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RICCARDO WAGNER

L’OPERA D’ARTE DELL’AVVENIRE

Rizzoli Editore
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
(c) 1963 Rizzoli Editore, Milano

Titolo originale dell’opera:

DAS KUNSTWERK DER ZUKUNFT

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ALFIO COZZI

Data della prima edizione B.U.R.

della presente opera: maggio 1963

PRINTED IN ITALY
Con questa operea, scria nel 1849, Wagner si
proponeva di rivoluzionare l’intero conceo di «arte»,
riportandolo all'ideale che egli ravvisava nel  teatro
greco: arte del popolo,  faa e vissuta dal popolo e
per  il popolo, e comprensiva a un  tempo di tue le
forme artistiche: la poesia, la danza, la  piura, la
scultura e la musica. esto ideale egli cercherà  di
realizzare nelle sue opere  liriche. Il polemico
opuscolo, scrio con romantico ardore, è dunque utile
ad approfondire la comprensione dell’arte e della
figura di Wagner.
INDICE

Nota    

I. L'UOMO E L'ARTE IN GENERALE


1.    La natura, l’uomo e l’arte
2.    La vita, la scienza e l’arte
3.    Il popolo e l’arte
4.    Il popolo, forza condizionatrice dell’opera d’arte
5.     Conformazione sfavorevole all’arte della vita  auale soo il regime
dell’astrazione e della moda
6.    Misura dell’opera d’arte dell’avvenire

II L’UOMO-ARTISTA E L’ARTE CHE SI ORIGINA DIRETTAMENTE DA


LUI
1.    L’uomo come oggeo e come soggeo artistico di se stesso
2.    Le tre specie d’arte puramente umane nella loro unione originaria
3.    La danza
4.    La musica
5.    La poesia
6.    Tentativi fai fino a oggi per riunire i tre generi dell’arte umana

III. COME L’UOMO-ARTISTA CREA SERVENDOSI DELLA MATERIA


NATURALE
1.    L’architeura
2.    La scultura
3.    La piura
IV.     PRINCIPI FONDAMENTALI DELL’OPERA D’ARTE
DELL’AVVENIRE

V.    L’ARTISTA DELL’AVVENIRE

Note 
NOTA

Wilhelm Richard Wagner nacque a Lipsia il 22 maggio del 1813, ultimo di


nove figli. Il padre, Federico, era un modesto cancelliere di polizia e
appassionato del teatro; la madre, Giovanna Bertz, di temperamento gioviale
nonostante le ristreezze domestiche, fu  la prima  inconsapevole musa del
figlio.
ello stesso anno, il 2 di novembre, Wagner restava orfano del padre: il
cancelliere aveva perduto la vita  nell’epidemia di tifo che, dopo la grande
sconfia napoleonica, decimava la popolazione germanica. Un anno dopo la
madre sposava un amico del marito: il piore e aore Ludovico Geyer. Fine
di temperamento, sensibile ed  eleo cultore dell’arte anche se non ricco di
dorina, il Geyer comprese il talento del fanciullo. Non sapeva quali fossero
le sue tendenze: se la piura, le leere o la musica; né si scoraggiava quando
i vari maestri glielo definivano come uno svogliato e un ribelle.
Ma anch’egli era destinato a rapida fine. Moriva infai nell’autunno del
1821. el giorno il piccolo Riccardo aveva suonato qualcosa al pianoforte.
“Che sia portato per la musica?” disse il morente alla madre.  Tali parole
parvero una profezia.
Alla Kreuzschule di Dresda, però, dove s’era iscrio nel 1822, il ragazzo
dimostrava ben diverse passioni: la leeratura e particolarmente la mitologia
greca erano il  suo mondo. Traduceva Omero con foga, primeggiava
nel  comporre, anche se non era dei più studiosi: il tempo  libero lo dedicava
alla madre, alle sorelle predilee  Cecilia e Rosalia, al cane, ai gai, agli
uccelli. E quest’amore per gli animali fu una nota costante del
suo temperamento.
Con l’adolescenza cominciarono le grandi passioni: in  primo luogo la
musica di Karl Maria von Weber, nelle cui note sentiva la natura e l’anima
del suo popolo;  poi Shakespeare, infine Beethoven. Rivelazioni colossali  e
improvvise che si sarebbero risolte in vampate effimere forse se al fianco di
Riccardo non ci fosse stato lo zio Adolfo. Leerato, amico del Goethe,
italianista insigne, rivelò al nipote, oltre Dante e il Petrarca,  i grandi del
nostro Rinascimento: l’Ariosto, il Tasso, Giordano Bruno, di cui aveva tradoo
intere le opere; l’arte italiana, insomma, che così vivo serbava il senso latino
del perfeo e del limite, capace di dare ai sogni la fisionomia d’una splendida
realtà.
A quaordici anni, fanatico di Shakespeare, Wagner scriveva un
Leobaldo e Adelaide con ben quarantadue  morti in quaro ai che, nel
quinto, avrebbero dovuto  comparire come speri; a dicioo, superato per
sempre  il gusto dell’orrido rivelato dal tema esageratamente  tragico
dell’opera Le nozze, scrisse quasi di geo Le  fate, in cui parole e musica,
anche se non prive d’ingenuità, risentono del sole mediterraneo. La trama
è  tolta da La donna serpente di Carlo Gozzi, ma un’eco  delle Stanze del
Poliziano non sfugge a una leura aenta. Come compositore, la sua prima
Ouverture in Si  bemolle, marcata da colpi di grancassa, aveva
suscitato  l’ilarità più sfrenata nel pubblico di Lipsia (era stata eseguita
anonima per non far sapere che l’autore aveva diciassee anni); ma la
riduzione per pianoforte della  Nona Sinfonia di Beethoven, l’Ouverture Re
Enzio e, per tacere di altre composizioni minori, la Sinfonia in Do maggiore,
facevano già di lui una sicura promessa.
ando componeva Le fate, la sua vita di teatro era già cominciata: era
maestro dei cori all’Opera di Würzburg. La vita era dura, il denaro sempre
meno, ma la  volontà di creare immensa. Con ardore polemico egli riteneva
ipocrita e affeato il pubblico dei teatri, convenzionale la musica in voga,
spesso scria col solo fine  di solleticare il malgusto dell’alta società. Certe
idee libertarie senza freno, come quelle della Giovane Europa  del Laube o
dell’Ardinghello dello Heinze, erano tuo  il suo mondo: di qui scaturì quel
Divieto d’amore degli  anni 34-36, ambientato nella calda Sicilia, sfrenato
nelle  parole e nella musica, che avrebbe dovuto bollare a  fuoco certi bravi
moralisti tedeschi messi in berlina nel  governatore Friedrich. alcosa di
simile farà più tardi  col Beckmesser dei Maestri cantori. A Magdeburgo
l’opera fu rappresentata in circostanze comiche e drammatiche insieme, e la
seconda rappresentazione, a teatro  vuoto, fu sospesa per una violenta rissa
scoppiata tra gli aori. Ma a Magdeburgo Wagner aveva trovato, se non la
gloria o la ricchezza, la prima compagna della sua  vita: l’arice Minna
Planer. Maggiore di lui di qualche  anno, aveva avuto vicende alquanto
burrascose, e una  figlia, Natalia, che faceva passare per sorella
minore;  Wagner ne fu preso disperatamente. ando lasciò Magdeburgo,
ossessionato dai creditori, e fuggì a Koenigsberg, essa fu l’unica àncora cui
potesse. aggrapparsi. Il 24 novembre 1836 la sposò.
Cominciò così quell’odissea matrimoniale che, tra alti e bassi, durò per
oltre cinque lustri. Spaventata dalla  miseria, Minna fugge con un ricco
commerciante di Amburgo, ma, quando torna, Wagner la riaccoglie
insieme alla piccola Natalia; con lei scappa da Riga, dove era stato direore
d’orchestra, si imbarca clandestinamente su un baello direo a Londra; una
tempesta sulle coste norvegesi gli fa ideare Il vascello fantasma. Nel 1839 è
nella Parigi di Luigi Filippo con grandi speranze: ha composto il Rienzi, una
“grande opera”; conta sull’aiuto di Meyerbeer, che l’incoraggia, ma ben poco
fa per lui. Con una febbre di lavoro immensa scrive un po’ di tuo: articoli,
riduzioni per banda, recensioni; si contenta perfino che il suo Vascello, il cui
testo poetico era  completato nel 1841, venga musicato da un altro: ma  la
miseria continua: Minna non sa più come fare per avere un pezzo di pane a
credito. Nel colmo della sventura, gli giunge finalmente dalla patria una
buona notizia: il Rienzi è acceato a Dresda. Nel 1842 Wagner araversa il
Reno, torna alla cià della giovinezza: il successo pieno, indiscusso dell’opera,
gli frua il titolo di Kapellmeister.
Iniziano anni felici di lavoro fecondo. Minna ha una casa tua sua,
l’aività di Riccardo prosegue con un  ritmo vertiginoso. Dirige quasi
quotidianamente opere  e concerti, il suo nome di compositore si afferma:
nel 1842 trionfo del Rienzi, nel 1843 prima esecuzione dell’Olandese volante
(da noi denominato tuora Vascello fantasma,), nel 1845 Tannhäuser. Ma il
pubblico non lo capisce, la critica gli è sempre più ostile, più forti diventano
le inimicizie nell’ambiente cortigiano. Si ha la sensazione - e anche Minna è
d’accordo con i suoi “detraori” - che dopo il primo successo la sua arte sia
scaduta;  la sua musica è definita assurda, rivoluzionaria; anche  la sua
direzione, malgrado il favore del pubblico, viene  stroncata dalla critica. Nel
1848 il Lohengrin, nel quale aveva riposto tue le sue speranze, gli è rifiutato
dalla direzione del teatro. È la roura definitiva con la Sassonia.
Allora si dà a scrivere opuscoli polemici, tra i quali La rivoluzione, che
risente del nichilismo del Bakunin. E quando, nel 1849, la rivoluzione scoppia
davvero, Wagner è tra i più accesi; sfugge per miracolo alla caura, e solo il
buon cuore di Liszt gli concede di raggiungere la  Svizzera. Il Lohengrin,
direo dall’amico fedele, trionferà a Weimar, ma non gli aprirà le porte della
Germania.
A Zurigo, intensa aività di saggi e di concerti. Vagheggia la sua grande
opera sul mito nibelungico: ha già scrio una Morte di Sigfrido, le fa seguire
a ritroso un Giovane Sigfrido. La creazione in germe gli suggerisce le opere
estetiche: L’arte dell’avvenire, Opera e dramma. Nel 1852 L’oro del Reno è
compiuto, nel 1854  già L’anello del Nibelungo ha raggiunto la forma
definitiva: un prologo, L’oro del Reno, e tre giornate; Walkiria, Sigfrido e Il
crepuscolo degli dèi. Le due prime partiture sono terminate entro il 1856; ma
l’anno dopo, interroa al secondo ao la composizione del Sigfrido, Wagner
lascia Zurigo per Venezia. Il grande amore nutrito in quegli anni per Matilde
Wesendonk, moglie di  un commerciante zurighese, è spezzato dopo una
scenata  di Minna. e a Venezia Wagner lo rivive componendo il  Tristano e
Isoa.
Gli anni che vanno dal 1859 al 1864 furono tra i più dolorosi della vita di
Wagner. Il Tristano era rifiutato da tui i teatri perché ineseguibile; i pochi
denari avuti  dagli editori finiti, i debiti sempre più gravosi; la loa,  dopo
ogni sosta, si riaccendeva più forte tanto a Magonza quanto a Vienna o
altrove. I lunghi viaggi per l’Europa come direore di concerti furono appena
un  palliativo. Un uomo come lui, dalle mani bucate, non  poteva darsi una
stabilità economica. Da Penzing presso Vienna, braccato dai creditori, giunse
fino al Reno, dove la sua buona stella gli fece incontrare il messo del nuovo re
di Baviera, Luigi II, che l’invitava alla sua corte. Fu la liberazione dai debiti,
il trionfo della sua arte, ma non la pace desiderata.
Sui suoi rapporti con Luigi II si sono scrii romanzi di tui i generi, ma
un solo fao è certo: che per quella protezione gli fu possibile rappresentare il
Tristano, nel 1865, e, tre anni dopo, I maestri cantori di Norimberga.
Si stabilisce di nuovo in Svizzera, a Triebschen. Al suo fianco vive ormai
Cosima Liszt, figlia del grande  pianista e moglie del direore d’orchestra
Hans von  Bülow. Minna è morta da qualche anno, Bülow ha acceato il
divorzio. Nel ’70 Wagner e Cosima si sposano;  dall’unione nascono Isolde,
Eva e Sigfrido.
Con la composizione, finalmente ripresa, del Sigfrido, Wagner vagheggia
la creazione di un teatro wagneriano a Bayreuth. L’abilità di Cosima, il
sempre maggiore successo della sua musica, il costante affeo del  re, ma
soprauo la spontanea devozione del popolo  all’arte nuova esaudiscono il
suo sogno. Nell’agosto del  1876, l’intera Tetralogia fu rappresentata a
Bayreuth di fronte a un pubblico eleo.
In quegli anni Wagner aveva avuto la viva amicizia di Federico Nietzsche,
il poeta filosofo del superuomo. La musica del Tristano gli aveva suggerito il
primo saggio: La nascita della tragedia dallo spirito della musica.  Ma
Nietzsche aveva visto solo il Wagner “dionisiaco” della passione prorompente
di Tristano, che culminava  nella morte. Non comprese quindi il Wagner di
Bayreuth  e tanto meno il suo giungere a un universale cristiano,  quasi
dantesco, con la sua ultima fatica, il Parsifal, composto tra il 1877 e il 1882
dopo felici ritorni nel clima italico a lui tanto caro: a Siena trovò infai il
tempio del Graal, a Rovello il giardino incantato di Klingsor.
Nell’estate del 1882 il Parsifal fu rappresentato a Bayreuth con enorme
successo. Ma Wagner era stanco. Tornò in Italia, a Venezia, e qui un aacco
cardiaco lo spense al suo tavolo di lavoro, il 13 febbraio 1883.
“Il mondo parve sminuito di valore” scrisse D’Annunzio rievocando la sua
morte, e Verdi, all’annuncio improvviso, scriveva nel suo diario: “Triste, triste,
triste; Wagner è morto! Leggendone ieri il dispaccio ne fui,  sto per dire,
aerrito. È una grande individualità che è scomparsa. Un nome che lascerà
un’impronta potente nella storia dell’arte”.
Nell’immensa bibliografia wagneriana, l’opera musicale è stata messa in
così alto rilievo da far dimenticare non solo l’opera critica, ma perfino i testi
poetici che, nell’opinione di molti, sono restati “librei” o poco più. E  se la
poesia e il pensiero di Wagner sono stati, specialmente in Germania, oggeo
di aenzione, ciò è avvenuto  con un tale bagaglio di presupposti
nazionalistici, pseudofilosofici e anche razziali, che non é azzardato,
oggi,  sostenere che il Wagner poeta e pensatore è ancora un  campo
inesplorato. In Wagner, il  poeta, il  pensatore  e il compositore formano un
tuo unico, e spingere le  indagini su un solo aspeo della sua opera
conduce necessariamente a una visione parziale di essa, e quindi a lacune, a
luoghi comuni e a colossali incomprensioni.
La grandezza della musica wagneriana non deriva infai solo da
un’esperienza musicale, ma da tua una serie di esperienze, che vanno dalla
solida preparazione  umanistica degli anni primi, alla meditazione
filosofica di tua una vita, agli echi d’infinite leure, di cui fece tesoro la sua
arte non meno che la sua cultura. Shakespeare e Sofocle, Dante e Goethe non
furono meno presenti al suo spirito di Bach e di Beethoven. Né la
poesia costituì per lui una minore aività rispeo alla musica, le cui origini
sono sempre da ricercarsi nell’armonia ideale di un testo poetico dal quale è
inscindibile. Alimento perenne di tale aività poetico-musicale è il pensiero:
il bisogno costante di cogliere con l’intelleo l’essenza di quanto creavano in
lui la fantasia e il sentimento, di rendersi conto per primo di quell’arte, che
i suoi contemporanei combaevano con tanto accanimento.
Da questo sforzo sono nate le sue opere di pensiero che, nella loro stesura,
nella stessa forma a volte tormentata e convulsa, rivelano l’esistenza di
questo bisogno.  È significativo notare, in proposito, che le punte
massime  dell’aività filosofica wagneriana coincidono proprio con le svolte
decisive della sua arte, e precisamente con la  creazione dell’Anello del
Nibelungo e del Parsifal.
Composto, nel 1845, il Lohengrin, araverso un approfondimento della
Nona sinfonia di Beethoven da lui direa a Dresda l’anno dopo, concepisce
ben più saldi legami tra musica e poesia di quelli fino ad allora stabilitisi
nell’opera tradizionale: in questo stato d’animo nasce  L’anello del
Nibelungo, la cui stesura poetica si estende  del 1848 al 1852 e la cui
composizione musicale, strumentazione compresa, va dal 1853 al 1874, con
un’interruzione di circa oo anni, durante la quale videro la luce il Tristano
e Isoa e I maestri cantori di Norimberga. Era quindi naturale che gli anni
dal 1848 al 1852 fossero particolarmente caraerizzati da un’intensa
aività  di pensiero. È infai del 1848, oltre vari scrii di natura  politica
ispirati alle rivoluzioni europee di quell’anno, il  saggio I Nibelunghi, storia
universale della saga, indispensabile per penetrare lo spirito del poema
nibelungico che si accingeva a scrivere; sono del 1849 L’arte e la rivoluzione,
L’opera d’arte dell’avvenire e una proposta di riforma del teatro; del 1850 Il
giudaismo nella musica e Arte e clima; del 1851 Opera e dramma; del 1852
una leera aperta al direore della “Neue Zeitschri ür Musik” sulla critica
musicale, oltre un’interessante serie  di scrii minori di natura critica e
autobiografica, di  polemiche e recensioni, tra cui quella Comunicazione
ai miei amici, che è quasi la premessa del nuovo mondo che, per opera sua,
sorgeva da tue le arti riunite nel Wort-ton-drama.
Una pari intensità di lavoro soolinea, tra il 1877 e il 1882, la nuova e
ultima svolta della sua arte rappresentata dal Parsifal: l’ideale di Bayreuth, il
suo ritorno a una concezione cristiana, le sue idee sulla compassione e sulla
rigenerazione dell’umanità in senso puramente  religioso sono oggeo di
opere interessantissime come  Pubblico e popolarità, Il pubblico nel tempo e
nello spazio, ambedue del 1878; Sul poetare e sul comporre
e Sull’applicazione della musica al dramma, del 1879, dove si confermano e
approfondiscono quei legami tra le arti  Massime già da lui lumeggiati
durante la composizione dell’Anello; e finalmente Religione e arte, del 1880,
la cui  leura è indispensabile per chi intenda penetrare fino in fondo
l’atmosfera mistica del Parsifal.
Nel tormento del pensiero si afferma e vive la poesia, dal cui spirito
emana lo spirito della musica, inscindibile dalla poesia stessa che gli ha dato
la vita e dalla scena, corpo indispensabile dell’azione. Senza questa  visione
d’insieme, l’opera wagneriana resta qualcosa di monco e di oscuro.
Uno scrio di decisivo valore per cogliere l’essenza di questo spirito è
proprio L’opera d’arte dell’avvenire (Das  Kunstwerk der Zukun). Il suo
spunto occasionale deve  ricercarsi nelle rivoluzioni del 1848, alle quali
Wagner  partecipò con la passione dell’artista più che con la  convinzione
dell’uomo politico: se si esamina infai la  sua concezione, estetica e
umanitaria insieme, si nota  subito che Wagner per “politica” intese sempre
qualcosa di innaturale, di artificioso, di antiumano. Che  tale spirito
rivoluzionario sia stato alimentato dalla recente leura dei traati di Ludwig
Feuerbach non v’è dubbio: le critiche alla filosofia di Hegel qua e là affioranti
non si spiegano senza quella Critica della filosofia  hegeliana, con cui
Feuerbach, nel 1839, annunziava il suo distacco dall’antico maestro, né si può
negare che  i Principi della filosofia dell’avvenire del 1844 e soprauo
L’essenza della religione del 1845 abbiano avuto  una funzione decisiva
nell’impostazione ideologica del libro.
Sarebbe tuavia assurdo vedere in questo traato solo una supina
rielaborazione dell’umanitarismo di Feuerbach. Le idee del filosofo non
cadevano su di un terreno vergine, ma dovevano fare i conti, oltre che con la
maturità d’un artista, anche con una salda cultura umanistica che, iniziatasi
nella prima infanzia con studi severi di  latino e soprauo di greco,
rinsaldatasi con ricche traduzioni da Omero e con un progressivo
approfondimento  della leeratura greca e soprauo della tragedia, aveva
già creato nella mente di Wagner quella chiara sintesi tra antico e moderno,
tra classicismo e romanticismo,  che caraerizza tua la sua opera e ne
costituisce l’ossatura ideologica.
L’arte universale, vista dai romantici come sintesi di tue le arti,
aspirazione vaga e talvolta nebulosa in Schelling e in Wackenroder, fu sentita
da Wagner nella  realtà concreta del teatro greco. Nell’opera di Eschilo e  di
Sofocle poesia e musica erano infai nate dalla stessa  fonte, l’architeo
aveva creato la scena con marmi purissimi, la maestà dell’artista.
trasfigurata dalla maschera tragica, si ergeva sui coturni. Intorno spandeva a
larghe mani le sue prospeive e i suoi colori la natura.
Il poeta che dava vita all’azione era l’interprete fedele dell’anima di tuo
un popolo, che durante lo speacolo,  araverso la massa corale, aveva la
sensazione di partecipare fisicamente agli eventi rappresentati. I miti che si
svolgevano sulla scena erano i suoi miti, le anime dei personaggi erano lembi
vivi della sua anima. I greci rivivevano nel loro teatro il loro ideale di
bellezza, le glorie e i lui della patria; e quel teatro era per tui, perché in
quelle vicende ciascuno ritrovava qualcosa di se stesso.
Decaduta, con Euripide, la tragedia, le arti proseguirono ciascuna la
propria strada senza mai più ricongiungersi: ognuna ebbe dei successi, ma
furono sempre successi parziali perché egoistici. Perduto il contao con la
fonte perenne dell’anima popolare, non fu difficile cadere nella schiavitù del
lusso e della moda, servire all’interesse dei singoli potenti e sdegnare il popolo
in una malintesa aristocrazia. L’opera d’arte dell’avvenire deve quindi
costituire un ritorno non solo ideologico, ma chiaro e concreto, alla tragedia
dei greci. Deve essere un’arte che, sintetizzando in sé tue le arti, esprima i
bisogni spirituali dell’odierna umanità, ritrovi  le sorgenti purissime che gli
egoismi politici hanno soffocato, ma non spento. Il popolo, simile al fabbro
Wieland mutilato e stroppiato dall’egoismo d’un re, deve  temprarsi le ali e
riprendere il volo per gl’infiniti spazi  che gli appartengono: egli è il poeta
eterno di cui non un artista solo, ma una comunità di artisti, dal piore al
musicista, colgono lo spirito, realizzandolo in un’opera viva e concreta.
Il traato è suddiviso in quaro parti. Nella prima, intitolata L’uomo e
l’arte in generale, l’autore, partendo da principi essenzialmente naturalistici,
afferma che l’arte può nascere solo da un bisogno concreto della colleività
umana, le cui leggi sono quelle della natura e non quelle arbitrarie dello stato
politico. Di qui la nea  condanna dell’arte del tempo, che, in ogni sua
manifestazione, si dimostra viima dell’astraismo più assurdo  e d’una
moda fatua e ridicola.
Nella seconda parte, intitolata L’uomo-artista e l’arte che si origina
direamente da lui, Wagner, dopo aver sostenuto calorosamente che non può
esistere un soggeo  artistico che non sia la colleività umana, traeggia
rapidamente la storia delle tre arti maggiori: la danza, la musica e la poesia,
intese rispeivamente come espressione fisica, sentimentale e razionale
dell’anima umana.  esti temi, e particolarmente quello riguardante il
legame tra poesia e musica, saranno ampiamente ripresi  in Opera e
dramma. Non mancano nella traazione spunti audaci e apparentemente
paradossali, ma le pagine dedicate alle tragedie di Shakespeare e alle sinfonie
di  Beethoven rivelano un alto calore poetico e una mirabile  visione critica.
Suggestivo il paragone della musica con un grande oceano, che congiunge le
due opposte rive della poesia e della danza.
Nella terza parte, intitolata Come l’uomo-artista crea servendosi della
materia naturale, abbiamo una geniale rassegna delle arti figurative. Anche
qui i greci sono di  modello. Anche se non possiamo del tuo condividere
il  giudizio essenzialmente negativo sulla civiltà romana o  la sostanziale
negazione dei valori artistici della scultura. è tuavia necessario rilevare la
concretezza dei motivi addoi nel ripudiare certi vezzi del gusto
artistico dell’Oocento e soprauo la squisita sensibilità da lui dimostrata
per l’arte piorica: sensibilità di cui sono valida testimonianza le concezioni
sceniche dei drammi  dell’Anello e molti trai dell’opera poetico-musicale,
dalla Cavalcata delle Walchirie, al Mormorio della foresta, all’Incantesimo
del Venerdì santo.
Nelle due ultime parti l’autore fissa i Principi fondamentali dell’opera
d’arte dell’avvenire e spiega quale deve essere L’artista dell’avvenire. Più
volte, nel raccogliere le fila, il poeta prende la mano al filosofo, fino alla
rapida, commossa rievocazione del mito di Wieland, con  cui il lavoro si
conclude.
Lo stesso Wagner non fa mistero delle difficoltà che il leore incontra
nell’accostarsi a questo libro. Esse sono  dovute a più faori: la novità della
materia e lo sforzo  di pensiero che s’imponeva nel dare una fisionomia
all’immane tumulto d’immagini, di concei e di passioni  che agitava
l’artista durante il modellarsi nel suo spirito  della Tetralogia nibelungica;
l’uso completamente nuovo  di certi termini filosofici, come “volontario” e
“involontario” “egoismo” e “comunismo”, “pensiero” e “sensualità”,
terminologia non certo accessibile di primo acchito, che ha generato, com’era
naturale, perplessità e incomprensioni; infine quel continuo riferirsi a
principi morali, sociali e politici araverso la disamina dei fenomeni artistici
dà spesso un’idea di confusione e di sforzo, acuita dallo stile quasi sempre
convulso e tormentato,  mai limpido e disteso, in cui il libro è redao. È su
per  giù lo stesso stile di Kant e di quanti scrivono nello  sforzo del pensare
anziché dopo aver pensato. Invano  cercheremo limpidità e chiarezza nelle
prose wagneriane, ma non tarderemo a convincerci che proprio allo sforzo in
esse documentato dobbiamo la sublime chiarezza artistica dell’Anello e del
Parsifal. In questo senso  l’opera di pensiero è il più valido contributo alla
comprensione dell’opera d’arte.
A un leore accorto non può inoltre sfuggire l’importanza del libro anche
come anelito al superamento di tanti luoghi comuni del romanticismo di
metà secolo.  L’esigenza di valori più concreti nell’arte, di una maggiore
aderenza alla vita e soprauo di una vera democraticizzazione pervade il
traato da capo a fondo; si  sente però come Wagner non intenda questo
superamento come la sostituzione di una maniera con un’altra, di una moda
con un’altra. L’arte è universale ed eterna solo quando esprime tuo l’uomo
e, partendo dalla realtà  spirituale della propria epoca, sa levarsi a una
realtà spirituale che sia valida senza limiti di spazio e di tempo. esta tesi
del libro è, a nostro parere, la più valida non solo perché rispecchia l’essenza
viva dell’arte poetico-musicale di Wagner, ma anche perché può
essere  considerata una massima inconfutabile. L’arte non è  né antica, né
moderna: è o non è arte. E su questo punto nessuno può dar torto all’autore.
Per la traduzione abbiamo seguito il testo edito dalla Breitkopf und Härtel
di Lipsia, nel terzo volume delle  Opere complete (Sämtliche Schrien und
Dichtungen).  Ci siamo aenuti scrupolosamente alla leera, senza  creare
inutili semplificazioni, che avrebbero finito con lo  svisare il lavoro. I
chiarimenti necessari abbiamo preferito darli nelle note, raggruppate alle
pagg. 173-185, nelle  quali abbiamo abbondato con l’intento di alleviare il
più possibile la fatica di chi legge.
A C
I
L’UOMO E L’ARTE IN GENERALE

1. La natura, l’uomo e l’arte.

L’uomo sta alla natura come l’arte sta all’uomo. ando l’evoluzione della
natura fu giunta al punto da poter racchiudere in sé le condizioni
necessarie per resistenza dell’uomo, l’uomo ebbe vita  spontaneamente.
Allo stesso modo, quando l’umanità fu in grado di produrre le condizioni
necessarie per dar vita all’opera d’arte, questa spontaneamente nacque.
La natura genera e modella senza intenzione alcuna e
incoscientemente, secondo il bisogno; il che significa necessariamente.
Necessità può definirsi anche la forza che genera e modella la vita umana.
Solo quanto è privo d’intenzione e incosciente nasce per un bisogno reale;
e solo nel bisogno sta la ragione della vita.
L’uomo constata la necessarietà della natura solo nella concatenazione
dei fenomeni naturali; finché non si rende conto del legame che li regola,
ritiene questo legame puramente arbitrario1.
Dal momento in cui l’uomo si sentì diverso dalla natura, o, in altri termini,
da quando cominciò la  sua vera e propria evoluzione come uomo
superando lo stadio incosciente della vita animale e diventando cosciente;
da quando, insomma, oppose  se stesso alla natura e, di conseguenza, si
sviluppò
in lui come pensiero quello che prima era un vago senso della sua
dipendenza da essa, da quel momento ebbe origine l’errore come prima
manifestazione della coscienza. Siccome, poi, l’errore è  il padre delia
conoscenza, la storia della conoscenza generata dall’errore altro non è che
la storia del genere umano, dalle mitiche nebbie dei tempi primitivi al
giorno d’oggi.
L’uomo errò fin dal giorno in cui pose la causa dei fenomeni della
natura fuori dell’essenza stessa della natura, sostituendo alla realtà
materiale  del fenomeno una causa immateriale, da lui immaginata
arbitrariamente come umana; credendo,  inoltre, infinita la. dipendenza
della sua aività incosciente, e senza scopo il comportamento intenzionale
degli ai della volontà, che sono indipendenti e limitati. La conoscenza
consiste nella soluzione di quest’errore: essa altro non è che la
comprensione della necessità di quei fenomeni, la cui  causa ci pareva
arbitraria.
In ragione di questa conoscenza la natura diviene cosciente di sé anche
nell’uomo, il quale, differenziandosi dalla natura, giunge a conoscere la
natura in quanto essa per lui diventa un oggeo; ma questo differenziarsi
si elimina nuovamente  non appena l’uomo riconosce come sua
l’essenza della natura; in altri termini, riconosce una medesima necessità
per tuo ciò che esiste e vive realmente, quindi tanto per resistenza
umana quanto  per quella della natura e, di conseguenza, non solo per il
legame dei fenomeni naturali tra loro,  ma anche per il legame tra lui,
uomo, e la natura.
Ora se la natura, per i suoi legami con l’uomo, diviene, nell’uomo,
cosciente di se stessa, e se nell’auarsi di questa coscienza consiste la vita
umana che è rappresentazione e, per così dire, immagine della natura, è
ovvio che la vita umana acquisti intelligenza per mezzo della scienza, la
quale, a sua volta, si fa di quest’intelligenza un oggeo d’esperienza. Ora
l’entrare in funzione della  coscienza mediante la scienza, la
rappresentazione della vita conosciuta araverso di essa, l’immagine della
sua necessità e della sua verità è l’arte2.
L’uomo non sarà mai quel che può essere e quel che deve essere se la
sua vita non sarà lo specchio fedele della natura, l’osservazione cosciente
della  sola necessità vera, che è la necessità naturale intima e non la
soomissione a una potenza esterna,  immaginaria, modellata solo
sull’immaginazione e quindi arbitraria, non necessaria. Allora l’uomo sarà
veramente uomo, mentre, fino a oggi, esso non  è mai esistito se non in
funzione della religione, della nazionalità, dello stato.
Alla stessa stregua l’arte non sarà mai quel che può e deve essere finché
non sarà la fedele immagine del vero uomo e della vera vita necessaria agli
uomini; in altri termini, finché dovrà improntare le condizioni della sua
esistenza agli errori,  alle vicende e alle mostruosità della nostra
vita moderna.
In conclusione, il vero uomo non esisterà finché la sua vita non sarà
formata e regolata dalla vera natura umana anziché dalle leggi
arbitrarie dello stato, e non esisterà una vera arte finché le  sue creazioni
non saranno soomesse alle leggi della natura anziché ai dispotici capricci
della moda.  Come, infai, l’uomo non sarà mai libero finché,  con intima
gioia, non sarà diventato cosciente dei  suoi rapporti con la natura, così
l’arte non sarà mai libera finché dovrà vergognarsi dei suoi rapporti con la
vita. L’uomo si libererà dalla sua dipendenza dalla natura quando
acquisterà la gioiosa consapevolezza dei suoi legami con essa; ma  l’arte
non si libererà dalla sua dipendenza dalla vita se non legandosi alla vita di
uomini sinceri e liberi.

2. La vita, la scienza e l’arte.

Se l’uomo modella involontariamente la propria vita secondo idee che


risultano sorte dalla sua concezione arbitraria della natura e conserva
l’espressione involontaria di queste idee nella religione, queste stesse idee,
nella scienza, divengono oggeo di una speculazione e di una ricerca
arbitraria e cosciente.
Il cammino della scienza è quello che va dall’errore alla conoscenza,
dall’idea alla realtà, dalla religione alla natura. indi, all’inizio della
scienza, l’uomo si trova come già dinanzi ai fenomeni della natura, quando
la vita umana si differenziò dalla natura. La scienza assorbe, nel
suo complesso, quanto d’arbitrario c’è nelle concezioni umane, mentre al
suo fianco la vita stessa segue, nel suo insieme, uno sviluppo non
arbitrario e necessario. La scienza porta dunque con sé il peccato della vita
e ne fa ammenda autodistruggendosi in quanto finisce proprio nel suo
contrario:  la conoscenza della natura, il riconoscimento dell’incosciente,
del non arbitrario e, di conseguenza del necessario, del reale, del concreto.
La natura  della scienza è finita, mentre quella della vita è  infinita, allo
stesso modo in cui l’errore è finito e  infinita la verità. Ma nulla esiste di
vero e di vivente tranne ciò che è materiale e obbedisce alle  leggi della
natura fisica. Il colmo dell’errore si ha quando l’orgoglio della scienza nega
e disprezza la natura fisica, mentre la sua somma vioria si ha quando, per
sua opera, giunge alla distruzione di quest’orgoglio e al riconoscimento del
concreto.
Il fine della scienza è la giustificazione dell’incosciente, la vita cosciente
di se stessa, la materialità riconosciuta come sensibile, la sparizione
dell’arbitrario nel volere della necessità. La scienza è dunque mezzo di
conoscenza, il suo procedimento è indireo, il suo scopo è mediato,
mentre la vita è immediatezza e autodeterminazione. Ora, se la soluzione
della scienza è il riconoscimento dell’immediatezza della vita che si
autocondiziona e, pertanto, della vita reale, questo riconoscimento ha la
sua espressione più direa e sincera nell’arte o, per meglio dire, nell’opera
d’arte.
L’artista, nessuno può negarlo, non procede direamente: la sua
creazione, inoltre, è mediatrice, ecleica, arbitraria: ma proprio là dov’è
mediatore ed ecleico, quel ch’egli compie non è ancora  opera d’arte. Il
suo procedimento è piuosto quello  della scienza che avanza mediante
ricerche e osservazioni ed è, per conseguenza, arbitrario e susceibile
d’errore. Invece là dove la scelta è già faa, dove questa scelta fu
necessaria e fu scelto quello che  era necessario - e in tale situazione
l’artista s’è trovato dinanzi al soggeo come l’uomo perfeo dinanzi alla
natura -, là solo l’opera d’arte aderisce  alla vita, è essa stessa una realtà
che si autodetermina, è qualcosa d’immediato.
La vera opera d’arte - quella, cioè, che è immediatamente rappresentata
in modo concreto nell’istante della sua più corporea manifestazione -
costituisce la redenzione dell’artista, la sparizione delle ultime tracce della
volontarietà creatrice, la  certezza evidente di ciò che fino ad allora non
era  che immaginazione, la liberazione del pensiero nell’azione sensibile,
l’appagamento del bisogno di vivere nella vita.
L’opera d’arte così intesa, come ao immediato della vita, è dunque la
perfea riconciliazione della scienza con la vita, la corona trionfale che la
scienza, vinta e riscaata dalla sua sconfia, offre felice a colei che
riconosce sua vincitrice.
3. Il popolo e l’arte.

La redenzione del pensiero, della scienza, sarebbe impossibile nell’opera


d’arte se la vita stessa potesse essere sooposta all’osservazione
scientifica. Se davvero il pensiero cosciente e arbitrario dominasse la vita,
potrebbe far suo il bisogno di vivere e  usarlo a un fine che non fosse la
necessità del bisogno assoluto. La vita sarebbe così negata e diverrebbe un
tu’uno con la scienza, che, in realtà, nel suo orgoglio sfrenato, ha sognato
un simile trionfo. Il modo come il nostro stato è governato, la nostra arte
moderna sono i figli, sterili e senza sesso, di questo sogno.
I grandi errori involontari del popolo, così come si manifestarono fin
dall’origine delle sue concezioni religiose diventando i punti di partenza
d’un pensiero e d’una sistematica arbitrari e speculativi  nella teologia e
nella filosofia, si sono ingigantiti con le scienze e soprauo col concorso
della loro sorella adoiva, la politica. este hanno fao dell’errore una
potenza che pretende nientemeno di dominare il mondo e la vita vantando
un’immanente divina infallibilità.
L’errore persisterebbe e sarebbe davvero ineluabile nella sua forza di
devastazione, se la stessa forza vitale che l’ha generato involontariamente
non finisse, di fao, con l’annientarlo in virtù d’una necessità naturale
immanente. esta è tanto certa ed  evidente che l’intelleo, pur
estraniandosi orgogliosamente dalla vita, non vede altra salvaguardia
contro la vera follia tranne il riconoscimento senza riserva di quest’unica
certezza ed evidenza. esta forza vitale è il popolo.
Che cos’è il popolo? È indispensabile meersi d’accordo sulla risposta da
dare a questa domanda di vitale importanza.
Il popolo è stato in ogni tempo l’insieme di tui  individui che
formavano una comunità. Agl’inizi fu quindi la famiglia e poi la tribù, poi
le tribù riunite in nazione dalla medesima lingua. Praticamente a causa del
dominio universale di Roma che assorbì le nazioni, e teoricamente a causa
del cristianesimo che ammee soltanto l’uomo non nel senso nazionale,
ma cristiano, il conceo di popolo s’è tanto allargato, per non dire
volatilizzato, che soo  quel termine possiamo comprendere sia l’uomo
in generale, sia, come suggerisce l’arbitraria concezione politica, una certa
parte dei ciadini di uno  stato e, precisamente, quelli che non
posseggono nulla.
Ma, al di là di questo significato assurdo, la parola popolo ha assunto
anche un significato morale indelebile. E proprio per quest’ultimo
significato avviene, specialmente in tempi torbidi e inquieti, che tui piace
fare assegnamento sul popolo, che tui pretendono di avere a cuore il
bene del popolo e nessuno vorrebbe esserne separato. E per questo
anche  fai nostri tempi moderni il problema è stato posto, sia  pure in
termini quanto mai diversi: che è dunque il popolo? Nell’insieme di tuo
ciò che costituisce uno stato, può una frazione particolare, può un partito
rivendicare quel termine per sé solo? Non è  meglio dire che siamo tui
“popolo”, dall’ultimo pezzente al sovrano?
Ecco la risposta da dare alla domanda che ci siamo fai, tenendo conto
del decisivo significato della parola “popolo” nella storia universale alla
quale ci siamo riferiti: il popolo è l’insieme di tui coloro che provano una
necessità comune. Di conseguenza appartengono al popolo tui coloro che
consideralo la propria sofferenza come una sofferenza comune, o ne
trovano le ragioni in una sofferenza comune; in altri termini tui coloro
che, per porre fine alla propria sofferenza, non cullano altra speranza che
la fine della sofferenza comune, e per tale ragione impegnano tue le loro
energie vitali per porre fine alla propria sofferenza ritenuta
sofferenza  comune3. Infai è vera sofferenza solo quella che  spinge
all’estrema disperazione; solo tale sofferenza è la forza di un vero bisogno,
né esiste un bisogno vero che non sia un bisogno comune. Solo chi prova
un bisogno vero ha il dirio di soddisfarlo; solo la soddisfazione d’un vero
bisogno è la vera necessità, e solo il popolo agisce secondo necessità e, per
conseguenza, in modo irresistibile, viorioso e veritiero.
E allora, chi non appartiene al popolo? Chi sono i suoi nemici?
Tui coloro che non provano una vera necessità, tui quelli il cui slancio
vitale4 consiste in un bisogno che non s’innalza alla forza della
necessità.  La loro necessità è immaginaria, falsa, egoistica:  non solo è
estranea al bisogno comune, ma consiste  soltanto nel bisogno di
conservare il superfluo:  quindi un bisogno privo di necessità, in nea
antitesi con il bisogno comune.
Dove non esiste necessità non esiste un vero bisogno; dove non esiste
un vero bisogno non esiste un’aività necessaria; dove non esiste
un’aività necessaria regna l’arbitrio; dove regna l’arbitrio pullulano tui i
vizi, tui i delii contro la natura.  Perché solo reprimendo, ripudiando,
impedendo  l’appagamento del vero bisogno, può trovare appagamento il
bisogno immaginario e fiizio.
Ora la soddisfazione di tale bisogno immaginario è il lusso, creato e
mantenuto a spese del necessario e nea antitesi di esso.
Il lusso è tanto insensibile, tanto inumano, tanto egoista e insaziabile,
quanto il bisogno che lo produce e che non potrà mai essere appagato
nemmeno da tui gli accrescimenti e da tue le offerte massime della sua
condizione. Tale bisogno, essendo innaturale, non può mai essere
soddisfao perché,  essendo qualcosa di falso, non esiste per esso
un  contrario vero e reale che possa assorbirlo, distruggerlo e quindi
soddisfarlo.
La fame vera, quella materiale, ha il suo naturale contrario nella sazietà,
che la distrugge mediante razione del mangiare; il bisogno inutile, invece,
il bisogno del lusso, è già di per sé un lusso, un superfluo. L’errore che in
esso si radica non può sparire al lume della verità. Esso consuma,
tortura, brucia, tormenta; mai appagato, rende invano languenti lo spirito,
il cuore, i sensi, divora ogni piacere, l’allegria, la stessa gioia di vivere, e,
per un unico, inaccessibile momento di gioia, prostra l’aività della forza
vitale di migliaia di poveri, senza riuscire a saziare la propria fame
neppure per un istante; costringe un intero mondo nelle ferree catene
del dispotismo, senza riuscire a spezzare, neppure per un istante, le caténe
d’oro di quel tiranno che è esso stesso.
Ora questo dèmone, questo bisogno insensato senza bisogno, questo
bisogno del bisogno, questo bisogno del lusso, che è il lusso stesso, regge
il  mondo. È l’anima dell’industria che uccide l’uomo  per usarne come di
una macchina5, è l’anima del nostro stato, che non riconosce all’uomo
alcuna dignità per dargli quella di essergli suddito, è l’anima della nostra
scienza deista, che presenta l’uomo, perché  sia divorato, a un dio
immateriale, che è la fonte di  ogni lusso dello spirito6. E, purtroppo, è
anche l’anima, la condizione della nostra arte.
Chi potrà redimerci da quest’estrema miseria? La necessità. Essa sola
può far riprovare al mondo il bisogno vero, quello che, essendo reale perché
naturale, può essere appagato secondo la sua natura.
La necessità porrà fine all’inferno del lusso, insegnerà agli spiriti
tormentati, che non provando effeivi bisogni si logorano in quell’inferno,
il bisogno semplice e puro della fame e della sete fisiche, puramente
umane. Additerà a tui noi il pane che nutre, l’acqua chiara e dolce della
natura. Noi ne  gioiremo tui insieme, e tui insieme saremo dei  veri
uomini. Tui uniti proclameremo l’alleanza della sacra sofferenza, e il
bacio fraterno che consacrerà quest’unione sarà l’opera d’arte comune
dell’avvenire. In essa il nostro grande benefaore, colui  che, in carne e
ossa, rappresenta la necessità, il popolo, non sarà più qualcosa di
particolare, di differente. Nell’opera d’arte saremo un solo essere, saremo
coloro che recano e indicano la necessità, coloro che conoscono
l’incosciente, vogliono l’involontario; saremo i testimoni della natura, cioè
degli uomini felici7.

