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Gesù e i Vangeli

Don Sergio De Marchi

1. Le fonti e la loro analisi

Come nel caso di Alessandro Magno o di qualsiasi altro personaggio della storia, anche nel
caso di Gesù a fare - per noi - di lui una figura della storia anziché del mito è la presenza di un
determinato numero di fonti, e segnatamente di fonti scritte, che ne conservano la memoria. Sono
testimonianze nelle quali, talora, la memoria è limitata alla semplice menzione del nome, o di
qualche breve notizia circa i suoi miracoli, la sua attività di maestro e la sua morte violenta1. Altre
volte invece, sono testimonianze nelle quali la memoria è trasmessa nella forma di narrazioni
dettagliate che strutturano il racconto della storia di Gesù indicandone tempi e luoghi, riferendone
avvenimenti e incontri intesi come realmente accaduti, riportando parole comprese come da lui
effettivamente pronunciate, e descrivendo azioni che si è convinti egli abbia davvero compiute.
S’intuisce subito che, in questo secondo caso, per quanto appena accennata e sommaria, con
una descrizione delle fonti che conservano il ricordo di Gesù espressa in questi termini, ci stiamo
riferendo a quei quattro Vangeli che siamo soliti definire canonici. Alla descrizione non
corrispondono, invero, solo questi quattro scritti. Si adatta, più o meno bene, anche ad altri libri,
sovente denominati apocrifi2. Nondimeno, tra tutti gli scritti cristiani antichi, «i vangeli canonici
sono senza dubbio i libri su Gesù più autorevoli dal tempo della loro composizione e per tutta la
storia successiva, e ciò ne fa i più significativi dal punto di vista storico»3.
Ora, quando li si consideri come le fonti da preferire in ordine alla conoscenza del cosiddetto
Gesù storico, tra le numerose questioni che nascono dalla preferenza loro accordata ve ne sono due
che ci sembrano particolarmente rilevanti. Perché puntare decisamente sui Vangeli canonici
piuttosto che sugli scritti extracanonici, o comunque non considerare i secondi avere lo stesso
valore e titolo nel testimoniare la storia di Gesù? Qual è, poi, la maniera più adeguata - perché
meglio rispondente alla loro natura - di accostarsi ai racconti canonici della storia di Gesù?
Quanto alla prima domanda, si fosse anche d’accordo con chi sostiene che i testi extracanonici
andrebbero collocati sullo stesso piano dei canonici, e che questa sarebbe «una pietra miliare dietro
alla quale sul piano metodologico l’indagine scientifica non dovrebbe più tornare»4, occorre
realisticamente tenere presente, oltre agli eventuali problemi connessi della datazione degli scritti
extracanonici, la frammentarietà e l’esiguità delle informazioni storiche che se ne possono
effettivamente trarre. Dal Vangelo di Tommaso, ad esempio, al quale viene talvolta attribuito un
grande valore storico, «non si saprebbe neppure che Gesù era giudeo e che le sue attività si svolsero
nella Giudea romana! Nel detto 28 Gesù asserisce vagamente di essere comparso “in mezzo al
mondo e in carne”, senza la precisazione di quando e dove»5. Costituito di una serie di 114 detti

1
Una recensione di queste fonti – non cristiane – su Gesù si può trovare in G. Theissen - A. Merz, Il Gesù storico. Un
manuale, Queriniana, Brescia 1999, 87-113.
2
Una recensione e una valutazione accurata di questi scritti è data da L.W. Hurtado, Signore Gesù Cristo. La
venerazione di Gesù nel cristianesimo più antico, II, Paideia, Brescia 2006, 437-491. Vedi anche G. Segalla, Vangeli
canonici e vangeli apocrifi, in «Teologia» 33 (2008) 77-108.
3
L.W. Hurtado, Signore Gesù Cristo, I, 261.
4
G. Theissen - A. Merz, Il Gesù storico, 42.
5
L.W. Hurtado, Signore Gesù Cristo, I, 267.
1
attribuiti a Gesù, lo scritto è del tutto privo di un quadro storico-narrativo che li connetta, senza
peraltro che si sia riusciti a individuare qualche principio generale che li ordini. J.P. Meier, che al
Gesù storico ha dedicato la vastissima indagine nota con il titolo Un ebreo marginale, dichiara
senza mezzi termini che «I quattro vangeli canonici risultano essere gli unici ampi documenti
contenenti significativi blocchi di materiale rilevante per una ricerca sul Gesù storico»6.
C’è dunque, una prima ragione, una ragione di fatto, che, nella ricerca sul Gesù storico, motiva
la preferenza da accordare ai Vangeli canonici rispetto alle fonti extracanoniche. A questa tuttavia
se ne aggiunge una seconda che già ci apre a rispondere all’altra questione sollevata, circa la
maniera più adeguata - perché meglio rispondente alla loro natura - di accostarsi alle fonti
evangeliche e leggerle.
