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LA VESTALE INCESTA

Il testo ha come riferimenti principali due autori antichi che hanno lasciato un’accurata descrizione della
punizione alla Vestale colpevole.

COLPE PIU’ LIEVI punite con colpi di frusta. Fustigate dal Pontefice Massimo con versamento di sangue.

COLPA PIU’ GRAVE: lasciar spegnere il fuoco di Vesta, fuoco della città e perdita della verginità. Punizione:
messa a morte per seppellimento da viva.

Dionisio la considera come una condanna a morte. La punizione non si configura però in realtà come una
condanna a morte. Lui considera come condanna ciò che in realtà è solo una conseguenza della condanna
stessa. Si trattava di una forma di volontà di allontanamento dalla società. La colpa consisteva in un
volontario atto di trasgressione che coinvolgeva con i suoi effetti l’intera comunità, che si trovava ad essere
contaminata e che doveva quindi riacquistare la propria purezza per poter ristabilendo la pax deorum,
ovvero il rapporto con gli dei e la Vestale stessa costituiva il piaculum (sacrificio espiatorio con il quale se
espia una mancanza nei confronti degli).

I colpevoli di incesto venivano solitamente gettati dalla Rupe Tarpea, ma non la Vestale, al cui pena
costituisce un caso unico: non vi sono altri esempi di punizione tramite l’interramento da vivi.

Il termine INCESTO tuttavia crea problemi di definizione. In linea generale, con “rapporti incestuosi” si
indica ogni unione sessuale tra persone entro le quali sussiste un divieto di matrimonio in modo perpetuo,
mentre il divieto che riguarda la Vestale è a tempo ovvero valido fino a quando la donna è sacerdotessa (30
anni). Il medesimo termine viene quindi utilizzato per indicare rapporti sessuali essenzialmente diversi. Un’
ipotesi cerca di giustificare l’utilizzo di questo termine considerando la Vestale come congiunta dei Romani
e per questo non potendo contrarre matrimonio con coloro i quali si unisca. L’ipotesi però non sarebbe
corretta in quanto la Vestale non può essere passibile di incesto dal momento che sarebbe colpevole non
soltanto unendosi ai suoi congiunti, i Romani, ma unendosi a chiunque (la Vestale non è considerata
incestuosa se si unisce con i suoi congiunti, ma se si unisce con chiunque quindi vi è un’altra ragione per cui
si usa lo stesso termine)🡪Oggi il termine indica un rapporto sessuale fra congiunti mentre nell’antica Roma
il termine incesto indicava rapporti sessuali in genere, indicava qualsiasi atto grave contro i boni mores e
solo successivamente si è specializzato per indicare rapporti tra congiunti. La colpa della Vestale è quindi
quella di incesto nell’accezione non moderna del termine e veniva quindi punita in modo diverso da coloro
che si univano sessualmente a congiunti, i quali venivano precipitati dalla Rupe Tarpea. La Vestale è quindi
definita incesta non per aver avuto rapporti sessuali con congiunti ma perché non più pura e il crimine da
lei commesso è quindi l’incesto considerato come crimine contro la castità. Con incesto si definisce allora
ciò che contrario al casto e quando riferito alla Vestale definisce una colpa gravissima legata ai rapporti
sessuali solo perché unendosi ad un uomo viene meno alle regole del sacerdozio, senza supporre
improbabili rapporti di parentela tra la Vestale e la cittadinanza.

La Vestale costituiva il sacrificio che la città offriva agli dei per ripristinare la pax deorum. La colpa della
Vestale è configurabile in prodigio e la Vestale stessa rappresenta il sacrificio espiatorio del prodigio stesso.
Il comportamento colpevole delle Vestali assume il significato di un prodigio per cui si ritiene opportuno
consultare i libri Sibillini.

Quando un crimine assume la valenza di un prodigio?


