Introduzione – Boccaccio
IV novella del Decameron – Boccaccio prende spunto da una canzone popolare probabilmente napoletana
o siciliana. “La prosa della volgar lingua” di Pietro Bembo (1525) fissa Petrarca in poesia e Boccaccio in
prosa, come modelli per il volgare. Ludovico Ariosto con l’“Orlando Furioso” (1516), ritornerà sulla sua
opera nel 1532 seguendo il modello linguistico petrarchesco indicato appunto da Bembo; Boiardo invece
non potrà rielaborare il suo testo (Orlando Innamorato) adattandolo al volgare e cadrà nel dimenticatoio.
Con Boccaccio si chiude l’epoca medievale, il toscano volgare diventa quasi definitivamente la base della
lingua italiana – letteraria – (ex. Ariosto decide di utilizzarla per poter arrivare anche ai lettori al di fuori
della corte ferrarese – complice l’invenzione della stampa e quindi una maggior possibilità di diffusione).
Boccaccio nasce nel 1313 a Certaldo, fondamentale fu la sua permanenza a Napoli, il padre fu socio della
compagnia dei Bardi, ambiente borghese. La borghesia determina un grande movimento dal punto di vista
economico e inizia ad avere delle aspirazioni sociali e politiche - non a caso il Decameron è definita
un’epopea (ampia narrazione poetica di gesta eroiche) borghese – e l’appoggio dei sovrani; di fatti la
compagnia dei Bardi è finanziatrice della corte angioina e quindi di Napoli, un’importante filiale dove
Boccaccio esercita il suo tirocinio spinto dal padre. Il periodo napoletano corrisponde agli anni della
gioventù di Boccaccio (1327-1340/41), in cui frequenta varie classi sociali e avrà numerose esperienze che
incideranno sul Decameron (grazie allo stretto contatto con l’ambiente di corte conosce Fiammetta, ovvero
Maria D’Aquino). Negli anni 40 ritorna a Firenze e pubblicherà il Decameron nel 1351 a ridosso della peste
(1348).
STRUTTURA: ci sono 7 ragazze e 3 ragazzi che si incontrano a Firenze nella chiesa di Santa Maria Novella,
nel tentativo di sfuggire alla peste e di ricostruire il mondo cortese, svanito a causa di quest’ultima.
Trascorreranno due settimane nella chiesa in cui ognuno di loro racconterà una novella al giorno per 10
giorni poiché esclusero il venerdì e il sabato dalle narrazioni – per questo Decameron >> Deca Mera= dieci
giorni – basandosi ogni giorno su un tema scelto dalla regina o re della giornata (totale 100 novelle –
numero perfetto da un punto di vista religioso>> così come i 99+1 canti della Divina commedia).
ECCEZIONI >> siccome il tema giornaliero veniva scelto durante la giornata precedente, nel primo giorno
non vi è un tema; Dioneo, uno dei tre ragazzi, si prende la libertà di non seguire il tema della giornata; i
ragazzi raccontano in ordine casuale, tranne Dioneo che racconta sempre per ultimo.
Le novelle sono raccontate da giovani narratori di secondo livello che possono introdurre nelle novelle un
sentito dire delle persone da cui le hanno ascoltate, risultando anche narratori di terzo livello. Boccaccio
invece, è narratore di primo livello poiché nel proemio del Decameron spiega che l’opera non ha intenti
moralistici ma sottolinea il piacere della lettura, infatti è dedicata alle donne che soffrono per amore, come
se volesse risarcire le loro sofferenze amorose con la lettura – lo ribadisce nelle premesse e nelle
conclusioni di ogni giornata.
IV GIORNATA nell’introduzione Boccaccio si difende dalle accuse di essere troppo a favore delle donne,
difatti in Corbeccio, fa della satira contro le donne, dando vita al filone della misoginia che proseguirà con
altri autori – ad esempio Macchiavelli.
In Elegia di Madonna Fiammetta la voce narrante è affidata per la prima volta ad una donna che soffre per
l’allontanamento del suo amato Panfilo da Firenze – Boccaccio riprende la storia con la sua Fiammetta, la
quale però lascio lui.
TEMI DEL DECAMERON l’amore in primis, al quale dedica due giornate: la quarta, in cui tratta gli amori
dall’infelice esito e la quinta dedicata agli amori a lieto fine; l’intelligenza che porta alla battuta di spirito e
spesso si rivolta contro il malcapitato, ex. Andreuccio; la fortuna che si distacca completamente
dall’esperienza religiosa, poiché appartiene all’esperienza concreta della narrazione.
Il Decameron si pone come un’esaltazione della borghesia >> nella quinta novella (quarta giornata) i fratelli
di Lisabetta uccidono il suo amante, Lorenzo, poiché appartenente ad una classe sociale inferiore, per
questo viene loro negato il matrimonio; vengono ripresi i pregiudizi tipici dell’aristocrazia che la borghesia
cerca di combattere.
V NOVELLA Boccaccio, nella rubrica, compone un gioco di parole tra TESTA e TESTO (vaso).
Boccaccio associa il genere tragico, tipico della nobiltà, ad una classe sociale inferiore trasgredendo così le
convenzioni sociali che associano ad una classe un determinato stile (nobiltà = tragedia / popolo =
commedia). L’incipit della storia è una versione più reale del c’era una volta, vengono subito presentati i
personaggi, il luogo – Messina – e il tempo.
Lisbetta e i suoi fratelli provengono dalla realtà mercantile della Toscana. Le donne di quest’epoca
dovevano sottostare al volere delle figure maschili che comandavano la famiglia (padre, fratelli – come in
questo caso – o marito) e il matrimonio era una sola alleanza con scopi commerciali ed economici. Lorenzo,
loro factotum, è a conoscenza dei traffici condotti dai fratelli di Lisbetta, la quale, ricambiata, si innamora di
lui [“avendolo più volte guatato, avvenne che egli le incominciò stranamente a piacere”>> stranamente
indica la trasgressione sociale di Lisbetta nell’essersi innamorata di un uomo di una classe sociale inferiore,
e non è un caso che a trasgredire sia una donna]. A lungo andare, mentre lei la notte si recava in camera di
Lorenzo, uno dei suoi fratelli la scopre ma decide di non reagire e ragiona su come preservare il buon nome
della famiglia. Il giorno dopo i fratelli decidono di liberarsi di Lorenzo per evitare conseguenze,
progettandone a tavolino l’omicidio che avverrà fuori città. Tornati a Messina senza di lui. Lisbetta inizia ad
agitarsi e preoccuparti per il suo amato, al punto di evocarlo la notte finché non gli appare in sogno – si
entra nella mente allucinata della protagonista e quindi non siamo più nella realtà - e capisce che Lorenzo
non l’aveva abbandonata, ma era stato ucciso, infatti quest’ultimo gli mostra anche il luogo in cui è
avvenuto l’omicidio, dove Lisbetta si reca per accertarsi che il sogno fosse veritiero. Qui la donna decide di
tagliare la testa al corpo inerme di Lorenzo e portarla a casa per poi riporla in un vaso accanto al quale
passera molto del suo tempo a piangere. Su avviso dei vicini, i fratelli decidono di sottrarre il vaso alla
sorella, la quale disperata – al punto di ammalarsi - chiede di riaverlo; così i fratelli scoprono la testa della
loro vittima e decidono di scappare a Napoli – città del malaffare – per evitare che la vicenda venga a galla.
[“La giovane non restando di piangere e pure il suo testo odimandando, piagnendo si morì, e così il suo
disavventurato amore ebbe termine”].
Novella di formazione.
Troviamo un personaggio che viene dalla provincia, un giovane ingenuo, che nel percorso che compie,
cambia; con questo cambiamento riesce a sfuggire ad una serie di disavventure, grazie al rapido corso di
formazione per il quale si salva.
La protagonista qui è Napoli.
La novella si svolge nell’arco di una sola giornata; le disavventure di Andreuccio accadono tutte durante una
sola notte (spazio temporale molto ridotto) e vengono tratteggiate con realismo.
“Fu, secondo che io già intesi, in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di
cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli, messisi in borsa cinquecento
fiorin d’oro, non essendo mai più fuori di casa stato, con altri mercatanti là se n’andò: dove giunto una
domenica sera in sul vespro, dall’oste suo informato la seguente mattina fu in sul Mercato, e molti ne
vide e assai ne gli piacquero e di più e più mercato tenne, né di niuno potendosi accordare, per mostrare
che per comperar fosse, sì come rozzo e poco cauto più volte in presenza di chi andava e di chi veniva
trasse fuori questa sua borsa de’ fiorini che aveva.”.
Andreuccio è un giovane che viene da Perugia e viene a Napoli per comprare dei cavalli, avendo sentito che
c’è un buon mercato. Andreuccio viene da una realtà di provincia e vediamo in alcuni uno sguardo ironico.
Boccaccio prende proprio in giro il suo personaggio, lo chiama rozzo e poco cauto. È un personaggio che
non si sa comportare in questa città, non è prudente poiché non è mai uscito fuori di Perugia, quindi non ha
esperienza di una grande città come quella napoletana. Infatti si reca a Napoli e arriva la domenica sera sul
presto per poter andare al mercato il giorno seguente. Questo Mercato si svolge in Piazza Mercato, che
continua a mantenere tutt’ora la sua vocazione di centro commerciale della città.
Boccaccio ci descrive la città come ai suoi tempi con estremo realismo.
Andreuccio va ad acquistare questi cavalli, ma non trova modo di accordarsi per l’acquisto, e così rozzo e
poco cauto caccia fuori la sua borsa con i cinquecento fiorini per dimostrare di avere il denaro (prima
disavventura).
“E in questi trattati stando, avendo la sua borsa mostrata, avvenne che una giovane ciciliana bellissima,
ma disposta per piccol pregio a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò appresso di lui e
la sua borsa vide e subito disse: - Chi starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei?- e passò oltre.”
L’efficacia è effettiva di Boccaccio con pochi canti(?).
Mentre Andreuccio mostra la sua borsa, fa gola a questa siciliana, una giovane bellissima, che esercitava un
mestiere molto antico, perché era disposta a compiacere ogni uomo e per poco prezzo. La ragazza vide la
borsa di Andreuccio e pensò subito: “beh, chi starebbe meglio di me se io avessi quei soldi?”, quindi tiene
d’occhio Andreuccio e passa poi oltre.
“Era con questa giovane una vecchia similmente ciciliana, la quale, come vide Andreuccio, lasciata oltre la
giovane andare, affettuosamente corse a abbracciarlo: il che la giovane veggendo, senza dire alcuna cosa,
da una delle parti la cominciò a attendere.”
Quindi insieme a questa giovane siciliana, c’era una vecchia, anch’essa siciliana, che conosceva Andreuccio.
Quindi lascia andare avanti la giovane e si fermò con Andreuccio.
“Andreuccio, alla vecchia rivoltosi e conosciutala, le fece gran festa, e promettendogli essa di venire a lui
all’albergo, senza quivi tenere troppo lungo sermone, si partì: e Andreuccio si tornò a mercatare ma
niente comperò la mattina.”
Quindi si salutarono e la vecchia gli promise di incontrarsi di nuovo dove lui dimorava.
“La giovane, che prima la borsa d’Andreuccio e poi la contezza della sua vecchia con lui aveva veduta, per
tentare se modo alcuno trovar potesse a dover avere quelli denari, o tutti o parte, cautamente
incominciò a domandare chi colui fosse o donde e che quivi facesse e come il conoscesse.”
Quindi la giovane comincia a fare alla vecchia tantissime domane su Andreuccio.
“La quale ogni cosa così particolarmente de’ fatti d’Andreuccio le disse come avrebbe per poco detto egli
stesso, si come colei che lungamente in Cicilia col padre di lui e poi a Perugia dimorata era, e similmente
le contò dove tornasse e perché venuto fosse.”
La vecchia dice tutto alla giovane siciliana, per filo e per segno, come se fosse stato Andreuccio stesso a
farlo.
“La giovane, pienamente informata e del parentado di lui e de’ nomi, al suo appetito fornire con una
sottil malizia, sopra questo fondò la sua intenzione, e a casa tornatasi, mise la vecchia in faccenda per
tutto il giorno acciò che a Andreuccio non potesse tornare;”
La giovane si informa per bene di tutti i nomi e di tutti i particolari della famiglia di Andreuccio, dopodiché
mette in faccenda la vecchia per non lasciarle tempo di andare da Andreuccio. Nel frattempo manda una
serva a chiamarlo.
“e presa una sua fanticella, la quale essa assai bene a così fatti servigi aveva ammaestrata,” (era una
servetta ammaestrata per queste mansioni) “in sul vespro la mandò all’albergo dove Andreuccio tornava.
La qual, quivi venuta, per ventura lui medesimo e solo trovò in su la porta e di lui stesso il domandò.”
Questa per caso (fortuna) si imbatte con Andreuccio solo (particolare interessante, poiché tutta la sua
avventura parte da fatto che lui va senza dir niente a nessuno, e quindi non può neanche essere in qualche
modo salvato) sulla porta dell’albergo. “Alla quale dicendole egli che era desso, essa tiratolo da parte,
disse:” La ragazzina è quasi come se volesse dirgli un segreto, e Andreuccio si sente lusingato da quella
confidenza. “- Messere, una gentil donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri- . Il
quale vedendola, tutto postosi mentre e parendogli essere un bel fante della persona, s’avvisò questa
donna dover di lui essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli non trovasse allora in Napoli,” (qui
Boccaccio si diverte tantissimo a prendere in giro il suo personaggio). Andreuccio era stupito del fatto che
una donna volesse parlargli e che questa donna si fosse innamorato di lui. “e prestamente (si fa quest’idea
in testa) rispose che era apparecchiato (cioè già pronto) e domandolla dove e quando questa donna
parlargli volesse. A cui la fanticella rispose: - Messere, quando di venir vi piaccia, alla v’attende in casa
sua -. Andreuccio presto, senza alcuna cosa dir nell’albergo (senza avvisare nessuno), disse: - Or via
mettiti avanti, io ti verrò appresso- . Laonde la fanticella a casa di costei il condusse, la quale dimorava in
una contrada chiamata Malpertugio,” Si scopre la realtà di questo nome dopo gli studi di Benedetto Croce,
che segue passo passo e ricostruisce dove si trovasse questa località. Malpertugio si trovava a ridosso del
porto, nella zona di piazza municipio, era anche una zona dei banchieri (quindi di Boccaccio) e di traffici
economici, e anche zona di costreccoli. Quindi si spiega la localizzazione della giovane siciliana in questa
zona. Ma ad Andreuccio che la zona si chiamasse Malpertugio non diceva nulla. “la quale quanto sia onesta
contrada il nome medesimo il dimostra.” Il nome già doveva mettere Andreuccio sulla via, ma egli
continua ad essere ostinato, cieco, della sua illusione che gli fa seguire questa ragazza.
“Ma esso, niente di ciò sapiendo né auspicando (sospettando), credendosi in un onestissimo luogo
andare e a una cara donna, liberamente (senza sospetti), andata la fanticella avanti, se n’entrò nella sua
casa;” Entra nella casa di uno sconosciuto senza sospettare nulla. “e salendo su per le scale, avendo la
fanticella già sua dona chiamata e detto – Ecco Andreuccio -, la vide in capo della scala farsi a aspettarlo.
Qui compare la siciliana.
“Ella era ancora assai giovane, di persona grande e con bellissimo viso, vestita e ornata assai
orrevolmente (in maniera molto decorosa); alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontro gli da tre
grandi discese con le braccia aperte, e avvinghiatogli il collo alquanto stette senza alcuna cosa dire, quasi
da soperchia tenerezza impedita; poi lagrimando gli basciò la fronte e con voce alquanto rotta disse: - O
Andreuccio mio, tu sii il benvenuto!-“ Questa donna che scende dalle scale, sembra quasi commossa e non
riesce a parlare, scende tre gradini e lo abbraccia e lo bacia in fronte.
“Esso, maravigliandosi di così tenere carezze, tutto stupefatto rispose: - Madonna, voi siate la ben
trovata!- Ella appresso, per la man presolo, suso nella sala il menò e di quella, senza alcuna cosa parlare,
con lui nella sua camera se n’entrò, la quale di rose, di fiori d’aranci e d’altri odori tutta oliva
(profumava), là dove egli un bellissimo letto incortinato e molte robe su per le stanghe, secondo il
costume di là, e altri assai belli e ricchi arnesi vide; per le quali cose, si come nuovo, fermamente credette
lei dovesse essere non men che gran donna.” Innanzitutto Andreuccio entra quasi in un mondo incantato e
nota, innanzitutto, una casa molto profumata, quasi in maniera eccessiva, un grande abbigliamento e degli
oggetti assai belli e ricchi (qui Boccaccio sottolinea l’inesperienza di Andreuccio, lo prende in giro non tanto
per ciò ma perché poco cauto, perché non prende nessuna precauzione). Quindi Andreuccio si convinse che
questa dovesse essere non meno che una gran donna. I due iniziano a parlare e la ragazza dice che lei ha
una sorella, che il padre aveva abbandonato la madre e che si era rifatto una famiglia. Cita tutti i nomi della
famiglia di Andreuccio. Da le notizie in maniera reale, e si contestualizza il periodo storico di tutta la
vicenda. Quindi, rivela ad Andreuccio di essere sua sorella.
“Appresso queste parole ella cominciò distintamente a domandare di tutti i suoi parenti nominatamente,
alla quale di tutti Andreuccio rispose, per questo ancora più credendo quello che meno di creder gli
bisognava.” Per dare maggiore credito al suo racconto, comincia a chiedere di tutti i parenti che aveva
Andreuccio, di cui si ricordava perché in precedenza la vecchia le aveva detto tutto. E questo fa si che
Andreuccio crede ancora di più a tutta la storia della ragazza. “Essendo stati i ragionamenti lunghi e il
caldo grande, ella fece venire greco (vino) e confetti e fè dar bere a Andreuccio; il quale dopo questo
partir volendosi, per ciò che ora di cena era, in niuna giusa il sostenne, ma sembiante fatto di forte
turbarsi abbracciadol disse: - Ahi lassa me, ché assai chiaro conosco come io ti sia poco cara! Che è a
pensare che tu sii con una tua sorella mai più da te non veduta, e in casa sua, dove, qui venendo,
smontato esser dovresti, e vogli di quella uscire per andare a cenare all’albergo? Di vero tu cenerai con
esso meco: e perché mio marito non ci sia, di che forte mi grava, io ti saprò bene secondo dona fare un
poco d’onore -.” Andreuccio, essendosi fatta ora di cena, vuole tornare all’albergo. La ragazza intanto l’ha
fatto bere, gli ha fatto portare confetti, in pratica l’ha ricevuto con molto onore. Quindi fece finta di turbarsi
gravemente e abbracciandolo disse “oh, povera me. Mi sembra evidente che io ti sia così poco cara.”, e
addirittura che avrebbe addirittura dovuto prendere alloggio in casa sua, ossia della sorella, e che anche se
suo marito non c’era, non significava che lei, da donna, non potesse accoglierlo con onore. “Alla quale
Andreuccio, non sappiendo altro che rispondersi, disse: - Io v’ho cara quanto sorella si dee avere, ma se io
non ne vado, io sarò tutta sera aspettando a cena e farò villania-.” Andreuccio non aveva avvisato nessuno
all’albergo, allora Andreuccio dice di dover tornare perché nessuno sa dove fosse. “Ed ella allora disse: -
Lodato sia Idio, se io non ho in casa per cui mandare a dire che tu non sii aspettato (figuriamoci se io non
ho alcuna persona in casa che non possa mandare ad avvisare che tu non torni in albergo)! Benché tu
faresti assai maggior cortesia, e tuo dovere, mandare a dire a’ tuoi compagni che qui venissero a cenare,
e poi, se tu volessi, ve ne potresti tutti andar di brigata -. Andreuccio rispose che de’ suoi compagni non
volea quella sera, (qui la siciliana fu bravissima a capire la buona fede di Andreuccio) ma, poi che pure a
grado l’era, di lui facesse a piacer suo. Ella allora, fè vista (fece finta) di mandare a dire all’albergo che egli
non fosse atteso a cena; e poi, dopo molti altri ragionamenti, postisi a cena e splendidamente di più
vivande serviti, assolutamente quella menò per lunga infino alla notte obscura; ed essendo da tavola
levati e Andreuccio partir volendosi, ella disse che ciò in niuna giuna sofferebbe (qui la dona porta avanti
il suo discorso precendente, continua a dire di offendersi), per ciò che Napoli non era terra da andarvi per
entro di notte, e massimamente un forestiere (qui compare una descrizione di Napoli: ossia che è una città
pericolosa di notte, specialmente per uno straniero); e che come egli a cena non fosse atteso aveva
mandato a dire, così aveva detto albergo fatto il somigliante.” Quindi lei, così come aveva mandato a dire
all’albergo di non aspettarlo per la cena, così aveva fatto per la notte.
“Egli, questo credendo e dettandogli, da falsa credenza ingannato (ma in realtà gli fa anche piacere
crederlo: qui viene risaltato il suo essere superficiale), d’esser con costei, stette.” Quindi Andreuccio si
convince a restare anche la notte. “Furono adunque dopo cena i ragionamenti molti e lunghi non senza
cagione tenuti; e essendo della notte una parte passata, ella, lasciato Andreuccio a dormire nella sua
camera con un piccol fanciullo che gli mostrasse se egli volesse nulla, con le sue femmine in un’altra
camera se n’andò.” La siciliana fornisce ad Andreuccio un servo per qualsiasi cosa di cui avesse avuto
bisogno, poi va in camera sua.
Da qui il realismo che c’è in tutto il Decameron, prende una piega molto descrittiva, perché vediamo un
particolare che normalmente nella letteratura non troviamo, cioè: Andreuccio aveva bisogno di andare in
bagno, che ai tempi era un luogo tra due vicoli dove venivano ad essere depositati i bisogni.)
“Era il caldo grande: per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimasto, subitamene si spogliò in
farsetto e trassesi i panni di gamba e al capo del letto gli si pose (nei vestiti c’erano anche i cinquecento
fiorini); e richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre, dove ciò si facesse
domandò quel fanciullo, il quale nel’uno de’ canti della camera gli mostrò un uscio e disse: -Andate là
entro-.” (c’era una sorta di trave in un vicolo, dove venivano effettuati i bisogni.) Boccaccio insiste molto su
queste cose, per darci un senso di realtà quale la sporcizia e la puzza.
“Andreuccio dentro sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola (fortuna), la
quale dalla contrapposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era; per la qual cosa capolevando
questa tavola con lui insieme se n’andò quindi giuso (mise un piede su una trave che non era ben fissata
dall’altra parte, quindi la tavola si capovolge e Andreuccio cade giù, quindi da supponiamo che dal primo
piano cade giù): e di tanto l’amò Idio (qui Idio non è inteso come il Dio di Dante, bensì più come la fortuna),
che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse da alto, ma tutto della bruttura, della
quale il luogo era pieno, s’imbrattò.” Intano la fortuna volle che Andreuccio non si facesse male. Riesce a
salvarsi solo grazie alla fortuna.
“Il quale luogo, acciò che meglio intendiate e quello che è detto e ciò che segue, come stesse vi mostrerò.
Egli era in un chiassetto stretto, come spesso tra due case veggiamo: sopra due travicelli, tra l’una casa e
l’altra posti, alcune tavole eran confitte e il luogo da seder posto, delle quali tavole quella che con lui
cadde era l’una.” Qui ci viene spiegato com’era fatto questo bagno medievale.
“Ritrovandosi adunque là giù nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso, cominciò a chiamare il
fanciullo; ma il fanciullo, come sentito l’ebbe cadere, così corse a dirlo alla donna. La quale, corsa alla sua
camera, prestamente cercò se i suoi panni v’erano; e trovati i panni e con essi i denari, li quali esso non
fidandosi mattamente sempre portava addosso (grande parte delle disavventure di Andreuccio, è anche
colpa sua, perché portava sempre i soldi con sé), avendo quello a che ella di Palermo, sirocchia d’un
perugin faccendosi, aveva teso il lacciuolo, più di lui non curandosi prestamente andò a chiuder l’uscio
del quale egli era uscito quando cadde.” Non appena la donna si accertò che i soldi fossero in casa sua, non
si preoccupò affatto dell’acquisito fratello e lo rimase fuori.
“Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò più forte a chiamare: ma ciò era niente. Per che
egli, già sospettando e tardi dello inganno (comincia finalmente a sospettare di esser stato ingannato)
cominciandosi a accorgere salito sopra un muretto che quello chiassolino dalla strada chiudea e nella via
disceso, all’uscio della casa, il quale egli molto ben riconobbe, se n’andò, e quivi invano lungamente
chiamò e molto il dimenò e percosse. Di che egli piagnendo, come colui che chiara vedea la sua
disavventura, cominciò a dire: - Oimè lasso, in come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una
sorella!-“ Andreuccio comincia a chiamare, a dimenarsi, ma vedendo che nessuno gli rispondeva, comincia
ad avere chiara la sua disavventura.
“E dopo molte altre parole, da capo cominciò a battere l’uscio e a gridare; e tanto fece così che molti de’
circunstanti vicini, desti, non potendo la noia sofferire, si levarono; e una delle servigiali della donna, in
vista tutta sonnocchiosa, fattasi alla finestra proverbiosamente disse: - Chi picchia là giù ?” Le urla, il
chiasso, durante la notte cominciarono a svegliare i vicini che si affacciano, mentre una delle cameriere
della donna che finge di essersi appena svegliata chiede chi fosse alla porta.
“- Oh! - disse Andreuccio - o non mi conosci tu? Io sono Andreuccio, fratello di madama Fiordaliso. Al
quale ella rispose: - Buono uomo, se tu hai troppo bevuto, va dormi e tornerai domattina; io non so che
Andreuccio né che ciance son quelle che tu dì ; va in buona ora e lasciaci dormir, se ti piace- . - Come -
disse Andreuccio - non sai che io mi dico? Certo sì sai; ma se pur son così fatti i parentadi di Cicilia, che in
sì piccol termine si dimentichino, rendimi almeno i panni miei li quali lasciati v’ho, e io m’andrò volentier
con Dio. Al quale ella quasi ridendo (prendendolo in giro) disse: - Buono uomo, e’ mi par che tu sogni- , e
il dir questo e il tornarsi dentro e chiuder la finestra fu una cosa. Di che Andreuccio, già certissimo de’
suoi danni (prima abbiamo detto che inizia a sospettare, adesso è certissimo dell’inganno subito), quasi per
doglia fu presso a convertire in rabbia la sua grande ira e per ingiuria propose di rivolere quello che per
parole riaver non potea (con la violenza si promise di riavere quello che normalmente non avrebbe
potuto); per che da capo, presa una gran pietra, con troppi maggior colpi che prima fieramente cominiciò
a percuotere la porta. La qual cosa molti de’ vicini avanti destisi e levatisi, credendo lui essere alcuno
spiacevole il quale queste parole fingesse per noiare quella buona femina, recatosi a noia il picchiare il
quale egli faceva, fattisi alle finestre, non altramenti che a un can forestiere tutti quegli della contrada
abbaiano adosso, cominciarono a dire: - Questa è una gran villania a venire a questa ora a casa le buone
femine e dire queste ciance; deh! va con Dio, buono uomo; lasciaci dormir, se ti piace; e se tu hai nulla a
far con lei, tornerai domane, e non ci dar questa seccaggine stanotte.” Il vicinato che conosceva quella
buona femmina (ovviamente in senso ironico), pensa che Andreuccio sta fingendo le sue parole,
credendolo uno di malaffare, cominciarono a dargli addosso. Andreuccio era estraneo, quindi tutti questi
cani della contrada gli abbaiano contro, come i vicini, che se la prendono con lui.
“Dalle quali parole forse assicurato uno che dentro dalla casa era [vedendo che i vicini prendono le difese
della donna, madame Fiordaliso (secondo Benedetto Croce esisteva davvero una prostituta con quel
nome)], ruffiano della buona femina, il quale egli né veduto né sentito avea (Andreuccio non si era reso
conto che in casa ci fosse quest’uomo), si fece alle finestre e con una boce grossa, orribile e fiera disse: -
Chi è laggiù ?- (la voce di questo ruffiano era molto maschile e potente)”
“Andreuccio, a quella voce levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che comprender potè,
mostrava di dovere essere un gran bacalare (un grande uomo), con una barba nera e folta al volto, e
come se del letto o da alto sonno si levasse sbadigliava e stropicciavasi gli occhi (ovviamente fingendo
come la cameriera): a cui egli, non senza paura, rispose: - Io sono un fratello della donna di là entro- . Ma
colui non aspettò che Andreuccio finisse la risposta, anzi più rigido assai che prima disse: - Io non so a che
io mi tegno che io non vegno là giù , e deati tante bastonate quante io ti vegga muovere, asino fastidioso
e ebriaco che tu dei essere, che questa notte non ci lascerai dormire persona- ; e tornatosi dentro serrò la
finestra (quest’uomo minaccia Andreuccio). Alcuni de’ vicini, che meglio conoscieno la condizion di colui,
umilmente parlando a Andreuccio dissono: - Per Dio, buono uomo, vatti con Dio, non volere stanotte
essere ucciso costì : vattene per lo tuo migliore- (questi vicini, un po’ impietositi dalla posizione di
Andreuccio, gli consigliano di andare via per non essere ucciso, conoscendo appunto la condizione dell’altro
uomo).”
“Laonde Andreuccio, spaventato dalla voce di colui e dalla vista e sospinto da’ conforti di coloro li quali
gli pareva che da carità mossi parlassero, doloroso quanto mai alcuno altro e de’ suoi denar disperato,
verso quella parte onde il dì aveva la fanticella seguita, senza saper dove s’andasse, prese la via per
tornarsi all’albergo.” Non sapendo che lui era un forestiero che non sapeva neanche dov’era capitato,
l’unica cosa che gli resta da fare è di tornare all’albergo, e prende la strada con la quale era arrivato in
serata con la fanticella.
“E a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a lui di lui veniva, disideroso di volgersi al mare per
lavarsi, si torse a man sinistra e su per una via chiamata la Ruga Catalana si mise.” Elemento realistico: la
puzza. Questo particolare che sembra così strano in un elemento letterario, è invece un elemento
importante perché determina le nuove disavventure di Andreuccio. Andreuccio va per tornare all’albergo,
ma puzza talmente tanto che da fastidio a se stesso e decide di arrivare verso il mare. Quindi fa una
deviazione sul percorso e si immerge su la Ruga Catalana.
“E verso l’alto della città andando, per ventura davanti si vide due che verso di lui con una lanterna in
mano venieno li quali temendo non fosser della famiglia della corte o altri uomini a mal far disposti, per
fuggirli, in un casolare, il qual si vide vicino, pianamente ricoverò.” Andreuccio comincia un po’ a cambiare
il suo atteggiamento: diventa prudente. Vedendo arrivare due uomini, che pensa essere di malaffare, per
nascondersi loro si infila nel primo casolare che trova a disposizione. “Ma costoro, quasi come a quello
proprio luogo inviati andassero, in quel medesimo casolare se n’entrarono; e quivi l’un di loro, scaricati
certi ferramenti che in collo avea, con l’altro insieme gl’incominciò a guardare, varie cose sopra quegli
ragionando.” Quindi Andreuccio cerca di nascondersi, ma quegl’uomini entrano proprio in quel casolare e
questi cominciano a parlare. “E mentre parlavano, disse l’uno: - Che vuol dir questo? Io sento il maggior
puzzo che mai mi paresse sentire- ; e questo detto alzata alquanto la lanterna, ebbe veduto il cattivel
d’Andreuccio, e stupefatti domandar: - Chi è là?-“ Questo particolare della puzza, che aveva deviato il
percorso di Andreuccio, adesso lo rivela agli occhi, o per meglio dire all’olfatto, dei due malviventi. I quali,
sentendo la puzza, trovano Andreuccio che si era rifugiato in questo casolaio.
“Andreuccio taceva, ma essi avvicinatiglisi con lume il domandarono che quivi così brutto facesse (così
sporco): alli quali Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò interamente. Costoro, imaginando dove ciò
gli potesse essere avvenuto, dissero fra sè: - Veramente in casa lo scarabone Buttafuoco fia stato questo-
.” Costoro parlano tra di loro, mentre Andreuccio racconta tutte le sue disavventure notturne, hanno capito
a casa di chi era stato. “E a lui rivolti, disse l’uno: - Buono uomo, come che tu abbi perduti i tuoi denari, tu
molto a lodare Idio che quel caso ti venne che tu cadesti né potesti poi in casa rientrare: per ciò che, se
caduto non fossi, vivi sicuro che, come prima adormentato ti fossi, saresti stato amazzato e co’ denari
avresti la persona perduta. Ma che giova oggimai di piagnere? Tu ne potresti così riavere un denaio come
avere delle stelle del cielo: ucciso ne potrai tu bene essere, se colui sente che tu mai ne facci parola- .”
Prima ne parlano tra di loro e in seguito dicono ad Andreuccio che era meglio fosse caduto e rimasto fuori
della casa, perché se fosse rientrato lo avrebbero ucciso nel sonno, e che egli avrebbe perso non solo i
soldi, ma anche la vita. Quindi gli dicono che egli potrà riavere i soldi, ma non deve fare parola con nessuno
di ciò che è avvenuto, perché se l’uomo di quella casa sente che tu ne parli con qualcuno, potrebbe anche
ripescarlo e ucciderlo. “E detto questo, consigliatisi alquanto, gli dissero: - Vedi, a noi è presa compassion
di te: e per ciò, dove tu vogli con noi essere a fare alcuna cosa la quale a fare andiamo, egli ci pare esser
molto certi che in parte ti toccherà il valere di troppo più che perduto non hai –“ Siccome questi due sono
personaggi di una malavita, ritengono in qualche modo utile avere un complice, per rubare un anello
seppellito insieme all’arcivescovo di Napoli da poco deceduto. Quindi questi sono dei ladri che vanno a
spogliare la tomba, e immaginano che sia utile avere Andreuccio con loro (la sepoltura dell’arcivescovo, così
come quella dei personaggi nobili durante il medioevo, avveniva nelle chiese e questo arcivescovo era stato
seppellito in una di quelle tombe marmoree pesantissime). “Era quel dì sepellito uno arcivescovo di
Napoli, chiamato messer Filippo Minutolo (corrisponde alla realtà, poiché questo arcivescovo muore sulla
fine del 1301. Novella non proprio contemporanea perché racconta vicende che sono contestualizzate nella
realtà storica), era stato sepellito con ricchissimi ornamenti e con uno rubino in dito il quale valeva oltre
cinquecento fiorin d’oro, il quale costoro volevano andare a spogliare; e così a Andreuccio fecer veduto
(comunicano ad Andreuccio la loro intenzione). Laonde Andreuccio, più cupido che consigliato, con loro si
mise in via; e andando verso la chiesa maggiore (il Duomo), e Andreuccio putendo forte, disse l’uno: -
Non potremmo noi trovar modo che costui si lavasse un poco dove che sia, che egli non putisse così
fieramente?- (Andreuccio che in un primo momento sembra essere contento nel casolare, si fa in qualche
modo regredire, più bramoso di denaro che saggio, quindi si rivede la sua imprudenza che lo porta in
un'altra disavventura. Ma mentre stanno andando al Duomo, Andreuccio continua a puzzare e uno dei due
uomini ch’erano con lui decide che Andreuccio dovesse lavarsi). Disse l’altro: - Sì , noi siam qui presso a un
pozzo al quale suole sempre esser la carrucola e un gran secchione; andianne là e laverenlo
sfacciatamente (infretta). Giunti a questo pozzo trovarono che la fune v’era ma il secchione n’era stato
levato: per che insieme diliberarono di legarlo alla fune e di collarlo nel pozzo, e egli là giù si lavasse e,
come lavato fosse, crollasse la fune e essi il tirerebber suso; e così fecero.” Vanno al pozzo ma non c’è più
il secchio, quindi legano la corda intorno Andreuccio e lo calano nel pozzo, dove si lava.
“Avvenne che (la fortuna), avendol costor nel pozzo collato, alcuni della famiglia della signoria, li quali e
per lo caldo e perché corsi erano dietro a alcuno avendo sete, a quel pozzo venieno a bere: li quali come
quegli due videro, incontanente cominciarono a fuggire (lasciano Andreuccio giù nel pozzo e corrono a
nascondersi), li famigliari che quivi venivano a bere non avendogli veduti (le guardie non si erano accorti
dei suoi uomini ch’erano lì prima e quindi questi ultimi fuggono). Essendo già nel fondo del pozzo
Andreuccio lavato, dimenò la fune. Costoro assetati, posti giù lor tavolacci e loro armi e lor gonnelle,
cominciarono la fune a tirare credendo a quella il secchion pien d’acqua essere appicato (pieno). Come
Andreuccio si vide alla sponda del pozzo vicino così , lasciata la fune, con le mani si gittò sopra quella
(Andreuccio rischia anche di cadere, dal momento in cui le guardie vedendolo apparire si spaventano e
mollano la fune, quindi se Andreuccio non fosse stato lesto ad aggrapparsi al pozzo, sarebbe crollato per
tutta la lunghezza del pozzo, cadendo giù). La qual cosa costoro vedendo, da subita (improvvisa) paura
presi, senza altro dir lasciaron la fune e cominciarono quanto più poterono a fuggire: di che Andreuccio si
maravigliò forte, e se egli non si fosse bene attenuto, egli sarebbe infin nel fondo caduto forse non senza
suo gran danno o morte (seconda volta: la prima non facendosi male,ma sporcandosi; la seconda, se non si
fosse aggrappato lui, ma riesce a salvarsi la vita grazie a se stesso e non grazie alla fortuna); ma pure
uscitone e queste arme trovate, le quali egli sapeva che i suoi compagni non avean portate, ancora più
s’incominciò a maravigliare. Ma dubitando e non sappiendo che, della sua fortuna dolendosi, senza
alcuna cosa toccar quindi diliberò di partirsi: e andava senza saper dove.” Meravigliato della sua fortuna
di esser sfuggito alla sua disavventura, decide di allontanarsi senza toccar nulla, andando senza sapere
dove.
“Così andando si venne scontrato in que’ due suoi compagni, li quali a trarlo del pozzo venivano; e come
il videro, maravigliandosi forte, il domandarono chi del pozzo l’avesse tratto. Andreuccio rispose che non
sapea, e loro ordinatamente disse come era avvenuto e quello che trovato aveva fuori del pozzo. Di che
costoro, avvisatisi come stato era, ridendo gli contarono perché s’eran fuggiti e chi stati eran coloro che
su l’avean tirato (nuovamente i due capiscono come sono andate le cose e lo spiegano ad Andreuccio). E
senza più parole fare, essendo già mezzanotte, n’andarono alla chiesa maggiore (al Duomo) , e in quella
assai leggermente (furtivamente) entrarono e furono all’arca (alla tomba), la quale era di marmo e molto
grande; e con lor ferro il coperchio, ch’era gravissimo, sollevaron tanto quanto uno uomo vi potesse
entrare, e puntellaronlo. E fatto questo, cominciò l’uno a dire: - Chi entrerà dentro?- A cui l’altro rispose:
- Non io- . - Nè io- disse colui - ma entrivi Andreuccio-. - Questo non farò io- disse Andreuccio. Verso il
quale ammenduni costoro rivolti dissero: - Come non v’enterrai? In fè di Dio, se tu non v’entri, noi ti
darem tante d’uno di questi pali di ferro sopra la testa, che noi ti farem cader morto- . Andreuccio
temendo v’entrò, e entrandovi pensò seco: - Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi, per ciò che,
come io avrò loro ogni cosa dato, mentre che io penerò a uscir dall’arca, essi se ne andranno pe’ fatti loro
e io rimarrò senza cosa alcuna- (finalmente Andreuccio è cambiato, riesce a capire come stanno le cose.
Quindi decide di comportarsi in maniera diversa). E ricordatosi del caro anello che aveva loro udito dire,
come fu giù disceso così di dito il trasse all’arcivescovo e miselo a sè; e poi dato il pasturale e la mitra è
guanti e spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa diè loro dicendo che più niente v’avea.” Passa tutto ciò
che nella tomba c’era, eccetto l’anello.
“Costoro, affermando che esser vi doveva l’anello, gli dissero che cercasse per tutto: ma esso
rispondendo che non trovava e sembiante facendo di cercarne (fingendo), alquanto li tenne ad aspettare.
Costoro che d’altra parte eran sì come lui maliziosi ,dicendo pur che ben cercasse preso tempo, tirarono
via il puntello che il coperchio dell’arca sostenea, e fuggendosi lui dentro dall’arca lasciaron racchiuso.”
Visto che Andreuccio perdeva tempo, per dispetto tirano via il coperchio della bara e lo lasciano all’interno.
“La qual cosa sentendo Andreuccio, qual egli allor divenisse ciascun sel può pensare. Egli tentò più volte e
col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio, ma invano si faticava: per che da grave dolor vinto
(costernato), venendo meno cadde sopra il morto corpo dell’arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse
malagevolmente avrebbe conosciuto chi più si fosse morto, o l’arcivescovo o egli. Ma poi che in sé fu
ritornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi senza dubbio all’un de’ due fini dover
pervenire: o in quella arca, non venendovi alcuni più a aprirla, di fame e di puzzo tra’ vermini del morto
corpo convenirlo morire, o vegnendovi alcuni e trovandovi lui dentro, sì come ladro dovere essere
appiccato.” Andreuccio comincia a piangere a dirotto perché non vede altre soluzioni tranne: 1) o non
viene nessuno e lui rimanere lì a morire con il corpo puzzolente e pieno di vermi dell’arcivescovo; 2) o viene
qualcuno e ovviamente che era lì come ladro, lo avrebbero impiccato. Quindi è al culmine della
disperazione (terza disavventura).
“E in così fatti pensieri e doloroso molto stando, sentì per la chiesa andar genti e parlar molte persone, le
quali sì come gli avvisava, quello andavano a fare che esso co’ suoi compagni avean già fatto: di che la
paura gli crebbe forte.” Sente arrivare persone a fare quello che lui e altri compagni avevano già fatto e si
spaventa. “Ma poi che costoro ebbero l’arca aperta e puntellata, in quistion caddero chi vi dovesse
entrare, e niuno il voleva fare; pur dopo lunga tencione un prete disse (è forte in Boccaccio la satira anti-
fratesca, contro la Chiesa corrotta, cosa che si rivela nelle novelle che sono concentrate soprattutto nella
prima giornata, quelle a tema libero, dove troviamo molte figure di frati corrotti. La misoginia nel
Corbaccio, e questa satira, verranno riprese pari pari da Machiavelli.): - Che paura avete voi? credete voi
che egli vi manuchi? Li morti non mangian uomini: io v’entrerò dentro io – (il peggiore, il più irriverente
nello spogliare i morti, è proprio il prete). E così detto, posto il petto sopra l’orlo dell’arca, volse il capo in
fuori e dentro mandò le gambe per doversi giuso calare (si rivolta con la schiena all’interno della tomba e
tiene il viso verso l’esterno).”
“Andreuccio, questo vedendo, in piè levatosi prese il prete per l’una delle gambe e fè sembiante di
volerlo giù tirare. La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo e presto dell’arca si gittò
fuori; della qual cosa tutti gli altri spaventati, lasciata l’arca aperta, non altramente a fuggir cominciarono
che se da centomilia diavoli fosser perseguitati.” Descrizione realistica.
“La qual cosa veggendo Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e per quella via
onde era venuto se ne uscì dalla chiesa; e già avvicinandosi al giorno, con quello anello in dito andando
all’avventura, pervenne alla marina e quindi al suo albergo si abbattè; dove li suoi compagni e
l’albergatore trovò tutta la notte stati in sollecitudine de’ fatti suoi (preoccupati per lui, dal momento in
cui non avevano sue notizie). A’ quali ciò che avvenuto gli era raccontato, parve per lo consiglio dell’oste
loro che costui incontinente (immediatamente) si dovesse di Napoli partire; la qual cosa egli fece
prestamente e a Perugia tornossi, avendo il suo investito in uno anello (avendo tutto il suo denaro
investito in un anello), dove per comperare cavalli era andato.”
Andreuccio perde 500 fiorini, ma guadagna un anello di un valore maggiore.
Tutta la vicenda si conclude lì dove era andato per comperare i cavalli.
Letteratura italiana lezione 12/03
Salernitano.
In particolare sono due gli aspetti che ci portano a parlare di Masuccio: innanzitutto, il corso della novella
dopo Boccaccio, che assume diverse dimensioni nel corso dei secoli successivi e diventa un modello; un
secondo aspetto è quello della circolazione dei temi che passano da un Paese all’altro, ma anche da un
genere letterario all’altro. In questo caso, la novella costituisce il nucleo originario del dramma
shakespeariano Romeo and Juliet, in cui abbiamo però degli elementi che differenziano questo testo da
quello di Shakespeare. Non sarà lo stesso per due autori successivi, cioè Luigi da Porto, che introduce i nomi
di Giulietta e Romeo e l’ambientazione veronese, e Bandello, che ha una rappresentazione molto più vicina
a quella che sarà poi rielaborata da Shakespeare. E’ interessante la circolazione di temi e motivi che
passano da un paese all’altro, spesso anche trasformandosi come genere letterario.
La storia letteraria.
Il Decameron di Boccaccio è collocato nel 1351, dopodiché tra le raccolte di novelle più ricorrenti abbiamo il
“Trecento novelle” di Sacchetti, con il quale però si torna ad una forma narrativa primitiva rispetto a quella
di Boccaccio, perché si fa riferimento all’exemplum medievale e quindi è una narrazione piuttosto breve.
Passiamo poi nel 400 alla raccolta di Masuccio Salernitano.
In alcuni casi le novelle circolano tramite raccolte, ma in altri casi circolano da sole, e vengono chiamate
“alla spicciolata” e un esempio di queste è quella di Machiavelli.
Con Masuccio, invece, abbiamo un corpus organico, che viene chiamato Novellino.
Il suo vero nome era Tommaso Guardati e il suo soprannome deriva dalla sua provenienza salernitana; egli
vive tra Salerno e Napoli, tra il 1410-1475, mentre la sua raccolta di novelle sarà pubblicata postuma, nel
1476.
Egli proviene da una famiglia nobile ed ebbe una frequentazione con la corte del re Ferdinando d’Aragona:
infatti, nella seconda metà del 400, Napoli passa dalla dinastia Angioina a quella Aragonese.
Nella prima metà del 400 la letteratura si sviluppa in particolar modo in latino e l’attenzione per l’uomo è
un’attenzione che fa prediligere in particolar modo il genere del trattato, che si serve della lingua dei dotti,
appunto il latino. Ricordiamo che a Firenze si sviluppa l’umanesimo che definiamo civile, con personaggi
come Lorenzo Valla, ed è solo dalla seconda metà del 400 in poi che si sviluppa la scrittura in volgare.
La famiglia dei Medici dà un forte impulso al volgare e a Firenze, in questo periodo, troviamo due anime
della corte di Lorenzo de’ Medici: Luigi Pulcie Angelo Poliziano, il cui capolavoro, dedicato a Giuliano de’
Medici, rimane interrotto a causa della morte prima della donna amata da Giuliano e poi di Giuliano stesso.
Poliziano è un importante filologo: la filologia nasce proprio nei primi anni del 400, una disciplina che cerca
di recuperare i testi nella loro forma originale e anche nel loro significato originale.
Quindi, nella seconda metà del 400 la corte fiorentina diventa un punto di riferimento per la letteratura.
Sempre sul finire del 400 abbiamo un’altra corte che si distingue, ovvero quella di Ferrara, che darà i suoi
frutti in volgare: fondamentale è Ariosto con l’Orlando Furioso, con cui si ha una ripresa della tradizione
popolare, che è una tradizione orale, che viene strutturata e diventa un poema epico cavalleresco.
Abbiamo così la codificazione di un nuovo genere letterario e arriviamo a Torquato Tasso, con la sua opera
Gerusalemme Liberata, scritta nel periodo della Controriforma, che prende piede per contrastare lo scisma
religioso che avviene dopo il 1517, cioè dopo la riforma di Lutero.
Ritornando indietro: a Firenze, passiamo dalla trattatistica del primo 400 al poema con Poliziano e Pulci, a
Ferrara lo stesso, mentre a Napoli come dicevamo vi è un cambio di dinastia: contemporaneamente alla
salita al trono di Alfonso d’Aragona, abbiamo anche la nascita dell’Accademia Pontaniana, fondata da
Antonio Beccadelli, che si dedica ad una letteratura in latino.
A provare la letteratura volgare sarà Jacopo Sannazaro, fedelissimo della corte aragonese, che vive negli
stessi anni di Masuccio e, oltre a comporre opere in latino, a lui viene fatta risalire l’Arcadia, con cui ci
troviamo di fronte ad una prima forma di romanzo.
Dunque, a Napoli si sviluppa una fiorente letteratura, definita aragonese, che predilige il latino, ma a questa
corte aragonese dobbiamo ricondurre anche l’esperienza dell’Accademia Pontaniana e, in particolare, di
Jacopo Sannazaro.
Alla corte Aragonese riconduciamo anche Masuccio Salernitano.
Masuccio, abbiamo detto, frequentò la corte di Ferdinando d’Aragona, fu segretario del Principe di Salerno
(Roberto San Severino) a cui poi dedica l’opera, il Novellino, che viene pubblicata nel ‘76.
Egli è un personaggio di cultura raffinata. All’interno del Novellino troviamo 50 novelle, divise in 5 parti,
ognuna composta da 10 novelle.
Un aspetto interessante è che, a differenza di Boccaccio, non c’è molto spazio alla dimensione psicologica,
che invece era molto spiccata nelle novelle di Boccaccio, perché qui l’interesse è rivolto maggiormente
verso gli intrecci delle novelle.
Ciò che lo avvicina a Boccaccio, invece, è la critica feroce nei confronti della corruzione dei frati.
Per scoprire il tema della storia di Mariotto e Ganozza, opera di Masuccio Salernitano, passiamo
direttamente a Bandello.
Masuccio Salernitano data 1476 postuno mentre l'ultima parte (ossia la quarta parte) della novella di
Bandello data 1573, quindi quasi un secolo dopo, invece con la novella Belfagor di Machiavelli (autore che
si trova esattamente a metà tra Masuccio e Bandello), siamo nei primi anni del 500.
Quindi Machiavelli lo collochiamo subito dopo Masuccio, però per mantenere quell'unità di racconto tra
queste due storie siamo passati dall'uno all'altro, ma Macchiavelli che verrà subito dopo, non è in ordine
cronologico. Quindi con macchiavelli siamo in pieno Rinascimento.
Siamo arrivati con Bandello ad individuare dei punti di forza che sarebbero poi passati nel teatro
Shakesperiano che verrà poi scritto di lì a poco, in circa una ventina d'anni dalla conclusione delle novelle di
Bandello. Quindi è molto più vicino Bandello a Masuccio.
Elementi in comune tra Masuccio e Bandello, essenzialmente è il disguido della comunicazione, cioè:
la ragazza si gioca un matrimonio segreto;
la ragazza si finge morta per poter raggiungere il proprio innamorato che intanto, nel caso di Mariotto, è
stato messo in fuga (ed è esattamente anche ciò che andremo a vedere anche con Romeo e Giulietta), e per
raggiungere quindi il suo amore, finge di essere morta con tanto di funerali.
Nel frattempo Ganozza ha inviato una lettera a Mariotto per avvertirlo dell'inganno. Questa lettera però
non è arrivata mai perchè la nave dove si trovava il messagero, viene catturata dai pirati e il messaggero
viene ucciso.
La navigazione della stessa Ganozza (travestita da Frate) è una navigazione molto lunga, per cui
impiegherà molto tempo per arrivare ad Alessandria.
Molto prima invece sono arrivate le notizie da parte del fratello di Mariotto il quale sentendo della morte di
Ganozza, si precipita a Siena decidendo in un qualche modo di morire, o sulla tomba della donna amata,
oppure perchè catturato.
Quindi è questo l'elemento che noi troviamo come costante, e che adesso vedremo con Bandello. E
vedremo anche che la narrazione con Bandello è molto più lunga.
Quindi gli elementi che andremo a vedere con Bandello sono gli stessi:
anche qui si verifica un duello; nel caso di Romeo il duello avviene con il cugino di Giulietta e, a causa di ciò
c'è un allontanamento da parte di Romeo.
E quindi anche qui Romeo è costretto ad andare fuori e rifugiarsi, in questo caso a Mantova (e qui già ci
avviciniamo alla tomografia shakespeariano).
Anche qui viene mandata una lettera, ma c'è un altro disguido: il frate che viene mandato a Mantova per
avvertire della finta morte di Giulietta, rimane in un qualche modo sequestrato, perchè nel convento si è
scatenata un epidemia di peste, per cui questo frate non riesce più ad uscire e a consegnare la lettera a
Romeo.
Nel frattempo anche qui con Giulietta c'è il padre che vuole farla sposare, e quindi lei si finge morta.
Quindi questo equivoco di fondo, per motivi diversi, si trova tanto in Masuccio quanto in Bandello e
sostanzialmente lo troviamo anche in Shakespeare. Quindi riprende la novella Shakespeariana per quanto
riguarda l'invenzione della storia attinge a piene mani la versione di Bandello. Ci sono molte più affinità.
Caratteristiche di Masuccio:
Narrazzione asciutta, basta guardare il numero delle pagine, in quanto molto più breve.
Dopo l'esempio di Boccaccio, in alcuni casi si torna a una raccolta di novelle senza cornice e si torna ad una
narrazione più asciutta. In Masuccio non c'è invece quella parte psicologica che invece abbiamo visto in
Boccaccio e che troveremo in Bandello (es: quando abbiamo visto i due giovani che incrociano i loro sguardi
e capiscono di essersi innamorati) quindi abbiamo trovato una narrazzione che si è diffusa molto di più sugli
aspetti psicologici.
E poi abbiamo trovato l'altra volta il frate che, come abbiamo visto era caratterizzato dalla corruzione che è
in un qualche modo un messaggio fondamentale che ci vuole trasmettere Masuccio: un frate corrotto che
in cambio di denaro cede un matrimonio e sempre in cambio di denaro fornisce la pozione a Ganozza.
Questa polemica contro i frati deriva da Boccaccio. Non abbiamo letto nessuna novella di Boccaccio contro i
frati, tranne l'ultima parte di Andreucci (quando il primo che si infila per rubare la tomba è proprio il prete)
e questo è proprio uno dei temi che sostanzia la prima giornata di Boccaccio, quella a tema libero dove
però si concentrano le accuse di boccaccio nel confronti della chiesa.
Tema che passa in Masuccio ma (IMPORTANTE) lo troveremo molto forte anche in Machiavelli. E' un tema
importante per Machiavelli, tant'è che machiavelli sarà messo (durante la controriforma) all'indice dei libri
proibiti.
Novella di Bandello:
Anche in questa novella compare un frate, ma in questo caso è un frate "di fiducia", ed è un elemento in
comune tra la famiglia di Romeo e la famiglia di Giulietta. E' un frate molto preoccupato non tanto per la
sua fonte denari ma per il suo prestigio sociale a cui lui tiene molto.
E' un frate che ha una buona considerazione tra i potenti dell'aristocrazia del luogo e tiene molto a
mantenere questa sua reputazione (come vedremo da alcune affermazioni che fa).
Inoltre nella novella di Bandello abbiamo trovato una maggiore precisione, anche per quanto riguarda la
rappresentazione geografica (Verona), ai tempi di Bartolomeo della Scala (tra il 1301-1304).
Abbiamo trovato i cognomi della famiglia.
Abbiamo visto che c'è una rivalità fra le due famiglie, rivalità tanto antica che si sono perse le motivazioni;
rivalità che con l'avvento di Bartolomeo della Scala, se non si è risolta comunque si è attenuata (non ci sono
più episodi sanguinosi che ha caratterizzato in un qualche modo la storia delle due famiglie).
La caratteristica che torna in entrambi i racconti è la bellezza eccezionale di questi due giovani; bellezza e
educazione; (per il loro portamento e le loro costumanze) educazione che li fa distinguere e li fa in un
qualche modo incontrare.
Giulietta a questo punto inizia a rammaricarsi del fatto che Romeo non balli, e che non venga al centro della
sala dove c'è una luce maggiore.
<<Ora stando eglino in questo vagheggiamento (sono entrambi presi l'uno con l'altra; si guardano e sono
ormai innamorati) venne il fine della festa del ballare, e si cominciò a far la danza o sia il ballo del torchio,
che altri dicono il ballo del cappello. Facendosi questo giuoco, fu Romeo levato da una donna; il quale,
entrato in ballo, fece il dover suo, e dato il torchio ad una donna, andò presso a Giulietta, che così
richiedeva l'ordine, e quella prese per mano con piacer inestimabile di tutte due le parti. (finiscono quindi
per trovarsi vicini) Restava Giulietta in mezzo a Romeo, e ad uno, chiamato Marcuccio il guercio, che era
uomo di corte molto piacevo, e generalmente molto ben visto per i suoi motti festevoli e per le
piacevolezze eh'egli sapeva fare; perciocchè sempre aveva alcuna novelluccia per le mani da far ridere la
brigata, e troppo volentieri senza danno di nessuno si sollazzava. Aveva poi sempre, il verno e la state e
da tutti i tempi, le mani vie più fredde e più gelate che un freddissimo ghiaccio alpino; e tutto che buona
pezza scaldandole al fuoco se ne stesse, restavano perciò sempre freddissime. Giulietta che dalla sinistra
aveva Romeo e Marcuccio dalla destra, come dall'amante di dentì pigliar per mano, forse vaga di sentirlo
ragionare, con lieto viso alquanto verso lui rivoltata, con tremante voce gli disse: Benedetta sia la venuta
vostra a lato a me. E' così dicendo, amorosamente gli strinse la mano. Il giovine, che era avveduto e
punto non teneva dello scemo, dolcemente a lei stringendo la mano, in questa maniera le rispos :
Madonna, e che benedizione è cotesta che mi date? E guardandola con occhio gridante pietà, dalla bocca
di lei sospirando se ne stava pendente.>> al che qui Giuletta ne aproffitta per dice che il messer Marcuccio
accanto a lei la sta gelando mentre Romeo, a contrario con la sua mano le da calore. Qui entrambi
approfittano dell'occasione per poter parlare e cortegiarsi l'uno con l'altro.
A un certo punto però succede che con la fine della festa Romeo va via. Romeo non sapeva chi fosse questa
ragazza e nota un particolare strano, ossia che lei non si allontana dalla casa. La ragazza a questo punto,
curiosa di sapere chi fosse il giovane, chiede ad una signora frontesca sue informazioni, e ella le dice che
era un Montecchi; lui invece lo chiede a degli amici, e quindi scopre che la ragazza non è andata via di casa
perchè quella è appunto casa sua. E quindi è così che scoprono, quando ormai è troppo tardi, che si sono
innamorati di un esponente della famiglia rivale. E quindi capiscono fin da subito la difficoltà delle due
famiglie. C'è da dire che sulle prime Giulietta addirittura pensa che sia tutto un inganno da parte di Romeo
per farla innamorare, per poter vendicare la familgia, e infatti Giulietta dice <<Forse lo scaltrito giovine
quelle parole per ingannarmi mi ha dette, (intende le parole dolci) acciocchè ottenendo cosa da me meno
che onesta, di me si gabbi, e donna di volgo mi faccia, parendoli forse a questo modo far la vendetta della
nimistà che tutto di incrudelisce più tra i suoi e i miei parenti.>> Quindi il primo sospetto che viene a
Giuletta è che appunto Romeo abbia voluto sedurla per poter poi vendicarsi della famiglia contraria. Poi in
un qualche modo comincia a sognare invece di poter essere con questo amore, la motivazione di una
riappacificazione tra le due famiglie. <<Io forse quella sarò, che con questa occasione metterò tranquilla
pace in queste due casate. E in questo pensiero fermata, ogni volta che Romeo passar per la contrada
poteva vedere, sempre tutta lieta se gli mostrava; del che egli piacer grandissimo riceveva.>> Romeo
comincia a passare continuamente sotto il palazzo e sotto le finestre di Giulietta. Quindi è questo il motivo
per cui Giulitta comincia ad affacciarsi continuamente alla finestra in questa novella. Ciò faceva quindi
piacere ad entrambi; lei quindi si affacciava e vedeva Romeo passare mentre lui che passava sotto alle
fineste, vedeva lei alla finestra. <<E ancora che nnon meno di lei co'suoi pensieri avesse continova guerra,
ed ora sperasse ed or disperasse; tuttavia per ciò passava dinanci alla casa dell'amata giovane, così di
giorno come di notte con grandissimo periglio (con grande pericolo) : me le buene viste che gli faceva
Giulietta, di più in più infiammandolo, lo tiravano a quelle contrade.>> Quindi Romeo passa con suo
pericolo passando sotto le finestre della famiglia avversaria. A un certo punto succede che si parlano e
Giulietta, che rivolge la parola a Romeo, dice << – E che vorreste voi che io facessi? disse Giulietta. –
Vorrei, rispose Romeo, che voi amaste me come io amo voi, e che mi lasciaste venire nella camera vostra,
acciò che più agiatamente e con minore pericolo io potessi manifestarvi la grandezza dell'amor mio, e le
pene acerbissime che di continuo per voi soffro>> Quindi il motivo del dialogo dalla finestra lo ritroviamo,
ossia il voler andare da parte di Romeo, in camera di Giulietta.
<<A questo Giulietta, alquanto d'ira accesa e turbata, gli disse; – Romeo, voi sapete l'amore vostro, ed io
so il mio, e so che vi amo quanto si possa persona amare,m e forse più di quello che all'onor mio si
conviene; ma bene vi dico, che se altri pensieri aveste da quello in fuori del convenevole santo nodo del
matrimonio, voi vivereste in grandissimo errore, e meco punto non sarese d'accordo (e quindi dice
Giulietta che se non si sposano questa cosa di andare in camera sua non va bene) : e perchè conosco che
praticando voi troppo sovente per questa vicinanza, potreste di leggiero incappare negli spiriti maligni,
ed io non sarei più lieta giammai, conchiudo che, se voi desiderate esser così mio, come io eteramente
bramo esser vostra, dobbiate per moglie vostra legittima sposarmi. (quindi per Giulietta è meglio che si
sposano prima) Se mi sposerete, io sempre sarò presa a venir in ogni parte ove più a grado vi fia: avendo
altra fantasia in capo, attendete a'fatti vostri, e me lasciate nel grado mio vivere in pace. (quindi dice che
se non ha intenzioni serie è meglio per lui che la lasci continuare a vivere in pace) Romeo, che altro non
bramava, udendo queste parole, lietamente le rispose, che questo era tutto il suo desio, e che ogni volta
che le piacesse, la sposeria in quel modo ch'ella ordinasse. (E quindi dice romeo che per lui questo è un
amore eterno e che quindi lui è pronto a questo matrimonio) – Ora sta bene, soggiunse Giulietta; ma
perchè le cose nostre ordinatamente si facciano, io vorrei che il nostro sposalizio alla presenza del
reverendo frate Lorenzo da Reggio, mio padre spirituale, si facesse.>>
Da notare quanto intrapendente sia Giulietta, un po' come Ganozza che anche lei aveva in un qualche
modo preso le redini della situazione e non aveva esitato a travestirsi da frate. In questo caso Giulietta, per
quanto innamorata, dice che per mandare avanti la cosa si devono sposare e Romeo si dichiara daccordo; a
questo punto Romeo e Giulietta già passano all'organizzazione del matrimonio. Lei quindi decide che a
sposarli deve essere appunto questo frate Lorenzo.
Da notare quanto lei sia molto risoluta.
<<A questo s’accordarono, e si conchiuse che Romeo con lui il seguente giorno del fatto parlasse,
essendo egli molto di quello domestico.>>
Questo frate, che è quello che Giulietta sceglie come suo padre spirituale è anche conosciuto da Romeo.
Quindi la comunicazione di questo concetto viene affidata a Romeo perchè anche lui conosce il frate.
<<Era questo messer lo frate dell'Ordine de'Minori, maestro in teologia, gran filosofo, ed esperto in
molte cose, e distillator mirabile, e pratico dell'arte magica.>> Come detto, questo frate assume delle
caratteristiche e delle qualità maggiori rispetto al frate di Masuccio Salernitano, che era mirato soprattutto
sul desiderio del denaro. Questo frate è comunque un filosofo, un teologo, un uomo di cultura ma allo
stesso tempo è un grande distillatore e pratico quindi dell'arte magica.
<<E perchè voleva il buon frate mantenersi in buona openione del volgo, si sforzava fare i fatti suoi più
cautamente che poteva; e per ogni caso che potesse occorrere, cercava sempre appoggiarsi ad alcuna
persona nobile e di riputazione.>> Questo frate quindi non ci viene descritto come particolarmente attento
al denaro, ma come particolarmente cauto alla sua reputazione, e soprattutto attento a non inimicarsi i
potenti, anzi cerca in un qualche modo ad avere le spalle coperte dalle famiglie dei potenti. Quindi è
domestico sia della famiglia di Giulietta e sia della famiglia di Romeo, che sono appunto le famiglie più
importanti della città.
Si stabilisce quindi che il venerdì successivo venga celebrato questo matrimonio segreto, ovviamente con la
complicità del frate. Durante la confessione il frate fa incontrare i due giovani e rende celebre il
matrimonio. <<Venuto il venerdì, come dato era l’ordine, madonna Giovanna che era madre di Giulietta,
presa la figliuola e le sue donne, andò a San Francesco che alora era in Cittadella, ed entrata in chiesa
fece domandar fra Lorenzo. Egli che del tutto avvertito era e già aveva ne la cella del suo confessionario
fatto entrar Romeo e chiavatolo dentro, venne a la donna, la quale gli disse: – Padre mio, io son venuta a
buon’ora a confessarmi e così anco ho condotto Giulietta, perchè so che voi sarete tutto il dì
occupatissimo per le molte confessioni dei vostri figliuoli spirituali. (Siamo in periodo di quaresima) –
Disse il frate che in nome di Dio fosse, e data loro la benedizione andò dentro il convento ed entrò nel
confessionario ove Romeo era.>> e a questo punto si celebra il matrimonio tra i due giovani. A questo
punto i due giovani sposi novelli vogliono incontrarsi per consumare il matrimonio, particolari che non
mancano in Masuccio e non mancano nemmeno qui.
<<Venuta poi la notte, a l’ora statuita, Romeo con Pietro (Che sarebbe un servo molto fidato di Romeo) se
n’andò a certo muro d’un giardino, ed aiutato dal servidore salì il muro e nel giardino discese, ove trovò
la moglie che insieme con la vecchia l’attendeva. (l'altra serva) Come egli vide Giulietta, incontra l’andò
con le braccia aperte. Il medesimo fece Giulietta a lui, ed avvinchiatogli il collo stette buona pezza da
soverchia dolcezza ingombrata che nulla dir poteva. Era al medesimo segno l’infiammato amante,
parendogli simil piacere non aver gustato già mai. Cominciarono poi a basciarsi l’un l’altro con infinito
diletto ed indicibil gioia di tutte due le parti. Ritiratisi poi in uno dei canti del giardino, quivi sovra certa
banca che ci era, amorosamente insieme giacendo consumarono il santo matrimonio.>>
Finalmente si riescono ad incontrare in maniera leggittima.
Successivamente, in uno scontro di piazza succede che Romeo uccide il cugino di Giulietta, Tebaldo, e
quindi si ritiene costretto a fugire a Mantova, lasciando sola Giulietta.
<<Giulietta tutto il di altro non faceva che piangere e sospirare, e poco mangiava e meno dormiva,
menando le notti uguali ai giorni. (quindi sia di giorno che di notte non faceva altro che piangere e
digiunare) La madre veggendo il pianger de la figliuola, più e più volte le dimandò la cagione di quella sua
mala contentezza e che cosa si sentisse, dicendole che oggimai era tempo di por fine a tante lagrime e
che pur troppo la morte del suo cugino pianto aveva. Giulietta rispondeva non saper che cosa s’avesse.>>
In un primo tempo la disperazione di Giulietta viene scambiata per il dolore per la morte del cugino.
Succede che, con il passare dei giorni Giulietta continua a disperarsi e la madre a questo punto la vediamo
in un qualche modo preoccupata di questa disperazione.
<< Tuttavia come da la compagnia involar si poteva, si dava in preda al dolore ed a le lagrime. Il che fu
cagione che ella ne divenne magra e tutta malinconica, di modo che più quella bella Giulietta che prima
era, quasi non assembrava. (Questo ci ricorda Elisabetta) Romeo con lettere la teneva visitata e
confortata, (esattamente come abbiamo visto in Mariotto e Ganozza) dandole sempre speranza che in
breve sarebbero insieme.>>
<<Qual fosse l’animo di Giulietta, quali i pensieri, pensilo chi mai provò le fiamme amorose.>> qui
abbiamo un'altra volta quel richiamo al lettore che soffre d'amore, richiamo che abbiamo trovato in
Masuccio ma che abbiamo visto proprio in tutta la letteratura. E' stato sottolineato Boccaccio dato che ci
interessa la Novella, ma non è da escludere e dimenticare nè Dante e nè il sonetto del Canzoniere:
In questo sonetto Petrarca si rivolge espressamente a tutte le persone, non solo alle donne, che hanno
fatto esperienza d'amore, perchè solo tra questi spera di trovare quella pietà del perdono che la sua
debolezza, cioè il suo amore per Laura, lo rendi degno della pietà e del perdono.
Questo richiamo al lettore fa anche parte di una certa tradizione e parlando della novella, è chiaro che noi
ci rivolgiamo sopratutto all'introduzione, cioè al proemio del Decameron. E' una novella che cerca di
portare un certo sollievo a chi soffre per amore, ma diciamo che la comunanza, la sensibilità, la pietà che
possono provare le persone che hanno sofferto o soffrono per amore è un elemento che in qualche modo
si trascina già dalla letteratura medievale; quindi già dalla letteratura di Dante, Petrarca e Boccaccio fino ad
arrivare alla letteretarura del Cinquecento. E' quindi un elemento importante.
Nel frattempo succede che la madre di Giulietta, preoccupata della sofferenza della figlia, inizia a credere
che lei sia così triste perchè si voglia sposare, intrepretando quindi male il dolore di Giulietta. Inizia, quindi,
a fare pressione al padre per poter trovare un marito degno di lei. Questo perchè la madre è convinta che
Giulietta arritava ad una certa età voglia provare e voglia anche lei un matrimonio. Accade che i genitori
riescono a trovare un marito per Giulietta, e questo mette in grande difficoltà Giulietta.
Alla fine Giulietta chiede alla madre di andarsi a confessare con il ragazzo nuovamente dal frate per poter
trovare una soluzione.
<<E così brigata (cioè insieme alla madre, alle damigelle ecc) se n'andaron a s. Francesco, e fecero
chiamare fra Lorenzo; al quale, venuto e nel confessionario entrato, Giulietta dall'altra banda se
n'andava a porsi dinanzi; e in questo modo gli disse; – Padre mio, non è persona al mondo che meglio di
voi sappia quello che tra mio marito e me è passato; e perciò non fa mestieri che io altrimenti ve lo ridica.
(cioè "non c'è bisogno che vi dica quello che è successo tra me e mio marito") Devete anco ricordarvi
d'aver letta la lettera che io vi mandai che leggeste, e poi la mandaste al mio Romeo, ove scriveva come
mio padre m'aveva promessa per moglie al conte Paris di Lodrone.>> il frate nel frate nel frattempo è
anche quello che consentela trasmissione delle lettere tra i due. Da non dimenticare che: il matrimonio era
segreto e che i genitori di Giulietta non sapevano nulla.
<<Romeo mi riscrisse che verrà, e che farà; ma Dio sa quando! (E' ancora giulietta che prende in mano la
situazione. E' lei che decide che non può aspettare Romeo. Romeo promette che verrà ma intanto la
situazione è questa.) Ora il fatto sta, che tra loro hanno conchiuso questo mese di settembre che viene,
che le nozze si facciano, ed io sia condotta all'ordine; è perchè il tempo s'appressa, ed io non veggio via
da svilupparmi da questo Lodrone, che ladrone ed assassino mi pare, volendo le cose altrui rubare, son
qui venuta per consiglio ed aita.>> Lo chiama Ladrone con un gioco di parole, perchè vuole rubare una
moglie che è già di un altro uomo. E quindi dice che è venuta qui per consiglio ed aiuto.
<<Io non vorrei, con questo verrò e ben farò che Romeo mi scive, restar avviluppata; (Siccome Giuletta
non credesse alla possibilità che Romeo intervenisse in tempo e quindi non voleva ritrovarsi in un qualche
modo in questo matrimonio.) perciocchè io son moglie di Romeo, nè d'altri che di lui esser posso; ed
ancora che io potessi, non voglio, perchè di lui solo eternamente esser intendo. Mi bisogna mo l'alta
vostra ed il consiglio. Ma udite quanto in mente m'è caduto di voler fare. Io vorrei, padre mio, che voi mi
faceste ritrovar calze, giuppone ed il resto delle vestimenta da ragazzo, acciò che vestita che io ne sia
possa la sera sul tardi, od il mattino a buonissim'ora, uscirmene di Verona, che persona non mi
conoscerà, e me n'anderòdi lungo a Mantova, e mi ricovererò in casa del mio Romeo>> Quindi l'idea di
Giulietta è poter avere un travestimento da ragazzo affinchè possa raggiungere Romeo a Mantova. Simile a
come ha fatto Ganozza.
