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Pubblicazione finanziata sul progetto Ricerca-azione su un sistema di orientamento atto ad evidenziare la A cura di

percezione del valore della formazione per i giovani in obbligo dall’Agenzia Latina Formazione e Lavoro Barbara D'Amario
spa e dalla Provincia di Latina Valeria Saladino
Myriam Santilli

A cura di B. D'Amario, V. Saladino, M. Santilli, V. Verrastro


Valeria Verrastro

Le competenze trasversali
Teorie e ambiti applicativi

Le competenze trasversali Teorie e ambiti applicativi

QUALE psicologia, Nuova Serie, Anno 3, Numero 5, Supplemento n. 2, Ottobre 2015 Semestrale
dell’Istituto per lo Studio delle Psicoterapie fondato nel 1992 Organo della Società Italiana di
Psicoterapia e della Società Italiana di Psicoterapia Strategica Direttore responsabile Valeria Verrastro
Copertina a cura di Renato De Marco
Direzione, Redazione e Amministrazione 00185 Roma; Via San Martino della Battaglia 31; Telefoni 06
44340019, 328 6068080; Fax 06 44340017; www.qualepsicologia.it Autorizzazione del Tribunale di
Roma n. 86 del 17 Aprile 2013 - ISSN 1972-2338 Finito di stampare in proprio il 28 ottobre 2015
A cura di
Barabara D’Amario
Valeria Saladino
Myriam Santilli
Valeria Verrastro

Le competenze trasversali
Teorie e ambiti applicativi
Pubblicazione finanziata sul progetto Ricerca-azione su un sistema di orientamento atto ad
evidenziare la percezione del valore della formazione per i giovani in obbligo dall’Agenzia Latina
Formazione e Lavoro spa e dalla Provincia di Latina


































QUALE psicologia, Nuova Serie, Anno 3, Numero 5, Supplemento n. 2,
Ottobre 2015 Semestrale dell’Istituto per lo Studio delle Psicoterapie fondato
nel 1992 Organo della Società Italiana di Psicoterapia e della Società Italiana
di Psicoterapia Strategica Direttore responsabile Valeria Verrastro
Copertina a cura di Renato De Marco
Direzione, Redazione e Amministrazione 00185 Roma; Via San Martino della
Battaglia 31; Telefoni 06 44340019, 328 6068080; Fax 06 44340017;
www.qualepsicologia.it Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 86 del 17
Aprile 2013 - ISSN 1972-2338 Finito di stampare in proprio il 28 ottobre 2015

INDICE

Presentazione pag. 5
di Francesco Ulgiati

Introduzione pag. 7
di Valeria Verrastro

1. Competenze trasversali pag. 9


di Valeria Saladino

2. Comunicazione efficace pag. 23


di Valeria Saladino

3. Lavoro di gruppo pag. 39


di Maria Teresa Serranó

4. Relazioni efficaci pag. 55


di Valeria Saladino

5. Creatività pag. 69
di Valeria Saladino

6. Problem solving pag. 81


di Myriam Simonetti

7. Intelligenza emotiva pag. 99


di Valeria Saladino, Anna Maria Sansoni

8. Autoefficacia pag. 115


di Valeria Saladino

9. Decision making pag. 131


di Valeria Saladino

10. Gestione dello stress pag. 147


di Maria Teresa Serranó

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Presentazione

di Francesco Ulgiati1

L’Agenzia Latina Formazione e Lavoro ha avviato un progetto sulla ricerca e sulla


formazione dei giovani che hanno concluso il loro percorso triennale di istruzione con
lo scopo di identificare le motivazioni e le conoscenze circa la formazione
professionale.
La presente Ricerca-Azione si pone dunque l’obiettivo di sviluppare un sistema
formativo che faciliti l’apprendimento e l’orientamento dei giovani che si avviano al
mondo del lavoro ovviando gli eventuali dubbi e problematiche ad esso connesse.
Tutto ciò con lo scopo di rendere i giovani auto-efficaci, capaci di gestire se stessi e le
relazioni con gli altri nel complesso mondo del lavoro. Questo tipo di autonomia passa
attraverso aspetti emotivi, cognitivi e motivazionali, che comprendono anche lo
sviluppo delle competenze a partire dalla scuola.
Dunque tramite tale intervento di orientamento sia i docenti che gli operatori
dell’Agenzia promuovono l’insegnamento nell’ottica del lifelong learnin, concetto
importante nello studio di tutte quelle competenze che non sono work specific skills ma
che hanno a che fare con la flessibilità e l’adattamento nel modo, ossia le competenze
trasversali.
Nel presente volume vengono esplicitate le varie teorie di riferimento circa le
competenze trasversali enunciando gli approcci di studio e gli ambiti applicativi delle
stesse. Tali competenze infatti non sono trattabili unicamente da un punto di vista
teorico ma vanno esplicitate in campi di applicazione che hanno visto negli anni un
riconoscimento scientifico.
Le competenze trasversali trattate sono la comunicazione efficace, il lavoro di gruppo,
le relazioni efficaci, la creatività, il problem solving, l’intelligenza emotiva,
l’autoefficacia, il decision making e la gestione dello stress.
Nello specifico di tali competenze si evince come queste assumono un ruolo
fondamentale soprattutto in ambito scolastico per quanto concerne la capacità di
coinvolgere gli alunni e aiutarli a crescere e ad individuare i loro obiettivi a lungo
termine; in ambito lavorativo per guidare verso la scelta professionale e facilitare la
gestione delle dinamiche relazionali tra colleghi e con i superiori, massimizzando i
risultati; a livello sanitario per quanto concerne il rapporto medico-paziente ed il
benessere psicofisico.
Un altro ambito enfatizzato è il ruolo delle neuroscienze le quali divengono ormai
sempre più indispensabili per giungere ad una comprensione d’insieme circa i processi
ed i meccanismi coinvolti nello sviluppo delle competenze.
Il lavoro riportato passa in rassegna dunque teorie e ambiti applicativi delle competenze
trasversali, rilanciandone l’importanza nel quotidiano come in ambiti più specifici,

5
perseguendo lo scopo di informare e formare alla conoscenza sulle medesime basandosi
sulla scientificità del costrutto.


1
Amministratore Unico e Direttore Generale dell’Agenzia Latina Formazione e Lavoro spa

6
Introduzione

di Valeria Verrastro1

Il concetto di competenza “trasversale” è stato studiato nel corso del tempo in diversi
ambiti e applicazioni. Dalle prime definizioni del termine sino all’accezione odierna è
possibile rintracciare un fil rouge nella richiesta sempre crescente di un sociale in
continua evoluzione. Per far fronte a tali richieste l’individuo deve sviluppare ed
ampliare nuove competenze, non unicamente job specific ma più flessibili.
Tali competenze vengono definite “trasversali” poiché attraversano e conciliano saperi e
applicazioni differenti, rendendo l’individuo capace di adattarsi a contesti e situazioni
diverse. L’importanza delle competenze trasversali o soft skills non si evince
unicamente nell’ambito professionale. Il raggiungimento di una buona performance
lavorativa passa infatti attraverso vari fattori, oltre lo svolgimento della specifica
mansione. Tali fattori di influenza costituiscono il bagaglio personale dell’individuo e
sono identificabili in quattro macro categorie: personali, relazionali, cognitive ed
organizzative. All’interno di ogni categoria sono identificabili diverse competenze
trasversali.
Le competenze della categoria personale riguardano la conoscenza di sé, la capacità di
gestire le proprie emozioni e lo stress, il senso di autoefficacia e l’orientamento
all’obiettivo. L’area relazionale è strettamente connessa alla precedente. Questa
concerne la capacità di comunicare e relazionarsi con gli altri in maniera efficace, di
ascoltare e riconoscere le emozioni altrui e di lavorare in gruppo. La categoria cognitiva
invece è costituita dalle competenze di analisi e sintesi delle informazioni, decision
making, problem solving e creatività. Le capacità cognitive si traducono
secondariamente in organizzative, nel passaggio dall’ideazione alla messa in pratica. Di
tale categoria fanno parte infatti la pianificazione, la gestione dei tempi e la capacità di
controllo.
Da quanto detto emerge la flessibilità delle competenze trasversali e l’importanza di un
loro inserimento nell’ambito formativo. Infatti, nonostante la formazione abbia visto un
enorme cambiamento rispetto all’educazione tradizionale, troppo spesso il giovane si è
trovato in una condizione di disagio che non trova contenimento alcuno nella relazione
alunno-insegnate. Quest’ultimo infatti è tuttora basato unicamente sul trasferimento di
conoscenze teoriche in un rapporto frontale fra docente e discente.
Il termine insegnare, dal latino insignare, può assumere due accezioni. Da una parte
denota l’imprimere un segno nella mente di colui che apprende. Dall’altra parte è
traducibile come il guidare all’apprendimento di una disciplina. L’incapacità di stabilire
e mantenere un contatto con i propri discenti è forse uno dei maggiori problemi
attualmente irrisolti. In un’ottica di didattica orientativa colui che insegna è chiamato ad
apprendere e diffondere il sapere nella sua accezione più ampia, garantendo quegli
insegnamenti di vita applicabili ai contesti professionali, relazionali e sociali.
Il presente lavoro ha l’obiettivo di fornire una panoramica generale sulle soft skills,
illustrando i vari approcci presenti in letteratura e approfondendo le recenti ricerche nel
panorama internazionale.
Vengono illustrate nove competenze trasversali tra quelle enunciate: autoefficacia,
gestione dello stress, comunicazione efficace, relazioni efficaci, intelligenza emotiva,

7
lavoro di gruppo, creatività, problem solving, decision making. L’intento principale è
favorire l’applicazione pratica delle competenze citate nell’ambito della formazione,
insegnando ai formatori a trasferire oltre alle competenze tecniche anche le trasversali.
Un ultimo capitolo è dedicato infatti alla didattica orientativa e alla sua applicazione in
chiave pratica.
Dunque, l’apprendimento delle competenze trasversali vede sia l’alunno che il docente
attivi e partecipi della formazione e motivati a crescere come persone.


1
Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale.

8
Le competenze trasversali

di Valeria Saladino1

Una definizione di competenza

Il temine “competenza” deriva dal latino “cum-petere”, “chiedere”, “dirigersi verso”,


“pretendere”, ma anche dal verbo “competere”, “far fronte”. Una prima distinzione del
concetto riguarda il suo utilizzo plurale o singolare. Nel primo caso è traducibile in
chiave pratico-cognitiva, ossia come abilità generale. Al singolare invece fa riferimento
alla meta-cognizione ed ai processi mentali insiti nell’apprendimento (Boterf, 2000).
Da questa forma di camaleontismo concettuale si dipartono differenti definizioni di
competenza. Ambel (2004) l’ha definita come un insieme integrato di abilità che il sog-
getto utilizza consapevolmente in specifici contesti. Sulla stessa scia, Bertagna (ibidem)
identifica le competenze come capacità potenziali che permettono al soggetto di agire
congruamente alla situazione. Altri autori (Nelson, Winter, 1982) definiscono la com-
petenza come quella capacità di organizzare logicamente una serie di azioni per rag-
giungere un dato obiettivo. In chiave più ampia Ajello, Cevoli e Meghnagi (1992) par-
lano di prestazioni che si evolvono man mano con l’intento di governare situazioni di
l’incertezza. Un ulteriore accezione è quella che definisce la competenza come la risul-
tante delle nozioni di Sapere, Volere e Potere in una costruzione congiunta fra indivi-
duo, comunità e organizzazione (Ambel, 2004). Intorno agli anni Ottanta in Italia si
cominciò a discorrere circa il tema della competenza nell’ambito professionale. Si deli-
neò dunque una visione dinamica e multifattoriale della stessa, non riconducibile alla
sola dimensione meccanicista. La prima teorizzazione in tale direzione si deve a
McClelland (1973) il quale introdusse il termine “competenza” nell’ambito della psico-
logia delle organizzazioni. Egli infatti, nell’articolo “Testing for competence rather than
for intelligence” riteneva che non fossero i test attitudinali a predire il successo profes-
sionale ma piuttosto il successo che il soggetto riusciva ad ottenere nel corso della sua
vita. Dunque le competenze che realmente sarebbe stato necessario valutare concerne-
vano capacità comunicative e relazionali, non prettamente tecniche. A partire da tale
considerazione McClelland tenta di identificare quelle caratteristiche che assicurano una
prestazione lavorativa eccellente. Questa prospettiva è stata influenzata dal comporta-
mentismo. In base a tale approccio il comportamento è il risultato di un condizionamen-
to ambientale (Watson,1970), ossia della dinamica Stimulus-Response (S-R). Il fisiolo-
go russo Pavlov (2011) definiva l’apprendimento come una forma di adattamento agli
stimoli esterni. Il dibattito sul tema delle competenze partì inizialmente come una forma
di psicologizzazione dei rapporti umani nel mondo del lavoro. Si cominciò ad utilizzare
tale approccio all’interno del pensiero manageriale, riprendendo la prospettiva cogniti-
vista. A differenza del comportamentismo, il cognitivismo poneva una maggiore atten-
zione al soggetto. L’individuo è considerato alla stregua di un sistema di elaborazione
delle informazioni e attivamente coinvolto nell’apprendimento. In una logica non più di
stimolo-risposta ma di input-output la mente viene concepita come un sistema dinamico
in grado di elaborare le informazioni e di riflettere sui contenuti. In tal modo è possibile
sviluppare consapevolmente nuove abilità che costituiranno il patrimonio personale del
soggetto. La prima direzione di rinnovamento in tal senso si deve a Polanyi (1972), il

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quale applicò il pragmatismo alla filosofia della scienza, ponendo in essere il supera-
mento della dicotomia conoscenza-azione. Trascorso un periodo dedicato alla chimica e
alla fisica Polanyi decide di intraprendere la strada della filosofia. Secondo l’ideologia
comunista dell’epoca la scienza pura esiste solo come traduzione della lotta fra classi. In
quest’ottica Polanyi si afferma come difensore della libertà del pensiero scientifico, idea
espressa nel testo “The contempt of freedom” (1940). Qualche tempo dopo cominciano
a concretizzarsi le sue idee circa la natura individuale di ogni scoperta, tema affrontato
in “The tacit dimension” (1966). In questo testo egli espone la sua teoria
sull’epistemologia personalista. La conoscenza è definibile tramite due dimensioni:
l’esplicito, explicit dimension e l’inespresso, tacit dimension. La prima si rifà a tutti quei
contenuti oggettivi e scientifici abbracciati dall’epistemologia tradizionale, in cui la co-
noscenza coesiste con tutto ciò che è esprimibile e definito. La seconda dimensione in-
vece si identifica in una tipologia di conoscenza non codificata né strutturata attraverso
dogmi procedurali. Quest’ultima è infatti propria della mente umana, in quanto si co-
struisce e si sviluppa a partire dall’esperienza in una logica di apprendimento trasversa-
le. Polanyi definisce la conoscenza tacita come quella forma di sapere derivata
dall’intuizione e dalla comprensione degli eventi, dunque non riducibile al solo agire.
Le due dimensioni si intersecano e da ciò deriva la conoscenza in quanto tale. Questo
processo dinamico è stato ripreso negli anni ’90 da Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi.
I due studiosi giapponesi tentarono di spiegare le dinamiche sociali all’interno delle or-
ganizzazioni. Riprendendo la teoria di Polanyi, gli autori affermano che i processi alla
base della conoscenza derivano dalla combinazione/conversione della conoscenza im-
plicita ed esplicita. L’interazione sociale all’interno delle organizzazioni facilita tale
conversione che si traduce in dinamiche comunicative. Gli autori hanno fornito un note-
vole contributo riguardo i processi aziendali ed il concetto di conoscenza esplicita fon-
data su un sapere implicito, teorizzato da Polanyi. In tale direzione si muove anche Gil-
bert Ryle (1949), il quale distingue il “sapere come” dal “sapere che”. Il primo si fonda
sull’esperienza, mentre il secondo su una procedura standard. Secondo Ryle, per svolge-
re una data mansione entrano in gioco non solo l’azione procedurale in sé ma anche le
abilità cognitive apprese dall’esperienza. Al concetto di conoscenza tacita si ricollega
anche quello di incorporazione del materiale esterno (Leroi-Gourhan, 1977). Attraverso
l’interiorizzazione degli oggetti della conoscenza il soggetto prende consapevolezza del
mondo circostante. Tali oggetti divengono così parte integrante della crescita personale
dell’individuo. Questo fattore è stato ampiamente sottovalutato dalle scienze sociali che
si sono fermate alla materialità dei costrutti. Il sapere implicito diviene così una seconda
natura istintuale e si attiva automaticamente senza la consapevolezza del soggetto. La
conoscenza esplicita invece entra in gioco in maniera vigile nei momenti di difficoltà.
Polanyi inoltre fa riferimento alla psicologia della Gestalt nello spiegare lo sviluppo del-
la conoscenza come unica forma di consapevolezza. Analogamente alla percezione ge-
staltica derivata dal rapporto figura-sfondo. In tale concezione la comprensione possiede
un carattere attivo e pone in essere la così detta partecipazione personale, personal par-
ticipation. Dal momento che la conoscenza deriva dall’incontro tra soggettività indivi-
duale e realtà oggettiva non può esservi un dogmatismo di base applicabile indiscrimi-
natamente. All’interno di tale cornice si sviluppano differenti approcci atti ad illustrare
le varie sfumature del concetto di competenza.

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Gli approcci

Uno dei primi modelli di riferimento sulle competenze deriva dal pensiero dei motiva-
zionalisti, ossia coloro che tentano di ancorare la ricerca al fattore umano. In tale conte-
sto si evince l’approccio delle competenze individuali, condiviso dallo stesso McClel-
land insieme a Spencer & Spencer e Boyatzis. Gli autori identificano le competenze
come insieme di caratteristiche personali che concorrono a dar luogo ad una buona pre-
stazione professionale. L’interesse di McClelland per la performance professionale risa-
le ad un incarico affidatogli riguardo la selezione del personale di un gruppo di funzio-
nari del Foreign Service Information Officers (FSIO). Considerando la scarsa preditti-
vità ottenuta attraverso i test attitudinali rispetto al successo lavorativo, egli validò un
strumento basandosi sulle interviste a gruppi di diplomatici. Attraverso queste raggrup-
pò i comportamenti di successo nelle mansioni lavorative ed in seguito, tramite il meto-
do dei gruppi contrapposti, verificò se coloro i quali usavano questi comportamenti pos-
sedevano anche una performance superiore. Da tale studio McClelland evince che ciò
che fa la differenza sono le caratteristiche acquisite attraverso l’esperienza, non unica-
mente le funzioni cognitive e intellettive. Egli inoltre dà vita ad un modello dei bisogni,
individuandone tre tipologie inerenti lo sviluppo delle competenze: bisogno di realizza-
zione, bisogno di affiliazione, bisogno di potere. Il bisogno di realizzazione, achieve-
ment, è quel bisogno che conduce l’individuo a desiderare di portare a termine
un’attività con successo. Coloro i quali tendono all’auto-realizzazione, possiedono tre
caratteristiche:
• Preferiscono lavorare su compiti di difficoltà moderata, in modo tale da limitare
il numero dei potenziali insuccessi e rafforzare così la soddisfazione per la riu-
scita del compito.
• Ricercano situazioni in cui la performance dipenda dai propri sforzi piuttosto
che da fattori esterni, attribuendosi così un maggiore controllo e consapevolezza
rispetto alla situazione.
• Hanno un bisogno più elevato di ricevere feedback sui loro successi ed insucces-
si rispetto alle altre persone.
In base alle caratteristiche enunciate McClelland ritiene che il bisogno
all’autorealizzazione stia alla base del raggiungimento del successo, soprattutto
nell’ambito professionale. Il bisogno di affiliazione si traduce invece nel desiderio di
creare e mantenere relazioni interpersonali. I legami sociali garantiscono un maggiore
benessere psico-fisico, per cui le persone tendono a passare più tempo in gruppo e a de-
dicarsi ad attività in cui coltivare relazioni ed incontrare persone. In tal modo si svilup-
pano una serie di competenze slegate dal contesto propriamente lavorativo ma ugual-
mente connesse al raggiungimento del fine prefissatosi. Infine, il bisogno di potere
spinge le persone ad agire comportamenti di persuasione e manipolazione verso gli altri
per poter ottenere ciò che si desidera. Anche in questo caso le competenze che si svilup-
pano non saranno di tipo tecnico o job specific ma faciliteranno il successo lavorativo.
Questo bisogno ha una doppia faccia, positiva e negativa. Il lato negativo concerne co-
loro i quali tendono a mettere in pratica il ragionamento “se io vinco, tu perdi”. La parte
positiva invece riguarda coloro che coltivano un potere condiviso attraverso il team
work. Il lavoro di gruppo infatti permette a questa categoria di persone di mettere in pra-
tica il bisogno di potere attraverso il raggiungimento di obiettivi di gruppo. McClelland
ritiene che per essere un professionista di successo sia necessario un equilibrio fra i tre
bisogni da lui proposti. Daniel Goleman (2004), riprendendo i concetti elaborati da
McClelland, afferma l’importanza nei contesti lavorativi di un’intelligenza non solo lo-
gica ma che sia il frutto di varie capacità. Egli definisce questo costrutto con il nome di
intelligenza emotiva. Questa si traduce nella capacità di stabilire una relazione, un sen-

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timento di fiducia, adattabilità alle situazioni, comprensione degli stati emotivi. Tutte
caratteristiche fondamentali nel mantenimento di un ruolo lavorativo. Un altro autore in
sintonia con l’approccio individuale delle competenze è Boyatzis, il quale ritiene che
per poter definire le competenze strumento di previsione probabilistica del successo la-
vorativo, bisognerebbe considerarle caratteristiche stabili del soggetto. Dunque bisogni
e competenze devono essere analizzati nell’ottica della sfera intima del Sé. Nel libro
“The competent manager” (1982), Boyatizs definisce la competenza “una caratteristica
personale intrinseca [..] una motivazione, un tratto, una skill, un aspetto dell’immagine
di sé o d’un ruolo sociale, o il corpo di conoscenze usato da una persona” (cit. in Navar-
ra, 2004, p.9). In accordo con Boyatizs, Lyle e Signe Spencer (1995), asseriscono che
la competenza sia “una caratteristica intrinseca individuale che è causalmente correlata
ad una performance efficace o superiore in una mansione o in una situazione, e che è
misurata sulla base di un criterio prestabilito” (cit. in Tavani e Lichtner, 2004, p.2).
Questi sottolineano il carattere intrinseco e duraturo delle competenze, attraverso le qua-
li è possibile prevedere le future prestazioni del soggetto. Assume un senso l’aforisma
“è possibile insegnare a un tacchino ad arrampicarsi sugli alberi, ma è meglio assume-
re uno scoiattolo” (cit. in Navarra, 2004, p.10) che rappresenta la specificità delle com-
petenze peculiari di alcuni soggetti con determinate caratteristiche. Nel caso
dell’aforisma citato, è l’essere per natura scoiattolo che rende l’animale più adatto al
compito di arrampicarsi sugli alberi. Dunque la competenza è un qualcosa di intrinseco
e stabile. Gli autori evidenziano inoltre cinque elementi o fattori costitutivi le compe-
tenze, suddivise in nascoste e osservabili:
• Motivazione: fattore che comporta il prefissarsi ed il raggiungere un obiettivo
senza lasciarsi fuorviare da stimoli esterni.
• Tratti: propensione fisica, psicologica, innata ed anche derivata
dall’educazione che comporta una reazione ben definita dinnanzi a determinate
situazioni.
• Immagine di sé: valori e credenze che il soggetto nutre su di sé e che compor-
tano fiducia nelle proprie capacità e dunque nella riuscita del compito.
• Conoscenze: informazioni possedute riguardanti vari temi e saperi dichiarativi
e procedurali.
• Skills: insieme di abilità cognitive, relazionali e psicologiche fondamentali
per la riuscita di un dato compito.
Da tale suddivisione è possibile inserire conoscenze e skills fra le caratteristiche osser-
vabili delle competenze, mentre immagine di sé, tratti e motivazione fra gli elementi
sommersi. Spencer e Spencer identificano questa suddivisione attraverso l’immagine di
un iceberg in cui rappresentano le varie caratteristiche graficamente:

Figura 1

12
Tale approccio differenzia inoltre due grandi gruppi in base alla performance:
• Competenze soglia: caratteristiche di base necessarie per ottenere una perfor-
mance minima. Ad esempio il saper leggere e scrivere, non attribuibili ad un li-
vello superiore dal medio.
• Competenze distintive: caratteristiche peculiari che consentono di distinguere un
soggetto di livello superiore dalla media.
Per comprendere tale distinzione di livelli delle competenze bisogna avere un criterio di
misura come riferimento. Spencer e Spencer ne individuano due:
• Performance efficace: si considera efficace quella performance che permette lo
svolgimento di un lavoro minimamente accettabile. Al di sotto di tale perfor-
mance non si può considerare la persona adatta per quel ruolo.
• Performance superiore: per comprendere la performance superiore bisogna rap-
portarla alla prestazione media di un gruppo di lavoro, dunque calcolare la de-
viazione standard dalla media.
Ulteriore suddivisione la si deve a Woodruff (1996), il quale identifica due misure di-
stintive: tempo e anzianità di servizio. L’autore analizza quelle competenze che con il
tempo potrebbero costituire le maggiori abilità del soggetto. Nell’ambito della psicolo-
gia delle organizzazioni la valutazione del tempo può essere utile per elaborare una
mappa delle competenze sempre aggiornata. Mentre il grado di anzianità è importante
per quanto concerne l’organizzazione gerarchica all’interno del luogo di lavoro.
L’approccio individuale pone tuttavia il grosso limite della frammentazione delle com-
petenze e rende difficile delineare un’immagine unitaria delle persone. Il modello di
McClelland risulta ormai superato a causa della scarsa attuazione sul piano pratico. La
competenza infatti non può tradursi solo in un insieme di conoscenze ed attitudini ma
deve necessariamente guardare alla sua applicazione nei diversi contesti. Dunque, que-
sto primo filone non dà un vero e proprio contributo teorico ma piuttosto pratico-
operativo nel ricercare le caratteristiche dei perfetti performer ricavandone tipizzazioni e
modelli. Il secondo approccio delle competenze è quello razionale, definito anche “stra-
tegico”. Questo si basa sullo sviluppo delle così dette core competences, competenze
acquisite collettivamente dai membri dell’azienda. Tali capacità fanno riferimento al
coordinamento e all’organizzazione delle competenze tecniche aziendali. Un primo pas-
so è pervenire alle competenze distintive dei singoli identificando i jobs critici, mansio-
ni specifiche che garantiscono successo e competitività all’azienda. Da un punto di vista
strategico si può parlare di un approccio top-down quando l’azienda fa una riflessione
su comportamenti organizzativi coerenti dei membri; mentre si definisce approccio bot-
tom-up quando l’obiettivo è promuovere lo sviluppo delle competenze dei singoli. Dun-
que l’azienda interpreta le competenze come capacità collettive di un sistema che non si
può ridurre alla loro sommatoria. Barney (2006) definisce le core competences con le
seguenti caratteristiche:
• producono valore
• sono rare
• non sono facilmente imitabili
• non sono facilmente sostituibili
Questo modello ha il vantaggio di enfatizzare le qualità aggiuntive dei soggetti, che rap-
presentano un valore aggiunto proprio delle risorse umane e dunque intangibile. Ulterio-
re approccio delle competenze è quello cognitivo, il quale enfatizza la capacità di com-
prensione del problema facendo riferimento alle specifiche risorse possedute
dall’individuo. In tal senso la competenza è un sistema di risposta contesto specifico.
Sarchielli (2003), uno dei maggiori esponenti, presenta il suo pensiero come “sistemi-
co”, poiché tiene conto delle risorse del soggetto. Al centro del suo ragionamento vi è il
concetto di competenze trasversali, operazioni che implicano aspetti cognitivi, emotivi,

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relazionali e motori, il così detto cuore del “sistema operativo” dell’individuo. Queste
competenze permettono di affrontare il compito a partire dall’interazione con il conte-
sto. Secondo l’autore infatti la persona competente arguisce i propri schemi mentali
adattandoli di volta in volta alla richiesta del contesto per trovare la soluzione migliore.
Pellerey (2004) sostiene inoltre che fanno parte delle competenze anche le conoscenze,
che riguardano il comprendere come si fanno le cose; i saper-fare, la modalità con cui
funzionano le cose e le meta-conoscenze, ossia la riflessione sulle conoscenze stesse e
che ne permette la gestione. La persona competente è quella che sa mobilitare le sue ri-
sorse nel modo più appropriato. Dunque non si parla di sommatoria ma di logica com-
binatoria, poiché ogni elemento del sistema operativo dell’individuo si modifica in base
alle funzioni che vengono mobiliate. L’approccio cognitivista considera la competenza
costituita da tre elementi (De Bono, 2003):
• Operatività o formazione al sapere fare: compiti di tipo tecnico-pratici che non
richiedono sforzi innovativi a livello mentale ma unicamente abilità fisiche.
• Specializzazione o formazione al sapere: compiti specifici ad un determinato
mestiere che richiedono l’impiego di creatività e riflessione.
• Gestionalità o formazione al comportamento: discrezionalità rispetto alle deci-
sioni da prendere in ambito gestionale in relazione alle risorse da amministrare.
Dunque riguarda il saper decidere ed il sapersi relazionare.
Oltre agli approcci sin’ora discussi, esistono anche altre classificazioni meno utilizzate.
Michel (1993) ne ha identificate alcune:
• Approccio basato sulle attitudini. Il concetto di competenza e quello di capacità
sono equivalenti. Dunque la competenza deriva dal mettere in pratica quelle atti-
tudini che caratterizzano il substrato del soggetto. Tale attitudine, preesistente al-
la capacità, delinea la “propensione a”, la tendenza naturale di un individuo ad
agire ad uno specifico livello di abilità. In tal senso l’attitudine sta alla base della
competenza, infatti senza di essa non sarebbe possibile raggiungere alcun risul-
tato.
• Approccio basato sui saperi. In base a questo approccio la riuscita al compito è
correlata al possesso di conoscenze. Quindi la competenza è delimitata al conte-
sto dei saperi posseduti. A partire da ciò si evincono delle gerarchie di compe-
tenza basate sul livello di padronanza che il soggetto ha di quel dato sapere.
• Approccio basato sui saper-fare. A differenza dell’approccio sul sapere, quello
del saper fare si aggancia all’azione. Dunque saper fare vuol dire essere in grado
di risolvere un problema nella maniera più corretta. In quest’ottica i risultati de-
lineano il concetto di competenza, descrivibile in un’ottica quantificabile e misu-
rabile.
• Approccio basato sui comportamenti. Secondo questo approccio il comporta-
mento agito dal soggetto per risolvere un problema non è unicamente proprio
dell’agire ma anche della personalità dell’individuo. Il comportamento in sé,
come somma di saperi e saper-fare, non basta a descrivere una competenza ma
deriva anche dai tratti di personalità.
• Approccio basato sui saperi, saper-fare, saper-essere. Questo approccio sottoli-
nea l’importanza delle attitudini, dei comportamenti e della personalità, ponendo
questi tre fattori come fondamentale punto di partenza e convergenza per
l’espressione e lo sviluppo delle competenze.

Un altro modello cui fare riferimento è il modello ISFOL (Istituto per Lo Sviluppo Del-
la Formazione Professionale Dei Lavoratori). Questo ha introdotto in Italia il dibattito
sulle competenze trasversali, differenziandole in base a diverse peculiarità:
• Multidimensionalità: capacità strategiche, flessibilità e soluzione di problemi.
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• Dinamicità: competenza come processo di apprendimento che coinvolge aspetti
cognitivi, emotivi e sociali.
• Soggettività: il percorso che l’individuo costruisce deriva anche dai suoi valori e
dalle sue preferenze.
Il presente modello distingue inoltre:
• Competenze di base: competenze generali che fanno riferimento ad una dimen-
sione di appartenenza culturale. Queste competenze sono trasferibili a vari com-
piti e contesti e rispecchiano una preparazione sia professionale che generale
della persona.
• Competenze tecniche: competenze specifiche di un dato lavoro, acquisite in de-
terminati ambiti disciplinari.
• Competenze trasversali: sono quelle competenze che si traducono in comporta-
menti efficaci. Consistono nel saper utilizzare le proprie abilità in base al conte-
sto. Sono dunque molto flessibili e adattabili, non connesse ad uno specifico la-
voro o mansione ma derivate dall’esperienza. Queste si ricollegano al concetto
di risorse personali e sono suscettibili ad essere utilizzate in vari ambiti.
É stato proprio il modello ISFOL a promuovere il concetto di competenze trasversali
nell’ambito del lavoro, identificandole come quelle abilità che derivano dall’esperienza
e che costituiscono il nostro bagaglio personale e professionale. Dette anche “soft
skills”, “cross competencies”, “key skills” e “core skills”, queste abilità si distinguono
da quelle prettamente tecniche. Infatti il termine “trasversale” denota una maggiore
flessibilità contestuale. Boyatzis (1982) le definisce quell’insieme di caratteristiche in-
dividuali connesse ad una prestazione lavorativa e situazionale di natura relazionale, or-
ganizzativa e cognitiva. Tali competenze sono infatti divisibili in quattro macro catego-
rie. La prima categoria concerne le competenze personali. Queste pongono l’accento
sulla sfera della consapevolezza del sé. A partire dall’osservazione e dalla comprensione
delle proprie emozioni l’individuo sviluppa una buona conoscenza di sé, capacità di ge-
stione dello stress, senso di autoefficacia e orientamento all’obiettivo. Coloro i quali
hanno una buona capacità riflessiva su di sé e sui propri comportamenti individueranno
con maggiori probabilità i punti di forza e di debolezza e sapranno rapportarsi al compi-
to con maggiore successo. Di conseguenza il senso di autoefficacia percepito sarà eleva-
to, garantendo una buona gestione delle situazioni stressogene. La seconda categoria ri-
guarda le competenze relazionali. Queste rispecchiano le capacità comunicative e di af-
filiazione, quali l’intelligenza emotiva e le relazioni efficaci. Il possedere buone capaci-
tà empatiche permette all’individuo di comprendere e dunque modulare il proprio com-
portamento in relazione a chi si ha di fronte. Un secondo aspetto è la comunicazione ef-
ficace, che non consta unicamente della componente logico-cognitiva ma riguarda so-
prattutto l’adattamento al contesto e all’interlocutore a cui è rivolto il messaggio. Ulti-
mo aspetto della categoria relazionale è il lavoro di gruppo o team work. Quest’ultimo è
facilitato da buone competenze comunicative ed empatiche che portano a tener conto sia
delle esigenze dei singoli membri che dell’obiettivo. La terza categoria è quella cogniti-
va. Tra le competenze che ne fanno parte vediamo la capacità di analisi e sintesi delle
informazioni. Soprattutto oggi, epoca in cui siamo continuamente esposti a stimoli da
elaborare criticamente, questa è una capacità da non sottovalutare. Un’altra competenza
è il problem solving, ossia la capacità di trovare una soluzione semplice e concreta ad
un problema complesso. E ancora, la creatività che consiste nel ricercare idee alternative
ed originali per risolvere questioni di vario tipo. La creatività implica il saper andare ol-
tre la logica e la linearità, abbracciando prospettive e punti di vista diversi. Ulteriore
competenza cognitiva è la capacità di decision making, processo mentale che ci guida
nel compiere la scelta migliore fra varie opzioni disponibili. Quando si è propensi a
prendere la decisione giusta si calcolano i vantaggi e gli svantaggi di ogni opzione. Pos-

15
sedere una buona capacità di decision making prevede l’abilità di fare previsioni circa i
risultati ottenibili. In ultimo, la quarta categoria concerne le capacità organizzative.
Queste prevedono una maggiore operatività in quanto si collocano direttamente nella
realizzazione concreta di un progetto. La prima competenza è la pianificazione, ossia
l’individuazione di un piano di lavoro a partire dalle risorse e dalle attività. La seconda
competenza è la gestione dei tempi, traducibile nel rispettare le scadenze e darsi delle
priorità. Infine, la capacità di controllo prevede una fase di monitoraggio e la correzione
di eventuali errori presenti nel progetto. Le competenze trasversali possono anche essere
considerate competenze multiple, ossia comuni a differenti contesti lavorativi. Sono ca-
pacità trasferibili da una professione all’altra. Per tale motivo si dicono trasversali. Tale
trasversalità è traducibile su due livelli:
• work based: sono quelle competenze correlate ad attività lavorative e comuni a
vari contesti. L’importanza del loro apprendimento risiede nella possibilità di
utilizzarle in differenti ambiti lavorativi.
• worker based: sono strategie collegate alla propensione naturale dell’individuo.
Le così dette personal requirements. Queste rappresentano il cuore delle perso-
ne, quelle competenze che non sono direttamente osservabili ma che fanno la
differenza.
Dalle diverse accezioni trattate sino ad ora si evince che la competenza, nello specifico
la competenza trasversale, è sicuramente il frutto della combinazione fra sapere, saper-
fare e saper-essere e deriva dal coadiuvare pensiero ed azione. Il sapere adoperato trami-
te le competenze trasversali è condiviso, in quanto derivante dal riconoscimento sociale;
soggettivo, poiché intriso di significati personali attribuiti dall’individuo e manifesto, in
quanto espresso in termini pratici. In aggiunta, è possibile definire una serie di fattori
costituenti le competenze ed assimilabili ai vari approcci di cui sopra: contestualizza-
zione, ossia l’adattamento delle proprie conoscenze ed abilità al contesto di riferimento;
correlazione causale che combina la competenza alla performance tramite la concatena-
zione dell’intenzione che smuove l’individuo; conoscenza procedurale, ossia
l’importanza non solo di un sapere esplicito ma anche implicito che guidi il soggetto
verso competenze “altre”, derivate da processi di apprendimento informale; la dimen-
sione soggettiva che garantisce le competenze e le risorse individuali in un’ottica di au-
toconsapevolezza delle proprie capacità, ed infine la disponibilità effettiva di risorse,
dunque l’analisi della possibilità concreta del soggetto di compiere determinate azioni.

Ambiti di applicazione

Odiernamente il concetto di competenza trasversale è sempre più presente in svariati


campi. Ciò si evince in particolar modo da recenti studi condotti in merito alla psicolo-
gia delle organizzazioni, alla sanità e alla formazione. Nel 2005 Rowena Crosbie con-
dusse uno studio su un campione di soggetti appartenenti a cinque diversi programmi di
formazione sulla leadership. Lo scopo dello studio era enfatizzare l'importanza dello
sviluppo delle “soft skills” nei leader e quindi di esplorare il ruolo della formazione tra-
dizionale per aiutare gli stessi a sviluppare queste abilità. Attraverso una spiegazione del
complesso processo di apprendimento si evince come le organizzazioni che intrapren-
dono un'iniziativa di sviluppo della leadership sono incoraggiate a guardare oltre la
semplice valutazione dei programmi di formazione. Il successo dipende infatti non solo
da una formazione efficace, ma anche da elementi quali la facilitazione di esperti, la
consapevolezza contestuale del personale, il supporto formale e informale, l'applicazio-
ne del sapere nel mondo reale, l’autonomia didattica, la consapevolezza di sé, la gestio-
ne dello stress ed il riconoscimento e la gratificazione personale. Sulla stessa scia Ku-

16
mar e Hsiao (2007) esplorano l’importanza delle competenze trasversali in relazione
all’attuale situazione lavorativa, altamente competitiva e cangiante nelle richieste e nella
stabilità. Lo studio approfondisce le dinamiche di management e leadership nella classe
degli ingegneri e mostra come, per adattarsi alle nuove prospettive lavorative, i pro-
grammi universitari di ingegneria sono chiamati a ricercare modi innovativi per prepara-
re i laureati ad affrontare le sfide che dovranno sostenere. Come dimostrato già in pas-
sato (Swiderski,1987) nelle ricerche sugli Outdoor leadership training programmes, è
necessario acquisire sia le hard skills che le soft skills. Un altro aspetto fondamentale
nel contesto organizzativo è quello della gestione dello stress o stress management. La
capacità di gestire una condizione lavorativa eccessivamente stressante permette sia un
investimento sui membri del personale che sull’azienda stessa (Matteson; Ivancevich,
1987). Lo stesso vale nell’ambito scolastico. In uno studio longitudinale condotto trami-
te l’applicazione delle stress management technique, un gruppo di bambini di scuola
media ha partecipato ad un intervento di gestione dello stress, dieci minuti al giorno tutti
i giorni per quattro mesi. Una scala standardizzata per l’ansia è stata somministrata
prima dell’intervento, dopo quattro mesi e a distanza di un anno. Dai risultati si evince
un decremento dei sintomi ansiosi subito dopo l’intervento ed un mantenimento della
condizione dopo un anno. L’intervento è stato utile nella gestione degli eventi stressanti
sia nel contesto scolastico che sociale (Bothe; Grignon; Olness; 2014). Analogamente al
campo delle organizzazioni, anche nel settore della sanità è possibile riscontrare risultati
in favore delle competenze trasversali. Da uno studio condotto sull’importanza della
comunicazione efficace nell’ambito ospedaliero, furono notate alcune differenze nel
rapporto medico-paziente (Maguire, 2002). I dottori efficaci nella comunicazione rico-
noscevano il disagio del loro paziente più accuratamente, comportando una maggiore
soddisfazione dello stesso, il quale sentendosi accolto e compreso è più propenso ad ac-
cettare le cure. Inoltre le eventuali sensazioni di ansia o depressione del paziente dimi-
nuiscono notevolmente dinnanzi all’atteggiamento comprensivo del dottore, che sarà
gratificato dal rapporto che ha con il paziente. Dunque la comunicazione efficace com-
porta un beneficio reciproco. Un ulteriore ambito in cui le competenze trasversali sono
fondamentali è quello della formazione. Il tema della trasferibilità delle competenze da-
gli insegnati agli alunni è ormai stato ampiamente discusso. La letteratura rivela come le
competenze prevalentemente cognitive, soprattutto di problem solving, sono trasferibili
in determinate condizioni. Queste condizioni riguardano in particolare metodi e contesti
di apprendimento delle competenze. Pertanto, ci sono molte implicazioni per l'insegna-
mento delle competenze nel settore dell'istruzione superiore. L'apprendimento di princi-
pi e concetti facilita il trasferimento di questi nella realtà quotidiana, poiché crea rappre-
sentazioni mentali più flessibili. Il trasferimento di conoscenze basato unicamente sulle
facoltà mnestiche invece, ostacola l’apprendimento, facilitato piuttosto
dall’insegnamento pratico di tecniche di automonitoraggio. Educare al ragionamento ed
al pensiero critico è possibile unicamente attraverso l’ausilio di esempi concreti e di un
sistema sociale di riferimento. La stimolazione del pensiero creativo ed il ragionamento
cooperativo favoriscono l’autoconsapevolezza e la presa di coscienza di ciò che si è ap-
preso. In tal senso assume non poca importanza l’apprendimento di strategie metacogni-
tive (Billing, 2007). Questo tema è stato affrontato in studi precedenti (Hamburg,1990)
nel contesto della prevenzione del disagio adolescenziale. Infatti, attraverso
l’apprendimento delle così dette life skills si possono prevenire comportamenti a rischio.
Attualmente l’apprendimento scolastico vede un notevole cambiamento rispetto
all’educazione tradizionale, in quanto verte all’utilizzo delle nuove tecnologie e dei so-
cial network per favorire la comunicazione e la diffusione del sapere. Nonostante spesso
lo studio on-line si traduca in una vera e propria internet addiction, l’utilizzo del web e
delle strutture di E-learning può favorire il successo accademico. In tale prospettiva di-

17
viene ovviamente più difficoltoso promuovere il trasferimento del sapere da un punto di
vista umano. Le piattaforme on-line garantiscono solo un trasferimento virtuale non tra-
ducibile in un rapporto diretto e concreto. Queste accorciano le distanze temporali ma al
tempo stesso producono un distacco interpersonale (Williams, 2013). Un’ulteriore ricer-
ca è stata condotta attraverso l’ausilio del social network Facebook (fb) come strumento
di apprendimento in classe. Nel tentativo di integrare i compiti da svolgere a casa con
l’utilizzo del social network, è stato creato un gruppo fb in cui condividere il materiale,
fornendo in contemporanea delle informazioni circa le letture da svolgere in aula. Un
gruppo avrebbe presentato un intervento basandosi sulle informazioni condivise attra-
verso l’ausilio di facebook, l’altro gruppo senza il social network. Dai risultati si evince
come l’uso di fb non ha favorito una performance più elevata, né stimolato una maggio-
re comprensione o impegno nel compito. Tuttavia coloro i quali non hanno mai visto i
post su fb hanno riportato minori impegno e comprensione rispetto ai contenuti da stu-
diare. I dati suggeriscono che l’efficacia dell'integrazione dei social network in classe è
una sfida e il relativo successo o fallimento può stare in piedi o cadere sulla base di una
complessa interazione tra una serie di fattori, tra cui i tempi di consegna e la valutazione
soggettiva degli studenti (Dyson, et.al., 2015). Anche il costrutto di autoefficacia o self-
efficacy (Bandura, 1977) è stato approfondito in merito agli ambiti applicativi delle
competenze trasversali. Recenti ricerche hanno dimostrato che l’autoefficacia è tra i
maggiori predittori della motivazione e del successo scolastico. La self-efficacy intera-
gisce con il processo di apprendimento, influenzandolo (Zimmerman, 2000). Tra le
principali lacune della formazione la mancanza di motivazione da parte degli studenti è
forse la più sentita. La carenza di un’adeguata auto-regolazione nell’apprendimento è
fortemente collegata allo scarso impegno e agli outcomes negativi. Inoltre è fondamen-
tale oltre l’apprendimento in aula, anche quello outdoor, ossia al di fuori del contesto
formale. Questo tipo di setting garantisce infatti un apprendimento maggiore e più dura-
turo, poiché verte al coinvolgimento del soggetto (Pintrich, Zusho,2007). Ulteriore
spunto di riflessione si evince da alcuni studi sull’importanza del fattore creatività
all’interno delle organizzazioni (Nayak; Agarwal; Noida; 2011). Nella condizione di in-
certezza lavorativa odierna, l’uso creativo e dinamico delle idee è una notevole risorsa.
Secondo Amabile (ibidem) la creatività produce innovazione e competitività e garanti-
sce la sopravvivenza di un’azienda. Un differente approccio alla pratica manageriale ha
un forte impatto sull’ambiente lavorativo sia da un punto di vista professionale che rela-
zionale. In relazione agli studi citati è possibile evincere l’importanza e la flessibilità
delle competenze trasversali applicabili a differenti ambiti ed in continuo sviluppo si-
nergico con il contesto storico-sociale.

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1
Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma.

21

22
Comunicazione efficace
di Valeria Saladino1

Definizione di comunicazione

Il termine comunicazione, dal latino cum munire, “legare insieme” o “mettere in comu-
ne”, denota una trasmissione di informazioni a partire da un rapporto di interscambio
simbolico. La comunicazione umana si articola nel rapporto fra simbolo e significante
(Cassirer, 1923). Da qui la definizione di essere umano come “animale simbolico”, ca-
pace di esprimere attraverso il linguaggio pensieri, idee, sentimenti ed affetti. Egli non
si estingue alla sola logica razionale ma esalta la funzione del linguaggio in tutte le sue
sfumature comunicative. La comunicazione implica il coinvolgimento di più funzioni
della mente umana, a livello cognitivo, emotivo ed affettivo. Secondo Gardner (2005)
non è possibile scindere il contenuto dalla rappresentazione mentale, né la comunica-
zione dal significato. Anolli (2000) distingue la comunicazione dal comportamento e
dall’interazione. Si definisce comportamento un’azione motoria conscia o automatica. Il
comportamento è una forma di comunicazione e tramite l’interazione con un altro indi-
viduo si stabilisce il trasferimento delle informazioni. A differenza dell’interazione la
comunicazione necessita di consapevolezza ed intenzionalità da entrambe le parti.
L’atto comunicativo è dunque uno scambio interattivo, traducibile in un processo circo-
lare in cui coloro i quali sono coinvolti agiscono in maniera attiva. Secondo Vannoni
(2001) invece la comunicazione avviene indipendentemente dalla consapevolezza e
tramite qualsiasi mezzo. Questa influenza grandemente i processi di socializzazione ol-
tre a garantire la trasmissione del patrimonio culturale. La maggior parte dei processi
comunicativi si svolgono infatti in contesti di gruppo in cui si condividono determinate
informazioni ed idee. La comunicazione deriva dall’utilizzo di specifiche regole di lin-
guaggio attraverso cui trasferire determinati codici. Ogni essere adotta forme differenti
di codici per comunicare. Un esempio di comunicazione di gruppo nel regno animale
deriva dalla scoperta del fisiologo Karl Von Frisch. Egli notò la così detta “danza delle
api”, un particolare linguaggio attraverso cui l’ape divulga l’informazione circa la zona
particolarmente infiorescente al resto dell’alveare. Tale danza è detta anche scodinzo-
lante poiché segue in principio circolare dello Ying e dello Yang in base al quale l’ape
si muove in modo tale da formare un otto, sfruttando la posizione dell’alveare rispetto al
sole e lasciando in ombra o illuminando, in base al caso, la parte interessata ad indicare
la zona di nutrimento. Un altro esempio di comunicazione nel regno animale è dettato
dall’uso dei feromoni e degli allelochimici, sostanze utilizzate dagli insetti per la comu-
nicazione intraspecifica ed interspecifica. I feromoni vengono utilizzati tra esemplari
maschi e femmine della stessa specie ad esempio i feromoni sessuali, di aggregazione e
di dispersione. Invece gli allelochimici, utilizzati tra specie diverse, sono sostanze repel-
lenti prodotte allo scopo di allontanare o salvaguardare il gruppo dai predatori. Ad
esempio gli allomoni emessi dagli insetti a scopo antipredatorio o gli odori rilasciati dai
fiori per attirare gli insetti impollinatori. Dunque la comunicazione è un agire complesso
che vede coinvolti tutti gli esseri viventi e che influenza la percezione dell’ambiente fa-
vorendo l’adattamento. La comunicazione è stata analizzata inoltre in varie discipline.
Ad esempio l’informatica, la matematica, la linguistica, la psicologia, poiché ognuna di
esse ha uno specifico codice di riconoscimento che crea un legame tra l’individuo e la

23
specificità dell’interlocutore, sia che si tratti di una persona, una disciplina o un conte-
sto. La comunicazione è relazione, secondo Bateson (1972) è una “struttura che connet-
te gli individui agli altri” (Verrastro, 2008, pag.12). Infatti oltre a definire l’interazione
con l’ambiente definisce anche l’identità del soggetto, che si costruisce tramite relazioni
comunicative. Di fondamentale importanza in tal senso è lo studio compiuto dalla
pragmatica della comunicazione che pone come focus attentivo il concetto di competen-
za comunicativa (Hymes, 1972). A differenza dello studio sintattico e semantico,
quest’ultima non si applica solo ai processi e alle funzioni comunicative ma anche alla
contestualizzazione delle competenze della comunicazione. La sintassi infatti si limita
ad analizzare le problematiche connesse alla codifica e decodifica dell’informazione, al
canale comunicativo ed al rumore o ad eventuali problemi sintattici. La semantica si oc-
cupa dello studio dei significati che intercorrono negli scambi comunicativi tra gli inter-
locutori. La pragmatica invece affronta gli effetti della comunicazione fra i parlanti, at-
traverso lo studio della relazione che si instaura tra gli interlocutori nella gestione dei
turni nel parlare, nel prendere posizione durante una conversazione e nelle espressioni
non verbali. Autore di spicco nello studio della pragmatica della comunicazione umana
è Paul Watzlawick, studioso degli effetti che la comunicazione ha sul comportamento.
Watzlawick, insieme ad altri autori quali Bateson ed Haley, appartiene alla scuola di
Paolo Alto ed ha condotto diversi studi sulla comunicazione umana e sull’interazione
comportamentale. Secondo gli studiosi di Paolo Alto non è possibile scindere comuni-
cazione e comportamento poiché si influenzano vicendevolmente (Watzlawick, 1967).
La comunicazione permette agli individui di costruire la loro realtà. Il concetto di rela-
zione può essere paragonato a quello di funzione matematica. La funzione infatti deriva
dalla relazione tra variabili. La nostra percezione è il frutto dell’interazione fra cose o
funzioni e della consapevolezza che il soggetto pone in essere rispetto a sé e alla rela-
zione in cui si trova. Altro concetto fondamentale della pragmatica è quello di retroa-
zione. Ricordiamo a tal proposito l’esempio del sasso e del cane. Se diamo un calcio ad
un sasso saremo noi a produrne il movimento, mentre se diamo un calcio ad un cane,
questo prenderà da sé l’energia per muoversi, a partire dall’informazione che riceve dal
nostro calcio. Questo esempio descrive perfettamente il fulcro della pragmatica. Ponen-
do al centro l’informazione si enfatizza il ruolo del feedback o retroazione nello scam-
bio comunicativo. Per retroazione si intende il ritorno all’emittente del messaggio ri-
spetto allo stato del ricevente a seguito della comprensione dell’informazione. Esatta-
mente come nella cibernetica è possibile costruire un sistema capace di adattarsi e modi-
ficarsi sulla base delle interazioni. Esistono due tipi di retroazione, la positiva che porta
ad un cambiamento e la negativa che mantiene lo status quo. La comunicazione è costi-
tuita anche da ridondanza, ossia schemi che si ripetono. Infatti ogni qual volta si stabili-
sce un’interazione non si parte da zero ma da una base precostituita di omeostasi. Tor-
nando al paragone con le scienze algebriche, il matematico Hilbert ha definito il lin-
guaggio sulla matematica, meta-matematico. Lo stesso ragionamento vale per la comu-
nicazione. Quando noi discorriamo su di essa e sul linguaggio pragmatico insito in essa
stiamo meta-comunicando. L’interazione comunicativa è pensabile attraverso la Teoria
generale dei sistemi, secondo la quale il sistema è costituito da un insieme di oggetti in
relazione fra loro in un rapporto di reciproco influenzamento. Un sistema è definito inte-
rattivo se costituito da due o più comunicanti impegnati nel definire la natura della loro
relazione. A partire da tali constatazioni Watzlawick nel testo Pragmatica della comu-
nicazione umana propone cinque assiomi della comunicazione che rappresentano i pro-
cessi che si attivano durante la stessa:
• Non si può non comunicare: non esiste la possibilità di non comunicare. Qual-
siasi atteggiamento comunica qualcosa, anche la stessa tendenza a rimanere in
silenzio definirebbe una relazione in cui uno dei due soggetti vorrebbe negare la

24
comunicazione. In tal caso infatti il messaggio risulterebbe essere il silenzio
stesso.
• Livello di contenuto e livello di relazione: la comunicazione presenta due aspet-
ti uno di contenuto ed uno di relazione. Il contenuto riguarda l’informazione che
si desidera trasmettere mentre la relazione è la posizione adottata nei confronti
della persona a cui trasferiamo il messaggio. Per comprendere meglio questo di-
scorso Watzlawick utilizza l’analogia del calcolatore. Per funzionare la macchi-
na ha bisogno sia di informazioni che di meta-informazioni. La mancata capacità
nel comprendere e gestire le regole della comunicazione comporta una disfun-
zionalità e patologizzazione della stessa.
• La punteggiatura: da un’osservazione esterna potrebbe sembrare che la comuni-
cazione segua un percorso lineare. Tuttavia l’interpretazione che ne deriva ha
una punteggiatura precisa che delinea il tipo di relazione che si stabilisce. La bi-
lateralità della comunicazione comporta una ridefinizione continua sulla base
della sequenza degli eventi. La punteggiatura ha lo scopo di dirigere il flusso
comunicativo, permettendo la condivisione di esperienze comuni. I rapporti di-
sfunzionali derivano spesso da una punteggiatura conflittuale. Ad esempio du-
rante una lite i parlanti si accusano a vicenda di essere la causa del conflitto.
• Comunicazione digitale e analogica: quando si comunica si può fare riferimento
agli oggetti in maniera analogica o digitale. Nel primo caso si fa riferimento a
qualsiasi forma di comunicazione non verbale, incluse posizioni del corpo, gesti,
espressioni del viso, inflessioni della voce, sequenza e ritmo delle parole. Quindi
questa trasmette soprattutto sul piano relazionale ed è il tipo di comunicazione
usata dagli animali. Mentre la tipologia digitale si riferisce all’utilizzo del canale
verbale, enfatizzando l’assegnazione simbolica. Inoltre, in base al secondo as-
sioma, il modulo numerico veicola il contenuto dell’informazione mentre il mo-
dulo digitale rispecchia la relazione della comunicazione. L’uomo utilizza en-
trambi i moduli per comunicare, quando si sviluppa un conflitto è perché non vi
è un equilibrio fra i due.
• Interazione simmetrica e complementare: si definisce comunicazione simmetrica
se vi è uguaglianza e parità nel rapporto fra soggetti. Non vi è un dominante e un
dipendente. Tuttavia può avvenire la così detta corsa agli armamenti o schismo-
genesi, come direbbe Bateson, che delinea un’escalation di aggressività. Invece
le relazioni complementari denotano la definizione di ruoli in cui un soggetto è
one-up e uno one-down. In tal modo si stabilisce una relazione di potere in cui
non vi è eguaglianza ma disparità. Questo tipo di relazione è spesso il frutto di
contesti culturali in cui si stabilisce a priori una condizione di sudditanza o do-
minio di un individuo su un altro.
Ognuno degli assiomi presentati pone diverse patologie comunicative che coinvolgono
gli attori dell’interazione. Watzlawick ha individuato:
• Patologie del primo assioma: dal momento che la non comunicazione è impossi-
bile, si creerà una condizione di conflitto di fronte ad uno sforzo teso ad evitare
la comunicazione stessa. L’esempio più noto è quello di due individui seduti
l’uno accanto all’altro in aereo. Questi non possono né andarsene né non comu-
nicare. Dunque potrebbero verificarsi un rifiuto della conversazione,
un’accettazione, una squalificazione o l’utilizzo di un sintomo.
• Patologie del secondo assioma: la patologizzazione del secondo assioma riguar-
da la confusione fra il contenuto e la relazione nella comunicazione. Qualora
predomini il disaccordo relazionale e si affronti solo l’aspetto di contenuto si
generano incomprensioni che comportano conflitto. Essendo i due livelli stret-
tamente connessi non si può affrontarne uno senza toccare l’altro. Tuttavia biso-

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gna gestirli in maniera consapevole, poiché al contrario si rischia di rimanere
bloccati nel flusso della comunicazione disfunzionale. Sono tre le reazioni co-
municative possibili connesse al livello relazionale: la conferma, il rifiuto e la
disconferma della relazione.
• Patologie del terzo assioma: la punteggiatura descrive il punto di vista dei par-
lanti definendone la relazione. L’unico modo per risolvere una situazione di im-
passe a questo livello è imparare a metacomunicare, ossia a riflettere sui conte-
nuti propri ed altrui. La patologia in tal senso riguarda la così detta “profezia che
si autodetermina”, che deriva dal confermare l’idea che il soggetto ha su di sé,
mettendo in atto degli atteggiamenti che provocano le reazioni attese.
• Patologie del quarto assioma: secondo Watzlawick la conseguenza di un pro-
blema a livello del quarto assioma riguarda l’incapacità di metacomunicare sia
nel modulo analogico che digitale. Infatti sebbene l’uno sia connesso al contenu-
to e l’altro alla relazione non sono scindibili. Questo comporta ancora una volta
una comunicazione rigida.
• Patologie del quinto assioma: nelle relazioni sane c’è sempre una componente
simmetrica ed una complementare. La disfunzionalità della relazione simmetrica
si instaura a partire dall’escalation e dalla prevaricazione di un soggetto
sull’altro, ciò comporta il rifiuto reciproco delle definizioni del Sé. Nel caso di
patologie a livello complementare invece si osserva una disconferma della rela-
zione. I comunicanti permangono nelle loro posizioni, one-up, one-down senza
alternarsi, portando ad un disequilibrio. Ad esempio la madre che si impone con
il figlio non dandogli mai la possibilità di esprimersi.
Attraverso svariate ricerche sulle relazioni simmetriche e complementari condotte pres-
so il Mental Research Institute della Scuola di Paolo Alto, Watzlawick si rese conto
dell’importanza degli schemi relazionali dei comunicanti e dello studio delle interazioni
umane. Attraverso queste ultime il soggetto sviluppa nel corso della sua vita i processi
comunicativi che gli permetteranno di adattarsi a contesti e situazioni differenti. I pro-
cessi e i meccanismi propri della comunicazione vedono diverse fasi di sviluppo e sono
influenzati da fattori genetici, sociali ed ambientali. La competenza comunicativa infatti
si sviluppa a partire dalle prime interazioni nel contesto familiare attraverso le figure di
attaccamento. Contemporaneamente alle capacità comunicative si accrescono anche
quelle relazionali, apprendendo così il livello di contenuto e di relazione della comuni-
cazione (Verrastro, 2004). Un aspetto che incide fortemente sullo sviluppo delle compe-
tenze comunicative è il linguaggio. Recenti ricerche si sono focalizzate sullo studio del
linguaggio identificandolo come oggetto di studio primario per la comprensione dello
sviluppo cognitivo e socio-affettivo del soggetto (Verrastro, 2008). Ciò che contraddi-
stingue la comunicazione umana è la contestualizzazione del messaggio. Questo si mo-
difica costantemente per cui esistono varie modalità attraverso cui comunicare che ren-
dono peculiare ogni interazione umana. Pellegrino e Scopesi (1989) identificano alcuni
fattori del sistema linguistico capaci di influenzare lo sviluppo comunicativo: intenzio-
nalità del linguaggio, adattamento al contesto, relazionalità comunicativa, inferenza dei
rapporti sociali implicati nell’interazione, rispetto dei turni della conversazione, mante-
nimento del focus attentivo e partecipazione alla conversazione. Di pari passo con le
competenze linguistiche vediamo lo sviluppo cognitivo e sociale, costituendo il passag-
gio dal linguaggio non verbale a quello verbale. La comunicazione completa vede tutta-
via la continua interazione dei due registri. Camaioni e Di Blasio (2002) enfatizzano al-
cuni aspetti del processo di acquisizione dei dati linguistici. Gli autori affermano che lo
sviluppo linguistico deriva da processi di co-costruzione messi in atto dal soggetto du-
rante l’interazione sociale, che è uno strumento di definizione della realtà derivato da
sequenze dialogiche. Da questo punto di vista è fondamentale considerare la valenza re-

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lazionale della comunicazione e dello sviluppo del soggetto nelle sue competenze sia
tecniche che trasversali. Comunicare vuol dire sia interagire attraverso le parole e gli
scambi linguistici che tramite il non verbale e soprattutto in co-costruzione con
l’interlocutore. Questa è la principale motivazione per la quale ci si è soffermati sullo
studio delle interazioni primarie fra genitori e bambini, per conoscere e comprendere in
che misura la comunicazione possa influire sullo sviluppo sia cognitivo che relazionale
del soggetto. Le persone, una volta acquisito uno schema comunicativo, lo applicano
estendendolo e adattandolo di volta in volta a più contesti. In questo senso acquisiscono
una valenza fondamentale sia i genitori che tutte le figure che assumono un ruolo di tu-
toring. Insegnanti e formatori contribuiscono infatti ad incrementare le capacità comu-
nicative dell’individuo sia durante l’età infantile che in età adulta. La comunicazione e
la metacomunicazione garantiscono dunque la consapevolezza del soggetto circa il pro-
prio essere comunicante ed influenzante l’ambiente circostante.