Un crimen assume la valenza di un prodigio quando si fosse percepito, in presenza di altri avvenimenti
nefasti, che la punizione delle colpevoli non sarebbe stata misura sufficiente a stabilire la pax deorum. In
circostanze più usuali, una volta manifestata l’ira degli dei che in generale dipendeva dal fatto che qualcuno
si era accostato ai sacra in modo impuro e che fosse scoperto che la colpevole era una Vestale, si sanava la
situazione con il solo allontanamento della donna. Difficilmente la Vestale può essere considerata sempre
ella stessa il piaculum adatto a sanare una situazione difficoltosa nei rapporti con gli dei: se il prodigio si
manifesta ad indicare l’ira degli dei è perché c’è chi, impuro si è avvicinato ai sacra e se ne riconosce come
responsabile la sacerdotessa, diventa allora improbabile che la sacerdotessa stessa, colpevole, sia a sua
volta indicazione di un qualche altro turbamento della pax deorum. Se a volte la punizione della donna è
bastevole perché si recuperi la pax deorum e a volte non lo è (in tal caso si consultavano i Libri Sibillini), ciò
vuol dire che il piaculum non può essere costituito dalla donna segregata e interrata perché in tal caso ciò
dovrebbe essere sempre sufficiente, ma visto che non lo è, non si può considerare la donna il piaculum
dovuto. Analogamente, la colpa della donna in questa situazione non può essere a volte un prodigium e a
volte no. Considerare soltanto a volte come prodigium l’incesto della Vestale serve a sottolineare come
fossero numerosi i prodigi apparsi e conseguentemente si doveva avvertire l’insufficienza della colpa della
Vestale per spiegare e sanare tutti gli avvenimenti (l’incesto considerato come prodigium solo alcune volte
perché troppi avvenimenti nefasti confronto alle possibili colpe della Vestale).

Perché la donna veniva sotterrata?


Lo scopo era quello di allontanarla dalla comunità, allontanare la causa dell’ire deorum e impedire che la
donna potesse successivamente entrare in contatto con chiunque altro. Non si tratta però di un semplice
allontanamento dallo spazio cittadino in quanto il luogo dell’interramento era interno alla città. Rimaneva
quindi comunque nello spazio cittadino, ma in assoluto isolamento. Il modo stesso dell’interramento
implica una segregazione sia dal mondo dei vivi che dal mondo dei morti impedendo allora che la colpevole
continuasse a vivere nella città, ma contemporaneamente impedendo anche che entrasse a far parte del
mondo dei morti.

Qual è la prova che non si tratta di una condanna a morte ma la morte ne è solo una conseguenza?
Dionisio fa dell’interramento una descrizione razionalistiche considerandolo una condanna a morte, ma
nota anche che non le vengono tributati gli onori funebri, impedendole quindi di acquisire in suo nuovo
statuto nell’aldilà. La Vestale veniva quindi condotta in una cella sotterranea poi chiusa dall’esterno e veniv
lasciata una coperta, una lampada accesa e delle scorte alimentari, il che dimostra l’assenza di ogni volontà
di uccidere.

Ma qual è lo scopo degli onori funebri (gli iusta)? Fissare il morto nella sua alterità o espellerlo dalla
società?
Se il protagonista dell’evento luttuoso è il deceduto, allora effettivamente la sua fissazione nell’alterità
culturale tenderà a soddisfare il morto stesso, mentre se i protagonisti sono i sopravvissuti, saranno loro a
dover prendere le distanze proprio dal morto e gli iusta serviranno ad allontanare definitivamente il morto
oltre che consentirgli di acquistare la sua nuova dimensione.
In alcuni casi si operava l’espulsione del deceduto dalla comunità senza che gli fosse consentito di
raggiungere il mondo ultraterreno (sanzione post mortem) che non impediva alla famiglia di recuperare il
proprio stato perché la sanzione coinvolgeva solo il morto. Nel caso in cui al deceduto possano essere resi
gli onori funebri egli non raggiunge l’aldilà esso dipenderà da un compimento non rite degli iusta e
nemmeno i suoi sopravvissuti potranno essere reintegrati nella società perché la famiglia conserva il suo
statuto di impurità.
La mancanza degli onori per la Vestale mostra allora come essa non sia messa a morte; la donna non
acquista allora lo statuto di morto e la sua separazione dal mondo dei vivi rimane incompleta. Non ha allora
ragioni Dionisio nel dire che gli onori alla vestale venivano negati, semplicemente non le sono resi in quanto
non è morta. La sua esclusione dagli onori servirebbe allora ad escluderla dal mondo dei morti e questo
costituirebbe una pena accessoria accanto all’eventuale messa a morte. Per riacquistare la pace con gli dei
è quindi necessaria l’espulsione della Vestale, un’espulsione che non consenta alla donna né di avere alcun
contatto con i vivi, né con il mondo infero. Gli iusta in questo caso mancano in quanto manca il morto e la
loro mancanza sta a indicare non che la donna condannata a morte ne rimanga priva perché non possa
acquisire la sua dimensione definitiva nell’aldilà, ma appunto che ella non viene messa morte.
Al termine di riti funebri infatti, quando avvengono, da una parte si ha l’espulsione definitiva dal mondo dei
vivi e la contemporanea sua accoglienza nell’aldilà, dall’altra parte, la famiglia del morto è pienamente
reintegrata nel più ampio corpo sociale. La vestale viene allora lasciata in unas rota di ambiguità, quella
medesima ambiguità di cui è intessuta la figura della Vestale.