4. Il popolo, forza condizionatrice dell’opera d’arte.

Tuo ciò che esiste dipende dalle condizioni nelle quali esiste. Nulla esiste
isolatamente: né nella natura, né nella vita. Ogni cosa ha la sua causa in
un  contao infinito con il tuo, anche quel che è arbitrario, non
necessario, nocivo. Il nocivo esercita  la sua forza per impedire il
necessario, anzi trae la  sua forza, la sua esistenza solo da
quest’impedimento, e altro non è che l’inerzia del necessario. Se
quest’inerzia fosse continua, perpetua, l’ordine naturale del mondo
dovrebbe essere altro da quel che è:  l’arbitrario sarebbe necessario; il
necessario, non necessario. Ma quest’impotenza è passeggera, è
anzi soltanto apparente, perché la forza del necessario vive e agisce, anche
come unica condizione dell’esistenza dell’arbitrario. Il lusso dei ricchi,
infai, deve la sua esistenza soltanto alla miseria dei poveri: questa offre al
lusso dei ricchi sempre nuove cose  da consumare in quanto, spinto dal
bisogno di mantenersi con la sua forza vitale, il povero la sacrifica al ricco.
Alla stessa stregua la forza vitale, il bisogno di vivere della natura
tellurica ha alimentato varie volte le forze nocive, o piuosto le possibilità
d’esistenza, di certe combinazioni e di certi prodoi elementari, che le
impediscono di manifestarsi realmente in proporzione alla sua forza vitale
e alle sue possibilità. Causa di ciò è l’abbondanza che in realtà esiste,
l’enorme eccesso di forza di produzione e di sostanza vitale, l’inesauribile
fertilità della materia. Il bisogno della natura è quindi infinitamente vario
e complesso, e la natura riesce a soddisfarlo negando, per così dire, la sua
forza all’esclusività, all’unità che precedentemente aveva alimentato
abbondantemente; in altri termini, dissolvendo l’unità nella pluralità.
el che è esclusivo, isolato, egoista può solo prendere, mai donare;
può farsi solo generare, ma di per sé è impotente: per generare infai sono
necessari l’“Io” e il “Tu”, il disciogliersi dell’egoismo nel comunismo8. La
forza generatrice sarà dunque tanto  più ricca quanto più grande è il
numero; e quando  la natura della terra soddisfece se stessa alienandosi
nella numerosità degli oggei, raggiunse quello  stato di sazietà, di
autosoddisfazione, di autoappagamento che si rivela nella presente
armonia. Ora non si traa più d’una trasformazione in massa, totale: il suo
periodo di rivoluzione9 è terminato; ella  ora è ciò che può essere, il che
vuol dire quello che poteva essere e doveva diventare fin dalle origini. Non
deve più fornire la propria forza vitale all’impotenza di generare, perché
ha creato, in tui i suoi vastissimi regni infiniti, la molteplicità, il maschio
e la femmina, ciò che si rinnova e si rigenera eternamente ed eternamente
si completa; e in quest’infinito rapporto è diventata costante, è
necessariamente diventata se stessa, quello che è.
Ora nella rappresentazione di questo grande processo evolutivo della
natura, simile a quello che  avviene nell’uomo stesso, è compreso anche il
genere umano dopo la sua autoseparazione dalla natura. esta medesima
necessità è la forza motrice della grande rivoluzione del genere umano, la
quale si esaurirà nel medesimo appagamento.
esta forza motrice, che è la forza vitale per eccellenza, in quanto
predomina nella necessità vitale, è però di sua natura inconscia,
involontaria; e proprio  dove è tale - nel popolo - è la sola vera,
determinante.  I nostri demagoghi, di conseguenza, cadono in un  grande
errore quando sostengono che il popolo dovrebbe anzituo sapere quel
che vuole - cioè quel che  dovrebbe volere secondo loro - prima ancora di
essere capace e autorizzato a volerlo. Da questo errore hanno origine tue
le deplorevoli mezze misure, l’impotenza e la vergognosa debolezza dei
recenti moti avvenuti nel mondo10.
Ciò che realmente si sa altro non è se non ciò che esiste realmente e
materialmente, divenuto oggeo compreso, cioè rappresentato mediante il
pensiero. Il pensiero è arbitrario fintanto che non riesce a rappresentarsi
l’oggeo materialmente presente o  l’oggeo che sfugge ai sensi, nello
spazio e nel tempo, per mezzo d’un riconoscimento assoluto della  sua
connessità necessaria con l’oggeo stesso; perché la coscienza di questa
rappresentazione è il sapere razionabile. Ma il sapere, più è veritiero, e più
deve riconoscersi sinceramente come unico risultato della connessione con
ciò che, realmente compiuto e perfeo, è giunto alla conoscenza sensibile,
e deve pertanto avocare a sé la ragion d’essere della possibilità di sapere,
in quanto è fondata sulla realtà11.
Ma appena il pensiero, astraendo dalla realtà, vuole costruire la realtà
futura, non potrà mai costruire il sapere, ma solo manifestarsi come
illusione, che  si distingue però sempre dall’incoscienza: soltanto  se può
compenetrarsi simpaticamente e senza riserve nella realtà, nel bisogno
reale e concreto, esso può prendere parte all’aività dell’incoscienza;
solo  allora quel ch’è nato dal bisogno involontario e necessario, in altri
termini il fao reale, concreto, può  divenire l’oggeo che soddisfa il
pensiero e il sapere; perché il cammino dell’evoluzione umana va
logicamente e naturalmente dall’incoscienza alla coscienza, dal non sapere
al sapere, dal bisogno alla soddisfazione di esso, e non dalla soddisfazione
al bisogno, almeno non al bisogno di cui tale soddisfazione era la fine.
Perciò gl’inventori non siete voi che siete intelligenti, ma il popolo, che
la necessità costringe all’invenzione; tue le grandi invenzioni sono opera
del popolo, mentre le invenzioni dell’intelligenza sono  soltanto gli
sfruamenti e le mutilazioni delle grandi scoperte del popolo. La lingua
non l’avete inventata voi, ma il popolo; voi altro non avete fao
che  corromperne la naturale bellezza, infrangerne la forza, distruggerne
l’intimo senso e indagare a fatica su  quel che aveva perduto. Non siete
stati voi a inventare la religione, ma il popolo; voi altro non avete fao che
sfigurarne l’espressione intima, mutare in  inferno il cielo che essa
possedeva, trasformare in menzogna la verità in essa manifesta. Anche lo
stato  non l’avete inventato voi, ma il popolo; voi vi siete limitati a
deformare la naturale unione di essere uniti  da un medesimo bisogno in
un’accozzaglia innaturale di esseri che hanno bisogni diversi. Della
benefica unione difensiva di tui avete fao una malefica salvaguardia per
i privilegiati; della veste  a morbide pieghe che avvinceva il corpo
dell’umanità, avete fao una corazza di ferro rigida e imboita, un pezzo
decorativo per un museo d’armi.
Non siete voi che date da vivere al popolo, ma è il popolo che lo dà a
voi; non voi dovete istruire il popolo, ma prendere lezione dal popolo. Per
questo mi rivolgo a voi e non al popolo. Per il popolo bastano poche parole,
c’è un solo appello da rivolgergli : “Fai quel che devi!” E forse anche
quest’appello è superfluo perché il suo dovere lo fa da sé12.  indi mi
rivolgo a voi nello spirito del popolo  - necessariamente, però, nel vostro
linguaggio -, a voi, intelligenti e saggi, per offrirvi, con tuo il buon cuore
del popolo, la redenzione da una beatitudine  egoistica riportandovi alle
sorgenti pure della natura, all’abbraccio affeuoso del popolo. Là io,
artista, ho trovato questa redenzione, là, dopo una lunga loa tra l’intima
speranza e l’esteriore disperazione,  ho acquisito la fede più salda
nell’avvenire.
Il popolo compirà la sua opera di redenzione bastando a se stesso e
contemporaneamente riscaando i propri nemici. Il suo modo di agire sarà
l’immediatezza della natura: con la necessità dell’azione elementare
spezzerà quella compagine che unica costituisce le condizioni del regno
dell’antinatura.  Finché queste condizioni esisteranno, finché i nemici del
popolo aingeranno la loro forza vitale sprecando la forza del popolo,
finché, impotenti come  sono, consumeranno la facoltà di generazione
del  popolo, inutile alla loro esistenza egoista, ogni interpretazione, ogni
creazione, ogni modifica, ogni miglioramento, ogni riforma13 a una
situazione del  genere sarà solo un fao arbitrario, inutile e vano.  Ma il
popolo ha solo bisogno di negare in realtà quel che in realtà è un niente, in
quanto è inutile, superfluo, vano; ha solo bisogno di sapere quel che
non vuole, e questo gliel’insegna il suo slancio vitale istintivo; ha bisogno,
con la forza della necessità che lo agita, di rendere non esistente quanto da
lui non voluto, di distruggere quel che è degno di essere distruo. Solo così
il qualche cosa dell’auspicato avvenire gli si presenterà da sé.
ando saranno abolite le condizioni che consentono agl’inutili di
rodere le midolla del necessario, si stabiliranno di per sé le condizioni che
richiameranno alla vita il necessario, il vero, l’imperituro; quando saranno
soffocate le condizioni che lasciano sussistere il bisogno del lusso,
s’imporranno di  per se stesse le condizioni che potranno soddisfare  il
necessario bisogno dell’uomo con il più largo superfluo della natura e della
stessa facoltà umana di  produrre nella maniera più vasta e quindi più
conveniente. ando saranno abolite le condizioni favorevoli a una
tirannide della moda, allora subentreranno le condizioni per un’arte vera;
come per il  tocco di una bacchea magica si avrà l’arte sublime  e
sacrosanta, testimonianza della più nobile umanità; e la sua fioritura sarà
copiosa e perfea quanto quella  della natura, quando dalla dolorosa
gestazione degli  elementi ebbero origine le condizioni adae alla
sua armonica configurazione, quale noi oggi la conosciamo.
E come la felice armonia della natura, anche l’arte durerà e si
conserverà, perennemente generatrice, come la soddisfazione più pura e
completa del bisogno più nobile e puro dell’uomo perfeo, cioè dell’uomo
che è quel che può essere secondo la sua  essenza e che, per tali ragioni,
deve essere e sarà.

5. Conformazione sfavorevole all’arte della vita auale soo il


regime dell’astrazione e della moda.

Il principio, il punto di partenza e la base di quanto è esistente e


immaginabile è il vero, il concreto. L’inizio e la base del pensiero umano
risiedono nella  percezione che l’uomo ha del proprio bisogno di vivere
come bisogno di vivere comune a tua la sua specie, la quale si differenzia
dalla natura e da tue le specie di esseri diversi dall’uomo che la
natura comprende. Il pensiero è dunque quella facoltà umana che non solo
consente di venire a contao con il  reale sensibile mediante le sue
manifestazioni  esterne, ma permee anche di distinguerne la natura, di
concepirlo nella sua connessità e di rappresentarlo. Il conceo di una cosa
è dunque l’immagine della sua natura reale rappresentata dal pensiero: la
rappresentazione delle immagini di tue le cose esistenti, riconoscibili in
un’immagine complessa, ove il pensiero si raffiguri la natura come
la conoscenza di tue le realtà nella loro connessità, è l’opera dell’aività
suprema dell’anima umana, cioè  l’opera dello spirito14 Ora, se in
quest’immagine complessa l’uomo è obbligato a comprendere anche
l’immagine e quindi il conceo della propria essenza e,  più ancora, se
quest’essenza propria rappresentata  è la forza artisticamente agente in
tua l’opera d’arte del pensiero, ne deriva che questa forza e l’insieme di
tue le realtà da essa rappresentate provengono soltanto dall’uomo reale e
materiale e, in ultima analisi, dalla sua necessità vitale e dalla condizione
reale e materiale della natura da cui tale necessità vitale è suscitata. Ma
quando si abbandona questo concatenamento nella riflessione, quando il
pensiero umano, dopo una contemplazione di se stesso ripetuta due o tre
volte, vuole concepire se stesso come la propria ragion d’essere, nella
quale lo spirito non vede più se stesso come l’ultima e la più condizionata
delle aività, ma, al contrario, come la prima e la più assoluta, e quindi si
autoconcepisce come  base e causa prima della natura, in questo caso
il  legame della necessità sparisce, la volontà agisce all’impazzata e senza
freno, senza limite, liberamente, come immaginano certi metafisici, e così,
araverso la fucina del pensiero, irrompe nel mondo della realtà come
un’ondata di follia15.
Se lo spirito ha creato la natura, se il pensiero ha dato vita alla realtà, se
il filosofo ha defenestrato  l’uomo, ciò significa che la natura, la realtà e
l’uomo non sono più necessari; la loro esistenza è superflua per non dire
nociva: nulla infai è più superfluo dell’imperfeo dal momento che esiste
il perfeo. La natura, la realtà e gli uomini non hanno dunque significato
né dirio all’esistenza se lo spirito - lo spirito inteso senza restrizione
alcuna, ragione e causa di se stesso, e, per conseguenza, legge - si serve di
loro secondo la sua libera volontà assoluta e sovrana. Se lo spirito in sé è la
necessità, la vita  è l’arbitrio: è una fantastica farsa, un vano passatempo,
un capriccio frivolo, un car tel est notre plaisir16 dello spirito. indi ogni
virtù puramente umana, e soprauo l’amore, diventa una cosa che si può
interpretare come si vuole e negare  quando ci fa comodo; quindi ogni
bisogno puramente umano è lusso, anzi il lusso è il bisogno propriamente
deo; la ricchezza della natura diventa il non necessario; la felicità degli
uomini è  cosa più che secondaria e lo stato astrao la cosa  principale; il
popolo è la materia contingente, il principe e gli uomini privilegiati sono i
necessari consumatori di questa materia.
Se prendiamo la fine per principio, la soddisfazione per bisogno, la
sazietà per fame, il movimento e il progresso saranno possibili solo in un
bisogno artificiale, in una fame suscitata con gli stimolanti.  esta è la
vera regola di vita di tua la cultura di oggi, la cui espressione è la moda.
La moda è lo stimolante artificiale che provoca un bisogno non
naturale, ove il naturale è assente. Ma  tuo quel che non deriva da un
bisogno vero è arbitrario, assoluto, tirannico. Ecco perché la moda è  la
tirannia più inaudita, più insensata che mai sia  sorta dalla stoltezza
dell’essere umano. Esige dalla natura un’obbedienza assoluta, impone al
vero bisogno di ridursi totalmente al silenzio in favore  d’un bisogno
immaginario; costringe il senso della bellezza, connaturato con l’uomo, ad
adorare il bruo17; gli uccide la salute per dargli il gusto della malaia, gli
spezza la forza e il vigore per fargli provare il piacere della debolezza.
Dove regna la moda più ridicola, la natura deve passare per la cosa
più ridicola; dove regna l’antinatura più criminale, le manifestazioni della
natura debbono apparire come il supremo delio; dove la follia usurpa il
posto della verità, la verità deve essere ritenuta una follia.
L’essenza della moda è la monotonia più assoluta; il suo dio è un
egoista senza sesso e impotente; la sua aività è la versatilità arbitraria, il
mutarsi  non necessario, il tendere inquieto e confuso verso  quanto è
l’opposto della sua essenza, che è la più assoluta monotonia. La sua forza è
la forza dell’abitudine. Ora l’abitudine è la tiranna invincibile di  tui gli
esseri deboli, molli: di quelli che realmente sono senza bisogni. L’abitudine
è il comunismo dell’egoismo, il gioco tenace dell’egoismo comune che non
conosce necessità, e la sua manifestazione vitale - in questo caso artificiale
- è proprio quella della moda.
La moda non è dunque un prodoo artistico di per sé, ma solo una
deduzione artificiale dal suo contrario, che è la natura, dalla quale deve
prendere costante alimento, come il lusso delle classi privilegiate si nutre a
sua volta a spese del desiderio che le  classi inferiori - in primo luogo le
classi operaie - hanno di soddisfare i bisogni della natura. Anche l’arbitrio
della moda non può creare fuori della vera natura: tue le sue produzioni,
i suoi arabeschi, i suoi ornamenti non hanno il loro prototipo fuori della
natura; alla stessa stregua tue le elucubrazioni astrae del nostro
pensiero, anche nelle loro  aberrazioni peggiori, non possono, in fin dei
conti, inventare altro da quello che, secondo un caraere primitivo, esiste
fisicamente e formalmente nella natura e nell’uomo. Ma il suo procedere
altezzoso la  separa arbitrariamente dalla natura: ella infai ordina e
comanda là dove ogni cosa dovrebbe essere  soomessa e obbedire. Così,
nelle sue rappresentazioni,  può solo deformare la natura, non
rappresentarla; può dedurre ma non inventare; perché inventare è ben
altra cosa dal trovare, con il quale termine, in verità, intendo l’ao di
scoprire, di riconoscere la natura.
La moda inventa solo macchinalmente. Il macchinale differisce
dall’artistico in quanto passa da una deduzione all’altra, da un mezzo
all’altro, per produrre, alla fine, soltanto un mezzo: la macchina. L’artista
invece segue un cammino neamente opposto:  gea dietro di sé ogni
mezzo, ricaccia ogni deduzione per mirare alla fonte di tui i mezzi e di
tue  le deduzioni, che è la natura, e compie ciò con una  soddisfazione
pienamente cosciente del proprio bisogno.
La macchina quindi è il benefaore freddo e senza cuore di un’umanità
avida di lusso. La macchina ha piegato e assoggeato a sé l’intelligenza
umana;  questa, infai, distolta dallo sforzo artistico, dall’invenzione
artistica, rinnegata, disonorata, ha finito  con l’esaurirsi nelle raffinatezze
meccaniche, nel  “farsi uno” con la macchina invece che con la natura
nell’opera d’arte.
Il bisogno della moda è quindi neamente opposto a quello dell’arte18,
perché è impossibile che il bisogno dell’arte sussista dove la moda
s’identifica  col potere legislativo della vita. In verità l’opera di  qualche
artista ispirato del nostro tempo19 non poteva non tendere a suscitare il
bisogno necessario dal  punto di vista dell’arte mediante i mezzi propri
dell’arte: ma comunque ogni sforzo del genere deve essere considerato
inutile e vano. Nulla, infai, è più impossibile, per lo spirito, che suscitare
un bisogno che non c’è. L’uomo ha ovunque e con la massima facilità tui
i mezzi per rispondere a bisogni che realmente esistano, ma non possiede
affao la facoltà di farne nascere quando la natura si rifiuta e non ne offre
le condizioni. Se non esiste il bisogno dell’opera d’arte, l’opera d’arte è
impossibile: solo l’avvenire potrà meerci in condizione di darle
vita, qualora si verifichino le condizioni che la vita auale nega.
Solo dalla vita può infai nascere il bisogno dell’arte, solo da essa l’arte
può trarre soggei e forme; ma quando la vita s’identifica con la moda,
l’arte non  può creare nulla. Lo spirito, separandosi erroneamente dalla
necessità del naturale, esercita volontariamente - e nella vita cosiddea
comune involontariamente - la sua influenza che sfigura tanto la materia
quanto la forma della vita. Ne deriva che questo spirito, resosi infelice con
tale separazione,  quando sente l’esigenza d’un nutrimento vero e sano
trao dalla natura e brama riconciliarsi con essa, non è più capace di
trovare la forma e il soggeo della sua soddisfazione nella vita reale e
auale.
Se, in altri termini, nel suo sforzo verso la redenzione, lo spirito sente il
desiderio di riconoscere la natura senza riserve, non potrà riconciliarsi con
essa tranne che nella più fedele rappresentazione di  lei, cioè nell’azione
presente e sensibile dell’opera d’arte, e si convince che tale riconciliazione
non si  può oenere riconoscendo e rappresentando il presente sensibile,
che è la vita deformata dalla moda.  Senza volerlo, quindi, esso deve
procedere arbitrariamente nel desiderio artistico di redenzione:
deve cercare la natura, che gli si offrirà spontaneamente nella sanità della
vita, là dove potrà osservarla meno  deformata e infine con una
deformazione minima.
Sempre e dovunque l’uomo ha dato alla natura le vesti, se non proprio
della moda, almeno dei costumi. I costumi più naturali, più semplici, più
nobili e belli, sono, in verità, la minima deformazione che la natura possa
subire, anzi sono la veste umana che le  conviene di più. L’imitazione, la
rappresentazione  di tali costumi, senza i quali l’artista moderno
non oserebbe affao rappresentare la natura, se la si paragona con la vita
di oggi, è un procedimento di evidente arbitrarietà, immaginato con una
precisa intenzione. E ciò che così è stato creato e formato con il desiderio
più onesto di cercare la natura, qualora  lo si ponga dinanzi alla vita
pubblica d’oggigiorno,  è considerato o come una cosa incomprensibile,
o come una nuova invenzione della moda.
In verità, di questo modo di tendere verso la natura, tipico della vita
moderna e in contrasto con essa, siamo debitori alla maniera e ai suoi
voltafaccia perpetui e inquieti. Ma, proprio nella maniera, l’essenza della
moda seguita a manifestarsi anche senza  volerlo. Senza la necessaria
relazione con la vita,  penetra nell’arte con la stessa arbitrarietà con cui
la  moda è penetrata nella vita, si confonde con la moda e domina ogni
corrente artistica con una potenza simile alla sua.
Accanto al lato serio la maniera, con pari necessità, mee a nudo il
proprio lato ridicolo. Insieme con l’antichità, il Rinascimento, il Medio
Evo, il Rococò, si mescolano costumi e vesti di popoli selvaggi di paesi da
poco scoperti, simili alla moda primitiva  dei cinesi e dei giapponesi20.
Tuo ciò si avvicenda,  più o meno, e s’impossessa, soo forma di
maniera, di tui gli stili della nostra arte. Alla stessa stregua la capricciosa
maniera del giorno offre la rappresentazione del fanatismo di certe see
religiose al mondo elegante che frequenta il teatro e che è il
più  indifferente in materia di religione; oppure l’ingenua semplicità dei
contadini svevi al gusto corroo  e avido di lusso del nostro mondo alla
moda; oppure le sofferenze del proletariato affamato agli dèi tutelari della
nostra industria sfruatrice21. E tuo ciò senza altri effei che quelli dello
stimolante inefficace d’una maniera mutevolissima.
Ciò dimostra che lo spirito, nello sforzo artistico di riunirsi nuovamente
con la natura nell’opera  d’arte, si riduce o a porre ogni speranza
nell’avvenire o a prostrarsi nella triste pratica della rassegnazione.
Comprende che non può redimersi se non in  un’opera d’arte presente,
tangibile, e cioè in un presente che ha bisogno d’arte o meglio che esige
e  produce l’arte mediante la sua propria verità e bellezza naturale, e, di
conseguenza, crede nell’avvenire, cioè nella forza della necessità, cui è
riservata l’opera d’arte dell’avvenire.
Nel presente, lo spirito rinuncia a veder apparire l’opera d’arte, che
sarebbe al livello del presente stesso e del pubblico, ambedue dominati
dalla moda. La grande opera d’arte totale dovrà sintetizzare  in sé tui i
generi d’arte, per sfruare ciascuno di  essi come semplice mezzo e
annientarlo in vista del  risultato globale di tui i generi fusi insieme.
In  altri termini, per oenere la rappresentazione assoluta, direa, della
natura umana completa, lo spirito  riconosce che quest’opera d’arte
universale non può essere l’ao, volontariamente possibile, d’uno solo, ma
l’opera colleiva che si può supporre solo compiuta dagli uomini
dell’avvenire.
Il desiderio sente di non poter essere appagato che nella comunità;
rinuncia però alla comunità moderna, aggregato d’egoismi arbitrari, per
soddisfarsi  nella solitaria comunità di se stesso con l’umanità
dell’avvenire, per quanto, naturalmente, può fare un solitario.

6. Misura dell’opera d’arte dell’avvenire.

Lo spirito solitario che cerca, araverso l’arte, la sua redenzione nella


natura, non è in grado di creare l’opera d’arte dell’avvenire; vi può riuscire
soltanto lo spirito colleivo, che la vita soddisfa. Esso  tuavia se la può
immaginare e può anche pensare che questa immaginazione non sia una
pura illusione, però glielo impedisce il caraere del suo tendere, che è un
tendere verso la natura. Lo spirito che brama il ritorno alla natura e che, di
conseguenza, è insoddisfao del momento presente, trova nell’insieme
della natura quelle immagini che possono riconciliarlo con la vita in
generale, e più ancora le  trova nella natura umana, che si presenta alla
sua meditazione araverso la storia. Concepisce così l’avvenire in base a
un’immagine che tale natura gli  offre: un’immagine già rappresentata,
però entro  più angusti limiti. Il pensiero di estendere questi  limiti in più
vasta atmosfera è insito nelle facoltà immaginative del suo desiderio
assetato di natura.
La storia presenta due momenti principali, neamente distinti,
dell’evoluzione dell’umanità: quello nazionale ed etnico e quello non
nazionale e universale. Oggi, mentre aendiamo dall’avvenire  il
compimento del secondo, vediamo neamente nel passato il compimento
del primo. Abbiamo così davvero tui i mezzi per apprendere con
entusiasmo  fino a quali culmini sia giunto l’uomo evolvendosi  soo
l’influsso plastico e quasi immediato della natura, quando s’è abbandonato
incoscientemente a tale influsso, secondo la sua origine etnica, la sua
comunità di lingua e secondo le affinità del clima e  delle condizioni
naturali dovute a un focolare comune.
Solo nei naturali costumi di tui i popoli, nella misura in cui essi
s’informano all’uomo morale, anche in quelli più disprezzati per la loro
rudezza, ci  è dato conoscere l’alta nobiltà e la reale bellezza  della verità
della natura umana. Nessuna religione, qualunque essa sia, ha escluso dai
comandamenti di  Dio una virtù, sia pure una sola, che sia di per
sé  compresa nei costumi naturali; lo stato civile più recente non ha mai
sviluppato una sola massima di dirio veramente umano che non abbia
già ricevuto  nella natura umana la sua espressione più certa, anche se
purtroppo si è limitato a deformarla; e anche  la cultura moderna, con
superba ingratitudine, non ha  mai fao sua un’invenzione d’utilità
davvero generale senza carpirla dall’opera della naturale intelligenza dei
popoli che hanno praticato quei costumi22.
Che l’arte non è un prodoo artificiale, che il bisogno dell’arte non è
stato creato arbitrariamente, ma che è proprio, fin dall’origine, dell’uomo
naturale, vero e non ancora degenerato, chi ce lo prova  meglio di quegli
stessi popoli? Donde il nostro spirito potrebbe trarre una prova migliore
della sua necessità se non dalla scoperta del desiderio artistico e dei frui
magnifici da esso sorti presso quei popoli che si sono evoluti secondo
natura e presso il  popolo in generale? Davanti a quale
manifestazione  artistica abbiamo una sensazione nea e
umiliante  dell’incapacità della nostra cultura frivola, più che  davanti
all’arte degli elleni23? Essa è l’arte di un popolo favorito dalla natura ch’è
amore universale,  l’arte degli uomini più belli che la fecondità di quella
madre felice ci abbia offerto dalle epoche che più lontane si perdono nella
noe dei tempi alla cultura d’oggi ispirata alla moda, è la testimonianza
più  eloquente di ciò che può realizzare lo spirito viorioso; e proprio in
quest’arte greca deve profondarsi  il nostro sguardo per comprenderla e
dedurre dalla comprensione di essa quale dovrà essere l’arte dell’avvenire.
La natura ha fao tuo quello che poteva fare: ha dato la vita ai greci, li
ha nutriti nel proprio seno, li ha formati secondo la sua saggezza materna,
e  sempre ce li presenta con legiimo orgoglio di madre e, con materno
amore, grida a tui gli uomini: “Ecco quel che ho fao per voi: ora voi fate
quel che potete per amor vostro!”
Dobbiamo dunque fare dell’arte ellenica l’arte umana universale,
dobbiamo liberarla da quelle condizioni che la resero solo arte ellenica e
non arte umana universale; quella veste religiosa, in grazie della quale fu
soltanto un’arte ellenica colleiva (e quando se ne fu spogliata non potè
più rispondere al bisogno dell’universalità, ridoa a genere d’arte egoista e
particolare, ma solo al bisogno di lusso, anche se si traava d’un bel lusso),
quella veste religiosa  tipicamente greca, dicevo, bisogna trasformarla
nell’universalità della religione dell’avvenire, di quella, cioè, della
comunità di tui, per poterci fare fin d’ora un’idea esaa dell’opera d’arte
dell’avvenire.
Ma, ridoi alla presente infelicità, non possiamo stabilire giustamente
questo legame che si chiama  religione dell’avvenire, perché, pur essendo
in gran  numero, non sentiamo per questo il desiderio dell’opera d’arte
dell’avvenire. Siamo degl’isolati, dei solitari.
L’opera d’arte è la rappresentazione vivente della religione; ma la
religione non l’inventa l’artista: essa deve le sue origini al popolo24.
Contentiamoci dunque per ora, senz’ombra di vanità egoista, senza
voler cercare una soddisfazione in qualche illusione deata dall’egoismo,
ma con  piena sincerità e salda speranza, colma di devozione  e d’amore,
nell’opera d’arte dell’avvenire, contentiamoci d’esaminare anzituo i
generi d’arte che oggi,  pur nel loro isolamento, costituiscono l’unica
essenza dell’arte del presente; ristoriamo il nostro sguardo, durante
quest’esame, con l’arte dei greci e osiamo, in tua fiducia, di tirare le
somme e di arrivare  a una conclusione sulla grande e universale
opera d’arte dell’avvenire.
II
L’UOMO-ARTISTA E L’ARTE CHE SI ORIGINA
DIRETTAMENTE DA LUI

1. L’uomo come oggeo e come soggeo artistico di se stesso.

L’uomo è un essere esteriore e interiore insieme. I sensi ai quali egli si


presenta come oggeo artistico sono la vista e l’udito. La vista coglie
l’uomo esteriore, l’udito l’uomo interiore.
L’occhio percepisce la forma corporea dell’uomo, la paragona a ciò che
ha intorno e da ciò la distingue. L’uomo fisico e le sue manifestazioni
involontarie prodoe da impressioni ricevute mediante  contai esterni
(per esempio quelle prodoe dal dolore fisico o dal benessere fisico) sono
percepiti direamente dall’occhio. Vengono però
trasmessi  contemporaneamente all’occhio anche quei sentimenti
dell’uomo interiore che esso non è in grado di cogliere direamente, e ciò
avviene mediante la  espressione del viso e i gesti. Ma più
ancora l’espressione dell’occhio, incontrando immediatamente l’occhio che
osserva, può manifestargli non  solo i sentimenti del cuore, ma anche
l’aività che  è caraeristica dell’intelleo. indi, quanto più  l’uomo
esteriore è in grado di rivelare l’uomo interiore, tanto più chiaramente
l’uomo si manifesta come un essere artistico.
Ma l’uomo interiore è colto direamente solo dall’orecchio, al quale si
manifesta mediante il tono di voce. Il tono di voce è infai l’espressione
immediata del sentimento quale esiste fisicamente nel  cuore, punto di
partenza e di arrivo della circolazione del sangue. Araverso il senso
dell’udito il sentimento del cuore si trasmee al sentimento del cuore: in
altri termini, il dolore e la gioia dell’uomo dotato di sentimento si
comunicano direamente, tramite la voce, all’uomo dotato di
sentimento; e mentre la facoltà d’espressione e di trasmissione dell’uomo
fisico esteriore mediante la vista si trova dinanzi un limite che non
consente d’esprimere e di comunicare i sentimenti del cuore, il
tono  variato della voce comunica chiaramente quei sentimenti all’udito,
che, a sua volta, li trasmee ai sentimenti del cuore.
ando poi l’espressione immediata del tono di voce trova a sua volta
un limite nella precisione  deagliata dei sentimenti del cuore da
comunicare  alla simpatia e all’interesse dell’uomo interiore, allora si
genera l’espressione del linguaggio, che viene comunicata dal tono di voce.
Il linguaggio è l’elemento concentrato della voce, la parola è la sostanza
condensata del suono. Per suo tramite il sentimento si trasmee
dall’orecchio al sentimento, ma sta  al sentimento condensare e fissare
quegli elementi  che di sé vuol far comprendere con certezza e
infallibilmente. La parola è dunque l’organo del sentimento particolare che
comprende se stesso e cerca di farsi comprendere: è quindi l’organo
dell’intelleo.
La qualità immediata del suono fu sufficiente quando si traò di
esprimere un sentimento vago e generico; il suono si limitò quindi a essere
un’espressione bastante in se stessa e gradevole ai sensi; nella sua quantità
o, per meglio dire, nella sua estensione, il sentimento potè manifestare, in
un modo tuo caraeristico, la propria qualità nei suoi aspei generali.
Invece il bisogno definito, che vuol farsi comprendere araverso il
linguaggio, è più risoluto e imperioso; non s’indugia nel desiderio di
piacere nella sua manifestazione concreta, perché deve esprimere un
sentimento, per lui obieivo, nel suo differenziarsi da un sentimento
generico: deve quindi  dipingere, descrivere quel che il suono,
espressione  d’un sentimento generico, offre immediatamente.  Chi parla
deve trarre immagini da oggei analoghi, ma tuavia diversi, e combinarle
in un insieme.  Solo con questo processo mediato e complesso gli  è dato
esternarsi; quindi, mosso soprauo dal desiderio impellente di farsi
comprendere, accelera i tempi e ben poco indugia sul suono, venendo così
a  trascurare completamente la facoltà generica di  espressione da lui
posseduta. Per questo necessario  abbandono, per questa rinuncia al
piacere prodoo dall’elemento concreto della propria espressione - almeno
a quel grado di piacere che l’uomo fisico e  l’uomo dotato di sentimento
possono trovare nel loro modo di esprimersi - l’uomo dotato
d’intelleo riesce inoltre a dare al linguaggio, per mezzo del  suo organo,
l’espressione certa dinanzi alla quale  l’uomo fisico e l’uomo dotato di
sentimento avevano  rispeivamente trovato i loro limiti. Il suo potere
è illimitato: raccoglie e distingue il generico, separa e riunisce le immagini
che i suoni gli procurano dal mondo esterno secondo il proprio bisogno e
la  propria volontà; ci spiega largamente il generale  e il particolare per
soddisfare il proprio desiderio di esprimere, in modo certo e intelligibile, il
suo sentimento, le sue idee, la sua volontà. In ciò non trova limiti se non
quando, nell’eccitazione del sentimento, nell’euforia della gioia o soo la
violenza  del dolore (vale a dire quando il particolare, l’arbitrario gli si
annullano dinanzi all’elemento generale e necessario del sentimento che lo
domina e quindi è obbligato a uscire dall’egoismo della propria
espressione personale e definitiva) viene a trovarsi  nella comunità del
grande sentimento universale,  cioè nella verità assoluta del sentimento e
dell’impressione. In tal caso egli deve soomeere la propria volontà
individuale alla necessità, sia questa prodoa dalla gioia o dal dolore; nel
qual caso non  può comandare, ma deve obbedire e cercare
l’unica  impressione immediata conforme al suo sentimento  eccitato
all’infinito.
A questo punto gli è indispensabile riprendere l’espressione generale e,
più precisamente, tornare  sui propri passi ripercorrendo le tappe
araverso  cui era giunto al suo punto di vista particolare, per  essere in
grado d’improntare all’uomo di sentimento il tono fisico concreto del
sentimento e all’uomo  fisico il gesto fisico del corpo. ando infai si
traa dell’espressione più direa, e quindi più sicura di quello che di più
elevato e più vero esiste nell’uomo, l’uomo deve trovarsi intero e perfeo:
deve essere l’uomo intelligente unito all’uomo di sentimento e all’uomo
fisico dall’amore più grande e più intenso.
L’evoluzione che va dall’uomo fisico ed esteriore all’uomo intelligente
tramite l’uomo di sentimento  avviene per gradi intermedi sempre più
accentuati.  L’uomo intelligente è - come il suo organo d’espressione, il
linguaggio - il più alla mano e il più umile perché tue le qualità che in lui
albergano debbono avere un normale sviluppo prima che esistano le
condizioni di dee qualità. La facoltà più necessaria è anche la più alta; e
la gioia basata sulla  consapevolezza delle proprie qualità superiori e
insuperabili induce l’uomo intelligente alle più orgogliose illusioni per
osare di servirsi delle qualità che gli sono fondamentali come se fossero al
servizio del suo arbitrio.
Ma l’onnipotenza delle sensazioni fisiche e dei sentimenti del cuore fa
crollare l’orgoglio non appena questi si manifestano all’uomo intelligente
come sensazioni e sentimenti della specie, quindi comuni a tui. La
sensazione isolata, il sentimento  isolato quali si manifestano a lui
individuo mediante il contao particolare e personale con
l’oggeo  particolare e personale, possono essere da lui soomessi e
dominati a beneficio d’una combinazione  più ricca d’oggei diversi
concepita da lui stesso.  Ora la combinazione più ricca di oggei diversi
all’altezza della sua conoscenza gli presenta l’uomo come una specie nel suo
legame con tua la natura,  e il suo orgoglio s’infrange dinanzi a
quest’oggeo immenso e onnipotente. Non può che volere l’universale, il
vero, l’assoluto; si sente preso non dall’amore per il tale oggeo o per il tal
altro, ma come assorbito nell’amore in generale; così l’egoismo  diventa
comunismo, l’uno Tuo, l’uomo Dio, l’artificiale Arte.

