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Bergson e il metodo: analisi ed intuizione

Edoardo Sartore

5 maggio 2020

Indice
1 Introduzione 1

2 Le ragioni del metodo 2


2.1 Ragione storica: una riforma del filosofare . . . . . . . . . . . 2
2.2 Ragione metafisica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3

3 I caratteri del metodo 4


3.1 L’introspezione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4
3.2 Semplicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6

4 Due obiezioni e conclusione 6

1 Introduzione
Il titolo della relazione che ho scelto di tenere è “Bergson e il metodo”,
a cui mi sono permesso di aggiungere un sottotitolo: “analisi ed intuizione”.
Vorrei cominciare con il chiarire il motivo di questa scelta. Com’è noto, il
metodo di cui Bergson si fa promotore prende il nome di intuizione.
Questa parola, questo concetto, è così centrale che potrebbe essere messo
a titolo della filosofia di Bergson. Non a caso, quando Giovanni Papini
pubblica la traduzione italiana dell’Introduzione alla metafisica, insieme ad
una selezione di luoghi di altre opere in cui Bergson pone esplicitamente la
questione del metodo, sceglie di chiamare il volume La filosofia dell’intuizione.
E ciò è pienamente giustificato, dato che la proposta e la difesa dell’intuizione
impegna Bergson in numerose pagine e ricorre lungo tutto l’arco della sua
attività filosofica. Tuttavia, l’intuizione non sta sola. Scorrendo le pagine delle
sue opere maggiori, si può facilmente vedere come ciò su cui Bergson insiste
sia la necessità di una dualità di metodi. Accanto all’intuizione, l’analisi si
pone come metodo valido e imprescindibile.
Porre l’accento sulla pari legittimità di analisi ed intuizione e sulla conseguente
necessità di una convivenza fra le due, può inoltre contribuire, credo, a sfatare

1
il mito storiografico del Bergson anti-intellettualista. La tesi epistemologica
centrale di Bergson mi pare infatti tanto lontana dal propugnare un rifiuto
dell’atteggiamento analitico-geometrico in favore di un adozione esclusiva
dell’intuizione come via d’accesso al reale, quanto vicina a rimarcare la
necessità di tracciare un confine netto tra le aree di giurisdizione dell’uno
e dell’altro metodo. Così, anche se la nostra attenzione sarà focalizzata
quasi esclusivamente sul versante dell’intuizione, è bene tenere presente che
ci stiamo muovendo su un lato della distinzione.

2 Le ragioni del metodo


Il problema metodologico in Bergson non è accessorio, ma centrale, come
si evince da diversi passi, di cui riporto ora alcuni dei più significativi.
Nell’introduzione a L’evoluzione creatrice, Bergson dichiara:
Così il presente saggio non ha come fine di risolvere d’un sol colpo
i più grandi problemi. Esso vorrebbe solo definire il metodo e fare
intravedere, su qualche punto essenziale, la possibilità di applicarlo.
(Bergson, L’evoluzione creatrice, p. 9)

L’importanza vitale che Bergson attribuisce al discorso sul metodo emerge con
maggior chiarezza nell’Introduzione alla metafisica, vero e proprio manifesto
programmatico del bergsonismo, dove le difficoltà, gli errori e i vicoli ciechi
in cui si imbatte la metafisica, sono ricondotti ad una confusione di metodo,
tra analisi ed intuizione.
Le difficoltà inerenti alla metafisica, le antinomie che fa sorgere, le
contraddizioni in cui cade [. . . ] vengono in gran parte dal fatto che noi
applichiamo alla conoscenza disinteressata del reale i metodi di cui ci
serviamo correntemente per uno scopo di utilità pratica.
(Bergson, La filosofia dell’intuizione, p. 62-63)

Questa confusione di metodo ha cioè una ricaduta pesante sulla stessa me-
tafisica. Credo risulti sufficientemente chiaro, alla luce di questi pochi ma
significativi passi, il ruolo preminente che una riflessione di carattere metodo-
logico svolge all’interno del "programma" filosofico bergsoniano. E tuttavia
non si è ancora detto quali motivi spingano Bergson ad affrontare la questione
del metodo. Vorrei abbozzare una risposta a questa domanda indicando due
compresenti motivi: uno di ordine storico, uno di carattere metafisico.

