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L’eutanasia dei malati di mente

nella Germania nazista

Un tentativo di comprensione

- Università degli Studi dell’Insubria, venerdì 25 novembre 2022 -

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“Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci
avvelenate noi non moriamo? E se ci fate un torto, non ci vendicheremo?”.

(William Shakespeare, “Il mercante di Venezia”)

C’è un esperimento di psicologia sociale assai famoso, del 1961, che dati i vostri studi è probabile
conosciate meglio di me. Tra l’altro è diventato a tal punto un’icona che viene spesso citato, anche dal
cinema mainstream: l’immagine mostra un momento del vero esperimento e la citazione che ne fa Bill
Murray nel primo “Ghostbusters”, film del 1984 per la regia di Ivan Reitman.

L’esperimento fu condotto dal professor Stanley Milgram, all’epoca Assistant Professor presso
l’Università di Yale, e aveva ufficialmente quale scopo quello di condurre una “Valutazione della
memoria e dei meccanismi dell’apprendimento”. Il campione dei partecipanti era costituito da maschi
tra i venti e i cinquant’anni, di estrazione sociale mista.

Apparentemente le persone sottoposte all’esperimento venivano divise casualmente in due gruppi: a


uno sarebbe stato affidato il ruolo di “allievi” e all’altro di “insegnanti”. In realtà il sorteggio era truccato
in modo che solo a soggetti ignari fosse attribuito il ruolo di “insegnanti”, mentre gli “allievi” erano in
realtà collaboratori di Milgram. Il cosiddetto insegnante leggeva al cosiddetto allievo coppie di parole
che quest’ultimo doveva poi memorizzare e ripetere.

In caso di errore nel ricordarle, “l’insegnante” doveva infliggere all’allievo una scossa elettrica sempre
più dolorosa, e quando si mostrava recalcitrante all’idea di fare del male era un supervisore – sempre
un collaboratore di Milgram – a esortarlo pressantemente a procedere rammentando l’importanza
dell’esperimento. “L’allievo” simulava quindi il dolore sino a supplicare di interrompere le scosse e
infine, raggiunti i 330 volt, fingeva di svenire.

Alla conclusione dell’esperimento, risultò che tutti gli “insegnanti” avevano accettato di infliggere le
scosse elettriche sino a 300 volt, di questi il 65% aveva continuato l’esperimento sino allo svenimento
ma si era poi rifiutato di andare oltre, mentre il rimanente 35% aveva invece proseguito sino al limite
massimo della scossa definita “molto pericolosa” di 450 volt, ubbidendo agli ordini ricevuti dai
supervisori.

Naturalmente da quel 1961 sono passati oltre sessant’anni, e chissà quali progressi sono stati compiuti
nel campo della psicologia sociale da allora. Va anche detto che nel corso degli anni sono state
espresse riserve da altri psicologi sulle modalità di somministrazione così come sulla lettura dei risultati,
tuttavia non è poi così importante questo aspetto ai fini del discorso che stiamo per fare.

Più interessante una delle conclusioni cui il professor Milgram giunse: disse sostanzialmente che
l’esperimento dimostrava che quando un ordine proviene da un qualche tipo di autorità riconosciuta,
allora anche “Gente normale, che si occupa soltanto del proprio lavoro e che non è motivata da

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nessuna particolare aggressività [può] da un momento all’altro rendersi complice di un processo di
distruzione”. Partiamo da qui.

O meglio, partiamo dal terreno di coltura in cui il programma eugenetico della Germania nazista
sarebbe stato attuato prima con la sterilizzazione e poi attraverso la soppressione vera e propria delle
persone disabili in un arco temporale che va dai primi passi ideologici immediatamente successivi alla
presa del potere (Hitler fu nominato Cancelliere, cioè Primo Ministro, il 30 gennaio 1933) alla fine della
Seconda guerra mondiale e per la verità un po’ oltre, ovvero alla piena estate del 1945.

L’idea che sia possibile selezionare gli esseri umani in modo non troppo diverso da quello con cui si
selezionano gli animali ha radici molto antiche: sprofonda in un mito – ne scrive Plutarco – che tutti
conosciamo, quello degli Spartani che avrebbero eliminato i bambini dall’aspetto “debole” gettandoli
dal monte Taigeto o comunque abbandonandoli e destinandoli alla morte.

È un mito, non vi sono prove archeologiche che lo dimostrino, oggi gli storici tendono a credere che la
selezione in effetti avvenisse ma fosse operata per separare chi poi sarebbe diventato guerriero da chi
alla nascita non mostrava le caratteristiche ritenute necessarie a questo scopo, ma non divaghiamo.

Nel XIX secolo, a seguito degli studi di Charles Darwin e di quelli ancora precedenti di Franz Joseph
Gall, fondatore della frenologia (che traeva indicazioni sulla personalità degli individui dalla misurazione
del loro cranio) si consolidò l’idea che alcune persone fossero per loro stessa natura inferiori o superiori
alle altre, senza che fattori esterni – dall’educazione, alla cura, all’ambiente familiare – avessero
particolare influenza sul loro sviluppo.

Naturalmente è solo un rapidissimo riassunto delle premesse, e solo uno studio approfondito potrebbe
spiegare e chiarire: è indispensabile che ne teniate conto. Nello stesso modo, stiamo appunto parlando
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di quel “terreno di coltura” da cui l’idea della selezione di individui superiori e inferiori è nata, e quindi
sarebbe impossibile riuscire ad addentrarci nella politica nazista a riguardo senza almeno accennarne,
per povero che sia l’accenno.

Tutto questo per dire che al tempo in cui Hitler conquistò il potere (attraverso libere elezioni, non con
un colpo di Stato, anche questo teniamolo a mente) esisteva già, ed era consolidata, l’idea che per
evitare la decadenza del genere umano fosse necessario agire attivamente sulla selezione dei migliori
a discapito dei peggiori. Anzi, come è stato notato da un filosofo francese contemporaneo, Jean-Paul
Thomas, l’eugenetica è totalmente dominata proprio da una “Ossessione nei confronti della
decadenza”.

Movimenti di scienziati e intellettuali favorevoli a un controllo eugenetico della popolazione (da “èu”,
cioè “buono”, e “ghènos”, ovvero “razza”, “stirpe”) sorsero fin dall’inizio del XX secolo dapprima in
Inghilterra, per diffondersi poi in tutta Europa e nel Nord America. Vi fu anche chi vi si oppose
ovviamente, comprendendo a cosa poteva portare una simile visione del mondo. Tra tutti ne citiamo
uno solo, lo scrittore Chesterton, uno dei maggiori giallisti del secolo scorso e creatore del personaggio
di Padre Brown. Ma ancora una volta, non divaghiamo.

Nella Germania appena uscita dalla disastrosa sconfitta della Grande Guerra – siamo nel 1922, certo
ancora ben lontani dal nazismo che è all’epoca un movimento sconosciuto e appena nato – due
studiosi, lo psichiatra Karl Hoche e il giurista Alfred Binding, pubblicano un libro che ha il pregio della
chiarezza sin dal titolo. È “Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens”, letteralmente, “Il
permesso di eliminare le vite indegne di essere vissute”.