Dall’età di Tarquinio Prisco (616 ac) al 213 dc solo 9 casi di interramenti, pochi per un periodo così ampio.

Il convincimento che fosse stato commesso un incestum da parte di una Vestale è stato generalmente la
logica conseguenza di un qualche avvenimento altrimenti difficilmente accettabile e spiegabile per
l’immaginario collettivo. Si riconosce quindi la colpevolezza della Vestale quando ci si trovi in presenza delle
rottura della pax deorum che si manifesta attraverso la comparsa di prodigia. Sono questi prodigi che
rendono manifesta la rottura della pace con gli dei. In effetti, se la Vestale si è accostata impura ai sacra, e
dunque li ha contaminati, l’ira divina non può non abbattersi in maniera caratteristica sulla Città nel su
complesso. Quando si avverte che la città è contaminata, la colpa da ricercare può essere soltanto delle
Vestali che non hanno mantenuto la castità e ciò perché il crimen incesti non era espiabile. Non è
necessario tuttavia che la Vestale fosse realmente colpevole, ma erano facilmente imputabili: se l’ira degli
dei si abbatte sull’intera città, evidentemente la stessa città ha commesso, anche se non intenzionalmente,
un crimine e la figura della sacerdotessa può ben rispondere all’esigenza del colpevole da scoprire, un
colpevole che abbia volontariamente violato le norme.
La società allora può sanare la situazione creata attraverso l’espulsione del colpevole, espulsione che non
consisteva in una condanna capitale. La sua empietà era legata non tanto all’effettivo comportamento
individuale, quanto piuttosto alla consapevolezza di tale comportamento da parte della città. Soltanto
quando la società avesse conosciuto che al suo interno si trova chi abbia violato la norma in modo
inespiabile, solo allora si poteva procedere con la punizione stabilita dal collegio dei pontefici. La Vestale
era quindi colpevole in prima persona.

Da quando si è incominciato a interrare da viva la vestale?


L’interramento da viva della vestale non sembra essere la sanzione originaria,ma sarebbe stata introdotta
in tempi successivi. Il primo caso storicamente accettabile riguarderebbe Oppia, nel 483 ac, durante un
periodo di grande pericolo per Roma. Secondo alcune fonti, però, i primi seppellimenti potrebbero essere
stati introdotti da Tarquinio Prisco (616 ac-579 ac), che avrebbe escogitato personalmente la punizione o gli
è stata suggerita in sogno o si trovava nei Libri Sibillini.

Ma perché non si trattava di una pena mortale, ma di un seppellimento da viva?


Presso i Romani, era d’uso la cremazione e non sembrava opportuno usare il fuoco su una donna che non
era stata in grado di accostarsi pura al fuoco sacro | Si ritiene contrario alle disposizioni divine distruggere
un corpo che è stato consacrato con le più grandi cerimonie lustrali o alzare le mani su una donna
consacrata. Non si trattava di una condanna a morte, anche se la società sapeva bene che la donna sarebbe
deceduta in ogni caso, anche se da un punto di vista formale la società non aveva avuto alcuna parte nella
morte della Vestale, per cui ci si poteva anche aspettare che commettesse un suicidio, di cui nessuno
sarebbe comunque venuto a conoscenza (non si sarebbe più avuto accesso alla cella).
L’isolamento serviva anche ad impedire che la sua anima potesse liberarsi del corpo e quindi che
nell’impossibilità di raggiungere l’aldilà, possa diventare pericolosa per la comunità stessa. Attraverso il
seppellimento, la Vestale portava con sé nella propria cella sotterranea, la causa della rottura della pax
deorum. A Roma il metodo di messa a morte era generalmente cruento e si procedeva o con la fustigazione
o decapitazione con l’ascia e in entrambi i casi si aveva un versamento di sangue del condannato, cosa che
si evitava di fare con la Vestale, il cui sangue impuro avrebbe potuto contaminare la comunità e diffondersi.
L’anima in questo modo sarebbe rimasta imprigionata per sempre nel corpo, imprigionato a sua volta nella
cella sotterranea. L’anima della donna non avrebbe allora mai potuto raggiungere il mondo infero dal quale
rimarrà esclusa per sempre. Vi era inoltre la credenza che le anime insoddisfatte potessero mutarsi in larve
che potevano ancora interagire in modo negativo con la società dei vivi. Per evitare tale possibilità si
evitava di condannare a morte la donna, ignorando quindi il momento della morte fisiche che sarebbe
inevitabilmente sopraggiunta, inviando quindi un segnale nei confronti della divinità, che la società stessa
era intervenuta isolando al suo interno la colpevole, non permettendole di diffondere all’esterno la sue
empietà.

