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Marco Scataglini

DAL MIGNONE ALLA FIORA

SCT

Copyright Marco Scataglini 2013.


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www.dalmignoneallafiora.com

INTRODUZIONE
UNA STORIA SCRITTA NELLA PIETRA
CAP. 1 - LA VIA CLODIA
La valle del Mignone a Rota (Tolfa
La necropoli di Monte Acqua Tosta (Tolfa)
Il bosco delle Tufarelle e i ruderi di Tolfa Nuova (Allumiere)
La via Clodia a Vetralla
Monte Romano e Luni
Norchia (Viterbo)
Grotta Bandita e Capanna di Sasso a Tuscania
La Solfatara sul Marta (Tuscania )
La via Clodia tra Tuscania e Canino
Parco del Timone e Pianiano (Cellere )
La Selva del Lamone (Farnese )
Laltipiano della Galeazza a Farnese: un Sacro Bosco dimenticato
La Capitale scomparsa (Ischia di Castro)
Eremi del Fiora e insediamento di Chiusa San Salvatore (Ischia di Castro )
Laltare rupestre delle sorgenti della Nova
Il Morranaccio (Pitigliano)
Roccaccia di Montauto (Manciano, GR)
Castellaccio del Pelagone (Manciano, GR)
Cerchio di pietre di Poggio Rota (Pitigliano, GR )
CAP. 2 - IL LAGO DI BOLSENA
Le citt sommerse (Bolsena e Capodimonte
La Cassia Antica tra Bolsena e Montefiascone
La Val di Lago (San Lorenzo Nuovo)
Bisenzio e la sua isola
L'isola di Amalasunta (Marta)
Il Lago di Mezzano (Valentano)
Torre Alfina (Acquapendente
Il settore umbro dell'Alfina (Orvieto)
I Calanchi di Civita
CAP. 3 - VITERBO E I MONTI CIMINI
Macchia del Conte (Viterbo)
La montagna di Viterbo
Colle di Montecchio a Bagnaia (Viterbo)
La ruota del Ciciliano (Viterbo)
Monte Fogliano e romitorio di San Girolamo (Vetralla
Il Monte Cimino
Il Barco Farnesiano di Caprarola
La Selva di Malano (Soriano)
Corviano (Soriano al Cimino)
Castello di Luco e Valle Oscura (Soriano
Il Sasso Quadro (Bassano in Teverina)
La Piramide etrusca, Colle Casale e la Tagliata delle Rocchette (Bomarzo e Soriano)
Bosco del Serraglio e Monte Casoli (Bomarzo)
Il convento Fortificato di Santa Maria in Volturno (Viterbo)
Acquarossa (Viterbo)
Grotte Santo Stefano (Viterbo)
La Cappadocia della Tuscia (Vallerano)

CAP. 4 - LAGER FALISCUS E LA VIA AMERINA


Lago Vadimone (Orte) Chiesa rupestre di San Silvestro (Vasanello)
Corchiano, terra falisca
Torre della Selva di Mezzo (Corchiano
Il Cavo degli Zucchi (Civita Castellana)
Isola Conversina (Civita Castellana)
Eremo di San Selmo (Civita Castellana)
La forra del Rio Maggiore e la via Cava Fantibassi (Civita Castellana)
La via Flaminia antica a Civita Castellana
Pizzo Iella (Castel SantElia)
Castelli tra Calcata e Faleria
I castelli del Fosso Cerreto (Castel SantElia)
La patria di Orlando (Sutri e dintorni)

INTRODUZIONE
In circolazione ci sono numerose guide (ben fatte) dedicate all'escursionismo, anche in terra di Tuscia. E d'altra parte esistono anche ottime guide turistiche per scoprire le localit pi note e attrezzate,
con tanto di indirizzi utili e riferimenti per ristoranti e hotel. Tutte cose che non troverete nel libro che avete tra le mani. Nell'era di Internet, occorrono pochi minuti per scovare un hotel o un
agriturismo (e fare una prenotazione in tempo reale) dove lo si desidera o identificare un ristorante consigliato, e magari si possono consultare vari forum online per sapere se qualcuno li ha gi
sperimentati, e com' stata l'esperienza. Inoltre, questa guida non si rivolge agli escursionisti duri e puri, quelli cio che tendono a misurare la validit di una gita sulla base di chilometri percorsi,
dislivelli superati, ore di cammino. In questo libro troverete le schede di numerose localit interessanti (certo non di tutte quelle esistenti!); molte di loro possono essere legate insieme per creare
itinerari pi lunghi, anche di pi giorni. Di ogni localit troverete una descrizione e l'itinerario di visita: quasi mai si tratta per di vere e proprie escursioni. Nel senso che i dislivelli di rado sono
importanti, e i tempi di percorrenza si mantengono in genere intorno a una o due ore, sebbene ve ne siano alcune che richiedono un impegno fisico non indifferente. Ovviamente, questi tempi fanno
riferimento al puro e semplice andare e tornare da un sito: se siete come me, l'esplorazione di un luogo richieder poi molto, molto tempo (se poi ci mettiamo anche una sosta pranzo sdraiati sul
prato...). Ognuno pu regolarsi come vuole, naturalmente. Nonostante quanto appena detto, non dimenticate mai di attrezzarvi con un buon paio di scarpe, meglio se pedule da escursionismo, o
anche stivali di gomma, quando si ha a che fare con guadi e tratti fangosi. E' altres importante sottolineare che in genere i percorsi che descrivo non sono veri sentieri (tipo quelli del CAI), e il pi delle
volte non sono segnalati, o lo sono in modo approssimativo (per questo a volte mi dilungo in noiose ma necessarie descrizioni, a base di destra-sinistra-destra...); pu capitare (anzi, capita spesso)
che sia necessario passare all'interno di propriet private o attraversare aree coltivate: inutile sottolineare che, come si suol dire, il nostro comportamento decider l'accoglienza che ricever chi verr
dopo di noi! I cancelli per il bestiame trovati chiusi vanno sempre richiusi; mai e poi mai abbandonare rifiuti o danneggiare coltivazioni; evitare accuratamente atteggiamenti aggressivi o strafottenti con i
proprietari dei terreni: cattura pi mosche una goccia di miele che un litro di fiele! Perci, siate gentili, sorridenti e cordiali e non troverete ostacoli insormontabili. Visto che ci troviamo a bassa quota,
su tragitti spesso non segnalati e in aree coltivate, ovvio che alcuni itinerari possano diventare (momentaneamente o definitivamente) impraticabili. Inoltre, l'attivit venatoria che vede come vittima
predestinata il cinghiale molto diffusa nella Tuscia (da novembre a gennaio, in genere): alcune zone durante le battute vengono chiuse e comunque (credetemi!) trovarsi in mezzo a una cacciarella
potrebbe essere rischioso e traumatico. Non c' modo di sapere quando prevista una simile eventualit, dunque o vi informate sui giorni di chiusura della caccia (nel Lazio attualmente i giorni di
silenzio venatorio sono il marted e il venerd) oppure, in caso, cambiate destinazione, con molta pazienza. Un percorso alternativo non troppo lontano si trova facilmente, e in questo volume ce ne
sono diversi. Ci vuole un po' di filosofia. E' bene evitare, infine, almeno per la gran parte degli itinerari, la stagione estiva, quando il caldo, gli insetti pungenti, la vegetazione sembrano volerci boicottare
a ogni passo. L'inverno la stagione ideale nella Tuscia (a prescindere dalla stagione venatoria aperta!), che non mai troppo fredda o piovosa. Altrimenti scegliete il tardo autunno e la primavera
precoce, e non ve ne pentirete. Allora, fatte le raccomandazioni di rito, non mi resta che augurarvi buon viaggio!

UNA STORIA SCRITTA NELLA PIETRA


Poche zone dItalia sono caratterizzate in modo cos forte dal rapporto tra luomo e la pietra come la Tuscia. Grazie alla natura geologica del territorio, infatti, da sempre luomo ha abitato non solo in
case fatte di pietra, ma anche dentro la pietra, attraverso lo scavo di innumerevoli abitazioni ipogee. Lo studio dei cunicoli degli acquedotti ha permesso di fare notevoli passi avanti nella
comprensione delle tecniche costruttive delle architetture negative. In genere, si cominciava a scavare dallesterno verso linterno, dallalto a destra per ricavare il cielo del cunicolo (o dellambiente
ipogeo), per poi svuotare la parte a sinistra, eliminando infine la parte residua centrale; si rifiniva poi il tutto utilizzando gli strumenti non pi di punta ma, come si dice in termine tecnico, di penna, cio
lateralmente. Tali strumenti andavano dalla gravina (una sorta di piccone a forma di zappa) al martello, passando per il cuneo, lo scalpello, la pala e ovviamente diversi contenitori per lasportazione
delle scorie. Tra gli attrezzi pi utilizzati vanno annoverati il malimpeggio (o male peggio o anche upupa, visto che la sua forma ricorda la testa di questo uccello) e la mazza, da utilizzare in unione con
strumenti come gli scalpelli e i cunei, oltre al cosiddetto piccone da tufo (a due punte), impiegato sino a tempi relativamente recenti (prima met del XX secolo) per lavorare appunto la tenera roccia
vulcanica. Per la rifinitura e la lisciatura delle pareti si ricorreva allascia (se ne conoscono varie tipologie) utilizzata parallelamente alla parete, cio, come detto, di penna; stesso uso poteva avere il
malimpeggio, che uno strumento tuttora utilizzato da scalpellini e muratori. Lultima lavorazione era costituita (ma solo per gli ambienti pi pregiati) dalla lisciatura o raschiatura, per la quale si
poteva ricorrere appunto a raschiatoi o anche a veri e propri materiali abrasivi. Lo studio delle tracce di lavorazione ancora visibili negli ambienti ipogei (e che possono dare utili indicazioni per la
datazione e per definire il contesto culturale del sito) reso molto complicato dal fatto che molte di queste strutture sono state utilizzate per secoli, se non per millenni. Tombe etrusche e falische sono
magari state ampliate e modificate prima in epoca romana, poi trasformate in abitazioni durante il Medioevo, per divenire poi stalle o magazzini in epoca moderna: alcuni ambienti ipogei sono ancora
oggi sfruttati in ambito agricolo, magari come riparo per trattori e attrezzi. Ogni volta che cambiava la destinazione duso, potevano esserci modifiche anche importanti, fatte ricorrendo a strumenti via
via differenti (e anche con capacit tecniche degli operatori di livello assai diverso). Ciononostante, i ricercatori hanno fatto grandi progressi, riuscendo a identificare alcune specifiche tipologie sulla
base della pianta, delle caratteristiche architettoniche e soprattutto della tessitura, cio dellinsieme delle impronte e delle tracce presenti, dalle quali si pu comprendere se si tratta di una lavorazione
omogenea (dunque di alta qualit), disordinata (in genere relativa ad ambienti destinati a silos o magazzini) o anche di una rilavorazione successiva. E ovviamente unanalisi complessa che tiene conto
della scheggiatura e del cratere (quindi dei distacchi consistenti di schegge lapidee), dellincisione dovuta a strumenti a lama, cos come dei solchi e delle scanalature; di ognuna di queste impronte, si
analizza poi lorigine, cio il punto in cui lattrezzo ha iniziato a intaccare la roccia, e il termine (quando loperatore solleva lattrezzo), cos come lintervallo tra le varie tracce (detto modulo), la
direzione e il verso, la profondit (quindi anche la forza dellimpatto), il profilo della traccia e la sua larghezza. Insomma, occorre grande spirito di osservazione, capacit di analisi e, naturalmente, la
possibilit di studiare ambienti che non siano troppo erosi o addirittura crollati. Lanalisi delle tracce di scavo, rivela pure quali e quanti attrezzi siano stati utilizzati, a volte anche quanti operai hanno
provveduto allopera, e anche se queste tracce siano o meno state lasciate come elemento decorativo; inoltre pu fornire utili elementi per la datazione, il pi delle volte fatta per confronto con siti
simili dei quali sia nota la datazione grazie a elementi rinvenuti durante scavi o per documenti darchivio, o anche per casi fortuiti, come a Norchia, dove una muratura chiaramente riferibile al XII
secolo (quando papa Adriano IV fece riedificare il castello) ha ostruito alcuni ambienti ipogei, permettendone la datazione di questi ultimi ad un periodo ovviamente precedente. Quanto tempo
potevano impiegare gli uomini del Medioevo a scavare un ambiente ipogeo, per cos dire, standard? Difficile stabilirlo con precisione, anche perch ci sono molti fattori di cui tener conto: secondo
alcuni ricercatori, la media giornaliera potrebbe attestarsi intorno agli otto metri cubi cavati grazie al lavoro di due maestri scalpellini esperti; in otto-dieci giorni sarebbe stato possibile ottenere un
ambiente pronto per essere rifinito e abitato. Il tutto dipendeva anche dalla durezza della roccia, che nellarea della Tuscia costituita principalmente dal tufo, una roccia vulcanica relativamente tenera,
e che ha la capacit, una volta scavata, di indurirsi al contatto con laria. Ideale dunque, per essere lavorata in negativo (laddove ad esempio il peperino, una ignimbrite molto pi consistente, si presta
meglio allarchitettura in positivo, come dimostra il fatto che gran parte della citt di Viterbo sia stata edificata con questa pietra). Il tufo inoltre un buon isolante termico ed impermeabile,
consentendo di realizzare ambienti asciutti e facilmente riscaldabili con un focolare. Il grado di consistenza (e la grana) di questa pietra varia molto, e spesso si incontrano strati di diversa consistenza
nella stessa parete rocciosa: gli scalpellini pi esperti sapevano sfruttare questa situazione scavando gli ambienti nella parte pi tenera e lasciando per il soffitto lo strato pi consistente! Gi gli Etruschi
sapevano sfruttare questa tecnica, come messo in evidenza dagli archeologi a Norchia, dove la stessa conformazione della necropoli risente della diversa durezza delle rocce presenti in zona. Visitare
con occhio attento un ambiente rupestre fornisce dunque molti spunti utili a interpretare la funzione dei diversi ambienti e i modi di vita degli abitanti originari. Una serie di buchi regolari o scanalature a
non grande altezza dal pavimento, ad esempio, testimonia la presenza di giacigli (o lettiere) realizzati inserendo dei pali in tali fori, in modo da mantenere il letto rialzato da terra; fori simili potevano
anche essere sfruttati per sistemare piani da lavoro o mensole; fori passanti, detti attaccaglie, erano utilizzati per legare gli animali e dunque sono in genere presenti in quelle che erano le stalle
dellabitazione. Tra gli elementi di arredo pi comuni ci sono le nicchie, da quelle piccole destinate alle lanterne per la notte, a quelle pi ampie per gli oggetti di uso quotidiano, sino ai nicchioni, che

venivano suddivisi con piani di legno (tipo libreria), come dimostrano le apposite scanalature (in diversi eremi o monasteri rupestri tali nicchie potevano ospitare davvero dei libri, liturgici o comunque
di tipo sacro). Canalette di scolo e grondaie scavate nella roccia servivano a regimentare il flusso delle acque di stillicidio o, in alcuni casi, le acque di piccole sorgenti intercettate durante lo scavo
(come a dire: si poteva avere lacqua in casa anche allora!). Importante era poi lo spazio destinato al focolare, che serviva per cucinare e scaldare gli ambienti; ne sono rimaste poche tracce (in genere
le canne fumarie o i fori per la fuoriuscita del fumo), perch rimossi durante gli utilizzi posteriori degli ambienti, ma anche perch spesso erano semplicemente degli spazi ricavati nei pressi della porta
di ingresso, da cui fuoriusciva il fumo. Gli ambienti pi rifiniti presentano anche finestre con gli stipiti ben lavorati e anche pozzi granari chiusi da tombini, dove collocare le derrate durante la stagione
avversa, o anche cardini e fori dove inserire le travi di chiusura delle porte, in modo da isolare gli ambienti e avere, come si direbbe oggi, un po di privacy

CAP. 1 - LA VIA CLODIA


L'Italia, specialmente quella centrale, ricca di strade romane cosiddette minori: si tratta in buona parte di lunghi diverticoli, di raccordi, di collegamenti tra ville rustiche e centri abitati, e cos via. Di
molte di queste strade si parla poco e, a parte gli archeologi, non molti conoscono la loro esistenza. I turisti e i viaggiatori (anche quelli del passato, quelli che giungevano in Italia sulle orme del Grand
Tour) si interessano piuttosto delle grandi e famose vie Consolari, a cominciare dalla Regina Viarum, la Via Appia, o anche alla via Aurelia, alla Cassia, alla Flaminia, con i loro basoli ancora in vista,
i monumenti funebri, le localit attraversate cariche di storia e suggestione, le stazioni di posta... Ci sono per due vere e importanti eccezioni: la via Amerina (di cui parleremo nellultimo capitolo) e
soprattutto la via Clodia. La ricerca del suo tracciato e della sua memoria ha interessato studiosi e profani, viaggiatori inglesi, tedeschi, francesi, appassionati di ogni genere. La via Clodia si
addentrava nelle campagne dell'Etruria appena conquistata dai Romani, e fu realizzata in gran parte sfruttando tragitti, sentieri e strade preesistenti, a volte con ben pochi adattamenti. Non doveva
dimostrare potenza e si attardava a collegare piccoli centri agricoli, ville campestri, luoghi produttivi. Si staccava dalla Cassia appena fuori lUrbe e raggiungeva Saturnia, per congiungersi poi con
lAurelia verso Ansedonia. Insomma, non sembrerebbe una di quelle strade in grado di attirare la curiosit dei viaggiatori, se si escludono alcuni centri importanti lungo il suo tragitto, come Norchia o
Tuscania. Dunque, perch la via Clodia non rimasta materia per eruditi e ricercatori appassionati? Probabilmente perch, a differenza di molte altre strade romane, attraversava ambienti in grado di
colpire l'immaginazione, piuttosto che stimolare soltanto l'erudizione. La via Clodia connetteva alcuni dei luoghi pi fascinosi ed enigmatici dell'Etruria interna, rimasti per secoli, anzi millenni,
praticamente intatti, solitari, suggestivi, in una parola: sublimi, e quindi assolutamente irresistibili per l'animo romantico dei viaggiatori del passato (e del XIX secolo soprattutto)! Sono loro, con i loro
acquerelli, i loro resoconti di viaggio, le loro fotografie, ad aver creato il mito della Clodia (il cui tracciato tuttora incerto subito oltre Tuscania) diffondendo l'immagine (veritiera) di una strada che si
inoltra in territori in grado di stupire e lasciare senza fiato. Alcuni secoli dopo, nonostante le inevitabili modifiche dovute al progresso e alla crescita della popolazione, il fascino della Clodia ancora
intatto. E', dunque, l'immaginazione la vera chiave di volta che mantiene in vita il mito di questa strada. Ed all'immaginazione che occorre ricorrere per promuovere e farla scoprire anche a coloro che
sinora l'hanno ignorata. Turisti e moderni viaggiatori possono ancora trovare nella via Clodia una fonte di inesauribile meraviglia, perch i territori che essa attraversa rimandano sempre ad un enigma
non chiarito, che bene rimanga cos, nonostante il progredire degli studi e delle scoperte archeologiche. Il patrimonio costituito da questa rete di strade (perch la Clodia incredibilmente ricca di
deviazioni, che fanno accapigliare gli studiosi da decenni) costituisce una patrimonio (archeologico e naturalistico) di primaria importanza per la Tuscia, che non si pu e non si deve rischiare di
perdere, ma che anzi va conservata, recuperata e resa fruibile.

La valle del Mignone a Rota (Tolfa ) Larea di Tolfa era connessa alla via Clodia da diversi diverticoli e strade secondarie a testimoniare limportanza dei colli vulcanici che caratterizzano
questa parte del Lazio. La presenza di sorgenti termali (a Stigliano, ad esempio) e di notevoli giacimenti di metalli strategici, daltra parte, ne facevano un comprensorio da millenni frequentato
dagli uomini, a cominciare dal Neolitico, se non prima. Numerose necropoli e insediamenti su colli dalle pareti strapiombanti (le cosiddette castelline) sono appunto la prova di questa antica
frequentazione. Il sito di San Pietrino, dirimpetto a borgo di Rota, stato scoperto nel 1985, in seguito a una segnalazione, e scavato qualche anno dopo. E costituito da una sorta di dado tufaceo,
dal vertice pianeggiante e le pareti verticali, alla cui base sorge un terrazzo che affaccia sulla valle del Mignone nei pressi della confluenza del fosso Virginiese. Un luogo solitario e verdissimo oggi
come migliaia di anni fa. Lo scavo dellinsediamento neolitico sorto sul suddetto terrazzo roccioso, ha fornito la prova che gli uomini stanziati qui erano principalmente allevatori e pastori (si sono
trovati i resti di 6 specie animali domestiche, con bovini, caprini, suini, oltre a cavalli, asini e il nostro fedele amico di sempre, il cane), ma alloccorrenza praticavano la caccia nei fitti boschi dei

dintorni, e le specie catturate sono quelle ancora in gran parte presenti sui monti della Tolfa: istrici, caprioli, volpi, cervi, tassi, oltre a testuggini terrestri e varie specie di uccelli. Sul vertice della rupe, si
trova invece una necropoli altomedievale, con numerose tombe a fossa. Nonostante la vegetazione, sono ancora facilmente identificabili, e costituiscono la meta di una breve ma intensa passeggiata.
Da Tolfa si imbocca la sp3/a sino ad arrivare al borgo di Rota. Si supera il ponte sul fosso Virginese e si parcheggia poco pi avanti, in corrispondenza di un bivio a sinistra, su cui si prosegue a piedi.
La strada sterrata supera il Mignone su un grande ponte: poco oltre si va a destra su una strada fangosa in salita, chiusa da una recinzione. Quando questa curva a sinistra, si stacca sempre a destra
una traccia che in breve arriva ai piedi della rupe di San Pietrino. Per salirvi, occorre costeggiarla verso sinistra sino a trovare uno spigolo che consente, anche grazie a delle tacche che vi sono incise,
di arrampicarsi. La salita brevissima, ma ripida e potenzialmente pericolosa: evitare i giorni di pioggia, cos come la stagione di massima vitalit della vegetazione. Arrivati in cima, si vedranno,
scavate nella viva roccia, le tombe. Magnifica la vista sulla valle e su Rota (attenzione al bordo della rupe!). Il borgo di Rota merita una visita ( propriet privata: occorre chiedere il permesso).
Proseguendo sulla provinciale per 4 chilometri, si entra nella Riserva Naturale Monterano, incontrando sulla sinistra la necropoli etrusca dei Grottini, con diverse tombe discretamente conservate (il
percorso di visita attrezzato). Poco pi avanti il bivio per le terme di Stigliano.

La necropoli di Monte Acqua Tosta (Tolfa) Il monte Acqua Tosta una modesta collina collocata sulla strada che da Tolfa porta verso Santa Severa. E ricoperto da una macchia
boscata molto interessante, soprattutto in primavera, quando il sottobosco si riempie di vaste fioriture. Verso la cima (a tratti panoramica verso il mare, quando le fronde degli alberi non chiudono lo
sguardo) si incontra una necropoli arcaica con diverse tombe, di cui si vedono solo i basamenti, collocati su tumuli di terra. Non sono certamente grandi e importanti monumenti archeologici, ma il
fatto di trovarci in uno degli angoli pi tranquilli e solitari della Tolfa, la bellezza della vegetazione e la facilit della passeggiata, rendono questa collina una meta valida per un giro rilassante o per
completare una giornata trascorsa nella natura. Da Tolfa si prende la provinciale 3/b che porta verso Santa Severa (ovviamente il percorso pu essere raggiunto anche partendo dal mare). Allaltezza
del km 13,800 si trova un bivio a sinistra per la strada Nocchia-S. Ansino, che si imbocca con prudenza. Il fondo asfaltato, ma molto malridotto. Dopo circa un chilometro si passa larea di monte
Castagno, un colle dove nel Medioevo sorse un castello (in unarea di antica frequentazione etrusca) e nominato per la prima volta in un documento del 1334: due secoli dopo er per gi ridotto a
semplice tenuta agricola. Oggi non restano che pochissimi ruderi, difficilmente interpretabili. Dopo altri quattro chilometri circa (e dopo aver passato un tratto di strada franato), quando la strada inizia
a scendere con pi decisione verso la costa (notevole il panorama!), si trova a destra, parzialmente nascosta dalla vegetazione, una casermetta forestale. Si parcheggia e si supera un cancello, per
poi costeggiare la recinzione sulla destra (tenendo sullaltro lato la casermetta, quindi), risalendo la collina. Si raggiunge cos una radura, da attraversare tenendosi sotto una linea dellalta tensione, per
rientrare nel bosco lungo una ben evidente traccia ed evitando di seguire la strada sterrata che piega verso i colli circostanti. Occorre tenere come riferimento la vetta: in breve si incontrano le prime
tombe, di cui obiettivamente rimane poco. Si pu passeggiare liberamente, prima di rientrare per la stessa strada dellandata (in tutto circa 30-40 minuti).

Il bosco delle Tufarelle e i ruderi di Tolfa Nuova (Allumiere) Sui monti della Tolfa non si incontrano aree archeologiche spettacolari o ambienti del tutto selvaggi. Qui tutto in
qualche modo addomesticato e umile, sia la natura che le testimonianze del passato. Eppure, ci sono pochi posti nel Lazio (e direi in tutta Italia) in cui sia pi evidente quanto uomo e natura possano
fare, insieme, per creare un ecosistema sostenibile e ricco di fascino, e questo nonostante negli ultimi anni siano cominciati a emergere i primi problemi, le prime incrinature. Per secoli, anzi per millenni,
luomo ha vissuto tra i boschi e i pascoli della Tolfa: ecco perch i boschi alto fusto sono molto rari su queste colline, ammantate di macchia e ceduo, dove nidificano specie rare di uccelli rapaci e
trovano rifugio animali oramai scomparsi altrove. Ci sono per delle eccezioni, come ad esempio il faggeto di Allumiere (un ambiente, per, praticamente suburbano) e ancor pi il bosco delle
Tufarelle, uno degli ultimi scampoli della vegetazione boschiva originaria. Ma anche in questo luogo suggestivo, con i suoi carpini contorti, le roverelle, le farnie, i cerri, i cespugli e le erbee, gli anemoni
e le orchidee, si trovano le tracce delluomo: non di quello moderno, che continua ad allevarvi le vacche maremmane dalle ampie corna, ma di quello preistorico, proto-villanoviano come direbbero gli
esperti, che vi ha lasciato le tracce delle proprie capanne (che si possono riconoscere nei grandi cerchi di pietre che ne costituivano le basi), e soprattutto una necropoli interamente scavata nella
roccia. Daltra parte, questo sito aveva una valenza strategica notevole, se non venne mai abbandonato ma anzi frequentato anche in epoca romana e poi nel medioevo, come dimostrano i resti di una
villa rustica e dellabitato altomedievale di Tolfa Nova, che fino alla definitiva distruzione, rappresent il centro abitato pi importante dei Monti della Tolfa, con possedimenti che arrivarono a
estendersi dal Mignone sino a Santa Severa. Fondata nel IX secolo, Tolfa Nova condivideva con Tolfa Vecchia (lunica sopravvissuta, sebbene fosse meno popolata e meno potente) non solo il
nome, ma anche lesser stata edificata sulla cima di una collina appuntita, pressoch imprendibile ed estremamente panoramica. Dalla torre ottagonale della Rocca si poteva dominare gran parte di
questo angolo di Tuscia, e anche un tratto di costa, rendendo Tolfa Nova un avamposto di notevole importanza, passato varie volte di mano e infine distrutta dallesercito pontificio nel corso della
guerra che opponeva Eugenio IV ai Colonna. Quel che rimaneva dellabitato fu restituito agli Orsini, nel 1471, da papa Sisto IV, ma gi qualche anno dopo si parla solo di tenuta, essendo oramai
definitivamente abbandonato il borgo. Oggi larea archeologica, immersa in un fitto bosco, costituisce una meta di primordine per chiunque apprezzi le suggestioni dei luoghi romantici in cui natura e
storia si fondono armoniosamente. Inserito nel progetto Archeodromo del comune di Allumiere, il sito per oggi visitabile con qualche difficolt per le condizioni di abbandono in cui versano i
sentieri. Per fortuna il percorso molto breve e, con un po di pazienza, la visita possibile e molto raccomandabile. Il punto di partenza per questo itinerario, come per quello successivo alle
Tufarelle, il fontanile ai piedi del monte Tolfaccia, chiamato la Fontanaccia, che si raggiunge dalla strada Civitavecchia-Tolfa voltando al bivio per la Bianca (a destra provenendo dal mare) e, subito
dopo, prendendo il bivio a destra e percorrendolo per circa 5 km. Si parcheggia nei pressi del fontanile e si imbocca la traccia di sentiero che risale la collina, in molti punti coperta dalla macchia
(attenzione ai rovi), che inizia di fronte, e che costeggia una recinzione con filo spinato. Ci si tiene accanto a questultima per un centinaio di metri, poi conviene buttarsi sulla destra, sempre per tracce,
in direzione di un soprastante pianoro dove si incontrano radi bolli rossi che conducono, in breve, allantico abitato di Tolfa Nuova, perso tra gli alberi: restano in piedi diverse murature pertinenti a
edifici di abitazione e i ruderi di una chiesa recentemente scavata. Seguendo il filo dei ruderi, ci si avvicina alla parte pi alta della rupe, tenendo la sinistra, in modo da costeggiare una parete di
roccia, in salita, e raggiungere cos i resti della rocca. Immersi nella macchia, i resti pi importanti sono quelli della chiesa e di un antico forno, poco pi avanti, realizzato allinterno di un vallo scavato
nella viva roccia. Numerosi ruderi sono sparsi qua e l, e meritano di essere scoperti e visitati con calma. Il ritorno avviene per la stessa strada (in tutto, andata e ritorno, circa 1-1,30 ore). Raggiunto
nuovamente il fontanile, si continua sulla strada asfaltata (a sinistra avremo i ruderi di una villa romana), sino a un bivio, dove si va a sinistra. Poco dopo lasfalto termina, nei pressi di alcune casette
etrusche (volendo si pu arrivare in auto sin qui): si continua ora sulla sterrata (tralasciare strada a destra), che passa accanto ad un altro rudere romano. Si supera un cancello, si costeggiano alcuni
recinti per il bestiame e, superato un fontanile allinterno di questi ultimi, si piega a sinistra in discesa. Da questo punto inizia un lungo tragitto, piuttosto ripido (e faticoso al ritorno), che raggiunge
dapprima una collina, poi scende ancora sino a raggiungere il fondovalle. Si supera un torrentello (in genere asciutto) e si entra in un ampio recinto per il bestiame, dove si volta nettamente a destra,
lungo la traccia che passa un cancello, scavalca il torrente, e poi costeggia una recinzione con tabelle numerate (postazioni di caccia). Un varco nella recinzione costituisce larrivo del percorso di
ritorno. Si continua a camminare tra la recinzione e il torrente sinch la strada scende a guadare questultimo: la si abbandona e si rimane al di qua, voltando a gomito alla nostra destra, entrando nel
bosco delle Tufarelle. Il sottobosco ricoperto da innumerevoli massi, alcuni dei quali, disposti in cerchio, rivelano di esser stati utilizzati nel Neolitico come basi per capanne. La stradina sale sino a
raggiungere un fontanile in disuso. Poco prima, a destra, una recinzione protegge uninteressante area archeologica, con diverse sepolture villanoviane. Si prosegue ancora sullampia traccia sterrata, in
ambiente di notevole bellezza, specialmente in autunno e primavera, e si incontra a destra una traccia in discesa che costeggia una linea elettrica ad alta tensione, e che riporta al varco nella recinzione
vista allandata. Prima, per, conviene proseguire ancora avanti, attraversando una zona dove sono diversi resti antichi, sino a un altro fontanile asciutto, gemello del precedente. Da questo si continua
ancora un poco avanti, mantenendosi sulla traccia di sinistra, e poi si entra, ancora una volta per tracce, nel bosco. Con un po di attenzione e pazienza, si possono identificare tre sepolture scavate nel
sottobosco e sistemate con diverse pietre di grandi dimensioni (andata e ritorno, compresa la deviazione appena descritta, circa 2,30-3,00 ore).

La via Clodia a Vetralla Un tumulo di ben 28 metri di diametro, col tamburo modanato e ampi ambienti interni riutilizzati nel corso dei secoli, la cosiddetta Grande Ruota (o Castelluzza per la
sua somiglianza a una fortificazione medievale), insieme a unarea sacra con un altare rupestre (del diametro di quasi 6 metri e ampie tracce di decorazioni a rilievo rappresentanti animali e sacerdoti),
unico in tutta lEtruria, e ai resti di un complesso templare del II-II sec. a.C, caratterizzano uno dei siti pi straordinari della provincia viterbese, Grotta Porcina. Si tratta della necropoli appartenuta a
un piccolo insediamento etrusco (che dovette essere per controllato da una potente famiglia gentilizia), sorto nel VI secolo a.C. e trovatosi sul tracciato della Clodia in et Romana, nel punto in cui
questa prende la direzione di Norchia. Lambito dal fosso Grignano, il sito di Grotta Porcina (il cui nome fa riferimento al tipo di allevamento praticato nei dintorni sin dallepoca medievale) si raggiunge

dalla statale Aurelia bis: da Monte Romano si va verso Vetralla sino ad un bivio al km 23.300. Si volta a destra poi, dopo poco pi di un chilometro ci si tiene a sinistra; da Vetralla, si deve invece
girare a sinistra sulla strada per la frazione Dogane al km 26,500, voltando poi a destra al bivio successivo. In entrambi i casi, percorso circa un chilometro della strada campestre asfaltata, si trova un
bivio (a destra venendo da Monte Romano, a sinistra venendo da Vetralla) con un cartello poco visibile che indica la direzione per larea archeologica. La strada, sterrata ma discreta, raggiunge un
ampio slargo (tralasciare i bivi), dove si parcheggia. A piedi si procede brevemente scendendo in una piccola tagliata che conduce nellampio pianoro erboso dove sono i monumenti.
Non lontano si trova unaltra interessante necropoli, quella del Cerracchio, purtroppo decisamente malmessa. La facile erodibilit delle rocce tufacee ha reso difficilmente interpretabili le comunque
numerose tracce presenti, pertinenti a un piccolo insediamento rurale del VI-V secolo a.C. La necropoli si trova ora a diretto contatto (ma a un diverso livello) con la statale Aurelia bis, che ricalca
comunque una strada pi antica, come dimostrano diverse tagliate viarie e un cunicolo di drenaggio, oltre ai resti di diverse murature di sostegno. A parte il rumore delle auto e dei camion di
passaggio, per, la necropoli del Cerracchio merita comunque una visita, sebbene solo una tomba a camera sia davvero visibile senza difficolt. La strada di accesso si stacca allaltezza del km 24,00
della statale, a ridosso del tratto che passa allinterno di una tagliata (la strada sulla sinistra subito dopo questultima provenendo da Vetralla, al contrario provenendo da Monte Romano). Si
parcheggia quasi subito e si prosegue a piedi sulla sterrata che scende in una piccola tagliata, per sbucare in un pianoro coltivato (tabella esplicativa della Soprintendenza). Si va dapprima a destra,
costeggiando la rupe, dove si intravedono diversi ambienti, tra cui uno molto ampio trasformato in magazzino agricolo, oramai inutilizzato (altri ambiento del genere sono al di l del corso del fosso Rio
Secco, in una propriet non accessibile), e vicino una parete con traccia di finta porta col profilo a becco di civetta. Tornati indietro, si va a sinistra passando accanto al ponte moderno della ss 1 bis e
si segue la rupe sul cui vertice passa la strada moderna. Qui, organizzati in due nuclei, si aprono diverse tombe, nicchie e tracce di modanature, ampiamente nascosti dalla vegetazione (meglio andarci
in inverno!). Continuando a passeggiare lungo la rupe, si incontra una tomba a camera ancora in discreto stato di conservazione e una nicchia votiva con con finta porta degli inferi. In tutto occorre
meno di mezzora.