La sovrastima della attendibilità storica degli scritti extracanonici nei confronti dei canonici - in
competizione con essi o a loro detrimento – deriva, spesso, dalla convinzione o dalla congettura
che, rispetto alla figura di Gesù disegnata dai racconti evangelici, l’autentico Gesù della storia sia in
realtà assai diverso, se non addirittura un altro. Sarebbe appunto quello che i testi apocrifi
lascerebbero intravedere. Un Gesù la cui figura sarebbe stata epurata, da parte degli autori
evangelici, di alcuni di quei tratti dei quali invece si conserverebbe ancora traccia negli scritti
extracanonici. Succede così che il sospetto di inattendibilità, anziché essere fatto cadere sugli scritti
apocrifi, venga (paradossalmente) addossato ai canonici.
L’operazione risulta esemplarmente evidente in un romanzo come il Codice da Vinci, la cui
trama viene giocata per intero sul presupposto che, in merito alla figura di Gesù, gli autori dei
Vangeli canonici abbiano nascosto alcune verità piuttosto imbarazzanti. Alcune verità che sarebbe
però possibile conoscere per altra via, ricorrendo ad altre fonti. Sebbene equivoco e capace di creare
non poca confusione in un lettore privo di una adeguata formazione biblica, si tratta di un gioco che,
in quanto mirato a costruire la trama di un racconto di pura fantasia, può avere una sua liceità.
Ancorché – torniamo a sottolinearlo – in grado di confondere non poco il lettore disinformato
tramite l’astuta commistione di rimandi a dati luoghi e persone reali con elementi di pura
invenzione.
La pratica sistematica del dubbio nei riguardi dei vangeli canonici in favore dell’uguale se non
anche maggiore attendibilità degli scritti extracanonici appare tuttavia evidente anche in alcuni
ambiti dell’esegesi scientifica. Ed è particolarmente vistosa nelle indagini condotte sul Gesù storico
da parte di una frangia di studiosi contemporanei che J.D.G. Dunn chiama neoliberale - R. Funk,
fondatore del Jesus Seminar, P. Hollenbach, J. D. Crossan, M. Borg7. Nel definire neoliberali questi
studiosi, Dunn coglie bene che i presupposti metodologici dai quali essi muovono sono
essenzialmente gli stessi che hanno guidato la vecchia ricerca liberale (protestante), durante tutto il
XIX secolo, nel suo intento di recuperare l’autentico volto di Gesù superando le sue interpretazioni
evangeliche canoniche, imputate a priori d’essere appunto delle interpretazioni che esprimono la
fede e la venerazione delle comunità cristiane primitive e non invece, o relativamente poco, chi in
realtà egli fu.
Questo genere di ricerca, liberale o neoliberale che sia, assimilando le parole pronunciate da
Gesù e le azioni da lui compiute nel tempo della sua esistenza terrena a una sorta di reperti
archeologici che giacerebbero al fondo dei testi evangelici, è convita che con l’uso di una
strumentazione adatta – essenzialmente messa a disposizione dal metodo storico-critico – si possano
e debbano superare le interpretazioni prodotte da ciascun evangelista fino ad arrivare alle autentiche
parole e azioni di Gesù e con ciò a individuare, se non l’intera figura storica di Gesù (come si
proponeva di fare la ricerca liberale), almeno qualche suo tratto (come si propone la ricerca
neoliberale).
Il programma così perseguito di stabilire «come le cose realmente furono» (L. von Ranke),
corrisponde a un intendimento della ricerca storica e della scrittura della storia che viene
abitualmente qualificato positivistico. È solidale cioè alla supposizione o alla convinzione – teorica
6
J. P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, I. Le radici del problema e della persona, Queriniana,
Brescia 2001, 155.
7
J. D. Dunn, Gli albori del cristianesimo, I. La memoria di Gesù, 1. Fede e Gesù storico, Paideia, Brescia 2006, 75.
2
o semplicemente pratica che sia il risultato non cambia – che si possano e debbano adeguatamente
separare o isolare i fatti accaduti e le parole pronunciate, quasi fossero semplici cose o oggetti, dalle
interpretazioni soggettive di coloro che ne furono testimoni8. Che dunque, nel caso di Gesù, sia
possibile spogliare le sue parole e azioni delle interpretazioni non solo dei redattori evangelici, ma,
prima ancora, dei discepoli che ne furono i diretti testimoni e, in origine, ne conservarono la
memoria.
Il passaggio da una visione positivistica a una visione ermeneutica della storia e della
storiografia ha messo chiaramente in luce che, in realtà, gli avvenimenti del passato o le azioni e
parole di persone del passato, che non è mai possibile raggiungere se non attraverso il ricordo dei
testimoni, non sono mai neppure del tutto isolabili o separabili dalla loro interpretazione soggettiva.
