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I VOLONTARI CARNEFICI DI HITLER:

UOMINI COMUNI AFFETTI DALLA BANALITA’ DEL MALE

di

Elisa Dallacasa, Alice Meneguzzo, Elena Righini, Valentina Visani (V A Scientifico)

Giuditta Bellosi, Vittoria Bottau, Chiara Iannuzzi, Laura Minghetti, Federica Rivola,
Francesca Vivarelli (V D Scientifico)

INTRODUZIONE

La shoah fu possibile perché esseri umani uccisero altri esseri umani in gran numero e per
un lungo periodo di tempo. “Uomini comuni” si trasformarono in assassini di professione.

Come fu possibile? Quale fu la molla motivazionale? Cosa spinse quegli uomini a diventare
i solerti carnefici di Hitler? Fede nell’autorità? Paura della punizione? Antisemitismo
trionfante?

Le risposte sono diverse e alcune molto sorprendenti.

Il nostro lavoro parte da un eccidio perpetrato dai nazisti nel villaggio polacco di Jòzefòw.
Ben due sono le particolarità di quella macabra strage: innanzitutto fu messa in atto dai
membri della Ordnungpolizei, ossia poliziotti che ordinariamente avevano il compito di
occuparsi dell’ordine pubblico; inoltre, ai poliziotti venne offerta una possibilità piuttosto
insolita: la libertà di decidere se partecipare oppure no all’eccidio. Quei comuni poliziotti,
non carnefici di professione, avrebbero potuto esimersi dall’infame compito. Solo pochi,
però, fecero questa scelta.

All'alba del 13 luglio 1942, gli uomini del Battaglione 101 della Riserva di Polizia tedesca
entrarono nel villaggio polacco: avevano l’incarico di fucilare circa 1500 ebrei. Al tramonto,
avevano rastrellato 1800 ebrei: ne selezionarono poche centinaia come «lavoratori» da
deportare a Treblinka; gli altri, fossero donne, vecchi, malati o bambini, li uccisero nel
bosco, per le strade o nei loro letti.

Ordinaria crudeltà nazista, si direbbe; ma gli uomini del Battaglione 101 erano riservisti
dell’Ordnungpolizei, non erano spietati membri delle SS o della Gestapo. Erano persone di
scarse doti, inabili al servizio militare, principalmente padri di famiglia, di mezza età,
appartenenti al ceto basso e medio basso in prevalenza di estrazione operaia.
Predominavano le figure di manovali come scaricatori di porto, camionisti, magazzinieri,
macchinisti, camerieri, impiegati; pochissimi artigiani e piccoli imprenditori, rari i

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professionisti, ma comunque figure molto modeste. I riservisti del battaglione 101
provenivano dunque dagli strati più bassi della società tedesca e pochissimi erano
economicamente indipendenti. L’età media era di circa 39 anni. Solo il 25% di loro era
iscritto al partito nazista. La maggior parte proveniva da Amburgo, la città meno nazificata
della Germania: non erano perciò superuomini nazisti e, una volta arruolati, non erano
sottoposti ad alcuna selezione ideologica.

Questi uomini non sembravano i candidati ideali per diventare i volenterosi carnefici di
Hitler, eppure si macchiarono di crimini terribili, malgrado la possibilità di scelta che venne
offerta loro. Tra il 1938 e il 1939 l’Ordnungpolizei, formata principalmente dalle reclute
che volevano evitare la coscrizione nell’esercito, crebbe rapidamente a causa
dell’incombente minaccia della guerra,. Alla fine del 1939 molti dei reparti
dell’Ordnungpolizei furono messi a disposizione dell’esercito. Per riempire i ranghi, furono
reclutati giovani tedeschi riservisti e uomini più anziani che non erano più soggetti alla leva
militare.
Nel 1939, quando la Germania invase la Polonia, il battaglione 101 di base ad Amburgo fu
uno dei primi ad essere annesso a una divisione dell’esercito e inviato in Polonia. Il
comandante era Wilhelm Trapp, veterano della prima guerra mondiale.
Nell’estate del 1941 si venne a sapere che Hitler aveva intenzione di eliminare tutti gli ebrei
d’Europa. La risposta organizzativa e tecnica a queste esigenze fu il campo di sterminio.
Globocnik, ufficiale delle SS e supervisore della costruzione di diversi campi di
concentramento in Polonia, fu incaricato di svolgere il gravoso compito che riguardava
l’organizzazione dei campi della morte senza disporre della manodopera necessaria. La
questione più pressante di questa operazione consisteva nell’evacuare i ghetti. Dove trovare
gli uomini per quella gigantesca impresa logistica? L’utilizzo della Ordnungpolizei fu la
risposta a questo interrogativo. Una forza indispensabile ma ancora insufficiente per gli
obiettivi da raggiungere. Perciò furono visitati i campi dei prigionieri di guerra e reclutati
alcuni “volontari” (venivano chiamati Hiwi) tra gli ucraini, i lettoni e i lituani, scegliendo
soprattutto gli elementi che si professavano anticomunisti e antisemiti, offrendo loro una via
di scampo dalla probabile morte per fame. Gli Hiwi costituirono la seconda fonte di
manodopera a cui Globocnik attinse per formare i suoi eserciti privati da destinare alla
campagna di evacuazione dei ghetti. In un primo momento non fu possibile deportare le
vittime nei campi di sterminio e restava, così, un’unica alternativa: ucciderle in massa
tramite l’impiego di plotoni d’esecuzione. I riservisti del Battaglione 101 furono prescelti
per questo compito.

