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30 Pasqua VI (B) GV 15,9-17
30 Pasqua VI (B) GV 15,9-17
30 Pasqua VI (B) GV 15,9-17
Antifona d’ingresso: Con voce di giubilo date il grande annunzio, fatelo giungere
ai confini del mondo: il Signore ha liberato il suo popolo. Alleluia.
Colletta: O Dio, che ci hai amati per primo e ci hai donato il tuo Figlio, perché
riceviamo la vita per mezzo di lui, fà che nel tuo Spirito impariamo ad amarci gli uni
agli altri come lui ci ha amati, fino a dare la vita per i fratelli. Per il nostro Signore...
Alleluia, alleluia. Se uno mi ama, osserverà la mia parola, dice il Signore; e il Padre
mio lo amerà, e noi verremo a lui. Alleluia.
Vangelo: Gv 15, 9-17
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Come il Padre ha amato me, così
anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore.
Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato
i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore.
Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati.
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.
Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi,
perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché
tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e
portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel
mio nome, ve lo conceda.
Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri.
Sulle offerte: Accogli Signore, l’offerta del nostro sacrificio, perché, rinnovati nello
Spirito, possiamo rispondere sempre meglio all’opera della tua redenzione. Per Cristo
nostro Signore.
Dopo la Comunione: Dio grande e misericordioso, che nel Signore risorto riporti
l’umanità alla speranza eterna, accresci in noi l’efficacia del mistero pasquale con la
forza di questo sacramento di salvezza. Per Cristo nostro Signore.
Commenti:
Rinaudo
Meditazione sul Salmo 97
Senso letterale. Questo salmo ripete pensieri già espressi in altri salmi regali e
particolarmente nei salmi 95 e 46.
Qualche esegeta pensa che esso abbia riferimento alla liberazione di Israele dalla
schiavitù di Babilonia, ma è più probabile che la salvezza di cui esso parla (2.3) abbia
un significato messianico ed escatologico e si riferisca, perciò, alla vittoria finale di
Dio sulle potenze del male e alla salvezza che ne conseguirà per Israele e per tutti i
popoli.
Infatti, tutto il salmo è pervaso da un senso universalistico e cosmico, quale si
ritrova nei profeti dopo l'esilio (cfr. Is 52, 1-10).
Gli orizzonti sono assai dilatati dal tempo in cui Dio era considerato il Signore di
quella terra ch'egli aveva dato agli Israeliti dopo i quarant'anni trascorsi nel deserto.
Tutta la creazione lo attende pervasa da fremiti di gioia.
Il salmo invita a cantare al Signore un cantico nuovo, perché egli, con una strepitosa
vittoria, ha portato la salvezza al suo popolo (1-3).
Tutti i popoli, che hanno veduto il prodigio, ne gioiscano e manifestino con canti e
suoni la sua lode (4-6).
L'apparato con il quale dev'essere cantata la lode di Dio ricorda quello delle solenni
celebrazioni della liturgia del tempio, che dovrà diventare la liturgia del mondo intero.
Tutta la creazione con le sue armonie partecipi a questo omaggio di adorazione,
mentre il Signore sta per venire ad instaurare il suo regno di giustizia nel mondo (7-9).
Senso Cristologico. Nel Vangelo di san Luca vi sono allusioni al salmo 97 nel
«Magnificat» della Vergine, in cui si dice che il Signore «ha soccorso Israele suo
servo, ricordandosi della sua misericordia» (Lc 1, 54) (v. 3) e quando si parla della
predicazione del Battista, a proposito della quale Luca dice, con la profezia di Isaia (cf
40, 3-5), che «ogni uomo vedrà la salvezza di Dio» (Lc 3,6) (v. 3).
Negli Atti degli apostoli è precisato che «questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai
pagani ed essi l’ascolteranno!» (At 28, 28) (v. 3). In questo modo, il Vangelo ci spiega
che la salvezza, di cui parla il salmo, ha nome «Gesù: egli, infatti, salverà il suo
popolo dai suoi peccati» (Mt 1, 21). Gesù significa: il Signore è salvezza.
Nella celebrazione del Natale del Signore, la Chiesa ci invita a lodare con le parole
del nostro salmo, il Signore che ha compiuto prodigi e ha manifestato la sua salvezza e
il suo amore per la casa d’Israele. Nel bambino di Betlem questa salvezza si è
manifestata, e tutti gli uomini della terra possono ormai contemplarla e accoglierla
dentro di loro.
La liturgia del tempo pasquale, in accordo con la tradizione cristiana, pone una
relazione tra i prodigi divini celebrati dal salmo e il mistero pasquale della morte e
risurrezione del Signore, invitando coloro che sono risorti con Cristo a cantare un
cantico nuovo, il cantico di una vita rinnovata.
In fine, la liturgia celebra, con il salmo 97, i prodigi che Dio ha operato nella
Vergine Santissima, rivelando agli uomini il suo amore. Maria è il frutto più squisito e
perfetto della salvezza operata da Cristo. Essa, «preservata immune da ogni macchia
di colpa originale, finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla Celeste gloria
in anima e corpo, e dal Signore esaltata quale Regina del mondo, perché fosse più
pienamente conformata col Figlio suo, Signore dei dominanti (cf Ap. 19, 16) e
vincitore del peccato e della morte» (SC, 59).
D’altra parte Maria, «col concepire Cristo, generarlo, nutrirlo, soffrire col Figlio
suo morente in croce, cooperò in modo tutto speciale all’opera del Salvatore con
l’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità, per restaurare la vita
soprannaturale delle anime. Per questo fu per noi madre nell’ordine della grazia.
«E questa maternità di Maria nell’economia della grazia perdura senza soste dal
momento del consenso fedelmente prestato nell’Annunciazione e mantenuto senza
esitazione sotto la croce, fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti» (LG, 61-62).
La Chiesa riconosce in Maria la sua figura e «mentre persegue la gloria di Cristo,
diventa più simile alla sua eccelsa Figura, progredendo continuamente nella fede,
speranza e carità e in ogni cosa cercando e seguendo la divina volontà» (LG, 65).
Senso liturgico. Perciò, nei salmi regali, dalla contemplazione della regalità di Dio
a quella di Cristo e alla partecipazione di Maria alla gloria del Figlio suo, la Chiesa
ritrova il mistero di se stessa chiamata alla medesima gloria (d). Il medesimo e unico
motivo iniziale si sviluppa in un'armonia corale che ne manifesta tutta la sua ricchezza
e nella quale si trovano le voci dei popoli e della creazione.
La tradizione cristiana ha visto nel salmo una profezia dell'avvento di Cristo e della
vocazione delle genti alla fede 3 (e). Alla nascita del salvatore l'angelo disse ai pastori:
«Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è
nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2, 10-11).
Ora, ogni anno, la celebrazione liturgica del Natale del Signore continua a
diffondere la gioia, annunciata dall'angelo, tra i popoli della terra e nel cuore di ogni
uomo e la creazione inanimata non è certamente estranea a questo messaggio di gioia
soprannaturale. Questa realtà, nella quale il Verbo ha lasciato, con la creazione,
l'impronta di Dio, che il Cristo nobilitò servendosene per la sua vita corporale, che
volle in certo modo partecipe ai misteri della salvezza, che nel messaggio evangelico
divenne il segno sensibile delle realtà soprannaturali da lui annunciate, è ora, nella
liturgia, assunta dal Cristo come segno e veicolo della grazia soprannaturale per i
credenti. Posta così a servizio dei misteri divini, essa accompagna il Signore nella sua
manifestazione agli uomini e aiuta gli uomini ad esprimere al Signore che viene i loro
sentimenti interiori di ringraziamento e di lode (7-9).
Con grande efficacia, il salmo descrive la partecipazione della creazione alla venuta
del Signore, giungendo quasi ad una personificazione del mondo della natura (7-8).
Cristo assume in sé la voce della creazione per portarla davanti al trono del Padre.
(Rinaudo S., I salmi preghiera di Cristo e della Chiesa, Elledici, Torino-Leumann,
1981, pp. 529-532).
Giovanni Paolo II
Meditazione sul Salmo 97
1. Il Salmo 97, poc’anzi proclamato, appartiene a un genere di inni già incontrato
durante l’itinerario spirituale, che stiamo compiendo alla luce del Salterio.
Si tratta di un inno al Signore re dell’universo e della storia (cfr. v. 6). Esso è
definito come «canto nuovo» (v. 1), che nel linguaggio biblico significa un canto
perfetto, pieno, solenne, accompagnato da un festoso apparato musicale. Oltre al canto
corale, infatti, si evocano «il suono melodioso» dell’arpa (cfr. v. 5), la tromba e il
corno (cfr v. 6), ma anche una sorta di applauso cosmico (cfr. v. 8).
