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La guerra è la salute dello Stato

Randolph Bourne

A molti americani delle classi che si considerano importanti la guerra ha recato un senso di santità
dello Stato che, se avessero avuto tempo per pensarci, sarebbe loro sembrata un’alterazione improvvisa e
sorprendente nelle loro abitudini di pensiero. In tempi di pace, abitualmente ignoriamo lo Stato preferendogli
controversie politiche partigiane, o lotte personali per le cariche, o il perseguimento di politiche di partito. È
con il Governo, piuttosto che con lo Stato, che hanno rapporti coloro che hanno orientamenti politici. Lo
Stato è ridotto a un emblema misterioso che emerge al livello cosciente solo in occasione delle feste
patriottiche.
Il Governo è evidentemente composto di uomini comuni e privi di qualunque santità, ed è così un
oggetto legittimo di critiche e anche di disprezzo. Se il nostro partito è al potere si può presumere che le cose
si muovano in modo abbastanza sicuro; ma se al potere c’è l’opposizione allora diventa ovvio per noi che
tutte le sicurezze e gli onori hanno abbandonato lo Stato. Forse, tuttavia, questo è un modo non preciso di
mettere le cose: ciò che si pensa è solo che ci sono mascalzoni che devono essere cacciati da una macchina
molto concreta di cariche e funzioni che non vengono peraltro messe in discussione. Quando diciamo che gli
americani sono privi di legge, di solito vogliamo dire che sono meno consci di altri popoli dell’augusta
maestà dell’istituzione dello Stato che sta dietro il Governo oggettivo degli uomini e delle leggi che noi
vediamo.
In una repubblica gli uomini che hanno delle cariche sono indistinguibili dalla massa. Pochissimi di
loro possiedono la minima dignità personale che potrebbero portare in dote al loro ruolo politico, ammesso e
non concesso che si siano mai posti un problema di questo tipo. Inoltre, essi non hanno alcuna distinzione di
classe sociale che dia loro un fascino aggiuntivo. In una repubblica il Governo è obbedito mugugnando
perché non ha fulgore né santità che lo indorino. Se siete un buon democratico d’altri tempi vi felicitate per
questo fatto, lodate la semplicità di un sistema in cui ogni cittadino è diventato un re. Se siete più sofisticato
vi lamentate per la fine della dignità e dell’onore negli affari dello Stato. Ma in pratica il democratico non
tratta affatto il suo cittadino eletto con il rispetto dovuto a un re, né il cittadino sofisticato rende omaggio alla
dignità, neppure quando la trova. Lo Stato repubblicano non ha quasi alcun orpello per far presa sulle
emozioni dell’uomo comune. Quei pochi che possiede derivano dalle sue origini militari, e in un’era non
militarista come quella che abbiamo attraversato dalla Guerra Civile, anche gli orpelli militari sono stati
scarsamente visibili. In una tale era il senso dello Stato quasi svanisce dalla coscienza degli uomini.
Con lo shock della guerra, tuttavia, lo Stato ritorna in auge. Il Governo, senza mandato del popolo,
senza consultare il popolo, conduce tutte le negoziazioni, i tira e molla, le minacce e le spiegazioni, che
lentamente lo portano in collisione con qualche altro Governo, e gentilmente e irresistibilmente fa scivolare
il paese in guerra. A beneficio dei cittadini orgogliosi e sprezzanti, si fa forte di una lista degli insulti
intollerabili che sono stati scagliati contro di noi dalle altre nazioni; a beneficio di coloro che esercitano
liberalità e beneficenza, possiede un insieme convincente di scopi morali che il nostro ingresso in guerra
raggiungerà; alle classi ambiziose e aggressive, può sussurrare gentilmente di un ruolo più grande nei destini
del mondo. Il risultato è che, anche in quei paesi dove il compito di dichiarare la guerra è teoricamente nelle
mani dei rappresentanti del popolo, non si sa di nessuna assemblea legislativa che abbia mai rifiutato la
richiesta di un Esecutivo che, dopo aver condotto tutta la politica estera in stretta riservatezza e
irresponsabilità, ordini alla nazione di entrare in battaglia. I buoni democratici sono soliti avvertire la
differenza cruciale tra uno Stato in cui il Parlamento popolare o il Congresso dichiara la guerra, e lo Stato in
cui un monarca assoluto o la classe dominante dichiara la guerra. Ma alla prova rigorosa dei fatti, la
differenza non è così evidente. Nelle repubbliche più libere, così come negli imperi più tirannici, tutta la
politica estera, i negoziati diplomatici che producono o prevengono la guerra, sono egualmente proprietà
privata della parte esecutiva del Governo e sono egualmente immuni da controlli da parte del corpo popolare,
o del popolo stesso come massa che vota.
Nel momento in cui la guerra è dichiarata, tuttavia, la massa del popolo, attraverso una qualche
alchimia spirituale, si persuade di aver voluto e compiuto l’atto in prima persona. Essa quindi, con
l’eccezione di pochi scontenti, procede permettendo di essere irregimentata, coartata, sconvolta in tutti gli
ambiti della sua vita, e fatta diventare un solido strumento di distruzione nei confronti di qualunque popolo
sia entrato, nello schema di cose indicato, entro il raggio della disapprovazione del Governo. Il cittadino
getta via il suo disprezzo e la sua indifferenza nei confronti del Governo, si identifica con i suoi scopi,
ravviva tutte le sue memorie e i suoi simboli militari, e lo Stato, una volta di più, cammina, augusta presenza,
attraverso l’immaginario degli uomini. Il patriottismo diventa il sentimento dominante e produce
immediatamente quella confusione intensa e disperata tra le relazioni che l’individuo ha e dovrebbe avere
con la società di cui è parte.
Il patriota perde ogni senso della distinzione tra Stato, Nazione e Governo. Nei nostri momenti più
quieti, la Nazione o Paese forma l’idea basilare della società. Noi pensiamo vagamente a una popolazione
sparsa, diffusa su una certa porzione geografica della superficie della terra, che parla una lingua comune e
che vive in una civiltà omogenea. La nostra idea di Paese riguarda gli aspetti non politici di un popolo, il suo
stile di vita, i suoi tratti peculiari, la sua letteratura e la sua arte, i suoi atteggiamenti caratteristici nei
confronti della vita. Noi siamo Americani perché viviamo in un certo territorio delimitato, perché i nostri
antenati hanno portato avanti una grande impresa pionieristica e colonizzatrice, perché viviamo in
determinati tipi di comunità che hanno un certo aspetto e esprimono le loro aspirazioni in un determinato
modo. Possiamo vedere che la nostra civiltà è differente da civiltà vicine come quella indiana e quella
messicana. Le istituzioni del nostro paese formano una certa rete che ci tocca in modo vitale e coinvolge i
nostri pensieri in modo molto diverso da queste altre civiltà. Noi siamo parte di un paese, nella buona e nella
cattiva sorte. Ci siamo arrivati tramite l’opera di leggi fisiologiche, e in nessun modo in base a una nostra
scelta. Quando abbiamo raggiunto quella che è chiamata l’età del discernimento, la sua influenza ha
plasmato le nostre abitudini, i nostri valori, i nostri modi di pensare, in modo che, per quanto coscienti
possiamo diventare, non perdiamo mai l’impronta della nostra civiltà, né potremmo essere scambiati per i
figli di un altro paese. Il nostro sentimento per i nostri compatrioti è di somiglianza o di mera conoscenza.
Possiamo essere intensamente orgogliosi della nostra particolare rete di civiltà e affini ad essa, o possiamo
detestare molte delle sue qualità e infuriarci per i suoi difetti. Questo non muta il fatto che ad essa noi siamo
inestricabilmente legati. Il Paese, come gruppo in cui siamo nati e da cui non possiamo fuggire, e che fa di
noi il suo particolare tipo di cittadini del mondo, sembra essere un fatto fondamentale della nostra coscienza,
un minimo irriducibile di sentimento sociale.
Ora, questo sentimento verso il Paese è essenzialmente non competitivo; pensiamo al nostro popolo
semplicemente come un gruppo che vive sulla superficie della terra accanto a altri gruppi, piacevoli o meno
che possano essere; fondamentalmente, è come se dividessimo la terra con loro. Nel nostro semplice concetto
di Paese non c’è più sentimento di rivalità con gli altri popoli di quanto ce ne sia nel nostro sentimento per la
nostra famiglia. Il nostro interesse si rivolge piuttosto all’interno che all’esterno, è intenso e non belligerante.
Cresciamo e il nostro immaginario delimita il mondo in cui viviamo; e non ha bisogno di una soddisfazione
cosciente dei suoi impulsi gregari maggiore di quella che deriva dalla gran massa di gente con cui siamo più
o meno in sintonia e nelle cui istituzioni funzioniamo. Il sentimento per il Paese non potrebbe andare oltre, se
non fosse per le idee di Stato e di Governo che sono associate ad esso. Il Paese è un concetto di pace, di
tolleranza, di vivere e lasciar vivere. Ma lo Stato è essenzialmente un concetto di potere, di competizione:
significa un gruppo nei suoi aspetti aggressivi. E abbiamo la sfortuna di esser nati non solo in un Paese ma in
uno Stato, e crescendo impariamo a mescolare i due sentimenti in una confusione irrimediabile.
Lo Stato è il Paese che agisce come unità politica, è il gruppo che agisce come depositario della
forza, autore della legge, arbitro della giustizia. La politica internazionale è una “politica di potenza” perché
si tratta di relazioni tra Stati; ed è proprio questo che sono gli Stati, infallibilmente e disastrosamente: vaste
aggregazioni di forza umana e industriale che possono essere slanciate l’una contro l’altra in guerra. Quando
un paese agisce come un insieme in rapporto con un altro paese, sia imponendo leggi sui propri abitanti, sia
coartando e punendo individui o minoranze, sta agendo come uno Stato. La storia dell’America come paese è
molto differente da quella dell’America come Stato. In un caso è l’epopea della conquista pionieristica della
terra, dell’aumento della ricchezza e dei modi in cui è stata usata, dell’impresa dell’educazione, della
realizzazione degli ideali spirituali, della lotta delle classi economiche. Ma come Stato, la sua storia è quella
di interpretare un ruolo nel mondo, fare la guerra, ostacolare il commercio internazionale, impedire a se
stessa di dividersi in pezzi, punire quei cittadini che la società è concorde nel ritenere aggressivi, e esigere i
soldi per pagare tutto questo.
Il Governo d’altro canto non è sinonimo di Stato né di Nazione. È la macchina con cui la Nazione,
organizzata come Stato, compie le sue funzioni statuali. Il Governo è una struttura dell’amministrazione
delle leggi e dell’impiego della forza pubblica. Il Governo è l’idea dello Stato messa in opera praticamente
nelle mani di uomini ben definiti, concreti e fallibili. È il segno visibile della grazia invisibile. È il Verbo
fatto carne. E ha necessariamente i limiti inerenti a tutte le cose pratiche. Il Governo è l’unica forma in cui
possiamo considerare lo Stato, ma non è affatto identico ad esso. Lo Stato è un concetto mistico, questo non
bisogna mai dimenticarlo; il suo fascino e la sua importanza insistono dietro la struttura del Governo e
dirigono le sue attività.
I periodi di guerra mettono in rilievo l’ideale dello Stato in modo molto chiaro, e rivelano
atteggiamenti e tendenze che erano nascoste. Nei periodi di pace il senso dello Stato langue in una repubblica