Come vedete usa quella parola che una ventina d’anni dopo avrebbe avuto un’applicazione pratica
quant’altre mai: “Vernichtung”, ovvero “Eliminazione”, “Annientamento”, “Sterminio”. I campi di
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sterminio si chiameranno appunto “Vernichtungslager”. In quest’opera utilizzando due approcci
differenti e complementari, i due studiosi dicono sostanzialmente che esistono persone “Mentalmente
e spiritualmente morte” la cui scomparsa “Non lascia nessun vuoto se non forse nel sentimento di una
madre”.

Il testo è di impostazione accademica: approfondisce, sviscera, propone numerose differenziazioni in


categorie e sottocategorie ma si muove su due assi portanti, uno è quello finanziario: il costo per il
mantenimento e l’assistenza di questi individui è un aggravio per lo Stato tanto pesante quanto
dannoso, per la Nazione essi sono soltanto una zavorra il cui carico finanziario non è sostenibile.

Ma questi individui, dicono i due studiosi, sono zavorra anche sotto il profilo morale: gli “Idioti”, come
vengono definiti, soprattutto chi lo è dalla nascita e non a causa di un sopravvenuto incidente o malattia,
non sviluppano relazioni emotive né con i loro familiari né con l’ambiente in cui vivono, ragion per cui
eliminarli è una pratica lecita, che certo va somministrata dopo uno studio attento e particolareggiato,
caso per caso, ma che in nessun caso può essere paragonata alla morte “Di un essere umano
normale”.

Le due questioni, chiamiamole finanziaria e morale, giusto per capirci, si uniscono in una ulteriore
considerazione, ovvero che l’approccio dello Stato nei confronti di questi individui deve essere analogo
a quello del medico davanti a una malattia: “Tutti gli organismi, come ad esempio il corpo umano – lo
sa bene ogni medico – nell’interesse suo complessivo cede o scarta le parti che diventano senza valore
o possono danneggiarlo”.

E a questo punto il dado è tratto, anche se vi fu un dibattito aperto nella società tedesca del tempo, e
proprio in risposta allo studio di Hoche e Binding il medico Ewald Meltzer pubblicò nel 1925 un libro in
cui notava, non senza ironia, che è piuttosto raro che questi soggetti definiti con tanta superficialità
“Morti mentalmente e spiritualmente” poi mostrino di essere così stanchi di vivere o desiderosi di
morire.

Nel frattempo la Repubblica di Weimar, democratica, sorta dopo la fine della Grande Guerra e il crollo
dell’Impero, si accartoccia su sé stessa travolta da una crisi finanziaria inimmaginabile, con
un’inflazione altissima, e da un sistema politico frammentato, diviso, dominato sempre più dai partiti
portatori di ideologie forti. Il 31 luglio 1932 le elezioni si concludono con questo risultato, e il partito
nazista è il più votato.

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Dopo mesi di ulteriore crisi politica Adolf Hitler viene incaricato di formare il nuovo Governo, è il 30
gennaio del 1933. Uno dei suoi primi atti sarebbe stato quello di convocare nuove elezioni perché il
vento buono va intercettato finché tira, e il risultato – su questo popolo ipnotizzato che inizia a essere
anche in qualche misura intimidito – sarebbe stato questo.

Il risultato di queste elezioni è ottimo ma non eccellente: a quel punto il partito nazista aveva ormai in
mano tutte le leve dello Stato, le forze di polizia, la propaganda, e Hitler confidava che queste nuove
elezioni gli avrebbero garantito la maggioranza assoluta ma così non è. Allora dichiara illegali tutti gli
altri partiti politici e indice nuove elezioni in cui si può votare un partito solo. Il suo.

Saranno le ultime elezioni che si terranno in Germania sino a dopo la Seconda guerra mondiale, e il
risultato può essere considerato dai nazisti finalmente soddisfacente. In più, pochi mesi dopo, l’ultima
filo sottilissimo che rimane a garantire un’ombra di suddivisione dei poteri statali viene meno: l’anziano
Presidente della Repubblica Paul von Hindenburg muore e Hitler dichiara la carica di Presidente
vacante in perpetuo e diventa così il Führer e Cancelliere del Reich.

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All’inizio della sua lotta politica, verso la metà degli anni ‘20, Hitler aveva pubblicato un libro intitolato
“Mein Kampf”, “La mia battaglia”, in esso, descriveva punto per punto gli scopi e gli obiettivi della
politica che intendeva attuare una volta ottenuto il potere. Il capitolo 11 del libro ha per titolo “Popolo e
razza” e in esso sta scritto: “Tutte le grandi civiltà del passato sono tramontate perché la razza
originaria che le aveva create è morta per la contaminazione del suo sangue”.

“La conservazione della razza sottostà alla ferrea legge della necessità e del diritto alla supremazia
dei migliori e dei più forti. Colui che deve vivere deve quindi lottare, e chi non vuole prendere parte alla
battaglia in questo mondo di eterni contrasti non merita la vita”. Capita a volte che si senta dire che i
politici raramente mantengono le loro promesse. Non sarà il caso di Hitler.

Tra l’altro qui c’è una cosa interessante. Immagino che se ora vi chiedessi di riassumere in una parola
questa frase, cioè quale espressione definisce questa visione del mondo, mi rispondereste qualcosa
come “Darwinismo” per esempio, la legge del più forte. In realtà il darwinismo non è questo, Darwin
non usa mai questa espressione nella sua opera, anche perché la storia dell’evoluzione non è sempre
– forse non è nemmeno spesso – quella che è il più forte a sopravvivere.

Se così non fosse, oggi in queste Aule ci sarebbe forse una versione evoluta e intelligente dei
Tirannosauri. In realtà il darwinismo mostra che a sopravvivere non è il più forte, ma il più adattabile al
cambiamento. A volte è il più piccolo, o il più veloce, o quello che riesce a volare, o quello che è capace
di andare in letargo, o quello che ha una migliore capacità di gestire l’abbondanza (o la mancanza) di
acqua.

E c’è anche un’altra cosa interessante, che è l’uso – che poi nel testo del “Mein Kampf” diventerà
rapidamente abuso – dell’espressione “Originario”. Non si capisce mai cosa sia questa pretesa
“Originarietà” dove stia, che senso abbia, quale sia la tendenza cui si fa riferimento quando si parla di
qualcosa che stava al principio. In realtà, l’idea stessa di un tempo in cui l’uomo era “puro” è priva di
fondamento come lo è quindi il preteso avvento di una “Degenerazione”, di una decadenza.

Ultimo tema da chiarire prima di vedere da vicino il programma di eutanasia, è la comprensione del
fatto che il sistema politico della Germania nazista era quanto di meno organizzato e sistematico si
possa immaginare. Fa effetto rendersene conto quando il luogo comune attribuisce all’anima tedesca
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anzitutto la chiarezza dell’organizzazione. Era qualcosa di voluto: nel perenne conflitto di competenze
che si creava tra i diversi ministeri solo il Führer aveva l’ultima decisiva parola.