2.1 Ragione storica: una riforma del filosofare


Credo non sia lontana dal vero la lettura di Giovanni Papini che, nella
prefazione a La filosofia dell’intuizione, qualifica il lavoro di Bergson come
«un tentativo di riforma del modo di filosofare».1 La ragione storica di questo
1
Bergson, La filosofia dell’intuizione, p. 6

2
tentativo è chiara. Tanto la scienza quanto la filosofia hanno fallito nel loro
tentativo di darci una conoscenza assoluta e perfetta del reale. Costrette
dalla rigidità dei concetti, non possono che cogliere il relativo, affastellare
vedute sulle cose, inanellare prospettive, approssimandosi così all’essenza, ma
solo asintoticamente, scontando sempre una differenza irriducibile.
Il confino della ragione dai territori dell’assoluto è sancito con il criticismo
kantiano. Così, la ragione (declinata in forma di scienza o di filosofia)
dapprima tanto orgogliosa, s’è dovuta fare un bagno d’umiltà. Di fronte a
queste conclusioni, Bergson avanza, già in Materia e memoria, una proposta:

L’impotenza della ragione speculativa, come l’ha dimostrata Kant,


non è forse, in fondo, che l’impotenza di una intelligenza asservita
a certe necessità della vita corporea, che si esercita sopra una
materia che s’è dovuta disorganizzar per la soddisfazione dei nostri
bisogni.
(Bergson, La filosofia dell’intuizione, p. 87)

In altre parole, bisogna circoscrivere la critica kantiana ad una facoltà, l’intelli-


genza, che non esaurisce l’ambito del pensiero. Al fondo di questa affermazione
di impotenza della ragione, c’è un errore metodologico comune in tutta la
filosofia moderna. La coincidenza stretta, addirittura l’identità, tra pensiero
e intelligenza. Invece, se di impotenza si deve parlare, è dell’impotenza di un
metodo (l’analisi), che è il metodo di una facoltà (l’intelligenza). Estenderla
al pensiero tutto significa buttare il bambino con l’acqua sporca.

2.2 Ragione metafisica


In un certo senso, mi sembra di poter dire che l’intuizione della durata
costituisce il punto di partenza di Bergson, e che il successivo discorso sul
metodo non è che il tentativo di dare una giustificazione in qualche modo
rigorosa di questa intuizione.
Il nuovo metodo dell’intuizione si rende necessario in virtù della costituzione
del reale: la gnoseologia di Bergson è cucita sopra la sua metafisica. È lo stesso
Bergson che pare suggerirci la precedenza logica della durata sull’intuizione –
della sua principale tesi metafisica sulla sua peculiare epistemologia – quando
scrive:

Ma per comprendere la natura di questa intuizione, per determinare


esattamente dove finisce l’intuizione e dove inizia l’analisi, bisogna
tornare a ciò che s’è detto sopra dello scorrere della durata.
(Bergson, La filosofia dell’intuizione, p. 45)

In altre parole, se vogliamo definire l’intuizione, dobbiamo concentrare l’at-


tenzione sul suo oggetto, la durata. Il primo passo, dunque, consisterà nel
chiederci dove Bergson scopra la durata.

3
3 I caratteri del metodo
Sembra che per Bergson il modo più semplice di definire l’intuizione sia
per via negativa, per differenza rispetto all’analisi. Ci dice ciò che l’intuizione
non é: non è applicazione di concetti rigidi alla realtà, non è scomposizione
dell’oggetto nelle sue parti né affastellamento di vedute esterne su di esso, e
così via. Su questi punti abbiamo insistito molto nelle scorse settimane. Per
questo ora vorrei svolgere l’operazione contraria. Proverò quindi a delineare
un paio di caratteristiche dell’intuizione che emergono negli scritti di Bergson,
per gettare le basi di una possibile definizione positiva di intuizione.

3.1 L’introspezione
Il metodo di Bergson è introspettivo, almeno in partenza. Nell’Introduzione
alla metafisica, il primo luogo in cui vediamo al lavoro l’intuizione è la
coscienza.