Una interpretazione che, con maggiore o minore lucidità, già si è prodotta nel momento stesso in cui
i diretti testimoni hanno assistito agli avvenimenti, ascoltato le parole e visto le azioni. Non solo
dopo, cioè, in un momento successivo, allorquando tornando sui ricordi ne hanno potuto cogliere
meglio il significato, ma giusto mentre ne avevano l’immediata esperienza.
Rispetto a un certo tipo di ricerca del Gesù storico che continua ancora oggi a essere perseguita
da una esegesi di ascendenza liberale, una visione ermeneutica della storia e della sua scrittura dà
modo di cogliere, oltre al limite metodologico che l’affligge - immaginare di poter recuperare
parole e azioni di Gesù liberandole dall’interpretazione di coloro che ne hanno trasmesso il ricordo -
, anche il pregiudizio che, non di rado, sottostà alle sue indagini. Dato che non sono solo i discepoli
testimoni prima e i redattori evangelici poi che, nell’interpretare le parole le azioni e gli
avvenimenti della storia di Gesù di cui tramandano la memoria, ci mettono qualcosa di proprio -
della loro sensibilità personale, della loro cultura, della vita delle comunità a cui appartengono. Nel
leggere e interpretare le loro testimonianze infatti, a metterci qualcosa di proprio, incluso qualche
pregiudizio9, è anche lo studioso contemporaneo.
Nel caso della ricerca neoliberale il pregiudizio che ne compromette non poco l’obiettività è
ultimamente rappresentato da una immagine precostituita di Gesù, che, sebbene presentata come
raggiunta alla fine della ricerca, in realtà la precede ed è più che mai attiva nel guidarla e nel
predeterminarne i risultati. Una immagine, una figura di Gesù di volta in volta privata ora di uno ora
un altro di quegli aspetti (evangelici) che, per la sensibilità contemporanea, costituiscono spesso dei
‘dogmi’ inaccettabili. Un Gesù che ora non avrebbe mai affermato di avere alcuna singolare e unica
relazione con Dio (da Figlio a Padre), ora invece non sarebbe vissuto celibe, oppure un Gesù che
avrebbe annunciato un regno puramente storico e intramondano, o che non avrebbe attribuito alcun
significato salvifico alla propria morte, la quale invece, sopraggiunta inaspettata, l’avrebbe colto di
sorpresa.

2. Chi è il Gesù della storia?

La voce degli studiosi che Dunn chiama neoliberali è soltanto una delle molte che partecipano
al dibattito sul Gesù storico. L’estremismo delle sue prese di posizione consente tuttavia di porre in
evidenza, per via di contrasto, alcuni punti sui quali va crescendo la convergenza delle indagini di
altri studiosi. Ci riferiamo in specie alle opere di J.P. Meier10, E.P. Sanders11, J.D.G. Dunn12 che, al
momento, sono considerate i tentativi più consistenti e autorevoli di ricostruzione della vicenda e
della figura storica di Gesù.
8
«Come se i fatti dormissero nei documenti fino a quando gli storici non li traessero da lì» (P. Ricoeur, La memoria, la
storia, l’oblio, Cortina, Milano 2003, 253).
9
Inteso come una semplice presupposizione ma con una accezione negativa.
10
Oltre al volume citato sopra, di J. P. Meier vanno ricordati: Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, II.
Mentore, messaggio e miracoli, Queriniana, Brescia 2002; III. Compagni e antagonisti, Queriniana, Brescia 2003; IV.
Legge e amore, Queriniana, Brescia, 2009.
11
E. P. Sanders, Gesù e il giudaismo, Marietti, Genova 1992
12
J. D. G. Dunn, Gli albori del cristianesimo, I. La memoria di Gesù, 1. Fede e Gesù storico, Paideia, Brescia 2006; 2.
La missione di Gesù, Paideia, Brescia 2006; 3. L’acme della missione di Gesù, Paideia, Brescia 2007.
3
In merito alla questione del valore storico da riconoscere rispettivamente ai Vangeli canonici e
agli scritti extracanonici/apocrifi, appare comune il convincimento che non esiste alcun serio
motivo che permetta di coltivare metodicamente il dubbio nei confronti delle fonti evangeliche –
sospettandole e imputandole a priori di nascondere o di manipolare, in parte o per intero, la figura
storica di Gesù. Come del resto non esiste alcuna ragione, se non ideologica, per sopravalutare
l’attendibilità dei testi apocrifi. Che, in quanto documenti storici, non sono certo da scartare, ma dei
quali va però riconosciuta la frammentarietà ed esiguità delle informazioni storiche che se ne
possono effettivamente derivare.