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che non sia militarizzata. Poiché la guerra, essenzialmente, è la salute dello Stato. L’ideale dello Stato è che
entro il suo territorio il suo potere e la sua influenza debbano essere universali. Come la Chiesa è il mezzo
per la salvezza spirituale dell’uomo, così lo Stato è pensato come il mezzo per la sua salvezza politica. Il suo
idealismo è un sangue sostanzioso che fluisce a tutte le membra del corpo politico. Ed è precisamente in
guerra che la necessità dell’unione sembra maggiore e quella dell’universalità sembra più fuori questione. Lo
Stato è l’organizzazione dell’orda per agire offensivamente o difensivamente contro un’altra orda
organizzata in modo simile. Più terrificante è l’occasione di difesa, più serrata sarà l’organizzazione e più
coercitiva l’influenza su ogni membro dell’orda. La guerra invia il flusso degli scopi e delle attività fino al
livello più basso dell’orda e fino alle sue branche più remote. Tutte le attività della società sono collegate il
più velocemente possibile, con lo scopo fondamentale di costruire un’offensiva militare o una difesa militare,
e lo Stato diventa ciò che in tempo di pace ha vanamente combattuto per diventare: l’inesorabile arbitro e
determinatore degli affari, degli atteggiamenti e delle opinioni degli uomini. La fastidiosa calma di vento
finisce, le correnti incrociate svaniscono e la nazione si muove lentamente e pigramente, ma con velocità e
integrazione costantemente accelerate, verso il grande fine, verso la “condizione pacifica di essere in guerra”,
di cui L.P. Jacks ha parlato in modo così indimenticabile.
Le classi che possono giocare un ruolo attivo e non meramente passivo nell’organizzazione della
guerra cominciano a liberare un’enorme attività ed energia. Gli individui sono scossi dalla loro vecchia
routine, a molti di loro sono date nuove posizioni di responsabilità, nuove tecniche devono essere apprese.
Soffocanti legami domestici sono rotti e le donne che sarebbero rimaste attaccate a legami infantili sono
liberate per servizi all’estero. Un ampio senso di ringiovanimento pervade le classi importanti, un senso di
nuova importanza nel mondo. I vecchi ideali nazionali vengono rispolverati, riadattati allo scopo e usati
come pietre di paragone universali o stampi in cui si cola ogni pensiero. Ogni singolo cittadino che in tempo
di pace non aveva funzioni da compiere con le quali potesse immaginarsi come un’espressione o un
frammento vivente dello Stato diventa un attivo agente dilettante del Governo nel denunciare spie e casi di
mancanza di lealtà, nel raccogliere fondi per il Governo o nel propagare le misure considerate necessarie
dall’ufficialità. L’opinione di minoranza, che in tempi di pace irritava solamente e non poteva essere
affrontata con la legge a meno che non si presentasse insieme a un crimine effettivo, diventa, con lo scoppio
della guerra, un caso di illegalità. Le critiche dello Stato, le obiezioni alla guerra, le opinioni tiepide riguardo
alla necessità o alla bellezza della coscrizione sono causa di pene gravissime, molto più severe di quelle
comminate per crimini effettivi e concreti. L’opinione pubblica espressa da giornali, pulpiti e scuole diventa
un solo e solido blocco. La “lealtà”, o piuttosto l’ortodossia della guerra, diventa l’unico test per ogni
professione, tecnica, occupazione. Questo è particolarmente vero nella sfera della vita intellettuale. Qui si
ritiene che la più piccola infezione possa diffondersi a tutta l’anima, in modo tale che un professore di fisica
è ipso facto ritenuto indegno di insegnare fisica o di mantenere una posizione onorevole nell’università – la
repubblica del sapere – se egli è anche parzialmente inaffidabile sul tema della guerra. Perfino la più banale
associazione con persone così infette è considerata tale da disonorare un insegnante. Tutto quello che
riguarda il nemico diventa tabù. I suoi libri sono soppressi ogniqualvolta possibile, la sua lingua è proibita.
La sua produzione artistica è considerata veicolo, nel più sottile modo spirituale, di agenti patogeni per
l’anima che si permette di goderne. Così la musica nemica è soppressa, e si prendono energiche misure di
riprovazione contro coloro le cui coscienze artistiche non sono pronte a compiere un tale atto di
autosacrificio. La furia per la conformità leale lavora imparzialmente ed è spesso diametralmente opposta ad
altre ortodossie e conformità, e persino ideali, tradizionali. L’ortodossia trionfante dello Stato si mostra al
suo apice forse quando i predicatori cristiani perdono i loro pulpiti per aver preso in termini più o meno
letterali il Sermone della Montagna e cristiani zelanti sono mandati in prigione per venti anni per aver
distribuito libelli che dimostrano che la guerra è contraria alle scritture.
La guerra è la salute dello Stato. Mette automaticamente in moto in tutta la società quelle forze
irresistibili che spingono all’uniformità e alla cooperazione appassionata con il Governo nello sforzo di
costringere all’obbedienza i gruppi di minoranza e gli individui cui difetta il più ampio senso dell’orda. La
macchina del Governo stabilisce e impone le pene più drastiche; le minoranze sono o intimidite fino al
silenzio o convinte con un sottile processo di persuasione che può far sembrar loro vero di essere piuttosto
convertite. Naturalmente l’ideale della lealtà perfetta, della perfetta uniformità non è mai veramente
raggiunto. Le classi sulle quali il lavoro amatoriale della coercizione ricade sono incrollabili nel loro zelo,
ma spesso la loro agitazione invece di convertire serve puramente a irrigidire la loro resistenza. Le
minoranze sono rese tristi e alcune opinioni intellettuali amare e satiriche. Ma in generale la nazione in
tempo di guerra raggiunge un’uniformità di sentimento e una gerarchia di valori che costituiscono l’apice
indiscutibile dell’ideale dello Stato, che non sarebbe possibile produrre per mezzo di nessun altro fattore che
la guerra. La lealtà – o mistica devozione allo Stato – diventa il più grande valore umano immaginato. Altri

