Sei sulla pagina 1di 147

Terry Pratchett

Piedid ’argilla romanzo

Titolo dell’originale inglese:


FEET OF CLAY
Traduzione di Antonella Pieretti

ISBN 88-8451-515-7
Visita www.InfiniteStorie.it il grande portale del romanzo

Copyright © Terry and Lyn Pratchett 1996


Insegne di Stephen Briggs
First published by Victor Gollancz Ltd., London
Discworld® is a trademark registered by Terry Pratchett
Copyright © 2005 Adriano Salani Editore S.p.A.
dal 1862
Milano, via Gherardini 10
www.salani.it
Era una calda notte primaverile quando un pugno bussò alla porta con una forza tale da far piegare i cardini.
Un uomo la aprì e scrutò in strada. Dal fiume proveniva una nebbiolina ed era una notte nuvolosa. Come cer-
care di vedere attraverso un pezzo di velluto bianco.
Ma successivamente pensò che ci fossero state delle sagome là fuori, appena oltre la luce che filtrava sulla
strada. Parecchie sagome che lo avevano fissato con attenzione. Pensò che forse c’erano stati dei debolissimi
puntini di luce...
Però non c’era da sbagliarsi sulla cosa che gli stava di fronte. Era grossa, rosso scuro e pareva la figura di ar-
gilla di un uomo fatta da un bambino. Gli occhi erano due tizzoni ardenti.
«Be’? Che vuoi a quest’ora di notte?»
Il golem gli consegnò una lavagnetta su cui c’era scritto:
ci dicono che vuole un golem.
Era chiaro, i golem non potevano parlare, no?
«Oh. Volerlo, sì. Permettermelo, no. Ho chiesto un po’ in giro ma è incredibile i prezzi che chiedono di que-
sti tempi...»
Il golem sfregò via le parole dalla lavagnetta e scrisse:
per lei , cento dollari.
«Sei in vendita?»
no.
Il golem si scansò barcollando. Un altro entrò nel varco di luce.
Anche quello era un golem, si vedeva. Ma non uno dei soliti ammassi bitorzoluti di argilla che si vedevano
ogni tanto.
Questo riluceva come una statua lustrata di fresco, perfetta fino ai dettagli degli abiti. Gli rammentò una delle
vecchie immagini dei re cittadini, tutti postura altezzosa e taglio di capelli autoritario. In effetti portava anche
una coroncina modellata sulla testa.
«Cento dollari?» domandò l’uomo con sospetto. «Che cosa ha che non va? Chi è che lo vende?»
niente che non va. perfetto in ogni dettaglio. novanta dollari.
«Ho la sensazione che qualcuno se ne voglia liberare in tutta fretta...»
un golem develavorare. deve avere un padrone.
«Già, certo, ma si sentono delle storie... Che impazziscono e si mettono a fare troppe cose, roba del genere».
niente pazzia. ottanta dollari
«Sembra... nuovo» commentò l’uomo picchiettando un dito contro il petto scintillante. «Ma adesso nessuno
fabbrica più golem, ecco cosa tiene il prezzo fuori portata delle tasche delle piccole imprese...» Si fermò.
«C’è qualcuno che ha ricominciato a produrne?»
ottanta dollari.
«Ho sentito dire che i preti ne hanno proibito la produzione anni fa. Uno potrebbe cacciarsi in un sacco di
guai».
settantadollari.
«Chi lo ha fatto?»
sessanta dollari.
«Li vendono forse ad Albertson? O a Spadger e Williams? È già dura resistere alla concorrenza, loro poi
hanno i soldi per investire in un nuovo impianto...»
cinquanta dollari.
L’uomo girò attorno al golem. «Non si può certo stare seduti a vedere la propria impresa che va giù a causa
di uno sleale ribasso dei prezzi, voglio dire...»
quarantadollari.
«La religione è una gran cosa, sì, ma che ne sanno i profeti dei profitti? Ehm...» Sollevò lo sguardo sul golem
informe che si trovava nell’ombra. «Era ‘trenta dollari’ che ti ho appena visto scrivere?»
si.
«Mi è sempre piaciuto comprare in svendita. Aspetta un momento». Rientrò in casa e tornò fuori con una
manciata di monete.» Ne venderai a qui bastardi?»
no.
«Bene. Di’ al tuo capo che è un piacere fare affari con lui. Vieni dentro, Sunny Jim».
Il golem bianco entrò nell’edificio. L’uomo gettò un’occhiata da una parte all’altra, gli trotterellò dietro e poi
chiuse la porta.
Ombre più profonde si mossero nell’oscurità. Si udì un debole sibilo e poi, barcollando leggermente, le sa-
gome grosse e pesanti si allontanarono.
Poco dopo, dietro un angolo, un mendicante con la mano tesa e speranzosa di ricevere elemosina restò scon-
certato nel trovarsi all’improvviso più ricco di ben trenta dollari.1

***

Il Mondo Disco ruotava contro lo sfondo scintillante dello spazio, girando pian piano sulle groppe dei quattro
elefanti giganti piazzati sul carapace della Grande A’Tuin, la tartaruga del cosmo. I continenti si spostavano
pigramente, coperti da sistemi meteorologici che a loro volta ruotavano lenti in un movimento opposto al
flusso, come ballerini di valzer che volteggiano contro il turbine della danza. Un miliardo di tonnellate di ge-
ografia avanzava ruotando lentamente attraverso il cielo.
La gente spesso disprezza cose come la geografia o la meteorologia e non solo perché si trova in piedi sulla
prima e viene infradiciata dalla seconda. Non sembrano vere e proprie scienze.2 Ma la geografia non è che fi-
sica rallentata con piantato sopra qualche albero e la meteorologia è piena di caos e complessità molto trendy
e stimolanti. L’estate poi non è un periodo di tempo. È anche un luogo. L’estate è una creatura in movimento
e le piace trasferirsi a sud per l’inverno.
Perfino sul Mondo Disco, col suo piccolo sole orbitante che cala sul mondo che ruota, le stagioni si muove-
vano. Ad Ankh-Morpork, la più grande delle sue città, la primavera stava per venire scansata dall’estate e
l’estate pungolata sul sedere dall’autunno.
Geograficamente parlando, non si notava una gran differenza all’interno della città stessa, anche se in prima-
vera inoltrata il fiume era coperto di schiuma di un delizioso verde smeraldo. La foschia primaverile si tra-
sformava in nebbia autunnale, mischiandosi con i fumi e gli scarichi provenienti dal quartiere magico e dai
laboratori degli alchimisti fino a sembrare di avere una densa e soffocante vita propria.
Anche il tempo si muoveva.

***

La nebbia autunnale premeva contro i vetri delle finestre di mezzanotte.


Il sangue sgocciolava in un rivoletto attraverso le pagine di un raro volume di scritti religiosi che era stato
strappato in due.
Non ce n’era bisogno, pensò Padre Tubelcek.
Un pensiero ulteriore gli suggerì che non c’era nemmeno bisogno di colpire lui. Padre Tubelcek tuttavia non
si era mai preoccupato di questioni del genere. Le persone guarivano, i libri no. Allungò una mano tremante e
cercò di recuperare le pagine, ma si accasciò all’indietro.
La stanza stava vorticando.
La porta si aprì di scatto. Passi pesanti scricchiolarono sul pavimento... quanto meno un passo e una specie di
strisciata. Passo. Striscia. Passo. Striscia.
Padre Tubelcek cercò di mettere a fuoco. «Tu?» gracchiò.
Cenno di assenso.
«Tira... su i... libri».
L’anziano prete rimase a guardare mentre i libri venivano recuperati e accatastati accuratamente da dita non
troppo adeguate per quel compito.
Il nuovo arrivato prese una penna d’oca dalle rovine, scrisse con cura qualcosa su un pezzo di carta, quindi lo
arrotolò e lo sistemò delicatamente fra le labbra di Padre Tubelcek.
Il prete morente cercò di sorridere.
«Noi non funzioniamo così» sussurrò, col piccolo cilindro che penzolava come un’ultima sigaretta. «Noi... ci
facciamo... le nostre... p...»
La figura inginocchiata lo guardò per qualche istante e poi, con estrema attenzione, si chinò lentamente in
avanti e gli chiuse gli occhi.

***

1
In seguito a ciò si prese una sbronza coi fiocchi e venne imbarcato con mezzi illeciti a bordo di un mercantile diretto verso luoghi
stranieri e lontani, dove incontrò un sacco di signorine assai poco vestite e infine morì per avere pestato un piede a una tigre. Una
buona azione fa sempre il giro del mondo.
2
Cioé, del genere che può servire per applicare tre zampe aggiuntive a qualcosa e poi farlo saltare in aria.
Il Comandante Sir Samuel Vimes della Guardia Cittadina di Ankh-Morpork corrugò la fronte guardandosi al-
lo specchio e cominciò a radersi.
Il rasoio era una specie di spada della libertà. Radersi era un atto di ribellione.
In quel periodo c’era qualcuno che gli riempiva la vasca da bagno (ogni giorno!... non si sarebbe mai imma-
ginato che la pelle umana potesse sopportarlo). Qualcuno gli preparava i vestiti (e che vestiti!). Qualcuno gli
cucinava i pasti (altro che pasti!... stava ingrassando, lo sapeva). Qualcuno gli lucidava perfino gli stivali (e
che stivali!... niente rottami con la suola di cartone, ma spessi stivali perfettamente calzanti fatti di ottimo
cuoio lucido). C’era sempre qualcuno a fare quasi tutto per lui, ma c’erano cose che un uomo doveva fare da
sé e una di queste era radersi.
Sapeva che Lady Sybil disapprovava. Il padre di lei non si era mai rasato da solo in tutta la sua vita: aveva
una persona apposta. Vimes aveva ribattuto di avere passato troppi anni ad arrancare per le strade di notte per
poter essere contento che chiunque altro gli armeggiasse con una lama in prossimità del collo, ma la vera ra-
gione, la ragione sottaciuta, era che odiava il concetto stesso di un mondo diviso fra chi radeva e chi veniva
rasato. O fra chi indossava gli stivali lucidati e chi doveva ripulirli dal fango. Ogni volta che vedeva il mag-
giordomo Willikins piegare i suoi vestiti, i vestiti di Vimes, doveva reprimere un tremendo impulso di pren-
dere a calci il lustro sedere del maggiordomo in nome dell’affronto alla dignità umana.
Il rasoio si muoveva lentamente sulla barba cresciuta nella notte.
La sera precedente c’era stata una non meglio precisata cena ufficiale. Al momento non riusciva a ricordare
per che cosa. Sembrava ormai passare l’intera vita impegnato in eventi del genere, pieni di donne maliziose
che emettevano risolini e giovanotti bercianti che si erano ritrovati in fondo alla fila il giorno in cui avevano
distribuito i menti. Come al solito, era tornato a casa attraverso la città avvolta nella nebbia infuriato con se
stesso.
Aveva notato una luce filtrare da sotto la porta della cucina, aveva sentito chiacchiere e risate ed era entrato.
C’era Willikins con il vecchio che si occupava della caldaia, il giardiniere capo e il ragazzo che puliva i cuc-
chiai e accendeva i camini. Stavano giocando a carte. Sulla tavola c’erano bottiglie di birra.
Aveva preso una sedia, fatto qualche battuta e chiesto se poteva giocare. Erano stati... accoglienti. In un certo
senso. Mentre però il gioco procedeva, Vimes si era accorto che l’universo gli si stava cristallizzando intorno.
Aveva avuto la sensazione di diventare una rotella dentata in un orologio di vetro. Non si sentiva più ridere.
Avevano continuato a chiamarlo ‘Sir’ e a schiarirsi la gola. Era stato tutto molto... circospetto.
Alla fine lui aveva borbottato una scusa ed era uscito incespicando. A metà del corridoio gli era sembrato di
sentire un commento seguito da... be’, forse era stato solo un risolino.
Ma poteva essere stato un ghigno.
Il rasoio circumnavigò con cautela il naso.
Puah. Un paio di anni prima un uomo come Willikins gli avrebbe concesso di entrare in cucina solo di mala-
voglia. E gli avrebbe fatto togliere gli stivali.
E così adesso è questa la tua vita, Comandante Sir Samuel Vimes. Uno sbirro borioso per i nobili e un nobile
per tutti gli altri, eh?
Guardò con espressione corrucciata il riflesso nello specchio.
Era vero, era partito dalle fogne. Adesso invece si trovava con tre pasti al giorno, ottimi stivali, un letto caldo
di notte e, volendo puntualizzare, anche una moglie. La buona vecchia Sybil... anche se ultimamente tendeva
a parlare di tendine, ma il Sergente Colon aveva detto che era una cosa che accadeva a tutte le mogli, che era
un fatto biologico e perfettamente normale.
In effetti lui era stato molto affezionato ai suoi vecchi stivali da poco prezzo. Riusciva a leggerci la strada,
tanto le suole erano sottili. Riusciva a dire dove si trovasse in una notte nera come la pece sentendo la forma
dei ciottoli. Oh, bene...
C’era qualcosa di strano nello specchio da barba di Sam Vimes. Era leggermente convesso, così da riflettere
una parte un po’ più larga della stanza di quanto non avrebbe fatto uno specchio piatto e da fornire un’ottima
vista degli edifici attorno alla struttura principale e dei giardini al di là della finestra.
Uhm. Un po’ meno folti, lassù. C’era decisamente una bella stempiatura. Meno capelli da pettinare ma, in
compenso, Più faccia da lavare...
Notò un movimento indistinto nello specchio.
Si lanciò di lato, abbassandosi.
Lo specchio si infranse.
Si avverti un rumore di passi provenire da un punto imprecisato sotto la finestra rotta, quindi uno schianto e
un grido.
Vimes si riportò in posizione eretta. Ripescò il pezzo più grosso di specchio dal catino e lo appoggiò sul nero
dardo di balestra che si era infilzato nella parete.
Finì di radersi.
Suonò quindi il campanello per chiamare il maggiordomo. Willikins si materializzò. «Sir?»
Vimes sciacquò il rasoio. «Per favore, manda il ragazzo dal vetraio».
Lo sguardo del maggiordomo si posò sulla finestra e poi sullo specchio infranto. «Sì, signore. E la fattura de-
vo mandarla nuovamente alla Gilda degli Assassini, signore?»
«Con i miei complimenti. E già che è fuori deve fare un salto fra la Quinta e la Settima a prendere un altro
specchio per radermi. Il nano che gestisce il posto sa che tipo voglio».
«Sì, signore. Vado subito a prendere una paletta e spazzo, signore. Devo informare sua signoria di questo av-
venimento, signore?»
«No. Dice sempre che è colpa mia perché sono io a incoraggiarli».
«Molto bene, signore» commentò Willikins. Si smaterializzò.
Sam Vimes si asciugò e scese le scale verso la zona giorno, dove aprì una credenza e tirò fuori la nuova bale-
stra che Sybil gli aveva donato come regalo di nozze. Sam Vimes era abituato alle vecchie balestre della
Guardia che avevano l’insana abitudine di rinculare in condizioni critiche, ma questa era un pezzo di Bur-
leigh e Fortebraccio fatta su misura con il manico in noce ben lustrato. Non ce n’erano di migliori, si diceva.
Scelse quindi un sigaro sottile e si incamminò verso il giardino.
C’era un gran trambusto che proveniva dal capannone dei draghetti. Vimes entrò e si chiuse la porta alle spal-
le. Appoggiò la balestra contro la porta
Lo stridore e il fracasso aumentarono. Piccoli getti di fiamma sbuffarono al dei sopra delle spesse pareti dei
recinti di cova.
Vimes si sporse sul più vicino. Sollevò una draghetta appena dischiusa e le fece una grattatina sotto il mento.
Mentre fiammeggiava eccitata, lui si accese il sigaro e si gustò una boccata.
Spedì un anello di fumo verso la figura che pendeva dal soffitto. «Buongiorno» gli disse.
La figura si contorse freneticamente. Attraverso una sconcertante prodezza di controllo muscolare, era riusci-
ta ad agganciarsi con un piede a una trave mentre cadeva, ma non riusciva a risalire. Di scendere non se ne
parlava nemmeno: sotto c’era una dozzina di cuccioli di drago che saltellavano su e giù sbuffando fuoco.
«Ehm... buongiorno» rispose la figura penzolante.
«È venuto di nuovo bello» disse Vimes, sollevando un secchio di carbone. «Anche se sospetto che più tardi
calerà di nuovo la nebbia».
Prese un pezzo di carbone e lo gettò ai draghetti, che cominciarono a litigarselo.
Vimes prese un altro pezzo. Il giovane drago che aveva preso il primo pezzo di carbone mostrava già una
fiamma ben più lunga e più calda.
«Immagino» disse il giovanotto, «che non riuscirò a convincerla a farmi scendere, vero?»
Un altro draghetto prese del carbone e ruttò una palla di fuoco. Il giovanotto oscillò disperatamente per evi-
tarla. «Provi a indovinare» rispose Vimes.
«Sospetto, ripensandoci, che sia stato sciocco da parte mia scegliere il tetto» disse l’assassino.
«È probabile» commentò Vimes. Alcune settimane prima aveva passato svariate ore a segare travetti e a
piazzarci sopra in equilibrio le tegole del tetto.
«Avrei dovuto scavalcare il muro, usando la boscaglia come copertura».
«Forse» osservò Vimes. Nella boscaglia aveva piazzato una trappola per orsi.
Prese dell’altro carbone. «Immagino non mi voglia dire chi l’ha assoldata, vero?»
«Temo di no, signore. Conosce le regole».
Vimes annuì con espressione grave. «La settimana scorsa abbiamo dovuto portare il figlio di Lady Selachii
davanti al Patrizio» disse Vimes. «Quello sì è un ragazzo che ha bisogno di imparare che ‘no’ non significa
‘sì, grazie’».
«Potrebbe essere, signore».
«E poi c’è stata quella storia con il figlio di Lord Ruggine. Non puoi sparare ai servitori perché ti hanno si-
stemato le scarpe al contrario, sa? Troppa confusione. Dovrà imparare a distinguere il diritto dal rovescio
come tutti noi. E anche il diritto dal dovere».
«Capisco quel che vuol dire, signore».
«Pare che abbiamo raggiunto un punto di stallo» osservò Vimes.
«Pare proprio così, signore».
Vimes lanciò un pezzo di carbone a un piccolo drago verde e bronzo e quello lo prese al volo. Il calore si sta-
va facendo sempre più intenso.
«Quello che non capisco» disse, «è perché mai voi ci proviate principalmente qui o in ufficio. Voglio dire, io
giro un sacco, no? Potreste spararmi per la strada, non è vero?»
«Cosa? Come se fosse un qualsiasi omicidio comune, signore?»
Vimes annuì. Era nero e contorto, ma la Gilda degli Assassini aveva una sua specie di onore. «Quanto val-
go?» «Ventimila, signore».
«Dovrebbe essere di più» commentò Vimes.
«Sono d’accordo». Se l’assassino fosse tornato alla Gilda la sua taglia sarebbe aumentata, pensò Vimes. Gli
assassini davano un valore altissimo alle proprie vite.
«Vediamo un po’» aggiunse Vimes esaminando la punta
del sigaro. «La Gilda si prende il cinquanta per cento. Restano diecimila dollari».
L’assassino sembrò valutare l’affermazione, quindi si portò una mano alla cintura e buttò goffamente un sac-
chetto verso Vimes, che lo colse al volo.
Vimes prese la balestra. «A me sembra» disse, «che se uno volesse essere lasciato andare potrebbe anche riu-
scire ad arrivare alla porta con delle semplici bruciature superficiali. Se fosse veloce. Lei quanto è veloce?»
Non ci fu risposta.
«Ovviamente, dovrebbe essere disperato» aggiunse Vimes, appoggiando la balestra sulla tavola col cibo degli
animali e tirando fuori un pezzo di spago dalla tasca. Legò lo spago a un chiodo e fissò l’altra estremità alla
corda della balestra. Poi, spostandosi accuratamente di lato, fece scattare il grilletto.
La corda si mosse leggermente.
L’assassino, guardandolo a testa in giù, parve smettere di respirare.
Vimes aspirò dal sigaro finché la punta non divenne incandescente. Poi se lo tolse di bocca e lo appoggiò
contro lo spago trattenuto, in modo che ci fosse da bruciare soltanto una frazione di centimetro prima che il
filo cominciasse a fondersi.
«Non chiuderò la porta a chiave» disse. «Non sono mai stato una persona irragionevole. Seguirò la sua car-
riera con interesse».
Lanciò il resto del carbone ai draghetti e uscì.
Pareva che un altro giorno denso di avvenimenti ad AnkhMorpork fosse appena cominciato.
Mentre Vimes raggiungeva la casa sentì una fiammata, uno scatto e il rumore di qualcuno che correva molto
velocemente verso il laghetto ornamentale. Sorrise.
Willikins lo stava aspettando con la giacca. «Si ricordi che ha un appuntamento con sua signoria alle undici,
Sir Samuel».
«Sì, sì» rispose Vimes.
«E deve andare a trovare i Conservatori della Società Araldica alle dieci. Sua signoria Lady Sybil è stata mol-
to esplicita a proposito, signore. Le sue esatte parole sono state: ‘Gli dica che non deve cercare di svignarsela
un’altra volta’, signore».
«Oh, molto bene».
«E sua signoria ha anche detto di cercare di non urtare i nervi di nessuno».
«Le dica che ci proverò».
«La sua portantina è fuori, signore».
Vimes sospirò. «Grazie. C’è un uomo dentro il laghetto ornamentale. Lo ripeschi e gli dia una tazza di tè, va
bene? Ragazzo promettente, direi».
«Certamente, signore».
La portantina. Oh, sì, la portantina. Era stata un regalo di nozze del Patrizio. Lord Vetinari sapeva che a Vi-
mes piaceva camminare per le strade della città ed era quindi nel perfetto stile di quell’uomo regalargli qual-
cosa che non gli permettesse di farlo.
Lo stava aspettando fuori. I due portatori si drizzarono carichi di aspettativa.
Sir Samuel Vimes, Comandante della Guardia Cittadina, si ribellò nuovamente. Forse doveva usare quel dan-
nato aggeggio ma...
Guardò l’uomo che si trovava di fronte e mosse il pollice a indicare la portiera della portantina. «Salti su» gli
ordinò. «Ma signore...»
«È una bella mattina» replicò Vimes, togliendosi nuovamente la giacca. «Mi porterò da solo».

***

Carissimi Mamma e Papà...


Il Capitano Carota della Guardia Cittadina di Ankh-Morpork aveva il suo giorno libero. Aveva delle abitudini
precise. Dapprima faceva colazione in qualche caffè a portata di mano, quindi scriveva la sua lettera a casa.
Le lettere a casa gli procuravano sempre qualche problema. Le lettere dei suoi genitori erano sempre interes-
santi, piene di statistiche sulle attività estrattive e di eccitanti notizie su nuovi condotti e filoni promettenti.
Tutto quello su cui lui aveva da scrivere erano omicidi e roba del genere.
Mordicchiò la cima della matita per un istante.
Ebbene è stata di nuovo una settimana interessante, scrisse. Me ne corro in giro facendomi un fondo come
quello di un tombino, Senza Scherzi! Stiamo aprendo un altro Posto di Guardia in Via delle Chiacchiere che
è vicina alle Ombre, e così adesso ne abbiamo non Meno di 4, incluse quelle di Sorelle Dolly e Muro Lungo,
e io sono l’unico Capitano quindi sono in giro tutto il giorno. Personalmente mi manca la camerateria dei
vecchi tempi dove che eravamo solo io, Nobby e il Sergente Colon ma questo è il Secolo della Volpe Volante.
Il Sergente Colon andrà in pensione alla fine del mese, dice che la Signora Colon vuole che compri una fat-
toria, dice che non vede l’ora di godere della pace della campagna e di essere Vicino alla Natura, sono certo
che gli fareste gli auguri. Il mio amico Nobby è sempre Nobby anzi forse un po’ più di prima.
Carota prese distrattamente un pezzo di montone mezzo mangiucchiato dal piatto della colazione e lo allungò
sotto il tavolo. Si sentì un gulp.
Comunque, tornando al lavoro, sono certo di avervi parlato degli Speciali di Via Cavo, anche se sono anco-
ra sistemati a Pseudopolis Yard, alla gente non piace quando le Guardie non indossano l’uniforme ma il
Comandante Vimes dice che nemmeno i criminali indossano le uniformi e così al d*volo tutti quanti.
Carota si interruppe. Questo la diceva lunga sul Capitano Carota che, perfino dopo quasi due anni ad Ankh-
Morpork, era ancora a disagio rispetto al termine ‘al d*volo’.
Il Comandante Vimes dice che bisogna avere poliziotti segreti perché ci sono crimini segreti...
Carota si interruppe nuovamente. Amava la sua uniforme. Non possedeva altri vestiti. La sola idea di uomini
della Guardia in borghese era... be’, era inconcepibile. Era come quei pirati che veleggiavano sotto false ban-
diere. Erano come spie. Proseguì tuttavia diligentemente:
... e il Comandante Vimes sa quello che sta facendo, ne sono sicuro. Dice che non è come il vecchio lavoro di
polizia dove ci si occupava di acchiappare i poveri diavoli troppo stupidi da scappare via! Comunque tutto
questo significa un sacco di lavoro in più e nuove facce nella Guardia.
Mentre aspettava che nuove frasi gli si formassero nella mente, Carota prese una salsiccia dal piatto e la ab-
bassò. Ci fu un nuovo gulp.
Il cameriere arrivò in tutta fretta.
«Un’altra porzione, Signor Carota? Offre la casa». Ogni ristorante e trattoria di Ankh-Morpork offriva gratui-
tamente, cibo a Carota, nella certa e felice consapevolezza che egli avrebbe sempre insistito per pagare.
«No, grazie, comunque era ottimo. Ecco qui... venti centesimi e tenga il resto» rispose Carota.
«Come sta la sua signorina? Oggi non l’ho vista».
«Angua? Oh... è in giro, sa. Le dirò sicuramente che mi ha chiesto di lei, in ogni caso».
Il nano annuì soddisfatto e si allontanò in fretta.
Carota scrisse qualche altra rispettosa frase e poi disse voce molto bassa: «Il carro col cavallo si trova ancora
fuori dalla panetteria di Crostadiferro?»
Si udì un debole guaito sotto al tavolo.
«Davvero? È strano. Tutte le consegne sono terminate ore fa e la farina e la graniglia di solito non arrivano
prima del pomeriggio. Il conducente è ancora seduto lì?»
Si udì abbaiare, ma piano.
«E mi pare un cavallo troppo buono per un carro da trasporto. Sai, normalmente ci si aspetterebbe che il con-
ducente gli metta una musetta. Inoltre è l’ultimo giovedì del mese e cioè giorno di paga da Crostadiferro».
Carota appoggiò la matita e agitò cortesemente una mano per farsi notare dal cameriere.
«Mi dà una tazza di caffè di ghianda, Signor Succhiello?
Da portare via».

***

Nel Museo del Pane dei Nani, in Vicolo della Girandola, il curatore Signor Hopkinson era piuttosto eccitato:
considerazioni varie a parte, era appena stato assassinato. Al momento, tuttavia, lo riteneva un fastidioso e
marginale dettaglio.
Era stato colpito a morte con una pagnotta. La cosa risulta improbabile perfino nelle peggiori panetterie uma-
ne, ma il pane dei nani ha proprietà impressionanti come arma di offesa. I nani considerano la panetteria una
significativa parte dell’arte della guerra. Quando fanno i loro famosi ‘pan di roccia’, dolci dalla crosta simile
alla roccia, non si tratta di una similitudine.
«Guarda questa tacca» disse Hopkinson. «Ha quasi rovinato la crosta!»
E ANCHE IL TUO CRANIO, commentò la Morte.
«Oh, sì» rispose Hopkinson, con la voce di uno che tratta i crani a un centesimo la decina ma che è ben co-
sciente del raro valore di una bella pagnotta da esposizione. «Ma che ci sarebbe stato di male in un semplice
manganello? O magari un martello? Avrei potuto fornirgliene uno io se me lo avessero chiesto!»
La Morte, che per natura aveva a sua volta una personalità maniacale, si rese conto di trovarsi alla presenza
di un maestro. Il defunto Signor Hopkinson aveva una vocetta stridula e indossava occhiali con un pezzo di
cordino nero. Il suo fantasma indossava ora il loro omologo spirituale, e quelli erano segni inequivocabili di
una mente che lucidava la parte inferiore dei mobili e riponeva le graffette in base alla dimensione.
«È davvero un peccato» disse il Signor Hopkinson. «E c’è anche dell’ingratitudine, con tutto l’aiuto che gli
ho dato con il forno. Ritengo di avere tutto il diritto di lamentarmi».
SIGNOR HOPKINSON, SI È RESO CONTO DEL FATTO CHE È MORTO?
«Morto?» squittì il curatore. «Oh, no. Non posso essere morto. Non adesso. Non è assolutamente un momen-
to adatto. Non ho nemmeno catalogato le brioscine da combattimento».
EPPURE.
«No, no. Mi dispiace, ma non se ne parla. Dovrà aspettare. Non posso davvero venire seccato con questo ge-
nere di sciocchezze».
La Morte era sconcertata. Quasi tutti, dopo l’iniziale perplessità, si sentivano in un certo senso sollevati
quando morivano: sollevati da un inconscio fardello. L’altra scarpa cosmica era caduta. Il peggio era accadu-
to e loro potevano, metaforicamente parlando, andare avanti con la loro vita. Pochi trattavano il fatto come
una semplice seccatura che poteva essere eliminata se ci si lamentava a sufficienza.
La mano del Signor Hopkinson passò attraverso il piano di un tavolo. «Oh».
CAPITO?
«Questa cosa è estremamente fuori luogo. Non avrebbe potuto scegliere un momento meno inopportuno?»
SOLTANTO DOPO CONSULTAZIONE CON IL SUO ASSASSINO.
«Mi sembra tutto organizzato in modo pessimo. Desidero sporgere una lamentela. Pago le tasse, dopotutto».
IO SONO LA MORTE, NON UN ESATTORE. IO MI PRESENTO UNA SOLA VOLTA.
L’ombra del Signor Hopkinson cominciò a sbiadire. «È solo che io ho sempre cercato di programmare in an-
ticipo, in modo assennato...»
TROVO CHE L’APPROCCIO MIGLIORE SIA PRENDERE LA VITA COME SI PRESENTA.
«Mi sembra davvero da irresponsabili...»
PER ME HA SEMPRE FUNZIONATO.

***

La portantina si fermò davanti a Pseudopolis Yard. Vimes lasciò che i portantini la parcheggiassero ed entrò,
infilando nuovamente la giacca.
C’erano stati tempi, e sembrava soltanto ieri, in cui il Posto di Guardia era stato quasi vuoto. Ci si potevano
trovare soltanto il vecchio Sergente Colon a sonnecchiare sulla sedia e i panni del Caporale Nobbs ad asciu-
gare di fronte alla stufa. Poi, all’improvviso era cambiato tutto...
Il Sergente Colon lo stava aspettando con un taccuino in mano. «Ho qui i rapporti degli altri Posti di Guardia,
signore» disse, trottando al fianco di Vimes.
«Qualcosa di particolare?»
«C’è stato un omicidio un po’ strano, signore. In una di quelle vecchie case di Ponte Sghembo. Un vecchio
prete. Non se ne sa molto. Gli uomini di pattuglia hanno solo detto che sarebbe meglio andare a dare
un’occhiata».
«Chi lo ha trovato?»
«L’Appuntato Visita, signore».
«Oh, cielo».
«Sissignore».
«Cercherò di farci un salto questa mattina. Altro?» «Il Caporale Nobbs è malato, signore».
«Oh, quello lo so».
«Voglio dire è a casa malato».
«Questa volta non si tratta del funerale della nonna?» «Nossignore».
«A quanti era già stato quest’anno, a proposito?» «Sette, signore».
«Famiglia davvero strana quella dei Nobbs».
«Sissignore».
«Fred, non devi continuare a chiamarmi ‘signore’».
«Abbiamo compagnia, signore» replicò il sergente, lanciando un’occhiata significativa in direzione di una
panca nell’ufficio principale. «È venuto per quel lavoro da alchimista».
Un nano lanciò a Vimes un sorriso carico di nervosismo.
«Bene» disse Vimes. «Lo riceverò nel mio ufficio». Infilò una mano nella tasca della giacca e tirò fuori il
borsello coi soldi dell’assassino. «Mettilo nel Fondo per le Vedove e gli Orfani, d’accordo Fred?»
«Certo. Oh, ben fatto, signore. Qualche altro guadagno inaspettato del genere e saremo in grado di poterci
permettere delle nuove vedove».
Il Sergente Colon tornò alla propria scrivania, aprì con atteggiamento furtivo il cassetto e tirò fuori il libro
che stava leggendo. Si chiamava Paternità Animale. Il titolo lo aveva lasciato un po’ perplesso – si sentivano
molte storie su strani personaggi in campagna – ma poi era saltato fuori essere niente di più che un libro sulla
riproduzione dei bovini, dei maiali e delle pecore.
Adesso si chiedeva dove potersi procurare un libro per insegnar loro a leggere.
Al piano superiore Vimes aprì con attenzione la porta del proprio ufficio. La Gilda degli Assassini era estre-
mamente leale. Si doveva darne credito a quei bastardi. Sarebbe stato un pessimo biglietto da visita uccidere
un astante. A parte tutto il resto, non si sarebbe stati pagati. Piazzare delle trappole nel suo ufficio era di con-
seguenza impensabile, perché c’erano troppe persone che entravano e uscivano da lì tutti i giorni. Nonostante
tutto, però, valeva sempre la pena essere prudenti. Vimes era molto bravo nel crearsi proprio quel genere di
nemici ricchi che potevano permettersi di assoldare degli assassini. Agli assassini bastava essere fortunati
un’unica volta mentre Vimes doveva essere fortunato sempre.
Si intrufolò all’interno della stanza e lanciò un’occhiata dalla finestra. Gli piaceva lavorare tenendola aperta
anche quando faceva freddo: gli piaceva sentire i suoni della città.
Chiunque avesse tentato di salire o scendere da lì, però, si sarebbe imbattuto in tutta la schiera di tegole scon-
nesse, appigli mobili e pluviali traditori che l’ingenuità di Vimes era stata in grado di immaginare. Vimes a-
veva inoltre installato una ringhiera a punte aguzze sul fondo. Erano molto belle e ornamentali ma, soprattut-
to, pungenti.
Al momento, stava vincendo Vimes.
Si sentì un bussare incerto.
Erano state le nocche del candidato nano. Vimes lo fece accomodare in ufficio, chiuse la porta e si sedette al-
la scrivania.
«È così» disse, «lei è un alchimista. Macchie di acido sulle mani e niente sopracciglia».
«Giusto, signore».
«Non è facile trovare un nano che si occupi di quella professione. Voi di solito lavorate nella fonderia di un
qualche zio o roba del genere».
Voi, notò il nano. «Non ho un gran rapporto col metallo» rispose.
«Un nano che non ha un gran rapporto col metallo? Deve essere unico!»
«Abbastanza raro, signore. Ma ero piuttosto bravo in alchimia».
«Membro della Gilda?»
«Non più, signore».
«Oh, davvero? Come ha lasciato la Gilda?»
«Dal tetto, signore. Ma sono abbastanza sicuro di quello che ho sbagliato».
Vimes si appoggiò allo schienale. «Gli alchimisti fanno sempre saltare in aria un sacco di roba. Mai sentito
dire che siano stati licenziati per questo».
«Forse perché nessuno ha mai fatto saltare in aria il Consiglio della Gilda, signore».
«Come, tutto quanto?»
«La maggior parte, signore. Quanto meno tutti i pezzi facilmente staccabili».
Vimes si scoprì ad aprire automaticamente il cassetto più in basso della propria scrivania. Lo chiuse nuova-
mente, però, e spostò qualche carta che aveva davanti. «Come si chiama, ragazzo?»
Il nano deglutì. Era chiaramente il punto che aveva temuto. «Culetto, signore».
Vimes non sollevò nemmeno lo sguardo.
«Oh, già. C’è scritto anche qui. Significa che viene dall’area montuosa del Boscodisopra, vero?»
«Come... sì, signore» rispose Culetto leggermente sorpreso. Gli umani di solito non sapevano distinguere i
clan dei nani.
«Il nostro Appuntato Angua viene da lì» disse Vimes. «Allora... qui c’è scritto che di nome si chiama... non
riesco a leggere la scrittura di Fred... ehm...»
Non c’era possibilità di scampo. «Felice, signore» disse Felice Culetto.
«Felice, eh? È bello vedere che le antiche tradizioni onomastiche si siano mantenute. Culetto Felice. Bene».
Culetto lo osservò attentamente. Non c’era il benché minimo barlume di scherno sul volto di Vimes.
«Sì, signore. Culetto Felice» ripeté. Ancora nemmeno un’increspatura extra. «Mio padre si chiamava Alle-
gro. Culetto Allegro» aggiunse, come si fa quando si passa la lingua su un dente rovinato per vedere quando
comincerà a fare male.
«Davvero?»
«E... suo padre si chiamava Culetto Beccuccio» .
Non una traccia, non un accenno di sogghigno si celava in alcun posto. Vimes non fece altro che spostare le
carte di lato. «Bene, noi lavoriamo per vivere, Culetto ».
«Sì, signore».
«Non facciamo saltare in aria le cose, Culetto».
«No, signore. Io non faccio saltare in aria tutto, signore. Qualcosa si squaglia e basta».
Vimes tamburellò le dita sulla scrivania. «Cadaveri?» «Hanno subito solo leggere contusioni, signore».
Vimes sospirò. «Ascolti. Io so come si fa la guardia. Si tratta principalmente di camminare e di parlare. Ci
sono però un sacco di cose che non so. Trovi la scena di un delitto e c’è della polvere grigia sul pavimento.
Che cos’è? Io non lo so. Voi però sapete come mischiare le sostanze nelle ciotole e potete scoprirlo. Magari i
morti non hanno addosso nemmeno un segno. Sono stati avvelenati? Mi sembra che abbiamo bisogno di
qualcuno che sappia di che colore dovrebbe essere un fegato. Voglio qualcuno che possa guardare il mio por-
tacenere e dirmi che sigari fumo».
«Erbansimosa Panatellas Sottili» disse automaticamente Culetto Felice.
«Santo cielo!»
«Ha lasciato il pacchetto sul tavolo, signore».
Vimes abbassò lo sguardo. «Molto bene» commentò. «E così a volte la risposta è semplice. A volte però non
lo è. A volte non sappiamo nemmeno se la domanda è giusta».
Si alzò in piedi. «Non posso dire di amare molto i nani, Culetto. Ma non mi piacciono nemmeno i troll o gli
umani, quindi immagino non sia un problema. Bene, lei è l’unico candidato. Trenta dollari al mese, cinque
dollari di trasferta e mi aspetto che lei lavori a progetto, non a orario, esiste una specie di creatura mitica
chiamata ‘straordinario’, solo che nessuno ne ha mai visto le orme, se un ufficiale troll la chiama succhia-
ghiaia è licenziato e se lei ne chiama uno roccia è licenziato lei, siamo una grande famiglia e, se ha mai par-
tecipato a qualche piccola lite domestica, Culetto, le assicuro che troverà delle belle somiglianze, noi lavo-
riamo in squadra e ci riconciliamo mentre andiamo avanti, per metà del tempo non siamo nemmeno sicuri di
cosa sia la legge e quindi il lavoro può diventare interessante; tecnicamente lei assume il ruolo di caporale,
ma l’avviso di non andare a dare ordini a guardie vere, è in prova per un mese, le faremo un po’ di addestra-
mento appena ce ne sarà il tempo, adesso si procuri un iconografo e troviamoci a Ponte Sghembo fra... male-
dizione... diciamo fra un’ora. Devo andare a vedere quel fottuto stemma araldico. Comunque, i cadaveri di-
ventano raramente più morti. Sergente Detritus!»
Si sentì una serie di cigolii mentre qualcosa di pesante si muoveva lungo il corridoio esterno, quindi un troll
aprì la porta.
«Sissignore?»
«Questo è il Caporale Culetto. Caporale Culetto Felice, figlio di Culetto Allegro. Gli dia il distintivo, lo fac-
cia giurare e gli mostri il luogo. Molto bene, caporale?»
«Cercherò di dare lustro all’uniforme, signore» disse Culetto.
«Bene» replicò Vimes sbrigativo. Guardò Detritus. «Incidentalmente, sergente, ho qui un rapporto che dice
che la notte scorsa un troll in uniforme ha inchiodato a un muro le orecchie di uno degli spacciatori di Criso-
fraso. Ne sa qualcosa?»
Il troll corrugò l’immensa fronte. «Dice niente sul fatto che quello vendeva sacchetti di Lastra ai bambini
troll?»
«No. Dice che stava andando a leggere canti spirituali alla vecchia e cara mamma» rispose Vimes.
«Hardcore ha detto di avere visto il distintivo di questo troll?»
«No, però dice che il troll lo ha minacciato di infilarglielo dove non batte il sole» precisò Vimes.
Detritus annuì con espressione grave. «Un vero peccato rovinare un distintivo in quel modo» commentò.
«A proposito» disse Vimes «è stato proprio bravo a indovinare che si trattasse di Hardcore».
«Mi è venuto come un lampo, signore» replicò Detritus. «Ho pensato: quale bastardo che vende Lastra ai
bambini si meriterebbe di essere appeso per le orecchie, signore, e... bingo. L’idea mi si è formata da sola
nella testa».
«Era proprio ciò che pensavo».
Lo sguardo di Culetto Felice passò da un impassibile volto all’altro. Gli occhi delle due guardie non si erano
mai lasciati ma le parole sembravano provenire da una certa distanza, come se entrambi stessero leggendo un
invisibile copione.
Detritus scosse quindi leggermente la testa. «Deve trattarsi di un impostore, signore. È facile procurarsi el-
metti come i nostri. Nessuno dei miei troll farebbe una cosa simile. Sarebbe brutalità poliziesca, signore».
«Mi fa piacere sentirlo dire. Per una questione di facciata, però, voglio che lei controlli gli armadietti dei
troll. Ci sta addosso la Lega Anti-Diffamazione del Silicio».
«Sì, signore. E se scopro che è stato uno dei miei troll mi ci butterò addosso come una tonnellata di macerie,
signore». «Bene. Vada pure, Culetto, Detritus si occuperà di lei». Culetto esitò. Era inquietante. L’uomo non
aveva fatto menzione di asce o oro. Non aveva nemmeno detto niente di simile a ‘diventerà grande nella
Guardia’. Culetto si sentiva davvero sconcertato.
«Ehm... le ho detto come mi chiamo, vero, signore?» «Sì. È scritto qui» confermò Vimes. «Culetto Felice.
Vero?»
«Ehm... vero. È giusto. Bene, grazie, signore».
Vimes li sentì allontanarsi lungo il corridoio. Chiuse quindi con grande attenzione la porta e infilò la testa
sotto la giacca in modo che nessuno potesse sentirlo sghignazzare. «Culetto Felice!»

***

Felice correva dietro al troll di nome Detritus. Il Posto di Guardia stava cominciando a riempirsi. Era chiaro
che la Guardia si occupava di ogni genere di cose e che molte di queste prevedessero di urlare parecchio.
Due troll in uniforme erano in piedi davanti all’alta scrivania del Sergente Colon e tenevano fra loro un terzo
troll leggermente più piccolo. Quest’ultimo aveva un’espressione un po’ abbattuta. Indossava un tutù e aveva
un paio di alucce di garza incollate alla schiena.
«... si dà il caso che io sappia che i troll non hanno alcuna favola su una Fata dei Dentini» stava dicendo Co-
lon. «Soprattutto nessuna che si chiami» abbassò lo sguardo, «Avanzodigalera. Che ne dici quindi se lo defi-
nissimo semplicemente effrazione con scasso senza licenza della Gilda dei Ladri?»
«È pregiudizio razziale non permettere ai troll di avere una Fata dei Dentini» bofonchiò Avanzodigalera.
Una delle due guardie troll rovesciò un sacco al di sopra della scrivania. Sui fogli piovvero una serie di og-
getti in argento.
«E questo è ciò che hai trovato sotto i cuscini, vero?» domandò Colon.
«Che quei cuoricini siano benedetti» disse Avanzodigalera.
Alla scrivania successiva un nano stanco stava discutendo con un vampiro. «Ascolti» disse, «non è omicidio.
Lei è già morto, no?»
«Ma mi ha infilzato!»
«Bene, ho interrogato il direttore del locale e ha detto che si è trattato di un incidente. Ha detto che non ha as-
solutamente nulla contro i vampiri. Dice che stava semplicemente trasportando tre scatole di Gommini per
Matite HB ed è inciampato sull’orlo del suo mantello».
«Non capisco perché non posso lavorare dove voglio!» «Sì, ma... in una fabbrica di matite?»
Detritus abbassò lo sguardo su Culetto e sogghignò. «Benvenuto nella vita della grande città, Culetto» disse.
«Che nome interessante».
«Davvero?»
«La maggior parte dei nani si chiama Sollevapietra o Fortebraccio».
«Davvero?»
Detritus non era fatto per le sottigliezze delle relazioni interpersonali, ma la tagliente sfumatura nella voce di
Culetto gli arrivò comunque. «Però è un bel nome» terminò.
«Che cos’è la Lastra?» domandò Felice.
«Cloruro di ammonio e radio mischiati insieme. Fa sballare la testa ma squaglia i cervelli troll. È un proble-
ma grosso nelle montagne e qualche bastardo ne sta producendo qui in città e noi stiamo cercando di capire
come la porta su. Il Signor Vimes mi ha permesso di condurre una» Detritus si concentrò, «campagna di
pubblica conoscenza per dire alla gente che cosa succede ai bastardi che la vendono ai bambini...» Agitò una
mano in direzione di un grande manifesto piuttosto grossolano appeso alla parete. C’era scritto:
«Lastra: di’ solo ‘AaaaarrghaarghvipreeegonononononOOOOOUGH !»
Aprì una porta.
«Questo è il vecchio gabinetto che non usiamo più, puoi usarlo tu per mescolare la tua roba, al momento è
l’unico posto che c’è, dovrai ripulirlo prima perché puzza come un cesso».
Aprì un’altra porta. «E questa è la stanza degli armadietti» spiegò. «Hai il tuo appendiabiti e poi lì ci sono i
pannelli dietro cui ti puoi spogliare perché sappiamo che voi nani siete modesti. È una bella vita se non ti
stanchi. Il Signor Vimes è in gamba ma è un po’ strano su certe cose, continua a dire roba tipo che la città è
un crogiolo e che tutta la schifezza viene a galla e frasi del genere. Ti do subito l’elmetto e il distintivo ma
prima» aprì un armadietto decisamente più grosso dall’altra parte della stanza, su cui era dipinto sopra
‘D’TRITUS’, «devo nascondere questo martello».

***

Due figure uscirono di corsa dalla Panetteria dei Nani Crostadiferro (Il Pane Tagliente), si lanciarono sul car-
ro e gridarono al conducente di partire a tutta birra.
Quello girò il volto pallido verso di loro e indicò la strada. C’era un lupo.
Non era un lupo comune. Aveva il mantello biondo talmente lungo attorno alle orecchie da sembrare una cri-
niera. I lupi, poi, non stavano solitamente seduti calmi in mezzo alla strada.
Questo stava latrando. Un lungo, profondo latrato. Pareva l’equivalente sonoro di una miccia che si stava ac-
corciando.
Il cavallo era paralizzato, troppo impaurito per restare dov’era e troppo terrorizzato per muoversi.
Uno degli uomini allungò cautamente una mano verso una balestra. Il latrato crebbe leggermente di intensità.
Con una cautela ancora maggiore tolse la mano. Il latrato si attenuò nuovamente.
«Che cos’è?»
«È un lupo!»
«In città? Che cosa trova da mangiare?»
«Oh, perché lo hai chiesto?»
«Buon giorno signori!» esclamò Carota staccandosi dalla parete contro cui era appoggiato. «Pare che la neb-
bia si stia nuovamente alzando. Licenze della Gilda dei Ladri, per favore?»
Si voltarono. Carota lanciò loro un sorriso felice e annuì in modo incoraggiante.
Uno degli uomini si tastò la giacca tentando una teatrale esibizione di sbadataggine.
«Ah. Bene. Ehm. Sono uscito di casa un po’ in fretta stamattina, devo avere dimenticato...»
«La Sezione Due, Regola Uno dell’Atto di Costituzione della Gilda dei Ladri dice che i membri devono por-
tare con sé le loro tessere in ogni occasione professionale» disse Carota.
«Non ha nemmeno tirato fuori la spada!» sibilò il più stupido della banda.
«Non ne ha alcun bisogno, ha un lupo carico!»

***

Qualcuno stava scrivendo nell’oscurità, lo stridio delle penne era l’unico suono.
Si sentì poi il cigolio di una porta che si apriva.
Quello che stava scrivendo si voltò veloce come un uccello. «Tu? Ti ho detto di non tornare mai più qui!»
«Lo so, lo so, ma è quella maledetta cosa! La linea di produzione si è bloccata, è uscito e ha ucciso quel pre-
te!»
«Lo ha visto qualcuno?»
«Con la nebbia che c’era la notte scorsa? Direi proprio di no. Ma...»
«Allora non è, ah-ha, una questione significativa».
«No? Non sono tenuti a uccidere le persone. Be’... voglio dire» concesse quello che stava parlando, «quanto
meno non fracassandogli la testa».
«Lo fanno, se così istruiti» .
«Ma io non gliel’ho mai detto! E se poi dovesse rivolgersi contro di me?»
«Contro il proprio padrone? Non può disobbedire alle parole che ha in testa, amico».
Il visitatore si sedette, scuotendo la testa. «Già, ma che parole? Non so, non so, si sta esagerando, quel male-
detto affare attorno tutto il giorno...»
«Che ti fa fare ottimi profitti...»
«D’accordo, d’accordo, ma quell’altra storia, il veleno, io non ho mai...»
«Chiudi il becco! Ci rivedremo stanotte. Puoi dire agli altri che ho trovato un candidato. E se oserai venire
nuovamente qui...»
***

Si scoprì che il Real Collegio dei Conservatori della Società Araldica di Ankh-Morpork stava dietro un por-
tone verde lungo un muro di Via Mollymog. Vimes tirò il cordone del campanello. Qualcosa risuonò
dall’altra parte e dal luogo eruppe immediatamente una cacofonia di latrati, fischi, grida e strombazzate.
Una voce gridò: «Giù piccolo! Couchant! Ho detto couchant! No! Non rampant! E a te darò un bello zucche-
rino se fai il bravo. William! Smettila subito! Mettilo giù! Mildred, lascia stare Graham!»
Il tumulto degli animali si abbassò un poco e si sentirono dei passi in avvicinamento. Lo sportellino sul por-
tone si aprì di un solo spiraglio.
Vimes scorse il segmento di un paio di centimetri di un uomo bassissimo.
«Sì? È il macellaio?»
«Comandante Vimes» disse Vimes. «Ho un appuntamento».
Il fragore animalesco riprese.
«Eh?»
«Comandante Vimes!» gridò Vimes.
«Oh, immagino sarà bene che entri».
La porta si spalancò. Vimes la attraversò.
Cadde un silenzio di tomba. Svariate dozzine di paia di occhi fissarono Vimes con acuto sospetto. Alcuni de-
gli occhi erano piccoli e rossi. Altri erano grossi e spuntavano appena oltre la superficie dello stagno paludo-
so che occupava gran parte dello spazio del giardino. Alcuni stavano appollaiati.
Il posto era stipato di animali, ma perfino loro erano surclassati dall’odore di un posto stipato di animali. La
maggior parte di essi, inoltre, era chiaramente vecchissima, il che non faceva nulla per migliorare l’odore.
Un leone sdentato sbadigliò guardando Vimes. Un leone che scorrazzava, o quanto meno ciondolava in giro
libero era una cosa sconcertante in sé, ma non tanto sconcertante quanto il fatto che venisse utilizzato come
cuscino da un grifone attempato che dormiva zampe all’aria.
C’erano istrici, un leopardo ingrigito e uno stormo di pellicani. L’acqua verdastra si sollevò nello stagno e un
paio di ippopotami risalirono in superficie sbadigliando. Non c’era nessuno chiuso in gabbia e nessuno stava
tentando di mangiarsi nessun altro.
«Oh, la prima volta fa sempre uno strano effetto alle persone osservò il vecchio. Aveva una gamba di legno.
«Siamo una famigliola felice, noi».
Vimes si voltò e si trovò a fissare un piccolo gufo. «Santi numi» esclamò, «è un Morpork, vero?»
Il volto del vecchio si aprì in un sorriso di felicità. «Oh, vedo che conosce l’araldica» chiocciò. «Gli antenati
di Daphne sono arrivati qui da alcune isole dall’altro lato del Centro». Vimes tirò fuori il distintivo della
Guardia Cittadina e fissò lo stemma che vi era impresso sopra. Il vecchio lo guardò da sopra la spalla. «Ov-
viamente quella non è lei» disse, indicando il gufo appollaiato sull’ankh, la croce ansata. «Era la sua bis-
bisnonna, Olivia. Un morpork su un’ankh, capisce? È un gioco di parole. La fa ridere? A me abbastanza. E il
massimo del divertimento qui attorno. Avremmo bisogno di un compagno per lei, a dire la verità, e anche di
un ippopotamo femmina. Voglio dire, sua signoria sostiene che noi abbiamo già due ippopotami, il che è an-
che vero, secondo me però non è una cosa naturale per Roderick e Keith, non che voglia emettere giudizi, so-
lo che non mi sembra giusto, tutto qui. Com’era il suo nome?»
«Vimes. Sir Samuel Vimes. L’appuntamento è stato preso da mia moglie».
Il vecchio chiocciò di nuovo. «Oh, di solito è così».
Muovendosi abbastanza in fretta a dispetto della gamba di legno, il vecchio fece strada attraverso i cumuli
fumanti di letame multispecie fino all’edificio che si trovava dall’altra parte del cortile.
«Immagino che sia comunque buono per il giardino» commentò Vimes tentando di far conversazione.
«Io l’ho provato sul mio rabarbaro» rispose il vecchio aprendo la porta. «Ma è cresciuto fino a sei metri, si-
gnore, e poi ha preso fuoco da solo. Stia attento, signore, il dragone è stato male... oh, che peccato. Non im-
porta, riuscirà a grattarlo via benissimo una volta seccato. Entri pure, signore».
La sala all’interno era silenziosa e buia quanto il cortile era carico di luce e frastuono. Si avvertiva il secco
odore da lapide di libri antichi e torrette di chiesa. Quando i suoi occhi si furono abituati all’oscurità, Vimes
riuscì a distinguere sopra di sé bandiere e stendardi appesi. C’era qualche finestra ma le ragnatele e gli insetti
morti facevano sì che l’unica luce che penetrava fosse fondamentalmente grigia.
Il vecchio aveva chiuso la porta e lo aveva lasciato solo. Vimes lo vide zoppicare indietro attraverso la fine-
stra per portare a termine ciò che stava facendo prima del suo arrivo.
Quello che stava facendo era allestire uno stemma araldico vivente.
C’era un grosso scudo. Vi erano stati inchiodati sopra dei cavoli, cavoli veri. Il vecchio disse qualcosa che
Vimes non riuscì a sentire. Il piccolo gufo arrivò al volo dal proprio trespolo e atterrò su una grossa croce an-
sata che era stata incollata in cima allo scudo. I due ippopotami sbucarono dallo stagno e si sistemarono sui
due lati.
Il vecchio sistemò un cavalletto davanti alla scena, vi piazzò sopra una tela, prese tavolozza e pennello e gri-
dò: «Hoplà!»
Gli ippopotami si impennarono, in maniera alquanto artritica. Il gufo distese le ali.
«Santi numi» mormorò Vimes. «Ho sempre pensato che fossero inventati!»
«Inventare, signore? Inventare?» disse una voce alle sue spalle. «Saremmo ben presto nei guai se inventassi-
mo le cose, oh cielo».
Vimes si voltò. Un altro vecchio ometto gli era apparso alle spalle, strizzando felicemente gli occhi attraverso
spesse lenti. Teneva svariati rotoli di pergamena sotto il braccio.
«Mi dispiace di non essere potuto venire ad accoglierla alla porta ma al momento siamo molto impegnati»
disse, tendendo la mano libera. «Croissant Rouge Pursuivant».
«Ehm... lei è una brioscina rossa?» domandò Vimes attonito.
«No, no. No. Significa Mezzaluna Rossa. È il mio titolo, capisce? Un titolo molto antico. Io sono Conserva-
tore della Società Araldica. Lei dovrebbe essere Sir Samuel Vimes, vero?»
«Sì».
Mezzaluna Rossa consultò una pergamena. «Bene. Bene. Che effetto le fanno le donnole?» domandò.
«Donnole?»
«Abbiamo alcune donnole. capisce? So che non sono esattamente animali araldici, ma pare che ne abbiamo
in organico alcune e francamente penso che dovrò lasciarle andare a meno che non si riesca a persuadere
qualcuno ad adottarle; la cosa però sconvolgerebbe Pardessus Chatain Pursuivant. Si chiude sempre nel suo
stanzino quando è sconvolto...
«Pardessus... vuole dire il signore anziano là fuori?» domandò Vimes. «Voglio dire... ma perché lui... io pen-
savo che lei... insomma, uno stemma araldico è soltanto un disegno. Non c’è alcun bisogno di dipingerlo dal
vivo!»
Mezzaluna Rossa apparve scioccato. «Be’, immagino che se lei volesse fare dell’intera cosa una presa in gi-
ro, sì, si potrebbe anche inventare. Si potrebbe fare» ammise. «Comunque... niente donnole, allora?»
«Personalmente ne farei a meno» disse Vimes. «E di sicuro non lo vorrei con una donnola. Mia moglie ha
detto che dei dragoni sarebbero...»
«Per fortuna non ce ne sarà l’occasione» replicò una voce dall’ombra.
Non era il giusto genere di voce da sentire alla luce. Era secca come la polvere. Sembrava provenire da una
bocca che non aveva mai conosciuto il piacere della saliva. Suonava morta.
Lo era.

***

I ladri della panetteria esaminarono le opzioni.


«Ho la mano sulla balestra» disse il più intraprendente dei tre.
Quello più realistico ribatté: «Davvero? Io invece ho il cuore in gola!»
«Ooooo» gemette il terzo. «Io sono debole di cuore...»
«Già, ma quello che voglio dire è che... non ha nemmeno una spada addosso. Se io prendo il lupo, voi due
dovreste essere in grado di occuparvi di lui senza alcun problema, no?»
Quello più brillante guardò il Capitano Carota. La sua armatura scintillava, e così i muscoli sulle braccia nu-
de. Aveva perfino le ginocchia scintillanti.
«A me sembra che siamo arrivati a un’impasse, o stallo» osservò il Capitano Carota.
«Che ne dite se gli lanciamo giù i soldi?» suggerì quello brillante.
«Sarebbe di certo un bel passo avanti».
«E ci lasceresti andare?»
«No. Ma deporrebbe di certo a vostro favore e inoltre potrei mettere una parola buona per voi».
Quello spavaldo con la balestra si passò la lingua sulle labbra e fece passare lo sguardo da Carota al lupo. «Se
ce lo aizzi contro, ti avverto, qualcuno finirà ucciso!» ammonì.
«Sì, potrebbe succedere» confermò Carota con espressione triste. «Preferirei davvero evitarlo, se possibile».
Alzò le mani. In ognuna c’era qualcosa di piatto e rotondo di un diametro di circa venti centimetri. «Questo»
disse, «è pane dei nani. Uno dei migliori del Signor Crostadiferro. Non è un classico pane da battaglia, ov-
viamente, ma è probabile che sia sufficiente per affettare...»
Il braccio di Carota si mosse repentino. Ci fu una breve esplosione di segatura e il pane piatto ruotò fino a
fermarsi a metà strada fra le spesse assi del carro, a circa un centimetro di distanza dall’uomo debole di cuore
e, si scoprì, anche di vescica fragile.
L’uomo con la balestra distolse la propria attenzione dal pane solo quando sentì una leggera e umida pressio-
ne sul polso.
Non era assolutamente possibile che un animale potesse essersi mosso con tale velocità, ma eccolo lì;
l’espressione del lupo inoltre faceva di tutto per indicare, con estrema calma, che se lo avesse desiderato, la
pressione sarebbe potuta aumentare più o meno all’infinito.
«Richiamalo!» gridò quello, lanciando via la balestra con la mano libera. «Digli di lasciarmi!»
«Oh, io non le dico mai nulla» rispose Carota. «Fa tutto di testa sua».
Si sentì un clangore di stivali con punte in metallo e una mezza dozzina di nani che brandivano asce sfreccia-
rono fuori dai cancelli della panetteria, producendo scintille mentre derapavano fino a fermarsi di fianco a
Carota.
«Prendeteli!» gridò il Signor Crostadiferro. Carota piazzò una mano sull’elmetto del nano e lo fece ruotare.
«Sono io, Signor Crostadiferro» disse. «Sono questi gli uomini?»
«Proprio così, Capitano Carota!» esclamò il panettiere nano. «Forza, ragazzi! Appendiamoli davanti al bu-
ra’zak-ka!» 3
«Ooooo» mormorò quello debole di cuore, abbattuto.
«Su, forza, Signor Crostadiferro» ribatté Carota pazientemente. «Non applichiamo quel tipo di punizione ad
AnkhMorpork». 4
«Hanno colpito Bjorn Braghestrette tanto che è svenuto! E hanno buttato a calci Olaf Fortebraccio nel
bad’dhakz!5 Gli taglieremo le...»
«Signor Crostadiferro!»
Il panettiere nano esitò e poi, con grande stupore e sollievo dei ladri, fece un passo indietro. «Già...
d’accordo, Capitano Carota. Se lo dice lei».
«Io ho da fare altrove, ma vi sarei grato se poteste prenderli e consegnarli alla Gilda dei Ladri» disse Carota.
Quello brillante impallidì. «Oh, no! Quelli ci vanno giù pesanti sui furti senza licenza! Tutto ma non la Gilda
dei Ladri!»
Carota si voltò. Il suo viso brillò di una luce particolare. «Tutto?» domandò.
I ladri privi di licenza si scambiarono un’occhiata e si misero a parlare tutti insieme.
«La Gilda dei Ladri. Bene. Non c’è problema». «A noi piace la Gilda dei Ladri».
«Non vediamo l’ora. Gilda dei Ladri, ecco che arriviamo». «Gran brave persone».
«Severi ma onesti».
«Bene» commentò Carota. «Allora siamo tutti contenti. Oh, sì». Infilò una mano nel borsellino. «Ecco cinque
centesimi per la pagnotta, Signor Crostadiferro. L’altra l’ho usata, ma dovrebbe essere in grado di smerigliar-
la via senza problemi».
Il nano guardò le monete strizzando gli occhi. «Lei vuole pagare me per aver salvato i miei soldi?» domandò.
«Come cittadino che paga le tasse lei ha diritto alla protezione della Guardia» spiegò Carota.
Ci fu una pausa di imbarazzo. Il Signor Crostadiferro si guardò le punte dei piedi. Un paio degli altri nani
cominciò a ridacchiare.
«Sa che le dico» disse Carota in tono gentile. «Verrò personalmente appena avrò un momento libero e
l’aiuterò a compilare i formulari, che ne dice?»
Un ladro ruppe il silenzio carico di imbarazzo.
«Ehm... il tuo... ehm... cagnolino... potrebbe lasciarmi il braccio, per favore?»
Il lupo lasciò la presa, saltò giù e avanzò verso Carota, che si portò con rispetto una mano all’elmetto.
«Buongiorno a tutti» disse infine e si allontanò. Ladri e vittime lo guardarono andare via.
«Ma è vero?» domandò quello brillante.
Il panettiere emise una specie di latrato e poi gridò: «Bastardi! Grandissimi bastardi!»
«Co... cosa? Ma ha recuperato i soldi, no?»
Due dei lavoranti del Signor Crostadiferro dovettero trattenerlo.
«Tre anni!» esclamò quello. «Tre anni e nessuno se ne era accorto! Tre fottuti anni e nessuno è mai nemmeno
venuto a bussare alla porta! E lui me lo chiederà! Oh, sì! Sarà anche molto gentile! Probabilmente si occupe-

3
Municipio.
4
Perché ad Ankh-Morpork non esiste un municipio.
5
Recipiente del lievito.
rà di persona di procurarmi i formulari extra in modo che non debba prendermi io il fastidio! Ma perché voi
dementi non siete potuti semplicemente scappare via?»
Vimes scrutò attorno nella stanza scura che odorava di chiuso. La voce sarebbe anche potuta arrivare da una
tomba.
Un’espressione di panico attraversò il volto del piccolo Conservatore della Società Araldica. «Forse Sir Sa-
muel potrebbe essere tanto gentile da venire da questa parte?» suggerì la voce. Era glaciale e tagliava ogni
sillaba con precisione. Era il genere di voce che non batteva mai ciglio.
«Questi è, in effetti, ehm... Dragon» disse Mezzaluna Rossa.
Vimes allungò una mano verso la spada.
«Dragon Re degli Araldi» si presentò l’uomo.
«Re degli Araldi?» ripeté Vimes.
«È solo un titolo» spiegò la voce. «Prego entri».
Per un motivo imprecisato le parole si riformarono nel cervelletto di Vimes come ‘preda, entri’.
«Re degli Araldi» disse ancora la voce di Dragon, mentre Vimes passava nelle ombre del sancta sanctorum.
«Non le servirà la spada, comandante. Sono ormai Dragon Re degli Araldi da più di cinquecento anni ma non
sputo fuoco, l’assicuro. Ah-ha. Ah-ha».
«Ah-ha» fece Vimes. Non riusciva a distinguere chiaramente la figura. La luce proveniva da qualche finestra
alta e sporca e da svariate dozzine di candele che bruciavano con fiamme orlate di nero. Nella sagoma che
aveva di fronte scorse l’indizio di spalle ricurve.
«La prego, si sieda» disse Dragon Re degli Araldi. «Le sarei eternamente debitore se volesse guardare a sini-
stra sollevando il mento».
«Esponendo il collo, intende dire?» domandò Vimes.
«Ah-ha. Ah-ha».
La figura prese un candelabro e si avvicinò. Una mano tanto ossuta da apparire scheletrica afferrò il mento di
Vimes e lo spostò delicatamente da destra a sinistra.
«Oh, sì. Lei ha decisamente il profilo dei Vimes. Ma non le orecchie dei Vimes. È ovvio, sua nonna materna
era una Morsetto. Ah-ha...»
Una mano dei Vimes afferrò nuovamente la spada dei Vimes. Esisteva un unico tipo di persona che racchiu-
deva tanta forza in un corpo apparentemente tanto fragile.
«Lo immaginavo! Lei è un vampiro!» esclamò. «Un vampiro sanguinario» .
«Ah-ha». Poteva essere stata una risata. Poteva essere stato un colpo di tosse. «Sì. Proprio un vampiro. Già,
mi è noto il suo punto di vista riguardo ai vampiri. ‘Non proprio vivi ma non morti abbastanza’ mi pare lei
abbia detto. Mi sembra un’immagine calzante. Ah-ha. Vampiro, sì. Sanguinario, no. Mi piace il sanguinac-
cio, sì. Il culmine dell’arte di un macellaio, sì. E alla più brutta, ci sono sempre moltissimi macellai kasher
giù in Viale Carnediporco. Ah-ha, sì. Viviamo tutti come meglio possiamo. Ah-ha. Le vergini sono al sicuro
con me. Ah-ha. Da svariate centinaia di anni, purtroppo. Ah-ha».
La figura e il cerchio di luce di candela si spostarono.
«Temo che lei abbia perso inutilmente del tempo, Comandante Vimes».
La vista di Vimes si stava abituando sempre di più alla luce tremolante. La stanza era stracolma di libri acca-
tastati, nessuno dei quali si trovava su scaffali. In compenso, da ognuno spuntavano segnalibri come dita
spiaccicate.
«Non capisco» rispose. O Dragon Re degli Araldi aveva delle spalle davvero incurvate o sotto il suo mantello
informe si trovavano delle ali. Alcuni vampiri potevano volare come pipistrelli, rammentò Vimes. Si chiese
quanto fosse vecchio questo. Potevano ‘vivere’ quasi per sempre...
«Credo che lei si trovi qui perché si ritiene, ah-ha, appropriato che lei possegga uno stemma araldico. Temo
tuttavia che non sia possibile. Ah-ha. Uno stemma araldico dei Vimes è esistito, ma non può essere riportato
in vita. Sarebbe contro ogni regola».
«Che regola?»
Si udì un tonfo quando un libro venne tirato giù e aperto. «Sono certo che lei conosce i suoi antenati, coman-
dante.
Suo padre era Thomas Vimes e suo nonno Gwilliam Vimes...»
«Il Vecchio Facciadipietra, vero» commentò Vimes in tono inespressivo. «Deve avere qualcosa a che fare col
Vecchio Facciadipietra».
«Esattamente. Ah-ha. Vimes Non-Tollero-Ingiustizie. Il suo antenato. Veniva effettivamente chiamato Vec-
chio Facciadipietra. Comandante della Guardia Cittadina nel 1688. È regicida. Ha assassinato l’ultimo re di
Ankh-Morpork, come sanno tutti gli scolari».
«Giustiziato!»
Ci fu un’alzata di spalle. «Comunque, lo stemma di famiglia è stato, come diciamo noi in araldica, Excretus
Ex Altitudine. Cioè a dire, Depositatum De Latrina. Distrutto. Bandito. Impossibilitato a rinascere. Terre con-
fiscate, casa abbattuta, pagina strappata dalla storia. Ah-ha. Sa, comandante, è interessante che così tanti dei,
ah-ha, discendenti del ‘Vecchio Facciadipietra’» le virgolette ricaddero perfettamente attorno al nomignolo,
come quando una vecchia signora solleva con attenzione qualcosa di schifoso con un paio di pinzette, «siano
stati ufficiali della Guardia. Io credo, comandante, che anche lei abbia acquisito quel nomignolo. Ah-ha. Ah-
ha. Mi sono chiesto se lei non abbia qualche impulso ereditato per tentare di lavare l’onta. Ah-ha».
Vimes digrignò i denti. «Mi sta dicendo che io non posso avere uno stemma araldico?»
«Esattamente. Ah-ha».
«Perché il mio antenato ha ucciso un...» Si interruppe. «No, non è nemmeno stata un’esecuzione» precisò.
«Si giustizia un essere umano. Si macella un animale» .
«Lui era il re» ribatté pacatamente Dragon.
«Oh, sì. Poi saltò fuori che nelle segrete teneva macchinari per...»
«Comandante» lo interruppe il vampiro, sollevando le mani, «temo che lei non mi capisca. Qualsiasi altra
cosa fosse, era il re. Vede, la corona non è come l’elmetto di una guardia, ah-ha. Anche quando la si toglie la
si ha ancora in testa».
Facciadipietra l’ha staccata di sicuro!»
«Ma il re non ha nemmeno avuto un processo».
«Non si è riuscito a trovare alcun giudice disponibile» replicò Vimes.
«Eccetto lei... cioè, il suo antenato...»
«Allora? Qualcuno doveva farlo. Alcuni mostri non dovrebbero mai poter vagare vivi sotto il cielo».
Dragon trovò la pagina che stava cercando nel libro e lo voltò. «Questo era il suo scudo» osservò.
Vimes guardò il familiare simbolo del gufo Morpork appollaiato sulla croce Ankh. Si trovava sopra uno scu-
do diviso in quattro quarti, con un simbolo in ognuno.
«Cos’è quella corona con un pugnale che l’attraversa?»
«Oh, un simbolo tradizionale, ah-ha. Indica il suo ruolo di difensore della corona».
«Davvero? E il gruppo di canne con un’ascia dentro?»
«Un fascio. Simboleggia che lui è... era un rappresentante della legge. L’ascia rappresenta un interessante se-
gno premonitore dei fatti a venire, no? Ma le asce, temo, non risolvono nulla».
Vimes fissò il terzo quarto. Conteneva un dipinto di quello che sembrava un busto di marmo.
«Simboleggia il nomignolo ‘Vecchio Facciadipietra’» spiegò Dragon collaborativo. «Ha chiesto lui che vi
fosse qualche riferimento a proposito. A volte l’araldica non è altro che l’arte del gioco di parole».
«E quest’ultima parte? Un grappolo d’uva? Bel bevitore, eh?» domandò Vimes con espressione acida.
«No. Ah-ha. Gioco di parole. Vimes=Vino».
«Oh. L’arte dei brutti giochi di parole» commentò Vimes. «Scommetto che vi ha fatto rotolare per terra dal
ridere».
Dragon chiuse il libro e sospirò. «C’è di rado una ricompensa per coloro che fanno ciò che deve essere fatto.
Ahimè, tali sono i precedenti e io sono del tutto impotente». La vecchia voce si rallegrò. «Tuttavia... sono sta-
to estremamente felice, comandante, di sentire del suo matrimonio con Lady Sybil. Eccellente genealogia.
Una delle più nobili famiglie della città, ah-ha. I Ramkin, i Selachii, i Venturis, i Nobbs, ovviamente...»
«Tutto qui, quindi?» disse Vimes. «Adesso me ne posso andare?»
«Accolgo raramente dei visitatori» osservò Dragon. «Di solito le persone vengono ricevute dai Conservatori
della Società Araldica, ma ritenevo che lei dovesse avere una spiegazione esauriente. Ah-ha. Al momento
siamo così occupati. Un tempo avevamo a che fare con la vera araldica. Questo, mi dicono, è invece il Secolo
della Volpe Volante. Adesso pare che, non appena uno apre il secondo negozio di polpette, si senta spinto a
considerarsi un gentiluomo». Agitò una sottile e bianca mano in direzione di tre scudi araldici fissati in fila su
un’asse. «Il macellaio, il panettiere e quello che produce candele» ghignò di scherno ma con signorilità.
«Prendiamo per esempio il produttore di candele. Non c’è niente se non quello che scoveremo fra qualche
carta e dimostreremo accettabilmente armigerante...»
Vimes lanciò un’occhiata ai tre scudi. «Ma quello non l’ho già visto da qualche parte?» domandò.
«Oh. Il Signor Artemisio Carry il produttore di candele» rispose Dragon. «All’improvviso gli affari fiorisco-
no e lui si sente di dovere essere un aristocratico. Uno scudo bisecato da un’ansa a sinistra d’une mèche en
metal gris... sarebbe come dire, uno scudo grigio acciaio che indica i suoi personali determinazione e zelo
(quanto sono zelanti, ah-ha, questi commercianti!) divisa da uno stoppino. Metà superiore, una chandelle in
una fenétre avec rideaux houlant (una candela che illumina una finestra con un caldo bagliore, ah-ha), metà
inferiore due chandeliers illuminés (che indicano che il tapino vende candele a ricchi e poveri allo stesso mo-
do). Per fortuna suo padre era uno scaricatore di porto, il che ci consente di spingerci un pochino più in là
con una lampe au poisson (lampada a forma di pesce), indicando così sia la sua sia l’attuale professione del
figlio. Il motto l’ho lasciato in lingua moderna ed è ‘L’Arte Portò Avanti la Candela’. Mi spiace, ah-ha, è sta-
to sconveniente ma non sono riuscito a resistere».
«Mi sto scompisciando» commentò Vimes. Qualcosa cercò di attrarre l’attenzione del suo cervello.
«Questo, è per il Signor Gerhardt Pugno, Presidente della Gilda dei Macellai» disse Dragon. «Sua moglie gli
ha detto che doveva assolutamente avere uno stemma araldico e chi siamo noi per discutere con la figlia di un
mercante di trippa? Gli ho fatto quindi uno scudo rosso che sta per il sangue, con strisce bianche e blu, il
grembiule da macellaio, diviso da una fila di salsicce, con in centro una mannaia tenuta in una mano guanta-
ta, un guanto da boxe, che è, ah-ha, il massimo che possiamo fare per ‘pugno’. Il motto è Futurus Meus est in
Visceris, che si può tradurre in ‘Il Mio Futuro è nelle Interiora’, il che fa riferimento alla sua professione e,
ah-ha, allude anche all’antica pratica di predire...»
«... il futuro dalle interiora» terminò Vimes. «Sconvolgente». Ciò che tentava di attirare la sua attenzione sta-
va ormai realmente saltando su e giù.
«Mentre questo, ah-ha, è per Rudolph Pentola della Gilda dei Fornai» spiegò Dragon, indicando il terzo scu-
do con un dito secco quanto un ramoscello. «Riesce a interpretarlo, comandante?»
Vimes gli lanciò un’occhiata tetra. «Be’, è diviso in tre e ci sono una rosa, una fiamma e una pentola» disse.
«Ehm... i panettieri usano il fuoco e la pentola per l’acqua, direi...»
«E poi c’è un gioco di parole sul nome» aggiunse Dragon.
«Ma, a meno che non venga chiamato Rosy, io...» Vimes strizzò quindi gli occhi. «La rosa è un fiore. Oh,
santo cielo. Fiore, fior di farina. Fior di farina, fuoco e acqua? A me però quella pentola sembra quasi un pita-
le. Un vaso da notte?»
«Il termine antico per fornaio era pistor» commentò Dragon. «Caspita, comandante, potremmo già farla Con-
servatore della Società Araldica! È il motto?»
«Quod Subigo Farinam» lesse Vimes e corrugò la fronte. «Perché’... ‘farinaceo’ significa fatto di grano, fari-
na, no?... oh, no... ‘Perché Lavoro l’Impasto’?»
Dragon batté le mani. «Ben fatto, signore!»
«In questo posto ci si deve addirittura sconquassare dal ridere durante le lunghe serate invernali» commentò
Vimes. «E questa sarebbe l’araldica? Definizioni da cruciverba e giochi di parole?»
«Ovviamente c’è molto di più» osservò Dragon. «Questi sono semplici. Dobbiamo in un certo senso inventar-
li. Al contrario lo scudo di un’autentica antica famiglia, come i Nobbs...»
«Nobbs!» esclamò Vimes, una volta compreso. «Ecco! Lei ha detto ‘Nobbs’! Prima... mentre stavamo par-
lando delle antiche famiglie!»
«Ah-ha. Cosa? Oh, certo. Sì. Oh, sì. Una bella e antica famiglia. Anche se ora, purtroppo, in decadimento».
«Non vorrà dire Nobbs come... Caporale Nobbs, eh?» domandò Vimes, con voce pervasa dall’orrore.
Si aprì un libro con un tonfo. Nella luce arancione, Vimes colse un fugace sguardo alla rovescia di stemmi e
di un vegetante e poco sfrondato albero genealogico.
«Oh, caspita. Potrebbe trattarsi di un certo C.W. St J. Nobbs?»
«Ehm... sì. Sì!»
«Figlio di Sconner Nobbs e una signora che viene qui indicata come Maisie di Via dell’Olmo?»
«Probabilmente».
«Nipote di Slope Nobbs?»
«Mi sembra corretto».
«Il quale era figlio illegittimo di Edward St John de Nobbs, Conte di Ankh e, ah-ha, una cameriera di ignoto
lignaggio?»
«Santo cielo!»
«Il conte è morto senza prole, eccetto quella che, ah-ha, era rappresentata da Slope. Non siamo mai stati in
grado di rintracciare il rampollo... fino a oggi, in alcun modo».
«Santo cielo!»
«Conosce quel gentiluomo?»
Vimes considerò sconcertato una frase seria e affermativa riguardante il Caporale Nobbs che includeva la pa-
rola ‘gentiluomo’. «Ehm... sì» rispose.
«È un uomo che ha delle proprietà?»
«Solo quelle degli altri».
«Bene, ah-ha, allora glielo dica. Adesso non ci sono più né denari né terreni, ovviamente, ma il titolo è anco-
ra valido».
«Mi scusi... mi faccia capire bene. Il Caporale Nobbs... il mio Caporale Nobbs... sarebbe il Conte di Ankh»
«Dovrebbe soddisfare il nostro bisogno di prove del suo lignaggio ma sì, parrebbe di si».
Vimes fissò l’oscurità. Fino a quel momento, nella sua vita, il Caporale Nobbs avrebbe avuto delle belle dif-
ficoltà a soddisfare il bisogno di provare a quale specie appartenesse.
«Santo cielo!» disse nuovamente Vimes. «E immagino che lui abbia uno stemma araldico».
«È anche particolarmente bello».
«Oh».
Vimes non aveva mai voluto uno stemma. Un’ora prima avrebbe allegramente saltato quell’appuntamento
come aveva fatto così tante altre volte in passato. Ma...
«Nobby?» disse. «Santo cielo!»
«Bene, bene! Questo è stato un incontro davvero felice» commentò Dragon. «Mi piace moltissimo tenere ag-
giornata la documentazione. Ah-ha. A proposito, come se la sta cavando il giovane Capitano Carota? Mi
hanno detto che la sua giovane amica è un lupo mannaro. Ah-ha» .
«Già» rispose Vimes.
«Ah-ha». Nell’oscurità, Dragon fece un movimento che sarebbe potuto apparire una cospiratoria toccatina al
naso. «Noi siamo al corrente di cose del genere!»
«Il Capitano Carota se la cava bene» rispose Vimes col tono più glaciale che riuscì a tirar fuori. «Il Capitano
Carota se la cava sempre bene».
Sbatté la porta quando uscì. Le fiammelle delle candele ondeggiarono.

