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© LO SGUARDO – RIVISTA DI FILOSOFIA – ISSN: 2036-6558
N. 4, 2010 (III) - ANTROPOLOGIE/II
umano gli esiti del processo selettivo fossero diversi. La superiorità fisica
ora non è più premiata, poiché i deboli e i malati ricevono assistenza.
Subentra inoltre la divisione del lavoro, che comporta che l’attività degli
individui si svolga in conformità alle capacità di ciascuno, mentre nel
regno animale la selezione naturale mantiene gli individui al top in ogni
capacità necessaria alla sopravvivenza: «The action of natural selection is
therefore checked; the weaker, the dwarfish, those of less active limbs, or
less piercing eyesight, do not suffer the extreme penalty which falls upon
animals so defective»2.
L’essere umano è dunque l’unica specie vivente immune dagli effetti
prettamente organici della selezione naturale; ma dal momento in cui
viene a crearsi questa condizione, in virtù delle più sviluppate capacità
mentali proprie degli umani – truly human faculties –, il target della
selezione naturale verrà necessariamente a spostarsi su queste ultime; ha
avuto così inizio una nuova tipologia di evoluzione selettiva, la stessa ad
aver condotto la specie umana così al di sopra delle altre.
Nel prosieguo dell’articolo Wallace sfrutta questo punto di vista per
formulare una propria ipotesi circa l’origine delle razze umane. Se da un
certo momento in poi l’azione della selezione naturale si è spostata sulle
facoltà mentali, le attuali differenze morfologiche tra le razze umane
devono necessariamente essere anteriori a quel momento; saranno cioè
risalenti a un periodo in cui la specie umana era ancora poco sociale e
priva di linguaggio. Ora, in virtù dei suoi numerosi spostamenti, essa deve
aver subito altrettante modificazioni per adattarsi ai vari ambienti e climi,
che hanno prodotto le differenze che caratterizzano le popolazioni umane
come si presentano oggi. In tal modo, Wallace assumeva una posizione
che – egli sperava – avrebbe potuto mettere d’accordo gli antropologi: i
monogenisti avrebbero potuto continuare a sostenere la tesi di un origine
comune – sebbene solo morfologica – di tutte le razze umane; dal canto
loro i poligenisti avrebbero invece potuto stigmatizzare le differenze di
ordine mentale.
Non è necessario approfondire quest’ultimo aspetto dell’articolo di
Wallace, sebbene si tratti di un tema molto sentito all’epoca. Quello che
qui preme sottolineare è come egli intravvedesse una sorta di “evoluzione
dell’evoluzione” resa possibile dalla comparsa dell’umanità, in virtù della
quale, cioè, il processo selettivo avrebbe assunto dei connotati inediti, tali
da produrre un risultato unico all’interno del mondo vivente: una specie
altamente sociale e intellettualmente superiore. Difficile non scorgere in
tale posizione l’esigenza di assicurare alla specie umana un posto di
riguardo all’interno del grande albero della vita; presupposto che, in
Wallace, sarebbe sfociato, appena qualche anno più tardi, nel totale
abbandono della selezione naturale quale spiegazione plausibile
dell’evoluzione umana, sostituita da una sorta di “creazione speciale”
operata da un’Intelligenza suprema3.
Quella di Wallace non fu, in ogni caso, la sola ricezione
“antropologica” della teoria dell’evoluzione per selezione naturale tra
quelle anteriori alla pubblicazione dell’Origine dell’uomo. Se Wallace
2
Ivi, p. CLXII.
3
Per un eccellente confronto fra Darwin e Wallace sul ruolo della selezione naturale in
relazione all’evoluzione umana e sui motivi della deriva di Wallace, cfr. S. J. Gould, La
selezione naturale e il cervello umano. La posizione di Darwin e quella di Wallace, in Il
pollice del panda. Riflessioni sulla storia naturale, Il Saggiatore, Milano 2009, pp. 39-50.
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«La “novità” darwiniana finirà […] per imporsi non tanto (o non soltanto)
per la sua “verità”, quanto perché, presentandosi nel 1859 come selettiva,
concorrenzialista ed eliminatoria, avrebbe incontrato un’opposizione ed una
resistenza sempre minori man mano che si affermava e si consolidava un’altra
rivoluzione nell’ambito della produzione, delle pratiche sociali e delle relazioni di
mercato, mobilitando delle concezioni apparentemente analoghe» 4.
Così, tanto fra i suoi detrattori quanto fra i suoi sostenitori – con
l’eccezione, come ricordato, di Alfred Wallace –, è sempre e soltanto
attraverso questa griglia concettuale che il mondo ha ricevuto il
darwinismo, ed è sempre attraverso di essa che è stata letta L’origine
4
P. Tort, La seconda rivoluzione darwiniana, in L’antropologia di Darwin. La
laicizzazione del discorso sull’uomo, a cura di G. Chiesura, Manifestolibri, Roma 2000, p.
20.
5
Sulla questione dei rapporti tra Darwin e Marx, Tort si è occupato in Darwin, Marx e il
problema dell’ideologia, in L’antropologia di Darwin, cit., e in Darwin e la filosofia,
Meltemi, Roma 2006, in particolare cap. IV.
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P. Tort, La seconda rivoluzione darwiniana, cit., p. 22.
