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HENRI BERGSON, Saggio sui dati immediati della coscienza, Milano, ed.

Cortina Raffaello, 2002


(1889)

Il tema centrale del Saggio sui dati immediati della coscienza è il tempo ed è per questo motivo che l'opera
ha avuto un notevole influsso sulla letteratura novecentesca e su autori fondamentali come Marcel Proust:
Bergson introduce una nozione di tempo, ed in particolare di durata, completamente nuova che scardina la
netta contrapposizione tra mondo esteriore, interpretato mediante lo spazio, e mondo interiore che adotta il
tempo come sua dimensione.
Il saggio si articola in tre capitoli, che seppur distinti, rappresentano un unico percorso per la definizione di
questa nuova nozione di tempo: “Sull'intensità degli stati psichici”, “Sulla molteplicità degli stati di
coscienza e l'dea di durata”, “Sull'organizzazione degli stati di coscienza e la libertà”.
Sin dalle prime pagine Bergson si confronta con quello che egli definisce “senso comune” attribuendogli
quasi validità pari alle elaborazioni della filosofia.
E infatti “comunemente” si ammette che gli stati di coscienza, le sensazioni, i sentimenti e le passioni
possano crescere e diminuire e che una sensazione la si possa addirittura definire più intensa di un'altra della
stessa natura.
Ma come definire questa maggiore o minore intensità?
Trattando di un numero o di un corpo abbiamo a che fare con spazi diseguali e definiamo più grande quello
che contiene l'altro: non possiamo però certamente fare lo stesso per le sensazioni, per le passioni o per i
sentimenti.
Bergson si chiede cosa possa accomunare l'estensivo e l'intensivo e soprattutto se non sia una contraddizione
parlare di quantità non estensiva anche quando il senso comune d'accordo con i filosofi innalza a grandezza
una intensità pura come se fosse estesa.
Se è vero che la sensazione più intensa di luce è quella che si ottiene grazie a un maggior numero di fonti
luminose poste alla stessa distanza dall'osservatore, ciò non può valere per le differenze di intensità tra i fatti
psicologici profondi come l'amore, l'odio etc., “che provengono da noi e non da una causa esterna”.
Si potrebbe dunque tentare un discorso analogo per ciò che concerne la “grandezza” delle sensazioni e quindi
asserire che l'intensità varia secondo la causa esterna che la provoca. Ma “come spiegare l'irruzione della
quantità all'interno di un effetto in-esteso, e in questo caso, indivisibile”?
L'analisi della speranza, dei differenti gradi di tristezza, della pietà ma soprattutto dei sentimenti estetici ed in
particolare del sentimento della grazia, porta Bergson ad individuare con precisione che le successive
intensità corrispondono ai cambiamenti di stato che in noi sono sopraggiunti e che si sono stratificati in un
tempo preciso.
La speranza si distingue come piacere intenso perché legato al futuro, all'avvenire che offre il possibile in un
incredibile varietà di forme, e sappiamo bene che l'avvenire stesso non potrà mai soddisfare il nostro spirito
quanto l'idea di avvenire, proprio perché la speranza “ci appare più attraente del possesso” e il sogno ci
appare sempre più attraente della realtà. Qualsiasi speranza fossimo in grado di realizzare, comunque ed
inevitabilmente saremo stati costretti a rinunciare a tutte le altre possibilità.
Come per la speranza, Bergson dimostra come anche i differenti gradi di tristezza corrispondano in realtà a
cambiamenti qualitativi. La tristezza è un orientamento verso un passato rimpianto che comporta di
conseguenza un impoverimento delle nostre idee e delle nostre sensazioni dandoci l'impressione che ogni
speranza sia illusione e che non vi sia per noi alcun avvenire.
È però con l'analisi dei sentimenti estetici che il filosofo francese inizia a delineare con maggiore precisione i
cambiamenti qualitativi all'interno di un sentimento e inizia ad alludere a quella durata reale contrapposta al