Monte Romano e Luni sul Mignone Nel 1881 tracciando le antiche vie del territorio di Bieda abbiamo riscontrato un diverticolo, che si diparte dalla Clodia all'antico ponte sul fosso di
Petriolo e dopo aver percorso un breve tratto della riva destra del Biedano e passato questo due volte, come lo attestano gli avanzi dei ponti ed i pochi tratti selciati, si dirigeva a manca nel fitto dei
boschi e precisamente da quel punto, ove il fosso di Grignano entra nel Biedano []. La nostra via lascia a sinistra l'altura della Rotonda, la quale fu giustamente designata dal Kiepert come localit
antica. Consiste in una spianata artificiale sul punto pi elevato del poggio, ridotta a tal forma mediante un grande riporto di terra e di sassi.... (Angiolo Pasqui da Forma Italiae Etruria e la Sabina
1881-1897). Questo passo ci ricorda come Monte Romano sia stato anticamente connesso con la via Clodia da una parte e la via Aurelia dallaltra grazie a un lungo e importante diverticolo che
passava pi o meno dove oggi si trova labitato moderno (di origini in gran parte settecentesche), proprio ai piedi del colle della Rotonda, riconoscibile per un gruppo di querce secolari che cresce sul
vertice (motivo per cui viene anche detto la ciuffa). Il toponimo deriverebbe dal fatto che tale boschetto delimita un'area grosso modo circolare, la cui forma non in realt casuale. Qui infatti
sorgeva l'Arx Montis Romani, un centro fortificato abbandonato intorno al XIV-XV secolo, e di cui sino a XVIII secolo dovevano esistere ruderi ben visibili. L'attivit di spoglio, legata anche alla
nascita del nuovo centro moderno, ha fatto quasi del tutto sparire le testimonianze architettoniche, ad eccezione di alcuni tratti di mura, ancora ben leggibili lungo il margine del pianoro (occupato in
gran parte dai massi di crollo, accumulati in modo da creare una sorta di recinto, forse un grande stazzo), ai piedi delle enormi querce secolari. Secondo la studiosa Maria Gabriella Scapaticci Perfetti,
che ha curato gli scavi che hanno preceduto la sistemazione dell'area a parco pubblico (i terreni appartengono all'Universit Agraria di Monte Romano), al di sotto dell'attuale livello medievale
potrebbero trovarsi le testimonianze di un precedente insediamento altomedievale, forse Mons Gosberti, la cui identificazione certa potrebbe avvenire solo con ulteriori e pi approfonditi scavi
(Archeologia Medievale, 2000). All'insediamento apparteneva la chiesa di Santa Maria di Monte Romano, di cui si hanno notizie a partire dal XIV secolo, una delle cosiddette chiese perdute
dell'antica diocesi di Toscanella. Al sito si arriva facilmente se dalla piazza centrale di Monte Romano, dov il Comune, si volta a destra su via Guglielmo Marconi e si continua sulla strada (che poi
diventa sterrata) che passa a mezza costa del colle. Dopo meno di un chilometro, si prende il bivio a sinistra, contraddistinto da una cabina del metano, e si segue la strada, in netta salita, sino allo
slargo antistante l'area attrezzata. Percorrendo il perimetro esterno del parco possibile notare con chiarezza la presenza dei muri antichi. Un interessante percorso collega inoltre Monte Romano
allabitato di Luni, che si trova in uno dei tratti pi belli della Valle del Mignone, laddove il torrente Vesca si congiunge con quest'ultimo fiume, creando cos uno sperone di roccia naturalmente difeso
da alte pareti di roccia. I paesaggi sono verdissimi e grandiosi, numerosi rapaci volano in alto, e fioriture di ogni specie colorano i prati in primavera. Il sito archeologico, scavato dallAccademia
Svedese negli anni '60, conserva testimonianze italiche ed etrusche, ma anche medievali visto che vi sorse uno dei castelli collegati a Viterbo. Di quest'ultimo rimangono tratti di mura, le fondazioni di
una chiesa e numerose, e suggestive, case-grotte scavate nella rupe tufacea. Per raggiungere Luni si possono utilizzare diversi percorsi: il pi semplice e diretto quello che segue la ferrovia
abbandonata. Se si ha fretta, in circa tre quarti d'ora si pu in questo modo arrivare alla rupe dove si trova lantico abitato. Da Monte Romano si segue la strada per Blera sino quasi alla stazione
abbandonata di Civitella Cesi. Lo stesso punto ovviamente raggiungibile anche da Blera. Poco prima (venendo da Monte Romano) della stazione, si stacca a destra una sterrata dal fondo piuttosto
sconnesso che si addentra tra i campi, supera la massicciata della ferrovia (che in questo punto pu anche essere imboccata per ridurre ulteriormente il tragitto: il fondo per molto sassoso) e
prosegue ancora parallela a quest'ultima. Tralasciare diversi bivi a destra sino ad arrivare, dopo circa 3 chilometri, a un trivio. Qui conviene lasciare l'auto. Si volta a destra (anche in auto, se si vuole
parcheggiare direttamente sul tracciato) e raggiunta la massicciata della ferrovia, oggi trasformata in comoda strada sterrata (in teoria percorribile in auto, ma solo se non ha piovuto di recente). Il
percorso attraversa una galleria (dal fondo in cemento e abbastanza breve, non indispensabile una torcia) e raggiunge il ponte ferroviario sul Mignone. Questo stesso punto raggiungibile
direttamente da Monte Romano attraverso il percorso che raggiunge lantica Mola. A differenza di quello precedente, questo itinerario , dal punto di vista naturalistico e paesaggistico, pi
interessante e spettacolare, anche se oggettivamente pi lungo e faticoso (dislivello di circa 200 m, lunghezza totale intorno ai 14 km a/r). Occorre tenere conto del fatto che non esistono sentieri,
sebbene grazie allorografia il tragitto sia sempre intuitivo. Lungo il percorso si attraversa la necropoli di Monte Fortino, dove si conserva la notevole Tomba delle Cariatidi, esplorata negli anni 60 da
archeologi svedesi, ed oggi persa tra fitti boschi, in ambiente che definire suggestivo davvero troppo poco.
Da Monte Romano si raggiunge il bivio per la Rotonda descritto precedentemente e si continua sulla strada principale: fatti circa 600 m si vedr a destra il fontanile Paoloroma. Un chilometro pi
avanti, una strada si stacca a destra (la si riconosce dalle altre perch prosegue sul fianco di una collina); la si pu seguire anche in auto fino a un cancello (1 chilometro) o, meglio, iniziare a piedi da
qui allungando la passeggiata. Superato il cancello (oltre il quale vige il divieto di circolazione con mezzi a motore non autorizzati), si continua lungamente (pi o meno un paio di chilometri) sulla
sterrata che offre da subito belle viste panoramiche sui Monti della Tolfa con ben visibile la mole del Casalone, e poi inizia a scendere, in modo via via pi marcato, verso la sottostante valle del
Mignone, che avremo bene in vista davanti a noi. A un bivio si tiene la sinistra, poi si entra in un bel bosco di roverelle che si percorre sin quando la strada spiana e rivela, a sinistra, una diga realizzata
in pietra e una gora (canale), che conduce alla Mola di Monte Romano, ai cui ruderi si arriva in breve. La Mola in discreto stato di conservazione, grazie al fatto che rimasta in uso sino a tempi
relativamente recenti. Da questo punto occorre seguire la valle del Mignone tenendo il corso dacqua alla nostra destra (sinistra orografica): per farlo pi comodamente, conviene tornare brevemente
indietro sino a un bivio contrassegnato da un grosso masso e girare a destra (sinistra arrivando), costeggiando un muretto a secco. La strada supera un torrentello normalmente asciutto, poi prosegue
tra boschi e pascoli raggiungendo in breve tempo un ampio prato chiuso tra il Mignone e il fosso di Canino. Quello che avremo di fronte Monte Fortino, di cui dobbiamo percorrere la cresta. Si
guada facilmente il fosso e per tracce si sale sul colle, poi si va verso sinistra per circa un centinaio di metri. Prestando attenzione, si noter che le rocce sul vertice presentano chiari segni di lavorazioni
umane: la necropoli di Monte Fortino. Le tombe pi facilmente avvistabili sono tre (due oramai completamente franate), la cui bocca si apre verso di noi se solo ci teniamo pi verso sinistra.
Prendendo come riferimento lo spigolo della parete dove si trovano le due tombe crollate e andando verso sinistra, in breve si noter, sulla parete che d sul fosso Canino, la Tomba delle Cariatidi,
caratterizzata da una finta porta scolpita nella viva roccia e da un ambiente piccolo, ma impreziosito da colonnine ed altri elementi architettonici che, nonostante i crolli, sono ancora perfettamente
visibili. Continuando sulla cresta, conviene, appena possibile, scendere verso le rive del fosso puntando a sinistra, guadare il piccolo corso dacqua e seguire la sterrata che si trova al di l sino a
sbucare nei pressi della stazione diruta di Monte Romano. Da qui si va a destra in direzione del ponte in ferro della ferrovia. Proprio allinizio del ponte ferroviario, di fronte un vecchio serbatoio
dellacqua, inizia la rupe di Luni, che occorre risalire grazie a gradini scavati nella roccia e a una scala metallica. In breve si alla capanna del capo, risalente allet del Bronzo, e ai resti del villaggio,
coperto da una tettoia. Proseguendo sul sentiero, si raggiunge laltipiano, dove sono molti altri resti, non sempre ben visibili, Il panorama per magnifico. Allestremit opposta del pianoro si

possono rinvenire i resti della fortificazione medievale (piccoli tratti di mura). Poco prima, scendendo sulla sinistra per una piccola tagliata, possibile visitare alcune case-grotte, scavate nella viva
roccia. Da sottolineare la bellezza naturalistica del sito, oltre a quella archeologica (andata e ritorno circa 3,30 ore).

Norchia (Viterbo) - Norchia nota principalmente come sito etrusco, piuttosto che come insediamento medievale (detto il Castellaccio di Norchia o, anticamente, Orcla). Sorge in un luogo
solitario e selvaggio, in epoca romana connesso alla via Clodia, lungo le forre scavate dal fosso Pile e dal torrente Biedano. In epoca etrusca vi venne realizzata una grandiosa necropoli con tombe
monumentali a dado tra le meglio conservate della Tuscia. Tra le testimonianze archeologiche pi singolari vanno certamente ricordate le tombe doriche: nonostante lusura del tempo e lincuria degli
uomini (soprattutto contemporanei), si riconoscono ancora le decorazioni a rilievo di due frontoni delle sepolture, che dovevano farle somigliare a piccoli templi. Il sito medievale di Orcla appare per
la prima volta in un documento del Regesto Farfense del 775 secondo il quale l'insediamento sorgeva al confine fra la Tuscia romana e quella Longobarda. Per la sua posizione strategica Norchia sub
numerosi assedi e distruzioni. Riedificata nel 1364, appare nel XV secolo gi pressoch abbandonata. Quel poco che rimaneva del burgum, venne devastato e saccheggiato nel 1431 da Giacomo di
Vico. Incamerata definitivamente nel Patrimonio, ne venne distrutta la rocca, cercando cos di diminuire il fenomeno del brigantaggio... scrive Simonetta Conti. Dalla met del XV secolo di Orcla si
perdono le tracce. A ridosso del XIX secolo, per, il sito diviene mta di amanti delle antichit etrusche, sino a rappresentare uno dei simboli stessi del paesaggio etrusco: le alte rupi a picco sui
torrenti, le tombe monumentali scavate nella viva roccia, la folta vegetazione, i ruderi del castello a guardia di tutto questo meraviglioso paesaggio, hanno contribuito a far crescere la fama di Norchia.
Il pianoro di Norchia ha la forma di una clessidra, con due aree pi ampie raccordate da una strettoia: in questo punto sorgeva il castello, alle cui spalle si svilupp linsediamento medievale, la cui
testimonianza pi spettacolare data dai resti della chiesa di San Pietro. Attualmente delledificio sacro rimane in piedi solo la parte absidale mentre nulla pi visibile della facciata. La chiesa venne
edificata su una necropoli rupestre costituita da tombe a loggetta antropomorfe, scavata negli anni 70 dalla Raspi Serra, e successivamente ricoperta. Nella rupe sotto la chiesa, e lungo gran parte
delle pareti di questo settore del pianoro, sono presenti numerosi ambienti ipogei, utilizzati come abitazioni, stalle o laboratori artigiani (in alcuni casi sino a tempi molto recenti, data anche la vocazione
pastorale del territorio). Purtroppo i crolli stanno lentamente ma inesorabilmente cancellando queste emozionanti testimonianze della citt medievale. Un gruppo di quattro grotte, collegate tra loro,
raggiungibile scendendo con la massima prudenza, e grazie a tracce nella macchia, partendo dallo spigolo Nord del rudere di San Pietro che da sulla forra: si trattava, probabilmente, di un
insediamento monastico, successivamente riutilizzato come stalla, come sembra suggerire la presenza di mangiatoie e attaccaglie per legare gli animali. Non lontano si trovava anche un colombario, in
buona parte franato. Sulla parete Est si incontrano numerosi altri ambienti, difficilmente raggiungibili, tra cui si distingue una grotta con 12 nicchie collocate al livello del piano di calpestio, di probabile
origine romana e funzione sepolcrale. Il tratto di pianoro a sud del castello, coperto di macchia e pascoli, conserva molte meno testimonianze archeologiche, sebbene alla sua estremit sia possibile
ammirare un grande vallo etrusco, a cui si scende grazie a una piccola tagliata. All'area archeologica si arriva dalla ss 1 bis, tra Monte Romano e Vetralla: un bivio segnalato (a met strada, circa 8
km, da entrambi i centri abitati) conduce in breve al parcheggio, da dove si deve proseguire a piedi. Sin da subito appare la mole dei ruderi del castello, poi si inizia a scendere nella grandiosa
necropoli etrusca. Raggiunto il torrente, un ponticello consente di passare sull'altra riva, dove il sentiero prosegue sino al sito medievale. Oltre alle mura delle fortificazioni, rimangono importanti ruderi
della chiesa di San Pietro, che ricorda -nelle forme sebbene non nelle dimensioni- la sua omonima di Tuscania. Grandioso il panorama e l'atmosfera. Riscendendo verso valle passando la porta da cui
transitava la via Clodia (o un suo diverticolo), subito dietro la chiesa, si pu guadare il Biedano (nella stagione secca) e trovare le tracce che conducono alla cosiddetta Cava Buia, una via cava di
straordinaria suggestione (a volte l'accesso pu essere chiuso in quanto si trova a ridosso del poligono militare di Monte Romano). Se si supera la chiesa di San Pietro, si raggiunge una delle porte
dellabitato medievale: da qui una traccia scende tra i massi franati (c un passaggio difficile a cui occorre prestare attenzione) sino alle rive del Biedano, non lontano dai resti, non sempre ben visibili)
dellantico ponte viario. Guadato il torrente (cosa fattibile con facilit solo nei periodi di secca) e risalita la sponda opposta, un po intuitivamente, si trova laccesso alla via cava detta Cava Buia, che
risale in direzione del pianoro del Poligono di Monte Romano. Il percorso di raro fascino, per le altissime pareti (sino a 20 metri) e per il fatto che in alcuni punti la strada si stringe sino a divenire un
vero budello che si insinua nella rupe. Nella stagione estiva (o in autunno utilizzando stivali di gomma) pu essere molto piacevole entrare nel torrente allestremit della rupe di Norchia e risalirlo sino
a trovare il ponte (molto pi visibile da questa prospettiva) e poi risalire la via cava.

Grotta Bandita e Capanna di Sasso a Tuscania Come riportato da Stefano Del Lungo (Toponomastica archeologica della provincia di Viterbo), la fantasia popolare si applicata
molto ai colombari, soprattutto a quelli che si rinvengono isolati in aree di campagna. Queste grotte scavate nella viva roccia e le cui pareti appaiono interamente coperte di piccole nicchie (in genere
rettangolari, ma a volte triangolari) secondo gli archeologi possono rappresentare sepolture di epoca romana (le nicchie servivano a collocare le urne con le ceneri dei defunti) o, pi comunemente, il
riutilizzo di antiche sepolture per lallevamento dei piccioni che, in epoca medievale, costituivano unimportante risorsa economica. A volte difficile distinguere le due funzioni, soprattutto quando gli
ambienti sono molto degradati. Ad ogni modo, secondo la tradizione popolare, i colombari erano in realt il rifugio di briganti e malfattori (o, a volte, di ordini religiosi femminili dediti alleremitaggio),
che avrebbero realizzato le cellette per collocarvi i propri beni personali, un po come avviene oggi nelle hall degli alberghi! Questa credenza giustifica anche il nome dato agli insediamenti che
avrebbero ospitato i malviventi e dove questi ultimi avrebbero nascosto i propri ricchi bottini, invariabilmente cercati e mai trovati dai soliti cacciatori di tesori- come appunto il caso di Grotta
Bandita, un piccolo insediamento rupestre collocato allestremit dellaltipiano del Quarticciolo (sul cui vertice sorgeva un abitato etrusco), a dominio della valle del Marta, in un angolo di campagna di
grande fascino paesaggistico. Nato probabilmente come necropoli e riutilizzato nei secoli successivi, trovandosi sulla direttrice stradale che portava da un lato allabbazia di San Giusto e dallaltra
verso la via Clodia, presenta diverse grotte scavate sullo strapiombo tufaceo (orientato verso sud ovest), in cui, secondo la Quilici Gigli, si possono riconoscere le tracce della funzione sepolcrale
originaria, sebbene oggi si presentino per lo pi comunicanti tra loro per le aperture praticate nelle varie epoche. I muri anneriti sembrerebbero indicare una frequentazione che continuata sino ad
epoche piuttosto recenti.

Gli ambienti sono stati ricavati a circa met altezza della rupe, utilizzando un ballatoio roccioso a cui si accede grazie ad una passaggio, a sua volta scavato artificialmente e ancora ben visibile. Un
cunicolo e due rampe di scale (ancora ben conservate!) immettono in un ambiente superiore, con due grandi finestrone panoramiche, che illuminano un ambiente pi ampio, con diverse nicchie alle
pareti, ed uno stanzino pi piccolo, che doveva essere adibito, almeno in parte, a colombario, come testimoniano le due serie di cellette ancora visibili, e che costituiscono un chiaro richiamo alla
tradizione popolare riportata allinizio. Linsieme appare ancora come nel 1976, quando venne descritto dalla Raspi Serra nel suo volume dedicato agli insediamenti religiosi rupestri della Tuscia. La
funzione religiosa di questi ambienti appare al momento poco evidente, ma molto probabile che il sito, in epoca medievale, fosse pertinenza appunto dei Benedettini di San Giusto. Per la sua
collocazione solitaria e appartata, Grotta Bandita non oggi facilmente raggiungibile. Un possibile itinerario che prevede lattraversamento di campi coltivati di propriet privata, per cui bene
chiedere il permesso di passare e avere un atteggiamento di rispetto per le colture e il pascolo- quello che parte dal termine di via della Piantata: la strada, sterrata, si imbocca facilmente dalla
Vetrallese. Superato lingresso dellagriturismo Casa Caponetti, si continua ancora tralasciando diversi bivi, si curva verso destra e si segue un rettilineo che termina di fronte lingresso di una
abitazione. Da qui occorre procedere a piedi. Si va a destra, seguendo la strada normalmente chiusa da una sbarra (bella vista su San Giusto) che dapprima sale, poi inizia a scendere passando
accanto ad un gruppo di casali abbandonati, poi a una grossa tettoia agricola, per infine infilarsi nella macchia sino a sbucare nei vasti campi coltivati a livello del Marta. Ora occorre costeggiare la
rupe che avremo alla nostra sinistra, tenendoci fuori dal campo coltivato. In breve si trovano diverse tracce che vanno verso un piccolo muretto a secco con filo spinato, facilmente superabile. Appena
al di l, si nota a sinistra una via cava che collega il pianoro superiore con la valle del fiume e che per la Quilici Gigli di origine antica. Si continua costeggiando la rupe, per tracce, sino a che si inizia a
intravedere la parete di roccia tufacea con le grotte, in buona parte coperte dalla vegetazione. Una serie di passaggi nella macchia permette, con un po di attenzione, di individuare il passaggio

scavato nella roccia che raggiunge il ballatoio dove si aprono gli ambienti rupestri. In tutto occorre meno di unora, andata e ritorno. Un altro monumento che desta curiosit la gi citata capanna di
sasso, collocata sulla direttrice viaria che passava sotto Grotta Bandita. Si tratta davvero di una capanna, o meglio di un tholos simile ai trulli della Puglia. Chi lo ha costruito (si dovrebbe trattare di
unopera relativamente recente, forse di un secolo fa), ha utilizzato una preesistente necropoli realizzata sul banco di roccia, e ancora parzialmente visibile. Una traccia, in parte scavata, scende verso
valle, passando davanti una grande grotta, ampliata e riutilizzata in epoche pi recenti, ma di sicura origine antica. A breve distanza dalla capanna si trova anche un tumulo, parzialmente crollato, ma
che conserva ancora una camera, con ben visibili due letti funebri. Il tutto inserito in un notevole contesto paesaggistico, a ridosso dei boschi che circondano Respampani. Per arrivare alla capanna
di sasso si deve girare a destra, allaltezza del km 15.400 della sp Vetrallese, andando verso Respampani, su una sterrata che conduce all agriturismo Poggio Colone e, superato questultimo,
voltare a sinistra allincrocio, raggiungendo in breve il monumento. Poco pi avanti, sulla strada, si noter a destra un rialzo nel terreno: il citato tumulo (in auto, chiedere lautorizzazione, altrimenti
parcheggiare e procedere a piedi: una passeggiata piuttosto breve).

La Solfatara sul Marta (Tuscania ) - Proprio lungo le rive del Marta, in un'area solitaria e molto bella caratterizzata da solitarie gole scavate dal fiume, a circa 6 km da Tuscania, si trovano le
Solfatare. Si tratta di un'ampia frana di massi (secondo alcuni dovuta all'attivit di una cava che operava in zona: nei pressi, in effetti, si trovano alcune rovine di edifici in pietra) da cui fuoriescono gas
come l'Idrogeno solforato. Alcune polle gorgogliano direttamente nelle acque del fiume. L'ambiente suggestivo, peccato solo per le acque del Marta, tutt'altro che limpide. Per arrivare si utilizza una
strada antica, come dimostrato dalla presenza di una piccola necropoli etrusca, probabilmente di et ellenistica. In tutta la zona, infatti, documentata la presenza etrusca. Da Tuscania si prende Via
dell'Olivo (direzione per la Tomba della Regina), si supera l'omonima chiesetta, il bivio a sinistra per la Necropoli di Ara del Tufo, e sempre diritti si imbocca la Strada delle Poppe, in breve sterrata,
ma comoda. Percorsi altri 4 km circa (poco pi di 6 km da Tuscania), e dopo aver lasciato a destra la Strada del Serpe e la Strada Cavallaccia, oltre a una stradina senza nome che arriva a un
gruppo di casette, si trova a sinistra una sterrata, chiusa in genere da una sbarra, che porta a un grosso capannone agricolo. A piedi o in bicicletta si continua oltre il capannone, effettuando un'ampia
curva a destra a cui segue un rettilineo tra i campi. Quando la strada curva a sinistra in discesa, si vedono alcune tombe scavate nelle rupi intorno. Si continua a scendere sino a un ampio campo
coltivato (di fronte, avremo la valle del Traponzo con, sullo sfondo, i ruderi della Rocca Vecchia di Respampani), che si costeggia verso sinistra, bordeggiando il bosco. In breve si nota una traccia in
discesa nel bosco che arriva quasi alle rive del Marta, che si risale per alcune centinaia di metri, sino a sbucare nell'area della Solforata. A piedi occorrono circa 30-40 minuti, altrettanto per il ritorno,
che avviene lungo lo stesso percorso.

La via Clodia tra Tuscania e Canino Oltre Tuscania il tracciato della Clodia, gi dubbio in molti punti, diventa del tutto ipotetico, uno di quegli argomenti spinosi su cui gli studiosi si dividono
e litigano con ardore senza arrivare a conclusioni. Certo, ci sono alcuni punti fermi su cui quasi tutti sembrano concordare: ad esempio il fatto che la strada passasse per Castro, nell'attuale territorio di
Ischia di Castro. Secondo alcuni, per, da Tuscania la direttrice principale andava verso Valentano, poi voltava verso sud-ovest. Ma la maggioranza degli archeologi propende per un tragitto che
collegava Tuscania a Canino, proseguendo poi per Castellardo e Pianiano e da qui si dirigesse verso Castro. Per la Quilici Gigli il tracciato della Clodia identificabile con una serie di strade
campestri che sono ancora oggi percorribili, e che attraversano ambienti di campagna ben conservati, rendendo il tutto un itinerario di prim'ordine, che qui vi suggerisco. In totale sono circa 15 km:
perfetti da fare in bicicletta (sono anche strade tranquille...), parecchi da fare a piedi (con un ritorno con mezzi pubblici). Da Tuscania si percorre un breve tratto della strada per Tarquinia, quindi si
prende a destra la strada Pian di Vico , che si segue sino a quando, poco oltre il bivio per San Giuliano, la strada curva nettamente a destra per andare verso Arlena di Castro. Proprio in
corrispondenza della curva si stacca a sinistra una sterrata, dal fondo discreto (in alcuni punti ci sono per delle ruscellature a cui prestare attenzione), su cui ci si tiene mantenendo la direttrice
principale e tralasciando tutti i vari bivi. La presenza di alcune grotte scavate nel tufo, di diverse tagliate viarie e la presenza di radi basoli divelti (soprattutto nei pressi del bel casale diruto della
Polledrara, appartenuto ai Torlonia), sembrano confermare che la sterrata ricalchi una strada antica: se non la Clodia, almeno un suo diverticolo! La strada sbuca infine su una strada, sempre sterrata:
andando a destra si raggiunge la provinciale Caninese. Di fronte la strada da cui proveniamo sembra terminare tra gli ulivi: in realt, si noter una traccia, seguendo la quale si inizia a scendere verso la
ben visibile valletta boscata: in breve si entra nella macchia, ritrovando la strada, in tratti acciottolata. Raggiunto il torrentello, lo si guada facilmente e si risale al di l, sempre nella macchia; a questo
punto la strada si fa pi ampia, volta a sinistra e attraversa una zona agricola, con vasti uliveti della tipica variet canino, da cui si ricava un olio prelibato. Pi avanti si supera un altro torrente su un
ponte moderno, oltre il quale la strada si infila in una bella via cava (all'imbocco, sulla parete di destra, sono incise diverse croci latine), che sinuosamente risale verso il paese, raggiungendo la strada
asfaltata accanto al rudere della chiesa della Madonna del Tufo, che conserva al suo interno tracce di affreschi, ma davvero malmessa. La chiesa, rinascimentale, fu trasformata in lazzaretto nel
1855, e poi abbandonata, e segnava laccesso alla via cava che abbiamo appena percorso, antica via di comunicazione con Tuscania. Si volta a destra (via del Tufo) e in breve si a Canino. Da qui,
se si va a sinistra e si prende via d'Ischia ( la strada in netta discesa che troveremo di fronte, la seconda a sinistra) si pu raggiungere Castellardo, passando per la valle del fosso Timone. Castello
diruto presso Canino, sull'antica via Clodia, lo descrive Martinori, che aggiunge: nel 1270 gli homines di Castellardo giurarono vassallaggio a Tuscania. Lo presero e lo ebbero in feudo i prefetti di
Vico e nel 1337 Benedetto XII obblig gli abitanti della Badia del Ponte a restituire Castellardo, occupata illegalmente, al prefetto urbano. Secondo Simonetta Conti, venne fondato, come altri
piccoli centri del Viterbese, da colonie di Lombardi, giunti nella regione tra il X e l'XI secolo. In seguito pass alternativamente dalla signoria di Viterbo a quella di Tuscania e poi fu definitivamente
distrutto nel 1459 dagli abitanti di Canino. Il nome potrebbe derivare dal termine francese Chatelard, che indica, come il termine Castellare, un castello distrutto, ma potrebbe anche essere una
contrazione di Castello dei Lombardi. Per raggiungere il sito, scavato e recuperato dal GAR (Gruppo Archeologico Romano) si prosegue per circa 4 km sulla strada e, costeggiando il torrente, si
raggiunge in breve un ponticello sul fosso Timone, dove si stacca a destra una sterrata, da percorrere a piedi. Si prende la stradina di sinistra, generalmente chiusa da un cancello, e si risale verso il
ben visibile altipiano di Castellardo. Con una ripida salita finale si raggiunge l'ingresso dell'area archeologica, attrezzata anche con tabelle esplicative.

Parco del Timone e Pianiano (Cellere ) Originario di Cellere, Tiburzi stato il brigante forse pi noto della Tuscia. Il suo regno si estendeva lungo lattuale confine tra Lazio e Toscana,
tra le colline di Castro e le sorgenti della Nova, un territorio, oggi come allora, solitario e selvaggio. Nei pressi del suo paese natale si trova una grotta, detta della Mercareccia o, appunto, di
Tiburzi, dove il brigante avrebbe trovato spesso rifugio. La cavit si trova a breve distanza da una bella cascata, allinterno del progettato Parco del fiume Timone. Un comodo itinerario attrezzato
porta al sito attraverso un bel bosco attrezzato con tavoli da picnic. Da Cellere si segue la strada per Pianiano. Dopo circa 3 km, si trova un bivio sulla destra, che immette nellarea attrezzata. Nei
periodi piovosi il guado del torrente che necessario effettuare per parcheggiare nello spazio apposito pu essere complicato: esistono comunque ampie possibilit di parcheggiare prima. Superato il
torrente, si prosegue verso destra, si supera larea attrezzata e poco oltre si volta a destra (tabella) costeggiando la collina, in discesa, sino ad arrivare in pochi minuti alla grotta di Tiburzi o della
mercareccia. La grotta presenta allinterno diversi cuniculi di drenaggio e alcune murature, testimonianze degli antichi utilizzi, probabilmente come rifugio e successivamente per la merca del
bestiame, come ci ricorda il suo nome popolare. Che lantro sia stato utilizzato dal popolare brigante, invece, tutto da dimostrare, sebbene non certo impossibile. Proseguendo appena oltre sullo
stradello, occorre prestare attenzione ad una poco visibile deviazione a destra che porta verso un muro medievale, superato il quale si scende verso il torrente. Risalendo brevemente questultimo si
arriva alla bella cascata del Timone, che merita una visita, nonostante il salto sia rilevante solo nei periodi di piena.
Continuando sulla strada asfaltata verso Pianiano, si pu raggiungere, dopo circa un chilometro, il cosiddetto fontanile di Veleno. Si deve prestare attenzione a una sterrata a destra con le indicazioni
per lagriturismo Gatta Morena. Seguendola si arriva ad un bel fontanile, lungo lantica strada che portava al paese lungo la cosiddetta valle delle Canepare. La sorgente gi anticamente era al
servizio di un castello denominato Plandianum e successivamente Castrum Planiani. Come racconta Edoardo Martinori (lazio Turrito 1934), Pianiano appartenne nel 1214 ai Viterbesi, poi se ne
impadron Toscanella. Nel 1354 ne era signore Cola di Nino (Farnese) che giur fedelt al Rettore del Patrimonio in Montefiascone. Nel 1491 met del castello fu venduto dai Farnese a Nicola
Orsini conte di Pitigliano. Lo ricompr, nel 1501, il cardinale Alessandro Farnese. La vendita del 1491 si crede fosse stata fatta per pagare la dote della celebre Giulia Farnese quando and sposa,
nel 1489, ad Orsinio Orsini, signore di Bassanello. Fu incamerato nelll'anno 1649 insieme al ducato di Castro. Spopolatosi in seguito, Pianiano viene annesso alla comunit di Cellere. Nel 1756,
Pianiano oramai praticamente abbandonata e fatiscente- venne ripopolata da alcune famiglie albanesi fuggite alle persecuzioni dei Turchi. Nel XIX secolo il borgo conobbe la pressione del
brigantaggio. Luigi Scalabrini, detto Veleno, era un omone grande e grosso con una lunga barba nera e occhi di brace: chiunque lo incontrava ne aveva istintivamente timore, e con ragione, perch
era uno dei briganti pi crudeli e sanguinari della zona. Giunto a Pianiano, si invagh di una donna del luogo, di origini albanesi, Fiorangela Codelli, perpetua del parroco don Vincenzo Danti (in seguito
divenne una delle amanti di Tiburzi). Naturalmente la tresca tra la sua perpetua e il brigante non andava gi al sacerdote, che fece di tutto per convincere la donna a evitare simili frequentazioni. Ma
Veleno non era certo il tipo da accettare tranquillamente intromissioni nel proprio privato: il 4 agosto 1867 rap nei pressi della fonte delle Canepare il parroco e lo condusse a Banditella con
l'intenzione di ucciderlo. Ma don Vincenzo Danti non era a sua volta uno sprovveduto: dopo aver implorato il brigante di risparmiarlo, vistosi oramai perso, estrasse da sotto la tonaca un grosso
coltello (che ci facesse un parroco di campagna con un coltellaccio sotto la tonaca pu certo essere oggetto di riflessione!) e men diversi fendenti al brigante che, preso di sorpresa, non ebbe
nemmeno il tempo di reagire. Si dice poi che i Carabinieri, avvisati del fatto, per acquistare merito presso i superiori e la popolazione, spararono alcuni colpi sul cadavere e dissero che Veleno era
morto in uno scontro con la loro pattuglia. Storie di paese, in cui difficile distinguere tra fantasia e realt, ma che restituiscono in pieno latmosfera di quei tempi travagliati. Nel 1922 il fontanile
venne restaurato per consentire ai pastori di abbeverare il bestiame e per fornire alla cittadinanza acqua di buona qualit. Un restauro pi recente ha dato al fontanile utilizzato sino agli anni 60
quando Pianiano venne allacciata allacquedotto di Cellere- il suo aspetto attuale. Proseguendo oltre sulla stradina, si trova a sinistra una via cava (da cui esce un rivolo dacqua) che conduce al borgo
(attualmente non transitabile per le frane) e, poco pi avanti, una serie di grandi grotte artificiali legate al castello medievale, ed oggi utilizzate come magazzini agricoli. Ripresa lauto, si raggiunge in
breve il centro storico, che pur di piccole dimensioni conserva intatta latmosfera di un tempo e consente davvero di fare un salto indietro al Medioevo.

La Selva del Lamone (Farnese ) La Selva del Lamone, al confine tra Lazio e Toscana, oggi dichiarata Riserva Naturale, uno dei boschi pi selvaggi e solitari d'Italia. Rifugio sicuro per
briganti e malfattori nei secoli passati, presenta al suo interno numerose formazioni rocciose di origine vulcanica, le cosiddette murge (di cui quella chiamata Rosa Crepante certamente la pi
spettacolare), ammassi di pietre sparse, vomitate dal cratere che oggi ospita il lago di Mezzano oltre 50.000 anni fa e colonizzate da una vegetazione folta e intricata, che da vita a un ambiente
davvero unico, anche grazie allumidit che si trattiene tra le rocce. Labbondanza di materiale da costruzione, e la fertilit dei terreni circostanti, ha attirato luomo in questi luoghi sin da epoche
antichissime, come dimostra la presenza di insediamenti della cosiddetta civilt di Rinaldone (2200-1700 a.C. circa); una presenza proseguita anche nellet del Bronzo, in quella del Ferro con
importanti insediamenti villanoviani, rioccupati poi in epoca etrusca, come dimostrano le rovine della citt fortificata di Rofalco, le cui mura vennero edificate adattando allo scopo i cumuli naturali di
pietre presenti ovunque nellarea. Ma certamente linteresse dellarea del Lamone oggi principalmente legata alla straordinaria copertura arborea, che ne fa uno dei rari boschi magici ancora
esistenti nel Lazio. Tra carpini, ornielli, cerri, roverelle e anche lecci nei punti pi esposti al sole, vegetano numerosi arbusti della macchia mediterranea e una lista lunghissima di essenze botaniche, tra
cui diverse felci oramai rarissime altrove. La visita a questo ambiente, dunque, costituisce davvero una full-immersion nel tipico ambiente della Maremma Litinerario qui proposto (uno dei molti
possibili), perfettamente segnalato, unisce questi elementi di interesse, e molti altri, in un anello di facile percorribilit, di circa 5 km di lunghezza totale, per un tempo di percorrenza di pi o meno 2
ore. Da Farnese si prosegue verso Pitigliano sulla provinciale del Lamone sino a raggiungere il ponte sul fiume Olpeta: subito dopo si gira a destra, raggiungendo in breve il cancello di accesso n4
(apre la mattina presto e chiude la sera). Si prosegue sulla sterrata per due chilometri e al bivio successivo si va a destra, poi di nuovo a destra parcheggiando subito nello slargo accanto al cancello

n3 . Si torna brevemente indietro a piedi e si va a destra seguendo la strada che avevamo di fronte arrivando, lungo il sentiero n5. Fatti circa 500 metri, si trova il bivio a sinistra che immette sul
sentierino per Rofalco (indicazioni). Il sentierino zigzaga nella macchia, passa un prato e dunque penetra nel bosco, dove sono grandi alberi secolari che svettano sul sottobosco ingombro di massi
muschiosi. In circa 15-20 minuti si raggiunge l'area archeologica (tabella) dove sono evidenti i risultati di recenti scavi. Nel complesso, per, le tracce non sono molte. Si sfiora un tratto di strada
antica e dei muri, sul margine dell'altipiano, seguendo a questo punto il sentiero n4, e proseguendo nel fittissimo bosco, in cui sarebbe facile perdersi se non ci fossero gli evidenti segnali del sentiero.
Dopo circa un paio di chilometri dalla partenza si incontra a sinistra il sentiero proveniente dall'area picnic di Rappozzo, che seguiremo al ritorno. Prima per conviene andare dritti sino al bivio a
sinistra che in breve conduce a Rosa Crepante. Dopo la visita si torna al bivio e si raggiunge l'area picnic passando in un tratto di bosco particolarmente integro. Dall'area picnic si prende la strada
sterrata verso sinistra, si supera il bivio che avremo incontrato arrivando in auto e dopo poco ci si ritrova al punto di partenza.

Laltipiano della Galeazza a Farnese: un Sacro Bosco dimenticato Laltipiano della Galeazza sorge a ridosso del centro storico di Farnese, e riveste grande interesse storico e
archeologico, soprattutto per la presenza della sorgente del Nempe, che per molti anni stata lunica fonte di approvvigionamento di acqua del paese. Un acquedotto realizzato nel XVI secolo ne
portava (e ne porta tuttora) lacqua sino alla fontana monumentale collocata nella piazza di Farnese. Poco sopra la sorgente sorgeva un giardino allitaliana, con giochi dacqua, cascatelle e rivoli,
popolato di statue che rappresentavano personificazioni mitologiche legate al tema dellacqua e dei boschi, nello stile classico del Rinascimento (basti pensare al Sacro Bosco di Bomarzo). Oramai
praticamente scomparso, venne realizzato sul finire del 500 da Mario Farnese. Ma la cosa interessante della Galeazza la presenza di numerose cavit rupestri (che in effetti iniziano gi dalla rupe su
cui collocato il paese), facenti parte di un vasto insediamento, ed oggi un buona parte riutilizzate o inagibili a causa dei crolli. Quelle che rimangono, comunque, presentano tutte le classiche tipologie
di questo tipo di strutture: da piccoli vani ad ampi locali con pilastro centrale, sino a vere e proprie stalle con mangiatoie lungo le pareti. La breve passeggiata che consente di dar loro unocchiata pu
arricchire la visita al notevole centro storico di Farnese. Dalla piazza centrale, ci si dirige al parcheggio di via del Bottino, in fondo al quale si trova la sede della Riserva Naturale della Selva del
Lamone. Si passa di fronte questultima e si piega verso sinistra in salita, su una stradina su cui si aprono da subito numerose cavit rupestri. In breve si raggiungono due grandi edifici antichi, dominati
da una vicina (brutta) torre piezometrica moderna decorata da antenne. Le due possenti strutture, adibite attualmente ad abitazione privata la prima e a stalla la seconda, risalgono al Medioevo.
Ledificio principale, in stile romanico ampiamente rimaneggiato, era originariamente decorato da merlature guelfe. Laltro edificio, invece, rappresenta lunico esempio di architettura gotica presente a
Farnese: una serie di archi a sesto acuto sostiene infatti la struttura, ulteriormente rafforzata da contrafforti. Pur non essendo attualmente visitabili, sono comunque ben apprezzabili anche dallesterno.
Si continua sulla sterrata, che attraversa il pianoro utilizzando anche diverse tagliate, prestando attenzione alle altre, numerose grotte artificiali, alcune delle quali presentano chiari segni di riutilizzo,
mentre alcune sono purtroppo franate. Si pu passeggiare a volont, ammirando il piacevole paesaggio campestre, attraversato da alcune piccole forre, al cui interno si conservano ulteriori
testimonianze di antichi insediamenti. Dopo un tratto pianeggiante, quando la strada inizia a scendere, congiungendosi con un bivio proveniente dalla sp 47, conviene tornare indietro.

