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I SOMMERSI E I SALVATI

CAPITOLO 1
La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace, con il tempo i ricordi si modificano e
si degradano. Mantenendo in esercizio la mente e portando alla luce alcuni ricordi si può far sì che
non vengano dimenticati, ma ricordare troppo spesso un avvenimento può diventare uno
stereotipo e può venir perfezionato.
Vittima e carnefice possono soffrire del ricordo ma non è giusto che sia la vittima a farlo, quanto
all’oppressore si spera che possa soffrirne.
Jean Amery “chi è stato torturato rimane torturato. Chi ha subito il tormento non potrà più
ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annullamento non si estingue mai. La fiducia nell’umanità,
già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più”.
Vittima e carnefice cercheranno per tutta la vita un rifugio e una difesa dal fatto che è stato
commesso.
Quando si chiede al carnefice perché ha agito in quel modo le risposte sono tutte molto simili tra
di loro (Speer, Eichmann, Stangl o Hoss): l’ho fatto perché mi è stato comandato, data l’educazione
che ho ricevuto, se non lo avessi fatto io lo avrebbe fatto un altro con maggiore durezza, non
potevo fare altro. Si sono fabbricati una realtà di comodo per non impazzire, provano ripugnanza
per le cose fatte e subito e le sostituiscono. Iniziano in modo consapevole fino a far diventare il
racconto reale e ci credono anche loro. Louis Darquier de Pellepoix, commissario addetto alle
questioni ebraiche, ha dichiarato che le foto dei cadaveri erano montaggi, che le statistiche sugli
ebrei morti erano state create dagli ebrei, non sapeva verso dove erano mandati i deportati e le
camere a gas servivano per uccidere i pidocchi. Eichmann e Hoss invece dichiarano di aver agito
così a causa del contesto e dell’educazione ricevuta, non avevano la possibilità di decidere quindi
dovevano comportarsi per forza così.
Uno stato totalitario può esercitare pressione sui cittadini in tre modi: propaganda diretta,
sbarramento al pluralismo di informazioni e terrore. Entrambi i sopracitati erano nati ed erano
stati educati prima del regime totalitario di Hitler quindi hanno modificato i ricordi. Vengono
alterate le motivazioni che hanno spinto a commettere determinate azioni e non le azioni stesse
che sono facilmente dimostrabili. Spesso i ricordi troppo dolorosi non vengono registrati dal
cervello, in questo modo non c’è il rischio di soffrire. Per fare ciò veniva distribuito alcool a volontà
e i nomi come soluzione finale servivano anche come difesa in modo da non allarmare i
condannati e per non far sapere agli altri quello che stava realmente accadendo.
Alberto cambia nel giro di poche ore quando il padre viene scelto per la selezione. Dal non
raccontarsi bugie si convince che quella selezione era differente e che il padre non era stato
mandato nelle camere a gas. Durante la marcia del 1945 anche Alberto scompare e i familiari in
Italia si sono creati una verità consolatoria.

CAPITOLO 2
Per farci comprendere semplifichiamo la storia e la riduciamo a uno schema e di dividerci in due:
noi e loro. Nel lager non c’erano solo due fazioni ma era tutto confuso. I prigionieri non si
aiutavano tra di loro, non esisteva un noi. I nuovi venivano invidiati dai vecchi, in modo illogico
perché i nuovi soffrivano di più dato che non erano abituati. Veniva deriso e sottoposto a scherzi
crudeli. C’era anche la volontà di alzare il proprio rango e di diventare “qualcuno”, di avere
qualcuno in una posizione peggiore della sua. La maggior parte dei sopravvissuti era un
privilegiato, pochi all’interno del campo ma molti finita la guerra; per sopravvivere infatti serviva
un sovrappiù alimentare altrimenti si sarebbe morti di fame. Zona grigia della protekcja e della
collaborazione. Per legare a sé i “privilegiati” serve fargli fare compiti sanguinari e
compromettenti, inoltre più l’oppressione è dura e più gli oppressi vorranno collaborare con il

potere. C’erano funzionari di basso rango che controllavano pidocchi e scabbia, erano lava-
marmitte o altro e lo facevano per poter avere un mezzo litro di zuppa in più. Non erano violenti

