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ESTREMO ORIENTE – CAP.

1 – 13

*il riassunto è prettamente personale, è possibile che molti concetti siano eccessivamente allungati; questo
perché, almeno io, mi trovo meglio così.

Non è detto che sia tutto necessario, è possibile anche ridurre questo riassunto.

Mi scuso in anticipo per i possibili errori di battitura.

Grazie.

@sabrichigo

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CAP.1 – Il quadro generale dell’Asia orientale

Quando i viaggiatori europei si spinsero lontano verso oriente, essi furono naturalmente portati a comprendere
tutte queste remote regioni sotto la denominazione generale di “Estremo Oriente”. Gli americani che avessero
raggiunto l’Asia avrebbero potuto chiamare quella zona “Estremo Occidente”. Tuttavia, per coloro che la
abitano, quella parte del mondo non può essere indicata come “Oriente”, “Occidente”, “Estremo”. Una
definizione più generalmente accettabile è quella di “Asia orientale”.

L’Asia orientale può essere definita in 3 diversi modi: dal punto di vista geografico, come la zona a oriente della
grande barriera costituita dalle montagne e dai deserti che dividono l’Asia in due parti; dal punto di vista
razziale, come dimora dell’uomo di tipo mongoloide, e dal punto di vista culturale, come la sfera di influenza di
quella che chiamiamo la civiltà dell’Asia orientale.
La storia dei nomadi delle regioni dell’Asia centrale, in particolare la Mongolia, il Sinkiang e il Tibet, ha avuto
stretti rapporti con quella cinese, attraverso il commercio, le guerre e le conquiste. L’altra zona è rappresentata
dall’Asia sudorientale, comprendente Vietnam, Birmania, Tailandia, Cambogia, Laos, Malesia, Indonesia e
Filippine.
L’alta cultura di buona parte dell’Asia sudorientale ha subito più l’influenza dell’India che quella della Cina, e
inoltre l’Islam e il cristianesimo hanno più tardi contribuito ad accrescere ulteriormente le distinzioni esistenti tra
quest’area. Gli elementi più importanti e caratteristici dell’Asia orientale sono anzitutto la sua immensità, in
particolare per quanto riguarda la popolazione e la frattura culturale esistente tra Oriente e Occidente.
La Cina antica aveva una popolazione almeno uguale a quella dell’impero romano. Oggi è quasi ¼ del genere
umano.

Fino a non molto tempo fa queste grandi masse umane ebbero per l’Occidente un’importanza affatto
secondaria. Per l’economia europea, l’importanza del commercio con l’Asia orientale è andata continuamente
crescendo fin dall’epoca romana e che certo invenzioni cinesi sono lentamente filtrate anche in Europa
influenzandone lo sviluppo. Tuttavia, soltanto in questi ultimi decenni abbiamo dovuto renderci conto che quel
terzo di genere umano influenza direttamente la nostra vita e il futuro della nostra civiltà.

Senza una reciproca comprensione, non possiamo sperare di stabilire equilibrati rapporti. Ma la comprensione
può essere basata soltanto sulla conoscenza. Il divario culturale è troppo grande. Fino a pochi anni fa gli
occidentali e i popoli dell’Asia orientale sono praticamente vissuti in mondi diversi. Anche entro i confini
dell’Asia, i contatti non erano molto profondi.
I contatti sembravano diretti a colmar almeno in parte la frattura culturale, ma altri fattori sono sopraggiunti ad
approfondire la separazione esistente. Tra le masse dei paesi dell’Asia si è manifestata un’enorme crescita
della coscienza nazionale, dell’orgoglio patriottico e un atteggiamento più critico verso l’Occidente.
La frattura tra Oriente e Occidente è stata inoltre approfondita da una disuguaglianza crescente fra i rispettivi
livelli materiali di esistenza. In parte a causa di fattori storici e geografici, noi abbiamo raggiunto un equilibrio tra
popolazione e risorse naturali molto più favorevole.
D’altra parte, si può rilevare nell’Asia Orientale la presenza di numerosi indizi dello sviluppo di quella che
potremmo chiamare una comune cultura mondiale, noi e i popoli dell’Asia orientale abbiamo oggi più elementi
in comune.
Lo sviluppo di questa comune cultura mondiale e di reciproci interessi potrebbe alla fine facilitare notevolmente
lo stabilirsi di una armoniosa comprensione. Nel frattempo, però, la mescolanza di cose a noi familiari con altre,
del tutto estranee, tende a produrre più confusione che chiarezza.
Inoltre, i mutamenti culturali verificatisi nell’Asia orientale, come nel resto del mondo, sono stati accompagnati
da ogni sorta di violenti sconvolgimenti. Se la Cina fosse stata effettivamente “immutabile”, sarebbe stato molto
più facile per noi comprenderla, per quanto grandi fossero le differenze tra la sua cultura e quella occidentale.
Al contrario, essa ha subito trasformazioni rapide ed esplosive e quindi il nostro compito, quello di inquadrare
chiaramente questa cultura a noi estranea, viene reso più complesso dalla rapidità della sua evoluzione.
Tuttavia, è proprio questa situazione ad imporci, in modo più urgente, di comprendere l’Asia orientale al meglio.

