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Rizzoli Editore
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
(c) 1963 Rizzoli Editore, Milano
T
ALFIO COZZI
PRINTED IN ITALY
Con questa operea, scria nel 1849, Wagner si
proponeva di rivoluzionare l’intero conceo di «arte»,
riportandolo all'ideale che egli ravvisava nel teatro
greco: arte del popolo, faa e vissuta dal popolo e
per il popolo, e comprensiva a un tempo di tue le
forme artistiche: la poesia, la danza, la piura, la
scultura e la musica. esto ideale egli cercherà di
realizzare nelle sue opere liriche. Il polemico
opuscolo, scrio con romantico ardore, è dunque utile
ad approfondire la comprensione dell’arte e della
figura di Wagner.
INDICE
Nota
V. L’ARTISTA DELL’AVVENIRE
Note
NOTA
L’uomo sta alla natura come l’arte sta all’uomo. ando l’evoluzione della
natura fu giunta al punto da poter racchiudere in sé le condizioni
necessarie per resistenza dell’uomo, l’uomo ebbe vita spontaneamente.
Allo stesso modo, quando l’umanità fu in grado di produrre le condizioni
necessarie per dar vita all’opera d’arte, questa spontaneamente nacque.
La natura genera e modella senza intenzione alcuna e
incoscientemente, secondo il bisogno; il che significa necessariamente.
Necessità può definirsi anche la forza che genera e modella la vita umana.
Solo quanto è privo d’intenzione e incosciente nasce per un bisogno reale;
e solo nel bisogno sta la ragione della vita.
L’uomo constata la necessarietà della natura solo nella concatenazione
dei fenomeni naturali; finché non si rende conto del legame che li regola,
ritiene questo legame puramente arbitrario1.
Dal momento in cui l’uomo si sentì diverso dalla natura, o, in altri termini,
da quando cominciò la sua vera e propria evoluzione come uomo
superando lo stadio incosciente della vita animale e diventando cosciente;
da quando, insomma, oppose se stesso alla natura e, di conseguenza, si
sviluppò
in lui come pensiero quello che prima era un vago senso della sua
dipendenza da essa, da quel momento ebbe origine l’errore come prima
manifestazione della coscienza. Siccome, poi, l’errore è il padre delia
conoscenza, la storia della conoscenza generata dall’errore altro non è che
la storia del genere umano, dalle mitiche nebbie dei tempi primitivi al
giorno d’oggi.
L’uomo errò fin dal giorno in cui pose la causa dei fenomeni della
natura fuori dell’essenza stessa della natura, sostituendo alla realtà
materiale del fenomeno una causa immateriale, da lui immaginata
arbitrariamente come umana; credendo, inoltre, infinita la. dipendenza
della sua aività incosciente, e senza scopo il comportamento intenzionale
degli ai della volontà, che sono indipendenti e limitati. La conoscenza
consiste nella soluzione di quest’errore: essa altro non è che la
comprensione della necessità di quei fenomeni, la cui causa ci pareva
arbitraria.
In ragione di questa conoscenza la natura diviene cosciente di sé anche
nell’uomo, il quale, differenziandosi dalla natura, giunge a conoscere la
natura in quanto essa per lui diventa un oggeo; ma questo differenziarsi
si elimina nuovamente non appena l’uomo riconosce come sua
l’essenza della natura; in altri termini, riconosce una medesima necessità
per tuo ciò che esiste e vive realmente, quindi tanto per resistenza
umana quanto per quella della natura e, di conseguenza, non solo per il
legame dei fenomeni naturali tra loro, ma anche per il legame tra lui,
uomo, e la natura.
Ora se la natura, per i suoi legami con l’uomo, diviene, nell’uomo,
cosciente di se stessa, e se nell’auarsi di questa coscienza consiste la vita
umana che è rappresentazione e, per così dire, immagine della natura, è
ovvio che la vita umana acquisti intelligenza per mezzo della scienza, la
quale, a sua volta, si fa di quest’intelligenza un oggeo d’esperienza. Ora
l’entrare in funzione della coscienza mediante la scienza, la
rappresentazione della vita conosciuta araverso di essa, l’immagine della
sua necessità e della sua verità è l’arte2.
L’uomo non sarà mai quel che può essere e quel che deve essere se la
sua vita non sarà lo specchio fedele della natura, l’osservazione cosciente
della sola necessità vera, che è la necessità naturale intima e non la
soomissione a una potenza esterna, immaginaria, modellata solo
sull’immaginazione e quindi arbitraria, non necessaria. Allora l’uomo sarà
veramente uomo, mentre, fino a oggi, esso non è mai esistito se non in
funzione della religione, della nazionalità, dello stato.
Alla stessa stregua l’arte non sarà mai quel che può e deve essere finché
non sarà la fedele immagine del vero uomo e della vera vita necessaria agli
uomini; in altri termini, finché dovrà improntare le condizioni della sua
esistenza agli errori, alle vicende e alle mostruosità della nostra
vita moderna.
In conclusione, il vero uomo non esisterà finché la sua vita non sarà
formata e regolata dalla vera natura umana anziché dalle leggi
arbitrarie dello stato, e non esisterà una vera arte finché le sue creazioni
non saranno soomesse alle leggi della natura anziché ai dispotici capricci
della moda. Come, infai, l’uomo non sarà mai libero finché, con intima
gioia, non sarà diventato cosciente dei suoi rapporti con la natura, così
l’arte non sarà mai libera finché dovrà vergognarsi dei suoi rapporti con la
vita. L’uomo si libererà dalla sua dipendenza dalla natura quando
acquisterà la gioiosa consapevolezza dei suoi legami con essa; ma l’arte
non si libererà dalla sua dipendenza dalla vita se non legandosi alla vita di
uomini sinceri e liberi.
Tuo ciò che esiste dipende dalle condizioni nelle quali esiste. Nulla esiste
isolatamente: né nella natura, né nella vita. Ogni cosa ha la sua causa in
un contao infinito con il tuo, anche quel che è arbitrario, non
necessario, nocivo. Il nocivo esercita la sua forza per impedire il
necessario, anzi trae la sua forza, la sua esistenza solo da
quest’impedimento, e altro non è che l’inerzia del necessario. Se
quest’inerzia fosse continua, perpetua, l’ordine naturale del mondo
dovrebbe essere altro da quel che è: l’arbitrario sarebbe necessario; il
necessario, non necessario. Ma quest’impotenza è passeggera, è
anzi soltanto apparente, perché la forza del necessario vive e agisce, anche
come unica condizione dell’esistenza dell’arbitrario. Il lusso dei ricchi,
infai, deve la sua esistenza soltanto alla miseria dei poveri: questa offre al
lusso dei ricchi sempre nuove cose da consumare in quanto, spinto dal
bisogno di mantenersi con la sua forza vitale, il povero la sacrifica al ricco.
Alla stessa stregua la forza vitale, il bisogno di vivere della natura
tellurica ha alimentato varie volte le forze nocive, o piuosto le possibilità
d’esistenza, di certe combinazioni e di certi prodoi elementari, che le
impediscono di manifestarsi realmente in proporzione alla sua forza vitale
e alle sue possibilità. Causa di ciò è l’abbondanza che in realtà esiste,
l’enorme eccesso di forza di produzione e di sostanza vitale, l’inesauribile
fertilità della materia. Il bisogno della natura è quindi infinitamente vario
e complesso, e la natura riesce a soddisfarlo negando, per così dire, la sua
forza all’esclusività, all’unità che precedentemente aveva alimentato
abbondantemente; in altri termini, dissolvendo l’unità nella pluralità.
el che è esclusivo, isolato, egoista può solo prendere, mai donare;
può farsi solo generare, ma di per sé è impotente: per generare infai sono
necessari l’“Io” e il “Tu”, il disciogliersi dell’egoismo nel comunismo8. La
forza generatrice sarà dunque tanto più ricca quanto più grande è il
numero; e quando la natura della terra soddisfece se stessa alienandosi
nella numerosità degli oggei, raggiunse quello stato di sazietà, di
autosoddisfazione, di autoappagamento che si rivela nella presente
armonia. Ora non si traa più d’una trasformazione in massa, totale: il suo
periodo di rivoluzione9 è terminato; ella ora è ciò che può essere, il che
vuol dire quello che poteva essere e doveva diventare fin dalle origini. Non
deve più fornire la propria forza vitale all’impotenza di generare, perché
ha creato, in tui i suoi vastissimi regni infiniti, la molteplicità, il maschio
e la femmina, ciò che si rinnova e si rigenera eternamente ed eternamente
si completa; e in quest’infinito rapporto è diventata costante, è
necessariamente diventata se stessa, quello che è.
Ora nella rappresentazione di questo grande processo evolutivo della
natura, simile a quello che avviene nell’uomo stesso, è compreso anche il
genere umano dopo la sua autoseparazione dalla natura. esta medesima
necessità è la forza motrice della grande rivoluzione del genere umano, la
quale si esaurirà nel medesimo appagamento.
esta forza motrice, che è la forza vitale per eccellenza, in quanto
predomina nella necessità vitale, è però di sua natura inconscia,
involontaria; e proprio dove è tale - nel popolo - è la sola vera,
determinante. I nostri demagoghi, di conseguenza, cadono in un grande
errore quando sostengono che il popolo dovrebbe anzituo sapere quel
che vuole - cioè quel che dovrebbe volere secondo loro - prima ancora di
essere capace e autorizzato a volerlo. Da questo errore hanno origine tue
le deplorevoli mezze misure, l’impotenza e la vergognosa debolezza dei
recenti moti avvenuti nel mondo10.
Ciò che realmente si sa altro non è se non ciò che esiste realmente e
materialmente, divenuto oggeo compreso, cioè rappresentato mediante il
pensiero. Il pensiero è arbitrario fintanto che non riesce a rappresentarsi
l’oggeo materialmente presente o l’oggeo che sfugge ai sensi, nello
spazio e nel tempo, per mezzo d’un riconoscimento assoluto della sua
connessità necessaria con l’oggeo stesso; perché la coscienza di questa
rappresentazione è il sapere razionabile. Ma il sapere, più è veritiero, e più
deve riconoscersi sinceramente come unico risultato della connessione con
ciò che, realmente compiuto e perfeo, è giunto alla conoscenza sensibile,
e deve pertanto avocare a sé la ragion d’essere della possibilità di sapere,
in quanto è fondata sulla realtà11.
Ma appena il pensiero, astraendo dalla realtà, vuole costruire la realtà
futura, non potrà mai costruire il sapere, ma solo manifestarsi come
illusione, che si distingue però sempre dall’incoscienza: soltanto se può
compenetrarsi simpaticamente e senza riserve nella realtà, nel bisogno
reale e concreto, esso può prendere parte all’aività dell’incoscienza;
solo allora quel ch’è nato dal bisogno involontario e necessario, in altri
termini il fao reale, concreto, può divenire l’oggeo che soddisfa il
pensiero e il sapere; perché il cammino dell’evoluzione umana va
logicamente e naturalmente dall’incoscienza alla coscienza, dal non sapere
al sapere, dal bisogno alla soddisfazione di esso, e non dalla soddisfazione
al bisogno, almeno non al bisogno di cui tale soddisfazione era la fine.
Perciò gl’inventori non siete voi che siete intelligenti, ma il popolo, che
la necessità costringe all’invenzione; tue le grandi invenzioni sono opera
del popolo, mentre le invenzioni dell’intelligenza sono soltanto gli
sfruamenti e le mutilazioni delle grandi scoperte del popolo. La lingua
non l’avete inventata voi, ma il popolo; voi altro non avete fao
che corromperne la naturale bellezza, infrangerne la forza, distruggerne
l’intimo senso e indagare a fatica su quel che aveva perduto. Non siete
stati voi a inventare la religione, ma il popolo; voi altro non avete fao che
sfigurarne l’espressione intima, mutare in inferno il cielo che essa
possedeva, trasformare in menzogna la verità in essa manifesta. Anche lo
stato non l’avete inventato voi, ma il popolo; voi vi siete limitati a
deformare la naturale unione di essere uniti da un medesimo bisogno in
un’accozzaglia innaturale di esseri che hanno bisogni diversi. Della
benefica unione difensiva di tui avete fao una malefica salvaguardia per
i privilegiati; della veste a morbide pieghe che avvinceva il corpo
dell’umanità, avete fao una corazza di ferro rigida e imboita, un pezzo
decorativo per un museo d’armi.