Ripetutamente, poi, risuona il nome del «Signore» (sei volte), invocato come
«nostro Dio» (v. 3). Dio, quindi, è al centro della scena in tutta la sua maestà, mentre
opera la salvezza nella storia ed è atteso per «giudicare» il mondo e i popoli (v. 9). Il
verbo ebraico che indica il «giudizio» significa anche «governare»: perciò si attende
l’azione efficace del Sovrano di tutta la terra, che porterà pace e giustizia.
2. Il Salmo si apre con la proclamazione dell’intervento divino all’interno della
storia di Israele (cfr. vv. 1-3). Le immagini della «destra» e del «braccio santo»
rimandano all’esodo, alla liberazione dalla schiavitù di Egitto (cfr. v. 1). L’alleanza col
popolo dell’elezione è, invece, ricordata attraverso le due grandi perfezioni divine:
«amore» e «fedeltà» (cfr. v. 3).
Questi segni di salvezza sono testimoniati «agli occhi dei popoli» e in «tutti i
confini della terra» (vv. 2.3), perché l’umanità intera sia attratta verso Dio salvatore e
si apra alla sua parola e alla sua opera salvifica.
3. L’accoglienza riservata al Signore che interviene nella storia è contrassegnata da
una lode corale: oltre all’orchestra e ai canti del tempio di Sion (cfr. vv. 5-6), vi
partecipa anche l’universo, che costituisce una specie di tempio cosmico.
Quattro sono i cantori di questo immenso coro di lode. Il primo è il mare col suo
fragore, che sembra fare quasi da basso continuo a tale grandioso inneggiare (cfr. v. 7).
Lo seguono la terra ed il mondo intero (cfr. vv. 4.7) con tutti i suoi abitanti, uniti in
un’armonia solenne. La terza personificazione è quella dei fiumi che, essendo
considerati come le braccia del mare, sembrano col loro flusso ritmico battere le mani
in un applauso (cfr. v. 8). Da ultimo, ecco le montagne che sembrano danzare di gioia
davanti al Signore, pur essendo le creature più massicce e imponenti (cfr. v. 8; Sal 28,
6; 113, 6).
Un coro colossale, quindi, che ha un unico scopo: esaltare il Signore, re e giudice
giusto. La finale del Salmo, come si diceva, presenta infatti Dio «che viene a giudicare
(e a reggere) la terra... con giustizia e con rettitudine» (Sal 97, 9).
È questa la grande speranza e la nostra invocazione: «Venga il tuo regno!», un
regno di pace, di giustizia e di serenità, che ricomponga l’armonia originaria della
creazione.
4. In questo Salmo, l’apostolo Paolo ha riconosciuto con profonda gioia una
profezia dell’opera di Dio nel mistero di Cristo. Paolo si è servito del v. 2 per
esprimere il tema della sua grande lettera ai Romani: nel Vangelo «la giustizia di Dio
si è rivelata» (cfr. Rm 1, 17), «si è manifestata» (cfr. Rm 3, 21).
L’interpretazione fatta da Paolo conferisce al Salmo una maggiore pienezza di
senso. Letto nella prospettiva dell’Antico Testamento, il Salmo proclama che Dio salva
il suo popolo e che tutte le nazioni, vedendo ciò, sono nell’ammirazione. Invece nella
prospettiva cristiana, Dio opera la salvezza in Cristo, figlio d’Israele; tutte le nazioni lo
vedono e sono invitate ad approfittare di questa salvezza, giacché il Vangelo «è
potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco»,
cioè il pagano (Rm 1,16). Ormai, «tutti i confini della terra» non soltanto «hanno
veduto la salvezza del nostro Dio» (Sal 97,3), ma l’hanno ricevuta.
5. In questa prospettiva Origene, scrittore cristiano del terzo secolo, in un testo
ripreso poi da san Girolamo interpreta il «canto nuovo» del Salmo come una
celebrazione anticipata della novità cristiana del Redentore crocifisso. Seguiamo,
allora, il suo commento che intreccia il canto del salmista con l’annunzio evangelico.
«Cantico nuovo è il Figlio di Dio che è stato crocifisso -cosa che non si era ancora
mai udita. Una realtà nuova deve avere un cantico nuovo. "Cantate al Signore un
cantico nuovo". Colui che ha sofferto la passione, in realtà è un uomo; ma voi cantate
al Signore. Ha sofferto la passione come uomo, ma ha salvato come Dio». Origene
prosegue: Cristo «ha fatto miracoli in mezzo ai giudei: ha guarito paralitici, purificato
lebbrosi, risuscitato morti. Ma anche altri profeti fecero questo. Ha cambiato pochi
pani in un numero enorme, e ha dato da mangiare a un popolo senza numero. Ma anche
Eliseo fece questo. Allora, che cosa ha fatto di nuovo per meritare un cantico nuovo?
Volete sapere che cosa ha fatto di nuovo? Dio è morto come uomo, perché gli uomini
avessero la vita; il Figlio di Dio fu crocifisso, per sollevarci fino al cielo» ( 74 omelie
sul libro dei Salmi, Milano 1993, pp. 309-310).
(Giovanni Paolo II, Udienza Generale, 6 Novembre, 2002)
http://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/2002/documents/hf_jp-
ii_aud_20021106.html
Garofalo:
L’amore è mutuo
Mentre durano i gaudi pasquali, la liturgia attinge a piene mani al quarto vangelo, e
in particolare ai discorsi di Gesù nell’ultima Cena, che della gioia nuova sono la
promessa, la proclamazione e la certezza. Le supreme confidenze di Cristo risentono
dell’intima e insieme solenne drammaticità dell’«ora» da lui desideratissima, l’ora in
cui l’amore - la grande rivelazione del vangelo - raggiunge il culmine e la pienezza
(Gv 13, 1).
La lettura degli Atti degli Apostoli mostra come gli imperativi e gli stimoli di
quell’amore si fanno strada nel mondo e la prima lettera di Giovanni, così affine e
legata al quarto vangelo, amplia gli echi delle parole più tenere e più esaltanti di Cristo,
pronunziate con labbra umane, ma che a stento sopportano il peso delle cose sublimi
che devono esprimere. Mai come di fronte a questi testi l’esegeta è cosciente della
povertà dei mezzi a sua disposizione e dell’insufficienza di un’analisi di parole che
meglio s’accolgono nella meditazione, nel silenzio del cuore. È proprio vero: certa
esegesi è di competenza dei santi, che sanno gustare la dolcezza di Dio.
I discorsi di Gesù intorno alla mensa del miracolo eucaristico si allargano in onde
all’apparenza tutte uguali e quasi monotone; nel loro flusso e riflusso, invece, esse
hanno sonorità sempre nuove, come la voce dell’oceano profondo.
Il brano evangelico di questa domenica è la continuazione immediata di quello di
domenica scorsa, nel quale Gesù ha parlato di sé come della vera vite e di noi come i
tralci destinati a dare il massimo frutto nella vitale unione con quel ceppo. Adesso,
fuori di metafora, egli spiega in che cosa quella unione consista; in una parola tutt’altro
che semplice, essa consiste nel rimanere nel suo amore.
Parlare dell’amore secondo il vangelo non è avventurarsi nelle sabbie mobili del
sentimento, ma fare della più pura teologia e della più pura antropologia, perché
l’amore è il mistero di Dio e il mistero dell’uomo: di Dio che «è» amore (II lettura) e
dell’uomo che nell’universo delle creature terrene è il solo essere capace d’amare. In
sostanza, quando Gesù risolve il vangelo dell’amore e in esso concentra le sue
richieste, chiede all’uomo che vuol credere e vivere in lui quello che soltanto l’uomo
può e deve dare se vuole essere fedele alla sua natura e al suo nuovo essere cristiano.
Il punto di partenza del discorso di Gesù sull’amore è il Padre, sorgente infinita di
tutto l’amore, di tutto il vivere d’amore. Dio Amore si è rivelato nella vicenda terrena
di suo Figlio, venuto tra noi per darci la pienezza della vita (Gv 3, 35; 5, 20; 17, 23.28)
- dono d’amore per eccellenza - e che, lasciando la terra, confida ai discepoli lo stesso
mandato da lui ricevuto dal Padre: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi»
(Gv 20, 21) ... «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi»; come egli è
«rimasto» nell’amore del Padre adempiendone la volontà, cosi i discepoli devono
«rimanere» nell’amore di Cristo osservandone i comandamenti.
La mutua, profondissima e vitale comunione espressa dal verbo rimanere esige
infatti identità di scelte e di rifiuti, immedesimazione di pensieri, di propositi e di
azione: una fusione perfetta del crogiolo dell’amore. Questa comunione trabocca in
una gioia che non ha uguale nell’esperienza umana perché è piena, perfetta come la
gioia stessa di Cristo (Gv 17, 13), che deriva appunto dalla consapevolezza e
soddisfazione d’aver compiuto la missione affidatagli dal Padre per aprire all’umanità
l’accesso alla pienezza dei beni divini, della vita di Dio. A Mileto, Paolo, convinto di
dare l’addio alla vita e di concludere il suo ministero apostolico, riassume le consegne
spirituali ai presbiteri di quella Chiesa citando una parola di Gesù non raccolta dai
vangeli, ma che evidentemente era stata la divisa del suo apostolato: «Vi è più gioia nel
dare che nel ricevere» (At 20, 35).