2. Le tre specie d’arte puramente umane nella loro unione originaria.

Le tre facoltà artistiche dell’uomo completo hanno preso da sole, senza


alcun intermediario, la triplice espressione d’un’arte umana; ciò si è
verificato tanto nella prima opera d’arte originaria che è la lirica, quanto
nella suprema perfezione cosciente dell’opera d’arte che è il dramma25. 
Danza, musica e poesia: ecco le tre sorelle eterne che sbocciarono
insieme quando si furono verificate le condizioni necessarie al loro
apparire. Per loro natura esse non possono essere separate senza che sia
distruo il cerchio dell’arte, perché nel  cerchio, che è il movimento
dell’arte medesima, sono legate tra loro in un’unione materiale e
morale così mirabilmente solida e feconda, che ciascuna di esse, fuori dal
cerchio, resa priva di vita e di movimento, non può che vivere una vita
infusa artificialmente, fiizia, che non dea leggi piacevoli, come la loro
trinità, ma subisce regole tiranniche per i suoi movimenti meccanici.
Se consideriamo la splendida danza delle muse più nobili e vere
dell’uomo-artista, vediamo subito tu’e tre le sorelle tenersi teneramente
avvinte; il braccio dell’una cinge il collo delle altre. Poi sia l’una che l’altra,
sole, come per mostrarsi a vicenda la bellezza del proprio corpo in piena
libertà, si  staccano dall’abbraccio; l’una tocca appena la punta delle dita
della mano dell’altra. Le altre due allora, prese dal fascino della terza, la
salutano e le rendono omaggio per unirsi infine tu’e tre abbracciate, seno
contro seno, corpo a corpo in un ardente bacio d’amore, in una sola forma
di vita voluuosa. Ecco l’amore e la vita, la gioia e la seduzione dell’arte
che è sempre se stessa e sempre diversa, che si divide all’infinito per
riunirsi nella beatitudine.
Ecco l’arte libera. Nella danza delle tre sorelle il ritmo dolce e, nel
contempo, robusto è una marcia verso la libertà; il bacio d’amore del loro
abbraccio è la gioia della libertà conquistata.
Chi è isolato non è libero perché è limitato e suddito in seno
all’indifferenza; libero è l’uomo sociale perché l’amore lo rende libero e
indipendente.
In tuo quel che esiste la forza più potente è il desiderio di vivere: esso è
la forza irresistibile del  complesso insieme di quelle condizioni che
hanno  trao quel che esiste alla vita, cioè di quell’insieme  di cose o di
forze vitali le quali, in quel che esiste di per sé, sono quelle che bramano
quel punto di  congiunzione. L’uomo soddisfa il bisogno di
vivere  aingendo alla natura: e non è certo un furto,
ma  un’appropriazione, è la consumazione di quel che  vuole essere
consumato e assimilato dall’uomo come cosa necessaria alla sua vita,
perché queste condizioni di vita, questi bisogni della vita di per se  stessi
non cessano con la nascita, ma anzi persistono e crescono in lui e per lui
per tua la vita. La dissoluzione del loro insieme è la morte. Il bisogno di
vivere insito nell’anelito vitale dell’uomo è un bisogno d’amare.
Come le condizioni della vita fisica dell’uomo poggiano sull’unione
d’amore delle forze naturali inferiori, che esigono nell’uomo l’intelligenza,
la liberazione e l’assorbimento in un essere superiore  che è l’uomo, così
l’uomo trova la sua intelligenza, la sua liberazione e la sua soddisfazione
in un oggeo superiore che è il genere umano, la comunità  degli uomini;
perché per l’uomo solo una cosa è superiore a lui stesso: gli uomini.
indi l’uomo non può appagare il proprio bisogno d’amore che donando
l’amore, il che significa donare se stesso ad  altri uomini e, al massimo
grado, agli uomini in generale.
el che di più ignobile si riscontra nel puro egoista è il fao che non
ammee, in sé come negli altri, altro che le condizioni naturali della sua
esistenza e se ne serve - sia pure in una maniera tua sua e tanto più
barbara quanto più raffinata - come si serve dei frui e degli animali della
natura, che vuole prendere e mai donare.
Ora l’uomo, come tuo ciò che proviene e deriva da lui, si rende libero
solo araverso l’amore. La  libertà è il bisogno necessario soddisfao; la
libertà suprema è il bisogno supremo soddisfao; ed il bisogno supremo è
l’amore.
Tuo ciò che vive proviene dalla vera natura non degenerata dell’uomo
o deriva da essa, tranne che  non sia assolutamente conforme a questa
natura nella sua essenza. Ora la caraeristica di quest’essenza è il bisogno
d’amore.
Ogni facoltà umana è limitata, ma tali facoltà riunite, in accordo tra
loro, si soccorrono a vicenda; in altri termini le facoltà umane, amandosi
reciprocamente, costituiscono la facoltà universale  umana che è senza
limiti, che basta a se stessa. Parimenti tue le facoltà artistiche dell’uomo
hanno  i loro limiti naturali perché l’uomo non ha un senso solo, ma dei
sensi in generale. Ogni facoltà deriva solo da un determinato senso e ha i
propri limiti  nei limiti del senso che le dà origine. I limiti dei  sensi
particolari sono anche i punti di contao tra  loro, i punti in cui si
confondono e si comprendono. Allo stesso modo le facoltà da loro derivate
si toccano e si comprendono; i loro limiti si aboliscono  nel loro accordo.
Ma solo ciò che si ama si può comprendere, e amare significa riconoscere
altri e, nello stesso tempo, riconoscere se stessi. Il riconoscere mediante
l’amore è la libertà; la libertà delle facoltà umane è la facoltà universale.
Solo l’arte corrisponde a questa facoltà universale dell’uomo e per
conseguenza è libera, mentre un genere d’arte non è libero perché deriva
da una sola facoltà umana. Danza, musica e poesia, prese separatamente,
sono ognuna limitata a se stessa; se si oppongono ai propri limiti, ognuna
si sente schiava, a meno che, giunta agli estremi, non tenda la  mano
all’altro genere d’arte corrispondente con un  amore tuo pieno di
riconoscimento. Basta l’azione del tendersi la mano perché siano poste al
di sopra di quel limite; l’assorbimento assoluto, il dono  assoluto all’arte
sorella, cioè il dono assoluto di se  stessa oltre il limite che le divide, fa
crollare il limite stesso; e quando tui i limiti saranno in tal  modo
eliminati, spariranno i generi d’arte, che anch’essi altro non sono che
limiti, e non resterà che l’Arte, l’arte comune, universale, illimitata.
Una libertà condannabile e malintesa è quella dell’uomo che vuole
essere libero nell’isolamento, nella solitudine. Lo sforzo di staccarsi dalla
comunità, di volersi tenere in disparte, conduce solo all’opposto di quanto
arbitrariamente desiderato: alla più  completa soomissione. Nulla è
indipendente nella  natura se non possiede le condizioni della sua
indipendenza non solo in sé, ma anche fuori di sé. Le  condizioni interne
esistono dunque solo quando esistono quelle esterne. Chi vuole
distinguersi deve necessariamente possedere quel quid da cui vuole essere
distinto. Chi vuol essere completamente se  stesso, deve riconoscere quel
che è, ma può riconoscerlo solo nella distinzione da quel che non è.  Se
vorrà astrarsi da quanto si distingue da lui, egli  stesso non sarà più
qualcosa di distinto, e per tale  ragione non sarà neppure cosciente di se
stesso. Per voler essere completamente quel che è di per se stesso, l’isolato
deve servirsi di quel che non è; quel che non è, è ciò che si differenzia da
lui; ed è soltanto nella piena comunità con ciò che si differenzia da lui, nel
totale assorbimento nella comunità differente da lui, che egli può essere
quel  che è, quel che deve essere e quel che vuol essere  razionalmente.
L’egoismo non può soddisfarsi pienamente che nel comunismo.
L’egoismo, che tanto dolore ha recato nel mondo e un’infermità,
un’insincerità tanto deplorevole nell’arte, altro non è, per dire il vero, che
l’egoismo naturale e razionale, che si soddisfa pienamente nella comunità
universale. Esso respinge con sdegno il nome di egoismo e si denomina
amore fraterno, cristiano, amore dell’arte e degli artisti. Eleva templi a Dio
e all’arte, costruisce ospedali per  dare giovinezza e salute alla vecchiaia
inferma, e  anche scuole per rendere vecchia e inferma la gioventù sana;
fonda facoltà universitarie, magistrature, costituzioni, stati e non so che
altro, solo per  provare che non è egoismo. Proprio questo è il
più  condannabile di tui gli egoismi, il solo funesto a  se stesso e alla
società. È l’isolamento degl’individui, in cui ogni zero dev’essere qualcosa,
dove il totale e il comune è zero, dove ognuno, di per sé, si vanta di essere
qualcosa di particolare, d’originale, quando, in realtà, l’insieme non è nulla
di particolare: nient’altro che una contraffazione.
Ecco l’indipendenza dell’individuo quando ogni individuo, per essere a
ogni costo “libero con l’aiuto di Dio”, pretende di essere quel che sono gli
“altri” a spese degli altri e, in altri termini, segue un  preceo che è
l’opposto di quello di Gesù: “Meglio prendere che dare”.
Ecco il vero egoismo, dove ogni specie d’arte separata tende a meere
in mostra i caraeri dell’arte generale, mentre non fa altro che perdere la
propria originalità. Esaminiamo ora più da vicino che cosa è diventata, in
tali condizioni, ciascuna delle tre caste sorelle elleniche!

3. La danza.

Tra tui i generi d’arte la danza è il più materiale. La sua materia artistica
è il corpo umano, l’uomo fisico, e non una parte di esso, ma lui tuo
intero,  come si offre alla vista, dai piedi alla testa. La danza racchiude
dunque in sé gli elementi della manifestazione di tui i generi d’arte:
l’uomo che canta e che parla deve essere necessariamente un essere fisico;
mediante la forza esteriore e gli aeggiamenti delle membra si manifesta
l’uomo interiore che canta e parla; solo mediante la mimica della danza la
musica e la poesia diventano comprensibili e intelligibili all’uomo, che può
accostarsi all’arte perché non si limita a capire, ma vede.
L’opera d’arte si emancipa solo nel momento in cui si manifesta
direamente ai sensi pertinenti, quando  l’artista, comunicandosi ad essi,
prende coscienza del  significato del suo messaggio. Il soggeo supremo
dell’arte, il più degno di essere comunicato, è  l’uomo; a scarico di
coscienza l’uomo, infine, non si comunica che soo l’aspeo fisico e solo
al senso a esso pertinente, cioè alla vista. Ogni arte che  non tien conto
della vista non dà soddisfazione, e  per conseguenza è schiava. Anche se
raggiunge la  più alta perfezione espressiva, se si rivolge solo all’udito
oppure soltanto alla comprensione che combina e indireamente supplisce
alla sua comunicazione esplicita, siccome non si comunica alla vista, resta
un’arte che vuole, ma che non può interamente. Ma l’arte deve potere:
infai molto giustamente, nella nostra lingua, la parola “arte” trae la sua
etimologia dal verbo “potere”26.
L’uomo fisico manifesta una sensazione fisica di dolore o di piacere agli
organi del corpo e araverso gli organi del corpo che provano
dolore,  piacere o benessere esprime il senso di dolore o  di benessere
dell’intero corpo mediante dei movimenti significativi che si accordano
nell’insieme di tui i membri o, almeno, di quelli capaci di esprimersi. Da
questo rapporto reciproco, quindi dalla molteplicità dei movimenti che si
compiono  e s’interpretano, infine dalla ricca varietà dei movimenti
suddei come sono prodoi in analogia con i sentimenti risultanti (a poco
a poco, violentemente, insomma dalla mollezza della tranquillità
fino  all’impeto della passione), si deducono le leggi d’un  movimento
capace d’infinite variazioni, mediante il  quale l’uomo si manifesta e si
rappresenta artisticamente.
Il selvaggio, dominato dalla più brutale passione, non conosce nella
danza che i passaggi dall’impetuosità più uniforme alla calma apatica più
monotona. L’uomo civile, più nobile, si manifesta invece per il numero e la
varietà delle gradazioni. Più le  gradazioni sono ricche e variate, più
l’ordine del  loro alternarsi, pieno di fantasia, è calmo e determinato. La
legge di quest’ordine è il ritmo.
Il ritmo non è affao un’invenzione arbitraria, secondo la quale
l’uomo-artista deve muovere le membra del corpo; è l’anima dei
movimenti necessari di cui l’uomo-artista è diventato cosciente e con
cui cerca di trasmeere le sue impressioni incoscienti.
Se il movimento che accompagna il gesto è il suono espressivo della
sensazione, il ritmo ne è il linguaggio comprensibile. Più rapida è la
modificazione delle impressioni, più è appassionata, meno è chiara  per
l’uomo, che in tal caso è quasi incapace di esprimere quel che sente. Se
invece questa modificazione è più rara, la sensazione si manifesta meglio.
La calma è l’inerzia; ma l’inerzia del movimento è la ripresa del
movimento; quel che si riprende si può  calcolare, e la legge che regola
questo calcolo è il ritmo.
Solo il ritmo fa sì che la danza diventi arte. È la misura dei movimenti
mediante i quali si manifesta la sensazione, la misura mediante cui essa
giunge alla manifestazione, che condiziona la comprensione. Legge
spontanea del movimento, il ritmo è di se stesso soggeo e, riconoscibile
materialmente, creatore della legge, proviene necessariamente da tu’altro
che dall’esercizio del corpo; è soltanto mediante una cosa diversa dal mio
Io che posso riconoscere me stesso. Ora ciò che si distingue dal
movimento del corpo è ciò che si comunica a un senso diverso da quello
che percepisce il movimento del corpo, e questo senso è l’udito. Il ritmo,
come risulta dalla necessità del movimento corporale che si sforza di farsi
comprendere, si comunica come necessità rappresentata esteriormente e,
soprauo al  danzatore, come una legge, mediante un suono che  solo
l’orecchio percepisce; così come nella musica  la divisione astraa del
ritmo, la bauta, si comunica come un movimento ripetuto perceibile
alla vista. La ripetizione regolare fondata sulla necessità del movimento si
presenta al danzatore come una  direzione che stimola e guida i suoi
movimenti secondo la ripetizione regolare del suono, così come è prodoo
subito e nel modo più semplice: col baito delle mani, poi con oggei
sonori di legno, di metallo o altri.
La semplice indicazione della durata in cui il movimento si ripete non
basta al danzatore che si rappresenta i propri movimenti come regolati. da
una legge esteriormente percepibile; e come il movimento dura di per sé,
dopo il rapido cambiamento, di  periodo in periodo e diventa una
manifestazione  continua, così il danzatore vuol sapere che il suono  che
non fa che apparire e sparire immediatamente è obbligato a persistere, a
durare nel tempo; vuole infine che il sentimento che ispira i suoi
movimenti sia parimenti espresso nella durata del suono, perché solo così
la misura che il ritmo s’è dato da sé  si adegua perfeamente alla danza
non comprendendo una sola condizione della sua essenza, ma, per quanto
è possibile, tue le condizioni. La misura deve essere quindi l’essenza
stessa della danza, rappresentata da un altro genere di arte affine.
L’altro genere affine, in cui la danza aspira necessariamente a
riconoscersi, a ritrovarsi, a confondersi, è la musica, che ricava proprio dal
ritmo della danza la sua ossatura.
Il ritmo è il legame naturale e indissolubile della danza con la musica;
senza di esso non esisterebbero né danza né musica. Se il ritmo è la legge
che  regge il movimento e gli dà unità, lo spirito della  danza, cioè
l’astrazione del movimento fisico, è una forza che si muove e cammina ed
è come l’ossatura della musica. Più quest’ossatura si riveste di carne, e cioè
di suoni, più la legge della danza si vela e  scompare nell’essenza
particolare della musica; allora la danza giunge a esprimere le più
profonde intimità del cuore e si aua così in essa quella facoltà che unica
può permeerle di esprimere l’essenza del suono. La carne più viva del
suono è la voce umana; e la parola può definirsi il ritmo osseo e muscolare
della voce umana.
Nella limpida precisione della parola il sentimento motore, così come
emana dalla danza araverso la misura, trova la sua espressione infallibile
e sicura, nella quale può comprendere se stesso come  oggeo e quindi
esprimersi chiaramente. Così, araverso il suono diventato linguaggio,
nella musica diventata poesia, esso giunge al suo più pieno appagamento
estendendosi dalla danza alla mimica, dalla più vasta rappresentazione di
sentimenti fisici e generali all’espressione più precisa e delicata  delle più
nee emozioni dell’anima, del sentimento e della volontà.
Da questa reciproca e sincera penetrazione, da questa fecondazione, da
quest’intima mescolanza  delle differenti arti isolate - come si è
accennato brevemente traando dell’arte dei suoni e dell’arte poetica - è
nata l’opera d’arte unitaria del lirismo.  In essa musica e danza sono
ciascuna quel che possono essere secondo la propria natura; quel che non
possono più essere non se lo aribuiscono egoisticamente, ma lo sono
l’una in luogo dell’altra. Nel  dramma, che è la forma più perfea del
lirismo, ciascuna delle differenti arti, e soprauo la danza, sviluppa la sua
facoltà dominante. Nel dramma l’uomo di per sé, e con la più alta dignità,
è a sua volta soggeo e oggeo artistico di se stesso. Se in esso la danza
deve rappresentare il movimento di  un individuo o d’una colleività per
manifestarne i sentimenti individuali o colleivi, se la legge del ritmo che
produce è la misura che rende intelligibile tuo ciò che in esso è
rappresentato in generale, è ovvio che la danza si nobiliti nel
dramma auando la più immateriale delle sue espressioni, cioè la mimica.
Come arte mimica essa diventa la manifestazione immediata e
accessibile a tui dell’uomo interiore: non più il ritmo brutale e sensuale
del suono, ma quello immateriale, se pur concreto, del linguaggio che
s’impone al primo come una legge assoluta per natura. Sentimenti e
sensazioni, idee e pensieri, tuo quel che la lingua cerca di
rendere  comprensibile, così come sorgono, dalla tenerezza  più dolce alla
più inflessibile energia, e infine il loro manifestarsi come volontà
immediata, tuo ciò  non può diventare una verità completamente
intelligibile e degna di fede se non mediante la mimica.  Anche il
linguaggio non è espressivo, concreto e  persuasivo se gli manca il
concorso direo della  mimica. Da questa come elevata, la danza, nel
dramma, ridiscende alla sua origine prima, al momento,  cioè, in cui il
linguaggio si aenua e si limita a dare delle indicazioni, mentre la musica,
come ritmo animato, non fa altro che rendere omaggio alla propria sorella.
Oppure la sola bellezza dei corpi e dei  loro movimenti può rendere
l’espressione direa,  diventata indispensabile, d’un sentimento che
domina e tuo irradia di sé.
Così la danza, nel dramma, giunge al suo apogeo, alla potenza più
completa: affascinante quando domina, capace di rapire quando obbedisce,
sempre e dovunque se stessa perché sempre indipendente dalla volontà e
quindi necessaria, indispensabile. Infai un’genere d’arte può essere quel
che è, può e deve essere, solo quand’è necessario e indispensabile.
Come, durante la costruzione della torre di Babele, i popoli, dopo che i
loro linguaggi diventarono incomprensibili, non si compresero più tra loro
e si separarono per seguire ciascuno la propria strada, così anche le arti si
“specializzarono” quando  l’elemento nazionale comune si divise in tanti
egoismi particolari abbandonando l’edificio possente e  solenne, che nel
dramma s’elevava fino al cielo, e  nel quale avevano perduto la reciproca
comprensione, che era la loro anima colleiva.
Consideriamo ora quali furono le sorti della danza dopo che ebbe
abbandonato la compagnia delle sorelle e si fu avventurata da sola nel
mondo affidandosi al caso.
Se la danza si rifiutò di tendere più a lungo la mano alla poesia
euripidea diventata scolastica - mano che, d’altra parte, quella rifiutava
altera e sdegnosa e che non riprese, umilmente offertale, se  non per
un’opera di tendenza -, se dunque si allontanò dalla sorella filosofica che,
nella sua oscura  frivolezza, poteva solo invidiarle il fascino giovanile ma
non la poteva più amare, ella non respinse  mai del tuo l’aiuto della
musica, l’arte a lei più vicina.
La danza è avvinta da un indissolubile legame alla musica, che ha in
mano la chiave dell’anima di lei. Come, dopo la morte del padre, i figli, che
prima erano legati d’amore e conoscevano il patrimonio comune, diventati
eredi, calcolano egoisticamente ciò che speerà loro come bene proprio e
personale, così la danza fece conto per sé sola di quella chiave come se da
lei sola fosse stata forgiata, la volle tua per sé come condizione della sua
vita  ormai separata da quella delle altre arti. Rinunciò  così alla voce
espressiva della sorella perché questa voce, la cui sostanza è la poesia,
l’avrebbe per sempre incatenata a questa superba padrona. Fu allora che la
danza fece suo quell’arnese fao di legno o di metallo: lo strumento che la
musica sua  sorella, nell’affeuoso proposito d’animare col proprio soffio
vivente perfino le materie inanimate della natura, aveva inventato per
sostenere e rafforzare la propria voce; quello strumento che possedeva
bastante capacità di produrre la durata necessaria e costante della misura e
del ritmo imitando la  voce affascinante della sorella. Fao suo lo
strumento musicale, la danza abbandonò la sorella, che aveva troppa fede
nella parola, alla corrente del fiume senza rive dell’armonia cristiana, per
gearsi con suprema leggerezza nei lussuosi saloi del mondo.
esta persona dalle vesti succinte la conosciamo bene: chi può dire di
non averla mai incontrata? Dovunque la pesante ricchezza moderna
desidera divertirsi ella è presente, con la più grande compiacenza del
mondo, e per il denaro fa tuo ciò  che le si chiede. Non è più capace di
usare la più  bella delle sue facoltà: quella di rendere al vivo, con  i suoi
gesti e le sue aitudini, l’idea della poesia nel  suo desiderio d’essere
un’incarnazione umana. esto tesoro l’ha perduto o ne ha fao dono - a
chi, poi? - con un’imperdonabile balordaggine. I trai del viso, come tui i
gesti delle membra, oggi non sanno esprimere che un’illimitata civeeria.
La sua  unica preoccupazione è dare l’idea di essere in grado di rifiutare
qualcosa, e si libera di questa preoccupazione con la sola espressione
mimica di cui sia  ancora capace: un sorriso imperturbabile e la
sollecitudine più accesa nel fare una cosa qualsiasi. Con quest’espressione
invariabile e stereotipa dei trai del viso, essa obbedisce con l’unico mezzo
delle  gambe al desiderio di varietà e di movimento. Il  talento,
araversando l’intero corpo, le è passato dalla testa ai piedi.
La testa, la nuca, il corpo, le anche non esistono altro che per la
seduzione da loro esercitata direamente. Le gambe, da sole, si sono
gravate di tua l’espressione: le mani e le braccia s’aiutano fraternamente
solo per mantenere il necessario equilibrio.
el che nella vita privata ci si permee d’esprimere con la legnosità
d’espressione che caraerizza la civiltà. - quando la nostra borghesia
moderna accondiscende a danzare, per passatempo, quello  che si chiama
ballo -, si permee alla danzatrice  compiacente d’esprimerlo in pubblico
sulla scena con una brutale sfacciataggine: il suo modo di agire, infai, è
arte, ma non è verità; e dal momento che la si dichiara fuori della legge, è
al di sopra della legge. Possiamo quindi permeerle di eccitarci, senza per
questo abbandonarci, nella vita civile che  viviamo, alle eccitazioni che
offre; così come la religione ci offre quotidianamente esortazioni alla bontà
e alla virtù, alle quali tuavia non siamo costrei a obbedire. L’arte è
libera, e la danza trae da questa libertà i suoi vantaggi. Ha buone ragioni
di farlo: altrimenti a che servirebbe la libertà?
Ma come ha potuto un’arte tanto nobile cadere così in basso da non
poter sussistere, nella nostra vita pubblica, se non come suprema sintesi di
tui gli artifici della galanteria e da languire nelle catene più infami della
schiavitù più umiliante? Perché ogni cosa, tolta dai suoi contai naturali,
isolata nel  proprio egoismo, diventa realmente schiava, vale a  dire
dipendente da una cosa che le è estranea. L’uomo fisico, che è solo fisico e
materiale, l’uomo puramente intelleuale o puramente razionale, presi
in se stessi sono incapaci di quelle forme d’indipendenza che sono tipiche
dell’uomo vero e reale. La esclusività della loro essenza fa sì che si giunga
a effei stravaganti, perché la misura salutare si presenta da sé solo nella
comunità di ciò che è natura continuamente differenziata. L’eccesso invece
è l’antitesi per eccellenza della libertà di un essere, e questo asservimento
consiste sempre in una dipendenza dall’esterno.
Separandosi dalla musica vera e soprauo dalla poesia, la danza non
solo ha rinunciato alla più elevata delle sue facoltà, ma anche a un po’
della sua originalità. Non è originale se non quello che può autogenerarsi,
e la danza fu un’arte perfeamente  originale fintanto che seppe far
emergere dal proprio fondo e dalla propria intima necessità le
leggi  secondo le quali si mise in grado di manifestarsi e  di essere
compresa. Ai nostri giorni di originale c’è  solo la danza popolare,
nazionale, perché esprime da sé la sua particolare natura, che si manifesta
in  modo inimitabile mediante il gesto, il ritmo e la misura, di cui essa
stessa ha creato spontaneamente  le leggi. E tali leggi non sono
trasmissibili né razionali, se non provengono veramente dall’opera di arte
popolare come sua essenza astraa.
La danza non può evolversi sino a diventare una arte onnipotente e
feconda se non in unione con la  musica e con la poesia, le quali non
debbono essere da lei dominate, ma completamente libere; essa infai non
può arricchire e sviluppare al massimo le  sue facoltà particolari senza le
affini facoltà e le ispirazioni di quelle arti.
L’opera d’arte lirica greca ci dimostra come le leggi del ritmo proprie
della danza, moltiplicate all’infinito, sviluppate e arricchite nel modo più
adeguato al loro caraere, hanno animato di sé la musica e soprauo la
poesia e come, a loro volta, i caraeri peculiari di queste due arti abbiano
infuso nella danza innumerevoli idee nuove per trovare nuovi movimenti
caraeristici. In questo scambio fecondo ogni particolare genere d’arte ha
raggiunto la piena perfezione. Ma la danza popolare moderna non doveva
trarre profio da questi contai: infai presso le nazioni moderne ogni
arte popolare è stata soffocata nel crescere dall’influsso del cristianesimo e
della civiltà statalista cristiana; rimasta quindi una pianta solitaria, non è
mai giunta a una fioritura ricca e variata.
indi, nel regno della danza, le sole manifestazioni del nostro mondo
contemporaneo che siano note a tui sono quelle prodoe dal popolo, tali
e quali come sono sorte dallo spirito di questa o di quella nazione.
Tua la nostra coreografia cosiddea civilizzata non è altro che un
centone di danze popolari, ma lo stile popolare di ogni nazione vi è stato
adaato, smussato, raffinato e quindi svisato, mai sviluppato con maggiore
ampiezza, perché la coreografia, in  quanto arte, non sussiste che per
nutrimenti esteriori. Il suo processo è dunque un’imitazione,
una compilazione, una confusione artificiale voluta, non una fecondazione
e una creazione nuova. Il suo caraere è quello della moda che, pur di
cambiare,  preferisce oggi un modo e domani un altro. Di conseguenza è
costrea a inventarsi, a crearsi dei sistemi, a regolarizzare le proprie
intenzioni, a manifestarsi con supposizioni e accezioni inutili, che  però
possono essere comprese ed eseguite dai suoi  adepti. Ma i sistemi e le
regole fanno sì che essa sia  assolutamente isolata come arte, che le sia
impedito  ogni salutare contao con un’azione comune con  altre arti.
L’affeazione d’una vita artificiale tenuta  in piedi da leggi e regole
arbitrarie è tipicamente  egoista: e siccome di per sé è incapace di
generare, le è rifiutata ogni fecondazione.
est’arte non ha bisogno d’amare; può solo prendere, non donare.
Come ogni arte egoista assorbe linfe estranee d’ogni genere, le scompone,
le  consuma, le dissolve nella sterilità del proprio essere, ma non può
mescolarsi che a un elemento vitale estraneo perché nulla può darsi di se
stessa.
La nostra danza moderna tenta di realizzare l’intenzione del dramma
nella pantomima. Come ogni arte isolata ed egoista vuole essere tua per
sé, tuo potere, tuo prevedere da sola: vuole rappresentare uomini,
azioni, situazioni, conflii, caraeri, istinti umani, senza mai fare appello
all’unica facoltà che fa l’uomo completo: al linguaggio. Vuole essere poesia
senza allearsi con la poesia. Ma che produce in quest’isolamento, in questa
“indipendenza” orgogliosa? La creatura meno indipendente,  anzi la più
inferma e informe: uomini che non possono parlare non perché, per un
caso, sia stato loro  sorao il dono del linguaggio, ma perché
intenzionalmente non vogliono parlare; aori che ci sembrano liberarsi da
una cappa di piombo quando in un momento dell’azione - uno qualsiasi -
si decidono a finirla con il balbeio penoso del gesto e a dire una parola
pronunciata come vuole madre natura. Ma le regole e le prescrizioni
dell’arte della pantomima negano agli aori la facoltà di… macchiare con
un suono del linguaggio naturale il sentimento  immacolato della danza
“indipendente”!
Ma questo speacolo tuo muto è tanto miseramente schiavo da osare
tu’al più d’arrampicarsi a soggei drammatici che non hanno bisogno di
fare appello alle facoltà intelleive dell’uomo; è tanto meschino che, anche
nei casi più favorevoli a questo genere, è spesso obbligato a ricorrere a
vergognosi espedienti: tra l’altro, anche a comunicare al  pubblico le sue
vere intenzioni mediante un… programma esplicativo!
Non si può negare che proprio qui si manifesti il proposito più nobile
della danza: lo sforzo di voler essere qualcosa. Essa si eleva al punto da
aspirare all’opera d’arte suprema, il dramma; vuole evitare lo sguardo
lascivo e ripugnante della frivolezza, afferrarsi al velo artistico, che può
nascondere la sua nudità vergognosa. Ma, nell’esprimere questo desiderio,
a quali e quante umiliazioni si deve  sooporre! Con quale travestimento
affliggente, deplorevole, deve espiare il vanitoso desiderio d’indipendenza,
che è contro natura! L’arte, senza il singolo concorso della quale l’arte
superiore, la più nobile, non può manifestarsi, separata dalla comunità con
le sorelle, deve passare dalla prostituzione al ridicolo e dal ridicolo alla
prostituzione.
O danza, arte mirabile! O danza, arte miseranda!