Teorie e modelli della comunicazione

La continua stimolazione a cui è sottoposto l’uomo nel corso dello sviluppo, a partire
dalle prime relazioni diadiche ed ai rapporti sociali in maniera più ampia, enfatizza la
sua propensione alla comunicazione. L’essere umano apprende sia il contenuto
dell’informazione che le regole di interazione. Questo è reso possibile da differenti mo-
dalità di linguaggio. Indipendentemente dai fini e dai mezzi utilizzati la comunicazione
protende ad uno scambio di informazioni a cui si attribuiscono significati contingenti.
Nel corso degli anni diverse sono state le teorie che hanno tentato di illustrare le caratte-
ristiche della comunicazione. Da ciò derivano i seguenti modelli.
Modelli della “trasmissione d’informazioni”. Il modello lineare della comunicazione,
nasce dal lavoro del matematico Weaver e dell’ingegnere elettronico Shannon.
Quest’ultimo, occupandosi del canale di trasmissione del messaggio, teorizzò il trasfe-
rimento dell’informazione attraverso uno schema lineare. Nel 1949 propose, insieme al
collega, il modello della trasmissione d’informazioni. Il processo prevede un emittente
(A) da cui parte il messaggio, ed un ricevente (B) a cui arriva. Tale messaggio viene co-
dificato dall’apparato di trasmissione dell’emittente e decodificato da quello del rice-
vente e viaggia tramite un canale. Vi sono diverse modalità attraverso cui può avvenire
la codifica del messaggio, tuttavia è fondamentale che questo sia decodificato senza er-
rori. Ad esempio qualora vi dovesse essere una distorsione del messaggio avverrebbe
una mancata comunicazione. Secondo questo modello è fondamentale che non vi siano
alterazioni della comunicazione nello scambio di informazioni tra emittente e ricevente.
Da qui la definizione di una tipologia di comunicazione qualitativamente efficace ed
economica. Uno dei limiti mossi al modello di Shannon e Weaver riguarda la scarsa at-
tenzione ai contenuti dell’informazione e all’eccessiva linearità del processo (Eco,
1975). A tal proposito Schramm (1955) ideò il modello semi-circolare della comunica-
zione. Quest’ultimo si basa sulla presenza dei seguenti dieci elementi che definiscono la
comunicazione: emittente e destinatario, canale e messaggio, funzioni di codifica, deco-
difica, risposta e feedback, campo di esperienza e rumore. Tra gli elementi aggiunti al
precedente modello vi è il concetto di feedback, che ha la funzione di inviare un mes-
saggio di risposta di tipo retroattivo. Questo aspetto della comunicazione è fondamenta-
le in quanto rende il destinatario protagonista attivo del processo e modifica l’ottica del-
la linearità della comunicazione. La bidirezionalità comunicativa implica inoltre il con-
cetto di campo esperenziale, dividibile in virtuale e reale. Il primo si riferisce alla con-
divisione di elementi non esplicitati in maniera diretta, come le esperienze e le influenze
culturali. Il secondo si riferisce invece al contesto reale in cui i due soggetti comunicano

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e definiscono la loro relazione. Secondo il modello semi-circolare dunque il ricevente è
anche emittente nel momento in cui invia un feedback. Egli elabora i contenuti ricevuti
e li interpreta in base al proprio campo d’esperienza. Jakobson elabora nel 1966 il mo-
dello della comunicazione verbale, basato sulla contestualizzazione del messaggio e
sull’analisi della componente verbale e non verbale. Egli afferma che le componenti del
processo di trasmissione dell’informazione sono il mittente, il destinatario, la presenza
di un contesto in cui avviene la comunicazione, un codice ed un contatto. La presente
trasmissione vede le seguenti funzioni del processo comunicativo: emotiva, conativa,
referenziale, poetica, fàtica e metalinguistica. La funzione emotiva concerne la capacità
del mittente di esprimersi in relazione alle sue emozioni. La conativa riguarda
l’influenza agita sul comportamento del destinatario. La referenziale vede il messaggio
ed i suoi contenuti contestualizzati e posti in relazione con il mondo. La funzione poeti-
ca rispecchia la scelta dei vocaboli sia nel testo scritto che nel parlato rispetto
all’organizzazione del linguaggio. La funzione fática descrive il momento di contatto in
cui il messaggio passa attraverso il canale comunicativo. Infine la metalinguistica con-
cerne l’interpretazione dei significati del messaggio e gli eventuali chiarimenti sulle
terminologie e scelte grammaticali operate. Ulteriore studioso delle funzioni del lin-
guaggio insite nella trasmissione dell’informazione è Halliday (1992), il quale individua
la funzione ideativa attraverso cui l’emittente comunica la sua esperienza rispetto al
proprio vissuto e al contesto reale. A partire da ciò egli costruisce degli schemi mentali
attraverso cui interpreta il mondo. La funzione interpersonale definisce invece le rela-
zioni che intercorrono fra gli interlocutori. In ultimo la funzione testuale riguarda
l’organizzazione del discorso in maniera coesa e puntuale in cui i vari elementi della
comunicazione sono interconnessi.
Modello semiotico della comunicazione. Un’ulteriore evoluzione verso la componente
sempre più linguistica della comunicazione la si deve al modello della semiotica. Questa
si occupa dell’analisi dei segni e dei processi che denotano di significato i messaggi
scambiati fra i parlanti. Fautore di tale approccio è De Saussure. Secondo l’autore la
linguistica definisce ed è definita da un insieme di segni corrispondenti ad una serie di
idee (De Saussure, 1967). Egli distingue la dimensione sociale da quella individuale
della linguistica, tenendo conto dell’interconnessione fra il concetto espresso tramite la
parola e la sua immagine acustica, definendo il primo con il nome di significato ed il se-
condo di significante. De Saussure aggiunge inoltre che il sistema su cui si basa
l’immagine acustica è investito da linearità, in cui più elementi si combinano in succes-
sione sintagmatica. Le parole assumono significato basandosi sul rapporto associativo
che hanno le une con le altre e che mantengono tramite la struttura mnestica. A partire
dalla teoria di De Saussure, Peirce reinterpreta in chiave maggiormente relazionale il
concetto di segno. Egli afferma infatti che non è importante unicamente il significato ed
il significante ma anche l’interlocutore a cui comunicare tali significati e che interpreti e
deduca il messaggio. Egli stesso porterà con sé un suo bagaglio composto da segni e si-
gnificati personali che influenzeranno e determineranno l’inferenza. In tal senso il pro-
cesso comunicativo semeiotico si svolge ad un livello bidirezionale. Su questa base si
definisce il modello semiotico-informazionale proposto da Eco e Fabbri (1978) ed ap-
plicato alla psicologia della pubblicità. Partendo dai fattori semantici si differenzia dal
modello lineare della comunicazione di Shannon e Weaver poiché affronta il problema
del significato e rilegge il costrutto di codice. Se il modello lineare si basa solo sulla let-
tura della codifica, quello semiotico-informazionale si focalizza maggiormente sulla fa-
se della decodifica. Il significato attribuito dal ricevente al messaggio potrebbe non es-
sere il medesimo di quello inviato dall’emittente. L’interpretazione del ricevente infatti
deriva da molti fattori indipendenti dal controllo della fonte dell’informazione. Gli auto-
ri parlano dunque di “decodifica aberrante”, ossia una forma di sistematica distorsione

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della comunicazione (Hall, 1980). Questa avviene quando un’assenza di codici non ga-
rantisce un’organizzazione definita del messaggio, che risulterà non decodificabile; in
presenza di una divergenza fra emittente e ricevente nell’utilizzo dei codici; in caso di
incapacità nell’interpretazione dei codici e rifiuto del messaggio decodificato corretta-
mente per divergenze ideologiche. Partendo dalle limitazioni del presente approccio, ec-
cessivamente incentrato sul codice, Eco propone il modello semiotico -testuale. Questo
non è più limitato alla sola interpretazione dei messaggi tramite un codice ma è la rela-
zione tra comunicanti che definisce i significati. La comunicazione di massa è un esem-
pio di semiotica-testuale, in quanto non parte da un solo enunciato ma da un insieme di
messaggi testuali. Il messaggio è interpretabile unicamente su base testuale e
l’interpretazione è filtrata da una serie di influenze culturali che non possono essere
semplificate da codici. In una prospettiva di rapporto fra codifica-decodifica Hall (Ibi-
dem) definisce tre modalità di lettura tramite cui è possibile recepire l’informazione:
preferita, qualora il ricevente decodifica il messaggio esattamente in base al codice per
cui la fonte lo aveva programmato; negoziata, ossia che il ricevente interpreti il mes-
saggio in parte basandosi sulla volontà dell’emittente in parte sulla propria;
dell’opposizione, in cui il ricevente interpreta il messaggio unicamente in base al pro-
prio punto di vista. Infine il testo contiene in sé diversi codici impliciti ed espliciti, non
si limita dunque ad una interpretazione standard. Tale modello getta le basi per la com-
prensione del costrutto di comunicazione efficace, in quanto costituisce la competenza
discorsiva dell’individuo.
Modello sociologico. La sociologia affronta il tema della comunicazione come derivan-
te dall’interazione fra attori sociali entrambi attivi e partecipi. Goffman (1975) paragona
infatti l’atto del comunicare ad una rappresentazione sociale, focalizzandosi sui ruoli
che intercorrono di volta in volta fra i parlanti. Egli introduce a tal proposito il concetto
di frame, ossia la cornice all’interno del quale si definiscono i termini della comunica-
zione in maniera del tutto negoziabile e dinamica. Secondo Goffman la comunicazione
coinvolge diversi aspetti degli interlocutori quali abbigliamento, gestualità, fisicità che
danno informazioni fondamentali sulla loro persona. Il contesto della comunicazione o
territorio, viene paragonato dall’autore ad un palcoscenico, divisibile in ribalta e retro-
scena e da cui deriva l’ulteriore distinzione fra individuo e attore. Il primo si mostra nel
retroscena mentre l’attore rispecchia ed interpreta i ruoli nella ribalta, in cui indossa le
varie personalità o maschere richieste dal contesto. Attraverso la comunicazione dunque
da una parte il soggetto esprime sé stesso e acquista una sua identità, dall’altra calibra le
sue rappresentazioni adattandosi di volta in volta. Un tipo di comunicazione disfunzio-
nale deriva dal disequilibrio fra ciò che esprime l’individuo e l’attore.
Mass Communication Research. Questo modello rappresenta quel filone di studi che
analizza i processi insiti nella comunicazione di massa. Lo studioso dei messaggi me-
diali Lasswell (1927) identifica tre funzioni del processo comunicativo: la vigilanza
sull’ambiente, mediazioni fra le componenti sociali e trasmissione dell’eredità sociale.
Dai limiti del precedente modello, McQuail (1994) propone l’esistenza di cinque ele-
menti necessari per la comunicazione: definizione degli attori della comunicazione, mo-
tivazioni e scopi, canali e linguaggi, contenuti ed informazioni, conseguenze della co-
municazione. Ulteriore teoria che enfatizza invece lo scambio che intercorre fra pubbli-
co e media è quella proposta da Katz e Lazarsfeld (1955) i quali propongono la teoria
del flusso a due fasi della comunicazione. Questa si basa su un primo step in cui
l’informazione viene trasmessa dai media agli opinion leader di un dato gruppo sociale
e un secondo step in cui l’informazione passa dagli opinion leader al gruppo sociale.
Questo modello enfatizza l’interpersonalità del processo mediatico.
Modello psicologico. La comunicazione in psicologia viene analizzata sia a scopi di co-
noscenza della mente umana che a scopi terapeutici. L’utilizzo del linguaggio sia verba-

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le che non verbale è infatti ampiamente utilizzato in vari contesti terapeutici in quanto
definibile nel suo essere relazione. Quest’ultima si sviluppa nella continua interazione
dell’individuo con se stesso e con il mondo. Come accennato in precedenza uno dei
modelli terapeutici maggiormente inclini a tale definizione è il modello strategico, pro-
mosso dalla Scuola di Paolo Alto. Partendo da una critica mossa al sistema lineare della
comunicazione, Watzlawick e Bateson si dedicarono allo studio dei modelli retroattivi
derivati dalla cibernetica e promossi dallo studio sull’entropia dei sistemi di Wiener
(1948). Secondo quest’ultimo nello studio dei processi della comunicazione non si può
non tener conto della dimensione socioculturale.

Ontogenesi del linguaggio

Il linguaggio e la comunicazione definiscono i rapporti sociali e simbolici che mediano


le relazioni umane. Il linguaggio è una capacità determinata biologicamente, come ri-
scontrabile in neuropsicologia. Diversi studi (Verrastro, 2004) hanno arricchito le teorie
classiche sul “localismo”, presenza di strutture specifiche connesse a determinate fun-
zioni cerebrali, e sull’approccio olistico o il coinvolgimento di più aree nell’espressione
delle funzioni cognitive. Da queste si evince infatti la presenza di una complessa rete di
vie nervose e contenuti semantici da cui derivano differenti unità espressive che garanti-
scono una forma di comunicazione definita “efficace”. Attraverso studi incentrati sulla
lateralizzazione cerebrale si è riscontrata la predominanza dell’emisfero sinistro nelle
capacità logico-analitiche e linguistico-verbali. Mentre l’emisfero destro è coinvolto nei
processi emozionali e non verbali. Effettuando studi con pazienti split-brain, si vede
come le informazioni vengono percepite separatamente ed alcune non possono essere
comunicate poiché gestibili unicamente dall’emisfero opposto (Verrastro, 2008). Da ciò
la definizione di emisfero sinistro “parlante” e destro “silente”. Le aree principali
dell’emisfero sinistro sono l’area di Broca e l’area di Wernicke responsabili della com-
prensione e produzione del linguaggio e situate nella corteccia uditiva e visiva primarie
e nella corteccia motrice. L’individuo infatti recepisce l’informazione attraverso la
membrana del nervo uditivo per elaborarla tramite la corteccia uditiva primaria e, se-
condariamente, all’area associativa parieto-temporo-occipitale. Dopo essere stata elabo-
rata, l’informazione, non più grezza, passa all’area di Wernicke che permette una com-
prensione del messaggio e all’area di Broca, in cui viene elaborata una risposta. Con-
temporaneamente si attivano tutta una serie di muscoli facciali che provocano la solleci-
tazione delle aree motrici e dei movimenti congrui alla scelta fonetica operata. Nono-
stante la predominanza dell’emisfero sinistro nella comprensione del linguaggio, è
l’interazione dei due emisferi che rende possibile la comunicazione. L’emisfero destro
infatti permette di attribuire significato agli stimoli recepiti in termini affettivi ed emoti-
vi rispetto al tono di voce e all’espressione utilizzata. Lo stesso Watzlawick (1967) at-
tribuisce all’emisfero destro la comprensione del linguaggio metaforico. Secondo Mo-
relli (2005) le parole agiscono a livello cerebrale sia sull’emittente che sul ricevente,
tramite un processo di tipo chimico-fisico che parte dall’ascolto sino a giungere al cer-
vello. I suoni captati dal timpano attraversano il cranio tramite la coclea sino a raggiun-
gere il nervo acustico. Qui, tramite la stimolazione del nervo vago, questo raggiunge gli
apparati respiratorio, digestivo, e circolatorio. Per quanto concerne il sistema nervoso
centrale (SNC), le aree del cervello interessate sono le aree limbiche e para-limbiche
poiché adiacenti alle strutture uditive. Questa è la ragione per cui la ricezione di un mes-
saggio coinvolge sia modifiche al SNC che al sistema simpatico e parasimpatico, com-
portando un’attivazione psicosomatica. La comunicazione influenza i nostri stati
d’animo oltre che la nostra razionalità. Ulteriore mole di teorie riguarda la definizione

30
del linguaggio come innato o acquisito. Di questo argomento si è occupata la psicologia
dello sviluppo. Tra le ipotesi sull’innatismo del linguaggio vediamo la teoria
dell’innatismo strutturale di Chomsky (1986), il quale ipotizza l’esistenza di un codice
universale che rende possibile l’apprendimento linguistico indipendentemente
dall’appartenenza culturale. Secondo tale teoria esiste un particolare periodo della vita
dell’individuo, definito “periodo critico” in cui la maggiore plasticità neurale favorireb-
be l’apprendimento delle facoltà comunicative. Di tutt’altro avviso sembrerebbe la teo-
ria comportamentista di Skinner secondo cui il linguaggio viene appreso dal bambino,
definito una tabula rasa, tramite rinforzi positivi ricevuti dai genitori e dal contesto. Al-
tro autore, che si discosta ampiamente dalle precedenti teorie, è Vygotskij (1974) il qua-
le si focalizza sull’importanza dell’interazione sociale nello sviluppo cognitivo. Il lin-
guaggio non è solo uno stimolo esterno recepito passivamente ma coinvolge la cultura
del soggetto, in quanto viene interiorizzato come stimolo interno. A tal proposito
l’autore identifica alcune fasi dello sviluppo del linguaggio che rappresentano anche lo
sviluppo cognitivo e sociale del soggetto. Egli identifica una zona definita di sviluppo
prossimale in cui sono contenute quelle funzioni non ancora mature del bambino ma che
si sviluppano attraverso le interazioni. Lo sviluppo del bambino va di pari passo con
quello del linguaggio, passando attraverso i seguenti step:
• Discorso sociale: in tale fase il bambino si serve del linguaggio per comunicare i
suoi bisogni e controllare lo scambio con l’altro. Questo infatti è definito un lin-
guaggio “per gli altri”, derivante dalla relazione sociale.
• Discorso egocentrico: questa fase, 3-7 anni, fa da ponte tra la prima e la terza fa-
se. Il bambino tende a dialogare con sé stesso, descrivendo l’azione compiuta e
motivandola. Questo linguaggio è dunque più “per sé”, pur essendo ancorato ad
alcune forme di socializzazione e non del tutto interiorizzato.
• Discorso interno: durante l’età scolare il linguaggio assume sempre più le carat-
teristiche di mezzo di comunicazione interiore. Questo consente di rielaborare
mentalmente una situazione e le sue conseguenze prima di mettere in atto una
data azione, sperimentare determinate sensazioni senza un ausilio concreto, or-
ganizzare l’esperienza del soggetto, potenziare le facoltà logico-deduttive.
A partire dalle teorie di Vygotskij, altro autore che ha attenzionato i processi linguistici
ed il loro sviluppo è Bruner. Egli considera i processi intellettivi e linguistici come il
frutto di un apprendimento. I bambini hanno una capacità di base che li porta ad essere
propensi a comprendere gli stimoli esterni. A partire da tali stimoli il soggetto crea delle
rappresentazioni nella sua mente che mantiene durante lo sviluppo. Bruner identifica tre
rappresentazioni:
• Rappresentazione sensoriale: il bambino apprende tramite i sensi e le sensazioni
fisiche.
• Rappresentazione iconica: il soggetto trasferisce la percezione concreta
all’immagine mentale.
• Rappresentazione simbolica: si rappresenta la realtà tramite simboli e metafore.
Dalle varie teorie esaminate si evince come lo sviluppo del linguaggio e le conseguenti
capacità comunicative siano largamente influenzate sia dalla componente individuale
che sociale. Inoltre è di indubbia importanza lo studio neuroscientifico dei processi lin-
guistici senza cui non sarebbe possibile avere una piena comprensione del fenomeno
comunicativo.

31
Comunicazione efficace e applicazioni pratiche

La comunicazione non si esplica nella sola espressione verbale ma comprende anche al-
tre tipologie espressive. Questa è costituita da tre fattori: motivazionale, il motivo per
cui si comunica; cognitivo, il contenuto del messaggio; comportamentale, il canale uti-
lizzato per comunicare. Nello scambio interpersonale entrano in gioco infatti diversi
elementi caratterizzanti la comunicazione non-verbale. La così detta bodily communica-
tion enfatizza l’importanza del corpo nella trasmissione delle informazioni, in quanto
sistema comunicativo costituito da regole specifiche (Argyle, 1974). Mentre la comuni-
cazione verbale è sorretta da costrutti sintattico-grammaticali, la comunicazione non-
verbale comprende una serie di elementi la cui espressione si esplica in maniera spesso
inconsapevole ed automatica e per tale motivo incongruente con la comunicazione ver-
bale conscia. Tuttavia è possibile riscontrare nel non-verbale sia elementi di facile lettu-
ra, come gestualità, abbigliamento, postura, prossemica, ed altri maggiormente ardui da
decifrare, come i micro-movimenti e le micro-espressioni. Basandosi su tale principio il
rapporto fra significato e significante adoperato nella comunicazione verbale viene me-
no passando attraverso diversi canali interpretativi, individuati da Anolli (2002) in:
• Sistema cinesico: tale sistema comprende la gestualità e la fisicità
dell’individuo, influenzabili dall’appartenenza culturale (Bonaiuto, Maricchiolo,
2003). Fanno parte di tale sistema alcuni indicatori corporei. Ad esempio i mo-
vimenti del busto che indicano la propensione comunicativa e le caratteristiche
personologiche del soggetto. Kendon (1967) parla di “regolatori della comuni-
cazione” (Verrastro, 2008, p.108), nel momento in cui vi è una sincronicità fra
interlocutori che si esprime attraverso i movimenti corporei imitativi. La gestua-
lità rappresenta invece un codice comunicativo che può esprimersi tramite diffe-
renti tipologie gestuali, tra cui i gesti emblematici, illustratori, regolatori, adatta-
tori. Dunque i gesti e i movimenti corporei non solo garantiscono una maggiore
comprensione del messaggio, ma rafforzano anche i contenuti mentali espressi
dal soggetto in assenza di un interlocutore.
• Sistema vocale: fanno parte del sistema vocale gli aspetti extra-linguistici e para-
linguistici, tra cui tono, intensità e velocità dei contenuti vocali espressi. Il tono
deriva dalla variazione dello stato tensivo delle corde vocali e contribuisce a
modificare il significato del messaggio. L’intensità è invece il volume debole o
forte del suono emesso che enfatizza o minimizza di volta in volta i contenuti
espressi. La velocità rispecchia il ritmo seguito dal linguaggio. Il sistema vocale
suggerisce informazioni rispetto all’appartenenza culturale, al genere, all’età e
allo stato psicologico del soggetto. Inoltre possono evincersi sia tratti personolo-
gici che stati d’umore temporanei dell’individuo. Anche il silenzio caratterizza
la comunicazione vocale non-verbale, come enunciato dallo stesso Watzlawick
rispetto al primo assioma della comunicazione e dunque anche il silenzio è una
forma di comunicazione.
• Sistema prossemico e aptico: questo sistema concerne il modo in cui l’individuo
adopera lo spazio, come la distanza interpersonale, la postura ed il contatto cor-
poreo. Hall (1969) afferma che la distanza interpersonale comunica sia una di-
stanza fisica che psicologica. Da una parte il soggetto desidera condividere men-
tre dall’altra cerca di ritagliarsi un proprio spazio personale. Tale sistema si de-
finisce anche aptico, ossia costituito da una componente affettiva attraverso cui
comunicare significati interattivi e relazionali. Anche la postura è un indice
prossemico molto forte che definisce certi ruoli e atteggiamenti.
• Sistema cronemico: questa dimensione affronta le modalità in cui il soggetto vi-
ve il tempo a livello non solo concreto ma anche psicologico. L’individuo assu-

32
me in maniera soggettiva modi di gestire l’incalzare del tempo e contempora-
neamente comunica il suo stile di vita a chi gli sta vicino. Questo può dipendere
sia dalla cultura che da caratteristiche individuali. Il modo in cui gestiamo il no-
stro tempo va di pari passo al modo di affrontare il quotidiano.
Altri elementi fondamentali della comunicazione non-verbale sono le espressioni faccia-
li. Attraverso lo sguardo ad esempio si comunicano la maggior parte delle informazioni,
oltre a costituire emozioni positive e negative. Ekman (1972) ha dedicato parte della sua
vita alla studio del volto e delle emozioni come principali forme comunicative utilizzate
dall’essere umano. Altro indicatore insito nel non-verbale è l’abbigliamento e l’aspetto
esteriore, prima caratteristica ad essere considerata dall’interlocutore. L’aspetto fisico
determina la prima impressione da cui evincere anche la personalità del soggetto.
L’abbigliamento costituisce la cornice ed il biglietto da visita della persona per quanto
concerne etnia, età, status sociale, sesso e contesto. La comunicazione efficace può
dunque essere definita come il raggiungimento di un equilibrio fra la componente ver-
bale e quella non- verbale. Anolli (2002) definisce infatti l’efficacia comunicativa come
la sintetizzazione del valore del messaggio, derivante dall’abilità dei soggetti nello sta-
bilire un interscambio comunicativo basato due elementi. Il primo è la massimizzazione,
ossia la capacità di accrescere la credibilità e forza persuasiva dell’emittente. Il secondo
elemento è invece la minimizzazione, cioè la riduzione dei momenti costituiti da imba-
razzo ed incomprensioni. Quando la comunicazione va in contro ad un fallimento inve-
ce il messaggio potrebbe arrivare distorto e provocare la cancellazione, che comporta il
restringimento dell’acquisizione delle informazioni recepite; la generalizzazione, utiliz-
zo di categorizzazioni che esulano da una relazione logica, deformazione, a causa dei
nostri limiti sensoriali, di eccessive aspettative o di meccanismi di difesa psicologici la
mente utilizza la fantasia nell’interpretazione dei messaggi esterni. Il fallimento della
comunicazione può essere provocato da un’emissione inefficace a causa della quale il
soggetto non riesce a tradurre il suo messaggio in un codice di senso compiuto; ricezio-
ne inefficace, se è il ricevente a non recepire e comprendere il messaggio inviato, la di-
sgiunzione della comunicazione, tramite cui i comunicanti nelle loro interazioni non
condividono lo stesso codice. La comunicazione prevede inoltre diverse funzioni:
• Strumentale: qualora abbia lo scopo di soddisfare delle esigenze personali.
• Di controllo: se si utilizza per controllare gli altri condizionando il loro modo di
comportarsi.
• Informativa: se si comunica per scoprire qualcosa.
• Espressiva: qualora si vogliano comunicare sentimenti.
• Di contatto sociale: se si desidera instaurare un rapporto o contatto con un
un’altra persona.
• Di alleviamento dell’ansia: per ridurre ansie e paure.
• Rituale: se connessa ad un particolare ruolo sociale.
• Di stimolazione: qualora derivi da un bisogno di stimolazioni.
Queste tipologie di comunicazione sono esprimibili attraverso vari stili che costituisco-
no la differenza fra una comunicazione efficace o meno. Pur essendo il messaggio iden-
tico infatti le modalità espressive modulano anche il modo in cui si recepisce e com-
prende il messaggio.
• Stile passivo: la comunicazione passiva si esprime tramite la mancata capacità di
prendere posizione nella relazione comunicativa, nella paura di dire no e dunque
nell’anteporre i bisogni altrui ai propri.
• Stile aggressivo: lo stile aggressivo pone in essere un atteggiamento ostile e di
violazione continua dei diritti espressivi dell’altro, nella gestione dei tempi della
comunicazione che si esprimono in una prevalenza di emozioni negative rispetto
la relazione comunicativa.
33
• Stile Passivo-aggressivo: questo stile implica un atteggiamento in cui il soggetto
da una parte asseconda l’interlocutore dall’altra prova sentimenti ostili che si
traducono in comportamenti aggressivi.
• Stile manipolativo: il soggetto che adotta questo stile comunicativo tende ad in-
durre gli altri a fare ciò che egli vuole, portandoli dalla sua parte e gestendone i
contenuti emotivi.
• Stile assertivo: la persona assertiva è capace di produrre una comunicazione ef-
ficace in quanto non ha timore di esprimere i propri pensieri ed emozioni né di
assumersi responsabilità. Rispetta l’altro e le sue opinioni e permette la com-
prensione del messaggio in un contesto diretto e chiaro.
Accade spesso che la comunicazione efficace sia equiparata alla comunicazione persua-
siva. Quest’ultima infatti si basa sulla volontà di modificare il pensiero dell’altro in-
fluenzandolo affinché compia determinate azioni. La comunicazione efficace invece si
basa unicamente sull’obiettivo di garantire una trasmissione del messaggio di successo.
Il professor S.M. Cutlip della University of Winsconsin identificò sette caratteristiche
peculiari della comunicazione efficace, definite le 7 C's of Communication :
• Completezza: la comunicazione efficace deve essere innanzitutto completa, os-
sia contenere tutta una serie di informazioni tali da far comprendere il messaggio
che si vuole trasmettere. La comunicazione, se completa, facilita la risposta del
ricevente, il quale non avrà dubbi a riguardo. In tal modo l’emittente sarà sicuro
di aver raggiunto l’obiettivo prefissatosi.
• Concisione: un messaggio conciso contiene in sé tutte le informazioni che ser-
vono per comunicare efficacemente. Ciò vuol dire che i contenuti non presenta-
no né ridondanze né dati mancanti ma l’essenziale su cui il ricevente deve foca-
lizzarsi per rispondere.
• Considerazione: per raggiungere il ricevente bisogna che l’emittente prenda in
considerazione i bisogni ed il punto di vista di quest’ultimo. Filtrando i contenuti
comunicativi in base all’interlocutore non solo il messaggio sarà recepito meglio
ma il ricevente stesso si sentirà accolto e compreso nelle sue richieste.
• Concretezza: il messaggio trasmesso deve essere supportato da dati concreti ed
affiancato da argomentazioni dotate di senso e verificabilità. In tal modo si ga-
rantisce una cornice di veridicità al messaggio e l’emittente accrescerà la sua
credibilità.
• Cortesia: porsi in un atteggiamento di apertura ed ascolto verso l’altro facilita il
medesimo comportamento da parte dell’interlocutore. Ciò predispone un clima
comunicativo positivo ed una maggiore propensione al rispetto reciproco e ad un
esito ottimale della conversazione.
• Chiarezza: questa caratteristica concerne il rendere il messaggio il più specifico
possibile per facilitarne l’assimilazione. Una modalità per fare ciò è l’uso dei
termini appropriati per ridurre la possibilità di incomprensioni.
• Correttezza: l’assenza di errori grammaticali e sintattici garantisce sia una mi-
gliore comprensione del messaggio che credibilità dell’emittente.
Tempo dopo, a queste sette caratteristiche individuate da Cutlip sono state aggiunte la
credibilità e la coerenza, che in realtà sono derivati. Infatti un messaggio credibile è il
frutto di un insieme di elementi, come l’assenza di errori, la concisione, la chiarezza, e
lo stesso vale per la coerenza. La comunicazione efficace è definita una competenza tra-
sversale in quanto utilizzabile in contesti aziendali, pubblicitari e concernenti il sociale.
Ad esempio in ambito sanitario lo stile comunicativo adottato incide molto nel rapporto
medico-paziente. Infatti basare tale relazione su una comunicazione efficace comporta
una maggiore soddisfazione, una riduzione dei livelli di stress ed aumenta la percezione
di autoefficacia del paziente (Zachariae, et.al., 2003). Un training basato sulle compe-
34
tenze comunicative o CST, Communication skills training fornisce al clinico una serie
di abilità, quali discutere con il paziente sulla prognosi, sulle cure e sugli eventi impre-
visti della malattia, gestire la famiglia del paziente e la relazione con questo. La comu-
nicazione impatta sull’adattabilità del paziente al trattamento proposto dal medico, mi-
gliorando la reciprocità del rapporto (Kissane, et.al., 2012). Lo sviluppo di capacità co-
municative verbali e non-verbali comporta anche un miglioramento della performance
lavorativa, in quanto il soggetto entra in contatto con quella che è la richiesta ed il punto
di vista dell’interlocutore e riesce a soddisfarne i bisogni (Dickson, et.al. 1996). La co-
municazione efficace è fondamentale anche nel creare rapporti di fiducia fra imprendi-
tore e cliente, stabilisce una maggiore credibilità e affidabilità, incrementando le vendite
(Sharma e Patterson, 1999). Tra le competenze inerenti la comunicazione efficace e
fondamentali sia nel contesto lavorativo che sociale rientra il parlare in pubblico, capa-
cità non scindibile dalla comprensione della tipologia di persona che si ha di fronte. La
modalità corretta dovrebbe basarsi unicamente sull’adattamento da parte di colui che
gestisce la comunicazione alle caratteristiche del contesto e della situazione. Nei conte-
sti aziendali si evince un altro tipo di comunicazione, che integra le varie tipologie co-
municative per raggiungere lo scopo comune dell’azienda. Questa si definisce comuni-
cazione integrata d’impresa. Inoltre anche la comunicazione politica ed istituzionale ri-
chiede capacità comunicative notevoli. Infatti in entrambi i casi è necessario creare un
ponte fra il lancio di un prodotto o di una campagna elettorale e gli interessi del pubbli-
co con cui si ha a che fare. Per cui comunicare efficacemente comporta dei benefici so-
ciali, lavorativi e relazionali che si integrano in un'unica prospettiva. Anche a scuola è
riscontrabile lo stesso principio per cui una buona comunicazione incide sulla perfor-
mance e sugli obiettivi. Infatti, questa è una delle caratteristiche che maggiormente in-
fluenzano un clima di apprendimento sicuro e positivo. In una ricerca atta a valutare il
rapporto tra comunicazione efficace di un preside di scuola superiore e clima scolastico,
si è potuto vedere come vi è una correlazione positiva fra le due variabili. La comunica-
zione efficace è anche correlata con altri costrutti reciprocamente interconnessi come
l’autostima, l’assertività, la capacità di trasferire competenze all’interno di un contesto
sia scolastico che lavorativo. Diverse ricerche attribuiscono il successo personale alle
capacità comunicative dell’individuo. Il self-monitoring, connesso all’autostima e alla
perceived self-efficacy, è correlato alla comunicazione efficace (Sypher e Sypher, 1983).
Nello sviluppo di quest’ultima assume un’importanza notevole l’ascolto. Spesso si cre-
de di essere concentrati sull’altro e sui contenuti da esso apportati ma in realtà si sta co-
struendo in mente la risposta da dare una volta arrivato il proprio turno. Dunque biso-
gnerebbe dare la priorità a ciò che dice l’interlocutore riducendo l’attenzione verso noi
stessi per comprendere meglio il punto di vista altrui. Inoltre è importante non trascura-
re il non-verbale e riuscire a cogliere le incongruenze fra ciò che il nostro interlocutore
dice e ciò che esprime attraverso il linguaggio del corpo ed il tono della voce. In tal mo-
do l’attenzione sarà rivolta interamente all’interlocutore, il quale sarà più propenso a
comunicare e a condividere. Lo psicologo Albert Mehrabian, nel testo “Inference of At-
titudes from Nonverbal Communication in Two Channels”, afferma che il 7% di un
messaggio viene trasmesso tramite l’uso della comunicazione verbale mentre il 38%
viene comunicato tramite il tono della voce ed il 55% attraverso il linguaggio del corpo.
Per cui se si vuole promuovere una comunicazione che sia efficace bisogna calibrare la
voce tenendo conto di quanto influisca nella trasmissione del messaggio, facendo rife-
rimento alle pause, ai silenzi e al ritmo. Altro aspetto della comunicazione efficace è la
capacità di organizzare i propri pensieri in modo da esporli in maniera chiara e com-
prensibile. Dal momento in cui si prende consapevolezza circa le proprie capacità co-
municative diviene possibile svilupparle al meglio. Tra le strategie utilizzate per svilup-
pare una comunicazione efficace vediamo la promozione dell’ascolto attivo. Questo

35
prevede la capacità di mantenere la concentrazione durante la comunicazione, il trasferi-
re informazioni senza sottolineare la propria superiorità o sminuire il punto di vista al-
trui, né dilungandosi eccessivamente. Questi sono alcuni accorgimenti applicabili a di-
versi contesti comunicativi. Infatti alla base di una comunicazione efficace sta la capaci-
tà di ascoltare l’altro e di entrarvi in contatto. Per comunicare efficacemente non basta
conoscere ed applicare le strategie giuste, in quanto, essendo una competenza trasversa-
le, comporta una conoscenza e consapevolezza di sé tali da comunicare la propria iden-
tità.

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1
Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma.

38
Lavoro di gruppo

di Maria Teresa Serranó1

L’uomo è un animale sociale

La socialità è una caratteristica da sempre attribuita all’essere umano. Come scrisse già
nel IV sec. a. C. Aristotele nella sua Politica (Viano, 2002) “l’uomo è un animale socia-
le” ovvero ha una tendenza naturale ad associarsi con altri individui formando gruppi e
comunità. A sostegno di questa intuizione, la scienza ha nel tempo dimostrato che se un
essere umano si trova a vivere isolato dal resto degli altri uomini fin dall’infanzia, non
acquisisce alcuni tratti tipici della natura umana quali il linguaggio e in generale le abili-
tà intellettive e quelle comunicative. Esempio di ciò sono i casi di bambini selvaggi, al-
levati da lupi, o altri animali selvatici, che nonostante l’impegno degli scienziati non so-
no riusciti più ad acquisire tali capacità una volta reintrodotti in un contesto socialmente
evoluto.
Lo sviluppo delle facoltà umane è infatti, determinato non solo dai processi organici ma
anche dell’influenza dell’ambiente in cui il soggetto vive e soprattutto dei rapporti che
questi instaura con gli altri.
L’uomo in relazione con gli altri costituisce un gruppo.
Un gruppo non può essere descritto semplicemente come la somma dei suoi singoli
membri né può essere spiegato e raccontato facendo riferimento ad un unico approccio,
ma è necessario integrare più conoscenze tipiche di diverse scienze, in particolar modo
psicologia, sociologia, etologia e antropologia culturale.
Ciascun essere umano è immerso fin dalla nascita in un ambiente sociale ed entra a far
parte fin da piccolo di diversi gruppi sociali (famiglia, scuola, amici, lavoro, etc.), la cui
appartenenza è una parte fondamentale della sua quotidianità. Eppure, molto spesso,
non ci si sofferma ad analizzare la complessità dell’entità gruppale e a riflettere su come
quest’ultima possa influenzare in maniera determinante la personalità di ciascuno dei
membri di un gruppo.
Il gruppo può, infatti, rappresentare tanto un luogo di costruzione positiva di valori e in-
teressi, tanto un luogo complesso e/o negativo in cui il soggetto può avere difficoltà a
individuare strategie di integrazione e/o a cui decide di appartenere per soddisfare speci-
fiche esigenze personali. Fu Hobbes che nel 1641 pose l’accento su questi aspetti conte-
stando l’affermazione di Aristotele. Secondo Hobbes infatti, “l’uomo è lupo per l’altro
uomo” ovvero, l’uomo costruisce la propria socialità in base ad un ragionamento ed un
calcolo di vantaggi derivanti proprio dall’appartenenza o meno ad un dato gruppo. Nel
tempo, diversi studiosi hanno evidenziato come la socializzazione non sia un semplice
istinto ma un mezzo per soddisfare altre esigenze. Non si nasce, quindi, con il desiderio
di socializzare ma si impara ad essere sociali scoprendo di giorno in giorno i vantaggi
derivanti dallo stare insieme agli altri.

39

Il concetto di gruppo

La definizione di gruppo quale aggregato di persone impegnate a perseguire uno scopo


comune è relativamente recente. Originariamente, i linguisti hanno ricondotto tale con-
cetto all’antico provenzale grop – ossia, nodo – derivante dal germanico occidentale
kruppa – ossia, massa arrotondata. Tale radice evidenzia due significati attribuiti al con-
cetto di gruppo, ovvero quello di nodo che pone l’accento sul senso di coesione e quello
di tondo che a livello simbolico ricorda una riunione di persone che interagisce faccia a
faccia (Perrini, 2002).
Oggi, in letteratura, il termine gruppo viene utilizzato dagli studiosi per indicare un in-
sieme di persone che interagiscono all’interno di uno spazio sociale e la cui interazione
è definita in base a reciproche regole di condotta.
Il gruppo così declinato si distingue dal semplice aggregato, inerte e passivo, formato da
persone che si ritrovano in uno stesso posto nel medesimo tempo solo per casualità, co-
me la gente in una piazza o i passeggeri di un vagone del treno.
Esistono numerosi manuali e teorie sulla formazione dei gruppi e sulla loro efficacia nei
differenti ambienti, in quanto è ormai consolidato che le caratteristiche del contesto
(luogo fisico) e dei membri che ne fanno parte (competenze e personalità) abbiano
un’influenza determinante nel differenziare il tipo di gruppo. È così che il gruppo di la-
voro possiede caratteristiche anche molto differenti da quello scolastico o dal gruppo
dei pari per citare solo alcuni esempi. Inoltre, la soggettività dei vari membri farà si che
ogni gruppo sia profondamente differente dagli altri anche in presenza di analoghe si-
tuazioni contestuali.
Nonostante questa estrema soggettività del gruppo, la conoscenza dei principi legati al
funzionamento di un gruppo e le specificità contestuali possono aiutare i protagonisti
dell’interazione a perseguire obiettivi di efficienza ed efficacia.
Volendo distinguere alcune tipologie principali di gruppi abbiamo:
• Gruppo primario: fa riferimento a gruppi in cui l’interazione tra i membri av-
viene prevalentemente in maniera diretta e personale. Un gruppo primario è composto
di un numero ridotto di individui che si relazionano l’un l’altro in modo diretto e vis a
vis, favorendo l’identificazione e l’appartenenza al gruppo (Giarelli, Venneri, 2009). I
rapporti tra i membri del gruppo generalmente sono duraturi giacché l’interazione è ba-
sata su legami di tipo affettivo (Robertson, 1988).
• Gruppo secondario: un gruppo secondario si distingue da quello primario perché
ha dimensioni più ampie e perché le relazioni che si instaurano al suo interno risultano
maggiormente formali e indirette. Un esempio di gruppo secondario è rappresentato dal
personale di un’azienda che è guidato dal raggiungimento di un obiettivo comune ma tra
i cui membri non vi sono legami emotivi. La distinzione tra primario e secondario risul-
ta utile in fase di classificazione ma nella concretezza molto spesso i confini che separa-
no una realtà dall’altra risultano piuttosto labili, con situazioni miste in cui un gruppo è
al limite tra le due tipologie o si registra un momento di passaggio dall’una all’altra ti-
pologia. Un esempio di questa possibilità si ha proprio in un ambiente di lavoro in cui
come detto, generalmente si formano gruppi secondari che, con il passare del tempo e
l’instaurarsi di legami affettivi tra alcuni dei membri del gruppo possono trasformarsi in
primari.
• Gruppo formale: questo tipo di gruppo nasce in genere per intervento istituzio-
nale e pertanto viene regolato da norme definite esternamente al gruppo stesso. È
l’istituzione che ne definisce gli obiettivi principali in riferimento ad attività specifiche
e strumentali anche se, con il trascorrere del tempo non può escludersi il formarsi di le-
gami informali ed emotivi tra i suoi membri. Appartengono a questa categoria ad esem-
pio le associazioni sportive, quelle politiche e quelle culturali.
40

• Gruppo informale: è il gruppo che si forma in seguito ad un’aggregazione natu-
rale e spontanea, ed in cui non vi sono posizioni gerarchiche o regole fisse. Sono carat-
terizzati dalla condivisone di interessi e da intense relazioni fra i membri. Un tipico
esempio di questa categoria è rappresentato dal gruppo di adolescenti che si aggregano e
definiscono delle norme informali di comportamento specifiche per quel singolo grup-
po.
• Gruppo naturale: è il gruppo a cui si appartiene senza averlo scelto; ne sono
esempi la famiglia d’origine o i compagni di gioco del quartiere.
• Gruppo sperimentale: è il gruppo che si costituisce in relazione ad uno scopo
specifico. Tipico esempio di questa categoria sono i soggetti aggregati per attività di ri-
cerca.
• Gruppo di appartenenza: è quello a cui l'individuo appartiene e alle cui regole si
attiene. Non sempre ad un’appartenenza fisica corrisponde un’appartenenza psicologica.
• Gruppo di riferimento: è il gruppo ideale che può coincidere o meno con quello
di appartenenza. Il meccanismo che scatta è la così detta socializzazione anticipatoria
con cui si indicano quei comportamenti posti in essere dal soggetto per entrare a far par-
te del gruppo a cui aspira. Si tratta del gruppo verso il quale una persona si è abituata a
orientarsi nella valutazione di determinati fatti, situazioni o eventi.
Quando parliamo di tipologie di gruppi non si può fare a meno di introdurre il concetto
di in-group, il gruppo in cui si è inseriti e col quale ci si identifica, e di out-group, ovve-
ro il gruppo al quale non si appartiene e nei confronti del quale spesso si nutrono senti-
menti negativi (Millon, Lerner, Weiner, 2003). Nel 1906, il sociologo William Sumner
definendo la distinzione tra in-group e out-group ha descritto l’essere umano come una
specie animale che per propria natura tende ad unirsi in gruppi ed a valutare positiva-
mente e favorevolmente ciò che fa e propone il proprio gruppo rispetto agli altri. Fu lo
stesso Sumner a introdurre e definire il concetto di etnocentrismo “la visione delle cose,
in cui il proprio gruppo è il centro di tutto, e tutti gli altri sono tarati in relazione ad es-
so” (Sumner, 1906).
A partire dalle proposte di Sumner si sono definiti gli studi dello psicologo britannico
Henri Tajfel che formulò l’ormai famosa Teoria dell’Identità Sociale (Tajfel, 1981; Ta-
jfel e Turner, 1986).
La Teoria dell’Identità Sociale pone l’accento su due importanti concetti: l’identità per-
sonale, riferita al modo in cui ciascuno valuta se stesso e le situazioni in cui è immerso
differenziandosi dagli altri, e l’identità sociale, che è quella parte del se costruita in re-
lazione alla consapevolezza di appartenere ad un gruppo sociale e strutturata sul signifi-
cato attribuito a tale appartenenza (Tajfel, 1981). Assunto di base di questa teoria è che
le persone, come detto, tendono a valutare se stesse in maniera positiva e a trasferire
questa positività al gruppo di appartenenza. Tajfel e colleghi ricostruirono in laboratorio
diverse situazioni di gruppo minimo, ovvero situazioni in cui “perfetti sconosciuti si ag-
gregano gruppi in base ai criteri più banali (esempio il lancio di una moneta) che si
possa immaginare” con l’obiettivo proprio di individuare le condizioni minime in cui si
presenta il comportamento di discriminazione tra in-group ed out-group. Da questi espe-
rimenti emerge che, a prescindere dalle situazioni, dalle azioni da compiere e dalle ri-
chieste dell’indagine, i partecipanti valutavano sempre più positivamente e come mi-
gliore la situazione, l’azione e/o la richiesta del proprio gruppo ed i suoi componenti ri-
spetto agli altri gruppi (Tajfel, 1970)
Turner (1987) evidenzia come la Teoria dell’Identità Sociale faccia riferimento a situa-
zioni desiderate dalle persone e che, a volte, un’identità sociale negativa ed insoddisfa-
cente possa essere psicologicamente motivante per l’attivazione del singolo verso la si-
tuazione desiderata.

41

In una rassegna critica sulla Teoria dell’Identità Sociale, Abrams e Hogg (Abrams e
Hogg, 1990 e 1988), per definire due modalità di relazione di causa effetto tra autostima
e discriminazione nelle relazioni di gruppo, formularono due corollari:
• Corollario 1: la discriminazione inter-gruppi rafforza l’identità sociale e perciò
innalza l’autostima.
• Corollario 2: un’autostima bassa promuove l’insorgere della discriminazione in-
ter-gruppi.
Un’indagine volta ad indagare questi corollari è stata condotta nel 2006 da Lisa Pagotto
e Alberto Voci dell’Università di Padova ed ha coinvolto 168 studenti universitari (34
maschi e 134 femmine di età compresa tra i 19 e i 37 anni), iscritti al primo anno del
corso di laurea in Scienze psicologiche della personalità e delle relazioni interpersonali
dell’Università di Padova. La ricerca si è proposta di analizzare la relazione tra autosti-
ma e differenziazione ed in particolare il ruolo svolto, all’interno della relazione auto-
stima/ differenziazione, dell’identificazione con l’in-group.
Il campione fu reclutato durante una lezione del corso di psicologia sociale in cui i ri-
cercatori proposero agli studenti di partecipare a una ricerca riguardante la percezione di
sé e dei gruppi sociali attraverso la compilazione di due test in due momenti distinti e
conseguenti. Il primo, in particolare, era un test a scelta multipla di ragionamento logi-
co, matematico, linguistico e di cultura per il quale i partecipanti avevano a disposizione
un tempo massimo di 12 minuti. Al fine di manipolare il costrutto di autostima, è stato
fatto credere agli studenti che il test sarebbe stato valutato e vi sarebbe stato attribuito
un punteggio individuale.
L’ipotesi sottostante da verificare era che fornire un feedback positivo avrebbe determi-
nato un innalzamento dell’autostima, mentre un riscontro negativo ne avrebbe provoca-
to un abbassamento. In generale, in condizione di bassa autostima personale veniva co-
municato che il punteggio raggiunto era inferiore rispetto alla media degli studenti uni-
versitari, mentre in quella di alta autostima personale si comunicava che il punteggio ot-
tenuto era superiore alla media. Nel secondo test, l’obiettivo dell’indagine si spostava
sulla variabile in-group/out-group, facendo credere ai partecipanti che un’analoga inda-
gine era stata condotta con studenti di altre facoltà dell’ateneo. È stato a questo punto
misurato il livello di identificazione con l’in-group, procedendo al contempo alla mani-
polazione dell’autostima personale dei partecipanti grazie al falso feed-back dei test in-
dividuali e dello status del loro gruppo di appartenenza comunicando, anche in questo
caso, un falso feedback rispetto ai risultati ottenuti dagli studenti di altre facoltà. Nel ca-
so di autostima alta veniva comunicato che gli studenti di Psicologia si erano dimostrati
molto preparati e che sicuramente non avrebbero avuto in futuro difficoltà sul piano
professionale. Nel caso di autostima bassa, invece, veniva dichiarato il contrario (Brans-
combe e Wann, 1994). Considerando la manipolazione di queste variabili, il disegno
sperimentale è raffigurabile in 4 quadranti: autostima personale articolata in bassa e alta
e status dell’in-group suddiviso in basso e alto. I partecipanti sono stati assegnati ca-
sualmente ad una delle quattro condizioni sperimentali. Sempre in questa seconda parte
dell’esperimento si procedeva alla misura dell’identificazione con l’ingroup in base alla
scala – versione adattata - ad 8 item di Brown, Capozza, Paladino e Volpato del 1996 e
si chiedeva ai partecipanti di esprimere dei giudizi su due gruppi target: gli studenti di
psicologia di Padova (in-group) e gli studenti di Bologna (out-group), anticipando che i
due gruppi risultavano “per molti aspetti paragonabili” e quindi di status simile.
Nell’ultima parte del questionario sono state rilevate prima l’autostima sociale, poi
quella personale. Conclusa la compilazione dei questionari fu comunicato ai
partecipanti che le informazioni relative alle prestazioni erano state inventate ai fini
dell’esperimento.