Tra gli argomenti che vengono sovente addotti in favore dell’affidabilità storica dei Vangeli
canonici va acquisendo un peso crescente il riconoscimento del loro genere letterario proprio. Nello
scrivere di Gesù, gli autori evangelici non adottano il genere tipico della scrittura delle favole o dei
miti, né quello epistolare, bensì della biografia (antica: i bioi greci e le vitae latine). Non è
ovviamente la biografia intesa in senso moderno, eppure si tratta di una forma di scrittura che
comunemente, nell’intenzione di coloro che la adottavano, rispondeva a un chiaro e consistente
interesse storico. In tal senso, riesce manifesto che la scelta del genere biografico da parte dei
redattori dei Vangeli è indicativa di una precisa volontà – anche dichiarata (Lc 1,14; cf. Gv 19,35;
20,30; 21,24) – di dar conto di una storia effettivamente accaduta, il cui ricordo in origine è stato
trasmesso da quelli che ne furono i diretti testimoni. Ed è inoltre indicativa dell’interesse nutrito per
la persona e la vicenda terrena di Gesù da parte della Chiesa delle origini che, diversamente,
anziché ricorrere al genere della “vita” - con la sua struttura narrativa e la sua cornice cronologica -,
si sarebbe semmai interessata a riprodurre, come succede nei “vangeli” gnostici, una serie di
discorsi del Cristo risorto.
È vero che la scelta del genere storico non lascia in alcun modo in ombra l’alto grado della
venerazione nutrita verso la persona di colui sul quale le memorie evangeliche sono interamente
imperniate. Se per un verso però, è pacifico che nell’esperienza umana ogni evento non va mai
esente da un’interpretazione soggettiva - già all’atto del suo accadere - e non si dà mai come puro
fatto semplicemente figurabile o restituibile al modo di un oggetto, e che dunque la venerazione nei
confronti di Gesù ha di sicuro concorso ad interpretarne la storia nelle modalità che si riscontrano
improntare ciascun Vangelo, è comunque altresì evidente che questa venerazione, e la fede che l’ha
generata e alimentata, manifestano di esercitarsi nei confronti di Gesù di Nazaret. Venerazione e
fede sono cioè dirette a un giudeo particolare, «nato da donna, nato sotto la legge» (Gal 4,4) – e non
a un personaggio mitico o a un simbolo atemporale –, la cui storia viene compresa ed è
rappresentata come svoltasi in determinati luoghi della Giudea romana, dell’inizio del I secolo,
indicati con i loro nomi; in un preciso contesto culturale, religioso, sociale, politico; e là, in
situazioni e ambienti di vita particolari, descritti con intense e vivaci tonalità locali, e animati dalla
presenza di un folto gruppo di personaggi che, chiamati o meno per nome, possiedono in ogni caso
delle fisionomie definite e ben identificabili.
D’altra parte, alla convergenza rilevabile in merito alla attendibilità dei Vangeli canonici in
quanto fonti che consentono di arrivare al Gesù della storia, si accompagna un consenso crescente
sul fatto che «il solo Gesù che è possibile attendersi realisticamente dall’analisi critica delle fonti è
il Gesù che ebbe sui discepoli l’incidenza che comprendiamo con la parola “fede”»13.
I Vangeli in effetti sono sì memorie storiche, come evidenzia il loro genere letterario, ma scritte
da autori credenti, sulla base della testimonianza di gente che, in origine, vide e credette, e in favore
dell’esperienza di fede di ogni loro lettore. Immaginare di poter raggiungere una qualche figura
storica di Gesù spogliata di qualsiasi interpretazione derivata dalla fede avuta in lui è
semplicemente illusorio. È l’illusione – come s’è già detto – coltivata da una esegesi biblica che,
dimenticando o trascurando che «l’uomo è un essere che interpreta, ed è dopo e sulla base della sua
interpretazione che la realtà diventa realtà»14, è convinta che il vero Gesù storico non sia quello di
cui narrano i Vangeli, bensì quello che, attraverso l’uso del metodo storico-critico, i ricercatori

13
J. D. G. Dunn, Gli albori del cristianesimo, I.1, 142, nota 4; vedi anche 144-150.
14
A. Gesché, Dio per pensare. Il Cristo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2003, 103.
4
riescono a scoprire e a portare in luce. È l’illusione che il Gesù di volta in volta ricostruito da uno
studioso o da un altro sia il vero Gesù. L’illusione che l’immagine di volta in volta costruita dalla
ricerca (il Gesù storico/storiografico/ricostruito) coincida con ciò che egli fu nella realtà della sua
vicenda personale (il Gesù della storia).