4. La musica.

Il mare separa i continenti e li avvicina; così la musica separa e avvicina i


due poli opposti dell’arte umana: la danza e la poesia.
La musica è il cuore dell’uomo. Il sangue, che v’inizia la circolazione, dà
all’involucro esterno della carne un colore caldo e vivo, e all’interno
nutre i nervi agenti del cervello in uno slancio impulsivo. Senza l’aività
del cuore, l’azione del cervello sarebbe limitata a un lavoro meccanico,
l’azione dei membri esterni del corpo sarebbe un gesto macchinale privo di
sensibilità. Per mezzo del cuore, lo spirito si sente legato a tuo il corpo e
l’uomo fisico si spinge all’aività intelleuale.
L’organo del cuore è il suono, il suo linguaggio artistico e meditato è
l’arte dei suoni. La musica è  l’amore del cuore nella pienezza del suo
palpito, l’amore che nobilita la voluà e umanizza il pensiero astrao. Per
la musica, danza e poesia si comprendono, in essa s’incontrano con
affeuosa reciproca penetrazione le leggi che, secondo la loro natura,
presiedono alle manifestazioni di ambedue, in essa la volontà di ambedue
diventa l’inconscio: il metro della poesia e la misura della danza diventano
il ritmo necessario del baito del cuore.
Se dalle sorelle riceve le condizioni soo cui si manifesta, sa renderle a
sua volta infinitamente più belle nelle proprie manifestazioni. Se la danza
offre alla musica la propria legge dei movimenti, questa gliela restituisce
come ritmo espressivo, materializzato in una misura di movimento
intelligibile  e di gran lunga più nobile. Se, per rafforzare il  proprio
elemento vocale estremamente fluido, riceve dalla poesia un’ingegnosa
sequela di parole precise, ordinate dall’intelleo secondo il loro significato
e il loro metro come corpi concreti e suggestivi, le restituisce questi suoni
parlati, evocatori indirei d’idee, che si condensano in immagini,
non come un’espressione indirea, necessariamente vera nella loro avidità
di formulare delle idee, ma  glieli restituisce in una melodia che tende
direamente al sentimento, la giustifica, la libera infallibilmente da ogni
desiderio.
Nel ritmo animato dal suono e nella melodia, la danza e la poesia
ritrovano la natura a loro propria  concretizzata, abbellita, perfezionata
all’infinito. Allora si riconoscono e si amano. Il ritmo e la melodia sono le
braccia con cui la musica cinge le sorelle in un gesto d’affeo, sono le rive
mediante le  quali il mare congiunge i due continenti. Se questo  mare si
ritira e tra i continenti s’allarga il vuoto  dell’abisso, nessuna vela più
avanzerà da un continente all’altro: resteranno per sempre separati, o
almeno fin quando un’invenzione meccanica, magari  una ferrovia,
stabilirà le comunicazioni araverso il deserto. Anche il mare si araversa
con i vapori: il soffio possente dei venti è stato sostituito dal fumo denso
della macchina. Che importa se il vento spira verso levante? La macchina,
se lo vuole, ansima verso ponente. Così il compositore di danze  va a
cercare il programma d’una nuova pantomima nel continente della poesia,
oltre la superficie dell’oceano musicale debellato dalla forza del vapore. Il
fabbricante di drammi o di commedie, allo stesso modo, va nel continente
della danza, dove non mancano davvero occasioni di agitare le gambe, per
cercare qualche mezzo che gli consenta di rendere più  agile un’azione
pesante e imbrogliata. Ma guardiamo ora cos’è successo della musica,
sorella della  danza e della poesia, da quando il loro splendido  padre, il
dramma, ha cessato di vivere.
Conserviamo ancora l’immagine del mare per caraerizzare la natura
della musica. Se il ritmo e la melodia sono le rive dove la musica prende
terra per sostarvi e fecondare i due continenti delle arti con cui ha comune
l’origine, il suono è l’elemento fluido originario, e l’infinita distesa di
questo fluido è il mare dell’armonia. L’occhio non coglie che la superficie
del mare: la profondità solo il cuore può concepirla. Dall’oscurità cupa del
fondo l’armonia sale alla superficie marina baciata dal sole;  su una delle
rive i cerchi del ritmo si descrivono, s’allontanano, s’allargano, sempre più
ampi nello spazio, mentre dalle valli ombrose dell’altra riva si leva il soffio
denso di desideri, che culla e agita la  calma distesa, ove graziosi
ondeggiano i flui della melodia.
L’uomo si tuffa in questo mare per tornare alla luce del giorno più bello
e più fresco; sente il proprio cuore mirabilmente allargarsi quando mira
nelle profondità inaccessibili, ricche di ogni possibilità, che lo riempiono di
stupore e gli fanno presentire l’infinito.
La profondità e l’immensità della natura nascondono all’occhio
scrutatore dell’uomo la causa incomprensibile della germinazione, della
generazione, dell’eterno desiderio, perché l’occhio umano può concepire
solo quel che è stato prodoo, quel che ha  germinato, quel che è stato
generato ed è oggeo di  desiderio. Ora questa natura altro non è che la
natura dello stesso cuore umano. Il cuore racchiude i sentimenti dell’amore
e del desiderio nella loro essenza infinita, cioè l’amore e il desiderio nel
desiderio insaziabile di se stessi, e non può comprendere e concepire che
se stesso.
Se quel mare s’agita dal fondo degli abissi, se la causa prima del suo
elemento genera la causa del suo movimento, allora il suo movimento sarà
infinito, senza tregua, eternamente insaziabile nel suo rifluire in se stesso,
eternamente avido e in continua, rinnovellata agitazione. Se l’immensità
del desiderio si desta per un oggeo esterno, anche se quest’oggeo, causa
del desiderio, viene ad aggiungervisi  dal limitato mondo dei fenomeni,
l’uomo inondato di sole che s’agita vivo e vigoroso accende la fiamma di
questo desiderio al baleno del suo occhio  scintillante, gonfia col proprio
alito la massa elastica del cristallo marino, e la fiamma tanto alto leva  il
suo ardore, da essere la tempesta che agita e solleva la superficie del
mare… quella fiamma, dopo che i suoi bagliori selvaggi si saranno spenti,
finirà per brillare come un luccichio tenue e dolce. La superficie del mare,
dopo che la furia dei giganteschi gorghi ha cessato di spumeggiare, si
compone  nel sorriso dei giochi deliziosi dell’onde; e l’uomo,  felice della
dolce armonia di tuo il suo essere, si abbandona, sulla navicella leggera,
all’elemento familiare, regge il timone con mano sicura seguendo  la sua
roa con la guida della dolce luce a lui ben nota.
I greci, navigando sul loro mare, non perdevano mai di vista la costa,
che era per loro simile alla  corrente che li conduceva sicuri di porto in
porto e sulla quale s’imbarcavano tra rive familiari al ritmo melodioso dei
remi. I loro sguardi si volgevano verso le danze delle ninfe della foresta, il
loro orecchio coglieva gl’inni degli dèi, di cui l’aure spiranti portavano il
ritornello melodioso e profondo dal tempio ereo in alto, sulla montagna.
Sulla  superficie dell’acque, cinti dall’azzurro del cielo, si  rispecchiavano
fedeli i profili della terra, delle rocce, delle vallate, dei fiori e degli uomini.
esto  specchiarsi, animato dolcemente dal soffio sereno  della brezza,
dava loro l’idea dell’armonia.
I cristiani invece abbandonarono le rive della vita. Esplorarono i mari
più lontani all’infinito, bramando essere soli sull’oceano e non vedere altro
che i cieli e le acque. Il verbo, cioè la parola della fede, fu la bussola che li
diresse sempre e unicamente verso il cielo. esto cielo che s’allargava sul
loro capo, s’abbassava a ogni estremità d’orizzonte come se fosse il confine
del mare; ma la vela  non toccò mai quel confine; di secolo in secolo i
cristiani vogarono verso la patria nuova, che palpitava sempre davanti ai
loro occhi, ma non la poterono mai raggiungere, finché un giorno,
dubitando delle virtù della loro bussola, l’afferrarono infuriati e
la  gearono oltre bordo come l’ultima delle illusioni  umane e, liberi da
ogni legame, si abbandonarono all’arbitrio inesausto del mare27.
Con una rabbia d’amore furiosa e inappagabile i cristiani sollevarono le
profondità del mare contro  il cielo inaccessibile: sete inestinguibile d’un
amore e d’un desiderio che dovevano amarsi e bramarsi eternamente e
senza una meta, abissi dell’inferno inesorabile d’un egoismo feroce, che
s’estende,  brama e vuole all’infinito, ma che non può eternamente
desiderare e volere se non se stesso. Volsero  così verso l’astraa
universalità del cielo azzurro il  desiderio universale assetato di
concretezza; ma quel cielo altro non fu che l’astrazione per eccellenza.
Essere felice, assolutamente felice, felice nel senso più ampio della
parola, immensamente, e con tuo ciò restare sempre se stessa: ecco il
desiderio insaziabile dell’anima cristiana. Per questo il mare si ergeva dalle
sue profondità verso il cielo per ricadere da tanta altezza nell’imo fondo;
eternamente  se stessa e perciò insoddisfaa eternamente: come  il
desiderio immenso ed esclusivo del cuore, che si condanna a non fare mai
dono di se stesso, a non  assorbirsi mai in un oggeo per non essere
altro che se stesso.
Ora, in natura tui gli eccessi tendono verso una misura, ogni cosa
illimitata finisce sempre col darsi da sola un limite. Gli elementi si
autolimitano  in una manifestazione determinata, e quindi anche  il mare
senza confini del desiderio cristiano trovò  una sponda sulla quale gli fu
consentito spezzare  il proprio furore. Dove avevamo creduto di
vedere, all’orizzonte lontano, l’approdo sempre cercato, ma mai raggiunto,
alle dimore sconfinate del cielo, l’ardito navigatore, il più temerario di
tui, scoprì finalmente una terra, una terra felice, vera, popolata di uomini.
Il vasto oceano non s’è però soltanto limitato, in grazia della sua
scoperta, ma è divenuto per gli uomini come un mare interno, le cui coste
formano  la circonferenza più vasta che si possa immaginare.  Ma se
Colombo ci ha insegnato a navigare sull’oceano e ad accostare tra loro i
vari continenti del mondo, se per la sua scoperta l’uomo, nella storia
del  mondo, mentre prima aveva lo sguardo limitato al  proprio paese, è
diventato universale e onniveggente, esiste anche un altro eroe: un uomo
in carne e  ossa che ha percorso l’immenso mare della musica  pura fino
agli estremi limiti, ha raggiunto nuove  sponde impensate, che ormai
questo mare non divide più dal vecchio continente dei primi uomini, ma le
congiunge a esso per un’umanità felice e ricreata dall’arte: l’umanità
dell’avvenire. est’eroe altri non è che Beethoven.
ando la musica abbandonò la cerchia delle sorelle, alla stessa
maniera in cui la sua leggera sorella, la danza, le aveva portato via la
misura ritmica, prese alla sorella razionale, alla poesia, la parola come
condizione di vita assolutamente necessaria, indispensabile28. Non era
però il Verbo creatore dell’uomo ed espressione dello spirito, ma il
Verbo  materiale, indispensabile: il suono condensato. Finché lasciò alla
danza che l’aveva abbandonata la misura ritmica perché ne usasse a sua
discrezione, la  musica si fondò soltanto sul verbo, il verbo della  fede
cristiana: una parola amorfa e povera, che essa asservì presto e del tuo,
senza incontrare resistenza. Man mano che la parola evaporava sino a
ridursi al semplice balbeio delle devozioni, simile a un  linguaggio di
fanciulli, essa sfruò l’occasione per  modellarsi secondo l’inesauribile
fondo della sua essenza impalpabile. Lo sforzo che fece per
giungervi costituì l’armonia29.
Simile a un fusto tuo drio, l’armonia emana verticalmente
dall’unione e dalla sovrapposizione  di elementi sonori analoghi. Una
modificazione incessante di questi fusti che si ergono sempre nuovi  e
s’allungano di lato costituisce la sola possibilità armonica assoluta. Il senso
di necessario affanno  che la bellezza di questo movimento genera nel
suo  ampliarsi è estraneo alla natura dell’armonia assoluta. esta non
conosce che la bellezza mutevole degli effei di colore dei suoi pilastri, ma
non il fascino della sua disposizione che si rende percepibile nel tempo,
perché questo fascino è opera del  ritmo. La varietà più inesauribile delle
sfumature sempre diverse è invece la fonte copiosa ed eterna  da cui può
aingere incessantemente una nuova  rappresentazione di se stessa con
un’immensa soddisfazione di sé. Il soffio incessante, che anima questo
movimento e arbitrariamente si condiziona, è  l’essenza stessa del suono,
l’alito delle aspirazioni  inscrutabili e onnipotenti del cuore. Nel regno
dell’armonia non esiste dunque né principio, né fine,  così come l’intimo
ardore nell’anima vago, che si  assorbe in se stesso, ignaro della sua
origine, altro  non è che aspirazione, slancio, languore, estinguimento,
quindi morte, senza aver avuto appagamento da nessun oggeo: quindi
morte senza morte, per un eterno ritorno in se stesso.
Finché durò la potenza del Verbo, essa fu principio e fine; ma quando si
perdee nell’abisso senza fondo dell’armonia, quando altro non fu che
“gemito e sospiro dell’anima” - come sui più fervidi culmini della musica
religiosa caolica - anche la parola fu collocata arbitrariamente sul vertice
delle colonne armoniche della melodia senza ritmo, sballoata di qua e di
là, e l’immensa possibilità armonica  dovee allora darsi da sola le leggi
della sua ultima manifestazione.
Non c’è altra facoltà artistica umana che risponda alla natura
dell’armonia: essa non può specchiarsi nei movimenti fisici e determinati
del corpo, né nella logica del pensiero; né può rappresentare la  propria
misura, come il pensiero, nella necessità riconosciuta del mondo concreto,
o come il movimento del corpo in una rappresentazione percepibile  nel
tempo della propria costituzione naturale ben  condizionata nella
concretezza: è simile a una forza insita nella natura percepibile per l’uomo,
ma  non intelligibile. L’armonia deve crearsi le proprie  leggi dal proprio
fondo senza limiti e seguirle per  una necessità esterna - non interiore -
d’isolarsi per  una manifestazione certa e definitiva. Basate sulla  natura
dell’affinità, come gli accordi, le colonne armoniche, nate dall’affinità della
materia sonora, come anche le leggi del legame armonico, s’uniscono  a
una misura che fornisce un benefico limite alla  vastità immensa delle
possibilità arbitrarie. Esse permeono la scelta più svariata nel regno delle
famiglie armoniche, aumentano a discrezione la possibilità di
raggruppamenti d’affinità eleiva con i  membri di famiglie estranee, ma
esigono anzituo  la più assoluta obbedienza e una perenne fedeltà  alle
leggi d’affinità della famiglia scelta per arrivare a una conclusione felice.
esta conclusione, che  è la misura dell’estensione nel tempo del brano
di  musica in generale, le convenienze dell’armonia  non possono né
produrla, né condizionarla: possono separare la massa fluida dell’armonia
per farne materia d’insegnamento o di studio, dividere il tuo  in
determinati corpi per puro uso dorinale, ma  non determinare la misura
di tempo di queste masse limitate.
Se la potenza restriiva del linguaggio era troppo complicata e se era
impossibile, per l’arte musicale diventata armonia, trovare ancora in se
stessa la misura di tempo che è legge, non le restava altro che rivolgersi a
quei resti di musica ritmica che la  danza le aveva lasciato. L’armonia
doveva quindi  essere animata da figure ritmiche; il loro
alternarsi,  ripetersi, suddividersi, riunirsi doveva condensare  la vasta
fluidità armonica, come, in origine, la parola aveva fao col suono, e darle
un limite certo nel tempo.
Ma questa vivificazione ritmica non era causata da un movente
interiore, che esigesse un’espressione puramente umana; la sua forza
motrice non è l’uomo dotato di sensibilità, d’intelligenza e di volontà come
quello che si esprime nella parola e nel gesto, ma da un movente esterno, e
come tale acceato, dell’armonia che esigeva un fine egoistico.  esta
successione e questo modellarsi dei ritmi che non vibrano davvero per una
necessità interiore non potevano essere dunque animati che da leggi e
invenzioni arbitrarie. este leggi e invenzioni sono quelle del
contrappunto.
Il contrappunto, nelle sue svariate e numerose creazioni ed
elucubrazioni, è il gioco artificiale dell’arte con se stessa, la matematica del
sentimento,  il ritmo meccanico dell’armonia egoista. La musica  astraa
provò tanto gusto da tale invenzione, che s’illuse di essere ella sola l’arte
assoluta e indipendente, l’arte che non doveva la propria esistenza
a  nessun bisogno umano, ma a sé sola, alla sua essenza assolutamente
divina. Anche l’uomo volontario crede di essere, per legge di natura,
l’unico che abbia il dirio di godere di ogni privilegio. È indiscutibile che
la musica doveva la sua condizione di indipendenza solo alla sua volontà,
perché quelle opere d’arte meccaniche, contrappuntistiche, erano del tuo
incapaci di rispondere a un bisogno dell’anima. Per orgoglio, la musica era
dunque diventata proprio il suo opposto: da cosa del cuore30  era diventata
cosa di testa, da espressione dell’aspirazioni senza limite dell’anima
cristiana s’era ridoa un libro moderno d’operazioni di borsa.
Ma il soffio vivente della voce eternamente bella e nobile nei suoi
sentimenti, così come emanava dal  cuore del popolo, sincera, sempre
fresca e giovane,  fece crollare il troppo fragile castello di carte
del  contrappunto. L’aria popolare restò fedele a se stessa perché aveva
conservata intaa la grazia nativa;  il canto streamente legato alla
poesia31, unito e  chiaramente limitato, balzò in alto con un volo leggero
per annunziare la redenzione felice nelle regioni del mondo artistico avido
di bellezza, scientificamente musicale. esto voleva tornare a
rappresentare degli uomini, a far cantare gli uomini, non  le canne
dell’organo: si rifece per questo desiderio all’aria popolare, ma purtroppo
ci costruì la romanza d’opera. Anche la danza s’era rifaa alla
danza  popolare per applicarla a combinazioni artistiche,  ispirate alle sue
abitudini dispotiche: lo stesso fece  del canto popolare la nobile musica
d’opera. Non  aveva còlto l’uomo intero per farlo agire tuo intero
trasformato in artista secondo una sua necessità assoluta: aveva còlto solo
l’uomo che canta e, nella  sua maniera di cantare, non aveva cercato la
poesia popolare con la sua innata forza creativa, ma, com’era ovvio, solo
l’aria melodiosa, determinata da  un poema redao con parole
convenzionali alla moda e quindi, di proposito, privo di senso
comune.  Non si sentiva baere il cuore dell’usignolo, ma si  badava solo
alla sua gola e ci si sforzava d’imitarla. Come il danzatore-artista allenava
le gambe per variare la danza popolare, che non era capace di evolvere, e
disegnava le contorsioni e gli sgambei più svariati, anche se monotoni al
massimo, così  il cantore-artista allenò la gola, che non era capace  a
rinnovare la natura del canto popolare, a una serie di variazioni vocali
fae d’interminabili fioriture  e arabeschi di ogni genere; e così una
praticaccia  meccanica prese il posto che l’abilità contrappuntistica aveva
lasciato libero. Le corruzioni, le caricature d’indicibile ripugnanza subite
dall’aria popolare, così come si notano nell’aria d’opera moderna (che altro
non è se non un’aria popolare mutilata e  non una creazione originale e
che, a dispeo di tua la natura, distaccata da ogni sentimento umano, da
ogni base poetica, titilla le orecchie di quel grande imbecille che è il
pubblico dell’opera con una  balordaggine di moda senz’anima e senza
vita), quelle corruzioni, dicevo, non abbiamo tempo d’esaminarle più a
lungo in questa sede: ci basta confessare con dolorosa sincerità che il
pubblico odierno  vede solo in tale aberrazione tua l’essenza
della musica32.
Ma da un tale pubblico, dai fabbricanti e mercanti che lo forniscono di
articoli di moda, l’essenza più originale della musica doveva librarsi, dalle
sue  profondità inaccessibili e con tua l’inesausta ricchezza della sua
potenza grandiosa, verso la redenzione, nel sole dell’arte universale e
unica dell’avvenire, e doveva prendere lo slancio proprio da quel  terreno
che è base di ogni arte puramente umana: dal movimento plastico del corpo
rappresentato nel ritmo musicale.
ando la voce umana, prostrata nel balbeio della parola cristiana
stereotipa e continuamente ripetuta fino al più assoluto abbrutimento, si
fu del tuo sublimata in uno strumento musicale concreto, fluido, al cui
aiuto si offriva anche se libera dalla poesia, già gli strumenti musicali,
accompagnatori della danza, fabbricati meccanicamente,
avevano  acquistato una possibilità d’espressione sempre più  ricca. Era
stata loro aribuita, quale proprietà esclusiva, la melodia ritmica, come si
conveniva a mezzi nati per l’aria di danza; e siccome si piegarono  senza
difficoltà a collaborare con l’elemento dell’armonia cristiana, toccò loro
naturalmente in sorte il peso di tuo l’ulteriore sviluppo della musica. La
danza armonizzata è la base dell’opera d’arte più  ricca: la sinfonia
moderna.
Ma anche la danza armonizzata cadde come preda succulenta nelle
mani del meccanismo contrappuntistico; questo la liberò dalla devota
obbedienza alla sua padrona, la danza del corpo, e d’allora in poi le fece
fare salti ed evoluzioni secondo le regole proprie. Legata a doppia fune a
questa danza regolata dal contrappunto, poteva animarla soltanto il caldo
respiro dell’ispirazione popolare naturale, che ben presto fece rivivere la
carne dell’opera  d’arte umanamente bella, e quest’opera d’arte nella  sua
perfezione massima è data dalla sinfonia di  Haydn, di Mozart e di
Beethoven.
Nella sinfonia di Haydn la melodia di danza si muove con tua la gaia
freschezza della gioventù: le sue combinazioni, i suoi sparpagliamenti e le
sue  ricomposizioni, anche se realizzati con la massima  tecnica
contrappuntistica, appaiono, se non altro, come il risultato d’un
procedimento tanto perfeo da  avere il caraere d’una danza originale
regolata dalle leggi della fantasia, tanto è ardente il felice  alito di vita
umana che la pervade. Al pezzo centrale, che si muove con una misura più
lenta, vediamo che Haydn assegna il compito di una crescente espansione
della semplice melodia popolare, che si  allarga secondo le leggi della
melodia, proprie dell’essenza del canto, mediante una progressione piena
di slancio e un ripetersi che vivifica la varietà dell’espressione. La melodia
autocondizionantesi fu  l’elemento della sinfonia di Mozart, il cui canto
è  ricco e pieno di gioia. Egli infuse negli strumenti  l’alito appassionato
della voce umana, verso la quale una predilezione imperiosa traeva il suo
genio.
Il torrente invincibile della ricca armonia lo condusse nel cuore della
melodia come se, nell’ansia tormentosa, volesse donare a quella,
interpretata  dai soli strumenti, la profondità del sentimento e il  fervore
che, nella voce naturale dell’uomo, emanano dal fondo del cuore come
inesauribile sorgente  d’espressione. Sebbene nelle sue sinfonie Mozart
abbia sempre seguito una concezione tradizionale saldamente radicata in
lui e, in un certo senso, non abbia fao altro che meere alla prova la sua
straordinaria abilità di contrappuntista, tuavia quello che scaturì dal suo
istinto trasse la capacità d’espressione vocale degli strumenti a tanta
altezza, da poter abbracciare non solo la serenità, la dolce e intima
beatitudine di Haydn, ma addiriura tua la  profondità delle infinite
aspirazioni del cuore umano.
La facoltà smisurata della musica strumentale nell’esprimere lo slancio
e il desiderio primordiale  fu tuavia prerogativa assoluta di Beethoven.
Solo  a lui fu concesso di dare una sfrenata libertà all’essenza propria
dell’armonia cristiana, a quel mare inaccessibile, sconfinato e in continua
agitazione. La melodia armonica - usiamo questo termine per  distinguere
dalla melodia ritmica di danza la melodia sciolta dalla lingua versificata -
fu affidata ai soli strumenti capaci delle più illimitate espressioni come del
più vario dei traamenti. Nella coordinazione dei lunghi periodi, come nei
frammenti grandi, piccoli o infimi, essa, nelle mani creatrici del  maestro,
dee vita a gridi, sillabe, parole, frasi di una lingua in cui potè esprimersi
quel che mai era stato compreso, deo o espresso. Ogni leera di questa
lingua fu un elemento tuo pieno d’anima, e la misura di combinazione di
questi elementi fu una  concezione infinitamente libera, come poteva
esercitarla il poeta dei suoni nella brama di esprimere senza ostacoli le sue
inaccessibili aspirazioni.
Felice di questo potere verbale ineffabilmente ricco d’espressione, ma
curvo soo il peso delle  aspirazioni della sua anima d’artista, che, nella
sua infinità, non poteva che essere essa stessa oggeo, ma non soddisfarsi
fuori di esso, questo navigatore glorioso e sfortunato, innamorato del mare
e fiaccato da esso, cercò un porto ove geare sicuramente l’àncora dopo lo
strepito feroce d’una felicità tempestosa. Se la sua potenza verbale era
infinita, anche il suo desiderio lo era mentre animava quella  lingua d’un
soffio eterno. Come proclamare la fine,  l’appagamento di questa brama
nella lingua che era  proprio l’espressione più viva di essa brama?
Se l’espressione d’un desiderio infinito del cuore è evocata in una lingua
sonora, elementare e assoluta,  questa non è che l’infinità di
quest’espressione, e  quella del desiderio stesso è una necessità, ma
non  una conclusione definita, che, come soddisfazione  del desiderio, non
può essere che arbitraria.
Con l’espressione determinata, modellata sulla melodia ritmica di
danza, la musica strumentale può rappresentare e fissare uno stato
d’animo tranquillo in sé, limitato con certezza, perché essa modella il suo
metro su un oggeo a lei naturalmente esterno: il movimento del corpo.
Se un brano di  musica, di primo acchito, si consacra soltanto a
quest’espressione, che non potrà mai considerarsi, più  o meno, se non
come un’espressione di gioia, ogni  tipo di soddisfazione che ne derivi,
anche nell’espansione più ricca e più vasta di tue le facoltà del linguaggio
sonoro, dovrà essere necessariamente fondata su quelle facoltà; dovrà
quindi essere puramente arbitraria e, per tale ragione,
pienamente  insufficiente se quest’espressione indubbiamente limitata
finisce col congiungersi alle tempeste del desiderio infinito. Il passaggio da
un’impressione di  ardente desiderio provocata indefinitamente a
una  impressione di soddisfazione gioiosa non può necessariamente
prodursi altrimenti che con il fissarsi  del desiderio su di un oggeo.
est’oggeo, conformemente alla natura del desiderio infinito,
può  essere però solo un oggeo che si autorappresenta  esaamente:
quindi finito, concreto, morale. La musica pura prescrive limiti ben definiti
a tale oggeo; non può di suo arbitrio, senza compromessi arbitrari, dare
in qualche modo rappresentazioni determinate ed esae all’uomo
materialmente e moralmente determinato; nella sua infinita ascesa è solo
sentimento, viene a contao con l’ao morale, ma non è essa stessa ao;
può accostare sentimenti e stati d’animo, ma non trarre necessariamente
uno stato d’animo da un altro, perché le manca la volontà morale.
ale arte inimitabile non impiegò Beethoven, nella Sinfonia in do
minore33,  per condurre sull’oceano delle infinite aspirazioni il proprio
spirito  verso il porto dell’appagamento! Gli fu concesso di  portare
l’espressione musicale quasi fino a una soluzione morale, senza tuavia
esprimerla in senso  assoluto, e noi, a ogni slancio della sua volontà,
ci sentiamo senza appoggio morale, bramosi di vioria, in ansia per questa
possibilità, timorosi di ripiombare nel dolore; anzi questa caduta ci sembra
quasi  più inevitabile d’un trionfo non motivato moralmente, che non è
un’inevitabile conquista ma quasi un  favore arbitrario che, dal punto di
vista streamente etico, non ci spea come ardentemente il cuore  lo
desidera, e, di conseguenza, non può né confortarci, né soddisfarci.
Ma chi si sente più insoddisfao di tale vioria che lo stesso
Beethoven? Ebbe qualcuno la brama  di riportarne un’altra della stessa
specie? Indubbiamente il gregge stolto degl’imitatori, che si preparava
inauditi trionfi con solenni esplosioni di gioia  in “maggiore”, dato che il
“minore” aveva fao provare tanta ansia… ma non certo il maestro, al
quale  la sorte aveva concesso di scrivere nelle sue opere  la storia
universale della musica.
Con sacro timore evitò sempre di riscagliarsi nell’oceano del desiderio
mai sazio, illimitato. Diresse i suoi passi verso gli uomini felici e lieti di
vivere  che scorgeva nelle fresche praterie, accampati ai  margini della
foresta densa di profumi, soo un cielo ebbro di sole, a ridere, a
chiacchierare, a danzare. Laggiù, all’ombra degli alberi, al mormorio delle
foglie, al sussurro familiare del rivo, concluse  un pao di felicità con la
natura; solo allora si sentì uomo, e il desiderio represso nel suo peo
si  placò dinanzi all’onnipotenza d’un’apparizione dolce e benefica. E fu
tanto riconoscente a quest’apparizione che fedelmente, lealmente, in tua
umiltà  nelle diverse parti dell’opera deatagli da quello  stato d’animo
saturo d’entusiasmo, copiò i quadri animati, la cui contemplazione l’aveva
ispirato, e intitolò il tuo: Ricordi della vita di campagna34.
Veramente questi erano solo ricordi, quadri, e non una realtà concreta e
immediata. A questa realtà lo  traeva l’onnipotenza delle sue necessarie
aspirazioni d’artista. Dare alle sue composizioni musicali la  stessa
materialità, la stessa fermezza sicura e concreta, chiaramente riconoscibile,
che aveva provato con tanta consolante felicità nei fenomeni della natura:
questa fu l’anima amante dell’istinto felice al quale dobbiamo la Sinfonia
in la maggiore35, il vero capolavoro. Ogni slancio, ogni aspirazione, e ogni
tempesta del cuore si tramuta in un delizioso senso di gioia che ci trascina,
con onnipotenza orgiastica, araverso gli spazi della natura,
araverso tue le correnti e tui gli oceani della vita, ci fa gridare di gioia,
ci rende coscienti ovunque avanziamo nel ritmo fiero di questa danza
umana delle sfere.
esta sinfonia è l’apoteosi della danza in se stessa: è la danza nella sua
essenza superiore, l’azione felice dei movimenti del corpo incarnati nella
musica. Melodia e armonia si mescolano nei passi nervosi del ritmo come
veri esseri umani che, ora con membra erculee e flessibili, ora con dolce ed
elastica docilità, ci danzano, quasi soo gli occhi, una ridda svelta e
voluuosa, una ridda per la quale la melodia immortale risuona qua e là,
ora ardita, ora severa36, ora abbandonata, ora sensuale, ora urlante  di
gioia, fino al momento in cui, in un supremo gorgo di piacere, un bacio di
gioia suggella l’abbraccio finale.
Eppure quei danzatori felici erano soltanto uomini rappresentati
mediante i suoni, imitati mediante i suoni! Come un nuovo Prometeo, che
dalla creta plasmava gli uomini, Beethoven ha cercato di crearli con i
suoni37. ! Non dalla creta e nemmeno dal suono, ma da questi due elementi
fusi insieme deve essere creato l’uomo fao a immagine di
Giove, dispensatore di vita. Le creazioni di Prometeo erano percepibili solo
alla vista, quelle di Beethoven solo all’udito. Solo là, dove la vista e l’udito
s’assicurano reciprocamente della sua apparizione, solo  là l’uomo artista è
soddisfao!
Ma dove mai Beethoven avrebbe potuto trovare uomini a cui tendere la
mano al di sopra dell’elemento sublime della sua musica? Uomini il cui
cuore fosse tanto vasto da potervi riversare il torrente  onnipotente dei
suoi suoni armoniosi? La cui statura fosse tanto splendida che i suoi ritmi
melodici potessero trascinarli, ma non spezzarli? Ahimè, da nessuna parte
gli è venuto in aiuto un fraterno Prometeo per additargli tali uomini! Egli
stesso dovee meersi in cammino per scoprire il paese degli uomini
dell’avvenire!
Dalle rive della danza si riscagliò nell’oceano senza confini donde s’era
salvato afferrando proprio quella sponda, nel mare dei suoi desideri
inappagati. Ma questa volta la sua nave era gigantesca, di solido legname,
temprata al cammino nella tempesta; afferrò con pugno saldo il timone
possente: ora  sapeva qual era la meta del viaggio e aveva deciso  di
raggiungerla. Non voleva prepararsi a immaginari trionfi, né voleva
tornare all’inutile porto della  patria dopo aver superato tante fatiche:
voleva misurare i limiti stessi dell’oceano, scoprire la terra  che doveva
trovarsi al di là del liquido deserto.
Così il maestro, araverso le possibilità del linguaggio musicale puro,
osò l’inosabile: non sfiorò alla leggera, ma pronunciò distintamente nel
fondò  del cuore tui i suoni fino all’ultimo, fino al punto  in cui il
navigatore comincia a geare la sonda per misurare le profondità marine,
fino al momento in  cui, sulla spiaggia del continente nuovo, aspea
di veder la terra ferma sollevarsi sempre di più, fin quando non si trova a
dover decidere se ritornare verso l’oceano senza fondo o geare le ancore
sulla  novella riva. Il maestro non s’era spinto in pelago  solo per una
capricciosa voglia di navigare: voleva e doveva sbarcare nel nuovo mondo
verso il quale  s’era messo in cammino. Con forza geò l’ancora,  e
quest’ancora fu la parola. Ma non quella parola qualunque, insignificante
che i cantori alla moda si  ruminavano in bocca, come semplice
cartilagine del suono della voce; era la parola necessaria, onnipotente, che
tuo raccoglieva, ove la piena dei  sentimenti che traboccano dal cuore
poteva riversarsi intera, era il porto sicuro del viandante irrequieto, la luce
che irradia la noe del desiderio infinito, la parola che l’uomo del mondo,
redento, cacciò dal cuore dell’universo e che Beethoven pose come una
corona ai culmini della sua creazione. “Gioia!” era questa parola, e per essa
così gridava  agli uomini: “Abbracciatevi, o milioni di esseri! Sia  il bacio
dell’intero universo!38.  esta parola sarà il linguaggio dell’opera d’arte
dell’avvenire.
L’ultima sinfonia di Beethoven è la redenzione della musica dal suo
elemento più peculiare verso  l’arte universale39. È il vangelo umano
dell’arte dell’avvenire. Dopo di essa non è più possibile alcun  progresso,
perché non può seguirla immediatamente che l’opera più perfea: il
dramma universale, di cui Beethoven ci ha fornito la chiave artistica.
Così la musica ha compiuto da sola quel che nessuna delle altre arti ha
saputo fare. Ognuna delle altre arti ha aiutato la propria sterile
indipendenza solo con acquisizioni e prestiti egoistici, e per conseguenza
non è riuscita a essere se stessa e a stringere da sola il legame che affratella
tue le cose.  Invece la musica, essendo completamente se
stessa, muovendosi nel proprio elemento originale, compì il sacrificio di se
stessa nel modo più grandioso e  amabile: seppe autodominarsi, cercò
perfino di rinnegarsi per tendere la mano liberatrice alle sorelle.  Provò
così come sia il cuore a unire la testa alle membra, e non è senza significato
che la musica abbia conquistato, nella presente modernità, un’estensione
tanto generale in tue le classi del pubblico.
Per bene conoscere lo spirito contraddiorio di questo pubblico
dobbiamo subito notare che la marcia in avanti che gli abbiamo visto fare
non è stata  affao compiuta da una collaborazione colleiva tra  artisti e
pubblico o dei musicisti tra loro, ma solo  da una possente individualità.
esta ha fao suo lo spirito di solidarietà che non esisteva nel pubblico e
ha trao dalla ricchezza del proprio essere, congiunta con la straordinaria
abbondanza di possibilità musicali, la solidarietà tanto desiderata da
lui  artista. A quanto ci consta, però, la creatività meravigliosa che
compenetra le sinfonie beethoveniane come un ao vitale perennemente
fecondo e che  non è stata davvero auata dal maestro in
remota solitudine, non è stata affao compresa dalla società artistica: anzi
è stata misconosciuta nel modo più vergognoso.
Le forme in cui il maestro manifestava il suo sforzo artistico
d’un’importanza storica universale per il mondo dei compositori di allora
e per i loro successori sono state solo delle forme diventate un  genere di
moda, e sebbene nessun compositore di  musica strumentale sia stato in
grado di manifestare in tali forme la pur minima inventività, più
d’uno non ha esitato a scrivere sinfonie su sinfonie e altri pezzi analoghi,
senza neppure rendersi conto che l’ultima sinfonia era già stata scria40. 
Abbiamo così constatato che il grande viaggio di scoperta di Beethoven
- fao unico che non può ripetersi e di tale portata da farci comprendere
che  nella sinfonia della gioia il grande maestro ha compiuto l’ultima
prodezza del suo genio - è stato ritentato, dopo di lui, con una stupidità
più che puerile ed è riuscito senza alcuna fatica. È nato così un  genere
nuovo: la sinfonia con i cori… non ci hanno  visto niente di più! Perché
allora Tizio o Caio non  potrebbe comporre una sinfonia con i cori?
Perché nel finale non si dovrebbe lodare “il Signore Iddio” a squarciagola
per avervi aiutato a portare a  termine tre grandi pezzi di musica
strumentale? Proprio così: anche Colombo ha scoperto l’America solo per
gli sporchi traffici degli ebrei del nostro tempo41.
La causa profonda di questo fenomeno ripugnante è da ricercarsi nella
stessa natura della nostra musica moderna. La musica isolata dalla poesia
e  dalla danza non è più un’arte istintiva necessaria  all’uomo. Ha dovuto
formarsi da sé secondo leggi che, trae dalla sua essenza particolare, non
trovano rispondenza alcuna né alcuna conferma in fenomeni che siano
puramente umani. Tue le altre  arti si sono fermamente limitate alla
misura della forma esterna dell’uomo, della vita esteriore dell’uomo o della
natura, tale misura ha dovuto necessariamente svisare questi doni positivi.
La musica,  che trovò la sua misura extraumana soltanto nell’orecchio
modesto e susceibile di tue le illusioni e di tui gli errori, dovee
crearsi delle leggi  quanto mai astrae e coordinarle in un sistema
completo, scientifico. esto sistema fu la base della musica moderna: su
questo sistema si costruì una  torre, poi sopra di essa un’altra, e più
l’edificio si faceva audace, tanto più erano necessarie delle basi solide, che
però non erano fornite dalla natura.
La natura s’è svelata allo scultore, al piore, al poeta nella sua legge
artistica; senza una comprensione intima della natura, costoro non
possono creare niente di bello. Al musicista si svelano invece le  leggi
dell’armonia e del contrappunto. est’insegnamento, senza il quale non
può innalzarsi un edificio musicale, è un sistema astrao, scientifico;
il  compositore diventa quindi un mestierante che acquista l’abilità con
l’esercizio e, da questo punto di  vista professionale, contempla il mondo
reale, che per forza deve apparirgli tu’altro da quel che appare all’uomo
di mondo che non è del mestiere, al cosiddeo profano. Il profano non
iniziato si trova  dunque sconcertato davanti all’opera d’arte musicale e
non può comprendervi bene che le emozioni generali del cuore, il che, in
quella meravigliosa costruzione, gli si manifesta solo in una melodia
che sia del tuo grata all’orecchio. Tuo il resto lo lascia insensibile o in
preda a un’inquietudine confusa, solo perché non comprende e non può
comprendere. Il nostro pubblico dei concerti, che pretende di essersi
commosso e soddisfao con una  sinfonia artistica, mente e si vanta di
mentire. Subito dopo una sinfonia - cosa che avviene nelle più  rinomate
istituzioni concertistiche -, se si ascolta un pezzo d’opera moderno che sia
orecchiabile, immediatamente vediamo baere il vero polso
musicale dell’uditorio con una gioia non simulata42.
Non esiste nessuna comunione necessaria tra la nostra musica artistica
e il pubblico: quand’essa si  vuole manifestare è affeata e bugiarda o
tu’al  più, qualche volta, turba, presso un certo pubblico  popolare, chi
potrebbe commuoversi senza affeazione ai caraeri di una sinfonia di
Beethoven. L’impressione suscitata da queste opere musicali è
indubbiamente imperfea, parziale e frammentaria.  Ma quando questa
comunione non esiste affao, la  comunione con i fratelli artisti non può
essere che  superficiale. La crescita e lo sviluppo naturale dell’arte non
possono essere condizionati da una comunità che non sia d’artisti, perché
solo nell’elemento individuale, nell’individualità dell’essere isolato può
manifestarsi un naturale desiderio di creazione e di sviluppo secondo leggi
intime e necessarie. Ciò avviene solo grazie alla particolarità e
alla ricchezza d’una natura individuale d’artista; in essa infai può nutrirsi
il desiderio di creazione artistica, che non può trovare alimento di sorta
nella natura esterna. Solo quest’individualità dotata di originalità, di idee
personali, di aspirazioni e volontà  proprie può portare alla materia
artistica l’elemento creatore che non si trova nella natura esterna. Solo per
l’individualità di quell’unico uomo indipendente la musica diventa un’arte
pura e umana, che  assorbe quell’individualità per giungere dalla
dispersione del suo elemento, alla concentrazione, all’individualità.
Per questo nella musica, come del resto nelle altre arti - ma per ragioni
diverse -, vediamo delle maniere o delle sedicenti scuole, che per lo più
sono nate dalla personalità d’un artista. Scuole del genere furono le
corporazioni di discepoli, che si formarono, imitando e copiando
macchinalmente, intorno a un grande maestro, nel quale s’era
individualizzata l’essenza della musica. Fintanto che la musica non ebbe
assolto il suo compito artistico nella  storia del mondo, i polloni geati
lontano da tali  scuole potevano dar vita a nuovi ceppi fecondati  soo
questa o quell’influenza della medesima famiglia; ma da quando quel
compito è stato assolto del  tuo a opera della più grande individualità
musicale; da quando la musica, aingendo dalla sua più profonda
ricchezza, fece scoppiare la forma più vasta  entro la quale poteva essere
un’arte egoista indipendente, e ciò a opera della suaccennata individualità;
da quando, insomma, Beethoven ebbe composto la sua ultima sinfonia,
ogni corporazione musicale ha potuto rabberciare e rappezzare a suo
modo  quella forma e crearsi dei musicisti assoluti. Ma  da simili officine
uscirà solo un uomo fiizio, pieno  di toppe e rappezzi, e non un uomo
naturale, vigoroso e robusto.
Dopo Haydn e Mozart un Beethoven poteva e doveva venire: il genio
della musica l’aspeava come un’esigenza, e venne senza farsi aendere.
Ma, nel  domani della musica pura, chi vorrebbe essere rispeo a
Beethoven quel ch’egli fu rispeo a Haydn e a Mozart? Il più grande genio
non ci avrebbe a che fare, proprio perché il genio della musica pura non ha
più bisogno di lui43.
Invano vi affannate a voler negare l’importanza decisiva dell’ultima
sinfonia di Beethoven nella storia del mondo musicale: lo fate per placare
il vostro desiderio puerile di produzione egoistica. Ma la vostra imbecillità
non ha aenuanti: v’impedisce perfino di capire che cosa sia questo
capolavoro! Fate come volete: affiancatevi a Beethoven, arrancate tentoni
dietro a Mozart, fatevi di Sebastiano Bach una cintura per i vostri fianchi,
scrivete sinfonie  col canto o senza, scrivete messe, oratori -
questi embrioni senza sesso dell’opera! -, fate romanze senza parole, opere
senza libreo: non avrete prodoo nulla da cui traluca un barlume di vita
vera. E lo  sapete perché? Perché non avete fede. Non avete fede nella
necessità di quel che fate. Avete solo la fede degli spiriti semplici, la
superstizione della possibile necessità del vostro libero arbitrio egoistico!
Volgendo un rapido sguardo sullo squallore affaccendato del nostro
mondo musicale, riconoscendo la sterilità più assoluta di questo materiale
artistico che, tra l’altro, s’illude perennemente di appagarsi del solo amor
proprio, osservando quella massa informe, i cui residui consistono in
un’insolenza pedantesca e testarda dalla quale, data la fatuità spirituale dei
maestri compositori, non vien fuori altro che qualche sensuale aria
d’opera all’italiana o qualche sfacciato motivo di cancan alla francese che,
simili a esalazioni distillate artificialmente, salgono nella piena luce del
giorno al pubblico moderno, considerando, insomma, quest’assoluta
impotenza a generare, confidiamo senza timore nella grande  spinta del
destino, che meerà un termine a questo  guazzabuglio musicale che si
estende all’infinito per  far posto all’opera d’arte dell’avvenire, in cui la
musica vera non avrà certo da sostenere una piccola  parte, mentre ora,
caduta tanto in basso, langue priva di aria da respirare44.

