni, e su di essi sedevano
ventiquattro anziani vestiti di tuniche bianche, con corone d’oro sul capo”; cit. Apocalisse, 4,4.
12
Cfr. René Guénon, Il Re del Mondo, Adelphi, Milano, 1977; nota 4 p. 19.
13
Sull’argomento, tra i tanti, Carlo della Casa, Il Giainismo Bollati Boringhieri, Torino 1993. Lo
“Jainismo” o “Giainismo” è una corrente affermatasi nel VI secolo a.C. grazie a Vaddhamana (599-
527 a.C.), più noto come Mahâvira “grande eroe” e considerato l'ultimo di un guruparampara o
lignaggio di ventiquattro maestri, appunto, noti come Jina o “vincitori”. Sul “passaggio delle acque”,
si rinvia sempre a René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano, 1990; in particolare,
l’omonimo capitolo, p. 297 e sgg. Lo stesso Guénon, peraltro riconducendo il Giainismo a una
corrente eterodossa, ne affrontò alcune peculiarità dottrinali in un passo del 1925, inserito
originariamente nella prima edizione di L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, “La liberazione
secondo i Jaina”, poi incluso nella raccolta La Tradizione e le tradizioni, Edizioni Mediterranee,
Roma, 2003, p. 106 e sgg.
14
Le teorie più accreditate collocano la nascita delle rune nel Nord Italia, come esito dell’incontro tra
correnti dialettali germaniche e la lingua etrusca attorno al primo secolo d.C. Altre teorie, che sono
tuttora esito di controversie, hanno posto le rune, alternativamente, come eredità greca, se non
addirittura come prodotto indigeno di una cultura squisitamente germanica. Non è questa la sede per
affrontare l’argomento, che anzi mira piuttosto a capire in che modo il Futhark germanico possa
contenere riferimenti che rimandano a una trasmissione più remota. Sulle radici archeologiche,
antropologiche ed etimologiche delle rune, si rimanda in ogni caso a Mario Polia, Le rune e gli dèi
del Nord, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini, 1983.
5
Date queste premesse numeriche15 e “deontologiche”, particolare importanza riveste la

runa numero dodici, Jera , che di fatto identifica il perno centrale del Futhark antico.
Jera riproduce l’idea tradizionale di Dharma, l’armonia della ruota universale, e la
ripartizione dei suoi influssi contrastanti, ma complementari, che nella cosmogonia
nordica si qualificano nell’intervento del ghiaccio e del fuoco16. Jera, in quanto mozzo
della ruota runica, tramanda ovviamente i saperi tradizionali riferiti al polo immobile
inteso come sole dai dodici raggi17. Coronati da questo numero, praticamente in tutte
le tradizioni, sono i rappresentanti di un ordine superiore che si riflette sulla terra. I
dodici Aditya indù (nati da Aditi, ossia l’ “Invisibile”18) ad esempio, ma il numero è lo
stesso dei Patriarchi d’Israele, da cui le tribù corrispondenti19, degli Apostoli, in quanto
emanazione del “Cristo Sole”, dei cavalieri di Artù, che guarda caso si riuniscono
attorno a una tavola rotonda, raffigurazione terrena di quel sole spirituale che è
giustappunto l’ “invisibile” Aditi. Anche la mitologia nordica pone Odino come “Dio
dei dodici”20, ossia nelle vesti di apice uranico che da Asgard irradia i suoi raggi su
tutto il corso della manifestazione. Avremo modo di chiarire come questa posizione di
preminenza non consenta tuttavia di considerare Odino il principio trascendente in sé
stesso, bensì al limite una sua intercessione secondaria.
Tornando a Jera, essa è in ogni caso una riproduzione del Dharma e dei suoi movimenti
attorno al punto originale della ruota21, armonia che nella sua gittata più bassa dirige le

15
Che non sono peraltro le uniche su cui valga la pena di insistere: il Futhark antico è infatti suddiviso
in tre raggruppamenti, gli aett, da otto rune ciascuno. Anche i già citati “Younger Futhark” e “Anglo
Saxon Futhark” presentano nella loro estensione il multiplo di otto, conservando al loro interno
rispettivamente sedici e trentadue simboli.
16
Torneremo sul significato del fuoco e del ghiaccio, anche in chiave ermetica; basti per ora un
riferimento al Taoismo e alla azione analoga dello yin e dello yang.
17
Per approfondire questi argomenti si rinvia a Simboli della Scienza sacra, capitolo 40, “La Cupola
e la Ruota”, p. 226 e sgg.
18
Cfr. Il Re del Mondo, nota 12, p. 45.
19
12 che si moltiplica fino a 144.000, cifra simbolica dei servi segnati in fronte da Dio in occasione
dell’apertura dei sette sigilli. 144.000 in questo caso è dato dalla moltiplicazione di 12.000 membri
per ognuna delle 12 tribù d’Israele. Cfr. Apocalisse 7, 4-8.

20
I dodici sono Thor, Baldur, Njiord, Frey, Heimdall, Bragi, Tyr, Hoder, Vidar, Vali, Ull e Forseti.
Odino è sopra di loro, in quanto padre di tutti gli Dei, Allfödr. Sulla mitologia nordica si rimanda in
particolare a Gianna Chiesa Isnardi, I miti nordici, Longanesi, Milano, 2008. Quanto al “consiglio
dei dodici”, esso si ritrova anche presso il lamaismo, con i Namshan che costituiscono il collegio
élitario del Dalai Lama (cfr. Il Re del Mondo, p. 44).
21
In questo senso il suo valore è molto simile a quello dello swastika, che incarna, al di là dei
fraintendimenti solari citati dallo stesso Guénon, il movimento di rotazione attorno all’asse
immutabile. Cfr. Simboli della Scienza sacra, capitolo 8, “L’idea del Centro nelle tradizioni antiche”,
p. 63 e sgg. Va anche precisato come il 12 sia il numero che consente la misurazione del cerchio, la
ruota appunto. Avremo modo di tornarci in corso d’opera riprendendo anche i sistemi di numerazione
taoisti.
6
ripartizioni del calendario terrestre22. Jera, per l’ambivalenza del suo simbolo ,
partecipa inoltre ai significati ricondotti sempre da Guénon alla figura di Giano, che
viene notoriamente raffigurato come bifrons e quale detentore di due mazzi di chiavi:
dorate le une, argentee le altre23. Le prime, è risaputo, concernono i “grandi misteri”,
quelli “solari”, che si rifanno direttamente al linguaggio ineffabile della sostanza
metafisica. Mentre le seconde, di questo messaggio principale, sono “soltanto”
un’emanazione riflessa, “lunare”, riguardando i “piccoli misteri”, altrimenti detti
“misteri di Iside”, e rappresentando un’introduzione alla via iniziatica e alla
conoscenza della natura naturata, senza tuttavia vantare un contatto immediato con il
retaggio superiore. È pertanto utile sottolineare come Jera presidi il periodo dell’anno
che va dal 13 al 27 di dicembre24. Il 13 di dicembre, come è noto, è il giorno di Santa
Lucia, il più buio dell’anno. Questo climax di oscurità ambientale precede il ritorno del
Sol Invictus del 21 dicembre, quello che nel simbolismo di Giano è chiamato Janua
Coeli, porta dunque direttamente immessa nell’ordine celeste25. Il percorso di Jera
nasce frattanto, e non potrebbe essere altrimenti essendo Jera un simbolo
dell’infallibilità ciclica, da un passaggio dal buio alla luce, come del resto accade con
la nascita del mondo manifesto che si compie in virtù dell’intervento del Principio
universale su una matrice caotica e soltanto potenziale26. D’altro canto Jera, nel suo
22
Dodici del resto sono i mesi in un anno (come i corrispondenti segni zodiacali) e Jera infatti ha
lasciato in eredità parole come “jahr”, “year”, che designano appunto la parola “anno”. Questo 12
equivale peraltro al numero delle porte del Ming-tang, detto infatti anche “Casa del calendario”, il
palazzo dell’imperatore cinese che soleva “animare” le fasi dell’anno proprio attraverso appositi
appostamenti rituali all’interno del suo palazzo, che era evidentemente concepito come riproduzione
della struttura macrocosmica. Su questi passaggi si rimanda a René Guénon, La Grande Triade,
Adelphi, Milano, 1980, p. 136. Si tratta di un’opera dedicata a chiarire le analogie tra il ternario della
tradizione cinese (Tien-ti-jen) e le produzioni corrispondenti della Scienza tradizionale
dell’Occidente. Sul Taoismo si invita anche alla consultazione di Matgioi, La Via Metafisica, Luni
Editrice, Milano, 2005. Da notare come fu proprio Matgioi (letteralmente “Occhio del giorno” - vero
nome Albert Puyou) a iniziare Guénon alla dottrina taoista.
23
Cfr. Il Re del Mondo, p. 32. Sulla figura di Giano, anche l’approfondimento in Simboli della Scienza
sacra, p. 117 e sgg.
24
Tutte le ventiquattro rune del Futhark antico “vigilano” su un periodo bisettimanale del calendario
annuale. Ovviamente tale corrispondenza vale anche per periodi più estesi di un ciclo, precisazione
che andremo a riprendere nel corso di questo primo capitolo.
25
Non è affatto casuale che Guénon collochi l’inizio del calendario della Thule Iperborea il 21
dicembre, mentre il polo centrale, ma secondario e successivo, di Atlantide fissa questa ricorrenza
all’equinozio di autunno, il 21 settembre. L’allontanamento dalla data del solstizio d’inverno è indizio
di un sintomatico distanziamento dalla Tradizione originale, conservata in forme sempre meno
dirette. Cfr. René Guénon, Forme tradizionali e cicli cosmici, Edizioni Mediterranee, Roma, 1974;
in particolare il capitolo “La situazione della civiltà atlantidea nel <<Manvantara>>”, p. 37 e sgg.
26
Su questo passaggio e sulla sua indeterminatezza temporale si rimanda alle riflessioni di Guénon
in Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi. Basti per ora questo cenno alla creazione dell’universo
manifestato: “Questa produzione è anche assimilata, da tutte le tradizioni, ad un’ <<illuminazione>>
(il fiat lux della Genesi), mentre il <<caos>> è simbolicamente identificato con le <<tenebre>>: si
tratta della potenzialità a partire dalla quale si <<attualizzerà>> la manifestazione, cioè, in definitiva,
il lato sostanziale del mondo descritto anche come il polo tenebroso dell’esistenza, mentre l’essenza
7
simbolismo, aderisce anche alla Janua Inferni, ovvero a quella fase discensionale del
ciclo solare, in cui l’astro principale cala d’intensità: questo tragitto si compie appunto
dal solstizio d’estate fino al successivo 21 dicembre, prima che un nuovo corso
ascensionale riprenda il suo cammino, secondo dinamiche opposte e complementari27.
Tale avvicendamento, oltre che microcosmico, è soprattutto ciclico e conferma il tratto
discensionale che ogni era (o Jera) deve necessariamente seguire: Guénon indica
questo simbolo essenziale per spiegare il rapporto che vige tra il nucleo principiale
della creazione (il punto centrale) e la sua manifestazione più bassa (la circonferenza);
tanto più la circonferenza si allontana dal centro, tanto più il Principio originale e i suoi
legittimi rappresentanti prendono le distanze da coloro che si sono “scordati” (nel senso
che non sono più accordati con le frequenze superiori) della vera dottrina. È tale,
evidentemente, la realtà del Kaly-Yuga, che da tempo non ammette più quei “collegi
dei dodici” che possano dirsi, in modo autenticante, intermediari regolarmente investiti
di conservare il legame tra il “centro” e la “periferia”.
Da questo punto di vista, il simbolismo di Jera è chiaramente riconducibile anche alle
attribuzioni del Re del Mondo. Nell’omonima trattazione Guénon spiega come il
diretto rappresentante del soffio divino si sia ritirato in seguito alla decadenza
dell’umanità e all’avvenuto taglio di quel ponte (da cui l’originario ruolo di Pontifex
proprio del Re del Mondo) che univa la Terra con le regioni del Cielo28. Queste lande
paradisiache -Paradêsha significa “Contrada suprema”- erano, il passato è d’obbligo,
collegate a quelle inferiori proprio tramite le dodici porte di Gerusalemme, a
testimonianza del compimento di una Salem (“pace”, da cui appunto Jerusalem)
davvero universale. Più nello specifico la Shekinah -letteralmente la “presenza del
divino”- si attuava attraverso la Pace (Misericordia) e la Giustizia (Rigore), che sono
le caratteristiche principali che un Re del Mondo debba possedere. Queste qualità sono
indicate rispettivamente dalla colonna di destra e di sinistra delle Sephiroth, di cui la
Shekinah è sintesi29. Si può peraltro adattare questa immagine introducendo una delle

ne è il polo luminoso, poiché è la sua influenza ad illuminare effettivamente questo <<caos>> per
ricavarne il <<cosmo>>(…).”; Cfr. René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi,
Adelphi, Milano, 1982, cit. pp. 32-33.
27
All’interno della mitologia nordica questo avvicendamento è rappresentato dalla morte di Baldur,
il figlio prediletto di Odino, che viene mortalmente ferito da una freccia di vischio scagliata da suo
fratello Hodur, che essendo cieco è chiaramente personificazione di quel sole calante che culmina
nella Janua Inferni. Cecità di Hodur che peraltro è da ricondurre chiaramente a quella di Santa Lucia,
patrona del giorno più buio dell’anno e ancella dell’iniziato Dante durante il suo viaggio nella
Commedia. Anche questo è un tema sul quale avremo modo di spendere qualche altra parola.
28
Un cielo che gradualmente si è “celato”, bisticcio linguistico che aiuta a capire come la decadenza
abbia reso occulto ciò che prima era manifesto.
29
Cfr. Il Re del Mondo, p. 30. E’ peraltro naturale che la Shekinah si manifesti attraverso la Gloria o
Pace/Misericordia e il Rigore/Giustizia. Queste qualità riguardano il senso interiore (il Cielo) ed
esteriore (la Terra) della manifestazione divina. Il senso addotto è il medesimo dell’espressione
Gloria in excelsis Deo, et in terra Pax hominibus bonae volutantis della tradizione cristiana. Cfr.
Forme tradizionali e cicli cosmici, p. 79. Questa immagine ci riporta anche al valore complementare
di Janua Coeli e Janua Inferni, che abbiamo visto poc’anzi a proposito di Jera. Per quanto riguarda
8
varianti del Re del Mondo, ossia quella del Melki-Tsedeq, che è re di Salem nella misura
in cui egli adopera la sua mano destra, quella portatrice appunto di Pace e di
Misericordia. Tale è l’essenza di una dimensione che non ha ancora rinnegato la
sorgente da cui proviene e che vive pertanto una fase ascendente del suo ciclo, di Janua
Coeli per così dire. Mentre la Giustizia (o Rigore), capacità della mano sinistra del
Melki-Tsedeq, riguarda il versante inferiore della manifestazione terrena, o Janua
Inferni30, essendo il Rigore e la Giustizia strumenti necessari a una realtà che ha
avviato, qualunque il livello, un processo di decadimento31.
Il valore della doppia mano, peraltro, riconduce proprio alla tradizione germanica,
attraverso la figura del dio Tyr, che patrocina i significati della runa Teiwaz , la
numero 17 del Futhark antico32. Tyr è infatti colui che sacrifica la sua mano destra per
consentire l’incatenamento del lupo Fenrir, il nemico infernale che il giorno di
Ragnarök inghiottirà Odino, ovvero il sole cosmico. L’analogia del mito è chiara: la
mano destra, come nelle valenze del Melki-Tsedeq, rappresenta la garanzia della Pace,
e proprio per servirla Tyr consuma la sua ordalia. Gli rimane in dotazione la sola mano
sinistra, quella del sovrano di Giustizia, e infatti come tale Tyr è interpretato nella
cultura germanica e norrena33. Questo impoverimento di prerogative dimostra viepiù
l’innesco di un valzer di decadenza che allontana la Pace dalla terra, facendola
sostituire con la Giustizia (o Rigore), competenza di una società che ha tagliato le
trasmissioni con la Grazia divina e che oramai ammette il delitto come violazione di
un ordine che ha subìto in ogni caso un corto-circuito. Amministrare la legge è
parimenti meritorio, ma chi lo fa deve essere consapevole del livello inferiore in cui si
è ritrovato ad agire, perché la sua stessa mansione è forzata da uno sgretolamento, in
assenza del quale non si renderebbe necessaria la sua stessa funzione.
La scalata di Odino quale signore di Asgard, del resto, sintetizza proprio il passaggio
da un’era solare, rappresentata dal Tyr delle origini, a una fase lunare, legata alla
“rigenerazione attraverso la morte”, il che equivale a un allontanamento progressivo
da una dottrina più elevata. Odino, che prima di “rendersi Dio” è un eroe di nome Ygg,
ottiene tramite il sacrificio dell’Yggdrasil34 una sapienza che in lui era, al limite,

il tema del Melki-Tsedeq, che andiamo ora ad introdurre, si rimanda invece al capitolo VI di Il Re del
Mondo, intitolato appunto “Melki-Tsedeq”, p. 55 e sgg.
30
Questo avvicendamento è parallelo al possesso del doppio mazzo di chiavi che abbiamo
precedentemente riferito a Giano.
31
Si potrebbe dunque riassumere che ogni fase della manifestazione conosce un ingresso elevato, più
direttamente collegato alla porta celeste, la cui qualità varia (e decade) man mano che il ciclo procede.
Vedremo come il capovolgimento della Janua Coeli con la Janua Inferni possa del resto identificare
il punto più lontano, e di maggior decadimento, rispetto agli esordi “realmente celesti” di una
determinata fase ciclica.
32
Teiwaz che è anche la runa che apre il terzo aett e che come tale incarna i valori di un “equilibrio
perfetto”, concetto che avremo modo di chiarire e di specificare.
33
Il martedì, essendo Tyr il “Marte dei germani”, è rimasto tuttora nella cultura popolare come giorno
ideale per perorare le proprie cause in tribunale.
34
Sacrificio sull’albero, che oltre a fare il paio con l’impiccato dei Tarocchi, rimanda chiaramente al
passaggio dalla mortalità all’immortalità operato dal Cristo tramite il martirio sulla croce, nesso sul
quale torneremo approfondendo la runa Nauthiz. Bisogna del resto notare come Yggdrasil significhi
9
soltanto latente: la trascendenza di Odino è un fatto acquisito, impresa dopo impresa,
come può esserla la Grazia per qualsiasi altro eccellente iniziato35. La caduta che si è
verificata è insomma resa palese proprio dalla necessità di tale riconquista. Che poi vi
sia nella religione nordica un tratto anche spiccatamente solare, ciò equivale a una
reminiscenza che è da ricondursi alla naturale proiezione verso un Pantheon che non
smette di esercitare la sua legittimazione superiore. A tal proposito, lo stesso Odino
può essere considerato una versione successiva del Melki-Tsedeq, e alla luce di questa
parentela vanno valutate le sue attribuzioni trinitarie36. Odino, oltre a essere “se stesso”,
è infatti vili, ossia volontà iniziatica, e vé, ovvero portatore del sacro. Si tratta di
immagini che corrispondono ad alcuni aspetti del Melki-Tsdeq, anch’egli “uno e trino”
nell’accorpare le qualità dell’Adoni-Tsedeq, “Signore di Giustizia”, e del Kohen-
Tsedeq, “Sacerdote di Giustizia”, sebbene un parallelo troppo specifico possa
comunque risultare azzardato37.
Sia Melki-Tsedek che Odino sono ad ogni modo sintesi di facoltà complementari, e in
ciò rispondenti di un piano superiore. Ma nel caso del secondo, si tratta di una
qualificazione “ottenuta a fatica”, e che si sviluppa tra luci e ombre, condizione alterna

letteralmente “cavallo di Ygg”, laddove proprio il cavallo rappresenta l’animale sciamanico per
eccellenza, o per figurazione, o come supporto reale in cerimoniali specifici. Si pensi al rito del volsi,
che consiste nel produrre incantamenti su un pene di cavallo imbalsamato per propiziare la fertilità;
oppure all’utilizzo dei crini di cavallo nei cerimoniali di estasi sciamanica. Sull’argomento si rimanda
allo studio di Mircea Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Edizioni Mediterranee, Roma,
1974. Sul volsi e sullo sciamanesimo runico, degno d’attenzione è lo studio di Freya Aswynn,
Northern Mysteries & Magick – Runes & Feminine Powers, Llewellyn Publications, Woodbury,
1990. Sul volsi, nello specifico, il riferimento a pagina 74.
35
Questa idea viene del resto confermata dallo stesso significato del nome “Odino”. Edred Thorsson,
tra gli altri, lo fa originare dal proto germanico Wōdh-an-az, in cui Wōdh è “entusiasmo numinoso”
mentre an significa “colui che è maestro di qualcosa” (az è invece semplicemente un “grammatical
ending”). Si capisce da questa sintesi come Odino sia letteralmente colui il quale è “specializzato nel
padroneggiare un entusiasmo divino”, un furore di tipo iniziatico, da cui appunto l’altro significato
che si dà comunemente al nome di Odino, ossia quello di “furore”. Cfr. Edred Thorsson, Runelore –
A Handbook of Esoteric Runology, Weiser Books, San Francisco, 1987, p. 10. Tutta l’epopea odinica,
d’altro canto, è pervasa da imprese eroico/iniziatiche: oltre al sacrificio dell’Yggdrasil, va menzionata
la cerca del “mead”, dell’Idromele; celebre poi l’ordalia dell’occhio sinistro, che Odino getta nel
pozzo di Mimir. Tale atto rappresenta la rinuncia alla vista profana per acquisire l’ “insight” o “vista
interiore”. Anche se in effetti la “chiusura di un occhio” potrebbe riguardare, simbolicamente
parlando, anche il processo di decadenza cui abbiamo accennato.
36
Attribuzioni peraltro certificate dal valknut, sigillo odinico che è composizione simbolica di tre
triangoli e che fa il paio con il “triangolo capovolto con dentro il 3” con cui è rappresentato l’âjnâ
Chakra, il “terzo occhio”. Sul valore esoterico del 3 come cifra, al di là di livelli intermedi secondari,
dei principali passaggi iniziatici, si rinvia a Guénon, Simboli della Scienza sacra, p. 77.
Sull’approfondimento dell’esoterismo dei chakra si rimanda a Arthur Avalon, Il Potere del Serpente,
Edizioni Mediterranee, Roma, 1968. Mentre sul significato del valknut, tra i tanti, valga
l’interpretazione riportata da Nigel Pennick in Tradizione Nordica, Atanòr, Roma, 1990. Il valknut,
a pagina 240, è descritto come il “potere di tre volte tre”, il che si riallaccia, ancora una volta, alla
completezza delle attribuzioni di un Re del Mondo o, perlomeno, alle facoltà di un eccellente iniziato.
37
Cfr. Il Re del Mondo, pp. 60-61.
10
che davvero non appartiene a un centro originale; tanto è vero che Odino, in quanto
“wanderer” e “seeker”, è quel pellegrino/sciamano che va in cerca di una luce che è
andata perduta e che pertanto costringe a una sorta di “vacanza” spirituale. Proprio una
delle prassi più diffuse della religione nordica è in fin dei conti lo sciamanesimo, che
lo stesso Guénon identifica come secondario rispetto ai riti dei primordi, a causa dei
suoi contatti con un magismo di tipo più basso38. Wotan d’altro canto non potrebbe
essere nemmeno interpretato a dovere se non fossero investigate le sue peculiarità
ermetiche, tra correnti alte e basse, snodo che ne segna appunto il divario dal dio Tyr
delle origini39 e sul quale avremo modo d’insistere tra poco.

38
Cfr. Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, il capitolo 26, “Sciamanismo e stregoneria”, p.
173 e sgg.
39
La radice di questo dio germanico della giustizia è infatti riferibile a quella del Dyāus Pitar vedico,
poi trasferitasi in Zeus/Deus. Cfr. Georges Dumézil, Gli dèi dei Germani - Saggio sulla formazione
della religione scandinava, Adelphi, Milano, 1974. Tyr in origine era quindi il padre celeste
(analogamente allo Zeus/Giove greco-romano) o addirittura una divinità androgina (ne accenna Freya
Aswynn in Northern Mysteries & Magick – ci torneremo in un prossimo capitolo). Ad ogni modo
Tyr, proprio tramite la sua runa tutelare, conferma le prerogative iniziali: Teiwaz , nel suo evidente
simbolismo assiale, è del resto da intendersi come spartiacque tra le forze contrastanti del fuoco e del
ghiaccio. Questa totale aderenza alle immagini dell’asse e alla centralità della stella polare, di cui
Teiwaz è rappresentazione, rendono bene l’idea di quali moventi incarnasse il dio Tyr delle origini.
A sostituirlo nel ruolo di padre degli dèi giunge poi il più misterioso Odino, divinità dei morti e degli
sciamani. Anche questo avvicendamento suggerisce l’allontanamento dal Cielo, e il prevalere di una
“dottrina oscurata”. Lo stesso Guénon (Forme tradizionali e cicli cosmici, p. 110) fa derivare il
termine Woden o Wotan dalla parola Budha, letteralmente “saggezza” (qualcosa in effetti d’inferiore
rispetto alla capacità di conferire la Grazia) che in India equivale peraltro al pianeta Mercurio, quello
appunto caro anche a Odino, che di fatto accorpa le qualità dell’Ermete/Mercurio e patrocina il
“Wednesday”, il mercoledì, letteralmente “il giorno di Wotan e di Mercurio”. Non che la “saggezza”
sia da considerarsi qualità di basso rango, rappresentando anzi la vera conoscenza, il lato esoterico
della sapienza - a tal proposito si rimanda al saggio “Conosci te stesso”, compreso nella raccolta di
René Guénon, Il Demiurgo e altri saggi, Adelphi, Milano, 2007, p. 71 e sgg., dove appunto la
saggezza viene definita come “qualcosa di superiore alla semplice filosofia”. Siamo tuttavia al punto
di partenza: Odino equivale a un iniziato eccellente che deve recuperare una conoscenza più alta,
andata oramai perduta. Mentre appunto Tyr, traendo la sua radice dal Dyāus Pitar, incarna un retaggio
più antico e originale. Odino, in quanto signore dell’aquila e del serpente, è d’altro canto tutore, al
contempo, delle correnti ascensionali -che rappresentano la reminiscenza dello stato primordiale- e
discensionali -che confermano la caduta rispetto a questa condizione più elevata- ed è dunque, sempre
analogamente a Hermes, genio ambivalente, laddove lo stesso Hermes è da una parte messaggero
degli dèi e, dall’altra, “guardiano psicopompo”. Tale duplicità corrisponde ai due serpenti arrotolati
sul caduceo proprio di Mercurio, che parimenti incanala valenze diurne e notturne. Del resto Odino
nel Medioevo e nell’età Moderna rimane come signore della misteriosa “Wild Hunt”, o “caccia
selvaggia”, una processione di morti (quelli dell’anno precedente) che aveva luogo ogni autunno, tra
novembre e dicembre, e che in qualche modo è relazionata al capodanno celtico o Samhain. Gran
cerimoniere e guida di questa masnada era Odino nelle vesti di Oski (“realizzatore di desideri”). La
Oskorei (“cavalcata di Oski”) era verosimilmente un rito di celebrazione e di esorcizzazione dei morti
che anticipava i riti agrari di dicembre. Sulla “caccia selvaggia”, si rimanda in particolare allo studio
di Jean Claude Schmitt, Religione, folklore e società nell’Occidente medievale, edizioni Laterza, Bari,
1988, pp. 151-205. Sui riti agrari e i contatti con questa oscura leggenda nordica e sue successive
interpolazioni, Carlo Ginzburg, I benandanti – Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento,
11
Queste energie alterne sono ovviamente le stesse di Jera, ambivalenza palese anche

quando si consideri la dodicesima runa come esito di due Kenaz affiancate. Sono
infatti proprio due rune Kenaz a creare l’ordito simmetrico di Jera, simbolo che, ancora
una volta, può essere interpretato solo ammettendo un doppio livello di apprendistato;
uno inferiore, diremmo terreno, e uno superiore, di origine sacra. Kenaz, che è la runa
numero 640, è di fatto la metà di Jera, sia che prevalga il suo significato più alto,
corrispondente in qualche modo alla Janua Coeli, sia che si manifesti quello più
limitato, che equivale poi alla Janua Inferni. Kenaz è in ogni caso fuoco di conoscenza,
un’attribuzione che non smentisce il valore riferito da Guénon alla radice kan41, intesa
come “sapienza/potenza” spirituale e intellettuale, a cui fa d’altro canto riflesso, come
sua rispondenza più bassa, il termine qan, che identifica invece il potere materiale. In
effetti Kenaz è la runa del “poter fare” e del conoscere (“to can” e “kennen”), ma questa
facoltà deve essere interpretata su due piani differenti. Il principale concerne un livello
di illuminazione spirituale, di cui Kenaz è propriamente la torcia; trattasi del “focus
sacro” di una comunità tradizionale, come nel caso delle Vestali romane. Mentre quello
secondario dà preminenza alle capacità artigiane, al fuoco forgiatore di Vulcano e
Tubalcain42, nomi che entrambi contengono la radice da cui deriva Kenaz o Cen, ossia
come viene identificata la stessa runa nel Futhark anglosassone. Secondo questo punto
di vista, Jera torna dunque nell’orizzonte di una duplice qualità, da una parte esito della
mano misericordiosa, degna appunto di un fuoco superiore che è amor divino e che

Einaudi, Torino, 1996 e 2002. Sulla Oskorei, in particolare, il riferimento di Vincent Ongkowidjojo
nel suo Secrets of Asgard – An Instruction In Esoteric Rune Wisdom Mandrake of Oxford, Oxford,
2011, p. 42.
40
6 che è propriamente numero di equilibrio tra forze alte e basse; si pensi al sigillo di Salomone,
stella appunto dai sei vertici, esito di un triangolo superiore e di un triangolo inferiore, che di fatto è
identico alla complementarietà della grotta e della montagna. Cfr. Simboli della Scienza sacra, il
capitolo 31, “La Montagna e la Caverna”, p. 189 e sgg. Sul valore del 6 quale “manifestazione del
Cielo” (mentre il 3 ne è l’essenza), le annotazioni di Guénon in La Grande Triade, che in ogni caso
avremo modo di specificare in uno dei prossimi capitoli.
41
Cfr. Il Re del Mondo, p. 63.
42
Il fuoco è presente in molti simbolismi tradizionali come fattore appunto di illuminazione (fuoco
divino) e come fattore di riscaldamento, in cui appunto il calore rimane come residuo inferiore del
principio di luce. Sul duplice valore del fuoco come Aor e Agni, si rimanda ad alcune osservazioni di
Guénon in Forme tradizionali e cicli cosmici, pp. 33-35. La stessa Kenaz si avvale del resto di una
duplice qualità: in quanto Kenaz essa è appunto il fuoco esterno; in quanto Kaunaz essa è la pustola,
il fuoco dunque interno; in merito anche Secrets of Asgard (p. 47) e Le rune e gli dèi del Nord (p. 61).
Quanto al sacrificio di Tyr, poc’anzi menzionato, va precisato come il suo gesto sia assolutamente
accostabile alla “mano messa sul fuoco”, come segno di espiazione, da Muzio Scevola che infatti è
detto “il mancino”: anche a lui, analogamente a Tyr, rimane “la mano di Giustizia”, la sinistra, mentre
“quella di Misericordia”, che indica un livello più alto, va perduta. La leggenda romana e il mito
nordico rappresentano pertanto quel decadimento “da un fuoco superiore a un fuoco minore”, peraltro
oggettivato dal susseguirsi delle fasi ascensionali e discensionali ammesse da Jera. Per approfondire
questi passaggi, con evidenti richiami al ruolo simbolico proprio di Vulcano e Tubalcain, si rimanda
al capitolo “Significato della metallurgia” (p. 149 e sgg.) in Il Regno della Quantità e i Segni dei
Tempi.
12
scaturisce direttamente dalla porta celeste43; figlia di un fuoco minore, che concerne
appunto le possibilità materiali della fiamma, è invece la fase calante di Jera, che
riguarda una realtà sempre più profana; immagine che, nella sua volgarizzazione
estrema, coincide con quell’età del ferro gradualmente dominata dall’essenza minerale
a dispetto di quella vegetale44, con progressivo avvicinamento al baratro della porta
infernale.
Viceversa, almeno in linea di principio e nella sua fase ascendente, Jera giustifica la
presenza di un Re del Mondo a ridosso dei tre livelli della manifestazione: – quello
corporeo, il Mahânga, – quello dell’anima o Mahâtmâ – quello infine dello spirito o
Brahâtmâ o Brahmâtmâ45. Solo il comando simultaneo su questi tre versanti, che
corrispondono anche alle facce di Giano46, determina il ruolo del Re del Mondo, ossia
di colui che agisce conformemente al mozzo della ruota. Jera è, come abbiamo detto,
una rappresentazione di questo ordine di cose e difatti conserva il riferimento al terno
principale anche nel suo numero. Il 12 è infatti dato dalla moltiplicazione tra il 3 e il 4,
laddove il primo specifica la tripartizione universale che abbiamo appena
sottolineato47, mentre il 4 è un numero di compimento terreno: quattro sono gli
elementi (come le porte stagionali) e quattro sono i punti cardinali che dipartono dal
cuore della croce (il quinto elemento o “quintessenza”)48, tanto che nella tradizione
celtica si parla, a proposito della sacra terra d’Irlanda, di “isola dei quattro Signori”49,
da intendersi sempre come cifra che risponde alla proiezione di un Centro originale. Il

43
Si veda in questo senso il valore cognitivo dell’amore e della carità presso Dante, che è poi diretta
emanazione delle fiammelle dello Spirito Santo delle celebrazioni di Pentecoste. Ulteriore, e
conseguente riferimento, è quello alla sostanza di Ignis come equivalente dell’Agni vedico. Cfr. René
Guénon, L’Esoterismo di Dante, Adelphi, Milano, 2001 p. 98, nota 1.
44
Sulla povertà del ferro e di un regno minerale che si serve di un fuoco inferiore e svilito, rispetto
alla purezza dell’alchimia vegetale, si rimanda in particolare all’appena citato capitolo di Guénon,
“Significato della metallurgia”, in cui evidente è il riferimento alla degenerazione di un mondo
sempre più legato alla lavorazione del metallo, assunta come uno dei sintomi più manifesti della
solidificazione inerte del mondo contemporaneo. D’altro canto, proprio alla più antica alchimia
vegetale, viene rapportata la produzione della bevanda d’immortalità, presente nelle varie tradizioni
come haoma, amrita, soma o appunto “mead”. Cfr. Simboli della Scienza sacra, capitolo 53,
“L’Albero della Vita e la bevanda d’immortalità”, p. 287 e sgg. Sull’importanza del simbolismo
vegetale, nella stessa raccolta, il capitolo 9, “I fiori simbolici”, p. 72 e sgg.
45
Analogamente questi livelli corrispondono al valore dei tre Re Magi. La stessa tripartizione si
ritrova peraltro nel Lamaismo con il Dalai-Lama, il Tashi-Lama e il Bogdo- Khan. Cfr. Il Re del
Mondo, p. 43.
46
Le due facce visibili di Giano corrispondono ai livelli visibili delle manifestazioni del Re del
Mondo: quello delle chiavi dorate, potere sacerdotale; quello delle chiavi argentee, potere regale. La
terza faccia, che pur onnipresente sfugge, rappresenta la simultaneità di queste attribuzioni nella
figura appunto “triplice” dello stesso Rex Mundi.
47
Una dottrina di tipo tradizionale non potrà infatti che seguire un ordine totalmente subordinato allo
Spirito (Brahâtmâ) che a sua volta guiderà l’anima (Mahâtmâ), che parimenti, in un moto a cascata,
prevedrà quanto è necessario compiere attraverso le funzioni del corpo (Mahânga). Cfr. Il Re del
Mondo, p. 37 e sgg.
48
Su queste considerazioni si rimanda a René Guénon, Il Simbolismo della Croce, Rusconi, Milano,
1973. Avremo peraltro modo di tornare sull’argomento nel prossimo capitolo.
49
Cfr. Il Re del Mondo, p. 93 e nota relativa, la numero 18.
13
4 del resto è il numero quadrato, “alla seconda” o secondario rispetto al 3, che è invece
un numero primo. L’“inquadramento” -altro termine che a questo punto si spiega da
solo- sulla terra di un Principio trascendente è dunque anche “quadratura del cerchio”,
ossia “manifestazione attraverso il 4 delle promesse del 3”, che per moltiplicazione
produce appunto il 12 di Jera. Come ha spiegato Guénon, la moltiplicazione è nei
sistemi di numerazione qualcosa che va del resto oltre la semplice “aggregazione” di
fattori, che riguarda invece l’addizione e concerne una pura “azione di presenza”. La
molteplicità, al contrario, descrive la potenzialità dell’essenza del numero, quindi di
fatto la sua capacità produttiva e “in divenire”50. Ecco perché il 12 di Jera si presenta
tanto più attivo nei confronti del Cielo e, d’altro canto, esso può essere letto anche
come “1 + 2”, il che riporta sempre al ternario dell’ordine superiore51. Se viceversa il
4 prende le distanze dal 3, esso taglia i ponti con il perno metafisico, riducendosi a
essere un “cubo” privo di vita e di irradiazioni realmente vivificanti52.
Non a caso Eihwaz , la tredicesima runa, avvicendandosi giustappunto a Jera, per
quella che è una delle sequenze più significative dell’intero Futhark antico, ha
puntualmente a che fare con la caduta dell’uomo e, nello specifico, con l’ermetismo,
una dottrina che, proprio ammettendo tale caduta, invita a riprendere un cammino di
risalita verso il Principio divino53. Tale condizione di perdita e di confinamento guarda
anche al simbolismo del luz, il nocciolo dell’albero di mandorlo, o esso stesso albero
di mandorlo, che viene citato nel libro della Genesi a proposito del sogno di Giacobbe
circa la definizione di un centro terreno che possa essere rispondente dei piani divini54.
Il luz, inteso come nocciolo che nasconde un midollo, va ritrovato peraltro, in una totale
corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, quale osso duro, indistruttibile 55, alla

50
Cfr. La Grande Triade, p. 77.
51
Su queste logiche numeriche si rimanda anche al simbolo della cosiddetta “triplice cinta druidica”,
che di fatto comprende tre quadrati, per un totale di dodici lati, tanto che Guénon la definisce analoga
della Gerusalemme Celeste e delle sue dodici porte. Cfr. Simboli della Scienza sacra, p. 80. 12 che è
peraltro sempre lo stesso degli Apostoli e dei Cavalieri della Tavola Rotonda, ovvero ordini garanti
in Terra del mandato celeste. Come del resto dodici sono biblicamente i frutti dell’albero della vita e
nella, teologia cristiana, gli equivalenti frutti dello Spirito Santo.
52
Un’immagine molto chiara che Guénon restituisce in un capitolo dedicato, “Dalla sfera al cubo”,
proprio nel testo in cui egli ha voluto con più puntualità analizzare la decadenza del ciclo attuale; cfr.
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, pp. 135-140. Anche in altre occasioni Guénon tratta il 4
come cifra terrena identificante il globo del mondo. Si rimanda in particolare al capitolo “Il quatre de
chifre” in Simboli della Scienza sacra, p. 345 e sgg.
53
Per questo motivo l’ermetismo è considerato dallo stesso Guénon una dottrina, per forza di cose,
secondaria rispetto alla Tradizione originale, il che non comporta necessariamente una critica,
trattandosi semmai di una “annotazione tecnica”. Si vedano in proposito gli articoli comparsi in
Forme tradizionali e cicli cosmici, p. 99 e sgg. Sull’abbinamento tra ermetismo e rune rimandiamo
all’articolo in appendice, dove avremo modo di riprendere anche la questione alla luce di quelle che
furono le considerazioni di Guénon.
54
Cfr. Genesi, 28, 18-19. Sul luz in quanto Beith-El anche il capitolo dedicato da Guénon in Il Re del
Mondo, pp. 69-77 e, ancora una volta, i riferimenti alle “pietre del fulmine” e alle “armi simboliche”
in Simboli della Scienza sacra, p. 155 e sgg.
55
Lo stesso Guénon riferisce la credenza che a tale osso rimanga legata l’anima dopo la morte fisica
e ciò fino alla risurrezione.
14
base della colonna vertebrale, proprio come la Kundalini induista, sede dunque di
quell’energia vitale che è sì dono di immortalità56, ma a condizione che venga
purificata fino all’occhio centrale di Shiva o urnâ57, ovvero il terzo occhio, attraverso
le ruote dei chakra o kamala58.
Gli alchimisti rendono questa immagine attraverso la formula del Vitriolum, ovvero
Visita inferiora terrae, recfiticando invenies occultum lapidem, veram medicinam;
letteralmente: “penetra nelle viscere della terra e, percorrendo il retto sentiero, scoprirai
la pietra occulta, vera medicina”. In termini ermetici si tratta di sublimare la pietra
grezza per poter (ri)trasformare il proprio metallo personale in “elisir di lunga vita”.
Eihwaz , con le sue “acque inferiori” e le sue “acque superiori”59, riassume proprio
queste operazioni di innalzamento e di “alleggerimento” rispetto ai pesi del corpo e
agli influssi psichici più bassi, e come tale è pertanto riconducibile allo “gnosticismo”
del dio Thot e ai dettami della “Tavola Smeraldina”60. Lo smeraldo del resto equivale
all’urnâ e a quella pietra che era confitta nella testa di Lucifero prima della caduta.
Questo stesso smeraldo è piovuto in terra, divenendo poi anche Graal, ennesimo
simbolo di una tradizione che va recuperata, “riconquistata”, come suggerito dalle
“quest” della letteratura medievale61. D’altro canto il Graal, similmente al vascello di
Noè, è un centro itinerante, un simbolo di redenzione verso una dottrina che non avendo
più un palese punto di riferimento (poiché l’uomo si è allontanato dal Principio
originale) si manifesta come elemento “vacante” che solo i mystes più meritevoli
sapranno ritrovare. Tale testimonianza è per analogia nascosta nell’uomo, appunto in
quel nocciolo di luz che va risvegliato e selezionato fino al raggiungimento del soffio
superiore che è in lui quale diretta emanazione del Brahâtmâ.

56
Non è casuale che “immortalità” sia quasi identico a “immoralità”, a testimonianza di come
l’energia vitale del luz o della Kundalini (letteralmente “il serpente arrotolato”) sia la porta tanto verso
le correnti più alte tanto verso quelle più basse. La runa Eihwaz, peraltro, è costante simbolo di questa
sottile ambivalenza.
57
Urnâ che è anagramma proprio di “runa”, termine, quest’ultimo, che in verità viene fatto originare
dal tedesco raunen, “sussurrare”, verbo che riguarda indubbiamente le modalità di trasmissione di
informazioni di tipo iniziatico. “Runa” di fatto significa “segreto”, e segreto ai più è del resto l’accesso
al terzo occhio, che consente all’individuo spiritualizzato di raggiungere la totale fusione con il
Principio trascendente. Sulla stessa parola luz, in quanto correlata a tutto ciò che è “segreto”,
“coperto”, “avviluppato”, sempre Guénon, Il Re del Mondo, p. 70.
58
Ivi, p. 76.
59
Su questa distinzione, soprattutto in termini di metafisica superiore, si invita a consultare René
Guénon, Gli stati molteplici dell’essere, Adelphi, Milano, 1996, p. 105.
60
Sulla Tabula smaragdina, si rimanda alla traduzione di Dario Chioli in
http://www.superzeko.net/tradition/TabulaSmaragdina.html.
61
Sull’esoterismo del Graal e sulle sue rilevanze ermetiche si rimanda a Julius Evola, Il mistero del
Graal, Edizioni Mediterranee, Roma, 2002, con particolare riferimento al paragrafo 15, p. 101 e sgg.,
dedicato alla “pietra luciferina” e il paragrafo 27, “Il Graal e la tradizione ermetica”, p. 193 e sgg. Sul
ciclo del Graal, nei suoi rapporti con l’Islam, si rimanda invece a Pierre Ponsoye, L’Islam e il Graal
– Studio sull’esoterismo del Parzival di Wolfram Von Eschenbach, Edizioni SE, Milano, 1989 e 1998.
Sempre su questi argomenti, con molte delle nozioni qui citate, anche Il Re del Mondo, il capitolo V,
“Il simbolismo del Graal”, p. 47 e sgg.
15
Con ciò, l’idea di pietra caduta (come lo smeraldo confitto nella testa di Lucifero, che
equivale alla perdita “transitoria” del terzo occhio da parte dell’uomo) è conforme al
significato di “betile”, di roccia piovuta dal cielo, un termine che ha origine sempre dal
passo di Giacobbe testé citato, dove la pietra che si chiamava appunto Luz viene
rinominata Beith-El, letteralmente “Casa di Dio”62. Le dimore sacre sulla terra, in
quanto diretta proiezione del pensiero divino, sorgono infatti spesso da una pietra
oppure attorno a essa: il caso più celebre è ovviamente quello della Kaabah islamica.
Il genere di questi “betili” rimanda alla stabilità di Jera quale perno regolatore: la pietra
fondamentale che dà origine a un edificio sacro è analogamente la manifestazione
quaternaria di un principio ternario; l’altare stesso è una pietra che riconduce in Terra
ispirazioni di ordine superiore63. Mentre la pietra angolare, altrimenti detta caput anguli
(testa d’angolo), che non va appunto confusa con quella prima (ma solo in ordine
cronologico) delle fondamenta, è l’ultimo mattone dell’edificio, quello che non
riguarda, per parafrasare le parole di Guénon, “l’arte della squadra, bensì quella del
compasso64”; essa è “chiave di volta” e certifica la realizzazione del tempio 65. Si può
pertanto affermare che la prima pietra del tempio è il luz non ancora reintegrato,
laddove quella angolare denota tutte le caratteristiche del luz purificato, del nocciolo
distillato in “elisir di lunga vita”. Viepiù assistiamo a una forte corrispondenza tra
operazioni di base e di coronamento, a conferma delle valenze ermetiche che si
compiono nello snodo tra Jera ed Eihwaz. E’ anzi lecito ipotizzare che Jera lasci in
deposito quel lapsit exillis che la runa Eihwaz si fa carico di nobilitare, inaugurando
le operazioni di risalita: la pietra caduta deve tornare al Cielo, onde
originariamente promana, questa è del resto l’essenza del percorso iniziatico66.
A tale riconquista può essere riferita anche una versione parallela di Eihwaz, spuria se
vogliamo, ossia il wolfsangel , letteralmente “dente di lupo”, o “angolo di lupo”
a questo punto, il che rimanderebbe proprio al caput anguli di cui abbiamo appena
detto. Non è un’osservazione così azzardata dal momento che proprio il wolfsangel,
prima di essere integrato nell’araldica germanica, o quale insegna di élite naziste67,
connotava gli emblemi delle fratellanze dei liberi muratori. Tutto ciò riconduce i
62
“Il mattino seguente Giacobbe si alzò presto, prese la pietra che aveva usato come guanciale, la
drizzò in piedi e vi versò sopra dell’olio per consacrarla a Dio. Chiamò quel posto Betel (Casa di
Dio), mentre prima il suo nome era Luz”. Cfr. Genesi, 28, 18-19.
63
Pietro, analogamente, è la pietra su cui poggia la prima sistematizzazione del messaggio di Cristo.
64
Si tratta chiaramente di una distinzione che rimanda alle qualità limitate del quadrato rispetto al
cerchio, come abbiamo già avuto modo di osservare più volte.
65
Sul simbolismo della “pietra angolare”, si rimanda al capitolo dedicato in Simboli della Scienza
sacra, p. 238 e sgg.
66
Le stesse correnti ascensionali e discensionali che Jera ammette da un punto di vista temporale, al
di là della scansione considerata, Eihwaz le ripropone invece da un punto di vista spaziale, sebbene
questo ambito sia molto più che meramente fisico, riguardando di fatto le “ascese” e le “discese”
dello spirito incarnato.
67
Con il dente superiore a sinistra, in quanto Opfer, simbolo del sacrificio, o con il dente superiore a
destra, in quanto Eif, “zelo ed entusiasmo”, la runa Eihwaz, resa ovviamente in orizzontale, entrò
nella simbologia di alcune élite naziste
http://it.wikipedia.org/wiki/Simboli_runici_adottati_dalle_SS.
16
significati della runa Eihwaz a ridosso dell’architettura sacra, i cui contatti con
l’ermetismo sono stati peraltro messi in evidenza anche dall’ingente studio di
Fulcanelli sulle “dimore filosofali”68.
Nelle derive più basse del folklore apotropaico, il “dente di lupo” è rimasto inoltre
come talismano protettivo contro gli attacchi dei licantropi e i morsi dei lupi. Sarebbe
più opportuno far risalire questa interpretazione a quella della Eihwaz originale, intesa
come runa di sublimazione ermetica del luz che ritorna alla sostanza metafisica,
distillando dal veleno del serpente della Kundalini l’elisir della vita eterna. Sarebbe
così possibile capire il vero significato dell’antidoto contro il lupo, che di fatto
sintetizza la lotta intestina (tra carne e spirito – tra pietra grezza e metallo prezioso) che
deve affrontare colui il quale voglia davvero reintegrarsi nello spirito. Solo il candidato
meritevole può infatti compiere il suo allontanamento dallo stato famelico della
bestia/lupo, scansandone i morsi, intesi come decadenza e come caducità inevitabile
nei confronti di quelle “malattie” e di quegli appetiti che caratterizzano l’esistenza
profana, e che viceversa l’uomo illuminato sa respingere altrettanto naturalmente69.
Tale operazione si compie rectificando70, secondo la formula del Vitriolum, ossia
ripulendo gradualmente il piombo saturnino del proprio corpo fino alla (ri)conquista
del terzo occhio.
Tale risalita in qualche modo concerne il triplice livello di competenze che abbiamo
menzionato a proposito del Re del Mondo, gerarchia che Eihwaz ha modo di
riprodurre con il suo perno centrale che di fatto rimescola e contiene le correnti basse
e alte di sinistra e di destra71. È una questione che Guénon affronta ad esempio

68
Cfr. Fulcanelli, Il Mistero delle Cattedrali e l’interpretazione esoterica dei simboli ermetici della
Grande Opera, Edizioni Mediterranee, Roma, 1972 e Le Dimore Filosofali, 2 volumi, Edizioni
Mediterranee, Roma, 1973.
69
Il termine wolfsangel potrebbe del resto essere tradotto, “inglesizzandolo”, anche come
“lupo/angelo”, a conferma di quel delicato snodo che si compie tra il “demone” e l’“angelo” che
albergano in contemporanea nella pasta dell’iniziato. La “bestia”, al di là delle qualifiche di base del
soggetto, è sempre pronta a sbranare quella parte più nobile che mira all’elevazione. La runa Eihwaz
ha proprio lo scopo di ricordare questi “inconvenienti del mestiere”.
70
Torneremo sull’argomento nel capitolo dedicato a Raido e a certi problemi di “orientazione”.
71
Questi tre fattori potrebbero peraltro corrispondere alle tre piramidi di Giza che lo stesso Guénon
ha ipotizzato essere deposito dell’antica tradizione ermetica. Cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici,
p. 115 e sgg. Piramide che fa del resto il paio con il simbolo della montagna e della grotta, altre
testimonianze dell’innalzamento iniziatico da una base a un vertice di sapienza. La stessa etimologia
di “piramide” (come ha notato Giuliano Kremmerz in La Scienza dei Magi, Volume Primo, Edizioni
Mediterranee, Roma, 1975, p. 75) rimanda al concetto di pyr, “fuoco”, in questo caso quella fiamma
spirituale che abbiamo citato a proposito di alcuni aspetti della runa Kenaz. Quest’ultima è poi di
fatto un triangolo, simbolo che ancora una volta coincide con quello della piramide/montagna. La
stessa pira funebre, presso i popoli antichi, aveva del resto lo scopo di bruciare la parte corruttibile
della carcassa corporea per far ascendere in Cielo il residuo spirituale. Anche altrove Kremmerz
ricollega il termine pyr al fuoco, facendo peraltro notare come in greco “bruciare” si dica kaien (La
Scienza dei Magi, volume secondo, Edizioni Mediterranee, Roma, 1975, nota 2, p. 353) il che ci
riporta comodamente all’etimologia della sesta runa Kenaz. Il “fuoco dolce” dell’ermetismo ha
rapporti, sotto più punti di vista, con la runa Kenaz che, come abbiamo visto nella nota 40, sostiene
il simbolismo del sigillo salomonico e che, rappresentando essa stessa un fuoco purificante, appoggia
17
nell’Esoterismo di Dante, ponendo l’accento su quello che è comunque un tema
invariabile: la ricorrenza della tripartizione cosmica, che ovviamente coincide con
altrettanti stadi iniziatici72. Dipende soltanto dal livello qualitativo dell’epoca che si
prende in esame. Un Krita-Yuga/Satya-Yuga, o equivalente “età dell’oro”, proprio per
l’aderenza tra il soffio divino e le sue manifestazioni terrene, esclude la presenza delle
cosiddette acque inferiori alla base del triangolo: perfino la materia corporea gode qui
di una luce bastante a qualificare l’irradiamento di un principio superiore. Il Melki-
Tsedeq, in un simile stato di grazia, agisce come intermediario di questo rapporto,
rappresentandone il fulcro in Terra. Nel momento in cui il vertice di tale triangolo si
ritiri invece per l’avvenuto allontanamento dai precetti della sapienza originale, la
tripartizione subisce uno smottamento che è ben visibile proprio nella cosmogonia
nordica. I suoi regni sono infatti nove, suddivisi comprensibilmente in tre macroregni,
classificati altrettanto pianamente in supremi, mediani, inferiori. Midgard, la Terra,
insieme a Muspelheim e Nifelheim, le zone seminali che attraverso lo scontro/fusione
di fuoco e ghiaccio hanno portato alla nascita della sostanza manifestata, è inserita nelle
zone di mezzo, anzi è essa stessa “Terra di mezzo”73. Tale processo, che dietro le
apparenze della nobilitazione conserva in verità le ragioni del declassamento, non si è
verificato perché Midgard si sia avvicinata ulteriormente al Cielo; anzi, semmai proprio
per il contrario, ossia per l’insorgere, a causa della decadenza del genere umano, di un
regno delle energie inferiori, che rischia ora di inghiottire ciò che un tempo era in stretto
contatto con la porta uranica74. Trattasi insomma di una condizione di caduta che lo
stesso Dante ha modo di ricalcare attraverso le tre cantiche della Commedia: se è vero
che il viaggio del poeta è anche individuale, ossia di natura ermetica e mistica (nel
senso veramente “iniziatico” del termine), più in generale la sua conceptio universalis
non può essere compresa senza cogliere l’esilio che l’uomo ha subìto, meritatamente,
nei confronti della Gerusalemme celeste. L’inferno non è dunque soltanto, per
interpretazione analogica, la condizione di partenza del mystes che si deve reintegrare,
ma pure quell’abisso su cui si è affacciata l’umanità intera nel suo distanziamento dalla
vera dottrina75.
Le tre rune successive a Eihwaz esemplificano peraltro proprio questa condizione di
caduta e di necessaria risalita, di fatto sviluppando ed estendendo i concetti presenti in
sintesi all’interno della runa che le precede. Pertho , la numero 14, è il pozzo in cui

l’idea di cremazione delle parti corruttibili e superflue che accompagna l’iter di purificazione
ermetica.
72
Questa suddivisione corrisponde alle tre fasi alchemiche, nigredo, albedo, rubedo, ed è presente
anche nell’organizzazione del Futhark che, come abbiamo detto, prevede tre aett da otto rune
ciascuno.
73
“Terra di mezzo” che equivale peraltro alla Mediolanum celtica e al luogo di “fantasia” delle epopee
di Tolkien. Sull’etimologia di Mediolanum, tra gli altri, Marco Fulvio Barozzi, I Celti e Milano,
Edizioni della Terra di Mezzo, Milano, 1991.
74
Non è chiaramente una condizione che riguarda la sola mitologia germanica, essendo noti anche i
casi della cosmogonia greca o sumera, tanto per fare due esempi tra i tanti possibili.
75
Torneremo più avanti sui valori di questo decadimento, analizzando nello specifico le
caratteristiche delle ultime due rune del Futhark antico.
18
l’uomo si è smarrito, e nel quale i propri talenti e le proprie sapienze si confondono
alle acque inferiori dell’amnesia e ai residui psichici di una realtà in decomposizione76;
questo stato corrisponde sotto certi aspetti alla manifestazione corporea del Mahânga.
Algiz , runa numero 15, è invece il ponte arcobaleno che va rimontato in direzione
del soffio trascendente. L’arcobaleno (Bifröst77 nella tradizione germanica) è in ogni
metafisica tradizionale un avamposto di comunicazione verso l’alto: Algiz, runa
numero 7 del secondo aett78, è infatti sigillo del sacerdote, di colui che varca le acque
inferiori di Pertho -in questo senso l’arcobaleno è totalmente complementare al
simbolo dell’arca di Noè, che quelle acque inferiori le domina in un periodo di
passaggio79- in direzione della porta celeste; tale è originariamente la prerogativa del
“Sacerdote di Giustizia”, Kohen-Tsedeq, alfiere del Mahâtmâ80.
E d’altro canto Sowulo , la runa numero sedici, ossia 1 + 6, da cui sempre la cifra
dell’arcobaleno che corrisponde ai Dwîpa, le sette terre/ere primordiali che dipartono
dal Mêru indù, montagna bianca e polo centrale81, rappresenta proprio il nucleo dello
spirito, Brahâtmâ, quel sole incorporeo da cui provengono i dodici raggi di Jera.
Ma cosa accade se viene a mancare il ruolo di mediazione che abbiamo notato con Jera,
ossia se viene a decadere sulla Terra un centro che sia davvero diretta proporzione della
dottrina originale o di sue, pur successive, produzioni? La ruota accelera a tal punto
che, perlomeno a un livello inferiore, si smarrisce la presenza del mozzo, del medio
che la fa girare, del Manu che, pur non partecipando alla ruota, ne determina il
movimento. La runa che suggella questa contrazione improvvisa è nel Futhark antico
Dagaz , la ventiquattresima e ultima82, cifra che la pone in diretto rapporto con Jera.