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valori, quali la creazione artistica, la conoscenza, la ragione, la bellezza, il miglioramento della vita, sono
istantaneamente e quasi unanimemente sacrificati e le classi importanti che si sono autocostituite come
agenti dilettanti dello Stato sono impegnate non solo nel sacrificio di questi valori per se stesse, ma nella
costrizione al sacrificio di tutte le altre.
La guerra – o almeno la guerra moderna condotta da una repubblica democratica contro un nemico
potente – sembra raggiungere per una nazione quasi tutto ciò che il più infiammato idealista politico
potrebbe desiderare. I cittadini non sono più indifferenti al loro Governo, ma ogni cellula del corpo politico è
colma di vita e attività. Siamo finalmente sulla strada della piena realizzazione di quella comunità collettiva
in cui ogni individuo in qualche modo contiene la virtù dell’intero. In una nazione in guerra, ogni cittadino si
identifica con l’intero e si sente immensamente fortificato in quella identificazione. Lo scopo e il desiderio
della comunità collettiva vive in ogni persona che si getta con tutto il cuore nella causa della guerra.
L’incomoda distinzione tra la società e l’individuo è quasi cancellata. In guerra l’individuo diventa quasi
identico alla società cui appartiene. Egli raggiunge una superba sicurezza di sé, un’intuizione della giustezza
di tutte le sue idee e emozioni in modo tale che nella soppressione degli oppositori o degli eretici egli è
invincibilmente forte; egli sente dietro di sé tutto il potere della comunità collettiva. L’individuo, come
essere sociale, in guerra sembra quasi aver raggiunto la sua apoteosi. A seguito di nessun impulso religioso,
la nazione americana si sarebbe potuta pensare capace di questa devozione di massa, di questo sacrificio, di
questa fatica. Certamente neppure per un qualunque bene terreno, come l’educazione universale o la
sottomissione della natura, avrebbe versato il suo tesoro e dato la sua vita, o avrebbe permesso che fossero
prese nei suoi confronti severe misure coercitive come il prelievo forzato del suo denaro e dei suoi uomini.
Ma per lo scopo di una guerra di autodifesa offensiva, intrapresa per sostenere una causa difficile per lo
slogan della “democrazia”, è stata disposta a raggiungere il più alto livello mai visto di sforzo collettivo.
Perché questi beni terreni, legati al miglioramento della vita, l’educazione dell’uomo e l’uso
dell’intelligenza per realizzare ragione e bellezza nella vita comune della nazione, sono estranei al nostro
tradizionale ideale dello Stato. Lo Stato è intimamente legato alla guerra poiché è l’organizzazione della
comunità collettiva quando agisce in modo politico, e agire in modo politico nei confronti di un gruppo
rivale ha significato, lungo tutto il corso della storia, una cosa sola: guerra.
Non c’è nulla di oltraggioso nell’uso del termine “orda” in relazione allo Stato. È semplicemente un
tentativo di ricondurre più vicino ai principî primi la natura di questa istituzione all’ombra della quale noi
tutti viviamo, ci muoviamo e conduciamo la nostra esistenza. Gli etnologi generalmente concordano che la
società umana ha fatto la sua prima apparizione come branco umano e non come un insieme di individui o di
coppie. L’orda è infatti l’unità originaria, e solo quando si fu differenziata poté svilupparsi l’individualità
personale. Tutte le più primitive tribù di uomini che sopravvivono ai giorni nostri mostrano di vivere in una
organizzazione sociale molto complessa ma molto rigida dove l’opportunità per il processo di
individualizzazione è raramente data. Queste tribù rimangono orde rigidamente organizzate, e la differenza
tra loro e lo Stato moderno è di grado della sofisticazione e varietà dell’organizzazione e non di genere.
Gli psicologi riconoscono l’impulso gregario come una delle più forti pulsioni primitive che tiene
insieme le orde delle differenti specie degli animali superiori. L’umanità non fa eccezione. La nostra
bellicosa storia evolutiva ha impedito che l’impulso si estinguesse. Questo impulso gregario è la tendenza a
imitare, a conformarsi, a fondersi insieme, ed è più potente quando l’orda si sente minacciata da un attacco.
Gli animali si riuniscono insieme per la protezione, e gli uomini diventano più coscienti della loro collettività
sotto la minaccia della guerra.
La coscienza della collettività porta fiducia e un sentimento di forza accumulata che a sua volta
provoca bellicosità, e la battaglia comincia. Nell’uomo civilizzato, l’impulso gregario agisce non solo per
produrre un’azione concertata per la difesa, ma anche per produrre identità di opinione. Poiché il pensiero è
una forma di comportamento, l’impulso gregario inonda il suo regno e richiede quel senso di pensiero
uniforme, che il tempo di guerra produce con così grande successo. Ed è in questa alluvione della vita
cosciente della società che il gregarismo produce il suo disastro.
Infatti, come nelle moderne società l’istinto sessuale è offerto in misura enormemente superiore alle
necessità della propagazione umana, così l’impulso gregario è offerto in misura enormemente superiore alla
richiesta per l’opera di protezione che è chiamato a compiere. Sarebbe già abbastanza se noi fossimo
abbastanza gregari da godere della compagnia degli altri, da essere capaci di cooperare con loro e da sentire
un leggero malessere nella solitudine. Purtroppo, tuttavia, questo impulso non si accontenta di queste
ragionevoli e salutari richieste, ma insiste che la consonanza di idee debba prevalere ovunque, in tutti i settori
della vita. Così che ogni progresso umano, ogni novità e nonconformismo devono essere portati avanti
contro la resistenza di questo istinto tirannico dell’orda che conduce l’individuo all’obbedienza e alla
conformità con la maggioranza. Anche nelle società più moderne e illuminate questo impulso mostra scarsi