tempo spazializzato di cui preciserà nel capitolo successivo del saggio.
Esaminando il sentimento della grazia Bergson dimostra che “poiché i movimenti spontanei sono quelli che
si predispongono l'un l'altro, noi osservatori finiamo col trovare una maggiore disinvoltura nei movimenti
che si lasciano prevedere, negli atteggiamenti presenti in cui è come se fossero indicati e preformati gli
atteggiamenti futuri. Se i movimenti bruschi sono privi di grazia, ciò è dovuto al fatto che ognuno di essi
basta a se stesso e non annuncia quelli che stanno per seguirlo.
E se la grazia preferisce le curve alle linee spezzate, è perché la linea curva cambia si direzione ad ogni
istante ma questa nuova direzione era già indicata in quella che la precedeva. Qui, la percezione di un
muoversi spontaneo si fonde allora con il piacere di arrestare in qualche modo la marcia del tempo, e di
tenere il futuro nel presente”.
Nel capitolo centrale Bergson procede quindi alla contrapposizione di quello che definisce tempo
spazializzato e la cosiddetta durata reale e lo fa a partire dal semplice esempio del gregge.
Se si contano le pecore di un gregge si dice, per esempio, che sono cinquanta sebbene si distinguano fra loro
come unità trascurando le loro differenze individuali per considerare solo la loro funzione comune. Al
contrario fissando la propria attenzione sui tratti particolari di ognuna di loro, le si può enumerare ma non
facendone più la somma. Supponendo invece che tutte le pecore del gregge siano identiche fra loro esse
devono necessariamente differenziarsi in qualcosa almeno per la parte di spazio che occupano, perché
altrimenti non formerebbero affatto un gregge ma una massa indistinta. Se poi ne manteniamo solo l'idea o
dobbiamo comprenderle tutte nella stessa immagine ponendole di conseguenza in uno spazio ideale, oppure
siamo tenuti a ripetere per 50 volte l'immagine di una sola di esse “e sembra allora che la serie si situi nella
durata piuttosto che nello spazio”.
Immaginando però a turno e isolatamente ogni pecora del gregge, ne avremo dinnanzi una sola e per far si
che il numero cresca mentre si continua a contare, è inevitabile che si trattengano anche le immagini
successive delle pecore aggiungendole ad ogni nuova unità/pecora che viene focalizzata: ma una tale
giustapposizione si effettua appunto nello spazio, non nella durata pura.
Bergson sostiene allora che “l'illusione su questo punto nasce dall'abitudine che abbiamo contratto di credere
di contare nel tempo piuttosto che nello spazio. Per immaginare per esempio il numero 50, si ripeteranno tutti
i numeri a partire dall'unità; e quando si sarà giunti al cinquantesimo si crederà di aver costruito questo
numero nella durata, e solo nella durata. Ed effettivamente è incontestabile che in questo modo, più che dei
punti nello spazio, si saranno contati dei momenti della durata; ma si tratta di sapere se non avremo contato
dei momenti della durata con dei punti nello spazio. Senza dubbio è possibile percepire nel tempo, e solo nel
tempo, una pura e semplice successione, ma non un'addizione, cioè una successione che dia luogo ad una
somma”.
La durata pura è invece “la forma assunta dalla successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io
si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione fra lo stato presente e quello anteriore”.
E per spiegare concretamente il significato della durata pura, Bergson si avvale di tre semplici esempi. Il
primo è quello più prettamente figurativo, quello delle stelle cadenti: il movimento è talmente rapido che
nell'osservatore si verifica una dissociazione tra lo spazio percorso, che appare sotto forma di striscia di
fuoco, e la sensazione del movimento producendo un fenomeno di endosmosi ovverosia una “mescolanza tra
una sensazione puramente intensiva di mobilità e una rappresentazione estensiva dello spazio percorso”.