Non siete voi che date da vivere al popolo, ma è il popolo che lo dà a
voi; non voi dovete istruire il popolo, ma prendere lezione dal popolo. Per
questo mi rivolgo a voi e non al popolo. Per il popolo bastano poche parole,
c’è un solo appello da rivolgergli : “Fai quel che devi!” E forse anche
quest’appello è superfluo perché il suo dovere lo fa da sé12. indi mi
rivolgo a voi nello spirito del popolo - necessariamente, però, nel vostro
linguaggio -, a voi, intelligenti e saggi, per offrirvi, con tuo il buon cuore
del popolo, la redenzione da una beatitudine egoistica riportandovi alle
sorgenti pure della natura, all’abbraccio affeuoso del popolo. Là io,
artista, ho trovato questa redenzione, là, dopo una lunga loa tra l’intima
speranza e l’esteriore disperazione, ho acquisito la fede più salda
nell’avvenire.
Il popolo compirà la sua opera di redenzione bastando a se stesso e
contemporaneamente riscaando i propri nemici. Il suo modo di agire sarà
l’immediatezza della natura: con la necessità dell’azione elementare
spezzerà quella compagine che unica costituisce le condizioni del regno
dell’antinatura. Finché queste condizioni esisteranno, finché i nemici del
popolo aingeranno la loro forza vitale sprecando la forza del popolo,
finché, impotenti come sono, consumeranno la facoltà di generazione
del popolo, inutile alla loro esistenza egoista, ogni interpretazione, ogni
creazione, ogni modifica, ogni miglioramento, ogni riforma13 a una
situazione del genere sarà solo un fao arbitrario, inutile e vano. Ma il
popolo ha solo bisogno di negare in realtà quel che in realtà è un niente, in
quanto è inutile, superfluo, vano; ha solo bisogno di sapere quel che
non vuole, e questo gliel’insegna il suo slancio vitale istintivo; ha bisogno,
con la forza della necessità che lo agita, di rendere non esistente quanto da
lui non voluto, di distruggere quel che è degno di essere distruo. Solo così
il qualche cosa dell’auspicato avvenire gli si presenterà da sé.
ando saranno abolite le condizioni che consentono agl’inutili di
rodere le midolla del necessario, si stabiliranno di per sé le condizioni che
richiameranno alla vita il necessario, il vero, l’imperituro; quando saranno
soffocate le condizioni che lasciano sussistere il bisogno del lusso,
s’imporranno di per se stesse le condizioni che potranno soddisfare il
necessario bisogno dell’uomo con il più largo superfluo della natura e della
stessa facoltà umana di produrre nella maniera più vasta e quindi più
conveniente. ando saranno abolite le condizioni favorevoli a una
tirannide della moda, allora subentreranno le condizioni per un’arte vera;
come per il tocco di una bacchea magica si avrà l’arte sublime e
sacrosanta, testimonianza della più nobile umanità; e la sua fioritura sarà
copiosa e perfea quanto quella della natura, quando dalla dolorosa
gestazione degli elementi ebbero origine le condizioni adae alla
sua armonica configurazione, quale noi oggi la conosciamo.
E come la felice armonia della natura, anche l’arte durerà e si
conserverà, perennemente generatrice, come la soddisfazione più pura e
completa del bisogno più nobile e puro dell’uomo perfeo, cioè dell’uomo
che è quel che può essere secondo la sua essenza e che, per tali ragioni,
deve essere e sarà.
3. La danza.
Tra tui i generi d’arte la danza è il più materiale. La sua materia artistica
è il corpo umano, l’uomo fisico, e non una parte di esso, ma lui tuo
intero, come si offre alla vista, dai piedi alla testa. La danza racchiude
dunque in sé gli elementi della manifestazione di tui i generi d’arte:
l’uomo che canta e che parla deve essere necessariamente un essere fisico;
mediante la forza esteriore e gli aeggiamenti delle membra si manifesta
l’uomo interiore che canta e parla; solo mediante la mimica della danza la
musica e la poesia diventano comprensibili e intelligibili all’uomo, che può
accostarsi all’arte perché non si limita a capire, ma vede.
L’opera d’arte si emancipa solo nel momento in cui si manifesta
direamente ai sensi pertinenti, quando l’artista, comunicandosi ad essi,
prende coscienza del significato del suo messaggio. Il soggeo supremo
dell’arte, il più degno di essere comunicato, è l’uomo; a scarico di
coscienza l’uomo, infine, non si comunica che soo l’aspeo fisico e solo
al senso a esso pertinente, cioè alla vista. Ogni arte che non tien conto
della vista non dà soddisfazione, e per conseguenza è schiava. Anche se
raggiunge la più alta perfezione espressiva, se si rivolge solo all’udito
oppure soltanto alla comprensione che combina e indireamente supplisce
alla sua comunicazione esplicita, siccome non si comunica alla vista, resta
un’arte che vuole, ma che non può interamente. Ma l’arte deve potere:
infai molto giustamente, nella nostra lingua, la parola “arte” trae la sua
etimologia dal verbo “potere”26.
L’uomo fisico manifesta una sensazione fisica di dolore o di piacere agli
organi del corpo e araverso gli organi del corpo che provano
dolore, piacere o benessere esprime il senso di dolore o di benessere
dell’intero corpo mediante dei movimenti significativi che si accordano
nell’insieme di tui i membri o, almeno, di quelli capaci di esprimersi. Da
questo rapporto reciproco, quindi dalla molteplicità dei movimenti che si
compiono e s’interpretano, infine dalla ricca varietà dei movimenti
suddei come sono prodoi in analogia con i sentimenti risultanti (a poco
a poco, violentemente, insomma dalla mollezza della tranquillità
fino all’impeto della passione), si deducono le leggi d’un movimento
capace d’infinite variazioni, mediante il quale l’uomo si manifesta e si
rappresenta artisticamente.
Il selvaggio, dominato dalla più brutale passione, non conosce nella
danza che i passaggi dall’impetuosità più uniforme alla calma apatica più
monotona. L’uomo civile, più nobile, si manifesta invece per il numero e la
varietà delle gradazioni. Più le gradazioni sono ricche e variate, più
l’ordine del loro alternarsi, pieno di fantasia, è calmo e determinato. La
legge di quest’ordine è il ritmo.
Il ritmo non è affao un’invenzione arbitraria, secondo la quale
l’uomo-artista deve muovere le membra del corpo; è l’anima dei
movimenti necessari di cui l’uomo-artista è diventato cosciente e con
cui cerca di trasmeere le sue impressioni incoscienti.
Se il movimento che accompagna il gesto è il suono espressivo della
sensazione, il ritmo ne è il linguaggio comprensibile. Più rapida è la
modificazione delle impressioni, più è appassionata, meno è chiara per
l’uomo, che in tal caso è quasi incapace di esprimere quel che sente. Se
invece questa modificazione è più rara, la sensazione si manifesta meglio.
La calma è l’inerzia; ma l’inerzia del movimento è la ripresa del
movimento; quel che si riprende si può calcolare, e la legge che regola
questo calcolo è il ritmo.
Solo il ritmo fa sì che la danza diventi arte. È la misura dei movimenti
mediante i quali si manifesta la sensazione, la misura mediante cui essa
giunge alla manifestazione, che condiziona la comprensione. Legge
spontanea del movimento, il ritmo è di se stesso soggeo e, riconoscibile
materialmente, creatore della legge, proviene necessariamente da tu’altro
che dall’esercizio del corpo; è soltanto mediante una cosa diversa dal mio
Io che posso riconoscere me stesso. Ora ciò che si distingue dal
movimento del corpo è ciò che si comunica a un senso diverso da quello
che percepisce il movimento del corpo, e questo senso è l’udito. Il ritmo,
come risulta dalla necessità del movimento corporale che si sforza di farsi
comprendere, si comunica come necessità rappresentata esteriormente e,
soprauo al danzatore, come una legge, mediante un suono che solo
l’orecchio percepisce; così come nella musica la divisione astraa del
ritmo, la bauta, si comunica come un movimento ripetuto perceibile
alla vista. La ripetizione regolare fondata sulla necessità del movimento si
presenta al danzatore come una direzione che stimola e guida i suoi
movimenti secondo la ripetizione regolare del suono, così come è prodoo
subito e nel modo più semplice: col baito delle mani, poi con oggei
sonori di legno, di metallo o altri.
La semplice indicazione della durata in cui il movimento si ripete non
basta al danzatore che si rappresenta i propri movimenti come regolati. da
una legge esteriormente percepibile; e come il movimento dura di per sé,
dopo il rapido cambiamento, di periodo in periodo e diventa una
manifestazione continua, così il danzatore vuol sapere che il suono che
non fa che apparire e sparire immediatamente è obbligato a persistere, a
durare nel tempo; vuole infine che il sentimento che ispira i suoi
movimenti sia parimenti espresso nella durata del suono, perché solo così
la misura che il ritmo s’è dato da sé si adegua perfeamente alla danza
non comprendendo una sola condizione della sua essenza, ma, per quanto
è possibile, tue le condizioni. La misura deve essere quindi l’essenza
stessa della danza, rappresentata da un altro genere di arte affine.
L’altro genere affine, in cui la danza aspira necessariamente a
riconoscersi, a ritrovarsi, a confondersi, è la musica, che ricava proprio dal
ritmo della danza la sua ossatura.
Il ritmo è il legame naturale e indissolubile della danza con la musica;
senza di esso non esisterebbero né danza né musica. Se il ritmo è la legge
che regge il movimento e gli dà unità, lo spirito della danza, cioè
l’astrazione del movimento fisico, è una forza che si muove e cammina ed
è come l’ossatura della musica. Più quest’ossatura si riveste di carne, e cioè
di suoni, più la legge della danza si vela e scompare nell’essenza
particolare della musica; allora la danza giunge a esprimere le più
profonde intimità del cuore e si aua così in essa quella facoltà che unica
può permeerle di esprimere l’essenza del suono. La carne più viva del
suono è la voce umana; e la parola può definirsi il ritmo osseo e muscolare
della voce umana.
Nella limpida precisione della parola il sentimento motore, così come
emana dalla danza araverso la misura, trova la sua espressione infallibile
e sicura, nella quale può comprendere se stesso come oggeo e quindi
esprimersi chiaramente. Così, araverso il suono diventato linguaggio,
nella musica diventata poesia, esso giunge al suo più pieno appagamento
estendendosi dalla danza alla mimica, dalla più vasta rappresentazione di
sentimenti fisici e generali all’espressione più precisa e delicata delle più
nee emozioni dell’anima, del sentimento e della volontà.
Da questa reciproca e sincera penetrazione, da questa fecondazione, da
quest’intima mescolanza delle differenti arti isolate - come si è
accennato brevemente traando dell’arte dei suoni e dell’arte poetica - è
nata l’opera d’arte unitaria del lirismo. In essa musica e danza sono
ciascuna quel che possono essere secondo la propria natura; quel che non
possono più essere non se lo aribuiscono egoisticamente, ma lo sono
l’una in luogo dell’altra. Nel dramma, che è la forma più perfea del
lirismo, ciascuna delle differenti arti, e soprauo la danza, sviluppa la sua
facoltà dominante. Nel dramma l’uomo di per sé, e con la più alta dignità,
è a sua volta soggeo e oggeo artistico di se stesso. Se in esso la danza
deve rappresentare il movimento di un individuo o d’una colleività per
manifestarne i sentimenti individuali o colleivi, se la legge del ritmo che
produce è la misura che rende intelligibile tuo ciò che in esso è
rappresentato in generale, è ovvio che la danza si nobiliti nel
dramma auando la più immateriale delle sue espressioni, cioè la mimica.