***

L’Agente Angua uscì da un vicolo allacciandosi la cintura. «Mi sembra che sia andata molto bene» disse Ca-
rota, «e ci servirà parecchio per farci guadagnare il rispetto della comunità».
«Che schifo! La manica di quell’uomo! Dubito che conosca il significato della parola ‘bucato’» commentò
Angua, pulendosi la bocca.
Automaticamente cominciarono a camminare allo stesso passo... quello della camminata a risparmio energe-
tico tipica del poliziotto, in cui il peso dell’oscillazione della gamba viene utilizzato per fare avanzare colui
che cammina con il minimo sforzo. Camminare era importante, Vimes lo aveva sempre detto e visto che lo
aveva detto Vimes, Carota ci credeva. Camminare e parlare. Camminando a sufficienza e parlando con un
sufficiente numero di persone prima o poi si trovavano le risposte.
Il rispetto della comunità, pensò Angua. Frase tipica di Carota. Be’, in effetti si trattava di una frase di Vi-
mes, anche se Sir Samuel di solito sputava dopo averla pronunciata. Carota invece ci credeva. Era stato Caro-
ta a suggerire al Patrizio che ai criminali incalliti venisse data un’opportunità di ‘servire la comunità’ ritin-
teggiando le case degli anziani, aggiungendo nuovi terrori alle vecchie paure e, dato il tasso di criminalità di
Ankh-Morpork, costringendo un’anziana signora a tappezzare il corridoio così tante volte in sei mesi da riu-
scire a percorrerlo soltanto di profilo. 6 «Ho trovato qualcosa di molto interessante che sarai molto interessata
a vedere» disse Carota dopo un po’.
«Interessante» commentò Angua.
«Però non ti dirò che cos’è perché vorrei farti una sorpresa» proseguì Carota.
«Oh. Bene».
Angua camminò per un po’ riflettendo e poi disse: «Mi chiedo se sarà sorprendente come la collezione di
campioni di rocce che mi hai mostrato la settimana scorsa».
«Era davvero bella, eh?» esclamò Carota entusiasta. «Sono passato per quella strada dozzine di volte e non
avevo mai sospettato che ci fosse un museo di minerali! Tutti quei silicati!»
«Impressionante! Si direbbe che la gente debba confluirci a frotte, eh?»
«Sì, non capisco proprio perché non lo faccia!»
Angua rammentò a se stessa che nell’animo di Carota non vi era la benché minima traccia di ironia. Si disse
che non era colpa sua se era stato allevato da nani in una sperduta miniera ed era realmente convinto che dei
pezzi di roccia fossero tanto interessanti. La settimana prima avevano visitato una fonderia. Anche quella era
stata interessante.
Eppure... eppure... non si poteva fare a meno di apprezzare Carota. Perfino quelli che arrestava apprezzavano

6
Il Comandante Vimes, d’altra parte, era per dare ai criminali delle brevi ma secche scosse. Dipendeva tutto da quanto strettamente
fossero legati al parafulmine.
Carota. Perfino le vecchiette che vivevano nella permanente puzza di vernice fresca apprezzavano Carota. Lei
apprezzava Carota. Moltissimo. Il che le avrebbe reso ancora più difficile lasciarlo.
Lei era un lupo mannaro. Non c’era altro da dire. O passavi la vita a cercare di fare in modo che le persone
non lo scoprissero o lasciavi che lo scoprissero e passavi la vita a vederle tenersi a distanza e sussurrarti alle
spalle, anche se ovviamente dovevi voltarti per farci caso.
A Carota non importava. Gli importava però che importasse alle altre persone. Gli importava che perfino i
colleghi più cordiali tendessero a portarsi sempre addosso un pezzetto di argento. Lei si era accorta che la co-
sa lo infastidiva. Si era accorta delle tensioni che si accumulavano e di come lui non fosse in grado di scen-
dervi a patti.
Era proprio come le aveva detto suo padre: mischiati con gli umani in occasioni che non siano solo i pasti e
potresti anche buttarti a capofitto in una miniera di argento.
«Pare che ci sarà un grande spettacolo di fuochi d’artificio dopo le celebrazioni del prossimo anno» disse Ca-
rota. «A me piacciono i fuochi d’artificio».
«Non riesco proprio a capire perché Ankh-Morpork voglia festeggiare il fatto di avere combattuto una guerra
civile trecento anni fa» commentò Angua, tornando al qui e ora.
«Perché no? Noi abbiamo vinto» rispose Carota.
«Sì, ma avete anche perso».
«Guarda sempre il lato positivo, dico io. Oh, eccoci arrivati».
Angua sollevò lo sguardo verso l’insegna. Ormai aveva imparato a leggere le rune dei nani.
«‘Museo del Pane dei Nani’» lesse. «Caspita. Non vedo l’ora».
Carota annuì con espressione entusiastica e aprì la porta. Si sentiva l’odore di croste antiche.
«Ehilà, Signor Hopkinson?» chiamò. Non ci fu risposta. «A volte esce» disse quindi.
«Probabilmente quando l’eccitazione si fa eccessiva per lui» osservò Angua. «Hopkinson? Ma non è un no-
me da nani, no?»
«Oh, lui è umano» rispose Carota entrando. «Ma è un’incredibile autorità. Il pane è la sua vita. Ha scritto
l’ultima opera sulla panetteria da offesa. Be’... visto che non c’è prenderò due biglietti e lascerò due centesi-
mi sul bancone».
Non sembrava che il Signor Hopkinson avesse molti visitatori. Il pavimento era pieno di polvere e c’era pol-
vere sulle teche e moltissima polvere sugli oggetti in esposizione. La maggior parte di essi avevano la classi-
ca forma a sterco di vacca, eco del loro sapore, ma c’erano anche panini, pasticcini da combattimento corpo a
corpo, letali toast da lancio e un immenso e polveroso schieramento di altre forme studiate da una razza che
scendeva in campo nelle guerre del cibo in modo imperioso e soprattutto terminale.
«Che cosa stiamo cercando?» domandò Angua. Annusò l’aria. C’era un odore sgradevolmente familiare.
«Si tratta... sei pronta?... Si tratta... del Pane da Battaglia di B’hrian Asciadisangue!» esclamò Carota, rovi-
stando nel bancone situato all’entrata.
«Una pagnotta? Mi hai portato qui per vedere una pagnotta?»
Annusò di nuovo. Sì. Sangue. Sangue fresco.
«Esattamente» rispose Carota. «Sarà qui solo per un paio di settimane in prestito. È l’autentico pane che lui
ha brandito personalmente nella Battaglia di Koom Valley, uccidendo cinquantasette troll, anche se» e qui il
tono di Carota passò dall’entusiasmo alla civica rispettabilità, «ciò è successo molto tempo fa e noi non do-
vremmo permettere alla storia antica di accecarci rispetto alle realtà di una società multietnica nel Secolo del-
la Volpe Volante».
Si sentì cigolare una porta.
E poi: «Questo pane da battaglia» domandò Angua, in modo vago. «È nero, vero? Un bel po’ più grosso di
una normale pagnotta?»
«Sì, proprio così» rispose Carota.
«È il Signor Hopkinson... È un uomo basso? Con un pizzetto bianco»
«È lui».
«E ha il cranio fracassato?»
«Come?»
«Penso che faresti meglio a venire a dare un’occhiata» disse Angua, indietreggiando.

***

Dragon Re degli Araldi era seduto da solo fra le proprie candele.


Allora quello era il Comandante Sir Samuel Vimes, rifletté fra sé. Uno stupido. È chiaro che non riesce a ve-
dere al di là del proprio naso. Ed è gente del genere che sale alle alte cariche di questi tempi. Eppure, gente
così ha il suo utilizzo, che è poi probabilmente il motivo per cui Vetinari lo ha promosso. Spesso gli stupidi
sono capaci di cose che gli intelligenti non oserebbero nemmeno prendere in considerazione...
Sospirò e attirò a sé un altro tomo. Non era più grosso di molti altri che affollavano il suo studio, fatto che
avrebbe potuto sorprendere chiunque ne avesse conosciuto il contenuto.
Ne era piuttosto fiero. Si trattava di un’opera abbastanza insolita, ma lui era rimasto sorpreso – o lo sarebbe
stato nel caso che qualcosa avesse potuto sorprenderlo durante gli ultimi cent’anni o giù di lì – da quanto fos-
se stato facile crearla. Non aveva nemmeno bisogno di leggerla ormai. La conosceva a memoria. Gli alberi
genealogici erano correttamente piantati, il testo era già scritto nero su bianco e tutto quello che lui doveva
fare era unirsi al coro.
La prima pagina era intitolata: «La Stirpe di Re Carota I, Re di Ankh-Morpork per Grazia degli Dei». Un
lungo e complesso albero genealogico occupava la successiva dozzina di pagine finché non si arrivava a:
Sposato... Le parole a quel punto erano inserite solo a matita.
«Delfina Angua di Boscodisopra» lesse Dragon a voce alta. «Padre... e, ah-ha, razzatore... Barone Guye di
Boscodisopra, noto anche come Codargentata; madre Serafina SoxeBloonberg, nota anche come Zannagialla,
di Genova...»
Quella parte era stata una bella realizzazione. Si era aspettato che i suoi agenti avessero qualche difficoltà con
i tratti più lupoidi degli antenati di Angua, ma era saltato fuori che anche i lupi di montagna riversavano pa-
recchio interesse in argomenti del genere. Gli antenati di Angua erano stati decisamente fra i capi del branco.
Dragon Re degli Araldi sogghignò. Per quello che lo riguardava, le specie rappresentavano un problema se-
condario. Quello che realmente importava in un individuo era un buon pedigree.
Oh, bene. Quello era il futuro come sarebbe potuto essere. Mise da parte il libro. Uno dei vantaggi di una vita
molto più lunga della media era che si vedeva quanto fosse fragile il futuro. Gli uomini dicevano frasi come
‘pace nel nostro tempo’ oppure ‘un impero che durerà mille anni’ e meno di mezza vita dopo nessuno ram-
mentava più nemmeno chi fossero, figuriamoci poi ciò che avevano detto o dove la folla avesse seppellito le
loro ceneri. Quello che cambiava la storia erano dettagli più piccoli. Spesso qualche tratto di penna riusciva a
essere il rimedio giusto.
Si portò vicino un altro tomo. Il frontespizio recava le parole: ‘La Stirpe di Re...’ Ora, come si sarebbe fatto
chiamare quell’uomo? Quanto meno quello non era prevedibile. Oh, che importava...
Dragon prese la matita e scrisse: ‘Nobbs’.
Sorrise nella stanza illuminata dalle candele.
La gente continuava a parlare del vero Re di Ankh-Morpork, ma la storia insegnava una lezione ben più cru-
da. Diceva, spesso con parole scritte col sangue, che il vero re era quello che veniva incoronato.
Anche quella stanza era stipata di libri. Quella era la prima impressione... un’impressione di librità umida e
opprimente.
Il defunto Padre Tubelcek era steso in mezzo a una frana di libri caduti. Era sicuramente morto. Nessuno a-
vrebbe potuto perdere così tanto sangue ed essere ancora vivo. O sopravvivere con una testa che pareva una
palla sgonfia. Qualcuno doveva averlo colpito con una mazza.
«Questa signora è uscita di corsa strillando» disse l’Agente Visita, facendo il saluto militare. «Così io sono
entrato e la situazione era proprio questa, signore».
«Proprio questa, Agente Visita?»
«Sì, signore. Ma mi chiamo Visita-L’Infedele-Con-Opuscoli-Informativi, signore».
«Chi era la signora?»
«Dice di chiamarsi Signora Kanakci, signore. Dice che gli porta sempre i pasti. Dice che fa delle cose per
lui».
«Fa delle cose per lui?»
«Sa, signore. Pulire, scopare».
C’era effettivamente un vassoio a terra con una ciotola rotta e del porridge versato. La signora che faceva
delle cose per il vecchio era rimasta scioccata di scoprire che qualcun altro gli aveva fatto qualcosa prima.
«Lo ha toccato?» domandò.
«Ha detto di no, signore».
Il che significava che l’anziano prete aveva, non si sa come, allestito la morte più ordinata che Vimes avesse
mai visto. Aveva le mani incrociate sul petto. Gli erano stati chiusi gli occhi.
E gli era stato infilato qualcosa in bocca. Sembrava un rotolino di carta. Conferiva al cadavere un aspetto
sorprendentemente allegro, quasi che avesse deciso di farsi un’ultima sigaretta dopo essere morto.
Vimes tirò fuori cautamente il biglietto di carta e lo srotolò. Era coperto di simboli scritti meticolosamente
ma sconosciuti. Quello che li rendeva particolarmente degni di nota era il fatto che il loro autore aveva appa-
rentemente fatto uso dell’unico liquido che si trovava lì attorno in grande quantità.
«Che schifo» commentò Vimes. «Scritto col sangue. Significa qualcosa per qualcuno?»
«Sì, signore!»
Vimes fece roteare gli occhi. «Davvero, Agente Visita?» «Visita-L’Infedele-Con-Opuscoli-Informativi, si-
gnore» precisò l’Agente Visita, con espressione ferita.
«‘L’Infedele-Con-Opuscoli-Informativi’7, stavo per dirlo, agente» aggiunse Vimes. «Allora?»
«È un’antica scrittura Klatchiana» disse l’Agente Visita. «Una delle tribù del deserto chiamata i Cenotini.
Avevano una sofisticata ma fondamentalmente imperfetta...»
«Sì, sì, sì» lo interruppe Vimes, che era in grado di riconoscere il piede verbale che si preparava a infilarsi
nella porta uditiva. «Ma sa che cosa significa?»
«Potrei scoprirlo, signore».
«Bene».
«A proposito, è riuscito per caso a trovare il tempo per dare un’occhiata ai volantini che le ho lasciato l’altro
giorno, signore?»
«Sono stato molto occupato!» rispose Vimes automaticamente.
«Non si preoccupi, signore» disse Visita e fece il classico sorriso vacuo di quelli che stanno facendo del bene
a dispetto delle poche probabilità di successo. «Quando troverà un momento, andrà bene».
I vecchi libri che erano stati abbattuti dalle scansie avevano riversato le loro pagine ovunque. C’erano chiaz-
ze di sangue su parecchie di esse.
«Alcuni di questi testi paiono di carattere religioso» osservò Vimes. «Si potrebbe trovare qualcosa». Si voltò.
«Detritus, dai uno sguardo attorno, per favore».
Detritus si interruppe mentre tracciava faticosamente un profilo col gesso attorno al cadavere. «Sissignore.
Cosa devo cercare, signore?»
«Tutto quello che riesci a trovare».
«Va bene, signore».
Sbuffando, Vimes si abbassò e tastò una chiazza grigiastra sul pavimento. «Terra» disse.
«Di solito se ne trova sui pavimenti, signore» disse Detritus, zelante.
«Solo che questa è bianca. Noi ci troviamo su terriccio scuro» ribatté Vimes.
«Oh» commentò il sergente Detritus. «Un indizio». «Ovviamente potrebbe essere solo terra».
C’era anche qualcos’altro. Qualcuno aveva fatto un tentativo di rimettere in sesto i libri. Ne avevano accata-
stato una dozzina in una pila ordinata, un libro sull’altro, i più grossi sul fondo, tutti gli angoli combacianti
con precisione geometrica.
«Adesso questa è una cosa che non capisco» osservò Vimes, «C’è una lotta. Il vecchio viene aggredito bru-
talmente. poi qualcuno... forse lui morente, forse l’assassino... scrive qualcosa usando il sangue dello stesso
poveretto. Arrotola con cura il foglietto e glielo infila in bocca come una caramella. A quel punto l’uomo
muore e qualcuno gli chiude gli oc- chi, lo mette per bene in ordine, accatasta accuratamente questi libri e...
cosa fa? Se ne esce nella brulicante confusione che è Ankh-Morpork?»
L’onesta fronte del Sergente Detritus si corrugò per lo sforzo del pensiero. «Potrebbe esserci... potrebbe es-
serci un’impronta fuori dalla finestra» disse. «È un indizio che vale sempre la pena di cercare».
Vimes sospirò. Detritus, a dispetto di un QI a temperatura ambiente, era un buon poliziotto e un ottimo ser-
gente. Possedeva quello speciale tipo di stupidità difficile da ingannare. L’unica cosa più difficile di fargli af-
ferrare un’idea, tuttavia, era quella di fargliela lasciare perdere.8 «Detritus» gli disse nel modo più gentile
possibile. «C’è un baratro di sei metri che dà direttamente nel fiume, fuori dalla finestra. Non è possibile che
ci siano...» Si interruppe. Dopotutto si trattava del fiume Ankh. «Le impronte si saranno di certo dissolte, or-
mai» si corresse. «Quasi certamente».

7
L’Agente Visita era un Omniano, il cui stile tradizionale di evangelizzazione era quello di torturare i non credenti con la spada.
L’atteggiamento era divenuto ben più civile negli ultimi tempi, ma gli Omniani avevano mantenuto uno strenuo e infaticabile ap-
proccio alla diffusione del Verbo cambiando soltanto la natura delle armi. L’Agente Visita passava le giornate libere in compagnia
del suo co-religioso Tormenta-Il-Miscredente-Con-Argomenti-Astuti, suonando campanelli e costringendo la gente a nascondersi
dietro la mobilia, per tutta la città.
8
Detritus era particolarmente bravo quando si trattava di porre domande. Ne aveva tre, di base. Erano quella diretta («Sei stato
tu?»), quella insistente («Sei sicuro di non essere stato tu? ») e quella sottile («Sei stato tu, non è vero? »). Anche se non si trattava
delle domande Più intelligenti mai studiate, il talento di Detritus consisteva nel continuare aporle per ore ininterrottamente finché
non otteneva la risposta giusta che di solito era qualcosa di simile a: «Sì! Sì! Sono stato io! Sono stato io! Adesso ti prego dimmi
che cosa ho fatto! »
Guardò comunque all’esterno, non si sa mai. Il fiume gorgogliava denso sotto di lui. Non c’erano impronte,
nemmeno sulla sua superficie notoriamente crostosa. C’era tuttavia un’altra macchia di terra sul davanzale
della finestra.
Vimes ne grattò un po’ e l’annusò.
«Mi sembra altra argilla bianca» osservò.
Non gli veniva in mente alcun posto dove ci fosse argilla bianca attorno alla città. Una volta usciti dalle mura
cittadine c’era solo spesso terriccio nero fino alle Montagne Ramtop. Un uomo che vi camminava attraverso
si sarebbe trovato più alto di cinque centimetri quando fosse giunto dall’altra parte di un campo.
«Argilla bianca» ripeté. «Dove diavolo si può trovare argilla bianca qui attorno?»
«È un mistero» commentò Detritus.
Vimes sorrise ma senza essere divertito. Era effettivamente un mistero. A lui i misteri non piacevano. I miste-
ri avevano un modo tutto loro di farsi sempre più grossi se non li si risolveva in fretta. I misteri figliavano.
Dei semplici omicidi accadevano in continuazione. Di solito riusciva a risolverli perfino Detritus. Quando
una donna stravolta si trovava in piedi sopra un marito caduto tenendo in mano un attizzatoio piegato e gri-
dava: «Non avrebbe mai dovuto dire una cosa simile del nostro Neville!» si poteva fare decisamente pochis-
simo per procrastinare la soluzione del caso al di là della successiva pausa caffè. Quando poi alcuni uomini o
partì di essi pendevano da o erano inchiodati a svariati attrezzi di fissaggio al Tamburo Riparato di sabato se-
ra e il resto della clientela assumeva un’espressione innocente, non c’era bisogno nemmeno di un’intelligenza
detritica per capire che cosa fosse accaduto.
Abbassò lo sguardo sul defunto Padre Tubelcek. Era incredibile che avesse sanguinato tanto, con quelle brac-
cia che parevano scovolini per pipa e il torace simile a un tostapane. Non doveva essere stato di certo in gra-
do di opporre una gran resistenza.
Vimes si chinò e sollevò delicatamente una delle palpebre del cadavere. Un occhio azzurro lattiginoso con il
centro nero lo fissò di rimando dal luogo imprecisato in cui ora si trovava il vecchio prete.
Un vecchio religioso che abitava in un paio di stanzette anguste e ovviamente non usciva molto spesso, a
giudicare dall’odore. Che razza di minaccia poteva rappresentare?
L’Agente Visita infilò la testa nell’arco della porta. «C’è un nano qui sotto senza sopracciglia e con la barba
crespa che dice che lei gli ha detto di venire qui, signore» disse. «Alcuni cittadini sostengono che Padre Tu-
belcek è il loro prete e che lo vogliono seppellire in modo decoroso».
«Oh, sarà Culetto. Lo faccia salire» disse Vimes, raddrizzandosi. «Dica agli altri che dovranno aspettare».
Culetto sali le scale, osservò la scena e riuscì a raggiungere la finestra in tempo per vomitare.
«Adesso va meglio?» domandò alla fine Vimes. «Ehm... sì. Spero di sì».
«Allora lo lascio a lei».
«Ehm... che cosa vuole esattamente che faccia?» domandò Culetto, ma Vimes era già a metà delle scale.

***

Angua latrò. Era un segnale per Carota: poteva riaprire gli occhi.
Le donne, come aveva osservato una volta Colon quando aveva pensato che Carota avesse bisogno di consi-
gli, sapevano essere davvero strane rispetto a certe piccolezze. Magari non gradivano essere viste senza truc-
co, oppure insistevano nell’acquistare valigie più piccole degli uomini anche se si portavano dietro sempre un
maggior numero di vestiti. Nel caso di Angua, a lei non piaceva essere vista en route dalla forma umana a
quella di lupo mannaro e viceversa. Era una cosa che le dava fastidio, diceva. Carota la poteva guardare in
entrambe le forme, ma non in quelle svariate che lei assumeva nel passaggio dall’una all’altra, se voleva con-
tinuare a vederla.
Il mondo, attraverso gli occhi di un lupo mannaro, era diverso.
Tanto per cominciare era in bianco e nero. Quanto meno la piccola parte di esso che, da umana, lei avrebbe
considerato ‘vista’ era monocromatica... ma chi era interessato a quel tipo di vista doveva mettersi seduto in
fondo alla sala quando l’odorato faceva il suo ingresso, ridendo, scherzando, agitando le braccia e facendo
gestacci a tutti gli altri sensi. In seguito lei ricordava sempre gli odori come colori e suoni. Il sangue era di un
cupo marrone e aveva un suono basso profondo, il pane raffermo era di un sorprendente azzurro tintinnante e
ogni essere umano rappresentava una quadridimensionale sinfonia caleidoscopica. Vedere col naso, infatti,
significava vedere attraverso il tempo oltre che lo spazio: una persona poteva restare immobile per un minuto
e, un’ora più tardi, si sarebbe trovata ancora lì per il naso, i suoi odori a malapena sbiaditi.
Avanzò quatta quatta lungo i corridoi del Museo del Pane, col naso a terra. Si recò quindi un attimo nel vico-
lo e provò anche lì.
Dopo cinque minuti tornò da Carota e gli dette nuovamente il segnale.
Quando lui riaprì gli occhi lei si stava infilando la camicia. Quella era un’operazione per cui gli umani erano
molto avvantaggiati. Non si poteva battere l’efficienza di un paio di mani.
«Pensavo fossi per la strada a seguire qualcuno» disse Carota.
«Seguire chi?» domandò di rimando Angua.
«Come, scusa?»
«Riesco a sentire l’odore suo, tuo e del pane, tutto qui». «Niente altro?»
«Terra. Polvere. La solita roba. Oh, ci sono delle tracce vecchie che risalgono a giorni fa. So, per esempio,
che tu sei stato qui la settimana scorsa. Ci sono un sacco di odori. Grasso, carne, non so perché, resina di pi-
no, cibo stantio... ma giurerei che qui dentro non è passato un altro essere vivente nell’ultimo paio di giorni
eccetto lui e noi».
«Ma tu mi hai detto che tutti lasciano una traccia».
«È vero».
Carota abbassò lo sguardo sul defunto direttore del museo. Per come lo si volesse definire, per quanto si vo-
lesse parlare in senso lato, non poteva assolutamente essersi suicidato. Non con una pagnotta.
«Vampiri?» suggerì Carota. «Possono volare...»
Angua sospirò. «Carota, potrei dirti se qui dentro fosse passato un vampiro un mese fa».
«C’è quasi un mezzo dollaro in centesimi nel cassetto» osservò Carota. «E poi comunque un ladro sarebbe
venuto qui per il Pane da Battaglia, no? È un artefatto culturale di grande valore».
«Il poveretto aveva dei parenti?» domandò Angua.
«Mi sembra che abbia una sorella più grande. Io vengo qui una volta al mese per farmi una chiacchierata. Sai,
mi concede di prendere in mano i pezzi esposti».
«Deve essere molto divertente» commentò Angua prima di riuscire a bloccarsi.
«È molto... soddisfacente, sì» rispose Carota in tono solenne. «Mi ricorda casa mia».
Angua sospirò ed entrò nella stanza posta dietro il piccolo museo. Assomigliava al retro di un qualsiasi altro
museo, pieno di roba per cui non c’era posto negli scaffali e anche di oggetti di dubbia provenienza, come
delle monete datate ‘52 a.C.’ C’erano delle panche con sopra delle schegge di pane dei nani, un portautensili
ben tenuto con martelli da impasto di svariate misure e carte ovunque. Contro una parete, a occupare gran
parte della stanza, si trovava un forno.
«Studia antiche ricette» spiegò Carota, che sembrava sentisse il dovere di valorizzare la competenza
dell’uomo anche da morto.
Angua aprì il portello del forno. La stanza si riempì di calore. «Un forno del diavolo» osservò lei. «Che cos’è
questa roba?»
«Oh... stava facendo dei biscotti da lancio» rispose Carota. «Quasi letali a distanza ravvicinata».
Lei chiuse il portello. «Torniamo al Posto di Guardia e facciamo venire qui qualcuno a...»
Angua s’interruppe.
Quelli erano sempre momenti pericolosi, appena dopo il cambiamento di forma in periodo di luna piena. La
situazione non era così grave quando lei era lupo mannaro. Restava sempre intelligente, quanto meno si sen-
tiva intelligente, anche se la vita risultava molto più semplice e quindi era probabile che lei fosse solo estre-
mamente intelligente per essere un lupo. Era quando tornava umana che le cose si complicavano. Per qualche
minuto, finché il campo morfico non si era completamente riassestato, aveva ancora tutti i sensi acutizzati: gli
odori erano incredibilmente forti e le sue orecchie erano in grado di udire suoni che andavano ben al di là del-
la limitata gamma udibile dagli umani. Inoltre riusciva a pensare di più agli stimoli che provava. Un lupo era
in grado di annusare un lampione e sapere che il vecchio Bonzo era passato di lì il giorno prima, che pativa
un po’ per il clima e che il padrone gli aveva dato ancora da mangiare la trippa, ma una mente umana riusciva
anche a pensare al perché e al percome.
«C’è qualcos’altro» disse, inspirando delicatamente. «Una traccia debole. Non si tratta di niente di vivente.
Ma... non riesci a sentirlo? Una cosa che assomiglia alla terra ma non lo è proprio. È un po’... arancione gial-
lastro...»
«Ehm...» disse Carota con tatto. «Non abbiamo tutti il tuo naso».
«È un odore che ho già sentito in città da qualche parte. Non riesco a ricordare dove... È forte. Più forte degli
altri odori. È un odore melmoso».
«Oh, be’, su certe strade...»
«No, non si tratta esattamente di melma. È più forte. Più acuto».
«Sai, a volte ti invidio. Deve essere bello essere lupo. Per un po’ almeno».
«Ha i suoi handicap». Come le pulci, pensò lei, mentre chiudevano a chiave il museo. È il cibo. È la costante
sgradevole sensazione che dovresti indossare tre reggiseni per volta.
Lei continuava a dire a se stessa di avere tutto sotto controllo e, in un certo senso, era vero. Vagava per la cit-
tà nelle notti di luna piena e, sì, c’era l’occasionale pollo, ma si era sempre ricordata dove era stata ed era
sempre passata di lì il giorno successivo per infilare dei soldi sotto la porta.
Era difficile essere vegetariani quando di mattina ci si doveva togliere dei pezzettini di carne dai denti. Co-
munque, se la cavava egregiamente.
Proprio così, disse a se stessa in modo rassicurante.
Era la mente di Angua che vagava di notte, non quella di un lupo mannaro. Ne era quasi completamente cer-
ta. Un lupo mannaro non si sarebbe limitato ai polli, decisamente no.
Rabbrividì.
Ma chi voleva prendere in giro? Era facile essere vegetariana di giorno. Ma evitare di diventare umanitariana
di notte, quello era difficile.

***

I primi orologi stavano cominciando a battere le undici quando la portantina di Vimes si fermò ondeggiando
davanti al palazzo del Patrizio. Le gambe del Comandante Vimes stavano cominciando a cedere, ma lui fece
di corsa tutte e cinque le rampe di scale, quindi crollò su una sedia nella sala d’attesa.
Passarono i minuti.
Non si bussava mai alla porta del Patrizio. Lui ti convocava basandosi sulla certezza che tu ti saresti trovato lì
fuori.
Vimes si appoggiò contro lo schienale, godendosi il momento di pace.
Qualcosa all’interno della sua giacca cominciò a fare ‘Ding-ding-ding!’
Sospirò, tirò fuori un pacchetto rilegato in pelle più o meno della dimensione di un libretto e lo aprì.
Un volto amichevole seppur leggermente preoccupato lo fissò dalla gabbietta.
«Sì?» disse Vimes.
«Ore undici. Appuntamento col Patrizio».
«Davvero? Bene. Sono le undici e cinque, ormai». «Ehm. Allora c’è già andato, vero?» domandò lo spiritel-
lo.
«No».
«Devo continuare a ricordarglielo o cosa?»
«No. E comunque non mi hai ricordato della Società Araldica alle dieci».
Lo spiritello sembrò preso dal panico.
«Oggi è martedì, vero? Avrei potuto giurare fosse martedì!»
«Era un’ora fa».
«Oh» lo spiritello assunse un’aria abbattuta. «Ehm. D’accordo. Mi scusi. Ehm. Ehi, potrei dirle che ore sono
nel Klatch, se vuole. Oppure a Genova. O a Hunghung. In un posto qualsiasi. A suo piacere».
«Non ho bisogno di sapere che ore sono nel Klatch».
«Potrebbe» commentò lo spiritello disperato. «Pensi come resterebbe impressionata la gente se, durante la
conversazione, lei dicesse: ‘A proposito, nel Klatch sono un’ora indietro’. O a Bes Pelargic. O a Ephebe. Me
lo chieda. Forza. Non mi secca. Un posto qualsiasi».
Vimes sospirò fra sé. Lui aveva un taccuino. Vi annotava i propri appunti. Era sempre stato utile. Poi Sybil,
benedetta donna, gli aveva comperato quello spiritello a quindici funzioni che faceva un sacco di altre cose,
anche se in effetti a lui sembrava che almeno dieci delle sue funzioni consistessero nello scusarsi per le pro-
prie inefficienze nelle restanti cinque.
«Potresti segnarti un promemoria» disse Vimes.
«Caspita! Davvero? Urca! D’accordo. Bene. Non c’è problema».
Vimes si schiarì la voce. «Riverificare col Caporale Nobbs rispetto dell’orario e anche titolo di conte».
«Ehm... scusi, è questo il promemoria?»
«Sì».
«Mi dispiace, prima avrebbe dovuto dire ‘promemoria’. Sono quasi sicuro che sul manuale dica così».
«D’accordo, era un promemoria».
«Mi dispiace, deve ripeterlo».
«Promemoria: riverificare col Caporale Nobbs rispetto dell’orario e anche titolo di conte».
«Fatto» commentò lo spiritello. «Vuole che le venga rammentato a un orario specifico?»
«L’orario di qui?» replicò sferzante Vimes. «Oppure l’orario di, che so, Klatch?»
«In effetti, posso dirle che ore sono...»
«Penso che lo annoterò sul mio taccuino, se non ti spiace» commentò Vimes.
«Oh, bene, se preferisce, so leggere anche la scrittura» disse lo spiritello con orgoglio. «Sono piuttosto avan-
zato».
Vimes tirò fuori il proprio taccuino e lo sollevò. «Come questa?» domandò.
Lo spiritello lo guardò in tralice. «Già» disse. «Quella è decisamente scrittura. Tratti rotondi, tratti appuntiti,
tutto unito insieme. Già. Scrittura. La riconoscerei ovunque».
«Non dovresti sapermi dire che cosa dice?»
Lo spiritello assunse un’espressione circospetta. «Dice?» domandò. «Deve anche fare un suono?»
Vimes ripose il taccuino malconcio e chiuse il coperchio dell’organizer. Si accomodò quindi meglio sulla se-
dia e riprese ad aspettare.
Una persona molto scaltra – di certo una molto più scaltra di chiunque avesse addestrato quello spiritello –
doveva avere prodotto l’orologio della sala d’attesa del Patrizio. Faceva tic-tac come qualsiasi altro orologio.
Non si sa come, però, e contro ogni consuetudine orologica, i tic-tac risultavano irregolari. Tic tac tic... quin-
di una mera frazione di secondo più tardi di prima... tac tic tac... e poi un tic una frazione di secondo prima di
quanto l’orecchio della mente fosse ormai preparato a udire. L’effetto era sufficiente, dopo una decina di mi-
nuti, a ridurre in una specie di budino i processi mentali perfino della persona meglio preparata. Il Patrizio
doveva avere pagato profumatamente quell’orologiaio.
L’orologio diceva che erano le undici e un quarto. Vimes si avvicinò alla porta e, a dispetto dei precedenti,
bussò delicatamente.
Non udì suono dall’interno, alcun mormorio di voci distanti.
Egli provò la maniglia. La porta non era chiusa a chiave. Lord Vetinari aveva sempre sostenuto che la pun-
tualità fosse la cortesia dei principi.
Vimes entrò.

***

Felice grattò via scrupolosamente un po’ della terra bianca e poi esaminò la salma del defunto Padre Tubel-
cek.
L’anatomia era considerata una materia importante alla Gilda degli Alchimisti, a causa dell’antica teoria se-
condo cui il corpo umano rappresentava un microcosmo dell’universo, anche se quando se ne vedeva uno a-
perto risultava difficile immaginare quale parte dell’universo fosse piccola, rossa e facesse blompblomp
quando la si toccava. In ogni caso, si tendeva ad apprendere un po’ di anatomia pratica procedendo con gli
studi, e a volte sfregandola via dalle pareti. Quando i nuovi studenti realizzavano un nuovo esperimento di
entusiasmante forza esplosiva, il risultato era spesso un incrocio fra un cospicuo addobbo di laboratorio e una
partita di Caccia-all’Altro-Rene.
L’uomo era morto a causa di ripetuti colpi sulla testa. Non si poteva affermare altro. Lo strumento usato do-
veva essere stato molto pesante e contundente.9 Che si aspettava Vimes da Felice?
Osservò con cura il resto del cadavere. Non c’erano altri segni di violenza, anche se c’erano alcune macchie
di sangue sulle dita dell’uomo. Ma, in fondo, c’era sangue dappertutto.
L’uomo aveva un paio di unghie rotte. Tubelcek aveva lottato o quanto meno aveva provato a proteggersi con
le mani.
Felice controllò con maggiore attenzione le dita. C’era qualcosa sotto le unghie. Aveva la consistenza della-
cera, una specie di grasso denso. Non riusciva proprio a immaginarsi come potesse trovarsi lì, ma forse era
suo compito scoprirlo. Tirò fuori coscienziosamente una bustina dalla tasca e vi infilò il materiale, la sigillò e
la numerò.
Prese quindi l’iconografo dalla scatola e si preparò a prendere un’immagine del cadavere.
Mentre così faceva, qualcosa attirò la sua attenzione.
Padre Tubelcek giaceva lì, un occhio ancora aperto come lo aveva lasciato Vimes, a fare l’occhiolino
all’eternità.
Felice guardò più da vicino. Gli sembrò di averlo immaginato. Ma...

9
È un mito diffuso e ingannevole che le persone che hanno progettato strumenti di morte siano finiti uccisi da essi. In effetti è pra-
ticamente privo di fondamento. Il Colonnello Granata non è morto saltando in aria, M. Guillotin è morto con la testa sul collo, al
Colonnello Gatling non hanno sparato. Se non fosse stato per l’uccisione in un vicolo dell’inventore di sfollagente e manganelli Sir
William Oggetto-Contundente, quella voce non si sarebbe mai diffusa.
Perfino adesso non ne era sicuro. La mente poteva tirare degli scherzi.
Aprì lo sportellino dell’iconografo e parlò allo spiritello che si trovava dentro.
«Puoi dipingere un’immagine dell’occhio, Sydney?» domandò.
Lo spiritello sbirciò fuori attraverso le lenti. «Solo l’occhio?» gracchiò.
«Sì. Il più grosso possibile».
«Lei è malato, amico».
«E chiudi il becco» replicò tagliente Felice.
Appoggiò la scatola sul tavolo e si sedette. Dall’interno della scatola cominciò a provenire un rumore di colpi
di pennello. Alla fine si sentì lo scatto di una manovella che gira e un’immagine leggermente umida uscì da
una fenditura.
Felice la fissò. Bussò quindi sulla scatola. Lo sportellino si aprì.
«Sì?»
«Più grande. Tanto grande da riempire tutta la carta. In effetti» Felice scrutò l’immagine che aveva in mano,
«devi dipingermi solo la pupilla. Il punto nel centro».
«Così da riempire l’intera carta? Lei è davvero strano».
Felice avvicinò ulteriormente la scatola. Si sentì un gran scattare di molle mentre lo spiritello sistemava le
lenti e poi qualche secondo di operoso lavoro di pennello.
Venne fuori un’altra immagine umidiccia. Mostrava un grosso disco nero.
Be’... soprattutto nero.
Felice guardò più da vicino. C’era un accenno, un solo accenno...
Bussò di nuovo contro la scatola.
«Sì, Signor Nano Persona Strana?» disse lo spiritello. «Il pezzo al centro. Il più grande possibile, grazie». Le
lenti uscirono ancora di più.
Felice aspettò con ansia. Nella stanza accanto riusciva a sentire Detritus che si muoveva pazientemente in gi-
ro.
La carta uscì per la terza volta e lo sportellino si aprì. «Ecco fatto» commentò lo spiritello. «Mi è finito il ne-
ro».
E la carta era effettivamente nera... eccetto che per la piccolissima zona che non lo era.
La porta che dava sulle scale si spalancò di colpo ed entrò l’Agente Visita, trascinato dalla pressione di una
piccola folla. Felice si infilò la carta in tasca con aria colpevole.
«Tutto ciò è intollerabile!» disse un ometto dalla lunga barba nera. «Noi pretendiamo che voi ci facciate en-
trare! Chi sarebbe lei, giovanotto?»
«Io sono Fel... Sono il Caporale Culetto» rispose Felice. «Guardi qui, ho il distintivo...»
«Bene, caporale» disse l’uomo, «io sono Wengel Raddley e sono un uomo di un certo peso in questa comu-
nità e pretendo che ci consegniate Padre Tubelcek in questo preciso istante!»
«Noi stiamo, ehm, stiamo cercando di capire chi lo abbia ucciso» cominciò a dire Felice.
Ci fu un movimento alle spalle di Felice e i volti che aveva di fronte assunsero all’improvviso un’espressione
davvero preoccupata. Si voltò e vide Detritus nell’arco della porta accanto.
«Tutto a posto?» domandò il troll.
I tempi più munifici della Guardia avevano permesso a Detritus di avere una vera e propria corazza al posto
del pezzo di armatura da combattimento per elefanti. Come era costume per l’uniforme da sergente,
l’armaiolo aveva tentato di scolpirvi sopra una muscolatura stilizzata. Per Detritus non era riuscito a farcela
stare tutta.
«Ci sono problemi?» ripeté.
La folla indietreggiò.
«Nessuno, agente» disse il Signor Raddley. «Lei si è profilato così, ehm, all’improvviso, tutto qui...»
«Esatto» confermò Detritus. «Io sono un profilato. Spesso arrivo all’improvviso. Allora, niente problemi,
eh?»
«Nessuno al mondo, agente».
«Che cosa strana i problemi» commentò Detritus rimuginando. «Io vado a cercare i problemi e quando li tro-
vo la gente dice sempre che non ce ne sono».
Il Signor Raddley si erse in tutta la propria statura.
«Però noi vogliamo portare via Padre Tubelcek per seppellirlo» sentenziò.
Detritus si rivolse a Felice Culetto. «Hai fatto tutto quello che ti serviva?»
«Direi di sì...»
«È morto?»
«Oh, sì».
«Può migliorare?»
«Essere più che morto? Ne dubito» .
«Ok, allora portatevelo via».
Le due guardie si spostarono di lato mentre il cadavere veniva portato giù dalle scale.
«Perché hai fatto fare delle immagini del morto?» domandò Detritus.
«Be’, ehm, potrebbe essere utile vedere come giaceva». Detritus annuì con aria saggia. «Ah, era anche uno
che giaceva, eh? Pensare che era un uomo di chiesa...»
Culetto tirò fuori l’immagine e la guardò nuovamente. Era quasi tutta nera. Ma...
Arrivò un agente in fondo alle scale. «C’è lassù qualcuno che si chiama» risolino soffocato, «Culetto Feli-
ce?» «Sì» rispose Culetto con aria arcigna.
«Bene, il Comandante Vimes dice che devi andare immediatamente al palazzo del Patrizio, capito?»
«Stai parlando col Caporale Culetto» precisò Detritus. «Va bene lo stesso» disse Culetto. «Nulla potrebbe
peggiorare le cose».

***

Le dicerie sono informazioni distillate tanto finemente da poter filtrare attraverso qualsiasi cosa. Non hanno
alcun bisogno di porte o di finestre... a volte non hanno nemmeno bisogno di persone. Possono esistere libere
e selvagge e possono correre di orecchio in orecchio senza nemmeno sfiorare le labbra.
Ne era già evasa una. Dall’alta finestra della camera da letto del Patrizio, Samuel Vimes riusciva già a vedere
la gente che si dirigeva verso il palazzo. Non era proprio una folla... non era nemmeno ciò che si sarebbe po-
tuto chiamare assembramento... ma il movimento browniano delle strade stava facendo rimbalzare sempre
più persone nella sua direzione.
Si rilassò leggermente quando vide un paio di guardie attraversare i cancelli.
Sul letto, Lord Vetinari aprì gli occhi.
«Oh... Comandante Vimes» mormorò.
«Che cos’è successo, signore?» domandò Vimes. «Mi sembra di essere steso, Vimes».
«Era nel suo ufficio, signore. In stato di incoscienza».
«Santo cielo. Devo avere... esagerato. Bene, grazie. Se volesse essere così gentile da... aiutarmi ad alzarmi...»
Lord Vetinari cercò di portarsi in posizione eretta, ondeggiò e ricadde. Aveva il volto pallido e la fronte im-
perlata di sudore.
Si sentì bussare alla porta. Vimes l’aprì di uno spiraglio.
«Sono io, signore, Fred Colon. Ho un messaggio. Che è successo?»
«Oh, Fred. Chi c’è qui sotto al momento?»
«Ci siamo io, l’Agente Selce e l’Agente Sberlone, signore».
«Bene. Manda qualcuno a casa mia a chiedere a Willikins di portarmi l’uniforme, la spada e la balestra. E
una borsa con l’occorrente per la notte. E qualche sigaro. E che dica a Lady Sybil... dica a Lady Sybil... be’,
che dica a Lady Sybil che ho da sbrigare delle cose qui, ecco tutto».
«Che sta succedendo, signore? Qualcuno al piano di sotto dice che Lord Vetinari è morto!»
«Morto?» mormorò il Patrizio dal letto. «Sciocchezze!» Si mise seduto, fece scendere le gambe dal letto e si
ripiegò su se stesso. Fu un collasso lento e terribile. Lord Vetinari era un uomo alto e quindi ebbe un bel trat-
to da cadere. Lo fece, inoltre, ripiegando una giuntura alla volta. Gli cedettero le caviglie e cadde sulle ginoc-
chia. Le ginocchia colpirono il terreno di botto e lui si piegò sulla vita. Alla fine la fronte gli rimbalzò sul
tappeto.
«Oh» gemette.
«Sua signoria è solo un po’...» cominciò a dire Vimes, quindi afferrò Colon e lo trascinò fuori dalla stanza.
«Immagino sia stato avvelenato, Fred, questa è la verità».
Colon apparve inorridito. «Santo cielo! Vuole che chiami un dottore?»
«Ma sei impazzito? Vogliamo che resti vivo!»
Vimes si morse un labbro. Aveva detto le parole che aveva in mente e adesso, indubbiamente, il debole alito
di una diceria si sarebbe diffuso per la città. «Ma qualcuno dovrebbe visitarlo...» disse a voce alta.
«Giustissimo!» esclamò Colon. «Devo andare a chiamare un mago?»
«Come facciamo a sapere che non sia stato proprio uno di loro?»
«Santo cielo!»
Vimes si sforzò di pensare. Tutti i dottori della città erano al servizio delle Gilde e tutte le Gilde odiavano
Vetinari, quindi...
«Quando ci saranno qui abbastanza agenti, mandane uno alle scuderie al Largo dei Re a prendere Jimmy
Ciambella» disse.
Colon apparve anche più colpito. «Ciambella? Ma non sa niente di medicina! Droga i cavalli da corsa!»
«Fallo mandare a prendere, Fred».
«E se non vuole venire?»
«Allora digli che il Comandante Vimes sa perché Bimbo che Ride non ha vinto i cento dollari di Quirm la
settimana scorsa, e digli che so che Crisofraso il troll ha perso diecimila dollari in quella corsa».
Colon era impressionato. «Ha una mente davvero contorta, signore».
«Ben presto si presenterà qui un sacco di gente. Voglio un paio di guardie fuori da questa stanza, preferibil-
mente troll o nani, e nessuno deve entrare senza il mio permesso, d’accordo?»
Il volto di Colon si contorse mentre varie emozioni lottavano per farsi spazio. Alla fine riuscì a dire: «Ma..
avvelenato? Ha degli assaggiatori di cibo e tutto il resto!»
«Forse è stato proprio uno di loro, Fred».
«Santo cielo, signore! Ma lei non si fida di nessuno, vero?»
«No, Fred. A proposito, sei stato tu? Stavo scherzando» aggiunse velocemente Vimes mentre Colon minac-
ciava di scoppiare in lacrime. «Adesso vai. Non abbiamo molto tempo».
Vimes chiuse la porta e vi si appoggiò contro. Girò quindi la chiave nella toppa e fissò lo schienale di una se-
dia sotto la maniglia.
Alla fine sollevò il Patrizio dal pavimento e lo fece rotolare sul letto. L’uomo emise una specie di gemito e le
sue palpebre sbatterono.
Veleno, pensò Vimes. La cosa peggiore di tutte. Non fa rumore, l’avvelenatore può trovarsi a interi chilome-
tri di distanza, non puoi vederlo, spesso non riesci nemmeno a sentirne il gusto né l’odore, potrebbe trovarsi
ovunque... ed eccolo lì, a fare il proprio lavoro...
Il Patrizio aprì gli occhi.
«Gradirei un bicchiere d’acqua» disse.
C’era una caraffa con un bicchiere vicino al letto. Vimes prese la brocca ed esitò. «Manderò qualcuno a
prenderne un po’» disse quindi.
Lord Vetinari strizzò gli occhi, molto lentamente.
«Oh, Sir Samuel Vimes» commentò, «ma di chi si può fidare?»

***

C’era una vera folla nella grande sala delle udienze quando Vimes scese finalmente dal piano di sopra. Tutti
stavano girovagando senza meta, preoccupati e incerti e, come tutti gli uomini importanti di qualsiasi luogo,
quando erano preoccupati e incerti si arrabbiavano.
Il primo a lanciarsi su Vimes fu il Signor Boggis della Gilda dei Ladri. «Che sta succedendo, Vimes?» do-
mandò in tono imperioso.
Incrociò lo sguardo tagliente di Vimes. «Sir Samuel, volevo dire» aggiunse, perdendo un certo quantitativo di
foga.
«Credo che Lord Vetinari sia stato avvelenato» rispose Vimes.
Il mormorio di sottofondo si bloccò. Boggis si rese conto che, visto che era stato lui a porre la domanda, a-
desso era lui l’uomo sotto i riflettori. «Ehm... fatalmente?» azzardò.
Nel silenzio sarebbe risuonato perfino uno spillo.
«Non ancora» rispose Vimes.
Nella sala ci fu un generale voltarsi di teste. Il centro dell’attenzione universale divenne il Dottor Downey,
capo della Gilda degli Assassini.
Downey annuì. «Non sono al corrente di alcun accordo riguardante Lord Vetinari» disse. «Inoltre sono certo
che sia universalmente noto che abbiamo posto il prezzo per il Patrizio a un milione di dollari».
«E chi possiede tutti quei soldi, eh?» commentò Vimes. «Be’... tanto per cominciare lei, Sir Samuel» osservò
Downey. Si udirono delle risate di nervosismo.
«Desidereremmo comunque far visita a Lord Vetinari» disse Boggis.
«No».
«No? E perché no, di grazia?»
«Ordini del dottore».
«Davvero? Quale dottore?»
Alle spalle di Vimes, il Sergente Colon chiuse gli occhi. «Il Dottor James Folsom» rispose Vimes.
Occorse qualche secondo perché qualcuno realizzasse. «Cosa? Non intenderà forse... Jimmy Ciambella? È un
dottore per cavalli!»
«Mi è stato detto».
«Ma perché?»
«Perché molti dei suoi pazienti sopravvivono» replicò Vimes. Sollevò le mani al crescere delle proteste. «E
ora, gentiluomini, devo lasciarvi. Da qualche parte c’è un avvelenatore. Mi piacerebbe trovarlo prima che di-
venti un assassino».
Tornò al piano superiore, cercando di ignorare le grida alle proprie spalle.
«È sicuro riguardo a Ciambella, signore?» domandò Colon, raggiungendolo.
«Be’, tu ti fidi di lui?» domandò Vimes.
«Di Ciambella? Certo che no!!»
«Esatto. È inaffidabile e quindi noi non ci fidiamo di lui. Va benissimo così. Lo abbiamo però visto rimettere
in piedi un cavallo quando tutti sostenevano fosse buono solo per il macello. I dottori dei cavalli devono dare
dei risultati, Fred».
Ed era decisamente vero. Quando un dottore per gli umani, dopo gran salassi e cure, scopre che un paziente è
morto per mera disperazione, può sempre dire: «Oddio, è stato volere del cielo, fanno trenta dollari, grazie» e
andarsene tranquillamente. Questo accade in quanto gli esseri umani non valgono, tecnicamente, nulla. Un
buon cavallo da corsa, al contrario, può valere ventimila dollari. Un dottore che lo lasciasse cavalcare troppo
presto verso i grandi paddock del cielo potrebbe aspettarsi di sentire, da un vicolo buio, una voce che dice
qualcosa sulla falsariga di: «Il Signor Crisofraso è molto seccato» e scoprire che il breve resto della sua vita è
gremito di incidenti.
«Pare che non si sappia dove si trovino il Capitano Carota e Angua» osservò Colon. «È il loro giorno libero.
Nobby poi non si trova da nessuna parte».
«Be’, è una cosa di cui essere grati...»
«Ding-dong-ding-bip» disse una vocina dalla tasca di Vimes.
Egli prese il piccolo organizer e sollevò il coperchio. «Sì?»
«Ehm... mezzogiorno» esclamò lo spiritello. «Pranzo con Lady Sybil».
Fissò sbigottito le loro facce.
«Ehm... è tutto a posto, no?» domandò.

***

Culetto Felice si asciugò la fronte.


«Il Comandante Vimes ha ragione. Potrebbe essere arsenico» disse. «A me sembra proprio un avvelenamen-
to da arsenico. Guardi questo colore».
«Brutta roba» osservò Jimmy Ciambella. «Ma si è mangiato la lettiera?»
«Le lenzuola sembrano essere tutte qui, quindi suppongo che la risposta sia no» .
«Come piscia?»
«Ehm. Al solito modo, immagino».
Ciambella risucchiò aria attraverso i denti. Aveva dei denti terribili. Era la seconda cosa che si notava in lui.
Avevano lo stesso colore dell’interno di una teiera mai lavata.
«Fatelo camminare un po’ a briglia lenta» sentenziò.
Il Patrizio aprì gli occhi. «Lei è un dottore, vero?» domandò.
Jimmy Ciambella gli lanciò un’occhiata perplessa. Non era abituato a pazienti che parlassero. «Be’, già... ho
un sacco di pazienti» rispose.
«Davvero? Io ne ho pochissimi» commentò il Patrizio. Cercò di sollevarsi sul letto ma ricadde all’indietro.
«Preparerò un intruglio» disse Jimmy Ciambella, indietreggiando. «Dovete tappargli il naso e cacciarglielo in
gola due volte al giorno, d’accordo? E niente avena».
Uscì di fretta, lasciando Felice solo con il Patrizio.
Il Caporale Culetto si guardò attorno nella stanza. Vimes non gli aveva lasciato molte istruzioni. Gli aveva
detto: «Sono certo che non sono stati gli assaggiatori. Per quel che ne sanno potrebbe venire loro chiesto di
mangiarsi l’intero piatto. Comunque li faremo parlare con Detritus. Lei scoprirà il come, d’accordo? E lascerà
il chi a me».
Se il veleno non veniva mangiato o bevuto che cosa restava? Probabilmente lo si poteva lasciare su un tam-
pone e fare in modo che qualcuno lo respirasse oppure farlo gocciolare in un orecchio mentre la vittima dor-
miva. Oppure lo si poteva toccare. Magari una freccetta... O la puntura di un insetto...
Il Patrizio si mosse e guardò Felice attraverso occhi lacrimosi e rossi. «Mi dica, giovanotto, è un poliziotto?»
«Ehm... ho appena iniziato, signore».
«Mi sembra che lei sia di nazionalità nana».
Felice non si preoccupò di rispondere. Non aveva senso negarlo. Non si sa come, la gente riusciva a dire che
eri un nano semplicemente guardandoti.
«L’arsenico è un veleno molto comune» osservò il Patrizio. «Ha centinaia di utilizzi in casa. Per secoli sono
stati in voga i diamanti tritati, nonostante il fatto che non funzionassero. Sono stati utilizzati anche ragni gi-
ganti, non si sa perché. Il mercurio è adatto per chi ha pazienza, l’acquaforte per chi non ne ha. Anche la can-
taride ha i suoi seguaci. Con le secrezioni di vari animali si può ottenere parecchio. I fluidi corporei delle lar-
ve della Farfalla del Tempo Quantico possono rendere un uomo quasi del tutto inerme. Ma ci rivolgiamo
all’arsenico come a un vecchio, vecchissimo amico».
La voce del Patrizio denotava una certa sonnolenza. «Non è forse così, giovane Vetinari? Sì, signore. È cor-
retto. Ma dove potremo metterlo, visto che tutti lo cercheranno? Nell’ultimo posto in cui andranno a guarda-
re, signore. Sbagliato. Sciocco. Lo metteremo dove nessuno andrà a guardare affatto...»
La voce si dissolse in un mormorio.
Le lenzuola, pensò Felice. Perfino gli abiti. Nella pelle, lentamente...
Felice bussò alla porta. Una guardia aprì.
«Portate un altro letto».
«Cosa?»
«Un altro letto. Prendetelo dove volete. E portate lenzuola nuove».
Abbassò lo sguardo. Non c’erano grandi tappeti al suolo. Nonostante tutto, in una camera da letto, dove si
poteva camminare a piedi nudi...
«Portate via anche questo tappeto e prendetene un altro».
Cos’altro?
Entrò Detritus, fece un cenno di assenso a Felice e si guardò attorno nella stanza con attenzione. Alla fine
prese una coperta un po’ lisa.
«Questa andrà bene» commentò.
«Cosa?» domandò Felice.
«Il vecchio Ciambella ha detto di portargli un campione del suo lettame» rispose Detritus uscendo nuova-
mente.
Felice fece per aprire la bocca per fermare il troll e poi alzò le spalle. Comunque, meno roba lì dentro, tanto
meglio...
E pareva non restasse altro, se non strappare via la carta da parati dalle pareti.

***

Sam Vimes fissava fuori dalla finestra. Vetinari non si era preoccupato molto di avere delle guardie del cor-
po. Aveva usato... o meglio, usava ancora... degli assaggiatori, ma era una cosa relativamente comune. Atten-
zione, Vetinari aveva aggiunto una propria variazione speciale. Gli assaggiatori erano trattati e pagati bene ed
erano tutti figli del capo cuoco. La sua principale protezione, tuttavia, consisteva nel fatto di essere un po’ più
utile da vivo che da morto, dal punto di vista di tutti gli altri. Le grandi e potenti Gilde non lo apprezzavano
troppo, ma apprezzavano che fosse lui al potere ben più di quanto non apprezzassero l’idea di vedere qualcu-
no di una Gilda rivale nell’Ufficio Oblungo. Inoltre Lord Vetinari rappresentava la stabilità. Si trattava di un
genere di stabilità fredda e cinica, ma parte del genio di quell’uomo era avere scoperto che la stabilità era ciò
che la gente voleva più di qualsiasi altra cosa.
Una volta aveva detto a Vimes, proprio in quella stanza, in piedi presso quella stessa finestra: «Pensano di
volere un buon governo e giustizia per tutti, Vimes, tuttavia che cosa bramano realmente nel profondo del
cuore? Solo che le cose procedano secondo la norma e che domani assomigli il più possibile a oggi».
Vimes si voltò. «Quale sarà la mia prossima mossa, Fred?» «Non so, signore».
Vimes si sedette sulla sedia del Patrizio. «Riesci a ricordare l’ultimo Patrizio?»
«Il vecchio Lord Schiantosecco? E quello prima di lui, Lord Manovella. Oh, sì. Erano proprio dei ceffi orribi-
li. Quanto meno questo non aveva mai ridacchiato e non aveva indossato abiti da donna».
Parla al passato, pensò. Si sta già diffondendo la voce. Non passato da molto, ma già decisamente trapassa-
to.
«C’è un gran silenzio di sotto, Fred» disse.
«Per complottare non si fa un gran rumore di solito, signore».
«Vetinari non è morto, Fred» .
«Sissignore. Ma non è nemmeno esattamente in carica, no?»
Vimes scrollò le spalle. «Non c’è nessuno in carica, immagino».
«Potrebbe essere, signore. Ancora una volta, non si riconosce mai la propria fortuna».
Colon si trovava rigidamente sull’attenti, con gli occhi saldamente puntati a metà strada sul nulla e la voce
studiata con cura in modo da evitare che trapelasse qualsiasi cenno di emozione dalle parole.
Vimes riconobbe l’atteggiamento. Lo aveva usato anche lui, quando aveva dovuto. «Che vuoi dire, Fred?»
domandò. «Nulla, signore. Era solo un modo di dire».
Vimes si sedette nuovamente.
Questa mattina, pensò, sapevo che cosa mi avrebbe riservato la giornata. Avrei fatto visita a quei maledetti
della Società Araldica. Avrei quindi fatto la solita riunione con Vetinari. Avrei letto dei rapporti dopo pranzo
e forse sarei andato a vedere i progressi del nuovo Posto di Guardia di Via delle Chiacchiere, quindi sarei
tornato a casa presto. Adesso Fred sta suggerendo... che cosa?
«Ascolta, Fred, se dovrà esserci un nuovo governante, non sarò io».
«Chi sarà allora, signore?» la voce di Colon aveva ancora quel tono deliberato e lento.
«Che ne so? Potrebbe essere...»
Gli si aprì un vortice davanti e riuscì a sentire i propri pensieri che vi venivano risucchiati dentro. «Parli del
Capitano Carota, vero, Fred?»
«Potrebbe essere, signore. Voglio dire, nessuno delle Gilde lascerebbe governare un tizio di un’altra Gilda e
il Capitano Carota piace a tutti poi, be’... ci sono delle voci che dicono che lui è l’erode al trono, signore».
«Di quello non c’è alcuna prova».
«Non sta a me dirlo. Io non ne so niente. Non so quale è una prova» ribatté Colon, con una leggerissima sfu-
matura di stizza. «Ma ha quella sua spada, la voglia a forma di corona e... be’, tutti sanno che è un re. È il suo
krisma».
Carisma, pensò Vimes. Oh, sì, Carota ha carisma. È in grado di far succedere delle cose nella testa della
gente. Potrebbe convincere un leopardo all’attacco ad arrendersi, consegnare i denti e prestare opere socia-
li per la comunità e quello sì che sconvolgerebbe realmente le vecchiette.
Vimes diffidava del carisma. «Niente più re, Fred».
«Ha ragione, signore. A proposito, Nobby si è presentato».
«La giornata non fa altro che peggiorare, Fred».
«Ha detto che gli avrebbe parlato riguardo a tutti quei funerali, signore...»
«Immagino che il lavoro debba procedere. D’accordo, vai a dirgli di venire qui».
Vimes restò solo con se stesso.
Niente più re. Vimes incontrava delle difficoltà nell’articolare il perché dovesse essere così, perché la sola i-
dea dovesse fargli rivoltare lo stomaco. Dopotutto, una buona parte dei patrizi erano stati pessimi esattamente
come un qualsiasi re. Ma erano... come dire... pessimi in termini di uguaglianza. Quello che faceva digrigna-
re i denti a Vimes era l’idea che i re fossero un tipo diverso di essere umano. Una forma di vita più elevata.
Qualcosa di magico. Ma, ehm, c’era una certa magia, in effetti. Ankh-Morpork sembrava ancora disseminata
di Real questo e Real quello, di ometti anziani che venivano pagati qualche centesimo a settimana per svolge-
re compiti insignificanti come Mastro delle Chiavi del Re o Conservatore dei Gioielli della Corona, anche se
non c’era alcuna chiave e sicuramente alcun gioiello.
La regalità era come i soffioni. Indipendentemente da quante teste si tagliassero, le radici si trovavano ancora
profondamente nel terreno, in attesa di rifiorire di nuovo.
Pareva essere una malattia cronica. Era come se perfino la persona più intelligente avesse ancora il suo punti-
cino vuoto nel cervello in cui qualcuno aveva scritto: «Re. Che bell’idea». Chiunque avesse creato l’umanità
vi aveva lasciato dentro un grosso difetto di fabbrica. Si trattava della tendenza a mettersi in ginocchio.
Si sentì bussare alla porta. Non sarebbe dovuto essere possibile che una bussata suonasse furtiva, tuttavia
quella vi riuscì. Aveva le armoniche che dicevano al rombencefalo: la persona che sta bussando, se nessuno
dovesse rispondere, aprirà comunque la porta e si intrufolerà dentro, in seguito ruberà sicuramente qualsiasi
sigaretta dovesse trovare in giro, leggerà tutta la corrispondenza che gli salterà all’occhio, aprirà qualche cas-
setto, berrà una sorsata da tutte le bottiglie d’alcool che riuscirà a trovare, ma si fermerà prima di commettere
un grave crimine perché non è un criminale come uno che abbia preso una decisione di tipo morale, ma nello
stesso modo in cui la donnola è malvagia... è una cosa che è connaturata al suo stesso essere. Era un modo di
bussare che aveva parecchio da dire.
«Entra, Nobby» disse Vimes, in tono seccato.
Il Caporale Nobbs entrò di sghembo. Quello era un altro tratto caratteristico di quell’uomo: era in grado di
camminare di sghembo andando dritto così come andando di traverso.
Fece un goffo saluto militare.
C’era qualcosa di assolutamente immutabile nel Caporale Nobbs, si disse Vimes. Perfino Fred Colon si era
adeguato al cambiamento della natura della Guardia Cittadina, ma nulla era riuscito ad alterare in alcun modo
il Caporale Nobbs. Non importava quello che potevi fargli, c’era sempre qualcosa di fondamentalmente
Nobby nel Caporale Nobbs.
«Nobby...»
«Sissignore?»
«Ehm... siediti, Nobby».
Il Caporale Nobbs assunse un’espressione sospettosa. Non era quello il modo in cui solitamente iniziava una
strigliata.
«Ehm, Fred mi ha detto che lei voleva parlarmi, Signor Vimes, riguardo alla puntualità...»
«Davvero? Davvero? Oh, sì, Nobby, ai funerali di quante nonne sei effettivamente già stato?»
«Ehm... tre...» rispose Nobby a disagio.
«Tre?»
È saltato fuori che le nonne Nobbs non erano propriamente morte la prima volta».
«Allora perché ti sei preso tutti quei permessi?»
«Non vorrei dirlo, signore...»
«Perché no?»
«Potrebbe andare in bestia, signore».
«Andare in bestia?»
«Sa, signore... andare fuori dai gangheri».
«Potrei, Nobby» sospirò Vimes. «Ma sarà nulla al confronto di quello che potrei fare se non me lo dici...»
«Il fatto è, che è il tricentesi... tricentosi... il festeggiamento per i trecento anni dell’anno prossimo, Signor
Vimes...»
«Sì?»
Nobby si passò la lingua sulle labbra. «Non mi piaceva chiedere dei permessi speciali. Fred ha detto che lei
era piuttosto sensibile riguardo all’argomento. Ma... sa, io sono delle Noci Sgusciate, signore...»
Vimes annuì. «Quei buffoni che si travestono e fingono di combattere antiche battaglie con spade spuntate?»
commentò.
«La Società Storica di Ri-creazione di Ankh-Morpork, signore» ribatté Nobby, con un briciolo di biasimo.
«È come ho detto io».
«Be’... ricreeremo la Battaglia di Ankh-Morpork per i festeggiamenti, sa. Questo significa delle esercitazioni
extra».
«Comincia ad assumere tutto un senso» osservò Vimes, annuendo con espressione seccata. «Sei stato in giro
a marciare con la tua picca di latta, eh? Durante il lavoro?»
«Ehm... non esattamente, Signor Vimes... ho cavalcato in giro col mio cavallo bianco, a dire la verità...»
«Oh, recitando a fare il generale, eh?»
«Ehm... un po’ più di generale, signore...»
«Vai avanti».
Il pomo d’Adamo di Nobby ballonzolò nervosamente. «Ehm... io sarò Re Lorenzo, signore. Ehm... sa...
l’ultimo re, quello che il suo... ehm...»
L’atmosfera divenne gelida.
«Tu... farai...» cominciò a dire Vimes, sbucciando ogni parola come un acido acino di ira.
«L’avevo detto che sarebbe andato in bestia» commentò Nobby. «Anche Fred Colon ha detto che lei sarebbe
andato in bestia».
«Perché tu...?»
«Abbiamo tirato a sorte, signore».
«E tu hai perso?»
Nobby era sulle spine. «Ehm... non ho esattamente perso, signore. Non ho precisamente perso. Direi piutto-
sto che ho vinto, signore. Tutti volevano recitare la sua parte. Voglio dire, ti danno un cavallo, un bel costume
e tutto il resto, signore. E poi lui era un re, alla finfine, signore».
«Quell’uomo era un lurido mostro!»
«Be’, è successo tutto tanto tempo fa, signore» ribatté Nobby carico d’ansia.
Vimes si calmò un pochino. «E chi ha estratto il ruolo di Vimes Facciadipietra?»
«Ehm... ehm...»
«Nobby!»
Nobby abbassò la testa. «Nessuno, signore. Nessuno voleva recitare quella parte, signore». Il piccolo capora-
le deglutì, quindi si lanciò nel discorso con l’aria di chi è determinato a farla finita. «E così abbiamo fatto uno
spaventapasseri di paglia, signore, che brucerà per bene quando ci lanceremo sopra la torcia per fare un falò
nella serata. Ci saranno anche i fuochi artificiali, signore» aggiunse con atroce sicurezza.
Il volto di Vimes si irrigidì. Nobby preferiva quando la gente si metteva a urlare. Gli avevano urlato contro
per quasi tutta la vita. Era in grado di gestire le urla.
«Nessuno ha voluto fare Vimes Facciadipietra» ripeté Vimes in tono glaciale.
«Visto che faceva parte dei perdenti, signore».
«Perdenti? Le Teste di Ferro di Vimes hanno vinto. Ha governato la città per sei mesi».
Nobby apparve di nuovo a disagio. «Già, ma... tutti nella Società dicono che non avrebbe dovuto farlo, signo-
re. Hanno detto che è stato solo un colpo gobbo, signore. Dopotutto, era in inferiorità numerica di dieci a uno
e aveva anche le verruche, signore. Era pure un bel pezzo di bastardo, signore, alla finfine. Ha staccato la te-
sta a un re, signore. Devi essere un bel disgraziato per fare una cosa simile, signore. Esclusi i presenti, Signor
Vimes».
Vimes scosse la testa. Ma che importanza aveva? (In un certo senso però aveva importanza.) Era passato tan-
to tempo. Non importava quello che pensava un branco di romantici disturbati di cervello. I fatti erano fatti.
«D’accordo, capisco» disse. «In effetti è quasi buffo.
Perché c’è anche un’altra cosa che devo dirti, Nobby».
«Sissignore?» disse subito Nobby sentendosi sollevato. «Ti ricordi di tuo padre?»
Nobby parve sul punto di essere preso nuovamente dal panico. «Che genere di domanda è questa da fare così
su due piedi, signore?»
«È una mera indagine sociale».
Il vecchio Sconner, signore? Non molto, signore. Non lo vedevo molto a parte quando la polizia militare ve-
niva per trascinarlo fuori dal solaio».
«Sai qualcosa dei tuoi, ehm, antecedenti?»
«È una bugia, signore. Io non ho antecedenti, signore, indipendentemente da quello che possono averle det-
to».
Oh, bene. Ehm... tu non sai bene cosa vuole dire ‘antecedenti’, vero, Nobby?»
Nobby spostò il peso da un piede all’altro, a disagio. Non gli piaceva essere interrogato dai poliziotti, soprat-
tutto visto che lo era anche lui. «Non molto, signore».
«Ti è mai stato detto nulla sui tuoi precursori?» Un’altra espressione preoccupata attraversò il volto di
Nobby, quindi Vimes aggiunse subito: «I tuoi antenati?»
«Solo del vecchio Sconner, signore. Signore... se tutto questo deve portare a chiedere di quei sacchi di verdu-
ra che sono spariti dal negozio di Via Melassa, io non mi trovavo nemmeno nelle vicinanze...»
Vimes agitò una mano in modo vago. «Lui non... ti ha lasciato niente? Niente di niente?»
«Un paio di cicatrici, signore. È questo gomito malconcio. A volte mi fa male quando cambia il tempo. Mi
ricordo sempre del vecchio Sconner quando il vento soffia dal Centro».
«Oh, certo...»
«È questo, ovviamente...» Nobby si mise a frugare all’interno del pettorale arrugginito. Anche quella era una
meraviglia. Perfino il pettorale del Sergente Colon riusciva a brillare, se non proprio a scintillare. Qualsiasi
metallo si venisse a trovare invece nelle vicinanze della pelle di Nobby si corrodeva in fretta. Il caporale e-
strasse una cordicella in cuoio che gli pendeva dal collo. C’era un anello d’oro. Tenendo presente che l’oro
non può corrodersi, aveva comunque sviluppato una patina.
«Me lo ha lasciato sul punto di morte» disse Nobby.
«Be’, quando dico lasciato’...»
«Ti ha detto qualcosa?»
«Be’, ha detto: ‘Ridammelo, ladruncolo!’, signore. Vede, lo teneva su una cordicella appesa al collo, signore,
proprio come me. Ma non è proprio un anello, signore. Lo avrei sbolognato ma è tutto quello che ho per ri-
cordarlo. Eccetto quando il vento soffia dal Centro».
Vimes prese l’anello e lo sfregò con un dito. Era un anello a sigillo, con un emblema sopra. L’età, l’uso e la
vicinanza al corpo del Caporale Nobbs lo avevano reso quasi illeggibile.
«Hai un emblema, Nobby».
Nobby annuì. «Sì, ma ho preso uno shampoo speciale, signore».
Vimes sospirò. Era un uomo onesto. Lo aveva sempre considerato uno dei principali difetti della propria per-
sonalità. «Quando hai un momento vai a fare un salto alla Società Araldica in Via Mollymog,. eh? Portati
dietro questo anello e di’ che ti ho mandato io»
«Ehm...»
«Va bene così, Nobby» lo tranquillizzò Vimes. «Non finirai nei guai. Non molto».
«Se lo dice lei, signore».
«Non devi preoccuparti del ‘signore’, Nobby».
«Sissignore».
Quando Nobby se ne fu andato, Vimes allungò una mano dietro la scrivania e prese una copia sbiadita di No-
biltà Oggi o, come la considerava lui personalmente, la guida delle classi criminali. Non si trovavano gli abi-
tanti dei bassifondi in quelle pagine, ma i loro proprietari. E, mentre veniva considerata una bella prova di
criminalità abitare in un bassofondo, non si sa per quale motivo, possederne svariate strade non faceva altro
che portarti a essere invitato ai più elevati eventi di società.
In quel periodo sembrava che ne tirassero fuori una nuova edizione a settimana. Dragon aveva avuto ragione
quanto meno su una cosa: tutti ad Ankh-Morpork sembravano aspirare a molte più palle di quante non ne a-
vessero alla nascita.
Sollevò lo sguardo sui de Nobbes.
C’era effettivamente perfino uno stemma araldico. Un sostegno dello scudo era un ippopotamo, presumibil-
mente uno degli ippopotami reali di Ankh-Morpork e di conseguenza antenato di Roderick e Keith. L’altro
era una specie di toro, con espressione molto Nobbesca; teneva una croce ansata d’oro che, essendo quello lo
stemma dei de Nobbes, era stata probabilmente rubata da qualche parte. Lo scudo era verde e rosso; c’era uno
scaglione bianco con sopra cinque mele. Che cosa avessero a che fare con la guerra era poco chiaro. Forse si
trattava di uno scherzo visivo o di un gioco di parole che aveva portato a darsi gran pacche sulle cosce giù al
Collegio dei Conservatori della Società Araldica, anche se probabilmente se Dragon si fosse dato una pacca
troppo forte su una coscia, gli sarebbe caduta la gamba.
Era abbastanza facile immaginarsi un nobile Nobbs. Ciò che infatti era sbagliato in Nobbs era il pensare in
piccolo. Entrava di sghembo nei posti e rubacchiava cose di scarso valore. Se soltanto fosse entrato di
sghembo nei continenti e avesse rubato intere città, massacrandone già che c’era gran parte degli abitanti, sa-
rebbe stato un pilastro della comunità.
Non c’era nulla nel libro sotto la voce ‘Vimes’.
Non-Tollero-Ingiustizie Vimes non era un pilastro della comunità. Aveva ucciso un re con le proprie mani.
Era necessariofarlo, ma la comunità, qualsiasi cosa essa fosse, non apprezzava sempre le persone che face-
vano ciò che era necessario fare o dicevano ciò che era necessario dire. Aveva mandato a morte anche altre
persone, era vero, ma la città era stata uno schifo, stupide guerre si erano susseguite l’una all’altra e aveva
fatto praticamente parte dell’impero Klatchiano. A volte c’era bisogno di un bastardo. La storia aveva desi-
derato un intervento chirurgico. A volte il Dottor Mannaia è l’unico chirurgo a disposizione. C’è qualcosa di
definitivo in un’ascia. Ammazza però un maledetto re e tutti ti chiamano regicida. Non che si trattasse di
un’abitudine o altro...
Vimes aveva trovato il diario del Vecchio Facciadipietra nella biblioteca dell’Università Invisibile. L’uomo
era stato duro, era indubbio. Quelli però erano stati tempi duri. Aveva scritto: «Nel Fuoco della Lotta For-
giamo Nuovi Uomini che Non Prestano Attenzione alle Bugie». Le vecchie bugie tuttavia avevano vinto, alla
fine.
Ha detto alle persone: siete libere. Quelle hanno gridato urrà, quindi ha loro mostrato quanto costa la liber-
tà e loro l’hanno chiamato tiranno e, subito dopo averlo tradito, hanno cominciato a muoversi confusamente
come pulcini nati in un pollaio che hanno visto il grande mondo all’esterno per la prima volta e vogliono
tornare al caldo e richiudere la porta...
«Ding-dong-bip».
Vimes sospirò e tirò fuori il proprio organizer.
«Sì?»
«Promemoria: appuntamento col calzolaio ore due» disse lo spiritello.
«Non sono ancora le due ed era comunque martedì» ribatté Vimes.
«Allora lo cancello dalla lista delle Cose da Fare?» Vimes ripose il disorganizzato organizer in tasca, si alzò e
guardò nuovamente fuori dalla finestra.
Chi aveva un motivo per avvelenare Lord Vetinari?
No, non era quello il modo per trovare il bandolo della matassa. Forse, se ci si fosse recati in qualche sobbor-
go cittadino e si fossero limitate le indagini a minute vecchiette che non uscivano spesso, quelle con la carta
da parati sui portoni e tutto il resto, si sarebbe riusciti a trovare qualcuno senza un motivo. Quell’uomo so-
pravviveva organizzando le cose in modo tale che un futuro senza di lui rappresentasse un rischio ben più
grande di un futuro con lui ancora vivo e vegeto.
Le uniche persone che avrebbero quindi rischiato di ucciderlo erano i pazzi... e varie divinità sapevano se
Ankh-Morpork non ne avesse a sufficienza... o qualcuno assolutamente sicuro di trovarsi in cima alle macerie
quando la città fosse crollata.
Se Fred aveva ragione – e il sergente era di solito un buon indicatore di quello che pensava l’uomo della stra-
da visto che era lui l’uomo della strada – allora quella persona era il Capitano Carota. Carota però era uno dei
pochissimi in città che sembravano apprezzare Vetinari.
C’era ovviamente un’altra persona che ci avrebbe guadagnato.
Maledizione, pensò Vimes. Sono io, non è...
Qualcuno bussò di nuovo alla porta, ma non riuscì a riconoscerlo.
Aprì cautamente.
«Sono io, signore. Culetto».
«Venga dentro, allora». Faceva piacere sapere che esisteva almeno un’altra persona al mondo con più pro-
blemi di lui. «Come sta sua signoria?»
«È stabile» rispose Culetto.
«Morto è stabile» commentò Vimes.
«Voglio dire che è vivo, signore, sta seduto e legge. Il Signor Ciambella gli ha preparato un intruglio appicci-
coso che sapeva di alghe e io ci ho mischiato un po’ di Sali di Gloobool. Signore, sa il vecchio nella casa sul
ponte?»
«Che vecchio... oh. Sì». Gli sembrava passato un sacco di tempo. «Che c’è?»
«Be’, lei mi ha detto di guardarmi in giro e... ho preso delle immagini. Questa è una, signore». Consegnò a
Vimes un rettangolo quasi completamente nero.«Strano, dove l’ha preso?»
«Ehm... ha mai sentito della teoria sugli occhi dei cadaveri, signore?»
«Consideri che io non abbia una gran cultura letteraria, Culetto».
«Be’... dicono...»
«Chi dice?»
«Loro, signore. Sa, loro».
«La stessa gente di ‘tutti’ o ‘tutti sanno che’? La gente che vive nella ‘comunità’?»
«Sì, signore. Suppongo di sì, signore».
Vimes agitò una mano. «Oh, loro. Va bene, proceda». «Dicono che l’ultima cosa che un uomo vede gli rima-
ne impressa negli occhi, signore».
«Oh, quello. È solo una vecchia storia».
«Già. Davvero sorprendente. Voglio dire, se non fosse stata vera, non sarebbe sopravvissuta, no? Mi è sem-
brato di vedere questa scintilla rossa, quindi ho fatto dipingere allo spiritello un’immagine davvero grande
prima che scomparisse completamente. È, proprio al centro...»
«Può esserselo inventato lo spiritello?» domandò Vimes, fissando nuovamente l’immagine.
«Non hanno l’immaginazione per mentire, signore. Quel che vedi è quel che hai».
«Occhi che scintillano».
«Due punti rossi» precisò Culetto coscienziosamente, «che potrebbero effettivamente essere un paio di occhi
scintillanti».
«Ben fatto, Culetto ». Vimes si sfregò il mento. «Maledizione! Spero solo che non si tratti di una specie di
dio. Mi ci mancherebbe solo quello in un momento così. Può fare delle copie da spedire a tutti i Posti di
Guardia?»
«Sì, signore. Lo spiritello ha una buona memoria». «Lo faccia subito, allora».
Prima che Culetto se ne fosse andato, però, la porta si aprì nuovamente. Vimes sollevò lo sguardo. C’erano
Carota e Angua.
«Carota? Pensavo fosse il tuo giorno libero».
«Abbiamo trovato un cadavere, signore! Al Museo del Pane dei Nani. Quando però siamo tornati al Posto di
Guardia ci hanno detto che Vetinari è morto!»
Davvero? pensò Vimes. Ecco cos’è una voce. Se potessimo modularla con la verità, quanto risulterebbe uti-
le...
«Respira bene per essere un cadavere» commentò. «Penso che si riprenderà. Qualcuno è riuscito a superare la
sua guardia, tutto qui. L’ho fatto visitare da un dottore. Non preoccupatevi».
Qualcuno è riuscito a superare la sua guardia, pensò. Già. E sono io la sua guardia.
«Spero che quell’uomo sia un leader nel campo, è tutto ciò che mi viene da dire» osservò Carota in tono se-
vero.
«Anche meglio di così... è il dottore dei leader del campo» replicò Vimes. Io sono la sua guardia e non ho vi-
sto arrivare il pericolo.
«Sarebbe terribile per la città se gli accadesse qualcosa!» esclamò Carota.
Vimes non scorse niente se non innocente preoccupazione nello sguardo schietto di Carota. «Lo sarebbe dav-
vero, eh?» disse. «Comunque, è tutto sotto controllo. Hai detto che c’è stato un altro omicidio?»
«Al Museo del Pane dei Nani. Qualcuno ha ucciso il Signor Hopkinson col suo stesso pane!»
«Glielo ha fatto mangiare?»
«Glielo ha picchiato in testa, signore» replicò Carota in tono di biasimo. «Pane da Battaglia, signore».
«È quel vecchietto con la barba bianca?»
«Sì, signore. Si ricorda, gliel’ho presentato quando l’ho portata a vedere la mostra sui Biscotti Boomerang».
Ad Angua sembrò di notare che, al ricordo, una debole smorfia sfrecciasse colpevolmente sul volto di Vimes.
«Ma chi va in giro ad ammazzare vecchietti?» disse al mondo in generale.
«Non so, signore. L’Agente Angua è andata in borghese» Carota sollevò le sopracciglia con aria cospiratoria,
«e non ha sentito puzza di nulla. E non è stato portato via niente. Questo è il corpo del reato».
Il Pane da Battaglia era molto più grande di una normale pagnotta. Vimes lo rigirò fra le mani con circospe-
zione. «I nani lo lanciano come un disco, vero?»
«Sì, signore. Ai Giochi delle Sette Montagne dell’anno scorso Snori Mordiscudo ha mozzato la punta di sei
uova sode a cinquanta metri, signore. E solo con una pagnotta da caccia standard. Ma questo è, come dire, un
artefatto culturale. Non possediamo più la tecnologia di cottura per un pane del genere. È unico».
«Ha un valore?»
«Grandissimo, signore» .
«Varrebbe la pena rubarlo?»
«Non si sarebbe mai in grado di rivenderlo! Ogni nano onesto saprebbe riconoscerlo!»
«Ehm. Hai sentito del prete che è stato assassinato a Ponte Sghembo?»
Carota apparve scioccato. «Non sarà il vecchio Padre Tubelcek? Davvero?»
Vimes si bloccò sul punto di dire: «Allora lo conosci?» Perché Carota conosceva tutti. Se Carota fosse stato
lasciato in una fitta giungla tropicale avrebbe detto: «Salve, Signor Corri-Veloce-Fra-Gli-Alberi! Buongior-
no, Signor Parla-Alla-Foresta, che magnifica cerbottana! E che posto originale per la penna!»
«Aveva più di un nemico?» domandò Vimes.
«Scusi, signore? Perché più di uno?»
«Potrei dire che il fatto che ne avesse uno è ovvio, no?»
«Era un gentile vecchietto» rispose Carota. «Non usciva quasi mai. Passa... passava tutto il suo tempo coi li-
bri. Molto religioso. Voglio dire, ogni genere di religione. Le ha studiate. Era un po’ strano, ma una buona
persona. Perché mai qualcuno avrebbe voluto ammazzarlo? O ammazzare il Signor Hopkinson? Un paio di
vecchietti innocui?»
Vimes gli consegnò il Pane da Battaglia. «Lo scopriremo. Agente Angua, voglio che lei si occupi di questo.
Si porti... sì, il Caporale Culetto» disse. «Ci ha già lavorato sopra. Anche Angua viene da Boscodisopra, Cu-
letto. Forse avete amici in comune».
Carota annuì allegramente. L’espressione di Angua si fece legnosa.
«Ah, h’druk g’har dGuardia, Sh’rt’azs!» esclamò Carota. «H’h Angua tAgente... Angua g’har, b’hk bargr’a
Sh’rt’azs Kad’k...»10
Angua sembrò concentrarsi. «Grr’dukk d’buz-h’drak...» riuscì a dire.
Carota si mise a ridere. «Hai appena detto ‘piccolo delizioso attrezzo da miniera di natura femminile’!»
Felice fissò Angua, che ricambiò lo sguardo con espressione vacua mentre mormorava: «Be’, il nanesco è
difficile se non hai mangiato ghiaia tutta la vita...»
Felice la fissava ancora. «Ehm... grazie» riuscì a dire alla fine. «Ehm... farei meglio ad andare a mettere a po-
sto». «E Lord Vetinari?» domandò Carota.
«L’ho affidato al mio uomo migliore» rispose Vimes. «Fedele, affidabile, conosce tutti gli ingressi e le uscite
del palazzo come le sue tasche. In altre parole, me ne occupo io».
L’espressione speranzosa di Carota si sbiadì in addolorato sconcerto. «Non vuole che lo faccia io?» doman-
dò. «Potrei...»
«No. Asseconda un vecchio. Voglio che tu torni al Posto di Guardia e ti occupi delle cose lì».
«Quali cose?»