Ugualmente, e questo è il secondo esempio, immaginandoci passeggiatori solitari nella città in cui siamo nati
e vissuti, le cose che ci circondano producono su di noi contemporaneamente un'impressione destinata a
durare ed un'impressione che si modifica continuamente. Le stesse cose, gli stessi oggetti, le stesse strade o
gli stessi palazzi che chiamiamo oggi sempre con gli stessi nomi, in realtà se li rievochiamo nell'impressione
che esercitavano su di noi ad esempio durante l'infanzia, ci rendiamo conto di quanto producano in noi quasi
percezioni differenti.
Infine, e questo è il terzo esempio, riflettendo sui sapori o i profumi che accompagnano la vita quotidiana di
ognuno di noi potremmo facilmente renderci conto che la sensazione che proviamo adesso nell'assaggiare un
determinato cibo o nell'odorare un preciso profumo non è certamente la stessa di quando eravamo bambini.
Molto spesso “il linguaggio ci fa credere nell'invariabilità delle nostre sensazioni” arrivando addirittura ad
ingannarci sul carattere della sensazione che proviamo perché in realtà non esistono né sensazioni né gusti
molteplici ma soltanto sensazioni e gusti che si modificano nel tempo.
Gusti e sensazioni ci appaiono come cose dal momento in cui li si isola e li si nomina mentre “nell'animo
umano esistono solo progressi”.
Ecco dunque che Bergson giunge così a contrapporre al tempo spazializzato la durata reale ossia il tempo
della nostra coscienza inteso come tempo autentico che coincide cioè completamente con la vita della
coscienza.
Se quindi per la scienza il tempo lo si può rappresentare semplicemente come una linea continua formata da
una successione di istanti tutti uguali fra di loro riducendo quindi il tempo allo spazio, per la nostra coscienza
non è affatto una dimensione statica ed omogenea ma al contrario una dimensione dinamica ed eterogenea.
La durata reale è in definitiva un divenire della coscienza, in cui non ci sono istanti separati o stati, ma solo
un flusso continuo nel quale passato e presente si compenetrano, in cui vi è il “nostro io che dura”.
Nel capitolo finale Bergson, a partire dalla codificazione della durata reale e rimosso quindi l'errore del
tempo spazializzato, può dunque affrontare il tema della libertà dell'individuo sostenendo che l'errore
comune al meccanicismo e al dinamismo in relazione al concetto di libertà, sta tutto nel considerare la libertà
come possesso di possibilità: ma a sua volta il concetto di possibilità ragiona solo su ciò che è avvenuto non
su ciò che avviene, non sul divenire, o meglio non sulla durata reale. Così Bergson: “l'io dal basso risale alla
superficie. La crosta esterna scoppia, sotto una spinta irresistibile. Nella profondità di questo io, e al di sotto
di quegli argomenti molto ragionevolmente giustapposti, stava dunque avvenendo un ribollimento e, con ciò
stesso, una tensione crescente di sentimenti e di idee, niente affatto inconsci, ma ai quali non volevamo dar
retta".
Lo slancio verso il futuro, e dunque verso la libertà, avviene quindi nella durata reale in cui opera quella che
Bergson definisce la spontaneità e che sfuggendo a qualsiasi forma di determinismo esprime davvero la
totale libertà dell'individuo.

NOTA BIOGRAFICA: Henri Bergson, di origini ebraiche, nacque a Parigi nel 1859, dove studiò alla Ecole
Normale Supérieure per divenire professore associato di filosofia nel 1881. Nel 1889 con il Saggio sui dati
immediati della coscienza venne ammesso all'Università di Parigi. Negli anni seguenti pubblica Materia e
memoria, Il riso e soprattutto nel 1907 L'evoluzione creatrice che gli conferisce fama internazionale. Nel
1927 è insignito del premio Nobel per la letteratura. Muore nel 1941, rinunciando a tutte le cariche e a tutti
gli onori precedentemente attribuiti, non accettando di essere considerato un'eccezione alle leggi
antisemitiche imposte dal governo di Vichy in nome della sua popolarità.

Loizzi Giuseppe

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