La Capitale scomparsa (Ischia di Castro) Collocato a picco sulla valle dell'Olpeta, il sito di Castro uno dei pi affascinanti misteri della Tuscia. La via Clodia, proveniente da Tuscania,
scendeva nella forra grazie ad una splendida via cava, detta Cava Buia, poi traversava l'Olpeta su un ponte, oggi crollato, e risaliva sul pianoro attraversando questo insediamento che dovette dunque
avere una certa importanza. Era, d'altra parte, collocato proprio sulla direttrice che portava verso l'Etruria pi interna, e verso quella valle del fiume Fiora che gli Etruschi consideravano davvero
l'anima dei loro possedimenti. Non a caso si ritiene che il Fiora fosse per gli Etruschi un po' quello che il Tevere era per i Romani: il fiume sacro, da cui dipendeva il loro destino. Il sito fu forse
frequentato gi molto prima degli Etruschi, ma furono questi ultimi a sistemarlo e adattarlo alle esigenze di difesa. Il castello medievale che vi fu poi edificato (col nome di Castremonium) ospit nel
749 la sede vescovile, trasferitavi da Bisenzio, distrutta dai Longobardi. Nel 1321 per, risulta gi spopolata. I resoconti dei viaggiatori di allora, ce la descrivono come un centro abitato piuttosto
malconcio, povero, fatto di tuguri e strade polverose. Dopo alterne vicende, Castro divenne la capitale del ducato creato nellottobre del 1537 da Paolo III (Alessandro Farnese, eletto papa nel
1534) per il proprio figlio Pierluigi. Non dovette essere impresa facile trasformare un centro minore e tutt'altro che prestigioso in una capitale! Ma per realizzare l'opera venne coinvolti i migliori
architetti dell'epoca, tra cui Antonio da Sangallo il Giovane. Larchitetto fiorentino fece un ottimo lavoro, trasformando un grumo di tuguri in una citt con tanta e s subbita magnificenza, che mi
rappresenta il rinascimento di Cartagine, come scrisse Annibal Caro. E di Cartagine, in effetti, Castro conobbe lo stesso destino, tanto che il noto maremmologo Alfio Cavoli, la defin la Cartagine
di Maremma (titolo di un suo agile ma completo libricino, edito dalleditore Scipioni). Lo splendore della nuova Castro, infatti, dur poco: gi decaduta a causa dello spostamento degli interessi
farnesiani sul pi ricco e prestigioso ducato di Parma e Piacenza, nel 1649, l'assassinio del vescovo inviato da Innocenzo X (Giovan Battista Pamphili, 1644-1655) da parte (si disse) di emissari del
duca Ranuccio II, diede il via a una guerra che vide prevalere le truppe pontificie. Allo scoppio del conflitto armato non fu certamente estranea donna Olimpia Maidalchini, cognata del papa, su cui
aveva un tale appeal da essere chiamata la papessa, la quale odiava ardentemente i Farnese; quasi sicuramente fu lei a convincere il papa a decretare lannientamento di Castro, con labbattimento
di tutti gli edifici. Il papa diede dunque ordine di procedere alla sistematica distruzione dell'antica citt, obbligando tutti i cittadini dello Stato a partecipare allopera. Poich per la distruzione
procedeva troppo lentamente (come ebbe a relazionare il governatore di Viterbo inviato a ispezionare il cantiere) si ricorse a maestranze abruzzesi. Le chiese vennero sconsacrate, e gli arredi sacri
trasferiti ad Acquapendente, quindi abbattute, le strade divelte, tutto ci che era trasportabile venne trasferito altrove, il resto lasciato sul posto dopo essere stato frantumato, in modo da creare uno
stradto di residui su cui fosse impossibile edificare di nuovo. Il 3 dicembre venne comunicata lavvenuta distruzione della Cartagine di Maremma. Sopravvisse un cippo con dipinta limmagine di
Cristo, intorno al quale sorse nel XIX il Santuario che ancora visibile oggi, e meta di una processione nel mese di giugno. Nullaltro rimaneva di visibile di un centro abitato pi che millenario.
Recenti scavi hanno per portato alla luce diversi ambienti ipogei, oltre ai resti di una chiesa (con affreschi) e di alcune abitazioni. Inoltre, nel territorio circostante non mancano le testimonianze
etrusche. Per raggiungere il sito, si segue da Farnese la strada del Lamone verso Pitigliano. Al bivio successivo, si va a sinistra verso Manciano (strada per il ponte San Pietro). Fatti pochi chilometri si
trova il bivio per Castro. La strada campestre arriva in breve al Crocifisso di Castro, dove sono i resti di una grande tomba etrusca e del santuario ottocentesco. Proprio accanto a questultimo
inizia il sentiero che porta verso i ruderi dellantica capitale del Ducato.

Eremi del Fiora e insediamento di Chiusa San Salvatore (Ischia di Castro ) Il fiume Fiora, famoso per la limpidezza delle sue acque (parzialmente compromessa, recentemente),
che avrebbero ospitato la Lontra (la cui presenza ancora oggi quantomeno dubbia), segna buona parte del confine tra il Lazio e la Toscana, cos come un tempo tra il Granducato di Toscana e lo
Stato Pontificio. La bassa valle, a monte di Vulci, un comprensorio insolitamente selvaggio e solitario, in cui nel Medioevo e poi nei primi anni del Rinascimento trovarono rifugio numerosi eremiti.
Diversi eremi di cui pure si hanno notizie storiche, sono oggi difficilmente rintracciabili o del tutto scomparsi, altri, invece, costituiscono mete per straordinarie passeggiate sospese tra natura e
archeologia, tra fede e suggestioni mistiche. Il pi ggrande di questi eremi (e in effetti assimilabile a un monastero) quello detto di Ripatonna Cicognina, organizzato in diverse camere comunicanti e
con una chiesa con ancora tracce di affreschi; buona parte della struttura stata scavata nella viva roccia, sfruttando comunque anche alcune grotte naturali, e ricorrendo anche a opere in muratura,
che ne collocano la datazione tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo. Si raggiunge facilmente da Farnese prendendo la strada per Manciano, che passa il fiume Fiora sull'antico ponte San Pietro.
Poco prima di arrivare al ponte si trova a sinistra una deviazione, che si imbocca (sp 109) procedendo brevemente sino a superare il torrente Olpeta. Immediatamente prima del ponte su questultimo
torrente, a sinistra, inizia una sterrata, chiusa da un cancello, seguendo la quale, e sempre costeggiando l'Olpeta, in circa 25-20 minuti si raggiunge l'eremo. Ripresa l'auto, si pu proseguire verso un
secondo eremo, pi piccolo del precedente, ma se possibile ancora pi spettacolare, anche perch inserito in un ambiente naturale di strepitosa bellezza: una piccola forra laterale rispetto alla valle del
Fiora, e nei pressi di una piccola cascata che effetua un alto salto dentro un piccolo anfiteatro roccioso. L'eremo di Poggio Conte (XIII secolo), o meglio la chiesa rupestre che ne era parte integrante,

conserva tracce di decorazioni pittoriche e rilievi ricavati nella roccia, oltre a un bel portale gotico, e presentava al suo interno un bel ciclo di affreschi, purtroppo trafugati negli anni '70 e solo
parzialmente recuperati. Si prosegue dunque per circa 700 metri sulla sp 109 sino ad incontrare, dopo circa 7-800 metri dal ponte sull'Olpeta, una sterrata sulla destra che si stacca in corrispondenza
di uno slargo (dove conviene parcheggiare). Si segue la strada bianca in discesa, si tralascia un bivio (a sinistra) e in breve si raggiunge la riva del Fiora, che si segue verso sinistra, per tracce di
sentiero, tra campi e boschetti. Si supera un cancello e si entra in un'area golenale caratterizzata da numerosi pioppi d'alto fusto sino a raggiungere un sentiero, attrezzato con passerelle di legno molto
malridotte (prestare attenzione, specie dopo la pioggia!), che in breve conduce ad uno slargo dove occorre prendere a sinistra la traccia che risale tra grandi massi muschiosi un piccolo affluente del
Fiora. In pochi minuti si entra nel citato anfiteatro roccioso, davvero suggestivo, dove cade una piccola cascata. In alto a sinistra si trova l'eremo, raggiungibile grazie ad un sentiero attrezzato. In tutto,
andata e ritorno, occorre circa 1,30 ore.
Come accennato nell'introduzione, la Tuscia davvero la terra degli insediamenti rupestri. Non esiste passeggiata o escursione che non consenta di avvistare qualche grotta scavata nella roccia, o
qualche necropoli. Daltra parte la relativa facilit di scavare il tufo, ha diffuso enormemente questa pratica. Molti ambienti rupestri sono semplici magazzini, o stalle, altri sono invece vere e proprie
abitazioni, destinate in particolare ai meno abbienti: ai piedi della rupe su cui sorgevano i castelli, coloro che non potevano permettersi una casa in muratura, potevano sempre scavarsi nel banco
tufaceo un ambiente, buio e umido forse, ma pur sempre utile alla sopravvivenza. Spesso venivano allo scopo riutilizzate antiche necropoli, etrusche e romane: in tal caso, bastava adattare e allargare
gli ambienti, e il gioco era fatto. La relativa abbondanza di insediamenti rupestri (principalmente medievali) ha ovviamente attirato lattenzione degli studiosi, soprattutto quando il sito da indagare
presenta tracce di frequentazione molto protratta nel tempo. E il caso dellinsediamento di Chiusa San Salvatore, collocato nella forra del Fosso del (o della) Paternale, piccolo affluente del Fiora, a
breve distanza dalleremo di Poggio Conte. Qui, una grotta (Grotta delle Settecannelle), ha restituito materiali risalenti al Paleolitico. Tutta larea traforata di ambienti rupestri, di cui come sostiene
la Raspi Serra- difficile fornire una precisa datazione, sebbene appaia evidente una frequentazione medievale (forse anche un insediamento monastico) inserita in un contesto pi antico, come pare
testimoniare il monumento pi singolare del sito: un piccolo tunnel (ma sarebbe meglio dire passaggio) che permette a una stretta via cava di scendere dal pianoro verso il fosso. Lambiente suggestivo
(nonostante la presenza dei rifiuti portati dalle piene) e labbondanza di testimonianze dellantica presenza umana, rendono la breve passeggiata necessaria a visitare questo sito una delle pi proficue e
interessanti tra le molte possibili nei territori al confine tra Lazio e Toscana. Il punto di accesso allitinerario si trova lungo la sp 109, la stessa che si utilizza per la visita a Poggio Conte (vedi), ed
circa equidistante (5 km) sia dal bivio con la strada per Ponte San Pietro, sia da quello con la strada Doganella proveniente da Montalto di Castro. Occorre prendere come riferimento un piccolo
ponticello, con le spallette metalliche, che attraversa il fosso del Paternale in corrispondenza di un rettilineo che porta (o proviene) da Punton di Villa. Una serie di ambienti rupestri scavati nelle pareti
rocciose prossime alla strada, fornisce un ulteriore aiuto. Appena prima (provenendo dalla strada Doganella) o subito dopo (se si viene da Ponte San Pietro) del ponticello, si parcheggia e si segue
una stradina sulla sinistra (o destra) che costeggia il torrente (che in questo punto in genere non porta acqua). Sulla sinistra gi si vedono diverse grotte; sbucati in breve su un ampio campo coltivato
(altre grotte sulla sinistra), si va a destra, costeggiando il bosco, sinch non si vedranno alcune cavit ricavate da un masso: di fronte la traccia scende verso il fosso, rivelando laffascinante mole del
tunnel, su cui si aprono alcune nicchie (sin qui, circa 10 minuti). Ora conviene scendere verso il corso dacqua utilizzando la via cava: pu valer la pena, giunti in basso, di procedere verso sinistra (ci
sono alcuni passaggi scomodi, ma molte tracce consentono comunque di camminare con relativa facilit) per esplorare un po lambiente di forra del Paternale, con alberi secolari, numerose sorgenti e
diverse tracce di insediamenti antichi, prima di tornare indietro e salire verso destra (rispetto al punto in cui sbuca la piccola via cava) su una larga sterrata invasa di vegetazione. In breve si arriva al
primo degli ingressi della Grotta Settecannelle (chiusa da un cancello), che ha restituito molto materiale preistorico e in cui sono ancora in corso gli scavi. La stradina compie un tornante verso destra,
passa accanto un secondo accesso alla grotta e in breve torna al tunnel.

Laltare rupestre delle sorgenti della Nova - Proprio sul confine tra il Lazio e la Toscana, si trova un angolo di natura di grandissimo fascino e interesse: le sorgenti della Nova, che grazie
alla loro ricchezza d'acqua (e all'inaccessibilit del sito) hanno portato alla nascita di un insediamento sul pianoro soprastante gi dall'et del Bronzo, insediamento che sopravvissuto sino all'et
medievale, prima di essere definitivamente abbandonato. I Villanoviani, secondo molti archeologi gli antenati degli Etruschi, ebbero qui uno dei loro insediamenti principali, con circa 1500 abitanti: una
vera metropoli, per lepoca. Scoperto circa 30 anni fa dalla dottoressa Nuccia Negroni, archeologa dellUniversit di Milano, il sito preistorico della Nova conserva numerose testimonianze
archeologiche, in particolare grotte e basi di capanne. Allestremit orientale del pianoro, si trova per un monumento singolare, che gli archeologi hanno definito, significativamente, la scala santa.
Su un grande masso, infatti, appaiono scavati dei gradini che conducono alla sommit; da lass, si gode un panorama ampio (oggi un po limitato dalla vegetazione), e soprattutto, sostiene Giovanni
Feo (Misteri Etruschi, Stampa Alternativa), che da anni si occupa dei misteri della Maremma, si vede la vetta di monte Becco, unaltura nei pressi del lago di Mezzano (riconoscibile per un gruppo
di pini domestici che vegeta sulla vetta) che sarebbe stata sacra alle antiche genti e che avrebbe ospitato un tempio in epoca etrusca (una missione archeologica danese, in effetti, ve ne ha trovato i
resti negli anni 70). Quindi, secondo Feo, si pu ritenere che la processione sui gradini della Scala Santa conducesse in un punto apicale, ritenuto particolarmente sacro, dove si entrava in
connessione con il vicino sacrario di monte Becco, il cui tempio, secondo la tradizione, era forse dedicato alla dea Volturna (Voltumna), la maggiore divinit femminile etrusca. Nel Medioevo il nome
del sito compare per la prima volta nel diploma dinfeudazione del 1210 rilasciato dallimperatore Ottone IV a Ildebrandino Ildebrandeschi. Nel diploma vengono elencati i castelli e le terre del feudo,
comprese tra le sedi vescovili di Castro e Sovana: Pitigliano, Sorano, Vitozza, Sala, Ischia, Farnese, Petrella, Morrano, Castellarso, Latera, Iuliano, Mezzano e appunto Castiglione presso le Sorgenti
della Nova. Nel XIX secolo, l'area della Nova divenne uno dei rifugi estivi del brigante Tiburzi (in Inverno preferiva rifugiarsi a Castro). Per raggiungere l'insediamento, dal km 20 della provinciale del
Lamone, andando da Farnese verso Pitigliano e subito dopo il ponte dell'Arsa (dunque appena varcato il confine con la provincia di Grosseto), e a poca distanza dal grumo di fabbricati agricoli
chiamato Pian di Morrano, si volta a destra su una stradina sterrata dal fondo discreto che si segue per circa 2 chilometri, sinch non si divide. Si prende il ramo in discesa sulla sinistra e in breve si
raggiunge un cancello, dov' anche una tabella esplicativa del sito, collocata dalla Riserva Naturale della Selva del Lamone (qui siamo rientrati nei confini laziali). Si supera il cancello a piedi e ci si
tiene verso destra, risalendo il pianoro che abbiamo di fronte (e su cui, arrivando, avremo visto i ruderi di una torre) grazie ad una stradina. Quasi subito iniziano i cartelli e i corrimano dell'area
archeologica, attrezzata anche con scale e passaggi protetti. Si possono cos visitare i resti del villaggio dell'et del Bronzo, con le sue basi di capanne e i suoi pozzi, e poi quelli dell'insediamento
medievale che ne ha preso il posto. La passeggiata, in tutto, richiede poco pi di un'ora. Il sito davvero bello, con panorami ariosi e amplissimi e tanto verde. La rupe si affaccia sulla gola del
torrente Nova: al di l si notano i ruderi di un altro insediamento, Castel Iuliano. Alla sorgente che d il nome al sito si accede dalla stradina percorsa all'andata: superato di poco il cancello, si trova a
destra un varco che conduce ad un gruppo di alberi ai cui piedi, da una grotta, sgorga, limpida e purissima, l'acqua.

Il Morranaccio (Pitigliano) A brevissima distanza dalle sorgenti della Nova, ma gi in territorio toscano, si trova un sito archeologico di straordinario interesse e fascino, legato in buona parte
anche allambiente naturale particolarmente intatto. Proseguendo sulla strada che transita dinanzi le sorgenti, si arriva in breve ad un guado, dove le acque del torrente e quelle sorgive si uniscono. Da
questo punto possibile seguire il torrente verso valle, incontro alla Fiora: il modo migliore, in effetti, scendere direttamente nel corso dacqua (si supera la recinzione sulla sua riva destra, lo si
costeggia per un centinaio di metri e poi si scende verso le rive), in estate anche con dei sandali o delle scarpe da torrentismo, in inverno con degli stivali di gomma. Ovviamente occorre evitare i
periodi di pioggia o di piena! La Nova prosegue sinuosa e quasi in piano allinterno di una forra piacevole e verdissima, e regala angoli di autentica wilderness, con grandi alberi secolari e pareti di
tufo verticali. Lacqua limpidissima e pulita (anche se ogni tanto si nota la presenza delluomo...). Dopo circa tre chilometri di percorso lento ma agevole, si raggiunge la confluenza del piccolo
torrente Orsina, in arrivo sulla destra orografica: i due corsi dacqua delineano la mole della rupe dove si trovano i ruderi dellantico insediamento del Morranaccio. Persi nella macchia, a volte
inestricabile, si trovano i resti della cinta muraria della fortificazione medievale, e un numero impressionante di pozzi e cavit, oltre a grotte, probabilmente antiche, ma riutilizzate nel corso del
Medioevo. Per raggiungere il sito, occorre salire dalle rive del torrente, poco pi a monte della confluenza sopra citata, su una traccia di sterrata che corre sul prato ai piedi della rupe, che si costeggia
tenendola a sinistra. Si incontrano diversi prati piantumati con essenza arboreee: proprio in corrispondenza del sentierino che scende ad una di queste, poco prima di due ben visibili grotte scavate
sulla parete di roccia, si vedranno incisi alcuni rudimentali gradini che consentono di salire verso una piccola via cava che in breve raggiunge il Morranaccio. La salita tuttaltro che agile, ma molto
breve. Nel visitare linsediamento medievale, prestare la massima attenzione ai pozzi e alle grotte! Tornati nel torrente, si prosegue brevemente sino a raggiungere un grosso masso franato nel suo
greto: poco pi avanti, si vedr sulla sinistra una traccia che risale la riva e entra nel bosco, dando in breve accesso ad una via cava (tralasciare la traccia a sinistra) che si dirige verso il soprastante
pianoro anche grazie a due serie di gradini e alcune curve nette (attenzione a non prendere le tracce laterali, che non portano a nulla). Raggiunto il bordo del pianoro si va a sinistra, su una traccia
ingombra di vegetazione (un po si apre pi avanti) e, raggiunto il vertice della rupe, proprio dove questa gira, si segue un sentierino che va dritto verso la macchia, per subito scendere, scomodamente
e ripidamente, per la traccia che si stacca a destra e in breve raggiunge il suggestivo Colombario della Nova. Il colombario costituito da due ambienti fittamente ricoperti da centinaia di nicchie
regolari. Una grande finestra creata dallabbattimento del diaframma di roccia, consente di affacciarsi sulla valle della Nova e il Morranaccio (attenzione!). Il ritorno avviene per la stessa strada
dellandata (in tutto circa 2-2.30 ore).

Roccaccia di Montauto (Manciano, GR) Collocata proprio sul confine regionale tra Toscana e Lazio (e un tempo, come detto, tra Stato Pontificio e Granducato di Toscana), la Roccaccia
di Montauto un rudere poderoso e di grande bellezza, che svetta sul vertice di una collina alta poco pi di 400 m che si staglia sulla piana attraversata dalla Fiora, e da cui si gode un incomparabile e
amplissimo panorama verso la Tuscia e la costa tirrenica, su fino all'Argentario e anche oltre. La rocca, di cui si hanno notizie sin dai tempi di Carlo Magno, il quale la don allAbbazia delle Tre
Fontane a Roma, durante il XIII secolo entr a far parte dei possedimenti degli Aldobrandeschi; dopo esser passata a Orvieto e a Siena, che nel 1470 la restaur, venne conquistata dai pirati di
Corsica e poi ripresa dai senesi. Infine fu abbandonata per motivi oscuri, ma probabilmente per il venir meno della sua utilit. Il gruppo di montagne sedimentarie di cui fa parte Montauto, fittamente
ricoperto di macchia e ricco di fauna, ed offre la possibilit di belle passeggiate lungo il confine del Granducato, con la possibilit di dare un'occhiata a un paio di antichi cippi risalenti al 1796. Al km
13 della sp 67 Campigliola che va verso Manciano, si prende la sterrata che conduce all'azienda agricola Riserva di Montauto. Si pu anche parcheggiare quasi subito e proseguire a piedi,
oppure accorciare la gita proseguendo ancora per un paio di chilometri sulla strada, dal fondo comunque discreto, sino a raggiungere alcuni slarghi dove lasciare l'auto, poco dopo il bivio (a sinistra)
per un'altra azienda agricola. La stradina prosegue ai piedi della collina su cui sorge la Roccaccia, passa nei pressi di un cancello metallico, guada un torrentello e inizia a salire nella macchia sino a un
traliccio dell'alta tensione. Poco prima di raggiungere quest'ultimo, si volta a sinistra, iniziando a salire sinuosamente nel bosco che pian piano, da macchia a corbezzolo ed erica, si trasforma in una
bella lecceta (con bei esemplari anche di sughera), che ci accompagner sino ad uno slargo, dove il tracciato spiana. Qu si trova un bivio a t: si va a destra, per tracce evidenti, raggiungendo in
breve il grandioso rudere della Roccaccia, che va visitato con molta attenzione a causa degli evidenti crolli. Il panorama, nonostante la vegetazione, molto ampio. Si torna quindi al bivio e si procede
oltre, seguendo la stradina sulla sinistra (tralasciare la pista forestale a destra che prosegue a lungo a mezza costa) che sale lungo il crinale e poi prosegue lungo la cresta diventando man mano meno
evidente e ingombra di vegetazione (tenersi sempre verso sinistra), diventando infine un sentiero rintracciabile nella macchia, che prosegue quasi in piano sul fianco del monte della Passione, sino a
raggiungere una recinzione con le tabelle di due aziende venatorie (una laziale e una toscana: siamo sul confine!). Si va verso sinistra incontrando subito una pista che sale dal versante laziale, che si
imbocca in salita verso sinistra. Il tracciato prosegue, ampio, lungo il crinale, costeggiando la recinzione, raggiunge il vertice del Punton dello Staro (dove si rivede un po' di panorama) e scende a una
sella, dovem a sinistra, inizia un muro a secco. In breve si raggiunge il primo cippo di confine; proseguendo poco pi avanti, sempre a ridosso del muro a secco, si incontra un secondo cippo: entrambi
sono spezzati ma ben leggibili. Ritorno per la stessa strada dell'andata (circa 8 km totali; circa 3 ore a/r).

Castellaccio del Pelagone (Manciano, GR) Questo castello fa parte della rete di fortificazioni che sorgeva un tempo sul confine tra lo Stato Pontificio e il Granducato di Toscana. Il
Castellaccio si trova tutt'ora sul limitare dei territori di Lazio e Toscana, perso tra la macchia e carico di suggestioni. Probabilmente, data la vicinanza con la Selva del Lamone, costitu, insieme a
Montauto, un comodo rifugio per i briganti, e per Tiburzi in particolare. Delle strutture murarie medievali rimangono imponenti ruderi. Dalla strada sembra che rimanga assai poco del monumento, ma
visitandolo ci si rende conto che invece occupa una superficie piuttosto ampia e che doveva essere una struttura tutt'altro che secondaria. Arrivarvi relativamente facile. Dalla strada che da Farnese
va verso Manciano (provinciale Ponte San Pietro), superato il ponte sul Fiora, e varcato il confine regionale, si raggiunge una grande cava, che deturpa purtroppo un'area altrimenti praticamente
intatta. Poco prima della cava, si vedr una strada a destra, dove conviene parcheggiare, per proseguire a piedi sul bordo strada, brevemente, sin quasi davanti la cava appena citata. Si trova cos a
sinistra una sterrata molto mal messa, in discesa (come riferimento si deve prendere un piccolo ponticello con le spallette in muratura: il bivio poco oltre), che subito si divide. Andare a destra,
raggiungendo un torrentello che occorre guadare. Si risale al di l, tra pascoli e boschi, sul tracciato evidente, che prosegue ancora per circa 1300 metri, sempre in costante e leggera salita, entrando e
uscendo da piccoli boschetti, allontanandosi dalla cava e avvicinandosi invece ai ruderi del Castellaccio, in breve ben visibili. Dove la strada compie un ampio tornante verso sinistra, in salita, si stacca
a destra una traccia che in breve porta al prato sotto i ruderi. Da qui, intuitivamente, tra folta vegetazione, si pu salire sul colle ed entrare, con molta attenzione, tra le mura del castellaccio del
Pelagone, che prende il nome dal sottostante torrentello (in tutto circa un'ora, tra andata e ritorno, pi il tempo di visita).

Cerchio di pietre di Poggio Rota (Pitigliano, GR ) - Scoperto nel 2005 da Giovanni Feo, lo stone circle di Poggio Rota rappresenta ad oggi lunico monumento del genere noto in
Italia: si tratta di un gruppo di dieci rocce dalla forma che richiama i classici menhir, collocati in cima a una collina nella campagna appena fuori Pitigliano, nella valle del fiume Fiora. Sulla loro
superficie appaiono, chiaramente scavate da mano umana, numerosi fori e nicchie. La roccia numero sette (secondo la numerazione data dagli studiosi), che insieme ad altri due massi collocato in
disparte rispetto al nucleo principale, stato scavato per ricavarne una vasca per la raccolta dellacqua, cosa usuale nei siti neolitici ed eneolitici astronomicamente significativi, dove quasi sempre
sono presenti vasche scavate nella roccia, forse per creare una connessione simbolica tra lacqua e il cielo. Il masso numero otto, a sudovest, invece di essere in verticale, coricato e la parte
superiore appare lavorata, con un incavo orientato verso il tramonto del sole nel solstizio dinverno, come appariva circa 4000 anni fa, il che ha fatto attribuire la realizzazione dellopera agli uomini
della cosiddetta cultura di Rinaldone (4000-2000 a.C.). Secondo larcheoastronomo dellOsservatorio di Brera Adriano Gaspani, gli appartenenti a tale Cultura presenti in zona avrebbero avuto
lesigenza di determinare, ogni anno, e con la massima precisione possibile, la data del solstizio dinverno, e di stabilire almeno due direzioni stellari significative: la prima quella diretta verso il Polo
Nord Celeste e la seconda era connessa con il tramonto della brillante stella Sirio, che nel III millennio a.C., andava a tramontare molto vicino al punto di tramonto del Sole solstiziale invernale. Venne
quindi realizzata una postazione di osservazione fissa sfruttando la morfologia naturale del luogo, e nel sito venne realizzato un semplice, ma efficace sistema di mira capace di permettere la
determinazione della data del solstizio dinverno con un errore di uno o due giorni al massimo. A differenza dei soliti cerchi di pietre (ad esempio Stonehenge, per citare il pi famoso), in questo caso
non si tratta dunque di massi lavorati e poi eretti, ma di un unico blocco di pietra vulcanica che stato scavato per creare una serie di allineamenti con corpi celesti ritenuti sacri o comunque importanti,
ma anche con alcuni elementi del paesaggio che evidentemente avevano un significato speciale per questi antichi popoli. Trovarsi al centro della piazzola sacra sormontata da questi megaliti regala
emozioni uniche, anche perch ci si trova al centro di un angolo di Tuscia carico di fascinazioni, soprattutto se pensiamo che ci troviamo vicinissimi ad altri siti altrettanto misteriosi come Monte Becco
sul lago di Mezzano, alle Sorgenti della Nova, o alle vie cave etrusche di Pitigliano, Sovana e Sorano. Poggio Rota, dopo il taglio boschivo che nel 2005 permise a Feo di scoprire i megaliti, oggi
tornato a coprirsi di macchia, il che ne rende pi problematica lidentificazione. Dalla sr 74 maremmana che collega Manciano a Pitigliano, e quasi allingresso di questultimo paese (circa allaltezza
del km 50,00), si imbocca a sinistra (provenendo da Manciano) la strada del Meletello, che si segue sino alla fine, tralasciando tutti i bivi (circa 6 km). La strada, asfaltata, sbuca sul pianoro della
Petrucciola: si va a sinistra sulla sterrata che passa davanti a un casolare e prosegue tenendosi ai piedi delle colline alla nostra sinistra, dove sono nascosti i ruderi del castello dellAquila. Quando la
strada curva a sinistra e inizia a salire (circa 1 km dal bivio), si trova a destra uno largo da cui partono altre due stradine. Il cerchio di pietre esattamente sul vertice del colle soprastante. Si imbocca
a piedi la stradina di sinistra e quando questa piega nettamente a mancina, si va a destra entrando in unampia radura: ci si deve tenere ancora decisamente a destra, bordeggiando la siepe, sino a
trovare quasi subito un passaggio nella macchia che in pochi istanti porta ai megaliti. La passeggiata non richiede pi di cinque minuti. Molto di pi la visita (ma sarebbe meglio dire la sosta
meditativa) a questo sito in grado di colpire limmaginazione, oltre che lintelletto
Tornando indietro verso Manciano, poi possibile completare la giornata visitando un altro sito di grande interesse, la necropoli etrusca di Poggio Buco, collocata fuori dalle solite rotte turistiche,
eppure di grande rilevanza archeologica, sebbene la gran parte delle tombe sia stata, nel corso dei secoli, riutilizzata e destinata a usi impropri (principalmente magazzini agricoli). Se da Pitigliano,
come detto, si va verso Manciano seguendo la sr 74, si passa il ponte sul Fiora: subito dopo, a sinistra, si stacca una strada sterrata. Seguendola, si tralascia un primo bivio a destra, per prendere
invece il secondo, poco pi avanti (piccolo cartello). La stradina sale lungo la collina e segue la piccola gola del torrente Bavoso per un paio di chilometri, sinch si trova una strada alla nostra sinistra,
il cui imbocco contrassegnato da una interessante tomba e da una sorta di isola con sopra una quercia. Seguendo a piedi questa stradina (segni bianco-rossi), si passa accanto un casale e poi si
piega verso destra, incontro al nucleo principale della necropoli. La zona interessata da molte attivit umane, ma merita comunque una visita.

CAP. 2 - IL LAGO DI BOLSENA


Le citt sommerse (Bolsena e Capodimonte ) La leggenda narra che un tempo, al posto dellattuale lago di Bolsena, esisteva unampia e fertile valle, che garantiva alle popolazioni che la
abitavano ricchi frutti e una vita tranquilla. Al centro di questa valle c'era una grande e ricca citt i cui abitanti, vivendo senza preoccupazioni, iniziarono presto a commettere peccati sempre pi gravi
(si sa, lozio e il benessere generano mostri), dalla lussuria alla gola ma anche ruberie, omicidi e ogni sorta di degradazione morale. E allora Dio, a corto di pazienza, decise di punirli provocando un
improvviso sprofondamento della terra, subito colmato dalle acque miracolosamente sgorgate da innumerevoli sorgenti, che in breve sommersero la valle con tutti i suoi abitanti (Sodoma e Gomorra in
terra di Tuscia, insomma!). Spesso la formazione dei laghi, e di quelli vulcanici in particolare, viene legata dalla credenza popolare all'ira divina, che sprofonda intere citt popolate da peccatori
indefessi. Questo genere di storie, nate per fini educativi (fate i bravi, altrimenti vedete che succede? era insomma il messaggio nientaffatto nascosto), acquistava per particolare forza, nel caso
del lago di Bolsena, dal fatto che i pescatori, nelle loro reti, rinvenivano ogni tanto vasi e altri manufatti, e raccontavano, al loro rientro in porto, di aver intravisto, attraverso le limpide acque, edifici e
strade. Il Moroni, nel 1861, racconta di grandi sostruzioni, che ancora si veggono e si toccano co' i remi, ed a breve distanza dal lido. Ma non era uno scherzo della troppa esposizione al sole e
delle lunghe ore trascorse in solitudine su una piccola barca: le citt sommerse esistono davvero! Sulla costa orientale del Lago di Bolsena, tra Montefiascone e Bolsena, si possono addirittura
rinvenire le tracce di un'antica strada, secondo alcuni medievale, per altri assai pi antica. A segnalare la sua presenza, ci sono i solchi lasciati dai carri durante il loro passaggio, solchi profondi anche
20 cm, oltretutto scavati in rocce estremamente dure: ben doveva essere una strada importante e piuttosto frequentata! Ma la sua caratteristica pi importante che oggi quasi totalmente
sommersa: se ne possono osservare diverse tracce sui massi al limite della battigia nei pressi della punta del Gran Carro, non lontano da Bolsena. Il nome odierno di questo luogo deriva
probabilmente dalla presenza della strada (la cui esistenza nota sin dal XVIII secolo), ma in realt il nome originale del sito Punta del Grancaro, cio luogo ricco di granchi. Si tratta, naturalmente,
di granchi d'acqua dolce (Potamon fluviatile), un tempo molto pi comuni di oggi. La strada testimonia un livello del lago di circa 8-9 metri pi basso dell'attuale: lungo le fertili pianure che in in questo
modo erano disponibili per l'agricoltura, sorsero diversi villaggi gi in epoca Villanoviana, come confermano gli innumerevoli reperti (olle, raschiatoi,scarti di fornace, lucerne, e anche un teschio di Bos
primigenius per un totale di circa 4000 reperti) rinvenuti sott'acqua, soprattutto nei pressi della grande aiola che sorge a circa 60 metri pi al largo della punta, a 5 metri di profondit. Le aiole, cos
chiamate dai pescatori, sono dei grandi cumuli di pietre, di forma tronco conica e sezione ovale (circa 60x80 m, per diversi metri di altezza), la cui antichit sembra certa, ma la cui funzione ancora
poco chiara. Probabilmente si trattava di strutture adibite ad un uso religioso e di culto. Fatto sta che attorno alle aiole sorsero numerosi villaggi che poi, con l'innalzarsi progressivo del livello del lago
(a partire dal IX sec. aC), vennero sommerse. Gli abitanti dapprima realizzarono delle palafitte, di cui sono stati rinvenuti i pali di sostegno, poi abbandonarono il sito Arrivare a visitare le pietre con le
tracce dei carri non facilissimo. Il sistema migliore utilizzare una barca, ma durante la bella stagione, soprattutto in piena estate, la passeggiata si pu trasformare in una esperienza divertente e
piacevole. Naturalmente occorrer prevedere di bagnarsi: in genere il livello dell'acqua non superer la cintola, quindi si possono tenere all'asciutto vestiti di ricambio, cibo o attrezzatura fotografica
tenendo il tutto ben al riparo dentro uno zainetto. Da Bolsena ci si dirige sulla ss2 Cassia verso Montefiascone. Poco prima del km 107,00, si stacca a destra una sterrata in discesa, accanto a un
piccolo cancello. Provenendo da Montefiascone questa stradina poco visibile perch si immette sulla statale in modo molto angolato e nascosto da siepi. Il punto di riferimento da tener ben presente
il miliare del km 107! Si segue la stradina, abbastanza sconnessa ma transitabile, parcheggiando appena possibile. Si incontrano diversi slarghi adatti allo scopo. Si prosegue a piedi raggiungendo
alcune capanne e strutture di pescatori. In breve, ci si trova la strada sbarrata, ed occorre scendere in acqua. Il fondo del lago in questo punto ricco di ciottoli: occorre dunque utilizzare dei sandali o
delle vecchie scarpe. La presenza, lungo il tragitto, di diversi alberi caduti, obbliga ad allontanarsi dalla riva, ma il livello delle acque rimane comunque intorno ai 50-60 cm. Ad un certo punto si vedr
un tubo che dalla riva si immerge nel lago; poco pi avanti sono ben visibili delle rocce che formano un piccolo promontorio: quello il punto dietro al quale si possono identificare le tracce dei carri.
Data la presenza di diverse microscopiche calette, pu valer la pena di lasciare vestiario e materiali e proseguire a nuoto, soluzione meno faticosa! L'ambiente e il paesaggio sono di grande bellezza, e
la passeggiata non richiede pi di un'oretta scarsa. Inoltre il luogo molto ricco di fauna acquatica ( facile avvistare cavedani, persici ed altri pesci) e di uccelli (aironi cenerini, nitticore, garzette,
germani reali, folaghe), e invita alla sosta anche prolungata. Un altro luogo in cui facile osservare le rotate il tratto di costa tra Marta (borgo dei pescatori, dove c' un piccolo molo) e
Capodimonte, sicuramente uno dei pi interessanti del lago di Bolsena. La presenza infatti di una parete rocciosa, ha impedito l'edificazione di edifici (se si fa eccezione di alcuni villini in alto) e di
strade. Un tempo, per, probabilmente sino all'epoca medievale, la situazione dovette essere parecchio diversa. Quando il livello delle acque del lago si trovava diversi metri pi basso, la base della
parete di roccia, di tufo giallastro, venne a costituire la sede ideale per una strada, frequentata da numerosi carri, a giudicare dai solchi ancora visibili a quota 304 m slm, appena sotto la superficie
delle acque cristalline del pi grande specchio lacustre vulcanico d'Europa. Le cosiddette rotate sono molto ben visibili perch i solchi lasciati dei carri vengono riempiti da numerosi sassi, pi scuri
del fondo, che evidenziano cos il tracciato. A parte questa singolare emergenza archeologica, il sito di notevole interesse paesaggistico perch, a parte qualche sentierino privato in discesa dai villini
soprastanti, non ci sono quasi tracce umane lungo un tratto molto lungo di costa. Una piccola spiaggia, interrotta da diversi alberi caduti, rende piacevole la passeggiata da punta a punta, da
Capodimonte a Marta e ritorno. Una passeggiata da fare in estate o con stivali alti, perch non si pu evitare di entrare in acqua, sia per superare i suddetti alberi, sia per vedere meglio le rotate.
All'estremit del golfo, quasi all'altezza del porticciolo del borgo dei pescatori di Marta (da cui sono separate soltanto da un altra piccola caletta) si trova una serie di grotte artificiali, la cui funzione
non chiara, ma che certo non sono recenti, e che molti chiamano tombe etrusche. Questultimo sito anche raggiungibile dal porticciolo di Marta utilizzando una scalinata che supera il promontorio
e poi scende al di l, dando accesso a una piccolo spiaggia. Per accedere all'itinerario, occorre andare da Marta verso Capodimonte sulla sp 8 Verentana e girare al primo bivio per Capodimonte (a

destra), imboccando cos via Roma. Quasi subito si volta di nuovo a destra, appena dopo il cartello con scritto il nome della citt, prendendo cos via Cava, sterrata in discesa che si segue sino ad
arrivare ad uno slargo (il fondo discreto, ma si pu anche parcheggiare prima e procedere a piedi). Sulla destra si scende al lago e si procede lungo la battigia. Le rotate si incontrano quasi subito, a
pochi metri da riva e sotto poche decine di centimetri d'acqua. Vale la pena seguire tutta la spiaggia sin quasi fino a Marta. In tutto ci vuole poco pi di un'ora a/r.