ma difendevano ad ogni costo il loro lavoro da qualsiasi persona potesse portarglielo via. I più
pericolosi erano i Kapos che occupavano posizioni di comando nelle squadre di lavoro,
capibaracca, scritturali e altri avevano addirittura posizioni presso gli uffici amministrativi del
campo. Alcuni di loro (Langbein, Kogon, Marsalek) sono riusciti ad aiutare i compagni nel campo
studiando le SS o trovando documenti importanti. A parte questi pochi casi, gli altri erano corrotti
dal potere, venivano picchiati solo se si dimostravano poco violenti, mentre non c’erano punizioni
nel caso contrario. Dal 1943 in poi viene introdotta la regola che i prigionieri potevano essere
picchiati ma non uccisi, perché serviva la manodopera. Diventavano Kapos coloro in cui il
comandante del Lager o i suoi delegati vedevano buone possibilità oppure altri lo cercavano
spontaneamente. Anche alcuni ebrei sono riusciti a diventare Kapos per cercare di sfuggire alla
soluzione finale. Alcuni oppressi si identificavano negli oppressori e cercavano di somigliare a loro.
Caso diverso sono i Sonderkommandos. La squadra speciale era formata da prigionieri e si
occupava dei forni crematori. Erano dai 700 ai 1000 uomini e avevano il compito di estrarre i denti
d’oro dai corpi, smistare le valigie, mantenere l’ordine tra i prigionieri nelle camere a gas,
trasportare i cadaveri nei forni e togliere la cenere. Ogni squadra, ad A. ce ne sono state 12,
rimaneva in funzione qualche mese, poi venivano tutti uccisi per non avere testimoni. Nel 1944
una delle squadre si ribellò facendo saltare uno dei crematori, vennero sterminati tutti.
Inizialmente venivano scelti dalle SS sulla base del fisico, altre volte per punizione, poi si è passati a
sceglierli appena scesi dal treno perché disorientati.
Il peso della colpa veniva spostato sulle vittime che non potevano più neanche consolarsi del fatto
di essere innocenti.

CAPITOLO 3
Nella maggior parte dei casi l’ora della liberazione non è mai stata né lieta né spensierata come
diceva invece Leopardi. Dopo la liberazione, con il ritorno ad essere uomini, tornavano anche le
pene come quella della famiglia dispersa, del non avere una casa o un posto dove tornare. Chi è
stato felice della liberazione sono stati i soldati, i politici o chi ha sofferto per poco tempo o solo
per sé e non per i propri amici/familiari. Filip Muller nel suo Eyewitness Auschwitz – Three years in
the gas chamber, dichiara di non aver provato niente dopo la liberazione ma di aver
semplicemente dormito. Vergogna provata verso il comportamento di altri, provata dai soldati
russi quando sono entrati nei Lager e dai prigionieri stessi che sono riusciti a sopravvivere.

Ci furono dei prigionieri, principalmente politici, che agirono dall’interno come nel maggio 1944
anno in cui un Kapos particolarmente violento venne “fatto sparire” dopo una settimana dal suo
arrivo. Gli addetti all’ufficio del lavoro all’interno del campo avevano inserito il suo numero tra
quelli destinati al gas. Per queste persone il senso di vergogna non esiste, o esiste in modo diverso,
come per Sivadjan, citato nel Canto di Ulisse.
Per mesi o anni avevano rubato, sofferto la fame, la sporcizia e alcuni sono arrivati anche a rubare
il pane al proprio compagno. Quando riuscivano ad uscire da questa condizione soffrivano perché
si rendevano conto della propria diminuzione. Per questo motivo i suicidi sono avvenuti
maggiormente dopo la liberazione, vi era un’ondata di ripensamento e di depressione. Durante la
prigionia i suicidi erano molto rari, Levi da tre spiegazioni. La prima è che il suicidio è un atto
effettuato dagli umani, e non dagli animali, e nel lager si viveva come degli animali che non hanno
la facoltà di scegliere e pensare. La seconda è che durante la giornata avevano molto da fare e
mancava il tempo di pensare alla morte, perché era costantemente imminente. La terza è che il
suicidio spesso è dettato dal senso di colpa che nessuna punizione è riuscita ad attenuare. La
durezza della prigionia era percepita come punizione e il senso di colpa veniva messo da parte per
poi spuntare dopo la liberazione.
Il senso di colpa è dovuto al pensiero di non aver fatto niente o di non aver fatto abbastanza
dentro al Lager e di aver “pensato ad altro”. Di non essersi ribellati, la vergogna spuntava ogni
volta che si osservava qualcuno che aveva avuto la forza di resistere, come l’uomo impiccato che
viene descritto in L’ultimo. Quasi tutti si sentono colpevoli di omissione di soccorso, il ricordo di
aver rubato ad altri viene quasi cancellato perché troppo doloroso. Non c’era quasi mai la
possibilità di avere solidarietà umana. La regola principale del campo era quella di badare prima di
tutto a se stessi.
Nell’agosto del 1944 faceva caldo e si soffriva la sete. Il gruppo di Levi era stato mandato a
sgomberare una cantina e l’angolo in cui lavorava lui era vicino ad un locale occupato da impianti
chimici. Vide un tubo collegato ad un rubinetto e dopo averlo aperto si accorse che vi usciva
dell’acqua. Decise di condividere il segreto solo con Alberto (nosismo, egoismo esteso a chi ti è
vicino). Daniele, un altro operaio del loro gruppo, si era accorto di tutto e Levi si sentì in colpa.
Quando si cambia codice morale si soffre; guardando all’episodio oggi, con un codice morale
diverso da quello del Lager, si prova vergogna.
Si prova vergogna per essere rimasti vivi mentre altre persone, giudicate migliori, sono morte.
Allora si va alla ricerca di comportamenti sbagliati che si possono avere avuti, c’è il dubbio di aver
soppiantato qualcuno e di vivere in vece sua.
Chi sopravviveva ai campi non era il migliore di tutti, anzi. Erano i violenti, i ladri, gli egoisti, i
collaboratori della zona grigia a rimanere vivi, perché erano i peggiori e i più adatti.
I sommersi sono la regola, i sopravvissuti l’eccezione. Nessuno ha potuto raccontare veramente
l’annullamento dell’uomo o la morta, è stato tutto raccontato per conto di terzi. Non sa se
raccontano per dimenticare o per una sorta di obbligo morale nei loro confronti. Non potevano
chiudere gli occhi come i tedeschi nella speranza di non sapere e di non soffrire, il dolore era tutto
intorno a loro.