76
Non casualmente Pertho deriva verosimilmente dall’etimologia della parola celtica che significa
“mela”, ossia quert. L’osservazione è da attribuirsi a Vincent Ongkowidjojo nel suo Secrets of
Asgard, p. 80 e sgg. La mela identifica chiaramente la “caduta”, la cacciata dal Paradiso Terrestre, la
perdita di una conoscenza originale. Approfondiremo il valore di questo passaggio in un capitolo
successivo dedicato alla runa Algiz in rapporto proprio con Pertho.
77
“Bifröst” che, con un po’ di “coraggio”, potrebbe essere tradotto come “ghiacciato due volte”, ossia
in entrambe le direzioni, a conferma di come il ponte tra Terra e Cielo sia stato vittima di
un’interruzione che impedisce le comunicazioni tra il livello superiore e quello inferiore. Fermo
restando che il livello superiore continua, pur non rivelandosi manifestamente, a dirigere, come
nell’ordine delle cose, tutto ciò che è necessario al compimento del quadro inferiore.
78
7 come i colori dell’arcobaleno, di cui il principale è il bianco. Si rinvia in tal senso a Simboli della
Scienza sacra, p. 300 e sgg., il capitolo “I sette raggi e l’arcobaleno”.
79
Su questa complementarietà la nota 10, a pagina 104, in Il Re del Mondo.
80
Chiariremo più avanti come proprio la runa Algiz abbia evidenti contatti con la regalità sacerdotale
delle origini.
81
Sull’importanza di queste “sette terre o ere”, Forme tradizionali e cicli cosmici, in particolare il
capitolo I, p. 11 e sgg. È opportuno notare come le sette ere si moltiplichino in quattordici, di modo
che ogni era, all’interno di un ciclo completo o Kalpa, ammette anche il suo capovolgimento,
precisazione affatto casuale in vista delle conclusioni alle quali giungeremo in questo primo capitolo.
82
Non tutte le “esegesi” del Futhark antico sono concordi nell’inserire Dagaz in ultima posizione,
preferendole Othila. Nel presente studio i valori di Dagaz, in quanto runa numero 24, sono così
simmetrici, perfino nelle opposizioni, a quanto riferito su Jera, che non sarebbe possibile immaginare
un’altra collocazione, che è comunque la più corretta secondo la nostra interpretazione, dal momento
19
C’è un simbolo in particolare , e di cui tratta Guénon in alcune note di Il Re del
Mondo , che ora può tornarci utile come paragone. Guénon l’associa alla fusione
83

dell’alpha e dell’omega, in quanto essenza del Cristo, e in generale lo qualifica come


sintesi “del Principio, del mezzo e della fine”. Inoltre esso suggerisce anche la crasi
della formula dell’“Ave Maria”, peraltro con notevoli somiglianze con il monosillabo
dell’Om o Aum. Per quello che interessa qui, ci sono inoltre dei curiosi indizi che ci
permettono di ritrovare l’essenza di Dagaz rispetto a un’altra runa posizionata nelle sue

vicinanze all’interno del Futhark antico: trattasi di Inguz , la runa numero 22. Si

nota subito come il rombo centrale proprio del simbolo coincida di fatto con
Inguz, che a suo modo delinea la metafisica del figliolo divino , dell’Horus nato dalle
84

nozze sacre o “chimiche”. Questo ruolo nella mitologia nordica è assunto da Yngwie,
o Frey, che corrisponde a Pan, il “Dio tutto” delle religioni classiche85. Inguz è dunque
“uovo del mondo”, ricettacolo in cui sono racchiusi tutti i germi della manifestazione.
Ciò rende in effetti Inguz ideale mediazione tra alpha e omega, tra il Principio e la sua
attuazione terrena, tra il “divino nulla” di Kether e il regno manifestato di Malkuth86.
Per dirla in termini runici, Inguz si pone come incontro definitivo tra l’essenza vibratile
di Ansuz e la manifestazione visibile di Othila , rispettivamente rune numero 4 e
23 del Futhark antico. Avremo modo di tornare su questo rapporto in un capitolo
dedicato, basti per ora specificare come Ansuz coincida con l’önd, il respiro che Odino
emana attraverso la sua lancia (“wand”87), il soffio vitale che procede dall’essenza
metafisica; Othila di questo respiro rappresenta invece la materializzazione inferiore,
l’omphalos riconoscibile che sanziona la “casa di Dio” sulla Terra. E’ del resto
evidente, anche a livello etimologico, l’accordanza tra Othila e Beith-El; il cerchio di

che Dagaz consente un’ “uscita dal ciclo” che con Othila sarebbe sostanzialmente impossibile. Ora
capiremo il perché.
83
Si tratta della 14 a p. 23 e della 6 a p. 40.
84
Ing nella onomastica germanica e nordica significa del resto “figlio di”. Si pensi ai casi di Ingmar,
Ingeborg, Ingrid, tutti nomi derivati da questa radice.
85
Una figura che sarebbe appunto il caso di spiegare, al di là delle volgarizzazioni successive, come
rappresentazione dell’unione tra il principio attivo, Purusha, e quello passivo, Prakriti. E in effetti
Inguz è interpretabile anche come la chiusura di due Kenaz, ossia come fusione di un fuoco
“superiore” e di un fuoco “inferiore”. La compenetrazione di due Kenaz in Inguz è evidente anche
nell’altra versione con cui si è soliti rappresentare la ventiduesima runa. Inguz, in quanto uovo
del mondo, è dunque unione del “maschile” e del “femminile”, delle fasi ascensionali e discensionali,
rispettivamente dello yang e dello yin.
86
Sulle Sephirot oltre a Guénon, Il Re del Mondo, p. 63, si rimanda anche a Gershom Scholem, La
Cabala, Edizioni Mediterranee, Roma, 1982.
87
Da cui “wanderer” appunto, “avventuriero dello spirito”, proprio in virtù della sua “wand”, la
“lancia”, che chiaramente, in quanto simbolo assiale, riproduce un processo di riavvicinamento al
Centro immobile. Odino, portando in giro la sua lancia, diffonde il soffio di Dio e lo rende fruibile in
una zona terrena, rappresentata appunto dal cerchio di Othila, in questo caso “alter ego femminile”
proprio dell’asta virile.
20
Othila focalizza proprio la fondazione del tempio, porzione del suolo che è riflesso
diretto, più o meno potente, di un polo trascendente identificato in questo caso dal
“sussurrare” di Ansuz88. Inguz è, sempre rimanendo in tale prospettiva, il risultato del
principio attivo di Ansuz (Purusha) che ha fecondato la materia passiva e “terragna”

di Othila (Prakriti). E, tornando a quanto accennato sul simbolo , è parimenti la


zona ideale tra Cielo e Terra, immagine del Re del Mondo, colui che è “invariabile
mezzo” fra le regioni dello spirito e quelle del corpo.
E tuttavia Dagaz inghiotte questa compartecipazione, annullando la manifestazione
di Inguz e trasformando in “ostinatamente binarie” quelle attribuzioni trinitarie che
abbiamo visto essere presenti anche in Odino, inteso quale perno di ordine e di
conservazione dell’architettura universale, e che chiaramente afferiscono il ruolo
prestabilito del Melki-Tsedeq e del Cristo89. Dagaz , di contro, è “super-sintesi” di

, “accozzare violento” di alpha e omega, di inizio e fine, senza più nessuna


“chance” di mediazione; occultamento dunque anche della terza faccia di Giano, che
lascia sul campo gli opposti di Janua Coeli e di Janua Inferni (è evidente nel simbolo),
perché ogni verosimile transizione è venuta a mancare. Ovvero Dagaz toglie di mezzo,
o meglio “dal mezzo”, un potere che prima di allora “tratteneva”, impedendo un simile
esito che si risolve invece nella libera contesa di forze definitivamente opposte. In
termini molto simili, pur essendo distanti gli ambiti e la specifica valenza di quanto
“viene tolto di mezzo”, si esprime Massimo Cacciari nel suo recente saggio, intitolato
appunto Il potere che frena90.
E difatti il giorno di Ragnarök è descritto come il reciproco annullamento tra le energie
della creazione e quelle della distruzione, o meglio, visto il graduale impoverimento
che ha subìto la manifestazione cosmica, tra le forze della resistenza e quelle della

88
La caduta della pietra sacra, del “betile”, è assolutamente simmetrica alla discesa di questo soffio
che vivifica la materia inerte del mondo “finito”.
89
Ci riferiamo, come sottolineato precedentemente, a Odino in quanto tale, in quanto vili e in quanto
vé, in quella attribuzione trinitaria che avvicina l’Allfödr al più antico Melki-Tsedeq.
90
Cfr. Massimo Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano, 2013. Si tratta peraltro di un testo
uscito nel giro di pochi mesi con un’edizione allargata e rivista: evidentemente all’autore la materia
pare urgente e particolarmente attuale. Non è questa la sede per trattare di teologia politica, che è
l’ambito del saggio in questione, ciò non toglie che il sunto di tali giudizi, su un piano simbolico,
riguardi anche l’essenza di Dagaz, che rappresenta quel rapido volgere degli eventi che proprio
Cacciari sintetizza così: “(…) un’altra potenza sembra operare nello spasmo di questo tempo ultimo,
sulla cui durata è vano congetturare – una potenza che raffrena l’apocalisse, il disvelarsi perfetto
dell’Empio. Ma quando colui che la incarna sarà tolto di mezzo, allora, nulla restando fra l’Avversario
e il Signore Gesù, verrà finalmente quest’ultimo a condannare tutti coloro che non hanno creduto alla
sua verità”, cit. p. 13. In un altro punto del saggio Cacciari scrive: “Ogni medietas è destinata a
crollare nell’ora apocalittica”, ivi, cit. p. 60. Questa medietas non viene necessariamente intesa nel
senso del Melki-Tsedeq per come ne abbiamo parlato fino ad ora, ma di tutti quegli aspetti di katechon,
di poteri dunque che “trattengono”, siano essi manifestazioni dell’Impero politico, della Chiesa
militante o perfino dell’Empio in nuce. In ogni caso qui è interessante anche il riferimento all’ “ora
apocalittica”, manifestandosi appunto Dagaz in una manciata di ore, 24 per la precisione.
21
dissoluzione, del ghiaccio e del fuoco, come preminente appunto nella concezione di
questa specifica mitologia. Odino viene inghiottito dal lupo Fenrir e vendicato da suo
figlio Vidar, che in questo senso è Odino stesso, e analogamente gli altri rappresentanti
di questo duplice ordine di cose si danno reciproca consunzione91.
Il grande medium, rappresentato appunto da Inguz, che di tale ambivalenza di forze è
summa, viene meno e per un attimo la ruota cosmica, qui giunta al suo estremo
rintocco, si ferma. Trattasi di quel cruciale capovolgimento che segna il passaggio da
un’era all’altra. Si coglie del resto, sempre nelle simmetrie di Dagaz ,
l’assottigliamento a imbuto di una fase per consentire l’emergere di una nuova
“stagione” che si riapre proprio dal punto in cui quella precedente era terminata; da
notare, peraltro, come il simbolo possa essere “letto” sia da sinistra che da destra,
scavalcando le problematiche specifiche di “circumambulazione” rituale in dote alle
singole tradizioni, questione che avremo modo di riprendere più avanti riguardo ai
significati della runa Raido92.
Tutte queste immagini rendono perfettamente la necessità del solo e unico possibile
raddrizzamento per come l’ha affrontato Guénon nell’introduzione al suo Regno della
Quantità e i Segni dei Tempi: “(…) ma poiché tale <<raddrizzamento>> presuppone
che si sia giunti al punto d’arresto in cui la <<discesa>> è interamente compiuta, e in
cui <<la ruota cessa di girare>> (almeno in quell’istante che segna il passaggio da un
ciclo ad un altro), bisogna concludere che, fin quando questo punto non sarà
effettivamente raggiunto, queste cose non potranno essere comprese dalla maggioranza

91
Thor abbatte il serpente Jörmungandr, ma soccombe per il suo veleno. Heimdall, protettore del
Bifröst, sconfigge Loki, ma viene ferito fatalmente dallo stesso. Analogamente Frey e Surtr si danno
morte reciproca, e così via. Da un punto di vista iniziatico questo superamento, per annullamento, di
forze “complementari e opposte” rappresenta il raggiungimento del terzo occhio, inteso come
suprema sintesi delle qualità ambivalenti di partenza. Dagaz annuncia dunque, all’occorrenza, anche
una nuova era dello “spirito individuale”, favorendo l’unificazione delle qualità trine del singolo
(corpo, anima, spirito): sono aspetti che avremo modo di approfondire, mentre di Dagaz, in questa
sede, stiamo analizzando soprattutto le valenze cicliche.
92
In questa doppiezza di direzione, Dagaz è una sorta di clessidra posta in orizzontale. In effetti con
il compimento di Dagaz viene a mancare ogni sicurezza di conservazione di un qualsiasi status quo.
Tale valore è tanto più lampante nel momento in cui si legga Dagaz quale opposizione dei due

triangoli, inferiore e superiore, che determinano la figura di Inguz . Ciò che nell’uovo cosmico è
complementare, con la fine di una manifestazione diventa inconciliabile. Lo stesso Mercurio, secondo
una sintomatica immagine simbolica (si veda in proposito la nota 9 a p. 49 in La Grande Triade),
proprio attraverso la sua bacchetta (simbolo assiale), ricompone due serpenti che stanno litigando:
questo riordinamento “consente” la manifestazione facendola procedere dal caos. Dagaz, d’altro
canto, porta alle estreme conseguenze il litigio dei due serpenti, in vista proprio di una nuova
“processione dal caos”. L’opposizione di vita e morte in Dagaz è presente anche nel simbolo
dell’ascia bipenne che di fatto nella sua parte superiore coincide con Dagaz. Ascia bipenne che
peraltro riprende il doppio significato del vajra, la pietra fulmine che da una parte accorda la vita e,
dall’altra, la distruzione, a seconda della direzione, celeste o terrena, che intraprende nel suo atto,
ambivalenza che peraltro coincide sempre con la co-abitazione delle due differenti porte solstiziali,
che tuttavia in Dagaz non conoscono più la necessaria mediazione di Jera, giungendo perciò al
reciproco schianto.
22
della gente, ma soltanto dall’esiguo numero di coloro che saranno destinati, in una
misura o in un’altra, a preparare i germi del ciclo futuro”93.
La discesa di un triangolo di Dagaz è dunque totalmente funzionale all’accrescimento
dell’altro, congiuntura che segna davvero l’inizio dell’età successiva, per quanto ci
riguarda il ritorno del Krita-Yuga/ Satya-Yuga o analoga “età dell’oro”. Come Guénon
lascia ampiamente intendere nei capitoli conclusivi della sua opera più significativa a
riguardo94, ogni tentativo di creare un nuovo presunto centro spirituale prima di questa
fine, ovvero nei tempi del Kaly-Yuga, va letto come un’impostura, cioè come l’estremo
capovolgimento del polo primordiale e della sua dottrina95. Questa prospettiva
corrisponde del resto, ancora una volta, al decrescere definitivo di un triangolo di
Dagaz, e in pratica alla sostituzione contro-iniziatica della Janua Coeli con la Janua
Inferni96. Ciò presuppone di fatto la realizzazione del ciclo di Jera che, oltre a
rappresentare l’anno solare, é davvero accostabile al “grande anno” che Guénon,
riferendolo ai Greci e ai Persiani, quantifica tra i 12.000 e i 13.000 anni di durata;
“grande anno” che illustrerebbe l’intervallo temporale che intercorre tra due
rinnovamenti del mondo97, ossia una cifra che in qualche modo riporta sempre al 12 di
Jera. Dagaz, sotto questi riguardi, è dunque contemporaneamente l’opposto e il
compimento di Jera, situazione che peraltro viene a coincidere nel momento in cui la
ruota cessa di girare e attua il suo raddrizzamento.
Ma cosa accade prima di questo estremo cambio di rotta? Othila98, essendo la runa che
precede Dagaz, stabilisce un approdo, di qualunque entità esso sia, prima che la ruota
volga verso un nuovo ciclo. Othila è dunque l’estrema quiete prima della tempesta,
l’ultima solidificazione prima della dissoluzione finale. Othila è anche, beninteso in un
ciclo qualitativamente più alto, l’“ultima Thule” (Othila, Tula, Tulé, l’analogia è
evidente), ossia un omphalos che è manifestazione più o meno diretta del Centro delle
origini. “Othila” ad esempio è Atlantide, sebbene più antica di essa sia la Thule degli
Iperborei, che Guénon colloca a Nord, in quella che è considerata la provenienza
autentica della vera Tradizione99.
Tuttavia il presente Manvantara, come naturale nell’andamento ciclico delle ere, si
concluderà con il punto più basso dell’attuale Kaly-Yuga. E’ dunque lecito presumere
che la Othila dei nostri tempi, runa normalmente identificante una “sopravvivenza” del
germe primordiale, funzioni in questo caso nelle vesti di “anti-Othila”, ossia quale

93
Cfr. Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, cit. p. 13.
94
Ivi; si vedano soprattutto i capitoli 36-40, pp. 237 - 270.
95
Tracce di questo genere sono evidenti anche nel fatto che il leone è emblema sia del Cristo che
dell’Anticristo, tanto è vero che la cifra 666, che identifica proprio la Bestia, è anche numero solare.
96
Cfr. Il Re del Mondo, nota 8, pp. 103-104.
97
Per la precisione, 12.960; su questo genere di ragionamenti rimandiamo al primo capitolo di Forme
tradizionali e cicli cosmici, p. 19 e sgg. e al testo L’esoterismo di Dante, p. 86.
98
E’ bene precisare come il significato che attribuiremo a Othila in questi paragrafi riguardi
soprattutto il suo valore ciclico e il senso della sua posizione all’interno del Futhark antico. Questo
trattamento non smentisce alcuni significati della stessa Othila, bensì li relativizza all’interno di
un’indagine che in questo capitolo, e non solo, ha inteso prendere le rune come tasselli di un unico
corpo e quindi con una precisa funzione esoterica.
99
Cfr. Il Re del Mondo, pp. 95-96, dove appunto la Tula iperborea viene distinta da quella atlantidea.
23
capovolgimento della casa di Dio, del Beith-El di Giacobbe. Proprio Guénon, in Il Re
del Mondo100, cita l’inversione di Beith-El in Babel, da cui Babilonia, regno dominato
dalla menzogna, antipasto fraudolento della rivelazione; peggior inversione prima del
raddrizzamento101. Solo una falsa Othila, una Othila capovolta, potrà dunque
annunciare il baratro definitivo del presente Manvantara e consentire finalmente il
ritorno del vero Chakravartî, colui che fa girare la ruota senza parteciparvi102. Essendo
Othila runa di centro e di inquadramento, ma anche di estrema solidificazione e
accumulo, vi è da credere che la Othila del Kaly-Yuga non possa che proporre un
“ingolfamento” condotto alle estreme conseguenze, dato dalla sostituzione di ogni
principio vivificante con la materia contro-iniziatica. Non si tratterà in questo caso del
vé odinico, o di qualsiasi altro soffio “proveni-ente” dall’Ente supremo (da cui appunto
solo può provenire un’illuminazione di tipo superiore), bensì di una forza psichica
infinitamente più bassa. Teniamo presente che la Inguz “sbranata da Dagaz” , in

quella corrispondenza che abbiamo stabilito con il simbolo , è compresa proprio


nella parte superiore di Othila , a ulteriore conferma di come, normalmente, “la casa
di Dio in Terra” sia diretto riflesso del germe dell’intera manifestazione, in accordo
reciproco con l’asse cosmico. Questo in termini generali, mentre se affrontiamo il
decadimento che le stesse rune hanno subìto nel corso dei secoli approdiamo a
conclusioni diametralmente opposte. Proprio Inguz, peraltro da alcuni studiosi delle

100
Ivi, p. 104.
101
Ovviamente tra le fonti di Guénon c’è l’Apocalisse di Giovanni. Peraltro, sempre da questo genere
di capovolgimento, deriva Babele, di cui la torre e le innumerevoli lingue rappresentano il sintomo di
un falso protendersi verso Dio, dunque di un transitorio trionfo delle forze del caos e dell’eversione.
102
Nella nota 82 avevamo alluso alle teorie che pongono Othila come runa conclusiva del Futhark
antico. Ciò smentirebbe la chirurgica simmetria che vige tra Jera e Dagaz, e sancirebbe l’approdo
immutabile di qualsivoglia ciclo, il che è impossibile dato che è nella natura delle rotazioni cosmiche
che ogni fase, una volta giunta allo stadio terminale, conosca un ribaltamento, rappresentato in questo
caso da Dagaz, che è comprensibilmente quel Ragnarök che irrompe sullo status quo di Othila. Se
anche ammettessimo che Othila sia il ritorno al Centro primordiale dopo il ribaltamento di Dagaz,
che è presupposto di alcuni studi runici, cadrebbe tuttavia il significato di “nuovo inizio”
rappresentato dalla prima runa Fehu, il fuoco primigenio, che in questo senso è decisamente più
coerente con le istanze corrosive di Dagaz, nonché sua diretta emanazione. Essendo Othila runa di
profonda circoscrizione, ogni approdo spirituale, persino il più alto, dovrebbe dunque dirsi definitivo,
affermazione che smentirebbe l’infinità delle possibilità dei piani divini e la conseguente dinamicità
delle fasi cicliche. Una simile affermazione non regge anche quando la si analizzi da un punto di vista
ermetico, essendo ogni dissoluzione legata a una coagulazione, e viceversa. Dagaz rappresenta
un’estrema dissoluzione che è in diretto rapporto con la coagulazione precedente, Othila appunto, e
quella che la segue, Fehu, che di fatto rappresenta il nuovo germe del “manifestato” che esce dalla
combustione feroce di Dagaz. E’ insomma impossibile ammettere che un ciclo si concluda senza
subire quella dissoluzione che la riconduca per un attimo negli ambiti del “non-manifestato”. Sul
rapporto necessario che vige tra solve e coagula, tra “dissipazione” e “condensazione”, si rimanda
alle osservazioni di Guénon in La Grande Triade, p. 55 e sgg.
24
rune che evidentemente sottovalutano il problema e lo danno oramai per assodato103,
viene descritta quale varco astrale, ossia come porta capace di immettere al più in quella
dimensione sottile che rappresenta il vertice della metafisica contraffatta di un mondo
che ha tagliato i ponti con il piano superiore, e che Guénon invita a non equivocare, da
“psichismo” che è, in “spirituale”104. Othila del resto, nella sua figura , ricorda la
cruna dell’ago di cui parla sempre Guénon in Simboli della Scienza sacra,
identificandola come porta solare105, quale accesso davvero esclusivo, pertugio che
sintetizza la qualificazione necessaria a colui che voglia realmente indagare i “grandi
misteri”106; pietra insomma angolare che conclude un tragitto di risalita. Si tratta di una
annotazione legittimata anche da una delle poche immagini che costellano le
pubblicazioni attuali di Guénon: proprio nel capitolo dedicato alla “pietra angolare” in
Simboli della Scienza sacra vi è il riferimento a un’illustrazione tratta dallo Speculum
Humanae Salvationis107, che mostra due muratori nell’intento di depositare un caput
anguli che ha giustappunto la forma romboidale di Inguz108. Quest’ultima è del resto
proprio la chiave di volta di Othila, ossia una runa che riassume e sanziona, per le sue
accordanze col “betile”, certe attribuzioni dell’architettura sacra.
La specifica valenza di Othila è data anche dal fatto che essa è composta da due
rune Sowulo , “runa del Brahâtmâ”, ossia di un movimento perfetto attorno allo
swastika, che del resto proprio dall’intreccio di due Sowulo è formato. Lo stesso
avviene con Othila: in essa, a sinistra per chi guarda, vi è una Sowulo ascendente, che
identifica appunto il polo immutabile; mentre quella di destra è una Sowulo
discendente, che coincide con lo specchio terrestre del non manifestato. È chiaro che
se Othila viene capovolta si attua una totale inversione di questo rapporto ed è questa
del resto l’essenza del Kaly-Yuga giunto allo stato terminale.

103
La dimensione “sottile” è così legata al corpo e alle sue vicende, da non poter in nessun modo
essere confusa con una vera attività spirituale, che proprio nel distacco dal corpo, e dalle sue
limitazioni, attua il suo percorso di risalita.
104
Cfr. Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, con riferimento al rispettivo capitolo, “La
confusione tra psichico e spirituale”, p. 231 e sgg.
105
“Come abbiamo detto in precedenza, una delle rappresentazioni del simbolo della ‘porta stretta’ è
la <<cruna dell’ago>> (…). L’espressione inglese needle’s eye, letteralmente <<occhio dell’ago>>,
è particolarmente significativa al riguardo, poiché lega più direttamente questo simbolo ad alcuni suoi
equivalenti, quale l’ ‘occhio’ della cupola nel simbolismo architettonico: si tratta di raffigurazioni
diverse della ‘porta solare>’, designata anche come ‘Occhio del Mondo’ ”. Cfr. Simboli della Scienza
sacra, cit. p. 294.
106
Origine della parola “mistero” che qui assume un valore tanto più significativo. Guénon la fa
ricavare direttamente dal “tacere” e dall’ “essere silenziosi”, condizione originariamente di ciò che è
inesprimibile e che dunque riguarda le più alte ragioni dello spirito. Anche la parola “mito” va
ricondotta a ciò che è “muto”, che cioè non si può rivelare, e che quindi trova manifestazioni
analogiche di rappresentazione. Cfr. Gli stati molteplici dell’essere, p. 45, nota 1.
107
Che è un trattato, anonimo e illustrato, di teologia, attribuito al periodo tardo medievale.
108
Cfr. Simboli della Scienza sacra, pp. 245 e 246. Questa immagine può evocare anche quella del
diamante “sgrezzato”, spesso citato come termine indicativo negli ambiti ermetici. Sono paralleli che
avremo modo d’indagare nell’ultimo capitolo, qui presente in appendice.
25
In una Othila dritta proprio il suo essere chiusa da due Sowulo qualifica del resto la
condizione della realtà visibile, rivolta da una parte verso la luce superiore e dall’altra
verso il suo riflesso più basso, un “cordone sanitario” che da entrambi i lati garantisce
e fortifica109; chiaramente la solidità di queste mura è direttamente proporzionale alla
fase ciclica che si sta verificando110.
A maggior ragione dopo queste osservazioni, l’anti-Othila attuale deve rappresentare
una pietra angolare posta al contrario, ossia il vertice di una piramide inversa -lo si nota
proprio capovolgendo Othila ; una porta “solare” che è oramai al limite porta
“lunare”, quella condizione a cui è ridotta la stessa Inguz, che del resto di Othila è polo
centrale e superiore. Inguz, da sigillo macrocosmico che era, veicola attualmente il
regno dello psichismo inferiore111, che la fase odierna ha fatto assurgere a via superiore,
da camminamento infinitamente più basso che è, il tutto per “ignoranza” -nel senso che
se ne “ignora” davvero l’esistenza- delle vie ammesse dalla metafisica tradizionale. E
del resto sono molti coloro che possono varcare la porta astrale, mentre è ridotta e
significativa quell’élite che può attraversare con merito la porta solare di cui Othila,
attraverso il suo “needle’s eye”, è, almeno in teoria, diretta rappresentazione.
Ciò non preclude, tuttavia, anche degli altri ragionamenti su Othila rispetto alle fasi di
ciascun ciclo. Ribadiamo del resto come ogni Manvantara, qualunque sia la sua qualità
109
È da notare peraltro come la Sowulo discendente e la Sowulo ascendente che compongono Othila
corrispondano alle tracce circolari presenti nel simbolo della doppia spirale e ai due sensi di rotazione
dello swastika. Questi segni peraltro coincidono a loro volta con lo yin e lo yang, laddove il primo
rappresenta la manifestazione passiva che equivale alla Sowulo discendente, mentre lo yang riguarda
il polo attivo della manifestazione di cui la Sowulo ascendente è simbolo analogo. Le due Sowulo in
cui si scompone Othila di fatto riprendono l’integrazione tra Cielo e Terra, tra corso ascendente e
discendente della manifestazione, di cui la ventitreesima runa è appunto sintesi. È peraltro
interessante notare come le due Sowulo possano formare Othila così come intrecciarsi nello swastika.
Se consideriamo Sowulo come serpentina di energie ambivalenti, giungiamo anche alla conclusione
che due Sowulo sono in fondo i serpenti attorcigliati attorno al caduceo ermetico. E a loro volta questi
due serpenti concernono le fasi di Janua Coeli e Janua Inferni, che proprio attraverso il simbolismo
di Giano abbiamo riferito ai due mazzi di chiavi, dorato l’uno, argenteo l’altro. Diventa quindi tanto
più significativo che una versione alternativa dello swastika, il cosiddetto “Swastika clavigero”, sia
costituito da quattro chiavi intrecciate. Lo stesso Guénon riporta del simbolismo, più raro, di uno
Janus Quadrifrons, che di fatto, oltre alle porte solstiziali, accorpa anche quelle equinoziali. Su tutti
questi significati si rimanda in particolare al capitolo V e VI di La Grande Triade, pp. 46-64.
110
Così al sole spirituale corrisponde del resto quel sole fisico che gli edifici sacri, gli edifici
propriamente di Othila, seguono nella loro orientazione. Sull’orientazione degli edifici sacri rispetto
ai movimenti del sole si rimanda alla già citata opera di Fulcanelli e ai riferimenti presenti nella
sezione di Simboli della Scienza sacra dedicata al “simbolismo costruttivo”, p. 221 e sgg.
111
Inguz, anche nella mitologia nordica e germanica, incarna del resto le qualità del regno di
Vanaheim e delle sue divinità, dette per l’appunto Vani, entità “lunari” e “figlie della Prakriti”,
laddove il sole del sé superiore investe gli Dèi di Asgard, gli Asi (dal sanscrito Asu, “potere vitale”),
quei dodici che sono emanazione diretta del principio attivo di Purusha. Va peraltro notato che anche
qui si tratta di interpolazioni successive che hanno reso solare ciò che originariamente era lunare, in
quanto gli Asura vedici rappresenterebbero, rispetto ai Dêva, forze di tipo discensionale, a conferma
di come appunto Odino sia una divinità della caduta che assume tratti olimpici nella sua risalita,
mentre il Tyr delle origini è imparentato ai Dêva celesti. Sull’opposizione tra Dêva e Asura si rimanda
sempre a La Grande Triade, p. 51 e sgg.
26
di fondo, segua un processo calante, peraltro sempre più rapido nelle sue fasi ultime,
come sottolineato da Guénon112. Othila è di fatto il punto più contratto e rigido di questa
discesa, e di essa anticipa la fine. Al contempo Othila è, e sarà sempre, perlomeno in
via del tutto generale, anche “un’ultima Thule”, incarnando, quanto meno, una sacca
liminale di resistenza e di concentrazione di determinate facoltà. Ciò rende Othila
l’estremo baluardo statico di una fase in cui le mura di Asgard non sono più rese
flessibili dalla qualificazione, rischiando pertanto di crollare a ogni sobbalzo, quando
in verità l’unica “soluzione”, in tutti i sensi, sarebbe una vampata capace di immettere
in una nuova era. Se non altro, proprio tra le linee di queste attribuzioni, troviamo la
prospettiva secondo cui la Othila dei nostri tempi può essere guardata da coloro che
sono persuasi di avere ereditato i barlumi di un senso superiore. Per costoro Othila sarà
ancora “un poco” dritta e agirà da selezionatore di quanto merita di accedere alla fase
successiva, uno strumento atto insomma a “separare il grano dalla pula” o il “grano dal
loglio”, a seconda dell’immagine che si preferisce evocare.
E’ quindi duplice, a seconda del punto di vista con cui si vive il fenomeno, il ruolo di
accumulazione compiuto da Othila, fermo restando che tali sono le sue prerogative,
qualunque sia il livello delle forze immesse. Nel caso s’intendano le energie più basse,
Othila giostra quale apice negativo, agendo propriamente da finto centro, come
camuffamento in cui la quantità equivoca la qualità della vera essenza metafisica113.
D’altro canto, l’Othila della presente fase, nelle sue residue valenze positive, può
servire a selezionare i “pochi ma buoni” che meritano di passare “oltre”, nella speranza
che le sue proprietà coagulanti consentano anche l’avvicinamento e la solidarietà (che
del resto sempre solidificazione è) delle parti migliori rimaste in atto. Trattasi del resto
di quell’“esiguo numero di coloro che saranno destinati, in una misura o in un’altra, a
preparare i germi del ciclo futuro” di cui dice Guénon114.
In ogni caso la sedimentazione di Othila e delle sue farraginose mura alla fine sarà
spazzata da un movimento repentino, quello di Dagaz. Dagaz, vale la pena di
ricordarlo, non è dunque casualmente la runa 24, proprio come ventiquattro sono le ore

112
Dice nello specifico Guénon della fine del ciclo attuale: “Quel che vogliamo dire è che, a seconda
delle diverse fasi del ciclo, serie di avvenimenti tra loro paragonabili non si compiono in durate
quantitativamente uguali; ciò appare soprattutto evidente quando si tratta di grandi cicli, d’ordine ad
un tempo cosmico e umano, ed uno degli esempi più notevoli si ritrova nella proporzione decrescente
delle durate rispettive dei quattro Yuga, il cui insieme forma il Manvantara. E’ proprio per questa
ragione che attualmente gli avvenimenti si svolgono ad una velocità che non trova riscontro nelle
epoche anteriori, velocità che va aumentando senza posa e continuerà ad aumentare fino alla fine del
ciclo; si tratta di una specie di progressiva <<contrazione>> della durata, il cui limite corrisponde al
<<punto di arresto>> al quale abbiamo fatto allusione altrove (…)”; Cfr. Il Regno della Quantità e i
Segni dei Tempi, cit. p. 46.
113
“Quantità” che, come spiega Guénon, è la matrice ideale sulla quale vengono naturalmente
costruite le logiche contro-iniziatiche. Cfr. Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, ancora con
riferimento ai capitoli citati alla nota 94.
114
Sempre Guénon in Simboli della Scienza sacra, l’omonimo capitolo 46 (p. 259 e sgg.), allude alla
necessità di “riunire ciò che è sparso”. Basti come accenno, tuttavia assolutamente coerente con il
discorso che stiamo facendo.
27
del giorno: “tag” e “day”, nomi di uso comune, derivano proprio da Dagaz intesa quale
giorno dell’apocalisse e del rientro della Gerusalemme celeste in Terra.
La stessa idea è presente in alcune immagini della Commedia: Dante discende
nell’ultimo girone infernale, nel punto di maggiore solidificazione dell’universo,
rappresentato dalle ghiacciate del Cocito, su cui s’impone l’inerme corpo di Lucifero
caduto, che di fatto rappresenta il capovolgimento dell’asse cosmico115. Risalendo
proprio lungo il tronco di Satana, egli raggiunge il punto in cui il cosmo/ruota si
raddrizza in direzione del Purgatorio, che di fatto è contiguo, ma in opposizione,
rispetto all’Inferno116. Sempre Guénon in questo simbolismo ha rinvenuto le fasi della
“Grande Opera”, ossia dell’estrema coagulazione -il ghiaccio del Cocito, appunto- e
del solve, il fuoco dell’ascensione, tanto è vero che Dante si alleggerisce di peso man
mano che si avvicina alle vette dell’Empireo117. Analogamente Othila rappresenta
l’estrema solidificazione dei ghiacci del Cocito, un rallentamento all’ennesima potenza
prima che Dagaz, che è viceversa l’accelerazione improvvisa, giunga con il suo turbine
di fuoco, nella mitologia nordica apportato dal demone Surtr, a rigenerare il mondo in
decomposizione. Una visione che è conforme alle più importanti tradizioni e che pone
Dagaz come quel falò cosmico che procede direttamente dall’accumulo di scorie
fermentate nel ghiaccio di Othila: sarebbe insomma impossibile l’azione purificatrice
di Dagaz se non ci fosse prima l’estrema solidificazione della runa che la precede118.
La dottrina runica insegna del resto come non sia possibile capovolgere Jera, come del
resto non è possibile farlo con Dagaz, mentre Othila può subire questo trattamento119:
un finto vertice, essendo il Kaly-Yuga un’epoca da leggere al contrario rispetto alla
Tradizione, è questa l’unica condizione per sancire la fine del presente ciclo. Soltanto
una contraffazione potrà annunciare il ritorno della verità autentica, proprio come
soltanto attraverso il Satana incavato nel punto più basso dell’universo Dante poteva
sperare di giungere alla reale reintegrazione del suo spirito. Ciò, in termini
macrocosmici, corrisponde al raddrizzamento della ruota dopo che essa avrà raggiunto

115
Questa immagine peraltro fa il paio con quella del gigante Aurgelmir, o Ymir, dalla cui carcassa
viene ricavata l’architettura di Midgard nella mitologia nordica. Sono aspetti sui quali torneremo in
riferimento alla runa Uruz e al valore dello “smembramento iniziatico”.
116
I coni dell’Inferno e del Purgatorio sono simboli complementari ai triangoli che compongono il
sigillo di Salomone e che corrispondono anche alla montagna e alla grotta, immagini che abbiamo
già menzionato. Di fatto l’Inferno rappresenta il triangolo capovolto, il cuore dell’uomo, la caverna
della caduta, il luz “grezzo” che deve raddrizzarsi per potersi ricongiungere con la montagna divina,
di cui evidentemente il Purgatorio dantesco rappresenta l’anticamera sulla via della risalita verso il
Paradiso. La runa Berkana, la numero 18, partecipa proprio a questa ambivalenza simbolica, che
avremo modo di chiarire più avanti.
117
Cfr. L’Esoterismo di Dante, p. 99 e sgg. Sull’argomento si rinvia anche allo studio di Bruno
Cerchio, L’Ermetismo di Dante, Edizioni Mediterranee, Roma, 1988.
118
Ecco perché la materializzazione del caos dovrà raggiungere prima il vertice massimo, diventando
fattore indifferenziato su più livelli, prima che si possa operare una dissoluzione salvifica. In virtù di
questo ragionamento si capisce ancora di più il valore del ghiaccio e del fuoco presso la concezione
dell’esoterismo nordico.
119
Le rune che non possono essere capovolte sono 9 e coincidono con i mondi della cosmogonia
nordica. Si tratta di Gebo, Hagalaz, Nauthiz, Isa, Jera, Eihwaz, Sowulo, Inguz e Dagaz.
28
il punto più basso della sua cavalcata120, un fenomeno al quale noi gradualmente stiamo
assistendo, al di là del tempo che occorrerà aspettare prima che una nuova era abbia
davvero inizio.

120
Proprio attraverso la runa Raido, il senso della cavalcata (“to ride”in inglese) e il senso della ruota
(“rad” in tedesco) comunicano le proporzioni del tragitto cosmico. Ci torneremo in un capitolo
dedicato.
29
Nauthiz e Jera, le “linee del drago”

Come ha sottolineato di recente il professore Carlo Maletti, in un interessante articolo


comparso sul suo blog121, i principali draghi/serpenti della mitologia norrena, Nidhöggr
e Jörmungandr, identificherebbero anche delle precise traiettorie geomantiche, note
appunto come “linee del drago” (“ley lines”). Tali linee circoscriverebbero quei bacini
in cui fino al 2012 si sono verificate con più frequenza le attività sismiche che hanno
colpito il nostro pianeta122.
Proprio Nidhöggr e Jörmungandr sono rappresentati da due rune poste quasi in
sequenza nel secondo aett del Futhark antico. Esse sono Nauthiz e Jera che, come è
evidente, condividono con i due serpenti le lettere iniziali; e non solo. Nidhöggr è infatti
il serpente attorcigliato alle radici dell’albero cosmico Yggdrasil, e ne mina la stabilità
(che è dunque stabilità dell’universo tutto) con un’attività incessante di erosione e
rosicchiamento. A questa funzione “sabotatrice” equivalgono i significati di Nauthiz
che si sviluppa appunto in altezza, lasciando intendere la verticalità dell’Yggdrasil,
tuttavia contemplando anche dei “disturbi”, ovvero una diagonale che propriamente
“taglia in due” la solidità di questo axis mundi. Ci torneremo tra breve, specificando le

analogie di questo simbolo con quello della croce123. Viceversa Jera è simbolo che
abbraccia, che “contiene girando attorno al suo contenuto”, come capita al serpente
Jörmungandr, che nella mitologia nordica è posizionato a cingere il cosmo intero124, il
che del resto accade anche in altre tradizioni125; inoltre è chiara la radice comune tanto
a Jera che a Jörmungandr.

121
http://www.professorcarlomaletti.it/loki-jormungandr-nidhoggrun-trattato-sulla-scienza-
geomantica-degli-antichi-popoli-germanici/.
122
Come ha modo di sottolineare Maletti in un modello grafico visitabile al link di cui sopra,
Nidhöggr avrebbe come sua area di competenza il cuore dell’Asia, il tutto secondo dinamiche che
corrono dall’Italia alla Cina, tramite la Turchia; e, viceversa, Jörmungandr estenderebbe il suo
dominio all’intera area del Pacifico, lambendone le coste. Se consideriamo che gli stessi dèi Asi hanno
chiara parentela con la parola “Asia”, intuiamo per quale ragione i popoli del Nord guardino così
intensamente verso Oriente.
123
Inevitabile il rimando allo studio di Guénon, Il Simbolismo della Croce, con particolare attenzione
al capitolo XXV, denominato appunto “L’Albero e il Serpente”, p. 189 e sgg.
124
Jörmungandr è noto del resto anche come “Midgard”, ossia il mondo dell’uomo in quanto “Terra
di mezzo”. Più in generale, Jera è la runa di Midgard, come ha fatto notare Freya Aswynn associando
le rune che non possono essere capovolte ai nove “luoghi cosmici” in cui si suddivide l’universo della
mitologia norrena. Cfr. Northern Mysteries & Magick, con riferimento allo schema di pagina 143.
125
Un’immagine evidente è ad esempio quella delle due teste “serpentine” che realizzano il simbolo
del Tao, con il bianco e il nero dello yang e dello yin. Del resto, anche in molti miti cosmogonici, il
serpente agisce quale artefice della creazione. L’uovo cosmico della tradizione celtica, noto come
Glain, è appunto fecondato da un mitico serpente originatore, che ha valenze propriamente telluriche,
il che rientra nei ragionamenti di questo capitolo. Sul simbolismo celtico si rinvia, tra i tanti, a Sabine
Heinz, I Simboli dei Celti – Il fascino magico di un popolo straordinario, Edizioni Il Punto d’Incontro,
Vicenza, 2000; sulla parte dedicata al simbolismo del serpente, p. 23 e sgg.

30
Nauthiz/Nidhöggr e Jera/Jörmungandr scandiscono dunque i due principali movimenti
cosmici, quelli di rottura e quelli di conservazione, rispettivamente in verticale e in
orizzontale, un’ambivalenza che, sotto altri piani, riguarda anche le attività telluriche,
che possono manifestarsi secondo moti ondulatori, orizzontali appunto, come
sussultori, ossia prevalentemente in verticale126. Jörmungandr nello specifico definisce
la stabilità fino a quando, nel giorno di Ragnarök, esso ascenderà alle vette di Asgard
per darsi morte reciproca con Thor. La minaccia di Jörmungandr si colloca pertanto
nell’ambito delle alte, altissime frequenze, mentre il basso profilo di Nidhöggr non ne
esclude tuttavia l’attività quotidiana, finanche a raggiungere picchi di rilevante
intensità. Grandi e piccole scosse, analogamente, caratterizzano il prodursi del ciclo
terrestre e in questa ottica i serpenti cosmici, e le rispettive rune, agiscono e fungono
come indicatori e misuratori; i moti di assestamento sono affare di Jörmungandr, che
però è anche il serpente che nel giorno del giudizio darà lo scossone definitivo; fino a
quel giorno Nidhöggr produrrà invece le azioni più significative, rappresentando una
minaccia costante, ma non ancora decisiva. Vediamo in che modo le rispettive rune
confermino tali impostazioni di massima.
Nauthiz sottintende il rosicare di Nidhöggr nelle profondità della manifestazione, ossia
secondo logiche che riguardano lo sviluppo spaziale; ciò conferma la limitatezza
dell’operato di Nidhöggr: la stessa condizione umana, almeno in principio, non
soggiace a dei limiti di spazio, almeno sulla terra, mentre è chiaramente schiava degli
indici di tempo. Quello runico è regolato da Jera, in quanto polo centrale dell’intero
Futhark, andando a coordinare gli opposti e l’interscambio/sovrapporsi delle ere:
analogamente Jörmungandr con le sue spire abbraccia dinamiche di accompagnamento
del tempo terrestre; tale presa è costante fino a quando il filo del cronometro non sarà
reciso dal Ragnarök.
Jera e Nauthiz ciò nonostante convivono, anzi il loro è un decorso assolutamente
naturale: quanto è regolato nel tempo, si evolve nello spazio, così come ciò che è
attraverso le stagioni si estrinseca negli ambiti fisici del manifestato. Ambiti che nella
mitologia norrena si formalizzano nei “nove mondi” posizionati lungo l’Yggdrasil su
cui Odino si capovolge per “nove notti e nove giorni”; come si nota, abbiamo lo stesso
numero a descrivere una condizione spaziale e una temporale, a conferma dell’intreccio
tra le prerogative di Nauthiz e quelle di Jera. L’esperienza di Odino, che coincide con
la rinuncia alle tenebre dell’ignoranza, è poi chiaramente comune alla postura
dell’appeso dei Tarocchi e si abbina facilmente a quanto abbiamo detto circa
l’avventurarsi di Dante e Virgilio sul “tronco” di Lucifero, per poi infine invertirsi e
transitare “oltre”. A tal proposito Nauthiz, in virtù della sua forma , produce
chiaramente un simbolo verticale, peraltro molto simile a quello della croce. I due segni
che s’intersecano in essa creano un ordito centrale che è nodo iniziatico127, nonché esito
della fusione tra le forze attive dello spazio verticale (macrocosmico) e le correnti

126
Chi scrive chiaramente non è un sismologo: questi superficiali riferimenti indicano tuttavia la
profondità d’osservazione della Scienza tradizionale. Poiché davvero di scienza si trattava: le
cognizioni geomantiche consentivano di prevedere e studiare i fenomeni tellurici.
127
Nauthiz dà del resto origine all’inglese “knot”, che appunto significa “nodo”.
31
passive di quello orizzontale (microcosmico); allo stesso modo il Cristo deve
“assaggiare” l’orizzontalità, ovvero la provvisorietà della condizione terrestre, prima
di ricongiungersi con la verticalità che riconduce al Principio. La morte è il nodo
centrale da sciogliere, il traguardo da tagliare: il decesso sulla croce collima con la
rinuncia alla profanità e a un livello di esistenza considerato inferiore128.
Similmente, Odino sull’Yggdrasil opera “in quanto Ygg”, ossia da uomo, facendo sì
che la cifra spaziale dei “nove mondi” e quella temporale delle “nove notti e dei nove
giorni” gli procurino l’occasione per transitare in direzione della vera conoscenza129.
Nauthiz, a tal riguardo, è la runa numero 10: un risultato che in questo caso specifico è
fornito dalla somma di quell’uno che è Ygg/Odino con il 9 dello spazio e del tempo
designati dall’Yggdrasil130. Nella runa Nauthiz si compie così l’incontro tra l’“uno” e
il resto della manifestazione. Cristo, secondo le medesime logiche, per tornare a essere
“uno” (identico con il Padre), deve attraversare il corso dell’intera “storia” ciclica, che
nella croce si esplica appunto nell’incontro tra asse verticale e piano orizzontale; la
croce, come del resto l’albero, è una sintesi del creato che il mystes deve caricare su di
sé sulla via della salvezza, gesto che effettivamente il Messia compie prima di essere
immolato.
Nidhöggr, in riferimento a tali ordalie, è peraltro anche il serpente/drago, equivalente
del Satana cristiano, che l’eroe deve affrontare sul suo cammino di redenzione e che
coincide con figure ricorrenti in questo genere di discorsi: si pensi al mito di Sigurðr e
all’Idra contro cui muovono Giasone e gli Argonauti; del resto, solo sconfiggendo la
vanità e la decadenza del suo “drago interiore”, l’eroe può accedere a un lignaggio
glorioso. E del resto medesima è la valenza di quella che in ermetismo viene detta lotta
contro il “serpente astrale”. Sono temi che ritroveremo in alcuni significati della runa
Uruz e nel capitolo qui presente in appendice.

128
Guénon, a proposito del simbolismo dei legami e dei nodi, si esprime non a caso in questi termini,
con riferimento particolare al cosiddetto filo del sûtrâtmâ “(…) il quale, tanto dal punto di vista
macrocosmico quanto dal punto di vista microcosmico, collega tutti gli stati d’esistenza fra di loro e
al Principio comune. […] Il tracciato di tale linea può anche essere più o meno complicato, il che di
solito corrisponde a modalità o ad applicazioni particolari del suo simbolismo generale: così, il filo o
il suo equivalente può ripiegarsi su se stesso in modo da formare intrecci o nodi; e nel complesso
della struttura ogni nodo rappresenta il punto in cui agiscono le forze determinanti la condensazione
e la coesione di un ‘aggregato’ che corrisponde a questo o quell’altro stato di manifestazione, di modo
che si potrebbe dire che è il nodo a mantenere l’essere nello stato considerato e che il suo scioglimento
provoca la morte immediata a tale stato; d’altronde ciò risulta espresso molto chiaramente dal termine
<<nodo vitale>>.” Cfr. Simboli della Scienza sacra, cit. p. 349.
129
Nauthiz rievoca quindi il mantra del “così in Cielo, così in Terra”, che è poi chiaramente identico
a quanto riportato nella Tabula Smaragdina: “così in alto, così in basso”. Nauthiz, in quanto croce e
nodo iniziatico, identifica l’incontro di questi due piani differenti; fermo restando che soltanto colui
che se ne assuma il sacrificio potrà ascendere alle conoscenze più elevate.
130
Ricordiamo che analogamente il viaggio di Dante nella Commedia si attua attraverso novantanove
cantiche più una introduttiva. Quell’introduzione riguarda appunto l’ “uno”, l’iniziato: mentre le
novantanove cantiche vanno intese quali livelli di espiazione ed elevazione. La somma finale del 100
della Commedia coincide peraltro con il 10 di Odino lungo i nodi di Nauthiz. Il 10, al quadrato o
meno, è sempre un ricongiungimento con l’Unità divina, un nuovo inizio per l’individuo rinato, il che
è chiaro anche a livello “matematico”, poiché levati gli zeri rimane soltanto l’1.
32
Non solo: il 10, nel simbolismo della circonferenza , rappresenta la somma del
punto centrale, che è l’ “Unità metafisica”, con il resto della circonferenza (il 9), che è
invece immagine della manifestazione131. Raggiungere quel Centro significa diventare
“Uomo trascendente o Universale”, ossia “essere realmente”, e pertanto realizzarsi
nell’identità con Dio132. Come è ovvio, la stessa croce regge perfettamente la struttura
della circonferenza: questo simbolo , che poi è confluito nella cosiddetta “croce
celtica”, era già presente come ruota solare nel Neolitico. Analogamente Nauthiz ,
“a tendere”, può essere delimitata da un cerchio, e del resto la cifra che la riguarda, il
10, assicura la sua aderenza a questo tipo di rappresentazioni.
Inoltre “s’impone” in Nauthiz anche la scansione del 4: come accade per la croce, essa
è intreccio dei quattro elementi, delle quattro stagioni e dei quattro punti cardinali,
mentre il suo centro coincide appunto con la “quintessenza”, che per trasposizione è il
cuore di Odino o di Cristo, a seconda dei casi. “Entrare in quel cuore”, simbolicamente,
significa avere stretto il vincolo iniziatico. Peraltro, come ha notato Guénon, il 10 e il
12 sono anche alla base dei sistemi di numerazione taoista: il 10 come proporzione
della circonferenza e il 12 come cifra del quadrato, benché questa interpretazione non
sia del tutto univoca, a conferma della sovrapposizione costante che si stabilisce tra i
numeri della Terra e quelli del Cielo133.
131
Scrive a tal proposito Guénon, trattando della lettera araba ed ebraica Nûn: “D’altra parte, la figura
circolare completa è abitualmente pure il simbolo del numero 10, dove 1 è il centro e 9 la
circonferenza (…).”; cfr. Simboli della Scienza sacra, cit. p. 144. Anche Matgioi (La Via metafisica,
p. 23) segnala come i sessantaquattro ideogrammi dell’Yijing (o I King) formino una circonferenza;
se consideriamo che 64 dà come risultato 10, non usciamo dai ragionamenti che stiamo facendo. Va
inoltre rilevato come il simbolo che per Matgioi incarna meglio i valori indefiniti del Principio
assoluto sia la linea retta infinita, che in effetti non soggiace alle limitazioni della circonferenza (ivi,
pp. 37 e 38). E ciò è del resto assolutamente sensato, dato che il 10 della “figura circolare completa”
va piuttosto riferito alla totalità della manifestazione in quanto derivata dal Principio centrale.
132
Questa è la definizione che offre Guénon dell’ “Uomo Universale”, distinguendolo dal “semplice
uomo vero”, ossia colui che abbia realizzato in sé tutte le possibilità previste dal nostro mondo,
ponendosi di fatto come sintesi della manifestazione: “Perciò è opportuno riservare la denominazione
di <<uomo trascendente>> a colui che talora è stato chiamato <<uomo divino>> o <<uomo
spirituale>> (cheun-jen), cioè a colui che, essendo pervenuto alla realizzazione totale e alla <<Identità
Suprema>>, propriamente parlando non è più uomo, nel senso individuale della parola, perché ha
superato l’umanità ed è totalmente libero dalle sue condizioni specifiche, come pure da tutte le altre
condizioni limitative di qualsiasi altro stato di esistenza. Costui è quindi diventato effettivamente
l’<<Uomo Universale>>, mentre non si può dire altrettanto dell’<<uomo vero>>, che di fatto si
identifica soltanto con l’<<uomo primordiale>>; tuttavia, possiamo affermare che questi è già almeno
virtualmente l’<<Uomo Universale>>, nel senso che, non avendo più da percorrere altri stati in modo
distintivo perché è passato dalla circonferenza al centro, per lui lo stato umano dovrà necessariamente
essere lo stato centrale dell’essere totale, anche se non lo è ancora in maniera effettiva”. Cfr. La
Grande Triade, cit. pp. 150-151.
133
Si rimanda in tal senso a quanto precisa Guénon; si sta chiaramente parlando del 10 e del 12: “Qui
peraltro si verifica un nuovo scambio, per il fatto che, in certi casi, il numero 10 viene attribuito al
Cielo e il numero 12 alla Terra, quasi a indicare una volta di più la loro interdipendenza rispetto alla
manifestazione o all’ordine cosmico propriamente detto, sotto la duplice forma delle relazioni spaziali
e temporali; non insisteremo ulteriormente su questo punto, che ci porterebbe troppo lontano dal
33
La cifra di Nauthiz, e della circonferenza, torna viepiù nella Tetraktys pitagorica, che
produce sempre il 10, secondo questa combinazione: 1+2+3+4. Possiamo allora dire
che i quattro spazi delimitati da Nauthiz e dalla croce coincidono con i differenti
passaggi di questa addizione. Guénon, in Simboli della Scienza sacra, riferisce del resto
la Tetraktys alla manifestazione universale che si riassume appunto “nel 4 che è 10”; il
che, detto altrimenti, potrebbe essere definito “quadratura del cerchio”, dal momento
che il 4 è indubbiamente misura del quadrato, ma che la sua stessa presenza nella
Tetraktys riconduce al 10 che, come abbiamo visto, è cifra della circonferenza. D’altro
canto, il senso della Tetraktys è propriamente di natura circolare: “l’uno che produce il
10” di fatto rappresenta il “ritorno all’Unità” attraverso la possibilità di tutti i numeri,
ossia di tutti gli aspetti della manifestazione134. Deduciamo come Nauthiz partecipi a
questo tipo di ragionamenti essendo delimitata appunto da quattro estremità, da quattro
passaggi analoghi a quelli della Tetraktys, e producendo quale somma il 10, che in
effetti è il suo numero, nonché cifra dell’unità che si esprime tramite il “tutto” della
circonferenza. Tornando alle tradizioni germaniche e nordiche, Nauthiz si offre infatti
come sigillo del cosiddetto “Need-Fire”135, un rito di purificazione collettiva che si
compiva attraverso il fuoco: il falò sacro, attorno al quale venivano fatti trascorrere
tutti i membri della comunità -per consentirne la rinascita/preservazione-, veniva
acceso da due “gemelli sacri”, noti come Alcis136; essi si servivano di due legnetti che
chiaramente coincidono con i segni che determinano la struttura della stessa Nauthiz.
A questo punto è interessante osservare nella sequenza del “Need-Fire” proprio la
riproduzione delle quattro fasi della Tetraktys. L’Alcis che appicca il fuoco nasce infatti
come individuo singolo (la cifra 1) - viene poi coinvolto nella “fusione binaria” con il
suo pari (la cifra 2), che produce appunto per attizzamento la fiamma del fuoco sacro,

nostro tema. Segnaleremo soltanto, come caso particolare di tale scambio, che nella tradizione cinese
i giorni vengono contati a periodi decimali e i mesi a periodi duodecimali; ora dieci giorni sono
<<dieci soli>>, e dodici mesi sono <<dodici lune>>; i numeri 10 e 12 sono perciò rispettivamente
messi in rapporto il primo con il Sole, che è yang o maschile, e corrisponde al Cielo, al fuoco e al
Sud, e il secondo con la Luna, che è yin o femminile, e corrisponde alla Terra, all’acqua e al Nord.”;
ivi, cit. p. 79, nota 11.