5. La poesia.

Se la moda o l’uso ci consentissero di tornare alla vera e autentica maniera


di scrivere e di pronunciare tichten invece di dichten45, negli
appellativi riuniti delle tre arti umane primigenie, Tanz-kunst Ton-kunst e
Ticht-kunst46, troveremmo uno splendido gruppo dal significato
sorprendente: le tre sorelle riunite in una trinità, cioè in
un’allierazione perfea, proprio come si manifestò all’origine particolare
della nostra lingua47. Tale allierazione sarebbe quanto mai significativa
soprauo per l’importanza che darebbe alla Ticht-kunst. Ultimo termine
dell’allierazione, sarebbe infai una conclusione reale dell’allierazione
stessa, perché due parole  se»  non formano un’allierazione perfea se
non se ne aggiunge una terza, senza la quale i due precedenti membri non
esistono che per effeo del caso. Divengono invece necessari con esso e
per esso, così come l’uomo e la donna non sembrano giustificare la propria
esistenza senza un figlio da loro generato48.
Allo stesso modo, in quest’allierazione, l’effeo risale dall’ultimo
termine al primo, dalla fine al  principio, e procede non meno
necessariamente in senso inverso. Insomma i termini iniziali ricevono un
significato solo dall’ultimo, e l’ultimo non è concepibile senza i primi. Così
la poesia non saprebbe  creare la vera opera d’arte - e tale può essere
solo un’arte rappresentata concretamente ai sensi - senza le arti, alle quali
il fao concreto appartiene immediatamente. L’idea in se stessa, semplice
immagine del fenomeno, non ha forma e può diventare  percepibile solo
ritornando alle condizioni di fao che l’hanno generata.
Nella poesia l’intenzione dell’arte diventa soprauo cosciente di se
stessa: le altre arti contengono nella loro essenza la necessità incosciente
di quest’intenzione. La poesia è dunque l’ao creativo,  mediante il quale
l’opera d’arte entra nella vita; ma siccome, a meno di essere il dio Jehovah,
nessuno può creare dal nulla, il poeta deve avere un  “qualche cosa”, e
questo “qualche cosa” è tuo l’uomo artista che, araverso la danza e la
musica, manifesta il desiderio concreto divenuto desiderio dell’anima e
genera di per sé l’intenzione poetica, trovando in essa il suo fine e,
insieme, la soddisfazione del proprio desiderio.
Dovunque il popolo ha fao della poesia - e solo nel popolo e per il
popolo essa esiste -, l’intenzione poetica è nata quasi sorrea sulle spalle
della danza e della musica, come la testa dell’uomo perfeo.  La lira
d’Orfeo non avrebbe certamente potuto
costringere le bestie feroci a una silenziosa calma se il cantore si fosse
limitato a far loro leggere dei versi stampati: fu necessario che la voce
sonora del cuore s’imponesse alle loro orecchie e ai loro occhi in modo che
esse non vedessero più nel corpo umano una preda, ma che i movimenti
graziosi e arditi di esso lo facessero apparire non un obieivo  per lo
stomaco, solo buono per essere mangiato, ma un soggeo degno di essere
visto e udito, prima che  le sentenze morali fossero in grado di suscitare
la loro aenzione.
La vera epopea popolare non fu dunque una poesia soltanto recitata: i
canti d’Omero, così come ci sono giunti, sono il prodoo d’una
compilazione critica meticolosa, sorta in un’epoca in cui la vera poesia era
morta49. ando Solone deava le leggi, o quando Pisistrato si creava una
corte politica, già si ricercavano i resti dell’epopea popolare scomparsa e si
raccoglieva a uso di leura il materiale trovato: su per giù avvenne la
stessa cosa al tempo  degli Hohenstaufen, quando si rielaborarono i
frammenti dei canti perduti dell’epica nibelungica50. Prima che
diventassero oggeo di preoccupazione leeraria queste epopee erano
vissute in seno al popolo come opere d’arte, alla cui esecuzione non erano
estranee le movenze del corpo; erano simili a  danze cantate, compae,
coerenti, liriche, con una  particolare insistenza sul lato descriivo
dell’azione e sulla ripetizione dei dialoghi eroici. este interpretazioni
lirico-epiche costituiscono il più antico legame a noi noto tra il lirismo
propriamente deo e la tragedia, come pure il normale passaggio dall’uno
all’altra. La tragedia fu dunque l’opera  d’arte popolare entrata nella vita
pubblica e politica e, fin dal suo apparire, possiamo scorgere chiaramente i
processi di aività artistica che distinguono l’una dall’altra la maniera
popolare e la poesia di fabbricazione leeraria del mondo
artistico cosiddeo elevato.
ando l’epopea vivente, alla corte di Pisistrato, diventò un oggeo di
piacere critico-leerario, era già in crisi: non perché il popolo mancasse di
vita spirituale, ma perché esso era già in uno stadio più raffinato di quello
dei suoi antenati e, nella sua abbondanza artistica inesauribile, era già in
grado di  passare da un’opera d’arte meno perfea a una più  elaborata.
Mentre infai certi professori e leerati  eruditi si davano da fare nella
corte del principe per elaborare un Omero leerario e, beati della propria
sterilità, si meravigliavano della scienza che  concedeva a loro soli di
penetrare un passato che la vita aveva distruo, proprio allora Tespi aveva
già  condoo il suo carro ad Atene, l’aveva drizzato contro le mura del
palazzo, aveva organizzato la prima  scena, c’era salito sopra traendo
spunto dai cori del popolo, non più dipingendo, come nell’epopea, le gesta
degli eroi, ma rappresentandole egli stesso, come se l’eroe fosse lui.
Nel popolo ogni ao è realtà; esso agisce e poi si rallegra ripensando al
suo ao. Per questa ragione il lieto popolo di Atene, scoppiata una
sommossa,  cacciò i tetri figli del dileante Pisistrato dalla corte e dalla
cià e pensò che quella era la buona occasione per diventare un popolo
libero, appartenente solo a se stesso. Allo stesso modo, alzati il palco e la
scena, rivestì i costumi e la maschera di un dio  o di un eroe per sentirsi
esso stesso dio o eroe. Così nacque la tragedia. Il popolo ateniese gioì
del  proprio successo con la grata consapevolezza della  sua potenza
creatrice e non si curò di quelle ricerche metafisiche con cui oggi si
lambiccano il cervello i drammaturgi dei nostri teatri di corte.
La tragedia fiorì finché emanò dallo spirito del popolo, finché il suo
spirito fu davvero popolare, cioè colleivo. ando la colleività nazionale
si divise,  quando il legame comune della religione e dei costumi languì
soo i colpi di spillo degli aacchi dei  sofisti, e lo spirito ateniese si
decompose nell’egoismo, allora l’opera d’arte popolare cessò di
esistere. Professori e doori della rispeabile consorteria dei leerati non
persero tempo: si misero subito a  portar via travi e pietre dell’edificio in
rovina per puntellarci ricerche, ipotesi e commenti critici.
Con un riso aristofanesco il popolo lasciò volentieri alla brama di
quegl’insei sapienti l’escremento delle sue consumazioni, trascurò l’arte
per qualche migliaio di anni e si comportò conformemente a un’intima
necessità della storia mondiale mentre altri badavano a compilare storie
leerarie agli ordini della corte alessandrina.
Non è difficile rappresentarsi, per un sufficiente sguardo d’insieme, la
natura della poesia dopo la scomparsa della tragedia e dopo la separazione
della danza e della musica dalla comunità delle arti,  malgrado le
formidabili pretese che accampò. La poesia solitaria non compose più, non
rappresentò più, si limitò a descrivere. Non produsse più direamente, fu
solo intermediaria. Compilò cose versificate senza il legame vivente della
collaborazione,  ispirò senza soddisfare l’ispirazione, incitò a vivere  senza
esserne capace essa stessa, dee il catalogo di una galleria di quadri senza
creare i quadri. Privi della veste estiva del fogliame dei suoni i rami della
lingua, intristiti dall’inverno, diventarono i segni scheletriti della scriura.
Così la lingua si rivolse all’occhio e non più all’orecchio, lo stile del poeta
diventò un modo di scrivere, l’ispirazione stile di scriura.
La sorella della danza e della musica si sedee allora, accigliata e
solitaria, in una stanza scura, accanto a una lampada fumosa, e, simile a un
Faust femmina, per sfuggire alla polvere e alla muffa, ai suoi pensieri mai
soddisfai, confusi e involuti, al  tormento eterno dell’idea e
dell’immaginazione, sentì il bisogno di vivere davvero, di muoversi, di
trovarsi in carne ed ossa, ritemprata, in mezzo a uomini veri, come un
vero essere umano. Ma - ahimè! - la povera sorella aveva lasciato che il
suo corpo si consumasse con irriflessiva noncuranza, e ora questa povera
anima senza corpo non poteva che descrivere quel che le mancava, così
come lo vedeva vivere e agitarsi dalla sua stanza affumicata araverso la
finestra del pensiero. “Ecco l’aspeo che aveva, i gesti delle sue membra, il
lampo del suo  sguardo, il suono della sua voce!” Ma questa descrizione,
questa recita, qualunque sia stato il piacere  da lei provato nell’elevarla
all’altezza dell’arte, qualunque sia stato lo sforzo sostenuto per trarre
un compenso artistico da quelle forme scrie e parlate, altro non era che
un inutile sforzo, la soddisfazione d’un bisogno creato solo per
un’infermità organica acceata volontariamente: l’acquisizione
streamente necessaria dei mezzi d’espressione, in fondo ripugnanti, d’un
muto.
L’uomo davvero sano, quando si presenta a noi nella sua pienezza
corporea, non ci parla di quel che vuole e di quel che ama, ma vuole e ama
e ci comunica coi mezzi offertigli dall’arte la gioia della volontà e
dell’amore; e lo fa nel dramma che rappresenta con suprema abbondanza,
con immediata certezza. Solo alla brama che la poesia, priva d’ogni base
concreta, ha di raccontare quel che non può descrivere obieivamente con
arte, solo ai fastidiosi  deagli che il raggiungimento di tale scopo le
suggerisce, siamo debitori di quei milioni di libri che non servono ad altro
se non a farci conoscere la  sua misera goffaggine. est’enorme cumulo
di opere leerarie non è altro che un pietoso balbeio: malgrado i milioni
di frasi non è mai giunto, nel corso dei secoli, a farsi capire; un balbeio
in versi e in prosa del pensiero incapace d’essere espresso con parole e che
invano cerca di elevarsi alla spontaneità naturale.
Il pensiero, azione suprema e ben definita dell’uomo artista, s’era
separato dal corpo ardente e bello, il cui desiderio l’aveva generato e
nutrito,  perché vedeva in lui un legame che avrebbe incatenato la sua
libertà senza limiti e gli sarebbe stato quindi di ostacolo: così il desiderio
cristiano credee di doversi separare dall’uomo fisico per meglio
raggiungere con la libera volontà gli spazi infiniti del cielo. Ma la
separazione ha fao invece toccare con mano quanto quel pensiero e quel
desiderio erano inseparabili dall’essenza della natura umana: qualunque
fosse l’eterea altezza cui volevano elevarsi, ciò era loro possibile soltanto
nella forma  fisica dell’uomo51. Però non potevano portar seco il  corpo
soggeo alla legge di gravità: quel che li seguiva era solo una forma
corporea fluida e vaporosa, che necessariamente ostentava l’aspeo e i
gesti del corpo umano. Così il pensiero poetico si librò nell’aria come una
nuvola in forma umana, che  proieava la propria ombra sulla vita
terrestre e fisica del corpo, si limitava a contemplarla per l’eternità,
bramava dissolversi in essa mentre solo da  essa traeva i succhi vitali dei
suoi vapori. La nube vera si dissolve rendendo alla terra gli elementi che la
costituiscono, e una pioggia fecondatrice cade sui campi, penetra a fondo
nel suolo riarso, irrora i germi languenti delle piante che aprono larghe le
corolle nella luce del sole, che prima l’ombra della nube aveva sorao al
campo. Anche il pensiero poetico dovrebbe fecondare e rinnovare la vita:
non interporsi, vana nube senza corpo, tra la vita e la luce.
ello che l’arte poetica contemplò da tali sommità fu solo la vita. Più
s’innalzò e meglio l’abbracciò con lo sguardo; più fu capace di
racchiuderla in grandi sintesi, più crebbe in lei il desiderio di
comprenderla, d’esplorarla a fondo. Così la poesia diventò scienza,
filosofia. Il desiderio di conoscere la natura e gli uomini nella loro intima
essenza dee  luogo a quella leeratura infinitamente ricca la
cui  quintessenza è la poesia riflessa, che si manifesta  nella storia
dell’uomo, nella storia naturale e nella filosofia. Più chiaro s’afferma nelle
scienze il desiderio di rappresentare, più queste si accostano al  poema
artistico, e le opere grandiose di questo ciclo  leerario raggiungono la
massima perfezione nel  dimostrare l’oggeo in generale. Ma la scienza
più universale e profonda non ha altro scopo che la conoscenza della vita,
e la vita non ha altro contenuto che l’uomo e la natura. Per questo la
scienza non  consegue una totale consapevolezza di sé tranne
che nell’opera d’arte, nell’opera, cioè, che rappresenta direamente l’uomo
e la natura, la quale ultima, nell’uomo, assurge alla coscienza52. Dunque il
coronamento della scienza è la redenzione nella poesia;  in quella poesia,
però, che, unita fraternamente con  le altre arti, consente di compiere
l’opera d’arte perfea. esta altro non è che il dramma.
Il dramma, culmine del desiderio colleivo di comunicazione artistica, è
possibile solo come espressione suprema. A sua volta quel desiderio non
intende manifestarsi se non in un interesse colleivo. Dove di questi due
elementi esiste l’uno e l’altro  manca, il dramma non è una necessità, ma
un prodoo artistico arbitrario. Senza cercarne le condizioni nella vita, il
poeta tenta da solo d’inventare  il dramma desiderando rappresentare
direamente  la vita da lui stesso osservata: la sua invenzione è  così
destinata ad avere tui gl’inconvenienti di un  processo arbitrario. Solo
quando il suo desiderio scaturì da un desiderio comune, quando potè
suscitare  un interesse generale, il dramma risorto potè soddisfare le
condizioni necessarie e il desiderio di conformarsi a esse fu coronato da
successo.
Solo chi rappresenta realmente in comune l’opera d’arte possiede
l’istinto colleivo dell’opera d’arte drammatica: a nostro parere lo
posseggono le consorterie di aori. Alla fine del Medio Evo vediamo queste
consorterie uscire direamente dal popolo53. elli che più tardi le
asservirono e le piegarono a determinate leggi in nome della poesia pura
s’arrogarono il merito di aver completamente corroo quanto, con
meraviglia di tui i tempi, chi usciva da una data consorteria aveva creato
con essa e per essa.
Dalla più profonda e sincera natura del popolo Shakespeare trasse il
dramma e lo offrì ai suoi compagni aori. Ma quel che più ci colma di
meraviglia è veder sussistere il dramma shakesperiano per la sola potenza
del semplice dialogo e senza alcun aiuto delle arti vicine: unico soccorso fu
per lui l’immaginativa del pubblico, che, col più vivo interesse, favorì in
massimo grado l’entusiasmo degli aori, collaboratori del poeta.
Un genio inaudito e un felice concorso di circostanze che mai prima
s’era verificato compensarono in comune quel che in comune era stato
perduto. La forza creatrice comune era il bisogno; quando esso si esprime
con una forza vera, necessaria e naturale,  l’uomo fa di tuo per
soddisfarlo. La povertà genera la ricchezza, la miseria il superfluo; la
rozzezza  del semplice commediante popolare s’esprime in gesti eroici, la
voce rauca della lingua quotidiana diventa musica armoniosa dell’anima,
le assi nodose della scena, ricoperte con un tappeto, diventano il teatro del
mondo dai vasti scenari. Togliamo a quest’opera d’arte la ricchezza delle
circostanze felici, poniamola fuori della sfera di questa forza creatrice, a lei
donata per necessità in un’epoca unica al  mondo, e vedremo con
rammarico che la povertà  era solo povertà, la miseria solo miseria.
Shakespeare fu forse il più grande poeta di tui i tempi, ma la sua opera
d’arte non era ancora l’opera d’arte di tui i tempi. Vedremo che non fu il
suo genio,  ma lo spirito artistico della sua epoca, incompleto,  solo
volontario, non ancora potente, a far di lui il  Tespi della tragedia
dell’avvenire. Il carro di Tespi,  durante il breve periodo dell’apogeo
dell’arte greca,  sta al teatro di Eschilo e di Sofocle come il teatro
di Shakespeare, nell’infinito periodo dell’apogeo dell’arte universale, sta al
teatro dell’avvenire.
L’impresa gloriosa che rese un uomo isolato come Shakespeare un
uomo universale, un dio, non è diversa dall’impresa di un altro isolato,
Beethoven,  che scoprì il linguaggio dell’uomo-artista dell’avvenire. Solo
quando questi due Prometei si daranno la  mano, quando le creature che
Fidia scolpì nel marmo si muoveranno in carne e ossa, quando la
natura imitata uscirà dalle streoie del quadro appeso al muro nella stanza
dell’egoista e crescerà lussureggiante nel vasto quadro della scena
dell’avvenire  animato da una vita ardente, solo allora, in compagnia di
tui i suoi compagni d’arte, anche il poeta troverà la redenzione54.
Sulla grande strada che conduce dal teatro di Shakespeare all’opera
d’arte dell’avvenire, il poeta doveva accorgersi del suo triste isolamento. Il
poeta drammatico si era naturalmente distaccato dalla  compagnia degli
aori. Allora, folle d’orgoglio, volle elevarsi al di sopra dei suoi compagni
e, privo del loro affeo e del loro entusiasmo, si mise dietro la sua caedra
di leerato e da solo volle deare il dramma a quelli stessi che l’avevano
creato di geo unicamente per il loro libero istinto di rappresentazione, a
quelli stessi alla cui volontà colleiva non poteva comunicare che visioni
d’insieme.
Così il poeta, volendo imporsi allo slancio della vita artistica e non più
limitandosi a esprimerla, ridusse al silenzio, come schiavi al suo servizio,
gli organi avviliti dell’arte drammatica. Come il virtuoso alza e abbassa i
tasti del pianoforte, così il poeta volle servirsi di aori a lui artificialmente
adaati  come se si traasse di uno strumento di legno; badò solo che
meessero in evidenza l’abilità artistica di lui autore perché solo lui, il
virtuoso, doveva imporsi all’aenzione altrui. A quest’egoismo ambizioso i
tasti dello strumento risposero come poterono: più li martellò con furore, e
più si impigliarono, si arrestarono, si urtarono.
Goethe, nella sua vita tanto intensa, disse di aver avuto solo quaro
seimane di assoluta felicità: degli anni infelici della sua vita non fa
particolare menzione. Ma noi sappiamo quali furono: quelli in cui  volle
piegare al proprio uso questo strumento rumoroso e discordante. Lui, di
genio possente, cercò  di liberarsi dalla muta solitudine della
creazione leeraria nell’opera d’arte vivente, sonora. ale sguardo fu più
sicuro e vasto del suo nella conoscenza della vita? Ora quel che aveva
visto, descrio, dipinto, voleva farlo sentire su quello strumento. Ma come
risuonavano sfigurate, irriconoscibili alle sue orecchie quelle concezioni
tradoe in musica poetica! anto ha dovuto darsi da fare sulle  chiavi
d’accordatura per tirare e allungare le corde e farle gemere ed esplodere!
Dovee infine accorgersi che tuo è possibile al mondo fuorché reggere
l’uomo con lo spirito astrao: quando lo spirito non germina, quando non
trae la sua espansione  dall’uomo sano e intero, non è possibile
infonderlo dall’alto. Il poeta egoista può far muovere meccanicamente dei
fantocci come a lui piace, ma non può far vivere uomini veri mediante le
macchine. Da  quella scena, sulla quale tentava di creare degli uomini,
Goethe fu cacciato via… da un can barbone55. Esempio di un’innaturale
altezza degno di essere davvero ricordato!
esto fallimento di un Goethe doveva naturalmente indurre a capire
in anticipo che per quella via si sarebbe fao fiasco. I poeti fecero ancora
drammi, ma non per le scene scabrose, bensì per la carta liscia. Si seguitò a
dare agli aori quel che fu  composto qua o là, secondo i luoghi: roba di
seconda e di terza qualità; ma il poeta eleo, quello che componeva per sé
solo, tra tui i colori della vita  non trovò convenienti che il bianco e il
nero: gli  squallidi colori nazionali della Prussia56. Si ebbe  così un
fenomeno davvero inaudito: drammi scrii per la leura muta!
Shakespeare, nel fervido slancio artistico verso la vita immediata,
risolvee il problema con gli abbozzi rudi del suo teatro popolare; la
rassegnazione egoista del poeta moderno s’è invece contentata  dei
cataloghi del libraio, nella cui boega s’è esposto  in vendita, già morto
anche se ancora vivo. Mentre  il dramma presentato concretamente s’era
rivolto al  cuore del popolo, la nuova drammatica, messa in  vendita
dall’editore, s’è geata ai piedi della benevolenza della critica d’arte.
Rassegnata a questa dipendenza servile, la poesia drammatica, con
apparenze  ingannatrici, tese a una libertà illimitata; senza pensarci due
volte, mise soo i piedi tue quelle incomode condizioni dalle quali
unicamente poteva nascere un dramma. Chi vuol vivere deve obbedire alla
necessità; solo chi vuole più che vivere - il che significa voler morire - può
fare tuo quel che gli  pare. La cosa più insignificante è la più
necessaria  per lui; e più la poesia si rende indipendente dalle  condizioni
d’una manifestazione concreta, più liberamente le è consentito di
abbandonarsi alla volontà, all’ammirazione assoluta di se stessa.
Introdoo in tal modo il dramma nella leeratura, la poesia trovò una
nuova forma per ricominciare a poetare da sola: dalla vita non prese che
fai svariati, che dovevano servire al suo desiderio di  un’unica e
necessaria autoglorificazione. Ogni soggeo, ogni forma esisteva solo per
sostenere un  pensiero astrao con la massima insistenza: il caro “Io”
egoista idealizzato all’occhio del leore. Con  quale perfidia la poesia si
dimenticò di dovere proprio alla vita sensibile, tanto duramente da lei
disprezzata, tue le sue forme, anche le più complesse! Dalla poesia lirica
al dramma leerario, se si passano in rassegna tue le forme poetiche, non
se ne trova una sola che abbia messo un po’ della sua ricchezza e della sua
nobiltà a contao direo  con la vita popolare. Ma che sono tui i
risultati  delle creazioni poetiche astrae, apparentemente  indipendenti
come lingua, verso ed espressione, se si paragonano con la bellezza fresca
e sempre rinascente, con la varietà, con la perfezione della poesia lirica
popolare, che proprio le ricerche dei doi57 cercano di tirar fuori, nella sua
più viva ricchezza, dalle macerie e dai roami? Un canto popolare non può
essere immaginato senza un’aria di musica;  e quel che era non solo
parlato, ma anche cantato,  apparteneva alle manifestazioni diree delia
vita. Chi parla e canta - almeno chi lo fa senza presupposti come il popolo -
esprime i propri sentimenti col gesto e col movimento; ma l’allievo istruito
dai nostri professori di canto non fa certamente lo stesso…
Dove un’arte simile cresce e prospera non è davvero difficile trovare
modi d’espressione sempre nuovi, sempre nuove forme di poesia; gli
ateniesi c’insegnano come l’opera d’arte suprema, la tragedia, sia potuta
nascere da una progressiva autoeducazione. Al contrario la poesia, avulsa
dalla vita, è destinata a rimanere sempre sterile: non può avere
altra aività che quella infusale dalla moda e dalle combinazioni arbitrarie:
non certo quella che scaturisce dall’invenzione. Dopo una serie d’infelici
contai con la materia, torna a rifugiarsi nel pensiero. E il pensiero,
impulso inquieto di un desiderio  sempre aivo, sempre inappagato,
siccome rifiuta l’unica soddisfazione possibile nella sensazione, non può e
non deve desiderare altro che se stesso, nutrirsi che di se stesso.
Il dramma leerario del poeta può risollevarsi da quest’infelice
situazione solo diventando dramma vero e vivente. La vera strada verso
questa redenzione è stata spesso seguita - anche ai nostri giorni - da
qualcuno che era spinto da un desiderio sincero, ma purtroppo, il più delle
volte, anche dall’unica ragione che la scena era diventata a poco a  poco,
senza che ce ne fossimo accorti, un mercato più fruuoso del catalogo del
libraio.
Il pubblico, per quanto la società l’abbia corroo, ama solo delle realtà
immediate e concrete; quel  che noi chiamiamo pubblico non è altro che
l’azione reciproca del concreto58. ando la poesia, nella sua superbia, si
fu ritirata da quest’azione reciproca direa, padroni del dramma
diventarono gli aori.  La pubblicità teatrale appartiene quindi solo
alle  compagnie degli aori. Ma quando l’egoismo portò  dovunque la
dissoluzione, quando il poeta si separò dalla consorteria, a cui era
appartenuto naturalmente fin dall’origine, anche la consorteria ruppe  a
sua volta i legami che la rendevano una corporazione artistica.
ando il poeta, sulla scena, non volle vedere che se stesso - e così
facendo negò di colpo che la corporazione avesse un’importanza artistica
-, anche il semplice aore, logicamente, se ne separò per non far eccellere
che se stesso. In questo ebbe tuo l’appoggio del pubblico, che, suo
malgrado, vede solo le pure e semplici apparenze e che gli dee largo
assenso e approvazione. L’arte drammatica divenne così  l’arte di quel
determinato aore, divenne virtuosità  personale, cioè quella
manifestazione artistica che a  sua volta non vede che se stessa, che la
glorificazione assoluta dell’individuo. Lo scopo colleivo, che unico fa del
dramma un’opera d’arte, fu ricacciato  dal virtuoso nelle più remote
lontananze; e quell’opera drammatica, che l’arte drammatica colleiva
doveva spontaneamente creare, fu ripudiata;  non la volle affao il
virtuoso, e meno ancora la volle la corporazione dei virtuosi. Ciascuno
volle “se  stesso”, l’unica cosa conforme al proprio talento  personale e
capace di soddisfargli la vanità. Ora se  cento egoisti dei più abili si
riuniscono insieme in un unico luogo, non possono fare a meno di dar vita
a un’opera della colleività, almeno finché si  manterranno egoisti. E
finché si manterranno tali, l’unico lavoro loro possibile agendo in comune
sarà ispirato alla violenza più appariscente: quindi  odio e invidia
reciproca. E di conseguenza molto spesso il nostro teatro ha tua
l’apparenza d’un circo  dove due leoni si sono divorati e, del reciproco
pasto, non è restato altro che la coda.
Oggi il virtuosismo dell’aore costituisce per il pubblico l’unico ideale
d’arte drammatica, come notiamo nella maggior parte del teatro francese e
nell’opera italiana. Si ha tuavia una manifestazione  più naturale d’un
desiderio di rappresentazione artistica quando il poeta astrao vuole far
suo quel  desiderio per illustrare se stesso. L’esperienza ci  prova che dal
mondo degli aori virtuosi ogni  tanto emerge un cuore sano del tuo
equivalente al talento artistico; un aore drammatico, cioè, che sostenendo
solo la sua parte è in grado di rivelarci  la quintessenza dell’arte
drammatica molto meglio  che cento drammi artificiali. ando invece la
poesia  drammatica artificiale si vuole sooporre all’esperienza della
rappresentazione vivente, non fa altro  che inimicarsi virtuosi e pubblico,
qualora non intenda piegarsi alla schiavitù più vergognosa. In questo caso,
dunque, o mee al mondo dei figli nati morti - e questo è il guaio minore
perché almeno  non apporta conseguenze -, o si autovaccina con
l’infermità a lei propria di volere e non potere, simile a una peste che divora
le membra dell’arte drammatica già sane solo per metà. In ogni caso deve
procedere in base alle leggi ferree che tolgono al libero  arbitrio ogni
indipendenza: per acquistare una forma qualsiasi deve cercare là dove
quella forma è  nata all’arte drammatica viva e vera. Ora questa forma è
stata presa in prestito quasi esclusivamente dai discepoli di Molière.
In Francia, dato il caraere vivace del popolo, che sempre è stato
nemico della pura astrazione, l’arte  drammatica, finché non fu dominata
dall’influenza  della corte, visse quasi sempre a sé. Ogni manifestazione
sana dell’arte drammatica moderna, che pur  si è verificata malgrado
l’ostilità piaa e opprimente dei nostri stati sociali generali, dopo la fine
del  dramma shakespeariano, è sorta solamente in Francia. Ma anche in
quel paese, dove tanto domina la  mondanità, che è la peggiore nemica
dello spirito colleivo, e le cui caraeristiche sono il lusso e la moda, il più
delle volte l’opera d’arte vera si è avuta solo approssimativamente: il solo
aspeo colleivo  del mondo moderno, lo spirito di speculazione e
di traffico, ha imposto una dispersione egoistica a tui  i germi più validi
dell’arte drammatica. Forme  d’arte che abbiano trao spunto da questo
spirito pietoso, l’arte drammatica francese non si può negare che ne abbia
trovate; malgrado l’immoralità del  contenuto, non si può disconoscere
un’abilità straordinaria nel rendere quel contenuto acceabile e digeribile,
e sempre poi tali opere hanno questo d’eccellente: che sono scaturite
proprio dall’essenza dell’arte drammatica francese, quindi dalla vita.
I nostri drammaturghi tedeschi invece, volendo sfruare il contenuto
della loro ispirazione poetica come mezzo per giungere a una redenzione,
soo  qualsiasi forma paresse necessaria, immaginarono  una forza
arbitraria come poteva loro consentirlo l’innata impotenza creativa;
imitarono i modelli francesi, senza rendersi conto che erano nati da
un’esigenza vera ed erano ben diversi da quel che nasce,  senza necessità,
da una volontà unica arbitra della  scelta. Per questo i nostri poeti
drammatici non si  sentirono mai soddisfai di avere adoato le
forme  francesi; il loro pastone mancava ancora di questo e  di quello: ci
voleva un po’ di audacia alla Shakespeare, un po’ di magniloquenza alla
spagnola e, come  condimento, qualche superfluità dell’idealismo
di Schiller o della bonomia borghese di Iffland59; e tuo questo, mescolato
con estrema ingegnosità secondo le ricee francesi, adaato ai recenti
scandali con circospezione più che giornalistica, dato che il poeta non era
capace d’interpretare da sé la commedia,  veniva affidato all’artista
preferito (anche se uno  più commediante d’un poeta non esiste), poi
veniva geato sul mercato, qua e là, come imponevano le circostanze… ed
ecco l’opera drammatica più moderna, il poeta che canta veramente se
stesso, cioè la sua effeiva incapacità come poeta creatore.
E ora basta: abbiamo parlato anche troppo della miseria senza esempio
della nostra poesia drammatica. D’altra parte l’argomento che ci stava a
cuore era proprio questo, perché non ci eravamo proposti di estendere le
nostre particolari considerazioni  alla poesia leeraria propriamente dea.
ando infai prendiamo in considerazione l’opera d’arte dell’avvenire, il
nostro interesse si volge alla poesia  solo dove questa può diventare arte
vivente e spontanea, il che avviene soltanto nel dramma. Non ci curiamo
di quei generi in cui rinuncia a diventare  vita e, malgrado tua la
grandezza del pensiero, nelle sue produzioni particolari s’abbevera
all’unica fonte della pietosa incapacità artistica della nostra vita pubblica.
La poesia leeraria è l’unica consolazione, purtroppo squallida e vuota,
dell’uomo isolato del nostro tempo, che cerca un godimento poetico. Ma la
consolazione che dà, altro non è che il più ardente desiderio della vita,
dell’opera d’arte vivente, perché la  sua anima consiste proprio
nell’intensità di questo  desiderio, e dove esso non esiste, non si
manifesta  aperto, potente, anche l’ultimo barlume di sincerità  scompare
dalla poesia. Più invece questo desiderio  palpita impetuoso in lei, più
sinceramente vi confessa il proprio affanno, più si rivela a chi raccosta
l’unica possibile soddisfazione del suo desiderio: la dissoluzione di se stessa,
il suo assorbirsi nella vita, nell’opera d’arte vivente dell’avvenire.
Pensiamo ora in qual modo sarebbe possibile appagare questo desiderio
bello e ardente della poesia leeraria, e lasciamo pure la nostra arte
poetica moderna ai gloriosi trionfi della sua stupida vanità!

6. Tentativi fai fino a oggi per riunire i tre generi dell’arte umana.

Studiando separatamente l’evoluzione dei tre generi puramente umani


dell’arte da quando si separarono dall’unione primordiale, abbiamo dovuto
riconoscere che nel momento in cui uno di essi è venuto a contao con un
altro e per esso ha agito, ha ritrovato i suoi limiti naturali; oltre questi
limiti  non gli restava che estendersi dal secondo genere al  terzo e, da
questo terzo, tornare in se stesso sino alla  sua proprietà naturale e
particolare, sempre però secondo le leggi dell’amore, della devota
acceazione  della causa comune per amore. Così l’uomo per amore
assorbe se stesso nella natura della donna col  fine di prolungarsi nel
tempo, araverso di lei, in un terzo essere: il figlio. In questa trinità però
trova  solo se stesso, la propria natura arricchita in sé e resa più perfea
dall’amore. Allo stesso modo ciascuno dei tre generi d’arte può ritrovarsi
nell’opera d’arte perfea e del tuo redenta: può contemplarvi se stesso, la
propria natura, espandersi in essa  arte fino a ritrovare la via dell’amore
vero, fino ad  assorbirsi nei generi d’arte fratelli e rinvenire nell’opera
perfea la ricompensa del suo amore, nella  quale sa di prolungare la
propria vita. Solo il genere d’arte che postula un’opera colleiva giunge
all’apogeo della sua natura particolare; quello invece  che cerca solo se
stessa e la perfezione suprema per se stesso resta sterile malgrado il lusso
che sfoggia intorno alla sua apparizione solitaria.
La volontà di produrre un’opera d’arte colleiva nasce in ogni genere
spontaneamente, incoscientemente, quando, giunto ai suoi limiti, un
genere di  arte si dona a un altro genere; ma non nasce se si  sforza
d’imitarlo: resta completamente se stesso se si dona completamente, diventa
invece il contrario  di se stesso quando deve per forza vivere alla mercé
degli altri, come chi dice: “Canto la canzone di chi mi dà da mangiare”. Ma
quando si dona interamente all’altro e resta del tuo assorbito
nell’altro, allora può passare interamente nel terzo e interamente tornare in
se stesso nell’opera colleiva.
Tra tue le arti, data la sua natura intima, nessuna più della musica ha
avuto bisogno dell’unione con le altre due, perché è come un fluido
elementare della natura, dove s’immergono le altre due, i  cui caraeri
essenziali sono più capaci di precisione e d’individualismo. Solo il ritmo
della danza, sostegno della parola, è potuto riuscire a raggiungere  una
concretezza distinta e caraeristica grazie al  suo elemento fluuante
all’infinito. Inoltre nessuna delle altre arti poteva immergersi senza riserve
e  con amore nell’elemento della musica: ciascuna di  esse vi ainse quel
tanto che le parve utile per uno scopo egoista determinato; ciascuna non
vi fece che prendere, ma senza donarle nulla… di modo che la musica, nel
suo desiderio di vivere, tendendo la mano da tue le parti, era costrea a
cercare nei prestiti le sue condizioni di sopravvivenza.
Così assorbì la parola per farne, a suo piacere, quel che voleva; dispose
di questa parola come volle nella musica cristiana ma, conforme ai
propri  istinti, perdee in questa parola - mi si passi  l’espressione - il
midollo delle ossa, di cui aveva bisogno nel suo desiderio di
umanizzazione per rendere più vivo il proprio sangue e che avrebbe
potuto farle dono d’una costituzione robusta.
Una nuova concezione della parola, potente e necessaria, si manifestò,
grazie a lei, nella musica religiosa protestante e si spinse fino al dramma
liturgico nella musica della Passione, dove la parola non era più una vaga
espressione del sentimento, ma si  affermava nel pensiero che esprime
l’azione60. In  questi drammi liturgici la musica, ancora predominante,
disponendo di tuo per sé sola, obbligò, per cosi dire, la poesia a occuparsi
seriamente di lei e ad agire nei suoi confronti come un essere umano. Ma
la poesia, nella sua viltà, parve spaventarsi di questa pretesa; giudicò allora
opportuno dare qualche briciola in pasto al mostro musicale per
restare egoisticamente se stessa, tirannicamente intera e senza turbamenti
nella sua sfera particolare, la leeratura. Si deve a questo senso egoistico e
vile  della poesia nei confronti della musica la nascita  dell’oratorio, quel
mostro che ha finito col trasportarsi dalla chiesa alla sala da concerto.
L’oratorio  pretende di essere un dramma, ma solo perché permee alla
musica di avere una parte assolutamente principale e di essere l’unica arte
che dà un tono al dramma.
La poesia, invece, dove volle essere sola, come nel dramma parlato,
prese la musica al suo servizio per i bisogni accessori delle proprie
convenienze: a esempio per divertire lo speatore negli intervalli tra un
ao e l’altro, oppure per accrescere l’effeo di certe pantomime misteriose
come un’irruzione misteriosa di ladri o altre cose affini. La danza non fu
da meno quando, fieramente erea  sul proprio cavallo, si degnò di farsi
reggere umilmente lo scero dalla musica. Proprio così si comportò
nell’oratorio la musica verso la poesia: le fece ammassare i materiali con i
quali intendeva costruire a piacere il suo edificio. Alla fine, come la  più
insolente manifestazione del proprio orgoglio  che cresceva a vista
d’occhio, la musica mise al mondo l’opera.
Là pretese che la poesia le pagasse il tributo fino all’ultimo centesimo.
La poesia non le avrebbe fao più dei versi, non le avrebbe più abbozzato
dei caraeri umani come nell’oratorio o delle trame drammatiche per
aiutare la sua ispirazione a effondersi: no: doveva deporle ai piedi tuo il
proprio essere,  tuo quel che sapeva fare: caraeri complessi, azioni
drammatiche complicate, in altre parole il dramma completo perché la
musica se ne servisse ad arbitrio della propria fantasia.
L’opera, unione apparente delle tre arti sorelle, è diventata il punto
d’incontro dei loro sforzi egoistici. Non si può negare che la musica
pretenda avere in essa il sovrano dirio di dear legge per il desiderio,
nient’altro che egoista, di creare l’opera d’arte propriamente dea, il
dramma. L’opera è nata  da questa pretesa. Il dramma e la poesia, più
sono costrei al suo servizio, e più nutrono contro questa sorella tirannica
un impulso di ribellione, che  proviene dalle loro qualità egoistiche. La
poesia e la danza, ciascuna a suo modo, s’erano appropriate del dramma:
lo speacolo e il balleo-pantomima  erano i due regni entro i quali si
sviluppò l’opera,  che prese dall’uno e dall’altro quel che le
parve  necessario all’assoluta glorificazione della musica.  Speacolo e
balleo, ambedue consapevoli della loro forzata indipendenza, si
prestarono alla sorella  solo con riluanza e, in ogni caso, col perfido
disegno di farsi valere con tua la loro forza a ogni  buona occasione.
ando la poesia abbandona il tono patetico, che solo si conviene
all’opera, e tesse  le fila di un intreccio moderno, la musica sua sorella è
prigioniera e deve, voglia o non voglia, senza  potervi aderire, torcere e
ritorcere il semplice filo  della ragnatela che sola può tessere la scaltra
fabbricatrice di drammi. Allora volteggia e gorgheggia, come per esempio
in quella grossolana presa di bavero che è l’opera francese, fino a perdere
il fiato, tiene il broncio, irritata perché la prosa sua sorella si pavoneggia
tua sola.
Ma quando la danza s’è accorta che la cantante che deava legge era a
corto di fiato, che il torrente musicale della lava si stava raffreddando, non
ha  perso tempo: di colpo araversa tuo il teatro,  espelle danzando la
sorella musica dalle scene, la  ricaccia nella sola orchestra, frulla, salta,
piroea  tanto bene che gli alberi impediscono di vedere la  foresta o, per
meglio dire, le gambe impediscono di vedere l’opera.
L’opera diventa così il contrao tra gli egoismi comuni delle tre arti. La
musica, per salvare la propria supremazia, viene a pai con la danza e
accea che ogni tanto vari quarti d’ora debbano essere dedicati a lei sola e,
in quel fraempo, il gesso  scriverà le leggi del teatro sulle suole delle
scarpee da ballo: si farà della musica sul ritmo delle gambe e non su
quello dei suoni. Si esige altresì che sia tassativamente proibito ai cantori
di ricrearsi con qualche aeggiamento grazioso del corpo, perché questo è
permesso solo a chi balla; finché il cantore, per risparmiare la voce, dovrà
tenersi al di  fuori di tue le pantomime. Con la poesia, con grande
soddisfazione di quest’ultima, pauisce che non  se ne servirà più: la
musica non pronuncerà più i  suoi versi e le sue parole, le quali così
saranno solo leeratura, libreo stampato, nero sul bianco. Ecco conclusa
la nobile alleanza: ogni arte, ridiventata se stessa; tra le gambe della danza
e il libreo, la musica che ondeggia a suo agio di qua e di là. Ecco la libertà
moderna fedelmente riflessa nell’arte!
Dopo un contrao così vergognoso la musica, con qualche bagliore che
parve non mancarle anche nell’opera, dovee ben convincersi della sua
umile dipendenza. Il suo soffio vitale è l’amore del cuore; anche se questo
non desidera che se stesso, la propria soddisfazione, non si limita a cercare
soltanto  l’amore sensuale e intelleuale, ma prova questo  bisogno nel
modo più ardente e incalzante.
La forza del bisogno le dà il coraggio di sacrificare se stessa, e se
Beethoven ha dimostrato questo coraggio in una delle azioni più ardite,
altri compositori, come Gluck e Mozart, non hanno manifestato meno di
lui la gioia per azioni splendide e piene d’amore, nelle quali chi ama
s’assorbe tuo nell’oggeo del suo amore per cessare di essere se stesso e,
per ricompensa, diventa molto di più. ando  l’edificio dell’opera,
preparato solo per le manifestazioni egoistiche delle arti isolate, rivelò
quanto  deboli fossero in esso le condizioni per un pieno  assorbimento
della musica nella poesia, i maestri compirono la redenzione della loro arte
verso l’opera d’arte colleiva. Le influenze deplorevoli e ineluabili delle
pessime condizioni in ao ci rivelano l’isolamento di quelle magnifiche
gesta e dei compositori che le realizzarono. Ma ciò che fu
possibile  all’individuo in determinate condizioni particolarmente felici,
essendo dovuto principalmente al caso, è ben lungi dal dare una legge
generale per l’opera: vi notiamo solo gli effei dispersi e
individuali  dell’arbitrario, il cui procedimento è pura e semplice
imitazione, in quanto non è capace di creare da sé. Gluck e Mozart, come
altri rarissimi compositori61 della loro tempra, sono astri conduori isolati
nell’oceano cupo e squallido della musica d’opera e ci fanno sentire la
possibilità puramente artistica dell’assorbimento della musica più ricca in
una  poesia ancora più ricca, cioè in una poesia che, per  l’assorbimento
volontario della musica in essa, diventerà l’arte drammatica onnipotente.
Come sia impossibile l’opera d’arte perfea nelle condizioni auali, anche
dopo che Gluck e Mozart hanno scoperto la superiore potenza della
musica, ce lo dimostrano proprio le loro opere, che sono restate  leera
morta sullo sviluppo della nostra creazione  artistica moderna. Anche le
faville che sprizzarono dal loro genio appaiono al mondo artistico di oggi
come prestigiosi fuochi d’artificio, che però sono  incapaci di suscitare
l’incendio che avrebbe dovuto  da loro divampare se realmente
contenessero una materia infiammabile.
Le imprese di Gluck e di Mozart sono state dunque solo delle gesta
parziali; non hanno rivelato, cioè, altro che il potere e il volere necessari
della musica; potere e volere che le arti sorelle non hanno compreso. Non
hanno contribuito colleivamente all’azione, non vi hanno collaborato,
spinte dal desiderio sinceramente provato di una reciproca consunzione.
Solo un identico stimolo, comune alle tre arti, renderà possibile la
redenzione nella vera opera d’arte, e così quest’ultima sarà realizzata. Ciò
avverrà quando sarà vinta l’ostinazione delle tre arti nel voler conservare
a ogni costo la propria autonomia e  ciascuna si assorbirà nell’amore per
l’altra; quando ciascuna non potrà amarsi che nell’altra, scomparirà come
arte isolata per essere tue e tre capaci di dar vita all’opera d’arte perfea.
L’assorbimento reciproco in tal senso sarà già di per sé la vera
opera d’arte, la cui vita è nella morte delle arti singole.
Così il dramma dell’avvenire esisterà, naturalmente, quando non
saranno più in grado di vivere né il dramma, né l’opera, né la pantomima,
quando saranno scomparse del tuo le condizioni che consentivano loro di
conservare un’esistenza fiizia e artificiale. Tali condizioni saranno
neutralizzate solo  da altre condizioni capaci di generare spontaneamente
l’opera d’arte dell’avvenire. este però non  possono sorgere
isolatamente, ma solo in modo conforme alle condizioni di tua la nostra
vita. Solo  quando la regnante religione dell’egoismo sarà cacciata ed
estirpata senza pietà perché rea di aver frantumato l’arte integrale in tante
scuole, in tante correnti egoiste e meschine, la nuova religione62 farà il suo
spontaneo ingresso nella vita e sarà la più  valida conferma dell’opera
d’arte dell’avvenire.
Prima di dare uno sguardo non scevro di curiosità a quest’opera d’arte,
che noi vogliamo far nostra negando l’arte auale, è necessario,
conformemente al nostro scopo, esaminare l’essenza delle arti  cosiddee
plastiche o figurative.
III
COME L’UOMO-ARTISTA CREA SERVENDOSI
DELLA MATERIA NATURALE

1. L’architeura.

Come l’uomo comincia e finisce per considerare se stesso soggeo e


oggeo di osservazione artistica, allo stesso modo tenta di rappresentare,
nelle opere d’arte, gli oggei della natura che lo circonda, lo affascina e lo
serve. Nella precisa misura in  cui l’uomo, rappresentando la natura,
giunge a concepire i propri rapporti con essa, a farsi centro della propria
concezione della natura, a destare in se  stesso la coscienza di sé e a
destarla in altri, così  egli tenta di rappresentare la natura a se stesso
e,  spinto da un desiderio simile e forse più intenso,  di comunicarla
all’essere unico cui è destinata, all’uomo, soo forma di un’opera d’arte di
cui egli è  contemporaneamente il soggeo e l’oggeo. Solo  l’uomo può
produrre da sé e per sé un’opera d’arte  direamente umana; in altri
termini, può concepirsi e comunicarsi nell’arte ed essere anche capace di
rappresentare la natura artisticamente. Solo l’uomo incolto e servile non
ne è capace.
I popoli dell’Asia e gli egiziani, ai quali la natura si manifestava come
una forza capricciosa, elementare o animale, al cui sguardo l’uomo si
comportava come un essere passivo e devoto fino al fanatismo della
mutilazione volontaria, davano alla natura il primo posto come soggeo
degno di adorazione e la rappresentavano tramite quest’adorazione senza
giungere, per tale ragione, a innalzarla alla libera coscienza dell’arte.
Per conseguenza, in quei luoghi l’uomo non divenne mai soggeo di
rappresentazione artistica, ma siccome l’uomo non poteva concepire
spontaneamente l’individuale - anche la potenza personale della natura è
individuale - se non alla maniera umana, si contentò di trasmeere la
forma umana, in  una deformazione ripugnante, agli oggei della natura
che intendeva rappresentare.
I greci ebbero in sorte per primi la capacità di dar vita a un’opera d’arte
puramente umana e di estenderla da se stessi a una rappresentazione della
natura. Ma non poterono essere maturi per l’opera d’arte umana finché
non ebbero trionfato sulla natura come si manifestava agli asiatici e non
ebbero posto l’uomo al di sopra della natura, figurandosi le forze della
natura come individuo, come dèi  in forma umana, perfea e bella. Solo
quando Zeus, dall’alto dell’Olimpo, ebbe penetrato il mondo del suo soffio
vivente, quando Afrodite fu nata dalla spuma del mare, quando Apollo ebbe
rivelato la natura e la forma del suo essere come legge della vita  umana
che è bellezza, allora gl’idoli rozzi e primitivi dell’Asia scomparvero e
l’uomo, consapevole della bellezza artistica, applicò la legge della propria
bellezza alla sua concezione e alla sua rappresentazione della natura63.
Dinanzi alla quercia divina di Dodona64 si prostrarono gli elleni
primitivi, che avevano bisogno dell’oracolo della natura; all’ombra dei suoi
rami  circondati dai verdeggianti cespugli del bosco sacro si levò la voce
dell’orfico65; soo il teo ben costruo e tra i colonnati di marmo disposti
con  ingegno del tempio degli dèi il poeta lirico, amico  dell’arte, fece
eseguire le sue danze sul ritmo musicale dell’inno, e nel teatro, che sorse
intorno all’ara sacra di Dioniso, il poeta tragico seppe erigere la scena per
farsi comprendere nei vasti spazi riservati agli speatori, che volevano
comprendere e realizzare l’opera d’arte più viva e perfea.
Ecco come l’uomo-artista, sentendo il bisogno di esprimersi in modo
artistico, soomise la natura alle sue necessità di artista, fino a quando non
potè  servirsi di lei per i suoi fini superiori. Ecco come  il poeta lirico e
quello tragico postularono la necessaria presenza dell’architeo che, nella
costruzione  dell’edificio, doveva essere all’altezza della loro arte e
adeguarsi alle loro idee artistiche.
Il bisogno primo, quello naturale, spinse l’uomo a innalzare le case per
abitarvi e meervisi al riparo. Ma nel paese e presso il popolo che fu
culla di ogni arte questo non fu solo un bisogno materiale, ma il bisogno
dell’uomo capace di rappresentare se stesso come artista e che era
destinato a fare dell’architeura un’arte vera e propria. Ciò dicendo non si
presentano ai nostri occhi, e tanto meno al nostro spirito, le residenze reali
di Teseo, di Agamennone o le muraglie di roccia delle fortezze pelasgiche,
ma i templi degli dèi e i teatri della tragedia del popolo: tuo quello,
insomma, che è sopravvissuto, di questi monumenti, alla decadenza della
tragedia, cioè dell’arte greca perfea, che rivelò nei suoi caraeri
un’origine asiatica.
L’asiatico, sempre servo della natura, non seppe rappresentarsi lo
splendore dell’uomo tranne che  soo forma d’un monarca assoluto, il
despota; e per tale ragione prodigò tuo il lusso intorno a questo “dio sulla
terra”. Ogni cosa, nella compagine  raccolta intorno al despota, era
calcolata per soddisfare il desiderio sensuale egoista, che desidera soltanto
se stesso, che non ama che se stesso fino a  raggiungere l’ebbrezza
antiumana del potere fino  alla sazietà, che accumula per tale insaziabile
desiderio oggei su oggei, masse su masse per finalmente oenere la
soddisfazione della propria sensualità spinta all’estremo e intesa come
smisurata.  Il lusso fu dunque l’essenza dell’architeura asiatica: le sue
creazioni mostruose e vuote, tali da confondere i sensi, sono i palazzi dei
despoti dell’Asia, simili a vere e proprie cià.
Al contrario, un delizioso riposo e un nobile rapimento s’impossessano
di noi quando contempliamo i templi degli dèi ellenici, in cui riconosciamo
la natura spiritualizzata dal vivo soffio dell’arte  umana. Il tempio divino
offerto dall’arte suprema  come scena popolare fu il teatro. L’arte
colleiva,  volgendosi alla comunità, ne era la legge, dava il  tono,
procedeva secondo la necessità e a essa si adeguava perfeamente. E da
questa necessità nacquero creazioni ardite, meravigliose. Anche le case;
degl’individui erano conformi al bisogno che le aveva fae nascere.
Mentre in antico furono costruite  con tronchi d’albero o, come la tenda
d’Achille, disposte secondo i criteri più elementari dell’utilità,  quando la
cultura ellenica giunse al suo apogeo, si ornarono di muri lisci di pietra e,
con ingegnosa delicatezza, sorsero anche le stanze per gli ospiti. Ma non
andarono mai al di là dei bisogni naturali dell’uomo privato, e l’individuo
cercò di soddisfare, con esse, un bisogno che solo nella comunità trovava
soddisfao nella maniera più nobile, perché solo  nella colleività un
bisogno può generarsi.
Neamente diversa fu l’architeura quando la vita pubblica si spense e
la brama egoista dell’individuo prese a dear legge. ando l’individuo
non sacrificò più agli dèi comuni Zeus e Apollo, ma soltanto a Pluto, dio
della ricchezza, il quale santifica  solo l’isolato individualmente; quando,
insomma, ciascuno volle essere isolatamente quello che era prima in seno
alla comunità, anche l’architeo ne seguì le sorti e fu obbligato a costruire
un tempio  all’idolo dell’egoismo. Il ricco egoista, per il suo  piacere
personale, non si contentò più dell’elegante tempio della saggia Atena; la
sua dea particolare fu la voluà, sempre avida, insaziabile. Bisognava darle
da divorare intere masse asiatiche66  e a questi capricci potevano
corrispondere soltanto le volute e i più complicati ornamenti.
Vediamo così il dispotismo dell’Asia, quasi per vendicarsi della
conquista di Alessandro, stendere  nel centro del mondo europeo il suo
braccio distruggitore d’ogni bellezza e, soo l’impero romano, esercitare la
sua tirannia al punto da far sì che la bellezza fosse solo insegnata come un
ricordo, perché era già del tuo cancellata dalla coscienza degli uomini.
Nei secoli più fiorenti della dominazione romana universale vediamo
l’aspeo ripugnante del fasto  dei palazzi imperiali e di quelli dei ricchi
spinto all’estremo limite, mentre dall’altra parte l’utilità pura si
manifestava grandiosamente, dati i tempi, negli edifici pubblici.
Il pubblico, infangato com’era della comune manifestazione del
generale egoismo, non aveva più bisogno del bello: si contentava del
pratico e dell’utile.
La bellezza aveva ceduto all’utile puro, tua la soddisfazione dell’uomo
consisteva nel piacere del  ventre; ora se la soddisfazione del ventre
occupa,  per così dire, tua questa pubblica ricerca dell’utile67, ciò è
caraeristico anche della nostra epoca  moderna, fieramente ostinata
nell’affermare l’utilità delle sue invenzioni e che - cosa davvero edificante!
- più inventa in tal senso a meno è capace di riempire lo stomaco di chi ha
fame.
ando ci si dimenticò che la vera bellezza è la cosa più utile di tue,
perché non può manifestarsi nella vita se non quando i bisogni
fondamentali  sono appagati e non è resa impossibile da
superflue  prescrizioni d’utilità pubblica, quando dunque il desiderio del
pubblico non andò oltre la soddisfazione  del mangiare e del bere - e
l’appagamento massimo  di questo desiderio si realizzò come ragione di
vita dei ricchi e dei Cesari e in proporzioni enormi, come l’impero romano
-, allora si costruirono quelle  strade e quegli acquedoi che noi oggi
cerchiamo di superare con le nostre strade ferrate. La natura diventò così
una vacca da lae e l’architeura il secchio del lae. Il fasto e il lusso dei
ricchi si godeero la crema prudentemente prelevata dal lae rappreso e
lasciarono che il siero bluastro e liquido colasse araverso gli acquedoi
verso la plebaglia.
Tuavia questi sforzi utilitari e del lusso ebbero presso i romani forme
grandiose: la serenità del  mondo greco non s’era spenta del tuo, e la
fredda  pratica romana, l’amore asiatico del fasto, doveero per forza
tenerne conto68. Per questa ragione l’architeura romana è ancora capace
di suscitare in  noi un fascino misterioso che, a buona ragione, la  fa
apparire ai nostri occhi come espressione di bellezza.
Ma tuo quello che di tale arte ci è giunto araverso le guglie delle
caedrali del Medio Evo manca di arazione sia dal lato della bellezza che
da quello della grandiosità. Anche dove possiamo vedere, come nelle
nostre caedrali gigantesche, una maestà cupa e senza grazia, la bellezza,
purtroppo, non la vediamo se non come un’ombra69. Nei veri templi della
nostra religione moderna - i palazzi della Borsa - non mancano, è vero,
colonne greche;  frontoni greci c’invitano a prendere il treno, e il  cambio
della guardia ci viene incontro da qualcosa  che somiglia al Partenone di
Atene; ma queste eccezioni addiriura comiche sono solo eccezioni:
la  regola della nostra architeura moderna è quanto  mai brua e
meschina.
alunque cosa l’architeura d’oggi possa produrre di gentile e di
grandioso, risentirà sempre della sua vergognosa soomissione all’utile: i
nostri servizi pubblici e privati sono tali che, per soddisfarli, l’architeura
non può più produrre, ma solo copiare e combinare.
Solo il vero bisogno genera la capacità inventiva; ma il vero bisogno dei
nostri tempi si manifesta  soltanto subordinato all’utilità più stolta: per
appagarlo ci vogliono apparati meccanici, non delle creazioni artistiche.
el che va al di là del bisogno reale è solo bisogno del lusso, dell’inutile; e
proprio per servire al superfluo e all’inutile l’architeura odierna ricopia i
monumenti che le antiche civiltà  crearono soo l’impulso del bello, ne
contamina i deagli guidata dalla propria fantasia di lusso; in un assurdo
desiderio di varietà mescola gli stili di  tue le architeure nazionali del
mondo in costruzioni incoerenti e raffazzonate e, per farla breve,  segue
l’arbitrio della moda, di cui deve acceare le leggi frivole e farle proprie,
dato che nessun impulso a creare le viene da una necessità intima e bella.
L’architeura dunque deve seguire le sorti umilianti delle arti isolate e
puramente umane quando la creazione non è suscitata da un intimo
bisogno  dello spirito che si manifesta di per sé come bellezza o come
desiderio di bellezza. La sua decadenza  è cominciata insieme con quella
della tragedia greca e con l’affievolirsi della forza creatrice; i monumenti
che dovee erigere alla gloria dell’egoismo  delle epoche seguenti, non
esclusi i monumenti erei alla fede cristiana, appaiono, paragonati alla
sublime semplicità e al profondo significato degli edifici greci sorti ai
tempi dell’apogeo della tragedia,  come aberrazioni lascive d’incubi
voluuosi di fronte alle creazioni serene della luce radiosa, che penetra
tuo.
Solo nell’opera d’arte colleiva dell’avvenire, nella redenzione delle arti
puramente umane separate dall’egoismo, nella redenzione dell’uomo
utilitario operata dall’uomo artista dell’avvenire, anche l’architeura sarà
liberata dai vincoli che la tengono  schiava e dalla maledizione che rende
sterile la produzione artistica, nata libera, fertile e inesauribile.