Il massacro di Jòzefòw

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Dopo che i poliziotti arrivarono a Jòzefòw e vennero informati del macabro compito a loro
assegnato, il comandante del battaglione, Wilhelm Trapp, fece la sua insolita offerta: chi
non si sentiva all’altezza dell’incarico poteva ritirarsi ed essere affidato ad altre mansioni.
Uno solo fece immediatamente quel passo, poi si aggiunsero pochi altri. Alla fine solo
dieci/dodici uomini accettarono l’invito del comandante.
Quando ebbe inizio l’operazione, i poliziotti rastrellarono la zona, uccidendo
immediatamente gli ebrei, come vecchi e bambini, che non stavano al passo. Tutti gli altri
furono portati in un bosco a qualche chilometro dal paese. Per percorrere il sentiero del
bosco che portava al luogo dell’esecuzione, ad ogni poliziotto fu affiancato un ebreo; alla
fine del percorso, ogni poliziotto avrebbe fucilato il proprio “compagno di viaggio”. Il
compito fu ben più difficile di quanto si pensasse: non di rado, i carnefici ritrovarono sulle
loro divise brandelli dei cervelli delle loro vittime (spesso sparavano un colpo alla nuca,
quando non sbagliavano mira) e vistose macchie di sangue. Il giorno dopo, alcuni di loro si
presentarono al sergente Kammer e gli dissero di non poter continuare le esecuzioni. Furono
così sostituiti e mandati a scortare i camion. Ci furono anche dei poliziotti che, pur non
avendo chiesto esplicitamente di essere esonerati dai plotoni di esecuzione, cercarono altri
modi per sottrarsi al gravoso compito. Ad esempio, mancavano le loro vittime per
l’agitazione o di proposito, oppure si nascondevano nel bosco o nel villaggio fino a quando
non finivano le fucilazioni. Quando ritornarono in caserma, gli uomini erano depressi,
amareggiati, arrabbiati e scossi, perciò furono messe a loro disposizione generose quantità
di alcolici. Il maggiore Trapp cercò di rassicurare i suoi uomini, incolpando le alte autorità.
Ma, né l’alcol né le parole del maggiore riuscirono a cancellare il senso di vergogna e di
orrore che pervadeva gli uomini della caserma.
Perché furono pochi quelli che dichiararono fin da subito di non voler uccidere? In primo
luogo la proposta di astenersi dalle fucilazioni li colse di sorpresa e non ebbero il tempo di
riflettere accuratamente sul da farsi. Inoltre, un conto era prendere una decisione prima di
aver assistito a tanto orrore, un altro era rifiutare dopo aver “provato”, come fecero diversi
poliziotti. Oltre a ciò la decisione di prendere parte alla carneficina fu principalmente
guidata da una spinta conformistica: rifiutare significava essere considerato un vigliacco e,
di conseguenza, essere isolato dai propri compagni. C’è inoltre da notare che, chi aveva
rifiutato l’amaro compito non aveva ambizioni di carriera, perché era indipendente
economicamente, per tutti gli altri, invece, l’avanzamento lavorativo rappresentava una
possibilità allettante. Questa è sostanzialmente l’interpretazione di Christopher Browning, lo
storico statunitense che ha scritto “Uomini comuni” dopo aver studiato i verbali di polizia
del battaglione 101. Gli stessi verbali sono stati studiati anche da un altro storico
statunitense, Daniel Goldhagen, che però offre una prospettiva interpretativa diversa: in “I
volenterosi carnefici di Hitler”, l’accento è posto soprattutto sul radicale antisemitismo dei
“tedeschi comuni” e sulla forza condizionante dell’ideologia nazista.