Come arte mimica essa diventa la manifestazione immediata e
accessibile a tui dell’uomo interiore: non più il ritmo brutale e sensuale
del suono, ma quello immateriale, se pur concreto, del linguaggio che
s’impone al primo come una legge assoluta per natura. Sentimenti e
sensazioni, idee e pensieri, tuo quel che la lingua cerca di
rendere comprensibile, così come sorgono, dalla tenerezza più dolce alla
più inflessibile energia, e infine il loro manifestarsi come volontà
immediata, tuo ciò non può diventare una verità completamente
intelligibile e degna di fede se non mediante la mimica. Anche il
linguaggio non è espressivo, concreto e persuasivo se gli manca il
concorso direo della mimica. Da questa come elevata, la danza, nel
dramma, ridiscende alla sua origine prima, al momento, cioè, in cui il
linguaggio si aenua e si limita a dare delle indicazioni, mentre la musica,
come ritmo animato, non fa altro che rendere omaggio alla propria sorella.
Oppure la sola bellezza dei corpi e dei loro movimenti può rendere
l’espressione direa, diventata indispensabile, d’un sentimento che
domina e tuo irradia di sé.
Così la danza, nel dramma, giunge al suo apogeo, alla potenza più
completa: affascinante quando domina, capace di rapire quando obbedisce,
sempre e dovunque se stessa perché sempre indipendente dalla volontà e
quindi necessaria, indispensabile. Infai un’genere d’arte può essere quel
che è, può e deve essere, solo quand’è necessario e indispensabile.
Come, durante la costruzione della torre di Babele, i popoli, dopo che i
loro linguaggi diventarono incomprensibili, non si compresero più tra loro
e si separarono per seguire ciascuno la propria strada, così anche le arti si
“specializzarono” quando l’elemento nazionale comune si divise in tanti
egoismi particolari abbandonando l’edificio possente e solenne, che nel
dramma s’elevava fino al cielo, e nel quale avevano perduto la reciproca
comprensione, che era la loro anima colleiva.
Consideriamo ora quali furono le sorti della danza dopo che ebbe
abbandonato la compagnia delle sorelle e si fu avventurata da sola nel
mondo affidandosi al caso.
Se la danza si rifiutò di tendere più a lungo la mano alla poesia
euripidea diventata scolastica - mano che, d’altra parte, quella rifiutava
altera e sdegnosa e che non riprese, umilmente offertale, se non per
un’opera di tendenza -, se dunque si allontanò dalla sorella filosofica che,
nella sua oscura frivolezza, poteva solo invidiarle il fascino giovanile ma
non la poteva più amare, ella non respinse mai del tuo l’aiuto della
musica, l’arte a lei più vicina.
La danza è avvinta da un indissolubile legame alla musica, che ha in
mano la chiave dell’anima di lei. Come, dopo la morte del padre, i figli, che
prima erano legati d’amore e conoscevano il patrimonio comune, diventati
eredi, calcolano egoisticamente ciò che speerà loro come bene proprio e
personale, così la danza fece conto per sé sola di quella chiave come se da
lei sola fosse stata forgiata, la volle tua per sé come condizione della sua
vita ormai separata da quella delle altre arti. Rinunciò così alla voce
espressiva della sorella perché questa voce, la cui sostanza è la poesia,
l’avrebbe per sempre incatenata a questa superba padrona. Fu allora che la
danza fece suo quell’arnese fao di legno o di metallo: lo strumento che la
musica sua sorella, nell’affeuoso proposito d’animare col proprio soffio
vivente perfino le materie inanimate della natura, aveva inventato per
sostenere e rafforzare la propria voce; quello strumento che possedeva
bastante capacità di produrre la durata necessaria e costante della misura e
del ritmo imitando la voce affascinante della sorella. Fao suo lo
strumento musicale, la danza abbandonò la sorella, che aveva troppa fede
nella parola, alla corrente del fiume senza rive dell’armonia cristiana, per
gearsi con suprema leggerezza nei lussuosi saloi del mondo.
esta persona dalle vesti succinte la conosciamo bene: chi può dire di
non averla mai incontrata? Dovunque la pesante ricchezza moderna
desidera divertirsi ella è presente, con la più grande compiacenza del
mondo, e per il denaro fa tuo ciò che le si chiede. Non è più capace di
usare la più bella delle sue facoltà: quella di rendere al vivo, con i suoi
gesti e le sue aitudini, l’idea della poesia nel suo desiderio d’essere
un’incarnazione umana. esto tesoro l’ha perduto o ne ha fao dono - a
chi, poi? - con un’imperdonabile balordaggine. I trai del viso, come tui i
gesti delle membra, oggi non sanno esprimere che un’illimitata civeeria.
La sua unica preoccupazione è dare l’idea di essere in grado di rifiutare
qualcosa, e si libera di questa preoccupazione con la sola espressione
mimica di cui sia ancora capace: un sorriso imperturbabile e la
sollecitudine più accesa nel fare una cosa qualsiasi. Con quest’espressione
invariabile e stereotipa dei trai del viso, essa obbedisce con l’unico mezzo
delle gambe al desiderio di varietà e di movimento. Il talento,
araversando l’intero corpo, le è passato dalla testa ai piedi.
La testa, la nuca, il corpo, le anche non esistono altro che per la
seduzione da loro esercitata direamente. Le gambe, da sole, si sono
gravate di tua l’espressione: le mani e le braccia s’aiutano fraternamente
solo per mantenere il necessario equilibrio.
el che nella vita privata ci si permee d’esprimere con la legnosità
d’espressione che caraerizza la civiltà. - quando la nostra borghesia
moderna accondiscende a danzare, per passatempo, quello che si chiama
ballo -, si permee alla danzatrice compiacente d’esprimerlo in pubblico
sulla scena con una brutale sfacciataggine: il suo modo di agire, infai, è
arte, ma non è verità; e dal momento che la si dichiara fuori della legge, è
al di sopra della legge. Possiamo quindi permeerle di eccitarci, senza per
questo abbandonarci, nella vita civile che viviamo, alle eccitazioni che
offre; così come la religione ci offre quotidianamente esortazioni alla bontà
e alla virtù, alle quali tuavia non siamo costrei a obbedire. L’arte è
libera, e la danza trae da questa libertà i suoi vantaggi. Ha buone ragioni
di farlo: altrimenti a che servirebbe la libertà?
Ma come ha potuto un’arte tanto nobile cadere così in basso da non
poter sussistere, nella nostra vita pubblica, se non come suprema sintesi di
tui gli artifici della galanteria e da languire nelle catene più infami della
schiavitù più umiliante? Perché ogni cosa, tolta dai suoi contai naturali,
isolata nel proprio egoismo, diventa realmente schiava, vale a dire
dipendente da una cosa che le è estranea. L’uomo fisico, che è solo fisico e
materiale, l’uomo puramente intelleuale o puramente razionale, presi
in se stessi sono incapaci di quelle forme d’indipendenza che sono tipiche
dell’uomo vero e reale. La esclusività della loro essenza fa sì che si giunga
a effei stravaganti, perché la misura salutare si presenta da sé solo nella
comunità di ciò che è natura continuamente differenziata. L’eccesso invece
è l’antitesi per eccellenza della libertà di un essere, e questo asservimento
consiste sempre in una dipendenza dall’esterno.
Separandosi dalla musica vera e soprauo dalla poesia, la danza non
solo ha rinunciato alla più elevata delle sue facoltà, ma anche a un po’
della sua originalità. Non è originale se non quello che può autogenerarsi,
e la danza fu un’arte perfeamente originale fintanto che seppe far
emergere dal proprio fondo e dalla propria intima necessità le
leggi secondo le quali si mise in grado di manifestarsi e di essere
compresa. Ai nostri giorni di originale c’è solo la danza popolare,
nazionale, perché esprime da sé la sua particolare natura, che si manifesta
in modo inimitabile mediante il gesto, il ritmo e la misura, di cui essa
stessa ha creato spontaneamente le leggi. E tali leggi non sono
trasmissibili né razionali, se non provengono veramente dall’opera di arte
popolare come sua essenza astraa.
La danza non può evolversi sino a diventare una arte onnipotente e
feconda se non in unione con la musica e con la poesia, le quali non
debbono essere da lei dominate, ma completamente libere; essa infai non
può arricchire e sviluppare al massimo le sue facoltà particolari senza le
affini facoltà e le ispirazioni di quelle arti.
L’opera d’arte lirica greca ci dimostra come le leggi del ritmo proprie
della danza, moltiplicate all’infinito, sviluppate e arricchite nel modo più
adeguato al loro caraere, hanno animato di sé la musica e soprauo la
poesia e come, a loro volta, i caraeri peculiari di queste due arti abbiano
infuso nella danza innumerevoli idee nuove per trovare nuovi movimenti
caraeristici. In questo scambio fecondo ogni particolare genere d’arte ha
raggiunto la piena perfezione. Ma la danza popolare moderna non doveva
trarre profio da questi contai: infai presso le nazioni moderne ogni
arte popolare è stata soffocata nel crescere dall’influsso del cristianesimo e
della civiltà statalista cristiana; rimasta quindi una pianta solitaria, non è
mai giunta a una fioritura ricca e variata.
indi, nel regno della danza, le sole manifestazioni del nostro mondo
contemporaneo che siano note a tui sono quelle prodoe dal popolo, tali
e quali come sono sorte dallo spirito di questa o di quella nazione.
Tua la nostra coreografia cosiddea civilizzata non è altro che un
centone di danze popolari, ma lo stile popolare di ogni nazione vi è stato
adaato, smussato, raffinato e quindi svisato, mai sviluppato con maggiore
ampiezza, perché la coreografia, in quanto arte, non sussiste che per
nutrimenti esteriori. Il suo processo è dunque un’imitazione,
una compilazione, una confusione artificiale voluta, non una fecondazione
e una creazione nuova. Il suo caraere è quello della moda che, pur di
cambiare, preferisce oggi un modo e domani un altro. Di conseguenza è
costrea a inventarsi, a crearsi dei sistemi, a regolarizzare le proprie
intenzioni, a manifestarsi con supposizioni e accezioni inutili, che però
possono essere comprese ed eseguite dai suoi adepti. Ma i sistemi e le
regole fanno sì che essa sia assolutamente isolata come arte, che le sia
impedito ogni salutare contao con un’azione comune con altre arti.
L’affeazione d’una vita artificiale tenuta in piedi da leggi e regole
arbitrarie è tipicamente egoista: e siccome di per sé è incapace di
generare, le è rifiutata ogni fecondazione.
est’arte non ha bisogno d’amare; può solo prendere, non donare.
Come ogni arte egoista assorbe linfe estranee d’ogni genere, le scompone,
le consuma, le dissolve nella sterilità del proprio essere, ma non può
mescolarsi che a un elemento vitale estraneo perché nulla può darsi di se
stessa.
La nostra danza moderna tenta di realizzare l’intenzione del dramma
nella pantomima. Come ogni arte isolata ed egoista vuole essere tua per
sé, tuo potere, tuo prevedere da sola: vuole rappresentare uomini,
azioni, situazioni, conflii, caraeri, istinti umani, senza mai fare appello
all’unica facoltà che fa l’uomo completo: al linguaggio. Vuole essere poesia
senza allearsi con la poesia. Ma che produce in quest’isolamento, in questa
“indipendenza” orgogliosa? La creatura meno indipendente, anzi la più
inferma e informe: uomini che non possono parlare non perché, per un
caso, sia stato loro sorao il dono del linguaggio, ma perché
intenzionalmente non vogliono parlare; aori che ci sembrano liberarsi da
una cappa di piombo quando in un momento dell’azione - uno qualsiasi -
si decidono a finirla con il balbeio penoso del gesto e a dire una parola
pronunciata come vuole madre natura. Ma le regole e le prescrizioni
dell’arte della pantomima negano agli aori la facoltà di… macchiare con
un suono del linguaggio naturale il sentimento immacolato della danza
“indipendente”!