134
A proposito della tradizione taoista, si può sottolineare il significato di una formula del Tao-te-
King :“<<uno ha prodotto due, due ha prodotto tre, tre ha prodotto tutti i numeri>>, il che equivale
ancora a dire che tutta la manifestazione è come avvolta nel quaternario, o, inversamente, che esso
costituisce la base completa del suo sviluppo integrale”; cfr. Simboli della Scienza sacra, cit. p. 101.
Non a caso Guénon, in altra sede (Forme tradizionali e cicli cosmici, pp. 16-17), riferisce proprio la
Tetraktys, o meglio il suo inverso, alla ripartizione del Manvantara, laddove l’ “1” finale che ne
risulta equivale alla fase del Kaly-Yuga, mentre l’iniziale Krita-Yuga o Satya-Yuga ha valore “4”; la
totalità del 10 rappresenta invece l’intero Manvantara, di modo che le annotazioni su Nauthiz
assumono qui anche valore “temporale” oltre che “spaziale”; ma si tratta di una compenetrazione
naturale, propria della relazione tra Nauthiz e Jera, nesso che avremo modo di chiarire proprio nel
corso di questo capitolo.
135
A tal proposito Northern Mysteries & Magick (p. 48) e Secrets of Asgard (p. 64. e sgg.).
136
Connotazione sacerdotale che ovviamente partecipa ai significati di Algiz, e sui quali avremo
modo di tornare in un capitolo dedicato.
34
che di fatto è loro figlio (la cifra 3) - “figlio di purificazione e prosperità” di cui va per
inciso a beneficiare l’intero insieme della comunità (la cifra 4). Analogamente, dall’
“Unità metafisica” (l’1) derivano il principio attivo e passivo, Purusha e Prakriti (il 2),
che a loro volta “generano” il corso della manifestazione (il 3), matrice che a quel punto
si sviluppa “autonomamente” (il 4), garantendo lo sviluppo del ciclo137. Lo schema
chiaramente è valido anche a livello microcosmico: l’essere umano nasce come singolo
individuo (1); se si unisce a un compagno/a (2) può generare un figlio (3), da cui prende
avvio potenzialmente un ulteriore grado di produzione (4)138. La somma è sempre 10,
nell’equivalenza alla Tetraktys e a conferma dei ragionamenti sviluppati attorno a
Nauthiz e a tutti quei simboli che proprio nel 10 spiegano la totalità della
manifestazione. Il rito del “Need-Fire” aveva del resto lo scopo di preservare questo
ciclo e di propagarlo, stagionalmente, di anno in anno, a tutela della vita e della
sopravvivenza della comunità. Nel residuo di un cerimoniale edulcorato rinveniamo i
tratti di un insegnamento tradizionale, come del resto è naturale che sia.
Se Nauthiz e Nidhöggr rappresentano dunque lo spazio cosmico, con i suoi
sovvertimenti e le sue prove, Jera e Jörmungandr sono gli emblemi del crisma
stagionale che si ripete, proprio come auspicato dal “Need-Fire”: Jera, in quanto runa
numero 12, è a testimonianza della regolarità del calendario nonché garante di quegli
ordini che si instaurano sulla terra, attingendo da una fonte divina139. Come detto in

137
Tale immagine viene restituita nel Taoismo con due triangoli, uno superiore e uno inferiore aventi
la base in comune: questa unione va di fatto a formare il rombo, con appunto quattro estremità che
corrispondono alle altrettante fasi della Tetraktys. Nel capitolo precedente, abbiamo notato come
questa stessa immagine sia di fatto l’icona della runa Inguz , anche intesa come composizione

centrale e medietas del simbolo . Peraltro se i due triangoli vengono fatti compenetrare, invece
che adagiare sulla stessa base, otteniamo il sigillo di Salomone che, come è noto, indica le medesime
reciprocità tra Cielo e Terra.
138
Nell’esoterismo islamico invece i quattro livelli sono presentati in questo modo: “All’inizio dei
Rasâil Ikhwân Eç-Çafâ, i quattro termini del quaternario fondamentale sono così enumerati: 1° il
Principio, designato come El-Bârî, il <<Creatore>> (il che indica che non si tratta del Principio
supremo, ma solo dell’Essere, in quanto principio primo della manifestazione, che d’altronde è
effettivamente l’Unità metafisica); 2° lo Spirito universale; 3° l’Anima universale; 4° la Hylè
primordiale.”; cfr. Simboli della Scienza sacra cit. p. 99. Anche la tradizione ebraica riprende queste
fasi, che citiamo qui brevemente sulla scorta magico/ermetica del Kremmerz; la chiave illustrativa
sta nel Tetragrammaton, “cioè parola di quattro lettere che nasconde e non svela il nome secreto
dell’Iddio Universale.” Cfr. La Scienza dei Magi, volume primo, cit. p. 183. Le quattro lettere che
formano il Tetragrammaton sono ovviamente Jod – He – Vau – He, laddove Jod è “il principio attivo
di tutte le cose, fecondante”; He, “il principio recettore passivo (gutturale)”; Vau, “la fecondazione e
la generazione attive”; He, di nuovo, “il principio recettore passivo”; ivi, cit. pp. 184-185. E’ questa
per la precisione la quadruplice funzionalità dell’Ente nel suo dispiegamento universale, tanto che,
come annota appunto Kremmerz, la parola “ente” è composta di quattro lettere. Ne contiene invece
cinque la parola “mente”, ossia il corrispettivo umano dell’Ente, che infatti viene rappresentato
magicamente dalla stella a cinque punte. Ci torneremo sopra in occasione del capitolo dedicato a
Raido, la runa numero 5 per l’appunto.
139
Sulle valenze di Jera, e sulle ripetizioni cicliche, con profonde analogie con quello che è il
simbolismo di Giano, si rimanda a quanto trattato nel capitolo precedente.
35
precedenza, il 12 di Jera è fornito dalla moltiplicazione del 3 (cifra celeste e sferica)
con il 4 (cifra terrena e quadrata). Se dunque Nauthiz è “quadratura del cerchio” in
quanto 10, Jera lo è in quanto 12, solo che Nauthiz è tale negli ambiti di natura spaziale,
mentre la simmetria tra quadrato e cerchio in Jera si sviluppa secondo direttive
temporali, di era in era, o di “Jera in Jera” come abbiamo già avuto modo di sottolineare
nel primo capitolo140.
Consideriamo inoltre che all’interno del Futhark antico Nauthiz e Jera sono intervallate
da Isa , la runa numero 11. Isa è l’io dell’eroe che è “scampato” alle prove di Nauthiz,
e che finalmente può accedere ai “misteri del tempo”, alle “facce di Giano”, di cui è
custode Jera. Questo io eroico ha superato le insidie del drago Nidhöggr, conservandosi
integro, di ghiaccio, come del resto il nome di Isa suggerisce. Essendo Nauthiz runa di
fuoco, capiamo come la successiva Isa rappresenti di fatto un suo “residuo alchemico”,
di una materia distillata e pura sopravvissuta alle fiamme della consunzione. In effetti
in Isa l’uomo convive, oramai, con l’eroe: la numerologia ci viene ancora in supporto,
dal momento che Isa propone l’11 come cifra. Trattasi di un nuovo principio e di una
combinazione binaria, dati dall’ “1+1”, nel senso che, oltre alla natura umana, colui
che è approdato alla condizione di Isa porta dentro di sé, quanto meno in fieri, anche
le possibilità dell’immortale. Isa è dunque il riassunto di una “natura più un’altra
natura”: a ciò corrisponde l’11 che la denota e il 2 che ne è somma.
Una cifra pronta in dettaglio ad affrontare la simultaneità temporale contenuta nel 12
di Jera che, dopo averlo già spiegato nel capitolo precedente, riguarda il “grande anno”
dei Persiani e dei Greci, che lo quantificavano intorno a una durata di circa 12.960 anni.
Jera è dunque “jahr”, “year”, “piccolo anno”, ma anche ciclo ben più ampio: essa in
questo rievoca l’idea di mantello protettivo, adagiato sul creato come una soffice
coperta, eppure il veleno di Jörmungandr sarà fatale a Thor, contribuendo alla fine
sancita dal Ragnarök. Perché proprio Thor? Perché il dio del tuono è il protettore delle
messi e di quel giardino terrestre di cui è di fatto la “porta”; “door”, “tor”, si dice del
resto in inglese e in tedesco. Ma quello dell’ “essere porta” è propriamente anche il
valore di Jera nella sua relazione con Janua Coeli e Janua Inferni, gli ingressi annuali,
e ciclici, di Giano che abbiamo già discusso.
Jörmungandr agisce quindi come complice assoluto, ovvero quale unico credibile
oppositore: il miglior connivente della stabilità cosmica, proprio perché commisurato
alle strutture di Jera e all’azione garante del martello mjöllnir brandito da Thor, diventa
il nemico più efficace, poiché è “sull’ordine” che egli fonda il suo “disordine”. Anche
se in verità le sue origini tradiscono il caos che esso si porta in grembo: Jörmungandr
è infatti generato da Loki, dio del fuoco e dell’inganno; Loki a cui è del resto associato
il termine nordico che identifica la stregoneria, logr, così come “ogre”, nel moderno
inglese, è rimasto a indicare l’ “orco”, il grande spauracchio. E infatti, nel giorno fatale,
Jörmungandr irrompe sullo status quo, proprio come la stregoneria, che è forma di

140
Sui valori proprio del 10 e del 12, come sistemi di calcolo nella tradizione cinese, si rimanda alla
nota 133. In effetti il calcolo decimale riguarda una stima attuata nello spazio (si pensi anche alle
unità di misura del nostro sistema metrico), laddove il 12 è cifra del calendario e dell’annualità,
porzioni più propriamente legate allo scorrere del tempo.
36
manomissione “su bassa scala” del sistema naturale. Tuttavia, anche nella sua scalata
all’Asgard, Jörmungandr opera in conformità dell’iter ciclico, chiarendo il senso di
Loki come “male necessario”: le distruzioni alle quali contribuiscono queste forze
riottose sono in fondo ancora anelli di costruzione, dal momento che al Ragnarök
seguirà una nuova era, per di più qualitativamente migliore. Del resto se collochiamo,
come è inevitabile, la valenza del Ragnarök in una trasmissione secondaria rispetto alla
dottrina primordiale, ciò non toglie che questa versione della “fine dei tempi” debba
annunciare comunque il ritorno all’ “età dell’oro” per come tradizionalmente va intesa.
Si recuperino in tal senso le conclusioni del primo capitolo.
A completamento di questi ragionamenti, è interessante notare come all’interno del
Futhark antico la Jera di Jörmungandr evolva in Eihwaz, ossia la runa che conserva i
legami più acuti con l’ermetismo, accogliendo nelle sue geometrie il serpente
ascendente e quello discendente che ritroviamo nel caduceo di Mercurio, figura che
abbiamo accostato a Odino sotto molti aspetti. Le correnti attive e quelle passive dei
serpenti del caduceo possono del resto essere equiparate ancora una volta alla missione
di Jörmungandr e Nidhöggr, laddove il primo in Eihwaz scende dall’alto, secondo
dinamiche conservative, mentre il secondo, rosicchiando da sotto, incita al
cambiamento necessario; si può dunque ammettere che Eihwaz riassuma e normalizzi
le attività dei due draghi/serpenti di Nauthiz e Jera. In questo senso, Eihwaz è anche
proporzionale a Isa perché di fatto “l’eroe glaciale” -che ha resistito al fuoco
purificatore di Nauthiz, prima, e che ha abbracciato la stabilità di Jera, poi- è ora capace
di condursi tra spazio e tempo, in quella corrispondenza tra spirali inferiori e superiori
che è conforme a molte dottrine tradizionali. Eihwaz è peraltro la runa numero 13,
ponendo quindi l’1 (l’eroe) a contatto del 3 (la dimensione celeste); ma 13 produce
come somma il 4, che è invece quadrato terreno. Eihwaz prevede pertanto che il mystes
padroneggi entrambi gli ambiti, dacché egli ha superato le prove necessarie per arrivare
a questo grado del suo cammino.
Tornando a Jera: la runa di Jörmungandr, sotto i fuochi dell’apocalisse, diventa il suo
opposto, ossia Dagaz , il sigillo che porta in sé l’estrema opposizione di quegli
elementi che in Nauthiz, Jera e Eihwaz giostrano armonicamente o perlomeno
compenetrandosi. Ma è quando non può più compiersi l’accordo che irrompe il
disaccordo trasformativo. Ecco perché Dagaz, pur nella sua estrema e distruttiva carica,
rientra comunque in un disegno superiore. Il suo 24 è appunto quello delle ore di un
giorno, di un esito rapidissimo, che da un momento all’altro cambia la forma e la
sostanza di una macchina che procedeva da tempo. Se quindi la cifra del 24 è quella
esplosiva della rivoluzione, tra morte e rinascita, praticamente simultanee, Nauthiz e
Jera sono invece rune dell’ordine manifestato, “diversamente quadrature del cerchio”,
tra spazio e tempo ciclici. La somma dei loro valori numerici all’interno del Futhark
antico (10 e 12) è del resto il 22, proprio come le lettere dell’alfabeto ebraico141, ma

141
Basterà qui notare come il 10 di Nauthiz, dato appunto dall’incontro dei nove mondi con l’ “uno”
che li attraversa, corrisponda alla cifra delle Sephiroth. Se consideriamo che queste sono le
emanazioni del soffio divino, tra realtà fisica e metafisica, capiamo una volta di più la non casualità
della posizione di Nauthiz all’interno del Futhark antico e le valenze sottili della sua simbologia.
37
che per i discorsi che stiamo facendo è soprattutto addizione dei principali sistemi di
calcolo della tradizione taoista, il che lo abbiamo approfondito alla nota 133. Essendo
Nauthiz una quadratura del cerchio “spaziale” e Jera una quadratura del cerchio
“temporale”, la loro unione non può che realizzare quel 22 che è in fondo cifra di una
quadratura del cerchio “totale”, ossia contemporaneamente nel tempo e nello spazio, e
questo appare valido tanto nel sistema taoista quanto per l’intero Futhark germanico.
E’ un’osservazione che si motiva anche analizzando la struttura complessiva di
quest’ultimo: esso, come è noto, è costituito da ventiquattro simboli; tuttavia, se
escludiamo la prima e l’ultima runa, ci rimangono appunto ventidue segni. Ma perché
dovremmo produrre questa esclusione? Semplicemente perché la prima e l’ultima runa
di fatto non partecipano al corso della manifestazione. L’inaugurale Fehu, e la appena
citata Dagaz, sono “fuori dalla norma”, ovvero dal tempo e dallo spazio; esse sono agli
estremi del ciclo evolutivo, rappresentandone gli ingressi: la porta d’entrata (Fehu) e
quella d’uscita (Dagaz) sono d’altro canto caratterizzate dallo stesso fuoco, che trae
linfa dalla medesima origine. Ecco perché nel giorno di Ragnarök (Dagaz), il fuoco di
Surtr confluirà in quell’incendio che darà origine a una nuova era sotto gli auspici di
Fehu; è del resto chiara l’assonanza tra Fehu e “feuer”.
Le ventidue rune “rimanenti” sono in sostanza quelle che hanno a che fare con
l’evolversi temporale e spaziale della manifestazione. Tale ciclo inizia con la seconda
runa, Uruz, simbolo di forza controllata, dell’uomo che domina la bestia: prima
esigenza pratica di una civiltà che intenda sopravvivere in un territorio poco ospitale,
e in questo senso è chiaro come tutta la tradizione runica, pur nei rimandi alle
trasmissioni precedenti che anzi siamo qui a chiarire, fiorisca ed evolva in pieno Kaly-
Yuga. D’altro canto Othila, runa degli spazi sacri, esterni e interni, è quel rifugio
salvifico, quell’ “Ultima Thule” idealizzata sulla scorta proprio delle antecedenti
produzioni, che l’uomo cerca di raggiungere prima che sia “troppo tardi”. Tanto Uruz
che Othila indicano perlomeno una qualche stabilità, un “essere cerniera” che senza
dubbio non attiene Fehu e Dagaz.
Resta di fondo l’idea di un codice che al suo interno propone tregue ed evoluzioni, crisi
e rinascite, tutte altrettanto necessarie. Simboli di questo frammentario equilibrio, tra
scosse e ricomposizioni, ferite e rimarginazioni, sono Nauthiz e Jera, garanti dello
spazio e del tempo, pilastri della terra, “cifre del 22” che concernono il Futhark
conservativo e manifestato, laddove Fehu e Dagaz ne rappresentano gli antipodi
evolutivi, in nascita e in morte, in vitalità e in consunzione. Non sorprende che questi
stessi pilastri, come ha giustamente notato il professor Maletti, siano al contempo
capisaldi e piedi d’argilla del gigante terrestre. Ciò che sostiene il mondo, del resto, è
anche ciò che può sancirne la fine al momento opportuno: Jörmungandr e Nidhöggr
rientrano in questa logica. Ecco perché le stirpi nordiche (e non solo loro ovviamente)
erano così attente ai movimenti della terra e cercassero in qualche modo di esorcizzarli,
ed imbrigliarli, attraverso le funi strette della loro peculiare geomanzia.

38
Più in generale va notato come, secondo la tradizione cinese, sia detto “cammino del
Drago” quello che riporta l’uomo a contatto del Centro supremo142. Nauthiz e Jera, e
rispettivi draghi, rappresentano in definitiva anche le tappe fondamentali, ossia quella
temporale e spaziale, di questo percorso, scandendone i passaggi focali. Così
Jörmungandr e Nidhöggr diventano i compagni di viaggio, non solo del movimento
cosmico, ma anche del singolo preso nella sua strada di risalita verso la coscienza e la
liberazione integrali.

142
Scrive Matgioi a proposito degli I King: “Ci sono dunque tanti spartiti umani quanti sono gli
esagrammi, vale a dire sessantaquattro. Esaminiamo in dettaglio il <<passaggio del Drago>>
attraverso Qian, esagramma della Perfezione in sé. Non solo costituirà un esempio analogico, ottimo
da seguire per la spiegazione metafisica degli altri esagrammi, ma soprattutto è dal primo esagramma
che i magi e filosofi hanno tratto, in tutti i campi della saggezza umana, i loro princìpi fondamentali
e i loro migliori insegnamenti. Il Drago, <<intelligenza dalle modificazioni infinite, simbolo delle
trasformazioni della via razionale (Dao) dell’attività espressa da Qian>> (Yijing, cap. I par.8,
commento di Chengze), si posa sulla prima linea (linea inferiore e positiva, poiché essa è, come tutte
le altre linee dell’arcano, senza soluzione di continuità); essa rappresenta il punto di partenza
dell’inizio degli esseri. È il Drago nascosto.”; cfr. La Via metafisica, cit. p. 51. Si segnala, per
comprendere meglio il passo appena riportato, che Qian indica appunto la perfezione attiva. Qian è
la perfezione in sé del Principio, al di là delle rappresentazioni che ne fa l’uomo, che rientrano invece
nell’ambito della “perfezione passiva”, denominato Kun. Tornando al Drago: esso, nella tradizione
cinese, rappresenta la possibilità di elevarsi, di spiccare il volo, laddove il pesce è l’emblema della
retrocessione e della limitatezza, essendo costretto a rimanere in acqua. Il Drago nascosto è
comunque solo il primo passo di sei differenti livelli che condurranno il saggio, dalla contemplazione
all’azione. Ovvero: bisogna agire solo quando si è realmente pronti e consapevoli circa le proprie
capacità. L’apice è dunque incarnato dal Drago volante; scrive Matgioi: “l’uomo dotato occupa la
situazione superiore che gli conviene; giunto alle vette dell’intelligenza, guarda benevolmente al di
sotto di sé gli altri uomini dotati di virtù, per aiutarli grazie al proprio esempio e per associarli alla
propria potenza. Quando si è nella pienezza dei propri mezzi, bisogna agire.” (ivi, cit. p. 56). E’
sintomatico che Matgioi associ all’ “età dell’oro” questo stato di cose, lasciando tuttavia intendere
che esso è tutt’altro che definitivo, dal momento che al Drago volante segue quello planante,
emblema di colui che debba, al caso, ritrarre il proprio intervento, per non sbagliare eccedendo nelle
sue azioni, e questo perché “la bellezza infinita è difficile da conservare” (ibidem.).
39
Gebo e Wunjo e il monogramma di Cristo e Costantino

René Guénon in Simboli della Scienza sacra, tra i tanti segni, ripercorre anche le

143
attribuzioni del quatre de chiffre , marchio che è stato individuato sui lavori
dei tagliapietre, così come sulle opere di pittori di vetrate e arazzieri144. La relazione
tra il quaternario e la croce l’abbiamo investigata poc’anzi, a proposito della runa
Nauthiz: la stretta parentela tra il 4 e la croce, lo si nota bene, è allora tanto più evidente
nel quatre de chiffre, al punto che in corso di trattazione Guénon arriva ad associarlo
al monogramma di Cristo. Vediamo cosa dice Guénon a proposito di quest’ultimo:
“Abbiamo già spiegato come vadano distinti il monogramma semplice e quello detto
‘costantiniano’: il primo è composto da sei raggi opposti a due a due a partire da un
centro, cioè da tre diametri, uno verticale e gli altri due obliqui, e come ‘Monogramma
di Cristo’ lo si considera formato dall’unione delle due lettere greche I e X; il secondo,
che allo stesso modo unisce le due lettere X e P, ne deriva immediatamente grazie
all’aggiunta, sulla parte superiore del diametro verticale, di un ‘occhiello’ destinato a
trasformare la I in P, ma che ha anche altri significati, e si presenta del resto in parecchie
forme diverse. Ciò rende ancora meno sorprendente la sua sostituzione con il quatre
de chiffre, che è in definitiva solo una ulteriore variante”145.
Contrariamente a quanto scritto da Guénon, i due monogrammi sono oramai spesso
confusi, ma se ci atteniamo all’estratto appena riportato, è proprio il monogramma di

Costantino a interessarci per la contemporanea presenza della X e della P, che di


fatto sono equivalenti visive (non fonetiche146) delle rune Gebo e Wunjo , tanto
più che queste ultime sono collocate in sequenza all’interno del Futhark germanico,
nella settima e ottava posizione del primo aett. Se andassimo dunque a realizzare una
“bind rune”, ossia una runa legata, avvalendoci di Gebo e Wunjo, otterremmo un
simbolo molto simile proprio al monogramma di Costantino. Cerchiamo di capire le
possibili analogie anche a livello di significato, introducendo brevemente i concetti di
base delle due rune.

143
Quatre de chiffre che riproponiamo qui in una delle sue varianti. A tal proposito, si informa che il
simbolo in questione è stato riprodotto e licenziato in base ai termini delle licenze “Creative
Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo” e come tale è stato utilizzato, senza subire
alterazioni, nel rispetto delle condizioni ivi ammesse. La paternità dell’opera è da attribuirsi all’utente
Namitsu http://commons.wikimedia.org/wiki/File:GA_quatre.gif?uselang=it che tuttavia non è a
conoscenza dell’uso e del trattamento che la sua opera ha ricevuto in questa sede.
144
Cfr. Simboli della Scienza sacra. Nello specifico, si tratta del quatre de chiffre nel capitolo 67, p.
345 e sgg.

145
Ivi, cit. p. 347.
146
Dal momento che nel greco la X ha il suono chi e P quello di rho, mentre Gebo equivale alla lettera
G e Wunjo alla W, come le loro iniziali del resto indicano.
40
Gebo mette a confronto il triangolo della manifestazione inferiore con quello della
manifestazione superiore, che peraltro ritroviamo esattamente più sopra nella variante
del quatre de chiffre che abbiamo riportato: e in ogni caso tali immagini ricalcano il

sigillo di Salomone e il rombo che sintetizza la “Grande Triade” taoista . Basta


infatti trascinare a piacimento i “triangoli aperti” che costituiscono Gebo per ottenere
identità con questi due simboli. L’opposizione tra gli estremi presenti in Gebo è del
resto la stessa che riguarda i rami e le radici di un albero, a conferma della vicinanza
di Gebo ai valori dell’Yggdrasil citati trattando di Nauthiz, e che possono peraltro
essere estesi anche al vajra indù147.
Gebo, “volendo”, è inoltre formata da una serie di Kenaz , runa che consiste
chiaramente in un triangolo aperto. Kenaz è la numero 6, precedendo dunque Gebo:
non ne svisceriamo qui i valori, ma abbiamo già avuto modo di precisare nel primo
capitolo come Kenaz, nel suo essere calderone di fuoco, abbia attinenze con l’athanor
alchemico e covi nuova vita in quanto “Graal runico”. Gebo attiene pertanto,
conformemente ai significati generali che abbiamo attribuito al Futhark antico e alla
runa che le fa strada, l’iniziazione e il passaggio da una dimensione inferiore a una
dottrina superiore. Proprio il pertugio che segna l’incrocio di Gebo, quell’ingresso a
imbuto, è a conferma della “porta stretta” che l’iniziato deve oltrepassare nella
remissione dell’ignoranza e nel disvelamento della conoscenza.
È inoltre evidente che se “raddrizziamo” Gebo , facendola ruotare, otteniamo una
croce, tornando quindi a citare alcuni dei ragionamenti che abbiamo appena formulato
a proposito di Nauthiz e Jera, soprattutto nel loro essere, in qualche modo, “quadrature
del cerchio”. Proviamo ad esempio a considerare Gebo come estrema semplificazione
simbolica dell’“Uomo Vitruviano” di Leonardo che, si sa, è inserito
contemporaneamente nel cerchio e nel quadrato; dipende infatti soltanto dal punto di
vista che si prende in esame, ovvero quello terrestre o quello celeste. Gebo ,
analogamente, “sta bene” tanto nel cerchio quanto in una forma quadrangolare, ed è
letteralmente la runa di chi è “pronto a dare se stesso per se stesso”: in questa profonda
disponibilità è racchiuso il senso del verbo dare, “geben” o “given”, concetto dunque
ereditato dalla settima runa del Futhark antico. Gebo, presa nel cerchio, identifica
semmai la buona disposizione dell’iniziato nei confronti del Principio metafisico; Gebo
nel quadrilatero, viceversa, la sua capacità di tornare ad agire, dopo aver raggiunto una
147
Scrive a tal proposito Guénon: “In uno dei nostri studi precedenti in cui si è trattato del vajra,
avevamo già indicato questa somiglianza a proposito della triplicità che spesso si incontra nel
simbolismo ‘assiale’, per rappresentare sia l’asse stesso, che occupa naturalmente la posizione
centrale, sia le due correnti cosmiche di destra e di sinistra che lo accompagnano, triplicità di cui sono
un esempio certe raffigurazioni dell’ ‘Albero del Mondo’; facevamo notare che, <<in tal caso, la
doppia triplicità dei rami e delle radici richiama ancora più esattamente quella delle due estremità del
vajra>>, che, come è noto, sono a forma di tridente o trishûla”, ivi, cit. pag. 284. Una Gebo percorsa
da un asse centrale darebbe pertanto vita a un simbolo pressoché identico, e peraltro in Gebo
quell’asse è “come se ci fosse”. Il riferimento “alle correnti di destra e di sinistra” dell’estratto qui
sopra riportato evoca invece la struttura di Eihwaz , che appunto queste correnti le padroneggia,
facendo perno proprio sull’asse centrale.
41
pienezza superiore, nella manifestazione terrena. Ed è del resto tale la sintesi dei
concetti ermetici, allorché si parla di “volatilizzare il corpo” e “corporizzare lo
spirito”148.
In ogni caso, questa relazione tra Gebo e la circonferenza, e la disponibilità verso il suo
centro, spiega per quale motivo Gebo sia associata anche all’anello: quest’ultimo è
“gift” -vocabolo sempre legato a Gebo149- e in tali termini viene ad esempio inteso da
Boromir l’anello di Sauron durante le consultazioni di Gondor, prima che si formi la
“fellowship of the ring”150. Proprio l’anello, in età medievale soprattutto, era usato per
suggellare un’alleanza tra il signore e il suo servitore. Durante alcune cerimonie
d’investitura esso veniva inforcato con la spada, o comunque la consegna del “loyalty
ring” si alternava alla solenne benedizione con la lama. Questi simboli erano
assolutamente complementari, sovrapponendo un elemento virile (la spada) con uno
femminile (il foro dell’anello). Questo perché al subordinato si richiedeva una fedeltà
spassionata, di tipo femminile, oltre che una forza risoluta, se necessario violenta, di
chiara matrice maschile. Se la spada veicolava spirito di azione e fermezza, l’anello
soppesava il concetto di passività e obbedienza. E del resto Gebo identifica la
disponibilità del triangolo inferiore nei rispetti di quello superiore: infilare l’anello, per
“colui che serve veramente”, equivale a giurare lealtà eterna, “inforcando” un sentiero
di sacrificio e dedizione personale totalmente esclusiva. Un patto solido che,
perlomeno teoricamente, ancora l’anello pretende d’inculcare all’interno delle unioni
matrimoniali: l’anello chiama a un giuramento, a una promessa di fedeltà rigorosa; una

148
Presenta immagini di questo genere anche Guénon, ad esempio in occasione del suo La Grande
Triade: “Per questo gli alchimisti dicono frequentemente che <<la dissoluzione del corpo è la
fissazione dello spirito>> e vicerversa, dove spirito e corpo in definitiva non sono altro che l’aspetto
<<essenziale>> e l’aspetto <<sostanziale>> dell’essere; ciò può intendersi riferito all’alternanza delle
<<vite>> e delle <<morti>>, nel senso più generale di queste parole, dato che proprio questo
corrisponde alle <<condensazioni>> e alle <<dissipazioni>> della tradizione taoista, sicché,
potremmo dire, lo stato che è vita per il corpo è morte per lo spirito e viceversa; e questo è il motivo
per cui <<volatilizzare (o dissolvere) il fisso e fissare (o coagulare) il volatile>> oppure
<<spiritualizzare il corpo e corporizzare lo spirito>>, si dice anche <<trarre il vivo dal morto e il
morto dal vivo>>, che è poi anche un’espressione coranica”; cit. pp. 58-59.
149
Cfr. Secrets of Asgard, p. 51 e sgg.
150
Durante la consultazione di Rivendell, Boromir reclama l’anello magico come dono fatto agli
uomini liberi di Gondor: “Cosa c’impedisce di pensare che il Grande Anello sia venuto nelle nostre
mani per servirci proprio nell’ora del bisogno? (…). Che l’Anello sia la vostra arma, se ha tutti i poteri
che gli attribuite”. In verità l’anello in Tolkien rappresenta un patto con la via oscura, quindi di fatto
una contro-iniziazione. Cfr. J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Rusconi, Milano, 1977, cit. p.
337. Gebo in quanto “gift” ha del resto una doppia valenza: la sua X può essere tranquillamente
contenuta nella faccia tonda di una moneta, ma è proprio la moneta a veicolare oramai soltanto un
senso materiale dei concetti di avere e di possesso, allorché nelle origini la stessa moneta era
considerata uno strumento adatto a una trasmissione di significati superiori. E’ chiaro quanto Gebo
indichi un qualche genere di circolazione, spesso alla luce di un’attività che prepone, simultaneo o
meno, il dare e il ricevere. Naturalmente il tenore di questo dare e ricevere è proporzionale alla qualità
della fase che si sta vivendo. Ovvio il riferimento al capitolo che Guénon dedica all’argomento
all’interno di Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, “La degenerazione della moneta”, p. 107 e
sgg.
42
“via stretta”, appunto, avulsa da qualsivoglia tentazione e cedimento151. Per analogia,
il cammino dell’iniziato, di colui che si sia votato alla causa, presuppone gli stessi
vincoli di fedeltà e le medesime rinunce: questo è il significato di Gebo e della sua
croce. Una croce personale che l’iniziato sceglie volutamente di portare, e che non
viene pertanto “condizionata” e “plasmata” dagli eventi esterni e “universali”, come
può in qualche modo essere ritenuto a proposito di Nauthiz; ed è forse questa la più
netta differenza tra la croce di Gebo e quella di Nauthiz.
La successiva Wunjo, peraltro, riprende decisamente questi concetti, trasponendoli su
un piano diverso. Innanzitutto di Wunjo non sfugge la qualità assiale. Riprendiamo
un attimo Guénon da dove lo avevamo lasciato in apertura di capitolo: “Tutto ciò
d’altronde diventa chiaro se si osserva che la linea verticale nel monogramma di Cristo
come nel quatre de chiffre è in realtà una figura dell’ ‘Asse del Mondo’; al suo vertice,
l’ ‘occhiello’ della P è, come l’ ‘occhio’ dell’ago, un simbolo della ‘porta stretta’; e,
per quanto riguarda il quatre de chiffre, basta ricordarsi del suo rapporto con la croce
e del carattere ugualmente ‘assiale’ di quest’ultima, e considerare inoltre che l’aggiunta
della linea obliqua che completa la figura congiungendo le estremità dei due bracci
della croce, e chiudendo così uno dei due angoli, collega ingegnosamente al significato
quaternario, che non esiste nel caso del monogramma di Cristo, lo stesso simbolismo
della ‘porta stretta’; e si dovrà riconoscere che in questo fatto c’è qualcosa che si addice
perfettamente a un marchio del grado di maestro.”152
In effetti Wunjo segna un approdo, scandisce un passaggio, marchiandolo chiaramente
e visibilmente, pure nel territorio. Essa ricorda del resto una bandiera, un vessillo,
quindi qualcosa che è stato lasciato deliberatamente per indicare una vittoria, una
conquista, un’appropriazione; Wunjo non a caso ha a che fare con il “to win” anche a
livello etimologico153. Wunjo delimita in fondo uno spazio, come le erme greche, pietre
“di testa”154, che avevano appunto lo scopo di tracciare i confini nelle zone di passaggio
151
Se Gebo è originariamente la runa del “dare se stesso per se stesso” di Wotan è allora sintomatico
che il matrimonio, che è trasposizione in un altro ambito dei precetti di Gebo, sia detto in inglese
“wedding” (si ricorda in tal senso che il “Wednesday” è letteralmente il giorno di Odino).
152
Cfr. Simboli della Scienza sacra, cit. pp. 347-348. Sul simbolismo della “cruna dell’ago”,
equivalente della “porta stretta”, abbiamo peraltro già detto alla nota 105. Interessa qui notare
piuttosto come Guénon citi le osservazioni di Ananda K. Coomaraswamy che, a tal riguardo, parla
anche di “treccia di Horus” (ivi, p. 347, nota 9), paragonandola alla lettera P, che di fatto presenta lo
stesso segno di Wunjo. È un riferimento interessante anche per altri motivi, dal momento che Wunjo,
in quanto palo della fertilità nei rituali agresti, è associato al dio Frey, il Pan nordico, equivalente
appunto dell’Horus egizio.
153
E infatti nell’antico inglese Wunjo è nota come “Wynn”.
154
La loro struttura abituale era proprio questa: un pilastrino quadrangolare sormontato da una testa.
Il riferimento alla testa rotolante, immagine molto simile a una pietra come appunto poteva essere
l’erma, è peraltro presente sempre in Ananda K. Coomaraswamy, nel suo studio Sire Gauvain e il
Cavaliere Verde: Indra e Namuci, che qui riportiamo nella versione riproposta “on line” da
Gianfranco Bertagni, http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/reneguenon/sir.pdf. In uno dei passi
del Rigvêda citato dal Coomaraswamy si legge appunto: “«Fa’ rotolare la Roccia del Cielo, prepara
la tua (arma) appuntita di Soma, colpisci i demoni con la tua folgore (lapidaria)» (RV., VII, 104, 9;
AT., p. 26) - in altre parole, «Decapita Namuci, che la luce sia!».”, ivi, cit. p. 1. Potremmo interpretare:
43
e a ridosso dei crocicchi. Esse erano sacre a Ermes, essendone una rappresentazione:
proteggevano le aree liminali, quelle percorse dai viandanti e dai fuorilegge, che erano
appunto entità in movimento come il dio psicopompo, peraltro parente stretto di Odino,
di cui Wunjo è senza dubbio un segno esemplare.
Wunjo, analogamente alle erme, è infatti “runa di testa” , a maggior ragione se
confrontata con la sua “gemella” Thurisaz , che d’altro canto invece è una “runa di
pancia”. Thurisaz, la terza del Futhark germanico, è simbolo di frustrazione titanica,
incarna la forza dirompente del martello mjöllnir padroneggiato da Thor, ed è pertanto
il “fuoco” di cui abbisognano gli dèi di Asgard per contrastare i giganti di Jotunheim.
Essa è dunque furia incontrollata, scossa embrionale, materia informe e abbozzata che
l’iniziato riuscirà a cristallizzare soltanto dopo aver ricevuto le debite trasmissioni
spirituali; per dirla con una formula riconoscibile è il “combatti il fuoco con il fuoco”,
e tale turbinio di fiamme e vampate necessiterebbe senza dubbio di una mente fredda
in “cabina di regia”.
Wunjo, che sposta appunto il triangolo “dalla pancia alla testa”, certifica l’avvenuta
realizzazione di questo procedimento, conducendo il flusso imberbe e incostante ai
livelli della maturazione e dell’auto-controllo. Anche in quanto arma del Cielo, o
“pietra del fulmine”, Wunjo segna un distacco dalla precedente Thurisaz: non è più
l’utensile di guerra maneggiato dall’onesto, ma istintivo, Thor, bensì da un sapiente
che ha cognizioni superiori, ossia quell’Odino che del resto di Thor è anche il padre. Il
“passaggio alla testa”, nello scambio tra le due rune, assicura tale avanzamento di
abilità e prerogative, in chiari termini di successione iniziatica.
Wunjo assume pertanto i valori appena citati col Guénon, ossia è un marchio che
testimonia il raggiungimento di un preciso grado sapienziale. Tanto è vero che Wunjo
va appunto a chiudere il primo aett, sancendo la fine di un livello per introdurne uno
più elaborato. E d’altro canto il secondo aett si apre con Hagalaz , runa di morte e di
rinascita; ovvero di catarsi estrema in vista di prove inedite e nuove gestazioni. Proprio
nel simbolo di Hagalaz, nella linea diagonale che collega le due perpendicolari, è
presente del resto l’idea di un transito, del “trait d’union” che conduce, forse addirittura
con una “caduta di stile”, da una fase all’altra dell’esistenza: finito in un punto più
basso rispetto a quello di partenza, che in verità è solo apparente, perché la qualità
dell’iniziato è in fondo già mutata, costui deve riattrezzarsi per risalire la china. Ciò
indica tuttavia un estremo potenziale di completezza: Hagalaz in fieri unisce dualità
contrastanti e opera da collante verso un’identità destinata a riassumere forze
antitetiche o comunque piuttosto distanti tra loro.
Questo fa di Wunjo un’investitura “solo” parziale sulla via dell’eroe, riportandoci a
quanto abbiamo detto a proposito di Gebo e di tutti quei cerimoniali che stabilivano
vincoli di fedeltà tra signore e vassallo. La spada che nei riti d’investitura inforcava
l’anello trova legittima stabilità e regime in Wunjo, di cui i rimandi assiali sono

viene detto “lapidaria” nel senso che la testa del decapitato Namuci è resa una lapide, ossia una pietra.
La roccia/testa del Cielo, così come la folgore, entrambe qui presenti, rimandano senza dubbio al
vajra e alle già citate “pietre del fulmine” di cui Wunjo, anche a livello formale, rappresenta una
variante, tanto più nel suo rapporto con la “gemella” Thurisaz che ora andremo ad affrontare.
44
evidenti. Wunjo rilancia peraltro la questione della “wand”, ovvero la lancia di Odino
nonché ennesima asta virile, che nel folklòre è poi rimasta come il “bastone dei
desideri” di San Nicola. Ma è “wand” soprattutto ciò che sparge l’önd, il soffio di
Odino, tanto che Wunjo, analogamente a Othila, circoscrive e rettifica uno spazio
sacro: avremo modo di tornarci in un prossimo capitolo, riallacciandoci anche al
significato di Laguz. Per ora, nell’accezione più visiva del simbolo, notiamo che Wunjo
realizza senza filtri l’idea di asta che “buca” il bersaglio, o di spada che appunto
inforca l’anello, esito presente anche nelle giostre del Medioevo, ad esempio nel
cosiddetto “gioco dell’anello” che consisteva nel centrare con la lancia un cerchio
tenuto sospeso da alcune corde. Era una prova agonistica che in alcune contrade si
teneva proprio nei primi giorni di maggio, a rievocare forse, ai tempi di un calendario
liturgico oramai cristiano, antichi retaggi pagani155: centrare un “buco” aveva del resto
valore fecondante e di buon auspicio, sebbene in questo caso il gesto fosse trasferito in
un ambito tutto sommato goliardico e auto-celebrativo, come quello distintivo dei
tornei cavallereschi156.
Se però spostiamo la relazione tra Wunjo e Gebo a un livello meno superficiale, il
bastone e l’anello identificano l’amalgama del “maschile” e del “femminile”, o dell’
“attivo” e del “passivo”, motivi di completezza ricorrenti nell’apprendistato
tradizionale. E proprio grazie a un foro, che è “via stretta” del cammino iniziatico, si
stabilisce del resto la connessione tra le due. L’asola di Wunjo, l’occhiello della P già
citato col Guénon, stabilisce la continuità, se non la contiguità, con l’anello di Gebo:
ciò che nella settima runa è disponibilità “al femminile” a una missione più alta, in
Wunjo, per il tramite del cerchio della porta stretta, trasla nella verticalità assiale che è
invece indice dell’estrinsecazione “maschile” di quanto prima era soltanto latente. La
“porta stretta” in Gebo viene pertanto accettata e idealmente varcata, quantomeno
proiettando le conseguenze e i sacrifici necessari; mentre in Wunjo viene
effettivamente attraversata, nel segno della vittoria e della conquista del marchio che
identifica il passaggio di grado. La fusione tra Gebo e Wunjo, rappresentando una
chiara sequenza rituale, è dunque la sintesi delle attitudini passive e attive che sono
richieste sulla via dell’elevazione spirituale: prima l’accettazione e poi l’azione; prima
il rimettersi e poi l’adoperarsi.
Il monogramma di Cristo e quello di Costantino, di fatto, riprendono questa stessa
duplicità, laddove la X è appunto il sigillo del sacrificio sulla croce: transitare per
questo anello stretto concerne appunto l’accettazione dell’impegno e ne proietta le
responsabilità. La I o la P, a seconda della variante del monogramma considerata,

155
E infatti Wunjo è associata ai riti del “Maypole”, palo della prosperità che veniva issato per
indicare la rinascita della natura in maggio. Sul valore del “Maypole” si rimanda, tra gli altri, al già
citato Nigel Pennick, Tradizione Nordica, p. 289.
156
Cfr. Duccio Balestracci, La festa in armi – Giostre, tornei e giochi del Medioevo – Edizioni
Laterza, Bari, 2001. Tra i tanti, viene citato il caso di Narni, dove appunto il gioco dell’anello si
teneva il 3 maggio in occasione di San Giovenale (p. 108). Altrove l’esercizio è invece attestato in
occasione del Carnevale, festa comunque legata all’abbondanza prima che sopraggiungessero le
ristrettezze quaresimali.
45
interpretano invece l’assumersi concreto del mandato e il superamento delle prove che
esso prevede.
Isa, la I, lo abbiamo visto nel capitolo precedente, distilla le qualità dell’iniziato
scampato alla croce di Nauthiz: è una runa quindi di “soggetto” e d’identificazione con
la propria individualità, in questo caso presa in derive di emancipazione spirituale. Il
suo simbolo corrisponde del resto a “I”, il soggetto nella prima persona singolare della
lingua inglese. Ricordiamo però a tal proposito, sulla scorta di Guénon, che la lettera I
“rappresentava ‘il primo nome di Dio’ per i ‘Fedeli d’Amore’.”157; secondo questa idea,
lo studioso di Blois stabilisce un contatto tra la I e la G, per dimostrare la perfetta
sovrapposizione tra Iod e “God”, laddove iod è notoriamente anche lettera dell’alfabeto
ebraico. Ma nel Futhark antico le rune che hanno il valore di I e G sono proprio Isa e
Gebo, ed essendo quest’ultima una X, torniamo esattamente ad ottenere la I e la X del
monogramma di Cristo. Si può inoltre ribadire che la I presenta chiare connotazioni
assiali, mentre si vede che la G, nella sua forma arrotondata e “dolce”, rimanda a
caratteristiche passive e “femminili”. “Iod/I” specificherebbe pertanto un’identità di
principio, quasi un’identificazione con l’Unità metafisica, mentre “God/G”
designerebbe la manifestazione più elevata di un’età comunque decaduta, e successiva,
rispetto al polo centrale delle origini, e in cui sono elementi divini “mediati”, più adatti
alla comprensione indebolita dell’uomo, a fare da battistrada lungo la via che riporta
al solo e unico Logos; è dalla G dunque che bisogna ripartire per tornare alla I.
Del resto i “Fedeli d’Amore”, ben consci dell’avvenuto sgretolamento della
primordiale dottrina nei meandri della realtà terrena, si disponevano, se non altro in
partenza, proprio in senso ricettivo, “femminile”, nei confronti del Principio
assoluto158; codici che sono altrettanto evidenti nell’attitudine di Gebo, rispetto a Isa e
Wunjo, in quanto emblemi della divinità vista, se non dall’alto, quanto meno in una
direttiva ascensionale, laddove Gebo, come abbiamo visto, chiarisce una preliminare
accettazione che vede il mystes più come “oggetto” che come “soggetto”, ed è questa
in sintesi la grande differenza di prospettiva tra Gebo e Wunjo, prese negli ambiti del
cammino spirituale e del nocciolo a cui esso mira.
Nel sigillo costantiniano sono semmai più evidenti lo snodo e l’essenza di questi
passaggi, grazie all’occhiello della P che equivale appunto ai valori della “cruna
dell’ago”. E del resto tanto la P che la I sono icone dell’axis mundi e quindi concernono
ogni elevazione che ambisca alla “porta celeste”. Se prendiamo lo stesso simbolo di
una chiave e lo posizioniamo in verticale, otteniamo ancora una volta qualcosa di molto
simile all’immagine della P e della stessa runa Wunjo, che dunque diventa automatico
considerare come la chiave che apre uno specifico varco correlato a un altrettanto
preciso grado iniziatico; si rimanda in questo senso anche a quanto esposto alla nota
109 sulle associazioni tra Giano, lo swastika e il simbolismo delle chiavi.

157
Cfr. Simboli della Scienza sacra, cit. p. 110.
158
Non è questa la sede per approfondire la materia dei “Fedeli d’Amore” nei loro sottintesi esoterici.
Chi vuole documentarsi in merito può tranquillamente rifarsi ai già citati L’Esoterismo di Dante di
Guénon e L’Ermetismo di Dante di Cerchio. Su questo tema anche il paragrafo dedicato da Evola in
Il mistero del Graal, p. 186 e sgg.
46
Crediamo sia sufficiente per comprendere il significato della sequenza Gebo/Wunjo
all’interno del Futhark antico. Vediamo piuttosto come accada anche ad altre rune di
spartire forme e messaggi con l’esoterismo cristiano.

47
J,H,S ovvero Jera Hagalaz Sowulo

Il nome di Gesù può essere abbreviato con la sigla I,H,S oppure J,H,S. Il solito Guénon
ha evidenziato nello scritto “Alcuni aspetti del simbolismo di Giano”159 come già il
Charbonneau-Lassay avesse menzionato un documento in cui il Cristo era
rappresentato sotto le sembianze di Giano. La descrizione che ne dà Guénon è la
seguente: “In cima al medaglione interno figura il monogramma IHS sormontato da un
cuore; il rimanente del medaglione è occupato da un busto di Janus Bifrons, con un
viso maschile e uno femminile, come si vede assai frequentemente; esso porta una
corona sulla testa, e tiene con una mano uno scettro e con l’altra una chiave.”160
Lo abbiamo già sottolineato in occasione del primo capitolo, a proposito della runa
Jera: il mazzo di chiavi argentato (“piccoli misteri”) e quello dorato (“grandi misteri”)
corrispondono rispettivamente alla statura regale e alla potestà spirituale; il primo apre
le porte del Paradiso Terrestre, mentre il secondo immette nel Paradiso Celeste. Ci pare
evidente che, nell’immagine citata poc’anzi con Guénon, lo scettro faccia le veci delle
chiavi argentate. La figura simbolica del Melki-Tsedeq incarna peraltro entrambe le
prerogative, realizzandosi in un’ “individualità triplice” e irripetibile che è del resto lo
stesso che la terza faccia di Giano.
Tornando a Jera , essa prefigura, si è detto, quell’alternanza stagionale di Janua
Inferni e Janua Coeli, che è propria del simbolo del Janus Janitor: possedere queste
“chiavi” significa accedere anche alle rispettive porte; porte che sono stagionali, sia
che per stagioni si intendano i semestri del calendario annuale (nelle fasi di sole
ascendente e discendente), sia che si faccia riferimento alle grandi epoche del ciclo
terrestre. Per tali motivi Jera è il polo del Futhark antico, suo orologio armonicamente
coordinato su una coppia di opposti, che nel Taoismo sarebbe automatico associare allo
yin e allo yang. Ed è qui che l’abbinamento della J di Jera -che è poi anche quella di
Janus e Jesus (figure simili in quanto “une e trine”, e in quanto signori del tempo
cosmico e promotori di un passaggio iniziatico)- con la H e la S diventa incalzante.
Non è del resto una coincidenza che Jera sia la quarta runa dell’aett del Futhark
germanico (il secondo) che si apre con Hagalaz e che si chiude con Sowulo .
Sussistono poi pochi dubbi, guardando i simboli, sul fatto che Hagalaz sia una H e
Sowulo una S, nel senso che entrambe, oltre al valore alfabetico, conservano con le
lettere di pertinenza anche un rapporto marcatamente visivo.
Hagalaz, lo abbiamo visto di sfuggita nel capitolo precedente, rappresenta
quell’estrema catarsi che insorge dopo i vertici raggiunti con Wunjo: è la crisi
necessaria che inaugura una nuova fase del cammino iniziatico. In una tale ottica, il
mystes deve come scordarsi delle passate acquisizioni, che chiaramente fanno oramai
parte della sua integrazione e che torneranno a manifestarsi nella loro profondità, e
questo affinché egli non perda di vista il nuovo compito al quale è demandato. Hagalaz,
per trasposizione, è la grandinata, “hail” in inglese: ma “hail” è anche un saluto, un
saluto d’onore, come di quelli che si offrono al signore al quale si è giurata sacra
159
Presente in dettaglio come capitolo 18, p. 117 e sgg., in Simboli della Scienza sacra.
160
Ivi, cit. pp. 117-118.
48
fedeltà, e ciò riallaccia interessanti rapporti circa i significati di Gebo e di Wunjo, che
abbiamo potuto riferire al mondo cavalleresco e ai suoi riti di vassallaggio. In sintesi
Hagalaz è un saluto beffardo alla morte e alle forze disgreganti, come a evocare quelle
energie contrarie, ma in realtà complici, che permettono allo spirito di consolidarsi.
Hagalaz è del resto la runa numero 9 e il 9, lo si è notato più volte, è cifra di transizione
iniziatica, tanto nella mitologia nordica -“le nove notti e i nove giorni” che Odino
trascorre appeso a testa in giù sull’Yggdrasil- così come nella Commedia, laddove le
novantanove cantiche sono appunto il dedalo di prove che Dante iniziato deve
affrontare sulla via della redenzione. Sowulo è invece la runa numero 16 e descrive il
sole spirituale, il sé superiore, l’aquila che alberga sulla punta dell’Yggdrasil. Dante
viene trasportato da un’aquila alle porte del Purgatorio, e questo dettaglio si spiega del
resto con la credenza che il solo animale in grado di mirare il sole senza accecarsi fosse
proprio l’aquila; chiaramente il problema della vista attiene l’attivazione del terzo
occhio, della luce propriamente interiore, e sempre nella Commedia Dante ha un
dialogo privilegiato con Santa Lucia161.
Altro sigillo solare, anche se non è questo il senso principale che gli abbiamo attribuito
sulla scorta di Guénon162, è lo swastika, che in effetti può essere ricavato intrecciando
due Sowulo : proprio il 16, che abbiamo anticipato essere il numero di questa runa,
rappresenta la cifra dello swastika o fylfot163. In quanto serpentina di luce, Sowulo
interpreta anche l’esplosività di Thor e del suo fulmine letale. Fulmine che è
equivalente del vajra, l’attrezzo di Indra, così come rassomiglia a tutte le armi uraniche
oppure ai “betili”, le mitiche pietre cadute dal Cielo a indicare le sedi di Dio in Terra164.
Ma Sowulo, dato che il 16 produce come somma il 7, è legata anche agli altrettanti

