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OMAR KHAYYAM

Omar Khayyam nasce a Nishapur, un importante centro della Persia (oggi Iran) nel 1048, in un
periodo di grandi torbidi e di grande incertezza sociale. Come tutti gli intellettuali arabi del
Medioevo, Khayyam fu una figura poliedrica e versatile: si interessò di filosofia, ma soprattutto di
algebra e di astronomia (è autore del Trattato sulla dimostrazione dei problemi di algebra, uno dei
testi più importanti dell’epoca in materia). A lui si devono, in particolare, interessante
approfondimenti su postulati di Euclide, ma anche intuizioni sulle geometrie non euclidee (un tema
molto caro alla scienza e alla filosofia
novecentesca), oltre all’allestimento di
una serie di tavole astronomiche per la
riforma del calendario ufficiale, che
rimane in vigore in Iran dal 1074 fino al
XX secolo.
Come tutti gli intellettuali del suo tempo,
vive alla corte di importanti shah, che lo
proteggono e gli consentano di potersi
dedicare liberamente agli studi: fra questi
il più importante per la vita del poeta è lo shah Jalal al-Din Malikshah il Selgiucide (morto nel
1092), grazie al quale Omar fonda un osservatorio astronomico a Isfahan. La sua opera di poeta
Omar la coltiva in maniera sporadica e occasionale, in ogni caso mai a livello professionistico:
nell’arco della sua vita venne così raccogliendo una serie di brevi componimenti di quattro versi
ciascuno, le celebri Quartine, in arabo Rubaiyat, in cui condensa tutto il suo pensiero e le sue
riflessioni sui temi più disparati. Avvolto dall’aura di sapiente (un sufi), e circondato da un gran
numero di seguaci, il poeta si spegne nella città natale di Nishapur nel 1131, alla veneranda età di
83 anni, cosa non comune visti i tempi. Sulla sua morte un aneddotto racconta che una sera stava
meditando su un libro: improvvisamente lo chiuse, poi chiese carta e calamaio per scrivere
testamento; quindi si addormentò ai piedi di un muricciolo dove sorgevano degli alberi fioriti, e dal
sonno scivolò dolcemente al sonno della morte. Per la sua tomba venne costruito un mausoleo
circondato da uno splendido giardino, capolavoro dell’architettura persiana, e ancor oggi mèta di

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pellegrinaggi. Pare infatti che avesse affermato una volta: «Il luogo del mio riposo sarà dove gli
alberi si vestono di fiori, non una volta, ma due volte l’anno».
La questione più dibattuta dalla critica è certamente quale sia il numero esatto delle Quartine a lui
attribuibili: la tradizione non solo non è affatto concorde, ma varia da manoscritto a manoscritto: si
passa da poche decine di quartine, secondo alcuni codici, a oltre il migliaio di altri. Probabilmente a
Omar è accaduto quel che è successo più volte nella storia della letteratura: ossia che a un certo
punto vengono attribuiti testi di uno stesso genere all’autore più noto e più celebrato, col risultato di
creare un corpus di testi attribuiti in cui è francamente arduo districarsi.
Comunque sia la tradizione riconosce a Omar un gruppo di testi decisamente omogenei per forma e
per contenuto, che ruotano tutti intorno a una serie di temi ben precisi. Innanzitutto il tema centrale
della sua poesia è la celebrazione della vita in ogni suo aspetto: sotto questo punto di vista, il
paragone con la tradizione classica, in particolare con il carpe diem di Orazio, è evidente. La vita,
secondo Omar, è una sola: non va quindi sprecata, e va vissuta fino in fondo, attimo dopo attimo;
ciò che conta è dunque il presente, mentre vanno parimenti rifiutati sia l’atteggiamento di rimpianto
verso il passato (ciò che sarebbe potuto essere e non è stato), sia la vana attesa del domani. La
speranza in un domani, in modo particolare, è del tutto illusoria: meglio vivere l’oggi, con tutti i
suoi limiti, piuttosto che confidare in un qualcosa che potrebbe benissimo non accadere mai. Per
vivere pienamente la vita bisogna saper godere dei piaceri che essa offre: in particolare nella poesia
di Omar è centrale il binomio vino-musica, talvolta allargato all’amore. Il vino è simbolo della
gioia, dell’abbandonarsi all’ebbrezza del momento, senza curarsi minimamente del domani; con la
musica e l’amore, questi tre elementi sono compattati nella situazione tipica del banchetto, il
momento del convivio in cui, assieme a un ristretto numero di intimi amici, si gode del piacere della
vita nell’amicizia e nella solidarietà sociale.
Il contrario della vita è la morte, che assume agli occhi del poeta –più che un aspetto macabro-
quello di un solenne monito a godere la vita, destinata inevitabilmente all’oblio. Senecamente si
potrebbe affermare che “caram, te, vita, benificio mortis habeo” (“ti ho cara, o vita, grazie al
beneficio della morte”), che è appunto invito a vivere pienamente le gioie della vita prima di
sprofondare nel buio.
Questo quadro ha fatto sì che la poesia di Omar sia stata accostata da più parti (per esempio dal suo
maggiore traduttore, l’inglese Fitzgerald) all’epicureismo classico, di cui la già citata poesia di
Orazio è il modello più conosciuto. Ciò però non toglie che nella poesia di Omar siano presenti
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un’altra serie di temi, di impostazione filosofico-religiosa, decisamente estranei al modello