Senza voler sminuire l’utilità - la necessità - della ricerca storica su Gesù e deprezzare il valore
dei suoi risultati, raggiunti tramite l’utilizzo del metodo storico-critico15, occorre tenere presente che
questi risultati non superano il livello di una maggiore o minore plausibilità e non giungono mai ad
una completa certezza. Ciò significa che le mutevoli e frammentarie figure congetturali del Gesù
storico messe ogni volta in campo dai diversi ricercatori non possono venire trasformate nel criterio
ultimo che discerne la maggiore o minore attendibilità storica del Gesù dei Vangeli16. E significa
inoltre che l’autentica figura del Gesù della storia - di lui cioè quale realmente fu nel tempo della
sua esistenza terrena – ci è accessibile solo mediante i tratti complementari della sua figura
delineati volta a volta dai Vangeli, rispetto alla quale le figure raggiunte dalle ricerche perseguite su
di lui mantengono appunto, in ogni caso, una ineliminabile nota di congettura.
Ora però, se l’autentica figura del Gesù della storia è solo quella mediata dai racconti
evangelici, vuol dire che sono essi stessi a stabilire le ‘regole’ per la loro lettura, dettano le
condizioni per accedere a tale figura autentica.
Si tratta perciò di un accesso alla figura di Gesù che, per un primo verso, non può avvenire a
prescindere dalla fede (pasquale) che li impregna. La memoria di Gesù che, tramite la loro
attestazione, intendono mantenere viva infatti è volta a condurre i loro lettori a confessare che
Gesù è il Cristo e Figlio di Dio, il Signore risuscitato da morte e il Logos: conservando saldamente
ancorata questa loro fede alla sua vicenda terrena: agli eventi della sua nascita e morte, ai luoghi e
alle circostanze in cui sono avvenute, ai nomi di tanti che l’incontrarono, alle parole da lui
pronunciate e alle azioni da lui compiute nel tempo del suo ministero Sono dunque degli scritti che,
nell’intenzione di chi li ha redatti e nell’uso che ne fanno le comunità a cui sono stati destinati, non
sono finalizzati alla semplice memoria di un personaggio passato, bensì a identificare colui che è
risorto ed è creduto vivo e operante nella chiesa e nella storia, «fino alla fine del mondo», con
Gesù di Nazaret, e viceversa.
Si tratta inoltre, per un secondo verso, di un accesso alla figura di Gesù che non avviene a
prescindere dalla forma di racconto che li distingue. È evidente, infatti, che i loro autori, per
parlare di Gesù hanno operato una scelta precisa, hanno fatto ricorso alla modalità del racconto, e
non invece alla forma di una trattazione teorico-speculativa o di una mera raccolta di detti e di fatti
ordinati per temi.
È su questo aspetto, sulla modalità narrativa dell’attestazione evangelica della storia di Gesù,
che una frangia considerevole dell’esegesi biblica contemporanea ha, da circa due decenni, portato
l’attenzione e va acquisendo importanti e promettenti risultati anche in merito alla figura di Gesù.
Senza scartare il valore degli esiti prodotti dalla ricerca storico-critica, ci si è resi conto che, nel
leggere il testo evangelico, è possibile non limitarsi soltanto ad essi, ma che, essendo i Vangeli dei
racconti, è possibile leggerli ricorrendo anche all’analisi letteraria, narrativa17. La quale, rispetto alla

15
Le analisi svolte sui nomi dei personaggi che compaiono nei Vangeli, ad esempio, confermano la loro attendibilità
storica in quanto fonti, conducendo plausibilmente fino a testimoni oculari degli eventi.
16
«La ricerca ha in generale dato per scontata la propria capacità di costruire (dai dati disponibili) un Gesù che sarà il
Gesù reale: il Gesù storico (ricostruito) sarà il Gesù storico (vero); di continuo si passa da un senso nell’altro senza far
distinzione. È proprio questa confusione che sta dietro alla sorprendente fiducia degli studiosi dell’ottocento e del tardo
novecento che un Gesù ricostruito dalle fonti disponibili sarebbe una solida base (il Gesù vero) per una critica del Gesù
di queste fonti. Non è quindi necessario ripetere che propriamente parlando “il Gesù storico” è una costruzione del XIX
e XX secolo grazie ai dati forniti dalla tradizione sinottica, non il Gesù del passato e non una figura storica a cui si
possa realisticamente ricorrere per criticare l’immagine di Gesù nella tradizione sinottica» (J. D. G. Dunn, Gli albori del
cristianesimo, I.1, 141).
17
«Negli ultimi decenni del XX secolo si è manifestata una stanchezza nei confronti delle ricerche minuziose, con una
moltiplicazione di ipotesi contraddittorie basate talvolta su un eccessivo scetticismo. […] Oggi, pur senza rinunciare
alle indispensabili conoscenze storiche, la maggior parte dei biblisti intende prestare una attenzione raddoppiata al testo.