42

Le analisi effettuate confermarono la tendenza a valutare più positivamente il gruppo di
appartenenza rispetto all’out-group. Tale favoritismo è risultato ancora più marcato
quanto maggiore era l’identificazione con il gruppo. Al contrario, non si riscontrarono
effetti significativi relativi alla manipolazione dello status dell’in-group. I partecipanti
sembrarono non essere influenzati, nelle loro valutazioni dei gruppi, dal fatto di appar-
tenere ad un gruppo di status superiore oppure inferiore anche se si è notato che il lega-
me positivo tra autostima sociale e autostima personale era presente in tutte le condizio-
ni in cui lo status dell’in-group era alto, indipendentemente dal grado di identificazione
espresso dai partecipanti. Questo suggerisce che l’appartenenza ad un gruppo di status
elevato genera un contesto di positività, che, a sua volta, produce un legame tra autosti-
ma sociale positiva e autostima personale. Questo dimostra che i due corollari possono
essere combinati tra loro e che nella loro verifica vanno tenuti in considerazione i diver-
si tipi di autostima e il livello di identificazione con l’in-group (Pagotto, Voci, 2006).
Un’indagine pubblicata nel 2010 da Natalie Wyer dell’Università di Plymouth partendo
dalla teoria di auto-categorizzazione (Turner et al, 1987) si è proposta di dimostrare
come gli individui siano tipicamente influenzati maggiormente dall’in-group piuttosto
che dai messaggi provenienti dall’out-group. Durante l'indagine furono proposte ai par-
tecipanti, sia da fonti interne che esterne, diverse argomentazioni in cui la base in-group
o out-group era più o meno rilevante. I risultati ottenuti supportavano le previsioni in
quanto i partecipanti sono stati più persuasi da fonti in-group rispetto alle fonti out-
group. Al contrario, se l’argomentazione non era rilevante per distinguere l’in-group
dall’out-group, i partecipanti erano altrettanto persuasi da fonti in-group e out-group.
Questi risultati supportano l'ipotesi che l'accoppiamento tra l'appartenenza al gruppo e il
contesto di azione del gruppo è un importante moderatore degli effetti di auto-
categorizzazione.
Park e Bernadette (1982) con i loro esperimenti si proposero di verificare il principio
dell'omogeneità dell’out-group, ovvero la tendenza dei membri di un gruppo a percepire
il proprio gruppo come più variegato e complesso di quanto non possa essere un gruppo
esterno. Un primo esperimento condotto in tale direzione ha coinvolto 168 uomini e 171
donne indagando elementi di personalità, l’atteggiamento stereotipato riguardo mascoli-
nità/femminilità e la desiderabilità sociale. I risultati confermarono il principio di omo-
geneità per il gruppo esterno. Un secondo esperimento ha coinvolto 90 soggetti apparte-
nenti a tre campus differenti ed anche in questo caso l’indagine permise di confermare il
grado di maggiore variabilità percepito nei confronti del gruppo di appartenenza. Gau-
det e Clément (2008) attribuiscono massima importanza al linguaggio e alle caratteristi-
che comunicative per comprendere meglio la relazione tra il noi e il loro. Sono, infatti,
le modalità di comunicazione, gli stili, il linguaggio non verbale, etc. che contribuiscono
a definire le identità di gruppo. Tale affermazione risulta estremamente importante so-
prattutto sul piano etnico per cui l’accento o gerghi particolari contribuiscono a rafforza-
re l’identità del gruppo etnico di appartenenza (Giles e Johnson, 2009). La teoria sugge-
risce che, quando le persone riescono a esprimere le caratteristiche distintive della pro-
pria lingua e della propria cultura, incrementano il senso di orgoglio legato
all’appartenenza a quel gruppo. Inoltre, la teoria evidenzia che tale identificazione pub-
blica nei confronti del gruppo possa avere ricadute individuali promuovendo un mag-
gior senso di valore personale.
I processi di confronto sociale (Festinger, 1954) tra l’in-group e i diversi out-group con i
quali un individuo viene in contatto, materialmente o metaforicamente, determinano la
valenza positiva o negativa associata alla propria appartenenza ad un gruppo e possono
generare diverse conseguenze sul piano affettivo, comportamentale e cognitivo (Paglia-
ro, 2010).

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Conoscere i gruppi e definire metodologie efficaci di lavoro con ed all’interno dei grup-
pi rappresenta un’abilità trasversale utile a diversi ambiti disciplinari che interessano le
diverse professioni educative e i diversi contesti sociali e formativi. Per poter raggiun-
gere standard elevati di qualità nel funzionamento del gruppo, ogni partecipante mette
in comune le proprie competenze.
Le competenze che il singolo sviluppa sono quelle che gli servono per collaborare con
gli altri all’interno dei gruppi e per emergere affermando il proprio ruolo.
Un gruppo, inoltre, funziona e raggiunge risultati elevati solo se vi è uno scopo condivi-
so, se i metodi e i processi sono chiari, e se il gruppo sa gestire il tempo, definire e ri-
spettare ruoli, procedure e regole. Il risultato del lavoro di gruppo deve produrre
l’affermazione condivisa dai suoi membri “abbiamo deciso” e non “hanno deciso”.

Dinamica di gruppo

Il concetto di dinamica di gruppo è stato proposto per la prima volta nel 1944 dallo psi-
cologo della Gestalt, Kurt Lewin per designare la relazione tra le forze che agiscono
all'interno del gruppo, mettendo a confronto le rispettive componenti psicologiche fino
al raggiungimento di un determinato equilibrio. Lewin applicò i principi base della psi-
cologia della Gestalt, secondo cui ogni fenomeno è comprensibile solo se lo si studia
nella sua globalità, al gruppo. In tal senso, l'individuo per Lewin non deve essere esami-
nato in maniera isolata ma all’interno della dinamica del gruppo di cui fa parte.
Comprendere la dinamica di gruppo implica conoscere i fenomeni principali che vi sot-
tostanno:
• Coesione: rappresenta l’elemento di unione tra i membri del gruppo ed è in-
fluenzata da diversi fattori quali la dimensione del gruppo, la sua localizzazione, etc.
• Appartenenza: rappresenta la modalità per cui ogni membro del gruppo si sente
integrato e ben accettato dagli altri membri. L’appartenenza può essere definita in base
ad alcuni elementi:
• la frequenza di contatto tra i membri;
• l’identificazione con norme, valori e atteggiamenti a cui il gruppo si riferisce;
• l’omogeneità ovvero il grado e le caratteristiche su cui i componenti si somiglia-
no l’un l’altro.
In psicologia sociale non è nuova la concezione che la soddisfazione di alcune categorie
di bisogni sia strettamente connessa con l’appartenenza al gruppo. Famosa al riguardo è
la piramide di Maslow (1954) che, definendo i bisogni di appartenenza, include tutte
quelle motivazioni quali il bisogno di amicizia, di affetto, di affiliazione, che permetto-
no all’individuo di essere riconosciuto quale membro di una comunità.
• Stabilità affettiva: è un elemento strettamente legato alla coesione e riguarda la
situazione in cui i membri del gruppo si sentono coinvolti emotivamente e mantengono
un equilibrio nelle richieste effettuate al gruppo. In ambito professionale, la stabilità af-
fettiva è l’elemento che assieme alla coesione del gruppo, determina l’efficacia ed il
buon funzionamento del gruppo stesso.
• Polarizzazione: è il fattore più pericoloso tra quelli descritti per l’integrità del
gruppo in quanto si riferisce a situazioni di divergenza intra-gruppo che non riuscendo a
risolversi tramite l’interazione dei singoli conducono alla costituzione di due sottogrup-
pi con opinioni opposte. Quando questo avviene si assiste ad una proiezione interna
dell’aggressività e del pregiudizio che prima erano riferiti all’out-group (Moscovi-
ci,1981).

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• Equilibrio operativo: riguarda la modalità di definizione dei ruoli, di distribu-
zione dei compiti e di valorizzazione delle competenze di ciascuno dei membri.
• De-individuazione: riguarda il fenomeno per cui un individuo tende ad attenuare
la propria identità personale quando si trova inserito in un gruppo a fronte di una sensa-
zione di anonimato e di responsabilità diffusa quale conseguenza di determinate azioni.
Sono questi i casi in cui si sottovalutano e si trasgrediscono le norme istituzionali. Un
esempio utile a spiegare la de-individuazione è quello di un individuo che agisce in ma-
niera razzista nei confronti di una persona di colore solo quando si trova in un gruppo
che condivide il pregiudizio razzista e non quando è da solo (Zimbardo, 1969).

Le norme ed il conformismo

Per far parte del gruppo ciascun individuo deve rispettare le norme in esso stabilite. Tali
norme riguardano l’insieme di regole formali ed informali che definiscono le modalità̀
di relazione interne al gruppo al fine di definire come ciascuno deve comportarsi e cosa
gli altri si aspettano da lui.
Le norme sono considerate centrali (Sherif, 1966) quando si riferiscono a regole fonda-
mentali ed un eventuale trasgressione può minare l’esistenza stessa del gruppo; o perife-
riche quando sono marginali.
Le norme vengono istituite in quanto sono utili per assolvere determinate funzioni quali
ad esempio il raggiungimento degli obiettivi del gruppo che avviene spesso attraverso
diversi step intermedi definiti da norme; l’equilibrio del gruppo che viene mantenuto
dall’esistenza delle norme a cui i membri si attengono e garantiscono l’unità interna;
l’adesione ad una comune visione della realtà sociale grazie alla quale anche proposte
che sembrano assurde agli esterni vengono appoggiate e valutate dal gruppo; la defini-
zione delle relazioni con l’ambiente esterno (collaborazione, competizione, etc.).
La nascita di una norma sociale affonda le sue basi nel processo di negoziazione tra il
singolo e il gruppo, dal quale idee e comportamenti dei membri finiscono per converge-
re divenendo norme a tutti gli effetti. Tuttavia, le norme che vengono stabilite non sono
stabili ma possono subire evoluzioni e cambiamenti nel corso tempo al fine di adattarsi
all’ambiente esterno in cui il gruppo si trova ad operare.
Quando vengono istituite, le norme sono accettate dalla maggioranza dei membri del
gruppo promuovendo l’ordine e la prevedibilità dell’attività e rappresentano un punto di
riferimento per l’individuo tanto nel comportamento interno al gruppo quanto nella de-
finizione del suo comportamento con l’ambiente sociale esterno (altri gruppi, organiz-
zazioni, etc.). Il riferimento ad una norma, infatti, permette di prendere delle decisioni
ed agire superando insicurezze ed incertezze legate ad una determinata situazione. Una
norma permettendo di definire l’agire in una determinata situazione riduce, inoltre, la
possibilità di insorgenza di situazioni conflittuali che finirebbero per minare la vita stes-
sa del gruppo (Moscovici, 1972).
Il tema della conflittualità inter e intra gruppo non è nuovo in letteratura e numerosi so-
no gli esperimenti condotti per definirne le caratteristiche. Per Sherif et al. (1961), la
conflittualità inter-gruppi può essere spiegata facendo riferimento sia ai fattori indivi-
duali di personalità sia alle caratteristiche del gruppo stesso. Per descrivere l’influenza
del gruppo, Sherif e collaboratori condussero una serie di esperimenti con adolescenti
americani all’interno dei campi estivi tra il 1948 ed il 1952. L’indagine si componeva di
differenti fasi nelle quali i ricercatori concentravano l’attenzione su aspetti diversi del
gruppo e del comportamento inter-gruppi. Inizialmente, le attività coinvolgevano tutti i
partecipanti mentre già dalla seconda settimana di campo, vennero formati due gruppi: i
Rossi e i Blu. Nel terzo step dell’esperimento venne introdotta la competizione tra i due
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gruppi. L’elemento competitivo portò in brevissimo tempo alla formazione di pregiudizi
inter-gruppo e ad alla formazione di un forte senso di coesione intra-gruppo. Tali senti-
menti non cessarono con il termine delle situazioni competitive ma si allentarono solo
nell’ultima fase dell’esperimento con l’introduzione di uno scopo sovraordinato tra i
due gruppi. Le conclusioni di Sherif e collaboratori portarono ad affermare che la pre-
senza di scopi competitivi conduce al conflitto inter-gruppi, mentre la presenza di scopi
sovraordinati conduce alla cooperazione fra i gruppi. Lo scopo sovraordinato può essere
sia materiale (economico/premio) sia immateriale (prestigio).
In generale, è stato evidenziato che quando si analizza la competizione sociale entrano
in gioco principalmente tre processi:
• l’identificazione sociale, ovvero come le persone si definiscono in quanto mem-
bri di un gruppo;
• il confronto sociale, che è il processo di valutazione per cui il gruppo di apparte-
nenza viene valutato positivamente confronto agli altri gruppi;
• la categorizzazione sociale, ossia una rappresentazione semplificata della situa-
zione che permette di ridurre la complessità del mondo sociale; che produce
un’accentuazione delle differenze fra le categorie e una riduzione delle differenze
all’interno di ciascuna categoria.
La categorizzazione sociale è alla base dell’insorgenza di fenomeni di stereotipizzazio-
ne, pregiudizio e discriminazione. Lo stereotipo viene trasmesso culturalmente ed ap-
preso in relazione ai gruppi/situazioni con cui ciascuno entra in contatto.


La leadership nel gruppo

Nel descrivere le caratteristiche dei gruppi non si può prescindere dall’affrontare la que-
stione della leadership. Leadership è un termine che trova le sue radici nel verbo inglese
to lead – guidare, condurre, andare per primo – la cui derivazione latina è rintracciabile
in cum ducere, ossia tirare insieme.
Pertanto, il leader è colui che, occupando nella gerarchia del gruppo una posizione ele-
vata, detiene il comando e rappresenta il punto di riferimento per gli altri membri del
gruppo.
Brown (1989, trad. it. 1990) definisce il leader come “colui che influenza più di quanto
è influenzato” evidenziandone il carisma e l’abilità nell’orientare il percorso del gruppo.
Diverse sono le indagini che hanno provato a definire le caratteristiche della leadership
per meglio comprendere i meccanismi con cui si crea la dipendenza del gruppo dal sin-
golo e delineare il funzionamento del gruppo in assenza di leader. Ad oggi, i risultati
sono contrastanti e si sente sempre più spesso l’esigenza di indagare queste dinamiche
all’interno dello specifico contesto gruppale, in un’ottica più allargata, nel contesto cul-
turale e/o organizzativo in cui la leadership viene esercitata.
Il concetto di leadership assume, infatti, concretezza quando è contestualizzato in un
gruppo così come l’assenza di un gruppo indica mancanza di leadership (Gibb, 1947).
Peter Drucker, uno degli studiosi più conosciuti nel management d’impresa dichiara che
un “leader è qualcuno che ha follower”, evidenziando la natura puramente relazionale
del concetto di leadership.
Le prime teorie sul tema della leadership sono quelle legate ai tratti di personalità pos-
seduti dal leader e, pertanto, quelle che alla famosa domanda “leader si nasce o si di-
venta?” rispondono che leader si nasce. Questi studi hanno avuto l’obiettivo, partendo
dall’analisi delle caratteristiche tipiche di grandi leader della storia, quali ad esempio
Mohandas Gandhi, Abraham Lincoln e Giovanna d'Arco, di cercare di definire chi è un
leader e quali siano i suoi tratti distintivi (Bass, 1990; Jago, 1982).
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Stogdill, nel periodo dal 1904 al 1974 ha riassunto le indagini effettuate sulla leadership
basata sui tratti di personalità pubblicando due rassegne. Nella prima emerge che i tratti
che differenziano il leader dai non-leader sono principalmente intelligenza, vigilanza,
intuizione, responsabilità, iniziativa, fiducia nelle proprie capacità, socievolezza. Nella
seconda rassegna, composta da 163 indagini individuate tra il 1948 e il 1970, i tratti di
personalità emersi sono propensione alla responsabilità e conseguimento del compito,
vigore e tenacia nel raggiungimento degli obiettivi, temerarietà e originalità nel pro-
blem-solving, tendenza a prendere iniziative, fiducia in sé, prontezza nell’assorbire lo
stress interpersonale, capacità di tollerare le frustrazioni, abilità nell’influenzare il com-
portamento degli altri.
L’impostazione sui tratti di personalità è stata criticata, evidenziando le situazioni in cui
nonostante un individuo possedesse i tratti peculiari per la leadership questa di fatto non
veniva esercitata. Inoltre, dalle indagini condotte è emersa una forte eterogeneità e va-
riabilità nella catalogazione semantico-lessicale dei tratti.
Partendo da queste critiche si è sviluppato l’approccio situazionale che sposta
l’attenzione dalla persona alla situazione. Tale approccio si pone come obiettivo
l’analisi di variabili che possono influenzare la leadership quali:
• la natura del compito per cui è necessario che il gruppo percepisca che il leader
possiede le competenze per affrontare il compito e raggiungere gli obiettivi prefissati;
• l’ampiezza del gruppo per cui maggiore è il numero dei componenti del gruppo e
maggiore sarà l’esigenza di avere una leadership (Hemphill, 1961);
• il grado di coesione in base al quale si definiranno ruoli, obiettivi e tempistiche.
Meno coesione vi è nel gruppo maggiore sarà l’esigenza di una leadership per definire
l’organizzazione delle attività.
• le caratteristiche dei membri: quest’aspetto riguarda conoscenze, abilità e com-
petenze dei membri del gruppo e soprattutto come tali elementi riescono ad equilibrarsi
in relazione alle esigenze del gruppo.
Infine, oltre alle caratteristiche interne al gruppo e/o all’attività da svolgere, la leader-
ship risente del contesto esterno e, in particolare, delle dinamiche che si instaurano con
gli altri gruppi, con l’ambiente economico e politico, con la situazione sociale e cultura-
le del Paese in cui il gruppo si trova.
Rientra in questo filone la Teoria della Contingenza proposta da Fiedler nel 1967 ed in
base alla quale l'efficacia della leadership dipende da tre principali variabili: la struttura
del compito, la struttura affettiva (buona o cattiva) dei rapporti tra leader e membri del
gruppo e il livello di potere del leader. A seconda della combinazione delle tre variabili
si hanno vari atteggiamenti efficaci del leader, che variano da un'alta permissività ad
una forte autorità in funzione della situazione in cui si trova il gruppo. Il buon leader,
infatti, possiede caratteristiche contingenti con la situazione.
Le critiche principali nei confronti dei modelli situazionali si concentrano sul fatto che
nelle indagini sono stati considerati solo pochi elementi situazionali rispetto alla reale
quantità di elementi interagenti nelle situazioni esaminate.
Gli approcci più recenti alla leadership sono quelli della leadership trasformazionale e
carismatica, in cui le caratteristiche dei membri di un gruppo non vengono più conside-
rate immutabili ma trasformabili; di conseguenza anche la definizione del ruolo del lea-
der viene modificata.
Soprattutto in ambito organizzativo, così come le aziende devono costantemente essere
aggiornate e modificarsi per adattarsi alle esigenze del contesto, così al leader,
all’interno dell’organizzazione, è richiesto di guidare i propri collaboratori nei processi
di cambiamento. Una leadership trasformazionale è una leadership estremamente attenta
al contesto: si tratta di un modello di leadership basato sulla relazione, sul feedback, sul

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raggiungimento di obiettivi (economici dell’azienda e di crescita personale e professio-
nale del singolo) e sulla capacità di vision.
Il tema della leadership in ambito professionale, negli ultimi anni, è stato confrontato
con i temi dell’etica d’azienda ed in particolare con quella che è comunemente denomi-
nata Responsabilità Sociale d’Impresa. La Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) o
Corporate Social Responsibility (CSR) implica l’applicazione da parte
dell’organizzazione di principi di trasparenza, sostenibilità e qualità. Per promuovere la
RSI, il manager, pertanto, deve essere capace di rispondere non solo agli obiettivi di bu-
siness ma far propri questi valori e orientarvi l’operatività (Brown e Treviño 2006; De
Hoogh e Den Hartog, 2008).
È per questo che sempre più spesso si sente parlare di leadership etica, intesa come la
capacità di guidare l’azienda basandosi sui valori morali che promuovono l'interesse so-
ciale ed il bene comune. Un leader etico trasmette tale approccio operativo nei propri
dipendenti promuovendo sia la crescita della società (Brown et al., 2005) e la crescita
personale.
Da diversi studi è stata messa in risalto la correlazione tra leadership etica e RSI, evi-
denziando principalmente alcuni aspetti: in presenza di un leader etico anche i dipen-
denti sviluppano la tendenza ad adottare comportamenti etici nell’assolvimento delle lo-
ro funzioni organizzative in misura maggiore rispetto alle situazioni di assenza di lea-
dership etica (Bandura, 1986). I leader etici per attirare l'attenzione dei loro dipendenti
introducono messaggi etici nel contesto organizzativo (Treviño et al., 2000).
Brown et al. (2005) hanno osservato inoltre, che i leader etici sono onesti, affidabili e
leali e questo promuove la formazione di una cultura organizzativa basata sulla condivi-
sione delle informazioni e l'attenzione ai problemi collettivi: i leader etici incoraggiano i
dipendenti a proporre soluzioni creative ed etiche ai problemi incontrati nel processo
decisionale per raggiungere in modo efficace ed etico l'obiettivo organizzativo.
Un’interessante indagine sul tema è stata condotta nel 2015 da Suk Bong Choi e dal
gruppo di suoi collaboratori presso l’Università della Korea (Suk Bong Choi, 2015).
L’indagine ha coinvolto 313 dipendenti di cinque grandi aziende di servizi finanziari e
bancari in Korea, di cui il 76% uomini e il 24% donne, con una età media del campione
di circa 32 anni. I risultati di questo studio hanno mostrato come la leadership etica sia
fortemente connessa agli atteggiamenti dei dipendenti nei confronti dalla responsabilità
sociale d’impresa e hanno confermato il ruolo di moderatore del leader all’interno del
clima di lavoro. Inoltre, i risultati dell’indagine dimostrando che la leadership etica ispi-
ra i lavoratori ad andare al di là del loro interesse e di prendere in considerazione gli in-
teressi del gruppo. Barnett e Vaicys (2000) hanno collegato una leadership etica allo
sviluppo di un clima di lavoro basato su analoghi principi etici ed una promozione della
RSI (Hunt & Vitell, 1986; Treviño, 1986) nelle aziende.
Da quanto descritto in questo paragrafo, si vede come i gruppi non siano dei blocchi sta-
tici, ma realtà in continua evoluzione nelle quali vi è sempre un leader che conduce ver-
so sempre nuovi e diversi obiettivi che possono essere raggiunti solo grazie alla specia-
lizzazione, alla valorizzazione delle competenze e delle abilità di ciascun membro del
gruppo.

Il metodo cooperativo: la leadership distribuita

Individualità e gruppalità devono coesistere e cooperare all’interno del lavoro di gruppo


al fine di perseguire un obiettivo comune. Una metodologia di azione che parte da que-
ste basi è il Cooperative Learning.

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Il Cooperative Learning (CL) o Apprendimento Cooperativo è un processo di formazio-
ne/istruzione che coinvolge attivamente i membri del gruppo di lavoro nel raggiungi-
mento del fine comune e che si basa sull’assunto che esistono differenti abilità adatte a
permettere il conseguimento dell’obiettivo in una data situazione.
L’obiettivo finale del lavoro cooperativo è massimizzare l’apprendimento del singolo
promuovendo la responsabilità condivisa nel raggiungimento degli obiettivi previsti dal
gruppo.
Per creare gruppi di cooperative learning è necessaria la presenza di alcune caratteristi-
che:
• l’interazione diretta, vis-à-vis, tra i membri del gruppo per fornire continui feed-
back adatti a risolvere eventuali difficoltà e raggiungere obiettivi condivisi in minor
tempo;
• l’uso di competenze sociali all’interno del gruppo per favorire i processi relazio-
nali;
• il monitoraggio costante delle attività per intervenite con azioni di aggiustamen-
to atte migliorare l'efficienza e l’efficacia del gruppo;
• l’interdipendenza positiva. Secondo la definizione data da Comoglio,
l’interdipendenza positiva può essere descritta come “quella condizione che fa sì che
ogni membro agisca a si comporti in modo collaborativo perché convinto che solo dalla
collaborazione può scaturire il proprio successo e quello degli altri membri del grup-
po” (Comoglio, 1999).
Il metodo cooperativo è stato sperimentato ed applicato principalmente in ambito scola-
stico, grazie alla suddivisione della classe in piccoli gruppi eterogenei di studenti.
E’ nel contesto scolastico che si è svolto lo studio di Amael (Amael et al., 2013) che si è
proposto di indagare l’impatto del Cooperative Learning sui comportamenti di gruppo e
sull’accettazione, in relazione alle condizioni di rischio, di studenti con disabilità di ap-
prendimento da parte di studenti normodotati. In particolare, nello studio furono coin-
volti 168 studenti francesi appartenenti a 6 classi ordinarie del primo anno delle scuole
medie, cui furono affiancati 36 studenti con problemi di apprendimento per sette lezioni
di ginnastica da due ore ciascuna. Tre delle sei classi hanno praticato ginnastica in con-
dizioni a basso rischio, mentre le altre tre si sono trovate in condizioni ad alto rischio.
Durante la sperimentazione è stata osservata la tendenza ad aiutare gli studenti con dif-
ficoltà e misurato il grado di accettazione da parte della classe grazie ad un questionario
sociometrico somministrato durante la prima e l’ultima lezione. I risultati hanno mostra-
to che le condizioni di rischio hanno influenzato profondamente l’attitudine all’aiuto e
l’accettazione degli studenti con difficoltà nell’apprendimento, dimostrando come un
approccio di tipo cooperativo possa essere considerato un valido strumento di integra-
zione quando si inserisco studenti con difficoltà di apprendimento in classi ordinarie.
In altri studi, l’impatto del metodo cooperativo rispetto al metodo tradizionale non è co-
sì netto pur tuttavia configurandosi come efficace strategia formativa. Nel febbraio 2014
ad esempio, Ning e collaboratori condussero un’indagine sull’impatto
dell’apprendimento cooperativo sulla motivazione ad imparare l’inglese di un gruppo di
studenti cinesi. I partecipanti all’esperimento provenivano da due differenti classi di
un’università del nord della Cina e furono divisi in gruppi per assegnazione casuale.
L’indagine aveva come obiettivo quello di confrontare l'impatto del metodo cooperativo
rispetto alla modalità di istruzione tradizionale su sei diversi aspetti che influenzano la
motivazione all’apprendimento: motivazione intrinseca, regolazione integrata, regola-
zione identificata, regolazione introiettata, esterni regolamentazione e a-motivazione. I
risultati indicarono differenze significative a favore del cooperative learning sulla moti-
vazione intrinseca, mentre non si sono riscontrate differenze significative rispetto agli
altri aspetti della motivazione indagati.
49

Affinché un gruppo di lavoro funzioni efficacemente e raggiunga gli obiettivi che si è
prefissato è necessaria una corretta ed equilibrata divisione dei ruoli e delle competenze.
Generalmente tale attribuzione è in molti contesti, affidata al leader. Nell’ambito
dell’approccio cooperativo, il tema del leader è affrontato con la leadership distribuita.
Per il cooperative learning, la leadership è distribuita in quanto può essere svolta da più
membri del gruppo in base alle funzioni di cui il gruppo ha necessità. Se è vero, infatti,
che il gruppo si presenta attraverso il suo leader (o i suoi leader), è anche vero che que-
sti sono generati all’interno del gruppo attraverso un rapporto di reciproca influenza.
Una tema fondamentale nella letteratura sulla leadership è il ruolo centrale che
quest’ultima ricopre all’interno delle organizzazioni e l’influenza che questa ha sui
cambiamenti organizzativi. Nonostante si tratti di un argomento di grande rilevanza, so-
no pochi gli studi empirici che, su larga scala, hanno investigato come il miglioramento
delle prestazioni del gruppo a seguito dell’adozione di una leadership distribuita impatti
sul miglioramento della performance aziendale. Per colmare questo gap, Heck e Hallin-
ger (2010) hanno indagato l’impatto dell’utilizzo di una leadership distribuita di tipo
longitudinale e multilivello sul miglioramento della performance di studenti in un pe-
riodo di 4 anni. I risultati hanno confermato che la leadership distribuita ha contribuito
alla crescita dell’apprendimento in particolare nelle aree della lettura e della matemati-
ca.
Mehra e collaboratori (2006), attraverso l’analisi dei social network, hanno indagato il
ruolo della leadership distribuita all’interno di gruppi di lavoro. Per lo studio sono stati
utilizzati dati sociometrici relativi a 28 squadre di vendita, collegando le percezioni del-
la leadership alle prestazioni di squadra. I risultati sono andati a sostegno dell’idea che
certi tipi di strutture di leadership decentralizzate (nello studio il decentramento ha pre-
visto tre diverse operazionalizzazioni) sono associate meglio di altre ad una prestazione
più elevata della squadra. Lo studio suggerisce che la leadership distribuita può differire
in base alle caratteristiche strutturali del contesto e queste differenze possono avere im-
plicazioni importanti per le prestazioni della squadra.
Da quanto esaminato nel capitolo, possiamo concludere che apprendimento cooperativo
e leadership distribuita agiscono in maniera preventiva sulla comparsa di conflitti e
squilibri intra-gruppo; promuovono la partecipazione attiva e la condivisione delle re-
sponsabilità; stimolano l’impegno e l’attenzione che ciascun membro del gruppo.
In tale contesto, le decisioni da prendere, i problemi da affrontare, le modalità di azione
e le informazioni veicolate saranno frutto delle idee di tutti.

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1
Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma.

54

Relazioni efficaci

di Valeria Saladino1

Le relazioni efficaci

Viviamo in un mondo di relazioni. Siamo in relazione con i nostri amici, coniugi, figli e
altri membri della nostra famiglia, con le persone con le quali si vive o si è intimamente
legati. Oltre a queste relazioni significative, ve ne sono altre che incidono più o meno
profondamente nella nostra vita come i rapporti che intratteniamo con colleghi e vicini.
Indipendentemente da quanto influenzino la nostra vita, entriamo in qualche modo in
relazione con gli altri. Possiamo allontanare o avvicinare le persone, ma in ogni caso
non potremo non creare relazioni.
Da un certo punto di vista, tutti siamo connessi con tutti. La relazione è paragonabile ad
una grande rete dove ogni punto è in connessione reciproca creando infinite opportunità
ma anche responsabilità. Per tale motivo è importante come si vivono questi legami. In-
fatti le relazioni possono sia migliorare che deteriorare i rapporti. Ognuno è responsabi-
le delle sue relazioni e ha l’opportunità di agire per modificarle. Infatti, è possibile mi-
gliorare le proprie relazioni rendendole più efficaci, sviluppando la sensibilità e le com-
petenze necessarie per affrontare con successo i complessi e molteplici aspetti degli
scambi interpersonali. Tali competenze, una volta acquisite, facilitano la soluzione di
problemi e progressivamente contribuiscono alla creazione di un clima relazionale salu-
tare, soddisfacente e produttivo in ogni ambito. Il modo in cui ci relazioniamo con gli
altri può influire molto sia sulle nostre scelte che sugli eventi riguardanti il nostro svi-
luppo personale e professionale.
Ogni individuo, nel proprio modo di rapportarsi con le persone, tende ad adottare uno
stile relazionale ricorrente. Tale modalità comportamentale è infatti il frutto della storia
individuale di ognuno, poiché conseguente ad identificazioni e modelli di riferimento
affettivo e dunque a forme di adattamento. Lo stile relazionale può variare da situazione
a situazione. L’essere umano è molto complesso e le sue reazioni sono sempre il frutto
della combinazione di tratti caratteriali e variabili situazionali. Nel concetto di stile re-
lazionale rientra anche la tipologia di stile comunicativo, che è fortemente legato al mo-
do con cui si interagisce con gli altri.
Capire qual è il proprio stile relazionale dominante è molto importante per comprendere
i propri punti di forza e debolezza ed adottare una strategia che permetta di stabilizzare i
primi e rafforzare i secondi. Solitamente vengono individuati tre principali stili relazio-
nali (assertivo, aggressivo, passivo), ognuno di noi è caratterizzato da una combinazio-
ne di questi stili. Chiaramente esiste uno stile dominante. Tuttavia non dobbiamo di-
menticare che le esperienze e l’adattamento ai diversi ambienti e situazioni possono far-
ci scegliere uno stile diverso. Inoltre, ogni stile relazionale può essere utilizzato
con differenti gradazioni.
Ecco in breve i tre principali stili relazionali:
• Assertivo: questo stile relazionale identifica individui che hanno un’immagine
positiva di sé, un’adeguata capacità di autovalutazione ed un buon livello di au-
tostima e fiducia. Questo modo di essere rende sicuri e capaci di decidere per se.
Un individuo assertivo è sicuro e determinato, ammette i suoi errori, accetta le

55
critiche, e a sua volta sa criticare in modo costruttivo. Il suo stile comunicativo è
chiaro, aperto ed efficace, evidenzia il piacere nel contatto con gli altri. Il sog-
getto assertivo ha un’ottima gestione anche della comunicazione non verbale,
caratterizzata da un insieme armonioso di gesti e di sguardi che evidenziano il
suo interesse verso l’interlocutore.
• Aggressivo: questo stile relazionale identifica individui spesso sulla difensiva,
pronti a scagliarsi contro gli altri, con volontà di prevaricazione. Tale stile na-
sconde però spesso un’immagine di sé debole e negativa, alla quale si contrap-
pone appunto una forte aggressività, per dare l’impressione di forza e decisiona-
lità. Lo stile comunicativo è collerico ed esplosivo, con una comunicazione non
verbale molto accentuata, quasi esagerata.
• Passivo: questo stile relazionale identifica persone timide e sottomesse, con poca
autostima, che hanno una cattiva immagine di sé. Tale modo di vivere la propria
individualità porta spesso all’incapacità di raggiungere gli obiettivi e di compie-
re delle scelte. Si tratta di persone che cercano di evitare lo scontro e la cui co-
municazione è poco espressiva, contratta ed inefficace. Anche la comunicazione
non verbale è dimessa.
Rispetto a quanto detto circa gli stili relazionali, essere capaci di avere relazioni efficaci
significa creare e mantenere relazioni importanti, essendo in grado di interrompere rela-
zioni inadeguate.
Significa essere assertivi, cioè capaci di affermare se stessi, dichiarare i propri bisogni e
le proprie opinioni nel rispetto degli altri, delle loro idee e dei loro bisogni, senza preva-
ricazioni o sottomissioni, saper scegliere e/o creare relazioni in cui ognuno dei compo-
nenti della relazione è consapevole dei propri bisogni, diritti e doveri e capace di
esprimerli e soddisfarli, di assumersi la responsabilità per le proprie scelte e di non ca-
dere in modalità conflittuali o invischiate. Le relazioni efficaci garantiscono dunque un
rapporto positivo e costruttivo.

Il rettangolo del comportamento

Per ogni persona con cui entriamo in relazione creiamo una "finestra percetti-
va" attraverso cui osservarne i comportamenti. Questa "finestra percettiva" è definibile
"Rettangolo del comportamento".
Per "comportamento" si intende qualcosa che possiamo udire o vedere concretamente,
ossia non unicamente il nostro giudizio su quella persona.
Tutte le persone si trovano a vivere di volta in volta due sentimenti diversi nelle relazio-
ni interpersonali: accettazione e non accettazione. Ci saranno comportamenti di un fi-
glio, di un alunno, del partner, di un insegnante che saranno accettabili ed altri non ac-
cettabili.

Comportamenti accettabili
Tutti i
comportamenti
Comportamenti inaccettabili

La linea non è statica ma in continuo movimento, spesso cambia molto rapidamente nel
corso di una giornata e varia da persona a persona. Nessuno può accettare tutto incondi-
zionatamente. Due persone possono vedere lo stesso comportamento in modo diverso.

56
Esistono tre fattori che influenzano il livello di accettazione:
• fattori interni alla persona: la personalità, lo stato d’animo, le condizioni di salu-
te, gli impegni di lavoro. Possono esserci variazioni nel proprio stato d’animo,
indipendenti dal comportamento dell’altro, che possono influire sulla mia accet-
tazione o non accettazione di un dato comportamento.
• Ad esempio, se vinco alla lotteria, ottengo una promozione o semplicemente
passo una splendida giornata, posso reagire positivamente anche a situazioni
stressanti.
• l'ambiente: il luogo in cui si svolge il comportamento può determinare i miei
sentimenti di accettazione e non accettazione. Per esempio, potrei non avere nul-
la in contrario se i bambini giocano a pallone in cortile, ma probabilmente non
sarebbe lo stesso se giocassero in salotto.
• l’altro: i miei sentimenti di accettazione variano ad esempio da un figlio all'altro,
a seconda dell'età, personalità, sesso di questo ultimo.
L’Area di accettazione può essere ulteriormente suddivisa per rappresentare due tipi di-
versi di comportamento. In primo luogo, l’altra persona (che può essere un figlio, un
alunno) può assumere un comportamento che non crei problemi a livello relazionale,
definendo un’area non problematica.
Pur essendo quest’area non problematica, potrebbe contenere anche una serie di com-
portamenti che segnalano la presenza di un problema nell’altro. Spesso, coloro i quali
interagiscono con una persona di cui percepiscono un problema o difficoltà, tendono a
voler aiutare.

Il metodo Gordon: applicazioni pratiche

Thomas Gordon propone la filosofia rogersiana in un linguaggio concreto e operativo


con l’intento di rendere accessibili ed utilizzabili dal vasto pubblico alcune delle abilità
psicologiche che caratterizzano il setting psicoterapeutico. Gordon mette a punto dei
“training brevi” sulla abilità di comunicazione e di risoluzione dei conflitti interpersona-
li che, attraverso un approccio strutturato, rendono le persone ed i gruppi più efficaci.
Un’applicazione delle relazioni efficaci come competenze trasversali è ravvisabile in
ambito sia familiare che scolastico, tramite il metodo Gordon. Un’abilità fondamentale
da sviluppare in tal senso è la capacità di individuare il portatore del sintomo o del pro-
blema.
Alcune abilità che si insegnano nel corso "Genitori efficaci" elaborato da Gordon,
quando in una relazione si riconosce che vi è uno specifico problema di un soggetto in
particolare sono:
• Imparare a capire quando i figli si trovano in difficoltà: riconoscere segni e sin-
tomi.
• Imparare a svolgere un’efficace funzione d'aiuto rispetto al figlio in difficoltà.
• Imparare a distinguere i fattori che aiutano da quelli che non aiutano un figlio in
difficoltà.
• Imparare ad evitare le 12 tipologie di risposte non facilitanti quando i genitori
andranno in aiuto dei loro figli.
• Imparare le abilità di ascolto necessarie all’elaborazione del problema del figlio.
• Imparare come aiutare il figlio a risolvere autonomamente i propri problemi.
Concetto fondamentale rispetto alle problematiche comunicative che possono nascere
tra figli e genitori è quello delle barriere della comunicazione. Quando i fi-
gli/alunni/l’altro hanno un problema, di frequente i genitori/insegnanti si intromettono
cercando di aiutarli con dei "buoni consigli", con dei "suggerimenti" tratti dalla loro
57
stessa esperienza o invitandoli a riconoscere la realtà dei "fatti" e ad attenersi ad essa.
Nonostante le buone intenzioni, spesso questi tentativi creano più problemi di quanti ne
risolvano e finiscono per bloccare la voglia di comunicare del figlio/alunno. Questi ten-
tativi vengono definiti "metodi tradizionali di aiuto" o "barriere della comunicazione" e
sono dodici:
• dare ordini, comandare, dirigere;
• minacciare, ammonire, mettere in guardia;
• moralizzare, far prediche;
• offrire soluzioni, consigli, avvertimenti;
• argomentare, persuadere con la logica;
• giudicare, criticare, biasimare;
• fare apprezzamenti, manifestare compiacimento;
• ridicolizzare, etichettare, usare frasi fatte;
• interpretare, analizzare, diagnosticare;
• rassicurare, consolare;
• indagare, investigare;
• cambiare argomento, minimizzare, ironizzare.
Per non incorrere nel pericolo di usare le citate "barriere" che comunicano la non accet-
tazione del problema del figlio/alunno, Gordon consiglia la tecnica dell’ascolto attivo.
Carl Rogers è giunto ad individuare le caratteristiche o condizioni che devono essere
presenti affinché una persona in difficoltà si senta accolta. Quest’ultima deve sentire che
chi si offre di aiutarla è una persona con determinate caratteristiche:
• Accettante: mi lascia essere quello che sono, accettando il mio modo di pensare,
sentire, parlare ed agire. Non mi chiede di essere diverso o di cambiare i miei
sentimenti.
• Empatica: Mi comprende davvero, intuisce i miei veri sentimenti, mi fa capire
che mi sta ascoltando con attenzione. Sa mettersi nei miei panni e mi comunica
le sue sensazioni ed emozioni rispetto alle sue esperienze.
• Autentica: antepone la sincerità, l'onestà e la genuinità all’assunzione di un ruo-
lo.

Relazioni efficaci come competenze trasversali

Tra le competenze necessarie per aiutare veramente una persona in difficoltà non solo in
ambito terapeutico ma anche nelle relazioni quotidiane, vi sono le abilità non verbali,
come l’ascolto passivo caratterizzato da cenni di conferma, dall’attenzione, intenzione e
dal silenzio. Vi sono poi, “frasi invito” denominate anche “apriporta” come “Dimmi pu-
re.., Vuoi dirmi che... ,Continua pure, Mmhm...mmhm, Certo...
Tuttavia bisogna sottolineare come le abilità verbali, come l’ascolto attivo, il silenzio, i
cenni di attenzione e le espressioni facilitanti, limitano notevolmente l’interazione; chi
parla, infatti non riesce a capire se l’altro lo comprende o se lo sta ascoltando. L’ascolto
passivo non prova che chi sta ascoltando abbia effettivamente capito.
Ciò che viene definito come "ascolto attivo" richiede molta più interazione e molte più
prove rispetto al fatto che chi sta ascoltando non abbia soltanto sentito ma abbia davve-
ro capito.
L’ascolto attivo, in quanto opposto all’ascolto passivo (silenzio), comporta l’interazione
con l’utente, e fa anche in modo che quest’ultimo abbia delle prove (feedback) che
l’operatore lo comprende.
Il rimando empatico è la forma di comunicazione che da:

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• chiara percezione di essere stati capiti sia nei sentimenti che nelle idee;
• chiara percezione di essere stati accettati sia nei sentimenti che nelle idee;
• chiara percezione di essere stati rispettati sia nei sentimenti che nelle idee;
• aiuta ad approfondire la comunicazione;
• abbassa le tensioni emotive, il senso di minaccia e diminuisce il senso di ansia;
• aiuta ad accettare come naturali ed umani i propri sentimenti e ad imparare che il
sentimento è positivo;
• facilita l’insight (chiara percezione) del reale problema e di conseguenza inizia
la risoluzione dello stesso; tuttavia lascia alla persona la responsabilità di trovare
una soluzione.
Inoltre sul piano relazionale il feedback empatico contribuisce a consolidare il rapporto
tra i membri dell’interazione, incrementando il mutuo rispetto e la reciproca attenzione
all’altro; oltre a promuovere l’alleanza terapeutica.
L’ascolto attivo è un processo di comunicazione completo che implica i seguenti mo-
menti:
• Osservare ed ascoltare con attenzione il messaggio verbale dell’altro
• Fare una ipotesi in merito al vissuto dell’altro
• Comunicare la propria impressione (verbalmente e non verbalmente) con empa-
tia
• L’altro conferma o corregge il feed-back dell’helper.
Questa tecnica funziona perché aiuta la persona a scaricare le emozioni intense e ad ela-
borare il vissuto problematico in vista di una soluzione.
Dunque l’ascolto attivo è l’abilità che meglio riassume le tre caratteristiche della rela-
zione d’aiuto: empatia, accettazione, autenticità, per facilitare la soluzione del problema
da parte della persona.
Questo è reso possibile attraverso un rispecchiamento ed una riformulazione della co-
municazione globale dell’altro, nelle sue componenti verbali ed emozionali. L'ascolto
Attivo richiede il mettersi nei panni dell’altro cercando di cogliere i suoi pensieri e sen-
timenti e la condivisione delle esperienze. Questa reciproca comprensione permette
all’altro di esprimere ed esplorare il problema, aprendo la strada così a una soluzione.
A volte, un bambino che soffre conoscendo perfettamente il motivo della sua sofferen-
za, può esprimere il problema con chiarezza e risolverlo da sé. Nella maggior parte dei
casi però i bambini in difficoltà non sanno bene cosa provano, si esprimono solo attra-
verso "indizi e sintomi" e cercano qualcuno che li ascolti e li comprenda. Ulteriore
competenza insita nelle relazioni efficaci è quella di facilitare la soluzione di un pro-
blema. Troppo spesso i genitori tendono a risolvere i problemi dei figli mantenendoli in
uno stato di dipendenza (ad esempio riparandogli oggetti, dicendogli cosa fare in situa-
zioni problematiche, ecc.).
Il P. E. T. (Parenting Effectiveness Training) incoraggia i genitori a credere nelle capa-
cità autonome del bambino, assistendolo in maniera direttiva solo quando è palesemente
necessario (ad esempio lasciandogli prima provare a riparare il giocattolo da sé e poi, se
serve, offrendogli il proprio aiuto).
Il genitore può aiutare il bambino con l'ascolto attivo e le frasi invito, accompagnandolo
nelle varie fasi del processo di soluzione del problema.
L'ascolto attivo ed il problem solving guidato possono senz’altro accelerare il passaggio
del bambino dalla dipendenza all'indipendenza.
A volte il bambino trova difficile prendere una decisione o affrontare un problema per-
ché gli manca un metodo efficace.
Anche se l'ascolto attivo resta lo strumento principale, il genitore può aiutarlo guidando-
lo nelle sei fasi del Metodo:
• Definire del problema
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• Proporre le soluzioni
• Valutare le soluzioni
• Scegliere le soluzioni
• Fare un piano di attuazione
• Concordare i criteri di verifica dei risultati
In situazioni non problematiche è possibile utilizzare l’autorivelazione efficace.
Nei Training Gordon vengono differenziati i Messaggi in Seconda Persona (o Messag-
gi-Tu), e Messaggi in Prima Persona (o Messaggio-Io).
I Messaggi in Prima Persona sono il modo in cui, nel P.E.T., ci si "Autorivela", comuni-
cando qualcosa di sé. Autorivelazione significa dare informazioni su di sé, esprimere
sinceramente ciò che si pensa e si prova. Un Messaggio in Prima Persona è un messag-
gio che descrive la persona; è un’espressione dei sentimenti e dell’esperienza. Per tale
motivo è autentico, sincero e congruente. Dato che esprime unicamente la vostra realtà
interiore, non contiene valutazioni, giudizi o interpretazioni sugli altri.
L’Autorivelazione prende la forma di
• Messaggio in prima persona (o Messaggio-io) positivo (quando l’alunno fa
qualcosa di buono si potrebbe rispondere: "mi piace ciò che hai fatto, mi ha reso
felice il tuo comportamento”…).
• Messaggio in prima persona (o Messaggio-io) dichiarativo (informo che …mi
sono messo d’accordo con gli alunni che …).
• Messaggio in prima persona (o Messaggio-io) preventivo (informo cosa mi
aspetto da loro, esprimo come desidererei che andassero le cose…).
Un messaggio in prima persona positivo contribuisce a rafforzare il rapporto quando
non ci sono problemi, comunica sentimenti positivi e descrive gli effetti concreti del
comportamento di un’ altra persona.
Troppo spesso noi ci esprimiamo attraverso messaggi in seconda persona. Un messag-
gio in seconda persona è un’affermazione sull'altro che implica valutazione e giudizio.
Spesso i bambini si offendono per questo tipo di messaggi, perché si sentono giudicati o
manipolati.
Anche quando sono animati da buone intenzioni, i messaggi in seconda persona posso-
no lasciare una brutta impressione: "Ma che brava bambina!", "Hai fatto bene a riordi-
nare il garage!" "Stai facendo un buon lavoro a scuola". "Sei sempre così gentile e tran-
quilla".
Un messaggio in prima persona positivo evita valutazioni e giudizi. Si focalizza sui sen-
timenti e le esperienze del genitore. Espressioni del genere “Ti voglio bene quando fai
come dico io” non vanno usate per manipolare i figli o indurli a fare quello che si vuole.
Ci si può comprendere molto meglio se impariamo a condividere spesso e apertamente
idee, opinioni e sentimenti.
Nell’Area non Problematica, possiamo usare messaggi in prima persona dichiarativi che
esprimano i sentimenti del momento, simpatie, avversioni, convinzioni, opinioni. "Non
mi piace ascoltare l'hard rock"; "Credo che l’istruzione sia molto importante per il futu-
ro"; "Le notizie di questi giorni mi deprimono profondamente"; "Mi piace quando ci
riuniamo tutti insieme a parlare e giocare".
Sempre nell’Area non Problematica, i messaggi in prima persona preventivi informano i
figli (il coniuge o altri) dei nostri bisogni futuri; gli altri avranno così la possibilità di
collaborare o cambiare in modo da non ostacolare il soddisfacimento di un nostro biso-
gno, prevenendo perciò il problema o il conflitto: "Domani pomeriggio mi serve la
macchina per andare all’aeroporto"; "Stasera vorrei starmene da solo in garage a lavora-
re"; "Domenica mi piacerebbe fare una gita".

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Come per i messaggi in prima persona positivi, anche in questo caso la motivazione non
può mai essere la manipolazione o il controllo dell'altro ma solo una comunicazione
sincera.
Dunque, nell’Area non problematica, cioè quando non ci sono problemi di relazione,
Gordon indica lo sviluppo dell’abilità di autorivelazione efficace che si esprime nei
messaggi in prima persona (o messaggi-io) positivi, dichiarativi e preventivi.
L’Area di Rifiuto invece è quell’area nella quale sono presenti comportamenti inaccet-
tabili degli altri che creano in noi un problema o una difficoltà.
Come per le Barriere alla relazione d’aiuto, nei corsi Gordon, questi metodi tradizionali
di confronto vengono raggruppati in dodici diverse modalità. Sono le modalità che mol-
te persone utilizzano per reagire a momenti di difficoltà di fronte ai comportamenti
inaccettabili degli altri.
• dare ordini, comandare, dirigere;
• minacciare, ammonire, mettere in guardia;
• moralizzare, far prediche;
• offrire soluzioni, consigli, avvertimenti;
• argomentare, persuadere con la logica;
• giudicare, criticare, biasimare;
• fare apprezzamenti, manifestare compiacimento;
• ridicolizzare, etichettare, usare frasi fatte;
• interpretare, analizzare, diagnosticare;
• rassicurare, consolare;
• indagare, investigare;
• cambiare argomento, minimizzare, ironizzare.
I messaggi in seconda persona tendono al biasimo dell’altro, gli comunicano "sei catti-
vo" o "hai torto” e non soddisfano dunque i requisiti di un confronto efficace.
Possono produrre un cambiamento, però intaccano l’autostima dell’altro, comprometto-
no la relazione, negano all’altro la possibilità di contribuire alla risoluzione del proble-
ma.
Le "barriere" sono messaggi in seconda persona. Spostano indebitamente l'attenzione da
"io ho un problema" a "tu hai un problema".
Un messaggio in prima persona è uno strumento di confronto più efficace in quanto:
• descrive in modo non giudicante il comportamento non accettabile (ciò che
l’altro ha detto o fatto)
• descrive i sentimenti in merito al comportamento o ai suoi effetti.
• descrive gli effetti tangibili e concreti che quel comportamento non accettabile
ha su di voi.
Se ci si accorge di inviare una quantità di messaggi in prima persona che esprimono
rabbia, è probabile che non si stia in contatto con i propri sentimenti originari.
"Sono arrabbiato" è un messaggio che di solito viene interpretato dall'altro come: "Sono
arrabbiato con te", o "Mi hai fatto arrabbiare".
A prescindere dalla forma che assume, l'altro di solito si sente offeso, condannato, col-
pevolizzato, come accade con i messaggi in seconda persona.
La rabbia, probabilmente, è qualcosa che si genera dopo aver provato un altro sentimen-
to. É assai probabile che il sentimento originario sia paura, dispiacere, imbarazzo, fru-
strazione, delusione, impotenza, offesa, preoccupazione, invidia, tristezza. Entrare in
contatto con il sentimento originario e poi comunicarlo attraverso un messaggio in pri-
ma persona diminuisce le occasioni di esprimere la rabbia. Non sempre un messaggio in
prima persona funziona. L’altro può reagire mettendosi sulla difensiva diventando ad
esempio sospettoso, imbarazzato, addolorato o provocando una situazione di disagio.