La Cassia Antica tra Bolsena e Montefiascone La realizzazione alla met del II secolo a.C. della via Cassia, che collegava Roma con Clusium (Chiusi), ad opera di un membro della gens
Cassia, rese possibili migliori e pi rapidi collegamenti tra lUrbe e la parte interna dellEtruria, favorendo lo sviluppo economico in particolare delle aree pi prossime al lago di Bolsena (e dunque
Bolsena e Montefiascone in primis). Dellantico tracciato, identificato per lunghi tratti con relativa certezza, rimangono proprio tra i due paesi della Tuscia spettacolari tratti pressoch intatti, con i
basoli perfettamente conservati. A Montefiascone, in localit Case Paoletti, si possono percorrere circa 2 km di strada basolata ancora in situ, in alcuni punti cos livellata e pulita da sembrare
appena costruita. Purtroppo, una scellerata scelta edilizia ha consentito di edificare, ai bordi della strada, una lunga teoria di villette e altri edifici, che sminuiscono non poco la bellezza e spettacolarit
del monumento. Tale sviluppo urbanistico, per assurdo, insiste maggiormente proprio dove la strada meglio conservata: i proprietari delle case, infatti, la utilizzano quotidianamente! Ciononostante,
grazie ad alcuni tratti non edificati, visitare questo luogo regala emozioni intense, specialmente se ci si limita al primo tratto, quello che inizia accanto alla cappella di Santa Maria del Giglio, che
attraversa una zona di campi coltivati e boschetti piuttosto piacevoli. Per arrivarvi, dalla sp 7 Commenda, che da Marta va verso Viterbo, allaltezza del piccolo abitato che da il nome alla strada
(ripreso da un Hotel), si volta a sinistra su via Commenda (indicazioni per Montefiascone). La strada sale ripidamente verso la frazione di Le Poggere (1,7 km), dove si trova una sorta di rotatoria: qui
la strada si divide. Si prende la strada asfaltata a destra, in salita (tralasciare la stradina nettamente a destra, sterrata e in discesa): dopo circa 2,4 km si raggiunge ledicola sopra citata dove inizia il
basolato, in questo punto davvero molto bello. Lo si segue a piedi, entrando presto nel bosco e poi scendendo poi verso il tratto urbanizzato, che comunque merita una visita. Il ritorno avviene sullo
stesso percorso dellandata; si pu passeggiare a piacere. Il tragitto comune anche alla via Francigena: seguendo le indicazioni di questultima si pu proseguire in direzione Roma, raggiungendo
Viterbo (soluzione ideale se ci si sposta in bicicletta). Andando poi verso Bolsena, si pu effettuare una passeggiata piacevolissima nel parco di Turona, unarea verde di grande interesse
archeologico, ma anche naturalistico, grazie alla presenza di un bosco di alto fusto e soprattutto di moltissima acqua, che d origine a due corsi dacqua perenni, il fosso di Turona, che nasce nei pressi
delle omonime sorgenti, captate dallacquedotto della vicina citt, e il Bucine, la cui portata abbondante e relativamente costante ha portato alla nascita lungo il suo corso di diversi mulini, di cui
restano importanti testimonianze. Il Parco attraversato dalla via Francigena, che sbuca in breve su un tratto pressoch intatto dellantica via Cassia, con il basolato perfettamente livellato che
testimonia la perizia tecnica dei Romani. Per la visita, occorre voltare dalla via Cassia tra Montefiascone e Bolsena, su una stradina a destra con chiare indicazioni per il parco. La strada, dal fondo
dapprima in cemento e poi sterrato, sale sul colle sino a entrare nel bosco. Arrivati a unampia radura dove si trova la chiesetta di Santa Maria di Turona, si parcheggia e si segue il sentiero
(indicazioni per la sorgente delle Bucine) in salita sulla destra, parte del tragitto della Francigena. Il sentiero prosegue a mezza costa sulla gola fluviale, in ambiente verdissimo (tralasciare segni bianco
rossi in discesa, che conducono ai ruderi di un mulino) sino a passare sopra una piccola cascata artificiale legata alla presenza di un antico mulino; poco pi avanti, superata una seconda cascata, si
guada un torrentello allaltezza dei resti di un altro mulino e si risale tra i castagni sino ad un gruppo di case recentemente restaurate. In breve si sbuca sul basolato della via Cassia Antica, che si pu
seguire sulla sinistra. Ritorno per la stessa strada (circa 2-2,30 h a/r).

La Val di Lago (San Lorenzo Nuovo) Nelle mappe medievali e nei documenti dellepoca, i territori di San Lorenzo alle Grotte, Grotte di Castro, Latera, Gradoli, e lIsola Bisentina, non
erano parte della Tuscia ma costituivano la Provincia di Val di Lago, posta sotto il controllo di Orvieto sino al 1359, quando venne accorpata allo Stato Pontificio. San Lorenzo alle Grotte sorgeva
proprio nel cuore di questo territorio di grande bellezza, ma anche umido e preda delle epidemia di Malaria. Tra il paese e le rive del lago, si trovano i poderosi resti di un'antica chiesa, edificata tra il
1563 e il 1590 ad opera dellarchitetto Pietro Tartarino, che utilizz le fondamenta di un preesistente edificio sacro dedicato a San Giovanni Battista. La struttura della chiesa si ispira agli edifici a
pianta centrale gi brillantemente realizzati da Antonio da Sangallo il Giovane a Montefiascone e Orvieto e presenta una elegante pianta esagonale su cui si innesta un presbiterio rettangolare, che
allinterno conserva ancora alcune decorazioni a stucco sulla parete di fondo (opera dellartista fiorentino Fernando Fancelli) e i resti di alcune statue ospitate nelle loro nicchie. Ledificio venne
abbandonato nel XIX secolo anche a causa di problemi avuti con la copertura (demolita nel 1828), ed oggi ridotto ad un affascinante rudere perso nella campagna. Linterno invaso dalla
vegetazione, e questo in realt ne aumenta il fascino un po misterioso, legato anche alla solitudine del sito che pure, grazie alla presenza della Francigena, ha visto, e vede, passare molti viandanti,
alcuni dei quali hanno graffito sulle pareti delledificio il proprio nome (unabitudine che oggi si trasforma per in puro vandalismo). La solitudine della chiesa era un tempo assai meno evidente di oggi,
visto che non sorgeva a grande distanza dal vecchio centro abitato, e proprio labbandono di questultimo contribu non poco alla decadenza di San Giovanni, a quel punto scarsamente frequentata
dato che le cerimonie religiose dedicate al santo vennero trasferite nella nuova chiesa nella piazza di San Lorenzo Nuovo. Per raggiungere il rudere, proveniendo da Bolsena, occorre seguire la ss 2
Cassia in direzione di San Lorenzo Nuovo e voltare a sinistra al bivio per Gradoli sulla ss 489, incrociando cos quasi subito la via Paese Vecchio (tabelle della Francigena): voltando a sinistra si arriva
in breve a San Giovanni. A questo bivio, andando a destra si procede invece verso San Lorenzo Nuovo passando in breve sotto la rupe del vecchio centro abitato. San Lorenzo Nuovo sorse infatti
solo nel XVIII secolo in seguito allabbandono del vecchio centro abitato: liniziativa si deve a papa Clemente XIV, su sollecitazione del suo tesoriere apostolico, che affid il progetto allarchitetto
Francesco Navone. Questultimo, anche per dare un respiro moderno ed europeo al progetto, si ispir alla grande piazza Amalienborg di Copenaghen, di forma ottogonale, come base per la
creazione di un tessuto urbanistico razionale, con strade dritte che si intersecano ad angolo retto. La piazza dominata dallalta facciata della chiesa di San Lorenzo martire, neoclassica, che conserva
allinterno pregevoli opere darte. Labitato venne collocato in un punto decisamente pi salubre del precedente. San Lorenzo alle Grotte, come si chiamava il vecchio paese, sorto intorno al 770 e
scomparso dopo mille anni di vita, sorge su un colle a breve distanza dal lago (si raggiunge seguendo via Paese Vecchio sia dallabitato moderno che dalla chiesa di San Giovanni: il sito facilmente
identificabile). Arrivando, si notano numerose grotte scavate alla sua base e resti di murature, parte dellantica cerchia muraria, dotata di torri circolari e tre porte di accesso. Nella piazza principale si
ergeva la chiesa parrocchiale dedicata a San Lorenzo e, tuttintorno, le abitazioni. Per ampliare lo scarso spazio a disposizione, gli abitanti scavarono piani interrati e ampie cantine, molte delle quali
sono ancora visibili. A questa abitudine il vecchio paese deve il suo nome (alle Grotte), ma anche gli innumerevoli crolli strutturali che, insieme alla malaria, portarono al suo abbandono. Laccesso
pi comodo allarea archeologica dallestremit opposta del colle rispetto al lago, dove sulla sinistra (andando verso labitato moderno) si nota uno slargo nel bosco. Da qui, superando una
recinzione, si accede alla parte superiore del colle (prestare molta attenzione ai numerosi pozzi scavati nel terreno!). Dellabitato, in realt, rimangono pochi resti, i pi imponenti dei quali sono le mura
urbane, in alcuni punti davvero imponenti. Le molte grotte visibili, in buona parte franate, rivelano allinterno contrafforti, archi e nicchie che ne testimoniano lutilizzo e il tentativo di ridurne la franosit.
La folta copertura boschiva, aumenta il senso di abbandono e solitudine, sebbene ci si trovi sempre a breve distanza dalla strada. Un rapido confronto, anche solo mentale, tra larroccato centro
medievale e labitato modernamente concepito dove gli abitanti vennero trasferiti, fa comprendere quanto e come le loro condizioni di vita subirono un netto miglioramento! Comunque, anche il luogo
dove venne edificato il centro abitato moderno aveva conosciuto ben pi antiche frequentazioni, come testimonia la presenza di diverse testimonianze etrusche, la pi interessante delle quali
certamente la cosiddetta Tomba della Colonna a Torano. Nella zona di Torano, facilmente raggiungibile da San Lorenzo seguendo lomonima strada, si trova una chiesa dedicata alla Madonna
probabilmente edificata sui resti di un tempio etrusco: vi conservato un prezioso affresco del 400 (Vergine in trono con bambino benedicente). Nei pressi, a testimoniare ulteriormente lantica
frequentazione etrusca, si trova appunto uninteressante e poco conosciuta tomba, detta della colonna per la presenza, al centro esatto dello scavo, di una colonna circolare che sostiene il trave

centrale del finto tetto ligneo scolpito sul soffitto. Tuttintorno si osserva una banchina, probabilmente destinata a ospitare le salme dei defunti. Di fronte allingresso un piccolo pozzetto quadrato
(attenzione!) in genere colmo dacqua. Entrando nella tomba si coglie quasi subito un senso di armonia architettonica che non poi cos frequente nelle altre strutture simili dellEtruria, in genere
realizzate su schemi predefiniti. E come se in questo caso il committente avesse richiesto agli scalpellini una particolare attenzione nello scavo in modo da ottenere una sorta di sezione aurea
architettonica in cui la colonna, collocata in linea perfetta con il vano di accesso, gioca un ruolo fondamentale. Tra laltro di tombe con (finte) colonne non ve ne sono moltissime, e quasi tutte sono
ricordate per la loro bellezza (basti pensare alla Tomba Margareth di Barbarano Romano). Raggiungere la tomba abbastanza facile: si parcheggia presso la chiesa e si segue per un centinaio di metri
circa la stradina, a quel punto sterrata, che scende verso valle utilizzando una tagliata. Ad un certo punto si vedr sulla destra un cordolo di cemento, vicino una recinzione con allinterno alcune
capanne. La tomba esattamente al di sotto del cordolo: per tracce, scomodamente, si deve scendere sul campo sottostante sino a incontrare sulla rupe il vano di accesso.

Bisenzio e la sua isola Il promontorio di monte Bisenzio si protende sul lago di Bolsena con una forma tipicamente collinare, e appare ricoperto da un folto bosco di lecci, sostituiti sul versante
verso Capodimonte (che dista circa 4 km) da uliveti. Ha ospitato insediamenti umani per millenni: dapprima villanoviani, poi un abitato etrusco (vi stata scoperta una necropoli dell'VII-VI secolo),
quindi romano (l'antica Visentium, eretta a municipio nel 90 a.C.) e infine medievale. Dopo la distruzione operata dai Longobardi, venne ricostruita passando attraverso il dominio dei Mastari, degli
Aldobrandeschi di Sovana, dei Farnese e venne inclusa, nel 1537, nel Ducato di Castro, per passare poi, nel 1649, alla Camera Apostolica. Nei secoli successivi l'abitato andato poi pian piano
decadendo, per essere definitivamente abbandonato intorno al 1816, una data sorprendentemente recente se si considera che sulla vetta, a 406 metri sul livello del mare, non si incontrano
praticamente resti, ad eccezione di alcuni brevi tratti di mura. La verit che il borgo antico venne smantellato, pietra su pietra, per realizzare nuovi edifici a Marta, che andava in quel periodo
incrementando la propria popolazione. La passeggiata, breve e tranquilla, che raggiunge il prato sommitale della collina, regala emozioni intense con poco sforzo: a parte il bosco di lecci secolari che si
attraversa, il bel prato sommitale e i pochi ruderi sparsi, un sentiero attrezzato conduce a visitare il pi bel colombario della Tuscia e forse d'Italia. Si tratta di un ambiente ipogeo, parte della necropoli
etrusca, con le pareti interamente scavate da innumerevoli nicchie; sulla parete di fondo, parzialmente crollata, si venuta a creare una finestra mozzafiato che regala la migliore vista possibile sul lago e
sull'isola Bisentina (appunto) perfettamente inquadrata. Uno spettacolo davvero indimenticabile. In tutto, andata e ritorno, occorrono circa 40 minuti. Da Capodimonte si continua sulla sp Verentana
in direzione di Valentano per poi prendere la sp del Lago di Bolsena (bivio a destra, con la strada, stretta, che conduce chiaramente verso il piccolo monte). Giunti al vertice della salita (al di l si
scende rapidamente verso un bel tratto di costa lacuale con deliziose spiaggette) si incontra la piccola chiesetta di S. Agapito. Di fronte, si imbocca a piedi la stradina sterrata, chiusa alle auto, che sale
ripidamente tra i campi coltivati, quindi entra nel bosco dopo aver superato uno slargo erboso dove si intravedono i primi radi resti del borgo medievale (qualche breve tratto di muro sommerso dalla
vegetazione). Da qui inizia la stradina, bordata da un corrimano in legno, che sale verso la vetta, raggiungibile in pochi minuti (15 minuti). A questo punto occorre tenersi verso la sinistra del prato
sommitale (dov' un grosso cipresso) e seguendo il corrimano si individua con facilit il sentiero attrezzato che scende, anche grazie all'ausilio di gradini, all'ingresso del colombario. Il rientro avviene
per la stessa strada dell'andata. Volendo, si pu ancora girovagare un po' nei boschi, scoprendo altre tombe e cavit artificiali pertinenti all'insediamento etrusco. Lantistante isola che da Bisenzio
prende il nome, evidenzia numerose strutture murarie e una ben visibile chiesa, dedicata ai santi Giacomo e Cristoforo (allinterno della quale si trova il prezioso monumento funebre di Ranuccio III
Farnese), la cui cupola porta la firma del Vignola. In realt, di chiese (o santuari) lisola ne ospita ben sette (numero significativo!), ognuna costruita di fronte uno dei paesi collocati sulle rive del lago,
oltre a fortificazioni e ai resti di un antico insediamento. Era insomma, un tempo, abitata e vitale e daltra parte, considerando che vasta solo 17 ettari, ha avuto per una storia lunga e tormentata.
Libero comune nella provincia di Val di Lago in epoca medievale, venne occupata nel 1255 dagli Aldobrandeschi di Bisenzio, rimanendo legata alla citt antistante sino al 1263, quando in seguito
alle distruzioni operate dalle truppe di Bisenzio come rivalsa per il mancato appoggio degli isolani durante la guerra contro i prefetti di Vico - fu incamerata nei domini della Santa Sede per ordine di
papa Urbano IV (che tent di dare allisola il poprio nome, con scarso successo). Nel 1333 il Rettore del Patrimonio provvide a ricostruire il sistema di fortificazioni. Il momento di massimo
splendore, lisola lo conobbe alla fine del XIV secolo, quando, passata sotto il dominio dei Farnese, venne arricchita di numerosi monumenti. Ma le sue vicissitudini non erano terminate: entrata a far
parte del Ducato di Castro alla sua costituzione nel 1537, ne segu il destino, tornando nel patrimonio della Santa Sede alla caduta del Ducato, con la distruzione della capitale, Castro, ad opera delle
truppe pontificie nel 1649. Da quel momento inizia la decadenza, interrotta solo dalla trasformazione in una sorta di grande giardino, amorevolmente curato, ma di propriet privata e normalmente non
visitabile (ma ben apprezzabile in barca, dal lago). Nel cuore della collina che costituisce gran parte della sua superficie, il monte Tabor, si trova uno dei luoghi pi enigmatici di questo angolo dItalia,
la cosiddetta Malta dantesca. Nel 1255, Francesco d'Andrea dei Minori (citato dal Martinori nel suo libro Lazio Turrito) cos descrive una Malta: anche fu fatta una prigione oscurissima in uno
fondo di torre, allato a la porta de ponte Tremolo, dove stava la risecata del piano de Santo Faustino. La qual prigione fu chiamata la Malta, dove il Papa metteva li suoi pregioni quando stava in
Viterbo. A quanto pare vi furono custoditi quattro Templari e tal frate Pietro Valentini. L'uso della Malta a Viterbo dur fino dopo la met del XIV secolo. Nel codice Caetani si legge: in lacu
Viterbi [lago di Bolsena] est turris que dicitur la Malta, in qua sacerdotes delinquentes mictebantur a papa; e Benvenuto da Imola aggiunge: Turris orrenda in lacu Sanctae Christinae, carcer amarus
delinquentium sacerdotum []. Il nome Malta fu dato genericamente a tutte le prigioni per i chierici ed anche alle carceri fangose e orride. E questa laccezione in cui si deve intendere l'allusione
dantesca (Paradiso IX, vv. 52-64), quella di Jacopone da Todi. Dunque di prigioni chiamate Malta ne dovettero esistere diverse, e probabilmente quella originaria si trovava a Viterbo.
Ciononostante, delle Malte particolarmente punitive esistettero sul Lago di Bolsena. Una in particolare, davvero suggestiva, appunto quella dellIsola Bisentina, interamente scavata nella roccia. E in
sostanza una camera circolare, con un pozzo sovrastante e una galleria daccesso, buia e umida, un luogo terribile dove essere rinchiusi! Viene tradizionalmente chiamata la Malta dantesca,
identificandola dunque con quella che Dante avrebbe citato nella Divina Commedia. Sta di fatto che questo carcere di massima sicurezza, da cui era pressoch impossibile fuggire, vide tra i propri
ospiti sacerdoti e uomini di chiesa riottosi ai voleri papali, o sgraditi al clero per le pi diverse motivazioni.

L'isola di Amalasunta (Marta) Le isole del Lago di Bolsena sono tra le meraviglie naturali pi interessanti della Tuscia, e hanno ovviamente ispirato molte storie e leggende, alcune delle quali
non prive di fondamenti storici. Secondo Plinio, ad esempio, sotto lincalzare dei venti la forma delle due isole muterebbe divenendo ora triangolare ora circolare ma mai quadrata. Lo stesso George
Dennis, durante i suoi viaggi nellEtruria si sofferma ad analizzare questo passo dello scrittore classico, giungendo alla conclusione che forse gi in et romana il consumo dellottimo vino di
Montefiascone (lEst!Est!Est!) fosse eccessivo! In realt, oggi sappiamo che il variare del livello delle acque del lago, che un tempo poteva avvenire anche con relativa rapidit, provocava lemergere
di parti delle isole normalmente sommerse, e ne modificava la forma. Bastava tornare sulle rive del lago dopo qualche anno ed ecco che la Martana era divenuta un promontorio e la Bisentina
appariva di forma tondeggiante (e molto pi ampia); non solo: una terza isola faceva la sua comparsa. Poco a nord di Capodimonte si trova infatti la Spereta, unisolotto oggi coperto da un velo
dacqua, ma che nei periodi di secca rivelava la sua presenza. Proprio per la facilit daccesso nei periodi di secca, quando anche le rive erano percorse dai carri come dimostrano le rotate, lisola
Martana vide crescere la propria importanza, anche come esilio di personaggi scomodi. Una lunga striscia di terra la saldava alla costa poco a nord di Marta, in localit Cornos: per una completa
connessione, mancava un piccolo istmo di una cinquantina di metri, per una profondit massima di due metri. Anche con le tecnologie di epoca medievale non cerano difficolt particolari a colmare
questa breve distanza. Nacque cos la cosiddetta strada di Amalasunta. Il nome deriva dal pi noto e prestigioso ospite della Martana: la regina dei Visigoti Amalasunta, madre dellerede al trono
Atalarico, che vi venne relegata e poi assassinata- per volere del re Teodato nel 534. L'isola, infatti, poco adatta a ospitare un insediamento civile per la scarsit di terreni coltivabili, venne
fortificata e dotata, a partire dal IX secolo, di un monastero benedettino con una chiesa dedicata a S. Stefano. Era, insomma, un luogo ideale per relegarvi personaggi scomodi o da tenere sotto rigido
controllo.

Il Lago di Mezzano (Valentano) Sulla vetta del Monte Rosso, che domina il piccolo lago vulcanico di Mezzano, si trovano le rovine di un castello, di cui non resta quasi nulla. Tutto il Monte
Rosso (toponimo comparso nel XIX secolo e legato al colore delle rocce affioranti) per ricoperto da uno splendido bosco, percorso da sentieri (con vecchie aree picnic oramai degradate) che
conducono sino alle rive del lago, uno dei pi belli dell'Italia centrale, nonostante le sue minuscole dimensioni. E' un luogo in cui in effetti facile farsi prendere dalle suggestioni! Non a caso Mezzano
uno dei cosiddetti laghi di Pilato (il pi famoso si trova ai piedi del monte Vettore, sui Sibillini), cio uno di quelli in cui si racconta che il corpo del prefetto che condann Ges, affidato a un carro
trainato da buoi, si sia inabissato. Il castello, collocato proprio ai confini con la Toscana, quindi in area doganale, rivestiva grande importanza strategica: fece atto di soggezione a Tuscania nel 1298 e
nel 1348 risulta appartenere a Guido di Santafiora, conte palatino, a cui fu tolto dal rettore Guiscardo di Comborino. Dopo di che sembra sparire nel nulla. Il lago si pu facilmente raggiungere da
Valentano seguendo la strada provinciale 118, che dal paese scende nella vallata e l'attraversa: dopo circa 8 chilometri conviene prendere la sterrata in salita sulla sinistra, che conduce al vertice del
cratere e all'area boscata. Si parcheggia nei pressi di un bivio e si procede a piedi sulla sinistra (questo tratto comunque anche percorribile in auto), entrando nel bosco, caratterizzato da esemplari
arborei d'alto fusto, e incontrando, sulla destra, le vecchie aree picnic e tracce di sentiero che consentono di raggiungere le rive del lago. L'aspetto pi interessante del lago il fatto che, a parte un
paio di edifici rurali, non ci sono tracce di insediamenti umani lungo le sue rive. In realt, il lago oggi molto pi piccolo di quanto dovesse essere un tempo, prima delle bonifiche. E doveva un tempo
essere anche molto frequentato, visto che si sono trovati i resti di un insediamento preistorico (ora al museo della Rocca di Valentano) edificato su palafitte. La bellezza del paesaggio e la sua
tranquillit ripagano della poca fatica fatta per raggiungere le rive erbose dello specchio d'acqua, lungo le quali si pu ulteriormente, brevemente passeggiare.

Torre Alfina (Acquapendente ) Tra Orvieto, Acquapendente e Bolsena, si estende un ampio altipiano, diviso in due parti dal confine tra Lazio e Umbria, su cui sorgono diversi borghi e si
conserva un paesaggio di rara bellezza, con campi coltivati, pascoli e boschetti di querce. Sottoposto allinfluenza di Volsinii a partire dal VII sec. a.C., conosce attestazioni fino dalla media Et del
Bronzo. Secondo Fabio Colicchi e Cristiana Zaccagnino (Umbria - Collana Archeologia delle Regioni d'Italia, IPZS 2008), la zona sud-orientale del comune di Castel Giorgio, a ridosso del
confine tra Umbria e Lazio, ricca di attestazioni archeologiche. Si tratta in prevalenza di tombe a camera, scavate nel terreno tufaceo, che sembrano concentrarsi nel III e II sec. a.C. Queste
necropoli sono certamente in relazione con il centro di Volsinii-Bolsena, in quanto poste lungo le vie di comunicazione che da esso si dipartono verso il distretto tiberino. Laltipiano dellAlfina un
angolo della Tuscia poco noto, probabilmente perch i viaggiatori vengono maggiormente attratti dalle bellezze orvietane o dalle atmosfere del lago di Bolsena. E un peccato, perch questo luogo sa
offrire emozioni intense e particolari, a cominciare proprio dai panorami pi belli possibili verso la rupe di Orvieto, o dalla presenza di boschi tra i pi intatti dellItalia centrale, per non parlare di gole
fluviali, cascate e importanti resti archeologici. Ma soprattutto, laltipiano offre la possibilit di fare la conoscenza di un mondo, a met strada tra il romantico, il magico e larchitettonico, che ci riporta
indietro di quasi due secoli. Snodo logistico, per esplorare laltipiano, labitato di Castel Giorgio, da cui facile, ad esempio, raggiungere il piccolo e grazioso borgo di Torre Alfina. Per il Silvestrelli
(Castelli e terre della regione Romana 1940), come per tutti i feudi dei Monaldeschi, si esagera l'antichit del loro possesso. Da un documento pubblicato dal Fumi parrebbe che prima che ai
Monaldeschi avesse appartenuto ai Montemarte conti di Corbara. Il documento del 1415 e vi si tratta di restituire ai figli ed eredi di Francesco conte di Corbara i diritti che avevano a Torre Alfina,
usurpati loro da Corrado e Luca Monaldeschi. Solo nel secolo XV si hanno prove documentate che la possedevano i Monaldeschi.

Nel 1442 Antonio Colella detto Ciarpellone, capitano al servizio di Francesco Sforza, venendo dall'Umbria per recarsi a Toscanella prese Torre Alfina facendovi prigioniero Luigi di Luca
Monaldeschi. Riusc a fuggire e salvarsi; ma dovette sborsare molto denaro per riscattare il castello [...] La linea dei Monaldeschi [...] fin nel 1668 colla morte in Francia di Giovanni Rinaldo, ultimo
erede fedecommesso. Ma gi prima della morte di lui la Camera Apostolica e i suoi creditori avevano sequestrato i castelli. Il borgo di Torre Alfina dominato dallimponente castello che fu appunto
dei Monaldeschi, ma che lega i suoi destini pi recenti ai Cahen, e ai cui piedi si estende il Bosco del Sasseto, una vera meraviglia della natura. Vasto circa 65 ettari, conserva al suo interno numerosi
alberi secolari (specialmente lecci, ma anche cerri e roverelle), oltre a specie arboree altrove diventate piuttosto rare, come i tigli. Grazie al particolare microclima, e alla presenza di numerose rocce
vulcaniche sparse nel sottobosco (da cui il nome del bosco stesso), che aumentano lumidit del soprassuolo, qui si possono trovare una vicina allaltra specie di ambienti molto diversi, oltre a essenze
la cui presenza dovuta allintervento umano (come il castagno) e alle tracce dellantica sistemazione voluta dal conte Edoardo Cahen, nato nel 1834 e molto legato a questa sua propriet a cui
dedic, dopo la morte della moglie avvenuta nel 1884, gran parte delle sue energie. Proprio per ribadire il suo legame col bosco del Sasseto, scelse di farsi seppellire in un mausoleo in stile neogotico
edificato al centro di una radura circondata dagli alberi, e qui riposa da oltre 117 anni (mor nel maggio del 1894). Recentemente, ignoti hanno violato il sarcofago, lasciando esposto il corpo allaria (a
suo tempo era stato mummificato e ricoperto di cera per resistere allingiuria del tempo), provocandone la decomposizione. Si racconta che gi durante la Seconda Guerra Mondiale alcuni soldati
nazisti avessero violato il sepolcro, per poi fuggire alla vista della salma perfettamente conservata! Per chiunque visiti il bosco, la radura solitaria con al centro questo singolare monumento,
rappresenta unesperienza davvero singolare, che ricorda certi romanzi gotici del XIX secolo. Per raggiungere il Sasseto (recentemente dichiarato Monumento Naturale), da Torre Alfina si prosegue
sulla strada per le Coste, che scende ripidamente verso la valle del Paglia; la strada dapprima asfaltata, poi diventa sterrata: si tralascia un bivio a sinistra e si prosegue ancora brevemente sino a
incontrare il rudere di un casaletto, dove si parcheggia. Uno stradello di fronte, in discesa nel bosco, conduce in circa 10 minuti al mausoleo Cahen. Da qui, utilizzando gli antichi sentieri, ancora visibili
nonostante il tempo e lincuria, si pu passeggiare nel bosco ammirandone la bellezza e le atmosfere sospese. I periodi ideali sono decisamente lautunno per i colori e la primavera per le molte
fioriture. Da Torre Alfina possibile effettuare altre escursioni utilizzando i percorsi della Riserva Naturale di Monte Rufeno, la capostipite delle riserve naturali del Lazio essendo stata istituita nel
1983. La gola del torrente Subissone, con lantico ponte, il mulino e le cascate, ad esempio, una meta di altissimo interesse paesaggistico e naturalistico (consigliabili gli stivali di gomma). Il sentiero
parte dal Museo del Fiore di Torre Alfina, ma si pu imboccare anche dalla strada provinciale che collega la frazione con Acquapendente, a circa 400 metri dal km 2,00 (andando verso Torre
Alfina). Qui sulla sinistra si stacca una sterrata, con tabella riportante la mappa dellitinerario: si parcheggia e si prosegue a piedi sullevidente traccia (che ricalca lantica strada della Salara) che inizia
a scendere verso lalveo del fosso del Riso, attraversando una folta macchia cedua. Si incrocia unaltra strada sterrata che si prende verso sinistra (paletti segnavia di legno) sino a raggiungere uno
slargo dove occorre tralasciare il bivio ancora a sinistra per procedere invece dritti, su un sentiero a mezza costa, alto sulla valle del torrente e delimitato da una staccionata. Qui il sentiero sembra
perdersi: bisogna mantenersi verso destra e poi piegare in discesa sino alle rive del fosso dei Ladri, che si guada facilmente (non dopo piogge molto intense!). Si risale il colle mantenendosi a sinistra e
si prosegue di nuovo a mezza costa utilizzando per lorientamento, oltre ai paletti di legno, i segni bianco-rossi sugli alberi. La traccia si allunga nella macchia, in falsopiano, poi raggiunge una sterrata
che si abbandona poco dopo, quando curva verso destra: qui si procede invece ancora dritti e si inizia a scendere rapidamente verso il ponte (chiamato Ponte Romano ma in realt risalente al
1837) e il mulino, recentemente restaurato dalla Riserva Naturale. Il sentiero prosegue ora verso destra, in salita, in direzione del Museo del Fiore e di Torre Alfina. Si pu scegliere di raggiungere
queste mete, oppure dare unocchiata a una bella cascata. In questultimo caso, si segue per poche decine di metri il sentiero per Torre Alfina, sino a incontrare sulla destra una traccia, che sfiora una
coltivazione di pini e dopo circa 300 metri termina nella macchia. Prestando attenzione al torrente in basso si vedr un affluente immettersi nel suo corso, poco prima di due briglie in cemento. Si tratta
del fosso della Caduta che, come dice il nome, genera la cascata, non facilissima da raggiungere, ma molto spettacolare. Si deve risalire il torrente per tracce, tenendosi verso sinistra (conviene
raggiungere un soprastante pianoro erboso e attraversarlo, ritrovando poi una traccia pi ampia che va in direzione della gola), evitando di scendere nel torrente ma rimanendo subito sotto le pareti
rocciose in alto. Sfruttando il proprio senso di orientamento si prosegue a mezza costa nel folto della macchia, sino a ritrovarsi di fronte al salto dacqua. Sebbene molto scomodo il tragitto per
piuttosto breve.

Il settore umbro dell'Alfina (Orvieto) Partendo da Castel Giorgio, possibile visitare altre due mete da non perdere. Imboccata la ss 74 Maremmana che porta verso San Lorenzo
Nuovo, si volta a sinistra su una stradina sterrata che si stacca poco oltre il km 82, con le indicazioni per Montalfina. In breve si trova sulla destra uno slargo a ridosso di un bel boschetto: conviene
lasciare qui lauto e proseguire a piedi, visto che il castello di Montalfina dista appena un chilometro. Altrimenti si pu proseguire per qualche centinaio di metri e parcheggiare vicino un gruppo di
casali. In entrambi i casi, si passa attraverso filari di alberi e boschetti, fino a un bivio. Andando dritti si raggiunge direttamente la corte di Montalfina, mentre con la strada a sinistra si deve poi
percorrere il viale di accesso. Il castello, attualmente di propriet privata e non visitabile, domina dallalto di una collinetta, ai cui piedi un pozzo, il piccolo borgo costituito da lunghi casali collocati
alla sua destra e alla sua sinistra; sul lato destro si trova anche una bella chiesetta neoclassica. La storia del monumento decisamente articolata. Secondo la leggenda, sarebbe stato il re longobardo
Desiderio, nellVIII secolo, a porre le prime pietre del maniero. Di certo, se ne hanno notizie dallXI secolo, quando venne saccheggiato da Arrigo, figlio del Barbarossa. Agli inizi del XII secolo
passa alla famiglia dei Monaldeschi. Alla fine del XVI secolo venne trasformato, da Sforza Monaldesco in una dimora gentilizia, ma in breve tempo cadde in rovina, per essere infine acuisito dai
Ravizza nella prima met del XIX secolo, che lo ristrutturarono in stile purista, secondo la moda diffusa allepoca, quando si accese unautentica passione per il medioevo (un medioevo da
romanzo, fatto di dame e cavalieri, ovviamente): molti nobili o possidenti, affidarono perci ad architetti specializzati la completa riedificazione di castelli gi esistenti, ma magari ridotti a cumuli di
macerie. Montalfina e Torre Alfina sono due esempi molto evidenti, ma ce n un terzo, sempre sullaltipiano, che decisamente merita una visita: San Quirico. Tornati ancora una volta a Castel
Giorgio, proseguiamo oltre sulla ss 74, dirigendoci verso Canonica, frazione di Orvieto (prendere al bivio la ss 71 verso Orvieto e poi la deviazione a sinistra per Sugano e Canonica). Superato il
piccolo centro abitato, la strada inizia a salire ripidamente sino a un incrocio, dove si va a destra su strada asfaltata che in breve arriva a San Quirico. Il castello risale al XIII secolo, ma stato
completamente ricostruito sulla base di antichi disegni (reinterpretati abbastanza liberamente dallarchitetto Paolo Zampi!). Davanti al castello (privato e non visitabile) laltipiano dellAlfina precipita
ripidamente verso la valle del Tevere: da qui si gode una delle viste migliori possibili verso la rupe di Orvieto con i suoi venerabili monumenti. Non esiste modo pi adatto per concludere una visita
allaltipiano dellAlfina che ammirare la luce del sole al tramonto che indora la facciata del Duomo della citt umbra, storicamente legata alla Tuscia da vincoli storici e culturali.