Da qui l’importanza data alle ricerche letterarie chiamate spesso sincroniche: strutturale, retorica, semiotica, narrativa»
5
prima, consente di giungere fino al messaggio teologico che ciascun evangelista, raccontando la
storia di Gesù in una determinata maniera, mirava a trasmettere; un messaggio teologico al quale
l’uso dell’analisi storico-critica spesso non arriva. Di modo che, «se desideriamo cogliere qual è la
teologia del narratore, converrà mettersi ad analizzare essenzialmente la sua strategia
narrativa»18.
Così, ad esempio, riferendoci a Marco - al primo che ha adottato e adeguato questa forma
peculiare di attestazione della storia di Gesù -, è patente un fatto: «Poiché l’autore comunica per
mezzo di una narrazione, la teologia in essa contenuta è costitutivamente narrativa. Non si
comprenderebbe il testo, se lo si trattasse come un repertorio, quasi una vecchia miniera da cui
estrarre i titoli o le tradizioni, concepiti più come gemme in sé complete o da sgrossare, che come
elementi di un racconto. Ciò che emergerebbe non sarebbe nemmeno il Gesù raccontato dal
Vangelo di Marco, bensì la multiforme attestazione della fase precedente, anzi solo più alcuni
elementi di quell’epoca, giunti fino a noi attraverso la loro riscrittura redazionale. Né bisognerà
rivolgere l’attenzione solo ai titoli, bensì più ampiamente all’intera dinamica attraverso cui l’opera
costruisce il personaggio»19. Sarà quindi il progressivo svolgersi della storia, che vede interagire
Gesù con i numerosi altri personaggi implicati nella trama del racconto, e che culmina
drammaticamente negli avvenimenti pasquali, a permettere infine di cogliere davvero chi egli sia;
chi sia colui al quale Marco, fin dal titolo del suo libro - «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio
di Dio.» (Mc 1,1) -, attribuisce due titoli tanto elevati: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc
15,39).
Se dunque ogni «racconto costruisce l’identità del personaggio, che può essere chiamata la sua
identità narrativa, costruendo quella della storia raccontata»20, e se, d’altro lato, è tramite le
memorie evangeliche che noi abbiamo accesso al Gesù della storia, sarà solo grazie alla sua
identità quale essa emerge dalle loro narrazioni che se ne potranno figurare i tratti autentici del
‘volto’. In tal senso, l’identità narrativa «costituisce il nodo, l’analogon primario d’ogni
decifrazione di Gesù»21, sia storica che dogmatica.

3. Analisi storico-critica e analisi narrativa: un confronto

Per afferrare ciò che differenzia l’approccio ai Vangeli condotto tramite il ricorso ad una
metodologia d’indagine di tipo storico-critico e l’approccio condotto invece utilizzando l’analisi
letteraria di tipo narrativo, possiamo azzardare un paragone con la differenza che corre tra il cercare
di entrare in una tomba etrusca praticando un foro sul tetto e lo scoprire invece la porta di accesso
progettata ed edificata dai suoi antichi costruttori. Mentre l’analisi storico-critica desta sovente
l’impressione di tentare di entrare nei Vangeli ‘praticando fori’, quella narrativa sembra provare ad
‘individuare la porta’.
Il paragone è solo iniziale e certo claudicante. Per illustrare in maniera più diretta la differenza
tra l’impiego e i risultati rispettivamente prodotti dai due tipi di analisi andiamo a un caso concreto,
riferendoci al vangelo di Matteo
Al c. 14,13-21, Matteo narra una prima moltiplicazione di pani e, dopo l’episodio del cammino
di Gesù sul mare (vv. 22-33), narra di un insieme di guarigioni da lui compiute a Genèsaret (vv. 34-
36). Al capitolo successivo, torna ancora a narrare di molte guarigioni operate da Gesù presso il
mare di Galilea (Mt 15,29-31) e racconta ancora di una seconda moltiplicazione di pani (vv. 32-39).

(C. Focant, Evangelo di Marco. Gesù paradossale ed enigmatico, in AA.VV., Ritratti di Gesù, Qjqaion, Magnano [Bi]
2009, 36).
18
D. Marguerat - Y. Bourqin, Per leggere i racconti biblici. La Bibbia si racconta. Iniziazione all’analisi narrativa,
Borla, Roma 2001, 29. Oltre a questo testo, si può vedere anche J. L. Resseguie, Narratologia del Nuovo Testamento,
Paideia, Brescia 2008.
19
M. Vironda, Gesù nel Vangelo di Marco. Narratologia e cristologia, EDB, Bologna 2003, 243.
20
P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, 239-240.
