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A chi spetta una buona vita? di Judith Butler è per noi un testo speciale, nato da una
collaborazione tra la nostra redazione ed edizioni nottetempo, dopo che nel
settembre del 2012 abbiamo dato spazio alla risposta di Butler alle accuse di
antisemitismo che le sono state rivolte prima della consegna del Premio Adorno.
Questo incontro tematico e culturale sarà il punto di partenza dal quale, nei prossimi mesi,
daremo spazio, insieme ad altri testi, ad alcuni dei saggi e romanzi di Nottetempo
all’interno della nostra variegata Piccola Biblioteca delle Scienze Umane e cercheremo di
costruire progetti che facciano crescere ulteriormente questa collaborazione che siamo
estremamente orgogliosi di lanciare oggi con la nota introduttiva con cui Nottetempo
accompagna l’importante riflessione di Judith Butler.
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Che cos’è una “vita buona”? E una “vita cattiva”? Come dare forma a una vita buona
quando si vive nella vulnerabilità di una vita cattiva? In che modo la rivendicazione del
diritto a una vita buona può mettere in discussione le forme di potere contemporaneo che
organizzano le vite umane? A queste domande Judith Butler ha provato a rispondere in
occasione del conferimento del Premio Adorno, consegnatole a Francoforte nel settembre
del 2012, e preceduto da polemiche e attacchi feroci riguardanti uno dei fronti sui quali
l’autrice è maggiormente impegnata (l’occupazione israeliana della Palestina), a cui ha
risposto con il secondo dei testi pubblicati in questo libro, che è nato in collaborazione con il
blog il lavoro culturale.
Nelle riflessioni di Butler, l’interrogativo politico-morale del come condurre una vita
buona solleva la questione piú ampia del “che cos’è la vita” negli ordinamenti politici del
mondo contemporaneo; inoltre, chiedersi come condurre una vita buona significa
riconoscere il limite dell’idea stessa del “condurre una vita”, dato che non tutti i processi
vitali sono sotto il controllo di chi si interroga su come condurre quella stessa vita. È in
questa tensione tra vitale e morale che Butler sviluppa la sua riflessione sul rapporto tra il
concetto di biopolitica teorizzato da Michel Foucault (un insieme di operazioni, tecniche,
logiche di governo e regolazione politica delle vite) e la questione morale posta da Adorno:
“Che cos’è una vita vera?”
La questione che Butler pone consiste proprio nel domandarsi come, da un lato, in una
condizione di vita già abbandonata alla morte, sia possibile formulare e costruire
un’irruzione politica e una pratica di resistenza; dall’altro, quali attenzioni siano richieste a
chi ha a cuore la questione della “vita buona” al fine di riconoscere queste pratiche. Come
si può sfuggire al manifestarsi della propria “dispensabilità” e all’incrinarsi di quella
condizione fondamentale del vivere sociale e dell’agire politico – cosí come li intende Butler
– che si trova nell’“ indispensabilità” di tutte le vite? Come contrastare la cronicizzazione
della precarietà che ormai sembra essere normalizzata dalle forme contemporanee di
organizzazione del politico? Come fare della critica all’ordine biopolitico una “questione
vivente”?
Butler prova a fare un passo avanti rispetto all’analisi di Foucault e alle teorie del potere
biopolitico. In un regime biopolitico, in cui a corpi diversi si attribuiscono valori diversi,
chiedersi “come si sta vivendo” la propria vita significa rivelare il meccanismo di
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funzionamento di quel regime, poiché attraverso tale questione si riconosce proprio la
dispensabilità o indispensabilità della propria vita. Interrogarsi sulla vita del proprio corpo (e
di quello altrui) significa dunque porsi un interrogativo su come funziona il campo del
(bio)politico, e porre le basi per una critica della ragione che regola questo campo.
Là dove i corpi sono gli oggetti del controllo politico, entrano nella sfera dell’atto politico
anche i gesti e le performance corporee con cui le persone esprimono un’opposizione, un
rifiuto della propria dispensabilità o una forma di solidarietà – pure nelle condizioni in cui
ogni solidarietà sembrerebbe impraticabile. Questo è ciò che Butler chiama democrazia
percepibile. Se la biopolitica può essere compresa (con Foucault) solo tramite
un’analisi microfisica del potere, le forme percepibili di insorgenza e rifiuto della
disuguaglianza vanno riconosciute e indagate tramite una microfisica della resistenza, in
tutte le forme corporee che questa resistenza assume. Sembra essere proprio questo il
cuore della proposta critica di Butler.
Note
[1] Qui di seguito i link ad alcuni dei testi più importanti pubblicati da nottetempo sulla
questione palestinese:
http://www.edizioninottetempo.it/catalogo/i-sassi/israelepalestina-la-retorica-della-
coesistenza/;
http://www.edizioninottetempo.it/catalogo/il-minore-dei-mali-possibili/;
http://www.edizioninottetempo.it/catalogo/restare-sulla-montagna/;
http://www.edizioninottetempo.it/catalogo/viaggio-in-palestina/;
http://www.edizioninottetempo.it/catalogo/il-mio-diritto-al-ritorno/
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