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Quando ciò accade, è importante che il genitore cambi atteggiamento passando
all’ascolto attivo. Prima di poter ascoltare il problema dell’interessato, l’interlocutore
dev'essere aiutato a riequilibrare la propria emotività.
Lo strumento migliore in questo caso è l'ascolto attivo, che è parte integrante di un mes-
saggio in prima persona completo; ometterlo significa aumentare sostanzialmente la
probabilità che il messaggio risulti inefficace. Cambiare marcia significa passare dal
confronto all'ascolto fino a quando il problema di entrambi non è risolto. Quando il
cambio di marcia ha allentato la difesa dell’altro, si può riproporre il confronto per cer-
care di risolvere il problema.
Il confronto mediante i messaggi in prima persona abbassa la linea di accettazione (am-
pliando l'area non problematica) o riduce il numero dei comportamenti inaccettabili
dell’altro. Un altro metodo per abbassare ulteriormente la linea è modificare l'ambiente.
Una modifica dell’ambiente, si rende utile in una o entrambe delle seguenti circostanze:
• Quando l’altro ha già assunto il comportamento inaccettabile e si desidera modi-
ficare l'ambiente.
• Quando è possibile prevedere l’assunzione di un atteggiamento simile in futuro e
si intende prevenirlo.
Gordon suggerisce quindi di fare qualcosa per modificare o riorganizzare l’ambiente in
cui si esplica il comportamento disturbante allo scopo di eliminarlo, modificarlo ed iso-
larlo.
Tra i metodi principali da adottare per cambiare il contesto vi sono:
• Arricchire: aggiungere qualcosa all'ambiente, come giocattoli, materiali, attività.
Ad esempio mettere in giardino un recinto con la sabbia, procurarsi dei libri che
incontrino i gusti dei figli, inventare dei giochi adatti ai lunghi viaggi in macchi-
na.
• Ampliare: estendere le aree destinate al gioco e al lavoro, come portare i bambi-
ni in un giardino pubblico, al mare, in montagna, in palestra.
• Impoverire: sottrarre qualcosa all'ambiente o ridurre gli stimoli e le attività. Ad
esempio spegnere o abbassare la radio o la TV, chiudere una porta per attutire i
rumori, evitare le discussioni quando è ora di andare a dormire.
• Restringere: delimitare l'accesso all'ambiente, come il box, i sedili della macchi-
na, o una parte del cortile.
• Semplificare: agevolare i movimenti e l'indipendenza del bambino negli spazi
domestici, mettendo le stoviglie e gli ingredienti della colazione in un posto per
lui raggiungibile facilmente, appendere uno specchio della sua altezza.
• Riorganizzare: spostare alcuni oggetti, metterne altri fuori portata, come chiude-
re a chiave l'armadietto dei medicinali, togliere i detersivi da sotto il lavello, si-
stemare il televisore in modo che non interferisca con le attività quotidiane.
Dunque, quando ci si trova in difficoltà (Area problematica) Gordon suggerisce
l’utilizzo di messaggi in prima persona, che alimentino il confronto, il cambio di marcia
e la modifica dell’ambiente.
L’ascolto attivo, i messaggi in prima persona e la modifica dell’ambiente possono am-
pliare l’area non problematica. L’ascolto attivo non aiuterà l’altro a risolvere tutti i suoi
problemi; alcuni inevitabilmente rimarranno. Le abilità circa il modificare dell’ambiente
e dei comportamenti inaccettabili dell’altro non aiuteranno a liberarsi di tutti i problemi
comportamentali.
Alcuni comportamenti resteranno inalterati principalmente per due ragioni:
• il bisogno dell’altro di persistere nel suo comportamento è troppo forte, per cui
c’è un conflitto di bisogni;
• l’altro non crede che il suo comportamento influisca negativamente su quello
degli altri, provocando una collisione di valori.
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I conflitti interpersonali sono inevitabili. Credere che in una relazione si possa vivere a
lungo senza conflitti è un’illusione, non è realistico.
I conflitti irrisolti possono essere molto distruttivi. Spesso, i problemi vengono affronta-
ti con metodi inadeguati di soluzione del conflitto. D’altro canto, una soluzione efficace
del conflitto può rafforzare la relazione, facilitare la crescita e approfondire i legami
d’intimità, d’amore e di rispetto.
La maggior parte dei conflitti tra le persone sono conflitti tra soluzioni, piuttosto che fra
bisogni. In realtà le persone condividono essenzialmente gli stessi bisogni fondamentali,
comuni a tutti gli uomini. Il conflitto nasce dal modo in cui ognuno cerca di soddisfare i
propri bisogni fondamentali.
Spesso perciò le persone si trovano in conflitto perché non si riesce a comunicare
all’altro i propri bisogni personali. Al contrario spesso si intraprendono una serie di
azioni (la soluzione) volte a soddisfare un bisogno legittimo, e sono queste azioni a sca-
tenare il conflitto.
Ma il riconoscimento e l’accettazione dei reciproci bisogni non basta. Per risolvere il
conflitto, le persone devono ricercare insieme una soluzione accettabile per entrambi.
Questo è il concetto ispiratore del training Gordon: le persone hanno il diritto di soddi-
sfare i propri bisogni. Devono "vincere insieme"; nessuno deve perdere. Dunque, Gor-
don propone il "metodo senza perdenti" o Metodo III (io vinto, tu vinci). Se le due parti
non subiranno sopraffazioni, ciascuno si forzerà di rispettare i diritti dell’altro e verrà
trovata una soluzione che non comporterà né vincitori, né vinti, salvaguardando in tal
modo l’autostima ed il rapporto. Questo metodo va a sostituirsi ai due metodi più co-
munemente usati: l’autoritarismo che Gordon chiama Metodo I (io vinto, tu perdi) e
il permissivismo o Metodo II (io perdo, tu vinci), entrambi fondati su un rapporto di po-
tere, dove l’uno, nel primo caso, o l’altro, nel secondo, escono sconfitti.
Un rapporto basato sul potere ha molti effetti deleteri:
• Resistenza, sfida, ribellione, sfiducia
• Risentimento, rabbia, ostilità
• Aggressione, vendetta, ritorsione
• Mentire, nascondere i propri sentimenti
• Biasimare gli altri, spettegolare, deridere
• Dominare, imporsi, intimidire
• Bisogno di vincere, paura di perdere
• Cercare alleati contro l’altro
• Sottomissione, obbedienza, remissività
• Adulazione, seduzione
• Conformismo, mancanza di creatività, paura di novità
• Introversione, evasione, sognare ad occhi aperti, regressione
Gli effetti immediati del potere si rivelano in tre meccanismi di adattamento: nella fuga
ci si sottrae al potere dell’altro ritirandosi fisicamente o psicologicamente; nella lotta si
contrattacca, si risponde al potere con il potere, sabotando, vendicando, aggredendo
passivamente o attivamente; nella sottomissione ci si conforma, rinunciando o arren-
dendosi accondiscendendo; si accompagna spesso al risentimento e a una perdita di au-
tostima. La persona remissiva nega il proprio valore e i propri bisogni; spesso diventa
un’adulatrice.
Nei suoi corsi Gordon fa riferimento al Metodo III per la soluzione dei conflitti e le abi-
lità per applicarlo. Il problem solving in sei fasi offre una valida struttura per
l’applicazione del Metodo III. Ecco delineate brevemente le sei fasi:
• Fase 0: creare le condizioni per lo svolgimento delle sei fasi. Entrambe le parti
devono essere disponibili a seguire questo percorso, avere l’intenzione di prova-

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re a praticare una terza modalità (Metodo III) con la quale cercare il più possibi-
le il rispetto dei bisogni di entrambi. Questa fase, alla quale si potrà ricorrere in
tutti i momenti di "stallo" o conflitto nelle altre sei fasi, andrà fatta in modo
esauriente soprattutto le prime volte che verrà impiegato il Metodo III, in alter-
nativa ai Metodi I e II. In seguito, quando questa sarà la modalità abituale, non
sarà più necessaria.
• Fase1: definire il problema in termini di bisogni, identificare chiaramente i ri-
spettivi bisogni ed esporli all’altro.
• Fase2: produrre le possibili soluzioni (proporre una serie di alternative astenen-
dosi da giudizi e valutazioni).
• Fase3: valutare le soluzioni (soppesare le diverse soluzioni, gli aspetti positivi e
negativi, scartando quelle non accettabili per entrambi).
• Fase4: scegliere la soluzione accettabile per entrambi (senza imporre, persuadere
ecc. ma arrivando ad optare di comune accordo per una soluzione).
• Fase 5: programmare e attuare la soluzione (si decide chi fa cosa e quando).
• Fase6: verificare i risultati (se la soluzione scelta ha soddisfatto i bisogni di en-
trambi).
Questo metodo verrà attuato ascoltando, discutendo, parlando e confrontandosi; il tutto
in un clima di libertà e fiducia.
Utilizzando la tecnica del problem solving si possono ad esempio risolvere dei conflitti,
oppure arrivare a delle decisioni, delle scelte o elaborare una "legge", o un regolamento
ad esempio di una classe scolastica che verrà proposto dagli alunni stessi e che per ciò
sarà più facilmente rispettato.
Alcuni conflitti non sono immediatamente risolvibili con i messaggi di confronto in
prima persona. In conflitti di questo genere, il comportamento inaccettabile dell’altro ha
scarso o nessun effetto tangibile e concreto su di sé.
Ecco alcuni esempi: il figlio di 16 anni comincia a fumare e al genitore non piace; il fi-
glio dice parolacce che il genitore non tollera; il figlio dice che lo studio è una perdita di
tempo e vuole lasciare la scuola a 16 anni, mentre il genitore ritiene che l’istruzione sia
importante.
Spesso le persone non sono motivate al cambiamento se non vedono come il loro com-
portamento abbia qualche effetto tangibile e concreto sull’altro.
A volte ci può essere tra le persone una divergenza di valori: divergenza con cui si può
benissimo convivere. La divergenza esprime l’atteggiamento: "mi piacerebbe che tu non
fossi così", oppure "mi piacerebbe che non ti vestissi così" ma sono disposto ad accet-
tarlo. Divergenze di questo tipo si collocano nell’area non problematica. La collisione di
valori esprime l’esistenza di un conflitto su una questione cui non potete passare sopra,
che non volete accettare. In questo caso l’atteggiamento è: "voglio che tu cambi". I cri-
teri per la collisione di valori sono:
• sentire di non accettare il comportamento dell’altro;
• l’altro si è opposto fino ad ora al tentativo di cambiare il suo comportamento;
• l’altro non capisce in che modo il suo comportamento vi condiziona;
• l’altro non percepisce la situazione come problematica.
Le collisioni di valori sono normali ed inevitabili, il punto fondamentale è come risol-
verle.
Il modello per la soluzione delle collisioni di valori tocca i seguenti punti:
• Definire le divergenze di valori. Il primo passo è comprendere le reali differenze
che separano. A questo scopo, gli strumenti migliori sono i messaggi in prima
persona dichiarativi e l’ascolto attivo. Condividere le divergenze di valori già di
per sé attenua il conflitto, che a volte finisce per assumere il carattere di una
marcata divergenza all’interno dell’area non problematica.
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• Modificare sé stessi. Il passo successivo richiede il domandarsi se è possibile ac-
cettare le differenze e lasciare le cose come stanno. Se si possono riesaminare i
propri valori e avvicinarsi a quelli dell’altro, se si è disposti a "sperimentare" ed
accettare la possibilità di cambiare se stessi per l’altro.
• Cambiare il comportamento dell’altro. Se cambiare l’altro è veramente impor-
tante, si può tentare di modificare il comportamento che disturbante. Si applica il
problem solving al comportamento inaccettabile, soprattutto se l’agire quel de-
terminato valore da parte dell’altro provoca un effetto concreto e tangibile su sé
stessi. Il primo passo è comprendere le reali differenze che separano. A questo
scopo, gli strumenti migliori sono i messaggi in prima persona dichiarativi e
l’ascolto attivo. Condividere le divergenze di valori già di per sé attenua il con-
flitto, che a volte finisce per assumere il carattere di una marcata divergenza
all’interno dell’area non problematica. Potete riuscire a modificare il comporta-
mento visibile dell’altro anche se il valore che lo sottende non è affatto cambiato
(ad esempio: apprezza ancora la musica a tutto volume, ma acconsente di abbas-
sare il volume o usare la cuffia quando siete in casa). I messaggi di confronto in
prima persona o il problem solving sono le abilità adatte a modificare un com-
portamento che ha un effetto tangibile sulle persone.
• Influire sul valore dell’altro. Anche se si dovesse riuscire a modificare le azioni
dell’altro, si potrebbe ancora tentare di cambiare i valori altrui.
A tal proposito esistono alcune abilità da conoscere:
• Cambiare sé stessi. Avere la possibilità di modificare i propri valori ed il proprio
punto di vista. Cambiare può derivare dal mettere in discussione l’utilità dei
propri valori, riconsiderarne l’importanza o sperimentare di persona i diversi va-
lori dell’altro. Considerare da dove derivano determinati valori (ad es. chiedersi
se sono veramente nostri o dei nostri genitori ecc.), può aiutare nel comprendere
se si desidera o meno operare delle modifiche.
• Dare l’esempio. È uno dei mezzi più potenti per influenzare i valori dell’altro. I
bambini, in particolare, imitano gli adulti che ammirano. Ci si limita a compor-
tarsi con naturalezza e coerenza, a vivere secondo le proprie convinzioni e valo-
ri. Dare l’esempio di un comportamento desiderato (valore) è spesso un mezzo
efficace per gestire o prevenire il comportamento inaccettabile. È importante che
le azioni si accordino con le parole, per non perdere rapidamente ogni credibilità
come modello per l’altro.
• Insegnare o trasmettere vantaggi. Normalmente un valore viene ritenuto "giusto,
importante" per sé e si decide di mantenerlo in quanto ne deriva una utilità. È
dunque importante imparare a trasmettere i valori ritenuti importanti e la loro
utilità.
• Confronto/ascolto attivo. È possibile utilizzare il confronto tramite i messaggi in
prima persona e attuare il cambio di marcia, rivolgendo l’ascolto attivo alle opi-
nioni o divergenze dell’altro.
Da tale rassegna si evince come sia fondamentale conoscere ed applicare le regole della
comunicazione interpersonale per favorire sia un rapporto migliore fra le persone che
per migliorare i vari ambiti in cui le relazioni sono necessarie.

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67
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1
Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma.

68
Creatività

di Valeria Saladino1

La creatività nei diversi approcci

La creatività è una qualità posseduta da ogni individuo insieme ad altre abilità intelletti-
ve, e può essere impiegata in diversi contesti e per più scopi.
I primi studi prendono avvio a partire dalla seconda metà dell’Ottocento con il chirurgo
e antropologo francese Broca (1824-1880) ed il neuropsichiatra tedesco Wernicke
(1848-1905), che per la prima volta individuano nel cervello le aree specifiche deputate
alla funzione propria del linguaggio. Tuttavia, è con la psicoanalisi e conseguentemente
con la scoperta dell’inconscio che si indaga sulla creatività.
Il fondatore della psicoanalisi S. Freud (1856-1939 considera la creatività come quella
capacità di ricorrere a contenuti inconsci e preconsci, connotati da una determinata
“produttività”.
Invece, lo psicologo russo Vygotskij (1896-1934) concepisce la creatività come una
qualità propria di ogni individuo, e rappresenta una risposta al bisogno della persona di
adattarsi all’ambiente. Egli osserva come l’attitudine alla creatività si possa manifestare
con modalità diverse nei vari soggetti, in quanto frutto di specifici fattori: sociali, cultu-
rali, intellettuali.
Questi fattori vengono ulteriormente suddivisi in:
• Fattori esterni (stimoli) che sollecitano l’intelligenza;
• Fattori interni (soggettivi), che caratterizzano l’individuo nell’apprendere;
• Le risposte emesse dall’individuo in conseguenza dell’azione esercitata dai fatto-
ri esterni.
La creatività è legata poi alle esperienze vissute dalla persona. Sviluppare questa dimen-
sione significa non solo sviluppare le proprie abilità ma anche intervenire sulla società
per renderla più libera. In tal modo, si possono realizzare rapporti sociali gratificanti, e
costituire forme di convivenza idonee a soddisfare i bisogni delle persone.
Vygotskij affronta l’argomento non solo per capire i meccanismi del fenomeno, ma an-
che per individuare quei principi finalizzati ad un intervento educativo e formativo volto
a rafforzare le capacità creative.
L’attività creativa produce qualcosa di nuovo attraverso l’attività riproduttrice e quella
combinatrice (o creativa). In particolare, secondo Vygotskij (1930), l’attività riprodut-
trice è legata alla memoria relativa a comportamenti e ad impressioni precedenti. Inve-
ce, l’attività combinatrice crea immagini o nuove azioni che derivano dalla combinazio-
ne e dalla rielaborazione di esperienze precedenti.
La creatività così intesa pone in evidenza come i processi creativi si possono manifesta-
re sin dalla prima infanzia, sviluppandosi lentamente, e passando da forme più semplici
a forme più complesse.
Ogni fase della nostra vita ha una propria forma di creatività ed è connessa alle altre no-
stre attività, soprattutto con l’accumularsi dell’esperienza.

69
Inoltre, Vygotskij (1930) vede nel gioco l’espressione dei processi creativi del bambino:
“Non è il gioco un semplice ricordo di impressioni vissute, ma una rielaborazione crea-
trice di queste, un processo attraverso il quale il bambino le combina fra loro e costrui-
sce una nuova realtà, rispondente alle sue esigenze e alle sue curiosità”.
Con gli psicologi americani Rogers (1973) e Maslow (1971), la creatività viene conside-
rata come la conferma di un buon funzionamento dell’individuo, nel senso che egli
avrebbe raggiunto un proprio equilibrio a livello comportamentale.
In ambito cognitivista, che nel tempo si è articolato in varie correnti, si è potuto appura-
re che ognuna di esse si è occupata di un particolare aspetto psicologico relativo alla
creatività. In generale, con tale approccio sono stati analizzati i meccanismi propri del
ragionamento implicanti la creatività. I Cognitive psychologists distinguono sostanzial-
mente il processo creativo in cinque stadi o fasi: preparazione; incubazione; intuizione;
verifica; valutazione/elaborazione (Sawyer, 2006).
Diversi studi sono stati compiuti soprattutto nell’ambito dell’intelligenza artificiale con
Johnson-Laird (1988), secondo cui il processo creativo viene descritto come un “algo-
ritmo multistadio”, nel senso che le idee si generano attraverso la spinta di criteri molto
flessibili, perfezionando in tal modo i risultati ottenuti all’inizio. Invece, secondo Ave-
rill (1985) la creatività necessita di una dimensione emozionale ogni volta che
l’individuo deve apprendere, attivare e trasformare l’emozione in una nuova e più coin-
volgente emozione.
Guilford (1967) e altri studiosi ritengono che la creatività sia associabile ad una forma
di pensiero denominato divergente (v. Fig. 1), la cui caratteristica è quella di generare
molte soluzioni, spesso insolite, per rispondere a quei problemi per i quali il pensiero
convergente trova soluzioni efficaci, ma scontate. Secondo Guilford il pensiero diver-
gente si presenta come pensiero creativo in varie forme, che includono:
• la scioltezza, nel generare molte idee da parte di un soggetto creativo (fluency);
• la flessibilità (flexibility), nel senso che lo stesso oggetto può essere utilizzato
come un ornamento, o per produrre un suono, o come un contenitore;
• l’originalità (originality), nel trovare risposte o soluzioni diverse da quelle nor-
malmente adottate;
• la capacità di elaborare (elaboration) in modo diverso, e di allargare i propri
orizzonti e le proprie idee.
Poi, Guilford (1977) si occupa soprattutto degli elementi che costituiscono il pensiero,
come quelli relativi alle capacità creative. Infatti, dagli studi effettuati sull’intelligenza
creativa si è constatato che la stessa creatività sarebbe formata da diversi fattori, tra cui
la sensibilità verso i problemi, la capacità di creare nuove idee in modo originale,
l’elasticità nei principi, la capacità di sintetizzare, analizzare, valutare e ideare, la capa-
cità di definire e strutturare (o ristrutturare) innovando attraverso le proprie esperienze e
conoscenze.

70
Fig. 1 - Il cubo di Guilford

L’approccio associazionista (Mednick, 1968) studia come si organizza il processo asso-


ciativo Stimolo-Risposta, considerato il maggior responsabile del funzionamento della
creatività. Quindi, la creatività viene considerata come un’associazione di stimoli e ri-
sposte, che provengono dall’ambiente come associazioni remote, l’apprendimento inve-
ce dipende da quante associazioni l’individuo riesce a mettere insieme. Esse sono diver-
se l’una dall’altra, e si ipotizza che la creatività, proprio per questo motivo, sarebbe
un’attività combinatoria che crea legami. Più specificamente, per Mednick la base del
processo della rielaborazione creativa sarebbe costituita dall’insieme delle associazioni
che vengono registrate nel cervello, come per esempio la memoria delle impressioni, le
stimolazioni e le informazioni apprese, collegabili solo con quei processi che ne richie-
dono effettivamente un legame. In tal modo, si verrebbero a creare innovative e origina-
li combinazioni.
I gestaltisti vedono nel processo creativo l’estrinsecarsi di una improvvisa ristruttura-
zione dei dati nelle loro varie dimensioni. In particolare, con le ricerche della Gestalt
Theory si possono osservare diversi modi che permettono di selezionare i problemi sen-
za dover ricorrere necessariamente a strategie già apprese. Queste modalità fanno rife-
rimento ad una illuminazione improvvisa, l’insight, che permette appunto una ristruttu-
razione sia percettiva che cognitiva (Kaunios et al., 2007). Tuttavia, l’insight non è solo
un’intuizione improvvisa, ma è preceduta da una fase preparatoria seguita poi da una
verifica dei suoi risultati, e sostenuta infine da importanti conoscenze tecniche
nell’ambito in cui si manifesta.
Per alcuni studiosi americani, come Mackworth (1965) e Getzels e Csikszentmihalyi
(1975), l’aspetto fondamentale del pensiero creativo si caratterizzerebbe per il fatto che
l’individuo si pone sempre domande nuove definendole al contempo nei modi più diffe-
renti. Egli guarda l’insieme di ciò che gli sta innanzi in modi sempre nuovi e prendendo
in considerazione più possibilità risolutive. Invece, altri studiosi concepiscono la creati-
vità come un qualcosa che si scopre solo casualmente, seguendo un percorso inconscio e
ponendo a confronto più idee tra loro antagoniste. Quindi, la creatività si manifestereb-
be a livello inconsapevole, laddove l’individuo non ne deterrebbe in alcun modo il con-
trollo.

71
Verso la metà degli anni Novanta, con Sternberg, si giunge a comprendere che i proces-
si mentali stanno alla base dell’insight, attraverso il quale è possibile fare importanti
scoperte. Per questo studioso l’insight si caratterizza attraverso tre processi psicologici:
• la codificazione selettiva, seleziona le informazioni più importanti;
• la combinazione selettiva, permette di collegare le informazioni che in un primo
momento si ritrovano separate l’una dall’altra;
• il confronto selettivo, è la capacità di porre in relazione le informazioni acquisite
con quelle già apprese per risolvere un problema.
I più recenti orientamenti emersi soprattutto negli Stati Uniti hanno introdotto un ap-
proccio multidimensionale alla creatività (Andreasen, 2012), ponendo in risalto le se-
guenti dimensioni:
• quella relativa alla persona, con importanti studi psicologici rivolti all’eccellenza
della personalità, misurandone i tratti creativi con la somministrazione di test;
• quella del processo, con studi relativi all’esplicazione di procedure finalizzate a
stimolare il pensiero creativo;
• quella del prodotto, caratterizzato per esempio da una certa novità;
• quella dell’ambiente, con studi incentrati sull’ambiente socio-culturale e lavora-
tivo favorenti o inibenti il pensiero creativo.

Cenni di fisiologia del cervello della persona creativa

Il cervello controlla e coordina l’insieme delle funzioni vitali. Si compone di miliardi di


cellule nervose, i neuroni, le quali attraverso le sinapsi stabiliscono innumerevoli contat-
ti.
Da un punto di vista eminentemente funzionale (Jung et al., 2014) il cervello è caratte-
rizzato da tre strati (Fig. 2) che si sovrappongono, ognuno dei quali svolge specifiche
funzioni:
• lo strato più antico, che controlla la respirazione e il battito cardiaco;
• lo strato arcaico, che sovraintende al comportamento emotivo-motivazionale e
ai meccanismi preposti per il rinforzo psicologico (sede dell’apprendimento);
• la corteccia cerebrale, che coordina l’insieme del funzionamento dell’apparato
nervoso ed è la sede delle funzioni esecutive (l’intelligenza, la memoria e il lin-
guaggio).

Fig. 2 - Gli strati del cervello

72
La corteccia cerebrale a sua volta si distingue in due parti:
• l’emisfero destro;
• l’emisfero sinistro.
Essi svolgono funzioni differenti ma complementari, per cui l’emisfero sinistro control-
la la parte destra del corpo e l’emisfero destro quella sinistra. Il corpo calloso (Fig. 3)
connette i due emisferi facendo affluire le informazioni sensoriali ad entrambi gli emi-
sferi.

Fig. 3 - Il corpo calloso in azzurro

Nella seconda metà dell’Ottocento, Broca esaminando pazienti con difficoltà di lin-
guaggio poté constatare che essi presentavano spesso danni o lesioni all’emisfero sini-
stro.
Più recentemente, negli anni ‘50 del Novecento, il neurologo Sperry ha confermato le
rispettive specializzazioni emisferiche, sottolineando il fatto che l’emisfero destro ela-
bora i dati molto velocemente da un punto di vista spaziale e in modo non verbale. In-
vece, la parte sinistra dell’emisfero cerebrale, tra le altre funzioni svolte, analizza i par-
ticolari, registra il tempo che scorre, può programmare e svolgere funzioni tipicamente
verbali. L’insieme delle funzioni specifiche di ciascun emisfero si deve poi necessaria-
mente integrare, in modo tale che l’individuo possa percepire la realtà nei suoi moltepli-
ci aspetti.
Tuttavia, nell’emisfero destro sembrerebbe centrale la produzione di atti creativi
nell’istante in cui manifesta una specifica “rottura” di quegli schemi di pensiero che di
solito si vengono ad attivare. Quindi, la creatività è un processo che richiede un delicato
e sistematico equilibrio durante l’interazione tra i due emisferi.

Creatività, psicologia dello sviluppo e neuroscienze.

A partire dagli anni Trenta e fino al successivo dopoguerra è stata assegnata grande im-
portanza alla creatività e all’espressione artistica del bambino, per quanto concerne il
suo sviluppo e la sua educazione. In questo periodo si pone l’accento sul significato po-
tenzialmente artistico che può assumere il disegno infantile.
Questi atteggiamenti non devono essere disgiunti dal fatto che le arti del nostro secolo si
sono affrancate dalla figuratività. Nelle prime fasi del disegno infantile è possibile par-
lare di caratteristiche cromatiche e compositive proprie dell’estetica dell’espressionismo
astratto. La Oliverio Ferraris (2012) scrive che “il bambino ci dice che cosa sente e che

73
cosa ha capito e il modo di sentire non è univoco per tutto il periodo dell’infanzia”. Per
le fasi successive si parla invece di “curva a U” (Gardner, 1982), nel senso che si osser-
va un affievolimento con un eventuale dispiegamento del talento a partire
dall’adolescenza (Stevenson et al., 2014; Rosenberg et al., 1990).
È importante apprezzare gli sforzi espressivi del bambino, senza doverlo necessaria-
mente giudicare secondo i canoni dell’arte figurativa classica e, al contempo, assumere
un atteggiamento incoraggiante e costruttivo verso il suo impegno (Berti et al., 2005).
I bambini col tempo passano dallo scarabocchio alle prime raffigurazioni che hanno un
loro significato più chiaro ed esplicito, e colpisce particolarmente per l’ingegnosità e la
libertà con cui essi manifestano la propria creatività. Tutto ciò può avvenire in un conte-
sto culturale nel quale il bambino accede con facilità ad immagini che si possono trova-
re nei primi libri illustrati o dalla visione dei cartoni animati. Alla base vi è una certa
sensibilità pedagogica verso quegli strumenti che permettono di valorizzare le capacità
del piccolo disegnatore, oltre al fatto che gli adulti intervengono con lodi su una deter-
minata attività grafica.
In questa breve panoramica dalla disposizione naturale del bambino emerge
un’interazione fondamentale tra vincoli cognitivi, procedurali e motivazionali, e le in-
fluenze culturali e pedagogiche degli adulti.
La creatività non ha a che fare solo con la produzione artistica, ma si può essere creativi
in diversi ambiti o nelle situazioni più disparate. In tal senso, la creatività può essere
considerata una competenza trasversale. Ovviamente, questa capacità per svilupparsi ha
necessità di essere facilitata dai primi contesti di sviluppo. Uno dei primi compiti che
genitori ed educatori devono assolvere è proprio di offrire al bambino, fin da quando è
piccolo, delle reali opportunità per poter esprimere effettivamente le proprie potenziali-
tà. E il fine è quello di scoprire se egli sia veramente creativo, proponendo attività coin-
volgenti ed attraenti per il bambino (Gardner, 2005).
Jane Piirto (1998 e 2007) ci indica alcuni elementi che potrebbero contribuire allo svi-
luppo della creatività nei bambini, ad esempio:
• riservare un luogo solo al bambino, per potersi dedicare a pensare, sognare ed
elaborare;
• offrire dei materiali come un album per disegnare, o strumenti musicali;
• incoraggiare il bambino a disegnare anche se poi l’immagine prodotta non corri-
sponde all’oggetto reale, e valorizzare il “prodotto” collocandolo all’interno del-
la casa;
• ritagliare degli spazi (temporali e fisici) in cui creare, sia per i bambini che per i
genitori;
• gratificare i bambini svolgendo attività creative e verso la quale l’adulto riesce a
dedicarsi con interesse;
• offrire occasioni di conoscenza di ciò che altri hanno potuto produrre, per esem-
pio favorendo l’iscrizione in biblioteca, o portare i bambini a vedere una mostra
d’arte, o far ascoltare loro della musica;
• stimolare (e non inibire) l’esercizio delle abilità, in quanto il talento è solo la ba-
se della creatività, mentre l’esercizio e il lavoro sono condizioni primarie per
esprimere tale potenzialità;
• far comprendere ai bambini che è importante partecipare, anche se il proprio
contributo non sarà il migliore, in quanto è importante l’esercizio e la produzio-
ne di per sé;
• stabilire un ambiente allegro ed utilizzare il proprio senso dello humour quando
ci si accinge ad impegnarsi su qualcosa di creativo.
Recentemente, nell’ambito delle neuroscienze, alcune importanti ricerche (Razumniko-
va, 2007) si sono concentrate su quali aree cerebrali interagiscono con gli emisferi nel
74
momento in cui si attiva il processo creativo, e come la creatività possa connettersi non
solo con il linguaggio ma anche con l’immagine, focalizzandosi sulla comprensione dei
meccanismi biologici della mente creativa. La maggior parte di queste ricerche ricono-
sce alcune componenti fondamentali perché la creatività possa elicitarsi, quali:
• un alto livello di intelligenza generale;
• una conoscenza dominio-specifica;
• abilità speciali.
Generalmente, le ricerche che si svolgono in ambito neuroscientifico sulla creatività uti-
lizzano precipuamente due classi di test di cognizione creativa:
• “divergente”;
• “convergente”.
I test relativi al pensiero divergente sono “open-ended”, senza limiti particolari e con la
possibilità di molteplici risposte corrette; i test di pensiero convergente sono caratteriz-
zati da una singola risposta corretta (Williams, 1994; Giusti et al., 2007).
L’utilizzo delle moderne tecniche di rilevazione dell’attività cerebrale, come l’EEG o la
fRMI, consentono l’identificazione di importanti aree cerebrali che si attivano quando
un individuo è impegnato in una particolare attività (Fink et al., 2007). A causa
dell’eterogeneità dell’espressione creativa e della mancanza di una sistematizzazione
nello studio della stessa, le ricerche che mirano all’identificazione delle strutture cere-
brali e dei sistemi della creatività attualmente non mostrano un’elevata coerenza nei ri-
sultati (Arden et al., 2010). Tuttavia, alcune ricerche sulla creatività mostrano
l’esistenza di un’associazione tra basso livello di attivazione corticale e maggiore crea-
tività (Oliverio, 2007).
La corteccia cerebrale (v. Fig. 4) è una regione del cervello implicata nelle attività co-
gnitive più complesse, e uno dei ruoli svolti da questa regione è quello di inibire i com-
portamenti “inutili” e di consentire quindi la creazione di associazioni unicamente fina-
lizzate alla risoluzione di un compito, senza disperdersi in attività potenzialmente de-
vianti rispetto allo stesso problema.

Fig. 4 - La corteccia cerebrale

Sebbene da un lato, questo costituisca un vantaggio nell’affrontare comunemente un


problema, d’altra parte l’attivazione della corteccia frontale inibisce la formazione di as-
sociazioni più lontane e meno prevedibili, che sono un presupposto basilare del pensiero
creativo (Oliverio, 2007). Come si può immaginare, questo pensiero non è solo il frutto
della maggiore o minore attivazione di una specifica area cerebrale, ma è anche il com-
plesso risultato dell’integrazione di una serie di fattori ambientali, sociali, culturali e in-
dividuali, che sono messi in gioco dal soggetto creativo per la risoluzione di un proble-
ma.

75
La creatività è un costrutto molto complesso, in quanto è difficile rintracciarne i correla-
ti neurologici connessi alla sua espressione. È un processo personale finalizzato alla
“produzione” di idee e “prodotti” originali, innovativi (che consentano la soluzione di
un problema o il soddisfacimento di un bisogno). Le qualità intrinseche di un individuo
che si esprime creativamente non sono poi riconducibili ad una sola dimensione indivi-
duale. La novità o l’innovazione di un processo creativo, si caratterizza anche come col-
lettivo e sociale. La stessa produzione del prodotto/processo creativo attraversa diversi
passaggi di natura sociale, e quindi sono necessarie delle risorse per determinare tale
produzione, e deve essere comunicata per essere giudicata e/o interpretata.
Tuttavia, l’atto creativo è un atto individuale, anche se lo consideriamo all’interno di
una dimensione collettiva, e le varie forme della creatività sono supportate dalle funzio-
ni cognitive.
È l’ambito artistico quello maggiormente osservato, in quanto è il “fare” artistico che si
protende verso l’innovazione (De Smedt et al., 2010). Vi è un bisogno, a volte sofferto,
di approdare a forme e a dimensioni fino a quel momento mai raggiunte: per esempio
nella pittura la percezione visiva e la capacità di discriminare colori, luci e forme stanno
alla base della produzione artistica. Dunque il pittore sarà maggiormente dotato sul pia-
no percettivo di colui che non è artista. Invece, nella letteratura lo scrittore possiede abi-
lità verbali maggiori rispetto al non letterato (Silvia et al., 2013).
Altresì, non sappiamo quanto questa creatività possa poi esprimere effettivamente ed ef-
ficacemente una reale capacità creativa.
I modelli neuropsicologici spiegano in parte il processo creativo. Essi si basano par-
zialmente, ma significativamente, sull’elaborazione dell’informazione (Information
Processing Theory, IPT), nel senso che il nostro cervello costituito da più “moduli” tra-
sferisce l’informazione prodotta da un modulo all’altro. Ognuno di questi moduli attiva
un certo numero di operazioni neurali caratterizzate per esempio dalla produzione,
dall’inibizione e dal filtrare un impulso nervoso. Ogni modulo a sua volta viene solleci-
tato dagli altri moduli, che trasmettono i segnali provenienti dallo stesso organismo: se-
gnali ambientali (per esempio suoni e immagini) e stimoli interni all’organismo (il batti-
to cardiaco).
Successivamente il segnale viene elaborato dal modulo interessato, il quale può produr-
re una risposta che verrà inviata ad altri moduli, oppure verrà inibita. L’inibizione di un
segnale determina il trasferimento di altri segnali che in tal modo potranno produrre
un’azione. Assistiamo ad una “competizione” tra moduli che sovraintende al processo
di elaborazione dei segnali. Vi sono moduli che sono più in grado rispetto ad altri di far
transitare un segnale per cui l’azione che si viene a manifestare può risultare rilevante
per la sopravvivenza.
Vi sono anche circuiti neuronali preposti a favorire il processo di elaborazione del se-
gnale, e di organizzare coerenti risposte finalizzate alla sopravvivenza dell’organismo.
Alcuni di questi circuiti utilizzano molecole fondamentali per la conoscenza del cervel-
lo, come la dopamina, la serotonina e la noradrenalina.
La dopamina è coinvolta in quei processi che ci permettono di fissare i ricordi (con
l’ausilio dell’attenzione e per l’intervento dei “circuiti del piacere”). La serotonina svol-
gerebbe la sua funzione nel controllare gli impulsi filtrando una risposta veloce rispetto
ad una più lenta. Alterazioni di questi neurotrasmettitori (monoamine), sono la causa di
disturbi psichiatrici i cui sintomi possono alterare il funzionamento cognitivo.
Poi, è stata identificata la prima volta da un gruppo di ricercatori quella rete di collega-
menti neurali che si attiva nel momento in cui manipoliamo le nostre immagini mentali,
sapendo che tali meccanismi rappresentano la base su cui poggia tutta la creatività uma-
na (Schlegel et al., 2013). Questi ricercatori hanno identificato il luogo e il modo con
cui il cervello sviluppa l’immaginazione, uno strumento attraverso il quale un individuo

76
è in grado di manifestare con grande elasticità più comportamenti. Questa rete neurale si
espande su più aree cerebrali, alcune delle quali contengono importanti informazioni re-
lative alle manipolazioni mentali.
Altri studi neuroscientifici (Schlegel et al., 2013), si sono focalizzati soprattutto sulle
rappresentazioni statiche mentali, con la possibilità di dimostrare che le immagini visi-
ve, il contenuto proprio della percezione visiva, possono essere “decodificate” attraver-
so l’attività della corteccia visiva V1 (v. Fig. 5).

Fig. 5 - La corteccia visiva primaria V1 e le aree visive

La corteccia visiva è quella regione della corteccia cerebrale, localizzabile nel lobo oc-
cipitale, la cui funzione esclusiva è quella di elaborare le informazioni sensoriali che
provengono dalla retina (Geminiani, 1999). Nell’azione di decodificazione di cui sopra
vengono ricompresi anche i sogni.
I risultati di questo importante studio permettono di sottolineare come quelle aree che
mediano le rappresentazioni, sulla base di una percezione sensoriale, sono poi coinvolte
direttamente nei processi che estrinsecano l’immaginazione e che appunto prendono
l’abbrivio da esse stesse. Il problema era rappresentato dal fatto che non si comprendeva
appieno come la mente riuscisse a manipolare le rappresentazioni.
Sono state individuate undici aree cerebrali che complessivamente mostrano una serie di
modelli di attivazione e che tengono conto dei compiti mentali eseguiti.
In questo studio 15 volontari devono eseguire quattro diversi compiti mentali: immagi-
nare delle forme visive astratte per combinarle mentalmente in nuove figure più com-
plesse o, al contrario, smontare mentalmente un'immagine in più parti. L'attività cere-
brale dei partecipanti durante i test viene analizzata attraverso la fRMI.
Analizzando i risultati è emersa l'esistenza di una rete corticale e sottocorticale che si
espande su gran parte del cervello, responsabile delle manipolazioni immaginate. Sulla
base del confronto fra i modelli di attivazione delle aree nei vari compiti, i ricercatori
hanno ottenuto una conferma dell'ipotesi secondo la quale alcune regioni cerebrali con-
tengono informazioni relative a specifiche operazioni mentali, e questi modelli sono in
grado di evolvere progressivamente nel tempo, parallelamente alla manipolazione delle
rappresentazioni mentali.

Creatività nel quotidiano

La creatività può essere definita e utilizzata come competenza trasversale per esempio
nel risolvere i problemi, nel gestire lo stress, in ambito lavorativo, scolastico e nelle re-
lazioni interpersonali.
Spesso ci troviamo a dover risolvere dei problemi e a scoprire diverse soluzioni atti-
vate automaticamente, che abbiamo più volte ripetuto fino al punto da non sapere più
cosa stiamo facendo e come lo stiamo facendo. Altre volte invece ci troviamo di fron-
te ad un problema particolarmente difficile da risolvere, tanto da dover ricorrere ai
consigli di persone competenti. Altre volte infine viviamo ciò che avviene quotidia-
namente e cerchiamo di risolvere al meglio i problemi che si presentano: ricorrendo a
77
comportamenti consolidati nel tempo, o trovando le soluzioni di volta in volta, senza
l’utilizzo di una particolare strategia.
Il processo di problem solving segue una struttura che si può schematizzare nelle se-
guenti fasi: 1) porre un problema nuovo; 2) definire la difficoltà del problema; 3) at-
tivare un meccanismo di cambiamento come soluzione al problema; 4) scegliere la
soluzione più adatta; 5) applicare le decisioni prese e farle diventare un comporta-
mento abituale per il cambiamento.
In tale processo la creatività si situa soprattutto nelle prime fasi. In passato lo psicolo-
go ha avuto diversi problemi nel definire cosa sia la creatività e come possa funzionare.
Vi sono molte tecniche creative che aiutano a trovare delle alternative alla soluzione che
abitualmente viene utilizzata per risolvere un problema. Tali tecniche hanno alcuni punti
in comune tra loro: osservare il problema da più punti di vista, ognuno dei quali sugge-
risce dei punti di partenza per poter valutare al meglio il problema. Cambiare punto di
vista significa rompere le consuetudini, immaginare, ricercare soluzioni passate, scom-
porre il problema in più parti.
Lo stress colpisce due italiani su cinque, i cui sintomi sono caratterizzati soprattutto da
stanchezza e mancanza di passione.
Ciò che maggiormente appesantisce il nostro vivere quotidiano è la prospettiva dalla
quale guardiamo il mondo. Spesso rimaniamo assoggettati alle immagini e alle credenze
che abbiamo riguardo la nostra esistenza e ciò può crearci difficoltà. Il sentirsi costretti
in un’unica prospettiva, come quella di cosa dovrebbe fare o non fare per esempio un
genitore, o un bravo figlio, o un proprio amico comporta un disagio che si traduce in un
blocco comportamentale. I ruoli e le identificazioni servono nella vita di ogni giorno,
ma se sono troppo rigidi costringono il soggetto dentro angusti schemi che nel tempo
potrebbero influire molto nella propria esistenza e nella propria percezione del Sè.
Quando ci sentiamo stressati addossiamo ogni colpa agli eventi esterni, e non al fatto
che forse siamo noi che non riusciamo a rispondere adeguatamente agli eventi. Ciò si-
gnifica che le energie creative non sono state ancora attivate. La capacità creativa è una
risorsa il cui pregio è proprio quello di essere caratterizzata da flessibilità. Essere flessi-
bili significa riprendere il giusto spazio a beneficio della propria interiorità, come di-
mensione essenziale ed esistenziale di ognuno. Le capacità creative possono essere pos-
sedute da ognuno; a volte è possibile che se ne prenda coscienza conseguentemente alle
nostre risposte inefficaci verso le pressioni esterne. Poi, con la consapevolezza, emerge
sempre più in modo preponderante lo spazio riservato alle nostre potenzialità. La crea-
tività nel proprio ambito lavorativo può assumere diverse forme, come la riduzione della
scala gerarchica di un’azienda, dove potrebbe avvenire una ridistribuzione delle respon-
sabilità a carico dei dipendenti. Un altro aspetto può essere rappresentato nel curare op-
portunamente l’architettura dell’azienda: creando uffici aperti, eliminando le pareti divi-
sorie e favorendo la comunicazione e le relazioni interpersonali. Si può rendere
l’ambiente lavorativo simile all’ambiente della propria abitazione, per esempio creando
degli spazi ricreativi e rilassanti. É importante evitare di esplicitare giudizi severi, ren-
dendo liberi i dipendenti di esprimersi in modo anticonformista. Il leader deve essere in
grado di creare l’armonia in un gruppo essendo consapevole dei vantaggi che possono
apportare condivisione, fiducia, incoraggiamento. Inoltre, è importante creare un equili-
brio fra quei dipendenti che sono protesi all’innovazione, e quelli maggiormente portati
per i compiti amministrativi. L’utilizzazione del pensiero creativo nel lavoro, permette
di risolvere i problemi quotidiani, di scegliere e utilizzare quelle strategie d’azione che
vengono riconosciute come più efficaci. La creatività individuale è fondamentale per
poter costruire l’innovazione a livello organizzativo, così come la flessibilità, che consi-
ste nella consapevolezza di essere disponibili al cambiamento.

78
Mentre nell’ambito scolastico la creatività, per poter essere introdotta concretamente,
deve necessariamente appoggiarsi su basi teoriche e scientifiche all’interno dei piani di
studio, collaborando strettamente con gli insegnanti.
In questo contesto il ruolo dei formatori è fondamentale, in quanto non si tratta soltanto
di accompagnare gli insegnanti nell’esposizione della didattica al discente, ma anche di
incrementare la capacità critica ad adattare la teoria ai contenuti disciplinari. Favorire la
creatività degli insegnanti significa costruire una scuola valida, efficace e creativa,
all’interno della quale possiamo trovare professionisti in grado di risolvere ogni pro-
blema in rapporto ai contesti scolastici diversi e a volte molto difficili. Tutto ciò signifi-
ca costruire una scuola creativa, rivolta all’apprenance (Carré, 2005), cioè alla compe-
tenza e alla voglia di imparare durante l’intero arco della propria vita.

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1
Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma.

80
Problem Solving

Myriam Simonetti1

Pensiero e Problem-Solving

Il pensiero rappresenta l’attività centrale dello psichismo umano, dal quale si origina la
capacità di elaborare ed utilizzare i concetti, ovvero i simboli, che rappresentano
categorie di oggetti ed eventi. La psicologia si occupa di studiare tutte le possibili forme
di pensiero, dal pensiero produttivo a quello creativo o laterale, dal pensiero logico a
quello nevrotico o psicotico. È stata rilevata la stretta relazione tra pensiero e soluzione
di problemi. Secondo Humphrey (1951) il pensiero è ciò che succede all’esperienza
quando un organismo, essere umano o animale, riconosce e risolve un problema.
Recenti ricerche sulla soluzione dei problemi hanno sottolineato il collegamento tra le
varie abilità cognitive e di ragionamento (Mercier e Sperber, 2011) come l'intelligenza
(Burns, Nettlebeck e McPherson, 2009), l'intelletto (DeYoung, Braver, Shamosh,
Verde, e Grigio, 2009), l'attenzione (Unsworth, Spillers, e Brewer 2010) e la memoria
di lavoro (Unsworth, Spiller,s e Brewer 2010).
I primi lavori significativi e sistematici riguardanti l’analisi dei processi di soluzione
degli esseri umani sono stati compiuti da psicologi il cui ambito di ricerca può essere
ricondotto alla Teoria della Gestalt (Passolunghi, 2004; Lucangeli e Passolunghi 1995;
Mosconi e Durso 1973). Gli psicologi della Gestalt si sono concentrati sullo studio di
situazioni problematiche in cui, per poter raggiungere il successo, è cruciale ristrutturare
l’interpretazione degli elementi a disposizione. Per meglio chiarire questo aspetto
prendiamo in esame l’esempio classico del “problema delle candele” (Dunker, 1945)
che costituisce una dimostrazione del fenomeno di fissità funzionale. In tale problema la
richiesta consiste nell’assicurare una candela ad una porta di legno, per poterla poi
utilizzare in un esperimento sulla visione. Per risolvere il problema, nella stanza sono
messi a disposizione dei partecipanti una scatola di puntine da disegno, dei fiammiferi e
una candela. I soggetti dimostrano notevoli difficoltà nel trovare la soluzione, specie nel
caso in cui la scatola è piena di puntine, proprio perché è consolidata la percezione della
scatola come contenitore. Molti tentano di far sciogliere la cera della candela
utilizzando la cera sciolta come base per fissare la candela (usando un’euristica utile e
generalmente efficace nella vita quotidiana, quando si deve fissare una candela su un
piano orizzontale, ma scarsamente efficace se il piano è verticale). La soluzione al
problema consiste invece nell’usare la scatola di puntine come supporto per la candela,
fissandola alla porta con alcune puntine. Il “problema delle due corde” è un ancor più
tipico esempio di problema insight (illuminazione improvvisa): in questo caso, il
solutore deve annodare due corde che pendono dal soffitto e distano l’una dall’altra per
una lunghezza maggiore di quella delle due braccia tese. Per raggiungere il successo è
necessaria un’idea creativa (quella di far dondolare una corda e prendere in mano
l’altra), e la soluzione può essere trovata solo dopo aver operato un cambiamento di
prospettiva nel considerare gli elementi disponibili (pensando alle corde in movimento,
piuttosto che alla loro visibile posizione statica). I problemi insight stimolano
particolarmente un pensiero di tipo produttivo, che porta ad un’idea nuova, originale,
mai sorta prima, piuttosto che un pensiero meramente riproduttivo, limitato cioè

81
all’impiego di strategie già apprese nel passato. Wertheimer (1920), che è stato il
pioniere nello studio di tali problemi, sottolinea l’importanza di stimolare un pensiero
produttivo e non solamente conoscenze di tipo riproduttivo individuando tre fasi che
portano alla ristrutturazione:
• una fase preparatoria di presa di contatto tra l’individuo e gli elementi del
problema;
• una fase di incubazione dove vengono attivate, nella mente del soggetto, le
possibili soluzioni al problema, anche se il soggetto non sta pensando
concretamente al problema;
• una fase di insight, ossia l’intuizione che consente di arrivare a cogliere nuovi
nessi tra le parti che conducono alla soluzione.
Noti sono, a tal proposito, gli esperimenti di Koffka e Köhler (1925) con le scimmie
antropoidi, le quali dovevano prendere una banana posizionata lontana, fuori dalla loro
gabbia, utilizzando tutti gli elementi a loro disposizione, tra i quali un bastone. Il
problema per essere risolto necessitava di una ristrutturazione del campo percettivo. I
ricercatori verificarono che, se il campo era favorevole, cioè se il bastone era già
posizionato in direzione della banana, la scimmia giungeva facilmente ad eseguire il
compito; diversamente, se il campo era sfavorevole, la scimmia non era in grado di
utilizzare efficacemente il bastone. Secondo gli studiosi, dunque, non si arrivava alla
soluzione attraverso abitudini e comportamenti istintivi, ma solo quando gli oggetti
conosciuti venivano utilizzati in modo diverso dal solito grazie all’insight. L’insight è
ciò che consente la ristrutturazione cognitiva nella consapevolezza di una nuova
possibile relazione tra le parti, diversamente dal procedimento per tentativi e prove ed
errori, che consiste nella semplice ripetizione di un’azione conosciuta.
La differenza tra pensiero produttivo e pensiero riproduttivo elaborata da Maier e
ripresa da Birch e Rabinowitz aiuta nella comprensione del problema. Il pensiero
riproduttivo sarebbe favorito dalla somiglianza degli stimoli tra la situazione
problematica attuale e le esperienze passate. Il pensiero produttivo, invece, agisce
quando l’esperienza passata si ripresenta e viene ristrutturata al fine di soddisfare le
esigenze attuali (Maier, 1930; Birch e Rabinowitz, 1951), per cui non ci sono
somiglianze negli stimoli tra la situazione problematica attuale e le esperienze passate.
Nell’ambito del pensiero produttivo, è stato identificato come ostacolo nella ricerca di
soluzioni il fenomeno della fissità funzionale (Dunker, 1945), cioè l’irrigidimento nel
percepire sempre nello stesso modo le situazioni problematiche e gli elementi in gioco
in virtù dei modelli precedentemente appresi. Il rischio è quello che, basandosi su
esperienze e strategie che hanno avuto successo in precedenza, si considerino i dati in
modo statico e questo, secondo Dunker, sarebbe ascrivibile ad un limite strutturale della
capacità creativa umana. Il concetto di fissità funzionale di conseguenza ostacola il
pensiero creativo riducendo la capacità di problem-solving. In uno studio recente (Perry,
Fragoso, Cardoso, e Cattani, 2014) i ricercatori hanno verificato, mediante
l’applicazione di una variante dell’esperimento di Duncker 1945), - il quale definisce il
concetto di “fissità funzionale”, ovvero il rimanere fissati sulle funzionalità abituali di
un oggetto e non riuscire a riconcettualizzarlo in modo diverso - se il background
formativo riduce gli effetti della fissità funzionale (FF) su un campione di studenti di
Design. I risultati suggeriscono variazioni nell’influenza della FF sul problem-solving
nel momento in cui gli studenti potevano utilizzare materiali concreti rispetto al
semplice utilizzo di rappresentazioni visive (disegni). L’importanza dei risultati è tale da
approfondire, mediante ulteriori studi, tale meccanismo.
Secondo le scienze cognitive la mente umana, nel risolvere i problemi, opera su di un
flusso di informazioni che a partire dagli organi di senso giungono, attraverso varie
tappe, ai meccanismi decisionali centrali, da cui poi fluiscono verso l’esterno con

82
l’emissione di una risposta (Neisser, 1967). Questo approccio, denominato HIP (Human
Information Processing) rappresenta il paradigma dominante della psicologia cognitiva
e sintetizza ricerche relative ad ambiti distinti come la memoria, il pensiero, il
linguaggio, la percezione, etc. In opposizione al comportamentismo, che faceva
riferimento solo a comportamenti osservabili, il cognitivismo fa ampio ricorso a modelli
mentali parziali rivalutando i concetti di introspezione e coscienza che il
comportamentismo aveva bandito dalla psicologia scientifica. Ad esempio nei bambini,
ma anche in alcuni animali, accanto al comportamento per tentativi ed errori (trial and
error), in cui il soggetto che deve trovare una soluzione esplora, studia e manipola
attivamente la parte di ambiente legato al problema, vi è il comportamento dedito
inizialmente alla comprensione (insight) per cui il soggetto sospende le manipolazioni e
riflette, passando poi alla soluzione del problema. All’interno del paradigma HIP, la
ricerca (Ernst e Newell, 1969) si è interessata dei processi mentali che determinano,
negli esseri umani, il comportamento di soluzione problematica.
Nello studio dei processi di soluzione dei problemi è opportuno distinguere i problemi
come compiti dai problemi propriamente detti: la distinzione è dovuta alla diversità dei
processi di trasformazione dallo stato iniziale allo stato finale. Nei problemi come
compiti le prestazioni mentali richieste si rifanno a metodi noti, ossia il soggetto
conosce il mezzo per realizzare lo stato finale attraverso un processo di ricerca. Un
esempio è il compito del labirinto (Simon, 1979) in cui la soluzione comporta
l’esplorazione per trovare l’uscita. Diversamente nei problemi propriamente detti, la
soluzione non può essere raggiunta mediante la semplice applicazione di regole note,
richiede invece un cambiamento di rotta, una scoperta; il modello, quindi, non è quello
del labirinto ma del trabocchetto.
Nella soluzione di un compito (che può avvenire tramite algoritmi o procedimenti
euristici), il comportamento del solutore diventa una ricerca sequenziale in virtù
dell’acquisizione di informazioni sul problema. Nella soluzione di un problema, invece,
deve avvenire un cambiamento del punto di vista iniziale (mediante insight e
ristrutturazione) al fine di cogliere diversamente il problema.
L’importanza del tema del problem-solving è ribadita dal famoso epistemologo Karl
Popper ne “La Conoscenza e il problema corpo-mente” (2013) in cui asserisce che tutti
gli organismi affrontano problemi, anche quando si è tranquillamente seduti ci sono
centinaia di muscoli attivi nel corpo che, attraverso una sorta di metodo per prova ed
errore e retroazione, impediscono di andare troppo a destra o troppo a sinistra in modo
da tenerci dritti. Karl Popper (1969) indicava che il processo della ricerca scientifica e le
fasi che conducono alle scoperte sono le seguenti:
• si inciampa in un problema;
• si studiano tutti i tentativi messi in atto come soluzioni;
• si cercano soluzioni alternative;
• le si applicano;
• si misurano gli effetti;
• si aggiusta la strategia sino a renderla efficace.
Questo può essere considerato il fondamento di qualunque processo di problem-solving,
pertanto esso altro non è che un metodo rigoroso per trovare soluzioni a problemi,
parallelamente alle fasi che si seguono all’interno dei processi di ricerca scientifici.
Tuttavia, mentre la scienza ha il compito di dare spiegazioni ai fenomeni che studia, il
problem-solving rappresenta la tecnologia per trovare soluzioni, ovvero i metodi che
permettono di raggiungere gli obiettivi specifici di un progetto (Nardone, 2009).
Strettamente collegato è il concetto di pensiero critico definito come quel “processo
intellettuale che ci consente di concettualizzare, applicare, analizzare, sintetizzare e/o
valutare le informazioni raccolte o prodotte mediante l’osservazione, l’esperienza, la

83
riflessione, il ragionamento o la comunicazione” (Scriven e Paul, 2007, p.1). Il pensiero
critico fa anche riferimento alla metacognizione (Tempelaar, 2006) o al “thinking for
thinking” come definito e proposto in origine da Flavell (1979). Le capacità di pensiero
critico sono importanti perché consentono agli studenti di “affrontare efficacemente i
problemi sociali, scientifici e pratici” (Sharikova, 2007, p.42). Quindi gli studenti che
sono in grado di pensare in modo critico sono anche in grado di risolvere efficacemente
i problemi. Avere conoscenze o informazioni non è sufficiente: per essere efficace sul
posto di lavoro e nella vita personale l’individuo deve essere in grado di risolvere i
problemi prendendo decisioni efficaci, quindi pensare in modo critico. A tal fine non
bisogna riferirsi ai discenti come destinatari di informazioni ma coinvolgerli
attivamente nella ricerca in quanto, come qualsiasi altra abilità, anche il pensiero critico
richiede formazione, pratica e pazienza per una risoluzione dei problemi più efficace
nella quotidianità.