10
«Benvenuto, Caporale Culetto! Questa è l’Agente Angua... Angua, fai sentire a Culetto come stai imparando il nanesco...»
«Tutto! Mostrati all’altezza. Fai girare qualche carta. C’è una nuova rotazione di turni da organizzare. Strilla
a un po’ di gente! Leggi rapporti!»
Carota fece un saluto militare. «Sì, Comandante Vimes». «Bene. Vai pure, adesso».
E se succede qualcosa a Vetinari, aggiunse Vimes a se stesso, mentre l’avvilito Carota si allontanava, nessu-
no potrà dire che tu ti trovavi nelle sue vicinanze.

***

La piccola griglia nel portone del Real Collegio dei Conservatori della Società Araldica si aprì di scatto, col
distante accompagnamento di latrati e grugniti. «Sì?» disse una voce. «Cosa desidera vossia?»
«Sono il Caporale Nobbs» rispose Nobby.
Un occhio si avvicinò alla griglia. Assorbì l’intero e temi
bile prodotto della divina opera che era il Caporale Nobbs. «Sei il babbuino? Ne avevamo in ordine uno...»
«No. Sono venuto per una specie di blusone con l’araldico» rispose Nobby.
«Lei?» disse la voce. Il proprietario della voce rese chiarissimo di essere al corrente del fatto che esistevano
gradi di nobiltà che andavano da qualcosa sopra alla regalità giù giù fino al cittadino comune e che, per quan-
to concerneva il Caporale Nobbs, si sarebbe dovuta coniare una categoria completamente nuova... forse quel-
la dei comunissimi.
«Mi è stato detto» proseguì Nobby, con aria miserevole, «che si tratta di questo mio anello».
«Vada alla porta sul retro» rispose la voce.

***

Felice stava mettendo a posto l’equipaggiamento di fortuna che si era portato nel gabinetto quando un rumore
lo fece voltare di scatto. Angua era appoggiata all’arco della porta.
«Che vuoi?» le domandò.
«Niente. Volevo solo dirti di non preoccuparti, non lo dirò a nessuno se non vuoi».
«Non so di che stai parlando!»
«Penso che tu stia mentendo».
Felice fece cadere una provetta e si accasciò su una sedia.
«Come hai fatto a capirlo?» disse. «Non se ne accorgono nemmeno gli altri nani! Sono stato così attento!»
«Diciamo che... ho dei talenti particolari?» commentò Angua.
Felice cominciò a pulire distrattamente un becher.
«Non so perché sei così sconvolta» continuò Angua. «Pensavo che i nani riconoscessero comunque a mala-
pena la differenza fra maschio e femmina. La maggior parte dei nani che portiamo qui dentro per un Codice
23 sono femmine, io lo so, e sono le più difficili da placare...»
«Che cos’è un Codice 23?»
«‘Aggredire Urlando la Gente in Stato di Ubriachezza e Cercare di Tagliar Loro le Ginocchia’» rispose An-
gua. «più facile dargli un numero che scrivere giù tutto ogni volta. Ascolta, ci sono un sacco di donne in que-
sta città che sarebbero felici se le cose stessero come fra i nani. Voglio dire, che possibilità di scelta hanno?
Cameriere, ricamatrici o mogli di qualcuno. Mentre voi potete fare tutto ciò che fanno gli uomini...»
«Sempre che facciamo solo quello che fanno gli uomini» precisò Felice.
Angua si bloccò. «Oh. Capisco. Sì. Conosco quel ritornello».
«Non so tenere in mano un’ascia!» esclamò Felice. «Le zuffe mi fanno paura! Penso che i canti sull’oro siano
stupidi! Odio la birra! Non riesco nemmeno a bere come un nano! Quando provo a bere a garganella affogo il
nano che ho alle spalle!»
«Capisco che possa essere un problema» commentò Angua.
«Ho visto una ragazza qui che camminava per la strada e degli uomini le hanno fischiato dietro! Voi potete
indossare abitini! Colorati!»
«Oh, santo cielo». Angua cercò di non sorridere. «Da quanto tempo le nane provano queste cose? Pensavo
fossero felici...»
«Oh, è facile essere felici se non si conosce altro» disse Felice amaramente. «I pantaloni di maglia di ferro
vanno bene se non hai mai sentito parlare di Lingueria!»
«Li... oh, sì» commentò Angua. «Lingeria. Sì». Cercò di sentirsi solidale e scoprì di esserlo, in effetti, ma do-
vette impedire a se stessa di spifferare che quanto meno lei non doveva trovare degli abiti che potessero esse-
re facilmente slacciati con le zampe.
«Ho pensato di poter venire qui e trovare un tipo di lavoro diverso» gemette Felice. «Sono brava a ricamare e
sono andata a visitare la Gilda delle Ricamatrici ma...» Si interruppe e arrossì sotto la barba.
«Già» confermò Angua. «C’è un sacco di gente che commette quell’errore». Si mise diritta e si spazzolò la
spalla. «Hai comunque fatto una buona impressione al Comandante Vimes. Penso che qui ti piacerà. Tutti
hanno i loro problemi nella Guardia. La gente normale non va a fare il poliziotto. Te la caverai bene».
«Il Comandante Vimes è un po’...» cominciò a dire Felice.
«È un tipo a posto quando è di buon umore. Ha bisogno di bere ma di questi tempi non osa farlo. Sai: un bic-
chiere è troppo, due non sono abbastanza... e la cosa lo rende nervoso. Quando è di cattivo umore ti pesta i
piedi e poi ti urla dietro perché non stai bene diritto».
«Tu sei normale» disse Felice timidamente. «Tu mi piaci».
Angua le accarezzò la testa. «Lo dici adesso» disse, «ma quando sarai qui da un po’ di tempo ti accorgerai
che a volte posso essere una bestia... Che cos’è quello?»
«Cosa?»
«Quel... dipinto. Con gli occhi...»
«Forse sono due punti di luce rossa» disse Felice. «Davvero?»
«Penso sia l’ultima cosa che ha visto Padre Tubelcek» rispose la nana.
Angua fissò il rettangolo nero. Annusò. «Eccolo di nuovo!»
Felice fece un passo indietro. «Cosa? Cosa?»
«Da dove viene quest’odore?» domandò Angua. «Non da me!» rispose in tutta fretta Felice.
Angua afferrò un piattino dal bancone e lo annusò. «È questo! Ho sentito quest’odore anche al museo! Che
cos’è?»
«È solo argilla. Si trovava sul pavimento nella stanza in cui è stato ucciso il vecchio prete» rispose Felice.
«Probabilmente era sotto gli stivali di qualcuno».
Angua ne sbriciolò un po’ fra le dita.
«Penso che sia soltanto argilla da vasai» spiegò Felice. «La usavamo alla Gilda. Per fare dei vasi» aggiunse,
nel caso in cui Angua non avesse capito correttamente. «Sai? Crogioli e roba del genere. In questo caso sem-
bra che qualcuno abbia cercato di cuocerla ma non sia riuscito a ottenere il calore giusto. Vedi come si sbri-
ciola?»
«Vasi» rifletté Angua. «Io conosco un vasaio...» Guardò nuovamente l’immagine presa dalla nana. Per favo-
re, no, pensò. Non uno di quelli?

***

Il portone principale della Società Araldica... entrambe le ante... si spalancò. I due Conservatori Araldici si
affannarono tutti eccitati attorno al Caporale Nobbs mentre lui trotterellava fuori.
«Sua signoria ha forse qualche richiesta?»
«Nnnfff» rispose Nobby.
«Se possiamo esserle di qualsivoglia aiuto...»
«Nnnfff».
«Alcun genere di aiuto...?»
«Nnnff».
«Mi dispiace per i suoi stivali, milord, ma il dragone alato è stato male. Si spazzolerà via senza alcun pro-
blema una volta asciutto».
Nobby trottò fuori lungo la strada.
«Non ti pare che cammini anche in modo nobile?» «Più... snob che nobile, direi io».
«È disgustoso che sia un semplice caporale, un uomo della sua genealogia».

***

Igneous il troll indietreggiò tanto da trovarsi con le spalle contro il suo tornio da vasaio.
«Non l’ho mai fatto» disse.
«Fatto cosa?» domandò Angua.
Igneous esitò.
Igneous era enorme e... come dire, roccioso. Si muoveva per le strade di Ankh-Morpork come un piccolo i-
ceberg e, proprio come un iceberg, c’era in lui più di quello che saltava immediatamente all’occhio. Era noto
come fornitore di roba. Più o meno qualsiasi tipo di roba. Era anche una muraglia, che era lo stesso di una pa-
rete solo molto più dura e difficile da abbattere. Igneous non poneva mai domande che non fossero necessa-
rie, perché non gliene venivano in mente.
«Niente» rispose, alla fine. Igneous aveva sempre trovato che una negazione generica era ben più affidabile
di una confutazione specifica.
«Felice di sentirtelo dire» commentò Angua. «Dimmi un po’... da dove prendi l’argilla?»
Il volto di Igneous si corrugò mentre lui cercava di capire dove andasse a parare quella linea di interrogatorio.
«Ci ho le ricevute» assicurò. «Tutto chiaro come il sole, cioè».
Angua annuì. Probabilmente era vero. Igneous, sebbene desse la sensazione di non sapere contare oltre dieci
senza dover strappare le dita a qualcun altro, avendo un intimo coinvolgimento nella complessa gerarchia del
crimine cittadino era noto per essere uno che pagava le bollette. Se volevi avere successo nel mondo crimina-
le, avevi bisogno di una reputazione di onestà.
«Hai mai visto qualcosa di simile, prima?» domandò lei porgendogli il campione.
«È argilla» rispose Igneous, rilassandosi un po’. «Vedo sempre argilla. Mica ci ha un numero di serie. Argil-
la è argilla. Ci ho dei blocchi sul retro. Ci si fanno bricchi, vasi e roba del genere. Ci sono un sacco di vasai in
città e tutti ce l’abbiamo, cioè. Perché ti interessa l’argilla?»
«Mi sai dire da dove viene?»
Igneous prese il pezzetto, lo annusò e se lo passò fra le dita.
«Questo è strano» disse, assumendo un aspetto ben più felice adesso che la conversazione si stava allonta-
nando da questioni più personali. «Cioè, come... scarto di argilla, buona solo per quelle signore con gli orec-
chini pendenti che fanno tazze da caffè che non puoi sollevare con due mani». Lo rigirò ancora. «Ha anche
dentro un sacco di grog. Sono pezzi di vasi vecchi, tutti tritati fini fini. La rende più forte. Ogni vasaio ha un
sacco di roba del genere». La sfregò di nuovo. «Questo è stato come riscaldato ma non cotto sul serio».
«Ma non sai dirmi da dove viene?»
«Dalla terra, è il massimo che posso dire, signora mia» rispose Igneous. Si rilassò ulteriormente adesso che
parve chiaro che l’interrogatorio non aveva nulla a che fare con questioni come una recente partita di statue
cave e argomenti di natura simile. Come a volte accadeva in situazioni simili, cercò di essere di aiuto. «An-
diamo a dare un’occhiata».
Si allontanò a grandi passi. Le guardie lo seguirono attraverso il magazzino, osservate da un paio di dozzine
di troll circospetti. A nessuno piaceva vedere la polizia da vicino, specialmente se si lavorava da Igneous solo
perché era un posto carino e tranquillo e si voleva sparire dalla circolazione per qualche settimana. Inoltre,
anche se era vero che un sacco di gente arrivava ad Ankh-Morpork perché era una città ricca di opportunità, a
volte si trattava dell’opportunità di non essere impiccato, infilzato o fatto a pezzi per i crimini che ti eri la-
sciato alle spalle nelle montagne.
«Non guardare» disse Angua.
«Perché?» domandò Felice.
«Perché noi siamo solo due e loro sono almeno un paio di dozzine» rispose Angua. «E tutti i nostri vestiti so-
no stati fatti per persone con braccia e gambe al completo».
Igneous passò da una porta e uscì nel cortile sul retro della fabbrica. I vasi erano accatastati sui carrelli di ca-
rico, i mattoni venivano conservati in lunghe file. Sotto una grezza tettoia c’erano svariati grossi mucchi di
argilla.
«Lì» disse Igneous generosamente. «Argilla».
«Ha un nome particolare quando è ammassata in quel modo?» domandò Felice timorosa. Spostò un po’ del
mucchio.
«Già» rispose Igneous. «Noi lo chiamiamo mucchio». Angua scosse la testa con espressione triste. Begli in-
dizi.
L’argilla era argilla. Aveva sperato che ce ne fossero tipi differenti ed era saltato fuori che era comune come
la polvere. «Scoccia mica uscire dal retro?» bofonchiò Igneous. «Mi s’innervosiscono i ragazzi e poi mi fan-
no vasi che non riesco a vendere».
Indicò un paio di grosse porte nella parete in fondo, tanto larghe da farci passare un carro. Armeggiò quindi
all’interno del grembiule e tirò fuori un grosso portachiavi.
Il lucchetto sul cancello era grosso, scintillante e nuovo. «Tu hai paura dei furti?» domandò Angua.
«Signora mia, questo è scorretto» protestò Igneous. «Mi hanno rotto il lucchetto vecchio quando mi hanno
soffiato della roba tre o quattro mesi fa».
«Disgustoso, eh?» commentò Angua. «Ti fa chiedere perché mai paghi le tasse, direi».
In un certo senso Igneous era parecchio più brillante, per esempio, del Signor Crostadiferro. Ignorò il com-
mento. «Era solo roba» ripeté, accompagnandole attraverso il cancello aperto alla velocità massima che osò
adottare.
«Hanno forse rubato dell’argilla?» domandò Felice.
«Non costa molto ma è il principio» rispose lui. «Mica ho capito perché lo hanno fatto. A che serve rubare se
una mezza tonnellata di argilla può uscire dal portone principale quasi per niente?»
Angua guardò di nuovo il lucchetto. «Hai ragione» confermò in tono distaccato.
Il cancello si chiuse cigolando alle loro spalle. Si trovavano fuori, in un vicolo.
«Buffo che qualcuno rubi un carico di argilla» commentò Felice. «Lo hanno comunicato alla Guardia?»
«Penso proprio di no» rispose Angua. «Le vespe non si lamentano troppo quando vengono punte. Comunque,
Detritus è convinto che Igneous è immischiato nel contrabbando di Lastra verso le montagne e quindi non
vede l’ora di trovare una scusa buona per buttare un occhio lì dentro... Senti, questa, tecnicamente, sarebbe la
mia giornata libera». Indietreggiò e osservò attentamente la recinzione appuntita che cingeva il cortile. «Si
può cuocere l’argilla nel forno di un panettiere?» domandò.
«Oh, no».
«Non è caldo abbastanza?»
«No, è della forma sbagliata. Alcuni dei vasi verrebbero ben cotti mentre altri sarebbero ancora umidi. Perché
lo chiedi?»
Perché lo chiedo? rifletté Angua. Oh, che diavolo... «Ti va di bere qualcosa?»
«Non birra» rispose in fretta Felice. «E non in un posto dove sei costretto a cantare mentre bevi. O darti pac-
che sulle ginocchia».
Angua annuì comprensiva. «Insomma, un posto senza nani?»
«Ehm... sì...»
«Dove andremo noi» disse Angua, «non sarà un problema».

***

La nebbia si stava sollevando in fretta. Tutta la mattina aveva indugiato nei vicoli e nelle cantine. Adesso si
stava ripresentando per la notte. Usciva dal terreno, si alzava dal fiume e scendeva dal cielo, un’incombente e
pungente coperta giallastra, il fiume Ankh sotto forma di goccioline. Trovava una strada attraverso le fenditu-
re e, contro ogni buon senso, riusciva a sopravvivere nelle stanze illuminate, riempiendo l’aria di una foschia
che faceva lacrimare gli occhi e scoppiettare le candele. All’esterno, ogni figura risultava incombente, ogni
sagoma rappresentava una minaccia...
In un vicolo sudicio che partiva da una sudicia via, Angua si fermò, incassò la testa fra le spalle e aprì una
porta.
L’atmosfera nella stanza lunga, bassa e scura mutò mentre lei entrava. Per un istante il tempo risuonò come
in una boccia di vetro, quindi si avverti un senso di rilassamento. La gente si voltò nuovamente sulle sedie.
Be’, seduta lo era. Era anche abbastanza probabile che fosse gente.
Felice si avvicinò ad Angua. «Come si chiama questo posto?» le sussurrò.
«Non ha un nome vero e proprio» rispose Angua, «ma a volte lo chiamiamo Catafalco».
«Non sembrava una taverna vista da fuori. Come lo hai scoperto?»
«Non lo si scopre. Ci si... gravita».
Felice si guardò attorno con espressione nervosa. Non era certa di dove fossero, più o meno nel distretto del
mercato del bestiame, in mezzo a un dedalo di vicoli.
Angua si avvicinò al bancone.
Un’ombra più profonda apparve dall’oscurità. «Salve, Angua» disse con una voce cupa, risuonante. «Succo
di frutta, eh?»
«Sì. Ghiacciato».
«E il nano?»
«Lo prenderà crudo» commentò una voce da qualche parte nella penombra. Si sentì un fremito di risa
nell’oscurità. Alcune di esse suonarono decisamente troppo strane per Felice. Non riusciva a immaginare che
provenissero da labbra normali. «Prenderò anche io un succo di frutta» disse con voce tremolante.
Angua lanciò un’occhiata alla nana. Si sentì stranamente grata del fatto che il commento giunto dall’oscurità
sembrasse essere passato completamente al di sopra della piccola testa bombata. Si staccò con cura il distin-
tivo e con altrettanta cura e calma lo appoggiò sul bancone. Fece un cling. Angua
si sporse quindi in avanti e mostrò l’immagine all’uomo del bar.
Sempre che fosse un uomo. Felice non ne era ancora sicura. Un cartello sopra il bancone diceva: ‘Non cam-
biamo mai’.
«Sai tutto quello che sta accadendo, Igor» disse Angua. «Ieri sono stati uccisi due vecchi ed è stato rubato un
carico di argilla da Igneous il troll, di recente. Hai sentito nulla a proposito?»
«Che ti importa?»
«Uccidere vecchi è contro la legge» disse Angua. «È ovvio che vengono fatte un sacco di cose contro la leg-
ge, quindi nella Guardia siamo molto indaffarati. Ci piace interessarci di cose importanti. In caso contrario
dovremmo interessarci di cose poco importanti. Chiaro?»
L’ombra rifletté sulla frase. «Andate a sedervi» disse, «vi porto io da bere».
Angua fece strada verso un tavolino in una nicchia. La clientela perse ogni interesse per loro. Il ronzio della
conversazione riprese.
«Che cosa è questo posto?» sussurrò Felice.
«È... un posto dove la gente può essere se stessa» rispose Angua lentamente. «Gente che... deve essere un po’
cauta in altri momenti. Capisci?»
«No...»
Angua sospirò. «Vampiri, zombie, spettri, ghoul, oh cielo. I non...» Si corresse. «I diversamente vivi» disse.
«Gente che deve passare la maggior parte del tempo a stare molto attenta, a non spaventare gli altri, a inserir-
si. Ecco come funziona qui. Se ti inserisci, ti trovi un lavoro, non spaventi il prossimo, probabilmente non ti
troverai una folla fuori dalla porta con forconi e torce fiammeggianti. A volte però è bello andare dove tutti
sanno che forma hai».
Adesso che la vista di Felice si era abituata alla luce soffusa, lei riusciva a distinguere la varietà delle sagome
sulle panche. Alcune erano ben più grosse di quelle umane. Alcune avevano orecchie appuntite e lunghi mu-
si.
«Chi è quella ragazza?» domandò. «Sembra... normale».
«Quella è Violet. È una fatina dei denti. Vicino a lei c’è Schleppel l’uomo nero».
Nell’angolo opposto era seduto qualcosa avvolto in un immenso soprabito sotto un alto cappello appuntito
con la falda larga.
«E quello?»
«Quello è Vecchio Guaio» rispose Angua. «Se sai cos’è meglio per te, ignoralo».
«Ehm... ci sono dei lupi mannari, qui?»
«Un paio» rispose Angua.
«Io odio i lupi mannari».
«Davvero?»
Il cliente più strano era seduto da solo a un tavolinetto rotondo. Sembrava una signora molto anziana con uno
scialle e un cappellino di paglia con dei fiori sopra. Stava fissando davanti a sé con un’espressione di serena
vacuità e, nel contesto, appariva più spaventosa di tutte le altre figure cupe.
«Che cos’è lei?»
«Quella? Oh, quella è la Signora Gammage».
«E cosa fa?»
«Fare? Be’, viene qui quasi tutti i giorni per bere qualcosa e avere un po’ di compagnia. A volte noi... loro si
fanno una cantata. Canzoni vecchie, che lei ricorda. È praticamente cieca. Vuoi sapere se è una non-morta...
no, non lo è. Non è un vampiro, un lupo mannaro, uno zombie o uno spettro. È solo un’anziana signora».
Un enorme affare peloso e dinoccolato si fermò al tavolino della Signora Gammage e le appoggiò davanti un
bicchiere.
«Porto e limone. Ecco fatto, Signora Gammage» tuonò.
«Salute, Charlie!» gracchiò l’anziana. «Come va la vita da idraulico?»
«Molto bene, tesoro» rispose lo spettro e sparì nell’oscurità.
«Quello faceva l’idraulico?» domandò Felice.
«Certo che no. Non so cosa fosse Charlie. Probabilmente è morto parecchi anni fa. Ma lei pensa che lui fa-
cesse l’idraulico e chi le direbbe il contrario?»
«Vuoi dire che lei non sa che questo posto è...»
«Ascolta, lei viene qui fin dai vecchi tempi, quando questo locale si chiamava Ascia e Corona» disse Angua.
«Nessuno vuole rovinarle niente. Tutti amano la Signora Gammage. Loro... la proteggono. L’aiutano in molti
piccoli modi».
«Come?»
«Be’, ho sentito dire che il mese scorso qualcuno le è entrato in casa e le ha rubato della roba...»
«Non mi sembra un grande aiuto».
«... che le è stata restituita il giorno dopo mentre un paio di ladri sono stati trovati nelle Ombre senza più una
sola goccia di sangue in corpo». Angua sorrise e la sua voce assunse una sfumatura di scherno. «Sai, ti dico-
no un sacco di brutte cose sui non-morti, ma non senti mai dire niente sulla magnifica opera che svolgono per
la comunità».
Apparve Igor il barista. Aveva un aspetto più o meno umano, a parte il pelo sul dorso delle mani e il singolo
sopracciglio indiviso che gli attraversava la fronte. Buttò un paio di sottobicchieri sul tavolino e vi appoggiò i
bicchieri.
«Probabilmente adesso avresti preferito che fosse un bar di nani» commentò Angua. Sollevò con cura il sot-
tobicchiere e ne osservò la parte inferiore.
Felice si guardò ancora attorno. A quel punto, se quello fosse stato un bar di nani, il pavimento sarebbe stato
tutto appiccicoso di birra, l’aria sarebbe stata densa di schizzi volanti e la gente avrebbe cantato. Probabil-
mente avrebbero cantato l’ultimo motivo nano Oro, Oro, Oro oppure uno dei classici preferiti come Oro,
Oro, Oro o magari il più grande successo di tutti i tempi Oro, Oro, Oro. Nel giro di qualche altro minuto sa-
rebbe volata la prima ascia.
«No» rispose, «non sarebbe mai potuto essere peggio».
«Bevi» disse Angua. «Dobbiamo andare a vedere... una cosa».
Una grossa mano pelosa afferrò Angua per un polso. Lei sollevò lo sguardo su un volto terrificante, tutto oc-
chi, bocca e peli.
«Salve, Shlitzen» gli disse tranquillamente.
«Oh, ho sentito dire che c’è un barone che è davvero scontento di te» disse Shlitzen, con l’alcool che gli si
cristallizzava nel fiato.
«Sono affari miei, Shlitzen» replicò Angua. «Perché non te ne torni dietro la porta da bravo uomo nero che
sei?»
«Ah, dice che sei una disgrazia per l’Antico Paese...»
«Giù le mani, per favore» insistette Angua. Aveva la pelle esangue nel punto in cui Shlitzen la stava tenendo.
Felice fece passare lo sguardo dal polso di lei alla spalla dell’uomo nero. Per quanto fosse magra la creatura
aveva i muscoli infilati sulle braccia come perle su un filo.
«Ah, hai addosso un distintivo» ghignò. «A che serve a un lu...»
Angua si mosse tanto in fretta da sembrare un turbine. Con la mano libera estrasse qualcosa dalla cintura e la
calò sulla testa di Shlitzen. Quello si fermò e restò in piedi a vacillare avanti e indietro dolcemente, produ-
cendo deboli gemiti. Sulla testa, a svolazzargli attorno alle orecchie come il fazzoletto annodato di un ba-
gnante privo di stile, c’era un piccolo riquadro di stoffa pesante.
Angua spostò indietro la sedia e prese il proprio sottobicchiere. Le figure in ombra attorno alle pareti stavano
mormorando.
«Usciamo di qui» disse. «Igor, aspetta mezzo minuto e poi levagli la coperta. Vieni».
Uscirono in fretta. La nebbia aveva già trasformato il sole in uno sbiadito accenno, ma c’era una vivida luce
se confrontata con l’oscurità all’interno del Catafalco.
«Che gli è successo?» domandò Felice correndo per tenere il passo con Angua.
«Insicurezza esistenziale» rispose Angua. «Non sa se esiste o no. È crudele, lo so, ma è l’unico mezzo che
abbiamo trovato che funziona contro gli uomini neri. Preferibilmente coperte morbide e azzurre». Notò
l’espressione vacua di Felice. «Gli uomini neri spariscono se infili la testa sotto le coperte, no? Lo sanno tutti.
Così se metti la loro testa sotto una coperta...»
«Oh, capisco. Oh, ma è orribile».
«Starà benone nel giro di dieci minuti». Angua fece rimbalzare il sottobicchiere attraverso il vicolo.
«Che cosa stava dicendo di un barone?»
«Non lo stavo a sentire» rispose Angua circospetta.
Felice rabbrividì nella nebbia, ma non solo per il freddo. «Mi sembrava che venisse anche lui da Boscodiso-
pra. C’era un barone che viveva vicino a noi e lui odiava che la gente se ne andasse».
«Già...»
«Un’intera famiglia di lupi mannari. Uno di loro ha mangiato un mio cugino di secondo grado».
La memoria di Angua si mise a turbinare in fretta. Tornarono a ossessionarla gli antichi pasti del periodo pre-
cedente a quando lei aveva detto no, non è questo il modo di vivere. Un nano, un nano... no, era quasi certa di
non avere mai... La famiglia si era sempre presa gioco delle sue abitudini alimentari...
«Ecco perché non posso sopportarli» proseguì Felice. «Oh, la gente dice che si possono addomesticare, ma io
dico, una volta lupo, lupo per sempre. Non ci si può fidare di loro. Sono fondamentalmente malvagi, no? Po-
trebbero tornare a inselvatichirsi in qualsiasi momento, dico io».
«Già. Potresti avere ragione».
«È la cosa peggiore è che per la maggior parte del tempo vanno in giro sembrando persone assolutamente
normali».
Angua strizzò gli occhi, felice per la doppia copertura della nebbia e della fiducia incondizionata di Felice.
«Vieni. Siamo quasi arrivate».
«Dove?»
«Andiamo a trovare qualcuno che o è l’assassino o sa chi è l’assassino».
Felice si bloccò. «Ma tu hai soltanto una spada e io non ho nemmeno quella!»
«Non ti preoccupare, non abbiamo bisogno di armi». «Oh, bene».
«Non servirebbero a nulla». «Oh».

***

Vimes aprì la porta per controllare a cosa fosse dovuto tutto il fracasso che proveniva dall’ufficio. L’uomo –
in questo caso il nano – che presidiava la scrivania era nei guai.
«Di nuovo? Quante volte è già stato ucciso questa settimana?»
«Mi stavo facendo gli affari miei!» esclamò il reclamante invisibile.
«Accatastando aglio? Lei è un vampiro, no? Voglio dire, esaminiamo i lavori che ha fatto... Appuntitore di
paletti per una ditta di recinzioni, collaudatore di occhiali da sole per l’Ottico Argus... Mi sbaglio, o c’è una
costante, in tutto questo?»
«Mi scusi, Comandante Vimes?»
Vimes si voltò per fissare un viso sorridente che cercava soltanto di fare del bene al mondo anche se il mondo
voleva che gli venissero fatte altre cose.
«Oh... Agente Visita, sì» disse in tutta fretta. «Al momento temo di essere piuttosto occupato e non sono
nemmeno certo di avere un’anima immortale, ah-ha, forse potrebbe ripassare quando...»
«Si tratta delle parole che mi aveva detto di controllare» replicò Visita in tono di biasimo.
«Quali parole?»
«Quelle che Padre Tubelcek ha scritto col proprio sangue. Non aveva detto di cercare di scoprire quello che
significavano?»
«Oh. Certo. Venga nel mio ufficio». Vimes si rilassò. Non sarebbe stata un’altra di quelle dolorose conversa-
zioni sullo stato della sua anima e sulla necessità di darle una ripulita e una spazzolata prima dell’avvento
della dannazione eterna. Questa volta si sarebbe trattato di qualcosa di importante.
«È Cenotino antico, signore. È tratto da uno dei loro libri sacri, anche se ovviamente quando dico ‘sacri’ è un
dato di fatto che siano stati fondamentalmente sviati da...»
«Già, ne sono sicuro» rispose Vimes sedendosi. «Dice per caso ‘È stato il Signor X, aargh, aargh, aargh’?»
«No, signore. Quella frase non compare da nessuna parte in nessuno dei libri sacri conosciuti, signore».
«Oh» commentò Vimes.
«Inoltre, ho notato altri documenti nella stanza e la carta non sembra essere scritta con la grafia del deceduto,
signore».
Vimes si rallegrò. «Ah-ha! È di qualcun altro? Dice qualcosa del genere ‘Prendi questo, bastardo, abbiamo
aspettato secoli per beccarti per quello che hai fatto tanti anni fa’?»
«No, signore. Nemmeno quella frase compare in alcuno dei sacri testi» ribatté l’Agente Visita ed esitò. «Ec-
cetto nell’Apocrifo del Testamento Vendicativo di Offler» aggiunse coscienziosamente. «Queste parole ven-
gono dal Libro della Verità Cenotino» tirò su col naso, «come lo chiamano loro. È ciò che il loro falso dio...»
«Potrebbe dirmi semplicemente le parole e lasciare da parte la religione comparata?» domandò Vimes.
«Molto bene, signore». Visita apparve ferito, ma aprì un foglio di carta e tirò su col naso con atteggiamento
di disprezzo. «Queste sono alcune delle regole che il loro dio avrebbe dato ai primi uomini, dopo averli pla-
smati con l’argilla e cotti, signore. Regole come ‘Lavorerai con profitto tutti i giorni della tua vita’, signore e
‘Non ucciderai’ e ‘Sarai umile’. Questo genere di roba».
«Tutto qui?» domandò Vimes.
«Sì, signore» rispose Visita.
«Sono soltanto citazioni religiose?»
«Sì, signore».
«Qualche idea del perché le avesse in bocca? Sembrava che quel povero diavolo si stesse fumando l’ultima
sigaretta».
«No, signore».
«Avrei potuto capire se fosse stata una di quelle frasi tipo ‘Massacra i tuoi nemici’» commentò Vimes. «Ma
lì c’è solo scritto ‘Fai il tuo lavoro e non creare problemi’».
«Ceno era un dio piuttosto liberale, signore. Non era un granché sui comandamenti».
«Mi sembra quasi decente, per essere un dio».
Visita lo fissò con disapprovazione. «I Cenotini sono morti per avere condotto per cinquecento anni una delle
guerre più sanguinose del continente, signore».
«Risparmia i fulmini e distruggi la congregazione, eh?» commentò Vimes.
«Come scusi, signore?»
«Oh, niente. Bene, grazie, agente. Vedrò di fare in modo che il Capitano Carota sia informato e grazie anco-
ra, non voglio trattenerla dai suoi...»
La voce in disperata accelerazione di Vimes fu troppo lenta per impedire che Visita tirasse fuori un rotolo di
carta dal pettorale.
«Le ho portato l’ultimo numero della rivista Fatti Nudi e Crudi, signore, e anche il Richiamo in Battaglia di
questo mese che contiene molti articoli che sono certo la interesseranno, inclusa l’esortazione fatta dal Pasto-
re Nasal Pedler alla congregazione di sollevarsi e parlare sinceramente alla gente tramite le loro cassette delle
lettere, signore».
«Ehm, grazie».
«Non posso fare a meno di notare che i libretti e le riviste che le ho dato la scorsa settimana sono ancora sulla
scrivania dove li avevo lasciati, signore».
«Oh, sì. Be’, mi spiace, sa come vanno le cose, il carico di lavoro in questi giorni rende così difficile trovare
il tempo per...»
«Non è mai troppo presto per prendere in considerazione la dannazione eterna, signore».
«Ci penso in continuazione, agente. Grazie».
Che scorrettezza, pensò Vimes quando Visita se ne fu andato. Viene lasciato un biglietto sulla scena di un
crimine nella mia città e non ha nemmeno la decenza di essere una minaccia di morte? No. L’ultimo scara-
bocchio di un uomo morente determinato a fare il nome del suo assassino? No. È un passo di blabla religioso.
A che servono indizi più misteriosi del mistero?
Scribacchiò un appunto sulla traduzione di Visita e lo infilò nel cestello Entrate.

***

Troppo tardi Angua ricordò perché evitava il quartiere del macello in quel periodo del mese.
Poteva trasformarsi a piacere in qualsiasi momento. Quello era ciò che la gente dimenticava sui lupi mannari.
Ricordava però la cosa importante. La luna piena era una pulsione irresistibile: i raggi lunari raggiungevano
il centro della sua memoria morfica e facevano scattare tutti gli interruttori, che lei lo volesse o meno. La lu-
na piena era solo a due giorni di distanza. Il delizioso odore degli animali in gabbia e del sangue del macello
stava cantilenando contro il suo rigido credo vegetariano. Il fragore stava facendo saltare fuori il suo istinto.
Guardò con espressione tetra l’edificio scuro che aveva davanti. «Penso che passeremo dal retro» disse. «Po-
trai bussare tu».
«Io? Non mi noteranno nemmeno!» esclamò Felice. «Gli mostri il distintivo e dici che sei della Guardia».
«Mi ignoreranno! Mi rideranno dietro!»
«Sarai costretta a farlo, prima o poi. Avanti».
La porta venne aperta da un uomo tarchiato con un grembiule insanguinato. Restò scioccato nel sentirsi affer-
rare la cintura dalla mano di un nano, mentre un’altra mano di nano gli si portò davanti alla faccia tenendo un
distintivo e una voce di nano gli diceva dalla regione ombelicale: «Siamo della Guardia, capito? Oh, sì! Se
non ci farai entrare ti serviremo le budella come antipasto!»
«Non male come inizio» mormorò Angua. Sollevò Felice spostandola di lato e sorrise in modo raggiante al
macellaio.
«Signor Pugno? Vorremmo parlare con un suo impiegato. Il Signor Dorfl».
L’uomo non aveva ancora superato appieno l’attacco di Felice ma recuperò alla grande. «Il Signor Dorfl?
Che ha fatto adesso?»
«Vorremmo soltanto parlargli. Possiamo entrare?»
Il Signor Pugno fissò Felice, che stava tremando per l’eccitazione nervosa. «Ho la possibilità di scegliere?»
domandò.
«Diciamo... che ha una specie di scelta» rispose Angua.
Cercò di chiudere le narici contro l’allettante miasma di sangue. Nell’edificio c’era perfino una fabbrica di
salsicce. Vi si trasformavano i pezzi di animale che nessuno avrebbe mangiato altrimenti e nemmeno ricono-
sciuto. Gli odori del mattatoio rivoltarono il suo stomaco umano ma, nel profondo, una parte di lei si alzò,
sbavò e mendicò davanti ai profumi mischiati di maiale, manzo, agnello, montone e...
«Ratto?» disse annusando. «Non sapevo che riforniste il mercato dei nani, Signor Pugno».
Il Signor Pugno divenne all’improvviso un uomo che desiderava essere considerato collaborativo.
«Dorfl! Vieni qui immediatamente!»
Si sentì un rumore di passi e, da dietro una fila di carcasse di manzo, emerse una figura.
Alcune persone avevano qualcosa contro i non-morti. Angua sapeva che il Comandante Vimes si sentiva a
disagio in loro presenza, anche se negli ultimi tempi stava migliorando. La gente aveva sempre bisogno di
qualcuno a cui sentirsi superiore. I vivi odiavano i non-morti e i non-morti erano restii ad accettare... si sentì
digrignare i denti... i non-vivi.
Il golem che si chiamava Dorfl zoppicava un po’ visto che aveva una gamba leggermente più corta dell’altra.
Non indossava vestiti perché non c’era assolutamente nulla da nascondere e quindi lei riusciva a vedere le
macchie su di esso in cui partì di argilla nuova erano state aggiunte nel corso degli anni. Era così rattoppato
che Angua si chiese quanti anni potesse avere. Originariamente erano stati fatti dei tentativi di riprodurre una
muscolatura umana, ma le riparazioni li avevano quasi cancellati. Quell’essere sembrava proprio il genere di
vaso che Igneous disprezzava, quelli fatti dalla gente che riteneva che ‘fatto a mano’ doveva anche apparire
fatto a mano e che le impronte dei pollici impressi nell’argilla rappresentassero un segno di integrità.
Ecco cos’era. Quell’essere appariva fatto a mano. Ovviamente, nel corso degli anni. Si era in pratica rifatto
da sé, una riparazione alla volta. I suoi occhi triangolari scintillavano debolmente. Non c’erano pupille, solo
il cupo bagliore rosso di un fuoco sopito.
Aveva in mano una lunga e pesante mannaia. Lo sguardo di Felice gravitò fino a quella e lì restò, terribilmen-
te affascinato. L’altra mano teneva un pezzo di spago, in fondo al quale c’era una capra grossa, pelosa e mol-
to puzzolente.
«Che stai facendo, Dorfl?»
Il golem fece un cenno col capo in direzione della capra. «Dai da mangiare alla Capra di Giuda?»
Dorfl annuì di nuovo.
«Lei non ha niente da fare, Signor Pugno?» domandò Angua.
«No, io...»
«Ha sicuramente qualcosa da fare, Signor Pugno» ripeté Angua con tono enfatico.
«Eh? Ah! Sì. Ehm? Ok. Vado a occuparmi dei bollitori per le interiora...»
Il macellaio, allontanandosi, si fermò per agitare un dito sotto il posto in cui si sarebbe trovato il naso di
Dorfl se il golem ne avesse avuto uno.
«Se hai creato dei problemi...» cominciò a dire.
«Sono sicura che quei bollitori hanno un gran bisogno di essere controllati» lo interruppe Angua, tagliente.
L’altro se ne andò in tutta fretta.
C’era silenzio nel cortile anche se i suoni della città vi giungevano fluttuando sopra i muri di cinta. Dall’altra
parte del macello proveniva l’occasionale belato di una pecora preoccupata. Dorfl restò in piedi impalato, con
in mano la mannaia, fissando il terreno.
«È un troll fatto per assomigliare a un umano?» sussurrò Felice. «Guarda quegli occhi!»
«Non è un troll» rispose Angua. « È un golem. Un uomo di argilla. È una macchina».
«Ma sembra umano!»
«Perché è una macchina studiata apposta per assomigliare a un umano».
Gli girò attorno. «Adesso leggerò il tuo chem, Dorfl» gli disse.
Il golem lasciò andare la capra, sollevò la mannaia e la abbatté con violenza su un ceppo di fianco a Felice,
facendo fare alla nana un balzo indietro. Girò quindi una lavagnetta che aveva appesa sulle spalle con un
pezzo di corda, sganciò la matita e scrisse:
si.
Quando Angua sollevò la mano, Felice si accorse di una linea sottile che percorreva la fronte del golem. Con
suo grande orrore, l’intera parte superiore della testa si scoperchiò. Angua, imperturbata, vi infilò dentro una
mano che ne uscì fuori tenendo un rotolo di carta ingiallito.
Il golem si immobilizzò. Gli occhi si spensero.
Angua srotolò la carta. «Una specie di scritto religioso» disse. «È sempre così. Qualche antica religione mor-
ta».
«L’hai ucciso?»
«No. Non puoi portare via quello che non c’è». Angua infilò nuovamente la carta al suo posto e chiuse la te-
sta con uno scatto.
Il golem si ravvivò, il bagliore tornò nei suoi occhi. Felice aveva trattenuto il fiato. Le uscì tutto in un colpo.
«Ma che hai fatto?» disse, strozzata.
«Diglielo, Dorfl» lo incalzò Angua.
Le grosse dita del golem sembrarono veloci come un turbine mentre la matita grattava sulla lavagnetta.
io sono un golem. sono stato fatto di argilla. la mia vita sono le parole. attra-
verso le parole d’intento che ho in testa acquisisco vita. la mia vita e lavorare.
obbedisco a tutti i comandi. non riposo mai.
«Parole d’intento?»
testi rilevanti che sono il fulcro del credo. i golem devono lavorare. i golem de-
vonoavere un padrone.
La capra si stese accanto al golem e cominciò a ruminare.
«Ci sono stati due omicidi» disse Angua. «Sono quasi certa che uno o forse entrambi lo abbia compiuto un
golem. Puoi dirci qualcosa, Dorfl?»
«Scusa, senti» interruppe Felice. «Mi stai dicendo che questa... questa cosa è alimentata da parole? Voglio di-
re... questa cosa mi sta dicendo di essere alimentata da parole?»
«Perché no? Le parole hanno una forza. Lo sanno tutti» replicò Angua. «Ci sono in giro ben più golem di
quanto tu non immagini. Adesso sono fuori moda, ma funzionano ancora. Possono lavorare sott’acqua,
nell’oscurità totale o immersi nel veleno fino alle ginocchia. Per anni. Non hanno bisogno di riposo né di ci-
bo. Loro...»
«Ma è schiavitù!» esclamò Felice.
«No che non lo è. A quel punto potresti considerare schiava anche la maniglia di una porta. Hai qualcosa da
dirmi, Dorfl?»
Felice continuava a fissare la mannaia conficcata nel ceppo. Parole come lunghezza, pesantezza e affilatezza
le stavano riempiendo la testa con maggiore completezza di quanto qualsiasi parola avrebbe potuto riempire
il cranio di argilla di un golem.
Dorfl non disse nulla.
«Da quanto tempo lavori qui, Dorfl?»
adesso sonogia trecentogiorni.
«Hai del tempo libero?»
risata cupa. che ci farei col tempo libero?
«Voglio dire, non sei sempre dentro il macello, no?»
a volte faccio consegne.
«E incontri altri golem? Ascoltami bene, Dorfl, io so che voi in qualche modo vi tenete in contatto. Se un go-
lem andasse in giro ad ammazzare gente vera, non scommetterei nemmeno una tazza di tè sulle vostre possi-
bilità di cavarvela. In un attimo arriverebbe una folla brandendo torce fiammeggianti. E grosse mazze. Mi
sono spiegata?»
Il golem scrollò le spalle.
non possonoportare via quello che non esiste, scrisse.
Angua alzò le mani in segno di resa. «Sto cercando di essere gentile» disse. «Potrei confiscarti all’istante.
L’accusa potrebbe essere Ostruzionista Quando la Giornata È Stata Lunga e Io Non Ne Posso Più. Conosci
Padre Tubelcek?»
il vecchioprete che abita sul ponte.
«Come fai a conoscerlo?»
ho fatto delle consegne da lui.
«È stato assassinato. Dove ti trovavi tu mentre lui veniva ucciso?»
al macello.
«Come fai a saperlo?»
Dorfl ebbe un attimo di esitazione. Le successive parole vennero scritte molto lentamente, come se avessero
fatto un bel po’ di strada dopo una riflessione bella lunga.
Perche deve essere successo da poco. visto che tu sei agitata. durante gli ultimi
tre giorni ho lavorato qui.
«Per tutto il tempo?»
si.
«Ventiquattr’ore al giorno?»
si. uomini e troll sono qui ad ogni turno, lo confermeranno. durante il giorno
devo macellare, allineare, squartare, tagliare a pezzi e disossare e di notte, sen-
za tregua, devo fare salsicce e bollire i fegati, i cuori, la trippa, i reni e le fratta-
glie.
«Ma è terribile!» esclamò Felice. La matita si mosse in fretta.
abbastanza.
Dorfl girò lentamente la testa verso Angua e scrisse:
ancora bisogno di me?
«Se ne avremo, sappiamo dove trovarti».
dispiaceper il vecchio.
«Bene. Andiamo, Felice».
Si sentirono gli occhi del golem addosso finché non ebbero lasciato il cortile.
«Stava mentendo» osservò Felice.
«Perché dici così?»
«Aveva l’aspetto di uno che mente».
«Probabilmente hai ragione» commentò Angua. «Ma hai visto quanto è grande questo posto. Scommetto che
non riusciremmo mai a dimostrare che è uscito per una mezz’ora. Penso che suggerirò che venga messo sotto
quella che il Comandante Vimes chiama sorveglianza speciale».
«Sarebbe come... in borghese?»
«Una cosa del genere» rispose Angua cautamente.
«Mi è sembrato buffo vedere una capra come mascotte in un macello» osservò Felice, mentre camminavano
nella nebbia.
«Come? Vuoi dire la Capra di Giuda?» chiese Angua. «Quasi tutti i macelli ne tengono una. Non è una ma-
scotte. Immagino la si potrebbe definire un’impiegata».
«Impiegata? Ma che razza di lavoro potrebbe svolgere?»
«Oh. Entrare nel macello tutti i giorni. Ecco il lavoro. Ascolta, hai lì un recinto pieno di animali spaventati,
no? Vagano in giro privi di meta, senza un capo... poi c’è una rampa in quell’edificio, mette una grande pau-
ra... e, caspita, c’è anche una capra, non ha paura, quindi il gregge la segue e» Angua fece il rumore di una
gola tagliata, «solo la capra esce fuori camminando».
«Ma è orribile!»
«Immagino che abbia un senso dal punto di vista della capra. Quanto meno lei riesce a uscire» replicò Angua.
«Come facevi a saperlo?»
«Oh, stando nella Guardia si imparano un sacco di cosette».
«Ho moltissimo da imparare, a quanto vedo» disse Felice. «Tanto per cominciare non avrei mai pensato che
tu andassi in giro con pezzi di coperta!»
«Fa parte dell’equipaggiamento speciale se si ha a che fare con i non-morti».
«Be’, sapevo dell’aglio e dei vampiri. Coi vampiri funziona tutto ciò che è sacro. Cosa c’è che funziona con-
tro i lupi mannari?»
«Come, scusa?» disse Angua che stava ancora pensando al golem.
«Ho una cotta di maglia d’argento: ho promesso alla mia famiglia che l’avrei sempre indossata, ma c’è altro
di buono per i lupi mannari?»
«Un gin tonic è sempre gradito» rispose Angua in tono assente.
«Angua?»
«Eh? Sì? Cosa?»
«Qualcuno mi ha detto che c’è un lupo mannaro nella Guardia! Non posso crederci!»
Angua si fermò e la fissò.
«Voglio dire, prima o poi il lupo verrà fuori» proseguì Felice. «Sono sorpresa che il Comandante Vimes lo
consenta».
«È vero, c’è un lupo mannaro nella Guardia» confermò Angua.
«Sapevo che c’era qualcosa di strano nell’Agente Visita». Angua restò a bocca aperta.
«Ha sempre un’espressione famelica» disse ancora Felice. «E poi ha costantemente quel sorrisetto strano. Ri-
conosco subito un lupo mannaro quando ne vedo uno».
«Sembra in effetti un po’ affamato, è vero» confermò Angua. Non riusciva a pensare ad altro da dire.
«Bene, mi terrò a distanza!»
«Bene» disse Angua.
«Angua...»
«Sì?»
«Perché porti il distintivo legato attorno al collo?»
«Come? Oh. Così è sempre a portata di mano. Sai. In ogni circostanza».
«Devo farlo anch’io?»
«Non penso proprio».
Il Signor Pugno sobbalzò. «Dorfl, stupido scemo! Mai avvicinarsi di soppiatto alle spalle di uno che sta
all’affettatrice! Te l’ho già detto! Cerca di fare un po’ di rumore quando ti muovi, maledizione!»
Il golem sollevò la lavagnetta su cui era scritto:
questa notte non posso lavorare.
«Cos’è questa storia? L’affettatrice non mi chiede mai un permesso!»
e un giorno sacro.
Pugno guardò gli occhi rossi. Il vecchio Pesciaiolo gli aveva detto qualcosa a proposito quando gli aveva
venduto Dorfl, no? Qualcosa del tipo: «A volte andrà via per qualche ora perché è un giorno sacro. È una co-
sa che ha a che vedere con le parole che ha in testa. Se non va via e trotterella verso il suo tempio o che dia-
volo è, le parole smettono di funzionare, non chiedermi il perché. Non ha alcun senso fermarlo».
Quella cosa gli era costata cinquecentotrenta dollari. Lo aveva ritenuto un affare... ed era effettivamente un
affare, non c’era dubbio. Quel maledetto aggeggio smetteva di lavorare solo quando era a corto di cose da fa-
re. A volte nemmeno allora, secondo certe storie. Si sentiva di golem che avevano allagato case perché nes-
suno aveva detto loro di smettere di portare acqua dal pozzo, o che avevano lavato tanto i piatti da renderli
sottili come carta velina. Che stupidi. Erano utili però se li si teneva d’occhio.
Eppure... eppure... riusciva a capire perché nessuno sembrasse tenerli a lungo. Era il modo in cui quelle ma-
ledette macchine a due mani stavano lì a prendersi addosso tutto e a metterlo... dove? Non si lamentavano
mai. Né parlavano.
Ci si poteva sentire profondamente a disagio per un affare del genere e incredibilmente sollevati quando si
firmava una ricevuta al nuovo proprietario.
«Mi pare che ci siano stati un sacco di giorni sacri da ultimo» disse Pugno.
alcuni periodisono più sacri degli altri..
Ma non potevano fare gli scansafatiche, no? Il mestiere del golem era lavorare.
«Non so se riusciremo a farcela...» cominciò a dire Pugno.
e un glorno sacro.
«Oh, d’accordo. Puoi avere un giorno libero domani».
questa notte. il giorno sacro inizia al tramonto.
«Allora vedi di tornare presto» disse Pugno stancamente. «Altrimenti io... Torna indietro presto, hai capito?»
Quello era un altro problema. Quelle creature non si potevano minacciare. Non potevi certo trattenergli la pa-
ga, visto che non ne prendevano. Non potevi spaventarli. Pesciaiolo aveva detto che un tessitore sulla Collina
Pisolo aveva ordinato al suo golem di frantumarsi a pezzi da solo con un martello... e quello lo aveva fatto.
si. ho capito.

***

In un certo senso non importava chi fossero. In effetti, il loro anonimato faceva parte del gioco. Loro si con-
sideravano parte del cammino della storia, la marea del progresso e l’onda del futuro. Erano uomini che sen-
tivano che Il Tempo Era Giunto. I regimi possono sopravvivere a orde barbariche, terroristi pazzi e società
segrete, ma si trovano in guai seri quando uomini prosperi e anonimi si siedono attorno a un grosso tavolo e
formulano pensieri del genere.
Uno disse: «Almeno in questo modo è una cosa pulita. Niente sangue».
«E, ovviamente, sarebbe per il bene della città».
Annuirono con espressione grave. Nessuno aveva bisogno di dire che ciò che era bene per loro era bene per
Ankh-Morpork.
«E non morirà?»
«Apparentemente può essere tenuto in uno stato di malessere perenne. Mi è stato detto che il dosaggio può
venire variato».
«Bene. Preferisco averlo che sta male piuttosto che morto. Non mi fiderei del fatto che Vetinari possa rima-
nere in una tomba».
«Ho sentito dire che una volta ha detto che preferirebbe essere cremato, in effetti».
«Allora spero che disperderanno le ceneri in lungo e in largo, tutto qui».
«È la Guardia?»
«La Guardia cosa?»
«Oh!»

***

Lord Vetinari aprì gli occhi. Contro ogni buon senso, gli facevano male i capelli.
Si concentrò e una sagoma indistinta presso il letto si focalizzò nella forma di Samuel Vimes.
«Oh, Vimes» disse con un filo di voce.
«Come si sente, signore?»
«Davvero male. Chi era quell’ometto con le gambe terribilmente storte?»
«Era Jimmy Ciambella, signore. Faceva il fantino su un cavallo grassissimo».
«Un cavallo da corsa?»
«Apparentemente, signore».
«Un cavallo da corsa grasso? Non avrà di certo mai vinto una gara!»
«Non credo l’abbia mai fatto, signore. Ma Jimmy ha fatto un sacco di soldi non vincendo le corse».
«Oh. Mi ha dato del latte e una specie di pozione appiccicosa». Vetinari si concentrò. «Stavo vigorosamente
male». «Mi è stato detto, signore».
«Buffa frase. Vigorosamente male. Mi chiedo perché lo usi come modo di dire. Suona quasi... allegro. Deci-
samente ameno».
«Sì, signore».
«Mi sembra di avere avuto una brutta influenza, Vimes. Ho la testa che non mi funziona correttamente».
«Davvero, signore?»
Il Patrizio rifletté un istante. Aveva chiaramente qualcos’altro per la testa. «Perché puzzava ancora di cavalli,
Vimes?» domandò alla fine.
«Lui cura i cavalli, signore. È maledettamente bravo. Ho sentito dire che il mese scorso ha curato Azzardo e
quello non si è accasciato fino alle 210 iarde».
«Non mi sembra promettente, Vimes».
«Oh, non direi, signore. Quel cavallo si era accasciato morto arrivando alla linea di partenza».
«Oh, capisco. Bene, bene, bene. Che mente sospettosa possiede, Vimes».
«Grazie, signore».
Il Patrizio si sollevò sui gomiti. «Secondo lei le unghie dei piedi dovrebbero pulsare, Vimes?»
«Non saprei, signore».
«Adesso, penso che dovrei leggere un po’. La vita va avanti, eh?»
Vimes si avvicinò alla finestra. C’era una figura da incubo appollaiata al margine della balconata esterna che
fissava nella nebbia sempre più fitta.
«Tutto a posto, Agente Scolicello?»
«Fì, ffignoee» rispose l’apparizione.
«Adesso chiuderò la finestra. Sta entrando la nebbia ». «Ghiuffto, ffignoee».
Vimes chiuse la finestra, intrappolando qualche tentacolo di nebbia che, gradatamente, si dissolse.
«Che cos’era?» domandò Lord Vetinari.
«L’Agente Scolicello è una gargolla, signore. Non è buono per le parate ed è praticamente inutilizzabile per
le strade, ma quando si tratta di stare fermo in un posto, signore, non lo si può battere. È campione mondiale
di immobilità. Se vuole il vincitore dei 100 Metri Stando Immobili, è lui. Ha passato tre giorni su un tetto sot-
to la pioggia quando abbiamo beccato il Maniaco del Parchetto. Nulla può sfuggirgli. Poi c’è il Caporale Fi-
gliodigimlet che pattuglia il corridoio, l’Agente Nipotediglod sul piano sottostante e gli Agenti Selce e Mo-
rena nelle stanze adiacenti alla sua, inoltre il Sergente Detritus sarà costantemente in giro di pattuglia così che
se qualcuno dovesse appisolarsi lui lo prenderà a calci nel sedere, signore, e se ciò dovesse accadere lei se ne
accorgerà subito perché il poveretto passerà dritto attraverso la parete».
«Ben fatto, Vimes. Sbaglio a pensare che tutte le mie guardie siano non-umani? Mi sembrano tutti o nani o
troll». «È la cosa più sicura, signore».
«Ha pensato proprio a tutto, Vimes».
«Lo spero, signore».
«Grazie, Vimes». Vetinari si mise a sedere e prese un pacco di documenti dal comodino. «E adesso non la
trattengo oltre».
Vimes restò a bocca spalancata.
Vetinari sollevò lo sguardo. «C’era altro, comandante?»
«Be’... suppongo di no, signore. Suppongo che farei meglio ad andarmene, vero?»
«Se non le dispiace. Sono certo che nel mio ufficio si siano accumulate un sacco di pratiche, quindi se voles-
se mandare qualcuno a prendermele, gliene sarei grato».
Vimes si chiuse la porta alle spalle, un po’ più violentemente del necessario. Accidenti, quanto lo irritava il
modo in cui Vetinari lo accendeva e lo spegneva come un interruttore... mostrava poi la gratitudine naturale
di un alligatore. Il Patrizio confidava nel fatto che Vimes svolgesse il proprio lavoro, sapeva che lui avrebbe
svolto il suo lavoro e quello era tutto il pensiero di cui degnava la faccenda. Be’, un giorno Vimes avrebbe...
avrebbe... avrebbe, ovviamente, svolto maledettamente bene il suo lavoro, visto che non sapeva fare altro.
Comprendere la cosa, però, la rendeva ancora peggiore.
Fuori dal palazzo la nebbia era fitta e giallastra. Vimes salutò le guardie alla porta e guardò fuori verso le nu-
bi incombenti e turbinanti.
Era quasi una camminata in linea retta fino al Posto di Guardia di Pseudopolis Yard. La nebbia aveva fatto
calare presto la notte in città. Non c’era molta gente per strada: restavano tutti dentro casa, sbarrando le fine-
stre per tenere fuori i brandelli di umidità che sembravano filtrare dappertutto.
Già... strade deserte, una notte gelida, umidità nell’aria...
Mancava una sola cosa per rendere tutto perfetto. Mandò a casa gli uomini della portantina e si avvicinò a
piedi a una delle guardie. «Lei è l’Agente Fortunello, vero?»
«Sissignore, Sir Samuel».
«Che numero porta di stivali?»
Fortunello sembrò preso dal panico. «Come, signore?» «È una domanda semplice, amico mio!»
«Quarantadue, signore».
«Sono del vecchio Plugger di Ciottoli Nuovi? Quelli economici?»
«Sissignore!»
«Non è possibile lasciare un uomo di guardia al palazzo con gli stivali di cartone!» esclamò Vimes con finta
allegria. «Li tolga subito, agente. Le do i miei. Hanno ancora su i dragoni... a qualsiasi cosa servano i drago-
ni... ma le andranno bene. Non stia lì a bocca aperta. Mi dia gli stivali, forza. Può tenere i miei». Vimes ag-
giunse: «Ne ho un sacco».
L’agente guardò con inorridito stupore Vimes che si infilava gli stivali economici e si alzava pestando qual-
che volta i piedi per terra a occhi chiusi. «Oh» disse. «Mi trovo davanti al palazzo, vero?»
«Ehm... sì, signore. Ne è appena uscito, signore. È quel grosso edificio».
«Oh» esclamò Vimes allegro, «ma avrei saputo che mi trovavo qui anche se così non fosse stato!»
«Ehm...»
«È l’acciottolato» spiegò Vimes. «I ciottoli sono di una misura insolita e leggermente bombati al centro. Non
lo aveva mai notato? I suoi piedi, ragazzo! Sono quelli con cui deve imparare a pensare!»
L’agente sconcertato lo guardò scomparire nella nebbia, pestando allegramente i piedi.

***

Il Caporale Onorevolissimo Conte di Ankh Nobby Nobbs aprì la porta del Posto di Guardia ed entrò barcol-
lando.
Il Sergente Colon sollevò lo sguardo dalla scrivania e restò senza fiato. «Ti senti bene, Nobby?» disse, affret-
tandosi a sostenere la figura ondeggiante.
«È terribile, Fred! Terribile!»
«Qui, siediti. Sei pallidissimo».
«Sono stato elevato, Fred!» gemette Nobby.
«Che orrore! Hai visto chi è stato?»
Nobby, senza parole, gli consegnò la pergamena che Dragon Re degli Araldi gli aveva infilato in mano e si
accasciò. Prese un mozzicone di sigaretta fatta a mano da dietro un orecchio e l’accese con mano tremante.
«Non so, ti garantisco» rispose. «Fai del tuo meglio, cerchi di volare basso, non provochi guai e poi ti succe-
de una cosa del genere».
Colon lesse lentamente la pergamena, muovendo le labbra quando arrivò a parole difficili come ‘e’ e ‘il’.
«Nobby, ma lo hai letto? Dice che sei un lord!»
«Il vecchio ha detto che dovevano fare un sacco di controlli ma che pensava di essere abbastanza sicuro con
l’anello e tutto il resto. Fred, che devo fare?»
«Sederti comodo e mangiare da piatti di ermellino, direi!»
«È proprio questo il fatto, Fred. Non ci sono soldi. Niente grandi case. Niente terra. Nemmeno una scoreggia
d’ottone!»
«Come niente?»
«Nemmeno un pisello secco, Fred».
«Pensavo che tutta la crema dell’aristocrazia avesse soldi a palate».
«Be’, io sono meno del latte scremato, Fred. Non so niente del signorato! Non voglio mettermi abiti di lusso,
andare ai balli della caccia e roba del genere!»
Il Sergente Colon si sedette di fianco a lui. «Non hai mai sospettato di avere contatti di lusso?»
«Be’... mio cugino Vincent è stato beccato una volta per avere assalito la donna della Duchessa di Quirm...»
«Donna delle pulizie o sguattera?»
«Direi sguattera».
«Allora, probabilmente, non conta. C’è qualcun altro al corrente?»
«Be’, lei lo sapeva ed è andata in giro a dirlo...» «Parlavo del signorato».
«Solo il Signor Vimes».
«Bene, ecco fatto» commentò il Sergente Colon riconsegnandogli la pergamena. «Non devi dirlo a nessuno.
A quel punto non dovrai andare in giro con i calzoni d’oro e non dovrai andare a caccia di balli a meno che tu
non ne abbia perso qualcuno. Resta seduto qui che vado a prenderti una tazza di tè, che ne dici? Ce la cave-
remo, non preoccuparti».
«Sei un lussurioso, Fred».
«Allora siamo in due, milord!» Colon inarcò le sopracciglia. «Capito? Capito?»
«No, Fred» rispose Nobby con un fil di voce.
La porta del Posto di Guardia si aprì.
La nebbia si riversò all’interno come fumo. Nel suo centro si trovavano due occhi rossi. I brandelli di nebbia
che si aprivano rivelarono la massiccia figura di un golem.
«Uhm» commentò il Sergente Colon.
Il golem prese la propria lavagnetta.
sonovenuto da voi.
«Già. Già. Già. Ho, ehm, visto» disse Colon. Dorfl girò la lavagnetta. Sull’altro lato era scritto:
mi costituisco per l’omicidio. sono stato io a uccidere il vecchio prete. il crimine e
risolto.
Colon, una volta che le sue labbra ebbero smesso di ballare, sgattaiolò dietro la barricata ora estremamente
sottile costituita dalla sua scrivania e cominciò a frugare fra le carte.
«Tienilo d’occhio, Nobby. Vedi che non scappi».
«Perché dovrebbe scappare?» domandò Nobby.
Il Sergente Colon trovò un pezzo di carta relativamente pulito.
«Bene, bene, bene, io, ehm, immagino che dovrei... come ti chiami?»
Il golem scrisse:
dorfl.
Quando si trovò sul Ponte d’Ottone (ciottoli di media grandezza del genere rotondo chiamato ‘testa di gatto’,
parecchi mancanti) Vimes stava già cominciando a chiedersi se avesse fatto la cosa giusta.
Le nebbie autunnali erano sempre fitte, ma non ne aveva mai viste di così brutte. Il drappo attutiva i rumori
della città e trasformava le luci più brillanti in opachi bagliori, anche se in teoria il sole non era ancora calato.
Camminò lungo il parapetto. Una figura tozza e lucida si profilò nella nebbia. Si trattava di uno dei due ippo-
potami di legno, antichi antenati di Roderick o Keith. Ce n’erano quattro su ogni lato e tutti guardavano verso
il mare.
Vimes vi era passato davanti migliaia di volte. Erano vecchi amici. Si era spesso fermato al riparo di uno di
essi nelle notti gelide, quando cercava un posto lontano dai guai.
Ecco com’era prima, vero? Non sembrava nemmeno passato tanto tempo. Nella Guardia c’erano solo una
manciata di uomini e restavano fuori dai guai. Poi era arrivato Carota e all’improvviso lo stretto circolo delle
loro vite si era aperto e adesso nella Guardia c’erano quasi trenta uomini (oh, inclusi troll, nani e miscellanea)
e non bighellonavano in giro cercando di mantenersi lontani dai guai, i guai andavano a cercarli e li trovava-
no ovunque facessero cadere lo sguardo. Buffo. Come aveva puntualizzato Vetinari, con quel suo modo tipi-
co, più poliziotti c’erano più crimini sembrava venissero commessi. La Guardia era però tornata per le strade
e se non erano tutti bravi come Detritus a prendere la gente a calci nel sedere erano di certo bravi a pungolare
natiche.
Accese un fiammifero sull’unghia di un ippopotamo e schermò con una mano il sigaro per proteggerlo
dall’umidità.
Adesso quegli omicidi. A nessuno sarebbe interessato se non fosse interessato alla Guardia. Due vecchi, as-
sassinati nello stesso giorno. Niente di rubato... Si corresse: nulla di apparentemente rubato. Ovviamente, la
caratteristica delle cose che venivano rubate era che quelle maledette non c’erano più. Di certo quei due non
erano andati in giro a fare gli scemi con le mogli di altri. Probabilmente non ricordavano nemmeno cosa si-
gnificasse fare gli scemi. Uno passava il tempo in mezzo a testi religiosi; l’altro, santo cielo, era un’autorità
sugli usi aggressivi della panetteria.
La gente avrebbe probabilmente detto che conducevano vite irreprensibili.
Vimes però era un poliziotto. Nessuno viveva una vita completamente irreprensibile. Poteva essere possibile,
giacendo assolutamente immobili in una cantina sperduta, passare un’intera giornata senza commettere un
crimine. A malapena, però. Comunque, anche in quel caso, si sarebbe stati probabilmente colpevoli di ozio
colposo.
Angua sembrava aver preso a cuore quel caso. Aveva spesso un debole per i poveri cani.
Succedeva anche a Vimes. Era necessario. Non tanto perché fossero nobili e puri, ma perché non lo erano.
Bisognava mettersi dalla parte dei poveri cani perché non erano cani ricchi.
Tutti in città badavano a se stessi. Ecco perché esistevano le Gilde. La gente si associava contro altra gente.
La Gilda si occupava di te dalla culla alla tomba o, nel caso degli Assassini, alla tomba degli altri. Rispetta-
vano perfino la legge, o lo avevano fatto, alla meglio. Rubare senza licenza era punibile con la morte per il
primo reato.11 Se ne occupava la Gilda dei Ladri. L’organizzazione sembrava irreale, ma funzionava.
La città funzionava come una macchina. Andava tutto bene, eccetto per gli occasionali sventurati che finiva-
no sotto le ruote.
I ciottoli umidi gli davano una sensazione rassicurante sotto le suole.
Accidenti, quanto gli era mancata. Andava di pattuglia da solo ai vecchi tempi. Quando c’era solo lui e le pie-
tre cominciavano a luccicare verso le tre del mattino, tutto sembrava avere un senso...
Si fermò.
Attorno a lui il mondo si trasformò in un cristallo di orrore, quell’orrore speciale che non ha nulla a che fare
con zanne o fantasmi ma che ha tutto a che fare con il familiare che diventa poco familiare.
C’era qualcosa di fondamentalmente storto.
Alla sua mente occorse qualche terribile secondo per fornirgli i dettagli che il suo subconscio aveva notato.
C’erano cinque statue lungo il parapetto dalla sua parte.
Ma sarebbero dovute essere quattro.
Si voltò molto lentamente e tornò indietro fino all’ultima. Era decisamente un ippopotamo.
Lo era anche quella prima. C’erano sopra dei graffiti. Nulla di soprannaturale ci aveva scribacchiato sopra:
«Zaz è uno sciemo».
Gli sembrò di non metterci così tanto tempo per arrivare alla successiva e quando la guardò...
Due punti rossi scintillarono nella nebbia sopra di lui. Qualcosa di grosso e scuro balzò giù, lo abbatté al suo-
lo e scomparve nell’oscurità.
Vimes si rimise in piedi, scosse la testa e partì all’inseguimento. Non pensava a nulla. Era l’antico istinto dei
terrier e dei poliziotti che li lanciano a caccia di qualsiasi cosa scappi.
Mentre correva cercò automaticamente la propria campanella, che avrebbe chiamato a raccolta altre guardie,
ma il Comandante della Guardia non portava una campanella. I Comandanti della Guardia erano soli.

***

Nello squallido ufficio di Vimes, il Capitano Carota stava fissando un pezzo di carta.
Riparazioni alle Grondaie, Posto di Guardia, Pseudopolis Yard. Nuovo pluviale, gomito Micklewhite a 35°,
quattro spalle ad angolo retto, mano d’opera e riparazione. $16.35c.
Ce n’erano altri uguali, incluso il salario in piccioni dell’Agente Scolicello. Sapeva che il Sergente Colon non
apprezzava il fatto che un poliziotto venisse pagato in piccioni, ma l’Agente Scolicello era una gargolla e le
gargolle non avevano il concetto del denaro. Riconoscevano tuttavia un piccione quando ne mangiavano uno.
Le cose stavano comunque migliorando. Quando era arrivato Carota, l’intero ammontare dei liquidi della
Guardia era tenuto su una mensola in una lattina con su scritto «Lucido per Armature Fortebraccio per Coorti
Scintillanti» e se c’era bisogno di soldi per qualcosa non bisognava fare altro che andare a cercare Nobby e
costringerlo a restituirli.
C’era poi la lettera di un residente di Via dei Parchi, una delle zone più elitarie della città:

11
Il concetto di crimine e punizione ad Ankh-Morpork era che la punizione per il primo reato dovesse impedire la possibilità di
perpetrarne un secondo.
Comandante Vimes,
la pattuglia della Guardia Notturna di questa zona sembra essere costituita interamente da nani. Non ho nul-
la contro i nani che restano fra i loro simili, quanto meno non sono troll, ma si sentono strane storie e io ho
delle figlie in casa. Pretendo che si ponga immediatamente rimedio a tale situazione altrimenti non mi reste-
rà altra possibilità che sottoporre la questione all’attenzione di Lord Vetinari, mio amico personale.
In fede
Joshua H. Catterail
Questo era lavoro da poliziotti, eh? Si chiese se il Signor Vimes non stesse cercando di fargli capire qualcosa.
C’erano altre lettere. Il Coordinatore della Comunità dei Pari Diritti per i Nani stava chiedendo che ai nani
della Guardia venisse concesso di portare un’ascia invece della spada tradizionale e che venissero inviati a
indagare solo su crimini commessi da persone alte. La Gilda dei Ladri si stava lamentando del fatto che il
Comandante Vimes avesse detto pubblicamente che la maggior parte dei furti veniva commessa dai ladri.
Ci sarebbe voluta la saggezza del Re Isiandanu per sbrigarla tutta, e quella era soltanto la corrispondenza di
oggi.
Prese la successiva e lesse: «Traduzione del testo trovato in bocca a Padre Tubelcek. Perché? SV».
Carota lesse la traduzione con interesse.
«In bocca? Qualcuno ha cercato di mettergli delle parole in bocca?» disse Carota nella stanza silenziosa.
Rabbrividì, ma non per il tremore provocato dalla paura. L’ufficio di Vimes era sempre freddo. Vimes era
una persona da esterno. La nebbia stava danzando nella finestra aperta, sottili dita che ondeggiavano nella lu-
ce.
L’ultima carta del mucchio era una copia dell’iconografia di Felice. Carota fissò i due occhi rossi indistinti.
«Capitano Carota?»
Si voltò in parte, ma continuò a fissare l’immagine. «Sì, Fred?»
«Abbiamo l’assassino! Lo abbiamo!» «È un golem?»
«Come faceva a saperlo?»

***

La tintura della notte cominciò a soffondere la densa zuppa pomeridiana.


Lord Vetinari esaminò la frase e la trovò buona. Gli piaceva particolarmente ‘tintura’. Tintura. Tintura. Era
una parola distinta gradevolmente in contrapposizione con la piattezza di ‘zuppa’. La zuppa pomeridiana. Sì.
In cui si potevano anche trovare i crostini dell’ora del tè.
Si rendeva conto di essere un po’ stordito. Non avrebbe mai composto una frase del genere in uno stato men-
tale normale.
Nella nebbia fuori dalla finestra, appena visibile a luce di candela, vide la figura accucciata dell’Agente Sco-
licello.
Una gargolla, eh? Si era chiesto come mai la Guardia accreditasse cinque piccioni alla settimana sotto la voce
pagamenti. Una gargolla nella Guardia, il cui compito era guardare. Doveva essere stata un’idea del Capitano
Carota.
Lord Vetinari si alzò con attenzione dal letto e chiuse le persiane. Si incamminò lentamente verso lo scrittoio,
tirò fuori il diario dal cassetto quindi prese un manoscritto e aprì la bottiglietta dell’inchiostro.
Allora, dove era arrivato?
Capitolo Otto, lesse a fatica, I riti dell’Uomo.
Oh, sì...
A proposito della verità, scrisse, che può venire Pronunciata come Dettano gli Eventi, ma deve essere Ascol-
tata in Ogni Occasione...
Si chiese come potesse infilare ‘zuppa pomeridiana’ nel trattato o, quanto meno, ‘tintura della notte’.
La penna grattava la carta.
Abbandonato al suolo c’era il vassoio che aveva contenuto una ciotola di brodaglia nutriente, al cui proposito
aveva deciso di scambiare quattro parole con il cuoco non appena si fosse sentito meglio. Era stata assaggiata
da tre assaggiatori, incluso il Sergente Detritus, che era improbabile potesse essere avvelenato da qualsiasi
cosa avesse un effetto sugli umani e perfino dalla maggior parte di ciò che aveva un effetto sui troll.
La porta era chiusa a chiave. Occasionalmente riusciva a sentire il rassicurante cigolio prodotto da Detritus
durante le sue ronde. Fuori dalla finestra, la nebbia si condensava sull’Agente Scolicello.
Vetinari intinse la penna nell’inchiostro e cominciò una nuova pagina. Ogni tanto consultava il diario rilegato
in pelle, leccandosi delicatamente le dita per voltare le pagine.
Viticci di nebbia filtravano attraverso le persiane e accarezzavano il muro prima di essere allontanati dalla lu-
ce della candela.

***

Vimes correva nella nebbia dietro la figura in fuga. Non era veloce quanto lui a causa dei crampi alle gambe
e al paio di fitte di avvertimento del ginocchio sinistro e inoltre, ogni volta che si avvicinava, appariva qual-
che pedone che intralciava o sbucava fuori un carro da una via laterale.12
Le suole gli dissero che avevano percorso tutta la Via Larga ed erano svoltati in Via del Nulla (piccoli cubetti
di porfido). La nebbia lì era anche più fitta, intrappolata fra gli alberi del parco.
Vimes però era trionfante. Hai saltato la tua svolta se volevi dirigerti nelle Ombre, amico mio! Adesso resta
soltanto il Ponte Ankh e lì ci sarà una guardia...
I piedi gli dissero qualcos’altro. Gli dissero: «Foglie umide, ecco com’è Via del Nulla in autunno. Piccoli cu-
betti di porfido con occasionali chiazze di traditrici foglie umide».
Glielo dissero troppo tardi.
Vimes atterrò sul mento nel canale di scolo, barcollò in piedi, cadde di nuovo mentre il resto dell’universo gli
turbinava intorno, si alzò, trottò qualche passo nella direzione sbagliata, cadde ancora e decise di accettare
per una volta il voto della maggioranza.

***

Dorfl stava tranquillamente in piedi nell’ufficio della stazione, le braccia pesanti incrociate sul petto. Davanti
al golem c’era la balestra che apparteneva al Sergente Detritus, che era stata convertita da un’antica arma
d’assedio. Lanciava una freccia in ferro lunga un metro e ottanta. Nobby vi sedeva dietro col dito sullo sgan-
cio.
«Mettila via, Nobby! Non puoi usarla qui dentro!» esclamò Carota. «Sai che non è possibile sapere dove si
fermi la freccia!»
«Gli abbiamo estorto una confessione» disse il Sergente Colon, balzellando su e giù. «Lui continuava ad
ammetterlo, ma alla fine glielo abbiamo fatto confessare! E abbiamo anche questi altri crimini che abbiamo
preso in esame».
Dorfl sollevò la lavagnetta.
sonocolpevole.
Qualcosa gli cadde di mano.
Era piccolo e bianco. Un pezzetto di fiammifero, all’aspetto. Carota lo prese e lo esaminò. Guardò quindi la
lista stilata da Colon. Era piuttosto lunga e comprendeva ogni crimine avvenuto in città nell’ultimo paio di
mesi.
«Ha confessato tutti questi?»
«Non ancora» disse Nobby.
«Non glieli abbiamo ancora letti tutti» precisò Colon. Dorfl scrisse:
ho fatto tutto.
«Ehi!» esclamò Colon. «Il Signor Vimes sarà davvero contento di noi!»
Carota si avvicinò al golem. Quello aveva un debole bagliore arancione negli occhi.
«Hai ucciso Padre Tubelcek?» gli domandò.
Si.
«Visto?» disse il Sergente Colon. «Non si discute». «Perché lo hai fatto?» domandò ancora Carota. Nessuna
risposta.
«È il Signor Hopkinson al Museo del Pane?»
Si.
«Lo hai picchiato a morte con una spranga di ferro?» chiese Carota.
Si.
«Aspetta un momento» intervenne Colon. «Mi sembrava che avessi detto che...»
«Lascia perdere, Fred» lo interruppe Carota. «Perché hai ucciso quel vecchio, Dorfl?»