2. La scultura.

Gli asiatici e gli egiziani, nel rappresentarsi i fenomeni della natura loro
dominatrice, passarono dalla riproduzione di forme animali alla
rappresentazione della forma umana, cercando, araverso di  essa, di
raffigurarsi le potenze naturali e di simboleggiarle in proporzioni enormi e
orribilmente deformate. Non intesero copiare l’uomo, ma, siccome l’uomo
non può mai raffigurare un ente supremo  diverso da sé, trasferirono
l’immagine umana nella natura oggeo della loro adorazione e di
conseguenza la deformarono.
In questo senso, sollecitate da un’intenzione analoga, le più antiche
tribù greche rappresentarono in forma umana, in legno o in pietra e come
oggei  di adorazione, i loro dèi, cioè le potenze naturali intese come
potenze divine. A questo bisogno religioso d’incarnare la potenza divina,
invisibile, temuta  o venerata, la scultura arcaica s’ispira lavorando varie
specie di materia offerte dalla natura per imitare la figura umana; in modo
analogo l’architeura  rispose a un bisogno immediato dell’uomo
quando  riunì varie specie di materia naturale per imitare  la natura e,
oserei dire, per condensarla in un modo o nell’altro in una forma che può
definirsi simbolica. Tanto per fare un esempio, il tempio degli dèi altro non
fu forse che il simbolo del boscheo sacro agli dèi. Finché l’uomo,
nell’architeura, non considerò che un utile prossimo e immediato, l’arte
restò o tornò a essere un mestiere; ma quando  l’uomo diventò artista,
quando, in altri termini, divenne a se stesso soggeo e oggeo di
rappresentazione artistica, l’architeura fu da lui elevata al grado di arte.
Analogamente, finché l’uomo, di fronte alla natura, sentì solo un legame di
dipendenza  adeguandosi agli altri animali, non fu in grado
di rappresentare le vere potenze della natura, anche se già dava loro una
forma umana, se non nella misura con cui misurava se stesso: cioè
secondo le abitudini e con quegli aributi mediante i quali si considerava
dipendente dalla natura come tuo ciò che vive; ma a mano a mano che
seppe elevare per sé il proprio corpo non più sfigurato e, di conseguenza, il
proprio potere puramente umano a materia e  oggeo di speculazione
artistica, riuscì a rappresentare i suoi dèi soo la forma più libera e più
pura, finché non giunse a rappresentare la bellezza umana in sé e per sé
come forma esclusivamente umana per propria e perfea soddisfazione.
Siamo così giunti all’importantissima linea di demarcazione in cui
l’opera d’arte umana vivente si scisse per sopravvivere artificialmente
nella plastica immutabile, monumentale e come pietrificata. La discussione
di questo punto doveva restare fondamentale per una traazione sulla
scultura.
La prima e la più antica comunità umana fu opera della natura.
L’associazione puramente familiare, cioè l’insieme di tui coloro la cui
discendenza risaliva a un comune capostipite e ai figli nati da  lui, fu il
legame dell’unione primordiale di tue le  stirpi e di tui i popoli che la
storia ci ha rivelato.
Nelle tradizioni leggendarie la tribù familiare conservò, memoria
sempre viva, il ricordo incosciente d’un’origine comune: le impressioni
della natura particolare che la circondava elevarono i ricordi della stirpe a
rappresentazioni religiose. Secondo la diversità e la ricchezza con cui
questi ricordi e queste idee si accumularono e ricomposero presso i popoli
storici divenuti più forti per l’accrescersi delle stirpi, e soprauo durante
le migrazioni delle tribù a causa del modificarsi delle impressioni della
natura, avvenne che questi popoli, facendo risalire, nella leggenda e nella
religione, il  ricordo della loro origine particolare al di là del ristreo
ambito della nazionalità, ritenendosi discendenti degli dèi, finirono col far
credere a tui gli uomini in generale di essere figli e discendenti dei loro
dèi. Per questo, in ogni epoca in cui mito e religione pervasero la fede viva
di un popolo, il legame che unì ogni tribù fu solo il mito e una particolare
religione.
Le cerimonie in ricordo della loro comune origine venivano celebrate
dalle tribù greche nelle feste religiose, che erano la glorificazione del dio o
dell’eroe nel quale sentivano di formare un tuo.
Ma i loro ricordi nazionali li solennizzavano, più vivi che altrove,
nell’arte, quasi spinti dall’irresistibile bisogno di fissare gli eventi che
sempre più si  cancellavano nell’allontanarsi del passato. E li fissavano,
nei e compiuti, nell’opera d’arte più perfea: nella tragedia, ove più
direamente si manifestavano.
L’opera d’arte, lirica e drammatica, era un ao religioso vero e proprio;
e in quest’ao, paragonato  alla semplicità delle cerimonie religiose
primitive,  già s’affacciava il desiderio di rappresentare colleivamente e
deliberatamente il ricordo comune, che  nella vita usuale aveva perso
buona parte della sua forza viva e immediata.
La tragedia fu dunque il trasformarsi d’una cerimonia religiosa in opera
d’arte: al cospeo di essa il rito divino propriamente deo, tradizionale,
conservato nel tempio, perdeva necessariamente in pietà e sincerità, al
punto da diventare una cerimonia tradizionale e abitudinaria, da quando la
sua quintessenza si perpetuava nell’opera d’arte.
Nelle forme esteriori dell’ao religioso, tanto importanti, la tribù si
presenta come una comunità, dal punto di vista di certi usi, gesti e costumi
antichi e significativi: l’abito della religione è, per così dire, il costume della
tribù, che consente di riconoscere a prima vista le comunità
dell’origine.  esto costume, consacrato da un’antica tradizione,  questa
convenzione, in certo qual modo religiosa e  sociale, passarono dalla
solennità religiosa alla solennità artistica, cioè alla tragedia; per quest’uso
e  secondo questa tradizione l’aore tragico fu considerato dal popolo
come un personaggio noto e venerato. Non solo la grandezza del teatro e
la lontananza degli speatori dalla scena resero necessario l’innalzamento
della figura umana mediante il coturno e la maschera tragica tradizionale,
ma il coturno e  la maschera erano anzituo emblemi necessari
di  significato religioso, che, uniti ad altri emblemi simbolici, conferivano
all’aore un’alta dignità sacerdotale. Ora, quando una religione, che
comincia a  sparire dalla vita comune e cede completamente allo spirito
politico, seguita a sussistere, ciò è dovuto soltanto alle sue forme esterne;
ma quando, come in Atene, questo costume non può rivestire le  forme
della vita reale se non soo l’aspeo dell’arte, ciò vuol dire che questa
verità di vita deve essere per forza la quintessenza della religione.
La  quintessenza della religione greca, l’elemento cui  interamente faceva
capo nella forma in cui già inconsciamente si manifestava nella vita reale,
è l’uomo. Fu compito dell’arte fare in modo chiaro e inequivocabile questa
rivelazione, e l’arte la fece strappando via l’ultimo velo che nascondeva la
religione e ne svelò nuda la quintessenza: l’uomo vero in carne e ossa.
Ma l’opera d’arte colleiva fu distrua da questa rivelazione, perché in
essa il legame della comunità  era stato proprio quella veste religiosa.
ando il  contenuto del mito colleivo e della religione come  oggeo
dell’arte drammatica fu trasformato e usato, non senza deformazione, con
un’intenzione e una  interpretazione poetica, e infine con una licenza
poetica egoista, subito la fede religiosa scomparve dalla vita della nazione,
che non aveva altri legami se non la politica.
esta fede, l’adorazione degli dèi, questa certezza della verità delle
antiche tradizioni della stirpe avevano costituito il legame della comunità:
quando questo legame fu spezzato, tolto di mezzo come una superstizione,
il fondo infallibile della religione apparve allora essere l’uomo puro e
semplice;  non più l’uomo comune, unito, grazie a quel legame, alla
comunità della tribù, ma l’uomo egoista, assoluto, isolato; nudo e bello, ma
distaccato dalla bella unione con la comunità.
D’allora in poi, con la scomparsa della religione greca, col dissolversi
dello stato naturale dei greci  assorbito dallo stato politico, finita l’opera
tragica colleiva, ebbe decisamente inizio, per l’umanità storica, la nuova
infinita evoluzione della comunità  nazionale primitiva della stirpe in
comunità universale puramente umana.
Il legame che l’uomo perfeo, giunto alla coscienza di se stesso nel
greco nazionale, aveva roo come una pesante catena, in grazia di quella
coscienza acquisita cominciò a essere sentito come un legame comune a
tui gli uomini. Il periodo che va da quell’epoca ai nostri giorni è dunque
la storia dell’egoismo assoluto; la fine di esso segnerà la liberazione operata
nel comunismo70.
L’arte che ci ha rappresentato quest’uomo isolato, egoista, nudo, come
il punto di partenza del suddeo periodo storico, simile a un bel
monumento che  l’annunciasse, è la scultura, che giunse al suo apogeo
proprio quando l’opera d’arte umana colleiva, la tragedia, cominciava a
decadere.
La bellezza del corpo umano era fondamento dell’arte greca fin dallo
stato primitivo: sappiamo  che presso i dori di Sparta, la più nobile tribù
ellenica, la salute e la bellezza intae del neonato costituivano le uniche
condizioni alle quali gli fosse  permesso di vivere, tanto che si negò il
dirio alla vita ai fanciulli brui e deformi71.
est’uomo nudo e bello è la quintessenza di tua la vita spartiata;
dalla gioia che derivava dalla bellezza del corpo umano perfeo, cioè del
corpo  virile, aveva origine quell’amore virile che caraerizza lo stato
spartano. est’amore ci appare nella sua purezza originale come la
manifestazione più nobile e personale del gusto estetico dell’uomo.
Ora, se l’amore dell’uomo per la donna, nella sua manifestazione
naturale, è, in fondo, un amore egoistico-voluuoso, in cui si soddisfa un
determinato  piacere sensuale, è logico che l’uomo non possa  esaurire in
esso tuo il suo essere; l’amore dell’uomo per la donna si presenta come
un affeo di gran lunga superiore. Esso infai non si limita al puro piacere
dei sensi, ma consente all’uomo di assorbire, di consumare tuo il suo
essere nella natura  dell’oggeo amato, e proprio nella misura in cui
la donna, con la sua femminilità perfea, ha sviluppato, nel suo amore per
l’uomo e nel suo assorbirsi in lui, l’elemento virile della femminilità e l’ha
portato alla totale perfezione, insieme con l’elemento  puramente
femminile, in modo da non essere per  l’uomo solo un’amante, ma
addiriura un’amica. Solo in questa atmosfera l’uomo può trovare
piena soddisfazione nell’amore della donna72.
L’elemento superiore di quest’amore maschile consisteva
nell’esclusione del piacere egoista dei  sensi. Non per questo si traava
tuavia d’un legame di pura amicizia spirituale, ma l’amicizia era
la suprema fioritura, la gioia perfea dell’amicizia sensuale, che aveva la
sua direa radice nella gioia della bellezza, e della bellezza tua fisica
dell’uomo  amato. esta gioia non era un desiderio egoistico,  ma una
rivelazione completa della perfea simpatia per la gioia che l’amato aveva
in sé e che ben rivelava l’aeggiamento gioioso di quell’uomo felice, avido
di bellezza. est’amore, che derivava dalla  gioia più nobile, fisica e
morale insieme - non l’amicizia che noi esprimiamo mandando leere per
posta, come una cosa cerebrale faa a sangue freddo - era per gli spartani
il solo maestro della giovinezza,  l’istitutore sempre giovane tanto
dell’adolescente,  che dell’uomo maturo, l’organizzatore delle
feste  colleive come delle imprese più ardite, l’aiuto entusiasta nella
baaglia, perché era quest’amore che  vincolava associazioni nate
dall’amore a divisioni e  sezioni militari e che prescriveva come taica il
disprezzo della morte per salvare l’amante minacciato o vendicarne la
morte, secondo rigorose leggi ree dalla natura.
Lo spartano, che eseguiva nella vita stessa un’opera d’arte puramente
umana e colleiva, l’esprimeva incoscientemente nella poesia lirica, che è
espressione immediata della gioia in se stessa e nella vita; ma questa, nella
sua esteriorità necessaria, non giunge completamente alla coscienza
dell’arte. La poesia lirica spartana, all’apogeo dello stato dorico primitivo,
aveva una tale tendenza verso la sorgente originaria di tue le arti, la
danza vivente, che  - cosa quanto mai caraeristica - non ce n’è restato
alcun monumento, proprio perché si traava di una manifestazione pura e
fisicamente bella, che impediva alla poesia di separarsi dalla musica e dalla
danza73. Lo stesso passaggio dalla poesia lirica al  dramma, che noi
osserviamo nei canti epici, fu estraneo agli spartani. È molto significativo
che le epopee  omeriche siano state raccolte nel dialeo ionico e  non nel
dorico. Mentre le popolazioni ioniche e, in  primo luogo, gli ateniesi, a
causa di un reciproco commercio quanto mai aivo si evolvevano verso lo
stato politico e finivano col rappresentarsi la religione, ormai in via di
scomparire dalla vita, soltanto soo la forma artistica nella tragedia, gli
spartani, che abitavano una regione senza rive, seguitavano a conservare il
caraere ellenico primitivo e  opponevano il loro stato puro, primitivo,
come un  monumento artistico vivente, alla forma variabile  della nuova
vita politica. anto nel turbine violento e incessantemente distruore
della nuova era  cercava un aiuto o una via d’uscita, volgeva gli occhi a
Sparta. L’uomo di stato tentava di sondare le  forme di quello stato
primitivo per trapiantarle artificialmente nello stato politico d’allora; e
l’artista,  vedendo dissolversi l’opera d’arte colleiva della tragedia e
decomporglisi soo gli occhi, cercò da quale lato potesse scoprire la
quintessenza di quest’opera d’arte, l’uomo primitivo greco, bello e
promesso  all’arte. E come Sparta si ergeva, monumento vivente, nella
moda dei nuovi tempi, così la scultura volle far suo l’uomo greco primitivo
che aveva scorto in quel monumento vivente e lo rese monumento  di
pietra, senza vita, d’una bellezza in disuso per la  barbarie vivente dei
tempi futuri.
Ma quando si volse lo sguardo da Atene a Sparta, già il verme
dell’egoismo colleivo rodeva fatalmente l’antica costituzione. La guerra
del Peloponneso l’aveva traa, suo malgrado, nel gorgo dei nuovi tempi:
Sparta aveva potuto vincere gli ateniesi  solo con quelle armi che gli
ateniesi avevano reso per l’addietro tanto terribili e invincibili.
Invece delle monete di rame - veri monumenti di quel disprezzo per il
denaro che ben si addiceva all’alta stima che si aveva dell’uomo - le
monete d’oro  asiatiche s’ammassarono nelle casse dello spartano;  questi
allora rifiutò il tradizionale e frugale pasto comune per gli opulenti
banchei tra quaro mura, e il bell’amore maschile, come tra gli altri greci
del  tempo, degenerò in un’ignobile voluà sessuale, che  mutò l’incentivo
di quest’amore - che certamente  era un amore superiore a quello della
donna - nel suo contrario: l’amore contro natura.
est’uomo, bello in sé, ma bruo nel suo isolamento egoista, la
scultura ce l’ha tramandato nel marmo e nel bronzo, immutabile e freddo
come una reliquia pietrificata, come la mummia dell’ellenismo. est’arte,
al soldo dei ricchi per l’ornamento dei  loro palazzi, raggiunse tanto più
grande diffusione  quanto più la produzione artistica si abbassò al livello
d’una fabbricazione completamente meccanica. È vero che il soggeo della
scultura è l’uomo così come si manifesta: infinitamente vario, instabile di
caraere e mutevole nei sentimenti; ma  quanto alla materia della
rappresentazione, questa  arte lo raffigura nella sua esteriorità fisica che
lascia supporre solo l’aspeo esterno, mai il fondo  dell’anima umana. È
vero che l’interiorità umana si esprime adeguatamente nei trai esteriori,
ma tale  espressione può essere perfea solo nel movimento e per il
movimento.
Ora di tale movimento lo scultore non può cogliere gl’infiniti momenti
nella loro diversità: ne coglie uno solo e non può dar l’idea del movimento
vero se non astraendosi dall’opera concreta verso un determinato calcolo
matematico di paragoni.
ando fu finalmente trovato il processo più esao, più certo e più
conveniente per uscire da quella sterile incapacità di ben rappresentare la
vita reale, quando la materia naturale fu plasmata secondo le proporzioni
perfee dell’uomo fisico, quando si fu in grado di presentare quest’uomo
fisico in modo evidente, allora, una volta trovato il procedimento, lo si potè
insegnare con sicurezza e, di copia in copia, la scultura potè essere
tramandata di generazione in generazione, produrre anche cose graziose,
belle, sincere, senza però mai trarre alimento da una vera forza creatrice e
artistica. Notiamo infai  che, al tempo dell’impero romano, quando già
da  lungo tempo era scomparsa ogni aspirazione artistica, la scultura
produceva a profusione opere in cui  pareva esistere uno spirito artistico,
anche se non  dovevano la loro esistenza che a una felice imitazione
meccanica. Potè diventare un bel mestiere dopo aver cessato d’essere
un’arte, e seguitò a esistere finché fu in grado di trovare e inventare; ma
una reiterata scoperta è soltanto imitazione.
Durante il Medio Evo, bardata di ferro o nascosta soo l’abito
monastico, la carne di marmo splendente della bellezza greca s’irradiò per
una umanità avida di vivere; da quella bella pietra e non dalla vita reale il
mondo moderno doveva imparare dall’antico a riconoscere l’uomo, ancora
una volta.
La nostra scultura moderna non è nata dal desiderio di rappresentare
l’uomo com’è realmente; non poteva percepirlo se non araverso i
travestimenti  della moda. È nata dunque solo dal desiderio d’imitare
l’uomo imitato, fisicamente inesistente per i sensi. È il sincero desiderio di
ricostruire sulle orme del passato la bellezza in mezzo a una vita
totalmente brua. Se l’uomo bello, scomparendo dalla vita, fosse stato la
causa delle perfezioni artistiche della scultura, che voleva conservarselo
per un  godimento monumentale nel desiderio di traenere  un bene
colleivo scomparso, la scultura moderna, nel ripetere questi monumenti,
non avrebbe altro movente che l’assenza totale di quell’uomo dalla vita.
Poiché tale desiderio non veniva mai soddisfao nella vita e per la vita,
ma si trasmeeva di monumento in monumento, di pietra in pietra,
d’immagine in immagine, la nostra scultura moderna, non  facendo che
imitare la scultura propriamente dea, dovee necessariamente prendere
gli aspei d’un mestiere corporativo, in cui la quantità delle regole e dei
principi secondo i quali si doveva procedere testimoniavano la sua povertà
come arte e la sua incapacità d’invenzione.
Presentando se stessa e le sue opere invece dell’uomo bello che in
realtà non esiste, vivendo come arte e, in certo qual modo, di questi difei,
finisce col praticare un isolamento egoistico, in cui non fa altro, mi si passi
l’espressione, che predire le fasi della bruezza che ancora regge la vita; e
ciò non avviene certo senza che provi un certo piacere, essendo convinta
della sua necessità - relativa - data l’atmosfera che si è determinata.
La scultura moderna non potrà mai rispondere a un vero bisogno
finché l’uomo bello non esisterà nella realtà: la sua apparizione nella vita e
la sua copia, che allora servirà di regola direa, saranno la rovina dell’arte
figurativa di oggi, perché l’unico  bisogno che può soddisfare e che
artificialmente si crea da sé scaturisce dalla bruezza della vita; non è un
bisogno nato da una vita realmente bella e tale da esigere la riproduzione
di questa vita nell’opera d’arte vivente. Il vero desiderio artistico creatore
nasce dalla ricchezza e non dalla miseria. La  ricchezza della scultura
moderna è la ricchezza dei monumenti dell’arte figurativa greca che sono
giunti fino a noi. Non produce però dalla fonte di quella ricchezza: è spinta
verso di essa dalla mancanza di ogni bellezza nella vita auale; s’immerge
quindi in  quella ricchezza per fuggire l’indigenza. Così, incapace
d’inventare, adaa all’imitazione della vita vivente tuo quel che le capita
a tiro: si presenta come disperata soo le vesti della moda per essere
riconosciuta e ricompensata, copia il bruo per essere vera - secondo le
nostre idee, s’intende - e finisce col rinunciare del tuo a essere bella. Così
la scultura, persistendo le circostanze che le conservano  una vita
artificiale, giunge a quello stato infelice e sterile che la costringe a creare
cose brue e necessariamente le fa sospirare una redenzione. Le
condizioni d’esistenza in cui desidera vedersi finalmente  libera non
possono essere che le precise condizioni  di quella vita in cui la scultura
cesserà di esistere  come arte indipendente. Ma quest’aspirazione, appena
soddisfaa, rivelerà l’illusione egoistica che le  è propria quando le
condizioni della produzione necessaria della scultura cesseranno
completamente di esistere in una vita fisicamente e realmente bella.
Nella vita auale la scultura, come arte indipendente, risponde a un
bisogno relativo: in verità deve la sua auale esistenza, il suo stesso fiorire
a questo bisogno; un’altra situazione, contraria all’auale, in cui esistesse
un bisogno naturale di scultura, non è neppure lontanamente
immaginabile. Se l’uomo, nella vita, rende omaggio al principio della
bellezza, se rende bello il proprio corpo, se gioisce della bellezza da esso
emanante, il soggeo e la materia artistica della riproduzione di tale
bellezza e della gioia nata da tale bellezza saranno indubbiamente l’uomo
stesso, vivo e perfeo. Ma in questo caso l’opera d’arte è il dramma, e la
redenzione dell’arte  figurativa sarà proprio il suo disincantamento
dalla pietra, il ritorno all’uomo in carne e ossa, il passaggio dall’immobilità
al movimento, dal monumentale all’auale. Solo quando l’impeto dello
scultore-artista sarà passato nell’anima del danzatore, del  mimo, di colui
che canta e che parla, quell’impeto potrà considerarsi placato. ando la
statuaria cesserà di esistere o esisterà con un fine diverso da  quello
dell’uomo fisico; quando sarà assorbita, in  quanto scultura,
dall’architeura; quando lo streo isolamento di quest’uno scolpito nella
pietra si sarà fuso nella diversità infinitamente viva degli uomini viventi,
reali; quando sapremo raffigurarci il ricordo dei morti che amammo come
di esseri risuscitati per l’eternità, animati, espressivi, ma non nel marmo e
nel bronzo insensibili; quando innalzeremo le nostre case perché ospitino
l’opera d’arte vivente e non avremo più bisogno d’immaginarci  in essa
l’uomo vivente, solo allora esisterà una vera arte figurativa.
3. La piura.

Come, quando ci è rifiutata la gioia di sentir suonare un’orchestra


sinfonica, cerchiamo di supplire a tale mancanza con una riduzione per
pianoforte, come quando, essendoci impedito di vedere con i nostri occhi i
quadri d’una galleria, ci sforziamo di  provare, araverso una vignea,
l’impressione che ci farebbe dal vero uno di quei quadri, così la piura, se
non alle origini, almeno nella sua evoluzione artistica, dovee rispondere
all’imperioso bisogno di tramandare al ricordo la vita dell’opera  d’arte
umana che era andata perduta.
Non parleremo in questa sede del suo brancolare quando nacque, come
la scultura, dalle aspirazioni religiose di rappresentazioni non artistiche,
perché raggiunse un’importanza artistica solo quando l’opera vivente della
tragedia scomparve e le creazioni luminose e colorate della piura
tentarono,  per rivincita, di traenere ancora lo sguardo sulle  scene
meravigliose e significative, che non s’offrivano più all’impressione direa
e vivente.
Così l’opera d’arte greca ebbe nella piura la sua seconda fioritura.
esta fioritura non era più sbocciata inconsciamente e necessariamente
dall’intensità della vita; la sua necessità era, più che altro, una necessità di
civiltà. Proveniva da un’aspirazione cosciente, volontaria, anzituo della
scienza della bellezza artistica e poi dalla volontà di obbligare - mi si passi
l’espressione - questa bellezza a  risiedere in una vita cui più non
apparteneva, istintivamente, involontariamente, come espressione
necessaria della sua anima.
L’arte che era uscita totalmente sola dalla comunità della vita popolare,
aveva prodoo la nozione dell’arte dalla sua vera esistenza e dagli aspei
della sua apparizione. Non è stata infai l’idea a far  nascere l’arte, ma
l’arte vera, quando esisteva, a generare l’idea. Allora la forza artistica del
popolo,  che agiva per una necessità naturale, era morta;  quel che aveva
creato viveva soltanto nella memoria o araverso la copia artistica. Il
popolo, in tui i tempi, non ha mai proceduto in tuo quel che avviene, e
soprauo nella distruzione del suo caraere nazionale, della sua
indipendenza nazionale, se  non in base a una necessità intima e, di
conseguenza, in rapporto al grandioso sviluppo del genere umano; sì che
l’anima artistica dell’individuo, non potendo comprendere nel suo
desiderio di bellezza la ricerca di vita del popolo nelle sue
manifestazioni brue e per lei incomprensibili, potè consolarsi solo con la
contemplazione dell’arte del passato e, nell’impossibilità palese di
rianimare a volontà quest’opera d’arte, riuscì a far durare questa
consolazione, tanto benefica quanto possibile, araverso un fedele rivivere
di tuo ciò che la memoria aveva serbato di riconoscibile: allo stesso modo
in cui noi, quando abbiamo perduto una persona cara, ne conserviamo la
fisionomia mediante un ritrao.
L’arte stessa diventa così oggeo dell’arte; la nozione, così acquisita, ne
diventa la legge, e l’arte civilizzata, quella che si poteva apprendere e
insegnare, iniziò una carriera che, come si può constatare al giorno d’oggi,
può perpetuarsi nei tempi e nelle circostanze meno artistici: ma solo per il
piacere egoistico dello spirito civilizzato, staccato dalla vita, isolato e avido
d’arte.
Inoltre la piura aveva straordinari vantaggi sullo stolto procedimento
che adoarono, a esempio, i poeti di. corte alessandrini quando intesero
ripristinare la tragedia con un’imitazione pura e semplice74: abbandonò
quel che era perduto e soddisfece al desiderio di riprodurlo sviluppando
una particolare capacità artistica caraeristica dell’uomo.
Sebbene questa facoltà si manifestasse nelle più svariate maniere, la
piura ebbe subito un decisivo vantaggio sulla scultura. Nella sua materia,
la scultura rappresenta l’uomo nella sua completezza; di conseguenza era
più vicina all’opera d’arte vivente dell’uomo che rappresenta se stesso di
quanto non lo fosse l’opera piorica, che non poteva in alcun modo dare
altro dell’uomo che un fantasma colorato. Siccome in queste due
riproduzioni la vita non  poteva essere realizzata e il movimento non
poteva  essere prodoo se non per allusioni, la loro possibilità ipotetica
doveva essere lasciata alla fantasia  dello speatore secondo determinate
leggi d’astrazione; per questo la piura, rinunciando alla realtà anche più
idealmente della scultura, non mirando che all’illusione artistica, potè
accostarsi molto meglio della scultura a quell’illusione.
La piura, infine, non aveva bisogno, come la scultura, di limitarsi alla
rappresentazione di quel determinato uomo o di determinati gruppi di
uomini, che unici erano accessibili alla sua rappresentazione;  l’illusione
artistica diventava in essa così viva che  le era consentito far entrare nel
dominio della rappresentazione non solo dei gruppi umani nei
loro rapporti multiformi, estendendosi nelle dimensioni di lunghezza e di
larghezza, ma anche, come sfondo extraumano, la scena della natura. Si
ebbe così, come base, un momento completamente nuovo della facoltà di
concepire e di riprodurre artisticamente l’uomo: il punto d’intesa e
d’imitazione intima della natura mediante la piura del paesaggio.
esto momento è di somma importanza per tue le arti figurative.
anto, nell’architeura, derivò  dall’intuizione e dallo sfruamento
artistico della  natura in favore dell’uomo - il che, nelle arti figurative, si
estese fino all’uomo inteso come soggeo  per farne un idolo -, l’arte lo
portò alla perfezione  abbandonando l’uomo con un’intelligenza
sempre  più compiuta per volgersi esclusivamente alla natura e ciò
avvenne rendendo l’arte plastica capace  di concepire l’essenza della
natura, di perfezionare, in certo qual modo, l’architeura e di portarla fino
a una rappresentazione vivente della natura.
L’egoismo umano che, nell’architeura pura, concepì la natura sempre
araverso l’uomo isolato, fu vinto, in certo qual modo, nella piura del
paesaggio. esta tornò a raffigurare la natura nella sua peculiarità, invitò
l’uomo artista ad assorbirsi  in essa con amore e gli permise di ritrovarsi
infinitamente arricchito in essa. ando alcuni piori greci si sforzarono
di conservare in se stessi e di riprodurre, col disegno e col colore, il ricordo
delle scene che prima erano state presentate realmente ai loro occhi e ai
loro orecchi nella poesia lirica, nell’epopea lirica e nella tragedia, gli
uomini isolati  parvero loro indubbiamente oggei degni e susceibili di
essere rappresentati; e proprio a questa  scuola dea storica dobbiamo lo
sviluppo della piura e il suo primo apogeo. Poiché questa scuola aveva
ancor chiara la memoria dell’opera d’arte colleiva, quando sparvero le
condizioni che avevano provocato anche il desiderio di traenere quei
ricordi, due strade restarono aperte alla piura per sviluppatisi come arte
indipendente: il ritrao e il paesaggio. Nelle rappresentazioni delle scene
di Omero e dei poeti tragici il paesaggio era già stato preso  e reso come
uno sfondo necessario; ma i greci, nell’epoca felice della loro piura, non
potevano ancora vederlo con occhio diverso da quello con cui il greco era
portato a coglierlo seguendo il proprio temperamento.
La natura era per il greco uno sfondo lontano per l’uomo: in primo
piano c’erano l’uomo stesso e gli dèi, ai quali aribuiva la potenza motrice
naturale traandosi di dèi umani. A tuo quello che scorgeva nella natura
si sforzava di dare fisionomie e caraeri umani e, così umanizzata, la
natura aveva per lui un infinito fascino, il cui godimento impediva al suo
senso del bello d’impossessarsene come se  si traasse d’un oggeo
materiale: è la stessa cosa  che si è verificata per l’utilitarismo ebreo di
oggigiorno. Pertanto il greco non ritenne questi bei legami personali con
la natura se non per mezzo di  un errore involontario: umanizzando la
natura le si  suppongono motivi umani che, agendo nella natura, non
possono essere necessariamente che arbitrari a paragone con il caraere
vero della natura.
Da quando l’uomo, seguendo il suo caraere, agisce per necessità nella
vita e nelle relazioni con la natura, altera inconsapevolmente, nel suo
ideale, il caraere della natura e se l’immagina agente secondo la necessità
umana e non secondo la propria. Sebbene quest’errore presso i greci si sia
manifestato  in bellezza, mentre presso altri popoli, e soprauo tra gli
asiatici, si manifestò in bruezza, fu nondimeno funestissimo anche per la
stessa vita ellenica. ando il greco si fu separato dalla comunità
primitiva della tribù, quando ebbe perduto la misura della bella vita che ne
aveva inconsciamente trao, questa misura necessaria non potè per nulla
essere  presso di lui compensata da una concezione esaa  della natura.
Inconsciamente, nella natura aveva  visto solo una necessità obbligatoria,
generale, tanto che egli stesso aveva sentito l’originaria necessità della vita
comune; ma da quando questa si disgregò nei suoi atomi egoistici, da
quando fu solo dominata dalla tirannia del suo egoismo resosi libero dalla
comunità o infine da una potenza esterna arbitraria che si fortificò
nell’arbitrio universale, allora, non conoscendo abbastanza la natura che
giudicava come se stesso arbitraria, né la potenza temporale a cui era
soomesso, gli mancò la ponderazione, che gli avrebbe consentito di
conoscere la propria essenza e che la natura offre, bene massimo,  agli
uomini che riconoscono in lei la necessità della propria essenza e la forza,
eterna produrice, che agisce su tue le cose nella complessità più vasta
e sintetica.
Da quest’errore, e non da altri, provengono le mostruose stravaganze
dello spirito greco che noteremo soo l’impero bizantino, nel quale esso
non si riconosce più. In fondo, non era che la malaia normale del suo
essere. La filosofia, è vero, si sforzava di concepire l’unità della natura: e
proprio su questo  punto si ebbe la prova di quanto sia sterile la potenza
dell’intelleo astrao. A dispeo di tui gli aristotelici75, il popolo, che
voleva raggiungere a ogni costo la sua salvezza, araverso milioni di
egoismi si  creò una religione in cui la natura diventa il trastullo d’una
felicità umana raffinata76. Dopo quella  dei greci, che aribuivano alla
natura volizioni arbitrarie come quelle degli uomini, bastò a
questa  concezione di accoppiarsi con l’utilitarismo giudeo-orientale per
imporre alla storia meravigliata, come fai inconfutabili, le discussioni e i
decreti dei concili sull’essenza della Trinità, le diatribe senza fine e perfino
le guerre religiose tra i popoli, come fruo di questo accoppiamento.
La Chiesa romana, dopo il Medio Evo, aveva reso l’ipotesi
dell’immobilità della terra un vero e proprio dogma di fede, ma ciò non
impedì che fosse scoperta l’America, studiata la forma del globo e, infine,
che fosse aperta la natura alla scienza e che la  continuità di tui i
fenomeni che in essa si manifestano sia stata dimostrata con totale
certezza circa  la loro essenza. Il desiderio che condusse a tali scoperte
cercò nello stesso tempo di manifestarsi anche in quel genere d’arte in cui
poteva più propriamente giungere alla soddisfazione artistica.
All’epoca della rinascita delle arti la piura, nel suo desiderio di
perfezionamento, prese anch’essa  l’antico come punto di partenza della
sua palingenesi artistica: soo la protezione della Chiesa fastosa  riuscì a
rappresentare storie religiose, e di là passò  a scene della storia
propriamente dea e della vita reale, e gioì in ogni tempo del vantaggio di
poter  esprimere la vita mediante forma e colore. A mano  a mano che il
presente materiale deleterio cedeva  all’influenza della moda, mentre la
piura di storia  moderna, per essere bella, doveva sorarsi alle bruure
della vita e affidarsi all’immaginazione per combinare arbitrariamente
maniere e stili che aveva improntato alla storia dell’arte - e non alla vita -,
estranea alla rappresentazione dell’uomo alla moda, questa scuola di
piura si aprì una strada che ci dee l’intima comprensione della natura
nel paesaggio.
L’uomo, intorno al quale, fino a quel tempo, il paesaggio non aveva
fao che allargarsi in soordine, come sfondo di un egoistico punto
centrale,  cominciò a essere sopraffao sempre più da quello  sfondo, e, a
mano a mano che, nella vita reale, si lasciava sfigurare dal giogo indegno
della moda, scadeva d’importanza, al punto che alla fine i rapporti
s’invertirono e il paesaggio, un tempo elemento più che secondario, passò
in primo piano rispeo  a lui. Essendosi verificate simili circostanze,
non  possiamo che rallegrarci di questo progresso del paesaggio come di
una vioria della natura su di una  civiltà nefasta che abbassa il livello
dell’umanità77.  Infai la natura, per nulla sfigurata, si mantenne,  per
questa conquista, viva nell’unico modo possibile di fronte alla sua nemica
quando, cercando, per così  dire, una protezione, s’aprì nell’intima
comprensione dell’uomo-artista.
La moderna scienza della natura e la piura del paesaggio sono le
conquiste del presente, che, dal  punto di vista scientifico e artistico, ci
offrono una consolazione e una salvezza dinanzi alla follia e all’incapacità.
Sebbene, vista la deplorevole dispersione di tue le nostre scuole
artistiche, il genio isolato che le riunisce momentaneamente e quasi
per  forza faccia delle cose meravigliose, dato che non  esistono né il
bisogno, né le condizioni adae per  un’opera d’arte, il genio colleivo
della piura si rivela quasi esclusivamente nelle tendenze della piura di
paesaggio. Vi trova infai innumerevoli soggei e quindi innumerevoli
possibilità, dato che, negli altri generi, rappresentando la natura, non può
procedere che scegliendo, separando ed eliminando per trovare nella
nostra arte qualche soggeo degno dell’arte.
Più la piura cosiddea storica si sforza, inventando e interpretando, di
rappresentarci l’uomo vero e bello e la vita vera e bella mediante i ricordi
più lontani dall’epoca auale; più essa, soo l’immenso sforzo di lavori
intermedi, s’impone il grave compito, addiriura impossibile, di essere più
e altro di quanto non convenga a un genere artistico;  più deve quindi
desiderare una liberazione necessaria che, come per la scultura, non potrà
consistere in altro che nell’immergersi là dove in origine aveva trao la
forza della sua vita artistica: cioè nell’opera d’arte umana vivente che, nata
dalla vita,  abolisce completamente le condizioni che avrebbero  potuto
rendere necessari la sua esistenza e il suo  sviluppo come genere d’arte
autonomo.
È impossibile che una piura che rappresenta gli uomini abbia una vita
normale e necessaria là dove, senza pennelli e senza tele, nella cornice più
viva e artistica che si possa immaginare, l’uomo bello si rappresenta alla
perfezione da sé. el che tenta d’oenere con uno sforzo sincero l’oiene
perfeamente quando applica il suo colore e la sua intelligenza a ordinare
la plastica vivente del vero aore drammatico, quando, dalla tela e
dall’affresco, scende sulla scena tragica per far eseguire all’artista, da solo,
quel ch’ella ha cercato di realizzare servendosi dei mezzi più ricchi, ma
purtroppo senza vera vita.
La piura di paesaggio, conclusione ultima e perfea di tue le arti
figurative, diventerà l’anima vera e vivificante dell’architeura.
C’insegnerà così a innalzare la scena per l’opera d’arte drammatica
dell’avvenire e rappresenterà ella stessa, nel modo più  vivo, lo sfondo
naturale per l’uomo vivo e non più contraffao.
Se dunque osiamo considerare la scena dell’opera d’arte colleiva
dell’avvenire come conquistata dalla forza superiore delle arti figurative e
in essa,  per conseguenza, la natura intimamente conosciuta  e compresa,
potremo subito trarre le nostre conclusioni riguardo all’opera d’arte in
parola.
IV
PRINCIPI FONDAMENTALI DELL’OPERA D’ARTE
DELL’AVVENIRE

Se consideriamo l’arte moderna - quella che è veramente arte - nei suoi


rapporti con la vita pubblica, notiamo subito la sua incapacità d’influire su
questa vita pubblica, malgrado gli sforzi più nobili.  La causa prima è
questa: l’arte, puro prodoo della cultura, non è nata dal caldo seno della
vita, e, ridoa una pianta di serra, oggi non può in alcun modo meere
radice al sole e al clima naturali del tempo presente. L’arte è diventata
proprietà riservata d’una categoria di artisti, procura gioia solo a chi è in
grado di capirla e, per essere capita, presuppone studi particolari, estranei
alla vita concreta: gli  studi della teoria dell’arte. esto studio e le
illuminazioni che ne derivano, chiunque s’è appropriato del denaro con
cui paga le soddisfazioni artistiche offerte al pubblico crede di averli fai
propri  oggi; ma l’artista, se gli domanderete se la maggior  parte degli
amatori d’arte ha capito i suoi sforzi  migliori, risponderà alla vostra
domanda con un profondo sospiro. Se infai considera la folla stragrande
di quelli che le pessime condizioni sociali escludono, soo tui i punti di
vista, dalla comprensione e dal godimento dell’arte moderna, l’artista
di  oggi si accorgerà che ogni suo sforzo artistico, in  realtà, è solo uno
sforzo egoistico, pago di se stesso, e che la sua arte, nei confronti della vita
pubblica, non è che un lusso superfluo, un passatempo egoistico. La
distanza, quotidianamente constatata e amaramente deplorata, che separa
l’uomo colto dall’ignorante, è tanto grande, un compromesso tra i  due
estremi è tanto ipotetico, un’intesa tanto impossibile, che l’arte moderna,
fondata non senza sincerità su quella cultura tanto innaturale, dovrà
confessare a se stessa, non senza sincerità ma con  estrema vergogna, di
dovere la propria esistenza a  un elemento vitale che anch’esso non può
basare  la propria esistenza che sull’ignoranza più crassa  della maggior
parte dell’umanità.
L’unica cosa che dovrebbe essere in grado di fare, nella missione che le
è stata assegnata e che si sforza di compiere - quella di diffondere la
cultura -, l’arte moderna non può farla, per la semplice ragione che l’arte,
per avere una qualsiasi influenza sulla vita, deve essere essa stessa come il
fruo di  una cultura naturale, cioè d’una cultura che viene  dal basso,
perché l’arte non sarà mai capace di seminare la cultura dall’alto in basso.
Nel migliore dei casi, la nostra arte civilizzata rassomiglia a un uomo che
si vuol rivolgere in una lingua straniera a un popolo che non la conosce.
Tuo quel che produce, e in particolar modo quel che è più spirituale, può
condurre solo a malintesi e alle più ridicole confusioni.
Esaminiamo subito come l’arte moderna avrebbe dovuto procedere per
giungere, teoricamente, alla redenzione, uscendo dall’isolamento della sua
essenza incompresa verso la comprensione universale della vita pubblica:
si dovrà per forza concludere che questa redenzione può essere possibile
solo con l’intervento pratico della vita pubblica.