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segni di riduzione. Poiché è guidato da una domanda economica inesorabile fuori dalla sfera dell’utilità,
sembra radicarsi con forza sempre maggiore nel regno del sentimento e dell’opinione, in modo che la
conformità diventa una cosa desiderata e richiesta aggressivamente.
L’impulso gregario stringe la sua presa in modo sempre più virulento perché, quando il gruppo è in
movimento o intraprende una qualunque azione positiva, questo sentimento di stare insieme e di essere
sostenuti dall’orda collettiva nutre grandemente quella volontà di potenza il cui nutrimento l’organismo
individuale richiede così costantemente. Ci si sente potenti conformandosi, e ci si sente frustrati e deboli se si
è fuori dalla folla. Di contro, anche se non si ha nessun accesso al potere, pensando e sentendo come tutti gli
altri nel gruppo si percepisce almeno il caldo sentimento dell’obbedienza, la confortevole irresponsabilità
della protezione.
Congiungendosi come fa a queste vigorosissime tendenze dell’individuo – il piacere del potere e il
piacere dell’obbedienza – questo impulso gregario diventa irresistibile nella società. La guerra lo stimola al
più alto grado possibile, inviando le influenze della sua misteriosa corrente dell’orda, con le sue iniezioni di
potere e obbedienza, fino ai più lontani recessi della società, a ogni individuo e piccolo gruppo che possa
essere raggiunto. Ed è su questi impulsi che lo Stato – l’organizzazione dell’intera orda, dell’intera
collettività – è fondato ed è di questi che fa uso.
Vi è naturalmente nel sentimento verso lo Stato un vasto elemento di puro misticismo filiale. Il senso
di insicurezza, il desiderio di protezione, rimandano al proprio desiderio del padre e della madre con cui sono
associati i primissimi sentimenti di protezione. Non è per nulla che il proprio Stato è sempre pensato come
un Padre o come la Madre Patria, che la propria relazione verso di esso è concepita in termini di affetto
familiare. La guerra ha mostrato che in nessun luogo, sotto lo shock del pericolo, questi atteggiamenti
infantili e primitivi hanno mancato di affermarsi di nuovo, tanto in questo paese che in ogni altro. Se noi non
abbiamo l’intenso senso del Padre del tedesco che idolatra la sua Vaterland, come minimo nello Zio Sam
abbiamo un simbolo di autorità protettiva e gentile, e nei molti manifesti materni della Croce Rossa vediamo
quanto facilmente, nelle più tenere funzioni del servizio di guerra l’organizzazione di comando sia concepita
in termini familiari. Un popolo in guerra è ridiventato, nel senso più letterale, un gruppo di bambini
obbedienti, rispettosi, affidabili, pieni di quella fede ingenua nell’onniscienza e nell’onnipotenza dell’adulto
che si prende cura di loro, che impone il suo dolce ma necessario comando su di loro e con il quale essi
perdono la loro responsabilità e le loro angosce. In questa recrudescenza del bambino vi è un grande conforto
e un certo aumento di potere. Su molta gente la fatica di essere un adulto indipendente grava pesantemente, e
su nessuno più che su quei membri delle classi importanti a cui è stata lasciata in eredità o che hanno assunto
le responsabilità di Governo. Lo Stato fornisce il più conveniente dei simboli sotto il quale queste classi
possono mantenere tutte le attuali soddisfazioni pratiche del Governo, ma possono sbarazzarsi degli oneri
psichici dell’età adulta. Essi continuano a dirigere l’industria e il Governo e tutte le istituzioni della società
quasi come prima, ma ai loro occhi consapevoli, e agli occhi del pubblico in generale, essi hanno
abbandonato i loro modi egoisti e predatori e sono diventati servitori leali della società, o di qualcosa più
grande di loro: lo Stato. L’uomo che lascia la direzione di una grande impresa a New York per un posto nel
servizio che si occupa dell’industria in tempo di guerra a Washington non cambia apparentemente di molto il
suo potere o la sua abilità amministrativa. Ma psichicamente, che trasfigurazione è avvenuta! Sua è adesso,
non solo il potere, ma anche la gloria! E il suo senso di soddisfazione è direttamente proporzionale non alla
quantità autentica di sacrificio personale che può comportare il cambiamento, ma alla misura in cui egli ha
mantenuto le sue prerogative industriali e il suo senso di comando.
Da membri di questa classe emerge una certa insuperabile indignazione se il cambiamento
dall’impresa privata al servizio dello Stato comporta qualunque perdita reale di potere e di privilegio
personale. Se sacrificio pratico deve esserci, che sia, essi pensano, sul campo dell’onore, nelle morti in
battaglia tradizionalmente acclamate, in quella via traversa al suicidio, come Nietzsche chiama la guerra. Lo
Stato in tempo di guerra offre soddisfazione per questo desiderio reale, ma il suo valore più importante è
l’opportunità che dà per questa regressione ad atteggiamenti infantili. Nella reazione a un attacco
immaginato al proprio paese o ad un insulto al suo Governo ci si fa più vicini all’orda per la protezione, ci si
conforma nei fatti e nelle parole, e si insiste con veemenza, che chiunque altro debba pensare, parlare e agire
insieme. E si fissa il proprio sguardo adorante sullo Stato con occhi veramente filiali, come sul padre del
gregge, il simbolo quasi personale della forza dell’orda e il leader e il fattore determinante della propria
azione definita e delle proprie idee.
I membri delle classi lavoratrici, quella porzione almeno che non si identifica con le classi importanti
e non cerca di imitarle né di elevarsi al loro livello, sono notoriamente meno influenzati dal simbolismo dello
Stato o, in altre parole, sono meno patriottici delle classi importanti. Perché non appartengono loro né il
potere né la gloria. Lo Stato in tempo di guerra non offre loro l’opportunità di regredire, poiché, non avendo

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mai acquisito una condizione sociale da adulti, non possono perderla. Se sono stati addestrati e
irreggimentati, come ha fatto il regime industriale dell’ultimo secolo, essi escono abbastanza docilmente per
dar battaglia per il loro Stato, ma sono quasi interamente privi di quel senso filiale e anche di quel senso
dell’intelletto dell’orda che opera così potentemente tra i loro “superiori”. Essi vivono abitualmente in una
servitù industriale con la quale, sebbene nominalmente liberi, sono in pratica, come classe, obbligati a un
sistema di produzione meccanica, del quale essi non posseggono i mezzi, e nella distribuzione del cui
prodotto essi non hanno la minima voce, tranne quella che possono occasionalmente esercitare con una
intimidazione velata che avvicina leggermente nella loro direzione una porzione maggiore del prodotto.
Rispetto a questa servitù, la coscrizione militare non è un cambiamento così grande. Ma nell’impresa militare
essi vanno non con quegli urrà delle classi importanti i cui istinti la guerra nutre così potentemente, ma con
la stessa apatia con cui entrano e rimangono nell’impresa industriale.
Da questo punto di vista la guerra può essere chiamata quasi uno sport per le classi superiori. Gli
interessi e gli incitamenti nuovi che procura, i turgori di potere, la soddisfazione che dà ai tenacissimi
impulsi umani del gregarismo e della regressione parentale la dotano di tutte le qualità di un gioco collettivo
di lusso che è sentito intensamente in proporzione al senso di comando significativo che la persona ha nella
divisione di classe della sua società. Un paese in guerra – particolarmente il nostro paese in guerra – non
agisce come un’orda del tutto omogenea. Le classi importanti hanno tutto il sentimento dell’orda nella sua
più primitiva intensità, ma ci sono barriere, o almeno differenziali di intensità, di modo che questo
sentimento non scorre liberamente e senza impedimenti attraverso l’intera nazione. Un paese moderno
rappresenta un lungo processo storico e sociale di disaggregazione dell’orda. La nazione in pace non è un
gruppo, è una rete di miriadi di gruppi che rappresentano la cooperazione e il comune sentire di uomini su
ogni sorta di piani e in ogni sorta di interessi e imprese umane. In ogni paese industriale moderno ci sono
piani paralleli di classi economiche con atteggiamenti, istituzioni e interessi divergenti – borghesia e
proletariato, con le loro molte suddivisioni secondo il potere e la funzione, e perfino i loro intrecci, come
quei lavoratori più altamente specializzati che abitualmente si identificano con le classi importanti e
proprietarie e lottano per innalzarsi al livello borghese, imitando le sue consuetudini e i suoi modi culturali.
Poi ci sono i gruppi religiosi con un senso di appartenenza ben definito, anche se in via di indebolimento, e ci
sono i potenti gruppi etnici che si comportano quasi come colonie culturali del Nuovo Mondo, abbarbicati
tenacemente alla lingua e alla tradizione storica benché la loro caratteristica di orda sia di solito fondata su
simboli culturali piuttosto che statuali. Ci sono anche alcuni vaghi raggruppamenti settoriali. Tutte queste
piccole sette, partiti politici, classi, livelli, interessi, possono agire come centri di attività e interesse per il
sentimento dell’orda. Si intersecano e si intrecciano, e la stessa persona può essere membro di diversi gruppi
differenti che si collocano su piani differenti. Occasioni differenti scateneranno il suo sentimento dell’orda in
una direzione o nell’altra. In una crisi religiosa sarà intensamente conscia della necessità che la sua setta (o
sotto-orda) prevalga, in una campagna politica, che il suo partito trionfi.
Alla diffusione del sentimento dell’orda, quindi, tutte queste orde più piccole offrono resistenza. Alla
diffusione di quel sentimento dell’orda che sorge dalla minaccia della guerra e che coinvolgerebbe
normalmente l’intera nazione, gli unici gruppi che fanno seria resistenza sono quelli, naturalmente, che
continuano a identificarsi con l’altra nazione da cui i componenti o i loro genitori sono venuti. In tempi di
pace essi sono sotto ogni aspetto pratico, cittadini del loro nuovo paese. Essi tengono vive le loro tradizioni
etniche più che altro come un lusso. Invero queste tradizioni tendono rapidamente a estinguersi tranne dove
sono in relazione con qualche causa nazionalistica ancora irrisolta all’estero, con qualche lotta per la libertà o
qualche irredentismo. Se sono consciamente contrastate da una politica troppo insopportabile di
americanismo, esse tendono a rafforzarsi. E in tempi di guerra, questi elementi etnici che hanno una
qualunque relazione tradizionale col nemico, anche se la maggior parte degli individui possono avere poca
reale simpatia per la causa del nemico, sono naturalmente tiepidi al sentimento dell’orda della nazione, che
rimonta alle tradizioni dello Stato a cui essi non partecipano. Ma per i nativi imbevuti di sentimento dello
Stato, una resistenza o un’apatia come questa sono intollerabili. Questo sentimento dell’orda, questa
coscienza nuovamente risvegliata dello Stato, richiede universalità. I capi delle classi importanti, che sentono
più intensamente questa costrizione dello Stato, richiedono un americanismo al cento per cento, tra il cento
per cento della popolazione. Lo Stato è un dio geloso che non tollera rivali. La sua sovranità deve pervadere
ciascuno, e ogni sentimento deve rientrare nelle forme stereotipate del militarismo patriottico e romantico
che è l’espressione tradizionale del sentimento dell’orda statuale.
Così sorge il conflitto all’interno dello Stato. La guerra diventa quasi uno sport tra cacciatori e prede.
La ricerca dei nemici interni supera per attrattiva psichica l’assalto ai nemici esterni. L’intera estrema forza
dello Stato è fatta pesare contro gli eretici. La nazione ribolle di una febbre lenta e insistente. Un terrorismo
bianco è portato avanti dal Governo contro pacifisti, socialisti, nemici esterni, insieme a una persecuzione