Alla punizione della vestale partecipava il Pontefice Massimo, così come il pater familias interveniva in
prima persona nel tribunale domestico. Tuttavia il paragone non è esatto in quanto la Vestale veniva
reclutata ad un’età compresa tra i 6 e i 10 anni uscendo dall’autorità del suo avente potestà senza entrare
nella potestà di nessun altro. L’intervento del Pontefice Massimo, allora, sta a significare che lui era l’unico
che potesse procedere in tal senso nei confronti di una sacerdotessa investita di enormi poteri davanti alla
cittadinanza intera in quanto egli rappresentava la più alta autorità religiosa.

Durante un rito di messa a morte, nel caso il condannato fosse uno schiavo o uno straniero interveniva il
carnefice, mentre questo procedeva alla punizione dei civili soltanto nel caso in cui fossero stati accusati di
perduellio (attentato alla pace della comunità).
Plinio però descrive il supplizio della vestale Cornelia, condannata da Domiziano nell’89 o poco oltre dopo
che era già stata processata per il medesimo crimine e assolta, distinguendo due atti diversi: interramento
e uccisione. Vi sono due ipotesi che possono giustificare questa osservazione: l’autore potrebbe aver
aggiunto al momento dell’interramento il momento della morte perché ovviamente sarebbe sopraggiunta
indirettamente oppure voleva tenere separati i due momenti in quanto la donna sarebbe stata realmente
uccisa e per ciò avrebbe avuto senso la presenza del carnefice. Potrebbe infatti anche essere che in
quest’epoca tarda il Pontefice Massimo provvedesse non solo all’interramento ma anche alla sua morte
tramite il carnefice. In effetti il pontefice Domiziano si era comportato diversamente dalla tradizione anche
in un altro caso precedente, per cui le Vestali avevano avuto la possibilità di scegliere di quale morte
morire. Potrebbe allora essere che qualche anno dopo con Cornelia si fosse ricorso alla punizione antica
con la novità dell’uccisione della donna per motivi propagandistici. Cornelia era infatti già stata assolta da
analoga accusa e il pontefice può aver voluto riaffermare così la propria sovranità.
Il fatto che Plinio, a differenza di Dionisio e d Plutarco, faccia riferimento a due distinti atti, è un indizio
ulteriore che la punizione della Vestale non fosse tradizionalmente la pena di morte.

Durante la cerimonia partecipava anche la comunità in quanto l’impurità si riverberava sull’intera


cittadinanza, che può rimediare solo prendendo parte alla cerimonia.

Vi erano a Roma, alcuni crimini puniti con pene diverse ma che avevano un’analoga gravità: il parricidium e
il perduellium. Mentre in altri crimini dove fosse contemplata la sanzione campitale, si procedeva con i
mezzi usuali, in queste circostanze l’esemplarità della pena doveva rivestire un significato diverso; non era
sufficiente la sanzione ma questa sanzione doveva segnare al contempo la distanza che la comunità poneva
tra sé e il colpevole.