La gioia di Cristo è d’aver dato tutto al Padre e tutto agli uomini con l’olocausto
redentore della propria vita; egli ha trattato i suoi da amici prediletti scegliendoli e
dimostrando ad essi un amore inequivocabile e immenso: «Nessuno ha un amore più
grande di questo: dare la vita per i propri amici». La grazia della scelta, il dono della
vita sono completati dal dono delle sue confidenze: a coloro ai quali egli finora ha par-
lato nel segreto, ma che dovranno gridare dai tetti ciò che hanno udito in segreto (Mt
10, 27), Gesù ha fatto conoscere tutto ciò che ha udito dal Padre (Gv 17, 26) e li ha
inviati al mondo perché portino frutto di vita eterna (Gv 4, 36) e il loro frutto rimanga,
a dimostrazione delle inesauribili e onnipotenti risorse dell’amore che rigenera il
mondo ed è vita senza fine.
Gesù ha veramente «voluto bene» ai suoi: il bene più necessario e più radicale. La
loro comunione nell’amore e nella universale missione di salvezza di Cristo (I lettura)
assicura l’esaudimento di ogni preghiera fatta «nel nome» di Cristo, in unione con lui e
secondo le sue stesse intenzioni. Nel Nuovo Testamento, la preghiera apostolica si
rivolge al Padre associandogli sempre il nome di Cristo e conserva una completa di-
sponibilità verso le esigenze del regno di Dio (Mt 6, 32-33); è intesa alle sorti del
vangelo nelle anime e nel mondo e quasi cristallizzata intorno all’impegno e ai bisogni
della evangelizzazione: «Qualunque cosa chiediamo la riceviamo da Dio perché
osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quel che è gradito a lui» (1 Gv 1, 22).
La fecondità apostolica è inevitabilmente legata alla preghiera che, nella sua
autentica sostanza, è un dialogo d’amore con Dio amato, un colloquio confidente con
Dio conosciuto e che si desidera far conoscere ed amare da tutti. Nei primi giorni della
Chiesa i Dodici, pressati dalle esigenze spicciole della carità, affideranno ad altri i
compiti di assistenza, preferendo dedicarsi alla preghiera e al ministero della parola (At
6, 4).
Come Gesù è sceso al concreto spiegando l’allegoria della vite, così precisa le sue
esigenze d’amore dando ai discepoli il «suo» comandamento, che è nuovo (Gv 13, 34):
amarsi come egli ci ha amati. Questo amore scambievole, che attinge all’ineffabile
ricchezza dell’amore del Padre e alla linfa della vite che è Cristo, risulterà, così,
distintivo dei cristiani (Gv 13, 35), di coloro cioè che hanno conosciuto e creduto
nell’amore del Padre rivelatosi in Cristo (1 Gv 4, 16).
È chiaro che questo amore deve essere testimoniato in mille modi e in tutte le
direzioni: «Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Gesù ha dato la sua vita per noi;
quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. Ma se uno ha ricchezze di questo
mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora
in lui l’amore di Dio?» (1 Gv 3, 16-17); «Chi non ama il proprio fratello che vede, non
può amare Dio che non vede» (ib. 4, 20). Ma non è possibile e non è lecito dimenticare
che anche questo amore è dono e comandamento, imitazione e testimonianza
dell’amore salvifico di Dio, una eco più che una voce propria.
I sentimenti e le opere di fraternità devono rivelare al mondo la comunione nostra
col Padre e col Figlio perché sia vera comunione con gli altri (1 Gv 1, 3.7). In questa
pienezza d’amore il cristiano dimostra la sua credibilità e la sua autenticità e di questo
amore il mondo, diventato più che mai «un’aiuola che ci fa tanto feroci», ha manifesto
e urgente bisogno.
Il nostro mondo ritiene, lucidamente o inconsciamente, di poter fare a meno di Dio,
ma la realtà che è sotto gli occhi di tutti dimostra che i veri problemi dell’umanità,
senza riferimento a Dio, si aggrovigliano e inaspriscono: proteso al benessere
materiale, il mondo sta sempre più diventando un deserto d’amore. Questo mondo il
cristiano deve amare cristianamente, di questo mondo deve essere amico come Cristo è
stato amico con noi nel farci «vedere» Dio. Il credente invaso dall’amore divino non
mette pannicelli caldi sulle piaghe inguaribili dell’umanità, ma le risana con la
medicina di Dio. È così che il Cristo-Vite spande sul mondo i suoi tralci fecondi.
(Garofalo S., Parole di vita, Anno A, LE Vaticana, Vaticano 1981).
Vanhoye
La liturgia di questa domenica ci presenta testi bellissimi che ci parlano dell’amore
e di Dio che è amore. Siamo veramente al vertice della rivelazione del Nuovo
Testamento.
Nell’Ultima Cena Gesù dice ai discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch’io
ho amato voi. Rimanete nel mio amore». Sono parole che ci illuminano e che
infondono una grande gioia nel nostro cuore.
L’amore viene dal Padre, passa attraverso il cuore di Gesù e giunge sino a noi. Non
possiamo pretendere di essere noi la sorgente dell’amore. Questo sarebbe da parte
nostra un’illusione piena di superbia, che contraddirebbe proprio il senso dell’amore.
La vera sorgente dell’amore è Dio.
Nella seconda lettura Giovanni afferma che «Dio è amore». Spesso ci facciamo
un’idea sbagliata di Dio, considerandolo come una potenza più o meno spietata, come
un giudice intransigente, come un tiranno. La Bibbia invece ci rivela che Dio è amore.
Egli è generosità assoluta, benevolenza infinita.
L’amore viene dal Padre celeste e passa attraverso il cuore di Gesù, come ci dice
egli stesso: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi». Nemmeno Gesù
pretende di essere la sorgente dell’amore. Egli è consapevole di ricevere l’amore dal
Padre e di essere soltanto il mediatore di questo amore, colui che ci lo deve
trasmettere.
Gesù ci trasmette questo amore in modo molto attivo. Infatti, in questo stesso brano del
Vangelo ci dice: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri
amici». Questo è quanto egli stesso ha fatto. Nell’Ultima Cena ha ringraziato il Padre,
che metteva nel suo cuore un amore infinito, a cui egli aderiva con tutto il suo essere
umano e divino. Così intendeva offrire la propria vita per le persone amate: non
soltanto per i suoi discepoli, ma anche per tutti gli uomini.
Anche noi, come Gesù e in lui, dobbiamo accogliere con gratitudine l’amore che
viene dal Padre e rimanere in esso, secondo il comando di Gesù: «Rimanete nel mio
amore». Dobbiamo rimanere nell’ amore che Gesù ci trasmette.
Rimanere in questo amore, e non uscirne con l’egoismo, con il peccato e con ogni
comportamento indegno della vocazione cristiana e umana, è un programma di vita
meraviglioso, molto positivo; vuol dire vivere continuamente nell’amore.
Gesù ci fa capire che il nostro amore non dev’essere soltanto un amore affettivo, un
sentimento superficiale, ma un amore effettivo, un amore che si manifesta
nell’osservare i suoi comandamenti. Egli afferma: «Se osserverete i miei
comandamenti, rimarrete nel mio amore». L’amore si deve manifestare nella vita
concreta, nelle azioni; altrimenti è soltanto un amore illusorio. Gesù ci chiede di
osservare i suoi comandamenti, che si riassumono in uno solo: «Amatevi gli uni gli
altri, come io vi ho amati».
Noi siamo amati da Gesù, e abbiamo il dovere di amare come lui ci ama.
Ovviamente questo non lo possiamo fare se non abbiamo in noi il suo stesso cuore. Per
amare come Gesù ci ama, dobbiamo accogliere in noi il suo cuore. L’Eucaristia ha lo
scopo di mettere in noi il cuore di Gesù, in modo che esso sia veramente efficace nella
nostra vita e tutta la nostra vita sia guidata dai suoi sentimenti generosi. Questo è
l’ideale cristiano.
Gesù ci mostra che il suo amore è pieno di delicatezza e di generosità: « Voi siete miei
amici [...]. Non vi chiamo più servi [...], ma vi ho chiamati amici». Per noi è una cosa
straordinaria avere Gesù come amico: lui, il Figlio di Dio; lui, pieno di santità; lui, che
è la perfezione stessa. Noi ne siamo indegni, ma è lui che vuole comunicarci la sua
amicizia.
Gesù poi ci dice che la sua amicizia si manifesta con la confidenza, con la
comunicazione dei pensieri e dei sentimenti di Dio, con la rivelazione divina: «Tutto
ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi». La vita cristiana è una vita di
confidenza con Gesù, e anche questa è una cosa meravigliosa. Ovviamente da parte
nostra dobbiamo essere attenti ad accogliere le rivelazioni di amore che egli ci vuole
fare. Se non preghiamo, se non meditiamo, non possiamo accogliere veramente ciò che
Gesù ci vuole dire nel profondo del cuore.