CAPITOLO 4
Non è vero che non è possibile comunicare, il modo di farsi capire esiste sempre, va solo trovato e
si deve avere la volontà di farlo. I superstiti si trovano spesso a contestare chi dice di avere fame o
freddo e Levi contesta soprattutto chi dice che non si può comunicare, dato che lui ha vissuto in un
campo con persone provenienti da tutta Europa che parlavano solo la propria lingua.
Gli italiani hanno trovato difficoltà già da Fossoli, il capire o meno il tedesco serviva da
spartiacque. Chi non capiva veniva picchiato, come gli animali (disumanizzazione). A Mauthausen il
nerbo di gomma si chiamava der Dolometscher, l’interprete (Marsalek, Mauthausen).
Le SS erano state addestrate con l’idea che se un uomo non era tedesco e non aveva al suo interno
un qualcosa di tedesco, come la conoscenza della lingua, allora era un barbaro e andava punito.
Chi non conosceva il tedesco o non aveva amici che potessero tradurre moriva subito per
mancanza di informazioni, non poteva infatti sapere come sopravvivere in un Lager.
I superstiti si ricordano ancora alcune frasi o parole di altre lingue che sentivano ogni giorno nel
campo, Levi si ricorda la pronuncia polacca del numero di matricola del prigioniero davanti a lui.
Un caso di comunicazione mancata è il bambino di cui si parla in La tregua, Hurbinek.
Levi ha imparato qualche parola di tedesco grazie ai suoi studi di chimica su libri tedeschi, grazie a
quelle poche parole è riuscito a capire i comandi e a salvarsi. Gli italiani si sono fatti aiutare dagli
spagnoli e dai francesi presenti nel campo, le cui lingue erano più capibili del tedesco. Un alsaziano
ha dato lezioni di tedesco a Levi in cambio di pane; grazie a quelle lezioni si è reso conto che il
tedesco parlato nel lager era una variante rozza del vero tedesco.
Nei vari lager si era creato un dialetto, il lagerjargon, diverso da campo a campo. Il termine
mussulmano si riferiva a un prigioniero stanco e vicino alla morte mentre nel campo femminile si
diceva Schmutzstuck (immondizia) o Smuckstuck (gioiello). Mangiare era diventato fressen (invece
di essen) che si usava solo con gli animali e per dire vattene si diceva hau’ab. Levi ha utilizzato
alcune di queste espressioni durante un colloquio d’affari dopo la guerra.
La seconda lingua più parlata nel campo era lo jiddish, il dialetto degli ebrei derivante dal tedesco.
Chi non soffriva della mancanza di comunicazione erano quelli che si erano arresi (i sommersi).
Oltre alla mancanza di comunicazione interna, mancava anche quella con il mondo esterno. A A.
arrivavano ogni settimana dei prigionieri nuovi che portavano notizie fresche dal mondo esterno e
ogni tanto venivano trovati dei giornali nella spazzatura. Un alsaziano era riuscito addirittura ad
abbonarsi a un giornale. C’erano molti lavoratori liberi che lavoravano nel campo ed era quindi
facile riuscire ad avere notizie recenti, cosa che non avveniva negli altri campo in cui i nuovi
arrivati erano solamente dei prigionieri spostati. Agli ebrei era vietato comunicare con la famiglia,
mentre i prigionieri politici avevano un’ora settimanale in cui ricevevano posta da casa. Levi è
riuscito a spedire alcune lettere a casa (Lilit) grazie a un muratore e a Bianca Guidetti Serra, ma la
maggior parte delle famiglie dei prigionieri era dispersa.

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