oraziano.
Il più importante di questi temi si esplica nella visione dell’uomo, in relazione a Dio e al posto da
lui occupato nell’economia dell’universo. La visione di Omar è decisamente pessimista:
l’impostazione filosofica di fondo è un rigido determinismo, per cui l’uomo non è affatto libero, né
pertanto può liberamente scegliere o volere; egli si illude di esserlo, come il sasso che rotola lungo i
fianchi di una collina, che pensa di cadere per un atto libero della sua volontà, mentre invece più
banalmente è costretto a muoversi spinto da un cieco impulso. Gli uomini pertanto non sono attori,
protagonisti del dramma della vita, ma semplici marionette nelle mani di un Dio che ha scritto il
copione, dirige lo spettacolo e assiste divertito alla scena. O come pezzi di scacchi, assolutamente
impotenti, con cui Dio si diverte finché, quasi annoiato dal gioco, decide di riporli nel cassetto a
giacere (un’immagine della fossa). Da un punto di vista morale è ovvio che una tale dottrina renda
l’uomo non responsabile delle sue azioni, nè della scelta fra bene e male compiuta durante la vita: è
Dio che sa tutto fin dal principio, è Lui che, in ultima analisi, decide tutto. Da ciò il grido di protesta
elevato dal poeta nei confronti della divinità: se Dio è il responsabile di tutto, perché la necessità di
un giorno del giudizio? Perché la differenziazione fra un Inferno e un Paradiso?
In relazione invece al ruolo dell’uomo nel cosmo, è evidente da queste premesse che esso è ridotto a
puro nulla: tutto è nelle mani di Dio, l’uomo è un essere del tutto impotente, vittima più che
carnefice. La sua posizione nell’economia dell’universo è come quella di un piccolo ciottolo
abbandonato sul fondo dell’oceano: è come se non esistesse.
Come appare evidente da queste battute la posizione religiosa di Omar è decisamente di
contestazione del credo trasmesso dalla tradizione: non per nulla in vita il poeta ebbe fra i suoi più
forti oppositori–dal punto di vista della religione- i più intransigenti seguaci della corrente sunnita
dell’Islam, ossia i più attaccati alla tradizione. Sarebbe sbagliato però ritenere Omar –magari con gli
occhi di noi contemporanei- una sorta di rivoluzionario o addirittura di ateo: come dimostrano
inequivocabilmente moltissime Quartine, la fede di Omar è indubbia, né realisticamente ci si può
attendere una professione di ateismo a quell’altezza cronologica, cosa che in effetti neppure sfiorava
la mente del poeta. La visione di Omar è dunque quella di chi crede in Dio, ma tuttavia non riesce a
farsi una ragione –e qui traspare l’intellettuale che è in lui- delle contraddizioni insanabili dell’agire
di Dio, e urla pertanto la sua protesta, che non scade comunque mai nella bestemmia, sì piuttosto in
una drammatica richiesta di aiuto: il grido di chi è nel buio e domanda la luce. Prova ne è che Omar
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è anche l’autore di un trattato, Il Discorso splendido, in cui sostiene tesi ortodosse sulla religione,
concordando in particolare con Avicenna (della cui filosofia egli era un grande divulgatore) sul
concetto di “Unità divina”.
Ma ecco che, qua e là, affiora anche nella poesia di Omar il barlume di una speranza,
paradossalmente alimentato dalla sua filosofia disperata: proprio perché l’uomo non conta nulla,
proprio perché tutto è nelle mani di Dio e sua è la responsabilità più grande, ecco che Omar si
dichiara convinto che Dio non potrà non elargire all’uomo il suo perdono; Dio, in un certo senso,
deve perdonarlo. Da qui l’abbandono fiducioso alla volontà superiore di Dio: l’uomo potrà peccare
–col vino, la musica, le donne- ma Iddio è sommamente condiscendente perché sa l’uomo di che è
fatto, e saprà perciò riscattarlo nell’ultimo giorno.

Mausoleo di Omar Khayyam a Nishapur

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ANTOLOGIA1

1.
I Sapienti, che le ultime ragioni
conoscono del mondo2 e fanno tanta guerra3,
un giorno avranno sonno4, e taceranno, proni5,
con pochi6 vermi in bocca e poca terra.

2.
Poiché dovrai morire, che importa dove?7
Poiché il giorno se ne va, che importa come?8
La vita, a goccia a goccia, piove, piove9...
L'albero perde, perde le sue chiome10.

3.

1
La presente antologia è tratta dalle edizioni delle Quartine di Omar Khayyam per cura di Massimo da Zevio, Brescia,
Libreria Editrice Braidense 1907 (disponibile sul web all’indirizzo:
http://www.superzeko.net/progetto_omarkhayyam/OmarKhayyamTradottoDaMassimoSpiritiniAliasDaZevio.html)
[quartine qui numerate dalla n° 1 alla n° 32]; e dall’edizione curata da Mario Chini, Lanciano, Carabba 1919
(disponibile sul web: http://www.superzeko.net/progetto_omarkhayyam/khayyamrubaiyat/KhayyamRubaiyatChini.pdf)
[quartine nn° 33-75]. In entrambi i casi, le traduzioni sono state da me riviste e riadattate all’uso moderno, sacrificando,
ove necessario, la misura metrica del verso, non la rima.
2
Coloro che si credono sapienti (l’uso della maiuscola sottolinea il loro sentirsi superiori alla massa indistinta degli
uomini) e che pensano –ma pensano solo- di conoscere le ultime ragioni del mondo, il senso ultimo e profondo
dell’universo.
3
Che hanno tutto il potere concentrato nelle loro mani, e possono decidere della pace e della guerra.
4
Il sonno della morte che, prima o poi, afferrerà tutti gli uomini, ricchi e poveri, umili e potenti.
5
L’aggettivo proni è una sorta di contrappasso in morte dell’atteggiamento superbo –a testa alta- che hanno assunto
questi presunti sapienti durante la loro vita: un giorno –il giorno della morte- anche loro dovranno abbassare il capo,
come tutti gli uomini, proni all’interno della fossa.
6
Pochi si contrappone al molto di cui hanno goduto in vita: nella fossa non potranno cibarsi che di vermi e terra.
7
Dove, cioè il luogo dove si finirà dopo la morte.
8
In qualunque modo si viva, la vita fugge irrimediabilmente verso la morte.
9
Come l’acqua che scorre e la pioggia che cade, così passa la vita.
10
L’albero che perde le sue foglie al vento dell’autunno è la vita che perde i suoi giorni al trascorrere del tempo.
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6

Tutto tu vedi e ciò che vedi è nulla;11


ti parlan tutti e ciò che ascolti è nulla;12
percorri il mondo e ciò che impari è nulla;13
ti apparti, pensi... ed anche questo è nulla!14

4.
Chi siamo noi, vuoi sapere? Marionette!15
Bei burattini con cui Dio si spassa16.
E gioca e scherza, e poi via via ci mette17,
poveri e ricchi, dentro la stessa cassa18.

Marionette (dipinto di area indiana)

5.

11
Affermazione di profondo nichilismo da parte del poeta: tutto ciò che lo sguardo dell’uomo può abbracciare non è che
puro nulla.
12
Gli altri che parlano e l’io che non riesce a sentire nulla è simbolo dell’incomunicabilità e dell’inutilità di ogni
relazione di tipo sociale: l’uomo è solo, l’uomo è un’isola.
13
Anche il viaggiare, il fare esperienze –conoscere uomini e paesi- non comporta nessun salto di qualità dal punto di
vista esistenziale: tutto è lo stesso, nella propria casa o in paesi lontani.
14
Non solo la materia, l’intera realtà, è nulla; ma anche il pensiero stesso –anima o spirito che sia- è anch’esso nulla.
Insomma dal nulla non c’è parte dell’universo che non sia toccata.
15
Burattini, cioè, in mano di Dio: l’uomo non è dunque affatto libero, ma dei fili invisibili lo muovono e lo dirigono
nelle sue azioni. L’idea del poeta è rigidamente deterministica: un Fato superiore controlla gli uomini, che essi lo
sappiano o meno.
16
Il verbo allude a un Dio che non partecipa alla sofferenza delle sue creature, ma le osserva dall’alto, come di fronte a
uno spettacolo che lo diverte e riempie il suo tempo come un allegro diversivo.
17
Lo spettacolo, alla lunga, stanca: e Dio stesso, annoiato, ripone alla fine le sue divertenti marionette.
18
Il cassetto dove Dio ripone i suoi giocattoli è la cassa della morte: la vita è uno spettacolo agli occhi di Dio, fatto da
buffoni e marionette; la fine dello spettacolo, il sipario che cala, è l’arrivo della morte.
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Dalla taverna, all'alba19, esce un richiamo


per il viandante: «Avanti, avanti, avanti20!...
La clessidra si svuota21, accorri o gramo22!
Riempi il bicchiere di vino23, l'aria di canti24».