Problem-solving in ambito scolastico

La realtà scolastica attuale, pone gli allievi di fronte a numerose sfide all’adattamento e
a potenziali conflittualità, in maniera più marcata rispetto a quanto avveniva in passato.
Sempre di più oggi vi è la necessità di interagire con compagni di classe portatori di
differenti codici culturali e linguistici e integrare i diversi canali comunicativi che
costituiscono la didattica multimediale. In situazioni simili, si possono palesare delle
difficoltà da parte di alcuni allievi a gestire costruttivamente le situazioni problematiche
(Bloomquist, 1996).
Di fronte ad un problema, ricorriamo spesso a tentativi di soluzione assolutamente
infruttuosi o addirittura controproducenti, riassunti nell’espressione di derivazione
etologica flight or fight. Possiamo declinare tali comportamenti in ambito scolastico
(Garnett, 2005). Il flight rappresenta la fuga cioè la possibilità, in primo luogo, di
fuggire da un problema ignorandone completamente l’esistenza. È una soluzione spesso
praticata dagli allievi con maggiori difficoltà relazionali o di apprendimento, che ad
esempio cercano di sottrarsi all’interrogazione assentandosi ripetutamente. Purtroppo, in
questo modo, il problema tende invariabilmente ad acuirsi. La seconda possibilità è
rappresentata dal fight cioè l’attacco che consiste nel ricorso a comportamenti aggressivi
di tipo fisico o verbale, nel tentativo di rimuovere la fonte percepita del problema. Ad
esempio, l’allievo con difficoltà di integrazione nel gruppo classe, potrebbe aggredire il
compagno ritenuto responsabile del suo isolamento. Come è facilmente intuibile, in
entrambi i casi le situazioni problematiche non vengono risolte in maniera costruttiva
ma persistono, si aggravano e generalmente coinvolgono anche altri settori della vita
quotidiana dell’individuo, dando luogo a circoli viziosi molto rischiosi. Ad esempio,
l’incapacità di affrontare adeguatamente i problemi scolastici e la tendenza ad
esprimerli attraverso comportamenti aggressivi, potrebbero nel medio e lungo periodo
provocare una serie di problematiche anche a livello disciplinare. Queste ultime, a loro
volta, finirebbero con il retroagire sulle difficoltà didattiche in un’escalation sempre più
coinvolgente. È inevitabile domandarsi, a questo punto, il motivo per cui gli studenti,
ma anche numerosi adulti, ricorrano a strategie di risoluzione dei problemi del tutto
disfunzionali. La risposta implica due aspetti fondamentali: da un lato, le abilità
cosiddette di problem-solving non sono innate, ma devono essere attentamente apprese
e soprattutto esercitate nel tempo, al fine di affinarle e renderle pienamente efficaci
(Fabio e Pellegatta, 2005); dall’altro, i comportamenti di attacco o fuga sono spesso
messi in atto da studenti con ridotta autostima, che pertanto si ritengono inefficaci
nell’approccio costruttivo ai problemi (Bloomquist, 1996).

84
In maniera schematica, possiamo evidenziare quattro principali tipologie di difficoltà
manifestate più frequentemente dagli studenti in età della scuola dell’obbligo. Tali
difficoltà impediscono un approccio efficace alle situazioni problematiche,
configurando gli allievi come dei soggetti a rischio (Dawson e Guare, 2004).
• Allievi con ridotte abilità di decision-making: si tratta generalmente di bambini
che incontrano ostacoli nei passaggi strettamente cognitivi del problem-solving,
come ad esempio l’individuazione corretta di obiettivi realistici, la valutazione
delle alternative di risposta, etc. In questi casi, spesso vengono compiute delle
scelte impulsive, senza un’adeguata analisi dei costi e dei benefici di ciascuna
alternativa di soluzione e, soprattutto, delle risorse necessarie per implementarla;
• Allievi con carenti abilità sociali: in questo caso, la difficoltà principale risiede
nella capacità di negoziazione in presenza di problemi che riguardano più
bambini. Il risultato di tale deficit consiste spesso in tentativi di soluzione non
condivisi, ma imposti aggressivamente agli altri;
• Allievi con difficoltà nell’assunzione delle responsabilità: la scelta di
un’alternativa di soluzione rispetto alle altre comporta ovviamente dei rischi
sulla possibile inefficacia della stessa. Di conseguenza, un’adeguata abilità di
problem-solving implica la capacità di assumersi la responsabilità delle scelte
effettuate e delle possibili conseguenze, positive o negative. Purtroppo, alcuni
bambini sono carenti proprio in questa dimensione, non riuscendo a prospettarsi
gli effetti futuri del proprio comportamento, ovvero non sopportando i livelli di
ansia connessi;
• Allievi con ridotta autostima: negli ultimi anni, infatti, sembra registrarsi un
incremento nel numero di allievi che presentano inadeguati livelli di autostima,
la cui conseguenza principale consiste in una vera e propria inerzia operativa,
con comportamenti di fuga di fronte ai problemi.
Per ovviare a queste difficoltà è necessario che l’educazione al problem-solving sia
precoce, iniziando fin dall’epoca della scuola primaria. In uno studio su 1.059 studenti
di scuola media con o senza difficoltà di apprendimento (Montague, Krawec, Enders, e
Dietz, 2014), sono stati misurati gli effetti di un intervento, della durata di otto mesi, sul
problem-solving matematico mediante la creazione di una strategia cognitiva
denominata Solve it!. I risultati dimostrano l’efficacia dell’intervento per cui lo scopo
futuro sarebbe quello di determinare se l’efficacia del programma possa essere replicata
anche con studenti più piccoli.
A tal fine i risultati delle neuroscienze possono aiutare gli educatori nell’identificazione
dei punti di forza cognitivi dei propri allievi. La ricerca su Nico e Brooke (Immordino-
Yang, 2007), due ragazzi che vivono con metà cervello, ad esempio, suggerisce di
pensare all’aula come un luogo non dove si apprende il problem-solving ma un luogo di
progettazione del problema al fine di capire meglio e, di conseguenza, utilizzare i punti
di forza cognitivi di ogni singolo studente per lo sviluppo efficace di tale competenza
trasversale. Infatti, ciò che è importante nello sviluppo cognitivo di Nico e Brooke è la
loro rappresentazione come costruttori di problemi. In uno studio sul problem-solving
creativo (Reiter-Palmon, Illies, Cross, Buboltz, e Nimps, 2009) si evince come la
creatività nella risoluzione del problema è influenzata dal tipo del problema stesso
quindi dipende dall’ambito di specificità.
Gli studenti utilizzano diversi approcci cognitivi ed emotivi, modellando in modo molto
personale quello che in superficie sembra essere lo stesso metodo di risoluzione per
tutti. Le competenze di problem-solving emergono, quindi, da una reinterpretazione dei
problemi esistenti in nuovi problemi grazie ai propri punti di forza. Come già sostenuto
da diversi teorici appartenenti all’approccio costruzionista (Piaget, 1937/1954;
Vigotsky, 1978), nonostante la capacità di risolvere i problemi sia essenziale per lo

85
studente, la soluzione è irrilevante se il problema presentato è incomprensibile da parte
del discente. Questo ci fa capire quanto sia importante la costruzione da parte
dell’alunno della situazione problematica per uno sviluppo delle sue competenze, e non
solo la presentazione statica di problemi da parte dell’insegnante. Mediante il
modellamento e la guida dell’insegnante, lo studente può partecipare alla costruzione
della cornice del problema in modo da rendere l’apprendimento collaborativo e
simbolico (Fischer e Immordino-Yang, 2002; Immordino-Yang e Damasio, 2007). Allo
stesso tempo questo rappresenta un’opportunità per l’insegnante che osserva i singoli
profili cognitivo-emotivi dei propri alunni per aiutarli nell’acquisire una maggiore
consapevolezza delle proprie modalità di apprendimento. In una classe simile, gli
insegnanti e gli studenti diventano partecipi di quel che Adler (1988) definisce
cooperative artists in quanto si mira a far diventare gli studenti più consapevoli dei
propri punti di forza nella costruzione e soluzione delle situazioni problematiche.
L’insegnamento di queste abilità dovrebbe avvenire in piccoli gruppi in modo tale che i
bambini fin dall’inizio possano esercitarsi nel confrontare opinioni differenti,
sviluppando una maggiore flessibilità cognitiva e delle adeguate competenze di
negoziazione. Tale formazione dovrebbe essere integrata nella normale
programmazione didattica, prendendo spunto dalle diverse materie scolastiche per far
esercitare i bambini nella soluzione dei problemi al fine di evitare che l’allievo apprenda
delle abilità in situazioni artificiali e non riesca, successivamente, a generalizzarle nei
normali ambienti di vita quotidiana. Tale linee guida non devono esaurirsi durante il
percorso scolastico primario. Uno studio si è occupato dello sviluppo dell’abilità di
problem-solving durante l’adolescenza (Frischkorn, Greiff, e Wüstenberg, 2014)
considerando la soluzione di problemi complessi (CPS) come una competenza
interdisciplinare, analizzata in modo longitudinale per due anni. Sono stati identificati
come fattori predittivi il ragionamento fluido, l’età e il sesso. In particolare il
ragionamento fluido è risultato positivamente correlato a modelli di sviluppo lineari
dell’abilità di problem-solving. Considerando che la valutazione della risoluzione dei
problemi complessi (CPS) ha ricevuto una crescente attenzione su scala internazionale,
è stata indagata anche la relazione tra risoluzione dei problemi complessi (CPS) e
studenti immigrati (Sonnleitner, Brunner, Keller, e Martin, 2014). Sulla base di un
campione di allievi comprendente un numero rappresentativo di studenti immigrati, la
ricerca ha valutato se la capacità di soluzione di problemi complessi (CPS) possa essere
analizzata in modo paritario tra studenti autoctoni e studenti immigrati e se esistono
differenze tra le capacità dei due gruppi. Sono state riscontrate delle differenze nella
performance che possono essere dipese in gran parte dal percorso pregresso di studi
degli studenti immigrati di grado inferiore rispetto ai pari autoctoni. Nonostante ciò
l’analisi dei diversi aspetti del CPS ha dimostrato che, indipendentemente dal titolo
scolastico posseduto, gli studenti immigrati manifestano un comportamento di
esplorazione più efficiente. È interessante notare la differenza nella scala di
ragionamento tradizionale con carta e matita rispetto alle nuove tecnologie. Da questo
studio si desume quindi l’importanza di una valutazione delle capacità di CPS al
computer, rispetto a metodologie tradizionali, per identificare il potenziale cognitivo
degli studenti immigrati che altrimenti resterebbe nascosto. Come si evince da una
ricerca sull’alfabetizzazione degli studenti (Greiff, Kretzschmar, Müller, Spinath, e
Martin, 2014), l’ambiente di lavoro del 21° secolo pone un forte accento sulle
competenze trasversali. Una di queste consiste proprio nella risoluzione di problemi
complessi (CPS), abilità che va dall’acquisizione delle conoscenze all’applicazione in
situazioni nuove e interattive. In tre diversi campioni di studenti di scuola superiore e
universitari è stata misurata l’alfabetizzazione informatica e la capacità cognitiva
generale. Secondo i risultati della ricerca, la capacità di soluzione di problemi complessi

86
rappresenta un costrutto distinto che comprende i processi cognitivi ed è slegata
dall’alfabetizzazione informatica.
Come già detto sopra, scarse abilità nel problem-solving influiranno negativamente
sugli apprendimenti scolastici. Strettamente connesso è il rimando alla difficoltà di
risoluzione dei problemi in ambito matematico. La complessità del campo delle capacità
matematiche rende particolarmente articolato e intricato lo studio delle difficoltà di
apprendimento ad esse associate. Teoricamente una disabilità di apprendimento
matematico può derivare da un deficit nell’abilità di rappresentare o elaborare
l’informazione da utilizzare in una o tutte le varie aree della matematica: per esempio
nella comprensione numerica, calcolo e aritmetica, ragionamento e soluzione di
problemi, algebra e geometria. Tuttavia la ricerca sui disturbi specifici di apprendimento
(DSA) si è particolarmente concentrata sullo studio della cognizione numerica e dei
processi di conteggio e calcolo, mentre ha svolto analisi ancora estremamente limitate
delle altre aree dell’apprendimento. Solo recentemente l’interesse dei ricercatori si è
indirizzato all’esame delle abilità metacognitive sottese alla soluzione dei problemi in
bambini e adulti con disabilità di apprendimento matematico comparati con individui
con abilità nella norma. Non è però ancora chiaro se è possibile parlare di un disturbo
specifico nell’area della soluzione dei problemi in quanto le difficoltà nel ragionamento
matematico e nella soluzione dei problemi sono comprese (in base al DSM V) nel più
generale disturbo di calcolo. Varie ricerche hanno però messo in luce come le difficoltà
nella soluzione di problemi aritmetici complessi siano frequenti e comuni sia nella
discalculia acquisita sia in quella evolutiva (Temple 1991; Semenza, Miceli e Girelli
1997; Geary, 2004). È dunque chiaro che il limitare l’analisi alle difficoltà nella
conoscenza numerica e nel calcolo è riduttivo. Le osservazioni in campo clinico ed
educativo sostengono quindi la necessità di approfondire più dettagliatamente la
definizione del cosiddetto “disturbo del calcolo” e la possibilità di individuare
l’esistenza di tipologie diverse di individui con difficoltà specifiche nell’area
matematica, con conseguenti diversi profili cognitivi e neuropsicologici. Le difficoltà
nella soluzione di problemi, pur manifestando nel tempo alcune costanti dovute al
profilo cognitivo-neuropsicologico del bambino, trovano una specifica differenziazione
lungo il percorso scolastico dello studente, in corrispondenza con il variare dei
programmi e delle richieste didattiche. Nel percorso scolastico elementare compariranno
soprattutto difficoltà nel problem-solving aritmetico, in associazione più o meno forte
con problemi di calcolo e con l’intuizione del significato delle operazioni e di alcuni
concetti. In seguito, l’introduzione dei concetti geometrici rende più variegata la
richiesta cognitiva al bambino, includendo la visualizzazione di rapporti spaziali
elementari, la comprensione e memorizzazione di regole geometriche, e l’uso di calcoli
appropriati. L’insegnamento di algoritmi di base per la soluzione di problemi tipici
viene quindi ad associarsi con la richiesta di flessibilità e intuizione per la soluzione di
problemi che introducono elementi di novità. Successivamente, diviene più impegnativo
l’insegnamento dell’aritmetica e della geometria, con l’introduzione di concetti e
processi complessi come le frazioni, le proporzioni, i numeri decimali, le figure
geometriche meno familiari, etc. L’aggiunta di elementi di logica e statistica, potrà
ulteriormente mettere in difficoltà lo studente.
Ci sono stati vari tentativi di classificare i problemi e vedere quali implicano maggiori
difficoltà per i cattivi solutori o se a ciascuna tipologia possono essere ricondotte
difficoltà specifiche. Per esempio Fuchs e Fuchs (2002) hanno distinto fra problemi
aritmetici semplici (arithmetic story problems), problemi aritmetici complessi (complex
story problems) e problemi del mondo reale (real-world problem-solving). Occorre
pensare tale suddivisione lungo un continuum. Al livello di difficoltà più basso, sono
posti i problemi aritmetici semplici, che presentano un testo breve ed essenziale, con

87
una domanda e con la richiesta di un’unica operazione per ottenere la soluzione (Jordan
e Hanich, 2000; Hanich, Jordan, Kaplan, e Dick, 2001). Ad un livello intermedio sono
posti i problemi aritmetici complessi, costituiti da un testo più lungo, ma ancora
relativamente breve, con domande e dettagli non essenziali, ma nessun dato numerico
irrilevante, la cui soluzione necessita da una a tre operazioni. Al livello più elevato si
situa il problem-solving della vita reale, pensato come un testo esteso, con dettagli non
essenziali e con elementi numerici irrilevanti, che può richiedere lo stesso numero di
operazioni di un problema complesso. I risultati di Fuchs e Fuchs hanno dimostrato un
deficit nella soluzione di tutti e tre i tipi di problemi in studenti di scuola elementare con
disabilità specifica in aritmetica (ALD) e con difficoltà anche nella comprensione
(ALD+RD), messi a confronto con un gruppo di controllo. Più in particolare le
difficoltà nella soluzione dei problemi sono più severe nel gruppo che presenta
difficoltà anche nella comprensione (Räsänen e Ahonen, 1995; Jordan e Hanich, 2000).

Problem-solving in ambito organizzativo

Il Collaborative Problem-Solving è un metodo cognitivo-comportamentale di


risoluzione dei conflitti, originariamente sviluppato per lavorare con bambini e
adolescenti oppositivi in ambito ambulatoriale. È stato poi adattato per le esigenze
specifiche in ambito ospedaliero da Martin, Kreig, Esposito, Stubbe e Cardona (2008)
che hanno esaminato l’utilizzo di questo programma terapeutico con giovani pazienti
psichiatrici. Il modello del Collaborative Problem-Solving concettualizza il
comportamento aggressivo come il prodotto di un ritardo dello sviluppo nell’ambito
della flessibilità, tolleranza e problem-solving e si è rivelato un approccio promettente
per ridurre l’isolamento in un ambiente come quello ospedaliero psichiatrico infantile
dove la gestione dei giovani pazienti aggressivi prevede l’utilizzo di restrizioni
meccaniche e la segregazione. Secondo uno studio (Bernstein e Ablon, 2011), il
Collaborative Problem-Solving ben si adatta ad aiutare i manager per lavorare in modo
efficace con il proprio personale in momenti, inevitabili, di conflitto. Il nucleo di tale
modello è la presenza del “Piano B”, ovvero la presenza di un ulteriore schema di
azioni: un processo multi-step chiaro da utilizzare efficacemente anche in situazioni
ostili. Il luogo di lavoro, infatti, è un ambiente interpersonale complesso in cui
inevitabilmente si può verificare il conflitto. Se gestito male, il conflitto mina le
relazioni, le prestazioni e il morale della squadra che di conseguenza può temere l’inizio
di una nuova giornata lavorativa. Se gestito bene, invece, può rappresentare
l’opportunità di creare un ambiente di lavoro positivo in cui le persone lavorano
efficacemente insieme.
Il Collaborative Problem-Solving rappresenta un esempio di metodologia scientifica per
l’apprendimento delle competenze di ascolto, comunicazione e di negoziazione,
fondamentali per affrontare e risolvere le divergenze in una situazione di tensione.
È sempre più chiara la complessità psicologica dell’ambiente di lavoro per cui occorre
formare il personale in merito al comportamento organizzativo, lo stress-lavoro
correlato e la gestione del personale. A tal proposito la Teoria dell’intelligenza emotiva
di Goleman (1998), ampiamente conosciuta in ambito aziendale, ben si adatta ad un
ambiente orientato ai risultati, puntando sulle competenze di ognuno (Jordan e Troth,
2004, 2006). Secondo Goleman, la competenza emotiva è fondamentale proprio come
quella intellettuale. Le neuroscienze ci assicurano, infatti, che incrementando
l’autoconsapevolezza, il controllo dei sentimenti negativi, la capacità di essere empatici
e di perseverare nonostante le frustrazioni, prestando quindi attenzione in modo più

88
sistematico all’intelligenza emotiva, si potrebbero stabilire legami sociali più
cooperativi e funzionali.
L’abilità di problem-solving fa parte del modo di agire professionale per questo è
necessario coltivarla costantemente. A tal proposito uno studio effettuato presso
l’Università di Udine (Bulfone, Galletti, Vellone, Zanini, e Quattrin, 2008) ha verificato
se sottoponendo gli studenti del Corso di Laurea in Infermieristica ad un numero
crescente di attività didattico-tutoriali (come il briefing, debriefing e discussione
secondo la metodologia OSCE) si potesse migliorare la loro abilità di problem-solving.
Si è giunti alla conclusione che le strategie didattico-tutoriali utilizzate sono
positivamente correlate all’abilità di problem-solving: lo studente mostra, infatti, un
miglioramento nelle capacità di individuare i problemi, di formulare obiettivi pertinenti,
di discriminare quello che è secondario e di attuare interventi e relative valutazioni.
Inoltre gli studenti hanno manifestato miglioramenti progressivi anche nell’abilità di
decision-making, riuscendo ad individuare con maggiore frequenza il problema
prioritario e a formulare più interventi e valutazioni corrette.
Sicuramente di fronte ad un problema la prima cosa che ci viene in mente per risolverlo
è utilizzare una strategia che, per problemi analoghi, in passato ha funzionato. Se la
strategia è funzionale la difficoltà si risolve in breve tempo mentre di fronte
all’insuccesso, piuttosto che ricorrere a modalità di soluzione alternative, si tende ad
applicare con maggior vigore la strategia iniziale nell’illusione che fare più di prima la
renderà efficace. Luchins nel 1942 nel suo esperimento sulle brocche di acqua dimostrò
come una volta adottata con successo una strategia risolutiva tendiamo a riprodurla
meccanicamente, denominando questo effetto pensiero meccanico (Einstellung effect).
Ai partecipanti, suddivisi in gruppi di quattro, vennero assegnati dei compiti
problematici. In ciascun problema, vi erano tre brocche di diversa capacità. Il compito
consisteva nel travasare l’acqua da una brocca all’altra al fine di raggiungere una
determinata quantità in una brocca. In un esperimento, si chiedeva di ottenere 25 quarts
(misura di capacità corrispondente, in Inghilterra, a 1,1365 litro) di acqua recuperandole dalle
tre brocche che ne contenevano rispettivamente 28, 76 e 3 misure. Non è difficile
ottenere la soluzione riempiendo la bocca di 28 misure e poi togliendone una parte per
riempire quella da 3. Tra i soggetti sperimentali ai quali erano già stati affidati simili
problemi, il 95% riuscì a risolvere anche questo. Al contrario, solo 36% di coloro ai
quali erano stati affidati una serie di problemi diversi, anche se della stessa complessità,
fu in grado di risolverlo. Secondo Luchins l’Einstellung crea uno stato automatico della
mente, un atteggiamento cieco verso i problemi per cui l’individuo non osserva un
problema per le sue caratteristiche ma è guidato da una applicazione meccanica di un
modello già utilizzato in passato. In ambito aziendale, anche se non è necessario un
debrief vero e proprio, si può avviare una discussione su quale sia la conseguenza di
questo esperimento per il lavoro quotidiano. Alcuni ritengono che il messaggio sia
quello di rivoluzionare ogni giorno i metodi di lavoro non dando niente per scontato e
come tale trovano questo gioco sconfortante. Ovviamente l’insegnamento che può
essere tratto è quello che se i normali approcci lavorativi non risolvono il problema che
si sta affrontando occorre esaminare la possibilità di cambiare metodo piuttosto che
insistere (Luperini, 2015).
Alcuni autori (Miron-Spektor, Efrat-Treister, Rafaeli, e Schwarz-Cohen, 2011) hanno
esaminato se e come la rabbia influenza i processi di pensiero e la capacità di problem-
solving. Nel primo studio hanno rilevato che i partecipanti che hanno servito un cliente
arrabbiato, hanno avuto più successo nel risolvere i problemi analitici rispetto alla
risoluzione di problemi creativi comparati con un gruppo di partecipanti che invece
avevano ascoltato un cliente emotivamente neutro. Nel secondo e terzo studio, gli autori
hanno mostrato che la rabbia comunicata attraverso il sarcasmo migliora la capacità di

89
risoluzione dei problemi e di pensiero complesso. Questo studio quindi contribuisce a
promuovere la comprensione degli effetti della rabbia, mediata dal sarcasmo sul posto
di lavoro.
Un altro studio (Budak, e Chavajay, 2012) ha approfondito la competenza del problem-
solving ponendo enfasi alla base culturale, esaminando l’organizzazione della
risoluzione di un compito tra un campione di coppie di fratelli afro-americani e un
campione di coppie di fratelli americani europei. Le coppie sono state videoregistrate
durante la costruzione di una pista di marmo. I fratelli afroamericani sono risultati più
collaborativi nel lavoro rispetto ai fratelli americani europei che erano più propensi a
dividere il lavoro e dirigere l’un l’altro nella costruzione. La ricerca futura potrebbe
individuare quindi ulteriori strategie in grado di incidere non solo positivamente ma
anche negativamente sulle abilità di problem-solving in ambito lavorativo, delineando
gli elementi costitutivi delle strategie per migliorarle.

Neuroscienze e problem solving

Gli sviluppi della scienza cognitiva ci forniscono informazioni sulla localizzazione e


sulle caratteristiche delle funzioni esecutive definite come l’insieme di quei processi
coinvolti nel controllo volontario di pensieri e azioni (Zelazo e Müller, 2002). Le
funzioni esecutive sono meccanismi cognitivi che ci aiutano a migliorare le prestazioni
in situazioni che richiedono l’attivazione simultanea di processi cognitivi differenti,
consentendoci di prendere decisioni e di selezionare quei comportamenti coerenti diretti
verso uno scopo specifico. Welsh e Pennington (1988) hanno identificato tre elementi
fondamentali nel definire le funzioni esecutive: la rappresentazione mentale del
compito, dell’obiettivo da raggiungere e lo sforzo di inibire o rimandare nel tempo una
risposta impulsiva mediante la pianificazione strategica di una sequenza d’azioni da
svolgere. L'impiego delle funzioni esecutive è indispensabile in tutti i tipi di problem-
solving, non solo in quelli più complicati ed astratti, come la soluzione di
problemi matematici, ma anche nell'acquisizione delle abilità sociali e funzioni
esecutive sono anatomicamente correlate a diverse aree della corteccia cerebrale
prefrontale: una lesione in una di queste aree comporta dei deficit nella funzione per cui
ciascuna area è deputata. Le funzioni esecutive, includono i processi e le attività relative
alla pianificazione strategica (Lezak, 2004) che consentono all’individuo di adattarsi
alle nuove situazioni (Van der Linden, Ceschi, Zermatten, Dunker, e Perroud, 2005). Il
lobo frontale è stato al centro di molti studi sui processi esecutivi inibitori e sui processi
sociali di decision-making (Bechara, Tranel, e Damasio, 2000; Stuss e Alexander,
2000). Le lesioni frontali possono causare l’inadeguata espressione emotiva del
comportamento sociale e danni nella capacità di decision-making, in particolare rispetto
alla scelta vantaggiosa (Espiridiᾶo-Antonio et al., 2008). Ovviamente, come
presupposto deve esserci la certezza, o quantomeno il fondato sospetto, che il paziente
abbia avuto un danno nella zona anteriore dell’encefalo, substrato biologico per questa
patologia. Gli studi di neuroimaging hanno identificato le specifiche regioni cerebrali
deputate al comportamento inibitorio compreso il giro frontale inferiore, la regioni
frontale mediale (Aron et al., 2007; Verbruggen e Logan, 2008; Chambers, Garavan, e
Bellgrove, 2009) e la regione dorsolaterale e ventrolaterale di entrambi gli emisferi
(Goghari e MacDonald, 2009).
Dal punto di vista storico, il primo caso di sindrome frontale riportato in letteratura è
stato quello di Phineas Gage, un operaio, che mentre era sul posto di lavoro, si vide
attraversare il cranio da una sbarra di acciaio. Gage stava inserendo una carica esplosiva
in una roccia, che doveva essere fatta saltare in aria in quanto bloccava il passaggio

90
della linea ferroviaria in costruzione. A causa dell’esplosione, il ferro che stava
utilizzando schizzò per aria attraversando la parte anteriore del cranio, provocando un
grave trauma cranico che interessò i lobi frontali del cervello (Damasio, 1995). Uno
studio (Scheffer, Monteiro, De Almeida, 2011) ha confrontato un gruppo di uomini e
donne che avevano subito un ictus considerando la capacità di problem-solving, con la
capacità di decision-making, con il comportamento impulsivo e con i sintomi depressivi
correlando queste variabili tra i gruppi. I dati indicano che le donne, che hanno subito
una lesione frontale, hanno mostrato livelli più significativi di impulsività con
conseguenti difficoltà nella pianificazione rispetto al campione maschile. Occorre,
quindi, considerare le differenze di genere al momento della pianificazione di una
psicoterapia e riabilitazione cognitiva con pazienti che presentano le medesime
caratteristiche. Tra i danni causati da un ictus ci sono i disturbi emotivi e le
disregolazioni esecutive (Zinn, Bosworth, Hoening, e Swartzwelder, 2007) in
riferimento alla zona della lesione. Uno studio di Maurex, Lekander, Nilsonne,
Andersson, Asberg, e Ohman (2010), ha confrontato il recupero della memoria
autobiografica e della capacità di problem-solving di individui con disturbo borderline
di personalità (BPD) e una storia pregressa di tentativi di suicidio, con o senza diagnosi
concomitante di depressione e/o disturbo post-traumatico da stress (PTSD),
analizzando, inoltre, nel gruppo BDP i rapporti tra memoria autobiografica, competenze
sociali di problem solving e altre caratteristiche cliniche. I risultati sono stati poi
confrontati con un gruppo di controllo che non presentava disturbi psichiatrici e sintomi
di BPD. È stato dimostrato da Williams e Broadbent (1986) che alcune specifiche
memorie personali sono importanti per le competenze sociali di problem-solving in
quanto forniscono un database utile nel suggerire le soluzioni ai dilemmi sociali. Le
persone con disturbo borderline di personalità spesso hanno difficoltà a risolvere i
problemi sociali (Bray, Barrowclough e Lobban, 2007; Kehrer e Linehan, 1996;
Kremers, Spinhoven, Van der Does, e Van Dyck, 2006). La risoluzione di tali problemi
richiede la capacità di definire un problema interpersonale al fine di generare possibili
soluzioni e scegliere razionalmente la soluzione che porta all’obiettivo desiderato.
Tuttavia, invece di utilizzare una strategia funzionale, molti individui con BPD cercano
di far fronte ai problemi mediante atti impulsivi, autodistruttivi e comportamenti
suicidari, tali comportamenti sono associati alla generale memoria autobiografica (Arie,
Apter, Orbach, Yefet, e Zalzman, 2008). Gli individui con BPD tendono ad utilizzare
anche strategie di problem-solving passive (Pollock e Williams, 2004) e possono avere
difficoltà ad immaginare il futuro, il che rappresenta una capacità fondamentale nella
risoluzione dei problemi interpersonali (Pollock e Williams, 2001). I risultati di questo
studio hanno dimostrato una forte relazione tra disturbo borderline di personalità e una
significativa riduzione della memoria autobiografica, indipendentemente dalla
depressione e disturbo post-traumatico da stress. Il gruppo con BPD e depressione ha
dato prova di scarse capacità di problem solving. I risultati, quindi, confermano che la
ridotta capacità di memoria autobiografica è una costante degli individui con BPD con
pregressa storia di tentativi di suicidi, indipendentemente dalla depressione o PTSD.
Tale riduzione è strettamente legata alle scarse capacità di problem solving sociali.

91
Due approcci psicoterapeutici a confronto

A conclusione di questo capitolo verranno presentati due approcci psicoterapeutici


riguardo le capacità di problem-solving: l’approccio breve strategico e l’approccio
cognitivo-comportamentale.
L’approccio breve strategico si focalizza sul rompere il circolo vizioso delle tentate
soluzioni e la persistenza del problema, lavorando sul presente piuttosto che sul passato,
su come funziona il problema, piuttosto che sul perché si è formato, ricercando quindi le
soluzioni e non le cause. Di fronte ad un problema, occorre prima di tutto definire in
maniera più descrittiva e concreta possibile i suoi termini (chi è coinvolto, dove si
verifica, quando si verifica, come funziona). Ciò significa descrivere nella maniera più
empirica possibile le caratteristiche della situazione problematica fino ad avere
un’immagine concreta del problema stesso. Definire concretamente il problema e le sue
caratteristiche è infatti il primo passo verso la soluzione (Nardone, 2009). Questo evita
di rimanere vittime dei propri preconcetti e limiti percettivi. Se si ha troppa fretta, il
rischio è quello ben rappresentato dalla nota storia dell’ubriaco (Nardone, 2009, p.22).
Un uomo ubriaco, una sera, aveva perso la chiave di casa, e la stava cercando sotto un
lampione, senza trovarla. Continuò ad insistere senza successo fino a quando un
passante gentile, che si era messo ad aiutarlo, gli chiese:
“Ma sei sicuro di averla persa proprio qui?”
“No” rispose lui, “ma là dove l’ho persa, è troppo buio per cercarla!”.
Molto spesso, infatti, si tende a saltare questa fase ritenendola ovvia. Ma così non è, in
quanto chi cerca la soluzione senza avere chiari i termini del problema, di solito
interpreta la situazione in base ai propri preconcetti e alle proprie convinzioni. Nei
Principi della filosofia (1, 71-72), Cartesio scrive che “la causa primaria e principale dei
nostri errori sono i pregiudizi […] la seconda è che non possiamo dimenticare questi
pregiudizi”. Questo accade perché vi è la tendenza a vedere nella realtà ciò che
conferma le nostre sensazioni e idee: principio dell’autoinganno per cui l’individuo
tende ad avvicinare la realtà ai propri desideri e convinzioni piuttosto che analizzarla
con maggior distacco. Per questo motivo come Ulisse si legò all’albero maestro della
sua nave per non essere inevitabilmente attratto dal richiamo delle sirene, allo stesso
modo bisogna far sì che la mente non deragli nella definizione del problema, cadendo
vittima di pregiudizi e autoinganni. Una volta definito il problema si dovrebbero
descrivere quali sarebbero i cambiamenti concreti che, una volta realizzati, farebbero
affermare che il problema sia stato risolto, quindi occorre definire la situazione da
raggiungere. La terza fase è rappresentata dall’individuazione di tutti i tentativi
fallimentari messi in atto per risolvere il problema in questione, comportamenti che non
fanno altro che alimentarlo. Per questo motivo la valutazione delle tentate soluzioni
messe in atto per superare la difficoltà presente fornisce l’accesso privilegiato alla
valutazione del funzionamento del problema, così come della sua possibile soluzione
(Nardone, 2009).
La Problem-solving therapy (PST) è un intervento cognitivo-comportamentale che si
concentra sull’esercizio delle capacità di problem-solving in modo adattivo. L’obiettivo
è quello di ridurre e prevenire la psicopatologia migliorando il benessere, in modo da
rendere l’individuo in grado di far fronte ai problemi di stress quotidiani più
efficacemente. Originariamente delineato da D’Zurilla e Goldfried (1971), la teoria e la
pratica della PST è stata perfezionata e modificata nel corso degli anni da D’Zurilla,
Nezu e i loro collaboratori (D’Zurilla, 1986; D’Zurilla e Nezu, 1999, 2007; Nezu, Nezu
e Perri, 1989; Nezu, Nezu, Friedman, Faddis e Houts, 1998). È necessario che il
terapeuta crei una relazione positiva, sia entusiasta ed ottimista, incoraggiando la
partecipazione attiva del paziente, evitando di presentare la PST in modo meccanico e

92
focalizzata solo sul problema superficiale. L’approccio utilizza l’acronimo ADAPT
facendo riferimento ai cinque passi del modello:
problem-solving problem-solving Bell e D’Zurilla (2009) hanno condotto una meta-
analisi su studi che hanno valutato l’efficacia della PST per ridurre la sintomatologia
depressiva. Sulla base dei loro risultati, che hanno coinvolto 21 campioni indipendenti,
si può affermare che la PST è sicuramente efficace come altre terapie psicosociali e
significativamente più efficace rispetto all’assenza di trattamento nel gruppo di
controllo. Inoltre, le analisi hanno dimostrato che la PST è tanto più efficace quando il
programma di trattamento prevede la formazione verso un orientamento positivo al
problema e la formazione completa della PST partendo dall’orientamento al problema
fino alle quattro abilità di problem solving (definizione del problema, formulazione di
alternative, decision-making, soluzione e verifica).
In conclusione possiamo definire l’abilità di problem solving come quella competenza
trasversale necessaria per l’autoregolazione in quanto consente di migliorare i processi
di comprensione, previsione, pianificazione, monitoraggio e valutazione delle
situazioni, potenziando la capacità di essere buoni pensatori ed efficaci solutori per
meglio adattarsi al contesto di vita in continua evoluzione e cambiamento.

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1
Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma.

98
Intelligenza emotiva

di Valeria Saladino, Anna Maria Sansoni1

Intelligenza emotiva: tra emozione e cognizione

L’emozione e la cognizione sono state per diverso tempo interpretate come divergenti
ed opposte. Cartesio (1596-1650) nella sua interpretazione dualistica, che separa il soma
dalla psiche, identificava nell’emozione una forma di spiritualità animalesca distante
dalle elevate capacità del raziocinio. Il termine emozione, dal latino ex “uscire” e motio
“muoversi”, implica la propensione all’azione. Nello studio delle emozioni si è procedu-
to seguendo due filoni interpretativi. Il primo concerne lo scambio emozionale nelle re-
lazioni fra soggetti ed in generale con il mondo esterno; il secondo invece si è incentrato
sullo studio e l’analisi delle singole espressioni emotive nel tentativo di comprenderne
la natura. L’emozione infatti non è definibile in maniera univoca e semplicistica ma
concerne un evento soggettivo ed intersoggettivo complesso definibile su livelli di inte-
razione e traducibile mediante diverse modalità espressive.
Le risposte emotive concernono una componente cognitiva, ossia la valutazione degli
stimoli ambientali; una componente fisiologica, che implica l’attivazione del sistema
nervoso centrale, del sistema nervoso autonomo, del sistema endrocrino e dunque tutte
quelle modificazioni concernenti la sudorazione, il battito cardiaco, la salivazione; il li-
vello espressivo invece riguarda le manifestazioni non verbali come le espressioni fac-
ciali ed il tono di voce. Le emozioni si esprimono inoltre tramite la componente motiva-
zionale che guida l’attivazione motoria del soggetto verso determinati scopi e la com-
ponente soggettiva che comporta la definizione dell’esperienza emozionale attraverso
cui determinare il proprio stato d’animo e riconoscerlo secondariamente.
Alla base delle emozioni vi è un processo cognitivo complesso che parte dalla valuta-
zione cognitiva sino ad arrivare alla risposta comportamentale.
Secondo la teoria cognitiva di Magda Arnold (Arnold, 1960; Mandler, 1982; Sommers e
Scioli, 1986) l’essere umano è capace di valutare cognitivamente una situazione come
positiva o negativa rispetto ai suoi bisogni, nonostante sia la prima volta che vi si imbat-
te. Secondo la Arnold l’emozione è definibile come la tendenza naturale dell’uomo di
rivolgere la sua attenzione e dunque scegliere ciò che gli risulta essere più vantaggioso e
di conseguenza di rifiutare ciò che interpreta come dannoso. Infatti le emozioni positive
compaiono nel momento in cui compiamo un’azione per noi vantaggiosa mentre le ne-
gative se stiamo svolgendo un’attività che non comporta soddisfacimento alcuno.
Diversi sono stati i filoni interpretativi cui fare riferimento rispetto allo studio delle
emozioni. Fra le prime teorie delle emozioni vediamo quella proposta dallo psicologo
James e dal fisiologo Lange nel 1884. Tale teoria ribalta il concetto classico di causalità
fra esperienza emotiva ed espressione emotiva. Infatti secondo gli autori è la corteccia
che interpreta gli stimoli sensoriali emotigeni e che provoca variazioni al sistema nervo-
so autonomo ed al sistema nervoso somatico, definendo un dato comportamento e la
stessa esperienza emotiva. Dunque sono le risposte espressivo-motorie a produrre gli
elementi valutativo-cognitivi non il contrario. In base a questa teoria non si piange per-
ché si è tristi ma è l’azione del piangere che comporta l’interpretazione del sentimento
di tristezza. Tale ipotesi era già in parte stata suffragata dalla teoria evoluzionistica di

99
Darwin, il quale nel libro L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali
(1872) definì alcuni principi: le espressioni facciali sono innate, universali, derivate
dall’espressioni di altri conspecifici. Egli giunse a tali conclusioni poiché constatò che
le espressioni facciali erano le medesime indipendentemente dalle origini razziali e
dall’influenza culturale. Inoltre Darwin credeva che le emozioni favorissero la soprav-
vivenza di una specie e determinassero il comportamento e la comunicazione.
Nel 1915 Cannon propose una teoria alternativa a quella di James-Lange e fu sostenuto
in seguito da Bard. La teoria di Cannon-Bard vede l’espressione emotiva e l’attivazione
motoria come paralleli e complementari, esulando da una causalità diretta. Successiva-
mente si constatò come entrambe le teorie abbiano un fondo di verità, in quanto
l’espressione emotiva non è sempre attivata dal feedback inviato dai sistemi autonomo e
somatico, tuttavia tali reazioni possono influenzare grandemente l’esperienza emotiva.
Esemplificativo di ciò fu l’esperimento di Schatcher e Singer (1962), i quali testarono
l’influenza del feedback emotigeno sull’arousal. In una condizione sperimentale ai sog-
getti veniva somministrata un’iniezione di adrenalina e veniva data loro
un’informazione sbagliata circa le loro reazioni fisiologiche, mentre in un’altra condi-
zione sperimentale si forniva l’informazione corretta circa l’attivazione fisica prodotta
dall’iniezione. Da ciò si evinse come coloro i quali avevano ricevuto informazioni erro-
nee si lasciavano coinvolgere maggiormente dagli sperimentatori che gli stavano accan-
to e ai quali tendevano ad attribuire la causa del loro arousal. Dunque, a partire da tali
scoperte si è evidenziato come in realtà lo stimolo emotigeno, i feedback somatici e le
esperienze emotive si influenzino vicendevolmente.
In contrapposizione alle teorie fisiologiche vi è la teoria proposta da Freud, il quale de-
finisce le componenti della mente umana importanti nel comprendere la parte inconscia
della nostra razionalità.
Altra teoria fondamentale è stata elaborata dall’antropologo americano Paul Ekman, il
quale, a partire dallo studio delle emozioni e della loro espressione nelle popolazioni,
elaborò la teoria delle emozioni primarie. Secondo tale definizione è possibile riscontra-
re sei emozioni innate e comuni a tutte le popolazioni, che generano sei espressioni fac-
ciali diverse. Queste emozioni vengono definite primarie: gioia, sofferenza, rabbia, pau-
ra, disgusto e sorpresa, e non sono scomponibili in altre emozioni. Le emozioni definite
secondarie invece derivano dalla mescolanza di diverse emozioni primarie. In base alle
teorie del costruttivismo sociale queste derivano dall’interazione sociale.
Oltre alla classificazione di Ekman ricordiamo anche quella di Robert Plutchick, (1980)
il quale definisce le emozioni primarie come il risultato dell’evoluzione umana e fon-
damentali per l’adattamento e la sopravvivenza in quanto determinanti nel definire il
comportamento. Egli evidenzia otto emozioni primarie in coppia: gioia e tristezza, con-
senso e disgusto, rabbia e paura, aspettativa e sorpresa. Come si evince dalle diverse
teorie di riferimento le emozioni possono essere definite da più punti di vista, tuttavia
l’unica l’interpretazione capace di comprenderne la complessità deriva dalla congiun-
zione dei vari modelli interpretativi. Le emozioni subiscono infatti dei continui condi-
zionamenti dall’ambiente e l’incapacità di gestirle comporta una repressione in alcuni
casi o una mancanza di controllo in altri. Tali atteggiamenti portano ad essere sopraffatti
dalla rabbia o paralizzati dalla depressione.
Dunque la capacità di regolare le emozioni in maniera funzionale viene definita attra-
verso il costrutto di intelligenza emotiva (Goleman, 1996). Quest’ultima è la chiave del
benessere psicologico, nonostante per molto tempo le emozioni siano state definite co-
me ostacolanti lo sviluppo della razionalità e della cognizione, sottovalutando così il
ruolo di quest’ultime nell’apprendimento, nelle capacità mnestiche e in quelle percetti-
vo-attentive.

100
Al giorno d’oggi la componente affettiva e cognitiva non sono più vissute come distanti
ma interagenti fra loro; motivo per cui si definisce un soggetto intelligente emotivamen-
te se capace di stabilire un equilibrio fra le due componenti in modo da favorire
l’adattamento. Tale costrutto non coincide con quello più generale di intelligenza, co-
munemente definito dal quoziente intellettivo. Infatti l’intelligenza non è equiparabile
unicamente ad una forma di adattamento all’ambiente ma anche al modellamento dello
stesso in base ai propri scopi. Per fare ciò bisogna che il soggetto adoperi capacità di ra-
gionamento, di problem solving e di decision making. Si evidenzia così l’impossibilità
di accreditare le teorie classiche che vedono l’intelligenza come un costrutto unidimen-
sionale. I primi studi psicometrici sull’intelligenza risalgono al XX secolo e si basavano
sulla valutazione delle differenze individuali in abilità motorie, percettive e secondaria-
mente cognitive. Nacquero così le prime scale d’intelligenza basate sulla misurazione
del quoziente intellettivo (QI) e sulla valutazione dei livelli di prestazione in prove fisi-
che e verbali utili nelle previsioni scolastiche e lavorative. Spearman (1927) identificava
il fattore generale o fattore G, corrispondente alle capacità di ragionamento influenzata
dalla cultura e dall’educazione da cui si dipartono i vari fattori specifici. Secondo il mo-
dello di Guilford (1967) l’intelligenza si basa sulla combinazione di tre dimensioni, ope-
razioni, contenuti e prodotti e sottolinea l’importanza del pensiero divergente ossia di
modalità di ragionamento che vadano oltre il conformismo proposto dai test di livello.
Da qui si apre la strada ai primi studi sul pensiero creativo e al concetto di intelligenza
fluida e cristallizzata, introdotto da Cattel, utile nella valutazione delle differenze indi-
viduali. Nel quadro più ampio del cognitivismo si affaccia Sternberg (1987) con la teo-
ria tripolare dell’intelligenza che spiega quest’ultima come derivata dall’influenza del
contesto esterno, delle componenti interne e dell’esperienza compiuta dal soggetto. In
tal modo egli riconosce l’importanza degli aspetti personologici e dunque dello stile co-
gnitivo del soggetto posto in relazione al contesto esterno.
Infatti ognuno di noi tende ad interagire con l’ambiente attraverso uno specifico stile di
pensiero che non coincide con il costrutto di intelligenza propriamente detta ma piutto-
sto è una modalità peculiare di esprimersi e di utilizzare le proprie abilità. In tal modo si
sposta l’attenzione dalla psicologia dell’intelligenza a quella della personalità. Sternberg
infatti, resosi conto che fra le caratteristiche di un soggetto intelligente venivano ricono-
sciute anche le competenze relazionali, enfatizza il concetto di intelligenza sociale, pro-
posto da Thorndike. Tale concetto non rispecchia unicamente la performance professio-
nale o scolastica legata all’apprendimento classico ma sottolinea il ruolo delle abilità
sociali. Il termine intelligenza infatti, dal latino intelligere o legere inter ossia “leggere
tra le righe”, identifica l’andare oltre l’interpretazione superficiale verso dinamiche più
complesse. L’etimologia rivela la caratterista pluridimensionale del costrutto di intelli-
genza. In questo contesto si inserisce la teoria delle intelligenze multiple di Gardner. Lo
psicologo cognitivo Howard Gardner critica il costrutto di intelligenza come capacità
innata basata unicamente sulla razionalità e sulla logica ed individua nove tipologie di
intelligenza:
• Intelligenza logico-matematica: capacità di osservazione e confronto fra dati
concreti, tipica di scienziati e ingegneri.
• Intelligenza linguistica: capacità di tradurre attraverso l’uso delle parole il pro-
prio pensiero, tramite una particolare sensibilità alla fonetica e al significato,
aprendo la mente a riflessione e curiosità. Riscontrabile in soggetti propensi alla
poesia e alla scrittura.
• Intelligenza musicale: particolare sensibilità ai suoni, al ritmo, alle dinamiche
dei gruppi musicali e capacità di composizione a partire da sintonie. Intelligenza
propria ai musicisti.

101
• Intelligenza spaziale: capacità di percezione e orientamento nello spazio. Abilità
nel muoversi in luoghi sconosciuti e di disporre di una visione generale del pro-
prio campo d’azione. Capacità riscontrabili negli architetti.
• Intelligenza interpersonale: capacità di interazione e di relazione con gli altri in
contesti di gruppo e non. Capacità di comprensione delle intenzioni e delle emo-
zioni altrui, e di adeguare il proprio comportamento in relazione a queste. Un
esempio sono le figure professionali dei docenti o dei sociologi.
• Intelligenza intrapersonale: comprensione dei propri sentimenti e capacità di re-
golazione degli stati emotivi in relazione al contesto e alla situazione. Abilità
fondamentale in coloro i quali lavorano in contesti d’aiuto, come psicologi, me-
dici e simili.
• Intelligenza corporeo-cinestetica: capacità di comunicare attraverso il proprio
corpo esprimendo se stessi e le proprie emozioni non solo tramite il linguaggio
parlato. Ad esempio gli attori.
• Intelligenza naturalistica: tipica di coloro i quali apprezzano l’ambiente che li
circonda e la natura in generale, come i naturalisti.
• Intelligenza esistenziale: capacità di porsi delle domande che vadano oltre le
questioni quotidiane. Dunque che stimolino il ragionamento astratto e affrontino
tematiche esistenziali. Capacità tipiche dei filosofi e dei pensatori.
A partire dalla teoria delle intelligenze multiple Gardner definì ulteriormente il concetto
di intelligenza, sostenendo come questa derivi in parte da un potenziale innato e la re-
stante parte dal contesto, che se favorevole da un punto di vista sia affettivo che stru-
mentale comporta il pieno sviluppo delle potenzialità del soggetto.
Analizzando attraverso studi sperimentali e follow-up le vite di ragazzi dotati e perso-
naggi famosi (Rovetto, 2007) si è riscontrato come vi sia un effettivo collegamento fra
ambiente favorevole e abilità soggettive. Tali scoperte sono importanti soprattutto per
quanto concerne l’identificazione ed il sostegno di coloro i quali hanno potenzialità no-
tevoli e contesi sfavorevoli alle spalle. Sulla stessa linea di pensiero è la Feldman (ibi-
dem) la quale definisce la teoria della co-incidenza, in cui si verifica la combinazione
fortunata delle qualità individuali promosse da un contesto favorevole. Da quanto detto
si evince come l’intelligenza come costrutto pluridimensionale è strettamente connesso
ad alcune caratteristiche personologiche, evidenziate sempre in soggetti plusdotati o
particolarmente talentuosi, come la fiducia in se stessi, la capacità di scelta, il persegui-
mento degli obiettivi, la tolleranza alla frustrazione, la capacità di apprendere
dall’esperienza, la propensione all’esplorazione e alla rottura degli schemi per ampliare
le proprie conoscenze. L’intelligenza come insieme di abilità non solo cognitive ma an-
che personali è centrale nella definizione di Salovey e Mayer. Questi definiscono
l’intelligenza emotiva come la capacità di osservare e regolare le proprie emozioni ed
anche le altrui e organizzarle e direzionarle in maniera funzionale in base ai propri sco-
pi.
Gli autori identificarono quattro caratteristiche dell’intelligenza emotiva. La prima ri-
guarda la capacità di percepire ed esprimere le emozioni, in modo da operare un con-
fronto fra le varie emozioni e di discriminarne i contenuti in base al contesto; la seconda
concerne la capacità di direzionare queste emozioni per facilitare l’attività cognitiva,
prendere decisioni e ragionare sui propri obiettivi; la terza capacità riguarda invece
l’espressione tramite la comunicazione sia verbale che non verbale dei propri stati emo-
tivi e di comprendere come queste incidono sul sociale. Infine, la capacità di sperimen-
tare tutta la gamma di emozioni e di calibrare le proprie sensazioni in modo da valoriz-
zare quelle positive e da non lasciarsi sopraffare dalle negative. Il concetto di intelligen-
za personale e interpersonale introdotto da Gardner è fondamentale nella nozione di in-
telligenza emotiva di Daniel Goleman (1996). Egli enfatizza il ruolo delle differenze in-

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dividuali nell’esperire le emozioni e fa riferimento al costrutto di intelligenza emotiva
come equilibrio fra le competenze personali e quelle sociali. Il soggetto emotivamente
intelligente apprende dall’esperienza e riesce ad adattare i propri stati emotivi in funzio-
ne dei propri obiettivi, oltre a saper leggere le emozioni proprie ed altrui, raggiungendo
una consapevolezza di sé e delle proprie emozioni. Tutte queste abilità sono comple-
mentari e divergono dall’intelligenza nel suo costrutto tradizionale. Per competenze per-
sonali Goleman fa infatti riferimento alla capacità di controllo e regolazione degli im-
pulsi, queste comprendono:
• Consapevolezza delle proprie emozioni: capacità del soggetto di riconoscere e
distinguere le proprie emozioni nel momento in cui le sperimenta e di rapportar-
si alle stesse in maniera funzionale. Alla base di tale capacità vi è
l’autoconsapevolezza delle proprie emozioni, al contrario si rischia di perdere il
controllo delle stesse ed esserne alla mercé. Coloro i quali si rapportano in modo
sicuro con le proprie emozioni e comprendono le cause scatenanti che vi sono
all’origine, hanno una maggiore padronanza delle loro scelte e dei loro compor-
tamenti; si prefiggono mete realistiche e operano delle scelte funzionali al rag-
giungimento dei loro obbiettivi. Ciò è reso possibile dalla percezione che questi
hanno dei propri punti di forza e di debolezza in relazione agli eventi.
• Controllo delle emozioni: capacità di gestione delle proprie emozioni da non
confondere con la repressione. Il soggetto deve adattare unicamente
l’espressione dell’emozione non l’emozione stessa. In modo da veicolare ed
esprimere il proprio sentire in maniera socialmente accettabile. Ad esempio il
non sapere controllare la rabbia potrebbe comportare un’esplosione di aggressi-
vità, modalità espressiva poco funzionale. Allo stesso modo colui il quale riesce
a gestire i propri stati emotivi riuscirà con maggiore facilità anche a superare
momenti difficili o eventuali sconfitte, poiché non si lascerà prendere dallo
sconforto ma agirà un cambiamento.
• Motivazione di se stessi: dominare le proprie emozioni garantisce anche
un’elevata dose di auto-motivazione, anche davanti alle difficoltà. La motiva-
zione comprende la spinta all’autorealizzazione, impegno nelle attività scelte e
nel perseguire i propri obiettivi, ottimismo e speranza nel riuscire ad ottenere ciò
che si desidera. In particolar modo quest’ultima caratteristica influenza grande-
mente il successo in qualsiasi ambito. Infatti coloro i quali hanno un’elevata ten-
denza all’ottimismo riescono ad auto motivarsi e a rassicurarsi nei momenti di
incertezza, escogitando nuove modalità per raggiungere gli scopi prefissatesi e
di rapportarsi ai problemi scomponendoli in piccoli compiti.
Le competenze sociali invece, come accennato da Thorndike in Harpe’s Magazine
(1920), riguardano le modalità attraverso cui ci relazioniamo con gli altri tramite le no-
stre competenze sociali. Queste comprendono:
• Riconoscimento delle emozioni altrui: il riconoscimento delle emozioni altrui o
empatia è fondamentale nel cogliere i segnali sociali e nell’elaborazione delle ri-
sposte adeguate ai bisogni o desideri altrui. L’empatia permette al soggetto di
costruire relazioni affettive, rapporti professionali ed eccellere nei contesti socia-
li.
• Gestione delle relazioni: la gestione delle emozioni altrui comporta la capacità di
interagire con gli altri in diversi contesti con disinvoltura acquisendo leadership
e popolarità. Infatti fra le varie abilità sociali che implicano la gestione delle re-
lazioni vediamo la capacità di organizzare gruppi, problem solving, negoziare
soluzioni, stabilire legami, analizzare le situazioni sociali.
Da quanto esposto emerge la multidimensionalità del costrutto di intelligenza emotiva.
Ovviamente un individuo potrebbe avere sviluppato livelli di abilità differenti in ognuna

103
delle cinque categorie di cui sopra. Ad esempio potrebbe saper controllare le proprie
emozioni nei momenti di difficoltà ma non gestire l’ansia altrui. Goleman riferisce che
data la plasticità del cervello umano è possibile apprendere l’intelligenza emotiva a par-
tire da modificazioni comportamentali che agiscono sulle abitudini e dunque sulla com-
ponente neurale. Il nostro cervello è costantemente impegnato in nuove forme di ap-
prendimento, motivo per cui sembra lecito enfatizzare il ruolo delle neuroscienze
nell’ambito di un costrutto tanto complesso come l’Intelligenza emotiva.