6
più dolce e non ufficiale contro tutte le persone o movimenti di cui si possa immaginare che abbiano rapporti
col nemico. La guerra, che dovrebbe essere la salute dello Stato, unifica tutti gli elementi borghesi e la gente
comune, e pone fuori legge il resto. Il proletariato rivoluzionario mostra più resistenza a questa unificazione,
è, come abbiamo visto, psichicamente fuori dalla corrente. La sua avanguardia, come l’IWW1, è perseguitata
senza rimorso, a dispetto della prova che è un sintomo e non la causa, e la sua persecuzione aumenta la
disaffezione del mondo del lavoro e intensifica la frizione invece di diminuirla.
Ma le emozioni che prendono alla leggera la difesa dello Stato non prendono in considerazioni i
risultati pragmatici. Una nazione in guerra, guidata dalle sue classi importanti, è impegnata a liberare alcuni
dei suoi impulsi che hanno avuto pochissimo esercizio in passato. Sta ricercando alcune soddisfazioni e la
presente conduzione della guerra o la condizione del paese sono in realtà accessorie al godimento di nuove
forme di virtù, potere e aggressività. Se potesse essere dimostrato conclusivamente che la persecuzione di
elementi leggermente disaffezionati incrementa effettivamente in modo significativo le difficoltà della
produzione e l’organizzazione della tecnica di guerra, si scoprirebbe che la politica pubblica cambierebbe
ben di poco. Le classi importanti devono trarre piacere nel dar la caccia e nel punire qualunque cosa sentano
istintivamente non essere penetrata dalla corrente dell’entusiasmo dello Stato, benché lo Stato stesso sia
effettivamente impedito nel suo sforzo di raggiungere quegli obiettivi per cui esse stanno appassionatamente
lottando. La miglior prova di ciò è il fatto che, con una ricerca di cospiratori che è continuata con vigilanza
incessante fin dall’inizio della guerra in Europa, i crimini concreti portati alla luce e puniti sono stati in
quantità minore di quelle accuse per meri crimini di opinione o per l’espressione di sentimenti critici verso lo
Stato o la politica nazionale. La punizione dell’opinione è stata molto più feroce e incessante della punizione
del crimine concreto. Irreprensibili americani anglosassoni, che erano più prodighi di sfoghi pacifisti o
socialisti dell’opinione pubblica dominante ossessionata dallo Stato, hanno ricevuto pene più severe ed anche
maggior riprovazione, in molti casi, di cospiratori tedeschi assolutamente ostili. Un’opinione pubblica che,
quasi senza protesta, accetta come giusta, adeguata, bella, meritata e in piena armonia con gli ideali di libertà
e libertà di parola, una condanna a vent’anni di prigione per un semplice sfogo verbale, non importa quale,
mostra di soffrire di un tipo di sconvolgimento sociale di valori, una specie di neurosi sociale, che merita
analisi e comprensione.
In occasione della nostra entrata in guerra, ci furono molte persone che predissero esattamente questo
sconvolgimento di valori, che espressero il timore che la democrazia soffrisse più a casa da una America in
guerra di quanto potesse essere guadagnato per la democrazia all’estero. Quel timore si è dimostrato
ampiamente giustificato. La domanda se la nazione americana avrebbe agito come una democrazia
illuminata che entrava in guerra per la difesa di ideali elevati, o come un’orda ossessionata dallo Stato, ha
avuto una risposta decisiva. Il responso è scritto e non può essere cancellato. La storia deciderà se la
terrorizzazione dell’opinione e l’irreggimentazione della vita fossero giustificate sotto la più idealistica delle
amministrazioni democratiche. E dimostrerà che quando la nazione americana aveva apparentemente
l’opportunità di condurre una guerra nobile, con scrupoloso riguardo per la sicurezza dei valori democratici a
casa, essa scelse piuttosto di adottare tutte le tecniche più odiose e coercitive del nemico e degli altri paesi in
guerra, e di rivaleggiare nell’intimidazione e nella ferocia della punizione con i peggiori sistemi governativi
dell’epoca. Per la sua precedente incoscienza e mancanza di rispetto dell’ideale dello Stato, la nazione
apparentemente pagò pegno con una violenta virata all’altro estremo. Agì tanto precisamente come un’orda
nella sua coercizione irrazionale delle minoranze, che non c’è alcuna artificialità nell’interpretare il
progresso della guerra in termini di psicologia dell’orda. Essa, inconsciamente, ha messo nel più ampio
risalto le vere caratteristiche dello Stato e la sua intima alleanza con la guerra. Ha fornito ai nemici della
guerra e ai critici dello Stato i più efficaci argomenti possibili. La nuova passione per l’ideale dello Stato,
inconsciamente, ha messo in movimento e ha incoraggiato forze che minacciano in modo molto concreto di
riformare lo Stato. Ha mostrato a coloro che sono realmente intenzionati a por fine alla guerra che il
problema non è quello puro e semplice di portare a termine la guerra che porrà fine alla guerra.
Perché la guerra è un modo complicato in cui una nazione agisce, e agisce così in conseguenza di un
obbligo spirituale che la spinge, forse contro tutti i suoi interessi, tutti i suoi desideri reali, e tutto il suo reale
senso dei valori. Sono gli Stati che fanno le guerre e non le Nazioni, e il pensiero stesso e quasi la necessità
della guerra è strettamente connesso con l’ideale dello Stato. Non le nazioni per secoli hanno fatto la guerra;
infatti l’unico esempio storico di guerre condotte dalle nazioni sono le grandi invasioni barbariche
dell’Europa meridionale, le invasioni della Russia dall’est, e forse il passaggio dell’Islam attraverso l’Africa
del nord in Europa dopo la morte di Maometto. E le motivazioni per queste guerre erano o l’espansione
senza sosta delle tribù migratorie o la fiamma del fanatismo religioso. Forse questi grandi movimenti non