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Il massacro di Lomazy

Nell’agosto 1942 il battaglione 101 fu incaricato di compiere del rastrellamento degli ebrei
di Lomazy; ma delle fucilazioni si sarebbero occupati gli Hiwi. Questo aspetto fece sì che i
poliziotti fossero sgravati dal peso psicologico della soppressione diretta, come invece era
accaduto a Jòzefòw.
All’interno del battaglione si era manifestata una crescente dipendenza dagli alcolici. Un
poliziotto astemio afferma: “la maggior parte dei miei compagni eccedeva nel bere a causa
delle numerose fucilazioni di ebrei, perché quella vita era assolutamente intollerabile da
sobri”.
A differenza di Jòzefòw gli uomini non furono abbinati faccia a faccia con gli ebrei da
eliminare, perciò non si creò alcun legame personale tra vittima e carnefice. Infatti, gli ebrei
erano divisi in gruppi e costretti a stendersi nella fossa sopra i cadaveri di coloro che erano
stati fucilati precedentemente. Inoltre, la rapida rotazione, dovuta al fatto che gli Hiwi, a cui
erano stati assegnate le fucilazioni, erano troppo ubriachi per continuare e quindi vennero
sostituiti a turno dai membri della polizia, consentì agli uomini di sottrarsi al ritmo
incessante delle esecuzioni, che era apparso intollerabile a Jòzefòw. Quindi, oltre che meno
personale, la partecipazione al massacro fu in questo caso anche più circoscritta. Anche
l’abitudine giocò la sua parte: avendo già ucciso una volta, la seconda volta gli uomini
furono meno traumatizzati. Un altro elemento che distinse nettamente il massacro di
Lomazy da quello di Jòzefòw e che può aver “alleggerito” la coscienza dei poliziotti, fu il
fatto che questa volta gli uomini non dovettero sopportare il “peso della scelta”. Infatti non
fu offerta alcuna possibilità esplicita di rifiutare l’ingrato compito.

UNA FUGA DALLA LIBERTÀ

Agli uomini dei Battaglioni di polizia come il 101 era stata data una grande opportunità: la
possibilità di essere affidati ad altre mansioni ed evitare così di prendere parte alle
esecuzioni.
Molti penseranno che potendo scegliere nessun essere umano commetterebbe atti orribili
come quelli, ma la storia ci dimostra esattamente il contrario. Risulta quindi naturale
chiedersi per quale motivo, esseri umani comuni, senza particolari caratteristiche,
perversioni, o radicate convinzioni naziste, abbiano scelto di non scegliere, di fuggire dalla
libertà piegandosi ad un ordine che avrebbero benissimo potuto rifiutare.
Paradossalmente è proprio la libertà che può provocare negli uomini determinati
comportamenti, poiché, come afferma lo psicologo e sociologo Erich Fromm, una volta
ottenuta, ci si rende conto di essere degli individui distinti dagli altri e non si riesce ad
affrontare e superare il profondo senso di solitudine che essa crea. Nel suo saggio “Fuga
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dalla libertà”, Fromm spiega che i principali meccanismi di fuga che possono essere messi
in atto in questi casi sono tre; tutti riscontrabili nel contesto nazista.
Il primo è l’autoritarismo, distinguibile in masochismo (la sottomissione di sè) e sadismo (la
sottomissione degli altri); in particolare, mentre il primo consiste nel sottostare a un’autorità
per non avere il peso della responsabilità, il secondo si basa sull’impulso di dominare gli
altri in maniera assoluta e renderli così sottoposti al proprio volere, ricorrendo anche alla
sofferenza per soddisfare un deviato senso di piacere. Entrambi questi impulsi tendono ad
aiutare l’individuo a sfuggire al sentimento di solitudine e impotenza e, nella figura del
sado-masochista, come Hitler, si verificano addirittura contemporaneamente. Il fuhrer era sì
a capo di tutto il regime, ma la sua brama di potere era razionalizzata poiché si diceva
convinto di agire per conto di un’autorità superiore, la patria, la natura, Dio stesso. Questo
tipo di tendenza era presente anche all’interno dei battaglioni, in cui i poliziotti erano
sottomessi agli ordini ma avevano anche molta libertà di azione sugli ebrei. Infatti, sebbene
alcuni non si fossero tirati indietro quando ne avevano la possibilità e si nascondevano o
sbagliavano di proposito la mira nelle fucilazioni, ve ne erano molti che addirittura non si
limitavano ad uccidere, ma umiliavano e torturavano le proprie vittime.
Secondo alcune testimonianze, gli Hiwi avevano inventato nuovi giochi: ad esempio,
lanciavano delle mele, e sparavano a chi veniva colpito; oppure lanciavano le bottiglie sulla
testa degli ebrei, e chi rimaneva colpito, tra scrosci di risate, veniva trascinato fuori dalla
folla e picchiato a sangue prima di essere fucilato.
Questo tipo di comportamento è riscontrabile anche nella seconda categoria di meccanismi
di fuga: la distruttività. Essa mira alla distruzione dell’oggetto per superare il senso di
avvilimento.
L’unico ebreo sopravvissuto a un’esecuzione racconta: “Fui assegnato ad un gruppo di
giovani di 25-30 anni. Ci dissero di cominciare a scavare delle fosse che potevano contenere
anche 5000 persone. Arrivarono due camion tedeschi, gli Hiwi fecero scendere gli ebrei e li
fecero spogliare, poi li misero in fila completamente nudi. Avanzavano verso le fosse a
gruppi di 300-400 e lì furono giustiziati. Molti erano solo feriti e furono sotterrati vivi sotto
il corpo dei loro compagni. Mentre alcuni carnefici sparavano, altri fotografavano la scena;
altri ancora diventarono isterici, al limite di un esaurimento nervoso”.
Infine, vi è il conformismo da automi, tipo di meccanismo nel quale l’individuo singolo
cessa di essere se stesso e adotta una personalità che gli viene fornita dalla società. Bisogna
ricordare che gli uomini dei battaglioni si trovavano in un paese straniero e che spesso
interagivano con altri che non conoscevano, molti, dunque, come accade nella maggior parte
dei gruppi sociali, temevano il giudizio altrui e, ancor di più, l’isolamento e il rifiuto. Infatti,
tirarsi indietro significava lasciare il lavoro sporco agli altri ma anche attuare una sorta di
rimprovero morale verso chi lo svolgeva. Molti accettavano la presenza di un’autorità che
imponesse loro compiti che altrimenti non avrebbero portato a termine. Lo scienziato
statunitense Stanley Milgram testò il comportamento umano attraverso diversi esperimenti