Lo prova proprio il documento che diede il via al programma sistematico di eutanasia: non è un testo
discusso dal Parlamento, non è un decreto-legge emanato dal Governo, ma una semplice disposizione
firmata da Hitler e scritta sulla sua carta da lettere privata, la cui esecuzione è demandata alla sua
segreteria personale e non a quella del Cancelliere, cioè del Primo Ministro. L’intero programma era
dunque basato su una sua personale autorizzazione.

A diventare legge, era dunque una sua personale convinzione, del resto già abbondantemente ribadita
nel passato e scritta di suo pugno sempre nel “Mein Kampf”, là dove Hitler dice che “Chi non è sano e
degno di corpo e di spirito, non ha diritto di perpetuare le sue sofferenze. Qui, lo Stato nazionale deve
fornire un enorme lavoro educativo, che un giorno apparirà quale un’opera grandiosa, più grandiosa
delle più vittoriose guerre della nostra epoca”.

Si cominciò subito. Già il 14 luglio del 1933 il Parlamento aveva esaminato un testo di legge sulla
“Prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie” che naturalmente fu subito
approvato anche se per ragioni tattiche (il 20 luglio doveva essere firmato il Concordato tra Reich e
Chiesa cattolica) la promulgazione della legge fu ufficializzata solo alcuni giorni dopo, il 25 luglio.

Da questa data, per legge, si rendeva possibile la sterilizzazione di tutti quegli individui la cui malattia
era (o era ritenuta) ereditaria: si intendono epilettici, non vedenti, non udenti, colpiti da un qualche tipo
di ritardo mentale, schizofrenici. Persino l’alcolismo era ritenuto ereditario e pertanto anche alcolisti
cronici furono sottoposti alla pratica.
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L’applicazione della legge era materia di competenza del Ministero dell’Interno nella persona del
ministro Wilhelm Frick. Si calcolò in circa 400mila il numero degli individui da sottoporre a
sterilizzazione, cifra che tuttavia il Ministero stesso riteneva stimata per difetto. Dal punto di vista
burocratico era compito di speciali commissioni, formate da un giudice e da due medici, visitare ospizi,
ospedali, ricoveri, cliniche, manicomi e prigioni e qui selezionare i pazienti da operare.

Va considerato anche il fatto che, sempre per legge, i direttori di questi istituti erano tenuti a segnalare
il numero e i nomi dei loro ricoverati che rientravano nei parametri e che quindi dovevano essere visitati.
Comprensibilmente, quando poi le decisioni vennero prese e furono comunicate ai soggetti o alle loro
famiglie, vi furono proteste e ricorsi, ma il programma non fu fermato. Gli storici ritengono che il numero
degli individui sterilizzati tra 1933 e il 1939 vada da un minimo di 200mila a un massimo di 350mila.

Va anche detto che questa pratica non fu particolarmente osteggiata dalla popolazione del Reich, e
che oltretutto negli stessi anni ebbe luogo anche in altri Paesi come gli Stati Uniti o la Svizzera. In
alcuni casi è durata sino a epoche recenti e il caso più noto è forse quello della Svezia, dove la
sterilizzazione forzata è stata applicata sino alla metà degli anni ‘70 del secolo scorso.

Il “di più” della Germania nazista rispetto ad altri Paesi va individuato nel fatto che qui a entrare in gioco
– oltre alla ricerca di quei disabili mentali che rientravano nei parametri dei pazienti da sottoporre
all’operazione – ci fu anche un dato politico: una specifica direttiva proveniente dalla cancelleria del
partito nazista chiedeva di ritenere deboli mentali anche le persone inaffidabili dal punto di vista
ideologico.

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Una volta attuato il programma di sterilizzazione, il terreno non era da tempo più semplicemente “di
coltura” ma era fertile per nuove e più incisive propagazioni. A svolgere un ruolo decisivo furono così
chiamate le maggiori istanze mediche del regime, in particolare il dottor Leonardo Conti e il dottor
Gerhard Wagner. Il primo, che nel 1939 sarebbe stato nominato Presidente della Camera dei medici
tedeschi e capo della sanità del Reich presso il Ministero degli Interni, era in realtà svizzero.

Di madre tedesca, nato e cresciuto nei primi anni di vita a Lugano, si era però trasferito in Germania
dopo la separazione dei genitori e a quindici anni aveva assunto la cittadinanza tedesca. Nazista della
prima ora, tesserato al partito fin dal 1923, pare avesse intenzione di specializzarsi in pediatria, cosa
che non poté fare a causa dei pressanti impegni politici. Nel 1936 sarebbe stato il medico ufficiale delle
Olimpiadi di Berlino.

Gerhard Wagner ebbe modo di partecipare al programma di sterilizzazione ma non ai passi successivi
perché morì, cinquantenne, nel 1939, anno in cui come detto Conti gli successe nella carica di Capo
della sanità tedesca. È a Wagner che nel 1935 Hitler disse che intendeva procedere con il programma
di eutanasia non limitandosi a quello di sterilizzazione, ma che si rendeva conto di come la società non
fosse ancora pronta per un simile passo.

Aggiunse che per procedere senza intoppi sarebbe stata necessaria una guerra, e che solo il clima di
guerra avrebbe da un lato favorito l’accettazione della misura da parte della popolazione, e dall’altro
avrebbe allontanato l’opinione pubblica dal seguire da vicino la questione. Lo storico Ian Kershaw
riporta la testimonianza letteralmente: “In caso di guerra risolveremo radicalmente il problema degli
istituti psichiatrici”, disse il Führer. E alla fine la guerra arrivò.

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Prima però occorreva preparare il clima, ed era quindi indispensabile il pesante intervento della
propaganda. I filoni che si seguirono furono gli stessi di quel libro cui si accennava poco fa, quello
pubblicato nel 1922 dallo psichiatra Karl Hoche e dal giurista Alfred Binding, solo che adesso il sinistro
titolo che avevano dato alla loro opera, “Il permesso di eliminare le vite indegne di essere vissute” stava
per passare dalla teoria alla pratica.

Il tema anzitutto fu quello dei costi elevati dell’assistenza sanitaria per i soggetti disabili. Questi
manifesti – simili a molti altri del tempo, e decisamente chiari anche a chi non parla il tedesco – mettono
in evidenza come per sostenere la vita di individui disabili occorrano risorse che, in loro assenza,
potrebbero essere utilizzate diversamente.

Il primo dei due, quello giallo, pubblicizza una rivista (“Neues Volk”, “Popolo nuovo”) pubblicata
dall’Ufficio di politica razziale del partito nazista, e dopo aver messo ben grande, in alto, la notevole
cifra di 60mila Reichsmark dice a chi lo osserva, e lo scrive in rosso, “Sono anche soldi tuoi”. Nel
secondo, in cui la cifra è inspiegabilmente ridotta a 50mila marchi, l’immagine vale più delle parole,
con quei due individui, dai tratti grotteschi, a pesare sulle spalle del lavoratore tedesco né più né meno
che come parassiti.