L’arte figurativa, come abbiamo notato, non può raggiungere una


fioritura feconda se non giunge,  per le sue opere soltanto, a un’alleanza
con l’uomo-artista, non con l’uomo esclusivamente utilitario.
L’uomo-artista può appagarsi interamente solo con l’unione di tui i
generi d’arte nell’opera d’arte  comune: in ogni forma d’isolamento sarà
sempre dipendente e non sarà mai perfeamente quel che potrebbe essere,
mentre nell’opera d’arte comune è libero ed è perfeamente quel che può
essere.
La vera tendenza dell’arte è quindi complessa: ogni uomo animato dal
desiderio vero dell’arte vuole giungere, con lo sviluppo supremo delle sue
facoltà particolari, non all’esaltazione di questa o di  quella facoltà
particolare, ma all’esaltazione dell’uomo generale nell’arte.
La massima opera d’arte comune è il dramma: data quindi la sua
perfezione possibile, esso può esistere soltanto se tue le arti vi sono
contenute nella loro massima perfezione.
Non ci si può figurare il vero dramma se non come nato dal desiderio
comune a tue le arti di rivolgersi nel modo più direo al pubblico
comune: nessun’arte isolata può rivelarsi nel dramma al pubblico comune e
per una comprensione completa se non accede a un contao colleivo con
le altre arti,  perché l’intenzione di ogni genere d’arte isolato non  si
concretizza che nel concorso comprensibile di tui i generi d’arte.
L’architeura non può avere un’intenzione più alta di quella di creare,
per un’accolta di uomini che si rappresentano artisticamente da se stessi,
il  luogo necessario all’opera d’arte umana per la sua  manifestazione.
Costruito secondo una necessità è solo l’edificio che risponde nel miglior
modo possibile ai fini dell’uomo. Ora il fine supremo dell’uomo è il fine
artistico, e il fine più artistico è il dramma. Nella costruzione d’una casa
d’abitazione ordinaria l’architeo deve soddisfare solo il fine più  basso
dell’umanità: la bellezza, in quel caso, è puro lusso. Nella costruzione del
lusso dove rispondere  a un bisogno superfluo e innaturale: la sua opera
sarà dunque arbitraria, sterile, e brua. Ma se costruisce l’edificio che, in
tue lo sui» parti, è destinato a rispondere all’unico fino artistico
colleivo, il teatro, l’architeo non può agire che da artista e in conformità
all’opera d’arte.
In un teatro perfeo solo i bisogni dell’arte fino ai minimi deagli
danno il tono e la misura, e fanno legge. esti bisogni sono di due specie:
debbono dare e prendere; quindi, soo i più svariati punti di vista, sono
reciproci e sono il complemento e la conseguenza necessaria gli uni degli
altri.
Il primo compito della scena è realizzare tue le condizioni di spazio
che sono necessarie all’azione  drammatica colleiva che si deve
rappresentare: in secondo luogo, deve assolvere i suoi compiti in modo da
rendere l’azione drammatica percepibile e intelligibile alla vista e all’udito
di tui gli speatori. Nella disposizione d’una sala da speacolo, il bisogno
di rendere l’opera d’arte intelligibile dal punto di vista oico e acustico è
la legge necessaria a cui  non si può soddisfare, facendo astrazione
dall’adeguamento allo scopo, tranne che con la bellezza della disposizione;
infai il desiderio comune degli  speatori è il preciso scopo dell’opera
d’arte, alla cui comprensione deve concorrere tuo ciò che sollecita la loro
vista78.
In tal modo lo speatore, mediante la vista e l’udito, ha la sensazione di
vivere sulla scena; l’aore è artista solo quando s’abbandona interamente
al pubblico. Tuo quel che vive e respira sulla scena respira e si muove
animato dal suo desiderio espressivo di comunicarsi, di essere visto e
sentito da questa sala, che, malgrado le dimensioni necessariamente
modeste, vista dalla scena, sembra tuavia  che raccolga, per l’aore,
l’umanità intera. Il pubblico per lui, sparisce dalla sala: rappresenta la
vita pubblica e, se vive e respira, ciò avviene solo nell’opera d’arte, che gli
appare come la vita stessa, e sulla scena, che gli sembra essere il mondo.
Tali meraviglie escono dall’opera dell’architeo. Egli può dare una base
reale a quest’incanto se fa propria l’intenzione della più alta opera d’arte,
se ne suscita le condizioni d’esistenza traendole dalla sua facoltà artistica
particolare. Invece quale fredda apparenza di morte, d’insensibilità avrà il
suo  edificio, se costruito senza una intenzione più nobile di quella del
lusso, senza una necessità artistica  che lo spinga a disporre e inventare
quel che nel  teatro è magnifica prova d’ingegno! Non gli resta  che agire
secondo i capricci della speculazione della propria fantasia avida di
autoglorificarsi, accumulando e disponendo masse e festoni, che oggi
simboleggiano l’onore d’un ricco presuntuoso e domani quello d’un
Jehovah modernizzato.
Ma anche la forma più bella, il più fastoso edificio di pietra non bastano
da soli all’opera d’arte drammatica, come condizioni architeoniche
del  tuo adeguate al suo caraere. La scena che deve  presentare allo
speatore l’immagine della vita umana, deve essere capace, per rendere la
vita completamente intelligibile, di rendere anche l’immagine vivente della
natura, la sola in cui l’uomo può manifestarsi come tale. Le pareti di
questa scena, che  si presentano fredde e indifferenti al pubblico e
all’artista, debbono ornarsi dei freschi colori della natura, della calda luce
dell’etere per essere degne di  partecipare all’opera d’arte umana.
L’architeura  plastica vi trova il suo limite, riconosce la sua servitù e,
bisognosa d’affeo, si gea tra le braccia della piura, che deve liberare
assorbendola splendidamente nella natura.
i compare dunque la piura di paesaggio, nata da un bisogno
comune, che essa sola può soddisfare. el che il piore vuol trarre dalla
natura con  un colpo d’occhio felice, quel che, come artista, vuole offrire
alla piena comunità per il piacere artistico,  lo fa entrare, come suo
apporto, nell’opera colleiva di tue le arti. Per lui la scena diventa la
verità artistica intera; il suo disegno, il suo colore, l’uso  che egli fa della
luce, fanno nascere un’impressione  tanto viva e calda da far servire la
natura alla suprema intenzione artistica. el che il piore paesaggista fa
entrare a forza nella strea cornice d’un  quadro nel desiderio di far
conoscere quel che ha  visto e appreso, quel che sospendeva alla parete
isolata dell’egoista o consegnava a una raccolta di quadri perché vi fosse
allineato senza ordine, senza logica e in un modo tuo incoerente e
caricaturale, è  destinato a riempire ormai la vasta cornice della  scena
tragica, a trasformare tuo il campo della scena in una testimonianza della
sua forza, che crea secondo natura.
el che poteva solo abbozzare col pennello mescolando i colori più
complicati per dare un’illusione, lo renderà tangibile con un sapiente
impiego artistico di tui i procedimenti dell’oica di cui può disporre, con
l’impiego artistico della luce, per dar  vita a una sensazione d’illusione
perfea. L’apparente grossolanità dei suoi mezzi artistici, l’apparente
groesco del suo procedere nella piura cosiddea decorativa non gli
nuoceranno, perché sarà  convinto che anche il pennello più delicato è
solo  un’umiliazione per l’opera d’arte perfea e l’artista  non può che
inorgoglirsi di essere libero quando la  sua opera d’arte è compiuta e
vivente, ed egli le ha  dedicato tuo se stesso e tui i suoi mezzi. Ma
l’opera d’arte perfea, che gli si presenta sulla scena,  in quella cornice e
davanti alla colleività del pubblico, lo soddisferà molto di più che l’opera
da lui  creata un tempo con i più svariati strumenti; e non  si pentirà
davvero di essersi servito della sala del  teatro a profio di quest’opera
d’arte, soo il pretesto che poteva un tempo disporre dell’unica superficie
di un pezzo di tela, perché la sua opera, il  peggio che vada, resta
immutabile, qualunque sia la  cornice entro la quale vive; e qualora ne
faccia comprendere il soggeo, la sua opera d’arte provocherà sempre, in
questa cornice, un’impressione più viva, una comprensione maggiore, più
generale che il paesaggio di un tempo.
L’uomo è l’organo di ogni intelligenza della natura. Il paesaggista non
solo doveva trasmeere questa comprensione all’uomo, ma ancora
renderla  intelligibile rappresentando l’uomo nel suo quadro  della natura.
Di conseguenza, ponendo la propria  opera nella cornice della scena
tragica, farà dell’uomo cui vuole rivolgersi l’uomo ordinario del
gran pubblico e avrà la soddisfazione di vedere la propria opera estesa sino
alla comprensione di lui, che  ha reso partecipe della propria gioia; ma
nello stesso tempo soltanto questa pubblica comprensione  darà alla sua
opera un’intenzione artistica superiore e ben comprensibile a tui. Ma
quel che apre infallibilmente questa comprensione comune è l’uomo vero
e concreto, con tuo l’ardore del suo essere.
La cosa più intelligibile è l’azione drammatica proprio perché è
realizzata soltanto se nel dramma tui i mezzi dell’arte sono stati, per così
dire, trascurati e se la vera vita è rappresentata nella maniera più veridica
e comprensibile. Nessun’arte si manifesta intelligibilmente se non nella
misura in cui la  sua sostanza intrinseca, che non può giustificare  l’opera
d’arte se non ispirandosi all’uomo o derivando da esso, diventa matura per
il dramma. Ogni creazione artistica diviene universalmente intelligibile e si
giustifica pienamente nella misura in cui è assorbita nel dramma,
lumeggiata per il dramma79.
Sulla scena dell’architeo e del piore appare allora l’uomo artistico,
come l’uomo naturale appare sulle scene della natura. Le forme che gli
statuari e i piori storici si sforzavano di effigiare nella pietra o sulla tela,
gli aori le modellano subito in se stessi, con la loro figura, con le membra
del loro corpo, i trai del loro viso, in vista di una vita artistica cosciente.
Lo stesso spirito che condusse lo scultore a comprendere e riprodurre la
forma umana, conduce subito l’aore alle aitudini e ai gesti del suo corpo
vero. Lo stesso occhio che fece trovare al piore la storia della bellezza, la
grazia e il caraere nel disegno e nel colore, con la disposizione
dei  costumi e col raggruppamento dei personaggi, dispensa allora la
ricchezza della vera forma umana. Lo scultore e il piore avevano prima
tolto al poeta tragico il coturno e la maschera, con cui l’uomo vero regolava
i suoi movimenti secondo una determinata convenzione religiosa. Fu con
ragione che  questi due artisti abolirono quest’ultimo travestimento
dell’uomo artistico puro e modellarono così in anticipo, nella pietra o sulla
tela, l’aore tragico  dell’avvenire. Come lo previdero nella verità
non  travestita, lo dovranno lasciare agire realmente e  far sì che sia
rappresentata fisicamente la forza in movimento di lui, che, per così dire,
avevano descrio.
Così l’illusione delle arti figurative diventa, nel dramma, verità; l’artista
figurativo tende la mano al  danzatore, al mimo per divenire, per essere
egli  stesso danzatore e mimo. Costui dovrà, per quanto  è in suo potere,
manifestare alla vista dell’uomo interiore quel che vuole e quel che sente.
La superficie scenica gli appartiene in tua la sua estensione e profondità;
là mostra la sua forma e il suo movimento per mezzo della
rappresentazione plastica, sia da solo, sia insieme con i suoi collaboratori
in tale rappresentazione. Ma là dove finisce il suo potere, dove la pienezza
della sua volontà e del suo  sentimento l’obbligano a far manifestare
l’uomo interiore mediante il linguaggio, allora la parola esprimerà
coscientemente la sua intenzione: sarà poeta e, per essere poeta, musicista.
Danzatore, musicista e artista sono una cosa sola: nient’altro che l’uomo-
artista che rappresenta, che si comunica alla più alta facoltà
d’immaginazione secondo l’insieme di tue le sue facoltà.
In lui, aore senza intermediari, si fondono le tre arti sorelle per
un’azione comune, in cui la suprema facoltà di ciascuna raggiunge la più
ampia estensione. Agendo insieme, ciascuna di esse oiene di poter essere
e di poter fare quel che vuole essere e quel che vuole fare secondo il suo
caraere particolare. Potendo ciascuna assorbirsi nell’altra, quando il
potere di una finisce, si conserva pura, libera e indipendente così com’è. Il
danzatore-mimo supera  il proprio limite non appena può cantare e
parlare;  a opera del mimo, le creazioni della musica oengono
un’interpretazione intelligibile così come araverso la parola del poeta, e
ciò nella stessa misura in cui la musica può passare nel gesto
della  pantomima e nella parola del poeta. Ma il poeta non  diventa
realmente uomo se non passa araverso la carne e il sangue dell’aore; se
in ogni manifestazione artistica la sua intenzione è unire le tre arti insieme
e volgerle a un fine comune, quest’intenzione si realizza soltanto perché la
volontà poetica sparisce nel potere dell’interpretazione.
Nell’opera d’arte universale dell’avvenire non esiste facoltà delle
singole arti che, traa al massimo potere espressivo, resti inutilizzata,
perché solo in  essa giunge alla pienezza dei singoli valori. Anzituo la
musica, che si sviluppa in una maniera tanto  particolare e varia nella
forma strumentale, potrà  raggiungere le più ricche espressioni in
quell’opera  d’arte; sarà proprio lei a suggerire, per quanto le  compete,
invenzioni del tuo nuove alla danza pantomimica e, d’altra parte, offrirà
alla poesia un’insperata abbondanza. Nel suo isolamento la musica  ha
creato un organo capace d’infinite espressioni:  l’orchestra. Il linguaggio
sonoro di Beethoven, introdoo nel dramma mediante l’orchestra, è un
fao tuo nuovo per l’opera d’arte drammatica.
Come l’architeura e soprauo la piura scenica del paesaggio
possono porre l’artista drammatico nell’ambiente della natura fisica e
offrirgli, nell’inesauribile fonte dei fenomeni naturali, uno sfondo sempre
ricco e suggestivo, così l’orchestra, corpo vivente di sempre varie armonie,
è stata data all’individuo-aore come la fonte inesauribile d’un elemento
naturale, d’un’arte quasi umana.
L’orchestra è, per così dire, il dominio del sentimento infinito,
universale, su cui può ingrandirsi il sentimento individuale di ogni aore
nella sua massima perfezione; si può dire che trasformi il terreno arido,
immutabile, della scena reale in una superficie mobile, flessibile,
malleabile, eterea, il cui  fondo insondabile è il mare del sentimento
stesso.  Così l’orchestra rassomiglia alla Terra, che conferì  ad Anteo80,
appena la toccò con i piedi, una forza di vita nuova e immortale.
Neamente opposta, per natura, alla scena che, a imitazione della
natura, circonda l’aore e, per tale ragione, posta completamente fuori del
quadro scenico in un primo piano oscuro, l’orchestra costituisce nel
contempo il limite che completa perfeamente l’ambiente scenico
dell’aore ingrandendo  l’elemento naturale fisico, che è inesauribile, in
un elemento sentimentale artisticamente umano e non meno inesauribile e
che, unito al primo, avvince l’aore in un’atmosfera che è insieme
elemento della natura e dell’arte; e in essa l’aore si muove, sicuro come i
corpi celesti; di là può estendere la cerchia dei suoi sentimenti e delle sue
idee in ogni  senso, fino all’infinito, così come i corpi celesti mandano la
loro luce a immense distanze.
Così, completandosi reciprocamente nel loro giro alternato, le arti
sorelle si meeranno in evidenza ora tue insieme, ora a due a due, ora
isolatamente, secondo la necessità dell’azione drammatica che è unica
legge e misura. Ora la pantomima plastica ascolta la logica non
appassionata del pensiero,  ora la volontà del pensiero si apre decisa
nell’espressione immediata del gesto, ora la musica da sola  esprime il
volgersi dei sentimenti, il brivido dell’emozione; ogni tanto però tu’e tre,
in uno slancio  comune, elevano la volontà del dramma all’ao direo,
possente. C’è infai una cosa per i tre generi d’arte riuniti; una cosa che
debbono volere per essere liberi nella loro potenza, e questa cosa è proprio
il dramma. L’importante, per loro, è cogliere l’intenzione del dramma. Se
sono consapevoli di quest’intenzione, se il loro sforzo si concentra tuo
nel realizzare quest’intenzione, saranno capaci di spezzare in ogni senso i
resti egoistici della loro natura particolare, li poteranno via dal loro tronco,
affinché l’albero informe non si sviluppi in tue le direzioni, ma drizzi
fieramente verso l’alto la sua corona di rami, di virgulti e di foglie.
La natura dell’uomo, come quella di ogni genere d’arte, è di per sé
esuberante e varia, ma l’anima di ogni individuo è una sola e consiste nel
suo istinto più necessario, nel suo desiderio più impetuoso. Se quest’unità
è da lui riconosciuta come il suo elemento fondamentale, egli può, per la
conquista indispensabile di quest’uno, reprimere tui i desideri più deboli,
accessori, ogni aspirazione senza forza, che potrebbe, qualora li
soddisfacesse, impedirgli di volgersi tuo a quell’unità. Solo l’incapace, il
debole non trova in sé il desiderio necessario, urgente, irresistibile
dell’anima; in lui prevale sempre  lo spunto occasionale, suscitato da un
caso esterno,  a cui non potrà mai soddisfare proprio perché è solo uno
spunto che lo menerà, a suo capriccio,  di qua e di là senza mai fargli
raggiungere un godimento vero81. Se poi quest’uomo senza bisogni è
capace di cercare volutamente la soddisfazione di spunti accessori, allora
nascono, sia nella vita che  nell’arte, manifestazioni orribili, snaturate,
mostruose: i frui di una vita di demenza e d’egoismo che, come la voluà
sanguinaria di un despota, o come la musica lasciva d’un’opera moderna,
ci riempie d’indicibile disgusto. Ma se l’individuo riconosce in sé  un
desiderio possente, un istinto che soffoca in lui  ogni altro desiderio, cioè
un desiderio interiore, necessario, che costituisce la sua anima, il suo
essere,  se fa ogni sforzo per dar loro soddisfazione, allora  innalza la sua
forza, come le sue facoltà più particolari, a tua l’intensità, a tua l’altezza
che gli è possibile raggiungere.
L’uomo isolato, sano di corpo, di cuore e di spirito, non può provare un
bisogno più elevato di quello che ha in comune con tui i suoi simili,
perché questo bisogno, se è un bisogno vero, non potrà soddisfarlo
altrimenti che nella comunità. Ora il bisogno più urgente e più forte
dell’uomo perfeo e artista è di comunicare se stesso in tua la pienezza
della sua natura all’intera comunità, e non può  arrivare a tanto se non
mediante il dramma. Nel  dramma arricchisce il proprio caraere
particolare  rappresentando un caraere individuale che è “altro” dal suo,
come una personalità umana di caraere generale. Deve uscire da se
stesso per assumere una personalità estranea alla sua nelle caraeristiche
che le sono proprie, e immergervisi interamente al punto da saperla
rappresentare; né vi  giunge se non osserva quest’individuo nei suoi
rapporti e nei suoi contai con gli altri e il suo complemento mediante le
personalità altrui. Di conseguenza, quando osserva e studia i caraeri di
queste altre individualità con tanta minuzia e vivacità che gli sia possibile
di rendersi conto di quelle relazioni, di quel contao e di quel
complemento, per  simpatia, entro il suo proprio essere, l’aore-
artista perfeo diventa l’individuo ingrandito fino ai caraeri della specie,
secondo la ricchezza del suo caraere individuale.
Il luogo in cui si compie quest’avvenimento meraviglioso è la scena
teatrale; l’opera d’arte universale che lo genera è il dramma. Per
sviluppare in quest’opera d’arte una e suprema il contenuto della  sua
natura particolare fino al maximum, l’artista  isolato, come pure l’arte
isolata, deve sopprimere  in sé ogni tendenza egoistica e arbitraria, che
cerca  di usurpare il posto e compromeere l’insieme, allo scopo di poter
meglio concorrere al fine superiore comune che, d’altra parte, sarebbe
assolutamente irrealizzabile se ogni individuo non si moderasse di quando
in quando.
Ora quest’intenzione, che è insita nel dramma, è l’unica intenzione
veramente artistica che possa essere realizzata; quel che le è estraneo deve
necessariamente perdersi nell’oceano dell’incerto, dell’inintelligibile, del
non libero. E quest’intenzione  non si raggiunge con un unico genere
d’arte82, ma solo con la comunità di tue le arti; per questo l’opera d’arte
universale è la sola che sia realmente libera e reale, cioè universalmente
intelligibile.
V
L’ARTISTA DELL’AVVENIRE

Dopo aver traeggiato a grandi linee la natura dell’opera d’arte, in cui


tue le arti debbono fondersi e trovare la loro redenzione nella
collaborazione più vasta, non resta che esaminare quali siano le condizioni
vitali che rendono necessaria quest’opera d’arte e questa redenzione. Potrà
giungere a tanto l’arte moderna, che ha bisogno di essere compresa e loa
per essere compresa, che agisce secondo  la propria volontà e la propria
riflessione, limitandosi a scegliere arbitrariamente dei mezzi e
determinandone il modo d’unione che, dopo matura riflessione, crede
necessario? Potrà emanare una carta costituzionale per giungere a un
compromesso  con la cosiddea mancanza di cultura del popolo?  E se si
decidesse a farlo, una tale intesa sarebbe davvero facilitata da una simile
costituzione? L’arte colta può, dal suo punto di vista astrao, penetrare
nella vita? O bisogna piuosto che la vita penetri nell’arte, che generi essa
stessa un’arte che le  sia adeguata e in tale arte si assorba, invece di
pretendere che l’arte (quella colta, s’intende, nata fuori della vita) generi la
vita e si assorba in essa?
Meiamoci bene d’accordo su colui che dobbiamo considerare creatore
dell’arte dell’avvenire, per definire, date le sue caraeristiche, quali
condizioni vitali potranno far nascere tanto lui quanto la sua opera d’arte.
Chi sarà l’artista dell’avvenire? Indubbiamente il poeta83. E chi sarà il
poeta? Incontestabilmente l’aore. E chi sarà l’aore? Necessariamente
l’unione di tui gli artisti.
Per veder nascere naturalmente gli aori e i poeti, cominciamo a
figurarci l’unione degli artisti dell’avvenire non secondo ipotesi arbitrarie,
ma secondo una conseguenza logica e necessaria; concluderemo che
l’opera d’arte potrà sorgere soltanto a opera di organi artistici che, per la
loro natura, possano trarla dal seno della vita.
L’opera d’arte dell’avvenire è un’opera colleiva: quindi non può
nascere che da un desiderio colleivo. esto desiderio che finora, in
teoria, abbiamo  traato come necessariamente intonato al caraere  delle
varie arti isolate, non è possibile, in pratica,  fuori dell’unione di tui gli
artisti. L’adunanza di  tui gli artisti in uno stesso luogo, in uno
stesso tempo e per uno scopo comune forma l’unione auspicata. Lo scopo
comune è il dramma, per la cui  produzione tui si uniscono, ognuno
impiegando nella reciproca collaborazione il suo genere d’arte particolare
al massimo livello, e tui compenetrandosi reciprocamente per produrre,
come fruo di  tale penetrazione, il dramma vivente, perceibile  ai sensi.
Ma quel che rende possibile sì alta collaborazione, quel che la rende
necessaria, quel che  senza tale collaborazione non potrebbe aver vita è
l’azione drammatica, la vera quintessenza del dramma.
L’azione drammatica, la più intima condizione del dramma, è a sua
volta, in tua l’opera d’arte, l’unico momento che assicura la sua
comprensione generale. Traa direamente dalla vita presente o passata,
tanto meglio stabilisce il suo legame con la vita quanto più fedelmente ne
esprime la verità e quanto meglio soddisfa al desiderio di essere compresa,
che è insito nella vita. L’azione drammatica  è quindi il germoglio
dell’albero della vita che, nato  inconsciamente e involontariamente su
quest’albero, è giunto alla sua fioritura e s’è avvizzito secondo le leggi
della vita, ma poi, staccato dall’albero  originario e trapiantato nel terreno
dell’arte, ha potuto risorgere a nuova vita, più bella della
prima,  imperitura, divenendo così l’albero lussureggiante,  fecondo, che
somiglia perfeamente all’albero della vita reale secondo la sua forza e
verità intime, necessarie. Per la vita è diventato un oggeo, ma un oggeo
che porta all’intuizione della propria natura ed eleva alla coscienza ciò che
in essa è incosciente.
Nell’azione drammatica si rappresenta dunque la necessità dell’opera
d’arte; senza di essa o senza alcun rapporto con essa ogni creazione
artistica è arbitraria, inutile, fortuita, inintelligibile. L’istinto artistico più
immediato e sincero si manifesta solo nel  desiderio di passare dalla vita
all’opera d’arte, perché è il desiderio di farsi necessariamente comprendere
e riconoscere, identico a quello che esiste nella  vita incosciente e
involontaria. Ora il desiderio di  intelligibilità presuppone una comunità:
l’egoista non sente il bisogno di essere compreso da alcuno. Solo dalla vita
comune può dunque scaturire il desiderio di realizzare intelligibilmente
questa vita nell’opera d’arte; solo la comunità degli artisti può esprimere
questo desiderio, che essi possono appagare soltanto in comune. Ora
questa soddisfazione  non si può avere che mediante la
rappresentazione fedele d’un’azione traa dalla vita: essa sola è adaa alla
riproduzione artistica di un’azione già perfea  nella vita, sulla quale,
traandosi di un fao puro,  non grava alcun dubbio, la cui possibile
soluzione non possa più lasciar luogo a delle ipotesi.
Solo in un fao che si è compiuto nella vita possiamo concepire la
necessità di una manifestazione, comprendere il legame tra i differenti
momenti: ora un’azione non è perfea se non in grazia dell’uomo che l’ha
compiuta e che si trovava al centro di un avvenimento che egli dirigeva
come un  essere dotato di sensibilità, di pensiero e di volontà  secondo la
sua natura necessaria, quindi senza mai  essere soomesso a ipotesi
arbitrarie riferentisi alla sua condoa eventuale. Ma l’uomo, finché vive,
è  soggeo a queste ipotesi: solo la morte lo libera da  questa soggezione,
perché c’insegna tuo ciò che fece e ciò che fu. Bisogna che quest’azione,
la quale termina con la vita del personaggio principale che la determina, e
la cui fine, in realtà, non è altro che la fine del deo personaggio, appaia
all’arte drammatica  come il soggeo più proprio e più degno di
essere  rappresentato. Non c’è un’azione perfeamente vera  e che ci
dimostri chiaramente la sua necessità, tranne  quella nel cui compimento
un uomo impiega tua la forza del suo essere. Ce ne persuade nel modo
più indiscutibile ma solo a pao che la reale scomparsa della sua persona,
facendo valere la forza del suo essere,  abbia realmente interroo il suo
dramma personale in favore di una necessità distaccata dal suo essere; di
modo che ci testimonii la verità del suo essere  non solo con le azioni, il
che, finché egli agisce, può parere arbitrario, ma anche con il sacrificio che
ha  fao della sua persona in favore di quell’azione necessaria.
L’abbandono supremo e totale dell’egoismo  personale, la prova del suo
completo assorbimento  nella comunità, l’uomo ce la manifesta solo
nella  morte: in una morte fortuita, non necessaria, determinata dalla sua
azione, fruo della pienezza della sua essenza.
La celebrazione d’una tale morte è la più degna che possa essere faa da
uomini84. Mediante l’essenza di quell’uomo unico, consacrata da tale
morte, ci rivela la ricchezza di contenuto della natura  umana. Ci
assicuriamo così nel modo più completo di quel che abbiamo riconosciuto
nella rappresentazione di quella morte e ce lo spieghiamo mediante la
rappresentazione dell’azione, di cui quella  morte è stata la conclusione
necessaria. Non è con lo  squallore dei funerali che celebriamo, secondo
il  costume di noi cristiani moderni, con canti senza  significato e banali
orazioni funebri, ma con la resurrezione artistica del defunto, con
l’imitazione vivente e felice e con la rappresentazione dei suoi ai e della
sua morte nell’opera d’arte drammatica che celebreremo una solennità che
ci renderà felici,  noi viventi, nell’amore dello scomparso e farà nostra  la
sua essenza.
Sebbene il desiderio di questa solennità drammatica esista in tui gli
artisti, sebbene non possa esserci soggeo più degno per giustificare il
desiderio della rappresentazione, e destarlo in noi in comune, tuavia
l’amore, che qui deve essere considerato come la forza aiva che rende
possibile dea rappresentazione, risiede nei recessi più misteriosi del
cuore di ciascuno e, secondo il caraere particolare di ogni individuo, ha
una forza produrice particolare. esta particolare forza produrice
dell’amore si manifesterà nel modo più imperioso nell’individuo che,
secondo la propria essenza  generale o in quel particolare momento della
sua vita, si sentirà più vicino a un determinato eroe, farà meglio proprio,
per simpatia, il caraere di quell’eroe e giudicherà le proprie facoltà
artistiche le  più adae per far rivivere, in una commemorazione
persuasiva, quell’eroe mediante la rappresentazione per se stesso, per
quelli che gli sono vicini e per la comunità in generale.
La potenza dell’individualità non avrà mai più forza che in questa
libera associazione artistica, perché l’incoraggiamento a comuni
risoluzioni potrà  provenire solo da un uomo, la cui individualità
si  manifesterà tanto forte da potere spingere a soluzioni comuni libere.
esta forza dell’individualità  non potrà agire sull’associazione che nei
casi particolari, determinati, in cui potrà farsi valere realmente e non
artificialmente. Se un artista associato  manifesta l’intenzione di
rappresentare un determinato eroe, se per questo esige dall’associazione
il  concorso comune che solo gli renderà possibile la  realizzazione
dell’intento, il suo desiderio non potrà essere appagato prima che sia
riuscito a destare ih favore del suo soggeo l’interesse e l’entusiasmo che
animano lui stesso e che non può comunicare se la sua individualità non
possiede la forza che quel particolare soggeo esige.
Ma quando, con la forza della sua convinzione, l’artista avrà fao della
sua intenzione l’intenzione  di tui, da quel momento l’impresa artistica
diventerà comune; ma poiché l’azione drammatica che  deve essere
rappresentata ha il suo centro nell’eroe protagonista, è logico che l’opera
d’arte comune deve avere il suo centro nell’aore che
rappresenta  quell’eroe; i compagni e gli altri collaboratori sono,  nei suoi
confronti, personaggi che, nell’opera d’arte,  conformano il loro agire al
suo (quelli dunque a cui l’eroe manifestava i suoi ai come a dei soggei,
conformi o antitetici, che agivano con lui); sono un tramite umano come
quello che nella vita  giustifica l’azione dell’eroe, con la differenza
che  l’eroe-aore produce e ordina con riflessione ciò che  l’eroe reale
rappresentava inconsciamente. L’aore  diventa dunque poeta nel
desiderio della riproduzione artistica dell’azione. Ordina la propria
azione sulla scala artistica, e in funzione della sua azione ordina i rapporti
oggeivi della sua vita.
Però non realizza le proprie intenzioni che nella misura in cui le ha rese
comuni e quando ciascuno  esige assorbirsi in quest’intenzione colleiva;
dunque nella misura, anzituo, in cui è capace di rinunciare ai suoi punti
di vista individuali a profio di  quelli di tui e in cui non si limita a
rappresentare, in qualche modo, l’azione dell’eroe celebrato. Ma riuscirà in
misura di quanto sarà capace di ricreare il personaggio moralmente, cioè
provando che, nell’abbandono della propria personalità, compie,
nell’azione artistica, un’azione necessaria, che assorbe  tua la sua
individualità85.
La libera associazione artistica è dunque la causa e la condizione
dell’opera d’arte. Da essa nasce l’aore che, entusiasmandosi per quel solo
eroe particolarmente conforme alla sua individualità, si eleva al grado di
poeta, cioè di legislatore artistico dell’associazione. L’azione di questo
legislatore, che può essere solo periodica, non può estendersi che a un solo
oggeo particolare, da lui provocato e sorto dalla sua individualità e
sollevato all’altezza di  oggeo artistico comune: non si estende quindi
a  tui i casi. La diatura dell’aore-poeta termina naturalmente nel
momento in cui realizza la sua intenzione, che aveva reso intenzione
comune e nella quale si assorbiva quando diventava intenzione  comune
alla colleività. Ogni associato può chiedere di esercitare quella diatura
quando vuole manifestare un’intenzione particolare conforme alla
sua  individualità, nella misura in cui può renderla comune; perché in
questa associazione artistica, la quale si forma senza altro scopo che quello
di soddisfare al desiderio colleivo dell’arte, è impossibile che quanto non
procura una soddisfazione comune a tui giunga  a essere legge valida:
giunga dunque all’arte stessa e alle leggi che, combinando l’individuale e il
generale, rendono possibili le sue manifestazioni più perfee.
Nella riunione comune degli uomini dell’avvenire le stesse leggi di
necessità interiore saranno le uniche a valere come buone. Un’unione
naturale,  non forzata, d’un numero d’uomini più o meno grande può
essere provocata solo da un bisogno comune a tui loro. La soddisfazione
di questo bisogno è il  solo scopo dell’impresa comune: a esso si
conformano gli ai dell’individuo se il bisogno colleivo è il più forte che
egli provi e se lo scopo stesso genera le leggi dell’ao comune. este
leggi infai di per sé non sono altro che i mezzi più idonei a raggiungere
quello scopo. Non può riconoscere i mezzi più appropriati a tal fine chi
non è spinto da alcun bisogno imperioso reale; ma quando questo bisogno
esiste, il miglior riconoscimento di quei mezzi viene proprio dall’intensità
del bisogno in parola  e soprauo da come questo bisogno è sentito
dalla comunità. Le associazioni naturali sussistono solo per il fao che il
bisogno che le determina è colleivo e che la sua soddisfazione non è
ancora avvenuta; raggiunto lo scopo, l’associazione si scioglie con la fine
del bisogno che l’ha causata. Da altri  bisogni che sopravvengono hanno
vita altre associazioni di esseri, che, a loro volta, hanno nuovi
bisogni  colleivi. I nostri stati moderni sono le meno naturali tra le
comunità umane, essendo il prodoo d’un arbitrio esteriore, per esempio
degli interessi  dinastici d’una famiglia, e aggiogando insieme, una  volta
per tue, un determinato gruppo di uomini,  per uno scopo che mai ha
corrisposto a un bisogno  che sia loro comune, o che, col passare degli
anni, ha completamente cessato di essere comune a tui86.
Tui gli uomini hanno un loro bisogno colleivo,  che però non è in
tui uniforme tranne che per il suo contenuto più generale: il bisogno di
vivere e di essere felici. esto è il legame naturale tra tui gli uomini, e a
tale bisogno la natura dell’universo può dare ogni appagamento. I bisogni
particolari, come si manifestano e si accrescono, possono costituire da soli,
secondo i tempi, i luoghi, le individualità e in uno stato ragionevole
dell’umanità futura, la base delle associazioni particolari, che
costituiranno, nel loro insieme, la comunità di tui  gli uomini. este
associazioni si modificheranno,  cesseranno di esistere e risorgeranno.
Dove saranno di natura materiale, dureranno in rapporto al territorio
comune e secondo le relazioni tra gli uomini, qualora nascano da
condizioni necessarie; ma si  ricostituiranno, si manifesteranno in una
varietà  sempre maggiore e più viva se avranno origine da  bisogni
intelleuali più elevati e generali.
Dinanzi all’associazione tradizionale statista del nostro tempo, che si
regge in piedi solo per obblighi esterni, le associazioni libere dell’avvenire
con  la loro elasticità, ora in un’immensa estensione, ora  in una soile
organizzazione, costituiranno la vita umana stessa, a cui la modificazione
delle più svariate individualità darà un fascino eternamente ricco, mentre
la vita auale87, nella sua uniformità  ripulita alla moda, rappresenta
l’immagine, disgraziatamente troppo fedele, dello stato moderno con le sue
situazioni, i suoi usi, le sue giustizie sommarie, le sue armate permanenti e
tuo ciò che in esso può considerarsi stabile.
Non vi saranno mai associazioni le cui modificazioni siano più feconde,
più eternamente vive di quelle che sorgono tra artisti, perché ogni
individualità, quando avrà appreso a regolarsi sullo spirito della comunità,
ne farà scaturire una nuova associazione, rendendo possibile
quell’intenzione unica che abbiamo qui esposto, elargendo il suo bisogno
personale fino a renderlo retaggio d’un’associazione nata proprio da quel
bisogno. La nascita di ogni opera drammatica sarà così fruo di una nuova
associazione d’artisti che prima non sono mai esistiti e che non dovranno
mai ripetersi; e tale associazione esisterà dal momento in cui l’aore-poeta
che rappresenta l’eroe avrà innalzato la sua intenzione fino all’intenzione
colleiva dell’associazione che gli è necessaria e sparirà non appena
l’intenzione si sarà realizzata perfeamente.
Nulla in tal modo, in quest’associazione artistica, potrà condensarsi
nella rigidezza e nell’immobilità; si produrrà solo per l’unico scopo, oggi
raggiunto, di celebrare un eroe ben determinato per diventare domani, in
condizioni del tuo nuove, grazie all’entusiasmo d’un’individualità del
tuo diversa, una  nuova associazione che si distinguerà tanto
dalla  precedente da produrre la propria opera secondo  leggi tue
particolari; ed essendo queste leggi il  mezzo più efficace per realizzare
l’intenzione di nuovo concepita, si troveranno ancora una volta
nuove, perché prima non erano esistite con quell’aspeo.
Tale e non altra deve essere l’associazione degli artisti dell’avvenire, se
non li riunirà un’altra ragione che non sia l’opera d’arte. Ma chi sarà
l’artista dell’avvenire? Il poeta? L’aore? Il musicista? Lo  scultore?
Diciamolo subito: il popolo. Lo stesso popolo al quale dobbiamo, anche ai
nostri giorni, l’opera d’arte che unica è vera, che vive nella nostra
memoria, imitata da noi in un modo che può solo deformarla. L’artista è il
popolo, al quale dobbiamo l’arte in se stessa.