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che potessero in parte ricreare le situazioni dei massacri e della guerra. Alcuni volontari
vennero coinvolti in un finto esperimento sulla memoria e sull’apprendimento e, da
un’autorità scientifica, furono istruiti ad infliggere una serie di scariche elettriche su una
vittima (impersonata da un attore). Due terzi dei partecipanti all’esperimento obbedirono
fino a infliggere il massimo dolore. Il grado di obbedienza era più elevato se la vittima non
poteva essere né vista né sentita, mentre si abbassava notevolmente se le scariche erano
inflitte attraverso un contatto fisico e diventava nulla se l’ordine proveniva da un soggetto
privo di autorità.
Infine, inseriti in un gruppo di finti volontari che rifiutavano di continuare, la stragrande
maggioranza abbandonò insieme agli altri, mentre se dovevano decidere l’intensità delle
scariche optavano per quelle più basse. Milgram concluse che, con le dovute differenze, gli
uomini dei battaglioni agivano in un certo modo perché influenzati da un’autorità e da un
gruppo. Egli scriveva: “Gli imperativi morali dei soggetti partecipanti, che imponevano
loro di non far del male al prossimo, sono stati sconfitti dall’autorità. La gente comune può
così diventare parte attiva di un processo distruttivo terribile: sono pochissime le persone
che hanno le risorse necessarie per resistere all’autorità”.
Si possono tuttavia trovare altri motivi per cui gli uomini portavano a termine quegli orrendi
compiti. L’interesse a proseguire la carriera in campo militare o a ricevere promozioni, il
desiderio di non essere bollati come rinunciatari e codardi, la possibilità, data dal complesso
sistema gerarchico, di addossare tutta la responsabilità di quelle azioni ai superiori. Tutte
queste però non sono giustificazioni valide, perché secondo molte testimonianze esistevano
diversi modi per sottrarsi alle operazioni, come prolungare azioni di rastrellamento nelle
piazze, chiedere il trasferimento, nascondersi o semplicemente tirarsi indietro quando era
stata offerta la possibilità di farlo.

PSICOLOGIA E REAZIONI EMOTIVE DEI COMANDANTI

Il comportamento di ogni essere umano è, ovviamente, un fenomeno molto complesso, per


cui è normale che all’interno del Battaglione 101 esistessero diversi atteggiamenti verso il
massacro genocida. Al di là della generale e superficiale approvazione di principio, anche i
comandanti dei battaglioni affrontavano i loro compiti distruttivi con emozioni e reazioni
diverse. Ci sono “tipi” come Gnade, il sadico macellaio di ebrei, o l’assassino zelante e,
apparentemente, mai indeciso come Hoffmann, o il carnefice convinto ed entusiasta come
Wohlauf, o l’omicida consenziente ma logorato dall’incertezza e dal conflitto interiore
come Trapp.
Il tenente della Seconda Compagnia Gnade era un nazista convinto e un antisemita. Aveva
un comportamento imprevedibile: a volte affabile e avvicinabile, ma il più delle volte
brutale e malvagio. I suoi tratti peggiori diventavano più marcati sotto l’effetto dell’alcol,
indispensabile a molti per tollerare quello stile di vita. Tuttavia, se quasi tutti si rifugiavano