Chiaramente si fa leva sulle difficoltà anche economiche dei cittadini e si chiede loro se non
preferirebbero che tanto denaro venisse investito in loro favore – in favore dei sani, dei “normali”, dei
produttivi – invece che per sfamare “bocche inutili”, la cui vita costituisce solo un peso. Si suggerisce
quindi subliminalmente che dedicare risorse alla disabilità è uno spreco.

Il secondo filone seguito dalla propaganda fu più sottile di questo, che in fondo è primario, grossolano,
e pur cercando la complicità dell’osservatore che bada al portafoglio non riesce a scalfire (anzi, forse

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la rafforza) la questione morale che soggiace all’assistenza ai soggetti disabili. Naturalmente questa è
una questione centrale, e i nazisti lo sapevano molto bene.

Si servirono dunque del cinema. È ovvio che all’epoca non esistevano altri media oltre alla radio, alla
stampa e appunto al cinema. Solo in un secondo momento però decisero di affidarsi alla fiction, come
in questo caso, quello del film “Ich klage an”, “Io accuso”, del 1941, proiettato anche alla mostra di
Venezia. Prima scelsero il filone documentaristico, ma una parola su questa pellicola è importante
comunque dirla.

Qui un medico scopre che l’amatissima moglie è affetta da una grave malattia degenerativa, e lei
stessa chiede al marito di darle la morte prima che la paralisi la riduca a una “larva”, l’uomo lo fa ma
viene denunciato dal fratello di lei e deve subire un processo. Nel corso del dibattimento viene
sviluppata la tematica – in effetti quantomai attuale – dell’eutanasia per quei malati terminali che ne
facciano esplicita richiesta.

È un modo estremamente “strano” per propagandare una questione come quella dell’eutanasia forzata
dei disabili, ma è anche un tentativo sottile di penetrare un’opinione pubblica che fino a quel momento
si era mostrata refrattaria. È del tutto ovvio che le due questioni, i due tipi di eutanasia, siano
imparagonabili l’uno all’altro proprio perché vi è in questo caso il consenso e addirittura la richiesta da
parte del malato.

Un passaggio del film è particolarmente significativo: a un certo punto un altro medico, che era sempre
stato innamorato della moglie del protagonista dice “L’aveva chiesto anche a me, ma non l’ho fatto,
perché l’amavo!”, al che il marito risponde “Io invece è proprio perché l’amavo che l’ho fatto”. Insomma,
gli sceneggiatori misero di mezzo l’amore: perché? Perché si decise di seguire questa via? Perché ciò
che era stato fatto in precedenza non aveva prodotto i risultati sperati.

Negli anni ‘30 erano infatti stati girati ben cinque film documentari – i primi quattro muti, l’ultimo sonoro
– per mostrare al popolo tedesco la vita all’interno delle strutture in cui vivevano i disabili mentali, e
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con ciò diffondere l’idea che quelle vite erano effettivamente “Indegne di essere vissute”. Dell’ultimo di
questi, alla cui prima partecipò anche Hitler il 14 aprile 1937, vorrei che vedessimo insieme alcune
immagini, solo un paio di minuti.

Del sonoro ho lasciato qualche frammento, mettendo però in sottotitolo la traduzione in cui la voce fuori
campo utilizza entrambe le modalità cui si è accennato, da un lato quella della “pietà” per coloro che
vengono definiti “Disgraziati”, dall’altro quella del peso che questi individui costituiscono per la società.
Fateci caso, la parte sottotitolata dura circa un minuto.

Poi mentre le immagini proseguono proveremo, senza più il sonoro, a vedere insieme le modalità con
cui la regia suggerisce il messaggio non verbale contenuto nella pellicola. Perché questi “documentari”
cercano di mettere in luce esattamente l’indegnità di simili vite: il titolo è “Opfer der Vergangenheit: die
Sünde wider Blut un Rasse”, ovvero “Vittime del passato: il peccato contro sangue e razza”.

VIDEO “OPFER DER VERGANGENHEIT” (estratto, durata 2’26’’)

Non so se avete prestato attenzione anche alla voce dell’annunciatore, che continua a ripetere la parola
“Sünde”: questo termine significa “Peccato”, peccato proprio in senso morale, “Colpa”, ma anche
“Errore”, e il sottotesto è anche questo, che cioè gli individui mostrati nel filmato sono un errore, un
malfunzionamento della macchina del popolo quando il popolo si riproduce. Vale forse la pena di
sottolineare che quando ci si trova davanti a un errore quello che si fa è cancellarlo.

Poi vedete come vengono presentate queste figure: si passa da pazienti tutto sommato non troppo
diversi da quelli che si potrebbero trovare in un ospedale a casi via via più gravi, individui che ripetono
gesti stereotipati, dallo sguardo perso nel vuoto, finché non si arriva a casi sempre più gravi che
vengono mostrati (viene da dire quasi con “divertimento”) dai medici e dagli infermieri.

Questa infermiera che manipola una bambina piangente come se fosse una marionetta, del tutto
incurante della sua disperazione, quest’uomo dal camice bianco che mentre ha accanto un soggetto
freneticamente scosso da un tremito incontrollato, guarda in camera e sorride, vedete? Poi c’è un
elettroshock (e il messaggio è adesso sia quanto spendiamo per curare questi incurabili, sia quanto
dolore inutile devono provare) e poi ancora un’altra donna tremante, nuda, totalmente indifesa…

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In Germania c’erano 5.300 sale cinematografiche e tutte (tutte) trasmettevano questi documentari: era
impossibile andare al cinema e non vederli perché – insieme ai cinegiornali – venivano sempre
proiettati prima del film che era in cartellone, un po’ come i trailer oggi. Anche in questo modo si cercava
di instillare il messaggio ma le cose non andarono esattamente come i dirigenti del Reich si
aspettavano.

La guerra scoppiò il primo settembre del 1939, a ottobre Hitler prese la decisione di procedere con il
programma di eutanasia. Scrisse quindi il documento che abbiamo visto prima, quello scritto sulla sua
carta da lettere personale. Lo retrodatò al primo settembre per farlo coincidere con la data dell’attacco
alla Polonia e inserire pienamente la decisione nelle dinamiche di guerra.

Il progetto prese il nome di “Aktion T4”, “Operazione T4”, che sembra un nome da film di spionaggio
ma in realtà è dovuto al fatto che gli uffici che si occupavano del disbrigo della relativa burocrazia
avevano sede a Berlino al numero 4 di Tiergartenstraße. La Tiergartenstraße c’è ancora a Berlino, ai
limiti dell’omonimo parco, e non è altro che la via dello zoo: il “Tiergarten” è appunto lo zoo, reso famoso
da un libro (e poi da un film) che magari conoscete, “I ragazzi dello zoo di Berlino”.