161
Dante non manca di riservare alla santa un ruolo fondamentale in tutta la narrazione. Ella appare
già nel canto II dell’Inferno; Beatrice chiede a Lucia di aiutare il Dante smarrito: “Or ha bisogno il
tuo fedele di te, e io a te lo raccomando”(Inferno, Canto II, versi 97-98). Ma la “santa della luce”
interviene anche altrove, in Purgatorio: nel canto IX, cifra non casuale, un Dante assopito
(addormentato nell’ignoranza pregressa) viene condotto alla porta del Purgatorio per intercessione
proprio di Lucia: lo trasporta la già citata aquila, che di fatto incarna gli stessi valori “visivi”. Che qui
si tratti di aprire una voragine nel buio, di varcare una porta di conoscenza, di aprirsi a un nuovo tipo
di luce e di dottrina, prima di allora inaccessibili, è confermato dall’apparizione della santa
siracusana: “Venne una donna e disse: I’ son Lucia; lasciatemi pigliar costui che dorme; sì l’agevolerò
per la sua via” (Purgatorio, Canto IX, versi 55-57). E infatti dopo che Lucia si congeda, Dante
sottolinea come “ella e ‘l sonno ad una se n’andaro” (ivi, verso 63). Il passaggio di Lucia apre gli
occhi e cancella il sonno dell’ignoranza. Per la cronaca, Santa Lucia, vissuta pare a Siracusa tra il 283
e il 304, morì martire durante le persecuzioni di Diocleziano. A proposito della venerazione di cui fu
oggetto presso il padre, Jacopo Alighieri suggerisce come Dante fosse grato a Lucia per averlo guarito
agli occhi da quel disturbo contratto per le troppe letture ai tempi della redazione del Convivio.
Chiaramente, intesa l’essenza iniziatica della Commedia, non è possibile pensare che la presenza di
Lucia sia giustificata soltanto a titolo di “ringraziamento” per una guarigione di natura fisica.
162
Che ripete infatti più volte come lo swastika sia erroneamente considerato un disco solare, laddove
è invece il segno del Polo.
163
Cfr. Secrets of Asgard, p. 91.
164
Cfr. Simboli della Scienza sacra, p. 160 e sgg.
49
Dwîpa, le regioni o cicli di esistenza che dipartono dal monte Mêru165, che a sua volta
è un simbolo del Polo Nord, a conferma delle sovrapposizioni che di frequente si
compiono tra i simboli solari e quelli propriamente del polo. Sowulo è in ogni caso la
runa del Centro da cui si propaga tutto il corso della manifestazione e come tale è
identica nei suoi significati al “Cristo-Sole”, che con la sua fiamma spirituale viene a
diradare le ombre dell’ignoranza.
Proprio questo riferimento ci consente di ritornare alla sigla I H S, o J H S che dir si
voglia. Partiamo dalla seconda, visto che abbiamo introdotto i significati di Hagalaz e
Sowulo in relazione a Jera. Jera è la summa dello yin e dello yang nordici, ossia il
ghiaccio e il fuoco, visto che il cosmo, secondo questa specifica mitologia, è originato
dalla contrapposizione/armonizzazione tra il fuoco di Muspelheim e i venti gelidi di
Nifelheim. Essendo vitali, per i norreni, la luce e il calore del sole, il fuoco corrisponde
tendenzialmente al bianco yang, mentre l’inerzia degli interminabili inverni coincide
con il nero yin166; avremo modo di tornarci nel capitolo in appendice. In ogni caso se
Jera suggella il “Tao runico”, particolare valore assumono Hagalaz e Sowulo nei
suoi riguardi. Pure a livello numerologico: Hagalaz è 9, Jera è 12, Sowulo è 16. Se
sommiamo queste tre cifre otteniamo 37, ovvero 10, cifra dell’unità più la
circonferenza, come abbiamo riferito per Nauthiz, e anche con grandi similitudini
proprio con il cerchio del Tao . Non solo: Hagalaz è la nona runa, ed è preceduta
quindi da otto rune, mentre Sowulo è la runa numero 16: ossia otto ancora ne vengono
dopo di lei prima che il Futhark germanico si concluda; Jera sta in mezzo, tanto che
esse creano un curioso ternario all’interno del secondo aett. E la simmetria è evidente
pure in termini di attribuzioni: Hagalaz è la tempesta di ghiaccio, ossia il ghiaccio che
agisce con l’intensità del fuoco. E ciò è tanto più chiaro nell’altra raffigurazione con
cui si è soliti mostrare Hagalaz, . Qui la runa presenta una struttura assiale, che è poi
l’“Isa/ghiaccio”, attorno alla quale “ruotano” almeno quattro Kenaz, vettori dunque di
165
“Si può ravvisare ancora un’altra correlazione con i Manvantara (o ere dei successivi Manu, n.d.a),
quella relativa ai sette Dwîpa o <<regioni>> in cui si divide il nostro mondo. Infatti, sebbene questi
siano rappresentati, conformemente al senso proprio della parola che li designa, come altrettante isole
o continenti distribuiti in un certo modo nello spazio, bisogna guardarsi da un’interpretazione
strettamente letterale, che li identifichi senz’altro alle diverse zone della terra attualmente conosciuta;
essi, in effetti, non <<emergono>> simultaneamente, bensì successivamente, il che vuol dire che uno
solo di essi si manifesta nel dominio sensibile nel corso di un certo periodo. Se questo periodo è un
Manvantara, si deve concludere che ogni Dwîpa dovrà apparire due volte nel Kalpa (ossia “lo
sviluppo totale di un mondo, vale a dire di uno stato o grado dell’Esistenza universale” – ivi p. 12,
sempre per dirla con Guénon, n.d.a) (…). Si tratta, in definitiva, di differenti stati del mondo terrestre,
piuttosto che di <<regioni>> vere e proprie”. Cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, cit. pp. 13-14.
166
Vediamo cosa dice in proposito l’Edda: “Allora parlò Iafnhár: <<Il Ginnungagap nella parte che
volge a settentrione si riempì di ghiaccio pesante e greve e di brina e da esso esalò gelido vapore; ma
la parte meridionale del Ginnungagap ne fu preservata dalle scintille e dalla materia incandescente
che sprizza da Muspellsheimr>>. Poi parlò Thridhi: << E come il freddo e tutto ciò che è nemico
proveniva da Niflheimr, così tutto quanto era volto verso Muspellsheimr riceveva calore e luce(…)
>>.” Cfr. Edda, cit. p. 54. Nella nota 133 avevamo del resto riportato, sulla scorta di Guénon, come
allo yang corrispondesse il fuoco e allo yin l’acqua. Ma l’acqua, per forza di cose, diventa ghiaccio
nella realtà ambientale del Nord europeo, e tale è l’essenza di Nifelheim.
50
fuoco, a conferma di quanto abbiamo appena detto, sebbene tale spiccata co-abitazione
di ghiaccio e di fuoco, in questo segno alternativo di Hagalaz, sottintenda estreme
capacità di controllo e riordinamento167.
Sowulo, viceversa, è la fiamma che si comporta con le cautele del ghiaccio; è il fuoco
che non brucia, ma che si attua nell’ “illuminare”, proprio perché è morigerato da un
flusso conservativo, di cui il ghiaccio è detentore. Quella che in Hagalaz è una
completezza “soltanto” potenziale in Sowulo si ricompone quindi nell’illuminazione
dello spirito e del resto, in questo, essa è corrispondente dei significati di Aor, ossia il
fuoco inteso nella sua facoltà luminosa, laddove Agni (come l’Ignis latino) è il fuoco
considerato in tutte le sue caratteristiche, di luce e di calore168.
Hagalaz proietta pertanto le ombre della paura e della crisi di chi non sa ancora come
fondere gli estremi, Sowulo di contro li amalgama, illuminando tutto ciò che lambisce;
Jera, in quanto alternanza di Janua Coeli e Janua Inferni, armonizza luci e ombre nelle
pieghe del tempo cosmico, facendo da tramite e da porta di passaggio tra le rune poste
agli estremi di questo specifico ternario. Hagalaz e Sowulo sono in definitiva speculari,
laddove Jera agisce propriamente da specchio, coadiuvando il ghiaccio con il fuoco.
Se peraltro riprendiamo il cerchio del Tao169, possiamo andare ancora più in profondità.
Esso mostra infatti un puntino bianco all’interno del campo nero e, viceversa, un
puntino nero sul campo bianco. Se adattiamo tale schema al Futhark germanico si può
asserire che il puntino bianco su campo nero sia rappresentato da Sowulo, il fuoco che
non brucia poiché circondato dal ghiaccio. E al contempo possiamo ammettere che
Hagalaz sia il puntino nero su campo bianco, ossia quel ghiaccio che, preso in una
tempesta di fuoco, si comporta in modo reattivo. Di queste dinamiche Jera rimane
il grande contenitore, il più idoneo, tra i glifi runici, a rappresentare il dualismo del Tao
assunto nella sua interezza e nella sua normalizzazione ciclica.
A questo punto, è possibile arrischiare anche un paragone con la trinità cristiana:
Hagalaz sarebbe in tal caso il “Cristo uomo”, con le sue tentazioni da affrontare e il
suo potenziale più elevato ancora da compiere; Sowulo lo “Spirito Santo”, ovvero il
fuoco spirituale che illumina e che rende attive le potenzialità insite nell’uomo; e Jera,
167
In questa rappresentazione Hagalaz è “pensata” come chicco di grandine, con un asse che tiene
appunto separate più Kenaz, indicando quindi un contrappunto di ordine e stabilità, attorno a un
potenziale di fuoco molto elevato. Ciò determina il peso ordinatore che comunque Hagalaz attua nella
sua essenza che, pur distruttiva, viene a rinforzare le qualità di chi se ne assuma il carico; cavalcare
Hagalaz è indubbiamente prerogativa degli iniziati in procinto di superare la prova. Su questo valore
di Hagalaz, si veda in particolare Thorsson in Runelore: “Hagalaz is the unification of all opposites
into all-potential”, cit. p. 121. Del resto anche nell’altra immagine di Hagalaz, , evidente è la
relazione tra il 2 terreno (le perpendicolari del segno) e il 3 celeste (la somma delle perpendicolari
più la diagonale centrale). La dualità di Hagalaz si fonda insomma su una ricomposizione che è
“guardata dall’alto”, e il caos di Hagalaz è in potenza soltanto transitorio, ponendosi anzi nell’ottica
di un ordine davvero rigoroso.
168
Cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, pp. 33-34.
169
Sul Taoismo, soprattutto nelle sue derive alchemiche, si rimanda a Lu k’Uan Yü, Lo Yoga del Tao
– Alchimia e Immortalità, Edizioni Mediterranee, Roma, 1976. E a Lü-Tzu, Il Mistero del Fiore
d’Oro, Edizioni Mediterranee, Roma, 1971.
51
in quanto sintesi dei due opposti, l’onnipotenza su tutto il manifestato, e in tutte le
manifestazioni, del “Padre”; tutto questo chiaramente rimanendo nell’ambito di
“Grandi Triadi” solamente successive rispetto a un’unità originaria, indefinibile e
indivisibile.
E se invece consideriamo la sigla I H S, al posto di quella appena esaminata? Cadono
ovviamente alcune simmetrie aritmetiche, dal momento che Isa è la runa numero 11;
eppure anche Isa, Hagalaz e Sowulo formano a loro volta un ternario. Chiaramente
prima di procedere dobbiamo specificare il ruolo di Isa , che abbiamo peraltro già
anticipato nel secondo capitolo su Nauthiz, Jera e le “linee del drago”. Isa è la runa
dell’eroe sopravvissuto all’ordalia di Nauthiz, quell’io che è riuscito a sciogliere il
nodo della morte, restando in vita, oppure proseguendo su un livello differente di
manifestazione. Isa è una runa caparbia, che indica i rigori dell’inverno nordico e le
modalità di opposizione a tale rigore. La sua forma tuttavia, a maggior ragione se
estrapolata dalle logiche della mera sopravvivenza, riconduce a qualità spiccatamente
assiali che nel capitolo precedente abbiamo riferito anche al monogramma di Cristo.
Proprio la I compare del resto in questo simbolo, mentre la P gli si sostituisce
all’interno del cosiddetto monogramma di Costantino. La I di Isa è dunque connettiva
tra Cielo e Terra: se in Nauthiz è presente anche il piano orizzontale, quindi legato
alle dinamiche terrene e passive, con Isa si impone l’integrità attiva del mystes sulla
via eroica. Isa è allora un simbolo di identità con i piani superiori, sebbene tale
attitudine si manifesti ancora in ambiti preliminari, nei quali l’individualità è ben
presente e ottenebra la causa della missione; tanto è vero che Isa, nella tredicesima runa
Eihwaz , si arricchisce di due correnti, una superiore e una inferiore, che
esemplificano la varietà del viaggio da intraprendersi e il differente tenore delle forze
in atto. Isa è pertanto, e senza dubbio, attrito e resistenza, e di una qualità greve rispetto
all’alleggerimento spirituale che ha da venire; tuttavia essa non può essere considerata
solo nelle sue valenze passive, perché la resistenza di cui essa dice è tale principalmente
rispetto al ritorno alla profanità e a quelle tenebre che sono state oltrepassate
nell’affrontare i nodi cruciali di Nauthiz. Se Isa è dunque inerzia, lo è in modo attivo,
proprio per garantirsi un processo di evoluzione, al di là degli influssi costanti del piano
inferiore cui l’iniziato è inevitabilmente, e comprensibilmente, sottoposto. E del resto
l’axis mundi, così nitidamente presente in Isa, è anche sintesi degli opposti che
armonizza. È un aspetto che si tende spesso a dimenticare analizzando il simbolo di
Isa, ma come abbiamo preannunciato molte analisi runiche subiscono oramai
soprattutto l’influsso dell’interpretazione psicanalitica.
In relazione a Hagalaz, Isa rappresenta infatti, quanto meno, una cristallizzazione, nel
senso che il ghiaccio in movimento della nona runa con Isa acquisisce ordine e stabilità
verticali: quella che era una dualità in transizione si ricompone in’unità “contenente”
. E con ciò Isa è ancora molto distante rispetto a Sowulo, mancando al suo ghiaccio
la capacità di riflettere integralmente le possibilità dell’iniziato. D’altro canto Sowulo
è resistente e caparbia come il ghiaccio, ma decisamente non è materia inerte,
proiettando anzi la sovra-coscienza dell’intellettualità pura.

52
Ciò non toglie che Isa, analogamente a Jera, possa stare a metà tra Hagalaz e Sowulo:
essa è un palo ordinatore tra il caos lungimirante della prima e la solidità spirituale
della seconda. Con entrambe spartisce il senso del ghiaccio, disciplinando quello in
divenire di Hagalaz, e anticipando in questo Sowulo, bensì al contempo condividendo
con Hagalaz la natura di questo gelo, ancora fisico e sotto alcuni aspetti inerte, mentre
in Sowulo esso assurge a diamante completamente sgrezzato. In Isa vi è insomma
quella ricerca dell’integrità che in Sowulo si certifica quale traguardo metafisico.
Tornando al senso dell’I H S (o J H S che dir si voglia), non ignoriamo come la vicenda
del Cristo nei suoi simboli proceda di pari passo con questi significati, trattandosi di
una lotta nell’antitesi, tra situazioni critiche e densamente umane (Hagalaz e Isa), e
illuminazioni che possono essere soltanto tali per chi si sia legittimamente riconosciuto
“figlio di Dio”, al punto da raggiungere l’identità con lo “Spirito Santo” (Sowulo).
Tanto più che la stessa Isa nella sua purezza claustrale fornisce un rimando alla Vergine
immacolata che ha generato il Cristo, e l’elemento femminile, sulla via iniziatica, come
è chiaro anche con la Beatrice dantesca, è sempre un transito di sublimazione in vista
di mete superiori, nesso che peraltro andremo ad approfondire proprio nel capitolo a
venire. Isa del resto suona come un “nome femminile”, ma al contempo, nella sua
corporatura assiale, contiene il ricordo della croce, superata nella sua componente
orizzontale e passiva. Infine, in Jera, vi è quell’armonizzazione degli opposti, ossia
della natura terrena e di quella divina, delle due facce di Giano, che senza dubbio
contraddistingue l’esperienza del Cristo, egli stesso omologo del Janus, in quanto
signore del passato, del presente e del futuro.
Lungi da noi voler trasformare l’esoterismo cristiano in quello germanico/norreno, o
viceversa, tuttavia queste brevi note rientrano nell’ottica di quanto già ampiamente
assodato: ossia che una Tradizione comune abbia originato contenuti dal significato
analogo, al di là delle distinte sfumature espressive. E’ un punto che andremo a
sviluppare, se vogliamo anche a livello “deontologico”, in un prossimo capitolo
dedicato a Raido, per ora ci occupiamo della chiara ambivalenza che è attiva tra le rune
Teiwaz e Berkana.

53
Teiwaz e Berkana, l’azione e il riposo del re

Lo abbiamo già fatto notare negli ultimi due capitoli, ossia come rune, poste in
sequenza più o meno ravvicinata all’interno del Futhark antico, dialoghino secondo
logiche di opposizione complementare, proprio come lo yang e lo yin, il bianco e il
nero, l’ “attivo” e il “passivo”. Teiwaz e Berkana, nell’aprire il terzo aett del Futhark
germanico, non sfuggono a questa peculiarità, portando forse al massimo livello le
distinzioni/compenetrazioni del “maschile” e del “femminile”, anche con risvolti che,
oltre a essere prettamente simbolici, hanno chiara attinenza con la realtà più fisica delle
cose.
Teiwaz e Berkana , dicevamo: già osservando i loro segni, diventa automatico
associare Teiwaz al modello assiale, con chiare ascendenze virili, mentre Berkana con
le sue forme arrotondate evoca la capienza vitale della Grande Madre. Tanto più che
Teiwaz fa riferimento al dio Tyr, che come abbiamo visto nel lungo capitolo iniziale è
il vero erede, all’interno della cosmogonia nordica, del Dyāus Pitar vedico, che trova
peraltro i suoi equivalenti olimpici anche nello Zeus greco e nel Deus latino. Tyr,
dunque, come padre celeste; un Tyr tuttavia spodestato, sostituito dall’iniziato Odino,
che sicuramente di Tyr va anche a riprendere le qualità di signore uranico, di Allfödr,
ma con un’investitura che è stata appunto conquistata a fatica e che si motiva con lo
scollamento che nel frattempo si è verificato tra Cielo e Terra.
A proposito di Tyr, e a conferma di questi discorsi, sussiste un elemento peculiare, che
abbiamo già riportato e che evidenzia una chiara delegittimazione. L’episodio riguarda
il feroce lupo Fenrir, “nemico pubblico numero uno” di Asgard e delle sue propaggini,
che viene legato ricorrendo allo stratagemma di una corda magica fabbricata dagli
gnomi170. È proprio Tyr a infilare come garante la mano destra e giusta, “the right
hand”, nelle fauci del lupo che, accortosi dell’inganno e della sua impossibilità di
liberarsi, gliela mozza. Questo sacrificio equivale del resto a quello di Muzio Scevola,
il quale lascia consumare la sua mano destra nel fuoco fino a quando non ne rimane
che un moncherino. Nella potenza del mito, che è espressione del simbolo, si trovano
tutti gli ingredienti per ricevere l’informazione principale: ossia che qualcosa è stato,
per l’appunto, “manomesso”; qualcosa inerente il rapporto tra l’uomo e il Principio
metafisico originante.
Perché se in tempi di ordine assoluto è il Melki-Tsedeq, che abbiamo citato ampiamente
nel primo capitolo, a governare con le sue due mani/facoltà, di Pace (Misericordia) e
di Giustizia (Rigore), nel momento in cui l’umanità decade e rifugge dalle dottrine
superiori, egli stesso, rappresentante del Cielo in Terra, smarrisce parte sostanziosa
delle sue possibilità. E nella fattispecie perde una mano, “la destra di Pace”, e gli resta

170
Dopo che Fenrir aveva rotto catene e legacci di ogni tipo, ne viene fabbricato uno magico,
apparentemente un banale filo di seta, bensì infrangibile poiché realizzato dagli gnomi attraverso le
formule magiche esercitate su del materiale di fatto non quantificabile; in sequenza: “rumore di gatto,
barba di donna, radici di montagna, tendini d’orso, respiro di pesce e sputo d’uccello”. Cfr. Edda, cit.
p. 82.
54
“soltanto” quella di Giustizia, la sinistra, che è la medesima poi in dotazione a Scevola
e Tyr.
Tyr è giustappunto dio della giustizia in tempi di guerra e di conflitto, poiché la pace è
venuta meno. E in un’epoca in cui la legge si renda così caparbiamente necessaria, al
di là dei meriti di chi la esercita con rettitudine (memore della “right hand” andata
perduta), indiscutibile è lo stato di abulia che astringe a questa ostinata supervisione,
che in tempi di luce non occorreva, essendo la pace una condizione dominante, insita
automaticamente in una società coordinata ai più alti livelli.
In effetti la runa Teiwaz , che è titolare delle mansioni di Tyr, esercita le sue
simmetrie nel nome del controllo. L’asse centrale, come hanno evidenziato molti
runologi, è una sorta di spartiacque tra le forze opposte della cosmogonia nordica, il
ghiaccio e il fuoco171; Teiwaz da questo punto di vista è anche Irminsul, albero spesso
associato allo stesso Yggdrasil, di cui rappresenta di fatto una variante172. Teiwaz
rimarca insomma alcune delle qualità che abbiamo evidenziato a proposito di Jera e
Isa, rispetto a Hagalaz e Sowulo, nel capitolo precedente. Teiwaz è palo cosmico, è
stella polare, ed è noto che anche il simbolismo polare, come quello assiale più evidente
in Teiwaz, sia una manifestazione del Centro.
Teiwaz è poi indubbiamente runa di azione, ma non certo di un conflitto caotico come
può esserlo quello attribuibile a Hagalaz, che giunge per “pulire” laddove non può
esservi più crescita. Teiwaz è semmai il colpo del cecchino, di chi sa usare la scintilla
secondo le logiche di una mente fredda, cioè abituata a puntare il bersaglio con assoluta
precisione, oltre che con forza, e soprattutto quando il momento è strettamente
opportuno. Teiwaz è in sintesi l’azione necessaria, il fendente secco di chi ha saputo
agire a puntino, dopo anni di apprendistato e allenamento. Del resto Teiwaz va ad aprire
il terzo aett, ed è pertanto una runa triplice: peculiarità che è palese anche nella sua
struttura, che presenta tre direttive perpendicolari . Linee che sono peraltro le stesse
di Algiz , la “runa del sacerdote”, la numero 15. I due simboli in questo sono
simmetrici e complementari. Solo che le tre direttive di Algiz sono rivolte al Cielo
all’unisono, esattamente come l’uomo preso nell’atto di pregare, quasi dimentico della
condizione terrena. Mentre in Teiwaz questi tratti specifici si riabbassano: è come se
le mani dell’invocazione fossero tornate ai fianchi per poter agire concretamente, in
una battaglia o in un dibattimento; la posizione rituale si è trasformata in una postura
coinvolta negli affari del mondo: ovvero gli ideali di elevazione di Algiz sono maturati
verso un intervento fisico, sebbene non casuale, anzi ispirato da un sacro vincolo o da
171
Scrive a tal proposito Edred Thorsson nel suo Runelore: “The cosmogonic force of Týr is
expressed in the initial process necessary to the shaping of the multiverse: the separation or
polarization of the cosmic substances that allows for the vital glories of manifestation between the
poles of fire and ice. The T-rune describes the aspect of the cosmic column that keeps these separate,
holding cosmic order”, ivi cit. p. 128.
172
http://en.wikipedia.org/wiki/Irminsul Bastino queste note per intuire come l’Irminsul fosse una
sorta di tratto visibile, terreno, dell’Yggdrasil stesso. Di fatto, molti alberi germanici “furono eletti a
Irminsul” in varie epoche, e da diverse tribù, per precisi moventi cultuali. Al contempo va precisato
come il nome Irminsul rimandi a una tribù specifica, quella degli Herminones, citati anche da Tacito
nel suo Germania.
55
un giuramento. In tal senso Algiz e Teiwaz partecipano a quell’adagio ermetico che
abbiamo citato precedentemente a proposito di Gebo e Wunjo: Algiz è la
“spiritualizzazione del corpo”, laddove Teiwaz è in questo caso la “corporizzazione
dello spirito”. Tanto è vero che la runa che segue ad Algiz, e precede Teiwaz,
chiudendo il secondo aett, è Sowulo, la quale fornisce sotto forma di saetta quelle armi
olimpiche (vajra e “pietre del fulmine”) che contraddistinguono la missione
regolarizzante proprio di Tyr/Teiwaz.
Quest’ultima è insomma ardore e disciplina, andando a mediare alcune qualità delle
rune che aprono i primi due aett: Fehu, runa della seminale scintilla di vita, e Hagalaz,
ghiaccio “fumantino”, critico e mortifero della palingenesi. Se Fehu è vita “tout court”,
e Hagalaz è morte/rinascita, Teiwaz è equilibrio di questi due opposti, palo garante
tanto della conservazione della vita che della sua repentina trasformazione. Teiwaz è
quindi ago della “bi-lancia”, ossia possiede due lance, quella spirituale e quella
guerriera, che finirà tuttavia per prevalere, inteso il destino del dio Tyr, privato “della
mano di Pace” e paladino attivo di un ciclo cosmico che fonda il suo significato
sull’attesa del Ragnarök, ossia della battaglia finale.
Il che ci consente pure di stabilire un parallelo con la figura del cavaliere templare,
sacerdote quanto guerriero, “conservatore quanto trasformatore” in spirito e in carne,
idoneo a tutelare la vita ma anche a strapparla. Negli ultimi anni il fenomeno del
“templarismo” è a tal punto esploso che non intendiamo partecipare al valzer delle
teorie scioccanti e delle cospirazioni occulte. Ci è sufficiente mettere in evidenza un
rilievo simbolico degno di nota: come ha suggerito Freya Aswynn, la mano destra persa
da Tyr potrebbe coincidere con l’abbandono del sesso femminile173. Dopo di che Tyr
rimane come divinità virile: il sangue delle mestruazioni viene rimpiazzato da quello
sparso in battaglia e dell’androgino, detentore di due lance, resta soltanto l’aspetto
maschile. Chiaramente tale condizione di androginia, lungi dall’essere valutata sul
piano fisico, che è solo un riflesso secondario, andrebbe vista in chiave ermetica e in
tal senso ricollegata alla figura del Bafometto templare o del Janus Bifrons, che
abbiamo visto essere anche rappresentato con una faccia maschile e un volto
femminile, come del resto accade al simbolo equivalente del Rebis.
Una variante che non viene peraltro smentita dalla runa che segue a Teiwaz, ossia
Berkana , glifo della grotta e della montagna (da Berkana deriva il tedesco “berg”,
“montagna” per l’appunto), complementarietà che è identica a quella tra il triangolo
inferiore e quello superiore che abbiamo trovato tanto nel rombo che ricompone la
“Grande Triade” taoista che nel sigillo di Salomone. Restando in ambiti runici, Berkana
si assume inoltre alcuni significati di Gebo; anche qui si tratta infatti di iniziazione, e
quali ambienti, meglio della grotta e della montagna, anche dal punto di vista della
natura fisica del culto, spiegano un’incubazione di tipo misterico174?

173
“Interestingly enough, there is some evidence that the original concept of Tyr was double-sexed
and that like many of the Germanic gods had a feminine counterpart named Zisa. Tyr himself in this
context was named Zio”; cfr. Northern Mysteries and Magick, cit. p. 189.
174
Sulla montagna come luogo “altro” e di acquisizione misterica rispetto ai tratti normalizzanti della
città, si rinvia nello specifico allo studio di Richard Buxton, La Grecia dell’Immaginario – I contesti
56
Berkana, che è simbolo della Grande Madre semper gravida, è la grotta/montagna in
cui il mystes fa il suo ingresso per rinascere a nuova vita. Se consideriamo Berkana in
relazione a Teiwaz, possiamo dire che la prima offre al guerriero identificato dalla
seconda il luogo di riposo, di “passaggio”, morte e rinascita. Molte epopee, non
necessariamente germanico-norrene, presentano immagini di questo tipo: nella grotta
l’eroe va a trovar ristoro, in attesa di una nuova battaglia, oppure proprio su di una
montagna si compie il climax della sua impresa175.
Berkana è d’altro canto segno della vita, della necessaria transizione nel grembo
materno, e il suo albero di riferimento è la “sempre verde” betulla, motivo
particolarmente caro ai culti sciamanici e ai riti di fertilità: questo “essere betulla” di
Berkana fa inoltre il paio con l’ “essere albero” di Teiwaz, che è variante simbolica
della quercia Irminsul. Ma mentre il guerriero con Teiwaz dimostra il suo valore
effettuando sacrifici “alla luce del sole”, quelli relativi al campo di battaglia, con
Berkana l’evoluzione avviene al buio, avvolta da un manto protettivo e rigenerativo
che è la placenta dell’antro sacro. Berkana delle grotte e della montagna è allora
grembo iniziatico e, analogamente a quello femminile, deputato a culti di (ri)nascita e
di (ri)definizione. Come dal ventre materno, da tali luoghi, dopo aver conseguito
l’apprendistato sacro, si esce ridestati a nuova vita176. E’ qui, nel dettaglio, che si svolge
l’incontro tra il retaggio attivo virile e quello passivo femminile, e i ruoli frattanto
s’invertono: nella grotta l’eroe si adegua a ricevere; egli stesso diventa “femmineo”,
come abbiamo appunto sottolineato a proposito dell’anello Gebo, che indica la
disposizione dell’eroe a farsi imbevere di una luce superiore177. Per analogia la caverna
è il triangolo passivo di Gebo, laddove il triangolo attivo è quello che identifica la vetta
della montagna, e che si esprime chiaramente nella punta di Teiwaz . Berkana, questi
due triangoli, in fondo li considera entrambi al suo interno , dal momento che il
guerriero vi entra come “femmina” (la disposizione passiva nei confronti della grotta)
e ne esce come “maschio” (la disposizione attiva nei confronti della vetta della
montagna).

della mitologia, la Nuova Italia, Firenze, 1997, con particolare riferimento al capitolo VI, “Il
paesaggio”, p. 93 e sgg.
175
Si pensi solo al monte Cerchio dove la maga Circe accoglie Ulisse e i suoi compagni: il transito
nell’esperienza magica è uno dei tratti iniziatici per eccellenza e consente all’eroe di ritemprarsi nella
sua “odissea”. Ovviamente tutti questi temi verranno ripresi anche dalle chansons medievali, in cui
ad esempio il Mont Salvat rappresenta il punto di riferimento nella cerca del Graal. Lo stesso dicasi
del resto per la montagna del Purgatorio dantesco, che è di fatto antitesi dell’anti-montagna che è
l’Inferno, cono scavato all’ingiù sempre all’insegna di quella opposizione/complementarietà tra
triangoli che abbiamo più volte evocato. Sul Montsalvatsche si rimanda in particolare allo studio di
Julius Evola, Il mistero del Graal, con particolare riferimento al paragrafo 21, “La sede del Graal”,
nello specifico p. 139 e sgg.
176
Berkana, peraltro, è stata identificata anche come runa del dolmen, monolito arrotondato presso il
quale si organizzavano sacralità varie; non cambia ovviamente il significato del rito di passaggio. Si
veda in proposito Jan Fries, Helrunar – A manual of rune magick, Mandrake of Oxford, Oxford, 1993,
p. 384.
177
Lo stesso feto è totalmente passivo nel grembo materno, al fine di ricevere il nutrimento e le forme
necessarie per “uscire alla vita”.
57
Un passaggio non esclude l’altro, e ne abbiamo testimonianza anche in un romanzo di
fiction, Eaters of the Dead178 di Michael Crichton, poi traslato nel film Il tredicesimo
guerriero179. Scorriamo rapidamente il plot: dodici normanni (più uno straniero, in
questo caso un arabo), struttura che riporta al tribunale sacro degli Asi e più in generale
al numero simbolico delle collegialità celesti istituite sulla Terra, si scontrano con un
popolo che vive nelle caverne, propriamente come gli orsi, e che adora una Grande
Madre che è trasposizione dell’archetipo femmineo originale. Giusto la parola “orso”,
“bear” in inglese - “bär” in tedesco, ha evidenti debiti etimologici con Berkana, grotta
appunto di formazione misteriosa, in cui l’elemento umano si fonde con quello
animale. E qui giungiamo al “trait d’union”, ai cosiddetti berserk, guerrieri che pensano
d’intervenire in guerra sotto i sembianti dell’orso o perlomeno indossando le effigi
dell’orso180, proprio come i “dead eaters” di Crichton che si agghindano con le pelli e
gli artigli di questi animali181.
Al di là della fiction, che comunque evidenzia tratti edulcorati di antichissimi simboli,
è curioso notare come lo stesso Artù (Artos vuol dire “orso” in anglosassone182) possa
aver conseguito una gestazione “altra” prima di assurgere a sovrano civilizzatore dei
dodici cavalieri della Tavola Rotonda183; un Artù dunque da intendersi come
uomo/orso iniziato ai misteri della caverna, da cui il futuro sovrano esce ritemprato a
nuova vita. Ma il “guerriero orso”, più in generale, è anche una manifestazione dello

178
Cfr. Michael Crichton, Mangiatori di morte, Garzanti, Milano, 1977.
179
Il tredicesimo guerriero, regia di John McTiernan, 1999.
180
Come specifica, tra gli altri, Nigel Pennick “to go berserk” equivale ad “andare in battaglia
indossando una camicia di pelle d’orso”. Cfr. Tradizione Nordica, p. 145.
181
Inoltre questi “dead eaters”, all’interno dei loro antri, sono titolari di un culto dei serpenti che è
del tutto analogo a quello dei Marsi del Circeo http://www.terremarsicane.it/node/5188 . E non è del
resto anche quella la zona dell’Ursus arctos marsicanus, l’orso marsicano?
http://it.wikipedia.org/wiki/Ursus_arctos_marsicanus . Vediamo peraltro subito come tutto questo
riguardi il mito di Artù, la cui ombra viaggia insomma dal Circeo al Nord Europa con estrema agilità.
182
Cfr. Tradizione Nordica, p. 149, ma i riferimenti all’orso/Artù sono ricorrenti in materia. Più in
generale sul simbolismo dell’orso rimandiamo al contributo di Franco Cardini qui riportato
http://www.centrostudilaruna.it/simbolismodellorso.html. In questa sede Cardini ha modo di
ricondurre l’orso al simbolismo della nigredo, una chiave tra morte e rinascita che viene
effettivamente rinvenuta anche in alcune mitologie indoeuropee: “Il valore guerriero indotto
attraverso rituali di tipo sciamanico, consistenti nell’ ‘aprirsi’ all’essenza felina del dio-belva o del
dèmone-belva evocato, conduce a collegarsi direttamente con l’Altro Mondo, quello dei defunti: il
dio geto-tracico Zalmoxis (nome che in realtà pare scitico, e che s’interpreta come ‘racchiuso nella
pelle d’orso’) è appunto signore di un Altro Mondo rappresentato da una caverna all’interno di una
montagna. E troviamo un orso tra gli animali che Soslan, l’ ‘eroe solare’ delle ossete ‘Leggende dei
Narti’ (i caucasici Osseti sono, com’è noto, quanto resta dell’antico popolo scitico), benedice nel
Paese dei Morti. Dumézil ha avvicinato la scena della morte di Soslan, sulla quale piangono gli
animali, a quella della morte di Baldr nella Gylfaginning di Snorri. Limitiamoci a ricordare questo
rapporto così affascinante, e leggiamo la benedizione di Soslan all’orso; «Ecco il privilegio che
domando a Dio per te: la tua sola traccia seminerà lo spavento tra gli uomini, e tu resterai cinque mesi
all’anno in una caverna senza provare il bisogno di mangiare!»”; come si nota è presente anche qui
la sovrapposizione degli ambienti grotta/montagna con la gestazione/rinascita del guerriero.
183
Un po’ del resto come Odino, iniziato a specifici misteri prima di diventare Allfödr delle dodici
divinità di Asgard.
58
Kshatriya, casta “succeduta” ai Brâhmani in un’era qualitativamente inferiore184. Tanto
è vero che la regione Iperborea, o semplicemente Borea (da cui sempre i contatti
etimologici con “bear” e “bär”), in questa fase successiva assume il nome di “terra
dell’orso”, laddove prima era nota come “terra del cinghiale”185.
Se analizziamo i simboli principali della saga arturiana, giungiamo peraltro a
conclusioni analoghe. Artù si emancipa infatti attraverso una spada che viene levata da
una fessura in una roccia (una vulva per trasposizione), rimando alla virilità compiuta,
che è anche tema tipico delle fiabe186, ma pure immagine criptata che ancora una volta
conduce alla complementarietà di attrezzo appuntito e di buco, di “pieno” e di “vuoto”,
di vertice della montagna e di rotondità della caverna187. L’eroe che entra, e che esce,
dalla grotta misterica equivale dunque alla spada che entra e viene estratta dalla roccia,
e alla Teiwaz che si unisce a Berkana, per poi “oltrepassarne” i limiti. Se il mystes non
si rende di tanto in tanto “femmina”, ossia non si dispone a ricevere l’insegnamento
attivo, fallisce la sua missione. Solo attraverso fisiologiche fasi di passività,
letteralmente di “incubazione”, egli può trasformare in azione l’apprendistato di cui si
è imbevuto; esattamente come il Graal si appresta a ricevere il sangue di Cristo,
balsamo rivitalizzante in vista di una resurrezione.
Non a caso, il principio della fine per Artù è dovuto al tradimento di Ginevra188 con
Lancillotto: nel momento in cui un’altra “lancia”, il simbolismo è chiaro, s’inserisce
nel grembo iniziatico, l’originario detentore dei segreti viene di fatto sconfessato e il
suo potere ridotto in balia degli eventi. La sapienza non più praticata, a maggior ragione
quando aggredita da una forza che giunge “dal di fuori”, si riduce a “impotenza”. Se
questo è un motivo cifrato che identifica i drammi intestini di cui è preda l’iniziato,
l’immagine ripresenta anche i caratteri formali della lotta tra due contendenti per un
unico trono, come nel caso del Rex Nemoriensis, il sacerdote di Diana presso il lago di
Nemi189. L’autorità del Nemoriensis si mantiene infatti viva e vigorosa perché è

184
“Succeduta” nel senso che l’iniziale autorità dei Brâhmani ha “perso” la sua capacità di dirigere il
corso degli eventi terreni, ma questo non esclude la sua preminenza rispetto alla casta degli Kshatriya.
E’ un tema sul quale avremo modo di tornare nell’articolo in appendice, anche in base a quelle che
sono alcune osservazioni di Guénon.
185
Cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, p. 31.
186
Si rimanda nello specifico agli studi di Bruno Bettelheim, Il mondo incantato – Uso, importanza
e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano, 1977 e Giuseppe Gatto, La fiaba nella
tradizione orale, CUEM, Milano, 2004. Chiaramente, per chi scrive, la trasposizione psicanalitica,
con particolare riferimento al testo di Bettelheim, è solo l’ultimo “step” di un progressivo
storpiamento di una nozione che inizialmente riguardava l’incarnazione più pura del simbolo.
187
La stessa spada, dopo l’utilizzo, viene del resto infilata nella guaina, latino vagīna; l’analogia è
evidente.
188
Evola fa originare il nome Ginevra da Quennuwar, da cui letteralmente deriva anche il titolo di
regina. Nello specifico Quennuwar significa “lo spirito bianco”, a conferma delle sue valenze
simboliche. Se la “dama bianca” viene violata, automatica è infatti la corruzione della conoscenza
originale e del potere “inviolato” che su di essa si fonda. Cfr. Il mistero del Graal, p. 61.
189
Torneremo ancora sul Nemoriensis, analizzando alcuni aspetti del simbolismo di Algiz. A livello
bibliografico non possiamo che rimandare a James G. Frazer, Il ramo d’oro - Studio sulla magia e la
religione, Bollati Boringhieri, Torino, 2012; in particolare il capitolo 1, “Il re del bosco”, p. 9 e sgg.,
e il capitolo 16, “Diano e Diana”, p. 199 e sgg., sebbene Frazer abbia modo di ritornare spesso su
59
costantemente messa in discussione da minacce esterne, costringendo alla pratica
attiva. Viceversa la regalità di Artù si trasforma in indolenza per l’assenza di validi
avversari. Tanto che Artù, insieme ad Excalibur (la virilità attiva che torna ad
emanciparsi), rivive gli antichi fasti soltanto nel momento in cui è chiamato a
fronteggiare la minaccia di Mordred: costui lo “rivivifica” perché è sangue del suo
stesso sangue190.
Se la donna “grotta/roccia” è il transito necessario per nuove fasi di apprendistato, tale
simbolo ricorda che qualora l’iniziato non sia disposto a morire/rinascere, il suo potere
può venir meno ed essere messo in discussione191. Teiwaz e Berkana spiegano dunque
il flusso eterno, del fuoco e del ghiaccio, del “maschile” e del “femminile”, dell’
“attivo” e del “passivo”. Essendo le rune numero 17 e 18 del Futhark germanico, la
loro somma dà 35, ossia per ulteriore trasposizione quell’8 che possiamo intendere
anche come simbolo dell’infinito . Del resto l’8 è al contempo il cubo di 2, ovvero
un 2 che agisce sui tre livelli della “manifestazione”, favorendo un dispiegamento
ciclico che si realizza davvero nella totalità della rappresentazione; la coppia
Teiwaz/Berkana è peraltro operativa all’inizio del terzo aett, quindi la loro cifra è
indiscutibilmente l’8. Finché sussisterà il dialogo tra le forze attive e passive
dell’universo, tra Teiwaz e Berkana per l’appunto, vi sarà vita, morte, rinascita e
trasformazione. In questo le due rune identificano i grandi archetipi di Purusha e
Prakriti, essendo Teiwaz runa dell’antico Padre celeste e Berkana segno della
primigenia Dea Madre. Senza questo delicato equilibrio non vi sarebbe più alcuna
possibilità di conservazione e sviluppo, ed è per tale motivo che l’attesa del Ragnarök
è così sentita e decisiva. Ci torneremo in particolare nel capitolo dedicato a Dagaz, ora
affacciamoci su un altro importante dualismo, che di fatto specifica il sacro intervallo
tra alpha e omega all’interno del Futhark antico.

questo caso esemplare. Citiamo del resto il Frazer, ben consci dei limiti “antropologici” di uno
studioso che comunque, ciò è indubbio, ha lasciato una serie di informazioni poderose sulle civiltà
antiche; sebbene queste vadano poi rivalutate sotto ben altri aspetti.
190
Sulla leggenda di Mordred vedasi le alterne ricostruzioni in http://en.wikipedia.org/wiki/Mordred
Evola riporta, tra le altre, alcune leggende in cui Modred (sic), al pari di Lancillotto, sottrae Ginevra
ad Artù. Modred in questo caso agisce come nipote, senza che peraltro i significati cui abbiamo
accennato vengano meno. Cfr. Il mistero del Graal, p. 62.
191
Anche da un punto di vista sociale, Berkana mantiene in bilico il valore della donna, tra sostegno
regolare al marito, di cui nutre i figli, e antichi retaggi che la pongono sempre come “altra”,
“primordiale”, “selvaggia” rispetto a una comunità che va definendosi secondo istituzioni sempre più
accentuate. Ma il potere vitale del femmineo è il carburante nascosto e necessario che continua a
sgorgare nei momenti critici della tribù, quando i grandi riti di preservazione e purificazione si
compiono, lasciando riemergere quelle forze animali e istintuali che si annidano in ogni uomo. Sul
ritorno del cavallo imbizzarrito si focalizza del resto la runa successiva a Berkana, Ehwaz, transito
utile alla conquista della completezza da parte dell’iniziato in lotta con se stesso. Lo chiariremo nel
penultimo capitolo ponendo a confronto proprio Ehwaz con Mannaz.

60
“Ansuz come Ankh”, “Othila come Omega”.

L’Ankh , o croce ansata, non può essere distinto dal simbolismo più generale della
croce, rappresentandone una variante, al di là delle speculazioni che insorgono ogni
qual volta vi sia la comparsa di un elemento mutuato dall’antico Egitto. Per quanto ci
riguarda, essendo l’Ankh presente anche nei segni del Cristianesimo delle origini, esso
non fa che confermare la continuità esistente tra i vari simboli appartenenti, in varie
epoche, alla Scienza tradizionale. L’Ankh, in quanto croce, è chiave di vita, di “vera
vita”, ossia l’opposto di quella condotta nelle ombre dell’ignoranza: l’epopteia,
l’abbiamo detto con Nauthiz e riprendendo i due monogrammi, viene ottenuta dal
Cristo con il sacrificio sulla croce, il pegno da pagare per ottenere l’immortalità.
Ma passiamo a uno dei temi di questo capitolo, ovvero le analogie che sussistono tra
Ankh e Ansuz , la quarta runa; esse sono già evidenti nel suono: “Ankh, croce ansata,
Ansuz”. Quest’ultima è la “runa di tutte le rune”, poiché rappresenta il sacrificio di
Odino sull’Yggdrasil per ricevere il dono delle rune stesse, intese come quel viatico di
conoscenza che ristabilisce i paradigmi della vera dottrina. Prima di Ansuz non vi è la
consapevolezza di un piano superiore. Le tre rune iniziali del Futhark antico -Fehu,
Uruz, Thurisaz- indicano le forze seminali del cosmo: esplosioni formative e
intromissioni telluriche, genesi sorprendenti e scontri titanici. Fehu in quanto “big
bang” primordiale; Uruz in quanto lotta contro l’animale “interno ed esterno”; Thurisaz
nelle vesti di una manifestazione violenta che accomuna Thor ai giganti di Jotunheim,
in quello che è un contendersi la sopravvivenza.
Sulle propaggini di un simile caos, ancora in gestazione, è Ansuz a portare il soffio
metafisico che anima le cose che, da embrionali e incomplete che erano, assumono un
tratto conforme all’idea originale. Ansuz è del resto lo stesso che Ain-Soph (o En-Soph
o Ein Sof)192, ossia il Principio assoluto nella sua infinitezza, prima di quella auto-
manifestazione che produce il creato. Esso è senza confini e inconoscibile: è ciò che
dà la vita e che contiene ciò che ha determinato, senza che questo sia sufficiente a
spiegarne l’illimitatezza. Ansuz, analogamente, può essere percepita in tutte le cose,
ma non per questo vincolata ad esse; Ansuz è önd (equivalente del prana, del qi, del
pneuma e dello spiritus), “mantra odinico”, soffio vitale che anima ciò che prima era
inerte193: ad esempio il primo uomo e la prima donna, Ask ed Embla, gli Adamo ed

192
Su Ain Soph si rimanda ai capitoli dedicati alla Cabala in Forme tradizionali e cicli cosmici, p. 49
e sgg. e allo studio di Gershom Scholem, Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio,
Adelphi, Milano, 1998.
193
Ansuz, come ha evidenziato Mario Polia in Le rune e gli dèi del Nord (p. 49 e sgg.), rimanda anche
ad Asu, termine sanscrito che significa “soffio vitale”. Asu che facilmente possiamo riferire anche
agli Asi, gli dèi principali della mitologia nordica. Sulle peculiarità di Ansuz, in quanto soffio, va
peraltro notata anche l’assonanza con il termine Hamsa, “il cigno che cova il Brah-mânda sulle Acque
primordiali, il quale si identifica peraltro con lo <<spirito>> o <<soffio divino>>.” Cfr. La Grande
Triade, cit. pag. 50. Hamsa, analogamente a Ansuz, è dunque il soffio dal quale diparte la creazione,
laddove le acque effettivamente rappresentano il lato caotico e potenziale su cui si innesta tale
intervento. Questa condizione di caos e indeterminatezza, come abbiamo visto, è rappresentata dalle
prime tre rune del Futhark antico.
61
Eva della mitologia nordica, un limpido barlume di coscienza nel traffico di un’età
oscura.
Ansuz ha chiare attinenze pure con il verbo sacro: con la parola prima, con la lettera
alpha, aleph o alif, a seconda delle circostanze; “in principio era il Verbo” recita
l’attacco del Vangelo di Giovanni194. Il respiro del grande polmone pronuncia la sua
strofa inaugurale e la vita scorre in ogni cosa; Ansuz è il compiersi del Logos195. Ansuz
è di rimbalzo la sentenza sacra che viene sillabata nei riti autentici: il respiro e la recita
sono del resto parti essenziali del culto; proprio la respirazione anticipa l’apertura della
bocca, e il suono proferito è evocazione delle forze sottili che dominano l’universo.
Non è un caso che Ansuz nel Futhark anglosassone sia nota con il nome di “Os”, che
in latino significa “bocca”, così come del resto gli omina sono presagi pronunciati con
la parola. Os che promana önd è pertanto Ansuz, runa del verbo “magico”, quel lato
del vocabolario che non ha semplice valore semantico ma che assurge a stato di
formulazione liturgica. Il suono, lungi da avere soltanto un significato, diventa atto
mistico, in grado di determinare un cambiamento, più o meno evidente, a seconda del
potere dell’officiante e del cerimoniale dispiegato.
La stessa ispirazione poetica, grazie ad Ansuz, diventa qualcosa di oggettivabile in
parola. Ed è l’uomo a beneficiarne, trasformandosi in folgorato ed in furente (Odino,
tra le sue varie accezioni, significa anche “furore”). Ansuz è in definitiva runa della
comunicazione “tout court”: lo scaldo (il bardo nordico) è tale perché ha succhiato alla
fonte dell’idromele (il “mead”) che è del resto assimilabile al madhu; vedremo in un
prossimo capitolo come Ansuz partecipi, all’interno di una formula specifica, al
simbolismo della bevanda d’immortalità.
Se Ansuz è il soffio di Dio, viceversa Othila è il contenitore che lo raccoglie, l’ampolla
che lo preserva, lo spazio in cui esso si delimita e in cui esso è garantito. Othila, come
abbiamo avuto modo di vedere alla fine del primo capitolo, è un sigillo di stabilità e di
centramento: è altro rispetto al movimento, è tutto quanto sia rifugio e “bivacco sacro”.
In effetti Othila può essere vista come la fusione di due Raido , una di spalle

194
“Al principio c’era colui che è <<la Parola>>. Egli era con Dio; Egli era Dio. Egli era al principio
con Dio. Per mezzo di lui Dio ha creato ogni cosa. Senza di lui non ha creato nulla. Egli era vita e la
vita era luce per gli uomini. Quella luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Dio
mandò un uomo: si chiamava Giovanni”; cfr. Giovanni, 1, 1-6.
195
Il già citato Scholem spiega del resto in questi termini la produzione del creato, che è poi essa
stessa produzione del linguaggio: “Nasce così nell’En-Sof un movimento <<da sé a sé>>, in cui si
esprimono quella delizia di sé dell’En-Sof, ma insieme anche le potenzialità nascoste di ogni
espressione. A partire da questo moto intimo incomincia a tessersi, nella sostanza stessa dell’En-Sof,
la veste primordiale, in ebraico malbuš. E’ questa la vera Torah originaria, nella quale -e ciò è davvero
notevole- la scrittura, la segnatura nascosta in Dio, precede il discorso, così che il linguaggio nasce,
in ultima analisi, dal farsi suono della scrittura e non viceversa”. Cfr. Il Nome di Dio e la teoria
cabbalistica del linguaggio, cit. p. 68. E più nello specifico: “Quando l’En-Sof si ritrasse in se stesso,
la veste della Torah originaria si ripiegò e rimase nell’En-Sof quale forza primordiale di ogni dinamica
del linguaggio: tuttavia, nello spazio originario generato da questo processo di contrazione (simsum),
penetrò la yod di uno dei Nomi suddetti e, concentrando la sua forza in quella sorta di punto da cui è
costituito, comunicò il movimento del linguaggio a tutte le emanazioni e ai mondi che si stavano
formando”; ivi, cit. p. 69.
62
all’altra, senza ovviamente la perpendicolare che regge la quinta runa, che tuttavia è
anche il tratto nascosto che determina la conformità di Othila all’axis mundi. Essendo
Raido, tra le altre cose, icona del pellegrino santo, o anche “rad”, ossia la ruota del
regolare svolgimento cosmico, potremmo intendere Othila come la risultante di due
forze di moto opposto, e contrario, che si annullano vicendevolmente creando la
stabilità assoluta. Othila incasella l’energia dell’apprendistato e della conoscenza
ereditata in un posto preciso: fornisce al soffio di Ansuz i contorni di un’orma
riconoscibile.
Una capienza che riguarda peraltro il sapere esoterico, quindi la trasmissione di
un’influenza spirituale lungo i canali di una società di tipo tradizionale; ma anche un
bagaglio di valori più profani (perfino materiali) che un uomo, o una collegialità di
uomini, ha ricevuto da coloro che sono venuti prima. È infatti certo il rapporto che lega
Othila alle parole “edel/adel” che in olandese e tedesco indicano il “nobile”, colui che
possiede, in quanto eredita, una terra, dei beni e altri individui al suo servizio. Non solo
tuttavia, almeno secondo la prospettiva originale, e questo fa di Othila il signum anche
dello Kshatriya, oltre che del sacerdote, nel momento in cui si voglia considerare il
nobile/guerriero come colui che si pone a tutela di una terra -intesa come porzione
vincolata a un diritto di tipo superiore- per il quale egli è designato a combattere.
Proprio una tecnica militare antica, ad appannaggio degli opliti ellenici e nota come
othismós, consente di cogliere alcune analogie con il senso di Othila, che del resto
sembra apparentata anche a livello etimologico con questi concetti. Il verbo greco
otheo significa infatti “spingere” e tale era l’essenza dell’othismós, che è stato
paragonato all’odierna mischia del rugby: esso vedeva gli opliti formare dei blocchi
compatti che avevano lo scopo di impedire che l’avversario guadagnasse terreno196.
Othila, in base a tale prospettiva, spiegherebbe la funzione del “respingere”, dello
“spingere fuori”, chiarendo la missione del milite tradizionale, in quanto ultimo
baluardo di uno spazio sacro che, indipendentemente dalla sua portata fisica o
spirituale, va protetto da ogni violazione esterna.
Othila da leggersi quindi come “estremo tabù” di una società ideale, tanto che abbiamo
già spiegato nel primo capitolo come essa abbia a che fare con il grande regno
primordiale della Tradizione, l’ “Ultima Thule” iperborea197. Senza che questi
significati vengano peraltro meno, Othila può essere intesa anche come summa di

196
Si rimanda in tal senso allo studio di Peter Krentz, La battaglia di Maratona, Il Mulino, Bologna,
2011. Si tratta di uno studio meticoloso sulle condizioni storiche che portarono alla battaglia nella
piana di Maratona tra i greci e i persiani. Ed è anche un testo ben documentato sulle rispettive tecniche
militari. Proprio da pagina 57, nel paragrafo “Come combattevano i greci?”, è possibile ritrovare
precise indicazioni sull’equipaggiamento ellenico del periodo e testimonianze attendibili sulle
strategie di combattimento, tra cui appunto anche quella nota come othismós.
197
Sull’argomento, s’invita alla consultazione di Guénon, Il Re del Mondo, e di Julius Evola, Rivolta
contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma, 1969, in particolare il capitolo “Il <<polo>>
e la sede iperborea”, pag. 230 e sgg. Secondo alcune varianti, peraltro, il primo a riferire di questa
misteriosa terra, poi associata ad Atlantide, fu l’esploratore greco Pitea (che viaggiò nel 300 a.C.) e
che la collocò al largo delle Isole Britanniche, descrivendola come terra di “fuoco e ghiaccio”, un
profilo assolutamente calzante con il nocciolo dell’esoterismo nordico, che si fonda proprio su tale
dualismo.
63
Gebo e Inguz . Se Gebo presuppone il dare/ricevere e Inguz sintetizza un
patrimonio giunto a definitiva maturazione, possiamo appunto leggere in Othila la
garanzia visibile della ricevuta trasmissione di un bagaglio superiore, al di là delle
revisioni che esso ha ricevuto nel tempo. In quanto marchio sacro, Othila riprende anzi
le peculiarità di Wunjo : quest’ultima ha in comune con Othila l’occhiello della porta
“solare” e il simbolismo del “needle’s eye”198. In effetti se si tirano le estremità inferiori
di Othila , si ottiene qualcosa di molto simile alla “cruna dell’ago” e alla stessa runa
Wunjo. Othila è al limite una sanzione più definitiva di quanto preannunciato da
Wunjo; è il suo vertice compiuto. E infatti il triangolo che corona tutta la struttura di
Othila è l’apice che immette direttamente in Cielo, nell’ “occhio della cupola”. Solo la
conclusiva runa Dagaz, con il suo improvviso moto, determinerà il raggiungimento del
terzo occhio, l’unico rimasto in dotazione a Odino, sia che s’intenda tale rivelazione
da un punto di vista “epocale” o “individuale”.
Othila è l’ultimo passo stabile prima di questa immane rivoluzione e imprime sulla
Terra quel centro che viene proiettato direttamente dal Logos: Othila è omphalos –
proprio questo ripetersi finale della particella “os” rimanda a quella che è l’origine del
verbum, dell’Os bocca che abbiamo riconosciuto in Ansuz. Othila ne raccoglie il sorso,
in quanto ombelico, in quanto sede della pietra sacra, il “betile”, quel segno capace di
spiegare il divino nella sfera umana. La parola “betile”, si è detto, patrocina proprio il
termine Othila che designa frattanto un polo incorruttibile, almeno nelle intenzioni,
tanto che il non farne parte implica il “non esistere”. Othila contiene infatti nel suo
germe etimologico i prodromi del suo opposto “other”: se qualcuno vuole sapere che
cosa sia “l’altro”, gli basterà fare una sottrazione rispetto a Othila e al vé odinico che
essa sottintende199; ciò che non rientra in tali pertinenze è allora “il non vivente,
l’illusorio, l’innominato”.
Il termine vé evidenzia di fatto la materializzazione del respiro di Odino, dell’ “Ansuz
che trasuda in Othila”; in loro vi è la prima e l’ultima faccia del mistero divino nel
tratto della rappresentazione: in Ansuz secondo derive assiali, in Othila in base ai
criteri della circonferenza. Sono entrambe simbologie del Centro, che al limite
ripropongono il dualismo di Purusha e Prakriti che abbiamo già associato a Teiwaz e
Berkana nel capitolo precedente: ossia ciò che in Ansuz è pensiero “attivo” (yang), in
Othila è capienza “passiva” (yin).
Le prime tre rune, più la conclusiva, sono invece “collaterali” rispetto alla logica
dell’auto-manifestazione del Principio metafisico all’interno del ciclo terrestre. Un

198
“Needle’s eye” che potrebbe essere interpretato anche come “occhio del bisogno”. Se
consideriamo che Nauthiz è la runa del “Need-Fire”, ma identifica anche il “bisogno”, inteso come
nodo/legame che si viene a stabilire tra un soggetto e una determinata condizione dell’esistenza,
capiamo come il rilascio di questo nodo e l’apertura di un’ “asola” equivalga a una liberazione e
all’uscita verso una nuova realtà dell’esistenza. In questo senso Wunjo e Othila rappresentano delle
“variabili”, delle opportunità evolutive, rispetto alla trama ancora “annodata” prevista dal segno di
Nauthiz. Si riporta in tal senso a quanto detto, con Guénon, nella nota 128 a proposito del sûtrâtmâ.
199
Scrive Edred Thorsson: “The O-rune describes the ring-wall, the symbol of the enclosed land
separated from all that around it and thereby made sacred (ON vé)”. Dove “ON” sta ovviamente per
“Old Norse”; cfr. Runelore, cit. p. 134.
64
ragionamento analogo è stato dedicato a Nauthiz e Jera: abbiamo infatti evidenziato
come la loro somma produca il 22, ossia la cifra delle rune del Futhark germanico,
senza considerare Fehu e Dagaz, intese come “ingresso” e come “uscita” dell’intero
corso. Tuttavia, in questo tipo di riflessioni, a Fehu e Dagaz è sensato associare Uruz e
Thurisaz, segni che abbiamo correlato a forze indefinite rispetto al soffio di Ansuz. Se
questa “getta” il primo seme di spirito su un cosmo “inconsapevole”, Othila, d’altra
parte, è la definitiva cristallizzazione di un procedimento ispirato dall’alto, attenga esso
un intero ciclo o un singolo individuo, e abbiamo visto nel primo capitolo in che
termini, anche altamente degenerativi, questa solidificazione possa manifestarsi. Ciò
non toglie che soltanto dopo che Othila avrà esaurito tutte le sue possibilità, avverrà
l’estrema rottura, lo strappo di Dagaz. Ma questo è altro argomento, che va al di là di
Ansuz e Othila che sono pertanto “l’alpha e l’omega del Futhark antico”; del resto,
anche a livello visivo, Othila attiene il segno dell’omega . Afferma a tale riguardo
il Cristo apocalittico: “Io sono l’alfa e l’omega, colui che è, che era e che viene,
l’Onnipotente”200. In mezzo ad Ansuz e Othila, in quelle venti rune, c’è tutta la sostanza
dell’Onnipotente nel dispiegarsi della manifestazione, tanto che la somma di Ansuz,
runa numero 4, e di Othila, la 23, dà come risultato il 9, cifra che abbiamo più volte
associato a uno spazio, temporale o territoriale, di gestazione e compimento201. È
peraltro interessante notare, e ci limitiamo a farlo di sfuggita, come la parola ermetica
“Azoth” in qualche modo possa sembrare la contrazione fonetica di Ansuz e Othila;
non è un’osservazione così assurda se consideriamo le attribuzioni dell’Azoth e le
caratteristiche delle due rune, anche alla luce del fatto che, a metà dell’intervallo
suggerito, troviamo Eihwaz, runa che ha a che fare con il simbolismo del lapsis exillis
e della pietra filosofale202. E se, precedentemente, abbiamo definito Inguz il definitivo

200
Cfr. Apocalisse, 1, 8.
201
Ci siamo tornati spesso, in queste pagine, sul 99 delle cantiche dantesche, sui nove giorni e le nove
notti trascorsi da Odino sull’Yggdrasil, come del resto sempre nove sono i mondi “appesi” all’albero
cosmico della mitologia nordica.
202
Si legge ad esempio, e a più riprese, dell’Azoth, fermo restando che si tratta di un termine
ricorrente nella scienza ermetica, in Basilio Valentino, Azoth - Ovvero L'Occulta Opera Aurea dei
Filosofi, a cura di Manuel Insolera, Edizioni Mediterranee, Roma, 1988. “In Occidente, si dà il nome
di Azoth alla pietra, alla «cosa nascosta». Gli Orientalisti fanno risalire la parola Azoth a una di queste
due: el-dhat (o ez-zat), che significa essenza o realtà interiore - oppure a zibaq, il mercurio. La pietra,
secondo i Sufi, è il dhat, l’essenza, la cui potenza è tale, da essere in grado di trasformare tutto quanto
si trova in contatto con essa. È l'essenza dell’uomo, che partecipa di ciò che si è usi chiamare il divino.
(...) Possiamo spingerci ancora molto più avanti. Tre elementi concorrevano alla produzione del dhat,
dopo essere stati sottoposti al «lavoro». Questi elementi sono: lo zolfo (kibrit, omofono a Kibirat:
«grandezza, nobiltà»); il sale (milk, omofono a milh «bontà, sapienza»); e il mercurio (zibaq, che ha
la stessa radice della parola che significa «aprire una serratura, spezzare»)”, cit. pp. 121-122. Nel
dettaglio questo passaggio si trova nell’appendice ed è attribuito a Idries Shah, studioso afghano
esperto di sufismo. Abbiamo riportato questo passaggio, proprio per la rilevanza che viene attribuita
alla pietra, il che ci permette di ricollegarci al simbolismo di Eihwaz, intesa come luz e caput anguli
dell’edificio sacro. Ma c’è un altro passo nell’Azoth che vale la pena di citare: “E come per ogni altra
cosa, dalla più grande alla più piccola, il principio e la fine provengono da Dio, l’A e l’O,
l’onnipresente. I Filosofi mi hanno gratificato con il nome di Azoth, con le lettere latine A e Z, le
greche α e ω, le ebraiche ‫ א‬e ‫ת‬, Aleph e Tau, che sommate insieme danno «AZOTH>>”, ivi, cit. p.
65
compimento di una simbiosi tra Ansuz e Othila, si può al limite affermare che Eihwaz,
nel suo essere a metà di un certo ingombro, introduce quel processo, finalmente
consapevole, che mira proprio alle attribuzioni di Inguz. Certe simmetrie vanno
insomma misurate in base a quelle che sono le differenti qualità “messe sul piatto”.
Soffermiamoci ora su Raido, la runa che segue ad Ansuz nel Futhark antico, chiarendo
come la “parola prima”, intesa come Ain-Soph, trovi con Raido il più regolare degli
sviluppi e degli svolgimenti.