12
Questo accade sempre durante ogni inseguimento di polizia di ogni luogo. Davanti all’inseguitore sbucherà sempre da un vicolo
un carro dal carico pesante. Se non sono coinvolti veicoli, allora si tratterà di un uomo con una rastrelliera di vestiti. Oppure due
uomini con una enorme lastra di vetro. Probabilmente dietro tutto ciò si nasconde una specie di società segreta.
Nessuna risposta.
«Deve esserci per forza una ragione? Non ci si può fidare dei golem, diceva sempre mio padre» insistette Co-
lon. «Appena li guardi ti si rivoltano contro, diceva».
«Hanno mai ucciso nessuno?» domandò Carota.
«Non che io voglia pensarci» rispose Colon in tono cupo. «Mio padre diceva che una volta aveva dovuto la-
vorare con uno che lo guardava in continuazione. Lui si voltava ed eccolo lì... quello lo fissava».
Dorfl teneva lo sguardo fisso davanti a sé.
«Fagli brillare una candela negli occhi!» esclamò Nobby.
Carota avvicinò a sé una sedia trascinandola sul pavimento e vi si sedette a cavalcioni, guardando Dorfl. Ri-
girò distrattamente il fiammifero rotto fra le dita.
«So che non hai ucciso il Signor Hopkinson e non penso che tu abbia ucciso Padre Tubelcek» disse. «Penso
che lui stesse morendo quando lo hai trovato. Penso che tu abbia cercato di salvarlo, Dorfl. In effetti sono
quasi certo di poterlo dimostrare se potessi guardare nel tuo chem...»
La luce proveniente dagli occhi scintillanti del golem riempì tutta la stanza. Avanzò con i pugni sollevati.
Nobby fece scattare il grilletto.
Dorfl afferrò il lungo dardo a mezz’aria. Si sentì il rumore di metallo stridente e il dardo divenne una barra di
ferro incandescente con un rigonfiamento attorno alla presa del golem.
Carota però era già dietro il golem e gli stava scoperchiando la testa. Mentre il golem si voltava, sollevando
la barra di ferro come una mazza, gli si spense il fuoco negli occhi.
«Fatto» disse Carota sollevando una pergamena ingiallita.

***

In fondo a Via del Nulla c’era una forca, dove i malfattori, o quanto meno la gente trovata colpevole di aver
mal fatto, erano stati impiccati per ruotare delicatamente nel vento, come esempi di giusto castigo e, mentre
gli elementi svolgevano la propria azione, anche di anatomia di base.
Un tempo, schiere di bambini erano stati portati lì dai genitori perché imparassero tramite l’orrido esempio
quali fossero le insidie e i pericoli che aspettavano i criminali, i fuorilegge e quelli che si trovavano a essere
nel posto sbagliato al momento sbagliato; i piccoli vedevano l’orribile resto cigolare appeso alla catena e sen-
tivano le dure improperie, quindi, di solito (visto che si era ad Ankh-Morpork) esclamavano: «Caspita! Che
forte!» e usavano il cadavere come un’altalena.
Al momento la città aveva metodi più riservati ed efficienti di gestire quelli che considerava in sovrappiù ri-
spetto alle esigenze, ma per rispetto della tradizione l’incombente impiccato era ancora presente, anche se co-
stituito da un corpo di legno piuttosto realistico. L’occasionale corvo stupido cercava di beccarne gli occhi
anche adesso e si ritrovava con un becco ben più corto.
Vimes trotterellò fino a lì, ansimando.
La preda poteva essere arrivata chissà dove, ormai. Quel poco di luce che era riuscito a filtrare attraverso la
nebbia si era arreso.
Vimes si fermò di fianco all’impiccato, che cigolò.
Era stato studiato per cigolare. A che serve una pubblica dimostrazione di castigo, si era discusso, se non ci-
gola in modo sinistro? Nei periodi di vacche grasse era stato impiegato un vecchietto per far andare avanti il
cigolio tramite un pezzo di corda, ma adesso c’era un meccanismo che necessitava di essere caricato solo una
volta al mese.
La condensa sgocciolava dal cadavere artificiale.
«Al diavolo questa pagliacciata» bofonchiò Vimes e cercò di tornare dalla parte da cui era venuto.
Dopo dieci secondi di camminata incerta, inciampò su
qualcosa.
Si trattava di un cadavere di legno, scaricato nel canale di scolo.
Quando tornò alla forca, la catena vuota stava oscillando delicatamente, tintinnando nella nebbia.

***

Il Sergente Colon picchiò sul petto del golem. Si udì solo un donk.
«Sembra un vaso da fiori» commentò Nobby. «Ma come fanno ad andare in giro se sono come vasi da fiori,
eh? Dovrebbero continuare a creparsi».
«Sono anche stupidi» aggiunse Colon. «Ho sentito dire che ce n’era uno nel Quirm a cui avevano fatto scava-
re una trincea, poi se ne sono dimenticati e se ne sono ricordati solo quando era ormai tutta piena d’acqua
perché quello era andato avanti a scavare fino al fiume...»
Carota srotolò il chem sul tavolo e lo appoggiò di fianco alla carta che era stata inserita in bocca a Padre Tu-
belcek. «È morto, vero?» domandò il Sergente Colon.
«È inoffensivo» rispose Carota, spostando lo sguardo da un pezzo di carta all’altro.
«Bene. Ho un mazzuolo nel retro, da qualche parte, potrei...»
«No» lo bloccò Carota.
«Hai visto il modo in cui si comportava!»
«Non penso che avrebbe mai potuto colpirmi. Penso che volesse soltanto spaventarci».
«Ha funzionato!»
«Guarda qui, Fred».
Il Sergente Colon lanciò un’occhiata sulla scrivania. «Scrittura forestiera» disse con una voce che suggeriva
che non assomigliava affatto a una decente scrittura casalinga e che probabilmente puzzava di aglio.
«Non noti niente?»
«Be’... sembrano uguali» ammise il Sergente Colon.
«Questa ingiallita è il chem di Dorfl. L’altra è quella di Padre Tubelcek» disse Carota. «Uguali alla lettera».
«Perché mai?»
«Io penso che Dorfl abbia scritto queste parole e le abbia infilate in bocca al vecchio Tubelcek dopo che il
poveretto era già morto» disse Carota lentamente, continuando a guardare alternativamente i due pezzi di car-
ta.
«Ma che schifezza» commentò Nobby. «Ma è osceno, ecco cos’è...»
«No, non capisci» replicò Carota. «Voglio dire che le ha scritte perché erano le uniche che sapeva funzionas-
sero...» «Funzionare in che senso?»
«Be’... mai sentito parlare del bacio della vita?» domandò Carota. «Voglio dire, il pronto soccorso? So che lo
sai Nobby. Sei venuto con me al corso dell’Ympa».
«Sono venuto solo perché tu hai detto che mi davano tè e biscotti gratis» rispose Nobby imbronciato. «Co-
munque il manichino è scappato via quando è arrivato il mio turno».
«È come salvare una vita» proseguì Carota. «Vogliamo che la gente respiri, quindi cerchiamo di assicurarci
che le entri dell’aria dentro...»
Si voltarono tutti per fissare il golem.
«Ma i golem non respirano» commentò Colon.
«No, il golem sa l’unica cosa che lo mantiene in vita» spiegò Carota. «Le parole che ha nella testa». Si volta-
rono tutti a guardare le parole.
«Qui dentro si è fatto un gran freddo» balbettò Nobby.
«Ho chiaramente sentito un’aura passare nell’aria proprio adesso! Era come se qualcuno...»
«Che sta succedendo?» domandò Vimes, scuotendo via l’umidità dal mantello.
«... aprisse la porta» terminò Nobby.

***

Erano passati dieci minuti.


Il Sergente Colon e Nobby avevano staccato dal servizio, con grande sollievo di tutti. Colon in particolare
aveva una grossa difficoltà ad accettare l’idea che si proseguisse a investigare dopo che qualcuno aveva con-
fessato. Era un insulto alla sua formazione professionale e alla sua esperienza. Si otteneva una confessione e
tutto finiva lì. Non si andava in giro a non credere alle persone. Non si credeva alle persone quando sostene-
vano di essere innocenti. Solo le persone colpevoli erano degne di fiducia. Tutto il resto cozzava contro la ba-
se stessa del concetto di polizia.
«Argilla bianca» osservò Carota. «Abbiamo trovato argilla bianca. Praticamente non cotta. Dorfl è fatto di
terracotta scura ed è duro come la roccia».
«L’ultima cosa che il vecchio prete ha visto è stato un golem» replicò Vimes.
«Dorfl, di certo» rispose Carota. «Ma non è necessariamente come dire che Dorfl è l’assassino. Penso che sia
arrivato lì mentre l’uomo stava morendo, tutto qui».
«Oh? Perché?»
«Non sono... ancora sicuro. Ma ho visto Dorfl in giro. Mi è sempre sembrato molto cortese».
«Lavora in un macello!»
«Forse non è un brutto posto per lavorare per una persona cortese, signore» osservò Carota. «Comunque, ho
controllato tutta la documentazione e non penso che un golem abbia mai attaccato nessuno. Né commesso al-
cun genere di crimine».
«Oh, figuriamoci» disse Vimes. «Tutti sanno...» si interruppe mentre le sue orecchie ciniche sentivano la sua
voce incredula. «Cosa, mai?»
«Oh, la gente dice sempre di conoscere qualcuno che aveva un amico il cui nonno aveva sentito di uno che
aveva ucciso qualcuno, e questo è il massimo della prova che si riesce a ottenere. Ai golem non è concesso di
danneggiare le persone. È nelle loro parole».
«Mi fanno venire i brividi, questo è certo» commentò Vimes.
«Fanno venire i brividi a tutti, signore».
«Si sentono un sacco di storie sul fatto che facciano cose stupide come modellare migliaia di teiere o scavare
buche profonde otto chilometri» disse Vimes.
«Già ma non si tratta esattamente di attività criminali, signore, non le sembra? Quella è solo ordinaria ribel-
lione».
«Che intendi dire con ‘ribellione’?»
«Obbedire ottusamente agli ordini, signore. Sa... qualcuno grida ordini come ‘Vai a fare teiere’ e quello le fa.
Non può essere accusato di avere obbedito a un ordine, signore. Nessuno gli ha detto quante farne. Nessuno
vuole che loro pensino e loro si rifanno non pensando».
«Si ribellano lavorando?»
«È soltanto un’idea, signore. Sospetto che per un golem potrebbe avere più senso così».
Automaticamente, si voltarono di nuovo per guardare la sagoma silente del golem.
«Può sentirci?» domandò Vimes.
«Non penso, signore».
«Questa faccenda delle parole...?»
«Ehm... io penso che loro pensino che una persona morta sia solo una che ha perso il suo chem. Non penso
che capiscano come funzioniamo, signore».
«Né loro né io, capitano».
Vimes fissò gli occhi vacui. La parte superiore della testa di Dorfl era scoperchiata così che la luce brillava
dentro attraverso le orbite. Vimes aveva visto molte cose orribili per la strada, ma il golem silente era, non si
sa perché, peggio. Era
anche troppo facile immaginare che quegli occhi si mettessero improvvisamente a brillare e quell’essere si
alzasse e avanzasse, agitando i pugni come mazze. Era più che la sua sola immaginazione. Gli sembrava che
ciò fosse connaturato in quegli esseri. Una potenzialità, che aspettava solo il momento opportuno per palesar-
si.
Ecco perché tutti li odiamo, pensò. Quegli occhi inespressivi ci guardano, quelle grosse facce si voltano per
seguirci e non sembra forse che stiano prendendo appunti e segnando nomi? Se senti dire che uno di loro ha
fracassato la testa a qualcuno nel Quirm o da qualche altra parte, non saresti entusiasta di crederci?
Una voce al suo interno, una voce che generalmente sentiva solo nelle ore più tranquille della notte o, ai vec-
chi tempi, a metà di una bottiglia di whisky, aggiunse: dato il modo in cui li usiamo, forse abbiamo paura
perché sappiamo di meritarci...
No... non c’è nulla dietro quegli occhi. Sono solo argilla e parole magiche.
Vimes scrollò le spalle. «Ho inseguito un golem prima» disse. «Si trovava al Ponte d’Ottone. Maledetto. A-
scolta, abbiamo una confessione e la prova degli occhi. Se non riesci a fornirmi niente di più di una... sensa-
zione, allora dovremo...»
«Fare cosa, signore?» domandò Carota. «Non potremmo fargli niente di più. Adesso è morto».
«Inanimato, vuoi dire».
«Sì, signore. Se vuole metterla in questi termini». «Se Dorfl non ha ucciso i due vecchi, chi è stato?» «Non lo
so, signore. Ma penso che Dorfl lo sappia. Forse stava seguendo l’assassino».
«È possibile che gli sia stato detto di proteggere qualcuno?»
«Forse, signore. Oppure avrebbe potuto deciderlo lui». «Tra un po’ mi dirai che ha delle emozioni. Dov’è
andata Angua?»
«Voleva andare a controllare delle cose. signore» risposeCarota. «Sono rimasto perplesso riguardo a... que-
sto, signore. Lo aveva in mano». Sollevò l’oggetto.
«Un pezzo di fiammifero?»
«I golem non fumano e non usano il fuoco, signore. È solo... strano che avesse quella cosa in mano, signore».
«Oh» commentò Vimes in tono sarcastico. «Un indizio».
***

La traccia di Dorfl era la parola da seguire sulla strada. Gli odori frammisti del macello riempivano le narici
di Angua.
Il percorso zigzagava, ma con una certa direzionalità. Era come se il golem avesse appoggiato un righello
sulla città e avesse preso ogni strada e vicolo che portasse a destra.
Arrivò a un angusto vicolo cieco. In fondo si trovavano le porte di alcuni magazzini. Lei annusò. C’erano un
sacco di altri odori. Pasta. Vernice. Grasso. Resina di pino. Odori freschi e pungenti. Annusò di nuovo. Stof-
fa? Lana?
C’era una gran confusione di impronte a terra. Impronte grosse.
La particina di Angua che camminava sempre su due gambe notò che le impronte di chi era uscito si trovava-
no sopra quelle di chi era entrato. Perlustrò la zona col naso. Fino a dodici creature, ognuna col proprio odore
distintivo – l’odore di mercanzia piuttosto che di creatura vivente – erano scese tutte molto recentemente
lungo la scala. E tutte e dodici erano risalite.
Scese le scale e si trovò davanti a una barriera impenetrabile.
Una porta.
Le zampe non avevano alcuna possibilità con i pomoli delle porte.
Sbirciò sopra gli scalini. Non c’era nessuno in giro. C’era solo la nebbia a incombere fra gli edifici.
Si concentrò e cambiò, si appoggiò contro la parete per un momento intanto che il mondo smetteva di vorti-
care e provò la maniglia della porta.
Dietro si trovava una grossa cantina. Perfino con la vista da lupo mannaro non c’era un gran che da vedere.
Doveva restare in forma umana. Quando era umana pensava con maggiore chiarezza. Sfortunatamente, in
quel preciso istante, il pensiero che le occupava la mente, e non poco, era quello di essere nuda. Chiunque
avesse trovato una donna nuda in cantina si sarebbe sentito spinto a porre delle domande. Oppure avrebbe
anche potuto non porne, nemmeno una semplice come «Per favore?» Angua era sicuramente in grado di ge-
stire quella situazione, ma preferiva non doverlo fare. Era così difficile spiegare poi la forma delle ferite.
Non c’era tempo da perdere.
Le pareti erano ricoperte di scritte. Lettere grosse, lettere piccole, ma tutte nella precisa scrittura che usavano
i golem. C’erano frasi scritte col gesso, vernice e carbone e in alcuni casi incise addirittura nella pietra. An-
davano dal pavimento al soffitto, si incrociavano vicendevolmente così tanto che era quasi impossibile com-
prendere quello che ognuna di esse volesse significare. Qui e lì un paio di parole si stagliavano dal groviglio
di lettere:
... non dovrai... quel che fa non... attaccare il creatore... maledetto il senza pa-
drone... parole nel... nostra argilla... che i miei... ci porti a liber...
La polvere al centro del pavimento era smossa, come se un gran numero di persone vi avesse camminato so-
pra. Lei si accucciò e sfregò la terra, annusandosi occasionalmente le dita. Odori. Erano odori industriali.
Non aveva bisogno di sensi speciali per individuarli. Un golem non odorava di nulla se non di argilla e di ciò
a cui stava lavorando al momento...
E... qualcosa le rotolò sotto le dita. Era un pezzettino di legno, lungo circa cinque centimetri. Un fiammifero
senza la capocchia.
Dopo qualche minuto di ricerca ne trovò altri dieci, sparsi qui e lì come se fossero stati fatti cadere con non-
curanza.
C’era anche un mezzo fiammifero, buttato a una certa distanza dagli altri.
La sua visione notturna stava svanendo. Il senso dell’olfatto invece durava molto più a lungo. Gli odori sui
fiammiferi erano forti... lo stesso cocktail di odori che l’avevano portata in quella stanza umida. Ma l’odore
di macello che lei era giunta ad associare con Dorfl si trovava soltanto sul fiammifero spezzato a metà.
Si accosciò e guardò il mucchietto di legnetti. Dodici persone (dodici persone impiegate in lavori sporchi) e-
rano state lì. Non erano rimaste a lungo. Avevano avuto una... discussione: le scritte sul muro. Avevano fatto
qualcosa che coinvolgeva l’uso di undici fiammiferi (solo la parte in legno. Forse il golem che odorava di pi-
no lavorava in una fabbrica di fiammiferi?) più un fiammifero spezzato.
Poi se n’erano andati tutti per strade diverse.
La traccia di Dorfl lo aveva portato direttamente al Posto di Guardia principale per costituirsi.
Perché?
Annusò nuovamente il pezzo di fiammifero rotto. Non c’era dubbio sul cocktail di sangue e odore di carne.
Dorfl si era costituito per un omicidio...
Lei fissò le scritte sulle pareti e rabbrividì.
***

«Salute, Fred» disse Nobby, sollevando il boccale. «Potremo rimettere a posto domani i soldi per il Fondo
del Tè. Nessuno si accorgerà della mancanza» commentò il Sergente Colon. «Comunque questa è da conside-
rarsi un’emergenza».
Il Caporale Nobbs guardò depresso il proprio bicchiere. La gente lo faceva spesso al Tamburo Riparato,
quando la sete iniziale era stata sedata e per la prima volta si poteva dare una bella occhiata a ciò che si stava
bevendo.
«Che devo fare?» gemette. «Se sei nobile devi indossare coroncine, vestiti lunghi eccetera. Ti costa una pac-
ca, quel genere di roba. Poi devi anche fare delle cose». Trasse un altro lungo sorso. «Si dice mobilesse ob-
bligge».
«Nobblyesse obligay» lo corresse Colon. «Già. Vuol dire che devi comportarti come si deve in società. Dare
soldi per le associazioni di beneficenza. Essere gentile coi poveri. Passare i tuoi vestiti vecchi al giardiniere
quando la stoffa non è ancora del tutto da buttare via. Lo so. Mio zio faceva il maggiordomo dalla vecchia
Lady Selachii».
«Non ho un giardiniere» replicò Nobby cupo. «Non ho un giardino. Non ho vestiti vecchi a parte quelli che
ho addosso». Trasse un altro sorso. «Quella donna dava i suoi vestiti vecchi al giardiniere, eh?»
Colon annuì. «Già. Quel giardiniere ci ha sempre lasciati un po’ perplessi». Attirò l’attenzione del barista.
«Altre due pinte di Winkles, Ron». Lanciò un’occhiata a Nobby. Non aveva mai visto il suo vecchio amico
tanto depresso. «Meglio fare due anche per Nobby» aggiunse.
«Salute, Fred».
Il Sergente Colon inarcò le sopracciglia quando una pinta venne svuotata quasi d’un solo fiato. Nobby mise
giù il boccale con mano un po’ traballante.
«Non sarebbe tanto male se ci fosse un bel po’ di contante» disse Nobby, prendendo l’altro boccale. «Pensa-
vo che non potevi essere nobile senza essere un riccone. Pensavo che ti davano un bel gruzzolo con una ma-
no e ti sbattevano la corona in testa con l’altra. Non ha senso essere nobile e povero. È il peggio di tutte e due
le cose». Scolò il boccale e lo batté sul tavolo. «Popolare e ricco, sì, quello mi andrebbe».
Il barista si chinò verso il Sergente Colon. «Ma che è successo al caporale? È un tipo da mezza pinta. Ne ha
già scolate otto».
Fred Colon gli si avvicinò e parlò dal lato della bocca. «Non dirlo a nessuno, Ron, ma è perché è nobile ».
«Tutto qui? Vado subito a prendere qualcosa da mettergli sotto la sedia per non farla muovere più».

***

Nel Posto di Guardia, Sam Vimes spostò con le dita i fiammiferi. Non chiese ad Angua se era sicura. Angua
riusciva a capire col naso se era mercoledì.
«Allora chi erano gli altri?» domandò. «Altri golem?»
«È difficile stabilirlo dalle tracce» rispose Angua. «Però penso di sì. Li avrei seguiti ma ho ritenuto che fosse
meglio tornare subito qui».
«Cosa ti fa pensare che fossero golem?»
«Le impronte. Poi i golem non hanno odore» spiegò lei. «Prendono l’odore associato con ciò che stanno fa-
cendo. È l’unica cosa di cui sanno...» Pensò alla parete di parole. «E hanno avuto un lungo dibattito» aggiun-
se. «Una discussione da golem. Per iscritto. Penso sia diventata piuttosto accesa».
Ripensò nuovamente alla parete. «Alcuni di loro devono essersi scaldati parecchio» disse ancora, ricordando
la dimensione di alcune delle lettere. «Se fossero stati umani, avrebbero gridato...»
Vimes fissò con espressione cupa i fiammiferi che aveva di fronte. Undici pezzi di legno e un dodicesimo
spezzato in due. Non c’era bisogno di un genio per capire che cosa fosse accaduto. «Hanno tirato a sorte» os-
servò. «E Dorfl ha perso».
Sospirò. «La situazione sta peggiorando» disse. «C’è qualcuno che sappia quanti golem ci sono in città?»
«No» rispose Carota. «È difficile scoprirlo. Nessuno ne ha più fatti da secoli, ma non si consumano».
«Non li fa più nessuno?»
«È proibito, signore. I preti sono decisamente irritabili a proposito, signore. Dicono che è come dare la vita e
quello è ciò che sono tenuti a fare soltanto gli dei. Tollerano tuttavia i golem che sono già in giro perché, be’,
sono molto utili. Alcuni sono chiusi nei ponti o fissati alle ruote di mulini o in fondo alle miniere. Eseguono
compiti pesanti, sa, in posti dove è pericoloso andare. Fanno tutti i lavori più sporchi. Immagino possano es-
sere centinaia...»
«Centinaia?» replicò Vimes. «E adesso si riuniscono segretamente e ordiscono complotti? Santo cielo! Bene.
Dobbiamo distruggerli tutti».
«Perché?»
«Ti piace l’idea che abbiano dei segreti? Voglio dire, che diamine, d’accordo troll e nani, perfino i non-morti
sono in un certo senso vivi, anche se è un gran brutto senso» Vimes colse lo sguardo di Angua e proseguì,
«nella maggior parte dei casi. Ma questi cosi? Sono solo oggetti che lavorano. È come avere un branco di pa-
le che si incontrano per una chiacchierata!»
«Ehm... c’era dell’altro, signore» disse lentamente Angua. «Nella cantina?»
«Sì. Ehm... ma è difficile da spiegare. Era una specie di... sensazione».
Vimes alzò le spalle in modo evasivo. Aveva imparato a non sottovalutare le sensazioni di Angua. Tanto per
cominciare sapeva sempre dove si trovava Carota. Quando lei era al Posto di Guardia si capiva se lui stava
passando lungo la strada dal modo in cui si voltava a guardare la porta.
«Sì?»
«Come... un profondo cordoglio, signore. Una tristezza terribile, davvero terribile. Ehm».
Vimes annuì e si pinzò il naso con le dita. Quella giornata era stata molto lunga e sembrava non essere deci-
samente ancora finita. Aveva un tremendo bisogno di bere. Il mondo era già terribilmente distorto. Quando lo
si osservava attraverso il fondo di un bicchiere, tutto tornava a fuoco.
«Oggi ha mangiato niente, signore?» gli domandò Angua.
«Ho fatto un po’ di colazione» bofonchiò Vimes. «Sa la parola che usa il Sergente Colon?»
«Cosa? Chiavica?»
«Ha quell’aspetto. Se ha intenzione di restare qui vediamo di farci un caffè e di mandare a prendere dei fig-
gin». Vimes esitò. Aveva sempre immaginato che una chiavica fosse come ti sentivi la bocca dopo tre giorni
di dieta rigurgitata. Era incredibile pensare di potere avere un tale aspetto.
Angua allungò la mano verso la vecchia lattina di caffè che conteneva i fondi comuni per il tè della Guardia.
Era sorprendentemente leggera.
«Ehi! Dovrebbero esserci dentro almeno venticinque dollari» esclamò. «Nobby ha fatto la colletta appena ie-
ri...» La rovesciò. Cadde fuori un piccolo mozzicone di sigaretta. «Nemmeno un pezzo di carta con un HO
PRESO IN PRESTITO...?» domandò Carota afflitto.
«Un HO PRESO IN PRESTITO? Ma stiamo parlando di Nobby!»
«Oh, certo».

***

Al Tamburo Riparato si era fatto tutto molto tranquillo. L’ora dell’aperitivo, l’Ora dell’Allegria era passata
con una sola
rissa di poca importanza. Adesso tutti stavano vivendo l’Ora della Tristezza.
Davanti a Nobby regnava una foresta di boccali.
«Voglio dire, voglio dire, a che serve alla finfine?» disse. «Potresti rivenderlo» suggerì Ron.
«Ottima idea» commentò il Sergente Colon. «C’è un sacco di gente ricca che darebbe una caterva di contante
per un il titolo. Come dire, gente che ha già la casa grande e tutto il resto. Darebbero qualsiasi cosa per essere
nobili come te, Nobby».
La nona pinta si fermò a metà strada dalle labbra di Nobby. «Potrebbe valere mille dollari» osservò Ron in-
coraggiante.
«Come minimo» confermò Colon. «Si batterebbero per averlo».
«Se giochi bene le tue carte potresti ritirarti con un affare del genere» disse Ron.
Il boccale rimase immobile. Varie espressioni combatterono per farsi strada attorno ai bitorzoli e alle escre-
scenze della faccia di Nobby, a suggerimento della terribile battaglia che si stava combattendo all’interno.
«Oh, lo farebbero, vero?» disse alla fine.
Il Sergente Colon piegò la pencolante testa di lato. C’era una sfumatura nella voce di Nobby che non aveva
mai sentito prima.
«A quel punto saresti ricco e plebeo proprio come avevi detto» insistette Ron che non aveva lo stesso occhio
per i cambiamenti meteorologici mentali. «Gli snobboni non vedrebbero l’ora».
«Vendere il mio diritto di nascita per un succo di grano?»
domandò Nobby.
«Si dice ‘grana di sacco’» lo corresse il Sergente Colon.
«È ‘sacco di grana’» osservò un astante, ansioso di non interrompere il flusso.
«Ah! Bene, sai cosa vi dico» disse Nobby oscillando, «ci sciono cose che non sci possciono vendere. Ah! Ah!
Chi mi ruba il portafoglio ruba da schifo, giuscto?»
«Sì. È il portafoglio più schifoso che ho mai visto» commentò una voce.
«... ma che cosa sarebbe un sacco di grano?»
«Perché... a che mi scerve un sciacco di scioldi, eh?»
La clientela apparve perplessa. Pareva una domanda sulla falsariga di ‘L’Alcool fa bene?’ oppure ‘Lavoro
duro, vuoi farlo tu?’
... che c’entra il grano?»
«Bene» disse un’anima ardita con voce incerta, «potresti usarli per comperare una grande casa, un bel po’ di
cibo... alcool... donne eccetera».
«È quello che sci vuole per fare felisce un uomo, ehhh?» domandò Nobby con gli occhi vitrei.
I suoi compagni bevitori lo fissarono. Quello era un dedalo metafisico.
«Be’, sciai cosscia vi dico» disse Nobby che oscillava ormai con un ritmo così regolare da sembrare un pen-
dolo invertito, «tutta quella roba è gnente, gnente! Sce lo confronti con l’orgoglione del lineantaggio... ag-
gio».
«Lineantaggio?» domandò il Sergente Colon.
«Ancestragli e roba del genere» proseguì Nobby. «Vuol dire che io ci ho gli ancestragli e roba del genere,
che è più di quello che avete tutti voi!»
«Tutti hanno degli antenati» osservò con calma il barista, «altrimenti non sarebbero qui».
Nobby gli lanciò un’occhiata vacua e cercò di focalizzare lo sguardo senza alcun successo. «Giuscto!» e-
sclamò alla fine. «Giuscto! Sciolo... sciolo che io ne ho di più di quelli, capito? Il sciangue di re scianguinari
mi sccorre nelle queste vene, giuscto?»
«Temporaneamente» osservò una voce. Si sentirono alcune risate, che risuonavano tuttavia come
l’anticipazione di qualcosa che Colon aveva imparato a temere e rispettare. Gli rammentarono due cose: (1)
gli mancavano soltanto sei settimane alla pensione e (2) era passato decisamente un sacco di tempo
dall’ultima volta che si era recato in bagno.
Nobby armeggiò nella tasca e tirò fuori una pergamena malconcia. «Vedi quescto?» disse, srotolandola con
difficoltà sul bancone. «Vedi? Io ho un diritto di avere un blusone aralditico, io! Viscto qui? Dice ‘Conte’
giuscto? Sciono io. Potrebbe, potrebbe, potrebbe essersci la mia tescta sciopra la porta!»
«Potrebbe» confermò il barista, adocchiando la folla.
«Voglio dire, potrescti cambiare il nome di quescto pooo-sto e chiamarlo il Conte di Ankh e io verrei qui
dentro a bere sempre, che te ne parerebbe?» disse Nobby. «Sci sparge la voce che qui di dentro ci beve un
conte e gli affari vanno suuuuu. E io non chiederebbe neanchemeno di un centesimo, chettenepare? La gente
dicerebbe, che locale di alto classismo, Lord de Nobbes viene a bere qui dentro, è proprio un posto che ci ha
del ben tono».
Qualcuno afferrò Nobby per la gola. Colon non riconobbe chi fosse. Si trattava semplicemente di uno degli
habitué Pieni di cicatrici e mal rasati la cui funzione era, più o meno a quell’ora della sera, di cominciare ad
aprire le bottiglie coi denti o, se la sera era realmente promettente, coi denti di qualcun altro.
«Vorresti quindi dire che noi non siamo buoni abbastanza per te?» domandò l’uomo.
Nobby agitò la pergamena. La sua bocca si aprì per formulare frasi del tipo – il Sergente Colon lo sapeva e
basta – ‘Lasciami, fellone plebeo’.
Con una terribile presenza di spirito e assenza di ogni genere di buon senso, il Sergente Colon esclamò: «Sua
signoria vuole che tutti bevano con lui! »

***

Confrontato con il Tamburo Riparato, il Secchio di Via Bagliore era un’oasi di gelida calma. La Guardia lo
aveva adottato come proprio bar, come tempio silente dell’arte dell’ubriacarsi. Non che vendesse una birra
particolarmente buona, perché non era così. La serviva però in fretta e silenziosamente, inoltre faceva credito.
Era uno dei luoghi in cui le Guardie non dovevano per forza vedere delle cose o essere disturbate. Nessuno
sapeva scolare alcool in silenzio come una guardia che aveva appena staccato dal servizio dopo otto ore per
la strada. Forniva una protezione pari quasi a quella dell’elmetto o del pettorale. Il mondo non faceva tanto
male.
Il Signor Formaggio, il proprietario, era un buon ascoltatore. Dava retta a frasi del tipo ‘Fallo doppio’ oppure
‘Continua a versare’. Diceva anche sempre la cosa giusta come: «Credito? Certo, agente». Le Guardie paga-
vano il conto o si sorbivano una ramanzina dal Capitano Carota.
Vimes stava seduto con aria cupa dietro un bicchiere di limonata. Voleva un goccio e capiva perfettamente il
perché non lo avrebbe preso. Un goccio finiva con l’arrivare in una dozzina di bicchieri. Sapere questa cosa
non la rendeva tuttavia più accettabile.
Al momento erano presenti quasi tutti gli uomini del turno diurno, più un paio che erano in licenza.
Per quanto fosse sporco quel posto, a lui piaceva. Con il brusio di altra gente attorno gli sembrava di riuscire
a non imbattersi nei propri pensieri.
Un motivo per cui il Signor Formaggio aveva consentito che il suo locale divenisse praticamente il quinto
Posto di Guardia cittadino era la protezione che ciò gli offriva. Le Guardie erano bevitori tranquilli, nel com-
plesso. Passavano semplicemente dalla posizione verticale a quella orizzontale con un quantitativo di scom-
piglio minimo, senza provocare grosse liti e senza danneggiare esageratamente la mobilia. Nessuno aveva poi
cercato di derubarlo. Le Guardie erano particolarmente sensibili se le si disturbava mentre stavano bevendo.
Restò di conseguenza molto sorpreso quando la porta si spalancò di scatto e tre uomini piombarono dentro,
sbandierando balestre.
«Che nessuno si muova! Chi muove un dito è morto!»
I rapinatori si fermarono al bancone. Con loro grande stupore il loro arrivo non pareva avere provocato un
gran subbuglio.
«Oh, per l’amor del cielo, c’è qualcuno che vuole chiudere quella porta?» latrò Vimes.
Una guardia vicino alla porta lo fece.
«Anche il lucchetto» aggiunse Vimes.
I tre ladri si guardarono attorno. Mentre la loro vista si adeguava all’oscurità, ricevettero un’impressione ge-
nerale di armaturaggine con forti sfumature di elmettaggine. Però nulla si stava muovendo. Tutti li stavano
guardando.
«Ragazzi, siete nuovi in città?» domandò il Signor Formaggio, lucidando un bicchiere con un panno morbi-
do.
Il più ardito dei tre agitò la balestra sotto il naso del barista. «Tutti i soldi e subito!» gridò. «Altrimenti» disse
alla stanza in generale, «ci sarà un barista morto».
«Ci sono un sacco di altri bar in città, amico» commentò una voce.
Il Signor Formaggio non sollevò nemmeno lo sguardo dal bicchiere che stava lucidando. «So che sei stato tu,
Agente Mordicoscia» disse tranquillamente. «Hai un credito di due dollari e trenta centesimi, grazie tante».
I ladri si avvicinarono l’un l’altro. Nei bar non doveva andare così. Ebbero anche la sensazione di riuscire a
sentire i deboli rumori slittanti di una schiera di armi che venivano sguainate da vari foderi.
«Ma non vi ho già visti prima?» domandò Carota.
«Oddio, è lui» gemette uno degli uomini. «Il lanciatore di pane!»
«Pensavo che il Signor Crostadiferro vi avesse portato alla Gilda dei Ladri» proseguì Carota.
«C’è stata una piccola discussione riguardo alle tasse...» «Non dirglielo!»
Carota si dette una pacca sulla fronte. «I formulari delle tasse!» esclamò. «Immagino che il Signor Crostadi-
ferro si sarà preoccupato del fatto che mi sono dimenticato di portarglieli!»
I ladri erano ormai così accalcati insieme da sembrare un grasso uomo con sei braccia e una gran mania per i
cappelli.
«Ehm... alle Guardie non è permesso di uccidere la gente, no?» disse uno di loro.
«Non mentre sono in servizio» replicò Vimes.
Il più ardito dei tre si mosse repentinamente, afferrò Angua e la tirò in piedi. «Adesso usciamo di qui illesi o
la ragazza è andata, d’accordo?» latrò.
Qualcuno ridacchiò.
«Spero che non ucciderai nessuno» disse Carota. «Dipende da noi!»
«Scusa, stavo parlando con te?» precisò Carota.
«Non preoccuparti, non mi succederà niente» disse Angua. Si guardò attorno per assicurarsi che non ci fosse
Felice e poi sospirò. «Forza, signori, vediamo di finirla qui».
«Non giocare col cibo!» esclamò una voce dalla folla.
Si sentirono ancora un paio di risolini finché Carota non si voltò sulla sedia; a quel punto sembrarono tutti
improvvisamente interessati ai loro bicchieri.
«Tutto a posto» disse Angua tranquillamente.
Rendendosi conto che qualcosa non andava ma senza essere sicuri di cosa si trattasse, i ladri indietreggiarono
fino alla porta. Nessuno si mosse mentre toglievano il chiavistello e,
continuando a tenere Angua, uscivano nella nebbia, chiudendosi la porta alle spalle.
«Non dovremmo andare a dare un aiuto?» domandò un agente che era nuovo nella Guardia.
«Non si meritano alcun aiuto» rispose Vimes.
Si sentì il clangore di un pettorale che cadeva, quindi un lungo e profondo latrato appena fuori, sulla strada.
E un grido. E poi un altro grido. E un terzo grido, modulato con un «NONONOononononononOOOOOOO-
noNO!... aaarghaaarghaargh!» Qualcosa di pesante colpì la porta.
Vimes si rivolse a Carota. «Tu e l’Agente Angua» disse. «Voi... ehm... andate d’accordo?»
«Tutto bene, signore» rispose Carota.
«Alcuni potrebbero pensare che, ehm, potrebbero esserci, ehm, problemi...»
Si sentì un tonfo e poi un debole gorgoglio.
«Ce ne stiamo occupando, signore» disse ancora Carota, alzando leggermente la voce.
«Ho sentito dire che suo padre non è molto contento del fatto che lei lavori qui...»
«Non conoscono molto la legge su nel Boscodisopra, signore. Pensano sia una cosa adatta per le società de-
boli. Il barone non è un uomo troppo dotato di senso civico».
«Da quel che ho sentito è piuttosto assetato di sangue».
«Lei vuole restare nella Guardia, signore. Le piace stare a contatto con la gente».
Dall’esterno arrivò un altro gorgoglio. Delle unghie grattarono la finestra. Il loro proprietario sparì improvvi-
samente dalla vista.
«Be’, non sta a me giudicare» commentò Vimes. No, signore».
Dopo qualche momento di silenzio la porta si aprì lentamente. Angua entrò aggiustandosi i vestiti e si sedet-
te. Tutte le guardie nella stanza affrontarono immediatamente un secondo corso avanzato di studio della bir-
ra.
«Ehm...» cominciò a dire Carota.
«Ferite superficiali» lo tranquillizzò Angua. «Ma uno di loro ha sparato accidentalmente alla gamba di un
compagno».
«Penso che dovresti inserirle nel rapporto come ‘ferite auto-inflitte durante la resistenza all’arresto’» suggerì
Vimes. «Sì, signore» rispose Angua.
«Non tutte» precisò Carota.
«Hanno cercato di rapinare il nostro bar e di prendere un lup... Angua in ostaggio» disse Vimes.
«Oh, capisco ciò che intende dire, signore» ammise Carota. «Auto-inflitte. Sì. Certo».

***

Era tutto tranquillo al Tamburo Riparato. Questo accadeva perché di solito risultava parecchio difficile essere
molto rumorosi e in stato di incoscienza.
Il Sergente Colon era compiaciuto per la propria astuzia. Lanciare una bomba poteva fermare una rissa, ov-
viamente, ma in questo caso aveva avuto dentro un quarto di rum, gin e sedici limoni tagliati che vi fluttua-
vano.
Alcune persone erano tuttavia ancora in piedi. Si trattava dei bevitori seri, che bevevano come se non ci fosse
un domani e speravano che in effetti fosse così.
Fred Colon aveva raggiunto il classico stadio di ubriachezza conviviale. Si rivolse all’uomo che aveva di
fianco. «Si sta bene qui, eh?» riuscì a dire.
«Quello che vorrei sapere è cosa dirò a mia moglie...» gemette l’uomo.
«Non so. Dille che hai hai hai lavorato fino a tardi» suggerì Colon. «E mangiati una mentina prima di rientra-
re in casa, di solito funziona...»
«Lavorato fino a tardi? Ah! Mi hanno scaricato! Io! Un artigiano! Quindici anni da Spadger e Williams e poi
vanno a zampe all’aria perché Carry vende a prezzi inferiori e mi danno un posto da Carry e, bang, mi cac-
ciano anche da lì! ‘Esubero di personale’! Fottuti golem! Fanno cacciare la gente vera dal lavoro! Ma per che
cosa lavorano, poi? Non hanno lo stomaco da riempire, puah. Quei maledetti però sono così veloci che non
riesci nemmeno a vedere muovere le loro fottute braccia!»
«Che vergogna».
«Bisognerebbe abbatterli, dico io. Insomma, avevamo un golem anche da S. e W. ma il vecchio Zhlob non
faceva altro che arrancare in giro, non schizzava qua e là come un razzo. Sta’ attento, amico, o tra un po’
prenderanno anche il tuo di lavoro!»
«Facciadipietra non lo permetterà mai» commentò Colon, ondeggiando dolcemente.
«Potrebbe esserci la possibilità di trovare lavoro da voi, allora?»
«Non so» rispose Colon. L’uomo sembrava essere diventato due uomini. «Che cosa fate?»
«Faccio l’intingitore di stoppini e l’appuntitore, amico» risposero quelli.
«È un lavoro molto utile».
«Eccoci qui, Fred» disse il barista, bussandogli su una spalla e mettendogli davanti un pezzo di carta. Colon
osservò con interesse i numeri che ballonzolavano. Cercò di focalizzare quello sul fondo ma era troppo gran-
de da afferrare.
«Che cos’è?»
«Il conto del bar di sua signoria imperiale» rispose il barista.
«Non scherzare, nessuno può bere tanto... non pago!» «Incluse le rotture, bada bene».
«Già? Del tipo?»
Il barista tirò fuori un bastone dal nascondiglio sotto il bancone. «Braccia? Gambe? Come preferisci» disse.
«Oh, dai Ron, mi conosci da anni!»
«Sì, Fred, sei sempre stato un buon cliente, quindi quello che farò sarà permetterti di chiudere gli occhi, pri-
ma».
«Ma sono tutti i soldi che ho!»
Il barista sogghignò. «Che fortuna, eh?»

***

Culetto Felice si appoggiò contro il muro del corridoio all’esterno del proprio laboratorio ansimando.
Era una cosa che gli alchimisti imparavano a fare presto nella loro carriera. Come le aveva detto il suo mae-
stro, c’erano due caratteristiche che indicavano un buon alchimista: l’Atletico e l’Intellettuale. Un buon al-
chimista della prima specie era uno in grado di balzare al di sopra del bancone e arrivare dall’altra parte di un
sicuro muro spesso in tre secondi e un buon alchimista della seconda specie era uno che sapeva esattamente
quando farlo.
L’attrezzatura non le era di aiuto. Aveva scroccato il possibile dalla Gilda ma un vero laboratorio da alchimi-
sta sarebbe stato pieno del genere di vetri che parevano essere stati prodotti durante la Gara di Singhiozzo
Open della Gilda dei Soffiatori di Vetro. Un alchimista serio non doveva effettuare test usando un boccale
con il disegno di un orsacchiotto la cui mancanza avrebbe molto irritato il Caporale Nobbs.
Quando stabilì che i fumi dovessero essere svaniti, si avventurò nuovamente nella stanzetta.
Quello era un altro problema. I suoi libri da alchimista erano opere meravigliose, ogni pagina un capolavoro
dell’arte dell’incisore, ma non contenevano mai istruzioni come ‘Assicurarsi di aprire la finestra’. Avevano in
effetti istruzioni come ‘Si aggiunga Aqua Quirmis allo Zinco Finché non Sia Prodotta Alta Quantitade di
Gas’ ma non veniva mai aggiunto ‘Non Provatevi di Procedere Costì alla Vostra Magione’ e nemmeno ‘E
Date Commiato alle Vostre Sopracciglia’.
Comunque...
Il contenitore era rimasto privo della patina marrone nerastra che, secondo il Compendio di Alchimia, avreb-
be indicato la presenza di arsenico nel campione. Lei aveva testato ogni tipo di cibo e bevanda che era riusci-
ta a trovare nelle dispense del palazzo e aveva arruolato in servizio ogni bottiglia e contenitore che aveva
scoperto al Posto di Guardia.
Provò un’altra volta con quello che il pacchetto indicava come Campione #2. Sembrava un resto di formag-
gio. Formaggio? I fumi che le pulsavano nel cervello la stavano rendendo lenta. Doveva avere già preso dei
campioni di formaggio. Era quasi certa che il Campione #17 fosse stato un Gorgonzola Vena Blu, che aveva
reagito vigorosamente all’acido, aveva aperto un piccolo buco nel soffitto e coperto la metà dei banconi da
lavoro di una sostanza verde scura che si stava indurendo come catrame.
Analizzò anche quello.
Qualche minuto dopo stava frugando freneticamente nel suo blocco per appunti.
Il primo campione che aveva preso dalla dispensa (una porzione di pàté d’anatra) era indicato come Campio-
ne #3. È il #1 e #2? No, il #1 era l’argilla presa al Ponte Sghembo, quindi cos’era stato il #2?
Lo trovò.
Ma non poteva essere!
Guardò la provetta di vetro. L’arsenico la fissò di rimando ghignando.
Aveva tenuto un po’ del campione. Poteva analizzarlo di nuovo, ma... forse sarebbe stato meglio dire a qual-
cuno...
Corse all’ufficio principale dove era di servizio un troll. «Dov’è il Comandante Vimes?»
Il troll sogghignò. «Al Bagliore... Culetto».
«Grazie tante».
Il troll tornò a rivolgersi a un preoccupato monaco col saio marrone. «E allora?» disse.
«Meglio se glielo dice da solo» spiegò il monaco. «Io sono solo quello che lavora al bancone vicino». Ap-
poggiò sulla scrivania un piccolo contenitore con della polvere dentro. Aveva attorno un farfallino.
«Voglio reclamare con estrema veemenza» disse la polvere con una vocetta stridula. «Stavo lavorando lì solo
da cinque minuti e splash. Mi ci vorranno interi giorni per riacquistare la forma!»
«Lavorando dove?»
«Forniture Ecclesiastiche Non Plus Ultra» disse zelante il monaco preoccupato.
«Reparto acqua santa» aggiunse il vampiro.

***

«Hai trovato arsenico?» esclamò Vimes.


«Sì, signore. Un sacco. Il campione ne è pieno. Ma...»
«Allora?»
Felice si guardò la punta dei piedi. «Ho rifatto l’analisi con un campione di prova, signore, e sono sicuro di
avere fatto tutto giusto...»
«Bene. Dentro cosa c’era?»
«È proprio questo il fatto, signore. Non era niente che venisse dal palazzo. Ho fatto un po’ di confusione e ho
analizzato anche la roba che ho trovato sotto le unghie di Padre Tubelcek, signore».
«Cosa?»
«Aveva del grasso sotto le unghie, signore, e ho pensato che potesse provenire dalla persona che lo aveva ag-
gredito. Da un grembiule o qualcosa del genere... me ne è rimasto ancora, se vuole richiedere un secondo
consulto, signore. Non la biasimerei».
«Perché mai quel vecchio avrebbe maneggiato arsenico? » domandò Carota.
«Io pensavo potesse avere graffiato l’assassino» spiegò Felice. «Sa... ingaggiando una lotta...»
«Col Mostro dell’Arsenico?» chiese Angua.
«Oh, dio» commentò Vimes. «Che ore sono?» «Ding-ding-bib-dong!»
«Oh, maledizione...»
«Sono le nove» disse l’organizer, sporgendo la testa dalla tasca di Vimes. «Ero infelice perché non avevo le
scarpe finché non ho incontrato un uomo senza piedi».
Le guardie si scambiarono un’occhiata perplessa. «Cosa?» disse Vimes lentamente.
«Alla gente piace se occasionalmente me ne vengo fuori con un aforisma o un Pensiero Ispiratore Per la
Giornata» replicò lo spiritello.
«Come hai fatto a incontrare quest’uomo senza piedi?» domandò Vimes.
«Non l’ho effettivamente incontrato» rispose lo spiritello. «Si trattava di un’affermazione metaforica genera-
le».
«Bene, tutto qui, allora?» commentò Vimes. «Se lo avessi incontrato avresti potuto chiedergli se aveva degli
stivali di cui non sapesse che fare».
Si sentì un pigolio quando Vimes ricacciò lo spiritello nella sua scatola.
«C’è dell’altro, signore» disse Felice.
«Vai avanti» la esortò Vimes con un filo di voce.
«Ho dato una bella occhiata all’argilla che abbiamo trovato sulla scena del crimine» spiegò Felice. «Igneous
ha detto che c’era dentro un sacco di grog... vecchi vasi sbriciolati. Be’... ho staccato un pezzetto da Dorfl per
confrontarlo e non posso esserne sicuro, ma ho fatto dipingere allo spiritello dell’iconografo dettagli piccolis-
simi... penso che ci sia dentro dell’argilla proprio uguale alla sua. Lui ha un sacco di ossido di ferro nella pro-
pria argilla».
Vimes sospirò. Tutto attorno a lui c’era gente che beveva alcool. Un goccio avrebbe reso tutto così chiaro.
«C’è qualcuno di voi che sappia che cosa significa?» domandò.
Carota e Angua scossero la testa.
«Dovrebbe avere un senso se sapessimo come combinare tutti i pezzi insieme?» domandò Vimes, alzando la
voce.
«Come i pezzi di un puzzle, signore?» suggerì Felice.
«Sì!» esclamò Vimes così forte che la stanza piombò nel silenzio. «Adesso tutto quello di cui abbiamo biso-
gno è l’angolo col pezzo di cielo e le foglie e tutto diventerà un grosso quadro!»
«È stata una giornata dura per tutti noi, signore» osservò Carota.
Vimes sprofondò. «Ok» disse. «Domani... voglio che tu, Carota, controlli i golem presenti in città. Se stanno
organizzando qualcosa voglio sapere di che si tratta. E tu, Culetto... tu guardi dappertutto nella casa del vec-
chio per cercare altro arsenico. Vorrei tanto poter credere che ne troverai».

***

Angua si era offerta volontaria per riaccompagnare a casa Culetto. La nana era rimasta sorpresa che gli uo-
mini glielo avessero lasciato fare. Dopo tutto, significava che Angua sarebbe dovuta tornare a casa da sola.
«Ma non hai paura?» disse Felice mentre trotterellavano attraverso umide nubi di nebbia.
«No».
«Io penso che con una nebbia del genere sia pieno di rapinatori e tagliatori di gola. E poi hai detto che abiti
nelle Ombre».
«Oh, sì. Ma ultimamente non mi ha infastidito nessuno». «Oh, forse hanno paura dell’uniforme».
«È possibile» commentò Angua.
«Probabilmente hanno imparato a rispettarla». «Potresti avere ragione».
«Ehm... scusami... ma tu e il Capitano Carota siete...?» Angua aspettò garbatamente.
«... Ehm...»
«Oh, sì» disse Angua impietosita. «Siamo ehm. Ma io sto alla pensione della Signora Torta perché c’è biso-
gno di uno spazio personale in una città come questa». E di una padrona di casa comprensiva e solidale con
quelli con bisogni speciali, aggiunse fra sé. Come maniglie apribili con le zampe e una finestra lasciata aperta
nelle notti di luna piena. «Devi avere un posto dove poter essere te stesso. E poi il Posto di Guardia puzza di
calzini».
«Io sto da mio zio Strangolabraccio» disse Felice. «Non mi piace molto stare lì. La gente parla quasi tutto il
tempo di miniere».
«Tu no?»
«Non c’è molto che si possa dire delle miniere: ‘Mino nella miniera che è mia da minare’» recitò Felice in
tono cantilenante. «E poi vanno avanti con l’oro che, francamente, è decisamente meno brillante di quanto la
gente pensi».
«Pensavo che i nani amassero l’oro» osservò Angua.
«Lo dicono solo per portarselo a letto».
«Sei sicura di essere una nana? Scusa, era una battuta». «Devono esserci cose più interessanti. Pettinature.
Vestiti. Persone».
«Santo cielo. Intendi dire chiacchiere da ragazze?»
«Non so, non ho mai fatto chiacchiere da ragazze» replicò Felice. «I nani parlano e basta».
«È proprio come nella Guardia» disse Angua. «Puoi avere qualsiasi sesso, basta che tu agisca da maschio.
Non ci sono uomini e donne nella Guardia, sono un branco di ragazzi. Ne imparerai presto il linguaggio.
Fondamentalmente si parla di quanta birra hai scolato la sera prima, quanto era piccante il curry che hai man-
giato dopo e dove hai vomitato. Pensa solo in modo egotesticolo. Ti abituerai in fretta. E dovrai essere pronta
per barzellette sporche al Posto di Guardia».
Felice arrossì.
«Bada bene, sembra che adesso non ne raccontino più» precisò Angua.
«Perché? Ti sei lamentata?»
«No, dopo che mi sono arruolata io pare che abbiano smesso» disse Angua. «E, sai che non ridevano se le di-
cevo io? Nemmeno quando facevo i gesti con le mani? Ho pensato che fosse scorretto. Bada bene, molti era-
no gesti piccolissimi».
«Non c’è via di scampo, devo trasferirmi» sospirò Felice.
Mi sento... sbagliata».
Angua abbassò lo sguardo sulla piccola figura che arrancava di fianco a lei. Riconobbe i sintomi. Tutti ave-
vano bisogno di un proprio spazio, proprio come Angua, e a volte quello spazio si trovava all’interno delle
loro teste. A lei piaceva Fe
lice, strano a dirsi. Forse a causa del suo atteggiamento serioso. O per il fatto che lei era l’unica persona a
parte Carota che non assumeva un’espressione leggermente impaurita quando parlava con lei. E questo per-
ché non sapeva. Angua desiderava conservare quella ignoranza come un piccolo bene prezioso, ma capiva
quando qualcuno aveva bisogno di qualche cambiamento nella propria vita.
«Siamo abbastanza vicini a Via dell’Olmo» disse. «Faccio appena un salto dentro. Ho della roba che vorrei
prestarti...»
Io non ne avrò bisogno, disse a se stessa. Quando me ne andrò non sarò in grado di portare molto.
***

L’Agente Scolicello guardava la nebbia. Guardare era, dopo lo stare fermo in un posto, la cosa che faceva
meglio. Era anche bravo a restare in silenzio. Non fare assolutamente alcun rumore era un’altra delle sue ca-
pacità migliori. Quando si trattava di non fare niente di niente era fra i più bravi. Ma il suo forte era il restare
completamente immobile in un posto. Se ci fosse stata una chiamata per il campione mondiale degli immobi-
li, lui non si sarebbe nemmeno presentato.
Adesso, mento fra le mani, osservava la nebbia.
Le nuvole si erano un po’ abbassate e così lassù, sei piani al di sopra della strada, era possibile credere di tro-
varsi su una spiaggia ai bordi di un freddo mare illuminato dalla luna. L’occasionale alta torre o campanile si
ergeva dalle nubi, ma tutti i suoni erano attutiti e si trattenevano da soli. La mezzanotte arrivò e se ne andò.
L’Agente Scolicello guardava e pensava ai piccioni. L’Agente Scolicello aveva pochissimi desideri nella vita
e quasi tutti riguardavano i piccioni.

***

Un gruppo di figure barcollavano, ondeggiavano e in un caso procedevano su ruote attraverso la nebbia come
i Quattro Cavalieri di una piccola Apocalisse. Uno aveva un’anatra in testa e, visto che era quasi completa-
mente sano di mente se si eccettuava quello strano particolare, era conosciuto come Uomo Anatra. Uno tossi-
va ed espettorava in continuazione e veniva di conseguenza chiamato Henry la Bara. Uno, un uomo privo di
gambe su un carrellino a ruote, veniva invece denominato, senza motivo alcuno, Arnold lo Sghembo. Il quar-
to poi, per motivi validissimi, era chiamato Ron il Vecchio Marcione.
Ron teneva un piccolo terrier bruno-grigiastro con le orecchie lacerate in fondo a una corda, anche se in real-
tà sarebbe stato difficile per un osservatore capire esattamente chi stesse conducendo chi e chi, alla fine dei
conti, sarebbe stato a piegarsi sulle ginocchia se l’altro avesse gridato «Seduto!» Questo perché, anche se ca-
nidi ben addestrati sono spesso stati utilizzati in tutto l’universo come aiuto per i non vedenti e perfino non
udenti, Ron il Vecchio Marcione era stata la prima persona ad aver mai posseduto un Cane a Cervello Pen-
sante.
I mendicanti, condotti dal cane, si stavano dirigendo verso l’oscuro arco del Ponte Sghembo che chiamavano
Casa. Quanto meno, uno di essi lo chiamava ‘Casa’; gli altri lo chiamavano rispettivamente ‘Ahhhwrk haa-
awrk HRRaawrk ptui!’, ‘Hehehehe! Opplà!’ e ‘Fottuto millennio mano e gamberetto!’
Mentre arrancavano per il lungofiume si passavano una lattina di mano in mano, bevendo con gusto e ruttan-
do occasionalmente.
Il cane si fermò. I mendicanti si bloccarono dietro di lui. Una figura venne loro incontro sul lungofiume.
«Santo cielo!»
«Ptui!»
«Opplà!»
«Fottuto?»
I mendicanti si schiacciarono contro la parete mentre la pallida figura traballava oltre loro. Si serrava la testa
fra le mani come se cercasse di sollevarsi da sola per le orecchie e poi, di tanto in tanto, sbatteva il cranio
contro gli edifici delle vicinanze.
Mentre la guardavano, strappò via da terra un palo d’ormeggio di ferro e cominciò a picchiarselo in testa. Al-
la fine il paletto si spezzò.
La figura fece cadere il moncone, tirò indietro la testa, aprì una bocca da cui spillò fuori una luce rossa e
strepitò come un toro in pena. Barcollò quindi via nell’oscurità.
«Di nuovo quel golem» disse Uomo Anatra. «Quello bianco».
«Hehehe, anche a me viene un mal di testa così, qualche volta» commentò Arnold lo Sghembo.
«Conosco i golem» disse Henry la Bara, sputando in modo esperto e colpendo un bacherozzo che stava sa-
lendo su un muro a sei metri di distanza. «Non hanno la voce».
«Fottuto» commentò Ron il Vecchio Marcione. «Butta il rametto per un bang al fusello e gamberetto perché
ha i vermi sull’altro stivale! Vedi se non lo fa».
«Voleva dire che è lo stesso che abbiamo visto l’altro giorno» tradusse il cane. «Dopo che è stato fatto fuori
quel vecchio prete».
«Pensi che dovremmo dirlo a qualcuno?» domandò l’Uomo Anatra.
Il cane scosse la testa. «No» rispose. «Abbiamo un bel
posticino tranquillo qui sotto, non ha senso rovinarlo». I cinque ripresero ad arrancare nell’ombra umida. «O-
dio quei maledetti golem, ci portano via il lavoro...» «Noi non abbiamo un lavoro».
«Visto?»
«Che c’è per cena?»
«Fango e vecchi stivali. HRRaawrk ptui!»
«Millennio mano e gamberetti, dico io».
«Sono contento di avere una voce. Posso parlare da me». «Devi dare da mangiare all’anatra».
«Quale anatra?»

***

La nebbia brillava e sfrigolava attorno ai Cantieri Cinque e Sette. Le fiamme crepitavano verso l’alto ma non
riuscivano a illuminare le nuvole dense. Il ferro liquido e sputacchiante raffreddava nei propri stampi. I mar-
telli risuonavano nelle officine. I fabbri non lavoravano secondo un orario ma secondo la più pretenziosa fisi-
ca del metallo fuso. Anche se era quasi mezzanotte, le Fonderie Ferriere e Forge Generali Fortebraccio erano
ancora in piena attività.
C’erano parecchi Fortebraccio ad Ankh-Morpork. Era un nome da nani molto comune. Era stato proprio ciò
che aveva portato Thomas Smith ad adottarlo tramite un ufficiale negozio unilaterale. Il nano corrucciato con
in mano un martello che adornava la sua insegna era una pura invenzione della fantasia del pubblicitario che
l’aveva creata.
Il Comitato per le Pari Altezze aveva obiettato ma la mozione si era impantanata perché, in prima istanza, la
maggior parte del Comitato era composta da umani, visto che i nani erano di solito troppo impegnati per pre-
occuparsi di quel genere di cose13 e in ogni caso la loro posizione mirava a sottolineare che il Signor Forte-
braccio nato Smith era troppo alto, il che rappresentava chiaramente una discriminazione dimensionista e
quindi tecnicamente illegale secondo le regole dello stesso Comitato.
Nel frattempo Thomas si era fatto crescere la barba, indossava un elmetto di ferro se pensava che ci fosse in
giro qualcuno di ufficiale e aveva alzato i prezzi di venti centesimi per dollaro.
I magli picchiavano, tutti in fila, alimentati dalla grossa ruota spinta da un bue. C’erano spade da massellare e
pannelli da sagomare. Eruttavano scintille.
Fortebraccio si tolse l’elmetto (c’era stata di nuovo in giro gente del Comitato) e ne asciugò l’interno.
«Dibbuk? Dove diavolo sei?»
Una sensazione di spazio riempito lo fece voltare. Il golem della fonderia si trovava qualche centimetro die-
tro di lui, con la luce della forgia che gli balenava sul corpo di argilla rosso scuro.
«Ti avevo detto di non farlo, no?» gridò Fortebraccio al di sopra del frastuono.
Il golem sollevò la lavagnetta.
si.
«Sei andato a fare tutta la roba del tuo giorno sacro? Sei stato via troppo!»
dispiace..
«Bene, adesso che sei tornato, vai a occuparti del martello Numero Tre e manda il Signor Vincent nel mio uf-
ficio, d’accordo?»
Fortebraccio salì le scale verso il proprio ufficio. Si voltò in cima per guardare il pian terreno della fonderia
illuminato di rosso. Vide Dibbuk dirigersi verso il martello e tener su una lastra per il caporeparto. Vide
quindi Vincent, il caporeparto, allontanarsi. Vide Dibbuk prendere il metallo da sagomare e reggerlo per
qualche colpo, quindi scagliarlo via.
Fortebraccio si affrettò giù dai gradini.
Quando fu a metà strada Dibbuk aveva appoggiato la testa sull’incudine.
Quando Fortebraccio arrivò in fondo alle scale il martello si abbatté per la prima volta.
Quando fu a metà del pavimento incrostato di cenere, con gli altri lavoratori che correvano dietro di lui, il
martello si abbatté per la seconda volta.
Quando raggiunse Dibbuk il martello si abbatté per la terza volta.
Il bagliore si sbiadì negli occhi del golem e apparve una crepa sul volto impassibile.
Il martello tornò su per la quarta volta...

13
* E, per la maggior parte, non si preoccupavano di questioni di altezza. C’è un detto nano che recita: «Tutti gli alberi vengono
abbattuti a terra»... anche se si dice che si tratti di una traduzione eccessivamente soft per una massima che più letteralmente sign i-
fica: «Quando le sue mani sono più in alto della tua testa il suo inguine è al livello dei tuoi denti».
«Al riparo!» gridò Fortebraccio.
... e poi non ci fu più niente se non cocci.
Quando il fragore si fu placato, il padrone della fonderia si alzò in piedi e si spazzolò. Polvere e cocci erano
disseminati su tutto il pavimento. Il martello era saltato dai supporti e giaceva presso l’incudine in un cumulo
di frammenti di golem.
Fortebraccio prese cautamente un pezzo di piede, lo buttò da una parte e poi allungò di nuovo la mano e tirò
fuori dai detriti una lavagnetta.
Lesse:
i vecchi ci hanno aiutato!
non uccidere!
argilla della mia argilla!
vergogna.
dolore.
Il caporeparto guardò da sopra la spalla di Fortebraccio. «Ma perché mai lo ha fatto?»
«Che ne so io?» rispose tagliente Fortebraccio.
«Voglio dire, questo pomeriggio ha distribuito il tè in giro come al solito. E poi uscito per un paio d’ore e a-
desso questo...»
Fortebraccio scrollò le spalle. Un golem era un golem, non c’era altro da dire, ma il ricordo di quel volto mite
che si posava sotto il gigantesco martello lo aveva scosso.
«L’altro giorno ho sentito dire che alla segheria di Via Pozzoscuro non dispiacerebbe vendere quello che
hanno» disse il caporeparto. «Ha segato un tronco di mogano riducendolo in fiammiferi o qualcosa del gene-
re. Vuole che vada a scambiarci due parole?»
Fortebraccio fissò nuovamente la lavagnetta.
Dibbuk non era mai stato loquace. Aveva portato ferro incandescente, martellato le spade con i pugni, ripuli-
to le scorie dalla fonderia quando era ancora troppo incandescente perché un uomo potesse toccarle... e non
aveva mai detto una parola. Ovviamente, non avrebbe potuto dire alcuna parola, ma Dibbuk aveva sempre
dato l’impressione che non ce n’era nessuna che avrebbe particolarmente desiderato dire. Lavorava e basta.
Quello era il numero maggiore di parole che avesse mai scritto in una singola volta.
Parlavano a Fortebraccio di nera depressione e di una mente che avrebbe gridato se soltanto avesse potuto
proferire un suono. Il che era pazzesco! Quegli affari non potevano suicidarsi.
«Capo?» disse il caporeparto. «Le ho chiesto se vuole che vada a procurarmene un altro».
Fortebraccio scansò la lavagnetta con un calcio e, con una sensazione di sollievo, la guardò frantumarsi con-
tro la parete. «No» rispose. «Ripulisci via tutto e basta. E fai riparare quel maledetto martello».

***

Il Sergente Colon, dopo un considerevole sforzo, riuscì a portare la testa più in alto del canale di scolo.
«Ti... ti senti bene, Caporale Lord de Nobbes?» bofonchiò.
«Non so, Fred. Di chi è questa faccia?»
«È mia, Nobby».
«Grazie a dio, pensavo di essere io...»
Colon ricadde indietro. «Siamo stesi nella fogna, Nobby» gemette. «O000».
«Siamo tutti in una fogna, Fred. Ma alcuni di noi vedono le stelle...»
«Be’, io guardo la tua faccia, Nobby. Ti assicuro che le stelle sarebbero decisamente meglio, credimi. An-
diamo...»
Dopo svariate false partenze entrambi riuscirono a tirarsi in piedi, principalmente tirandosi su a vicenda.
«Dove sia... siamo, Nobby?»
«Sono sicuro che abbiamo lasciato il Tamburo... ho un lenzuolo in testa?»
«È la nebbia, Nobby».
«Che mi dici di queste gambe qui sotto?»
«Suppongo che siano le tue gambe, Nobby. Io ho le mie».
«Giusto. Giusto. Oooo... penso di avere bevuto un sacco, sergente».
«Bevuto come un signore?»
Nobby allungò goffamente una mano verso l’elmetto. Qualcuno gli ci aveva messo attorno una coroncina di
carta. La mano tastante trovò un mozzicone nascosto dietro l’orecchio.
Era lo sgradevole momento del giorno in cui avevi bevuto, nel quale, dopo qualche ora di buon soggiorno
nelle fogne, cominciavi a provare la punizione della sobrietà mentre eri ancora tanto ubriaco da sentirti male.
«Come siamo arrivati qui, sergente?»
Colon cominciò a grattarsi la testa e smise a causa del rumore.
«Suppongo che...» disse, vagliando i logori brandelli della sua memoria a breve termine, «io... suppongo... mi
sembra che c’era qualcosa su un assalto al palazzo per rivendicare i tuoi diritti di nascita...»
Nobby tossì e sputò la sigaretta. «Non lo abbiamo fatto, vero?»
«Tu gridavi che dovevamo farlo...»
«Oh, cielo...» gemette Nobby.
«Ma mi sembra che ti sei messo a vomitare proprio in quel momento».
«È comunque un sollievo».
«Be’... è finito tutto su Grabber Hoskins. Lui però è inciampato su qualcun altro prima di riuscire a beccarci».
Colon si tastò all’improvviso le tasche. «E ho ancora i soldi del tè» disse. Un’altra nube di ricordi si mosse
velocemente davanti al sole dell’oblio. «Be’... tre centesimi...»
Quel dato riuscì ad arrivare a Nobby. «Tre centesimi?»
«Già, be’... dopo che hai cominciato a ordinare tutte quelle bevande costose per l’intero bar... be’, tu non a-
vevi soldi e o pagavo io o...» Colon mosse le dita attraverso la gola e fece: «Ksssh!»
«Vuoi dire che abbiamo pagato per l’Ora dell’Allegria del Tamburo?»
«Non tanto un’Ora dell’Allegria» replicò Colon miseramente. «Più Cento-Cinquanta Minuti di Estasi. Non
sapevo nemmeno che si potesse comprare il gin a pinte».
Nobby cercò di focalizzare lo sguardo nella nebbia. «Nessuno può bere gin a pinte, sergente».
«È quello che continuavo a dire io, ma tu mi sei stato a sentire?»
Nobby tirò su col naso. «Siamo vicini al fiume» disse. «Vediamo di andare...»
Qualcosa ruggì, molto vicino. Era un suono lungo e cupo, come quello di una sirena antinebbia gravemente
malata. Era il suono che si poteva sentire giungere da una mandria in una notte di nervosismo e continuò a
lungo, quindi smise così all’improvviso da cogliere il silenzio impreparato.
«... il più lontano possibile da lì» terminò Nobby. Quel suono aveva avuto l’effetto di una doccia gelata e di
due pinte di caffè nero.
Colon si girò di scatto. Aveva disperatamente bisogno di qualcosa che potesse svolgere il lavoro di una la-
vanderia. «Da dove veniva?» domandò.
«Era... laggiù, no?»
«Mi sembrava fosse da quella parte!»
Nella nebbia tutte le direzioni erano uguali.
«Io penso...» disse Colon lentamente, «che dovremmo andare a fare rapporto il più presto possibile».
«Giusto» confermò Nobby. «Da che parte?»
«Vediamo di correre e basta, eh?»

***

Le grosse orecchie a punta dell’Agente Scolicello fremettero quando il rumore rimbombò per la città. Voltò
cautamente la testa, triangolando per altezza, direzione e distanza. Quindi ricordò.

***

Il grido venne udito fino nel Posto di Guardia, anche se attutito dalla nebbia.
Entrò nella testa aperta del golem Dorfl e vi rimbalzò dentro, echeggiando giù giù, arrivando alle più piccole
crepe dell’argilla finché, al margine stesso della percezione, i granelli presero a danzare insieme.
Le orbite cieche fissavano la parete. Nessuno udì il grido che giunse di rimando dal cranio morto, perché non
c’era una bocca a proferirlo e nemmeno una mente a guidarlo, ma urlò nella notte:
argilla della mia argilla. non devi uccidere! non devi morire!

***

Samuel Vimes sognò indizi.


Aveva una visione cinica degli indizi. Ne diffidava istintivamente. Intralciavano.
Diffidava anche del genere di persona che dà un’occhiata a un altro uomo e dice in tono altezzoso al suo
compagno: «Oh, mio caro signore, non posso dirle nulla se non che è un muratore mancino che ha passato al-
cuni anni nella marina mercantile e in questo periodo se la vede brutta» e poi sciorina una serie di commenti
arroganti riguardo calli, portamento e condizione degli stivali, quando esattamente gli stessi commenti si po-
trebbero applicare a una persona che indossa abiti vecchi perché sta facendo un po’ di lavori in muratura in
casa per un nuovo barbecue, si è tatuato una volta quando era ubriaco e diciassettenne14 e in realtà gli viene il
mal di mare se cammina su un pavimento bagnato. Che arroganza! Che insulto alla ricca e caotica varietà
dell’esperienza umana!
La stessa cosa valeva per prove più statiche. Le impronte nell’aiuola erano state probabilmente lasciate nel
mondo reale da chi aveva pulito i vetri. Il grido nella notte era facile che provenisse da un uomo che, scen-
dendo dal letto, aveva messo il piede su una spazzola capovolta.
Il mondo reale era decisamente troppo reale per lasciare dei begli indizi chiari. Era pieno di troppe cose. Non
era eliminando l’impossibile che si otteneva la verità, per quanto improbabile; il procedimento era ben più
difficile e consisteva nell’eliminare le possibilità. Continuavi a lavorare, ponendo pazientemente domande e
osservando attentamente i fatti. Si camminava e si parlava, e nel profondo del cuore si sperava maledettamen-
te che i nervi di qualche canaglia saltassero e quello si arrendesse.
Gli eventi della giornata si scontravano violentemente nella testa di Vimes. I golem camminavano con passo
pesante come tristi ombre. Padre Tubelcek lo salutava e poi gli esplodeva la testa, riversando su Vimes una
pioggia di parole. Il Signor Hopkinson giaceva morto nel suo stesso forno, con una fetta di pane dei nani in
bocca. E i golem continuavano ad avanzare, silenziosamente. C’era Dorfl che trascinava un piede, con la te-
sta aperta in modo che le parole potessero svolazzarvi dentro e fuori, come uno sciame di api. Al centro di
tutto ciò danzava l’Arsenico, un ometto verde e spigoloso che vociava e berciava.
A un certo punto gli sembrò che uno dei golem urlasse.
Dopo di ciò, il sogno svanì, un po’ alla volta. Golem. Forno. Parole. Prete. Dorfl. I golem che marciavano, il
rimbombo dei loro passi che faceva pulsare l’intero sogno...
Vimes aprì gli occhi.
Al suo fianco, Lady Ramkin disse: «Wsfgl» e si voltò dall’altra parte.
Qualcuno stava bussando al portone principale. Ancora intontito, con la testa che girava, Vimes si tirò sui
gomiti e disse, alla notte in generale: «Che razza di ora sarebbe questa?»
«Ding-dong-bip!» rispose una vocetta allegra dalla toeletta di Vimes.
«Oh, per favore...»
«Le cinque, ventinove minuti e trentuno secondi. Un Centesimo Risparmiato è un Centesimo Guadagnato.
Vuole che le elenchi il programma di oggi? Mentre me ne occupo, perché non compila il suo modulo di regi-
strazione?»
«Cosa? Che? Di che stai parlando?»
Continuavano a bussare alla porta.
Vimes si buttò giù dal letto e andò a tastoni nel buio alla ricerca di fiammiferi. Alla fine riuscì ad accendere
una candela e un po’ corse, un po’ barcollò giù per le lunghe scale fino al corridoio.
Saltò fuori che quello che bussava era l’Agente Visita.
«Si tratta di Lord Vetinari, signore! Questa volta è peggiorato parecchio!»
«Qualcuno ha mandato a chiamare Jimmy Ciambella?» «Sissignore!»
In quel momento del giorno la nebbia stava combattendo Un’azione di retroguardia contro l’alba e faceva ap-
parire il mondo come l’interno di una pallina da ping-pong.
«Ho infilato dentro la testa non appena ho iniziato il mio turno e lui era spento come una candela, signore!»
«Come hai capito che non stava dormendo?»
«Sul pavimento, signore, con i vestiti addosso?»
Un paio di guardie avevano sistemato il Patrizio sul letto per quando Vimes arrivò, un po’ a corto di fiato e
con le ginocchia indolenzite. Santo cielo, pensò mentre arrancava su per le scale, non è più come ai vecchi
tempi di manganello e campanella. Non ci avresti pensato su due volte prima di metterti a correre per mezza
città, poliziotti e criminali impegnati in un frenetico inseguimento.
Con un misto di orgoglio e vergogna aggiunse: e nessuna di quelle canaglie mi ha mai raggiunto!
Il Patrizio stava ancora respirando, ma aveva il volto cereo e pareva che la morte potesse rappresentare un
miglioramento.
Lo sguardo di Vimes perlustrò la stanza. C’era una foschia familiare nell’aria.
«Chi ha aperto la finestra?» domandò in tono imperioso.
«Sono stato io, signore» rispose Visita. «Appena prima di venirla a chiamare. Sembrava che un po’ di aria

14
Questi ultimi sono spesso sinonimi.
fresca potesse fargli bene...»
«Sarebbe stata più fresca se avessi lasciato la finestra chiusa» commentò Vimes. « Ok, voglio che tutti, e in-
tendo dire tutti, quelli che erano nel palazzo questa notte vengano convocati e riuniti nell'ingresso fra due mi-
nuti. Qualcuno vada a chiamare il Caporale Culetto. Informate anche il Capitano Carota ».
Io sono preoccupato e confuso, pensò. Quindi la prima regola del gioco dice di sollevare un gran vespaio.
Girovagò per la stanza. Non occorrevano grandi indagini per capire che Vetinari si era alzato ed era andato
alla propria scrivania dove, a quanto pareva, aveva lavorato per qualche tempo. La candela era bruciata fino
in fondo. Si era rovesciato un calamaio, probabilmente quando l'uomo era scivolato giù dalla sedia.
Vimes intinse un dito nell'inchiostro e lo annusò. Allungò quindi una mano verso la penna d'oca che vi si tro-
vava accanto e sollevò con circospezione la lunga piuma. Non sembravano esserci ingegnose punte sopra, ma
la mise da parte perché Culetto la esaminasse in seguito.
Abbassò lo sguardo sulla carta a cui Vetinari aveva lavorato.
Con sua sorpresa non si trattava affatto di uno scritto ma di un dettagliato disegno. Mostrava una figura che
camminava, solo che non era affatto una persona ma un essere formato da migliaia di figure più piccole. L'ef-
fetto era come quello di uno di quegli uomini di vimini costruiti da alcune delle più isolate tribù vicino al
Centro che, quando celebravano annualmente il grande ciclo della Natura e il loro rispetto per la vita, ne am-
mucchiavano il più possibile a formare un grande cumulo cui poi davano fuoco.
L'uomo composito indossava una corona.
Vimes spostò di lato il pezzo di carta e riportò l'attenzione sulla scrivania. Passò accuratamente la mano sulla
superficie alla ricerca di schegge sospette. Si accucciò ed esaminò la parte inferiore.
La luce all'esterno si stava facendo più intensa. Vimes entrò in entrambe le stanze adiacenti e si assicurò che
le tende fossero aperte, quindi tornò nella camera di Vetinari, chiuse tende e porte e passò lentamente lungo i
muri per cercare una qualsiasi traccia di luce che potesse indicare la presenza di un forellino.
A che punto bisognava fermarsi? Alle schegge sul pavimento? Alle cerbottane attraverso i buchi della serra-
tura? Aprì di nuovo le tende.
Vetinari, il giorno precedente, era stato in ripresa. Adesso sembrava stare peggio. Qualcuno era arrivato a lui
durante la notte. Come? Il veleno lento era una vera diavoleria. Bisognava trovare un modo per somministrar-
lo alla vittima ogni giorno.
No, non ce n'era bisogno... La vera raffinatezza era trovare un modo perché lui se lo somministrasse da solo
ogni giorno.
Vimes frugò fra le carte. Vetinari si era evidentemente sentito abbastanza bene da alzarsi e arrivare fin lì, ma
quello era il posto in cui era crollato.
Non si può avvelenare una scheggia o un chiodo perché uno non continuerebbe mai a ferirsi da solo...
C'era un libro mezzo seppellito sotto le carte, che era tuttavia pieno di segnalibri, nella maggior parte dei casi
pezzi di vecchie lettere.
Ma che faceva il Patrizio tutti i giorni?
Vimes aprì il libro. Ogni pagina era coperta di simboli scritti a mano.
Un veleno come l'arsenico deve essere fatto entrare nel corpo. Non basta toccarlo. Oppure sì? C'è forse un
tipo di arsenico che penetra attraverso la pelle?
In quella stanza non stava entrando nessuno. Vimes ne era quasi certo.
Il cibo e le bevande erano probabilmente a posto, ma avrebbe comunque mandato Detritus a fare un'altra del-
le sue chiacchierate con i cuochi.
Qualcosa che ha respirato? Com'era possibile continuare a somministrarlo un giorno dopo l'altro senza de-
stare sospetti? Era comunque necessario portare il veleno nella stanza.
Qualcosa che fosse già nella stanza? Felice ha fatto portare un nuovo tappeto e ha fatto sostituire il letto.
Cos’altro si potrebbe fare? Grattare via la tempera dal soffitto?
Cos’ha detto Vetinari a Felice riguardo all’avvelenamento? «Lo metti dove nessuno andrà mai a guarda-
re...»
Vimes si rese conto di stare ancora fissando il libro. Non c’era niente di riconoscibile. Doveva trattarsi di una
specie di codice. Conoscendo Vetinari, sarebbe stato impossibile decifrarlo per chiunque dotato di una mente
normale.
Si poteva avvelenare un libro? Ma... e poi? C’erano anche altri libri. Si sarebbe dovuto sapere che avrebbe
guardato proprio quello, in continuazione. E comunque si sarebbe dovuto riuscire a fargli entrare il veleno
dentro. Una persona poteva anche pungere un dito una volta, dopo di che sarebbe stato più attento.
A volte Vimes si preoccupava per il modo in cui sospettava di tutto. Se cominciavi a chiederti se un uomo
poteva venire avvelenato dalle parole, potevi anche arrivare ad accusare la carta da parati di farlo impazzire.
In effetti, quell’orribile coloretto verdino avrebbe fatto impazzire chiunque...
«Ding-dong-bip!»
«Oh, no...»
«Questa è la sveglia delle sei! Buon mattino! Ecco i suoi appuntamenti per la giornata, Inserisca Qui il Suo
Nome! Ore dieci...»
«Chiudi il becco! Ascolta, qualsiasi cosa ci sia nella mia agenda per oggi non è decisamente...»
Vimes si bloccò. Abbassò la scatola.
Tornò alla scrivania. Se si esaminava una pagina al giorno...
Lord Vetinari aveva una memoria di ferro. Tutti però si appuntavano delle cose, no? Non si poteva ricordare
ogni piccolezza. Mercoledì: tre pomeridiane, regno del terrore; tre e un quarto, pulire le fosse degli scorpio-
ni...
Si avvicinò l’organizer alle labbra. «Prendi un promemoria» disse.
«Urrà! Dica pure. Non dimentichi di dire prima ‘Promemoria’ !»
«Parlare con... maledizione... Promemoria: L’Agenda di Vetinari».
«Tutto qui?»
«Si».
Qualcuno bussò cortesemente alla porta. Vimes la aprì con circospezione. «Oh, sei tu, Culetto?»
Vimes strizzò gli occhi. C’era qualcosa di strano nel nano.
«Preparerò subito un po’ dell’intruglio del Signor Ciambella, signore». Il nano guardò oltre Vimes verso il
letto. «O000... non ha un bell’aspetto, eh?»
«Chiama qualcuno che lo trasferisca in un’altra stanza» disse Vimes. «Fai preparare dai servitori una camera
nuova, d’accordo?»
«Si, signore».
«Dopo che l’hanno fatto, scegli ancora un’altra stanza a caso e fallo portare li. E cambia ogni cosa, capito?
Ogni mobile, ogni vaso, ogni tappeto...»
«Ehm... si, signore».
Vimes esitò. Adesso era in grado di capire che cosa lo avesse infastidito durante gli ultimi venti secondi.
«Culetto...»
«Signore?»
«Tu... ehm... tu... sulle orecchie?»
«Orecchini, signore» rispose Felice con un certo nervosismo. «Me li ha dati l’Agente Angua».
«Davvero? Ehm... va bene... non pensavo che i nani portassero gioielli, tutto qui».
«Siamo famosi per gli anelli, signore».
«Si, certo». Gli anelli si. Non c’era nessuno come un nano per forgiare un anello magico. Ma... orecchini ma-
gici? Oh, be’. C’erano acque tanto profonde da risultare insondabili.