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nel bere, la vena di sadismo che Gnade cominciò a manifestare rimase una sua peculiarità.
Basti pensare alle fucilazioni nella foresta di Lomazy, durante le quali il tenente volle
“divertirsi un po”. Prima ancora che iniziassero le esecuzioni, egli scelse personalmente
venti ebrei anziani, li fece spogliare e strisciare a terra davanti alla fossa, e, chiamati i suoi
sottoufficiali, li fece bastonare violentemente. Gnade quindi provava piacere davanti alle
peggiori atrocità; togliere la vita lo faceva sentire vivo; farsi padrone degli ebrei gli
garantiva un potere per lui assoluto, ma di fatto inconsistente.
Wolfgang Hoffmann, invece, era il capitano della Terza Compagnia del battaglione 101. Era
un uomo molto severo, orgoglioso e testardo, che molto spesso metteva in discussione gli
ordini dei suoi superiori; non era certo un modello di obbedienza. Dopo il massacro del
villaggio polacco, Hoffmann cominciò a soffrire di colite psicosomatica, che lo costrinse a
letto e lo rese incapace di dirigere personalmente le azioni della compagnia. Secondo i suoi
uomini i crampi allo stomaco coincidevano con troppa precisione con azioni che potevano
risultare sgradevoli e pericolose, infatti, se la sera precedente era annunciata un’azione, il
mattino seguente Hoffmann si sarebbe di certo trovato confinato a letto. Il suo corpo malato
e sofferente, dunque, era il riflesso di un soffocato disagio interiore, velato da orgoglio e
prepotenza. Julius Wohlauf, capitano della Prima Compagnia, può essere considerato uno
dei più entusiasti assassini di ebrei. Era un uomo presuntuoso, energico, deciso e abile
nell’ottenere ciò che voleva. Quando fu informato del rastrellamento di Jòzefòw non riuscì a
trattenere l’emozione dell’attesa; uno dei suoi uomini riferisce di averlo sentito definire
l’imminente operazione una “missione estremamente interessante”. Addirittura, Wohlauf
fece assistere la giovane moglie a massacri e rastrellamenti. Secondo alcuni, il capitano
aveva deciso di portarla con sé perché non sopportava stare separato da lei; altri, invece,
avanzavano un’altra spiegazione: il presuntuoso e borioso Wohlauf avrebbe tentato di
impressionare la moglie mostrandole di essere padrone di vita e di morte sugli ebrei
polacchi.
Trapp, infine, comandante del battaglione 101, era un uomo di 53 anni, veterano della prima
guerra mondiale e decorato con la Croce di ferro di prima classe. Quando si trovò costretto
a radunare il battaglione per diramare l’ordine di rastrellare gli ebrei di Jòzefòw, Trapp
osservò che l’azione non corrispondeva di sicuro ai suoi sentimenti, ma che doveva essere
portata a termine in quanto l’ordine era stato dato da autorità superiori. Molti soldati
restavano colpiti dall’atteggiamento del comandante di fronte alle esecuzioni: alcuni
ricordano persino di averlo visto commosso fino alle lacrime. La sua angoscia dovuta alla
consapevolezza dell’atrocità massacro, non era un segreto per nessuno. Sulla piazza del
mercato, ad esempio, un poliziotto ricorda di aver sentito il maggiore Trapp che esclamava,
mettendosi la mano sul cuore: “Oddio, perché mi hanno dato questi ordini? Queste cose
non fanno per me!”. Il maggiore Trapp risulta dunque un uomo estremamente afflitto dai
sensi di colpa: se da una parte gli ordini dovevano essere portati a termine in quanto tali,
dall’altra egli non riusciva a tollerare completamente quelle atrocità. Fatto sta che le ha

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commesse e, come scrive Browning, “la responsabilità umana è, in ultima analisi, una
questione individuale”.

L’INCAPACITA’ DI ELABORARE UN GIUDIZIO MORALE

Tutti i poliziotti del battaglione 101 ammettono di non essere stati mai propriamente
obbligati a commettere simili scelleratezze, anzi, molti si offrivano volontari. Così dichiara
un commilitone:
“Prima di tutto, e soprattutto, devo dichiarare categoricamente che a ogni richiesta del
superiore c’erano sempre abbastanza volontari per i plotoni di esecuzione. Così avvenne
anche a Jozefow. Devo aggiungere, anzi, che i volontari erano tanti da doverne scartare
qualcuno.”
Si potrebbe pensare che forse nessuno li mise mai di fronte a tale atrocità, che forse non
ebbero mai modo di rendersi conto di ciò che stavano facendo. Ma non fu questo il caso.
Prima di tutto molti di loro, come scrive Goldhagen, andavano a casa in licenza, anche per
molte settimane. Non gli mancò quindi il contatto con altre realtà e opinioni, non mancarono
i confronti con gli amici e con la famiglia. Nessun uomo del battaglione, ad eccezione del
tenente Buchmann, dichiara di aver comunicato ad amici e parenti il desiderio di esimersi
dagli eccidi, o di aver realmente tentato di affrancarsi dal compito della strage. E ciò va a
ulteriore conferma del fatto che essi non disapprovavano moralmente il massacro genocida.