<<Messer lo frate, udendo questa favola non troppo maestrevolmente ordita, e punto non piacendogli,
disse: – Figliula mia, il tuo pensiero non è da mettersi ad esecuzione, perciocchè a troppo gran rischio tu
ti porresti. Tu sei troppo giovaneta, delicatamente nodrita, e non potresti sofferire la fatica del viaggio;
chè usa non sei a camminar a piedi; poi tu non sai il cammino, e andresti errando or qua or là. Tuo padre,
subito che non ti trovasse in casa, manderìa a tutte le porte della città e per tutte le strade del contado, e
senza dubbio di leggiero le spie ti troverebbero. (intende che quindi facilmente la possono trovare) Ora,
essendo rimenata a casa, tuo padre vorrebbe da te intender la cagione del tuo partire così vestita da
uomo. Io non so come potresti sopportar le minacce che ti faria, e forse le battiture che ti sarebbero
da'tuoi date per intender la verità del fatto; e dove facevi il tutto per andar a veder Romeo, perderesti la
speranza di rivederlo più mai. Alle verisimili parole del frate acquetandosi Giulietta, gli replicò : – Poichè
l'avviso mio, padre non vi par buono, ed io vi credo, consigliatemi adunque voi, ed insegnatemi snodar
questo intricato nodo ov'io, misera me! ora avviluppata mi trovo, acciò che quanto possibil fia con minor
travaglio, col mio Romeo possa trovarmi, con ciò sia cosa che senza lui è impossibil ch'io viva; e se in altro
modo darmi aita non potete, aiutatemi almeno che, non dovendo essere di Romeo, io non sia di nessun
altro. (E quindi a questo punto dice che se non può essere di Romeo, non vuole essere di nessun altro e
preferisce morire.) Romeo m'ha detto che voi sete gran distillatore di erbe e di altre cose, e che distillate
un'acqua che in due ore, senza far dolore alcuno alla persona, ammazza l'uomo: datemene tanta quantità
che basti a liberarmi dalle mani di questo ladrone, poichè altramente a Romeo render non mi potete.>>
<<Vedi, figlinola mia, egli non bisogna parlar di morire, perchè io t'assicuro che se una volta morrai, di
qua non tornerai più se non il giorno dell'universal giudizio, quando insieme con tutti i morti saremo
suscitati. Io vo'che tu pensi a vivere fin che a Dio piacerà: egli ci ha data la vita, egli la ci conserva; egli,
quando gli piace, a sè la ritoglie;>>
Più avanti invece possiamo trovare la preoccupazione del frate che si preoccupa del suo buon nome
<<Se si ssapesse ch'io fossi stato consapevole de tuo matrimonio, e danno e vergogna inginita ne
riporterei.Ma che saria, se io ti dessi veleno? Io non ne ho, e quando bene ne avessi, non te ne darei, sì
perchè l'offesa di Dio sarebbe mortalissima (quindi sia perchè sarebbe un peccato il suicidio che
compiresti) e sì anco perchè io in tutto perderei il credito. (quindi si preoccupa della sua reputazione. Non
solo perchè sarebbe un peccato -ed effettivamente basterebbe questa come motivazione- ma anche
perchè secondo il frate la sua reputazione si potrebbe rovinare.) Tu puoi ben intendere che per l'ordinario
poche cose d'importanza si fanno, che io con la mia autorità non c'intravvenga; (cioè dice "puoi capire che
si fanno ben poche cose d'autorità che non c'entri io". Quindi i matrimoni, i battesi, tutto ciò che riguarda la
vita dei potenti) e non sono ancor quindici giorni che il Signor della citàà mi adoperò in un maneggio
grandissimo momento. Perciò, figliuola, io volentieri per te e per Romeo mi affaticherò, ed a tuo scampo
farò di modo che resterai di Romeo, e non di questo Lodrone, nè ti converrà morire: ma bisogna far di
modo che la cosa non si risappia già mai.>> in questo momento dice il frate che bisogna far in modo che
questa cosa rimanga segreta, e che quindi non si sappia per il suo stesso onore. Queste parole sono in
sostanza le stesse parole che caratterizzano il protragonista della Mandragola, Nicia, che d'inganno lui
accettà che un uomo muoia per le conseguenze dovute dalla pozione della Mandragola, purchè non si
sappia. Quindi è una facciata, per tanto dire; non è il peccato o il reato che si possa compiere, quanto
l'importante è mantenere la facciata, quindi mantenere la propria reputazione sociale.
Ad un certo punto la ragazza dichiara di voler assolutamente fare di tutto pur di arrivare ad abbracciare
Romeo. C'è un momento di ripensamento però quando deve assumere questa pozione. Perchè,
incominciandosi poi ad apprestare l'ora dell'alba, della quale ella beveva per la prima volta la pozione, ha
un momento di ripugnanza pensando che il suo corpo verrà poi seppellito accanto allo stesso corpo ormai
in putrefazione di Tebaldo, nella tomba. Quindi il particolare macrabo, elemento che abbiamo già visto con
Elisabetta da Messina, entra a pieno titolo nella novella del Cinquecento. Quindi è un elemento che
troviamo come caratteristica della novella del Cinquecento. Anche se precedentemente è stato comunque
anticipato con qualche tratto da Boccaccio, ma diventa un elemento in qualche modo ricorrente nella
novella Cinquecentesca.
Nell'epilogo quindi succede che Romeo si traveste e arriva a Verona sempre con il suo fedele servitore, e
dice: <<io vo', diceva, che a mano a mano tu ti parta senza far motto a nessuno; e come tu sei a Verona,
senza dir nulla a mio padre ch'io sia per venire, fa che tu trovi quei ferramenti che bisognano per aprir
l'avello ove mia moglie è sepolta, e puntelli da puntellarlo; perchè io questa sera al tardi entrerò a
Verona, e me ne verrò tutto dritto alla casetta che tu tieni dietro al nostro orto>> qua arriva la
comunicazione attraverso il servo. Quindi "fa che tu trovi quei ferramente" per poter aprire la tomba di sua
moglie, e quindi possa puntellare questa tomba.
<<Partito che fu Pietro, scrisse Romeo una lettera a suo padre, e gli domandò perdono se senza sua
licenza s'era maritato, narrandogli a pieno tutto il suo amore ed il successo del matrimonio. Pregavalo
poi molto affettuosamente che alla sepoltura di Giulietta, come di sua nuora che era, volesse far celebrar
un ufficio di morti solenne, e questo ordinasse delle sue entrate, che fosse perpetuo. Aveva Romeo
alcune possessioni, che una sua zia morendo gli lasciò per testamento, instituendolo suo erede. A Pietro
anco provvide di modo, che senza star a mercede altrui poteva comodamente vivere. E di queste due
cose ne fece al padre instanza grandissima, affermando questa esser l'ultima sua volontà. E perchè di
pochi giorni avanti quella sua zia era morta, pregava il padre che i primi frutti che dalle sue possessioni si
cavassero, tutti gli facesse dar a'poveri per amor di Dio.>> La lettera che afferma la morte di Giulietta è
arrivata. Quindi Romeo arriva per morire, come abbiamo visto con Mariotto, accanto a Giulietta; e porta
con se del veleno. Quindi prima vuole riabbracciare Giulietta, poi prendere il veleno. Nel frattempo scrive
un'ultima lettere al padre dove chiede scusa, e da esposizione ai suoi possedimenti.
Arriva quindi nella tomba, la apre e vede il corpo di Giulietta (questo ci ricorda ciò che abbiamo detto con
Boccaccio). Nel frattempo è avvenuto il veleno. Proprio in quel momento però Giulietta si sveglia. Succede
che, Giulietta essendo molto diffidente, sentendosi baciare pensa inizialmente che a farlo sia stato il frate:
<<Giulietta, che già la virtù della polvere consumata e digesta aveva, in quel tempo si destò; e sentendosi
baciare, dubitò che il frate, venuto per levarla o averla a portar in camera, la tenesse in braccio,ed
incitato dal concupiscibile appetito la baciasse; (Giulietta come abbiamo visto è abbastanza sveglia, come
persona) e disse – Ahi padre Lorenzo, è questa la fede che Romeo aveva in voi! Fatevi in costà; e
scotendosi per uscirli delle braccia, aperse gli occhi, e si vide esser il braccio a Romeo, che ben lo
conobbe, ancor che avesse vestimenti da Tedesco; e disse: Oimè! voi siete qui, vita mia? Ove è fra
Lorenzo? Che non mi levate voi fuor di questa sepoltura? Andiamo via per amor di Dio. Romeo, come
vide aprir gli occhi a Giulietta, e quella sentì parlare, e s'avvide sensibilmente (Cioè realizzò con i propri
occhi e con le proprie orecchie) che morta non era ma viva, ebbe in un tratto allegrezza e doglia (cioè
dolore), fuor d'ogni credenza, inestimabile; e lagrimando, e la sua carissima moglie al petto stringendosi,
disse: Ahi vita della mia vita e cuor del corpo mio, qual uomo al mondo ebbe mai tanta gioia, quanto io in
questo punto provo! che portando ferma opinione (essendo sicuro) che voi foste morta, viva e sana nelle
mie braccia vi tengo! Ma qual mai fu dolor al mio dolor eguale, e qual più penosa pena il mio cordoglio
agguaglia; poichè io mi sento esser giunto al fine dei miei infelicissimi giorni, e mancar la vita mia,
quando più che mai doveva giovarmi di vivere! Che s'io vivo mezz'ora ancora, questo è tutto il tempo che
io restar in vita possa. Ove fu già mai più in un sol soggetto, in uno stesso punto, estrema allegrezza e
doglia infinita, come io in me medesimo manifestamente provo?>> Romeo accorgendosi che Giulietta è
viva esprime nello stesso tempo una gioia infinita e un dolore infinito, dicendo appunto che se gli rimane
mezz'ora da vive, come è possibile provare nello stesso momento la più grande gioia nel vedere Giulietta
viva, e il più grande dolore nella consapevolezza di dover morire.
<<La povera Giulietta più che altra donna dolente, poi che senza fine si dolse, a Romeo disse: – Dapoi che
a Dio non è piaciuto che insieme viviamo, piacciagli almeno che io qui con voi resti sepolta. E siate pur
sicuro, avvenga mò ciò che si voglia, che quindi senza voi non ini dipartirò già mai.>> quindi Giulietta
ormai consapevole della morte imminente di Romeo dice che ormai a questo punto, visto che non sono
riusciti a vivere insieme, almeno muoiono insieme, perchè lei da questa tomba non se ne andrà mai più.
<<Romeo presala di nuovo in braccio, la cominciò lusinghevolmente a pregare che ella si consolasse e
attendesse a vivere, perciò che egli se n’anderebbe consolato quando fosse certo che ella restasse in vita,
e a questo proposito molte cose le disse.>> Romeo invece vorrebbe strapparle la promessa che lei rimanga
in vita.
<<Egli si sentiva a poco a poco venir meno e già quasi gli era in buona parte offoscata la vista, e l’altre
forze del corpo si erano deboli divenute che più dritto tener non si poteva; onde abbandonandosi si
lasciò andar giù e pietosamente nel volto de la dolente moglie guardando, disse: — Oimè, vita mia, che io
mi muoio. — Fra Lorenzo, che che fosse la cagione, non volle Giulietta portar a la camera quella notte che
fu sepellita. La seguente notte poi, veggendo che Romeo non compariva, preso un suo fidato frate, se ne
venne con suoi ferramenti per aprir l’arca ed arrivò in quello che Romeo s’abbandonò.>>
allora il frate che è andato a recuperare il corpo di Giulietta, arriva proprio nel momento in cui sta
morendo Romeo.
<< E veggendo aperta l’arca e conosciuto Pietro, disse: – Buona vita, ov’è Romeo?
Giulietta udita la voce e conosciuto il frate, alzando il capo disse: – Dio vel perdoni, voi mandaste ben la
lettera a Romeo! – Io la mandai -rispose il frate- e la portò frate Anseimo che pur tu conosci. E perché mi
dici tu cotesto?
Piangendo acerbamente, Giulietta – Salite su -disse- e lo vederete. Sali il frate e vide Romeo giacersi che
poco più di vita aveva, e disse: – Romeo, figliuol mio, che hai?
Romeo aperti i languidi occhi lo conobbe e piano disse che gli raccomandava Giulietta, e che a lui non
accadeva più né aita né conseglio, e che pentito dei suoi mali a lui e a Dio ne domandava perdono. Puoté
a gran pena l'infelice amante proferir queste ultime parole e percuotersi lievemente il petto, che perduto
ogni vigore e chiusi gli occhi se ne mori. Quanto questo fosse grave, noioso e quasi insopportabile a la
sconsolata moglie non mi dà il core di poterlo dimostrare, (anche Masuccio dice "Io non posso dire più
niente") ma pensilo chi veramente ama e s’imagini a si orrendo spettacolo ritrovarsi.>> quindi chi
veramente ama può pensare quanto sia stato duro e crudele quel momento.
<<Or ecco mentre che i dui frati e Pietro s’affaticavano intorno a la morta giovane credendo che fosse
svenuta, che i sergenti de la corte a caso quindi passando (quindi è una pura coincidenza che succede)
videro il lume ne l’arca e tutti vi corsero. Quivi giunti presero i frati e Pietro, e inteso il pietoso caso degli
sfortunati amanti, lasciati i frati con buona guardia, condussero Pietro al signor Bartolomeo (Bartolomeo
della Scala. Quindi fa da giudice in questa occasione) e gli fecero intendere del modo che trovato
l’avevano. Il signor Bartolomeo fattosi minutamente contar tutta l’istoria dei dui amanti, essendo già
venuta l’alba,si levò e volle veder i duo cadaveri. Si sparse la voce di questo accidente per tutta Verona,
di modo che grandi e piccioli vi concorsero. Fu perdonato a’ frati ed a Pietro, e con particolar dolore dei
Montecchi e Capelletti e generai di tutta la città, furono fatte l'essequie con pompa grandissima; e volle il
signore che in quello stesso avello gli amanti restassero sepolti (Quindi questa composizione della morte,
della storia di questi due amanti che in vita non erano riusciti a rimanere legati) che fu cagione che tra i
Montecchi e Capelletti si fece la pace, (Quindi le due famiglie finalmente fanno la pace. Però attenzione,
soggiunge l'autore: ) ben che non molto dopoi durasse>> quindi in quell'occasione fecero la pace, ma ci fa
capire che l'odio fra le due famiglie era talmente forte che subito dopo in un qualche modo riprese.
<<padre di Romeo letta la lettera del figliuolo, dopo Tessersi estremamente doluto, sodisfece
pienamente al voler di quello. Fu sopra la sepoltura dei dui amanti il seguente epitaffio intagliato, il quale
in questo modo diceva: (e quindi in questo punto servono dei versi, e sono quelli che suggelano la
sepoltura comune dei due amanti. Quindi anche con questa novella come quella di Elisabetta, la storia si
conclude con dei versi.) Credea Romeo che la sua sposa bella già morta fosse, e viver più non volse, ch’a
sé la vita in grembo a lei si tolse con l’acqua che « del serpe» Tuom appella. Come conobbe il fiero caso
quella, al suo signor piangendo si rivolse e quanto puoté sovra quel si dolse, chiamando il del iniquo ed
ogni stella. Veggendol poi la vita, oimè, finire, più di lui morta, a pena disse: — O Dio, dammi eh’ io possa
il mio signor seguire: questo sol prego, cerco e sol desio, ch’ovunque ei vada io possa seco gire. — E ciò
dicendo alor di duol morio.>> Quindi questo è il sonetto formato da 2 quartine e 2 terzine, sonetto che è
una forma della coalizione che arriva fino al 900 e che è stato introdotto addirittura dalla scuola siciliana di
Jacopo de Lentini. Quindi questo sonetto è a conclusione della vicenda dei due amanti e quindi sulla lapide
della tomba in comune.
Lezione 20/03
Per quanto riguarda Machiavelli le coordinate storiche sono fondamentali. Nasce nel 1469 e muore nel
1527. Un’altra data storica che ricordiamo è la morte di Lorenzo dei medici 1492, a Firenze dopo la morte di
Lorenzo, viene instaurata la repubblica, i Medici vengono cacciati ma soprattutto dopo la morte di Lorenzo
l’Italia perde quella specie di autonomia che aveva, tra vari principati diventa sostanzialmente una terra di
conquista. Soprattutto, in questa fase, vedremo che l’Italia e anche Firenze, è continuamente oggetto tra
trattati tra Francesco I e Carlo V, quindi nella guerra tra l'impero e la Francia. Questo ci interessa perché le
vicende di Firenze sono legate a filo doppio con questa storia e anche il destino dei Medici, che vengono
cacciati ma nel 1512 ritornano , e questo significa la fine della repubblica, in quella breve intermezzo della
repubblica fiorentina. Ma tutto questo che centra con Machiavelli? centra perché durante il periodo della
repubblica machiavelli ha una serie di incarichi politici, diventa anche segretario della repubblica fiorentina,
quindi la sua è un'attività prevalentemente politica in ogni caso ha un ruolo politico di grande prestigio e
rilievo. Quindi quando i medici rientrano a firenze,1512, Machiavelli viene estromesso dall'attività politica
ed è a questo punto che intensifica l'attività lettera. Le opere di Machiavelli, quelle che noi studiamo, sono
state composte dopo il 1512 e in particolar modo quella che lega fortemente a questa sua estromissione
dalla politica è "l Principe, non sappiamo la data precisa ma la collochiamo intorno al 1513. Poi i discorsi
sulla prima decade di Tito Livio che è un altro testo su cui dovete richiamare la vostra attenzione. queste
sono le opere più importanti, poi ci sono le opere definite da Machiavelli stesso, opere più leggere, generi
più leggeri come in particolar modo la commedia e la Mandragola in particolar modo, è importante questa
commedia perché insieme alle commedie di Ariosto, la Mandragola dà vita al teatro moderno del 500 che
diventerà un punto di riferimento nel teatro di tutta Europa, quindi l’Italia è quella che determina un
rinnovamento del teatro, con diversi autori ma i primi due sono Ariosto e Machiavelli. Prima di passare al
Principe facciamo un zoom sulla Mandragola. Fino all'aprile del 400 il genere teatrale in qualche modo
riproponeva i testi classici, Terenzio in modo particolare e di Plauto ricordiamo la vis comica, la lingua,
ricordiamo l’intreccio. Nella commedia plautina il prologo già rivelava il finale della commedia quindi la
comicità si basava, sull'intreccio e sulla vis comica e anche linguistica, quindi le parole forti, parolacce che
venivano dai battibecchi, dai botta e risposta molto rapidi che generava il comico. Di Terenzio ricordiamo
l'analisi psicologica ma soprattutto ricordiamo il prologo, quello di Terenzio aveva un intendo polemico,
cioè spesso veniva utilizzato per giustificarsi dalle accuse che gli venivano rivolte.
Plauto era un autore di grandissimo successo, talmente tanto che circolavano molte commedie sotto il suo
nome, che però poi non gli appartenevano, mentre Terenzio era un autore più del élite, era legato al circolo
degli Scipioni, a un nuova cultura; elabora l'ideale di humanitas, insomma a Terenzio non gli si perdonava
che non aveva la forza, l’impatto comico di Plauto e quindi venne accusato di varie cose, per esempio che
avesse utilizzato la contaminatio là dove la contaminazione era una pratica molto diffusa tra gli autori del
tempo, cioè significava prelevare degli stralci interi dalle commedie greche e di fonderle in altre commedie.
Nella Mandragola Machiavelli inizia con un prologo in versi, nel quale dice chiaramente che innanzitutto è
costretto a dedicarsi ad un genere più leggero come la commedia per poter trascorrere il tempo in cui gli
viene impedito di dedicarsi all'attività che lui ritiene più importanti, ossia alla politica. Quindi il 1512
costituisce un termine Post quem, dopo il quale collochiamo la commedia. In secondo luogo nella
mandragola dice ai suoi detrattori che è in grado di rispondere visto che la capacità polemica non gli manca
anzi è la sua prima arte.
Quindi il prologo è ascrivibile, riconducibile al modello di Terenzio, invece per quanto riguarda l'intreccio il
modello è Plauto. Plauto dal punto linguistico ovviamente scriveva in latino e machiavelli in volgare.
Della questione della lingua stiamo parlando dal nostro primo incontro, abbiamo citando questo sg 1925 in
qualche modo determina un orientamento che avranno una ricaduta anche sul successo o meno di
determinati autori e vi ho fatto l'esempio dell'Orlando innamorato e dell’Orlando furioso. La questione della
lingua è molto dibattuta tra il 400 e 500, non ci dimentichiamo che nel primo 400 era utilizzato soprattutto
il latino, nel secondo 400 si afferma il volgare, ma secondo quale modello visto che non c'è un’Italia
politicamente unita? le teorie come vi ho detto sono sostanzialmente due, una è quella della docta varietas
che fa riferimento a poliziano, poeta della corte di Lorenzo, che diceva che in qualche modo bisognava
cogliere il meglio degli autori precedenti, l'altro modello è quello dell'optimo modello, quello che propone
Bembo, per la poesia bisogna seguire Virgilio e Petrarca, per la prosa bisogna seguire Cicerone e Boccaccio,
quello è il modello e non bisogna allontanarsene . Macchiavelli come si colloca? ANCHE MACCHIAVELLI HA
UNA POSIZIONE BEN DECISA, Si distanzia dalla posizione di Bembo, perché innanzitutto vuole fare
riferimento non ai modelli del 300 ma alla lingua contemporanea, qual è la motivazione? molto semplice e
condivisibile perché Petrarca e Boccaccio parlavano la lingua del loro tempo che poi è diventata .(?)...ma
era una lingua che già nel 500 era superata quindi lui vuole fare riferimento alla lingua parlata del suo
tempo e in particolar modo Firenze, dove viene proprio ambientata la commedia. Terzo e ultimo modello,
modello della beffa per eccellenza, Boccaccio, perciò Machiavelli ha una grande ammirazione, in particolar
modo per l'intreccio, la beffa. Nella trama della mandragola troviamo questo signore che in qualche modo
vuole avere figli, ha una moglie giovane, molto onesta, mentre lui è anziano e molto presuntuoso pieno di
se, di cui si innamora un giovane fiorentino ma che vive da tempo a Parigi, e viene apposta per conoscere la
donna, si innamora, vuole conquistarla in tutti i modi, ma non ci sono molte possibilità di incontro e alla
fine tramite quello che sarebbe il servo nella commedia plautina, che qui diventa un amico di famiglia, si
ingegna una beffa per cui viene fatto credere al vecchio che bevendo una pozione di mandragola
sicuramente la moglie potrà rimanere incinta, ma questa bevanda ha una contro indicazione ,ossia il primo
che giace con la donna attirerà un'infezione mortale. Di fronte questo dilemma si ingegna una beffa ossia,
fanno trovare un mendicante che poi in realtà altro non è che il giovane innamorato della donna e quindi è
il marito stesso che lo lascia giacere con la donna.
Vi rendete conto che il discorso della beffa si riconduce direttamente a Boccaccio. è molto forte anche nei
termini, diciamo il "beffato" si fa portavoce di una lingua contemporanea e anche colorita.
Tornando al principe, il testo più importante, grossomodo viene composto intorno al 1513, un testo che
suscita molto scandalo e continuerà a suscitarlo, tanto è vero che finisce nell’indice dei libri proibiti, ma
vediamo perché suscita molto scandalo quando viene pubblicato. Machiavelli fonda con questo una scienza
possiamo dire della politica perché sgancia il giudizio sull'azione politica da quelli che sono i criteri della
morale tradizionale, cioè l’azione politica per Machiavelli va valutata non secondo i criteri della morale
tradizionale, ma secondo quello che deve essere l'obbiettivo politico, ossia il raggiungimento e al
mantenimento dello stato. In particolar modo si rivolge al principe, ma possiamo dire che le
raccomandazioni di machiavelli sono valide per tutti nella vita.
Machiavelli non ha mai pronunciato la famosa frase “il fine giustifica il mezzo” ,non lo troviamo, ma il
concetto più o meno è analogo, nel senso che se il principe conduce la propria azione che è efficace sul
piano politico allora sarà un principe virtuoso, un'azione virtuosa non è quella che segue la moral
tradizionale ma quella che riesce ad ottenere lo scopo sul piano politico, quindi raggiungimento e
mantenimento dello stato, perché il mantenimento del potere dello stato significa stabilità per tutti in un
periodo in cui c'è una forte instabilità politica ma anche una forte instabilità nell'uomo, che vive un senso di
precarietà (ne abbiamo già parlato quando abbiamo parlato del termine di fortuna), un assetto politico
particolarmente instabile che conduce gli uomini del 500 a vedere i sovrani che in un momento sono
prosperosi, hanno molto potere e un momento dopo invece cadono i disgrazia. Abbiamo detto la scorsa
volta come la situazione politica Italina avesse un'influenza su quello che è il sentimento degli autori di
questo periodo.
Per machiavelli cambia il concetto di virtù, ossia non è più confrontarsi secondo i parametri della morale
tradizionale ma è riuscire a mantenere la stabilità del proprio stato. Queste caratteristiche del principe
sono discusse da Machiavelli nei capitoli centrali, con tutta una serie di esempi, tratti perlopiù dalla storia
umana (o dalla storia di Roma o dalla storia contemporanea), per la quale machiavelli ha una vera e propria
venerazione potremmo dire come dimostrano i discorsi sulla prima decade di Tito Livio, qualche volta
anche dai personaggi della Bibbia, però è diverso, perché la posizione di Machiavelli è una posizione contro
la chiesa ,contro la corruzione della chiesa ecco perché poi verrà messo al bando nell'età della contro
riforma. Ricorderete che anche Boccaccio, ma non solo, anche Dante avevano gridato alla corruzione della
chiesa. Boccaccio l’abbiamo visto nei fatti, nella novella, abbiamo visto quel prete, o ci sono le novelle nella
prima giornata o altre novelle che ci fanno capire che la chiesa come struttura era corrotta. Anche
Machiavelli riprende questo concetto di Boccaccio. Ma di cosa è colpevole la chiesa? la chiesa è colpevole
di aver impedito l’unificazione dell’Italia sotto un signore italiano, è colpevole per suoi interessi di essersi
poggiata a signori stranieri e quindi aver determinato anche tutte le serie di invasioni che misero in
ginocchio l’Italia e quindi impedirono l’unità nazionale e questo per oltre 3 secoli. Quindi la chiesa è
responsabile di questa mancata unificazione, per cui noi troviamo sempre nei testi più leggerei come nella
mandragola, troviamo il frate corrotto, insomma la posizione di Machiavelli sulla questione.
Tornando al principe, nei capitoli centrali, Ai suoi giorni machiavelli vide molte alleanze strette tra signori e
poi alleanze che vengono spesso tradite a secondo dei comodi e della guerra. di per sé questo dal punto di
vista della morale tradizionale sarebbe un comportamento disdicevole mentre per machiavelli è un
comportamento virtuoso perché innanzitutto machiavelli parte da un assunto ossia che la natura dell'uomo
sia malvagia, quindi dice in uno dei capitoli c’è bisogna tener fede alla parola data? no perché prima che
l'altro venga meno alla parola data a te è meglio che sia tu a venir meno, se trovi che mantenere fede a
questa parola data comporta la rovina del suo stato, perché magari vedi che il nemico è più forte e sarebbe
più saggio allearsi con quest ultimo. Cioè che sarebbe disdicevole sul piano morale diventa invece un
comportamento virtuoso perché consente al principe di mantenere lo stato, ecco perché desta scandalo,
perché in sostanza il giudizio sull'azione politica si discosta da quello che è il giudizio sull’azione secondo la
morale tradizionale. Poi ci sono molti altri esempi che fa, come ad esempio il principe non deve essere né
amato nè odiato ma temuto, perché il principe molto amato finisce per non essere considerato e quindi i
sudditi non lo temono e la situazione può sfuggire di mano, invece l'odio deve essere evitato in qualsiasi
modo, perché l'odio porta il popolo a ribellarsi e a cacciare il principe. Quindi ci vuole il polso, magari con
delle punizioni esemplari per cui il principe deve essere temuto e mai odiato.
Un altro assunto di Machiavelli è che gli uomini perdonano più facilmente l'uccisione del proprio padre,
che voi sapete che secondo la tradizione deve essere vendicato, piuttosto che la perdita del patrimonio,
quindi cosa vuol dire, vuol dire che il principe quando si chiede se deve essere liberare o parsimonioso,
secondo la tradizione dovrebbe essere generoso, mentre per Machiavelli no, perché se io spendo molto
loro ad un certo punto chiederanno molto per le tasse, quindi un comportamento eccessivamente troppo
generoso comporterebbe l'aumento e la richiesta di nuove tasse e non c'è nulla di odiato quanto le tasse.
Quindi un altro dei capitoli centrali del principi si basa su quale sia il comportamento da tenere, e lui
elabora proprio una specie di identikit che deve avere, noi lo chiamiamo principe centauro. Il centauro è un
personaggio mitologico, metà uomo metà cavallo. Machiavelli vuol dire che il principe deve essere per
metà uomo e per metà bestia ,la metà uomo deve governare attraverso le leggi che sono frutto della
ragione, della razionalità dell'uomo, per l'altra metà ,quella della bestia deve avere due diverse qualità,
quella della volpe, ossia l'astuzia e quella del leone la forza. Avere solo una di queste due non è possibile,
perché machiavelli dice, attraverso una metafora, la volpe se circondata da un branco di lupi non può
salvarsi solo con l'astuzia, ma c'è bisogno della forza; il leone che finisce in una trappola di cacciatori, con
solo la forza non può salvarsi, ha bisogno anche dell’astuzia. Ovviamente fa riferimento alla vita della corte,
che già in qualche modo è trasfigurata nelle parole dell’Orlando furioso, nel proemio, cioè la corte è un
luogo in cui domina quella che chiamiamo oggi la cortigianeria, ossia l'ipocrisia, finché il signore e potente
tutti sono lì ben disposti, ma molti cortigiani sono disposti a voltargli le spalle alla prima occasione, questo
lo troviamo nell’Orlando furioso già nell'inizio. Il periodo è lo stesso, cambiano le città, Ferrara e la corte
degli estensi per l'Orlando e Firenze per machiavelli. Ovviamente il tono è diverso, si tratta di un poema
epico cavalleresco nel caso di Ariosto, sappiamo che c'è un certo equilibrio anche nel uso delle parole che
invece in Machiavelli non abbiamo, è molto più polemico, forte sul piano espressivo, ma il concetto è lo
stesso. noi vediamo in filigrana una corte che è un vero e proprio modo di vivere punto che ricorrerà
nell'opera di Basile che faremo, cioè lo cunto de li cunti. Ricapitolando abbiamo parlato del principe come
opera scritta subito dopo l'allontanamento dalla vita polita intorno al 1513, la sua importanza in Europa
nella letteratura ma ancora di più nel pensiero politico successivo e quello di aver sganciato, liberato il
giudizio sull'azione politica dai parametri della morale tradizionale.
Emerge che l'obbiettivo fondamentale del principe deve essere la conquista e la salvaguardia dello stato
perché questo significa anche un aspetto stabile e il benessere per tutti i sudditi. Poi abbiamo visto che
nelle pagine centrali viene fuori questa figura del principe, questa figura di un principe centauro che deve
possedere le qualità del uomo cioè la ragione e quindi deve poggiare il suo governo sulle leggi ma anche
sulle due qualità della volpe e del leone, ovvero l'astuzia e la forza. Quindi l'azione del principe è soggetta
ad un giudizio che deve essere di tipo politico non morale.
Infine veniamo all'ultimo aspetto fondamentale che troviamo nel principe, ossia il binomia tra virtù e
fortuna. Questo binomio non appartiene soltanto al principe ma all'uomo in generale. Che cos’è la fortuna?
dobbiamo pensare alla voce latina fortuna che è una vox media, ossia non ha né un significato positivo né
negativo, perciò ci vuole un aggettivo che l'accompagni bona fortuna o mala fortuna. In italiano fortuna ha
già u n'accezione positiva, qual è l'equivalente del latino fortuna? è in italinao, sorte, la sorte può essere
buona o cattiva. Quindi la parola fortuna è fondamentale. L’abbiamo già pronunciata a proposito di
Boccaccio ma soprattutto la vediamo durante il rinascimento, proprio nel leggere queste vicende e queste
alterne fortune. Allora la fortuna è quindi l'imprevisto, l'irrazionale, è una forza per Machiacelli che in
qualche modo piomba sull'uomo. Il capitolo 25 del principe parla della fortuna e ci dice che, Machiavelli
stesso introduce cosi:" io vedendo quello che sta succedendo ai giorni nostri e sentendo molte persone che
dicono che l'uomo è totalmente soggetto alla volontà della fortuna, molte volte mi sono scoraggiato anche
io e ho pensato che noi non possiamo intervenire nella nostra vita, ma che siamo totalmente alla merce
della fortuna, poi io penso che non è proprio così e l‘uomo possa fare qualcosa per prevenire la fortuna"
intendendo in questo caso i rovesci di fortuna cioè per prevenire una sorte particolarmente avversa e
quindi lui dice, da proprio le percentuali e dice" ma in realtà è arbitra della nostra vita più meno per il 50% e
l'altro 50 noi lo possiamo governare grazie alla virtù" torna questo concetto della virtù. In cosa consiste
questa virtù? non nell'essere educati, fare cerimonie ecc. in questo caso la virtù per Machiavelli consiste nel
prevenire anche quelle che possono essere situazione avverse , faccio un esempio molto più vicino a voi,
per esempio vado all'esame e non sono preparato bene, vado , però così mi espongo alla fortuna se invece
io studio bene diciamo che sì può entrare in gioco anche la fortuna ma se io studio tutto in qualche modo
con la virtù io cerco di prevenire anche la domanda più difficile.
Proseguiamo anche nel dire come un principe arriva al potere, un principe può arrivare per virtù o per
fortuna, se arriva per fortuna, paragonandola alla nostra raccomandazione, ci può arrivare molto
rapidamente ma altrettanto rapidamente può cadere se cambia la fortuna, il principe che arriva per virtù, ci
mette più tempo ma diciamo che la sua posizione è più solida rispetto ai rovesci di fortuna.
ovviamente le preferenze di Machiavelli sono per il principe che arriva tramite virtù. Esempio tratto dalla
storia contemporanea è Francesco Sforza, che con la sua virtù riesce a conquistare il Ducato di Milano. Però
perché c’è sempre una malignità dell’eccezione, in qualche modo, il suo cuore batte per uno in particolare,
proprio per Cesare Borgia, Valentino, dalla Contea di Valentinois che era un suo possesso. Cesare Borgia è
uno dei due figli di Alessandro VI Borgia, il Papa, che sale al soglio pontificio con questo nome. Il Papa si
serve di Lucrezia, passata alla storia come un’avvelenatrice, serviva per un’abile politica matrimoniale
mentre Cesare ha la strada spianata perché il Papa, che aveva un certo potere, riesce a spalleggiarlo nella
conquista di un suo personale potere. Quindi arriva al Principato per fortuna ma , ecco perché lui lo
ammira, consolida grazie alla virtù -- attraverso una serie di strategie atte a prevenire il rovescio di fortuna,
quale sarebbe stata la morte del padre. C’è una straordinaria malignità della fortuna perché quando il Papa
muore e si sta facendo il conclave, anche Cesare Borgia è in grave pericolo di vita quindi non può
condizionare l’elezione successiva del Papa.
Altro binomio fondamentale: virtù e fortuna. Nella Mandragola, il personaggio di Lucrezia è quello che
nasce dall’interpretazione morale della tradizione e finisce con il cambiamento, è l’unico personaggio la cui
psicologia cambia (il nome Lucrezia non è scelto a caso: è il nome della matona virtuosa per eccellenza
raccontata dal Dionivio, è la storia di questa matona che viene oltraggiata dal figlio di Tarquinio il superbo,
l’ultimo re di Roma. Lucrezia viene violata e per questo oltraggio si uccide –ciò causa la ribellione romana,
vengono cacciati i re e si instaura la Repubblica, siamo nel I sec a.C.) Lucrezia rappresenta la donna
integerrima, onesta che non tradisce il marito ma poi nella parte conclusiva si guarda intorno, vede che la
madre spinge per farle bere la pozione di mandragola e farla andare a letto con uno sconosciuto e cede.
Alla base di tutto ciò c’è la misoginia, questo è un testo misogino per eccellenza, i diavoli vedendo tutti
questi uomini che arrivano all’Inferno dicendo che la colpa è delle loro mogli, decidono di mandare uno di
loro sulla terra a verificare se questo sia vero e alla fine anche questo diavolo se ne scappa pur di non sentir
più nominare sua moglie.
Leggesi nelle antiche memorie delle fiorentine cose come già s'intese, per relatione, di alcuno
sanctissimo huomo, la cui vita, apresso qualunque in quelli tempi viveva, era celebrata, che, standosi
abstracto nelle sue orazioni, vide mediante quelle come, andando infinite anime di quelli miseri mortali,
che nella disgratia di Dio morivano, all'inferno, tucte o la maggior parte si dolevono, non per altro, che
per havere preso moglie essersi a tanta infelicità condotte. Quindi queste anime si lamentavano che
avendo preso moglie da quel momento erano diventati infelici e quindi erano andati all’Inferno.
Donde che Minos et Radamanto insieme con gli altri infernali giudici ne havevano maravigla grandissima.
Et, non potendo credere, queste calunnie, che costoro al sexo femmineo davano, essere vere, et
crescendo ogni giorno le querele, et havendo di tutto facto a Plutone conveniente rapporto, fu deliberato
per lui di havere sopra questo caso con tucti gl'infernali principi maturo examine, et piglarne dipoi quel
partito che fussi giudicato miglore per scoprire questa fallacia, o conoscerne in tutto la verità. Alcuni
diavoli si accorgono di queste lamentele che aumentano di giorno in giorno e quindi riferiscono tutto a
Plutone il quale decide di prendere una decisione.
Chiamatogli adunque a concilio, parlò Plutone in questa sentenza: «Anchora che io, dilettissimi miei, per
celeste dispositione et fatale sorte al tutto inrevocabile possegga questo regno, et che per questo io non
possa essere obligato ad alcuno iudicio o celeste o mondano, nondimeno, perché gli è maggiore prudenza
di quelli che possono più, sottomettersi più alle leggi et più stimare l'altrui iuditio, ho deliberato essere
consiglato da voi come, in uno caso, il quale potrebbe seguire con qualche infamia del nostro imperio, io
mi debba governare. Contrappone l’inferno a quello che avviene sulla terra e alla fine ne risulta migliore.
Plutone dice: pur avendo io volontà assoluta, cioè non devo dar conto a nessuno ciò nonostante io
preferisco consigliarmi con voi perché coloro che hanno maggiore potere devono maggiormente rispettare
le leggi. Ne viene fuori un concilio di diavoli infernali molto più ordinato di quello che avviene sulla terra e a
Firenze ai tempi di Machiavelli. Devo capire come regolarmi perché dice: se queste anime dicono la verità
noi stiamo punendo solo loro per una colpa che ha dell’attenuante, se noi non gli crediamo finiremo per
punirli più di quanto dovremmo. Se invece gli crediamo non vorrei fare la parte degli ingenui che credono a
tutto ciò che viene loro riferito.
Perché, dicendo tucte l'anime degli huomini, che vengono nel nostro regno, esserne stato cagione la
moglie, et parendoci questo impossibile, dubitiamo che, dando iuditio sopra questa relatione, ne
possiamo essere calunniati come troppo creduli, et, non ne dando, come manco severi et poco amatori
della iustitia. Quindi se siamo troppo severi finiamo per non rispettare una giustizia. Anche all’inferno la
giustizia deve essere un obiettivo da perseguire.
Et perché l'uno peccato è da huomini leggieri, et l'altro da ingiusti, et volendo fuggire quegli carichi, che
da l'uno et l'altro potrebbono dependere, et non trovandone il modo, vi habbiamo chiamati, acciò che,
consiglandone, ci aiutiate et siate cagione che questo regno, come per lo passato è vivuto sanza infamia,
così per lo advenire viva». E quindi vorremmo che questo regno vivesse senza infamia.
Parve a ciascheduno di quegli princìpi il caso importantissimo et di molta consideratione; et,
concludendo tucti come egli era necessario scoprirne la verità, erano discrepanti del modo Perché, a chi
pareva che si mandassi uno, a chi più nel mondo, che sotto forma di huomo conoscessi personalmente
questo vero; a molti altri occorreva potersi fare sanza tanto disagio, costringendo varie anime con varii
tormenti a scoprirlo. Allora ci sono due posizioni: c’è qualcuno che dice mandiamone uno o più di uno ad
incarnarsi nella figura di un uomo per vedere ciò che si prova e poi altri dicevano no, perché questo
disagio? Andiamo a tormentare le anime che già sono qui. Alla fine decidono di mandare qualcuno.
Pure, la maggior parte consiglando che si mandassi, s'indirizorno a questa opinione. Et non si trovando
alcuno, che voluntariamente prehendessi questa impresa, deliberorno che la sorte fussi quella che lo
dichiarassi. Non trovando nessun volontario si decise di tirare a sorte.
La quale cadde sopra Belfagor arcidiavolo, ma per lo adietro, avanti che cadessi di cielo, arcangelo. La
sorte cade su Belfagor il quale prima della ribellione degli angeli era un angelo, poi divenuto arcidiavolo.
Il quale, anchora che male volentieri piglassi questo carico, nondimeno, constretto da lo imperio di
Plutone, si dispose a seguire quanto nel concilio si era determinato, et si obligò a quelle conditioni che
infra loro solennemente erano state deliberate. Non è molto contento di andare ma si adatta a ciò che
dice Plutone e alle condizioni precedentemente dettate, ovvero:
Le quali erano: che subito a colui che fussi a questa commissione deputato fussino consegnati centomila
ducati, con i quali doveva venire nel mondo, et sotto forma di huomo prender moglie et con quella vivere
dieci anni, et dipoi, fingendo di morire, tornarsene, et per esperienza fare fede a i suoi superiori quali
sieno i carichi et le incommodità del matrimonio. Gli veniva data una dose di denaro, doveva trovare
moglie, sposarsi per dieci anni, fingere poi di morire e tornare all’Inferno a spiegare la situazione.
Dichiarossi anchora che durante detto tempo ei fussi sottoposto a tucti quegli disagi et mali, che sono
sottoposti gli huomini et che si tira drietro la povertà, le carcere, la malattia et ogni altro infortunio nel
quale gli huomini incorrono, excepto se con inganno o astuzia se ne liberassi. A patto che non si
avvantaggiasse del potere dei demoni, nel senso che dovesse sopportare in tutto e per tutto la condizione
dell’uomo: povertà, carcere, malattia. DI ciò poteva liberarsene con inganno o astuzia.
Presa adunque Belfagor la condizione et i danari, ne venne nel mondo; et ordinato di sua masnade
cavagli et compagni, entrò honoratissimamente in Firenze, entrò con molto onore a Firenze con dei
compagni e anche i denari che gli avevano assegnato.
la quale città innanzi a tucte l'altre elesse per suo domicilio, come quella che gli pareva più atta a
sopportare chi con arte usurarie exercitassi i suoi danari […] qual è il suo mestiere? L’usuraio. E quale città
migliore poteva scegliere per praticare tale attività se non Firenze? Polemica nei confronti della città ai suoi
tempi.
Et, factosi chiamare Roderigo di Castigla, prese una casa a ficto nel Borgo d'Ognisanti; et perché non si
potessino rinvenire le sue conditioni, dixe essersi da piccolo partito di Spagna et itone in Soria et havere
in Aleppe guadagnato tucte le sue facultà; donde s'era poi partito per venire in Italia a prehender donna
in luoghi più humani et alla vita civile et allo animo suo più conformi. Alessandro VI Borgia si chiama
proprio Rodrigo ed è un Papa che viene dalla Spagna. Da dove compare quest’uomo all’improvviso? Per
poter giustificare questa sua apparizione e questa sua ricchezza allora disse che da piccolo è partito dalla
Spagna e di essere andato in Siria dove aveva fatto fortuna poi decide di venire in Italia perché era un luogo
che vi era più congeniale, ha trovato così anche una descrizione della sua infanzia.
Era Roderigo bellissimo huomo et monstrava una età di trenta anni; et havendo in pochi giorni dimostro
di quante richeze abundassi et dando essempli di sé di essere umano et liberale, molti nobili cittadini, che
havevano assai figlole et pochi danari, se gli offerivano. Questo Roderigo era bellissimo e ha fatto capire
nel giro di pochi giorni di essere ricco e generoso per cui comincia la corte dei padri che avevano delle figlie
da maritare. Tutti vanno a offrire in moglie la propria figlia, coloro che non avevano molti soldi.
Intra le quali tucte Roderigo scelse una bellissima fanciulla chiamata Onesta, figluola di Amerigo Donati, il
quale ne aveva tre altre insieme con tre figluoli maschi tucti huomini, et quelle erano quasi che da
marito; tra le varie pretendenti sceglie questa donna Onesta, presentata come una donna che ha una sua
onestà, il motivo per cui i mariti vanno all’inferno è per la disonestà delle mogli invece questa è una cosa
irreprensibile. Ci viene presentata con sorelle e fratelli.
et benché fussi d'una nobilissima famigla et di lui fussi in Firenze tenuto buono conto, nondimanco era,
rispetto alla brigata havea et alla nobilità, poverissimo. Quindi nonostante fosse un discendente,
nonostante vantasse un’antichissima nobiltà era un poverissimo e Roderigo si presentava come un buon
partito.
Fecie Roderigo magnifiche et splendidissime noze, né lasciò indietro alcuna di quelle cose, che in simili
feste si desiderano. Arriva subito al sodo Machiavelli.
Et essendo, per la legge che gli era stata data nello uscire d'inferno, sottoposto a tucte le passioni
humane, subito cominciò a piglare piacere degli honori et delle pompe del mondo et havere caro di
essere laudato intra gli huomini, il che gli arrecava spesa non piccola. Lui doveva prendere non soltanto le
sembianze umane ma proprio la condizione dell’uomo per cui un animo umano, vedendosi così lodato
comincia a prendere piacere della cortigianeria che lo circonda ed è quindi sensibile alle passioni umane, dà
feste per poter essere lodato.
Oltr'a di questo non fu dimorato molto con la sua mona Onesta, che se ne innamorò fuori di misura, né
poteva vivere qualunque volta la vedeva stare trista et havere alcuno dispiacere. Assume tutte le passioni
umane e dopo poco tempo si innamora di questa moglie al punto tale di non sopportare l’idea di vederla
triste. L’amore diventa una debolezza di questo diavolo.
Haveva mona Onesta portato in casa di Roderigo, insieme con la nobilità et con la belleza, tanta superbia
che non ne ebbe mai tanta Lucifero; et Roderigo, che aveva provata l'una et l'altra, giudicava quella della
moglie superiore; neanche Lucifero era così superbo; e Roderigo, che conosceva bene sia la superbia di
Lucifero che quella della moglie, considerava quella della moglie superiore.
ma diventò di lunga maggiore, come prima quella si accorse dello amore che il marito le portava; la sua
superbia diventò maggiore quando si accorse che suo marito era innamorato di lei; et parendole poterlo da
ogni parte signoreggiare, sanza alcuna piatà o rispetto lo comandava, né dubitava, quando da lui alcuna
cosa gli era negata, con parole villane et iniuriose morderlo: il che era a Roderigo cagione di inestimabile
noia. Quando Roderigo qualche volta non acconsentiva qualche volta alle sue volontà, arrivava addirittura
ad ingiuriarlo.
Pur nondimeno il suocero, i frategli, il parentado, l'obligo del matrimonio et, sopratutto, il grande amore
le portava gli faceva havere pazienza. Io voglo lasciare ire le grande spese, che, per contentarla, faceva in
vestirla di nuove usanze et contentarla di nuove fogge, che continuamente la nostra città per sua
naturale consuetudine varia; ché fu necessitato, volendo stare in pace con lei, aiutare al suocero maritare
l'altre sue figluole: dove spese grossa somma di danari. Tralascia le spese che Roderigo doveva sostenere
per accontentarla, per seguire la moda e tutte le usanze che nella città di Firenze cambiano continuamente:
città corrotta dove gli usurai proliferano, dove c’è lusso e disonestà di costumi.
Dopo questo, volendo havere bene con quella, gli convenne mandare uno de' frategli in Levante con
panni, un altro in Ponemte con drappi, all'altro aprire uno battiloro in Firenze: nelle quali cose dispensò
la maggiore parte delle sue fortune. Non solo si dovette accollare il matrimonio delle cognate ma dovette
anche aprire un’attività ai cognati e mandò uno a levante e uno a ponente, tessuti fiorentini e un orefice
(ancora oggi sia le stoffe che l’oreficeria sono molto pregiate a Firenze).
Oltre a di questo, ne' tempi de' carnasciali et de' San Giovanni, quando tutta la città per antica
consuetudine festeggia et che molti cittadini nobili et richi con splendidissimi conviti si honorono, per
non essere mona Onesta all'altre donne inferiore, voleva che il suo Roderigo con simili feste tucti gli altri
superassi. In occasione di San Giovanni e del carnevale voleva che Roderigo spendesse più di tutti per
superare gli altri.
Le quali cose tucte erano da lui per le sopradette cagioni sopportate; né gli sarebbono, anchora che
gravissime, parute gravi a farle, se da questo ne fussi nata la quiete della casa sua et s'egli havessi potuto
pacificamente aspettare i tempi della sua rovina. Ma gl'interveniva l'opposito, perché con le
insopportabili spese, la insolente natura di lei infinite incommodità gli arrecava; et non erano in casa sua
né servi né serventi che, nonché molto tempo, ma brevissimi giorni la potessino sopportare; non c’era
nessun servitore che riuscisse a durare a lungo in quella casa.
donde ne nascevano a Roderigo disagi gravissimi per non potere tenere servo fidato che havessi amore
alle cose sua; et, nonché altri, quegli diavoli, i quali in persona di famigli haveva condotti seco, più tosto
elessono di tornarsene in inferno a stare nel fuoco, che vivere nel mondo sotto lo imperio di quella. Non
poteva avere nessun servo fidato che tenesse al mantenimento delle cose perché la moglie li faceva
scappare tutti, scappa pure il suo corredo di servitù. I diavoli che erano partiti con lui preferivano tornare
all’inferno anziché stare con la moglie di Roderigo.
Standosi adunque Roderigo in questa tumultuosa et inquieta vita, et havendo per le disordinate spese già
consumato quanto mobile si haveva riserbato, cominciò a vivere sopra la speranza de' ritracti, che di
Ponente et di Levante aspettava; et havendo anchora buono credito, per non mancare di suo grado,
prese a cambio. Aveva speso tutto il denaro e sperava di guadagnare dagli investimenti che aveva fatto:
ovvero delle attività dei cognati. Per non venir meno agli impegni presi, firmò delle cambiali – si indebitò.
Et girandogli già molti marchi adosso (= cambiali), fu presto notato da quegli, che in simile exercizio in
Mercato si travaglano. Et essendo di già il caso suo tenero, vennero in un sùbito di Levante et di Ponente
nuove come l'uno de' frategli di mona Onesta s'haveva giucato tutto il mobile di Roderigo, et che l'altro,
tornando sopra una nave carica di sue mercatantie sanza essersi altrimenti assicurato, era insieme con
quelle annegato. Uno dei cognati aveva giocato tutto il denaro di Roderigo e l’altro era annegato con tuta
la mercanzia e non aveva stipulato un’assicurazione.
Né fu prima publicata questa cosa che i creditori di Roderigo si ristrinsono insieme; et giudicando che
fussi spacciato, né possendo anchora scoprirsi per non essere venuto il tempo de' pagamenti loro,
conclusono che fussi bene osservarlo così dextramente, acciò che dal detto al facto di nascoso non se ne
fuggissi. Prima che la notizia diventasse pubblica, tutti i suoi creditori si erano uniti per dargli la caccia. In
sostanza questi lo tengono d’occhio perché formalmente il tempo non era ancora scaduto ma non vogliono
che egli scappi da Firenze.
Roderigo, da l'altra parte, non veggiendo al caso suo rimedio et sapiendo a quanto la leggie infernale lo
costringeva, pensò di fuggirsi in ogni modo. Roderigo doveva rimanere sulla terra 10 anni.
Et montato una mattina a cavallo, abitando propinquo alla Porta al Prato, per quella se ne uscì. Né prima
fu veduta la partita sua, che il romore si levò fra i creditori, i quali ricorsi ai magistrati, non solamente con
i cursori, ma popularmente si missono a seguirlo. Non appena Roderigo si allontanò, i creditori se ne
accorsero ed organizzarono una vera e propria caccia all’uomo.
Non era Roderigo, quando se gli lievò drieto il romore, dilungato da la città uno miglo; in modo che,
vedendosi a male partito, deliberò, per fuggire più segreto, uscire di strada et atraverso per gli campi
cercare sua fortuna. Non era neanche percorso un miglio che già si vede inseguito, lascia la strada
principale e si avvia in campagna.
Ma sendo, a fare questo, impedito da le assai fosse, che atraversano il paese, né potendo per questo ire a
cavallo, si misse a fuggire a piè et, lasciata la cavalcatura in su la strada, atraversando di campo in campo,
coperto da le vigne et da' canneti, di che quel paese abonda, arrivò sopra Peretola a casa Gianmatteo del
Brica, lavoratore di Giovanni del Bene, et a sorte trovò Gianmatteo che arrecava a casa da rodere a i
buoi, et se gli raccomandò promettendogli, che se lo salvava dalle mani de' suoi nimici, i quali, per farlo
morire in prigione, lo seguitavano, che lo farebbe ricco et gliene darebbe innanzi alla sua partita tale
saggio che gli crederrebbe; et quando questo non facessi, era contento che esso proprio lo ponessi in
mano a i suoi aversarii. Esce di strada e si imbatte in un contadino, Ganmatteo e lo prega di nasconderlo e
gli dice: io ti farò tanto ricco, e prima di andare via ti faccio assaggiare la mia ricchezza; allora lo nasconde e
gli inseguitori vanno avanti: il contadino salva il diavolo (la figura del contadino è sempre oggetto di presa in
giro, ad esempio con Andreuccio da Perugia: Boccaccio dice che è ingenuo). Roderigo gli racconta la sua
vicenda e gli dice:
Et quivi gli narrò di suo essere et delle leggi avute allo uscire d'inferno et della moglie tolta; et di più gli
dixe il modo, con il quale lo voleva arichire: che insumma sarebbe questo, che, come ei sentiva che
alcuna donna fussi spiritata, credessi lui essere quello che le fussi adosso; né mai se n'uscirebbe, s'egli
non venissi a trarnelo; donde arebbe occasione di farsi a suo modo pagare da i parenti di quella. Et,
rimasi in questa conclusione, sparì via. Io entrerò nel corpo di una donna che diventerà un’indemoniata e
non me ne andrò da lì fino a quando non arriverai tu, e ciò ti darà molto successo.
Né passorno molti giorni, che si sparse per tutto Firenze, come una figluola di messer Ambruogio Amidei,
la quale haveva maritata a Bonaiuto Tebalducci, era indemoniata; né mancorno i parenti di farvi tucti
quegli remedii, che in simili accidenti si fanno, ponendole in capo la testa di san Zanobi et il mantello di
san Giovanni Gualberto. Le quali cose tucte da Roderigo erano uccellate. Viene subito detto che è una
donna maritata ma non è importante il marito ma l’autorità paterna, l’autorevolezza del padre sovrasta
quella del marito nell’ottica di Machiavelli.
Et, per chiarire ciascuno come il male della fanciulla era uno spirito et non altra fantastica imaginazione,
parlava in latino et disputava delle cose di philosophia et scopriva i peccati di molti; intra i quali scoperse
quelli d'uno frate che si haveva tenuta una femmina vestita ad uso di fraticino più di quattro anni nella
sua cella: le quali cose facevano maraviglare ciascuno. Machiavelli farà riferimento ad un fatto realmente
accaduto nel 1466: qualche anno prima in cui effettivamente una donna indemoniata aveva iniziato a
rivelare dei segreti, peccati di molti tra cui questo.
Viveva pertanto messer Ambruogio mal contento; et havendo invano provati tucti i remedi, haveva
perduta ogni speranza di guarirla, quando Gianmatteo venne a trovarlo et gli promisse la salute de la sua
figluola, quando gli vogla donare cinquecento fiorini per comperare uno podere a Peretola. Peretola è
una località in provincia di Firenze.
Acceptò messer Ambruogio il partito: donde Gianmatteo, fatte dire prima certe messe et facte sua
cerimonie per abbellire la cosa, si accostò a gli orechi della fanciulla et dixe: - Roderigo, io sono venuto a
trovarti perché tu mi osservi la promessa. - Al quale Roderigo rispose: - Io sono contento. Ma questo non
basta a farti ricco. Et però, partito che io sarò di qui, enterrò nella figluola di Carlo, re di Napoli, né mai
n'uscirò sanza te. Farà'ti alhora fare una mancia a tuo modo. Né poi mi darai più briga. Quindi stabilirai un
prezzo a tuo piacimento per questa azione e dopo non mi darai più fastidio.
- Et detto questo s'uscì da dosso a colei con piacere et ammirazione di tucta Firenze. Non passò dipoi
molto tempo, che per tutta Italia si sparse l'accidente venuto a la figluola del re Carlo. Né vi si trovando
rimedio, avuta il re notitia di Gianmatteo, mandò a Firenze per lui. Il quale, arrivato a Napoli, dopo
qualche finta cerimonia la guarì. Ancora qualche finta cerimonia e guarisce anche la figlia di Carlo D’angiò,
con quest’ultimo siamo nel XIII secolo: altri riferimenti ci rimandano ad altri secoli ma questa è una licenza
che Machiavelli si può prendere perché non è un testo di storia ma è una favola che ha qualche elemento di
non realtà.
Ma Roderigo, prima che partissi, dixe: - Tu vedi, Gianmatteo, io ti ho observato le promesse di haverti
arrichito. Et però, sendo disobligo, io non ti sono più tenuto di cosa alcuna. Pertanto sarai contento non
mi capitare più innanzi, perché, dove io ti ho facto bene, ti farei per lo advenire male Il diavolo che in
questa storia per la prima volta mostra la sua vera natura, ovvero la malvagità. Se gli ricapita davanti gli farà
del male.
- Tornato adunque a Firenze Gianmatteo richissimo, perché haveva avuto da il re meglo che
cinquantamila ducati, pensava di godersi quelle richeze pacificamente, non credendo però che Roderigo
pensassi di offenderlo. Non pensa che il diavolo possa fargli veramente del male.
Ma questo suo pensiero fu sùbito turbato da una nuova che venne, come una figluola di Lodovico
septimo, re di Francia, era spiritata. Qui ci troviamo nel XII secolo, sono personaggi realmente esistiti ma
non contemporanei.
La quale nuova alterò tutta la mente di Gianmatteo, pensando a l'auctorità di quel re et a le parole che gli
haveva Roderigo dette. Non trovando adunque quel re a la sua figluola rimedio, et intendendo la virtù di
Gianmatteo, mandò prima a richiederlo semplicemente per uno suo cursore. Il re non riusciva a trovare
rimedio al fatto che la figliola fosse indemoniata e avendo sentito parlare di Ganmatteo lo manda a
chiamare.
Ma, allegando quello certe indispositioni, fu forzato quel re a richiederne la Signoria. La quale forzò
Gianmatteo a ubbidire. All’inizio glielo chiese garbatamente ma poi visto che Gianmatteo opponeva
resistenza, allora lo mandò a chiamare dalla polizia (la Signoria è un istituto del XV secolo).
Andato pertanto costui tutto sconsolato a Parigi, mostrò prima a il re come egli era certa cosa che per lo
adrietro haveva guarita qualche indemoniata, ma che non era per questo ch'egli sapessi o potessi guarire
tucti, perché se ne trovavano di sì perfida natura che non temevano né minacce né incanti né alcuna
religione; ma con tutto questo era per fare suo debito et, non gli riuscendo, ne domandava scusa et
perdono. Al quale il re turbato dixe che se non la guariva, che lo appenderebbe. In sostanza Gianmatteo
cerca di mettere le mani avanti e spiega che ci sono alcuni diavoli particolari. Dato che non ha più
l’appoggio del diavolo cerca di trovare una giustificazione. Il Re lo minaccia e gli dice che se non guarisce la
figlia lo impicca.
Sentì per questo Gianmatteo dolore grande; pure, facto buono cuore, fece venire la indemoniata; et,
acostatosi all'orechio di quella, humilmente si raccomandò a Roderigo, ricordandogli il benificio factogli
et di quanta ingratitudine sarebbe exemplo, se lo abbandonassi in tanta necessità. Cerca di fare appallo al
diavolo ricordandogli quanto ha fatto per lui.
Al quale Roderigo dixe: - Do! villan traditore, sì che tu hai ardire di venirmi innanzi? Credi tu poterti
vantare d'essere arichito per le mia mani? Io voglo mostrare a te et a ciascuno come io so dare et tòrre
ogni cosa a mia posta; et innanzi che tu ti parta di qui, io ti farò impiccare in ogni modo. Roderigo quindi
gli dice che lo farà impiccare.
- Donde che Gianmatteo, non veggiendo per allora rimedio, pensò di tentare la sua fortuna per un'altra
via. Et facto andare via la spiritata, dixe al re […] insieme con tucti i tuoi principi et baroni, con la reale
pompa, con splendidi et richi abiglamenti, conveniate sopra quello, dove celebrata prima una solenne
messa, farai venire la indemoniata. Gli dice di organizzare una Cerimonia solenne alla presenza non solo
del re, ma anche del clero e dell’aristocrazia davanti alla cattedrale di Notre Dame e dopo aver fatto una
messa solenne farà venire l’indemoniata.
Voglo, oltr'a di questo, che da l'uno canto de la piaza sieno insieme venti persone almeno che abbino
trombe, corni, tamburi, cornamuse, cembanelle, cemboli et d'ogni altra qualità romori; […] - O, tu hai
facto il bel pensiero! Che credi tu fare con questi tuoi apparati? Credi tu fuggire per questo la potenza
mia et l'ira del re? Villano ribaldo, io ti farò impiccare in ogni modo. - Et così ripregandolo quello, et
quell'altro dicendogli villania, non parve a Gianmatteo di perdere più tempo. Il diavolo si ostina a non
uscire dal corpo di questa donna e quindi lo minaccia.
Et facto il cenno con il cappello, tucti quegli, che erano a romoreggiare diputati, dettono in quegli suoni,
et con romori che andavono al cielo ne vennono verso il palco. Al quale romore alzò Roderigo gli orechi
et, non sappiendo che cosa fussi et stando forte maraviglato, tutto stupido domandò Gianmatteo che
cosa quella fussi. Avanzano tutti questi strumenti, questo gran fracasso e il diavolo chiede cosa sia tutto
ciò.
Al quale Gianmatteo tutto turbato dixe: - Oimè, Roderigo mio! quella è móglata che ti viene a ritrovare. -
Fu cosa maraviglosa a pensare quanta alterazione di mente recassi a Roderigo sentire ricordare il nome
della moglie. Non capisce più nulla solo a sentirla nominare – alterazione della mente.
La quale fu tanta che, non pensando s'egli era possibile o ragionevole se la fussi dessa, senza replicare
altro, tutto spaventato, se ne fuggì lasciando la fanciulla libera, et volse più tosto tornarsene in inferno a
rendere ragione delle sua actioni, che di nuovo con tanti fastidii, dispetti et periculi sottoporsi al giogo
matrimoniale. Et così Belfagor, tornato in inferno, fece fede de' mali che conduceva in una casa la moglie.
Et Gianmatteo, che ne seppe più che il diavolo, se ne ritornò tutto lieto a casa. Vi sono due ribaltamenti: Il
ribaltamento della donna angelicata con la donna indemoniata e il rovesciamento del villano, la presa in
giro del villano si ribalta; questo contadino è addirittura più astuto del diavolo stesso, il villano prima veniva
deriso e beffato ed ora è diventato il beffatore.
C’è una tradizione orale e popolare che è quella del diavolo zoppo e non si ferma qui, è anche in altre
novelle letterarie come quelle di Straparola.
LETTERATURA ITALIANA LEZIONE 21 MARZO
Il 1512 segna il ritorno de' I Medici a Firenze e quindi la fine dell'esperienza politica di Machiavelli; da quel
momento in poi Machiavelli inizia a dedicarsi soprattutto alla letteratura e quindi la maggior parte degli
scritti viene composto dopo il 1512.
Il 1513 sembra essere l'anno della composizione de' Il Principe, perché lo scrive e a chi lo dedica? Il Principe
viene dedicato a Lorenzo de' Medici, il nipote del Magnifico (1492), questo perché nonostante venga
estromesso proprio da I Medici, Machiavelli cerca di dimostrare la competenza acquisita nel campo politico
e di come possa essere utile allo Stato e alla città di Firenze.
Quando finalmente, sembra che in qualche modo I Medici prendano in considerazione Machiavelli, nel
1527 vengono nuovamente estromessi, ritorna la Repubblica e a questo punto Machiavelli è diventato
sospetto agli uomini della Repubblica, per cui il suo tentativo di rientrare nella vita politica viene vanificato
e morirà subito dopo (1527).
Importante è la relazione con una narrativa/tradizione popolare che circola oralmente, una di queste favole
che circolavano era quella del Diavolo zoppo, che viene ripresa non soltanto da Machiavelli, ma anche da …
Giambattista Basile lo collochiamo tra il 1566 e il 1632, l'opera Lo cunto de li cunti viene pubblicata
postuma. Basile aveva un importante ruolo nell'ambiente di corte e in particolar modo presso il viceré Duca
d'Alba; parentesi letteraria: il rapporto tra l'intellettuale, il poeta della corte era in genere un intellettuale
ben legato alla politica (esempio nella letteratura meridionale con Sannazaro legato alla Corte Aragonese).
Tra i tanti legami ricordiamo quello tra Lorenzo de' Medici e Poliziano, quest'ultimo che non si muove quasi
per nulla dalla Corte, è colui che salva Lorenzo dalla congiura dei Pazzi, dove muore invece Giuliano
determinando l'interruzione de Le stanze per la giostra dedicate proprio a Giuliano.
Questo racconto è ancora molto stretto, ma l'autore qui diventa un po' un dipendente del potente di turno
→ esempio più famoso è quello di Ariosto, già nel Proemio* dell'Orlando Furioso e in particolar modo nella
3ª e 4ª strofa quella della dedica.
La proposizione invece, nel proemio dell'Orlando Furioso, è Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori,/ le
cortesie, l'audaci imprese io canto..
Poi c'è un invocazione che è particolarmente trasgressiva e innovativa, perché invece di essere rivolta alle
muse o alla divinità è rivolta alla sua donna, Alessandra Benucci, e ad essa chiede di lasciargli un pò di
tregua da questo amore per potergli consentire di finire la sua opera, senza che il suo ingegno venga
ulteriormente consumato dal suo amore per lei.
Infine 3ª e 4ª strofa abbiamo la dedica al cardinale Ippolito d'Este, con il quale però entrerà in conflitto, in
quanto Ariosto si rifiuta di seguirlo in Ungheria adducendo una serie di motivi che vengono poi espressi
nella prima delle 7 satire che lui scrive e in sostanza si lamenta soprattutto del fatto che il cardinale lo
comandi continuamente in attività di tipo pratico distogliendolo dalla composizione dei suoi lavori.
(*Il proemio del poema epico in genere prevedeva proposizione, invocazione e dedica dove:
proposizione significa argomento di cui ci parla il poeta, l'invocazione è in genere un'invocazione alla
divinità o alle muse e infine la dedica.)
Incominciamo quindi ad intravedere un intellettuale che diventa sempre più una sorta di
segretario/dipendente di quello che è il centro di potere e del signore. Questo in qualche modo lo mette in
un rapporto di dipendenza, che invece non c'era ai tempi di Lorenzo, dove in sostanza gli intellettuali
avevano una funzione di supporto al potere e alla politica di prestigio che serviva ai signori a far
dimenticare che avevano usurpato un potere; Lorenzo come anche gli Estensi si dedicavano ad una politica
di prestigio, circondandosi quindi di artisti e intellettuali che esaltassero la loro Corte.
Questo passaggio e questa dipendenza dell'intellettuale è evidente in qualche modo anche in Basile,
permettendoci di spiegare perché questo testo viene pubblicato postumo. Questo perché Basile non ebbe
mai l'intenzione di pubblicare un testo, dove in primo luogo c'è una critica nei confronti della corte e della
società del suo tempo, in secondo luogo perché la lingua che utilizza è una lingua che rappresenta un gioco,
un divertimento con gli altri intellettuali e cioè l'uso del dialetto napoletano. L'uso della lingua ha fatto si
che questo testo, che era stato prontamente prodotto per esempio in Francia, cadesse progressivamente in
disuso. Questo anche perché il dialetto utilizzato da Basile è particolarmente ricco e arzigogolato.
Il 600 è un periodo che viene travagliato da conquiste, da epidemie di peste, da rivolte (esempio:
Masaniello); c'è un senso di precarietà dell'esistenza a cui si oppone invece una sorta di slancio vitalistico,
una volontà di vivere appieno la vita finché c'è.
L'Italia in questo periodo è sotto il dominio delle potenze straniere, il sud invece è sotto il dominio degli
spagnoli.
Il poeta più rappresentativo della poesia barocca è Giambattista Marino, il quale in linea con quella che è la
linea del barocco sostiene che il fine del poeta fosse suscitare meraviglia e per fare ciò lo scrittore del
Barocco si serve soprattutto delle metafore, quella figura retorica che potremmo definire una similitudine
abbreviata.
Gli scrittori del barocco cercano di allontanarsi da quelle che sono le metafore utilizzate da Petrarca e
soprattutto dai poeti petrarchisti (movimento che si era verificato soprattutto durante il 500), quindi gli
uomini del barocco hanno l'esigenza di rompere con quelli che erano i canoni del passato. Ad esempio in
architettura, la linearità, l'equilibrio, la misura e la simmetria che caratterizza l'architettura del
Rinascimento, in contrapposizione l'architettura Barocca si contraddistingue per le decorazioni eccessive
che ricoprono l'intera superficie delle pareti (Cattedrale Santiago de Compostela).
Napoli in questo periodo e da questo punto di vista riveste un ruolo importante e proprio da Napoli viene
anche Basile, che però ha un grandissimo successo all'estero ma scarsa fortuna in Italia. Soprattutto questo
oblio nel corso di 3 secoli è stato determinato proprio dalla lingua, che costituisce un ostacolo
fondamentale. Diventa accessibile con Benedetto Croce, il quale traduce in italiano proprio Lo Cunto de li
Cunti e ne rende possibile la lettura.
Nonostante ciò questa lettura non si diffuse fino agli anni '70 del 900, dove abbiamo innanzitutto una
riscoperta della letteratura popolare e inoltre c'è anche il grande successo che parte da Napoli de La Gatta
Cenerentola, messa in scena al teatro da Roberto de Simone. Una riscoperta che però non torna nelle
antologie delle scuole superiori, ma che negli ultimissimi anni abbiamo l'attenzione internazionale su
questo libro perché nel 2015 esce il film Il racconto dei racconti che porta in scena alcune fiabe tratte
proprio da Basile con un successo e una partecipazione internazionale. Proprio Napoli diventa lo scenario
nel 2017 del film d'animazione di grandissimo successo La Gatta Cenerentola.
Lo cunto de' li cunti opera pubblicata postuma, scritta in dialetto napoletano e che ha un
grandissimo successo all'estero, soprattutto in Francia dove influenza, quello che possiamo dire insieme a
La Fontaine un grande favolista, Perrault.
Con Perrault infatti, noi abbiamo una tradizione favolistica che si accosta ad una letteratura moralistica che
in Francia ha un certo successo, che però non si riscontrerà in Italia.
La gatta Cenerentola nel 600 viene tradotta in francese, traduzione da cui Perrault attinge ed è proprio
questa che la porta ad una conoscenza più ampia della storia.
Nel 800 la stessa storia viene ripresa dai Fratelli Grimm. Nel 900 invece, viene ripresa da Walt Disney il
quale realizza un adattamento cinematografico.
Per ogni adattamento vi sono delle varianti che differiscono tra loro; nel film d'animazione del 2017 ad
esempio, vengono ripresi cosi come ne Il racconto dei racconti, il carattere originale di Basile, ossia una
Cenerentola che viene descritta come un'assassina (omicidio di una delle matrigne), quindi non c'è la
Cenerentola buona e docile di Walt Disney, anzi qui e con Basile mette in scena tutta la violenza, la
sopraffazione, l'invidia delle sorellastre e pur di sbarazzarsi della prima matrigna non esita ad ucciderla. Ci
presenta quindi quella che è una società violenta, un pezzetto quindi della vita del tempo e in particolar
modo della Corte. Questo potrebbe essere riconosciuto come un altro dei motivi per cui Basile che era un
uomo della Corte, forse, non voleva in qualche modo rischiare pubblicando un testo in cui, al di là
dell'apparente destinazione ai bambini (sottotitolo Lo trattenemiento de' peccerille), lo Cunto de li cunti è in
realtà destinato agli adulti.
Vuole dire che è un racconto che include altri racconti, ovvero Lo trattenemiento de' peccerille,
volgarmente detto anche Pentamerone.
In esso vi è un racconto cornice nell'introduzione che ci racconta la vicenda iniziale e che si riallaccia
all'ultima delle fiabe e alla conclusione. Quindi possiamo dire che Il Racconto dei racconti è questa sorta di
cornice che contiene tutte le fiabe* e riprende il modello di Boccaccio ecco perché Pentamerone, in quanto
si tratta di 50 fiabe raccontate in 5 giorni (anziché 10) da 10 personaggi (ritroviamo quindi lo stesso schema
del Decamerone, ossia narratore di 2° livello).
(* La favola di Machiavelli, Belfagor arcidiavolo, è una novella spicciolata, in quanto alcune novelle
circolano in delle raccolte (Masuccio Salernitano e Bandello), altre invece circolano singolarmente, le
spicciolate. )
Ma qui il modello di Boccaccio oltre a essere ripreso viene anche rovesciato, perché?
In Boccaccio i narratori sono 10 giovani, il cui nome (che richiama al greco) rappresenta delle qualità morali.
Le narratrici di Basile invece, sono 10 vecchie che hanno un nome e un soprannome che si riconduce a dei
difetti fisici → nomi delle narratrici:
• Zeza → la Sciancata
• Cecca → la Storta
• Memeca → la Gozzosa
• Tolla → la Nasuta
• Popa → la Gobba
• Paola → la Scervellata
• Ciommetella → la Tignosa
• Iacova → la Squacquoia
La storia iniziale de Il Racconto dei racconti è quella del Re di Vallepelosa, il quale ha una figlia che non ride
mai. Il Re tenta in tutti i modi per strapparle una risata, fa arrivare alla sua corte i personaggi più strani, ma
inutilmente. Alla fine il Re decide di far costruire una fontana che cacci olio, proprio davanti alla finestra
della camera della principessa, nella speranza che qualcuno passando scivolasse causandole una risata
improvvisa.