***

L’approccio del Sergente Detritus a determinate questioni era quasi istintivamente corretto. Aveva messo in
fila davanti a sé il personale del palazzo e lo stava sgridando a pieni polmoni.
Guarda Detritus, pensò Vimes mentre scendeva dalle scale. Era solo un grosso stupido troll solo qualche
anno fa e adesso è un valido membro della Guardia, sempre che tu gli faccia ripetere gli ordini ricevuti per
essere sicuro che li abbia capiti. Il suo pettorale brilla anche più di quello di Carota perché non si stanca
mai di lucidarlo. È poi un maestro nel mantenimento dell’ordine per come viene praticato dalla maggior
parte delle forze di polizia dell’universo e cioè, fondamentalmente, gridare infuriato contro la gente finché
quella non si arrende. L’unico motivo per cui non si è trasformato in un regno di terrore composto da un
singolo troll è la facilità con cui i suoi procedimenti di pensiero possono venire sviati da chiunque tenti
un’astuzia diabolica come una decisa smentita.
«So che siete stati tutti!» stava gridando. «Se la persona che lo ha fatto non confessa, l’intero personale, e
parlo sul serio, l’intero personale verrà chiuso in gattabuia e poi buttiamo via pure le chiavi!» Puntò col dito
una robusta sguattera.
«Sei stata tu, confessa!»
«No!»
Detritus fece una pausa e poi disse: «Dov’eri la notte scorsa? Confessa!»
«A letto, ovviamente».
«Aha, confessa, hai testimoni?»
«Whisky!»
«Aha, allora non hai testimoni, allora sei stata tu, confessa!»
«No!»
«Oh...»
«Va bene, va bene. Grazie, sergente. Per adesso basta cosi» disse Vimes dandogli una pacca sulla spalla. «Il
personale è tutto presente?»
Lanciò un’occhiataccia alle persone in fila. «Allora? Siete tutti presenti?»
Si senti un certo ammontare di un riluttante trascinar di piedi fra i ranghi e poi qualcuno, con circospezione,
alzò la mano.
«Mildred Calma non è più stata vista da ieri» disse il suo proprietario. «È la domestica dei piani superiori. È
arrivato un ragazzino con un messaggio. È dovuta partire per questioni di famiglia».
Vimes senti prudere leggerissimamente la base del collo. «Qualcuno sa di cosa si trattasse?» domandò.
«Non so, signore. Ha lasciato qui tutta la sua roba».
«D’accordo. Sergente, prima di staccare, mandi qualcuno a cercarla. Poi vada a dormire. Il resto di voi può
proseguire a fare ciò che stava facendo. Oh... Signor Nododitamburo?»
L’assistente personale del Patrizio, che era rimasto a fissare Detritus con espressione inorridita, lo guardò.
«Si, comandante?»
«Che cos’è questo libro? È l’agenda di sua signoria?»
Nododitamburo prese il libro. «Sembra proprio lei, si».
«È stato in grado di decifrare il codice?»
«Non sapevo che fosse scritta in codice, comandante».
«Cosa? Non l’ha mai guardata?»
«Perché avrei dovuto, signore? Non è mia».
«Sa che l’ultimo segretario del Patrizio ha cercato di ucciderlo?»
«Si, signore. Dovrei anche dire che sono già stato interrogato approfonditamente dai suoi uomini». Nododi-
tamburo aprì l’agenda e inarcò le sopracciglia.
«Che cosa hanno detto?»
Nododitamburo sollevò lo sguardo con espressione riflessiva. «Vediamo un ρo’... ‘Sei stato tu, confessa, tutti
ti hanno visto, abbiamo un sacco di gente che dice che ti ha visto, sei stato proprio tu, vero, confessa’. Questo
è stato, direi, l’approccio di base. Poi ho detto che non sono stato io e la cosa è sembrata lasciare perplesso
l’ufficiale in questione».
Nododitamburo si leccò delicatamente un dito e voltò una Pagina.
Vimes lo fissò.

***

Il rumore delle seghe era energico nell’aria del mattino. Il Capitano Carota bussò alla porta della falegname-
ria che venne alla fine aperta.
«Buongiorno, signore!» esclamò. «Mi hanno detto che lei ha qui un golem».
«Avevo» rispose il mercante di legname.
«Oh, cielo, un altro» commentò Angua.
E con questo facevano quattro. Quello della fonderia si era chinato sotto un martello, quello nella fabbrica di
laterizi sporgeva dieci dita dei piedi d’argilla da sotto un blocco di calcare di due tonnellate, quello che lavo-
rava al porto era stato visto nel fiume a camminare verso il mare e adesso questo...
«È stata una cosa strana» disse il mercante, picchiando contro il petto del golem. «Sydney ha detto che è an-
dato avanti a segare tutto il giorno fino al momento in cui si è segato ν iαla testa. Ho in ordine un carico di
assi di frassino per questo pomeriggio. Posso sapere chi me le segherà? »
Angua prese in mano la testa del golem. Se avesse avuto un’espressione la si sarebbe definita di intensa con-
centrazione.
«Ecco qui» continuò il mercante, «Alf mi ha detto che ieri sera ha sentito dire al Tamburo che i golem hanno
ammazzato della gente...»
«Le indagini sono in corso» replicò Carota. «Adesso, Signor... si chiama Preble Scinco, vero? Suo fratello
gestisce il negozio di petrolio per lampade in Via Cavo? E sua sorella è inserviente all’università, no?»
L’uomo apparve sbalordito. Ma Carota conosceva tutti. «Già...»
«Il suo golem ha lasciato il lavoro ieri pomeriggio?»
«Be’, si, sul presto... Ha detto qualcosa su un giorno sacro». Passò nervosamente lo sguardo dall’uno
all’altro. «Bisogna lasciarli andare altrimenti le parole che hanno in testa...»
«Ed è tornato e ha lavorato tutta notte?»
«Già. Cos’altro avrebbe dovuto fare? Poi è arrivato Alf al primo turno e ha detto di averlo visto venire via dal
segone verticale per tronchi, star lì un momento e poi...»
«Ieri stava segando tronchi di pino?» domandò Angua.
«Si. Volete dirmi come faccio a procurarmi un altro golem in fretta?»
«Che cos’è questo?» disse Angua. Sollevò un quadrato con una cornice di legno da un cumulo di segatura.
«Era la sua lavagnetta, vero?» La consegnò a Carota.
«‘Non Uccidere’» lesse Carota con espressione seria. «‘Argilla della Mia Argilla. Vergogna’. Ha la minima
idea del perché lo abbia scritto?»
«Assolutamente no» rispose Scinco. «Fanno sempre cose stupide». Si rallegrò un poco. «Ehi, forse gli è an-
dato in acqua il cervello? Capito? Argilla... acqua?»
«Estremamente divertente» commentò Carota con espressione grave. «La porterò via come prova. Buongior-
no».
«Perché gli hai chiesto dei tronchi di pino?» domandò quindi ad Angua mentre stavano uscendo.
«Ho sentito l’odore della stessa resina di pino nella cantina».
«La resina di pino è resina di pino, no?»
«No. Non per me. Quel golem è stato lì».
«C’erano tutti» sospirò Carota. «E adesso si stanno suicidando».
«Non puoi portare νiαuna vita che non hai» commentò Angua.
«Allora come vogliamo chiamarlo? ‘Distruzione di proprietà’?» domandò Carota. «Comunque adesso non
possiamo chiederlo a loro...» Picchiò un dito sulla lavagnetta.
«Ci hanno dato le risposte» disse. «Forse riusciremo a scoprire quale sarebbe dovuta essere la domanda».

***

«Che vuol dire ‘niente’?» domandò Vimes. «Deve essere nel libro! Si lecca le dita per voltare una pagina e
ogni giorno assume una piccola dose di arsenico! Maledettamente astuto!»
«Mi dispiace, signore» disse Felice indietreggiando. «Non riesco a trovarne traccia. Ho usato tutti i test di a-
nalisi che conosco».
«Sicuro?»
«Può anche mandarlo all’Università Invisibile. Hanno costruito un nuovo apparecchio di risonanza morfica
nell’Edificio della Magia ad Alto Potenziale. La magia potrebbe facilmente...»
«Non farlo» l’ammonì Vimes. «Terremo fuori i maghi da questa faccenda. Maledizione! Per una mezz’ora ho
davvero creduto di aver capito...»
Si sedette davanti alla scrivania. C’era qualcosa di nuovo e strano nel nano, ma ancora una volta non riusciva
a individuare di cosa si trattasse.
«Ci manca qualcosa, Culetto» disse.
«Si, signore».
«Esaminiamo i fatti. Se vuoi avvelenare qualcuno lentamente gli devi somministrare piccole dosi per volta, o
quanto meno ogni giorno. Abbiamo considerato tutto quello che il Patrizio fa. Non può trattarsi dell’aria nella
stanza. Ci siamo stati dentro anche io e te ogni giorno. Non si tratta del cibo, siamo abbastanza sicuri anche
di questo. C’è qualcosa che lo punge? È possibile avvelenare una vespa? Quello che ci serve...»
«Scusi, signore».
Vimes si voltò.
«Detritus? Non eri fuori servizio?»
«Mi hanno dato l’indirizzo della donna che si chiama Calma come ha detto lei» disse Detritus in atteggia-
mento stoico. «Sono andato li e c’era gente tutto intorno».
«Che vuoi dire?»
Un sacco di vicini. Tutte donne che piangevano attorno alla porta. Mi sono ricordato di quello che lei ha detto
sulla dippo...»
«Diplomazia» lo aiutò Vimes.
«Già. Non gridare contro la gente eccetera. Ho capito che era una situazione delicata. Poi mi tiravano addos-
so la roba. Allora sono tornato qui. Ho scritto l’indirizzo. Adesso vado a casa». Fece un saluto militare e on-
deggiò leggermente per la forza del colpo sulla tempia, quindi partì.
«Grazie, Detritus» disse Vimes. Guardò il pezzo di carta scritto con la grossa grafia tonda del troll.
«Via del Galletto 27, 1° piano sul retro» lesse. «Santo cielo !»
«Lo conosce, signore?»
«Dovrei. Sono nato in quella strada» rispose Vimes. «È giù oltre le Ombre. Calma... Calma... Si... Adesso ri-
cordo. C’era una Signora Calma lungo la strada. Una donna ossuta. Cuciva tanto. Una famiglia numerosa.
Be’, eravamo tutte famiglie numerose, era l’unico modo per scaldarsi...»
Corrugò la fronte davanti al pezzo di carta. Non che fosse una gran traccia. Le domestiche partivano sempre
per andare a trovare le madri, ogni volta che c’era il minimo guaio in famiglia. Com’è che diceva sua nonna?
«Tuo figlio è tuo figlio finché non prende moglie, ma tua figlia è tua figlia per tutta la vita». Mandare lì una
guardia sarebbe stato quasi certamente uno spreco di tempo per tutti...
«Bene, bene... Via del Galletto» disse. Fissò nuovamente il pezzo di carta. Potresti anche chiamarla Via dei
Ricordi. No, non si potevano sprecare risorse della Guardia in una caccia alle streghe come quella. Lui però
poteva andare a dare un’occhiata. Tornando a casa. Più tardi, in giornata.
«Ehm... Culetto?»
«Signore?»
«Sulle... labbra. Quel rosso. Ehm. Sulle tue labbra...» «Rossetto, signore».
«Oh... ehm. Rossetto? Bene. Rossetto».
«Me lo ha dato l’Agente Angua, signore».
«È stato gentile da parte sua» commentò Vimes. «Immagino».

***

Veniva chiamata Camera dei Ratti. In teoria ciò era dovuto alla decorazione; un ex residente del palazzo ave-
va pensato
di ratti danzanti sarebbe stato un gran colpo d’occhio. C’era un motivo di ratti intessuto nel tappeto. Sul sof-
fitto, i ratti danzavano in cerchio, con le code che si intrecciavano al centro. Dopo una mezz’ora in quella
stanza, la maggior parte della gente sentiva il bisogno di farsi un bagno.
Ben presto, quindi, ci sarebbe stata una gran richiesta di acqua calda. La stanza si stava riempiendo in fretta.
Per comune consenso, la sedia della presidenza venne occupata e ampiamente riempita dalla Signora Rose-
mary Palm, a capo della Gilda delle Ricamatrici15 in quanto leader tra i più anziani.
«Silenzio, vi prego! Signori!»
Il livello del rumore si abbassò leggermente.
«Dottor Downey?» disse lei.
Il capo della Gilda degli Assassini annuì. «Amici miei, ritengo che siamo tutti al corrente della situazione...»
cominciò a dire.
«Già, lo è anche il tuo contabile!» commentò una voce dalla folla. Si senti un fremito di risatine nervose ma
non durò a lungo perché non si ride troppo di qualcuno che sa esattamente qual è il tuo valore da morto.
Il Dottor Downey sorrise. «Vi posso assicurare ancora una volta, signori miei... e signore... che non sono al
corrente di alcun contratto riguardante Lord Vetinari. In ogni caso, poi, non posso nemmeno immaginare che
un assassino userebbe del veleno in questa circostanza. Sua signoria ha passato del tempo alla Scuola degli
Assassini. Sa bene come cautelarsi. Si rimetterà indubbiamente».
«E se così non fosse?» suggerì la Signora Palm.
«Nessuno vive in eterno» commentò il Dottor Downey, con la voce pacata di uno che sa per esperienza sul
campo quanto ciò sia vero. «Allora, senza dubbio, dovremo trovare un nuovo governante».
La stanza ricadde nel silenzio.
La parola ‘Chi?’ aleggiò silenziosamente sopra le loro teste.
«Il fatto è... il fatto h...» disse Gerhardt Pugno, capo della Gilda dei Macellai. «È stato... bisogna ammetter-
lo... è stato... be’, pensate ad alcuni degli altri...»
Le parole ‘Lord Schiantosecco per esempio... quanto meno questo non è completamente pazzo’ balenarono
nella consapevolezza di gruppo.
«Devo ammettere» osservò la Signora Palm, «che sotto Vetinari è stato certamente più sicuro passeggiare per
le strade...»
«Lei deve saperlo bene, Madame» commentò il Signor Pugno. La Signora Palm gli lanciò un’occhiata gelida.
Si senti qualche risatina.
«Volevo dire che un modesto pagamento alla Gilda dei Ladri è tutto ciò che serve per essere perfettamente al

15
“ Come eufemisticamente venivano chiamate. «RicAmatrici! Capito?»
sicuro» terminò lei.
«In effetti, si può visitare una casa di malaf...»
«Ospitalità negoziabile» specificò in fretta la Signora Palm.
«Giusto, ed essere abbastanza sicuri di non risvegliarsi nudi e pieni di lividi» osservò il Signor Pugno.
«A meno che non faccia parte delle richieste» commentò la Signora Palm. «Noi puntiamo sempre alla soddi-
sfazione della clientela. Molto accuratamente, se richiesto».
«La vita è stata di certo più affidabile sotto Vetinari» disse il Signor Pentola della Gilda dei Panettieri.
«Ha fatto gettare nella fossa degli scorpioni tutti gli attori di strada e i mimi» osservò il Signor Boggis della
Gilda dei Ladri.
«È vero. Ma non dimentichiamo che ha anche i suoi difetti. È un uomo capriccioso».
«Lo pensa davvero? In confronto a certi che abbiamo avuto prima è solido come una roccia».
«Anche Schiantosecco era affidabile» commentò con espressione cupa il Signor Pugno. «Vi ricordate quando
ha eletto consigliere cittadino il suo cavallo?»
«Bisogna ammettere che non era nemmeno male come consigliere. In confronto agli altri».
«Se non ricordo male, gli altri erano un vaso di fiori, un mucchio di sabbia e tre persone decapitate».
«Vi ricordate le lotte? Tutte quelle bande di ladri che si combattevano in continuazione? Non rimaneva quasi
più la forza per rubare niente» disse il Signor Boggis.
«Le circostanze in effetti sono più... affidabili adesso».
Il silenzio calò di nuovo. Era così e basta. Si poteva fare affidamento sulle circostanze. Si poteva dire tutto
del vecchio Vetinari, ma aveva fatto in modo che il domani seguisse sempre l’oggi. Se si veniva assassinati
nel proprio letto, quanto meno era in base a un regolare contratto.
«La situazione era ρiù eccitante sotto Lord Schiantosecco» tentò di dire qualcuno.
«Si, fino al momento in cui non ti veniva staccata la testa».
«Il guaio è» disse il Signor Boggis, «che quel lavoro fa uscire di testa. Prendete uno qualunque né meglio né
peggio di noi e dopo qualche mese lo troverete a parlare al muschio e a scorticare vivo il prossimo».
«Vetinari non è pazzo».
«Dipende dai punti di vista. Nessuno può essere sano di mente come lui senza essere pazzo ».
«Io sono soltanto una fragile donna» osservò la Signora Palm, nella totale incredulità di numerosi presenti,
«ma mi sembra che adesso ci si offra una possibilità. O ci sarà una lunga lotta per scegliere un successore, lo
stabiliremo adesso. Che ne dite?»
I capi delle Gilde cercarono di guardarsi a vicenda evitando simultaneamente lo sguardo altrui. Chi sarebbe
stato adesso il Patrizio? Un tempo si sarebbe scatenata un’immensa lotta di potere, ma ora...
Hai il potere, hai anche i guai. Le cose erano cambiate. Al giorno d’oggi, bisognava negoziare e destreggiarsi
fra tutti gli interessi in conflitto. Nessuno sano di mente aveva cercato di uccidere Vetinari per anni perché il
mondo con lui era semplicemente preferibile a un mondo senza di lui.
Inoltre... Vetinari aveva addomesticato Ankh-Morpork. L’aveva addomesticata come un cane. Aveva preso
un insignificante bastardino, gli aveva allungato le zanne, rafforzato le mascelle, potenziato la muscolatura,
decorato il collare, dato da mangiare bistecche e poi lo aveva aizzato alla gola del mondo.
Aveva preso tutte le bande e i gruppetti di malavitosi e aveva fatto capire loro che una fettina di torta tutti i
giorni era meglio di una fettona farcita di lame. Aveva fatto capire che era meglio prendere una fettina ma in-
grandire la torta.
Ankh-Morpork, unica fra le città di pianura, aveva aperto i propri cancelli ai nani e ai troll (le leghe sono più
resistenti, aveva detto Vetinari). Aveva funzionato. Facevano un sacco di cose. Spesso creavano guai, ma so-
prattutto creavano ricchezza. Come risultato, anche se Ankh-Morpork aveva parecchi nemici, quei nemici
dovevano finanziare i propri eserciti con soldi presi in prestito. La maggior parte di quei soldi venivano con-
cessi in mutuo, a interessi punitivi, da AnkhMorpork. Non c’erano più state grosse guerre da anni. Ankh-
Morpork le aveva rese poco redditizie.
Migliaia di anni prima, il vecchio impero aveva instaurato la Pax Morporkia, dicendo al mondo: «Non com-
battete o vi uccideremo». La Pax era nuovamente in voga, ma questa volta sosteneva: «Se combattete, vi ri-
chiediamo indietro i prestiti. E, a proposito, la picca che mi stai puntando contro è mia. Ho pagato io lo scudo
che tieni in mano. E togliti il mio elmetto quando parli con me, orrido debitore».
Adesso l’intero macchinario, che continuava a lavorare così silenziosamente che la gente si era dimenticata
fosse un macchinario e pensava che quello fosse soltanto il modo in cui funzionava il mondo, aveva avuto
uno scossone.
I capi delle Gilde analizzarono i propri pensieri e stabilirono che non volevano il potere. Volevano che il do-
mani assomigliasse il più possibile all’oggi.
«Ci sono i nani» disse il Signor Boggis. «Anche se uno di noi.., non che io stia dicendo che sarà uno di noi,
ovviamente... anche se qualcuno andasse al potere, che ne sarà dei nani? Se ci becchiamo un altro Schianto-
secco ci troveremo le strade piene di rotule staccate».
«Non starà suggerendo che facciamo una specie di... votazione, vero? Una specie di gara di popolarità?»
«Oh, no. È solo... è solo... tutto più complicato, adesso. È il potere dà alla testa».
«E poi la testa cade».
«Vorrei tanto che non continuasse a ripeterlo, chiunque lei sia» osservò la Signora Palm. «Tutti penserebbero
che la testa è stata staccata a lei».
«Ehm...»
«Oh, è lei, Signor Obliquus. Mi scusi».
«Parlando in qualità di Presidente della Gilda degli Avvocati» disse il Signor Obliquus, lo zombie più rispet-
tato di Ankh-Morpork, «mi sento di raccomandare la stabilità come prima cosa. Posso offrire il mio consi-
glio?»
«Quanto ci costerà?» domandò il Signor Pugno.
«Stabilità» spiegò il Signor Obliquus, «uguale monarchia».
«Oh, adesso, non ci venga a dire...»
«Guardate il Klatch» continuò cocciuto il Signor Obliquus. «Generazioni di Seriph. Risultato: stabilità politi-
ca. Prendete Pseudopoli. Oppure Sto Lat. O anche l’Impero Agateo...»
«Per favore» intervenne il Dottor Downey. «Tutti sanno che i re...»
«Oh, i monarchi vanno e vengono, si spodestano l’uno con l’altro e così via» disse il Signor Obliquus. «Ma
L’istituzione va avanti. Inoltre credo che scoprirete che è possibile stabilire... un accordo».
Si rese conto di averli tutti in pugno. Toccò distrattamente con le dita i punti con cui la sua testa era stata ri-
cucita. Tanti anni addietro, il Signor Obliquus si era rifiutato di morire finché non era stato pagato per le spe-
se sostenute nella causa in cui aveva condotto la propria difesa.
«Che vuole dire?» domandò il Signor Pentola. «Ammetto che di recente la questione di ripristinare il diritto
di successione ad Ankh-Morpork è stata sollevata svariate volte» cominciò il Signor Obliquus.
«Si. Da alcuni pazzi» commentò il Signor Boggis. «Fa parte dei sintomi. Mettersi le mutande in testa, parlare
con gli alberi, sbavare, decidere che Ankh-Morpork ha bisogno di un re...»
«Esattamente. Supponiamo che ora la prendano in considerazione delle persone sane di mente».
«Prosegua» disse il Dottor Downey.
«Ci sono stati dei precedenti» spiegò il Signor Obliquus. «Le monarchie che si sono trovate prive di un mo-
narca adatto se ne sono... procurate uno. Un membro di qualche altra linea reale. Dopotutto, ciò che si richie-
de è una persona che, ehm, conosca i segreti del mestiere, mi sembra reciti il detto».
«Come scusi? Ci sta dicendo di andare a cercare un re?» domandò il Signor Boggis. «Mettiamo un annuncio
sul giornale.’Trono vacante, il pretendente deve fornire una corona propria’?»
«In effetti» continuò il Signor Obliquus, ignorando il commento, «ricordo che durante il Primo Impero, Ge-
nova ha scritto ad Ankh-Morpork chiedendo che le venisse inviato uno dei nostri generali per fame il loro re,
visto che le loro linee reali si erano estinte a causa di un’ibridazione talmente intensiva che il loro ultimo re
continuava a cercare di riprodursi con se stesso. I libri di storia dicono che noi abbiamo inviato loro il nostro
leale Generale Tacticus, il cui primo atto dopo aver ottenuto la corona è stato dichiarare guerra ad Ankh-
Morpork. I re sono... intercambiabili».
«Ha detto qualcosa sul raggiungere un accordo» disse il Signor Boggis. «Significa che noi dovremmo dire al
re cosa fare?»
«Μi piace l’idea» commentò la Signora Palm.
«Non dire» precisò il Signor Obliquus. «Ci... accorderemmo. Ovviamente, in quanto re, lui dovrebbe concen-
trarsi sulle attività tradizionalmente associate con la regalità...»
«Salutare» disse il Signor Pugno.
«Essere cortese» suggerì la Signora Palm.
«Accogliere gli ambasciatori di paesi stranieri» osservò il Signor Pentola.
«Stringere le mani».
«Tagliare teste...»
«No! No. No, quello non farà parte dei suoi compiti. Gli affari di stato di minore importanza verranno seguiti
da...»
«Dai suoi consiglieri?» suggerì il Dottor Downey. Si appoggiò contro lo schienale. «Sono certo di capire do-
ve vuole andare a parare, Signor Obliquus» disse. «Ma i re, una volta insediati, sono così maledettamente dif-
ficili da spodestare. In modo accettabile».
«Ci sono dei precedenti anche per questo» ribatté il Signor Obliquus.
L’Assassino strizzò gli occhi.
«Trovo peculiare, Signor Obliquus, che non appena Lord Vetinari sembri essere gravemente malato, lei salti
fuori con suggerimenti del genere. Mi sembra una notevole coincidenza».
«Non c’ alcun mistero, glielo assicuro. ll destino compie il proprio corso. Di certo molti di voi hanno udito le
voci... che c’è, in questa città, qualcuno con una linea di sangue riconducibile fino all’ultima famiglia reale.
Qualcuno che lavora in questa stessa città in una posizione relativamente umile. Una povera guardia, in effet-
ti».
Alcuni annuirono, ma non in modo troppo deciso. Quei cenni di assenso col capo stavano all’annuire come
un grugnito sta a un ‘si’. Le Gilde si erano informate. Nessuno voleva rivelare quanto o quanto poco sapesse
personalmente, nel caso in cui fosse stato effettivamente troppo poco o, peggio ancora, troppo.
Nonostante tutto, il Dottor Pseudopoli, della Gilda dei Giocatori d’Azzardo assunse una perfetta faccia da
poker e disse: «Si, ma sta arrivando il tricentenario. Nel giro di pochi anni saremo nel Secolo del Ratto. C’è
qualcosa nei secoli che fa venire alla gente una specie di febbre».
«Eppure tale persona esiste» insistette il Signor Obliquus.
«Le prove ti piovono in testa se guardi nei posti giusti».
«Molto bene» disse il Signor Boggis. «Ci dica il nome di questo capitano». Spesso perdeva a poker grosse
somme di denaro.
«Capitano?» domandò il Signor Obliquus. «Mi spiace dire che i suoi naturali talenti non lo hanno ancora fat-
to promuovere a tale grado. È un caporale. Il Caporale C. W. St J. Nobbs».
Ci fu un gran silenzio.
Segui poi uno strano rumore soffocato, come quello di acqua che si sta facendo strada a gran fatica attraverso
un tubo parzialmente otturato.
Regina Molly della Gilda dei Mendicanti era stata zitta fino a quel momento, a parte gli occasionali risucchi
per cercare di far sloggiare una particella di cibo da quelli che, essendo ancora apparentemente attaccati
all’interno della sua bocca, erano tecnicamente i suoi denti.
Adesso stava sghignazzando. Le sobbalzavano i peli su ogni porro. «Nobby Nobbs?» disse. «State parlando
di Nobby Nobbs?»
«È l’ultimo discendente conosciuto del Conte di Ankh, che potrebbe far risalire la sua origine fino a un lon-
tano cugino dell’ultimo re» confermò il Signor Obliquus. «Tutta la città ne parla».
«Lo vedo» disse il Dottor Downey. «Piccolo, scimmiesco, fuma sempre sigarette cortissime. Foruncoloso. Li
schiaccia in pubblico».
«È proprio Nobby!» esclamò Regina Molly. «Una faccia simile al pollice di un carpentiere cieco».
«Lui? Ma quell’uomo è un demente!»
«Stupido come una gallina» aggiunse il Signor Boggis. «Non vedo proprio...»
All’improvviso tacque, ma subito dopo ruppe il silenzio Contemplativo che stava gradatamente colpendo tut-
ti gli altri attorno alla tavola.
«Non vedo proprio perché non dovremmo... dare a questo... un’adeguata considerazione» terminò dopo qual-
che istante.
I capi riuniti guardarono la tavola. Guardarono quindi il soffitto. Poi, con grande cura, evitarono i vicendevoli
sguardi.
«Il sangue non mente» commentò il Signor Carry.
«L’ho visto camminare per la strada e ho sempre pensato: ‘Ecco un uomo che cammina come un grande’»
disse la Signora Palm.
«Si schiaccia i foruncoli in maniera molto regale. Con grande grazia».
Il silenzio si appropriò nuovamente dell’assemblea. Era tuttavia affaccendato, come è affaccendato il silenzio
in un formicaio.
«Devo rammentarvi, signore e signori, che il povero Lord Vetinari è ancora in vita» Suggerì la Signora Palm.
«Certo, certo» replicò il Signor Obliquus. «Εche possa rimanerlo a lungo. Vi ho solamente presentato
un’opzione per il giorno in cui, possa avvenire il più lontano possibile, dovessimo trovarci a considerare
l’ipotesi di un... successore».
«In ogni caso» osservò il Dottor Downey, «è indubbio che Vetinari abbia strafatto. Se sopravviverà... cosa
che ovviamente speriamo tutti caldamente... sento che dovremmo chiedergli di farsi da parte a favore della
sua salute. Hai agito bene, abile e fedele servitore, e cose del genere. Potremmo comprargli una bella casa in
campagna da qualche parte. Dargli una pensione. Assicurarci che ci sia sempre un posto per lui a ogni ban-
chetto ufficiale. Ovviamente, se può essere avvelenato così facilmente, adesso dovrebbe gradire di esser
sollevato dalla catena di comando...»
«Εi maghi?» domandò il Signor Boggis.
«Non si sono mai occupati di questioni civiche» replicò il Dottor Downey. «Basta dargli quattro pasti al
giorno e scappellarsi davanti a loro e sono felici. Non sanno niente di politica».
ll silenzio che seguì venne rotto dalla voce di Regina Molly. «ΕVimes?»
Il Dottor Downey alzò le spalle. «È un servitore della città».
«È proprio quello che intendevo dire».
«Di certo noi rappresentiamo la città, no?»
«Oh! Lui non la vedrà in questo modo. Εlei sa come la pensa Vimes sui re. È stato un Vimes a tagliare la te-
sta dell’ultimo. Quella sì che è una linea di sangue che ritiene che una bella mannaia possa risolvere qualsiasi
problema».
«Molly, sa bene che probabilmente Vimes userebbe un’ascia contro Vetinari se pensasse di potersela cavare.
Temo che non corra del buon sangue fra i due».
«Non gli piacerà questa storia. E tutto ciò che dico. Vetinari tiene Vimes sotto pressione. Non è possibile sa-
pere cosa succederà se la pressione dovesse uscire tutta in una volta...»
«È un pubblico servitore!» replicò secco il Dottor Downey.
Regina Molly fece una smorfia, cosa non difficile per una persona così ben dotata naturalmente, e si accomo-
dò meglio sulla sedia. «Εcosì questo è il nuovo corso delle cose, eh?» bofonchiò. «Un sacco di gente norma-
le seduta attorno a un tavolo parla e all’improvviso il mondo diventa un posto diverso? La pecora si rivolta
per attaccare il pastore?»
«C’è una soirée a casa di Lady Selachii questa sera» disse il Dottor Downey, ignorandola. «Credo che Nobbs
sia stato invitato. Forse potremo... conoscerlo».

***

Vimes si disse che sarebbe certamente andato a verificare i progressi del nuovo Posto di Guardia di Via delle
Chiacchiere. Via del Galletto era giusto dietro l’angolo. Ci avrebbe fatto un salto, informalmente. Non aveva
senso mandarci un uomo quando erano già tutti sotto pressione, con quei due omicidi, la storia di Vetinari e
Detritus in crociata anti-lastra.
Svoltò all’angolo e si fermò.
Non era cambiato un granché. Era quella la cosa scioccante. Dopo... oh, troppi anni... le cose non avevano al-
cun diritto di non essere cambiate.
Le corde per il bucato però si intrecciavano ancora sopra la strada fra gli edifici grigi e antichi. La vernice
vecchia si spellava ancora nel modo in cui si spella la vernice economica quando viene passata su un legno
troppo vecchio e marcio da poter essere verniciato. La gente di Via del Galletto era di solito troppo squattri-
nata per potersi permettere una vernice decente, ma sempre decisamente troppo orgogliosa per usare la tem-
pera.
È il luogo era un po’ più piccolo di come se lo ricordava. Tutto qui.
Quando era stata l’ultima volta che ci era andato? Non riusciva a ricordarlo. ll posto era situato al di là delle
Ombre e, fino a poco tempo prima, la Guardia aveva lasciato quella zona abbandonata a se stessa.
A differenza delle Ombre, però, Via del Galletto era pulita, con l’ossessionante, vuota pulizia che si ottiene
quando la gente non può permettersi il lusso di sprecare sporcizia. In Via del Galletto, infatti, viveva la gente
che era peggio che povera, perché non sapeva quanto era povera. Se glielo si fosse chiesto, avrebbe proba-
bilmente risposto qualcosa del tipo ‘Non ci si può sempre lagnare’ oppure ‘C’è chi sta peggio di noi’ o ‘Ab-
biamo sempre tenuto la testa fuori dall’acqua e non dobbiamo niente a nessuno’.
Gli sembrò di sentire la voce di sua nonna. «Nessuno troppo povero da non poter comprare il sapone». Ov-
viamente molti lo erano. A Via del Galletto, però, compravano il sapone lo stesso. Il tavolo poteva anche non
avere cibo sopra ma, perdiana, era ben lucidato. Ecco cos’era Via del Galletto, un posto in cui si mangiava
principalmente orgoglio.
Che disastro era il mondo, rifletté Vimes. L’Agente Visita gli aveva detto che gli umili lo avrebbero eredita-
to, ma cosa avevano fatto quei poveri diavoli per meritarsi una cosa simile?
La gente di Via del Galletto si sarebbe comunque scansata per far passare gli umili. Quello che infatti la trat-
teneva in Via del Galletto, mentalmente e fisicamente, era il vago concetto che esistessero delle regole. Quel-
la gente viveva la propria vita pervasa da una tenue, vaga paura di non star osservandole appieno.
C’è chi dice che c’è una legge per i ricchi e una per i poveri, ma non è vero. Non c’è legge per chi fa le leggi
e per gli incorreggibilmente fuorilegge. Tutte le leggi e le regole sono per la gente tanto stupida da pensarla
come quelli di Via del Galletto.
Vi regnava uno strano silenzio. Di solito c’erano nugoli di bambini e carretti che si dirigevano al porto, ma
oggi quel luogo aveva l’aspetto di un negozio chiuso.
Al centro della strada c’era uno schema di Mondo fatto col gesso.
Vimes senti le ginocchia cedere. Era ancora li! Quando lo aveva visto l’ultima volta? Trentacinque anni pri-
ma? Quaranta? Doveva essere stato disegnato e ridisegnato migliaia di volte.
Era stato piuttosto bravo in quel gioco. Ovviamente lo avevano giocato allo stile di Ankh-Morpork. Invece di
lanciare un sasso, avevano lanciato William Scuggins. Era solo uno dei tanti giochi fantasiosi che prevedeva
di lanciare, inseguire o saltare addosso a William Scuggins finché quello non tirava fuori una delle sue solite
scene e cominciava a schiumare dalla bocca e a picchiarsi selvaggiamente.
Vimes riusciva a lanciare William nel quadrato di sua scelta nove volte su dieci. La decima volta, William gli
mordeva una gamba.
A quei tempi, tormentare William e trovare abbastanza da mangiare lo aveva aiutato a semplificarsi la vita.
Non c’erano tante domande di cui non conoscevi le risposte, eccetto forse come impedire alla tua gamba di
marcire.
Sir Samuel si guardò attorno, vide la strada silente e tirò fuori dal canale di scolo un sasso con un piede. Lo
calciò quindi furtivamente lungo i quadrati, si aggiustò il mantello e saltò su per i quadrati, si voltò riprese a
saltare...
Cos’è che si gridava quando si saltava? «Sale, mostarda, pepe e aceto »? No? O forse era: «William Scuggins
è un bastardo »? Adesso se lo sarebbe chiesto per tutta la giornata.
Lungo la strada si aprì una porta. Vimes si bloccò con una gamba a mezz'aria mentre due figure vestite di ne-
ro uscivano lentamente e cautamente.
Stavano portando una bara.
La naturale solennità dell'occasione veniva attenuata dal fatto che i due dovevano stringersi per uscire per la
strada, portandosi la cassa da morto dietro e permettendo all'altra coppia di portantini di farsi strada a fatica
verso la luce del giorno.
Vimes si riprese in tempo per abbassare l'altro piede e poi si riprese ancora di più e si tolse l'elmetto per ri-
spetto.
Emerse un'altra bara. Era molto più piccola. La portavano soltanto due persone e, in effetti, una delle due era
di troppo.
Mentre i partecipanti al funerale uscivano in corteo, Vimes si frugò in tasca in cerca del pezzo di carta che gli
aveva consegnato Detritus. La scena era, in un certo senso, buffa, come un numero di circo in cui un carretto
si ferma e ne escono fuori dozzine di pagliacci. Gli appartamenti lì attorno ovviavano all'inconveniente di a-
vere un limitato numero di stanze avendo un numero immenso di persone a occuparle.
Trovò il foglietto e lo aprì. Via del Galletto 27, Primo Piano sul Retro.
Era quello. Era arrivato in tempo per un funerale. Due funerali.

***

« Pare che sia un bruttissimo giorno per essere un golem» disse Angua. C'era una mano di argilla che giaceva
nel canale di scolo. «È il terzo che abbiamo visto frantumato per la strada ».
Si sentì un gran fracasso e un nano schizzò fuori da una finestra, più o meno orizzontalmente. Il suo elmetto
di ferro sollevò scintille mentre colpiva la strada, ma il nano fu ben presto di nuovo in piedi e si rituffò all'in-
terno dell'edificio passando per la porta adiacente.
Riemerse via finestra un attimo dopo ma venne preso al volo da Carota che lo rimise in posizione eretta.
«Salve, Signor Pressametalli! Come sta? Che sta succedendo lì dentro?»
«È quel diavolo di Gimlet, Capitano Carota! Dovrebbe arrestarlo! »
«Perché, cos'ha fatto?»
« Sta avvelenando la gente, ecco cosa fa! »
Carota lanciò un'occhiata ad Angua, quindi fissò nuovamente Pressametalli. «Veleno?» ripeté. «È un'accusa
molto grave! »
«Certamente! Sono stato alzato tutta notte con la Signora Pressametalli! Non ci avevo fatto troppo caso fin-
ché non sono venuto qui stamattina e ho sentito altra gente che si lamentava... »
Cercò di divincolarsi dalla presa di Carota. «Sa che le dico?» disse. «Sa che le dico? Abbiamo guardato nella
sua cella frigorifera e sa che le dico? Sa che le dico? Sa che cosa ci ha venduto per carne? »
«Mi dica» lo spronò Carota.
«Maiale e manzo! »
« Oh, santo cielo ».
«È agnello! »
«Che schifo! »
«Praticamente niente ratti! »
Carota scosse la testa davanti al doppiogiochismo dei commercianti.
«E Snori Figliodizio ha detto che ieri sera ha mangiato Sorpresa al Ratto e potrebbe giurare che c'erano den-
tro ossa di pollo! »
Carota lasciò andare il nano. «Resta qui» disse ad Angua e, chinando la testa, entrò alle Delicatezze di Ca-
verna di Gimlet.
Gli arrivò contro un'ascia. La afferrò distrattamente e la scagliò di lato.
«Ahi!»
C’era un tafferuglio di nani attorno al bancone. La rissa era già andata ben al di là dello stadio in cui aveva
ancora qualcosa a che fare con l’argomento che l’aveva scatenata e, essendo quelli nani, includeva ora fac-
cende di vitale importanza quali il nonno di chi avesse rubato il diritto di concessione mineraria del nonno di
chi trecento anni prima e di chi fosse l’ascia che si trovava al momento al collo di chi.
La presenza di Carota ebbe comunque uno strano effetto. La rissa si placò gradatamente. I partecipanti cerca-
rono di apparire come persone che si trovavano lì per puro caso. Ci fu un improvviso e generale «Ascia?
Quale ascia? Oh, questa ascia? La stavo soltanto mostrando al mio amico Bjorn, il vecchio caro Bjorn» a
riempire l’atmosfera.
«D’accordo» disse Carota. «Che cos’è questa storia del veleno? Prima il Signor Gimlet».
«È una menzogna diabolica!» gridò Gimlet, da un punto imprecisato sotto il mucchio. «Io gestisco un ottimo
ristorante! I miei tavoli sono così puliti che ci si può mangiare sopra!»
Carota alzò le mani per fermare il parapiglia provocato da queste affermazioni. «Qualcuno ha detto qualcosa
sui ratti» disse.
«Gliel’ho detto, uso soltanto i ratti migliori!» gridò ancora Gimlet. «Bei rattoni grassi delle migliori località!
Niente schifezze di latrina! Εsono difficili da trovare, fatemelo dire!»
«Εquando non riesce a trovarli, Signor Gimlet?» domandò Carota.
Gimlet fece una pausa. Era difficile mentire a Carota. «Va bene» bofonchiò. «Forse quando non ce ne sono
abbastanza posso magari rimpinguare un po’ le scorte con qualche pollo, magari un pezzettino di manzo...»
«Hah! Un pezzettino!» Si alzarono altre voci.
«Certo, dovrebbe vedere la sua cella frigorifera, signor Carota!»
«Già, usa le bistecche, le taglia in zampette e le copre con salsa di ratto!»
«Io non so, uno prova a fare del proprio meglio a prezzi davvero ragionevoli e questo è il ringraziamento?»
esclamò Gimlet infervorato. «Εgià difficile preparare un menu a queste condizioni!»
«Tu non lo fai nemmeno della carne giusta!»
Carota sospirò. Non esistevano leggi di salute pubblica ad Ankh-Morpork. Sarebbe stato come installare rive-
latori di fumo all’inferno.
«D’accordo!» disse. «Ma non si può restare avvelenati da una bistecca. No davvero. No. No, chiudete il bec-
co tutti quanti. No, non mi interessa cosa vi hanno detto le vostre madri. Adesso voglio capire meglio questa
storia dell’avvelenamento, Gimlet».
Gimlet arrancò in piedi.
«Ieri sera abbiamo preparato Sorpresa al Ratto per la cena annuale dei Figli di Asciadisangue» spiegò. Si udì
un gemito generale. «Ed erano ratti». Alzò la voce sopra le lamentele. «Non si può usare niente altro... ascol-
tatemi bene... bisogna avere tutti i nasetti che sporgono dalla pasta, no? Ho usato alcuni dei ratti migliori che
abbia mai avuto da lungo tempo, capito?»
«Εdopo siete stati tutti male?» domandò Carota, tirando fuori il proprio taccuino.
«Ho sudato tutta notte!»
«Non riuscivo a vedere dritto!»
«Direi di conoscere ogni buco nel legno della porta del gabinetto!»
«Scriverò ‘esattamente’» disse Carota. «C’era qualcos’altro nel menu della cena?»
«Vol-au-vent e Crema di Ratto» rispose Gimlet. «Tutto preparato igienicamente».
«Cosa intende dire per ‘preparato igienicamente’?» domandò Carota.
«Che lo chef ha l’ordine preciso di lavarsi le mani dopo».
I nani riuniti annuirono. Era una cosa decisamente igienica. Non era il caso che ci fosse gente che andava in
giro con le mani sporche di ratto.
«Comunque avete mangiato qui tutti per anni» commentò Gimlet, avvertendo il lieve cambio di vento a suo
favore. «Questa è la prima volta che ci sono stati problemi, no? I miei ratti sono famosi!»
«Anche il suo pollo diventerà piuttosto famoso» osservò Carota.
Questa volta scoppiò una risata. Vi si unì perfino Gimlet. «D’accordo. Mi dispiace per il pollo. Ma o era
quello o ratti veramente bruttini e, sapete, io acquisto solo da Arthur il Piccolo Matto. È’ fidato, qualsiasi al-
tra cosa si possa dire di lui. Non si riescono ad avere ratti migliori. Lo sanno tutti».
«Sarebbe Arthur il Piccolo Matto di Via Bagliore?» domandò Carota.
«Già. Non hanno su nemmeno un segno».
«Gliene è rimasto qualcuno?»
«Un paio» l’espressione di Gimlet cambiò. «Ehi, non penserà che li abbia avvelenati lui, no? Non mi sono
mai fidato di quel piccolo furfante!»
«Le indagini sono in corso» replicò Carota. Mise via il taccuino. «Vorrei dei ratti, per favore. Quei ratti. Da
portar via». Lanciò un’occhiata al menu, si tastò la tasca e guardò fuori dalla porta verso Angua con espres-
sione interrogativa.
«Non li devi comprare» gli disse lei stancamente. «Sono una prova».
«Non possiamo defraudare un innocente commerciante che potrebbe essere vittima delle circostanze» osser-
vò Carota.
«Vuole del ketchup?» domandò Gimlet. «Il ketchup però è extra».

***

Il carro funebre passò lentamente per le strade. Sembrava piuttosto costoso ma era tipico per la gente di Via
del Galletto. Era gente che metteva da parte i soldi. Vimes lo ricordava bene. Si mettevano sempre da parte i
soldi in Via del Galletto. Si risparmiava per un giorno di pioggia anche se stava già scrosciando. E si sarebbe
morti di vergogna se gli altri avessero pensato che ci si poteva permettere soltanto un funerale economico.
Una mezza dozzina di partecipanti vestiti di nero seguiva i feretri, insieme con una ventina di persone che
avevano cercato quanto meno di apparire rispettabili.
Vimes segui il corteo tenendosi a una certa distanza fino al cimitero, dietro al Tempio degli Dei Minori, dove
si appostò goffamente fra le tombe e i severi alberi cimiteriali mentre il prete cantilenava.
Gli dei avevano fatto le persone di Via del Galletto povere, oneste e previdenti, rifletté Vimes. Si sarebbero
anche potute appendere alla schiena un cartello con scritto «Prendimi a calci» e accettarlo. Tuttavia la gente
di Via del Galletto era portata per la religione, quanto meno a quelle di tipo meno estroverso. Metteva sempre
da parte un po’ di vita per una piovosa eternità.
Alla fine la folla attorno alle tombe si divise e si disperse con l’espressione vacua di chi sa che il suo prossi-
mo futuro contiene dei fagottini al prosciutto.
Vimes avvistò una giovane donna in lacrime nel gruppo principale e avanzò con circospezione. «Ehm... è lei
Mildred Calma?» le domandò.
Lei annuì. «E lei chi è?» notò il taglio della giacca e aggiunse subito, «signore?»
«Quella era la vecchia Signora Caima che faceva la sarta?» le domandò ancora Vimes portandosela gentil-
mente da parte.
«Esatto...»
«È... la bara più piccola?»
«Quello era il nostro William...»
La ragazza parve sul punto di mettersi di nuovo a piangere. «Possiamo scambiare due parole?» disse Vimes.
«Ci sono delle cose che spero lei possa chiarirmi».
Odiava il modo in cui funzionava la sua mente. Un essere umano decente avrebbe mostrato del rispetto e se
ne sarebbe andato via in silenzio. Tuttavia, mentre si era trovato fra le fredde lapidi, gli era piombata addosso
un’orribile sensazione che quasi tutte le risposte fossero al posto giusto, se soltanto fosse riuscito a scoprire le
domande.
La donna guardò gli altri partecipanti al funerale. Avevano raggiunto il cancello e stavano fissando incuriositi
proprio loro due.
«Ehm... so che non è il momento» continuò Vimes. «Ma quando i ragazzini giocano a Mondo per strada, che
canzoncina cantano? ‘Sale, mostarda, pepe e aceto’, vero?»
La giovane lo guardò sbigottita e con espressione preoccupata. «Quella è una filastrocca» rispose in tono ge-
lido. «Quando si gioca a Mondo si canta Billy Skunkins è uno stronzo’. Chi è lei?»
«Sono il Comandante Vimes della Guardia» rispose Vimes. Quindi... Willy Scuggins viveva ancora in strada,
di nascosto... e il Vecchio Facciadipietra era soltanto un tizio qualunque su un falò...
A quel punto lei ricominciò a piangere.
«Si calmi, si calmi» le disse Vimes nel modo più rassicurante possibile. «Sono cresciuto anche io a Via del
Galletto, ecco perché io... voglio dire io sono... io non sono qui in... non sono venuto per... ascolti, io so che
lei ha portato a casa del cibo dal palazzo. A me non importa. Non sono qui per... oh, maledizione, vuole il
mio fazzoletto? Il suo sarà già pieno».
«Lo fanno tutti!»
«Si, lo so».
«Comunque, il cuoco non dice nulla...» ricominciò a singhiozzare.
«Si, certo».
«Tutti si portano via qualcosa» ripeté Mildred Calma. «Non è rubare».
Si che lo è, fu il pensiero che attraversò la mente di Vimes a tradimento. Ma non me ne importa nulla.
E adesso... prese saldamente la lunga asta di rame e cominciò ad arrampicarsi in un posto alto mentre il tuono
rombava attorno a lui. «La, ehm... l’ultimo cibo che ha rub... che le è stato dato» disse. «Che cos’era?»
«Solo un po’ di biancomangiare e del, come si dice, quella specie di marmellata fatta di care...»
«Pâté?»
«Si. Ho pensato che potesse essere un bel regalino...»
Vimes annuì. Un cibo ricco e pastoso. Il genere di cibo che si sarebbe dato a un bimbo schizzinoso e a una
nonna cui non restavano più molti denti.
Bene, adesso era in cima al tetto, le nubi erano nere e minacciose e lui poteva anche agitare il conduttore elet-
trico. Era il momento di porre...
La domanda sbagliata, come si dimostrò in seguito.
«Mi dica» chiese, «di che cosa è morta la Signora Calma?»

***

«Mettiamola così» disse Felice. «Se quei ratti fossero stati avvelenati con il piombo invece che con
l’arsenico, saremmo stati in grado di affilarne i nasi e usarli come matite».
Abbassò il becher.
«Ne sei certa?» domandò Carota.
«Si».
«Arthur il Piccolo Matto non avvelenerebbe mai i ratti, no? In particolar modo dei ratti che sarebbero stati
poi mangiati».
«Ho sentito dire che non ama troppo i nani» commentò Angua.
«Si, ma gli affari sono affari. Nessuno che fa un sacco di affari con i nani li apprezza troppo e lui deve rifor-
nire ogni bar e gastronomia di nani in città».
«Forse hanno mangiato l’arsenico prima che lui li prendesse» suggerì Angua. «La gente lo usa come veleno
per topi, dopo tutto...»
«Già» confermò Carota in tono sicuro. «È vero». «Non vorrai mica dire che Vetinari si mangia un bel ratto al
giorno?» azzardò Angua.
«Ho sentito dire che usa i ratti come spie, quindi non
penso che li usi anche come spuntino» disse Carota. «Sarebbe però interessante scoprire dove Arthur il Pic-
colo Matto va a prendere i suoi, non pensi?»
«Il Comandante Vimes ha detto che si sarebbe occupato lui del caso Vetinari» gli rammentò Angua.
«Ma noi stiamo soltanto cercando di scoprire perché i ratti di Gimlet sono pieni di arsenico» replicò Carota in
tono innocente. «In ogni caso poi avrei chiesto di occuparsene al Sergente Colon».
«Ma... Arthur il Piccolo Matto?» disse Angua. «È matto».
«Fred potrà portarsi dietro Nobby. Vado subito a dirglielo. Ehm, Felice?»
«Si, capitano?»
«Hai continuato, ehm, a nascondermi la faccia... oh. Qualcuno ti ha preso a pugni?»
«No, signore!»
«Hai gli occhi che sembrano un po’ tumefatti e le labbra...»
«Sto bene, signore!» disse Felice, disperata.
«Oh, bene, se lo dici tu. Io andrò... ehm, andrò... a cercare il Sergente Colon, allora...»
Indietreggiò, imbarazzato.
Restarono in due. Le due ragazze insieme, pensò Angua. Quanto meno in due facciamo una ragazza norma-
le.
«Non penso che il mascara ti stia bene» disse Angua. «Il rossetto si, ma il mascara... non mi sembra proprio».
«Penso di avere bisogno di un po’ di pratica».
«Sei sicura di volere tenere la barba?»
«Non vorrai dire... radermi?» Felice indietreggiò. «D’accordo, d’accordo. Εl’elmetto di ferro?» «Appartene-
va a mia nonna! E nanesco!»
«Bene. Bene. Ok. Comunque hai cominciato bene ». «Ehm... che ne pensi di... questo?» disse Felice, conse-
gnandole un pezzo di carta.
Angua lo lesse. Era una lista di nomi, anche se la maggior parte era cancellata:
Felice Culetto
Felicita
Felicità
Lucinda Culetto
Felicina
Felicia
«Ehm... che ne pensi?» le domandò Felice con fare nervoso. «‘Lucinda’?» domandò Angua, inarcando le so-
pracciglia. «Mi è sempre piaciuto».
«‘Felicia’ è carino» disse Angua. «Ed è abbastanza simile a quello che hai già. Per come pronuncia la gente
di questa città, nessuno lo noterà troppo a meno che tu non lo specifichi».
Felice abbassò le spalle rilassata. Quando hai preso la decisione di gridare al mondo chi sei, è un gran sollie-
vo sapere che puoi anche accontentarti di un sussurro.
‘Felicia’ pensò Angua. Che cosa fa venire in mente un nome simile? L’immagine mentale include stivali in
ferro, elmetto in ferro, un visino preoccupato e una lunga barba?
Be, adesso sì.

***

In un punto imprecisato sotto Ankh-Morpork, un ratto si stava facendo gli affari suoi, caracollando tranquillo
attraverso le rovine di un’umida cantina. Svoltò l’angolo verso il granaio che si trovava lì vicino e rischiò
quasi di andare a sbattere contro un altro ratto.
Quest’ultimo stava in piedi sulle zampe posteriori, però indossava un piccolo mantello nero e teneva in mano
una falce. Il pezzetto di muso che si riusciva a vedere era di un bianco osseo.
SQUIT? disse.
A quel punto la visione sparì e rivelò una figura leggermente più piccola. Non aveva assolutamente nulla di
rattesco a parte la dimensione. Era un umano, o quanto meno un umanoide. Indossava pantaloni di pelle di
ratto ma il tronco era nudo, a parte le due bandoliere che gli si incrociavano sul petto. Stava fumando un mi-
nuscolo sigaro.
Sollevò una balestra molto piccola e sparò.
L’anima del ratto... perché qualsiasi cosa cosi simile sotto così tanti aspetti agli esseri umani deve avere per
forza un’anima... osservò con aria cupa la figura che prendeva per la coda la sua recente dimora e se la tra-
scinava via. Guardò quindi la Morte dei Ratti.
«Squit?» domandò.
La Truce Squittitrice annuì.
SQUIT.
Un minuto dopo Arthur il Piccolo Matto emerse alla luce del giorno, trascinandosi dietro il ratto. Ce n’erano
già cinquantasette allineati con cura lungo la parete ma, a dispetto del suo nome, Arthur il Piccolo Matto ne
faceva una questione personale di non uccidere i piccoli e le femmine gravide. È sempre una buona idea assi-
curarsi di avere un lavoro anche domani.
Sopra la tana c’era appeso un cartello. Arthur il Piccolo Matto, in quanto unico sterminatore di insetti e ani-
mali infestanti in grado di affrontare il nemico al suo stesso livello, riteneva che valesse la pena farsi della
pubblicità.
ARTHUR IL ‘PICCOLO MATTO’
Per le piccole cose che vi mettono al tappeto
Ratti GRATIS
Sorci: 1 cent. per dieci code
Talpe: 1/2 cent. l’una
Vespe: 50 cent. Per nido. Calabroni: 20 cent. extra
Bacherozzi e simili dietro accordazione
Piccoli prezzi. Grandi lavori
Arthur tirò fuori il taccuino più piccolo del mondo e un pezzetto di mina di matita. Ecco qui... cinquantotto
pelli a due centesimi, tariffa cittadina, per le code un centesimo ogni dieci e le carcasse a Gimlet a due cente-
simi ogni tre, pidocchio bastardo di un nano...
Ci fu un momento d’ombra e poi qualcuno lo schiacciò.
«Bene» disse il proprietario dello stivale. «Ancora a cacciare ratti senza una licenza della Gilda, eh? I dieci
dollari più facili che abbiamo mai guadagnato, Sid. Andiamo a...»
L’uomo venne sollevato di parecchi centimetri da terra, ruotò di scatto e piombò contro la parete. Il suo com-
pagno guardò sbigottito mentre una striatura di polvere gli sfrecciò attraverso lo stivale, ma reagì troppo tar-
di.
«Mi è salito per i pantaloni! Mi sta salendo su... arrrgh!» Si udi un crack.
«Il mio ginocchio! il mio ginocchio! Mi ha rotto il ginocchio!»
L’uomo che era stato sbattuto contro la parete cercò di alzarsi ma qualcosa gli sfrecciò sul petto e gli atterrò a
cavalcioni del naso.
«Ehi, amico!» disse Arthur il Piccolo Matto. «Tua madre sa cucire, amico? Si? Allora falle cucire questo!»
Afferrò una palpebra con ciascuna mano e assestò una potentissima testata con precisione millimetrica. Si
senti un altro crack quando i due crani si scontrarono.
L’uomo col ginocchio rotto cercò di allontanarsi trascinandosi ma Arthur il Piccolo Matto balzò via dal suo
compagno tramortito e si lanciò verso di lui per scalciarlo. I calci di un uomo alto non più di trenta centimetri
non dovrebbero fare male, ma Arthur il Piccolo Matto sembrava avere ben più massa di quanto la sua dimen-
sione avrebbe dovuto conferirgli. Venire picchiato da Arthur era come essere colpiti da una palla d’acciaio
lanciata da una fionda. Un suo calcio sembrava avere tutta la forza di quella di un omone, ma molto doloro-
samente concentrata in un’area ben più piccola.
«Potete dire a quei bastardi della Gilda dei Cacciatori di Ratti che lavoro per chi è che voglio io e mi faccio
pagare quello che voglio io» disse, fra un calcio e l’altro. «È che quelle brutte merde la devono piantare di
perseguitare un piccolo imprenditore...»
L’altro scagnozzo della Gilda riuscì ad arrivare in fondo al vicolo. Arthur dette a Sid un calcio finale e lo la-
sciò nel canale di scolo.
Arthur il Piccolo Matto tornò al proprio lavoro, scuotendo la testa. Lavorava gratis e vendeva i ratti alla metà
del prezzo convenzionale, crimine efferato. Tuttavia Arthur il Piccolo Matto si stava arricchendo perché alla
Gilda non avevano mai compreso il problema della relatività fiscale.
Arthur chiedeva in realtà molto di più per i propri servizi. Molto di più, cioè, dal punto di vista specializzato e
soprattutto basso di Arthur il Piccolo Matto. Quello che AnkhMorpork doveva ancora capire era che tanto
più piccolo eri tanto di più valeva per te il denaro.
Con un dollaro un umano comprava una pagnotta che si mangiava in pochi bocconi. Con lo stesso dollaro
Arthur il Piccolo Matto comprava la stessa pagnotta, ma se la mangiava in una settimana e poteva anche sca-
varla e utilizzarla come camera da letto.
Il problema della diversità dimensionale era anche la causa della sua ubriachezza. Pochi gestori di pub erano
disposti a vendere birra a ditali o possedevano boccali a misura di gnomo. Arthur il Piccolo Matto doveva
andare a bere in costume da bagno.
Il suo lavoro, però, gli piaceva. Nessuno riusciva a fare sparire i ratti come Arthur il Piccolo Matto. Ratti vec-
chi e astuti che sapevano tutto su trappole, trabocchetti e veleno si trovavano impotenti di fronte al suo attac-
co che era poi, in effetti, ciò con cui attaccava. L’ultima cosa che sentivano era una mano che li afferrava per
entrambi gli orecchi e l’ultima cosa che vedevano era la sua fronte, che si avvicinava a gran velocità.
Bofonchiando fra sé, Arthur il Piccolo Matto tornò ai propri calcoli. Non a lungo, però.
Si voltò di scatto, con la fronte pronta all’attacco. «Siamo solo noi, Arthur il Piccolo Matto» disse il Sergente
Colon indietreggiando in tutta fretta.
«Signor Arthur il Piccolo Matto per voi, agenti» replicò Arthur il Piccolo Matto rilassandosi tuttavia un poco.
«Siamo il Sergente Colon e il Caporale Nobby» disse Colon.
«Già, ti ricordi di noi, vero?» domandò Nobby con voce lusinghiera. «Siamo quelli che ti hanno aiutato men-
tre ti battevi con quei tre nani la settimana scorsa».
«Me li avete tolti di torno, se è quello che volete dire» precisò Arthur il Piccolo Matto, «quando ormai li ave-
vo stesi tutti».
«Vorremmo parlarti di alcuni ratti» disse Colon.
«Non prendo altri clienti» rispose con fermezza Arthur il Piccolo Matto.
«Hai venduto alcuni ratti alla Gastronomia di Gimlet qualche giorno fa».
«A voi che ve ne viene?»
«Temo che fossero avvelenati» disse Nobby, che aveva preso la precauzione di spostarsi dietro Colon.
«Non uso mai il veleno!»
Colon si accorse di stare indietreggiando davanti a un uomo alto trenta centimetri. «Già, be’... vedi... il fatto
è... hai litigato con loro... non vai d’accordo coi nani... alcuni potrebbero dire... il fatto è che... potrebbe sem-
brare che hai del rancore». Indietreggiò di un altro passo e rischiò di inciampare su Nobby.
«Rancore? Perché dovrei avere rancore, amico? Non sono io che prendo i calci!» replicò Arthur il Piccolo
Matto, avanzando.
«Ηai ragione. Hai ragione» commentò Colon. «Solo che ci aiuterebbe, come dire, se potessi dirci... da dove
hai preso quei ratti...»
«Per esempio dal Palazzo del Patrizio» suggerì Nobby.
«Il palazzo? Nessuno caccia i ratti del palazzo. Non è permesso. No, mi ricordo di quei ratti. Erano belli gras-
si, volevo un centesimo per uno, ma lui ha insistito su quattro per tre centesimi, quel vecchio pidocchio che
è».
«Dove li hai presi, allora?»
Arthur il Piccolo Matto alzò le spalle. «Al mercato del bestiame. Faccio il mercato del bestiame il martedì.
Non so dire da dove venivano. I tunnel lì vanno a finire dappertutto, sapete?»
«Potrebbero avere mangiato del veleno prima che tu li prendessi?» domandò Colon.
Arthur il Piccolo Matto cominciò a adombrarsi. «Nessuno mette giù il veleno là in giro. Non lo manderei giù,
capito? Ho una serie di contratti lungo il mattatoio e non voglio avere niente a che fare con nessun pezzo di
merda che usa veleno. Io non prendo niente per le disinfestazioni, capito? La Gilda non lo sopporta. Ma sono
io che mi scelgo i clienti». Arthur il Piccolo Matto sogghignò maliziosamente. «Vado solo dove c’è il miglior
cibo per ratti e li faccio sparire sbattendoli contro gli ornamenti da giardino. Se trovo qualcuno che usa vele-
no sulla mia strada, può anche pagare le tariffe della Gilda per un lavoro della Gilda, hah, e vedere se riesce a
risolvere qualcosa».
«Ho idea che diventerai un grande personaggio nell’industria del catering» commentò Colon.
Arthur il Piccolo Matto piegò la testa di lato. «Sapete cos’è successo all’ultimo che ha fatto una battuta del
genere?» domandò.
«Ehm... no...?» rispose Colon.
«Non lo sa nessuno» spiegò Arthur il Piccolo Matto, «perché non l’hanno più trovato. Avete finito? Ho anco-
ra un nido di vespe prima di tornarmene a casa».
«Allora li vai a prendere sotto il mattatoio?» insistette Colon.
«In tutta la zona. È un buon terreno di caccia. Ci sono conciatori, venditori di sego per candele, macellai,
produttori di salsicce... Ottima pastura, se sei un ratto».
«Già, certo» ammise Colon. «Εdecisamente vero. Bene, ritengo che ti abbiamo fatto perdere anche troppo
tempo...»
«Come fai a cacciare le vespe?» domandò Nobby, incuriosito. «Col fumo?»
«Non è sportivo non colpirle sulle ali» rispose Arthur ilPiccolo Matto. «Ma se è una giornata troppo piena
faccio dei petardi con la polvere nera N”1 che vendono gli alchimisti». Indicò le bandoliere cariche che aveva
sulle spalle.
«Le fai saltare in aria?» domandò ancora Nobby. «Non mi sembra sportivo».
«Davvero? Hai mai provato a piazzare e accendere una mezza dozzina di micce e poi correre verso la porta
prima che la prima esploda?»

***

«È una ricerca senza speranza, sergente» disse Nobby mentre trotterellavano via. «Dei ratti hanno mangiato
del veleno da qualche parte e lui li ha presi. Che dovremmo farci noi? Avvelenare ratti non è illegale!»
Colon si grattò il mento. «Penso che potremmo trovarci un po’ nei guai, Nobby» disse. «Insomma, stanno
andando tutti in giro a fare investigamenti e noi potremmo finire col sembrare un paio di perfetti idioti. Vo-
glio dire, vuoi tornare allo Yard e dire che abbiamo parlato con Arthur il Piccolo Matto, lui ci ha detto che
non è stato lui e quindi fine della storia? Siamo esseri umani, giusto? Quanto meno, io lo sono e so che pro-
babilmente lo sei anche tu... e siamo decisamente le ultime ruote del carro qui. Sai che ti dico, questa non è
più la mia Guardia, Nobby. Troll, nani, gargolle... non ho niente contro di loro, mi conosci, ma io non vedo
l’ora di trovarmi nella mia piccola fattoria con le galline davanti alla porta. Non mi dispiacerebbe andare via
avendo fatto qualcosa di cui essere fiero».
«Be’, che vuoi che facciamo? Che bussiamo a tutte le porte attorno al mercato del bestiame e chiediamo se
hanno dell’arsenico in casa?»
«Già» disse Colon. «Camminiamo e parliamo. È quello che dice sempre Vimes.
«Ma sono centinaia! Comunque, poi, diranno di no!»
«Giusto, ma noi dobbiamo chiedere. Non è più come una volta, Nobby. Queste sono indagini moderne. Inve-
stigamenti. Al giorno d’oggi dobbiamo ottenere dei risultati. Voglio dire, la Guardia si sta facendo sempre
più grande. Non mi secca che il vecchio Detritus è un sergente, non è male quando lo conosci meglio, ma un
giorno o l’altro sarà un nano a dare gli ordini, Nobby. Αme va bene lo stesso perché io sarò nella mia fatto-
ria...»
«A inchiodare le galline attorno alla porta» commentò Nobby.
«... ma tu hai un futuro a cui pensare. È per come stanno andando le cose, forse alla Guardia cercheranno un
altro capitano. Sarebbe una bella vaccata se venisse fuori che si chiama Fortebraccio, ehm, oppure Scisto. Fa-
rai meglio a fare il brillante».
«Tu non sei mai voluto diventare capitano, Fred?»
«Io, ufficiale? Ho il mio orgoglio, Nobby. Non ho niente contro l’ufficialanza in sé e per sé, ma non è una
cosa che fa per me. Il mio posto è con l’uomo comune».
«Vorrei che lo fosse anche il mio» replicò Nobby con espressione truce. «Guarda cosa ho trovato stamattina
nella casella delle lettere».
Consegnò al sergente un cartoncino con una bordatura dorata. «‘Lady Selachii sarà a casa questa sera dalle
cinque pomeridiane in avanti e richiede il piacere della compagnia di Lord de Nobbes’» lesse.
«Oh».
«Ho sentito parlare di queste vecchie riccone» commentò Nobby, depresso. «Immagino che vuole farmi fare
il ginghellò, giusto?»
«No, no» replicò il sergente, guardando il più improbabile giocattolo della passione. «‘Αcasa’ è come invita-
re a bere qualcosa. È dove andate tutti voi nobili snob, Nobby. Bevi, tracanni e parli di arti e letterataggine ».
«Non ho vestiti eleganti» disse Nobby.
«Oh, è proprio lì che batti tutti, Nobby» spiegò Colon. «L’uniforme va benone. In effetti aggiunge anche un
p0’ di tono. In particolare se hai un’aria raffinata» terminò, ignorando il fatto evidente che Nobby poteva a-
vere al massimo un’aria tritata.
«Ma è così davvero?» domandò Nobby, rallegrandosi un po’. «Ho ricevuto un sacco di altri inviti» disse.
«Cartoncini eleganti che sembra che li hanno rosicchiati tutti sul bordo con denti d’oro. Cene, balli, tutta roba
del genere».
Colon abbassò lo sguardo sul suo amico. Uno strano, pervasivo pensiero gli si insinuò in mente. «Bene» dis-
se, «è la fine della Stagione Sociale? Il tempo sta scadendo».
«Per che cosa?»
«Be’... potrebbe essere che tutte quelle donne snobbone vogliono farti sposare le loro figlie che sono Stagio-
nate...» «Cosa?»
«Non c’è niente che batte un conte se non un duca e noi non abbiamo nessuno dei due. Non abbiamo nem-
meno un re. Il Conte di Ankh sarebbe quello che chiamano un buon partito sociale». Si, era più facile se lo
diceva in quel modo. Se avesse sostituito ‘Nobby Nobbs’ a ‘Conte di Ankh’ non avrebbe funzionato. Ma
funzionava davvero se si diceva soltanto ‘Conte di Ankh’. Ci sarebbero state molte donne felici di diventare
le suocere del Conte di Ankh, anche se ciò significava includere Nobby Nobbs nell’affare.
Be’, quanto meno qualcuna.
A Nobby scintillarono gli occhi. «Non ci avevo mai pensato» disse. «E qualcuna di quelle ragazze ha anche
un po’ di liquidi?»
«Più di te, Nobby».
«E ovviamente devo alla mia posterità di fare in modo che la linea dei Nobbs non scompaia» aggiunse
Nobby, riflessivo.
Colon era raggiante ma mostrava l’espressione piuttosto preoccupata di un dottore pazzo che ha imbullonato
un cervello nella propria creazione, ha fatto passare un lampo attraverso gli elettrodi e adesso la guarda bar-
collare per le strade del villaggio.
«Per Cor» esclamò Nobby con gli occhi leggermente fuori fuoco.
«Giusto, ma prima di questo» disse Colon, «io passerò tutti i posti lungo il mattatoio e tu farai Via delle
Chiacchiere poi torneremo allo Yard, a lavoro terminato. Ok?»
***

«Buon pomeriggio, Comandante Vimes» disse Carota chiudendosi la porta alle spalle. «Capitano Carota a
rapporto».
Vimes era stravaccato sulla sedia e fissava fuori dalla finestra. La nebbia aveva ricominciato a calare. Il Pa-
lazzo dell’Opera dall’altra parte della strada risultava già un po’ sfuocato.
«Noi, ehm, abbiamo dato un’occhiata al maggior numero di golem possibile, signore» disse Carota, cercando
diplomaticamente di vedere se ci fosse una bottiglia sulla scrivania da qualche parte. «Non ce ne sono quasi
più, signore. Abbiamo trovato che undici si sono distrutti da soli o si sono segati via la testa e, per l’ora di
pranzo, la gente li stava demolendo o stava tirando via loro le parole da sola, signore. Non è una bella situa-
zione, signore. Ci sono pezzi di argilla per tutta la città. È come se la gente stesse... soltanto aspettando que-
sta occasione. È strano, signore. Tutto quello che fanno è lavorare e starsene per conto loro, senza danneggia-
re nessuno. Alcuni di quelli che si sono distrutti da soli hanno lasciato... be’, delle annotazioni, signore. Di-
cono che sono dispiaciuti e pieni di vergogna, signore. Continuano a parlare della loro argilla...»
Vimes non reggi.
Carota si piegò di lato e verso il basso, nel caso in cui la bottiglia fosse sul pavimento. «Alla Gastronomia di
Gimlet, poi, hanno venduto ratti avvelenati. Arsenico, signore. Ho chiesto al Sergente Colon e a Nobby di
seguire quella pista. Potrebbe essere soltanto una coincidenza, ma non si sa mai».
Vimes si voltò. Carota riuscì a sentire il suo respiro. Breve, secco, quello di un uomo che cerca di tenersi sot-
to controllo. «Che cosa abbiamo tralasciato, capitano?» disse con voce distante.
«Signore?»
«Nella camera di sua signoria. C’è il letto. La scrivania. Delle cose sulla scrivania. ll comodino. La sedia. Il
tappeto.
Tutto. Abbiamo sostituito ogni cosa. Mangia del cibo. Abbiamo controllato anche il cibo, no?»
«L’intera dispensa, signore».
«Davvero? Li potremmo esserci sbagliati. Ci sono delle prove che giacciono in cimitero che suggeriscono
che ci siamo sbagliati». Vimes stava quasi latrando. «Che c’è d’altro? Culetto dice che non ha segni addosso.
Che cos’altro c’è? Vediamo di scoprire il come e con un po’ di fortuna scopriremo anche il chi».
«Respira quell’aria più di chiunque altro, si...»
«Ma lo abbiamo spostato in un’altra stanza! Anche se qualcuno avesse, non so, pompato del veleno dentro...
non avrebbe potuto cambiare stanza con tutti noi lì a guardare. Deve essere per forza il cibo!»
«Li ho visti assaggiare, signore».
«Allora è qualcosa che noi non vediamo, maledizione! Delle persone sono morte, capitano! La Signora Cal-
ma è morta!» «Chi, signore?»
«Non ha mai sentito parlare di lei?»
«Non mi sembra proprio, signore. Che cosa faceva?»
«Fare? Niente, immagino. Ha tirato su nove figli in un paio di stanze in cui non ci si poteva nemmeno stirac-
chiare e ha cucito camicie per due centesimi all’ora, ogni ora che i maledetti dei le hanno mandato, e tutto
quello che ha fatto è stato lavorare e starsene per conto suo e adesso è morta, capitano. È morto anche suo ni-
pote. Età: quattordici mesi. Perché la nipote ha portato un po’ di cibo dal palazzo! Un regalino per loro! E sa
cosa? Mildred ha pensato che volessi arrestarla per furto! Al maledetto funerale, per tutti gli dei!» Vimes a-
priva e serrava i pugni, le nocche ormai esangui. «Adesso è omicidio. Non assassinio, non politica: omicidio.
Perché non riusciamo a porre delle maledettissime domande giuste?»

***

La porta si aprì.
«Oh, buon pomeriggio, capo» disse il Sergente Colon in tono brillante, portando la mano all’elmetto. «Mi
spiace darvi fastidio. Immagino che abbiate un gran da fare, ma vi devo interrogare, solo per eliminarvi dalle
indagini, per cosi dire. Usate arsenico qui?»
«Ehm... non lasciare l’agente in piedi lì, Hanley» disse una voce nervosa e l’operaio si fece da parte. «Buon
pomeriggio, agente. Possiamo esserle d’aiuto?»
«Sto facendo indagini sull’arsenico, signore. Pare che ne sia finito dove non sarebbe dovuto».
«Ehm... santo cielo. Davvero. Sono certo che noi non ne usiamo, ma venga dentro intanto che controllo con i
capireparto. Sono sicuro che c’è anche una bella teiera di tè fumante».
Colon si guardò alle spalle. La nebbia stava calando. Il cielo si stava facendo grigio. «Non mi sento di rifiuta-
re, signore!» esclamò.
La porta si chiuse alle sue spalle.
Un momento dopo, si senti un debole scivolare di chiavistelli.

***

«D’accordo» disse Vimes. «Ricominciamo da capo». Prese in mano un immaginario mestolo.


«Io sono il cuoco. Ho preparato questa brodaglia nutriente che sa di sbobba per cani. Riempio tre ciotole.
Tutti mi stanno guardando. Tutte le ciotole sono state accuratamente lavate, no? Ok. Gli assaggiatori ne
prendono due, una da assaggiare e l’altra va a Culetto che la esamina, quindi un servitore... saresti tu, Caro-
ta... prende la terza e...»
«La mette nel montavivande, signore. Ce n’è uno che porta in ogni stanza».
«Pensavo che il cibo venisse portato su».
«Per sei piani, signore? Arriverebbe gelato».
«D’accordo... aspetta. Siamo andati troppo avanti. Tu hai la ciotola. La metti su un vassoio?»
«Si, signore».«Allora mettila su un vassoio».
Carota appoggiò, ubbidiente, la ciotola invisibile su un invisibile vassoio.
«C’è altro?» domandò Vimes.
«Un pezzo di pane, signore. E noi controlliamo la pagnotta».
«Cucchiaio?»
«Si, signore».
«Be’, non stia li impalato. Lo metta sul...»
Carota staccò una mano dal vassoio invisibile per prendere un invisibile pezzo di pane e un intangibile cuc-
chiaio.
«Altro?» domandò ancora Vimes. «Sale e pepe?»
«Mi sembra di ricordare il porta sale e pepe, signore».
«Su anche quelli, allora».
Vimes fissò con occhio di falco lo spazio fra le mani di Carota.
«No» disse. «Non avremo tralasciato quello, vero? Voglio dire... non lo avremmo fatto, no?»
Allungò una mano e sollevò un invisibile recipiente.
«Mi dica che abbiamo controllato il sale» disse.
«Quello è il pepe, signore» lo corresse Carota zelante.
«Sale! Senape! Pepe! Aceto!» esclamò Vimes. «Non avremo mica controllato tutto il cibo e lasciato poi che
sua signoria si versasse veleno a proprio piacimento, no? L’arsenico è un metallo. Si possono fare... sali di
metallo? Mi dica che ce lo siamo chiesto! Non siamo cosi stupidi, vero?»
«Controllerò subito» disse Carota. Si guardò attorno disperato. «Devo solo mettere giù il vassoio...»
«Non ancora» lo bloccò Vimes. «Questo l’ho già fatto. Non partiamo subito gridando: ‘Eureka! solo perché
ci è venuta in mente un’idea. Continuiamo a guardare, eh? Il cucchiaio. Di cosa è fatto?»
«Buona osservazione. Controllerò le posate, signore». «Adesso, cuociamo col carbone! Che cosa ha bevuto?»
«Acqua bollita, signore. L’acqua l’abbiamo assaggiata. E io ho controllato i bicchieri».
«Bene. Allora... abbiamo il vassoio e lei mette il vassoio nel montavivande e poi che succede?»
«Gli uomini in cucina tirano le corde e quello sale su fino al sesto piano».
«Nessuna fermata?»
Carota assunse un’espressione vacua.
«Va su per sei pieni» ripeté Vimes. «È solo un condotto con una grossa scatola dentro che può venire tirata
su o giù, giusto? Scommetto che c’è un portello su ogni piano».
«Alcuni dei piani non vengono quasi mai usati di questi tempi, signore...»
«Anche meglio per il nostro avvelenatore, no? Sta semplicemente lì, con una gran faccia tosta, e aspetta che
il vassoio gli passi davanti, no? Noi non sappiamo se il pasto che arriva è quello che è partito, non è così?»
«Brillante, signore!»
«Scommetto che succede di sera» disse Vimes. «Lui è più pimpante la sera e spento come una candela la
mattina seguente. A che ora viene mandata su la cena?»
«Adesso che non sta bene, alle sei circa, signore» rispose Carota. «Ormai è buio a quell’ora. Dopo va un po’
avanti a scrivere».
«Giusto. Abbiamo un sacco di cose da fare. Forza».
***

Il Patrizio era seduto sul letto a leggere quando entrò Vimes.