6.
lo vidi un gufo sul bastione di Thus,
davanti al teschio di Key Kavùs25.
«Kavùs», chiedeva il gufo al teschio nudo,
«Kavùs, dov'è il tuo scettro, dov'è il tuo scudo?26».

7.
Fugge il tempo e già l'attimo in cui scrivo
non è più! Bevi e sciala allegramente27...
La fortuna?... un bel sogno fuggitivo28!
La giovinezza?... l'acqua di un torrente29!

8.
Finché d'ossa e di carne sei vestito,
contro il destino non muovere un sol dito30;

19
Dopo la notte, l’alba che sorge è simbolo di invito alla vita.
20
L’invito a entrare nella taverna è invito a godere della gioia del vino, e quindi della vita.
21
Il tempo, inesorabilmente, passa, e la vita cade nella morte.
22
Il gramo, il ‘misero’, è l’uomo infelice condannato a una vita di cui gli sfugge il senso.
23
Prima che arrivi la morte, l’invito è di godere la vita al presente, nella fattispecie cedendo al piacere del vino (simbolo
di gioia).
24
Anche la musica, come il vino, è simbolo di gioia di vivere: nel bere e nel cantare consiste dunque il godere
pienamente della vita.
25
Mitico re persiano, uomo ricco e potente.
26
Il gufo che si fa beffe del teschio di un re forte e potente è solenne ammonimento del passare inesorabile del tempo
che fa polvere di tutto ciò che agli uomini sembra eterno.
27
Al passare del tempo non c’è rimedio: bere e stare allegri è l’unico modo di godere la vita senza pensare al domani.
28
La fortuna è un sogno, un qualcosa che non dipende da noi, e che ci sfugge continuamente.
29
L’acqua di un torrente che scorre è simbolo dell’estrema fugacità della giovinezza, che scorre, appunto, come acqua
fra le dita.
30
Solita affermazione del determinismo filosofico del poeta: contro il destino l’uomo non può fare assolutamente nulla.
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8

non cedere al nemico d'un sol piè31,


non venderti all'amico, fosse un re!

9.
Se in un cimitero interroghi una rosa:
«Dal seno» dice «io nacqui di una sposa32».
E se un giacinto interroghi ti dice:
«Sul seno d'una fanciulla ho la radice».

10.
Se la coppa33 rispondere potesse
ti direbbe: «Anch'io vissi i tuoi minuti:
e le mie fredde labbra, calde anch'esse,
quanti baci han già dati! E quanti avuti!34».

11.
Ah beviamo, ché il tempo vola e ancora spesso
torneranno le stelle al punto stesso35,
e le ceneri nostre saranno muri
abitati da nuovi morituri36.

31
Nonostante tutto sia già scritto, l’invito del poeta è di non cedere un palmo, non rassegnarsi: il poeta qui sembra
vicino alla morale stoica riassunta dalla celebre immagine del cane legato al carro, da cui le parole di Seneca: «Ducunt
volentem fata, nolentem trahunt» (“il destino guida chi lo accetta, trascina chi è riluttante”).
32
Il poeta concepisce il rapporto uomo-Natura all’insegna di uno stesso ordine cosmico del quale entrambi fanno parte:
l’uomo nasce dalla terra e, quando muore, alla terra ritorna, abbandonando il corpo all’erba, ai fiori, alle radici. Da qui
la concezione, di una certa frequenza nella poesia di Khayyam, del rispetto nei confronti degli elementi naturali che
‘accolgono’ i corpi dell’uomo, e che, in un certo senso, sono stati un tempo i corpi stessi.
33
Ovviamente la coppa del vino, simbolo di gioia di vivere.
34
La coppa conserva le tracce del passaggio di tanti uomini, ora morti, che hanno goduto dell’ebbrezza del vino e delle
sue gioie.
35
La storia del mondo è ciclica ed eterna: le stelle ruotano nella volta celeste ma tornano poi alla stessa posizione;
mentre la parabola dell’uomo è breve e destinata all’oblio della morte.
36
Le generazioni degli uomini che si succedono l’un l’altra fanno sì che le ceneri dei morti diventino, nel camposanto,
dei muri che accoglieranno a loo volta le ceneri di coloro che morranno (il sostantivo ‘morituri’ ha in sé, giusta
l’etimologia latina del participio futuro, l’idea dell’inevitabilità di un destino già scritto).
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9

12.
Una torre famosa fu un giorno quella
e col cielo in splendore rivaleggiò37:
tra i merli cadenti ora invece salterella
una tortora, e grida: «Coo! Coo! Coo!...38».

13.
Chiedi un parere?... Io preferibile trovo
un bicchiere di vino vecchio a un regno nuovo39.
Un consiglio vuoi tu?... Scansa ogni via
che non ti meni dritto all'osteria!

14.
Non servire al dolore, sordo all'accento
della memoria: cèrcati una fata40
che abbia in dote la bocca inzuccherata41,
e godi, e non gettar la vita al vento42!

15.
O vin chiaretto, amico del sollazzo,
io ti voglio bere, finché ubriaco e pazzo,

37
La torre che si staglia superba verso il cielo è simbolo classico (a partire dal celebre episodio della Torre di Babele:
Genesi 11, 1-9) dell’ardimento e della ùbris degli uomini contro Dio (e, in genere, contro un destino più forte).
38
Il grido della tortora sui merli cadenti della torre superba suona come una beffa nei confronti delle assurde pretese
dell’uomo di aspirare all’eternità.
39
Meglio, cioè, la gioia momentanea nel presente di un buon bicchiere di vino, piuttosto che folli aspirazioni del futuro.
40
Una donna, o, in genere, qualsiasi gioia che ci faccia rifuggire dal pensiero del dolore dell’uomo. La fata,
nell’immaginario popolare soprattutto europeo, è propriamente una fanciulla o una giovane donna, bellissima e dalla
voce melliflua (da cui l’immagine della bocca inzuccherata al v. 3).
41
Lo zucchero sulla bocca è simbolo di dolcezza e di gioia, ed è immagine antitetica al fiele del dolore.
42
L’invito urlato dal poeta è godere ogni attimo della vita senza sprecarne nemmeno uno: è il carpe diem oraziano.
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10

io ti somigli tanto, che il vicino


mi dica: «Da dove vieni, Messer Vino?43»

16.
Al mondo io venni ed il perché44 non so.
Da dove? Sa l'acqua quale origine abbia?
Per andar dove? Il vento nella sabbia
pur deve soffiare, ch'egli voglia o no45.