Occorre valutare la ricaduta che avesse ciascun crimine sulla società e quale fosse la strategia adottata dalla
città per difendersi e per recuperare il proprio equilibrio.
VESTALE INCESTA PARRICIDIO PERDUELLIO
ERMAFRODITO
In comune: viene compiuto un delitto individuale e quindi i colpevoli ne sono personalmente responsabili.
Colpa individuale che però interessava la Può essere annoverato tra i prodigia (evidenza Colpa individuale e volontaria (per questo Condanna a morte con sospensione all’arbor
comunità in quanto rompeva la pax deorum, rottura pax deorum) in quanto ha una non può essere aggiunto ai prodigia) ma infelix e fustigazione. Il suo sangue viene
recuperabile con la punizione della colpevole. conformazione anomala del corpo, considerata potrebbe contaminare l’intera comunità versato, non è realmente allontanato dalla
come segno divino. non per aver violato la pax deorum ma società.
per l’abominio della sua colpa. Non incide
su rapporto con dei.
Colpa talmente grave da infettare chiunque ne Colpa talmente grave da infettare La colpa, per quanto grave, non aveva la
fosse entrato a contatto anche soltanto vedendo chiunque ne fosse entrato a contatto possibilità dio contaminare altri. Colpa
gli autori del misfatto: Vestale era velata mentre anche soltanto vedendo gli autori del individuale che non coinvolgeva nemmeno
era accompagnata al luogo dell’interramento. misfatto: volto coperto. indirettamente la società.

Espulsione della colpevole dalla società senza Espulsione del colpevole dalla società Anche perduellis escluso dagli onori funebri.
possibilità di stabilire contatti con altri. senza possibilità di stabilire contatti con
Seppellimento da viva. altri . Condannato al culleus: chiusi in un
Si rende impossibile contatto coni vivi ma anche sacco con animali e poi gettati nel Tevere.
accesso mondo dei morti perché no Si rende impossibile contatto coni vivi ma
onorifunebri. Morte culturale anche accesso mondo dei morti perché
no onori funebri. Morte culturale.
Tempo tra sospetto della colpa e esecuzione Tempo tra condanna e esecuzione pena:
pena: vestale interdetta alla partecipazione ai utilizzo delle ligneae soleae, speciali
sacra. calzari che sollevavano il colpevole da
terra creando una separazione tra lui e lo
spazio cittadino.
Non le era consentito a volte di sottrarsi alla Gli era consentito a volte di sottrarsi alla Consente la provocatio ad populum.
pena mediante all’esilio. pena mediante all’esilio.
Pena immutata nel tempo. Pena mutata nel tempo. Prima
annegamento.
Porta nella cella la causa della rottura della pax Porta con sé nel culleus il personale
deorum. abominio cui si impedirà di contaminare
gli altri.
Pena introdotta già nel 500-400 ac. Pena introdotta alla fine del III sec o
all’inizio del II ac (230-180ac)
Sanzione per un certo tempo incruenta. Sanzione per un certo tempo incruento.
Collegio giudicante: Pontefice Massimo insieme Collegio giudicante: davanti a questori
con gli altri pontefici. appositi.
Cosa si intende per parricidio?
Nella così detta Lex Numae (leggi attribuite al re Numa Pompilio 715-673 ac che dispongono in materia
penale in ordine al crimine) con il termine parricida si indica generalmente l’assassinio di un individuo
indemnatus (innocente) quindi anche di uno dei genitori.
Se quindi l’assassinio del padre o della madre subiva la poena cullei, questa stessa pena poteva benissimo
riguardare in generale la categoria degli assassini di un indemnatus, ugualmente considerati parricidi.
Tuttavia, non tutti gli omicidi subivano la poena cullei. Se realmente il culleus fu introdotto alla fine del III
sec o al principio del II ac, si può pensare che fino ad allora la pena fosse unica e che solo a partire da quel
periodo si sarebbe escogitato un altro tipo di punizione per chi avesse ucciso un congiunto. Le sanzioni
sarebbero allora cambiate da un certo punto in poi.
Il culleus è stato introdotto dopo i rovesci nella guerra contro Cartagine. L’introduzione della pena è
collegata allora a una situazione oggettivamente rischiosa per Roma. Difficile quindi credere che, nel
silenzio delle fonti, colpevoli del medesimo reato, il parricidio subissero sanzioni diverse a seconda del tipo
di indemnatus ucciso (sarebbero stati considerati tutti allo stesso modo). Le fonti non dicono nulla circa
l’inizio di questo tipo di sanzione e non dicono se vi fosse fin dall’inizio una distinzione tra gli assassini. Ci si
deve allora chiedere se la sanzione avesse un significato diverso in circostanze diverse per comprendere il
senso si tale pena.
Come per la sanzione alla vestale incesta, anche la sanzione del parricida, per un certo tempo, fu incruenta.