Psicofisiologia delle emozioni

Dal punto di vista fisiologico, l’emozione viene definita come sensazione generata da
situazioni di rilievo personale, caratterizzata da particolari vissuti soggettivi e una com-
plessa reazione biologica. La risposta che ne deriva è costituita da più componenti: la
componente comportamentale che comprende i movimenti muscolari idonei alla situa-
zione; la componente vegetativa, strettamente correlata con quella comportamentale,
poiché si occupa di mobilitare l’energia cosi da consentire i movimenti; ed infine, la
componente ormonale, la quale potenzia le risposte vegetative aumentando l’afflusso di
sangue ai muscoli.
Tra le strutture cerebrali deputate all’elaborazione e alla regolazione delle emozioni vi
sono quelle appartenenti al lobo limbico, nel quale le strutture si interconnettono per
formare il circuito di Papez. Il sistema limbico non è un circuito chiuso, ma al contrario,
è caratterizzato da molte interazioni con varie aree corticali e strutture sottocorticali.
Per quanto riguarda gli stati emotivi, sono molte le strutture nervose da considerare. Ad
esempio l’amigdala, implicata nell’evocazione e nel mantenimento delle emozioni lega-
te alla paura e nel riconoscimento delle espressioni facciali aggressive. Dall’amigdala
partono molte e importanti vie di connessione responsabili dell’innesco delle reazioni
motorie, vegetative ed endocrine strettamente collegate all’emozioni. Tra queste con-
nessioni, troviamo l’ipotalamo, che attivando il sistema nervoso, simpatico e parasimpa-
tico, è implicato nelle modificazioni della pressione arteriosa, del battito cardiaco, della
salivazione del ritmo respiratorio, quindi in tutte quelle caratteristiche che indicano
un’attività emozionale.
Nella regolazione delle emozioni, è imputata anche l’insula, fortemente coinvolta
nell’emozione del disgusto e divisa in una parte anteriore, centro di elaborazione olfat-
tivo e gustativo, la quale riceve e controlla le informazioni enterocettive di origine vi-
scerale; ed una parte posteriore, connessa con le aree uditive, somato-sensoriali, premo-
torie e con i nuclei anteriori del talamo.
Le emozioni di tristezza sono affidate alla porzione subcallosa della corteccia cingolata
anteriore, coinvolta, inoltre, nella valutazione e attribuzione di contenuti emozionali.
La corteccia prefrontale mediale è implicata nell’elaborazione dei processi emotivi ed
affettivi. In particolare, la parte inferiore, di tale corteccia, chiamata anche corteccia or-
bito-mediale, implicata insieme ad altre strutture al controllo motivazionale ed emozio-
nale, fa parte del modello teorico proposto da Damasio (1995). Il punto focale di tale
modello, “l’ipotesi dei segnali somatici”, riporta che ogni decisione è guidata da segnali
somatici espressi sotto forma di emozione. Le rappresentazioni di stati somatici associa-
ti a particolari esperienze passate vengono immagazzinate nelle aree prefrontali orbito-
mediali e sono in grado di guidare la condotta di un soggetto anche senza essere rievo-
cate in modo consapevole. La corteccia prefrontale orbito-mediale ha un ruolo fonda-
mentale nel porre in relazione gli stati emozionali con il comportamento.
L’ippocampo, implicato nei processi di memoria, connettendosi con l’amigdala svolge
il ruolo del richiamo di ricordi legati al contesto ed emotivamente significativi. Questa

104
connessione è importante per la valenza affettiva e nella regolazione dei processi emo-
zionali.
Tra le strutture sottocorticali si ricorda il talamo, struttura annessa al sistema limbico, al
quale è attribuito un ruolo fondamentale nei fenomeni empatici; ed i nuclei della base,
nello specifico, il nucleo caudato, che connesso con l’insula, è coinvolto nella percezio-
ne del disgusto ed il nucleo striato, connesso con la corteccia del cingolo anteriore e con
la substantia nigra, è implicato nel riconoscimento dell’aggressività e nel circuito moti-
vazionale.
Per quanto riguarda i fondamenti neuro funzionali della regolazione delle emozioni, un
contributo importante proviene dalla scoperta dei neuroni-specchio, i quali si attivano
quando un individuo esegue un movimento o lo vede eseguire da un altro soggetto.
Vennero scoperti originariamente nella corteccia frontale e parietale imputate nel siste-
ma motorio della scimmia. Studi successivi, hanno individuato analoghe proprietà fun-
zionali anche nell’uomo. In quest’ultimo, i neuroni-specchio motori sono ben sviluppati
ed inoltre, si attivano anche durante la visione e l’esecuzione di azioni nuove. Ovvia-
mente, l’attivazione del sistema motorio durante l’osservazione di un’azione, non com-
porta l’esecuzione della stessa, poiché esistono sistemi inibitori che ne impediscono la
realizzazione dell’atto.
Come per le azioni, anche in ambito emozionale è presente un’organizzazione corticale
dello stesso tipo, quindi processi in grado di controllare le emozioni simulate nel cervel-
lo di un individuo, quando quest’ultimo le osserva negli altri. Tutto questo, produce un
fenomeno chiamato “contagio emotivo”, ossia che la visione di un’espressione facciale
altrui costituisce un’esperienza soggettiva complementare ed influenza la propria rea-
zione muscolare facciale. La tendenza a presentare un’automatica attività motoria mi-
mica quando si osserva un’espressione facciale emotiva, è stata rilevata anche da regi-
strazioni dell’attività elettrica muscolare.
Uno studio ha dimostrato che la tendenza automatica ad imitare le espressioni facciali di
altri, determina un’interferenza sia sull’attività muscolare, sia sull’attivazione corticale
quando ai soggetti normali viene richiesto di produrre un’espressione facciale diversa da
quella osservata; le aree corticali che si attivano in condizioni di interferenza tra espres-
sione osservata ed espressione prodotta erano proprio quelle legate all’elaborazione del-
le espressioni emozionali.
Dopo aver descritto le strutture neuronali e cerebrali imputate nella regolazione ed ela-
borazione emozionale, bisogna prendere in considerazione la componente soggettiva
delle emozioni, che riguarda le sensazioni emotive. Il fatto che in tempi remoti l’uomo
cominciò a prendere in considerazione che le emozioni erano accompagnate da sensa-
zioni provenienti dall’interno del corpo, diede l’impulso allo sviluppo di teorie fisiolo-
giche dell’emozione, quella di Lange e James, già spiegate nel paragrafo precedente.
Tali teorie sottolineano quanto una buona capacità di regolazione affettiva, implichi
un’integrazione dei sistemi di risposta emotiva, neurofisiologica, comportamentale-
espressiva e cognitivo-esperenziale, tale da permettere al soggetto di tradurre le emo-
zioni in unità dotate di significato. Queste unità sono i sentimenti che possono poi esse-
re modulati e comunicati verbalmente all’esterno. Un deficit delle competenze cognitive
e metacognitive di elaborazione dei vissuti emotivi, provoca una disconnessione a livel-
lo fisiologico e comportamentale, ed una conseguente incapacità del soggetto ad utiliz-
zare le emozioni come sistemi motivazionali e di organizzazione di comportamenti ade-
guati alla situazione ambientale di riferimento.
Ciò è riscontrabile nell’alessitimia, caratterizzata da un difetto di espressione emotiva. Il
termine “alessitimia” di derivazione greca, significa “mancanza di parole per le emo-
zioni”. Un aspetto fondamentale da sottolineare è il discostarsi del concetto di alessiti-
mia dal costrutto di inibizione. Infatti, il soggetto con tale “difetto” non inibisce o nega

105
le emozioni, bensì non riesce ad esprimerle. Taylor, Bagby e Parker, lavorando sui risul-
tati di ricerche empiriche, hanno considerato l’alessitimia un disturbo dell’elaborazione
degli affetti che interferisce con i processi di auto-regolazione e riorganizzazione
dell’organismo. Il costrutto dell’alessitimia è considerato uno dei possibili fattori di ri-
schio per vari disturbi somatici e psichiatrici che hanno a che fare con problemi di rego-
lazione affettiva. La modalità attuale di intendere la psicosomatica considera
l’alessitimia non più come un fattore di causalità lineare ma come un fattore di rischio
che interagisce con altri (genetici, comportamentali, psicologici). Caratteristiche
dell’alessitimia si presentano in molte problematiche in cui un’emozione non regolata,
non elaborata, si esprime in un agito. L’incapacità di modulare le emozioni per mezzo
dell’elaborazione cognitiva potrebbe spiegare la tendenza dei soggetti alessitimici a li-
berarsi da tensioni causate da stati emotivi non piacevoli mediante comportamenti com-
pulsivi quali le abbuffate di cibo, l’abuso di sostanze, il comportamento sessuale promi-
scuo. Infatti un livello preconcettuale di organizzazione emotiva, ovvero la carenza di
elementi emozionali elaborati, può dare origine a vari disturbi della regolazione affetti-
va.
Il primo ricercatore che utilizzò il termine “Alessitimia” fu Sifneos (1970). Egli lo usò
per descrivere alcune caratteristiche osservate in pazienti psicosomatici: difficoltà a
esprimere verbalmente le emozioni, attività fantasmatica limitata, stile comunicativo in-
colore rappresentato, per esempio, dalla tendenza a fornire semplici descrizioni fattuali
e dettagliate di eventi stressanti e dolorosi senza alcuna coloritura emotiva o riferimento
ai vissuti soggettivi provati. Tali pazienti mostravano infatti uno stile di pensiero carat-
terizzato da scarsa immaginazione e una modalità di espressione delle emozioni che
privilegia i canali dell’azione fisica diretta e corporea, un’incapacità ad usare l’affetto
come segnale, tendenza all’imitazione, un elevato conformismo sociale, aspirazioni ele-
vate ed irrealistiche e tratti di dipendenza e passività. Inoltre, i soggetti alessitimici mo-
strano una ridotta capacità empatica. Questi non riescono ad utilizzare come segnali le
proprie emozioni, così non possono farlo neanche con quelle degli altri. Interessante è il
concetto dell’intelligenza emotiva quale costrutto in relazione all’autoregolazione affet-
tiva. Se le competenze cognitive alla base della regolazione emozionale costituiscono
una componente dell’intelligenza emotiva, allora si potrebbe affermare che questa e la
regolazione delle emozioni sono interconnesse tra loro, ed è possibile che gli individui
con difficoltà a regolare le proprie emozioni manifestino tipicamente un deficit
nell’insieme delle abilità cognitive che stanno alla base dell’intelligenza emotiva. I sog-
getti con scarsa intelligenza emotiva hanno ridotte capacità di conoscenza delle proprie
esperienze emotive e non riescono ad essere empatici.
Taylor (2004) sottolinea come il concetto di “elaborazione psichica” delle emozioni sia
attualmente rivisto alla luce delle nuove teorie cognitive sui processi di immaginazione
e simbolizzazione. L’alessitimia sarebbe inversamente correlata alla mentalizzazione ed
associata con storie di attaccamento insicuro e traumi emotivi. Infatti, individui con at-
taccamento sicuro, mostrano maggiore flessibilità ed apertura nei processi di elabora-
zione emotiva. I soggetti con attaccamento evitante mostrano uno stile caratterizzato da
una “minimizzazione” della componente affettiva dell’esperienza; gli individui con at-
taccamento resistente tendono invece all’ipervigilanza e all’amplificazione
dell’espressione di alcune emozioni negative. Tuttavia, secondo Taylor, l’alessitimia sa-
rebbe ristretta ad un deficit di elaborazione cognitiva delle emozioni, mentre la menta-
lizzazione comprenderebbe un insieme di più stati mentali. Tale concettualizzazione del
deficit alessitimico non trova completa corrispondenza con le altre teorie sulle emozio-
ni, che vedono i vissuti emotivi come fondanti per l'intera vita cosciente di un individuo.

106
Intelligenza emotiva e sviluppo

Dal 1993, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sollecitato i sistemi scolastici a


farsi carico della costruzione delle “abilità per la vita”. Esse comprendono l'insieme di
abilità personali e relazionali che servono per creare e gestire i rapporti con gli altri e
per affrontare la vita quotidiana in maniera positiva; sono competenze sociali e relazio-
nali che consentono di affrontare i problemi e di relazionarsi in modo costruttivo con gli
altri e senza le quali potrebbero instaurarsi stress comportamentali negativi a rischio.
Tra le life skills rientrano anche le abilità nelle relazioni interpersonali.
Per affrontare i problemi derivanti dai diversi aspetti della vita sono necessarie abilità e
competenze. Le competenze sono un insieme di sapere e di saper fare integrati al saper
essere e ad altre risorse, le quali vengono usate dalla persona per raggiungere uno scopo
e per fronteggiare una situazione concreta. Queste costituiscono un sapere che si traduce
in un’azione, sono un saper fare basato sul padroneggiamento di capacità apprese ed
esercitate. Le competenze comprendono anche caratteristiche personali profonde del
soggetto (attitudini, motivazioni, valori, rappresentazioni ed atteggiamenti) “che lo ren-
dono capace di trovare soluzioni innovative e rapide ai problemi che incontra… in mo-
do creativo, flessibile e responsabile” (Guasti, 2001, p.52). Sulla base delle diverse teo-
rie riguardanti l’intelligenza emotiva, sono nati con il tempo diversi progetti di alfabe-
tizzazione emotiva all’interno dell’ambito scolastico. Tali progetti consistono
nell’insegnamento del riconoscimento e della gestione delle proprie emozioni così da
giungere ad una piena consapevolezza di sé e allo sviluppo di adeguate competenze so-
ciali. Karen Stone McCown è la fautrice di uno dei primi progetti, la Scienza del sé, di-
sciplina che si sta diffondendo pian piano in tutte le scuole degli Stati Uniti, le quali la
sottopongono attraverso diversi corsi con denominazioni quali: “abilità di vita” e “ap-
prendimento sociale ed emozionale”. Il filo comune è l’ampliamento delle competenze
sociali ed emotive dei ragazzi. L’autrice del progetto sostiene che “l’apprendimento non
avviene a prescindere dai sentimenti dei ragazzi. Ai fini dell’apprendimento,
l’alfabetizzazione emozionale è importante come la matematica e la letteratura” (Gole-
man, 1996, p.250). Oggetto di questo progetto, sono i sentimenti propri e quelli che si
originano dalla relazione con l’altro. La strategia utilizzata è quella di porre come ar-
gomento del giorno i traumi e le tensioni presenti nella vita del bambino. I corsi di alfa-
betizzazione emotiva hanno radici negli anni Sessanta, periodo nel quale il pensiero dif-
fuso affermava che le lezioni psicologiche motivazionali venissero apprese meglio con
l’esperienza diretta e immediata piuttosto che solo attraverso mezzi teorici. Questi corsi
sono stati attuati anche come strumento preventivo per affrontare problematiche quali
l’abuso di alcol, droghe, devianze precoci e violenze.
Recentemente le scoperte delle neuroscienze, riguardanti l’età evolutiva, hanno identifi-
cato aree specifiche della corteccia prefrontale deputate alla funzione del controllo
comportamentale volontario denominato “effortful control”. Tali aree agiscono, guidate
dal sistema limbico insieme alla corteccia cingolata anteriore, attraverso il sistema co-
gnitivo e attentivo.
Quindi, a livelli precoci si possiede già un potenziale di intervento di natura conscia-
controllata che costituisce una strategia regolatoria come indicatore di una forma di pia-
nificazione comportamentale. A partire dal sistema diadico, come quello
dell’accudimento, una competenza costruita a livello relazionale, diventerà di natura in-
dividuale e capace quindi di autoregolamentazione.
Tutto questo sta ad indicare che lo studio dell’intelligenza emotiva dovrebbe essere in-
serito precocemente nell’ambito scolastico, poiché l’anno di scuola materna precedente
all’ingresso nella scuola dell’obbligo segna l’apice nella maturazione di sentimenti co-
me l’insicurezza, l’umiltà, la gelosia, l’invidia e la fiducia, ovvero tutte quelle emozioni

107
sociali che richiedono la capacità di paragonarsi agli altri. Lo sviluppo emozionale è
strettamente connesso allo sviluppo dei processi cognitivi e alla maturazione cerebrale e
biologica. Progetti di alfabetizzazione emotiva, quindi, potrebbero avere maggiore effi-
cacia se seguissero il calendario emozionale dello sviluppo del bambino, in modo da
formare ragazzi che abbiano un’immagine di sé e un’autostima sociale stabile ed equili-
brata.
Il ruolo della scuola è insostituibile: “la scuola è un crogiolo e un’esperienza definitoria
che influenzerà pesantemente l’adolescenza del ragazzo e anche gli anni successivi. In
un bambino il senso del proprio valore dipende sostanzialmente dal rendimento scola-
stico. Un ragazzo che fallisce a scuola comincia ad assumere quegli atteggiamenti con-
troproducenti che possono oscurare le prospettive di tutta la sua vita” (Goleman, 1996,
p.150).
Negli anni ’80 il tema delle emozioni ha cominciato a farsi strada anche nel mondo la-
vorativo, specificatamente nel contesto organizzativo. Si comincia a pensare che
l’emozione non sia più un elemento di contrasto per il mondo razionale organizzativo,
quanto piuttosto un principio fondamentale e integrativo del gruppo di lavoratori, che
esprimendo liberamente e sinceramente la propria emozionalità, possano usare tali emo-
zioni come strumento strategico nel raggiungimento di risultati in modo efficace. Il lea-
der che possiede competenza emotiva dirigerà il gruppo di lavoratori verso l’efficacia e
la motivazione.
L'intelligenza emotiva è utile soprattutto nella misura in cui si integra all'intelligenza ra-
zionale. Nelle imprese, questa integrazione può realizzarsi su tre livelli:
• livello individuale della singola persona all’interno dell’azienda. Tramite lo svi-
luppo dell’intelligenza emotiva si raggiungerebbe maggiore consapevolezza del-
le proprie competenze e lo sviluppo dei talenti e delle potenzialità;
• livello di organizzazione, per aumentare la capacità di instaurare relazioni inter-
personali e di raggiungere obiettivi coniugati alla soddisfazione delle persone;
• livello di entità-azienda, per creare una cultura aziendale che faciliti l'integrazio-
ne delle decisioni strategiche con le azioni concrete.
In questo senso, un sistema di misurazione della performance che non è strettamente
“giudicante” ma di “verifica” della performance stessa, favorisce una cultura improntata
alla
ricerca di soluzioni organizzative che migliorano i risultati invece della ricerca di “col-
pevoli” di risultati insoddisfacenti.

L’intelligenza emotiva come competenza trasversale

La modernità è ambivalente. Questa ambivalenza può essere caratterizzata dal fatto che
l’individuo comincia ad essere riconosciuto come soggetto emotivo, a prescindere dallo
stato o dalle differenze sessuali. Per tale motivo è costretto a controllare la propria emo-
tività. L’individuo si trova immerso nel turbinio del capitalismo emotivo, inteso come
una cultura in cui i discorsi e le pratiche emotive ed economiche si modellano recipro-
camente, producendo così un grande movimento in cui il sentire viene posto come com-
ponente essenziale dei comportamenti economici ed in cui la vita emotiva segue la logi-
ca dei rapporti economici e dello scambio. In questo contesto appena descritto, lo sforzo
per trovare un equilibrio per poter andare avanti giorno per giorno, comporta una perdi-
ta del lato emozionale-sentimentale che caratterizza l’agire sociale del soggetto e che
renderebbe quest’ultimo più intellettualizzato. Per non rischiare di perdere la nostra
identità, mostrando le emozioni imposte dal capitalismo, bisognerebbe sviluppare la
competenza emozionale, cioè una pratica delle proprie emozioni per usarle come mezzi

108
d’integrazione sociale. Per fare questo, servirebbe allenare la nostra intelligenza emoti-
va, quindi la nostra capacità di riflessione, grazie alla quale possiamo riconoscere le no-
stre emozioni e quelle degli altri, in modo da poter organizzare la nostra vita e le rela-
zioni.
Quotidianamente, viviamo e facciamo le nostre esperienze, cercando di trovare un equi-
librio, interno ed esterno, che possa permetterci di avere un vita meno difficile, senza
troppi turbamenti. Tendiamo ad adeguarci allo status quo della nostra cerchia di appar-
tenenza, per ricomporre i frammenti della nostra esistenza, per due principali motivi:
per conformarsi al senso comune, e per evitare di manifestare a pieno le nostre emozioni
ed essere etichettati come “strani”.
Inoltre, oggi, per raggiungere un’“immaginaria salute emozionale”, si viene a diffondere
una cultura terapeutica che consiglia di far ricorso, molte volte, a medicinali che con-
sentono di tenere a freno i nostri stati d’animo interiori, almeno per un periodo limitato.
Così facendo, prendiamo sempre più le distanze dalla nostra coscienza e da quel Sé au-
tentico che altrimenti verrebbe travolto da un uragano di emozioni.
Nella modernità, si tenderebbe a dare maggior centralità alle emozioni negative.
L’uomo, spaventato dalle emozioni, le allontana inibendo cosi anche le emozioni positi-
ve e non rendendosi conto dell’importante ruolo che queste occupano nel determinare i
comportamenti umani. Le emozioni negative, infatti, ci mettono in guardia e segnano i
comportamenti che adotteremo nel futuro in diverse sfere sociali; inoltre contribuiscono
alla percezione che abbiamo di noi stessi. Al contrario, le emozioni positive, svaniscono
in fretta e più facilmente. Ad oggi nelle relazioni sentimentali vi è la tendenza a fuggire
prima di rendersi conto di amare, poiché impauriti dal desiderio, il quale spinge a ri-
schiare e a mettere ogni cosa in discussione.
L’individuo moderno, segnato e dipendente dalle emozioni negative, tende a non affron-
tare la situazione e a chiudersi nelle sicurezze apprese in precedenza. L’unica strategia
per affrontare le emozioni negative potrebbe apparire quella di riscoprire le emozioni
positive. Un evento emotivo non può essere affrontato con un evento razionale, ma co-
me uno emotivo “autentico” che appartiene a noi stessi. Per riuscire a capire ciò che
sentiamo dentro dovremmo immergerci nel processo di analisi sui nostri stati emotivi,
riflettendo sulle emozioni provate e manifestate in ambito privato. Proprio in questo
consiste l’intelligenza delle emozioni, nella capacità di guidare ed avvicinare il pensie-
ro, alla comprensione umana, “mettendo a lavoro” le nostre emozioni, approfondendole,
tematizzandole ed osservandole da diversi punti di vista, arrivando così ad interiorizzar-
le e cominciare a farle diventare strumenti di comunicazione ed incontro con gli altri e
con noi stessi.
Le emozioni sono risposte affettive di intensità elevata e breve durata, caratterizzate da
due tipi di manifestazioni, quelle esplicite, che decadono in pochi secondi e, quelle im-
plicite, che durano fino a che gli sforzi di regolazione dell’individuo non prendono il
sopravvento. Rispetto a queste ultime gli psicologi clinici si sono maggiormente foca-
lizzati sul “residuo emozionale”, ovvero gli aspetti irrisolti dell’emozione. Tale residuo,
si manifesta in particolare sulla memoria, nella quale i ricordi che possiedono un’elevata
intensità emozionale, restano per molto tempo vividi e facilmente accessibili alle forme
automatiche di ricordo. Inoltre, la funzione di questo residuo emozionale, viene ritrova-
ta nella capacità di attivare e sostenere i processi di attivazione conscia e volontaria
dell’evento emozionale stesso attraverso la ruminazione mentale. Questa rappresenta il
processo per il quale ripensiamo ripetutamente ad un evento emozionale, alle sue cause
ed alle nostre reazioni allo stesso. Il collegamento tra ruminazione mentale ed emozione
presenta una duplicità. Da una parte, le emozioni negative che insorgono nel contesto
portano l’individuo a bloccarsi davanti alla realizzazione di scopi personali e cosi ven-
gono cercate strategie di risoluzione dello scopo inappagato e al tempo stesso, il sogget-

109
to ricerca le spiegazioni causali dell’evento stesso e le ragioni del fallimento; d’altra
parte, un umore negativo costituisce un segnale di fallimento e discrepanza per la per-
sona, capace per questo, di attivare un processo ruminativo.
La ruminazione mentale è la risposta alla necessità di integrazione cognitiva
dell’informazione inattesa rispetto agli schemi di aspettativa dell’individuo. Nelle emo-
zioni estreme è capace di invalidare i sistemi più stabili di assunzioni culturali a propo-
sito dell’ordine e della significatività del mondo, ciò suscita sentimenti di paura e di iso-
lamento che spingono la persona all’affiliazione. È in questo contesto che si inserisce
l’interesse per i processi di condivisione sociale delle emozioni, ossia la tendenza a co-
municare verbalmente con gli altri la propria esperienza emozionale. Anche questo pro-
cesso, come la ruminazione, è sia una fonte di sconvolgimento e caos emozionale, sia
una strategia di regolazione delle emozioni, che ha come fine, di alleviare la sofferenza
emotiva.
La condivisione sociale delle emozioni, costituisce, da un lato, un sintomo della soffe-
renza emotiva derivante dall’invalidazione di importanti istanze personali (come cre-
denze di base e scopi), e dall’altro un tentativo di affrontare e risolvere tale sofferenza,
confrontandosi con l’evento per cercare risposte utili. La ruminazione mentale e la con-
divisione sociale delle emozioni, scaturiscono entrambe dopo l’evento emotivo, ma la
ruminazione alimenta un bisogno di condivisione, la quale si propaga rapidamente e
termina con il decadimento dell’attivazione emotiva residua. Inoltre nell’ascoltatore al
quale l’individuo si rivolge, viene suscitata una risposta emozionale empatica che raf-
forza l’intimità interpersonale e pone il confidente di fronte alla stessa necessità di con-
dividere con altri la propria esperienza emozionale.
Uno tra gli effetti della condivisione sociale delle emozioni è quello della catarsi, cioè la
possibilità di scaricare la pressione accumulata. Questo effetto però è rettamente illuso-
rio, poiché, rievocare verbalmente un episodio emotivo, comporta la rievocazione, per
semplice associazione, delle componenti non verbali e fisiologiche legate all’evento
stesso, alimentando nuovamente la sofferenza emotiva e alterando l’umore, proprio co-
me la ruminazione mentale. Esaurito il sollievo temporaneo, derivante dal contatto so-
ciale e dalla disinibizione, avviene un rafforzamento dell’umore negativo.
Inoltre, la condivisione sociale delle emozioni, permette solo un sollievo emozionale,
ma affinché avvenga un recupero emozionale, è necessario che vengano soddisfatti i bi-
sogni cognitivi fondamentali (quali l’abbandono degli obiettivi, la riorganizzazione dei
motivi, la ricostruzione degli schemi, la ridefinizione e rivalutazione dell’evento), che
appaiono assenti nelle richieste sociali di regolazione. I bisogni cognitivi, vengono per-
cepiti in misura minore dall’individuo, e nonostante ciò, essi presentano dei benefici
dopo la condivisione. Secondo un modello di misura denominato Scala dei benefici
percepiti di condivisione sociale (SBPCS), emergono alcune categorie di benefici della
condivisione, quali:
• ristrutturazione/riorganizzazione cognitiva, nella quale le esperienze negative,
modificando radicalmente le credenze di base degli individui, aiutano il soggetto
nella costruzione della propria rappresentazione del mondo. Qui, la condivisione
sociale ha una funzione benefica, poiché aiuta l’individuo a reinterpretare positi-
vamente l’evento doloroso e cercare un significato dalle avversità, arrivando co-
sì a riorganizzare gli scopi di vita;
• sostegno sociale e ristoro sociale, dove il contesto della condivisione è rappre-
sentato come ambiente protetto in cui l’evento doloroso può essere affrontato.
L’individuo ricava dalla condivisione il sostegno, la comprensione, considera-
zione ed accettazione;
• giustificazione dei propri sentimenti, comportamenti e decisioni. In quest’ultimo
processo l’individuo, come conseguenza della condivisione sociale, sperimenta

110
una tendenza ruminativa focalizzata sull’impatto negativo dell’evento. Da una
parte la condivisione aiuta gli individui ad elaborare cognitivamente l’evento,
ma dall’altra, il soggetto a seguito dell’evento traumatico, tende a prendere le di-
stanze da esso e ad irrigidire i propri schemi mentali.
Si può affermare, quindi, che la condivisione sociale delle emozioni, produce degli ef-
fetti soprattutto a livello della regolazione delle relazioni interpersonali. Quando un in-
dividuo condivide un’esperienza emozionale con un’altra persona, viene a crearsi un
circuito empatico e di maggiore vicinanza tra chi confida ed il suo confidente, che per-
mette all’individuo “sofferente” di superare il proprio isolamento ed ottenere il ricono-
scimento ed il sostegno altrui, di cui necessita per affrontare il crollo del proprio mondo
soggettivo, e magari ricevere informazioni utili su nuove modalità per gestire la situa-
zione.
James (1893), aveva individuato tre componenti fondamentali del sé: il sé materiale che
si riferisce alle conoscenze che la persona possiede a proposito del proprio corpo, del
proprio ambiente e di ciò che possiede; il sé sociale che riguarda le molteplici immagini
e percezioni che ciascuno presume che gli altri abbiano di noi; il sé spirituale che rap-
presenterebbe l’autoconsapevolezza che ogni persona ha di se stessa a proposito delle
proprie abilità, dei propri atteggiamenti, valori, motivazioni e interessi. Queste tre di-
mensioni del sé, strettamente interconnesse, dirigono la motivazione in ogni azione; ri-
conoscimento delle emozioni altrui, quindi l’empatia, ovvero quella particolare condi-
zione esperienziale che gli individui vivono quando “sentono dentro” le emozioni di
un’altra persona. Questa capacità consente di sapere come si sente un altro essere uma-
no, ed entra in gioco in moltissime situazioni, da quelle tipiche della vita professionale a
quella della vita privata, a partire dal rapporto sentimentale al rapporto tra genitori e fi-
gli. Riguardo al rapporto genitori-figli, Gottman, definisce “l’allenamento emotivo”
come la base per una buona educazione dei propri figli; inoltre lo suddivide in cinque
fasi efficaci per essere un buon “allenatore emotivo”:
• essere consapevoli delle emozioni del bambino;
• riconoscere nelle emozioni un’opportunità di intimità e insegnamento;
• ascoltare con empatia e convalidare i sentimenti del bambino;
• aiutare il bambino a trovare le parole per definire le emozioni che prova;
• porre dei limiti mentre si aiuta il bambino a risolvere un problema.
Per un bambino è fondamentale sapere che le sue emozioni incontrano l’empatia
dell’altro e che sono accettate e ricambiate in un processo che Stern (2004) definisce di
“sintonizzazione”. Mediante la sintonizzazione, il bambino, dopo gli otto mesi di vita,
inizia a sviluppare la percezione che gli altri possono e vogliono condividere i suoi sen-
timenti. Nella teorizzazione di Hoffman, l’empatia viene definita come un processo di
attivazione emotiva e consonante con quello di un’altra persona.
La chiave per comprendere i sentimenti e le emozioni altrui consiste nella capacità di
leggere i messaggi che vengono manifestati da una comunicazione non verbale. Rara-
mente gli individui riescono a verbalizzare le proprie emozioni che, spesso, vengono
espresse attraverso dei segni, quali il tono della voce, i gesti o altri canali non verbali,
che possiedono codici specifici in grado di trasmettere agli altri stati d’animo ed emo-
zioni. Come ha affermato Watzlawick (1978), gli individui non solo comunicano attra-
verso vari codici, ma metacomunicano. La metacomunicazione è una comunicazione
sulla comunicazione, consiste nell’esplicitare all’altro ciò che sta dietro al messaggio
inviato.
L’empatia si basa innanzitutto sull’autoconsapevolezza, nel senso che più “siamo aperti
verso le nostre emozioni, tanto più saremo abili anche nel leggere i sentimenti degli al-
tri” (Golema,1996,p.70). Condividere, o comunque provare un sentimento insieme ad
un’altra persona significa essere emozionalmente partecipi. Ma per poter condividere

111
affettivamente, come ha affermato Strayer, occorre la differenziazione emotiva tra sé e
l’altro. Solo riconoscendo gli affetti dell’altro come diversi dai propri è possibile acco-
glierli e farli propri. Le persone empatiche sono più sensibili ai sottili segnali sociali che
indicano i bisogni, le necessità o i desideri altrui, mentre “l’incapacità di registrare i
sentimenti altrui è considerata come un gravissimo deficit dell’intelligenza emotiva”
(Goleman, 1996, p. 72). In ogni tipo di rapporto, nella capacità di essere umani, la radi-
ce dell’interesse per l’altro sta nell’entrare in sintonia emozionale. Questa è la premessa
fondamentale per l’ultima delle abilità fondamentali per Goleman, che è appunto la ge-
stione delle relazioni. La capacità di gestire le emozioni altrui è un’abilità fondamentale
nell’arte di trattare le relazioni interpersonali. Per poter gestire le emozioni altrui e per
entrare in sintonia con gli altri, è basilare aver sviluppato una buona padronanza di sé,
una certa calma interiore e una buona conoscenza dei propri sentimenti. Gestire in modo
efficace le relazioni interpersonali richiede la maturità di altre due capacità emozionali,
l’autocontrollo e l’empatia. Queste due capacità emergono intorno ai due anni e si svi-
luppano poi, negli anni successivi. Con il raggiungimento dell’autocontrollo e
dell’empatia, matura l’abilità sociale, che permetterà lo sviluppo delle competenze so-
ciali che contribuiranno a fare in modo che l’individuo interagisca efficacemente con gli
altri. Tali abilità sociali consentono di plasmare un’interazione, di trovarsi bene nelle re-
lazioni intime, di mobilitare, ispirare, influenzare gli altri, facendo, comunque, sentire
l’altro a proprio agio. La mancanza di queste abilità può portare un individuo, anche se
intellettualmente brillante, al fallimento nella gestione delle sue relazioni, rivelandosi
nei confronti degli altri, come un individuo insensibile e antipatico.
Le competenze emotive possono essere apprese e allenate. Il nostro cervello è plastico e
non smetteremo mai di imparare, ma durante i primi anni di vita la capacità di appren-
dimento è massima. Goleman nella sua opera ipotizza che l’intelligenza emotiva, a dif-
ferenza del QI, possa essere acquisita e potenziata in qualsiasi fase della vita e sottolinea
come essa tenda ad aumentare in proporzione alla consapevolezza degli stati d’animo, al
contenimento delle emozioni che provocano sofferenza, al maggior affinamento
dell’ascolto e della sensibilizzazione empatica. Inoltre, evidenzia che QI e intelligenza
emotiva non sono competenze da ritenersi opposte, ma solo separate poiché tutti siamo
dotati di abilità intellettuali ed emozionali e in ogni nostra azione, reazione, comporta-
mento, esse si fondono in un’unica totalità.


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1
Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma.

114
Autoefficacia

di Valeria Saladino1

Introduzione

L’essere umano è costantemente propenso a realizzare azioni che producano soddisfa-


zione al suo valore personale, tende costantemente ad evitare di compiere atti e compor-
tamenti che violino regole o ideali che possano dare insoddisfazione. Queste scelte, so-
no spesso determinate da una percezione soggettiva di efficacia che l’individuo sente in
merito a ciò che sta per compiere. Il concetto di autoefficacia è stato definito da Albert
Bandura (2000) come la “convinzione nelle proprie capacità di organizzare e realizzare
il corso di azioni necessario a gestire adeguatamente le situazioni che incontreremo in
modo da raggiungere i risultati prefissati”.
Bandura asserisce che la vita di un individuo è guidata dal proprio senso di autoeffica-
cia, sulle proprie convinzioni di riuscita, sulla capacità di affrontare azioni ed essere
all’altezza di eventi ed affrontare specifici compiti. L’autoefficacia non è una misura di
ciò che si possiede, ma ciò che la persona sente di saper fare. Bandura ha studiato le
origini, le strutture e le funzioni attraverso i quali determina gli effetti e il senso
dell’autoefficacia riguarda i processi a livello individuale che collettivo.

Social Learning Theory

Diverse sono state le teorie sull’apprendimento susseguitesi nel tempo. Tra i più noti
studiosi dello sviluppo cognitivo del bambino vi è Jean Piaget. Egli ha elaborato
un’epistemologia sperimentale con l’obiettivo di fornire una “teoria della formazione
della conoscenza” (Piaget, 1970). Questa prende il nome di epistemologia genetica e si
esplica in una inscindibilità fra filosofia e scienza. Le discipline infatti si integrano con
l’obiettivo di comprendere le origini della conoscenza. Piaget sviluppa la sua teoria os-
servando il bambino durante lo sviluppo. A partire da tali osservazioni lo studioso defi-
nisce l’intelligenza una forma di adattamento derivante dall’interazione dell’organismo
con l’ambiente. L’intelligenza si sviluppa per tappe evolutive tramite due processi di
apprendimento, “assimilazione e accomodamento”. Secondo Piaget, i processi che ca-
ratterizzano l'adattamento sono “assimilazione e accomodamento”questi si avvicendano
durante l'intero sviluppo. L'assimilazione e l'accomodamento accompagnano tutto il
percorso cognitivo della persona, che in gioventù risulta flessibile e plastico, più rigido
con l'avanzare dell'età. L'assimilazione consiste nell'incorporazione di un evento o di un
oggetto in uno schema comportamentale o cognitivo già acquisito, l'accomodamento
modifica la struttura cognitiva o lo schema comportamentale per accogliere nuovi og-
getti o eventi che fino a quel momento erano ignoti Attraverso l’assimilazione il sog-
getto integra elementi nuovi nei suoi schemi precostruiti, senza alterarne la struttura. Il
secondo processo è invece complementare al precedente, in quanto gli elementi assimi-
lati comportano una modifica agli schemi del soggetto. Si parla di adattamento intelli-
gente quando l’individuo raggiunge un equilibrio fra le conoscenze possedute e la loro
115

applicazione funzionale, garantendo il passaggio da uno stadio evolutivo all’altro. Pia-
get identifica tre stadi a loro volta suddivisi in sotto-stadi. Il primo stadio, da 0-24 mesi,
è quello senso-motorio, in cui il bambino mette in atto una manipolazione diretta sugli
oggetti, che gli permette di conoscerli e definirli. Secondariamente vi è lo stadio pre-
operatorio (2-7 anni) e l’operatorio concreto (7-11 anni), attraverso cui il bambino passa
dall’egocentrismo intellettuale al ragionamento simbolico. Infine, dagli 11 a 12 anni in
poi vi è lo stadio operatorio formale, tramite cui si sviluppa il pensiero ipotetico-
deduttivo. Dal contatto con l’ambiente il soggetto assimila sempre nuove strutture, ga-
rantendo l’evoluzione dell’organismo. Ulteriori studi che evidenziano l’importanza
dell’ambiente nell’apprendimento sono quelli socio-cognitivi. Sul finire degli anni Cin-
quanta si cominciò a delineare infatti una prima forma di sfiducia nei confronti del
comportamentismo, che portò a rivalutare il modello Stimulus-Response (S-R). Una
delle critiche mosse al comportamentismo riguarda la tendenza a trascurare le funzioni
cognitive tra le variabili influenzanti il comportamento umano. Il comportamentismo in-
fatti non si interroga su cosa avvenga nella mente dell’individuo quando si verifica un
apprendimento né sui meccanismi e processi in esso implicati. In un’ottica di inscindibi-
lità fra apprendimento e funzioni cognitive si afferma il pensiero di Tulving (1962), il
quale ritiene che vi sia una concatenazione fra i processi di memoria e quelli di appren-
dimento. Egli identifica alcuni elementi in comune ai processi di apprendimento e di
memoria:
• Codifica dell’oggetto: il soggetto acquisisce l’informazione e la codifica tramite
un canale specifico (visivo, fonologico, motorio, semantico).
• Rappresentazione mentale: l’individuo si costruisce una rappresentazione
all’interno della sua mente a partire dalle caratteristiche dell’oggetto codificato.
• Immagazzinamento: l’informazione viene registrata ed inserita in memoria a be-
ve termine (MBT).
• Ritenzione dell’informazione: inserimento dell’informazione nella memoria a
lungo termine (MLT).
• Recupero e utilizzo: ricordo dell’informazione che viene recuperata ed applicata
nel contesto di utilizzo, memoria di lavoro o work memory.
Su questa scia si afferma l’orientamento cognitivista, il quale vede l’uomo come orga-
nismo pensante e capace di autoregolarsi. Secondo questo approccio l’individuo non
agisce poiché condizionato da elementi di una realtà oggettiva ma regola il suo compor-
tamento in base alla lettura degli stimoli esterni. Accanto al paradigma classico del con-
dizionamento operante, il costrutto del Social learning delinea un quadro più ampio del-
la complessità umana, in cui assume un ruolo centrale il processo di elaborazione
dell’informazione (HIP, Human Information Processing) scaturito da rappresentazioni e
interpretazioni soggettive. A differenza delle teorie generali dell’apprendimento, il co-
gnitivismo le informazioni vengono acquisite dal sistema cognitivo, elaborate, memo-
rizzate e recuperate, queste derivano da processi interpretativi nelle interazioni sociali,
dove i comportamenti assunti durante l’infanzia si modificano mediante l’osservazione
e interiorizzazione di modelli di riferimento, in un rapporto di reciprocità.
Secondo Doise e Palmonari (1988), l’esperienza derivata dall’ambiente incrementa la
conoscenza. L’apprendimento scaturisce da un reciproco influenzamento fra la predi-
sposizione individuale ed ambientale. Si afferma dunque una visione dell’individuo
predisposto ad un apprendimento da contestualizzare socialmente.
Fautore del socio-cognitivismo fu lo psicologo canadese Albert Bandura, il quale conte-
stò le tradizionali interpretazioni del rinforzo e determinò il passaggio dalla formula sta-
tica B=f(P,E), dove il comportamento (B) è funzione della personalità (P) e
dell’ambiente (E), alla teoria del determinismo triadico reciproco. In base a tale conce-

116

zione il funzionamento dell’individuo è il risultato dell’interazione di tre fattori: am-
biente, sistemi cognitivi e comportamento.

Figura 1 - Modello del reciproco determinismo triadico

Tale teoria pone in discussione la definizione dell’ambiente determinato ed inevitabile,


descrivendolo come unico potenziale ed influenzato dall’agency del soggetto, in un rap-
porto di duplice rapporto mediato dai meccanismi cognitivi. Uno studio vide coinvolti
un gruppo di bambini schizofrenici e bambini che fungevano da controllo, questi furono
posti in una stanza di giochi elettronici resi agibili dall’inserimento di monete a seguito
dell’attivazione di una spia luminosa. Il gruppo di controllo, avendo compreso immedia-
tamente il comportamento da assumere, usufruì di un ambiente gratificante. Invece i
bambini schizofrenici esperirono d’un ambiente negativo e deprivante poiché, pur nelle
medesime condizioni, fallivano nell’interpretare le operazioni da svolgere per raggiun-
gere l’obiettivo. Dai risultati dell’esperimento si deduce che l’ambiente potenziale (po-
tential environment), è uguale per entrambi i gruppi, mentre quello attuale (actual envi-
ronment), differisce in base al comportamento messo in atto. Alla base della consapevo-
lezza e della regolazione comportamentale del soggetto vi sono i meccanismi cognitivi,
caratterizzati da cinque capacità:
• Capacità di simbolizzazione: corrisponde alla capacità delle persone di rappre-
sentare simbolicamente la conoscenza. Il linguaggio rappresenta l'esempio più
evidente della capacità cognitiva di ragionare usando simboli astratti. La capaci-
tà di saper immaginare una buona prestazione in un determinato ambito, porterà
la persona a motivarsi nel perseguire i suoi obiettivi. Questa capacità è in segno
tangibile di una comunicazione che va oltre l’esperienza sensoriale.
• Capacità vicaria: è la capacità di acquisire conoscenze, abilità o competenze me-
diante l'osservazione o il modellamento di altre persone e tramite il processo
modeling si apprende per emulazione. Bandura distingue l’esecuzione
dall’apprendimento, egli crede che il rinforzo di un comportamento influenzi
unicamente l’esecuzione del compito. Un esperimento noto, è quello di Bobo
Doll (Bandura; Ross; Ross; 1961), in cui bambini esposti a modelli aggressivi ne
imitavano il comportamento mediante osservazione. Un ruolo importante assu-
meva il rinforzo, che se positivo, incrementava la probabilità che il bambino ri-
proponesse il medesimo comportamento. Da ciò si evince come l’agito dei bam-
bini derivi dalla valutazione delle conseguenze non da ciò che avevano appreso.
La capacità vicaria, permette al soggetto di perfezionarsi e di inibire certi com-
portamenti in base ai risultati ottenuti dai modelli osservati, influenzanti
l’efficacia personale e la motivazione. Dunque esporre una persona ad un model-
lo non ne garantisce l’apprendimento.
• Capacità di previsione: tale capacità è conseguente alla simbolizzazione, è la ca-
pacità di anticipare gli eventi futuri, sia a livello emotivo che motivazionale.
L’individuo proietta nel futuro un suo standard personali a cui aspirare e sele-
ziona le azioni consone al raggiungimento degli stessi, inibendo gli eventuali
ostacoli e prefigurandosi le conseguenze di un eventuale fallimento. Fondamen-
117

tale risulta l’attivazione emotiva e motivazionale che fa da sfondo alla costru-
zione dell’evento.
• Capacità di autoregolazione: è la capacità di valutare le proprie azioni attraverso
standard interni, quindi di monitorare e gestire la propria condotta in base agli
obiettivi personali interni prefissatisi. Senza la capacità di autoregolarsi non si è
in grado di effettuare una giusta scelta e decidere di conseguenza.
• Capacità di autoriflessione: l’autoriflessione garantisce una prospettiva di rifles-
sione sulle proprie cognizioni ed esperienze, favorendo una maggiore conoscen-
za di sé e del mondo. L’autoriflessione conduce a valutare la propria efficacia e
facilita il processo di scelta verso ciò a cui si è più portati, risparmiando energie
e garantendo una maggiore gratificazione personale.
Da quanto sopra, si evidenzia che l’individuo impara per osservazione e simbolizzazio-
ne di modelli. L’apprendimento attraverso esperienza diretta può tradursi in apprendi-
mento vicario, attraverso l’osservazione di un comportamento e le sue conseguenze, si è
di fronte ad un apprendimento sociale, compresa per “prove-ed-errori”.
Bandura, con processo “cognitivo simbolico”, identifica due sistemi di rappresentazio-
ne: immaginifico e verbale. Il modellamento simbolico è particolarmente agevole poi-
ché è immediatamente disponibile, cioè non richiede una esperienza diretta del soggetto.
Soprattutto in quest’epoca, dove l’informatica, e l’apprendimento on-line, si apprende
attraverso i media, che assorbono e catturano il sistema cognitivo dell’individuo, inci-
dono sia sulle cognizioni soggettive e sulla motivazione condizionandone l’agito nel
sociale. Diversi studi che hanno dimostrato che è possibile apprendere nuove strategie
cognitive attraverso la semplice osservazione di attività di problem solving (Johnson
et.al,1991; Mazzoni, 2000). I meccanismi cognitivi della social learning theory, operano
in sinergia con un altro elemento fondamentale, la self-efficacy, cioè “l’autoefficacia
percepita”, dove l’individuo si sente sicuro di raggiungere certi livelli di prestazione.
Tale costrutto implica che le persone determinino il loro funzionamento a partire dalla
fiducia che nutrono verso le proprie prestazioni, che sono le proprie capacità.

Self-efficacy

Il concetto di autoefficacia o self-efficacy costituisce uno dei campi fondamentali della


psicologia evolutiva. La self-efficacy è la percezione soggettiva, che il soggetto ha della
propria competenza all’interno del contesto di appartenenza, Questa agisce sui processi
motivazionali del soggetto e influenza la scelta del comportamento da adottare. Contra-
riamente alle teorie che sostengono l’esistenza di una pulsione innata al controllo degli
eventi, l’autoefficacia è strettamente collegata alle esperienze passate e dunque specifica
di certe condizioni. La self-efficacy si costruisce dall’interazione di un vasto reticolo di
attività, quali la percezione, la cognizione e la codifica delle informazioni. Le convin-
zioni sull’autoefficacia influenzano la valutazione del comportamento più consono in
base alla situazione. Durante l’infanzia il bambino sperimenta le prime forme di ap-
prendimento, attraverso cui esperisce una forma di controllo sull’ambiente esterno e
comincia a sviluppare il senso di autoefficacia. Come già enunciato a proposito della
“Social Learning Theory”, anche nel caso della self-efficacy, il comportamento osser-
vato non deve essere messo in atto nell’immediato né necessita di un rinforzo per garan-
tire l’apprendimento di una competenza. Una prima percezione di autoefficacia si co-
struisce nel contesto familiare. Quanto più questo è responsivo nei confronti dei bisogni
del bambino, tanto più le capacità e l’autoefficacia cresceranno. Durante l’adolescenza,
entrando in contatto con il sociale, la percezione di autoefficacia subisce delle modifi-
che dettate dal confronto fra le competenze apprese in precedenza e una realtà nuova e
118

complessa. Diventa fondamentale padroneggiare le nuove abilità in un contesto adulto.
Queste abilità si traducono in età adulta in scelte professionali, relazionali e sociali che
si manterranno durante la senilità, garantendo anche la medesima percezione di autoef-
ficacia. La self-efficacy è legata al controllo mentale, diventa fondante la pianificazione
ed il raggiungimento degli obiettivi. La manipolazione dell’ambiente, è una modalità
mediante la quale l’individuo costruisce il proprio Sé e la propria autostima, in stretto
rapporto con il mondo esterno. Il continuo interscambio con l’ambiente, avviene me-
diante una ri-negoziazione dei propri obiettivi ed un progressivo conseguente adegua-
mento. Proprio in questa prospettiva Bandura enfatizza l’importanza della formazione,
dove trova campo importante. La scuola ad esempio dovrebbe evitare di cristallizzare le
credenze e le convinzioni svalutanti del dell’individuo. L’autoefficacia percepita nello
studio fa amplificare la persistenza nelle attività scolastiche, promuovono la motivazio-
ne allo sviluppo di nuove competenze portando al successo scolastico. Questo discorso
è estendibile a tutti gli ambiti e applicazioni dell’individuo il quale, percependosi effica-
ce, otterrà risultati migliori. L’autoefficacia è stata definita da Zimmerman (1995)
un’abilità “compito specifica”.
Bandura (Petruccelli, 2004) ha individuato quattro fonti di autoefficacia da cui il sogget-
to costruisce nel corso dello sviluppo credenze rispetto le proprie capacità:
• Esperienza diretta: qualora il soggetto esperisca un miglioramento nelle proprie
capacità, percepirà un aumento dei livelli di autoefficacia e, viceversa, nel caso
di un’esperienza negativa. Successi e fallimenti, incidono sul senso di autoeffi-
cacia. Ciò che l’individuo apprende dipenderà dalle modalità comportamentali,
organizzative e cognitive che sarà in grado di mettere in atto.
• Modeling: l’osservazione dei successi altrui agisce da fonte di apprendimento
vicario. Il soggetto percepisce di essere in grado di affrontare una situazione
qualora questa sia stata già sperimentata con successo da un’altra persona. Tra-
mite la trasmissione di conoscenze, la persona acquista le informazioni necessa-
rie per gestire l’ambiente esterno, a partire da un modello di riferimento. Questi
modelli non sono statici ma si modificano con lo sviluppo
• Persuasione: l’autoefficacia può subire modifiche attraverso il canale linguistico,
verbale e non verbale. I feedback positivi spingono il soggetto ad avere fiducia
nelle proprie competenze e ad adoperarsi con maggiori sforzi per ottenere un ri-
sultato. Di fronte a giudizi negativi, l’incertezza prenderà il sopravvento e, di
conseguenza, le credenze disfunzionali o false circa le proprie capacità. La per-
suasione dunque agisce sullo sviluppo delle proprie abilità, indipendentemente
dalle reali prestazioni del soggetto. Una volta persuaso l’individuo della sua in-
capacità nello svolgere date mansioni, otterrà prestazioni equivalenti al suo sen-
so di autoefficacia. S’innescherà dunque il famoso processo della “profezia che
si autodetermina”.
• Meccanismi fisiologici: le emozioni possono modificare la percezione di autoef-
ficacia. Il nostro sistema attivazionale (arousal) influenza contemporaneamente
la performance e l’esperienza, come pure le attribuzioni cognitive circa le pro-
prie emozioni condizionano e influiscono sulle modalità espressive delle stesse.
L’autoefficacia incide nella vita del soggetto attraverso vari processi, quelli cognitivi
sono fondamentali al raggiungimento degli obiettivi, infatti più il soggetto si percepisce
efficace, tanto più si porrà obiettivi elevati e si sforzerà di raggiungerli; inoltre, il pro-
cessamento coinvolge tutte le aree di memoria, ciò influenza gli apprendimenti futuri.
La rappresentazione mentale che il soggetto si costruisce rispetto alle proprie capacità,
costituisce un punto di riferimento rispetto ai piani futuri, e la scelta di questi obiettivi
sarà influenzata dalla stima in relazione alle proprie capacità, più il soggetto si riterrà

119

capace, più si porrà obiettivi elevati. Il dubbio sulla propria efficacia non farà altro che
influenzare negativamente il pensiero verso il fallimento.
Ulteriore costrutto di fondamentale importanza è il locus of control, connesso ai proces-
si motivazionali del soggetto. Il locus of control è quel processo di attribuzione causale
attraverso cui l’individuo tende ad attribuire a se stesso o a fattori esterni le conseguenze
delle proprie azioni (Rotter, 1990). Tale concetto implica la percezione del soggetto sul
controllo degli eventi. Si definisce infatti locus of control interno, qualora l’individuo
faccia dipendere da sé le conseguenze di un evento o risultato, mentre esterno, se attri-
buisce a fattori al di fuori del suo controllo il medesimo risultato. Tale meccanismo è in
grado di influenzare la motivazione. Le attribuzioni sono influenzate da aspettative, so-
litamente si tende ad attribuire a sé i successi ed al contesto gli insuccessi. Riportando
l’esempio del successo scolastico, gli studenti con locus of control esterno, attribuiscono
al fallimento la difficoltà del compito o della lezione, allo stesso modo l’insegnate, con
locus of control esterno, tende a credere che l’insuccesso del suo allievo derivi unica-
mente dalla distrazione o dal poco impegno di quest’ultimo. Il locus of control e
l’autoefficacia, si autoalimentano dunque, perché se il soggetto ritiene di avere il con-
trollo su un dato compito e attribuisce a se stesso la probabilità di successo o fallimento,
tenderà a sentirsi maggiormente capace di svolgerlo, poiché basterà fare pratica e impe-
gnarsi, se invece l’individuo ritiene che nonostante l’impegno e lo studio quel compito
sia fuori dal suo controllo, lo sentirà come impossibile da svolgere, ritenendosi incapa-
ce. Si verificherà dunque il così detto fenomeno della learned helplessness, sentimento
di impotenza, incapacità e convinzione di essere in balia degli eventi, che conduce a
condizioni di disagio e disadattamento. Questi meccanismi influenzano dunque la capa-
cità di gestire una condizione di stress dovuta ad un fallimento. In tal caso, l’alunno con
bassa autoefficacia e locus of control esterno, potrebbe reagire ad una bocciatura riti-
randosi da scuola, chiudendosi in se stesso, sperimentando sintomi depressivi e di auto-
svalutazione. Al contrario lo studente che si trova nella condizione opposta vedrebbe
l’insuccesso come la prova di un suo scarso impegno e persisterebbe nel raggiungimen-
to dell’obiettivo. I processi affettivi invece implicano il coinvolgimento delle emozioni,
in quanto la bassa self-efficacy, in condizione di stress, genera ansia ed emozioni nega-
tive. Tutt’altro i soggetti con alta autoefficacia, avranno a loro disposizione una gamma
di emozioni positive e sapranno gestire la situazione stressante. La percezione che
l’individuo ha degli stressors e l’iper-attivazione verso i potenziali pericoli, influenzano
la gestione dei problemi. Un atteggiamento assertivo garantirà una minore ruminazione
mentale rispetto ai pensieri disturbanti che provocano ansia verso il compito. Inoltre,
promuovendo una serie di comportamenti efficaci, l’individuo modifica l’ambiente tra-
sformandolo da minaccioso a sicuro. Infine i processi di scelta implicano la presa deci-
sionale e la selezione di alcune attività verso cui ci si stente più capaci. Le ricerche da
cui emerge maggiormente l’influenza dei processi decisionali sono quelle sulla scelta
della carriera. Infatti l’autoefficacia è correlata alla scelta di diverse possibilità di carrie-
ra ed anche al grado di interesse e di preparazione poste in essere dagli alunni per rag-
giungerle. Questi processi contribuisco a definire l’identità del soggetto ed il suo conti-
nuo confronto con il sociale, attraverso un processo di automonitoraggio, definito anche
“cognitive self-management”, è connesso all’attività di problem solving in quanto coin-
volge l’aspetto metacognitivo e riflessivo del soggetto sulle sue azioni.
L’apprendimento infatti si basa su un sistema cognitivo auto-regolativo che comprende
l’individuazione degli obiettivi più utili per sé, le aspettative di autoefficacia rispetto al
raggiungimento di tali obiettivi, la ridefinizione di questi in base alla performance otte-
nuta e la capacità di effettuare un bilancio rispetto a vantaggi e svantaggi connessi ai ri-
sultati. Nota e Soresi, come sottolinea Petruccelli (2010) hanno individuato tre dimen-
sioni dell’autoefficacia: la grandezza, ossia il numero di difficoltà che l’individuo ritiene
120

di poter affrontare; la forza, cioè la persistenza con cui il soggetto affronta le situazioni
difficili e la generalizzazione, il modo in cui le valutazioni influenzano le credenze circa
la propria capacità di gestire situazioni simili. L’autoefficacia, oltre alla motivazione,
influenza anche il pensiero strategico ed il problem solving. Coloro i quali hanno una
scarsa autoefficacia tendono ad abbandonare i loro obiettivi più facilmente se questi tar-
dano ad arrivare e a sfuggire le situazioni difficili (Ibidem). Questi inoltre tendono a nu-
trire basse aspirazioni e scarso impegno nelle attività, indugiano sugli aspetti negativi
piuttosto che concentrare gli sforzi sulla soluzione del problema; in seguito ad un insuc-
cesso perdurano nel loro senso di inefficacia e non riescono a recuperare il benessere
psicologico. Le conseguenze maggiormente riscontrate in questi soggetti sono stress e
depressione. Invece coloro i quali hanno un’alta self-efficacy colgono i compiti difficili
come sfide e tentano con ogni sforzo di risolvere i problemi efficacemente; sono costan-
ti nel loro impegno e mantengono il senso di efficacia nonostante gli insuccessi; sentono
di avere il controllo sulle situazioni difficili e questo permette loro di affrontarle ed ave-
re successo. In tal modo si riducono sia lo stress che la depressione. Una meta-analisi
effettuata da Multon et.al. (1991), su sessantotto ricerche sull’autoefficacia hanno con-
fermato la relazione tra self-efficacy, rendimento scolastico e persistenza. Un’alta self-
efficacy porta ad una maggiore motivazione allo studio, successo scolastico, incremento
delle abilità, delle aspettative e delle aspirazioni, maggior interesse e applicazione, per-
sistenza nella ricerca di soluzioni ai problemi, autovalutazione positiva rispetto al pro-
prio impegno e rendimento e maggiore popolarità. Di contro una bassa self-efficacy
conduce agli effetti opposti. L’autoefficacia inoltre promuove, oltre alla popolarità, il
comportamento pro-sociale e l’accettazione da parte dei coetanei. Inoltre la percezione
di autoefficacia emotiva garantisce la capacità di gestire i sentimenti negativi, traendo
beneficio dalle condizioni positive. Quest’ultimo aspetto permette di alimentare il suc-
cesso interpersonale, infatti i soggetti con bassa self-efficacy mostrano una maggiore
ansia sia riguardo le loro competenze scolastiche che relazionali.