Kurt Mobius, membro di un battaglione, dichiara: “Vorrei anche spiegare che non mi venne
mai in mente che quegli ordini potessero essere ingiusti. So bene che tra i doveri della
polizia c’è anche la protezione degli innocenti, ma allora ero convinto che gli ebrei non
fossero innocenti, ma colpevoli. Credevo che, come diceva la propaganda, tutti gli ebrei
fossero criminali e sub umani, e che fossero loro la causa del declino della Germania dopo
la prima guerra mondiale. Il pensiero che ci si dovesse sottrarre o si dovesse disobbedire
all’ordine di prendere parte allo sterminio non mi passò nemmeno per la mente.”

Alcuni carnefici non dimenticarono neppure di immortalare e glorificare queste azioni


attraverso le fotografie. Vengono ripresi uomini dall'aria tranquilla e felice, in pose fiere e
ridanciane, mentre procedono nelle operazioni contro gli ebrei. Guardando tali immagini, è
ancora più difficile credere che considerassero le esecuzioni disumane. Come fu possibile?
Si può imputare questa crudele indifferenza al cambiamento del metro di giudizio,
provocato dall’influsso condizionante della propaganda e della coercizione di un regime
totalitario e, di conseguenza, dall’incapacità dell’individuo medio di mettere in atto un
proprio pensiero.

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A tal proposito, la filosofa tedesca di origini ebree, Hannah Arendt, autrice di numerosi
saggi sull’argomento, tra cui “L’origine dei totalitarismi” e “La banalità del male”,
scrive:
“E, come nei paesi civili, la legge presuppone che la voce della coscienza dica a tutti “non
ammazzare,” anche se talvolta l’uomo può avere istinti e tendenze omicide, così la legge
della Germania hitleriana pretendeva che la voce della coscienza dicesse a tutti:
“ammazza,” anche se gli organizzatori dei massacri sapevano benissimo che ciò era
contrario agli istinti e alle tendenze della maggior parte della popolazione. Il male, nel
terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è
– la proprietà della tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande
maggioranza, dovettero essere tentati di “non” uccidere, “non” rubare, “non” mandare a
morire i loro vicini di casa” (che naturalmente, per quanto non sempre conoscessero gli
orridi particolari, essi “sapevano” che gli ebrei erano trasportati verso la morte.); e
dovettero essere tentati di “non” trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma
Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni!”
L’ideologia hitleriana aveva plagiato le menti di moltissimi tedeschi al punto da non
permettere loro di pensare e di formulare giudizi morali. Il bene era ciò che veniva deciso
dal fuhrer e l’imperante apatia intellettuale non permetteva di avere un pensiero diverso né,
tantomeno, di mettere in atto un’azione diversa. Hannah Arendt specifica che l’ideologia
nazista “Non solo aveva abbandonato la formula kantiana in quanto non più applicabile,
ma l’aveva distorta facendola divenire: “agisci come se il principio delle tue azioni fosse
quello stesso del legislatore o del tuo paese”. L’imperativo categorico nel Terzo Reich
suonava così: “agisci in una maniera che il Fuhrer, se conoscesse le tue azioni,
approverebbe”.
Indice maggiore di questo modo di agire fu la crudeltà verso gli ebrei, considerati appunto
come non uomini.
L’uso della violenza era una pratica quotidiana, parte integrante della vita degli ufficiali del
Battaglione 101. Goldhagen afferma che “Tutti gli uomini del battaglione uccisero e lo
fecero con uno zelo e una dedizione che non devono sorprendere”.
La violenza sugli ebrei era attuata per lo più per sadismo: le vittime venivano malmenate,
torturate e sottoposte alle più terribili umiliazioni, talvolta per semplice divertimento.
Questa malignità gratuita e deliberata aveva effetti, certo, sul piano fisico, ma anche e
soprattutto su quello psicologico:
“Totale disprezzo per la dignità degli ebrei o rifiuto di riconoscere loro alcuna dignità. I
tedeschi usavano gli ebrei come trastulli per la propria soddisfazione personale”.
L'ufficiale tedesco non riconosce all'ebreo nessuna identità, è un oggetto su cui poter
esercitare qualsiasi tipo di azione, violenta, denigratoria e, il più delle volte, mortale.
Ogni azione di violenza era all'ordine del giorno e difficilmente considerata ingiusta o
disumana.