Il caso di Orazio
Uccide la sorella perché si era mostrata eccessivamente addolorata per Curazio (marito o promesso sposo).
Il crimine commesso sembra essere un parricidio ma viene invece accusato di perduellio e sembra ci sia
stato un mutamento dell’imputazione. La sanzione del perduellio non era leggera ma avrebbe consentito la
provocatio ad populum (=istituto del diritto pubblico che premetteva la trasformazione di una pena capitale
in un'altra pena per decisione della comunità; a differenza del perduellio). Rimane inspiegabile però
l’accusa di perduellio e altri autori antichi ci presentano l’episodio di Orazio in modo diverso.

Pena perduellio: fustigazione a morte. Vi erano diversi crimini ai quali si applicava questa sanzione, per cui
si può pensare che almeno nei primi tempi di Roma, questa pena fosse l’unica adottata. Non c’è quindi da
stupirsi se Orazio (673-641 ac), indipendentemente dall’accusa mossagli, fosse destinato a questa sanzione.
Non cambiava a questo punto che fosse accusato di perduellio o parricidio in quanto stessa pena.
Nell’accusa di perduellio, l’attentato di Orazio alle prerogative dello Stato consisterebbe in un attentato alle
prerogative del pater familias, crimine punibile con un processo esterno al tribunale domestico nella quale
il pater familias esercitava la sua potestà.

Secondo il giudizio del padre di Orazio, questo sarebbe stato colpevole di un crimine da sanzionare solo
all’interno del tribunale domestico e così dicendo, implicitamente lo assolve. Le parole del padre fanno
pensare che l’accusa sarebbe dovuta essere di parricidio. Nelle varie narrazioni che abbiamo riguardo alla
vicenda, l’andamento è sempre il medesimo: Orazio torna vincitore, uccide la sorella, è condannato
dall’autorità costituita, è infine assolto dal popolo. Ciò che cambia è l’accusa che gli viene mossa, perduellio
(secondo Livio)o parricidio e anche chi lo giudica, collegio duumvirale (che tuttavia non ebbero mai potestà
di giudicare processi di parricidio + strano un collegio duumvirale in età monarchica) o il re Tullio Ostilio
(che tra l’altro spinse l’eroe a utilizzare la provocatio).

Non si sa con precisione quando sono state introdotte alcune forme di sanzione. A Roma poteva accadere
che alcune leggi fossero attribuite ad età anteriore a quella effettiva introduzione e non necessariamente
per dare loro una maggiore autorità: poteva accadere che, una volta che si fosse perduta la consapevolezza
dell’epoca in cui una legge era stata introdotta, era facile porla in un tempo più antico perché la si
identificava con il mos maiorum ed era radicato nella coscienza collettiva, rendendolo molto antico. Ma
poteva accadere anche che alcune leggi fossero state retrodatate per far risalire indietro nel tempo la
sovranità popolare . A quando risale infatti la possibilità di appello? Alcune fonti testimoniano la sua
esistenza già in età monarchica, altre dicono che è stata introdotta all’inizio dell’età repubblicana e
sembrano inferire che il giudizio del popolo costituisca una limitazione al potere del magistrato e risulta
quindi difficile credere che esistesse già in età monarchica, ma così dicono alcune fonti. Non si vede infatti
come l’uccisione della sorella possa costituire un atto di tradimento e non di parricidio. Sembra che Livio
accolga una tradizione in cui si sovrappongono due principi diversi: quello della sanzione data dallo stato e
quello della sanzione privata del pater familias della vittima. Alcuni critici ritengono che il metodo adottato
da Tullo Ostilio nel caso di Orazio era per il re il solo mezzo, in un caso eccezionale o imbarazzante, di dare
al popolo la responsabilità di una tale decisione e con questa soluzione si supererebbe il problema
dell’accusa mossa ad Orazio, sia dell’autorità che avrebbe emesso la sentenza, sia della possibilità di
appellarsi al popolo proprio nell’età regia. La conclusione a questo punto coinvolge l’intera comunità e i
popolo accoglie l’appello seguendo le indicazioni sia del padre che del sovrano.
Se l’accusa fosse stata di parricidio, l’unica autorità che avrebbe potuto condannare o assolvere l’uomo
sarebbe stato il suo pater familias, non il re o il popolo.

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