Un giorno alla fontana arriva una vecchia strega, questa comincia con una spugnetta a riempire un piccolo
vaso, mentre fa questo arriva dall'altra parte un servo e lanciandole un sasso finisce per colpire così il vaso
della vecchia, che cade e si rompe. Ne segue una scena ricca di parolacce da parte della vecchia a cui il
servo però non si sottrae, alché la vecchia si tira il vestito su e come dice Basile «espone la scena
boschereccia», questo suscita l'ilarità e il riso della Principessa.
La vecchia rendendosi conto delle risate di quest'ultima, la maledice, dicendole che non avrà mai un marito
se non il principe Camporotondo.
La principessa fa chiamare la vecchia per chiederle spiegazioni, la quale le dice che questo principe vittima
di un sortilegio è costretto al sonno, e solo colei che riuscirà a riempire con le proprie lacrime un vaso
riuscirà a rompere questo incantesimo. A questo punto la vecchia scappa via per paura che le guardie del
Re possano catturarla e punirla.
La principessa quindi, accetta questa maledizione e si mette in cammino alla ricerca del suo principe.
Questo oltre a rappresentare l'inizio della storia, segna anche la rottura dell'equilibrio (personaggio che si
mette in moto).
La principessa incontra sul suo cammino 3 fate, che le regalano ciascuna un oggetto magico: nocciola,
castagna e noce. E le raccomandano di utilizzare questi oggetti soltanto in caso di necessità.
La principessa continua il suo viaggio, e incontra diversi personaggi, qui possiamo parlare del
rovesciamento della narrazione di Boccaccio, in quanto se con lui troviamo realismo e novelle, qui invece
nonostante ci siamo molti riferimenti a quest'ultimo, la presenza della magia, di personaggi (orchi, strega,
fate) e di oggetti al di fuori del reale, fa si che parliamo di fiabe e non di novelle.
Infine la presenza della formula magica che costella tutta l'opera, specialmente ne La gatta
Cenerentola, importante inoltre è anche l'insistenza sul numero 3 come numero magico. Abbiamo
superato il simbolismo religioso di Dante, dove appunto il numero 3 riconduceva alla trinità, qui invece il 3
è il numero delle fiabe (Biancaneve → la strega tenta per 3 volte di ucciderla, Pelle d'asino → 3 balli). La
presenza e l'importanza del 3 la ritroviamo nella fiaba I tre cedri in cui Zoza (principessa) racconta la sua
storia.
A questo punto la principessa arriva in un luogo tanto lontano quanto magico, trova qui il principe
addormentato e l'anfora, inizia così a piangere fino a lasciare pochissimo ancora da riempire. Cade però in
un sonno profondo perché stanca. Arriva in quel momento una schiava nera (poi Marino un po'
controcorrente esalta la figura di questa schiava di cui si è innamorato nella finzione poetica), brutta e
malvagia, la quale capisce cosa sta succedendo e con furbizia finisce col riempire l'anfora con le sue lacrime,
facendo così svegliare il principe.
Il principe a questo punto crede che la schiava sia la donna che ha rotto l'incantesimo, decide quindi di
portarsela a Corte per sposarsela. La sposa e presto il principe è in attesa di un figlio.
Intanto Zoza si è svegliata, e sentendo parlare di questo matrimonio a corte capisce subito le cose come
sono andate. Per cui prende in affitto un appartamento proprio di fronte alla Reggia, entrambi si notano a
vicenda. A un certo punto, si ricorda di avere i doni delle 3 fate; decide quindi di utilizzare per primo la
noce, dalla quale uscì un nano che cominciò a cantare: la schiava, vedendolo alla finestra disse al principe
che lo voleva a tutti i costi, minacciandolo di prendersi a pugni la pancia ammazzando il loro figlio. Il
principe quindi, la accontentò, mandando un servo dalla principessa per comprare così quell'oggetto, la
principessa che assolutamente non vuole essere pagata glielo regala.
La seconda volta utilizza la castagna, dalla quale uscì una gallina con 12 pulcini, anche questa volta la
principessa nera la vuole a tutti i costi e quindi il principe manda nuovamente dalla principessa un servo,
accontentandola anche stavolta.
La terza volta utilizza l'ultimo dono, la nocciola, anche questo oggetto fa gola alla principessa nera.
Stavolta però, per cortesia, è il principe stesso che deve recarsi dalla principessa Zoza.
Zoza accondiscende e il principe per ripagarla la invita a corte.
Questa volta l'oggetto magico, provoca alla schiava nera il desidero insopprimibile di sentire raccontare
delle storie. Per cui il principe organizza una specie di escursione dove si bacchetta e si beve (il momento
del banchetto in uno scenario, quello di Napoli, dominato dalla peste, dalle carestie e dalla fame, è un
immagine che domina), dove il principe invita queste 10 narratrici a raccontare ogni giorno una storia
ciascuna, abbiamo quindi 5 giornate.
Questa è una struttura molto complessa, alla fine della storia, succede che poiché una delle narratrici è
ammalata, il principe invita Zoza a raccontare una novella, la quale racconta la sua storia, senza attribuirla a
se stessa.
Il principe quindi pone questa domanda a tutti e all'usurpatrice stessa “ qual'è la punizione che voi dareste
a questa usurpatrice?”, vengono dette e scelte le punizioni più atroci. La principessa nera che viene
scoperta dal principe, viene quindi seppellita viva.
La violenza domina sin dal primo momento, sia sul fronte fisico che su quello verbale (scontro tra la vecchia
e il servo), quindi c'è anche una ricchezza lessicale e molto spesso troviamo gli aggettivi, i verbi in un
accostamento ternario (3 aggettivi, 3 verbi, 3 azioni) perché questo chiama al magico e soprattutto servono
a suscitare quella meraviglia tipica del Barocco.
Quest'opera era stata composta da Basile sotto un falso nome (Gian Alesio Abbattutis, che è quasi
l'anagramma di Gian Battista Basile) e viene pubblicata postuma dalla sorella Adriana Basile, la quale era
una cantante famosissima (gli artisti avevano una grande importanza nella vita di Corte) non soltanto a
Napoli, e che per un certo periodo si trasferisce a Mantova, e li aveva una forte ascendenza sulla Corte.
Insieme a lei viaggiava spesso anche la sua famiglia, tra cui il fratello, e quindi alla morte di Gian Battista è
lei che si da da fare per pubblicare questo testo.
La maggior parte di queste storie non le ha inventate lui ma provengono da una tradizione popolare, ma il
solo fatto che recuperi e scriva le inserisce in qualche modo in una tradizione più alta, è la stessa
operazione che fa Ariosto con l'Orlando Furioso, raccoglie le storie che circolavano durante il Medioevo,
lavorando sulla lingua, attendendosi ai modelli che propone Bembo, permettendo quindi la circolazione dei
testi in tutta Italia.
Il discorso della lingua è stato fondamentale in Basile, in quanto fino a quanto non fu tradotta da Benedetto
Croce, proprio l'utilizzo del dialetto è stato l'elemento fondamentale che ha determinato l'oblio di questo
testo. La traduzione di Benedetto Croce ha avvicinato il lettore a Basile.
La Gatta Cenerentola
Questo testo racchiude una morale, in questo caso la fiaba è dedicata all'invidia: invidia delle sorellastre
che tentanto in tutti i modi di impedire il successo di Cenerentola.
Inoltre ogni fiaba si conclude con un modo di dire, in questo caso: «pazzo è chi contrasta con le stelle» (in
quanto le sorellastre tenteranno di opporsi a quello che è il destino di Cenerentola). La difficoltà che si
riscontra oggi, per quanto tradotta, è che presenta tutta una serie di termini ormai in disuso.
Nel film d'animazione La Gatta Cenerentola, le sorellastre sono 6, si va quindi a riprendere quindi il testo
originale.
LEZIONE LETTERATURA ITALIANA 28/03
La cornice del racconto di Basile è più particolare rispetto a quella di Boccaccio, perché c’è una cornice che
per una parte potremmo definire ‘esterna’ al racconto e poi diventa narrata dalla stessa protagonista, cioè
la principessa Zorra.
L’elemento tipico che viene mantenuto da Basile è il numero 3 che si carica di una valenza riferita alla
magia.
Un alto elemento tipico della scrittura di Basile è questa ricchezza che risponde al desiderio di riempire i
vuoti (caratteristica del Barocco). Infatti, nell’introduzione a Basile, abbiamo parlato della sua appartenenza
al Barocco ma Benedetto Croce, facendo la traduzione di questo testo, sottolinea che questo può
considerarsi il testo più significativo del Barocco e vedremo, punto per punto, gli elementi che
appartengono al Barocco.
Questa ricchezza trova riferimento anche nella letteratura, non solo nell’arte, attraverso una serie di
aggettivi (ricchezza sintattica che vedremo del testo). La figura retorica tipica del Barocco è la METAFORA e
lo scopo del Barocco è suscitare MERAVIGLIA; quindi attraverso la Metafora si arriva a suscitare meraviglia
con le immagini che il poeta ci offre (ex. Petrarca).
In questa fiaba troviamo immagini amorose. Il linguaggio è molto basso.
Ci troviamo al terzo giorno di festa, ogni cosa è vista come qualcosa di incredibilmente bella, tipica della
scrittura del Barocco ricca di metafore. La grande ‘abbuffata’ descritta nella fiaba la troviamo già nella
cornice introduttiva. Attraverso la descrizione del cibo sappiamo che ci troviamo a Napoli, perché ci sono
dei riferimenti a vari piatti tipici (ex. Il casatiello).
Sono presenti delle coppie di antitesi per descrivere le fanciulle presenti al banchetto.
Il motivo di fondo di questa novella è il continuo ‘trasformarsi’ grazie alla magia.
In Cenerentola abbiamo un profilo un po’ lontano da quella della fanciulla del tutto buona, infatti abbiamo
visto che lei è un’assassina, perché si sbarazza della propria matrigna nella speranza di poi essere trattata
meglio dalla seconda. L’atteggiamento del padre vediamo che muta, si ‘trasforma’, diventa complice della
matrigna e delle sorellastre. Lei nei confronti del padre è molto determinata, infatti gli manda una
maledizione. In come tutte le fiabe, anche qui ci sono gli aiutanti. La tentazione, come il tempo, non è
definita. Ci sono varie versioni di questa fiaba, questa è quella originale.
LETTURA DI UN’ALTRA FIABA, molto vicina al realismo di Andreuccio. La fiaba è di Domenico Tea, autore del
900, ed è intitolata ‘ LO SCARAFAGGIO, IL TOPO, IL GRILLO’.
Questa è la storia di un uomo semplice che riesce a diventare il marito di una principessa grazie all’aiuto di
animali magici (lo scarafaggio, il topo, il grillo; animali non nobili) e non di oggetti magici (come in
cenerentola).
All’inizio si anticipa la morale della fiaba: LA FORTUNA, che è femmina e puntigliosa.
Basile riprende questa immagine della fortuna da Macchiavelli (cap. 25 del Principe).
Riprende l’immagine della ruota della fortuna da Ariosto (Orlando Furioso, canto XIX).
Il concetto è che la fortuna aiuta più volentieri quelli che le danno più retta.
‘’ C’era una volta il Vomero…’’: il Vomero non era il quartiere che è oggi ma era un paesaggio di campagna.
Nardiello è mandato tre volte dal padre a fare mercanzia con cento ducati per volta, e compra una volta
uno scarafaggio, un’altra un topo e la terza un grillo. Scacciato per questo dal padre, giunge in un paese,
dove, sanando per mezzo di questi animali la figlia del re, dopo vari casi, le diventa marito.
Assai lodarono il principe e la schiava il giudizio di Sapia Liccarda; ma lodarono assai più Tolla, che aveva
saputo cosi ben porgere questo caso, che parve ad ognuno di esservi stato presente; e poiché, seguendo
l’ordine della lista, succedeva Popa al parlare, essa si comportò da Orlando, dicendo a questo modo: La
Fortuna è femmina puntigliosa e fugge la faccia degli uomini dotti, perché costoro fanno più conto di un
voltamento di fogli che non delle girate di una ruota; e perciò essa pratica volentieri con gl’ignoranti e
dappoco, e non dubita, per ottenere onore presso la plebe, di ripartire i suoi beni agli stolti, nel modo che si
può udire nel racconto seguente. C’era una volta sul Vomero un massaro assai ricco, chiamato Miccone,
che aveva un figlio a nome Nardiello, il più sciagurato bestione che si trovasse mai nella polmonara1 dei
gaglioffi; di tal che il disgraziato padre ne pativa amarezza e afflizione, non sapendo in qual modo e maniera
indirizzarlo per fargli fare cosa che riuscisse a sesto e a livello. Se andava all’osteria a porcheggiare coi
compagni scrocconi, era burlato; se praticava con male femmine, prendeva la peggiore carne e la pagava
contro l’assisa2 ; se giocava nelle bische, lo trappolavano, lo mettevano in mezzo e lo lasciavano nudo
nudo: cosicché, con questo suo bel fare, aveva già dissipato mezzo le 1 Come si è detto, era una nave
vecchia che serviva da ospedale: v. p 82, n. 16. 2 Assisa o tariffa. 240 facoltà paterne. Miccone tempestava
continuamente, e, gridando e minacciando, gli diceva: «Che ti pensi di fare, scialacquone? Non vedi che la
roba mia ormai se ne va giù pel fiume? Lascia, lascia coteste maledette osterie, che cominciano con nome
di nemici e finiscono con significato di male1 ; lasciale, che sono emicranie del cervello, idropisie della gola
e diarree della borsa; lascia, lascia il giuoco scomunicato, che ci mette a risico la vita e si rosica la roba, che
ci toglie i contenti e ci consuma i contanti, dove le zare ti riducono in zero, e le parole ti assottigliano come
piolo di liuto! Lascia, lascia di sbordellare con cotesta mala razza, figlia del brutto peccato, con la quale
spendi e spandi; per una sordida, consumi soldi; per una carne disfatta, ti disfai e ti riduci a spilluzzicare
ossa; ché non sono, esse, meretrici, ma mare-trace2 dove sei preso dai turchi! Allontànati dalle occasioni,
che cosi ti stacchi dal vizio: ‘remota la causa’, disse quello, ‘si rimuove l’effetto’. Eccoti, dunque, questi
cento ducati e va’ alla fiera di Salerno, e comprane tante giovenche, che, a capo a tre o quattro anni,
faranno tanti buoi; cresciuti i buoi, li metteremo ad arare e a seminare; seminato, ci daremo a vendere
grano; e, se ci càpita una buona carestia, misureremo gli scudi a tomoli, e, al pari di un altro, ti compri un
titolo sulla terra di qualche amico, e sarai tu pure titolato, come tanti altri. . Perciò attendi, figlio mio, ché
ogni cosa ha capo, e chi non comincia, non continua». «Lascia fare a me — rispose Nardiello, — ché ora
farò il conto mio e tutto deve andare a regola e misura».cosi ora farò i miei interessi «Cosi ti voglio», replicò
il padre; e gli sborsò i tornesi. Nardiello s’avviò alla volta della fiera; ma non era ancora arrivato alle acque
del Sarno percorso per arrivare a Salerno, quando, in un bel boschetto d’olmi, a piè di un sasso che, per
rimedio di un flusso perpetuo d’acqua fresca, s’era attorniato di fronde d’ellera, vide una fata, che
giocherellava con uno scarafaggio, il quale suonava di tal maniera una chitarretta che, se l’avesse udita uno
spa- 1 Cioè, «oste-rie»; nella prima parte, «oste», «hostis», e nella seconda «rie», da «rio», malvagio. 2 La
parte superiore dell’Egeo 241 gnuolo, l’avrebbe detta «cosa superbiosa e grandiosa»1 , Si fermò incantato
Nardiello ad ascoltare QUINDI TROVIAMO IL PERSONAGGIO MAGICO LA FATA CON L'ANIMALE MAGICO ,
dicendo che avrebbe pagato una pupilla degli occhi suoi per possedere un animaletto così virtuoso; e la fata
gli rispose che, se avesse pagato cento ducati, glie l’avrebbe dato. «Non potevi chiedermeli in momento più
opportuno — replicò Nardiello, — ché li ho pronti e lesti»; e le gittò in grembo i cento ducati, prendendosi
Lo scarafaggio in una scatoletta2 . Stretta questa sotto il braccio, corse al padre, pieno di una grande
allegria che gli saliva su dai malleoli, gridando: «Ora vedrai, messere mio, se io sono uomo d’ingegno, e se
so fare il fatto mio; perché, senza straccarmi ad andare fino alla fiera, ho trovato a mezza strada la fortuna
mia, e per cento ducati ho avuto questo gioiello!». Il padre, udendo questo parlare e vedendo la scatoletta,
tenne per certo che il figlio avesse acquistato qualche monile di diamanti; ma, aperta la cassettina e visto lo
scarafaggio, la vergogna del dispetto e il dolore dell’interesse furono due mantici che lo fecero gonfiare
come un rospo. Nardiello voleva narrare le virtù dello scarafaggio; ma non gli fu possibile pronunziare una
parola, interrotto dal padre, che diceva: «Sta’ zitto, tura, chiudi questa bocca, tappa; non fiatare, razza di
mulo, giudizio di cavallo, testa d’asino, e, sull’istante stesso, riporta lo scarafaggio a chi te l’ha venduto.
Eccoti altri cento ducati: comprane tante giovenche, e torna subito qui; e bada che non ti accechi il diavolo,
ché ti fo mangiare le mani coi denti».(LO MINACCIA GLI DA 100 DUCATI E GLI DICE DI ANDARSENE)
Nardiello, presi i denari, si avviò verso la torre di Sarno3 , e, giunto al medesimo luogo di prima, trovò
un’altra fata, che scherzava con un topo, il quale faceva le più belle mutanze di ballo che mai si potessero
vedere. Stette per un pezzo a bocca 1 «Soberbiosa y grandiosa»; accenno al modo iperbolico di fraseggiare,
che gl’italiani solevano notare negli spagnuoli. 2Testo: «drinto a no marzapaniello», che sarebbe un
panierino; ma, più oltre, in una «scatoletta». 3 La torre o castello di Scafati, ch’era sulla sponda sinistra del
Sarno. 242 aperta a contemplare i dainetti1 , gli atteggiamenti, le capriole, le puntate e le corse di
quest’animale, ed ebbe a strasecolare; e, infine, domandò alla fata se glielo vendeva, ché le avrebbe dato
cento ducati. La fata accettò la proposta, e, presi i pezzi d’argento, gli consegnò il topo in una scatola; e
Nardiello, tornato a casa, mostrò la bella compra al disgraziato Miccone, che fece cose d’inferno,
sbattendosi come un polpo colpito, sbuffando come un cavallo capriccioso; e, se non era per un compare
che si trovò presente allo scontro, gli avrebbe preso bene la misura della gobba. In ultimo, il padre, che era
arrabbiato sul serio, gli consegnò altri cento ducati e gli disse: «Avverti a non farne più delle tue, ché la
terza volta non te la cavi. Va’, dunque, a Salerno, e compra le giovenche, ché, per l’anima dei morti miei, se
tu la sbagli, povera la mamma che ti ha messo al mondo!». Nardiello, con la testa bassa, s’avviò alla volta di
Salerno, e, pervenuto al luogo solito, trovò una terza fata, che si divertiva con un grillo, il quale cantava cosi
dolcemente che faceva addormentare la gente. All’ascoltare la nuova sorta d’usignuolo, egli ebbe subito
voglia di stringere mercato(CIOE DI VALUTARE DI COMPRARLO), e, accordatisi per cento ducati, se lo mise
in una gabbietta formata di una zucca lunga vuotata e coperta di fuscelli, e se ne tornò al padre. Il quale,
quando vide questo terzo cattivo servizio, usci dai gangheri affatto, dié di mano a un randello e lo conciò
meglio di come avrebbe fatto Rodomonte. Quando potè sguizzargli dalle branche, Nardiello prese le tre
bestiole e sfrattò dal paese, trottando alla volta di Lombardia. Era colà un gran re, chiamato Cenzone, che
aveva una figlia unica, chiamata Milla, la quale, per una certa infermità, era caduta in tanta malinconia, che
per lo spazio di sette anni continui non si era più veduta ridere. Disperato il padre, dopo avere provato mille
rimedi e speso il cotto e il crudo, fece gittare un bando che l’avrebbe data per moglie a chi avesse saputo
moverla a riso.(IL MATRIMONIO VIENE DECISO DAL BANDO) E Nardiello, che udì questo bando, ebbe
capriccio di tentare la sua sorte,(LA FORTUNA) e, andato innanzi a Cenzone, 243 s’offerse di farla ridere.
Quel signore gli disse: «Sta’ in cervello, camerata, ché, se poi la cosa non ti riesce, ci andrà di mezzo la
forma del tuo cappuccio»( CIOE GLI DICE STAI ATTENTO PERCHE SE CI PROVI E NON CI RIESCI IO TI
UCCIDERò . «Vada la forma e la scarpa — replicò Nardiello — ché io mi ci voglio provare, accada quel che
voglia accadere». Il re fece chiamare la figlia e, sedutisi entrambi sotto un baldacchino, Nardiello cavò dalla
scatola i tre animaletti, che suonarono, ballarono e cantarono con tanta grazia e con tanti vezzi che la
principessa scoppiò a ridere. Ma pianse il re dentro il suo cuore, perché, in virtù del bando, si vedeva
costretto a dare il gioiello delle femmine a colui ch’era la feccia degli uomini. Tuttavia, non potendo tirarsi
indietro dalla promessa, (STESSA SITUAZIONE CHE TROVIAMO NELLA PULCE DOVE LA PAROLA DATA
SIGNIFICA LA COLLOCAZIONE NELLA SOCIETà, UN MONDO FATTO DI APPARENZE IN CUI IL RUOLO SOCIALE
è ?) disse a Nardiello: «Io ti do mia figlia e lo stato per dote, ma col patto, che se tu, fra tre giorni, non
consumi il matrimonio, io ti fo divorare dai leoni». «Non ho paura — disse Nardiello, — ché in tre giorni son
uomo da consumare il matrimonio, tua figlia e tutta la casa tua. Adagio, ché andremo, come disse
Carcariello, alla prova si conoscono i cocomeri»2 . Celebrata la festa nuziale e venuta la sera, quando il Sole
è portato come mariuolo con la cappa sul capo alle carceri dell’occidente, gli sposi andarono a letto. Ma il
re maliziosamente fece dar l’oppio a Nardiello, sicché egli russò tutta la notte. Cosi fu gittato nel serraglio
dei leoni. In questo luogo Nardiello, vedendosi agli estremi, apri la scatola degli animali, dicendo: «Poiché la
sorte mia mi ha trascinato con un triste carro a questo doloroso passo, non potendo non lasciarvi, o belli
animali miei, io vi fo franchi, affinché possiate andare dove vi pare e piace»(CIOE FA UN ATTO DI
GENEROSITà E LIBERA I SUOI CARI ANIMALETTI RESTITUENDOGLI LA LIBERTà). Gli animali, appena liberati,
cominciarono a eseguire tante bagattelle e giocherelli, che i leoni rimasero come statue. E a Nardiello, che
era già con lo spirito ai denti, il topo parlò cosi: «Allegramente, padrone, che, sebbene tu ci abbi data la
libertà, noi ti vogliamo essere più schiavi che mai, perché ci hai cibati con tanto amore e conservati con
tanta affezione, e 1 Cioè, la testa. 2 I cocomeri si vendono «con la prova», cioè con un taglio sulla buccia,
per accertare che siano ben rossi e saporosi. 244 in ultimo ci hai dato segno di tanta tenerezza con
l’affrancarci. Non dubitare: chi bene fa, bene aspetta; fa’ bene e scordatene. Ma sappi che noi siamo fatati;
e, per mostrarti fino a qual grado possiamo e valiamo, vienici dietro, ché esci da questo pericolo».(QUINDI
SEGUICI) E, avviandosi Nardiello dietro di lui, il topo fece subito un pertugio, grande che potesse passarvi un
uomo, per il quale, con una salita a scalini, lo condussero sopra in salvo. Di là lo menarono a un pagliaio,
dove gli dissero che comandasse loro tutto quello che desiderava, perché non avrebbero lasciato cosa
alcuna per dargli gusto. «Il mio gusto sarebbe — rispose Nardiello — che, se il re ha dato un altro marito a
Milla, mi faceste il gran piacere di non far consumare il matrimonio, perché sarebbe come consumare
questa mia sventurata vita». «Questo e niente è tutt’uno — risposero gli animali; — sta’ di buon animo e
aspettaci in questa capanna, ché ora trarremo fuori il fracido». Andarono, dunque, alla corte, e là trovarono
che il re aveva maritato la figlia a un gran signore tedesco, e che quella sera stessa si manometteva la
botte.(METAFORA PER DIRE CHE AVREBBERO CONSUMATO IL MATRIMONIO) Gli animali penetrarono
destramente nella camera degli sposi e attesero che, terminato il banchetto, quando la Luna esce a pascere
di rugiada le gallinelle1(UN ALTRA METAFORA, QUINDI QUANDO SPUNTA LA LUNA) , essi venissero a
coricarsi. E poiché lo sposo aveva caricato la balestra e preso carta soverchia2 , appena si ficcò sotto le
lenzuola, si addormentò e parve che giacesse scannato. Lo scarafaggio, che senti il russare dello sposo, se
ne sali pian piano pel lembo del padiglione e s’introdusse lesto nell’ano dello sposo, servendogli da
supposta in tal forma, e sturandogli in tal maniera il corpo, che potè dire col Petrarca: d’amor trasse indi un
liquido sottile3 . La sposa, che intese lo strepito di tale dissenteria, l’aura, l’odore, il refrigerio e l’ombra4
(STA FACENDO RIFERIMENTO ALLA SCRITTURA REALISTICA CHE SI POGGIA SU TUTTI E 5 I SENSI) “, 1 Le
Pleiadi. 2 Una delle tante immagini per significare «ubbriacarsi»: come lo sposo non aveva mancato di fare,
da buon tedesco. 3 Son. CLII (I, 133). Nel Petrarca: «tragge». 4 Son. CCLXXXIII (n, 55). 245 svegliò il marito,
che visto con quale profumo aveva dato incenso all’idolo suo, ebbe a morir di vergogna e a scoppiare di
collera. E, levatosi dal letto e fatto un bucato a tutta la persona mandò a chiamare i medici, che
attribuirono la causa di tale disgrazia al disordine commesso nel banchetto. La sera dopo, si consigliò coi
suoi camerieri, che furono tutti di parere che, per rimediare a qualche nuovo inconveniente, s’imbragasse
di buoni panni; e, ciò eseguito, s’andò a coricare e di nuovo s’addormentò subito. Lo scarafaggio, che si
rimise al lavoro per fargli il secondo dispetto, questa volta trovò serrati i passi; onde, malcontento, ritornò
ai compagni, informandoli che lo sposo s’era fatto riparo di bende, argine di falde e trincee di stracci. Il
topo, ciò udito, gli disse: «Vieni con me, e vedrai se sono buon guastatore a farti la spianata». E, giunto sulla
faccia del luogo(CIOE GIUNTO SUL POSTO), cominciò a rosicchiare i panni e a lavorare un buco a livello
dell’altro, per dove, entrando lo scarafaggio, gli somministrò un’altra cura medicinale, di maniera che colui
fece un mare di liquido topazio e gli arabici fumi infettarono il palazzo.(METAFORA PER DIRE DI COME
L'ODORE SI SPARSE PER TUTTO IL PALAZZO) Si svegliò l’ammorbata sposa, e, visto al lume della lampada il
diluvio cedrino(COLORE GIALLOGNOLO), che aveva cangiato le lenzuola di Olanda in tabì di Venezia giallo
ondato, turandosi il naso, fuggi alla camera delle donzelle. E il misero sposo, chiamando i camerieri, recitò
una lunga lamentazione della disgrazia sua, che con cosi lubrico fondamento aveva cominciato a costruire
le grandezze della sua casa.(REALISMO CHE GIA ABBIAMO VISTO NELLA SCRITTURA DI BOCCACCIO,
VEDIAMO PASSI ED ELEMENTI CHE CI RIDUCONO AD UN REALISMO,COME NEL PASSO DEL BACHETTO,
RICONDUCENDOCI AD ASPETTI SENSORIALI) I familiari lo confortarono, consigliandogli di stare bene
attento la terza notte e gli narrarono l’aneddoto del malato sparacoreggie e del medico mordace, che,
lasciandosi il malato sfuggire uno sparo, gli disse, favellando da letterato: Sanitatibus; e, seguendone un
altro, replicò: Ventositatibus; ma, continuando con un terzo sparo, quegli spalancò grande la bocca, e disse:
Asinìtatibus. Perciò, se il primo lavoro di musaico, fatto nel letto nuziale, era stato attribuito al disordine del
mangiare, il secondo al cattivo stato dello stomaco, pel quale gli si era sommosso il corpo, il terzo sarebbe
stato imputato a natura cacaiola, ed egli sarebbe scacciato a puzzo e a vergogna. «Non dubitate — disse lo
sposo, — ché questa notte, dovessi 246 crepare, voglio star sempre vigile, non lasciandomi vincere dal
sonno; e, oltre di ciò, penseremo al rimedio che si può usare per otturare il condotto maestro, affinché non
mi si dica: Tre volte cadde ed alla terza giacque!»1 . Con tale appuntamento, quando si fu alla terza notte,
cangiati camera e letto, lo sposo chiamò i camerieri, domandando loro consiglio circa l’otturamento del
corpo, che non gli facesse la terza burla: perché, quanto allo stare sveglio, non lo avrebbero addormentato
tutti i papaveri che sono al mondo. Era tra quei servitori un giovane che si dilettava dell’arte del
bombardiere(UN ARTIFICIERE); e, poiché ognuno tratta del mestiere proprio, consigliò allo sposo di
mettersi un tappo di legno come si usa ai mortaretti. Fu foggiato l’oggetto e adattato saldo come andava; e
lo sposo si coricò, non osando toccar la sposa, per timore, in quello sforzo, di guastare l’invenzione, e non
chiuse occhio per tenersi pronto a ogni movimento dello stomaco. Lo scarafaggio, che non vedeva
addormentarsi lo sposo, disse ai compagni: «Oimè, questa è la volta che resteremo scornati, e l’arte nostra
non ci varrà a nulla: lo sposo non dorme e non mi dà modo di continuare l’impresa». «Aspetta — disse il
grillo, — ché ora ti servo». E, prendendo a cantare dolcemente, fece addormentare lo sposo. Corse allora lo
scarafaggio per praticare la solita siringa; ma, trovata chiusa la porta e sbarrata la strada, tornò disperato e
confuso ai compagni, riferendo quel che gli era incontrato.(TAPPO CHE LO SCARAFAGGIO NON POTEVA
ATTRAVERSARE) Il topo, che non aveva altro fine che di favorire e contentare Nardiello, immediatamente
andò alla dispensa, e, odorando di vaso in vaso, s’imbattette in un alberello di mostarda di senapa: vi
stropicciò la coda e, tornato di corsa, ne unse le narici dello sciagurato tedesco. Subito questi prese a
starnutire, e cosi forte fu uno starnuto che il tappo scattò via con violenza, e, trovandosi lo sposo con la
schiena rivolta alla sposa, la colpi in mezzo al petto cosi furiosamente che l’ebbe ad ammazzare. Alle strida
della figliuola accorse il re, domandando che 1 È del Caro, nella traduzione dell 'Eneide, IV, 1061, e
parafrasa il «ter revoluta toro est» di Virgilio. 247 cosa fosse successo; ed essa disse che le era stato sparato
un petardo al petto. Si maravigliò il re di questa sciocchezza marchiana, che con un petardo nel petto essa
potesse parlare; e, alzate le coperte e le lenzuola, trovò il getto di crusca e il tappo del mortaretto, che
aveva fatto un buon livido alla sposa: sebbene non si possa dire che cosa le recasse maggior danno, se il
puzzo della polvere o il colpo della palla. (METAFORA) Il re, veduto il sudiciume e appreso che era la terza
liquidazione di strumento, da colui a quel modo eseguita, lo scacciò dal territorio del suo regno; e,
considerando che tutto questo gli era accaduto per la crudeltà usata al povero Nardiello, se ne dava pugni
al petto.(CONVINTO CHE NARDIELLO FOSSE MORTO) Ma, mentre, pentito del male che aveva commesso,
spargeva il suo lamento, gli si fece innanzi lo scarafaggio e gli disse: «Non vi disperate, perché Nardiello è
vivo, e, per le sue buone qualità, merita di essere genero di vostra magnificenza; e, se vi contentate che
venga, lo manderemo a chiamare». «Oh sii il benvenuto per questa buona novella che mi porti, bello
animale mio! Tu mi hai dato la vita; tu mi hai levato da un mare di affanni, perché mi sentivo un rimorso al
cuore pel torto fatto a quel povero giovane. Fammelo venire, ché voglio abbracciarlo come figlio e dargli
mia figlia per moglie». Udito questo, il grillo saltellon saltellone andò alla capanna ove si tratteneva
Nardiello, e, raccontatogli tutto l’accaduto, lo condusse al palazzo reale, dove fu incontrato e baciato dal re,
ed ebbe Milla per moglie. Nel tempo stesso, per la fatagione(INCANTESMO) che gli dettero quegli animali,
diventò un bel giovane; e, mandato a chiamare il padre dal Vomero(ALLA FINE SI RICONGIUNGONO),
rimasero insieme felici e contenti, provando, dopo mille stenti e mille affanni, che accade più in un’ora che
in cent’anni. (E QUIDNI QUESTA è LA MORALE DELLA STORIA, CHE IN UN ORA PUO SUCCEDERE PIU DI
QUANYO POSSA ACCADERE IN 100 ANNI)
DELLA FIABA DELLE FIABE. CONCLUSIONE ALLA INTRODUZIONE DEI TRATTENIMENTI CHE RISPONDE AL
TRATTENIMENTO DECIMO DELLA GIORNATA QUINTA
Narra Zoza la storia delle sue sventure, e la schiava, che si sente toccare i tasti, fa quanto può per
interrompere il racconto. Ma il principe, a suo dispetto, vuole ascoltarlo; e, scoperto il tradimento di colei,
la fa morire, tuttoché incinta, e prende in moglie Zoza.
Tutti stettero con gli orecchi tesi ad ascoltare il racconto di Ciommetella; e alcuni lodarono il sapere con cui
l’aveva recitato, altri mormorarono, accusandola di poco giudizio, che non doveva, alla presenza di una
principessa schiava mora, manifestare i vituperi di un’altra della stessa razza, e che perciò s’era posta a gran
rischio di guastare il gioco. la storia della schiava nera truffatrice viene in qualche modo screditata perche
era offensiva nei confronti dela principessa nera presente Ma Lucia fece veramente da Lucia1, dimenandosi
tutta, mentre si narrava il racconto; sicché dall’irrequietezza del corpo era dato congetturare la burrasca
che le soffiava nel cuore, avendo visto nella storia di un’altra schiava il racconto preciso degli inganni suoi.
Ed avrebbe fatto cessare la conversazione; ma, in parte perché non poteva far di meno dei racconti, tanto
fuoco le aveva messo in seno la bambola, al modo stesso che colui, che è morso dalla tarantola, non può
astenersi dai suoni2, e in parte per non dar materia di sospetti a Taddeo, s’inghiotti questo torlo d’uovo con
disegno di farne a tempo e a luogo buon risentimento.difronte a questo racconto che raconta la viceda di
zoza e la sua ,Lucia la schiava nera si dimena ma fa buon viso a cattivo gioco anche perche da un lato si
riserva di vendicarsi dall'altro lato ha sempre questo desidero fatato che è venuto dalla bambola di sentire
racconti Ora, Taddeo, al quale il passatempo dei racconti era entrato in grazia, accennò a Zoza che dicesse il
suo; ed essa, dopo i soliti complimenti, incominciò: non dicmenticare che siamo in un ambiente di corte,
quindi dopo i soliti complimenti intende quello che è il galateo, determinate cerimonie
«La verità, signor principe, fu sempre madre dell’odio;serve e perciò non .vorrei che l’obbedire ai comandi
vostri offendesse alcuno di quelli che sono qui presenti cioe che raccontare la storia potesse offenre i
presenti; perché, non essendo usa a fingere invenzioni e a tessere favole, sono costretta, per 1 Cioè, esegui
il ballo della Lucia, con le contorsioni relative.
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natura e per accidente, a dire fatti veri. E, quantunque il proverbio dica: ‘Piscia chiaro e fa’ le fiche al
medico’, tuttavia, sapendo che la verità non è ricevuta alla presenza dei principi, io tremo di dire cosa che vi
faccia forse montare i fumi della collera» la verità non è ricevuta senza dei principi, cioe non è dei poveretti.
«Di’ quello che vuoi — rispose Taddeo, — ché da questa bella bocca non può uscire niente che non sia
inzuccherato e dolce». Queste parole furono pugnalate al cuore della schiava, e ne avrebbe mostrato
segno, se le facce nere fossero, come le bianche, libro dell’anima, e avrebbe pagato un dito della mano a
esser digiuna di quei racconti, perché il cuore le si era fatto più nero della faccia, e, dubitando che il
racconto passato non fosse stato prima annunzio e poi malanno, dal mattino previde il cattivo giorno.serie
di metafore Ma Zoza, in questo mezzo, cominciò a incantare i circostanti con la dolcezza delle parole,
raccontando dal principio alla fine tutti gli affanni suoi, a cominciare dal punto della naturale malinconia
sua, infelice augurio di quello che doveva accaderle, perché essa aveva portato sin dalla culla l’amara radice
di tutte le crudeli sciagure, le quali, servendosi della chiave del suo riso sforzato, la sforzarono a tante
lacrime.Seguitò poi con la bestemmia della vecchia, col pellegrinaggio suo accompagnato da tanta angoscia,
con l’arrivo alla fontana, e il piangere dirotto, e il sonno traditore, che fu la sua rovina sta raccontando la
verità. La schiava, sentendola prendere largo e tira, e vedendo male avviata la barca, gridò: «Stare zitta,
turare; se no, pugni a ventre dare e Giorgetiello acciaccare!». Ma Taddeo, che aveva scoperto paese, non
ebbe più flemma, e, toltasi la maschera e gittando la barda in terra, disse: «Lasciala raccontare fino in fondo
la prima volta che taddeo si ribella e non fare più coteste rapine di cappa con Giorgetiello e Giorgione,
perché, infine, non mi hai trovato solo1, e, se mi monta la senapa, meglio che ti avesse schiacciata una
ruota di carro». E comandò a Zoza che seguitasse a dispetto della moglie; ed essa, che non voleva altro che
il cenno, se 1 Sottintendi: «perché io ho le mani».
guitò narrando come avesse trovato rotta l’anfora e l’inganno usato dalla schiava nel levargliela di mano; e,
cosi dicendo, scoppiò a piangere di maniera, che non fu nessuno dei presenti che stesse saldo allo schianto.
Taddeo, dalle lacrime di Zoza e dal silenzio della schiava, che era ammutolita, comprese e pescò la verità
del fatto; e, somministrata a Lucia tale strigliata di capo che non si farebbe a un asino, e costrettala a
confessare con la propria sua bocca il tradimento, dié subito ordine che fosse sepolta viva, con la sola testa
allo scoperto affinché la morte sua fosse stentata. E, abbracciando Zoza, le fece rendere onore come a
principessa e moglie sua, e mandò avviso al re di Vallepelosa il padre di Zoza che venisse alla festa. Con
queste nuove nozze, terminò la grandezza della schiava e il trattenimento dei racconti; e buon prò e sanità
vi faccia, ché io me ne venni via, passo passo, con un cucchiaietto di miele.
LEZIONE 02/04
Saggio di Domenico Reia – confronto con Basile: Già con Boccaccio e con Lo Scarafaggio di Basile stiamo
prestando particolare attenzione non solo al tema del popolare e della lingua, ma anche al tema della
sensorialità, ovvero il corpo e Napoli – già ripreso da Boccaccio e che rivediamo con Francesco Bastiani(?).
La vecchia scorticata C’è sempre una morale nelle fiabe di Basile, ripresa soprattutto nella tradizione
favolistica francese. Basile scrive queste fiabe non solo a scopo accademico, ma hanno l’intento di fare
critica nei confronti della corte, espressa nelle quattro egloghe (in versi) poste alla fine di ogni giornata
(tranne l’ultima), in cui vengono presentati personaggi di corte. Queste egloghe sono una sorta di
metaforna poiché nascondono le caratteristiche della vita di corte; per esempio Aventa (tinta- serve a
nascondere ciò che c’è sotto: ex. tinta per capelli - risulta come una maschera che ci aiuta a nascondere la
realtà delle cose e delle persone) o Uncino (una trappola che serve ad ingannare la preda) fungono da
simbolo per rappresentare gli screzi che caratterizzano i rapporti sociali dell’alta società. “Il re di
Roccaforte s’invaghisce, al suono del parlare, di una vecchia non veduta, e, ingannato dalla mostra di un
dito delicato, la riceve nel suo letto; ma, scoperto poi l’inganno, la fa gittare da una finestra. Restando colei
sospesa a un albero, è fatata da sette fate, diventa una bellissima giovane e il re se la prende per moglie. La
sorella della vecchia, invidiosa della fortuna di lei, per farsi anch’essa bella, si fa scorticare e muore.” La
vecchia scorticata, invidiosa della fortunata sorella che ha ritrovato la giovinezza, decide di farsi scorticare
nella speranza di avere la stessa sorte, ma muore. “Il vizio maledetto, che è incastrato in noi femmine, di
voler parere belle, ci riduce a tali termini che, per indorare la cornice della fronte, si guasta il quadro della
faccia; per biancheggiare la pelle delle carni, si rovinano le ossa dei denti; e, per dar luce alle membra, si
copre d’ombre l’aspetto, perché, innanzi l’ora di pagare il tributo al tempo, vengono cispe agli occhi, rughe
alla faccia e mancanze ai molari. Pure, se merita biasimo una giovincella, che, troppo vana, si lascia andare
a coteste frascherie, quanto più degna di castigo è una vecchia, che, volendo gareggiare con le ragazze, si
attira la baia della gente e la rovina su se stessa: come sto per narrarvi, se mi darete un tantino d’orecchio.”
C’è una condanna a causa dell’eccesso delle donne di voler sembrare belle a tutti i costi. Se per una
giovinetta questo significa rovinarsi qualcosa per aggiustarsi qualcos’altro, figuriamoci per una vecchia che
a tutti i costi vuol sembrare più giovane - facendosi prendere in giro dagli altri. Questa tematica è alla base
dell’umorismo pirandelliano, Pirandello dà però una giustificazione alla volontà di una vecchia di voler
parere più giovane - la quale crea un contrasto tra la sua età e il suo apparire, scatenando il riso; se
pensiamo alle sue motivazioni (che magari lo fa per non far notare la differenza di età con il marito),
subentra la riflessione (empatia) che trasforma il riso, che caratterizza il comico, in un sorriso, amaro.
L’umorismo è quindi una lettura, uno sguardo indulgente sulla condizione dell’uomo. Vi è una serie di figure
retoriche e l’impiego dello stile ternario, in questo caso tre metafore che appartengono ad un filo logico -
come anche nella gatta cenerentola – ovvero: cornice-quadro, pelle-ossa, luce-ombre (antitesi). Le figure
retoriche sono tipici esempi dello stile barocco. Ritroviamo un numero che caratterizza spesso le favole, il 7
(Biancaneve e i 7 nani), in questo caso le sette fate. Inizio della narrazione vera e propria. “In un giardino,
dove il re di Roccaforte aveva l’affacciata, si erano ritirate due vecchiacce, che erano il riassunto delle
disgrazie, il protocollo delle mostruosità, il libro maggiore delle bruttezze. Avevano esse i capelli scarmigliati
e irti, la fronte increspata e bernoccoluta, le sopracciglia arruffate e setolose, le palpebre grosse e pendenti,
gli occhi vizzi e scerpellati, la faccia gialliccia e grinzosa, la
bocca allargata e storta, e, insomma, la barba di capra, il petto peloso, le spalle con la contropancetta, le
braccia attrappite, le gambe sciancate e fiaccate, e i piedi a uncino. E per queste ragioni, affinché neppure il
sole le vedesse con quella loro brutta cera, se ne stavano rintanate in un basso, posto sotto le finestre di
quel signore. Il re era ridotto a questo, che non poteva tirare una scoreggia senza dar nel naso a quei brutti
cancheri, che d’ogni minima cosa mormoravano e borbottavano, ora dicendo che un gelsomino, cascato
dalla finestra, aveva fatto loro un livido sulla testa, ora che una lettera strappata aveva loro indolenzito una
spalla, ora che un po’ di polvere aveva loro contuso una coscia. Tanto che, sentendo questo eccesso di
delicatezza, il re argomentò che là, sotto a lui, dimorasse la quintessenza delle cose gentili, il primo taglio
delle carni fini e il fior fiore del tenerume. E gli sali dai malleoli l’appetito e dalle midolle la voglia di vedere
tale meraviglia e chiarirsi del fatto. Cominciò, dunque, a gettar sospiri di su in giù, a tossire senza catarro, e
finalmente a parlare più spedito e fuor dei denti, dicendo: «Dove, dove ti nascondi, gioiello, sfarzo,
ornamento del mondo? Esci, esci, Sole, riscalda, Imperatore! Scopri coteste belle grazie, mostra cote- ste
lucernette della bottega d’Amore, metti fuori cotesta testolina! Banco affollato dei contanti della bellezza,
non essere cosi avara della vista tua! ‘Apri, apri le porte al povero falcone.’ ‘Dammi la strenna, se me la vuoi
dare!’ Lasciami vedere lo strumento, da cui esce questa bella voce. Fammi vedere la campana, dalla quale si
forma il tintinno! Fammi dare uno sguardo al vago uccello! Non consentire che, pecora del Ponto, io mi
pasca di assenzio, col negarmi di mirare e vagheggiare la tua bellissima persona!».” Luogo non definito- la
paura del vuoto tipica del barocco, che fa riferimento al contesto storico-sociale, viene colmata
dall’impiego di innumerevoli descrizioni. Le due sorelle descritte in tutta la loro bruttezza, passando sotto la
finestra del re, si lamentano di tutto ciò che causasse loro un dolore fisico. C’è una cultura di base che vuole
un maggior impiego di metafore quando è il re a parlare - in questo caso mentre si rivolge a una delle due
vecchie, credendo di sentire i lamenti di una fanciulla troppo delicata. “Queste e altrettali parole diceva il
re; ma poteva suonare a gloria, ché le vecchie avevano turate le orecchie; e ciò aggiungeva legna al fuoco. Il
re, che si sentiva come ferro arroventare alla fornace del desiderio, afferrare dalle tenaglie del pensiero e
martellare dal maglio del tormento amoroso, per lavorare una chiave che potesse aprire il cofanetto di
quelle gioie che lo facevano morire di voglia, non détte indietro, ma seguitò a mandar suppliche e a
rinforzare assalti senza tregua”. Il fatto che le vecchie non rispondano al richiamo del re, accende in lui una
voglia ancora più forte di conoscere la fanciulla e rinforza senza tregua i suoi tentativi di attirarne
l’attenzione. “Le vecchie, che s’erano messe in tono e ringalluzzite per le offerte e promesse del re, presero
consiglio di non lasciar perdere l’occasione di acchiappare quest’uccello, che da se stesso veniva a posarsi
sulla pania. E un giorno che il re dalla finestra rinnovava il suo delirio amoroso, esse, dalla serratura della
porta, gli dissero, con una vocina sottile: che il più gran favore che potessero fargli sarebbe stato di
mostrargli, fra otto giorni, solo un dito della mano. Il re, che, come soldato esperto, sapeva che a palmo a
palmo si prendono le fortezze, non ricusò questo partito, sperando di guadagnare a dito a dito la piazza
forte, che stringeva d’assedio; e ricordava l’antico motto: «Prendi e chiedi». E poi che egli ebbe accettato
quel termine perentorio dell’ottavo giorno per vedere l’ottava meraviglia del mondo, le vecchie non fecero
altro esercizio che, come speziale che ha versato lo sciroppo, succhiarsi le dita, col concerto che, giunto il
giorno stabilito, quella di loro che avesse il dito più liscio, lo mostrerebbe al re. Il quale, intanto, stava sulla
corda, aspettando l’ora fissata per saziare la sua brama: contava i giorni, numerava le notti, pesava le ore,
misurava i momenti, notava i punti e scandagliava gli attimi, che gli erano stati assegnati nell’attesa del
bene desiderato. E ora pregava il Sole che prendesse qualche scorciatoia pei campi celesti, affinché,
avanzando cammino, arrivasse prima dell’ora usata a sciogliere il carro infocato e ad abbeverare i cavalli,
stracchi per tanto viaggio; ora scongiurava la Notte, affinché, sprofondando le tenebre, gli lasciasse vedere
quella luce che, non vista ancora, lo costringeva a bruciare nella calcara delle fiamme
d’amore; ora se la prendeva col Tempo, che, per fargli dispetto, s’era poste le grucce e le scarpe di piombo
per ritardare l’ora di liquidare lo strumento alla cosa amata e soddisfare obbligazione stipulata tra loro.” Le
vecchie erano molto lusingate dal re e decisero di cogliere l’occasione, avvicinandosi un giorno alla
serratura della porta e comunicando al sovrano che gli avrebbero mostrato un dito della mano tra otto
giorni. Parallelo tra amore e guerra: l’impresa amorosa del re, soldato esperto, si tramuta nella speranza di
ottenere, un dito alla volta, l’intera fortezza (quindi l’intera donna). Durante gli otto giorni le vecchie si
succhiano il dito, così che chi di loro lo avesse più liscio, lo avrebbe mostrato al re che intanto aspettava con
ansia vicino alla porta, pregando il sole che la giornata finisse prima, la notte affinché passasse in fretta, se
la prendeva con il tempo che sembrava non passare mai. “Come piacque al solleone, giunse l’ora, ed egli,
andato di persona nel giardino, picchiò alla porta, dicendo: «Vieni, vie ni!». E qui una delle vecchie, la più
carica d’anni, visto alla pietra del paragone che il dito suo era di miglior carato di quello della sorella,
introdottolo pel buco della serratura, lo mostrò al re. Ma non fu dito quello: fu uno stecco aguzzo, che gli
trafisse il cuore! Anzi non fu stecco, ma randello, che gl’intronò la zucca. Che dico «stecco» e «randello»?
Fu uno zolfanello, acceso per l’esca delle voglie sue; fu una miccia infocata per la munizione dei desideri
suoi. Che dico «stecco», «randello», «zolfanello» e «miccia»? Fu una spina sotto la coda dei suoi pensieri, fu
cura di fichi dolci, che gli trasse fuori il fiato del mal d’amore con un diluvio di sospiri. E, stringendo con la
mano e baciando quel dito, che da lima di calzolaio era diventato brunitoio d’indoratore, prese a dire: «O
archivio delle dolcezze, o repertorio delle gioie, o registro dei privilegi d’Amore, per cui son diventato
fondaco di affanno, magazzino d’angoscia e dogana di tormenti, è mai possibile che voglia dimostrarti cosi
ostinata e dura, che non t’abbiano a muovere i lamenti miei? Deh, cuore mio bello, se hai mostrato pel
pertugio la coda, sporgi ora codesto muso, e facciamo una gelatina di piaceri! Se hai mostrato il
cannolicchio, o mare di bellezza, mostrami anche il carnume; scoprimi cotesti occhi di falcone pellegrino e
lasciali pascere di questo cuore. Chi sequestra il tesoro di cotesta bella faccia dentro un cesso? Chi fa fare la
quarantena a cotesta bella mercanzia dentro un covile? Chi tiene in prigione la potenza d’amore dentro un
porcile? Togliti da cotesto fosso, scapola dalla stalla, esci dal pertugio, ‘salta, maruzza e da’ la mano a Cola’,
e spendimi per quanto valgo! Sai pure che sono re, e non sono un cetriuolo, e posso fare e sfare. Ma quel
falso cieco, figlio di uno sciancato e di una sgualdrina, che ha piena autorità sugli scettri, vuole che io ti sia
soggetto, e che ti chieda per grazia quello che potrei strappare di proprio arbitrio (Basile si riferisce ad
Amore, figlio del falso cieco Efesto e della sgualdrina Venere); e so ancora, come disse colui, che con le
carezze, non con le bravate, si adesca Venere».” Il dito della vecchia, colpisce il re come una freccia
d’amore, che Basile paragona ad uno stecco, un fiammifero che ha acceso la fiamma d’amore che brucia
nel re. qua possiamo parlare di climax ascendente = figura retorica che consiste nell’intensificazione della
situazione. Il re, baciando il dito divenuto da umile oggetto, un ornamento prezioso che da gioia, dice di
sentirsi angosciato (antitesi) poiché la sua amata di trova nel “basso” (luogo brutto) e chiede di uscire con
giochi di parole. Facendo riferimento alla mitologia, il re dice che Amore vuole che chieda alla sua amata ciò
che potrebbe ottenere semplicemente pretendendolo, ovvero il suo corpo; il re rinuncia alla sua autorità
che gli permetterebbe di arrivare alla donna amata e decide di usare la dolcezza. “La vecchia, che sapeva
dove il diavolo tenesse la coda, volpe maestra, gattone vecchio, trincata, astuta e ciurmata, riflettendo che
il superiore, quando prega, proprio allora comanda, e che l’ostinazione del vassallo muove gli umori
collerici nel corpo del padrone, che rompono poi in cacasangui di rovine, mostrò di arrendersi, e, con una
vocina di gatta scorticata, rispose: «Signor mio, giacché inclinate a sottomettervi a chi è sotto di voi,
degnandovi di discendere dallo scettro alla conocchia, dalla sala reale a una stalla, dagli sfarzi ai cenci, dalla
grandezza alla miseria, dalla terrazza alla cantina e dal cavallo all’asino, non posso, non devo, non voglio
replicare alla volontà di un re cosi grande. Eccomi dunque, giacché volete fare questa lega di principe e di
serva, questo
intarsio d’avorio e di pioppo, questo incastro di diamanti e di vetruzzi, eccomi pronta e parata alle voglie
vostre, solo supplicandovi una grazia per primo segno dell’affetto che mi portate: ch’io sia ricevuta nel letto
vostro di notte e senza candela, perché non mi sostiene il cuore di esser vista nuda!».” La vecchia astuta
sapeva che il padrone è proprio quando ti prega che in realtà ti sta comandando e quindi il rifiuto potrebbe
scatenare una reazione violenta, quindi rispose con diplomazia che non avrebbe mai rifiutato la volontà di
un re. Con un gioco di parole la vecchia propone al re di farsi trovare nel suo letto solo a patto che non ci
siano luci accese, così che egli non possa vederla nuda. *Nella poesia Bella Schiava, Marino -
rappresentante barocco - esalta la bellezza della sua schiava nera attraverso diverse metafore, e ad un
certo punto si fa schiavo d’amore della sua schiava, così come succede per il re. Nasce quindi la volontà di
meravigliare con una nuova concezione di un soggetto visto fino ad ora negativamente. Il re, tutto
gallonando dalla gioia, le giurò con una mano sopra l’altra che avrebbe fatto volentieri come essa desidera-
va. E, inviato un bacio di zucchero a una bocca d’assa fetida, si parti; né vedeva l’ora che il Sole avesse
terminato di arare e i campi del cielo fossero seminati di stelle<—-metafora del sole che ara e poi vengono
seminate le stelle= non vedeva l’ora che passasse il giorno e arrivasse la notte, per seminare a sua volta il
campo dove disegnava di raccogliere le gioie a tomoli e i piaceri a cantari.=dove si aspettava di ricavare un
grande piacere. Tomoli e cantari erano unità di misura dell’epoca. Quando scese la Notte, che, al vedersi
attorno tanti pe- scatori di botteghe e di ferraiuoli, aveva, come seppia, sparso il suo nero, =metafora
(Vedendo tanti ladri aveva sparso l’oscurità come il nero di seppia) la vecchia, spianatesi tutte le grinze
della persona e, tirandole, fattone un nodo dietro le spalle, che legò stretto con un capo di spago, se ne
venne al buio, condotta per mano da un cameriere, nella camera del re. E là, toltisi di dosso gli stracci, si
ficcò nel letto.Il re, che stava, impaziente, con la miccia alla serpentina, e che s’era cosparso tutto di
muschio e zibetto e stropicciatosi le carni con acqua odorosa, non appena la senti venir a cori- carsi, si
lanciò come cane corso nel letto. E fu ventura=fortuna della vecchia che egli portasse addosso tanto
profumo, che non gli fece sentire il fetore della bocca, il lezzo delle ascelle e la mo- feta di quella brutta
cosa. Ma non cosi presto fu coricato, che, venuto al tastare, s’accorse, palpando=tatto, dell’imbroglio dietro
le spalle e delle pelli aggrinzite e delle vesciche flosce che pen- devano dalla bottega della malcapitata
vecchia. Fa riferimento ai sensi. Rimase di sasso; ma non volle, intanto, dir parola per accertarsi meglio del
fatto. Il re agghiaccia davanti a questa prospettiva. E, facendosi forza, dié fondo in un Mandracchio1,
mentre credeva di trovarsi alla spiaggia di Posilipo2; e navigò con una polmonara3, quando pensava di
andare in corso con una galea fiorentina4. Ma, non cosi presto la vecchia si assopì nel primo sonno, il re,
cavato fuori da uno scrigno d’ebano e d’argento una borsa di camoscio con un focile dentro, accese una
lucerna. Tutta la vicenda accade al buio. Ribaltamento della favola di amore e psiche: amore aveva chiesto
(patto) a psiche che lei non doveva mai vederlo, ma psiche ingannata(per gelosia) dalle sorelle accende il
lume facendo cadere l’olio e vede Amore in tutta la sua bellezza (le sorelle avevano spinto Psiche dicendo
che Amore fosse un mostro motivo per il quale non voleva che lui lo vedesse). Qui accade l’inverso: non in
tutta la sua bellezza, ma in tutto il suo orrore. E, fatta perquisizione tra le lenzuola, e trovata un’arpia
invece di una ninfa, una Furia invece di una Grazia, una Gorgona=Medusa per una Ciprigna = Venere, montò
in tanto furore che vol- le tagliare la gomena (la fune che tiene legata la nave alla terra ferma:volle
sbarazzarsi di questa vecchia) che aveva dato capo a questa nave. Personaggi mitologici ma tutto al
contrario.
E, sbuffando d’ira, chiamò tutti i servitori, che, a sentir gridare: «Al l’armi!», fecero subito un’incamiciata5 e
salirono alla camera nuziale. Il re, sbattendo come polpo, disse: «Vedete che bella bef- fa mi ha giocata
quest’avola di Parasacco! che io, che credevo di trangugiarmi una vitelluzza lattante, mi son trovato ai denti
una placenta di bufala; mi pensavo di avere acchiappato una vaga colombella, e mi son trovato in mano
questa coccoveg- gia; m’immaginavo di avere un boccone da re, e mi trovo sot- to il naso questa sudiceria
mastica-e-sputa! Questo e peggio merita chi compra la gatta nel sacco! Ma essa mi ha fatto l’affronto, ed
essa ne pagherà la penitenza. Presto! pigliatela come si trova e sbalzatela da quella finestra!». La vecchia a
queste parole si cominciò a difendere a calci e a morsi, gridando che metteva appello alla sentenza, perché
il re stesso l’aveva tirata con un carro a venire al suo letto; ol- treché allegherebbe cento dottori a sua
difesa, e sopra tutto quel testo: «gallina vecchia fa buon brodo», e quell’altro che: «non si deve lasciare la
via vecchia per la nuova». Ma, con tutto ciò, fu levata di pieno peso e buttata nel giardino. E fu questa la
sua fortuna. Essa non si ruppe il collo, per- ché rimase impigliata e sospesa a un ramo di fico. E accadde che
di buon mattino, innanzi che il Sole prendesse possesso dei territori cedutigli dalla Notte( come se fosse
un’assedio) passarono di colà sette fate che per un certo interno dispetto non avevano mai parlato né riso;
e, al veder penzolare dall’albero quella mala ombra che aveva fatto prima del tempo dileguare le ombre,
furono so- vrapprese da un riso cosi violento che stettero per scoppiare. Il riso costituisce ancora una volta
un elemento di svolta: come abbiamo visto in ZOZA. E, mettendo in moto la lingua, per un pezzo non
chiusero bocca intorno all’allegro spettacolo. A segno che, per ripagare lo spasso e il gusto provati, ciascuna
le dié la propria fatagio- ne, dicendo, l’una dopo l’altra, che diventasse tutt’insieme giovane, bella, ricca,
nobile, virtuosa, amata e fortunata. Ognuno di queste fate da un dono alla vecchia. Presenza del magico
rappresentata dalle fate. Partite le fate, la vecchia si ritrovò a terra, seduta a una sedia di velluto in
quaranta con frangia d’oro, sotto l’albero stesso che s’era convertito in un baldacchino di velluto verde con
fondo d’oro. La sua faccia era ridiventata quella d’una giovinetta di quindici anni, cosi bella che tutte le altre
bellez- ze sarebbero sembrate scarponi scalcagnati accanto a una scarpetta attillata e calzante; a paragone
di questa grazia di seggio, tutte le altre grazie si sarebbero stimate dei Ferrivecchi e del Lavinaro
=riferimento ai quartieri di Napoli più popolari . dove questa giocava a trionfetto di vezzi e moine, tutte le
altre avrebbero giocato a banco fallito. Era poi cosi agghindata, azzimata e sfarzosa, che vedevi una maestà:
l’oro abbagliava, le gioie stralu- cevano, i fiori ti si avventa- vano al viso: attorno aveva servitori e damigelle,
che pareva che ci fosse la perdonanza =giorno dell’indulgenza. In questo il re, postosi una coperta addosso
e un paio di pantofole ai piedi, s’affacciò alla finestra per vedere che cosa era accaduto della vecchia. E gli si
presentò agli occhi quel che mai più non immaginava; e restò con un palmo di bocca aperta, e, come
incantato, squadrò per lungo tempo dal capo al piede quella meraviglia di creatura, ora mirando i capelli,
parte sparsi per le spalle, parte impastoiati entro un laccio d’oro, che facevano invidia al sole; ora affisando
le ciglia, ba- lestre a bolzone che saettavano i cuori; ora guardando gli oc- chi, lanterna a volta della guardia
d’Amore3; ora contemplan- do la bocca, palmento amoroso dove le Grazie pigiavano con- tentezze4 e ne
spremevano greco dolce e mangiaguerra deli- zioso5. Dall’altra parte, si girava come un regolo di balcone,
fuor di senno, ai gingilli e fronzoli che quella portava sospesi attorno al collo, e alle ricche vesti che aveva
addosso. E, par- lando tra se stesso, diceva: «Fo il primo sonno o sto sveglio? Sono in cervello o vaneggio?
Son io o non sono io? Da quale trucco6 è venuta cosi bella palla a toccare il re di
maniera che son andato in rovina? Sono finito, sono subissato, se non mi rifò. Come è spuntato questo
sole? Come è sbocciato questo fiore? Come si è schiuso quest’uccello per tirare a guisa d’uncino le voglie
mie? Quale barca l’ha portato a questo pae- se? Quale nuvola l’ha piovuto? Quale torrente di bellezza mi
spinge dentro a un mare d’affanni?». Cosi dicendo, si rotolò per le scale, corse al giardino, si buttò in
ginocchi dinanzi alla vecchia rinnovellata e, quasi strascicandosi per terra, prese a parlare: «Oh beccuccio di
pic- cioncello mio, o bamboletta delle Grazie, oh vaga colomba del carro di Venere, cocchio trionfale d’A
more, se non hai posto a bagno cotesto cuore nel fiume Sarno1, se non ti sono entrate dentro gli orecchi le
semenze della canna2, se non ti è caduto sugli occhi lo sterco di rondine3, son sicuro che senti- rai e vedrai
le pene e i tormenti che al primo tocco mi hanno suscitato nel petto le bellezze tue; e, se il ceneracciolo di
que- sta faccia non ti è indizio della lisciva che mi bolle in seno, se le fiamme dei sospiri non ti dimostrano la
calcara che arde dentro queste vene, come intendente e giudiziosa puoi da co- testi capelli d’oro
argomentare quale fune mi stringe, da code- sti occhi neri quali carboni mi cuociono, e dagli archi rossi di
coteste labbra quale freccia mi s’è confitta in cuore. Deh! non sprangare la porta della pietà, non levare il
ponte della miseri- cordia, non otturare il condotto della compassione! E se non mi giudichi meritevole di
ricevere indulto da cotesta tua bella faccia, dammi almeno una salvaguardia di buone parole, un guidatico4
di qualche promessa o una carta aspettativa di buona speranza, perché, altrimenti, io mi porto via gli
scarpo- ni5 e tu ne perdi la forma!».= me ne vado all’altro mondo. d’uncino le voglie mie? Quale barca l’ha
portato a questo pae- se? Quale nuvola l’ha piovuto? Quale torrente di bellezza mi spinge dentro a un mare
d’affanni?». Queste e mille altre parole gli uscirono dal profondo del petto, che toccarono al vivo la vecchia
rinnovellata, la quale, in ultimo, l’accettò per marito. E cosi, levatasi in piedi e pre- solo per mano, se ne
andarono in coppia al palazzo reale. Qui, in un attimo, fu apparecchiato un grandissimo banchetto, e vi
furono invitate tutte le gentildonne del paese. La vecchia sposina volle che, tra le altre, venisse anche sua
sorella. E ci fu da fare e da dire per trovarla e trascinarla al convito, perché, per la paura grande, si era
rintanata e rim- bucata cosi bene che non se ne vedeva traccia. Finalmente, venuta, come Dio volle, e
sedutasi accanto alla sorella, che durò grande fatica a riconoscere, si misero tutti a far gaudea- mus. Ma la
misera vecchia aveva ben diversa fame che la ro- deva= l’invidia perché schiattava d’invidia a vedere cosi
lucente il pelo della sorella. E, a ogni po’, la tirava per la manica e le do- mandava: «Che cosa ci hai fatto,
sorella mia, che cosa ci hai fatto? Beata te! Beata te!». E la sorella rispondeva: «Bada a mangiare, ché ne
discorreremo poi». E il re domandava che cosa quella desiderasse, e la sposa, correndo al riparo, rispon-
deva che desiderava un po’ di salsa verde; e il re fece subito venire agliata, mostarda e pepata, e cento altre
salsettine da stuzzicare l’appetito. Ma la vecchia, alla quale la salsa di mo- stacciuolo pareva fiele di vacca,
tornò a tirare la sorella, ripe- tendo: «Che ci hai fatto, sorella mia, che ci hai fatto? ché ti voglio far le fiche
sotto il mantello= scongiuri contro il malocchio» «Zitto, ché abbiamo più tempo che danari; mangia mò, che
ti faccia fuoco, e poi parleremo!». E il re, curioso, domandava che cosa occorresse alla sorella; e la sposa,
che era impacciata come un pulcino nella stoppa e avrebbe voluto far cessare quel rompimento di testa,
rispose che desiderava qualcosa di dolce. E subito fioccarono le pasti- delie, affluirono le cialde e le
ciambellette, diluviò il biancomangiare, piovvero a cielo aperto i franfellicchi. Ma la vecchia, che aveva il
granchio in corpo e le viscere in rivolta, tornò alla stessa musica. E allora la sposa, non potendo piu
resistere, per togliersela di dosso, le rispose: «Mi sono scorticata, sorella mia!».
Subito che l’invidiosa senti queste parole, disse tra sé: «Va’, che non l’hai detta a un sordo! Voglio tentare
anch’io la fortuna mia, perché ogni spirito ha lo stomaco. E, se la cosa mi riesce, non sarai tu sola a godere:
ne voglio anch’io la par- te mia fino a un finocchio!». E, poiché in questo si levarono le tavole, essa,
fingendo di andare per cosa necessaria, corse di- filato a una barbieria. Non finirono di mangiare, fece finta
di aver da fare e se ne andò. piperno=pietra lavica di colore scuro . Pazzo sei tu, che non conosci la fortuna
tua, perché, oltre i cinquanta ducati, se la cosa mi riesce pari, ti farò tenere il bacile = (baciella) alla barba
della Fortuna. Il barbiere, dopo aver contrastato, litigato e protestato un bel pezzo, in ultimo, tirato pel
naso, si risolse conforme al det- to: «Lega l’asino dove vuole il padrone». E, postala a sedere a uno sgabello,
cominciò a far macello di quella nera corteccia, che piovigginava e piscettava tutta sangue; e, di tanto in
tanto, salda come se si radesse, diceva: «Uh! chi bella vuol parere, pena vuol sostenere!». Ma, continuando
colui a mandarla a distruzione, ed essa seguitando questa canzone, se ne andaro- no contrappuntando il
colascione (=strumento musicale tipico del 600)di quel corpo fino alla rosa del bellico, dove, essendole
mancata col sangue la forza, spa- rò dal di dietro una cannonata di partenza, e provò con suo dardo il verso
del Sannazaro: L’invidia, figliuol mio, se stessa macera. <— si autodistrugge da sola.
La vecchia scorticata è una fiaba italiana inclusa nell'opera Lo cunto de li cunti: è il decimo racconto della
prima giornata, ed è narrato da Iacova. Due sorelle molto anziane vanno a vivere in un ambiente proprio
sotto alle stanze del re di Roccaforte. Il re non può fare un solo movimento senza che le due si lamentino
per ogni rumore o per ogni particella di polvere caduta dalla finestra, tanto che il re si convince che sotto di
lui abitino delle fanciulle leggiadre ed estremamente delicate. Acceso dall'immaginazione il re si innamora,
e le due vecchie decidono di ingannarlo mostrandogli otto giorni dopo solo un dito ben levigato e
"ringiovanito" per l'occasione. Alla fine il re e una delle due vecchie si accordano per una notte insieme, a
patto che sia completamente buio.
Dopo aver passato la notte insieme il re si accorge del vero aspetto della sua amante e la fa buttare dalla
finestra. La vecchia resta impigliata per i capelli a un albero, e poco dopo passano di lì alcune fate che non
avevano mai riso in vita loro. Appena vedono la vecchia le fate ridono tantissimo, e per ricompensarla di ciò
la fanno ringiovanire rendendola bellissima. Il re si affaccia alla finestra e vede la ragazza, e si innamora a tal
punto da volerla subito sposare.
Al banchetto per le nozze viene invitata anche la sorella della sposa, che insiste per sapere come abbia fatto
l'altra a ringiovanire. La giovane le dice di aspettare ma la vecchia insiste tanto che l'altra, per levarsela di
torno, dice di essersi fatta scorticare. La vecchia la prende in parola e paga un barbiere per farsi scorticare.
LA PULCE:“La Pulce” è una fiaba della raccolta Lo Cunto de li Cunti di Giambattista Basile e che, insieme alle
fiabe “La Cerva fatata” e “La vecchia scorticata”, costituiscono la trama del nuovo film di Matteo Garrone Il
Racconto dei Racconti -Tale of the Tales. C'era una volta il re di Altomonte che fu pizzicato da una pulce:
l'acchiappò con gran destrezza e la trovò tanto bella che non volle eseguire la sentenza sul letto dell'unghia.
E allora mise in una caraffa la pulce, che ogni giorno andava a nutrire col sangue del
suo braccio. Questa pulce aveva una tale tendenza a crescere che in capo a sette mesi le si dovette
cambiare posto, e alla fine era diventata grossa come un castrato. Di fronte a questo fenomeno, il re la fece
scuoiare, e conciata la pelle emanò un bando: chi avesse capito di che animale era quella pelle avrebbe
ottenuto la mano di sua figlia. Come in moltissime fiabe, siamo di fronte al padre che cerca un marito per la
figlia, i pretendenti solitamente devono mostrare le loro capacità, a volte la loro forza fisica, altre volte la
loro astuzia e solo al vincitore sarà concessa la mano della figlia. Dare la figlia al “migliore” a colui che
primeggia su altri, è una garanzia per la figlia e, soprattutto, per le proprietà e il sangue del re. Chi dimostra
valore è sicuramente, in una visione patriarcale, ma anche biologica, capace di portare avanti la stirpe,
mettere al mondo figli forti, far continuare la discendenza. Il padre “dona” o “mette all’asta” la figlia per
continuare il suo potere. In questa fiaba sarà, però, un orco a vincere e, nonostante le volontà della figlia
Porziella, il padre la cede all’orco. Così descrive Basile, nella splendida traduzione di Adalinda Gasparini, la
reazione di Porziella: Sentendo questa crudele decisione, Porziella vide tutto buio, il viso le diventò
giallognolo, le caddero le labbra, le gambe le tremavano, e mancò poco che facesse volare il falcone
dell'anima all'inseguimento della quaglia del dolore. Alla fine si sciolse in pianto e facendo esplodere la sua
voce disse al padre:
- Quale danno mai ho fatto al tuo nome, da meritare questa pena, quali parole cattive ti ho rivolto, che mi
consegnati nelle mani di questo bruto? O disgraziata Porziella, come una donnola deliberatamente
mandata in gola al rospo! O misera pecorella generata da un lupo mannnaro! Questo è l'affetto che nutri
per il tuo sangue? Questa è la prova d'amore per me che chiamavi Bambolina dell'anima mia? In questo
modo ti scrosti dal cuore colei che ha il tuo stesso sangue? Così elimini dalla tua vista quella che era la
pupilla dei tuoi occhi? O padre, padre crudele. tu non devi essere nato da una creatura umana, le orche
marine ti hanno dato il loro sangue, le gatte selvatiche ti hanno dato il latte. Ma perché ti paragono agli
animali del mare o della terra? tutti
gli animali amano le loro creature, tu solo, snaturato, sei schifato dalla tua discendenza, sei l'unico a provar
disgusto per una figlia! Quanto sarebbe stato meglio se la mamma mi avesse strangolata, se la culla fosse
stata il mio letto di morte, se la poppa della balia fosse stata una vescica piena di veleno, se le fasce fossero
state nodi scorsoi, se il bubbolo che mi fu appeso al collo fosse stato una macina! Sempre meglio che farmi
arrivare a questo giorno sciagurato, dove mi dovrò vedere carezzata dalla mano di questa Arpia,
abbracciata da due stinchi d'Orso, baciata da un paio di zanne di porco. - Quale danno mai ho fatto al tuo
nome, da meritare questa pena, quali parole cattive ti ho rivolto, che mi consegnati nelle mani di questo
bruto? O disgraziata Porziella, come una donnola deliberatamente mandata in gola al rospo! O misera
pecorella generata da un lupo mannnaro! Questo è l'affetto che nutri per il tuo sangue? Questa è la prova
d'amore per me che chiamavi Bambolina dell'anima mia? In questo modo ti scrosti dal cuore colei che ha il
tuo stesso sangue? Così elimini dalla tua vista quella che era la pupilla dei tuoi occhi? O padre, padre
crudele. tu non devi essere nato da una creatura umana, le orche marine ti hanno dato il loro sangue, le
gatte selvatiche ti hanno dato il latte. Ma perché ti paragono agli animali del mare o della terra? tutti gli
animali amano le loro creature, tu solo, snaturato, sei schifato dalla tua discendenza, sei l'unico a provar
disgusto per una figlia! Quanto sarebbe stato meglio se la mamma mi avesse strangolata, se la culla fosse
stata il mio letto di morte, se la poppa della balia fosse stata una vescica piena di veleno, se le fasce fossero
state nodi scorsoi, se il bubbolo che mi fu appeso al collo fosse stato una macina! Sempre meglio che farmi
arrivare a questo giorno sciagurato, dove mi dovrò vedere carezzata dalla mano di questa Arpia,
abbracciata da due stinchi d'Orso, baciata da un paio di zanne di porco. E il re:
- Trattieni l'acido e l'amaro, perché lo zucchero costa caro! rallenta, perché i brocchieri sono di pioppo!
chiudi la bocca, ché te ne escono schifezze! sta' zitta, non fiatare, perché morsichi troppo, linguacciuta e
biforcuta! Quello che faccio io è ben fatto, non insegnare al padre come si fanno i figli, abbozzala e ficcati la
lingua nel didietro, e non irritarmi al punto che esploda, che se ti metto le mani addosso non ti resta
nemmeno una ciocca di capelli, e ti tocca masticare il pavimento con i denti! ma guarda questo fiato del
mio culo che vuol fare l'uomo, e dettare legge a suo padre! Ma da quando in qua una con la bocca che
puzza ancora di latte ha da ridire sulle mie decisioni? presto, prendi la sua mano, e parti immediatamente
verso casa tua , perché non voglio vedermi davanti questa faccia sfrontata e presuntuosa nemmeno per un
altro quarto d'ora. Così Porziella fu condotta alla casa dell’orco dal quale riceveva, come cibo, quarti di
esseri umani che lei si rifiutava di mangiare. Dopo molti giorni passò davanti alla casa dell’orco una
vecchietta per chiedere un po’ di cibo, ma la povera fanciulla raccontò la sua vicenda, aggiungendo che
l’unico cibo era carne umana. La donna promise che sarebbe tornata a liberarla con l’aiuto dei suoi 7 figli
ciascuno dotato di un potere; così fece e Porziella fu ricondotta dal padre, che pentito amaramente, trovò
un buon marito per la figlia e rese ricchi i 7 figli e la vecchierella. Il sangue ricorre fin dalle prime righe della
fiaba: la pulce si nutre del sangue del Re, quello stesso sangue che scorre nelle vene della figlia Porziella.