Nel documento Hitler autorizzava Philipp Bouhler, capo della sua segreteria privata, e Karl Brandt, suo
medico personale, a estendere (sotto la loro responsabilità) a medici da loro scelti il potere di
concedere “La morte per grazia” ai malati considerati incurabili, previa una visita e una valutazione
della loro condizione. Il caso di partenza fu quello dei genitori di un bambino (o bambina, il sesso è
ignoto) affetto da gravi malformazioni che alla fine del 1938 avevano chiesto direttamente al Führer
l’eutanasia per il loro figlio.

Il dottor Brandt si recò personalmente presso la clinica dove il bambino era ricoverato e diede
l’autorizzazione. Subito dopo fu creato il “Comitato del Reich per il rilevamento scientifico di malattie
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ereditarie e congenite gravi” presieduto proprio da Brandt e poggiato sempre sulla struttura della
segreteria personale del Führer. Nel frattempo, il Ministero dell’Interno ordinò ai medici e anche alle
ostetriche ospedaliere di segnalare tutti i casi di bambini nati con gravi malformazioni.

Il pretesto fu quello di creare un archivio, in realtà lo scopo era la soppressione di una serie di bambini
le cui patologie dovevano essere indicate con precisione: idiozia, sindrome di Down, cecità, sordità,
macro e microcefalia; idrocefalia; malformazioni degli arti e della colonna vertebrale, paralisi, condizioni
spastiche. Una commissione composta sempre da tre membri doveva raggiungere l’unanimità per
procedere all’uccisione.

Il consenso dei genitori non era richiesto, anzi veniva fatto in modo che non sapessero nulla sino a
cose avvenute: dapprima essi venivano informati del trasferimento del bambino in speciali centri
pediatrici sperimentali, poi, qualche tempo dopo, venivano informati della loro morte improvvisa a
causa generalmente della polmonite. In realtà i soggetti erano uccisi con iniezioni letali o, in alcuni casi,
per fame.

In particolare il dottor Hermann Pfannmüller si specializzò in questa pratica: lo vedete qui nel corso del
processo ai medici che si tenne a Norimberga dopo la guerra, in cui un testimone riferì che nella clinica
di Eglfing-Haar, che questo medico dirigeva, i bambini venivano alimentati con razioni sempre meno
consistenti in modo da evitare qualunque tipo di avvelenamento o uccisione meccanica. In più, con
questa metodologia, l’insorgere di complicazioni polmonari era facilitato. Vale la pena di sottolineare
che il dottor Pfannmüller era psichiatra e neurologo.

Durante la mia visita fui testimone oculare dei seguenti eventi: dopo aver visitato qualche reparto, il
direttore che, se non ricordo male si chiamava Pfannmüller, ci condusse in un reparto infantile. Vi erano
dalle quindici alle venticinque culle con altrettanti bambini. Ricordo la franchezza e il cinismo del suo
discorso: Queste creature sono solo un onere per il nostro corpo nazionale sanitario.

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Noi non uccidiamo con veleno, con iniezioni o con metodi che permetterebbero alla stampa straniera
di allestire una nuova campagna diffamatoria. Il nostro metodo è molto più semplice e naturale. Ho
ancora chiaro di fronte a me lo spettacolo di questo uomo grasso che sorrideva compiaciuto, circondato
da bambini che morivano di fame. L’assassino sottolineò inoltre che ai bambini non era stato tolto il
cibo all’improvviso, ma erano state lentamente ridotte le razioni.

In seguito il programma venne esteso anche ai bambini di età superiore ai tre anni e agli adolescenti,
raggiungendo, secondo gli studi dello psichiatra e storico Robert Jay Lifton, “Vari casi borderline o di
deficit limitato, fino all’uccisione di ragazzi designati come delinquenti giovanili. I bambini ebrei
poterono essere inclusi primariamente per il fatto di essere ebrei, e in un istituto fu costituito un
dipartimento speciale per minorenni di sangue misto ebraico-ariano”.

I genitori che – insospettiti dai trasferimenti – chiedevano di poter ritirare i propri figli dai centri vennero
avvertiti che il loro diniego avrebbe potuto portare alla revoca della patria potestà anche sui loro figli
sani. La pratica venne ufficialmente sospesa il primo settembre 1941, in realtà proseguì lungo tutta la
durata della guerra e in alcuni casi fu interrotta definitivamente solo con l’ingresso negli istituti delle
truppe alleate ancora nel giugno del ‘45, oltre un mese dopo la fine del conflitto.

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Nello stesso periodo di tempo 1939-1941 prese avvio il processo di uccisione sistematica anche degli
adulti, sempre con sede in Tiergartenstraße 4 a Berlino. In questo caso furono i ricoveri, le case di
riposo e i sanatori a dover notificare su di un’apposita modulistica la presenza tra i degenti di tutti i
pazienti ricoverati da più di cinque anni, di quelli con precedenti penali, di quelli affetti da problemi
mentali, demenza senile, condizioni neurologiche gravi, e anche dei “Non-ariani”.

Accadde anche che alcuni dei direttori di questi istituti, pensando che la richiesta fosse volta a
selezionare i pazienti abili al lavoro, abbiano segnato come affetti da queste gravi condizioni anche
soggetti in realtà non gravi, nell’errata convinzione di salvarli, cioè proteggendoli in questo modo
dall’assegnazione a mansioni lavorative pericolose o faticose. In realtà li condannarono
inconsapevolmente a morte.

Esattamente come per i bambini, anche qui operavano commissioni composte da tre persone che però
a questo punto – a causa dell’elevato numero di soggetti da trattare – neppure li visitavano più,
valutandone i casi solo attraverso la modulistica fatta pervenire dai direttori. Sui moduli i tre
componenti, lavorando indipendentemente l’uno dall’altro, dovevano appuntare una croce nel caso
ritenessero di destinare il malato alla soppressione, qualora tutti e tre avessero segnato sul documento
la croce l’individuo veniva ucciso.

Se all’inizio si utilizzarono, come per i bambini, iniezioni di veleni (per gli adulti la pratica della morte
per fame non venne presa in considerazione) presto ci si rese conto che il sistema era lento e
dispendioso in termini di personale e di risorse da impiegare, per non parlare del tempo necessario. Si
decise quindi di utilizzare il monossido di carbonio in forma pura (non quindi come prodotto di scarto
dei motori, come sarebbe avvenuto in seguito all’inizio dell’eliminazione degli ebrei, prima che si
passasse al gas Ziklon-B) e in sei centri vennero installate le prime camera a gas destinate a questo
scopo.

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Le sei località prescelte furono Hartheim in Austria, che è questo bel castello che vedete nell’immagine,
poi Sonnenstein, in Sassonia, Grafeneck, nel Baden-Württemberg, Bernburg, in Sassonia-Anhalt,
Brandeburgo vicino a Berlino e Hadamar, in Assia. La procedura si rivelò essere una preziosa fonte di
esperienze e di informazioni da utilizzare in futuro nei campi di sterminio, infatti diversi operatori di
questi centri furono poi trasferiti all’est per l’eliminazione sistematica degli ebrei.

È il caso ad esempio di Christrian Wirth e di Franz Stangl, entrambi membri delle SS e comandanti
prima ad Hartheim e poi nei campi di sterminio di Bełżec, Wirth, e di Treblinka, Stangl. In questi campi
– al contrario di quanto accadeva ad Auschwitz, dove alcuni prigionieri erano selezionati per il lavoro
– tutti i deportati venivano gassati e inceneriti non appena scesi dal treno.