17.
Non fanno i dogmi che obbligarti a Dio46.
Non negare un boccone all'indigente,
non dire né fare il male, bevi sovente47,
e chiedi il paradiso a nome mio48.

18.
Quando l'Eterno m'impastò a sua guisa49,
la mia sorte l'aveva già decisa50;

43
Il desiderio di stordirsi completamente nell’ebbrezza del vino per dimenticare i dolori dell’esistenza è risolto dal
poeta in un’immagine paradossale che arriva a postulare una sorta di metamorfosi dell’uomo nel vino, un’identicazione
totale.
44
Il fine, l’obiettivo finale della vita, la mèta da raggiungere. Da un punto di vista filosofico qui il poeta mette in dubbio
il finalismo dell’esistenza.
45
L’immagine finale del vento comunque costretto a soffiare è affermazione del rigido determinismo dell’autore: la
libertà dell’uomo è solo apparente; in realtà la sua vita è già scritti, i suoi fili sono mossi da mani altrui.
46
I dogmi, con le loro verità date una volta per tutte e non discutibili, imprigionano l’uomo, e Dio stesso.
47
In questi pochi precetti si risolve, secondo il poeta, la morale ‘minima’ da tenere in vita, contro tutti i dogmi: non
negare un boccone a chi ha fame, non fare il male, né con atti né con parole, e bere spesso, nel senso di godere
pienamente le gioie della vita.
48
Il poeta, incapace evidentemente di pregare, chiede ad altri che preghino per lui.
49
Cioè ‘a suo piacere’, ‘secondo la sua imperscrutabile volontà’.
50
Ancora un’affermazione da parte del poeta di rigido determinismo: la sorte dell’uomo è decisa da Dio fin dalla
creazione; all’uomo non è dato di decidere o di scegliere nulla, la sua libertà (il libero arbitrio) è solo apparenza.
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11

il bene o il male lo feci a suo servizio51:


perché dunque ora il giorno di un giudizio52?

19.
Essere, non essere, salvezza, destino,
cielo, inferno e misteri... Oh parolai53!
Con tutto il mio studiare io non trovai
che una cosa quaggiù profonda: il vino54.

20.
Pietà di un cuore che il suo dolore espia,
pietà, Signore, di un cuore prigionier;
perdona i piedi che vanno all'osteria,
e perdona la mano che alza il bicchier55!

21.
Una lanterna magica è il creato56,
e nel bel mezzo il sole fa da lumino:
noi vi passiamo57 - e Dio ride da un lato58 -
nani59 ubriachi di orgoglio60 o di vino.

51
Se l’uomo non è libero non può nemmeno scegliere fra il bene e il male, che risultano dunque scelte precostituite,
imputabili, in definitiva, alla volontà di Dio stesso.
52
Il giorno del giudizio è in funzione di premiare chi in vita ha scelto il bene e punire chi ha commesso il male: ma se
entrambe le scelte non dipendono dall’uomo viene anche meno il senso di un giudizio.
53
Affermazioni antimetafisiche da parte del poeta: interrogarsi sul senso ultimo dell’universo, sui grandi misteri che
avvolgono l’uomo, è perfettamente inutile, e il tutto si risolve in un contrasto dialetto (parolai) che non ha comunque
nessuno sbocco di verità.
54
Il senso ultimo delle cose sfugge all’uomo: meglio perciò godere della vita terrena senza tormentarsi vanamente.
55
Colui che si reca in osteria e si stordisce col vino non fa per desiderio di crapula o per vizio, ma per espiare il dolore
dell’esistenza, per annegare nell’oblio dell’ebbrezza il male di vivere. Da qui la richiesta a Dio di perdono, che è poi un
grido disperato di chi vorrebbe comprendere il senso della vita (e dell’agire di Dio stesso) e non ci riesce.
56
Il mondo, e la vita stessa dell’uomo, sono come una rappresentazione teatrale (altrove il poeta parla di uno spettacolo
di marionette).
57
Il tempo rapido di una vita, come il passaggio di un attore o di una marionetta sul palco.
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12

22.
A tradimento61 Lui ci soffiò62 la vita,
e poi ci mise senza mèta63 in viaggio64:
oh a noi, a noi la coppa proibita65,
e anneghiamo la memoria66 nell'oltraggio!

23.
Se io mi ribello, dov'è l'onnipotenza67?
Se io pecco o svio, dov'è la prescienza68?
E se il cielo si deve all'obbedienza
dov'è o che vale, o Signore, la tua clemenza69?

24.
Chi non peccò70? La vita, o Dio, che vale
senza peccato71? E se, vindice72, poi

58
Lo spettacolo della vita è una buffonata: gli uomini stessi sono buffoni e marionette che suscitano il riso di Dio.
L’espressione da un lato allude, probabilmente, a un disinteresse di Dio nei confronti degli uomini, risolto in una non
partecipazione alle loro miserie, e in un limitarsi ad assistere, beffardo, al ridicolo spettacolino degli esseri umani.
59
La piccolezza dell’uomo di fronte a Dio e, in generale, all’universo: l’uomo cioè, nell’economia del creato, è un nano,
non conta assolutamente nulla.
60
Ubriachi cioè di superbia: siamo nani ma pretendiamo –o ci crediamo- di essere giganti.
61
La creazione dell’uomo da parte di Dio è bollata come tradimento perché avvenuta unilateralmente, senza previa un
consenso da parte dell’uomo.
62
Il verbo allude alla tipica concezione religiosa del donare la vita tramite il ‘soffiare’ lo spirito da parte di Dio.
63
Senza cioè uno scopo. Ancora la polemica filosofica contro ogni finalismo.
64
La concezione della vita come un viaggio è un tòpos letterario comunissimo e diffusissimo.
65
La colpa del vino, proibita nella religione islamica (che vieta il consumo di bevande inebrianti).
66
La memoria del male di vivere, e, in genere, dell’esistenza in sé e per sé.
67
La possibilità puramente teorica di un atto di ribellione da parte dell’uomo cozza con il concetto divino di
onnipotenza.
68
La possibilità del peccato contrasta invece con la prescienza divina: o Dio già sa, e quindi l’uomo non è responsabile
del suo peccato; oppure l’uomo è libero ma allora Dio non sa, nel qual caso viene meno la sua prescienza.
69
Se guadagnarsi il paradiso lo si ottiene con la semplice obbedienza a Dio, allora la clemenza e la misericordia di un
Dio che persona non sono necessarie. Tutto il componimento è strutturato sui dilemmi religiosi del poeta: ma più che
una professione di ateismo, qui si avverte la voce di chi è e si sente nel buio, ma domanda un barlume di luce.
70
L’uomo, per definizione, è peccatore. Il peccato di per sé è una condizione ontologicamente radicata all’essere uomo:
vivere lontani o immuni completamente non è pertanto possibile.
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13

tu punisci il mio male col tuo male,


che differenza esiste fra di noi73?