Vivere in questa intimità con Gesù, sapere ciò che egli vuole che facciamo in ogni
circostanza, vivere nell’amore effettivo, essere guidati da Gesù, tutto questo è una cosa
veramente straordinaria; ma è anche ciò che corrisponde ai desideri più profondi del
nostro cuore e che infonde in noi la gioia più perfetta, secondo le parole di Gesù:
«Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena».
Anche queste parole manifestano l’amore di Gesù per noi. Egli ci ama; perciò vuole
comunicarci la sua gioia, che è la gioia del Figlio di Dio pieno di amore. Gesù vuol
farci vivere in un amore costante, fedele e generoso, corrispondendo così alla nostra
vocazione fondamentale. Infatti, Dio, che è amore, ci ha creati per comunicarci il suo
amore, per farci vivere nel suo amore e per darci la vera gioia, la felicità perfetta, senza
alcun’ombra di peccato e di egoismo.
Per rendere possibile questo, Dio non ha esitato a dare il proprio Figlio. Afferma
Giovanni nella seconda lettura: «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare
Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come strumento di perdono
[questa è la traduzione più esatta del termine greco ilasmos] per i nostri peccati».
Qui Giovanni insiste nel dire che l’iniziativa dell’amore appartiene a Dio, la sorgente
dell’amore è in lui. Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha
tolto il grande ostacolo all’amore che si trova in noi, il peccato. «Dio ha mandato suo
Figlio come strumento di perdono per i nostri peccati», rendendoci così possibile
un’unione di amore con lui.
Nel battesimo Dio ci purifica con il sangue di suo Figlio. Nel sacramento della
riconciliazione Gesù interviene come nostro avvocato, per difenderci e per purificarci
dai peccati commessi dopo il battesimo; ci rende capaci di essere fedeli all’amore che
viene da Dio.
La prima lettura ci mostra che questo amore di Dio è universale. Nell’Antico
Testamento si poteva avere l’impressione che l’amore di Dio fosse limitato al popolo
eletto. In realtà Dio aveva voluto che il privilegio del popolo ebreo non rimanesse
esclusivo, ma fosse esteso a tutte le nazioni. Sin dalla chiamata di Abramo aveva detto:
«In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gn 12,3). Quindi il suo
progetto è un progetto universale, che si realizza per mezzo del mistero pasquale di
Gesù, per mezzo del suo mistero di morte e risurrezione.
È quanto ci viene detto nella prima lettura. Pietro va nella casa di Cornelio, un
pagano che è stato docile a Dio e ha avuto l’ispirazione di far venire l’Apostolo nella
propria casa per accogliere la parola di salvezza. Ispirato anche lui da Dio, Pietro non
esita ad andare nella casa di un pagano per parlare di Gesù. Ha capito che «Dio non fa
preferenza di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo
appartenga, è a lui accetto».
L’amore di Dio è rivolto a tutti gli uomini, non c’è più nessuna limitazione.
L’elezione ormai si estende a tutti gli uomini che credono. Basta aderire a Cristo nella
fede, accogliere l’amore di Dio che ci viene comunicato per mezzo di Cristo, per essere
salvati dai peccati e vivere così nella gioia perfetta della comunione di amore con Dio.
Dobbiamo ringraziare il Signore che ci rende partecipi di questo suo progetto di amore,
ed essere consapevoli di dover progredire continuamente nell’amore. Per corrispondere
alla nostra vocazione cristiana, dobbiamo sviluppare in noi un amore veramente
universale. La Chiesa è cattolica, cioè è aperta e pronta ad accogliere nel suo seno tutte
le nazioni, per metterle in comunione con Dio e in comunione tra loro.
La celebrazione dell’Eucaristia ci introduce in questo progetto di Dio. Perciò
possiamo partecipare ad essa con fiducia e con gratitudine, in unione con tutte le
persone chiamate a vivere con noi nell’amore di Dio.
(Vanhoye A., Le Letture Bibliche delle Domeniche, Anno B, ADP, Roma 2005,
133-136).
Stock
«Rimanete nel mio amore!»
Con le parole: «Io sono la vite, voi siete i tralci», Gesù descrive il rapporto tra lui e
i suoi discepoli. Nella prima parte del suo discorso (15, 1-8) espone quanto i tralci
dipendano dalla vite e come sia loro compito irrinunciabile quello di portare frutti.
Nella seconda parte (15, 9-17), Gesù parla piuttosto di se stesso e indica ciò che egli
stesso fa e ciò che i discepoli devono assumere da lui. Dice dunque ciò che caratterizza
la vita della vite e ciò che a partire da essa deve penetrare e riempire i tralci.
Gesù stesso è amato da Dio Padre (cfr. 3, 35) e ama i suoi discepoli. Egli osserva i
comandamenti di suo Padre, e così rimane nell’amore del Padre. Gesù è pieno di gioia.
Dona la sua vita per i suoi amici, ai quali ha comunicato ciò che ha ascoltato da suo
Padre. Gesù li ha scelti e li ha destinati a portare frutti. Promette loro che il Padre li
esaudirà, quando pregheranno nel suo nome. Li esorta: «Amatevi gli uni gli altri, come
io vi ho amati» (15, 12. 17). Tutto ciò è vivo in Gesù, che è la vite, e deve riversarsi sui
tralci, dev’essere condiviso dai suoi discepoli e riempire la loro vita. L’immagine della
vite e dei tralci mostra quanto stretta e completa sia la comunione di vita tra Gesù e i
suoi discepoli, e sottolinea che egli è la fonte di tale vita; che tale vita non proviene da
loro, ma da lui.
Ma neppure Gesù è l’origine, né è indipendente. Egli ha ricevuto tutto da Dio
Padre. Si sa amato dal Padre e rimane nell’amore del Padre. L’amore che egli ha
appreso dal Padre, lo trasmette ai suoi discepoli; nel suo amore essi sono raggiunti
dall’amore del Padre. Gesù osserva i comandamenti che il Padre gli ha dato. Anche se
egli non lo dice esplicitamente, è evidente che il Padre gli ha affidato come primo
compito l’amore per noi uomini. Gesù condivide con i suoi discepoli anche tutto ciò
che ha ascoltato dal Padre. Il suo amore, la sua obbedienza, la sua rivelazione, tutto
proviene dal Padre. Si potrebbe dire: Come Gesù è la vite per i discepoli, così il Padre
lo è per Gesù. Il Padre è la fonte di ogni vita, di ogni amore, di ogni conoscenza e di
ogni gioia.
Gesù dice molto chiaramente che cosa i tralci devono assumere dalla vite, che cosa
è essenziale per la comunione di vita tra lui e i suoi discepoli. Egli richiede da loro:
«Rimanete nel mio amore!» (15, 9). Questa esortazione può essere interpretata in due
modi. I discepoli non devono trascurare sbadatamente l’amore con cui Gesù li ama,
bensì essere consapevoli, con meraviglia e gratitudine, del suo amore. L’amore di Gesù
per noi uomini non viene mai meno, ma spesso noi non crediamo e non facciamo
attenzione a quanto egli ci ami. Quanto più noi siamo consapevoli dell’amore di Gesù,
tanto più siamo pronti a osservare il suo comandamento: «Amatevi gli uni gli altri,
come io vi ho amati» (15, 12). In questo comandamento i discepoli sono rinviati
espressamente all’amore che hanno appreso da Gesù, e questo viene dato loro come
esempio e come criterio di misura.
L’amore con cui Gesù ama i discepoli e che essi devono capire sempre più, si
manifesta in molti modi: nel fatto che Gesù dà la sua vita per loro; nel fatto che li
chiama amici; nel fatto che condivide con loro tutto quello che ha ascoltato dal Padre;
nel fatto che li ha scelti. In tutto ciò che Gesù fa, si esprime un amore smisurato, con
cui egli si offre ai suoi discepoli. Essi non devono trascurare con indifferenza le
dimostrazioni dell’amore di Gesù, ma riconoscere in loro il suo grande amore.
Gesù ha scelto i discepoli (cfr. 6,70; 13,18). Essi possono essergli vicini durante
l’intera sua attività, e proprio anche nell’ultima sera. Possono conoscerlo a partire dalla
vicinanza più stretta. Gesù li chiama suoi amici, ossia coloro che egli ama. Quando a
Gesù viene raccomandato Lazzaro con queste parole: «Signore, quello che tu ami è
malato» (11, 3), egli dice: «Lazzaro, nostro amico, dorme» (11, 11). Gesù chiama
anche Lazzaro suo amico. L’amicizia si dimostra nel fatto che Gesù non tiene nascosto
niente ai discepoli, ma comunica loro tutto quello che conosce e che ha appreso da Dio
Padre. Il nucleo più intimo della conoscenza di Gesù consiste nel fatto che egli conosce
Dio come suo Padre. Gesù ha rivelato ai discepoli il Padre e li ha condotti a credere
che egli stesso è il Figlio di Dio ed è stato mandato dal Padre. Gesù stesso non può
comunicare ai discepoli niente di più profondo e di più importante. Il suo amore e la
sua amicizia si mostrano maggiormente nel fatto che egli offre la propria vita per loro.