Ma questo speacolo tuo muto è tanto miseramente schiavo da osare
tu’al più d’arrampicarsi a soggei drammatici che non hanno bisogno di
fare appello alle facoltà intelleive dell’uomo; è tanto meschino che, anche
nei casi più favorevoli a questo genere, è spesso obbligato a ricorrere a
vergognosi espedienti: tra l’altro, anche a comunicare al pubblico le sue
vere intenzioni mediante un… programma esplicativo!
Non si può negare che proprio qui si manifesti il proposito più nobile
della danza: lo sforzo di voler essere qualcosa. Essa si eleva al punto da
aspirare all’opera d’arte suprema, il dramma; vuole evitare lo sguardo
lascivo e ripugnante della frivolezza, afferrarsi al velo artistico, che può
nascondere la sua nudità vergognosa. Ma, nell’esprimere questo desiderio,
a quali e quante umiliazioni si deve sooporre! Con quale travestimento
affliggente, deplorevole, deve espiare il vanitoso desiderio d’indipendenza,
che è contro natura! L’arte, senza il singolo concorso della quale l’arte
superiore, la più nobile, non può manifestarsi, separata dalla comunità con
le sorelle, deve passare dalla prostituzione al ridicolo e dal ridicolo alla
prostituzione.
O danza, arte mirabile! O danza, arte miseranda!
4. La musica.
5. La poesia.
1. L’architeura.
2. La scultura.
Gli asiatici e gli egiziani, nel rappresentarsi i fenomeni della natura loro
dominatrice, passarono dalla riproduzione di forme animali alla
rappresentazione della forma umana, cercando, araverso di essa, di
raffigurarsi le potenze naturali e di simboleggiarle in proporzioni enormi e
orribilmente deformate. Non intesero copiare l’uomo, ma, siccome l’uomo
non può mai raffigurare un ente supremo diverso da sé, trasferirono
l’immagine umana nella natura oggeo della loro adorazione e di
conseguenza la deformarono.
In questo senso, sollecitate da un’intenzione analoga, le più antiche
tribù greche rappresentarono in forma umana, in legno o in pietra e come
oggei di adorazione, i loro dèi, cioè le potenze naturali intese come
potenze divine. A questo bisogno religioso d’incarnare la potenza divina,
invisibile, temuta o venerata, la scultura arcaica s’ispira lavorando varie
specie di materia offerte dalla natura per imitare la figura umana; in modo
analogo l’architeura rispose a un bisogno immediato dell’uomo
quando riunì varie specie di materia naturale per imitare la natura e,
oserei dire, per condensarla in un modo o nell’altro in una forma che può
definirsi simbolica. Tanto per fare un esempio, il tempio degli dèi altro non
fu forse che il simbolo del boscheo sacro agli dèi. Finché l’uomo,
nell’architeura, non considerò che un utile prossimo e immediato, l’arte
restò o tornò a essere un mestiere; ma quando l’uomo diventò artista,
quando, in altri termini, divenne a se stesso soggeo e oggeo di
rappresentazione artistica, l’architeura fu da lui elevata al grado di arte.
Analogamente, finché l’uomo, di fronte alla natura, sentì solo un legame di
dipendenza adeguandosi agli altri animali, non fu in grado
di rappresentare le vere potenze della natura, anche se già dava loro una
forma umana, se non nella misura con cui misurava se stesso: cioè
secondo le abitudini e con quegli aributi mediante i quali si considerava
dipendente dalla natura come tuo ciò che vive; ma a mano a mano che
seppe elevare per sé il proprio corpo non più sfigurato e, di conseguenza, il
proprio potere puramente umano a materia e oggeo di speculazione
artistica, riuscì a rappresentare i suoi dèi soo la forma più libera e più
pura, finché non giunse a rappresentare la bellezza umana in sé e per sé
come forma esclusivamente umana per propria e perfea soddisfazione.
Siamo così giunti all’importantissima linea di demarcazione in cui
l’opera d’arte umana vivente si scisse per sopravvivere artificialmente
nella plastica immutabile, monumentale e come pietrificata. La discussione
di questo punto doveva restare fondamentale per una traazione sulla
scultura.
La prima e la più antica comunità umana fu opera della natura.
L’associazione puramente familiare, cioè l’insieme di tui coloro la cui
discendenza risaliva a un comune capostipite e ai figli nati da lui, fu il
legame dell’unione primordiale di tue le stirpi e di tui i popoli che la
storia ci ha rivelato.
Nelle tradizioni leggendarie la tribù familiare conservò, memoria
sempre viva, il ricordo incosciente d’un’origine comune: le impressioni
della natura particolare che la circondava elevarono i ricordi della stirpe a
rappresentazioni religiose. Secondo la diversità e la ricchezza con cui
questi ricordi e queste idee si accumularono e ricomposero presso i popoli
storici divenuti più forti per l’accrescersi delle stirpi, e soprauo durante
le migrazioni delle tribù a causa del modificarsi delle impressioni della
natura, avvenne che questi popoli, facendo risalire, nella leggenda e nella
religione, il ricordo della loro origine particolare al di là del ristreo
ambito della nazionalità, ritenendosi discendenti degli dèi, finirono col far
credere a tui gli uomini in generale di essere figli e discendenti dei loro
dèi. Per questo, in ogni epoca in cui mito e religione pervasero la fede viva
di un popolo, il legame che unì ogni tribù fu solo il mito e una particolare
religione.
Le cerimonie in ricordo della loro comune origine venivano celebrate
dalle tribù greche nelle feste religiose, che erano la glorificazione del dio o
dell’eroe nel quale sentivano di formare un tuo.
Ma i loro ricordi nazionali li solennizzavano, più vivi che altrove,
nell’arte, quasi spinti dall’irresistibile bisogno di fissare gli eventi che
sempre più si cancellavano nell’allontanarsi del passato. E li fissavano,
nei e compiuti, nell’opera d’arte più perfea: nella tragedia, ove più
direamente si manifestavano.
L’opera d’arte, lirica e drammatica, era un ao religioso vero e proprio;
e in quest’ao, paragonato alla semplicità delle cerimonie religiose
primitive, già s’affacciava il desiderio di rappresentare colleivamente e
deliberatamente il ricordo comune, che nella vita usuale aveva perso
buona parte della sua forza viva e immediata.
La tragedia fu dunque il trasformarsi d’una cerimonia religiosa in opera
d’arte: al cospeo di essa il rito divino propriamente deo, tradizionale,
conservato nel tempio, perdeva necessariamente in pietà e sincerità, al
punto da diventare una cerimonia tradizionale e abitudinaria, da quando la
sua quintessenza si perpetuava nell’opera d’arte.
Nelle forme esteriori dell’ao religioso, tanto importanti, la tribù si
presenta come una comunità, dal punto di vista di certi usi, gesti e costumi
antichi e significativi: l’abito della religione è, per così dire, il costume della
tribù, che consente di riconoscere a prima vista le comunità
dell’origine. esto costume, consacrato da un’antica tradizione, questa
convenzione, in certo qual modo religiosa e sociale, passarono dalla
solennità religiosa alla solennità artistica, cioè alla tragedia; per quest’uso
e secondo questa tradizione l’aore tragico fu considerato dal popolo
come un personaggio noto e venerato. Non solo la grandezza del teatro e
la lontananza degli speatori dalla scena resero necessario l’innalzamento
della figura umana mediante il coturno e la maschera tragica tradizionale,
ma il coturno e la maschera erano anzituo emblemi necessari
di significato religioso, che, uniti ad altri emblemi simbolici, conferivano
all’aore un’alta dignità sacerdotale. Ora, quando una religione, che
comincia a sparire dalla vita comune e cede completamente allo spirito
politico, seguita a sussistere, ciò è dovuto soltanto alle sue forme esterne;
ma quando, come in Atene, questo costume non può rivestire le forme
della vita reale se non soo l’aspeo dell’arte, ciò vuol dire che questa
verità di vita deve essere per forza la quintessenza della religione.
La quintessenza della religione greca, l’elemento cui interamente faceva
capo nella forma in cui già inconsciamente si manifestava nella vita reale,
è l’uomo. Fu compito dell’arte fare in modo chiaro e inequivocabile questa
rivelazione, e l’arte la fece strappando via l’ultimo velo che nascondeva la
religione e ne svelò nuda la quintessenza: l’uomo vero in carne e ossa.
Ma l’opera d’arte colleiva fu distrua da questa rivelazione, perché in
essa il legame della comunità era stato proprio quella veste religiosa.
ando il contenuto del mito colleivo e della religione come oggeo
dell’arte drammatica fu trasformato e usato, non senza deformazione, con
un’intenzione e una interpretazione poetica, e infine con una licenza
poetica egoista, subito la fede religiosa scomparve dalla vita della nazione,
che non aveva altri legami se non la politica.
esta fede, l’adorazione degli dèi, questa certezza della verità delle
antiche tradizioni della stirpe avevano costituito il legame della comunità:
quando questo legame fu spezzato, tolto di mezzo come una superstizione,
il fondo infallibile della religione apparve allora essere l’uomo puro e
semplice; non più l’uomo comune, unito, grazie a quel legame, alla
comunità della tribù, ma l’uomo egoista, assoluto, isolato; nudo e bello, ma
distaccato dalla bella unione con la comunità.
D’allora in poi, con la scomparsa della religione greca, col dissolversi
dello stato naturale dei greci assorbito dallo stato politico, finita l’opera
tragica colleiva, ebbe decisamente inizio, per l’umanità storica, la nuova
infinita evoluzione della comunità nazionale primitiva della stirpe in
comunità universale puramente umana.
Il legame che l’uomo perfeo, giunto alla coscienza di se stesso nel
greco nazionale, aveva roo come una pesante catena, in grazia di quella
coscienza acquisita cominciò a essere sentito come un legame comune a
tui gli uomini. Il periodo che va da quell’epoca ai nostri giorni è dunque
la storia dell’egoismo assoluto; la fine di esso segnerà la liberazione operata
nel comunismo70.
L’arte che ci ha rappresentato quest’uomo isolato, egoista, nudo, come
il punto di partenza del suddeo periodo storico, simile a un bel
monumento che l’annunciasse, è la scultura, che giunse al suo apogeo
proprio quando l’opera d’arte umana colleiva, la tragedia, cominciava a
decadere.
La bellezza del corpo umano era fondamento dell’arte greca fin dallo
stato primitivo: sappiamo che presso i dori di Sparta, la più nobile tribù
ellenica, la salute e la bellezza intae del neonato costituivano le uniche
condizioni alle quali gli fosse permesso di vivere, tanto che si negò il
dirio alla vita ai fanciulli brui e deformi71.
est’uomo nudo e bello è la quintessenza di tua la vita spartiata;
dalla gioia che derivava dalla bellezza del corpo umano perfeo, cioè del
corpo virile, aveva origine quell’amore virile che caraerizza lo stato
spartano. est’amore ci appare nella sua purezza originale come la
manifestazione più nobile e personale del gusto estetico dell’uomo.