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La stessa pratica di uccisione con gas e cremazione venne utilizzata nell’Operazione T4: i soggetti
venivano prelevati dagli istituti di residenza e condotti in autobus dai vetri schermati in uno dei sei centri
di eliminazione. A quanti facevano domande, ad esempio tra i pazienti in grado di farne, ma anche tra
il personale degli istituti di provenienza o di quelli – in genere ospedali – in cui i soggetti si fermavano
in attesa di raggiungere la destinazione, veniva detto genericamente che i pazienti sarebbero stati
sottoposti a un “Trattamento speciale”.

Questa espressione, “Trattamento speciale”, in tedesco “Sonderbehandlung”, che in seguito sarebbe


stata utilizzata per definire la pratica di soppressione anche nei campi di sterminio, è quello che i
linguisti chiamano eufemismo, cioè un modo per dire una cosa senza dirla esplicitamente. Teneteli a
mente gli eufemismi perché tra poco, prima di finire, ci faremo sopra un ragionamento piccolo che però
sarà necessario fare.

Comunque, una volta ricevuto il “Trattamento speciale”, i corpi venivano cremati mentre alle famiglie
veniva inviata la comunicazione dell’improvviso decesso (per polmonite o per altre patologie) del loro
congiunto con la spedizione (a pagamento) dell’urna con le ceneri. Si può dire che la redazione dei
certificati di morte, ciascuno con l’indicazione di una causa fittizia di decesso, costituisse la maggior
parte del lavoro degli uffici della Tiergartenstraße.

Fu anche questo a condurre all’interruzione dell’operazione. Accadde infatti sempre più spesso, man
mano che la procedura si faceva più caotica per l’alto numero di soggetti trattati, che ci fossero errori:
a una stessa famiglia venivano inviate più urne, o urne con un nome diverso da quello del loro
congiunto, oppure con l’indicazione nel certificato di morte di malattie che il parente non poteva aver
contratto perché già immunizzatosi in precedenza.

A questo si aggiunse il fatto che la cremazione di un così alto numero di corpi produceva una quantità
di fumi e di odori che la popolazione locale non poteva non notare, e in questa immagine vediamo
appunto il fumo che si levava giorno e notte dal crematorio del centro di Hadamar, fotografato di
nascosto da un civile. Erano condizioni che difficilmente potevano essere celate a lungo.

Anzi, su questo fermiamoci un attimo, e riflettiamo insieme per un istante sul fatto che il fumo che
vediamo in questa foto non è quello di un effetto speciale per qualche film di Hollywood, né è quello di
un impianto di riscaldamento. È proprio il vero fumo dei veri crematori, e quindi c’è della gente lì dentro.
Stiamo vedendo tutto ciò che ne resta, l’unica testimonianza della loro esistenza.

Uno dei canali più insospettabili per la fuga di notizie fu quello dei giornali. Ovviamente la censura
proibiva ogni riferimento all’eutanasia, ma i giornali pubblicavano i necrologi e presto divenne evidente
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che il numero di annunci per il decesso di persone ricoverate, tutte per malattie simili e tutte
contemporaneamente, era sospetto. Più di altro, fu questo a rivelare alla popolazione ciò che in realtà
stava accadendo. La censura intervenne proibendo di indicare nelle necrologie le cause della morte
ma ormai il danno era fatto.

Il sistema cominciò qui a mostrare le sue falle. La mancanza di una direttiva di legge a sostegno del
programma di eutanasia costituiva un problema perché, di fatto, lo rendeva illegale. Ci fu infatti un
magistrato – uno solo, ma uno è meglio di nessuno – che in quanto giudice tutelare del tribunale per
la salute mentale notò l’aumento anomalo dei certificati di morte. Scrisse allora al ministro della
Giustizia Franz Gürtner, era l’8 luglio 1940.

Il successivo 13 novembre Kreyssig fu convocato al ministero e Gürtner gli mostrò la lettera con cui
Hitler che aveva avviato il programma di eutanasia e che ne costituiva l’unica base giuridica. Kreyssig
fece notare che “La parola del Führer non crea un diritto legale”, ma il ministro replicò che se un giudice
non avesse riconosciuto la volontà del Führer come fonte stessa del diritto, allora non sarebbe potuto
rimanere giudice. Un mese dopo Kreyssig fu sospeso, nel marzo del ‘42 costretto al ritiro.

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Un’altra fonte di opposizione fu rappresentata dalla Chiesa cattolica. Tenete presente che le Chiese
cosiddette protestanti erano sottoposte all’autorità dello Stato che ne nominava i Vescovi, e che figure
eminenti del protestantesimo come Joseph Mayer, docente di Teologia morale all’Università di
Paderborn, avevano garantito al capo della segreteria personale di Hitler che non vi sarebbero state
proteste da parte delle Chiese.

La Chiesa cattolica invece, assai diffusa nella Germania meridionale e in Austria, protestò
pubblicamente. Il 3 agosto 1941, quando il programma di eutanasia era in funzione ormai da quasi due
anni ed era ormai noto almeno ufficiosamente, il Vescovo di Münster Clemens von Galen tenne
un’omelia infuocata in cui disse: “Non possono più produrre, sono come una vecchia macchina, che
non funziona più, come un vecchio cavallo diventato inguaribilmente zoppo. Sono come una mucca,
che non dà più latte”.

“Cosa si fa con una tale macchina? Viene demolita. Cosa si fa con un cavallo zoppo, con talaltra bestia
improduttiva? Ma qui non si tratta di macchine, qui non si tratta di cavallo e di vacca, qui si tratta di
esseri umani, nostri consimili, nostri fratelli e nostre sorelle. E se si ammette il principio, ora applicato,
che l’uomo ‘improduttivo’ possa essere ucciso, allora guai a tutti noi, quando saremo vecchi e
decrepiti!”.

Un ulteriore fronte nell’opposizione fu rappresentato da alcuni medici come Hans Gerhard Creutzfeldt,
lo scopritore di quella che conosciamo come malattia di Creutzfeldt-Jacob: direttore di una clinica
neurologica a Kiel, nel nord della Germania, vicino alla Danimarca, falsificò deliberatamente le cartelle
cliniche dei suoi pazienti in modo che non rientrassero nei parametri dell’Operazione T4 e dunque non
venissero prelevati per essere condotti nei centri di uccisione.

Secondo una testimonianza della storica Gitta Sereny, mentre il suo treno speciale si fermava per una
sosta tecnica nella cittadina di Hof an der Saale, in Baviera, Hitler fu contestato dalla folla che poco
prima aveva assistito a un trasporto di disabili: fu l’unica volta in dodici anni di potere in cui il Führer
venne pubblicamente attaccato. Il programma di eutanasia venne interrotto un mese dopo, il primo
settembre 1941, continuando però sottotraccia.
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Secondo le cifre ufficiali, nei circa due anni di funzionamento del programma T4, furono eliminati 70.273
disabili, così suddivisi nei sei centri di uccisione. Le cifre andrebbero aumentate con la scoperta, negli
archivi della ex-Germania Est, di altri elenchi di individui soppressi nel corso dell’operazione ma
teniamo a mente questa cifra, perché ci faremo sopra un ragionamento alla fine. Non dimenticatela:
70.273.