Già prima Gesù aveva affermato: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio
unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (3, 16).
Offrendo la propria vita, Gesù mostra l’amore per i suoi amici, ma anche l’obbedienza
nei confronti del comandamento del Padre. E in tutto quello che fa si manifesta
l’amore di Dio per noi uomini. Così Gesù c’insegna anche la via verso la gioia. Quanto
più capiamo quanto grande è il suo amore per noi e quanto siamo debitori ad esso,
tanto più grande e costante sarà la nostra gioia.
Gesù menziona l’altro modo di rimanere nel suo amore, quando esorta i discepoli:
«Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati» (15, 12). Ciascuno dei discepoli è
amato da Gesù e ne ha appreso l’amore. Essi devono fare di questo amore la misura del
loro amore, e devono lasciarsi guidare e determinare da esso. Come Gesù si dedica a
loro e li tratta, così essi devono comportarsi gli uni verso gli altri. Finora valeva il
principio: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19, 18). Questo comandamento
non viene annullato da Gesù, ma chiarito. Prima che l’amore di Dio si manifestasse in
Gesù, questa forma di amore non era conosciuta. Per i discepoli di Gesù, che hanno
appreso il suo amore, essa dev’essere il criterio del loro comportamento.
La stessa corrente di vita passa dalla vite ai tralci. Gesù è pieno dell’amore che ha
ricevuto dal Padre. Egli lo trasmette ai suoi discepoli. E il suo amore deve riempire e
animare i discepoli, determinandone il comportamento.
Domande
1. Gesù è la vite. Che cosa caratterizza la sua vita?
2. Come si esprime l’amore di Gesù per i discepoli?
3. I discepoli sono i tralci e devono rimanere nell’amore di Gesù. Che cosa devono
fare? Come sono collegate tra loro le varie forme del loro agire?
(Stock K., La Liturgia de la Parola. Spiegazione dei Vangeli domenicali e festivi,
Anno B, ADP, Roma 2002, 161-164).
Benedetto XVI
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici
Come il Padre mi ha amato, così io ho amato voi; rimanete nel mio amore (Gv 15,
9). Sì ... Dio ci ama. Questa è la grande verità della nostra vita, e che dà senso a tutto il
resto. Non siamo frutto del caso o dell’irrazionalità, ma all'origine della nostra
esistenza c'è un progetto d'amore di Dio.
Rimanere nel suo amore significa quindi vivere radicati nella fede, perché la fede
non è la semplice accettazione di alcune verità astratte, bensì una relazione intima con
Cristo che ci porta ad aprire il nostro cuore a questo mistero di amore e a vivere come
persone che si riconoscono amate da Dio.
Se rimarrete nell'amore di Cristo, radicati nella fede, incontrerete, anche in mezzo a
contrarietà e sofferenze, la fonte della gioia e dell'allegria. La fede non si oppone ai
vostri ideali più alti, al contrario, li eleva e li perfeziona ... Non conformatevi con
qualcosa che sia meno della Verità e dell'Amore, non conformatevi con qualcuno che
sia meno di Cristo.
Precisamente oggi, in cui la cultura relativista dominante rinuncia alla ricerca della
verità e disprezza la ricerca della verità, che è l'aspirazione più alta dello spirito umano,
dobbiamo proporre con coraggio e umiltà il valore universale di Cristo, come salvatore
di tutti gli uomini e fonte di speranza per la nostra vita. Egli, che prese su di sé le
nostre afflizioni, conosce bene il mistero del dolore umano e mostra la sua presenza
piena di amore in tutti coloro che soffrono. E questi, a loro volta, uniti alla passione di
Cristo, partecipano molto da vicino alla sua opera di redenzione. Inoltre, la nostra
attenzione disinteressata agli ammalati e ai bisognosi sarà sempre una testimonianza
umile e silenziosa del volto compassionevole di Dio.
(Veglia di preghiera con i giovani a Madrid, 20 agosto 2011).
2. Ama e fa’ ciò che vuoi. "In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi, che
egli ha mandato in questo mondo il suo Figlio Unigenito, affinché potessimo vivere
per mezzo suo" (1Gv 4,9). Il Signore stesso ha detto: "Nessuno può avere maggior
amore di chi dà la sua vita per i suoi amici", e l’amore di Cristo verso di noi si
dimostra nel fatto che egli è morto per noi. Quale è invece la prova dell’amore del
Padre verso di noi? Che egli ha mandato il suo unico Figlio a morire per noi. Così
afferma l’apostolo Paolo: "Egli che non risparmiò il suo proprio Figlio, ma lo diede
per noi tutti come non ci ha dato insieme con lui tutti i doni? (Rm 8,32). Ecco, il Padre
consegnò Cristo e anche Giuda lo consegnò; forse che il fatto non appare simile?
Giuda è traditore - dunque anche il Padre è traditore? Non sia mai, tu dici. Non lo dico
io ma l’Apostolo: "Lui che non risparmiò il proprio Figlio, ma lo diede per tutti noi".
Il Padre lo diede e Cristo stesso si diede. L’Apostolo infatti dice: "Colui che mi amò e
diede se stesso per me" (Gal 2,20). Se il Padre diede il Figlio ed il Figlio se stesso,
Giuda che cosa fece? Una consegna è stata fatta dal Padre, una dal Figlio, una da
Giuda: si tratta di una identica cosa: ma come si distinguono il Padre che dà il Figlio, e
il Figlio che dà se stesso e Giuda il discepolo che dà il suo maestro? Il Padre ed il
Figlio fecero ciò nella carità; compì la stessa azione anche Giuda, ma nel tradimento.
Vedete che non bisogna considerare che cosa fa l’uomo ma con quale animo e con
quale volontà lo faccia. Troviamo Dio Padre nella stessa azione in cui troviamo anche
Giuda: benediciamo il Padre, detestiamo Giuda. Perché benediciamo il Padre e
detestiamo Giuda? Benediciamo la carità, detestiamo l’iniquità. Quanto vantaggio
infatti venne al genere umano dal fatto che Cristo fu tradito? Forse che Giuda ebbe in
mente questo vantaggio nel tradire? Dio ebbe in mente la nostra salvezza per la quale
siamo stati redenti; Giuda ebbe in mente il prezzo che prese per vendere il Signore. Il
Figlio ebbe in mente il prezzo che diede per noi, Giuda pensò al prezzo che ricevette
per venderlo. Una diversa intenzione dunque, rese i fatti diversi. Se misuriamo questo
identico fatto dalle diverse intenzioni, una di esse deve essere amata, l’altra
condannata; una deve essere glorificata, l’altra detestata. Tanto vale la carità! Vedete
che essa sola soppesa e distingue i fatti degli uomini.
Dicemmo questo in riferimento a fatti simili. In riferimento a fatti diversi troviamo
un uomo che infierisce per motivo di carità ed uno gentile per motivo di iniquità. Un
padre percuote il figlio e un mercante di schiavi invece tratta con riguardo. Se ti metti
davanti queste due cose, le percosse e le carezze, chi non preferisce le carezze e fugge
le percosse? Se poni mente alle persone, la carità colpisce, l’iniquità blandisce.
Considerate bene quanto qui insegniamo, che cioè i fatti degli uomini non si
differenziano se non partendo dalla radice della carità. Molte cose infatti possono
avvenire che hanno una apparenza buona ma non procedono dalla radice della carità:
anche le spine hanno i fiori; alcune cose sembrano aspre e dure; ma si fanno, per
instaurare una disciplina, sotto il comando della carità. Una volta per tutte dunque ti
viene imposto un breve precetto: ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per
amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia
che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice
non può procedere se non il bene.
(Agostino, In Ioan. Ep. Tract., 7, 7-8).
3. Cristo non vuole chiamarci servi ma amici. Dal momento che tutti i precetti
naturali sono comuni a noi e ad essi (Giudei), avendo avuto origine presso di loro,
mentre presso di noi hanno trovato crescita e compimento - obbedire a Dio, infatti,
seguire il suo Verbo, amarlo sopra ogni cosa e amare il prossimo come sé stessi (e
l’uomo è il prossimo dell’uomo), astenersi da azioni malvagie, e così via, tutto ciò è
comune agli uni e agli altri -, manifestano un solo e medesimo Signore. E questi, altri
non è che nostro Signore, il Verbo di Dio, il quale dapprima attrasse a Dio dei servi,
poi li liberò dal giogo della soggezione, secondo quanto egli stesso dichiara ai
discepoli: "Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo
padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto
conoscere a voi" (Gv 15,15). Quando, infatti, dice: "Non vi chiamo più servi", vuole
significare con assoluta certezza che è lui che, con la Legge, ha dapprima imposto agli
uomini la servitù nei riguardi di Dio, e che in seguito ha ridato loro la libertà.