Ora, se l’amore dell’uomo per la donna, nella sua manifestazione
naturale, è, in fondo, un amore egoistico-voluuoso, in cui si soddisfa un
determinato piacere sensuale, è logico che l’uomo non possa esaurire in
esso tuo il suo essere; l’amore dell’uomo per la donna si presenta come
un affeo di gran lunga superiore. Esso infai non si limita al puro piacere
dei sensi, ma consente all’uomo di assorbire, di consumare tuo il suo
essere nella natura dell’oggeo amato, e proprio nella misura in cui
la donna, con la sua femminilità perfea, ha sviluppato, nel suo amore per
l’uomo e nel suo assorbirsi in lui, l’elemento virile della femminilità e l’ha
portato alla totale perfezione, insieme con l’elemento puramente
femminile, in modo da non essere per l’uomo solo un’amante, ma
addiriura un’amica. Solo in questa atmosfera l’uomo può trovare
piena soddisfazione nell’amore della donna72.
L’elemento superiore di quest’amore maschile consisteva
nell’esclusione del piacere egoista dei sensi. Non per questo si traava
tuavia d’un legame di pura amicizia spirituale, ma l’amicizia era
la suprema fioritura, la gioia perfea dell’amicizia sensuale, che aveva la
sua direa radice nella gioia della bellezza, e della bellezza tua fisica
dell’uomo amato. esta gioia non era un desiderio egoistico, ma una
rivelazione completa della perfea simpatia per la gioia che l’amato aveva
in sé e che ben rivelava l’aeggiamento gioioso di quell’uomo felice, avido
di bellezza. est’amore, che derivava dalla gioia più nobile, fisica e
morale insieme - non l’amicizia che noi esprimiamo mandando leere per
posta, come una cosa cerebrale faa a sangue freddo - era per gli spartani
il solo maestro della giovinezza, l’istitutore sempre giovane tanto
dell’adolescente, che dell’uomo maturo, l’organizzatore delle
feste colleive come delle imprese più ardite, l’aiuto entusiasta nella
baaglia, perché era quest’amore che vincolava associazioni nate
dall’amore a divisioni e sezioni militari e che prescriveva come taica il
disprezzo della morte per salvare l’amante minacciato o vendicarne la
morte, secondo rigorose leggi ree dalla natura.
Lo spartano, che eseguiva nella vita stessa un’opera d’arte puramente
umana e colleiva, l’esprimeva incoscientemente nella poesia lirica, che è
espressione immediata della gioia in se stessa e nella vita; ma questa, nella
sua esteriorità necessaria, non giunge completamente alla coscienza
dell’arte. La poesia lirica spartana, all’apogeo dello stato dorico primitivo,
aveva una tale tendenza verso la sorgente originaria di tue le arti, la
danza vivente, che - cosa quanto mai caraeristica - non ce n’è restato
alcun monumento, proprio perché si traava di una manifestazione pura e
fisicamente bella, che impediva alla poesia di separarsi dalla musica e dalla
danza73. Lo stesso passaggio dalla poesia lirica al dramma, che noi
osserviamo nei canti epici, fu estraneo agli spartani. È molto significativo
che le epopee omeriche siano state raccolte nel dialeo ionico e non nel
dorico. Mentre le popolazioni ioniche e, in primo luogo, gli ateniesi, a
causa di un reciproco commercio quanto mai aivo si evolvevano verso lo
stato politico e finivano col rappresentarsi la religione, ormai in via di
scomparire dalla vita, soltanto soo la forma artistica nella tragedia, gli
spartani, che abitavano una regione senza rive, seguitavano a conservare il
caraere ellenico primitivo e opponevano il loro stato puro, primitivo,
come un monumento artistico vivente, alla forma variabile della nuova
vita politica. anto nel turbine violento e incessantemente distruore
della nuova era cercava un aiuto o una via d’uscita, volgeva gli occhi a
Sparta. L’uomo di stato tentava di sondare le forme di quello stato
primitivo per trapiantarle artificialmente nello stato politico d’allora; e
l’artista, vedendo dissolversi l’opera d’arte colleiva della tragedia e
decomporglisi soo gli occhi, cercò da quale lato potesse scoprire la
quintessenza di quest’opera d’arte, l’uomo primitivo greco, bello e
promesso all’arte. E come Sparta si ergeva, monumento vivente, nella
moda dei nuovi tempi, così la scultura volle far suo l’uomo greco primitivo
che aveva scorto in quel monumento vivente e lo rese monumento di
pietra, senza vita, d’una bellezza in disuso per la barbarie vivente dei
tempi futuri.
Ma quando si volse lo sguardo da Atene a Sparta, già il verme
dell’egoismo colleivo rodeva fatalmente l’antica costituzione. La guerra
del Peloponneso l’aveva traa, suo malgrado, nel gorgo dei nuovi tempi:
Sparta aveva potuto vincere gli ateniesi solo con quelle armi che gli
ateniesi avevano reso per l’addietro tanto terribili e invincibili.
Invece delle monete di rame - veri monumenti di quel disprezzo per il
denaro che ben si addiceva all’alta stima che si aveva dell’uomo - le
monete d’oro asiatiche s’ammassarono nelle casse dello spartano; questi
allora rifiutò il tradizionale e frugale pasto comune per gli opulenti
banchei tra quaro mura, e il bell’amore maschile, come tra gli altri greci
del tempo, degenerò in un’ignobile voluà sessuale, che mutò l’incentivo
di quest’amore - che certamente era un amore superiore a quello della
donna - nel suo contrario: l’amore contro natura.
est’uomo, bello in sé, ma bruo nel suo isolamento egoista, la
scultura ce l’ha tramandato nel marmo e nel bronzo, immutabile e freddo
come una reliquia pietrificata, come la mummia dell’ellenismo. est’arte,
al soldo dei ricchi per l’ornamento dei loro palazzi, raggiunse tanto più
grande diffusione quanto più la produzione artistica si abbassò al livello
d’una fabbricazione completamente meccanica. È vero che il soggeo della
scultura è l’uomo così come si manifesta: infinitamente vario, instabile di
caraere e mutevole nei sentimenti; ma quanto alla materia della
rappresentazione, questa arte lo raffigura nella sua esteriorità fisica che
lascia supporre solo l’aspeo esterno, mai il fondo dell’anima umana. È
vero che l’interiorità umana si esprime adeguatamente nei trai esteriori,
ma tale espressione può essere perfea solo nel movimento e per il
movimento.
Ora di tale movimento lo scultore non può cogliere gl’infiniti momenti
nella loro diversità: ne coglie uno solo e non può dar l’idea del movimento
vero se non astraendosi dall’opera concreta verso un determinato calcolo
matematico di paragoni.
ando fu finalmente trovato il processo più esao, più certo e più
conveniente per uscire da quella sterile incapacità di ben rappresentare la
vita reale, quando la materia naturale fu plasmata secondo le proporzioni
perfee dell’uomo fisico, quando si fu in grado di presentare quest’uomo
fisico in modo evidente, allora, una volta trovato il procedimento, lo si potè
insegnare con sicurezza e, di copia in copia, la scultura potè essere
tramandata di generazione in generazione, produrre anche cose graziose,
belle, sincere, senza però mai trarre alimento da una vera forza creatrice e
artistica. Notiamo infai che, al tempo dell’impero romano, quando già
da lungo tempo era scomparsa ogni aspirazione artistica, la scultura
produceva a profusione opere in cui pareva esistere uno spirito artistico,
anche se non dovevano la loro esistenza che a una felice imitazione
meccanica. Potè diventare un bel mestiere dopo aver cessato d’essere
un’arte, e seguitò a esistere finché fu in grado di trovare e inventare; ma
una reiterata scoperta è soltanto imitazione.
Durante il Medio Evo, bardata di ferro o nascosta soo l’abito
monastico, la carne di marmo splendente della bellezza greca s’irradiò per
una umanità avida di vivere; da quella bella pietra e non dalla vita reale il
mondo moderno doveva imparare dall’antico a riconoscere l’uomo, ancora
una volta.
La nostra scultura moderna non è nata dal desiderio di rappresentare
l’uomo com’è realmente; non poteva percepirlo se non araverso i
travestimenti della moda. È nata dunque solo dal desiderio d’imitare
l’uomo imitato, fisicamente inesistente per i sensi. È il sincero desiderio di
ricostruire sulle orme del passato la bellezza in mezzo a una vita
totalmente brua. Se l’uomo bello, scomparendo dalla vita, fosse stato la
causa delle perfezioni artistiche della scultura, che voleva conservarselo
per un godimento monumentale nel desiderio di traenere un bene
colleivo scomparso, la scultura moderna, nel ripetere questi monumenti,
non avrebbe altro movente che l’assenza totale di quell’uomo dalla vita.
Poiché tale desiderio non veniva mai soddisfao nella vita e per la vita,
ma si trasmeeva di monumento in monumento, di pietra in pietra,
d’immagine in immagine, la nostra scultura moderna, non facendo che
imitare la scultura propriamente dea, dovee necessariamente prendere
gli aspei d’un mestiere corporativo, in cui la quantità delle regole e dei
principi secondo i quali si doveva procedere testimoniavano la sua povertà
come arte e la sua incapacità d’invenzione.
Presentando se stessa e le sue opere invece dell’uomo bello che in
realtà non esiste, vivendo come arte e, in certo qual modo, di questi difei,
finisce col praticare un isolamento egoistico, in cui non fa altro, mi si passi
l’espressione, che predire le fasi della bruezza che ancora regge la vita; e
ciò non avviene certo senza che provi un certo piacere, essendo convinta
della sua necessità - relativa - data l’atmosfera che si è determinata.
La scultura moderna non potrà mai rispondere a un vero bisogno
finché l’uomo bello non esisterà nella realtà: la sua apparizione nella vita e
la sua copia, che allora servirà di regola direa, saranno la rovina dell’arte
figurativa di oggi, perché l’unico bisogno che può soddisfare e che
artificialmente si crea da sé scaturisce dalla bruezza della vita; non è un
bisogno nato da una vita realmente bella e tale da esigere la riproduzione
di questa vita nell’opera d’arte vivente. Il vero desiderio artistico creatore
nasce dalla ricchezza e non dalla miseria. La ricchezza della scultura
moderna è la ricchezza dei monumenti dell’arte figurativa greca che sono
giunti fino a noi. Non produce però dalla fonte di quella ricchezza: è spinta
verso di essa dalla mancanza di ogni bellezza nella vita auale; s’immerge
quindi in quella ricchezza per fuggire l’indigenza. Così, incapace
d’inventare, adaa all’imitazione della vita vivente tuo quel che le capita
a tiro: si presenta come disperata soo le vesti della moda per essere
riconosciuta e ricompensata, copia il bruo per essere vera - secondo le
nostre idee, s’intende - e finisce col rinunciare del tuo a essere bella. Così
la scultura, persistendo le circostanze che le conservano una vita
artificiale, giunge a quello stato infelice e sterile che la costringe a creare
cose brue e necessariamente le fa sospirare una redenzione. Le
condizioni d’esistenza in cui desidera vedersi finalmente libera non
possono essere che le precise condizioni di quella vita in cui la scultura
cesserà di esistere come arte indipendente. Ma quest’aspirazione, appena
soddisfaa, rivelerà l’illusione egoistica che le è propria quando le
condizioni della produzione necessaria della scultura cesseranno
completamente di esistere in una vita fisicamente e realmente bella.