Tuttavia, nel 1941 la Germania era ancora convinta di vincere la guerra: dominava l’Europa dalle coste
dell’Atlantico sino ai monti Urali, e l’invasione dell’Unione Sovietica – iniziata il 22 giugno di quell’anno
1941 – procedeva speditamente: tutta l’Ucraina era stata conquistata, Leningrado era cinta d’assedio,
l’esercito del Reich aveva raggiunto la periferia di Mosca, a nord erano state occupate la Norvegia e la
Danimarca, a sud la Grecia e la Jugoslavia.

Gli alleati italiani creavano parecchi problemi ma quelli giapponesi parevano fare un sol boccone
dell’estremo oriente, e mentre l’opinione pubblica negli Stati Uniti era per la maggioranza contraria
all’ingresso in guerra, le armate dell’Afrikakorps marciavano spedite verso l’Egitto.

Non era certo il momento di rinunciare a un obiettivo primario come l’eliminazione dei disabili, che si
era calcolato avrebbe fatto risparmiare allo Stato centinaia di milioni di marchi. Se era necessario
accantonare l’Operazione T4, si poteva nel frattempo aprire un nuovo fronte con l’Operazione 14f13.
Anzi, con il “Sonderbehandlung 14f13”, il “Trattamento speciale”.

Anche “14f13” suona come un’espressione da agenti segreti, ma in realtà è una sigla con un significato
eminentemente burocratico: la lettera “F” che unisce i due numeri indicava che l’obiettivo era la morte
(in tedesco “deceduti” si dice “Todesfällen”), il numero 14 indicava nella burocrazia delle SS i campi di
concentramento, il numero 13 era quello con cui si indicava l’uso del gas.

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Così personale, competenze ed esperienze accumulate nella soppressione dei disabili venivano
trasferite sui prigionieri dei campi, mentre i luoghi dell’uccisione rimasero tre dei sei già utilizzati per
T4, e quella che vediamo è in particolare la camera a gas del centro di Bernburg. Naturalmente, quando
si parla di prigionieri dei campi di concentramento non ci si riferisce agli ebrei né ai prigionieri di guerra,
ma ai detenuti politici e agli oppositori in genere.

Anche qui era una commissione a raccogliere i dati e a selezionare quelli che – inabili al lavoro per età
o malattie – andavano soppressi. Si incoraggiavano i detenuti a chiedere il trasferimento facendo loro
credere che sarebbero stati portati in luoghi dalle condizioni di vita meno dure e dal lavoro più leggero.
In realtà venivano condotti ad Harteim, Bernburg e Sonnenstein, qui sottoposti a una visita dentistica
(per selezionare quanti avevano denti d’oro da recuperare) e poi gassati e cremati.

Fin dal 1941 migliaia di prigionieri arrivarono dai campi, da quelli più piccoli e meno noti a quelli il cui
nome è ancora tristemente famoso oggi: Sachsenhausen, Buchenwald, Dachau, Gross-Rosen. I casi
clinicamente più particolari venivano preservati – come già era accaduto per i bambini – per la
dissezione a scopo di studio. I reperti anatomici, in particolare i cervelli, venivano inviati alle università.
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Sono stati conservati per decenni, e su di essi sono stati condotti studi sino a pochi anni fa. In
particolare, il Kaiser Wilhem Institut di Berlino (una delle istituzioni mediche internazionali più
prestigiose proprio per lo studio del cervello, oggi Istituto Max Planck) raccolse per iniziativa del
direttore, Julius Hallervorden, una collezione di 698 cervelli cui è stata data sepoltura solo nel 1990.

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Con il proseguire della guerra e con le prime sconfitte, il programma cambiò nuovamente: tra 1941 e
‘42 anche gli ebrei vennero inclusi, dal 1943 si iniziò a uccidere anche nei singoli campi senza più
l’incomodo del trasporto, ma contemporaneamente si allargarono le maglie della selezione escludendo
chi – anche se disabile – era in grado di lavorare. Nel frattempo, dal 1944, si smise di utilizzare le
commissioni mediche e la decisione su chi sopprimere e chi no passò esclusivamente alle SS.

L’ultimo trasporto documentato fu verso il castello di Hartheim l’11 dicembre 1944, mancavano sette
mesi alla sconfitta della Germania, dopodiché anche l’Operazione 14f13 venne chiusa. Si stima che
nel periodo 1941-1944 siano state soppresse in questa operazione alcune decine di migliaia di individui
anche se non è stato possibile ricostruire un conteggio preciso come quello che possediamo
dall’Operazione T4, ricordate quei 70.273?

Oggi, a Berlino, nella Tiergartenstraße, c’è questo monumento in memoria delle vittime dell’Operazione
T4: sul pianale di marmo scuro sono riportate, in diverse lingue, le informazioni sul significato del
progetto di eutanasia e sulle sue implicazioni, poco distante, una parete di vetro blu ricorda tutti gli
uccisi. La scelta del materiale non è casuale.

Il vetro è una materia che per sua stessa natura può essere penetrata con lo sguardo e indica che solo
in questo modo – andando oltre, guardando attraverso, superando la superficie – è possibile cogliere
ciò che sta dentro, dietro. Vi ricordate che prima avevamo parlato degli eufemismi? Bene, forse vi siete
accorti che io in tutto questo nostro incontro ho sempre parlato di “Pazienti”, “Soggetti”, “Individui”.

Non ho mai detto “Persone”. Le vittime dell’Aktion T4 non erano persone per il nazionalsocialismo: il
dottor Wilhelm Bayer lo chiarì molto bene al processo contro i medici nazisti che si tenne a Norimberga
dopo la guerra. Si difese così: “Per quanto riguarda il presunto crimine contro l’umanità, devo
respingerlo perché un simile crimine può essere commesso solo contro le persone, e gli esseri viventi
che abbiamo trattato [notate bene: “trattato”, “Trattamento speciale”] non dovrebbero essere chiamati
persone”.

Non ve la metto la foto del dottor Bayer: ne ho messe molte di facce qui, è importante che vediamo
che tutti questi criminali erano uomini esattamente come me e come voi, ma la faccia di Wilhelm Bayer
non ve la mostro. Perché è stato un uomo che nella sua vita, o almeno nella prima parte di essa, era
animato dalle migliori intenzioni: un luminare nel suo campo, formatore di pediatri, colui che introdusse
in Germania l’indennità per le donne in stato di gravidanza.

Però poi partecipò all’Operazione T4. Ecco, il dottor Wilhelm Bayer siamo anche io e voi, o quantomeno
potremmo esserlo, potremmo diventarlo. E questa è una cosa che va tenuta a mente perché alle volte
basta un niente, basta un attimo. Abbiamo anche sentito nomi di persone per bene oggi, come il dottor
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Creutzfeldt, o di veri eroi, come il giudice Kreyssig, che nascose anche degli ebrei. Ma forse serve
anche avere davanti un modello negativo, a volte. Per tenersene lontani.