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L’analisi storica sembra il modo migliore per affrontare il problema. Una di tali ragioni consiste nel fatto che i
popoli dell’Asia orientale, più di quanto non facciano quelli del resto del mondo, considerano se stessi entro una
prospettiva storica. Essi sono pienamente consapevoli dei loro legami col passato, come sono coscienti del
giudizio storico del futuro.
L’attuale inquietudine dell’Asia orientale è essenzialmente dovuta all’azione reciproca tra forze nuove, molte
delle quali introdotte dall’occidente, e abitudini e mondi di pensiero tradizionali.

Una influenza determinante sulla civiltà dell’Asia orientale ha avuto il suo relativo isolamento dalle altre grandi
civiltà umane. Sviluppatasi all’estremità orientale e separata dagli altri centri principali della civiltà antica da
enormi distanze e barriere di montagne e deserti, essa ha espresso modelli di cultura particolari, che si sono in
gran parte conservati fino ai giorni nostri, come i sistemi di scrittura. La civiltà occidentale si è sviluppata
intorno al bacino orientale del Mediterraneo, in un certo numero di zone strettamente collegate.
La regione nella quale ebbe origine l’antica civiltà dell’Asia orientale, ossia la Cina del Nord, era molto più
isolata dagli altri antichi centri. Da una parte si stendeva il Pacifico, dall’altro lato, il massiccio centrale dell’Asia,
il gruppo dell’Himalaya e l’altopiano tibetano. A nord del massiccio vi sono i grandi deserti e le steppe dell’Asia
centrale, freddi, inospitali e quasi del tutto insuperabili per l’uomo primitivo. A sud del massiccio, i monti
selvaggi e le giungle della Cina.
Anche le differenze climatiche contribuirono a caratterizzarla culturalmente. Diversamente dalla zona indiana, in
gran parte tropicale, l’area principale della civiltà asiatica ha il clima con inverni rigidi ed estati calde. Queste
zone, le cui condizioni atmosferiche sono in gran parte determinate dall’Oceano Atlantico, ricevono la massa
delle precipitazioni nei mesi freschi. L’Europa del Nord, ha relativamente scarsi periodi di bel tempo, mentre le
zone del Mediterraneo e dell’Asia occidentale sono sottoposte a piogge relativamente limitate.
Il clima dell’Asia orientale, come quello dell’India, è in buona parte determinato dalle grandi distese del
continente asiatico. Durante l’inverno, sull’Asia centrale, molto lontana dall’influenza temperante del mare, si
producono masse di aria fredda e pesante, che si spostano poi verso l’esterno determinando ai margini
meridionali e orientali del continente una temperatura rigida e secca. Il contrario accade durante l’estate.
Sull’Asia centrale l’aria diventa calda e leggera; masse di aria umida si spostano quindi dall’oceano verso
l’interno, producendo abbondanti precipitazioni. A causa di questi venti monsonici, la maggior parte dell’Asia
centrale è sottoposta a un regime di piogge abbondanti durante i mesi più favorevoli alla crescita delle messi.
Questa larga disponibilità di acqua e il calore del sole permettono 2 raccolti l’anno. Queste particolarità
climatiche diedero un tipo di agricoltura completamente diverso da quello dell’Occidente, come riso, soia, pollo
e maiale.
Ma la differenza più importante tra tutte è che in Occidente, il frumento è sempre stato il cereale più coltivato,
mentre in gran parte dell’Asia orientale e dell’India è stata la coltura del riso ad avere sempre una parte
predominante. Il riso si adatta maggiormente alle estati calde e umide di questa zona; e poiché, per ogni acro
coltivato, dà un raccolto più abbondante di quello del grano, il riso può nutrire su un determinato territorio una
popolazione più numerosa.