1
L’Industrial Workers of the World, fondato nel 1905, è il sindacato della sinistra americana. (NdC.)

7
possono neanche essere chiamati guerre in quanto la guerra implica un popolo organizzato che sia addestrato
e guidato: infatti essa ha bisogno dello Stato. Fino a quando l’Europa non ha avuto una tale organizzazione,
questi vasti conflitti tra nazioni – nazioni, cioè, gruppi culturali – sono stati impensabili. Ipotizzare
l’esistenza, nell’Europa dei secoli passati, di un popolo che iniziasse en masse a combattere (con propri
leader e non con i leader del suo Stato debitamente costituito) e superasse i suoi confini in un’incursione
bellica su un popolo vicino, è semplicemente insensato. Le guerre degli eserciti rivoluzionari della Francia
erano chiaramente in difesa di una libertà messa a repentaglio e, per di più, erano chiaramente dirette non
contro altri popoli, ma contro i Governi autocratici che si stavano alleando per schiacciare la Rivoluzione.
Non c’è un esempio nella storia di una guerra autenticamente nazionale. Ci sono esempi di difese nazionali,
tra civiltà primitive come i popoli dei Balcani, contro invasioni intollerabili da parte di despoti vicini o
contro l’oppressione. Ma la guerra in quanto tale non può avvenire che in un sistema di Stati in concorrenza,
che hanno relazioni reciproche attraverso i canali della diplomazia.
La guerra è una funzione di questo sistema di Stati, e non potrebbe accadere se non in tale sistema.
Le nazioni organizzate per l’amministrazione interna, le nazioni organizzate come una federazione di
comunità libere, le nazioni organizzate in qualunque modo eccetto quello di una centralizzazione politica di
una dinastia, o dei discendenti di una dinastia che ha subito delle riforme, non avrebbero la possibilità di farsi
guerra l’una con l’altra. Esse non solo non avrebbero motivi di conflitto, ma non sarebbero in grado di
concentrare le forze per fare una guerra efficace. Ci potrebbe essere ogni sorta di dilettantesca scorreria, ci
potrebbero essere spedizioni di guerriglia di un gruppo contro un altro, ma non ci potrebbe essere quella
terribile guerra en masse dello Stato nazionale, quello sfruttamento della nazione nell’interesse dello Stato,
quell’abuso della vita e delle risorse nazionali nel convulso e reciproco suicidio che è la guerra moderna.
Non si può mai comprendere con sufficiente chiarezza che la guerra è una funzione degli Stati e non
delle nazioni, anzi che è la principale funzione degli Stati. La guerra è una cosa estremamente artificiale.
Non è lo scoppio ingenuo e spontaneo della bellicosità dell’orda; non è più primaria di quanto non sia la
religione formale. La guerra non può esistere senza un apparato militare, e un apparato militare non può
esistere senza l’organizzazione dello Stato. La guerra ha una tradizione e un’eredità di remotissima origine
solo perché lo Stato ha una tradizione e un’eredità lunghe. Ma essi sono inseparabilmente e funzionalmente
connessi. Noi non possiamo condurre una crociata contro la guerra senza condurla implicitamente contro lo
Stato. E non possiamo aspettarci o prendere misure per assicurarci che questa guerra sia la guerra che riesce
a por fine alla guerra, a meno che allo stesso tempo non prendiamo misure per por fine allo Stato nella sua
forma tradizionale. Lo Stato non è la nazione e lo Stato può essere modificato e perfino abolito nella sua
forma attuale, senza arrecar danno alla nazione. Al contrario, con la fine del dominio dello Stato, le forze
genuine che contribuiscono al miglioramento della vita della nazione saranno liberate. Se la principale
funzione dello Stato è la guerra, allora lo Stato deve suggere dalla nazione una vasta parte della sua energia
per i suoi scopi puramente sterili di difesa ed aggressione. Lo Stato si dedica a sprecare o a distruggere
concretamente quanto può della vitalità della nazione. Nessuno negherà che la guerra è un vasto complesso
di forze che distruggono o rovinano vite. Se la principale funzione dello Stato è la guerra, allora esso è
principalmente occupato a coordinare e sviluppare i poteri e le tecniche che sono adatti alla distruzione. E
questo significa non solo la effettiva e potenziale distruzione del nemico, ma anche della nazione nel suo
interno. Poiché la stessa esistenza di uno Stato in un sistema di Stati significa che la nazione soggiace sempre
al rischio della guerra e dell’invasione, e la mobilitazione dell’energia in imprese militari significa una
rovina dei processi produttivi e positivi della vita nazionale.
Tutta questa organizzazione di energia e tecnica mortifere non è naturale, ma è un processo molto
sofisticato. Particolarmente nelle nazioni moderne, ma anche attraverso tutto il corso della moderna storia
europea, non può mai esistere senza lo Stato. Poiché non risponde alle richieste di alcun’altra istituzioni, non
segue i desideri di alcun gruppo religioso, industriale, politico. Se la richiesta dell’organizzazione militare e
di un apparato militare sembra provenire non dai funzionari dello Stato ma dal pubblico, è solo perché
proviene da quella parte del pubblico che è ossessionata dallo Stato, da quei gruppi che sentono più
entusiasticamente l’ideale dello Stato. E in questo paese abbiamo avuto prova fin troppo indubitabile di
quanto possano essere privi di potere i funzionari dello Stato orientati alla pace di fronte all’ossessione dello
Stato delle classi importanti. Se un settore potente delle classi importanti sente più intensamente gli
atteggiamenti dello Stato, plasmerà più infallibilmente il Governo in accordo con i suoi desideri, lo
ricondurrà ad agire come la personificazione dello Stato che esso pretende di essere. In ogni paese abbiamo
visto gruppi che erano più realisti del re – più patriottici del Governo – come i sostenitori dell’Ulster in Gran
Bretagna, gli Junker in Prussia, L’Action Française in Francia, i nostri patriottardi in America. Questi gruppi
esistono per tener dritta la barra del timone dello Stato e impediscono alla nazione ogni scartamento
significativo dall’ideale dello Stato.

8
Il militarismo esprime i desideri e soddisfa l’impulso più importante solo di questa classe. Le altre
classi, lasciate a se stesse, hanno troppe necessità, interessi e ambizioni per occuparsi di un gioco così
costoso e distruttivo. Ma il gruppo ossessionato dallo Stato è in grado di ottenere il controllo della macchina
dello Stato oppure di intimidire coloro che ne hanno il controllo; e così, con l’uso della forza collettiva, è in
grado di irreggimentare le altre classi, riottose e riluttanti, in un programma militare. L’idealismo di Stato
filtra attraverso gli strati della società, cattura gruppi e individui esattamente in proporzione al prestigio di
questa classe dominante. Di modo che abbiamo l’orda realmente appesa tra due estremi, i patrioti militaristi a
un capo, che sono difficilmente distinguibili in atteggiamenti e animo dai più reazionari Borboni di un
Impero, e i gruppi del mondo del lavoro non qualificato, che mancano interamente del senso dello Stato. Ma
lo Stato agisce come un insieme e la classe che controlla la macchina del Governo può spostare l’azione
effettiva dell’orda come un insieme. L’orda non è effettivamente un intero da un punto di vista emozionale;
ma con un’ingegnosa miscela di inganno, agitazione, intimidazione, l’orda viene plasmata in una effettiva
unità meccanica se non in un insieme spirituale. Agli uomini viene detto simultaneamente che entreranno a
far parte dell’apparato militare di loro propria volontà come loro sublime sacrificio per il benessere dello loro
paese, e che se non lo faranno saranno braccati e puniti con le pene più orribili; e sotto la più indescrivibile
confusione di orgoglio democratico e timore personale si sottomettono alla distruzione del loro tenore di vita
se non delle loro vite in un modo che sarebbe sembrato loro in precedenza così offensivo da essere
incredibile.
In questa grande macchina dell’orda, il dissenso è come sabbia negli ingranaggi. L’ideale dello Stato
è in primo luogo una specie di cieca pulsione animale verso l’unità militare. Qualunque difformità da
quell’unità viene schiacciata con l’immenso impulso, rivolto per intero a questo scopo. Il dissenso è
rapidamente messo fuorilegge e il Governo, sostenuto dalle classi importanti e da coloro che in ogni località,
per quanto piccola, si identificano con esse, procede contro i fuorilegge, senza riguardo al loro valore per le
altre istituzioni della nazione o all’effetto che la loro persecuzione possa avere sull’opinione pubblica. L’orda
si divide tra cacciatori e prede, e l’impresa della guerra diventa non solo un gioco tecnico, ma anche uno
sport.
Non si deve mai dimenticare che le nazioni non si dichiarano guerra l’una l’altra, né in senso stretto
sono le nazioni che si combattono reciprocamente. Molto è stato detto sul fatto che le guerre moderne sono
guerre di popoli interi e non di dinastie. Perché l’intera nazione è irreggimentata e tutte le risorse del paese
sono mobilitate per la guerra, questo non significa che sia il paese in quanto paese a combattere. È il paese
organizzato in quanto Stato che combatte, e solo in quanto Stato può combattere. Così sono gli Stati
letteralmente che si fanno la guerra l’un l’altro e non i popoli. I governi sono gli agenti degli Stati, e sono i
governi che si dichiarano guerra l’un l’altro, agendo nel modo più autentico per conformarsi agli interessi del
grande ideale dello Stato che essi rappresentano. Non c’è caso conosciuto nei tempi moderni del popolo
consultato nell’inizio di una guerra. L’attuale richiesta di un “controllo democratico” della politica estera
indica quanto completamente, anche nelle più democratiche delle nazioni moderne, la politica estera sia stata
il possesso segreto e privato del ramo esecutivo del Governo.
Per quanto possano essere rappresentativi del popolo i Parlamenti e i Congressi in tutto quello che
riguarda l’amministrazione interna degli affari politici di un paese, nelle relazioni internazionali non è mai
stato possibile sostenere che il corpo popolare abbia agito se non come un ratificatore interamente meccanico
della volontà dell’esecutivo. La formalità con cui Parlamenti e Congressi dichiarano la guerra è il più
meramente tecnico degli accorgimenti. Prima che questa dichiarazione possa aver luogo, il paese sarà stato
condotto sull’orlo della guerra dalla politica estera dell’esecutivo. Una lunga serie di passi verso il baratro,
ciascuno dei quali impegna più fatalmente il paese ignaro a un corso di azioni bellicoso, sarà stata intrapresa
senza che il popolo o i suoi rappresentanti siano stati consultati o abbiano espresso il proprio sentimento.
Quando la dichiarazione di guerra è finalmente richiesta dall’esecutivo, il Parlamento o il Congresso non
potrebbero rifiutarla senza ribaltare il corso della storia, senza sconfessare ciò che ha rappresentato agli occhi
degli altri Stati come simbolo e interprete della volontà e dell’animo della nazione. Sconfessare un esecutivo
in quel momento sarebbe rendere pubblica al mondo intero la prova che il paese è stato grossolanamente
ingannato dal suo stesso Governo, che il paese, con una trascuratezza quasi criminale, aveva permesso al suo
Governo di impegnarlo a una gigantesca impresa nazionale per la quale non aveva il coraggio. In una crisi
come questa, perfino un Parlamento che negli Stati più democratici rappresenta l’uomo comune e non le
classi importanti che più fortemente amano l’ideale dello Stato sosterrà entusiasticamente la politica estera
che comprende anche meno di quanto gliene importerebbe se la capisse, e voterà quasi unanimemente per
una guerra dagli effetti incalcolabili in cui la nazione può essere condotta quasi alla rovina. […]
Tutto questo serve a dimostrare che lo Stato rappresenta tutte le forze autocratiche, arbitrarie,
coercitive, belligeranti entro un gruppo sociale: che è una sorta di compendio di tutto quello che c’è di più