C’è almeno una realtà che afferriamo tutti dal di dentro, per intuizione
e non per semplice analisi: è la nostra propria persona nel suo scorrere
attraverso il tempo – è il nostro io che dura.
(Bergson, La filosofia dell’intuizione, p. 19)

Il metodo dell’intuizione trae dunque il suo spunto iniziale da un ripiegamento


della coscienza su se stessa, dall’assunzione di un atteggiamento meditativo
nei confronti di ciò che è immediatamente dato alla coscienza. Nel fare
questo, Bergson si inserisce perfettamente all’interno di una tradizione di
vecchia data e prevalente nella filosofia moderna. Qui vengono alla mente le
Meditazioni metafisiche, ma non solo. Lo stesso empirismo inglese, in tutte le
sue figure principali, parte da un’analisi di ciò che accade nella mente. La
differenza, la novità, il punto di divaricazione e di strappo di Bergson rispetto
alla tradizione della cosiddetta way of ideas sta tutta in ciò che egli trova nel
corso di quest’indagine.
L’atteggiamento introspettivo che il filosofare di Bergson richiede conduce
infatti ad una scoperta ben diversa. Quella tradizione che inizia con Cartesio
e che considera la vita psicologica come un succedersi di percezioni distinte e
discrete rivela, secondo Bergson, solo la superficie della coscienza. Riporto
qui alcuni passi, ad esemplificazione dei riferimenti polemici di Bergson su
questo punto:

Ora che cosa concepisco chiaramente e distintamente in esse?


Certo nient’altro che le idee o i pensieri che di queste cose si
presentano alla mia mente, ed ancora adesso non posso negare
che queste idee si trovino in me.
(Descartes, Meditazioni metafisiche, III meditazione)

4
Credo che mi si concederà facilmente che ci sono tali idee nello
spirito degli uomini; ognuno ne è consapevole in se stesso, e le
parole e le azioni degli altri uomini lo convinceranno che esse si
trovano anche in loro.
(Locke, Saggio sull’intelletto umano, introduzione, §8)

[Q]uando analizziamo i nostri pensieri o idee, per quanto esse


siano composte ed elevate, troviamo sempre che si risolvono in
idee così semplici, da essere copia di una precedente sensazione o
sentimento.
(Hume, Ricerca sull’intelletto umano, sezione II)

L’empirismo, così come il razionalismo, individuando gli «stati psicologici»,


si ferma alla «crosta fatta solida alla superficie». Al di sotto di quella crosta,
in profondità, l’intuizione scorge invece la continuità dello scorrimento, la
realtà magmatica della durata.2

Ora, il carattere introspettivo del metodo dell’intuizione, mi interessa per


due motivi. Al di là di un’interesse puramente storiografico, che spinge a
chiedersi come si debba collocare Bergson rispetto a quell’orizzonte concettuale
(appunto, della way of ideas) che prevale nei secoli centrali dell’età moderna
(e di cui Bergson è in certa misura erede), vi è un interesse più propriamente
teorico, che si misura con domande differenti. Quali sono i presupposti
e le assunzioni che stanno alle fondamenta delle tesi di Bergson? Quali
conseguenze portano con sé tali tesi? In questo caso specifico: cosa dobbiamo
ammettere in via preliminare, se vogliamo accettare la tesi fondamentale di
Bergson, secondo la quale la durata costituisce «la stoffa stessa della realtà»3 ?
Mi sembra di poter dire che al fondo della tesi ontologica fondamentale di
Bergson stia la sua fiducia nell’atteggiamento introspettivo. La scoperta della
durata poggia, cioè, sulla fiducia riposta da Bergson nell’introspezione: la
durata viene scoperta anzitutto nella coscienza, attraverso un’indagine che,
per essere ritenuta legittima, deve confidare nella possibilità della mente di
guardare se stessa senza ingannarsi, di essere autotrasparente.
La scoperta della durata nella coscienza, viene poi estesa da Bergson,
passo passo, alla realtà tutta. L’intuizione della durata della coscienza è il
punto d’accesso alla durata del reale «L’intuizione della nostra durata [. . . ] ci
mette in contatto con tutta una continuità di durate»4 , ma il primo incontro
con la durata avviene nell’intimità dello sguardo che la coscienza getta dentro
se stessa.
2
Bergson, La filosofia dell’intuizione, pp. 19-21.
3
Bergson, L’evoluzione creatrice, p. 340
4
Bergson, La filosofia dell’intuizione, pp. 59-60.