Ma mentre il re alleva la pulce con amore (nutrendola con il sangue del suo braccio) non altrettanto sembra
fare con il vero sangue del suo sangue. La pulce cresce bella e rubiconda, oltrepassa le normali dimensioni
di pulce fino a somigliare, per dimensioni, ad un maiale. Al settimo mese (il numero 7 come i 7 fratelli) il re
uccide la pulce e, scuoiata, usa la sua pelle come bando per dare in sposa la propria figlia. Il padre, quindi, si
dimostra degenere, anche nei confronti della pulce. Può essere un caso che la pulce venga uccisa al suo
settimo mese di vita? Due mesi prima, se fosse un essere umano, della nascita naturale? Siamo di fronte ad
padre che nega il proprio sangue e che sembra trovare un complice e un suo proseguimento nell’orco che si
nutre di sangue e carne umana.
SBOBINATURA 9 APRILE
FOSCOLO E VERGA.
A partire dal 700-800 il genere più utilizzato è il romanzo. Analizzeremo vari tipi di romanzo, tra cui il
romanzo epistolare che accomuna Foscolo a Verga; il romanzo epistolare per cui Verga ricevette grande
successo all’epoca fu “Storia di una capinera”. Tra il romanzo di Foscolo, “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”,
e quello del Verga trascorrono circa tre quarti di secolo; il primo si può considerare per certi aspetti
autobiografico (Ortis si configura come una sorta di alter-ego dello stesso Foscolo) e certamente giovanile,
in quanto Foscolo nasce nel 1778 e questo romanzo si colloca all’incirca nel suo primo ventennio di vita.
*Questo romanzo riprende i contenuti de “I dolori del giovane Werther” di Goethe.
Questa tipologia di romanzo si afferma e si diffonde nel 700. Il primo è “Pamela” di Samuel Richardson
(Inghilterra 1740-1742), seguito da “la Nouvelle Héloïse” di Rousseau (1761), “I dolori del giovane
Werther” di Goethe (Germania 1774) , “Le amicizie pericolose” di Pierre-Ambroise-François Choderlos de
Laclos (1782) e, infine, “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” di Foscolo (1798).
Con Foscolo spesso di parla di Pre-romanticismo, in cui viene meno la fiducia nella ragione
Il protagonista spesso ha degli slanci irrazionali
Romanticismo in Italia parte nel 1816 convenzionalmente, ma già si stava diffondendo in Italia ed
Inghilterra alla fine del 700
Foscolo: nella sua produzione, un aspetto fondamentale è rappresentato dalla sua biografia e in particolar
modo dalle vicende politiche del nostro paese, in quanto collochiamo Foscolo tra i primi patrioti di un’Italia
che viene ad essere divisa e oggetto della dominazione straniera. Un episodio storico che viene vissuto in
maniera molto drammatica da Foscolo e che, in qualche modo, costituisce la molla per la stesura del
romanzo ovvero il trattato di Campoformio del 1796, con il quale Napoleone cedeva Venezia che era stata
fino a quel momento indipendente , all’Austria, quindi ai nemici giurati dell’Italia. I patrioti avevano riposto
la loro fiducia in Napoleone, il quale viene meno alle promesse e alle speranze dei patrioti appunto
cedendo Venezia , che per Foscolo è la seconda patria o anche prima, ricordandoci però che nasce da
madre greca; il mondo classico è un aspetto autobiografico piuttosto che una “moda”. Nel 700 c’è il
ritrovamento delle città sepolte di Pompei ed Ercolano, durante il regno di Carlo III di Napoli, e questo dà
luogo a una serie di scavi e innesta una sorta di curiosità che spinge molti a viaggiare per l’Italia (e anche
Napoli che diventa una delle mete più ambite dei tour che iniziano a meta 700 e finirà con un evento che
allontanerà tutti i curiosi viaggiatori)
L’importanza di Napoli dopo l’Unità, non finisce con il fatto che non sia più capitale del Regno delle due
Sicilie, infatti Napoli continua ad essere una meta molto richiesta ma ciò finisce dopo il 1884 quando una
devastante epidemia di colera fa decimare la popolazione e di cui Matilde Serao ci parla ne “Il ventre di
Napoli”, evento che ebbe un’importanza notevole anche sull’urbanistica perché è il momento in cui per
eliminare le situazioni che potevano facilitare il contagio (strade strette, igiene) si inizia a dare un nuovo
aspetto alla città, con la costruzione del corso Umberto che vorrebbe emulare la costruzione dei bouevards
parigini , ma questo intervento è solo parziale e questa giornalista chiama in causa il governo e il capo del
governo allora De pretis , accusandolo anche di aver solo creato un rettifilo lasciando ai lati vicoli e case in
pessime condizioni. Come la peste di Boccaccio ha avuto un ruolo importante con la stesura del
Decameron, cosi anche l’epidemia di colera mette in moto l’inchiesta giornalistica di Matilde Serao e
interrompe il flusso di viaggiatori, quindi Napoli diventa per molto tempo una città non più meta di
viaggiatori e meno visitata.
Per Foscolo la storia è molto importante, in quanto quel trattato lo costrinse ad auto esiliarsi e, in seguito, a
non rientrare più a Venezia , città del padre, e non potendo più vivere di rendita quindi deve vivere del
proprio lavoro, che pero non sempre gli da’ grandi guadagni, infatti terrà anche lezioni all’università,
manterrà delle traduzioni… Questo suo esilio volontario, in seguito al tradimento di napoleone, fa sì che
Foscolo si paragonerà a un altro esule senza colpa, Dante, che era stato condannato ingiustamente a una
sanzione economica che poi si tramuterà in una condanna più grande, e alla fine non tornò mai più a
Firenze, nemmeno da morto, a differenza di Foscolo che morirà in Inghilterra ma verrà portato nella chiesa
di Santa Croce (che costituisce un gioiello della sua opera più famosa, il carme “Dei sepolcri” che verrà
scritto qualche anno dopo “Le ultime lettere di Jacopo Ortis).
I temi fondamentali della produzione di Foscolo, molto vasta e variegata romanzo epistolare, tragedie,
odi, testi critici, sonetti… tema che ricorre: esilio.
In morte del fratello giovanni (sonetto) un dì s’io non andrò sempre fuggendo …
Sepolcri quando parla di firenze e di dante (fuggiasco=esule)
Nella prima lettera troviamo i temi fondamentale di Foscolo esilio, sepolcro/sepoltura
Tema ricorrente: esilio.
In morte del fratello Giovanni (sonetto) un dì s’io non andrò sempre fuggendo … (esule)
Nei Sepolcri: quando parla di Firenze e del ghibellino fuggiasco,Dante, che però ricordiamo essere guelfo,
ma lo chiama così per le sue posizioni critiche nei confronti del papato e del potere temporale della Chiesa
(fuggiasco=esule).
Nella prima lettera della raccolta di Ortis troviamo i temi fondamentale di Foscolo, ovvero l’esilio, il
sepolcro/la sepoltura, morte. La posizione di Foscolo nei confronti della morte: la sua formazione è di
matrice fenomenistica, dominata dal materialismo, presente anche nell’incipit dei Sepolcri, in cui dichiara il
suo materialismo presentando una natura che è un susseguirsi di trasformazioni per cui l’uomo non può
garantire nessuna durata nel tempo, né di se stesso, né della sua memoria, né di ciò che dovrebbe
mantenere la sua memoria, ovvero la tomba, quindi dice che la tomba, per la ragione, è solo un sasso e non
serve a nulla.
Foscolo, nel momento in cui pensa che con la morte finisca la vita dell’uomo, non si rassegna a quest’idea,
pensando all’amico Parini che non aveva una tomba, in quanto era stato seppellito in una fossa comune,
ma afferma che comunque qualcosa di lui è rimasto, l’esempio morale, il pensiero, la poesia; quindi in
qualche modo si crea delle illusioni di sopravvivenza, cioè l’amore, un legame che sopravvive alla morte
stessa, un qualcosa che fa sì che fin quando noi ricordiamo una persona scomparsa, quella persona continui
a sopravvivere nel nostro ricordo.
Nei sepolcri poi va oltre, perché dice che le tombe non hanno solo questa funzione di collegare e di stabilire
questa corrispondenza di amorosi sensi, ma parla anche della funzione civile delle tombe dei grandi,e
quindi parla delle tombe di Santa croce, parla di Machiavelli, di Galileo Galilei, Michelangelo.. oltre l’amore,
importante è il valore e il sentimento per la patria e l’idea di una poesia che nell’ottica di Foscolo è una
poesia eternatrice, ovvero che riesce a fissarsi per sempre o comunque a combattere l’oblìo che ci porta il
passare del tempo; il tempo passa e noi dimentichiamo cose e persone, quindi il passato, e la poesia ha il
compito di rendere tutto ciò eterno. Ciò viene espresso nei Sepolcri, opera più matura, ma ciò vale per
tutta la sua produzione. La poesia ha un simbolo, ovvero il poeta vate per eccellenza (vate cioè colui che
illustra i valori in una società) e il poeta vate per eccellenza è Omero, quindi alla fine dei sepolcri
quest’ultimo avrà il compito di far parlare i sepolcri degli eroi che hanno perso la vita nella guerra di Troia,
ha il compito di raccontare la grandezza e il valore d Troia , e le imprese belliche in cui si sono estinti degli
eroi, Achille,Enea, Ulisse, Ettore.. E quindi alla fine dei sepolcri Foscolo immagina attraverso le parole di
Cassandra che Omero vada e abbracci simbolicamente le tombe e racconti la storia di questa guerra
rendendola eterna. Attenzione: su questi due poemi epici si poggia tutta la letteratura occidentale,
(l'omaggio più importante del 900 è proprio quello di Joyce). Quindi abbiamo detto quali sono i temi più
cari a Foscolo che vengono già espressi in quest'opera giovanile .
Le ultime lettere di Jacopo Ortis è un romanzo che ha larghi tratti autobiografici anche contemporanei. Le
caratteristiche del romanzo epistolare sono due: 1 l'avvicinamento alla realtà quitidiana, 2 la possibilità,
grazie alla lettera, di esprimere un attraversamento della dimensione intima del personaggio . La possibiltà
di raccontare la vita quotdiana, che si riflette nelle lettere, e quindi anche la dimensione iintima. Nel
momento in cui Foscolo accoglie questo tipo di romanzo, include qualche elemento originale
rappresentato dai suoi tratti autobiografici. Quindi il romanzo viene scritto a ridosso dal Trattato di
Campoformio. A parlare è Jacopo, o meglio sono le lettere che lui scrive all'amico Lorenzo Alderani. Queste
lettere abbracciano l'arco di un paio di anni, perché vanno dal 1796 al 1798. Chi raccoglie queste lettere è il
destinatario . Noi sentiamo la voce di Jacopo, ma in realtà Lorenzo è morto. Lorenzo quindi conclude, con
una voce diversa da quella delle lettere, parlando degli ultimi momenti prima del suicidio di Jacopo. I temi
che troviamo in questo romanzo sono due: l'amore e la politica, o l'amore e la patria. Il suo anticedente
più diretto è proprio il Werther di Goethe, ma in questo c'è soltanto il tema amoroso, mentre il tema
politico è innovativo. Cominciamo dall'inizio.
“Al lettore
Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di consecrare
alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere su la sua sepoltura.
E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell'eroismo di cui non sono eglino
stessi capaci, darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre
esempio e conforto.” La vicenda di Jacopo viene intesa come una vicenda esemplare, e il tema
politico è essenziale. C'è la firma e poi ci sono questi due versi di Dante del Purgatorio, quando
incontra Catone che è la guardia del Purgatorio.
Libertà va cercando, ch'è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
E fa riferimento quindi al tema del suicidio. Catone si suicida nel momento in cui c'è la vittoria di
Cesare, e quindi vengono meno le libertà repubblicane: Cesare instaura una sorta di dittatura, e in
sostanza la vittoria di Cesare nella guerra civile contro Pompeo determina la fine della Repubblica.
La prima lettera che abbiamo è dai Colli Euganei, dove Ortis si rifugia in esilio dopo il Trattato di
Campo. Questo testo quindi esprime anche la delusione storica in quelli che sono gli ideali
dell'illuminismo: l'azione di Napoleone, che domina incontrastato mezza Europa, e che finisce per
commerciare (secondo l'ottica dei patrioti italiani) nell'interesse della Francia, fa capire che quegli
ideali non erano universali, ma a pannaggio di una sola nazione, quella francese.
Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa,
non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di
proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch'io per salvarmi da chi m'opprime mi commetta a chi mi ha
tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho obbedito, e ho lasciato Venezia per
evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine
antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno
di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; quanti sono dunque gli sventurati? E noi, purtroppo, noi
stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl'italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato
e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno
non cadrà fra le braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da' pochi uomini,
compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de' miei padri.
Qui ci sono già tutti i temi tipici. Innanzitutto il tema della patria tradita, quindi possimao dire che
all'altezza del 1797 comincia quel lavoro dei patrioti (i moti carbonari, i tentativi di unificare la
patria), che arriverà a compimento solo nel 1860. E del resto nemmeno del tutto, perché
l'unificazione completa dell'Italia sarà segnata da altre tappe: 1866 abbiamo Venezia, e questo lo
troviamo proprio nei Malavoglia di Verga; 1870 la presa di Roma e infine Trieste e Trento.
“Vuoi che io vada in esilio per salvarmi da queste persecuzioni?”, quindi sarebbe “vuoi che io vada
in Francia e mi consegni a chi mi ha tradito?” . E poi compare un'altra figura importante, quella
della madre, che rappresenta gli affetti familiari: la madre, le sorelle. E poi dice “Alcuni italiani non
hanno combattuto per la salvezza di Venezia, e quindi ci laviamo del sangue del sangue degli
italiani (fa riferimento a Ponzio Pilato). E poi c'è il tema della sepoltura.
Segue un testo del 26 ottobre in cui Ortis racconta di aver incontrato quella che lui chiama “la
divina fanciulla”, cioè Teresa. Se ricordate la trama, lui si innamora di Teresa, ma lei è già
promessa dal padre a un altro uomo più ricco in grado di salvare le finanze familiari, siccome si
trovavano in una brutta situazione economica. E lei, pur non amandolo, obbedisce cecamente: non è
cambiato molto dai tempi di Elisabetta da Messina.
Vediamo adesso la lettera del Ventimiglia. Ventimiglia è un confine della Francia. Convinto dall
amadre e dall'amico, Lorenzo si avvia verso la Francia per sfuggire alle persecuzioni. Ma arrivato al
confine, appunto rappresentato da Ventimiglia, decide di tornare in patria. Quindi c'èdi nuovo
questo tema dell'esilio ecc. Perché leggiamo questa? E' interessante la visione della natura che
emerge da questa lettera, perché è un paesaggio estremamente lugubre, brullo, inospitale, che
riflette e raddoppia questo sentimento di disperazione di Ortis.
Alfine eccomi in pace! – Che pace? stanchezza, sopore di sepoltura. Ho vagato per queste
montagne. Non v'è albero, non tugurio, non erba. Tutto è bronchi; aspri e lividi macigni; e qua e là
molte croci che segnano il sito de' viandanti assassinati. – Là giù è il Roja, un torrente che quando
si disfanno i ghiacci precipita dalle viscere delle Alpi, e per gran tratto ha spaccato in due questa
immensa montagna. V'è un ponte presso alla marina che ricongiunge il sentiero. Mi sono fermato su
quel ponte, e ho spinto gli occhi sin dove può giungere la vista; e percorrendo due argini di
altissime rupi e di burroni cavernosi, appena si vedono imposte su le cervici dell'Alpi altre Alpi di
neve che s'immergono nel Cielo e tutto biancheggia e si confonde – da quelle spalancate Alpi cala e
passeggia ondeggiando la tramontana, e per quelle fauci invade il Mediterraneo. Quindi dalle Alpi
c'è questo passaggio della Tramontana che arriva fino al Mediterraneo, ma queste Alpi sono anche
il transito privilegiato degli stranieri: e quindi Alpi che non riescono a far riparo al nostro paese.
La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi. Tenete
presente questa natura, che in qualche modo ci ricorderà quella di Leopardi “Dialogo della natura e
di un islandese”. I tuoi confini, o Italia, son questi! ma sono tutto dì sormontati d'ogni parte dalla
pertinace avarizia delle nazioni. Quest'avarizia è l'avarizia latina, quella del primo canto dell'inferno
di Dante, della lupa simbolo dell'avarizia inteso non come il trattenere il denaro, ma nell'avidità,
cioè nel desiderio spasmodico di conquistare il bene altrui. Quindi queste Alpi sono minacciate,
sormontate dall'avidità delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli? Nulla ti manca se non la forza
della concordia. Quindi gli italiani non sono concordi nel difendere il loro paese.
Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la
nuda mia voce? – Ov'è l'antico terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ogni dì memorando la
libertà e la gloria degli avi, le quali quanto più splendono tanto più scoprono la nostra abbietta
schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri.
Attenzione perché quando studierete Foscolo vi ritroverete il discroso del neoclassicismo e del
romanticismo, a cui facevo cenno quando ho parlato della riscoperta del mondo classico ecc. Il
neoclassicismo è in qualche modo una moda letteraria, oltre che architettonica ecc. Ma per Foscolo
non è mai un qualcosa di alieno, per Foscolo il mondo classico è qualcosa di cui si è imbevuto sin
dalla nascita grazie alla madre greca, e infatti nasce su un'isola greca. E quindi il mondo classico è
qualcosa di profondamente insito nel suo animo, non qualcosa di esteriore. Allora c'è un po' l'eco
del dibattito in italia: Foscolo dice:”gli italiani per darsi coraggio richiamano alla memoria l'antica
grandezza dell'impero romano, e mentre noi evochiamo quella grandezza intanto i nostri
conquistatori finiscono per calpestare i loro sepolcri”. E' un immagine simbolica: mentre noi
evochiamo la nostra grandezza, gli altri ci stanno distruggendo sul piano militare. “E verrà forse
giorno che noi perdendo e le sostanze, e l'intelletto, e la voce, sarem fatti simili agli schiavi
domestici degli antichi, o trafficati come i miseri Negri,” quindi vedete alla tratta dei neri che è
sullo sfondo di questa affermazione. Non dimentichiamo che subito prima abbiamo Parini, che parla
ne Il Giorno, di come il caffe e il cacao siano coltivati in America, e quindi sono quelle bevande che
ci arrivano dalla conquista dell'America. “e vedremo i nostri padroni schiudere le tombe e
disseppellire, e disperdere al vento le ceneri di que' Grandi per annientarne le ignude memorie:”
quindi il tema della memoria, della poesia che riesce a rendere eterno la grandezza del passato,
viene ritrovata in queste parole. “ poiché oggi i nostri fasti ci sono cagione di superbia, ma non
eccitamento dell'antico letargo. […]
Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi
comanda e alla paura di chi serve.” Nel passo che ho saltato in sostanza lui dice che noi chiamiamo
la grandezza antica, ma forse la storia è una specie di equilibrio, l'universo di controbilancia. Dice
che probabilmente come i romani avevano conquistato e dominato tanti popoli, questi popoli adesso
si ritorcevano contro di noi, e quindi la storia si mantiene sempre in equilibrio tra dominati e
dominatori. Adesso sta parlando della legge, e dice che la legge è quella del più forte. Quando dice
“noi chiamiamo pomposamente virtù”, quindi possiamo dire il diritto, “ tutte quelle azioni....”
quindi la legge la fa il più forte, e quindi è un comportamento virtuoso, cioè la legge sono i dettami
del più forte. E quindi chiamiamo virtù solo quello che ubbidisce alla legge del più forte.
“ I governi impongono giustizia: ma potrebbero eglino imporla se per regnare non l'avessero prima
violata? Chi ha derubato per ambizione le intere province, manda solennemente alle forche chi per
fame invola del pane. Onde quando la forza ha rotti tutti gli altrui diritti, per serbarli poscia a se
stessa inganna i mortali con le apparenze del giusto, “ quindi anche la giustizia non risponde a un
criterio superiore, oggettivo , ma è una giustizia che risponde alla volontà di chi i
grandi case editrici, ed è a Milano che si sviluppa, negli anni '60, quella corrente, quel movimento
che viene chiamato Terzo Romanticismo (cioè la terza fase del Romanticismo), ma anche
Scapigliatura. Quindi la Scapigliatura è quel movimento che in qualche modo combatte il
perbenismo borghese. Non dimentichiamo che la borghesia è la classe fondante dell'800. Non
dimentichiamo che il romanzo si sviluppa proprio grazie alla borghesia, che diventa il destinatario
privilegiato e tante altre cose che torneranno. Quindi non dimenticate che dopo l'Unità d'Italia, che
vede ancora Roma esclusa da questa unità, assume un ruolo importante sul piano culturale la città di
Milano, dove nascono grandi quotidiani (non dimenticate il Corriere della Sera nato nel 1876).
Napoli non è da meno, ma l'asse si va spostando: se dopo l'84 Napoli perde anche quel ruolo
culturale che aveva avuto, perché non è più la meta del Gran Tour, Milano lo acquisisce. Non
dimenticate che il primo teatro lirico europeo è il San Carlo, fondato nel 1737, che vede nella prima
parte dell'800 (ancora in età borbonica) i primi cantanti di tutta Europa, è la stagione di Rossini ecc.
Quando intorno alla metà del secolo esploderà Verdi (??), ecco che poi progressivamente il San
Carlo perde il suo primato a favore della Scala. Milano assume un ruolo centrale dal punto di vista
culturale, soprattutto perché è lì che nascono i grandi quotidiani (Napoli ancora se la cava bene, non
dimentichiamo il Mattino 1892). E' la grande stagione dei giornalisti-scrittori, perché l'800 (poi ci
torneremo con Mastriani), oltre che con il romanzo popolare e soprattutto il romanzo storico, è
anche il secolo in cui nasce il romanzo d'appendice, di cui Mastriani è il più importante, mentre
nella seconda metà dell'800 tutti i giornali pubblicheranno i romanzi d'appendice. Cosa vuol dire
romanzo d'appendice? E' il romanzo pubblicato prima nei giornali e poi raccolto in volume. E tutti i
romanzieri cominciavano con il romanzo d'appendice, perché aveva una doppia vendita del giornale
(che andava per abbondamento): inizia lo sviluppo della società di massa. Quindi il romanzo
d'appendice fa da richiamo per gli abbonati. Iniziava il romanzo di autori famosi in occasione del
rinnovo delle associazioni, cioè degli abbonamenti. Quindi il romanzo veniva pubblicato sul
giornale e poi raccolto in volume, per questo ha una doppia vendita . Poi dopo è stata data questa
definizione deleterea di romanzo d'appendice, ma romanzo d'appendice voleva dire semplicemente
che veniva pubblicato a puntate nei giornali. Anche Pirandello pubblica a puntate nei giornali,
anche il Fu Mattia Pascal fu pubblicato a puntate nei giornali. Ma torneremo la prossima volta su
questi aspetti. Non possiamo prescindere dall'aspetto commerciale: nel momento in cui nasce una
grande casa editrice, questa pubblica se quel lavoro viene letto, se viene venduto.
Nasce quindi questa Scapigliatura, questo movimento che coagula proprio a Milano tutti questi
giovani, che in qualche modo si oppongono al perbenismo borghese. Ricordiamo tra gli altri
Camillo Boito, Emilio Praga, Tacchetti, Dossi ecc ecc. Questi innanzitutto cercano di
sprovincializzare la letteratura italiana, cercano nuovi moduli espressivi, cercano di rinnovare la
poesia. Non ci riescono ma avevano una strada a questo tentativo... Chi scardinerà completamente
la tradizione poetica italiana sarà il Futurismo: 1909 il Manifesto di Marinetti. Ma gli scapigliati in
qualche modo cercano di sconvolgere questo pubblico, che è il pubblico borghese,cioè coloro che
compravano i giornali, che leggeva i romanzi d'appendice.
Negli anni '60 anche Verga, giovanotto poco più che ventenne, va Milano e si perde nel bel mondo
dei teatri in cerca di fama ecc. Attenzione, il luogo di ritrovo era quello del teatro: tutti questi
scapigliati, come Enrico Boito che era un librettista (quello che scrive la poesia dell'opera lirica)....
Verga era ricco di suo, ma non disdegnava il denaro, e tenta una causa e la vince contro Mascagni,
autore di Cavalleria Rusticana. Cavalleria Rusticana è una novella di Verga, quindi per i diritti
d'autore fa questa “causa” e vince, e quindi continuerà a vivere di rendita. Quando Verga arriva a
Milano si avvicina agli ambienti della scapigliatura milanese, e scriverà dei romanzi molto simili a
quelli della scapigliatura, si chiamano anche romanzi mondani, in cui si parla della bella vita, dei
giovani in ricerca di fortuna: c'è un po' qualche aspetto autobiografico, il giovane siciliano che va lì
con velleità letterarie, si avvicina a questi ambienti, conduce una bella vita, vuole conquistare la
fama con il suo lavoro di scrittore, frequenta teatri ecc. Questo influenza la prima parte della sua
scrittura. Prima dei Malavoglia, la svolta verso il Verismo avviene nel 74 con il bozzetto Nedda, ne
parleremo più avanti, perché oggi vi sto propinando Verga che non è ancora verista.
Nel '69 si trasferisce nella nuova capitale, Firenze. Anche Firenze ha un'importanza sul piano
culturale: c'è Capuana, suo grande amico e che sarà l'altro grande verista insieme a De Roberto. A
Firenze scrive questo romanzo epistolare, per il quale sulle prime era famoso. Noi oggi associamo
Verga ai Malavoglia, ma la fama di Verga viene innanzitutto determinato da questo determinato che
andremo a leggere: Storia di una capinera. Perché si chiama così lo leggiamo adesso, ce lo spiega
stesso Verga, ma dobbiamo dire alcune cose. Ovviamente questo testo parla di una monacazione
forzata... ci fa pensare a un modello imprescindibile: il modello Manzoniano, quello di Gertrude
ecc. La storia di Gertrude, che si avvicina al romanzo nero gotico inglese. A proposito della
monacazione forzata, Manzoni continua ad essere per Verga un importante punto di riferimento,
tant'è che nei Malavoglia nominerà la Provvidenza (?? non ho capito), che è praticamente la
protagonista dei Promessi Sposi. Ma si distaccherà da Manzoni per un motivo fondamentale, che
sarà quello linguistico. Vi ricordo solo una cosa. Manzoni funge un po' da Bembo: come nel 500
impone un modello, Manzoni impone un modello che è prevalente. Non è l'unico, ma è il
prevalente. Vi ricordo che dei Promessi Sposi noi abbiamo tre edizioni: la prima del '23 che si
chiama Fermo e Lucia, che è quella che vi proporrò. Poi c'è l'edizione che si chiama Promessi sposi
che è del 27, in cui asciuga il testo, lavora sui contenuti. Tra il 27 e il 40 (anno in cui compare la
terza edizione), Manzoni lavorerà sulla lingua. Nel 40 sapete bene che l'Italia ancora non è unita.
L'italiano non è ancora la lingua ufficiale, è una lingua solo letteraria: Manzoni continuerà a parlare
milanese, si parlava il napoletano. Quindi in sostanza l'italiano è una lingua artificiale, e allora si
propone ancora una volta questo modello linguistico, che ci sta seguendo da quando abbiamo
iniziato a parlare di Boccaccio. Quello di Manzoni èil modello che finisce per predominare. Vi
ricordate quando si dice che Manzoni andò a sciacquare i panni nell'Arno? Fece un soggiorno di
alcuni mesi a Firenze per sentire la parlata quotidiana della borghesia fiorentina dei suoi tempi.
Quindi fa parlare con una lingua omogenea in tutto il romanzo, sia che parli il cardinale Borromeo
che ha una famiglia illustre e una scolarizzazione molto alta, sia che una povera filatrice lombarda
del 600 come Lucia. Quindi tanto i personaggi più colti e tanto quelli più umili parlano la stessa
lingua, che è il fiorentino dei suoi tempi, parlato della borghesia dell'800. Ovviamente questa scelta
non poteva andar bene al Verga verista, poi lo vedremo, ma è una scelta che, ancora con il Verga
pre verista, troviamo in questo testo. Quindi Verga si rifà al tema della monacazione forzata di
Manzoni, già famossissimo nella monaca di monza, e riprende anche la lingua fiorentina
nonostancte che a parlare sia una novizia, un'aspirante monaca siciliana che scrive queste lettere alla
sua amica. Cosa succede? Siamo nel '54, la protagonista è una ragazzina ventenne sicilana, più
precisamente catanese, quindi si parla dell'Etna, della regione di Catania. In ocasione di una famosa
epidemia di colera, le novizie vengono fatte uscire dal convento e vengono mandate nelle leoro
case. In questa occasione la protagonista scrive delle lettere alla sua amica novizia (le novizie erano
le monache che ancora non avevano dato i voti definitivi). Di cosa parla questo romanzo epistolare?
Innanzitutto i tratti principali sono la quotidianità e l'aspetto di storia intima. Qual è l'aspetto
interessante? Che in Verga, per la prima volta dopo i romanzi mondani che abbiamo visto con la
scapigliatura, assume il punto di vista di una persona umile, semplice come questa ragazza. E' il
punto di vista di un personaggio semplice, e a questo adatta anche il lessico. E' un lessico molto
semplice, quotidiano. GIOVANNI VERGA
Storia di una capinera
“Avevo visto una capinera chiusa in gabbia”, sapete la capinera è un uccelletto con il corpo bianco
e la testolina nera, che assomiglia alle monache se vogliamo. “ era timida, triste, malaticcia ci
guardava con occhio spaventato; si rifuggiava in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il
canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell'azzurro del cielo, li
seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non
osava tentare il rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi
custodi, le volevano bene, cari bambini che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua
malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la
meschinella; non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di
beccare tristamente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due
giorni chinò la testa sotto l'ala e l'indomani fu trovata stecchita nella sua prigione.
Era morta, povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era morta perché in quel
corpicino c'era qualche cosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre
la fame e la sete.
Allorché la madre dei due bimbi, innocenti e spietati carnefici del povero uccelletto, mi narrò la
storia di un'infelice di cui le mura del chiostro avevano imprigionato il corpo, e la superstizione e
l'amore avevano torturato lo spirito: una di quelle intime storie, che passano inosservate tutti i
giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far
scorgere le sue lagrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiuso nel suo dolore ed
era morto; io pensai alla povera capinera che guardava il cielo attraverso le gretole della sua
prigione, che non cantava, che beccava tristamente il suo miglio, che aveva piegato la testolina
sotto l'ala ed era morta.
Ecco perché l'ho intitolata: Storia di una capinera”. Quindi in questa premessa di Verga c'è il
motivo di tutto ciò. E c'è questa similitudine tra la capinera che muore perché le manca qualcosa,
che non è il cibo, le manca la libertà, la pienezza della vita, così questa storia della capinera diventa
il simbolo della storia di questa monacazione forzata. Chi viene monacata? Attenzione viene
monacata una ragazza che non ha i mezzi economici... La storia è tristissima, nel senso che in
questo momento di libertà che ragazza ritrova dal convento, si innamora di un giovane. Era stata
chiusa in convento perché era orfana, quindi questo tema dell'orfano anche come emarginato
sociale, che ritornerà nella produzione di Verga: non dimenticate Rosso Malpelo ecc, tornerà nella
produzione verista. Quest'orfana viene affidata al convento, il padre si risposa, con questa donna ha
ha altri due figli ed ha una consistente dote, mentre il padre non aveva molti mezzi economici.
Percui quando questa ragazza esce dal convento e si innamora del figlio dei vicini di questa casa di
campagna, dovrà ritornare al convento rinunciando al suo amore. E la cosa più crudele è che questo
ragazzo sposerà la sorellastra... Quindi un colpo durissimo per questa ragazzina, la quale per dolore
morirà nel convento dopo essere stata ritenuta pazza. Questa è più o meno la storia, quindi come
vedete è drammatica.
Lezione 15 Aprile 2019
Fonti digitalizzate di Mastriani "La cieca di Sorrento" vol.1 e vol.2 (1851)
Vol. I https://archive.org/details/bub_gb_ZUxoZoV7UsUC
Vol. II https://archive.org/details/bub_gb_0NoKXwj2hd8C
Vol. I https://archive.org/details/bub_gb_bJdtLzEoq9sC/page/n5
Vol. II https://archive.org/details/bub_gb_vEamsOIWgi0C
La digitalizzazione si deve alla biblioteca nazionale di Napoli, i cui manoscritti sono conservati
nella sezione dello spettacolo e del teatro.
Mastriani è noto per essere stato colui che ha inaugurato il romanzo giallo. Un genere a noi
contemporaneo.
Capinera poiché egli paragona la vita della novizia a quella di una capinera che vittima dei
prigionieri muore non per mancanza di cibo e acqua, bensì per la mancata libertà.
A differenza dei Malavoglia, "Storia di una capinera" suscita subito un grande successo. Con
la pubblicazione dell'opera Verga è debitore a Foscolo per la forma e a Manzoni per il tema, la
monacazione forzata.
Le lettere sono narrate in prima persona da una novizia di circa 20 anni che non ha ancora
preso i voti e che in occasione di un'epidemia di colera, viene rimandata a casa e intraprende
una corrispondenza con la sua amica del cuore, Marianna, anche lei mandata a casa per via del
colera. Alla fine sarà Marianna a raccogliere queste lettere (stesso evento accaduto per
Lorenzo Alderani nelle Ultime lettere di Iacopo Ortis). Non è il suicidio a concludere il
romanzo (Iacopo Ortis), ma comunque vi è un finale tragico. (come la capinera muore per
mancanza di libertà, la novizia muore dopo episodi di alienazione mentale.)
MOTIVO: La protagonista durante i giorni di libertà incontra un ragazzo (figlio dei suoi
vicini), se ne innamora. Ben presto però ella sarà costretta a rinunciare al suo amore poiché
deve rientrare in convento. Poco dopo, la novizia viene informata dell'imminente matrimonio
della sorellastra con il vicino (Nino) di cui si era innamorata.
TEMI:
ORFANO (In questo caso di madre): tema ripercorso che ritorna in Nedda e Rosso Mal pelo.
Al questo tema si affianca quello dell'ESCLUSIONE SOCIALE (Come in Nedda e Rosso Mal
pelo). Inoltre si aggiunge la MANCANZA DI MEZZI ECONOMICI in quanto il padre è un
semplice impiegato, mentre la matrigna dispone di una cospicua dote per cui si evidenzia la
differenza sociale tra la sorellastra che sposa Nino (stessa situazione economica) di
estrazione più elevata a quella della protagonista.
La lettera si apre con un'ampia descrizione paesaggistica. Agli occhi della protagonista la
vista di questo paesaggio è come una scoperta (perché all'età di 7 anni viene mandata in
convento). Il suo è uno sguardo allegro ed entusiastico al paesaggio. Questa scoperta
riempie le giornate al punto tale che la protagonista scrive "non ho avuto nemmeno un
momento".
Anche in Foscolo all'inizio delle "ultime lettere di Iacopo Ortis" vi è una descrizione
paesaggista, ma questo volta si tratta di un paesaggio orribile che rifletteva lo stato d'animo
del protagonista.
Anche nel romanzo di Verga il paesaggio riflette la bellezza e l'entusiasmo della ragazza che
"scopre" il paesaggio.
Inoltre egli fa un confronto sulle dimensioni dell'Etna: quanto risulti piccola dalle finestre del
convento e quanto risulta essere grande dinanzi al paesaggio.
"Ci chiamano le elette perché siamo destinate a divenire spose del Signore: ma il buon Dio non ha forse fatto per tutti
queste belle cose? E perché soltanto le sue spose dovrebbero esserne prive?"
Subito dopo la descrizione paesaggistica, alla protagonista sorge un dubbio: Noi siamo le elette
(spose del signore) eppure stando recluse non possiamo godere del paesaggio.
"Come son felice, mio Dio! Ti rammenti di Rosalia la quale voleva provarci che il mondo fosse più bello al di fuori del
nostro convento? Non sapevamo persuadercene, ti ricordi? e le davamo la berta! se non fossi uscita dal convento non
avrei mai creduto che Rosalia potesse aver ragione. Il nostro mondo era ben ristretto: l'altarino, quei poveri fiori che
intristivano nei vasi privi d'aria. il belvedere dal quale vedevasi un mucchio di tetti, e poi da lontano, come in una lanterna
magica, la campagna, il mare e tutte le belle cose create da Dio, il nostro piccolo giardino, che par fatto a posta per lasciar
scorgere i muri claustrali al disopra degli alberi, e che si percorre tutto in cento passi, ove ci si permetteva di passeggiare
per un'ora sotto la sorveglianza della Direttrice, ma senza poter correre e trastullarci... ecco tutto!"
Comincia la prima visione critica (come era la vita nel convento e come era la vita al di fuori del
convento). Viene menzionata Rosalia, un'altra novizia che persuadeva Marianna e la protagonista
a crederle su quanto il mondo fuori fosse bello. Queste avendo una conoscenza del mondo che
si limitava al solo convento facevano fatica a crederle, ma adesso che la protagonista si ritrova
libera dinanzi al paesaggio inizia a credere alle parole di Rosalia.
Emerge dunque una piccola critica nei confronti della vita in convento.
"E poi, vedi... io non so facevamo bene a non pensare un poco di più alla nostra famiglia! Io sono la più disgraziata di
tutte le educande, è vero, perché ho perduto la mamma!... Ma ora sento che amo il mio babbo assai più della Madre
Direttrice, delle mie consorelle e del mio confessore; sento che io l'amo con più confidenza, con maggior tenerezza il mio
caro babbo, sebbene possa dire di non conoscerlo intimamente che da venti giorni. Tu sai che io fui chiusa in convento
quando non toccavo ancora i sette anni, allorché la mia povera mamma mi lasciò sola!... Mi dissero che mi davano un'altra
famiglia, delle altre madri che mi avrebbero voluto bene... È vero, sì... ma l'amore che ho per mio padre mi fa comprendere
che ben diverso sarebbe stato l'affetto della povera madre mia."
Ritorna il tema dell'orfano: la protagonista spiega di aver perso la madre all'età di 7 anni. Ed è
a quell'età che viene mandata in convento. Parla poi del confronto tra la madre e il padre e a tal
proposito dice"... l'amore che ho per mio padre mi fa comprendere che ben diverso sarebbe stato l'affetto della povera
madre mia."
"Tu non puoi immaginarti quello che io provo dentro di me allorché il mio caro babbo mi dà il buon giorno e mi abbraccia!
Nessuno ci abbracciava mai laggiù, tu lo sai, Marianna!... la regola lo proibisce... Eppure non mi pare che ci sia male a
sentirsi così amate...
La mia matrigna è un'eccellente donna, perché non si occupa che di Giuditta e di Gigi, e mi lascia correre per le vigne a
mio bell'agio."
Mentre il lettore percepisce nel testo una scarsa cura da parte della matrigna, la
protagonista consapevolmente se ne rallegra poiché mentre correre per i campi è proibito a Gigi
e Giuditta, lei viene lasciata libera.
"Mio Dio! se mi proibisse di saltellare pei campi come lo proibisce ai suoi figli sotto pretesto di evitare il pericolo di una
caduta o di un colpo di sole... sarei molto infelice, non è vero? Ma probabilmente è più buona e più indulgente verso di
me, perché sa che non potrò godermi tutti questi divertimenti per molto tempo, e che poi tornerò ad esser chiusa fra quattro
mura..."
Cerca di convincere se stessa che è un bene il fatto che sia libera di correre per i campi. Poi
aggiunge che probabilmente la matrigna è più indulgente nei confronti della protagonista poiché
ben presto sarà costretta a tornare nel convento.
"Intanto non pensiamo a quelle brutte cose. Adesso sono allegra, felice. Non mi dire che son cattiva; vorrei esser soltanto
come tutti gli altri, nulla di più, e godere coteste benedizioni che il Signore ha date a tutti: l'aria, la luce, la libertà!"
Finita la riflessione la protagonista ribadisce la sua felicità e allegria. Emerge il desiderio di
vita della ragazza.
19 settembre
"Marianna mia.
Qui non arrivano che cattive notizie, non si vedono che volti spaventati. Il coléra infierisce a Catania. È un terrore, una
desolazione generale.
Del resto non fossero questi timori, se non fossero queste angosce, qual vita più beata di quella che si mena qui? Il
babbo va a caccia, o mi accompagna nelle lunghe passeggiate, quando potrei aver paura di smarrirmi nel bosco. Il mio
fratellino, Gigi, corre, grida, fa chiasso, si arrampica sugli alberi, e vi lascia appeso tutti i giorni qualche brandello del suo
vestito, e la mamma... (Marianna, se sapessi come mi vien difficile dare questo dolce nome alla mia matrigna! Mi pare di
fare un torto alla memoria della mia povera madre... Ma pure bisogna chiamarla così!) e la mamma a sgridarlo, a dargli
dei confetti, dei baci e degli scappellotti, a rammentargli gli abiti, a ripulirlo venti volte al giorno. Ella non fa che
agucchiare e accarezzare i suoi figli, beati loro!... e spesso mentre dà un'occhiata alla cucina o alla domestica che prepara
il desinare, mi rimprovera che io non son buona a nulla, nemmeno a far la cucina... Pur troppo è vero! ella ha ragione.
Non faccio altro che correre pei campi, raccogliere i fiorellini, e ascoltare il canto degli uccelletti... alla mia età! Ho quasi
venti anni!... capisci! Ne arrossisco io stessa; ma il mio caro babbo non ha cuore di sgridarmi; egli non sa far altro che
accarezzarmi e dire: «Povera piccina! lasciatele godere questi giorni di libertà!»."
Il Colera continua a diffondersi a Catania. Emerge la Percezione di essere straniera in casa
del padre. Continuano i rimproveri da parte della matrigna che non è in grado di far nulla. Difese
del padre a favore della figlia.
"Ti ho parlato del mio cane, del mio passerotto, di quel brutto gattaccio, e non ti ho ancora detto che abbiamo dei vicini
di campagna che vengono a trovarci spesso, e che passiamo quasi tutte le sere a giocare in loro compagnia, e facciamo
delle belle passeggiate nell'ora del tramonto. essi abitano una casetta in fondo alla valle, a poca distanza nostra, che si può
vedere dalla mia finestra. Sono i signori Valentini; li conosci? Il babbo e la mamma dicono che sono brava gente. Io e
l'Annetta, loro figlia, che ha quasi la mia età, siamo amiche; ma non come fra te e me, vedi! Non esserne gelosa; perché
io ti amo assai più di lei, e voglio che tu mi ami assai più di tutte le altre tue amiche."
In questa scena subentra la famiglia Valentini con la quale vi è una certa familiarità. La
protagonista parla della figlia dei vicini, Anna, con la quale instaura una solida amicizia che però
non è paragonabile a quella che vi è tra la protagonista e Marianna.
"P.S.: Dimenticavo di dirti che i signori Valentini, oltre l'Annetta, hanno pure un figlio, un giovanotto ch'è venuto spesso
con sua sorella, e che si chiama Antonio; però lo chiamano Nino"
Menzione del ragazzo.
" Ti ho scritto altre volte che noi ci siamo fatti intimissimi coi signori Valentini. Annetta è per me un'altra Marianna...
Ma tu mi hai fatto pensare che quel suo fratello mi fa un certo effetto... È vero: direi quasi che mi fa paura...
Ma io non saprei spiegarti l'impressione che egli produce in me... Non è antipatia, non è avversione... eppure lo temo...
eppure ogni volta che lo incontro arrossisco, impallidisco, tremo, e vorrei fuggirmene.
Ma poi egli mi parla, lo ascolto, rimango a lui vicina... non so perché... mi pare che non potrei staccarmene... e penso al
Padre Anselmo, allorché ci parlava dal pulpito del fascino dello spirito del male, ed ho paura..."
Annetta assume sempre più importanza nel cuore della protagonista.
La protagonista rivela che Nino le fa un certo effetto. Essendo una ragazza inesperta non
riesce a focalizzare bene ciò che sta provando per cui pensa addirittura che sia un'
attrazione del male, del diavolo.
10 Gennaio
"Ti scrivo un sol rigo che forse sarà l'ultimo. La carrozza è giù che aspetta. Il babbo, la mamma, Gigi e Giuditta si son
vestiti da festa per accompagnarmi.
Ho pianto; mi asciugo gli occhi; respiro un'ultima boccata di quest'aria libera.
I signori Valentini sono venuti a dirmi addio... Lui non c'era! Mi hanno abbracciato. Che piangere si è fatto con Annetta!
Scenderò la scala; monterò in carrozza, e fra venti minuti tutto sarà finito!
Addio anche a te... Addio! Il cuore mi si spezza."
È arrivato il giorno del ritorno doloroso al convento (doloroso poiché ha conosciuto l'allegria
e l'amore). La carrozza la aspetta e i signori Valentini sono arrivati per salutarla ma Nino non
c'era. Con Annetta ci sono stati molti pianti prima di separarsi.
27 Febbraio. Progressiva alienazione mentale
Lettera in cui viene comunicato il matrimonio tra la sorellastra e il SIGNOR NINO.
Sintassi non più lineare che comunica l'inquietudine interiore.
PASSAGGIO: TONO FELICE / MALINCONICO / PIENO DI DOLORE
5 Luglio
"Voglio vederlo! voglio vederlo! una sola volta! un momento solo!... Dio mio, è un gran peccato poi vederlo? Vederlo
soltanto... da lontano... attraverso la gelosia! Egli non mi vedrà; non saprà che dietro quella gelosia ci è chi muore qui
dannata per lui...
Perché me l'hanno strappato? perché me l'hanno rubato il mio Nino?... il mio cuore, l'amor mio, la mia parte di
paradiso?... Assassini!... assassini! che uccideste il mio corpo, e che mi martoriate ancora l'anima...
Oh, come l'amo! come l'amo! Sono monaca... lo so! che m'importa? io l'amo! egli è il marito di mia sorella... io l'amo!
è un peccato, un delitto mostruoso... io l'amo! io l'amo!
Voglio vederlo! voglio vederlo! fosse anche per l'ultima volta! L'aspetterò alla finestra del campanile che dà sulla
strada... l'aspetterò tutti i giorni... egli passerà... una volta, una sola volta... Dio lo manderà da queste parti... Dio?...
Oh! Marianna! come questa parola mi atterrisce! deliro, tu lo vedi... sono fuori di me... non so che cosa abbia... sarà la
febbre... saranno i nervi... sarò matta..."
Tutto questo dolore provocherà un attacco di follia che la farà rinchiudere nell'infermeria
del convento. È evidente la disperazione " l'aspetterò tutti i giorni... egli passerà... una volta, una sola volta"
L'ULTIMA LETTERA INZIA:
"Stimatissima signora Marianna
Quella povera suor Maria, che Dio abbia in pace l'anima sua! mi aveva incaricato di far pervenire nelle sue riverite mani
il piccolo crocifisso d'argento ed i fogli manoscritti che le mando per mezzo del nostro portinaio.
Prima di prendere una risoluzione in un caso di coscienza così delicato, io ho esitato lungamente. L'ultimo desiderio
della defunta era bensì sacro per me; ma la nostra regola ci proibisce di disporre di che che sia, anche in caso di morte,
senza l'autorizzazione della madre abbadessa. Spero che lo Spirito Santo m'abbia fatto la grazia d'illuminarmi, ed ecco
quello che mi è parso il miglior partito a maggior servizio di Dio e del prossimo.
[…] Sua devotissima servaSuor Filomena"
Questa suora comunica a Marianna l'avvenuta morte di Suor Maria. Questa, prima di morire
le comunica le sue ultime volontà: far entrare in possesso di Marianna un crocifisso e i fogli
(lettere). Gli oggetti arrivano a Marianna grazie ad un escamotage: dato che non era
concesso far uscire oggetti senza che prima venissero esaminati dalla badessa, questa utilizzò
il crocifisso come involucro. Non vedendoci niente di male, la badessa diede il permesso di
spedire il crocifisso. Così le lettere ed il crocifisso raggiunsero Marianna.
La suora inoltre racconta le ultime ore di Suor Maria prima di morire dal dolore proprio
come la capinera.
CAMBIAMENTO TONO/SCRITTURA.
MANZONI
3 EDIZIONI:
1: '23: INTITOLATA "FERMO E LUCIA"
2: '27 INTITOLATA "I PROMESSI SPOSI": Manzoni interviene sul contenuto
asciugando il testo
3: '40 INTITOLATA "I PROMESSI SPOSI": Manzoni lavora sul rifacimento linguistico:
si trasferisce per alcuni mesi a Firenze "per sciacquare i panni nell'Arno" e stabilisce il
fiorentino parlato per la sua opera.
La questione linguistica manzoniana fu fondamentale per gli autori veristi. Gli autori più
importanti che si distaccano da Manzoni sono: Verga, Serao,Pirandello e Svevo.
Ad ogni modo Manzoni nell'800 detta legge; crea un modello linguistico secondo il quale la
lingua da utilizzare fosse il fiorentino parlato, quello della borghesia. Il modello manzoniano
viene seguito anche in altre zone (Verga siciliano utilizza il modello manzoniano)
MANZONI: Tirare dal romanzo storico la storia della monaca di Monza nel Fermo e Lucia è
di circa 10 pagine mentre nell'edizione del '40 la storia si riduce a 2 pagine. (pulizia dei
contenuti)
Innanzitutto il convento è il luogo per eccellenza del mistero, pieno di sotterfugi in cui si
consumi crimini e disfatti. Spesso viene scelto come l'ambientazione del romanzo nero.
Grazie alla digressione, Manzoni si dilunga nel raccontare la vicenda della monacazione
forzata della Monaca di Monza che ha una tresca con Egidio (vicino di convento). Questa
tresca genera un omicidio, per cui vediamo in azione le novizie istigate dallo "scellerato"
Egidio e di conseguenza il seppellimento del cadavere.
Egidio s'insinua nella mente /psiche di Gertrude lenta ed estenuante nei promessi sposi
già del '27 si riduce a: "LA SVENTURATA RISPOSTA"
"Il quartiere dove abitavano le educande e con esse Geltrude e le sue damigelle, era annesso al monastero,
ma appartato, e comunicava con esso per mezzo d'un corridojo"
-lavaggio del cervello da parte del padre;
-monacazione (privilegi del suorando: conduce una buona vita e ha 2 suore che la servono)
"L'altro, e appunto quello occupato dall'appartamento di Geltrude, era contiguo ad una casa privata e signorile,
o per meglio dire ad una parte rustica e non finita di quella casa. Era dessa elevata al di sopra del quartiere delle
educande, ma quello che se ne poteva vedere da quindi pareva piuttosto una catapecchia, un casolaraccio, che una parte
di casa civile: erano tetti e tettucci diseguali di altezza e di forma soprapposti l'uno all'altro come a caso. Ma in uno di
quei tetti v'era un pertugio, un abbaino, che dava luce ad un solajo, e adito a passare su quei tetti, e dal quale si poteva
guardare nel cortiletto delle educande. il padrone di quella casa era un giovane scellerato: e questa parola applicata ad
un uomo di quei tempi ha un senso molto più forte di quello che generalmente vi s'intende nei nostri; perché a quei
tempi tante cagioni favorivano la scelleratezza, che in coloro i quali vi si distinguevano, ella giungeva ad un segno del
quale grazie a Dio, non si può avere una idea dalla esperienza comune del vivere presente. I mezzi d'impunità erano
allora varj ed infiniti; la frequenza dei delitti ne aveva diminuito il ribrezzo e la vergogna: gli animi erano avvezzi ed
allevati per dir così nel sangue: da questi fatti era nato un pervertimento quasi generale nelle idee, e allo stesso tempo la
perversità delle idee rendeva quei fatti più comuni, e più tollerati."
La casa di Gertrude è adiacente ad un'altra casa la cui finestra affacciava nel cortile delle
ducande.
- OMOGENEITA' DAL PUNTO DI VISTA LINGUISTICO (fiorentino che può essere parlato sia
dal cardinale Borromeo sia da Renzo e Lucia)
CONFRONTO: Verga verista non interviene mai e ci mostra i personaggi mentre agiscono o parlano
utilizzando il discorso indiretto libero: si eclisserà dietro i personaggi. (narrazione impersonale)
"Il padrone della casa contigua al quartiere delle educande, era dunque un giovane scellerato: e si chiamava il signor
Egidio: perché di cognomi, come abbiam detto, l'autor nostro è molto sparagnatore."
-Riferimento all'autore del manostrscitto:Manzoni nella finzione letteraria finge di aver ritrovato
il manoscritto del '600 e di averlo soltanto ammodernato sul piano linguistico.
"Suo padre, uomo dovizioso bastantemente non aveva avuta altra mira nell'educarlo, che di renderlo somigliante a se
stesso: ora egli era un solenne accattabrighe: Egidio non aveva quindi sentito dall'infanzia a parlar d'altro che di
soddisfazioni e di fare stare, non aveva veduto quasi altro che schioppi e pugnali; e dalle braccia della nutrice era passato
in quelle degli scherani. La madre, ch'era di un carattere mansueto e pio, avrebbe potuto forse temperare in parte questa
educazione ma ella era morta lasciando Egidio nella infanzia, dopo una lenta malattia cagionata dai continui spaventi. Il
padre fu ucciso dopo una brevissima quistione da un suo emolo membro di una famiglia emola della sua da generazioni;
ed Egidio restò solo e padrone nella giovinezza. La prima sua impresa fu di risarcire l'onore della famiglia, con una
schioppettata nelle spalle dell'uccisore di suo padre. Questa impresa però lo pose da quel momento in un continuo pericolo;
e per assicurarsi, egli dovette crescere il numero de' suoi bravi, e non camminar mai che in mezzo ad un drappello. Suo
padre aveva non solo nel paese, ma altrove amici assai, e conformi a lui di massime e di condotta: Egidio gli ereditò tutti,
e gli coltivò, tanto più che aveva bisogno della loro assistenza. Ma i garbugli e il macello non piacevano a lui, come al
padre, per se medesimi: l'educazione lo aveva addestrato a non temerli, e a corrervi anzi ogni volta che un qualche fine
ve lo spingesse: ma non erano un fine, un divertimento, un bisogno per lui. La sua passione predominante era
l'amoreggiare; a questa si abbandonava con quelle precauzioni però che esigeva lo stato di guerra in cui egli si trovava, e
per questa egli veniva ai garbugli ed al macello, quando non si poteva fare altrimenti.
L'abbaino che guardava nel cortiletto del chiostro non era frequentato da nessuno tanto che visse il padre, il quale non si
curava di spiare i fatti delle educande. Soltanto egli vi aveva condotto una volta Egidio adolescente, per fargli osservare
che quello era un dominio sul chiostro; e quivi stendendo la mano sui tetti sotto posti, come Amilcare sull'ara, aveva fatto
promettere a quel picciolo Annibale che mai in nessun tempo egli non avrebbe sofferto che le monache si togliessero
quella servitù . Egidio divenuto padrone, si risovvenne dell'abbaino, e gli parve un dominio assai più importante che suo
padre non lo aveva creduto."
Storia di Egidio: figlio di una famiglia benestante. Il padre aveva il solo scopo di renderlo
uguale a lui. Diviene un grande attaccabrighe. La madre morì durante l'infanzia e poco dopo il
padre viene ucciso da una famiglia rivale. Egidio si vendica, ma ciò lo costringe a circondarsi
di bravi e a stringere rapporti con le cattive amicizie del padre. Le brighe per Egidio erano
solo un mezzo, un divertimento e non un fine. La sua passione era amoreggiare. Quando era
piccolo il padre portò Egidio nel chiostro delle suore facendosi promettere di non farsi
sottrarre la casa delle monache (riferimento al giuramento di Annibale: egli giura odio
eterno a Roma. )
"Un consorzio di donzellette, le quali non eran tutte bambine, parve a colui uno spettacolo da non trasandarsi quando lo
aveva così a portata; e la santità del luogo, il riserbo con cui eran tenute, l'innocenza loro, tutto ciò che avrebbe dovuto
essere freno, fu incentivo alla sua sfacciata curiosità, la quale non aveva disegni già determinati, ma era pronta a
cogliere e a far nascere tutte le occasioni.
Scopo dunque di Egidio era quello di adescare una monaca. La santità del luogo accendeva la
sua fantasia (vestito che viene violato).
" Egidio animato da quel primo successo, ed allettato più che atterrito dalla empietà del secondo pensiero, ardì di
rivolgere e di fermare gli occhi e i disegni sopra la Signora; e si diede ad agguatarla. Un giorno mentre le educande
erano tutte congregate nella stanza del lavoro con le due suore addette ai servigi della Signora, passeggiava essa sola
innanzi e indietro nel cortiletto lontana le mille miglia da ogni sospetto d'insidie, come il pettirosso sbadato saltella di
ramo in ramo senza pure immaginarsi che in quella macchia vi sia dei panioni, e nascosto dietro a quella il cacciatore
che gli ha disposti.
Dopo un primo successo, Egidio si concentra sulla signora "La monaca di Monza" e fa di tutto
per focalizzare l'attenzione su di essa. Un giorno Gertrude passeggiava da sola nel
cortiletto.
"Tutt'ad un tratto sentì ella venire dai tetti come un romore di voce non articolata la quale voleva farsi e non farsi
intendere, e macchinalmente levò la faccia verso quella parte; e mentre andava errando con l'occhio per quegli alti e
bassi, quasi cercando il punto preciso donde il romore era partito, un secondo romore simile al primo, e che
manifestamente le apparve una chiamata misteriosa e cauta, le colpì l'orecchio, e la fece avvertire il punto ch'ella
cercava. Guardò ella allora più fissamente per conoscere che fosse; e i cenni che vide non le lasciarono dubbio sulla
intenzione di quella chiamata. Bisogna qui render giustizia a quella infelice: qual che fosse fin'allora stata la licenza dei
suoi pensieri, il sentimento ch'ella provò in quel punto fu un terrore schietto e forte: chinò tosto lo sguardo, fece un
cipiglio severo e sprezzante, e corse come a rifuggirsi sotto quel lato del porticato che toccava la casa del vicino, e dove
per conseguenza ella era riparata dall'occhio temerario di quello: quivi tirando lunghesso il muro, rannicchiata e ristretta
come se fosse inseguita, si avviò all'angolo dov'era una scaletta che conduceva alle sue stanze, vi salse, e vi si chiuse,
quasi per porsi in sicuro. Posta a sedere tutta ansante, fu assalita da una folla di pensieri: cominciò prima di tutto a
ripensare se mai ella avesse dato ansa in alcun modo alla arditezza di colui, e trovatasi innocente, si rallegrò: quindi
detestando ancora sinceramente ciò che aveva veduto, se lo andava raffigurando e rimettendo nella immaginazione per
venire più chiaramente a comprendere come, perché ciò fosse avvenuto. Forse era equivoco? forse l'aveva egli presa in
iscambio? Forse aveva voluto accennare qualche cosa d'indifferente? Ma più ella esaminava, più le pareva di non avere
errato alla prima, e questo esame aumentando la sua certezza, la andava famigliarizzando con quella immagine, e
diminuiva quel primo orrore e quella prima sorpresa. Cosa strana e trista! il sentimento stesso della sua innocenza le
dava un certa sicurtà a tornare su quelle immagini: ella compiaceva liberamente ad una curiosità di cui non conosceva
ancora tutta l'estensione, e guardava senza rimorso e senza precauzione una colpa che non era la sua. Finalmente dopo
lunga pezza ella si levò come stanca di tanti pensieri che finivano in uno, e desiderò di trovarsi con le sue educande, con
le suore, di non esser sola."
All'improvviso Gertrude sentì delle voci e di scatto si girò nella direzione da cui proveniva la
voce. Alla vista di Egidio provò un terrore schietto e forte: PAROLE DI MANZONI.
Bisogna qui render giustizia a quella infelice: Manzoni interviene con un attenuante alla
colpa di Gertrude.
AZIONI: china lo sguardo e scappa, avviandosi alla scaletta mettendosi al sicuro. Poi
riflette su quanto accaduto: più esaminava la situazione, più pensava che non fosse colpa
sua, più andava familiarizzando. (Dal terrore al compiacimento morboso nel ripensarci.)
Ripresa dalla riflessione, desidera tornare dalle altre.
Il giorno precedente è stato concluso leggendo qualche passo di Storia di una capinera, Verga.
Nel momento in cui Egidio chiama, sollecita, cerca di adescare Geltrude (nell'edizione del Fermo e Lucia, poi
diviene Gertrude nell'edizione dei Promessi Sposi). Quando cerca di adescare Geltrude, dice Manzoni,
narratore onnisciente, bisogna qui render giustizia a quella infelice. La reazione della monaca di Monza è di
sincero spavento, quasi di orrore e quindi reagisce immediatamente con la fuga. Qui vediamo tutta una
serie di verbi che rappresentano l'analisi psicologica che Manzoni conduce da narratore onnisciente ed
esterno. Si vedranno differenze con gli autori del Verismo e poi con Svevo, si vedrà come il narratore
utilizza tecniche narrative differenti.
Quindi i verbi sono: cominciò prima di tutto a ripensare; si rallegrò, detestando ancora sinceramente ciò che
aveva veduto, è prolettico perché ci fa capire che dopo non avrebbe più detestato quest'adescamento;
andava riordinando i pensieri; esaminava quello che era successo, quindi ci sono una serie di dubbi; infine,
andava familiarizzando. Nel passo saltato diceva come certi crimini divenuti abituali nel '600, diventassero
più accettabili per la società. Manzoni ha un pensiero: così andava il mondo nel XVII secolo, ma intende
ancora così va', perché parlando del periodo che rimarca tutta la violenza della dominazione spagnola in
Italia, in realtà sottintende, denuncia quella che è la sopraffazione della dominazione austriaca nel
lombardo-veneto ai suoi tempi. Chiaramente non avrebbe mai potuto parlare di ciò esplicitamente
altrimenti il testo sarebbe stato censurato, con anche persecuzioni sulla persona, come successo in altri
casi. Quindi Manzoni ambienta tutto nel '600 sotto la dominazione spagnola, ma in sostanza indaga
sull'arroganza del potere, sui rapporti di forza e allontana il tutto ad un secolo passato, ma in realtà sta
facendo un'analisi delle dinamiche, soprattutto delle masse, che ancora sono attuali ai suoi tempi.
Quindi l'analisi psicologica che Manzoni conduce da narratore onnisciente comincia sul personaggio e sarà
molto diversa sia dalla narrativa verista sia ancor di più dal monologo interiore che appartiene, per
esempio, al romanzo moderno, del '900, come La coscienza di Zeno dove entra in gioco il discorso della
psicoanalisi.
Nell'analisi andiamo a vedere quasi un crescendo di verbi, infine dopo che si era seduta ansante, ripassa
nella mente tutto ciò che era successo, cioè che alla fine si trova innocente, non aveva in nessun modo
provocato l'adescamento di Egidio e quindi desidera ritornare dalle sue suore.
Esitò alquanto su la strada che doveva fare: ripassando pel cortiletto, ella avrebbe potuto lanciare un
guardo alla sfuggita dietro le spalle su quei tetti per vedere se colui era tanto ardito da trattenervisi, [...]
con quasi la scusa di essere scandalizzata, comincia a sviluppare una curiosità morbosa che poi la porterà a
perdersi. Quindi primo impulso sarebbe quello di ripassare per vedere se quello era tanto ardito
[...] e così saper meglio come regolarsi..., ma s'accorse tosto ella stessa che questo era un sofisma della
curiosità, o di qualche cosa di peggio, e senza più esitare, s'avviò pel dormitorio alla stanza dove erano le
educande: qui, o fosse caso o un resto di quella esitazione ella si affacciò ad una finestra che aveva
dirimpetto appunto quei tetti, vi guardò, vide il temerario che non si era mosso, partì tosto dalla finestra, la
chiuse, e uscì da quella stanza dicendo in fretta alle educande con voce commossa: «lavorate da brave»; e
se ne andò difilato a passeggiare nel giardino del chiostro.
[...]Le venne un pensiero, che avrebbe dovuto avvertire dell'accaduto chi poteva opporsi a tanta temerità.
cioè avrebbe dovuto parlarne alla Badessa che potesse impedire questa temerità. L'accusa è sempre nei
confronti di Egidio
- Ma; e se mi fossi ingannata? - Questo dubbio non le veniva che allor quando la manifestazione di ciò che
aveva veduto le si presentava alla mente come un dovere.
Cioè quando lei considerava che fosse suo dovere avvertire la superiora, a quel punto iniziava una lotta
interiore. E se mi fossi sbagliata? Sono tutte scuse che Geltrude accampa con se stessa
- Prima di parlare - diceva fra sè - voglio esser certa; troverò il modo di farlo con prudenza. E finalmente -
concluse fra sè in un accesso di passioni diverse - finalmente che colpa ci ho io? questo monastero non l'ho
piantato io qui vicino a questa casa. Così non foss'egli stato piantato in nessun angolo della terra! Dovevano
pensarvi quelle che sono venute a chiudervisi di loro voglia. Vada come sa andare. Io non voglio pensarci.
Quindi in qualche modo lascia il campo libero a uno sviluppo di questa vicenda
Queste parole volevano dire, forse senza che Geltrude stessa lo scorgesse ben chiaro, che d'allora in poi ella
non avrebbe pensato ad altro.
Quindi, appunto, si apriva la strada a questa possibilità di ulteriori incontri con Egidio
[...] L'assedio dello scellerato Egidio non si rallentò, e Geltrude cominciò a mettersi sovente nella occasione
di mostrargli ch'ella disapprovava le sue istanze, quindi passando gradatamente dalle dimostrazioni della
disapprovazione a quelle della non curanza, da questa alla tolleranza, finalmente dopo un doloroso
combattimento si diede per vinta in cuor suo, e con quei mezzi che lo scellerato aveva saputi trovare e
additarle lo fece certo della sua infame vittoria. Cessato il combattimento, la sventurata provò per un
istante una falsa gioja.
L'assedio del sempre scellerato Egidio non rallentò e Geltrude a questo punto, quando passeggiava,
cominciò ad avere una serie di atteggiamenti che possono essere descritti quasi come un climax, però
discendente. È sempre meno convincente nella sua disapprovazione morale dell'adescamento. Infatti in un
primo tempo disapprovava; poi passa alla noncuranza; poi alla tolleranza; infine si arrende, si diede per
vinta. Ed Egidio può cantare vittoria, la quale viene definita infame. Infame perché condotta nei confronti di
una suora, quindi anche empia. C'è stato il combattimento, ormai Geltrude si è arresa alle avances di Egidio
e prova una falsa gioia. Una gioia sulle prime prepotente, come la descrive Manzoni, ma falsa. Quindi
conseguono qui delle considerazioni morali, il narratore onnisciente manzoniano da' una sua valutazione
della vicenda
L'accecamento di Geltrude e le insidie di Egidio s'avanzavano di pari passo, e giunsero al punto che il muro
divisorio non lo fu più che di nome.
C'è quella reticenza incontrata già quando Boccaccio parla dell'amore, sicuramente molto più innocente, di
Lisabetta e Lorenzo; li accompagna fino alla porta della loro stanza, dopodiché lascia intuire ciò che avviene
dietro. La stessa cosa avviene con Geltrude ed Egidio, finchè il muro divisorio tra il convento e la casa di
Egidio non è più che solo di nome, alla fine si incontrano. Dice anche, nella parte successiva, come Geltrude
sia in totale dipendenza psicologica da Egidio; infatti qualunque cosa Egidio decidesse, lei lo eseguiva:
Ella fu dunque una docile e cieca discepola, e conobbe e ricevè tutte quelle idee generali di perversità a cui
l'ignoranza e la irriflessione di quei tempi permetteva di arrivare.
Geltrude aveva due educande che fungevano da sue cameriere personali, le quali hanno un'amica. Il
personaggio della Signora, cioè Geltrude, possiede dei privilegi, è un personaggio che in qualche modo fa'
chiacchierare le altre suore e, ad un certo punto, verrà convolta anche la terza suora amica, anche se non fa
parte del suo entourage. Le due educande iniziano ad avere dei sospetti sugli allontanamenti di Geltrude,
allora Egidio le suggerisce di confidare il loro segreto alle due cameriere sia per avere una maggiore mano
libera, sia per infettare, adescare al vizio una di queste due. Per lui è una vittoria morale poter in qualche
modo avere in suo dominio anche le altre due suore.
Una delle due suore addette alla Signora quando cominciò ad avere qualche sospetto, lo confidò ad un'altra
suora sua amica, facendosi promettere il segreto: promessa che le fu tenuta perché la Signora era troppo
potente, e il segreto troppo pericoloso;
che Geltrude se la intendesse con Egidio rimane segreto perché tutti hanno paura della Signora che è molto
potente perché appartiene ad una famiglia potente. Lei deve soccombere nello scontro con il padre e
quindi deve farsi suora perché ci sono gli interessi della famiglia, soprattutto della proprietà che deve
passare nelle mani di uno solo, cioè del figlio maschio. Ma all'interno del convento ha una posizione di forza
perché comunque appartenente ad una delle famiglie potenti
[...]e la voglia di ciarlare fu vinta dalla paura. Non era che un sospetto, e gli indizj eran deboli e potevano
anche essere interpretati altrimenti; ma la curiosità della suora fu risvegliata, e non lasciava mai di
tempestare quella che le aveva fatta la confidenza, per vederne, come si dice, l'acqua chiara. Quando però
la suora che aveva ciarlato divenne complice, si studiò non solo di eludere le inchieste della curiosa, ma di
disdirsi, e di farle credere che il sospetto era ingiurioso e stolto, e ch'ella stessa si era pienamente
disingannata. Ciò non ostante la curiosa ritenne sempre quel sospetto, e non lasciava sfuggire occasione di
gettar gli occhi nel quartiere delle educande, e di origliare, per venire a qualche certezza.
Accadde un giorno che la Signora venuta a parole con costei la aspreggiò, e la trattò con tali termini di
villania, che la suora dimenticata ogni cautela, si lasciò sfuggire dalla chiostra dei denti: ch'ella sapeva
qualche cosa, e che a tempo e luogo l'avrebbe detto a cui si doveva. La Signora non ebbe più pace.
Che orrenda consulta! le tre sciagurate, e il loro infernale consigliero deliberarono sul modo di imporre
silenzio alla suora. Il modo fu pensato e proposto da lui con indifferenza, e acconsentito dalle altre con
difficoltà, con resistenza, ma alla fine acconsentito.
Da notare tutta la dinamica psicologica, tutta la lotta interiore di queste suore. Ovviamente la soluzione
trovata da Egidio, chiamato infernale consigliero, è l'uccisione della terza suora. Viene proposta con
indifferenza e viene acconsentito dalle altre con difficoltà, con resistenza (rappresenta la lotta interiore),
ma alla fine le tre suore finiscono per accettare la proposta di un peccato mortale come l'uccisione
Geltrude fece più resistenza delle altre, protestò più volte che era pronta a tutto soffrire piuttosto che dar
mano ad una tanta scelleratezza,
ma finalmente vinta dalle istanze di Egidio e delle due, e nello stesso tempo dal suo terrore, venne ad una
transazione con la quale ella si sforzò di fingere a se stessa che sarebbe men rea: pattuì ella dunque che non
si sarebbe impacciata di nulla, ed avrebbe lasciato fare.
cioè la sua complicità sarebbe consistita solo nel lasciar fare, senza impedire loro l'omicidio, ma non se ne
sarebbe preoccupata
Presi gli orribili concerti, determinato dalle esortazioni di Egidio al sangue l'animo di quella che fu scelta a
versarlo; costei si ravvicinò alla suora condannata e le parlò di nuovo di quegli antichi sospetti, in modo da
crescerle la curiosità.