Nella vita auale la scultura, come arte indipendente, risponde a un
bisogno relativo: in verità deve la sua auale esistenza, il suo stesso fiorire
a questo bisogno; un’altra situazione, contraria all’auale, in cui esistesse
un bisogno naturale di scultura, non è neppure lontanamente
immaginabile. Se l’uomo, nella vita, rende omaggio al principio della
bellezza, se rende bello il proprio corpo, se gioisce della bellezza da esso
emanante, il soggeo e la materia artistica della riproduzione di tale
bellezza e della gioia nata da tale bellezza saranno indubbiamente l’uomo
stesso, vivo e perfeo. Ma in questo caso l’opera d’arte è il dramma, e la
redenzione dell’arte figurativa sarà proprio il suo disincantamento
dalla pietra, il ritorno all’uomo in carne e ossa, il passaggio dall’immobilità
al movimento, dal monumentale all’auale. Solo quando l’impeto dello
scultore-artista sarà passato nell’anima del danzatore, del mimo, di colui
che canta e che parla, quell’impeto potrà considerarsi placato. ando la
statuaria cesserà di esistere o esisterà con un fine diverso da quello
dell’uomo fisico; quando sarà assorbita, in quanto scultura,
dall’architeura; quando lo streo isolamento di quest’uno scolpito nella
pietra si sarà fuso nella diversità infinitamente viva degli uomini viventi,
reali; quando sapremo raffigurarci il ricordo dei morti che amammo come
di esseri risuscitati per l’eternità, animati, espressivi, ma non nel marmo e
nel bronzo insensibili; quando innalzeremo le nostre case perché ospitino
l’opera d’arte vivente e non avremo più bisogno d’immaginarci in essa
l’uomo vivente, solo allora esisterà una vera arte figurativa.
3. La piura.
Wieland il fabbro90, nella gioia, nel piacere del suo lavoro, creava i
gingilli più artistici, armi eccellenti, luminose e belle. Bagnandosi sulla
riva del mare scorse una “vergine-cigno”91 che si avvicinava con le sorelle
volando per l’aria; poi la vide togliersi le vesti di cigno e gearsi nelle
onde marine. Wieland s’accese d’un amore ardente, si geò nei flui e
conquistò loando la splendida donna. L’amore spezzò l’orgoglio di lei, e
vissero uniti, l’uno per l’altra, in deliziosa tenerezza. La donna gli donò
un anello, dicendogli di non consentirle mai di riprenderselo perché, se
tanto era l’amore, altreanto forte era in lei la brama dell’antica libertà, e
quando desiderava tornare volando per l’aria all’isola felice che era la sua
patria, quell’anello gliene avrebbe dato il potere. Wieland temprò un gran
numero d’anelli simili a quello della donna-cigno e li appese in casa con
un legaccio di corteccia di tiglio. Era certo che, nel numero, non avrebbe
riconosciuto il suo.
Tornando a casa da una spedizione, un giorno trovò la sua dimora
distrua; la donna era scomparsa.
C’era un re, Neiding, che aveva sentito molto parlare dell’arte di
Wieland; pensò di farlo suo prigioniero perché lavorasse per lui solo. Per
commeere un crimine del genere trovò un oimo pretesto: l’oro con cui
Wieland forgiava i suoi gioielli proveniva dalle terre di Neiding: dunque
l’arte di Wieland era il prodoo d’un furto di una proprietà del re. Penetrò
dunque nella sua casa, ve lo trovò, lo fece legare e portar via.
Alla corte di Neiding, Wieland dovee forgiare ogni specie di cose utili,
solide, durevoli: bardature, armature, armi, di cui il re si serviva per
accrescere la sua potenza. E siccome, per farlo lavorare, Neiding fu
obbligato a sciogliere le catene del fabbro e a consentirgli i movimenti del
corpo, dovee cercare il modo d’impedirgli di fuggire; ebbe allora la felice
idea di fargli tagliare i tendini dei piedi, considerando molto saggiamente
che il fabbro, per lavorare, si serviva delle mani e non dei piedi.
Ed ecco Wieland, il fabbro agile e felice di tante meraviglie, affranto
dalla disperazione, paralizzato, rannicchiato dietro la fucina, dove doveva
lavorare per accrescere le ricchezze del suo padrone: storpio, zoppo, bruo
quando si raddrizzava. Chi può immaginare l’intensità del suo dolore
allorché pensava all’antica libertà, alla sua arte, alla sua bella moglie? Chi
può immaginare la forza della sua collera contro il re, che gli aveva fao
subire quest’immenso oltraggio?
Dall’officina levava gli occhi pieni di desiderio verso il cielo azzurro, dal
quale era discesa la vergine-cigno; quell’azzurro era il regno beato dov’ella
spaziava volando felice e libera, mentre lui doveva respirare il fumo e i
vapori della fucina a profio di Neiding! ell’uomo insultato, inchiodato
in quel luogo infame, non avrebbe mai più ritrovato la sua sposa!
E siccome doveva essere infelice in eterno, poiché nessuna gioia,
nessuna consolazione potevano fiorire per lui, volle almeno godersi una
cosa: la vendea su quel Neiding che, per un vile egoismo, gli aveva fao
tanto male. Se fosse possibile annientare quel miserabile con tua la sua
razza infame!
Meditò una vendea terribile; di giorno in giorno gli cresceva la
sofferenza, di giorno in giorno il desiderio di vendea si faceva più
imperioso. Ma come avrebbe potuto lui zoppo, storpiato, ingaggiare una
loa per distruggere il suo carnefice? Un passo ardito, audace… ma poi
sarebbe caduto a terra, coperto di vergogna, deriso dal suo nemico!
“Oh, sposa amata e lontana! Se avessi le tue ali! Per saziare la mia
vendea, me ne servirei per scappare dalle grinfie di questo miserabile!”
Allora la necessità sbaè le sue ali nel peo pieno d’angoscia di
Wieland e spirò entusiasmo al suo cervello in meditazione. La necessità, la
terribile necessità onnipotente insegnò all’artista schiavo a inventare quel
che nessuno spirito umano era stato capace. Wieland l’inventò e si costruì
le ali. Ali per innalzare il suo ardimento fino a vendicarsi del suo carnefice,
ali per volare lontano, all’isola felice della sua sposa.
Fece, compì fino all’ultimo quel che una necessità suprema gli aveva
ispirato. Portato dal l’opera della sua arte volò nell’aria, trafisse il cuore di
Neiding con una freccia mortale e, con volo ardito, si levò nell’azzurro e
ritrovò l’amante della sua giovinezza.
Ecco, o popolo unico, eccellente! Ecco quel che hai fao tu, poeta! el
Wieland sei tu stesso. Tempra le ali, e lanciati nel volo!
FINE
1 Wagner usa i termini willkürlich e unwillkürlich dando loro una ricca
varietà di significati. Non è quindi il caso di tradurre alla leera.
Unwillkürlich è infai usato, oltre che nel senso di “involontario”, come
“immediato, necessario, noumenico ecc.”; willkürlich, oltre che per
“arbitrario”, è usato anche come “fenomenico, contingente ecc.” Una
delle maggiori difficoltà del testo è data proprio dall’uso incerto da
parte dell’autore della terminologia filosofica.
2 “Cioè l’arte in generale e l’arte dell’avvenire in particolare.” (N.d.A.)
3 i l’umanitarismo di Feuerbach diventa colleivismo estetico soo
l’influsso delle idee rivoluzionarie già esposte dall’autore in L’arte e la
rivoluzione (Sämtl. Schr, und Dicht., Lipsia, 1911, vol. III, pagg. 8-41).
4 Abbiamo reso col bergsoniano “slancio vitale” il Lebenstrieb del testo
anche per la particolare affinità tra le due concezioni.
5 Wagner ha ereditato dai romantici la diffidenza per le scienze esae, da
lui ritenute pure costruzioni ideologiche dell’uomo, e soprauo
l’antipatia per tuo ciò che è meccanizzazione. In essa egli vedeva un
progressivo livellarsi e quindi degradarsi dell’umanità.
6 La puntata non è anticristiana come sembrerebbe, ma solo
antichiesastica. Cosa Wagner pensasse del cristianesimo è chiaramente
espresso, oltre che nel Tannhäuser, nell’abbozzo Gesù di Nazareth.
Nell’opera delle varie Chiese egli vedeva una deformazione dei principi
cristiani al servizio dell’assolutismo dominante.
7 È l’oimismo di Feuerbach trasferito nel campo dell’arte. Ma più ancora
è il culto della tragedia greca che agisce in lui e che gli suggerirà
l’ideale di Bayreuth.
8 Per “comunismo” Wagner intende l’antitesi di “egoismo”, senza dare al
termine alcun esplicito significato politico. Non diremo tuavia che il
manifesto Marx-Engels del 1848 lo abbia
lasciato del tuo indifferente, specialmente pensando alla particolare
arazione suscitatagli dal nichilismo di Bakunin.
9 Come il globo terrestre è giunto alla sua definitiva armonia dopo una
serie di sconvolgimenti, così l’umanità può giungere a un asseo
definitivo solo araverso una serie di rivoluzioni. Altra concezione
marxistica acceata non certo per caso.
10 Allude alle rivoluzioni del 1848 in Europa.
11 In altri termini il sapere è sintesi tra realtà in ao e realtà non più in
ao, tra presente e passato. Come si vede, non manca un resto delia
tanto disprezzata dialeica hegeliana.
12 Eco viva e chiara della morale kantiana. La grandezza dell’autore delle
Critiche non è mai stata messa in dubbio da Wagner che, al colmo della
sua passione schopenhaueriana, definiva Schopenhauer “il più grande
filosofo dopo Kant” (cfr. Glasenapp, Vita di Riccardo Wagner, vol. III,
pagg. 48-49).
13 “Chi dunque, nei suoi sforzi riformistici, nutrirà meno speranza di
riuscita di chi avanza riforme nel modo più onesto?” (N.d.A.)
14 Notare in questo punto l’influsso dei “reali” herbartiani. Tue le
correnti antihegeliane hanno influito su Wagner, non solo quelle di
Feuerbach e Schopenhauer.
15 La critica dell’idealismo hegeliano è qui durissima. Cfr. la nota leera a
Liszt (Glasenapp, op. cit., vol. II, pag. 349), dove Wagner sostiene che
Hegel ha reso i tedeschi incapaci di formulare un ragionamento che
non sia uno sragionamento.
16 “Perché è il nostro piacere.” In francese nel testo.
17 La moda del tempo è duramente condannata, ma questo felice passo si
può impunemente estendere alla moda di ogni tempo.
18 Il tema del contrasto tra la moda e l’arte è stato felicemente ripreso nel
saggio beethoveniano (Sämtl. Schr. und Dicht., vol. X), dove la
grandezza di Beethoven consiste soprauo nell’aver colto l’eterno
valore dell’arte e nell’averla liberata dalla schiavitù della moda.
19 Allude per l’appunto alle sinfonie di Beethoven.
20 Wagner ha colto da par suo i veri caraeri dell’ecleismo di mal gusto
che avrebbe dominato verso la fine del secolo in tui i campi dell’arte e
di cui il decadentismo è stato la massima espressione. Ciò deve rendere
molto cauti quando si parla d’influssi wagneriani sul decadentismo di
fine secolo.
21 Le allusioni sono chiarissime: la prima è un aacco a Rossini,
notoriamente sceico, che scrisse uno Stabat Mater, su cui Wagner fece
una recensione molto dura (Sämtl. Schr, und Dicht., vol. I, pagg. 217-20)
a conclusione dello scrio giovanile Un musicista tedesco a Parigi. Le
altre sono un aacco all’incipiente moda veristica nel teatro di prosa e
d’opera e più ancora nel romanzo.
22 Che in Wagner le opere di Rousseau abbiano suscitato un largo influsso
anche nella concezione del personaggio di Sigfrido è indubbio. esto
tema, tuavia, non è stato finora studiato a fondo.
23 est’ammirazione illimitata per l’arte greca giunge a Wagner, oltre
che dagli studi direi dell’adolescenza e della prima giovinezza, da tua
una tradizione tedesca che, da Lessing e da Winkelmann, araverso
Hölderin e Goethe, giungerà fino a Nietzsche.
24 Sono le idee di Feuerbach e di Strauss, delle quali si libererà totalmente
araverso una serie di approfonditi studi durante la concezione e la
stesura del Parsifal.
25 È chiaro che per Wagner lo svolgimento della leeratura greca ha un
caraere universale. La tragedia è il culmine massimo, nel quale si
armonizzano tue le correnti poetiche e tue le arti.