105. Troviamo in questo passo alcune delle considerazioni alle quali siamo giunti sulla scorta
dell’analisi di Ansuz e Othila, che effettivamente, riprendendo il Valentino, sono “il principio e la
fine, l’A e l’O, l’onnipresente” – non solo: anche qui viene rilevata la valenza alfabetica presente in
Ansuz, che va letteralmente dalla “A” alla “Z”. Per la cronaca Basilio Valentino è stato identificato
con un monaco benedettino; vediamo che cosa dice in merito l’Insolera nell’introduzione al testo:
“Una radicata leggenda vuole che lo pseudonimo alchemico di Basilio Valentino nasconda un monaco
benedettino, tedesco, vissuto nel monastero di St. Peter, a Erfurt; un giorno, dalla breccia aperta da
un fulmine improvviso in una colonna della chiesa di Erfurt, sarebbero venuti fuori i manoscritti dei
suoi celebri trattati. Sebbene i suoi libri comincino ad essere pubblicati -dall'editore Johann Thölde-
a partire dal 1599, alcuni hanno supposto che egli sia vissuto nel corso del XV secolo, e che sarebbe
quindi da considerare un precursore di Paracelso, e non un suo seguace, come più comunemente si
suppone. Sulla reale identità di Basilio Valentino, nel corso dei secoli, sono state formulate le ipotesi
più svariate. Queste supposizioni potrebbero infittirsi particolarmente proprio riguardo alla paternità
del nostro trattato sull’Azoth, date le scarse indicazioni fornite dalle primissime edizioni dell’opera”,
ivi. cit. p. 8; per la cronaca la prima edizione dell’Azoth uscì a Francoforte nel 1613, in una duplice
edizione, una in tedesco e una in latino. Notiamo per inciso che Fulcanelli in Il mistero delle
Cattedrali (p. 79) attribuisce l’Azoth, non a un presunto monaco di Erfurt, ma a Senior Zadith, che
sarebbe un alchimista arabo del x secolo d.C.; a onor del vero questa interpretazione è inserita nella
stessa edizione dell’Azoth che abbiamo citato poc’anzi.

66
Raido e il senso dell’orientarsi

Partiamo immediatamente da alcune lunghe note di Guénon, conservate nell’articolo


“Qabbalah” che abbiamo tratto dalla raccolta Forme tradizionali e cicli cosmici. “La
radice QBL, in ebraico e in arabo, esprime essenzialmente il rapporto di due cose poste
l’una di fronte all’altra; da qui procedono tutti i diversi significati delle parole derivate,
come, ad esempio, quelli di incontro e anche di opposizione. Risulta da tale rapporto
anche l’idea di un passaggio dall’uno all’altro dei termini contrapposti, per cui si hanno
idee come quelle di ricevere, accogliere, accettare, che si esprimono nelle due lingue
con il verbo qabal; e di là deriva direttamente qabbalah, che vuol dire propriamente
<<ciò che è ricevuto>> o trasmesso (in latino traditum) dall’uno all’altro. Vediamo
allora delinearsi, con l’idea di trasmissione, anche quella di successione; ma è bene
rilevare che il senso primo della radice indica un rapporto che può essere tanto
simultaneo che successivo, tanto spaziale che temporale. Questa considerazione spiega
il duplice significato della preposizione qabal in ebraico e qabl in arabo, che vuol dire,
contemporaneamente, <<davanti>> (cioè <<di fronte>> nello spazio) e <<prima>>
(nel tempo)”203. Poco più avanti Guénon passa ad analizzare un’altra radice comune
all’arabo e all’ebraico: “Si tratta della radice QDM, che esprime in primo luogo l’idea
di <<precedere>> (qadam), da cui tutto ciò che si riferisce non solo ad una anteriorità
temporale, ma ad una priorità di qualsivoglia ordine. Così, per le parole derivanti da
questa radice, si trovano, oltre ai significati di origine e di antichità (qedem in ebraico,
qidm o qidam in arabo), quello di preminenza o di precedenza, ed anche quello di
cammino, di progresso o di progressione (in arabo taqaddum); e anche qui la
preposizione qadam in ebraico e qoddâm in arabo ha il duplice significato di
<<davanti>> e di <<prima>>. Ma il senso principale, in questo caso, designa ciò che è
primo, sia gerarchicamente che cronologicamente; così, l’idea espressa con maggior
frequenza è quella di origine o di primordialità e, per estensione, nell’ordine temporale,
di antichità: pertanto, qadmôn in ebraico, qadîm in arabo hanno il significato di
<<antico>> nell’uso corrente, ma, quando si riferiscono al dominio dei principî,
devono essere tradotte con <<primordiale>>. Ancora a proposito di queste parole, è
opportuno segnare altre considerazioni non prive di interesse: in ebraico, i derivati della
radice QDM servono anche a designare l’Oriente, vale a dire le regioni dell’
<<origine>>, quelle cioè dove appare il sole nascente (oriens da oriri, da cui discende
anche origo in latino), il punto di partenza del cammino diurno del sole; e, nello stesso
tempo, è anche il punto che si ha davanti quando ci si <<orienta>>, volgendosi verso
il levar del sole. Così, qedem significa anche <<Oriente>> e qadmôn <<orientale>>;
tuttavia non sarebbe lecito vedere in tali denominazioni l’affermazione della
primordialità dell’Oriente, dal punto di vista della storia dell’umanità terrestre, poiché,
come spesso abbiamo avuto occasione di dire, l’origine prima della tradizione è
nordica, anzi <<polare>>, quindi né orientale né occidentale; d’altronde, la spiegazione
che abbiamo appena fornito ci pare esauriente. Aggiungeremo a questo proposito che
le questioni di <<orientamento>> hanno generalmente una notevole importanza nel

203
Cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, cit. p. 50.
67
simbolismo tradizionale e nei riti che si basano su tale simbolismo; esse del resto sono
più complesse di quanto si creda e possono dar luogo ad errori, perché esistono, in
forme tradizionali diverse, parecchi modi di orientamento differenti. Quando ci si volge
verso il sole nascente, come abbiamo appena detto, il Sud è designato come il <<lato
destro>> (yamîn o yaman; vedi il sanscrito dakshina che ha il medesimo significato),
e il Nord come il <<lato sinistro>> (shemôl in ebraico, shimâl in arabo); ma può anche
darsi che l’orientamento sia fatto volgendosi verso il sole al meridiano, e allora il punto
che si ha davanti non è più l’Oriente, ma il Sud: questo spiega perché, in arabo, il lato
Sud, fra le altre denominazioni, ha anche quella di qiblah, e perché l’aggettivo qibli
significa <<meridionale>>. Questi ultimi termini ci riportano alla radice QBL; e si sa
che la stessa parola qiblah, nell’Islam, designa anche l’orientamento rituale, ed è, in
ogni caso, la direzione che si ha davanti. Un altro particolare piuttosto strano è che
l’ortografia della parola qiblah è esattamente identica a quella dell’ebraico
qabbalah”204.
Visto il tenore degli argomenti, meglio essere prolissi piuttosto che frammentari, anche
per porre delle basi solide su ciò che andremo dicendo su Raido. Ricongiungiamoci,
anzi, ai suoi significati, cercando di stabilire delle analogie con quanto appena
riportato. Raido è la quinta runa del Futhark germanico e nel vocabolario
anglo/tedesco ha originato verbi quali “to ride” e “ritten”. Raido è dunque il percorso
del cavaliere, colui che per antonomasia compie un viaggio etico, ossia “right” o
“recht”, parole che designano valori come “giusto”, “onesto”, “retto” e “corretto”; ciò
che va a destra è quindi di fatto “right”, “destro” e “retto” nello stesso momento205.
Non si tratta soltanto di qualità umane, ma di condizioni imprescindibili che rientrano
nel “contratto” stabilito con un’entità superiore. Inoltre, come si può notare dalla sua
forma , Raido si sviluppa realmente, perlomeno nell’ottica dello spettatore, da
sinistra a destra206. Ora, abbiamo appena detto con Guénon che certi problemi di
orientamento, o meglio di orientazione, non possono essere sdoganati con definizioni
aleatorie, tuttavia possiamo accennare al fatto che, in alcuni passaggi del Taoismo, la
“via destra” viene identificata con la strada che riporta al Cielo, ed è quello che del
resto nota sempre Guénon in un capitolo specifico di La Grande Triade, sebbene
quanto riportato vada anche a chiudersi con alcune precisazioni che ribadiscono la
complessità di qualsivoglia orientazione, dal momento che la destra e la sinistra variano
a seconda che si prenda in esame la prospettiva dello spettatore di un oggetto o quella

204
Ivi, cit. pp. 51-53.
205
La ricerca del cavaliere è del resto “perennial quest”, è quella del Graal e della conoscenza
salvifica: un elemento che viene messo in evidenza dalla runa successiva a Raido, Kenaz , quel
fuoco prometeico che simboleggia appunto la cerca della verità e che rappresenta la torcia che
illumina l’iter del santo viaggiatore. Sulle imprese del Graal rimandiamo ai testi già citati di Evola e
Ponsoye.
206
Ovviamente Raido non è l’unica runa che si sviluppa secondo questa direzione; ciò non di meno
ci pare incontestabile che la perpendicolare di questo segno indichi una stabilità dalla quale diparte
una qualche forma di movimento, che è poi il succo di questi ragionamenti.
68
dell’oggetto stesso207. Ciò non toglie che Raido operi la sua gittata in una direzione
precisa, e proprio nell’intenzione di orientarsi, ossia di tornare alle “origini” dal
momento che, come abbiamo appena visto, la radice QDM designa al contempo le
regioni “orientali” e quelle cosiddette dell’ “origine”. Questo rimettersi in carreggiata
è conforme peraltro al recupero della “right hand” lasciata da Tyr nella bocca di Fenrir:
come sappiamo, giusto quella mano era garante della Pax universale, sulla scorta della
missione in Terra, quale rappresentante celeste designato, del Melki-Tsedeq.
Non solo: essendo Raido anche “rad” (tedesco e olandese), ossia la ruota, essa rientra
nei temi cosmici; scrive ancora Guénon: “E’ noto che la ruota è in genere un simbolo
del mondo: la circonferenza rappresenta la manifestazione, prodotta dall’irradiazione
del centro; questo simbolismo è d’altronde naturalmente suscettibile di significati più
o meno particolarizzati, giacché, invece di applicarsi alla totalità della manifestazione
universale, può anche applicarsi soltanto a un certo ambito di essa. Un esempio
particolarmente importante di quest’ultimo caso è quello in cui due ruote associate
corrispondono a parti diverse dell’insieme cosmico; ciò si riferisce al simbolismo del
carro, quale s’incontra in particolare, molto spesso, nella tradizione indù(…)”208.

207
“(…) la tradizione estremo-orientale si trova in perfetto accordo con tutte le altre dottrine
tradizionali, nelle quali effettivamente l’Oriente è sempre considerato come il <<lato luminoso>>
(yang) rispetto all’Occidente e l’Occidente come il <<lato oscuro>> (yin) rispetto all’Oriente; il
mutamento nei rispettivi significati della destra e della sinistra, essendo condizionato da un
mutamento di orientazione, è insomma perfettamente logico e non implica assolutamente alcuna
contraddizione. Questi problemi di orientazione sono peraltro assai complessi, perché non solo
bisogna far sempre attenzione a non commettervi nessuna confusione tra corrispondenze diverse, ma
può anche darsi che, in una medesima corrispondenza, la destra e la sinistra abbiano entrambe il
sopravvento da punti di vista diversi. Lo indica con la massima chiarezza un testo come il seguente:
<<La Via del Cielo preferisce la destra, il Sole e la Luna si muovono verso Occidente; la via della
Terra preferisce la sinistra, il corso dell’acqua va verso Oriente (…) >>. Il passo (attribuito a Tcheou-
li, n.d.a) è particolarmente interessante, in primo luogo perché afferma, indipendentemente dai motivi
che ne dà e che devono essere intesi piuttosto come semplici <<illustrazioni>> desunte dalle
apparenze sensibili, che la preminenza della destra è associata alla <<Via del Cielo>> e quella della
sinistra alla <<Via della Terra>>; ora la prima è necessariamente superiore alla seconda e, potremmo
dire, gli uomini sono venuti a conformarsi alla <<Via della Terra>> proprio perché hanno smarrito la
<<Via del Cielo>>, fatto che indica molto bene la differenza tra l’epoca primordiale e le ulteriori
epoche di degenerazione spirituale. In secondo luogo, si può scorgervi l’indicazione di un rapporto
inverso tra il movimento del Cielo e quello della Terra, in rigorosa conformità con la legge generale
dell’analogia; ed è sempre così quando ci si trova in presenza di due termini che si oppongono in
modo tale per cui uno di essi sia quasi un riflesso dell’altro, riflesso che è invertito come l’immagine
di un oggetto in uno specchio lo è rispetto all’oggetto stesso, talché la destra dell’immagine
corrisponde alla sinistra dell’oggetto e viceversa”. Cfr. La Grande Triade, cit. pp. 67-69. Sulle
specifiche dell’orientazione, si rimanda più in generale a tutto il capitolo da cui abbiamo tratto questo
brano, intitolato per l’appunto “Problemi di orientazione” (p. 65 e sgg.); ed esse non sono di poco
conto, proprio considerando il cambio di prospettiva che è possibile adottare rispetto alle direzioni
dei punti cardinali. Quelle che abbiamo voluto inserire in questo capitolo sono “solo” osservazioni
indicative e di massima, spesso da considerare più nel loro simbolismo letterale che in quanto foriere
di effettivi “comportamenti rituali”.
208
Cfr. Simboli della Scienza sacra, cit. p. 226.
69
Raido difatti non è soltanto ruota, ma anche carro: quest’ultimo, in virtù della sua
struttura composita di elementi circolari, le ruote, e di supporti quadrangolari, la cassa,
si pone quale riassunto ideale dell’architettura dell’universo. In questo senso ci dà
conforto anche l’aritmetica sacra: abbiamo già detto a proposito di Jera come la sua
cifra sia la risultante della moltiplicazione del 3, numero celeste, con il 4, numero della
Terra. Il valore di Raido, il 5, è prodotto d’altro canto dalla somma del 2 (essenza del
4) più il 3; ovvero, alcuni rilievi numerici di Jera sono già presenti in Raido, anzi hanno
qui la loro valenza originale dal momento che il 2 e il 3, anche nella tradizione taoista,
sono rispettivamente le cifre della Terra e del Cielo209. Ma sempre in questa specifica
tradizione, come rileva Guénon, “il 5 e il 6 sono la Terra e il Cielo nella loro reciproca
azione e reazione, dunque dal punto di vista della manifestazione che è il prodotto di
tale azione e di tale reazione”210. Raido è quindi da intendersi come rappresentazione
della Terra rispetto al Cielo: e in ogni caso il 5 e il 6 sono considerati, sempre sulla
scorta del Taoismo, come numeri “congiuntivi”, che esprimono cioè la misura visibile,
più che l’essenza, del 2 terreno e del 3 celeste211. Il 5 di Raido è peraltro esito di una
somma, e tale aggregazione di fattori, a differenza della moltiplicazione, nota Guénon,
rappresenta una cosiddetta “azione di presenza”, laddove la molteplicità indica la
potenzialità della sostanza, come già avevamo sottolineato nel primo capitolo a
proposito di Jera212. Raido è allora passiva rispetto al soffio di Ansuz, per dirla tutta è
un suo ricettacolo, e avremo modo di chiarirlo fra poco, investigando anche altre
analogie di significato.
Ciò non toglie che il rapporto privilegiato che Raido detiene nei confronti di ruota e
carro confermi appunto questo suo ruolo “congiuntivo” tra Terra e Cielo. Tale esito si
compie anche attraverso il raggio della ruota, che infatti, aritmeticamente parlando, è
detto “radius”, sia in tedesco che in inglese. Lo stesso raggio del sole, “ray” in inglese,
conserva dei debiti etimologici nei confronti di Raido e il sole altro non è, nelle sue
raffigurazioni simboliche, che una ruota dotata di raggi. E del resto anche nella nostra
lingua utilizziamo termini come “radiazione” o “irradiamento” (o “irradiazione”) nel
senso di spandere o emettere raggi o altre componenti “energetiche”. Evidente è inoltre
la relazione tra ruota, carro e sole. “Cart”, in inglese “carro”, è affine a “quarter”, il
quarto, una suddivisione che può riguardare i raggi della ruota, i quadranti
dell’orologio, che di fatto muovono le loro lancette verso destra, proprio come Raido
che grazie ai suoi movimenti riunifica l’uomo con il Principio, che è in fondo il mozzo

209
Essendo l’uno il numero che designa l’unità metafisica, al di là della manifestazione, Guénon
spiega: “Perciò, se il 2 è il primo numero pari, come primo numero dispari sarà considerato il 3, e
non l’uno; di conseguenza, il 2 è il numero della Terra e il 3 il numero del Cielo”. Cfr. La Grande
Triade, cit. p. 74.
210
Ivi, cit. p. 76.
211
Ivi, pp. 77 e 78.
212
Ivi, pp. 77.
70
della ruota213. Raido è frattanto carro soprattutto in relazione al sole214, la runa Sowulo
in questo caso, che, come lo swastika, è simbolo del polo centrale, esso stesso mozzo
della ruota215.
Nella mitologia nordica il carro del sole è trainato dalla dea Sunna, conosciuta anche
come Sól: essa riprende il suo viaggio durante la festa di Yule, il Solstizio d’inverno216.
Abbiamo già avuto modo di sottolineare nel primo capitolo come tale ricorrenza aprisse
il calendario della tradizione primordiale, quindi anche in questa nota è conservato un
riferimento alla vera origine, nel senso proprio di principale orientamento. Il nome
della Dea Sunna (da cui appunto il “sun” inglese) presenta inoltre dei solidi legami con
il “Sud”217 e questo stabilisce perlomeno degli interessanti nessi con quanto riportato,
sempre con Guénon, poco più sopra: “Quando ci si volge verso il sole nascente, come
abbiamo appena detto, il Sud è designato come il <<lato destro>>”. Essendo Raido la
runa del carro che recupera il sole nascente, ed essendo Sunna una divinità legata al
meridione, questo spiegherebbe perché Raido si indirizzi verso il “lato destro”.
Indirizzarsi verso il sole, e con il sole, equivale in ogni caso a seguire la regolarità (altro
termine che deriva da ciò che è “right”, nel senso sia di “retto” che di “destro”) di un
disegno superiore, anche se, come abbiamo visto, qualsivoglia conclusione circa i
problemi di orientazione rischi inevitabilmente di essere parziale, se non erronea.
Incuriosisce però, quantomeno, che il termine arabo Sunna identifichi allo stesso modo
una consuetudine, un’abitudine, un codice regolare, un dispiegamento della legge,
secondi solo al Corano. Se consideriamo che il Corano è “la voce di Dio”, proprio come
lo è Ansuz all’interno del Futhark antico, e che la Sunna islamica e Raido (in quanto
vettore della dea Sunna) rappresentano entrambe un’emanazione della fonte principale,

213
Cfr. Simboli della Scienza sacra, p. 227.

214
Di carri ve ne sono peraltro molti nel novero della mitologia germanica. Nijördr e i suoi figli -Frey
e Freya- vengono mostrati alla guida di un carro, motivo poi ripreso nei rituali propiziatori delle
comunità nordiche: questi spostamenti terreni ripercorrevano i drammi cosmici, ricompattando la
comunità di fronte al sacro, nei momenti più difficili della stagione agricola. I carri nelle
rappresentazioni cerimoniali venivano utilizzati per condurre l’officiante (nelle vesti del dio) in quei
riti, soprattutto invernali, che servivano a benedire i campi in vista del risveglio primaverile. Un altro
viaggio simbolico si compie del resto anche con Thor: costui dirige un carro guidato da capre (simbolo
di ricchezza e di benessere). Cfr. Secrets of Asgard, p. 42. Sui rituali agresti si rimanda ovviamente
anche al Frazer, in particolare ai capitoli dedicati alla morte e alla risurrezione dello spirito della
vegetazione tramite i sembianti di un dio; si vedano gli approfondimenti su Adone, Attis, Osiride, p.
388 e sgg.
215
Ad un livello corporeo, le ruote connettive che si muovono tra Raido e Sowulo sono identificabili
d’altro canto come i chakra - si pensi soprattutto al plesso solare che riguarda proprio il genere di
interconnessioni che indirizza Raido verso Sowulo. Nella mitologia norrena, del resto, lo scoiattolo
che si sposta lungo l’Yggdrasil, per far interagire l’aquila e il serpente posti agli antipodi, è noto come
Ratatosk, nome in cui, ancora una volta, è evidente la matrice della “Rat/ruota” di Raido.
216
Per inciso anche la parola tedesca che identifica il sole è femminile, “die Sonne” appunto.

Scrive a tal proposito Vincent Ongkowidjojo: “The Sun Goddess is also named Sunna. Her name
217

means ‘in the south’.” Cfr. Secrets of Asgard, cit. p. 91.


71
ossia il Corano e il verbo di Ansuz, individuiamo ulteriori, e singolari, analogie. La
stessa “circumambulazione” rituale islamica procede del resto nel senso orario, o
solare, come ha avuto modo di precisare Guénon nel già citato capitolo di La Grande
Triade dedicato all’orientazione, mentre la “circumambulazione polare” va verso la
parte opposta, in senso cioè anti-orario, e questo accade ad esempio con la tradizione
indù che del resto vanta un retaggio più antico di quello islamico. Ovvero non
sorprende che, analogamente, l’esoterismo germanico/norreno segua la direzione
oraria, rappresentando essa stessa una versione successiva della dottrina “polare” dei
primordi218.
In ogni caso, da qualunque punto di vista lo si voglia oggettivare, il carro di Raido è
quello che trasporta “un qualcosa”, un qualcosa propriamente verificatosi con Ansuz.
Se Ansuz è il primo soffio manifesto di Dio, il verbo sacro che presiede alla creazione,
il viaggio di Raido non può che motivarsi se non per ritornare a questo respiro originale,
anche se chiaramente tale viaggio è orario e deve percorrere, verso destra, tutto il
Futhark che resta, più la parte iniziale che precede Raido, volendo appunto intendere
l’alfabeto runico come codice iniziatico e schema della riproduzione ciclica, essenza
che peraltro abbiamo già ampiamente documentato nel primo capitolo.
Tutto ciò ovviamente è alla base del senso tradizionale. Partiamo dall’estrema
volgarizzazione del termine per giungere alla radice del significato autentico: fuori
dalle logiche sacre, nel corso delle epoche terrestri, il carro, o suo moderno equivalente,
si è affermato quale vettore tipico del commercio, ossia del “trade”, la parola inglese
che designa tale attività e che verosimilmente è apparentata anche alla “rad/Raido” di
cui sopra. “Trade” è del resto ogni trasmissione di beni portati “a spasso” per un
territorio più o meno vasto, tanto che si parla di raggio d’azione a proposito
dell’influenza che uno specifico giro di affari riesce a produrre su un determinato
spazio, e il raggio come sappiamo è componente essenziale della ruota. Ma come
abbiamo visto più sopra, nei passaggi di Guénon in apertura, ciò che è “ricevuto o
trasmesso” in latino è noto come traditum: tradere significa perciò “trasmettere una
tradizione” e, proprio all’interno di questo verbo, noi riconosciamo la base “rad” che
fa di Raido il vettore deputato a tramandare la tradizione, chiaramente sotto nuove
forme, quelle che sono indicative dell’esoterismo runico, ma sempre in quel
movimento orientativo che cerca di tornare al nocciolo della questione, alla sostanza
primordiale delle origini219.
Pertanto se Ansuz è la rivelazione della parola sacra, aleph o alif del Futhark
germanico, Raido “riprende letteralmente il discorso”, tanto che in tedesco “rede”

218
Ciò non toglie che il Nord polare che Guénon riferisce come primordiale sia presente nei ricordi
della stessa sapienza norrena; proprio in Othila il rimando alla Tulè iperborea, lo abbiamo notato, è
assolutamente palese. E anche in Evola vi è la traccia di questo retaggio comune, che in verità
dovrebbe risultare automatico, considerando la tradizione germanico/norrena come un’emanazione
appunto successiva di una dottrina più antica. Si veda in tal senso il già citato capitolo sul “Polo” e la
sede iperborea in Rivolta contro il mondo moderno, in particolare da pagina 232 in poi.
219
Per non parlare quindi di che cosa si è ritrovato a denotare un termine che all’epoca identificava
la trasmissione più alta: il “trade” odierno è decisamente agli antipodi del tradere delle origini.
72
significa proprio “discorso”220. Bisogna anche precisare che “rat” e “raad” sono termini
atti ad indicare le assemblee delle antiche tribù germaniche e olandesi, confermando il
rapporto di Raido con la “retorica” (altra branca derivata), strumento di base in ogni
tipo di conciliazione pubblica o privata. Tuttora il concetto di “tavola rotonda”, in
conformità con il viaggio circolare di Raido, rappresenta un incontro di più persone
attorno a un tema specifico o ad un problema; in tempi remoti, se non “leggendari”, si
pensi al sacro collegio dei cavalieri di Artù, proprio una simile tavolata doveva farsi
carico della responsabilità di traghettare nella giusta direzione il destino di un intero
popolo. Analogamente il giudice in olandese si chiama “rechter” 221, in quanto erede
del rex in simili mansioni coordinatrici; tanto è vero che il latino rego significa
“reggere, dirigere e guidare”, così come del resto regio indica contemporaneamente “la
direzione e la linea retta”. Chi guida e “regge” nel senso più nobile del termine,
insomma non può farlo che secondo certe direzioni e “direttive”. Ancora oggi il
tribunale Vaticano è noto come “Sacra Rota”, per rimanere in ambiti in cui è chiara
l’attinenza tra il parlare, il giudicare e il muoversi rettamente, sia esso fisico o figurato;
tutti significati che sono tipici della runa Raido, al di là delle imponenti screpolature di
concetto che si sono verificate nel tempo.
Tornando alla natura intima del parlare in quanto gesto del “diffondere il verbo”, un
discorso che non venga più tramandato oralmente tramite il “rede”, può anche essere
scritto e quindi letto (“to read”) e addirittura tradotto, e infatti un verbo latino affine a
tutte queste radici, reddo, significa “tradurre”, ossia trasmettere/trasportare in un’altra
lingua, oppure anche “restituire”, consentendo l’atto del “ritornare”, in questo caso a
un senso che è andato smarrito222. Ciò è alla vera base della tradizione e del suo
rapporto con il linguaggio, che non è dunque da intendersi se non come uno strumento
designato a trasmettere un qualcosa che non poteva più essere compreso e recepito
sotto le precedenti modalità; la “tradizione” coincide dunque con la “traduzione”, nel
momento in cui i significati originali siano resi secondo nuove possibilità espressive,
senza che il valore effettivo ne esca mutato; e ciò fa di ogni forma tradizionale in fondo
una traduzione, in altre lingue e codici, di un sapere primo e comune. In gergo si dice
del resto anche “ritornare alle proprie radici” e tanto l’italiano “radice” (latino radix)
quanto l’inglese “root” concernono le attribuzioni della “rad” e le sue basi linguistiche:
la ruota d’altro canto non fa che muoversi in direzione delle sue origini e solo un “giro
di lancette completo” può rappresentare un vero rientro al punto di partenza. Raido è
220
Anche Polia (Le rune e gli dèi del Nord, p. 57) ritrova in molti derivati di Raido il legame con la
parola e l’enunciazione: raddaðr significa ad esempio “avente la voce d’un certo tono”, così come
raddartól è “organo della parola” e raddmaðr “persona dotata di voce potente”. Sempre Polia annota
del resto: “Posta nella serie dopo ANSUZ, RAIDÔ contiene in sé l’idea di “suono” e “movimento” e
indica l’effetto del disserrarsi della “bocca” divina, il prorompere del tuono (Odino il “Tuonante”) e
l’inizio della “rotazione” universale”; ivi, cit. p. 58.
221
Sui significati di Raido, anche in relazione ai concetti di ruota e tribunale, si rinvia nello specifico
a Northern Mysteries and Magick, p. 23 e sgg.
222
Anche l’inglese “translate”, mutuandolo nell’italiano “traslare”, dà il senso di qualcosa che è stato
appunto trasmesso e trasportato, restituendolo nel suo significato. Anche quando si traslano delle
spoglie si agisce in teoria per dare una degna, definitiva, sepoltura che dovrebbe equivalere a un vero
e proprio “ritorno a casa”.
73
allora anche la legge dell’eterno ritorno, e in effetti parole come “return” così come
“redemption” ( sempre da “rad”) indicano il saldo, in chiave circolare, di un continuo
moto ciclico che riguarda tutti gli aspetti della manifestazione.
Nelle radici QBL e QDM Guénon ha del resto individuato sia ciò che sta “davanti (cioè
<<di fronte>> nello spazio)” tanto ciò che viene “<<prima>> (nel tempo)”. Se
intendiamo il viaggio di Raido come quello della ruota, effettivamente Ansuz le sta al
contempo davanti nello spazio e prima nel tempo. Ovvero Ansuz è quella fonte
originale nei confronti della quale Raido tende il suo movimento orario pendente a
destra; trattandosi di uno spazio circolare di fatto Ansuz sta davanti a Raido, e tuttavia
è altrettanto vero che Ansuz la precede all’interno del Futhark Antico (nel tempo
dunque), anzi di fatto la determina e la specifica, suggerendone la “parabola”, che è
infatti al contempo parola e movimento. Il tragitto di Raido è in definitiva fatto di
“parole”223, di “discorsi da tramandare”, in quella directio che è “retta”, “dritta”224,
proprio come il raggio che unisce il centro della circonferenza con la circonferenza
stessa, indicando una continuità con quel sapere originale verso il quale ci si orienta;
Raido è in tale ottica incondizionato “ritorno a casa”, propriamente alla tradizione
primordiale.
Ciò è chiaro anche sotto altri aspetti: se consideriamo che il già citato verbo “to read”
nel participio passato e nel passato remoto si pronuncia “red”, abbiamo un’equivalenza
fonetica con il colore rosso, in inglese “red”, in tedesco “rot”. Rendere rosso in inglese
si dice “to redden” e ciò chiaramente riguarda da vicino anche la tinta color rosso ocra
che contraddistingue le antiche incisioni rupestri, tra cui quelle delle stesse rune. Si
dice del resto, sotto derive magiche, che per “energizzare” le rune e renderle “attive”
bisogna colorarle di rosso: questo rosso è il sangue delle rune, e per analogia un corpo
esangue è un corpo senza vita225.
Ma “red” o “rot” hanno ovviamente una chiara attinenza con “rad” e “rat”, ossia ciò
che circola regolarmente (come del resto fa il sangue all’interno del corpo) e che si
muove rettamente, nel senso di una direzione che punta a riallacciarsi con il Principio
metafisico226. Per proiezione, colui che s’incammina lungo la “via stretta”, ossia ancora

223
Ciò è chiaro ad esempio nel verbo latino ire che significa “andare”, “recarsi”, ma che indica anche
uno “spargimento di notizie”. Tra l’altro Guénon nota come il verbo ire sia parte integrante di in-ire
“entrare”, verbo “iniziatico” dal momento che initiatio deriva proprio da in-ire, il che riconduce del
resto anche al valore di “porta” incarnato da Giano. Cfr. Simboli della Scienza sacra, p. 120.
224
La “dritta” è ancora oggi nel gergo comune un consiglio di vitale importanza, un’informazione
chiave per accedere al nocciolo di una situazione. La stessa ratifica è un tentativo di riportare una
dichiarazione nella corretta dimensione; e proprio “ratifica” conserva al suo interno un po’ tutte le
radici che abbiamo avuto modo di analizzare fino ad ora.
225
E del resto il termine tedesco che indica il rosso, “rot”, ha attinenza anche con il “brot”, il pane,
che in termini eucaristici è il supporto fisico del sangue “rosso” di Cristo.
226
Anche la parola sanscrita rita partecipa di questi significati, rappresentando “ciò che è conforme
all’ordine”, senso che è rimasto nell’avverbio latino rite e alla medesima parola “rito”, che di fatto
contrassegna un’operazione fatta in rappresentanza dell’ordine superiore; lo stesso dicasi per il senso
del “ritmo”, originariamente inteso. Cfr. René Guénon, L’esoterismo cristiano e San Bernardo,
Arktos – Oggero editore, Carmagnola, 1997, nota 19 pp. 74-75.
74
una volta “retta”, del sentiero iniziatico dovrà omologarsi a questa traiettoria; il che ci
porta anche alla formula del Vitriolum ermetico, che ribadiamo qui dopo averla
menzionata nel primo capitolo: Visita inferiora terrae, recfiticando invenies occultum
lapidem, veram medicinam. L’esigenza di tale rectifcare è quindi quella di tornare
all’origine, ossia di orientarsi, il che, rimanendo in termine ermetici, è poi l’attuazione
della cosiddetta rubedo, “l’opera al rosso”. Il rectificare è inoltre curiosamente affine
alla pratica di rendere rosse (reddificare?!) le rune per attivarne il potere magico. Il
colore rosso è dunque a testimonianza che si stia procedendo “in the red/right
direction”, ancora una volta nei riguardi di ciò che è stato autenticamente trasmesso
per la “primissima” volta. Questo ci riporta a quanto detto più sopra, tramite Guénon,
circa la parola qadmôn: “Ma il senso principale, in questo caso, designa ciò che è
primo, sia gerarchicamente che cronologicamente; così, l’idea espressa con maggior
frequenza è quella di origine o di primordialità e, per estensione, nell’ordine temporale,
di antichità: pertanto, qadmôn in ebraico, qadîm in arabo hanno il significato di
<<antico>> nell’uso corrente, ma quando si riferiscono al dominio dei principî, devono
essere tradotte con il <<primordiale>>”.
Il primo uomo non a caso è l’Adam Qadmôn, e se analizziamo il senso proprio della
parola Adam, sempre sulla scorta di Guénon, capiamo come il rosso che anima Raido
e tutte le “operazioni rectificanti” sia giustappunto il colore delle origini, e quindi di
quella Tradizione primordiale verso la quale ci si orienta in un viaggio di tipo iniziatico;
scrive Guénon: “Innanzitutto, si noti che, dal punto di vista linguistico, non è
ammissibile l’etimologia volgare, la quale giunge a far derivare Adam da adamah, che
viene tradotto con <<terra>>; l’ipotesi inversa sarebbe più plausibile; ma, in effetti, i
due sostantivi provengono entrambi da una medesima radice verbale adam, che
significa <<essere rosso>>. Adamah, originariamente almeno, non è la terra in generale
(erets), né l’elemento terra (iabashah, parola il cui senso primitivo sta ad indicare
l’<<aridità>> come qualità caratteristica di questo elemento); è propriamente l’argilla
rossa che, per le sue proprietà plastiche, è particolarmente adatta a rappresentare una
certa potenzialità, una capacità di ricevere delle forme; e il lavoro del vasaio è stato
spesso preso a simbolo della produzione degli esseri manifestati dalla sostanza
primordiale indifferenziata. Per la stessa ragione, la <<terra rossa>> sembra avere una
speciale importanza nel simbolismo ermetico, in cui essa può essere vista come una
delle raffigurazioni della <<materia prima>> (…). Si aggiunga che la parentela fra una
delle designazioni della terra e il nome Adam, preso come tipo dell’umanità, si ritrova,
sotto un’altra forma, nella lingua latina, in cui la parola humus, <<terra>>, è vicina in
maniera altrettanto singolare ai termini homo e humanus (…). Quanto alla parola dam,
<<sangue>> (che è comune all’ebraico e all’arabo), anch’essa deriva dalla stessa radice
adam: il sangue è propriamente il liquido rosso, ed è questa la sua caratteristica più
immediatamente evidente. La parentela fra tale designazione del sangue e il nome di
Adam è dunque incontestabile e si spiega da sola con la derivazione da una radice
comune(…)”227.

227
Cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, cit. pp. 43-44; più in generale si rinvia all’intero capitolo
intitolato, per l’appunto, “Alcune considerazioni sul nome Adamo”. Notiamo come ulteriore curiosità
75
che, analogamente, è “sacred”, sacro in inglese, qualcosa che evidentemente ha attinenza con il rosso,
inteso appunto quale colore di un’origine specifica. Una spiegazione analoga può essere fornita anche
nell’ottica delle dottrine ermetiche. Come abbiamo accennato nella nota 138, il mentale umano,
riflesso dell’Ente, è definito simbolicamente dalla stella a cinque punte; la parola “mente”, nota
Kremmerz, ha cinque lettere come le cinque punte della stella. Inoltre, anche nel tedesco e
nell’inglese, vocaboli come “mann” e “man” (chiari debitori del latino mens) identificano l’uomo,
ossia colui che riceve in dono la “mente”, per investitura proprio dell’Ente. Raido conosce nei
confronti di Ansuz, “accidentalmente o meno”, il medesimo rapporto che vige tra “mente” ed “Ente”,
essendo quest’ultima parola composta da quattro lettere e Ansuz, come sappiamo, oltre a essere Ente
nella sua equivalenza con il soffio originatore dell’Ain-Soph, è proprio la runa numero 4. Raido è
dunque non casualmente la numero 5 e, altrettanto non casualmente, ha forte attinenza con il rosso,
il colore di Adamo, il primo uomo, colui che è nato dalla matrice primordiale, che è del tutto identica
alla materia rossa che contraddistingue la pasta di base del lavoro ermetico, inteso appunto come
nuovo inizio della risalita umana verso le sfere celesti. Sulla forte interconnessione che vige tra il
simbolismo di Adamo e la materia ermetica fa fede anche il testo di René Adolphe Schwaller de
Lubicz, Adamo l’Uomo Rosso o gli elementi di una gnosi per il matrimonio perfetto, Edizioni
Mediterranee, Roma, 2006. Schwaller de Lubicz che, notiamo en passant, sarebbe una delle
personalità dietro alle quali si nasconde la fantomatica identità di Fulcanelli. Sul riferimento si rinvia
a Giorgio Galli e al già citato Hitler e la cultura occulta, p. 27, che a sua volta si basa sulla
ricostruzione di Geneviève Dubois, Fulcanelli - Svelato l’enigma del più famoso alchimista del XX
secolo, Edizioni Mediterranee, 1996. Un accenno al rosso come colore specifico può essere ripreso
ancora tramite Guénon, ma sotto altri aspetti, facendo riferimento ai guna che rappresentano le prime
tre caste dell’Induismo. Rimandiamo in tal senso alle pagine di Autorità spirituale e potere temporale,
Adelphi, Milano, 2014. Scrive Guénon alla nota 1 (p. 64): “ai tre guna corrispondono colori simbolici:
il bianco a sattwa, il rosso a rajas, il nero a tamas; in virtù del rapporto da noi qui indicato, i primi
due colori simboleggiano altresì rispettivamente l’autorità spirituale e il potere temporale”. Notiamo
per inciso che i tre colori citati sono gli stessi della dottrina ermetica (albedo, rubedo, nigredo) e
anche delle insegne templari (il bianco e il nero del Beauceant più il rosso della croce templare). Ma
qui interessa soprattutto il valore del colore rosso che corrisponde al guna di rajas, descritto dallo
stesso Guénon come “l’impulso espansivo, in base al quale l’essere si sviluppa in un certo stato e, in
qualche modo, a un livello determinato dell’esistenza”; ibidem. Identificando rajas le caratteristiche
dello Kshatriya, è chiaro che ci rivolgiamo agli ambiti della pura azione, dell’impeto guerriero che,
almeno tradizionalmente, non deve avere altra logica giustificazione che il mantenimento dell’ordine
affinché l’autorità spirituale, quella dell’intelletto puro del Brâhmano, possa conservare le sue
prerogative o addirittura ampliarle, salvaguardando il legame che sintonizza l’organizzazione
terrestre con i piani celesti. Teniamo presente che Raido è giustappunto runa del “rider”, del cavaliere
alla ricerca del Graal che infatti abbiamo identificato con Kenaz, sesta runa nel Futhark antico. Il
rosso è invece colore del regno animale nell’interpretazione che Guénon dà al “tricolore di Dante”
che equivarrebbe alle altrettante virtù teologali (fede, carità e speranza) laddove la prima è
rappresentata dal bianco ed è a testimonianza del regno minerale, la seconda è appunto identificata
con il rosso e coincide con il versante animale; e la terza, descritta dal verde, appartiene di diritto al
regno vegetale (cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, p. 45). Sull’argomento anche l’Esoterismo di
Dante, p. 26 e 90 e sgg.). Se il rosso è il colore di Adamo, ossia del primo uomo dopo la caduta, ci
troviamo in effetti in una dimensione a cui a prevalere è l’aspetto “animale” rispetto a quello
spirituale. Non a caso lo stesso Evola ebbe modo di vedere nell’arte ermetica una manifestazione
tipica dell’essenza dello Kshatriya (si rimanda in tal senso a Julius Evola, La Tradizione Ermetica
nei suoi simboli, nella sua dottrina e nella sua “Ars Regia”, Edizioni Mediterranee, Roma, 1971.)
Ma mentre per lo studioso italiano questa attribuzione non aveva nulla di dispregiativo, potendosi
alternare secondo la sua visione il dominio spirituale e quello del guerriero, per Guénon questa
sovrapposizione non era altro che una conferma della radice più bassa dell’ermetismo rispetto a
76
Il viaggio di Raido è dunque “sotto il segno del rosso”, che equivale alla materia prima
e che comunica con ciò che “sta a Oriente” nel senso di un “primordiale che sorge”;
anche il Sol Levante della bandiera giapponese è del resto un cerchio denso e rosso.
Nella prospettiva del Futhark antico, Raido punta proprio verso Sowulo, che identifica
il sole del sé superiore. Più in generale, la rectificatione di questo Futhark si compie
con Ansuz e prosegue con Raido: Odino si inverte sull’Yggdrasil giustappunto per
cambiare “rotta” (“route” in inglese), termine gemello di “retto”. Lo stesso luz,
nocciolo d’immortalità equivalente della Kundalini, si trova ad altezza dell’osso sacro:
ma “osso” (che rimanda d’altro canto anche al “rosso” della materia prima ermetica) è
anche os, bocca, come abbiamo già chiarito a proposito di Ansuz, che è infatti nota
come “Os” nel Futhark anglosassone. Proprio questo tratto del corpo umano è quindi
il “bocchettone”, il crocevia tra le energie superiori e quelle inferiori, o meglio “infere”,
del corpo umano; il retto diventa “retta via”, qualora si decida di risalire la china:
tutt’altra è invece la sostanza qualora si inverta il cammino. Odino sceglie le correnti
alte, rispetto a quelle basse, nella sua prova iniziatica: il capovolgimento chiaramente
è di prospettiva rispetto a una strada che andava nella direzione opposta, nelle paludi
di energie propriamente “sataniche”.
Prima di Ansuz vi è non di meno il caos, e nella sequenza del Futhark ciò è palesato
dalla presenza della runa Thurisaz, che rappresenta l’assalto titanico e nichilistico di
Thor nei confronti dei giganti di Jotunheim. La palingenesi di Odino sposta invece la
direzione del cosmo verso destra, inverte l’andamento della corrente sulle linee del
“right path”; per analogia, attraverso Raido, il ritorno a Oriente è un ricongiungimento
con la vera nascita di Odino, qui nelle vesti di “sole”, tanto è vero che il mondo si
oscurerà col Ragnarök allorché Fenrir inghiottirà l’Allfödr. Per di più Guénon, lo
abbiamo riportato in apertura di capitolo, segnala come il verbo latino che identifica la
nascita sia origo, analogo di orientis; in entrambi i termini vi è la radice anche di rectus,
da cui appunto il “lato destro” di Raido; senza contare che l’auriga è colui che conduce
il carro, e proprio il carro è una delle immagini che appartengono al simbolismo, e del
sole e di Raido228. L’Aur di Auriga fa inoltre pensare all’ “aurora”, all’Aor, il fuoco
spirituale, e all’Aurum, il “sole ermetico”, Sowulo nel Futhark antico, ovvero la runa
maggiormente legata a Raido. La costellazione dell’auriga, detta anche “Cocchiere”, è
peraltro vicina nei cieli proprio all’Orsa Maggiore, il “grande carro”, e si presenta come
un pentagono regolare: se consideriamo che Raido è la runa numero 5, troviamo
l’ennesima equivalenza degna di nota; l’ultima per il momento.
Chiariti questi valori di Raido, possiamo infatti tornare ad Ansuz e alla sua presenza in
una formula legata al consumo di bevande dalle proprietà specifiche.

qualsiasi dottrina connotata da una metafisica più vicina all’essenza primordiale. Avremo modo di
chiarire meglio questi aspetti nel capitolo presente qui in appendice.

228
Si dice del resto anche “rigare dritto”, nel senso di comportarsi rettamente. L’auriga è dunque colui
il quale si assume le responsabilità di un viaggio “retto”, che “riga dritto” verso l’ “oro spirituale” e
il sole, in qualche modo ancora una volta in direzione dell’Oriente delle origini.
77
La formula ALU, la sapienza che si può “bere”

Quella dell’ALU, che ha dato il nome alle “ale” che possiamo consumare tuttora nei
pub, era un’intonazione “magica” che all’interno dei cerimoniali delle comunità di
stirpe germanica rientrava in quei sacrifici che prevedevano appunto un’offerta votiva
a base di birra e in tutte quelle ritualità che sfociavano in libagioni di informazioni
superiori229. La “bevuta off-limits”, nota come symbel -che conserva tuttora una
valenza virile nelle società di stampo anglo-sassone-, rivestiva presso queste genti un
ruolo significativo, ponendosi come ulteriore fase di passaggio attraverso i ranghi della
tribù. Venire ammesso al “drinking table” presupponeva l’essere diventato uomo, e
come per i banchetti dionisiaci del vino tale prassi si risolveva in un assaggio (che è
praticamente lo stesso che “passaggio”) della conoscenza, e pertanto in un corrispettivo
avanzamento tra i livelli di uno specifico cursus honorum.
Il trittico ALU, scomposto da un punto di vista runico, incorpora del resto una sequenza
precisa: Ansuz , Laguz e Uruz . Di Ansuz abbiamo ampiamente detto e vi
ritorneremo ancora, in merito alla sua appartenenza a tale formula, non prima però di
aver chiarito meglio i significati di Laguz e di Uruz.
Laguz è acqua, un sorso che scroscia da altezze superiori, con chiare valenze di
purificazione. Da vette, giustappunto, come nel caso di Ansuz, che è segno simile
proprio a Laguz, nella forma e nell’attivazione di un sapere “autorevole” per chi ne
venga investito. Solo che Ansuz è respiro, mentre la sostanza di Laguz è liquida: liquida
e catartica, come l’acqua battesimale o lo scorrere infinito del diluvio universale230.
Laguz è dunque un’iniziazione a cascata, che si trattiene poi nei “recinti” di un lago
(Laguz appunto) o che si esprime per il tramite di un fiume231. Alcuni di questi
significati possono essere rinvenuti anche nel simbolismo della lancia del centurione
Longino: quest’ultimo, come è noto, era un soldato romano che secondo testimonianze
ritenute apocrife penetrò il costato di Cristo sulla croce per accertarsi che fosse morto.
La descrizione biblica della penetrazione delle carni del Messia è peraltro più generica,
senza che si faccia riferimento diretto a Longino: “ma uno dei soldati gli trafisse il
fianco con la lancia. Subito dalla ferita uscì sangue con acqua” (Giovanni, 19, 34).

229
Spiega Vincent Ongkowidjojo: “In the main, Alu has a twofold ritual meaning. On the one hand
it refers to an offering of beer. On the other hand, it refers to the mysteries of drinking the holy mead”.
Cfr. Secrets of Asgard, cit. p. 241. La formula ALU è stata peraltro rinvenuta su “bratteati” così come
su monoliti, spesso chiudendo una specifica sequenza invocatoria.
230
Proprio il leccio è l’albero che secondo la leggenda cresce per primo dopo il diluvio universale:
“leek” in inglese, di cui evidente è la parentela con il suono di “lake/Laguz”.
231
Lo stesso Guénon cita del resto più volte il simbolismo del “passaggio delle acque”: nel testo che
riportiamo Guénon si sta riferendo al fiume inteso come axis mundi; si ritrova qui l’immagine della
Laguz che scroscia dall’alto, da vette celesti, in corrispondenza appunto dell’asse del mondo. “(…) è
il ‘fiume celeste’ che scende verso la terra, e che nella tradizione indù è designato con nomi come
quelli di Gangâ e di Saraswatî, che sono propriamente i nomi di certi aspetti della Shakti. Nella
Cabala ebraica questo ‘fiume della vita’ trova la sua corrispondenza nei ‘canali’ dell’albero sefirotico,
per mezzo dei quali le influenze del ‘mondo di su’ vengono trasmesse al ‘mondo di giù’, e che sono
anche in relazione diretta con la Shekinah, che equivale in fondo alla Shatki (…).”; cfr. Simboli della
Scienza sacra, cit. p. 297.
78
Longino, dal greco logké (lancia)232, è quindi per lo più una figura simbolica.
Attraverso il suo nome e il suo attributo, la lancia, egli ha a che fare con l’acqua e
quindi anche con Laguz, intesa come siero liquido che promana dall’alto. Sangue e
acqua in questo caso fuoriescono dal costato di Cristo, che è in una posizione rialzata
rispetto ai soldati romani e agli altri astanti: l’immagine è pertanto uguale a quella di
Laguz 233.
Parimenti, trattandosi del corpo di Cristo, non può che essere un liquido superiore
quello di cui stiamo parlando e infatti il sangue e l’acqua spiegano qui la palingenesi
del redentore234. L’acqua e il sangue sono presenti anche nei riti dionisiaci, dove era
usanza mescolare nel “cratere” l’acqua con il vino, laddove il vino figurava quale
sostituto del sangue, come nel rito eucaristico peraltro; senza considerare che vi è qui
un’identità specifica con quella stessa trasformazione operata dal Cristo, dall’acqua al
vino appunto, alle nozze di Cana. Come ha notato tra gli altri Jean-Robert Pitte, i greci
designavano con la parola krasis questa mescolanza di acqua e vino, un’usanza che è
rimasta poi in dote alla Chiesa Ortodossa235. Krasis significa però anche “armonia”, e
non può del resto che essere considerata armonica una composizione nata dall’incontro
tra l’acqua e il sangue depositati nel costato di Cristo, colui che con il sacrificio della
croce stabilisce de facto l’armonia tra la vita e la morte, tra la fine e il nuovo inizio. Il
sangue/vino chiaramente indica il sacrificio della carne, e l’acqua il tocco
d’immortalità che va a ripulire la ferita dando nuova linfa all’immolato che, dimentico
del decesso, è ora eterno nello spirito.
La stessa acqua di Laguz è da intendersi dunque in senso miracoloso, o perlomeno
catartico. A tale acqua è del resto affine il simbolismo del vascello, dell’arca di Noè
che affronta appunto le “acque corrosive” del diluvio universale. E omologo del
dell’arca è indubbiamente il Graal, che compare proprio sotto la croce, per mano di
Giuseppe di Arimatea che nella coppa leggendaria raccoglie lo spurgo della ferita di
Cristo. Il cerchio si chiude se consideriamo che la lancia non è soltanto un attrezzo
militare, ma anche il nome di un’imbarcazione, ossia di un supporto che solca e domina
l’acqua236.