25.
D'acqua e di terra mi formasti tu,
e, se io mi vesto, i panni sono tuoi74.
Il bene e il male che io faccio, tu li vuoi75...
Che colpa è mai la mia, Signore, quaggiù76?

26.
Il grano gettato al vento come pioggia
e poi sepolto, riempie d'oro le moggia77.
Ah godi! In vita non dài oro tu78,
e un giorno, sottoterra, chi ti cerca più?

27.
Perché mai tanta ansia di sapere

71
Qui il poeta rivendica il diritto all’abbandono ai piaceri del corpo e, in genere, della vita. Una vita senza piacere non è
concepibile agli occhi di Omar.
72
L’aggettivo richiama la figura del Dio vendicatore, che non solo punisce il peccatore, ma che può arrivare a punire i
discendenti “fino alla settima generazione” (così, ad esempio, in molti passi dell’Antico Testamento).
73
Dio non può punire il male dell’uomo con altro male, pena l’annullamento delle differenze fra essere umano e
divinità.
74
Tutto appartiene a Dio, anche i vestiti che coprono il corpo: cfr. Giobbe, 1, 21: “Nudo uscii dal seno di mia madre, e
nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto: sia benedetto il nome del Signore!”.
75
Ancora un’affermazione di determinismo: l’uomo non è libero, tutto dipende da Dio e dalla sua volontà, quindi anche
il peccato dell’uomo.
76
Logica conseguenza morale del determinismo filosofico è la perdita di responsabilità da parte dell’uomo, che diventa
così una vittima, incolpevole del suo stesso peccato.
77
La superficie dei terreni che si ricopre, con l’arrivo dell’estate, dell’oro delle spighe di grano.
78
Il seme gettato e sepolto sulla terra produce, risorgendo, l’oro del grano: non così l’uomo che, sepolto sottoterra,
sprofonda nell’oblio della morte. Per l’immagine del grano, si vedano anche i numerosi riferimenti evangelici (per es.
Giovanni 12, 24; o anche 1 Corinzi 15, 36).
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14

l'avvenire, d' indagarne il senso profondo?


Sta' allegro e bevi!79 Per formare il mondo
nessuno ha domandato il tuo parere.

28.
Stolto, o Saki80, chi spera di risolvere
gli alti problemi e tenta l'argomento.
Accorda l'arpa, o Saki: noi siam polvere;
porgi, o Saki, la coppa: noi siam vento81!

29.
Per questo mondo, qualcuno, matto, si affanna82,
un altro sconta l'attesa del futuro83;
ma tu vivi il tuo giorno84, ama85 e tracanna:
piace da lungi il rullo del tamburo.

30.
Bere vino davanti a un caro viso86
val molto più che battersi lo sterno87.

79
Non solo all’uomo non è dato sapere i segreti ultimi del mondo, ma non è nemmeno lecito domandarne ragione: cfr
Orazio, Carm. I 11, 1-2: “Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi / finem di dederint, Leuconoe” (“Tu non
chiedere, o Leuconoe, non è lecito sapere / quale destino gli dèi abbiamo dato a me e a te”).
80
È il mescitore di vino che accompagnava Omar.
81
Al solito in Omar l’invito al vino e alla musica è invito a godere pienamente della vita, mettendo da parte ogni
preoccupazione e ogni indagine senza risposta. Per l’immagine finale, cfr. Orazio, Carm. IV 7, 16: “Pulvis et umbra
sumus” (“Siamo polvere ed ombra”).
82
Colui, cioè, che cerca vanamente di indagarne i segreti profondi o di trovare comunque una risposta ai propri
interrogativi esistenziali.
83
Colui, cioè, che vive male il presente, in una situazione di dolore o di sofferenza, e si aspetta un riscatto dal futuro.
84
È il carpe diem oraziano: vivere l’oggi, il presente, prima che il tempo scivoli via irrimediabilmente.
85
Al solito invito al vino, qui Omar aggiunge l’invito all’amore.
86
A quello di un amico o della donna amata.
87
Il battersi lo sterno è un’immagine tipica dell’atteggiamento penitente di chi prega (per es. Luca 18, 13). Qui Omar
vuol dire che gioire della vita –foss’anche nei suoi eccessi- è molto più bello che pentirsi dei propri peccati e vivere
castigati.
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15

Oh se chi beve od ama va all'inferno,


non vi sarà una mosca in paradiso!

31.
A un ubriaco che usciva dalla cantina
portando un barilotto sulla groppa,
chiesi: «Non temi tu l'ira divina?88»
Rispose: «Iddio perdona, riempi la coppa!».

32.
Gettato il libro89, un dì, chiesi alla coppa
il segreto fatale del viver mio;
e, labbro a labbro, mi sussurrò: «Poppa90!
L'ombra è il tuo regno, e prossimo è l'addio!91».

33.
Sempre la voglia mia si volge al bere,
sempre l'orecchio ai flauti e alle ribebe92.
Quando con la mia cenere
formerà un vaso, un giorno, il vaselliere,
sempre colmo di vino resti quel vaso93!

34.
Bere vino e stare allegro è mio costume;
non pensar nulla di dogmi e d'eresia

88
Nella religione islamica è espressamente vietato il consumo di bevande alcoliche.
89
Gettare via il libro è immagine per indicare l’inutilità della ricerca della scienza e della sapienza: per trovare le
risposte, meglio rivolgersi alla coppa del vino!
90
Cioè ‘bevi avidamente!’.
91
La morte è il regno che aspetta l’uomo, e la fine è ormai imminente.
92
La ribeba è uno strumento arabo, simile al mandolino.
93
Il poeta si augura, cioè, che il vaso in cui, dopo la morte, verranno raccolte le sue ceneri, possa essere riempito di
vino.
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16

è la religione mia.
Dissi alla vita: «La tua dote?» Ed ella:
«Mia dote è del tuo cuore l'allegria!»

35.
Sul giorno di domani nulla puoi;
al giorno di domani senza noia94
pensar non puoi, né sai.
Se un cuore vigile tu hai,
non perdere questo momento breve,
ché non ti è noto quanto ancor vivrai95!

36.
Poiché la rosa della tua felicità
oggi ti reca i suoi frutti96,
perché in mano un bicchiere non hai?
Bevi del vino, ché nemico molesto97
è il tempo, e avere un giorno come questo
è difficile assai!

37.
Non pensare ch'io tema il destino,
o ch'io tema il morire, il giorno
che l'anima farà sua dipartita.
Poiché è necessario morire98, di queste pene

94
Senza cioè riceverne fastidio, in considerazione dell’inutilità del pensare al domani.
95
L’uomo è all’oscuro circa la durata della sua vita: da qui l’invito a godere la vita nel presente.
96
Come una pianta o un fiore che elargisce i suoi frutti, così la felicità di un giorno dona i suoi frutti all’uomo.
97
Cfr. Orazio, Carm. I 11, 7-8: “invida aetas” (“tempo malevolo”).
98
La necessità della morte rende vana ogni forma di protesta o di ribellione da parte dell’uomo, ispirando pertanto
nell’animo del saggio una serena –perché frutto di rassegnazione- accettazione.
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17

non temo già, ma temo che non bene


abbia vissuto la vita99.