Dicendo, poi: "Perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, egli sottolinea
l’ignoranza del popolo servile relativamente alla sua venuta.
Infine, chiamando amici di Dio i suoi discepoli, dimostra apertamente che egli è il
Verbo, seguendo il quale, volontariamente e senza costrizioni, Abramo è divenuto, per
la generosità della fede, "amico di Dio" (Gc 2,23).
(Ireneo di Lione, Adv. haer., IV, 13, 4).
Briciole
3. Il mandato nuovo
Gesù nell’ultima cena, intende sancire la Nuova Alleanza. Proprio nella memoria -
ricordo della prima Pasqua, nella quale era stata sancita la prima alleanza. Lo statuto
fondamentale della nuova sarà il comandamento dell’amore, quale compendio e
superamento della legge mosaica in un unico precetto. E proprio questo sarà il segno
distintivo della sua comunità. Insegna pure ai discepoli il modo idoneo di seguire Gesù
(dove vado io voi non potete venire... v.33). La sequela di Cristo non è una imitazione
esteriore, bensì acquisizione del medesimo stile di vita, di amare, di donarsi...
La qualità di nuovo bisogna qualche chiarimento. Nella legge antica c’era pure il
mandato dell’amore del prossimo. Lev 19,18: amerai il tuo prossimo come te stesso. E
vediamo nella vita di Gesù, quando quel giurisperito gli domanda quale è il primo
comandamento, il Signore risponde subito: amerai il Signore Dio tuo, e
immediatamente: il prossimo come te stesso.
a) Nuovo per l’effetto di novità che produce. Col 3, 9: Vi siete infatti spogliati
dell’uomo vecchio con le sue azioni, e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una
piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. E questa novità è prodotta dalla
carità, alla quale Cristo esorta.
b) Nuovo pure per la causa che produce questo cambiamento che è un nuovo
spirito. Lo spirito è duplice, uno vecchio e l’altro nuovo. Vecchio è lo Spirito di
schiavitù; nuovo è lo spirito dell’amore. Rom 8,15: non avete ricevuto uno spirito da
schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per
mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre! Ed è proprio questo Spirito che infiamma i
cuori con la carità, Rom 5, 5: l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per
mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
c) Lo Spirito che infonde la carità sigilla la Nuova Alleanza. C’è quindi una breve
differenza fra la Antica e la Nova: timore ed amore. Ger 31,31: Io concluderò una
nuova alleanza... porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora
sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. C’era pure presente l’amore nel AT, pero in
quanto tale apparteneva al Nuovo, era come una preparazione alla nuova legge.
Come Io vi ho amato. La espressione usata da Gesù come (= kathos) ha un duplice
senso:
- come un confronto con l’amore che Gesù ha avuto per i discepoli, fino al dono
della propria vita;
- come il fondamento scaturisce e poggia tale amore, che si esprime nel servizio dei
fratelli con la disposizione a sacrificare anche la vita, imitando il suo esempio.
Gesù quindi, diventa il modello e fondamento, dell’autentico amore cristiano.
Guardando l’amore di Cristo si scoprono 3 caratteristiche:
a) Gratuito, perché è Lui ad iniziarlo, senza aspettare che fossimo noi a cominciare
ad amare. 1Gv 4,10: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha
mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
È in questo modo che noi dobbiamo amare i nostri prossimi, non aspettare ad essere
amati, o beneficati da qualcuno...
b) Efficacemente, e questo risplende nelle opere. La prova dell’amore è la
dimostrazione delle opere. E ciò che di meglio può fare un amico per altro è dare se
stesso per lui. Così fece Cristo per noi, Ef 5,2: camminate nella carità, nel modo che
anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi se stesso a Dio in
sacrificio per noi; per la Chiesa: Cristo ha amato la Chiesa e dato se stesso per lei
(5,25); per me: Gal 2,20: vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato
se stesso per me. Perciò più avanti nell’ultima cena dirà: nessuno ha un amore più
grande che dare la vita per i propri amici (Gv 15,13).
Così noi dobbiamo amarci efficacemente, con le opere. 1Gv 3,18: figlioli, non
amate a parole ne con la lingua, ma coi fatti e nella verità.
c) In modo retto, perché ogni amicizia si deve fondare su qualche comunicazione
(la somiglianza è causa dell’amore). Cristo ci ha amato, in quanto voleva che
diventassimo simili a Lui per la grazia di adozione, attraendoci verso Dio.
Perciò nell’amore del prossimo dobbiamo cercare non tanto di guardare i benefici, o
il diletto, il piacere che proviene di quella amicizia, bensì dobbiamo cercare ciò che di
Dio, nel prossimo. E in tale amore del prossimo viene incluso l’amore per Dio.
“Nota” del discepolo. Tale amore costituirà la caratteristica essenziale della
comunità cristiana. Sebbene gli apostoli, hanno ricevuto dal Signore, la vita,
l’intelligenza, la salute del corpo... e pure i beni spirituali: la grazia, la capacità di
compiere miracoli... una sapienza capace di fare fronte ai re e ai grandi della terra (cfr.
Lc 21,15), tutte queste non sono segni di essere discepolo del Signore.
I soldati portano i segni del re al quale servono. Il segno per il quali si può
riconoscere un discepolo di Cristo è la carità. La moltitudine di coloro che erano
venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola... ogni cosa era fra loro comune
(At 4,32). Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione
fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (At 2,42).
Osserverete i miei comandamenti. “Gli autori fondamentali della Cristianità sono
d’accordo su questo punto. San Pietro dice: "Soprattutto usatevi reciprocamente una
fervida carità” (1Pt 1, 22); anche Giovanni va oltre: "Dio è Carità" (1Gv 4,7-8).
Ricordate un’altra profonda osservazione di San Paolo: "l’amore è l’adempimento
della legge” (Rom 13,8; cf. Gal 5,14). Avete pensato mai che cosa intendeva dire con
questo? Per gli uomini di quel tempo, la strada che portava al Paradiso consisteva
nell’osservare i Dieci Comandamenti e gli altri cento e più comandamenti derivati, che
essi si erano fabbricati. Gesù Cristo disse: "Io vi insegnerò una via più semplice. Vi
basterà fare una cosa sola e farete questo cento e più altre cose senza bisogno di
pensarci. Amando adempirete interamente la legge senza accorgervene. Potete subito
rendervi conto da voi stessi che non può essere diversamente.
Prendete uno qualunque dei comandamenti: "Non avrai altro Dio al mio cospetto"
(Ex 20,3). Se un uomo ama Dio non occorre dirgli una cosa del genere. L’amore è
l’adempimento di quella legge.
"Non nominare il nome di Dio invano" (Ex 20,7). Chi, amando Dio, sognerebbe di
nominarlo invano?
“Ricordati del giorno di festa per santificarlo" (Ex 20,8). Non sarebbe egli ben
felice di avere un giorno su sette da dedicare più esclusivamente all’oggetto del suo
amore? L’amore empirebbe tutte queste leggi che riguardano Dio.
Allo stesso modo non sogneresti mai di dire a chi amasse il suo prossimo di onorare
suo padre e sua madre (cf. Ex 20,12). Non potrebbe farne a meno.
Sarebbe assurdo dirgli di non uccidere (cf. Ex 20,13). Sarebbe un insulto
suggerirgli di non rubare (cf. Ex 20,15). Come si può derubare colui che si ama?
Superfluo pregarlo di non dir falsa testimonianza contro il vicino (cf. Ex 20,16). Se
lo ama è l’ultima cosa che farebbe.
E non vi verrebbe in mente di scongiurarlo di non desiderare i beni; stanno meglio
in mano loro che nella sua (cf. Ex 20,17).
Pertanto: "l’Amore è l’adempimento della legge" (Rom 13,8). È la regola per
mettere in pratica tutte le regole, il nuovo comandamento per osservare tutti i vecchi
comandamenti, il segreto della vita cristiana svelato da Cristo”.
(Drumond, La cosa più grande del mondo).
Tommaso d’Aquino
c) Dare la vita per gli amici... “Cristo diede la sua vita per noi non in quanto
nemici, ossia perché restassimo nemici, ma per renderci suoi amici; oppure, sebbene
allora gli uomini non fossero amici in quanto amavano, erano però amici in quanto
erano amati. Ora è evidente che è segno dell’amore più grande dare la vita per gli
amici, perché nell’ordine delle cose da amarsi quattro sono gli oggetti che si
presentano: Dio, l’anima nostra, il prossimo e il nostro corpo. Dio lo dobbiamo amare
più di noi stessi, cosicché per lui dobbiamo sacrificare noi stessi, anima e corpo, e
anche il prossimo. Per l’anima nostra poi dobbiamo all’occorrenza sacrificare il corpo,
ma non l’anima. Per la salvezza spirituale del prossimo dobbiamo invece esporre la
vita corporale e il corpo: perciò, siccome la vita corporale dopo l’anima è il bene più
grande che noi abbiamo, esporla per il prossimo è la cosa più grande che possiamo fare
per lui, ed è il segno dell’amore più grande. «In questo si manifestata la carità di Dio
verso di noi, che Dio mandò il suo Figlio Unigenito nel mondo, affinché per lui
abbiamo vita» (1Gv 4, 9).” (Aquino, In Gv c. 15, lz. 2, n. 2009).