I Calanchi di Civita Civita di Bagnoregio una delle mete pi note e frequentate della Tuscia viterbese. Difficile, daltra parte, resistere al fascino di questo paesino tutto raccolto su uno sperone
di roccia che tende a sgretolarsi, collocato al centro di una sorta di Grand Canyon in sedicesimo, con candidi calanchi che mutano forma, si pu dire, di anno in anno. La storia di Civita in realt
piuttosto antica; gi in epoca etrusca, poi romana, vi sorse un insediamento connesso con la frazione di Rota, lattuale Bagnoregio (da Balneus Regis, per la presenza di importanti terme), grazie a una
strada che poggiava su un istmo roccioso in tempi pi recenti completamente scomparso, al punto che il Genio Civile, negli anni 60, ha dovuto realizzare per connettere il borgo al resto del mondo
un (francamente orribile) ponte in cemento armato. Lo sviluppo di Civita per legato essenzialmente al periodo medievale, quando assunse le forme attuali (rimodellate dai continui crolli). La
posizione assolutamente strategica si aggiungeva alla fertilit dei terreni: ancora oggi lungo il sentiero che porta nei calanchi si trova un bellissimo castagneto da frutto. Passaggi e camminamenti residui,
testimoniano la frequentazione assidua dei calanchi, dove si coltivava lolivo e si lavoravano campicelli che in breve una frana poteva cancellare. Daltra parte proprio i continui disboscamenti realizzati
per aprire nuovi terreni alle coltivazioni, hanno accelerato i fenomeni erosivi al punto da trasformare completamente laspetto dei luoghi. Sono ancora visibili, qua e l, tratti attrezzati per il passaggio in
settori diversi dellarea dei calanchi, settori oggi totalmente isolati a causa dellavanzare inarrestabile dellerosione. E questo mondo instabile e sempre mutevole a fare di Civita di Bagnoregio gi di
per s splendido borgo dintatta atmosfera non a caso utilizzato come location per innumerevoli film unattrattiva irresistibile per migliaia di viaggiatori. Da Bagnoregio, che si raggiunge facilmente

anche dalla A1, ci si dirige a piedi verso il Belvedere seguendo le indicazioni per Civita (ci sono numerosi parcheggi in paese. Durante i periodi pi tranquilli si pu anche parcheggiare a ridosso dello
stesso Belvedere o anche appena sotto il ponte pedonale che porta al borgo. Nei periodi di punta attivo un comodo servizio bus circolare). Il Belvedere offre una vista straordinaria,
fotografatissima, verso Civita: da qui possibile anche dare unocchiata alla sottostante grotta di San Bonaventura, dove San Francesco sost in preghiera salvando dalla malattia lancora bambino
Giovanni Fidanza, in seguito conosciuto appunto come San Bonaventura. Delle scale in cemento consentono di scendere al piano stradale che, verso sinistra, porta alla frazione di Mercatello e alla
passerella in netta salita verso la porta principale del borgo (porta S. Maria). Ora si attraversa tutto labitato medievale, soffermandosi ad ammirare le sue innumerevoli meraviglie, transitando per
Piazza San Donato, con lomonima cattedrale risalente al 1699 e il delizioso palazzetto Alemanni-Mazzocchi; si continua sulla destra della cattedrale, su via della Maest, lungo quello che doveva
essere il Decumano della citt romana, sino a raggiungere lestremit del pianoro. Qui la strada inizia a scendere lungo un passaggio scavato nella roccia, passa accanto la chiesetta rupestre di Santa
Maria del Carcere, poi piega nettamente a destra su un sentierino che in breve raggiunge il cosiddetto Bucajone, unantica galleria etrusca, lunga circa 50 metri, che fora da parte a parte la rupe,
dando accesso alle coltivazioni di castagno che costituivano una delle ricchezze di Civita. Ad un bivio, si deve tralasciare la traccia pi ampia che volta a sinistra in direzione di Lubriano (altro percorso
comunque interessante) e si prosegue invece dritti, si passa una recinzione e si fuoriesce in unarea prativa in discesa, che conduce a una sorta di cresta, ampia sebbene i crolli ne minaccino lintegrit,
che risale poi verso il Montione, pinnacolo tufaceo dalla caratteristica forma a tacco ai cui piedi si apre un ambiente scavato che lo trafora da parte a parte (evitare assolutamente di entrarvi
perch ad altissimo rischio di frana!). Ora in mezzo alla macchia, la traccia di sentiero procede appena al di l, sino ad un belvedere dove ci si deve arrestare in quanto lerosione ha divorato il resto
del tragitto. Da qui, per, lo sguardo pu posarsi su un panorama mozzafiato, su cui piacevole indugiare; in particolare la nostra attenzione sar attirata da una sorta di muraglia naturale, di un
candore accecante, e sottile come una lama di rasoio, ma sul cui vertice si notano alcune assi di legno: sono i cosiddetti Ponticelli, un antico passaggio che percorreva un crinale oggi totalmente
eroso, al punto da somigliare ad un sinuoso nastro di argilla. Ritorno per la stessa strada dellandata (in tutto circa 1,30 ore). Se non si stanchi di ammirare luoghi interessanti, pu valer la pena
effettuare la brevissima passeggiata per visitare la grotta di San Procoio. Se da Bagnoregio seguiamo la sp Bagnorese verso Lubriano, dopo una serie di curve in discesa, troveremo alla nostra sinistra
la Fonte del Pidocchio, caratterizzata da un mascherone apotropaico. Oggi lacqua dichiarata non potabile, ma in passato era molto apprezzata dagli abitanti della zona, e soprattutto dai pastori, che
si fermavano nei pressi con i loro greggi (ai tempi in cui non cera la strada asfaltata e il traffico automobilistico!). Poco pi avanti, in corrispondenza di una netta curva a destra, si vedr a sinistra una
recinzione e la tabella che indica la Grotta di San Procoio. Per accedervi, si deve superare la rete grazie ad un passaggio facilmente apribile e risalire la breve rampa che porta ad una vecchia cava di
tufo: andando subito e nettamente a destra, si trovano due ambienti. Il primo, la vera e propria grotta dedicata al santo, che qui visse in eremitaggio nel XVI secolo, chiusa da una cancellata.
Accanto, si trova una cappella con un altare, interamente scavata nella roccia.

CAP. 3 - VITERBO E I MONTI CIMINI


Macchia del Conte (Viterbo) La Macchia del Conte un angolo del territorio di confine tra Tuscania e Viterbo (ma oggi nei confini di questultimo comune) di grande interesse paesaggistico,
ambientale e soprattutto archeologico, nonostante sino a non molti anni fa vi sorgesse incredibilmente una discarica, i cui resti sono purtroppo ancora ben visibili. In uno spazio relativamente
ristretto, lungo le rive del torrente Leia, affluente del Marta, si trovano ben due castelli e unintera citt etrusca, con le sue fortificazioni e le sue necropoli. Sito tra Viterbo e Tuscania, dipese or
dall'una ora dall'altra citt. Fece parte della contea di Toscanella conferita nel 1421 ad Angelo Tartaglia da Martino V. Era gi diruto nel 1433. Eretto a contea da Clemente XIV il 7 gennaio 1773, fu
conferito a Giulio e Giuseppe Gentili scrisse il Silvestrelli. Il castello del Cardinale deve il suo nome al cardinale Parnens, rettore del Patrimonio di San Pietro, che vi dimor nel 1265. Per raggiungere
il castello, attualmente nella tenuta Cordero di Montezemolo, occorre imboccare, dalla Tuscanese, la strada Chirichea (bivio a destra, circa 10 km da Tuscania, di fronte un ristorante) sino ad un
grosso casale, quindi girare a sinistra su una stradina sterrata che passa accanto una villetta tra i pini ( preferibile chiedere il permesso: siamo in una propriet privata!), scende e poi risale tra i pascoli,
sino a raggiungere il pianoro dove si trova il castello. Ne rimangono ruderi imponenti, parzialmente restaurati, in un angolo molto ben conservato della valle del Leia. Non lontano, dalla parte opposta
della valle, si trova il castello di Cordigliano, probabilmente un castrum collocato a difesa di un territorio strategico, a breve distanza da Castel Cardinale e non lontano da Castel d'Asso. Della sua
storia si hanno poche notizie, ancor meno noto il motivo del suo abbandono. Citato per la prima volta in un documento della Cattedrale di Viterbo del 1127, nel 1298 giur fedelt al comune di
Tuscania. Sorge su uno sperone di tufo a dominio della valle del Leia, dove si notano numerose testimonianze etrusche (caso non certo unico di riuso di un sito antico!) e ne rimangono in realt
pochissimi resti, ma di grande interesse, che si possono raggiungere prendendo la strada Macchia del Conte dalla provinciale Tuscanese (13,5 km circa da Tuscania, 11 km circa da Viterbo) e
proseguendo sulla sterrata per circa 2 km, voltando poi a destra su una stradina che costeggia i campi, riconoscibile perch bordata da ulivi. Superata un serbatoio d'acqua per uso agricolo, si noter
una stradina in netta discesa, che subito volta verso sinistra. La si segue sino al fondovalle, si supera un acquedotto e si tiene nettamente la destra, sino ad alcune tettoie utilizzate per l'allevamento del
bestiame. La rupe che avremo di fronte quella di Cordigliano (si riconoscono alcune grotte di origine antica). Per arrivare ai ruderi, occorre superare un cancello di legno (da richiudere!) e poi
voltare subito a sinistra entrando per tracce nella macchia, che ostacola parecchio il cammino (meglio scegliere il periodo invernale...). In breve ci si trova al cospetto di un alto muro che presenta,
all'estremit sinistra, i resti di una torretta. E' molto pericoloso entrare nell'area interna del castello per la presenza, tra la folta vegetazione, di pozzi non segnalati. Uno di questi, in effetti, ha attirato
l'attenzione degli studiosi. Si tratta del cosiddetto pozzo scanalato e probabilmente la testimonianza di un riutilizzo (per fini ancora non del tutto chiari) di una tomba etrusca. Le scanalature che ne
percorrono le pareti hanno fatto arrovellare i ricercatori: quale funzione potevano avere? Nell'area del castello presente anche un bel colombario, purtroppo in avanzata fase di crollo. Attualmente il
castello rientra nel territorio del comune di Viterbo. Procedendo ancora pi avanti, lungo la strada di Macchia del Conte, si arriva a un bel gruppo di vecchi casali: ancora poco oltre, una stradina si
stacca sulla destra, dirigendosi verso un gruppetto di alberi. Prima, vedremo alla nostra sinistra una recinzione, che nasconde un gruppo di tombe. La pi grande di questa conserva un lungo dromos
che immette in un ampio ambiente sotterraneo con due ambienti laterali dove sono visibili ancora i resti di qualche sarcofago. E la cosiddetta tomba degli Alethnas, una delle famiglie pi importanti
di Civita Musarna. Labitato, che si trova su un pianoro facilmente raggiungibile proseguendo sulla strada precedente, che volta a sinistra e vi entra, non era molto esteso (5 ettari circa), ma assunse
grande importanza strategica durante le lotte tra Roma e Tarquinia. Secondo gli archeologi, infatti, il sito venne fortificato, nel IV secolo a.C., proprio per proteggere il confine orientale del territorio
tarquiniese e la citt dovette svolgere prevalentemente funzioni militari, viste le sue piccole dimensioni. Scavata a partire dal 1984 dalla Scuola Francese di Roma, Musarna ha restituito notevoli
testimonianze sulla tecnica di fortificazione degli Etruschi, che qui raggiunse il suo acme. Sebbene non esistessero ancora le armi da fuoco, gi in epoca antica le tecniche di assalto raggiunsero una
notevole potenza, grazie a catapulte in grado di lanciare grandi proiettili di pietra (o masse di pece incendiaria) e torri mobili per scavalcare le mura. Daltra parte i castelli non sono una esclusivit
dellet di mezzo, e Musarna ne la prova pi convincente. Naturalmente protetta su tre lati (sud, est e ovest) dallacclivit del terreno, con pareti alte pi di 30 metri, e dalla presenza del torrente
Leia, venne comunque circondata da una poderosa cinta muraria, in opera quadrata con blocchi di tufo posti per testa e per taglio, rinforzata con un agger largo circa 12 metri (una sorta di scarpata
in terra pressata e schegge di tufo), raddoppiata ulteriormente sul lato orientale, il pi esposto, con una barriera avanzata, concepita per arrestare appunto le macchine dassalto. Unopera di
fortificazione talmente potente da costituire un unicum per lEtruria, sebbene strutture simili, ma meno potenti, siano presenti anche a Castel DAsso e Norchia, anchesse collocate sui confini esposti
agli assalti dei Romani. Nel 310 a.C., infatti, il console Q. Fabio Massimo Rulliano, dopo 40 anni di tregua, aveva condotto una vittoriosa spedizione contro i territori tarquinesi, aggirando la Selva
Cimina (considerata impossibile da attraversare) e attaccando appunto da est. Qui, perci, gli Etruschi rinforzarono il proprio meccanismo di difesa, di cui Musarna divenne il perno centrale. Con il
piccolo centro di Cordigliano, poco distante, la valle del Leia, che poteva costituire un comodo passaggio verso i territori interni dove sorgeva Tuscania, venne chiusa, con una tecnica affine a quella
molto diffusa in epoca medievale. La citt era attraversata da una strada centrale e da una serie di strade ortogonali che la suddividevano in una decina di isolati; tre porte consentivano laccesso
allinterno dellarea fortificata, mente ipotizzabile un quartiere artigiano lungo le rive del Leia, dunque extra moenia. Ledificazione delle mura dovette avvenire con una certa premura, visto che la
cava di estrazione era interna al centro abitato, creando in seguito parecchi problemi pratici per le fondazioni delle case e delle strutture di servizio.

La montagna di Viterbo La Palanzana una vetta secondaria del complesso vulcanico cimino, ed davvero la montagna di Viterbo, che sorta anticamente ai suoi piedi e poi si allargata
sino a circondarla. Secondo la leggenda, sul monte, nella localit Vallis Vecchiarelle (pendici occidentali), dentro una grotta nascosto un tesoro in monete d'oro. Come sempre, molti lo hanno

cercato, ma nessuno riuscito a trovarlo anche perch ben difeso da forze oscure e malevole. Ma non solo il diavolo ad aver frequentato la montagna. In una guida turistica del 1889, si descrivono i
pochi resti presenti sulla vetta del monte: sull'altezza del monte esistono due incavi, volgarmente chiamati le cune dei beati Valentino ed Ilario, e una pia leggenda vuole che in essi i due beati si
nascondessero a pregare e far penitenza.... La testimonianza pi evidente degli insediamenti che occuparono l'area del monte La Palanzana (Plebe San Pietro e Plebe Santa Maria in Fagiano) sono in
effetti i ruderi dell'antica pieve (Santa Maria alla Palanzana) che sorgeva esattamente sulla vetta del rilievo vulcanico, a dominio della cosiddetta sedia di San Pietro, cio l'avvallamento che dovette
costituire l'orlo del cratere e dove sorse uno degli abitati, e soprattutto della piana di Viterbo e Bagnaia, da quass perfettamente visibili. Dell'edificio religioso rimangono a dire il vero solo labili tracce
(cisterne scavate nella roccia, tracce di mura, pezzi di marmo, numerosissimi frammenti di mattoni e tegole), ma il contesto ambientale aumenta di molto l'interesse del sito. La vetta infatti circondata
e ricoperta da un bosco di lecci d'alto fusto, le cui radici sprofondano tra grandi pietre vulcaniche coperte di muschio, che la staccano dal folto ceduo castanile che ricopre il resto della montagna. Il
sentiero per arrivare in vetta facile e abbastanza veloce, ma assai faticoso. Invece di appoggiarsi alle curve di livello, infatti, la traccia sale ripidamente, tagliandole, rendendo l'escursione veloce ma
molto tecnica. Da Viterbo si segue la direzione per Bagnaia e si raggiunge il santuario de La Quercia: poco prima di quest'ultimo, una stradina a destra, piuttosto stretta (strada del Cuculo), in salita,
conduce a imboccare la strada Palanzana (tralasciare primo bivio a sinistra e poi bivio a destra) che si segue sino al cancello di accesso all'Eremo dei Cappuccini. Da qui, a piedi, si segue la stradina
sterrata a sinistra, che costeggia le mura dell'insediamento religioso: poco oltre il termine delle mura, si trova un pannello della Riserva Naturale Valle dellArcionello e poco oltre i segnavia per i
sentieri CAI n3 (dritto) e n1, a sinistra. Si segue quest'ultimo che penetra nella macchia: i segnali non sono sempre ben visibili (pi che altro sono utili per i bivi), ma la traccia si distingue con facilit
nonostante il folto sottobosco. Inizia ora una lunga salita, quasi senza soste e con pochi tornanti, che in circa 30-40 minuti conduce sulla vetta attraverso folti castagneti in mezzo ai quali sopravvivono
qua e l ampie tracce della vegetazione originaria. Il ritorno per la stessa strada richiede circa 20 minuti. Oltre alla vetta, molto interessante una visita alla valle dellUrcionio, che si raggiunge
facilmente seguendo il sentiero CAI n3, cio andando dritti al primo bivio poco oltre le mura delleremo. La stradina, in parte scavata nella viva pietra, procede in falso piano, passando anche in una
sorta di piccola tagliata, sinch percorsi circa 400 metri, si nota una traccia che si stacca sulla destra, in netta discesa nel bosco. Seguendola (e quindi abbandonando il sentiero CAI), si raggiunge un
primo fosso (in genere senza acqua), e si prosegue poi parallelamente a questultimo sulla riva opposta. Percorsi alcuni tratti scavati nella roccia, si piega verso sinistra entrando in unaltra valletta,
quella del fosso Luparo (che poi diverr lUrcionio), anchesso in genere privo di acqua. Qui occorre prestare attenzione: invece di superare il fosso e risalire al di l (verso un altro degli accessi del
parco) seguendo la traccia, si deve voltare a destra costeggiando la riva destra della piccola forra. In breve si arriva alle strutture dellacquedotto di Viterbo, realizzato tra il 1903 e il 1914, splendido
esempio di archeologia industriale inserito in un notevole contesto naturale. Singolare il bassorilievo, piuttosto rozzo a dire il vero, realizzato su una parete di roccia dagli operai che lavorarono
allopera. Proseguendo nella forra, si trovano altri ambienti interessanti: subito a valle degli impianti il fosso porta di nuovo acqua e forma una piccola ma graziosa cascata. Ritorno per la stessa strada
(circa unora in tutto).

Colle di Montecchio a Bagnaia (Viterbo) Montecchio in realt solo una collina vulcanica del gruppo del Cimino, coperta da fitta macchia, appena fuori il piccolo borgo di Bagnaia
(famoso per Villa Lante, uno dei giardini pi belli del nostro paese). Per, secondo la tradizione, sul colle avrebbero dimorato le streghe, che vi tenevano le proprie riunioni e vi svolgevano i propri riti
magici. Si tratta di streghe che vanno intese nel senso originario del termine, quindi come sacerdotesse della Natura, capaci di interpretarne i segni e di utilizzarne i poteri, in un rapporto dunque
profondo, partecipato e (diremmo oggi) ecologico con lambiente circostante. A riportare alla luce (e a salvare) le leggende, le storie, e forse (chiss) anche le vicende storiche di questa comunit tutta
al femminile, ha pensato Pier Isa Della Rupe che al tema ha dedicato un libro (Le streghe di Montecchio, Fef Editore) e tutte le sue energie, portando sul colle centinaia di persone, di giornalisti, di
curiosi. Sulla vetta, infatti, tra gli sterpi, i rovi, le liane e gli alberi, si trovano diversi massi chiaramente lavorati da mano umana, e certamente antichi, il cui senso e scopo sono in effetti tutti da chiarire,
e che la fantasia popolare ha attribuito appunto alle streghe, che li avrebbero utilizzati nei propri riti. Nel suo libro, Pier Isa Della Rupe racconta che nellanno mille, quando i primi Bagnaioli
costruirono il castello, la torre e il borgo, si misero con le spalle rivolte a Montecchio. Forse questo offese le streghe che vi abitavano e Malassunta, figlia dIsotta la regina, decise di vendicarsi. Molte
erano le streghe ed erano bellissime. Malassunta era la pi bella, la pi forte ma anche la pi crudele, tanto che molti temevano persino il suo nome e la chiamavano linnominata []. Malassunta e le
sorelle abitavano sulla piana sacra di Montecchio: unincredibile piazza sopra il monte dove non vi sono alberi ma una enorme quantit di massi di pietra grigia disposti in cerchi concentrici che
formano bracieri naturali. Era l che la sera, al calare del sole, accendevano il fuoco, si scioglievano le lunghe trecce, e cantavano una nenia dolcissima ballando tutta la notte. Dal castello e dal borgo
vedevano la luce, sentivano i canti che entravano nelle case e nessuno riusciva a dormire. Il vento portava lodore del fumo, il mana li avvolgeva stregandoli. Raggiungere la piana sommitale di
Montecchio non difficile, visto che il tragitto da percorrere a piedi di circa 6-700 metri, ma occorre prestare attenzione alle tracce nel bosco e alla macchia, che nasconde il percorso e soprattutto
le pietre scolpite (o sono le streghe a celare i loro tesori?). Da Bagnaia si segue la sp 151 Ortana verso Soriano. Si sottopassa il ponte della ferrovia e poco oltre il km 5.00 della strada si volta a
destra su via Gramignana, che si segue per circa 400 metri, per voltare poi su via di Montecchio. In breve (circa 700 m) si raggiunge un gruppo di villette: proprio di fronte lultima di queste, prima
che la strada arriva ad un bivio e a una curva a destra, si trova uno slargo , da dove parte una stradina di esbosco (a destra) e una traccia che sale nel bosco (a sinistra). Si segue questultima, che
raggiunge una radura poi sale nel folto, sempre abbastanza ben visibile, sino ad un capanno su un albero per la caccia al colombaccio; qui si volta nettamente a sinistra verso un grosso masso e con
numerose svolte ( questo il tratto meno visibile), e comunque con percorso intuitivo, si raggiunge il vertice del colle. Tenendosi verso destra, si trovano i massi scolpiti. Ritorno per la stessa strada. In
tutto, andata e ritorno, meno di unora di cammino.

La ruota del Ciciliano (Viterbo) In una lettera inviata al dott. Braun, e pubblicata sul Bollettino dellInstituto di Corrispondenze Archeologiche dellanno 1848, cos scrive il grande
archeologo viterbese Francesco Orioli: la pi notabile [delle antichit ritrovate] un Poliandrio [cio un sepolcro contenente pi sepolture], chiamato la Ruota del Ciciliano (l. del Siciliano) e consiste,
allaspetto esteriore, in unarea quadrilunga ed a un dipresso piana, in mezzo a cui sorge un masso cilindrico di tufo, assai ragguardevole per mole, quantunque molto corroso intorno. Come scrive
lOrioli, la parte superiore della Ruota pianeggiante, e laccesso avviene grazie a una rampa che si trova nei pressi di una muratura che allora come oggi chiude due ambienti ipogei, evidentemente
trasformati in magazzini agricoli; due pozzi si aprono sul margine opposto del tamburo: la loro funzione ignota. La Ruota del Ciciliano senza dubbio il monumento pi enigmatico di Viterbo e della
Tuscia, anche perch poco studiato, e sconosciuto alla gran parte del pubblico (anche agli stessi viterbesi, spesso!). Secondo Giovanni Feo, questa rupe, resa
perfettamente circolare dal lavoro umano, misura quaranta metri di diametro e contiene al suo interno un dedalo di cunicoli, grotte, pozzi e ipogei comunicanti tra loro grazie ad unintricata e
complessa struttura la cui funzione sarebbe, dunque, sacrale. In realt, la scopo per il quale fu costruita la Ruota (se cio sia solo un grande sepolcro o qualcosa di pi) tuttora oggetto di
controversie e contrapposte opinioni: resta comunque un monumento che vale la pena andare a vedere, sebbene tutta larea intorno, gi intensamente coltivata, abbia visto recentemente una eccessiva
crescita edilizia. Da Viterbo occorre seguire strada Freddano, che si pu imboccare dalla Tangenziale ovest di Viterbo, al di l di Porta Faul. La strada chiaramente di origine antica- corre allinterno
di piccole vie cave dalle pareti alte tre o quattro metri: tralasciare tutte le strade laterali, e dopo circa tre chilometri si incrocia Strada Ponte del Diavolo: il percorso prosegue al di l, ma occorre
parcheggiare e proseguire a piedi, perch si entra allinterno di un consorzio privato (Consorzio Freddano). Si segue la strada campestre e dopo circa un chilometro, quando questa si sdoppia,
tralasciare la strada a sinistra e, fatti pochi metri, vicino unabitazione moderna alla nostra destra, noteremo la grande mole molto ampia ma di non grande altezza- della Ruota. Di primo acchitto
potrebbe sembrare una struttura di origine geologica naturale, ma poi appare chiaro che le pareti verticali, in cui si aprono diverse nicchie e ambienti ipogei, sono state scavate da mano umana.

Monte Fogliano e romitorio di San Girolamo (Vetralla ) - Fra Girolamo Gabrielli nacque da una facoltosa famiglia senese nel 1525. Deciso a dedicare tutta la sua vita alla meditazione e
alla preghiera, scelse il monte Fogliano, che fa parte della cinta craterica del lago di Vico, come luogo dove costruire un romitorio rupestre. Questo monte, che visto dal lago appare come unampia
collina (sfiora per i 1000 metri di quota) dal vertice quasi pianeggiante, interamente ricoperto da fitti boschi dalto fusto, come il vicino Monte Venere. In particolare, nel territorio appartenente a
Vetralla, vegeta uno dei pi bei boschi del Lazio settentrionale, il bosco di SantAngelo, con alberi secolari che si alzano per decine di metri dal sottobosco e caratterizzato dalla presenza nellarea
sommitale di una splendida faggeta. Limportanza dei boschi di Vetralla testimoniata anche dal fatto che il paese della Tuscia vanta il record assoluto in quanto ad alberi secolari censiti, una gran

parte dei quali si trova appunto nella foresta di SantAngelo, nei pressi dellomonimo monastero:
Castagno (Castanea sativa) circonferenza 5,1 m, altezza 13 m
Castagno (Castanea sativa) circonferenza 5,2 m, altezza 12 m
Castagno (Castanea sativa) circonferenza 4 m, altezza 13 m
Bosso (Boxus sempervirens) circonferenza 13,4 m, altezza 8 m
Roverella (Quercus pubescens) circonferenza 5 m, altezza 15 m
Oltre a questi appena citati, si trovano altri alberi monumentali, nel territorio comunale:
Cerro (Quercus cerris) circonferenza di 4,5 m, altezza 37 m in localit Pontone
Cerro (Quercus cerris) circonferenza di 5,3 m, altezza 37 m in localit Stadio Comunale
Roverella (Quercus pubescens) circonferenza 4,6 m, altezza 24 m in localit Casal Grande
Cedro dell'Atlante (Cedrus atlantica) circonferenza 5,2 m, altezza 23 m in localit Villa Comunale
Il parco pubblico, dove si trovano il Cedro e altri alberi secolari, apparteneva alla villa del noto scultore Pietro Canonica, nato a Moncalieri nel 1869, e approdato a Roma nel 1922, sistemandosi alla
Fortezzuola di Villa Borghese. A Vetralla aveva realizzato per s e per la famiglia una bella villa con un ampio gardino, oggi trasformato in parco pubblico.
Una singolare caratteristica del monte Fogliano, comune in effetti ad altre elevazioni dei monti Cimini, sono i massi vulcanici che ne costellano le pendici e che presentano forme singolari ed evocative.
A volte sembrano imprendibili castelli dalle pareti verticali, altre volte danno lidea di chiglie affusolate di navi che solchino un mare di foglie e felci, o ricordano, con singolare precisione, are cubiche
per sacrifici rituali depoca romana o etrusca, se non addirittura altari squadrati e decorati. In uno di questi ammassi di roccia, a mezza costa del monte, fra Girolamo fece realizzare il suo romitorio:
potendoselo permettere, data la provenienza familiare, decise di fare le cose per bene, chiamando allopera maestranze senesi di provata capacit. Purtroppo per lui la vita eremitica non dur molto a
lungo: le soldatesche al seguito di Carlo VIII durante la venuta in Italia dellImperatore, lo aggredirono malmenandolo selvaggiamente, lo derubarono dei pochi averi e danneggiarono seriamente il
romitorio. Sconfortato, fra Girolamo decise di tornarsene nella pi sicura citt natale, e di devolvere i suoi averi ai poveri. Riutilizzato anche nei secoli successivi, ma comunque insicuro per la presenza
in zona di banditi e briganti, il sito venne infine definitivamente abbandonato. Recentemente, volontari di Vetralla lo hanno risistemato e ne hanno cura. La struttura abbastanza complessa, ma alcuni
crolli ne hanno parzialmente modificato laspetto. Nel masso principale gli scalpellini hanno realizzato una piccola chiesetta, ancora in uso, a cui si accede da un portale semplice, a tutto sesto, in cui si
notano le nicchie che ospitavano i cardini; linterno a galleria, con due finestre sul lato destro, mentre un piccolo gradino immette nella parte terminale, dov laltare. Pur trattandosi solo di un
romitorio, la struttura dimostra di esser stata realizzata con estrema cura e capacit tecniche. Una scala di legno (ma un tempo doveva anchessa esser stata realizzata nel masso) porta, passata una
porticina, ad un terrazzo superiore, con un muro basso a semicerchio scavato a forma di sedile. Il monumento si trova totalmente immerso nel bosco, poco sopra un rivolo stagionale, circondato da
faggi enormi. Nonostante la dedica possa farlo pensare, fra Girolamo non venne mai fatto santo, sebbene avesse dedicato tutta la sua vita alla fede. Per arrivare al romitorio ci sono due possibilit,
entrambe in partenza dai pressi del monastero di SantAngelo, a cui si arriva seguendo la bella strada che da Cura di Vetralla va verso San Martino al Cimino. Il monastero famoso perch proprio
di fronte si trovano i due grandi alberi (una quercia e un faggio) protagonisti del matrimonio degli alberi, antico rito con cui i vetrallesi ribadiscono i loro antichi diritti sui boschi di monte Fogliano.
Poco pi avanti del monastero, si incontra una strada sterrata proveniente da destra. Qui si parcheggia e si prosegue a piedi, costeggiando in breve il muro di cinta del monastero stesso e trovando
una stradina che sale a sinistra, segnalata come sentiero MTB blu, sentiero che dovremo seguire nel nostro cammino (tabelle dal 33 al 40). Dapprima la traccia sale seguendo i pali di una linea
elettrica, poi volta a destra e quindi a sinistra, entrando a mezza costa nella faggeta, da subito molto bella. In circa 10-15 minuti di cammino si arriva cos davanti al romitorio. Unaltra possibilit il
sentiero ufficiale, che inizia poco dopo limbocco della citata strada sterrata, segnalato da una grande tabella in legno e che segue la traccia del fosso San Girolamo, ed molto pi diretta e veloce
(ma meno interessante). Volendo prolungare la gita, si pu seguire in salita il costone alle spalle del monumento, per tracce, incontrando altre grandi masse di roccia e sbucando in breve su una
sterrata. Si va brevemente a destra e poi senza via obbligata ci si dirige verso la visibile cresta superiore della montagna, che avremo alla nostra sinistra. Dalla cresta si intuisce un grandioso panorama
sul lago di Vico, assai ridotto per dalla presenza degli alberi, e discreto solo in inverno. Sulla vetta della montagna sono alcuni tralicci con antenne e un edificio militare. Vicino le antenne, un vecchio
cippo ricorda che qui si incontrano i confini di tre comuni, Vetralla, Viterbo e Ronciglione. Il ritorno avviene per la stessa strada dellandata (in tutto, poco pi di due ore).

Il Monte Cimino Il monte Cimino, con i suoi 1053 metri, il pi alto vulcano (spento) del Lazio, e anche il pi antico, visto che la sua attivit eruttiva si fermata 800.000 anni fa. Ammantato di
fitti boschi, in gran parte cedue, conserva per ancora qualcosa dellantica Selva Cimina, il mitico e invalicabile bosco degli etruschi che i Romani ebbero sempre terrore ad attraversare, tanto era
folto e spaventoso. In particolare, la vetta circondata da una bellissima faggeta dalto fusto, con esemplari secolari e un ricco sottobosco, caratterizzato anche dalla presenza di numerosi massi
trachitici, utilizzati dagli appassionati di Bouldering, larrampicata libera sulle rocce. Grazie al fatto di essere una piramide elevantesi su un territorio grosso modo pianeggiante, il Cimino un vero e
proprio raccoglitore di nubi, che si fermano sovente sulla sua vetta, creando condizioni di alta umidit e, ovviamente, grande suggestione. La visuale dalla montagna, oggi ostacolata dalla faggeta,
dovette essere un tempo assai vasta, ma gli etruschi non occuparono mai la vetta, n lo fecero i Romani. Probabilmente questo si deve alle difficili condizioni climatiche e forse anche a superstizioni di
tipo religioso. Ma il sito ebbe comunque una frequentazione umana nei secoli precedenti. I primi scavi archeologici sul monte Cimino risalgono al XIX secolo, e portarono alla scoperta di una
imponente cinta muraria. Nel 2009 la Soprintendenza Archeologica dellEtruria Meridionale e lUniversit La Sapienza di Roma, hanno ripreso le ricerche, identificando un grande pianoro, vasto
circa 5 ettari, racchiuso allinterno di una cinta muraria realizzata con pietrame; al suo interno, si sono trovate le tracce di una imponente opera muraria che circondava unarea pi piccola (circa mezzo
ettaro) che a sua volta proteggeva unarea sommitale (pi o meno dove si trova oggi la moderna torre realizzata dal Genio Militare negli anni 50, sul punto pi alto della montagna) ampia poche
decine di metri quadri. Linsediamento potrebbe risalire al Bronzo Medio (circa XVII XVI secolo a.C), anche se ci sono tracce di frequentazioni ancora pi antiche, e venne utilizzato sino alla fine
dellet del Bronzo, cio sino al IV o allinizio del III secolo a.C. Oggi la visita dellarea (dove non si osservano resti archeologici perch sono stati ricoperti) facilitata dalla strada asfaltata che
arriva a ridosso della vetta. Nei pressi del parcheggio si trova anche il cosiddetto Sasso Menicante, citato gi da Plinio, cio un enorme macigno collocato in bilico su unaltra pietra, in modo che
facile (relativamente) farlo dondolare usando una lunga pertica. Dal parcheggio una rete di sentieri attrezzati si aggira nella faggeta e arriva sulla vetta.
Il monastero della SS. Trinit (Soriano al Cimino) Alle pendici del monte Cimino, sopra le ultime case di Soriano, sorse nel XII secolo un eremo, ampliato nel 500 dal cardinale Egidio Antonimi,
che don alla nuova chiesa una tavoletta trecentesca rappresentante la Madonna della SS. Trinit (trasferita nel XVII secolo in paese, nella chiesa di S. Agostino o, appunto, della Trinit).
Attualmente del convento non rimane praticamente nulla, mentre della chiesa annessa si conserva un importante rudere (restaurato di recente) collocato su una cengia ai piedi di una parete di roccia,
tra i fitti boschi che ammantano la montagna. Si tratta di uno dei luoghi pi suggestivi e interessanti del comprensorio sorianese, e di certo vale la pena di effettuare la breve passeggiata per andare a
visitarlo. Da Soriano occorre salire su via Roma (indicazioni per Viterbo e Vignanello) e poi andare a sinistra su via delle Bandite per raggiungere la frazione detta Soriano Alta, voltando su via
Giuseppe Di Vittorio, che si segue sino alla fine, quando diventa sterrata. Qui si parcheggia e si prosegue a piedi, in salita, per poche centinaia di metri, sino a raggiungere una deviazione a destra,
chiusa da un cancello. La stradina attraversa quasi in piano il bosco (il rudere gi visibile) e in pochi minuti arriva dinanzi alla chiesa. Non lontano da questultima, alle sue spalle, si trova il cosiddetto
Sasso del Beato Lupo (costeggiare la rupe tenendosi a sinistra, prestando attenzione ad alcuni monoliti), dove una piccola grotta naturale, raggiungibile grazie a degli scalini scavati nella roccia,
ospit nel tardo Medioevo leremita Lupo Franchini da Corviano. Tornati indietro e proseguendo a sinistra lungo la stradina proveniente dalla chiesa, si pu dare unocchiata alla cosiddetta Sedia del
Papa, una caratteristica formazione rocciosa attrezzata con dei camminamenti (panoramici) in legno. Raggiunto un bivio, si prende a destra la traccia in netta discesa sinch non spiana; a questo punto
si lascia a sinistra unulteriore traccia e si prosegue dritti sino alla roccia.