La suora che aveva parlato per prima e aveva fatto nascere i sospetti alla terza suora, scelta come colei che
avrebbe dovuto compiere l'omicidio, si avvicina alla terza suora rinfocolando il sospetto e la curiosità.
Quindi c'è nuovamente il pettegolezzo che funge da adescamento
La terza suora voleva conoscere a tutti i costi questi segreti peccaminosi perché si voleva vendicare di
Geltrude che l'aveva maltrattata
ma per farlo con sicurezza, aveva essa stessa bisogno di esser sicura.
La traditrice, mostrando che non le convenisse di stare più a lungo assente dalla Signora per darle sospetto,
lasciò la suora nel forte della curiosità, e nella speranza di scoprire qualche cosa; e come questa insisteva
per trattenerla, le propose di venire la notte al quartiere, dove l'avrebbe potuta nascondere nella sua cella, e
dirle il di più, e forse renderla testimonio di qualche cosa.
La meschina cadde nel laccio. Venuta la notte ella si trovò nel corridojo, dove la suora omicida
ancora non è stato commesso l'omicidio, ma viene già chiamata suora omicida per distinguerla dall'altra; e
dopo l'omicidio verrà chiamata solo omicida, quindi non si parlerà più neanche di suora
dove la suora omicida le venne incontro chetamente, e la condusse nella sua cella: quivi, preso il pretesto
dei servigj della Signora per partirsi, promettendo che tornerebbe tosto; la fece nascondersi tra il letticciuolo
e la mura, raccomandandole di non muoversi finch'ella non la chiamasse. Uscì quindi a render conto del
fatto all'altra suora e allo scellerato che aspettavano in un'altra stanza, e pigliato da Egidio l'orribile
coraggio che le abbisognava, entrò nella cella armata d'uno sgabello con la sua compagna. Nella cella non
v'era lume, ma quello che ardeva nella stanza vicina vi mandava per la porta aperta una dubbia luce. La
scellerata parlando con la compagna, perché la nascosta non si muovesse, e parlando in modo da farle
credere ch'ella cercava di rimandare la sua compagna come importuna, andò prima pianamente verso il
luogo dove la infelice stavasi rannicchiata, quindi giuntale presso le si avventò, e prima che quella potesse
né difendersi né gettare un grido né quasi avvedersi, con un colpo la lasciò senza vita.
L'omicidio è compiuto e quindi siamo nell'ambito, nell'atmosfera del romanzo nero: le segrete del
convento, l'omicidio, la trama e anche la scelleratezza che qui vi domina
Il racconto prosegue poi nel capitolo successivo, il V, dove racconta ancora in più minuziosi dettagli.
Da questo momento in poi c'è una ripetizione del termine omicida. L'omicida vuole associare nell'omicidio
anche Geltrude. Va' da lei, ma Geltrude fa' capire l'orrore del peccato compiuto
Gli atti e il volto di Geltrude riflettevano in un modo così orribile l'orrore del fatto, che l'omicida non potè
sopportare la sua presenza, e tornò in fretta presso a colui, l'aspetto del quale pareva dire: - non è nulla -.
La suora che aveva commesso l'omicidio va' a chiamare Geltrude, un po' per togliersi dalla stanza dove
c'era il cadavere della suora, e anche per poter associare nella colpa anche quelli che erano i suoi complici.
In qualche modo per rendere meno pesante la propria posizione e la sua coscienza dicendo che anche gli
altri erano complici quando in realtà solo lei aveva ucciso la suora. Quindi va' da Geltrude che è la causa del
tutto, ma Geltrude ha sul volto dipinto l'orrore per quello che è stato fatto per cui l'omicida ha terrore della
propria coscienza al punto tale che invece di trovare sollievo da Geltrude, preferisce ritornare da Egidio sul
cui volto l'omicidio sembrava una sciochezza e quindi alleggeriva il peso della sua coscienza.
Quando lo scellerato fu nelle sue case, cioè in quella parte disabitata che toccava il monastero, discese per
bugigattoli e per andirivieni dei quali egli era pratico, ad una cantina abbandonata, o che non aveva forse
mai servito; quivi in una buca scavata da lui, il giorno antecedente, depose il testimonio del delitto; lo
ricoperse, e pigliati da un mucchio che ivi era, cocci, mattoni e rottami, ve li gettò sopra per ricoprirlo,
proponendosi di trasportare poco a poco su quel sito tutto il mucchio, un monte se avesse potuto.
Le due donne rimaste sole, esaminarono in silenzio, se tutto era nello stato di prima; e poi... che avevano a
dirsi? L'omicida, ruppe il silenzio, dicendo: «andiamo a cercare la Signora»; l'altra le tenne dietro senza
rispondere.
Lo sgomento tra le due. Che avevano da dirsi dopo l'orrore, dopo ciò che avevano compiuto. Allora cercano
in qualche modo la solidarietà, cercano di stare insieme anche con la Signora per attenuare quello
sgomento del peccato compiuto
Stavano così tacite, guardandosi furtivamente di tratto in tratto; quando gli sguardi s'incontravano ognuna
abbassava gli occhi come se temesse un giudice, e avesse ribrezzo d'un colpevole. Ma l'omicida più agitata,
e agitata in modo diverso dalle altre, cercava ad ogni momento di cominciare un discorso, voleva parlare del
fatto e del da farsi come di cosa comune, parlava sempre in plurale, come per tenere afferrate le compagne
nella colpa, per essere nulla più che una loro pari.
Tentativo di attenuare la sua colpa e di tenere legate nella stessa colpa anche le due complici
Concertarono finalmente la condotta da tenersi quel primo giorno, perché nei concerti presi
antecedentemente non avevano preveduti che i pericoli materiali: non avevano pensato che al modo di
commettere il delitto segretamente, e di cancellarne ogni traccia esterna; ma il delitto aveva loro appresa
un'altra cosa; che il sangue si sarebbe rivelato nei loro atti, nel loro contegno, nel loro volto. Stabilirono
dunque che Geltrude si direbbe indisposta, che avrebbe un forte dolor di capo, che starebbe chiusa
all'oscuro nella sua stanza, e le altre si rimarrebbero ad assisterla. Ma in questo concerto stesso, quante
difficoltà, quanti dibattimenti!
Si potrebbe dire la cattiva coscienza, il senso di colpa delle suore fa' si che non trovano mai pace nelle
discussioni
Il punto più terribile era di decidere a quale delle due serventi sarebbe toccato di avvertire le suore della
indisposizione di Geltrude, per evitare che, non vedendola comparire, o la badessa, o qualche suora non
venisse nel quartiere a chiederne novella. Ognuna voleva rigettare su l'altra questo incarico. L'omicida
aveva una buona ragione per esimersi; ma questa ragione, poteva ella parlarne? Dire: - io sarò più confusa,
più tremante, perché... - Cercava ella dunque pretesti come l'altra, ma li sosteneva con più furore. Geltrude
indovinò, anzi sentì quella ragione, e persuase l'altra ad assumersi l'incarico, dicendole che sarebbe stato
facile e spedito annunziare la sua indisposizione dalla finestra ad una delle suore che governavano le
educande, pregando nello stesso tempo che non si facesse romore per non disturbarla.
Quindi trovano una soluzione nel far avvertire dell'indisposizione di Geltrude la suora non omicida
affacciandosi semplicemete alla finestra per avvertire di non fare ulteriore rumori. Bisogna tener presente
che una suora è stata uccisa e quindi manca all'appello.
Il mattino vegnente una suora mancò; si corse alla sua cella; non v'era; le monache si sparpagliarono a
ricercarla; ed una che andava per frugare nell'orto, vide da lontano... - Possibile? un pertugio nel muro. -
Non possono essere lasciate in pace perché la pace che da' la buona coscienza, le tre suore non ce l'hanno.
Due anni erano già trascorsi da quel giorno funesto al tempo in cui la nostra Lucia le fu raccomandata dal
padre cappuccino, il quale, come pure ogni altro del monastero, e di fuori, conosceva bene la Signora per un
cervellino, ma era lontano dal sospettare quale in tutto ella fosse.
Quindi si torna alla narrazione principale, parla dell'incontro di Lucia con la monaca di Monza da cui
scaturirà poi il rapimento, l'Innominato
Una lunga digressione, tutta questa narrazione costituisce un flashback, racconta tutto quello che è
successo prima. Dopo tutto questo orrore, il lettore si domanda il perché Fra Cristoforo la raccomanda
proprio a lei, allora dice che anche il frate cappuccino sapeva che non fosse proprio un dottore della Chiesa
però non arrivava mai a sospettare che ci fosse dietro tutto questo, perché l'uccisione della monaca viene
fatta passare come una fuga volontaria
Tra l'altre distinzioni e privilegi che le erano stati concessi, per compensarla di non poter esser badessa,
c'era anche quello di stare in un quartiere a parte. Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata
da un giovine, scellerato di professione, uno de' tanti, che, in que' tempi, e co' loro sgherri, e con l'alleanze
d'altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro
manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un
cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar di lì, per ozio,
allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall'empietà dell'impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La
sventurata rispose.
Tutta la storia di Egidio a proposito del padre che era un attaccabrighe, aveva ereditato dal padre tutti gli
amici e i nemici, la madre che avrebbe potuto distorglierlo da tante nefandezze ma era morta giovane,
tutte le sue vicende, l'adescamento, tutto il discorso della casa, l'ansia di Gertrude, il suo prima spaventarsi
poi piano piano familiarizzare con l'dea che Egidio in realtà voleva adescarla, il tutto si traduce in una
decina di righe nell'edizione dei Promessi Sposi. Viene asciugata tutta la vicenda, tutta la presentazione di
Egidio, e anche tutta la dimensione psicologica di come Gertrude arriva a rispondere ad Egidio. Non è
importante qui, tutto è racchiuso in una sola frase: La sventurata rispose dove sventurata fa' intuire sia da
un lato il fatto che Gertrude sia stata irretita da un punto di vista morale, ma c'è anche una sorta di
attenuazione della colpa, c'è un po' di pietà da parte di Manzoni per la povera monaca di Monza
Per qualche tempo, non parve che nessuna pensasse più in là; ma un giorno che la signora, venuta a parole
con una conversa, per non so che pettegolezzo, si lasciò andare a maltrattarla fuor di modo, e non la finiva
più, la conversa, dopo aver sofferto, ed essersi morse le labbra un pezzo, scappatale finalmente la pazienza,
buttò là una parola, che lei sapeva qualche cosa, e, che, a tempo e luogo, avrebbe parlato. Da quel
momento in poi, la signora non ebbe più pace. Non passò però molto tempo, che la conversa fu aspettata in
vano, una mattina, a' suoi ufizi consueti: si va a veder nella sua cella, e non si trova: è chiamata ad alta
voce; non risponde: cerca di qua, cerca di là, gira e rigira, dalla cima al fondo; non c'è in nessun luogo. E chi
sa quali congetture si sarebber fatte, se, appunto nel cercare, non si fosse scoperto una buca nel muro
dell'orto; la qual cosa fece pensare a tutte, che fosse sfrattata di là. Si fecero gran ricerche in Monza e ne'
contorni, e principalmente a Meda, di dov'era quella conversa; si scrisse in varie parti: non se n'ebbe mai la
più piccola notizia. Forse se ne sarebbe potuto saper di più, se, in vece di cercar lontano, si fosse scavato
vicino.
Qui fa' balenare il sospetto ma non ha raccontato nulla dell'orrore raccontato nel Fermo e Lucia.
Francesco Mastriani
Importante sia per quanto riguarda il romanzo d'appendice, sia per le atmosfere del romanzo nero presenti
nei suoi romanzi e che portano alla nascita del primo romanzo giallo in Italia.
Mastriani non è stato troppo ben trattato dalla critica, solamente in tempi più recenti c'è stata una
rivalutazione, un po' come Basile sotto certi aspetti. Quest'anno ricorre il bicentenario della nascita, quindi
si terranno dei convegni per ricordare questa figura e anche per farlo conoscere.
Dobbiamo pensare al motivo politico perché Mastriani, oltre ad essere stato un censore sotto il governo
borbonico, fu uno dei pochi intellettuali che rimase dopo i moti del '48 contro il sovrano borbonico. Tra gli
esuli condannati o che in qualche modo riuscirono a scappare, ricordiamo, c'era la migliore inteligentia tra
gli aristocratici e borghesi. Tra i tanti, possiamo ricordare Francesco De Sanctis, ci fu una sorta di epurazione
di tutti coloro che si erano in qualche modo compromessi col regime borbonico. Francesco De Sanctis, oltre
ad essere un uomo politico e aver, in quanto ministro, estromesso dall'università di Napoli tutti i docenti
che erano in qualche modo legati al regime borbonico al suo rientro dopo l'unità d'Italia, è anche un
importantissimo critico letterario a cui si condurrà in seguito Benedetto Croce che dominerà la letteratura
italiana fino agli anni '50 del '900. De Santis e poi Croce in qualche modo lanciano una condanna su tutto
quello che avviene e su tutti coloro che erano legati al regno delle due Sicilie, al regime borbonico.
Mastriani, comunque, è il romanziere d'appendice più noto secondo il riconoscimento dello stesso
Benedetto Croce, ma il romanzo d'appendice ad un certo punto viene in qualche modo squalificato sul
piano letterario al punto tale da essere considerato letteratura di serie B, anzi nemmeno degno di recare il
nome di letteratura ma di paraletteratura. Sarà recuperato poi solo negli anni '60/'70 soprattutto per gli
aspetti sociologici. In generale, il romanzo d'appendice indica soprattutto quella che è l'uscita di giornale e
questo perché rispondeva ad una doppia logica commerciale. Esso in qualche modo è legato sia
all'affermazione dell'industria editoriale e quindi alla diffusione dei giornali, soprattutto nella seconda metà
dell'800 quando l'Italia è unita e quindi il giornale poteva avere una diffusione sull'intero territorio
nazionale. Tra i giornali maggiormente conosciuti ne ricordiamo due in particolare: "Il corriere della sera"
(1876) e "Il Mattino" (1892). Ricordiamo anche "Roma" su cui scrive Mastriani molti dei suoi romanzi
d'appendice, soprattutto dopo l'unità. Sul Roma viene pubblicata a puntate la famosa "Storia della
letteratura italiana" di De Santis. Al romanzo d'appendice, dunque, è stata data una definizione deleteria in
seguito. Ma perché esso era legato ad una ragione economica? Sin dalla sua nascita, la diffusione del
giornale che ha come pubblico privilegiato soprattutto la borghesia perché sapeva leggere e quindi
costituiva la classe che formava l'opinione pubblica. Il romanzo d'appendice nasce in prima forma con il
feuilleton e poi in qualche modo si diffonde anche in Italia. Sarà la Cieca di Sorrento a determinare il
carattere dell'appendice in Italia. La lettura di un giornale era possibile mediante la sottoscrizione di un
abbonamento, all'epoca era definita come associazione che poteva essere trimestrale, semestrale o
annuale. Gli abbonati dovevano rinnovare l'abbonamento al giornale periodicamente. Aveva un grande
peso il romanzo d'appendice che era iniziato a ridosso della scadenza dell'abbonamento. Molto spesso si
combattevano i vari giornali, si contendevano le firme più accreditate, primo fra tutti Alexandre Dumas ma
non solo. Molti di questi romanzi venivano dall'estero, dalla Francia o dall'Inghilterra. Dumas, ad esempio,
venne anche a Napoli già negli anni '30, era un autore molto accreditato. Nel 1851 compare sulla scena "La
Cieca di Sorrento" su un giornale napoletano, il quale non era un vero e proprio quotidiano, non usciva tutti
i giorni. Si tratta dell'Omnibus, dura circa 50 anni in un periodo in cui molti giornali durano giusto poche
settimane o pochi mesi. È uno dei pochissimi che, in questo periodo di stravolgimento politico e storico,
dura da prima e dopo l'unità. (Fondazione:1833 Fine:1882). L'Omnibus, dunque, nel 1851, in anni
preunitari, pubblica "La Cieca di Sorrento" che ha larghissimo successo. Ha avuto decine e decine di edizioni
anche cinematografiche o adattamenti teatrali. È stata tradotta anche all'estero ed è entrata nel modo di
dire, è stato proverbiale. Ha in qualche modo fatto di Mastriani il Dumas nostrano. Nel giornale i primi
romanzi pubblicati dal Mastriani hanno un tale successo che Mastriani è l'unico in grado di contrastare il
successo dei campioni dell'appendice stranieri. Il romanzo d'appendice viene pubblicato innanzitutto
nell'appendice a piè di pagina, ha un contenuto narrativo e si chiama d'appendice perché il nome non era
fissato come appendice ma poteva chiamarsi fogliettino, fogliettone. Mastriani scrisse più di 100 romanzi,
scrisse un quantità enorme di novelle, drammi, articoli di giornale. Fu traduttore dal francese, dall'inglese.
Fu anche professore a scuola. Mastriani, tuttavia, a differenza di Dumas era poverissimo, veniva pagato in
base a quanto vendeva una certa puntata. Mastriani è un narratrore poderoso, non solo per la quantità
delle cose scritte, ma anche perché queste hanno un enorme valenza dal punto di vista storico-
documentario. Non c’è istituzione che Mastriani non ci racconti, ad esempio ricordiamo l’episodio della
casa dell’Annunziata, ci racconta dello sfizio dei poveri ambientato in quello che è oggi il palazzo a piazza
Carlo III, comunemente conosciuto come Il Serraglio dove i ragazzi orfani più grandi spesso venivano portati
per potere imparare un mestiere, lì c’era una scuola che introduceva i ragazzi al mondo del lavoro, in
particolare imparavano a suonare uno strumento musicale. Da lì c’è una prima forma di scuola dal carattere
tecnico musicale che in qualche modo era analoga al conservatorio. Che cos’era il Conservatorio e perché si
chiamava così? Il conservatorio si chiama così perché in qualche modo preservava i fanciulli più poveri e
dava loro la possibilità di imparare un mestiere molto richiesto. Imparare uno strumento musicale in
qualche modo dava la possibilità di mantenimento a questi poveri, ai ragazzi orfani. Tutto ciò viene
raccontato in più di un romanzo, ad esempio viene raccontata la storia dei conservatori di Napoli in un
romanzo dedicato al musicista Pergolesi oppure ci racconta di un povero orfano che passa per il Serraglio in
“Fior d’arancio” ecc…
Mastriani sarà il primo a parlare della malavita, della camorra, ci racconta della miseria di Napoli, ci
racconta di come viveva male la povera gente, dei soprusi che subiva. Perché Mastriani non è stato
avvicinato dagli autori veristi? Ad un certo punto c’è una polemica tra Mastriani e De Santis. È Mastriani che
solleva una questione secondo cui, e siamo negli anni ‘70 dell’800, tutti ora parlano degli autori veristi che
denunciano la realtà sociale napoletana, genere specifico che comunque è stato inventato dal Mastriani e
quindi lo rivendica. Infatti già negli anni ‘60 egli, ne “I misteri di Napoli”, aveva descritto la realtà dei
bassifondi napoletani. La sua denuncia, però, non è affrontata secondo la narrazione verista ma si attiene
alla tradizione del narratore onnisciente (Manzoni). Inoltre, Mastriani è un un autore molto credente per
cui esalta sempre i valori della morale e giudica le azioni dei suoi personaggi, entrando nel discorso. Quali
sono gli elementi del romanzo d’appendice? Innanzitutto la suspense perché era necessario mantenerla per
creare attesa e spingere gli abbonati al giornale ad acquistare la puntata successiva. Un altro elemento che
ricorre in Mastriani è quello del riconoscimento: ad un certo punto si scopre che un dato personaggio si
rivela essere un’altra persona. Inoltre, spesso è utilizzato il flashback che permette al lettore di poter
recuperare delle informazioni che fino a quel momento erano state taciute. Solitamente la narrazione inizia
in medias res. Sono tutte tecniche che rappresentano la strategia di un romanzo a puntate.
La cieca di Sorrento
Mastriani si dedica anche a studi giuridici e di medicina che non completa ma che rappresentano un
interesse dell’autore. La cieca di Sorrento è il secondo romanzo di Mastriani. La parte prima del primo
capitolo del romanzo si intitola:”Lo studente di medicina”. Si configura, dunque, quello che è il fascino dello
scienziato. Quest’ultimo si ritroverà nelle novelle di Mastriani e anticipa uno dei caratteri peculiari del
Positivismo.
Trama
C’è un ragazzo, Gaetano Pisani, che è il figlio di un ladro. Quest’ultimo si introduce nella casa di una famiglia
facoltosa, nobile. Vuole appropriarsi dei gioielli di famiglia, in quel momento non c’era nessuno se non la
mamma e la figlia. La mamma viene uccisa e la figlia, per lo shock, resta cieca per tutta la vita. Il figlio del
ladro, che viene in qualche modo derubato dal suo complice che fa il notaio, va all’estero, in Inghilterra,
cambiando le sue sembianze e risultando un po’ deforme, brutto, gobbo ma si innamora follemente della
figlia dell’assassinata. Il figlio dell’assassino si innamora della figlia dell’assassinata. Gaetano è diventato un
medico di fama mondiale ed è in grado di guarire la cecità della giovane Beatrice, infatti ci riesce. Si
possono solo immaginare le sensazioni provate nel momento in cui Beatrice vede quest’uomo così brutto e
deforme…
Per quanto concerne strettamente il romanzo, innanzitutto notiamo l’elemento del vizio, il ladro,
l’assassino, il malvagio. Il romanzo d’appendice traccia sempre una linea netta tra buoni e cattivi, la cieca
infatti viene descritta con aggettivi che ne esaltano la sua bellezza e la sua purezza morale.
Lo studente di medicina.
In quel laberinto d’ infiniti viottoli, ronchi e stradelle non più larghe d‘un distender di braccia , dai cento
barbari nomi , vestigia funeste di straniera gente, attraversando le quali si ha sempre una certa sospensione
di animo , come quando si visita una carcere o un ospedale; in queU’ammasso di luride e nere case
ammucchiate le une sulle altre, e così poco rallegrate dalla luce del sole ; in quei quartieri , dove 1’ occhio e
il pensiero dell' opulenza penetran di rado , e che pur raccolgono uelle umide loro pareti oneste famiglie di
giornalieri di bassa mano ; in quella rete insomma di popolati chiassuoli anti- chi, di cui compongonsi i
quartieri del Mercato , del Pendino e del Mandracchio , e che con un solo e generico nome soglionsi
addimandare la Vecchia Napoli , giace un vicoletto, o meglio un bugigattolo , uno di que’ mille che destano
una specie di paura in petto dello stesso Napolitano per la prima volta va a visitarli Già da qui Mastriani ci
mostra come fosse un gran conoscitore del popolo napoletano e della città. Era popolare a Napoli al punto
che nella zona del porto c’era un cantastorie che raccontava i romanzi di Mastriani per gli analfabeti.
Mastriani descrive a volte una città che per certi aspetti è ancora contemporanea, altre volte ci fa
immergere nella realtà della sua epoca, c’è il recupero della memoria storica. Con In quel laberinto d’infiniti
viottoli...” ci sta parlando della Napoli più vasta, più popolare, più povera ossia le zone di Forcella, del
porto: le zone meno abitate da gente nobile. Vi è la descrizione di case opulenti e fatiscenti ma che
accolgono al loro interno famiglie oneste costituite da membri che cercano impiego di giorno in giorno,
trattasi di precari. La narrativa di Mastriani è inoltre molto cinematografica e si basa sull’utilizzo dei cinque
sensi.
Questo vicoletto storto, malaugurato c fetido porta il nome di Vico Chiavello, al Pendino Abbiamo una
panoramica che ci consente di attraversare il quartiere fino a giungere nella casa.
Sollìa con violenza il vento di terra ne’ vecchi archi di quelle fabbriche da’ mezzi tempi , urlando come
demone arrabbiato sull’addormentata città , e squassando le imposte secolari delle finestre. Il silenzio di
quella strada domina assoluto e solenne negl’ intervalli che il vento mette nelle sue grida... L’atmosfera è
già inquietante, è passata la mezzanotte, siamo in una delle zone più povere di Napoli, tutto tace.
È l’ ora in cui la generazione degl' infelici e de’ sofferenti trova nel sonuo il balsamo delle sue piaghe. Ma
che cosa fa quell’ uomo da costa a quel tavolo , su cui brucia il mozzicone d’ una candela di sego colorata?
Che cosa è gittato su quel tavolo? Cielo! una testa!., una testa umana!., ed il sangue è tuttavia rappreso
sulla parte svelta dal tronco!... Ed un coltello... è nelle mani di colui ! Non vi spaventate... Quell’ uomo non è
mica un assassino... egli è semplicemente uno studente di medicina. Allo smorto chiarore della càndela
rivelasi il suo volto bruno , magro , incavato e brutto. Egli ha il capo coverto da capelli rossi ma duri e ricci ;
il labbro superiore sporge in fuori carnuto , c tocca quasi la punta d’ un naso grosso aquilino : direbbesi che
gl’ irsuti peli dei baffi non trovino luogo per ficcarsi tra quelle due prominenze , e li vedi però contorcersi in
varie guise e quasi a forma d’istrice comporsi. 1 suoi occhi non poco inchinati allo strabismo , sono
impertanto pregni di vivacità ed estremamente movibili sotto una fronte larga e spianata , in mezzo alla
quale una ruga profonda apre un gran solco , come ferita, ovvero come la traccia d’u- na maledizione onde
Iddio l'ha fulminata. È sostanzialmente brutto, deforme ma in particolare ha gli occhi strabici.
Ciononostante, si tratta di occhi vivaci che rivelano tanta intelligenza, la fronte larga è anch’essa sinonimo
di intelligenza però in mezzo alla fronte c’è una ruga che costituisce come una sorta di maledizione. Ciò è
ascrivibile alla superstizione dell’epoca secondo la quale la persona brutta e deforme era stata dannata, era
il segno evidente della punizione divina di Dio perché la persona in persona era brutta e cattiva. Alla
bruttezza corrispondeva una malvagità d’animo.
Nel complesso della fisonomia di quest’ essere umano leggesi a prima vista 1’ odio che ei concepir riebbe
per ogni bellezza , e quell’ irascibilità di carattere naturale nei deformi; ma, meglio studiando i suoi
lineamenti, restasi colpito dalla espressione di profonda sagacità di cui sono improntati , e da quella
solenne imponenza di cui rivestesi il volto di quegli uomini che fanno della scienza la consueta loro
occupazione. È il ritratto di uno scienziato per cui da un lato ci si aspetterebbe l’odio per tutto ciò che bello
perché ne è privo, dall’altro si trovano i segni di una grande intelligenza che caratterizza l’opera di uno
scienziato.
La meschina candela serve più a gittare sinistre ombre nella camera , anziché a rischiararla ; pochi libri in
quarto sono ammucchiati in un angolo di muro ; alquanti sono aperti sul tavolo , ed iudicano che da poco il
giovane ha cessato dall’ attingervi il pasto intellettuale. Le pareti della camera, lottanti tra il bianco e il
nero, davano piuttosto l’aspetto d’une prigione, tanto più che freddo e umido erano il suolo senza mattoni
Si tratta di una casa molto povera, non ha quasi nulla.
La miseria senza dubbio, con tutta la sua corte di privazioni , di stenti e di sofferenze , regnava in quella casa
; quello squallore, quella povertà, quelle ricordanze della morte, quella notte così tetra e oscura , quelle
voci lamentevoli che il vento facea passare attraverso le imposte , tutto parea che mettesse in bocca al
padron di quella casa le bibliche parole: Da ogni parte V anima mia è presa di tristezza, fino alla morte :
restate qui , e vegliate con me. Si nota qui il richiamo alla fede, si trovano le parole della Bibbia. Siamo in
una casa povera in cui c’è la testa di un cadavere, allora gli studenti di medicina non studiavano su un
materiale ma osservavano direttamente la costituzione del corpo umano. Le lezioni di anatomia, infatti,
spesso venivano fatte su cadaveri di persone povere o che non erano state riconosciute.
Ed in fatti, pel girare che quel giovane facea talora le sue pupille quasi spaventate intorno in- torno alla
camera, sembrava che invocato avesse qualche compagno che fosse rimasto a vegliare con lui. Quest’
uomo , cui diresti all' apparenza già di matura età , ha solo di pochi anni varcato il quinto lustro (circa 25
anni) ; nomasi Gaetano , ed è calabrese. Sono circa due ore che non si è mosso d’ac- canto a quel tavolo,
con gli occhi immobilmente fissi in quel livido capo. Ma che cosa fa ? Perchè di repente si è alzato a
soprassalto ed ha gittato un logoro cencio su quella testa , dando uno sguardo verso un canticello della ca-
mera ? Ah ! una donna , una vecchia riposa sovra un misero pagliereccio gittato a terra , ed in- volta in uno
straccio di coperta di pessima la- na. Nel sonno essa avea chiamato a nome Gaetano v e questi , credutala
desto , si era subi- tamente rivolto verso di lei , non senza un moto di spavento , imperocché due ragioni
arca di nasconderle quel pezzo anatomico. Quella donna era la madre del padre di lui. La donna dormiva
tuttavia , e Gaetano , il quale camminando sulla punta dei piedi erasi fatto ad esplorare se mai destata si
fosse , tor- nato era al suo posto , e discoperto avea di bel nuovo quell’ avanzo di ospedale ! Egli ricade sulla
sedia ; appoggia la sua testa sulle due mani spiegate , e s’immerge novellamente nella cu- pa meditazione
ispiratagli da quel tetro c mutilato compagno. Certamente non sono pensieri di scienza, in- vestigazioni
anatomiche , o studi pratici, quelli che iu questo momento concentrano 1’ attenzio- ne del giovane
calabrese ; perciocché, se le sue idee volgessero a ripassare sul pezzo anatomico le lezioni apparate il
mattino nelle sale degl’ Incurabili , egli dovrebbe andar di continuo stilbrando i plessi nervosi , o tagliando i
viluppi muscolosi, o scovrendo i nascosti vasellini , o seguendo, sotto il sistema nervoso, le diramazioni
arteriali ed i mille vasellini ond’ è tappezzato in ispecial modo 1’ organo del pensiero. No, questa volta non
è la scienza che assorbe i pensamenti di quel giovane , o almeno nel momento in cui il prcscutimo ai nostri
lettori. Perchè mai due grosse lagrime gli cadon fredde e pesanti dalle ciglia stanche di veglia ? Perchè mai i
suoi capelli, si rizzano sulla sua pallida fronte ? Perchè i suoi occhi fanno un giro convulsi- vo ut ile loro
orbite, e poscia ai chiudono, quasi per sfuggire ad un oggetto di orrore ? Orrende rimembranze si avvoltano
in quel capo , c vi si aggruppano come densi nuvoloni forieri d’ imminente uragano. Gaetano non sta
pensando agli studi di medicina, è molto addolorato, sta piangendo.
Un’ ora buona trascorre in quella muta e sel- vaggia contemplazione del teschio incarnato ; ma il sonno si
abbatte sulle palpebre di Gaetano; la natura reclama i suoi dritti; e fa d’uopo obbedirle. Egli si leva , e pone
il teschio in una cassa di latta, nella quale ordinariamente pone i pezzi anatomici che tragge seco
dall’Ospedale e che riporta quivi fedelmente il domani , per essere trasportati al Camposanto, insieme agli
altri ca- daveri e membra disgiunte che ogni sera vengono raccolte nelle sale anatomiche. Dopo la
dissezione dei cadaveri, questi vengono finalmente portati al cimitero. Sono i cadaveri provenienti
dall’ospedale che nessuno riconosce.
La casa di Gaetano è composta di una stanza che Ila in fondo un'alcova , ov‘é riposto il suo letticciuolo.
Trista , oscura , umida e malefica , questa abitazione, come tutte quelle di quei quartieri malsani, non riceve
l’aria e il lume che da una finestra dai vetri quasi tutti rotti e crollanti, la quale riesce sovra la piazzetta
Zecca dei Panni. (Zona di via Duomo) Prima di andare a letto, il giovane studente si avvicina alla finestra, e
sprolunga uno sguardo sulla strada ; una lanterna rischiara una ca- nova , o piuttosto una caverna a volte
lugubri e metiliche come tomba. Alla squallida e incerta luce della lanterna, due uomini usciti dalla cantina
discorrono tra loro in modo sommesso e misterioso È notte fonda: da questo quartiere malfamato escono
due uomini. Sono due malfattori.
Dopo aver parlato per poco , uno di essi tragge dalla fodera del suo cappello un puntuto e largo coltello ,
che riflette cupamente la sua pallida lama sotto i raggi di quella morta luce, e, cacciatoselo nella manica
d’una cacciatora di velluto che avea dì sotto al mantello , entrambi si perdono nelle ombre , come due lupi
nelle macchie di selvaggia foresta. Vi è il richiamo all’oscurità ma anche alla morte, al delitto . Il coltello non
è altro che il simbolo di delitto che evidentemente si sta per compiere o è già stato compiuto.
— Come quelli ! esclama tristamente Gaeta- no , seguendo con gli occhi finché può i movimenti di quei due
uomini... Forse le stesse tenebre investivano queste contrade!., forse nella stessa cànova fu ordito il delitto
!.. forse la stessa giornata di oggi, IO novembre !.. e forse la stessa morte ! !... oh ! maledetta nei se- coli sia
quella sera !... maledetta.;, mille volte maledetta , quella notte!... maledetto quel luo- go in cui fu tramato e
commesso il misfatto!... maledetto , mille volte maledetto chi prestò il consiglio o il braccio a Nunzio Pisani
per compire 1’ opera infame ! Nunzio Pisani è il ladro che, con la complicità di quello che poi sarebbe
diventato il notaio, compie il furto ma viene sorpreso dalla madre di Beatrice e la uccide. Verrà poi egli
catturato e condannato a morte, a differenza del suo complice. È Gaetano Pisani a dire “maledetta quella
notte”. Ma ciò lo scopriremo in seguito. Nel vedere i due malfattori, Gaetano immagina la scena che
rappresentava il proprio padre nell’atto di andare a compiere il furto e quindi l’omicidio.
Queste ultime parole , pronunziate con crescente e disperata energia, destarono a soprassalto la vecchia ,
che si pose a sedere in letto, esclamando : — Dio ! Dio mio ! Che brutto sogno ho mai fatto ! Gaetano
intanto, da lei inosservato, radeva il muro della stanza per recarsi al suo letto. Da qui parte la descrizione
della sala anatomica.
Il teatro anatomico.
Numerosissimo stuolo di giovimi studenti «assiepato nelle sale basse di anatomia , nell’ ospedale degl’
Incurabili. Queste sale sono scompartite a seconda dell' importanza delle lezioni e dei diversi corsi ;
imperciocché le sale della anotomia descrittiva sono separate da quelle della anotomia patologica: vi si
scende, attraversando la corsia de’ mercurianti , e quindi uno stradoncello posto allo scoverto. Queste sale ,
cui la provvida Amministrazione ha rendute oggi decentissime , erano , negli scorsi tempi , spor- che ,
umide e puzzolenti sì che rassembravan piuttosto a tanti macelli , ovvero a tanti cimiteri. I cadaveri
acquistano maggiore o minore importanza e prezzo in proporzione della loro freschezza e secoudo chè il
male onde sono morti offre maggior singolarità I cadaveri avevano maggior valore a seconda di come
avevano contratto la morte, se colpiti da una certa malattia ad esempio.
i pezzi anatomici maschili costano ordinariamente più dei femminei, e tra questi le giovani più delle
vecchie. É incomprensibile come giovanetti di tenerissima età c di tempra sensitiva sembrino non
esserminitamente mossi dalla vista di quegli avanzi infelici di gente povera e onesta, cui, perle
indispensabili esigenze della scienza, non é dato neanche il conforto di una lagrima in di- partendosi dal
mondo , e i cui cadaveri sono dannati ad esser monchi . svisati e squartali dal coltello anatomico. C’è una
presa di posizione ben precisa poiché ci si scaglia contro questa pratica come in “Lezione di Anatomia” di un
autore della Scapigliatura.
Oh quante donzelle, la cui principal cura in tutta la loro vita era stata di nutrir nel velo del più gran pudore il
miste- ro della propria bellezza , debbono in morendo avere il rammarico di sapere che il lor corpo
verginale sarà esposto a sguardi per lo meno indifferenti. E’ 1’ ora consueta della lezione : le 1 1 a. m. Nel
gran salone di anatomia patologica , sovra un tavolo di marmo , giace un cadavere intera- mente ignudo.
Una cinquantina di giovani stu- denti sono aggruppati qua e là su gli scanni messi ad anfiteatro , e
discorrono ad alta voce, mormorando , canticchiando , e taluni , dando prova d’ insensibilità , prendono una
refezione su quelle tavole, su cui non è guari studiavano le loro lezioni di preparazioni anatomiche. Il
professore non era ancora arrivato. Storielle amorose , aneddoti da collegio ve- vano buccinati tra quei
gruppi schiamazzatori, che sganasciavansi dalle risa e battevano co’ioro bastoni gli scanni. Gaetano soltanto
non prendeva parte alcuna in quelle baldorie , e, rincantucciato in un angolo, teneva immobilmente fisso
sul cadavere uno sguardo da pazzo. Gaetano quasi non vorrebbe frequentare la lezione ma viene fermato
per via del cadavere di sua sorella.
SBOBINATURA LEZIONE 30/04/2019
(tra le virgolette rosse trovate la lettura dei testi citati)
Tecnica narrativa: il discorso indiretto libero (è quando i pensieri e le parole del personaggio si immettono
direttamente nella pagina e quindi anche il suo registro linguistico è, di solito, colloquiale in quanto
l’ambiente indagato da Verga è quello delle classi più umili. Aveva progettato, nel Ciclo dei Vinti, di
dedicarsi anche alle classi superiori ma poi questi romanzi non li scrisse)
Questione linguistica: Verga si discosta dalla scelta linguistica manzoniana. Manzoni aveva utilizzato il
fiorentino, non quello letterario, ma quello parlato dalla borghesia dei suoi tempi. La scrittura di Manzoni è
omogenea: il cardinale Borromeo parla allo stesso modo dei popolani.
Verga non può servirsi del fiorentino, una lingua parlata dalla borghesia, ma non può nemmeno servirsi del
dialetto perché sarebbe incomprensibile a chi non fosse del luogo. Allora decide di dare il “colore locale”:
per far parlare i suoi personaggi utilizza il lessico dell’italiano ma con la sintassi del dialetto. Per dare colore
locale in Mastro Don Gesualdo utilizza molti proverbi e fa ricorso anche ai soprannomi.
PARTE B
F. DURANTE, Italoamericana. Storia e letteratura degli Italiani negli Stati Uniti (1880-1843), vol. II,
Milano, Mondadori, 2005: Introduzione, pp. 323-341.
___________________________
TESTI
Da Durante:
S. RIGHI, Vennero i bricchellieri, pp. 519-520.
SAGGI
Storie e leggende di teatro napoletano oltreoceano, in Eduardo. Modelli, compagni di strada e successori, a
cura di Francesco Cotticelli, Napoli, CLEAN, 2015, pp. 59-65. ISBN 978-88- 8497-535-5.
Un testo teatrale tra vecchi e nuovi media: il viaggio esemplare di Fior d'arancio di Francesco Mastriani, in
Filologia, Teatro, Spettacolo. Dai Greci alla contemporaneità, a cura di Francesco Cotticelli e Roberto
Puggioni, Milano, Franco Angeli, 2017, pp. 386-413.
Nell’antologia Durante riporta una serie di testi di vario genere che sono stati scritti da immigrati
italoamericani che si sono stanziati negli Stati Uniti (in particolar modo a New York) nei primi decenni del
‘900. Questa immigrazione inizia molto prima, ma quest’ondata massiccia l’abbiamo tra gli ultimi anni
dell’800 e i primi del ‘900. Quindi, questo volume “Italoamericana” costituisce un corpus di testi, molti dei
quali sono rimasti inediti fino ad ora (cioè non sono mai stati pubblicati) perché avviene un po’ quello che
sta accadendo ai nostri giorni: soltanto negli ultimi anni si comincia a studiare la letteratura degli immigrati
in Italia, ma gran parte di questa letteratura è sommersa perché rimane in qualche modo un po’ trascurata,
anche linguisticamente parlando questa è una letteratura o nella lingua d’origine oppure, soltanto da poco,
stiamo vedendo anche questa ibridazione linguistica degli immigrati che vengono a contatto con l’italiano,
proprio come nei testi. Cento anni fa avveniva un fenomeno più o meno analogo per quanto riguarda la
letteratura degli immigrati negli Stati Uniti, ed è una letteratura che è andata in gran parte dispersa o
comunque ci sono delle disparate testimonianze. Il fondo più cospicuo finora esistente di letteratura
italoamericana si trova alla Biblioteca Nazionale di Napoli alla sezione Lucchesi Palli. In questa sezione c’è
un fondo (Fondo Cennerazzo) che contiene diverse migliaia di documenti (per documenti si intende copioni
che possono essere manoscritti, dattiloscritti o testi a stampa con la revisione di Cennerazzo); molti di
questi testi sono dei copioni e quindi sono dei testi di servizio perché non sono semplicemente da leggere
ma recano un intervento manoscritto (solitamente di Cennerazzo).
Cennerazzo
Di Cennerazzo (o Cenerazzo) ci sono poche notizie frammentarie, sono due paginette di notizie che
ricaviamo dall’antologia di Durante. Nasce in provincia di Avellino nel 1889, è un attore, regista, autore,
drammaturgo che nel 1901, a 12 anni, si trasferisce negli Stati Uniti e muore nel 1962 a New York. Il suo
legame con la patria rimane molto forte. Negli ultimi anni della sua vita compie frequenti viaggi in Italia e
come sue ultime volontà, tutto questo materiale legato all’attività prevalentemente teatrale di Cennerazzo,
è stato donato alla Biblioteca Nazionale di Napoli. Quindi nemmeno negli Stati Uniti, ci dice Francesco
Durante (che è l’autore di questa ponderosa antologia), esiste un corpus così ricco raggruppato di materiale
relativo alla produzione (intendendo con produzione anche la rielaborazione) dei testi appartenenti a
questa letteratura italoamericana. Su che cosa verte la produzione di Cennerazzo? Ci sono dei testi che ha
scritto lui, ma molto spesso lui essendo regista (possiamo dire capocomico) di una compagnia che si
stabilisce a New York già negli anni ‘10, Cennerazzo porta un po’ il materiale delle proprie origini.
Cennerazzo mette in scena nella sua produzione delle farse pulcinellesche, quindi con il personaggio di
pulcinella; mette in scena dei drammi della tradizione ma anche dei testi che hanno a che vedere con
l’attualità, soprattutto quella della comunità italoamericana.
Nella produzione di Cennerazzo troviamo cose scritte da lui o rielaborazioni e adattamenti delle scene di
testi di altri che porta con sé. Uno di questi testi che porta con sé è un testo di Mastriani. Questo testo è
stato rielaborato e, oltre ad essere stato riadattato per le scene diventando un testo teatrale, diventa
persino anche un testo radiofonico (siamo negli anni ‘30 dove nascono canali radiofonici per gli
italoamericani).
Il romanzo di Mastriani scritto nel 1887 arriva attraverso le rielaborazioni di Cennerazzo a diventare, negli
anni 30, prima un testo teatrale rappresentato a Broadway, poi addirittura un dramma radiofonico.
Purtroppo del dramma radiofonico non ci restano tracce.
Come si trasforma il romanzo di Mastriani da romanzo ad opera teatrale? E come diventa un dramma
radiofonico? Chiaramente non attraversiamo solo l’oceano ma cavalchiamo dei mezzi di comunicazione di
massa di ultima generazione come la radio e adattiamo i testi a una comunità di riferimento che non è più
quella dei napoletani dell’800 ma è una comunità di italiani di prima o di seconda generazione che ha in
qualche modo voglia di recuperare le proprie radici ma queste radici diventano raccontate, la cultura
italiana non è più vissuta di prima mano ma è una cultura che viene trasmessa dai padri ai figli.
Cennerazzo è un autore/regista/drammaturgo che opera in un cinquantennio negli Stati Uniti. Negli ultimi
anni viene spesso anche in Italia, però sostanzialmente la sua produzione e la sua professione la esercita
negli Stati Uniti e ci ha fatto dono di tutti questi testi. Un altro luogo dove si raccolgono le chiavi relative
alla produzione degli italiani è questo Immigration History Research Center che fa capo all’ università del
Minnesota. Cosa c’entra tutto ciò?
Nella biografia di Ernesto Tummolillo si legge che egli dimostrò una precoce propensione verso la
letteratura ma quand’era ragazzino venne preso sotto l’ala protettrice di un avvocato che lo invitò nelle
corti del tribunale. E proprio dalla corte del tribunale lui prese spunto per scrivere alcune commedie. Infatti
bisogna tenere presente che verso la fine dell’800 c’era una curiosità morbosa del pubblico nel seguire le
cronache dei tribunali e anche il nostro Mastriani scriverà il “Processo Cordier” che è un romanzo che si
concentra tutto su un processo.
Il giovane Ernesto viene quindi preso sotto l’ala protettrice dell’avvocato e ogni giorno andava in tribunale
dove ricevette molte idee per i suoi racconti brevi, per i suoi romanzi, poemi e canzoni. Di tutto questo
materiale non ci è rimasto quasi niente. Nella biografia si dice che da quando aveva 16 anni era un brillante
scrittore (naturalmente noi dobbiamo prendere tutto con le pinze e depurare la biografia da quello che è
l’affetto familiare. Non sappiamo fino a che punto tutto ciò sia veritiero) e fu proprio in un tribunale che fu
ispirato a scrivere una commedia: “Filumena Marturano” (che noi conosciamo come opera di Eduardo De
Filippo) che trovò spunto in un avvenimento di cronaca. (Lo stesso Eduardo afferma di aver preso spunto da
un fatto di cronaca; la commedia andò in scena nel 1946).
nella biografia: “Mia nonna e sua sorella giurano che il loro padre è l’autore della storia sebbene Eduardo
De Filippo sia l’autore riconosciuto e acclamato.” Allora nella biografia spiega che questo brillante scrittore
nel momento in cui arriva in America si impossessa rapidamente della lingua e addirittura trova un impiego
ad Ellis Island (luogo dove venivano radunati gli immigrati e venivano sottoposti ad una serie di indagini
psicofisiche prima di ricevere il permesso per entrare negli USA). Quindi grazie a questa capacità di
imparare la lingua in poco tempo trovò questo impiego senza lasciare però la sua passione per il teatro. E
infatti nella biografia si dice che scrisse molte commedie, romanzi, novelle di cui non rimane pressoché
nulla; in Italia rimangono soltanto 2 titoli (uno si trova solo a Napoli e l’altro a Napoli e Firenze).
Quindi, ritornando alla biografia, questo signore si dedica all’attività teatrale, scrive molte commedie, va
praticamente ogni sera a teatro e quasi subito dopo essere arrivato negli Stati Uniti conosce questa giovane
ragazza a cui dà lezioni private (Ginevra), la sposa e avranno 5 figli. Ogni sera, prima che lui tornasse a casa,
la moglie faceva mettere questi 5 figli sul davanzale della finestra perché lui era molto apprensivo e così
quando tornava a casa lo rassicurava vedere i bambini sul davanzale. Una sera, tornando, un bambino gli
cade ai piedi da un palazzo e lui ha un attacco cardiaco temendo fosse uno dei suoi figli. Non era uno dei
suoi figli, però dopo alcuni mesi da questa vicenda lui muore a circa 37 anni. Rimane la vedova con 5 figli
che affida tutti i lavori teatrali ad un amico di famiglia, un tale di nome John Romano. Il quale, secondo la
biografia, si sarebbe allontanato da New York e avrebbe, a sua volta, venduto o donato tutta questa
produzione ai coniugi Ciaramella (Roberto e Anna).
Roberto esordì giovanissimo a Napoli come cantante ad appena 7 anni. Poi più tardi fece coppia fissa in un
duo con Anna. I coniugi fecero molto spesso delle tournée negli Stati Uniti per poi ritornare in Italia. La
spiegazione data è che Robert e Anna avrebbero venduto o ceduto queste commedie, tra cui Filumena
Marturano, a Edoardo De Filippo però non ci sono prove di tutto ciò. Le figlie tentarono, negli anni 50, di
consultare degli avvocati per poter far riconoscere la paternità di Filumena Marturano.
Filumena Marturano uscì nel 1946 ma il vero successo viene al di fuori dell’Italia con “Matrimonio
all’Italiana” interpretato da Marcello Mastroianni e Sofia Loren nel 1964. Negli anni ‘70 questa “Filumena
Marturano” viene addirittura portata in scena a teatro. Dopo il film, che ha una rilevanza internazionale,
possiamo dire che la fama di Filumena Marturano (diventata poi Matrimonio all’italiana) si incrementa. Per
cui, a questo punto, le figlie di Tummolillo avrebbero cercato di ristabilire la verità in tribunale dicendo che
l’autore era il proprio padre.
Perché nella biografia di Gennaro Di Spigno si parla di “Matrimonio all’italiana” (Marriage Italian Style) che
è il titolo del film (il titolo della commedia è Filumena Marturano). Però da una parte era morto John
Romano che era l’anello di congiunzione tra la vedova di Tummolillo e i coniugi Ciaramella, quindi non
poteva testimoniare che la produzione fosse di Ernesto Tummolillo. In secondo luogo, in Italia, non c’erano
le registrazioni (i reports) del diritto d’autore che erano andate distrutte durante la seconda guerra
mondiale quindi non era possibile ricavare indicazioni della paternità di Tummolillo. Quindi gli avvocati
sconsigliarono alle figlie di intentare una causa per il riconoscimento della dignità autoriale di Filumena
Marturano.
Ecco perché il nome di questo saggio è “storie e leggende”, perché non possiamo provare quanto affermato
dalle figlie di Tummolillo nemmeno al momento.
Cosa vi dice tutto ciò? Vi dice che comunque c’era e c’è un’attenzione per quello che è il patrimonio che
dalla madre patria venne portato fino agli Stati Uniti. Perché non bisogna dimenticare che l’ispirazione di
Filumena Marturano è assolutamente napoletana.
Una delle possibili domande è su quello che stiamo dicendo adesso e sul saggio che andremo a leggere.
Ernesto Tummolillo
(1879-1916)
Ernesto Tummolillo was born to Filumena Tramontara and Antonio Tummolillo in an
affluent section of Naples, Italy in 1879. He was the oldest of five children, Ronn, Carolina,
Antonio e Gennaro. At the age of sixteen he was taken under the wire of a prominent
lawyer and invited to sit in the courtroom. Everyday Ernesto went to the court where he
got many ideas for his short stories, novels, poems and songs. Even at 16 he was a
brilliant writer. it was in the courtroom where he was inspired to write a player, Filumena
Maturano. At the age of twenty two, she went to seek Adventure in America. She arrived
in the United States in 1901 and settled in South Brooklyn, New York. She was our search
brilliant scholar that three weeks after he arrived he received his so United States
citizenship. Because she was able to speak Italian and English English fluently, she was
given a job in the immigration office Simona Ellis Island. At that time all foreigners where
are screened on Ellis Island before coming ashore. In 1904, he met Mrs.B.Gabriele and
convinced her to let him teach her daughter, ginevra, English. In 1906 Ernesto and
Ginevra were married. The two moved to 557 Henry Street Brooklyn, New York. After ten
years of marriage they were the proud parents of five children: Amedeo, Lucia (Di
Spigno), Fin (Di Giovanni), Guido and Umberto. While working on Ellis Island Ernesto
continued to write and many of his plays appeared in the Italian theatre in New York. One
of his most popular play that appeared on stage was, Amora Patria. At the end of the play
on opening night the audience was in an exaltation. They said: “Author! Author!” A tall
man with the handle mustache and a white suit stood up and was loudly applauded.
Ernesto and his wife attended every play the Italian theater put on. Ernesto Tummolillo fell
to a very tragic death in 1916. He was very nervous man and was always afraid something
tragic would happen to one of his children. Every night before he came home, his wife
would have the children line up by the window of their brownstone house in Brooklyn. One
evening a boy, not one of his, fell out a window and landed inches away from Ernesto.
Blood applatered all over him and the boy was instantly killed. Ernesto, thinking it was one
of his children had a heart attack and died three months later leaving a young wife and
five very young children. Ernesto Tummolillo died at age 37. It was previously mentioned
that Ernesto Tummolillo was the author of Filumena Maturano, more popularly known as
Lucia Di Spigno, and my great aunt, Pia Di Giovanni, swear that their father is the author
of this story. However Don De Filippo is the acclaimed author. When Ernesto died his
widow gave all his works to a friend of the family, Mr. John Romano, an Italian actor, who
later moved to California, Romano gave or sold these works to Mr. and Mrs. Ciaramella, a
famous Italian team in the Italian theater and later on radio. They portrayed the typical
Italian family on stage. They retired in Italy and in turn gave or sold this works of
Tummolillo to Don De Filippo, who claims to be the author of this great play. The story was
later sold and made into the movie, Marriage Italian Style. The descendents of Ernesto
Tummolillo sought a legal advice in an attempt to give their father the recognition he
deserves as being the author of Filumena Maturano. But since more than fifty years have
passed since Tummolillo wrote this story, and all the records were destroyed or lost in
World War Two, and they no longer possessed the original manuscript, lawyers advised
them of the dangers of making a charge they would not prove, especially since Romano
has died too, all was dropped. Tummolillo is known for writing many great stories, novels,
poems and songs among they are: Pe’ ll'uocchie d''o munno, Amora Patria, Cuncettella!,
Puo’ trasì!... Tarantella, 'Nfamità, 'E tre surdate, Te si’ scurdata!. Sometimes Tummolillo
Today four of his five children still live in South Brooklyn, New York. His oldest son has
retired in Florida. Ernesto Tummolillo's heirs are many. My great grandmother died in
December 1971, one of the last in the most colourful Neapolitan, a “nationality” which may some day become extinct.
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Ernesto Tumolillo nacque da Filomena Tramontana e Antonio Tummolillo in uno dei migliori quartieri di
Napoli, nel 1879. (Il biografo sottolinea questo aspetto perché, ovviamente edotto dalla nonna, vuole
riabilitare la figura di questo commediografo praticamente dimenticato)
Fu il maggiore di 5 figli che si chiamavano Ronn, Carolina, Antonio e Gennaro. All’età di 16 anni fu preso
sotto l’ala protettrice di un importante avvocato e fu invitato a sedere nel tribunale. Ogni giorno Ernesto
andava in tribunale dove prese molte idee per i suoi racconti, per i suoi romanzi, per le poesie e le canzoni.
Già dall’età di 16 anni fu uno scrittore brillante e fu proprio dentro a un tribunale che fu ispirato a scrivere
una commedia: Filumena Marturano.
(Vedete che, nel manoscritto, per due volte scrive Filumena Maturano, omettendo una R. Questo ci fa
capire che lui è un italiano di terza generazione e non mastica più bene l’italiano. Fa due volte lo stesso
errore che poi viene corretto a penna.)
All’età di 22 anni andò in cerca di avventura in America (Dire “andare in cerca di avventura” è diverso dal
dire “andò in America perché aveva bisogno di lavoro come migrante”; non fa sembrare urgente la
necessità economica ma ce lo presenta come un ragazzo alla ricerca di avventura)
Arrivò negli Stati Uniti nel 1901 e prese alloggio nella parte sud di Brooklyn a New York. Fu un così brillante
allievo che appena 3 settimane dopo il suo arrivo ricevette la cittadinanza degli Stati Uniti. (Sembra un
affermazione un po’ azzardata, andrebbe verificata con dei documenti )
Poiché era capace di parlare italiano e inglese fluentemente, ebbe un lavoro presso l’ufficio immigrazione a
Ellis Island, in quel tempo tutti gli stranieri venivano sottoposti a dei controlli prima di poter essere
introdotti negli Stati Uniti.
Nel 1904 incontrò la signora Gabriele e la convinse a consentirgli di dare lezioni di inglese a sua figlia
Ginevra. (Qui stiamo parlando della comunità degli italoamericani, nel senso che, come possiamo vedere
dai nomi e dai cognomi, gli italiani si frequentavano fra loro).
Nel 1906 Ernesto e Ginevra si sposarono. I due si trasferirono al numero 557 di Henry Street a Brooklyn,
New York. Dopo 10 anni di matrimonio erano orgogliosi genitori di 5 figli: Amedeo, Lucia (Di Spigno), Pia (Di
Giovanni), Guido e Umberto (i cognomi in parentesi sono quelli che assunsero le figlie dopo il matrimonio).
Mentre lavorava a Ellis Island, Ernesto continuò a scrivere e molte delle sue commedie apparvero nel teatro
italiano di New York. (Molto del materiale di quanto veniva rappresentato, non di Tummolillo, ma in
generale è nel Fondo Cennerazzo. Anche gli unici due testi che ci sono pervenuti di Tummolillo sono nella
raccolta di Cennerazzo, che aveva messo insieme tutto questo patrimonio teatrale degli italoamericani).
Una delle più popolari commedie che apparve sul palcoscenico fu “Amora Patria”. (Il nome deve essere il
risultato di una storpiatura; non si trovano tracce di nulla di simile) Alla fine del dramma, il pubblico era in
tumulto. Il pubblico acclamava “Autore, autore!” e un uomo magro, con i baffi sottili e un abito bianco si
alzò e fu fragorosamente applaudito. Ernesto e sua moglie assistevano ad ogni dramma che il teatro
italiano metteva in scena. Ernesto Tummolillo ebbe una morte molto tragica nel 1916. Era un uomo molto
nervoso e spesso aveva paura che qualche tragedia potesse succedere a uno dei suoi figli. Ogni sera prima
che tornasse a casa sua moglie faceva allineare i bambini sulla finestra della loro casa di mattoni marroni a
Brooklyn. Una sera un ragazzo, non uno dei suoi, cadde dalla finestra e atterrò a due passi da Ernesto. Il
sangue schizzò ovunque su di lui e il ragazzo morì sul colpo. Ernesto, pensando che fosse uno dei suoi figli,
ebbe un attacco di cuore e morì 3 mesi più tardi lasciando una moglie giovane e 5 figli in tenera età.
Ernesto morì all’età di 37 anni e prima è stato detto che egli fu l’autore di Filumena Marturano, più
popolarmente conosciuta come “Matrimonio all’italiana”, un film reso famoso da Marcello Mastroianni.
(Mastroianni qualche anno prima era stato interprete della “Dolce Vita” di Fellini, che aveva avuto una
certa risonanza anche negli Stati Uniti).
Mia nonna, Lucia Di Spigno e la mia prozia, Pia di Giovanni giurano che il loro padre è l’autore di questa
storia nonostante Don De Filippo sia l’autore riconosciuto. La storia si spiega con il fatto che quando
Ernesto morì, la sua vedova diede tutti i suoi lavori a un amico di famiglia, Mr. John Romano, un attore
italiano che più tardi se ne andò in California, quindi abbandonò proprio New York. John Romano diede o
vendette questi lavori a Mr. e Mrs. Ciaramella, un famoso team del teatro italiano e poi della radio.
(Qui abbiamo lo stesso passaggio dell’altro saggio che leggeremo, in cui l’opera viene prima adattata per le
scene e poi per il canale radiofonico. Qua parliamo, come ci specifica bene Durante, sempre di un teatro
etnico. Un teatro fatto da italoamericani per italoamericani. Dopo la prima generazione abbiamo un
pubblico che in qualche modo comincia a fondersi culturalmente e anche dal punto di vista linguistico).
I Ciaramella rappresentavano sulle scene la tipica famiglia italiana. Questi ritornarono in Italia e più tardi
diedero o vendettero le opere di Tummolillo a De Filippo, il quale dichiara di essere l’autore di questa
grande commedia. La storia fu più tardi venduta e divenne un film: “Matrimonio all’italiana”. I discendenti
di Ernesto Tummolillo consultarono dei legali nel tentativo di dare a loro padre il riconoscimento che egli
meritava per essere l’autore di Filumena Marturano ma, dal momento che erano passati ben 50 anni da
quando Tummolillo aveva scritto la storia e tutti i tentativi di trovare il copyright italiano furono inutili visto
che tutte le registrazioni erano state distrutte o perdute nella seconda guerra mondiale, e poiché non
possedevano più il manoscritto originale, gli avvocati li avvertirono del pericolo di muovere un’accusa che
loro non potevano provare, specialmente dal momento che anche John Romano era morto e quindi il caso
fu chiuso e non andò più avanti. Tummolillo è conosciuto per aver scritto molte grandi storie, racconti,
poesie e canzoni tra le quali Pe’ ll'uocchie d''o munno, Amora Patria, Cuncettella!, Puo’ trasì!... Tarantella,
'Nfamità, 'E tre surdate, Te si’ scurdata!. Qualche volta Tummolillo scrisse sotto lo pseudonimo di
“Sfanferrà”. Oggi 4 dei suoi 5 figli (il testo è stato scritto negli anni 70) vivono ancora nel sud di Brooklyn,
New York. Il figlio maggiore si è ritirato in Florida. I discendenti di Ernesto Tummolillo sono molti (12 nipoti
e 23 bisnipoti). Ginevra (sua moglie) morì nel dicembre 1971, una degli ultimi e più coloriti napoletani, una
“nazionalità” che potrebbe un giorno estinguersi.
Nel saggio viene detto che lui era un brillante scrittore già all’età di 16 anni, io ho trovato, in maniera del
tutto fortuita, una (?) di uno dei due testi che sono … (?)
LEZIONE 13/05.
Cominciamo subito con la novella che AVEVAMO INTRODOTTO: La lupa, di Verga.
Con la Lupa siamo nel 1880, e con la quale già si verifica la narrazione di stampo verista, che confluirà
l’anno successivo nel ciclo dei vinti, con i Malavoglia.
Vediamo il personaggio femminile: abbiamo già parlato del modello femminile, e abbiamo già visto come si
affaccia il modello della femme fatale. In questo caso la lupa ha tutte le caratteristiche della seduttrice.
La novella si apre con le caratteristiche della lupa e, immediatamente, l’attenzione si sofferma sulla
diversità della lupa nell’ambito della comunità di appartenenza. E questa diversità, questo modello
femminile diverso, induce alla paura. Quindi è un personaggio che in qualche modo viene isolato, come del
resto viene isolato anche Rosso Malpelo.
“Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna – e pure non era più giovane – era
pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra
fresche e rosse, che vi mangiavano.” Già il ritratto caratterizza la lupa per questo pallore (donna vampiro,
diafana). Compare la seduttrice, la mangiatrice d’uomini. Attenzione alle espressioni del parlato: Verga
utilizza il discorso indiretto libero, fa delle scelte linguistiche che non seguono il modello manzoniano.
“Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai” Quindi già appare un soprannome, che
vedremo poi nei Malavoglia. I personaggi vengono conosciuti, presentati, con il nome che hanno all’interno
della comunità. “– di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una
cagnaccia, con quell'andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i
loro mariti in un batter d'occhio,” Mangiatrice di uomini, e qui compare già l’aspetto erotico. Si utilizza un
lessico legato al cibo, ma si parla di un consumo di carattere erotico. “con le sue labbra rosse, e se li tirava
dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all'altare di
Santa Agrippina.” Quindi Verga insiste sulle labbra e sugl’occhi: elementi di grande seduzione. “Per fortuna
la Lupa non veniva mai in chiesa, né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. –
Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero servo di Dio, aveva persa l'anima per lei.” Anche il
parroco è caduto nella rete di seduzione della Lupa.
“Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e
nessuno l'avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone,” Torna la parola
“roba” di cui abbiamo già parlato, ma in questo caso intende la dote di Maricchia. “e la sua buona terra al
sole, come ogni altra ragazza del villaggio.” Qua Maricchia invece è come ogni altra ragazza del villaggio,
ma il fatto di avere una madre così particolare, diversa, fa temere che lei non possa avere un marito,
nonostante lei sia come tutte le altre.
“Una volta la Lupa si innamorò di un bel giovane che era tornato da soldato, e mieteva il fieno con lei
nelle chiuse del notaro; ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al
fustagno del corpetto, e provare, fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in
fondo alla pianura. Ma lui seguitava a mietere tranquillamente, col naso sui manipoli, e le diceva: — O
che avete, gnà Pina? — Nei campi immensi, dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli, quando il sole
batteva a piombo, la Lupa, affastellava manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai,
senza rizzarsi un momento sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di stare sempre alle calcagna
di Nanni, che mieteva e mieteva, e le domandava di quando in quando: — Che volete, gnà Pina? —”
Innanzitutto si nota la descrizione della terra, forte e che mette a dura prova la fisicità dei mietitori; ma la
Lupa miete con la stessa forza di un giovane forte come Nanni. E lei era al pari per quanto riguarda la forza.
Notiamo anche l’elemento erotico “sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare,
fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno,”: sete d’amore, come fame d’amore, e
sete che si prova a lavorare sotto il sole. Ma Nanni non è interessato, almeno sulle prime, soltanto si
fermava a chiedere ogni tanto (sentendosi osservato) “oh, che avete, che volete, gnà Pina?”
“Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavano nell'aia, stanchi dalla lunga giornata, ed i
cani uggiolavano per la vasta campagna nera: — Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il
miele. Voglio te!” Quindi vediamo una donna diretta nella seduzione, molto diversa dall’immagine che
abbiamo visto fino a questo momento nella letteratura. “— Ed io invece voglio vostra figlia, che è zitella —
rispose Nanni ridendo.” Notiamo come Nanni prima era tranquillo, e adesso ride alle parole della Lupa. “La
Lupa si cacciò le mani nei capelli, grattandosi le tempie senza dir parola, e se ne andò; né più comparve
nell'aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo che cavavano l'olio, perché egli lavorava accanto alla sua
casa, e lo scricchiolio del torchio non la faceva dormire tutta notte. — Prendi il sacco delle olive, — disse
alla figliuola, — e vieni —. Nanni spingeva con la pala le olive sotto la macina, e gridava — Ohi! — alla
mula perché non si arrestasse. — La vuoi mia figlia Maricchia? — gli domandò la gnà Pina. — Cosa gli
date a vostra figlia Maricchia? — rispose Nanni. — Essa ha la roba di suo padre, e dippiù io le do la mia
casa; a me mi basterà che mi lasciate un cantuccio nella cucina, per stendervi un po' di pagliericcio. — Se
è così se ne può parlare a Natale — disse Nanni. Nanni era tutto unto e sudicio dell'olio e delle olive
messe a fermentare, e Maricchia non lo voleva a nessun patto; ma sua madre l'afferrò pe' capelli, davanti
al focolare, e le disse co' denti stretti: — Se non lo pigli, ti ammazzo! —" Notiamo ancora questa forza che
la Lupa esercita anche nei confronti della figlia e unisce alla dote di Maricchia anche la sua casa. Già ha
concepito un pensiero incestuoso, e pur di avere Nanni gli da in moglie la figlia. Nanni ancora bada
all’aspetto pratico.
“La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita. Non
andava più di qua e di là; non si metteva più sull'uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando
ella glieli piantava in faccia, quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l'abitino della Madonna per
segnarsi. Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei campi, a lavorare cogli
uomini, proprio come un uomo, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato
greco e levante di gennaio, oppure scirocco di agosto, allorquando i muli lasciavano cader la testa
penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana.” Qui c’è un’ellissi narrativa. Il
narratore fa capire che è passato del tempo, lo capiamo dal momento in cui Nanni è definito “suo genero”
e poi subito dopo Maricchia che allatta. Quindi vediamo che prima la Lupa era quasi malata, ma la vediamo
comunque ancora nei campi a lavorare proprio come un uomo. E a questo punto, abbiamo detto che la
lupa è un personaggio escluso dalla comunità, e questa lupa solitaria si comporta diversamente dagli altri, e
questa solitudine viene raddoppiata dal paesaggio. “In quell'ora fra vespero e nona, in cui non ne va in
volta femmina buona, la gnà Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi
infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell'afa, lontan lontano,
verso l'Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull'orizzonte.” In quell’ora in cui nessuna donna onesta
va in giro, la sola anima viva che si vedesse andare per la campagna era la gnà Pina. Poi c’è la descrizione
della campagna, la cui sola descrizione mette sete, che fa da sfondo alla sete d’amore che ha la Lupa. E poi
c’è questa collocazione geografica, con l’Etna. Nel momento in cui c’è la svolta verista, sappiamo che Verga
vuole descrivere la realtà che gli è ben conosciuta, e quindi abbiamo visto l’ambientazione catanese.
“— Svegliati! — disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe polverosa, col capo fra le
braccia. — Svegliati, ché ti ho portato il vino per rinfrescarti la gola —.” Quindi porta il vino per alleviare la
sete, e non solo. “Nanni spalancò gli occhi imbambolati, tra veglia e sonno, trovandosela dinanzi ritta,
pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani. — No! non ne
va in volta femmina buona nell'ora fra vespero e nona! — singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro
l'erba secca del fossato, in fondo in fondo, colle unghie nei capelli. — Andatevene! andatevene! non ci
venite più nell'aia! —" Quindi c’è un’ellissi temporale, e qui vediamo Nanni che non è più sicuro di sé, ed è
un Nanni che la teme, come se vedesse il diavolo. Cominciamo anche a sospettare che in quest’ellissi
temporale sia successo qualcosa, perché c’è sicuramente un cambiamento nella psicologia di Nanni.
“Ella se ne andava infatti, la Lupa,” vediamo sempre questo soprannome che segna un po’
l’identificazione, il suo personaggio. “riannodando le trecce superbe, guardando fisso dinanzi ai suoi passi
nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone. Ma nell'aia ci tornò delle altre volte, e Nanni non le
disse nulla. Quando tardava a venire anzi, nell'ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla in cima
alla viottola bianca e deserta, col sudore sulla fronte — e dopo si cacciava le mani nei capelli, e le
ripeteva ogni volta: — Andatevene! andatevene! Non ci tornate più nell'aia! —" Quindi la Lupa continua
la sua opera di seduzione, e Nanni questa volta non è indifferente, ma sicuramente soffre di questa
tentazione.
“Maricchia piangeva notte e giorno, e alla madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di
gelosia, come una lupacchiotta anch'essa,” Quindi Maricchia che abbiamo visto così differente, fino a
questo momento, viene avvicinata alla madre per gli occhi che pianta in faccia alla madre. “allorché la
vedeva tornare da' campi pallida e muta ogni volta. — Scellerata! — le diceva. — Mamma scellerata! —
Taci! — Ladra! ladra! — Taci! — Andrò dal brigadiere, andrò! — Vacci! E ci andò davvero, coi figli in collo,
senza temere di nulla, e senza versare una lagrima, come una pazza, perché adesso l'amava anche lei
quel marito che le avevano dato per forza, unto e sudicio delle olive messe a fermentare. Il brigadiere
fece chiamare Nanni; lo minacciò sin della galera e della forca. Nanni si diede a singhiozzare ed a
strapparsi i capelli; non negò nulla, non tentò di scolparsi. — È la tentazione! — diceva; — è la tentazione
dell'inferno! — Si buttò ai piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera. — Per carità, signor
brigadiere, levatemi da questo inferno! Fatemi ammazzare, mandatemi in prigione! non me la lasciate
veder più, mai! mai!” Quindi Nanni non è più il giovanotto sicuro di sé, ma è un uomo molto provato e
angosciato. Lo vediamo nuovamente singhiozzare, e chiede aiuto addirittura al brigadiere. Vediamo che la
psicologia di Nanni è ormai stravolta dalla presenza della Lupa. “— No! — rispose invece la Lupa al
brigadiere — Io mi son riserbato un cantuccio della cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in
dote. La casa è mia; non voglio andarmene. Poco dopo, Nanni s'ebbe nel petto un calcio dal mulo, e fu
per morire; ma il parroco ricusò di portargli il Signore se la Lupa non usciva di casa. La Lupa se ne andò, e
suo genero allora si poté preparare ad andarsene anche lui da buon cristiano; si confessò e comunicò con
tali segni di pentimento e di contrizione che tutti i vicini e i curiosi piangevano davanti al letto del
moribondo. E meglio sarebbe stato per lui che fosse morto in quel giorno, prima che il diavolo tornasse a
tentarlo e a ficcarglisi nell'anima e nel corpo quando fu guarito. — Lasciatemi stare! — diceva alla Lupa —
Per carità, lasciatemi in pace! Io ho visto la morte cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi.
Ora tutto il paese lo sa! Quando non vi vedo è meglio per voi e per me... — Ed avrebbe voluto strapparsi
gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne' suoi gli facevano perdere
l'anima ed il corpo.” Quindi la Lupa è paragonata al demonio che induce in tentazione. “Non sapeva più
che fare per svincolarsi dall'incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio, e andò a chiedere
aiuto al parroco e al brigadiere. A Pasqua andò a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua a
strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza – e poi, come la Lupa tornava a
tentarlo: — Sentite! — le disse, — non ci venite più nell'aia, perché se tornate a cercarmi, com'è vero
Iddio, vi ammazzo! — Ammazzami, — rispose la Lupa, — ché non me ne importa; ma senza di te non
voglio starci —. Ei come la scorse da lontano, in mezzo a' seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò
a staccare la scure dall'olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole,
e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di
manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. — Ah! malanno all'anima vostra! —
balbettò Nanni.” Vediamo ancora questo accostamento di colori, il rosso e il nero: il rosso delle labbra
infuocate della donna, e il nero degli occhi; e nello stesso tempo il rosso che indica la passione e il sangue.
Qui abbiamo i papaveri rossi e gli occhi neri. E Nanni mentre prima rideva, l’ultimo verbo che lo caratterizza
è “balbettò”. Sicuramente la Lupa è ferma nella sua posizione, e in qualche modo rappresenta la femme
fatale.
Abbiamo visto il lessico utilizzato da Verga, e abbiamo visto come si allontani dall’esempio del fiorentino
utilizzato da Manzoni.
Sempre nel campo del verismo, ma non solo, il saggio di Domenico Rea chiamava in campo due scrittori che
avevano parlato di Napoli: Matilde Serao e Salvatore Di Giacomo. In quel saggio si diceva che Domenico Rea
preferiva Mastriani a questi due narratori perché talvolta davano una rappresentazione un pochino
folcloristica di Napoli.