La zona che si stende a est della grande barriera asiatica è per la maggior parte il luogo di insediamento
dell’uomo di tipo mongoloide, mentre quella a ovest della barriera, compresa la gran parte dell’India e dell’area
della civiltà islamica, è la dimora dell’uomo bianco, o di tipo caucasico. Il più interessante tra i predecessori
dell’homo sapiens nell’Asia orientale è l’uomo di Pechino, che è forse vissuto intorno al 400.000 AC. Inoltre
certi tratti fisionomici, in particolare gli incisivi a forma di pala, sono più caratteristici del tipo mongoloide. Da ciò
alcuni hanno creduto di poter dedurre che la razza mongoloide deriva in parte da questo primitivo abitante della
Cina del Nord.
Comunque, troviamo i mongoloidi già saldamente insediati nell’intera area dell’Asia orientale. Quindi, possiamo
da ciò supporre che il loro originario sviluppo abbia avuto luogo in quella parte del mondo. Alcuni ritengono che
i loro arti corti, che facilitano la conservazione del calore del corpo, e le loro palpebre gonfie e strette, che
proteggono gli occhi dal freddo della neve, siano una conseguenza delle basse temperature che
caratterizzavano la loro originaria dimora nell’Asia nordorientale. La gradazione del colore della pelle, molto

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chiara, è manifestazione del risultato delle condizioni ambientali. Gli altri tratti caratteristici sono capelli neri, lisci
e duri, viso piatto e occhi neri.

La più interessante sopravvivenza etnica nell’Asia orientale è rappresentata dagli ainu, isolati all’estremità
settentrionale del Giappone. Gli ainu possiedono certi tratti tipici dell’uomo caucasico. Essi hanno, per esempio,
molti peli sul corpo e sul viso, caratteristica non riscontrata nella maggior parte dei mongoloidi.

Le più significative distinzioni sono in primo luogo linguistiche.


Il gruppo delle lingue sinitiche è l’elemento che linguisticamente occupa in Asia orientale una posizione
predominante. Il gruppo delle lingue sinitiche occupa il blocco centrale dell’Asia orientale, comprendente la
Cina, Tibet, Vietnam, Loas e Birmania.
Tra gli elementi che formano il gruppo sinitico, quello cinese è il più numeroso e notoriamente il più importante.
Le popolazioni di lingua cinese occupavano la Cina del Nord, culla della civiltà dell’Asia orientale, già all’inizio
dei tempi storici. Nel corso della storia, essi andarono estendendosi sia con l’emigrazione che con
l’assimilazione dei gruppi culturalmente che linguisticamente affini. Ben presto, giunsero ad occupare quasi
tutta la Cina.
Nel corso di questa espansione, la lingua cinese diede origine ad alcuni idiomi reciprocamente incomprensibili
e diversi l’uno dall’altro. Il cinese propriamente detto, è chiamato “mandarino”, kuan-hua (“la lingua dei
funzionari”), o kuo-yu’ (“la lingua nazionale), è come madre lingua. I suoi vari dialetti sono usati in tutta la Cina
del Nord e territori periferici. I dialetti si sono però allontanati a tal punto dal “mandarino” da essere considerati
come lingue indipendenti.

A nord del blocco sinitico esiste un vasto gruppo di popolazioni mongoloidi che parlano lingue appartenenti a
un ceppo distinto. Questo gruppo ha preso il nome di “altaico” dai monti Altai della Mongolia. Queste
popolazioni erano nomadi e pascolavano le greggi montando a cavallo. Di conseguenza, i loro spostamenti
erano numerosi e, infatti, alcuni gruppi si spinsero oltre i confini dell’Asia orientale. Il turco è la più occidentale
delle lingue altaiche.
Tuttavia, le popolazioni nel corso dei loro lunghi vagabondaggi, assorbirono grandi quantità di elementi
caucasici e gli attuali abitanti della Turchia mostrano poche tracce dei loro progenitori mongoloidi.
Anche il coreano e il giapponese rivelano somiglianze strutturali con le lingue altaiche; i coreani e i giapponesi si
possono quindi considerare come due prolungamenti orientali in zone prevalentemente agricole delle
popolazioni del gruppo altaico.