«Oh, Vimes» disse.
La cena verrà servita fra poco, signore» disse Vimes. «Posso farle notare per l’ennesima volta che il nostro
lavoro sarebbe di molto semplificato se lei ci permettesse di allontanarla dal palazzo?»
«Sono certo che lo sarebbe» commentò Lord Vetinari. Si sentì un gran chiasso arrivare dal montavivande.
Vimes si avvicinò e aprì gli sportelli.
Nella cassa c’era un nano. Aveva un coltello fra i denti, un’ascia in entrambe le mani e un’espressione truce
per la feroce concentrazione.
«Santo cielo» esclamò Vetinari con un filo di voce. «Spero che abbiano almeno aggiunto un po’ di senape».
«Qualche problema, agente?» domandò Vimes.
«Noffignore» rispose il nano palesandosi e togliendosi il coltello di bocca. «Tutto tranquillo fin quassù.
C’erano altri sportelli e parevano tutti non utilizzati da lungo tempo, ma io li ho inchiodati lo stesso come ha
detto il Capitano Carota».
«Ben fatto. Può scendere».
Vimes richiuse gli sportelli. Si sentì altro fracasso intanto che il nano cominciava la propria discesa.
«Ha preso in considerazione ogni dettaglio, eh, Vimes?» «Spero di sì, signore».
La cassa tornò su, con un vassoio dentro. Vimes lo tirò fuori.
«Cos’è?»
«Un piatto klatchiano senza acciughe» rispose Vimes, sollevando il coperchio. «Lo abbiamo preso dal Tugu-
rio della Pizza di Ron, dietro l’angolo. Per quel che ne so io, nessuno può avvelenare tutto il cibo della città.
Le stoviglie vengono da casa mia».
«Ha la mente di un vero ρoliziotto, Vimes».
«Grazie, signore».
«Davvero? Era un complimento?» Il Patrizio spostò dei Pezzetti di cibo nel piatto con l’aria di un esploratore
in un paese straniero.
«Qualcuno lo ha forse già mangiato, Vimes?»
«No, signore. È il modo in cui sminuzzano il cibo».
«Oh, capisco. Pensavo che gli assaggiatori avessero esagerato con l’entusiasmo» osservò il Patrizio. «Santo
cielo. Mi aspetta proprio una vera leccornia ».
«Vedo che sta meglio, signore» commentò Vimes irrigidendosi.
«Grazie, Vimes».
Quando Vimes se ne fu andato, Lord Vetinari mangiò la Pizza o quanto meno quelle partì di essa che ritenne
riconoscibili. Appoggiò quindi da un lato il vassoio e spense la candela sul comodino. Restò seduto al buio
per un po’, quindi tastò sotto il cuscino finché le dita non localizzarono un coltellino tagliente e una scatola di
fiammiferi.
Doveva ringraziare il cielo per Vimes. C’era qualcosa di accattivante nella sua disperata, bruciante e soprat-
tutto mal riposta competenza. Se quel poveretto ci avesse messo ancora molto avrebbe dovuto cominciare a
dargli delle indicazioni.
Nell’ufficio principale, Carota era seduto da solo e osservava Dorfl.
Il golem era ancora in piedi lì dove era stato lasciato. Qualcuno gli aveva appeso uno straccio al braccio. A-
veva la parte superiore della testa ancora aperta.
Carota passò un p0’ di tempo col mento appoggiato a una mano, contemplando. Aprì quindi un cassetto della
scrivania e tirò fuori il chem di Dorfl. Lo esaminò. Si alzò. Si avvicinò al golem. Gli risistemò le parole nella
testa.
Un bagliore arancione illuminò gli occhi di Dorfl. Ciò che era soltanto argilla cotta acquistò quella delicatis-
sima aura che segnava il cambiamento fra il vivo e il morto.
Carota trovò la lavagnetta e la matita del golem e gliele mise in mano, quindi indietreggiò.
Lo sguardo bruciante lo seguì mentre lui metteva via la spada, sganciava il pettorale, si sfilava la cotta di ma-
glia e si toglieva la maglia di lana facendola passare da sopra la testa.
Il bagliore si riflesse sui suoi muscoli. Scintillavano al lume di candela.
«Niente armi» disse Carota. «Niente armatura. Hai visto? Adesso stammi a sentire...»
Dorfl barcollò in avanti e sferrò un pugno.
Carota non si mosse.
Il pugno si fermò alla distanza di un pelo dagli occhi tranquilli di Carota.
«Non pensavo potessi farlo» commentò mentre il golem fece partire un altro pugno che si fermò a una fra-
zione di centimetro dallo stomaco di Carota. «Ma prima o poi sarai costretto a parlare con me. Quanto meno
a scrivere».
Dorfl esitò. Poi prese la matita.
prendi le mie parole!
«Parlami del golem che ha ucciso quelle persone». La matita non si mosse.
«Gli altri si sono uccisi da soli».
lo so.
«Come fai a saperlo?»
Il golem lo fissò, quindi scrisse:
argilla della mia argilla.
«Tu provi quello che provano gli altri golem?» domandò Carota.
Dorfl annuì.
«Εla gente sta uccidendo i golem» commentò Carota. «Non so se riuscirò a fermarla. Posso tuttavia provarci.
Penso di sapere che cosa stia accadendo, Dorfl. In parte, almeno. Penso di sapere chi stavi seguendo. Argilla
della tua argilla. Vi disonora tutti. Qualcosa é andato storto. Tu hai cercato di risistemare le cose. Io penso...
che avevate tutti molte speranze. Le parole che avete in testa però vi bloccano ogni volta...»
Il golem restò immobile.
Lo avete venduto, vero?» domandò Carota pacatamente. «Perché?»
Le parole vennero scritte in fretta.
un golem deve avere un padrone
«Perché? Perché lo dicono le parole?»
un golem deveavere un padrone!
Carota sospirò. Gli uomini dovevano respirare, i pesci dovevano nuotare e i golem dovevano avere un padro-
ne. «Non so se riuscirò a risolvere la faccenda, ma non ci proverà nessun altro, credimi» gli disse.
Dorfl non si mosse.
Carota tornò dove si trovava prima. «Mi chiedo se il vecchio prete e il signor Hopkinson non abbiano fatto
qualcosa... o non vi abbiamo aiutato a fare qualcosa» proseguì osservando la faccia del golem. «Mi chiedo
se... in seguito... qualcosa si sia rivoltato loro contro, trovando il mondo un po’ troppo...»
Dorfl restò impassibile.
Carota annuì. «Comunque, sei libero di andare. Quello che accadrà adesso dipenderà da te. Ti aiuterò se po-
trò. Se un golem è un oggetto allora non può commettere un omicidio e io cercherò comunque di capire per-
ché sia successo tutto ciò. Se un golem può commettere un omicidio, allora voi siete persone e quello che vi è
stato fatto è terribile e bisogna porvi fine. In entrambi i casi, tu hai vinto, Dorfl». Si voltò e spostò qualche
carta che aveva sulla scrivania. «Il grosso guaio» aggiunse, «è che tutti vogliono che qualcun altro legga nelle
loro menti e poi faccia funzionare il mondo adeguatamente. Forse perfino i golem».
Si voltò nuovamente per fissare in faccia il golem. «So che avete un segreto ma, per come stanno andando le
cose, di voi non rimarrà nessuno a custodirlo».
Guardò speranzoso Dorfl.
no. argilla della mia argilla. non tradiro.
Carota sospirò. «Bene, non posso costringerti». Sogghignò. «Anche se, sai, potrei farlo. Potrei aggiungere
qualche parola extra al tuo chem. Ordinarti di essere loquace».
Gli occhi di Dorfl si infiammarono.
«Ma non lo farò. Sarebbe disumano. Tu non hai ammazzato nessuno. Non posso privarti della libertà perché
non ne hai. Vai. Tanto so benissimo dove vivi».
lavoraree vivere.
«Ma cosa vogliono i golem, Dorfl? Vi ho visto camminare per la strada e lavorare in continuazione, ma che
cosa sperate realmente di realizzare?»
La matita scrisse.
tregua.
Αquel punto Dorfl si voltò e uscì dall’edificio.
«Dia*lo!» esclamò Carota, con notevole sforzo linguistico. Tamburellò con le dita sul tavolo, quindi si alzò
in piedi di scatto, Si rivestì e si incamminò lungo il corridoio per cercare Angua.
Era appoggiata a una parete nel laboratorio del Caporale Culetto e parlava con lei.
«Ho mandato Dorfl a casa» disse Carota.
«Ne ha una?» replicò Angua.
«Be’, quanto meno al macello. Probabilmente non è però un buon momento perché un golem stia da solo
quindi penso che lo seguirò e lo terrò sott... Ma ti senti bene Caporale Culetto?»
«Sì, signore» rispose Felicia.
«Indossi una... una... una...» La mente di Carota si ribellava al pensiero di ciò che il nano stava indossando e
si accontentò di un: «un Kilt?»
«Sì, signore. Una gonna, signore. Di pelle, signore».
Carota cercò una risposta adeguata e dovette fare ricorso a un: «Oh!»
«Verrò con te» disse Angua. «Felicia può restare qui alla scrivania».
«Un... kilt» ripeté Carota. «Oh. Bene, eh, resta qui a tener d’occhio la situazione. Non ci metteremo molto.
E... ehm... mi raccomando di restare dietro la scrivania, d’accordo?»
«Andiamo» disse Angua.
Quando furono fuori in mezzo alla nebbia, Carota disse:
«Non pensi che ci sia qualcosa di un po’... strano in Culetto?»
Αme sembra una femmina perfettamente normale» replicò Angua.
«Femmina! Lui ti ha detto di essere una femmina?»
«Lei» lo corresse Angua. «Qui siamo ad Αnkh-Morpork, sai? Abbiamo dei pronomi extra».
La ragazza riusciva ad avvertirne lo sconcerto. Ovviamente, tutti sapevano che da qualche parte sotto tutti gli
strati di pelle e cotta di maglia, i nani si presentavano in tipologia sufficientemente diversificata da assicurare
la produzione futura di altri nani, ma non era un argomento di cui i nani parlavano se non in quei momenti
peculiari del corteggiamento in cui l’imbarazzo sorgeva comunque anche per altri motivi.
«Be’, pensavo avrebbe avuto la decenza di tenerselo per sé» commentò alla fine Carota. «Voglio dire, non ho
niente contro le femmine. Sono quasi certo che la mia madre adottiva sia una. Non penso però sia saggio,
come dire, andare in giro ad attirare l’attenzione sulla cosa».
«Carota, penso che tu abbia qualche rotella fuori posto» commentò Angua.
«Cosa?»
«Penso che sei davvero fuori. Voglio dire, santo cielo! Un po’ di trucco e un vestitino e ti comporti come se
lei fosse diventata Miss Va Va Voom e avesse cominciato a ballare sui tavoli del Club della Puzzola!»
Seguì qualche secondo di scioccato silenzio mentre entrambi contemplavano mentalmente l’immagine di una
spogliarellista nana. Entrambe le menti si ribellarono al pensiero.
«Comunque» proseguì Angua, «se le persone non possono essere se stesse ad Ankh-Morpork, dove possono
farlo?»
«Ci saranno problemi quando se ne accorgeranno gli altri nani» disse Carota. «Io sono quasi riuscito a veder-
gli le ginocchia. Vederle le ginocchia».
«Tutti hanno delle ginocchia».
«Forse, ma è cercar guai andarle a sbandierare in giro. Voglio dire, io sono abituato alle ginocchia. Posso
guardarle e pensare: ‘Oh, sì, ginocchia, sono solo giunture nelle gambe’ ma alcuni dei ragazzi...»
Angua annusò. «Ha svoltato qui. Alcuni dei ragazzi cosa?»
«Be’... non so come reagiranno, ecco tutto. Non avresti dovuto incoraggiarla. Voglio dire, è ovvio che ci sia-
no dei nani femmina ma... insomma, hanno la decenza di non farlo vedere».
Sentì Angua restare col fiato sospeso. La voce di lei parve arrivare da molto lontano quando disse: «Carota,
sai che ho sempre rispettato il tuo atteggiamento nei confronti dei cittadini di Ankh-Morpork».
«Sì?»
«Sono rimasta impressionata dal modo in cui sembri essere realmente cieco davanti a cose come forma e co-
lore». «Sì?»
«E sembra sempre che tu ci tenga alle persone».
«Sì?»
«E sai che provo un considerevole affetto per te».
«Sì?»
«E solo che qualche volta...»
«Sì?»
«Mi chiedo davvero, davvero, davvero perché».

***

I carri erano parcheggiati fitti fitti fuori dalla residenza di Lady Selachii quando il Caporale Nobbs trotterellò
su per il vialetto. Bussò alla porta.
Aprì un servitore in livrea. «Ingresso della servitù» disse il servitore e fece per richiudere la porta.
Il piede allungato di Nobby, tuttavia, era stato pronto per una mossa simile. «Leggi questi» gli disse piazzan-
dogli in mano due pezzi di carta.
Sul primo c’era scritto:
Io, dopo avere raccolto prove da un numero di esperti, inclusa la Signora Scivolina la levatrice, certifico che
ci siano forti probabilità che il portatore di questo documento, C. W. St John Nobbs, sia un essere umano.
Firmato Lord Vetinari
L’altra era la lettera di Dragon Re degli Araldi.
Il servitore in livrea sgranò gli occhi. «Oh, sono terribilmente spiacente, sua signoria» disse. Fissò ancora il
Caporale Nobbs. Nobby era ben rasato... quanto meno l’ultima volta che si era fatto la barba era stato ben ra-
sato... ma il suo volto presentava così tanti tratti topologici di secondaria importanza da assomigliare a un
pessimo esempio di agricoltura taglia-e-incendia.
«Oh, cielo» aggiunse il servitore. Cercò di ricomporsi. «Gli altri ospiti di solito hanno soltanto una carta
d’invito».
Nobby tirò fuori un mazzo di carte malconce. «Adesso sarò probabilmente impegnato per un po’ a fare il
Nobby snobbone» disse. «Ma sono disponibile per un paio di mani allo Storpio Signor Cipolla dopo, se
vuoi».
Il servitore lo squadrò dall’alto in basso. Non faceva trapelare molto. Lui aveva sentito delle voci... chi non le
aveva sentite?... che a lavorare nella Guardia c’era il legittimo re di Ankh-Morpork. Dovette ammettere che,
se si fosse voluto nascondere un erede al trono segreto, non lo si sarebbe potuto nascondere più accuratamen-
te che sotto la faccia di C.W. St J. Nobby.
D’altra parte... il servitore era appassionato di storia e sapeva che nel lungo corso di essa lo stesso trono era
stato occupato da creature con la gobba, con un occhio solo, che si trascinavano sulle nocche e orribili come
il peccato. In base a ciò, Nobby era perfettamente nella norma in quanto a regalità. Se, tecnicamente, non a-
veva la gobba, era solo perché aveva ingobbiti anche la parte anteriore e i fianchi. Poteva arrivare il momen-
to, pensò il servitore, in cui valeva la pena di seguire il corso di una stella, anche se detta stella era una nana
rossa.
«Lei non si è mai recato in uno di questi convivi prima d’ora, milord?» suggerì.
«Prima volta» confermò Nobby.
«Sono certo che il sangue di sua signoria si mostrerà all’altezza della situazione» concluse il servitore con un
filo di voce.

***

Dovrò andarmene, pensò Angua mentre camminavano in fretta attraverso la nebbia. Non posso continuare a
vivere di mese in mese.
Non che lui non sia piacevole. Si interessa di tutti. Non si potrebbe desiderare di incontrare un uomo più
premuroso.
È proprio questo il fatto. Si preoccupa per tutti. Si preoccupa per tutto. Si preoccupa indiscriminatamente.
Sa tutto di tutti perché tutti gli interessano e la preoccupazione è interamente generale e mai personale. Non
pensa che personale sia la stessa cosa di importante.
Se solo mostrasse qualche qualità umana decente come l’egoismo.
Sono certa che lui non la veda così, ma si può capire che la storia del lupo mannaro lo mette a disagio, in
fondo in fondo. Si preoccupa delle cose che le altre persone mi dicono alle spalle e non sa come reagire.
Cos’ha detto quel nano l’altro giorno? Uno ha detto qualcosa del tipo: «Lei sente uno stimolo» e l’altro ha
commentato «Già, lo stimolo di nutrirsi». Ho visto la sua espressione. A me non dà fastidio una cosa del ge-
nere... be, quasi mai... ma a lui si. Se solo prendesse a pugni qualcuno. Non servirebbe a nulla, ma quanto
meno lui si sentirebbe meglio.
La situazione non può fare altro che peggiorare. Nel migliore dei casi verrò beccata in un pollaio e allora sì
che toccheremo il fondo. Oppure verrò colta nella stanza di qualcuno...
Cercò di allontanare quel pensiero ma non vi riuscì. Si poteva soltanto controllare il lupo mannaro, non si
poteva addomesticarlo.
È la città. Troppe persone, troppi odori...
Forse funzionerebbe se fossimo soli da qualche parte, ma se gli dicessi: «Scegli, o me o la città» non si rende-
rebbe nemmeno conto di avere una possibilità di scelta.
Prima o poi dovrò tornare a casa. È la cosa migliore per lui.

***

Vimes tornò indietro a piedi nella notte umida. Sapeva di essere troppo infuriato per riuscire a pensare con
chiarezza. Non era arrivato da nessuna parte e aveva viaggiato parecchio per trovarsi lì. Aveva una vagonata
di fatti e aveva fatto tutte le cose più logiche; a qualcuno, da qualche parte, doveva anche apparire come un
folle.
Probabilmente era già un folle per Carota. Erano continuate a venirgli in mente idee brillanti... vere idee da
poliziotto... e ognuna si era rivelata una beffa. Aveva tiranneggiato, gridato e fatto tutte le cose giuste e nes-
suna di queste aveva funzionato. Non avevano trovato assolutamente nulla. Non avevano fatto altro che ac-
crescere la loro ignoranza.
Il fantasma della vecchia Signora Calma apparve nella sua mente. Non ricordava molto di lei. Lui era stato
soltanto uno dei tanti mocciosi in una folla di mocciosi e lei una delle tante facce preoccupate in cima a un
grembiule. Una delle persone di Via del Galletto. Aveva cominciato a cucire per far quadrare il bilancio e
salvare le apparenze e, proprio come tutti gli altri nella strada, aveva proceduto arrancando per la vita senza
chiedere mai nulla e ottenendo ancora meno.
Che cos’altro avrebbe potuto fare lui? Avevano praticamente anche strappato via la carta da parati dal mur...
Si bloccò.
C’era la stessa carta da parati in tutte e due le stanze. In ogni stanza di quel piano. Quell’orrenda carta da pa-
rati verdina.
Ma... no, non poteva essere. Vetinari aveva dormito in quella stanza per anni, sempre che avesse mai dormi-
to. Nessuno si sarebbe potuto introdurre furtivamente lì dentro e ri-tappezzarla senza essere notato.
Davanti a lui la nebbia continuava a passare. Vide di sfuggita una stanza illuminata dalla luce di candela in
un edificio adiacente prima che un nuovo banco si insediasse.
La nebbia. Sì. Umidità. Permeava, sfiorava la carta da parati. La vecchia, polverosa, ammuffita carta da para-
ti...
Felice aveva forse analizzato la carta da parati? Dopo tutto, in un certo senso, non la si vedeva. Non era tanto
nella stanza perché delineava ciò che la stanza era. Era possibile restare avvelenati dalle pareti?
Non osava quasi formulare quel pensiero. Se avesse concesso alla propria mente di adagiarsi sul sospetto
quello si sarebbe divincolato e sarebbe volato via, come tutti gli altri.
Ma... eccolo lì, diceva la sua anima segreta. Tutto il cincischiare con sospetti e indizi... era solo qualcosa per
far divertire il corpo mentre il cervello continuava a sgobbare. Ogni vero poliziotto sapeva che non si andava
in giro a cercare indizi in modo da poter trovare Chi Fosse Stato. No, si cominciava con un’idea abbastanza
precisa su Chi Fosse Stato. In quel modo si sapeva quali indizi cercare.
Vimes non aveva alcuna intenzione di passare un’altra giornata piena di tensione condita con idee disperata-
mente brillanti, vero? Era già sufficientemente brutto dover guardare la faccia del Caporale Culetto, che sem-
brava diventare un po’ più colorita di volta in volta.
Lui aveva suggerito: «Ah, l’arsenico è un metallo, no, quindi forse hanno potuto farci le posate». Non avreb-
be mai più dimenticato l’espressione sul volto del nano quando Felice aveva cercato di spiegargli che, sì, sa-
rebbe stato possibile farlo, sempre che nessuno avesse notato come le posate si scioglievano nella zuppa qua-
si istantaneamente.
Questa volta, avrebbe riflettuto prima.

***
«ll Conte di Ankh, Onorevolissimo Caporale Lord C.W. St J. Nobbs!»
Il brusio della conversazione si bloccò. Le teste si voltarono. In un punto imprecisato della folla, qualcuno
cominciò a ridere e venne celermente zittito dai vicini.
Lady Selachii avanzò. Era una donna alta e spigolosa, con i lineamenti affilati e il naso aquilino che rappre-
sentavano il marchio di fabbrica della sua famiglia. Dava l’impressione che ti venisse scagliata un’ascia ad-
dosso.
Fece un inchino.
Molti restarono senza fiato per la sorpresa, ma lei lanciò uno sguardo truce agli ospiti riuniti e qua e là si vi-
dero inchini e riverenze. Da qualche parte, in fondo alla stanza, qualcuno cominciò a dire: «Ma quell’uomo è
un perfetto sc...» e venne zittito.
«Qualcuno ha forse perso qualcosa?» domandò Nobby innervosito. «Vi aiuto a cercare, se volete».
Il servitore in livrea apparve al suo fianco, portando un vassoio. «Qualcosa da bere, milord?» domandò.
«Sì, certo, una pinta di Winkles» rispose Nobby. Parecchie bocche restarono spalancate. Lady Selachii però
si mostrò all’altezza della situazione. «Winkles?» chiese. «Una marca di birra, sua signoria» rispose il servi-
tore. Sua signoria esitò solo per un istante. «Credo che il maggiordomo beva birra» disse. «Se ne occupi lei.
Anche io prenderò una pinta di Winkles. Che idea innovativa».
Ciò provocò un certo effetto fra gli ospiti che sapevano su che lato della fetta di pane era spalmato il pâté.
«Verissimo! Suggerimento capitale! Una pinta di Winkles anche qui!»
«Haha. Gvande! Winkles anche pev me!»
«Winkles per tutti!»
«Ma quell’uomo è un perfetto cre...»
«Chiudi il becco!»

***

Vimes attraversò il Ponte d’Ottone con circospezione, contando gli ippopotami. C’era una nona sagoma, ma
stava appoggiata contro il parapetto e bofonchiava fra sé in modo familiare e, quanto meno per Vimes, niente
affatto minacciosa. Deboli movimenti dell’aria gli portarono una puzza che superava in quanto a puzza perfi-
no il fiume: proclamava che, davanti a Vimes, c’era un suonato tanto suonato da essere stato promosso a or-
chestra.
«... Maledizione glielo avevano detto, alzati e piantala lì! Mano del millennio e gamberetti! Glielo avevo det-
to, ho detto, e mi hanno ascoltato...»
«Buona sera, Ron» disse Vimes senza nemmeno preoccuparsi di guardarlo.
Ron il Vecchio Marcione si mise a camminargli dietro. «Maledizione mi hanno fatto fuori così che hanno...»
«Sì, Ron» disse Vimes.
«e gamberetti... maledizione, dico io, pane sulla fetta di burro... La Regina Molly ha detto di guardarle le
spalle, mister».
«Come?»
«... L’hanno fritto!» disse Ron il Vecchio Marcione innocentemente. «Tutti quanti, mi hanno buttato fuori,
loro e quel grosso coso!»
Il mendicante girellò un po’ intorno e, con l’orlo del sudicio cappotto che trascinava sul terreno, si allontanò
zoppicando nella nebbia. Il suo cagnolino gli trotterellava davanti.

***

C’era un gran pandemonio nella sala dei servitori.


«Winkles Old Peculiar?» domandò il maggiordomo.
«Altre centoquattro pinte!» esclamò il servitore in livrea.
Il maggiordomo scrollò le spalle. «Harry, Sid, Rob e Jeffrey... due vassoi a testa e correte giù alla Testa del
Re immediatamente! Che altro sta facendo?»
«Be’, in questo momento avrebbero dovuto ascoltare la lettura di poesie ma lui sta raccontando barzellette...»
«Aneddoti?»
«Non esattamente».

***

Era impressionante come ci fosse pioggia e nebbia al tempo stesso. Il vento le spingeva entrambe nella stan-
za, e Vimes fu costretto a chiudere la finestra. Accese le candele vicino alla scrivania e aprì il taccuino.
Probabilmente avrebbe dovuto usare il demoniaco Organizer, ma gli piaceva vedere le cose scritte nero su
bianco. Riusciva a pensare meglio quando scriveva.
Scrisse «Arsenico» e vi fece un bel cerchio attorno. Attorno al cerchio scrisse: «Unghie di Padre Tubelcek»,
«Ratti», «Vetinari» e «Signora Calma». Più in basso sulla pagina scrisse: «Golem» e tracciò un secondo cer-
chio. Attorno a quello scrisse quindi: «Padre Tubelcek?» e «Signor Hopkinson?» Dopo qualche ulteriore ri-
flessione scrisse: «Argilla rubata» e «Grog».
Poi: «Perché un golem confesserebbe qualcosa che non ha fatto?»
Fissò la luce della candela per un po’ quindi aggiunse: «I ratti mangiano la roba».
Passò dell’altro tempo.
«Che cos’ha il prete che tutti vogliono?»
Dal piano di sotto arrivò un rumore di armature all’ingresso di una pattuglia. Un caporale si mise a gridare.
«Parole» scrisse Vimes. «Che cosa aveva il Signor Hopkinson? Pane dei nani? Non rubato. Che cos’altro a-
veva?»
Vimes guardò anche quella frase, quindi scrisse «Panetteria», fissò la parola per un po’ e poi la cancellò e la
sostituì con «Forno?» Tracciò un cerchio attorno a «Forno?» e un cerchio attorno ad «Argilla rubata» poi li
collegò.
Era stato trovato dell’arsenico sotto le unghie del vecchio prete. Forse aveva sparso del veleno per topi?
L’arsenico aveva moltissimi usi. Lo si poteva acquistare benissimo a chili da un qualsiasi alchimista.
Scrisse «Mostro dell’Arsenico» e lo guardò. Veniva rinvenuto dello sporco sotto le unghie. Se la gente aveva
lottato ci poteva anche essere sangue o pelle. Non si trovava di certo grasso e arsenico.
Guardò nuovamente la pagina e, dopo ulteriori riflessioni, scrisse: «I golem non sono vivi. Però pensano di
essere vivi. Che cosa fanno le cose vive? Risp.: Respirano, mangiano, defecano». Si interruppe, fissò la neb-
bia all’esterno e poi scrisse con grande cura: «E fanno altre cose».
Qualcosa gli fece pizzicare la base del collo.
Tracciò un cerchio attorno al nome del defunto Hopkinson e portò la linea fino in fondo alla pagina creando
un altro cerchio in cui scrisse: «Aveva un grosso forno».
Ehm. Felice aveva detto che non si riusciva a cuocere in modo adeguato l’argilla in un forno per il pane. For-
se però la Si poteva cuocere in modo inadeguato.
Guardò nuovamente la luce della candela.
Non potevano fare una cosa simile, no? Oh, cielo... No, certo che no...
Ma, in fondo, tutto ciò di cui si aveva bisogno era dell’argilla. E un uomo di chiesa che sapesse come scrivere
le parole. E qualcuno che scolpisse la figura, immaginò Vimes, ma i golem avevano avuto centinaia e centi-
naia di anni per imparare a usare bene le proprie mani...
Quelle mani grandi e grosse. Quelle che assomigliavano tanto a pugni.
La prima cosa che avrebbero voluto fare in seguito sarebbe stata distruggere le prove, no? Probabilmente non
lo consideravano uccidere, più una specie di spegnere...
Tracciò un altro cerchio alquanto deformato sui propri appunti.
Grog. Vecchia argilla già cotta, tritata finemente.
Avevano aggiunto un po’ della loro stessa argilla. Dorfl aveva un piede nuovo, no? Non gli era riuscito be-
nissimo. Avevano messo parte di loro stessi in un nuovo golem.
Il tutto suonava... be’ Nobby lo avrebbe definito una porcata. Vimes non sapeva come chiamarlo. Gli pareva
una cosa da società segreta. «Argilla della mia argilla». Sangue del mio sangue...
Maledetti affari. Scimmiottare i loro superiori!
Vimes sbadigliò. Sonno. Avrebbe avuto bisogno di dormire. O di qualcos’altro.
Fissò la pagina. Automaticamente la mano gli scivolò verso il cassetto inferiore della scrivania, come faceva
sempre quando era preoccupato e cercava di pensare. Non che ci fosse sempre una bottiglia in quel periodo...
ma le vecchie abitudini erano dure a mori...
Sentì un ding del vetro e un debole e seducente sciacquio. La mano di Vimes venne fuori con una bella e
grossa bottiglia. L’etichetta diceva: Distillerie Abbracciaorso: MacAbre Finest Malt.
Il liquido all’interno stava quasi risalendo le pareti di vetro del contenitore per l’aspettativa.
Lo fissò. Aveva infilato una mano nel cassetto alla ricerca di una bottiglia ed eccola lì.
Però non ci sarebbe dovuta essere. Sapeva che Carota e Fred Colon lo tenevano d’occhio, ma lui non aveva
più acquistato una bottiglia da quando si era sposato perché lo aveva promesso a Sybil, no...?
Quello non era una vecchia schifezza torcibudella. Quello era MacAbre...
Una volta lo aveva assaggiato. Non riusciva a ricordare perché, adesso, visto che a quei tempi l’unico alcool
che generalmente si era potuto permettere aveva la delicatezza di un colpo di mazzuolo contro l’orecchio in-
terno. Doveva avere trovato i soldi in un modo o nell’altro. Una semplice sniffata era stata come festeggiare
Natale. Una sola sniffata...

***

«E lei disse: ‘Strano... non ha fatto così la notte scorsa!’» terminò il Caporale Nobby.
Guardò con espressione raggiante la compagnia.
Ci fu silenzio. Poi qualcuno nella folla cominciò a ridere, una di quelle risatine incerte che si fanno quando
non si è sicuri che non si verrà zittiti da chi si ha vicino. Un’altra persona si mise a ridere. Altre due si ag-
giunsero al coro. A quel punto le risate esplosero nell’intero gruppo.
Nobby si crogiolò.
«Poi c’è quella del klatchiano che è entrato in un pub con una pianola...» cominciò a dire.
«Penso» lo interruppe Lady Selachii con tono fermo, «che sia pronto il buffet».
«Avete piedini di porco?» domandò allegramente Nobby. «Un piatto pieno di piedini di porco va giù che è un
piacere con la Winkles».
«Di solito non mangio estremità» osservò Lady Selachii.
«Un panino con un piedino di porco... Mai provato un piedino di porco? Non c’è niente di meglio» insistette
Nobby.
«Non è.., forse... il più delicato dei cibi?» commentò Lady Selachii.
«Oh, si possono togliere le cotiche» concesse Nobby. «E perfino le unghie. Se sei schizzinoso».

***

Il Sergente Colon aprì gli occhi e gemette. Gli faceva male la testa. Lo avevano colpito con qualcosa. Poteva
essere stata una parete.
Lo avevano anche legato. Era immobilizzato, mani e piedi.
Gli sembrò di essere steso al buio su un pavimento di legno. C’era un odore di grasso nell’aria, che gli sem-
brava familiare e al tempo stesso fastidiosamente irriconoscibile.
Quando si fu abituato al buio, distinse delle linee sottilissime di luce come quelle che potevano circondare
una porta. Riuscì anche a sentire delle voci.
Cercò di alzarsi in ginocchio e gemette quando un nuovo dolore gli trafisse la testa.
Quando la gente ti legava era una brutta cosa. Ovviamente, era molto meglio di quando ti uccidevano, ma po-
teva significare che ti stessero soltanto tenendo da parte per ucciderti dopo.
Prima non sarebbe mai successo. Ai vecchi tempi, se beccavi qualcuno a rubare, praticamente gli tenevi la
porta aperta perché potesse scappare. Così facendo, arrivavi sempre a casa intero.
Usando l’angolo fra la parete e una pesante cassetta egli riuscì a tirarsi in piedi. Non si trattava di un gran mi-
glioramento rispetto alla posizione precedente ma, dopo che il rimbombo che aveva nel cervello fu passato,
egli saltellò goffamente verso la porta.
Si sentivano ancora voci dall’altra parte.
Qualcun altro oltre il Sergente Colon era nei guai.
«...Buffone! Mi hai fatto venire qui per questo? C’è un lupo mannaro nella Guardia! Ah-ha. Non uno dei vo-
stri scherzi della natura. È una vera bimorfica! Se butti per terra una moneta, riesce a sentire a naso su che la-
to è caduta!»
«E se lo ammazziamo e trasciniamo via il corpo?»
«Pensi che lei non riuscirebbe a sentire la differenza fra un cadavere e un corpo vivo?»
Il Sergente Colon gemette debolmente.
«Ehm, e se lo scortassimo via nella nebbia...?»
«E riesce anche a sentire l’odore della paura, idiota. Ah-ha. Perché non gli avete lasciato dare un’occhiata in
giro? Cosa avrebbe potuto vedere? Conosco quel poliziotto. Un vecchio grassone codardo col cervello di un,
ah-ha, maiale. Puzza costantemente di paura».
Il Sergente Colon sperò di non essere sul punto di puzzare di qualcos’altro.
«Mandagli Meshugah, ah-ha».
«Sicuro? Sta diventando strano. Esce da solo e si mette a gridare nella notte, non dovrebbero fare cose simili.
E si sta crepando. Non ci si può fidare del fatto che un golem faccia le cose adeguatam...»
«Tutti sanno che non ci si può fidare dei golem. Ah-ha. Occupatene tu!»
«Ho sentito dire che Vimes è...»
«Di Vimes mi sono occupato io!»
Colon si allontanò dalla porta il più silenziosamente possibile. Non aveva la minima idea di cosa fosse quel
Meshugah che i golem avevano fatto, tuttavia gli suonava meglio trovarsi dove quello non c’era.
Ora, se fosse stato un tipo pieno di risorse, come Sam Vimes o il Capitano Carota, lui avrebbe... trovato un
chiodo o qualcosa per strappare le corde, no? Erano davvero strette e gli tagliavano i polsi perché erano tal-
mente sottili, poco più di un filo girato e annodato molte volte. Se avesse trovato qualcosa contro cui sfregar-
lo...
Ma, sfortunatamente e contro ogni buon senso, a volte la gente getta sconsideratamente i propri nemici legati
in stanze del tutto prive di chiodi, sassi taglienti a portata di mano, schegge di vetro o magari, in casi estremi,
tanti pezzi di vecchia ferraglia e attrezzi per poter creare un carro armato perfettamente funzionante.
Colon riuscì a mettersi di nuovo in ginocchio e si trascinò lungo le assi di legno. Gli sarebbe bastata anche
una scheggia. Un pezzetto di metallo. Una grossa porta spalancata con scritto LIBERTÀ. Si sarebbe accon-
tentato di qualsiasi cosa.
Quello che trovò fu un minuscolo cerchio di luce nel pavimento. Era caduto un nodo del legno molto tempo
addietro e una luce... un’opaca luce arancione... vi stava filtrando attraverso.
Colon si abbassò e pose un occhio sul buco. Sfortunatamente ciò portò anche il naso nelle vicinanze.
La puzza era sconvolgente.
C’era un sentore di acquosità, quanto meno di liquidità. Doveva trovarsi sopra uno dei numerosi canali che
scorrevano attraverso la città, anche se ci avevano costruito sopra da secoli, e che venivano ora usati... sem-
pre che la loro esistenza fosse ancora ricordata... per gli scopi cui l’umanità aveva sempre destinato l’acqua
pulita: per esempio, renderla il più torbida e meno potabile possibile. Quel corso d’acqua in particolare scor-
reva sotto i mercati del bestiame. La puzza di ammoniaca trivellò i seni nasali di Colon come un trapano. Ep-
pure lì sotto c’era della luce.
Trattenne il respiro e dette un’altra occhiata.
Circa mezzo metro sotto di lui c’era una piccolissima zattera. C’erano stesi sopra una dozzina di ratti e un
pezzetto di candela accesa.
Un minuscolo battello a remi entrò nella sua visuale. In fondo a esso si trovava un ratto e, seduto a metà, re-
mante, c’era...
«Arthur il Piccolo Matto?»
Lo gnomo sollevò lo sguardo. «Chi c’è lassù?»
«Sono io, il tuo buon vecchio amico Fred Colon! Mi puoi dare una mano?»
«Che ci fai là sopra?»
«Sono tutto legato e vogliono uccidermi! Perché c’è tanta puzza?»
«È il vecchio canale Galletto. Ci scolano dentro tutti i recinti del bestiame». Arthur il Piccolo Matto sogghi-
gnò. «Lo senti che ti fa un gran bene a tutti i tubi, eh? Chiamami il Re del Fiume d’Oro, eh?»
«Mi uccideranno, Arthur! Niente stronzate!»
«Ah! Questa è buona!»
Alcune cellule disperate si infiammarono nella mente di Colon. «Ero sulla pista di quei disgraziati che ti
stanno avvelenando i ratti» disse.
«La Gilda dei Cacciatori di Ratti!» latrò Arthur, facendo quasi cadere un remo. «Sapevo che erano loro, vero?
È qui che ho preso quei ratti! Ce n’erano degli altri, stecchiti come rami secchi!»
«Giusto! E io devo dare i nomi al Comandante Vimes! Di persona! Con tutte le braccia e le gambe ancora at-
taccate! È molto pignolo su questo genere di cose!»
«Lo sai che stai sopra una botola?» domandò Arthur. «Aspettami lì».
Arthur remò fuori dalla vista, Colon si rotolò su un fianco. Dopo qualche tempo sentì un rumore strano nella
parete e poi qualcuno gli sferrò un calcio su un orecchio.
«Ahi!»
«Mi vengono dei soldi?» domandò Arthur il Piccolo Matto, tenendo in mano una candelina. Era piccolissima,
del tipo che si poteva piazzare sulla torta di compleanno di un bambino.
«Che ne è del tuo senso del dovere civico?»
«Oh, allora niente soldi?»
«Un sacco! Lo prometto! Adesso slegami!»
«È una specie di cordicella quella che hanno usato» disse Arthur da un punto imprecisato attorno alle mani di
Colon. «Non sono vere corde».
Colon sentì le mani libere, anche se provava ancora della presse ai polsi.
«Dov’è la botola?» domandò.
«Ci stai sopra. È comoda per scaricare giù della roba. Non l’hanno più usata da anni da sotto, a quanto pare.
Ehi, ho trovato ratti stecchiti dappertutto qui attorno! Grassi quanto la tua testa e morti il doppio! Mi sembra-
va che quelli che avevo portato a Gimlet erano un po’ troppo fiacchi!»
Si sentì un rumore vibrante e anche le gambe di Colon furono libere. Si sedette con cautela e cercò di mas-
saggiarle per migliorarne la circolazione.
«C’è un altro modo per uscire?» domandò.
«Un sacco per me, nessuno per uno sciocco ciccione come te» rispose Arthur il Piccolo Matto. «Dovrai farte-
la a nuoto». «Vuoi che mi butti lì dentro?»
«Non preoccuparti, non ci puoi affogare».
«Sicuro?»
«Già. Potresti soffocarci. Sai il rigagnolo di cui parlano? Quello che ci puoi star su senza pagaiare?»
«Non sarà questo, vero?» disse Colon.
«È in questo stato a causa dei recinti per il bestiame» proseguì Arthur il Piccolo Matto. «Il bestiame rinchiuso
è sempre un po’ nervoso».
«So che effetto fa».
Si sentì un cigolio fuori dalla porta. Colon riuscì a tirarsi in piedi.
La porta si aprì.
Una figura ne riempì l’arco. Si stagliava come una silhouette a causa della luce che arrivava da dietro, ma
Colon vide comunque due occhi incandescenti e triangolari.
Il corpo di Colon, che sotto molti aspetti era considerevolmente più intelligente della mente che si doveva
portare appresso, prese il sopravvento. Fece uso dell’impulso carico di adrenalina fornito dal cervello e saltò
di parecchi centimetri in aria, serrando bene i piedi in modo che le punte di ferro dei suoi stivali andassero a
colpire la botola insieme.
Il sudiciume di anni e il ferro arrugginito cedettero.
Colon passò attraverso. Per fortuna il suo corpo ebbe il buon senso di tapparsi il naso mentre colpiva il flusso
mefitico producendo un gloop.
Molta gente, quando precipita in acqua, smania per respirare. Il Sergente Colon smaniò per non farlo.
Quell’idea era troppo terribile per poterci anche solo pensare.
Arrivò a galla, sollevato in parte dai vari gas rilasciati dalla brodaglia. A circa un metro di distanza, la cande-
la sulla zattera beccheggiante di Arthur il Piccolo Matto cominciò a bruciare di una fiamma bluastra.
Qualcuno gli atterrò sull’elmetto scalciandolo come quando un uomo sprona il cavallo con gli speroni.
«A destra! Diritto!»
Un po’ camminando, un po’ nuotando, Colon arrancò lungo il fetido scolo. Il terrore gli conferiva forza. A-
vrebbe preteso un pagamento con gli interessi in seguito ma, per adesso, avanzava aprendosi una scia.
A cui occorrevano parecchi secondi per richiudersi.
Colon non si fermò finché un’improvvisa mancanza di pressione sopra la testa non gli disse che si trovava
all’aria aperta. Annaspò nell’oscurità. Trovò i paletti sudici di grasso di un pontile e ci si aggrappò, ansiman-
do.
«Cos’era quell’affare?» domandò Arthur il Piccolo Matto. «Un golem» gracchiò Colon.
Il sergente riuscì ad aggrapparsi alle assi, cercò di tirarsi su e ricadde nell’acqua.
«Ehi, mi sembra di avere sentito qualcosa!» esclamò Arthur il Piccolo Matto.
Il Sergente Colon schizzò fuori come un missile lanciato da un sottomarino e atterrò sul pontile, dove si acca-
sciò.
«No, era solo un uccellino» si corresse Arthur il Piccolo Matto.
«Come ti chiamano i tuoi amici, Arthur il Piccolo Matto?» bofonchiò Colon.
«Non so. Non ne ho».
«Caspita, che sorpresa».

***

Lord de Nobbes aveva ormai un sacco di amici. «Via dalla botola! Ti guarda il culo!» esclamò.
Si sentì uno scroscio di risate.
Nobby sogghignava allegramente in mezzo alla folla. Non riusciva a ricordare quando si fosse divertito così
tanto con tutti i vestiti addosso.
Nell’altro angolo del salotto di Lady Selachii si chiuse discretamente una porta e, nel confortevole salottino
per fumatori dietro di essa, delle persone anonime si sedettero in poltrone di pelle e si guardarono a vicenda
con espressione carica di aspettativa.
Alla fine uro disse: «È stupefacente. Davvero stupefacente. Quell’uomo ha proprio charisn’tma!»
«Come?»
«Voglio dire che è così orribile da affascinare la gente. Come le barzellette che stava raccontando... Hai nota-
to che la gente ha continuato a incoraggiarlo perché non riusciva a credere che qualcuno potesse raccontare
barzellette del genere in presenza di signore?»
«In effetti, mi è piaciuta quella dell’ometto che suonava la pianola...»
«E le sue maniere a tavola! Le avete notate?»
«No».
«Esattamente!»
«E l’odore, non dimenticare l’odore!»
«Non tanto cattivo quanto... strano».
«A dire il vero mi è sembrato che dopo qualche minuto il naso si chiuda da solo e poi...»
«Secondo me, in un modo stranissimo, attrae la gente». «Come una pubblica impiccagione».
Seguì un periodo di relativo silenzio.
«Uno stronzetto allegro, comunque, a modo suo». «Non troppo brillante, però».
«Dagli una pinta di birra e un piatto di quella robaccia con le unghie e pare felice come un maiale nel fango».
«Penso che sia un insulto».
«Mi spiace».
«Ho conosciuto dei maiali splendidi».
«Vero».
«Me lo vedo però a bere la sua birra e a mangiare piedini mentre firma proclami reali».
«Già, proprio così. Ehm. Pensi che sappia leggere?» «Ha importanza?»
Seguì dell’altro silenzio, carico del frenetico lavorio delle menti.
Qualcuno disse quindi: «Un’altra cosa... non dovremo preoccuparci di stabilire una successione reale che po-
trebbe risultare sconveniente».
«Perché dici così?»
«Te la vedi una principessa che se lo sposa?»
«Be’... è noto che bacino i ranocchi...»
«Ranocchi, però».
«... e, ovviamente, il potere e la regalità sono potenti afrodisiaci...»
«Quanto potenti, secondo te?»
Altro silenzio. Poi: «Probabilmente non così potenti». «Lui andrà benissimo».
«Splendido».
«Dragon ha fatto un buon lavoro. Suppongo non ci sia alcuna possibilità che quello stronzetto sia davvero un
conte, eh?»
«Non dire sciocchezze».

***

Felicia Culetto era seduta goffamente sull’alto sgabello posto dietro la scrivania. Non doveva far altro che
controllare le pattuglie che entravano e uscivano dal servizio quando cambiava il turno. Alcuni degli uomini
le lanciarono una strana occhiata ma non dissero nulla e lei stava cominciando a rilassarsi quando arrivarono
i quattro nani di pattuglia in Via del Re. La fissarono. Fissarono le sue orecchie.
I loro occhi migrarono verso il basso. Ad Ankh-Morpork non esisteva il concetto di pannello di copertura.
Tutto quello che era solitamente visibile sotto la scrivania era la parte inferiore del Sergente Colon. Del gran
numero di buone ragioni per schermare la parte inferiore del Sergente Colon dalla vista, il suo potenziale di
eccitare la libido non era fra le prime dieci.
«Quelli sono... abiti da donna, vero?» domandò incredulo uno dei nani.
Felicia deglutì. Ma perché proprio adesso? Aveva immaginato che ci sarebbe stata in giro Angua. La gente si
calmava sempre quando lei sorrideva, era davvero impressionante.
«Allora?» replicò con voce incerta. «Allora? Posso farlo, se voglio».
«E... sulle orecchie...»
«Ebbene?»
«Questo... mia madre non ha mai e poi mai... urgh... è disgustoso! In pubblico! Che succede se entrano dei
bambini?»
«Riesco a vederti le caviglie!» esclamò un altro nano.
«Parlerò di questo al Capitano Carota!» disse il terzo. «Mai pensato che avrei vissuto per assistere a una cosa
simile!»
Due dei nani partirono come razzi verso gli spogliatoi. Un altro si affrettò dietro di loro ma esitò una volta ar-
rivato all’altezza della scrivania. Lanciò a Felicia un’occhiata agitata.
«Ehm... ehm... belle caviglie, però» commentò e scappò via.
Il quarto nano aspettò finché gli altri non se ne furono andati e poi si avvicinò furtivamente.
Felicia tremava per il nervosismo. «Non dire niente delle mie gambe!» l’ammonì agitando un dito.
«Ehm...» Il nano si avvicinò ulteriormente, si guardò ancora attorno, questa volta in modo cospiratorio, e ab-
bassò la voce. «Ehm... potrei provarci anche io?»
Angua e Carota camminavano in silenzio attraverso la nebbia, se si eccettuavano le occasionali, brevi e con-
cise direzioni che indicava Angua.
A un certo punto lei si fermò. Fino a quel momento l’odore di Dorfl, o quanto meno l’odore di carne vecchia
e sterco aveva puntato quasi direttamente verso il quartiere del macello.
«Ha preso questo vicolo» disse lei. «Sta quasi tornando indietro. E... si stava muovendo in fretta... e... ci sono
un sacco di umani e di... salsicce?»
Carota cominciò a correre. Un sacco di gente e l’odore di salsicce erano sinonimo di una rappresentazione del
teatro di strada che era la vita di Ankh-Morpork.
C’era una folla un po’ più avanti lungo il vicolo. Si trovava chiaramente lì già da qualche tempo perché, in
fondo, c’era una figura familiare con un vassoio, che allungava il collo per vedere al di sopra delle teste degli
altri.
«Che sta succedendo, Signor Dibbler?» domandò Carota. «Oh, salve capitano. Hanno preso un golem».
«Chi?»
«Dei tizi. Hanno appena portato qui i martelli».
Davanti a Carota c’era una calca di gente. Lui serrò le mani e le inserì fra un paio di persone, quindi le spostò
di lato. Sbuffando e sgomitando, la folla si aprì come un corso d’acqua davanti a un profeta di alta classe.
Dorfl si trovava in trappola in fondo al vicolo. Tre uomini armati di martelli si stavano avvicinando con cau-
tela al golem, nel modo tipico da folla per cui nessuno voleva infliggere il primo colpo per paura che il se-
condo gli si ritorcesse direttamente contro.
Il golem indietreggiava rannicchiandosi e facendosi scudo con la lavagnetta su cui era scritto:
valgo 530 dollari..
«Soldi?» disse uno degli uomini. «È tutto ciò a cui pensate voi cosi!»
La lavagnetta andò in frantumi.
L’uomo cercò quindi di sollevare nuovamente il martello. Quando si accorse che non si muoveva fece quasi
una capriola all’indietro.
«I soldi sono tutto quello a cui si può pensare quando tutto ciò che si ha è un prezzo» osservò Carota pacata-
mente, sfilandogli il martello di mano. «Ma che pensa di fare, amico mio?»
«Non può fermarci!» si lagnò l’uomo. «Tutti sanno che non sono vivi!»
«Però posso arrestarvi per intenzionale danneggiamento della proprietà» replicò Carota.
«Uno di loro ha ucciso quel vecchio prete!»
«Come, scusi?» domandò Carota. «Se è soltanto una cosa, come può commettere un omicidio? Una spada è
una cosa...» estrasse la propria spada che produsse un suono quasi serico, «... e ovviamente lei non darebbe
mai la colpa a una spada se qualcuno la trafiggesse con essa, signore».
L’uomo incrociò gli occhi mentre cercava di mettere a fuoco la spada.
Ancora una volta, Angua provò uno strano senso di sconcerto. Carota non stava minacciando quell’uomo.
Non lo stava minacciando. Stava soltanto usando la spada per dimostrare un... concetto. Tutto qui. Sarebbe
rimasto piuttosto sbalordito nello scoprire che non tutti interpretavano così la cosa.
Una parte di lei disse: una persona deve essere decisamente molto complessa per essere semplice come Ca-
rota.
L’uomo deglutì.
«Ottima spiegazione» disse.
«Già, ma... non ci si può fidare di loro» esclamò l’altro col martello. «Ti si avvicinano di soppiatto e non di-
cono mai niente. Che hanno in mente, eh?»
Dette un calcio a Dorfl. Il golem barcollò leggermente. «Be’» rispose Carota. «È esattamente quello che sto
cercando di scoprire. Nel frattempo, devo chiedervi di andare ognuno per la propria strada...»
Il terzo demolitore era arrivato solo di recente in città e si stava attenendo alla propria idea perché ci sono
persone che sono fatte così.
Alzò il martello in atteggiamento di sfida e aprì la bocca per dire ‘Ah, sì?’ ma si bloccò, perché proprio vici-
no all’orecchio sentì un latrato. Era piuttosto basso e debole, ma aveva una sorta di lunghezza d’onda che
puntò diritto a un pezzettino di midollo spinale dove schiacciò un antico pulsante etichettato Terrore Ance-
strale.
Si voltò. Un’attraente guardia alle sue spalle gli fece un sorriso amichevole. O meglio, la bocca di lei si alzò
agli angoli mostrando tutti i denti.
Lui si fece cadere il martello su un piede.
«Ben fatto» esclamò Carota. «Ho sempre detto che si ottiene molto di più con una parola gentile e un sorri-
so».
La folla lo guardò con l’espressione tipica della gente che guardava Carota, ovvero la sconvolgente consape-
volezza che lui credeva davvero a ciò che stava dicendo. La mera enormità di questo fatto tendeva a lasciare
tutti senza fiato.
I tre indietreggiarono e scapparono via dal vicolo.
Carota si avvicinò al golem che era caduto in ginocchio e stava cercando di rimettere in sesto la propria lava-
gnetta.
«Vieni, Dorfl» gli disse. «Ti accompagniamo noi per il resto della strada».

***

«È matto?» esclamò il Signor Pugno cercando di chiudere la porta. «Pensa che rivoglia indietro
quell’affare?»
«È di sua proprietà» replicò Carota. «Della gente ha cercato di distruggerlo».
«Glielo avrebbe dovuto lasciar fare» sentenziò il macellaio. «Non ha sentito le storie che ci sono in giro? Non
voglio uno del genere sotto il mio tetto!»
Cercò di sbattere nuovamente la porta, ma in mezzo c’era il piede di Carota.
«Allora temo che lei stia commettendo un reato» spiegò Carota.. «Per la precisione abbandono di rifiuti».
«Oh, sia serio!».
«Lo sono sempre» rispose Carota.
«Lo è sempre» confermò Angua.
Pugno agitò freneticamente le mani. «Se ne può anche andare via. Sciò! Non voglio un assassino a lavorare
nel mio macello! Prendetevelo voi se vi piace tanto!»
Carota serrò le mani sulla porta e la spalancò. Pugno fece un passo indietro.
«Sta cercando di corrompere un pubblico ufficiale, Signor Pugno?»
«Ma è pazzo?»
«Sono sempre savio» disse Carota.
«Lo è sempre» sospirò Angua.
«Alle Guardie non è concesso accettare regali» spiegò Carota. Si guardò attorno e vide Dorfl, in piedi per la
strada, desolato. «Però glielo comprerò. Per un prezzo onesto».
Pugno fece passare lo sguardo da Carota al golem e viceversa. «Comperarlo? Per soldi?»
«Sì».
Il macellaio scrollò le spalle. Quando la gente ti offriva dei soldi non era il momento di mettere in discussio-
ne la sua sanità mentale. «Be’, è tutta un’altra cosa» ammise. «Valeva 530 dollari quando l’ho comperato ma,
ovviamente, adesso ha delle abilità in più...»
Angua latrò. Era stata una serata pesante e l’odore della carne fresca le faceva vibrare tutti i sensi. «Era pron-
to a darlo via un momento fa!»
«Be’, darlo, sì, ma gli affari sono affa...»
«Le pagherò un dollaro» disse Carota.
«Un dollaro? Ma è un vero e proprio fur...»
La mano di Angua schizzò in avanti e lo afferrò per il collo. Lei riusciva a sentirne le vene, a sentire l’odore
di sangue paura.... Cercò di pensare ai cavoli.
«È notte» latrò.
Come l’uomo nel vicolo, Pugno sentì il richiamo del selvatico. «Un dollaro» gracchiò. «Bene. Prezzo onesto.
Un dollaro».
Carota ne tirò fuori uno. Agitò quindi il taccuino.
«È molto importante avere una ricevuta» disse. «Un trasferimento legale di proprietà».
«Bene. Bene. Bene. Sarà un piacere farla».
Pugno lanciò un’occhiata disperata ad Angua. Non sapeva perché ma il sorriso di lei aveva qualcosa che non
andava. Scribacchiò qualche riga in tutta fretta.
Carota guardò da sopra la sua spalla.
Io Gerhardt Pugno do al portantino piena e totale propprietà del golem Dorfl in escambio per Uno Dollaro
e tutto quello che quello fa adesso è sua responsibilità e io non ci ho niente a che farci.
Formato, Gerhardt Pugno
«Formulazione interessante, ma sembra legale, no?» osservò Carota prendendo il pezzo di carta. «Grazie mil-
le, Signor Pugno. Una soluzione positiva per tutti, direi».
«Tutto qui? Posso andare, adesso?»
«Certamente e...»
La porta si chiuse sbattendo.
«Oh, ben fatto» commentò Angua. «Così adesso sei proprietario di un golem. Sai che tutto quello che fa sarà
responsabilità tua?»
«Se è così, perché la gente distrugge loro?»
«Per che cosa lo utilizzerai?»
Carota guardò pensieroso Dorfl che stava fissando il terreno.
«Dorfl?»
Il golem sollevò lo sguardo.
«Questa è la tua ricevuta. Non devi avere un padrone». Il golem prese il pezzetto di carta fra due grosse dita.
«Significa che appartieni a te» spiegò Carota incoraggiante. «Sei proprietario di te stesso».
Dorfl alzò le spalle.
«Che ti aspettavi?» domandò Angua. «Che si mettesse a sventolare una bandiera?»
«Non penso che capisca» disse Carota. «È difficilissimo fare entrare delle idee nella testa della gente...» si
bloccò di colpo.
Carota prese il pezzo di carta dalle dita di Dorfl che non opposero resistenza. «Immagino potrebbe funziona-
re» disse. «Mi pare un po’... invasivo. Ma ciò che capiscono, dopotutto, sono le parole...»
Allungò una mano, aprì la scatola cranica di Dorfl e fece cadere dentro il foglietto.
Il golem strizzò gli occhi. Cioè i suoi occhi si spensero e poi si riaccesero. Alzò molto lentamente una mano e
si dette una piccola pacca in cima alla testa. Sollevò quindi l’altra e la rivoltò da una parte e dall’altra, come
se non avesse mai visto una mano prima di allora. Si guardò i piedi e guardò attorno gli edifici avvolti nella
nebbia. Guardò Carota. Guardò le nuvole al di sopra della strada. Guardò nuovamente Carota.
Poi, molto lentamente, senza piegarsi in alcun modo, cadde all’indietro e colpì l’acciottolato con un tonfo. La
luce gli scomparve dagli occhi.
«Ecco» commentò Angua. «Adesso si è rotto. Possiamo andare?»
«C’è ancora un minuscolo bagliore» osservò Carota. «Deve essere stato troppo per lui. Non possiamo lasciar-
lo qui. Forse se togliessi la ricevuta...»
Si inginocchiò presso il golem e allungò la mano verso lo sportellino della sua testa.
La mano di Dorfl si mosse così velocemente che non sembrò nemmeno muoversi. Fu semplicemente lì a
bloccare il polso di Carota.
«Oh» commentò Carota, ritirando delicatamente il braccio. «Ovviamente sta... meglio».
«Thsssss» disse Dorfl. La voce del golem fremette nella nebbia.
I golem avevano una bocca. Faceva parte del design. Questa però era aperta e rivelava una sottile linea di lu-
ce rossa.
«Oh, santo cielo!» esclamò Angua indietreggiando. «Ma loro non possono parlare!»
«Thsss!» Era meno una sillaba che non il sibilo di una fuoriuscita di vapore.
«Ti troverò un pezzo di lavagna...» cominciò a dire Carota guardandosi attorno tutto agitato.
«Thsss!»
Dorfl arrancò in piedi, lo spinse delicatamente da una parte e se ne andò.
«Sei contento adesso?» gli domandò Angua. «Io non ho intenzione di seguire quell’orrido coso! Forse andrà
a buttarsi nel fiume!»
Carota corse per qualche passo dietro alla figura ma poi si fermò e tornò indietro.
«Perché li odi tanto?» domandò ad Angua.
«Non puoi capire. Sono sicura che non capiresti» rispose lei. «È una... cosa inanimata. Loro... in qualche mo-
do ti sbattono in faccia il fatto che tu non sei umano».
«Ma tu sei umana!»
«Tre settimane su quattro. Non capisci che, quando devi stare attenta in continuazione, è orribile vedere delle
cose come quelle che vengono accettate? Non sono nemmeno vive. Ma possono camminare per strada e non
sentono mai gente che si scambia osservazioni su aglio o argento... quanto meno finora è stato così. Sono so-
lo macchine per svolgere lavori!»
«È di certo il modo in cui vengono trattati» osservò Carota.
«Sei di nuovo ragionevole!» replicò secca Angua. «Stai deliberatamente prendendo in considerazione il pun-
to di vista di tutti! Ma non puoi cercare di essere ingiusto almeno per una volta?»

***
Nobby era stato lasciato da solo per un momento mentre la festa continuava attorno a lui, quindi aveva cac-
ciato qualche cameriere dal buffet con una gomitata e stava attualmente grattando il fondo di una ciotola con
il coltello.
«Oh, Lord de Nobbes» disse una voce alle sue spalle. Si voltò. «Eccomi» rispose leccando il coltello e pulen-
dolo poi sulla tovaglia.
«Ha da fare, milord?»
«Mi stavo facendo un panino con questa pasta di carne» disse Nobby.
«È pâté de foie gras, milord».
«La chiamano così? Non ha certo il gusto del Manzo Spalmabile di Cozza, è chiaro. Vuole un uovo di qua-
glia? Sono un po’ piccoli».
«No, grazie...»
«Ce ne sono un sacco» insistette generosamente Nobby. «Sono gratis. Non deve pagarli».
«Non cambia...»
«Posso mettermene in bocca sei alla volta. Guardi...»
«Impressionante, milord. Mi chiedevo, tuttavia, se non gradisse unirsi ad alcuni di noi nel salottino dei fuma-
tori».
«Hghmf? Mfgmf fgmf mgghjf?»
«Esattamente». Un braccio amichevole si appoggiò sulle spalle di Nobby ed egli venne condotto via dal
buffet, non prima che avesse avuto tuttavia l’occasione di afferrare un piatto di cosce di pollo. «C’è un sacco
di gente che vuole parlare con lei...»
«Mgffmph?»

***

Il Sergente Colon cercò di ripulirsi, ma cercare di ripulirsi con l’acqua dell’Ankh rappresentava
un’operazione complessa. Il massimo che si poteva sperare di ottenere era un grigio uniforme.
Fred Colon non aveva raggiunto il sofisticato livello di disperazione di Vimes. Vimes era convinto che la vita
fosse così Piena di cose che accadevano erraticamente in ogni direzione che la possibilità che alcune di esse
avessero un senso rilevante era estremamente remota. Colon, essendo di natura più ottimista e di intelletto
decisamente più lento, si trovava ancora nello stadio ‘Gli Indizi sono Importanti’.
Perché era stato legato con una cordicella? Ne aveva ancora dei giri attorno alle braccia e alle gambe.
«Sicuro di non sapere dov’ero?» domandò.
«Sei stato tu a entrare in quel posto» commentò Arthur il Piccolo Matto, trotterellandogli accanto. «Come fai
a non saperlo?»
«Perché era scuro e nebbioso e io non stavo molto attento, ecco perché. Stavo solo scherzando».
«Aha, bella questa!»
«Non rompere. Dov’ero?»
«Non chiederlo a me» rispose Arthur il Piccolo Matto. «Io vado a caccia solo sotto l’intera zona del mercato
del bestiame. Non mi interessa che cosa c’è sopra. Come ho già detto, quei corsi d’acqua scorrono dappertut-
to».
«C’è qualcuno lì che fabbrica cordicelle?»
«È tutta roba ricavata da animali, a quanto ne so. Salsicce, sapone e roba del genere. Siamo arrivati al mo-
mento in cui mi dai i soldi?»
Colon si tastò le tasche: fecero cic ciac.
«Dovrai venire al Posto di Guardia, Arthur il Piccolo Matto».
«Ho degli affari da sbrigare qui!»
«Ti assumerò come Guardia Speciale per la nottata» disse Colon.
«Quant’è la paga?»
Un dollaro a notte».
Gli occhietti di Arthur il Piccolo Matto scintillarono. Scintillarono di rosso.
«Dio, hai un aspetto orrendo» commentò Colon. «Perché mi guardi l’orecchio?»
Arthur il Piccolo Matto non disse nulla.
Colon si voltò.
Alle sue spalle si trovava un golem. Era più alto di qualsiasi altro avesse mai visto prima e molto meglio pro-
porzionato... una statua umana piuttosto che la sagoma goffa dei soliti golem. Era anche bello, nel tipico mo-
do freddo in cui è bella una statua. I suoi occhi rilucevano come riflettori rossi.
Sollevò un pugno al di sopra della testa e aprì la bocca. Uscì dell’altra luce rossa.
Gridò come un toro.
Arthur il Piccolo Matto dette un calcio a Colon sulla caviglia.
«Corriamo o che?» domandò.
Colon indietreggiò, continuando a fissare quella cosa.
«È... tutto a posto, non possono muoversi in fretta...» bofonchiò. A quel punto il suo corpo sensato prese il
sopravvento sullo stupido cervello e gli fece partire a razzo le gambe, portandolo a ruotare di scatto e proiet-
tandolo verso la direzione opposta.
Arrischiò di lanciarsi un’occhiata alle spalle. Il golem correva dietro di lui con passi lunghi e disinvolti.
Arthur il Piccolo Matto lo raggiunse.
Colon era abituato a procedere con flemma. Non era fatto per le alte velocità e lo disse. «Tu non riesci di cer-
to a correre più veloce di quell’affare!» ansimò.
«Mi basta riuscire a correre più forte di te» replicò Arthur il Piccolo Matto. «Da questa parte!»
C’era una rampa di scale in legno attaccata al fianco di un magazzino. Lo gnomo vi salì sopra come i ratti cui
dava la caccia. Colon, ansimando come una vaporiera, lo seguì.
Si fermò a metà strada e si guardò attorno.
Il golem raggiunse il primo gradino. Lo studiò accuratamente. Il legno cigolò e l’intera rampa, grigiastra per
l’età, tremò.
«Non ne sopporterà il peso!» esclamò Arthur il Piccolo Matto. «Quel maledetto la spaccherà! È sicuro!»
Il golem avanzò di un altro gradino. Il legno gemette. Colon si riprese e cominciò a correre su per le scale.
Alle sue spalle, il golem sembrò avere stabilito che il legno avrebbe sopportato il suo peso, e cominciò a bal-
zare di gradino in gradino. La ringhiera sotto le mani di Colon tremò violentemente e l’intera struttura trabal-
lò.
«Vieni, dai!» gridò Arthur il Piccolo Matto che era già arrivato in cima. «Ti sta raggiungendo!»
Il golem fece un balzo in avanti. Le scale cedettero. Colon tese le braccia e afferrò il margine del tetto. A quel
punto il suo corpo picchiò contro il lato dell’edificio.
Si sentì il distante rumore di legno che sbatte sui ciottoli. «Andiamo, adesso» disse Arthur il Piccolo Matto.
«Tirati su, brutto scemo!»
«Non posso» rispose Colon.
«Perché no?»
«Mi sta attaccato a un piede...»

***

«Un sigaro, sua signoria?»


«Brandy, milord?»
Lord de Nobbes era comodamente seduto in poltrona. I piedi toccavano terra a malapena. Brandy e sigari,
eh? Quella sì era vita. Aspirò una bella boccata di fumo.
«Stavamo parlando, milord, del futuro governatore della città, ora che la salute del povero Lord Vetinari è
così malridotta...»
Nobby annuì. Era quello il genere di argomento di cui si parlava quando si era nobili. Era nato per quello.
Il brandy gli stava dando una piacevole sensazione di calore.
«Sconvolgerebbe di certo l’equilibrio attuale se cercassimo un nuovo Patrizio a questo punto» osservò
un’altra poltrona. «Che ne pensa lei, Lord de Nobbes?»
«Oh, sì. Certo. Le Gilde litigherebbero come gatti in un sacco» commentò Nobby. «Lo sanno tutti».
«Un sunto magistrale, se posso permettermi».
Si udì un generale mormorio di assensi provenire dalle altre poltrone.
Nobby sogghignò. Oh, sì. Quella era indubbiamente una sciccheria. Fare lo snobbone in mezzo ai colleghi
nobili, parlare di cose importanti invece di dover inventare delle scuse per giustificare il fatto che la lattina
del tè coi soldi era vuota, oh, sì.
Una poltrona disse: «Ci sono poi dei capi di Gilda che sarebbero all’altezza del compito? Oh, sono in grado
di organizzare un branco di commercianti, ma governare un’intera città... non penso proprio. Signori miei,
forse è arrivato il momento per dare una svolta. Forse è arrivato il momento che il sangue si manifesti».
Strano modo di metterla, pensò Nobby, ma chiaramente quello era il modo in cui si era tenuti a parlare.
«In un momento come questo» suggerì una poltrona, «la città cercherà sicuramente i rappresentanti delle sue
più venerabili famiglie. Sarebbe nell’interesse di noi tutti se uno di essi si assumesse un tale fardello».
«Dovrebbero fargli esaminare il cervello, se volete la mia opinione» commentò Nobby. Prese un’altra sorsata
di brandy e agitò il sigaro in modo disinvolto.
«E comunque non c’è da preoccuparsi» concluse. «Tutti sanno che abbiamo un re in giro. Non c’è problema.
Mandate a chiamare il Capitano Carota, se volete un consiglio».

***

Un’altra serata si ripiegò sulla città in strati di nebbia. Quando Carota tornò al Posto di Guardia il Caporale
Culetto gli fece una faccia strana e indicò, con un guizzo degli occhi, le tre persone sedute con espressione
grave su una panca contro la parete.
«Vogliono vedere un ufficiale!» sibilò lei. «Il Sergente Colon però non è ancora tornato e io ho bussato alla
porta del Comandante Vimes e non penso ci sia».
Carota ricompose i propri lineamenti in un sorriso ospitale.
«Signora Palm» disse. «È il Signor Boggis... e il Dottor Downey. Mi dispiace davvero. Al momento siamo
piuttosto tirati, con la storia dell’avvelenamento e la faccenda dei golem...»
Il capo della Gilda degli Assassini gli sorrise, ma solo con le labbra. «È proprio dell’avvelenamento che vo-
gliamo parlare» spiegò. «C’è un posto un po’ più appartato?»
«Be’, c’è la mensa» rispose Carota. «A quest’ora della notte sarà deserta. Se volete seguirmi da questa par-
te...»
«Vi trattate bene qui, devo dire» osservò la Signora Palm. «Una mensa...»
Si fermò mentre superava l’arco della porta.
«Ma c’è gente che mangia qui?» domandò.
«Be’, soprattutto si lamenta del caffè» rispose Carota. «E scrive rapporti. Il Comandante Vimes ci tiene mol-
to ai rapporti».
«Capitano Carota» disse il Dottor Downey con fermezza, «dobbiamo parlarle di una grave questione riguar-
dante... Su cosa mi sono seduto?»
Carota ripulì in fretta una sedia. «Mi spiace, signore, non abbiamo molto tempo per le pulizie...
«Lasci perdere, adesso, lasci perdere».
Il capo della Gilda degli Assassini si sporse in avanti con le mani strette insieme.
«Capitano Carota, siamo qui per discutere della terribile faccenda dell’avvelenamento di Lord Vetinari».
«Dovreste proprio parlarne col Comandante Vimes...»
«Credo che in un gran numero di occasioni il Comandante Vimes abbia fatto con lei commenti sprezzanti su
Lord Vetinari» osservò il Dottor Downey.
«Vuole dire del tipo Dovrebbe venire impiccato solo che non si troverà mai una corda abbastanza robusta’?»
domandò Carota. «Oh, sì, ma lo fanno tutti».
«Lei lo fa?»
«Be’, no» ammise Carota.
«E credo che si stia occupando personalmente dell’indagine riguardante l’avvelenamento, vero?»
«Be’, sì. Ma...»
«Non ha pensato fosse strano?»
«No, signore. Non quando ci ho pensato. Io ritengo che lui abbia una specie di debole per il Patrizio, a suo
modo. Una volta ha detto che se qualcuno avesse mai ucciso Lord Vetinari gli sarebbe piaciuto essere lui».
«Davvero?»
«Ma stava sorridendo mentre lo diceva. Più o meno». «Lui, ehm, fa visita a sua signoria quasi tutti i giorni,
mi è sembrato di capire?
Sì, signore».
«E mi pare che i suoi sforzi di trovare l’avvelenatore non siano stati coronati da alcun successo, vero?»
«Al momento no, signore» ammise Carota. «Abbiamo trovato un sacco di modi in cui il Patrizio non è stato
avvelenato».
Downey fece un cenno di assenso agli altri con la testa. «Ci piacerebbe ispezionare l’ufficio del Comandan-
te» disse.
«Non penso che sia...» cominciò a dire Carota.
«La prego di riflettere attentamente» lo interruppe il Dottor Downey. «Noi tre rappresentiamo il grosso delle
Gilde di questa città. Riteniamo di avere un ottimo motivo per ispezionare l’ufficio del Comandante. Ovvia-
mente lei ci accompagnerà per controllare che non facciamo niente di illegale».
Carota apparve perplesso. «Immagino che... se ci sono io con voi...» ammise.
«Esattamente» commentò Downey. «Renderà la cosa ufficiale».
Carota fece strada. «Non so nemmeno se sia rientrato» osservò aprendo la porta. «Come ho detto, quando so-
no stato... oh!»
Downey sbirciò oltre lui e vide la figura accasciata sulla scrivania.
«Pare proprio che Sir Samuel sia in ufficio» disse. «Ma che sia anche decisamente fuori».
«Riesco a sentire l’odore dell’alcool da qui» commentò la Signora Palm. «È terribile cosa può fare l’alcool a
un uomo».
«Un’intera bottiglia del miglior Abbracciaorso» osservò il Signor Boggis. «Per qualcuno va benone».
«Ma non ha toccato una goccia per tutto l’anno!» esclamò Carota, scuotendo il supino Vimes. «Frequenta
riunioni al riguardo e tutto il resto!»
«Vediamo un po’...» disse Downey.
Aprì uno dei cassetti della scrivania.
«Capitano Carota?» osservò. «Può essere testimone del fatto che qui sembra esserci un sacchetto di polvere
grigiastra? Adesso io...»
La mano di Vimes partì di scatto e chiuse il cassetto con dentro le dita dell’uomo. Il suo gomito si infilzò nel-
lo stomaco dell’assassino e, mentre il mento di Downey si abbassava, l’avambraccio di Vimes schizzò in alto
e lo colpì in pieno sul naso.
A quel punto Vimes aprì gli occhi.
«Cosa c’è? Cosa c’è?» esclamò sollevando la testa. «Dottor Downey? Signor Boggis? Carota? Uhmmm?»
«Coffa? Cofa?» gridò Downey. «Mfi ha cofpito!»
«Oh, mi spiace tanto» replicò Vimes, con la preoccupazione che gli irradiava dai lineamenti mentre tirava in-
dietro la sedia contro il pube di Downey e si alzava. «Temo di essermi addormentato e, ovviamente, quando
mi sono svegliato e ho trovato qualcuno che frugava nel mio...»
«Lei ha bevuto, amico!» esclamò il Signor Boggis. Il volto di Vimes si irrigidì.
«Davvero? Trentatré trentini andarono tutti e trentatré a Trento trotterellando» latrò pungolando l’uomo sul
petto. «Trentatré maledetti trentini andarono tutti maledettamente e trentatré a Trento trotterellando. Vuole
che continui?» disse, continuando a spingere l’uomo finché quello non si trovò con le spalle al muro. «Non si
può dire molto meglio!»
«È quefto pacchetto?» gridò Downey, prendendosi con una mano il naso che colava e agitando l’altra in dire-
zione della scrivania.
Vimes sfoggiava ancora il suo sogghigno a occhi sbarrati e per niente divertiti. «Oh, be’, sì» ammise. «Mi
avete beccato. Una sostanza altamente pericolosa» .
«Oh, lo ammette!»
«Sì, certo. Immagino di non avere altra scelta che sbarazzarmi della prova...» Vimes afferrò il pacchetto, lo
aprì e si versò gran parte della polvere in bocca.
«Mmmm, mmmm» disse, con la polvere che spruzzava da tutte le partì mentre lui masticava. «Sento un pizzi-
corino sulla lingua!»
«Ma quello è arsenico» disse Boggis.
«Santo cielo, davvero?» domandò Vimes, deglutendo. «Stupefacente! Io ho quel nanetto al piano di sotto, sa-
pete, un tipetto in gamba, che passa tutto il tempo fra provette, sostanze chimiche e altra roba per riuscire a
scoprire cosa è arsenico e cosa non lo è e lei invece è in grado di individuarlo soltanto guardandolo! Dovrei
passare il lavoro a lei!»
Fece cadere il pacchetto strappato in mano a Boggis, ma il ladro fece un balzo indietro e il pacchetto piombò
a terra, disperdendo il proprio contenuto.
«Mi scusi» disse Carota. Si inginocchiò e scrutò la polvere.
È credenza tradizionale dei poliziotti di poter capire che cosa sia una sostanza annusandola e poi assaggian-
dola con circospezione, ma questa pratica era cessata nella Guardia da quando l’Agente Selce aveva infilato
un dito in una partita di cloruro di ammonio tagliato con il radio del mercato nero, aveva detto «Sì è decisa-
mente lastra, gurgle, gurgle» e aveva dovuto passare tre giorni legato a un letto finché non aveva smesso di
vedere ragnioso!
Nonostante» tutto Carota disse: «Sono certo che non è veleno» si leccò le dita per provarne un po’.
«È’ zucchero» aggiunse.
Downey, la sua compostezza severamente compromessa, agitò un dito contro Vimes. «Ha ammesso lei che
era pericoloso!» gridò.
«Giusto! Ne prenda troppo e vedrà che risultati sui denti!» urlò Vimes. «Ma cosa pensavate che fosse?»
«Avevamo delle informazioni...» cominciò a dire Boggis.
«Oh, avevate ricevuto informazioni, vero?» ripeté Vimes. «Sentito, capitano? Avevano ricevuto informazio-
ni. Allora va bene!»
«Abbiamo agito in buona fede» replicò Boggis.
«Vediamo un po’» disse Vimes. «Le vostre informazioni erano forse del tipo: Vimes è ubriaco fradicio al Po-
sto di Guardia e ha un sacchetto di arsenico nella scrivania? E scommetto che eravate intenzionati ad agire in
buona fede, eh?»
La Signora Palm si schiarì la voce. «Adesso basta. Ha ragione, Sir Samuel» ammise. «Ci è stato mandato un
biglietto». Consegnò a Vimes un pezzo di carta. Era stato scritto tutto in maiuscole. «Vedo anche che siamo
stati male informati» aggiunse, lanciando un’occhiata truce a Boggis e Downey. «Mi permetta di porgerle le
mie scuse. Andiamo, signori».
Uscì dalla porta. Boggis la seguì in fretta.
Downey si tamponava ancora il naso. «Qual è la taglia della Gilda per la sua testa, Sir Samuel?» domandò.
«Ventimila dollari».
«Davvero? Penso che dovremo decisamente farla salire nel listino».
«Lietissimo. Dovrò comperare una nuova trappola per orsi».
«Ehm, vi accompagno alla porta» disse Carota.
Quando fu tornato, in tutta fretta, trovò Vimes che si sporgeva dalla finestra e tastava la parete sotto di essa.
«Nemmeno un mattone smosso» bofonchiò Vimes. «Nemmeno una tegola spostata... e l’ufficio davanti è sta-
to occupato per tutto il giorno. Strano».
Scrollò le spalle e tornò alla propria scrivania, dove prese in mano il biglietto.
«E non penso proprio che troveremo indizi su questo» commentò. «Troppe impronte unte da tutte le partì».
Appoggiò il pezzo di carta e lanciò un’occhiataccia a Carota. «Quando troveremo l’uomo responsabile di
ciò» disse, «in cima alla lista delle accuse metteremo ‘Avere Costretto il Comandante Vimes a Versare una
Intera Bottiglia di Single Malt sul Tappeto’. È un capo d’imputazione da impiccagione», Rabbrividì. C’erano
delle cose che un uomo non avreb- be mai dovuto fare.
«È’ disgustoso!» esclamò Carota. «Il fatto che abbiano anche solo pensato che lei potesse aver avvelenato il
Patrizio!»
«Sono offeso che abbiano pensato che fossi tanto scemo da tenere il veleno nel cassetto della scrivania»
commentò Vimes accendendosi un sigaro.
«Giusto» osservò Carota. «Pensavano forse che lei fosse tanto stupido da tenere una prova del genere dove
tutti potevano trovarla?»
«Esattamente» disse Vimes appoggiandosi allo schienale. «Ecco perché l’ho messa in tasca».
Appoggiò i piedi sulla scrivania ed esalò una boccata di fumo. Si sarebbe dovuto liberare del tappeto. Non
avrebbe di certo passato il resto della vita a lavorare in una stanza infestata dall’odore di spirito dipartito.
Carota era ancora a bocca aperta.
«Oh, santo cielo» esclamò Vimes. «È abbastanza semplice, amico mio. Si aspettavano che dicessi ‘Finalmen-
te alcool!’ e mi scolassi tutto senza pensare. Poi qualche rispettabile pilastro della comunità...» si tolse di
bocca il sigaro e sputò, «... mi avrebbe colto, oltre tutto in sua presenza, capitano... tocco geniale... con la
prova del mio crimine accuratamente nascosta ma non così ben nascosta da non potere essere trovata». Scos-
se tristemente la testa. «Il problema è che una volta che hai preso il vizio non lo lasci più».
«Ma lei è stato molto bravo, signore» replicò Carota. «Non le ho visto toccare una goccia da...»
«Oh, quello» disse Vimes. «Stavo parlando del fiuto da poliziotto, non dell’alcool. Ci sono un sacco di per-
sone che possono aiutarti con il problema dell’alcool, ma non c’è nessuno che organizza delle belle riunion-
cine in cui puoi alzarti e dire ‘Mi chiamo Sam e sono davvero un bastardo sospettoso’»
Tirò fuori dalla tasca un sacchettino di carta. «Questo lo faremo esaminare da Culetto» disse. «Io non lo avrei
assaggiato di sicuro. Sono sceso quindi in mensa e ho riempito un sacchetto con lo zucchero della zuccherie-
ra. C’è voluto solo un momento per ripescare tutte le cicche di Nobby, dovrei aggiungere». Aprì la porta, fece
sporgere la testa nel corridoio e strillò: «Culetto!» A Carota disse quindi: «Sa, mi sento abbastanza rinvigori-
to. Il vecchio cervello ha finalmente ricominciato a funzionare. Sa il golem che ha ucciso quelle persone?»
Sì, signore?»
«Oh, ma sa che cosa aveva di speciale?»
«Non saprei, signore» rispose Carota, «eccetto che era un golem nuovo. I golem lo avevano fatto loro stessi,
penso. Ovviamente, avevano però bisogno di un sacerdote per le parole e hanno dovuto chiedere in prestito il
forno al Signor Hopkinson. Immagino che entrambi i vecchi abbiano trovato la cosa interessante. Dopotutto
erano due storici».
Fu il turno di Vimes di restare a bocca aperta.
Alla fine riprese il controllo di sé. «Sì, sì, certo» confermò, con voce appena vibrante. «Sì, voglio dire, questo
è ovvio. Chiaro come il sole. Ma... ehm, ha capito che cos’altro aveva di speciale?» aggiunse, cercando di e-
liminare qualsiasi traccia di speranza dalla voce.
«Si riferisce al fatto che è impazzito, signore?»
«Be’, non mi è proprio sembrato il Vincitore del Premio Genio dell’Anno di Ankh-Morpork!» esclamò Vi-
mes.
«Io penso che l’abbiano fatto impazzire loro, signore. Gli altri golem. Non volevano farlo, ma era insito, si-
gnore. Volevano che facesse così tante cose. Era loro... figlio, direi. Tutte le loro speranze e i loro sogni.
Quando hanno scoperto che aveva ucciso delle persone... be’, è un fatto terribile per un golem. Non devono
uccidere e quello che lo stava facendo era la loro stessa argilla...»
«Non è una grande idea nemmeno per le persone». «Ma loro gli avevano affidato tutto il loro futuro...» «Mi
ha chiamato, comandante?» domandò Felicia. «Oh, sì. Questo è arsenico?» domandò Vimes consegnandole il
pacchetto.
Felicia l’annusò. «Potrebbe essere acido arsenico, signore. Ovviamente lo devo esaminare».
«Pensavo che gli acidi sciaguattassero nei vasi» osservò Vimes. «Ehm... che cos’ha sulle mani?»
«Smalto per unghie, signore».
«Smalto per unghie?»
«Sì, signore».
«Ehm... bene, bene. Buffo. Pensavo fosse verde». «Non starebbe bene sulle mani, signore».
«Parlavo dell’arsenico, Culetto».
«Oh, l’arsenico si può ottenere di ogni colore, signore. I solfuri... cioè i minerali, signore... possono essere
rossi, marroni, gialli o grigi, signore. Poi li si mischia con il salnitro e viene fuori l’acido arsenico, signore. E
un sacco di fumi dannosi, davvero terribili».
«Roba pericolosa» commentò Vimes.
«Niente di buono, signore. Ma molto utile, signore» spiegò Felicia. «Conciatori, tintori, pittori... Non solo gli
avvelenatori utilizzano l’arsenico».
«Mi sorprende che la gente non muoia come mosche in continuazione» osservò Vimes.
«Oh, la maggior parte di loro usa i golem, signore...» Le parole restarono nell’aria anche dopo che Felicia
ebbe finito di parlare.
Vimes incrociò lo sguardo di Carota e cominciò a fischiare raucamente fra sé. Ci siamo, pensò. Questo è il
punto in cui ci siamo riempiti di così tante domande che quelle stanno cominciando a traboccare e a diven-
tare risposte.
Si sentì più vivo di quanto non si sentisse da giorni. La recente eccitazione gli stuzzicava ancora le vene, ria-
nimando il suo cesello. Era la scintilla che derivava dall’esaurimento, lo sapeva. Eri così stanco fino al midol-
lo che una scarica di adrenalina ti colpiva come un troll in caduta. Adesso dovevano avere tutto. Tutti i pezzi.
Il bordo, gli angoli, l’intero quadro. Era tutto lì che aspettava soltanto di essere messo insieme...
«Quei golem» disse Carota. «Saranno ricoperti di arsenico, no?»
«Potrebbe essere, signore. Ne ho visto uno nell’edificio della Gilda degli Alchimisti a Quirm e, caspita, aveva
l’arsenico che gli laminava le mani, visto che mescolava i crogioli con le dita...»
«Non avvertono il calore» disse Vimes.
«Nemmeno il dolore» aggiunse Carota.
«È vero» confermò Felicia. Guardò con atteggiamento incerto prima l’uno poi l’altro.
«Non li si può avvelenare» osservò Vimes.
«E obbediranno sempre agli ordini» terminò Carota. «Senza dire una parola».
«I golem fanno tutti i lavori più sporchi» disse Vimes. «Avresti anche potuto dirlo prima, Felicia» osservò
Carota. «Be’, sa, signore... i golem sono semplicemente lì. Nessuno li nota».
«Grasso sotto le unghie» disse Vimes, alla stanza in generale. «Il vecchio ha graffiato il suo assassino. Gli è
rimasto del grasso sotto le unghie. Con dentro l’arsenico».
Abbassò lo sguardo sul taccuino che stava ancora sulla scrivania. È tutto lì, pensò. Qualcosa che non abbia-
mo visto. Abbiamo visto la risposta ma non ci siamo accorti che è la risposta. E se non la vediamo adesso,
non la vedremo affatto...
«Senza offesa, signore, ma probabilmente non sarà un grande aiuto» disse la voce di Felicia da qualche parte,
in lontananza. «Moltissimi dei mestieri in cui si usa l’arsenico prevedono anche l’uso di un qualche grasso».
Qualcosa che non vediamo, pensò Vimes. Qualcosa di invisibile. No, non potrebbe essere invisibile. Qualco-
sa che non vediamo perché c’è sempre. Qualcosa che brilla nella notte... Eccolo lì.
Strizzò gli occhi. Le scintillanti stelle dell’esaurimento lo facevano pensare in modo strano. Be’, pensare in
modo razionale non aveva funzionato.
«Che nessuno si muova» intimò lui. Alzò una mano per ottenere silenzio. «Eccola» disse piano piano. «Lì.
Sulla mia scrivania. La vedete?»
«Cosa, signore?»
domandò Carota.
«Vuole dire che lei non lo ha capito?» disse Vimes. «Cosa, signore?»
«La cosa che ha avvelenato sua signoria. Eccola lì... sulla scrivania. Vedete?»
«Il suo taccuino?»
«No!»
«Beve whisky Abbracciaorso?» suggerì Felicia.
«Ne dubito» rispose Vimes.
«La carta assorbente?» azzardò Carota. «Penne avvelenate? Un pacchetto di Pantweed?»
«Dove sono?» chiese Vimes tastandosi le tasche. «Spuntano da sotto le lettere che stanno nel Cestello Entra-
te, signore» rispose Carota, e aggiunse in tono di biasimo «sa, signore, quelle a cui lei non risponde».
Vimes prese il pacchetto e tirò fuori un altro sigaro. «Grazie» disse. «Ah! Non ho chiesto a Mildred Calma
che cos’altro si portava via! Ma è chiaro, anche quelle sono un piccolo bonus per la servitù! È la vecchia si-
gnora Calma faceva la sarta, la sarta vera! Siamo in autunno! Uccisa dalle notti che si allungano! Non vede-
te?»
Carota si chinò e guardò la superficie della scrivania. «Non vedo niente, signore» rispose.
«Certo che non può» commentò Vimes. «Perché non c’è niente da vedere. Non puoi vedere. Ecco perché sai
che c’è. Se non ci fosse lo vedresti subito!» Si illuminò di un ghigno da maniaco. «Solo che non ci riuscire-
sti! Visto?»
«Si sente bene, signore?» domandò Carota. «Ha un po’ esagerato in questi ultimi giorni...»
«Ho esagerato al contrario!» esclamò Vimes. «Ho vagato in giro alla ricerca di maledetti indizi invece di
pensare per cinque minuti! Che cosa dico sempre?»
«Ehm... ehm... Non fidarti mai di nessuno, signore?» «No non quello».
«Ehm... ehm... Tutti sono colpevoli di qualche cosa, signore?»
«No, nemmeno quello».
«Ehm... ehm... Solo perché uno è membro di una minoranza etnica non significa che non sia un piccolo e o-
dioso stronzetto ottuso, signore?»
«N... Quando l’ho detto?»
«La settimana scorsa, signore. Dopo che abbiamo ricevuto la visita dei rappresentanti per la Campagna delle
Pari Al.. tezze, signore».
«Be’, non era quello. Voglio dire... sono abbastanza sicuro che dico sempre qualcos’altro che in questo caso è
estremamente rilevante. Qualcosa di conciso sul lavoro di polizia».
«Non mi viene in mente niente al momento, signore».
«Bene, mi studierò qualcosa e comincerò a dirlo molto spesso da adesso in poi».
«Magnifico, signore» esclamò Carota raggiante. «È bello vederla di nuovo in forma, signore. Pronto a pren-
dere a calci un po’ di sede... a pungolare qualche natica, signore. Ehm... che cosa abbiamo scoperto, signo-
re?»
«Lo vedrà! Adesso andiamo al Palazzo. Vada a prendere Angua. Potremmo aver bisogno di lei. E porti un
mandato di perquisizione».
«Vuol dire il martello a manico lungo, signore?» «Sì. E anche il Sergente Colon».
«Non è ancora rientrato, signore» disse Felicia. «Avrebbe dovuto staccare dal servizio un’ora fa».
«Probabilmente si attarda da qualche parte, cercando di restare fuori dai guai» commentò Vimes.

