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Leibniz
Leibniz
Leibniz
Vita e opere
Opere
Nuovi saggi sull’intelletto umano (1704), composti per confutare i saggi di Locke;
Teodicea (1710), composta per confutare Bayle un protestante e scettico, nemico dei
dogmi e della teologia, sostenitore della tolleranza religiosa. Questa si può
considerare la sua opera maggiore.
Monadologia (1714), composta dietro l’invito del principe Eugenio di Savoia, che
aveva chiesto a Leibniz una sintesi delle sue teorie.
Pensiero
La monade
1. LA MONADE COME REALTA’ INESTESA E ATTIVITA’
La realtà, secondo Leibniz, non è formata da due sostanze, come voleva Cartesio; e
neppure di una sostanza sola, come voleva Spinoza; ma da infinite sostanze di natura
spirituale, cui egli da brunianamente il nome di monadi (dal greco monas, unità).
Infatti, sempre secondo Leibniz, la materia come estensione (res extensa) non esiste:
se noi consideriamo un corpo materiale, e procediamo su di esso per divisioni e
suddivisioni, dovremo fermarci a degli elementi primi, indivisibili o semplici, e
quindi inesistenti, immateriali, spirituali (monadi).
Tali monadi, oltre ad essere inestese, sono non passive, ma attive: come è dimostrato
dalla resistenza che oppongono i corpi, e che si manifesta sotto la duplice forma della
resistenza come inerzia e resistenza come impenetrabilità.
Si tratta di un’attività analoga a quella dell’anima umana, perchè l’anima umana è
l’unica cosa che noi conosciamo inestesa ed attiva, e quindi nella sua essenza simile
alle altre monadi: percezione, o potere che la monade ha di rappresentare e pensare le
cose esterne (ogni monade è uno “specchio vivo” dell’universo); e appetizione, o
tendenza di passare da percezioni confuse ed oscure a percezioni chiare e distinte
(appercezioni).
Concludendo: la materia e nella sua essenza una realtà inestesa ed attiva, mentre ai
sensi appare come una realtà estesa e passiva.
Secondo Leibniz in ogni monade vi è una continuità di percezione, per cui dalle
percezioni oscure e confuse si passa gradatamente (attraverso gradazioni
infinitesimali) alle percezioni chiare e distinte o appercezioni.
Tale trapasso è constatabile soprattutto nelle monadi razionali, ove esiste una grande
quantità di percezioni, che sono come il riflesso di tutta la vita dell’universo nel suo
passato e nel suo presente: tali percezioni, che Leibniz chiama piccole percezioni,
agiscono su di noi a nostra insaputa (cfr. teoria moderna del subcosciente), ma da
esse si vanno gradatamente sviluppando le percezioni chiare e distinte o
appercezioni; come, aggiunge Leibniz, dai rumori impercettibili che fanno le singole
gocce del mare risulta il rumore del mare medesimo.
Parimenti tra le varie monadi dell’universo vi è una continuità di monadi, per cui
dalle monadi dotate di percezioni oscure e confuse si passa gradatamente (attraverso
gradazioni infinitesimali) alle monadi dotate di percezioni chiare e distinte, cioè,
come già si è visto, dalle monadi materiali alle monadi razionali e a Dio.
In tal modo Leibniz applica alla psicologia e alla monadologia quel principio di
continuità che è fondamento del calcolo infinitesimale da lui stesso scoperto.
La monade e l’innatismo
Da quanto è stato fin qui detto, risulta che ogni monade ha tutto l’universo innato in
se stessa: ogni monade è “senza finestre” – dice Leibniz -, cioè non può entrare o
uscire da essa qualcosa ( cr. innatismo).
Ogni monade infatti è dotata di percezione o potere di rappresentare tutte le cose
esterne, il che significa che in essa la rappresentazione di un oggetto particolare non
suppone l’esistenza esterna di questo oggetto medesimo che impressioni la monade,
ma è il prodotto di un’attività propria della monade stessa.
Parimenti l’intelletto non è una semplice tabula rasa, che deriva passivamente le sue
idee dall’esperienza (cfr. Locke), ma è attività che sa trarre dalle percezioni, o idee
confuse ed oscure, le appercezioni o idee chiare e distinte.
Questa dottrina Leibniz chiama appunto innatismo virtuale delle idee, e le da
espressione conclusiva nella nota formula: nihil est intellectu quod prius non fuerit in
sensu, nisi intellectus ipse.
La monade e l’empirismo
Ma se la monade ha tutto innato e l’intelletto contiene virtualmente le idee, le idee a
loro volta derivano dalle rappresentazioni, in base alla legge di continuità: dalle
percezioni o idee confuse ed oscure, attraverso gradazioni infinitesimali, si
sviluppano, mediante l’attività dell’intelletto, le appercezioni o idee chiare e distinte
(cfr. empirismo).
In tale modo Leibniz supera il dualismo gnoseologico cartesiano, che poneva una
differenza qualitativa e un netto contrasto tra rappresentazione ed idea, e mediante, la
sua legge della continuità, trova un vincolo unitivo tra l’esperienza e lo spirito.
Le verità dell’intelletto si fondano a loro volta su due grandi principi: di
contraddizione e di ragione sufficiente.
Il primo governa le cosiddette verità di ragione, che hanno carattere universale e
necessari, e di ci possiamo dire non solo che sono, ma perchè sono, come ad es. le
verità matematiche.
Il secondo (che si potrebbe definire anche criterio del meglio) governa le cosiddette
verità di fatto, che hanno carattere apparentemente contingente, come ad es. le verità
della fisica; ma di cui il principio di ragione sufficiente ci rende ragione non solo del
fatto che sono, ma anche del perchè sono, cioè della loro sostanziale razionalità.
In tal modo Leibniz elimina la distinzione tra verità di ragione e verità di fatto, a
priori e a posteriori, dimostrando che tale distinzione è dovuta solo all’imperfezione
del nostro intelletto.
Giustificare l’esistenza del male significa quindi trovare la ragione sufficiente del
male metafisico.
Orbene. Dio, in base al principio di ragione sufficiente (principio del meglio), non
può avere creato che “il migliore dei mondi possibili” (ottimismo leibniziano).
Ma la creazione di un mondo qualunque, e quindi anche di quella del migliore dei
mondi possibili, non avrebbe potuto effettuarsi che alla condizione di creare degli
esseri imperfetti e finiti, poichè – in caso contrario – degli esseri perfetti e infiniti si
sarebbero confusi con lo stesso Creatore.
Lo stesso è da dirsi per il male morale, il quale, oltre ad essere necessario perchè
conseguenza del male metafisico, è pure necessario perchè senza di esso non vi
sarebbe il bene morale: infatti il peccato non è che la percezione confusa ed oscura,
come il bene morale consiste nella percezione chiara e distinta, per cui il primo è
condizione indispensabile per l’affermazione del secondo.
Lo stesso è a dirsi per il male fisico, il quale, oltre a essere necessario perchè
conseguenza del male morale, è pure necessario perchè senza di esso non esisterebbe
neppure il piacere, che consiste appunto nello sforzo per uscire dal dolore.
D’altronde, a conclusione generale, Leibniz afferma che, se il male nella sua triplice
forma è necessario, esso, esistendo nel migliore dei mondi possibili, è quasi
trascurabile rispetto al bene: tutto sta a badare al tutto e non alle singole parti, poichè
se Dio avesse voluto impedire l’atto infame di Sesto Tarquinio avrebbe dovuto dare
origine ad un mondo peggiore di questo.