Quando parliamo di Matilde Serao a volte facciamo fatica a inquadrarla all’interno del verismo, a cui però si
accosta per alcuni testi: (già citato) Ventre di Napoli, come esempio di un giornalismo di piglio, in cui c’è la
denuncia sulla scorta di Zolà, quindi la denuncia del giornalista che spera in un intervento della politica.
Quindi c’è un impegno civile da parte del giornalista. Segno che invece non troviamo in Verga, che ha una
prospettiva diversa. Anzi, il messaggio sottinteso nei due romanzi principali (I Malavoglia e Mastro Don
Gesualdo), è che è meglio rimanere legati alle proprie radici altrimenti gli umili rischiano di essere travolti
dalla fiumana del progresso (bisogna di rimanere legati come l’ostrica al proprio scoglio, per evitare di
essere spazzati via in questa stagione di cambiamenti: età del positivismo, in torno agli anni ’70, che ha un
suo riflesso nella letteratura nel verismo; parallelamente questa stagione verista rimane circoscritta a un
numero ristretto di anni che contemporaneamente si affacciano sulla scena letteraria altre istanze.).
Leggeremo due brani diversi da quelli di Verga ma che anno inquadrature con il verismo: La mano tagliata,
di Serao, e L’Odochantura melanura di Di Giacomo.
Nella seconda metà dell’800 il giornale ha dei tratti letterari e molti scrittori si avvalgono dell’appendice
proprio per pubblicare i propri romanzi. Molto spesso, però, lo scrittore si fa conoscere grazie al taglio più
breve della novella, quindi i romanzi vengono prima pubblicati a puntate e talora raccolti in volumi. Questo
accade un po’ con tutti (Il Fu Mattia Pascal). Questo avviene principalmente con Matilde Serao, che
consideriamo prima giornalista e poi scrittrice. In particolar modo, Pirandello scrive un’enorme quantità di
novelle, soprattutto perché doveva recuperare una situazione finanziaria in dissesto in seguito
all’allagamento alla miniera di zolfo. Bisogna ricordarsi che il gran numero di novelle serviva soprattutto a
poter portare avanti una famiglia, quindi centra lo sfruttamento economico. Con la nascita dell’industria
editoriale non si deve prescindere anche dalla logica economica, che è alla base sia del giornale che
dell’editoria.
IL ventre di Napoli non è un romanzo, ma è rappresentato da una serie di articoli che poi vengono raccolti
dalla Serao. Il ventre di Napoli si richiama al ventre di Parigi e si apre con questa critica acuta che la Serao
rivolge a De Pretis, che allora era il primo ministro e che nel 1884 viene a Napoli, in occasione della
epidemia di colera (frase di De Pretis: bisogna sventrare Napoli). E allora la Serao, riprendendo questa frase
accusa il primo ministro di sapere già le condizioni della città, e se non le conosce, significa che i funzionari
non hanno svolto bene il loro lavoro. Quindi risultato di questo sventramento è il rettifilo (corso umberto)
che viene disegnato negli anni del risanamento, quindi subito dopo il 1884, e viene costruito questo viale
che conduce dalla stazione fino a piazza bovio.
La seconda edizione del ventre di Napoli è del 1904, e la Serao dice tra le varie cose che il rettifilo è un
paravento, cioè una specie di copertura dietro la quale continuano ad esserci i vicoli maleodoranti, con case
vecchie, in cui vive la povera gente, e ancora oggi sono visibili.
Qui c’è un’indagine in cui la Serao verista descrive le scene di vita e un po’ tutte le classi sociali, ma è molto
vicina al popolo.
Tra le altre cose, denuncia lo stato perché guadagna sul gioco dell’otto che induce in tentazione non solo il
popolo, ma tutti. E quindi lo stato, che dovrebbe in qualche modo proteggere i propri cittadini, in realtà
specula su questo vizio che conduce (ecco il male) poi molti a cadere vittima degli usurai. Su questo tema
costruisce il romanzo “il paese di Cuccagna”. I temi che affronta da un punto di vista giornalistico ne “il
ventre di Napoli”, li affronta nel romanzo maggiore in tema narrativo.
Matilde Serao agli esordi è stata duramente criticata da colui che sarebbe diventato suo marito, Edoardo
Scarfoglio, insieme al quale nel 1892 fonderanno il Mattino, il quotidiano più rappresentativo di tutto il sud.
Agli esordi Scarfoglio la critica per la sua scrittura. Matilde Serao, per sua stessa ammissione, era refrattaria
da bambina, non sapeva né leggere né scrivere, con grande dispiacere della madre greca. Perderà la madre
giovanissima e verrà in Italia con il padre, si stabilirà inizialmente in provincia di Caserta e poi c’è
l’avventura anche a Napoli, a Roma. I suoi studi sono molto da autodidatta, tutto quello che non aveva
voluto fare da bambina lo fa adesso. Lei deve in qualche modo trovare un suo stile e ha delle oscillazioni,
cioè che usa sempre la stessa espressione e si sente spesso un certo regionalismo (cioè termini che
appartengono alla lingua parlata).
Nel paese di Cuccagna (testo ancora oggi molto letto, anche amato, e ha fatto parte della stagione teatrale)
si parla di tante famiglie appartenenti a tutte le classi sociali che sono prese dalla febbre del lotto, che porta
tutti i sabato la gente in strada dove avverrà l’estrazione, con trepidante attesa di poter cambiare la propria
vita. La plebe sogna di mangiare la carne o di comprare un vestito nuovo; la signora borghese sogna di
poter comprare un abito nuovo, di poter pagare un debito; e così salendo nella classe sociale anche le
donne dell’aristocrazia hanno in qualche modo dei sogni che sperano di realizzare puntando al lotto. Il lotto
vediamo anche nel romanzo che va sempre in favore dello stato e quindi legato al lotto c’è l’usura. Pian
piano vediamo come tutte queste famiglie, dalla popolana che da tutti i soldi del suo lavoro al suo fidanzato
un po’ parassita che si gioca tutto, alla famiglia borghese che ha una serie di negozi di pasticceria e che
vende uno a uno in rovina; al marchese che pretende dalla figlia (convinto che sia una medium) i numeri
buoni, fino a ridurla alla consunzione. Tutti questi personaggi sono condannati ad una sconfitta, e l’unico
vincitore è lo stato. Quindi c’è una denuncia al gioco del lotto e all’usura, che lo stato combatte ma poi alla
fine è responsabile del proliferare degli usurai.
Tutti i temi che abbiamo ritrovato, o almeno qualcuno, li troveremo nella novella di Di Giacomo.
Lezione 14 Maggio
Letteratura italiana Parte B del programma
Questo saggio segue una ricerca piuttosto complessa che parte da un romanzo di
Mastriani e arriva fino ai Teatri e alla Radio di New York negli anni 30’ del 900.
Io seguirò fedelmente il testo del saggio in modo da essere piu chiara possibile.
Nella produzione* che io definisco “sterlinata”* di Mastriani, sulla quale solo
recentemente si è fatto luce sulla consistenza, sull’ entità di questa produzione*, ma in
anni molto vicini a noi.
La sterlinata produzione di mastriani sono presenti due romanzi, che sono in qualche
modo l’uno il seguito dell’altro.
Il primo si chiama Fior d’Arancio, sottotitolo La cantatrice di Mergellina,il secondo si
chiama Tobia il Gobbetto.
Entrambi sono di Mastriani e sono pubblicati in età post-unitaria, su Roma, perché
negli anni postunitari lui comincia la sua collaborazione a Roma. Li pubblica una serie
notevole di romanzi, noi ci siamo soffermati invece nel corso delle nostre lezioni nella
letteratura d’appendice, ci siamo soffermati sui primissimi romanzi di Mastriani che
sono stati pubblicati in Omnibus in anni preunitari, perché abbiamo fatto riferimento a
La cieca di Sorrento (1851) che è il romanzo piu famoso insieme a I misteri di Napoli
e il mio Cadavere (1852).
Abbiamo investigato in qualche modo la nascita del Romanzo d’appendice in Italia, in
franci il foglietton nasce nel 36 e io vi ho detto che a mio avviso il successo della Cieca
di Sorrento che è uno dei primi romanzi d’appendice, in qualche modo determina la
configurazione del romanzo d’appendice stesso e determina anche il successo di
Mastriani (il modello che si contrappone ai modelli che venivano soprattutto dalla
Francia.
Infatti qua è tagliata la fotografia però, siamo negli anni in cui ormai si è consolidata
la presenza del romanzo d’ appendice, però immaginate che il giornale che è un
quotidiano abbia le dimensioni che ha oggi un quotidiano, il romanzo d’appendice
come vedete è collocato a piedi pagina, si chiama Appendice, in questo caso Appendice
del Roma, vi ho quindi proposto nella fotografia la prima puntata di entrambi i romanzi.
Il fior d’arancio la prima puntata l’8 ottobre del 87 e finisce il 3 febbraio del 1888, il 5
febbraio compare immediatamente Tobia il Gobbetto.
Quindi questo si tratta di una scrittura fluviale che è determinata anche dalla necessità
di vivere con i guadagni che provenivano dal romanzo e anche il successo di Mastriani
, per cui il 3 febbraio finisce un romanzo e subito il 5 comincia il secondo, lo citiamo
cosi come seguito anche perché uno dei personaggi , cioè proprio Tobia che è un co-
primario nel primo romanzo, compare nel secondo.
In realtà però l’analisi sarà soprattutto su Fior D’Arancio (la cantatrice di Mergellina),
non vi racconto la trama perche anche questa è abbastanza complicata. Vi basta sapere
che c’è una povera orfana che è stata accolta e cresciuta nella casa dell’ Annunziata,
quella della ruota, è stata quindi “Esposta” e che una volta dopo uscita tutta la storia di
questa ragazza la scopriremo attraverso i flashback, che è una delle tecniche narrative
soprattutto di Mastriani e del romanzo d’appendice. La storia di questa Fior d’arancio
ci viene raccontata nel corso del romanzo, arrivata alla maggiore età si libera di questo
legame con la ruota dell’Annunziata e decide di vivere per conto suo, non proprio da
sola
però, con lei c’è un altro degli orfani, i figli della Madonna anche, nel corso del
romanzo troveremo anche queste espressioni. Un altro orfano che aveva imparato a
suonare il mandolino in quello che all’epoca veniva chiamato il “Serraglio” o anche
“l’ospizio dei poveri” cioè il Palazzo Fuga che si trova a Piazza Carlo III, e già abbiamo
le caratteristiche del nostro Mastriani, cioè anche l’elemento documentario, cioè che
documenta delle istituzioni storiche che magari oggi non ci sono piu. Tenete presente
che la ruota dell’ Annunziata che aveva fatto molto parlare di se anche negativamente,
ricordate la Denuncia che ne fa Antonio Ranieri nel 1837, quando scrive “Ginevra o
l’orfana dell’Annunziata”, è un po un archetipo del genere, il tema della bella
perseguitata che un po caratterizza abbiamo visto il fermo e Lucia*e gli stessi Promessi
Sposi. La bella perseguitata, il tema del convento, i segreti che ci sono in certe
istituzioni.
La ruota dell’Annunziata dopo una serie di denunce, soprattutto negli anni post-unitari,
viene chiusa nel 1875, quindi il dibattito su di essa era anche qui attuale, come abbiamo
detto l’ultima volta approposito di Matilde Serao anche Mastriani è un giornalista e
scrittore. Forse di Mastriani possiamo dire soprattutto che era uno scrittore, però è uno
scrittore che a lungo ha a che fare con i giornali, e pubblica comunque sui giornali. Poi
si raccolgono anche in un volume i suoi romanzi, però essenzialmente è un romanziere
d’appendice. Quindi un romanziere che conosce anche i gusti del pubblico che legge i
giornali.
Dicevamo… ci caliamo nell’ambito di un dibattito. Sta questa ragazza come vive? Vive
cantando perché ha una bellissima voce ed è accompagnata da questo Tobia che è un
gobbetto e quindi piccolino e deforme, gobbo, la accompagna con il mandolino. Dove
ha imparato a suonare il violino? Proprio nel Serraglio. Dove a questi bambini veniva
data un istruzione di questo genere ad alcuni dei poveri orfani per potergli dare un
mestiere che li faccia vivere.
Sono dei mendicanti che frequentano buoni ambienti e in particolar modo frequentano
lo scoglio di Friso che si trova subito dopo Mergellina, alle pendici di Posillipo, quindi
ci troviamo in una realtà nostrana. Questo ristorante che si chiama Lo scoglio di Frisio
viene frequentato da nobili e persone molto danarose, per cui questi due mendicanti
sono molto apprezzati e riescono a guadagnarsi da vivere. Poiché lui è deforme, gobbo
ecc… diciamo che lungi dalla nostra idea, il fatto che possa esserci una relazione tra i
due, vivono quindi come fratello e sorella una volta usciti dalla casa dell’Annunziata e
prendono una piccola casetta molto modesto ovviamente che si trova grossomodo alla
fine di via Chiaia alla torretta, quindi si trova abbastanza vicino sia a Mergellina sia
alla riviera di Chiaia dove invece abita un aristocratico principe che vive con un nipote
che si è appena sposato, aveva perso la sua unica figlia che è stata sedotta ed
abbandonata, questo seduttore era già sposato quindi il matrimonio viene annullato e
quindi aveva perso questa figlia, e questo aristocratico prende molto a benvolere Fior
d’Arancio (il soprannome di questa cantante) in realtà si chiamava Maria Egiziaca, la
prende di buon occhio perché ha una straordinaria somiglianza con la figlia. Avete già
capito tutto chiaramente, poi scoprirà che questa è proprio la figlia, lo scopre dagli
archivi dell’annunziata ec… 110 puntate qualcosa dovrà pur dire, con tutto questo
quindi noi attraversiamo l'alta e bassa società. Ricordiamo che Mastriani descrive il
popolo napoletano senza quell’aspetto folkloristico che si trova a volte in Di Giacomo
e la Serao. Lui che a volte descrive anche la rappresentazione della violenza,
dell’aggressività per esempio quando descrive una figura che a Mastriani è molto
antipatica, cioè la figura del Portiere, perche il portiere si fa spesso complice di un'altra
figura che da lui è detestata in assoluto che è il proprietario di casa. Tenete presente
che Mastriani muore poverissimo e ha cambiato qualcosa come 17 abitazioni, era
continuamente alla ricerca affannosa di poter pagare l’affitto.
Quindi queste figure compaiono e ritornano nella sua scrittura
Abbiamo detto che già questa data, cioè questi due che sono l’uno vicino all’ altro,
insieme hanno successo. Intanto però Fior d’arancio a casa del principe si innamora e
fugge ad un certo punto con il nipote del principe che sarebbe suo zio poi… perché è
il cugino della mamma, ma lei non lo sa, non lo sa nemmeno il seduttore, ma soltanto
il principe che aveva fatto questa scoperta ma non lo aveva detto a nessuno perché
quando ha scoperto questa cosa lui fa venire Fior d’arancio a casa sua , poco prima che
lei se ne andasse da casa del principe in tutto ciò Tobia le rivela il suo amore,
chiaramente, a questo punto Fior d’arancio lo caccia di casa nonostante abbia la morte
nel cuore perché non può convivere sotto lo stesso tetto con questo innamorato. Quindi
si perdono un po’ di vista, poi andremo a vedere il gobbetto che fine fa.
Si perdono di vista, nasce quest’ altra relazione e intanto a casa del principe, (questo
non ci serve ai fini della trama ma a quello che poi andremo a vedere dopo) compare
anche una cugina del principe, questa è abbastanza antipaticuccia, perché prima che
succede questa fuga mette in guardia continuamente la moglie del nipote e lo stesso
principe, quindi biasima il principe perche si è portata a casa una trovatella, se la porta
anche a teatro ecc… e perché in sostanza dice questa ragazza è qui in casa con un
giovanotto, non va bene. Invece la moglie del nipote è una ragazza molto mite,
abbastanza tranquilla, non è gelosa della ragazza fino a quando poi non si verifica
effettivamente proprio la vicenda. Molto rapidamente, ve lo devo dire se no non
capiamo come si evolve tutto il fatto fino al finale.
I due fuggono, non vanno molto lontano (ad Aversa) e quindi alla fine il seduttore
richiamato poi ai suoi doveri da un amico intimo che era l’unico a sapere dove si
trovasse, abbandona Fior d’Arancio e torna dalla bella mogliettina e Fior d’Arancio a
questo punto si uccide. Morirà però molto lentamente perche si lascia andare. Al suo
capezzale troviamo Tobia e il principe prioprio negli ultimi istanti di vita e le comunica
proprio in punto di morte di essere suo nonno.
Nel secondo romanzo il protagonista diventa Tobia.
In questo seguito vi dico addirittura che Tobia entra a far parte di una banda di criminali
che stanno nella zona di fuorigrotta, quindi praticamente campagna, addirittura che
fanno questi? Sequestrano i cadaveri!
Ma quali cadaveri? Quello di Fior d’arancio e suo padre che guarda caso poi torniamo
a un argomento non nuovo, che sono stati imbalsamati.
Fa parte di questa gang, poi si pente, poi non ve lo so dire perche si dovrebbe leggere
le altre 68 puntate.
Bene, vi ho raccontato tutto questo. E perché ve l’ho raccontato?
Perché non troverete questi romanzi in volume, quindi se volete leggerli dovete andare
nella biblioteca nazionale e andare a leggere le puntate che sono sui giornali.
La particolarità è questa, il fatto che non sono mai stati raccolti in un volume.
Eppure, ritorno a questa vicenda che vi ho raccontato dove in tutta una serie di
documenti che fanno parte del fondo Cellerazzo. Si trovano in biblioteca dove ci sono
i documenti di carattere teatrale.
Questi romanzi sono stati rielaborati da Cellerazzo, vediamo come, perché e in che
modo.
Abbiamo che da questa storia, nel fondo Cellerazzo si possono trovare 4 documenti
che in qualche modo ci testimoniano il viaggio di Fior d’Arancio, infatti il titolo è un
testo teatrale tra vecchi e nuovi media “il viaggio esemplare di Fior d’Arancio” di
Francesco Mastriani.
Quindi è un viaggio che compie nel tempo , compie questo viaggio al dilà dell’oceano
e anche attraverso generi letterari diversi, perché, questo romanzo abbiamo detto
possiamo leggerlo solamente dai giornali, però che cosa abbiamo trovato?
Prima c’è un copione teatrale manoscritto, che porta il nome di “Fior d’arancio la cante
di MArgellina!”. Poi abbiamo un altro copione dattiloscritto di proprietà
Arnaldo Cellerazzo, che si chiama “Tobia e Fior d’arancio” e un altro testo a stampa
che si chiama “ I figli abbandonati “.
(Andiamo a vedere un attimo poi torniamo indietro)nel fondo Cellerazzo i figli
abbandonati è l’unico in volume ed è unico, c’è solo qua in Italia, anche se è stato
stampato a new York, perché appunto fa parte di questa raccolta di questo attore italo-
americano e quindi molti di questi esemplari sono unici, soprattutto non solo se noi
consideriamo il testo a stampa che in Italia è unico ma se consideriamo un copione
manoscritto e dattiloscritto sono testi unici. Quindi grazie a questi esemplari unici noi
possiamo ricostruire o almeno tentare come lavorava Cellerazzo e come si è sviluppata
la vicenda di Fior d’arancio di Mastriani. A questi però non finisce qua, colpo di scena,
aggiungiamo la Locandina, questa locandina è relativa alla rappresentazione al Teatro
s.Ferdinando di Fior d’arancio la cantante di Mergellina.
Da questo romanzo di Mastriani che è in un volume, arriva in America attraverso i
giornali, forse Cellerazzo si è portato tutta la raccolta dei giornali, non lo sappiamo,
certamente non si porta un libro perché non c’è.
Diciamo che in questa raccolta di Cellerazzo noi troviamo un copione manoscritto, un
copione dattiloscritto (e sono senza data questi) e infine un testo a stampa e di questo
abbiamo la data 1934, e questi sono sicuramente appartenuti a Cellerazzo.
Quindi dal 1887 al 1934 passano circa 50 anni grossomodo, dall’ 87 che è stato
pubblicato il romanzo, passano 50 anni e noi abbiamo poi questi due copioni che sono
senza data, entrambi sono di proprietà dell’ attore Arnaldo Cellerazzo, il primo, e il
secondo, questo scritto proprio in inglese, c’è scritto proprietà di Arnaldo Cellerazzo +
l’indirizzo di New York.
A questi due copioni + il testo a stampa abbiamo una locandina che non appartiene a
Cellerazzo, insomma una locandina che testimonia che nel 1901 fosse andata in scena
“ Fior d’Arancio la cantante di Mergellina”. All’ altezza del 1901 Mastriani era morto
ormai da 10 anni, però le sue opere continuavano ad andare in scena.
Minichini è uno degli autori che in qualche modo riadatta i testi di Mastriani e non
soltanto Fior d’Arancio, e li porterà in scena.
A Minichini sono attribiuiti gli adattamenti teatrali di diversi altri romanzi di Mastriani
come:
Le Caverne delle Fontanelle, Il Barcaiuolo di Amalfi o Maddalena la figlia della colpa,
La pettinatrice di S.Giovanni a Carbonara, La Jena delle Fontanelle o Il fratello
dell'Ebrea.
Vedete che spesso si caratterizzano da un Doppio Titolo oppure da un
Titolo+Sottotitolo.
Ipotesi datazione:
noi abbiamo due date certe quelle della pubblicazione del Roma 1887-88 e il testo del
1934 e la Locandina del 1901.
Di quello spettacolo non abbiamo un copione, però abbiamo quella sorta di riassunto
che si trova nella stessa locandina. Poi abbiamo il copione manoscritto e quello
dattiloscritto.
Che cosa ipotizziamo? Io ipotizzo che prima venga il testo su Roma, poi venga la
Locandina che era scrivibile agli anni Napoletani, poi ricordatevi che negli anni 1901
Cellerazzo si trasferisce negli Stati Uniti, quindi gli altri testi sono di dopo il 1901.
Come ci viene naturale pensare? Viene prima il copione manoscritto poi quello
dattiloscritto e infine abbiamo il testo a stampa (1934)
Con il testo a stampa ci vengono date altre indicazioni.
Adesso andiamo a puntare l’attenzione su questo. La corrispondenza tra la Locandina
e il Manoscritto. La prima cosa che io posso pensare è che il Manoscritto sia il testo
che viene rappresentato nella locandina che viene rappresentata nel 1901.
“Nuovissimo dramma popolare tratto dal romanzo omonimo del Prof. F. Mastriani,
dal patrio autore E. Minichini in 5 atti e conseguenti titoli”
Quindi nel sottotitolo ci dice le stesse cose del Manoscritto quindi possiamoo pensare
che quel copione Manoscritto sia stato riferito a questo dramma.
Andiamo a confrontare... Vedete che qua ci sono i personaggi e ci sono i vari Atti. Il
Sistema dei Personaggi: Romanzo, Locandina e Copione senza data. Nel Copione c’è
un Prologo che non compare nella Locandina e non c’è nemmeno nel Romanzo ma
semplicemente perché nel Romanzo, questo Prologo corrisponde a quanto nel romanzo
sono i capitoli dal 15 al 20, cioè quelli che sarebbero flash back e quindi sono successi
prima questi fatti, perché sono successi nel 43 mentre in scena nel Copione vengono
portati come antefatto nel 43.
Leggiamo i vari segmenti:
È ovvio che il Romanzo sia piu articolato e complesso sia della Locandina che del
Copione
Come vedete è un sonetto, rispetta la tradizione, due quartine(ABBC) e due terzine (DEFDEF), ripresa della
metrica tradizionale. Innovazione: presenza di storpiature di alcune parole italiane. Posizioni del medico
nella poesia sono espresse tramite rivendicazioni nei confronti di questi immigrati che vengono sfruttati dal
sistema americano. Questo sonetto venne pubblicato dalla rivista “Zarathustra” nel 1926, ma è di molto
precedente, primi anni del ‘900. La prima poesia è interessante per quest’ibridismo. Le altre poesie si
intitolano una “Oggi” e l’altra “Domani” datate il 1 maggio 1902, giornata dei lavoratori.
OGGI
Sta parlando dei mestieri più umili, del bifolco, colui che lavora la terra, oppure coloro che lavorano alle
miniere. Per loro, se si ribellano, ci sono i fucili pronti a reprimere ogni ribellione.
DOMANI
La speranza, l’auspicio dell’autore, che il lavoro che oggi viene pagato a caro prezzo e i lavoratori che
vengono sfruttati, che domani ci sarà una libertà, che non ci saranno più catene. Si augura un mondo
migliore, come coloro che partivano per l’America. Molti di questi trovano fortuna e ricchezza.
I temi trattati sono la biografia di Tomolillo, quella con la fotografia; il saggio su Fior d’arancio
(inquadramento generale o sottodomande sugli aspetti; imparare i concetti fondamentali con le varie
ipotesi); poesie di Simplicio Righi. (Suggerimento: costruire un itinerario con i vari brani dell’antologia).
Ci riallacciamo al tema principale, continuiamo con il filone verista, con Federico De Roberto, il cui
capolavoro è “I Viceré”. Anche qui ci troviamo in Sicilia. Un libro che spesso non si legge, ampio, ma
bellissimo. Romanzo storico, però empirista, descrizione oggettiva, impersonalità. Ho legato tre romanzi: I
viceré a I vecchi e giovani di Pirandello e a Il Gattopardo di Lampedusa. Per quanto tra il Viceré (I894) e Il
Gattopardo (postumo, 1958) passino 66 anni, descrivono lo stesso periodo storico, viene rappresentata la
delusione rinascimentale. Pirandello viene da una famiglia che ha partecipato attivamente ai motivi
risorgimentale, ha coltivato delle sperante andate perdute dopo l’unità di Italia, con conseguenti corruzione
e parlamentarismo. I romanzi descrivono questo periodo, del 1861. I Viceré è immediatamente successivo.
Il terzo romanzo è “Francesca Annunziata”, da cui è stato fatto un film con Sophia Loren. Parla dei pastai,
quando la pasta era fatta artigianalmente e la zona del napoletano portava il primato, durante l’Unità
d’Italia.
De Roberto è il terzo scrittore verista, di una generazione più giovane, nasce nel 1961. Recepisce la lezione
dei due maestri, ma si rifà anche a Manzoni,il quale resta sempre un modello molto forte con il romanzo
storico. La vicenda di svolge nell’arco di diversi decenni. “I Viceré” fa parte di una terna di romanzi che
affrontano i membri di una stessa famiglia. E’ anche un romanzo anti storico, oltre che storico, perché non
c’è una fiducia nella storia. C’è un pessimismo e un cinismo irrimediabile. I Viceré sono una famiglia nobile,
potente, viene letta attraverso personaggi e vicende di diverse generazioni, l’ultima è di Consalvo. Egli,
parlando con una sua prozia, la quale è rimasta sconvolta dal fatto che lui e lo zio siano scesi a un
compromesso, che per lei equivale a un tradimento.
«Tutto pel grande amore del marito improvvisamente divampatole in petto!... Prima dichiarava ridicoli gli
atteggiamenti di Giulente,» non lo chiamava zio sapendo di farle piacere, «adesso sono tutti infami coloro
che non l'hanno sostenuto!»
Un nuovo scoppio di tosse fece soffiare la vecchia come un mantice. Quando calmossi, ella disse con voce
affannata, ma con accento di amaro disprezzo:
La botta era diretta anche a lui. Consalvo tacque un poco, a capo chino, ma con un sorriso di beffa sulle
labbra, poiché la vecchia non poteva vederlo. Poi, fiocamente, con tono d'umiltà, riprese:
«Forse Vostra Eccellenza l'ha anche con me... Se ho fatto qualcosa che le è dispiaciuta, gliene chiedo
perdono... Ma la mia coscienza non mi rimprovera nulla... Vostra Eccellenza non può dolersi che uno del suo
nome sia di nuovo tra i primi del paese... Forse le duole il mezzo col quale questo risultato s'è raggiunto...
Creda che duole a me prima che a lei... Ma noi non scegliamo il tempo nel quale veniamo al mondo; lo
troviamo com'è, e com'è dobbiamo accettarlo. Del resto, se è vero che oggi non si sta molto bene, forse
che prima si stava d'incanto?»
«Vostra Eccellenza giudica obbrobriosa l'età nostra, né io le dirò che tutto vada per il meglio; ma è certo che
il passato par molte volte bello solo perché è passato... L'importante è non lasciarsi sopraffare... Io mi
rammento che nel Sessantuno, quando lo zio duca fu eletto la prima volta deputato, mio padre mi disse:
"Vedi? Quando c'erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in
Parlamento." Vostra Eccellenza sa che io non andai molto d'accordo con la felice memoria; ma egli disse
allora una cosa che m'è parsa e mi pare molto giusta... Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai
Re; ora viene dal popolo... La differenza è più di nome che di fatto... Certo, dipendere dalla canaglia non è
piacevole; ma neppure molti di quei sovrani erano stinchi di santo. E un uomo solo che tiene nelle proprie
mani le redini del mondo e si considera investito d'un potere divino e d'ogni suo capriccio fa legge è più
difficile da guadagnare e da serbar propizio che non il gregge umano, numeroso ma per natura servile... E
poi, e poi il mutamento è più apparente che reale. Anche i Viceré d'un tempo dovevano propiziarsi la folla;
se no, erano ambasciatori che andavano a reclamare a Madrid, che ne ottenevano dalla Corte il richiamo...
o anche la testa!... Le avranno forse detto che un'elezione adesso costa quattrini; ma si rammenti quel che
dice il Mugnòs del Viceré Lopez Ximenes, che dovette offrire trentamila scudi al Re Ferdinando per restare al
proprio posto... e ci rimise i quattrini! In verità, aveva ragione Salomone quando diceva che non c'è niente di
nuovo sotto il sole! Tutti si lagnano della corruzione presente e negano fiducia al sistema elettorale, perché i
voti si comprano. Ma sa Vostra Eccellenza che cosa narra Svetonio, celebre scrittore dell'antichità? Narra
che Augusto, nei giorni dei comizi, distribuiva mille sesterzi a testa alle tribù di cui faceva parte, perché non
prendessero nulla dai candidati!...»
Egli diceva queste cose anche per se stesso, per affermarsi nella giustezza delle proprie vedute; ma, poiché
la vecchia non si muoveva, pensò che forse s'era assopita e che egli parlava al muro. S'alzò, quindi, per
vedere: donna Ferdinanda aveva gli occhi spalancati. Egli continuò, passeggiando per la camera:
«La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le
condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa
d'oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi
universale non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe
di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento. Ora che tutti parlano di
democrazia, sa qual è il libro più cercato alla biblioteca dell'Università, dove io mi reco qualche volta per i
miei studi? L'Araldo sicolo dello zio don Eugenio, felice memoria. Dal tanto maneggiarlo, ne hanno sciupato
tre volte la legatura! E consideri un poco: prima, ad esser nobile, uno godeva grandi prerogative, privilegi,
immunità, esenzioni di molta importanza. Adesso, se tutto ciò è finito, se la nobiltà è una cosa puramente
ideale e nondimeno tutti la cercano, non vuol forse dire che il suo valore e il suo prestigio sono cresciuti?... In
politica, Vostra Eccellenza ha serbato fede ai Borboni, e questo suo sentimento è certo rispettabilissimo,
considerandoli come i sovrani legittimi... Ma la legittimità loro da che dipende? Dal fatto che sono stati
sul trono per più di cento anni... Di qui a ottant'anni Vostra Eccellenza riconoscerebbe dunque come
legittimi anche i Savoia... Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gl'interessi della nostra casta; ma
una forza superiore, una corrente irresistibile l'ha travolta... Dobbiamo farci mettere il piede sul collo
anche noi? il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!...»
Travolto dalla foga oratoria, nel tripudio del recente trionfo, col bisogno di giustificarsi agli occhi propri, di
rimettersi nelle buone grazie della vecchia, egli improvvisava un altro discorso, il vero, la confutazione di
quello tenuto dinanzi alla canaglia, e la vecchia stava ad ascoltarlo, senza più tossire, soggiogata
all'eloquenza del nipote, divertita e quasi cullata da quella recitazione enfatica e teatrale.
«Si rammenta Vostra Eccellenza le letture del Mugnòs?...» continuava Consalvo. «Orbene, imaginiamo che
quello storico sia ancora in vita e voglia mettere a giorno il suo Teatro genologico al capitolo: Della famiglia
Uzeda. Che cosa direbbe? Direbbe press'a poco: "Don Gafpare Vzeda",» egli pronunziò f la s e v la u, «"fu
promosso ai maggiori carichi, in quel travolgimento del nostro Regno che passò dal Re don Francesco II di
Borbone al Re don Vittorio Emanuele II di Savoia. Fu egli deputato al Nazional Parlamento di Torino,
Fiorenza e Roma, et ultimamente dal Re don Umberto have stato sublimato con singolar dispaccio al carico
di senatore. Don Consalvo de Uzeda, VIII prencipe di Francalanza, tenne poter di sindaco della sua città
nativa, indi deputato al Parlamento di Roma et in prosieguo..."» Tacque un poco, chiudendo gli occhi: si
vedeva già al banco dei ministri, a Montecitorio; poi riprese: «Questo direbbe il Mugnòs redivivo; questo
diranno con altre parole i futuri storici della nostra casa. Gli antichi Uzeda erano commendatori di San
Giacomo, ora hanno la commenda della Corona d'Italia. È una cosa diversa, ma non per colpa loro! E Vostra
Eccellenza li giudica degeneri! Scusi, perché?»
«Fisicamente, sì; il nostro sangue è impoverito; eppure ciò non impedisce a molti dei nostri di arrivare sani
e vegeti all'invidiabile età di Vostra Eccellenza!... Al morale, essi sono spesso cocciuti, stravaganti, bislacchi,
talvolta...» voleva aggiungere «pazzi» ma passò oltre. «Non stanno in pace tra loro, si dilaniano
continuamente. Ma Vostra Eccellenza pensi al passato! Si rammenti quel Blasco Uzeda, "cognominato nella
lingua siciliana Sciarra, che nel tosco idioma Rissa diremmo"; si rammenti di quell'altro Artale Uzeda,
cognominato Sconza, cioè Guasta!... Io e mio padre non siamo andati d'accordo, ed egli mi diseredò; ma il
Viceré Ximenes imprigionò suo figlio, lo fece condannare a morte... Vostra Eccellenza vede che sotto qualche
aspetto è bene che i tempi siano mutati!... E rammenti la fellonia dei figli di Artale ; rammenti tutte le liti tra
parenti, pei beni confiscati, per le doti delle femmine... Con questo, non intendo giustificare ciò che accade
ora. Noi siamo troppo volubili e troppo cocciuti ad un tempo. Guardiamo la zia Chiara, prima capace di morire
piuttosto che di sposare il marchese, poi un'anima in due corpi con lui, poi in guerra ad oltranza. Guardiamo
la zia Lucrezia che, viceversa, fece pazzie per sposare Giulente, poi lo disprezzò come un servo, e adesso è
tutta una cosa con lui, fino al punto di far la guerra a me e di spingerlo al ridicolo del fiasco elettorale!
Guardiamo, in un altro senso, la stessa Teresa. Per obbedienza filiale, per farsi dar della santa, sposò chi non
amava, affrettò la pazzia ed il suicidio del povero Giovannino; e adesso va ad inginocchiarsi tutti i giorni nella
cappella della Beata Ximena, dove arde la lampada accesa per la salute del povero cugino! E la Beata Ximena
che cosa fu se non una divina cocciuta? Io stesso, il giorno che mi proposi di mutar vita, non vissi se non per
prepararmi alla nuova. Ma la storia della nostra famiglia è piena di simili conversioni repentine, di simili
ostinazioni nel bene e nel male... Io farei veramente divertire Vostra Eccellenza, scrivendole tutta la cronaca
contemporanea con lo stile degli antichi autori: Vostra Eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio
non è esatto. No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa.»
I cittadini gli offrono la candidatura a sindaco, per un rifiuto nei confronti delle autorità.
I nipoti sono una razza degenere, perché si sono allontanati dalle tradizioni, dai valori che erano presenti
prima. Questo adeguarsi avviene con un rapido cinismo. Mi ripugnano le elezioni, ma bisogna adeguarsi,
come i vecchi padroni che vogliono mantenere il potere. La fine degli ideali risorgimentali.
La loro famiglia sono gli Zeda.
E’ più facile plagiare al proprio volere una massa informe come quella del popolo, piuttosto che un soprano
pieno di sé. Dice una serie di esempi del passato. Tutto sembra cambiare, in realtà non ca,mbia niente, ma
solo le modalità per ottenere il potere, non le persone che lo detengono. Un’analisi molto lucida, quella di
De Roberto. Nel discorso di Consalvo c’è un elemento molto importante. In Zolà c’era un’ereditarietà, che si
ritrova in De Roberto. Tutti gli esponenti della famiglia dei Viceré hanno delle proprie manie, il padre di
Consalvo ha la fissazione di essere contaminato, un’altra zia giunge a conservare un feto che ha abortito
dentro una teca di vetro. Si crea una tara ereditaria.
Nel Gattopardo troviamo un tema analogo. Il protagonista è un principe, che ha un nipote per cui ha un vero
e porprio debole, in cui si rivede, cosa che non accade con i suoi figli. Suo nipote si chiama Tancredi. Si vede
proprio il dialogo tra Tancredi e il principe.
La mattina dopo il sole illuminò un Principe rinfrancato. Aveva preso il caffè ed in veste da camera rossa
fiorata di nero si faceva la barba dinanzi allo specchietto. Bendicò posava il testone pesante sulla sua
pantofola. Mentre si radeva la guancia destra vide nello specchio, dietro la sua, la faccia di un giovanotto, un
volto magro, distinto con un’espressione di timorosa beffa. Non si voltò e continuò a radersi. “Tancredi, cosa
hai combinato la notte scorsa?” “Buon giorno, zio. Cosa ho combinato? Niente di niente: sono stato con gli
amici. Una notte santa. Non come certe conoscenze mie che sono state a divertirsi a Palermo.” Don Fabrizio
si applicò a radere bene quel tratto di pelle difficoltoso fra labbro e mento. La voce leggermente nasale del
ragazzo portava una tale carica di brio giovanile che era impossibile arrabbiarsi; sorprendersi, però, poteva
forse esser lecito. Si voltò e con l’asciugamano sotto il mento guardò il nipote. Questi era in tenuta da caccia,
giubba attillata e gambaletti alti. “E chi erano queste conoscenze, si può sapere?” “Tu, zione, tu. Ti ho visto
con questi occhi, al posto di blocco di Villa Airoldi mentre parlavi col sergente. Belle cose, alla tua età! e in
compagnia di un Reverendissimo! I ruderi libertini!” Era davvero troppo insolente, credeva di poter
permettersi tutto. Attraverso le strette fessure delle palpebre gli occhi azzurro-torbido, gli occhi di sua madre,
i suoi stessi occhi lo fissavano ridenti. Il Principe si sentì offeso: questo qui veramente non sapeva a che punto
fermarsi, ma non aveva l’animo di rimproverarlo; del resto aveva ragione lui. “Ma perché sei vestito così?
Cosa c’è? Un ballo in maschera di mattina?” Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una
inaspettata espressione virile. “Parto, zione, parto fra mezz’ora. Sono venuto a salutarti.” Il povero Salina si
senti stringere il cuore. “Un duello?” “Un grande duello, zio. Contro Franceschiello Dio Guardi. Vado nelle
montagne, a Corleone; non lo dire a nessuno, soprattutto non a Paolo. Si preparano grandi cose, zione, ed io
non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi.” Il Principe ebbe una
delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per
terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. “Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente!,
Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re.” Gli occhi ripresero a sorridere.
“Per il Re, certo, ma per quale Re?” Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile
e caro. “Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è,
bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?” Abbracciò lo zio un po’ commosso. “Arrivederci a 26 presto.
Ritornerò col tricolore.” La retorica degli amici aveva stinto un po’ anche su suo nipote; eppure no. Nella voce
nasale vi era un accento che smentiva l’enfasi. Che ragazzo! Le sciocchezze e nello stesso tempo il diniego
delle sciocchezze. E quel suo Paolo che in questo momento stava certo a sorvegliare la digestione di
“Guiscardo!” Questo era il figlio suo vero. Don Fabrizio si alzò in fretta, si strappò l’asciugamani dal collo,
frugò in un cassetto. “Tancredi, Tancredi, aspetta,” corse dietro al nipote, gli mise in tasca un rotolino di
“onze” d’oro, gli premette la spalla. Quello rideva: “Sussidi la rivoluzione, adesso! Ma grazie, zione, a presto;
e tanti abbracci alla zia.” E si precipitò giù per le scale. Venne richiamato Bendicò che inseguiva l’amico
riempiendo la villa di urla gioiose, la rasatura fu completata, il viso lavato. Il cameriere venne a vestire e
calzare il Principe. “Il tricolore! Bravo, il tricolore! Si riempiono la bocca con questa parola, i bricconi. E che
cosa significa questo segnacolo geometrico, questa scimmiottatura dei francesi, così brutta in confronto alla
nostra bandiera candida con l’oro gigliato dello stemma? E che cosa può far loro sperare quest’accozzaglia di
colori stridenti?” Era il momento di avvolgere attorno al collo il monumentale cravattone di raso nero.
Operazione difficile durante la quale i pensieri politici era bene venissero sospesi. Un giro, due giri, tre giri. Le
grosse dita delicate componevano le pieghe, spianavano gli sbuffi, appuntavano sulla seta la testina di
Medusa con gli occhi di rubino. “Un gilet pulito. Non vedi che questo è macchiato?” Il cameriere si sollevò
sulla punta dei piedi per infilargli la redingote di panno marrone; gli porse il fazzoletto con le tre gocce di
bergamotto. Le chiavi, l’orologio con catena, il portamonete se li mise in tasca da sé. Si guardò allo specchio:
non c’era da dire era ancora un bell’uomo. “‘Rudere libertino!’ Scherza pesante quella canaglia! Vorrei vederlo
alla mia età, quattro ossa incatenate come è lui”. II passo vigoroso faceva tinnire i vetri dei saloni che
attraversava. La casa era serena, luminosa e ornata; soprattutto era sua. Scendendo le scale, capì. “Se
vogliamo che tutto rimanga com’è... “ Tancredi era un grand’uomo: lo aveva sempre pensato.
Il principe aveva un’amante e aveva usato il reverendo come alibi. Il ragazzo voleva arruolarsi con i volontari,
indossava una divisa. Aveva aderito a Garibaldi. Paolo è il figlio del principe, cugino di Tancredi. Non c’è il
cinismo di Consalvo, ma una piena adesione alle idee di Garibaldi, dell’Unità. C’è anche, però, un orgoglio per
la propria classe. In pochi tratti si vede l’immenso affetto dello zio e del nipote, e anche la posizione del
giovane. Garibaldi e la borghesia portano un cambiamento e quella superiorità della nobiltà non può più
esserci. Il Gattopardo non si inserisce nel filone con lo stesso cinismo di Consalvo. Il principe non è adatto a
questo cambiamento. Nel caso dei Viceré, per esempio, Consalvo si adegua e mantiene le proprie posizioni,
il principe si sente l’ultimo erede di un mondo ormai scomparso. Nell’ultimo capitolo fa il bilancio della sua
vita, una sconfitta esistenziale. Viene proposta al principe una carica al senato, carica che rifiuta. Alla fine fa
il nome di una persona, che diventerà il suocero di Tancredi, un borghese, un arrivista, che riesce ad orientarsi
bene nelle cariche parlamentari. Alla fine il principe crede che il cambiamento sia avvenuto, che le cose
cambiano, a differenza di Consalvo. Il principe alla fine apre una bellissima pagina della Sicilia e dei siciliani,
che fa pensare a Camilleri nei giorni nostri.
(Ipotesi esame: possibile accostamento dei brani dell’antologia di Consalvo e Tancredi, con le frasi topiche)
Questi due romanzi sono ambientati nello stesso momento storico e in qualche modo esaminano le
dinamiche del potere.
L’altra pagina del Gattopardo che vi propongo del Gattopardo punta propongo l’attenzione sui siciliani e sulla
Sicilia. In una di queste pagine, si vede l’incomprensione tra Nord e Sud. All’indomani dell’Unità d’Italia, si
doveva riorganizzare il paese e vengono mandati dei funzionari piemontesi in giro per il paese. Si ha una
reciproca incomprensione. Già ora facciamo una distinzione tra Nord e Sud, figuriamoci all’ora, quando non
si aveva nemmeno una lingua comune.
Arriva un funzionario piemontese, del quale viene descritto l’atteggiamento, che giunge in Sicilia come se
fosse in una tana di briganti e d’altra partepoi c’è questo principe che non riesce a sintonizzarsi con queste
smanie del nuovo Stato. Poi declina quest’offerta e dà il nome del suocero di Tancredi, il più adatto a farsi
largo in questa situazine politica. Il principe è l’ultimo erede dell’antico regime.
[…]Uno di quei giorni Don Fabrizio aveva ricevuto una lettera del prefetto di Girgenti, redatta in stile di
estrema cortesia 116 guardingo; egli si trovava da un mese in Sicilia, nella parte più strenuamente indigena
dell’isola per di più, e vi era stato sbalzato dritto dritto dalla propria terricciuola del Monferrato. Di natura
timida e congenitamente burocratica si trovava molto a disagio. Aveva avuto la testa imbottita da quei
racconti briganteschi mediante i quali i Siciliani amavano saggiare la resistenza nervosa dei nuovi arrivati e
da un mese individuava un sicario in ciascun usciere del proprio ufficio ed un pugnale in ogni tagliacarte di
legno sul proprio scrittoio; inoltre, la cucina all’olio aveva da un mese posto in disordine le sue viscere. Adesso
se ne stava li, nel crepuscolo, con la sua valigetta di tela bigia e guatava l’aspetto privo di qualsiasi civetteria
della strada in mezzo alla quale era stato scaricato; l’iscrizione “Corso Vittorio Emanuele” che con i suoi
caratteri azzurri su fondo bianco ornava la casa in sfacelo che gli stava di fronte, non bastava a convincerlo
che si trovasse in un posto che dopo tutto era la sua stessa nazione; e non osava rivolgersi ad alcuno dei
contadini addossati alle case come cariatidi, sicuro di non esser compreso e timoroso di ricevere una gratuita
coltellata nelle budella sue che gli erano care benché sconvolte. Quando Francesco Paolo gli si avvicinò
presentandosi strabuzzò gli occhi perché si credette spacciato ma l’aspetto composto e onesto del ragazzone
biondo lo rassicurò alquanto e quando poi comprese che era invitato ad alloggiare a palazzo Salina, fu
sorpreso e sollevato; il percorso al buio sino al palazzo fu allietato da continue schermaglie fra la cortesia
piemontese e quella siciliana (le due più puntigliose d’Italia) a proposito della valigia che fini con l’essere
portata, benché leggerissima, da ambedue i cavaliereschi contendenti. Giunto a palazzo, i volti barbuti dei
“campieri” che stazionavano armati nel primo cortile turbarono di nuovo l’anima di Chevalley di Monterzuolo,
mentre poi la bonarietà distante dell’accoglienza del Principe insieme all’evidente fasto degli ambienti
intravisti lo precipitarono in opposte cogitazioni. Rampollo di una di quelle famiglie della piccola nobiltà
piemontese che viveva in dignitosa ristrettezza sulla propria terra, era la prima volta che si trovava ospite di
una grande casa e questo raddoppiava la sua timidità; mentre gli aneddoti sanguinosi uditi raccontare a
Girgenti, l’aspetto oltremodo protervo del paese nel quale era giunto, e gli “sgherri” (come pensava lui)
accampati nel cortile gli incutevano spavento; in modo che scese a pranzo martoriato dai contrastanti timori
di chi è capitato in un ambiente al di sopra delle proprie abitudini e da quelle dell’innocente caduto in un
agguato brigantesco. 117 A cena mangiò bene per la prima volta da quando aveva toccato le sponde sicule,
e l’avvenenza delle ragazze, l’austerità di Padre Pirrone e le grandi maniere di Don Fabrizio lo convinsero che
il palazzo di Donnafugata non era l’antro del bandito Capraro e che da esso sarebbe probabilmente uscito
vivo; ciò che più lo consolò fu la presenza di Cavriaghi che, come apprese, abitava li da dieci giorni ed aveva
l’aria di star benissimo ed anche di essere un grande amico di quel giovanottino Falconeri, amicizia questa fra
un siciliano ed un lombardo che gli apparve miracolosa. Alla fine del pranzo si avvicinò a Don Fabrizio e lo
pregò di voler concedergli un colloquio privato perché intendeva ripartire l’indomani mattina; ma il Principe
gli spiaccicò una spalla con una manata e col più gattopardesco sorriso: “Niente affatto, caro cavaliere” gli
disse “adesso Lei è a casa mia e la terrò in ostaggio sinché mi piacerà; domani non partirà e per esserne sicuro
mi priverò del piacere di parlare con lei a quattr’occhi sino al pomeriggio.” Questa frase che avrebbe
terrorizzato l’ottimo cavaliere tre ore prima lo rallegrò invece adesso; Angelica quella sera non c’era e quindi
si giocò a whist; in un tavolo insieme a Don Fabrizio, Tancredi e Padre Pirrone vinse due rubbers e guadagnò
tre lire e trentacinque centesimi, dopo di che si ritirò in camera sua, apprezzò la freschezza delle lenzuola e si
addormentò del sonno fiducioso del giusto. La mattina dopo Tancredi e Cavriaghi lo condussero in giro per il
giardino, gli fecero ammirare la quadreria e la collezione di arazzi; gli fecero anche fare un giretto in paese;
sotto il sole color di miele di Novembre esso appariva meno sinistro della sera prima; si vide financo in giro
qualche sorriso, e Chevalley di Monterzuolo cominciava a rassicurarsi anche nei riguardi della Sicilia rustica.
Questo fu notato da Tancredi che venne subito assalito dal singolare prurito isolano di raccontare ai forestieri
storie raccapriccianti, purtroppo sempre autentiche. Si passava davanti a un divertente palazzo con la facciata
adorna di maldestri bugnati. “Questa, caro Chevalley, è la casa del barone Mutolo; adesso è vuota e chiusa
perché la famiglia vive a Girgenti da quando il figlio del barone, dieci anni fa, è stato sequestrato dai briganti.”
Il piemontese cominciava a fremere. “Poverino! chissà quanto ha dovuto pagare per liberarlo!” “No, non ha
pagato nulla; si trovavano già in difficoltà finanziarie, privi di denaro contante come tutti qui. Ma il ragazzo
è stato restituito lo stesso; a rate, però.” “Come, principe, cosa intende dire?” “A rate, dico bene, a rate; pezzo
per pezzo. Prima è arrivato l’indice della mano destra. Dopo una settimana il piede sinistro ed infine 118 in un
bei paniere, sotto uno strato di fichi (si era in Agosto) la testa; aveva gli occhi sbarrati e del sangue rappreso
all’angolo delle labbra. Io non l’ho visto, ero un bambino allora; ma mi hanno detto che lo spettacolo non era
bello. Il paniere era stato lasciato su quel gradino lì, il secondo davanti la porta da una vecchia con uno scialle
nero sulla testa: non la ha riconosciuta nessuno.” Gli occhi di Chevalley si irrigidirono nel disgusto; aveva già
udito narrare il fatto ma adesso, vedere sotto questo bei sole, lo scalino sul quale era stato deposto il dono
insolito era un’altra cosa. La sua anima di funzionario lo soccorse: “Che polizia inetta avevano quei Borboni.
Fra poco quando verranno qui i nostri carabinieri, tutto questo cesserà.” “Senza dubbio, Chevalley, senza
dubbio.” Si passò poi davanti al Circolo dei Civili che all’ombra dei platani della piazza faceva la propria mostra
quotidiana di sedie in ferro e di uomini in lutto. Ossequi, sorrisi. “Li guardi bene, Chevalley, s’imprima la scena
nella memoria: un paio di volte all’anno uno di questi signori vien lasciato stecchito sulla sua poltroncina: una
fucilata sparata nella luce incerta del tramonto; e nessuno capisce mai chi sia stato a sparare.” Chevalley
provò il bisogno di appoggiarsi al braccio di Cavriaghi per sentire vicino a sé un po’ di sangue continentale.
Poco dopo, in cima a una stradetta ripida, attraverso i festoni multicolori delle mutande sciorinate, s’intravide
una chiesuola ingenuamente barocca. “Quella è Santa Ninfa. Il parroco cinque anni fa è stato ucciso li dentro
mentre celebrava la messa.” “Che orrore! una fucilata in chiesa!” “Ma che niellata, Chevalley! siamo troppo
buoni cattolici per fare delle malcreanze simili. Hanno messo semplicemente del veleno nel vino della
Comunione; è più discreto, più liturgico vorrei dire. Non si è mai saputo chi lo abbia fatto: il parroco era
un’ottima Persona e non aveva nemici.” Come un uomo che svegliatesi la notte vede uno spettro seduto ai
piedi del letto sui propri calzini, si salva dal terrore sforzandosi di credere ad una burla degli amici
buontemponi, così Chevalley si rifugiò nella credenza di esser preso in giro: “Molto divertente, principe,
davvero spassoso! Lei dovrebbe scrivere dei romanzi, racconta così bene queste trottole!” Ma la voce gli
tremava; Tancredi ne ebbe compassione e benché prima di rincasare passassero davanti a tre o quattro luoghi
per lo meno altrettanto evocatori, si astenne dal fare il cronista e parlò di Bellini e di Verdi, le sempiterne
pomate curative delle piaghe nazionali. Alle quattro del pomeriggio il Principe fece dire a Chevalley che lo
aspettava nello studio. Era questo una piccola stanza con ai muri sotto vetro alcune pernici imbalsamate, di
quelle grigie a zampetto rosse stimate rare, trofei di caccie passate; una parete era nobilitata da una libreria
alta e stretta colma di annate di riviste matematiche; al di sopra della grande poltrona destinata ai visitatori,
una costellazione di miniature di famiglia: il padre di Don Fabrizio, il principe Paolo, fosco di carnagione e
sensuale di labbra quanto un Saraceno, con la nera uniforme di Corte tagliata a sghembo dal cordone di S.
Gennaro; la principessa Carolina, già da vedova, i capelli biondissimi accumulati in una pettinatura a torre ed
i severi occhi azzurri; la sorella del Principe, Giulia, la principessa di Falconeri seduta su una panca in un
giardino, con alla destra i la macchia amaranto di un piccolo parasole poggiato aperto per terra ed alla sinistra
quella gialla di un Tancredi di tre anni che le reca dei fiori di campo (questa miniatura Don Fabrizio se la era
cacciata in tasca di nascosto mentre gli uscieri inventariavano il mobilio di villa Falconeri). Poi più sotto, Paolo,
il primogenito, in attillati calzoni da cavalcare, in atto di salire su un cavallo focoso dal collo arcuato e dagli
occhi sfavillanti; zii e zie varie non meglio identificati, ostentavano gioielloni o indicavano, dolenti, il busto di
un caro estinto. Al sommo della costellazione, però, in funzione di stella polare, spiccava una miniatura più
grande: Don Fabrizio stesso, poco più che ventenne con la giovanissima sposa che poggiava la testa sulla
spalla di lui in atto di completo abbandono amoroso; lei bruna; lui roseo nell’uniforme azzurra e argentea
delle Guardie del Corpo del Re sorrideva compiaciuto col volto incorniciato dalle basette biondissime di primo
pelo. Appena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato: “Dopo la felice annessione,
volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna, è intenzione del governo di Torino di
procedere alla nomina a Senatori del Regno di alcuni illustri siciliani; le autorità provinciali son state incaricate
di redigere una lista di personalità da proporre all’esame del governo centrale ed eventualmente, poi, alla
nomina regia e, come è ovvio, a Girgenti si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per
antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici, per l’attitudine dignitosa e liberale,
anche, assunta durante i recenti avvenimenti.” Il discorsetto era stato preparato da tempo, anzi era stato
oggetto di succinte note a matita sul calepino che adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di
Chevalley. Don Fabrizio però non dava segno di vita, le palpebre pesanti lasciavano appena intravedere lo
sguardo. Immobile la zampacela dai peli biondastri ricopriva interamente una cupola di S. Pietro in alabastro
che stava sul tavolo. Ormai avvezzo alla sornioneria dei loquaci siciliani quando si propone loro qualcosa,
Chevalley non si lasciò smontare: “Prima di far pervenire la lista a Torino i miei superiori hanno creduto dover
informare lei stesso, e farle chiedere se questa proposta sarebbe di Suo gradimento. Richiedere il suo assenso,
nel quale le autorità sperano molto è stato l’oggetto della mia missione qui, missione che per altro mi ha valso
l’onore e il piacere di conoscere Lei ed i suoi, questo magnifico palazzo e questa Donnafugata tanto
pittoresca.” Le lusinghe scivolavano via dalla personalità del Principe come l’acqua dalle foglie delle ninfee:
questo è uno dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono nello stesso tempo orgogliosi ed abituati a
esserlo. “Adesso questo qui s’immagina di venire a farmi un grande onore” pensava “a me, che sono quel che
sono, fra l’altro anche Pari del Regno di Sicilia, il che dev’essere press’a poco come essere senatore. È vero che
i doni bisogna valutarli in relazione a chi li offre: un contadino che mi da il suo pezzo di pecorino mi fa un
regalo più grande di Giulio Làscari quando m’invita a pranzo. Il guaio è che il pecorino mi da la nausea; e così
non resta che la gratitudine che non si vede e il naso arricciato dal disgusto che si vede fin troppo.” Le idee
sue in fatto di Senato erano del resto vaghissime; malgrado ogni suo sforzo esse lo riconducevano sempre al
Senato Romano, al senatore Papirio che aveva spezzato una bacchetta sulla testa di un Gallo maleducato, a
un cavallo Incitatus che Caligola aveva fatto senatore, onore questo che soltanto suo figlio Paolo non avrebbe
trovato eccessivo; lo infastidiva anche il riaffacciarsi insistente di una frase detta talvolta da Padre Pirrone:
“Senatore! boni viri, senatus autem mala bestia” Adesso vi era anche il Senato dell’Impero di Parigi, ma non
era che una assemblea di profittatori muniti di larghe prebende. Vi era o vi era stato un Senato anche a
Palermo ma si era trattato soltanto di un comitato di amministratori civici, e di quali amministratori! Robetta
per un Salina. Volle sincerarsi: “Ma insomma, cavaliere, mi spieghi un po’ che cosa è veramente essere
senatori. La stampa della passata monarchia non lasciava passare notizie sul sistema costituzionale degli altri
stati italiani, e un soggiorno di una settimana a Torino due anni fa non è stato sufficiente a illuminarmi. Cosa
è? un semplice appellativo onorifico, una specie di decorazione? o bisogna svolgere funzioni legislative,
deliberative?” 121 Il Piemontese, il rappresentante del solo stato liberale italiano, s’inalberò: “Ma, Principe,
il Senato è la Camera Alta del Regno! In essa il fiore degli uomini politici del nostro paese, prescelti dalla
saggezza del Sovrano, esaminano, discutono, approvano o respingono quelle leggi che il Governo o essi stessi
propongono per il progresso del paese; esso funziona nello stesso tempo da sprone e da briglia, incita al ben
fare, impedisce di strafare. Quando avrà accettato di prendervi posto, Lei rappresenterà la Sicilia alla pari dei
deputati eletti, farà udire la voce di questa sua bellissima terra che si affaccia adesso al panorama del mondo
moderno, con tante piaghe da sanare, con tanti giusti desideri da esaudire.” Chevalley avrebbe forse
continuato a lungo su questo tono, se Bendicò non avesse da dietro la porta chiesto alla “saggezza del
Sovrano” di essere ammesso; Don Fabrizio fece l’atto di alzarsi per aprire ma lo fece con tanta mollezza da
dar tempo al Piemontese di lasciarlo entrare lui; Bendicò, meticoloso, fiutò a lungo i calzoni di Chevalley;
dopo, persuaso di aver da fare con un buon uomo si accovacciò sotto la finestra e dormi. “Stia a sentirmi,
Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e
basta, sarei stato lieto di accettare; trovo che in questo momento decisivo per il futuro dello stato italiano è
dovere di ognuno dare la propria adesione, evitare l’impressione di screzi dinanzi a quegli stati esteri che ci
guardano con un timore o con una speranza che si riveleranno ingiustificati ma che per ora esistono.” “Ma
allora, principe, perché non accettare?” “Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi Siciliani siamo
stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non
parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori
bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto ‘adesione’
non ‘partecipazione’. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe
cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe
dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male
o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da solo
quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non
perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque
secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di 122 magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già
complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei
bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo
colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.” Adesso
Chevalley era turbato. “Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia non è più terra di conquista
ma libera parte di un libero stato.” “L’intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che
in massima parte è colpa nostra; Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie
del mondo moderno; per conto mio mi sembra piuttosto una centenaria trascinata in carrozzella alla
Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, che s’impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield
come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto di ritrovare il proprio dormiveglia fra i suoi cuscini
sbavati e il suo orinale sotto il letto.” Parlava ancora piano, ma la mano attorno a S. Pietro si stringeva;
l’indomani la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata. “Il sonno, caro Chevalley,
il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i
più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio.
Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è
desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa,
cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto
meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di
certe persone, di coloro che sono semidesti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche
ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a
correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che
sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un
passato che ci attrae appunto perché è morto.” Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto
gli riusciva oscura l’ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati e denutriti,
aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero vecchie tradizioni
autentiche. Disse: “Ma non le sembra di esagerare 123 un po’, principe? io stesso ho conosciuto a Torino dei
Siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che mi son sembrati tutt’altro che dei dormiglioni.” Il Principe si
seccò: “Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semi-desti, del resto, avevo di già accennato.
In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel
nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani,
avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse
più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le
vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo,
umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche
miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di
misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li
conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle
teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo;
Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno
di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre;
e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una
goccia di sudore; e dopo ancora, le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che
annegano bestie e uomini proprio li dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa
violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi
monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno
intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti,
presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e
con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro
che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo. L’inferno
ideologico evocato in quello studiolo sgomentò Chevalley più della rassegna sanguinosa della mattina. Volle
dire qualche cosa, ma Don Fabrizio era troppo eccitato adesso per ascoltarlo. 124 “Non nego che alcuni
Siciliani trasportati fuori dall’isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto,
molto giovani: a vent’anni è già tardi; la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese
come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori. Ma mi
scusi, Chevalley, mi son lasciato trascinare e la ho probabilmente infastidito. Lei non è venuto sin qui per udire
Ezechiele deprecare le sventure d’Israele. Ritorniamo al nostro vero argomento. Sono , molto riconoscente al
governo di aver pensato a me per il Senato e la prego di esprimere a chi di dovere questa mia sincera
gratitudine; ma non posso accettare. Sono una rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente
compromesso col regime borbonico, e ad esso legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli
dell’affetto. Appartengo ad una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova
a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni;
e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà d’ingannare sé stesso,
questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in
un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest’ornatissimo catafalco.
Voi adesso avete bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al ‘come’ più che al ‘perché’ e che
siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità
politiche.” Tacque, lasciò in pace San Pietro. Continuò: “Posso dare a Lei un consiglio da trasmettere ai suoi
superiori?” “Va da sé, principe; esso sarà certo ascoltato con ogni considerazione; ma voglio ancora sperare
che invece di un consiglio vorrà darci un assenso.” “C’è un nome che io vorrei suggerire per il Senato: quello
di Calogero Sedàra; egli ha più meriti di me per sedervi; il casato, mi è stato detto, è antico o finirà con esserlo;
più che quel che Lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza dei meriti scientifici ne ha di pratici,
eccezionali; la sua attitudine durante la crisi del Maggio scorso più che ineccepibile è stata utilissima; illusioni
non credo che ne abbia più di me, ma è abbastanza svelto per sapere crearsele quando occorra. È l’individuo
che fa per voi. Ma dovete far presto, perché ho inteso dire che vuoi porre la propria candidatura alla camera
dei deputati.” Di Sedàra si era molto parlato in Prefettura, le attività di lui quale sindaco e quale privato erano
note; Chevalley sussultò: era un onest’uomo e la propria stima delle camere legislative era pari alla purità
delle proprie intenzioni; per questo credette opportuno non fiatare, e fece 125 bene a non compromettersi
perché, infatti, dieci anni più tardi, l’ottimo don Calogero doveva ottenere il laticlavio. Benché onesto, però,
Chevalley non era stupido; mancava si di quella prontezza di spirito che in Sicilia usurpa il nome di intelligenza,
ma si rendeva conto delle cose con lenta solidità, e poi non aveva la impenetrabilità meridionale agli affanni
altrui. Comprese l’amarezza e lo sconforto di Don Fabrizio, rivide in un attimo lo spettacolo di miseria, di
abiezione, di nera indifferenza del quale per un mese era stato testimonio; nelle ore passate aveva invidiato
l’opulenza, la signorilità dei Salina, adesso ricordava con tenerezza la propria vignicciuola, il suo Monterzuolo
vicino a Casale, brutto, mediocre, ma sereno e vivente; ebbe pietà tanto del principe senza speranze come dei
bimbi scalzi, delle donne malariche, delle non innocenti vittime i cui elenchi giungevano così spesso al suo
ufficio; tutti eguali, in fondo, compagni di sventura segregati nel medesimo pozzo. Volle fare un ultimo sforzo;
si alzò e l’emozione conferiva Pathos alla sua voce: “Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il
possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle
quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani
vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano, la strada rimarrà libera alla gente senza scrupoli e senza
prospettive, ai Sedàra; e tutto sarà di nuovo come prima, per altri secoli. Ascolti la sua coscienza, principe, e
non le orgogliose verità che ha detto. Collabori.” Don Fabrizio gli sorrideva, lo prese per la mano, lo fece sedere
vicino a lui sul divano: “Lei è un gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto; Lei ha ragione
in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: ‘i Siciliani vorranno migliorare.’ Le racconterò un aneddoto
personale. Due o tre giorni prima che Garibaldi entrasse a Palermo mi furono presentati alcuni ufficiali di
marina inglesi, in servizio su quelle navi che stavano in rada per rendersi conto degli avvenimenti. Essi
avevano appreso, non so come, che io posseggo una casa alla Marina, di fronte al mare, con sul tetto una
terrazza dalla quale si scorge la cerchia dei monti intorno alla città; mi chiesero di visitare la casa, di venire
a guardare quel panorama nel quale si diceva che i Garibaldini si aggiravano e del quale, dalle loro navi
non si erano fatti una idea chiara. Vennero a casa, li accompagnai lassù in cima; erano dei giovanottoni
ingenui malgrado i loro scopettoni rossastri. Rimasero estasiati dal panorama, della irruenza della luce;
confessarono però che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustà, 126 il sudiciume delle
strade di accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall’altra, come ho tentato di fare a lei. Uno
di loro, poi, mi chiese che cosa veramente venissero a fare, qui in Sicilia, quei volontari italiani. ‘They are
coming to teach us good manners’ risposi ‘but won’t succeed, because we are gods.’ ‘Vengono per
insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.’ Credo che non comprendessero,
ma risero e se ne andarono. Così rispondo anche a Lei; caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare
per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni
intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge
il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati
da una diecina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che da loro diritto a funerali
sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della
storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi,
quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré
spagnoli, quanti funzionali riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire,
a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è
da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola? “Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a
quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo
stato delle cose, qui ed altrove, è del feudalismo; mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalismo c’è stato
dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o gli squires inglesi o i signori
francesi governassero meglio dei Salina. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità deve trovarsi
in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in
realtà è cecità. Per ora, per molto tempo, non c’è niente da fare. Compiango; ma, in via politica, non posso
porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi che non si possono fare ai Siciliani; ed io stesso,
del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei avuto a male. E tardi, Chevalley: dobbiamo andare a
vestirci per il pranzo. Debbo recitare per qualche ora la parte di uomo civile.” L’indomani mattina presto
Chevalley riparti e a Don Fabrizio, che aveva stabilito di andare a caccia, riuscì facile accomunarlo alla stazione
di posta. Don Ciccio Tumeo era con ‘oro e portava sulle spalle il doppio peso dei due fucili, il suo e quello di
Don Fabrizio, e dentro di sé la bile delle proprie virtù conculcate. Intravista nel chiarore livido delle cinque e
mezzo del mattino, Donnafugata era deserta ed appariva disperata. Dinanzi a ogni abitazione i rifiuti delle
mense miserabili si accumulavano lungo i muri lebbrosi; cani tremebondi li rimestavano con avidità sempre
delusa. Qualche porta era già aperta ed il lezzo dei dormienti pigiati dilagava nella strada; al barlume dei
lucignoli le madri scrutavano le palpebre tracomatose dei bambini; esse erano quasi tutte in lutto e parecchie
erano state le mogli di quei fantocci sui quali s’incespica agli svolti delle “trazzere.” Gli uomini, abbrancato lo
“zappone” uscivano per cercare chi, a Dio piacendo, desse loro lavoro; silenzio atono o stridori esasperati di
voci isteriche; dalla parte di Santo Spirito l’alba di stagno cominciava a sbavare sulle nuvo.
Girgenti è il luogo di nascita di Pirandello. Il nome del prefetto è tipico del Nord. Discorso indiretto libero. Il
messo del signore è molto pomposo. La “locanda-spelonca” è ironica, il punto di vista di Don Fabrizio.
Presente il contrasto tra il prefetto e la locanda, come quello tra il prefetto e Don Fabrizio. “Strenuamente
indigena”, il cuore della Sicilia. La cucina siciliana gli aveva fatto male. “La bonarietà distante dell’accoglienza
del principe”: il principe è accogliente, benevolo, ma la distanza significa <<Io sono io, sono il principe, non
siamo commensurabili>>. Chevalley è un amico di Tancredi, un soldato lombardo che frequenta anche lui la
casa. Egli vuole parlare subito col principe. Hanno due modi di fare diversi. Durante il colloquio del giorno
dopo espone la sua missione, un discorso diplomatico. Il funzionario va lì per controllare la disponibilità ,
prima di chiedere la carica. Il principe in pratica dice “Cos’è ‘sto senato?”. C’è questo stridio tra la mentalità
del piemontese che in qualche modo è diventato il padrone e il principe che dice <<ma io sto già bene così>>.
Poi dice che i siciliani non cambieranno mai, perché sono convinti di essere perfetti. Il discorso del principe è
più filosofico (filosofia di vita),m piuttosto che diplomatico. (Questo è il filo conduttore del discorso che
andiamo a leggere. Per cui quando vi procurerò questo stralcio ci sono questi riferimenti ai viceré e a
Tancredi).
Propone quindi questa cosa. Il principe inizialmente non risponde. Chevalley pensa di avergli fatto una
proposta da non rifiutare, mentre il principe non capisce, non attaccava. L’Italia si è appena liberata degli
stranieri. C’è una differenza tra adesione e partecipazione: Aderire significa <<sì, sono d’accordo>>, mentre
partecipare <<Coinvolgimento>>. C’è una sorta di recriminazione, i siciliani non sono stati consultati. Fa
riferimento alla tratta degli schiavi. Tutte le manifestazioni siciliane sono oniriche. “Le novità ci attraggono
solo quando le riteniamo defunte”. Immagine di una Sicilia estrema, di estrema forza, estrema bellezza,
estremo calore. Triade governi nuovi: subito serviti, presto detestati e sempre incompresi. Bisogna andar via
dalla Sicilia prima dei 20 anni. Una sorta di filosofia del carattere della Sicilia e dei Siciliani. Il principe propone
Calogero. Prende che questo rampante avrà la possibilità di consolidare la nuova posizione e tramandarla ai
propri discendenti. C’è il ritratto di un uomo disilluso, che non pensa che la storia possa cambiare in meglio.
Calogero è più vicino alla figura di Consalvo. Chevalley è molto impressionato dal discorso del principe. Nella
pagina del principe di Salina c’è anche qualcosa di autobiografico, perché Tommaso di Lampedusa rimane
sempre isolato, non partecipa, è un aristocratico, gli piace il suo isolamento. C’è qualcosa di Lampedusa nel
principe. Cosa che non troviamo in De Roberto, il cui interesse è di esaminare la visione di una famiglia, dei
rapporti di forza. Ne “Il Gattopardo” c’è una visione della Sicilia e dei siciliani. Il principe tutto sommato non
si adegua, fa il nome di Calogero, un uomo spregiudicato che riesce ad adeguarsi. Anche Consalvo non se ne
fa proprio di illusioni. De Roberto analizza il modo in cui il potere resta sempre nelle mani delle stesse
persone, che trasformano i modi di gestire il potere (la nomina).
Si vede anche la politica dei giorni nostri. Leggiamo punti di vista, ma c’è un filo conduttore. Sono entrambi
romanzi storici, anche se Il Gattopardo è stato scritto in un’epoca in cui non erano più presenti romanzi
storici. Il romanzo storico per eccellenza è “I pormessi sposi”. “I Viceré” è sia un romanzo storico sia un
romanzo d’impronta verista, perché c’è l’impersonalità del narratore.
La pagina di cinismo aiuta a comprendere perché Pirandello è rimasto disilluso dalle ideologie risorgimentali.
Quando scriverà “I vecchi e i giovani” farà un passo indietro, tornerà alla narrazione di stampo verista e di
stampo storico, si avvicina di più a De Roberto che a “Il fu Mattia Pascal”.
Sciascia è il primo a parlare della mafia.
Lezione 21 maggio
Pirandello restiamo nell’area siciliana
Un grande della storia letteraria, ha ricevuto anche il premio nobel per la letteratura, uno dei pochi in Italia
ad essere inserito tra gli autori con il nobel per la letteratura nel 1934.
Nasce nel 1867 a Girgenti (vecchio nome di Agrigento) e morirà nel 1936 dopo aver ricevuto il nobel due
anni prima. Morirà sul set cinematografico ricavato dalla sua produzione. Tenete a mente questo perché è
importante il suo rapporto con il cinema che lo aveva accomunato al grande contemporaneo D’Annunzio
che nel frattempo è nato nel 1863. La produzione di D’Annunzio è piuttosto precoce, inizia come poeta, poi
scrive il piacere che è appena 26enne, si dedica alla prosa, ai romanzi, alla poesia e anche alle opere teatrali
e soprattutto ricordiamo le opere che sono state portate sul palcoscenico grazie all’attrice famosa Eleonora
Duse che contribuisce a far conoscere D’annunzio (autore importante, la domanda su d’annunzio potrebbe
uscire).