232
Cfr. Il Re del Mondo, nota 2 p. 48. Logké che tanto più chiaramente rimanda a Laguz.
233
Anzi, si potrebbe quasi intendere la forma di Laguz come la croce vista lateralmente, con il capo
di Cristo abbassato dopo il trapasso.
234
E’ peraltro noto come il sangue coagulato, ossia quello del morto, rilasci il plasma acqueo in modo
ancora più netto.
235
Cfr. Jean-Robert Pitte, Il Desiderio del vino - Storia di una passione antica, Edizioni Dedalo, Bari,
2010. Il riferimento cui accenniamo compare nella nota 25, p. 75. Anche Pitte osserva come l’acqua
mista al vino, presente nel rito dionisiaco, anticipi chiaramente la ferita del costato del Cristo
procurata dalla lancia di Longino.
236
Scrive a tal proposito Guénon: “Degli emblemi che appartennero a Giano il Papato non ha
conservato soltanto le chiavi, ma anche la navicella, attribuita pure a San Pietro e diventata
un’immagine della Chiesa”; cfr. Autorità spirituale e potere temporale, cit. p. 124. In questa sede
Guénon fa riferimento anche a un’altra nave, quella dell’Imperatore, che avrebbe (il condizionale è
d’obbligo essendo stato smarrito nel tempo il ruolo principale del potere temporale) dovuto condurre
gli uomini verso il Paradiso terrestre, spesso identificato come isola mitica. Mentre al timone che
79
Laguz , riassumendo, ricorda anche nella forma la lancia del guerriero237, e i suoi
significati sono correlati agli effetti purificanti dell’acqua: una sostanza incorruttibile,
un’aqua regis per dirla in termini alchemici, che cerca un suo contenitore, un suo Graal
per l’appunto. Come abbiamo sottolineato in precedenza, il “Graal runico” è da
intendersi con la sesta runa, Kenaz , la cui forma, se girata di 90° verso sinistra, è di
certo identificabile con un vaso; un vaso peraltro del fuoco, un athanor più
propriamente, al punto che la gemellanza/opposizione di acqua (mercurio) e fuoco
(zolfo) di Laguz e Kenaz assume toni ermetici davvero interessanti, tanto più rafforzati
nel loro peso visivo dall’alternanza del “maschile” e del “femminile” nella lancia e
nella coppa. Questa relazione è peraltro la stessa che vige tra la lancia che penetra e la
ferita del costato di Cristo, che a sua volta è identica al rapporto in atto tra Excalibur e
la fessura da cui essa viene estratta. Non solo: in inglese la somiglianza tra la parola
lancia, “wand”, e ferita, “wound” (“wunde” in tedesco), è di nuovo emblematica di
tutte queste costanti sovrapposizioni. La lancia produce insomma un suo elemento
complementare: l’attrezzo appuntito virile collima profondamente con il buco
femmineo, che funge da incavo iniziatico; una dualità che su altri piani abbiamo già
investigato con Teiwaz e Berkana. Bisogna inoltre considerare che Excalibur deve la
sua genesi anche ai reami dell’acqua, essendone custode la leggendaria “Dama del
Lago”, con chiari riferimenti ancora una volta a Laguz, che senza ombra di dubbio è
imparentata ai motivi che animano la cerca del Graal238.

conduce al Paradiso celeste vi è indubbiamente la prima nave, quella che abbiamo appena attribuito
al Papato romano; ivi p. 126.
237
A tal proposito, si rimanda anche alle considerazioni che abbiamo fatto a proposito della “doppia
lancia” di cui è detentrice Teiwaz, che del resto a livello iconografico è formata da una Laguz che
guarda verso destra e da un’altra rivolta invece verso sinistra.
238
La “quest” del Graal e l’elemento della lancia, che ferisce ma che al contempo guarisce, sono stati
del resto individuati come temi comuni dallo stesso Evola; riportiamo questo lungo passaggio per
sistematizzare alcuni degli spunti che abbiamo fornito fino ad ora: “Abbiamo già accennato al
complementarismo esistente fra lancia e coppa. Nelle figurazioni tradizionali del <<duplice potere>>,
lo scettro spesso si confonde con una lancia, e il simbolismo della lancia, al pari di quello dello scettro,
interferisce spesso col simbolismo dell’ <<asse del mondo>> e, per tal via, riporta agli ormai noti
significati <<polari>> e regali. Ora, nel ciclo del Graal la lancia appare, appunto e propriamente,
presso figure regali e presenta un doppio carattere: essa ferisce e essa guarisce. Ciò richiede qualche
spiegazione ulteriore. Nella saga, la lancia del Graal è spesso insanguinata; talvolta più che essere
intrisa di sangue, essa stessa dà origine ad una corrente di sangue. Di tale sangue, nel Diu Crône, il
re si nutre. Nei testi più tardi il sangue va ad assumere una parte sempre più importante, tanto da far
passare in secondo piano il recipiente che lo contiene e che originariamente aveva lui la parte
essenziale. In tali testi, il Graal si fa Sangreal, col doppio senso di sangue reale del Cristo e di sangue
regale. Negli elementi cristianizzati della saga la lancia del Graal viene infatti spiegata, talvolta, come
quella con cui Gesù fu ferito, e il sangue che da essa scorre sarebbe <<il sangue della redenzione>>,
cioè simbolizzerebbe un principio rigenerante. Ciò non spiega però troppo il fatto, che la lancia ferisca
chi, come Nescien, ha voluto conoscere troppo da presso il mistero del Graal, restando per questo,
oltre che ferito, accecato. La vista ritorna e la ferita si chiude in virtù del sangue che sgorga dal ferro
della lancia, una volta che si sia riusciti ad estrarlo dalla piaga. Nel Grand St. Graal, al prodursi di
tale fenomeno, un angelo risplendente dichiara, esser questo l’inizio delle meravigliose avventure che
si svolgeranno nel paese ove si recherà Giuseppe di Aarimathia, cioè nella regione nordico-
80
Tornando nello specifico alla lancia di Longino, quest’ultima è dunque “essa stessa
acqua”, nel momento in cui produce il rilascio di una sostanza, di un misto di sangue e
acqua che, proprio per la sua appartenenza al Cristo, è portatrice di effetti miracolosi e
rigenerativi, indizi di vera grazia celeste. Il vascello, per complementarietà simbolica,
è invece quello strumento che consente di controllare questa conoscenza superiore e di
indirizzarla a vantaggio di una personale elevazione: accanto alle discese del fiume
celeste, Guénon parla del resto, riprendendo Coomaraswamy, della risalita verso la
sorgente239.
Anche approfondendo l’etimologia di altre parole, notiamo del resto assonanze non
casuali: la parola “wand”, che in inglese designa la lancia, ha una struttura simile a
quella di “water “(acqua) e “wave” (onda). “Onda”, inoltre, fa il paio con önd, il soffio
di Odino/Wotan. Tanto più che Odino è il “wanderer”, il ramingo, in quanto detentore
di una “wand”, di una lancia che, andando egli “a zonzo”, propaga appunto il suo
respiro. Ovvero Odino trasla in giro il suo soffio, sacralizzando tutto ciò che tocca e
sanzionando così i significati di Wunjo e Othila, rune del territorio marchiato da auspici
gloriosi, senza considerare che Wunjo ha una forma molto simile a quella di Laguz,
ricordando ancora una volta la lancia. Ma essendo quest’ultima anche un vascello,
dobbiamo dedurre che Odino si sposti sia per terra che per mare, veicolando tanto il
soffio quanto l’acqua, senza che i connotati di tale investitura superiore vengano
peraltro meno. Il dio norreno del mare, Nijördr, è infatti naturalmente anche dio dei
venti, “wind”, da cui ancora le relazioni con “wand” e con “wave”240. Secondo una

occidentale. Grazie a queste avventure <<i veri cavalieri si distingueranno dai falsi cavalieri, la
cavalleria terrestre diverrà cavalleria celeste>>, e allora si ripeterà il miracolo del sangue che
scaturisce dal ferro della lancia. Anche l’ultimo re della dinastia di Giuseppe sarà ferito in entrambe
le cosce dalla lancia e non guarirà che all’arrivo di colui che scoprirà il segreto del Graal, avendo la
qualificazione a ciò richiesta. In tale insieme, il sangue della lancia sembrerebbe dunque stare in
relazione con la virtù dell’eroe restauratore. Ma in questo testo si trova anche il riferimento, che la
lanche aventureuse ferisce, nel senso di infliggere un castigo destinato a ricordare la ferita di Gesù.
Tutto ciò sembra adombrare il tema <<sacrificale>>, verrebbe cioè ricordata la necessità di una
<<mortificazione>>, di un <<sacrificio>> come condizione preliminare a che l’esperienza del Graal
non risulti letale. Tuttavia in altri testi un tale tema si incrocia con quello della vendetta: la lancia, col
suo sangue, ricorda una vendetta che il predestinato deve compiere: solo allora si avrà, insieme al
compimento del mistero, la pace, la fine dello stato critico di un regno”. Cfr. Il mistero del Graal, cit.
pp. 121-122. Si nota dunque come la lancia e il liquido che ne scaturisce siano correlati ai temi del
sacrificio iniziatico e della rivelazione che ne consegue. Inoltre l’acqua è sempre presente nelle
avventure del Graal, andando a circondare, a seconda dei casi sotto forma di fiume o di mare, la sede
della coppa miracolosa; con riferimento sempre al testo di Evola, p. 138 e sgg., senza peraltro che sia
necessario insistere oltre sul già citato simbolismo del “passaggio delle acque”. Sul legame tra lancia,
Graal e “liquido miracoloso” si rimanda ancora a Guénon, L’esoterismo cristiano e San Bernardo, in
particolare il capitolo nono, Il Sacro Cuore e la leggenda del santo Graal, p.127 e sgg., dove il sangue
di Cristo, fatto sgorgare dal colpo di lancia, viene paragonato alla “rugiada celeste”, intesa come
veicolo di rigenerazione e resurrezione, il che permette di ricollegarsi al concetto di “bevanda sacra”
che è al centro di questo capitolo.
239
Cfr. Simboli della Scienza sacra, p. 297.
240
Anche un altro termine tedesco, “wende”, è attinente con quanto detto più sopra. “Die Wende” fu
del resto la cosiddetta “svolta” che nel 1989 consentì alle manifestazioni pacifiche di Lipsia di portare
81
leggenda, non a caso, lo stesso Nijördr, prima di cadere in occasione del Ragnarök, si
segna il petto con una lancia, “in perfetto stile odinico”, questo allo scopo di
procacciarsi l’immortalità, e a conferma di tutti i significati esaminati a proposito delle
ferite riportate dal Cristo sulla croce, perfino, “anzi soprattutto”, dopo la sua morte241.
Se Laguz attiene un trasferimento d’immortalità, Uruz ne è il suo definitivo
contenimento, e lo capiremo tanto più chiarendo i valori intrinseci dell’ALU. Uruz, per
prima cosa, è (anche) una runa di ghiaccio, e sottintende quindi l’imbrigliamento della
mobilità di Laguz. In verità Uruz dà luogo a una resistenza primigenia, e sperimenta le
sue inerzie a contatto della Fehu che apre il Futhark, ovvero la scintilla che ha generato
il cosmo. Di fatto, nelle prime due rune si riassume il necessario processo di
scontro/convivenza tra ghiaccio e fuoco che determina gli equilibri della cosmogonia
nordica; ovviamente tale opposizione, ricalcando quella tra yin e yang, ha valenze
esoteriche di ben più vasta portata.
Tant’è, Uruz nel suo segno conserva sia l’attrito del ghiaccio che l’esplosività del
fuoco. Uruz è mirino242, indirizzamento di una forza selvaggia che trae propriamente
le sue origini dall’uro, mastodontico bue dei tempi preistorici che è stato immortalato
in diverse pitture parietali. Indubbiamente la sagoma di Uruz ricorda quella
243
dell’imponente bovino visto di profilo o da davanti . Questo animale, oltre a essere
cacciato per necessità, rientrava nelle prove iniziatiche che il giovane della tribù
doveva sostenere, e superare, per poter raggiungere lo statuto virile (Uruz-virum,
l’analogia è evidente). D’altro canto, Uruz capovolta identifica anche il recipiente in
cui beveva il maschio per festeggiare il suo passaggio alla “maggiore età”: tale “coppa”
era il trofeo dell’uro ucciso, il suo capiente corno, il che spiega in modo tanto più chiaro
l’appartenenza di Uruz a una formula che concerne appunto libagioni e offerte di
bevande particolari. Ovvio che i significati di Uruz attengano poi anche l’ambito della
“contrattazione” con lo spirito della bestia. E’ teoria diffusa, e credibile, che le pitture
parietali fossero riti volti a catturare l’animale con un transfert magico: immobilizzare
sulla parete la bestia, in questo caso l’uro, equivaleva alla chance di poterla “freddare”
nella realtà, durante il tiro al bersaglio della caccia; tanto è vero che ancora oggi quando
si parla di “fare centro”, in inglese si usa dire “to hit the bull’s eye”.
Uruz è pertanto controllo dell’esuberanza animale “tout court”, sia che tale supremazia
venga rivolta contro la forza selvaggia degli animali esterni, o che invece sia esercitata

alla caduta del Muro di Berlino. “Wind/Wende/Wave”: in queste parole troviamo sempre il senso del
mutamento e dell’evoluzione, passaggi garantiti originariamente dall’önd di Odino e dalla sua
“wand”, il soffio e il suo vettore, garanti dell’elevazione di tutto ciò che è terreno in conformità della
“pensata celeste”.
241
Ovviamente non stiamo asserendo che Odino e Nijördr siano la stessa divinità, ma semplicemente
notando come alcune attribuzioni finiscano inevitabilmente per sovrapporsi, dal momento che ogni
singola divinità, in ogni specifica mitologia, è sempre la caratterizzazione di facoltà che appartengono
all’essenza della manifestazione divina nella sua totalità.
242
Vincent Ongkowidjojo sottolinea in modo molto interessante come Uruz rappresenti una “cooling
force”; in tal senso il suo essere ghiaccio, quello delle lande di Nifelheim, rende anche Uruz runa
legata in qualche modo all’acqua, il che spiega ancora in modo più chiaro la connivenza di Laguz e
Uruz all’interno della formula ALU. Cfr. Secrets of Asgard, pp. 31-32.
243
Cfr. Helrunar, p. 348.
82
per tenere a bada il proprio demone interiore. Da un punto di vista iniziatico, Uruz
identifica il predominio del mystes sui suoi istinti e le sue energie ctonie. Ci viene in
questo senso in soccorso anche il mito del Minotauro, appunto un toro (taurus-Uruz),
che illustra -a maggior ragione che l’ardita impresa di Teseo si compie in un labirinto-
lo scontro dell’eroe con le sue spinte ataviche, caotiche e “inferiori”. Solo la catabasi,
con relativo “dominio sul demone”, può consentire all’iniziato di decollare verso lidi
superiori. L’animale freddato dentro il cuore del guerriero (nella sua caverna)244 è
dunque per trasposizione l’animale cacciato con successo nella realtà esteriore, poiché
immobilizzato e “congelato” attraverso le figure rupestri dipinte sulle pareti della
grotta.
Che Uruz offra il fianco a correnti embrionali e materiche è fintanto evidente: l’uro
giustifica il nostro contatto con la terra, il nostro appartenere al genere umano; vir è
uomo, ma dice anche di una patologia, virus, che colpisce il corpo, più in generale una
forza da controllare; chi è uomo è per natura esposto alla malattia, alla vita e alla sua
perdita. Ciò che nasce, cresce e perisce viene del resto ben interpretato dalle corna
mutevoli della luna che fanno il paio con quelle bovine. In fondo Uruz comunica da
dove arriva Midgard, la terra, ossia dalla carcassa del gigante Ymir, altrimenti detto
Aurgelmir, quell’involucro, quel terriccio primordiale, fatto di fango e sangue, da cui
proviene anche il corpo umano. Lo stesso Guénon, come abbiamo visto nel capitolo
precedente a proposito dell’Adam Qadmôn, identifica del resto le origini del nome di
Adamo in un’etimologia comune che riconduce al sangue, alla terra e all’argilla rossa.
Tanto più che Aurgelmir origina Midgard con il suo smembramento245, processo
virulento che è assolutamente accostabile a quello prodotto dalle Menadi su alcune
vittime della furia dionisiaca: da Penteo, mitico re tebano, allo stesso Orfeo, a seconda
dei miti e delle leggende246; anche tali trasmissioni vanno intese nel loro senso
simbolico. E infatti molti di questi argomenti coincidono anche con quelle operazioni

244
Sull’identità del simbolismo del cuore e della caverna, si rinvia al capitolo dedicato in Simboli
della Scienza sacra, p. 185 e sgg.
245
Ecco la descrizione che si trova nell’Edda di Snorri: “Essi presero Ymir e lo posero in mezzo al
Ginnungagap e fecero di lui la terra, del suo sangue il mare e le acque; la terra fu tratta dalla carne e
i monti dalle ossa, pietre e sassi li cavarono dai denti anteriori e da quelli posteriori e da quelle ossa
che furono spezzate”. Cfr. Edda, cit. p. 57; da notare come anche qui sangue e acqua si ricompongano
infine nella medesima sostanza.
246
Alcuni episodi -li riporta Euripide, tra gli altri- sono decisamente tragici, quanto sintomatici di
valenze superiori. Sotto l’effetto del vino, o meglio della “trance dionisiaca”, Agave, madre di Penteo,
re di Tebe, insieme alle sue baccanti, smembra il figlio. Penteo, per la cronaca, aveva rifiutato
l’ospitalità a Dioniso, arrivando addirittura a imprigionarlo. La morte per smembramento è in verità
un passaggio iniziatico: Penteo si nega a Dioniso, rifiuta insomma di conoscere, di partecipare alla
crescita esoterica del suo culto e viene “fatto a pezzi”. Ma “a pezzi” viene fatta la sua ignoranza, la
sua precedente incarnazione, prima che la sostanza migliore possa essere salvata e incubata a nuova
vita. La stessa sorte tocca del resto, in alcune trasposizioni, a Orfeo, che dopo aver fallito la sua
missione nell’Ade (dove aveva cercato di recuperare l’amata Euridice), ironizza sul culto di Dioniso
al punto da subire la stessa sorte di Penteo. Eppure Orfeo, da cui l’Orfismo, è una figura misterica: la
vittima del sacrificio al dio si ricompone insomma nel “dio stesso”. Su Penteo anche Buxton, La
Grecia dell’immaginario, p. 172.

83
di gestazione che il candidato sciamano affronta nelle sue necessarie catabasi, come ha
abbondantemente riportato Mircea Eliade a proposito delle credenze e usanze
boreali247.
Ecco allora che Uruz diventa veicolo di necessaria crisi e di nigredo iniziatica. Uruz e
Aurgelmir nelle loro radici hanno a che fare con il prefisso “ur”, che concerne ciò che
è estremamente antico. Gli stessi temi compaiono anche in Ouruboros e nella parola
latina aurum. Come sappiamo, il primo è il serpente che si morde la coda, l’unione
delle forze ascensionali e discensionali che riguardano la totalità della manifestazione;
abbiamo già avuto modo di associarlo al drago/serpente Jörmungandr, e in ogni caso
non sfugge come il suo simbolismo spieghi l’eterno ritorno dei cicli cosmici. Mentre
aurum può rimandare all’ “età dell’oro” o ad altro ciclo equivalente nella sostanza,
ossia qualche cosa di così antico da risultare “astorico”. In questo ultimo caso emerge
però anche la componente “solare” di Uruz. Innanzitutto va precisato come il bue sia,
oltre che lunare, anche un animale del sole, come lo è ad esempio l’Apis egizio o il
toro nel culto di Mithra248; d’altro canto, sempre nella simbologia egizia, l’ureo è un
serpente posizionato a ridosso del disco solare e che compare sul copricapo dei faraoni,
indicando quindi un “segno di testa”, un’investitura proveniente dal Cielo. Cielo che è
inoltre “Urano”, a conferma di come Uruz sia indubbiamente runa di terra, di spinte
ctonie e di crisi iniziatiche, ma pure di anabasi solari; anzi, le seconde non potrebbero
sussistere senza le prime.
Riassumiamo dunque così: in Uruz il guerriero trova una “forza solare” per resistere a
tentazioni e incostanze di tipo “lunare”. In questa ottica lo smembramento è la crisi
iniziatica, che si risolve con la rinuncia delle tenebre interiori, con la sconfitta della
paura primordiale. L’immagine è tipica degli scenari misterici, e spesso associata a
bevande sacre. Nel caso di Dioniso ci riferiamo al vino, in occasione delle ritualità
nordiche troviamo la birra e l’idromele: ciò non di meno l’estasi dell’ebbrezza rende
colui che se ne “imbeve” più sapiente, a seconda del suo grado, ma anche folle, furioso,
“esagerato”; ed è in tale frangente che si rende necessario domare l’uro, il “Minotauro
interiore”. Chi non controlla l’eccesso di “vitalità” può tornare simile alla bestia,
mentre chi tiene a bada la bevanda sacra si libera e si emancipa dalla condizione
animale. Nella simbologia di Uruz, come del resto nelle mitologie dionisiache, sono
conservati pertanto degli ammonimenti iniziatici ben precisi.
Tali significati vengono appunto chiariti dalla ricostruzione della formula ALU, data
dall’unione di Ansuz, Laguz e Uruz. Laddove Ansuz è la runa di quell’önd più volte
247
Valga, tra le tante possibili, la descrizione dell’estrema iniziazione di uno sciamano yakuta: “(…)
le membra del candidato vengono staccate e separate mediante un uncino di ferro: le ossa vengono
pulite, la carne viene raschiata, le sostanze liquide del corpo vengono gettate via e gli occhi strappati
dalle orbite. Successivamente tutte le ossa vengono nuovamente messe insieme e legate con del
ferro.” Cfr. Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, cit. p. 56. Si noti come “la pulizia dei liquidi
corporei” e la “sostituzione degli occhi” di questa descrizione ricordino alcune immagini iniziatiche
che abbiamo già incontrato in precedenza.
248
Sul culto di Mithra, si rimanda nello specifico all’interessante studio di David Ulansey, I misteri
di Mithra – Cosmologia e salvazione nel mondo antico, Edizioni Mediterranee, Roma, 2001, in cui
l’approccio al culto mithraico è di natura prettamente astrologica, dal momento che Ulansey ne
ricostruisce la sostanza simbolica in base ai calcoli delle precessioni equinoziali.
84
citato; önd inteso come soffio divino che dà forma e significato, legittimazione
superiore ad ogni aspetto della creazione. Ansuz che è essenza del sacrificio di Odino,
appeso per nove giorni e nove notti all’Yggdrasil per apprendere249 il codice delle rune.
Le rune, in quanto archetipi dell’idea universale, sono il suono che si fa significante di
un mistero (“runa” significa proprio “mistero”), e in secondo luogo linguaggio fonetico
e alfabetico: non è casuale che il termine Ansuz inizi con la “a” e finisca con la “z”.
Ansuz diventa così la runa della parola, al di là degli ambiti: dal miraggio poetico che
si rende strofa, all’invocazione sacerdotale che si attua come intervento sonoro,
respirato e apostrofato, quindi capace di alterare le concatenazioni sottili di causa ed
effetto. In tali derive essa è forza “altra”, atta a rendere estatico e furente perfino il
guerriero, il famoso berserk di cui si è già detto.
Questa sapienza percorre in ogni caso una parabola discendente: all’interno dell’ALU,
Laguz, in seconda posizione, materializza il viaggio verso il basso. Ciò avviene
attraverso uno scroscio “a cascata”, Laguz in tale logica è il canale fluido che consente
lo scorrimento delle energie supreme verso quelle inferiori, proprio come un fiume
sprofonda in un lago sottostante per il tramite di una cascata. Ovvero ciò che è aereo e
“impalpabile” in Ansuz, proprio per la sua vicinanza all’idea prima, con il filtro di
Laguz assume una consistenza materiale, liquida, consumabile dall’iniziato250: la stessa
immortalità del Cristo sulla croce si manifesta sotto forma di acqua e di sangue. Tale
“adeguamento” si professa anche nella bevanda iniziatica, che scende dalle coppe di
Odino verso la bocca assetata di conoscenza, favorendo una vera e propria “imboccata
dottrinale”; imboccata che diventa poi propriamente “imbeccata” ad agire in una
determinata direzione. E con “imbeccata” siamo a ridosso di “becco”, per trasposizione
il “cornuto”, tanto che ci troviamo ancora nei territori fisici di Uruz, la detentrice
deputata del corno della bevuta251.
All’interno della successione dell’ALU, Uruz organizza realmente questa resistenza
transitoria, finalizzando l’opera di contenimento. Da un punto di vista fisico, essa è il
corno strappato all’uro dopo la caccia o la tauromachia, il supporto necessario alla
bevuta del symbel; da un punto di vista simbolico, è invece il controllo, la volontà

249
La simmetria linguistica “dell’essere appesi per apprendere” offre anche uno scorcio della misura
sacra su cui spesso si fonda il nostro modo di comunicare.
250
Se peraltro consideriamo sulla scorta di Polia (il già citato Le rune e gli dèi del Nord, p. 49) che
óss (da cui sempre Ansuz) significa “fonte”, capiamo tanto più la relazione tra sorgente, e relativa
cascata, che intercorre tra Ansuz e Laguz.
251
Anche il mito wagneriano dei Nibelunghi è del resto, letteralmente, “imbevuto” di questa
simbologia. Le rune compaiono mescolate nell’idromele e vengono bevute in molti episodi da corni
magici. Si veda in tal senso la parte dedicata dalla Aswynn alle rune nel Sigdrifumal, il poema
focalizzato appunto sulle vicende di Sigurðr. Cfr. Northern Mysteries and Magick, con riferimento
proprio alla formula ALU, p. 218 e sgg. D’altro canto Fulla (“to fill”, riempire fino all’orlo) è una
delle servitrici di Frigga, moglie di Odino e Odino, insieme agli Einherjar del Valhalla, dispone di
una riserva infinita di idromele grazie alla capra Heidrun. Heidrun in questo fa il paio con Amaltea,
la capra che allatta e cresce lo Zeus bambino sul monte Ida a Creta. Heidrun nello specifico,
consumando le foglie dell’albero cosmico Yggdrasil, produce a iosa dalle sue mammelle la bevanda
d’immortalità. Non solo: il maschio della capra è il becco/cornuto di Uruz, a conferma delle relazioni
non casuali presenti nella sequenza dell’ALU.
85
capace d’indirizzare e conservare il flusso esorbitante di informazioni originato
dall’epifania di Ansuz ed esploso con la magia torrenziale di Laguz. Più in generale, è
il senso pratico atto a dare una forma concreta al soffio di Ansuz e all’acqua di Laguz:
del resto, tanto l’aria che l’acqua prendono le sembianze del recipiente che le contiene
e la parola inglese “shape” (forma) è ancora una volta gemella di “ship”, la nave, ossia
il vascello che domina le acque della conoscenza, simbolismo su cui ci siamo già
soffermati. Non solo: il termine “vessel”, oltre a identificare proprio il vascello, è anche
vocabolo tecnico per indicare un recipiente, noto peraltro negli usi liturgici.
Analogamente il tedesco “schaft”, che è poi l’equivalente dell’inglese “ship”, chiude
tutte quelle parole che indicano più un insieme di valori che una sanzione fisica, dando
appunto forma a ciò che non lo prevede per la vastità dei concetti espressi: si vedano
pochi esempi, quali “freundschaft” (amicizia) e “gesellschaft” (società). “Schaft”
peraltro significa anche “asta”, con chiari rimandi alla solita lancia e all’atto di misurare
qualcosa che fino a quel momento giace nell’indeterminazione. Uruz in effetti dà una
forma e una “misura” al getto straripante di Ansuz e Laguz. Con Ansuz siamo ancora
negli ambiti di ciò che non è ponderabile, dell’infinito, laddove Laguz, manifestandosi
come liquido, si predispone quanto meno ad essere “toccata”; Uruz è la conclusione
necessaria dell’ALU, l’argine di una simile potenza in essere.
Inoltre Uruz, come abbiamo visto, partecipa ai significati dello “smembramento
rituale” che è un motivo presente proprio nella saga nordica del “mead”. In alcune
versioni esso deriva dallo “spezzettamento” compiuto dai pestiferi nani Fialarr e Galarr
ai danni del gigante Kvasir, che a sua volta (narra l’Edda)252 era stato creato come
esempio di lungimiranza e saggezza per sancire la pace tra gli dèi Vani e gli dèi Asi253.
Kvasir “emerge” propriamente dallo sputo delle stesse divinità: si tratta dunque
dell’ennesimo fluido sapienziale, appositamente raccolto in un recipiente deputato a
tale effetto. Per rimpossessarsi della dottrina di Kvasir, Odino deve tuttavia affrontare
un’appassionante impresa che vede come protagonisti il gigante Suttungr (che aveva
252
L’episodio, nell’edizione a cura di Dolfini che abbiamo già citato, si trova riproposto dalla pagina
131.
253
L’incontro/scontro tra Asi e Vani è del resto un motivo che si apre a valutazioni di carattere
ermetico, creando paralleli con il solve e coagula. In alcuni episodi delle saghe nordiche essi si
affrontano, e in questo loro contendersi il potere vengono prodotti degli evidenti sottintesi simbolici.
Gli Asi sono appunto gli dèi maggiori, quelli di un “establishment conservativo”, mentre i Vani (Freya
e Frey sono i loro principali interpreti) sono figure legate a una concezione più primigenia della vita
(amore “tout court” e fertilità). Essendo la loro pace suggellata con lo scambio di ostaggi, la
conclusione delle ostilità porta insomma a un arricchimento vicendevole. I Vani ne guadagnano in
saggezza, ricevendo in dono la creatura più intelligente che vi sia, Mimir (presso il cui pozzo Odino
getterà il suo occhio sinistro per ottenere l’onniscienza); d’altro canto ad Asgard, alla corte
dell’Allfödr, approdano Frey e Freya, entità legate alla vitalità della riproduzione e della
trasformazione. Che cos’è questa, se non una visione figurata delle nozze alchemiche? Anche perché
lo scontro tra Asi e Vani era stato originato dalla “febbre dell’oro” scatenata tra gli dèi dalla strega
Gullveig, ennesimo elemento femminile che, come nel caso delle Menadi orfiche, si conferma vettore
propulsivo atto a perforare una matrice solida al fine di rivitalizzarla. L’incontro tra due diverse
componenti dell’essenza divina ha dunque tutta l’aria di un processo di maturazione ermetica, tra
scambi mobili (solve) e nuove identità acquisite (coagula).

86
“soffiato” il “mead” ai nani di cui sopra) e sua figlia Gunnlödh. Innanzitutto Odino -
sotto le false sembianze di Bölverkr, nome simile proprio a quello del furente berserk-
diventa lavoratore presso il gigante Baugi, fratello di Suttungr, per il quale svolge il
lavoro di nove uomini, numero che identifica una chiara operazione iniziatica. A
servigio esaurito, Bölverkr presta un trapano a Baugi e gli fa forare una pietra; a questo
punto esso si trasforma in serpente e striscia dentro al buco fino a giungere alla
residenza di Gunnlödh, con la quale giace per tre notti (ennesima cifra non casuale, a
conferma delle derive simboliche del racconto)254. In cambio dei favori amorosi,
Odino/Bölverkr riesce a farsi promettere tre sorsi del prezioso idromele, salvo svuotare
con essi i rispettivi otri che lo contengono. Ciò fatto, prende le sembianze di un’aquila
e vola via; Suttungr lo imita e Odino, incalzato, perde qualche goccia di “mead” che
piomba sul mondo, andando a realizzare l’ispirazione che contraddistingue i più
illuminati tra gli uomini255.

254
Su queste vicende si rimanda alla già citata edizione dell’Edda, p. 131 e sgg. Notiamo comunque
di sfuggita che il serpente che passa per il buco della pietra ricorda per analogia l’Excalibur arturiana,
a conferma dei connotati virili dell’emancipazione sessuale dell’eroe, in un’avventura che ha come
chiaro scopo la cerca della conoscenza. Abbiamo peraltro già spiegato in che modo Artù si colleghi
all’attività del berserk, in occasione del capitolo dedicato al dualismo Berkana/Teiwaz. La presenza
femminile è dunque ancora una volta chiaramente simbolica: gli stessi cavalieri sulla via del Graal
s’imbattono nella “Dama del lago”, che è metaforicamente l’anima dell’eroe, e così è anche per la
mitologia nordica, con Odino e altri eroi impegnati, a più riprese, nella ricerca di una ragazza sulla
via dell’idromele. Su questi temi, si rinvia ancora una volta a Il mistero del Graal, in particolare il
paragrafo 6 (p. 43 e sgg.), “Sull’<<Eroe>> e sulla <<Donna>>”.
255
Anche nell’epica omerica vi è un episodio interessante da questo punto di vista. Ci riferiamo alle
vicende del libro V, che vede come protagonista l’eroe greco Diomede. In questa sequenza Diomede
dimostra una forza incontrollabile, tanto da riuscire a ferire sia Afrodite che Ares, intervenuti in
battaglia a favore dei troiani. Tra i tanti, alcuni indizi della valenza iniziatica del racconto possono
essere individuati nel fatto che Diomede riceva da Atena, sua protettrice, la possibilità di “discernere
correntemente” le divinità scese in campo: benché la Pallade gli ingiunga di non attaccar briga con
loro, il fatto stesso che egli riesca a vederli è cifratura di “quell’apertura degli occhi” che
contraddistingue le avventure del mystes. Inoltre Diomede, ferendo Afrodite, produce l’uscita di un
liquido che ha tutti i connotati della bevanda iniziatica; Omero lo descrive così: “(…) e fluì dalla
ferita l’icòre della Dea, sangue immortale, qual corre de’ Beati entro le vene; ch’essi, né frutto cereal
gustando né rubicondo vino, esangui sono, e quindi han nome d’Immortali”. Proprio questa
associazione è interessante, se si considera che l’etimologia del nome di Diomede fa pensare che egli
sia appunto “dio per il tramite del mead”. Alla base delle imprese di Diomede si scorge dunque il
simbolo dell’ebbrezza furente tipica del berserk che ha bevuto il Met. Lo stesso Beowulf, nota Cardini
nell’articolo che abbiamo precedentemente citato, è il “lupo del miele”, ossia appunto l’orso. Essendo
proprio il miele presente nel “mead”, nell’idromele, capiamo quanto sia attiva la relazione tra bevanda
“magica” e “trasformazione” in tutte le imprese realmente eroiche. Il guerriero che agisce sotto tali
sembianti, come l’Artù orso, lo fa dunque sotto una qualche forma di legittimazione che chiaramente
ha perso nel corso dei secoli la sua connotazione superiore. Chiudiamo con una prospettiva meno
simbolica: tra gli altri, Felice Vinci ha ipotizzato che la guerra di Troia avvenisse in una mitica città
posizionata sul Baltico (cfr. Felice Vinci, Omero nel Baltico – Le origini nordiche dell’Odissea e
dell’Iliade, Palombi Editori, 2008, Roma). Nella sua esposizione, che ovviamente non ha mancato di
suscitare critiche nel mondo accademico, l’autore colloca la mitica Troia nei pressi dell’attuale Tojia,
vicino a Turku in Finlandia. E sposta le vicende dell’Iliade al XVIII secolo a. C.: le trasposizioni
scritte del presunto Omero sarebbero quindi il frutto di interpolazioni e narrazioni orali durate svariati
87
La valenza esoterica di tale episodio è consolidata dalla doppia metamorfosi di Odino,
che diventa serpente e aquila, animali posti ai margini dell’Yggdrasil. Il serpente è
presente in quanto simbolo di auto-guarigione ed estrema vitalità - si veda il riferimento
alla Kundalini e al caduceo di Asclepio e Mercurio. L’aquila compare invece come
identificazione del sé superiore in una gittata di tipo ascensionale. Odino porta il
“mead” da aquila, a conferma di come questa “bibita” riguardi le più alte sfere dello
spirito, mentre il serpente sprigiona l’afflato vitale e corporeo della Kundalini, ed è
infatti sotto tali sembianze che Odino giunge all’incontro amoroso con Gunnlödh.
Riassumendo di nuovo, sotto diversa luce, Ansuz è dunque la prima scintilla, il “mead”
sotto forma di aquila256; Laguz identifica invece le gocce perse da Odino durante la sua
fuga aerea; Uruz, in ultimo stadio, rappresenta quanto arriva effettivamente a terra e
viene raccolto dagli uomini. La sostanza dell’iniziazione, analogamente, deve
risolversi in una prassi che fornisca risultati concreti. La parola “iniziazione” indica del
resto, in termini molto semplici, “l’inizio di una azione”; laddove il termine
“meditazione”, anche solo fermandoci in superficie, concerne una preparazione, una
riflessione, un comportamento comunque “mediato” rispetto alla prima incubazione.
La formula dell’ALU sintetizza a dovere questo fraseggio: l’ispirazione superiore che
viene “versata” sul mystes produce un effetto che va “attivato” secondo assiomi
propedeutici; ne va della permanenza, e della reale penetrazione, della vera dottrina
nella pasta dell’iniziato; ne va della sua “vera vista”257.
secoli, e le società degli Achei e dei Micenei sarebbero sorte nell’attuale Grecia dopo le migrazioni
delle popolazioni discese dal Baltico, con appunto al seguito la loro tradizione epica e narrativa. Al
di là delle possibili ascendenze nordiche dell’Iliade, ricorrente resta il riferimento alla fucina
iperborea come originante la figura dell’Apollo solare poi “trasmigrato” nella civiltà greca. Abituale
è il riferimento negli studi di Evola, più recente il contributo di Christian Jacq, La confraternita dei
Saggi del Nord, Edizioni l’Età dell’Acquario, Torino, 2009.
256
E’ interessante notare come questo parallelo possa essere adattato anche alle rappresentazioni della
musica sacra. Le notizie che riprendiamo qui sono riprese dallo studio di Andrea A. Ianniello, Pietre
che cantano – Suoni e sculture nelle nostre chiese, Giuseppe Vozza editore, Caserta - Casolla, 2007,
dedicato alle informazioni musicali contenute nelle sculture e nei sigilli delle chiese del casertano e
del beneventano, supporti su pietra che creerebbero veri e propri frammenti di sinfonie, chiaramente
dall’alto valore simbolico. Un approccio che, come introduce Ianniello, si rifà alle perizie condotte
da Marius Schneider su alcune chiese della Catalogna. Citiamo un passo per essere più precisi; si sta
parlando della cattedrale di Ravello: “Il rapporto si/fa/re (un movimento dissonante, vicino al
“rapporto del diavolo” della musicologia medievale, come spiega l’autore, n.d.a) si attua sotto
l’aquila, cioè il do, il Verbum, la “Parola divina” che ridà la vita. E’, in realtà, il Verbo che consente
al fatto demoniaco e diabolico, alla vittoria -apparente- delle Tenebre dell’ “inghiottimento” di essere
“trasformate”, cioè “trasmutate”, nella “resurrectio” (in greco “anàstasis”).”; ivi, cit. p. 60. Basta
questo estratto per identificare l’aquila con la nota del do, quella originale che anima tutte le scale
successive, come del resto accade all’Ansuz/Ein-Soph di animare tutto il resto della creazione, a
partire dal soffio originale del Verbum. Magari in futuro sarà possibile analizzare in modo più
approfondito il rapporto tra le rune e i suoni, proprio giovandosi dell’ausilio di altre forme simboliche.
257
Il legame tra iniziazione, vista e “liquido santo” è ricorrente e ne abbiamo già accennato in questa
sede. Notiamo per inciso come lo stesso Snorri riporti questo passaggio: “Tutto io so, Ódhinn, dove
hai nascosto il tuo occhio, nella fonte famosa di Mímir; Mímir beve il met ogni giorno sul pegno di
Valfödhr”; cfr. Edda, cit. p. 65. Proprio presso il pozzo di Mimir Odino va dunque a gettare l’occhio
sinistro; tale gesto ha valenza di acquisizione della “vera vista” e di abbandono della pregressa cecità
88
In questo capitolo abbiamo fatto qualche salto nella mitologia greca, riprendiamo da
questi stessi ambiti la trama del discorso per sviluppare alcune considerazioni sulla
runa Algiz.

e ignoranza. Lo stesso Cristo guarisce il cieco di Betsaida “sputandogli” sugli occhi, ossia attraverso
un’acqua miracolosa e, guarda caso, le scritture riferiscono che Betsaida è una città affacciata su di
un lago. Sempre secondo le scritture Gesù condanna poi gli abitanti di Betsaida, in quanto non si
“ravvedono” sull’esempio del cieco che egli stesso ha guarito. Il miracolo ha qui dunque il valore
dell’esempio che può, o meno, essere seguito e perseverato. La formula ALU discute appunto di
questa necessità, di “attivare” cioè la forza ricevuta per mutare effettivamente il proprio “sguardo”
sulla realtà delle cose. Avremo modo di tornarci nel capitolo in appendice chiarendo, sulla scorta di
Guénon, la differenza tra iniziazione “effettiva” e “virtuale”.
89
Atteone, “A” come Algiz

Una premessa d’obbligo: per chi scrive l’episodio mitologico altro non è che un
simbolo. La mitologia è in questo senso un racconto cifrato, che tramite le sue
immagini tramanda una conoscenza o un insegnamento di tipo tradizionale. Che poi
tali saperi traslino anche in un rito specifico, ad memoriam, come viene rilevato dal
taglio antropologico di molte opere sui costumi antichi o su quelle società che hanno
conservato vestigia ataviche, questo è solo un passaggio successivo, sempre più
dimentico di quella nozione sacra che ha inaugurato il ciclo terrestre.
Ciò detto, abbiamo già menzionato possibili paralleli tra alcuni “simboli” della
mitologia greca e i segni runici, chiudiamo il cerchio con un episodio narrato, tra gli
altri, da Ovidio, sebbene il suo valore sia ancora una volta spiccatamente iniziatico: ci
riferiamo alle vicende di Atteone, trasformato in cervo dalla furia di Artemide/Diana.
Atteone è un nobile tebano; un giorno, dopo aver fatto man bassa della cacciagione
insieme ai suoi compagni, decide di prendersi una pausa rinfrescante e comincia a
camminare nella selva, fino a quando, “spinto dal suo fato258”, si ritrova in una grotta
dove vede Artemide nella sua nudità; in verità, secondo la narrazione di Ovidio, scorge
appena, facendo subito da scudo alla verginea dea uno stuolo delle sue ninfe. Con ciò,
la signora dei boschi reagisce sdegnata:

E come pronte le saette in mano


non ebbe allor, l’acque, che pronte avea,
con le concave palme attinse, e in faccia
gittolle ad Attéone, e a lui spargendo
dell’onda ultrice il crin, queste soggiunse
voci presaghe di sventura:“Or vanne,
narra, se li puoi, che mi vedesti ignuda!”.
E in così dir cervine corna a un tratto
spuntar gli fe’ su la bagnata fronte,
e allungò il collo, e gli aguzzò le orecchie.
In piè le mani, ed in sottili e lunghe
gambe cangiò le braccia, e il corpo tutto
di liscio rivestì macchiato pelo,
e in cor la tema gl’ispirò259.

L’epilogo, come s’intuisce, è tragico: Atteone viene scambiato per un cervo dai
compari che non esitano a cacciarlo fino a quando il malcapitato non viene recuperato
e sbranato dai suoi stessi cani. Per prima cosa è palese il motivo dello smembramento
iniziatico, che abbiamo appena riferito anche ad Aurgelmir e a Kvasir, così come è
attivo il tema della vendetta punitrice della dea o di rappresentanti di rango femminile

258
Un’espressione, quest’ultima, che potrebbe confermare le valenze “mistiche” di tutto il racconto.
259
L’episodio in questione è stato tratto dalla raccolta a cura di Mario Geymonat, I miti straordinari
di Ovidio, Ghisetti e Corvi Editori, Milano, 1987, cit. pp. 49-50.
90
(le Menadi orfiche e dionisiache in altri frangenti) che comportano la morte violenta
del mystes designato. La narrazione drammatica della fine di Atteone, lungi dall’essere
un episodio narrativo, è dunque semmai la rievocazione di un antico rito di passaggio;
lo confermano la presenza della grotta e l’utilizzo dell’acqua. Atteone, nel suo fatale
girovagare, s’imbatte in un antro, tipico luogo di un culto misterico, ambito su cui non
dobbiamo insistere oltre dopo le interpretazioni che abbiamo fornito a proposito di
Berkana - in più, la mutazione dello stesso si compie dopo che la dea gli ha gettato in
faccia dell’acqua, ossia dal momento che il candidato è passato attraverso un lavacro
rituale e catartico, e abbiamo appena visto che cosa ciò comporti nell’ottica della
Laguz/lancia/vascello260.
Questo tipo di battesimo favorisce la “rinascita dolorosa”; l’allontanamento
dall’esistenza precedente, quella profana, è sulle prime patito come uno “strappo”, qui
rappresentato dalla fine violenta del corpo dilaniato. Ma nella sostanza il vecchio
involucro viene ripulito e rimodellato: tale è del resto la gestazione che tocca in sorte
alla carcassa di Ymir, che dopo lo smembramento si “ricompone” in Midgard. Ovvero
la distruzione è solo apparente per l’iniziato, essendo semmai vero il contrario, la
“reintegrazione nella totalità”261. Questo è il significato più alto, da cui procedono

260
Partiamo dal legame che è possibile stabilire tra Artemide e Berkana: la dea non solo ha familiarità
“cervine”, ma anche rapporti con l’orso, di cui abbiamo riportato il significato, sia nei legami con la
grotta che con il guerriero, il berserk. Scrive Franco Cardini in merito al rapporto tra Artemide e orso:
“Si tenga presente che il termine greco per orso è arktos (sanscrito arkshas), parola che indica anche
il Settentrione e che è presente come parte del nome di Artemide, cacciatrice e pothnia theròn,
‘Signora degli Animali’, che come tale appare spesso provocatrice di metamorfosi (si pensi al mito
di Atteone). Fra i molti animali che hanno con Artemide un rapporto privilegiato -tra cui il leone e il
cervo-, spiccano il cinghiale (è come cacciatrice di Cinghiali che la dea viene presentata nell’Odissea)
e l’orso, poiché l’Artemide d’Arcadia è trasformata in orsa e in onore dell’Artemide Brauronia si
esegue una ‘danza dell’orso’ ”; l’estratto qui sopra riportato, insieme all’approfondimento del
simbolismo dell’orso, è consultabile, come il precedente riferimento di Cardini, ancora una volta qui:
http://www.centrostudilaruna.it/simbolismodellorso.html. Quanto al dialogo tra Artemide/Diana e
Laguz, ricordiamo ciò che abbiamo rievocato nella nota conclusiva del precedente capitolo, ossia
l’importanza simbolica del gesto del Cristo che bagna gli occhi del cieco nella sua stessa saliva:
Artemide/Diana compie nei confronti di Atteone un’operazione del tutto analoga, che ridona cioè la
“vera vista”.
261
E’ l’interpretazione fornita dallo stesso Giordano Bruno, che andiamo a riprendere grazie
all’intervento di Mino Gabriele nel volume dedicato da Adelphi all’imponente corpo iconografico
che costella le opere a stampa del “filosofo” rinascimentale. “Il Nolano rovescia il senso del mito fin
qui considerato, sostanzialmente negativo e ammonitorio nella sua morale, connotando invece la
metafora di alte valenze gnoseologiche: il cacciatore Atteone e il suo strazio alludono alla più nobile
impresa del filosofo, del <<furioso>> amante della verità e della bellezza arcane. Sulla scia del
celebre passo del Fedone platonico (in cui la <<caccia dell’essere>> corrisponde all’ardente desiderio
dell’anima del filosofo, purgata dagli impedimenti corporei, di cogliere direttamente <<l’essere>> e
raggiungere la vera saggezza: meta che può essere guadagnata solo dopo che l’anima si sia sciolta dal
corpo, ossia dopo la mistica <<morte>> di questo), Bruno rilegge la favola nel modo seguente:
Atteone <<significa l’intelletto alla caccia della divina sapienza, all’apprensione della beltà divina.
Costui slaccia i mastini e i veltri: de quai questi sono più veloci, quelli più forti. Perché l’operazion
de l’intelletto precede l’operazion della voluntade; ma questa è più vigorosa et efficace che quella>>.
I cani rappresentano i <<pensieri>> liberati dall’intelletto e spinti dalla volontà a cacciare, ad
91
chiaramente successive diramazioni, secondo una trasmissione che si manifesta, per
avvenuta decadenza, in immagini sempre più intense; in questo caso, la metamorfosi
cervina.
Tale avvicendamento non è reale, bensì lo si può riferire all’inglobamento sciamanico
dello spirito dell’animale: la rivelazione ai misteri di Diana/Artemide262 si attua grazie
all’irruzione nelle spoglie dell’iniziato del cervo, animale totemico della divinità. La
punizione con conseguente smembramento è in realtà una manifestazione dell’estasi
provocata dall’incontro con la dea e dalla visione della sua essenza “nuda”, profonda,
oltre i veli dell’ottenebramento, il che comporta la conoscenza dei suoi segreti “mistici”
e la promozione a suo sacerdote. Tanto più che lo stesso nome Atteone ha profonde
filiazioni con theon, “degli dèi”, chiarendo appunto come il protagonista della vicenda
sia riconsegnato alle cose divine attraverso questa crisi di trasformazione, che in verità
non ha nulla di distruttivo, se non nei confronti della pregressa ignoranza. Se poi
vogliamo leggere in termini “religiosi” la vicenda, quindi sul gradino più basso della
gerarchia sacra, vi è nell’episodio di Atteone l’invito alla Eusebeia, quel santo timore
riverenziale nei confronti della divinità, in quanto “faccia” dell’essenza metafisica; è
un punto che avremo modo di chiarire in relazione proprio ai rituali di caccia.
Vi è ad ogni modo una runa che richiama in particolare l’apprendistato di Atteone: si
tratta di Algiz . Algiz è riferita all’alce, quindi a corna cervine; e anche agli Alcis:
quest’ultimi, a quanto narra Tacito, erano venerati in un bosco a ridosso delle querce,
di cui erano rappresentanti, e venivano approcciati da un sacerdote agghindato da
donna. Questo rituale potrebbe insomma rientrare in una delle tante varianti delle
“nozze sacre” su cui ha insistito Frazer nei suoi studi, sebbene al Frazer mancassero gli

inseguire <<le specie intellegibili de’ concetti ideali>>, ovvero le immagini ideali”. Cfr. Giordano
Bruno, Corpus Iconographicum - Le incisioni nelle opere a stampa, Adelphi, Milano, 2001, cit. p. 60
dell’introduzione. Il passo del Nolano ripreso all’interno del commento del Gabriele, per la cronaca,
appartiene all’opera dei Furori. Proprio questo insistere sul “furore”, così come del resto “furioso”
viene detto più sopra “l’amante della verità”, ci riporta alla natura delle imprese odiniche – ricordiamo
per l’ennesima volta che “Odino”, tra le sue varie accezioni, significa giustappunto “furore”. Trattasi
in ogni caso di “Psicomachia” volta al raggiungimento di una conoscenza di tipo superiore, di sfida
dell’eroe ai limiti della sua personale conoscenza. Lo stesso Evola va a riprendere la figura di Atteone
per spiegare in chiave gnoseologica il suo mito. “Beati gli Atteoni che possono vedere la Diana nuda
senza perir”: questa massima, che Evola attribuisce ai codici ermetico-alchemici, viene citata in
merito all’approfondimento del cosiddetto Pancatattva che, all’interno del tantrismo induista e
civaita, designa il «rituale segreto» riservato ai vîra. Il Pancatattva si compone anche di alcuni riti
sessuali che vedono partecipare contemporaneamente più coppie nell’imitazione dell’unione sacra tra
il principio di Purusha e quello di Prakriti. Ma, nota Evola, solo il “signore del circolo” o cakra può
unirsi a una donna completamente nuda, rappresentando essa appunto la divinità disvelata nella sua
reale natura sapienziale e filosofica, come appunto lo è la Diana sorpresa dal mystes Atteone. Sul
Pancatattva e le sue specifiche si rimanda a Julius Evola, Lo Yoga della Potenza, Edizioni
Mediterranee, Roma 1994. Da notare come anche Giuliano Kremmerz utilizzi la figura di Diana nuda
come metafora di un disvelamento cognitivo: “Imbiancando azoto e fuoco, viene senza veste Diana”;
cfr. Giuliano Kremmerz, La Scienza dei Magi, volume quarto, Edizioni Mediterranee, Roma, 1976,
cit. p. 21.
262
Su Diana e i suoi culti, si rinvia nello specifico ai capitoli già citati alla nota 189 sul Rex
Nemoriensis in Il ramo d’oro.
92
elementi per giudicare in maniera obiettiva i retaggi di queste specifiche
manifestazioni263.
L’idea è fornita anche dalla runa che precede Algiz, ossia Pertho , simbolo del pozzo
misterico in cui sono nascoste, galleggianti, le informazioni che non hanno ancora
trovato compimento sulla via dell’iniziato264. Come ha giustamente notato Vincent
Ongkowidjojo265-ne abbiamo già brevemente accennato alla nota 76-, Pertho ha strette
relazioni con la mela. Tale ricostruzione è possibile partendo dall’etimologia della
parola celtica che significa “mela”, ossia quert: da cui pert e appunto Pertho, in quanto
nel passaggio dal celtico all’antico germanico la Q, che manca come suono nel tedesco,
si trasforma in P266. Pertho è quindi ricettacolo di dottrine segrete, anche nelle vesti di
“apple basket”, un’immagine che, analogamente alla cornucopia, rimanda a un passato
mitico di abbondanza e prosperità267. “Apple”, del resto, ha nella sua radice anche
contatti con Avalon, la leggendaria isola dei sapienti, dove va a dimorare Artù dopo la
sua morte. Ma Artù di fatto sta solo “dormendo” e, se consideriamo che Pertho è un
pozzo in cui galleggiano le informazioni abbozzate e le conoscenze da ritrovare,
dobbiamo intendere il suo ritorno come “sempre possibile”. Pertho è insomma una runa

263
Ivi, con particolare riferimento al capitolo 12, “Il matrimonio sacro”, p. 172 e sgg.
264
Anche il paragone con il bussolotto dei dadi è del resto autenticante dei connotati di Pertho,
rafforzando i concetti di possibilità, casualità, indeterminazione relazionati al suo segno. Bussolotto
che diventa poi anche grande contenitore delle rune, che abbiamo già identificato come “arcani
dell’universo”. E qui giunge solenne il legame con il ricettacolo sapienziale, rappresentato ad esempio
dal pozzo di Mimir, in cui l’Allfödr getta il suo occhio sinistro (la luna) per ottenere l’onniscienza.
La calata nel sacro pozzo di Pertho, nel dettaglio, ridesta le conoscenze ottenute con il sacrificio
dell’Yggdrasil. Ed è infatti proprio alle radici dell’albero cosmico che si trova il pozzo di Urd, dove
le Norne -Urd, appunto, interprete del passato, Verdandi (presente) e Skuld (futuro)- si riuniscono a
rimescolare l’intricatissimo paiolo del wyrd che unisce il destino di ogni singolo individuo al
millenario patrimonio delle nozioni segrete. Pertho partecipa intensamente al significato di questo
“calderone illimitato”, la cui origine si perde nella notte dei tempi e in cui sono stati racchiusi tutti i
misteri della creazione e dei saperi originali. In questo senso la storia dell’universo è un susseguirsi
continuo di dati e di notizie, e infatti gli dèi di Asgard tengono consiglio proprio presso il pozzo di
Urd, ossia dove contano di ritrovare barlumi di sapienza e di concetto. Pertho deve peraltro le sue
facoltà anche al calderone più antico ed embrionale, il Ginnungagap, l’informe crogiuolo da cui tutto
ha avuto inizio. Pertho come Ginnungagap, come pozzo di Mimir e di Urd, è pertanto matrice di
quelle che sono le cosiddette memorie akashike, quel substrato profondo che sigilla gli indizi riservati
che il genere umano deve recuperare sulla via della rinascita, nel suo ritorno al “Paradiso Perduto”,
luogo della mela proibita. E capiremo ora il motivo di questa associazione.
265
Cfr. Secret of Asgards, p. 80 e sgg.
266
Su questo tipo di passaggio, dalla Q alla P, si rimanda anche al già citato Barozzi, I Celti e Milano,
p. 52 e sgg.
267
Idun è presso gli dèi nordici colei che si occupa di rifornire costantemente Odino, e compagni,
delle mele dell’immortalità. Idun viene rappresentata proprio con un cesto e tale contenitore è
giustappunto la runa Pertho.
93
di accoglienza e di transito che, come Berkana, di cui è gemella268, mette in evidenza
il versante femminile/passivo dell’iniziato.
Naturale che dopo Pertho s’inserisca nella sequenza runica un simbolo prettamente
assiale quale lo è Algiz, che identifica l’uscita dal pozzo e il volgersi verso il Cielo. In
base a tale abbinamento, è lecito vedere l’azione degli Alcis/querce come elemento
maschile sopraggiunto a fornire forza e temperanza (tale è il valore simbolico della
quercia269) alla forma indeterminata “sbucata” dalla vulva/mela di Pertho. Una volta
smarrita la valenza originale, ossia quella dell’intreccio tra forze telluriche e uraniche,
il costume liturgico deve essere poi rimasto quale superstizione legata principalmente
allo sciamanesimo di caccia: un’eventualità che non smentisce l’interpretazione più
“grondante” che si può riferire all’episodio di Atteone. Come abbiamo visto anche a
proposito della runa Uruz, questi rituali si avvalevano del transfert magico che veniva
stipulato con lo spirito dell’animale270. Atteone prenderebbe quindi la forma del cervo
(totem della dea) per lo stesso motivo, ossia al fine di ricevere un’approvazione
preventiva circa lo svolgimento della caccia. Se in un culto remoto l’uomo contrattava
direttamente con lo spirito della bestia, nel novero della religione greca (o romana) la
stipulazione avviene per il tramite della dea tutelare, ma il suo sacerdote, affinché la
caccia possa effettuarsi concretamente, deve prima esso stesso mediarsi nell’animale
tabù, in questo caso il cervo. Tale metamorfosi può porsi al contempo come iniziazione
del sacerdote e rituale propedeutico all’uccisione dell’animale sacro alla divinità.
Altre sono comunque le analogie che fanno rinvenire nel mito di Atteone l’attendibilità
di questi cerimoniali. Innanzitutto le mute dei cani erano figure realmente centrali nella
caccia all’alce e al cervo, e nella vicenda di Atteone sono proprio i suoi cani a sbranarlo.
Un’ulteriore similitudine è inoltre ravvisabile nel fatto che le prede catturate vive
venissero purificate nell’acqua lacustre in attesa di essere sacrificate271. Anche questo
passaggio è di fatto identico a quello del racconto di Atteone, che viene bagnato da
Diana prima di trasformarsi in cervo: e soprattutto si accorge di essere diventato tale

268
Pertho è di fatto la versione aperta di Berkana , laddove Berkana rappresenta una gestazione
completa, mentre Pertho specifica appunto una genesi che non ha ancora raggiunto la sua maturazione
e che è dunque da intendersi come assolutamente prematura.
269
“Forza” e “quercia” che sono peraltro alla base dell’etimologia della parola “druido”. Proprio quert
rimanda a Quercus robur, la quercia, simbolo assiale da cui deriva la stessa radice della parola
“druido” (dal greco drus, da cui dru-vid, unione di “forza” -robur in latino- e “saggezza”), ovvero un
legittimo rappresentante che la sapienza originale si occupa di preservarla e di tramandarla. Su questi
significati si sofferma Guénon, Il Re del Mondo, nota 17 p. 25. Significati poi ampliati all’interno del
già citato Autorità spirituale e potere temporale dove, alla nota 1 di pagina 60, lo studioso di Blois
ebbe modo di legare il simbolismo della quercia a quello della Sfinge, rappresentando quest’ultima
la stessa ambivalenza tra saggezza, resa dal volto umano, e forza, data dal suo corpo di leone.
Analogo, in tal senso, anche il segno del Grifone, a suo tempo citato da Dante e riportato in queste
medesime pagine da Guénon. Sul druidismo, più in generale, Jean Markale, Il Druidismo – Religione
e divinità dei Celti, Edizioni Mediterranee, Roma, 1991. Sui riti della quercia rimandiamo invece a
Frazer, capitolo 15, p. 195 e sgg.
270
Uruz e Algiz hanno in comune peraltro delle relazioni con il simbolismo delle corna: del bue,
dell’uro appunto, nel primo caso; del cervo nel secondo. Ci torneremo tra poco.
271
Cfr. Secrets of Asgard, p. 88.
94
allorché, durante la fuga, si specchia in un lago; pure in questo caso “gocce di Laguz”
presiedono a una rivelazione sacra. Contiguo è del resto il mandato del cervo, simbolo
specifico della resurrezione e del recupero della “vera grazia”272.
La runa Algiz, con la sua forma cervide, rientra pertanto in precise dinamiche, così
come vi rientrano gli stessi Alcis, il cui intervento è essenziale affinché i rituali di caccia
si esercitino liberamente. Tuttavia le corna cervidi sono anche un segno distintivo della
regalità: molte teste sono state trovate interrate assieme a questi copricapi rituali
realizzati con le corna animali, di alci come di cervi. La stessa corona è del resto
un’evoluzione di questi addobbi che identificavano i re sacerdoti delle antiche tribù273.
E qui emerge il simbolismo tradizionale, quello più olimpico e solare di Algiz, che
peraltro anticipa all’interno del Futhark antico proprio la runa Sowulo. Il re sciamano
è in questo senso erede del Melki-Tsedek e secondo quell’investitura sacra che
possiamo far ricadere sulla figura dello Kshatriya, per come l’ha inteso Guénon, in
particolare nel già citato Autorità spirituale e potere temporale, dove è chiara la
necessaria subordinazione che deve intercorrere tra quello che è un “semplice” potere
esteriore, pur legittimo, e l’autorità superiore che lo dirige in virtù della sua più alta
qualifica. Il rex è insomma tale per nomina del pontifex274.