***

Arthur il Piccolo Matto sbirciò oltre il bordo del muro. Da un punto imprecisato sotto Colon lo fissarono due
occhi rossi. «Pesante, eh?»
«Mer...»
«Dagli un calcio con l’altro piede!»r Si sentì un rumore simile a qualcosa che si stappa. Colon si contrasse.
Ci fu quindi un leggero plop e un fragoroso schianto di terracotta giù sulla strada.
«Lo stivale dove era attaccato si è sfilato» gemette Colon.
«Com’è successo?»
«Si è... lubrificato...»
Arthur il Piccolo Matto cercò di tirargli un dito. «Vieni su, allora».
«Non posso».
«Perché no? Non ti sta più tenendo».
«Ho le braccia stanche. Altri dieci secondi e sarò una sagoma tracciata col gesso sulla strada...»
«No, nessuno ha tanto gesso». Arthur il Piccolo Matto si inginocchiò così che la sua testa si venne a trovare
al livello degli occhi di Colon. «Se muori, ti dispiace firmarmi una carta che dice che mi hai promesso un
dollaro?»
In basso, sulla strada, si sentì uno sbatacchiare di frammenti di terracotta.
«Cos’è stato?» domandò Colon. «Pensavo che quel maledetto affare si fosse frantumato...»
Arthur il Piccolo Matto guardò giù. «Ci credi a quella storia della reincarnazione, Signor Colon?» chiese.
«Non toccherei mai quelle schifezze straniere» replicò Colon.
«Be’, si sta rimettendo insieme. Come una di quelle puzzole».
«Ben fatto, Arthur il Piccolo Matto» replicò Colon. «Ma so che lo dici solo perché io faccia uno sforzo e mi
tiri su, eh? Le statue non si rimettono insieme quando sono in frantumi».
«Guarda da solo. Si è già quasi ricostruito una gamba intera».
Colon riuscì in qualche modo a sbirciare giù attraverso il minuscolo e puzzolente varco fra la parete e la sua
ascella.
Tutto quello che riuscì a vedere furono brandelli di nebbia e un debole bagliore.
«Sicuro?» domandò .
«Quando giri fra le tane di ratto, impari a vedere bene al buio» rispose Arthur il Piccolo Matto. «Altrimenti
sei morto».
Qualcosa sibilò in un punto imprecisato sotto i piedi di Colon.
Lui raspò freneticamente contro il muro di mattoni. «Ha dei problemi» disse Arthur il Piccolo Matto in tono
disinvolto. «Pare che si sia messo le ginocchia al rovescio».

***

Dorfl stava seduto accucciato nella cantina abbandonata in cui si erano riuniti i golem. Occasionalmente sol-
levava la testa e sibilava. Una luce rossa gli spillava dagli occhi. Se qualcosa fosse riuscito a penetrare oltre il
bagliore, avesse sfrecciato attraverso le orbite nel cielo rosso retrostante, sarebbe stato...
Dorfl stava accucciato sotto il bagliore dell’universo. Il suo mormorio proveniva da lontano, soffocato, non
aveva nulla a che vedere con Dorfl.
Le Parole gli stavano attorno nell’orizzonte e andavano a salire fino al cielo.
Una voce disse pacatamente: «Sei padrone di te stesso ». Dorfl continuò a rivedere la scena, vide il volto pre-
occupato, la mano che si sollevava, riempiendogli la visuale, provò l’improvvisa e gelida consapevolezza...
«... padrone di te stesso».
La frase riecheggiò contro le parole, quindi rimbalzò e si mise a rotolare avanti e indietro, aumentando di vo-
lume finché il piccolo mondo fra le Parole stesse non fu intrappolato nel suono.
‘I Golem Devono Avere un Padrone’. Le lettere torreggiavano contro il mondo, ma gli echi si riversavano lo-
ro addosso, devastanti come una tempesta di sabbia. Si aprirono delle crepe che si fecero sempre più profon-
de, zigzagando nella pietra e poi...
Le Parole esplosero. Le immense lastre, grandi come montagne, si frantumarono in una pioggia di sabbia ros-
sa.
L’universo si riversò dentro. Dorfl sentì l’universo prenderlo, travolgerlo, sollevarlo.
...il golem si trovò in mezzo all’universo. Lo sentiva tutto attorno, ne avvertiva il ronzio, la frenesia, la verti-
ginosa complessità, il fragore...
Non c’erano Parole fra te ed Esso.
Tu appartenevi a Esso, Esso apparteneva a te.
Non potevi voltarGli le spalle perché Lo ritrovavi lì, davanti a te.
Dorfl era responsabile di ogni Sua minima variazione.
Non potevi dire: «Ho avuto ordini». Non potevi dire: «Non è giusto». Non c’era nessuno a sentire. Non
c’erano Parole. Tu eri padrone di te stesso.
Dorfl fece orbitare un paio di soli brucianti e si abbatté di nuovo.
Non era Tu non Dovrai. Era Io non Farò.
Dorfl caracollò attraverso il cielo rosso, quindi vide un foro scuro davanti a sé. Il golem sentì che lo stava at-
tirando e fluì giù attraverso il bagliore e il foro si fece più grosso e accelerò arrivando ai margini della visione
di Dorfl...
Il golem riaprì gli occhi.
niente padroni
Dorfl si alzò in un singolo movimento. Allungò una mano ed estese un dito.
Il golem spinse il dito con facilità contro la parete su cui aveva avuto luogo la discussione e lo trascinò con
determinazione sui mattoni, sbriciolandoli. Gli occorsero un paio di minuti ma era una cosa che Dorfl aveva
la necessità di dire.
Dorfl completò l’ultima lettera e ci scavò tre punti dietro. Il golem quindi si allontanò lasciandosi alle spalle:
niente padroni...

***

Una nuvolaglia azzurrina prodotta dai sigari nascondeva il soffitto del salottino per fumare.
«Oh, certo, il Capitano Carota» disse una poltrona. «Sì... certamente... ma... è l’uomo giusto?»
«Ha una voglia a forma di corona. L’ho vista io» rispose Nobby zelante.
«Ma il suo background...»
«È stato cresciuto dai nani» spiegò Nobby. Agitò il bicchiere di brandy verso un cameriere. «Un altro uguale,
mister».
«Non pensavo che i nani fossero in grado di far crescere nessuno un gran che» osservò un’altra poltrona. Ci
fu un accenno di risata.
«Voci folcloristiche» mormorò qualcuno.
«Questa è una città grande, attiva e soprattutto complessa. Temo che avere una spada e una voglia sulla pelle
non rappresentino un gran che come requisiti. Avremmo bisogno di un re di una linea di sangue abituata al
comando».
«Come la sua, milord».
Si sentì una specie di risucchio a garganella mentre Nobby attaccava il successivo bicchiere di brandy. «Oh,
io sono abituatissimo al comando» commentò, abbassando il bicchiere. «La gente mi dà ordini in continua-
zione».
«Avremmo bisogno di un re che avesse il sostegno delle grandi famiglie e delle più importanti Gilde cittadi-
ne» .
«Alla gente piace Carota» commentò Nobby.
«Oh, la gente...»
«Comunque, chiunque si accollasse quel lavoro dovrebbe vedere ridotti i compiti» osservò Nobby. «Il vec-
chio Vetinari ha sempre da fare con le carte. Ma che divertimento c’è? Non è vita stare seduti a tutte le ore
del giorno e della notte a preoccuparsi, non avere mai un momento per sé». Sollevò il bicchiere vuoto. «An-
cora lo stesso, amico. Questa volta però riempilo bene, eh? Che senso ha avere un bicchiere bello grosso e
appena un goccetto di liquido sul fondo?»
«Molti preferiscono assaporare il bouquet» replicò una poltrona abbastanza inorridita. «Piace annusarlo».
Nobby guardò il proprio bicchiere con i classici occhi venati di rosso di uno che aveva sentito delle voci ri-
guardanti ciò che combinavano gli snobboni. «No» disse. «Io continuerò a scolarmelo in bocca, se a voi va
bene lo stesso».
«Se potessimo arrivare al dunque» puntualizzò un’altra poltrona, «un re non dovrebbe passare ogni momento
a governare la città. Terrebbe ovviamente delle altre persone per farlo. Consiglieri, consulenti. Persone esper-
te».
«E allora che dovrebbe fare?» domandò Nobby. «Dovrebbe regnare» rispose una poltrona.
«Salutare».
«Presiedere a banchetti».
«Firmare carte».
«Ingollare ottimo brandy in modo disgustoso». «Regnare».
«A me non sembra un brutto lavoro» commentò Nobby. «A qualcuno andrebbe benone, eh?»
«Ovviamente un re dovrebbe essere uno in grado di riconoscere un suggerimento che gli venisse calato in te-
sta da grande altezza» disse uno dei parlanti in tono tagliente, ma le altre poltrone lo zittirono.
Nobby riuscì, dopo svariati tentativi, a trovarsi la bocca e tirò una bella boccata del suo sigaro. «A me pare»
disse, «a me pare, che quello che volete è trovare una specie di nobile con del tempo da perdere e dirgli: ‘Ehi,
è il tuo giorno fortunato. Facci vedere come saluti!’»
«Oh! Che magnifica idea! Le passa forse per la testa qual- che nome, milord? Prenda un altro goccio di
brandy!»
«Caspita, grazie, lei è uno sciccoso. Certo che lo sono anche io, eh? Giusto, bellezza, questo fino all’orlo!
No, non mi viene in mente nessuno adatto al compito». «In effetti, milord, noi stavamo pensando di offrire la
corona a lei...»
Nobby strabuzzò gli occhi. Gli si gonfiarono quindi le guance.
Non è una bella idea spruzzare del brandy dei migliori per tutta la stanza, soprattutto se il tuo sigaro acceso si
trova nella traiettoria. La fiammata colpì la parete opposta, dove lasciò un perfetto crisantemo di legno bru-
ciacchiato mentre,
in accordo con una fondamentale regola della fisica, la poltrona di Nobby sfrecciava indietro sulle rotelle
sbattendosi poi contro la porta.
«Re?» tossì Nobby e a quel punto dovettero dargli delle pacche sulla schiena finché non ebbe ripreso a respi-
rare. «Re?» ansimò. «Per farmi staccare la testa dal Signor Vimes?»
«Tutto il brandy che vuole, milord» gli disse una voce suadente.
«Non serve a niente se non hai una gola per farlo passare attraverso!»
«Di che sta parlando?»
«Il Signor Vimes diventerà una furia!»
«Santo cielo, amico...»
«Milord» corresse qualcuno.
«Milord, volevo dire... se lei diventerà re potrà dire a quel maledetto Sir Samuel che cosa deve fare. Sarà lei,
come direbbe lei, ‘il Boss’. Potrebbe...»
«Dire al Vecchio Facciadipietra cosa fare?» domandò Nobby.
«Esattamente!»
«Io sarei il re e direi al Vecchio Facciadipietra cosa fare?» ripeté Nobby.
«Sì!»
Nobby fissò con sguardo vitreo la fumosa oscurità. «Diventerebbe una furia!»
«Ascolti, piccolo sciocco...»
«Milord...»
«Piccolo sciocco lord, lo potrà condannare a morte se vorrà!»
«Non potrei farlo!»
«Perché no?»
«Diventerebbe una furia!»
«Quell’uomo si autodefinisce rappresentante della legge e alla legge di chi dovrebbe dare ascolto, eh? Da do-
ve arriva la sua legge?»
«Io non lo so!» gemette Nobby. «Lui dice che gli viene su dagli stivali!» Si guardò attorno. Le ombre
all’interno del fumo sembravano chiudersi su di lui.
«Non posso diventare re! Il Vecchio Vimes diventerebbe una furia!»
«Vuole smetterla di ripeterlo!»
Nobby si allentò il colletto.
«Qui dentro c’è troppo fumo» bofonchiò. «Da che parte è la finestra?»
«Laggiù...»
La poltrona ondeggiò. Nobby colpì il vetro di testa, con l’elmetto, atterrò sopra un carro in attesa, rimbalzò
giù e si mise a correre nella notte, cercando di scappare al destino in generale e alle asce in particolare.

***

Felicia Culetto entrò con passo deciso nelle cucine del palazzo e sparò un dardo di balestra al soffitto.
«Che nessuno si muova!» strillò.
La squadra di domestici del Patrizio sollevò lo sguardo dalla cena.
«Quando dice che nessuno si muova» osservò Nododitamburo togliendo con atteggiamento meticoloso e in-
fastidito un pezzo di intonaco dal piatto, «intende forse dire...»
«D’accordo, caporale, adesso me ne occupo io» intervenne Vimes, dando una pacca sulla spalla a Felicia.
«Mildred Calma è qui?»
Tutte le teste si voltarono.
Il cucchiaio di Mildred ricadde nella minestra.
«Va tutto bene» la rassicurò Vimes. «Ho solo bisogno di farle qualche altra domanda...»
«Mi... d-d-dispiace, signore...»
«Lei non ha fatto nulla di male» le disse Vimes, girando attorno alla tavola. «Ma non ha portato a casa soltan-
to cibo per la sua famiglia, vero?»
«S-signore?»
«Che cos’altro ha portato via?»
Mildred notò l’espressione improvvisamente vacua apparsa sul volto degli altri servitori. «C’erano le vecchie
lenzuola ma la Signora Dipplock aveva d-d-detto che potevo prenderle...»
«No, non quello» disse Vimes.
Mildred si passò la lingua sulle labbra secche. «Ehm, c’era del... c’era del lucido da scarpe...»
«Ascolti» spiegò Vimes nel modo più gentile possibile, «tutti si portano via delle cosette dal posto in cui la-
vorano. Robetta che nessuno nota. Nessuno lo ritiene rubare. È come... quasi un diritto. Delle cosette. Mozzi-
coni, Signorina Calma? Io le parlo di mozziconi».
«Ehm... vuole dire... i mozziconi di candela, signore?»
Vimes trasse un profondo respiro. Dava un tale sollievo avere ragione, anche quando sapevi di essere andato
in un posto sperando disperatamente di avere torto. «Ah!» disse.
«M-ma non è rubare, signore. Io non ho mai rubato niente, s-signore!»
«Ma si è portata a casa i mozziconi di candela? Immagino che potessero dare ancora una mezz’ora di luce se
li si faceva bruciare in un piattino, eh?» suggerì Vimes in tono gentile.
«Ma quello non è rubare, signore! Quelle sono mance, signore!»
Sam Vimes si picchiò una mano sulla fronte. «Mance! Certo! Ecco la parola che stavo cercando. Mance! Tut-
ti devono ricevere una mancia, non è vero? Be’, allora va tutto bene» disse, «immagino che lei prenda quelle
delle camere da letto, no?»
Nonostante il nervosismo, Mildred Calma fu in grado di sfoggiare il genere di sorriso di una persona che pos-
siede un diritto acquisito che esseri inferiori non hanno. «Sissignore. Ho avuto il permesso, signore. Sono
molto meglio di quelle grezze che usiamo nelle sale principali, signore».
E lei mette le candele nuove quando è necessario, vero?»
«Sissignore».
Probabilmente un po’ più spesso del necessario, pensò Vimes. Non ha alcun senso farle consumare trop-
po...«Forse può mostrarmi dove vengono conservate, signorina?»
La ragazza guardò lungo la tavola in direzione della governante che lanciò un’occhiata al Comandante Vimes
e poi annuì. Era abbastanza brillante da capire quando qualcosa che suonava come una domanda in effetti
non lo era.
«Le teniamo nella dispensa delle candele alla porta accanto, signore» disse Mildred.
Mi faccia strada, per favore».
Non era una stanza grande, ma i suoi scaffali erano stipati fino al soffitto di candele. C’erano quelle alte un
metro usate nelle sale pubbliche e le piccole usate tutti i giorni in ogni altra camera, divise per qualità.
«Queste sono quelle che usiamo nelle stanze di sua signoria, signore». Gli consegnò una candela bianca da
quindici centimetri.
«Oh, sì... ottima qualità. Numero Cinque. Un bello stoppino bianco» osservò Vimes, facendola saltare nella
mano. «Le usiamo anche noi a casa. Quelle che utilizziamo invece al Posto di Guardia sono poco più che
scarto di grasso di maiale. Adesso ci riforniamo da Carry, al Mattatoio. Prezzi molto ragionevoli. Prima con-
trattavamo con Spadger e Williams, ma il Signor Carry ha davvero invaso il mercato oggigiorno, eh?»
«Sissignore. E queste fanno parte di una consegna speciale, signore».
«Lei mette queste candele nella stanza di sua signoria tutti i giorni?»
«Sissignore».
«Da qualche altra parte?»
«Oh, no, signore. Sua signoria è molto pignola a proposito! Noi usiamo solo le Numero Tre».
«E lei porta la sua, ehm, mancia, a casa?»
«Sissignore. La nonna diceva che davano una luce deliziosa, signore...»
«Immagino sia restata alzata fino a tardi con il suo fratellino, vero? Perché immagino che lui si sia ammalato
prima, quindi lei è rimasta alzata con lui tutta la notte, una notte dopo l’altra e, ehm, se ben conosco la Signo-
ra Calma, avrà cucito...»
«Sissignore».
Ci fu una pausa.
«Usi il mio fazzoletto» disse Vimes dopo un po’.
«Perderò il posto, signore?»
«No. Questo è certo. Nessuno dei coinvolti dovrà perdere il lavoro» la rassicurò Vimes. Guardò la candela.
«Eccetto, forse, il sottoscritto» aggiunse.
Si fermò sull’arco della porta e si voltò. «Se vuole dei mozziconi di candela, ne abbiamo sempre un sacco al
Posto di Guardia. Nobby dovrà cominciare a comperarsi lo strutto, per cucinare, come tutti gli altri».

***

«Che sta facendo adesso?» domandò il Sergente Colon.


Arthur il Piccolo Matto sbirciò nuovamente al di là del margine del tetto. «Sta avendo qualche problema coi
gomiti» rispose distrattamente. «Continua a guardarne uno e a provarselo da tutte le partì, ma non funziona».
«Ho avuto quel genere di problema quando ho messo su i mobiletti della cucina per la Signora Colon» com-
mentò il sergente. «Le istruzioni su come aprire lo scatolone si trovavano all’interno dello scatolone...»
«Oh-oh, ha trovato la soluzione» disse l’acchiappa-ratti. «Pare proprio che li avesse confusi con le ginoc-
chia». Colon udì un rumore metallico sotto di sé.
«E adesso ha girato all’angolo...» si sentì lo schianto di legno che si spezzava, «... e adesso è entrato
nell’edificio. Penso che salirà dalle scale ma, secondo me, tu te la cavi».
«Perché?»
«Perché tutto quello che devi fare è lasciare la presa dal tetto, capisci?»
«Cadrò e morirò!»
«Esatto! Un modo pulito per andarsene. Niente di tutto quello ‘strappare braccia e gambe’ prima».
«Volevo comperare una fattoria!» gemette Colon.
«Potresti» disse Arthur. Guardò di nuovo al di sopra del tetto. «Oppure» aggiunse come se fosse a mala pena
un’opzione migliore, «potresti cercare di afferrare la grondaia».
Colon guardò di fianco a sé. C’era effettivamente una grondaia a un mezzo metro di distanza. Se fosse riusci-
to a fare oscillare il proprio corpo sforzandosi sul serio, avrebbe potuto mancarle per soli pochi centimetri e
morire sfracellato.
«Ti sembra sicuro?» domandò.
«Confrontato con cosa, mister?»
Colon cercò di fare oscillare le gambe come un pendolo. Ogni muscolo del braccio gli urlò contro. Sapeva di
essere sovrappeso. Aveva sempre avuto intenzione di mettersi a fare un po’ di esercizio fisico, un giorno. So-
lo che non si era reso conto del fatto che quel giorno sarebbe stato oggi.
«Mi pare di sentirlo salire su per le scale» disse Arthur il Piccolo Matto.
Colon cercò di oscillare più velocemente. «E tu che farai?» gli domandò.
«Oh, non ti preoccupare per me» rispose Arthur il Piccolo Matto. «A me andrà benone. Salterò giù».
«Saltare?»
«Certo. Non mi succederà niente perché io sono di taglia normale, capito?»
«Tu pensi di essere di taglia normale?»
Arthur il Piccolo Matto fissò le mani di Colon. «Le dita che vedo vicino ai miei piedi sono forse le tue?» gli
chiese.
«D’accordo, d’accordo, sei di taglia normale. Non è colpa tua se ti sei trasferito in una città piena di giganti»
commentò Colon.
«Esatto. Quanto più piccolo sei, tanto più delicatamente cadi. Fatto ben noto. Un ragno non noterebbe nem-
meno una caduta del genere, un topo si allontanerebbe camminando sulle sue zampe, un cavallo si spezze-
rebbe ogni osso del corpo e un elefante si spiaccich...»
«Oh, santo cielo» mormorò Colon. Adesso riusciva a sentire la grondaia con lo stivale. Afferrarla, tuttavia,
significava che ci sarebbe dovuto essere un lungo momento di sospensione in cui non si sarebbe trovato at-
taccato al tetto, non sarebbe stato ancora attaccato alla grondaia e sarebbe stato in gravissimo pericolo di ri-
trovarsi attaccato al suolo.
Si sentì un altro schianto in un punto imprecisato del tetto.
«Esatto» disse Arthur il Piccolo Matto. «Ci vediamo giù».
«Oh, cielo...»
Lo gnomo balzò giù dal tetto.
«Al momento tutto bene» gridò mentre superava Colon. «Oh, cielo...»
Il Sergente Colon sollevò lo sguardo su due punti rossi luminosi.
«Fino a ora tutto ok» disse dal basso una voce distorta dall’effetto doppler.
«Oh, cielo...»
Colon sollevò le gambe di lato, restò a mezz’aria per un momento, afferrò la parte superiore della grondaia,
abbassò la testa mentre un pugno di coccio gli si scagliava contro, udì lo sgradevole rumorino dei bulloni ar-
rugginiti che dicevano addio al muro e, ancora attaccato a un pezzo di tubo di ghisa, quasi che la cosa potesse
tornargli utile, scomparve all’indietro nella nebbia.

***

Il Signor Pugno sollevò lo sguardo quando sentì la porta che si apriva e quindi si rannicchiò dietro la macchi-
na per fare le salsicce.
«Tu?» sussurrò. «Ehi, non puoi tornare qui! Ti ho venduto!»
Dorfl lo fissò rigidamente per qualche secondo e poi lo superò e prese la mannaia più grossa dalla rastrelliera
macchiata di sangue posta sul muro.
Pugno cominciò a tremare.
«I-i-io sono sempre stato b-b-buono con te» balbettò. «T-ti ho sempre lasciato p-p-prendere i tuoi g-g-giorni
s-s-sacri».
Dorfl lo fissò nuovamente. È solo una luce rossa, farfugliò pugno fra sé...
Sembrava tuttavia più focalizzata. La sentiva entrare nella testa attraverso gli occhi ed esaminargli l’anima.
Il golem lo scansò e uscì dal macello per dirigersi verso i recinti del bestiame.
Pugno si riprese. Non reagivano mai, no? Non potevano farlo. Quei maledetti affari erano fatti così.
Lanciò un’occhiata truce agli altri lavoratori, troll e umani. «Non state lì impalati! Prendetelo!»
Un paio di loro esitò. Era una mannaia davvero grossa quella che aveva in mano il golem. Quando poi Dorfl
si fermò per guardarli notarono qualcosa di diverso anche nel suo atteggiamento. Non aveva affatto l’aspetto
di uno che non avrebbe reagito.
Pugno tuttavia non impiegava la gente per i muscoli che avevano nella testa. Inoltre a nessuno era mai piaciu-
ta l’idea di un golem che si aggirasse in quel posto. ‘ Un troll gli lanciò contro un’ascia. Dorfl la bloccò con
una sola mano senza nemmeno voltare la testa e ne spezzò il manico in legno con le dita. Un uomo con un
martello se lo vide sfilare di mano e scagliare contro un muro con una violenza tale da fargli lasciare un bel
buco.
A quel punto decisero di seguirlo da una distanza di sicurezza. Dorfl non li degnò più di alcuna attenzione.
Il vapore al di sopra dei recinti del bestiame si mischiava con la nebbia. Centinaia di occhi scuri guardarono
incuriositi Dorfl mentre quello camminava fra le barriere. Erano sempre stati tranquilli quando c’era stato in
giro il golem.
Si fermò davanti a uno dei recinti più grandi. Si sentivano voci alle sue spalle.
«Non ditemi che adesso macella tutti quanti! Non riusciremo mai a tagliarli tutti in questo turno!»
«Ho sentito dire che ce n’era uno da un carpentiere che e diventato matto e ha fatto cinquemila tavoli in una
notte. Ha perso il conto o qualcosa del genere».
«Ma li sta soltanto guardando...»
«Capito, cinquemila tavoli? Uno aveva ventisette gambe, Si era fissato sulle gambe...»
Dorfl abbatté violentemente la mannaia e fece saltare il lucchetto del cancello. Il bestiame osservò il golem
con la tipica espressione guardinga di quando il cervello aspetta che si presenti il pensiero successivo.
Si avvicinò al recinto delle pecore e aprì anche a loro. Seguirono i maiali e poi il pollame.
«Tutti quanti?» esclamò il Signor Pugno.
Il golem tornò indietro tranquillamente lungo la fila di recinti, ignorando gli astanti, ed entrò di nuovo nel
macello. Uscì subito dopo portandosi dietro il vecchio e peloso caprone attaccato a un pezzo di corda. Superò
gli animali in attesa e raggiunse i grandi cancelli che davano sulla via principale, quindi li aprì. Lasciò libero
il caprone.
L’animale annusò l’aria e fece roteare gli occhi a fessura. Dopo avere apparentemente deciso che il lontano
odore dei campi di cavoli fosse di gran lunga preferibile agli odori che aveva nelle immediate vicinanze, trot-
tò via lungo la strada.
Gli animali lo seguirono di corsa, producendo tuttavia ben poco rumore a parte il fruscio dovuto al movimen-
to e al picchiare degli zoccoli. Fluirono attorno alla statica figura di Dorfl che rimase immobile a guardarli
andare.
Un pollo, sconcertato per il trambusto, atterrò sulla testa del golem e si mise a chiocciare.
La rabbia riuscì finalmente a superare l’orrore in Pugno. «Che diavolo stai facendo?» gridò cercando di bloc-
care qualche pecora che stava correndo fuori dai recinti. «Quello che sta uscendo dai cancelli sono soldi,
tu...»
La mano di Dorfl gli si serrò improvvisamente attorno alla gola. Il golem lo sollevò e tenne l’uomo che si di-
vincolava alla distanza di un braccio, esaminandone la testa da una parte e dall’altra quasi che stesse riflet-
tendo sulla successiva azione da intraprendere.
Alla fine buttò via la mannaia, allungò una mano sotto il pollo che aveva stabilito su di lui la propria residen-
za e tirò fuori un piccolo uovo scuro. Con un atteggiamento apparentemente rituale, il golem lo spaccò con
cura sulla testa di Pugno poi lasciò cadere l’uomo. e
Gli ex compagni di lavoro di Dorfl balzarono indietro mentre quello rientrava nel macello.
C’era una grossa lavagna all’entrata. Dorfl la fissò per qualche istante, quindi prese il gesso e scrisse:
niente padroni...
Il gesso gli si sgretolò fra le dita. Dorfl si allontanò nella nebbia.

***

Felicia Culetto sollevò lo sguardo dal bancone di lavoro.


«Lo stoppino è pieno di acido arsenico» disse. «Ben fatto, signore! Questa candela pesa perfino un po’ più
delle altre!»
«Che modo perfido per uccidere una persona» commentò Angua.
«Di certo molto astuto» disse Vimes. «Vetinari sta in piedi metà della nottata a scrivere e di mattina la cande-
la è del tutto consumata. Avvelenato dalla luce. La luce è una cosa che non si vede. Chi guarda la luce? Non
certo un vecchio e lento piedipiatti».
«Oh, lei non è così vecchio, signore» osservò Carota allegramente.
«E per quel che riguarda il lento?»
«Oh, nemmeno lento» aggiunse in fretta Carota. «Ho sempre fatto notare a tutti che lei cammina in modo
molto deciso e imponente».
Vimes gli lanciò un’occhiata tagliente ma non vide altro elle un’espressione entusiasta e innocentemente ze-
lante.
«Non guardiamo la luce perché la luce è una cosa con cui guardiamo» spiegò Vimes. «Ok. Adesso penso che
dovremmo andare a dare un’occhiata alla fabbrica di candele, no? Vieni tu, Culetto, e portati... ma sei diven-
tato più alto, Culetto?» «Stivali coi tacchi, signore» rispose Felicia.
«Pensavo che i nani portassero solo stivali in ferro...»
«Sì, signore. Ma io ho applicato dei tacchi ai miei, signore. Li ho saldati».
«Oh, bene. D’accordo». Vimes si ricompose. «Be’, se riesci comunque a stare in piedi, portati dietro la tua at-
trezzatura da alchimista. Detritus dovrebbe avere staccato dal turno a palazzo. Quando si tratta di porte chiuse
non c’è niente di meglio di Detritus. È un piede di porco ambulante. Lo recupereremo lungo la strada».
Caricò la balestra e accese un fiammifero.
«Bene» disse. «Finora abbiamo agito in modo moderno, adesso proviamo a fare i poliziotti allo stile del non-
no. È arrivato il momento di...»
«Pungolare qualche natica, signore?» azzardò in fretta Carota.
«Più o meno» rispose Vimes traendo una boccata dal sigaro ed espirando un anello di fumo. «Ma niente siga-
ro».

***

La visuale del mondo del Sergente Colon stava costantemente mutando. Proprio mentre qualcosa stava per
fissarsi in via definitiva nella sua mente come il peggior momento della sua intera vita, veniva rapidamente
rimpiazzato da qualcosa di anche peggiore.
Tanto per cominciare, la grondaia che stava cavalcando picchiò contro il muro dell’edificio antistante. In un
mondo ben organizzato lui sarebbe potuto atterrare su una scala antincendio, ma le scale antincendio erano
sconosciute ad Ankh-Morpork, dove le fiamme erano generalmente costrette a scappare dal tetto.
Con il tubo così appoggiato contro il muro, lui si trovò a scivolare lungo la diagonale. Perfino quello sarebbe
stato un esito positivo se non fosse stato per il fatto che Colon era un uomo pesante e quindi, mentre il suo
peso si avvicinava al centro del tubo privo di supporto, il tubo stesso cedette; la ghisa aveva un limitatissimo
potere di flessione prima di spezzarsi, cosa che fece prontamente.
Colon cadde e atterrò su qualcosa di morbido... quanto meno più morbido della strada... e il qualcosa fece
«Muurr_r_r-m!» Poi rimbalzò e atterrò su qualcosa di più basso e più morbido che fece «Baaaarp!» e di lì ro-
tolò su qualcos’altro di ancora più basso e apparentemente fatto di penne che impazzì. E lo beccò.
La strada era piena di animali che girovagavano pieni di insicurezza. Quando gli animali sono in uno stato di
insicurezza diventano nervosi e la strada era già, al momento, pavimentata di ansia. L’unico beneficio per il
Sergente Colon fu che ciò rese la caduta leggermente più soffice di quanto non sarebbe stato altrimenti.
Gli zoccoli gli pestarono le mani. Nasi gocciolanti ed enormi gli starnutirono addosso.
Il Sergente Colon non aveva mai, fino a quel momento, avuto una grande esperienza con gli animali, se non a
porzioni. Da piccolo aveva avuto un maialino rosa di peluche di nome Mister Terribile ed era arrivato al capi-
tolo sei di Paternità Animale. Il libro era pieno di xilografie. Non si faceva menzione di fiati caldi e puzzo-
lenti e grandi piedi pestanti simili a scodelle su bastoncini. Nel libro del Sergente Colon le mucche facevano
«Muuu». Lo sapevano anche i bambini. Non avrebbero dovuto fare «Mur-r-r-r-rm!» come una specie di mo-
stro marino e inondarti di saliva.
Cercò di alzarsi, scivolò sul momento di crisi di una mucca e si trovò seduto su una pecora. Quella fece «Bla-
aaart!» Ma che razza di verso era per una pecora?
Si alzò di nuovo e cercò di farsi strada fino al marciapiede. «Via! Fuori dai piedi, pecora! Maledizione!»
Un’oca gli sibilò di contro allungando una quantità decisamente eccessiva di collo.
Colon indietreggiò e si fermò quando qualcosa lo pungolò da dietro. Era un maiale.
Non era un Mister Terribile. Non era il maialino che veniva portato al mercato o quello che restava a casa.
Sarebbe stato davvero difficile immaginare che genere di piede avesse un maiale simile, ma doveva proba-
bilmente essere fornito anche di pelacci, squame e unghioni simili a noci di acagiù.
Questo maialino aveva le dimensioni di un pony. Questo maialino aveva le setole. E non era rosa. Sfoggiava
un colore nero azzurrino ed era coperto di peli ruvidissimi ma aveva... siamo onesti, pensò Colon... degli oc-
chietti rossi da maialino.
Questo maialino aveva l’aspetto del maialino che aveva massacrato i cani da caccia al cinghiale, aveva sbu-
dellato il cavallo e si era mangiato il cacciatore.
Colon si voltò e si trovò faccia a faccia con un toro che pareva un cubo di manzo su zampe. Quello voltò la
grossa testa da una parte all’altra così che ogni occhio roteante potesse vedere bene il sergente, anche se fu
chiaro che nessuno dei due lo apprezzasse molto.
L’animale abbassò la testa. Non aveva lo spazio per caricare, ma era sicuramente in grado di spingere.
Mentre gli altri animali gli si affollavano attorno, Colon prese l’unica via di fuga possibile.

***

C’erano uomini accasciati lungo tutto il vicolo.


«Ehi, ehi, cos’è questa storia?» domandò Carota.
Un uomo che si stava tenendo un braccio e stava gemendo sollevò lo sguardo verso di lui. «Siamo stati bru-
talmente aggrediti!»
«Non abbiamo tempo per queste cose» commentò Vimes.
«Forse dovremmo averlo» replicò Angua. Lo toccò su una spalla e indicò la parete opposta su cui era scritto
con una grafia familiare:
niente padroni...
Carota si abbassò e parlò alla vittima. «Siete stati attaccati da un golem, vero?» domandò.
«Giusto! Violento delinquente! È uscito fuori dalla nebbia e ci si è scagliato addosso, sa come sono fatti!»
Carota lanciò all’uomo un sorriso smagliante. Il suo sguardo viaggiò quindi lungo il corpo dell’uomo, arrivò
al grosso martello che giaceva nel canale di scolo e si spostò quindi da quello agli altri attrezzi disseminati
sulla scena della rissa. Molti avevano il manico spezzato. C’era anche un grosso piede di porco piegato quasi
a cerchio.
«Una fortuna che foste così bene armati» commentò. «Ci si è rivoltato contro» disse l’uomo. Cercò di
schioccare le dita. «Così... arrgh!»
«Pare che si sia fatto male alle dita...»
«Ha ragione!»
«È solo che non capisco come ha potuto rivoltarsi contro di voi e sbucare fuori dalla nebbia» replicò Carota.
«Tutti sanno che non possono reagire!»
‘Reagire’» ripeté Carota.
«Non è giusto che se ne vadano in giro per le strade in questo modo» bofonchiò l’uomo, distogliendo lo
sguardo.
Si sentì un rumore di passi di corsa alle loro spalle e un paio di uomini con i grembiuli macchiati di sangue li
raggiunsero. «È andato da quella parte!» strillò uno. «Riuscirete a prenderlo se vi sbrigate!»
«Forza, non state lì impalati! Per che cosa paghiamo le tasse?» disse l’altro.
«È andato in tutti i recinti degli animali e li ha lasciati uscire tutti. Tutti! Sulla Collina del Porcello non ci si
può muovere!»
«Un golem ha liberato tutto il bestiame?» esclamò Vimes. «Perché?»
«Che ne so io? Ha preso il Caprone di Giuda dal macello di Pugno così che metà di quelle maledette bestie lo
stanno seguendo! Poi è andato a infilare il vecchio Fosdyke nella macchina per fare le salsicce...»
«Cosa?»
«Oh, non ha girato la manovella. Gli ha solo messo una manciata di prezzemolo in bocca, gli ha fatto scivola-
re una cipolla nei calzoni, lo ha coperto di farina d’avena e lo ha buttato nel tritacarne!»
Le spalle di Angua cominciarono a sobbalzare. Perfino Vimes sogghignò.
«E poi è andato dal mercante di polli, ha preso il Signor Terwillie e...» l’uomo si fermò, consapevole della
presenza di una signora, anche se quella stava producendo rumori gutturali cercando di non scoppiare a ride-
re, e continuò con un filo di voce «... ha usato salvia e cipolla. Non so se mi spiego...»
«Vuole dire che...?» cominciò a dire Vimes.
«Sì!»
E suo compagno annuì. «Il povero vecchio Terwillie non potrà più guardare in faccia salvia e cipolla, temo».
«Per quel che ne so, sarà l’ultima cosa che farà» commentò Vimes.
Angua dovette girarsi.
«Digli di quello che è successo alla macelleria suina» incalzò il compagno dell’uomo.
«Non penso che ce ne sarà bisogno» commentò Vimes. «Vedo un filo conduttore in tutto ciò».
«Esatto! Il povero giovane Sid è solo un apprendista e non si meritava quello che gli è stato fatto!»
«Oh, cielo» esclamò Carota. «Ehm... penso di avere un unguento che potrebbe essere...»
«Servirà anche per la mela?» domandò l’uomo. «Gli ha cacciato una mela in bocca?»
«Sbagliato!»
Vimes si contrasse. «Ahi...»
«Che bisogna fare?» disse il macellaio col volto a pochi centimetri da quello di Vimes.
«Be’, se si riesce ad afferrare il picciolo...»
«Sto parlando seriamente! Che cosa avete intenzione di fare voi? Io pago le tasse e conosco i miei diritti!»
Pungolò Vimes sul pettorale dell’armatura. L’espressione di Vimes divenne granitica. Abbassò lo sguardo sul
dito e poi lo fece tornare al grosso naso rosso dell’uomo.
«In questo caso» disse Vimes, «le suggerisco di prendere una mela e di...»
«Ehm, mi scusi» interruppe Carota a voce alta. «Lei è il Signor Maxilotte, vero? Quello che ha un negozio
nel Bazar?»
«Sì, giusto. E allora?»
«È’ solo che non ricordo di avere visto il suo nome nel registro dei contribuenti, cosa davvero strana visto
che lei ha appena detto di pagare le tasse, ma ovviamente non mentirebbe mai su una cosa del genere e co-
munque quando ha pagato le tasse devono averle rilasciato una ricevuta perché lo dice la legge e sono certo
che sarà in grado di trovarla se guarderà bene...»
Il macellaio abbassò il dito. «Ehm, sì...»
«Potrei venirla ad aiutare io se preferisce» suggerì Carota. Il macellaio lanciò a Vimes uno sguardo disperato.
«Lui legge davvero quella roba» commentò Vimes. «Per diletto. Carota, perché non... Mio dio, che diavolo è
quello?» Si sentì un urlo in fondo alla strada.
Qualcosa di grosso e infangato si stava avvicinando oscillando minacciosamente. Nell’oscurità assomigliava
vagamente a un grasso centauro, mezzo uomo, mezzo... in effetti era, realizzò lui mentre l’essere avanzava
sobbalzando, mezzo Colon, mezzo toro.
Il Sergente Colon aveva perduto l’elmetto e un non so che suggeriva che era stato molto vicino al terreno.
Mentre il massiccio toro passava al galoppo leggero, il sergente fece roteare gli occhi selvaggiamente e gridò:
«Non riesco a scendere! Non riesco a scendere!»
«Come hai fatto a salire?» gli gridò di rimando Vimes.
«Non è stato facile, signore! L’ho preso per le corna, signore, e un momento dopo mi sono ritrovato sulla sua
groppa!»
«Tieniti forte!»
«Sì, signore! Mi sto tenendo forte, signore!»

***
I tori Rogers erano infuriati e sconcertati, il che rappresenta lo stato mentale classico dei tori adulti.16
Loro però avevano un motivo particolare. I bovini hanno una religione. Sono animali profondamente spiritua-
li. Credono che il bestiame buono e obbediente vada a finire in un luogo migliore quando muore, passando
attraverso una porta magica. Non sanno cosa succeda in seguito, ma hanno sentito dire che ha qualcosa a che
vedere con ottimo cibo e, non si sa perché, rafano forte.
I Rogers erano piuttosto impazienti di arrivarci. Ormai erano un po’ scricchiolanti e le mucche sembravano
correre più velocemente di quanto non avessero fatto quando loro erano ragazzi. Riuscivano quasi a sentire il
sapore di quel paradisiaco rafano forte...
Invece erano stati rinchiusi in un affollato recinto per una giornata e poi era stata aperta la porta e c’erano a-
nimali dappertutto e quella non sembrava affatto la Terra Promessa.
Inoltre avevano qualcuno sulla schiena. Avevano cercato di disarcionarlo qualche volta. All’apice della car-
riera dei Rogers l’impudente non sarebbe ormai stato altro che qualche appiccicosa macchia di sangue sul la-
stricato. Adesso invece gli artritici tori avevano ceduto aspettando di trovare un albero comodo sui cui grat-
tarlo via.
Desideravano soltanto che quel disgraziato la smettesse di urlare.

***

Vimes fece qualche passo dietro al toro e poi si voltò.


«Carota? Angua? Voi due andate alla fabbrica di candele di Carry. Tenete d’occhio il posto finché non sare-
mo arrivati noi capito? Osservate tutto ma non entrate, d’accordo? Chiaro? Non entrate per alcun motivo. Mi
sono spiegato? Restate soltanto nella zona. Va bene?»
«Sì, signore» rispose Carota.
«Detritus, tira giù Fred da quell’affare».
La folla si stava dissolvendo davanti al toro. Una tonnellata di toro di razza non ha una grande esperienza di
congestione del traffico, quanto meno non a lungo.
«Non riesci a saltare giù, Fred?» gridò Vimes mentre gli correva dietro.
«Preferirei non provarci, signore!»
«Allora non riesci a guidarlo?»
«Come, signore?»
«Prendi il toro per le corna, amico!»
Colon allungò le mani con fare incerto e afferrò le corna. I tori Rogers girarono la testa di scatto e rischiò di
farlo cadere. «È un po’ più forte di me, signore! In effetti parecchio più forte!»
«Potrei colpirlo alla testa con il mio arco, Signor Vimes» disse Detritus esibendo l’arma da assedio riconver-
tita.
«Questa è una strada affollata, sergente. Potrebbe colpire una persona innocente, perfino ad Ankh-Morpork».
«Mi spiace, signore» Detritus si illuminò. «Ma non potremmo sempre dire che era colpevole di qualche cosa,
signore?»
«No, quello... Ma che sta facendo quel pollo?»
Un galletto nano sfrecciò lungo la strada, corse fra le zampe del toro e si fermò derapando proprio davanti ai
Rogers. Una figura ancora più piccola saltò giù dalla sua schiena, balsu, afferrò l’anello che passava fra le
narici del toro, si lanciò ancora più in su, fino a trovarsi nella massa di riccioli del la fronte del toro e poi ser-
rò saldamente una ciocca di peli in entrambe le mani.
«Sembra Arthur il Piccolo Matto lo gni-omo, signore» disse Detritus. «Sta... cercando di prendere a testate il
toro...»
Si sentì un rumore simile a quello di un picchio che sta lentamente lavorando su un albero particolarmente
difficile, sottolineato da una litania di lamentele che provenivano da un punto imprecisato in mezzo agli oc-
chi dell’animale.
«Prendi questo, brutto pezzo di bestia che sei...»
Il toro si fermò. Cercò di voltare la testa in modo che uno o l’altro dei due Rogers potesse vedere cosa diavo-
16
A causa dell’enorme e sporgente massa della fronte, la visuale dell’universo dei tori Rogers proveniva da due occhi ognuno con
la propria vista emisferica e non sovrapposta del mondo. Visto che si trattava di due visuali differenti, i Rogers avevano stabilito
che ciò significasse che dovevano esserci due tori (dato che i tori non sono mai stati selezionati per il ragionamento deduttivo).
Questo è ciò che crede la maggior parte dei tori ed è il motivo per cui continuano sempre a voltare la testa da una parte all’altra
quando ti guardano. Lo fanno perché tutti e due vogliono vederti in faccia.
lo fosse che gli stava martellando la fronte ma avrebbe anche potuto tentare di guardarsi lungo le orecchie.
Barcollò indietro.
«Fred» sussurrò Vimes. «Scivola giù dalla groppa intanto che è occupato».
Con un’espressione da panico, il Sergente Colon scavalcò con una gamba l’immensa groppa del toro e scivo-
lò a terra. Vimes lo afferrò e lo spinse dentro un androne. Poi lo cacciò subito fuori. Un androne era un posto
decisamente troppo angusto in cui trovarsi nelle vicinanze di Fred Colon.
«Perché sei tutto ricoperto di sterco, Fred?»
«Be’, signore, sa quel ruscello dove non c’è bisogno di pagaiare? È iniziato tutto lì ed è andata sempre peg-
gio, signore».
«Santo cielo. Peggio di così?»
«Chiedo il permesso di andare a fare un bagno, signore».
«No, ma puoi stare indietro di qualche passo. Cos’è successo al tuo elmetto?»
«L’ultima volta che l’ho visto lo aveva una pecora, signore. Signore, sono stato legato, sbattuto in una canti-
na e mi sono eroicamente liberato, signore! E sono stato inseguito da uno di quei golem, signore!»
«Dov’è successo?»
Colon aveva sperato che non gli venisse chiesto. «Era un posto al mattatoio, signore» disse. «C’era una gran
nebbia, quindi io...»
Vimes afferrò i polsi di Colon. «Cos’è questa roba?» «Mi hanno legato con questa corda, signore! Ma a
grande rischio e pericolo della mia vita io...»
«A me non sembra corda» commentò Vimes.
«No, signore?»
«No, mi sembra piuttosto... stoppino per candele». Colon assunse un’espressione vacua.
«È un indizio, signore?» suggerì speranzoso.
Si udì una specie di splash quando Vimes gli dette una pacca sulla schiena. «Ben fatto, Fred» disse, asciu-
gandosi poi la mano sui pantaloni. «È certamente una conferma».
«È proprio quello che pensavo io!» esclamò subito Colon. È una confermazione e devo andarla a portare su-
bito al Comandante Vimes, indipendentemente da...»
«Chi è lo gnomo che sta prendendo a testate il toro, Fred?»
«È Arthur il Piccolo Matto, signore. Gli dobbiamo un dollaro. È stato... di un certo aiuto, signore».
Il toro era ormai sulle ginocchia, stupefatto e sconcertato. Non che Arthur il Piccolo Matto fosse in grado di
infliggere un colpo mortale, ma non si fermava assolutamente. Dopo un po’ il rumore e il battere davano sui
nervi alla gente.
«Dovremmo aiutarlo?» domandò Vimes.
«Mi pare che se la stia cavando bene da solo, signore» rispose Colon.
Arthur il Piccolo Matto sollevò lo sguardo e sogghignò. «Un dollaro, vero?» gridò. «Niente scherzi o ti ven-
go a prendere! Uno di questi maledetti ha calpestato mio nonno una volta!»
«È rimasto ferito?»
«Gli ha staccato via direttamente un corno!»
Vimes prese saldamente il Sergente Colon per un braccio. «Vieni, Fred, adesso bisogna mettersi in strada!»
«Giusto, signore! Ed è tutta piena di sterco!»
«Ehi! Tu, laggiù! Sei una guardia, vero? Vieni qui!»
Vimes si voltò. C’era un uomo che si era aperto un varco in mezzo alla folla.
Nel complesso, rifletté Colon, era possibile che il momento peggiore della sua vita non fosse ancora arrivato.
Vimes tendeva a reagire da schizzato a parole come «Ehi! Tu, laggiù!» se proferite con una specie di nitrito.
Quello che aveva parlato aveva un aspetto aristocratico e l’aria arrabbiata di uno non avvezzo alle penose vi-
cissitudini della vita appena occorse a lui.
Vimes gli fece un saluto militare. «Sissignore! Sono una guardia, signore!»
«Bene, adesso vieni con me e arresti quell’affare. Mi sta disturbando i lavoranti».
«Quale affare, signore?»
«Un golem, amico! È entrato nella fabbrica arrogante come non mai e ha cominciato a scrivere sulle maledet-
te pareti!»
«La fabbrica, signore?»
«Vieni con me, amico. Si dà il caso che io sia un ottimo amico del tuo comandante e il tuo atteggiamento non
mi piace affatto» .
«Mi dispiace molto, signore» replicò Vimes, con una cortesia che Colon aveva imparato a temere.
C’era una fabbrica non meglio identificabile dall’altra parte della strada. L’uomo vi entrò.
«Ehm... ha detto ‘golem’, signore» mormorò Colon.
Vimes conosceva Fred Colon ormai da lungo tempo. «Sì, Fred, quindi è di vitale importanza che tu resti di
guardia qui fuori» gli disse.
Il sollievo si alzò da Colon come vapore. «Giusto, signore!»
La fabbrica era piena di macchine per cucire. C’era gente seduta davanti, con aria mite. Una cosa che le Gilde
odiavano, ma visto che la Gilda delle Ricamatrici non era particolarmente interessata al cucito, non c’era nes-
suno che obbiettasse. Infinite cinghie conducevano da ogni macchina a pulegge poste su un lungo fuso presso
il tetto che a sua volta era azionato da... gli occhi di Vimes lo seguirono per tutta la lunghezza della fabbrica...
una ruota di mulino, ora ferma e decisamente rotta. Un paio di golem vi stavano accanto con aria perduta.
C’era un buco nella parete nelle vicinanze e sopra qualcuno aveva scritto con la vernice rossa:
LAVORATORI!NIENTEPADRONISE NON VOI STESSI!
Vimes sogghignò.
«È entrato spaccando il muro, ha rotto la ruota del mulino, ha tirato fuori i miei golem, ha scritto quello stu-
pido messaggio sulla parete ed è uscito fuori di nuovo!» disse l’uomo alle sue spalle.
«Ehm, sì, capisco. C’è un sacco di gente che usa i buoi per le ruote» osservò Vimes pacatamente.
«Che cosa c’entra con questo? E poi il bestiame non può andare avanti ventiquattr’ore al giorno».
Lo sguardo di Vimes si fece strada lungo le file di lavoranti. I loro volti mostravano quella tipica espressione
preoccupata stile Via del Galletto che si ha quando si è maledetti dall’orgoglio così come dalla povertà.
«No, davvero» commentò. «La maggior parte delle fabbriche di abbigliamento si trovano in Via Pisolo, ma
qui i salari sono molto più bassi, no?»
«La gente è felicissima di avere il lavoro!»
«Già» commentò Vimes guardando nuovamente le facce. «Felicissima». In fondo alla fabbrica, notò, i golem
stavano tentando di ripristinare la loro ruota. «Adesso stammi a sentire, quello che voglio che tu faccia è...»
cominciò a dire il proprietario della fabbrica. La mano di Vimes lo prese per il bavero e lo trascinò in avanti
finché la faccia di quello non fu a pochi centimetri dalla sua.
«No, adesso lei sta a sentire me» sibilò Vimes. «Ho a che fare con malfattori, ladri e poco di buono tutto il
giorno e ciò non mi preoccupa affatto ma, dopo due minuti con lei, sento il bisogno di farmi un bagno. Se
dovessi trovare quel dannato golem gli stringerei la dannata mano, capito?»
Con grande sorpresa della parte di Vimes che non era infuriata, l’uomo trovò sufficiente coraggio per dire:
«Come osi! Dovresti rappresentare la legge!»
Il furioso dito di Vimes rischiò quasi di infilarsi nel naso dell’uomo.
«Da dove devo cominciare?» gridò. Lanciò un’occhiata truce ai due golem. «E voi due pagliacci perché state
riparando la ruota?» urlò. «Santo cielo, non vi hanno dato buon senso alla nascit... Non avete buon senso?»
Uscì fuori bruscamente dall’edificio. Il Sergente Colon smise di cercare di grattarsi via di dosso la sporcizia e
tentò di raggiungerlo.
«Ho sentito della gente dire che ha visto un golem uscire fuori dall’altra porta, signore» disse. «Era rosso. Sa,
di argilla rossa. Ma quello che inseguiva me era bianco, signore. È arrabbiato, Sam?»
«A chi appartiene questo posto?»
«Al Signor Catterail, signore. Sa, le scrive lettere in continuazione sul fatto che ci sono troppe ‘razze inferio-
ri’ nella Guardia. Sa... troll e nani...»
Il sergente dovette trottare per tenere il suo passo. «Arruola qualche zombie» disse Vimes.
«È sempre stato mortalmente contrario agli zombie, mi scusi la battuta» osservò il Sergente Colon.
«Ce ne sono che si vogliono arruolare?»
«Oh, sissignore. Un paio di bravi ragazzi, signore, se non fosse per la pelle un po’ grigia che gli casca di dos-
so potresti giurare che non sono stati seppelliti da più di cinque minuti».
«Falli giurare domani».
«Bene, signore. Ottima idea. Ovviamente sarà un bel risparmio non doverli includere nel piano pensionist i-
co».
«Potranno andare di pattuglia al Centro dei Re. Dopotutto, sono soltanto umani».
«Giusto, signore». Quando Sam è di questo umore, pensò Colon, devi essere d’accordo su tutto. «Sta vera-
mente prendendo sul serio questa storia della parità, eh, signore?»
«Al momento arruolerei anche una gorgone!»
«C’è sempre il signor Bleakley, signore, è stufo di lavorare dal macellaio kasher e...»
«Ma niente vampiri. Mai un vampiro. Adesso muoviamoci, Fred».

***
Nobby Nobbs avrebbe dovuto saperlo. Ecco cosa stava dicendo a se stesso mentre arrancava per le strade.
Tutte quelle storie su re e altra roba... volevano che lui...
Era un pensiero terribile...
Si offrisse volontario.
Nobby aveva passato la vita con un’uniforme o con l’altra. Una delle lezioni di base che aveva imparato era
che gli uomini con facce rubizze e voci affettate non rendevano mai e poi mai la vita facile a gente come
Nobby. Chiedevano volontari per fare qualcosa di ‘grande e pulito’ e finivi con il ramazzare un maledetto e
grosso ponte levatoio; domandavano: «A qualcuno qui piace il buon cibo?» e sbucciavi patate per una setti-
mana. Non si doveva mai e poi mai offrirsi volontari. Nemmeno se ti si presentava un sergente e ti diceva:
«Abbiamo bisogno di qualcuno che beva alcool a bottiglie e faccia appassionatamente l’amore con un sacco
di donne». C’era sempre un inghippo. Se un coro di angeli chiedeva che i volontari per il Paradiso facessero
un passo avanti, Nobby era abbastanza scafato da sapere di doverne fare uno indietro.
Quando fosse arrivata la chiamata per il Caporale Nobbs, non lo avrebbero trovato desideroso. Forse non lo
avrebbero trovato affatto.
Nobby evitò un branco di maiali al centro della strada. Nemmeno il Signor Vimes si aspettava che lui si of-
frisse mai volontario. Rispettava il suo orgoglio.
A Nobby faceva male la testa. Dovevano essere state le uova di quaglia, di sicuro. Non potevano essere uc-
celli sani se facevano uova tanto striminzite.
Scansò una mucca che aveva infilato la testa nella finestra di qualcuno.
Nobby re? Oh, sì. Nessuno dava mai niente a un Nobbs eccetto forse una malattia della pelle o sessanta fru-
state. Quello era decisamente un mondo mangia-Nobbs. Se ci fosse stata una gara per i perdenti, un Nobbs
sarebbe arrivato pri... ultimo.
Smise di correre e si fermò nell’androne di una porta. Nelle sue gradevoli ombre estrasse una cortissima siga-
retta da dietro un orecchio e l’accese.
Adesso che si sentiva sufficientemente al sicuro per pensare ad altro che non a fuggire, si chiese cosa fossero
tutti quegli animali che parevano affollare le strade. A differenza dell’albero genealogico che aveva prodotto
Fred Colon come frutto, lo strisciante viticcio dei Nobbs era fiorito soltanto all’interno delle mura cittadine.
Nobby aveva il vago concetto che gli animali fossero fondamentalmente cibo e lì si fermava. Era tuttavia ab-
bastanza sicuro del fatto che non fossero tenuti a vagolare sudiciamente in giro.
Bande di uomini stavano cercando di recuperarli. Visto che erano stanchi e lavoravano per scopi diversi e gli
animali erano affamati e spaventati, tutto quello che stava accadendo era che le strade si stavano facendo ben
più melmose.
Nobby si rese conto di non essere solo nell’androne.
Abbassò lo sguardo.
Nell’ombra c’era anche una capra. Era scompigliata e puzzolente, ma voltò la testa e lanciò a Nobby
l’occhiata più consapevole che lui avesse mai visto sulla faccia di un animale. Inaspettatamente, e in modo
ben poco tipico, Nobby venne colpito da un senso di solidarietà.
Prese il fondo della sigaretta e la passò alla capra, che se lo mangiò.
«Un po’ per uno» disse Nobby.

***

Una miscellanea di bestiame si disperdeva freneticamente mentre Carota, Angua e Felicia si facevano strada
nel quartiere del mattatoio. Gli animali cercavano in particolar modo di tenersi lontano da Angua. A Felicia
sembrava quasi che ci fosse una barriera invisibile davanti a loro. Alcuni cercarono di salire sui muri o di
scappare in preda al panico in vicoli laterali.
«Perché hanno tanta paura?» domandò Felicia.
«Non ho idea» rispose Angua.
Qualche pecora impazzita scappò via quando svoltarono l’angolo della fabbrica di candele. La luce che fil-
trava dalle alte finestre indicava che la fabbricazione delle candele procedeva per tutta la notte.
«Fanno quasi mezzo milione di candele ogni ventiquattro ore» disse Carota. «Ho sentito dire che hanno dei
macchinari molto moderni. Mi sembra molto interessante. Mi piacerebbe vederli».
In fondo alla struttura la luce scintillava nella nebbia. Cassette di candele venivano sistemate su una serie di
carri.
«Mi sembra tutto abbastanza normale» osservò Carota mentre si nascondevano in un comodo androne buio.
«Sono abbastanza indaffarati».
«Non capisco proprio a cosa serva stare qui» osservò Angua. «Non appena ci avranno visti potranno distrug-
gere qualsiasi prova. E anche se trovassimo l’arsenico? Non è un crimine possedere arsenico, no?»
«Ehm... è un crimine possedere quello?» sussurrò Felicia.
Un golem stava camminando lentamente lungo il vicolo. Era decisamente diverso da qualsiasi altro golem
avessero mai visto. Gli altri erano antichi e si erano autoriparati così tante volte da risultare informi come un
biscotto dalla forma di ometto, questo invece sembrava un umano, quanto meno come un umano sarebbe vo-
luto apparire. Assomigliava a una statua fatta di argilla bianca. Attorno alla testa, parte del disegno stesso,
aveva una corona.
«Avevo ragione» mormorò Carota. «Si sono effettivamente fatti un golem. Poveri diavoli. Hanno pensato che
un re li avrebbe resi liberi».
«Guarda le sue gambe» disse Angua.
Mentre il golem camminava, linee di luce rossa apparivano e scomparivano su tutte le gambe e attraverso
corpo e braccia. «Si sta crepando» aggiunse lei.
«Sapevo che non era possibile cuocere dell’argilla in un vecchio forno per pane!» esclamò Felicia. «Non è
della forma giusta!»
Il golem aprì una porta e scomparve all’interno della fabbrica.
«Andiamo!» disse Carota.
«Il Comandante Vimes ci ha detto di aspettarlo» replicò Angua.
«Già, ma noi non sappiamo cosa sta succedendo lì dentro» spiegò Carota. «Inoltre a lui piace che mostriamo
iniziativa. Non possiamo restare semplicemente qui ad aspettare».
Sfrecciò attraverso il vicolo e aprì la porta.
C’erano delle cassette accatastate all’interno con uno stretto passaggio fra le une e le altre. Tutto attorno a lo-
ro, ma attutiti leggermente dalle cassette, provenivano i rumori tipici della fabbrica. L’aria puzzava di cera
calda.
Felicia si accorse di una conversazione sussurrata che stava avendo luogo a ben più di un metro di altezza so-
pra il suo piccolo elmetto rotondo.
«Vorrei tanto che il Signor Vimes non avesse voluto che la portassimo. Supponiamo che le succeda qualche
cosa?» «Di che stai parlando?»
«Be’... sai... è una ragazza».
«E allora? Ci sono già almeno tre nani femmina nella Guardia e tu non ti preoccupi per loro».
«Oh, ma figurati... dimmene una».
«Lars Bevidalcranio, per esempio».
«No! Davvero?»«Dai del bugiardo al mio naso?»
«Ma ha messo fine a una rissa al Minatore d’Oro da solo, la settimana scorsa!»
«Allora? Perché devi sempre presumere che le femmine siano più deboli? Non ti preoccuperesti se io mi lan-
ciassi in una brutta rissa da bar da sola».
«Aiuterei se necessario».
«Me o loro?»
«Non è giusto!»
«Davvero?»
«Non li aiuterei a meno che tu non diventassi davvero dura».
«Ah, sì? E dicono che la cavalleria è morta...»
«Comunque, Felicia è... un’altra cosa. Sono certo che lui... lei sia brava con l’alchimia ma faremmo meglio
a pararle le spalle in un combattimento. Aspetta...»
Erano entrati all’interno della fabbrica.
Le candele si muovevano rapidamente sopra le loro teste... centinaia, migliaia... appese per gli stoppini su
un’infinita catena di complessi collegamenti di legno che zigzagavano su e giù per il lungo stanzone.
«Ne avevo sentito parlare» disse Carota. «La chiamano catena di produzione. È un modo per fare migliaia di
oggetti identici. Ma guarda che velocità! Sono stupito che una ruota di mulino possa...»
Angua indicò. C’era una ruota che cigolava vicino a lei, ma non c’era niente a muoverla.
«Qualcosa deve pure alimentare tutto questo» osservò Angua.
Carota indicò a sua volta. Più avanti nel salone la linea zigzagante convergeva in un nodo complesso. Al cen-
tro si trovava una figura, con le braccia che si muovevano in un turbine.
Appena di fianco a Carota la linea terminava davanti a un grosso cassone di legno. Le candele vi piovevano
dentro. Nessuno l’aveva svuotato e quelle si rovesciavano sopra la pila andando poi a rotolare sul pavimento.
«Felicia» disse Carota. «Sai usare qualche arma?»
«Ehm... no, Capitano Carota».
«Bene. Allora vai ad aspettare nel vicolo. Non voglio che ti venga fatto alcun male».
Lei si allontanò trotterellando, con espressione sollevata.
Angua annusò l’aria. «Qui c’è stato un vampiro» disse.
«Penso che faremmo...» cominciò a dire Carota.
«Sapevo che l’avreste scoperto! Vorrei tanto non avere mai comperato quel maledetto affare! Ho una bale-
stra! Vi avverto, ho una balestra!»
Si voltarono. «Oh, Signor Carry» lo salutò Carota allegramente. Tirò fuori il proprio distintivo. «Capitano
Carota, Guardia Cittadina di Ankh-Morpork...»
«So chi siete! So chi siete! E cosa siete, anche! Sapevo che sareste venuti! Ho una balestra e non ho paura di
usarla!» La punta della balestra oscillò in modo incerto dimostrando che era un bugiardo.
«Davvero?» domandò Angua. «Che cosa siamo?»
«Non volevo nemmeno essere coinvolto!» esclamò Carry. «Ha ucciso quei vecchi, vero?»
«Sì» rispose Carota.
«Perché? Io non gli ho detto di farlo!»
«Perché hanno aiutato a crearlo, penso» rispose Carota. «Lui sapeva a chi dare la colpa».
«Me lo hanno venduto i golem!» disse Carry. «Pensavo mi avrebbe aiutato a migliorare il giro d’affari, ma
quel maledetto aggeggio non si ferma più...»
Sollevò lo sguardo verso la fila di candele che si muovevano rapidamente sopra di loro, ma riabbassò la testa
prima che Angua potesse intervenire.
«Lavora duro, eh?»
«Puah!» Carry non aveva l’aria di uno che si diverte per una battuta. Pareva un uomo in preda a un tormento
interiore. «Ho licenziato tutti eccetto le ragazze del reparto imballaggio e loro lavorano su tre turni e fanno
gli straordinari! Ho in giro quattro uomini in cerca di sego per candele, due che negoziano stoppini e tre che
cercano di acquistare nuovi spazi di magazzinaggio!»«Allora gli faccia smettere di produrre candele» suggerì
Carota.
«Vaga per le strade quando siamo a corto di sego! Volete che vada in giro alla ricerca di qualcosa da fare?
Ehi, voi due restate vicini!» aggiunse con urgenza Carry, agitando la balestra.
«Ascolti, tutto quello che deve fare è cambiare le parole nella sua testa» disse Carota.
«Non me lo ha permesso! Non pensate che ci abbia provato?»
«Non può non permetterglielo» replicò Carota. «I golem devono lasciare...»
«Ho detto che non me lo ha permesso!»
«Che mi dice delle candele avvelenate?» domandò Carota. «Quella non è stata un’idea mia!»
«Di chi è stata?»
La balestra di Carry prese a oscillare avanti e indietro. Lui si passò la lingua sulle labbra. «È andato tutto
troppo oltre» disse. «Io mi ritiro».
«Di chi è stata l’idea, Signor Carry?»
«Non voglio finire in un vicolo da qualche parte con tanto sangue in corpo quanto una banana!»
«Ma, insomma, noi non le faremmo niente del genere» osservò Carota.
Il Signor Carry stava esportando terrore. Angua poteva sentirlo grondare fuori da lui. Avrebbe potuto preme-
re il grilletto per puro panico.
C’era anche un altro odore. «Chi è il vampiro?» domandò lei.
Per un momento Angua pensò che l’uomo avrebbe sparato. «Io non ho mai detto nulla di lui!»
«Ha dell’aglio in tasca» aggiunse la ragazza. «E questo posto puzza di vampiro».
«Ha detto che avremmo potuto far fare al golem qualsiasi cosa» bofonchiò Carry.
«Come produrre candele avvelenate?» chiese Carota.
«Sì, ma ha detto che serviva soltanto a tenere Vetinari lontano dai piedi» spiegò Carry. Sembrò riprendere un
parziale controllo di sé. «E non è morto, se no lo avrei saputo» disse, «Non penso che farlo star male sia un
crimine, quindi voi non potete...»
«Le candele hanno ucciso altre due persone» replicò Carota.
Carry ricominciò a farsi prendere dal panico. «Chi?»
«Una vecchia e un bambino in Via del Galletto».
«Erano importanti?» domandò Carry.
Carota annuì fra sé. «Mi stava quasi facendo pena» gli disse. «Fino a ora. Lei è un uomo fortunato, Signor
Carry».
«Lo pensa davvero?»
«Oh, sì. Siamo arrivati prima noi da lei del Comandante Vimes. Adesso, metta via la balestra e potremo par-
lare di...»
Si udì un rumore. O meglio, l’improvvisa cessazione di un rumore che era stato talmente invasivo da non es-
sere più sentito a livello conscio.
La linea di produzione si era fermata. Si sentì un coro di colpi di cera quando le candele, oscillando, andaro-
no a sbattere l’una contro l’altra e quindi si sviluppò il silenzio. L’ultima candela cadde dalla linea, rotolò sul
cumulo del carro e rimbalzò sul pavimento.
Nel silenzio si udì un rumore di passi.
Carry cominciò a indietreggiare. «Troppo tardi!» gemette.
Sia Carota che Angua videro muovere il suo dito.
Angua spinse Carota di lato mentre la branca rilasciava la corda, ma la mano di lui si stava già sollevando in
alto e di lato. Lei udì il suono stomachevole e lacerante mentre il palmo di lui le si parava di fronte al volto e
il suo gemito quando la forza del dardo lo fece ruotare su se stesso.
Carota atterrò pesantemente al suolo, stringendosi la mano sinistra. Il dardo di balestra gli spuntava dal pal-
mo.
Angua si accucciò. «Non sembra uncinato, lascia che lo tiri...»
Carota le afferrò il polso. «La punta è d’argento! Non toccarlo!»
Entrambi sollevarono lo sguardo quando un’ombra attraversò la luce.
Il re dei golem la fissò.
Lei sentì che le unghie e i denti le si stavano allungando. Vide quindi il volto piccolo e tondo di Felicia che
sbirciava nervosamente da dietro una pila di cassette. Angua combatté i propri istinti di lupo mannaro e gri-
dò: «Ferma!» alla nana e a ogni follicolo di pelo che si stava gonfiando ed esitò se inseguire Carry in fuga o
trascinare Carota al sicuro.
Disse di nuovo al proprio corpo che la forma di lupo non era un’opzione auspicabile. C’erano troppi odori
strani, troppi fuochi...
Il golem scintillava di cera e di sego.
Lei indietreggiò.
Dietro al golem vide Felicia che guardava giù verso il gemente Carota e poi su a un’accetta antincendio ag-
ganciata a una parete. La nana la tirò giù e la soppesò con incertezza nelle mani.
«Non ci provare...» cominciò a dire Angua.
«T’dr’duzk b’hazg t’t.!»
«Oh, no!» gemette Carota. «Quello no!»
Felicia si avvicinò di corsa al golem da dietro e lo puntò alla vita. L’accetta rimbalzò, lei piroettò per lo slan-
cio e beccò la statua sulla coscia, staccando un pezzetto di argilla.
Angua esitò. L’accetta creava orbite furiose attorno al golem mentre Felicia strillava terribili grida di batta-
glia. Angua non riuscì a distinguere neppure una parola ma molte grida di battaglia dei nani non brillavano
per l’utilizzo di troppe parole. Puntavano direttamente a evocare emozioni in forma sonora. Schegge di argil-
la rimbalzarono contro le cassette a ogni colpo inflitto.
«Che cosa ha gridato?» domandò Angua, mentre trascinava via Carota.
«E il grido di battaglia dei nani più minaccioso che esista! Una volta lanciato qualcuno deve venire ucciso!»
«Che significa?»
«Oggi È Un Buon Giorno Perché Qualcun Altro Muoia!»
Il golem fissò la nana con un’espressione priva di curiosità, come un elefante che osserva un attacco sferrato-
gli da un pollo ribelle.
Afferrò quindi l’accetta a mezz’aria, con Felicia che la seguiva in scia come una cometa, e la scaraventò da
un lato.
Angua fece alzare in piedi Carota. Dalla mano di lui gocciolava del sangue. Lei cercò di chiudere le proprie
narici. Domani è luna piena. Non ho più scelta.
«Forse potremmo discuterne...» cominciò a dire Carota.
«Attenzione! Qui siamo nel mondo reale!» gli gridò Angua.
Carota estrasse la spada. «Ti dichiaro in arresto...» cominciò.
Il braccio del golem partì di lato. La spada si conficcò fino all’elsa in una cassetta di candele.
«Hai altre idee brillanti?» domandò Angua mentre indietreggiavano. «Oppure adesso ce ne possiamo anda-
re?»
«No. Dobbiamo fermarlo».
I loro calcagni andarono a sbattere contro una parete di cassette.
«Penso che abbiamo trovato il posto giusto» commentò Angua mentre il golem sollevava nuovamente i pu-
gni. «Tu lanciati a destra. Io a sinistra. Forse...»
Un colpo scosse il grosso portone a due ante sulla parete opposta.
Il re dei golem girò la testa.
La porta vibrò di nuovo ed esplose verso l’interno. Per un istante, Dorfl apparve incorniciato nell’arco della
porta. A quel punto abbassò la testa, allargò le braccia e caricò.
Non si trattava di una corsa molto veloce, ma possedeva una terribile quantità di moto, come il lento avanzare
di un ghiacciaio. Le assi del pavimento sobbalzarono e rimbombarono sotto di lui.
I golem entrarono fragorosamente il collisione al centro della stanza. Le crepe, come linee dentellate di fuoco
si estesero attraverso il corpo del re, ma quello tuonò, agguantò Dorfl per la vita e lo scagliò contro un muro.
«Vieni via» incalzò Angua. «Adesso possiamo trovare Felicia e andarcene fuori di qui?»
«Dovremmo aiutarlo» disse Carota mentre i golem si scontravano nuovamente l’uno contro l’altro.
«Come? Se quella cosa... se lui non può fermarlo, cosa ti fa pensare che ci possiamo riuscire noi? Vieni via!»
Carota la allontanò.
Dorfl si rialzò dalle macerie del muro e caricò nuovamente. I golem si scontrarono, graffiandosi a vicenda
per cercare un appiglio. Restarono avvinghiati per un momento, scricchiolando, e poi Dorfl sollevò una mano
tenendo qualcosa. Dorfl indietreggiò di un passo e picchiò violentemente la testa dell’altro golem con la sua
stessa gamba.
Mentre quello ruotava su se stesso, Dorfl fece scattare anche l’altra mano che venne però bloccata. Il re girò
con una strana grazia, trascinò Dorfl a terra, rotolò e scalciò. Anche Dorfl rotolò. Allargò le braccia per fer-
marsi e si voltò per vedere entrambi i propri piedi muoversi come una girandola nel muro.
Il re recuperò la propria gamba, restò in equilibrio per un istante, e la rimise a posto.
A quel punto il suo sguardo infuocato cominciò a rastrellare la fabbrica e si infiammò quando scorse Carota.
«Deve esserci un modo per uscire di qui» mormorò Angua. «Carry è uscito!»
Il re cominciò a rincorrerli, ma si imbatté immediatamente in un problema. Si era attaccato la gamba al con-
trario. Cominciò a zoppicare in cerchio ma, non si sa come, il cerchio si avvicinava sempre di più a loro.
«Non possiamo lasciare Dorfl steso lì» disse Carota.
Estrasse una lunga sbarra di metallo da una cisterna per la mescolatura e si riportò sul pavimento incrostato di
grasso.
Il re sfrecciò verso di lui. Carota balzò indietro, si stabilizzò su una ringhiera e sferrò un colpo.
Il golem sollevò una mano, colse la spranga a mezz’aria e la scagliò di lato. Alzò quindi entrambi i pugni e
cercò di avanzare.
Non riuscì a muoversi. Guardò in basso.
«Thsss» disse ciò che restava di Dorfl, mentre gli bloccava la caviglia.
Il re si chinò, sferrò un colpo col taglio della mano e tagliò via tranquillamente la parte superiore della testa
di Dorfl. Ne rimosse il chem e lo accartocciò.
Il bagliore negli occhi di Dorfl si spense.
Angua si lanciò contro Carota con tale violenza che lui rischiò di cadere. Lo avvinghiò con entrambe le brac-
cia e cercò di trascinarlo con sé.
«Ha appena ucciso Dorfl, senza fare una piega!» esclamò Carota.
«È vero, è un peccato» commentò Angua. «Quanto meno lo sarebbe se Dorfl fosse stato vivo. Carota, loro
sono... macchinari. Ascolta, possiamo raggiungere la porta...»
Carota si divincolò. «È omicidio» disse. «Noi siamo guardie. Non possiamo stare solo a... guardare! Lo ha
ucciso!»
«È un oggetto e lo è anche l’altro...»
Il Comandante Vimes ha detto che qualcuno deve parlare anche per chi non ha voce!»
Ci crede davvero, pensò Angua. Vimes ha messo delle parole nella sua, di testa.
«Tienilo occupato!» gridò e sfrecciò via.
«Come? Devo organizzare un bel coro?»
«Ho un piano».
«Oh, bene!»