ando riandiamo alle cose passate, compiute, per formarci l’immagine


di un oggeo secondo la  sua manifestazione particolare nella storia
dell’umanità, riusciamo a individuarne esaamente i trai più salienti; più
ancora dal minuzioso studio di questi trai oeniamo spesso la più sicura
comprensione dell’insieme, che dobbiamo cogliere appunto nella sua vaga
generalità per giungere, araverso di essa, a una concezione dell’insieme.
Alla stessa stregua, in quest’oggeo dell’arte, che aualmente ci è
presentato, tanto è l’abbondanza di deagli che ci si offre che gran parte
dell’insieme, e proprio quella che, a nostro parere, è la più caraeristica,
rischia di essere perduta di vista se, per il troppo amore del deaglio, si
dimentica il fine generale superiore.
L’inverso si produce quando vogliamo figurarci uno stato futuro. In
questo caso abbiamo una sola risorsa che non è posta nell’avvenire, in cui
tale stato dovrebbe realizzarsi, ma nel passato e nel presente, e, di
conseguenza, dove tue le condizioni sussistono ancora vive e rendono
ancora impossibile lo stato futuro desiderato, facendo così apparire
necessario il suo perfeo contrasto. La forza del  bisogno ci spinge verso
un’idea tua generale, tal  quale dobbiamo concepirla non solo col
desiderio  del cuore, ma soprauo secondo una logica necessaria come
idea contraria allo stato auale, che riconosciamo caivo.
Tui codesti lati particolari88 debbono essere scartati da quest’idea,
perché potranno presentarsi solo dopo supposizioni arbitrarie, come
quadri della nostra immaginazione, e, secondo la loro natura, essere
improntati allo stato auale e offrirsi sempre ai nostri occhi come suscitati
dagli eventi auali.  Non possiamo conoscere se non quel che è
passato,  finito, perfeo; lo stato vivente dell’avvenire non  può essere,
indiscutibilmente, che opera della vita. ando quest’avvenire si sarà
compiuto, abbracceremo con un unico sguardo quel che potremo solo far
contemplare ai nostri occhi soo le ineluabili  condizioni della vita di
oggi.
Niente è più nocivo al bene dell’umanità che questo zelo insensato di
regolare la vita dell’avvenire con leggi formulate nel presente. esta
vergognosa presunzione sull’avvenire, che in realtà è solo  una prova
d’egoismo assoluto e oscuro, non cerca  che di conservare quel che si ha
oggi e di assicurarselo per tua la vita. Ritiene la proprietà, la proprietà
che deve essere cementata e rinsaldata a tui i costi, come l’unico oggeo
degno di un’aiva  previdenza umana e si sforza con ogni mezzo di
limitare, finché è possibile, la vita indipendente dell’avvenire, di toglierle
l’istinto vitale indipendente  come se si traasse di un germe pericoloso,
per  proteggere da ogni contao imprudente la proprietà,  alimento
inesauribile da ruminare in tua pace,  che si riproduce e completa
eternamente secondo la legge naturale del cinque per cento.
Come, in quest’affanno capitale dello stato moderno, l’uomo è ritenuto
un essere debole, del quale sempre si deve diffidare, e che bisogna
traenere o guidare per la giusta via mediante le leggi, cosi, dal punto di
vista dell’arte e degli artisti, non ci sono  che le istituzioni artistiche che
siano garanzia di  proprietà di questo o di quello. Senza le accademie,  le
istituzioni, i codici, si ha l’idea che l’arte debba,  per così dire, andare a
rotoli; in effei non siamo  in grado di raffigurarci artisti che abbiano
un’aività libera e autonoma. La ragione è una sola: in verità non siamo
veri artisti e soprauo non siamo  veri uomini; e per questo la
consapevolezza della  nostra incapacità e della nostra bassezza, di cui
noi stessi siamo colpevoli per la nostra viltà e per la nostra debolezza, ci dà
l’eterna preoccupazione di  creare per l’avvenire leggi la cui angustia
c’impedirà sempre di diventare veri artisti e veri uomini.
È proprio così. Vediamo l’avvenire con l’occhio del presente: un occhio
che non può abbracciare tua  l’umanità futura perché, essendo misura
dell’umanità di oggi, intende misurare l’umanità in generale. Se finiremo
col riconoscere il popolo come artista dell’avvenire, vedremo, dinanzi a
questa scoperta, l’egoismo intelligente dell’artista esprimere il  suo
disprezzo e la sua sorpresa. Si dimentica che nelle epoche della comunità
nazionale di stirpe, che  precedono l’affermazione dell’egoismo assoluto
di  ogni individuo perfino nella religione, ai tempi, insomma, che i nostri
storici definiscono delle leggende e dei miti non leggendari, già il popolo
era il solo poeta e il solo artista; si dimentica che solo da questo popolo è
possibile trarre soggei e forme che siano sani e vitali, che questo popolo
è poeta e creatore e non quello che appare agli occhi del presente, muniti
degli occhiali della civiltà.
L’artista di oggi, dal suo punto di vista cosiddeo superiore, si sente
autorizzato a considerare il popolo la plebaglia ignorante e volgare che è
proprio il suo opposto. ando pensa al popolo, gli salgono alle narici
tanfate di birra e di acquavite; allora caccia fuori il fazzoleo profumato e
chiede con  l’indignazione dell’individuo civilizzato: “Che? In  avvenire la
plebaglia deve succederci nella creazione artistica? La plebaglia, che meno
di tui ci capisce quando creiamo l’arte? Dalle osterie piene di fumo, dalle
esalazioni di questa fossa sorgeranno  per noi creazioni d’arte e di
bellezza?”
Proprio così! L’opera d’arte dell’avvenire non nascerà né dai marci
bassifondi della vostra auale cultura, né dai resti ripugnanti della vostra
raffinata civiltà moderna, né dalle condizioni che consentono alla civiltà
moderna di tirare avanti. Tenete a mente che quella plebaglia non è fruo
della vera  natura umana, ma il prodoo artificiale della vostra  cultura
innaturale; che tui i vizi, tue le mostruosità che in quella plebaglia vi
fanno torcere il naso,  non sono che i gesti disperati della loa che la
vera  natura umana conduce contro la civiltà moderna,  che l’opprime
crudelmente. el che in questi gesti ripugna non è affao un vero
aeggiamento della  natura, ma piuosto il riflesso delle simulazioni
ipocrite della vostra civiltà statista e criminale.
Dovete ancora pensare che se una parte della società politica fa solo
dell’arte e della leeratura superflua, per forza un’altra parte deve ripulire
la sporcizia della vostra esistenza inutile; che se il bello spirito e la moda
riempiono di sé tua una vita  inutile, per forza la brutalità e la rozzezza
debbono costituire gli elementi d’un’altra vita che vi è necessaria; che se il
lusso, il quale non ha bisogni di sorta, cerca di satollare a ogni costo la
propria ghiooneria che tuo divora, per forza il bisogno naturale può
soddisfarsi contemporaneamente al lusso solo immergendo insulti e
miserie nelle preoccupazioni più degradanti. Finché voi, intelleuali e
raffinati egoisti, prosperate in un benessere artificiale,  è necessario che
esista una sostanza dal succo vitale dalla quale distilliate i vostri stolti
profumi; e questa sostanza, alla quale rubate l’essenza naturale, non è altro
che la plebaglia infea, la cui vicinanza vi fa tanto schifo, e dalla quale vi
distinguete solo per quel po’ di profumo che avete estrao dalla sua grazia
naturale.
Finché la nazione intera scialacquerà preziose forze vitali negl’impieghi
dello stato, della giustizia e dell’università con un’aività affaristica e
vuota, è  più che naturale che una parte altreanto grande,  se non più
grande, contribuisca con un’aività utile, se pur esagerata, a ricostruire le
forze vitali dissipate; e, quel che è peggio, se in questa parte sovreccitata
del popolo l’utilità e l’utilitarismo sono diventati la forza motrice di ogni
aività, avremo  conseguenze mostruose: se infai l’egoismo assoluto fa
valere dovunque le sue leggi vitali, tornerà a ridervi in faccia, per rivincita,
proprio da quella plebaglia di villani e di gente da strada89.
Ma per popolo non intendiamo né voi, né loro: si avrà un vero popolo
quando voi e loro non ci sarete  più. Fin d’ora questo popolo vive
dovunque non esistete né voi né la plebaglia, cioè vive tra voi e la  plebe
senza che ve ne siate accorti; se ve ne foste accorti, sareste già un popolo,
perché la ricchezza  del popolo la conosce solo chi ne è partecipe. Il
più  colto come il più incolto, il più doo come il più  ignorante, il più
elevato come il più basso, quello  che è diventato grande in seno al lusso
più opulento come chi s’è sorao dal tugurio infeo della miseria, quello
che si è elevato in un saggio controllo del cuore come chi è cresciuto nella
grossolanità più viziosa, ciascuno di essi, non appena senta e alimenti in sé
un desiderio che lo spinga fuori dai godimenti sterili e molli di certe
situazioni sociali e  ufficiali e dall’imbecillità che lo circonda, non appena
provi un sincero disgusto per le gioie triviali della nostra civiltà inumana,
o un sacro odio per un  utilitarismo che va a tuo vantaggio di chi sta
bene e mai del povero, non appena nutra disprezzo per l’essere servile che
si appaga da solo come per l’egoista più indegno, o provi collera contro chi
viola e  insulta la natura umana; quello, insomma, che trae  la forza di
resistere, di ribellarsi contro chi opprime la natura umana e di aggredirlo
non da una contaminazione tra orgoglio e viltà, di insolenza e di
soomissione e, di conseguenza, dal dirio dello stato  che garantisce
quest’accordo, ma invece la trae dalla ricchezza e dal fondo della vera e
pura natura  umana e dal dirio sacrosanto del suo bisogno naturale,
quello deve aaccare, ribellarsi, resistere a  oltranza. Chi ammee
francamente e infallibilmente questa necessità ed è in grado di sopportare
per essa ogni sofferenza e, se necessario, di sacrificare la vita, questo solo è
il popolo, perché i suoi simili e lui provano una necessità comune.
esta necessità renderà il popolo sovrano e l’eleverà a unica potenza
della vita. Proprio questa necessità spinse gli ebrei, diventati bestie da
soma abbrutite e sporche, a traversare il Mar Rosso: la stessa necessità ci
dovrà spingere a traversare il  Mar Rosso quando anche noi sentiremo il
bisogno di raggiungere, purificati, la Terra promessa. E non ci affogheremo
davvero. Esso fa paura solo ai faraoni di questo mondo che già una volta ci
sono affogati con armi e bagagli, perché, superbi e feroci,  avevano
dimenticato che il povero figlio di un pastore, con i suoi prudenti consigli,
aveva liberato dalla  fame loro e i loro paesi. Il Popolo, il popolo
eleo,  dunque, raggiunse sano e salvo, araverso il mare,  la Terra
promessa, dopo aver purificato il proprio  corpo nella sabbia del deserto,
dalle ultime lordure del fango della schiavitù.
Poiché i poveri ebrei m’hanno portato nel regno della più bella poesia,
la poesia popolare eternamente nuova e vera, per terminare voglio offrire
alla  meditazione di chi legge la trama d’una magnifica  leggenda che in
altri tempi il popolo incolto e rozzo degli antichi germani ha creato, spinto
dal solo movente d’un’intima necessità.

Wieland il fabbro90, nella gioia, nel piacere del suo lavoro, creava i
gingilli più artistici, armi eccellenti, luminose e belle. Bagnandosi sulla
riva del mare scorse una “vergine-cigno”91 che si avvicinava con le sorelle
volando per l’aria; poi la vide togliersi le vesti di cigno e gearsi nelle
onde marine.  Wieland s’accese d’un amore ardente, si geò nei  flui e
conquistò loando la splendida donna. L’amore spezzò l’orgoglio di lei, e
vissero uniti, l’uno per  l’altra, in deliziosa tenerezza. La donna gli donò
un  anello, dicendogli di non consentirle mai di riprenderselo perché, se
tanto era l’amore, altreanto forte era in lei la brama dell’antica libertà, e
quando desiderava tornare volando per l’aria all’isola felice che era la sua
patria, quell’anello gliene avrebbe dato il potere. Wieland temprò un gran
numero d’anelli simili a quello della donna-cigno e li appese in  casa con
un legaccio di corteccia di tiglio. Era certo che, nel numero, non avrebbe
riconosciuto il suo.
Tornando a casa da una spedizione, un giorno trovò la sua dimora
distrua; la donna era scomparsa.
C’era un re, Neiding, che aveva sentito molto parlare dell’arte di
Wieland; pensò di farlo suo prigioniero perché lavorasse per lui solo. Per
commeere un crimine del genere trovò un oimo pretesto: l’oro con cui
Wieland forgiava i suoi gioielli proveniva dalle terre di Neiding: dunque
l’arte di Wieland era il prodoo d’un furto di una proprietà del re. Penetrò
dunque nella sua casa, ve lo trovò, lo fece legare e portar via.
Alla corte di Neiding, Wieland dovee forgiare ogni specie di cose utili,
solide, durevoli: bardature, armature, armi, di cui il re si serviva per
accrescere la sua potenza. E siccome, per farlo lavorare,  Neiding fu
obbligato a sciogliere le catene del fabbro e a consentirgli i movimenti del
corpo, dovee cercare il modo d’impedirgli di fuggire; ebbe allora la felice
idea di fargli tagliare i tendini dei piedi, considerando molto saggiamente
che il fabbro, per lavorare, si serviva delle mani e non dei piedi.
Ed ecco Wieland, il fabbro agile e felice di tante meraviglie, affranto
dalla disperazione, paralizzato, rannicchiato dietro la fucina, dove doveva
lavorare per accrescere le ricchezze del suo padrone: storpio, zoppo, bruo
quando si raddrizzava. Chi può immaginare l’intensità del suo dolore
allorché pensava all’antica libertà, alla sua arte, alla sua bella moglie? Chi
può immaginare la forza della sua collera contro il re, che gli aveva fao
subire quest’immenso oltraggio?
Dall’officina levava gli occhi pieni di desiderio verso il cielo azzurro, dal
quale era discesa la vergine-cigno; quell’azzurro era il regno beato dov’ella
spaziava volando felice e libera, mentre lui doveva respirare il fumo e i
vapori della fucina a profio di Neiding! ell’uomo insultato, inchiodato
in quel luogo infame, non avrebbe mai più ritrovato la sua sposa!
E siccome doveva essere infelice in eterno, poiché nessuna gioia,
nessuna consolazione potevano fiorire per lui, volle almeno godersi una
cosa: la vendea su quel Neiding che, per un vile egoismo, gli aveva fao
tanto male. Se fosse possibile annientare quel miserabile con tua la sua
razza infame!
Meditò una vendea terribile; di giorno in giorno gli cresceva la
sofferenza, di giorno in giorno il desiderio di vendea si faceva più
imperioso. Ma  come avrebbe potuto lui zoppo, storpiato, ingaggiare una
loa per distruggere il suo carnefice? Un  passo ardito, audace… ma poi
sarebbe caduto a terra, coperto di vergogna, deriso dal suo nemico!
“Oh, sposa amata e lontana! Se avessi le tue ali! Per saziare la mia
vendea, me ne servirei per scappare dalle grinfie di questo miserabile!”
Allora la necessità sbaè le sue ali nel peo pieno d’angoscia di
Wieland e spirò entusiasmo al suo cervello in meditazione. La necessità, la
terribile necessità onnipotente insegnò all’artista schiavo a inventare quel
che nessuno spirito umano era stato capace. Wieland l’inventò e si costruì
le ali. Ali per innalzare il suo ardimento fino a vendicarsi del suo carnefice,
ali per volare lontano, all’isola felice della sua sposa.
Fece, compì fino all’ultimo quel che una necessità suprema gli aveva
ispirato. Portato dal l’opera della sua arte volò nell’aria, trafisse il cuore di
Neiding con una freccia mortale e, con volo ardito, si levò  nell’azzurro e
ritrovò l’amante della sua giovinezza.
Ecco, o popolo unico, eccellente! Ecco quel che hai fao tu, poeta! el
Wieland sei tu stesso. Tempra le ali, e lanciati nel volo!

FINE
1  Wagner usa i termini willkürlich e unwillkürlich dando  loro una ricca
varietà di significati. Non è quindi il caso di  tradurre alla leera.
Unwillkürlich è infai usato, oltre che nel senso di “involontario”, come
“immediato, necessario, noumenico ecc.”; willkürlich, oltre che per
“arbitrario”, è usato  anche come “fenomenico, contingente ecc.” Una
delle maggiori  difficoltà del testo è data proprio dall’uso incerto da
parte dell’autore della terminologia filosofica.
2 “Cioè l’arte in generale e l’arte dell’avvenire in particolare.” (N.d.A.)
3  i l’umanitarismo di Feuerbach diventa colleivismo estetico soo
l’influsso delle idee rivoluzionarie già esposte dall’autore in L’arte e la
rivoluzione (Sämtl. Schr, und Dicht., Lipsia, 1911, vol. III, pagg. 8-41).
4  Abbiamo reso col bergsoniano “slancio vitale” il Lebenstrieb del testo
anche per la particolare affinità tra le due concezioni.
5 Wagner ha ereditato dai romantici la diffidenza per le scienze esae, da
lui ritenute pure costruzioni ideologiche dell’uomo, e soprauo
l’antipatia per tuo ciò che è meccanizzazione. In essa egli vedeva un
progressivo livellarsi e quindi degradarsi dell’umanità.
6  La puntata non è anticristiana come sembrerebbe, ma solo
antichiesastica. Cosa Wagner pensasse del cristianesimo è chiaramente
espresso, oltre che nel Tannhäuser, nell’abbozzo Gesù  di Nazareth.
Nell’opera delle varie Chiese egli vedeva una deformazione dei principi
cristiani al servizio dell’assolutismo dominante.
7 È l’oimismo di Feuerbach trasferito nel campo dell’arte. Ma più ancora
è il culto della tragedia greca che agisce in  lui e che gli suggerirà
l’ideale di Bayreuth.
8  Per “comunismo” Wagner intende l’antitesi di “egoismo”,  senza dare al
termine alcun esplicito significato politico. Non  diremo tuavia che il
manifesto Marx-Engels del 1848 lo abbia
lasciato del tuo indifferente, specialmente pensando alla particolare
arazione suscitatagli dal nichilismo di Bakunin.
9  Come il globo terrestre è giunto alla sua definitiva armonia  dopo una
serie di sconvolgimenti, così l’umanità può giungere  a un asseo
definitivo solo araverso una serie di rivoluzioni.  Altra concezione
marxistica acceata non certo per caso.
10 Allude alle rivoluzioni del 1848 in Europa.
11 In altri termini il sapere è sintesi tra realtà in ao e realtà non più in
ao, tra presente e passato. Come si vede, non manca un resto delia
tanto disprezzata dialeica hegeliana.
12 Eco viva e chiara della morale kantiana. La grandezza dell’autore delle
Critiche non è mai stata messa in dubbio da Wagner che, al colmo della
sua passione schopenhaueriana, definiva Schopenhauer “il più grande
filosofo dopo Kant” (cfr.  Glasenapp, Vita di Riccardo Wagner, vol. III,
pagg. 48-49).
13  “Chi dunque, nei suoi sforzi riformistici, nutrirà meno speranza di
riuscita di chi avanza riforme nel modo più onesto?” (N.d.A.)
14  Notare in questo punto l’influsso dei “reali” herbartiani.  Tue le
correnti antihegeliane hanno influito su Wagner, non  solo quelle di
Feuerbach e Schopenhauer.
15 La critica dell’idealismo hegeliano è qui durissima. Cfr. la nota leera a
Liszt (Glasenapp, op. cit., vol. II, pag. 349), dove  Wagner sostiene che
Hegel ha reso i tedeschi incapaci di formulare un ragionamento che
non sia uno sragionamento.
16 “Perché è il nostro piacere.” In francese nel testo.
17 La moda del tempo è duramente condannata, ma questo felice passo si
può impunemente estendere alla moda di ogni tempo.
18 Il tema del contrasto tra la moda e l’arte è stato felicemente ripreso nel
saggio beethoveniano (Sämtl. Schr. und  Dicht., vol. X), dove la
grandezza di Beethoven consiste soprauo nell’aver colto l’eterno
valore dell’arte e nell’averla liberata dalla schiavitù della moda.
19 Allude per l’appunto alle sinfonie di Beethoven.
20 Wagner ha colto da par suo i veri caraeri dell’ecleismo di mal gusto
che avrebbe dominato verso la fine del secolo in tui i campi dell’arte e
di cui il decadentismo è stato la massima espressione. Ciò deve rendere
molto cauti quando si parla d’influssi wagneriani sul decadentismo di
fine secolo.
21  Le allusioni sono chiarissime: la prima è un aacco a Rossini,
notoriamente sceico, che scrisse uno Stabat Mater, su cui Wagner fece
una recensione molto dura (Sämtl. Schr, und Dicht., vol. I, pagg. 217-20)
a conclusione dello scrio giovanile Un musicista tedesco a Parigi. Le
altre sono un aacco all’incipiente moda veristica nel teatro di prosa e
d’opera e più ancora nel romanzo.
22 Che in Wagner le opere di Rousseau abbiano suscitato un largo influsso
anche nella concezione del personaggio di Sigfrido è indubbio. esto
tema, tuavia, non è stato finora studiato a fondo.
23  est’ammirazione illimitata per l’arte greca giunge a Wagner, oltre
che dagli studi direi dell’adolescenza e della prima giovinezza, da tua
una tradizione tedesca che, da Lessing e  da Winkelmann, araverso
Hölderin e Goethe, giungerà fino a Nietzsche.
24 Sono le idee di Feuerbach e di Strauss, delle quali si libererà totalmente
araverso una serie di approfonditi studi durante la concezione e la
stesura del Parsifal.
25  È chiaro che per Wagner lo svolgimento della leeratura greca ha un
caraere universale. La tragedia è il culmine  massimo, nel quale si
armonizzano tue le correnti poetiche e tue le arti.
26 Kunst (arte) deriva, secondo Wagner, dal verbo können (potere), che, a
sua volta, trae origine dal gotico konnan (sapere). Il vocabolo latino ars
deriva invece dal greco αρω (fabbrico).
27  esta concezione del cristianesimo è tipicamente luterana  e
romantica: è l’eco dì un dramma implacabile più che di un  sereno
conforto, cui invece cerca di giungere il caolicesimo  e, in modo
particolare, il tomismo.
28  esta concezione del linguaggio come essenza misteriosa  e
purtuavia razionale della poesia anima anche oggi l’estetica del
surrealismo. In essa, però, l’elemento razionale è del tuo scomparso.
29 Secondo Wagner la genesi della polifonia si ha nel
progressivo distacco dal canto gregoriano e nel sorgere di sempre
nuove forme di canto popolare.
30 esto tema sarà sviluppato esaurientemente in Opera e dramma, dove
l’espressione intera dell’umano sarà data dalla  fusione di tue le arti
nell’arte universale. Le arti figurative  costituiscono il corpo, la poesia
l’intelleo e la musica il cuore.
31  esta valorizzazione tua romantica del Lied popolare si  deve alla
forte impressione suscitata in Wagner giovane dall’opera di Karl Maria
von Weber, nella quale egli vedeva un  superamento dell’artificio
melodrammatico mediante un ritorno  alle pure fonti dell’anima
popolare.
32 esto giudizio negativo sull’opera, sovrapposizione e non sintesi delle
diverse arti, sarà ripreso in Opera e dramma. Non  si può davvero
negare che abbia colto nel segno!
33 La inta sinfonia.
34 È la Sesta sinfonia (Pastorale).
35  La Seima sinfonia, di cui Wagner è stato il primo a cogliere la
grandezza non davvero limitata al secondo movimento, come volevano
i contemporanei.
36  “Sul ritmo del secondo movimento, solenne nella sua andatura,
s’innesta un controtema, che si eleva in un canto lamentoso e
nostalgico. A quel ritmo, che fa sentire incessantemente il suo passo
deciso per tuo il brano, la melodia nostalgica s’avvince come edera
alla quercia. Se non si avvolgesse al tronco robusto, si torcerebbe per
terra in una copiosa dispersione, intricata e confusa. Invece, faasi
ricco ornamento alla  nuda corteccia della quercia, acquista una
fisionomia sicura e  inconfondibile, che ben si distingue da quella
robusta dell’albero. Con quanta irriflessiva greezza questa trovata
profonda  e significativa di Beethoven è stata plagiata dai nostri
compositori strumentali moderni, nella loro illuminata mania di
“controtematizzare’!” (N.d.A.)
37 È impossibile rendere in traduzione l’effeo lessicale del testo prodoo
da on (creta) e Ton (suono).
38 Le parole, come è noto, sono state prese dall’inno Alla gioia di Schiller.
39 Wagner è stato il primo a comprendere la validità della Nona sinfonia
beethoveniana, dai più allora ritenuta di gran  lunga inferiore alle
precedenti. Cfr., a proposito, la Relazione
sull’esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven del 1846 (traa dai
ricordi della mia vita) con aggiunto il programma  dell’esecuzione stessa
(Sämtl, Schr. und Dicht., vol. II, pag. 62 e segg.).
40  “Chi si proponga di scrivere una storia della musica strumentale da
Beethoyen in poi, dovrà per forza imbaersi in alcuni fenomeni singoli,
indubbiamente degni di menzione perché tali da suscitare un interesse
particolarmente fervido. È  vero che chi considera la storia delle arti -
come in questo  caso è necessario - da un punto di vista elevatissimo,
deve aenersi ai momenti principali e lasciar da parte quanto a essi è
estraneo o quanto ne deriva. Se però questi fenomeni singoli rivelano
senz’ombra di dubbio una capacità eccellente, ciò  significa che, pur
nella sterilità generale di ogni aività artistica, in quel particolare
genere d’arte - per quanto riguarda i progressi tecnici, non certo dello
spirito - è rimasto qualcosa  da scoprire, se naturalmente è stato deo
qualcosa di simile a ciò che Beethoven ha deo in musica. Nella grande
opera  d’arte universale dell’avvenire ci sarà sempre da scoprire
qualcosa di nuovo; non così in un’arte isolata se questa - come
la musica con Beethoven - sarà traa all’universalità pur perseverando
nella sua evoluzione individuale.” (N.d.A.)
41  esti risentimenti antiebraici di Wagner si
allargheranno nell’opuscolo del 1850 II giudaismo nella musica (Sämtl.
Schr, und Dicht., vol. V, pag. 81 e segg.), al quale è stata aribuita una
portata politica che non ebbe mai. Si traa infai dì una  serrata
polemica contro vari critici ebrei che avevano aspramente denigrato le
sue opere e la sua concezione dell’arte.
42 L’orecchiabilità era ritenuta la dote massima di una musica. Proprio per
questo Wagner fu frainteso e duramente criticato ai tempi delle diatribe
tra pseudoverdiani e pseudowagneriani.
43  Secondo Wagner, il culmine dell’arte musicale è stato raggiunto con
Beethoven dopo uno sviluppo naturale, di cui Haydn  e Mozart sono
due tappe decisive. Da ciò si deduce come il  Nostro non ammeesse
nella musica deviazioni comunque innaturali: a esempio, l’assumere
aeggiamenti narrativi o descriivi isolati dalla poesia o dalle arti
figurative, come avverrà nei poemi sinfonici.
44  “Sebbene mi sia soffermato sull’essenza della musica molto più che
sugli altri generi d’arte da me traati (e ciò è giustificato dal caraere
tuo speciale dell’evoluzione della musica  e dal suo procedimento
completamente determinato da questo  caraere), debbo tuavia
ammeere che la mia traazione presenta numerose lacune. Non un
libro solo, ma parecchi ne  sarebbero necessari per illustrare a fondo
l’immoralità, la mollezza, la nefandezza delle relazioni tra la nostra
musica moderna e il pubblico, per meere a nudo quegli aspei
sfacciati  e ultrasentimentali che la rendono un oggeo di
speculazione  in mano ai nostri ‛moralizzatori del popolo’, che, per
‛educare  il popolo’, mescolano il miele della musica all’acre sudore
dell’operaio traato male, come unico conforto alle sue sofferenze,  su
per giù alla stessa maniera in cui i nostri saggi uomini di  stato e di
Borsa cercano di tamponare con i malleabili stracci della religione tue
le crepe che acuiscono la loro preoccupazione poliziesca per il
benessere degli uomini. Ciò spiega il  doloroso fenomeno psicologico
per cui un individuo, oltre che  vile e malvagio, può anche essere un
cretino completo, senza che ciò gl’impedisca di diventare un musicista
più che rispeabile.” (N.d.A.)
45 Dichten (poetare) è termine tedesco moderno, tichten è termine antico,
ancora in uso nel secolo XVII.
46  Da questo breve esempio si ha un’idea dell’importanza che Wagner
aribuiva all’assonanza tra le radici delle diverse parole, dal cui
accostamento - il cosiddeo Stabreim - scaturiva, a suo parere, la forma
espressiva più genuina. esta tecnica, tipica dell’antica poesia tedesca,
fu largamente usata nei testi poetici dell’Anello del Nibelungo.
47 La “trinità” artistica wagneriana è dunque costituita dalle tre arti: arte
della danza (Tanzkunst), che ha come sfondo le arti figurative; arte del
suono (Tonkunst), nata dal sentimento  e per il sentimento; e arte del
poetare (Tichtkunst), il cui elemento razionale rende comprensibile
l’essenza dell’arte universale.
48 esto conceo è espresso anche, con molta efficacia, nel terzo ao dei
Maestri cantori per bocca di Hans Sachs (vv. 2049-2055).
49 Wagner, per quanto riguarda la questione omerica, si aiene all’idea del
Vico, ripresa e confermata dal filologo Friedrich August Wolf. Oggi i
filologi sono invece propensi ad ammeere la reale esistenza di Omero.
50  Anche l’anonimo autore del Nibelungenlied sarebbe dunque un
raccoglitore di canti trasmessi da una tradizione orale.  est’idea era
stata largamente diffusa dalla vasta ripercussione suscitata in tuo il
periodo romantico dai Canti di Ossian del Macpherson.
51  Anche questa concezione è completamente luterana: il caolicesimo
non ha mai fao un dramma dell’esistenza del corpo.
52  Concezione veramente dantesca. Nei culmini del genio non solo si
spezzano i confini tra arte e arte, ma anche quelli tra  arte, scienza e
filosofia.
53 Dal popolo uscirono infai i cantori d’amore (Minnesänger), il massimo
dei quali, Walther von der Vogelweide, fu  intensamente studiato da
Wagner, e più tardi i maestri cantori  (Meistersinger), cui Wagner ha
dedicato una delle sue composizioni più appassionate e perfee.
54  esto Wagner sentì di poter raggiungere nella composizione
dell’Anello del Nibelungo. È il caso di precisare come le idee qui esposte
e riccamente ampliate in Opera e dramma  siano sorte in lui dal
tormento interiore che dee vita alla  Tetralogia, e non viceversa.
Sarebbe infai un grave errore voler vedere nell’opera poetico-musicale
un tentativo di applicazione di idee estetiche concepite in precedenza.
55 Allude a un noto episodio della vita di Goethe. Venuto a contrasto col
suo proteore Carlo Augusto duca di Weimar  perché quest’ultimo
voleva che fosse condoo sulle scene un  can barbone, dee le
dimissioni da direore del teatro e non  volle tornare all’incarico
nemmeno dopo le più ampie scuse del duca.
56  Riteniamo che non manchi un’allusione a Heinrich von  Kleist,
considerato il drammaturgo “prussiano” per eccellenza.
57 Le maggiori raccolte di liriche popolari si debbono a Johann Gofried
von Herder. Ma qui è chiara l’allusione alle prime scoperte della lirica
greca dovute ai filologi del tempo e che Wagner riteneva lirica popolare
per eccellenza.
58 Il pubblico, nella tragedia greca, araverso l’azione del coro Si sentiva
quasi protagonista: di qui il caraere popolare di dea tragedia e il suo
grande merito di aderire alla vita dell’epoca in cui fu generata. Circa il
conceo che Wagner  ebbe del pubblico, cfr. anche il breve saggio del
1878 Pubblico  e popolarità (Sämtl. Schr, und Dicht., vol. X, pag. 201 e
segg.).
59  È naturale che Wagner, ritenendo arte somma la tragedia greca e il
dramma shakespeariano, veda Schiller alquanto  sovraccarico di
sentimentalismo e disprezzi profondamente i  drammi borghesi e
faciloni di August Wilhelm Iffland (1759-1814), che allora andavano per
la maggiore. Un’acuta satira di  Iffland la troviamo anche nella
commedia Il gao con gli stivali di Tieck.
60  A questa musica religiosa protestante e soprauo ai drammi della
Passione dobbiamo, se non altro, l’arte di Johann Sebastian Bach, il cui
capolavoro religioso è La passione secondo Maeo.
61 “Tra questi bisogna tenere un conto particolare dei maestri della scuola
francese sorta all’inizio di questo secolo.” (N.d.A.)
62  Più che alia nuova religione dell’umanità sostenuta da  Feuerbach
penseremmo, tenuto conto del Gesù di Nazareth,  a un cristianesimo
laico socialisteggiante alla maniera di Saint-Simon.
63  All’origine naturalistica del politeismo Wagner unisce una origine
estetica, che molto risente delle concezioni neoclassiche  fae proprie
dal romanticismo.
64 Dodona, cià della Tesprozia, in Epiro, è la più antica sede del culto di
Giove. Non vi era ancora alcun tempio, ma solo  un bosco di querce,
dalle cui foglie, agitate dal vento e rumoreggianti, i sacerdoti traevano
oracoli.
65 Gli orfici furono una sea misteriosa di mistici, i cui culti si facevano
risalire al mitico Orfeo.
66 Allude alle spedizioni di Alessandro Magno, il cui impero è condannato
perché assolutistico e oppressore dì popoli.
67 “È indubbio che provvedere al necessario è la prima cosa e la più utile
di tue. Nessun’epoca che sia consapevole di  questa verità può
sacrificare l’indispensabile per dar vita alla  bellezza. Ma far dell’utile
l’unica norma valevole in tui gli  aspei della vita pubblica, arte
compresa, è un fao che dimostra come l’epoca che così si comporta sia
quanto mai barbara. Ora solo una civiltà artefaa e innaturale è capace
di generare una barbarie tanto assoluta da consentirle dì sempre
e  dovunque creare ostacoli dinanzi all’utile per far vedere che  solo
l’utile le sta a cuore.” (N.dA.) Siccome questo apprezzamento si riferisce
al mondo romano, non si può fare a meno di rilevare una certa affinità
con le valutazioni del Mommsen.
68  Il mondo greco è “serenità”; quello romano “fredda pratica” e “amore
asiatico del fasto.” Concezione tipica del neoclassicismo germanico, che
avrà più tardi ampio sviluppo nella Storia di Roma del Mommsen.
69  esto vedere il Medio Evo con gli occhi del Rinascimento  e della
cultura classica italiana è indubbio fruo dell’educazione classica
datagli dallo zio Adolf Wagner ai tempi dei primi studi.
70 “Usare questo vocabolo è pericoloso e c’è da avere noie con la polizia.
Non mi sembra tuavia che ne esista un altro che renda meglio e più
perfeamente l’opposto di egoismo. indi chi oggigiorno si vergogna
di passare per egoista - e  nessuno vuole esser preso per tale
apertamente - deve essere  ben lieto di sentirsi definire comunista.”
(N.d.A.)
71 Errore storico assai comune. Gli spartani non sopprimevano i fanciulli
deboli o deformi, ma li esponevano se figli di spartiati. I perieci e gli
iloti potevano allevarli liberamente.
72  “La redenzione della donna nella partecipazione alla natura virile è
opera dell’evoluzione cristiano-germanica; i greci  Ignorarono il
processo psichico d’una logica e nobile mascolinizzazione della donna.
Per loro tuo appariva come si manifestava immediatamente e
direamente: la donna era donna  e l’uomo uomo. Per questa ragione,
naturalmente soddisfao  il desiderio della donna, subentrava il
desiderio dell’uomo.” (N.d.A.) Su questo difficile tema, nel quale l’autore
intendeva  dimostrare come solo la spiritualità cristiana e germanica
abbia elevato la donna al di sopra del tradizionale grado di femmina,
Wagner tornò alle soglie della morte. Il pomerìggio del  13 febbraio
1883, infai, quando si spense all’improvviso, stava  componendo un
articolo intitolato appunto Del femminino nell’umano (Sämtl. Schr, und
Dicht., vol. XII, pag. 106).
73 La poesia lirica dorica (Alcmane, Stesicoro, Ibico, Simonide, Bacchilide)
è scoperta molto recente: Wagner non potè conoscerla.
74  Allude alla breve e tu’altro che felice fioritura della tragedia in
Alessandria a opera dei Tolomei: i cosiddei poeti della “Pleiade
alessandrina”. Delle loro tragedie sono giunte pochissime notizie.
75  Era logico che Wagner, tuo preso dalla filosofia del concreto,
considerasse puro astraismo il pensiero di Aristotele.
76  Ancora chiaro l’influsso di Feuerbach (Essenza delle religioni, 1845) e
della Vita di Cristo di David Friedrich Strauss (1835).
77 Altro contao col naturalismo rousseauiano.
78  “Il compito di un edificio destinato a essere teatro dell’avvenire deve
essere considerato completamente al di fuori di quelli che sono i teatri
moderni. In questi regnano idee e leggi  inveterate che non hanno
niente a che fare con l’arte pura. Dove l’influenza decisiva è esercitata,
da un lato, dal desiderio  di far quarini e dall’altro dalla ricerca del
lusso, è logico che gli interessi assoluti dell’arte debbano essere violati
nel modo più sensibile e che non ci sia architeo al mondo che possa, a
esemplo, trasformare in legge di bellezza la sovrapposizione  e la
ripartizione degli ambienti destinati agli speatori secondo  le caste
sociali e la suddivisione del pubblico nelle più svariate  classi di
ciadini. Si pensi al locale comune del teatro colleivo dell’avvenire, e
non si farà fatica a comprendere come un campo d’imprevista ricchezza
sia aperto all’invenzione umana.”  (N.d.A.) Da ciò si vede come già nel
1849 fosse in germe quello che sarà poi l’ideale di Bayreuth.
79 “Per un moderno piore di paesaggi non può essere indifferente il fao
che, al giorno d’oggi, ben pochi capiscono la sua opera, né con quanto
ousa e imbecille soddisfazione considerino un suo quadro della natura
quei filistei che glielo pagano. Il bel paesaggio soddisfa solo la loro
curiosità frivola, ma non ne provano alcun bisogno. Una soddisfazione
analoga  cercano nella musica moderna gli stessi individui, il cui
orecchio non è davvero sollecitato dalla gioia che non sia la
grea  soddisfazione, che suona offesa per l’artista proprio perché
corrisponde in tuo e per tuo alle intenzioni dell’industriale.  Tra il
‘bel paesaggio’ e la ‘musica graziosa’ del nostro tempo  esiste una ben
triste parentela: il loro comune autore non è  davvero l’idea seria, ma
una faciloneria duile e Impudica che  egoisticamente allontana lo
sguardo dalle sofferenze umane che  dovunque si vedono, per elevarlo
in un pìccolo cielo privato  che per loro è l’azzurro dell’universale
natura. esta brava  gente vuol vedere tuo, sentire tuo tranne
l’uomo vero e non deformato, che si leva, come un rimorso, al culmine
dei loro sogni. E quell’uomo è proprio ciò che vogliamo meere in primo
piano!” (N.d.A.)
80  Il gigante Anteo, figlio della Terra, riprendeva sempre nuova forza
appena toccava con i piedi la terra madre. Eracle  potè vincerlo solo
soffocandolo con una strea dopo averlo sollevato dal suolo.
81  esta condanna si può estendere con buone ragioni a tue le forme
occasionali dell’arte antiche e moderne.
82  “Il poeta drammatico moderno avrà tue le difficoltà del  mondo a
permeere che il dramma non debba più appartenere esclusivamente al
suo genere d’arte, e cioè alla poesia, e soprauo non si rassegnerà mai
a collaborare con il compositore, perché a suo parere, se così fosse, il
dramma dovrebbe sfociare nell’opera. Invece, fin che esisterà l’opera, il
dramma  avrà tue le ragioni per esistere, né più né meno che la
pantomima; finché è ancora pensabile una discussione su ciò, tue
le  porte sono chiuse per il dramma dell’avvenire. Il dubbio
più  profondo è dalla parte del poeta, che non può rendersi conto
in  alcun modo del perché il canto debba prendere del tuo e in  ogni
circostanza il posto del dialogo recitato. Gli rispondiamo  che, per due
chiare ragioni, non ha ancora capito che cosa sia  il dramma
dell’avvenire. In primo luogo non considera che, in quest’opera d’arte,
la musica avrà funzioni completamente  diverse da quelle che ha
nell’opera moderna; essa, infai, non  deve svilupparsi dappertuo
come ora che ha la parte del leone, ma deve chinare la fronte tue le
volte che la cosa più  necessaria è il linguaggio drammatico. La musica
ha tuavia  dirio, senza mai ridursi al silenzio, di modellarsi sul
linguaggio drammatico tanto insensibilmente da dar l’idea di
lasciarlo  completamente libero anche se lo sostiene. In secondo
luogo, se il poeta si convince di questo, deve tener presente che le idee
e le situazioni, nelle quali anche il minimo concorso della  musica
parrebbe importuno e indiscreto, sono sempre improntate alla
concezione del dramma moderno, ma nell’opera d’arte  dell’avvenire
non avrebbero più alcuna ragion d’essere. L’uomo  che raffigurerà se
stesso nel dramma dell’avvenire non avrà  più nulla in comune con i
banali pastrocchi, pieni d’intrighi prosaici, tanto cari alla moda di oggi
e che i nostri poeti limano amorosamente in tui i deagli. Il suo modo
naturale  d’agire e di parlare consiste in un sì o in un no. indi
ogni deaglio è una stonatura, è moderno e quindi superfluo.” (N.d.A.)
83 “i ci sia concesso di comprendere il poeta dei suoni nel  poeta della
parola; se nella stessa persona o in collaborazione non ha importanza.”
(N.d.A.)
84  Mentre, come filosofo, scrive queste pagine, come artista  Wagner è
ancora immerso nell’atmosfera della morte di Sigfrido, este parole
corrispondono in pieno al finale della Morte di Sigfrido.
85  “Come finora abbiamo traato l’elemento tragico dell’opera d’arte
dell’avvenire nel suo sviluppo trao dalla vita mediante
un’associazione artistica, così possiamo trarre conclusioni intorno al
suo elemento comico, mutando le condizioni che  fecero sorgere
l’elemento tragico come una necessità. L’eroe  della commedia è
l’opposto di quello della tragedia. Mentre  l’eroe tragico, essendo
comunista (il che significa un individuo che, per la forza della sua
natura, s’immerge nella comunità per una necessità intima e libera),
partecipa spontaneamente del suo ambiente e dei suoi contrasti, l’eroe
comico, egoista e nemico della comunità, farà di tuo per distaccarsene
o per piegarla ai suoi voleri, ma, malgrado ogni sforzo, sarà combauto,
premuto e infine vinto dalla comunità stessa  nelle forme più varie e
variabili. Siccome l’egoista è costreo  a immergersi nella comunità,
questa è come una persona multipla che agisce realmente e che per gli
egoisti - i quali vogliono sempre agire e non ci riescono mai - ha tua
l’apparenza di un caso che si muta arbitrariamente finché la comunità
non riesce ad afferrarlo e chiuderlo in un cerchio ristreo.  Alla fine,
con l’acqua alla gola, egoista com’è, cerca l’estrema  salvezza nel
riconoscimento pieno della necessità della vita comune. L’associazione
artistica che rappresenta la comunità  avrà così nella commedia una
partecipazione alla poesia anche più direa che nella tragedia.” (N.d.A.)
86  La politica è perciò nea antitesi della poesia in quanto,  essendo
oppressione tanto se domina uno solo, quanto se domina una comunità
qualsiasi, distrugge ogni immediatezza, quindi ogni libertà.
87 “E particolarmente anche le nostre istituzioni teatrali moderne.” (N.d.A.)
88  “Chi non è capace di liberarsi dagli aspei triviali e innaturali della
nostra arte moderna, porrà le domande più assurde  rispeo a questi
particolari. Manifesterà dubbi, non vorrà e  non potrà capire. Ma
nessuno pretenderà in questa sede una  risposta anticipata alle mille
possibilità di dubbi e obiezioni del genere da parte di chi si rivolge solo
all’artista che pensa  e non all’indegna marmaglia degl’industriali
dell’arte, s’interessino essi di leeratura, di critica o semplicemente di
produzione.” (N.d.A.)
89 Il raccoglitore delle Sämtl. Schr, und Dicht, annota a questo punto (vol.
III, pag. 174) che Wagner allude ai recenti avvenimenti della Comune di
Parigi.
90 L’antica leggenda germanica del fabbro Wieland ha suggerito a Wagner
l’abbozzo d’un poema mai scrio né musicato,  ma efficacissimo nei
trai essenziali che ne restano. Cfr. Il fabbro Wieland come progeo di
dramma (Sämtl. Schr, und Dicht., vol. III, pag. 178 e segg.).
91 La leggenda delle vergini-cigno è molto simile a quella delle Walkirie.
Si traa infai di esseri sovrumani che raramente cedono all’amore
terreno degli uomini.

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