5
3.2 Semplicità
Una caratteristica sulla quale Bergson insiste in più punti è la seguente:
l’intuizione è un atto semplice. Questo attributo dell’intuizione si accompagna
spesso, nel testo bergsoniano, con un altra osservazione, solo apparentemente
contraddittoria: l’intuizione richiede uno sforzo.
Ora, ritengo che l’accostamento a sforzo non sia ossimorico. Semplice deve
essere qui inteso come contrario di composto. Un atto semplice è un atto non
divisibile, non scomponibile in parti, in fasi, in tappe.
Qui Bergson sta contrapponendo l’intuizione al metodo dell’analisi. Si pensi
a come quest’ultimo viene presentato nel Discorso sul metodo. L’analisi
consiste appunto in una scomposizione di un problema complesso nelle sue
parti minime e nello studio separato di ciascuna di queste. Successivamente,
dall’unione delle soluzioni si ottiene una risposta al problema complesso. Si
tratta di una riduzione del tutto alle parti. Ora, Bergson sostiene che in
questa riduzione qualcosa vada lost in translation.5 Lo sguardo analitico che
interviene sulla realtà frammentandola e ricomponendola non ci restituisce, al
termine del processo, la stessa realtà resa trasparente ai nostri occhi, ma una
realtà diversa, un fantoccio della realtà. Questi può servire da modello alle
scienze, ha una valenza euristica preziosa, ma non va confuso con la realtà
vera. Perché? l’atto di scomposizione o analisi rompe l’unità semplice del
reale: la ricomposizione dei frammenti, poi, esibisce di necessità la colla che
li tiene insieme. Per cogliere la realtà intera, senza romperla, c’è bisogno di
un atto più delicato ma insieme più invasivo, che entri in essa.
Semplice è l’atto perché semplice è il suo oggetto. Qui torna a giocare
quell’affermazione di Bergson, per cui, per capire l’intuizione dobbiamo
indagare la durata; per capire il metodo, dobbiamo guardare al suo oggetto.

4 Due obiezioni e conclusione


Con questo ho finito di eviscerare alcuni caratteri del metodo, almeno
quelli che ho individuato come i più interessanti. Dopo aver compiuto quest’o-
pera da gregario vorrei fare una piccola obiezione a Bergson. Prima ancora
vorrei accennare brevemente ad un’altra possibile obiezione che Bergson stesso
prevede, mette avanti, e a cui risponde in anticipo, con un dispositivo retorico
usuale. Riporto questa considerazione perché presenta una struttura simile a
quella che voglio proporre io: si tratta di un’obiezione di circolarità.
Nel passo in questione,6 Bergson ha appena suggerito la necessità di uscire
dagli schemi in cui l’intelligenza ci imbriglia, schemi fecondi sul piano pratico
che però inibiscono la speculazione. Gli viene così obiettato di voler andare
oltre l’intelligenza – atto ritenuto contraddittorio perché richiederebbe l’uso
5
È difficile trovare un’immagine più efficace di quella dello «schizzo d’una torre di
Notre-Dame» presente in Bergson, La filosofia dell’intuizione, pp. 32-33.
6
L’obiezione è sollevata in Bergson, L’evoluzione creatrice, pp.187 sgg.

6
dell’intelligenza stessa. Naturalmente l’obiezione è debole: Bergson ha appun-
to appena sostenuto l’irriducibilità del pensiero all’intelligenza. L’uomo non
è solo intelligenza: se è possibile superarla, è proprio in virtù della presenza
nell’uomo dell’intuizione. E tale presenza è, giustificata biologicamente, tanto
che l’intera evoluzione creatrice potrebbe essere letta come il tentativo di
dare una giustificazione biologico-evoluzionistica all’intuizione, ricostruendo
la sua storia entro il mondo della vita.
Ma al di là dell’inefficacia dell’obiezione, risulta chiara come essa consista in
un’accusa di circolarità: Bergson userebbe l’intelligenza per superare l’intelli-
genza.
Si può sollevare, a mio avviso, una diversa difficoltà, che condivide però
con la prima, il carattere circolare. Da un lato, per Bergson, la durata è
scoperta mediante l’intuizione. A sua volta l’intuizione si rende necessaria a
causa della scoperta della durata: deve essere introdotta come quel metodo
che dà sostanza e fondamento al nostro sentire che duriamo, dal momento
che l’analisi fallisce nel rendere conto di questa esperienza. Certo si potrebbe
anche dire, come fa Bergson, che l’intuizione è in certo senso un dato di
fatto, di cui facciamo tutti esperienza, ma quest’affermazione non è esente da
critiche. L’appello al senso comune, per quanto sia un dispositivo retorico
di lunga tradizione,7 non può bastare quando ci si dirige sulle questioni
epistemologiche fondamentali.
In altre parole, se si ritiene che, al fondo, la realtà consista di durata, si
deve di conseguenza accettare l’intuizione come metodo, bisogna avere fiducia
nelle potenzialità conoscitive dell’intuizione. Viceversa, se riteniamo che
l’intuizione si dia effettivamente (perché, per esempio, abbiamo un’effettiva
intuizione di noi stessi), allora dobbiamo concludere che la durata è la stoffa
stessa del reale. Per qualcuno questo potrebbe essere considerato un punto
di forza. Se siamo convinti della solidità di entrambi questi poli, ontologico
ed epistemologico, allora il fatto che siano così strettamente legati, che stiano
l’uno a supporto dell’altro, mostrerebbe che tout se tient: se il sistema di
Bergson è così strettamente intrecciato, è proprio per questo più convincente.
D’altro canto, se anche solo uno dei due poli ci appare traballante e non ci
convince, corre il rischio di trascinare con sé l’altro.
A questo punto della discussione pare che ci venga incontro una scelta. In
mancanza di un criterio definitivo di decisione, un certo alone di arbitrarie-
tà circonda tanto l’accettazione della prospettiva ontologico-epistemologica
bergsoniana, quanto l’alternativa del suo rifiuto. Se, volendo accennare ad
una decisione, dovessi dei due poli – quello ontologico (la durata) e quello
epistemologico (l’intuizione) – individuare il più debole, indicherei senz’altro
il secondo. Si tocca con mano la difficoltà, da parte di Bergson, di delineare i
caratteri dell’intuizione, e anche il frequente ricorso alla metafora potrebbe
7
Si pensi alle parole con cui Cartesio apre il Discorso sul metodo: «Il buon senso è la
cosa nel mondo meglio ripartita».