38.
Poiché non vanno le faccende nostre
come vorremmo noi,
pensiamo sempre a questo:
«Il nostro sforzo a che ne verrà poi?100
E lungamente sospirosi e mesti
a seder qui restiamo,
dicendo: «Troppo tardi siam venuti,
troppo presto ce ne andiamo101».

39.
Io sono sempre in lite con me stesso102.
Che far dunque potrei?
Dei miei peccati io mi pento spesso103.
Che far dunque potrei?
Penso che tu, Signore, perdonerai
con generosa voglia;

99
L’unico rimpianto, dunque, non è il morire, ma è quello di non vivere la vita, o di viverla nel modo sbagliato,
sprecandola.
100
Di fronte alle difficoltà e ai fallimenti della vita scatta inevitabilmente la domanda sul valore di ogni sforzo
esistenziale, che sembra proteso verso il nulla.
101
Lo scacco esistenziale si risolve in una sensazione di “straniamento” dal mondo e dalla vita, riassunto nella
sensazione di essere nati troppo tardi o di essere destinati a morire troppo presto, prima che si possa combinare qualcosa
di buono e di duraturo.
102
Il conflitto interiore è spia di una situazione irrisolta nell’animo del poeta, scisso fra due opposte tensioni, senza che
l’una possa prevalere sull’altra, con il risultato finale di una perenne indecisione.
103
La scissione nell’anima del poeta è dunque provocata dal contrasto fra i piaceri della vita e il pentimento da tenersi
in vista della morte e dell’incontro con Dio.
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18

ma per l'onta che tu veda quel che ho commesso,


che far dunque dovrei?104

40.
Della mia vita questo breve tempo
ecco è passato:
passò come vento
che passa nel deserto
abbandonato105.
Finché io sarò vivo, di certo
neppure di due giorni voglio far
lamento:
non di quel giorno che ancora non
venne,
non del passato106.

41.
Oh un libro di canzoni, oh una coppa di vino,
oh una pagnotta di pane, e te, amor mio107, vicino
a me, a cantare nella solitudine108!
Oh solitudine: bene veramente divino!

42.
C’è chi anela agli onori di questo mondo vano,
c’è chi aspetta le gioie di un regno oltremondano109...
104
Il poeta dunque non dubita che il Signore perdenerà il peccatore pentito; resta però irrisolto il conflitto interiore
nell’animo del poeta, che è generato non dal timore di non essere perdonato, ma dalla vergogna nei confronti di se
stesso e dei suoi peccati.
105
La vita che passa è come vento che attraversa il deserto: quest’immagine, oltre che suggerita dalla biografia di Omar,
allude anche al vuoto e al nulla che rimane dopo la conclusione di una vita sprecata.
106
L’importante nella vita, come già sottolineato da Omar in altri componimenti, è non morire con dei rimpianti: nessun
rimpianto, dunque, né nei confronti del passato –che non si può più cambiare-, né nei confronti dell’avvenire.
107
La felicità secondo Omar: un bicchiere di vino, un po’ di musica, un pezzo di pane e accanto la donna amata.
108
Si intenda: la solitudine senza altra gente intorno, tranne appunto l’amata.
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19

Piglia i contanti e lascia andare il credito110!


Non ascoltare il rullo del tamburo lontano111!

43. (XVI)
La speranza nel mondo è un frutto che matura
di rado, e che diventa cenere scura112:
è come neve nel deserto, che sulla sabbia arida
risplende appena un attimo, e non dura113.

44. (XVIII)
Si dice che il leone e il ramarro hanno stanza
dove Gemshid114, sul suo trono, beveva in abbondanza115;
l’asino offende il capo di Behram il terribile,
ma che lui si svegli non c’è alcuna speranza.

45. (XXI)
Bellezza mia, riempi oggi i nostri bicchieri,
e tacciano i rimpianti del passato, e i pensieri
del domani116... Domani? Io sarò cenere,
forse, coi settemila anni finiti ieri.

109
Il mondo si divide fra chi è tutto teso nell’al di qua, quindi mira a cariche e a onori, e chi invece spera in un riscatto
nell’aldilà, deluso dalla vita sulla terra.
110
Vivi, cioè, il presente, non attendere un credito futuro che, forse, non ti arriverà mai.
111
Fuor di metafora: le lusinghe e le aspettative del domani, di tutto ciò che è lontano e che non è a portata di mano.
112
La speranza, nel mondo reale, difficilmente si concretizza e porta i frutti sperati: i sogni così si riducono in polvere e
in cenere, come a dire, a puro nulla.
113
L’immagine della neve nel deserto doveva essere molto efficace per i primi lettori di Omar, e quindi estremamente
adatta a simboleggiare la labilità della speranza.
114
Mitico re della tradizione pesiana e indoariana. Il componimento è esattamente sovrapponibile a quello qui numerato
6, dedicato a un altro re (Key Kavus): la gloria degli uomini è destinata inevitabilmente all’oblio.
115
Il tema del bere, così caro a Omar, è qui utilizzato per rievocare la gloria e la potenza di Gemshid, il quale
evidentemente sapeva godere pienamente della vita.
116
Passato e futuro sono parimenti vani per Omar: ciò che conta è soltanto il presente.
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46. (XXII)
Molti di quelli che un giorno abbiamo amati,
i migliori che il tempo abbia giammai pigiati
dal suo tino117, il loro calice vuotarono
a vicenda, e a vicenda sono al riposo andati118.

47. (XXIV)
Oh godiamo il tempo che passa prima di calare
nella polvere, polvere su polvere, e restare
a dormire, senza vino, senza musica119,
senza canzoni, e senza più poterci risvegliare!

48. (XXV)
Per l’uomo che pensa all’oggi, come per l’uomo che corre
con la mente al domani, dall’alto della torre
dell’ombra, un muezzin120 proclama: « O stupidi!
Voi non dovete il premio né qua né là riporre!121»

49. (XXVI)
Ai santi e ai filosofi che hanno trattato così bene
di entrambi i mondi, è avvenuto quello stesso che avviene
ai profeti mendaci: le loro massime
schernite, le loro bocche di polvere son piene122.

117
L’immagine della produzione del vino è qui usata dal poeta per esprimere simbolicamente la generazione degli
uomini da parte del tempo.
118
Ovviamente il riposo eterno della morte. La vita del mondo e degli uomini è dunque, per Omar, un’alterna vicenda.
119
La presenza del vino e della musica è, per Omar, simbolo della pienezza di vita; al contrario, quindi, l’assenza di
entrambi equivale alla morte.
120
Il muezzin è nella religione islamica colui che dalla torre del minareto invita i fedeli alla preghiera.
121
Come quindi già affermato altrove dal poeta, è da sciocchi tanto nutrire rimpianti per il passato quanto rivolgere le
proprie attese al futuro: il ‘premio’ della vita si può cogliere solo nel presente.
122
La morte cioè livella tutti a un comune destino: poveri e ricchi, sciocchi e saggi.
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21

50. (XXVII)
Anch’io, quand’ero giovane, ho spesso ascoltato
santi e dottori, e ho i loro argomenti ammirato:
ma poi sono uscito dalla medesima
identica porta dalla quale ero entrato123.