***

Vimes sollevò lo sguardo sull’ingresso della fabbrica di candele. Riuscì a distinguere a malapena due lam-
pioncini che bruciavano su entrambi i lati di uno stemma. «Guarda che roba, eh?» commentò. «La vernice è
ancora fresca e lui già ostenta quell’affare perché lo possa vedere il mondo intero!»
«Che cos’è, signore?» domandò Detritus.«Il suo dannato stemma araldico!»
Detritus sollevò lo sguardo. «Perché c’è su un pesce acceso?» disse.
In araldica si chiama poisson» spiegò Vimes amareggiato. «E quella dovrebbe essere una lampada».
«Una lampada fatta con un poisson» disse Detritus. «Be’, bella cosa».
«Quanto meno il motto è scritto in una lingua decente» commentò il Sergente Colon. «Invece di quella ro-
baccia antica che tanto non capisce nessuno. ‘L’Arte Portò Avanti La Candela’: questo, Sergente Detritus, è
un gioco di parole perché lui si chiama Artemisio, capisci?»
Vimes, che si trovava in mezzo ai due sergenti, sentì un foro aprirglisi nella testa.
«Maledizione!» esclamò. «Maledizione, maledizione, maledizione! Me lo ha anche mostrato! ‘Quello scemo
e tonto di un Vimes! Lui non lo noterà!’ Oh, certo! E aveva ragione!»
«Non è un gran che» commentò Colon. «Voglio dire che bisogna sapere che il Signor Carry si chiama Arte-
misio...» «Chiudi il becco, Fred!» disse bruscamente Vimes. «Lo sto già chiudendo, signore».
«L’arroganza di quel... Chi è quello?»
Una figura sfrecciò fuori dall’edificio, si lanciò un’occhiata fugace attorno e sgattaiolò lungo la strada.
«Quello è Carry!» esclamò Vimes. Non aveva nemmeno gridato: «Inseguiamolo!» che era già scattato da una
partenza in piedi a una corsa sfrenata. La figura in fuga schivò l’occasionale pecora o maiale dispersi. Non se
la cavava male a correre ma Vimes era alimentato da pura rabbia e si trovava ormai soltanto a qualche metro
di distanza quando Carry si infilò in un vicolo.
Vimes si fermò di scatto e si accostò al muro. Gli aveva visto in mano la sagoma di una balestra e una delle
cose che si imparavano nella Guardia... o meglio, una delle cose che si sperava si potesse avere l’occasione di
imparare... era che era davvero stupido inseguire uno con una balestra in un vicolo scuro, visto che ci si sa-
rebbe trovati a rappresentare un bel bersaglio stagliandosi controluce.
«So che è lei, Carry!» gridò.
«Ho una balestra!»
«Può far partire un solo colpo!»
«Voglio essere considerato un testimone d’accusa!»
«Indovinato!»
Carry abbassò la voce. «Loro mi hanno semplicemente detto che avrei potuto farlo fare a quel maledetto go-
lem. Non pensavo che nessuno si sarebbe fatto del male».
«Certo, certo» commentò Vimes. «Ha prodotto candele avvelenate perché facevano una luce migliore, im-
magino».
«Sa bene quello che volevo dire! Loro mi hanno detto che sarebbe andato tutto bene e...»
«Chi sarebbero questi ‘loro’?»
«Loro hanno detto che non lo avrebbe mai scoperto nessuno!»
«Davvero?»
«Ascolti, loro hanno detto che potevano...» La voce si interruppe e assunse quella tonalità lusinghiera tipica
degli ottusi quando cercano di apparire acuti.
«Se le dico tutto mi lascerà andare, vero?»
I due sergenti li avevano raggiunti. Vimes attirò Detritus verso di sé anche se, in effetti, finì con l’attirare se
stesso verso Detritus.
«Gira attorno all’angolo e fai in modo che non esca dall’altra parte del vicolo» sussurrò. Il troll annuì.
«Cosa vuole dirmi, Signor Carry?» domandò Vimes all’oscurità nel vicolo.
«Affare fatto?»
«Cosa?»
«Affare fatto».
No, non abbiamo fatto assolutamente alcun affare, Signor Carry! Non sono un commerciante! Sa però che
cosa le dico, Signor Carry? L’hanno tradita!»
Dall’oscurità provenne solo silenzio e poi un suono simile a un sospiro.
Alle spalle di Vimes, il Sergente Colon batteva i piedi sull’acciottolato per scaldarsi.
«Non può restare lì tutta la notte, Signor Carry» osservò Vimes.
Si udì un ulteriore suono, ruvido. Vimes sollevò lo sguardo sulle spire di nebbia. «C’è qualcosa di storto»
disse. «Andiamo!»
Corse nel vicolo. Il Sergente Colon lo seguì, secondo il principio che andava bene correre in un vicolo in cui
si trovava un uomo armato sempre che lo si facesse dietro a qualcun altro.
Una figura si profilò davanti a loro.
«Detritus?»
Sì, signore!
«Dov’è andato? Non ci sono porte nel vicolo!»
A quel punto i suoi occhi si abituarono all’oscurità. Vide una sagoma rannicchiata contro un muro e andò a
cozzare col piede contro una balestra. «Signor Carry?»
Si inginocchiò e accese un fiammifero.
«Oh, è terribile» disse il Sergente Colon. «Qualcosa gli ha rotto il collo...»
«È morto?» domandò Detritus. «Vuole che gli tracci attorno un profilo col gesso?»
«Non penso che dobbiamo prenderci la fatica di farlo, sergente».
«Non è una fatica, ho qui il gesso».
Vimes sollevò lo sguardo. La nebbia riempiva il vicolo ma non c’erano scale né comodi tetti bassi.
«Vediamo di uscire da qui»disse.

***

Angua affrontò il re.


Resistette al terribile impulso di cambiare. Perfino le zanne di un lupo mannaro non avrebbero avuto, proba-
bilmente, alcun effetto su quella cosa. Quello non aveva una giugulare. Non osò distogliere lo sguardo. Il re
si spostava con incertezza, con piccoli scatti e contrazioni che in un umano avrebbero significato pazzia. Le
sue braccia si muovevano in fretta ma in modo scoordinato, come se i segnali inviati loro non stessero arri-
vando correttamente. L’attacco di Dorfl l’aveva danneggiato. Ogni volta che si muoveva una luce rossa bril-
lava da dozzine di nuove crepe.
«Ti stai spaccando!» gridò lei. «Il forno non era adatto per l’argilla!»
Il re le si lanciò contro. Lei lo schivò e sentì la mano di lui affettare una fila di candele.
«Sei friabile! Sei cotto come una pagnotta! Sei mezzo crudo!»
Estrasse la propria spada. Di solito non la usava un granché. Trovava che un sorriso avesse un effetto miglio-
re. Una mano le staccò la punta della lama.
Lei fissò inorridita il metallo spezzato e poi piroettò indietro quando un altro colpo le ronzò oltre il volto.
Atterrò con un piede su una candela e cadde violentemente, ma con la presenza di spirito sufficiente da roto-
lare via prima che un altro piede la calpestasse.
«Dove sei andato?» strillò lei.
«Riesci a farlo avvicinare un po’ di più alla porta, per favore?» disse una voce dall’oscurità, in alto.
Carota strisciò fuori lungo la struttura traballante che sorreggeva la linea di produzione.
«Carota!»
«Ci sono quasi...»
Il re le afferrò una gamba. Lei sferrò un calcio con l’altro piede e lo colpì su un ginocchio.
Con sua sorpresa lo fece crepare. Il fuoco interno, tuttavia, era ancora presente. I pezzi di argilla sembravano
quasi fluttuarvi sopra. Nonostante tutto ciò che gli si poteva fare, il golem funzionava, anche in forma di pol-
vere d’argilla tenuta insieme.
«Oh. Bene» disse Carota e si lanciò dalla struttura di sostegno.
Atterrò sulla schiena del re, gli strinse un braccio attorno al collo e cominciò a picchiargli sulla testa con
l’elsa della spada. Quello barcollò e cercò di ghermirlo per disarcionarlo.
«Devo portargli via le parole!» gridò Carota mentre le braccia gli si agitavano contro. «È l’unico... modo!»
Il re barcollò in avanti e andò a colpire una pila di scatole che si ruppero e riversarono candele sul pavimento.
Carota lo afferrò per le orecchie e tentò di torcerle.
Angua lo sentì dire: «Tu... hai... il diritto... di avere... un avvocato...»
«Carota! Non perdere tempo coi suoi maledetti diritti!»
«Tu... hai... il diritto di...»
«Digli solo gli ultimi!
Ci fu un tumulto presso il portone aperto e Vimes entrò dentro a spada tratta. «Oh, cielo... Sergente Detri-
tus!» Detritus apparve alle sue spalle. «Signore!»
«Dardo di balestra alla testa, se non le spiace!»
«Se lo dice lei, signore...»
«La sua testa, sergente! La mia è a posto! Carota, scenda da quell’affare!
«Non riesco ad aprirgli la testa, signore!»
«Proveremo con un metro e ottanta di acciaio nell’orecchio non appena lei sarà sceso da quel maledetto affa-
re!»
Carota si bilanciò sulle spalle del re, cercò di valutare il momento giusto mentre l’essere barcollava e saltò
giù.
Atterrò goffamente su un instabile cumulo di candele. Gli cedette una gamba e rotolò giù finché non venne
bloccato dal guscio inerte che era stato Dorfl.
Ehi, guarda da questa parte, mister!» gridò Detritus. Il re si voltò.
Vimes non colse tutto quello che accadde successivamente, visto che accadde tutto troppo in fretta. Si rese
appena conto del sibilo dell’aria e dell’impatto del dardo che rimbalzava, che si mischiava con lo schianto del
legno, conficcandosi nello stipite alle sue spalle.
E il golem incombeva ormai su Carota che stava cercando di sgattaiolare via.
Il golem sollevò un pugno, lo abbassò...
Vimes non lo vide nemmeno, ma il braccio di Dorfl era lì, ad afferrare all’improvviso il polso del re.
Piccole stelle di luce infiammarono gli occhi di Dorfl. «Tssss!»
Il re scattò indietro per la sorpresa: Dorfl lo trattenne e si sollevò su quello che restava delle sue gambe. Al-
zandosi, alzò anche il pugno.
Il tempo rallentò. Nell’universo non si mosse nulla a parte il pugno di Dorfl.
Partì come un pianeta, senza alcuna velocità apparente ma con un’inarrestabile potenza.
Un attimo prima del colpo, l’espressione del re mutò: sorrise.
Subito dopo, la sua testa esplose. Vimes visse l’accaduto come al rallentatore, un lungo secondo di vasellame
fluttuante. E di parole. Volarono fuori brandelli di carta, a dozzine, a centinaia, ricadendo poi delicatamente a
terra.
Lentamente, serenamente, il re si abbatté al suolo. La luce rossa si spense, le crepe si aprirono e non restaro-
no altro che cocci.
Dorfl vi crollò sopra.
Angua e Vimes raggiunsero Carota nello stesso momento.
«Si è animato!» esclamò Carota, arrancando in piedi. «Quell’affare stava per uccidermi e Dorfl si è animato!
Ma quella cosa gli aveva tirato via le parole dalla testa! Un golem deve avere le parole!»
«Al loro golem ne hanno date troppe, a quel che vedo» commentò Vimes.
Prese in mano alcuni dei pezzetti di carta.
... creare pace e giustizia per tutti... ... governare saggiamente...
... darci la liberta...
...condurci a...
Povero diavolo, pensò.
«Andiamo a casa. Bisogna curare quella mano...» disse Angua.
«Ma volete starmi a sentire?» esclamò Carota. «È vivo!»
Vimes si inginocchiò vicino a Dorfl. Il cranio di argilla rotto era vuoto come il guscio dell’uovo della cola-
zione del giorno prima. C’era tuttavia un puntino di luce in ognuna delle due orbite.
«Ussss» sibilò Dorfl, così debolmente che Vimes non fu nemmeno sicuro di averlo sentito sul serio.
Grattò il pavimento con un dito.
«Sta cercando di scrivere qualcosa?» suggerì Angua.
Vimes estrasse il proprio taccuino, lo infilò sotto la mano di Dorfl e gli pose delicatamente una matita tra le
dita. Guardarono la mano che scriveva... in modo un po’ traballante, ma pur sempre con la meccanica preci-
sione di un golem... otto parole.
Quindi si fermò. La matita gli scivolò via. La luce negli occhi si affievolì e si spense.
«Santo cielo» sussurrò Angua. «Non hanno bisogno delle parole nella testa...»
«Lo possiamo ricostruire» disse Carota con voce roca. «Abbiamo l’argilla».
Vimes fissò le parole e poi ciò che rimaneva di Dorfl. «Signor Vimes?»
«Lo faccia» rispose Vimes.
Carota strizzò gli occhi.
«Subito» aggiunse Vimes. Tornò a fissare le parole scritte sul suo taccuino.
le parole nel cuore non possono essere tolte.
«E quando lo fa ricostruire» disse ancora, «quando lo fa ricostruire... gli faccia dare una voce. Capito? E veda
che qualcuno si occupi della sua mano».
«Una voce, signore?»
«Lo faccia!»
«Sì, signore».
«D’accordo». Vimes si ricompose. «Io e l’Agente Angua daremo un’occhiata qui attorno. Lei vada» .
Vimes osservò Carota e il troll portare via i resti di Dorfl.
«Ok» disse. «Stiamo cercando arsenico. Forse ci sarà un piccolo laboratorio da qualche parte. Non penso
proprio che volessero mischiare le candele avvelenate con le altre. Felicia saprà cosa... Dov’è il Caporale Cu-
letto?»
«Ehm... non penso di riuscire a resistere ancora a lungo...»
Sollevarono lo sguardo.
Felicia stava appesa alla catena di candele.
«Come ha fatto ad arrivare lassù?» domandò Vimes. «Mi sono praticamente trovata di passaggio, signore».
«Non può semplicemente lasciarsi cadere? Non è così in alto... Oh...»
Sotto i piedi di lei si trovava un enorme crogiolo di sego bollente. Di tanto in tanto sulla superficie si apriva
una bolla...
«Ehm... quanto pensi sia caldo?» sibilò Vimes ad Angua. «Ha mai dato un morso a qualcosa con dentro
marmellata bollente?» rispose lei.
Vimes alzò la voce. «Può cercare di dondolarsi, caporale?»
«Tutto il legno è scivoloso, signore!»
«Caporale Culetto, le ordino di non cadere!»
«Molto bene, signore!»
Vimes si tolse la giacca. «Reggi qui. Vedrò se riesco ad arrampicarmi su...» mormorò.
«Non funzionerà!» esclamò Angua. «Quella struttura è già anche troppo traballante!»
«Sento che mi scivolano le mani, signore!»
«Santo cielo, perché non ha chiamato prima?» «Sembrava che avessero tutti da fare, signore».
«Si volti, signore» disse Angua, sganciando le fibbie del pettorale. «Subito, la prego! E chiuda gli occhi!»
«Perché, cosa...?»
«Sssuuubittto, siggnnorrrre!»
«Oh... sì...»
Vimes sentì Angua indietreggiare dalla macchina delle candele, i suoi passi sottolineati dal clangore di pezzi
di armatura che cadevano a terra. Cominciò quindi a correre e i passi cambiarono mentre lei avanzava e...
Aprì gli occhi.
Il lupo si lanciò verso l’alto, al rallentatore, afferrò tra le fauci la spalla di Felicia proprio mentre lei stava la-
sciando la presa, quindi inarcò il corpo così che entrambi toccarono il pavimento dall’altra parte del crogiolo.
Angua rotolò per terra, uggiolando.
Felicia arrancò in piedi. «È un lupo mannaro!» Angua rotolò avanti e indietro, toccandosi la bocca con la
zampa.
«Che gli è successo?» domandò Felicia mentre il senso di panico la stava abbandonando. «Pare... ferito. Ma
dov’è Angua? Oh...»
Vimes lanciò un’occhiata alla camicia lacera della nana. «Indossi una cotta di maglia sotto i vestiti?» chiese.
«Oh... è la mia maglia d’argento... ma lei lo sapeva. Gliel’ho detto io...»
Vimes afferrò il collare di Angua. Lei si girò per morderlo, quindi colse il suo sguardo e voltò la testa.
«Ha solo morso l’argento» disse Felicia sconcertata.
Angua si alzò in piedi, lanciò loro un’occhiata truce e si nascose dietro alcune casse. Sentirono l’uggiolare
che, gradatamente, si trasformò in una voce.
«Maledetti quei nani maledetti e le loro maledette cotte di maglia...»
«Ti senti bene, agente?» domandò Vimes.
«Maledetta maglia d’argento... Mi può lanciare i vestiti, per favore?»
Vimes appallottolò l’uniforme di Angua e, a occhi chiusi per una questione di decenza, gliela consegnò dietro
le casse.
«Nessuno mi ha detto che lei era un lup...» gemette Felicia.
«Mettiamola così, caporale» replicò Vimes con l’atteggiamento più paziente possibile. «Se lei non fosse stata
un lupo mannaro lei sarebbe al momento la più grossa candela regalo del mondo, capito?»
Angua uscì da dietro le casse, sfregandosi la bocca. La pelle attorno era tutta rossa...
Ti ha bruciato?» domandò Felicia.
«Guarirà» rispose Angua.
«Non hai mai detto di essere un lupo mannaro!» «Come avresti voluto che te lo spiegassi?»
«Giusto» osservò Vimes, «se adesso è tutto sistemato, signore mie, voglio che questo posto venga perquisito.
Capito?»
«Ho un po’ di unguento» disse Felicia mestamente. «Grazie».
Trovarono un sacchetto in una cantina. Trovarono svariate cassette di candele. Trovarono anche un sacco di
topi morti.

***

Igneous il troll aprì di una frazione la porta della propria fabbrica di vasi. Aveva pensato che la frazione non
dovesse essere maggiore di un sedicesimo, ma qualcuno dette un brusco spintone al battente e la trasformò in
un qualcosa di più simile a un uno e tre quarti.
«Ehi, cosa c’è?» disse mentre Detritus e Carota entravano tenendo fra loro il guscio di Dorfl. «Non potete
semplicemente entrare qui...»
«Non stiamo semplicemente entrando qui» commentò Detritus.
«È una vergogna» esclamò Igneous. «Non avete diritto di venire qui. Non avete motivo...»
Detritus lasciò andare il golem e si girò di scatto. La sua mano scattò in avanti e afferrò Igneous per la gola.
«Vedi quelle statuaggini di Monolite là dietro? Le vedi?» latrò torcendo la testa dell’altro troll così da metter-
la di fronte a una fila di statue religiose troll sul lato opposto del capannone. «Vuoi che ne spacco una per ve-
dere cosa c’è dentro e magari un motivo lo trovo?»
Gli occhi a fessura di Igneous sfrecciarono da una parte all’altra; si accorgeva di un umore da assassinio se ce
n’era nell’aria. «Non serve, ho sempre aiutato la Guardia» bofonchiò. «Di che si tratta?»
Carota appoggiò il golem su un tavolo. «Iniziamo da qui, allora» disse. «Ricostruiscilo. Usa tutta la vecchia
argilla possibile, capito?»
«Come può funzionare se ha le luci spente?» domandò Detritus ancora sconcertato per quella loro missione
di pietà. «Ha detto che l’argilla ricorda!»
Il sergente scrollò le spalle.
«E fagli una lingua» proseguì Carota.
Igneous apparve scioccato. «Quello non lo farò» esclamò. «Tutti sanno che è blasfemo se i golem parlano».
«Oh, davvero?» osservò Detritus. Attraversò il capannone fino al gruppo di statue e le guardò con espressio-
ne truce. Disse quindi: «Ooops, sto accidentalmente inciampando, 000, e afferro questa statua per sostenermi,
oh, si è staccato un braccio e ci sbatto contro la faccia... e che cos’è questa polvere bianca che vedo qui con i
miei occhi che sta casualmente cadendo sul pavimento?»
Si leccò un dito e assaggiò con cautela la roba.
«Lastra» latrò, tornando in direzione del tremante Igneous. Tu mi parli di cose blasfeme, coprolita sedimenta-
rio? Adesso fai subito quello che ha detto il Capitano Carota oppure esci da qui in un sacco!»
«Questa è brutalità da poliziotti...» bofonchiò Igneous. «No, questi sono solo urli da poliziotti!» strillò Detri-
tus. «Se vuoi assaggiare la brutalità a me va bene!»
Igneous cercò di arruffianarsi Carota. «Non è giusto, ha un distintivo e vuole intimorirmi, non può farlo» dis-
se.
Carota annuì. C’era uno scintillio nei suoi occhi che Igneous avrebbe dovuto notare. «È vero» commentò il
capito. «Sergente Detritus?»
«Signore?»
«È stata una lunga giornata per noi tutti. Può staccare dal servizio».
«Sissignore!» esclamò Detritus con considerevole entusiasmo. Si tolse il distintivo e lo appoggiò con grande
cura. A quel punto cominciò a togliersi l’armatura.
«Puoi vederla così» spiegò Carota. «Noi non stiamo creando una vita, stiamo soltanto dando alla vita un po-
sto in cui vivere».
Igneous cedette. «Ok, ok» balbettò. «Lo faccio. Lo faccio».
Osservò i vari pezzi e blocchi di argilla che erano tutto ciò che restava di Dorfl e si sfregò i licheni che aveva
sul mento.
«Qui c’è la maggior parte dei pezzi» disse mentre la professionalità scansava momentaneamente il risenti-
mento. «Potrei incollarli insieme con il cemento da essiccare. Dovrebbe riuscire se lo cuociamo di notte. Ve-
diamo un po’... mi sembra di averne laggiù...»
Detritus lanciò un’occhiata al proprio dito, ancora bianco di polvere e si avvicinò di soppiatto a Carota.
«L’ho leccato?» domandò.
«Ehm, sì» rispose Carota.
«Grazie al cielo!» commentò Detritus strizzando furiosamente gli occhi. «Odierei credere che questa stanza è
veramente piena di ragni pelosi gigant... blurp blurp...»
Si abbatté al suolo, ma allegramente.
«Anche se lo faccio non potrete farlo rivivere» si lagnò Igneous, tornando al proprio bancone. «Non troverete
un prete che scriverà le parole da mettergli nella testa, mai più».
«Si farà da solo le proprie parole» disse Carota.
«E chi starà a controllare il forno?» chiese Igneous. «Ci vorrà almeno fino a domani a colazione...»
«Non avevo intenzione di uscire per il resto della serata» replicò Carota togliendosi l’elmetto.

***

Vimes si svegliò attorno alle quattro. Si era addormentato alla scrivania. Non aveva avuto intenzione di farlo,
ma il suo corpo aveva semplicemente chiuso i battenti.
Non era la prima volta che aveva aperto lì gli occhi arrossati. Almeno questa non stava steso su niente di ap-
piccicoso.
Focalizzò l’attenzione sul rapporto scritto a metà. Accanto c’era il suo taccuino, pagina dopo pagina di scara-
bocchi laboriosi, a ricordargli che lui stava cercando di comprendere un mondo complesso con la sua sempli-
ce testa.
Sbadigliò e guardò fuori verso gli sgoccioli della notte.
Non aveva alcuna prova. Assolutamente alcuna prova concreta. Aveva avuto un colloquio con un incoerente
Caporale Nobbs che in realtà non aveva visto proprio nulla. Non aveva in mano nulla che non si sarebbe dis-
solto come la nebbia di mattina. Tutto ciò che aveva erano un po’ di sospetti e parecchie coincidenze, che si
sorreggevano l’una con l’altra come una casetta di carte senza alcuna carta sul fondo.
Sbirciò il proprio taccuino.
Pareva che qualcuno avesse lavorato sodo. Oh, sì. Era stato lui.
Gli eventi della notte precedente gli risuonavano nel cervello. Perché aveva scritto tutta quella roba sugli
stemmi? Oh, sì...
Sì!
Dieci minuti dopo stava aprendo la porta della fabbrica di vasi. Nell’aria umida si riversò una folata di calore.
Trovò Carota e Detritus addormentati sul pavimento su entrambi i lati del forno. Maledizione. Aveva bisogno
di qualcuno di cui potersi fidare, ma non aveva cuore di svegliarli. Aveva messo tutti molto sotto pressione
negli ultimi giorni...
Qualcosa bussò contro lo sportello del forno.
La maniglia cominciò quindi a muoversi da sola.
Lo sportello si aprì il più possibile e qualcosa un po’ scivolò, un po’ cadde fuori sul pavimento.
Vimes non era perfettamente sveglio. La stanchezza e gli sgradevoli fantasmi dell’adrenalina gli sfrigolavano
ai margini della consapevolezza, ma lui vide l’uomo incandescente distendersi ed ergersi in piedi.
Il suo corpo rosso bruciante cominciò a emettere tintinnii mentre si raffreddava. Il pavimento si bruciò e si
mise a fumare dove lui si trovava in piedi.
Il golem alzò la testa e si guardò attorno.
«Tu!» esclamò Vimes, puntandogli contro un dito tremante. «Vieni con me!»
«Sì» rispose Dorfl.

***

Dragon Re degli Araldi entrò in biblioteca. La polvere delle finestrelle alte e i resti della nebbia assicuravano
che lì non regnasse mai qualcosa di più che un certo grigiore, ma un centinaio di candele forniva una luce
soffusa.
Si sedette alla scrivania, si avvicinò un librone e cominciò a scrivere.
Dopo qualche tempo smise e prese a fissare davanti a sé. Non si sentiva alcun rumore eccetto l’occasionale
crepitio di una candela.
«Ah-ha. Sento il suo odore, Comandante Vimes» disse. «L’hanno fatta passare gli araldi?»
«Ho trovato la strada per conto mio, grazie» rispose Vimes, uscendo dall’ombra.
Il vampiro annusò nuovamente. «È venuto da solo?»
«Chi avrei dovuto portare con me?»
«E a cosa devo il piacere, Sir Samuel?»
«Il piacere è tutto mio. La arresterò» disse Vimes.
«Oh, cielo. Ah-ha. Per che cosa, se posso chiederlo?»
«Posso invitarla a notare la freccia che ho sulla balestra?» suggerì Vimes. «Non c’è metallo sulla punta, ve-
de? È fatta tutta solo di legno».
«Oh, davvero premuroso. Ah-ha». Dragon Re degli Araldi ammiccò. «Tuttavia, non mi ha ancora detto di co-
sa sarei accusato».
«Tanto per cominciare di complicità negli assassini della Signora Flora Calma e del piccolo William Calma».
«Temo che questi nomi non significhino nulla per me».
Il dito di Vimes tremò sul rilascio della balestra. «No» confermò, traendo un profondo respiro. «Probabil-
mente no. Stiamo conducendo altre indagini e potrebbero esserci parecchie imputazioni aggiuntive. Il fatto
che lei stesse avvelenando il Patrizio lo considero una circostanza attenuante».
«Intende davvero formalizzare un’accusa?»
Io preferirei formalizzare una violenza» gridò Vimes. «Un’accusa è ciò di cui mi dovrò accontentare».
Il vampiro si accomodò meglio sulla sedia. «Ho sentito dire che sta lavorando sodo, comandante» disse.
«Non sarò quindi io...»
«Abbiamo la testimonianza del Signor Carry» mentì Vimes. «Il defunto Signor Carry».
L’espressione di Dragon non mutò nemmeno per il minimo tremito di un muscolo. «Non so veramente, ah-
ha, di cosa stia parlando, Sir Samuel».
«Soltanto qualcuno in grado di volare sarebbe potuto entrare nel mio ufficio».
«Temo di non riuscire a seguirla, signore».
«Il Signor Carry è stato ucciso stanotte» proseguì Vimes. «Da qualcuno in grado di uscire da un vicolo sor-
vegliato su entrambe le uscite. Io so, inoltre, che c’era un vampiro nella fabbrica».
«Mi sto ancora sforzando di comprenderla, comandante» disse Dragon Re degli Araldi. «Non so nulla della
morte del Signor Carry e, in ogni caso, c’è un gran numero di vampiri in città. Temo che la sua... avversione
sia ben nota» .
«Non mi piace che la gente venga trattata come bestiame» replicò Vimes. Lanciò una fugace occhiata ai li-
broni ammonticchiati nella stanza. «Ed è evidentemente ciò che lei ha fatto per tutta la vita, no? Questi sono i
libri sulle razze di Ankh-Morpork». La balestra tornò a puntarsi contro il vampiro che non si era mosso. «Po-
tere sulla gente comune. Ecco cosa vogliono i vampiri. Il sangue è solo un modo per mantenere il polso della
situazione. Mi chiedo quanta influenza abbia avuto lei nel corso degli anni».
«Un po’. Quanto meno su questo ha ragione».
«‘Una persona di razza’» commentò Vimes. «Santo cielo.
Be’, io penso che alcuni volessero Vetinari fuori dai piedi. Non morto però, non ancora. Se fosse morto sa-
rebbero successe troppe cose troppo in fretta. Nobby è davvero conte?»
«Le prove suggeriscono di sì».
«Ma sono le sue prove, vero? Sa, io non penso che abbia sangue nobile. Nobby è una persona comune come
il fango. E uno dei suoi tratti migliori. Non terrei in alcun conto l’anello. A giudicare dalla quantità di roba
che ha rubacchiato la sua famiglia, si potrebbe probabilmente dimostrare che lui è Duca di Pseudopoli, Sceic-
co del Klatch e Duchessa Vedova di Quirm. Mi ha sottratto la scatola dei sigari l’anno scorso e sono maledet-
tamente sicuro che non sia me. No. Non penso che Nobby sia nobile. Penso però che fosse comodo».
A Vimes sembrò che Dragon si facesse più grande, ma forse si trattava soltanto di un effetto della luce. Le
candele sibilavano e crepitavano.
«Lei mi ha usato per benino, eh?» proseguì Vimes. «Ho rimandato l’appuntamento con lei per settimane.
Immagino che stesse diventando impaziente. È rimasto sorpreso quando le ho parlato di Nobby, vero? In caso
contrario avrebbe dovuto mandarlo a chiamare lei, in un modo o nell’altro... molto sospetto. Il Comandante
Vimes, invece, lo ha scoperto. Ottima idea. Rende praticamente tutto ufficiale.
«Poi ho cominciato a pensare: chi vorrebbe un re? Be’, quasi tutti. Pare che sia insito nel genere umano. I re
fanno le cose meglio. Buffo, no? Perfino le persone che devono tutto a lui non amano Vetinari. Dieci anni fa
la maggior parte dei capi delle Gilde non erano altro che un branco di briganti e adesso... sono ancora un
branco di briganti, a dire la verità, ma Vetinari ha dato loro il tempo e l’energia di decidere di non avere mai
avuto bisogno di lui.
«E poi salta fuori il giovane Carota con la parola carisma scritta addosso da tutte le partì, ha anche una spada
e una voglia sulla pelle, tutti hanno buffe sensazioni e dozzine di scemi cominciano ad analizzare documenti
e dicono: ‘Ehi, pare che sia tornato il re!’ Poi lo tengono d’occhio per un po’ e dicono ‘Merda, è davvero una
persona brava e onesta, corretta e giusta, proprio come in tutte le favole. Ooops! Se questo ragazzo arrivasse
al trono potremmo essere nei guai seri! Potrebbe dimostrarsi uno di quei re scomodi di tanto tempo fa che
andavano in giro a parlare alla gente comune...’»
«Lei è a favore della gente comune?» domandò bonariamente Dragon.
«La gente comune?» ripeté Vimes. «Non è niente di speciale. Non è diversa dai ricchi e dai potenti, solo che
non ha né denaro né potere. La legge dovrebbe tuttavia esistere proprio per bilanciare un po’ le cose. Imma-
gino quindi di dover stare dalla sua parte» .
«Un uomo che si è sposato la donna più ricca della città?» Vimes scrollò le spalle. «L’elmetto da guardia non
è come una corona. Anche quando lo togli lo indossi ancora».
«È un’affermazione interessante, Sir Samuel, e io sarei il primo ad ammirare il modo in cui è riuscito a scen-
dere a patti con la sua storia familiare, ma... »
«Non si muova!» Vimes spostò la presa sulla balestra. «Comunque... Carota non andava bene ma la notizia si
stava diffondendo e qualcuno ha detto: D’accordo, vediamo di procurarci un re che possiamo controllare.
Tutte le voci dicono che il re è un’umile guardia quindi vediamo di trovarne una’. Si sono dati un’occhiata in
giro e hanno scoperto che quando si parla di umiltà non si può battere Nobby Nobbs. Ma... immagino che la
gente non fosse troppo sicura. Uccidere Vetinari non era una buona soluzione. Come ho detto, sarebbero ac-
cadute troppe cose troppo in fretta. Rimuoverlo con delicatezza dall’incarico, in modo che ci fosse e non ci
fosse allo stesso tempo, mentre tutti si abituavano all’idea... quella sì che era geniale. Ecco quindi che qual-
cuno ha convinto il Signor Carry a produrre candele avvelenate. Lui aveva un golem. I golem non possono
parlare. Nessuno lo avrebbe scoperto. E però saltato fuori che era un golem troppo... instabile».
«Pare che lei voglia coinvolgere me» disse Dragon Re de- gli Araldi. «Non so nulla di quell’uomo a parte che
ha come cliente...»
Vimes attraversò la stanza e strappò un pezzo di pergamena da una tavola. «Lei gli ha fatto uno stemma!»
gridò. «Me lo ha perfino mostrato quando sono stato qui! ‘Il macellaio, il panettiere e il fabbricante di cande-
le!’ Ricorda?»
La figura incurvata non emise alcun suono.
«Quando l’ho conosciuta l’altro ieri» disse Vimes, «lei ci ha tenuto molto a mostrarmi lo scudo gentilizio del
signor Artemisio Carry. Ho pensato che l’allegoria fosse un po’ tirata per i capelli, al momento, ma la fac-
cenda di Nobby me lo aveva fatto passare di mente. Ricordo tuttavia che mi faceva pensare a uno stemma per
la Gilda degli Assassini».
Vimes sbandierò la pergamena.
«L’ho guardato e riguardato la notte scorsa, poi ho abbassato il mio senso dell’umorismo di dieci posizioni,
gli ho fatto perdere la focalizzazione e ho osservato lo stemma, la lampada a forma di pesce. Lampe au pois-
son, si chiama. Una specie di gioco di parole bilingue? ‘Una lampada al poison... al veleno?’ Bisogna avere
una mente alla Detritus per captare una battuta simile. Fred poi si è chiesto come mai lei avesse lasciato il
motto in Ankhiano moderno invece di formularlo nella lingua antica e quello ha fatto pensare me... così mi
sono seduto davanti al dizionario e sa che cosa sarebbe saltato fuori? ‘Ars Enixa Est Candelam’. Ars Enixa.
Quello sì che deve esserle piaciuto parecchio. Lei ha detto chi era stato e come lo aveva fatto, quindi ha dato
lo stemma al povero disgraziato in modo che ne andasse fiero. Non aveva alcuna importanza che non lo a-
vrebbe capito nessuno. Faceva sentire bene lei. Perché i comuni mortali non sono assolutamente furbi come
lei, non è così?» Scosse la testa. «Santo cielo, uno stemma araldico. È stata quella l’esca? Le è costato solo
quello?»
Dragon si accasciò sulla sedia.
«Poi mi sono chiesto che cosa ci fosse per lei in tutto questo» continuò Vimes. «Oh, immagino che per le so-
lite vecchie ragioni siano coinvolte un sacco di persone. Ma lei? Sa, mia moglie alleva draghetti. Come pas-
satempo, in effetti. E quello che fa anche lei? Un piccolo hobby per far volare i secoli? Oppure il sangue blu
ha un gusto più dolce? Sa, spero proprio che lei avesse un motivo del genere. Un maledetto e decente motivo
egoistico».
«Forse... se qualcuno avesse tale inclinazione, e non sto certamente facendo alcuna ammissione, ah-ha... si
potrebbe pensare che stia migliorando la razza» disse la sagoma nell’ombra.
«Migliorarla per ottenere menti sfuggenti o dentini da coniglio, roba del genere?» osservò Vimes. «Certo, ca-
pisco come tutto sarebbe stato più semplice con questa storia del re. I balli di corte. Quei piccoli accordi che
fanno in modo che il giusto tipo di ragazza incontri solo il giusto tipo di ragazzo. Lei ha avuto centinaia di
anni a disposizione, no? E tutti la consultano. Sa bene dove è piantato ogni albero genealogico. Ma si è tutto
un po’ incasinato sotto Vetinari, no? In cima si trovano solo le persone sbagliate. So come impreca Sybil
quando qualcuno lascia aperte le porte delle gabbie: le si pasticcia l’intero programma di riproduzione».
«Si sbaglia riguardo al Capitano Carota, ah-ha. La città sa bene come adeguarsi a... re difficili. Ma avrebbe
mai voluto un futuro re che potesse realmente essere chiamato Rex?»
Vimes assunse un’espressione vacua. Sentì un sospiro provenire dalle ombre. «Mi sto, ah-ha, riferendo alla
sua relazione apparentemente stabile con il lupo mannaro».
Vimes sbarrò gli occhi. Alla fine comprese. «Lei pensa che avrebbero avuto dei cuccioli?»
«La genetica dei lupi mannari non è semplice, ah-ha, ma la possibilità di un simile risultato sarebbe conside-
rata inaccettabile. Sempre che qualcuno ragioni in questo modo».
«Per dio, tutto qui?»
Le ombre stavano cambiando. Dragon era ancora accasciato sulla sedia, ma il suo profilo pareva muoversi.
«Qualsiasi fossero, ah-ha, i motivi, Signor Vimes, non esistono altre prove che supposizioni, coincidenze e la
sua volontà di credere che io sia collegato a un qualsivoglia attentato alla, ah-ha, vita di Vetinari...»
La testa del vecchio vampiro si era ripiegata ulteriormente sul petto. Le ombre delle sue spalle si stavano fa-
cendo più lunghe.
«È stato perverso coinvolgere i golem» osservò Vimes, guardando le ombre. «Loro riuscivano a sentire ciò
che il loro ‘re’ stava facendo. Forse non era una cosa particolarmente sana fin dal principio ma era tutto ciò
che avevano. Argilla della loro argilla. Quei poveri diavoli non avevano altro se non la loro argilla e voi ba-
stardi gli avete portato via anche quella...»
Dragon balzò all’improvviso, dispiegando ali da pipistrello. Il dardo di legno di Vimes rimbalzò da qualche
parte in prossimità del soffitto mentre lui veniva abbattuto.
«Pensava davvero che un pezzo di legno bastasse per arrestarmi?» domandò Dragon serrando le mani attorno
al collo di Vimes.
«No» gracchiò Vimes. «Sono stato più... poetico... di così. Tutto quello che ho dovuto... fare... è stato spin-
gerla a continuare a parlare. Si sente... debole, vero? Il suonatore è stato suonato... si potrebbe dire...?» sog-
ghignò.
Il vampiro apparve sconcertato, quindi voltò la testa e fissò le candele. «Lei... ha messo qualcosa nelle cande-
le? Davvero?»
«Sapevamo che... l’aglio si sarebbe sentito ma... il nostro alchimista ha immaginato che... se si fosse messa...
acqua santa... per intingere gli stoppini... l’acqua sarebbe evaporata... lasciando solo santità».
La pressione si allentò. Dragon Re degli Araldi si accosciò. Il suo volto era mutato, allungato in avanti, con-
ferendogli l’espressione di una volpe.
Scosse quindi la testa. «No» disse, e questa volta fu lui a sogghignare. «No, sono soltanto parole. Non fun-
zionerebbe...»
«Vuole scommetterci... la sua non-vita?» disse con voce roca Vimes, sfregandosi il collo. «Un modo migliore
di andarsene... del vecchio Carry, eh?»
«Vuole cercare di costringermi a fare una confessione, Signor Vimes?»
«Oh, quella l’ha già fatta» replicò Vimes. «Quando ha guardato le candele».
«Davvero? Ah-ha. Ma chi altri mi ha visto?» domandò Dragon.
Dalle ombre provenne un rombo simile a quello di un temporale lontano.
«Io» disse Dorfl.
Il vampiro spostò lo sguardo dal golem a Vimes. «Ha dato a uno di loro una voce?» domandò.
«Sì» rispose Dorfl. Si abbassò e afferrò il vampiro in una sola mano. «Potrei Ucciderla» disse. «E Una Op-
zione Che Mi Risulta Disponibile In Quanto Individuo Libero Pensatore Ma Non Lo Farò Perché Io Sono
Mio E Ho Effettuato Una Scelta Morale».
«Oh, cielo» mormorò Vimes.
«Ma è una cosa blasfema!» esclamò il vampiro.
Guardò sconcertato Vimes che gli lanciò un sorriso simile a un raggio di sole. «Ecco cosa dicono le persone
quando parla chi è privo di voce. Portalo via, Dorfl. Mettilo nelle Segrete del Palazzo».
«Potrei Non Prendere In Considerazione Tale Comando Ma Decido Di Farlo A Causa del Rispetto Guada-
gnato E Del Senso Di Responsabilità Sociale...»
«Sì, bene, d’accordo» commentò in fretta Vimes. Dragon cercò di graffiare il golem. Avrebbe anche potuto
cercare di prendere a calci una montagna.
«Vivo O Non-morto, Lei Viene Con Me» disse Dorfl.
Ma non c’è fine ai suoi crimini? Ha fatto di quest’affare un poliziotto?» esclamò il vampiro, cercando di di-
vincolarsi mentre Dorfl lo trascinava via.
«No, ma è un suggerimento interessante, non pensa?» replicò Vimes.
Restò solo nello spesso buio vellutato del Reale Collegio.
E Vetinari lo lascerà libero, rifletté. Perché questa è la politica. Perché lui fa parte del modo in cui funziona
questa città. Inoltre c’è la questione delle prove. Ne ho abbastanza per me ma...
Ma io lo saprò, disse a se stesso.
Oh, verrà tenuto sotto controllo e forse un giorno, quando Vetinari sarà pronto, gli verrà inviato un assassi-
no davvero bravo con un pugnale di legno intinto nell’aglio e tutto sarà sistemato nell’oscurità. Ecco come
funziona la politica in questa città. È una partita a scacchi. A chi interessa che venga sacrificato qualche pe-
done?
Io lo saprò. E sarò l’unico a saperlo, nel profondo del cuore. Le sue mani tastarono automaticamente la tasca
alla ricerca di un sigaro.
Era già difficile uccidere un vampiro. Li si poteva impalare e trasformarli in polvere e dieci anni dopo qual-
cuno faceva cadere una goccia di sangue nel posto sbagliato e indovina chi c’è? Rispuntavano fuori più dei
broccoli selvatici.
Quelli erano pensieri pericolosi, lo sapeva bene. Erano del genere che si insinuava in una guardia quando
l’inseguimento era terminato e si restava soli, l’uno davanti all’altro in quel fugace momento angoscioso fra
il crimine e la punizione.
Forse la guardia aveva visto la civiltà scuoiata una volta di troppo e aveva smesso di agire come una guardia
e aveva cominciato ad agire come un normale essere umano, rendendosi conto del fatto che lo scatto di una
balestra o un fendente di spada potessero rendere il mondo così pulito.
E non si poteva pensare in quel modo, nemmeno riguardo ai vampiri. Anche se quelli avevano tolto la vita ad
altre persone, perché una vita non conta, e a loro che diavolo si poteva togliere?
Non si poteva pensare così perché ti erano stati dati una spada e un distintivo che ti rendevano qualcosa di di-
verso e quello significava che c’erano pensieri che non potevi formulare.
Solo i crimini potevano avere luogo nell’oscurità. La punizione doveva essere impartita alla luce del giorno.
Quello era il compito di una buona guardia, diceva sempre Carota. Accendere una candela nel buio.
Trovò un sigaro. Le mani cominciarono a effettuare la ricerca automatica dei fiammiferi.
I volumi erano accatastati contro le pareti. La luce di candela si rifletteva sulle lettere dorate e sull’opaco ba-
gliore del cuoio. Eccole lì, le linee di sangue, i libri di minuzie araldiche, il Chi è Chi dei secoli, i libri della
genealogia cittadina. La gente ci si trovava dentro per guardare gli altri dall’alto al basso.
Niente fiammiferi...
Tranquillamente, nel polveroso silenzio del Reale Collegio, Vimes prese in mano un candelabro e si accese il
sigaro.
Trasse qualche profonda e lussuriosa boccata e osservò pensoso i volumi. Nella sua mano le candele tremola-
rono e sfrigolarono.

***

L’orologio ticchettò il suo aritmico tac. Arrancò finalmente fino all’una e Vimes si alzò e si recò nell’Ufficio
Oblungo.
«Oh, Vimes» disse Lord Vetinari, sollevando lo sguardo.
«Sì, signore».
Vimes era riuscito a dormire per qualche ora e aveva perfino tentato di radersi.
Il Patrizio spostò qualche carta sulla scrivania. «Pare che ieri notte sia stata una notte molto movimentata...»
«Sì, signore». Vimes stava sull’attenti. Tutti gli uomini in uniforme sapevano nel profondo dell’anima come
agire in circostanze del genere. Si fissava dritti davanti a sé, tanto per cominciare.
«Pare che io mi trovi Dragon Re degli Araldi nelle carceri» disse il Patrizio.
Sì, signore».
«Ho letto il suo rapporto. Le prove mi sembrano davvero scarsine».
«Signore?»
«Uno dei suoi testimoni non è nemmeno vivo, Vimes». «No, signore. Non lo è nemmeno il sospetto. Tecni-
camente parlando».
«Lui è, tuttavia, un’importante figura civica. Un’autorità».
«Sì, signore».
Lord Vetinari spostò qualche altra carta sulla scrivania. Una di esse era coperta di impronte fuligginose. «Pa-
re anche che io la debba encomiare, comandante».
«Signore?»
Gli Araldi del Reale Collegio, o quanto meno di ciò che resta del Reale Collegio, mi hanno inviato un bi-
glietto in cui mi dicono quanto lei abbia lavorato con sprezzo del pericolo la notte scorsa».
«Signore?»
«Lasciando uscire dalle gabbie tutti gli animali araldici, dando l’allarme e così via. Un’ancora di salvezza,
l’hanno definita. Se non ho capito male, la maggior parte delle creature sono alloggiate da lei al momento,
vero?»
«Sì, signore. Non potevo sopportare l’idea che soffrissero. Abbiamo dei recinti vuoti, signore, e Keith e Ro-
derick si sono trovati benissimo nel laghetto. Hanno già cominciato ad affezionarsi a Sybil, signore» .
Lord Vetinari emise un colpo di tosse. Fissò quindi il soffitto per un po’. «Quindi lei, ehm, ha assistito
all’incendio». «Sì, signore. Dovere civico, signore».
«L’incendio è stato provocato da un candelabro caduto, a quanto ho capito, probabilmente dopo la sua lotta
con Dragon Re degli Araldi».
«Credo di sì, signore».
«E, pare, così credono gli Araldi».
«Qualcuno lo ha detto a Dragon Re degli Araldi?» domandò Vimes con espressione innocente.
«Sì».
«L’ha presa bene, vero?»
«Ha gridato parecchio, Vimes. In modo straziante, da quanto mi è stato detto. Mi pare anche che abbia profe-
rito un gran numero di minacce contro di lei, non si sa perché».
«Cercherò di inserirlo nella mia già piena agenda, signore».
«Ding, ding, dong, bip!» disse una vocetta stridula. Vimes si dette una pacca sulla tasca.
Lord Vetinari tacque per qualche istante. Le sue dita tamburellarono delicatamente sulla scrivania. «C’erano
molti bei manoscritti in quel posto, mi sembra. Senza prezzo, mi è stato detto».
Sì, signore. Sicuramente privi di valore, signore».
«È possibile che lei abbia frainteso quello che ho detto, comandante?»
«Potrebbe essere, signore».
«L’origine di molte splendide e antiche famiglie è andata in fumo, comandante. Ovviamente, gli Araldi fa-
ranno del loro meglio e le stesse famiglie tengono parte della documentazione ma francamente, da ciò che ho
capito, sarà solo un lavoro di rattoppo e di congetture. Estremamente imbarazzante. Sta sorridendo, coman-
dante?»
«È stato probabilmente uno scherzo della luce, signore». «Comandante, ho sempre avuto la sensazione che
lei avesse una vena di anti-autoritarismo».
«Signore?»
«Pare che sia riuscito a conservarla anche se lei stesso rappresenta l’autorità».
«Signore?»
«E praticamente Zen».
«Signore?»
«Pare che io sia stato soltanto un po’ indisposto per qualche giorno e lei sia riuscito a infastidire tutte le per-
sone di una certa importanza della città».
«Signore».
«Era un ‘sì, signore’ o un ‘no, signore’, Sir Samuel?» «Era soltanto un ‘signore’, signore».
Lord Vetinari lanciò un’occhiata a un pezzo di carta. «Ha davvero dato un pugno al Presidente della Gilda
degli Assassini?»
«Sì, signore».
«Perché?»
«Non avevo un pugnale, signore».
Vetinari cambiò di scatto argomento. «Il Consiglio delle Chiese, Templi, Sacri Boschetti ed Enormi Lugubri
Rocce pretende... Be’, un gran numero di cose, molte delle quali implicano l’uso di cavalli selvaggi. Fonda-
mentalmente, però, vogliono che io la licenzi».
«Sì, signore?»
«Nel complesso ho ricevuto diciassette richieste di ritirarle il distintivo. Alcuni vogliono che vi vengano alle-
gate varie partì del suo corpo. Perché deve dare fastidio a tutti?»
«Suppongo sia una dote innata, signore» .
«Ma cosa pensa di ottenere?»
«Be’, signore, visto che me lo chiede, abbiamo scoperto chi ha ucciso Padre Tubelcek e il Signor Hopkinson
e chi stava avvelenando lei, signore». Vimes fece una pausa. «Due su tre non è male, signore».
Vetinari sfogliò qualche altra pratica. «Proprietari di magazzini, assassini, preti, macellai... pare che lei abbia
fatto infuriare la maggior parte delle figure a capo della città». Sospirò. «Mi sembra davvero di non avere
scelta. Da questa settimana le aumenterò lo stipendio».
Vimes strizzò gli occhi. «Signore?»
«Niente di eccezionale. Dieci dollari al mese. Immagino anche che abbiano bisogno di un nuovo tabellone
per le freccette al Posto di Guardia, eh? A quanto mi risulta ne hanno sempre bisogno».
«È colpa di Detritus» replicò Vimes, la sua mente incapace di pensare a qualsiasi cosa non fosse una risposta
onesta. «Tende a spaccarle».
«Oh, sì. A proposito di spaccare, Vimes, mi chiedo se il suo genio scientifico non mi potrebbe aiutare con un
piccolo rompicapo che ci siamo trovati davanti questa mattina». Il Patrizio si alzò e si diresse verso le scale.
«Sì, signore. Di che si tratta?» domandò Vimes, seguendolo verso il piano inferiore.
«È nella Camera dei Ratti, Vimes».
«Davvero, signore?»
Vetinari aprì la porta dalla doppia anta. «Voilà» disse. «È una specie di strumento musicale, vero, signore?»
«No, comandante, il termine significa: ‘Cos’è quella cosa sulla tavola?’» precisò il Patrizio in tono duro.
Vimes guardò nella stanza. Non c’era nessuno. La lunga tavola in mogano era vuota.
Se si eccettuava l’ascia. Era infissa profondamente nel legno, rischiando quasi di spaccare la tavola per tutta
la lunghezza. Qualcuno si era avvicinato alla tavola e vi aveva conficcato l’ascia proprio al centro con tutta la
violenza possibile e poi l’aveva lasciata lì, con il manico puntato verso il soffitto.
«Quella è un’ascia» osservò Vimes.
«Stupefacente» commentò Lord Vetinari. «E ha a malapena avuto il tempo di esaminarla. Perché si trova lì?»
«Non saprei proprio, signore».
«Secondo i servitori, Sir Samuel, lei è entrato a palazzo alle sei di questa mattina...»
«Oh, sì, signore. Per controllare che quel bastardo fosse al sicuro nella sua cella, signore. E per verificare che
fosse tutto a posto, ovviamente».
«Non è entrato in questa stanza?»
Vimes mantenne lo sguardo fisso su un punto imprecisato dell’orizzonte. «Perché avrei dovuto farlo, signo-
re?»
Il Patrizio picchiettò il manico dell’ascia che vibrò debolmente. «Credo che qualcuno del Consiglio Cittadino
si sia incontrato qui, questa mattina. O quanto meno che sia entrato qui dentro. Mi è stato detto che è uscito
fuori di corsa. Con un’aria decisamente disturbata, a quel che ho capito».
«Forse è stato proprio uno di loro, signore».
«Si tratta, ovviamente, di una possibilità» ammise Lord Vetinari. «Immagino che lei non sia in grado di tro-
vare uno dei suoi famosi indizi su quell’attrezzo, eh?»
«Temo proprio di no, signore. Non con tutte quelle impronte sopra».
«Sarebbe una cosa terribile, non le pare, se la gente pensasse di poter prendere la legge nelle proprie mani...»
«Non c’è pericolo, signore. Io ci sto attaccato con cura». Lord Vetinari toccò nuovamente l’ascia. «Mi dica,
Sir Samuel, conosce la frase: ‘Quis custodiet ipsos custodes?’»
Era un’espressione che Carota aveva occasionalmente usato, ma Vimes non era dell’umore giusto per am-
mettere nulla. «Non mi sembra, signore» rispose. «Riguarda forse i portinai?»
«Vuol dire ‘Chi guarda le guardie stesse?’, Sir Samuel».
«Oh».
«Allora?»
«Signore?»
«Chi guarda la Guardia? Mi chiedo?»
«Oh, è facile, signore. Ci guardiamo a vicenda».
«Davvero? Affermazione intrigante...»
Lord Vetinari uscì dalla stanza e tornò nella sala principale con Vimes che lo seguiva. «Comunque» proseguì,
«per mantenere la pace, il golem dovrà essere distrutto».
«No, signore».
«Mi consenta di ripetere l’istruzione».
«No, signore».
«Sono certo di averle impartito un ordine, comandante. Ho sentito distintamente di aver mosso le labbra».
«No, signore. È vivo, signore».
«È soltanto fatto di argilla, Vimes» .
«Non lo siamo tutti, signore? Almeno secondo gli opuscoli che continua a consegnarmi l’Agente Visita. In
ogni caso, lui pensa di essere vivo e a me basta».
Il Patrizio agitò una mano in direzione delle scale e del proprio ufficio pieno di carte. «Non importa, coman-
dante. Ho ricevuto non meno di nove missive dai capi religiosi che dichiaravano che lui è un abominio».
«Sì, signore. Ho riflettuto molto su questo punto di vista, signore, e ho raggiunto la seguente conclusione: so-
no tutte teste di cavolo, signore».
Il Patrizio si coprì la bocca per un istante. «Sir Samuel, lei è un negoziatore duro. Sono certo che sa raggiun-
gere compromessi, no?
«Non saprei, signore». Vimes si avvicinò al portone principale e ne aprì le ante.
«La nebbia si è alzata, signore» disse. «C’è qualche nuvola ma si riesce a vedere fino al Ponte d’Ottone...»
«Per cosa userà il golem?»
«Non usare. Impiegare. Pensavo potesse essere utile per mantenere la pace, signore».
«Una guardia?»
«Sì, signore» confermò Vimes. «Non lo sa signore? I golem fanno i lavori più sporchi».
Vetinari lo guardò allontanarsi e sospirò. «Fa sempre queste uscite teatrali» commentò.
«Sì, milord» disse Nododitamburo, che era apparso senza fare alcun rumore alle sue spalle.
«Oh, Nododitamburo». Il Patrizio estrasse dalla tasca un pezzo di candela e la consegnò al segretario. «La si-
stemi in un posto sicuro, d’accordo?»
Sì, milord».
È la candela dell’altra notte».
«Ma non era bruciata fino in fondo, milord? Ne ho visto il fondo nel candeliere...»
«Oh, è chiaro che ne ho tagliato via abbastanza da fare un mozzicone che permettesse allo stoppino di brucia-
re per un momento solo. Non potevo permettere che il nostro galante poliziotto sapesse che avevo già capito
tutto da me, no? Non dal momento che si stava sforzando e divertendo tanto a fare... be’, a fare il Vimes. Non
sono completamente privo di cuore, sa».
«Ma, signore, avrebbe potuto appianare tutto in modo più diplomatico! Lui invece è andato in giro a scon-
volgere le cose e a fare infuriare e spaventare un sacco di gente...»
«Già. Purtroppo, vero?»
«Oh» commentò Nododitamburo.
«Esattamente» terminò il Patrizio.
«Vuole che faccia riparare la tavola nella Camera dei Ratti?»
«No, Nododitamburo, faccia restare l’ascia dove si trova. Rappresenterà un buono... spunto per la conversa-
zione, penso»,
«Posso permettermi un’osservazione, signore?»
«Certo che può» rispose Vetinari, guardando Vimes che attraversava la cancellata del palazzo.
«Mi viene da pensare, signore, che se il Comandante Vimes non esistesse lei avrebbe dovuto inventarlo».
«Sa, Nododitamburo, penso di averlo fatto».

***

«Anche L’Ateismo È Una Posizione Religiosa» rombò Dorfl.


«Non lo è!» esclamò l’Agente Visita. «L’ateismo è la negazione di un dio».
«Di Conseguenza È Una Posizione Religiosa» ripeté Dorfl. «In Effetti, Un Vero Ateo Pensa Costantemente
A Dio, Anche Se In Termini Di Diniego. Di Conseguenza L’Ateismo Rappresenta Una Forma Di Credo. Se
L’Ateo Non Credesse Realmente, Lui O Lei Non Si Preoccuperebbe Di Negare».
«Hai letto gli opuscoli che ti ho dato?» domandò Visita con sospetto.
«Sì. Molti Di Essi Non Avevano Senso. Però Mi Piacerebbe Leggerne Altri».
«Davvero?» domandò Visita. Gli scintillarono gli occhi. «Vuoi davvero degli altri opuscoli?»
«Sì. C’è Molto In Essi Di Cui Vorrei Discutere. Se Conosci Qualche Prete, Gradirei Discuterne Con Lui».
«D’accordo, d’accordo» li interruppe il Sergente Colon. «Hai intenzione di fare questo maledetto giuramento
o no, Dorfl?
Dorfl sollevò una mano della dimensione di una pala. «Io, Dorfl, Tenendo In Sospeso La Scoperta Di Una
Divinità La Cui Esistenza Resista A Qualsiasi Dibattito Razionale, Giuro Sui Precetti Temporanei Di Un Si-
stema Morale Di Auto-derivazione...»
«Vuoi davvero degli altri opuscoli?» domandò ancora l’Agente Visita.
Il Sergente Colon fece roteare gli occhi.
«Sì» rispose Dorfl.
«Oh, mio dio!» esclamò l’Agente Visita e scoppiò in lacrime. «Nessuno mi ha mai chiesto di avere altri opu-
scoli prima!
Colon si voltò quando si accorse che Vimes li stava guardando. «Non è possibile, signore» disse. «È
mezz’ora che cerco di farlo giurare, signore, e si finisce sempre col discutere su giuramenti e roba del gene-
re».
«Vuoi diventare una guardia, Dorfl?» domandò Vimes.
«Sì».
«Bene. A me questo basta come giuramento. Dagli il distintivo, Fred. E questo è per te, Dorfl. E un foglietto
su cui è scritto che sei ufficialmente vivo, nel caso in cui ti trovassi nei guai. Sai... la gente».
«Grazie» disse Dorfl in modo solenne. «Semmai Dovessi Sentire Di Non Essere Vivo Lo Tirerò Fuori E Lo
Leggerò». «Quali sono i tuoi compiti?» domandò Vimes.
«Servire L’Ordine Pubblico, Proteggere Gli Innocenti E Prendere Seriamente A Calci Alcuni Sederi, Signo-
re» rispose Dorfl.
«Impara in fretta, eh?» commentò Colon. «Non gli ho nemmeno parlato dell’ultima cosa».
«Alla gente non piacerà» osservò Nobby. «Non sarà popolare avere un golem come guardia».
«Quale Lavoro Migliore Per Uno Che Ama La Libertà Del Compito Di Guardia. La Legge È Servitrice Della
Libertà. La Libertà Senza Limite Non E Altro Che Una Parola» disse Dorfl con espressione ponderosa.
«Sai» osservò Colon, «se non dovesse funzionare, potrai sempre trovare un lavoro come scrittore di biglietti-
ni per i dolcetti della fortuna».
«Che cosa buffa» commentò Nobby. «Non vengono mai fuori frasi brutte dai dolcetti, avete notato? Non c’è
mai roba tipo: ‘Oh, cielo, le cose si metteranno davvero male’. Voglio dire, non ci sono mai dolcetti della
sfortuna».
Vimes si accese un sigaro e scosse il fiammifero per spegnerlo. «Quello, caporale, avviene a causa di una
delle fondamentali leggi dell’universo».
«Quale? Che la gente che legge i biglietti dei dolcetti della fortuna è solo gente fortunata?» domandò Nobby.
«No. Che la gente che vende i dolcetti della fortuna vuole andare avanti a venderne. Forza, Agente Dorfl.
Andiamo a fare una passeggiata».
«Ci sono un sacco di scartoffie da sbrigare, signore» disse il Sergente Colon.
«Di’ al Capitano Carota che ti ho detto che se ne deve occupare lui» rispose Vimes dall’arco della porta.
«Non è ancora rientrato, signore».
«Potrà aspettare».
«Va bene, signore».
Colon andò a sedersi dietro la scrivania. Era un buon posto in cui stare, aveva deciso. Non c’era assolutamen-
te alcuna possibilità di trovare niente che riguardasse la Natura lì. Aveva avuto una discussione accorata con
la Signora Colon quella mattina e le aveva chiarito di non essere più interessato ad avvicinarsi alla terra per-
ché lui era stato il più vicino possibile alla terra e la terra, era saltato fuori, era soltanto sporca. Un bello stra-
to di ciottoli era, aveva deciso, il massimo del contatto naturale a cui aspirava. La Natura, poi, tendeva a esse-
re melmosa.
«Devo entrare in servizio» disse Nobby. «Il Capitano Carota vuole che mi occupi di prevenzione del crimine
in Via Torta alle Pesche».
«E come intendi fare?» domandò Colon.
«Tieniti lontano, ha detto».
«Ehi, Nobby, che ne pensi del fatto di non essere poi un lord, dopotutto?» gli domandò cautamente Colon.
«Mi hanno buttato fuori» rispose Nobby. «È un bel sollievo. La sbobba dei ricchi non è un granché e la roba
da bere sembra piscetta».
«Allora te la sei cavata bene» commentò Colon. «Voglio dire, non dovrai andare a regalare i tuoi vestiti ai
giardinieri e così via».
«Già. Vorrei non avere mai parlato del mio maledetto anello, davvero».
«Ti sei risparmiato di sicuro un bel po’ di guai» confermò Colon.
Nobby sputò sul distintivo e lo sfregò con foga sulla manica. Per fortuna che non ho parlato a nessuno della
tiara, della coroncina e delle tre forcine d’oro, pensò fra sé.

***

«Dove Stiamo Andando?» domandò Dorfl, mentre con Vimes percorreva il Ponte d’Ottone.
«Pensavo di introdurti piano piano in qualche servizio di guardia al palazzo» disse Vimes.
«Oh. È Dove Si Trova Di Guardia Anche Il Mio Nuovo Amico Agente Visita» osservò Dorfl.
«Splendido!»
«Vorrei Porle Una Domanda» disse il golem.
«Sì?»
«Ho Spaccato La Ruota Del Mulino Ma I Golem L’Hanno Riparata. Perché? Ho Lasciato Andare Gli Anima-
li Ma Non Hanno Fatto Altro Che Girovagare Scioccamente Senza Meta. Alcuni Di Essi Sono Addirittura
Tornati Ai Recinti Del Macello. Perché?»
«Benvenuto nel mondo, Agente Dorfl».
«Ha Paura Essere Liberi?»
«L’hai detto».
«Dici Alla Gente ‘Spezzate Le Vostre Catene’ E Quella Se Ne Fa Da Sola Delle Nuove?»
«Pare che sia una delle principali attività umane, sì».
Dorfl borbottò mentre ci rifletteva. «Sì» disse alla fine. «Capisco Il Perché. La Libertà È Come Qualcuno
Che Ti Scoperchia La Testa».
«Devo prenderti in parola per questo, agente».
«E Lei Mi Pagherà Il Doppio Rispetto Alle Altre Guardie» affermò Dorfl.
«Davvero?»
«Sì. Io Non Dormo. Posso Lavorare Costantemente. Sono Un Affare. Non Ho Bisogno Di Giorni Liberi Per
Il Funerale Della Nonna» .
Come imparano in fretta, pensò Vimes. Disse quindi: «Ma hai i tuoi giorni sacri di libertà, no?»
«O Sono Sacri Tutti I Giorni O Non Lo È Nessuno. Non Ho Ancora Deciso».
«Ehm... a che ti servono i soldi, Dorfl?»
«Li Risparmierò E Comprerò Il Golem Klutz Che Lavora Nella Fabbrica Di Sottaceti E Lo Consegnerò A Se
Stesso; Poi Insieme Guadagneremo e Risparmieremo Per Il Golem Bobkes Del Mercante Di Carbone; Noi
Tre Lavoreremo E Acquisteremo Il Golem Shmata Che Lavora Dal Sarto Dei Sette Dollari In Via Torta Alle
Pesche; Quindi Noi Quattro...»
«Alcuni potrebbero decidere di liberare i propri compagni con la forza o una sanguinosa rivoluzione» disse
Vimes. «Non che te lo stia suggerendo, bada bene».
«No. Sarebbe Un Furto. Noi Veniamo Comperati e Venduti. Quindi Compreremo La Nostra Libertà. Con Il
Nostro Lavoro. Nessun Altro Lo Farà Per Noi. Lo Faremo Da Soli».
Vimes sorrise fra sé. Probabilmente nessun’altra specie al mondo avrebbe preteso una ricevuta per la propria
libertà. C’erano cose che non si potevano cambiare e basta.
«Oh» disse. «Pare che ci sia qualcuno che ci vuole parlare...»
Sul ponte si stava avvicinando una folla, in una massa di tuniche grigie, nere e zafferano. Era costituita da sa-
cerdoti. Sembravano infuriati. Mentre avanzavano spingendo e sgomitando oltre i cittadini presenti, svariate
aureole si intrecciarono.
In testa c’era Fughnon Ridcully, Primo Sacerdote del Cieco Io e ciò che più assomigliava a un portavoce di
argomenti religiosi ad Ankh-Morpork. Avvistò Vimes e si affrettò verso di lui, con un dito ammonitore alza-
to.
«Guardi qui, Vimes...» cominciò a dire e si fermò. Lanciò un’occhiata truce a Dorfl.
«È questa la cosa?» domandò.
«Se intende dire il golem, è lui» rispose Vimes. «Agente Dorfl, reverendo».
Dorfl si toccò con rispetto l’elmetto. «Come Possiamo Esserle Utili?» domandò.
«Questa volta l’ha fatta grossa, Vimes!» esclamò Ridcully, ignorandolo. «Ha superato tutti i limiti. Ha fatto
parlare questa cosa e non è nemmeno viva!»
«Vogliamo che venga frantumato!»
«Blasfemi!»
«La gente non lo tollererà!»
Ridcully fissò gli altri sacerdoti. «Sto parlando io» disse. Si rivolse nuovamente a Vimes. «Questo può venire
considerato un atto gravemente blasfemo e venerazione di idoli...»
«Io non lo venero. L’ho impiegato» specificò Vimes, cominciando a divertirsi. «E non è affatto ozioso».
Trasse un profondo respiro. «E se sta cercando un atto gravemente blasfemo...»
«Mi Scusi» intervenne Dorfl.
«Noi non ti ascoltiamo! Non sei nemmeno realmente vivo!» esclamò un sacerdote.
Dorfl annuì. «È Fondamentalmente Vero» ammise lui.
«Vedete? Lo ammette!»
«Vi Suggerisco Di Prendermi Farmi A Pezzi Ridurre I Pezzi In Frammenti E I Frammenti In Granelli E Poi
Tritarli Nella Polvere Più Sottile Che C’è, E Credo Che Voi Non Troverete Un Singolo Atomo Di Vita...»
«Vero! Facciamolo!»
«Tuttavia, Per Poter Effettuare Fino In Fondo Una Tale Prova, Uno Di Voi Deve Offrirsi Volontario E Sotto-
porsi Allo Stesso Trattamento».
Ci fu silenzio.
«Non è giusto» commentò un sacerdote dopo un po’. «Tutto quello che si deve fare è cuocere nuovamente la
tua polvere e tu torneresti vivo...»
Seguì altro silenzio.
Ridcully disse: «È un’impressione mia o ci troviamo davanti a una spinosa questione teologica?»
Altro silenzio.
Un altro sacerdote disse: «È vero che hai detto che crederai in ogni dio la cui esistenza possa essere provata
tramite un dibattito logico?»
«Sì».
Vimes ebbe una strana impressione riguardo all’immediato futuro e si allontanò di qualche passo da Dorfl.
«Ma gli dei esistono e basta!» esclamò un sacerdote. «Non È Dimostrato».
Un lampo sfrecciò attraverso le nubi e colpì l’elmetto di Dorfl. Ci fu una fiammata e poi si sentì uno sgoccio-
lio. L’armatura fusa di Dorfl gli formò delle pozze attorno ai piedi incandescenti.
«Questa Non Mi Sembra Una Grande Dimostrazione» osservò Dorfl con estrema calma, da un punto impre-
cisato in mezzo a una nube di fumo.
«È una cosa che tende a conquistare le folle» commentò Vimes. «Fino a ora».
Il Primo Sacerdote del Cieco Io si rivolse agli altri sacerdoti. «Va bene, amici, non c’è bisogno di nulla del
genere...»
«Ma Offler è un dio vendicativo» osservò un sacerdote in fondo alla folla.
«Ha il grilletto facile, ecco cos’ha» osservò Ridcully. Un altro lampo zigzagò giù ma si aprì ad angolo retto a
mezzo metro dalla testa del Primo Sacerdote e si abbatté su un ippopotamo di legno che si spaccò in due. Il
Primo Sacerdote sorrise compiaciuto e si rivolse nuovamente a Dorfl, che stava tintinnando leggermente, raf-
freddandosi.
«Hai detto che accetterai di ammettere l’esistenza di un dio qualsiasi solo se essa potrà essere dimostrata tra-
mite una discussione?»
«Sì» ripeté Dorfl.
Ridcully si sfregò le mani. «Non è un problema, mia vecchia porcellana» disse. «Come prima cosa, prendia-
mo...»
«Mi Scusi» lo interruppe Dorfl. Si chinò e prese il proprio distintivo. Il lampo gli aveva conferito
un’interessante forma semisciolta.
«Che stai facendo?» domandò Ridcully.
«Da Qualche Parte Sta Avvenendo Un Crimine» disse Dorfl. «Ma Quando Avrò Staccato Dal Servizio Di-
scuterò Con Entusiasmo Con Il Sacerdote Del Più Valoroso Degli Dei».
Si voltò e cominciò ad attraversare il ponte. Vimes lanciò un rapido cenno di assenso agli sconcertati sacer-
doti e gli corse dietro. Lo abbiamo preso e cotto nel fuoco e lui è stato libero, pensò. Niente parole nella testa
a parte quelle che ha scelto di metterci da solo. E non è soltanto un ateo, è un ateo in ceramica. A prova di
fuoco!
Pareva sarebbe diventata una bella giornata.
Alle loro spalle, sul ponte, stava scoppiando una rissa.

***

Angua stava facendo le valigie. O meglio, non stava riuscendo a farle. Il fagotto non doveva essere troppo
pesante da portare in bocca. Un po’ di soldi, però, (non avrebbe dovuto acquistare molto cibo) e un cambio di
abiti (per le occasioni in cui avesse dovuto indossare dei vestiti) non dovevano occupare troppo spazio.
«Gli stivali sono un problema» disse a voce alta.
«Forse se li allacciassi insieme potresti portarli attorno al collo, no?» suggerì Felicia che stava seduta sul let-
tino.
«Buona idea. Vuoi tu quei vestiti? Non sono mai arrivata a indossarli. Immagino che li potresti ridurre».
Felicia li prese in mano. «Ma questo è di seta!»
«C’è probabilmente stoffa a sufficienza per fartene due». «Ti dispiace se li condivido? È solo che alcuni dei
ragazzi... le signore ai Posto di Guardia» Felicia assaporò la parola
‘signore’... «stanno diventando sempre più leziose...»
«Fonderanno i loro elmetti, vero?» disse Angua.
«Oh, no! Ma forse potrebbero dargli un design più attraente. Ehm...»
«Sì?»
«Uhm...»
Felicia parve a disagio.
«Hai mai realmente mangiato qualcuno? Sai... sgranocchiato ossa e roba del genere?»
«No».
«Insomma, ho solo sentito dire che il mio cugino di secondo grado era stato mangiato dai lupi mannari. Si
chiamava Sfen» .
«È un nome che non mi dice nulla» disse Angua.
Felicia cercò di sogghignare. «Allora è tutto a posto» terminò.
«Quindi non avrai alcun bisogno di quel cucchiaio d’argento che tieni in tasca» osservò Angua.
Felicia restò a bocca aperta e poi le parole le uscirono in un fiotto. «Ehm... non so com’è finito lì, dev’essere
caduto dentro quando mi stavo lavando, oh, non volevo...»
«A me non dà fastidio, davvero. Ci sono abituata».
«Ma io non pensavo che tu...»
«Ascolta, non farti idee sbagliate. Non è una questione di non volere» spiegò Angua. «È una questione di vo-
lere e di non fare».
«Non devi realmente andare via, vero?»
«Oh, non so se riuscirò a prendere seriamente la Guardia e... e a volte penso che Carota abbia intenzione di
chiedermi... e be’, non funzionerebbe mai. E quel suo modo di presumere tutto, sai? Quindi meglio andare
via adesso» mentì Angua.
«Ma Carota non cercherà di fermarti?»
«Sì, ma non c’è nulla che mi possa dire».
«Si arrabbierà».
«Sì» disse bruscamente Angua, buttando un altro vestito sul letto. «Poi supererà la cosa».
«Hrolf Mordicoscia mi ha chiesto di uscire insieme» disse Felicia timidamente, fissando il pavimento. «E so-
no quasi sicura che sia un maschio!»
«Sono contenta per te».
Felicia si alzò. «Ti accompagnerò fino al Posto di Guardia, devo entrare in servizio».
Erano a metà di Via Olmo quando videro Carota, testa e spalle al di sopra della folla.
«Pare che stesse venendo a trovarti» osservò Felicia. «Devo andarmene?»
«Troppo tardi...»
«Oh, buongiorno Caporale Signorina Culetto!» esclamò Carota allegramente. «Salve Angua. Stavo giusto
venendo a trovarti ma prima ho dovuto scrivere la mia lettera a casa, ovviamente ».
Si tolse l’elmetto e si tirò indietro i capelli. «Ehm...» cominciò a dire.
So cosa vuoi chiedermi» disse Angua.
«Davvero?»
«So che ci hai pensato. Sapevi che stavo pensando di andare».
Era evidente, vero?»
«E la risposta è no. Vorrei potesse essere sì».
Carota apparve sconcertato. «Non ho mai nemmeno pensato che potessi dire no» replicò. «Voglio dire, per-
ché avresti dovuto?»
«Santo cielo, mi lasci di sale» commentò lei. «Davvero». «Pensavo fosse una cosa che volevi fare anche tu»
disse
Carota. Sospirò. «Oh, be’... in fondo non importa».
Ad Angua sembrò che qualcuno le avesse fatto uno sgambetto. «Non importa?» ripeté lei.
«Voglio dire, sì, sarebbe stato bello, ma non ci perderò di certo il sonno».
«Davvero?»
«Be’, no. Certo che no. Vorrai di certo fare altre cose. Va bene. Pensavo solo ti potesse piacere. Lo farò da
solo».
«Cosa? Com’è possibile...?» Angua si fermò. «Ma di che cosa stai parlando, Carota?»
«Del Museo del Pane dei Nani. Ho promesso alla sorella del Signor Hopkinson che lo avrei rimesso a posto.
Sai, organizzandolo. Lei non se ne intende molto e io ho pensato che potrebbe tirare su dei soldi. Che resti fra
noi, ma ci sono parecchi reperti lì dentro che potrebbero essere presentati meglio; temo che il Signor Hopkin-
son avesse delle sue idee piuttosto rigide a proposito. Sono sicuro che ci siano un bel po’ di nani in questa
città che ci andrebbero di corsa se ne sapessero l’esistenza e, ovviamente, ci sono molti giovani che dovreb-
bero imparare di più sulle loro orgogliose origini. Una bella spolverata e una mano di vernice farebbero di
certo una bella differenza, specialmente sulle pagnotte più antiche. A me non dispiace impegnare qualche
giorno di ferie. Pensavo che potesse piacere anche a te, ma capisco che il pane possa non essere il sogno di
tutti».
Angua lo fissò. Era lo sguardo che spesso provocava Carota. Esaminò ogni lineamento del volto di lui, alla
ricerca del più piccolo indizio che stesse in qualche modo scherzando. Uno scherzo profondo e prolungato al-
le spese di tutti gli altri. Ogni muscolo del corpo di lei sapeva che doveva esserci uno scherzo, da qualche
parte, ma non ce n’era la minima traccia.
«Sì» disse lei con un filo di voce, ancora esaminandogli il volto, «penso potrebbe diventare una piccola mi-
niera di soldi».
«I musei devono risultare molto più interessanti ai giorni nostri. E, sai, c’è un intero assortimento di briciole
da guerriglia che lui non aveva nemmeno catalogato» disse ancora Carota. «E qualche esempio di panino da
difesa».
«Caspita» commentò Angua. «Ehi, perché non facciamo una bella insegna con scritto qualcosa come
‘L’Esperienza del Pane dei Nani’?»
«Probabilmente non andrebbe bene per i nani» replicò Carota, ignaro del sarcasmo. «Un’esperienza di pane
dei nani tende a essere piuttosto corta. Vedo però che la cosa ha messo in moto la tua immaginazione!»
Dovrò andare, pensò Angua mentre passeggiavano per la strada. Prima o poi lui capirà che non può funzio-
nare. Lupi mannari e umani... abbiamo entrambi troppo da perdere. Prima o poi dovrò lasciarlo.
Ma, se doveva accadere, che fosse un domani.
«Vuoi indietro i tuoi vestiti?» domandò Felicia alle sue spalle.
«Forse un paio» rispose Angua.

Potrebbero piacerti anche