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Nessuno di questi tedeschi faceva il minimo sforzo per risparmiare alle vittime una sola
sofferenza inutile; anzi, la cosa non era nemmeno presa in considerazione.
Gli unici tentativi di alleviare il dolore seguivano fittizie norme morali di cui si erano
convinti al fine di giustificare le loro azioni, come emerge dalla testimonianza di un
commilitone:
“tentai di uccidere solo bambini, e ci riuscii. Siccome le madri tenevano i bambini per
mano, il mio vicino uccideva la madre e io il figlio, perché ragionavo tra me che dopotutto,
senza la madre, il figlio non avrebbe potuto più vivere. Il fatto di liberare bambini che non
potevano più vivere senza le madri mi pareva, per così dire, consolante per la mia
coscienza.”
La distruzione della comunità ebraica manifestava in ogni sua fase, dalla brutalità dei
rastrellamenti alle sofferenze inflitte agli ebrei nei centri di raccolta, un'indifferenza
assoluta, se non un'attiva intenzionalità. Goldhagen scrive: “Per i tedeschi, l'essere ebreo
era ormai sinonimo di malattia, una malattia considerata e trattata come una cancrena, che
andava tagliata dal corpo sociale.”
Vi era stato ormai un cambio radicale del metro di valutazione etica, dovuto
all’antisemitismo e al nazismo.
Un medico di Auschwitz afferma: “Naturalmente sono un medico, e il mio scopo è
conservare la vita. Proprio per rispetto della vita umana, asporterei un'appendice
cancrenosa da un corpo malato. L'ebreo è l'appendice cancrenosa del corpo dell'umanità”.
La moglie del tenente Brand, racconta: “Una mattina, mentre sedevo con mio marito a
colazione nel giardino del suo alloggio, si presentò un poliziotto del plotone, che scattò
sull’attenti e dichiarò: <<tenente, non ho ancora fatto colazione>>. Mio marito gli lanciò
uno sguardo interrogativo, e lui continuò: <<non ho ancora fatto fuori un ebreo!>>”
Queste testimonianze confermano che le azioni dei carnefici erano caratterizzate dal totale
disprezzo per la dignità degli ebrei, o meglio il rifiuto di riconoscere loro la dignità e il
valore di esseri umani. Ma risulta evidente che la dignità umana veniva calpestata anche
rispetto ai carnefici stessi: commettendo tali atti, negavano a se stessi l’attività del pensiero,
qualità preziosa e insostituibile di ogni uomo razionale.

NAZISMO E ISIS: CARNEFICI A CONFRONTO

Nel nostro lavoro abbiamo preso in considerazione i nazisti, ma risulta evidente, sia dai fatti
storici che dagli avvenimenti attuali, che di certo non rappresentano l’unica categoria di
carnefici. Attualmente, a commettere atti terribili sono i carnefici dell’ISIS (il sedicente
Stato Islamico in Siria e in Iraq). Diffondere il terrore per rendere le persone manipolabili,
mettere al repentaglio la libertà e la sicurezza di tutti, prendere di mira chiunque non sia

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assoggettato alla loro ideologia, mietere vittime innocenti per creare il panico: queste sono
solo alcune delle loro strategie.
Ancora una volta: quale tipo di motivazione è alla base di questi atti terroristici? Come si
può creare uno spaccato psicologico di persone che non conosciamo? Sicuramente è più
semplice ricostruire la psicologia degli uomini che hanno partecipato a un evento del
passato, usando fonti, testimonianze, tutti i mezzi che il passare degli anni ci ha permesso di
trovare. Diverso è invece indagare la psicologia dei carnefici ancora in azione, quelli che
agiscono tra le file dell’ISIS, o anche IS (Stato Islamico), come attualmente si definisce. Per
realizzare questo approfondimento abbiamo preso in considerazione alcuni articoli
giornalistici e soprattutto i reportage di Domenico Quirico, il giornalista tenuto prigioniero
per 5 mesi nel 2013, dagli esponenti della così detta “jihad”.
Il mezzo con cui l’ISIS vuole attuare i suoi piani è la religione musulmana, trasformando
cioè la guerra di conquista in Jihad. Quindi vi è la volontà di estremizzare la religione allo
scopo di renderla coerente con gli obbiettivi del Califfato. Questa radicalizzazione è favorita
principalmente da due elementi: l’odio tra sciiti e sunniti e la campagna di propaganda
lanciata in internet. Difatti l’ISIS si pone come un totalitarismo: dittatura politica e
ideologica, che usa gli strumenti di propaganda, tra cui la religione e i messaggi via web,
per fomentare la divisione tra “buoni” e “cattivi” o, come loro dicono, “puri” e “impuri”.

Non è altro che una forma di razzismo xenofobo che nasconde mire politiche, economiche e
di dominio, esattamente come il nazismo del III Reich.

Quirico scrive: “La religione è utilizzata da loro come strumento per dividere il mondo in
buoni e cattivi: per i jihadisti, i buoni sono loro che praticano la religione salafita rigorosa.
Gli altri sono tutti impuri e quindi il compito che Dio assegna ai jihadisti è quello di
eliminare gli impuri che inquinano la società. Essi usano la religione come strumento per la
separazione della società in due parti. E chi è dalla parte sbagliata deve essere cancellato,
non per quello che fa, cioè azioni o atti che possano mettere in pericolo la vera fede, ma per
quello che è. È una nuova forma di totalitarismo di cui la religione è uno strumento”.

Anche molti giovani occidentali, definiti foreign fighters, reclutati attraverso alcuni siti web,
vengono attirati dalla rete di propaganda e convinti ad entrare in questo giro terroristico.
Sono trascinati dalla tentazione totalitaria, dal piacere di sentire di essere dalla parte giusta
del mondo. È un’avventura trascinante, emotivamente affascinante il sapere di essere dalla
parte giusta del mondo, di essere tra i “puri”.