26 Kunst (arte) deriva, secondo Wagner, dal verbo können (potere), che, a
sua volta, trae origine dal gotico konnan (sapere). Il vocabolo latino ars
deriva invece dal greco αρω (fabbrico).
27 esta concezione del cristianesimo è tipicamente luterana e
romantica: è l’eco dì un dramma implacabile più che di un sereno
conforto, cui invece cerca di giungere il caolicesimo e, in modo
particolare, il tomismo.
28 esta concezione del linguaggio come essenza misteriosa e
purtuavia razionale della poesia anima anche oggi l’estetica del
surrealismo. In essa, però, l’elemento razionale è del tuo scomparso.
29 Secondo Wagner la genesi della polifonia si ha nel
progressivo distacco dal canto gregoriano e nel sorgere di sempre
nuove forme di canto popolare.
30 esto tema sarà sviluppato esaurientemente in Opera e dramma, dove
l’espressione intera dell’umano sarà data dalla fusione di tue le arti
nell’arte universale. Le arti figurative costituiscono il corpo, la poesia
l’intelleo e la musica il cuore.
31 esta valorizzazione tua romantica del Lied popolare si deve alla
forte impressione suscitata in Wagner giovane dall’opera di Karl Maria
von Weber, nella quale egli vedeva un superamento dell’artificio
melodrammatico mediante un ritorno alle pure fonti dell’anima
popolare.
32 esto giudizio negativo sull’opera, sovrapposizione e non sintesi delle
diverse arti, sarà ripreso in Opera e dramma. Non si può davvero
negare che abbia colto nel segno!
33 La inta sinfonia.
34 È la Sesta sinfonia (Pastorale).
35 La Seima sinfonia, di cui Wagner è stato il primo a cogliere la
grandezza non davvero limitata al secondo movimento, come volevano
i contemporanei.
36 “Sul ritmo del secondo movimento, solenne nella sua andatura,
s’innesta un controtema, che si eleva in un canto lamentoso e
nostalgico. A quel ritmo, che fa sentire incessantemente il suo passo
deciso per tuo il brano, la melodia nostalgica s’avvince come edera
alla quercia. Se non si avvolgesse al tronco robusto, si torcerebbe per
terra in una copiosa dispersione, intricata e confusa. Invece, faasi
ricco ornamento alla nuda corteccia della quercia, acquista una
fisionomia sicura e inconfondibile, che ben si distingue da quella
robusta dell’albero. Con quanta irriflessiva greezza questa trovata
profonda e significativa di Beethoven è stata plagiata dai nostri
compositori strumentali moderni, nella loro illuminata mania di
“controtematizzare’!” (N.d.A.)
37 È impossibile rendere in traduzione l’effeo lessicale del testo prodoo
da on (creta) e Ton (suono).
38 Le parole, come è noto, sono state prese dall’inno Alla gioia di Schiller.
39 Wagner è stato il primo a comprendere la validità della Nona sinfonia
beethoveniana, dai più allora ritenuta di gran lunga inferiore alle
precedenti. Cfr., a proposito, la Relazione
sull’esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven del 1846 (traa dai
ricordi della mia vita) con aggiunto il programma dell’esecuzione stessa
(Sämtl, Schr. und Dicht., vol. II, pag. 62 e segg.).
40 “Chi si proponga di scrivere una storia della musica strumentale da
Beethoyen in poi, dovrà per forza imbaersi in alcuni fenomeni singoli,
indubbiamente degni di menzione perché tali da suscitare un interesse
particolarmente fervido. È vero che chi considera la storia delle arti -
come in questo caso è necessario - da un punto di vista elevatissimo,
deve aenersi ai momenti principali e lasciar da parte quanto a essi è
estraneo o quanto ne deriva. Se però questi fenomeni singoli rivelano
senz’ombra di dubbio una capacità eccellente, ciò significa che, pur
nella sterilità generale di ogni aività artistica, in quel particolare
genere d’arte - per quanto riguarda i progressi tecnici, non certo dello
spirito - è rimasto qualcosa da scoprire, se naturalmente è stato deo
qualcosa di simile a ciò che Beethoven ha deo in musica. Nella grande
opera d’arte universale dell’avvenire ci sarà sempre da scoprire
qualcosa di nuovo; non così in un’arte isolata se questa - come
la musica con Beethoven - sarà traa all’universalità pur perseverando
nella sua evoluzione individuale.” (N.d.A.)
41 esti risentimenti antiebraici di Wagner si
allargheranno nell’opuscolo del 1850 II giudaismo nella musica (Sämtl.
Schr, und Dicht., vol. V, pag. 81 e segg.), al quale è stata aribuita una
portata politica che non ebbe mai. Si traa infai dì una serrata
polemica contro vari critici ebrei che avevano aspramente denigrato le
sue opere e la sua concezione dell’arte.
42 L’orecchiabilità era ritenuta la dote massima di una musica. Proprio per
questo Wagner fu frainteso e duramente criticato ai tempi delle diatribe
tra pseudoverdiani e pseudowagneriani.
43 Secondo Wagner, il culmine dell’arte musicale è stato raggiunto con
Beethoven dopo uno sviluppo naturale, di cui Haydn e Mozart sono
due tappe decisive. Da ciò si deduce come il Nostro non ammeesse
nella musica deviazioni comunque innaturali: a esempio, l’assumere
aeggiamenti narrativi o descriivi isolati dalla poesia o dalle arti
figurative, come avverrà nei poemi sinfonici.
44 “Sebbene mi sia soffermato sull’essenza della musica molto più che
sugli altri generi d’arte da me traati (e ciò è giustificato dal caraere
tuo speciale dell’evoluzione della musica e dal suo procedimento
completamente determinato da questo caraere), debbo tuavia
ammeere che la mia traazione presenta numerose lacune. Non un
libro solo, ma parecchi ne sarebbero necessari per illustrare a fondo
l’immoralità, la mollezza, la nefandezza delle relazioni tra la nostra
musica moderna e il pubblico, per meere a nudo quegli aspei
sfacciati e ultrasentimentali che la rendono un oggeo di
speculazione in mano ai nostri ‛moralizzatori del popolo’, che, per
‛educare il popolo’, mescolano il miele della musica all’acre sudore
dell’operaio traato male, come unico conforto alle sue sofferenze, su
per giù alla stessa maniera in cui i nostri saggi uomini di stato e di
Borsa cercano di tamponare con i malleabili stracci della religione tue
le crepe che acuiscono la loro preoccupazione poliziesca per il
benessere degli uomini. Ciò spiega il doloroso fenomeno psicologico
per cui un individuo, oltre che vile e malvagio, può anche essere un
cretino completo, senza che ciò gl’impedisca di diventare un musicista
più che rispeabile.” (N.d.A.)
45 Dichten (poetare) è termine tedesco moderno, tichten è termine antico,
ancora in uso nel secolo XVII.
46 Da questo breve esempio si ha un’idea dell’importanza che Wagner
aribuiva all’assonanza tra le radici delle diverse parole, dal cui
accostamento - il cosiddeo Stabreim - scaturiva, a suo parere, la forma
espressiva più genuina. esta tecnica, tipica dell’antica poesia tedesca,
fu largamente usata nei testi poetici dell’Anello del Nibelungo.
47 La “trinità” artistica wagneriana è dunque costituita dalle tre arti: arte
della danza (Tanzkunst), che ha come sfondo le arti figurative; arte del
suono (Tonkunst), nata dal sentimento e per il sentimento; e arte del
poetare (Tichtkunst), il cui elemento razionale rende comprensibile
l’essenza dell’arte universale.
48 esto conceo è espresso anche, con molta efficacia, nel terzo ao dei
Maestri cantori per bocca di Hans Sachs (vv. 2049-2055).
49 Wagner, per quanto riguarda la questione omerica, si aiene all’idea del
Vico, ripresa e confermata dal filologo Friedrich August Wolf. Oggi i
filologi sono invece propensi ad ammeere la reale esistenza di Omero.
50 Anche l’anonimo autore del Nibelungenlied sarebbe dunque un
raccoglitore di canti trasmessi da una tradizione orale. est’idea era
stata largamente diffusa dalla vasta ripercussione suscitata in tuo il
periodo romantico dai Canti di Ossian del Macpherson.
51 Anche questa concezione è completamente luterana: il caolicesimo
non ha mai fao un dramma dell’esistenza del corpo.
52 Concezione veramente dantesca. Nei culmini del genio non solo si
spezzano i confini tra arte e arte, ma anche quelli tra arte, scienza e
filosofia.
53 Dal popolo uscirono infai i cantori d’amore (Minnesänger), il massimo
dei quali, Walther von der Vogelweide, fu intensamente studiato da
Wagner, e più tardi i maestri cantori (Meistersinger), cui Wagner ha
dedicato una delle sue composizioni più appassionate e perfee.
54 esto Wagner sentì di poter raggiungere nella composizione
dell’Anello del Nibelungo. È il caso di precisare come le idee qui esposte
e riccamente ampliate in Opera e dramma siano sorte in lui dal
tormento interiore che dee vita alla Tetralogia, e non viceversa.
Sarebbe infai un grave errore voler vedere nell’opera poetico-musicale
un tentativo di applicazione di idee estetiche concepite in precedenza.
55 Allude a un noto episodio della vita di Goethe. Venuto a contrasto col
suo proteore Carlo Augusto duca di Weimar perché quest’ultimo
voleva che fosse condoo sulle scene un can barbone, dee le
dimissioni da direore del teatro e non volle tornare all’incarico
nemmeno dopo le più ampie scuse del duca.
56 Riteniamo che non manchi un’allusione a Heinrich von Kleist,
considerato il drammaturgo “prussiano” per eccellenza.
57 Le maggiori raccolte di liriche popolari si debbono a Johann Gofried
von Herder. Ma qui è chiara l’allusione alle prime scoperte della lirica
greca dovute ai filologi del tempo e che Wagner riteneva lirica popolare
per eccellenza.
58 Il pubblico, nella tragedia greca, araverso l’azione del coro Si sentiva
quasi protagonista: di qui il caraere popolare di dea tragedia e il suo
grande merito di aderire alla vita dell’epoca in cui fu generata. Circa il
conceo che Wagner ebbe del pubblico, cfr. anche il breve saggio del
1878 Pubblico e popolarità (Sämtl. Schr, und Dicht., vol. X, pag. 201 e
segg.).
59 È naturale che Wagner, ritenendo arte somma la tragedia greca e il
dramma shakespeariano, veda Schiller alquanto sovraccarico di
sentimentalismo e disprezzi profondamente i drammi borghesi e
faciloni di August Wilhelm Iffland (1759-1814), che allora andavano per
la maggiore. Un’acuta satira di Iffland la troviamo anche nella
commedia Il gao con gli stivali di Tieck.
60 A questa musica religiosa protestante e soprauo ai drammi della
Passione dobbiamo, se non altro, l’arte di Johann Sebastian Bach, il cui
capolavoro religioso è La passione secondo Maeo.
61 “Tra questi bisogna tenere un conto particolare dei maestri della scuola
francese sorta all’inizio di questo secolo.” (N.d.A.)
62 Più che alia nuova religione dell’umanità sostenuta da Feuerbach
penseremmo, tenuto conto del Gesù di Nazareth, a un cristianesimo
laico socialisteggiante alla maniera di Saint-Simon.
63 All’origine naturalistica del politeismo Wagner unisce una origine
estetica, che molto risente delle concezioni neoclassiche fae proprie
dal romanticismo.
64 Dodona, cià della Tesprozia, in Epiro, è la più antica sede del culto di
Giove. Non vi era ancora alcun tempio, ma solo un bosco di querce,
dalle cui foglie, agitate dal vento e rumoreggianti, i sacerdoti traevano
oracoli.