Il terzo grande gruppo linguistico dell’Asia orientale è rappresentato dall’austronesiano. Questo gruppo
comprende le lingue della Malesia e dell’Indonesia, Filippine.
Nell’antichità si potevano trovare anche lingue indoeuropee in alcune zone nordoccidentali dell’Asia orientale.
Tuttavia, le ondate migratorie verso occidente dei popoli di lingua turca finirono per provocare l’estinzione di
queste lingue.

La civiltà dell’Asia orientale è sorta e ha sviluppato la maggior parte dei suoi tratti essenziali in Cina. Dal punto
di vista geografico, la Cina è una zona meno unitaria. Manca quella facilità di comunicazioni che è resa
possibile dal Mediterraneo o dalla unità geografica propria delle grandi pianure. La Grande Pianura della Cina,
la più vasta distesa di terreno pianeggiante dell’intera zona, ha una superficie molto più ridotta della pianura
dell’India.
Una delle principali catene interne può essere indicata dalla linea che si stende dalla Manciuria, attraverso lo
Shansi. Una catena parallela a questa si allunga da Canton, fino al corso dello Yangtze.
Questa posizione di catene montuose ha creato un numero di regioni geograficamente distinte, ha
inevitabilmente creato problemi di unità geografica e politica e determinato la strategia militare.

I grandi fiumi della Cina bagnano i principali centri abitati situati tra le catene montuose. A nord vi è il Fiume
Giallo, esso attraversa una vasta distesa acquitrinosa formatasi nel corso dei secoli con il fango portato dalla

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corrente del fiume stesso. Durante la stagione piovosa dell’estate, le acque che scorrono dalle grandi catene
montuose prive di alberi, verso occidente, trasportano una grande quantità di fanghiglia gialla, dalla quale il
fiume prende il nome. È per questa ragione che esso innalza progressivamente il suo letto e che fin dalle età più
remote i governatori di questa parte della Cina sono stati costretti a costruire argini per mantenerlo entro il suo
corso.

La Cina ha un clima vario. Le zone più a sud sono subtropicali e, in latitudine, parallele all’India settentrionale,
mentre la parte centrale del paese si trova nella zona temperata. La Cina è colpita durante l’inverno da un
freddo continentale del tutto sconosciuto all’India, che è protetta a nord da un bastione di montagne.
La posizione della Cina tra il mare e la massa delle terre asiatiche fa sì che essa sia per la maggior parte
caratterizzata da precipitazioni più abbondanti e da oscillazioni di temperatura.
La più grande massa terrestre, della quale la Cina fa parte, rende il suo clima più spiccatamente continentale.
Ai venti monsonici stagionali si aggiungono le tempeste cicloniche. Ogni anno, durante la seconda metà
dell’estate, 8 o 9 tifoni in media hanno origine nella regione delle Filippine e si scatenano sulla Cina.
La Cina è la zona in cui si scontrano masse d’aria continentale, fredda e secca, e masse d’aria oceanica, calda
e umida, che determinano la maggior parte delle precipitazioni atmosferiche.
Le piogge e i fiumi sono per la Cina una abbondante riserva di acqua che può essere usata sia per irrigare i
campi di riso sia per i trasporti.
La Cina del Sud ha un clima ideale per l’agricoltura, ma il suo suolo è stato filtrato dalle abbondanti piogge ed
esaurito da millenni di coltivazione intensiva. Inoltre, a sud dello Yangtze, soltanto il 15% delle terre montane
sono abbastanza pianeggianti da permettere la coltivazione.

Le caratteristiche del suolo e del clima hanno esercitato in Cina una influenza costante sulla vita dell’uomo,
ponendo limiti. Per esempio, sia l’economia agricola che il sistema militare hanno mantenuto nel corso della
storia una caratteristica impronta “cinese”, e anche se certamente la Cina non è stata “immutabile”, essa ha
però rivelato una continuità culturale.

La terra è sempre stata la più grande risorsa naturale della Cina. Tuttavia, la sua enorme popolazione, deve
ricavare il proprio sostentamento da un’area coltivabile che è all’incirca la metà. Il paese è nel complesso così
montuoso che soltanto un settimo della sua superficie è messa a coltura.
Essendo la loro alimentazione quasi esclusivamente basata sui cereali, essi hanno sofferto di una diffusa
deficienza di calcio per mancanza di verdure, l’agricoltura cinese si è quindi rivelata un affare incerto.
L’economia cinese è sempre stata caratterizzata dalla sua esclusiva dipendenza dal lavoro umano. I contadini
hanno dovuto condurre una vita difficile e spesso precaria su una terra avara.
A causa della grande densità della popolazione, l’agricoltore deve fare ogni sforzo per aumentare al massimo la
fertilità dei suoi campi.