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sgradevole per il moderno libero spirito creativo, per il sentimento della vita, della libertà, e della ricerca
della felicità. La guerra è la salute dello Stato. Solo quando lo Stato è in guerra la società moderna funziona
davvero con quell’unità di sentimento, quella semplice devozione patriottica priva di critica, quella
cooperazione di servizi, che sono sempre stati l’ideale degli adoratori dello Stato. Con i guasti delle idee
democratiche, tuttavia, la repubblica moderna non può andare alla guerra con le vecchie concezioni
dell’autocrazia e della belligeranza mortifera. Se una disposizione d’animo di successo per la guerra richiede
una rinascita degli ideali dello Stato, essi possono risorgere solo sotto forme democratiche, in questa
convinzione retrospettiva del controllo democratico della politica estera, del desiderio democratico della
guerra, e particolarmente di questa identificazione della democrazia con lo Stato. Tuttavia, quanto del
vecchio Stato possa sopravvivere in questa nuova concezione è indicato dalle leggi contro la sedizione e
dall’atteggiamento, immutato, del Governo in politica estera. Una delle prime richieste dei più lungimiranti
democratici nelle democrazie dell’Alleanza fu che la diplomazia segreta dovesse essere rigettata. Si pensava
che la guerra fosse stata provocata da una rete di accordi segreti tra Stati, alleanze che erano state fatte dai
governi senza l’ombra del sostegno popolare o persino della conoscenza da parte del popolo, e vaghi impegni
semi-espliciti che difficilmente avevano raggiunto il livello di un trattato o accordo ma che si erano rivelati
vincolanti alla fine. Certamente, dicevano questi pensatori democratici, la guerra può difficilmente essere
evitata, a meno che questo velenoso sistema sotterraneo di diplomazia segreta non sia distrutto, questo
sistema per mezzo del quale il potere, la ricchezza e le risorse umane di una nazione possono essere
consegnate come un assegno in bianco a una nazione alleata che lo potrà incassare in qualche crisi futura. Gli
accordi che possono provocare effetti sulle vite di interi popoli devono essere fatti tra popoli e non dai
governi, o almeno dai loro rappresentanti in modo assolutamente pubblico e aperto alle critiche.
[…]
L’ultima roccaforte del potere dello Stato è la politica estera. È in politica estera che lo Stato agisce
nel modo più rigoroso come l’orda organizzata, che agisce nel senso più pieno del suo potere aggressivo, che
agisce con l’arbitrarietà più libera. In politica estera lo Stato è veramente se stesso. Si può dire che gli Stati,
in riferimento l’uno all’altro, siano in un continuo stato di guerra latente. La “tregua armata”, una frase così
familiare prima del 1914, era una descrizione accurata della normale relazione tra gli Stati quando non sono
in guerra. Invero, non è esagerato dire che la normale relazione tra gli Stati sia la guerra. La diplomazia è una
guerra mascherata in cui gli Stati cercano di guadagnare con il baratto e l’intrigo, con l’astuzia degli ingegni,
gli obiettivi che dovrebbero conquistare più rudemente per mezzo della guerra. La diplomazia è impiegata
mentre gli stati stanno riprendendosi dai conflitti che li hanno resi esausti. È la blandizie e il
mercanteggiamento dei prepotenti di strada, sfiniti, che si rialzano da terra e lentamente recuperano le forze
per cominciare a combattere di nuovo. Se la diplomazia fosse stata un equivalente morale della guerra, un
livello più elevato nel progresso umano, un mezzo inestimabile per fare prevalere le parole sulle armi, il
militarismo sarebbe andato in frantumi e avrebbe lasciato spazio ad essa. Ma poiché è un semplice sostituto
temporaneo, una semplice parvenza dell’energia della guerra sotto un’altra forma, un effetto surrogato è
quasi esattamente proporzionato alla forza armata che vi sta dietro. Quando fallisce, è immediato il ricorso
alla tecnica militare di cui è stata il braccio appena velato. Una diplomazia che fosse l’agente delle forze
democratiche popolari nelle loro manifestazioni non statuali non sarebbe affatto una diplomazia. Non
sarebbe nulla di meglio delle commissioni Ferroviarie o Scolastiche che sono inviate da un paese all’altro
con propositi razionali e costruttivi. Lo Stato, agendo come un ideale diplomatico-militare, è eternamente in
guerra. Come deve agire arbitrariamente e autocraticamente in tempo di guerra, così deve agire in tempo di
pace in questo particolare ruolo in cui agisce come un’unità. Il controllo unificato è necessariamente un
controllo autocratico.
Il controllo democratico della politica estera è quindi una contraddizione in termini. La discussione
aperta distrugge rapidità e certezza dell’azione. Lo Stato gigante è paralizzato. Il presidente Wilson2
mantiene il suo pieno ideale dello Stato allo stesso tempo che desidera eliminare la guerra. Vorrebbe rendere
il mondo sicuro tanto per la democrazia quanto per la diplomazia. Quando le due cose sono in conflitto, il
suo acuto intuito politico, il suo idealismo dello Stato, gli dicono che sono i più ingenui valori democratici

2
Woodrow Wilson (1856-1924), Democratico, fu eletto presidente degli Stati Uniti nel 1912; di fronte allo scoppio
della Grande Guerra assunse una posizione di neutralità e di difesa dei diritti dei paesi neutrali, tentando sempre una
mediazione tra le potenze belligeranti. La neutralità gli fruttò la rielezione nel 1916. Dopo la ripresa della guerra
sottomarina da parte della Germania, Wilson decise l’entrata nel conflitto degli Stati Uniti, il 6 aprile 1917, mai
cessando però di perseguire il suo disegno di una pace duratura; le sue idee sul mondo del dopoguerra furono presentate
nei “Quattordici punti”, del gennaio 1918, che gli valsero il Premio Nobel per la Pace. Alla conferenza per la pace riuscì
a imporre la realizzazione della Società delle Nazioni, che però il Senato americano non ratificò. (NdC.)