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È tuttavia il caso di notare come, a dispetto della vulgata, Spencer non possa affatto
essere definito un “darwinista sociale”. La competizione che egli aveva in mente, infatti,
era ben diversa da quella di Darwin. Per quest’ultimo, il processo selettivo non faceva
altro che premiare quegli individui che, del tutto fortuitamente, si ritrovavano a possedere
caratteristiche vantaggiose in un determinato contesto ecologico. Per Spencer, al
contrario, la competizione è ciò che stimola gli individui a migliorarsi; come spiega A. La
Vergata, Colpa di Darwin? Razzismo, eugenetica, guerra e altri mali, Utet, Torino 2009,
p. 50: «La concorrenza è una gara istituita provvidenzialmente, sì, per premiare chi arriva
primo, ma dopo aver costretto tutti i concorrenti a un costante allenamento: a furia di
correre migliorano le prestazioni di tutti i corridori, anche dei meno dotati». Spencer non
divenne mai darwiniano perché preferì una visione dell’evoluzione in cui il destino
dell’individuo – il suo successo o meno nella lotta – fosse soprattutto nelle sue mani.
8
P. Tort, Darwin e la laicizzazione del discorso sull’uomo, in L’antropologia di Darwin,
cit., p. 129.
9
Ibid.
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«[…] qualsiasi animale, dotato di istinti sociali ben marcati, compresi quelli
verso i genitori e i figli, acquisterebbe inevitabilmente un senso morale o una
coscienza [conscience], non appena i suoi poteri intellettuali fossero divenuti
tanto sviluppati, o quasi altrettanto che nell’uomo» 14.
12
P. Tort, Darwin e la filosofia, cit., pp. 69-75.
13
P. Tort, La seconda rivoluzione darwiniana, cit., p. 25.
14
C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Newton Compton, Roma 2001, p.
90.
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«Un essere morale è colui che è in grado di riflettere sulle sue azioni
passate e sui loro moventi, di approvarne alcuni e disapprovarne altri; e il fatto
che l’uomo sia un essere che certamente merita questo appellativo, costituisce la
distinzione principale tra lui e gli animali inferiori» 15.
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3. Obiezioni
«Nei selvaggi le debolezze del corpo sono subito eliminate; quelli che
sopravvivono, mostrano normalmente un vigoroso stato di salute. Noi
uomini civilizzati, d’altra parte, facciamo di tutto per arrestare il processo
di eliminazione; costruiamo asili per i pazzi, storpi e malati; istituiamo
leggi per i poveri ed i nostri medici esercitano al massimo la loro abilità
per salvare la vita di chiunque all’ultimo momento. Vi è motivo di credere
che la vaccinazione abbia salvato un gran numero di quelli che un tempo
non avrebbero retto al vaiolo. Così i membri deboli delle società
civilizzate propagano il loro genere. Nessuno di quelli che si sono
dedicati all’allevamento degli animali domestici dubiterà che questo può
23
C. Darwin, L’origine delle specie. Selezione naturale e lotta per l’esistenza, Bollati
Boringhieri, Torino 1967, p. 227.
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C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, cit., pp. 115-6, corsivi miei.
25
Cfr. P. Tort, Effetto Darwin, cit., pp. 76-8; l’ambiguità è invece rilevata da A. La
Vergata, Guerra e darwinismo sociale, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2005.
26
P. Tort, Effetto Darwin, cit., p. 80, corsivo mio.
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implica inoltre, cosa ancora più importante, non solo la vita dell’individuo,
ma il fatto che esso riesca a lasciare discendenza» 27.
27
C. Darwin, L’origine delle specie, cit., p. 132, corsivi miei.
28
Cfr. E. Sober, The Nature of Selection. Evolutionary Theory in Philosophical Focus,
University of Chicago Press, Chicago 1993.
29
Già nel 1967 Giuseppe Montalenti, nel suo saggio introduttivo a C. Darwin, L’origine
delle specie, Bollati Boringhieri, Torino 1967, aveva espresso questa realtà in maniera
chiara e netta: «Il concetto di selezione non è necessariamente legato a quello di lotta per
l’esistenza: un organismo poco adatto a un certo ambiente non prosperare e finisce per
estinguersi, anche senza che si possa parlare di vera e propria lotta con altri organismi
della stessa o di altra specie. La selezione non deve dunque necessariamente essere
rappresenta con quell’aspetto che argutamente fu da T. H. Huxley definito “gladiatorio”.
Anche l’espressione di Spencer adottata dal Darwin: “sopravvivenza del più adatto”, non
deve essere presa alla lettera, in quanto presuppone l’estinzione del meno adatto, che non
avviene sempre necessariamente. La selezione è oggi concepita come una “riproduzione
differenziale”: alcuni individui o alcune coppie contribuiscono, in misura maggiore di
altre, cioè con un maggior numero di discendenti, alla generazione successiva» (pp. 54-5).
30
J. A. Endler, Natural Selection in the Wild, Princeton University Press, Princeton 1986,
pp. 8-11.
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Dunque la selezione naturale non è, per Darwin, una forza attiva che
si esercita sugli organismi; essa è un effetto prima ancora di essere una
causa, ossia l’effetto delle interazioni tra gli organismi e la causa
principale del cambiamento evolutivo. Si tratta di un punto ovvio,
accettato da qualsiasi studioso che non sia meramente interessato a una
critica del darwinismo per scopi ideologici; tuttavia, talune proposizioni di
Tort testimoniano come l’immagine della selezione naturale come “forza
naturale” (in senso letterale) sia ancora sotterraneamente influente.
31
C. Darwin, L’origine delle specie, cit., p. 147.
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«Un essere morale è colui che è in grado di riflettere sulle sue azioni
passate e sui loro moventi, di approvarne alcune e disapprovarne altre; e il fatto
che l’uomo sia un essere che certamente merita questo appellativo, costituisce la
distinzione principale tra lui e gli animali inferiori 35».
33
C. Darwin, Notebook B 36, in Taccuini 1836-1844. Taccuino Rosso, Taccuino B,
Taccuino E, a cura di T. Pievani, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 137.
34
C. Darwin, L’origine dell’uomo, cit., p. 90.
35
Ivi, p. 457.
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