65 Gli orfici furono una sea misteriosa di mistici, i cui culti si facevano
risalire al mitico Orfeo.
66 Allude alle spedizioni di Alessandro Magno, il cui impero è condannato
perché assolutistico e oppressore dì popoli.
67 “È indubbio che provvedere al necessario è la prima cosa e la più utile
di tue. Nessun’epoca che sia consapevole di questa verità può
sacrificare l’indispensabile per dar vita alla bellezza. Ma far dell’utile
l’unica norma valevole in tui gli aspei della vita pubblica, arte
compresa, è un fao che dimostra come l’epoca che così si comporta sia
quanto mai barbara. Ora solo una civiltà artefaa e innaturale è capace
di generare una barbarie tanto assoluta da consentirle dì sempre
e dovunque creare ostacoli dinanzi all’utile per far vedere che solo
l’utile le sta a cuore.” (N.dA.) Siccome questo apprezzamento si riferisce
al mondo romano, non si può fare a meno di rilevare una certa affinità
con le valutazioni del Mommsen.
68 Il mondo greco è “serenità”; quello romano “fredda pratica” e “amore
asiatico del fasto.” Concezione tipica del neoclassicismo germanico, che
avrà più tardi ampio sviluppo nella Storia di Roma del Mommsen.
69 esto vedere il Medio Evo con gli occhi del Rinascimento e della
cultura classica italiana è indubbio fruo dell’educazione classica
datagli dallo zio Adolf Wagner ai tempi dei primi studi.
70 “Usare questo vocabolo è pericoloso e c’è da avere noie con la polizia.
Non mi sembra tuavia che ne esista un altro che renda meglio e più
perfeamente l’opposto di egoismo. indi chi oggigiorno si vergogna
di passare per egoista - e nessuno vuole esser preso per tale
apertamente - deve essere ben lieto di sentirsi definire comunista.”
(N.d.A.)
71 Errore storico assai comune. Gli spartani non sopprimevano i fanciulli
deboli o deformi, ma li esponevano se figli di spartiati. I perieci e gli
iloti potevano allevarli liberamente.
72 “La redenzione della donna nella partecipazione alla natura virile è
opera dell’evoluzione cristiano-germanica; i greci Ignorarono il
processo psichico d’una logica e nobile mascolinizzazione della donna.
Per loro tuo appariva come si manifestava immediatamente e
direamente: la donna era donna e l’uomo uomo. Per questa ragione,
naturalmente soddisfao il desiderio della donna, subentrava il
desiderio dell’uomo.” (N.d.A.) Su questo difficile tema, nel quale l’autore
intendeva dimostrare come solo la spiritualità cristiana e germanica
abbia elevato la donna al di sopra del tradizionale grado di femmina,
Wagner tornò alle soglie della morte. Il pomerìggio del 13 febbraio
1883, infai, quando si spense all’improvviso, stava componendo un
articolo intitolato appunto Del femminino nell’umano (Sämtl. Schr, und
Dicht., vol. XII, pag. 106).
73 La poesia lirica dorica (Alcmane, Stesicoro, Ibico, Simonide, Bacchilide)
è scoperta molto recente: Wagner non potè conoscerla.
74 Allude alla breve e tu’altro che felice fioritura della tragedia in
Alessandria a opera dei Tolomei: i cosiddei poeti della “Pleiade
alessandrina”. Delle loro tragedie sono giunte pochissime notizie.
75 Era logico che Wagner, tuo preso dalla filosofia del concreto,
considerasse puro astraismo il pensiero di Aristotele.
76 Ancora chiaro l’influsso di Feuerbach (Essenza delle religioni, 1845) e
della Vita di Cristo di David Friedrich Strauss (1835).
77 Altro contao col naturalismo rousseauiano.
78 “Il compito di un edificio destinato a essere teatro dell’avvenire deve
essere considerato completamente al di fuori di quelli che sono i teatri
moderni. In questi regnano idee e leggi inveterate che non hanno
niente a che fare con l’arte pura. Dove l’influenza decisiva è esercitata,
da un lato, dal desiderio di far quarini e dall’altro dalla ricerca del
lusso, è logico che gli interessi assoluti dell’arte debbano essere violati
nel modo più sensibile e che non ci sia architeo al mondo che possa, a
esemplo, trasformare in legge di bellezza la sovrapposizione e la
ripartizione degli ambienti destinati agli speatori secondo le caste
sociali e la suddivisione del pubblico nelle più svariate classi di
ciadini. Si pensi al locale comune del teatro colleivo dell’avvenire, e
non si farà fatica a comprendere come un campo d’imprevista ricchezza
sia aperto all’invenzione umana.” (N.d.A.) Da ciò si vede come già nel
1849 fosse in germe quello che sarà poi l’ideale di Bayreuth.
79 “Per un moderno piore di paesaggi non può essere indifferente il fao
che, al giorno d’oggi, ben pochi capiscono la sua opera, né con quanto
ousa e imbecille soddisfazione considerino un suo quadro della natura
quei filistei che glielo pagano. Il bel paesaggio soddisfa solo la loro
curiosità frivola, ma non ne provano alcun bisogno. Una soddisfazione
analoga cercano nella musica moderna gli stessi individui, il cui
orecchio non è davvero sollecitato dalla gioia che non sia la
grea soddisfazione, che suona offesa per l’artista proprio perché
corrisponde in tuo e per tuo alle intenzioni dell’industriale. Tra il
‘bel paesaggio’ e la ‘musica graziosa’ del nostro tempo esiste una ben
triste parentela: il loro comune autore non è davvero l’idea seria, ma
una faciloneria duile e Impudica che egoisticamente allontana lo
sguardo dalle sofferenze umane che dovunque si vedono, per elevarlo
in un pìccolo cielo privato che per loro è l’azzurro dell’universale
natura. esta brava gente vuol vedere tuo, sentire tuo tranne
l’uomo vero e non deformato, che si leva, come un rimorso, al culmine
dei loro sogni. E quell’uomo è proprio ciò che vogliamo meere in primo
piano!” (N.d.A.)
80 Il gigante Anteo, figlio della Terra, riprendeva sempre nuova forza
appena toccava con i piedi la terra madre. Eracle potè vincerlo solo
soffocandolo con una strea dopo averlo sollevato dal suolo.
81 esta condanna si può estendere con buone ragioni a tue le forme
occasionali dell’arte antiche e moderne.
82 “Il poeta drammatico moderno avrà tue le difficoltà del mondo a
permeere che il dramma non debba più appartenere esclusivamente al
suo genere d’arte, e cioè alla poesia, e soprauo non si rassegnerà mai
a collaborare con il compositore, perché a suo parere, se così fosse, il
dramma dovrebbe sfociare nell’opera. Invece, fin che esisterà l’opera, il
dramma avrà tue le ragioni per esistere, né più né meno che la
pantomima; finché è ancora pensabile una discussione su ciò, tue
le porte sono chiuse per il dramma dell’avvenire. Il dubbio
più profondo è dalla parte del poeta, che non può rendersi conto
in alcun modo del perché il canto debba prendere del tuo e in ogni
circostanza il posto del dialogo recitato. Gli rispondiamo che, per due
chiare ragioni, non ha ancora capito che cosa sia il dramma
dell’avvenire. In primo luogo non considera che, in quest’opera d’arte,
la musica avrà funzioni completamente diverse da quelle che ha
nell’opera moderna; essa, infai, non deve svilupparsi dappertuo
come ora che ha la parte del leone, ma deve chinare la fronte tue le
volte che la cosa più necessaria è il linguaggio drammatico. La musica
ha tuavia dirio, senza mai ridursi al silenzio, di modellarsi sul
linguaggio drammatico tanto insensibilmente da dar l’idea di
lasciarlo completamente libero anche se lo sostiene. In secondo
luogo, se il poeta si convince di questo, deve tener presente che le idee
e le situazioni, nelle quali anche il minimo concorso della musica
parrebbe importuno e indiscreto, sono sempre improntate alla
concezione del dramma moderno, ma nell’opera d’arte dell’avvenire
non avrebbero più alcuna ragion d’essere. L’uomo che raffigurerà se
stesso nel dramma dell’avvenire non avrà più nulla in comune con i
banali pastrocchi, pieni d’intrighi prosaici, tanto cari alla moda di oggi
e che i nostri poeti limano amorosamente in tui i deagli. Il suo modo
naturale d’agire e di parlare consiste in un sì o in un no. indi
ogni deaglio è una stonatura, è moderno e quindi superfluo.” (N.d.A.)
83 “i ci sia concesso di comprendere il poeta dei suoni nel poeta della
parola; se nella stessa persona o in collaborazione non ha importanza.”
(N.d.A.)
84 Mentre, come filosofo, scrive queste pagine, come artista Wagner è
ancora immerso nell’atmosfera della morte di Sigfrido, este parole
corrispondono in pieno al finale della Morte di Sigfrido.
85 “Come finora abbiamo traato l’elemento tragico dell’opera d’arte
dell’avvenire nel suo sviluppo trao dalla vita mediante
un’associazione artistica, così possiamo trarre conclusioni intorno al
suo elemento comico, mutando le condizioni che fecero sorgere
l’elemento tragico come una necessità. L’eroe della commedia è
l’opposto di quello della tragedia. Mentre l’eroe tragico, essendo
comunista (il che significa un individuo che, per la forza della sua
natura, s’immerge nella comunità per una necessità intima e libera),
partecipa spontaneamente del suo ambiente e dei suoi contrasti, l’eroe
comico, egoista e nemico della comunità, farà di tuo per distaccarsene
o per piegarla ai suoi voleri, ma, malgrado ogni sforzo, sarà combauto,
premuto e infine vinto dalla comunità stessa nelle forme più varie e
variabili. Siccome l’egoista è costreo a immergersi nella comunità,
questa è come una persona multipla che agisce realmente e che per gli
egoisti - i quali vogliono sempre agire e non ci riescono mai - ha tua
l’apparenza di un caso che si muta arbitrariamente finché la comunità
non riesce ad afferrarlo e chiuderlo in un cerchio ristreo. Alla fine,
con l’acqua alla gola, egoista com’è, cerca l’estrema salvezza nel
riconoscimento pieno della necessità della vita comune. L’associazione
artistica che rappresenta la comunità avrà così nella commedia una
partecipazione alla poesia anche più direa che nella tragedia.” (N.d.A.)
86 La politica è perciò nea antitesi della poesia in quanto, essendo
oppressione tanto se domina uno solo, quanto se domina una comunità
qualsiasi, distrugge ogni immediatezza, quindi ogni libertà.
87 “E particolarmente anche le nostre istituzioni teatrali moderne.” (N.d.A.)
88 “Chi non è capace di liberarsi dagli aspei triviali e innaturali della
nostra arte moderna, porrà le domande più assurde rispeo a questi
particolari. Manifesterà dubbi, non vorrà e non potrà capire. Ma
nessuno pretenderà in questa sede una risposta anticipata alle mille
possibilità di dubbi e obiezioni del genere da parte di chi si rivolge solo
all’artista che pensa e non all’indegna marmaglia degl’industriali
dell’arte, s’interessino essi di leeratura, di critica o semplicemente di
produzione.” (N.d.A.)
89 Il raccoglitore delle Sämtl. Schr, und Dicht, annota a questo punto (vol.
III, pag. 174) che Wagner allude ai recenti avvenimenti della Comune di
Parigi.
90 L’antica leggenda germanica del fabbro Wieland ha suggerito a Wagner
l’abbozzo d’un poema mai scrio né musicato, ma efficacissimo nei
trai essenziali che ne restano. Cfr. Il fabbro Wieland come progeo di
dramma (Sämtl. Schr, und Dicht., vol. III, pag. 178 e segg.).
91 La leggenda delle vergini-cigno è molto simile a quella delle Walkirie.
Si traa infai di esseri sovrumani che raramente cedono all’amore
terreno degli uomini.