Gv 15, 12-16: Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come
io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri
amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi,
perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché
tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma
io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto
rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome ve lo conceda.
TEOFILATTO: Poiché aveva predetto che, se avessero osservato i suoi
comandamenti, sarebbero rimasti in lui, qui mostra quali sono i comandamenti che
bisogna osserva re dicendo: Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli
altri. GREGORIO: Ma essendo tutte le parole della Scrittura piene di comandi, perché
qui parla dell’amore come di un precetto speciale, se non perché tutti i comandi si
concentrano nell’amore, e tutti i comandi si riducono a uno solo? Infatti tutto ciò che
viene comandato sì riunisce nella carità. E come molti rami di un albero provengono
da una sola radice, così molte virtù sono generate unicamente dalla carità; né alcun
ramo delle opere buone verdeggia se non rimane unito alla radice della carità.
AGOSTINO: Quindi, dove c’è la carità, quale altra cosa può mancare? E dove manca la
carità, che altro può essere vantaggioso? Ma questo amore si distingue da quello con
cui gli uomini si amano in quanto uomini; per cui aggiunge: come io vi ho amati.
Perché, infatti, Cristo ci ha amati se non perché potessimo regnare con lui? Così
amiamoci reciprocamente per distinguere il nostro amore da quello degli altri, i quali
non si amano reciprocamente perché Dio sia amato, perché di fatto non amano
veramente. Ora, solo quanti si amano per possedere Dio, si amano veramente.
GREGORIO: La dimostrazione più grande della carità è una sola: se si ama il proprio
nemico; infatti la Verità stessa subì il patibolo della croce e tuttavia mostrò l’affetto
dell’amore per i suoi persecutori, dicendo (Le 23,34): «Padre, perdona loro, perché non
sanno quello che fanno». Ed esprime il massimo dell’amore quando soggiunge:
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Il Signore
era venuto per morire per i suoi nemici; e tuttavia diceva di essere venuto per dare la
sua vita per gli amici al fine di mostrarci che, mentre con l’amore possiamo
guadagnarci i nemici, anche quanti ci perseguitano sono nostri amici.
AGOSTINO: Poiché in precedenza aveva detto (v. 12): «Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati», ne deriva la
conseguenza che lo stesso Giovanni esprime (1 Ep. 3,16): «Poiché egli ha dato la sua
vita per noi, così noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli». I martiri hanno fatto
questo con amore ardente. Perciò, ricordandoli alla mensa del Signore, non preghiamo
per loro come facciamo per gli altri, ma piuttosto preghiamo perché possiamo seguire
le loro orme. Infatti essi mostrarono ai loro fratelli le stesse cose che ricevettero alla
mensa del Signore. GREGORIO: Chi invero nel tempo sereno non dà la sua tunica per
Dio, in che modo durante la persecuzione darà la sua vita? Quindi, per essere vittoriosa
nella tribolazione, la virtù dell’amore si nutra con le opere di misericordia nel tempo
tranquillo. AGOSTINO: Con la stessa e unica carità amiamo Dio e il prossimo; ma Dio
per Dio, noi stessi e il prossimo per Dio. Ma poiché i precetti della carità sono due, dai
quali dipendono tutta la Legge e i Profeti, l’amore di Dio e del prossimo, non a torto la
Scrittura pone per entrambi uno solo; poiché chi ama Dio è logico che faccia quello
che ordina Dio; è quindi logico che ami il prossimo, perché Dio ordina anche questo;
onde prosegue: Voi siete miei amici se farete ciò che io vi comando. GREGORIO:
L’amico è come se fosse il custode dell’anima. Perciò chi custodisce la volontà di Dio
nei suoi comandamenti è giustamente chiamato suo amico. AGOSTINO: Grande
accondiscendenza! Sebbene un servo non possa dirsi buono se non osserva i
comandamenti del suo padrone, tuttavia, se si comporta così, viene incluso tra gli
amici. Pertanto il servo buono può essere sia servo che amico. In che modo poi un
servo buono debba essere inteso sia come servo che come amico lo spiega quando
dice: Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone. Così
non saremo più servi nel momento in cui saremo servi buoni. Infatti, forse che il
padrone non affida al servo buono e provato anche i suoi segreti? Ma come ci sono due
specie di timore, così ci sono due specie di servitù. C’è un timore che viene estromesso
dalla carità perfetta, il quale viene anch’esso estromesso assieme alla servitù; e c’è
anche un timore casto che resterà per sempre. Il Signore si riferisce alla prima servitù
quando dice: Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo
padrone. Certo non si riferisce al servo che è dotato del timore casto, di cui si dice ( Mt
25, 21): «Bene, servo buono e fedele, entra nella gioia del tuo signore»; ma a quel
servo che possiede un timore che dev’essere estromesso dalla carità, del quale altrove
si dice (8, 35): «Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio invece vi resta
per sempre». Così ci ha dato il potere di diventare figli di Dio, in modo tale che,
mirabilmente, da servi possiamo non esserlo più, e noi sappiamo che il Signore può
fare questo. Invece quel servo che ignora ciò che può fare il suo padrone non conosce
questo, e quando fa qualcosa di buono si esalta come l’avesse fatto lui stesso e non il
suo padrone, e si gloria in se stesso, non nel suo padrone.
Poi continua: Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre, l’ho
fatto conoscere a voi. TEOFILATTO: Come se dicesse: il servo non conosce i pensieri
del suo padrone, mentre voi, che io considero miei amici, siete stati messi a parte dei
miei segreti. AGOSTINO: Ma in che modo si deve intendere che egli fece conoscere ai
suoi discepoli tutto ciò che aveva udito dal Padre, quando non ha detto loro molte cose
perché sapeva che per il momento non riuscivano a tollerarle? In realtà dice che ha
reso note ai discepoli tutte le cose, perché sa che le farà loro conoscere in quella
pienezza di cui parla l’Apostolo (1Cor 13,12): «Allora conoscerò per intero, come
anch’io sono stato conosciuto». Infatti, come aspettiamo la morte della carne e la
futura salvezza delle anime, cosi dobbiamo aspettare la conoscenza futura di tutte le
cose che l’Unigenito ha udito dal Padre. GREGORIO: Oppure, tutte le cose che ha udito
dal Padre, e che voleva che fossero fatte conoscere ai suoi servi, sono: la gioia del
l’amore spirituale, la festa della patria suprema, che imprime quotidianamente alle
nostre menti con l’ispirazione del suo amore. Infatti mentre amiamo le cose superne
che abbiamo udito, conosciamo già le cose amate, poiché lo stesso amore è una
conoscenza. Aveva quindi fatto loro conoscere tutte le cose, poiché, liberati dai
desideri terreni, ardevano del fuoco del sommo amore. CRISOSTOMO: Oppure ha detto
loro tutto ciò che era necessario che essi udissero. Per il fatto poi che dice di avere
udito, afferma che dice solo quello che ha udito dal Padre. GREGORIO: Ma chiunque
raggiunge la dignità di essere chiamato amico di Dio, i doni che riceve in se stesso non
li attribuisca ai propri meriti; perciò soggiunge: Non voi avete scelto me, ma io ho
scelto voi. AGOSTINO: Questa è una grazia ineffabile: infatti, che cosa eravamo prima
che Cristo ci scegliesse se non cattivi e perduti? Infatti noi non abbiamo creduto in lui
per meritare di essere scelti da Lui: perché se ci avesse scelti già credenti, ci avrebbe
scelti come coloro che scelgono. Questo testo confuta la vana opinione di quanti
affermano che siamo stati scelti prima della creazione del mondo perché Dio
prevedeva che saremmo stati buoni, e non che egli stesso ci avrebbe resi buoni. Infatti,
se ci avesse scelti perché aveva previsto che saremmo stati buoni, avrebbe anche
previsto che noi lo avremmo scelto, perché senza sceglierlo non possiamo essere
buoni; a meno che possa essere chiamato buono uno che non sceglie il bene. Quindi
che cosa ha scelto in chi non era buono? Non puoi dire: sono stato scelto perché già
credevo, perché se credevi in lui, lo avevi già scelto. E neppure puoi dire: prima di
credere compivo già opere buone, e perciò sono stato scelto. Infatti, prima della fede,
in che modo ci possono essere le opere buone? Perciò non potevamo essere detti che
cattivi, e fummo scelti cosicché, per la grazia di essere scelti, potessimo diventare
buoni. AGOSTINO: Siamo stati scelti prima della creazione del mondo con quella
predestinazione in cui Dio ha previsto le cose che avrebbe compiuto in futuro. Sono
stati scelti da questo mondo con quella chiamata con cui Dio adempie ciò che ha
predestinato: «Quelli che ha predestinati, li ha anche chiamati» (Rm 8,30). AGOSTINO:
E guardate come egli non scelga i buoni, ma renda buoni quelli che sceglie. Infatti
continua: E vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto. Questo è il frutto di cui
aveva già detto (v. 5): «Senza di me non potete far nulla». Egli è la via su cui ci ha
posto perché camminiamo. GREGORIO: Vi ho costituiti, ossia vi ho piantati nella grazia,
perché andiate volendo, perché volere è già camminare con la mente, e portiate frutto
operando. Quale frutto poi debbano produrre lo indica quando dice: e il vostro frutto
rimanga. Infatti tutto ciò che produciamo secondo il mondo presente basta a stento fino
alla morte: poiché la morte, quando sopravviene, tronca il frutto di tutte le nostre
fatiche. Quanto invece si opera per la vita eterna si conserva anche dopo la morte, e
comincia ad apparire quando i frutti delle fatiche carnali cominciano a sparire. Pertanto
produciamo frutti che rimangano, tali cioè che, mentre la morte distrugge ogni cosa,
abbiano inizio dopo la morte. AGOSTINO: Perciò il nostro frutto è l’amore, il quale ora
si trova più nel desiderio che nella sazietà. E ogni desiderio che manifestiamo nel
nome del Figlio unigenito, il nostro Padre lo soddisferà; perciò continua: Perché tutto
quello che chiederete al Padre nel mio nome ve lo conceda. Chiediamo nel nome del
Salvatore tutto ciò che riguarda la nostra salvezza.