7
essere una spia di questo imbarazzo del pensiero. D’altro canto, il linguaggio
analogico permette a Bergson un’espressività e sembra cogliere il bersaglio (la
durata) in un modo impareggiabile dal linguaggio logico della scienza. Resta
il fatto che la metafora manca di quel rigore che siamo soliti esigere da chi ci
vuole dire come stanno le cose. È bene allora mandare alla mente una lezione
antica, per ragionare se questa nostra pretesa sia fondata o meno:

[È] tipico della persona colta ricercare in ciascun genere di cose la


precisione solo per quanto lo permette la natura della cosa, dato
che è cosa evidentemente assurda sia accettare che un matema-
tico faccia appello alla persuasione, sia attendersi dimostrazioni
scientifiche da un retore.
(Aristotele, Etica Nicomachea, I 1, 1094 b 24-28)

Il monito aristotelico ci ricorda che ogni oggetto vuole il suo metodo, che è
ingenuo e controproducente pretendere di accedere alle più disparate realtà per
la stessa via. Nel contesto aristotelico, l’accento è sull’inevitabile differenza di
metodo tra sapere pratico e sapere teoretico. In Bergson troviamo un’analoga
insistenza, declinata, in questo caso, nei termini di un’assoluta irriducibilità
della scienza della vita alla scienza della materia. Intuizione ed analisi
costituiscono metodi qualitativamente diversi perché una frattura profonda
divide i mondi a cui l’una e l’altra danno accesso: chiedere all’intuizione la
stessa precisione, la stessa chiarezza e distinzione, lo stesso linguaggio che
adotta l’analisi, non è meno assurdo del pretendere che i concetti rigidi e
le immagini distinte (e discrete) dell’analisi ci restituiscano la realtà fluida
ed in continua evoluzione della durata. La riflessione di Bergson ci lascia
quantomeno questo: la consapevolezza dell’irrecidibile legame che stringe il
metodo all’essere, come guardiamo la realtà a cosa scoviamo in essa – una
profonda lezione epistemologica.

8
Riferimenti bibliografici
Aristotele
2005 Etica Nicomachea, a cura di Carlo Natali, Laterza, Roma-Bari.
Bergson, Henri
2008 La filosofia dell’intuizione, a cura di Giovanni Papini, Carabba,
Lanciano.
2012 L’evoluzione creatrice, a cura di Marinella Acerra, BUR-Rizzoli,
Milano.
Descartes, René
2013 Meditazioni metafisiche, in Opere filosofiche, a cura di Bruno
Widmar e Ettore Lojacono, UTET, Torino.
Hume, David
1996 Ricerca sull’intelletto umano, in Opere filosofiche, a cura di
Eugenio Lecaldano, Laterza, Roma-Bari.
Locke, John
2013 Saggio sull’intelletto umano, a cura di Nicola Abbagnano,
UTET, Torino.

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