Però hanno alcune differenze: per D’annunzio il romanzo era una sorta di altra vita, un prolungamento
della vita stessa. Per Pirandello: o si vive o si scrive. Percorrono lo stesso arco di tempo ma con esiti diversi.
Di sicuro Pirandello è un lucido lettore della realtà contemporanea, con una piena consapevolezza del
cambiamento, della crisi che si è registrata nella società e anche nella scrittura che vedremo nella
premessa del Fu Mattia Pascal.
Pirandello nasce a Girgenti, quindi siciliano e più precisamente nella contrada caos, il cui nome ci porta a
delle origini quasi mitiche, greche. Nella sua produzione possiamo individuare 3 segmenti più noti:
1. Corpus di novelle
2. Romanzi
3. Opera teatrale (drammi)
Nasce da una famiglia attiva nelle lotte risorgimentali, sia da padre che da madre. Questi ideali
risorgimentali si tradurranno già negli anni 80 90 e per quanto riguarda pirandello, nel romanzo “I vecchi e i
giovani”. La generazione dei vecchi rispecchia gli ideali risorgimentali e quella dei giovani esprime il
fallimento di questi ideali.
Se la produzione di D’annunzio la collochiamo già alla fine dell’800 quella di Pirandello inizia nei primi anni
del ‘900 perché il suo romanzo d’esordio è “L’esclusa” del 1901, seguiranno “il turno” del 1902 e il più
famoso “Il fu Mattia Pascal” del 1904. Anche Pirandello come molti altri, pubblica prima sui giornali per poi
raccogliere i volumi.
Novelle: venivano pubblicate di volta in volta in singole raccolte ed ognuna aveva il suo titolo, ma tutte
insieme dovevano confluire in una grande raccolta “Novelle per un anno”. L’obiettivo di Pirandello era
quello di costruire un corpus, una raccolta di 365 novelle, non arriverà a questo numero ma ne scrive oltre
200, queste sono importanti perché costituiscono per Pirandello una sorta di serbatoio magmatico, da cui
attingerà dei tratti dei personaggi o delle situazioni che adotterà per romanzi ed opere teatrali.
La maggior parte delle novelle sono state scritte fino al 1914, dopo di che diventerà prevalente l’attività
teatrale ,non esclusiva perché scriverà anche romanzi. Il 1914 rappresenta un po’ uno spartiacque tra una
produzione narrativa e l’avvio per l’attività da drammaturgo. Le novelle fanno parte della narrativa breve,
facilmente utilizzabili nei giornali, costituiscono una sorta di bozza su cui Pirandello continuerà a lavorare ,
ha una scrittura incessante, questi testi spesso vengono rielaborati ed hanno altre edizioni, c’è una
variantistica che ci insegna e ci da informazioni preziose sul modo di lavorare di Pirandello. Cos’è la
variantistica? Tutti gli interventi che Pirandello compie sul testo dando una direzione, precisando
ulteriormente. Esempio: L’esclusa aveva inizialmente come titolo Marta Ayala, il nome della protagonista
donna (importanti i personaggi femminili per Pirandello), nel successivo lavoro Marta Ayala diventa
l’esclusa, che è la chiave di lettura del romanzo. Troviamo già nel primo romanzo uno dei motivi cari a
Pirandello quello del PARADOSSO, che in qualche modo troveremo nella novella della patente.
L’esclusa: Marta viene accusata di adulterio, perché sul balcone si trova un biglietto di un suo spasimante,
un parlamentare (motivo della delusione), invaghito di Marta e lei viene accusata di avere una relazione
con quest’uomo cosa che non è vera, la società (motivo ricorrente in Pirandello, anche l’oppressione della
società) in particolare il suocero (stato tradito). Marta viene ripudiata da casa del marito e allontanata dalla
famiglia pur essendo innocente. Su di lei incombe sempre la fama di donna adultera anche se continua la
sua vita, finchè davvero cade in una relazione con il suo spasimante e aspetta un figlio, a questo punto il
marito la riaccoglie in casa solo quando l’adulterio è stato commesso. Il paradosso è : sarebbe stato meglio
che tu fossi realmente colpevole e tutti ti credessero innocente piuttosto che tu fossi innocente e tutti ti
credessero colpevole. Marta innocente viene cacciata via dal marito e viene riaccolta quando ormai
colpevole.
Comincia così l’attività di romanziere di Pirandello, perché questo paradosso lo vedremo più volte
all’interno della prosa narrativa. Le novelle sono importanti perché mettono a fuoco alcuni temi, alcune
situazioni, alcuni personaggi che ritorneranno nei testi di maggiore respiro, ma non dimentichiamo un
elemento fondamentale, il discorso sulla società, sul rapporto individuo-società, costituiscono le
caratteristiche di tutta la produzione pirandelliana, ma che in qualche modo traducono una sua difficoltà,
un suo sentirsi in gabbia, oppresso in questa società. Incidono anche degli elementi autobiografici. La
famiglia di pirandello è una famiglia benestante e suo padre aveva investito nella miniera di zolfo della loro
proprietà la dote della nuora, cioè della moglie di pirandello, che aveva sposato più per accordo familiare
che per amore. La moglie Antonietta investe tutta la sua dote per le miniere di zolfo che subiscono un
allagamento e questo comporta due cose: la necessità di pirandello di lavorare e quindi scrivere per portare
avanti la famiglia, in secondo luogo indurranno una sorta di esaurimento nervoso della moglie,
un’alienazione , come sapete la follia è un tema molto presente in pirandello, ed è un tema che noi
troviamo in alcuni testi drammatici come Enrico IV e il berretto a sonagli. Il tema della FOLLIA ha un
origine autobiografico. Ma un po’ tutto ha origine dalle sue riflessioni, da come vive certe situazioni.
Modo di lavorare: attraverso rielaborazioni e ritorna spesso sui suoi testi e spesso i titoli hanno una
funzione chiarificatrice, come l’esclusa, che precisa il fatto che viene esclusa dalla sua famiglia poi
riammessa…
Pirandello nutre passione nei confronti di Eleonora Duse, però lui è un uomo sposato ma il suo
ragionamento è lucido, quando ci troviamo di fronte ad una moglie pazza possiamo mai dire che sono
sposato se l’altra persona non mi riconosce? Crea un forte problema di relazione, tutta la sua opera si basa
sulla profonda incomunicabilità, come uno nessuno e centomila. Qui si pone il problema dell’identità, noi
siamo convinti di essere una persona ma poi ci accorgiamo, tutto nasce da un commento della moglie e
dice “hai un naso che pende” lui non se n’è mai accorto e comincia tutto un ragionamento che lo porta
all’alienazione mentale. Siamo in un periodo in cui c’è la crisi dei valori assoluti, abbiamo un elemento
destabilizzante, ovvero la teoria della relatività di Einstein, che mete in discussione tutti quelli che erano i
punti fermi della fisica. C’è un relativismo nel campo elle scienze, della fisica, questo si accompagna a
proposito del tempo, valutato come durata psichica, non più come assoluta. Esempio: quanto dura un ora
di letteratura italiana e un ora con il fidanzato (qui il tempo vola)?
Non esiste un tempo assoluto ma un tempo come viene percepito. Ciò ha ripercussioni anche sulla
narrativa, non tanto in Pirandello ma più che altro in Svevo. Il lui la narrazione non segue più un ordine
cronologico ma un ordine tematico e inseguendo il filo della memoria. Se la narrativa deve seguire un altro
percorso allora non può più seguire l’ordine cronologico che viene ancora seguito per lo meno nel romanzo
più rivoluzionario di pirandello “Il fu Mattia Pascal”. Esso inizia con una situazione già avvenuta e poi viene
raccontato tutto con un lungo flashback che segue l’ordine cronologico e poi torna alla situazione di
partenza.
Un altro tema fondamentale: LA FOLLIA che in qualche modo parte sempre dalle riflessioni autobiografiche.
Temi forti: IDENTITA’ e rapporto tra INDIVIDUO e SOCIETA’ .
Contrasto tra la vita e la forma c’è un contrasto tra la vita che fluisce e una forma che la cristallizza.
La forma: è la società che ci circonda, o meglio è la forma che ci da la società che ci circonda e consiste dai
dati anagrafici (nome e cognome). Se non c’è quella forma voi non esistete.
Arriviamo al terzo romanzo di Pirandello, già nel primo troviamo il paradosso, nel 1904 raggiunge esiti
elevatissimi per quanto riguarda il discorso sull’identità, sull’io.
Il fu Mattia pascal è un romanzo a tesi, il cui Pirandello sostiene una tesi, ovvero la tesi che non può esserci
la vita senza la forma. Si rende conto che senza la forma non può esserci la vita per liberarci di tutto ciò che
ci inganna e cerca di interpretarlo nel romanzo .
Mattia Pascal è una figura di inetto, uno che si lascia vivere, si fa mangiare tutti i soldi, ne è anche
consapevole ma non ne fa nulla, poi lui e il fratello si lasciano mangiare tutte le proprietà che hanno
dall’amministratore ladro. Sposa una bella ragazza ma ha una suocera impossibile, che continua a ribadirgli
che è un fallito… Ha anche delle gemelline con lei… Poi si trova a Montecarlo nel casinò e vince un
importante cifra. Qua entra in gioco anche il caso, la fortuna, i numeri.
Capitolo 7: capitolo fondamentale perché mentre lui sta tornando nel suo paese immaginario in Liguria (che
non esiste ma ha tutte le caratteristiche della Sicilia).
Sono due i luoghi maggiormente descritti la sicilia e roma.
Mentre sta tornando gli capita in treno gli capita sott’occhio un giornale e legge la notizia che è stato
ritrovato un cadavere nei suoi poderi e la moglie e la suocera avevano riconosciuto in lui Mattia Pascal.
Sulle prime cerca di scendere dal treno, telegrafare poi pian piano si fa in lui l’idea di cambiare vita
realmente. Può liberarsi della gabbia che rappresentano i suoi doveri sociali, debitori…
E’ inetto perché non ha deciso lui, ha preso ciò che il caso gli ha messo davanti agli occhi. Per cui cambia
treno e decide di non tornare indietro.
Forma: è stata spezzata, non c’è più, a questo punto si fa un paio di anni in giro per il mondo ma si accorge
che la sua libertà comincia ad essere limitata, non è vero che ha una libertà infinita, non è vero che la vita
può scorrere liberamente , perché non può andare in giro tutta la vita. Nel frattempo prende il nome di
Adriano Meis (ovviamente falso e senza carta d’identità). La libertà ha un limite perché pensa che i soldi gli
dovrebbero bastare per tutta la vita e come fa a trovare lavoro se non ha nemmeno i documenti? E quindi
alla stazione di Milano vede un mendicante vorrebbe comprare un cagnolino ma ci rinuncia perché non può
registrarlo con i documenti. Qui un altro momento in cui la libertà ha una limitazione. Nel frattempo
frequenta una psicologa in una locanda, fa amicizia con un signore però qua capisce che la situazione non
va bene, può mai fingere eternamente con un amico? e deve rinunciarci.
Si trasferisce in casa del signor Baleari a Roma e affitta camere. Qui subisce un furto di grossa cifra e non
può andare a denunciare non avendo identità… Alla fine cosa più grave si innamora di Adriana figlia del Sg.
Baleari e vorrebbe sposarla ma non può parchè è già sposato. Decide di inscenare il suo suicidio, che
avverrà come il primo morto, attraverso l’annegamento. Ritorna al suo paese e va a trovare il fratello, ma
non lo riconosce perché ormai lui è morto, poi lo riconosce ma nessun altro in società lo fa (perché la forma
ormai si è spezzata). Va dalla moglie che si è sposata e avuto una figlia. Decide di passare la sua vita come il
fu mattia pascal, in attesa della sua terza e definitiva morte.
Benedetto croce accusò Pirandello di un romanzo eccessivamente fantasioso, nelle edizioni successive a
quelle del 1904 Pirandello appone una sorta di postfazione, riguardo gli scrupoli della fantasia. In risposta
polemica a benedetto croce pubblica sui giornali alcuni testi in cui sono riportati dei fatti di cronaca che
sono molto vicini alla storia che lui ha raccontato, come per sostenere che la realtà supera la fantasia.
Tema del DOPPIO: rappresentato dalla doppia identità, ma se andiamo ad analizzare un po’ meglio il mattia
pascal tanti sono gli spunti e le riflessioni che derivano da questo romanzo. Innanzitutto Mattia Pascal è
strabico, più volte nel corso del romanzo compare lo specchio e rappresenta il doppio, una delle prime
volte quando lui va dal barbiere per cambiare la fisionomia, si affida al barbiere e si piace molto, si guarda
per la prima volta da Adriano Meis , assume una nuova fisionomia. Seconda comparsa dello specchio è
dopo l’operazione si toglie la benda e si guarda con l’occhio dritto, che ormai caratterizza Adriano e non
Mattia. Ci sono tanti motivi che suggeriscono l’idea del doppio e della scomposizione della persona.
La formazione di Pirandello avviene a Roma, poi discuterà la sua tesi di laurea a Bonn in Germania ma il
tema della sua tesi è la parlata di girgenti, si allontana dalla Sicilia e prende le distanze per poterla vedere
meglio, così come gli scrittori siciliani del verismo. Si allontanano per avere un quadro più oggettivo come
Capuano e Verga. Così succede anche per Pirandello. Ma non troveremo il fiorentino manzoniano.
Pirandello utilizza certe volte un certo regionalismo e usa parole dialettali che conferiscono un concetto in
maniera più precisa. Ci sono delle parole dialettali che a volte sono intraducibili come per esempio
“inciucio”, il pettegolezzo. Pirandello spesso ricorre a dei termini che hanno uso dialettale, e che hanno
una forte pregnanza semantica, servono a dare una particolare forza espressiva.
La patente
Nella scrittura di Pirandello ha una particolare rilevanza il saggio del 1908 “l’umorismo”, ma in qualche
modo la scrittura del fu mattia pascal, che precede questo saggio è già la scrittura umoristica. Pirandello in
questo saggio fa la distinzione tra comico e umoristico e dice che il comico è l’avvertimento del contrario,
subentra però la rilfessione e questo avvertimento diventa sentimento del contrario. Esempio: lui dice
immaginiamo che ci troviamo di fronte ad una signora di età avanzata che viene vestita e imbellettata come
una ragazzina, l’avvertimento del contrario è dato dall’età della signora e del trucco non adatto alla sua età.
Il che ci induce ad una corposa risata, situazione comica. Ma se noi nel frattempo pensiamo che questa
signora si concia così perché è molto più anziana del marito e per non far pesare questa differenza di età e
per piacere sempre al marito lei si concia in quel modo per mantenere legata a lei il marito. Qui subentra
una riflessione, quella risata si smorza e diventa un sorriso, passaggio dal comico all’umorismo, è una sorta
di sorriso amaro sulla condizione dell’uomo, per cui Pirandello prova una profonda pietà e lo vediamo in
uno dei personaggi del Mattia Pascal.
Ma questo umorismo lo troviamo bene nella novella sotto riportata:
Tema di fondo: IL PARADOSSO celebrale, la scrittura di Pirandello poggia molto sulla riflessione
C’è un poveretto che è accusato dalla società di superstizione e maldicenza (rovina la vita delle persone). In
questa comunità quest’uomo viene accusato di portare iella, questa maldicenza si diffonde tanto che perde
il lavoro e non è in grado di mantenere la famiglia e le figlie, che non riescono a trovare marito proprio a
causa del padre. La superstizione è qualcosa che Pirandello odia e come se fosse la lotta dell’individuo
contro la società. Non è un reato (la sfortuna) , allora il signor Chiàrchiaro denuncia due ragazzi che hanno
fatto lo scongiuro al suo passaggio, li denuncia perché lo hanno diffamato, dopo di chè va dal giudice
D’andrea (che è il primo che noi vediamo, lui non crede alla superstizione, si distingue dagli altri, anche dai
suoi colleghi). Il Chiàrchiaro va da lui e implora il giudice di assolvere i due ragazzi che aveva denunciato,
“prima li denuncia e poi li assolve? Si perché se io li ho denunciati per diffamazione vuol dire che loro hanno
detto una cosa non vera, che io sono uno iettatore, se lei li assolve sostiene che hanno detto la verità, che
sono uno iettatore, così io ho un documento ufficiale, una patente per cui io sono certificato come iettatore
e questo mi consentirà (qui c’è tutta la rabbia dell’individuo rovinato) di avere una patente e se non mi
fanno vivere normalmente io almeno, li minaccio, mi dovranno pagare per allontanarmi da loro, così ho un
risarcimento e non posso vivere, non sappiamo come mangiare”. La novella si conclude con l’umana
partecipazione al dolore, ecco l’umorismo. Va in ufficio proprio vestito come uno iettatore, qui infatti la
prima reazione è l’avvertimento del contrario, è comica e poi diventa umoristica. Il giudice lo abbraccia con
un senso di profonda e commossa partecipazione a quella che è la condizione umana, schiacciata dalla
società. Il giudice D’andrea in qualche modo capiamo che deve essere siciliano e porta dentro la sua
fisionomia le tracce di tante razze di conquistatori che si sono mischiate fino a dar vita a quel che è il
giudice.
Con quale inflessione di voce e quale atteggiamento d’occhi e di mani, curvandosi, come chi regge
rassegnatamente su le spalle un peso insopportabile, il magro giudice D’Andrea soleva ripetere: «Ah, figlio
caro!» a chiunque gli facesse qualche scherzosa osservazione per il suo strambo modo di vivere! Non era
ancor vecchio; poteva avere appena quarant’anni; ma cose stranissime e quasi inverosimili, mostruosi
intrecci di razze, misteriosi travagli di secoli bisognava immaginare per giungere a una qualche
approssimativa spiegazione di quel prodotto umano che si chiamava il giudice D’Andrea. E pareva ch’egli,
oltre che della sua povera, umile (largo utilizzo di aggettivi), comunissima storia familiare, avesse notizia
certa di quei mostruosi intrecci di razze, donde al suo smunto sparuto viso di bianco eran potuti venire quei
capelli crespi gremiti da negro; e fosse consapevole di quei misteriosi infiniti travagli di secoli, che su la vasta
fronte protuberante gli avevano accumulato tutto quel groviglio di rughe e tolto quasi la vista ai piccoli
occhi plumbei, e scontorto tutta la magra, misera personcina. Così sbilenco, con una spalla più alta
dell’altra, andava per via di traverso, come i cani. Nessuno però, moralmente, sapeva rigar più diritto di
lui.(Rigava dritto anche se fisicamente era tutto storto) Lo dicevano tutti. Vedere, non aveva potuto vedere
molte cose, il giudice D’Andrea; ma certo moltissime ne aveva pensate, e quando il pensare è più triste, cioè
di notte.(Il giudice è un po’ un alter ego di Pirandello, fa le sue riflessioni sulla vita) Il giudice D’Andrea non
poteva dormire. Passava quasi tutte le notti alla finestra a spazzolarsi una mano a quei duri gremiti suoi
capelli da negro, con gli occhi alle stelle, placide e chiare le une come polle di luce, guizzanti e pungenti le
altre; e metteva le più vive in rapporti ideali di figure geometriche, di triangoli e di quadrati, e, socchiudendo
le palpebre dietro le lenti, pigliava tra i peli delle ciglia la luce d’una di quelle stelle, e tra l’occhio e la stella
stabiliva il legame d’un sottilissimo filo luminoso, e vi avviava l’anima a passeggiare come un ragnetto
smarrito. Il pensare così di notte non conferisce molto alla salute. L’arcana solennità che acquistano i
pensieri produce quasi sempre, specie a certuni che hanno in sè una certezza su la quale non possono
riposare, la certezza di non poter nulla sapere e nulla credere non sapendo, qualche seria costipazione.
Costipazione d’anima, s’intende. E al giudice D’Andrea, quando si faceva giorno, pareva una cosa buffa e
atroce nello stesso tempo, ch’egli dovesse recarsi al suo ufficio d’Istruzione ad amministrare – per quel tanto
che a lui toccava – la giustizia ai piccoli poveri uomini feroci(ossimoro). Come non dormiva lui, così sul suo
tavolino nell’ufficio d’Istruzione non lasciava mai dormire nessun incartamento (in senso metaforico), anche
a costo di ritardare di due o tre ore il desinare e di rinunziar la sera, prima di cena, alla solita passeggiata coi
colleghi per il viale attorno alle mura del paese. Questa puntualità, considerata da lui come dovere
imprescindibile, gli accresceva terribilmente il supplizio. Non solo d’amministrare la giustizia gli toccava; ma
d’amministrarla così, su due piedi. Per poter essere meno frettolosamente puntuale, credeva d’aiutarsi
meditando la notte. Ma, neanche a farlo apposta, la notte, spazzolando la mano a quei suoi capelli da negro
e guardando le stelle, gli venivano tutti i pensieri contrarii a quelli che dovevano fare al caso per lui, data la
sua qualità di giudice istruttore; così che, la mattina dopo, anziché aiutata, vedeva insidiata e ostacolata la
sua puntualità da quei pensieri della notte e cresciuto enormemente lo stento di tenersi stretto a
quell’odiosa sua qualità di giudice istruttore(Qui vediamo il contrasto). Eppure, per la prima volta, da circa
una settimana, dormiva un incartamento sul tavolino del giudice D’Andrea. E per quel processo che stava lì
da tanti giorni in attesa, egli era in preda a un’irritazione smaniosa, a una tetraggine soffocante. Si
sprofondava tanto in questa tetraggine, che gli occhi aggrottati, a un certo punto, gli si chiudevano. Con la
penna in mano, dritto sul busto, il giudice D’Andrea si metteva allora a pisolare, prima raccorciandosi, poi
attrappandosi come un baco infratito che non possa più fare il bozzolo. Appena, o per qualche rumore o per
un crollo più forte del capo, si ridestava e gli occhi gli andavano lì, a quell’angolo del tavolino dove giaceva
l’incartamento, voltava la faccia e, serrando le labbra, tirava con le nari fischianti aria aria aria e la
mandava dentro, quanto più dentro poteva, ad allargar le viscere contratte dall’esasperazione, poi la
ributtava via spalancando la bocca con un versaccio di nausea, e subito si portava una mano sul naso
adunco a regger le lenti che, per il sudore, gli scivolavano.(Quanti elementi teatrali all’interno di una
novella) Era veramente iniquo quel processo là (lingua colloquiale, come se il giudice parlasse tra se e se ):
iniquo perché includeva una spietata ingiustizia contro alla quale un pover’uomo tentava disperatamente di
ribellarsi senza alcuna probabilità di scampo. C’era in quel processo una vittima che non poteva prendersela
con nessuno. Aveva voluto prendersela con due, lì in quel processo, coi primi due che gli erano capitati sotto
mano, e, sissignori, la giustizia doveva dargli torto, torto, torto, senza remissione, ribadendo così,
ferocemente, l’iniquità di cui quel pover’uomo era vittima. A passeggio cercava di parlarne coi colleghi, ma
questi, appena egli faceva il nome del Chiàrchiaro, cioè di colui che aveva intentato il processo, si alteravano
in viso e si ficcavano subito una mano in tasca a stringervi una chiave, o sotto sotto allungavano l’indice e il
mignolo a far le corna, o s’afferravano sul panciotto i gobbetti d’argento, i chiodi, i corni di corallo pendenti
dalla catena dell’orologio. Qualcuno, più francamente, prorompeva: – Per la Madonna Santissima, ti vuoi
star zitto? Ma non poteva starsi zitto il magro giudice D’Andrea. Se n’era fatta proprio una fissazione, di
quel processo. Gira gira, ricascava per forza a parlarne. Per avere un qualche consiglio, Perché, in verità, era
un caso insolito e speciosissimo quello d’un jettatore che si querelava per diffamazione contro i primi due
che gli erano caduti sotto gli occhi nell’atto di far gli scongiuri di rito al suo passaggio. Diffamazione? Ma
che diffamazione, povero disgraziato, se già da qualche anno era diffusissima in tutto il paese la sua fama di
jettatore? se innumerevoli testimonii potevano venire in tribunale a giurare che egli in tante e tante
occasioni aveva dato segno di conoscere quella sua fama, ribellandosi con proteste violente? Come
condannare, in coscienza, quei due giovanotti quali diffamatori per aver fatto al passaggio di lui il gesto che
da tempo solevano fare apertamente tutti gli altri, e primi fra tutti – eccoli là – gli stessi giudici? E il
D’Andrea si struggeva; si struggeva di più incontrando per via gli avvocati, nelle cui mani si erano messi quei
due giovanotti, l’esile e patitissimo avvocato Grigli, dal profilo di vecchio uccello di rapina, e il grasso Manin
Baracca, il quale, portando in trionfo su la pancia un enorme corno comperato per l’occasione e ridendo con
tutta la pallida carnaccia di biondo majale eloquente, prometteva ai concittadini che presto in tribunale
sarebbe stata per tutti una magnifica festa. Orbene, proprio per non dare al paese lo spettacolo di quella
«magnifica festa» alle spalle d’un povero disgraziato, il giudice D’Andrea prese alla fine la risoluzione di
mandare un usciere in casa del Chiàrchiaro per invitarlo a venire all’ufficio d’Istruzione. Anche a costo di
pagar lui le spese, voleva indurlo a desistere dalla querela, dimostrandogli quattro e quattr’otto che quei
due giovanotti non potevano essere condannati, secondo giustizia, e che dalla loro assoluzione inevitabile
sarebbe venuto a lui certamente maggior danno, una più crudele persecuzione. Ahimè, è proprio vero che è
molto più facile fare il male che il bene, non solo perché il male si può fare a tutti e il bene solo a quelli che
ne hanno bisogno; ma anche, anzi sopra tutto, perché questo bisogno di aver fatto il bene rende spesso così
acerbi e irti gli animi di coloro che si vorrebbero beneficare, che il beneficio diventa difficilissimo. (inserto
riflessivo di Pirandello ) Se n’accorse bene quella volta il giudice D’Andrea, appena alzò gli occhi a guardar il
Chiàrchiaro, che gli era entrato nella stanza, mentr’egli era intento a scrivere. Ebbe uno scatto violentissimo
e buttò all’aria le carte, balzando in piedi e gridandogli: – Ma fatemi il piacere! Che storie son queste?
Vergognatevi! Il Chiàrchiaro s’era combinata una faccia da jettatore, ch’era una meraviglia a vedere. S’era
lasciata crescere su le cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliata; si era insellato sul naso un paio di
grossi occhiali cerchiati d’osso, che gli davano l’aspetto d’un barbagianni; aveva poi indossato un abito
lustro, sorcigno, che gli sgonfiava da tutte le parti. Allo scatto del giudice non si scompose. Dilatò le nari,
digrignò i denti gialli e disse sottovoce: – Lei dunque non ci crede? – Ma fatemi il piacere! – ripeté il giudice
D’Andrea. – Non facciamo scherzi, caro Chiàrchiaro! O siete impazzito? Via, via, sedete, sedete qua. E gli
s’accostò e fece per posargli una mano su la spalla. Subito il Chiàrchiaro sfagliò come un mulo, fremendo: –
Signor giudice, non mi tocchi! Se ne guardi bene! O lei, com’è vero Dio, diventa cieco! Il D’Andrea stette a
guardarlo freddamente, poi disse: – Quando sarete comodo... Vi ho mandato a chiamare per il vostro bene.
Là c’è una sedia, sedete. Il Chiàrchiaro sedette e, facendo rotolar con le mani su le cosce la canna d’India a
mo’ d’un matterello, si mise a tentennare il capo. – Per il mio bene? Ah, lei si figura di fare il mio bene,
signor giudice, dicendo di non credere alla jettatura? Il D’Andrea sedette anche lui e disse: – Volete che vi
dica che ci credo? E vi dirò che ci credo! Va bene così? – Nossignore, – negò recisamente il Chiàrchiaro, col
tono di chi non ammette scherzi. – Lei deve crederci sul serio, e deve anche dimostrarlo istruendo il
processo! – Questo sarà un po’ difficile, – sorrise mestamente il D’Andrea.(umorismo) – Ma vediamo di
intenderci, caro Chiàrchiaro. Voglio dimostrarvi che la via che avete preso non è propriamente quella che
possa condurvi a buon porto. – Via? porto? Che porto e che via? – domandò, aggrondato, il Chiàrchiaro. –
Né questa d’adesso, – rispose il D’Andrea, – né quella là del processo. Già l’una e l’altra scusate, son tra loro
così. E il giudice D’Andrea infrontò gli indici delle mani per significare che le due vie gli parevano opposte. Il
Chiàrchiaro si chinò e tra i due indici così infrontati del giudice ne inserì uno suo, tozzo, peloso e non molto
pulito. – Non è vero niente, signor giudice! – disse, agitando quel dito. – Come no? – esclamò il D’Andrea. –
Là accusate come diffamatori due giovani perché vi credono jettatore, e ora qua voi stesso vi presentate
innanzi a me in veste di jettatore e pretendete anzi ch’io creda alla vostra jettatura. – Sissignore. – E non vi
pare che ci sia contraddizione? Il Chiàrchiaro scosse più volte il capo con la bocca aperta a un muto ghigno
di sdegnosa commiserazione. – Mi pare piuttosto, signor giudice, – poi disse, – che lei non capisca niente. Il
D’Andrea lo guardò un pezzo, imbalordito.
– Dite pure, dite pure, caro Chiàrchiaro. Forse è una verità sacrosanta questa che vi è scappata dalla bocca.
Ma abbiate la bontà di spiegarmi perché non capisco niente. – Sissignore. Eccomi qua, – disse il Chiàrchiaro,
accostando la seggiola. – Non solo le farò vedere che lei non capisce niente; ma anche che lei è un mio
mortale nemico. Lei, lei, sissignore. Lei che crede di fare il mio bene. Il mio più acerrimo nemico! Sa o non sa
che i due imputati hanno chiesto il patrocinio dell’avvocato Manin Baracca? – Sì. Questo lo so. – Ebbene,
all’avvocato Manin Baracca io, Rosario Chiàrchiaro, io stesso sono andato a fornire le prove del fatto: cioè,
che non solo mi ero accorto da più d’un anno che tutti, vedendomi passare, facevano le corna, ma le prove
anche, prove documentate e testimonianze irrepetibili dei fatti spaventosi su cui è edificata incrollabilmente,
incrollabilmente, capisce, signor giudice? La mia fama di jettatore! – Voi? Dal Baracca? – Sissignore, io. Il
giudice lo guardò, più imbalordito che mai: – Capisco anche meno di prima. Ma come? Per render più sicura
l’assoluzione di quei giovanotti? E perché allora vi siete querelato? Il Chiàrchiaro ebbe un prorompimento di
stizza per la durezza di mente del giudice D’Andrea; si levò in piedi, gridando con le braccia per aria: – Ma
perché io voglio, signor giudice, un riconoscimento ufficiale della mia potenza, non capisce ancora? Voglio
che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza spaventosa, che è ormai l’unico mio capitale! E
ansimando, protese il braccio, batté forte sul pavimento la canna d’India e rimase un pezzo impostato in
quell’atteggiamento grottescamente imperioso. Il giudice D’Andrea si curvò, si prese la testa tra le mani,
commosso, e ripeté: Povero caro Chiàrchiaro mio, povero caro Chiàrchiaro mio, bel capitale! E che te ne fai?
che te ne fai? – Che me ne faccio? – rimbeccò pronto il Chiàrchiaro. – Lei, padrone mio, per esercitare
codesta professione di giudice, anche così male come la esercita, mi dica un po’, non ha dovuto prender la
laurea? – La laurea, sì. – Ebbene, voglio anch’io la mia patente, signor giudice! La patente di jettatore. Col
bollo. Con tanto di bollo legale! Jettatore patentato dal regio tribunale. – E poi? – E poi? Me lo metto come
titolo nei biglietti da visita. Signor giudice, mi hanno assassinato. Lavoravo. Mi hanno fatto cacciar via dal
banco dov’ero scritturale, con la scusa che, essendoci io, nessuno più veniva a far debiti e pegni; mi hanno
buttato in mezzo a una strada, con la moglie paralitica da tre anni e due ragazze nubili, di cui nessuno vorrà
più sapere, perché sono figlie mie; viviamo del soccorso che ci manda da Napoli un mio figliuolo, il quale ha
famiglia anche lui, quattro bambini, e non può fare a lungo questo sacrifizio per noi. Signor giudice, non mi
resta altro che di mettermi a fare la professione dello jettatore! Mi sono parato così, con questi occhiali, con
quest’abito; mi sono lasciato crescere la barba; e ora aspetto la patente per entrare in campo! Lei mi
domanda come? Me lo domanda perché, le ripeto, lei è un mio nemico! – Io? – Sissignore. Perché mostra di
non credere alla mia potenza! Ma per fortuna ci credono gli altri, sa? Tutti, tutti ci credono! E ci son tante
case da giuoco in questo paese! Basterà che io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno
per farmi andar via! Mi metterò a ronzare attorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le
botteghe; e tutti, tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell’ignoranza? io dico la tassa della salute! Perché,
signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che
veramente credo d’avere ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città! Il
giudice D’Andrea, ancora con la testa tra le mani, aspettò un pezzo che l’angoscia che gli serrava la gola
desse adito alla voce. Ma la voce non volle venir fuori; e allora egli, socchiudendo dietro le lenti i piccoli
occhi plumbei, stese le mani e abbracciò il Chiàrchiaro a lungo, forte forte, a lungo. Questi lo lasciò fare. –
Mi vuol bene davvero? – gli domandò - E allora istruisca subito il processo, e in modo da farmi avere al più
presto quello che desidero. – La patente? Il Chiàrchiaro protese di nuovo il braccio, batté la canna d’India sul
pavimento e, portandosi l’altra mano al petto, ripeté con tragica solennità: – La patente.
SBOBINA 23 MAGGIO LETTERATURA ITALIANA
Al termine della scorsa lezione si stava parlando di Pirandello. [la proff avverte di aver caricato nuovi file in
rete (La patente, la premessa de Il fu Mattia Pascal, parte del capitolo de La Coscienza di Zeno); dice di voler
chiudere il corso con Italo Svevo o forse Camilleri]
Breve ricapitolazione su Il fu Mattia Pascal e Pirandello. Estremi biografici: 1867-1936. Nel ’34 Pirandello
vinse il Nobel per la Letteratura. Per quanto riguarda i contenuti, Pirandello ha una lucida consapevolezza della
novità; potremmo dire che senta quasi insofferenza per la narrativa tradizionale. Per quanto riguarda invece le
strutture del romanzo, il vero e proprio innovatore non sarà Pirandello, ma Svevo: con lui avremo la
destrutturazione dell’impianto narrativo tradizionale, nonché dell’ordine cronologico a cui siamo abituati. Ne
Il fu Mattia Pascal di Pirandello la narrazione inizia quando i fatti sono già avvenuti, ma l’intera vicenda, per
quanto sia un lungo flashback, segue ancora un ordine cronologico; e infine si riallaccia al momento temporale
da cui la narrazione era partita. Il romanzo viene pubblicato nel 1904. Punto importante: l’umorismo. Il
romanzo ha già in sé il germe dell’umorismo, per quanto il saggio omonimo vedrà la luce solo nel 1908. Punti
da approfondire circa la tematica dell’umorismo: la differenza tra comico e umoristico; le paroline magiche;
avvertimento del contrario che scatena il comico e la risata; sentimento del contrario che possiamo invece
definire “umorismo”: quella risata si smorza in un sorriso in cui troviamo una sorta di compassione, o empatia,
per quella che è la condizione umana (vedi La patente e la “solidarietà” del giudice D’Andrea con la condizione
del povero Chiarchiaro – leggi Chiàrchiaro). Cosa fa trasformare il comico in umoristico? L’intervento della
riflessione. Pirandello spesso nella sua narrativa, oltre al dialogo e alla narrazione vera e propria, introduce
degli inserti di carattere riflessivo in cui ritroviamo il suo pensiero; troviamo, per esempio, l’autore ne La
patente quasi come una sorta di alter ego nei pensieri del giudice D’Andrea quando egli riflette sulla causa, e
sulle vicende del pover’uomo già destinato a perdere questa causa, che contrariamente al solito giaceva ormai
da una settimana sulla scrivania del giudice. Altri cenni a punti già affrontati: fino al 1914 è prevalente la
narrativa, e le novelle hanno una doppia valenza: da un lato come serbatoio di situazioni e personaggi, dall’altro
questo risponde alla necessità di guadagnarsi da vivere. C’è però un’idea unitaria di fondo, tant’è che tutte le
novelle saranno riunite nella macroraccolta Novelle per un anno, similmente avremo la macroraccolta per gli
scritti teatrali che avrà titolo Maschere nude. Sottolineiamo un altro aspetto, già evidenziato per quanto
riguarda i romanzi e che ritroviamo ora per il teatro: l’importanza dei titoli in Pirandello. Il titolo infatti non è
mai casuale, ma offre una chiave di lettura. Abbiamo detto di come Pirandello si dedichi alla rielaborazione
dei suoi versi, e di come lo studio delle varianti delle sue edizioni ci dica molto del suo modo di lavorare.
L’espressione “maschere nude” è una figura retorica: un ossimoro, in quanto la maschera è ciò che copre.
Ed è un po’ la condizione dell’uomo, che nei drammi si svela nella sua nudità. È il dramma dell’Uomo, e non
del personaggio di volta in volta utilizzato, ad andare in scena. Come abbiamo detto, l’attività teatrale si
concentra nell’ultima parte della vita di Pirandello. I Sei personaggi in cerca di autore sono fondamentali,
innovativi, in quanto rivoluzionano il teatro e aprono così la strada al Teatro dell’avanguardia del ’900. Qual
è la novità? L’eliminazione della “quarta parete”, cioè della divisione tra la scena e il pubblico; i personaggi
in cerca di chi interpreti la loro storia... Non a caso parliamo, a proposito di Pirandello, di “teatro nel teatro”,
o metateatro. Importante è anche il tema della follia, che ritroviamo nell’Enrico IV e ne Il berretto a sonagli:
soltanto a chi è folle è consentito dire la verità. Per cui, l’uomo non può dire la verità se non sotto la maschera
del folle. Infine tra le letture suggerite: Così è (se vi pare). “Così è” esprime un’affermazione categorica, mentre
la successiva parentesi contiene quasi l’emblema della soggettività nella doppia ipotesi: se, se vi pare. Cosa
pare a ognuno di noi? Ritroviamo quel relativismo che ci riconduce a quanto già detto la volta scorsa.
Tornando a Il fu Mattia Pascal; il romanzo si apre con una Premessa, seguita da una Premessa seconda
(filosofica) a mo’ di scusa. Vi è un che di umoristico in questa seconda premessa, un atteggiamento tra il
malizioso e quello di chi è lucidamente consapevole della condizione dell’uomo. [la proff legge la prima
Premessa: Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia
Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de' miei amici o conoscenti dimostrava d'aver perduto
il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle,
socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: — Io mi chiamo Mattia Pascal. — Grazie, caro. Questo lo so. — E ti
par poco? Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non
sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all'occorrenza: — Io mi chiamo Mattia
Pascal. Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l'atroce cordoglio d'un disgraziato,
al quale avvenga di scoprire tutt'a un tratto che... sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come
non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de' vizii, e della tristezza
dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero innocente.] Suona ironica la prima frase,
considerato l’andamento del romanzo in cui proprio l’identità, quest’unica certezza, viene a essere negata. Lo
stesso titolo esprime la difficoltà del protagonista a ricollegarsi alla sua identità, data dal fatto che la “forma”
si è spezzata. Pertanto quella vita che fluisce non è più riconosciuta, non esiste più un Mattia Pascal. L’unica
certezza che a volte sentiamo di avere è proprio il nostro nome, come Pirandello ci ricorda. (18 minuti)
[continua a leggere la seconda pagina: “...de’ vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser
cagione a un povero innocente. Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente
di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l'origine e la discendenza della mia famiglia e
dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro
azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli. E allora?] Ovvero: il mio non è il caso di
chi sia un trovatello, non è per questo che io non so più chi sono. L’attenzione, l’indagine è sull’uomo. [E
allora? Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo.] È già
avvenuto tutto, ed è il “fu” Mattia Pascal che sta narrando, e racconta come da Mattia Pascal sia diventato il
fu Mattia Pascal. [Continua a leggere: Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che guardiano
di libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune. È
ben chiaro che questo Monsignore
dovette conoscer poco l'indole e le abitudini de' suoi concittadini; o forse sperò che il suo lascito dovesse col
tempo e con la comodità accendere nel loro animo l'amore per lo studio. Finora, ne posso rendere
testimonianza, non si è acceso: e questo dico in lode de' miei concittadini: Del dono anzi il Comune si dimostrò
così poco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò
per molti e molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino, donde poi li trasse, pensate voi in quale stato,
per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so per qual ragione sconsacrata. Qua li
affidò, senz'alcun discernimento, a titolo di beneficio, e come sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto il
quale, per due lire al giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, ne avesse sopportato per alcune
ore il tanfo della muffa e del vecchiume.]. Notiamo la sottile ironia: “non so se più cacciatore di topi che
guardiano di libri”. Il Monsignore conosceva forse poco i suoi concittadini, considerata la natura del suo
lascito, ovvero la biblioteca. Il ruolo del bibliotecario viene descritto come quello di uno che non avrebbe
dovuto nemmeno guardarli, i libri, ma solo sopportarne il cattivo odore. [Tal sorte toccò anche a me; e fin dal
primo giorno io concepii così misera stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come alcuni antichissimi
della nostra biblioteca), che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto, non stimassi
davvero strano il mio caso e tale da poter servire d'ammaestramento a qualche curioso lettore, che per
avventura, riducendosi finalmente a effetto l'antica speranza della buon'anima di monsignor Boccamazza,
capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio manoscritto, con l'obbligo però che nessuno possa
aprirlo se non cinquant'anni dopo la mia terza, ultima e definitiva morte. Giacché, per il momento (e Dio sa
quanto me ne duole), io sono morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda... sentirete]. Il
protagonista quindi, che lavora in una biblioteca, afferma di avere così poca stima dei libri, che se non fosse
stato spinto da un altro nemmeno avrebbe scritto il suo. Due volte Pirandello insiste sulla parola “strano”,
riferita al suo caso; ciò che convince Matia Pascal a scriverne.
Comincia ora la Premessa seconda [II: Premessa seconda (filosofica) a mo' di scusa L'idea o piuttosto, il
consiglio di scrivere mi è venuto dal mio reverendo amico don Eligio Pellegrinotto, che al presente ha in
custodia i libri della Boccamazza, e al quale io affido il manoscritto appena sarà terminato, se mai sarà. Salta
alla parte in cui Mattia Pascal dice: Maledetto sia Copernico! — Oh oh oh, che c'entra Copernico! — esclama
don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia. — C'entra, don Eligio. Perché,
quando la Terra non girava... — E dàlli! Ma se ha sempre girato! — Non è vero. L'uomo non lo sapeva, e
dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso non gira. L'ho detto l'altro giorno a un vecchio
contadino, e sapete come m'ha risposto? ch'era una buona scusa per gli ubriachi. Del resto, anche voi scusate,
non potete mettere in dubbio che Giosuè fermò il Sole. Ma lasciamo star questo. Io dico che quando la Terra
non girava, e l'uomo, vestito da greco o da romano [cioè l’uomo del mondo classico, nota della proff], vi faceva
così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che
potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d'oziosi particolari. Si legge o non si legge in Quintiliano,
come voi m'avete insegnato, che la storia doveva esser fatta per raccontare e non per provare?] Copernico è
colui che ebbe l’intuizione, successivamente dimostrata da Galileo, che il nostro sistema fosse eliocentrico, e
non geocentrico. Copernico, quindi, è stato il primo ad affermare che la Terra ruoti intorno al Sole, e non il
contrario, sconvolgendo di fatto l’uomo che perde così la sua centralità nell’universo. “[la Terra] ha sempre
girato!” “Non è vero. L’uomo non lo sapeva”. L’uomo non lo sapeva, dunque per lui la terra non girava. Cosa
è cambiato? La consapevolezza dell’uomo non è centrale. Ciò ha una ricaduta sulla narrativa stessa nel
momento in cui, dopo frasi come “il signor xxx era vestito così, la signora contessa si levò a quest’ora, Teresina
si moriva di fame” (frasi, cioè, da romanzo tradizionale), Pirandello afferma: e che volete che me ne importi?
Vi è quasi
una dichiarazione poetica: la narrativa tradizionale viene sentita stretta dall’autore, essa non è più adatta a
soddisfare l’indagine approfondita che Pirandello intende condurre sull’identità e la condizione dell’uomo,
sull’umorismo che ne deriva, sul contrasto tra vita e forma, sull’essere quasi prigionieri in una società con cui
l’uomo ha un rapporto conflittuale. Pirandello stesso sente il peso di una società che lo ingabbia, condizione
che non vive come unicamente sua, ma essa appartiene all’Uomo. Nell’ultima parte sottolineata vediamo il
collegamento tra il riferimento a Copernico e l’evoluzione della narrazione. Fintantoché l’uomo si illudeva di
mantenere la propria centralità sulla Terra, a sua volta il centro dell’universo, allora aveva interesse per una
narrazione minuta, fatta di piccoli fatti: “Si legge o non si legge in Quintiliano [...] che la storia doveva essere
fatta per raccontare e non per provare?” [— Non nego, — risponde don Eligio, — ma è vero altresì che non si
sono mai scritti libri così minuti, anzi minuziosi in tutti i più riposti particolari, come dacché, a vostro dire, la
Terra s'è messa a girare. — E va bene! Il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezzo precise... La
signora contessa indossò un abito lilla con una ricca fioritura di merletti alla gola... Teresina si moriva di fame...
Lucrezia spasimava d'amore... Oh, santo Dio! e che volete che me n'importi? Siamo o non siamo su
un'invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira,
senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora
un po' più di caldo, ora un po' più di freddo, e per farci morire – spesso con la coscienza d'aver commesso una
sequela di piccole sciocchezze – dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio ha
rovinato l'umanità, irrimediabilmente]. Da quando ormai gli uomini sanno che la Terra non è al centro
dell’universo, e l’uomo non è più nella sua età classica (vestito da greco o da romano), abbiamo consapevolezza
dell’infinità piccolezza e della Terra e dell’uomo; Terra che gira senza un motivo e fa apparire gli uomini senza
una meta né uno scopo. La narrazione, che prima era quella di un uomo preso dalla sua importanza, diventa
ora marginale. Il riferimento a questa “trottolina che gira” può far pensare a Leopardi, con la sua visione
meccanicistica dell’esistenza. Non è tanto Copernico ad aver “rovinato” l’umanità, quanto la consapevolezza
del venir meno della figura del poeta-vate e del valore che lo scrittore, il poeta, aveva per la società. Se
Pirandello insiste sulla mancanza di una verità assoluta, non può essere lo scrittore a proporre un modello di
verità. In questa relatività anche il poeta perde la sua centralità all’interno della società. [Ormai noi tutti ci
siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che
niente nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore dunque volete che abbiano le
notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai
le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come
vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d'impazienza, e ha sbuffato un po' di
fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità
degli uomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaja di vermucci
abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più?]. Anche le generali calamità sono delle miserie in questa
prospettiva. Pirandello insiste sulla relatività dell’uomo, e la mancanza di un valore assoluto. Precedentemente
si era accennato a due personaggi del romanzo che, più degli altri, richiamano l’umorismo pirandelliano. Il
primo è quello della signorina Caporale, che abita nella pensione del signor Paleari: presentataci come una
“zitella”, un po’ ridicola, piuttosto brutta, è innamorata persa del genero del signor Paleari, il quale ne
approfitterà per farsi prestare dei soldi mai più restituiti. La descrizione che viene data del personaggio è
piuttosto comica, se pensiamo ad esempio al naso sempre rosso; quando però riflettiamo sulle
motivazioni che soggiacciono alla descrizione – il naso è rosso per il continuo ricorrere al bere, come mezzo
per attenuare la sua disperazione – il comico diventa umoristico. Il secondo personaggio è l’amministratore
Malagna, il quale deruba il protagonista e il fratello (i quali per altro non reagiscono, immagine dell’uomo
inetto che si lascia vivere e non interviene). Mentre il fratello, avendo fatto un buon matrimonio, non ha
comunque problemi di denaro, Mattia Pascal non condivide questa fortuna. Il personaggio di Malagna suscita,
se non l’odio, sicuramente l’antipatia del lettore. Eppure, da oggetto di odio e rivalsa dal protagonista, quale
egli era inizialmente, lo vediamo pian piano quasi compatire e giustificare dallo stesso Mattia Pascal: si passa
quindi al sorriso amaro, dal comico (la paglia sbilenca a cui Mattia Pascal paragona Malagna, infilzando con
un certo sadismo il covone di paglia con un forcone, immaginando si tratti dell’amministratore) all’umoristico.
Capitolo IV: Fu così (ancora non è avvenuto il cambiamento di vita, che avverà nel settimo capitolo) [Un
giorno, a caccia, mi fermai, stranamente impressionato, innanzi a un pagliajo nano e panciuto, che aveva un
pentolino in cima allo stollo. — Ti conosco, — gli dicevo, — ti conosco... Poi, a un tratto, esclamai: — To'!
Batta Malagna. Presi un tridente, ch'era lì per terra, e glielo infissi nel pancione con tanta voluttà, che il
pentolino in cima allo stollo per poco non cadde. Ed ecco Batta Malagna, quando, sudato e sbuffante, portava
il cappello su le ventitré. Scivolava tutto: gli scivolavano nel lungo faccione di qua e di là, le sopracciglia e gli
occhi; gli scivolava il naso su i baffi melensi e sul pizzo; gli scivolavano dall'attaccatura del collo le spalle; gli
scivolava il pancione languido, enorme, quasi fino a terra, perché, data l'imminenza di esso su le gambette
tozze, il sarto, per vestirgli quelle gambette, era costretto a tagliargli quanto mai agiati i calzoni; cosicché, da
lontano, pareva che indossasse invece, bassa bassa, una veste, e che la pancia gli arrivasse fino a terra]. Una
descrizione senza dubbio comica. [Ora come, con una faccia e con un corpo così fatti, Malagna potesse esser
tanto ladro, io non so. Anche i ladri m'immagino, debbono avere una certa impostatura, ch'egli mi pareva non
avesse. Andava piano, con quella sua pancia pendente, sempre con le mani dietro la schiena, e tirava fuori con
tanta fatica quella sua voce molle, miagolante! Mi piacerebbe sapere com'egli li ragionasse con la sua propria
coscienza i furti che di continuo perpetrava a nostro danno. Non avendone, come ho detto, alcun bisogno, una
ragione a se stesso, una scusa, doveva pur darla. Forse, io dico, rubava per distrarsi in qualche modo,
pover'uomo]. Qui avviene il passaggio a una riflessione quasi compassionevole. [Doveva essere infatti, entro
di sé, tremendamente afflitto da una di quelle mogli che si fanno rispettare. Aveva commesso l'errore di
scegliersi la moglie d'un paraggio superiore al suo, ch'era molto basso. Or questa donna, sposata a un uomo di
condizione pari alla sua, non sarebbe stata forse così fastidiosa com'era con lui, a cui naturalmente doveva
dimostrare, a ogni minima occasione, ch'ella nasceva bene e che a casa sua si faceva così e così. Ed ecco il
Malagna, obbediente, far così e così, come diceva lei – per parere un signore anche lui. – Ma gli costava tanto!
Sudava sempre, sudava]. “Una di quelle mogli che si fanno rispettare” è palesemente un eufemismo: il
riferimento è a una donna che evidentemente lo comandava a bacchetta. Malagna, molto umile, commette
l’errore di sposare una donna di rango sociale assai superiore. I particolari della descrizione del Malagna e la
sua condizione sono comici, ma allo stesso tempo vi è il richiamo alla gabbia imposta dalla società. [Per giunta,
la signora Guendalina poco dopo il matrimonio, si ammalò d'un male di cui non poté più guarire, giacché, per
guarirne, avrebbe dovuto fare un sacrifizio superiore alle sue forze: privarsi nientemeno di certi pasticcini coi
tartufi, che le piacevano tanto, e di simili altre golerie, e anche, anzi soprattutto, del vino. Non che ne bevesse
molto; sfido! nasceva bene: ma non avrebbe dovuto berne neppure un dito, ecco. Io e Berto, giovinetti, eravamo
qualche volta invitati a pranzo dal Malagna. Era uno spasso sentirgli fare, coi dovuti riguardi, una predica alla
moglie su la continenza, mentre lui mangiava, divorava con tanta voluttà i cibi più succulenti: — Non ammetto,
— diceva, — che per il momentaneo
piacere che prova la gola al passaggio d'un boccone, per esempio, come questo — (e giù il boccone) — si
debba poi star male un'intera giornata. Che sugo c'è? Io son certo che me ne sentirei, dopo, profondamente
avvilito. Rosina! — (chiamava la serva) — Dammene ancora un po'. Buona, questa salsa majonese! —
Majonese! — scattava allora la moglie inviperita. — Basta così! Guarda, il Signore dovrebbe farti provare che
cosa vuol dire star male di stomaco. Impareresti ad aver considerazione per tua moglie. — Come, Guendalina!
Non ne ho? — esclamava Malagna, mentre si versava un po' di vino. La moglie, per tutta risposta, si levava
da sedere, gli toglieva dalle mani il bicchiere e andava a buttare il vino dalla finestra. — E perché? — gemeva
quello, restando. E la moglie: — Perché per me è veleno! Me ne vedi versare un dito nel bicchiere? Toglimelo,
e va' a buttarlo dalla finestra, come ho fatto io, capisci? Malagna guardava, mortificato, sorridente, un po'
Berto, un po' me, un po' la finestra, un po' il bicchiere; poi diceva: — Oh Dio, e che sei forse una bambina? Io,
con la violenza? Ma no, cara: tu, da te, con la ragione dovresti importelo il freno... — E come? — gridava la
moglie. — Con la tentazione sotto gli occhi? vedendo te che ne bevi tanto e te l'assapori e te lo guardi
controlume, per farmi dispetto? Va' là, ti dico! Se fossi un altro marito, per non farmi soffrire... Ebbene,
Malagna arrivò fino a questo: non bevve più vino, per dare esempio di continenza alla moglie, e per non farla
soffrire. Poi – rubava... Eh sfido! Qualche cosa bisognava pur che facesse. Se non che, poco dopo, venne a
sapere che la signora Guendalina se lo beveva di nascosto, lei, il vino. Come se, per non farle male, potesse
bastare che il marito non se ne accorgesse. E allora anche lui, Malagna, riprese a bere, ma fuor di casa, per non
mortificare la moglie. Seguitò tuttavia a rubare, è vero. Ma io so ch'egli desiderava con tutto il cuore dalla
moglie un certo compenso alle afflizioni senza fine che gli procurava; desiderava cioè che ella un bel giorno
si fosse risoluta a mettergli al mondo un figliuolo. Ecco! Il furto allora avrebbe avuto uno scopo, una scusa.
Che non si fa per il bene dei figliuoli? La moglie però deperiva di giorno in giorno, e Malagna non osava
neppure di esprimerle questo suo ardentissimo desiderio. Forse ella era anche sterile, di natura. Bisognava aver
tanti riguardi per quel suo male. Che se poi fosse morta di parto, Dio liberi?... E poi c'era anche il rischio che
non portasse a compimento il figliuolo. Così si rassegnava. Era sincero? Non lo dimostrò abbastanza alla morte
della signora Guendalina. La pianse, oh la pianse molto, e sempre la ricordò con una devozione così rispettosa
che, al posto di lei, non volle più mettere un'altra signora – che! che! – e lo avrebbe potuto bene, ricco come
già s'era fatto; ma prese la figlia d'un fattore di campagna, sana, florida, robusta e allegra; e così unicamente
perché non potesse esser dubbio che ne avrebbe avuto la prole desiderata. Se si affrettò un po' troppo, via...
bisogna pur considerare che non era più un giovanotto e tempo da perdere non ne aveva]. Continua il capitolo
su come Malagna quasi ripudia la nuova moglie, Olivia, perché questa non gli dava figli (Mattia Pascal
interviene ad assicurarsi che il matrimonio rimanga saldo, giacché Malagna aveva messo gli occhi sulla ragazza
che anche a lui piaceva): situazione già presentata nelle novelle di Pirandello. La nuova moglie quindi non è
più una “signora”, per non incorrere nuovamente nelle difficoltà di carattere già affrontate, ma una ragazza del
popolo che si spera gli dia dei figli.
Consigli per l’antologia dell’esame: la proff prenderà uno di questi testi letti in classe su cui farà delle domande,
e da lì chiederà di allargare il discorso per esempio all’umorismo, la differenza tra comico e umoristico... Tutti
i brani da Basile in poi saranno oggetto dell’antologia della seconda parte. Gli autori e le opere su cui la proff
insiste sono nei materiali da lei dati (alcuni argomenti: Ungaretti: l’allegria; Svevo: la coscienza di Zeno;
Pirandello: le opere dette; Foscolo: le ultime lettere, i sepolcri, i sonetti; Manzoni: fermo e lucia, i promessi
sposi, questione linguistica; Verga: ciclo dei vinti, tecniche narrative, riferimento al verismo e a Capuana e a
De Roberto; Tacchetti: la scapigliatura, il movimento generale; Lo sviluppo del romanzo nell’800, romanzo
d’appendice, la presenza dello scienziato; Leopardi; Serao e Napoli; Mastriani e Napoli; Domenico Rea;
Basile; Montale: ossi di seppia, contrapposizione a D’Annunzio). Agli autori di narrativa affrontati, vanno
affiancati i poeti più importanti. Nell’esercitazione per i frequentanti è più facile soffermarsi sulle tematiche
affrontate principalmente in classe.
Ultima parte de Il fu Mattia Pascal, poco prima delle “avvertenze”, il finale del romanzo: [Ma io gli faccio
osservare che non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di
Pomino, e io non saprei proprio dire ch'io mi sia. Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto
che s'uccise alla Stìa, c'è ancora la lapide dettata da Lodoletta: COLPITO DA AVVERSI FATI MATTIA
PASCAL BIBLIOTECARIO CVOR GENEROSO ANIMA APERTA QVI VOLONTARIO RIPOSA LA
PIETA' DEI CONCITTADINI QVESTA LAPIDE POSE Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni
tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s'accompagna
con 347 spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere che frutto se ne possa cavare. — Intanto, questo, —
egli mi dice: — che fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo
noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere. Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato né
nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch'io mi
sia. Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s'uccise alla Stìa, c'è ancora la lapide dettata
da Lodoletta: COLPITO DA AVVERSI FATI MATTIA PASCAL BIBLIOTECARIO CVOR GENEROSO
ANIMA APERTA QVI VOLONTARIO RIPOSA LA PIETA' DEI CONCITTADINI QVESTA LAPIDE
POSE Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche
curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s'accompagna con 347 me, sorride, e – considerando la mia
condizione – mi domanda: — Ma voi, insomma, si può sapere chi siete? Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli
occhi e gli rispondo: — Eh, caro mio... Io sono il fu Mattia Pascal]. Nella parte sottolineata osserviamo il
rovesciamento di quell’unica certezza, la propria identità, il proprio nome, con cui si era aperto il romanzo.
Lezione 30 maggio
Italo Svevo
Per chi è interessato il 23 novembre ci sarà un congresso in occasione del bicentenario della nascita di
Mastriani, dovrebbe essere al Suor Orsola, ma per maggiori informazioni potete chiedere a ricevimento o
contattarla tramite mail.
Nasce a Trieste, si chiama Aron Ettore Schmitz, ma sceglie lo pseudonimo Italo Svevo. Trieste è l'ultima città
insieme a Trento che si unisce al resto d'Italia. La nostra storia complicatissima dal punto di vista politico ha
delle ripercussioni sul piano letterario, soprattutto con la questione della lingua, partendo da Dante e poi
seguita soprattutto nell '800 con la soluzione di Manzoni, cioè della Quarantana, e abbiamo visto poi tutti
gli autori che pur avendo ammirazione per Manzoni, in qualche modo si discostano.
Trieste rimane fuori dall'Unità d'Italia del 1861, l'unità si farà a tappe: il Veneto verrà annesso nel 1866, in
seguito alla Terza Guerra d'Indipendenza; Roma con la Breccia di Porta Pia nel 1870, quindi diviene capitale
dopo che lo erano state Torino e Firenze (Capuana e Verga sono passati per Firenze, centro molto
importante), è a Roma che poi si reca il giovanissimo D'Annunzio negli anni '80; infine Trento e Trieste
verranno annesse solo dopo la Prima Guerra Mondiale, nel 1918. Quindi Svevo nasce austriaco e muore
italiano, particolare non di poco conto perché di Trieste fino ad ora non se n'è parlato, dal punto di vista
della letteratura italiana rimane periferica, si trova ai confini dell'Italia, ma alla fine dell'800 e fino alla Prima
Guerra Mondiale, facendo parte dell'impero austroungarico, risente maggiormente della cultura che circola
a Vienna e nell'impero. È una città che viene definita mitteleuropea, cioè proiettata verso quelle che sono
le nuove istanze che partono dall'Europa Centrale. Infatti, dal punto di vista culturale, oltre che politico
perché fa' parte del regno austriaco, sente più da vicino quanto avviene a Vienna dove, tra la fine dell'800 e
l'inizio del '900, c'è un medico che partendo dagli studi sull'isteria arriverà a fondare la psicoanalisi: Freud.
Le teorie di Freud scandalizzeranno Vienna, scandalizzeranno anche l'Italia, però trovano terreno fertile in
una città come Trieste, che partecipa più delle altre alla cultura austriaca. Se da un lato sente l'influenza
della cultura italiana, dall'altro sente anche l'influenza della cultura tedesca, infatti Svevo si chiama così
come Federico II di Svevia. Quindi decide di adottare questo pseudonimo, Italo Svevo, proprio per
segnalare questa sua duplicità culturale.
Il '900 è un secolo di rottura con la tradizione da un punto di vista poetico: Ungaretti, Montale, poetica
trasgressiva rispetto alle avanguardie perché recupera il passato ma gli da' un nuovo significato con Saba,
anche lui triestino. Quindi nel '900 si propongono le Avanguardie: la prima avanguardia europea è il
Futurismo che nasce nel 1909 grazie al Manifesto di Filippo Tommaso Marinetti pubblicato nel febbraio del
1909 su Le Figaro, ma la prima volta viene pubblicato a Napoli, sulla Piedigrotta napoletana, qualche giorno
prima. Ebbe maggior ripercussione su Le Figaro perché Parigi in quel momento era un centro culturale di
portata mondiale; a Parigi nel primo '900 si radunano letterati e anche artisti importantissimi, come
Picasso, che provengono da varie regioni d'Europa.
Il '900 è anche il secolo di due narratori prodigiosi: Pirandello, che rinnova completamente il teatro e sposta
lo sguardo sull'identità, sull'uomo e Svevo, con il quale ci colleghiamo alla tradizione europea, quella di
James Joyce e in particolar modo di Virginia Woolf, c'è una destrutturazione del tempo narrativo che con
Pirandello ancora non avevamo visto nei termini in cui lo si vedrà con Svevo.
I romanzi di esordio di Svevo si collocano alla fine dell'800, mentre Il fu Mattia Pascal si colloca nel 1904 e la
sua struttura narrativa segue ancora bene o male un ordine cronologico, anche se l'inizio della narrazione è
a fatti già avvenuti e tutta la narrazione avviene in ordine cronologico fino ad arrivare al termine della
narrazione in cui si torna allo stesso tempo dell'inizio. Quindi tutta la storia di Mattia Pascal, Adriano Meis,
viene raccontata in ordine cronologico. Tanti sono i temi nuovi: in particolar modo il tema del doppio,
l'identità, etc. ma non c'è una particolare destabilizzazione della struttura narrativa che avverrà invece con
Svevo, ma si deve aspettare il 1923.
Lo spartiacque della guerra è fondamentale, anche per l'affermazione dei futuristi perché erano
interventisti, cioé coloro che premevano affinchè l'Italia entrasse in guerra, avevano uno slancio vitalistico,
molti di loro si arruolarono volontariamente, ma la fine della guerra lascia un paese devastato non tanto
fisicamente, la guerra rimane circoscritta nelle zone di confine (a differenza con quanto avverrà con la
Seconda Guerra Mondiale quando anche i civili saranno toccati), ma bisogna tenere presente che la guerra
va a decimare una generazione, ci sono milioni di morti in tutta Europa. Quindi cambia completamente la
società: famiglie aristocratiche cadono in disgrazia, ma lo sconvolgimento avviene perché gli uomini sono
partiti per la guerra, i giovani anche, molti non sono tornati o sono tornati mutilati, le donne hanno preso il
loro posto nelle fabbriche e quindi anche sul piano delle rivendicazioni femminili è un momento importante
perché la donna capisce che può lavorare esattamente come un uomo. Anche questi sono aspetti
importanti perché poi nella letteratura troviamo il riflesso dei cambiamenti sociali.
La Prima Guerra Mondiale sconvolge la società, sconvolge anche la letteratura, quindi finalmente un
romanzo come quello di Svevo può farsi strada e trova accoglienza anche quest'indagine sull'uomo, la
psicoanalisi, che precedentemente era stata osteggiata. Sulla psicoanalisi si poggia il romanzo più
importante di Svevo, La coscienza di Zeno del 1923, quindi rispetto al Pirandello sono passati vent'anni, in
cui c'è stata la guerra.
Per Freud mentre il Positivismo, e quindi il Verismo, poggia sulla fiducia dell'uomo di conoscere, quindi sulla
possibilità che le scienze ci spieghino un po' tutto (Verga elimina il narratore e l'opera deve sembrare
essersi fatta da sé), invece con la psicoanalisi viene fuori la scoperta che l'operato dell'uomo è più frutto
dell'inconscio che del conscio e quindi l'uomo non è dominato dalla razionalità; mette in discussione la
considerazione dell'uomo e quindi la possibilità di una conoscenza scientifica.
Svevo inizia a scrivere romanzi negli anni '90 dell'800, romanzi autoprodotti che forse avranno letto gli
amici più intimi e i familiari, per cui decide che la letteratura non fa' per lui.
Prima de La Coscienza di Zeno scrive due romanzi in cui troviamo degli elementi, dei prodromi
specialmente in Senilità, di quello che verrà narrato ne La Coscienza di Zeno. I primi due romanzi si
chiamano Una Vita e Senilità, protagonista è l'inetto, la cui figura già appare con D'annunzio, e che sarà
protagonista di vari romanzi tra fine '800 e inizio '900. Anche Mattia Pascal in fondo è un inetto, è uno che
non riesce a trovare la forza per contrastare per esempio il Malagna nel capitolo IV, non riesce a non farsi
derubare, non riesce nemmeno a decidere di cambiare vita perché quel cambiamento è un colpo del
destino, il fatto di aver trovato il giornale in cui si raccontava del ritrovamento del cadavere, non ha deciso
lui di tagliare con la vita precedente, è stato il caso, che troviamo spesso in Pirandello. È una perfetta
sceneggiatura cinematografica: la sceneggiatura molto spesso anticipa dei temi che sono poi fondamentali.
Il cambiamento di vita è avvenuto grazie al denaro che Mattia Pascal aveva guadagnato al casinò, quindi è
stato frutto del caso. Il tema del caso, che viene subito dopo sviluppato nel trovare il giornale con la notizia
del cadavere, viene anticipato nel libro dal casinò di Monte Carlo.
Quindi Svevo inizia a scrivere negli anni '90 dell'800 prima Una vita (1892) e poi Senilità (1898). Entrambi i
protagonisti sono inetti però quello che si avvicina di più alla Coscienza di Zeno è Senilità.
Senilità, il titolo fa riferimento alla vecchiaia e in particolare al venir meno dello slancio vitale, della
progettualità e quindi si riferisce ad un personaggio, ad un inetto che non ha slanci vitalistici, non progetta,
è inadeguato alla vita.
Al centro della narrazione ci sono quattro personaggi che sono tra loro in relazione:
Emilio: è il protagonista della storia, è colui che esprime senilità, rappresenta il male di vivere. Non è
vecchio, ma sembra esserlo nell'affrontare la vita. È il fratello di Amalia. È l'amante di Giolona. È amico di
Stefano Balli.
Amalia: al femminile è speculare rispetto ad Emilio, quindi un'inetta, è una che non ha la capacità di agire
nell'esistenza. Essendo il doppio di Emilio, si contrapppone anch'essa a Giolona. È innamorata di Stefano
Balli, ma non riesce a stabilire una relazione.
Giolona (Angela): è una procace popolana, anche ben disposta, incarna la figura della giovinezza e della
salute. È giovane ed espansiva e si contrappone alla vecchiaia morale, alla senilità di Emilio e al suo male di
vivere. Diventa amante di Stefano Balli
Stefano Balli: è un pittore. Rappresenta esattamente le qualità che non ha Emilio. È antagonista di Emilio
C'è una sorta di analogia e differenza tra i personaggi che anticipa il discorso della contrapposizione e
anticipa La coscienza di Zeno.
Tema del male, della malattia e della salute, è il tema del brano scelto.
La coscienza di Zeno: protagonista è Zeno. Anche questo è un personaggio inetto. Tra Senilità (1898) e La
coscienza di Zeno (1923) passano circa 25 anni.
Svevo fa tutt'altro nella vita: si dedica all'attività commerciale del suocero e proprio perché ha bisogno, dal
punto di vista lavorativo, di rafforzare il proprio inglese, prende lezioni da James Joyce, il quale per lavoro
faceva anche lo scrittore. La sua opera più importante è Ulysses, e Ulisse è un personaggio inventato
nell'ottavo secolo a.C. da Omero, le cui opere, l'Iliade e l'Odissea, sono la radice della cultura occidentale.
La cultura greca, quella latina, il mondo classico è quello che accomuna questa Europa da un punto di vista
culturale. Quindi questo personaggio delle radici arriva fino al '900 dove diventa il romanzo cardine
europeo. In entrambe le opere il tema principale è il viaggio, ma mentre con Omero dura dieci anni e c'è il
tema del ritorno, del nostos (dal greco "colui che torna dalla guerra"), dell'esilio (affrontato anche da Dante
e da Foscolo); con Joyce il viaggio è mentale e si svolge in un arco di tempo molto ristretto.
Joyce incoraggia Svevo, ma il suo primo sostenitore fu Montale, il quale prima di pubblicare la prima
raccolta di Ossi di seppia (1925) già era famoso come critico letterario e musicale.
Con La coscienza di Zeno si apre una novità: Zeno è anch'egli un inetto, però è un inetto particolare perché
di tutti gli inetti che fino ad ora sono vinti, inadatti, Zeno è uno che nonostante sia arrivato quasi per caso a
compiere delle scelte, compie le scelte giuste. C'è un capitolo esilarante sulla storia del matrimonio in cui
Zeno è innamorato di Ada, la prima delle quattro sorelle Malfenti, poi ci sono Augusta, Alberta e Anna.
Quando si reca a casa della famiglia Malfenti, invitato a cena, decide che quella sera farà la proposta di
matrimonio ad Ada che però lo rifiuta. Zeno si riprende dopo un po' e la stessa serata fa la proposta alla
sorella minore, Alberta, che lo rifiuta perché troppo giovane e vuole dedicarsi agli studi d'arte. Allora Zeno
ripiega sulla seconda sorella, Augusta, la più bruttina, ha pochi capelli; lei però accetta. Alla fine si rivela
essere proprio la donna giusta per lui.
Ada rifiuta perché nella stessa sera c'è l'antagonista di Zeno, cioè Giorgio. Giorgio suona il violino, ha tante
belle qualità e Ada è affascinata da lui. Così Giorgio che è l'uomo brillante che è riuscito sul lavoro, sposerà
Ada. Ma il matrimonio non riesce e Giorgio, alla fine, sarà lui il fallito, al punto tale che si suiciderà.
Zeno, che era partito come l'inetto, farà le scelte giuste: il suo lavoro va a gonfie vele, ha scelto la moglie
che va bene per lui e ha un matrimonio felice.
Questo romanzo è fondamentale per la nostra storia letteraria perché risente dell'influenza della
narrazione, del "trattamento" del tempo del relativismo di Pirandello ma che affonda le proprie radici del
tempo come durata nella filosofia di Bergson, quindi il tempo viene vissuto come viene percepito.
Nella finzione letteraria il romanzo si presenta come un diario in cui il protagonista, Zeno Cosini, racconta la
propria vita allo psicoanalista che lo ha in cura. Zeno soffre di nevrosi, una malattia morale che ha una sua
evidenza in un tratto somatico: Zeno zoppica, tanto più si trova in uno stato di nevrosi, tanto più zoppica. La
zoppìa è la manifestazione esteriore del male interiore, di quel male di vivere. Zeno ricorre, dunque, alla
psicoanalisi.
Anche Svevo si avvicina alla psicoanalisi anche da un punto di vista culturale, ma nutre un atteggiamento
ambivalente che si traduce nella scelta di Zeno di interrompere la terapia.
La psicoanalisi è una scienza ancora giovane, lo psicoanalista cui si rivolge Zeno tenta, sperimenta una cura.
Questa sperimentazione consiste nella richiesta di scrivere un diario con le memorie del paziente
Zeno, che decide di interrompere la terapia e il medico per vendetta pubblica le sue memorie. La
“raccolta” è firmata dottor S. Qui possiamo risentire le iniziali di Freud (psicanalista) che pubblicava
casi clinici da lui curati usando il cognome puntato del paziente per non renderlo riconoscibile.
Svevo si identifica in Zeno.
C’è uno sdoppiamento. Abbiamo un atteggiamento un po’ ambivalente di Svevo: Zeno si rivolge
allo psicanalista in età avanzata e racconta la sua vita richiamando vari momenti. Lo Zeno vecchio
rivive Zeno giovane: certi episodi sono raccontati con la consapevolezza dello Zeno maturo sulle
azioni dello Zeno giovane (in sostanza falsa un po’ la realtà, col senno di poi). La falsificazione
torna nell’opera dello psicanalista: a volte Zeno racconta la realtà a modo suo, deformandola.