Gv 15, 17-21: Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri. Se il mondo vi odia,
sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò
che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo
il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detto: un servo non è più grande
del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi: se hanno
osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo vi faranno a
causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato.
AGOSTINO: Il Signore aveva detto (v. 16): «Vi ho costituiti perché andiate e
pomate frutto»: ora, il nostro frutto è la carità· così comandando a noi riguardo a
questo frutto, dice: Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri. Perciò anche
l’Apostolo dice (Gal 5,22): «Il frutto dello Spirito è la carità», e poi intreccia ogni altra
cosa come sorta e legata da questo capo. Cosi giustamente esalta l’amore come l’unica
cosa da raccomandare, senza il quale gli altri beni non possono essere di alcun
giovamento; e che non si può avere senza gli altri beni. mediante i quali l’uomo
diviene buono. CRISOSTOMO: Oppure continua in modo diverso. Poiché ho detto che
dono la mia vita per voi e che per prima vi ho scelto, ora vi ho detto tutte queste cose
non per rimproverarvi, ma per indurvi all’amore: amatevi gli uni gli altri. Ma poiché
stavano per affrontare molte persecuzioni e ricevere numerosi rimproveri, mostra
conseguentemente che non dovevano affliggersi, ma piuttosto rallegrarsi; perciò
prosegue: Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Come se
dicesse: so che questa è una cosa dura, ma vi chiedo di soffrire per causa mia.
AGOSTINO: Per quale motivo infatti le membra dovrebbero esaltarsi al di sopra del loro
capo? Ti rifiuti di stare nel corpo, se non vuoi sostenere insieme al tuo capo l’odio del
mondo. Invece, per amore del capo, dobbiamo sopportare pazientemente anche l’odio
del mondo per forza il mondo ci odia, perché vede che non vogliamo ciò che esso ama.
Onde prosegue: Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo. CRISOSTOMO: E,
come se le sofferenze del Cristo non bastassero a consolarli, li consola ulteriormente
dicendo loro che l’odio del mondo era una prova della loro bontà; sicché essi
avrebbero dovuto rattristarsi se fossero stati amati dal mondo, perché questa sarebbe
stata una prova della loro malizia. AGOSTINO: Ma dice questo anche della Chiesa
cattolica, che spesso egli chiama con il nome di mondo, come nel testo di 2 Cor 5,19:
«È stato infatti Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo». Quindi il mondo intero è la
Chiesa, e tutto il mondo odia la Chiesa. Perciò il mondo odia il mondo, quello nemico
quello riconciliato, quello inquinato quello purificato. Ma ci si potrebbe chiedere: se
anche i cattivi perseguitano i cattivi, come i re e i giudici malvagi, che pur
perseguitando i giusti, tuttavia allo stesso tempo puniscono anche gli omicidi e gli
adulteri, in che modo si deve intendere ciò che il Signore dice: Se foste del mondo, il
mondo amerebbe ciò che è suo, se non in quanto il mondo si trova in coloro dai quali
questi crimini sono puniti, e anche in coloro che li amano? Il mondo odia i suoi in
quanto punisce i malvagi; ama i suoi in quanto li favorisce. Inoltre, se ci si chiede in
che modo il mondo ama se stesso quando odia gli strumenti della redenzione, la
risposta è che ama non con amore vero, ma falso; poiché ama ciò che gli è dannoso;
odia la natura, ama il vizio. Per questo motivo ci viene proibito di amare ciò che esso
ama, mentre ci viene comandato di amare ciò che odia in se stesso. Indubbiamente ci
viene proibito di amare in esso il vizio, mentre ci viene ordinato di amare la natura.
Ora, perché non appartengano a questo mondo dannato, vengono scelti non per i loro
meriti, poiché non possedevano alcun merito, né per la natura, che era corrotta nella
sua radice, ma solo per grazia. Perciò continua: Poiché invece non siete del mondo, ma
io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. GREGORIO: Infatti il disprezzo
dei perversi costituisce l’approvazione della nostra vita; poiché mostra che possediamo
già qualche elemento della giustizia, se incominciamo a dispiacere a coloro che non
piacciono a Dio; infatti nessuno può, in una medesima cosa, essere gradito a Dio
onnipotente e ai suoi nemici; nega infatti di essere amico di Dio chi piace ai suoi
nemici; e l’anima che è sottomessa alla verità deve combattere contro i nemici della
verità.
AGOSTINO: Nostro Signore, esortando i suoi servi a sopportare pazientemente
l’odio del mondo, presenta loro un esempio di cui non poteva esserci nulla di maggiore
o di migliore, vale a dire se stesso; perciò prosegue: Ricordatevi della parola che vi ho
detto: un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me,
perseguiteranno anche voi. Se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la
vostra. GLOSSA: Hanno osservato per calunniare, come si legge nel Sal 36,12: «Il
peccatore osserverà il giusto». TEOFILATTO: Oppure diversamente: se hanno
perseguitato il padrone, a maggior ragione perseguiteranno voi servi; mentre, se non
avessero perseguitato il padrone ma avessero osservato la sua parola, osserverebbero
anche la vostra. CRISOSTOMO: Come se dicesse: non dovete essere turbati a causa della
partecipazione alle mie sofferenze, perché non siete migliori di me. AGOSTINO: Qui,
dove si dice: Un servo non è più grande del suo padrone, indica il servo che possiede il
sacro timore, che rimane per sempre. CRISOSTOMO: Quindi propone un’altra
mitigazione; poiché anche il Padre ha patito assieme a loro delle ingiurie; perciò
soggiunge: Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome. AGOSTINO: Quali cose se
non quelle che aveva detto: cioè che il mondo li avrebbe odiati, li avrebbe perseguitati
e avrebbe disprezzato la loro parola? Ora, che altro è dire: a causa del mio nome, se
non che in voi odieranno me stesso, in voi perseguiteranno me stesso e non
osserveranno la vostra parola perché è la mia? Pertanto, quanto più sono miseri coloro
che a causa del mio nome fanno queste cose, tanto più saranno beati coloro che per il
mio nome le sopporteranno. E nel caso che facciano queste cose ai cattivi, allora sono
entrambi miserabili, sia quelli che le compiono sia quelli che le subiscono. Ma in che
modo è vera l’espressione: Tutto questo vi faranno a causa del mio nome, quando non
lo fanno per il nome di Cristo, ossia per la giustizia, ma per l’iniquità? La questione
viene risolta nel modo seguente: tutto viene riferito ai giusti, come se si dicesse:
subirete da loro queste cose a causa del mio nome. Ma se a causa del mio nome viene
preso nel modo seguente: ciò che odiano in voi lo odiano anche per la giustizia che c’è
in voi, analogamente si può dire che anche i buoni, quando perseguitano i cattivi, lo
fanno anche per la giustizia, per amore della quale perseguitano i cattivi; oppure anche
per l’iniquità, che odiano in essi. Però ciò che aggiunge: perché non conoscono colui
che mi ha mandato, viene riferito alla scienza, di cui si dice (Sap 15,3): «Conoscere te
è perfetta giustizia».
(Aquino, Catena Aurea. Vangelo secondo Giovanni. Capitoli 9-21, ESD, Bologna
2016, vol. 7, pp. 283-299).
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