Il Barco Farnesiano di Caprarola Collocato sullitinerario Farnesiano dei monti Cimini, il Barco (cio la riserva di caccia) conserva ancora 40 degli originali 80 ettari di bosco (costituito
soprattutto da una cerreta dalto fusto con ricco sottobosco), oltre ai resti delledificio signorile (il cosiddetto casino di caccia) progettato dal Vignola per il cardinale Alessandro Farnese, lo stesso a
cui si deve il grandioso palazzo di Caprarola. Larea si caratterizza per numerosi sorgenti, ed attraversata dal Rio di Sassovolto, che scorre (oramai di rado) allinterno di una trincea di origini
etrusche, molto suggestiva. Laccesso facilmente identificabile per il vistoso cartello esplicativo collocato dallaltro lato della strada rispetto alla graziosa chiesetta della Madonna del Barco,
raggiungibile da Caprarola percorrendo 6 km della sp 69 (strada provinciale per Roma). Si segue la sterrata che dalla tabella scende sino a raggiungere il bosco, che da solo merita la visita per la
bellezza della volta arborea. Sul vertice di una collina che avremo a sinistra si nota la massa scura dei ruderi del Casino di caccia: per raggiungerli occorre voltare a destra quando la strada, subito
dopo una presa dellacquedotto, recintata, volta invece a sinistra. Ci si tiene subito nettamente a destra, costeggiando una siepe: quando la traccia supera il fosso, pochi passi oltre si trova un labile
sentierino che va a sinistra e poi si divide. Conviene dapprima andare a sinistra e scendere nel fossato, probabilmente etrusco, interamente scavato nella roccia. In breve, prestando attenzione sulla
destra, in alto, si vedranno ben tre colombari, purtroppo in non buone condizioni. La loro caratteristica pi particolare, a parte la volta a botte e laltezza, una galleria che li unisce, e percorribile solo
tra i primi due, essendo oramai il terzo quasi completamente colmo di terra. Tornati al bivio, si sale verso il Barco, passando davanti un grande ambiente ipogeo voltato, con un passaggio a scivolo
che immette in un secondo ambiente: il complesso molto suggestivo e sorge ai piedi dellimponente rudere del casino di caccia. Ritorno per la stessa strada (in tutto circa unora).

La Selva di Malano (Soriano) Dellantica selva che d il nome a questo sito rimane oggi ben poco, visto che alle roverelle e alla macchia si sono sostituiti noccioli e ulivi. Ma il fascino del
paesaggio resta intatto, anche grazie alla presenza di grandi massi vulcanici che ingombrano le pendici della forra, e che sbucano alti sulla vegetazione. E sono proprio questi massi ad aver attirato qui
prima gli Etruschi (ma forse anche i loro predecessori dellEt del Bronzo), poi i Romani, e dunque gli uomini del Medioevo, che edificarono su un enorme masso labbazia di San Nicolao, di cui
restano imponenti ruderi , appena restaurati. Nella Selva di Malano si trova forse la pi grande concentrazione di strutture adibite al culto e iscrizioni dellintera Tuscia. Decine, centinaia di massi
presentano infatti chiari segni di lavorazione, mentre si incontrano diverse are cubiche, almeno due cosiddetti massi del predicatore, tumuli e tombe in un numero inusuale. Secondo alcuni tale
ricchezza si potrebbe giustificare con limportanza che il sito potrebbe aver assunto come scuola, dove veniva insegnata ai rampolli della nobilt etrusca la difficile arte dellaruspicina, cio la
predizione del futuro attraverso lanalisi dellintestino e soprattutto del fegato degli animali sacrificati agli di. Una scuola che forse continu a funzionare anche in epoca romana. Fatto sta che ancora
oggi impossibile sottrarsi al fascino e al mistero di questi enigmatici monumenti, che con le loro scritte incise sulla pietra, i loro altari, le scalinate che salgono verso il cielo, ci regalano squarci della
vita e della morte, della religiosit, della societ dellEtruria al momento della conquista. Il grosso dei monumenti che si incontra, infatti, di epoca romana, ma si innesta chiaramente in una tradizione
precedente, ben testimoniata dalla non lontana piramide etrusca (vedi itinerario). Lescursione proposta facile e non faticosa, e richiede un paio di ore o poco pi, a meno che non si decida di
allungarla raggiungendo Monte Casoli. Dalluscita "Bomarzo" del raccordo Orte-Civitavecchia (ss 675), si prende la sp 151 in direzione Vitorchiano. Al km 12,800, accanto ad un casaletto, si stacca
a destra una sterrata, transitabile comodamente: la si segue per circa due chilometri (dopo circa un chilometro diventa sterrata), tralasciando vari bivi, sino ad uno slargo sulla destra. Bench sia
possibile proseguire ancora brevemente in auto, consigliabile parcheggiare qui e continuare a piedi sulla strada, che attraversa alcuni noccioleti e poi termina a un bivio dove, a destra, si scende sulla
Strada di Malano, dal fondo cementato. La strada perde quota ripidamente, attraversando un boschetto in cui sono numerosi grandi massi, e raggiunge un bivio dopo circa 300 m: qui si piega
nettamente a destra, su una sterrata in falsopiano che attraversa alcune aree agricole. Dopo altri 300 metri si incontra una deviazione a sinistra (poco visibile, ma netta). Prima di imboccarla, conviene
proseguire ancora brevemente dritti, sino ad un gruppo di rimesse in pietra: dietro il relitto di un vecchio furgoncino coperto di rovi (a destra) si vedr un grande masso lavorato, con quattro gradoni
(aggirandolo si pu salire sul vertice, dove sono due nicchie e da cui si gode un notevole panorama). Si tratta della cosiddetta tomba di Decio Celio Alessandro (il nome inciso in unepigrafe oramai
poco visibile scolpita su uno dei gradoni). Poco pi avanti si arriva alla rupe di San Nicolao, con i ruderi (come detto ora recintati e restaurati) dellomonima abbazia. Ai piedi della rupe si trovano
alcune interessanti tombe di epoca etrusco-romana. Tornati al bivio, si segue la traccia che entra nella macchia e sinuosamente arriva in pochi minuti al primo dei cosiddetti Sassi del Predicatore.
Unelegante scalinata consente di salire sul vertice del grande masso, simile a un pulpito, sul cui vertice regolarizzato doveva essere collocato un altare. Unara cubica romana si trova a pochi metri di
distanza. Si continua sul sentiero che scende sulla sinistra del sasso e raggiunge una sottostante stradina. Prima di proseguire dritti, si pu voltare a destra e fatte poche decine di metri, guardando
sempre a destra, si noter una piccola apertura che si apre in un masso, con una rustica porticina. Si tratta di una singolare tomba, con i resti di un sarcofago riccamente decorato. La sua particolarit
di essere precipitata dallalto, motivo per cui il pavimento si trova ora al posto della parete di sinistra, e il sarcofago in verticale Ripresa la stradina, si arriva in breve a passare il confine tra il
comune di Soriano al Cimino (in cui ci trovavamo) e quello di Bomarzo, incontrando anche le tabelle della riserva naturale di Monte Casoli. Qui si va in salita verso sinistra raggiungendo un bivio: la
strada di destra (sbarra e tabella della riserva) immette sul sentiero (tenersi ancora a destra: palina segnaletica) che porta allarea archeologica cuore della riserva naturale (vedi voce relativa); andiamo
invece a sinistra. Poche decine di metri pi avanti si incontra un altro bivio (cartello della Strada del Cerreto): procedendo dritti, in breve si raggiunge il bivio dellandata, ritrovando la Strada di
Malano dal fondo cementato, chiudendo cos lanello. Volendo, prima, si pu visitare un secondo Sasso del Predicatore, andando invece a destra: la stradina arriva in unarea coltivata (con gli
immancabili noccioli), passa vicino alcuni capanni agricoli, poi sfiora una sorta di enorme cuspide di pietra (alla nostra destra). Subito dopo, si vedono un paio di edifici (un capannone e una casetta):
tenendoli a sinistra in pochi metri si raggiunge il sito archeologico, davvero spettacolare. Sormontato da unara, presenta decorazioni e modanature che rivelano la grande cura messa nella sua
lavorazione. Sulla parte superiore si trova incisa una freccia di orientamento.

Corviano (Soriano al Cimino) Donato, secondo Benedetto del Soratte che lo chiama fundum Corbiani, al monastero di Sant'Andrea in Flumine nel 747 da Carlomanno, appartenne
successivamente agli Orsini, per essere poi distrutto dai Viterbesi nel 1282. Restituito agli Orsini qualche anno dopo, pass poi ai Colonna nel 1304. Quindi se ne perdono le tracce. Nellinsieme,
comunque, i documenti relativi a Corviano sono piuttosto scarsi, e concentrati nel periodo a ridosso del XIII secolo, il che rende la storia di questo sito molto complicata da ricostruire, sebbene non
dovesse trattarsi di un castello secondario o di piccole dimensioni, anche a giudicare dai poderosi resti in muratura, edificati su una piattaforma rocciosa a picco sulla valle del torrente Vezza, vicino
una preesistente muraglia etrusca. Sul bordo della parte orientale del pianoro, quello che affaccia sul torrente Martelluzzo e verso il mulino, si incontrano le fondazioni di una piccola chiesa extra
moenia, circondata da numerose sepolture antropomorfe scavate nel banco roccioso e da diversi sarcofagi: anche questa necropoli, come quella di Norchia, venne scavata da Joselita Raspi Serra,
che avanz allepoca (1976) lipotesi che queste sepolture potessero essere state realizzate da popolazioni della Mauretania (attuale Algeria), giunte in Italia come mercenari al soldo dei Bizantini ai
tempi della guerra con i Longobardi, e poi stanziatesi tra queste rupi. Alla base di questa teoria c la precisa corrispondenza con sepolture del tutto identiche ritrovate appunto nel nord Africa.
Secondo gli studiosi la chiesa dovrebbe risalire allVIII secolo, dunque al periodo di fondazione della Corviano medievale (o almeno, quando se ne hanno le prime notizie). L'interesse del sito di
Corviano, comunque, pi che ai pur interessanti resti del castello e della chiesa, si deve all'area archeologica collocata al margine settentrionale del pianoro, e costituita da venti abitazioni ipogee, con
affaccio sulla forra. L'origine di queste grotte probabilmente antichissima: oltre agli ambienti ricavati dalla roccia, comprendevano anche una serie di balconi lignei aggettanti sul baratro e connessi da
scalinate, sempre in legno. Insomma, un insediamento rupestre davvero fuori dai soliti canoni, e ancora oggi altamente spettacolare, sebbene solo una piccola parte delle grotte stesse sia ancora
raggiungibile e visitabile. A Corviano si arriva seguendo la sp 151 verso Vitorchiano. Circa un chilometro dopo il bivio per la Selva di Malano, passata la loc. Santarello, un cartello indica la strada, a
destra, per Corviano. La strada diviene sterrata, ma buona, anche se non molto larga. Fatti circa due chilometri, passata un'abitazione, la strada ariva a guadare un corso d'acqua. Ovviamente
occorre trovare il modo di parcheggiare prima. A piedi, superato il torrente, si trovano le indicazioni del sentiero archeologico. Conviene prendere la traccia che si inoltra nella macchia a destra: ci
sono radi bolli rossi e paletti, ma il percorso intuitivo. Ad un certo punto si noter in basso una cascata. Per raggiungerla si prosegue ancora per circa cento metri, sino a perdere di vista il salto
d'acqua, e si cerca sulla destra una grossa traccia di sentiero che scende tra grossi massi e raggiunge il torrente. Lo si costeggia per poi passare sulla riva opposta: in breve si alla cascata ed ai ruderi
di un antico mulino (non sempre il percorso citato transitabile). Tornati sul percorso principale, si raggiungono i pochi ma interessanti resti di una chiesa medioevale, con una serie di sepolture
medievali antropomorfe scavate nella viva roccia. Poco pi avanti si raggiunge poi un incredibile insieme di case-grotte affacciate sulla gola: vale la pena di visitarle, per lasciarsi suggestionare dal
pensiero che dall'et del Bronzo sino al XIX secolo queste abitazioni hanno dato ospitalit a contadini, allevatori e passanti! Per tornare al punto di partenza conviene proseguire sul sentiero, che ci
condurr prima ai resti del castello medioevale edificato nei pressi di possenti mura etrusche, per poi proseguire lungamente nel bosco, in ambiente piacevole (il giro completo richiede circa 2 ore).

Castello di Luco e Valle Oscura (Soriano ) - Un fitto bosco, a prevalenza di cerro governato a ceduo, ma comunque molto interessante, ricopre i fianchi di alcune forre tufacee, a ridosso
della superstrada Orte-Viterbo e della bella torre di Santa Maria di Luco, scavate da modesti torrentelli (sarebbe meglio dire rigagnoli) che per hanno dato vita ad habitat di grande suggestione, con
pareti verticali e massi ricoperti di muschio e felci, dove trovano rifugio numerose specie animali. A parte l'aspetto naturalistico, per, le valli del Mandrione e del suo affluente fosso Valle Oscura,
offrono la possibilit di fare un vero e proprio viaggio nella storia, con numerose testimonianze archeologiche, soprattutto di epoca etrusco-romana. Tra le emergenze pi intriganti, si trovano i
poderosi resti di due dighe in blocchi poligonali di peperino, risalenti al IV-III sec. a.C., oltre a tombe, tagliate, necropoli e ai resti di insediamenti di epoca medievale, che danno testimonianza della
frequentazione del sito nel corso dei secoli. L'escursione facile e non faticosa, con pochi dislivelli e ben segnalata, sebbene l'umidit ambientale e la vegetazione lussureggiante possano a volte
confondere un po' l'escursionista. Comunque, visto che si seguono i corsi d'acqua, impossibile perdere del tutto l'orientamento. L'intero giro richiede circa 2 2,30 ore. Da Soriano al Cimino si
raggiunge la frazione di Sant'Eutizio e si imbocca la seconda strada a sinistra entrando nel centro abitato, sino a raggiungere l'omonimo santuario, nei pressi del quale si trovano le tabelle che indicano

la torre di Santa Maria di Luco. Poco pi avanti, si prende la strada di Selva del Piano (a destra poi a sinistra) che passa tra folti noccioleti. La stradina prosegue sino ad un bivio: si va a sinistra
seguendo una strada bianca fino ad un altro bivio dove si va a destra, seguendo le indicazioni (che aiutano molto nel districarsi tra le numerose stradine che si incontrano). Le sterrate hanno il fondo
molto buono e non presentano particolari problemi di percorrenza, se non dopo forti piogge. La strada costeggia il fitto bosco della valle del Mandrione (a destra), e poi vi penetra, sino ad uno slargo
da dove parte una stradina chiusa da una sbarra. Questo il punto di partenza del sentiero di Valle Oscura. Volendo si pu iniziare da qui la passeggiata, ma noi la descriveremo partendo
dall'accesso successivo e qui arriveremo alla fine: si prosegue dunque ancora un po' sulla strada, si passa sotto la torre di Santa Maria di Luco e si trova un altro slargo, con tabella, dove si
parcheggia. Si entra nel bosco seguendo l'evidente sentierino (e i segni rosso/blu) che dapprima serpeggia tra gli alberi, poi inizia a scendere leggermente per raggiungere il torrente, raggiungendo il
primo sito archeologico, immerso in un ambiente ombroso e fresco. Diversi ponticelli di legno consentono di proseguire lungo il corso d'acqua comodamente. Da vedere una tagliata attrezzata con
scalini scavati nella roccia e, poco pi avanti, ripari naturali utilizzati dall'uomo in epoca preistorica. Ovunque si notano tracce di antiche presenze umane, come pestarole e canaline idrauliche. Il
sentiero prosegue sulla riva destra del torrente, in ambiente che diviene man mano pi solitario e selvaggio, e dopo circa 1,5 km dalla partenza, passata una grande grotta, si trova una deviazione a
sinistra per i resti di un muro di epoca etrusco romana, aggettante sul fosso. Sempre seguendo la riva destra, si passa un primo ponticello poi, prima di guadare nuovamente il corso d'acqua su un
secondo ponte, si stacca a sinistra un sentiero che in breve conduce ad una interessante tomba a camera. Ripreso il sentiero, si arriva alla prima delle dighe in opera poligonale. Qui il sentiero si divide:
andando a sinistra si raggiunge una seconda diga (ancora pi imponente della prima), mentre il percorso prosegue a destra, traversando un ennesimo ponticello, in direzione di un antico villaggio
medievale. Il percorso abbandona il fosso del Mandrione ed entra nella valle Oscura, che deve il suggestivo nome alla presenza di un bosco fitto ed ombroso. Grazie a scalini e corrimano in legno si
risale il fianco della forra, tra enormi massi muschiosi (uno di questi stato scavato per creare una grossa nicchia), raggiungendo un piccolo pianoro dove si trovano i resti medievali: la testimonianza
pi evidente la base di una chiesa, ricavata da una capanna di epoca arcaica scavata nel tufo. Da qui parte una strada sterrata ( quella che arriva alla sbarra ed al primo slargo: utile se si vuole
accorciare la gita) che si segue brevemente sino ad un bivio: qui si prende a sinistra (indicazioni per la necropoli etrusco romana delle Rottelle) il sentiero che procede quasi in piano, sino a trovare una
prima tomba; poco oltre si incontrano grosse tombe, parzialmente crollate, un tempo utilizzate come stalle. Tutta la parete di roccia butterata di tombe e nicchie, in ambiente assai suggestivo. Il
sentiero, segnalato in bianco/rosso, superata una tomba in buono stato di conservazione, scende sulla sinistra raggiungendo una radura, che si traversa prestando attenzione alla continuazione del
percorso, che qui poco evidente. Occorre traversare la radura a circa 45 verso sinistra, e tra gli alberi si vedr una traccia in discesa, parzialmente scavata nella roccia, che raggiunge infine l'ampia
base della forra, dove serpeggia il fosso di Valle Oscura, che si segue andando a destra. Si passa una piccola tagliata, si continua ancora in piano tra gli alberi e fatti circa 500 m si trova un bivio a
destra che conduce ad una tomba, detta dipinta per la presenza di tracce di intonaco colorato, e a una tagliata. Ripreso nuovamente il sentiero, si raggiunge una strada etrusco-romana: prima di
imboccarla verso destra in salita, conviene andare a sinistra per dare un'occhiata ad un grande cippo funerario (IV sec. aC) scavato nella viva roccia. Risalendo la strada, si trova una necropoli di
scavo recente. Vicino una evidente tomba a fossa, si volta a destra guadagnando il fianco della scarpata e costeggiando altre sepolture, si supera una tomba a pozzo (recintata) e si sbuca infine sulla
sterrata che traversa il bosco: si va a sinistra raggiungendo in pochi minuti la sbarra e la strada percorsa all'arrivo. Si segue quest'ultima a destra tornando cos al punto di partenza.

Il Sasso Quadro (Bassano in Teverina) Una sorta di prua di roccia solca i boschi che da Bassano affacciano sulla valle del Tevere: il cosiddetto Sasso Quadro, scavato da mano
umana nella roccia vulcanica per creare scalini, nicchie, spazi squadrati che potrebbero appartenere a unarea sacra, forse di epoca romana. Certamente, ci che ha attirato qui le popolazioni antiche
lo stesso motivo che induce ogni visitatore moderno alla meraviglia: il favoloso panorama, amplissimo. Dinanzi a chi stia al centro dello sperone roccioso si apre la valle tiberina con i borghi di
Bomarzo (dietro il quale si staglia Montefiascone) e Mugnano e, al di l del fiume, lUmbria e le sue colline; alle sue spalle, invece, estesi boschi che risalgono le pendici del monte Cimino e della
Palanzana, non prima di aver scavalcato la forra a cui abbarbicata Chia, con le sue case abbandonate. Insomma, uno spettacolo ancora oggi emozionante, nonostante i troppi guasti che il progresso
ha portato al paesaggio (i piloni dellalta tensione, le cave, la linea ferroviaria ad alta velocit e lautostrada che corrono a breve distanza dal fiume al ciel prediletto e cos via). Dal punto di vista
archeologico, del Sasso Quadro si sa molto poco, se non supposizioni, e daltra parte stato studiato poco o nulla. Raggiungerlo facile e veloce: si tratta di una mta che pu essere facilmente
aggiunta allitinerario per la Valle Oscura (fosso del Mandrione), in quanto da questa davvero molto vicina. Proseguendo per meno di due chilometri oltre il punto di accesso, si scavalca la ss 675,
si tralascia una stradina a sinistra e si sbuca sulla strada provinciale alle porte di Bassano: basta a a questo punto andare a destra e si trova il bivio per litinerario che porta al Sasso Quadro. Questo
punto pu ovviamente essere raggiunto direttamente, magari uscendo dalla superstrada Orte-Civitavecchia e percorrendo la sp 151 (lungo il percorso si trova la interessante chiesa della Madonna
della Quercia, risalente al 1678). Il bivio abbastanza chiaro: si tratta della prima strada a sinistra arrivando (via SS. Fidenzio e Terenzio): poco pi avanti si prende via San Giuseppe, poi si volta a
sinistra sulla strada Bassano Mugnano; si procede per circa un chilometro e mezzo e poi si volta ancora una volta a sinistra. La strada sterrata ma in discrete condizioni. Si supera un edificio
moderno, entrando nel bosco, si tralascia una strada a sinistra e si costeggia un oliveto e si raggiunge un ampio spiazzo sterrato, dove si parcheggia. Ora occorre prestare attenzione: si deve prendere
la traccia che sale nel bosco, verso il vertice della collinetta che avremo alla nostra destra arrivando, e che in breve, dopo essere passata accanto a una collonetta confinaria, sfiora la rupe del Sasso
Quadro, laggira e vi sale grazie anche a degli scalini (ma c anche un passaggio pi ampio poco oltre). In tutto occorrono 10 minuti.

La Piramide etrusca, Colle Casale e la Tagliata delle Rocchette (Bomarzo e Soriano) - La cosiddetta piramide in realt un grandioso altare sacrificale di epoca romana, che
per le forme e le dimensioni non ha eguali in nessun altro luogo dellEtruria. Lutilizzo sacrificale testimoniato dagli spazi destinati ad accogliere le vittime e dai canali di scolo del sangue, che veniva
raccolto perch ritenuto sacro e utilizzato in numerosi altri riti. Il monumento stato scoperto solo nel 1991, e risulta ancora poco studiato, nonostante la sua rilevanza. Nella zona esistono
innumerevoli altre testimonianze archeologiche, di varie epoche (ad esempio una tagliata romana del I sec. d.C. appartenuta ai Domitii), e in particolare di epoca medievale, con i resti suggestivi di
Santa Cecilia e il non lontano insediamento di Colle Casale, legato alla memoria di Pierpaolo Pasolini. "Agli inizi della primavera 1964 il Vangelo entr in lavorazione. Le prime inquadrature girate
furono quelle del battesimo di Ges - e il Giordano venne trovato fra Orte e Viterbo in una fessura scavata da un torrente in mezzo a rocce aspre e selvagge" racconta Enzo Siciliano -grande amico di
Pier Paolo Pasolini e che nel "Vangelo" interpreta il ruolo di Simone- nel suo "Vita di Pasolini (Giunti, Firenze - 1995): "In quell'occasione Pier Paolo scopr la Torre di Chia di cui letterariamente si
innamor e decise di acquistarla, ma l'acquisto gli riusc dopo pochi anni". Era -ed - un luogo cos bello, questo, che l'animo sensibile del regista-scrittore non poteva non sentirsene irresistibilmente
attratto, magari spinto dal desiderio di una vita diversa, pi serena e rilassata: "Ebbene ti confider, prima di lasciarti,/ che io vorrei essere scrittore di musica,/ vivere con degli strumenti/ dentro la torre
di Viterbo che non riesco a comprare/ nel paesaggio pi bello del mondo, dove l'Ariosto/ sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta/ Innocenza di querce, colli, acque e botri,/ e l
comporre musica/ l'unica azione espressiva/ forse, alta, e indefinibile come le azioni della realt", scrisse nel 1966. Solo nel novembre 1970 il sogno pot avverarsi: negli ultimi tre anni della sua vita
visse a tempo pieno a Chia, lavorando ad un romanzo, Petrolio, rimasto incompiuto a causa della sua morte violenta. Ipsum castrum est forte, et in bono loco et passu utili positum scrive nel 1320 il
vicario del Patrimonio, Guitto Farnese: in effetti Colle Casale occupa un sito di antica frequentazione, collocato in un punto quantomai strategico, che per secoli ha scatenato guerre e assalti per la sua
conquista. Fondato alla fine del XII secolo, appartenne sino al 1262 al Comune di Viterbo, per entrare poi tra i beni della Camera Apostolica. Nel 1312 risulta suo signore un certo Lucas de
Viterbio, mentre in un registro del cardinale Albornoz risalente al 1364 indicato tra le principali propriet della Chiesa. Occupato dapprima dagli Orsini, poi dai Colonna, pass nei secoli successivi
ai Della Rovere, che lo tennero sino al XVII secolo, poi ai Borghese e infine ai Lante, dopodich il castello, oramai agli inizi del XIX secolo, sembra sparire dalla storia, divenendo la classica rovina
romantica persa tra le foreste della Tuscia, ma sempre ben visibile per via dell'altissima torre che ancora oggi svetta sulla chiome degli alberi. La presenza di cos diversi elementi di interesse, consente
di trascorrere una intera, e piena, giornata sul campo. Il periodo migliore comunque linverno, in modo che la vegetazione renda meno complesso identificare i percorsi. Dalla superstrada Orte
Civitavecchia, si esce a Bomarzo: dopo circa 1,7 km in direzione del paese, si volta a destra verso un piccolo campo sportivo, dominato dalla torre piezometrica dellacquedotto e circondato dal
bosco, e si parcheggio. Si segue il sentiero in discesa sulla sinistra del campo di calcio (cartello per Santa Cecilia), che penetra nel bosco ed arriva a unarea picnic (10 min.). A destra parte il sentiero

che correndo sul bordo della forra, e scendendo poi ripidamente nella stessa, in bellambiente boscato, raggiunge il torrente Castello e lo risale, incontrando diversi ruderi di mulino per arrivare
allantico insediamento di Colle Casale, dominato dalla cosiddetta Torre di Chia o Torre di Pasolini, a cui si pu risalire con facilit. Andando dritti, invece, ci si cala sotto la rupe incontro ai suggestivi
ruderi di Santa Cecilia (15 minuti circa). Il sentiero segnato in bianco/rosso, ma poco visibile in diversi punti. Se si prende infine la strada a destra, in breve si sbuca su unaltra sterrata che si segue
ancora a destra: si passa unampia radura con a sinistra un oliveto e a destra un arioso panorama verso la torre di Chia da un lato e la valle del Tevere dallaltro, e dopo circa 700 metri di facile
cammino si raggiunge un quadrivio in una radura. Si prende la traccia a destra che zigzaga nel bosco e in breve scende verso la forra con passaggi scavati nella roccia. Si supera la cosiddetta tomba
del cavallo, con grande lapide, e poco oltre, a mezza costa, quando la traccia inizia a scendere la rupe, si trova una bella casa rupestre di epoca medievale. Ancora in discesa, il sentiero volta poi a
sinistra e costeggia la parete di roccia sino ad alcuni enormi massi, uno dei quali appunto la cosiddetta Piramide etrusca (30 minuti). Un sentiero, segnato bianco/rosso, collega la piramide a Santa
Cecilia, ma in molti punti poco visibile e abbastanza scomodo. Dalla piramide si scende a incontrare una stradina, dove si va a destra, raggiungendo in breve unaltra grande struttura scavata nella
roccia. Si continua a scendere poi, guadato un torrentello, il sentiero piega a destra e prosegue a mezza costa sotto la rupe, perdendosi ogni tanto nella macchia. Occorre prestare molta attenzione ai
segni e usare lintuito. Ad un certo punto si rientra nel bosco e si risale a Santa Cecilia (circa 30 minuti dalla piramide). Un altro percorso, consente di visitare, oltre alla piramide, anche la bella tagliata
delle Rocchette. Dal quadrivio nel bosco, invece di andare a destra, si prosegue dritti, si tralascia la seconda strada a sinistra (che comunque arriva poi nello stesso punto) e si continua sulla traccia
che avremo davanti, che si dirige verso la punta del pianoro. Poco prima, prestando attenzione, si noter sulla destra, su una roccia lavorata (tutta la superficie del pianoro presenta tracce di questo
tipo, a dimostrazione di unantica frequentazione), un segno bianco/rosso del sentiero. Seguendolo, si arriva quasi subito alla tagliata, che si percorre in discesa. Sebbene non molto grande ( lunga
circa 75 metri, e le pareti sono alte una decina di metri), per interessante perch allestremit inferiore, sulla destra in alto rispetto a un grande masso che sembra chiudere il cammino, si trova
unelegante scritta di epoca romana, che in pratica corrisponde ai nostri cartelli di propriet privata (Iter Privatum Duorum Domitiorum, cio strada privata dei due Domizi). Nei pressi anche la
scritta Ter (Terminus, a indicare un confine). Il sentiero prosegue in ripida discesa nel bosco, sino a sbucare su unaltra traccia, dove si va a destra. E, questo, il sentiero proveniente da Santa
Cecilia (che davanti a noi, rispetto al nostro senso di marcia). In breve si trova a destra il bivio che conduce alla piramide.

Bosco del Serraglio e Monte Casoli (Bomarzo) Se dalla ss 204 prendiamo il bivio per Bomarzo, potremo dare un'occhiata a questo stupendo borgo medioevale, prima di proseguire
per un'altro ambiente straordinario. Superato il borgo, si seguono le indicazioni per il "parco dei mostri" e si continua sinch la strada diviene una buona sterrata. A circa un chilometro dal parco, si
incontra un bivio a "T": si va a sinistra. A circa 400 metri dal bivio, in corrispondenza di una netta curva a destra, si stacca a sinistra una stradina, che ci condurr al Bosco del Serraglio, a cui vale la
pena dare un'occhiata prima di proseguire. Occorre seguirla tralasciando i vari bivi. In corrispondenza di un piccolo corso d'acqua la strda si biforca: andare a destra. Quando si restringe, inizia a
salire verso sinistra passando accanto un grosso masso. Con percorso tortuoso si entra nel bellissimo bosco e, dopo circa 15 minuti di cammino, ci si trover nei pressi di un grosso masso (alla nostra
sinistra), su cui sono scolpite due edicole ed una iscrizione, che ci ricorda che qui venne sepolto un bambino. Tenendo il masso sulla sinistra, se si va esattamente a destra attraverso il bosco, per
tracce esili di sentiero, si arriva in pochi minuti ad una ara cubica romana di grandi dimensioni. Altre tracce di antiche frequentazioni sono presenti sul sentiero se si prosegue ancora per un po', prima
di tornare sui nostri passi 30 min. a/r). Ripresa la strada, si prosegue tra campi coltivati, con bella vista verso Monte Casoli, tutto traforato di antiche grotte scavate dall'uomo, dall'altra parte della
valle. La strada infine scende, curva a sinistra, lascia a destra un ponticello di legno e poi raggiunge unarea di parcheggio della Riserva Naturale. Da qui si sale alla graziosa chiesetta di Santa Maria di
Casoli. Dal Parco dei Mostri a qui sono 5,1 km (esclusa deviazione per il bosco del Serraglio). Dalla chiesa si sale sul crinale, tenendosi verso sinistra (non seguire la traccia di sterrata che percorre il
pianoro verso destra!). Subito si trovano le prime "grotte", poi una sorta di vallo con i ruderi di un castello. Il sentiero scende nel vallo: poco sotto si trova la serie pi grande di grotte ed una sorta di
arco che immette ad un paio di colombari di epoca romana (uno trasformato in ovile: se ci sono le pecore non ovviamente il caso di entrare). A questo punto si intercetta facilmente una traccia di
sentiero che risale dalla parte opposta del vallo e si tiene sul crinale scoprendo altre cavit. Poi entra in una sorta di stupenda tagliata dalle pareti coperte di muschio e con un'edicola (con dipinto
mariano moderno) sullo sfondo. Questo il punto finale della gita. Andando avanti, si procede nel bosco sino alla fine del pianoro: una passeggiata assai piacevole. Il ritorno avviene per la stessa
strada (in tutto occorre circa mezz'ora).

Il convento Fortificato di Santa Maria in Volturno (Viterbo) Appena fuori la periferia del capoluogo della Tuscia, si trova questo interessante sito, in unarea sorprendentemente
selvaggia a ridosso degli insediamenti di Ferento e Acquarossa, lungo la valle del fosso delle Ferriere che forma una forra solitaria e in alcuni punti inaccessibile. Questo luogo legato anche alla
vicenda umana del prof. Mario Signorelli, singolare figura di studioso eretico, che ritenne di avervi identificato una citt sacrale etrusca. Lavorando sui resti di unantica cava di tufo, Signorelli
avrebbe secondo i suoi detrattori- creato una serie di architetture ad hoc, con gradini, passaggi, cunicoli, in modo da adeguare il complesso archeologico alle sue teorie, aiutato in questo,
comunque, dalla certa frequentazione antica del pianoro, come testimoniano numerose grotte autentiche che vi sono scavate. Al di sopra del complesso archeologico, poi, fra il 1528 e il 1554, i
Frati Minori Conventuali eressero un monastero fortificato, successivamente distrutto dal terremoto del 1561 e abbandonato. I pochi resti attuali danno davvero lidea di un castello affacciato sulla
forra, in un punto assai spettacolare. La mancanza di sorgenti dacqua facilmente raggiungibili, lassenza di una viabilit importante, per, rendono difficile ipotizzare la presenza qui di un importante
centro sacro come sostenuto dal Signorelli. Il sito facilmente raggiungibile dalla strada di Pian del Cerro (sp 56), a cui si accede dal Santuario della Quercia imboccando la strada Acquabianca (sp
22) per circa 2 km e voltando a sinistra al bivio: dopo circa 1,3 km (si supera la ss 675 Orte-VT) si prende a destra una stradina che porta ad un complesso di fattorie e capannoni agricoli, dove c
uno slargo per parcheggiare. Questo stesso punto raggiungibile dalla via Teverina voltando a destra dopo circa 4 km da Viterbo (vedi itinerario per Acquarossa). Dal termine della strada, labbazia
gi visibile ma per accedervi occorre passare una recinzione, ed bene chiedere lautorizzazione ai proprietari del terreno. Raggiunti i ruderi, si noter come limponente mole del torrione residuo
delledificio cinquecentesco, poggi su una complessa serie di cunicoli, alcuni molto antichi (secondo alcuni risalirebbero allet del Bronzo), altri riadattati in epoche pi recenti. Nicchie, passaggi,
gradinate sono ovunque. Tenendosi sul bordo della rupe, appena sotto le case moderne, si noteranno due grandi grotte artificiali utilizzate oggi come ricovero per il bestiame- davanti alle quali un
sentierino scende a mezza costa, arrivando in breve ad alcune cavit, trasformate in colombari. Molto bello (ma prestare attenzione!) laffaccio dalle pareti franate di questi ultimi, a picco sulla valle.
Lintera passeggiata richede pochi minuti, ma prendetevi molto tempo per esplorare e girovagare tra i resti archeologici: ne vale la pena!

Acquarossa (Viterbo) - Non lontano da Santa Maria in Volturno, il sito di Acquarossa conserva le tracce di una citt etrusca dellVII secolo a.C.: situazione piuttosto rara, visto che le principali
testimonianze archeologiche su questo popolo riguardano i morti e non i vivi. Dopo circa due secoli, il sito (che forse si chiamava Ferenth) venne attaccato da forze nemiche e distrutto. Gli abitanti si
trasferirono cos in un sito vicino dando vita a quella che poi sar la Ferento romana. Scavato dallIstituto Svedese di Studi Classici tra il 1966 e il 1975, oggi il sito di Acquarossa poco visibile, se si
eccettuano alcune murature coperte dalla vegetazione. Proprio ai piedi del colle dellinsediamento etrusco, si trova per un luogo che vale davvero la pena di visitare: le sorgenti che danno il nome al
sito e che lo confermano il suo nome. Le acque, infatti, sono davvero rosse! Secondo la leggenda nata nel medioevo, Ferento sarebbe venuta meno ad un patto di alleanza con Viterbo ai danni di
Nepi, e per tale motivo venne attaccata e distrutta dalle truppe viterbesi (come avvenne davvero alla fine del XII secolo). In tale occasione i morti tra le fila dei ferentesi furono talmente tanti che il loro
sangue arross per sempre le acque del torrente sottostante il campo di battaglia! In realt il fenomeno dovuto alla ricchezza di sali minerali, soprattutto zolfo e ferro, che vi si trova disciolto. Anche
il torrente che riceve le acque della sorgente presenta una colorazione rossastra che, unita alla presenza dei ruderi di un vecchio mulino, rende il sito davvero affascinante. Vi si arriva facilmente, con
una breve passeggiata. Dalla Teverina si prende via Pian del Cerro (sp 56 Acquarossa: lo stesso punto raggiungibile da Santa Maria in Volturno proseguendo sulla provinciale) e dopo circa 500 m,
prima che la strada compia unampia curva a destra passando il ponte sul torrente, a sinistra si noter una stradina sterrata. Seguendola, in breve si giunge ad una traccia che scende accanto al rudere
del mulino, sino ad una bella cascata e (sulla sinistra) ad una grotticina da cui sgorga lacqua ferruginosa. In tutto non pi di 10 minuti.