Anche perché ci fu un progetto anche di eugenetica positiva, positiva nel senso filosofico del termine,
che cioè mirava non alla selezione dei peggiori da scartare ma dei migliori, di cui incoraggiare la
riproduzione: uomini e donne che per la loro bellezza e forza venivano accoppiati artificialmente al solo
scopo di produrre bambine e bambini che avrebbero dovuto essere “gli uomini nuovi” del nazismo
destinato a durare mille anni.

Non ne parliamo oggi, non è tema del nostro incontro, ma tenete presente anche il rovescio della
medaglia. Quel progetto, chiamato “Lebensborn”, doveva nelle intenzioni aumentare di un terzo la
popolazione tedesca portandola a centoventi milioni di abitanti entro il 1980, ma in realtà produsse
migliaia di bambini senza padre né madre, senza radici, senza nulla.

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E ora andiamo a finire. Nel cercare il modo con cui concludere ho riletto un po’ tutte le informazioni che
ho raccolto e mi è sembrato che oltre a essere poche, rapide e quindi per forza di cose lacunose, siano
anche in qualche modo incapaci di offrire un quadro d’insieme del tutto. Certo questo per voi è un
excursus, magari anche importante ma comunque non decisivo, suppongo, ai fini degli studi che state
compiendo. E poi è difficile, davvero difficile, rendersi conto della portata di quanto è accaduto.

È anche colpa della narrazione, credo. Una narrazione deve – per forza di cose, se vuole suscitare
un’impressione – appuntarsi ad alcuni casi specifici. È quello che fa Marco Paolini in “Ausmerzen”, no?
Se avete visto lo spettacolo, che il vostro insegnante vi ha suggerito, avrete visto che parla
specificamente di qualcuno per nome e cognome, sia questi un carnefice o una vittima. È giusto, così
funzionano le narrazioni.

Per contro, affidarsi ai numeri comporta il rischio esattamente opposto perché i numeri – soprattutto
quando sono grandi – anestetizzano: credo sia stato Stalin, un altro che di massacri se ne intendeva,
a dire pressappoco che “Un morto è una tragedia, un milione di morti è un dato statistico”. Allora ho
pensato che una chiave potrebbe essere quella di utilizzare entrambi i sistemi, e vedere se magari
qualcosa resta.

Iniziamo dai numeri. Come si diceva le vittime di T4 sono state, ufficialmente, 70.273 in esattamente
due anni, dal primo settembre 1939 al primo settembre 1941. Poi in realtà le cose non stanno
esattamente così: l’uccisione di disabili e malati di mente proseguì sino al 1945, l’abbiamo visto,
andando persino oltre l’8 maggio in cui finì la guerra. Persino la data del primo settembre ‘39 è fittizia,
riportata su un documento artificiosamente retrodatato.

Ma prendiamola per buona: 70.273 vittime in due anni. Ora, facciamo finta che in quel periodo di tempo
a lavorare nei sei centri della T4, a Bernburg, Brandeburgo, Grafeneck, Hadamar, Hartheim e
Sonnenstein ci siamo stati noi. Io, il vostro docente, voi… oggi lavoriamo normalmente otto ore per
cinque giorni la settimana, abbiamo le ferie, ma allora era tempo di guerra, quindi possiamo supporre
che avremmo lavorato di più.
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Dieci ore al giorno invece di otto poniamo, e sei giorni la settimana, per cinquanta settimane l’anno con
due sole settimane di ferie. Significa che in un anno avremmo lavorato per 3mila ore: sessanta ore la
settimana per cinquanta settimane. In due anni fanno 6mila ore tonde tonde. Questo significa che su
70.273 uccisioni la media è di 35.136,5 uccisioni l’anno, 3.055,34 uccisioni al mese, 702,73 uccisioni
la settimana, 117,12 uccisioni al giorno, e 11,71 uccisioni l’ora.

11,71 persone uccise con la nostra attiva collaborazione in ogni ora lavorativa, di ogni giorno, di ogni
settimana, di ogni mese, in due anni. Ecco, ora provate a immaginare undici persone che conoscete
(quasi dodici) – dalla zia al vicino di casa, dalla barista dove vi piace fare colazione all’amico con cui
uscirete a farvi una birra domani sera – uccisi in un’ora. Ogni ora di ogni vostra giornata lavorativa per
due anni. Ecco, questo forse ha il potere di darci un brivido, e di farci intuire l’enormità del tutto.

L’altra chiave è quella dell’incontro con una persona. In fondo questo è stato il grande buco nero delle
grandi ideologie del secolo scorso: che per esse le persone non esistevano, esistevano invece “le
masse”, “i popoli”, al limite esistevano gli individui, ma le persone, quelle, non esistevano. E di
conseguenza non contavano niente.

Della persona che incontreremo tra poco (la cita anche Marco Paolini ma non in “Ausmerzen”, credo
solo in un prosieguo dello spettacolo in cui dialoga col giornalista Gad Lerner) scrive Primo Levi ne “La
tregua” e “I sommersi e i salvati”. È un brano importante perché contiene tutto quello che – credo –
abbia a che fare con la professione del prendersi cura di un altro, cui suppongo vi stiate preparando
coi vostri studi.

C’è tutto, davvero: la persona sofferente, quelli che attorno osservano, sentono ma nulla possono, o
sanno, fare, quelli che provano a essere d’aiuto ma il loro aiuto è vacuo, pietistico, ubriacano di baci
ma l’altro resta comunque altrove, distante, e poi c’è colui che davvero si prende cura. Ecco,
terminiamo così, con il mio augurio di essere sempre nella vostra vita un Henek, qualunque Hurbinek
vi troviate davanti.

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Hurbinek era un nulla, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui,
non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi,
forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il
piccolo ogni tanto emetteva.

Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi
nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della
volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era
curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno
sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere,
tanto era carico di forza e di pena.

Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici
anni. Henek passava accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno più che
paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un
mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo
tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di baci, ma sfuggivano la sua intimità.

Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che
ne emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di
ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e paziente. Dopo una settimana,
Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek “diceva una parola”. Quale
parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese.

Nella notte tendemmo l’orecchio: era vero, dall’angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una
parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata; o
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meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice,
forse a un nome.

Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo
ascoltavamo in silenzio, ansiosi di capire, e c’erano fra noi parlatori di tutte le lingue d’Europa: ma la
parola di Hurbinek rimase segreta. Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non
aveva mai visto un albero.

Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel
mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui
minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni
del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.

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Per una bibliografia breve

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Torino, 2017

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Giuntina, Firenze, 2013

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2021

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Primo Levi, “I sommersi e i salvati”, Einaudi, Torino, 2014

Primo Levi, “La tregua”, Einaudi, Torino, 2014

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IG - Cassago Brianza, ottobre / novembre 2022

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