Nella coltura del riso, le sementi vengono messe a dimora in vivai. Nel frattempo, viene portato a termine il
raccolto invernale nelle risaie, che sono quindi lavorate e irrigate in vista del nuovo trapianto. Quando le
pianticelle hanno raggiunto una cera altezza, vengono trapiantate a mano nelle risaie.
Anche la famosa industria cinese della seta richiede un lavoro quasi senza fine. I bachi da seta vengono nutriti
a mano con foglie di gelso e attentamente curati per 5 settimane fino alla fine del ciclo.
L’altro tipo tradizionale di industria familiare della Cina del Sud, la produzione del tè, richiede un analogo
impiego di lavoro umano per pulire, scegliere, essiccare le foglie una prima e una seconda volta e infine per
imballarle. La seta e il tè non sono che due dei prodotti dell’attività della famiglia contadina, particolarmente
nella stagione morta quando c’è poco lavoro nei campi. Altri prodotti importanti della attività familiare sono i
sandali di paglia e le calzature di panno, che prendono il posto del cuoio nei climi umidi.

Fin dall’antichità è stata la famiglia a costituire l’unità più significativa della società cinese. Per ogni suo
membro, la famiglia ha rappresentato la fonte principale di sostentamento, di sicurezza, educazione, di contatti
sociali. Attraverso il culto degli antenati, la famiglia rappresentava anche per l’individuo il centro della vita

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religiosa. essa era inoltre la base della organizzazione politica; mediante il sistema della mutua responsabilità,
ogni individuo era responsabile delle azioni degli altri all’interno di ogni gruppo familiare, mentre una
responsabilità analoga legava ogni gruppo familiare nell’ambito di una comunità.
È degno di nota il fatto che dei 5 celebri rapporti confuciani, tra governante e suddito, padre e figlio, marito e
moglie, fratello maggiore e minore, e tra amici, 3 siano determinati dalla parentela. La virtù confuciana
dell’amore, equivaleva ad un “amore differenziato”; l’amore che una persona nutriva per un’altra era cioè
determinato dal tipo di relazione intercorrente tra loro.
Il vincolo di parentela aveva in Cina una sfera d’azione molto ampia ed era riconosciuto fino alla quinta
generazione. Questo significava che gli ascendenti di una persona fino ai trisavoli erano considerati membri
dello stesso gruppo familiare. A causa delle necessità economiche sembra che il numero dei membri di un
gruppo familiare oscillassero intorno a una media di 5 persone e fosse abitualmente limitato ai parenti più
stretti.
Per la sua stessa natura il sistema familiare era gerarchico e autoritario. La condizione di ogni membro
dipendeva dalla posizione occupata al gruppo per nascita o per matrimonio. L’autorità era una prerogativa della
generazione più anziana o veniva conferita dal sesso e dall’età, quest’ultima considerata in se stessa come
degna di rispetto e fonte di saggezza. Il patriarca era il centro dell’autorità. Egli poteva essere autocratico e in
talune occasioni anche tirannico; un figlio insubordinato poteva essere punito con estrema severità e, in periodi
di difficoltà, la vendita dei figli era una delle facoltà dei genitori.

A causa della subordinazione dell’individuo alla famiglia, le più alte virtù e i maggiori motivi di prestigio sociale
erano connessi con la vita familiare. Un motivo di grande prestigio poteva essere rappresentato dal culto degli
antenati o dalla nascita di un figlio o di un nipote destinati a proseguire la discendenza familiare.
I matrimoni combinati furono il simbolo della subordinazione dell’individuo alla famiglia. Il matrimonio era, in
effetti, più una unione di famiglie che di persone, e gli interessi familiari avevano quindi la prevalenza. Una
famiglia poteva trovare conveniente comprare una sposa bambina e allevarla per darla poi eventualmente in
moglie a uno dei figli. La bambina poteva anche essere introdotta nella famiglia prima ancora che il suo
probabile marito fosse nato; una famiglia ricca poteva persino comprare una moglie che avrebbe “sposato lo
spirito” di un marito defunto.
In generale, le donne si trovavano in una condizione di inferiorità. Per tradizione, esse obbedivano al padre in
gioventù, al marito nell’età matura e ai figli durante la vecchiaia. La parentela in linea maschile aveva la
precedenza su quella femminile. Di conseguenza, le bambine in tempi di carestia venivano sacrificate per
mantenere i maschi. Le donne dovevano essere fedeli al marito e, se vedove, non potevano risposarsi; al
contrario era permesso agli uomini.
Fatta eccezione per la dote, le donne non potevano vantare diritti di proprietà e con il matrimonio entravano
nella famiglia del marito nella scomoda condizione di nuove venute e spesso erano trattate soltanto un po’
meglio dei servi.