Grotte Santo Stefano (Viterbo) Comune autonomo sino alla risistemazione amministrativa del 1927 voluta da Mussolini, Grotte Santo Stefano venne accorpata a Viterbo per incrementare
la sua popolazione, in modo da renderla meritevole di diventare capoluogo di provincia (strappando il titolo a Civitavecchia). Con quasi 4000 abitanti, Grotte una delle frazioni pi popolose del

capoluogo: di probabili origini antiche, fortificata nel Medioevo, deve linteresse che suscita nei viaggiatori ad alcune emergenze naturalistiche e archeologiche di grande rilevanza, come il borgo di
Montecalvello e lantistante pianoro di Piantorena, sede di un antico castrum. Di Torena (o Thorena o Turrena: il suffisso Tor o Tur di chiara origine etrusca) si hanno notizie documentali a partire
dal XIII secolo, e gi nel secolo successivo se ne perdono le tracce, sebbene il sito non sia stato del tutto abbandonato, come testimoniano la chiesa di San Salvatore, collocata al centro del pianoro,
risalente al XV secolo, e il vicino monastero (ridotto a un rudere) opera del XVII secolo. Attualmente tutta larea stata risistemata ad area picnic, con tavoli e bracieri. Per raggiungerla, occorre
proseguire da Grotte Santo Stefano verso Montecalvello: appena fuori dal paese si incontra un bivio a sinistra (con un cartello giallo in effetti poco visibile) che indica il Parco Archeologico. Circa 100
metri dopo, ci si tiene a sinistra, e si rimane sulla strada principale, tralasciando tutti i piccoli bivi, finch dopo circa due chilometri la strada si divide: si va ancora a sinistra, in netta discesa, si supera un
torrentello, e si risale infine per sbucare, dopo circa un chilometro, su unaltra sterrata, dove si va a destra passando davanti lingresso di una cava di tufo. Si procede nel bosco, sinuosamente, a lungo
(circa 2 km) prestando attenzione ai pochi cartelli (a un bivio, andare a sinistra, e comunque mantenersi sempre sulla sterrata principale) sino al cancello di ingresso (normalmente aperto).
Immediatamente prima di questo, si attraversa il primo dei due fossati che servivano a difendere il castello, alla cui estremit si apre una postierla sulla cui parete interna scolpita una grande croce
latina. Lungo il fronte settentrionale della rupe, si trovano alcune delle grotte meglio conservate delle trentasette che rendono Torena un vero e proprio insediamento rupestre. La gran parte di questi
ambienti ipogei, per, oggi franato o irraggiungibile, come i due bei colombari che si trovano sul fronte meridionale del salto di roccia, subito a destra dopo il cancello di ingresso, e che possono
essere raggiunti solo con metodi alpinistici (sono per ben visibili da Montecalvello). Nei pressi di questi ultimi si trova una grotta (anchessa irraggiungibile) che verso la fine del XIX secolo serv da
rifugio al brigante Luigi Rufoloni, detto Rufolone, originario di SantAngelo di Roccalvecce (dove nacque nel 1835) e morto a Grotte Santo Stefano nel 1906. Si racconta che per nascondersi ai
gendarmi, si calasse nella grotta sfruttando un albero aggettante sulla forra. Pi avanti, seguendo il sentiero che percorre il bosco, si incontrano altri due colombari, uno dei quali non lontano dalla bella
torre che guarda verso Montecalvello, da cui si gode una vista eccezionale. A differenza dei precedenti, sono facilmente visitabili. La torre, risalente al XIII secolo, crollata in parte, di fattura
pregevole, con un tratto angolare in bugnato, e svetta su un basamento di roccia vulcanica poggiato per su alcuni calanchi, che stanno rapidamente franando. Da qui si gode una magnifica vista sulla
non lontana valle del Tevere, di cui il sottostante torrente Rigo un affluente, e sul borgo di Montecalvello. Questultimo un piccolo grumo di case raccolte attorno al castello fondato nellVIII
secolo dal re longobardo Desiderio, appartenuto nel XIII secolo al ghibellino Alessandro Calvelli (da cui il nome) e propriet alla met del XVII secolo di Donna Olimpia Maidalchini, la papessa (a
Roma detta Pimpaccia), cognata di Innocenzo X, il papa che (pare su sua istigazione) decret la distruzione di Castro. Nel 1970 il castello venne acquistato da Balthasar Klossowski de Rola, detto
Balthus, il grande artista francese innamorato della pittura rinascimentale italiana. La corte interna del borgo, con al centro una piccola fontana circondata dalla facciata del palazzo, che ha mantenuto
le sue purissime forme rinascimentali, permette di fare un vero e proprio salto nel passato. Allestremit della piazzetta, un belvedere si affaccia sulla valle di Piantorena. Lo stesso torrente Rigo che
sfiora la rupe di Torena protagonista assoluto di uno dei pi grandiosi spettacoli naturali della provincia viterbese: le gole dellInfernaccio. Si tratta di una forra spettacolare, dalle pareti assolutamente
verticali, in cui il torrente precipita da unaltezza di circa 30 metri, creando una cascata di rara bellezza. Ma non siamo in presenza della solita cascata e della solita forra, frequenti nella Tuscia: le
numerose sorgenti sulfuree, con disciolte grandi quantit di ferro, colora infatti le acque di un forte colore giallo-arancione, trasformando questo luogo in un unicum fantasmagorico, giustificando il
nome diabolico datogli nel passato. Attualmente raggiungere la cascata davvero complicato (sebbene si trovi a brevissima distanza dalla strada provinciale Grottana, nei pressi del bivio con la
Tiberina), e molto pericoloso, visto che il sentiero predisposto non molto tempo fa oramai quasi del tutto franato; inoltre occorre attraversare alcune propriet private (info su
www.ecomuseodellatuscia.it).

La Cappadocia della Tuscia (Vallerano) Tra Vallerano, Canepina e Vignanello, alle porte del capoluogo e ai piedi del cratere di Vico, si trovano, persi tra forre solitarie, diversi eremi e
insediamenti monastici medievali. Di molti di loro si oramai perso ogni traccia, mentre altri sono difficilmente raggiungibili e oramai coperti di vegetazione o nascosti da frane e smottamenti. Ce ne
sono alcuni, per, che possono ancora essere ammirati, e che regalano forti emozioni, come la grotta del SS. Salvatore a Vallerano, con i suoi affreschi bizantini. Fino al XIX secolo la grotta era del
tutto sconosciuta, poi una frana, la rivel al mondo. Rimasto nascosto per un millennio (risale infatti al IX-X secolo), uno stupendo ciclo di affreschi in stile orientale bizantino si offr in tal modo agli
occhi stupiti degli studiosi giunti sul posto. Da allora, per, iniziato anche il loro degrado: esposti alla luce e agli agenti atmosferici, i dipinti hanno iniziato a perdere forza e colore, mentre la rupe
instabile minaccia di distruggerli per sempre. Una ricerca recente ha verificato che non ci sono rischi immediati di crollo, ma certo la situazione non delle migliori per garantirne la salvaguardia.
Collocato su unalta parete di roccia vulcanica eruttata dal vicino complesso vicano, lambiente rupestre costituito da una cappella, intonacata, su cui sono dipinti una Madonna col Bambino (sopra
una bella nicchia) e gruppi di santi sulla parete di fondo, e Ges, il Salvatore (da cui il nome del sito), con San Pietro e un angelo sulla parete di sinistra. Sicuramente tutte le altre pareti dovettero
essere affrescate ma purtroppo sono andate completamente perdute. Non si tratta di affreschi di scarsa qualit: chi ha avuto modo di studiarli ne sottolinea anzi lelevato livello tecnico e artistico.
Insomma, sono opera di un artista importante, e dunque vale la pena fare la breve passeggiata per andare ad ammirarli prima che il tempo e lincuria si incarichino di cancellarli definitivamente! Da
Piazza della Repubblica (dov il torrione) si prende sulla destra via Fontana Nuova, una stretta stradina che si infila in una sorta di via cava, passando un arco, e rasentando la parete di roccia su cui
sorge il borgo, in direzione della sottostante forra, coperta di noccioleti. Si costeggia un torrentello e in breve si supera un ponte ferroviario. La stradina stretta ma dal fondo asfaltato e compie un
ampio tornante tra i campi, arrivando a passare nuovamente la ferrovia. Subito dopo questo secondo ponte, si parcheggia e a piedi si costeggia il piccolo torrente che avremo alla nostra sinistra
(tralasciare il ponticello di legno che si incontra allinizio) per circa 300 metri. Subito dopo un tratto in cui il torrente procede rasente alla parete di roccia, quando questo se ne allontana, e in
corrispondenza di un grosso tubo di cemento, si deve guadare il torrente (nei periodi piovosi indispensabili gli stivali di gomma) e risalire brevemente la ripa. In pochi istanti si al cospetto degli
affreschi. In tutto, andata e ritorno, occorrono circa 20-25 minuti.

Un altro sito di notevole interesse, anche ambientale e paesaggistico, quello di San Leonardo, un insediamento probabilmente benedettino- dalla struttura particolarmente articolata e perso tra
vastissime distese di castagneti secolari che da soli valgono il viaggio, visto che molte di queste piante annose e contorte sono degli autentici monumenti della natura! Da Vallerano si prende la
provinciale Valleranese in direzione di Carbognano e Fabrica di Roma. Poco prima di arrivare al Santuario del Crocifisso (anchesso interessante da visitare), si trova a destra una stretta stradina che
alterna tratti sterrati a tratti in cemento e asfalto, ma che comunque pu essere percorsa con prudenza ma senza particolari difficolt. La si segue per circa 6 chilometri, inoltrandosi nei castagneti che
ricoprono le colline tra Canepina e Vallerano e che hanno fatto per secoli, e in parte fanno tuttora, la fortuna di queste zone. A un trivio, prendere a sinistra (tralasciare sia la strada di fronte che la
discesa a destra in direzione di Canepina), e comunque seguire sempre la strada principale, facilmente riconoscibile (i bivi sono in genere semplici accessi ai singoli castagneti). A circa due chilometri
dal trivio si incontra a sinistra una stradina dal fondo in cemento. Si parcheggia nello slargo che segue il bivio e si procede a piedi sulla stradina (che pu anche essere seguita in auto, ma in tal caso,
per, si perde loccasione di fare una piacevole passeggiata!), per circa 800 metri. Il sito di San Leonardo si trova proprio al termine della strada, su una rupe allincrocio tra il torrente omonimo e il
Rio della Stufa (nome probabilmente di origine longobarda, forse da Staffal, cio cippo o palo di confine). Sul pianoro, perfettamente livellato, si notano diversi accessi alle grotte sottostanti e le
fondamenta (scavate per circa 1,50 m di profondit) di una piccola chiesa. Da qui si gode di un ampio e piacevole panorama sulle vallate circostanti. Scesi al piano inferiore, si possono visitare diversi
ambienti ricavati con maestria nella roccia (poco distante si trova anche un piccolo ambiente inserito in un masso solitario). Secondo Joselita Raspi Serra, che studi questo sito negli anni 70, la
presenza di archi a tutto sesto e la qualit della manifattura, fanno pensare ad una datazione tra il XII e il XIII secolo (a piedi, andata e ritorno, sono circa 50-60 minuti). Un terzo insediamento
solitario si trova a Vignanello, poco distante: si tratta del monastero benedettino di San Lorenzo. Era un complesso davvero imponente, organizzato su ben tre livelli collegati da rampe e scalini, con
numerosi vani destinati ad abitazione, a magazzini per le derrate, ad attivit produttive (ad esempio forni o stalle), oltre ad un ambiente sacro che conserva flebili tracce di affresco. Purtroppo secoli di
abbandono hanno lasciato il segno: numerosi crolli hanno nascosto passaggi e ambienti, la vegetazione invasiva rende praticamente impossibile la visita dei piani superiori, per non parlare del
degrado portato dalluomo, con la presenza di rifiuti (principalmente legati allattivit agricola). Se per si desidera fare un po gli esploratori e dare unocchiata ad un luogo comunque suggestivo e
raggiungibile con una discreta facilit, allora pu valer la pena imboccare, da Vignanello, la provinciale Vignanellese (sp 26) verso Corchiano. Passato un ponte su una forra, e superato il km 6.00, si
vedr a destra un grosso impianto elettrico: poco oltre si trova un incrocio, dove si va a destra su una sterrata che si percorre per circa 200 metri. In corrispondenza di un piccolo bivio a sinistra si
parcheggia e si segue a piedi la stradina che punta verso il bordo del pianoro e poi scende nella valle utilizzando un tragitto antico, a svolte. Raggiunte le rive del torrente, coltivate a noccioli, si va a
destra, per tracce, costeggiano la rupe. Dopo un tratto di folta vegetazione, quando anche la valle si fa pi ombrosa, occorre prestare attenzione alla base della rupe alla nostra destra: una grotta con
accanto, scolpite nella parete, diverse nicchie sepolcrali, indicano che abbiamo raggiunto il sito di San Lorenzo. Proprio al di sopra della grotta, immerse nella vegetazione, si indovinano altre ambienti
scavati nel banco tufaceo. Poco pi avanti, parzialmente sepolti da crolli, si individuano un probabile forno e un magazzino per derrate. Il luogo comunque molto affascinante (andata e ritorno: meno

di unora).

CAP. 4 - LAGER FALISCUS E LA VIA AMERINA


Lago Vadimone (Orte) - Se dalla stazione di Bassano in Teverina si volta verso destra, costeggiando la linea ferroviaria per circa 500 m, in breve si raggiunge un bivio in corrispondenza di una
cava; se andiamo a sinistra, scavalcando alcune linee ferroviarie su un ponticello e, una volta scesi al di l, proseguiamo ancora brevemente (tralasciando un bivio), vedremo sulla destra, sul bordo di
un campo, una tabella esplicativa del SIC Travertini di Bassano e un fontanile in pietra non funzionante. Appena dietro al fontanile, facilmente raggiungibile, si trova l'unico accesso possibile al
microscopico Lago Vadimone. Lo specchio lacustre, perfettamente circolare, chiuso da foltissimi canneti dominati da alcuni grandi salici le cui fronde costantemente smosse dal vento si specchiano
nelle acque cerulee, ricoperte di alghe galleggianti e bolle biancastre di zolfo. Dove l'acqua tocca la terra, si trova una ricca vegetazione riparia, tra cui spicca la menta profumata e la vigorosa
salcerella, dalle spighe di fiori rosso-violetti. Di fronte a noi, incorniciata dalle chiome dei salici, vedremo una collina dalla base ampia sul cui vertice sorge il possente castello di Giove, gi in territorio
umbro. Ai piedi della collina scorre il Tevere, invisibile dalla nostra posizione; invisibili, ma udibili, passano anche i treni dell'alta velocit, e le auto e i camion dell'Autostrada del Sole. La valle del
Tevere doveva apparire ben diversa ai sacerdoti etruschi che qui, sulle rive del lago compivano riti e sacrifici propiziatori! Nella lettera (VIII, 20) che Plinio il Giovane scrisse al suo amico Gallo, cos il
poeta romano descrive questa meraviglia della natura: Il lago ha la forma di una ruota coricata ed delimitato da un contorno che non presenta mai anomalie: non ci sono golfi n tracciati tortuosi;
tutto misurato, tutto regolare tanto che sembrerebbe scavato e tagliato dalla mano di un tecnico. Il suo colore azzurro chiaro che per assume tinte pi scure dove agiscono i riflessi dell'orlo
verdeggiante; l'acqua ha un odore di zolfo, un gusto di soluzioni minerali e la virt di saldare le fratture []. La superficie esigua, tale per da subire l'azione dei venti e da sollevare ondate. Non ci
sono imbarcazioni (poich sacro), ma vi galleggiano delle isole, che hanno tutte una consistenza erbacea essendo composte di canne, di giunchi e di tutti gli altri vegetali che nascono in qualsiasi
palude piuttosto fertile e sui lembi stessi di quel lago []. Questo lago ha come emissario un fiume che, dopo di essere rimasto per un po' visibile, si precipita in una caverna continuando il suo corso a
grande profondit e se, prima che si sottraesse allo sguardo, gli si gettato dentro qualcosa, lo mantiene e lo ripresenta.

Di questultimo fiume, e della grotta, non si hanno pi notizie, cos come delle isole galleggianti, che probabilmente si sono saldate tra loro e, insieme alle deposizioni di detriti, hanno finito per ridurre il
diametro della circonferenza coperta di acqua a ben poca cosa. Nel 283 a.C., per colmo della beffa proprio sulle rive del Lago Vadimone, che appunto consideravano sacro, gli etruschi subirono la
definitiva sconfitta da parte dei Romani, come narra Polibio nel libro II delle sue Storie e persero la loro indipendenza. Il numero dei caduti fu cos alto che il loro sangue tinse di rosso le acque del
vicino Tevere, portando a Roma ancor prima dei messaggeri la notizia della battaglia. Ma gi nel 309 a.C., come scrive Livio, su queste rive gli etruschi conobbero lamaro sapore della sconfitta.
Secondo la tradizione il lago Vadimone si chiamava originariamente lago di Valdemonio, perch al suo interno si sarebbe nascosto un demonio pronto a ghermire chiunque si fosse avvicinato troppo
alle sue rive. Ad avvalorare questa inquietante presenza, ci sarebbero lampi improvvisi e sommovimenti che scuotono le acque, rese lattiginose da sorgenti sulfuree.
Il Pagus di Palazzolo (Vasanello) Secondo la tradizione popolare, Elbio, lultimo re etrusco (in realt mai esistito: la sua figura venne creata nel XV secolo), rimasto ucciso durante la
battaglia del Lago Vadimone, fu sepolto in un luogo non molto distante, il pagus di Palazzolo, nel territorio di Vasanello. Ancora esiste un cumulo di pietre che localmente chiamato Tomba di
Elbio (daltra parte anche il Lago di Vico veniva un tempo chiamato Lago di Elbio!). Palazzolo conobbe un certo sviluppo durante il Medioevo, soprattutto in epoca longobarda, in virt della sua
posizione lungo le direttrici dei traffici diretti al Tevere, dove si trovava il porto fluviale di Seripola. Ricordato dalle fonti come castrum alla fine dellXI secolo, appartenne a Viterbo ma fu anche, a
partire dal 1266, libero Comune. Nel 1364 risulta gi in stato di abbandono, probabilmente a causa della malaria che qui, come in altre localit della Tuscia, decim la popolazione. La diffusione
dellanofele, la zanzara che trasmette il plasmodio della malattia, venne facilitato dalla presenza delle pestarole, cio delle grandi vasche scavate nella roccia e utilizzate nel corso dellanno per diverse
attivit agricole, dalla pigiatura delluva alla fermentazione del letame, sino alla purificazione dellargilla per la realizzazione delle ceramiche, di cui Vasanello fu un centro importantissimo, come
testimonia il suo stesso nome. In particolare, molte pestarole erano impiegate per la macerazione della canapa e del lino, due tessuti vegetali che nel Medioevo conobbero una vastissima diffusione, al
punto da modellare lo stesso paesaggio delle campagne, come scrive Francesca Zagari (Archivio della Soc. Romana di Storia Patria, vol.121 1998): Canapa e Lino, per l'alto Lazio
tardomedievale, sembrano far parte di quei prodotti che in ogni epoca storica hanno caratterizzato il panorama economico -e in questo caso anche agricolo- di una regione. Infatti gli statuti altolaziali
del XIII e XIV secolo menzionano la produzione di canapa e lino a Campagnano, Castel Fiorentino, Bagno Regio, Bolsena, Toscanella e Viterbo cui si aggiungono centri come Orte, Nepi, Sutri,
Civita Castellana e Civitella d'Agliano... (La) coltivazione... avveniva in aree suburbane caratterizzate dall'abbondante presenza di acqua... Inoltre i piccoli appezzamenti monocolturali di canapa
(canapule), insieme ai campi di lino -la cui coltivazione attestata anche negli orti- erano una componente tipica del paesaggio altolaziale del XIV-XV secolo. Anche a Palazzolo si incontrano vasche
di questo tipo, tra cui una davvero monumentale nei pressi di unantica fornace, e la loro presenza potrebbe aver appunto contribuito come avvenne anche a San Lorenzo vecchio- allinsorgere di
epidemie malariche. Sta di fatto che oggi di Palazzolo non restano che pochi, ma quanto mai affascinanti ruderi, collocati su un pianoro le cui pareti appaiono traforate da numerose case-grotte.
Allinsediamento facevano capo diverse torri sparse nel territorio e adibite al controllo dello stesso. Tra tutte, due sono particolarmente interessanti, la cosiddetta Torricella e la Torre di Resano, a
Orte, oramai ridotta ad un moncone, che lascia intravvedere al suo interno la singolare trasformazione in colombario. Gli scavi archeologici hanno rivelato che il sito dovette essere frequentato sin
dallantichit, e che rimase in uso per buona parte del Medioevo, come dimostrato da diverse grotte scavate nella parete del pianoro che fa da base alla torre. Il nostro itinerario di visita potrebbe
partire proprio da qui, grazie alla presenza della statale 675 (la Orte-Civitavecchia). Dalluscita Orte di questultima, si prosegue brevemente verso la citt tiberina e si volta quasi subito su una
stradina a destra (via Cappuccini) il cui accesso non ben visibile. La strada scavalca la statale e diventa sterrata: in breve, davanti compare la torre. Conviene parcheggiare prima possibile e
proseguire a piedi. Si lascia un cancello a sinistra, poi uno a destra e si volta nettamente a sinistra sino ad un noccioleto, collocato alla base della torre. Costeggiando la rupe, traforata da alcune grotte,
si arriva ad una traccia che sale verso la sommit del pianoro, che fittamente avvolto dalla vegetazione. Il percorso difficile e in alcune stagioni pressoch impossibile, motivo per cui anche per
ragioni di sicurezza- meglio limitarsi ad ammirare il monumento dal basso. Ripresa lauto, si deve tornare al bivio e voltare a sinistra, manovra per non consentita, motivo per cui si deve andare
dapprima a destra e fare inversione utilizzando la strada per le Terme di Orte, non molto distante. Superata di nuovo la rampa di accesso per la statale, si prosegue per circa 900 metri sino al bivio a
sinistra (segnalato con tabella della Via Amerina) per Palazzolo e Vasanello. La strada diventa quasi subito sterrata, ma dal fondo discreto, e percorre fitti boschi cedui in bellambiente etrusco,
con forre e pareti tufacee, per poi scendere in una sorta di tagliata sino al fondo della gola, dov un noccioleto, e dunque risalire sino ad un bivio a T, dove si pu parcheggiare (2,5 km circa) nei
pressi di unarea picnic (questo stesso punto raggiungibile da Vasanello seguendo via Palazzolo, sterrata ma dal fondo discreto, prosecuzione di via Grottone che si prende da via Battisti andando
dal centro del paese in direzione di Orte). A piedi seguiamo a piedi la strada a destra (percorribile volendo anche in auto) e dopo un tratto in leggera salita, e prima di una curva a destra (e nei pressi
di una pista da motocross), alla nostra sinistra troveremo linteressante sepolcreto medievale popolarmente chiamato i morticelli, a causa delle piccole dimensioni (mediamente 1,60 m) delle tombe a
fossa antropomorfe (VIII sec. d.C.) scavate nel banco tufaceo, che hanno fatto pensare a sepolture di gente molto piccola (alcuni, comunque, erano certamente bambini). Tornati al bivio, seguiamo la
strada che avremo trovato a sinistra arrivando e da subito costeggeremo la rupe sul cui vertice sono i resti delle fortificazioni medievali di Palazzolo. Anche in questo caso, la parete di roccia stata
scavata per ricavare ambienti destinati ad abitazioni o magazzini. In corrispondenza di una curva (dov uno slargo utile per parcheggiare se si effettua questo breve tragitto in auto), si stacca a destra,
vicino una tabella esplicativa, un sentierino che scende nella forra (sistemato, come quasi tutti i siti di questa zona, a cura dellAssociazione Poggio del Lago di Vasanello che si molto adoperata per
la valorizzazione e salvaguardia di questo luogo), sino a raggiungere un limpido torrentello, superabile grazie ad una passerella di legno. Un secondo rigagnolo a destra a sua volta scavalcato da una
passerella, dopo di che il sentiero prosegue nel fitto bosco muschioso, effettuando un tornante prima di entrare in un passaggio ricavato nella roccia che conduce alla sommit di un pianoro, dove sono
i resti (poco leggibili, in verit), di una fornace medievale. Qui la traccia si biforca. Andando a destra, si prosegue quasi in piano nel bosco, si tralascia un primo bivio a sinistra (strada in netta discesa)
e si raggiunge uno slargo, dove si piega ancora a sinistra. Si prosegue nella macchia, costeggiando il bordo della forra, entrando poi in una zona di cespuglietti in cui occorre prestare un po di
attenzione. Il sentiero sempre abbastanza visibile, ma poco prima di sbucare in una zona priva di vegetazione per il fondo roccioso, occorre piegare nettamente a sinistra in direzione del margine
della rupe, incontrando cos degli scalini di roccia e una serie di corde che consentono di calarsi (con molta attenzione) sino alla cosiddetta cella di Santa Rosa. Nata a Viterbo nel 1233, per il suo
modo sin troppo fervente di servire la causa della fede, viene allontanata dalla citt per intervento di Federico II; trov asilo a Soriano e Vitorchiano prima di far ritorno nella citt nata (dove morir
nel 1251) a seguito della dipartita del suo persecutore. Secondo la tradizione, durante la sua fuga avrebbe trovato rifugio in questa grotta, ma non esistono prove in tal senso. Linsediamento rupestre,
che probabilmente fu trasformato in eremo, sorge in un angolo solitario e verdissimo del territorio di Vasanello, non lontano da un ruscello e in unarea di antica frequentazione. Tornati alla fornace, si
pu a questo punto prendere laltro sentiero, che conduce in pochi minuti ad una grande pestarola monumentale. Da qui si scende verso il torrentello valicabile con una passerella e si risale a
raggiungere una sterrata: si va a sinistra trovando in breve il percorso dellandata e chiudendo il cerchio (in tutto circa unora e mezza). Tornati sulla strada si prosegue a destra in discesa e si prende,
fatte poche decine di metri, la traccia che sale a sinistra. In breve vedremo alla base della parete di roccia un ampio complesso di grotte: il sentiero percorso sinora continua verso la Grotta delle
Monache (in realt un antico colombario, chiuso da una grata in ferro ma ben visibile. Per raggiungerlo tralasciare il bivio a sinistra), mentre entrando nelle grotte possibile grazie ad alcuni
passaggi- risalire sul pianoro del castello. Sbucati nei pressi di unimponente muratura, si salgono alcuni gradini che consentono di scavalcarla (a sinistra) e si traversa la sommit dellaltopiano,
fittamente boscato e cosparso di resti murari, quasi tutti di difficile interpretazione, raggiungendo in breve un vallo, in cui occorre scendere con molta prudenza (andare a destra) per risalire al di l sino
ai piedi di quella che doveva essere la fortificazione principale, collocata allestremit della formazione rocciosa e a picco sulla gola, e separata dal resto dellabitato appunto da un vallo artificiale, di
cui resta un frammento della torre e alcuni lacerti delle mura perimetrali. Con prudenza (e se non ha piovuto) si pu riuscire a scendere da qui sulla strada, che passa subito sotto; altrimenti occorre
tornare sui propri passi. Lintero giro non richiede comunque pi di unora. Se non ancora stanchi delle molte cose interessanti viste nel corso di questo itinerario, si pu aggiungere una visita a un
interessante cunicolo che unisce il fosso Tre Fontane con il fosso Canale, cio i due corsi dacqua che circondano laltura di Palazzolo. Si deve costeggiare verso sinistra la rupe dov il rudere della
torre che domina la strada: una ben visibile traccia dapprima costeggia il margine della forra del fosso Canale, poi inizia a scendere sino a raggiungerne, in pochi minuti, le rive, che si seguono verso
destra. Lambiente quello tipico delle forre del viterbese, con alte pareti tufacee e una fitta vegetazione. In breve si raggiunge una grotta, sistemata artificialmente, in cui si apre, in basso a sinistra, il
cunicolo. Poco pi avanti, si notano i resti di una diga. Tutta la sistemazione, medievale, serviva a far arrivare le acque di questo torrente (pi copiose) nel fosso Tre Fontane, doverano due mulini.
Chiudendo la diga, il livello dellacqua saliva e il cunicolo la trasportava dallaltra parte della rupe (dov ancora ben visibile il cunicolo di sbocco, allinterno di una sorta di torre medievale, che era
parte della mola).

Chiesa rupestre di San Silvestro (Vasanello) Ulteriore dimostrazione della ricchezza di ambienti ipogei della Tuscia, la chiesa di San Silvestro si inserisce probabilmente nellinsieme di
insediamenti dipendenti da Palazzolo, e dunque potrebbe risalire al VI-VII secolo, sebbene secondo altri autori sarebbe stata edificata nel X secolo. Comunque sia, se ne sa poco, e oggi restano
visibili solo due grandi ambienti, scavati nel banco di tufo: lambiente principale, cio la chiesa vera e propria, rivestita da una volta a botte realizzata con conci tufacei a secco. Numerose tracce
presenti al suo interno rivelano che in tempi molto pi recenti venne adibita ad abitazione, mentre lambiente ipogeo accanto (a cui collegata con un piccolo passaggio) fu destinato a stalla. Il sito
sorge a breve distanza dal parco dei Fontanili, unarea attrezzata (anche con tavoli da picnic) nei terreni boscosi dellUniversit Agraria di Vasanello. Per arrivare, si prende la strada asfaltata che si
stacca alla sinistra (guardando lentrata) del cimitero del paese, che a sua volta raggiungibile percorrendo brevemente la sp 30 verso Vignanello e Soriano. Fatti pochi chilometri si arriva al
parcheggio dinanzi levidente lavatoio-fontanile che rappresenta il punto di partenza della passeggiata. Si torna leggermente indietro e si entra nel bosco seguendo la sterrata che costeggia la recinzione
(vuota) doverano ospitati dei Daini, piegando poi a destra per superare un fosso su un ponte antico e voltare subito dopo a sinistra, entrando in una zona di noccioleti. Dopo poche centinaia di metri,
si trovano due pali del metanodotto Snam (gialle), che fungono da punto di riferimento, estremamente prezioso: appena li si supera, si deve andare a destra per raggiungere levidente parete rocciosa
e cercare unesile traccia che penetra nella macchia e risale verso la grotta, raggiungibile comunque in pochi istanti. Lintero giro non richiede pi di 20 minuti (pi il tempo per la visita).

Corchiano, terra falisca Corchiano un piccolo borgo collocato su uno sperone tufaceo circondato da profonde forre: una tipica posizione etrusca, sebbene ci troviamo in pieno Ager
Faliscus. Ma proprio a Corchiano la vicinanza tra Etruschi e Falisci (che erano loro alleati, ma di lingua e cultura latina) appare molto chiara: nei pressi del Santuario della Madonna del Soccorso si
trova una interessante necropoli falisca (350-240 a.C.), proprio sulla strada asfaltata. Nonostante i crolli e la stabilit oramai compromessa, che ha obbligato i tecnici a realizzare delle indispensabili
ma deturpanti strutture metalliche di sostegno, le decorazioni di alcune tombe, chiaramente ispirate a quelle tradizionali etrusche, con la finta porta degli inferi con stipiti a becco di civetta che
richiamano quelle di Norchia, sono ancora visibili con chiarezza. Altra testimonianza di vicinanza tra le due culture il ponte sodo detto Ponte del Ponte. Attualmente, laccesso pi comodo al sito
archeologico dallOasi WWF di Pian SantAngelo (info su www.wwf.it), grazie ad un sentiero attrezzato. Un percorso pi rapido ma decisamente scomodo (e da fare rigorosamente in inverno,
quando la vegetazione meno rigogliosa) si trova invece lungo la sulla strada provinciale 73 che conduce a Gallese. Dopo circa un chilometro da Corchiano, quando la strada effettua una netta curva
a destra, si staccano a sinistra una sterrata (seguendola si pu arrivare allestremit terminale di un tratto basolato della via Amerina e poco oltre, sottopassando la ferrovia, ad uno degli accessi
dellOasi WWF) e un secondo stradello, presto chiuso da una catenella. A piedi, si prosegue brevemente oltre, tra i noccioleti, sino ad un vecchio cartello della Soprintendenza che illustra il sito di
Ponte da Ponte. Seguendo i pali della linea telefonica si attraversa il noccioleto in direzione del bordo della forra, individuando poi, tra i rovi, alla sinistra di uno dei pali, una traccia, percorribile con
difficolt, che scende nella forra utilizzando stretti tratti scavati nella roccia, sino a raggiungere il sito archeologico. Ecco come alla fine del XIX secolo, Angiolo Pasqui lo descrive in Forma Italiae:
Pontone del Ponte fu cos denominato per un'arginatura di tufi che sbarra parte a parte il fosso. Conserva fino a 15 filari di altezza e misura uno spessore di 5,50 m. Ciascun filare alto cm 52. Alla
base di quella serra, dalla parte sinistra di chi la guarda contro corrente, internasi lungo la spalletta di tufo un gran cunicolo arenato, il quale riceve le acque della parte superiore della serra. Dinanzi a
questo cunicolo si vedono nel tufo le tracce incavate, entro le quali scorreva una chiudenda per regolare l'uscita delle acque o per utilizzarle in opere di coltivazione. La galleria se non c molta
acqua- pu essere utilizzata per passare dallaltra parte del muro, da dove pi facile apprezzare la mole del monumento. Qui arriva anche il sentiero dellOasi WWF. Ma Corchiano non stata
importante solo in epoca falisca. Anche nel Medioevo, grazie alla sua posizione sulla via Amerina, rivest una notevole importanza strategica, come testimoniano diversi ruderi di castelli, tra cui
Cenciano e Santa Bruna (questultimo recentemente restaurato e trasformato in agriturismo). Il pi suggestivo di questi siti per Castiglione. Dal Santuario della Madonna del Soccorso, facilmente
raggiungibile dal paese seguendo la strada per Fabrica di Roma, si prende la stradina che si stacca sulla destra della chiesa (via dei Pianaglioni), si sottopassa la ferrovia, e fatti circa 600 metri, subito
dopo un gruppo di edifici moderni, si nota un campo popolato di querce: una palina del progetto via Amerina indica il sentiero 7. Si attraversa a piedi il campo e subito compaiono di fronte i ruderi e si
nota uno stradello in discesa sulla destra che entra in una tagliata e raggiunge un ampio pratone alla base della rupe, a cui si accede facilmente tenendosi a destra. Della fortificazione restano imponenti
murature e numerose grotte scavate nella roccia, tra cui una che conserva i resti di una interessante mola per il grano. Il castello risale al XII secolo, e appartenne nei secoli successivi agli Orsini, e
aveva la funzione di proteggere il lato occidentale del territorio corchianese. Nel XIV secolo venne ceduto allOspedale di S. Spirito in Sassia, e in breve tempo decadde: un secolo dopo risulta gi
diruto e abbandonato. Il sito davvero molto bello, anche grazie alla sottostante forra, dove scorrono le limpide acque del fosso Nuovo, affluente del Rio Cenciano. Per completare lesplorazione del
territorio, tornati in paese ci si pu dirigere verso la chiesa di SantEgidio, appena fuori del paese (traversa di via Roma, sulla sp 29) nei cui pressi una via cava dal fondo cementato, in ripida discesa,
permette di raggiungere la sottostante valle del Rio Fratta, dove sono interessanti ambienti rupestri di epoca falisca (ampiamente rimaneggiati) e un ponte medievale a schiena dasino, oltre a una bella
cascata. Superato il ponte, si accede alla via cava del Sambuco, in cui sgorga lomonima sorgente. Quasi subito, sulla sinistra, si nota una grande scritta etrusca, protetta da una piccola tettoia. Ecco
come descrive questo luogo, alla met del XIX secolo, George Dennis: il pi importante reperto archeologico [di Corchiano] a circa 800 metri dal paese, lungo la strada che conduce a Falerii
Novi. sulla parete di una strada incassata nel tufo che dal ruscello porta alla campagna. E uniscrizione in lettere etrusche [alte circa 38 cm] e in termini latini si pu leggere: LART. VEL.
ARNIES La cosa strana che, per quanto sembri uniscrizione funebre, nessuna tomba esiste nelle vicinanze.

Torre della Selva di Mezzo (Corchiano ) - I Falisci, come gli Etruschi e molti altri popoli dellantichit, vissero (almeno in una fase iniziale della loro civilt) in villaggi sparsi, collocati su
alture circondate da profonde gole, detti pagus (da cui deriva anche il termine pagano, per indicare i fedeli di religioni arcaiche e legate al culto della madre Terra). Alcuni di questi pagi divennero poi
abitati molto pi strutturati, e durante lepoca dellincastellamento, furono nuovamente utilizzati per edificare centri fortificati pi sicuri e difendibili. E il caso di un piccolo insediamento poco noto,
collocato su uno sperone di roccia da cui si gode un ampio panorama verso lUmbria (dunque la Sabina degli antichi) e la valle del Tevere, nel territorio comunale di Corchiano. Come scrive Angiolo
Pasqui in Forma Italiae (Etruria e Sabina 1891-1897), il pagus, il quale fu abitato fino al XV secolo e di quest'epoca sussistono una torre e le difese murarie, occupa l'arcisa formata dall'incontro
del fosso di Paciano con quello di Sorcello. Fino ai tempi etruschi fu difeso dalla parte dell'altipiano con un fossato largo circa m 8 e profondo 6, il quale congiunse le rive dei due torrenti. Che fosse
cos isolato fin da antico tempo, che cio il fossato non sia opera del dominio medievale, lo dimostra apertamente la difesa di mura etrusche a piccoli blocchi di tufo messi per testa e senza calce, i
quali, tuttoggi conservati fino a 7 filari sovrapposti, coronano la fronte del detto fossato. La bella torre monca, detta torre della Selva di Mezzo (nome quanto mai tolkeniano!) merita la facile
passeggiata per visitarla, anche perc si pu fare in tal modo la conoscenza di un angolo della Tuscia decisamente al di fuori dei normali flussi turistici. Da Civita Castellana o da Corchiano si segue la
sp 29 di Cenciano che unisce i due centri abitati. Intorno al km 2,700 della strada, in localit Pantalone (avremo superato di circa 800 metri anche un bivio che porta allarea artigianale di Corchiano,
tenendo come riferimento la provenienza da Civita Castellana), si volta a destra su una strada asfaltata (grande cartello di una cava) e, fatti circa 450 metri, si volta di nuovo a destra su una sterrata
che si percorre per poco pi di 800 metri sino a un bivio caratterizzato dalla presenza di grandi massi di tufo detti localmente bolognini. Qui si volta a sinistra su una stradina, che si segue per circa
1,5 km. Quando si vedr alla nostra sinistra una grande cava di tufo, al di l del torrente, si parcheggia e si prosegue a piedi, sino al termine (nei pressi di una piccola casetta di tufo) dello stradello,
dinanzi a un vasto pianoro coltivato. Si volta a destra bordeggiandolo, quindi si imbocca la traccia a sinistra che lo attraversa. Si prosegue praticamente in piano, con viste sempre pi ampie verso le
montagne dellUmbria, e dietro una casa moderna si inizia a intravedere la torre. Arrivati allaltra estremit del pianoro, si volta a sinistra sempre costeggiando larea coltivata, sino a giungere nei pressi
della torre, ai piedi della quale sono ben visibili le murature antiche. In tutto, la passeggiata richiede circa unora o poco pi.