51. (XXVIII)
Della saggezza sparsi il seme in loro124 compagnia,
perché nascesse diedi anch’io l’opera mia;
e il raccolto è stato questo: Simile
all’acqua venni, e simile al vento andrò via125!

52. (XXIX)
Sì, noi veniamo –ignoro da dove e perché ciò accada-
come fiume che, lo voglia o no, fa la sua strada;
poi ce ne andiamo, come un refolo
di vento che –lo voglia o no- trascorre via né so dove vada126.

53. (XXX)
Ebbene, chi, senza avercene domandato licenza127,
ci dona e poi ci toglie questa breve esistenza?
Oh molte coppe di vietato nettare
affoghino il ricordo di una siffatta insolenza128!

123
Gli insegnamenti ricevuti non hanno dunque sortito effetto: dalla medesima porta in cui si era entrati, si è usciti. Fuor
di metafora il poeta allude alla vanità di ogni scienza e di ogni pretesa di conoscenza.
124
Cioè dei ‘saggi’ nominati nella quartina precedente.
125
Entrambi gli elementi sono accomunati dalla labilità.
126
Il vento o il fiume si muovono in base a una legge di cui si ignora il perché; essi dunque obbediscono a un comando
esterno a loro. Così per l’uomo, il quale si illude di essere libero, ma in realtà obbedisce ciecamente a una legge
superiore di cui ignora l’esistenza. Ennesima affermazione da parte del poeta di determinismo filosofico.
127
L’uomo non decide di vivere, ma è come “gettato” da altri nel mondo, senza il suo libero consenso.
128
Bere vuol dire dunque, nella prospettiva del poeta, annegare nell’oblio il senso del male di vivere (così anche altrove
in Omar). Si noti la definizione di vita quale ‘insolenza’, perpetrata da Dio ai danni dell’uomo.
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54. (XXXV)
Per capire il segreto della vita, la bocca
pongo all’argilla di una povera brocca,
e «Fino a che sei vivo» essa mi mormora
«bevi, ché, dopo morto, restar morto ti tocca!129»

55. (XLI)
Non più incertezze intorno all’umano e al divino!
Sperda il vento le preoccupazioni del domani vicino130!
Le dita lente fra le chiome indugino
del cipresso elegante che somministra il vino!

56. (XLV)
Il corpo è un padiglione131 per un giorno solo occupato
da un sultano, al reame della morte avviato:
lui parte, e il nero ferrâsh132 lo abbatte subito,
e lo133 tiene in riserva per un altro arrivato.

57. (XLVI)
Non dubitate affatto che l’esistenza, quando
ha chiuso i nostri conti134, posi la penna, oziando:
l’eterno Sâki135 versò giù dalla stessa anfora
altre schiume simili, altre ne sta versando.

129
Il ‘segreto della vita’ è dunque viverla, fino in fondo e pienamente, perché dopo c’è solo la morte.
130
L’ebbrezza del vino cancella contemporaneamente ogni ansia relativa all’uomo e a Dio, e anche al futuro.
131
Cioè come una tenda montata da un sultano di notte nel deserto.
132
Il ferrâsh è propriamento un servitore del tempio.
133
Il corpo, pronto per essere dato a un altro destinato alla vita.
134
Evidentemente con la morte.
135
Dio è come una sorta di mescitore di vino, ma eterno, che versa continuamente sulla terra vino e schiuma per
rigenerare sempre uomini dallo stesso contenitore. Insomma è che dire che la vita è un avvicendarsi eterno, e nessuno di
noi è indispensabile.
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58. (XLVII)
Dopo che ognuno di noi avrà il velo136 attraversato,
per molto tempo ancora esisterà il creato,
curandosi di noi quanto si curano
gli oceani di un sasso negli abissi gettato137.

59. (L)
Tra il falso e il vero esiste una separazione
da niente138, e un’alfa139 sola a chi la scopra pone
fra le mani la chiave per dischiudere
la cassa del tesoro e giungere al padrone140.

60. (LII)
Iddio, intravisto appena, si torna subito ad occultare
nel vuoto141, dove si svolge il corso regolare
del dramma142, che egli, a svago della propria
eternità143, compone, recita, e sta a guardare144.

61. (LVI)
Per quanto abbia saputo con logica e compasso
definire vero e falso, descivere alto e basso,
vi assicuro che solo nell’intendermi

136
Il velo che –secondo la visione indoariana- separa la vita dalla morte, la realtà (apparente) dalla Verità.
137
L’uomo quindi non conta nulla nell’economia del creato: è come un ciottolo abbandonato in fondo all’oceano.
138
Cioè il confine fra vero e falso è estremamente sottile.
139
La prima lettera dell’alfabeto, un piccolo particolare che può rivelare la verità del cosmo.
140
Arrivare cioè alla Verità, a Dio in persona. La Verità dunque, secondo il poeta, esiste, ma è arduo arrivarci.
141
Dio si può intravedere da parte dell’uomo, ma, appena intravisto, subito torna a nascondersi nel buio e nel vuoto,
inaccessibili all’occhio dell’uomo.
142
Il dramma dell’esistenza, che è simile a una rappresentazione teatrale (vedi le quartine nn° 4 e 21).
143
Cioè come passatempo, per ingannare il tempo dell’eternità.
144
Dio ha la parte principale: egli scrive il dramma, recita anch’egli, e soprattutto sta a guardare da spettatore allo
spettacolo degli uomini, che non sono dunque che marionette nelle mani di Dio, fatte per il suo divertimento (vedi
quartina n° 4).

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di vino, tutti gli altri filosofi sorpasso145.

62. (LXIII)
Oh speranze d’Eliso, oh timori d’Averno146!
Ecco la sola, l’unica verità che discerno:
-Questa vita è fugace, tutto il resto è favola!
Il fiore che nasce e muore, muore per sempre, in eterno!147-

63. (LXIV)
Strano, è vero? Di mille e mille creature
che han varcato la soglia del mistero, neppure
una sola è ritornata per descriverci
la via, che impareremo... facendola noi pure148!

64. (LXVI)
L’anima mia nel regno dell’ignoto ho spedita
per conoscere qualcosa della seconda vita:
-Paradiso ed Inferno in noi medesimi!149-
Eccovi la risposta che mi è stata fornita.