272
Il cervo compare infatti in alcuni episodi della “quest” del Graal; ad esempio: “Nel Grand St.
Graal Giuseppe di Arimathia e i suoi cavalieri, arrestati dalle acque, sono condotti magicamente
senza affondare al di sopra di esse da un cervo bianco portato da un gruppo di quattro leoni”. Cfr. Il
mistero del Graal, cit. p. 152. Il cervo qui sarebbe il Cristo, e i quattro leoni gli evangelisti. Ma il
cervo, come ha notato Polia, è anche legato all’Apollo iperboreo, indicando la resurrezione in quanto
“rientro” al “Centro spirituale originario”. Cfr. Le rune e gli dèi del Nord, p. 85.
273
I tre denti superiori di Algiz peraltro richiamano ancora una volta la commistione di quei differenti
livelli che concernono la manifestazione del Re del Mondo. Sebbene, indubbiamente, le origini di
Algiz vadano poi relazionate anche con le attribuzioni dello sciamanesimo di caccia, soprattutto nei
confronti dei cervidi, anche se di fatto proprio l’impalcatura di questi animali ha originato le corone
dei re sacerdoti. Tra “corna” e “corona” la somiglianza è del resto palese, come evidenziato dallo
stesso Guénon nel capitolo “Il simbolismo delle corna” (p. 170 e sgg.) in Simboli della Scienza sacra,
rinvenendo in questi termini la medesima radice KRN. In ogni caso tale esteriorizzazione non
smentisce l’incontro di facoltà regali e sacerdotali in un unico soggetto che in questo caso possiamo
considerare immagine riflessa del Melki-Tsedeq delle origini. Sui re sciamani, e le loro attribuzioni,
si rimanda ancora al vasto studio di Frazer, con il solito riferimento ai capitoli dedicati al Nemoriensis,
ma anche con il rilievo del capitolo 2, “Re sacerdoti”, p. 19 e sgg., e 6, “I re maghi”, p. 106 e sgg. Sui
nessi tra la runa Algiz e lo sciamanesimo, in generale, anche il contributo di Ongkowidjojo, Secrets
of Asgard, p. 87 e sgg.
274
Notiamo a tal proposito come il simbolo di Algiz sia una versione, completa se così si può dire,
della Y che suole descrivere le due “vie” dei pitagorici, vie che in qualche modo possiamo far
coincidere con Janua Coeli e Janua Inferni (cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, p. 81). Se
volessimo mantenere la distinzione che abbiamo illustrato a proposito dell’autorità spirituale e del
potere temporale dovremmo notare come la via dello Kshatriya corrisponda inevitabilmente alla
Janua Inferni, rappresentando il versante terreno e discendente, laddove l’operato del Brâhmano ha
chiara attinenza con il lato celeste e ascendente della Janua Coeli. Algiz, in quanto polo di
completezza, viene qui a inserire anche la terza via che fonde appunto, come abbiamo visto, le due
distinte prerogative che si sono sviluppate in un’età successiva a quella dell’ “unità” primordiale.
95
Tale vocazione all’ordine, alla disciplina sacerdotale e al collegamento con il Logos
originale, è confermata dal solido intreccio che intercorre tra Algiz e il Bifröst, il ponte
arcobaleno che unisce Midgard con Asgard. L’arcobaleno ha sette colori e infatti Algiz
è la settima runa del secondo aett. Ma si dice anche che il Bifröst abbia tre colori
principali, corrispondenti alle altrettante biforcazioni di Algiz. Tali sono del resto i
livelli principali del cursus iniziatico che, a sua volta, corrispondono alla triplice
suddivisione macro/microsmica dell’universo. La struttura assiale di Algiz rappresenta
viepiù il ritorno al Principio, mentre le tre biforcazioni distinguono la parte fisica,
intellettuale e “animica” dell’uomo275. In questo senso Algiz opera da tramite,
conformemente al simbolismo del ponte, favorendo l’allineamento con Asgard,
un’antenna che proietta l’eroe verso i segnali metafisici. Nella mitologia norrena, ciò
accade soprattutto per intercessione di Heimdall, il guardiano del Bifröst. E infatti
Algiz, per astrazione, è proprio una sorta di “angelo custode” e il suo glifo dà l’idea,
anche, di un essere alato, di un “doppio santo” dell’uomo, associabile al dáimōn e al
genius. Algiz, non a caso, è riferita anche alle valchirie, che sono da considerarsi entità
tutelari discese sul campo di battaglia a proteggere i guerrieri più valorosi o perlomeno
a raccoglierne le spoglie per traslarle nel Valhalla, dove essi attenderanno festeggiando,
e allenandosi, il giorno di Ragnarök. Le valchirie, essendo vergini guerriere, ricordano
peraltro molto profondamente l’Artemide, con ancelle al seguito, dell’episodio di
Atteone. Non solo: Algiz, in quanto arcobaleno, è complementare al pozzo di Pertho e
il suo ergersi verso l’alto, dell’Yggdrasil mette in evidenza i rami proiettati fino alle

275
Da rivedere allora anche il contributo di Gurdjieff, di cui uno dei maggiori argomenti fu
l’individuazione dei cosiddetti “tre cervelli” presenti nell’uomo, entità oramai distinte e da riallineare
altresì sulla via della liberazione. Vediamo cosa ne dice in proposito il Bennett, fermo restando che
la “teoria dei tre cervelli” può essere rinvenuta in molti punti della vasta, ma non sempre attendibile
e coerente, bibliografia che riguarda Gurdjieff: “A causa di questa formazione unilaterale dell’uomo,
subito dopo il conseguimento della sua maggiore età queste tre fonti interamente indipendenti o centri
della sua vita -vale a dire in primo luogo la fonte della sua vita intellettuale, secondariamente la fonte
della sua vita ‘emozionale’ e, in terzo luogo, il suo istinto o centro ‘motorio’- anziché amalgamarsi
interiormente nel modo normale per produrre comuni manifestazioni esteriori, specie ultimamente
sono diventate funzioni esterne completamente indipendenti, mentre non solo i metodi di formazione
di queste funzioni, ma anche la qualità delle loro manifestazioni sono diventati subordinati a speciali
condizioni esterne soggettive”, cfr. John G. Bennett, Gurdjeff – Un nuovo mondo, Ubaldini Editore,
Roma, 1981, cit. p. 142. E’ chiaro che questi “tre cervelli” o “centri”, la vita intellettuale, quella
emozionale (o “animica” come l’abbiamo definita sopra) e fisica corrispondono in tutto ai tre “denti”
di Algiz, che in effetti identifica l’essere concepito nella sua “liberazione”, proprio come se lo
figurava Gurdjieff. Questi tre aspetti dell’uomo venivano peraltro fatti corrispondere dal maestro
armeno a tre specifici punti energetici del corpo: lo snodo della kundalini, che incarna ovviamente la
vitalità fisica; il plesso solare, che coincide evidentemente con la “centralina” della vita emozionale
e “animica”; e infine la corona del chakra superiore che raccoglie tutti i vertici della vita intellettuale.
Se intendiamo Algiz come coerente stilizzazione dell’uomo posto in adorazione con le braccia alzate,
abbiamo al contempo un’immagine efficace di quello che per Gurdjieff doveva essere un uomo
“liberato” dai suoi limiti umani, capace quindi di far viaggiare all’unisono i tre aspetti principali della
sua natura. Nella runa Algiz, al di là delle evidenti differenze con la missione di Gurdjieff e le sue
fonti asiatiche, convivono indubbiamente alcuni concetti della stessa dottrina.

96
vette del Cielo, in un moto attivo di ascensione, laddove le radici, rivolte in basso,
concernono la manifestazione passiva dello yin276. Il triangolo superiore, a dispetto di
quello inferiore, ha insomma la netta prevalenza nelle traiettorie di Algiz277.
Esaurita più che altro la carica simbolica del linguaggio tradizionale, in cui Algiz è il
ponte percorso dall’iniziato/sacerdote che migra verso l’identità con il polo superiore,
o addirittura il segno che riassume la necessaria gerarchia intercorsa tra l’autorità
spirituale e il potere temporale, se non rievocazioni della loro originale fusione in un
ciclo superiore dell’età terrestre, nelle volgarizzazioni successive rimane la magia
protettiva dei riti di caccia o comunque l’idea dello specialista deputato all’ “affaire
sacro”, con evidenti risvolti pratici per tutta la comunità. Uno di questi è senza dubbio
l’ambito della caccia, foriero di temuti tabù: tali erano da reputarsi gli assalti non
normalizzati nel cerimoniale; l’azione non regolare diventava in automatico
“violazione”. Il permesso di uccidere l’animale andava ottenuto attraverso una richiesta
ufficiale che si compiva tramite il gesto sacro, da cui appunto l’etimologia della parola
“sacrificio”, ossia sacer facere, “rendere sacro”. Algiz è simbolo di tali garanzie, e lo
diventa tanto più nella protezione “tout-court” della comunità, se consideriamo che gli
Alcis, come abbiamo già visto, erano coinvolti nell’accensione dei falò rituali del
cosiddetto “Need-Fire”, aventi appunto lo scopo di proiettare salvaguardia e prosperità

276
Algiz riversa indica del resto l’aspetto femminile, mentre Algiz dritta sintetizza la variante
maschile. Algiz capovolta è “luna”, quindi anche incostanza (perché la luna cresce e decresce, e
sparisce). Peraltro Algiz riversa diventa nel Futhark nordico (detto anche “younger”) runa
indipendente, chiamata Yr, legata proprio al sovvertimento della componente uranica e virile. Tanto
è vero che proprio una Yr, o una Algiz capovolta, realizza il simbolo della pace . Se consideriamo
che, sulle tombe nordiche, Algiz dritta e Algiz capovolta indicavano rispettivamente la nascita e la
morte, capiamo come il simbolo della pace sia in teoria tutt’altro che confortante. Ovvero la disciplina
“solare” del sacerdote viene svilita in questo modo nel caos, lunare e psichico, della “beat generation”.
Sul simbolo della pace, insieme ad altri elementi, come esito di quella “prima” età dell’Acquario
“Woodstockiana” (visto che molti l’hanno fatta poi coincidere con lo snodo del 2012), si veda la
ricostruzione di Enzo Pennetta e Gianluca Marletta in Extraterrestri – Le radici occulte di un mito
moderno, Rubbettino, Roma, 2011.
277
Sul valore dell’arcobaleno come ponte che collega Terra e Cielo anche Simboli della Scienza
sacra, p. 334 e sgg. E’ di particolare rilievo il collegamento che Guénon fa tra il simbolismo dei sette
raggi del sole e i sette colori dell’arcobaleno. In verità i colori dell’arcobaleno sono “soltanto” sei,
creando un’opposizione tra i tre colori principali e i tre secondari, che è di fatto l’equivalente di quella
che riguarda i due triangoli del Sigillo di Salomone. Come abbiamo visto, il triangolo superiore e il
triangolo inferiore (che sono poi la stessa cosa delle fronde e delle radici dell’albero), il principio
attivo primario e quello passivo secondario, sono parte integrante dei significati di Algiz dritta e Algiz
capovolta. Il settimo colore, che è il raggio bianco, è in verità il primo colore, quello che identifica il
rapporto con il Polo centrale e originario, e che in Algiz corrisponde alla struttura assiale protesa
verso l’alto. In Guénon, peraltro, l’associazione dei sette colori dell’arcobaleno è anche con i sette
giorni della creazione, laddove il settimo giorno, quello del riposo, è in verità un rientro all’origine,
e come tale coincide con il colore bianco, quello realmente solare, a cui del resto punta la stessa Algiz
nel suo volgersi verso Sowulo, che di fatti le succede all’interno del Futhark antico.
97
sulla tribù e sui suoi beni e possedimenti278. L’uomo che chiede soccorso agli dèi, che
si incanala nella loro direzione, tuttora del resto stende in alto le braccia in segno di
preghiera; queste braccia, in tempi più remoti, erano le corna cervidi indossate dal re
sacerdote, effigie naturale della gerarchia dei tempi andati.
In tale ottica va visto il passaggio di Atteone, iniziato ai culti di Artemide: tutela,
agghindamento e smembramento rituali (pur sempre “mutazioni d’aspetto” sulla via
sacra), argomenti che, sotto i differenti punti di vista presi in esame, la runa Algiz
rievoca nelle sue simmetrie. Fino a quando, in un giorno fatale, questa disposizione
verrà meno, come andiamo a chiarire analizzando la runa posta a conclusione del
Futhark antico.

278
D’altro canto proprio il dio “cervide” Cernunnos interagiva con la fertilità e la ricchezza delle tribù
celtiche. Così come in generale il greco alkē, da cui appunto Algiz, significa “difesa”, nel senso di
ausilio superiore che giunge dagli dèi, il che rispecchia integralmente i valori che abbiamo appena
messo in evidenza. Su questi nessi, Le rune e gli dèi del Nord, pp. 84 e 85.
98
Dagaz: fine ergo inizio

Negli ultimi passi del primo capitolo abbiamo avuto modo di accennare al dibattito che
riguarda le ultime due rune del Futhark antico, Othila e Dagaz, che vengono messe
alternatamente in penultima e ultima posizione. Per chi scrive, Othila è indubbiamente
un approdo, e abbiamo visto di che qualità, tuttavia tale approdo è troppo “statico” per
soddisfare le esigenze di rinnovamento e trasformazione che caratterizzano
qualsivoglia ciclo inteso in un’ottica tradizionale. Ecco perché Dagaz, che è comunque
a suo modo un arrivo, si presta perfettamente a questo necessario transito, realizzandosi
come nuovo inizio e “riconfluendo” in Fehu, la prima runa. Tale continuità è di natura
ignea, essendo la scintilla finale del Ragnarök anche la prima fiamma del nuovo corso.
Basta del resto associare il simbolo di Dagaz ad alcune rune che la precedono per
cogliere la portata di tale “scollamento”. Mannaz , ad esempio, runa della “mankind”
e della “menschheit”, che propone peraltro la tripartizione che Georges Dumézil ha
approfondito in merito al substrato delle società indoeuropee, tra cui troviamo anche
gli antichi germani279. E’ risaputo come lo studioso francese abbia individuato tre
funzioni principali presso tali agglomerati. Ossia una religiosa e sacerdotale
(tendenzialmente pure sovrana, il che riconduce a quanto detto a proposito del Melki-
Tsedeq); una di tipo militare; e infine una di genere produttivo (allevamento e
agricoltura); di fatto tale divisione è la stessa delle prime tre caste indù: Brâhmani,
Kshatriya, Vaishya. Mannaz suggerisce allora il proficuo incrocio di questi differenti
livelli, vitali in modo diverso alla conservazione e alla proliferazione della “specie”280.
Tutte sanzioni che si ritrovano nelle rune del terzo aett precedenti proprio a Mannaz:
abbiamo visto come la coppia Teiwaz/Berkana contribuisca a mantenere saldi gli
opposti attivi e passivi, e a intrecciarli anche nel tessuto sociale dello status quo. E del
resto Ehwaz , la numero 19 che introduce proprio Mannaz, indica il culto sciamanico
del cavallo, dell’esuberanza che va mitigata tramite le redini di chi cavalca, di chi
conduce il corpus sociale. Ehwaz fa del resto traboccare il lato femmineo e istintivo
che abbiamo visto latente in Berkana; tale manifestazione è documentata dalle gesta
equine. Bisogna tornare al mito greco per capire la relazione tra il cavallo e la pietra di
Berkana: una simile epifania si lega alla scoperta dell’acqua. Siamo sul monte Elikona
e Pegaso libera la prima fonte con una poderosa zoccolata inferta ad una roccia, motivo
per cui proprio lo stallone è animale caro a Posidone, il dio dei mari. Ma “mare” in
inglese significa “giumenta”, così come l’incubo, ossia il demone/cavallo che

279
Cfr. Georges Dumézil, Matrimoni Indoeuropei, Adelphi, Milano, 1984 e l’ancora più pertinente,
per il presente studio, Gli déi dei Germani - Saggio sulla formazione della religione scandinava, che
abbiamo peraltro già citato.
280
E’ chiaro come qui si viaggi su un’identificazione “sociale” che vive in quanto proiezione più
bassa di tripartizioni di ben altra portata: è una chiave che andremo a riprendere nel capitolo in
appendice, approfondendo ad esempio i tre guna che influenzano le qualità delle prime tre caste indù.
Del resto quando si parla di “tripartizione” in ambito tradizionale gli adattamenti sono infiniti: si pensi
soltanto ai tre principali livelli della scala iniziatica o appunto alle tre funzioni accorpate dal Re del
Mondo.
99
s’interpone a “incubare” nuova vita nell’assorto dormiente, è per la precisione
“nightmare”281. Del resto anche il quadro di Heinrich Füssli, noto come “L’incubo”,
raffigura un cavallo in uno scenario notturno e spettrale.
L’associazione tra Ehwaz (cavallo) e Laguz (acqua) è evidente anche a livello iconico,
visto che la prima è la versione raddoppiata (e allo specchio) della seconda . Il
seme del cavallo bagna dunque la terra facendola fruttare: presso le antiche tribù
norrene era d’uso il rito del volsi, che s’incentrava sull’invocazione della fertilità
recitata sul membro imbalsamato del cavallo. Ehwaz è dunque di fatto accostabile alle
dee dei cavalli e della fertilità, ad esempio, presso i Celti, Epona (equivalente
Ehwana)282. Entrambe queste dee ammettono peraltro una triplice manifestazione che,
in parte, spiega la posizione di Ehwaz all’interno del Futhark antico (terza runa del
terzo aett) e che rilancia anche le questioni legate ai crocicchi e alle attribuzioni lunari.
Ecate, che a livello etimologico si lega a Ehwana, è tanto dea della luna che dei
crocicchi, ossia di quelle parti di territorio misteriosamente affacciate su un mondo
“altro”, promiscuo, di cui non è possibile tracciare con precisione i confini, e in cui
costante è il rimescolamento tra la vita e la morte, e convulso l’andirivieni di defunti e
“revenants”. Ehwaz è pertanto anche runa della morte (l’opposto contiguo della
vitalità) e del teletrasporto magico dei “nightmares”: signore di questo aldilà è
indubbiamente Odino/Wotan, che si sposta sul cavallo Sleipnir (da cui “sleep”, il
sonno, il grande contenitore degli incubi). Questo destriero ha otto zampe, come il
numero di mondi, Midgard a parte, che realizza il tutto cosmico della mitologia
nordica, e ha delle rune disegnate sui denti: esse indicano la portata sapienziale del suo
viaggio, letteralmente “a cavallo” dei vari livelli dell’esistenza.
Mannaz, che giunge a completamento di Ehwaz, è dunque una sua variante evoluta:
essa limita l’aggregazione delle forze ctonie e determina un potere “che controlla e
trattiene”, conducendo queste stesse spinte nell’ottica della civiltà assestata su basi
gerarchiche283. In tale prospettiva, e in relazione all’ultima runa che è tema specifico
di questo capitolo, essa presenta proprio nella sua parte superiore una “piccola porzione
di Dagaz”. Ma quest’ultima, in Mannaz , è attraccata agli ormeggi: le perpendicolari
laterali sono le aste che sostengono gli stendardi della comunità, che identificano il
patto sociale e che comprovano la possibilità di ancorare, in un’icona riconoscibile e
unificante per tutti i membri del clan, un principio celeste, una forsennata saggezza che
promana da vette superiori. Da questo punto di vista, Mannaz è da intendersi come una

281
Su tutti questi aspetti si rimanda a Northern Mysteries & Magick, pp. 74-75.
282
Cfr. Secrets of Asgard, p. 108. Va notato come nel caso di Epona si verifichi la stessa trasposizione
linquistica che abbiamo notato a proposito di quert, la mela, e Pertho. Nell’antico germanico, essendo
assente la Q come suono, notiamo la trasformazione in P. D’altro canto è assolutamente automatico
associare Epona al latino equa, che significa “cavalla”.
283
Tornano in questo senso alcune considerazioni che abbiamo fatto a proposito del “potere che
frena”, sulla scorta del recente saggio di Cacciari. Vedasi in dettaglio la nota 90. Cacciari nota bene
come il katechon si esplichi nel trattenere qualcosa che è contenuto in sé stesso – evidente è l’analogia
simbolica nel rapporto tra Mannaz e Dagaz: effettivamente Dagaz è contenuta in Mannaz, come
andiamo a precisare immediatamente.
100
Wunjo presa nell’atto di specchiarsi in se stessa284, a conferma di un vertice che non
è soltanto individuale, ma comune rispetto ad altri concittadini e co-abitanti di un
medesimo territorio marchiato dalla legge. Mannaz è in definitiva la normalizzazione
del sostrato tradizionale nella società terrestre, diremmo nei suoi aspetti più armoniosi
e quotidiani, laddove Othila introduce in modo più solenne il senso di ultimo rifugio e
di estremo baluardo sacrale.
Un equilibrio che in ogni caso con Dagaz (ri)decolla, si stacca, “fugge via”,
determinando la catastrofe, poiché troppo assolute, e libere di darsi la caccia, sono
oramai le forze messe in moto. Dagaz riassume di fatto il grande scontro di due
triangoli: . Tali forme equivalgono alla volontà magica che abbiamo visto agire in
Thurisaz e Wunjo: la spinta del triangolo nella prima è ardore nichilista e titanico,
mentre nella seconda trova obiettiva maturazione. Ma si tratta di scintille, benigne o
maligne esse siano, che rientrano ancora in quel tipo di controllo che un essere umano
sa esercitare. Viceversa le proporzioni scaturite con Dagaz riguardano uno status
(individuale o ciclico) che non può più proseguire “oltre”, e che quindi deve
ritrasformarsi attraverso una perentoria combustione. La stessa runa Gebo , nella sua
presenza in Dagaz, porta il concetto di sacrificio sapienziale alle sue estreme
conseguenze. Anche due delle Kenaz che formano Gebo, che tutto sommato sono
aperte, in Dagaz diventano athanor chiusi, calderoni in cui il fuoco è talmente
compresso da risucchiare le pareti dei suoi serbatoi; inevitabile, a questo punto, è
l’implosione.
Tale è la quintessenza del Ragnarök, dove tutto tramonta in vista di una nuova aurora.
L’Odino/sole viene inghiottito da Fenrir, ucciso poi da Vidar, figlio dell’Allfödr e sua
trasposizione. Thor abbatte il serpente Jörmungandr, ma soccombe per il suo veleno.
Heimdall, protettore del Bifröst, sconfigge Loki, bensì viene ferito fatalmente dallo
stesso. Analogamente Frey e Surtr si danno morte reciproca. I due triangoli contrastanti
-la tentazione e la sua panacea, il veleno e il suo antidoto, le tenebre e la luce, la vanità
intellettuale e la grazia divina, il caos e l’ordine- si inchiodano l’uno all’altro, si
puntano reciprocamente producendo un collasso così estremo che l’eterna
sublimazione delle alterne forze equivale alla deflagrazione di tutto il creato. Del resto
se ruotiamo di novanta gradi Dagaz otteniamo una clessidra letale, che segna il passare
di un rapido giro di lancette, da cui “day” e “tag”, termini che riferiamo
spontaneamente a Dagaz, runa numero 24 come le ore di un unico, “semplice”, decisivo
giorno.
284
Il parallelo è interessante anche in base a quanto detto su Ehwaz, che con le sue divinità dei
crocicchi ha a che fare con le erme, le pietre di “testa” citate a proposito di Wunjo, in quanto
segnaposti dei confini nelle “terre altre” e nei luoghi aperti. Se in Wunjo sono sanzionanti, marcando
esse il territorio, con Ehwaz, che identifica viceversa ciò che è più propriamente sottile, “larvato” e
in moto di continuo spostamento tra detti confini, la formalità delle erme viene messa in discussione.
Essendo Mannaz una doppia Wunjo, capiamo una volta di più come essa rappresenti la stabilità e la
norma, laddove Ehwaz è movimento e violazione di tale norma. Ma d’altro canto le violazioni
servono a rafforzare il potere e la responsabilità di chi vigila. Le basse frequenze del caos risvegliano
chi di dovere in vista del “lavoro grosso”.
101
Un olocausto che permette di accostare il simbolo di Dagaz a quello dell’energia
nucleare: l’idea è che questa runa rappresenti un potere troppo pericoloso da
maneggiare. “Handle with care” è quanto mai pertinente in relazione a Dagaz; in questo
caso uno scherzare col fuoco da parte dell’uomo potrebbe sommergerlo, marchiando
un’incisione indelebile nel corso della storia285. Anche tale aspetto si riverbera in
Dagaz, che segna il passaggio da un’epoca all’altra, con il suo triangolo sinistro che si
assottiglia fino a riaprirsi in quello destro; e viceversa. La battaglia finale è del resto
una crisi necessaria per accedere a una nuova fase della manifestazione ciclica: in
questo studio, soprattutto nel primo capitolo, abbiamo chiarito come l’esoterismo
nordico, con le sue immagini e i suoi simboli, racconti una fase discendente del ciclo
terrestre. Il Ragnarök, preso in questa ottica, è da intendersi come un auspicio di
reintegrazione nell’ “età dell’oro” o in un suo stretto equivalente.
Chiaramente non solo: il Futhark tutto, abbiamo specificato anche questo, è un sunto
del percorso iniziatico individuale; conformemente a tale prospettiva, Dagaz
rappresenta l’ultima, “disperata”, iniziazione. L’idea dell’estrema contesa spirituale è
rafforzata anche dall’immagine dell’ascia bipenne che si ottiene dalla sovrapposizione
di Dagaz con la runa Algiz . Ascia bipenne che, come ha mostrato Guénon286, è un
simbolo accostabile al vajra, il fulmine indù, paradigma assiale di indistruttibilità e
purezza. Essendo l’ascia anche sigillo solare prossimo al martello di Thor, quest’arma
compare come attributo di una lotta non giusta, “sacrosanta”, dal momento che è
finalizzata a una “morte sacra” che si risolve in un nuovo concepimento per l’eroe che
la impugna. Ciò detto, Dagaz è diretta emanazione di Sowulo in quanto serpentina
solare : l’energia elettrica, già potente, si tramuta in “nocciolo nucleare”. La via
stretta che unisce i due triangoli di Dagaz è peraltro quella porta solare, quel vertice di
cupola, che abbiamo già menzionato a proposito di Wunio e di Othila, e che qui trova
definitiva sanzione.
Tale è la portata esoterica di Dagaz: i due estremi infatti, la sfera intellettuale di Odino
e la sua controparte magica, ipnotica e lunare, trovano nella runa finale una
trascendenza più alta, una sintesi “ultra-perfetta”. Ossia Dagaz è l’essere nella sua
infinita inconoscibilità. Se Jera rappresenta l’ordine ciclico, Dagaz è la sua
manomissione: le due facce visibili di Giano si trasformano nella terza faccia,
insondabile ed eterna nella sua continua mutazione. La porta conclusiva è anche
l’ingresso di un nuovo inizio.

285
Anche il simbolo di alcuni cartelli di “warning”, come quello relativo all’apertura della valvola
del metano, è identico a Dagaz, identificando lo sprigionamento di una forza che potrebbe risultare
letale.
286
Cfr. Simboli della Scienza sacra, p. 161.
102
Articolo in appendice:

Rune ed ermetismo

Come abbiamo avuto modo di notare nell’introduzione del lavoro intitolato “Le rune e
la Scienza sacra”, qui sopra ripresentato con aggiustamenti nelle note e qualche nuovo
spunto di riflessione, inevitabilmente eravamo consapevoli del fatto che si sarebbe
trattato di un lavoro in divenire, foriero di ulteriori valutazioni e intuizioni. Lo scopo
era porre una prima solida base sullo studio delle rune, alla luce degli evidenti
contributi derivanti dal bagaglio tradizionale di cui, secondo noi, non era stata data
sufficiente evidenza. Ci proponiamo con l’articolo inedito qui presente in appendice di
riprendere alcuni aspetti delle rune, cercando, per quanto possibile, di rinvigorire certi
collegamenti con l’ermetismo, senza tuttavia avere la pretesa di costruire un sistema
completo e bastante a se stesso.
Di Guénon condividiamo senza dubbio la volontà di riportare il simbolismo a una
scienza esatta, infallibile nel momento in cui comunica dei significati di ordine
superiore. Abbiamo preso in esame le rune proprio per questo motivo, poiché in quanto
simboli sono in teoria messaggere di valenze superiori, che escono dall’ordinario
psicologico e “magico”; i capitoli che precedono questa appendice lo hanno illustrato
chiaramente, in un continuo ritorno, proprio sulle tracce di Guénon, a quello che è
definibile come “retaggio tradizionale”. Sussistono poi altri aspetti della “questione
Guénon”, soprattutto in relazione al fatto che i suoi studi, poiché così lineari
nell’indagine, abbiano portato a un’involontaria atrofizzazione del pensiero
tradizionale. Chi scrive vuole al limite sottolineare che la fedeltà, sulla linea di Guénon,
ai crismi della Tradizione è indispensabile nel momento in cui si voglia fare chiarezza
su una materia dottrinale – perché si tratta qui di materia “eterna”, senza tempo, in
quanto appunto manifestazione di una sapienza primordiale, dove più si è conformi al
movimento a ritroso tanto più ci si avvicina alla verità. Ma per tutto ciò che riguarda la
comprensione dei fenomeni contingenti, un eccesso di zelo nei confronti di Guénon,
come se si fosse rimasti alla pubblicazione di Il Regno della Quantità e i Segni dei
Tempi, opera capitale ma da rivedere nell’ottica degli eventi in atto, può altresì rivelarsi
controproducente. Che si recuperino insomma gli indizi di Guénon e li si faccia fruttare
a dovere, laddove questi indizi non riguardano la sola sostanza dottrinale, che è invece
il caso del presente studio, perché i Segni dei Tempi si sono nel frattempo evoluti e
aggiornati.
Ciò premesso, lo spunto per affrontare nuovamente la dottrina runica ed affiancarla al
recupero della scienza ermetica ci viene offerto da una serie di articoli scritti da Guénon
negli anni ‘30 e poi inseriti nella raccolta Forme tradizionali e cicli cosmici287.

287
Si tratta nello specifico di “La tradizione ermetica”, “Ermete” e la “Tomba di Ermete”, risalenti
rispettivamente al 1931, ‘32 e ‘36. Cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, pp. 99-123. Guénon viveva
in Egitto dal 1930, sapeva quindi bene di cosa stava parlando, vista la sua prossimità al deposito
ermetico, che come è noto ha forti basi egizie. Sull’ermetismo egiziano si rimanda anche allo studio
di Jack Lindsay, Le origini dell’alchimia nell’Egitto greco-romano, Edizioni Mediterranee, Roma,
1984.
103
Ovviamente Guénon non seminava mai indizi a caso, anche quando discorreva di
argomenti per lui meno significativi dal punto di vista della metafisica pura; e
nell’articolo sulla “Tomba di Ermete”288 egli ipotizzava che le tre piramidi di Giza in
qualche modo fossero il sepolcro della dottrina ermetica, sepolcro inteso come
“deposito”, nelle proporzioni e nella dottrina stessa che ispirò le costruzioni piramidali,
di precise nozioni esoteriche. Sappiamo benissimo che la stessa teoria è alla base
dell’ingente studio del Fulcanelli sulle cattedrali, appunto intese come “dimore
filosofali”289.
Ciò non toglie che la piramide sia già di per sé un “simbolo vivente” che evoca altre
immagini tradizionali, precedenti o successive alla loro edificazione, ossia la
montagna, il cuore, il Graal o la stessa Kenaz, che in effetti è runa di fuoco, ossia di
pyr, termine che sulla scorta di Kremmerz ci riporta direttamente alla piramide – si
veda in merito la nota 71 del testo che precede questo articolo aggiuntivo.
Focalizziamoci soprattutto sull’annotazione che Guénon fa a proposito delle tre
piramidi di Giza, con particolare rilievo della più grande: “(…)abbiamo constatato che
certuni attribuiscono una considerevole importanza al fatto che la Grande Piramide non
sarebbe mai stata terminata; in effetti il vertice è mancante, ma tutto quel che si può
dire a questo riguardo, è che i più antichi autori di cui si ha testimonianza, i quali sono
ancora relativamente recenti, l’hanno sempre vista tronca come essa è oggi”290.
La domanda è d’obbligo: fu tronca dall’inizio? In caso affermativo, la mancanza della
punta potrebbe nascondere un preciso intento esoterico, ossia comunicare che il ponte
-sensatamente sotto forma di punta- che rimandava a una sapienza di ordine superiore
è stato reciso per sempre. Sarebbe del resto proprio questa l’essenza dell’ermetismo
secondo Guénon: ossia il lascito di una scienza che, pur vantando legami con la
conoscenza primordiale, può al limite riuscire nell’intento di possedere le “piccole
chiavi”, quelle che, propriamente “isidee”, caratterizzano il potere regale degli
Kshatriya o di analoghi rappresentanti. Come abbiamo già rilevato in precedenza, nel
dettaglio della nota 227, proprio Evola ritenne che l’ars hermetica fosse appannaggio
principale, per doti e caratteristiche, dello Kshatriya. Guénon contraddice parzialmente

288
Cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, p. 115.
289
Al di là della reale identità di Fulcanelli, argomento che è stato al centro della querelle occulto-
esoterica degli ultimi anni (rimandiamo in tal senso alla nota 227), l’opera uscita sotto questo
pseudonimo è sicuramente notevole nella ricostruzione degli indizi “oggettivi” che dimostrano come
le costruzioni delle cattedrali avessero un legame inscindibile con la prassi dell’operazione ermetica.
Prassi che ovviamente non riguarda il trattamento e la trasformazione dei metalli fisici, a meno che
per “metallo fisico” non s’intenda il corpo dell’iniziato, ossia il piombo saturnino da sublimare
nell’oro spirituale.
290
Cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, cit. p. 123, nota 12; Guénon non si sbilancia su questo
punto, citando alcune rischiose spiegazioni che potrebbero essere riferite alla cosiddetta “pietra
angolare”, di cui abbiamo già accennato in precedenza. Certo in ogni caso il parallelo che Guénon
stabilisce con la “piramide tronca” che già all’epoca figurava come sigillo degli Stati Uniti.
Aggiungiamo inoltre che restauri, scoperte o ipotesi successive maturati a proposito delle tre piramidi
di Giza non intaccano le prerogative del nostro approfondimento, che si basa soltanto su quello che
possiamo intavolare grazie al suffragio dei simboli e delle nozioni tratte dal deposito tradizionale.
104
lo studioso italiano nell’articolo “La tradizione ermetica”291, spiegando come in ogni
caso l’origine dell’ermetismo vada ricercata in un retaggio di tipo sacerdotale, essendo
del resto Ermete variante del dio egizio Thot, ossia un nume tutelare proprio della casta
dei sacerdoti. Con ciò Guénon ravvede nell’ermetismo qualche cosa di inferiore alla
metafisica pura, quindi uno Kshatriya, come tale e secondo la visuale che sempre
contraddistingue Guénon, risulta essere perfettamente idoneo ai “piccoli misteri”
concessi in uso dall’ermetismo. Avremo modo di tornare su questo assioma, cercando
di capire fino a che punto l’ars hermetica attenga davvero “soltanto” i “piccoli misteri”,
poiché la questione non è sdoganabile in maniera così netta.
Tentiamo ora, piuttosto, un confronto con la runa che chiude il Futhark antico. Se
Dagaz è, in ultimo, in “estrema unzione”, il ricongiungimento dei due opposti
(l’autorità spirituale e il potere regale, entrambi presenti in Odino in quanto “iniziato
uranico” e “signore della guerra”), essa in qualche modo rientra nell’ordine “trino” di
un Melki-Tsedeq: è allora chiaro che la sua missione di “entità invisibile”, di forza
impossibile da qualificare, di “terza faccia di Giano”, equivarrebbe alla punta mancante
della principale piramide di Giza, quella comunemente detta “di Cheope”. Desta
perlomeno curiosità che il simbolo di Dagaz sia prodotto da due triangoli che

“cozzano” l’uno contro l’altro. Se consideriamo che il sigillo di Salomone è esso


stesso formato da due triangoli, bensì compenetrati in quello che è il normale rapporto
vigente tra macrocosmo e microcosmo, dacché la realtà terrena è entrata in una fase
calante della sua storia, possiamo leggere in Dagaz proprio il ribaltamento di questo
stato di cose, con il rientro alle massime possibilità concesse dall’ispirazione divina.
Ecco che cosa dice il Kremmerz a proposito dei due triangoli che s’intersecano nel
sigillo salomonico, partendo dal riferimento al triangolo con la punta rivolta verso
l’alto: “Il padre, l’intelligenza, la mente, lo spirito informante, il centro sensazionale
sono sinonimi del vertice culminante di questo triangolo; del quale gli altri due estremi
sono rappresentati dal figliuolo, (ossia materia plasmante, o periferia) e dallo spirito
santo (veicolo della forza creatrice emanante dal centro attivo, il Padre). Badate, o
lettori che io riduco il simbolismo religioso occulto a una esplicazione della forma della
Verità assoluta sotto tutti gli aspetti possibili. Ora rovesciate il triangolo: e mettendo
nel vertice C (Kremmerz si riferisce qui al vertice del triangolo capovolto, n.d.a.) il
potere centrale ricevente le sensazioni della periferia, voi trovate nel triangolo
rovesciato tutto ciò che è forma, pensiero e concetto religioso del diavolo cattolico in
questo simbolo della cecità assoluta in cui i centri sensori sono al di sotto della
influenza cieca degli estremi periferici A e B (qui chiaramente Kremmerz si riferisce
alle due estremità della base del triangolo capovolto, n.d.a.) – la materia che crea il suo
Dio senza luce292”. Secondo questa stessa logica, se raddrizziamo il triangolo capovolto
trasformeremo l’uomo cieco, e in preda al dominio della carne, in un “detentore” dei
segreti del microcosmo, il che attiene il possesso delle “piccole chiavi”, laddove il
triangolo dritto già di per sé, nel suo vertice, racchiude le possibilità delle “grandi

291
Ivi, pag. 99.
292
Cfr. La Scienza dei Magi - volume primo, cit. pp. 168-169.
105
chiavi”. È interessante pertanto notare come in Dagaz siano i due vertici dei triangoli
a toccarsi, mentre nel sigillo di Salomone essi si trovano alla massima distanza. Ecco
allora che Dagaz è davvero rottura di un normale status vigente sull’asse
microcosmico/macrocosmico, per consentire alla dimensione terrena un reale
ricongiungimento con il pensiero celeste e universale. Come rientra questo nel discorso
che stiamo sviluppando sulle costruzioni di Giza? Ci limitiamo a notare che i triangoli
di Dagaz e del sigillo salomonico sono associabili alle facce delle piramidi. In più se
“immaginiamo” Dagaz come tridimensionale, chiudendola in un rettangolo , non
otteniamo forse una specie di piramide vista dall’alto293?
L’ineffabilità di Dagaz riguarda del resto la stessa voluta omissione di dettagli da parte
di Dante, una volta “giunto” al cospetto di Dio alla fine della Commedia294 – il non
poter dire, il non “voler” circoscrivere a parole riproduce a suo modo la mancanza della
punta della piramide più grande di Giza. Consideriamo inoltre che Dante nutrì, come è
stato ampiamente documentato, dei rapporti con il mondo templare: la stessa struttura
del Futhark antico in qualche modo riproduce l’alternarsi dell’afflato spirituale e
dell’impeto cavalleresco, dualità che è peculiare proprio dell’essere templare, anzi
imprescindibile proprio per capire la regola e l’essenza dell’Ordine fondato da San
Bernardo295. E non è forse Dagaz, ancora una volta, estrema sintesi di quanto si compie
nella pasta di un Templare giunto al culmine della sua “verifica”296?
293
Notiamo a tal proposito come un’immagine di questo tipo sia stata segnalata anche dal Guénon,
che chiaramente non fa il paragone con Dagaz, a proposito di un rilevamento effettuato a suo tempo
dal Charbonneau-Lassay tra i “graffiti” del torrione di Chinon; cfr. Simboli della Scienza sacra, pp.
76-77. Il simbolo in questione è facilmente accostabile alla triplice cinta druidica, associazione non
casuale sulla quale avremo modo di tornare tra poco; tra l’altro i graffiti di Chinon sono stati
ricollegati anche ai Templari, il che è assolutamente pertinente alla luce dei temi che stiamo
affrontando.
294
“Ormai sarà più corta mia favella, pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante che bagni ancor la lingua
a la mammella. Non perché più ch’un semplice sembiante fosse nel vivo lume ch’io mirava, che tal
è sempre qual s’era davante; ma per la vista che s’avvalorava in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’io, a me si travagliava. Ne la profonda e chiara sussistenza de l’alto lume, parvermi tre
giri di tre colori e d’una contenenza; e l’un da l’altro come iri da iri parea reflesso, e ‘l terzo parea
foco che quinci e quindi igualmente si spiri. Oh quanto è corto il dire e come fioco al mio concetto!
e questo, a quel ch’i’ vidi, è tanto, che non basta a dicer <<poco>>”. Cfr. Paradiso, canto XXXIII,
vv. 106-123.
295
Si rimanda in tal senso al già citato L’esoterismo cristiano e San Bernardo, con particolare rilievo
per il contributo “anomalo” che Guénon offrì sul santo (p. 147 e sgg. dell’edizione che abbiamo
citato); “anomalo” in quanto si trattò, più che altro, di una ricostruzione della vita di Bernardo, anche
se non mancarono i consueti sottintesi simbolici e tradizionali.
296
Scrive lo stesso Guénon a proposito dei cavalieri templari, con riferimento alla particolarità che la
loro soppressione comportò: “ (…) ci limitiamo a ricordare che quest’ultimo (Guénon sta parlando
ovviamente dell’Ordine del Tempio, n.d.a.) costituiva come un legame tra l’Oriente e l’Occidente, e
che anche in Occidente era, per il suo duplice carattere religioso e guerriero, una specie di tramite tra
lo spirituale e il temporale, se, anzi, tale duplice carattere non fosse addirittura da interpretarsi come
il segno di una relazione più diretta con la fonte comune dei due poteri.”; cfr. Autorità spirituale e
potere temporale, cit. p. 95. E proprio al ritorno della fonte dei due poteri mira Dagaz quanto,
idealmente, fa l’Ordine del Tempio. E non è del resto la sola analogia che possiamo stabilire tra i due
fattori: abbiamo già avuto modo di notare come la coppia formata da Teiwaz e da Berkana possa in
106
D’altro canto il “funzionamento” di Dagaz non è l’unico sintomo su cui si poggia l’idea
che il Futhark antico possa aver attinto a sé elementi della dottrina ermetica. Partiamo
dai dati che abbiamo rilevato con sicurezza: innanzitutto lo stesso Guénon fa risalire
l’etimologia del nome Wotan da Budha, “saggezza”, la parola che identifica il pianeta
Mercurio in India. Odino, come Mercurio, è il “signore del mercoledì”, ed è
indiscutibilmente erede di Ermete/Thot nel suo essere “conduttore” di morti. Egli
conosce e padroneggia le fasi ascensionali e discensionali, e come tale lo abbiamo già
presentato nelle vesti di aquila oppure di serpente, soprattutto nelle imprese legate al
recupero del “mead”, bevanda d’immortalità. La natura dell’uccello-serpente, nota
sempre Guénon, rimanda poi ai valori di aria e di fuoco che ritroviamo nelle ali e nelle
serpi del caduceo297.
Aquila e serpente richiamano nello specifico anche l’ambivalenza che soggiace al
significato della parola “druido”, che sappiamo derivare dall’unione dei termini “forza”
e “saggezza” (motto chiave di Wotan); se la forza è sinonimo di azione obbligata e di
movimento tellurico, tale è la natura del drago/serpente, mentre nell’aria cavalcata
dall’aquila ritroviamo la saggezza dei piani eterei che sono albergo della conoscenza
superiore. Medesima è del resto la doppia natura della sfinge, altro simbolo/edificio di
derivazione egizia, in cui il volto umano è indice di saggezza e il corpo leonino
emblema ancora di forza e azione. Troviamo insomma riunite le prerogative che
dirigono l’operato del Brâhmano e dello Kshatriya, a conferma di come lo stesso
simbolismo ermetico, ad esempio attraverso le immagini del solve e del coagula, del
“lunare” e “del solare”, possa vantare l’origine di un’autorità indivisa che è stata poi
“separata” in due risvolti della stessa medaglia.
Proprio nella runa numero 13, Eihwaz , abbiamo evidenziato un senso analogo di
alternanza, tra le correnti inferiori e superiori che, similmente ai due serpenti del
caduceo ermetico, si aggrovigliano lungo l’asse umano, che è poi riproduzione
dell’axis mundi. Ma qui interessa soprattutto la relazione che è possibile stabilire con
l’architettura sacra, e infatti avevamo già avuto modo di notare come Eihwaz, nella
variante del wolfsangel , fosse poi rimasta come insegna di alcune associazioni
di “liberi muratori” nel Medioevo. Il 13, nota peraltro di sfuggita Guénon, è una cifra
legata alla costruzione delle piramidi che presenterebbero infatti tredici differenti strati

qualche modo riguardare questa stessa “ambivalenza templare”, tra azione e contemplazione. E
d’altro canto anche nelle due rune successive, Ehwaz e Mannaz, si attua qualche cosa che afferisce
l’interazione tra l’impeto guerriero, e istintuale, del cavaliere e la mente superiore che governa le sue
azioni; che appunto le “contempla”.
297
Cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, p. 110. Aquila e serpente, come noto, presiedono le due
propaggini dell’Yggdrasil che Odino domina con il suo sacrificio e i suoi successivi “spostamenti”.
Anche la mitologia sumerica presenta peraltro la stessa immagine e, andiamo a specificarlo a breve,
pure la cosmogonia egizia è ricca di riferimenti a uccelli e serpenti, e non potrebbe essere altrimenti
essendo questi simboli tutti derivati da un medesimo impianto.

107
nella loro edificazione298. Il 13 rimanda di sfuggita anche al “grande anno” dei greci e
dei persiani che si prolungherebbe per circa 13.000 anni, per la precisione 12.960, tanto
che nel primo capitolo abbiamo riferito questa durata all’attività ordinatrice svolta da
Jera all’interno del Futhark antico. Jera è del resto la runa che precede Eihwaz e in
effetti nel loro avvicendarsi c’è qualcosa che attiene il rapporto tra il tempo cosmico e
la sua normalizzazione nella struttura terrestre; normalizzazione che è lecito attribuire
alla dottrina racchiusa nelle dimore sacre e nel loro senso di appartenenza
all’architettura tradizionale299.
Non solo: come abbiamo già specificato, Eihwaz si trova esattamente a metà
dell’intervallo racchiuso tra le rune Ansuz e Othila, che abbiamo ricollegato alla sigla
ermetica dell’Azoth che concerne a sua volta il ritrovamento dell’occultum lapidem alla
base del Vitriolum. Abbiamo precedentemente notato in che modo Eihwaz si ponga nei
confronti del lapsit exillis e della prima, e dell’ultima, pietra degli edifici sacri,
identificate rispettivamente dal luz e dal caput anguli, quindi non è necessario insistere
oltre.
L’altro elemento ermetico del Futhark germanico che abbiamo rilevato è quello che fa
perno sulla runa Raido, che deve le sue basi al simbolismo dell’orientazione (un altro
tema legato al problema della costruzione degli edifici sacri) e del colore rosso, che
abbiamo chiaramente ricondotto alle origini del nome Adamo. Tanto più che Raido,
essendo la runa che segue ad Ansuz, si pone come prima tappa di una “santa
emulazione” volta a replicare il patto esoterico compiuto da Odino. Il capovolgimento
sull’Yggdrasil permette infatti a Wotan di diventare propriamente il Mercurio nordico,
il genio che conduce l’iniziato sul temerario sentiero della ricerca filosofica300. Il suo
invertirsi sull’Yggdrasil, per poi raddrizzarsi (perché Raido è appunto orientamento

298
Cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, nota 12, p. 123. Non è questa la sede per ricostruire in
pieno la fisionomia architettonica delle piramidi, tuttavia ci pare opportuno riferire almeno certe
analogie numeriche.
299
La stessa piramide presenta in effetti la regola del “4 x 3”, essendo dodici i lati di una piramide.
12 che sappiamo essere cifra di integrazione tra la dimensione celeste e quella terrena, come abbiamo
ampiamente notato nel primo capitolo, sempre a proposito di Jera.
300
Capovolgimento che fa il paio con “l’appeso dei tarocchi”, come abbiamo notato, e proprio i
tarocchi sono uno dei “codici” più legati alla scienza ermetica. Lo stesso Kremmerz insiste più volte
nel corso della sua opera sul significato dei tarocchi. Si rimanda in tal senso ai quattro volumi della
Scienza dei Magi. In particolare nell’ultimo libro, quello che funge da dizionario dei termini ermetici,
troviamo questa definizione: “Le figure dei tarocchi che ritraggono i simboli naturali (vedi Pan) sono
esercizi e sforzi dell’intelletto umano per interpretare la figurazione della natura vivente, ottimo
specchio della intelligenza delle cose per visione di forma, per rapporti di idee (…). La divinazione
per mezzo dei tarocchi non è un mezzo empirico per estesizzare un veggente, ma un metodo
scientifico di esame delle idee assolute e delle loro combinazioni, anche nelle mani di coloro che non
hanno alcun pregio di lucidità astrale. I tarocchi formano un libro sacro di tutte le idee assolute
contemplate dalla Cabala e dalle scienze sacerdotali, e il loro studio è una intima e profonda
considerazione delle idee assolute e vere, e ogni combinazione dei tarocchi è un responso filosofico
e numerico capace di rendere manifeste le più ascose verità”; cfr. Giuliano Kremmerz, La Scienza
dei Magi, volume quarto, cit. p. 382.

108
verso il “right/red” path), è analogia pertinente dei due serpenti arrotolati attorno al
caduceo di cui l’albero cosmico norreno è in questo caso riproduzione.
Alla luce di queste considerazioni, diventa quanto mai sensato riprendere
l’interpretazione di Guénon a proposito delle tre piramidi di Giza. Gli stessi edifici
vengono infatti riferiti ai principali profeti pre-diluviani, ovvero sia Enoch, Seth e
Adamo, andando in senso opposto a quello dell’ordine cronologico301. In tale
ricostruzione, la piramide più grande, quella dalla punta mancante, sarebbe la “tomba”
di Seyidna Idris, altrimenti noto come Enoch: essendo quest’ultimo, secondo la
leggenda, asceso in cielo senza morire, sarebbe egli il realizzatore dell’opera ermetica,
colui il quale è capace di raggiungere, “ancora in vita”, i più alti reami dello spirito302.
Così, scendendo a scalare, Guénon ipotizza che la seconda piramide sia la tomba di
Seth, antenato dello stesso Enoch e figlio di Adamo, che sarebbe invece “sepolto”,
realmente o meno ha poca importanza alla luce dei discorsi che stiamo facendo, nella
più piccola, e ultima, delle piramidi. L’opera di Adamo, “l’opera al rosso”, avrebbe
dunque inizio in questa piramide – rosso che, lo ricordiamo, rimanda anche al secondo
guna, rajas, quello propriamente dello Kshatriya; e del resto Raido, oltre a essere runa
dell’Adamo rosso, è anche runa del “rider”, del cavaliere/guerriero, quindi i suoi valori
sono identici a quelli suggeriti da rajas303. Trattasi però in questo caso di un “rosso di
base” perché in verità il rosso della rubedo ermetica attiene l’ultima fase del
procedimento; al limite si può notare che in questa analogia di colori sussiste tutta la
simmetria della scienza ermetica, che va da un “certo tipo di rosso” a un “ben altro tipo
di rosso”, il primo prettamente umano, “troppo umano”, e il secondo senza dubbio non
più umano, bensì “sovraumano”304.