Il Cavo degli Zucchi (Civita Castellana) Da Civita Castellana si segue per circa 5 km in direzione di Nepi, la ss 311, fino al km 12: poco oltre, sulla destra, si vedr una stradina con una
tabella con le indicazioni per la via Amerina. Fatte poche centinaia di metri di sterrata, si parcheggia e si scende verso sinistra fino ad attraversare un grandioso ponte romano sul fosso Tre Ponti,
recentemente restaurato. Il ponte interamente edificato in blocchi di tufo, tenuti insieme senza luso di alcun legante, e risale agli ultimi decenni del III secolo a.C., esattamente come la via Amerina
che lo utilizza. Da qui si procede ancora avanti, penetrando in una tagliata con le pareti traforate da diverse tombe romane, alcune con ancora evidenti tracce di intonaco affrescato, che sbuca in
unampia piazzola sacra, dove si possono ammirare altre tombe dipinte (chiuse da inferriate), diverse sepolture a incinerazione, con arcosoli e nicchi, e una finta parete a blocchi, in realt incisa
direttamente sulla parete tufacea. Ora ci si dirige verso la forra del Rio Maggiore, che la strada antica scavalcava su un altro ponte di grandi dimensioni, oggi purtroppo crollato. Sulla riva opposta

recenti scavi hanno rivelato grandiose murature di sostegno. Per raggiungere le rive del torrente, occorre scendere verso destra seguendo alcune antiche canaline di drenaggio, in modo intuitivo. Oggi il
corso dacqua si pu superare grazie ad una passerella appositemente predisposta, nei pressi della quale parte un sentiero (segnato bianco-rosso) che porta verso Civita Castellana seguendo la gola,
in ambiente di grande interesse paesaggistico e naturalistico, ma anche archeologico, visto che si incontra una probabile mola falisca e diverse tagliate, tra cui la via cava Fantibassi. Scavalcato il Rio
Maggiore sulla passerella, si risale sul pianoro sino ad arrivare a due tombe a portico gemelle, dalla particolare struttura interna. Da notare, nella tomba di destra, detta Tomba della Regina, la
presenza di due scudi scolpiti ai lati dellingresso. Ora, grazie a unesile traccia, si raggiunge in breve il tratto meglio conservato e pi spettacolare della via Amerina, che qui corre allinterno del
cosiddetto Cavo degli Zucchi, interamente traforato da decine di tombe, di tutte le tipologie possibili. Il basolato perfettamente conservato e corre rettilineo per un lungo tratto; pi o meno alla met
interrotto da un grosso masso franato dalla spalletta di sinistra, che in epoca medievale stato utilizzato come forno, testimonianza di come la strada sia rimasta in uso per molti secoli. Il ritorno
avviene per la stessa strada dellandata (in tutto circa unora o poco pi). Chi avesse voglia di continuare a camminare (ma il tragitto non sempre piacevolissimo), possibile proseguire ancora oltre:
la strada risale su un altipiano coltivato, quindi costeggia la striscia di vegetazione sino ad una lottizzazione; si entra in un boschetto e si scende sino al Rio Calello dove ci sono i resti di un piccolo
ponte. Si continua verso una cabina dellENEL: alle sue spalle si esce, sulla sinistra di un noccioleto, a bordeggiare un campo. Dopo circa 200 metri si raggiungono due grossi mausolei al cospetto del
Rio Purgatorio, al di l del quale si trova larea archeologica di Falerii Novi, non raggiungibile da questo punto: perci tornati alla cabina elettrica, si volta a sinistra sulla stradina che costeggia una
recinzione. Dopo un quarto dora circa si raggiunge una strada (via Etruria) che si segue verso destra in direzione di Falerii (aggiungere circa 3 ore allitinerario precedente, a/r).

Isola Conversina (Civita Castellana) La prima menzione dellinsediamento di Isola Conversina (o Torre dellIsola) del 989, quando il monastero dei SS. Cosma e Damiano in Mica
Aurea affitta un mulino ad acqua a Iohannes presbiter dei Insula da Sancti. Successivamente, tra il XIII e il XIV secolo, il castello entra a far parte delle propriet dellOspedale di S. Spirito, per
essere poi abbandonato nel XV secolo, come testimonia un documento del 1427 in cui si sancisce il passaggio di propriet di questo territorio ai Colonna e in cui Torre dellIsola definita come
castello diruto e disabitato. Infine, tra il 1448 e il 1449 tutta larea entr a far parte dei possedimenti della Santa Sede. Limportanza di Isola Conversina si deve al passaggio, ai piedi della rupe, della
via Amerina, una strada che aveva assunto notevole importanza strategica nel basso Medioevo a causa dellinvasione longobarda dellItalia. Una sola striscia di territorio, stretta tra il ducato di
Spoleto e il Regnum Longobardorum, rimaneva a connettere Roma con i territori bizantini a nord: il cosiddetto corridoio bizantino, appunto, attraversato dallantica via romana, la cui difesa era
dunque fondamentale per gli equilibri strategici dellepoca. Attualmente linsediamento di Isola ridotto a un cumulo di macerie coperte dalla macchia. Un crollo recente ha anche interessato la torre,
che ne rappresentava (e rappresenta ancora) lelemento pi visibile. Numerosi pozzi e grotte crivellano la rupe, rendendo quindi pericoloso aggirarsi sul pianoro. Una visita, perci, va fatta con la
massima attenzione, e probabilmente sarebbe preferibile limitarsi ad ammirare il sito dal basso, dalla forra, a cui si accede grazie ad una interessante via cava: poche centinaia di metri prima del bivio
per la via Amerina (provenendo da Civita Castellana), quasi in corrispondenza di una curva, si incontra sulla sinistra una stradina che porta ad un ristorante. La si imbocca e si prosegue sulla stretta
sterrata sino ad uno slargo in corrispondenza di una baracca. Qui si parcheggia. Si prosegue a piedi superando una piccola recinzione: si entra cos nella tagliata. Di fronte si vede gi la torre del
Castrum Insulae. Il sentiero scende sino al fosso dell'Isola, che occorre guadare (meglio avere con s stivali di gomma). Si lascia poco dopo il sentiero e si prende una traccia in netta salita sulla
sinistra che raggiunge l'altipiano vulcanico. Ci sono numerosi resti murari, diverse cisterne, cantine, pozzi e ovviamente la bella torre, da cui si gode uno splendido panorama. La presenza di profondi
pozzi granari, ovviamente non segnalati, come detto rende la visita del sito molto pericolosa, come testimoniano i cartelli di pericolo collocati sul tragitto. Soprattutto intorno alla torre sono presenti tre
pozzi particolarmente insidiosi, a cui occorre prestare particolare attenzione. Ritorno per la stessa strada dellandata.

Eremo di San Selmo (Civita Castellana) Il Tempio di Giunone Curite, nella localit chiamata Celle, a Civita Castellana, rappresenta uno dei monumenti pi prestigiosi e pure meno noti
dellintero Ager Faliscus. Era il santuario pi importante dellantica Falerii, conquistata e distrutta nel 241 a.C. dai Romani, che poi trasferirono tutta la popolazione nel non lontano (ma assai meno
difendibile e dunque pericoloso per i vincitori) sito di Falerii Novi. Sebbene ne restino solo sparsi lacerti di muratura, il Tempio sorge in unarea di grande rilevanza archeologica e storica, e anche
paesaggistica, nonostante la vicinanza delle abitazioni moderne, che ha attirato gli uomini soprattutto quelli animati da profonde motivazioni religiose- per millenni. Oltre al tempio vi si trova infatti una
notevole necropoli falisca, in parte riutilizzata per creare un ampio monastero rupestre, dedicato a San Selmo (Sant Anselmo). Nellambiente principale di questultimo, quello pi ampio e
caratterizzato da una colonna quadrangolare ricavata direttamente dalla roccia tufacea, si trovavano diversi affreschi, visibili fino agli anni 70 e oggi incredibilmente vandalizzati con scritte e con la
rimozione di gran parte della superficie pittorica (!). Come scriveva nel 1976 la Raspi Serra (Insediamenti rupestri religiosi della Tuscia), nellambiente A, sul pilastro, rimane la testa di un
Salvatore, che denuncia stretti rapporti con la corrente pittorica del Salvatore di Sutri; una Crocifissione, assai rozza, riportabile al XVI secolo; un santo vescovo, opera del XIV-XV secolo; una
teoria di tre Santi, assai scalpellati e oggi indatabili. Nel passaggio una nicchia con decorazioni floreali attribuibili al XVII secolo. Nellambiente B, un affresco con due monaci, assai guasto, solo
ipoteticamente, dato lo stato attuale, riferibile al XIII secolo. Il che dimostra da un lato la lunga frequentazione monastica conosciuta dal cenobio, dallaltro il fatto che esso era inserito in un pi ampio
circuito culturale. Limportanza storica, artistica e architettonica del sito non lo ha preservato dal degrado e dalla trascuratezza degli uomini (e delle autorit). I crolli e la fragilit della roccia rendono
oggi la visita a San Selmo difficile e pericolosa, in una parola sconsigliabile. Per vale la pena dare unocchiata al pianoro percorso dallomonimo fosso (pesantemente inquinato da scarichi urbani), ai
ruderi del tempio, e alla necropoli falisca. Arrivando a Civita Castellana dalla direzione di Roma, passato il ponte sul Treia e il bivio per Rieti, la Flaminia sale verso il centro abitato. Prima di entrarvi,
si trova a sinistra una strada in discesa che porta a Castel SantElia: di fronte al bivio si vedr un grande cancello di accesso a unarea residenziale. Si parcheggia nello slargo di fronte al cancello e a
piedi si segue la traccia in discesa sulla sinistra, contrassegnata da alcuni blocchi di cemento. La traccia passa nei pressi di un piccolo edificio rurale, poi a mezza costa aggira la rupe e scende verso la
vallata, volta verso sinistra superando il Rio Maggiore su un bel ponte a schiena dasino, poi a destra e poco dopo supera il fosso San Selmo per raggiungere in pochi minuti larea archeologica del
tempio di Giunone Curite, recintata e non visitabile, ma che pu apprezzare bene anche dallesterno. Proprio sulla rupe soprastante il tempio, verso la nostra sinistra, vedremo chiaramente una serie di
grotte, che fanno parte della necropoli di epoca falisca, e che si possono raggiungere e visitare grazie a delle tracce che risalgono tra la vegetazione. Rispetto alla grotta pi grande, identificabile con
facilit, il monastero di San Selmo sulla destra, ma il crollo di alcuni alberi e della parete rocciosa rendono il passaggio, come detto, sconsigliabile. Ritorno per la stessa strada dellandata (20 minuti
in tutto).

La forra del Rio Maggiore e la via Cava Fantibassi (Civita Castellana) - Il Rio Maggiore un affluente del fiume Treia, e nei pressi di Civita Castellana crea delle gole molto belle,
che si insinuano sin dentro il centro abitato, isolando la rupe che ospit labitato falisco di Falerii veteres. Le gole sarebbero percorribili sin sotto labitato moderno, ma la presenza di scarichi e rifiuti
rende lesperienza decisamente sconsigliabile (!). Invece risalendo il torrente verso monte, possibile non solo apprezzare la bellezza della forra con la sua folta vegetazione, ma anche visitare la via
cava Fantibassi, che permetteva alla via Veiente (che ovviamente proveniva da Veio) di scendere e superare il Rio Maggiore, proprio come il ponte romano che un paio di chilometri pi avanti
consentiva alla via Amerina di fare altrettanto. Caratterizzata da alte pareti (10-14 metri) perfettamente livellate, distanti in media circa 4 metri (ma le pareti tendono ad avvicinarsi verso laltro dando
alla tagliata la sezione a bottiglia), ed lunga circa 190 metri. Sulle pareti si possono osservare diverse scritte antiche, tra cui una, molto grande, in caratteri latini, collocata circa alla met del cavo:
FUR. C. T. P. C. EF. I. VEI. Dalla via cava possibile seguire il sentiero, ben segnalato, fino a ricongiungersi con quello per il Cavo degli Zucchi (vedere itinerario). Il sentiero che si segue per
visitare la forra e la via cava parte direttamente da Civita Castellana: dalla sp 311, andando in direzione del centro, si volta a sinistra (provenendo da Nepi) su via Fontana Quagliola. Si prosegue circa
300 metri e si va a destra su via della Chiusa, dove occorre parcheggiare. Quindi si torna brevemente indietro, e si procede a sinistra su via del laghetto: in fondo la strada termina in uno spiazzo
sterrato. Qui si va a destra sulla stradina campestre in discesa, si tralascia dapprima un bivio a sinistra, poi ci si tiene ancora a destra su una traccia che passa attraverso alti rovi, ai piedi della rupe
dove sorgono le case moderne. Si supera una recinzione e in breve si arriva in basso, nella forra, in un punto caratterizzato da alti pioppi; raggiunta una diga (quella che formava il laghetto che d il
nome alla strada), si piega a sinistra seguendo il corso del Rio Maggiore: da questo punto compaiono i segni bianco/rossi del sentiero (circa 800 metri dal parcheggio). Si passa sotto un viadotto
moderno, poi si prosegue sinuosamente tra grandi alberi muschiosi, quindi il sentiero tende a salire a mezza costa mantenendosi pi in alto della riva. Si passa una piccola tagliata artificiale parte del
vecchio acquedotto e si raggiunge un antico fontanile: poco pi avanti si incontrano grandi grotte naturali che, secondo gli studiosi, sono servite come rifugio per gli uomini del Neolitico. Lambiente in
questo punto davvero magnifico, anche per la presenza di alte pareti tufacee. Subito dopo la maggiore delle grotte, si deve guadare il torrente grazie ad un rustico ponticello; dopo aver seguito per
un tratto la riva sinistra, si deve traversare di nuovo grazie ad un altro ponticello, realizzato stavolta sfruttando un grande tronco caduto. Si supera un passaggio proveniente dal pianoro soprastante e si
entra in un tratto di forra che stato sconvolto da un taglio boschivo, che ha lasciato molti residui vegetali che rendono difficoltoso il passaggio. Comunque in breve, in corrispondenza di unansa del
Rio Maggiore, dove lambiente si apre, si noter sulla sinistra un varco nella roccia: la nostra meta, la via cava Fantibassi.

La via Flaminia antica a Civita Castellana Appena fuori Civita Castellana, lungo lantico tracciato della Flaminia romana, si trova un sito di grande interesse. Attraversato con il Ponte
Ritorto il Fosso di Chiavello, la strada infatti passa ai piedi di una bella torretta medievale (XIII-XIV sec.), alta 13 metri, che era posta a vedetta del tracciato, e chiamata Torre dei Pastori. Non
lontano, nei pressi di un gruppo di alberi a poche decine
di metri sulla sinistra della strada, si trovano i pochi resti di una chiesa ( identificabile labside), che potrebbe costituire lultima testimonianza della sede episcopale di Aquaviva, il cui nome ricorda
quello dellantica Statio romana che doveva trovarsi pi o meno in questo punto. Molto bello il panorama verso la mole del Soratte, che da qui assume la forma di una vera e propria piramide
elevantesi sulla piana attraversata dal Tevere. Per raggiungere questo sito, occorre imboccare, allaltezza del km 49,900 della moderna via Flaminia, la Via di Ponzano, che diventa quasi subito
sterrata. La strada scende ad attraversare la ferrovia, poi prosegue nella campagna sino a voltare a sinistra per attraversare il fosso sul citato ponte. Qui conviene parcheggiare e proseguire a piedi
sulla carrareccia che si stacca a sinistra subito dopo il ponte e che ricalca il tracciato della strada romana. In breve si arriva alla torre.

Pizzo Iella (Castel SantElia) Anche il sito di pizzo Iella, come molti altri nella Tuscia, ha ospitato un pagus, cio un villaggio, in questo caso falisco. E stavolta si tratta davvero di un nido
daquila: in pratica il castello medievale, come prima linsediamento antico, venne edificato su una sorta di tacco dalle pareti precipiti sulla forra del fosso Malnome, reso ulteriormente imprendibile
grazie ad una tagliata artificiale. Del castrum non rimane granch: un tratto delle mura della torre, tracce sparse e una bella serie di grotte scavate nella roccia che dovettero rappresentare antiche
abitazioni. Linteresse dunque principalmente legato al fascino dellambiente circostante, che regala emozioni intense, sebbene ci si trovi a due passi da grandi cave e dai centri abitati di Nepi, Civita
Castellana e Castel SantElia. Dalla sp 311 nepesina, allaltezza del km 7,700 circa, si prende la strada Pianella (cartello della via Amerina). Poco pi avanti si lascia via Fossitello a destra e si
prosegue dritti, quindi si curva a sinistra; la strada diventa sterrata, passa nei pressi di un gruppo di edifici moderni (1,5 km dal bivio) dove si va a destra, seguendo la strada delimitata dai bolognini,
entrando nella zona delle cave di tufo. Ad un ulteriore bivio si volta a sinistra, arrivando, dopo un rettilineo tra le cave, ad un incrocio (la strada di destra chiusa da un cancello con un edicola sacra).
Qui conviene parcheggiare, sebbene sia possibile proseguire ancora per un centinaio di metri con lauto. A piedi si segue la strada sino in fondo: fatta poca strada si raggiunge uno slargo, dov una
sbarra e una tabella della via Amerina. Si va a destra, entrando nel bosco, con percorso piacevole e praticamente pianeggiante; quando la traccia piega verso sinistra (circa 800 metri), si giunge ad

uno slargo dove si lascia il sentiero che procede dritto (e che va verso Civita Castellana) e si prende quello di destra che entra nella macchia (serie di paline) e raggiunge il bordo del pianoro,
utilizzando anche alcuni passaggi scavati nella roccia. Zigzagando un po nella macchia, dopo circa 200 metri, ci si trova alla fine dinanzi la rupe di Pizzo Iella. Si volta nettamente a sinistra sulla rampa
che consente di risalire lenorme masso e in breve si tra i ruderi immersi nel bosco, tra i quali spicca, verso destra, il mozzicone di torre e, a sinistra, lingresso delle abitazioni rupestri. Prestare la
massima attenzione al bordo del pianoro: al di l la parete precipita in verticale! Tempo totale, circa 1,30 ore.

Castelli tra Calcata e Faleria Faleria si trova in unarea ricca di forre, e il paese stesso edificato su uno sperone roccioso circondato da pareti strapiombanti. Luoghi ideali per costruire un
castello, che serva a controllare la non lontana via Flaminia, con la valle del Tevere, e il passaggio di genti ed eserciti da e verso Roma. Non deve dunque stupire se qui trov rifugio un personaggio
romantico e dal triste destino: lImperatore Ottone III, tedesco proprio come Corradino di Svevia, altra tragica figura storica. Salito giovanissimo sul trono del Sacro Romano Impero dopo la morte
del padre Ottone II, a differenza dei suoi predecessori che interpretarono il legame con Roma in modo puramente formale, esercitando il proprio potere dalla Germania- Ottone III cerc in tutti i
modi di portare la proprio corte nellantica capitale del Mondo, scatenando per lostilit delle famiglie nobili dellUrbe, che di fatto gli dichiararono guerra. A picco sulla valle, protetto su tre lati da
pendici molto ripide e da alti muri (i muri che si vedono oggi quasi sicuramente non sono pi quelli dellepoca ottoniana) scrive Arnold Esch (Strenna dei Romanisti 2003), Castel Paterno offr
allimperatore lopportunit di difendersi dalle incursioni dei Romani. Aggredito per da un nemico molto pi subdolo e potente, le febbri ricorrenti (forse la malaria), Ottone III si spense, allet di
soli 21 anni, lasciando lImpero senza un successore, il 24 gennaio 1002 in questo nido daquila, sospeso fra il Soratte e le ripide pendici della valle del Treia. Appartenuto ai monaci di San
Silvestro in Capite e poi donato, nel 1244, da Innocenzo IV al monastero di San Lorenzo al Verano, Castel Paterno appartenne nei secoli successivi agli Anguillara, prima di decadere definitivamente
nel XVI secolo, quando appare gi diruto. La strada sterrata che vi arriva (strada del Trullo) in realt un tracciato antico, come dimostra la presenza di un sepolcro romano, riutilizzato nel Medioevo
come torre di avvistamento, e di cui rimane oggi solo il basamento. Come ben poco rimane almeno rispetto alla grandiosit iniziale- del castello, di cui si possono ammirare, coperti dalla macchia, i
muri perimetrali e un ingresso monumentale ad arco, molto malridotto. Il luogo, comunque, anche per le sue innegabili suggestioni storiche, merita decisamente una visita. Da Faleria si continua verso
Civita Castellana e la Flaminia sulla sp 78 per circa un chilometro, poi si prende a sinistra via Castel Paterno, che passa vicino al cimitero di Faleria e in breve diventa sterrata (il fondo discreto), e
che seguiremo per circa quattro chilometri. La strada arriverebbe direttamente al sito del castello, ma conviene parcheggiare prima di una netta discesa (in genere malridotta), per poi proseguire a
piedi per circa 600 metri sino ai ruderi. Nella stessa zona poi possibile dare unocchiata ad una torre in blocchi di tufo, al cui interno si trova un ambiente con volta a crociera e una rampa di strette
scale che consentono di accedere al piano superiore (crollato): quanto rimane di un monastero dellXI secolo (detto i muracci di Santa Maria) sorto probabilmente sui resti di un precedente
insediamento falisco. Un restauro abusivo ne ha parzialmente compromesso lintegrit, mentre linterno stato destinato a magazzino, ma vale comunque la pena di visitare questo monumento
dimenticato, che meriterebbe pi considerazione (e protezione), anche in virt della bellezza dei dintorni (magnifica la vista verso il Soratte). Tornati sulla provinciale, si prosegue in direzione di Civita
Castellana per meno di un chilometro, sino a incontrare a sinistra una strada sterrata, che si segue per circa 1.800 metri per poi imboccare (meglio a piedi) un piccolo bivio a destra, che sfiora una
costruzione moderna e una recinzione. Si prosegue per poche centinaia di metri, sinch sulla destra si vedr la torre, tra la folta vegetazione. Per tracce, tra i noccioleti, la si raggiunge. In tutto,
occorrono pochi minuti. A questo punto vale la pena di dare unocchiata anche al non lontano castello di Fogliano, edificato su una stretta lingua di roccia delimitata dai fossi della Banditaccia e della
Mola. Sorto su un antico pagus falisco, appartenne agli Anguillara e poi ai Frangipane e risulta diruto gi dalla met del XVI secolo. Tornati a Faleria, si va verso Calcata sulla sp 79 e, percorso circa
un chilometro, subito dopo il ponte sul fosso della Mola, si trova a destra la strada con lindicazione per il castello (localit Banditaccia). Si segue la strada asfaltata per meno di due chilometri sino
allingresso del bosco di Fogliano, chiuso da una sbarra (tabella). Si parcheggia e si prosegue a piedi, con percorso semipianeggiante e piacevole tra gli alberi (si incontrano diverse aree picnic e
piazzole attrezzate), per poco pi di due chilometro, sino ai ruderi del castello, che comprendono una torre mozzata, un tratto di mura della chiesa, con labside, e ampie parti della fortificazione, con
diverse grotte e abitazioni rupestri. Belli gli affacci sulle forre e verso il pianoro dove sorge Castel Paterno (poco visibile perch coperto dalla vegetazione). Una visita a questo territorio di cos grande
fascino non potrebbe dirsi completa senza una passeggiata a Calcata. Conviene per, invece di parcheggiare nel paese moderno e raggiungere a piedi il borgo antico collocato su un cilindro di tufo
dalle pareti verticali, continuare oltre scendendo nella valle del Treia in direzione di Mazzano Romano, per parcheggiare nei pressi del ponte sul fiume. Da questo punto partono diversi sentieri, di
notevole interesse archeologico e ambientale. Ad esempio, dal piccolo ponte sul fosso della Mola di Magliano, a breve distanza da quello sul Treia, inizia il sentiero che conduce a Narce (sentiero
014). Seguendolo si entra in un bellissimo ambiente di forra; fatto un centinaio di metri si trova un bivio in salita a sinistra (sentiero 015, indicazioni per Narce), che arriva sulla cima del colle. Si
passano alcune piccole tagliate e si sfiorano le mura dell'antica citt falisca, sino ad un'altra tagliata che porta sul pianoro. Poco prima, uno spazio tra gli alberi svela una notevole vista sul borgo di
Calcata (tempo circa 20 minuti). Tornati alla provinciale, possibile seguire anche il sentiero di fronte (contrassegnato dal numero 011), per visitare Monte Li Santi, dove sono altri resti
dellinsediamento falisco di Narce, che era collegato un tempo alla collina principale da un ardito viadotto, di cui restano possenti sostruzioni. Si continua sulla sterrata (chiusa da un cancello e da non
confondere con la vicina stradina che porta a degli scavi archeologici e che utilizzeremo per il ritorno), costeggiando il fosso della Mola di Magliano, che pi avanti forma una piccola ma quanto mai
suggestiva forra, tra foltissima vegetazione. Dopo poco il sentiero inizia a salire inerpicandosi sul fianco del Monte Li Santi, finendo per sbucare su una sterrata. Si prende la strada verso destra, in
discesa, passando accanto a un bel geosito dove compaiono banchi di diatomite (una roccia sedimentaria costituita da gusci di diatomee, alghe unicellulari con un esoscheletro siliceo). Circa 500 metri
prima di arrivare alla strada provinciale, si passa accanto allarea archeologica de Le Rote, con i resti di un tempio di epoca falisca. Scoperta nel 1985, si trova in una radura sulle sponde del Treja,
conserva i basamenti di un edificio templare e di un sacello (V-II secolo a.C.) in opera quadrata di tufo. Il sito ha restituito moltissimi oggetti di uso rituale, sacro e devozionale, tra cui statue fittili in
grandezza naturale ed ex-voto di organi malati curati dallintervento delle divinit, che furono diverse: nel corso del V-IV secolo a.C. principalmente divinit femminili, mentre nel III secolo a.C.
vengono introdotte nuove modalit di culto, con il ricorso a sacrifici animali, con il consumo delle carni a scopo rituale (la passeggiata richiedecirca 50 minuti). Raggiunta di nuovo la provinciale, si pu
tornare leggermente indietro verso Mazzano, e subito dopo il ponte sul Treia prendere il sentiero 019 che porta a Calcata: seguendolo, si costeggia dapprima il fiume sulla riva sinistra, in ambiente
piacevole e molto verde, incontrando diverse sorgenti, poi, raggiunto il ponticello che consente al sentiero per il paese di scavalcare il fiume, si trova a sinistra una deviazione in salita (sentiero 009)
che porta ai suggestivi resti dellabitato di Santa Maria di Castelvecchio, dirimpettaio di Calcata ma, a differenza di questo, abbandonato in epoca medievale (a/r circa 1,30 ore).

I castelli del Fosso Cerreto (Castel SantElia) La forra del Cerreto una delle pi belle che dato vedere nella Tuscia, con le sue alte pareti rocciose ammantate di folta macchia, e il
torrente che scorre in basso, prezioso rifugio per molte specie animali. La si potrebbe definire la forra perfetta, in quanto assomma in s tutte le caratteristiche tipiche di questi habitat, con la
vegetazione talmente fitta che a malapena lascia filtrare la luce in basso, dove -anche grazie alle acque del torrente- si crea la classica situazione di inversione termica, con le quote pi basse con un
clima mediamente pi fresco delle quote superiori delle rupi, dove invece l'insolazione favorisce il proliferare del leccio, una quercia tipicamente mediterranea; le pareti rocciose verticali sono ricoperte,
in molti punti, da un tappeto di licheni gialli o arancioni, che creano contrasti cromatici spettacolari; su queste stesse rupi trovano rifugio e nidificano numerosi rapaci, compreso il raro Lanario. La via
Amerina, nel suo viaggio tra Roma e Amelia, attraversava la valle, e questo spiega la presenza di diversi castelli in questo luogo selvaggio. Tra Nepi, Calcata e Castel S. Elia se ne trovano tre di
notevole interesse. Il pi interessante senzaltro il Castello dIschia, il cui nome deriva da isola, e fa dunque riferimento alla sua posizione su uno sperone di roccia con alte pareti che, appunto, lo
isolano dal resto del territorio. Secondo Simonetta Conti, da identificare con il Castello di SantAgnese, citato in un elenco di fondi appartenenti alla citt di Nepi, come tenimentum castri vocati
Agnese. Secondo il Pasqui, che lo chiama invece Castellaccio dIschi, la fortezza sorge su una sporgenza dellaltipiano delle Masse sul fosso Cerreto. La scogliera in pi luoghi tagliata a picco ed
isolata dal rimanente dellaltopiano per mezzo di larga fossa. Il Castello dIschia sorse su un precedente insediamento falisco, inglobandone un tratto di mura. Dipendente da Nepi, nel XVI secolo
risulta gi diruto. La rupe traforata da numerose grotte, destinate ad abitazioni, in buona parte per crollate. Una di queste grotte, prossima alla fortificazione, presenta una colonna centrale con
modanature, successivamente decorate a mimare una torre: il singolare intervento non certamente recente, e testimonia la frequentazione del sito anche nei secoli in cui il castello era oramai
abbandonato e fatiscente. Per arrivare al castello, di cui si conserva il basamento di una torre (priva di accessi) e un tratto di mura con un porta ad arco, si devono percorrere diversi chilometri di
strada sterrata, dal fondo discreto, ideali per chi si muova in bicicletta. Da Nepi, si imbocca la sp 38 Settevene, che si dirige verso Roma e ricalca in parte lantica via Amerina. Al km 2,500 circa si
volta a sinistra sulla strada vicinale della Massa (indicazioni per il castello), che in breve diviene sterrata. Dopo un paio di chilometri si trova la palina che indica linizio del sentiero per i Cavoni;

successivamente si raggiunge un bivio, si prosegue dritti, tralasciando la strada a destra e il sentiero per Castel SantElia a sinistra. A un bivio si va sinistra, passando cos accanto un edificio moderno,
dove si tiene la destra, tra antiche murature in tufo; poco oltre la strada volta ancora verso sinistra, sfiora un altro edificio dove si divide in due: a sinistra va verso Castel SantElia, mentre noi
dobbiamo andare a destra, procedendo dritti sino a raggiungere un cancello, dove si parcheggia. Si supera la recinzione sulla destra (il castello gi visibile) e si prosegue sulla sterrata che costeggia la
forra del Cerreto. Dopo 400 metri circa si incontra una discesa scavata nel tufo che consenti di scendere verso il corso dacqua; andando dritti in breve si raggiungono invece i ruderi, e un magnifico
punto panoramico. Tornati sulla sp38, si procede verso sinistra, sino a raggiungere il bivio per lo stabilimento dellacqua di Nepi, poco oltre il km 3,00 della strada. Qui, sulla sinistra, sono i resti
imponenti del Ponte Nepesino, utilizzato dalla via Amerina per superare il Rio Cerreto. Il ponte attuale in buona parte medievale, ma ingloba resti romani. Poco pi avanti, il torrente forma una bella
cascata, oramai a ridosso dello stabilimento, che sorge in pratica sul sito delle antiche Terme dei Gracchi. Meno di cento metri oltre il bivio sulla provinciale, si trova a destra uno slargo in cui si
parcheggia, per seguire a piedi la stradina a fondo cementato che sale in una sorta di tagliata. Fatti circa 200 metri, su un palo in cemento si vedr la segnaletica per il castello di ponte Nepesino, che si
raggiunge in pochi minuti voltando a destra, nella macchia. Della fortificazione non rimane granch: tratti di mura elevati su uno zoccolo tufaceo traforato dalle immancabili case rupestri, il tutto invaso
dalla vegetazione e poco visibile. Il castello di epoca Bizantina (VI secolo), e faceva parte della rete di controllo della strategica via Amerina. Secondo Simonetta Conti le notizie su ponte Nepesino
non sono molte, anche se dovette essere un centro strategico abbastanza importante, grazie alla posizione presso il guado del Cerreto, ed un nodo stradale tra le citt di Monterosi e Nepi. I
documenti pi antichi risalgono agli anni 1274-1280, quando citato come presbiterio []. Nel 1297, essendo feudo dei Colonna, fu al centro delle lotte di Bonifacio VIII contro la potente famiglia
romana: fu confiscato e, per sminuirne limportanza, ne vennero distrutti la torre del ponte e la porta. Inizi cos la sua decadenza: nel 1455 citato come tenuta. Ultima fortificazione che vale la pena
visitare Castel Porciano. Frequentato sin da epoche antichissime, Porciano ha fatto parte della Domusculta Capracorum, per essere poi fortificato e difeso con possenti mura, di cui ancora si
intravedono i resti tra la folta, e a volte impenetrabile macchia che lo ricopre. Pi che i resti in muratura, per, del castello sono interessanti le abitazioni rupestri che si aprono sulla parete rocciosa a
picco sulla forra (verso est), alcune delle quali, dalla pianta ampia e articolata, presentano pilastri centrali con capitelli di fattura particolarmente curata, per questo tipo di ambienti. A Porciano si arriva
proseguendo ancora oltre sulla provinciale in direzione Roma, sino al km 3,800, dove si trova il casale dellUmilt, un tempo omonima chiesa. Qui si volta a sinistra sulla strada vicinale dei Ronci
(cartello). Dopo meno di un chilometro si trova il bivio a destra per Calcata; si va invece a sinistra su via Porciano. La strada diventa quasi subito sterrata, sino ad un ampio slargo (dove preferibile
parcheggiare): si volta a sinistra seguendo la sterrata che procede passando accanto un edificio moderno e ad alcuni ruderi, sinch si vedono a sinistra i resti di una grande cava di tufo; poco oltre la
strada volta nettamente a destra in discesa, raggiungendo un poligono di tiro. Proprio in corrispondenza della curva si vede la torre di Porciano. In questo punto si supera la recinzione e si costeggia la
siepe (evitando di tagliare direttamente per il campo), andando a vista verso il sito (paline del sentiero, ma poco visibili). Quando la siepe curva, oramai vicinissima al castello, si stacca a sinistra una
traccia nella macchia (attenzione, poco visibile), che permette di raggiungere i ruderi. La passeggiata breve, ma resa un po complicata dalla mancanza di tracce ben definite e dai rovi che in alcune
occasioni sbarrano il passaggio.

La patria di Orlando (Sutri e dintorni) Le chansons de geste medievali collocano la nascita del paladino Orlando a Sutri, dove la madre (sorella di Carlo Magno) si era rifugiata dopo
essere stata scacciata dalla corte perch innamorata di un uomo non gradito. Nella zona sono molti i luoghi che portano nel nome il ricordo del paladino, a cominciare dalle cosiddette Querce di
Orlando, con le Torri d'Orlando (in realt resti di mausolei romani) non lontano da Capranica, lungo la Francigena. Secondo la tradizione, Sutri fu fondata dai mitici Pelasgi, il cui dio primigenio era
Saturno, che gli Etruschi chiamavano Sutrinas, da cui il nome della citt (nello stemma civico rappresentato Saturno con una spiga in mano). Proveniendo da Viterbo, la prima deviazione da fare
poco dopo il km 60,00 della via Cassia: si prende a destra la sp 493 verso Vico Matrino. Fatti circa 500 metri, poco prima del cartello che indica questultima localit, si trova il bivio a destra della
Francigena, che si segue a piedi (non facilissimo parcheggiare nella zona, conviene farlo allaltezza del primo bivio e allungare appena la passeggiata). Tenendo a destra una recinzione in filo spinato,
si arriva in breve alle Torri di Orlando, con i ruderi della chiesa medievale. Tornati sulla Cassia, si prosegue per Sutri, una cittadina ricchissima di emergenze archeologiche e architettoniche, a
cominciare dal Teatro Romano (ma forse realizzato da maestranze etrusche) e dalla necropoli monumentale romana (con ben 64 tombe) per finire con linteressante borgo che, nonostante i danni
subiti durante lultimo conflitto mondiale, ancora conserva la sua atmosfera di centro abitato di confine, arroccato e ben munito. Non lontano dal Teatro Romano si trova la chiesda rupestre di Santa
Fortunata, in parte edificata in muratura e in parte scavata nella rupe. Purtroppo le sue condizioni statiche ne rendono sconsigliabile la visita. Da non mancare, invece, la scoperta del Mitreo romano
(oggi chiesa di Santa Maria del Parto), ricavato probabilmente da un precedente ambiente etrusco, con i suo bellissimi affreschi del XIV-XV secolo rappresentanti, tra gli altri, gruppi di pellegrini in
viaggio sulla Francigena (visita consentita a orari, rivolgendosi ai custodi del Teatro) e soprattutto della soprastante Villa Savorelli, oggi Parco Pubblico. Il pianoro della villa, oltre alledificio che gli da
il nome, comprende la chiesa di Santa Maria del Monte e uno splendido bosco di lecci secolari, che alcuni chiamano Bosco Sacro. Allestremit, affacciata verso il borgo di Sutri e a controllo della
Cassia, si trova un castello detto di Carlo Magno, in realt risalente al XIII-XIV secolo e dunque ben successivo al passaggio dellImperatore a Sutri. Secondo la leggenda, fu proprio a Sutri che
Carlo Magno incontr di nuovo la sorella Berta, col piccolo Orlando, e la perdon, accogliendola di nuovo a corte. Una grotta della rupe di Sutri ancora porta il nome di Grotta di Orlando perch
sarebbe lo speco dove vide la luce. Dallestremit opposta del parco, si pu godere di una delle viste migliori possibili sullanfiteatro romano.

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