Neuroscienze e Self-efficacy

Un modello di riferimento nello studio dell’apprendimento e delle sue applicazioni è


quello della scienza cognitiva. Secondo quest’ultimo la struttura cerebrale è costituita da
reti neurali e l’apprendimento comporta delle modifiche alle connessioni neuronali, in
quanto esperienza-dipendente. In funzione dell'adattamento delle connessioni neurali a
stimoli esterni o interni si acquisiscono comportamenti stabili. Le esperienze infatti in-
fluenzano le reti neurali e le strutture cerebrali. Ogni nostro apprendimento produce un
ampliamento delle aree corticali coinvolte nel compito, modificando il Sistema Nervoso
Centrale (SNC). L’esercizio di un dato compito fornisce cambiamenti neurali in grado
di organizzare rappresentazioni cerebrali legate al medesimo. Viceversa, un’esecuzione
erronea e sistematica comporta modificazioni cerebrali disorganizzate e dannose per lo
sviluppo. La comunicazione fra neuroni avviene attraverso un segnale elettrico, chiama-
to potenziale d’azione. Ogni neurone elabora informazioni per poi inviare un segnale,
basandosi su quelli ricevuti dagli altri neuroni, alla soglia di attivazione. In tal modo il
cervello crea nuove connessioni sinaptiche e contemporaneamente rinforza le sinapsi
preesistenti, fissando l’apprendimento e la memoria. Attraverso il così detto potenzia-
mento a lungo termine è possibile determinare dei potenziali più ampi, derivati da sti-
molazioni ad alta frequenza. La plasticità cerebrale inoltre garantisce una maggiore
adattabilità del sistema nervoso agli stimoli esterni. Il circuito nervoso si modifica infat-
ti in base ai cambiamenti ambientali. La rete sinaptica cerebrale e le strutture correlate si
riorganizzano attivamente grazie all’esperienza e alla pratica (Mahncke, et al., 2006;
121

Doidge, 2007). Per tale motivo l’insegnamento costituisce un punto fondamentale nello
sviluppo cerebrale del soggetto. Questo influisce direttamente sul funzionamento e sulla
connettività cerebrale dell’individuo (Goswami, 2004). Attraverso l’attività didattica
vengono riorganizzate le strutture del sistema cognitivo del soggetto così da rendere
funzionale l’apprendimento di quest’ultimo e da garantire progetti educativi ed obiettivi
consoni alle esigenze del discente. A tal proposito, è stato avviato in Inghilterra un pro-
gramma di ricerca che consta di sei progetti connessi alle neuroscienze e alla formazio-
ne. Il primo progetto è “Il sonno negli adolescenti”, (2014) teensleep, condotto dal pro-
fessor Russell Foster, direttore dell’ Oxford University Sleep and Circadian Neuro-
science Institute e dal professor Colin Espie, docente di Medicina del Sonno. Lo scopo
del progetto è verificare se una quantità maggiore di sonno, coadiuvata con un pro-
gramma di educazione al sonno, agevoli l’apprendimento scolastico e migliori le presta-
zioni. Il secondo progetto è “Imparare concetti controintuitivi”, Learning counterintuiti-
ve concepts, che ha lo scopo di comprendere i vantaggi sull’apprendimento derivati dal-
la rimozione di convinzioni preesistenti circa alcune discipline, quali matematica e
scienza. Un altro progetto è “Adatto a studiare”, Fit to study: che valuta gli effetti della
pratica aerobica sui risultati scolastici. Il quarto progetto è “Apprendimento intervalla-
to”, Spaced learning: che concerne d’un metodo di insegnamento costituito da lezioni
suddivise in piccole unità, ripetute per tre volte ed intervallate da attività alternative. Il
quinto invece “Effetto di premi di cui non c’è certezza”, Engaging the brain’s reward
system: esamina l’effetto che i premi ed i giochi svolti in classe hanno sul rendimento.
Attraverso l’aggiunta di un elemento di incertezza nel raggiungimento della ricompensa
si agevola l’apprendimento. Infine, la Professoressa Usha Goswami, direttrice del Cen-
tro di Neuroscienze in Educazione presso l’università di Cambridge, ha proposto il
GraphoGame Rime:, che consiste in un progetto sullo sviluppo della consapevolezza
fonologica tramite il videogioco GraphoGame Rime, attraverso il quale si possono crea-
re analogie in rima, facilitando l’apprendimento della lettura nei bambini. L’incidenza
dell’educazione e la sua influenza a livello fisiologico si evince anche in altri contesti.
In uno studio sull’incremento della self-efficacy in pazienti ortopedici (Tluczek, 1998),
è stato constatato come il gruppo di pazienti che ricevevano un’educazione basata
sull’empowerment riguardo le loro problematiche fisiche ottenevano risultati migliori
rispetto a coloro i quali ricevevano invece un trattamento tradizionale. A seguito della
sessione di training i pazienti svolgevano un questionario sulla percezione
dell’educazione ricevuta ed uno sull’autoefficacia. I pazienti del gruppo che aveva rice-
vuto un’educazione basata sull’empowerment avevano trovato l’approccio molto più si-
gnificativo dal punto di vista dell’abilitazione e percepivano una maggiore self-efficacy
legata al compito. Dunque l’autoefficacia è fondamentale rispetto la possibilità di gesti-
re eventuali problematiche anche di natura fisiologica. In un altro studio (Fraser; Polito,
2007) su pazienti affetti da sclerosi multipla e da una forma progressiva di sclerosi mul-
tipla è stato indagato il livello di self-efficacy percepita in un gruppo di uomini e donne.
I partecipanti hanno completato il Multiple Sclerosis Self-Efficacy Scale (MSSE) da cui
si evince come le donne hanno una maggiore percezione del proprio controllo rispetto
alla malattia e alle funzioni fisiologiche connesse, in entrambe le forme di sclerosi.
Mentre gli uomini con sclerosi multipla hanno una maggiore percezione di controllo di
questa rispetto a quelli affetti dalla forma progressiva. Gli individui affetti da sclerosi
multipla possono ricavare benefici da strategie basate sulla self-efficacy, quali self-
management, educazione e supporto al paziente e alla famiglia per agevolare la gestione
della malattia. La riabilitazione è possibile anche attraverso il gioco virtuale. In uno stu-
dio pilota condotto su bambini affetti da paralisi cerebrale è stata testata la percezione
dell’autoefficacia a seguito dell’intervento tramite il gioco virtuale. Due dei tre bambini
che hanno partecipato allo studio hanno sperimentato un incremento nella performance
122

e nell’autoefficacia (Reid, 2002). Dai contributi di ricerca riportati risulta evidente il
contributo delle neuroscienze nell’apprendimento non solo scolastico ma delle stesse
competenze trasversali. Sarebbe dunque opportuno ampliare le ricerche in tale ambito
per promuovere una maggiore consapevolezza ed utilizzo delle nostre potenzialità.
Da quanto esposto si evince come la percezione dell’autoefficacia incide sia sul benes-
sere psicologico che sull’acquisizione di competenze. Ciò è stato confermato da diversi
studi che hanno indagato non solo la self-efficacy ma anche il locus of control,
l’autostima, l’agency, il coping, dimostrando un’evidente correlazione. In uno studio
sull’incidenza del locus of control sull’autostima emerse che il fallimento in soggetti
con bassa autostima veniva attribuito a cause interne, mentre in soggetti con alta auto-
stima a cause esterne (Fitch, 1970). In un altro studio di Lane (et.al., 2002) fu esplorata
la correlazione fra autostima, strategie di coping e modificazioni dell’autoefficacia in 91
giocatori di tennis di età compresa fra gli 11 e i 21 anni, attraverso la somministrazione
della Scala dell’Autostima di Rosenberg, del Modified COPE (Crocker e Graham,
1995) e di sei item della Scala di autoefficacia, progettate per verificare il livello di fi-
ducia a seguito della vittoria al torneo di tennis. I partecipanti completarono i test prima
della competizione. Gli stessi item sull’autoefficacia furono riproposti ai partecipanti
dopo la sconfitta e prima della gara successiva. Analizzando i dati e confrontando i
cambiamenti dei punteggi nella scala dell’autoefficacia prima e dopo la sconfitta in sog-
getti con alta e bassa autostima, si poté constatare una maggiore riduzione della self-
efficacy nel gruppo di soggetti con bassa autostima. Quest’ultima è fondamentale per
quanto riguarda l’apprendimento, poiché stimola la ricerca di determinate condizioni da
cui ricavare un rinforzo positivo che fortifichi l’immagine che il soggetto ha di sé. I
processi di apprendimento sono influenzati da diversi fattori connessi alla percezione
delle proprie abilità, alla motivazione e alle strategie utilizzate per raggiungere i propri
obiettivi. L’apprendimento non si limita unicamente all’assimilazione passiva del sape-
re. La motivazione ad apprendere, gli interessi, le esperienze soggettive, gli stili di attri-
buzione spingono il soggetto verso una maggiore o minore applicazione. A tal proposito
si è a lungo discusso di motivazione intrinseca ed estrinseca. Nel primo caso l’individuo
svolge un dato compito per interesse o curiosità, mentre nel secondo caso si applica per
finalità esterne, quali ottenere premi e approvazione.

Studi e applicazioni

Il concetto di motivazione intrinseca è stato approfondito dalla Harter (1978), la quale


elaborò la teoria della motivazione di competenza o della “sfida ottimale”. Secondo
l’autrice la gratificazione deriva dal padroneggiare una condizione che comporti una
sfida. L’ottenimento di risultati positivi permette di rafforzare la motivazione di compe-
tenza e la percezione del controllo sull’ambiente, portando ad una conseguente diminu-
zione del bisogno di rinforzi esterni. Il processo che guida la motivazione sta alla base
di ciò che Bandura definisce perceived self-efficacy in un’ottica di cognitive self-
management, in cui il soggetto auto-monitora tutti i processi dell’apprendimento. Uno
dei campi in cui opera il senso di autoefficacia è quello della formazione.
L’insegnamento dovrebbe enfatizzare la motivazione intrinseca piuttosto che quella
estrinseca, promuovendo le convinzioni sia degli studenti che degli insegnanti circa le
proprie capacità di autoregolazione e apprendimento. La percezione dell’autoefficacia si
traduce a livello cognitivo, affettivo e motivazionale. Cognitivamente un’alta self-
efficacy comporta l’aspettativa di un successo e dunque un’elevata motivazione ad otte-
nerlo ed un minore stress connesso al compito. La percezione di poter sopperire alle ri-
chieste dell’ambiente facilita l’apprendimento. Allo stesso modo alla base della demoti-
123

vazione vi è un senso di sfiducia dell’allievo rispetto alle proprie competenze scolasti-
che. In una ricerca sul rapporto tra rendimento scolastico e sistema di attribuzioni in un
gruppo di studenti universitari si tentò di valutare le diverse attribuzioni in base alla
condizione universitaria e al numero di esami sostenuti. Dai risultati emerse che coloro i
quali presentano un sistema di attribuzioni interno hanno una carriera universitaria più
proficua poiché tendono ad impegnarsi di più e sono convinti di poter ottenere dei buoni
risultati. Attraverso lo sviluppo di un senso di autoefficacia collettiva e strategie di in-
tervento scolastico è possibile promuovere le competenze individuali e favorire anche lo
sviluppo del lavoro di gruppo. In tal modo il livello d’impegno, la persistenza e la scelta
delle attività vedranno un notevole incremento (Tomassoni, Pedata, 2002). Gli effetti
motivazionali dell’autoefficacia sono estendibili a più compiti dello stesso contesto.
Bouffard-Bouchard (et.al., 1991) constatarono che le prestazioni degli studenti i quali
avevano ricevuto un feedback positivo erano migliori, rispetto a quelle di alunni con le
medesime capacità ma precedentemente svalutati. Secondo Bandura l’alta self-efficacy
comporta anche maggiore pro-socialità, popolarità, accettazione dal gruppo dei pari ed
un incremento dello sviluppo cognitivo. Una delle strategie educative utilizzate per
promuovere la self-efficay è la peer education. Questa permette di operare il confronto
fra coetanei i quali si scambiano esperienze e punti di vista attraverso l’utilizzo del me-
desimo linguaggio. Tramite la peer education è possibile anche modificare lo stile di at-
tribuzione, imparando ad impegnarsi e ad investire sulle proprie scelte (Petruccelli, Ver-
rastro, 2003). In un contesto di educazione reciproca si sviluppa una forma di consape-
volezza rispetto le proprie capacità e si sperimenta un maggior senso di efficacy. Attra-
verso l’ascolto e la comunicazione efficaci si crea una relazione all’interno di un conte-
sto di gruppo informale. Il peer tutoring è utile anche nell’apprendimento creativo e nel
risolvere problemi motivazionali e di autostima. Il senso di empowerment si sviluppa a
partire dalla capacità di mobilitare le proprie risorse interne per affrontare determinati
compiti. Dunque non solo la self-efficacy ma tutte le competenze trasversali sono chia-
mate in causa. L’adolescente si sente libero di sperimentare situazioni nuove in cui im-
parare a gestire lo stress e sentirsi coinvolto nel processo di insegnamen-
to/apprendimento. Lo stress connesso a compiti difficili può infatti innescare
nell’alunno una forte ansia e tensione. In tal caso un’elevata self-efficacy comporta un
minor senso di ansia legato al compito (Niea, et.al., 2011). Un’ulteriore strategia
d’intervento è quella di mentoring , in cui si crea una relazione fra mentor e mentee per
raggiungere obiettivi concordati in base alle abilità da sviluppare. Il mentor influenza il
senso di identità del mentee assumendo di volta in volta il ruolo richiesto dalla situazio-
ne. La relazione che si crea tra mentor e mentee comporta lo sviluppo dell’autoefficacia
percepita (Chopin, 2012) Inoltre, gli insegnati dovrebbero promuovere delle strategie
motivazionali attraverso cui favorire l’autodeterminazione e la responsabilizzazione e
creare un clima di sostegno. Un intervento di orientamento si basa dunque sulla valoriz-
zazione di quelle competenze individuali troppo spesso inibite dagli schemi rigidi impo-
sti dalla formazione scolastica. Per poter educare gli studenti anche gli insegnanti devo-
no essere motivati e percepire un’ alta self-efficacy rispetto alle proprie competenze di
formatori. Le competenze trasversali non sono semplici da trasferire in quanto richiedo-
no un maggior dispendio di energia, tempo e denaro (Laker, Powell, 2011). Odierna-
mente l’apprendimento è un processo attivo che vede coinvolti alunni ed insegnanti en-
trambi con le loro capacità ed il loro impegno (Petruccelli, 2005). L’insegnante da una
parte potenzia la naturale motivazione ad apprendere dell’alunno, dall’altra impara
anch’egli ad autodeterminarsi (ibidem). Nelle aule si constata sempre di più una forte
demotivazione degli insegnanti che inesorabilmente viene trasferita agli alunni. Mentre
il padroneggiare non solo la disciplina ma anche le capacità di comunicazione e relazio-
ne è fondamentale per instaurare un clima di partecipazione e benessere.
124

L’apprendimento è favorito da un clima positivo, le sensazioni di serenità e tranquillità
al contrario del giudizio e della competizione, garantiscono una maggiore propensione
dell’alunno all’apprendimento. La bassa autoefficacia limita l’insegnate al solo utilizzo
di premi e punizioni per incentivare il giusto comportamento nell’alunno. Oltre
all’ambito della formazione anche nel campo professionale la self-efficacy ricopre un
ruolo importante. Le capacità fissatesi tramite l’esperienza lavorativa correlano positi-
vamente con l’autoefficacia. Gli impiegati con maggior anni di impiego hanno infatti
un’autoefficacia più alta rispetto a coloro i quali hanno meno anni di esperienza. Inoltre
la self-efficacy è connessa con altre competenze trasversali, quali la creatività, il pro-
blem solving e l’intelligenza emotiva che si influenzano reciprocamente nel contesto la-
vorativo (Khalid, Zubair, 2014). Diversi studi hanno constatato la presenza di un in-
fluenza della self-efficacy sia sulla performance lavorativa che in altri ambiti. Ad esem-
pio, vari programmi sulla prevenzione dall’AIDS si basano sullo sviluppo di capacità di
gestione della malattia. Attraverso l’informazione, una rete sociale di supporto e lo svi-
luppo della self-efficacy si permette all’individuo di gestire le situazioni ad alto rischio
e prevenire così la malattia (Bandura, 1990). Secondo Bandura la self-efficacy aiuta a
fronteggiare situazioni stressanti e a modificare eventuali comportamenti erronei e di-
sfunzionali. Le credenze circa le proprie capacità influenzano i meccanismi biologici e
la salute del soggetto. La percezione di non avere il controllo porta ad arrendersi di fron-
te agli stressors e produce un abbassamento delle difese con un conseguente peggiora-
mento dello stato di salute. Tra i comportamenti disfunzionali che possono essere modi-
ficati attraverso un’alta self-efficacy vediamo quelli alimentari. In uno studio sul paren-
ting e l’obesità infantile si è constatato come lo stile genitoriale basato sulla promozione
della self-efficacy influenzi il bambino nelle sue abitudini alimentari (Rhee, 2013). In
conclusione la self-efficacy è un costrutto altamente correlato con svariati concetti psi-
cologici e altre abilità trasversali e non, in quanto incide su di esse ed influenza il nostro
modo di percepirci, come agenti attivi e proattivi nel contesto.

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1
Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma.

129

130
Decision making

di Valeria Saladino1

Le origini del processo decisionale

Ogni giorno gli individui affrontano e sperimentano l’esperienza di dover effettuare una
scelta tra due o più alternative e spesso, dopo aver preso una decisione, molti si chiedono se
l’alternativa a cui si è rinunciato non fosse quella più apprezzabile e preferibile.
Ogni scelta comporta stress, e a tal proposito, lo psicologo H. Selye (1936) riferisce che lo
stress è un elemento che caratterizza la società attuale, una spia che mobilita le energie, in
modo da rispondere efficacemente agli stimoli.
Lo stress è positivo quando stimola le risorse utili per la gestione della scelta, mentre divie-
ne disfunzionale se comporta una perdita di energia ed una incapacità nel prendere una de-
cisione. Per tale motivo è importante comprendere i meccanismi propri del processo di scel-
ta che permettono di acquisire strumenti idonei per effettuare le giuste decisioni, in linea
con il proprio modo di essere. La scelta assertiva, consapevole e autonoma è dunque la
chiave per effettuare processi decisionali funzionali.
L’azione successiva al processo decisionale viene programmata e pianificata nella mente
dell’individuo, in funzione delle informazioni disponibili e dell’obiettivo prefissato.
L’indecisione nasce nel momento in cui l’individuo non è in grado di richiamare o ritrovare
le giuste informazioni, utili per poter valutare con razionalità le singole alternative per rag-
giungere l’obiettivo. Il valore nella scelta deriva dalla qualità del processo utilizzato da co-
lui che effettua la decisione.
Già Freud (1915) evidenziava che quando si è di fronte ad un ragionamento carente
l’individuo tende a soddisfare quel bisogno, osservava che quando la mente percepisce una
discordanza s’innescano spinte che motivano l’individuo a pianificare comportamenti volti
a soddisfare lo stato di bisogno.
La psicologia ingenua (Heider, 1958), fornisce assunti e principi teorici che aiutano ad in-
terpretare i fenomeni della vita, fondata da esperienze di ciascun individuo e dai valori di
riferimento della sua cultura. La psicologia scientifica, al contrario, spinge l’individuo ad
interpretare la realtà partendo da osservazioni multiple con metodi scientifici, così, egli ri-
ceve un aiuto più preciso, indirizzando meglio il processo di scelta.
Vi sono numerose modalità per influenzare l’individuo nei suoi processi, dalle euristiche di
giudizio ai processi subliminali, attraverso i quali si condizionano le scelte individuali e
collettive. In tutto ciò i valori rappresentano l’energia preponderante nel processo di deci-
sione. Kluckhon (1951) li definiva “una raffigurazione mentale, esplicita o implicita, distin-
tiva di un individuo, o caratteristica di un gruppo, di ciò che è desiderabile e che influenza
la selezione dei mezzi, delle modalità e mete d’azione”.
I valori si possono riscontrare dal modo in cui una persona interagisce con l’altra o dallo
stile di vita. Il loro potere è enorme, in quanto condizionano le scelte dell’uomo e suggeri-

131
scono ciò che è giusto, sbagliato o prioritario.
Il concetto di valore è un complesso di idee fuorvianti o collettive, usate come standard o
regole per criteri di condotta, sono raggruppati in sistemi di credenze, e fanno riferimento a
condotte su un ordine di importanza organizzate gerarchicamente.
La meta del cambiamento è quella di ridurre o eliminare l’insoddisfazione, o la frustrazio-
ne, e nel momento in cui un individuo apprende nuovi valori, questi vengono inseriti
all’interno del sistema neurale costruito. Spesso il comportamento è spinto da un solo valo-
re per un certo periodo di tempo, operando, attraverso processi inferenziali, in una rete di
altri valori e secondo un piano preciso. Quindi, il sistema è strutturato proprio per sciogliere
i conflitti e prendere decisioni più idonee. Quando invece sono attivati due o più valori,
l’individuo, per non vedere vanificato il raggiungimento e per poter prendere una giusta de-
cisione, prende in considerazione il proprio sistema interno.
Quindi, il cambiamento s’innesca quando viene percepita insoddisfazione di sé generata da
discordanze presenti nelle proprie percezioni soggettive.
Freud (1922), afferma che il Super-io è quell’istanza della nostra mente che condiziona le
regole e i valori di riferimento. Questa promuove il sentimento della colpa che ha il potere
di paralizzare l’individuo. Durante la presa decisionale la persona non riesce a rispondere
adeguatamente, nello stesso tempo si sviluppa un senso di colpa che si struttura anche in
quelle cose che non si possono dire o pensare. La pressione sull’Io è schiacciante e così
l’uomo non riesce s scegliere liberamente.
Berne (2000), a differenza di Freud, effettua una divisione concettuale, dividendo l’Io in tre
istanze:
• l’Io bambino, registro comportamentale infantile che racchiude quei comporta-
menti che si utilizzavano per attirare l’attenzione dei genitori. Secondo Berne, in
alcune situazioni di vita, quando non si riescono a trovare giuste soluzioni, si
può regredire ad un livello primitivo e tornare bambini.
• l’Io genitoriale, registro comportamentale riferito alle figure genitoriali, non ha
valore negativo né positivo, ma viene impiegato in modo adattivo nella realtà at-
tuale.
• l’Io adulto, che in base a valori ed esigenze decide il modo appropriato e re-
sponsabile di rapportarsi alla realtà.
Comprendere i valori sottesi il nostro agire diviene fondamentale per capire le nostre scelte
ed intervenire su di esse. Per tale motivo si può affermare che decidere e compiere delle
scelte è in realtà un’arte. Prendere una decisone significa scegliere a seguito di un’ attenta
valutazione, un’alternativa tra tante. Molte persone preferiscono esprimere una preferenza,
altre evitare di perdere o rischiare troppo, altre ancora lasciare fare al caso.
Emergono tre aspetti fondamentali nel decision making:
• essere posti di fronte a più opzioni fra cui scegliere
• essere consapevoli del rischio insito nella presa decisionale.
• valutare la propria decisione consapevolmente.
Giovanni Buridano (1290-1358) asserisce che la difficoltà di scegliere nasce quando le al-
ternative sono equivalenti e quando non si hanno indicazioni sufficienti e necessarie ad ef-
fettuare una giusta valutazione. Per questo l’individuo rimane in attesa e condizionato da
processi interni che impediscono di effettuare scelte libere ed assertive.
Vi sono persone che manifestano l’esigenza di comandare e di imporre la propria volontà,
altri invece si sottomettono, in entrambi si nota un’emozione condivisa: “la paura”.
La persona assertiva gestisce in primo le situazioni di difficoltà, effettuando la scelta in ba-

132
se alle sue conoscenze. Essere assertivi significa riconoscere i propri diritti e quelli degli al-
tri, secondo una corrispondente biunivoca. Le premesse per l’assertività sono date dai con-
cetti funzionalisti che compongono la saggezza dei rapporti sociali. Le abilità sociali dun-
que, sono stili di comportamento utilizzati in modo che la comunicazione e le relazioni sia-
no efficaci.
L’assertività è meglio definita come “sano egoismo”, proprio perché chi non è felice non
può assolutamente restituire felicità, chi non si stima non potrà mai dare sicurezza,
l’assertivo si rapporta agli altri senza farsi sottomettere e ricerca il proprio benessere da
persona libera e consapevole.
Questo presuppone un’alta considerazione e conoscenza di sé e modalità più efficaci per
esprimere pensieri, emozioni e comportamenti. La capacità di essere assertivo va sviluppata
nel tempo, attraverso un difficile percorso di ristrutturazione che parte dai propri insuccessi
e fallimenti.
La via più efficace per essere assertivi è un’educazione verso le competenze sociali, do-
vrebbe essere insegnata ai bambini sin dalla prima infanzia, ma è un obiettivo ambizioso e
difficile, implica rieducare l’adulto ai valori e alle norme sociali.

La psicologia della scelta

La psicologia della scelta studia le strategie utilizzate dalle persone per raggiungere le deci-
sioni, per gestire situazioni di incertezza ed anche per selezionare informazioni rilevanti
quando sono eccessive.
Queste strategie ci aiutano nelle scelte semplici e per gestire processi economici complessi.
In genere per risolvere un problema, si utilizzano prima informazioni presenti nel medesi-
mo problema, evitando di cercare altrove. Watzlawick (1971) suggerisce che per risolvere i
problemi bisogna favorire un cambiamento guardandoli attraverso nuovi punti di vista e
reagendo di conseguenza.
Le scelte disfunzionali tendono a mantenere il problema, limitando la possibilità di rintrac-
ciare nuove risorse per modificare la situazione.
Concentrandosi sul problema e sulle modalità risolutive che in passato hanno ottenuto risul-
tati positivi, si perde di vista l’obiettivo, inibendo nuove soluzioni che potrebbero essere
presenti oltre il proprio schema cognitivo.
Se in passato una soluzione ha avuto successo, più o meno consapevolmente tendiamo a
riutilizzarla. Questo processo prende il nome di “autoinganno” e comporta il ricorrere a so-
luzioni disfunzionali.
L’uso di strategie euristiche volte a organizzare lo spazio del problema o a recuperare in-
formazioni, permette di essere efficaci, ma non sempre è così.
Secondo la psicologia della scelta ogni decisione è legata a un processo mentale, spesso au-
tomatico e rapido, influenzato dal passato. Il processo della scelta può essere scisso in due
momenti: “Emotivo” e “Razionale”.
La componente emotiva comporta una valutazione immediata dello stimolo, che conduce a
due esiti valutativi: “mi piace” “non mi piace”. Se la condizione è etichettata come piacevo-
le scatta un impulso di attrazione; mentre se sgradevole, si ha una tendenza ad allontanarsi.
L’emozione che nasce in seguito alla percezione di un oggetto ritenuto attraente o sgrade-
vole non è sufficiente da sola ad innescare un comportamento automatico, poiché questo
viene valutato anche da un punto di vista razionale. La valutazione è influenzata dai valori
fondamentali che guidano l’agire dell’individuo, ognuno deve conoscere quali sono i valori
133
personali così che possa comprendere ed eventualmente modificare il proprio atteggiamen-
to. Ciò comporta un vero e proprio atto di volontà, ossia la tendenza o spinta all’agire che
viene innescata da una valutazione intuitiva ed emozionale, ma che necessita di una valuta-
zione razionale prima di trasformarsi in azione. Il processo si conclude in modo cosciente,
ed ognuno si sente soddisfatto di aver portato a termine il compito nel modo prospettatosi.
Nel processo intervengono variabili da tenere bene in considerazione perché condizionano
le scelte. L’oggi è influenzato dal passato e dal futuro, ogni decisione non scompare ma la-
scia un segno, così l’individuo viene condizionato da scelte future, definendo le euristiche
personali di fronte a situazioni complesse o informazioni incomplete.
Le euristiche esistono per il fatto che la struttura cognitiva umana è formata da un sistema
di risorse limitate, che non potendo risolvere i problemi algoritmici, si serve delle stesse
come strategie che semplificano la resa decisionale e la risoluzione di problemi.
Sebbene le euristiche funzionino correttamente, possono condurre alcuni a compiere errori
sistematici. Una delle motivazioni ricorrenti a tale modalità d’agire deriva dalla scarsa valu-
tazione dei problemi, che vengono presi in considerazione solo in alcune delle loro compo-
nenti. Ad un’analisi più accurata sul concetto di euristica, le informazioni recuperate dalla
memoria per risolvere il problema, non sono quelle più idonee, ma quelle più vivide, cioè le
informazioni alle quali l’individuo ha associato le emozioni più intense. Di seguito vediamo
quali sono le variabili che intervengono, in senso positivo o negativo, durante il processo di
scelta.
Innanzitutto, la memoria, che si basa su ricordi consapevoli ed inconsapevoli e permette ad
ogni individuo di apprendere dai propri errori ed individuare strategie più idonee per me-
glio gestire le situazioni.
Ogni situazione nuova richiama automaticamente esperienze simili sperimentate nel passa-
to, che hanno lasciato un’impronta emozionale affettiva non sempre e non necessariamente
consapevole. A seconda del tipo di emozione vissuta, la memoria influenza la percezione
della nuova situazione. Il risultato è una valutazione identica indipendentemente dalla tipo-
logia di stimolo. Inoltre la memoria affettiva tende sempre a generalizzare, ad associare un
effetto esperito in un dato elemento a tutta la classe di appartenenza. Ad esempio colui che
viene rapinato da un uomo di colore mentre fa una passeggiata, quando passeggerà per
strada, sarà portato a guardare con sospetto le persone di colore poiché generalizzerà
l’appartenenza razziale all’azione subita. Un altro fattore che interviene nel processo di
scelta, è l’immagine delle conseguenze future delle nostre azioni, che permette di percepire
e sperimentare le emozioni conseguenti eventuali esiti.
Ma cosa accade nella nostra mente quando ci troviamo davanti due scelte ugualmente at-
traenti o sgradevoli? Secondo Lewin possiamo immaginare un individuo impegnato nel ten-
tativo di trovare una risposta definitiva, come se si trovasse al centro di un campo di forze,
attratto da più stimoli di eguale intensità. Quando ciò accade, l’individuo sperimenta un
conflitto, che è in contrasto fra due tendenze ugualmente appetibili, ma di origine diversa,
cioè le due alternative sono desiderabili per alcuni aspetti e non desiderabili per altri. A
questo punto l’individuo necessita di un aiuto per effettuare una scelta, che potrà essere
presa con atteggiamento maturo, consapevole e assertivo.
Il processo decisionale non si lega ad un’azione immediata proprio perché influenzato dalle
emozioni. La scelta definitiva è possibile solo separando l’affettività dalla razionalità.
Essere assertivi nel compiere una scelta vuol dire non tanto essere motivati, quanto essere
guidati dalla volontà di perseguire quella strada. Molte persone di successo innescano un
forte processo volitivo proprio a seguito di una decisione di continuare un determinato per-
corso, rinunciando definitivamente all’alternativa.
134
Infine, ciò che crea disagio, non è la difficoltà di scegliere un’alternativa, ma il fatto di do-
ver rinunciare ad una di essa, in quanto si allontana da sé, e tanto più questa si allontana,
tanto più diventa attraente ed interessante, ad esempio il senso di malinconia che si prova
quando si pensa ai viaggi mai fatti, oppure alle esperienze mai vissute. L’abitudine di vive-
re nostalgicamente ciò che non si è fatto viene quindi valorizzato. Tanto più si vive nel
rimpianto e nella malinconia, tanto più ci si allontana dal godersi il presente e ciò che si è
conquistato.
Una teoria che si propone di studiare il processo del decision making è la teoria del prospet-
to, che può essere utilizzata per spiegare due fenomeni che costituiscono una violazione
della teoria classica della decisione: il sunk cost e l’endowment.
Il primo riguarda la tendenza degli individui a basare le proprie scelte su ciò che è stato de-
ciso precedentemente, cioè in funzione dei costi che sono già stati effettuati (sunk cost),
piuttosto che sulle valutazioni delle conseguenze future, come prescrivono i modelli norma-
tivi.
Arkes e Blumer (1985) hanno dimostrato che gli individui decidono in maniera differente
se vengono messi a conoscenza o meno dei costi già sostenuti e non più recuperabili. In
particolare, nel caso in cui le presone siano a conoscenza del fatto che è già stato investito
un certo capitale per un progetto, tendono a decidere di completare quel progetto, pur sa-
pendo che porterà a delle perdite. Invece, nel caso in cui essi non sappiano degli investi-
menti fatti precedentemente, preferiscono abbandonarlo.
Il secondo fenomeno, invece, si riferisce alla tendenza degli individui a ritenere che gli og-
getti posseduti (endowment) abbiano un valore superiore a quello che avevano al momento
dell’acquisto. In tal senso, le perdite vengono valutate più dei guadagni e viene manifestata
ritrosia a cedere un oggetto per il semplice fatto di possederlo (Thaler, 1980).
Un’altra teoria che descrive il processo decisionale è la “teoria naturalistica”, che si basa
sulla categorizzazione degli eventi.
Klein (1993) ha proposto un modello di decisione noto come riconoscimento sollecitato dal
contesto, che descrive come il decisore esperto affronta le situazioni dubbiose in tempi bre-
vissimi. Il modello è composto da tre elementi essenziali:
riconoscimento e comprensione della situazione,
• valutazione in sequenza delle azioni che potenzialmente possono essere adottate per
risolvere il problema
• simulazione dei risultati che potrebbero verificarsi adottando una determinata azio-
ne.
L’autore fa riferimento a situazioni particolari, come il comportamento di coloro i quali, es-
sendo ormai esperti di certe situazioni, prendono le proprie decisioni basandosi solo su pro-
cedure apprese in precedenza. Si è osservato che tali individui tendono ad assumere una
condotta non analitica ed a riconoscere che si tratta di una situazione per la quale è già di-
sponibile una qualche modalità d’intervento. In altre parole, la loro esperienza li porta a
considerare le situazioni come casi appartenenti ad una particolare categoria di situazioni
con cui hanno familiarità, alle quali corrispondono determinate reazioni. Gli esperti, pertan-
to, identificano immediatamente una specifica condotta di azione e, se questa non si rivela
adeguata, ne considerano un’altra che si adatta meglio alla situazione.
Alla base dell’approccio naturalistico si colloca la teoria dell’immagine (Beach & Mitchell,
1987). Tale teoria si basa sull’idea che il decisore scelga un’alternativa all’interno di un
ventaglio di opportunità, più o meno compatibili con diversi criteri. In particolare, gli indi-
vidui decidono in base ai propri valori, ai propri principi etici e alle proprie credenze, ma
anche in base agli obiettivi che si prefiggono di raggiungere in un determinato contesto.
135
Tali obiettivi possono essere concreti, come ottenere un particolare impiego, oppure astratti,
come migliorare il benessere individuale. Gli autori ipotizzano, inoltre, che gli individui
possiedano degli schemi mentali che rappresentano le azioni da seguire per raggiungere gli
obiettivi prefissati e le anticipazioni di eventi e stati futuri dei quali si prevede il verificarsi.
Vi sono due grandi classi di decisioni previste all’interno di questa teoria. La prima si rife-
risce alle decisioni di adozione, che riguardano l’acquisizione di nuovi obiettivi compatibili
con quelli già esistenti nella mente del decisore. La seconda classe, invece, si riferisce alle
decisioni di progresso, che determinano se il processo decisionale sta progredendo per rag-
giungere gli obiettivi prefissati. L’approccio naturalistico si differenzia dalle teorie norma-
tive e descrittive classiche perché pone in evidenza gli aspetti dinamici della presa di deci-
sione e cambia il punto di riferimento per lo studio delle decisioni. Secondo i principali
esponenti di tale approccio (Beach & Mitchell, 1987; Klein, 1993), non è adeguato definire
una scelta come più o meno razionale e logica, ma diventa importante considerare le rap-
presentazioni mentali degli obiettivi e delle azioni sottese alle decisioni stesse.
Nell’ambito della psicologia della decisione le euristiche (o “scorciatoie di pensiero”) sono
un concetto su cui fondare l’ipotesi per cui l’individuo elabora la sua decisione in modo es-
senzialmente spontaneo, non seguendo le teorie normative e probabilistiche. Esse sono pro-
cedure cognitive che consentono all’individuo di prendere una decisione compatibilmente
con la complessità della situazione e la limitatezza del suo sistema di immagazzinamento e
di elaborazione delle informazioni.
Un contributo sistematico all’indagine sul tema delle euristiche si è sviluppato agli inizi de-
gli anni ’70 ancora una volta ad opera di Kahneman e Tversky (1982).
Gli autori sostengono che “il giudizio intuitivo costituisce spesso l’unica modalità pratica
per valutare elementi incerti” (Ibidem)
Contrariamente a quanto succede nel calcolo formale, la valutazione immediata della pro-
babilità si fonda generalmente su regole che non prendono in considerazione tutti i fattori in
gioco.
Esistono alcuni fattori comuni a tutti i problemi di valutazione della probabilità che ne in-
fluenzano l’esito: le caratteristiche peculiari dell’oggetto di valutazione, il modo in cui è
formulato il problema, la chiarezza con la quale viene descritta la situazione, il modo in cui
è strutturato l’evento, quanto l’euristica influisce sul decisore e le abilità e competenze pos-
sedute dai soggetti. Tutti questi fattori influiscono, separatamente o in maniera combinata,
sul comportamento decisionale.
La valutazione euristica presenta alcune analogie con i processi più elementari di inferenza
percettiva, come l’attenzione non volontaria elicitata dagli oggetti presenti nel nostro cam-
po visivo, ed è difficilmente controllabile dal soggetto in quanto inconsapevole (Tversky e
Kahneman, 1981).
Il termine “valutazione euristica” fa quindi riferimento ad una strategia non deliberata, il
cui scopo è quello di produrre una valutazione o una previsione. Una volta attivata,
l’euristica tende a monopolizzare il processo inferenziale inducendo a sottovalutare, o addi-
rittura ad ignorare, elementi complementari. Sebbene gli individui siano carenti rispetto agli
standard normativi di razionalità, la loro capacità di modificare le proprie strategie in rela-
zione a cambiamenti, anche moderati, della struttura del problema decisionale esprime in-
dubbiamente una forma di razionalità. Ciò che rende estremamente interessante lo studio di
tali meccanismi di semplificazione, quali sono le euristiche, è proprio la funzione adattiva
che “suggerisce un quadro del decisore in buona sostanza ottimistico in termini di razionali-
tà del comportamento” (Payne, Bettman e Johnson, 1988).
Diversi autori sostengono che il giudizio euristico riduce il carico cognitivo e consente per-
136
tanto risposte rapide ed efficaci alla domanda decisionale (Hamilton e Gifford, 1976; Ni-
sbett e Ross, 1980; Mac Leod e Campbell, 1992). Tuttavia, è stato dimostrato che le euristi-
che possono portare a prendere decisioni sbagliate, incorrendo in errori di giudizio.
Una delle euristiche utilizzate nella presa decisionale è l’euristica della rappresentatività.
Il concetto di rappresentatività fa riferimento all’uso di schemi e categorie, in altre parole
alle strutture di rappresentazione di specifici domini della realtà dove l’individuo può as-
sumere informazioni percepite nell’ambiente e, conseguentemente, comprenderle.
Per rappresentatività si intende una valutazione del rapporto esistente tra un elemento di un
campione e l’universo di riferimento, tra un esempio e una categoria.
Questo concetto viene utilizzato per stimare la probabilità che un certo elemento appartenga
ad una determinata popolazione o categoria, oppure che un certo evento avvenga in con-
formità di una data ipotesi.
Nel primo caso il concetto di rappresentatività si riduce al concetto di somiglianza (Nisbett
e Ross, 1980). Ad esempio, un individuo viene definito rappresentativo di un determinato
gruppo sociale in virtù della somiglianza delle sue caratteristiche personali con i tratti che
definiscono in maniera stereotipica il gruppo. Nel secondo caso il concetto di rappresentati-
vità si traduce in termini di causalità, dove una determinata azione è rappresentativa di una
persona in quanto è possibile ricondurre ad essa la volontà di compiere quell’atto (Ibidem).
Sebbene vi siano situazioni in cui l’euristica della rappresentatività porti ad un giudizio
preciso e accurato, risulta evidente come proprio l’utilizzo di tale strategia comporti
l’insorgere di una considerevole quantità di bias.
La tendenza sistematica ad omettere un determinato evento può essere ricondotta proprio
all’utilizzo dell’euristica della rappresentatività, la somiglianza di un evento con gli ele-
menti di una categoria può indurre gli individui a non prendere in considerazione la quanti-
tà dei campioni a cui tali elementi appartengono (Kahneman e Tversky, 1973).
Altra euristica è quella della disponibilità, particolare strategia cognitiva usata in quelle cir-
costanze in cui le persone valutano la frequenza di un evento sulla base della facilità con
cui tale evento può essere richiamato alla mente e si presenta alla memoria.
Nel caso in cui la persona non disponga di dati precisi, farà probabilmente riferimento alla
sua conoscenza ricercando in memoria elementi che possano essergli di aiuto. La disponibi-
lità in memoria di tali elementi determinerà una maggior facilità con cui recuperare asso-
ciazioni legate ai ricordi o alle situazioni (Ibidem).
La facilità di recupero potrà essere considerata indicativa della frequenza dell’oggetto o
dell’evento ad esso connesso (Mac Leod e Campbell, 1992). Questo criterio ha una sua va-
lidità intrinseca, nel senso che spesso i dati confermano il giudizio intuitivo. Non sempre
però si verifica tale corrispondenza. Molto spesso il processo di memorizzazione si avvale
di meccanismi di revisione degli stimoli che modificano alcuni aspetti fondamentali della
realtà a cui si fa riferimento.
Questi processi possono facilmente portare a distorsioni di giudizio e a veri e propri bias.
Molta attenzione è stata posta al fenomeno della correlazione illusoria che si verifica quan-
do un soggetto pensa di poter individuare la compresenza di due eventi indipendenti, e ac-
cade quando, pensando ad un evento di un certo tipo, ci viene in mente anche un evento di-
verso e , di conseguenza, siamo portati ad inferire che entrambi gli eventi tendano a verifi-
carsi contemporaneamente.
La conferma delle nostre ipotesi avviene tramite meccanismi di attenzione selettiva, e mi-
rano ad individuare una spiegazione possibile al succedersi degli eventi (Hamilton e Gif-
ford, 1976).
Altre strategie cognitive sono l’ancoraggio, fenomeno per cui, dovendo fornire una valuta-
137
zione il soggetto utilizza un punto di riferimento, detto “ancora”. Molto spesso l’ancora è
costituita da un evento noto, il quale può essere un elemento familiare o proveniente da una
fonte autorevole o esperta. Successivamente, si procede all’accomodamento, ovvero si pas-
sa alla fase di analisi e di integrazione di tutte le informazioni disponibili. In altre parole, si
tende ad essere influenzati dalle informazioni fornite inizialmente, cioè dalle caratteristiche
della situazione all’interno della quale viene richiesto un giudizio.
Kahneman e Tversky (1973) hanno dimostrato come tali fenomeni costituiscano una delle
prime cause di errore nei meccanismi di valutazione delle probabilità, portando ad errori si-
stematici nella stima dei fattori del calcolo della probabilità.
Vi è anche l’illusione di controllo, tendenza sistematica che prevede la convinzione da parte
degli individui nel credere di avere una qualche possibilità di controllo della situazione tale
da poterne influenzare l’esito, anche quando quest’ultimo dipende esclusivamente dal caso.
Langer (1975) ci spiega, ad esempio, che c’è una tendenza a pagare di più il biglietto di una
lotteria di cui deve ancora essere estratto il numero vincente, che non quello di una lotteria
il cui biglietto vincente è già stato estratto ma non ancora rivelato.
L’illusione di controllo influenza anche numerosi comportamenti quotidiani, come ad
esempio la guida a velocità elevata o il mancato uso di cinture di sicurezza. Gli individui,
tendono a credere che gli effetti negativi di tali condotte si possano controllare grazie alle
proprie abilità. Si tratta certamente di una fiducia eccessiva ed ingiustificata dato che anche
un automobilista esperto non è in grado di controllare tutti i fattori che possono concorrere
a causare un incidente stradale (Rumiati, 2000). In ultimo vediamo la tendenza alla confer-
ma. Sembra infatti che gli individui basino il proprio giudizio su informazioni che confer-
mano le proprie ipotesi piuttosto che su informazioni che possono falsificarle. Ad esempio,
nel classico “Compito 2-4-6” di Wason (1966), ai soggetti veniva chiesto di scoprire
qual’era la regola con cui era stata generata una tripletta di numeri. I partecipanti sceglieva-
no rapidamente un’ipotesi, e tendevano a produrre dei casi coerenti con la regola ipotizzata,
senza considerare i casi che potevano falsificarla. Secondo Cherubini (2005) si possono di-
stinguere diverse tendenze che vanno sotto il nome generico di tendenza alla conferma. A
livello delle strategie di selezione delle ipotesi, vi è la tendenza a controllare solo un tipo di
previsione, con la conseguenza di confermare l’ipotesi inadeguata. Con l’interpretazione
degli eventi, vi è la tendenza ad attribuire scarsa importanza alle informazioni che falsifica-
no l’evento o a costruire solo rappresentazioni mentali di eventi coerenti con le proprie per-
sonali aspettative.
Nel complesso, l’azione di queste tendenze rende il sistema cognitivo piuttosto conservato-
re, infatti comporta il selezionare un numero limitato di informazioni, attribuendo scarso
peso a ciò che non coincide con le proprie convinzioni.

Il ragionamento induttivo e deduttivo

Il ragionamento acquisisce un’importanza fondamentale nel processo decisionale. Esistono


due tipologie di ragionamento. Il ragionamento induttivo, in cui vengono tratte conclusioni
generali a partire da premesse particolari, o da proposizioni particolari ad altre proposizioni
particolari verso quelle generali. Il ragionamento probabilistico invece è stato studiato in
relazione alle teorie matematiche della probabilità. Ad uno sguardo più attento, la probabili-
tà non è altro che il senso comune ridotto a calcolo, e il calcolo della probabilità è stato
considerato come metro per valutare le intuizioni. Di conseguenza, i calcoli probabilistici
spontanei sono erronei, per il fatto che sembrano discostarsi dalle regole normali. Attual-
138
mente vi è una tendenza a rivalutare i giudizi probabilistici, per il fatto che esistono inter-
pretazioni diverse della probabilità e questa prende maggior forza poiché si è dimostrato
come i fattori pragmatici sembrano avere forte determinazione, indipendentemente dalla
norma usata per valutarli.
Kahneman e Tversky hanno fornito un’interpretazione del ragionamento probabilistico in
condizioni d’incertezza. Secondo gli studiosi il ragionamento probabilistico risulta, per la
maggior parte, guidato da strategie di pensiero, le già citate “euristiche”.
La teoria classica della decisione (Lindley 1975-1990), prescrive come dovrebbero essere
prese le decisioni. Secondo questa teoria, una decisione dovrebbe essere presa scegliendo
tra le varie alternative, quella che produce il massimo grado di utilità attesa. Questo princi-
pio detto “massimizzazione dell’utilità attesa”. Alcuni teorici hanno abbandonato questo
principio considerandolo applicabile ad ogni tipo di situazione, cioè quando vi è una dipen-
denza causale tra stimolo ed azione e quando due eventi sono indipendenti. La seconda op-
zione, definita “teoria evidenziale della decisione”, valuta tutte le informazioni delle condi-
zioni che verificano le conseguenze. Da un punto di vista teorico, alcune scelte possono es-
sere prese non sequenzialmente, cioè effettuate sulla base delle conseguenze delle varie op-
zioni possibili. La scelta di una determinata alternativa può essere effettuata per il principio
della massimizzazione dell’utilità attesa, tra altre alternative possibili. Tale soluzione, pur-
troppo, è paradossale, in quanto si basa sulla considerazione delle conseguenze, che invece
sono processi già prefissati e decisi in passato. La scelta quindi non è consequenziale, infat-
ti non considera le conseguenze reali del momento, quelle derivanti direttamente dal pro-
cesso decisionale. La scelta si rappresenta infatti nel modo seguente: “se si sceglie X alter-
nativa…., si vedranno le conseguenze che sono state di…..”, quindi una scelta in base a un
“quid” del passato. Se invece si segue un ragionamento realmente consequenziale, la scelta
dovrebbe essere: “se il contenuto dell’alternativa X mi porta alla situazione Y…., allora
sceglierò ….”.
Secondo Sharif e Tversky, all’origine della scelta temporale vi è l’incertezza, infatti se
l’individuo conoscesse il risultato dell’alternativa X, non farebbe quella scelta. Quindi eli-
minando l’incertezza i soggetti non si comporterebbero allo stesso modo quando non sanno
a cosa porta quella decisione.
Questo tipo di scelte, allora, non sono consequenziali, esse non si basano sulle conseguenze
reali delle varie opzioni. In molti casi queste scelte violano il principio razionale della deci-
sione o “principio della cosa certa”.
Savage (1954-1972), evidenzia che se si preferisce l’alternativa X all’alternativa Y visto lo
stato attuale del mondo bisogna continuare a preferire X anche quando non si sa se la scelta
Y si verificherà o meno, Sharif e Tversky asseriscono che avviene una disgiunzione tra ciò
che si è verificato o non verificato.
Per riassumere, nei casi d’incertezza, si ha un effetto disgiuntivo in cui non si agisce. Le
persone si comportano come se ci fosse una regola, ossia seguono la scelta dettata dalla re-
gola, in quanto se l’esito è sfavorevole, non dipende dalla persona, ma dalla regola seguita.
Oltre l’incertezza, vi sono fattori legati all’impossibilità di rappresentarsi completamente
tutte le alternative possibili.
Shafir e Tversky (1992), nei loro studi asseriscono che i problemi decisionali sono simili a
quelli del ragionamento. La difficoltà a prendere in considerazione un’alternativa, calcolare
le conseguenze e l’utilità, è simile alle difficoltà che si riscontrano nell’uso del ragionamen-
to assurdo. Molti soggetti decidono di non decidere quando non conoscono l’esito
dell’alternativa. Legrenzi et al. (1993) affermano che molti soggetti, dovendo effettuare una
scelta, tendono continuamente a chiedere informazioni dell’azione stessa.
139
Secondo questa teoria, l’interpretazione basata sui modelli mentali, la focalizzazione di una
condizione senza contesto, dipende dalla rappresentazione mentale iniziale, effettuare una
scelta X o Y può essere rappresentata da due modelli disgiuntivi, il primo è esplicitato in
modo tale che il secondo possa essere implicito.
In conclusione, nel ragionamento deduttivo, sembra predire e influenzare il “Decision Ma-
king”, e spiega, anche se in minima parte, ulteriori fenomeni per effetto dei processi infe-
renziali che intervengono nei processi decisionali.

Neurofisiologia e correlati neurali nel “Decision Making”

Il processo decisionale è altamente influenzato dai circuiti cerebrali e dall’interazione di


specifiche aree del nostro cervello. Pazienti con lesioni nel lobo prefrontale, presentano una
limitazione nei processi decisionali con comportamenti disfunzionali ed inappropriati. Que-
sti comportamenti li portano a perdere il lavoro, ad essere instabili nelle relazioni interper-
sonali, a fare spesso investimenti finanziari fallimentari. Queste persone sono capaci di in-
teragire correttamente nei contesti sociali ma falliscono nelle situazioni reali (Damasio,
1994; Bechara et al., 1994; Anderson et al., 1999).
Damasio et al. (1994), nei loro studi ci informano che, i pazienti con lesioni nell’area or-
bitofrontale, anticiperebbero troppo le conseguenze delle loro azioni, comportando riper-
cussioni sui processi decisionali in quanto si troverebbero sprovvisti di informazioni fornite
dal sistema cognitivo.
Bechara et al. (1994) e Coricelli et al., (2007), propongono un’interpretazione diversa, rife-
rendo che la corteccia orbitofrontale modula al di sotto di una determinata soglia, grazie al
ragionamento contro fattuale tra risultato e alternative rifiutate. Gli individui in questa si-
tuazione, decidono senza avere sufficienti informazioni, e solo dopo che la decisione è stata
presa ne valutano le conseguenze.
Camille et al. (2004) e Coricelli et al. (2005), asseriscono che la corteccia orbitofrontale
moduli le emozioni, proprio con tali strategie contro-fattuali. La corteccia orbitofrontale
(OFC) integra componenti cognitive ed emozioni nell’intero processo decisionale ed ha un
ruolo importante nella regolazione dei propri stati d’animo. Camille et al. (2004), ci dicono
che le risposte emotive non dipendono dal valore dell’esito positivo o negativo, ma dal con-
fronto tra quello che abbiamo ottenuto e quello che avremmo potuto ottenere con una scelta
alternativa. Il rimpianto genera scelte con caratteristiche tali da evitare situazioni con emo-
zioni negative.
I soggetti sani scelgono situazioni che evitano il rimpianto futuro, guidati dall’anticipazione
dell’emozione negativa.
Coricelli et al. (2005) hanno riscontrato una notevole attività cerebrale della corteccia or-
bitofrontale durante l’esperienza del rimpianto e dell’anticipazione dell’emozione al mo-
mento della scelta.
L’esperienza delle emozioni negative induce un maggior coinvolgimento delle componenti
cognitive nelle scelte future. La scelta e l’eventuale risultato negativo, generano attività nel-
le aree lobulo parietale inferiore, nella corteccia prefrontale dorso laterale e nella corteccia
orbito frontale destra. Tali aree formano un circuito cerebrale associato al controllo cogniti-
vo. Quindi la corteccia orbitofrontale integra componenti emozionali e cognitive dell’intero
processo decisionale, un funzionamento anomalo di quest’area, genera comportamenti di-
sfunzionali e disadattivi.