65. (LXVIII)
In verità noi siamo una processione
di ombre magiche150, mosse in ogni direzione,

145
La sapienza dunque non serve a niente: conta soltanto vivere, e il simbolo per eccellenza della vita è rappresentato
dai piaceri del vino.
146
Rispettivamente paradiso e inferno, secondo la terminologia classica.
147
La vita è l’unica cosa degna di rilievo, ed essa è fugace, condannata alla morte. La morte, intesa dunque come
annullamento della vita, non è da temere –pensando all’inferno- o da desiderare –pensando al paradiso-: essa è
semplicemente la fine della vita, unico elemento importante.
148
Il sentiero della morte di cui tutti faranno prima o poi esperienza.
149
Non è necessariamente affermazione di ateismo (peraltro contraddetto in molti componimenti di Omar), quanto
piuttosto riflessione della centralità della vita, con tutto il suo carico di gioie e di dolori: solo la vita conta, pensare al
dopo non serve.
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da Chi, nel buio, avendo il sole per fiaccola,


regge insieme lanterna e rappresentazione151.

66. (LXIX)
E i pezzi impotenti152 Egli spinge a piacere
dei giorni e delle notti sopra il vario scacchiere,
manovrando per chiuderli, per vincerli153,
e poi porli, uno dopo l’altro, nel cassetto a giacere154.

67. (LXX)
Di sì, di no la palla non fa questione, intanto
che, secondo l’impulso, va da questo a quel canto155.
Solo Chi ci scagliò conosce l’ordine
del gioco: Egli soltanto conosce; Egli soltanto156.

68. (LXXI)
Il dito eterno scrive, e, dopo fatto un segno,
una parola sèguita157. Né val pietà od ingegno158,

150
Consueta metafora teatrale. In questo caso, però, l’immagine è ulteriormente accentuata (rispetto, ad esempio, alla
quartina n° 4) dal fatto di non considerare gli uomini attori su un palco, ma semplicemente ‘ombre’ suscitate dalla luce
di una fiaccola nelle mani del Creatore.
151
Dio ha tutto il potere e la responsabilità della rappresentazione: l’uomo non vi riveste alcun ruolo.
152
La seconda metafora della vita dell’uomo, dopo quella della rappresentazione teatrale, è quella della scacchiera
(gioco che trova proprio in Persia le sue origini): gli uomini sono pedine, ‘pezzi impotenti’ nelle mani di Dio che li
muove a suo piacimento.
153
Lo scopo di Dio è quello di un qualunque giocatore di scacchi: vincere la partita. Egli si muove perciò nei confronti
delle pedine, cioè gli uomini, con lo scopo di ‘vincerli’, ‘chiuderli’ nell’angolo, e sconfiggerli.
154
Alla fine della partita (ossia della vita degli uomini), Dio, quasi annoiato, ripone le pedine nel cassetto ‘a giacere’:
un’immagine finale che allude alla fossa.
155
Una palla che rotola –spinta da un cieco impulso- non fa domande, non si pone problemi circa la direzione che
segue. Così è l’uomo, che se anche pensasse di essere libero, non lo è affatto: egli si muove per impulso altrui, nella
fattispecie di Dio, che è il solo a conoscere il perché e la mèta finale.
156
La ripetizione sottolinea che è solo ed esclusivamente Dio che conosce: l’uomo non conta nulla.
157
La mano di Dio, come un dito eterno, scrive, parola dopo parola, il corso del mondo, la storia: un disegno arcano e
immodificabile. Per l’immagine del dito vedi anche Daniele 5, 5 (il dito minaccioso di Dio appare al re Baldassàr
durante un banchetto).
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a far sì ch’Egli muti mezza linea,


che un vocabolo solo Egli rèputi indegno159.

69. (LXXIV)
Ieri si preparava la follia di stamani,
lo spavento, il silenzio e la gloria di domani.
Beviamo! I nostri sforzi per intendere
da dove venimmo e dove andremo sono vani!

70. (LXXXI)
O tu che ci plasmasti col fango meno buono160,
pensando un Paradiso dove anche i serpenti ci sono161,
per i mille peccati che anneriscono
la faccia all’uomo, perdonagli! E accettane il perdono162!

71. (XCI)
Oh consolate gli ultimi istanti miei col vino,
lavate il mio cadavere col succo porporino163;
seppellitemi, poi, dentro a un sudario
di pampani164, in un angolo cortese di giardino.

158
Ovviamente da parte dell’uomo, che vorrebbe cambiare qualcosa, mutare gli eventi del corso del mondo, ma non
può: un destino ferreo e immutabile, perché già scritto, domina l’universo. La ‘pietà’ allude al ricorso, da parte degli
uomini, alla preghiera, per fare mutare la volontà di Dio; l’ingegno, invece, allude all’illusione dell’uomo che confida
nella sua intelligenza per cambiare i destini del mondo.
159
Tutto ciò che Dio ha scritto è scritto: niente è inutile, niente è indegno; tutto ha un suo senso, sebbene arcano e
sfuggente all’uomo.
160
Cioè ci formasti di vile materia, sottoposti al peccato e al male.
161
Allusione al mito di Adamo ed Eva, presente anche nel Corano.
162
La supplica al Signore da parte del poeta è motivata dunque dalla natura mortale, e quindi esposta al peccato,
dell’uomo: Dio, che ne conosce la natura fragile, a maggior ragione deve perdonare l’essere umano.
163
Era tradizionale consuetudine lavare il cadavere, prima della sepoltura, con oli e essenze profumate. Qui Omar
parodisticamente rovescia il rito tradizionale, immaginando un lavaggio con il vino.
164
Nei riti funebri il sudario era generalmente di lino grezzo. I pampani sono i tralci della vite ancora rivestiti di foglie.
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72. (XCIII)
Lo so, lo so: gli oggetti della mia devozione165
non mi hanno procurato una buona reputazione.
Il mio onore è affogato dentro un calice,
il mio nome si vende per meno di una canzone.

73. (XCIV)
In verità, di pentirmi più volte ho giurato,
ma sempre, se non erro, quando avevo trincato166.
La primavera poi, colla sua mano rosea,
strappava il mio rimorso come un vestito usato.

74. (C)
Intanto, questa luna che si scorge là in fondo
seguiterà a mostrare il suo viso, or scemo or tondo167.
E quante volte cercherà, levandosi,
uno di noi, sparito dal giardino del mondo168?

165
Ossia il vino, la musica e la compagnia delle donne.
166
Evidentemente il tono è ironico: il messaggio è che non val la pena pentirsi nella vita.
167
Rispettivamente nelle fasi di luna calante e di luna piena.
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75. (CI)
Ma tu, quando come lei169 ti aggirerai, coppiere,
in mezzo agli ospiti, adagiati sull’erba per bere,
arrivato a quel posto dove io ero solito
sedermi, in mia memoria, capovolgi il bicchiere170!

Statua di Omar Khayyam a Nishapur

168
Uno di noi morto, sparito dalla scena di questo mondo.
169
La luna della quartina precedente.
170
Rovesciare il bicchiere di vino è come un rito, da parte dei suoi vecchi amici di bevute, in memoria del poeta morto.
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