21
A. Gesché, Il Cristo, 132.
6
Nella prospettiva di una indagine limitata all’impiego dell’analisi storico-critica, partendo
dall’attuale testo matteano, attraverso una sorta di scavo archeologico, l’esegeta cerca solitamente di
arrivare fino alle tradizioni precedenti, che Matteo ha recepito e inserito nel proprio scritto, e,
andando ancora più in profondità, a partire da queste tradizioni cerca di arrivare a ciò che è
effettivamente accaduto. Rilevando la presenza di due racconti di moltiplicazione già in Marco
(6,34-44 e 8,1-9), sarebbe allora possibile spiegare il doppione ipotizzando e dimostrando come
plausibile la presenza in origine, prima di Marco, di due tradizioni, oppure ritenere i due episodi
come gli sviluppi di una comune tradizione di base22, sostenendo ad esempio che la narrazione di
Mc 8,1-9 avrebbe precedentemente costituito un rifacimento, avvenuto in ambiente giudeo-cristiano
ellenistico, di Mc 6,34-44, recepito da un ambiente giudeo-cristiano palestinese23. In ogni caso, vi
fossero state originariamente due tradizioni, oppure una sola tradizione poi rielaborata in un diverso
ambiente, Marco avrebbe comunque voluto conservare le due versioni dell’episodio che aveva
ricevuto. D’altro canto, in merito alla figura del Gesù storico, può così trovare conferma che egli
abbia compiuto dei miracoli – in questo caso una moltiplicazione di pani. Ma, all’opposto, è
possibile si concluda drasticamente che in Mc 6,34-44 «il narratore non riprende in alcun punto
concrete tradizioni risalenti alla vita di Gesù. […] Il testo è un documento della prima cristologia
giudeo-cristiana (nota in particolare i semitismi dei vv. 39s.) e non della biografia di Gesù»24.
Nella prospettiva di una indagine narrativa, l’esegeta non persegue primariamente uno ‘scavo
archeologico’. Mira invece soprattutto a un esame del racconto di Matteo così come, allo stato
attuale, si offre al lettore, e cerca di cogliere la strategia narrativa perseguita dall’autore evangelico
per uno scopo preciso: produrre sul lettore un determinato effetto, trasmettendogli dei significati.
Poiché è questo uno dei presupposti da cui muove l’analisi narrativa: se l’autore racconta in una
determinata maniera lo fa per produrre sul lettore un certo effetto.
Puntando a individuare la strategia narrativa messa in atto da Matteo, l’esegeta anziché isolare i
due episodi di moltiplicazione e i due episodi di guarigione, li legge nel contesto narrativo sia
dell’intero vangelo (macroracconto), sia della cornice più ristretta dell’insieme di episodi (sequenza
narrativa) alla quale le due scene di moltiplicazione e le due di guarigione è probabile appartengano.
Quanto al contesto rappresentato dall’intero racconto evangelico, appare caratteristico in Matteo
il contrasto tra l’ultimo mandato che Gesù risorto affida ai discepoli - «Andate e fate discepoli tutti i
popoli» (Mt 28,19) - e l’indicazione data invece nell’inviare i Dodici la prima volta, allorché Gesù li
esorta espressamente a non avere contatti con i pagani e i samaritani e ad interessarsi piuttosto di
Israele soltanto: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi invece
alle pecore perdute della casa di Israele» (Mt 10,5-6).
È una regola alla quale, in un’altra occasione, Gesù sostiene di volersi egli pure mantenere
fedele – e veniamo qui a considerare la cornice più ristretta dell’insieme di episodi (sequenza
narrativa) alla quale le due scene di moltiplicazione e le due scene di guarigione è probabile
appartengano. Quando una donna cananea lo cerca implorando aiuto per la figlia ammalata, Gesù
afferma esplicitamente di non essere «stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele»
(Mt 15,24).
Va notato che non sono parole rivolte alla donna, bensì ai discepoli che lo pregano in suo favore,
come se egli non volesse avere nulla a che fare con lei, una pagana. Di fronte alla sua insistenza poi,
la risposta che le dà direttamente suona tanto aspra da provocare un senso di disagio nel riferirla a
Gesù: «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini» (Mt 15,26). «Cagnolini»
attenua un più duro «cani» - un’espressione in uso per indicare i pagani, gli esclusi dal banchetto
messianico riservato agli invitati, ai figli del Regno -, ma non è certo privo di una schiettezza che
può ferire. Diversamente che in Marco inoltre - per il quale Gesù accompagna la risposta con un
invito che ne smorza l’impatto: «Lascia prima che si sazino i figli» (Mc 7,27) -, non chiede ai
«cagnolini» di riconoscere la precedenza dovuta ai figli, semplicemente li dichiara esclusi.