301
Cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, pp. 117-120. Ovviamente la sequenza si presenta come
invertita perché Adamo è il primo uomo, Seth è uno dei suoi figli e analogamente Enoch è erede di
Seth. Ciò non toglie che Adamo qualifichi davvero il punto di partenza; scrive Kremmerz a proposito
dell’Adamo: “E’ il nostro primo principio intellettuale involuto per materialità, che non sente più
parlare la sua lingua, la favella ideale, cioè delle idee e ricordanze paradisiache, alla quale si è
sostituita la babelica torre sensazione”; cfr. La Scienza dei Magi, volume quarto, cit. p. 12.
302
Il nome Enoch significa “iniziato” e proprio in questa miracolosa ascensione si compie il patto a
suo tempo stabilito da Enoch in quanto tale: il raggiungimento del reame celeste attraverso
l’immortalità dello spirito.
303
Rajas rimanda del resto alle parole “ray”, “raggio” e anche la quinta runa è etimologicamente
vicina a vocaboli come “ray”, “irradiamento” e “radius”, termine geometrico utilizzato per indicare
il “raggio”- si rimanda in tal senso al capitolo che abbiamo dedicato a Raido all’interno di questo
studio (p. 67 e sgg.). Sono ragionamenti tanto più comprensibili nel momento in cui si consideri la
missione dello Kshatriya come l’emanazione di un centro spirituale che è in diretto rapporto con il
principio sovraumano. Si rinvia al già citato studio di Guénon, Autorità spirituale e potere temporale,
in cui ricorrente è l’accenno alla gerarchia che lega il polo centrale della luce spirituale al riflesso
successivo dell’attività guerriera o “regale”.
304
Il rosso di Adamo è d’altro canto quello del sangue, mentre il rosso della rubedo ha valore etereo;
scrive del resto Fulcanelli: “La Terra è nera, l’Acqua è bianca; l’aria più si avvicina al Sole e più
ingiallisce; l’etere è completamente rosso. La morte, come diciamo tutti, è nera, la vita è piena di
luce; più la luce è pura e più essa s’avvicina alla natura angelica e gli angeli sono puri spiriti di
fuoco.”; cfr. Il mistero delle cattedrali, pp. 92-93. Ora anche la parola “alchimia” ha attinenza con la
terra, significando l’arabo el-Kimia qualcosa che ha a che fare con la “terra nera”; in verità la forma
109
Il simbolismo pare fintanto chiaro: l’ermetismo è una dottrina che riparte dalla pasta
dell’uomo e, in questo senso, non può essere il “solo” Adamo a compiere un’opera che
necessita di accurati passaggi, da cui la scansione in tre fasi identificate da altrettanti
profeti e piramidi. Le rune, nel sistema complesso del Futhark antico, tramandano
peraltro lo stesso tipo di messaggio305.

soltanto di questa parola è araba, essendo invece la derivazione egiziana – propriamente da Kémi, che
significa appunto “terra nera” (cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, p. 100). C’è allora una
contraddizione con la matrice dell’Adamo rosso? Assolutamente no: si tratta di due simbologie
analoghe nel significato ma dal “colore diverso”, anche letteralmente parlando. Del resto il valore è
il medesimo: la terra nera riguarda anche il simbolismo della Kaabah islamica, pietra nera caduta dal
cielo. Così come Adamo, nato dalla terra rossa, è il primo uomo dopo la caduta. In entrambi i casi,
da questa matrice, al di là del colore, riparte il procedimento ermetico; e in ogni caso abbiamo chiarito
come il rosso di Adamo non sia lo stesso dello zolfo solare che attiene la fase di rubedo, che è anzi
agli antipodi.
305
Più in generale notiamo come le analogie che è possibile rinvenire tra Futhark runico, esoterismo
dantesco e dottrina templare siano spesso all’ “insegna del tre”. Come è risaputo le rune sono
suddivise in tre raggruppamenti, noti come aett. Il tre, lo abbiamo detto più volte, è quello delle
principali fasi iniziatiche, schema ben reso ad esempio dal simbolismo della triplice cinta druidica,
sul quale torneremo. Tre sono anche le principali operazioni ermetiche -rubedo, albedo, nigredo- così
come tre sono i colori templari -rosso, bianco e nero- che non a caso sono pure i colori dei tre volti di
Lucifero nella Commedia, opera d’altro canto divisa in tre cantiche secondo la struttura del “33 x 3”
(+ l’uno del canto introduttivo), impalcatura che abbiamo già analizzato in precedenza a proposito di
Nauthiz. Tre che è allora anche il numero dei guna, le qualità principali delle caste induiste, tamas,
rajas, sattwa, a cui del resto, come abbiamo evidenziato alla nota 227, corrispondono sempre il nero,
il rosso e il bianco. A proposito di questi colori, si veda l’accurata ricostruzione di Fulcanelli in Il
mistero delle cattedrali, con riferimento a quelli che sono gli animali simbolici raffigurati su questi
edifici; nel dettaglio i paragrafi compresi tra le pp. 84 e 90. C’è inoltre un passo di Guénon che spiega
bene la sovrapposizione di questi argomenti, in relazione anche alla cosmogonia della Commedia:
“Esiste un testo vedico in cui i tre guna sono presentati come mutantisi l’uno nell’altro procedendo
secondo un ordine ascendente: <<Tutto era tamas: Egli (il Supremo Brahma) ordinò un cambiamento,
e tamas assunse il colore (cioè la natura) di rajas (elemento intermedio tra l’oscurità e la luminosità);
e rajas, avendo ricevuto di nuovo un comando, assunse la natura di sattwa>>. Questo testo fornisce
una sorta di schema dell’organizzazione dei tre mondi, a partire dal caos primordiale delle possibilità,
e conformemente all’ordine di generazione e di concatenazione dei cicli dell’esistenza universale.
D’altronde ogni essere, per realizzare tutte le sue possibilità, deve passare, in ciò che lo riguarda in
particolare, attraverso gli stati che corrispondono rispettivamente a quei diversi cicli, ed è per questo
che l’iniziazione, che ha come fine la realizzazione totale dell’essere, si compie necessariamente
attraverso le stesse fasi: il processo iniziatico riproduce rigorosamente il processo cosmogonico,
secondo l’analogia costitutiva del Macrocosmo e del Microcosmo”; cfr. L’esoterismo di Dante, cit.
pp. 70-71. In effetti proprio il passaggio di consegna tra i tre guna si compie all’interno della
Commedia, poema iniziatico ed ermetico che si scandisce appunto tra l’opera “al nero”, “al bianco”
e “al rosso”. In generale notiamo delle sovrapposizioni analoghe all’interno del Futhark antico; anche
nella mitologia nordica a Fehu, Uruz, Thurisaz corrispondono momenti “titanici” di trasformazione
“spontanea” che fanno aggio sui regni di Muspelheim e di Niefelheim, e sulla grande lotta contro i
giganti – tutte “fasi di tamas”, verrebbe quasi da dire. È Ansuz ad apportare quel soffio che è appunto
traccia di una direzione superiore innestatasi sul caos primordiale e che prosegue poi con Raido, che
segna invece il passo dell’evoluzione – e qui torniamo proprio a parlare di rajas, sebbene in Ansuz
vi sia già l’impronta superiore di sattwa, che è del resto ben visibile in altre rune, quale ad esempio
Sowulo. Anche Gurdjieff affronta la questione dei tre guna in relazione a necessità evolutive;
110
Il primo aett coincide con la piramide più piccola, quella di Adamo, laddove Ansuz
rappresenta l’originaria manifestazione del “verbo” e questo è in sé un procedimento
davvero ermetico, dal momento che lo stesso Guénon definisce le peculiarità di Ermete
in quanto “ermeneuta”, ossia quale interprete tra Cielo e Terra306. A questa prima
iniziazione, ossia il capovolgimento di Odino per carpire le “parole nascoste” nel
linguaggio delle rune, segue appunto Raido -che è anche rede/discorso-, la materia
rossa ermetica da cui comincia il processo di trasformazione. Diparte del resto da
Raido, Kenaz, runa triangolare che racchiude in sé il fuoco della piramide, pyr, ma che
attiene pure l’esoterismo del Graal, di cui non dobbiamo certamente chiarire le
rilevanze ermetiche307. Il primo aett si chiude poi con Wunjo che abbiamo in effetti
paragonato alla treccia di Horus e avvicinato al simbolismo della porta stretta e della
cruna dell’ago308. È un’analogia molto importante, in quanto Horus viene ucciso da
uno scorpione inviato da Seth, dio egizio che è assolutamente sensato accostare
all’omonimo profeta biblico che abbiamo ricollegato alla seconda piramide, e sul quale
torneremo tra poco. Il mito di Horus è allora in sé identico a quello di Baldr, figlio di
Odino, che come è noto viene ucciso involontariamente dal fratello cieco Hodur, dietro
l’inganno di Loki. Hodur colpisce Baldr con una freccia di vischio e il vischio, come
abbiamo specificato ricostruendo l’origine della parola “druido”, è sinonimo di
“saggezza”, saggezza che è poi, tramite la parola Budha, il fondamento dell’ermetismo
mercuriale e odinico. Torniamo così alla realtà dottrinale: lo scorpione e il vischio sono
entrambi simboli di una casta sacerdotale. In Egitto, addirittura, il “re scorpione”
dell’era predinastica rappresenta verosimilmente l’antenato del faraone, colui capace
di raccogliere in sé le facoltà spirituali e sovrane; lo scorpione rimane poi tuttavia uno
degli emblemi del sacerdozio. E lo stesso druido, anche secondo Guénon, è l’erede di
un’antica scienza, forse risalente alla fase iperborea dei primordi309, in quanto massimo

addirittura nella prima versione di Beelzebub’s Tales, riporta Bennett (Gurdjieff – Un mondo nuovo,
p. 287), era presente una parola, fagologiria, che nelle intenzioni di Gurdjieff doveva rappresentare
una “forza neutralizzante” in grado di riassumere queste differenti qualità e di far convivere gli
opposti di yang e di yin, un’azione capace insomma di garantire il mantenimento dell’universo. Una
funzione di questo genere l’abbiamo vista in atto a proposito di Hagalaz e Sowulo (si veda il dettaglio
delle conclusioni a cui siamo giunti a pp. 50-51), nel loro riassumere in sé, e quindi in qualche modo
anche neutralizzare, le forze opposte dell’universo.
306
Cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, p. 109. L’ermeneuta è tutt’oggi colui che interpreta i
monumenti (come appunto le piramidi), vetusti depositi manoscritti (come appunto i “libri ermetici”)
– vi è in questa relazione qualcosa di davvero “autoreferenziale”.
307
E’ risaputo, e lo abbiamo sottolineato noi stessi, come lo smeraldo confitto nella testa di Lucifero
abbia chiare relazioni, sia con il Graal che con la “tabula smaragdina” appunto attribuita ad Ermete.
Rimandiamo in tal senso anche allo studio di Evola, Il mistero del Graal, con le specifiche che
abbiamo già fornito, tra le altre, alle note 61, 158 e 175. Su questi argomenti si rinvia anche a
L’esoterismo cristiano e San Bernardo, con riferimento ai capitoli 8 e 9 (p. 107 e p. 127).
308
Cfr. Simboli della Scienza sacra, capitolo 55, La <<cruna dell’ago>>; rimandiamo anche alle
osservazioni che abbiamo fatto alla nota 152.
309
“Quanto al problema della priorità, bisognerebbe sapere innanzitutto a che epoca precisa risale il
Druidismo, ed è probabile che esso abbia origini molto più lontane, nel tempo, di quanto non si creda
comunemente, tanto più che i Druidi erano i custodi di una tradizione di cui una parte notevole era
incontestabilmente di provenienza iperborea”; cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, cit. p. 31.
111
rappresentante di un’autorità spirituale la cui supremazia rispetto al potere regale non
è certo messa in discussione.
Ciò non toglie che entrambi gli elementi, scorpione e vischio, siano qui presenti come
vettore di un veleno che uccide al fine di “rivitalizzare” – sia Horus che Baldr
risorgono, e parziale è il loro soggiorno agli inferi, fino a quando la loro rinascita non
sarà definitiva: la crisi mortifera del resto è spiegata dalle rune che aprono il secondo
aett, e che a breve riprenderemo, laddove, lo si è notato più volte, Dagaz illustra le
possibilità della resurrezione ultima. La “questione del veleno” attiene poi chiaramente
le specifiche dell’ermetismo, nel suo andare in cerca dell’elisir che dà la vita eterna: il
veleno che “uccide” Horus e Baldr è solamente tale rispetto alle loro, ancora, limitate
facoltà di iniziati. Ciò che è tossico, per capacità distillatrice del corpo del “candidato”,
diventerà in un secondo tempo “liquore d’immortalità”. È questa la medesima
ambivalenza che ritroviamo nelle due serpi del caduceo, simbolo che d’altro canto fa
il paio con il bastone che è Wunjo 310.
Non è pertanto Wunjo, ovviamente, il pertugio finale, quello che immette nei reami
celesti; Wunjo, nel suo essere chiave e scettro, può in qualche modo rappresentare il
“mazzo delle chiavi argentate”, quello che lo stesso Guénon fa rientrare nelle
prerogative del potere regale. Consideriamo che Wunjo agisce anche come lo stendardo
che ha “pietrificato” un territorio sotto un’unica potestà; Wunjo è in questo senso erma,
lo abbiamo visto nel capitolo dedicato alle pagine 43-44, sigillo che delimita una
specifica porzione di territorio, sia esso fisico o meno. E in ogni caso afferisce
un’acquisizione avvenuta sotto il segno di Ermes/Ermete, signore dei crocicchi, colui
il quale, in quanto “ermeneuta”, scandisce e interconnette le regioni infra terrene, e di
rimando pure quelle terrestri.
Naturale è la crisi successiva: il secondo aett si apre con Hagalaz, Nauthiz, Isa, rune di
morte iniziatica, di nigredo311. È la putrefactio necessaria affinché il metallo
dell’iniziato si liberi delle scorie prima di procedere oltre nell’elevazione della sua
sostanza. Non a caso Hagalaz è anche “runa dello scorpione”, il che ci rimanda
facilmente alla morte di Horus, per quella corrispondenza tra segni astrologici e rune
che abbiamo già spiegato alla nota 24. Si è visto del resto come Hagalaz riunisca in sé
elementi coagulanti e dissolventi; il grado certificato da Wunjo va liberato dei “germi
cattivi”, mentre devono rimanere sul piatto i “germi buoni”, quelli che faranno sì che

310
Come nota lo stesso Guénon, nella figura di Asclepio, che è simile a quella di Mercurio, rimane
solo il “serpente buono”, svuotato del veleno per opera dell’iniziato – mentre il serpente mortifero,
che è facile rimandare alle regioni basse e alla caducità della vita, è stato per sempre estirpato.
“Attorno al bastone di Esculapio è avviluppato un solo serpente, quello che rappresenta la forza
benefica, perché quella malefica deve scomparire, trattandosi del genio della medicina.”; ivi, cit. p.
113, nota 12.
311
Simbolo di nigredo è ovviamente il corvo, che Fulcanelli nota in più di un sigillo filosofale; e come
sappiamo il corvo è animale di Odino, nel dettaglio di Huginn e Muninn. Huginn in quanto “intelletto”
e Muninn in quanto “memoria”: i due sembrano delineare i passaggi di un processo che si è compiuto
attraverso la putrefazione e la trasformazione, laddove Muninn rappresenta appunto la “memoria”
dell’antico stato di Odino, quello umano, quando Huginn è invece il segno della sua emancipazione
intellettuale verso i reami celesti.
112
il veleno mortifero perda la sua rilevanza a vantaggio di un puro “distillato di vita”312.
La successiva Nauthiz, essendo incrocio prolifico dell’eternità temporale e delle
possibilità spaziali, è simbolo analogo a quello della croce, consentendo un’ulteriore
separazione, dal substrato corruttibile, di un potenziale che si amalgama poi nelle
capacità fissanti di Isa, segno perentorio dell’io “intatto” dopo le prove di morte.
Attraverso lo snodo cruciale di Eihwaz, su cui non dobbiamo insistere oltre in chiave
ermetica, e di Algiz, runa del sacerdote, viene poi finalmente raggiunto il sé superiore
dell’arma solare che è la serpentina di Sowulo; ma la serpentina, sia chiaro, è anche
serpente (sebbene ripulito) e questo ha limpide valenze alchemiche313.
Rappresenta ciò il conferimento delle chiavi dorate che danno accesso ai “grandi
misteri”? Non ancora: si tratta semmai del possesso “virtuale” delle stesse, perché sarà
l’ultimo aett a chiarire le possibilità “effettive” dell’iniziato314. Sul tema delle chiavi

312
Di Hagalaz si offre spesso una versione psicanalitica, facendo rientrare le sue paure e le sue
proiezioni negative nei “cattivi” delle fiabe. In verità l’ombra, più grande del necessario, che proietta
Hagalaz potrebbe essere quella dell’iniziato che, proprio per aver raggiunto determinati risultati con
Wunjo, eccede nel calcolare le sue forze: ed ecco allora verificarsi la crisi di Hagalaz come
ridimensionamento, da una parte, ed esercizio formativo, dall’altra.
313
Si legge nel Basilio Valentino: “Io sono il Drago velenoso, presente dappertutto, che può essere
acquistato ad un prezzo irrisorio. La «cosa» su cui riposo, e che su di me riposa, sarà trovata in me da
chi saprà frugarmi come si conviene. La mia Acqua ed il mio Fuoco distruggono e compongono.
Estrarrai dal mio corpo il Leone Verde e quello Rosso; se non mi conosci perfettamente, il mio Fuoco
ti distruggerà i cinque sensi. Dalle mie narici esce un veleno immaturo, che per parecchi ha costituito
la fine. Separa dunque, ingegnosamente, lo spesso dal sottile, a meno che non ti trovi bene
nell’estrema povertà. Con te sarò prodigo di forze virili e femminili, celesti e terrestri. I misteri della
mia Arte devono essere trattati con magnanimità e coraggio, se desideri che io sopravanzi la forza del
Fuoco, nella qual impresa molti hanno perso i beni e la tranquillità. Io sono l’Uovo della Natura, che
soltanto i Sapienti devoti e modesti conoscono, ed essi fanno nascere da me il microcosmo. Dio mi
ha destinato al servizio degli uomini -anche se ricercato da molti, da pochissimi sono stato ottenuto-
perché essi assistano i poveri con il mio tesoro, e non si dedichino all'oro peribile. I Filosofi mi
chiamano Mercurio, mio sposo è l’Oro (filosofico); sono l’antico Drago presente in ogni parte della
terra; sono padre e madre, giovane e vecchio, forte e gracile, morte e resurrezione, visibile ed
invisibile, duro e molle, discendente nella terra ed ascendente al Cielo, grandissimo e piccolissimo,
leggerissimo e pesantissimo; in me l’ordine della Natura è spesso invertito in colore, numero, peso e
misura; contengo la Luce naturale, sono oscuro e chiaro, vengo dal Cielo e dalla terra, conosciuto e
considerato poco o nulla. Tutti i colori in me risplendono, e cosi tutti i metalli attraverso i raggi del
sole. Sono il rubino solare, una terra nobilissima e chiarificata, per cui mezzo tu potrai trasmutare in
oro il rame, il ferro, lo stagno ed il piombo”; cfr. Azoth, cit. pp. 96-97. Si nota qui, con il linguaggio
cifrato che è proprio dei breviari alchemici, il passaggio dal serpente mortifero di Hagalaz e Nauthiz
a quello che dà la vita, che in effetti è serpente/serpentina di luce in Sowulo.
314
Sulla differenza tra iniziazione “effettiva” e “virtuale”, che è un problema generale all’interno del
quale rientrano queste valutazioni, si veda quanto riporta Guénon: “Sebbene la distinzione fra
l’iniziazione effettiva e l’iniziazione virtuale possa essere già abbastanza compresa con l’ausilio delle
precedenti considerazioni, essa è tanto importante da indurci a precisarla meglio; a tal riguardo,
faremo rilevare in primo luogo che, tra le condizioni dell’iniziazione enunciate in precedenza, il
collegamento ad una organizzazione tradizionale regolare (collegamento che naturalmente
presuppone la qualificazione) è sufficiente per l’iniziazione virtuale, mentre, il lavoro interiore che
ne consegue concerne proprio l’iniziazione effettiva; insomma, questa è a tutti i suoi gradi lo sviluppo
«in atto» delle possibilità cui l’iniziazione virtuale dà accesso. Questa iniziazione virtuale è dunque
113
dorate avremo modo di tornare, dal momento che Guénon indubbiamente nega tale
apice alla scienza ermetica, potendo al limite essa consentire l’approdo a quelle
argentee proprie del rex. Tuttavia l’accoppiata Algiz/Sowulo, quella che chiude il
secondo aett, ha in sé tutta la sostanza dell’avvicendamento tra status regale e
sacerdotale, appunto contraddistinto dal raggiungimento dello zolfo solare, un fuoco
spirituale che non consuma, anzi che “fissa”: è questo del resto il valore ermetico di
Sowulo. Ed è così che in ogni caso viene individuato il vertice della seconda piramide,
quella di Seth, che anche nella versione biblica è in grado di rientrare per un attimo nel
Paradiso terrestre per carpirne la sapienza nascosta; la figura di Seth viene ripresa in
più occasioni da Guénon che lo inserisce, a pieno titolo, nel mito del Graal315.
Sowulo in questo senso rappresenterebbe la chiave d’ingresso per il Paradiso terrestre,
che è appunto “anticamera” di quello celeste316; ecco perché riteniamo le chiavi dorate
di Sowulo “soltanto” virtuali, e nella loro essenza ancora “argentee”. Ciò non toglie
che in questo argento vi sia “qualcosa di dorato”: altrove del resto Seth è associato al
Cristo; il nome Seth, a parte il profeta biblico figlio di Adamo, identifica anche il dio
egizio talvolta descritto con la testa d’asino, e proprio in alcune raffigurazioni il Cristo
è mostrato con la testa di questo animale317; si ricordi come sempre a cavallo di un
asino compaia il Cristo nella domenica delle palme, quella che precede peraltro la sua
resurrezione318. Si potrebbe dunque concludere che l’iniziato “rivive” per mano del suo

l’iniziazione intesa nel significato più stretto del termine, vale a dire come una «entrata» o un
«principio»; il che, bene inteso, non significa menomamente che essa possa essere considerata come
qualche cosa di sufficiente a se stessa, ma soltanto come il punto di partenza necessario per tutto il
resto; quando si è entrati in una via, bisogna altresì sforzarsi di seguirla, ed anzi, se è possibile, di
seguirla fino in fondo. Si può riassumere tutto in poche parole: entrare nella via è l’iniziazione
virtuale; seguire la via è l’iniziazione effettiva (…)”. Cfr. René Guénon, Considerazioni
sull’iniziazione, Luni Editrice, Milano, 2003, cit. p. 156; rimandiamo nello specifico all’intero
capitolo, intitolato per l’appunto “Iniziazione effettiva e iniziazione virtuale”.
315
“(…) Seth ottenne di rientrare nel Paradiso terrestre e poté così recuperare il prezioso vaso; ora,
Seth è una delle figure del Redentore, tanto più che il suo stesso nome esprime l’idea di fondamento
e di stabilità e annuncia, in qualche modo, la restaurazione dell’ordine primordiale distrutto dalla
caduta dell’uomo. Da quel momento, dunque, si veniva ad avere, quantomeno, una restaurazione
parziale, nel senso che Seth e coloro che dopo di lui avrebbero posseduto il Graal potevano stabilire,
per ciò stesso, in qualche parte della terra, un centro spirituale che era come una immagine del
Paradiso perduto.”; Cfr. L’esoterismo cristiano e San Bernardo, cit. p. 129.
316
Guénon insiste spesso su questo aspetto, si veda in proposito il capitolo “Paradiso terrestre e
Paradiso celeste” in Autorità spirituale e potere temporale, in cui viene scandito l’ordine di
attribuzioni che riguarda appunto l’autorità spirituale e il potere temporale: “L’imperatore presiede ai
<<piccoli misteri>>, che riguardano il <<Paradiso terrestre>>, cioè la realizzazione della perfezione
dello stato umano; il Sovrano Pontefice presiede ai <<grandi misteri>>, che riguardano il <<Paradiso
celeste>>, cioè la realizzazione degli stati sovraumani, collegati allo stato umano dalla funzione
<<pontificale>>, intesa in senso strettamente etimologico.”, ivi cit. p. 115.
317
Si veda in tal senso un’immagine inserita in L’esoterismo cristiano e San Bernardo, p. 124.
318
È in sé questa un’immagine che ha attinenza con i crismi del viaggio sciamanico, che viene spesso
compiuto in relazione al cavallo; si riprendano in tal senso le immagini di Odino e del suo destriero
Sleipnir e i discorsi che abbiamo riferito alla runa Ehwaz, anche in abbinamento alla successiva
Mannaz (in questo studio a pp. 99-101). Sul simbolismo dell’asino si rimanda a Guénon e al
riferimento alla “festa dell’asino”; cfr. Simboli della Scienza sacra, p. 132. La cavalcatura dell’asino
114
stesso uccisore, ovvero sia egli ha ermeticamente trasformato il “veleno” in “vaccino”.
Baldr, che è equiparato al Sol Invictus, torna a splendere nella runa solare Sowulo, dopo
aver affrontato l’ “Averno” della sequenza Hagalaz/Isa che in effetti rimanda al Cocito
dantesco; una tappa obbligata, tuttavia, dal momento che era necessaria una
“condensazione” di possibilità319. Cristo, dal canto suo, sopravvive alla prova della
croce, qui determinata da Nauthiz, mentre Horus riappare attraverso l’interposizione
del profeta biblico Seth, che identifica giustappunto la seconda piramide e che
“riabilita”, se così vogliamo dire, le gesta del dio dalla testa d’asino che porta il suo
stesso nome.
Anche Guénon, nel capitolo XX di Simboli della Scienza sacra320, riprende il parallelo
tra i temi biblici e quelli egizi: Seth svolge una mansione, rispetto al fratello Osiride,
padre di Horus, analoga a quella di Caino nei confronti di Abele. Eppure del Seth
biblico abbiamo appena rilevato la funzione restauratrice quindi il parallelo
sembrerebbe fuorviante. Lo stesso Guénon chiarisce come il nome di Sheth abbia in
raltà, contemporaneamente, il significato di “fondamento” e di “rovina”321. Del resto
non è proprio questo bivio a essere sotteso nello stadio intermedio del procedimento
ermetico? Il fallimento del secondo livello, qui pure interpretato dalla piramide numero
due, potrebbe significare la perdita delle precedenti acquisizioni; con ciò questa stessa
fase può rappresentare il “fondamento” del passaggio successivo322.
Nell’ultimo aett giungiamo infine al compimento dell’opera con una già parziale
integrazione in Inguz di quelle che sono le facoltà del potere sacerdotale e di quello
regale; ricordiamo in tal senso il rapporto che abbiamo stabilito tra Inguz e il simbolo

, che di fatto è una variante del sigillo del Melki-Tsdeq. Lo abbiamo visto,
proprio Dagaz pare contrazione di tale immagine, con inghiottimento di quell’uovo
ermetico che è Inguz. Inguz che, all’interno della mitologia nordica, è riferibile alla

è poi una chiara rappresentazione del trionfo del Cristo sulle forze tenebrose, dal momento che
proprio le fattezze d’asino sono spesso associate a correnti e potestà demoniche.
319
Si veda in tal senso la ricostruzione che Guénon offre di queste immagini, partendo sempre dalle
linee opposte di tamas e sattwa: “(…) la prima si manifesta in tutte le forze di contrazione e di
condensazione, la seconda in tutte le forze di espansione e di dilatazione; e troviamo anche, a questo
riguardo, una corrispondenza con le proprietà opposte del caldo e del freddo: il primo dilata i corpi,
il secondo li contrae; per questo motivo l’ultimo cerchio dell’inferno è gelato. Lucifero simboleggia
l’<<attrazione inversa della natura>>, cioè la tendenza all’individualizzazione, con tutte le limitazioni
inerenti (…)”; cfr. L’esoterismo di Dante, cit. p. 100. Isa in effetti l’abbiamo già presentata come
necessaria “individualizzazione” dell’iniziato sopravvissuto alla croce di Nauthiz; ciò che in questa
associazione con tamas sembra possedere valenze negative, ha in sé necessità di conservazione lungo
il sentiero ermetico. Chiaramente anche il ghiaccio e il fuoco, elementi base dell’esoterismo nordico,
hanno un chiaro rapporto con queste distinte fasi di “condensazione” ed “espansione”.
320
Pagina 127 e sgg.
321
Ivi. p. 128
322
Questa ambivalenza è del resto la stessa che soggiace al simbolismo dei due serpenti del caduceo
e, ancora una volta, il valore di Seth rientra in queste acquisizioni, essendo il serpente una delle sue
effigi; ibidem.
115
figura di Frey, a sua volta rappresentazione del “figliol divino”, sia esso Baldr, per
“restare in casa”, oppure Horus. Ma Horus non è esito proprio del solare Osiride e della
lunare Iside, ossia di coloro che patrocinano rispettivamente i “grandi” e i “piccoli”
misteri?323 Frey/Horus è dunque, ermeticamente parlando, l’erede approdato a
definitiva cottura e, a sua volta, Inguz l’athanor che rende possibile tale gestazione324.
La successiva stabilità di Othila contiene in sé il mantenimento di una dottrina che ha
raggiunto le sue massime possibilità sulla terra, mentre attraverso Dagaz si compie quel
viaggio nell’occhio solare, in quell’incrocio sottilissimo e invisibile, che abbiamo
identificato nella punta mancante della piramide più grande di Giza: è per quel pertugio
segreto, nella più stretta delle porte, che Enoch s’infila sulla via che lo conduce alle
volte celesti.
Il varco di Dagaz aiuta anche a comprendere meglio quelle che sono le qualità dei
traguardi dei due aett precedenti, ossia Wunjo e Sowulo. Innanzitutto, anche per il
tramite di Othila che riprende analoghi significati, la cruna dell’ago di Wunjo trova la
strada adatta per “inocularsi” nell’essenza definitiva di Dagaz. E così accade con
Sowulo: l’arma olimpica rappresentata dalla serpentina del fulmine diventa ascia in
Dagaz325. In ogni caso il Paradiso terrestre può finalmente immettersi in quello celeste,
e Seth “diventare” con cognizione di causa Enoch.
Non è possibile al momento stillare l’interpretazione dell’intero Futhark in chiave
ermetica, da una parte perché comunque l’alfabeto runico, pur nelle sue ascendenze
“alchemiche”, condivide anche altri dettami della tradizione, e sarebbe limitativo
interpretarlo esclusivamente sotto questa luce. In più un’analisi del genere per ogni
singola runa ci porterebbe troppo lontano, creando forse anche eccessiva confusione
circa i collegamenti che stiamo cercando di stabilire. Ciò non toglie che, come nel caso
di Hagalaz e Sowulo (che abbiamo rilevato essere poli paralleli di un equilibrio che
rimanda anche al simbolismo del Tao), si alternino nel Futhark germanico
comportamenti “solventi e coagulanti”, come appunto sussiste nella disciplina
ermetica; questa dicotomia può in qualche modo essere messa in relazione anche con
il ghiaccio e il fuoco, elementi cardine dell’esoterismo nordico. Non è d’altro canto
plausibile ammettere che le rune svolgano sempre in modo chirurgico questo ruolo,
tuttavia alcune sequenze sembrano in tal senso illuminanti. Ad esempio nella stessa
coppia che apre il Futhark germanico, costituita dal fuoco primigenio di Fehu, runa di
un movimento incondizionato che riceve norma e regolarità nel tratto “incanalante”
della seconda Uruz, che abbiamo definito essere un contenitore particolarmente adatto
a fronte di flussi che si propagano in modo rilevante – si vedano le considerazioni che

323
Ovviamente anche Kremmerz torna spesso su queste due figure – si vedano per comodità i
riferimenti nel quarto e ultimo volume di La Scienza dei Magi, pp. 209 (Iside) e 295 (Osiride).
324
D’altro canto, anche a livello visuale, Inguz appare come il completamento di Jera , runa
armonica degli opposti, nonché composizione di due Kenaz combacianti, che è poi la stessa cosa.
In essa vi è dunque la chiusura, “ermetica” per l’appunto, di forze dissolventi e coagulanti.
325
Ricordiamo che il rapporto con le armi celesti è in realtà attivo anche nei valori di Wunjo, intesa
come evoluzione del martello di Thor rappresentato dalla runa Thurisaz. Dagaz è dunque
“compimento” di Wunjo pure da questo punto di vista.
116
abbiamo sviluppato a proposito della formula ALU (da pagina 78). E così accade del
resto nel binomio conclusivo del Futhark, Othila e Dagaz, laddove la prima fissa e
“coagula” le definitive acquisizioni del Futhark, sia esso visto come esperienza
individuale o come “concorso ciclico”, mentre la seconda le trasporta via con il suo
incendio finale326.
È qui che si verifica lo snodo “ultimo”, essendo appannaggio dell’iniziato un classico
bivio di intervento: quello dell’azione che “riconduce” in terra, sede in cui l’ermetista
esercita il potere del suo consiglio superiore, oppure quello della contemplazione, con
relativa combustione/fusione nel principio celeste, proprio dietro l’esempio di Enoch.
Othila è in questo senso “ultima Thule”, estrema casa di conoscenza, una sapienza che
può essere, o meno, dilatata e prolungata nel tempo terrestre, fermo restando che prima
o poi, per scelta conclamata dell’individuo o per esaurimento delle possibilità di una
precisa fase ciclica, l’estremo passaggio di Dagaz avrà da compiersi.
E’ tutto sommato la stessa “scelta” che distingue l’autorità sacerdotale dal potere
regale. La prima giace nella contemplazione e nel collegamento con un retaggio
superiore; si tratta della Shruti, per usare un termine indù; Guénon la descrive così: “La
Shruti è la luce diretta, la quale, come l’intelligenza pura, che qui è nel contempo la
pura spiritualità, corrisponde al sole (…)”327. La Smriti, d’altro canto, è invece “la luce
riflessa, la quale, come la memoria di cui porta il nome e che è la facoltà
<<temporale>> per definizione, corrisponde alla luna”328. È in sé identico il valore dei
due corvi di Odino, Huginn e Muninn, che identificano l’ “intelletto” e la “memoria”,
per l’appunto329. Con questi due aspetti coincidono ovviamente anche le chiavi d’oro e
le chiavi argentee, ossia il segno distintivo dell’autorità spirituale, da una parte, e del
potere regale, dall’altra.
Ora bisogna capire se l’ermetismo consenta l’approdo alle cosiddette chiavi dorate, e
stiamo cercando di spiegarlo anche alla luce degli indizi fornitici dalle rune. In questo
Guénon fu velatamente ambiguo, forse nell’intenzione di affermare la superiorità di
tutte quelle dottrine che, a differenza dell’ermetismo, conservavano un legame più
diretto con la sapienza primordiale330. Ciò non di meno siamo propensi a vedere

326
Sono questi i momenti più significativi in quanto mirano alla conservazione e alla realizzazione
delle possibilità dello stesso Futhark antico, ma si potrebbero prendere in esame altri casi esemplari:
abbiamo già accennato allo snodo tra Jera ed Eihwaz, e anche la coppia Teiwaz/Berkana, che apre
peraltro il terzo aett, pare particolarmente indicata per questo tipo d’interpretazioni; si riprenda in tal
senso il capitolo dedicato (p. 54 e sgg.).
327
Cfr. Autorità spirituale e potere temporale, cit. p. 120.
328
Ibidem.
329
Alla nota 311 abbiamo riferito questi due corvi al simbolismo della nigredo. Ma si tratta
chiaramente di un significato parziale, dato che proprio la “memoria”, qui rappresentata da Muninn,
nelle sue più alte facoltà può condurre al possesso dei “piccoli misteri”, intesi appunto come ricordo
e reminiscenza dei “grandi misteri”.
330
Fu un tratto caratteristico della “missione” di Guénon: cercare di “mettere ogni cosa al proprio
posto” ed è chiaramente un approccio che condividiamo, visto che con questo lavoro stiamo tentando
di collocare le “rune” in una posizione che in teoria spetta loro. Indubbiamente l’ermetismo, come
abbiamo detto più volte, e così lo stesso Futhark antico s’inseriscono in un momento ciclico
particolare, che segna appunto, a titolo diverso, perché ci riferiamo in ogni caso a momenti “storici”
117
nell’ermetismo qualche cosa che attiene la possibilità di recuperare uno stato che
corrisponde ai più alti reami metafisici, sebbene questo status possa essere raggiunto
attraverso modalità differenti, magari meno “pure”, perché meno pure sono le capacità
umane, ma pur sempre valide nel permettere una totale trasformazione dell’essenza
individuale.
Ci pare d’altro canto equo scorgere nello stesso Futhark germanico la rappresentazione
del conferimento di entrambi i mazzi di chiavi, dal momento che Wunjo sottintende
secondo noi il possesso dello scettro sacerdotale (alias mazzo di chiavi argentate) e
Sowulo la “virtualità”, come abbiamo spiegato, dell’accesso al mazzo di chiavi dorate:
che Sowulo identifichi quel sole che presiede la Shruti, e a cui lo stesso Guénon fa
riferimento, ci sembra del resto accettabile. Che poi Sowulo, analogamente al rientro
parziale di Seth nel Paradiso terrestre, non spieghi ancora l’esercizio definitivo di una
potestà spirituale, realmente reintegrata nel principio divino, questo ci appare
altrettanto pacifico. Ma proprio perché sarà il terzo, e definitivo, aett a sancire le
possibilità di colui che abbia unito in sé le facoltà corrispondenti a entrambi i mazzi di
chiavi, consentendo de facto la restaurazione dell’ordine del Melki-Tsedeq. E solo con
Dagaz, in effetti, si compie tale passaggio: e in questo essa è annunciatrice,
coerentemente alle altre previsioni tradizionali, del ritorno dell’ “età dell’oro” alla fine
del ciclo attuale331.
Si tratta, come è chiaro, di fraseggi delicati perché, al di là dei confronti che stiamo
operando, l’impostazione del Futhark antico è molto più lineare; è evidente che il primo
aett concerni l’acquisizione del potere regale, e il secondo quella dell’autorità
sacerdotale, laddove appunto Dagaz sugella, all’interno del terzo, la fusione delle due
competenze. Eppure dobbiamo ammettere che non sussiste una totale sovrapposizione
con quanto riportato da Guénon a proposito di Seth e del suo rapporto con il Paradiso
terrestre; se da una parte Seth è un restauratore analogamente al Cristo, il Paradiso
terrestre è pur sempre riferito al potere regale e al possesso delle chiavi “minori”, e più
in generale questa è la visione complessiva che Guénon offre dell’ermetismo. Ecco
perché secondo noi è verosimile vedere in Sowulo la “virtualità” delle chiavi dorate,
ma ancora per certi versi argentee nella loro essenza, poiché sarà proprio l’ultimo stadio
a garantire il definitivo accesso a un’autorità spirituale realmente “re-integrata”.
Ovvero sia il livello del sacerdote che ha ereditato le competenze spirituali che erano
assommate nella figura del Re del mondo è per forza di cose inferiore a quello della
fonte del suo “rango”332. In questo senso bisogna ammettere che il Futhark germanico

differenti, una “caduta” rispetto a una fase precedente, in cui ben altre erano le possibilità spirituali
dell’uomo. Odino (in quanto Ygg) è un uomo che “diventa” dio -è un eroe, un “iniziato di successo”-
e allo stesso modo l’ermetismo riparte da Adamo e dalla caduta luciferina; quindi entrambi gli ambiti
non possono essere compresi senza aver chiaro un qualche tipo di “ridimensionamento” che
giocoforza si è verificato. Kremmerz in primis, che a differenza di Guénon fu operativo nella scienza
ermetica, ebbe modo di ribadirlo più volte nel corso della sua opera.
331
Anche per questo motivo non vediamo in che modo il Futhark germanico possa concludersi con
Othila, ipotesi che spesso si trova in questo genere di analisi. Si rimanda in tal senso anche alle
valutazioni che abbiamo espresso nel primo capitolo.
332
Del resto è evidente che, al di là delle definizioni chiare che egli stesso fornisce, sia stato Guénon
il primo a notare le sempre più evidenti differenze tra teoria e realizzazione pratica. Se il potere regale
118
è specchio di una simmetria in cui convivono tratti ermetici e le rievocazioni di una più
antica dottrina, capace di fondere la statura regale e l’autorità spirituale333 – a
condizione che l’iniziato sappia interpretarle a dovere, e fermo restando che uno
strappo significativo si è già verificato e che bisogna tenerne conto per tutto ciò che
attiene le possibilità individuali e generali334.
Chiudiamo questo studio con alcune considerazioni “storiche”, ipotizzando che le
piramidi siano sorte in un momento “rilevante” del ciclo terrestre. La piramide più
grande di Giza, nota appunto anche come piramide di Cheope, sarebbe stata costruita
per prima, intorno al 2600 a.C.; le altre due, quella di Chefren, prima, e di Micerino,
poi, sarebbero seguite di poco nella progressione. Sono date decisamente non casuali
nell’ottica di quella che è stata definita la “missione” di Gurdjieff. Secondo Gurdjieff,
proprio in questo periodo, si sarebbe infatti costituita la confraternita di Sarmān o
Sarmoun, quella con cui il maestro, in qualche maniera, avrebbe intessuto rapporti per
tutta la vita; scrive Bennett, biografo “ufficioso” di Gurdjieff, a proposito della
possibile etimologia di questi nomi: “Un’interpretazione più logica nel tener conto del
significato persiano del mān, che è la qualità trasmessa per eredità e, quindi, da una
illustre famiglia o razza. Può darsi che si tratti del deposito di un cimelio di famiglia e
di una tradizione. La parola sar vuol dire testa, sia in senso letterale che in quello di
principale o capo. Sicché l’unione sarmān significherebbe il principale ricettacolo della
tradizione, che è stato definito la ‘filosofia perenne’ trasmessa di generazione in
generazione da ‘esseri iniziati’, per servirci della descrizione di Gurdjieff”335.

si è reso gradualmente protagonista di evidenti manomissioni dell’ordine originale, anche il potere


spirituale ha subito nel tempo un ridimensionamento, tanto che si può parlare di vari livelli di
“facoltà” spirituale, in cui sempre più flebile è il ricordo della “vera” autorità spirituale; si veda in
proposito il capitolo VII di Autorità spirituale e potere temporale (p. 92 e sgg.).
333
Nei comportamenti delle rune, così come appunto in certe acquisizioni ermetiche, convivono
entrambi gli atteggiamenti: quelli dell’azione, il “solvente alchemico”, propri dello Kshatriya, così
come quelli della contemplazione e della “fissazione”, propri del Brâhmano. Fermo restando che il
lunare/passivo è il territorio di colui che agisce, poiché soltanto l’azione è esposta alla contingenza e
alla provvisorietà del mondo terreno e della sua conoscenza limitata; l’azione è dunque passiva, anche
se a livello linguistico ciò sembra un paradosso. Mentre il solare/attivo si esplica nell’intellettualità
pura della contemplazione che è sempre attiva, in quanto non condizionata dalla criticità del
momento, bensì rispondente in modo diretto delle più alte ragioni dello spirito che, in sé, è divino.
334
È anche una testimonianza di un punto che ha spesso generato confusione: quelli dello Kshatriya
e del Brâhmano sono ordini di rappresentazione che possono essere percorsi, e attraversati,
dall’iniziato sulla via dell’elevazione. Anche se lo stesso Guénon è molto puntuale nel ricordare
l’efficacia del sistema originario delle caste indù nell’inquadrare le doti e le possibilità di ogni singolo
individuo, bisogna notare che ai giorni d’oggi questa definizione “per merito” è impossibile da
stabilire e giustificare in partenza.
335
Cfr. Gurdjieff – Un nuovo mondo, cit. p. 62. Ora sarebbe lungo addentrarsi in questo discorso, ma
chiaramente questo gruppo farebbe il paio con i saggi a cui la Blavatsky pretendeva di riferire le sue
conoscenze, e con anche la sapienza di Agarttha a cui accenna lo stesso Guénon nelle pagine di Il re
del mondo. L’interpretazione che preferiamo offrire è quella di un gruppo più segreto e “iniziato” del
circolo dei Khwajagān di cui parla sempre il Bennett, presentandoceli come una confraternita sufi e
operante in Asia centrale fino a confluire nel gruppo dei Naq’shbandi, e con cui, in ogni caso,
Gurdjieff può aver tranquillamente intrattenuto dei rapporti specifici da cui trasse alcuni fondamenti
della sua dottrina. In ogni caso, sulla scia di Bennett, siamo anche dell’avviso che questo gruppo
119
Ciò che a noi interessa, ai fini della ricostruzione che stiamo ipotizzando, è che
Gurdjieff collochi la nascita di questa confraternita, evidentemente dopo un importante
evento di “rottura”, in un lasso temporale equivalente a quello che vide sorgere le tre
piramidi. Anche se bisogna ammettere che Gurdjieff si concentra in particolare sulla
scuola babilonese del 2500 a.C. e sulla diffusione di particolari dottrine attraverso il
regime di alcune danze. Le datazioni che abbiamo indicato s’intersecano infatti con
quelle relative alle “piastre” che secondo Gurdjieff venivano utilizzate dalle danzatrici
della confraternita per comunicare specifiche nozioni336. Tuttavia Gurdjieff compì
diversi viaggi a Creta, in Asia centrale, in Egitto alla ricerca del filo sottile che legava
l’antica dottrina di Atlantide alle conoscenze della confraternita di Sarmān, e lo stesso
Guénon, d’altro canto, considera l’ermetismo come l’eredità di una conoscenza da far
risalire ai tempi atlantidei337.

ristretto di saggi non rappresenti un centro “occulto” ispiratore della direzione degli eventi terreni.
Notiamo per inciso che una traduzione alternativa del termine Sarmān significa “ape”, essendo il
miele un simbolo della saggezza tradizionale da preservarsi lungo le ere. Le api, come è noto, sono
anche un’immagine rilevante, e ricorrente, nell’iconografia dell’antico Egitto, essendo state generate,
come vuole la “leggenda”, da una lacrima di Ra, principio solare dall’unico occhio a cui tende l’anima
dell’iniziato – si nota per inciso che l’ape è a sua volta un simbolo dell’anima intercettata nel suo
corso di trasmigrazione, inteso come viaggio conoscitivo lungo il crinale delle epoche della vita
terrena. Ape che, in ultimo, rimanda anche a quel miele di conoscenza che abbiamo attribuito al
“mead” e che tanto “fa gioco”, come obiettivo, nelle imprese del guerriero/orso.
336
Ancora Bennett: “Tali attrezzature erano il prodotto di un’antichissima maestria, fabbricate in
ebano intarsiato d’avorio e di madreperla. Poiché l’ebano era portato dall’Africa e la madreperla
dall’India, ciò fa pensare che il dispositivo rappresenti una sintesi di insegnamenti semitici e ariani.
All’apparato erano collegate delle piastre contenenti il modello del messaggio da trasmettere. Le
piastre erano d’oro e, come l’apparato, molto antiche. Avevano una colonna verticale, a cui erano
adattati sette bracci mobili, ciascuno dei quali era provvisto di sette giunti universali simili a quelli
della spalla dell’uomo. Ciascuno dei quarantanove giunti e delle estremità aveva un segno. Le
posizioni venivano rilevate dalle piastre ed erano interpretate nelle pose e nei gesti delle danzatrici.
La danza diventava così un modo di parlare, il linguaggio di quanto era a conoscenza dei confratelli
e li poneva in grado di leggere le verità colà depositate migliaia di anni prima.”, cfr. Gurdjieff – Un
nuovo mondo, cit. pp. 69-70. Come sappiamo la danza sarebbe stata poi uno degli elementi cardine
della scuola di Gurdjieff al Prieuré di Fontainbleu.
337
Cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, p. 128. Da qualunque punto di vista la si voglia guardare,
le piramidi “animano” discorsi sull’eventualità del diluvio. Da una parte è lo stesso Guénon a
raccontare una “versione dei fatti” araba che spiegherebbe le origini delle piramidi in questa chiave;
sarebbe stato un mitico re Surid a disporre la mitica edificazione: “(…) questi, avvertito in sogno
dell’imminenza del Diluvio, le fece edificare secondo i disegni dei saggi, ed ordinò ai sacerdoti di
depositarvi i segreti delle loro scienze ed i precetti della loro saggezza.”, il che confermerebbe tutto
il valore che abbiamo già attribuito alle piramidi; ivi, cit. p. 118. Lo stesso Enoch, colui che avrebbe
rapporti speciali con la più grande e più antica delle piramidi di Giza, è un profeta legato al diluvio.
Da una parte, insieme a Seth e Adamo, è inserito nella schiera dei profeti pre-diluviani, dall’altra i
libri di Enoch, detto “l’etiope” (il che consentirebbe di ipotizzare interessanti collegamenti anche con
l’esoterismo copto, essendo questa variante del cristianesimo diffusasi sulla linea che, tramite il Nilo,
unisce Egitto e Abissinia, ulteriore zona in cui compì peraltro le sue ricerche Gurdjieff), profetizzano
proprio il diluvio. “Il libro dei Vigilanti (il primo dei sei capitoli in cui è suddiviso il Libro di Enoc
etiope, n.d.a.), narra la caduta degli angeli ribelli e la loro unione con gli uomini, motivo per il quale
120
A quanto pare, fu in ogni caso lo stesso faraone Cheope, l’ispiratore della più grande
delle piramidi di Giza, a lasciare nel suo testamento l’ordine che le piramidi successive
fossero meno grandi della “sua”: nella logica in cui stiamo analizzando questi edifici
non può che trattarsi di un chiaro mandato esoterico; anzi, se effettivamente le piramidi
racchiudono il segreto ermetico, tutto doveva essere stabilito fin dall’inizio, e nei
“minimi particolari”: ossia che le piramidi sorgessero nel numero di tre e che fossero
di dimensioni decrescenti338.
Un’eventualità del genere sarebbe del resto coerente con ogni scienza tradizionale che
ha sempre, al di là delle modalità della sua manifestazione, un’origine superiore.
Secondo tale ipotesi la costruzione delle piramidi seguirebbe il corso regolare della
dottrina, laddove il comportamento umano deve per forza di cose realizzarsi secondo
la sequenza inversa: essendo limitate in partenza le possibilità dell’iniziato, costui deve
“idealmente” partire dalla piramide più piccola, ossia quella edificata per ultima.

Consideriamo che la stessa triplice cinta druidica ammette una provenienza


centrale, perché è lì che si racchiude il fulcro del sapere: dovrà poi essere l’iniziato a
raggiungere tale nucleo, partendo dall’esterno e operando, nel senso opposto, in
direzione del “cuore”. Non solo: se osserviamo i tre quadrati concentrici della triplice
cinta non possiamo che pensare alla base delle tre piramidi, una più grande dell’altra,
anche se a tal punto otterremmo il percorso inverso che abbiamo suggerito per le
costruzioni di Giza, quando è invece quella maggiore a racchiudere il segreto finale,
laddove nella cinta druidica è il quadrato più piccolo a conservare il “nocciolo della
questione”. Anche Dagaz, che appunto chiude la “cinta druidica del Futhark
germanico”, può d’altro canto, lo abbiamo già notato, rievocare una piramide vista
dall’alto – intuiamo così altre possibili chiavi di concatenazione tra una serie di
insegnamenti che in ogni caso è sensato definire “atlantidei” o, al limite, “post-
atlantidei”339.

Dio decise di distruggere la Terra con un diluvio (…)”; Cfr. Giordano Berti, 9 mondi ultraterreni,
Mondadori, Milano, 1998, cit. p. 135.

338
E d’altro canto lo stesso Guénon reputa che queste tre sedi corrispondano verosimilmente a dei
precisi luoghi di iniziazione. Cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, p. 119.
339
Anche la tetraktys pitagorica, nella sua scansione all’insegna del quattro, si fonda del resto su tali
inflessioni, così come la triplice cinta druidica è confluita nei labirinti che costellano i pavimenti delle
chiesi cattedrali, che come sappiamo sono sorte grazie a tecniche di costruzione “ermetica” analoghe
a quelle che hanno ispirato le piramidi. Per quanto riguarda l’eredità atlantidea, Guénon dice a
proposito della triplice cinta notata da Le Cour a Roma, nel chiostro di San Paolo, e risalente al XIII
secolo: “L’interpretazione del simbolo in questione come figura di una triplice cinta ci pare assai
giusta; e Le Cour stabilisce a questo proposito un collegamento con ciò che dice Platone, il quale,
parlando della metropoli degli Atlantidi, descrive il palazzo di Poseidone come un edificio al centro
di tre cinte concentriche collegate fra di loro da canali, il che costituisce effettivamente una figura
analoga a quella in questione, però circolare anziché quadrata”; cfr. Simboli della scienza sacra, cit.
p. 77. Proprio nel passaggio dal cerchio al quadrato cogliamo forse il senso di quel decadimento su
cui abbiamo più volte insistito.

121
Valutando che le tre piramidi sono di proporzioni differenti, possiamo anche accennare
al motivo del titolo “Ermete Trismegisto”, ossia “tre volte grande” come è stato
ampiamente documentato340. Tre diverse dimensioni equivarrebbero alla portata di tre
distinte iniziazioni, una più grande dell’altra, una capace ogni volta di contenere l’altra,
usando un’immagine cara a Guénon nel momento in cui egli definisce la superiorità
dell’autorità spirituale rispetto al potere regale341.

340
Sempre Guénon prova a spiegare il senso di questa attribuzione: “Questa <<triplicità>> ha
d’altronde ancora un altro significato, trovandosi talvolta sviluppata sotto la forma di tre Ermeti
distinti: il primo, chiamato <<Ermete degli Ermeti>> (Hermes El-Harâmesah), e considerato come
pre-diluviano, è quello che si identifica propriamente a Seyidna Idris; gli altri due, post-diluviani,
sono l’<<Ermete babilonese>> (El-Bâbelî) e l’ <<Ermete egizio>> (El-Miçrî). Ciò sembrerebbe
indicare abbastanza nettamente che le due tradizioni caldea ed egizia deriverebbero direttamente da
un’identica fonte principale, la quale, dato il carattere pre-diluviano che le è riconosciuto, non può
che essere la tradizione atlantidea.”; cfr. Forme tradizionali e cicli cosmici, cit. p. 122. Come è noto,
i tempi simbolici e quelli storici “faticano ad andare d’accordo”: al di là della costruzione fisica delle
piramidi che abbiamo collocato nello stesso periodo, ci sono chiaramente fattori di altro ordine che
vanno considerati. Ci riferiamo alla trasmissione di una dottrina che, ad ogni buon conto, deve aver
avuto origini atlantidee, ricettacolo che per lo stesso Guénon non è quello originale, essendo
iperborea, dell’estremo nord, la collocazione della “vera” dottrina primordiale. Le nozioni
sopravvissute alla civiltà di Atlantide sono poi evidentemente confluite in “lezioni” successive. E, in
ogni caso, le figure dei tre Ermeti, al di là della loro consistenza reale e della loro collocabilità
temporale, rappresentano tre distinti livelli di conoscenza e iniziazione a cui evidentemente le stesse
tre piramidi fanno riferimento.
341
E’ molto chiaro il Guénon in un passo di Autorità spirituale e potere temporale: “(…) abbiamo
affermato, da una parte, che la conoscenza metafisica, cioè la vera saggezza, è il principio da cui ogni
altra conoscenza deriva come sua applicazione a livello contingente, e, dall’altra, che la
<<filosofia>>, nel senso originario in base al quale designa l’insieme di tali conoscenze contingenti,
va considerata come una preparazione alla saggezza; come possono conciliarsi le due affermazioni?
Ci siamo già espressi su tale questione parlando della duplice funzione delle <<scienze
tradizionali>>: si tratta di due punti di vista, uno discendente e l’altro ascendente, il primo dei quali
corrisponde a uno sviluppo della conoscenza a partire dai princìpi per giungere ad applicazioni
sempre più lontane da questi, e il secondo a una acquisizione graduale della stessa conoscenza
procedendo dall’inferiore al superiore, o, se si vuole, dall’esterno all’interno. Il secondo punto di vista
corrisponde perciò alla via secondo la quale gli uomini possono essere portati alla conoscenza in
modo graduale e proporzionato alle loro capacità intellettuali; ed è così che sono condotti dapprima
al <<Paradiso terrestre>>, e poi al <<Paradiso celeste>>; ma questo ordine di insegnamento o di
comunicazione della <<scienza sacra>> è l’inverso del suo ordine di costituzione gerarchica. Di fatto,
ogni conoscenza che abbia veramente il carattere di <<scienza sacra>>, di qualunque ordine essa sia,
può essere a buon diritto costituita soltanto da coloro che, prima di tutto, possiedono in modo
completo la conoscenza principiale, e perciò sono i soli qualificati per attuare, conformemente alla
più rigorosa ortodossia tradizionale, ogni adattamento richiesto dalle circostanze di tempo e di luogo;
per questo gli adattamenti, quando sono effettuati in modo regolare, sono necessariamente opera del
sacerdozio, al quale appartiene per definizione la conoscenza principiale; ecco perché soltanto il
sacerdozio può conferire legittimamente l’<<iniziazione regale>>, mediante la comunicazione delle
conoscenze che la costituiscono. Da questo si può capire meglio come le due chiavi -considerate
quelle della conoscenza nell’ordine <<metafisico>> e nell’ordine <<fisico>>- appartengano
realmente entrambe all’autorità sacerdotale, e come la seconda sia affidata ai detentori del potere
regale solo per delega, per così dire.”; ivi cit. pp. 121-123. Si tratta esattamente dello stesso schema
che abbiamo attribuito all’ordine di costruzione delle piramidi e a quello, inverso, del loro “utilizzo”.
122
Restando fedeli a questo schema, il Futhark antico conosce da una parte origini
immesse direttamente nell’infinitezza delle possibilità metafisiche, prima con la
creazione “informale” di Fehu e poi con la rivelazione del soffio supremo che si attua
attraverso Ansuz. È poi evidente all’interno del ciclo runico anche un certo
ridimensionamento, il che avviene attraverso simboli che, pur nella finalità iniziatica,
ricacciano l’elemento umano nei meandri della limitatezza che gli è propria, a maggior
ragione “in tempo di crisi”. Ma del resto è questa la pasta che la dottrina ermetica viene
a sublimare, dal momento che un ponte con l’essenza uranica è stato irrimediabilmente
tagliato. Il Bifröst, il ponte della mitologia nordica che unisce i cieli di Asgard con il
suolo di Midgard, non è del resto “ghiacciato due volte”? Fermo restando che esso può
sempre riaprirsi, dall’alto beninteso, nel momento in cui si verifichino condizioni del
tutto particolari: che è poi quello che abbiamo già indicato più volte sulla scorta di
Dagaz e che potrebbe così spiegare l’esito del ciclo attuale.

* Nota all’utilizzo delle immagini: tutte le immagini presenti in questa opera sono state, o realizzate
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