140
Le neuroscienze considerano il ruolo importante della “corteccia prefrontale” nei processi
decisionali. Pazienti con danni di origine traumatica o vascolare in sede frontale hanno ri-
portato un’incapacità nella valutazione, ed una ricerca di evitamento delle conseguenze ne-
gative delle proprie azioni (Bechara, Damasio, Damasio, Anderson, 1994; Bechara, Tranel,
Damasio, 2000; Fellows; 2006; Fellows, 2007; Krawczyk, 2002; Kringelbach, Rolls, 2004;
Stuss, Levine 2002).
Anche in disturbi degenerativi come il Parkinson, si osservano deficit decisionali (Brand,
Labudda, Kalme, Hilker, Emmans, Fuchs, Kessler, Markiowitsch, 2004; Mimura, Oeda,
Kawamura, 2006).
La risonanza magnetica funzionale (fMRI), ha permesso di individuare i correlati neurali
del “decision making” in soggetti sani. Sulla base di queste nuove possibilità, è nato un set-
tore interdisciplinare di ricerca, la neuroeconomia, che raccoglie i contributi delle neuro-
scienze e dell'economia.
Le scienze economiche ci forniscono modelli sulle prese di decisione e la valutazione dei
rischi, apportano conoscenze su molteplici circuiti neurali coinvolti durante differenti tipo-
logie di decisione (Camerer, Loewnstein, Prelec, 2004; Sanfey, Loewenstein, McClure,
Cohen, 2006).
Gli studiosi che si occupano di questi temi, sono concordi sull’esistenza di due sistemi
principali coinvolti nei processi decisionali
Daniel Kahneman (2003) propone un modello a due sistemi:
• Sistema automatico, caratterizzato da processi mentali intuitivi ed affettivi;
• Sistema controllato, caratterizzato da processi deliberati e cognitivi.
Il primo sistema è quindi basato su processi di elaborazione emotiva delle informazioni,
elaborazione che avviene in modo intuitivo ed automatico, cioè senza il controllo cosciente
dell’individuo. Il secondo sistema si basa su processi di elaborazione cognitiva delle infor-
mazioni, elaborazione che avviene sotto il controllo deliberato dell’individuo
I tradizionali modelli sul decision making hanno ignorato l’influenza del Sistema automati-
co, cioè dell’elaborazione emotiva, spesso tale componente è stata giudicata come contro-
producente, considerando il processo decisionale tanto più efficace quanto più razionale e
non influenzato dalle emozioni.
Negli anni ’90 si è rivalutato il ruolo delle emozioni nel processo decisionale, Damasio
(1994) sostiene che durante i processi decisionali ci siano dei segnali somatici, basati su
un'elaborazione emotiva, automatica ed intuitiva delle informazioni in gioco, che aiutano
l'individuo nella scelta di un’alternativa piuttosto che di un'altra.
Quest’ipotesi non è del tutto accettata ed è ancora al centro di un dibattito tra i sostenitori
(Bechara, Damasio, 2005; Bechara, Damasio, Tranel, Damasio, 2005) e gli scettici (Maia,
McClelland, 2005).
Le moderne tecniche di neuroimmagine funzionale, quali la fMRI, hanno permesso di vede-
re in azione i due sistemi durante il processo decisionale, ed elaborare un quadro dei circuiti
neurali.
Il primo Sistema, quello automatico intuitivo ed affettivo, coinvolge strutture come
l’amigdala, la corteccia insulare, la corteccia orbitofrontale, la corteccia cingolata anteriore
ed il nucleo accumbens.
Il secondo sistema, quello controllato, deliberativo e cognitivo, coinvolge strutture quali la
corteccia prefrontale dorsolaterale, la corteccia prefrontale anteriore e la corteccia parietale
posteriore (Sanfey et al. 2006).
Il sistema affettivo predilige fortemente il “qui e ora” e considera molto meno le offerte
lontane nel tempo. La scelta di una ricompensa immediata stimola lo “striato ventrale” e la
141
“corteccia orbitofrontale”, aree ricche di innervazioni dopaminergiche (Hariri, Brown, Wil-
liamson, Flory, de Wit, Manuck, 2006).
Le aree prefrontali e parietali posteriori sono correlate alla pianificazione, al ragionamento
e alla scelta dell’ offerta più vantaggiosa, indipendentemente da quanto viene scartato
dall’area temporale.
La scelta di un’opzione va “interpretata”, quindi è il prodotto dell'interazione dell’attività
neurale di sottosistemi distinti, governati da parametri diversi (Sanfey et al., 2006).
Si può concludere che la corteccia orbitofrontale (OFC) è coinvolta nel sistema affettivo del
decision making, mentre le cortecce prefrontale dorsolaterale (DLPFC) e anteriore sono
coinvolte nel sistema deliberativo.
Sul ruolo dell’attività della corteccia prefrontale nei processi di decision making, ci sono
molti studi relativi a ricerche sullo sviluppo cerebrale in adolescenza; tale filone di studi ha
mostrato che, durante questo periodo di vita, il cervello va incontro ad un forte rimodella-
mento strutturale, soprattutto nella corteccia prefrontale.
In conclusione, il processo di scelta presuppone consapevolezza di valori fondamentali alla
base del proprio agire. Si può individuare un concetto universale: “fai ciò che è giusto, met-
titi in contatto con te stesso e vivi la tua stessa conoscenza”.
Essenzialmente l’individuo è costituito di due parti inscindibili e complementari, una parte
cognitiva e logica quindi razionale, e una emotiva, istintuale. Questo è riconoscibile anche
nel cervello, una parte destra e una sinistra, e nel processo evolutivo molte parti si sono di-
versificate, modificando le infrastrutture neuronali degli emisferi cerebrali superiori.
La suddivisione del cervello ci suggerisce che nelle sue funzionalità pensanti, sia anch’essa
duplice, ossia si può attribuire significato a ciò che osserviamo attraverso due modalità al-
ternative e complementari, la parte sinistra, con funzioni logiche-analitiche-deduttive, e la
parte destra intuitiva-induttiva-sintetica, e corrispondono a procedure differenziate delle at-
tività dei due emisferi.
È quindi molto importante comprendere come queste due modalità possano essere coordi-
nate e sviluppare un buon processo di scelta.
La creatività è quella capacità che sfrutta la plasticità cerebrale, così da poter rispondere al-
la realtà interna ed esterna, ed applicare le funzioni mentali di cui ogni individuo è in pos-
sesso.
Il problema della scelta giusta nasce quando non si ha la possibilità di accedere ai valori.
Ne consegue che l’ascolto di se stessi è un parametro fondamentale per poter uscire dal la-
birinto in cui si trova la mente che non riesce a trovare le giuste scelte da fare.
Per meglio favorire quest’ascolto, dovremmo dedicare del tempo a noi stessi ed impegnarci
a conoscere meglio gli aspetti profondi della nostra personalità, favorendo un continuo al-
lenamento della nostra mente, così da effettuare scelte idonee che soddisfino le nostre
aspettative profonde.

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1
Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma.

145

146
Gestione dello stress

di Maria Teresa Serranòi

Il concetto di stress e le principali caratteristiche

Lo stress rappresenta la risposta organica e psicologica che l’individuo fornisce


nell’affrontare le difficoltà reali e/o percepite che gli si presentano in una data situazio-
ne. Le situazioni stressanti sono, generalmente, quelle in cui il soggetto giudica le ri-
chieste esterne maggiori rispetto alle risorse personali, generando una situazione spiace-
vole che viene comunemente denominata stress.
Il grado di valutazione/sopportazione dello stress varia in base a determinati fattori sog-
gettivi quali, ad esempio, le esperienze passate del soggetto che influenzano la sua per-
cezione della situazione, le caratteristiche dell’elemento di stress, come ad esempio la
possibilità o meno di esercitare un controllo su di esso e/o la prevedibilità della sua
comparsa, i fattori biologici del soggetto, come la sua età o il genere.
Porre attenzione alla conoscenza e alla gestione dei fattori di stress offre al soggetto la
possibilità di sviluppare modalità di prevenzione, evitamento e fronteggiamento delle
situazioni stressogene che investono tanto la vita privata quanto l’ambito professionale.
L’origine del termine stress è prerogativa del settore ingegneristico, dove con stress si
denota una forza che viene applicata ad un materiale e che produce in esso una tensione
o un cambiamento meccanico.
L’attuale accezione di stress, quella che comunemente utilizziamo nella vita quotidiana
deriva dall’ambito psicologico, dove i primi studi possono essere ricondotti all’opera di
Cannon (1929), che analizzò i processi adottati dall’organismo umano per mantenere
costanti le caratteristiche chimico-fisiche interne anche al variare dell’ambiente esterno.
Cannon chiamò questo processo omeostasi, da homeo “simile” e stasis “condizione”.
L’obiettivo dell’attivazione organica era, per Cannon, il mantenimento dell’equilibrio
omeostatico sia da punto di vista fisico sia sul piano emotivo. Gli studi di Cannon erano
basati sull’idea del milieu intérieur, organismo interno, introdotta da Claude Bernard
nella seconda metà del XIX secolo per indicare le dinamiche biologiche degli organismi
viventi. Per Bernard, esistevano due tipi di ambiente o milieux: quello esterno, dove av-
venivano i fenomeni naturali descritti dalle scienze fisico-chimiche, e quello interno, il
medium, dove avevano luogo i processi organici (Bernard, 1865).
È, però, solo nella prima metà del novecento che, grazie agli studi del medico austriaco
Hans Selye (1936), viene coniato il termine stress per indicare le risposte
dell’organismo a particolari fattori esterni. Selye maturò i suoi studi dall’analisi del
comportamento degli animali in laboratorio analizzando le risposte, molto simili a quel-
le degli esseri umani, che gli animali davano a stimoli ambientali sia di tipo fisico –
quali rumori improvvisi o forti escursioni termiche – sia emotivi – quali rumori paurosi.
Selye stabilì l’esistenza di un continuum tra fisiologia e patologia, evidenziando come il
corpo risponde con una reazione aspecifica e generale allo stress.
Gli elementi della situazione stressogena così definita sono lo stressor, ossia, lo stimolo
esterno o la situazione a carattere sia negativo che positivo (ad esempio, la morte di una
persona cara o la vittoria di un premio importante) che interviene sul soggetto e lo

147
stress, ovvero la risposta generica dell’organismo allo stressor.
Se l’esposizione allo stressor è prolungata, la somma di tutte le reazioni che si manife-
stano nell’organismo viene definita da Selye Sindrome Generale di Adattamento (GAS
= General Adaptation Syndrome).
La Sindrome Generale di Adattamento (Fig.1) si articola in 3 fasi:
• Allarme: L’organismo si allerta e si attiva per affrontare lo stressor mettendo in
atto meccanismi di fronteggiamento (coping) sia fisici che mentali. A livello or-
ganico si ha l’attivazione del Sistema Nervoso Autonomo e in particolare del Si-
stema Simpatico (asse ipotalamo-ipofisi-surrene) che provoca aumento del batti-
to cardiaco, pressione sanguigna, tensione del tono muscolare ed arousal (atti-
vazione psicofisiologica).
• Resistenza: quando l’attivazione è prolungata l’organismo si sforza per adattarsi
e questo può portare alla formazione di ulcere gastrointestinali ed
all’ingrossamento delle ghiandole surrenali.
• Esaurimento: quando l’esposizione all’evento stressante si protrae per lungo
tempo, l’organismo viene sopraffatto e finisce per esaurire le energie impiegate
nell’adattamento provocando gravi danni che possono in alcuni casi condurre
addirittura alla morte.
La teoria di Selye riveste notevole importanza perché introduce una relazione tra stimoli
esterni pericolosi e reazione dell’organismo ed attribuisce il significato di adattamento e
conservazione all’azione organica. Lo stress, dunque, è qualcosa che non deve e non
può essere evitato, in quanto è l’essenza della vita stessa in quanto ogni organismo ne-
cessita di attivarsi per adattarsi all’ambiente e alle sue richieste ad esempio freddo, cal-
do, pioggia, etc. (Selye, 1971). Una data situazione può però divenire una condizione
patogena se lo stressor agisce con particolare intensità e per periodi di tempo sufficien-
temente lunghi.

Fig. 1. La Sindrome Generale di Adattamento di Selye


Secondo quanto sviluppato da Selye, è possibile distinguere tra due tipologie di stress:
• Distress: rappresenta lo stress negativo ovvero quello descritto nella terza fase
della Sindrome Generale di Adattamento ed è quello che, nel linguaggio quoti-
diano, additiamo comunemente come stress. Descrive le situazioni in cui si ha la
sensazione di non avere possibilità di riuscita e si ha la sensazione che le richie-
ste siano eccessive.
• Eustress: rappresenta l’eccitazione positiva che investe l’organismo in determi-
nate situazioni quali, ad esempio, vincere la lotteria, ricevere una promozione,
affrontare un esame, avere figli. In questi casi, la situazione di tensione viene
percepita come una sfida che può portare ad un successo oppure ad una sconfit-
ta, ma genera comunque stimoli positivi che tendono al raggiungimento di una
situazione soddisfacente.
Per affrontare al meglio ogni tipo di stress è necessario mantenere uno stato di equili-
brio. Livelli equilibrati di stress permettono infatti, un’attivazione soggettiva atta a rag-
giungere obiettivi e standard elevati nella prestazione.
148
Nella vita quotidiana si sperimentano giornalmente sia situazioni di eustress che di di-
stress e diversi sono gli studi che anno individuato i fattori fonte di stress riconosciuti
nei differenti paesi. Una delle indagini più complete è quella condotta online negli Stati
Uniti dalla Harris Interactive per conto della American Psychological Association tra il
3 agosto e il 27 agosto 2010 (American Psychological Association, 2010) e che ha coin-
volto 1.134 adulti residenti negli Stati Uniti, di cui 100 soggetti genitori di bambini di
età compresa tra gli 8 e i 17 anni.
Il rapporto conclusivo include anche i risultati di un sondaggio condotto online tra il 18
agosto e il 24 maggio 2010 che ha coinvolto 1.136 giovani di età compresa 8-17 anni.
I partecipanti sono stati classificati in gruppi in base all’Indice di Massa Corporea
(BMI) come: sottopeso (BMI inferiore a 18,5), normopeso (18,5-24,9), sovrappeso (25-
29,9) e obesi (30+) e in base all’età: Millennials (19-31 anni), Generazione X (32-45
anni), Boomers (46-64 anni) e Anziani (65 anni e oltre). I risultati sono stati pesati in
base alle esigenze per età, sesso, razza/etnia, istruzione, regione e reddito familiare tra
tutta la popolazione.
Dall’indagine è emersa la difficoltà delle famiglie americane nell’affrontare gli effetti
della prolungata recessione; in particolare risulta che il denaro (76%), il lavoro (70%),
le responsabilità familiari (73%) e l’economia (65%) rappresentino le maggiori fonti di
stress. Risulta in aumento, quale fonte di stress, la necessità di stabilità lavorativa che
viene menzionata dal 49% degli adulti rispetto al 44% nel 2009. Difficoltà nel concilia-
re lavoro e vita privata; mancanza di tempo da dedicare all’adozione di comportamenti
salutari per il proprio benessere (sport, corretta alimentazione, dormire a sufficienza)
rappresentano ulteriori fonti di stress che minacciano la quotidianità delle famiglie ame-
ricane. L’indagine ha permesso di evidenziare anche la correlazione tra cattive abitudini
alimentari e situazioni stressogene e descrivere le differenti reazioni allo stress, sia fisi-
camente che mentalmente, di uomini e donne. I risultati suggeriscono che, mentre le
donne sono più propense a riferire sintomi fisici associati allo stress e tendono a indica-
re il denaro (il 79 % rispetto al 73 % degli uomini) e l’economia (68 % contro il 61 %
degli uomini) come le principali fonti di stress, gli uomini sono molto più propensi a ci-
tare il lavoro quale fonte di stress (76 % contro il 65 % delle donne).
Concludendo, i risultati dell’indagine forniscono un’interessante fotografia dei fattori
stressogeni che quotidianamente investono la vita di ciascun individuo e sottolineano le
gravi conseguenze fisiche ed emotive di stress e il legame indissolubile tra la mente e il
corpo.

Lo stress e l’insorgenza di malattie

Numerose indagini hanno evidenziato la relazione tra stress e insorgenza di malattie fi-
siche e psichiche. In particolare, le indagini evidenziano due tipi di difficoltà in cui in-
corre l’organismo che affronta situazioni stressanti: difficoltà acuta e difficoltà cronica.
Lo stress acuto è generalmente intenso ma scompare in tempi brevi, a differenza di
quello cronico che si manifesta con minore intensità ma persiste più a lungo nel tempo.
Quando lo stress persiste nel tempo aumenta sensibilmente la possibilità che gli stati
emotivi ne risentano particolarmente e possano subire modifiche temporali incremen-
tando la gravità della situazione. Ad esempio, in conseguenza della perdita di una per-
sona cara, con il passare del tempo si può passare dalla rabbia al dolore, dal dolore alla
solitudine e dalla solitudine alla depressione in un crescendo di gravità.
Come descritto nel paragrafo precedente, la situazione ottimale di reazione allo stress è
di equilibrio rappresentato da stati di attivazione e disattivazione rapida, così da rag-
giungere solo raramente alti livelli di intensità che sono correlati all’insorgenza di ma-

149
lattie. L’attenzione di molti studiosi si è pertanto concentrata sullo stress prolungato nel
tempo quale causa di malattie. Importante in tale direzione è lo studio condotto da Hol-
mes e Rahe (1967) che si è proposto di calcolare il livello di stress accumulato da una
persona negli ultimi 12-24 mesi. Per effettuare queste analisi, gli autori hanno sviluppa-
to la Social Readjustment Scale (SRS) ovvero una scala composta da un elenco di 43
eventi potenzialmente stressanti (Life Crisis = Crisi di Vita) classificandoli in base al
punteggio di Life Crisis Unit (LCU) ad essi associato. Un LCU pari a 1 corrisponde a
un cambiamento significativo nel livello di stress di un individuo. Le Crisi di Vita iden-
tificate dalla SRS sono le seguenti (Tab.1):

Life Crisis Life Crisis Unit


Morte del partner 100
Divorzio 73
Separazione 65
Carcere 63
Morte di un membro della famiglia 63
Malattia 53
Matrimonio 50
Licenziamento 47
Riconciliazione matrimoniale 45
Pensione 45
Problemi di salute di un familiare 44
Gravidanza 40
Problemi sessuali 39
Arrivo di un nuovo membro in famiglia 39
Cambio di lavoro 38
Cambiamento a livello finanziario 38
Morte di un caro amico 37
Cambiamento nella linea di lavoro 36
Cambiamento nelle caratteristiche del matrimonio 35
Un grande mutuo o prestito 30
La preclusione di mutuo o prestito 30
Cambiamento a livello di responsabilità 29
Figli via di casa 29
Problemi con i parenti acquisiti 29
Raggiungimento di sorprendenti traguardi personali 28
Il partner inizia/smette di lavorare 26
Iniziare/finire la scuola/l’università 26
Cambiamento nelle condizioni di vita 25
Cambiamento nelle abitudini personali 24
Problemi con il capo 23
Cambiamento negli orari/condizioni di lavoro 20
Cambio di residenza 20
Cambio di scuola/università 20
Cambiamento a livello di tempo libero 19
Cambiamento nelle attività religiose 19
Cambiamento nelle attività sociali 18
A prestito moderato o un mutuo 17
Cambiamento nelle abitudini del sonno 16
Cambiamento nel numero delle riunioni familiari 15
Cambiamento nelle abitudini alimentari 15
Ferie 13
Natale 12
Minime violazioni della legge 11
Tab. 1. Crisi di vita individuate dalla SRS e relativi LCU

Secondo Holmes e Rahe le persone che negli ultimi 12-24 mesi avevano accumulato un
LCU inferiore a 150 sperimentano un livello di stress minimo. Chi, invece, aveva ac-
cumulato un punteggio di LCU compreso tra 150 e 199 sperimentava un livello medio
150
di stress, con il 33-35% di possibilità̀ di essersi ammalato nel corso degli ultimi 2 anni.
Chi aveva accumulato un punteggio di LCU compreso tra 200 e 299 sperimentava un
livello di stress alto, con una possibilità̀ di essersi ammalato negli ultimi 2 anni pari al
50%. Chi sperimentava un livello di stress grave aveva accumulato 300 o più LCU nel
corso degli ultimi 2 anni, con una possibilità̀ di essersi ammalato pari all’80%.
Lo studio di Holmes e Rahe si è concentrato sull’influenza degli stressor esterni anche
se, come è stato ampiamente dimostrato grazie ai diversi apporti scientifici, l’influenza
degli stressor sull’organismo dipende in gran parte dalla struttura di personalità̀ .
A sottolineare questi aspetti troviamo il lavoro di Friedman e Rosenman (1959 e 1960)
che suddividono i comportamenti umani in due gruppi: il Tipo A e il Tipo B. Gli indivi-
dui appartenenti al Tipo A sono quelli più esposti allo stress e presentano una maggiore
probabilità di soffrire di disturbi fisici e/o psichici dovuti alla pressione di eventi stres-
santi. Sono gli individui che si dimostrano molto ambiziosi, competitivi e con una note-
vole propensione a dedicarsi al successo professionale trascurando aspetti di vita priva-
ta, che vivono un continuo senso di impazienza, sentono sempre l’esigenza di fare più
cose contemporaneamente e in breve tempo e, anche quando raggiungono livelli ade-
guati di prestazione, si sentono insoddisfatti. In questi soggetti si osserva un facile svi-
luppo di atteggiamenti aggressivi con ostilità verso le altre persone del proprio ambiente
e tutto questo li porta in molti casi a soffrire di malattie cardiovascolari (infarto, ictus,
ipertensione, etc.). I soggetti di Tipo B invece, riescono invece ad adottare strategie di
fronteggiamento della situazione e quindi si ammalano di meno. Si tratta di soggetti
maggiormente rilassati che prendono la vita con filosofia. Si tratta di persone tenden-
zialmente pazienti e rilassate, che ascoltano molto i propri interlocutori, apprezzano i
momenti di tempo libero e sanno rilassarsi impegnandosi nel raggiungimento di un
obiettivo solo dopo aver conseguito quello precedente. La personalità di tipo B riesce
comunque a lavorare in modo metodico e proficuo, riuscendo a raggiungere livelli an-
che di notevole eccellenza, sa valorizzare i rapporti affettivi e gli aspetti creativi della
propria vita. L’appartenenza all’una o all’altra categoria non è statica ma può variare in
base alla risposta data dal soggetto all’evento stressante.
Proseguendo lungo questo filone di indagine, Rosenman e al. (1975) misero appunto
un’intervista strutturata accompagnata da una serie di osservazioni aggiuntive inerenti il
comportamento del soggetto durante il test. In particolare, gli studiosi si impegnarono a
raccogliere informazioni comportamentali e sulla personalità dei soggetti sulla base del-
le risposte fornite ad una serie di provocazioni quali pause e interruzioni del discorso
del parlante, operate intenzionalmente dal ricercatore con l’obiettivo di valutare la reat-
tività del soggetto e la sua tolleranza allo stress. A questa strategia vennero unite le in-
formazioni acquisite dalla compilazione di questionari self report utili a descrivere la
personalità del partecipante. Tale batteria di strumenti venne chiamata Western Collabo-
rative Goup Study e tra 1960 e il 1961, permise di analizzare gli esiti in follow up di un
campione 3524 uomini di età compresa tra 39-59 e impiegati in 11 società della Cali-
fornia reclutati in particolare nelle aree della Baia di San Francisco e di Los Angeles. I
soggetti individuati vennero sottoposti anche ad elettrocardiogramma per verificare
l’eventuale presenza di malattie cardiache e vennero reclutati solo soggetti che non ne
risultarono affetti. Dopo la proiezione iniziale, la popolazione dello studio è scesa a
3.154 partecipanti e il numero di aziende a 10 a causa di varie esclusioni. I risultati
dell’indagine confermarono che i soggetti di Tipo A hanno una probabilità doppia di
contrarre patologie coronariche. Studi successivi (Haynes e al., 1980) dimostrarono che
appartenere al Tipo A comportava fattori di rischio di contrarre anche altre malattie, tra
cui alta pressione sanguigna e alti livelli di colesterolo.

151
Stress, ansia e depressione: caratteristiche e differenze

Come già detto, lo stress non è necessariamente dannoso per l’organismo, purché non
superi determinati livelli. Definire, però, con esattezza quali siano questi limiti non è
possibile in quanto il livello soglia risente fortemente delle caratteristiche soggettive di
ciascuno. Vincere una gara o superare un esame può essere altrettanto stressante che
perdere una competizione o essere bocciati, innescando ugualmente risposte biologiche
da parte dell’organismo. Lo stress può generare anche un incremento di produttività
dell’organismo purché, però, il livello di stress rimanga al di sotto di una certa soglia
che, come detto, è estremamente soggettiva. Yerkes-Dodson (1908) hanno descritto la
relazione tra il livello di attivazione e la prestazione formulando la legge di Yerkes-
Dodson che attraverso una raffigurazione a U rovesciata descrive come, fino ad un certo
punto, all’aumentare del livello di stress aumenti anche il rendimento e la produttività.
Superata una certa soglia, però, ogni ulteriore aumento dell'impegno corrisponde un
peggioramento ed una diminuzione della prestazione, creando il tipico andamento della
curva ad U rovesciata. La legge di Yerkes – Dodson rende anche immediato visualizza-
re la differenza tra eustress e distress: la prima parte della curva, caratterizzata da un in-
cremento delle prestazioni e del rendimento, rappresenta l’eustress, mentre la seconda
parte, cui si associa una riduzione della prestazione, rappresenta il distress.
A livello organico, lo stress produce una sensazione di sovraccarico a cui il corpo ri-
sponde attivando il sistema nervoso e rilasciando ormoni quali il cortisolo e
l’adrenalina. Questi ormoni aumentano il battito cardiaco, la respirazione, la pressione
sanguigna, il metabolismo e la tensione muscolare, le pupille si dilatano e aumenta la
traspirazione corporea generando quell’attivazione corporea che aiuta a reagire rapida-
mente ed efficacemente per superare la situazione di stress.
Quest’attivazione organica può causare problematiche fisiche o psicologiche quali mal
di testa/stomaco, insonnia, ansia ed irritabilità, stanchezza, depressione.
A livello psicologico, in particolare, ansia e depressione causate da situazioni stressanti
risultano essere i processi maggiormente indagati dalla letteratura scientifica.
È necessario chiarire le differenze tra questi concetti in quanto i termini ansia e depres-
sione vengono confusi con lo stress e viceversa. Situazioni di eccessivo e prolungato
stress possono provocare sentimenti depressivi e manifestazioni ansiogene, ma in questo
caso si tratta di conseguenze.
La parola ansia deriva dal termine latino anxius che significa affannoso, inquieto e la
radice di questo termine è quella del verbo latino angere che vuol dire stringere, soffo-
care. L’ansia affonda le sue origini nell’inconscio e rappresenta uno stato psicologico
caratterizzato dalla costante attesa dell’insorgenza di qualche evento negativo e
dell’inadeguatezza delle proprie risorse nell’affrontare la situazione. Una persona stres-
sata è una persona caratterizzata da crisi ansiose e, pertanto, l’ansia può essere conside-
rata come un sintomo dello stress (Cassidy, 2002). A differenza dello stress, l’ansia è
più simile a una paura diffusa e generale nei confronti delle situazioni esterne.
Tra le varie forme di disturbo d'ansia, sulle indicazioni della classificazione diagnostica
del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM-V) da parte
dell’Associazione Psichiatrica Americana (APA) nel 2013, troviamo: Disturbo d’ansia
da separazione; Mutismo selettivo; Fobia Specifica; Disturbo d’ansia sociale; Disturbo
da Attacco di Panico (DAP); Agorafobia; Disturbo d’ansia generalizzato (DAG); Di-
sturbo d’ansia da condizione medica; Altro Disturbo d’ansia specifico; Disturbo d’ansia
non altrimenti specificato.
In questa sede, verranno approfonditi il Disturbo d’ansia sociale, il DAP e il DGA:
• il Disturbo d’Ansia Sociale riguarda un’eccessiva paura o ansia rispetto a una o
più situazioni sociali in cui l'individuo si trova ad essere esposto al possibile

152
giudizio degli altri. Gli esempi includono le interazioni sociali (nel corso di una
conversazione, nel conoscere persone), l’essere osservati (esempio durante il
mangiare o il bere) e le performance di fronte ad altri (una presentazione, un di-
scorso). La paura e l’ansia causano un disagio clinicamente significativo o una
menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti
del funzionamento sociale.
• il Disturbo di Panico si verifica nei momenti in cui il soggetto si sente improv-
visamente sopraffatto dall’ansia in maniera incontrollabile. Tale sensazione è
accompagnata da una serie di sintomi fisici quali tachicardia, sudorazione, senso
di svenimento, disturbi gastrici; oltre che da una immotivata paura che spinge
l’individuo a fuggire lontano dal luogo in cui la crisi di panico si manifesta. Un
attacco di panico è un improvviso aumento di intensa paura o disagio che rag-
giunge un picco in pochi minuti. In genere, il primo episodio di attacchi di pani-
co si manifesta in situazioni critiche/drammatiche della vita del soggetto, come
gravi incidenti o morti improvvise di persone care, mentre quelli successivi ri-
sultano inaspettati nel senso che, al momento dell’attacco, non c’è una situazio-
ne in grado di costituire motivo d’ansia. Spesso si tratta di situazioni routinarie,
come il passeggiare per strada, il guidare l’auto, l’andare al cinema o il fare ac-
quisti al supermercato.
• il Disturbo d’Ansia Generalizzato è caratterizzato da ansia diffusa e persistente
verso il futuro e si manifesta attarverso una paura sistematica dell’imprevisto,
caratterizzata da una attesa apprensiva degli eventi, anticipazione pessimistica
delle situazioni future e irrequietezza ed incapacità a rilassarsi. La persona che
vive il disturbo non riesce a godere di pensieri felici e positivi legati alla vita fu-
tura, ma teme sempre che accada un imprevisto negativo. Se trascurato, questo
disturbo può evolvere verso una depressione ed è per questo che generalmente si
consiglia un trattamento tramite psicoterapia e l'assunzione di ansiolitici.
• Per curare le situazioni ansiogene si può fare affidamento sia a trattamenti psico-
logici che a quelli farmacologici.
La depressione è un disturbo dell’umore molto diffuso i cui sintomi possono avere gra-
vità diversa nei diversi soggetti e nelle diverse fasi della malattia. Quelli più caratteristi-
ci e più frequenti sono umore triste, senso di abbattimento o di vuoto, pessimismo, an-
sia, talora irritabilità, perdita di interesse e distacco sia dalle attività che prima davano
piacere, compreso il sesso, sia dalle persone care.
Come per altri disturbi psichiatrici non c’è ancora una letteratura sufficientemente robu-
sta e condivisa sulle cause del disturbo. In generale, si può dire che cause della malattia
sono molteplici e diverse da persona a persona; tra le possibili cause della depressione
troviamo pertanto sia fattori di tipo psicosociale, sia di tipo genetico e biologico. In par-
ticolare, eventi psicosociali stressanti (cambiamenti nelle condizioni lavorative, l’inizio
di un nuovo lavoro, la malattia di una persona cara, cambiamenti di città, etc.) possono
giocare un ruolo significativo nell’insorgere del primo/secondo episodio di depressione
e avere meno importanza per l’esordio degli episodi successivi.
Diversi studi supportano l’ipotesi dell’ereditabilità della depressione: sembra, infatti,
che i figli di genitori depressi presentino un rischio più elevato di sviluppare depressio-
ne rispetto a quelli di genitori non affetti da depressione. Tra le cause della depressione
si hanno anche modificazioni a livello biologico nella regolazione di alcune sostanze,
come neurotrasmettitori e ormoni.
La caratteristica principale dei sintomi depressivi è la pervasività: sono presenti tutti i
giorni per quasi tutto il giorno per almeno 15 giorni.
Da quanto esposto, emerge come anche se ansia e depressione possono spesso presen-
tarsi come forme distinte e indipendenti di disagio psichico, la depressione si manifesta

153
spesso accompagnata dall’ansia, e all’origine dello stato ansioso vi è la situazione stres-
sante che può essere anche causa di insorgenza della depressione.
In uno studio pubblicato nel giugno 2015, Phillips e Douglas analizzano l’influenza di
eventi di vita stressanti sulla generazione di ansia e depressione. Lo studio ha coinvolto
due gruppi di soggetti: un primo gruppo di 732 soggetti di età pari a 44 anni e un secon-
do gruppo composto da 705 soggetti di 63 anni provenienti dall’ovest della Scozia.
Eventi di vita stressanti, depressione e sintomi di ansia sono stati misurati due volte a
cinque anni di distanza attraverso un’analisi incrociata che ha esaminato le influenze re-
ciproche tra i fattori.
Alla base dello studio vi era l’idea, ormai ampiamente riconosciuta, che gli eventi stres-
santi della vita incidano nella formazione e nello sviluppo della sintomatologia depres-
siva. Questo concetto è stato definito causazione sociale o stress causalità. A quest’idea
si aggiunge che il legame tra stress e depressione è bidirezionale e che le persone con
depressione incorrano in eventi stressanti (Hammen, 2006). Questo processo è definito
generazione di stress e sostiene che le persone con sintomatologia depressiva e disturbi
depressivi generano attivamente eventi di vita stressanti, a causa del loro stesso compor-
tamento e delle loro caratteristiche e tendenze comportamentali come cognizioni, valori
e tratti (Hammen 1991, 2006). Sulla base di precedenti ricerche condotte principalmente
da Hammen nel 2006, è stata ipotizzata la possibilità di osservare pari livelli di influen-
za tra generazione di stress e stress causalità sulla sintomatologia di eventi di vita stres-
santi. È stato, inoltre, ipotizzato che un effetto di generazione di stress possa verificarsi
anche in soggetti con elevati livelli di ansia. Le conclusioni tratte dall’indagine forni-
scono ulteriori prove del nesso di stress causalità per i sintomi della depressione, mentre
si riscontra una modesta correlazione con la generazione di stress. Al contrario, anche se
lo stress legato alla vita di tutti i giorni non è risultato legato a un aumento di ansia in un
periodo di cinque anni, gli individui con alti livelli di ansia sono stati più propensi a
produrre eventi di vita stressanti.

Strategie di coping

Gli effetti dello stress, secondo Steptoe (2010), possono essere classificati in quattro
aree: fisiologia, comportamento, esperienza soggettiva e funzione cognitiva. I fattori che
contribuiscono alle variazioni di questi effetti sono 1) la natura del fattore stressante, 2)
le risposte di coping, 3) la durata dell’esperienza, 4) i fattori genetici, 5) il temperamen-
to della persona, 6) l'esperienza precedente e 7) sostegno sociale disponibile. In questa
sede, verranno approfondite le strategie di coping utilizzate dai soggetti per fronteggiare
lo stressor. Il concetto di coping, dal verbo inglese to cope, letteralmente fronteggiare,
riguarda le modalità cognitive e comportamentali con cui un soggetto cerca di controlla-
re e rispondere ad una situazione stressante. I primi studi in ambito psicologico su que-
sto tema sono quelli riconducibili al lavoro di Anna Freud (1936) la quale scoprì che di
fronte a situazioni traumatiche, nonostante la varietà di meccanismi a disposizione, gli
individui tendono ad usare generalmente un numero limitato di strategie. Nella metà de-
gli anni ’60, gli studi sul coping iniziarono a rivestire notevole interesse con le teorizza-
zioni di R. Lazarus, il quale cercò di indagare come le persone affrontano gli eventi
stressanti della vita quotidiana (Lazarus 1978) e, soprattutto, quali situazioni generasse-
ro maggiori livelli di stress sottolineando la necessità di studiare tanto i fattori di perso-
nalità sia le caratteristiche del contesto in cui la situazione si verifica.
In base alle successive ricerche, Lazarus e Folkman proposero il modello cognitivo
transazionale (1984) secondo cui nessun evento non può essere descritto apriori come
stressante ma è tale solo nella misura in cui viene percepito come stressante dal sogget-

154
to. Lo stress è quindi inteso come un’esperienza soggettiva la cui entità è definita anche
dalle caratteristiche oggettive dello stimolo. Il coping, per gli autori, è pertanto un pro-
cesso dinamico in quanto risente della relazione reciproca tra individuo e ambiente ed è
intenzionale in quanto implica l’attivazione di risorse cognitive del soggetto atte a valu-
tare la situazione e decidere quali strategie adottare. La valutazione situazionale prodot-
ta dal soggetto è legata alle specifiche caratteristiche contestuali ed è soggetta a conti-
nua riconsiderazione in base agli effetti prodotti dalle strategie di volta in volta intrapre-
se.
Quando un evento viene colto, percepito e riconosciuto dall’uomo provoca
un’attivazione delle emozioni che rendono possibile la consapevolezza dell’evento e
delle risposte organiche automatiche da esso generate. La reazione emozionale, a sua
volta, non è innescata da qualunque stimolo ma solo da quelli in grado di penetrare
quella sorta di filtro, quello della valutazione cognitiva (Pancheri, 1984). Lazarus nei
suoi studi (Lazarus 1966; 1968; Lazarus e Folkman, 1984) mette in evidenza la predo-
minanza dei fattori cognitivi sugli aspetti genetici e socio culturali alla base della rea-
zione individuale allo stress. Sarebbe infatti secondo Lazarus di tipo cognitivo la valuta-
zione primaria attestante la presenza o meno di una minaccia; se la valutazione primaria
attesta la presenza della minaccia segue la valutazione secondaria che si occupa
dell’individuazione del tipo di azione necessaria per affrontare la situazione (coping).
Nelle teorizzazioni di Lazarus, i processi di coping si possono distinguere in azioni di-
rette sull’ambiente e azioni atte a gestire i processi intrapsichici. La scelta dell’azione da
intraprendere risentirà pertanto sia delle caratteristiche situazionali sia di quelle persona-
li dell’individuo. All’acquisire di nuove informazioni, l’individuo può rivalutare la si-
tuazione e variare le azioni di coping. Se, al contrario, l’individuo non si sente capace di
gestire la situazione, allora è alto il rischio che si produca stress.
Questo evidenzia la natura ciclica del processo e l’influenza reciproca tra gli elementi
coinvolti e come il coping possa essere analizzato sia a livello individuale che sociale.
I coping non sono tutti uguali ma possono essere classificati a livello funzionale in emo-
tion-focused coping (coping centrato sull’emozione) e in problem-focused coping (co-
ping centrato sul problema).
Il coping centrato sull’emozione ha l’obiettivo di regolare le emozioni negative prodotte
dalla situazione di stress e si esprime attraverso quattro fattori:
• distanziamento, ad esempio negando l’esistenza del problema;
• assunzione di responsabilità, ossia ritenersi più o meno responsabili della situa-
zione;
• autocontrollo, ovvero non lasciarsi trascinare dalle proprie emozioni
• rivalutazione positiva, ossia vedere la realtà da un punto di vista positivo (Car-
ver, Scheier e Weintraub, 1989; Amirkhan, 1990; Endler e Parker, 1993).
Il coping centrato sul problema, invece, ha l’obiettivo di individuare le modalità più
adatte a modificare o risolvere la situazione. Questo tipo di coping trova espressione in
due fattori: coping attivo e pianificazione. Esempi di questa seconda modalità di coping
sono l’analisi dettagliata della situazione, il ricorso ad aiuti esterni e la ricerca di infor-
mazioni.
Al fine di misurare il coping, nel 1980 Lazarus e Folkman (Folkman e Lazarus, 1980)
produssero il Ways of Coping Checklist (WCC), ossia un questionario articolato in due
sotto-scale dedicate rispettivamente alla misurazione del coping emozionale e del co-
ping orientato al problema per un totale di 68 item dicotomi - 40 per la sub-scala del
problem-focused e 24 per quella emotion-focused. - utili a descrivere le modalità utiliz-
zate da un individuo per far fronte ad un evento stressante. Per rispondere al questiona-
rio, i soggetti devono indicare se usano o meno le strategie proposte.

155
Nel 1985, rendendosi conto, attraverso una serie di analisi su campioni diversi, che il
WCC non rispecchiava adeguatamente la complessità e la ricchezza del processo di co-
ping, Lazarus e Folkman proposero una nuova versione del questionario il Ways of Co-
ping Questionnaire (WCQ), (Folkman e Lazarus, 1988), costituito da 66 item ad ognu-
no dei quali il soggetto deve rispondere in base ad una scala likert a 4 punti (da 0 = stra-
tegia non usata, a 3 = strategia usata moltissimo). Dei 66 item, 50 sono distribuiti in otto
sotto-scale che racchiudono le possibili strategie di coping da adottare nelle diverse oc-
casioni.
Partendo dalla dicotomia del coping, problem-focused ed emotion-focused, Carver e
collaboratori (1989) hanno messo a punto il Coping Orientations to the Problems Expe-
rienced (COPE), uno strumento composto da 52 item che fanno riferimento a 13 scale
(ogni scala è composta da 4 item). Successivamente è stata proposta una nuova versione
comprendente 60 item articolati su 15 scale ottenute mediante una serie di analisi fatto-
riali su campioni diversi. La versione italiana è a cura di Sica e coll. (1997). Delle 13
scale, le prime cinque sono sottocategorie del coping incentrato sul problema (problem-
focused) e le cinque successive di quello incentrato sulle emozioni (emotion-focused),
mentre le ultime 3 esprimono l’evitamento, la rinuncia. Nel 1997 lo stesso Carver ha
messo a punto una versione abbreviata dello strumento, il Brief COPE, che comprende
solo 28 item.
Il COPE è concepito come uno strumento di misura capace di valutare più sottili diffe-
renze individuali di coping e si è dimostrato capace di bilanciare la tendenza generale
del soggetto (come reagirebbe se...) con la risposta reale fornita nella situazione stres-
sante (come ha reagito …).
Altra importante classificazione delle strategie di coping è quella proposta da Endler e
Parker (1990) che circoscrivono tre tipi di coping: il coping centrato sul compito (task
coping), il coping centrato sulle emozioni (emotion coping) già descritti da Lazarus e
Folkman e aggiungono una terza tipologia di coping ossia quello centrato
sull’evitamento (avoidance coping) che riguarda il tentativo dell’individuo di negare o
minimizzare la gravità della problematica impegnandosi in attività diverse che distolgo-
no la sua attenzione dal problema e pertanto gli procurano un sollievo momentaneo o
cercando il sostegno sociale. Sulla base di questa distinzione, Endler e Parker (Endler e
Parker, 1990) hanno sviluppato il Coping Inventory for Stressful Situation (CISS) un
questionario composto da 48 item, 16 per ciascun fattore, ed ha mostrato ottime caratte-
ristiche psicometriche e può essere considerato, al momento, lo strumento tecnicamente
meglio riuscito. Il CISS, risulta particolarmente utilizzato in ambito clinico per valutare
le strategie di coping di individui affetti da malattie psichiatriche. L’impiego di questo
strumento in ambito clinico ha fornito interessanti informazioni sulle strategie più effi-
caci (pensiero positivo, esprimere le proprie emozioni).
Le prime indagini di settore si sono concentrate sull’idea del coping come una reazione
adattativa alle esperienze stressanti, una strategia reattiva utilizzata quando lo stress era
stato già sperimentato. Solo successivamente il coping è stato concettualizzato come
qualcosa che si può fare prima che si verifichi lo stress ponendo l’accento alla dimen-
sione temporale del coping rispetto alla situazione problematica.
La capacità di cogliere i segnali che preannunciano l’approssimarsi di problemi e
l’abilità di attivarsi per mettere in atto strategie per affrontarli prima che la situazione
stressogena si verifichi rappresenta un’importante risorsa umana. Questo processo pren-
de il nome di proactive coping (Greenglass, E. R. e Fiksenbaum L. 1999).
Questo tipo di comportamento richiede l’utilizzo di abilità di pianificazione, definizione
di obiettivi, capacità organizzative e capacità di elaborazione mentale, ma permette
all’individuo che lo adotta di migliorare la propria vita ed il proprio ambiente in quanto
agisce sugli eventi e non reagisce alle situazioni che lo investono.

156
Colui che utilizza il coping proattivo mette in campo non solo risorse soggettive ma an-
che risorse sociali adatte al raggiungimento degli obiettivi che si prefigge. L’attenzione
si sposta dal fornire una risposta agli eventi negativi alla costruzione attiva di opportuni-
tà, gestione dei rischi e visione positiva delle esperienze all’utilizzo di strategie attive di
pianificazione e scelta nel conseguimento dei propri obiettivi di vita.
Il coping proattivo può rivelarsi una risorsa cruciale per il benessere di adolescenti e
giovani in un contesto sociale complesso e caratterizzato dalla una alta impredicibilità
(Beck, 2000), permettendo loro di appropriarsi di risorse e delineare attivamente obiet-
tivi e progetti su cui investire a livello sociale.
Un approccio multidimensionale alla valutazione del coping proattivo è il Proactive Co-
ping Inventory – PCI (Greenglass e al., 2009) Il PCI è costituito da 55 item valutati su
una scala a quattro punti (da 1 = assolutamente non vero a 4 = assolutamente vero) arti-
colati in 7 sotto-scale che valutano vari aspetti di coping; scala del coping proattivo;
scala del coping riflessivo; scala della pianificazione strategica; scala del coping pre-
ventivo; scala della ricerca del supporto strumentale; scala della ricerca del supporto
emotivo; scala del coping di evitamento. Il PCI evidenzia come le strategie di coping ri-
sultino maggiormente efficaci quando gli atteggiamenti, le emozioni, gli elementi co-
gnitivi e comportamentali sono coerenti con il contesto in cui si sviluppa la situazione e
sottolinea come le risorse adottate dal soggetto per affrontare la situazione possano esse-
re sia personali (es. l’autostima), sia ambientali (es. sostegno sociale).
Brown e Nicassio (1987) descrivono due principali strategie di coping; strategie attive,
legate alla volontà da pare del soggetto di controllare e gestire la situazione stressante
mantenendo un buon livello funzionale e strategie passive, utilizzate nei casi in cui il
soggetto lascia agli altri la gestione della situazione stressogena e questa pervade nega-
tivamente altri aspetti significativi della sua vita.
Utilizzare in maniera efficace l’una o l’altra strategia dipende dalle caratteristiche situa-
zionali per questo motivo ogni soggetto dovrebbe mantenere una certa flessibilità per
adattare lo stile più corretto.

Un atteggiamento efficace: la resilienza

L’efficacia delle strategie utilizzate dai soggetti in situazioni stressanti è stata oggetto di
grande attenzione da parte dei ricercatori interessati al fenomeno della resilienza.
Il termine resilienza venne utilizzato per la prima volta all’interno di uno studio condot-
to da Werner e Smith (Werner e Smith, 1992). Werner, a partire dal 1955, per circa 30
anni, condusse una ricerca longitudinale su 698 neonati dell’isola Kauai (Hawaii). Circa
un terzo di questi neonati in base alle teorizzazioni della psicologia classica possedeva-
no tutti i prerequisiti per una prognosi di disagio psichico o sociale, in quanto esposti a
diversi fattori di rischio (nascita difficile, povertà, famiglie con problemi di alcolismo,
malattie mentali, aggressività, etc.). Contraddicendo le previsioni, un terzo di questi
bambini, settantadue per la precisione, erano riusciti in età adulta a migliorare la loro
condizione di vita ed erano diventati adulti in grado di avviare relazioni stabili, che si
impegnavano sul lavoro e si prodigavano per gli altri. Da questi dati emerse l’interesse
verso la conoscenza di quei fattori di protezione che possono favorire uno sviluppo ade-
guato ovvero la capacità di essere resilienti. L’attenzione degli studiosi a questo punto
venne spostata dalla mancanza, dalla privazione e dal disagio alla risorse individuali e
famigliari che consentono alla persona di equilibrare risorse e situazioni dolorose (che
pur rimangono nell’animo umano) trasformando l’esperienza dolorosa in occasione
formativa di crescita personale (Malaguti, 2005).

157
La persona resiliente è, pertanto, una persona comune dotata della qualità di resistere a
rotture e a alle situazioni faticose. La resilienza non è una caratteristica presente per tut-
ta la vita; anche per una persona dotata di qualità resilienti, infatti, possono esserci mo-
menti e situazioni troppo faticose da sopportare (Cyrulnik, 2001) ma, in generale, si
tratta di individui che hanno trovato in se stessi, nelle relazioni umane e nei contesti di
vita gli elementi e la forza necessari per superare le avversità.
La resilienza descrive quindi tanto uno stato-risultato quanto un processo attraverso cui
la situazione di resilienza viene raggiunta.
Uno dei modelli più interessanti sulla resilienza è quello proposto da Richardson e col-
leghi (Richardson, Neiger, Jensen e Kumpfer, 1990), secondo il quale essa sarebbe un
processo lineare applicabile ad individui, coppie, famiglia, scuola, comunità e gruppi.
Secondo questo modello, ogni individuo possiede delle qualità resilienti innate che ven-
gono rafforzate durante il corso della vita attraverso momenti di sospensione dello stato
di equilibrio, a cui segue una reintegrazione che può essere di quattro tipi:
• la reintegrazione resiliente è riferita al “processo di coping” che determina la
crescita, la conoscenza, la comprensione di se stessi e lo sviluppo delle capacità
resilienti;
• la reintegrazione che conduce all’omeostasi iniziale è riferita ad un ritorno alla
situazione precedente all’evento stressante, ma manca del momento di introspe-
zione ed interiorizzazione delle abilità resilienti. In questa possibilità, non è pre-
vista la crescita dell’individuo né lo sviluppo delle caratteristiche resilienti;
• la reintegrazione con perdita avviene quando le persone non sono più motivate
e rinunciano ad avere speranza nel futuro e, a differenza del ritorno allo stato di
omeostasi, le soluzioni che vengono scelte si dimostrano essere al di sopra delle
possibilità di gestione dell’individuo;
• la reintegrazione disfunzionale avviene quando le persone ricorrono a stupefa-
centi, a comportamenti distruttivi o ad altri mezzi per affrontare le avversità.
Un altro modello teorico interessante è quello proposto da Kumpfer (Kumpfer, 1999) e
basato su un approccio sistemico che considera la resilienza come influenzata da sei fat-
tori: eventi traumatici, contesti ambientali, fattori di resilienza interna, processi transa-
zionali tra la persona e l’ambiente, processo di resilienza, adattamento e reintegrazione.
Questo modello permette una visione organica del processo di resilienza ed esplicita
maggiormente l’importanza della relazione tra individuo e ambiente, attribuendo parti-
colare risalto agli elementi soggettivi presenti in questa relazione.
Numerose indagini hanno analizzato le abilità di risposta allo stress di fasce della popo-
lazione con l’obiettivo di descriverne le caratteristiche. Roberti, Harrington e Storch,
(2006) concentrandosi sugli studenti universitari negli Stati Uniti, riportano un gran
numero di fattori di stress cui gli studenti asseriscono di far fronte durante il percorso
universitario (ostacoli accademici, obblighi finanziari, pressioni temporali, necessità di
creare nuove amicizie e di vivere lontano da casa. Tutte queste sfide richiedono la mes-
sa in campo delle risorse di coping e la loro capacità di essere o meno resilienti. Questo
tema è stato approfondito attraverso uno studio cross-culturale condotto da Gnilka e col-
leghi nel 2015 (Gnilka e al. 2015) e che ha coinvolto studenti universitari degli Stati
Uniti e del Messico, due paesi caratterizzati da contesti culturali, economici, sociali, e
condizioni politiche molto diversi. L’obiettivo dell’indagine è stato indagare la perce-
zione dello stress, le risorse di coping e la soddisfazione di vita percepite dagli studenti.
Il campione è stato costituito da 206 studenti universitari messicani (41 maschi e 165
femmine) e 241 studenti di college americani (69 maschi e 172 femmine). Lo studio era
basato sul modello di stress transazionale (Lazarus e Folkman, 1984; McCarthy e al.
2000) che considera lo stress come il risultato di uno squilibrio tra le esigenze percepite
nel contesto e le risorse percepite nell’individuo per affrontare le situazioni. La perce-

158
zione di insufficienti risorse può aumentare la vulnerabilità dello studente, favorire il
suo consumo di droga, l’insorgenza di problemi fisici ed emotivi e la probabilità di ab-
bandonare il college.
Gli strumenti utilizzati sono stati:
• la Scala di Stress Percepito (PSS) di Cohen, Kamarck e Mermelstein (1983). La
PSS è un questionario su scala Likert - esistono attualmente tre versioni della
scala, rispettivamente a 4, 10 e 14 item - e rappresenta costituisce lo strumento
psicologico più utilizzato per misurare la percezione dello stress. Per la maggior
parte si tratta di domande di natura generale, riferite all’ultimo mese.
• l’Inventario Coping Risorse per Stress (CRIS) di Matheny, Curlette, Aycock,
Pugh, e Taylor, 1987). Il CRIS è composto da 280 affermazioni a cui il soggetto
deve rispondere vero-falso e misura 15 risorse di coping, basandosi su un model-
lo transazionale di stress (Lazarus e Folkman, 1984);
• la Scala di Soddisfazione della Vita Scale (SWLS) di Diener, Emmons , Larsen
e Griffin (1985). Il SWLS utilizza un punteggio misurato su scala likert a sette
punti. Esso è la misura più diffusa di soddisfazione di vita fino ad oggi .
Ognuno di questi strumenti era stato tradotto in spagnolo e poi tradotto nuovamente in
inglese per assicurare la comparabilità.
Dai risultati è emerso come gli studenti messicani – più giovani dei quelli americani
(22,5 anni contro 23,38 anni, rispettivamente) e in prevalenza single (88% contro 62%,
rispettivamente) riferirono maggiori livelli di soddisfazione di vita rispetto agli ameri-
cani, sebbene non vi fossero differenze significative su una misura di risorse complessi-
ve di coping. Inoltre, non furono riscontrate differenze nella soddisfazione di vita tra
maschi e femmine e questo risultato si è dimostrato coerente con altre ricerche intercul-
turali (Diener, e al, 2000;. Matheny e al., 2002).
Allo stesso modo, non vi sono state differenze nella percezione della quantità di stress
nella loro vita (PSS), anche se i soggetti maschi sono risultati essere più sicuri in se
stessi ed avere una maggiore forma fisica e capacità di problem solving.
Questa tendenza dei soggetti maschi a riferire maggiori risorse di coping rispetto alle
femmine si è dimostrata coerente con i risultati di studi che hanno avuto per oggetto
studenti turchi (Matheny e al., 2002) e studenti russi (Makhnack, e al., 1999).
In generale da questo studio risulta che fino a quando lo stress è percepito come basso,
la forza delle risorse di coping dello studente non è critica e quest’ultimo percepisce una
certa soddisfazione generale nei diversi aspetti di vita. Gli studenti con scarse risorse
possono quindi essere ragionevolmente soddisfatti della loro vita nei periodi di basso
stress mentre quando lo stress percepito passa dal livello moderato a grave le risorse di
coping tendono a ridursi e ciò produce l'effetto negativo dello stress sulla vita e sulla
soddisfazione personale.
Tornando al concetto di resilienza, in sintesi, troviamo che gli individui che hanno un
adeguato repertorio di risorse per affrontare gli eventi della vita e la capacità di ripren-
dersi dalle sfide che incontrano, tendono ad essere sempre più flessibili e adattabili, qua-
lità che sono essenziali per avere successo (Hiebert, 2006).

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Istituto per lo Studio delle Psicoterapie, Roma

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