22
J. Gnilka, Marco, Cittadella, Assisi 1987, 350.
23
R. Pesch, Il vangelo di Marco. Parte Prima, Paideia, Brescia 1980, 628.
24
R. Pesch, Il vangelo di Marco, 553.
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La donna accetta che sia così: «È vero, Signore». Il suo intuito tuttavia, acuito dal suo dolore di
madre e dall’urgenza che Gesù intervenga prima possibile in soccorso della figlia, la spinge ad
insistere, dando prova di una fiducia irremovibile in Gesù e in ciò che lui può fare anche per loro, i
«cagnolini» - «anche i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni» (Mt
15,27).
Le sue parole e il suo atteggiamento producono su Gesù un duplice effetto.
Uno immediato, subito rilevabile dalla sua replica - «O donna, davvero grande è la tua fede! Ti
sia fatto come desideri» (Mt 15,28) -, dalla quale traspare quanto in profondità l’abbia toccato.
L’altro effetto rilevabile a distanza, nel seguito del racconto, sulla base del diverso comportamento
che, a partire da questo momento, Gesù appare assumere verso i pagani. D’ora in poi, il suo
ministero si apre anche a loro. Tornato «presso il mare di Galilea» dal luogo in cui ha incontrato la
cananea, compie per loro, i lontani, gli esclusi, ciò che in precedenza aveva insistito dover essere
riservato a Israele (Mt 10,5-8), guarendo i loro malati (Mt 15,30-31) e operando per loro una
seconda moltiplicazione dei pani (Mt 15,32-38)25.
Situato nel mezzo, tra una prima moltiplicazione di pani e una prima scena di guarigione in
favore di una folla di ebrei, da un lato, e una seconda moltiplicazione e una seconda scena di
guarigione in favore di pagani, dall’altro, l’incontro di Gesù con la donna cananea si rivela svolgere
una funzione del tutto strategica segnalando al lettore il momento di un decisivo passaggio del
ministero di Gesù26.
Per quanto riguarda la figura di Gesù poi, rispetto a ciò che riesce a evidenziare una analisi che
impieghi solo il metodo storico-critico, l’analisi narrativa ne mette in luce dei tratti insospettati ed
estremamente rilevanti. È certo che Gesù ha ricevuto la sua missione dal Padre, ed è sul fondamento
della relazione figliale (unica e originaria) che egli ha e vive con Lui e sotto la permanente azione
dello Spirito che la va compiendo; come sa bene del resto, fin dal principio del ministero che la sua
missione non è limitata solo a Israele – sebbene fin qui egli si sia dedicato quasi solo al suo popolo.
Ma è altresì nell’incontro con questa madre cananea piena di fede, in angoscia per la sorte della sua
figlia, che di fatto Gesù matura la decisione che la sua missione non sia più riservata in esclusiva a
Israele. Riempendolo di ammirazione e aprendolo a una nuova fase del suo ministero, Gesù ha
accolto il desiderio e la parola del Padre anche attraverso di lei27.

25
Secondo Mc 7,24, l’incontro con la donna sarebbe avvenuto nel territorio di Tiro e, di lì, Gesù sarebbe poi tornato
«attraverso Sidone, verso il mare di Galilea, in mezzo al territorio della Decapoli» (Mc 7,31): dunque attraverso una
zona abitata da pagani. Se ci si attiene invece alle indicazioni di Mt 15,21, non si può dire con certezza che Gesù sia
effettivamente uscito dalla terra d’Israele e sia entrato in territorio cananeo, pagano. È della donna invece che
l’evangelista osserva che è «uscita da quei confini» (Mt 15,29). Mt 15,29 inoltre, nel descrivere il ritorno di Gesù
«presso il mare di Galilea» elimina del tutto le indicazioni geografiche date da Marco. A differenza di quest’ultimo
perciò, Gesù non verrebbe a trovarsi nella Decapoli, sull’altra riva del lago, ma ancora sulla riva occidentale, ebraica.
Nondimeno anche per Matteo i destinatari delle guarigioni e della nuova moltiplicazione sono pagani. Un particolare
permette di coglierlo: la folla che assiste alle guarigioni operate da Gesù non dà semplicemente gloria a Dio - come è
plausibile pensare farebbe qualora si trattasse di una folla di ebrei -, bensì al «Dio d’Israele» (15,31). Sebbene quindi in
Matteo non sia Gesù ad andare dai pagani - come in Marco -, e siano piuttosto loro a venire da lui (Mt 4,25), il risultato
è tuttavia identico.
26
Vedi, sul funzionamento di questa strategia narrativa, D. Marguerat - Y. Bourqin, Per leggere i racconti biblici, 45-
46.
27
A. Mello, Evangelo secondo Matteo. Commento midrashico e narrativo, Qiqajon, Magnano (Vc) 1995, 281-286; U.
Luz, Matteo, 2, Paideia, Brescia 2010, 544.
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