Quindi abbiamo:
-Lo Zeno narratore
-Lo Zeno personaggio
L’elemento di rottura con la tradizione letteraria è la NARRAZIONE. E’ una novità poiché viene
destrutturato il tempo della narrazione. L’opera non segue l’ordine cronologico. E’ vero che Zeno è
chiamato a ricordare la sua vita, ma tutto il romanzo è diviso in 8 capitoli che seguono un
determinato tema. Pertanto, le memorie non seguono un ordine cronologico. C’è una sorta di
associazione di idee. (L’ordine cronologico c’era ancora nel Fu Mattia Pascal, ad esempio). La
tecnica narrativa usata è quella del monologo interiore (o flusso di coscienza, termine che però è
più adeguata per Joyce*). Quindi vengono recuperati così dei pezzi di memoria.
*Si pensi anche a Proust (la ricerca del tempo perduto, la memoria ecc…)
PREFAZIONE
Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di
psico-analisi s'intende, sa dove piazzare l'antipatia che il paziente mi dedica. Di psico-analisi
non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il
mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a
tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si
rinverdisse, che l'autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia
idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il
malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga
paziente analisi di queste memorie.
Parole poco lusinghiere richiama all’ambivalenza. Capiamo che la richiesta di scrivere il diario è
una sperimentazione dello psicanalista e che Zeno al momento è anziano. Il medico pubblica le
memorie per vendetta perché si sente defraudato nel lavoro scientifico di medico che vuole
indagare per trovare una cura al parente. Svevo ha da un lato l’occhio psicanalitico ma dall’altro
risaltano elementi che mettono in discussione questa nuova disciplina. Egli non ha una formazione
letteraria come noi la intendiamo, infatti qualche critica è stata mossa per quanto riguarda la sua
lingua (tra l’altro Trieste è città di confine). Lo stile quindi non è legato alla tradizione (‘sono pronto
di dividere…’)
Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch'io sono pronto di dividere con
lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava
tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento
delle tante verità e bugie ch'egli ha qui accumulate!... DOTTOR S
Intende dire che se avesse continuato avrebbe scoperto tante cose su se stesso.
In questo capitolo Zeno racconta l’inizio del matrimonio dal viaggio di nozze.
Sappiamo che Augusta arriva a sposarlo quasi per caso (è la terza sorella a cui fa la
proposta) ma si rivela straordinariamente felice. Ricordiamo il flashback, l’analessi del
Fu Mattia Pascal: qui è importante anche la PROLESSI (anticipazione). Così il tempo
diventa frantumato. Zeno racconta un episodio accaduto anni prima e lo commenta
alla luce di quanto sarebbe successo 10 anni dopo quindi anticipa con una prolessi ciò
che sarebbe avvenuto in seguito. Introduce dei commenti fatti alla luce di altri
avvenimenti accaduti dopo. Non abbiamo il flashback, ma il tempo procede per salti.
Secondo Svevo poi non è il passato che dirige il presente ma il passato. Un episodio
del passato acquisisce nuova luce sulla scorta di quello che sarebbe accaduto dopo. Un
lavoro che si poggia sulla psicoanalisi, sulla complessità della COSCIENZA, porta a una
struttura innovativa rispetto alla nostra tradizione letteraria (ma si collega ad altre
esperienze europee).
Nella mia vita ci furono varii periodi in cui credetti di essere avviato alla salute e alla felicità.
Mai però tale fede fu tanto forte come nel tempo in cui durò il mio viaggio di nozze eppoi
qualche settimana dopo il nostro ritorno a casa. Cominciò con una scoperta che mi stupì: io
amavo Augusta com'essa amava me. Dapprima diffidente, godevo intanto di una giornata e
m'aspettavo che la seguente fosse tutt'altra cosa. Ma una seguiva e somigliava all'altra,
luminosa, tutta gentilezza di Augusta ed anche - ciò ch'era la sorpresa - mia. Ogni mattina
ritrovavo in lei lo stesso commosso affetto e in me la stessa riconoscenza che, se non era
amore, vi somigliava molto. Chi avrebbe potuto prevederlo quando avevo zoppicato da Ada ad
Alberta per arrivare ad Augusta? Scoprivo di essere stato non un bestione cieco diretto da altri,
ma un uomo abilissimo. E vedendomi stupito, Augusta mi diceva:
- Ma perché ti sorprendi? Non sapevi che il matrimonio è fatto così? Lo sapevo pur io che sono
tanto più ignorante di te!
Non so più se dopo o prima dell'affetto, nel mio animo si formò una speranza, la grande
speranza di poter finire col somigliare ad Augusta ch'era la salute personificata. Durante il
fidanzamento io non avevo neppur intravvista quella salute, perché tutto immerso a studiare
me in primo luogo eppoi Ada e Guido. La lampada a petrolio in quel salotto non era mai
arrivata ad illuminare gli scarsi capelli di Augusta.
Altro che il suo rossore! Quando questo sparve con la semplicità con cui i colori dell'aurora
spariscono alla luce diretta del sole, Augusta batté sicura la via per cui erano passate le sue
sorelle su questa terra, quelle sorelle che possono trovare tutto nella legge e nell'ordine o che
altrimenti a tutto rinunziano. Per quanto la sapessi mal fondata perché basata su di me, io
amavo, io adoravo quella sicurezza. Di fronte ad essa io dovevo comportarmi almeno con la
modestia che usavo quando si trattava di spiritismo. Questo poteva essere e poteva perciò
esistere anche la fede nella vita.
Però mi sbalordiva; da ogni sua parola, da ogni suo atto risultava che in fondo essa credeva la
vita eterna. Non che la dicessi tale: si sorprese anzi che una volta io, cui gli errori ripugnavano
prima che non avessi amati i suoi, avessi sentito il bisogno di ricordargliene la brevità. Macché!
Essa sapeva che tutti dovevano morire, ma ciò non toglieva che oramai ch'eravamo sposati, si
sarebbe rimasti insieme, insieme, insieme. Essa dunque ignorava che quando a questo mondo
ci si univa, ciò avveniva per un periodo tanto breve, breve, breve, che non s'intendeva come si
fosse arrivati a darsi del tu dopo di non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a non
rivedersi mai più per un altro infinito tempo. Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta
salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva
segregarsi e starci caldi. Cercai di esservi ammesso e tentai di soggiornarvi risoluto di non
deridere me e lei, perché questo conato non poteva essere altro che la mia malattia ed io
dovevo almeno guardarmi dall'infettare chi a me s'era confidato.
Anche perciò, nello sforzo di proteggere lei, seppi per qualche tempo movermi come un uomo
sano.
Risaltano le parole SALUTE e FELICITA’. Zeno quasi per caso sposa Augusta, ma
scopre progressivamente di essere felice con lei e addirittura di amarla (nonostante
sia stata la terza scelta). Si stupisce anche di se stesso. Il termine zoppicato non
indica solo la sua zoppia, ma anche il suo tentennamento. L’inetto scopre di non
essere stato inetto. Augusta rappresenta la certezza (mentre i personaggi del ‘900 di
certezze non ne hanno, si pensi a Pirandello). La coppia che lui spia quasi con invidia è
quella di Ada e Guido. Durante il fidanzamento in effetti lui pensava a sé e all’altra
coppia, ad Augusta invece non tanto. Ella è l’immagine non solo della salute, ma delle
certezze che invece mancano a Zeno. Lui si meraviglia di come lei fondasse sul suo
amato le sue certezze, mentre egli stesso era il primo a non averne. Nonostante egli
sapesse che la sua sicurezza si basasse su di lui, lui la adorava. L’indiretto libero si
coglie particolarmente nella ripetizione della parola “insieme” (di Augusta)
contrapposta a quella del termine “breve” (di Zeno). Il deridere le certezze altro non
era che il sintomo della malattia, e il protagonista vuole guardarsi dall’infettare le altre
persone.
Essa sapeva tutte le cose che fanno disperare, ma in mano sua queste cose cambiavano di
natura. Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare! Tutt'altro! La terra
girava, ma tutte le altre cose restavano al loro posto. E queste cose immobili avevano
un'importanza enorme: l'anello di matrimonio, tutte le gemme e i vestiti, il verde, il nero,
quello da passeggio che andava in armadio quando si arrivava a casa e quello di sera che in
nessun caso si avrebbe potuto indossare di giorno, né quando io non m'adattavo di mettermi in
marsina. E le ore dei pasti erano tenute rigidamente e anche quelle del sonno. Esistevano,
quelle ore, e si trovavano sempre al loro posto.
C'erano un mondo di autorità anche quaggiù che la rassicuravano. Intanto quella austriaca o
italiana che provvedeva alla sicurezza sulle vie e nelle case ed io feci sempre del mio meglio
per associarmi anche a quel suo rispetto. Poi v'erano i medici, quelli che avevano fatto tutti gli
studii regolari per salvarci quando - Dio non voglia - ci avesse a toccare qualche malattia. Io
ne usavo ogni giorno di quell'autorità: lei, invece, mai. Ma perciò io sapevo il mio atroce
destino quando la malattia mortale m'avesse raggiunto, mentre lei credeva che anche allora,
appoggiata solidamente lassù e quaggiù, per lei vi sarebbe stata la salvezza.
Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m'accorgo che, analizzandola, la
converto in malattia. E, scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto
bisogno di cura o d'istruzione per guarire. Ma vivendole accanto per tanti anni, mai ebbi tale
dubbio.
Quale importanza m'era attribuita in quel suo piccolo mondo! Dovevo dire la mia volontà ad
ogni proposito, per la scelta dei cibi e delle vesti, delle compagnie e delle letture. Ero costretto
ad una grande attività che non mi seccava. Stavo collaborando alla costruzione di una famiglia
patriarcale e diventavo io stesso il patriarca che avevo odiato e che ora m'appariva quale il
segnacolo della salute. È tutt'altra cosa essere il patriarca o dover venerare un altro che
s'arroghi tale dignità. Io volevo la salute per me a costo d'appioppare ai non patriarchi la
malattia, e, specialmente durante il viaggio, assunsi talvolta volentieri l'atteggiamento di
statua equestre.
La terra che gira (con le certezze messe in discussione) richiama alla premessa de Il Fu Mattia
Pascal. Per la seconda volta torna il verbo “sapeva” che ricorda il tema della certezza. La
differenza fondamentale arriva col “c’erano”: egli ha fiducia anche nei medici, mentre la moglie
non fa mai riferimento all’autorità. Lei è fedele, crede nella salvezza. Eppure anche a lui si
estende in qualche modo la certezza di Augusta. Egli scopre di essere posto al centro del
mondo della donna, e non gli dispiace. C’è un’ironia nell’ “atteggiamento di statua equestre”
che si fa ammirare come patriarca.
Ma già in viaggio non mi fu sempre facile l'imitazione che m'ero proposta. Augusta voleva
veder tutto come se si fosse trovata in un viaggio d'istruzione. Non bastava mica essere stati a
palazzo Pitti, ma bisognava passare per tutte quelle innumerevoli sale, fermandosi almeno per
qualche istante dinanzi ad ogni opera d'arte.
Io rifiutai d'abbandonare la prima sala e non vidi altro, addossandomi la sola fatica di trovare
dei pretesti alla mia infingardaggine. Passai una mezza giornata dinanzi ai ritratti dei fondatori
di casa Medici e scopersi che somigliavano a Carnegie e Vanderbilt. Meraviglioso! Eppure erano
della mia razza! Augusta non divideva la mia meraviglia. Sapeva che cosa fossero i Yankees,
ma non ancora bene chi fossi io.
Qui la sua salute non la vinse ed essa dovette rinunziare ai musei. Le raccontai che una volta
al Louvre, m'imbizzarrii talmente in mezzo a tante opere d'arte, che fui in procinto di mandare
in pezzi la Venere. Rassegnata, Augusta disse:
- Meno male che i musei si incontrano in viaggio di nozze eppoi mai più!
Infatti nella vita manca la monotonia dei musei. Passano i giorni capaci di cornice, ma sono
ricchi di suoni che frastornano eppoi oltre che di linee e di colori anche di vera luce, di quella
che scotta e perciò non annoia.
(…) Credevo di trovarmi in piena convalescenza. Le mie lesioni s'erano fatte meno velenose.
Fu da allora che l'atteggiamento mio immutabile fu di lietezza. Era come un impegno che in
quei giorni indimenticabili avessi preso con Augusta e fu l'unica fede che non violai che per
brevi istanti, quando cioè la vita rise più forte di me. La nostra fu e rimase una relazione
sorridente perché io sorrisi sempre di lei, che credevo non sapesse e lei di me, cui attribuiva
molta scienza e molti errori ch'essa - così si lusingava - avrebbe corretti. Io rimasi
apparentemente lieto anche quando la malattia mi riprese intero. Lieto come se il mio dolore
fosse stato sentito da me quale un solletico.
Nel lungo cammino traverso l'Italia, ad onta della mia nuova salute, non andai immune da
molte sofferenze. Eravamo partiti senza lettere di raccomandazione e, spessissimo, a me parve
che molti degl'ignoti fra cui ci movevamo, mi fossero nemici. Era una paura ridicola, ma non
sapevo vincerla. (…)
Nel capoverso c’è “credevo di trovarmi in piena convalescenza”, per poi arrivare alla fine con
“io rimasi apparentemente lieto anche quando la malattia mi riprese intero”. Sono tutti
termini notevoli seminati nel capitolo. Più avanti, “ad onta (cioè nonostante) della mia nuova
salute, non andai immune da molte sofferenze”.
(…) Ma mi colse allora un'altra piccola malattia da cui non dovevo più guarire. Una cosa da
niente: la paura d'invecchiare e sopra tutto la paura di morire. Io credo abbia avuto origine da
una speciale forma di gelosia. L'invecchiamento mi faceva paura solo perché m'avvicinava alla
morte. Finché ero vivo, certamente Augusta non m'avrebbe tradito, ma mi figuravo che non
appena morto e sepolto, dopo di aver provveduto acché la mia tomba fosse tenuta in pieno
ordine e mi fossero dette le Messe necessarie, subito essa si sarebbe guardata d'intorno per
darmi il successore ch'essa avrebbe circondato del medesimo mondo sano e regolato che ora
beava me. Non poteva mica morire la sua bella salute perché ero morto io. Avevo una tale
fede in quella salute che mi pareva non potesse perire che sfracellata sotto un intero treno in
corsa.
Quindi abbiamo l’immagine di Augusta che rappresenta il contrasto, ma Zeno ne viene quasi
contagiato (infatti parla di convalescenza).
SAGGIO DURANTE E RIGHI.
INTRODUZIONE
«Mandolin players on clear nights filled the salt air with soulful strumming of old folk tunes…»1 Così, con questa
immagine di quieta, toccante malinco- nia, un romanziere degli anni Trenta ritrae un gruppo di emigranti sul ponte del
Conte Bertoldi, immaginario vapore transoceanico che li sta portando in America. Si potevano dare italiani senza
musica? No, fin dai tempi del teatro d’opera dapontiano; e, se è per questo, anche da prima: la musica, e con essa il più
vasto complesso delle arti rappresen- tative – dalla prestidigitazione alla pirotecnia, dall’equilibrismo alle va- rie altre
arti circensi, dal teatro delle marionette agli esperimenti media- nici2 – è per gli americani, fin dal XVIII secolo, qualcosa
di strettamente associato al nome italiano. L’aveva scritto lo stesso Thomas Jefferson a un amico italiano non
identificato:
Se ho qualcosa da invidiare a un qualche popolo del mondo, questa cosa è la musica, e il popolo è il vostro. La musica è
la pas- sione preferita dalla mia anima, ma la sorte ha voluto che la mia stirpe fosse dislocata in un paese in cui essa
versa in uno stato di deplorevole barbarie.3
L’inclinazione musicale degli italiani, testimoniata per secoli da schiere di illustri viaggiatori, era un elemento originario:
era la stessa lingua, il suo suono, a rivelarla, e gli italiani parevano nati per cantare ballare suonare. Era un tratto del
carattere, buono e cattivo al tempo stesso. Associato a elementi come la violenza e l’ignoranza, rinviava a un’idea di
esasperata teatralità, di irriducibile indisciplina, indolenza, rumorosità. D’altra parte, era indizio di un’inveterata
tendenza all’a- strazione sentimentale che, per quanto da condannare rispetto a una vi- sione concretamente moderna
dell’esistenza, era pur sempre l’indice di un’antica civiltà, legata all’esperienza diretta della vita di ogni giorno: una
maniera romantica di affrontarla, di coglierne la semplice bellezza.
A livello popolare, gli americani avrebbero fatto conoscenza dei can- tastorie e dei musicanti di strada italiani già prima
della metà dell’Otto- cento. Dopo i liguri, dopo gli ambulanti dell’Appennino tosco-emiliano, sarebbero giunti a New
York e in tante altre città i famosi viggianesi, pro
venienti appunto da Viggiano, da Corleto e da altri centri lucani, i quali non di rado sarebbero poi riusciti a riscattare la
propria immagine paupe- ristica sia conseguendo posizioni sociali ed economiche di rilievo nei più vari campi di attività,
sia specializzandosi proprio nel campo musicale. Di tale Vincenzo Abecco, viggianese, morto a Washington nel 1869
all’età di 67 anni, Giovanni Schiavo ha registrato il franco successo su vari palco- scenici, e in particolare su quelli di San
Francisco, dove diventò assai po- polare negli anni Sessanta la sua «serenade» La Neapolitaine:
I’m hearing thy foot-fall so joyous and free; Thy dark flashing eyes are entwining me yet; Thy voice with its music I ne’er
can forget.
I am far from the land of my own sunny home, Alone in this wide world of sorrow I roam;
In the halls of the gay, or wherever it be, Still, Neapolitaine, I am dreaming of thee! Neapolitaine, I am dreaming of thee!
Nel bagaglio degli emigranti che sbarcavano a New York c’erano spes- so strumenti musicali; del resto, proprio la musica
fornì a non pochi italia- ni, fin dal primo Ottocento (si pensi a Piero Maroncelli), opportunità di la- voro in America.
Accanto all’infame traffico dei bambini musicanti negli anni Settanta-Ottanta dell’Ottocento; accanto all’immagine truce
e oleo- grafica insieme dell’ambulante italiano fornito di organetto di Barberia e scimmietta (un’immagine che, prima di
trapiantarsi in America, aveva fatto il giro d’Europa), gli ultimi anni del secolo e i primi del Novecento vedono
l’emergere, in totale o semitotale autonomia rispetto alle tournée delle Patti e dei Caruso e degli altri grandi dell’opera
lirica, di un profes- sionismo «etnico» che, esportando modelli di intrattenimento popolare già ampiamente
sperimentati in Italia, li trasforma in maniera originale nel nuovo contesto americano,5 rispondendo così a una precisa
domanda delle nuove colonie, interessate a ricreare un’atmosfera il più possibile fa- migliare. Musica, dunque; e
canzoni, canzoni per lo più napoletane, le più amate dalla stragrande maggioranza dei protagonisti senza nome dell’e-
migrazione di fine Ottocento. Ecco perché non quello di un vero teatro, ma quello più modesto di un caffè fu «il primo
palcoscenico italiano a New York». Scriveva Giuseppe Cautela nel 1927:
Trentacinque anni fa l’attore o cantante italiano che sbarcava su questo suolo con le sue grandi speranze di buona
fortuna, si ritrova- va confuso e smarrito finché, vagando nel quartiere italiano, non ve- deva nell’insegna di un caffè un
barlume di salvezza. Nella pigra at- mosfera di quel luogo impregnato dell’odore di anisetta, di cognac e
di caffè, trovava una sedia e, scarmigliato e affamato, meditava sul proprio destino. Non appena rivelava la sua
professione, il proprie- tario, con le lacrime agli occhi, si disponeva ad ascoltare quei ricordi della vita teatrale in patria, e
concordava poi con lui un’esibizione per i suoi clienti. Così i primi immigrati italiani incominciarono a sentire le canzoni
della madrepatria in America. Il caffè, corrispon- dendo ai medesimi bisogni sociali cui per secoli aveva corrisposto in
Italia, era l’unico luogo in cui si potesse trovare un pubblico.6
All’inizio degli anni Novanta un locale di New York situato in Mul- berry Street, dalla parte di Canal, e chiamato Villa
Vittorio Emanuele, fu tra i primi a dotarsi d’uno spazio stabile per gli artisti, i quali, racconta Cautela, non ricevevano
compenso dal proprietario, ma, a esibizione ul- timata, si arrangiavano con le offerte del pubblico (poco più tardi questo
sistema fu corretto con l’istituzione di una modesta tariffa per gli avven- tori). La paga per l’attore e/o cantante
rimaneva comunque bassa – «set- te-otto dollari a settimana»7 – e la si poteva arrotondare un poco con le of- ferte
lanciate sul palco alla richiesta del bis. Secondo Cautela, ogni sera, all’ingresso del Villa Vittorio Emanuele, si formava
una folla. Aquelle del- l’intrattenimento spettacolare si sommavano ragioni più generali e «so- ciali»: in un periodo di
emigrazione per lo più ancora pendolare, era pro- prio lì, nel caffè, che si potevano trovare gli altri connazionali, coloro
che avrebbero potuto risolvere i vari problemi del nuovo venuto.
In poco tempo, parecchi café-chantant furono aperti a New York: il Vil- la Giulia, la Ferrando’s Hall, poi la D’Alessio
Concert-Hall. Il passaggio dall’esibizione canzonettistico-musicale alle prime forme di uno spetta- colo più strutturato e
complesso, che implicasse la recitazione, fu uno svi- luppo naturale. E la concorrenza fu uno stimolo decisivo affinché,
accanto alle varie compagnie filodrammatiche di dilettanti, tra cui quelle legate all’attività dei gruppi anarchici e
socialisti, incominciassero a emergere fi- gure di veri professionisti. Non si può escludere che il teatro italiano mu-
tuasse modelli poetici e organizzativi dagli altri teatri etnici che, nella stessa zona, l’avevano preceduto o gli erano
contigui. Un dato caratteri- stico del Lower East Side di New York è proprio questa mescolanza, que- sto mosaico, come
l’ha ben definito Mario Maffi,8 di diverse tradizioni, che emerge in pieno dalle cronache di un giornale dell’epoca
relative alla scomparsa, nel 1911, di uno dei palcoscenici storici dell’emigrazione, il Thalia Theatre della Bowery,
edificato nel 1826 e rifabbricato una mezza dozzina di volte «cambiando nome, proprietari, genere di spettacoli e,
perfino, color locale conferitogli dalla nazionalità dei frequentatori». Dav- vero movimentata la carriera di questo luogo,
che,
prima, ebbe carattere esclusivamente americano; indi, irlandese; poi, tedesco. Fu questo il periodo glorioso della sua
esistenza (1879- 1888) perché vi recitavano Compagnie di prim’ordine e artisti di fa- ma europea. L’influsso
dell’immigrazione ebraica nei quartieri vici- ni e l’apertura del Teatro Germanico in Irving Place indussero un
altro mutamento e il Thalia diventò ritrovo esclusivamente israelita e campo aperto a Compagnie di varietà: adesso, gli
esecutori testa- mentari del patrimonio Kramer lo mettono all’asta… Al Thalia si ebbero, non di rado, rappresentazioni
italiane: Maiori, Rapone e qualche compagnia filodrammatica vi recitarono in italiano e in na- poletano: vi si produsse,
un paio d’anni fa, Mimì Aguglia e, nel no- vembre del 1909, il «Francisco Ferrer» di Bernardino Ciambelli vi attrasse un
pubblico ben diverso dall’ordinario degli «habitués» e vi ottenne un clamoroso successo…9
Secondo Emelise Aleandri, la studiosa che più approfonditamente ha lavorato intorno alla scena italoamericana fra i due
secoli, dopo l’espe- rienza amatoriale del Circolo filodrammatico italoamericano, attivo fra il 1878 e il 1896 (e da cui
sarebbero usciti il già anziano Giuseppe Zacconi, padre del famoso attore Ermete, il più fortunato dei molti Pulcinella di
Little Italy, FRANCESCO RICCIARDI, e Paolo Cremonesi, un operaio dei se- tifici di Paterson, nel New Jersey, che all’inizio
del nuovo secolo avrebbe costituito una propria compagnia e che rimane uno dei pochi interpreti di lavori in dialetti, il
piemontese e il milanese, diversi da quelli meridiona- li), la prima compagnia italoamericana del genere fu quella
costituita nel 1889 a South Brooklyn e presto trasferita a Manhattan da un altro Ricciar- di, il sorrentino Guglielmo,
insieme a Francesco Saverio Savarese.10
Guglielmo Ricciardi, simpatica figura di attore, cantante, intrattenito- re, era giunto a New York al seguito del padre,
capitano mercantile. E, come avrebbe poi raccontato nel suo frammentario libro di memorie,
fu veramente, in questa città demente fra la perduta gente, che co- minciai la parabola della vita. Ci vorrebbero dei
volumi per narra- re la via Crucis, e le peripezie nei miei sessantatre anni fra la gente d’ogni parte del mondo.11
Sappiamo – ce lo racconta lo stesso Ricciardi – che la pièce scelta dalla compagnia per il suo debutto del 25 novembre
1889 fu Lu retuorno da Bue- nos Aires di G. Marulli e che, dunque, il tema migratorio fu presente fin dall’inizio nei
repertori del teatro italoamericano. Molto importante per i futuri sviluppi di questa storia fu, al principio degli anni
Novanta, l’in- contro di Ricciardi con il siciliano Antonio Maiori e con il napoletano Pa- squale Rapone, abili attori e
ballerini. Intorno a questo nucleo, che pro- dusse varie compagnie e una gran quantità di spettacoli, ruotò il più gran
numero di attori, macchiettisti, cantanti, musicisti e intrattenitori vari nei primi anni del teatro italoamericano. Le
compagnie si formavano e si scio- glievano molto rapidamente, anche in conseguenza di tipicissime com- plicazioni
personali, come Ricciardi stesso dovette constatare allorché sua moglie Concetta Arcamone, anche lei attrice, lo piantò
per Maiori.
«Non lo uccisi soltanto perché ho sempre creduto nel lieto fine» doveva scrivere Ricciardi a distanza di una quarantina
d’anni,12 ma intanto le loro strade si erano definitivamente divise. Ricciardi ritornò per qualche tem-
po in Italia,13 e successivamente, di nuovo in America, nel 1900 fu ingag- giato da Alessandro Salvini, figlio del famoso
attore, drammaturgo e regi- sta Tommaso (una celebrità anche in America, dove Henry James aveva avuto modo di
lodare il suo Otello), trovò una nuova moglie di origini te- desche, Adelaide Triber, che lo aiutò a perfezionarsi nella
pronuncia della lingua inglese, e intraprese una nuova carriera nel teatro e poi anche nel cinema americani, intervallata
nei primi tempi da brevi ritorni alle scene
«etniche».14 Quello del cinema, territorio di massima affermazione arti- stica per gli italoamericani, si rivelerà ben
presto uno sbocco molto inte- ressante per una discreta fetta della comunità teatrale e letteraria della co- lonia,15
secondo un percorso che dal medium più antico procede verso quello più moderno, e che però, almeno in un caso,
quello di RODOLFO VALENTINO, viene invertito: del leggendario «sceicco bianco», in questo volume si presentano,
infatti, alcune poesie, ignote ai più, scritte dal po- polarissimo attore italoamericano.
Maiori e Rapone continuarono a lavorare insieme nella Compagnia co- mico-drammatica italiana fino al luglio 1903,
quando il secondo mise in piedi una propria compagnia.16 Il loro quartier generale era il Teatro Ita- liano di Spring
Street, nel cuore di Little Italy, da dove partivano rapide tournée verso i centri operai nel New Jersey – Hoboken,
Paterson, Ne- wark –, prime tappe di un successo che, con gli anni, si sarebbe fatto più largo. Il repertorio di Maiori,
ancorché decisamente popolare, era piutto- sto aggiornato, comprendendo, ad esempio, Il padrone delle ferriere, che
Georges Ohnet aveva ridotto per le scene nel 1883. Con il tempo si arricchì di testi più importanti, di Giacosa,
D’Annunzio, Bracco, Verga tra gli ita- liani, di molti francesi (tra i quali Sardou), del tedesco Sudermann, e natu- ralmente
di Shakespeare. Ogni rappresentazione drammatica era peral- tro seguita da una farsa napoletana, recitata da Pasquale
Rapone il quale, insieme a Guglielmo Ricciardi, aiutato nell’interpretazione dal suo aspet- to («Nasone» era il suo
rivelatorio soprannome), fu uno dei primi Pulci- nella sui palcoscenici della colonia italiana a New York.
Cautela ha fornito un quadro piuttosto indulgente dei successi di Maiori: della necessità di cercare spazi sempre più
ampi, in modo da poter soddisfare la richiesta di un pubblico in netto aumento; delle nuove ambi- zioni artistiche che lo
portarono a inserire nel repertorio i testi shakespea- riani; infine, del successo che il teatro italiano finì per ottenere
presso un pubblico non più esclusivamente «etnico». Quando la compagnia si inse- diò al Windsor Theatre, nella
Bowery, divenne per molti ricchi americani un fatto di moda frequentarne le serate: la cosa, osserva Cautela, «acca-
deva nel periodo in cui i giornalisti non potevano star lontani dalla Bowery»,17 cioè nel momento di massimo successo
del giornalismo muck- raking, il momento, tanto per fare un nome particolarmente significativo, di Hutchins Hapgood e
del suo Types from City Streets (1910), che, scavan- do nel melting pot, andava scoprendo le molte altre facce della
metropoli e, con esse, i tesori nascosti delle comunità etniche di più recente arrivo.
Tutto, in quel contesto, faceva spettacolo, sulla scena e fuori di essa, e si può credere che l’opinione di un osservatore
italiano del tempo coincides- se con quella degli stupefatti americani: «A volte gli spettacoli sono assai divertenti,
specialmente per chi osserva più gli spettatori che non il palco- scenico».18 Proprio Hutchins Hapgood avrebbe fornito
nel 1900, sulla rivi- sta «The Bookman», un divertente ritratto dei teatri di Spring Street, dove
dopo aver consumato i suoi spaghetti, il chianti e il fernetbranca […] un soave e compassato gentiluomo dagli occhi scuri
e dagli abiti stazzonati si accende una sigaretta e, con la sua bombetta nera irre- movibile dal capo, si avvia lungo Spring
Street a vedere gli incessan- ti combattimenti tra marionette in corazza che rappresentano cava- lieri cristiani o guerrieri
saraceni, oppure a vedere l’Otello, o qualche melodramma, o una farsa, al civico 24 della stessa via.19
Emelise Aleandri ha peraltro documentato come l’anno di grazia di Maiori, il 1902, coincidesse con un sensazionale
riconoscimento ameri- cano delle sue qualità di attore tragico, capace di attrarre un pubblico assai qualificato20 che,
anche per l’anno successivo, fece a gara per avere l’artista siciliano in casa propria, a declamare, a leggere, a mettere in
scena drammi in teatri privati. E fu probabilmente questo successo, con i vantaggi economici che ne derivavano, a
convincere Maiori che fosse ormai venuta l’ora di costruire un vero, nuovo teatro italiano, per l’edi- ficazione del quale
lanciò nel 1904 una sottoscrizione.
La comunità italiana stava ormai radicandosi, aveva acquisito i carat- teristici tratti della stagione «coloniale», primo fra
tutti una sua nuova
«lingua» che presto si sarebbe rivelata il più originale strumento espressi- vo per un teatro che non si limitava più a
rifarsi ai modelli nazionali o eu- ropei della tradizione, ma cominciava a riflettere le tematiche proprie del- l’esperienza
migratoria. Benché, nel citato articolo, Hapgood affermasse che si sarebbero potuti contare sulle dita di una sola mano i
testi teatrali scritti sul posto ispirandosi alla vita reale del quartiere, e citasse al riguar- do la Maria Barbera e Jack lo
squartatore di Edoardo Pecoraro e I misteri di Mulberry Street di Ciambelli,21 in realtà la produzione di testi italoameri-
cani risulta già ingente prima della fine dell’Ottocento. Di lì a poco sareb- be diventata ingentissima. «Un fatto di
cronaca, uno spunto politico, un pettegolezzo sono l’incentivo per scrivere un dramma che piaccia al suo pubblico»
avrebbe osservato molti anni dopo un protagonista della scena teatrale di New York ricordando l’attivismo e il «talento
affaristico» di Clemente Giglio, attore, autore e, negli anni Venti, massimo impresario di Little Italy.22 Poco, almeno allo
stato attuale delle ricerche, resta di quelle opere, la maggior parte delle quali rimasero inedite, semplici copioni ma-
noscritti. Alcuni titoli, peraltro, possono fornire un interessante panora- ma dei temi trattati.
Già nel 1887 era stato messo in scena dal Circolo filodrammatico italoa- mericano il dramma Chiara, la condannata, di
Rocco Metelli, ispirato alla
vicenda di Chiara Cignarale, la donna che, accusata di aver ucciso il mari- to in combutta con il proprio amante, era stata
incarcerata nell’ottobre 1886 e condannata a morte. Molte petizioni erano state organizzate nella comunità italiana e il
governatore aveva commutato la pena in ergastolo (la Cignarale sarebbe stata poi rilasciata nel gennaio 1900 e sarebbe
pron- tamente rientrata in Italia). Ecco dunque una tipica occasione in cui la cronaca della colonia si riverberava sui
palcoscenici. Edoardo Pecoraro, l’autore ricordato da Hapgood, divenne uno specialista in questo campo: lavorando in
collaborazione con Bernardino Ciambelli, allora direttore del «Bollettino della Sera», nel biennio 1896-97 elaborò per la
compagnia di Guglielmo Ricciardi vari drammoni a sensazione basati sulle storie giornalistiche, i cui ingredienti principali
erano delitto e passione. Tra es- si, La tragedia di Bartolomeo Capasso, il proprietario di un caffè di Mulberry Street
ucciso da un italiano: Italo Carlo Falbo avrebbe raccontato il grande successo ottenuto da questa rappresentazione nel
teatrino Villa di Sorren- to di Fabio D’Alessio, il quale pretese che lo spettacolo durasse fino a mez- zanotte,
costringendo Ricciardi e Pecoraro a improvvisare dal nulla due interi atti supplementari oltre ai tre già recitati.23
Dopo questi exploit, la promettente carriera teatrale di Pecoraro dovet- te subire qualche intoppo. L’autore scriveva su
diversi giornali, e di lui scrivevano diversi giornali. Su uno di essi, «Il Corriere di Boston», il re- dattore Giuseppe De
Marco, notandone nel 1897 la collaborazione al nuo- vo quindicinale di New York «La Scherma Italiana», definito
«giornale ammazzasette di Cavalleria e… Asineria […] sotto la direzione balistica e grammaticale del Prof. Mannaggia La
Rocca Pavese», così lo strapazza of- frendoci un gustoso squarcio di ordinaria vita teatral-giornalistica:
Parla il Pecoraro Edoardo, il vice-Ibsen di New York, fortemente indiziato di aver fatto lo strangolatore di Mulberry
Street, di aver commesso l’omicidio di Elisabeth St., di aver causata in parte la morte di Annina Fiore, di averne ricevuto,
in compenso, molte ova…zioni […] e di aver colata sulla prelodata Scherma Italiana, una broda indi- gesta di articoloni
apologetici in onore e gloria di Generoso (Man- naggia) Pavese. Pecoraro parla e, dopo aver dato dell’asino al colle- ga
Granata e del cretino al collega Melchiorri, i quali, ad onta di tali appellativi, seguitano ad avere un bel pochino di
cervello nel cra- nio; dopo aver fatto questo, dico, si volge al collega Cordiferro, e gli ficca tra le costole questa languida
omelia:
«Memore delle tue azioni nobilissime, ti dichiaro che non vo- glio teco una polemica. Non la voglio assolutamente…
«Come hai fatto ad essere tanto atroce (oh!…)? Qua la mano, etc. etc…
Un po’ di decenza, perdio! con questo linguaggio sodomitico, correte rischio di finire tra le caste braccia di Antonio
Comstock. E sarebbe una vera fortuna per il giornalismo italo-americano, ecco.24
Di fatto, nel 1900 Pecoraro figura alla direzione del settimanale «La Sentinella» di Calumet, nel Michigan; e nel 1903 è in
California dove si danno i suoi drammi Maria Barbera e Giuseppe Musolino,25 un altro esem- pio di sollecitudine da
cronista visto che il brigante Musolino era appe- na stato processato in Italia. È una riprova dell’ampio successo
incontra- to dalle produzioni legate alla cronaca (Emelise Aleandri segnala che le vicende di Musolino subirono anche un
trattamento farsesco, con Il bri- gante Musolino con Pulcinella, bandito per necessità, opera forse di France- sco
Ricciardi). Questo fenomeno sollecitò una maggiore attenzione da parte dei capocomici nei confronti della realtà locale,
e per naturale con- seguenza l’emergere di un’autonoma produzione, dovuta ad autori ita- loamericani che
ambientarono i loro lavori tanto nella colonia quanto in Italia, tenendo dietro ai casi di attualità. Un per ora perduto
Marta ovve- ro i drammi dell’emigrazione fu scritto e presentato nel 1903 dallo stesso Guglielmo Ricciardi: uno dei sei
atti del dramma era ambientato nel Matese Restaurant di Grand Street, uno dei locali di Little Italy in cui si tenevano
rappresentazioni teatrali. Ma i nuovi autori coloniali lavoraro- no specialmente per Maiori, che nel 1900 presentò
L’assassinio di Re Um- berto; in questo stesso periodo, il romanziere Bernardino Ciambelli scris- se per lui almeno un
paio di drammi, e lo stesso editore di Ciambelli, Agostino Balletto, compose (nel 1904) la farsa Il campanello dello
speziale. Ma i primi testi (in versi) di quello che sarebbe divenuto l’astro più bril- lante della drammaturgia
italoamericana, il calabro-napoletano RICCAR- DO CORDIFERRO, Maiori aveva incominciato a metterli in scena fin dal
1894. Uno di questi, il monologo Il pezzente (1895), si può considerare, per la popolarità di cui godette e per il numero
assai alto di rappresentazioni, un piccolo classico della drammaturgia italoamericana, come del resto il dramma sociale
in quattro atti L’onore perduto (1901), messo in scena da molti, autore compreso, con vivo successo, tanto da richiedere
nel 1906 un seguito, Giuseppina Terranova ovvero L’onore vendicato. Molto spesso acca- deva che questi drammi si
rappresentassero nell’ambito di serate che comprendevano la recita di varie altre più brevi creazioni di Cordiferro:
canzoni, poesie, macchiette alla napoletana.26 Proprio in virtù della sua capacità di giocare su più tavoli – il teatro, il
giornalismo, la poesia, il con- tatto diretto con il pubblico, affascinato dalle sue qualità di oratore – Cor- diferro è
veramente una delle figure più rilevate nella nuova tradizione italiana di New York. In questa città, dove fonda assai per
tempo (1893) con il padre Francesco e il fratello Marziale il giornale «La Follia», diviene un «prominente» della cultura:
ragazzo prodigio, appena diciottenne è in grado di porsi come punto di riferimento per tutti gli aspiranti scrittori; è
inoltre vicino ai gruppi radicali, ed è effettivamente il primo, con Bernar- dino Ciambelli, a fare stabilmente letteratura
attingendo al vivo materiale umano dell’ambiente coloniale. Tra i molti autori e/o capocomici che ne seguiranno le
orme, si segnala il versatile ARMANDO CENNERAZZO, nel cui vasto repertorio questo genere di drammi trova spazio
accanto a più
Tra le creazioni di Cordiferro messe in scena da Maiori nel 1894 c’è l’atto unico Genio incompreso, forse la prima satira
delle compagnie filo- drammatiche degli emigrati, giocata sul tema dell’improbabile padro- nanza della lingua, degli
svarioni, delle autentiche bestialità pronuncia- te sulla scena e fuori. Genio incompreso potrebbe dunque ritenersi una
sorta di incunabolo di un genere tutto italoamericano, quello della «mac- chietta coloniale», che di lì a poco troverà
proprio in Cordiferro, nel na- poletano EDUARDO MIGLIACCIO («Farfariello») e nel palermitano GIO- VANNI DE ROSALIA
(«Nofrio») i suoi più geniali interpreti, ma che sarà coltivato anche da molti altri autori che lo declineranno con varie
accen- tuazioni regionali, anche non «canoniche». Una rara testimonianza sulla bohème teatral-letteraria della colonia è
offerta da un sonetto di Antoni- no Crivello, poeta impegnato nel sindacato, in cui due protagonisti co- me Cordiferro e
De Rosalia improvvisano versi davanti agli amici in una taverna di Mott Street. Incomincia Cordiferro:
e conclude l’altro:
De Rosalia poi fici So’ Ccillenza e ’nfini ’mpirsunò, tra gran risati, Litteriu Trantulia di Calamenza.27
È un quadro piuttosto rivelatore: quasi come in una normale serata di teatro coloniale, il tragico e il comico convivono
l’uno accanto all’al- tro; si aggiunga che, mentre Cordiferro fu per tutta la vita fedele ai suoi giovanili ideali
socialisteggianti, De Rosalia, sia pure senza che questo implicasse una vera militanza, arrivò a cantare il fascismo.28
Evidente- mente, la distanza ideologica non impediva che quei due protagonisti fossero amici, né che il socialista Crivello
si divertisse, e molto, davanti alla vis comica di De Rosalia.
La «macchietta» è un tipico prodotto del teatro partenopeo, che pro- prio in quel periodo trovava in Nicola Maldacea,
Berardo Cantalamessa, Pasquale Villani e altri i suoi più celebrati interpreti sulla vecchia spon- da dell’Atlantico. Era uno
spettacolo «totale», di canto, recitazione, pan- tomima, trasformismo, che non a caso attrasse le simpatie dei futuristi e
fu tra gli archetipi del teatro sintetico. In buona sostanza, ogni singola macchietta era dedicata a un personaggio
emblematico, a un «tipo» da commedia, il quale la impersonava cantandone i versi e recitando, nella parte centrale, un
monologo più o meno lungo nel quale era praticamen- te illimitata la possibilità di andare a soggetto secondo le
esigenze e l’at- mosfera dell’occasione. L’interprete doveva essere travestito secondo le caratteristiche del personaggio,
e siccome nel corso della serata avrebbe dovuto interpretare più macchiette, gli erano richieste notevoli doti di
versatilità. Al cadere del secolo, Migliaccio non fu soltanto il più bravo
tra i macchiettisti, ma anche il primo a scegliere di non limitarsi a replica- re il repertorio dei maestri di Napoli,
inventando bensì, spesso in stretta collaborazione con TONY FERRAZZANO, il nuovo genere delle «mac- chiette
coloniali», che ritraevano il mondo intorno a lui, e che, per essergli fedeli, dovevano adeguarsi al suo inaudito
linguaggio.
Consapevoli del successo ottenuto da Migliaccio – la cui maschera di Farfariello ebbe un tale successo da poter vivere
ormai una vita autonoma dal suo autore-interprete, e da divenire un simbolo degno di duettare ad- dirittura con lo
scopritore d’America in quella che si vuole essere la prima
«rivista» del teatro italiano d’America, Cristoforo Colombo e Farfariello di Giulio Capocci29 –, furono in molti a
ricalcarne le orme. Lo stesso Pasqua- le Rapone, nei primi anni del Novecento, provvide ad aggiornare in senso
americano il proprio repertorio farsesco napoletano derivato da Petito e Scarpetta e legato al personaggio di
«Pascariello», che diventò Polisse in una commedia, e in un’altra, in coppia con la maschera scarpettiana di don Felice
Sciosciammocca, satireggiò l’ambiente teatrale (Pascariello e Fe- liciello scrittori drammatici).30 Gennaro Camerlingo fu
autore, tra l’altro, di una commedia significativamente intitolata Pascariello a Coney Island, ov- vero ’O Pic Nic d’’e
Sciainature (ossia «dei lustrascarpe»), non a caso inter- pretata proprio da Migliaccio.31 Ettore De Stefano, «banchista»
e giornali- sta (diresse la «Rivista Musicale» e la «Gazzetta Legale»), fu autore di macchiette, tra cui Il contabile.
Macchiettisti e cantanti di successo furono Alberto La Maida, Eduardo Perretti, Gennaro Pisano, Edoardo De Pascale,
Aristide Sigismondi (inter- prete del Polisso di Cordiferro), Gennaro Amato, Giuseppe De Laurentis (la cui più popolare
interpretazione era quella del «bommo», cioè il bum o vagabondo mendicante, su testi di Frank Amodio), Jefferson De
Ange- lis.32 E ancora: Vincenzo Massari, che negli anni Venti sarebbe diventato deputato al Parlamento del Colorado
(sua ’O Pulisso e ’a taliana, un duetto del 1910 musicato da G. De Gregorio); l’abruzzese Domenico Porreca det- to
«Spaghetti», che collaborava con l’autore-editore Antonio Paolilli di Providence; Ernesto Quadrino (’E Talianelle ’e
Brucculino, 1916); Luigi Do- nadio, autore di una notevole ’A ’Ngresa e l’Ausekip (L’inglese e il porti- naio, ovvero
housekeeper) datata 1911. Filippo Dato collaborò con De Rosa- lia per la creazione della macchietta siciliana di «Piddu
Micca». Silvio ed Ester Minciotti, lui umbro, lei piemontese, negli anni Venti e Trenta crea- rono dialoghi comici per la
radio in vari dialetti, tra cui quello de Le avven- ture di Mincuccio ’o barese. Quest’ultimo personaggio, che secondo
alcuni fu lanciato da Francesco Fanizza,33 era anche il pezzo forte del repertorio di Michele Rapanaro, che negli anni
Trenta portò al successo la «scena co- mica» Minguccio sopra la Tracca (ferrovia). GINO CALZA, assiduo collabo- ratore
della «Follia», si specializzò nel dialetto romanesco. In un catalogo per l’anno 1930 di dischi italiani della Columbia
Records, in cui lo spazio di gran lunga più ampio è occupato dall’elenco di «Canzonette, Bozzetti, Duetti e Scene
Comiche Napoletane», troviamo i titoli di molti pezzi di chiara derivazione «farfarielliana»: per esempio ’E Paesane ’a
Battaria (I
paesani alla Battery), ’O Sciumecco (lo «shoemaker»), interpretati da Gen- naro Amato; Mastu Ciccio Dint’o Muvinpiccio
(Mastro Ciccio nel «moving picture», il cinema) e Sette Solde P’o Sobbue’ (la «subway»), interpretati da Giuseppe De
Laurentis.34
Ma sui palcoscenici della commedia e del varietà italoamericano c’era spazio anche per i dialetti dell’Italia settentrionale
e centrale: farse di Sten- terello venivano rappresentate all’inizio del secolo dai toscani del Circolo filodrammatico
L’Amicizia di New York. Spettacoli da Goldoni e da Galli- na vennero promossi dalla Società Veneta Daniele Manin. E
numerose far- se e commedie costruite sulla maschera di Meneghino furono allestite nel- la stagione 1903-04 alla
Ferrando’s Music Hall dalla compagnia Milanini, cui si deve anche l’ardito esperimento di mettere insieme tradizioni
mila- nesi e napoletane facendo comparire insieme, nella stessa commedia, le maschere di Meneghino e di Felice
Sciosciammocca. Val la pena di notare che da questo gruppo emerse Renata Scarlati Brunorini, figlia di un attore di
Newark, secondo Emelise Aleandri la prima autrice del teatro italoame- ricano con Lo zio di dieci nipoti (1904), testo che
peraltro al momento risulta perduto. Infine, non si sa qui resistere alla tentazione di registrare il nome
– che potrebbe ben essere quello di uno dei finti aristocratici bluffer felice- mente individuati da Migliaccio – di
Ranieri Uguccione Bourbon del Monte, «Marquis of Sorbello, Count of Civitella», autore dell’atto unico Con le signore
c’è più gusto messo in scena nel 1935 a New York.35
Rocco De Russo fu forse il più dotato epigono di Migliaccio. Nato nel 1885 a Sant’Arsenio, in provincia di Salerno, e
cresciuto in Italia accanto ad attori poi divenuti famosi – Nino Taranto, tra gli altri –, De Russo, come racconta nella sua
autobiografia manoscritta conservata, con i copioni di 49 commedie, all’Immigration History Research Center di
Minneapolis, debuttò in Mulberry Street nel 1905. Il suo stile era più «italiano», memo- re, tra l’altro, della lezione di
Ettore Petrolini e del genere della «sceneg- giata» napoletana, e il successo, malgrado gravi dissapori con Francesco
Ricciardi, non gli mancò. Tuttavia nel 1908, su pressioni della moglie, De Russo fece ritorno al paese natale, dove aprì un
albergo e ben presto ac- cettò nuovamente scritture teatrali. Nel 1911, separatosi dalla moglie, tornò in America dove si
risposò con una giovane donna, che però morì nel ’17; una terza moglie, Ria Sampieri, prese a far con lui coppia fissa sul-
le scene, e i duetti della coppia «Ruby De Russo» diventarono assai popo- lari e furono incisi anche su vinile. De Russo
sarebbe morto nel 1975.36
È dunque soprattutto nell’ambito comico-macchiettistico che trova un apprezzabile esito letterario lo slang
italoamericano, lo strumento più ef- ficace, oltre che il più credibile, per rappresentare un piccolo mondo biz- zarro, e
registrarne gli umori, i colori, i suoni in un modo che anticipa i successivi trattamenti del linguaggio sperimentati da
molti scrittori di se- conda generazione, in particolare D’Agostino, Mangione, Di Donato.
Questa del linguaggio è questione fondamentale nella definizione di un’originale linea espressiva italoamericana,
nell’individuazione, potrem-
mo dire, di un primo e più caratteristico prodotto letterario elaborato dal- l’interno della colonia. Più che tentare
un’esatta cronologia del fenomeno, si dovrà parlare di una fioritura spontanea e diffusa, benché sia fuori di dubbio che
Italy di Giovanni Pascoli è il primo caso in cui un poeta – e che poeta – mostra interesse per le possibilità espressive di
questo nuovo, cu- rioso ibrido linguistico. I Primi poemetti, che da Italy sono per l’appunto chiusi, vengono pubblicati nel
1897. A quel giro d’anni risalgono altre te- stimonianze che ci indicano come l’italoamericano fosse un «dialetto» or- mai
consolidato, soprattutto (ma non esclusivamente) nelle aree metropo- litane della costa orientale. Al tema dedica non
poche pagine del suo Un italiano in America Adolfo Rossi,37 allorché, offrendo «un saggio autentico di dialogo fra due
contadini delle provincie meridionali che partono dai Cinque Punti e s’avviano alla stazione Grand Central Depot», mette
loro in bocca alcune tipiche espressioni: carro (da car) per «vagone», nipò (da de- pot) per «stazione», terza venuta per
Third Avenue, siti colle per City Hall, cec- ca da chek (sic) per «biglietto», tronco (da trunk) per «baule», e così via, con
qualche probabile, compiaciuta esagerazione (Giacomo Squea per Chatam Square, Morbida stretta per Mulberry Street,
Cosimo stretto per Crosby Street ecc.). Anche Giuseppe Giacosa ha orecchio per quella lingua che avrebbe in seguito
formato l’argomento per i più coloriti capitoli di diversi viag- giatori in America, italiani ma non solo, se si considera che
Rémy de Gour- mont, nel 1899, ne riconobbe il valore estetico oltre che pratico.38
Sarebbe dovuto passare circa un ventennio perché l’italoamericano di- ventasse oggetto di studi specialistici: il saggio La
Merica Sanemagogna di Arthur Livingston, che fin dal titolo riprende uno dei conii italoamericani più speciali (da son-of-
a-gun, «figlio di buona donna»), è del 1918, e appar- tiene dunque al periodo di massimo splendore del vaudeville
coloniale, legato specialmente ai nomi di Migliaccio e Ferrazzano. Gli anni Dieci, in effetti, sono quelli in cui
l’italoamericano diventa una più ampia possibi- lità letteraria, intuita fra gli altri da ACHILLE ALMERINI (La colonia di
Dan- te, 1912) e da MICHELE PANE (Lu calavrise ’ngrisatu, 1916), per non dire del- l’opera, geniale e all’epoca
popolarissima, del poeta di origine irlandese Thomas Augustine Daly (Carmina, 1914), l’unico autore che abbia saputo
fare un uso generalizzato (e sia pure limitato al campo del comico) del- l’italoamericano «in inglese». Le opere degli
autori appena citati non na- scono direttamente da esigenze rappresentative, anche se la loro carica espressionistica è
così forte da situarle in un territorio molto prossimo a quello della scrittura drammaturgica.
Va altresì detto che quella lingua, usata sulle scene italiane soprattutto al fine di costruire l’ennesima variazione sul
classico tema della satira contro i villani, qui opportunamente designati «cafoni», poteva poi dar luogo a gradi di
ricezione piuttosto diversificati. Se, infatti, i versi di T.A. Daly, «oggettivizzando se non una autentica personalità
d’emigrante, al- meno un interessante concetto americano della personalità dell’emigran- te»,39 ci danno la misura di
una valutazione ancora, e sia pure bonaria- mente, negativa; proprio a partire da questa «negatività» si ha in campo
italiano un curioso rovesciamento, con l’assunzione di quelle rozzezze espressive a emblema d’una condizione e
addirittura a strumento di lotta. Livingston ricorda, ad esempio, come Ferrazzano, il collaboratore di Mi- gliaccio,
«esordisse» nel 1913 tra le file degli scioperanti IWW in qualità di compositore di canzoni di protesta che incontravano il
favore della massa e che, per quanto unimportant things, «valgono più di ogni altra cosa pro- dotta a quella data
dall’American Association of Manufacturers».40
Il ruolo del canto popolare, molto spesso dialettale (anche in senso ita- loamericano), dentro le agitazioni sindacali e
politiche, è peraltro, come vedremo, largamente attestato. Ma la dimostrazione forse più convincen- te dell’assunzione
orgogliosa a emblema etnico di un modo di esprimersi
«cafone» la offre il sonetto Vennero i bricchellieri, che anche di recente è sta- to riproposto come opera di una non
meglio identificata «Rosina Vieni», ovviamente uno pseudonimo, dietro il quale si nascondeva un socialista della prima
ora, il dottor Simplicio Righi (cfr. Parte quarta). Il sonetto, che resta in assoluto una delle più suggestive creazioni
letterarie italoame- ricane, venne prontamente riconosciuto da H.L. Mencken come uno dei tentativi «di usare
l’italoamericano a livelli letterari più alti».41
Con questo componimento ci troviamo peraltro già molto avanti nel tempo, vicini ai casi di PASQUALE SENECA, che con
Il Presidente Scoppetta offrì una prova felice dell’utilizzo di quello slang in un’ampia prosa nar- rativa, e ai tardivi (e più
modesti) esperimenti di V.A. Castellucci, del
«narratore consolare» Paulo G. Brenna42 e di VINCENZO CAMPORA; vici- ni, anche, agli usi piuttosto abbondanti che
dell’italoamericano vollero fa- re pure diversi poeti del «sottobosco» protrattosi fino agli anni Cinquanta e oltre, in
particolare Nicola Testi e, da una prospettiva nettamente fasci- sta, Rosario Di Vita (cfr. Parte quarta). Con loro,
l’italoamericano sembra perdere alcuni connotati d’immediata vitalità per convertirsi piuttosto in un’esercitazione
accademica, ancorché talora felice. Esemplarmente, Ni- cola Testi cerca di plasmarlo entro una cornice dialettale
pugliese che non gli è propria, o meglio che non è propria di quella particolare lingua fran- ca sedimentata nelle colonie
a cavallo dei due secoli, secondo un modello transdialettale che nelle sonorità napoletane e siciliano-calabre trovava i
suoi due principali poli d’attrazione, non solo per la rispettiva, cospicua rappresentanza regionale, ma anche in virtù del
riconosciuto primato del- le due parlate – specie la napoletana – nella musica e nel teatro.43
Non è qui il caso di soffermarsi su morfologia e sintassi della lingua ita- loamericana.44 Ciò che piuttosto vale la pena
sottolineare è il suo indub- bio carattere di codice comunicativo fortemente connotato e connotante: una lingua zerga
nata in qualche modo per necessità, per consentire a con- tadini illetterati provenienti da regioni diverse di ritrovarsi su
una base linguistica comunque nazionale – tale dunque da garantire una piena co- municazione all’interno
dell’eterogeneo mondo coloniale italiano – ma fornita di risorse lessicali atte a far fronte alla nuova realtà,
profondamen- te diversa da quella che essi si erano lasciati alle spalle. Antonio Marinoni
raccontava di essersi imbattuto sul vapore che, probabilmente nel 1900, lo portava in America, in un barbiere
italoamericano, «don Giovà», il quale si esprimeva appunto in un curioso misto di americano e napoletano:
Ma la prova più concreta di questa finalità pratica è data non tanto dai brandelli di conversazione, autentici o virtuali,
presentati dagli scrittori (particolarmente dal Rossi), quanto dai documenti «scritti» – annunci pubblicitari, fogli volanti,
manifesti, giornali46 – che efficacemente espri- mono la necessità per la popolazione coloniale di avere un rapporto im-
mediato con la realtà americana, di non rinominarne, quindi, gli oggetti o gli istituti, bensì di conservarli nell’originale
inglese, riportandoli, sem- plicemente, a un più famigliare livello di pronuncia.
Anthony Turano, uno scrittore di seconda generazione, ricordava di es- sere stato consultato per risolvere il caso, assai
significativo, del testamen- to manoscritto (in un italiano piuttosto scorretto) di un ex minatore resi- dente nel Nevada
in cui venivano usate le parole nota e morgico, che nessun notaio era riuscito a decifrare. A Turano non ci volle molto
per capire che morgico (variante morgheggio) stava per mortgage, cioè «ipoteca»; e che quel- la nota altro non era che
l’equivalente di note, ossia «cambiale».47 Non è dif- ficile immaginare che «ipoteca» e «cambiale» non dovevano essere
ter- mini famigliari per il testante, il quale aveva sì fatto fortuna in America, ma è probabile che in Italia non si fosse mai
trovato alle prese con simili procedure. In effetti, il grosso del vocabolario italoamericano è costituito proprio da termini
che non hanno un equivalente italiano o dialettale, op- pure designano oggetti, concetti, usi, istituti ignoti in Italia.48 Più
o meno in questo schema è possibile inserire un modesto ma assai interessante esempio di tale uso, risalente agli anni
Trenta e inserito in questa raccolta: i due sonetti «pubblicitari» in romanesco-americano di ALFREDO BORGIA- NINI, un
meccanico-poeta di Trenton, nel New Jersey.
Ovviamente il comico non esaurisce l’ampio spettro d’interessi della drammaturgia italoamericana. Un settore
particolarmente produttivo fu quello dei drammi storici, nel quale si annoverano titoli come il dramma in cinque atti I
misteri dell’Inquisizione spagnola di Luigi Gualtieri e Ales- sandro Salvini; Fabio Romano o La Vendetta, quattro atti
adattati da Gu- glielmo Ricciardi dal romanzo di Maria Corelli; il «poema drammatico» in un atto La moglie di Putifarre
(1922) di Danton M. Fonzo; Giovanni da Verrazzano alla corte di Francesco I, quattro atti di Antonio Tua (1913) che in
qualche modo volevano ripetere il relativo successo del vecchio Cristoforo Colombo di Paolo Giacometti (1816-1882),
più volte messo in scena a Little Italy per il piacere di un pubblico che non doveva rimanere insensibile al
proclama magniloquente che ne chiude l’atto quinto, quando Colombo, ormai quasi sopraffatto dai rivoltosi che lo
vogliono morto, vede final- mente in lontananza la terra:
Tutti: Lo giuriamo!
Col.: Da questo istante si congiungono i due emisferi… e segna- si il patto di una immortale alleanza!…
Tutti: Viva!…49
Nella prefazione al Verrazzano, scritto nel 1909 e edito nel 1913 in ve- ste lussuosa, Tua, che si diceva «un umile
dilettante» timoroso di pre- sentarsi ai lettori della colonia italiana, abituati «a leggere scritti eleva- tissimi di letterati
eminenti, che anche fra noi, sebbene in piccolo numero, emergono nel campo della letteratura», dichiarava che suo uni-
co intento era stato
contribuire a mantener vivo nella nostra colonia il ricordo di una gloria nazionale nostra, cioè la scoperta della baja
Hudson e dell’i- sola Manhattan compiutasi per opera del navigatore italiano Gio- vanni da Verrazzano.
Tua si riallacciava alle iniziative celebrative promosse dal «Progres- so», e rilevava il carattere genuinamente patriottico
del suo dramma, dedicato
Agli Italiani di New York che animati da sublime amor patrio con- corsero spontanei coscienti alla rivendicazione d’una
gloria nostra da tre secoli usurpata dall’egoismo di un popolo straniero.50
Che anche nell’ambiente teatrale coloniale, del resto contiguo a quel- lo dei giornali, si coltivassero sentimenti patriottici
è circostanza quasi ovvia. L’intonazione poteva cambiare, drammatizzarsi in corrisponden- za di eventi che chiamavano
alla mobilitazione nazionale, o mantenersi su una linea di più generica, magari sorridente complicità. È il caso, per
esempio, di una poesia di Cordiferro dedicata a Garibalde (forse il perso- naggio più amato nella colonia) sicuramente
scritta per la recitazione in pubblico, nella quale un vecchio padre così ammonisce il figlio:
Fra i temi che trovarono notevole eco nei teatri vi furono naturalmente la morte di re Umberto I, che, malgrado il
trattamento subìto nei circoli anarchici e socialisti, ispirò alcuni drammi di diversa intonazione sulle scene non
politicamente impegnate,52 e, con ben altra risonanza, quello della prima guerra mondiale. Vi si misurarono molti
autori, dal Bernardi- no Ciambelli del «bozzetto» L’invasione del Veneto (e si noti la disinvoltura con cui il piccolo
patriarca delle lettere coloniali poteva trascorrere dagli aneliti anarchici del Francisco Ferrer alla retorica irredentista) al
siciliano Damiano Bivona, con il dramma in tre atti Prima e Dopo il Piave, messo in scena da Maiori nel 1919,53 a SILVIO
PICCHIANTI, un fiorentino molto atti- vo dagli anni Dieci, con gli atti unici La Madre Triestina e Le trecce d’Isabella. Negli
anni della prima guerra mondiale vi fu anche un’ampia produ- zione comico-satirica legata agli avvenimenti bellici. Tanto
per fornire qualche sapido esempio, ecco Telusa mi restar!!!… di un non meglio identificato «Spoletta» di Filadelfia,
ovvero la «Risposta della pionta Karolina al suo pofero pionto Fritz Kaiseringer», dove una coppia teuto-
Mi star piffero gross!… Der kappellin kon nokka Kolor papafer ross.54
L’inevitabile esplosione di doppi sensi osceni55 si ritrova, con esiti mi- gliori, pure nella macchietta Cecco Beppe ha
perduto il «Carso» di Ferrazza- no, dove si gioca con le allusioni sottese ai numeri della cabala napoletana:
Or dimmi, quante notti tu preghi il tuo San Pietro purché ti faccia presto
Il 15 andò male
per te, Zi Pe’; ma credici: il «Carso» che hai perduto lo piglierai nel 16!56
Il teatro di cui abbiamo parlato finora è caratterizzato, in particolare, dalla sua fortissima «etnicità». Eppure uno spazio
notevole, sulle scene italoamericane, fu riservato anche a una diversa drammaturgia, che da un lato cercava di farsi
strada nel repertorio classico internazionale – si ricor- dino a tale proposito le esperienze di Maiori – e dall’altro cercava
di porta- re, dentro la scena «etnica», temi più «borghesi». Bisogna dire che il teatro italiano a New York fu sempre – o
quasi – fenomeno diverso e separato dal teatro italoamericano. Pochi erano i casi in cui attori e autori di Little Italy
riuscivano a risalire la strada dorata di Broadway, e comunque i più vi ar- rivavano in via del tutto occasionale, reclutati
per singole produzioni quando c’era bisogno di un tipo autenticamente «italiano».
L’attore e impresario di origine piemontese (era nato a Stupinigi) Gu- glielmo Emanuel-Gatti, nelle sue Memorie
pubblicate alla fine degli anni Trenta, rivendica per sé il merito di aver fondato a New York il teatro ita- liano di qualità,
pur riconoscendo ad Antonio Maiori quello del teatro, come lo chiama lui, «di speculazione». Emanuel-Gatti era giunto a
New York nel 1915, aveva lavorato al Thalia Theatre nella Bowery e, dopo la guerra, aveva fondato un teatro italiano
prendendo in affitto la Amster- dam Opera House di 44W Street. Qui aveva creato il Teatro d’Arte Italia- na. In seguito
era divenuto presidente della Società Dante Alighieri. Una storia molto «ufficiale», la sua. A leggerne le osservazioni,
tuttavia, ci si rende conto della costante vitalità della scena italoamericana: «Qui vi sa- rebbero elementi per fare sei
compagnie: due drammatiche, una di ope- rette, una napoletana, una siciliana e due di varietà».57
All’epoca in cui scriveva Emanuel-Gatti, con una progressione paralle- la rispetto a quella già verificata nel campo
narrativo, vi erano ormai di- versi autori che stavano tentando di portare sulla scena «etnica» temi pro- pri di un teatro
più aggiornato, attento a interpretare con una sensibilità più aperta l’ultima stagione naturalistica, oppure a provare la
strada diffi- cile del simbolismo, o magari più semplicemente interessato a una dimen- sione «borghese» ormai
distanziata dal trafelato e già un po’ museificato e oleografico vecchio mondo della colonia. Nelle loro opere
comparivano anche personaggi non italiani, e il tentativo, benché non chiaramente e- spresso, era quello di conseguire,
attraverso la traduzione, l’interesse del pubblico americano. Si trattava però di un’aspirazione ampiamente vel- leitaria,
sicché, a una lettura attuale, i lavori di autori come Michele Rapo- ne, ARIO FLAMMA, lo stesso Picchianti e Armando
Romano58 – per citarne solo alcuni fra i più prolifici – appaiono come i più inerti, benché non privi di un loro specifico
interesse documentario, fra quelli usciti dalla scena italoamericana del primo Novecento.
Già negli anni Venti Michele Rapone (da non confondersi con Pasqua- le) si era applicato a una serie di «scene sociali»
nelle quali, in singolare ma non dichiarata contiguità rispetto ad alcuni esperimenti del teatro di agitazione proletaria
(cfr. Parte quarta), si portavano in primo piano vele- ni e private perfidie delle classi aristocratiche. Nell’atto unico
L’ultimo re- galo, ambientato a Milano, abbiamo uno studente di legge, Alfredo, inna- morato della contessa Anna,
moglie del conte Ettore Rolandi. Alfredo, che è povero, ha deciso di partire per New York in cerca di fortuna. Il con- te
vuole fare un regalo alla moglie per il loro secondo anniversario; le chiede che cosa desideri, e lei gli risponde che le
piacerebbe andare in America. Poi, però, Giacomo, il fido cameriere di casa Rolandi, rivela al conte il tradimento
consegnandogli il cappello che Alfredo ha smarrito e dentro il quale è ricamato il suo nome. Allora il conte convoca la
moglie, le annuncia che sta partendo per Roma e che, al ritorno, lei non dovrà più
essere in quella casa. Anna si difende, proclama che nulla c’è stato se non un puro sentimento d’amore, del resto
comprensibile vista la differenza d’età fra i coniugi (lei ventenne, lui ultracinquantenne). Ettore capisce, e decide:
Alfredo, un Alfredo per giunta fornito di ingenti risorse finanzia- rie, sarà il suo regalo per Anna. Quanto a se stesso:
Rolandi. Sarà quella la mia dimora per sempre. Io cambierò po- sto con Alfredo Spina.59
L’happy end si afferma dunque mediante il più classico rovesciamento dei ruoli, che però in questo caso non comporta
una punizione per il «cat- tivo», che non c’è, bensì una più sottile forma di espiazione rispetto al peccato originale di
aver preteso in moglie una donna tanto più giovane. L’esito del piccolo dramma è dunque teso a ricomporre un ordine
naturale delle cose, un ordine così giusto che neppure un uomo ricchissimo può pensare di infrangere fidando soltanto
nella dovizia dei propri beni.
Una simile fiducia nella generosa disposizione d’animo del genere umano vena anche un altro lavoro di Michele Rapone,
il «bozzetto socia- le» in un atto Lettere d’amore. Qui, un uomo d’affari romano, Teodoro An- sperti, rivela a Lucia
Caretti, moglie del banchiere Arturo, che suo marito sta per ridurlo in rovina mandando in protesto certe cambiali a lui
intesta- te. Lucia è dispiaciuta, ma teme di non poter fare nulla per evitarlo. Allora Teodoro la minaccia: «occhio per
occhio», dirà ad Arturo di essere lui il padre dei suoi figli. Tira fuori un pacco di lettere e ammonisce Lucia: va’ a casa,
prendi le cambiali e saprai che cosa c’è in questo pacchetto. Il dram- ma si risolve con l’intervento della buona Maria,
moglie di Ansperti, che brucerà le lettere compromettenti e sventerà così il ricatto di Teodoro.60
Come si vede, sono soltanto esili incursioni in un mondo fatalmente altro rispetto alla colonia. Chi proverà con maggior
convinzione a forza- re i limiti naturali della drammaturgia di Little Italy sarà proprio Ario Flamma. Era arrivato in
America negli anni Dieci; in Italia aveva scritto e pubblicato, ma senza successo, e anche nel nuovo mondo, recrimina-
va, era rimasto sostanzialmente un incompreso:
Da dieci anni in America, seguo tenace l’amaro e aspro sentiero dell’arte, ancor oggi sorpreso di non aver dimenticato
l’italiano, poi- ché i tre milioni d’italiani di America parlano tutti i dialetti, fuorché l’italiano. Se abbia fatto bene o male a
persistere, in una professione che in America si presta alle più amare delusioni, non conoscendo
l’inglese in maniera da poterlo scrivere come la propria lingua, e co- stretti a vivere tra italiani, ottimi, laboriosi
lavoratori, ma digiuni completamente d’arte, e quasi ostili a chi ne fa mestiere, – io non so.61
Che il suo progetto fosse quello di proiettarsi oltre gli asfissianti confini
«etnici» lo rivela il fatto che, appena stabilitosi in America, fece stampare una pretenziosissima edizione dei suoi Dramas
tradotti in inglese, esiben- do come prestigiosi viatici lettere gratulatorie di personaggi dai nomi alti- sonanti. Ma il
successo non venne: il livello della drammaturgia di Flam- ma era quello che era, e i tempi, forse, non erano maturi. Il
vero errore di Flamma – e di chi, come lui, si ostinò a cercare fuori dal proprio orizzonte la chiave che aprisse le porte di
Broadway – fu quello di non provare a la- vorare sui materiali autentici della propria esperienza. Lo dimostra il fat- to
che di lì a non moltissimi anni, nel 1941, Pietro Di Donato, l’autore di Christ in Concrete, poté proporre un dramma che
sviluppava la trama del romanzo: The Love of Annunziata. Nel 1950 gli italoamericani si sarebbero potuti riconoscere in
The Rose Tattoo di Tennessee Williams. Nel 1955, infi- ne, Arthur Miller, con A View from the Bridge, avrebbe scelto di
rielaborare, dandole solennità da tragedia greca, una classica storia di amore e morte dell’emigrazione italiana. A
quell’epoca, una drammaturgia in lingua ita- liana resisteva, oltre che sui palcoscenici di tante piccole filodrammatiche,
soprattutto alla radio, con lunghi serial che duravano di norma tredici set- timane – il periodo dei contratti – e che
andavano ripetendo, in buona so- stanza, gli schemi blood-and-thunder della vecchia narrativa coloniale. Nel 1941 si
poteva già notare che
the only thing surer than death and taxes is that, barring the unlikely possibility of another wave of Italian immigration,
the Italian theatre, along with all other similar immigrant-language enterprises, is doomed to slow but certain death.
Simplicio Righi
I due brevi testi poetici che seguono sono in assoluto tra i più popolari nella co- lonia italoamericana dei primi anni del
Novecento. Entrambi circolarono sotto il nome di una fantomatica «Rosina Vieni», dietro il quale si celava il dottor
Simplicio Righi, un medico molto noto nella colonia italiana di New York, che nel 1901, per un breve periodo, fu
direttore del giornale socialista «Il Proleta- rio». Soprattutto il primo testo ebbe larghissima diffusione, fu stampato in
una grande quantità di giornali e meritò anche l’attenzione di H.L. Mencken, il quale lo inserì nella sua grande opera The
American Language come uno dei più classici esempi dell’ibridismo linguistico italoamericano. Dopo aver compo- sto
molti altri canti sociali, tra cui Gli emigranti dell’ideale, comparso sulla prima pagina del «Proletario» del 1° maggio
1901, Righi si sarebbe successiva- mente allontanato dalla politica, come dimostra il fatto che sue poesie furono
pubblicate anche dal mensile fascista «Il Carroccio» (cfr., in particolare, I so- netti di Manhattan, del 1924, dedicati a
Onorio Ruotolo). Particolare non in- significante, il dottor Righi fu suocero di Achille Almerini, il quale, come si è visto
(cfr. Parte terza), fu uno tra i più abili cultori dello slang italoamericano in poesia.
VENNERO I BRICCHELLIERI*
Vennero i bricchellieri a cento a cento, tutta una ghenga coi calli alle mani
Che val, se per disgrazia o per mistecca ti sfracelli la carne in fondo al floro – povero ghinni, disgraziato dego?
* Mencken toglie il sonetto dalla rivista «Zarathustra» di New York, 15 maggio 1926. Si ha peraltro ragione di credere
che la sua composizione, e con ogni probabilità an- che la prima pubblicazione, si debba retrodatare di parecchio. Il
sonetto si trova pub- blicato anche in Alfonsi 1985, 400-401.
** Le parole in corsivo (nell’originale) sono corruzioni dell’inglese: «bricklayers» (mu- ratori), «gang» (banda), «roof»
(tetto), «basement» (seminterrato), «green horns» (i nuovi venuti, paragonati al «grano verde»), «mistake» (errore),
«floor» (pavimento),
«guinea» e «dago» (due modi spregiativi per designare gli italiani), «pound» (libbra),
«boss».