Il dio musulmano presentato dai jihadisti è un dio che vuole la chiusura, l’unità dei suoi
fedeli in un unico Stato. La stessa ricerca maniacale verso l’unità è palese anche nel regime
di Hitler: un capo, uno Stato, una razza pura.
Ad attrarre i foreign fighters sono anche le ingenti somme di denaro o la promessa di un
ruolo importante. Mettono in atto azioni scellerate, senza essere disposti a prendersi le
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proprie responsabilità e a fare i conti con la propria coscienza, esattamente come gli uomini
del battaglione 101. Questo viene insegnato ai mercenari di oggi: rinnegare quello che sono
per farli diventare quello che al Califfato interessa, ovvero un esercito di persone che non
fanno domande, non si pongono domande, non hanno una coscienza, sono pronti a tutto pur
di avere nelle loro mani il potere (che non avranno mai, ma questo a loro non viene detto).

Coloro che vorrebbero ricostituire il califfato, nelle zone sotto il loro controllo usano le armi
per consolidare il loro potere, ma usano anche altri sistemi. Ad esempio, tra le prime cose
che hanno fatto gli islamisti dell’Isis a Mosul è stata la riapertura dei forni perché la gente
potesse comprare il pane e avvertire un falso senso di protezione.

Il problema è che a loro non importa di essere accettati nel mondo che abbiamo costruito
noi per noi stessi: un mondo di libertà, un mondo eterogeneo, un mondo occidentale. Quello
a cui loro mirano non è distruggerci tutti, ma distruggere quella eterogeneità che è insita
nella nostra cultura.
L’obiettivo è eliminare quegli ambiti in cui musulmani e cristiani, atei ed ebrei, in cui tutte
le persone del mondo possano vivere insieme in armonia. Lo documenta il semplice fatto
che i terroristi distruggono musei e monumenti, perché la bellezza è ciò che unisce tutti i
cuori umani. Il loro nemico è la bellezza in quanto tale.

L’ISIS distrugge i resti antichi, i nazisti bruciavano i libri.

Gli attentati dell’Isis non vanno a colpire l’Occidente in quanto tale, bensì la “zona grigia”

La zona grigia è costituita dai bar, dai ristoranti, dagli stadi, da tutti quei luoghi di incontro
di un gran numero di persone che appartengono a diverse etnie e che possono entrare in
contatto con gli altri e condividere. Non a caso gli ultimi attentati rivendicati dall’ISIS
sono accaduti proprio in luoghi simili: lo Stadio francese di Saint-Denis, il Bataclan, storico
locale di Parigi, luoghi turistici come la moschea Blu e quella di Santa Sofia di Istanbul.

Wael Farouq, docente di Scienze Islamiche all’Università di Il Cairo, dichiara che


l’obiettivo dell’ISIS è distruggere non solo un’identità, ma anche quella “ zona grigia” nella
quale uomini di diversa cultura e religione vivono insieme e si rispettano per quello che
sono. Proprio questo è il punto: un estremista disprezza un uomo non per quello che fa ma
per quello che è, non ne riconosce l’importanza in quanto uomo. C’è un diffuso odio nei
confronti di tutti: musulmani moderati, ebrei, cristiani, buddisti, perché non esiste
l’accettazione dell’altro per la sua umanità.

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA:

Christopher R. Browning, Uomini comuni, Einaudi


Daniel J. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, Mondadori

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Raoul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, Einaudi (selezione di pagine)
Hannah Arendt, La banalità del male, Feltrinelli
Erich Fromm, Fuga dalla libertà, Mondadori

http://www.lastampa.it/2015/11/17/cultura/opinioni/buongiorno/non-avrete-il-mio-odio-
EI6SBX0RvhF4Gg0SGFH4bO/pagina.html

http://www.lastampa.it/2015/11/16/cultura/opinioni/editoriali/isis-e-mondo-islamico-capire-
il-legame-per-battere-il-nemico-xATvyWcsAttYp62DEl0gIJ/pagina.html

http://www.ilsussidiario.net/mobile/Esteri/2015/11/16/PARIGI-E-BATACLAN-Farouq-
attentati-dell-Isis-al-cuore-che-accomuna-musulmani-e-cristiani/655912/

http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2015/11/18/news/terrorismo-cosi-il-Califfato-
vuole-vincere-in-Europa-1.239878

http://www.corriere.it/cronache/14_agosto_25/italiani-jihad-isis-fe6f48b0-2c13-11e4-9952-
cb46fab97a50.shtml

http://www.lasicilia.it/articolo/domenico-quirico-ecco-perch-l-occidente-non-capisce-l-
isis?mobile_detect_caching_notmobile&mobile_detect_caching_nottablet

http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Basta-con-chi-uccide-nel-nome-di-Allah-.aspx

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