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che devono essere sacrificati. Il mondo, come prima cosa, deve essere reso sicuro per la diplomazia. Lo Stato
non deve subire diminuzioni.
Che cos’è lo Stato essenzialmente? Più da vicino lo esaminiamo, più mistico e personale diventa. La
Nazione la possiamo toccare con mano come un determinato gruppo sociale con atteggiamenti e qualità
abbastanza precisi da significare qualcosa. Il Governo lo possiamo toccare con mano come una certa
organizzazione di funzioni di comando, la macchina che produce e fa eseguire le leggi. L’Amministrazione è
un gruppo riconoscibile di funzionari politici temporaneamente incaricati di governare. Ma lo Stato sta come
un’idea dietro tutte queste, eterno, santificato, e il Governo e l’Amministrazione credono di ricevere da esso
il soffio della vita. Anche la Nazione, specialmente in tempi di guerra – o almeno le sue classi importanti – è
convinta di derivare la sua autorità e il suo scopo dall’idea dello Stato. La linea che divide la Nazione e lo
Stato è sottile, e i fatti concreti, pratici ed evidenti sono sprofondati nel simbolo. Noi riveriamo non il nostro
paese, ma la bandiera. Possiamo criticare in modo molto severo il nostro paese, ma manchiamo di rispetto
alla bandiera a nostro pericolo. Sono la bandiera e l’uniforme che fanno battere forte il cuore degli uomini e
li riempiono di nobili emozioni, non il pensiero dell’America come nazione libera e illuminata e le pie
speranze di realizzare quest’idea.
Non si può dire che l’oggetto dell’emozione sia lo stesso perché la bandiera è il simbolo della
Nazione, di modo che riverendo la bandiera americana stiamo riverendo la Nazione: la bandiera non è un
simbolo del paese come gruppo culturale che segue certi ideali di vita, ma solamente un simbolo dello Stato
politico, inseparabile dal suo prestigio e dalla sua espansione. La bandiera è più intimamente legata alle
imprese militari, alla memoria militare. Rappresenta il paese non nella sua vita intensa, ma nella sua sfida
lanciata al mondo intero. La bandiera è in primo luogo l’insegna di guerra; è associata ad inni e feste
patriottiche. Richiama antiche memorie marziali. La storia patriottica di una Nazione è unicamente la storia
delle sue guerre, cioè dello Stato nel pieno della salute e dell’efficacia. Così, rispondendo all’appello della
bandiera, stiamo rispondendo all’appello dello Stato, al simbolo dell’orda organizzata come un corpo
offensivo e difensivo, conscio del suo valore e della sua mistica forza dell’orda.
[…]
La distinzione tra Governo e Stato, tuttavia, non è stata rispettata così attentamente. In tempo di
guerra è naturale che il Governo come sede dell’autorità debba essere confuso con lo Stato o la fonte mistica
dell’autorità. Non si può arrecar danno in modo efficace a quell’idea mistica che è lo Stato, ma si può
interferire molto efficacemente con i processi del Governo. Di modo che i due diventano identici nella mente
del popolo, ed ogni disprezzo o opposizione al funzionamento della macchina del Governo è considerato
equivalente al disprezzo per la sacralità dello Stato. Si sta arrecando danno allo Stato, così si sente, nel suo
fedele surrogato, e la pubblica emozione si raduna appassionatamente per difenderlo. Rende un crimine
perfino ogni critica della forma di Governo.
L’unione inestricabile del militarismo e dello Stato è efficacemente dimostrata da quelle leggi che
mettono in rilievo come il più colpevole dei crimini sediziosi l’interferenza con l’Esercito e la Marina.
Praticamente, un caso di sabotaggio capitalistico o uno sciopero nell’industria di guerra sembrerebbero
essere molto più pericolosi per la positiva prosecuzione della guerra degli sforzi isolati e inefficaci di un
individuo per impedire il reclutamento. Ma nella tradizione dell’ideale dello Stato questa interferenza
industriale con la politica nazionale non è identificata come un crimine contro lo Stato. Ci si può mugugnare
contro; può essere vista quasi razionalmente come un impedimento della più estrema gravità. Ma non è
avvertita in quegli oscuri recessi della mente dell’orda che stabiliscono l’identità del crimine e fissano le
punizioni in proporzione. L’Esercito e la Marina, tuttavia, sono le autentiche armi dello Stato; in esse scorre
la sua linfa vitale più preziosa. Paralizzarle è toccare la parte più intima dello Stato. E la maestà dello Stato è
così sacra che il semplice tentativo di ottenere questa paralisi è un crimine uguale a un colpo andato a segno.
La volontà è considerata sufficiente. Anche se l’individuo nel suo sforzo di impedire il reclutamento dovesse
fallire completamente e penosamente, egli non sarà in alcun modo risparmiato. Che la collera dello Stato
scenda su di lui per la sua empietà! Anche se egli non tenta una azione aperta, ma esprime semplicemente
sentimenti che possano incidentalmente nel modo più indiretto spingere qualcuno a evitare di arruolarsi, egli
è colpevole. I guardiani dello Stato non domandano se un qualunque effetto pratico è derivato da questa
cattiva volontà o desiderio. È abbastanza che la volontà sia presente. Quindici o venti anni in prigione non
sono considerati troppi per un tale sacrilegio.
Questi atteggiamenti e queste leggi, che offendono ogni principio della ragione umana, non sono
accidentali né sono il risultato dell’isteria causata dalla guerra. Sono considerati giusti, corretti, belli da tutte
le classi che posseggono l’ideale dello Stato, e esprimono solamente una situazione estrema di salute e vigore
nella reazione dello Stato a coloro che non gli sono amici.

11
È inevitabile che questi atteggiamenti sorgano nei devoti dello Stato. Poiché lo Stato è un simbolo
tanto personale quanto mistico, e può essere compreso solamente tracciandone l’origine storica. Lo Stato
moderno non è il prodotto razionale e intelligente del desiderio degli uomini moderni di vivere
armoniosamente insieme nella sicurezza della vita, della proprietà e dell’opinione. Non è un’organizzazione
che sia stata concepita come mezzo pratico per un fine sociale desiderato. Tutto l’idealismo con cui siamo
stati educati a dotare lo Stato è il frutto delle nostre immaginazioni retrospettive. Ciò che esso fa per noi nel
campo della sicurezza e dei benefici della vita lo fa incidentalmente come un sottoprodotto e uno sviluppo
delle sue funzioni originali, e non perché a un dato momento gli uomini o le classi nel pieno possesso del
loro intuito e della loro intelligenza abbiano desiderato che così fosse. È molto importante che di tanto in
tanto solleviamo il velo incorreggibile di questo idealismo ex post facto col quale stendiamo un’aura di
razionalizzazione sulla realtà, fingendo, nel trasporto della presunzione sociale, di aver personalmente
inventato e istituito per la gloria di Dio e dell’uomo le vetuste istituzioni che vediamo attorno a noi. Le cose
sono ciò che sono, e ci arrivano con tutte le loro spesse incrostazioni di errore e malevolenza. La filosofia
politica può deliziarci con la fantasia e convincere noi, che abbiamo bisogno di illusioni per vivere, che
l’attuale sia una copia bella e somigliante – piena di difetti, naturalmente, ma approssimativamente ben fatta
e fedele – di quella società ideale che ci possiamo immaginare di star creando. Da qui solo un altro passo ci
separa dall’assunzione tacita che abbiamo messo in qualche modo mano alla sua creazione e siamo
responsabili per la sua conservazione e santità.
Nulla è più ovvio, tuttavia, del fatto che ciascuno di noi entra nella società come in qualcosa alla cui
creazione non ha messo minimamente mano. Non abbiamo neppure il vantaggio, come quelle piccole anime
non nate in The Blue Bird, di una condizione di coscienza prima di intraprendere le nostre carriere sulla terra.
Quando ci ritroviamo qui, siamo presi in una rete di costumi e atteggiamenti, le direzioni più importanti dei
nostri desideri ed interessi sono state impresse nelle nostre menti, e quando siamo usciti dalla tutela e
abbiamo raggiunto l’età del discernimento e potremmo ragionevolmente esercitare la nostra influenza nel
ridefinire le istituzioni sociali, la maggior parte di noi sono stati così plasmati nella società e nella classe in
cui viviamo che siamo difficilmente consapevoli di qualunque distinzione tra noi come individui che
formulano giudizi e esprimono desideri e il nostro ambiente sociale. Siamo stati plasmati con tale successo
che approviamo ciò che la nostra società approva, desideriamo ciò che la nostra società desidera, e
aggiungiamo al gruppo la nostra appassionata inerzia contro il cambiamento, contro lo sforzo della ragione e
l’avventura della bellezza.
Ciascuno di noi, senza eccezione, è nato in una società che è un dato, proprio come la fauna e la flora
del nostro ambiente sono dati. La società e le sue istituzioni sono, per l’individuo che vi entra, fenomeni
tanto naturali quanto il tempo stesso. Non vi è, perciò, alcuna santità naturale nello Stato più di quanta ve ne
sia nel tempo. Possiamo inchinarci al suo cospetto, come i nostri antenati si inchinavano al cospetto del sole
e della luna, ma è solamente perché qualcosa di non spiritualmente rigenerato in noi trova soddisfazione in
tale atteggiamento, non perché ci sia qualcosa di intrinsecamente degno di reverenza nell’istituzione adorata.
Una volta che lo Stato ha cominciato a funzionare, e una vasta classe trova il suo interesse e la sua
espressione di potere nel mantenimento dello Stato, questa classe dominante può imporre obbedienza ad ogni
minoranza priva di interesse. Lo Stato diventa così uno strumento col quale un potere dell’intera orda è usato
per il beneficio di una classe. I governanti imparano presto a capitalizzare la reverenza che lo Stato produce
nella maggioranza e la volgono in una resistenza generale contro una diminuzione dei loro privilegi. La
santità dello Stato viene a identificarsi con la santità della classe dominante, e a quest’ultima è permesso di
rimanere al potere sotto l’impressione che nell’obbedirla e servirla stiamo obbedendo e servendo la società,
la nazione, la grande collettività che tutti ci comprende.

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