Nella vita cinese, erano le virtù personali dell’onestà e della lealtà, della sincerità e della benevolenza a stabilire
le norme della condotta sociale. La legge era uno strumento utile per l’amministrazione, ma la moralità
personale costituiva il fondamento della società.
Questa grande istituzione etica ha prodotto una forte coesione sociale e uno straordinario equilibrio.
Liberi dalle limitazioni derivanti dalla forza di una chiesa o della legge, i governanti cinesi hanno mostrato la
tendenza a esercitare un potere politico assoluto, fondato sulla loro interpretazione del codice etico. Come è
accaduto in molte società contadine, netta è sempre la frattura, per quanto riguarda il potere e il prestigio, tra
governanti e governati; inoltre, tradizionale era la suddivisione della società in quattro classi, rappresentate in
ordine discendente dai letterati-amministratori, dagli agricoltori, dagli artigiani e dai mercanti.
Qualunque fosse il tipo di rapporto intercorrente tra le ultime 3 classi, nessuna di esse contestava la
supremazia dei letterati-amministratori, che si presumeva fossero, in quanto uomini di cultura, moralmente
superiori.

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CAP.2 – LA CINA ANTICA: LA NASCITA DI UNA CIVILTA’

L’antica civiltà cinese si sviluppò lungo il bacino del Fiume Giallo, nella Grande Pianura settentrionale e nelle più
piccole valli dei fiumi vicini. Era questa una zona particolarmente favorevole all’agricoltura, malgrado l’estremo
rigore dei suoi inverni.
Le influenze culturali dell’Asia occidentale hanno rappresentato uno stimolo di grande importanza per il sorgere
della civiltà nella Cina del Nord. È significativo che l’antica culla della civiltà cinese, la Grande Pianura
settentrionale, sia proprio quella parte dell’Asia orientale agricola più accessibile via terra dall’Occidente. Le
steppe e i deserti dell’Asia centrale costituivano una via di comunicazione praticabile, anche se lunga e difficile,
tra l’Occidente e l’Oriente, e le scoperte e le invenzioni umane filtrarono lentamente per questa via. Importanti
cereali come il grano, bronzo e ferro, e importanti invenzioni come la ruota e il carro da guerra, sembra siano
passati per questa via.
Le influenze hanno indubbiamente contribuito allo sviluppo dell’antica civiltà della Cina del Nord, ma già nei
tempi preistorici questa zona mostrava notevoli peculiarità culturali. La Cina preistorica conosceva già la
produzione della seta, che venne introdotta in Occidente più tardi. Perciò l’antica cultura della Cina costituiva
una civiltà indipendente che mostrava tratti originari dell’Asia orientale ed elementi attinti dall’Occidente.
La maggior parte dell’Asia orientale, dalla Siberia alla Malesia, fu caratterizzata nei tempi neolitici da un
vasellame di colore grigio con ornamenti a strisce e da un coltello di pietra a forma di mezzaluna,
completamente diverso da ogni altro oggetto ritrovato in Eurasia.
Uno dei pezzi caratteristici di questo vasellame era un tripode con gambe ricurve chiamato li.

Nell’ambito di questa cultura neolitica, apparvero poco prima del 2000 AC, 2 varianti tipiche della Cina del
Nord. Una di esse, la cultura del vasellame dipinto o rosso, è nota anche come cultura di Yang-shao dal nome
della località. Il maggior numero di ritrovamenti di resti di vasellame dipinto è avvenuto infatti lungo il Fiume
Giallo, nelle vicinanze di Yang-shao.
La cultura del vasellame dipinto è caratterizzata da grandi vasi rossi, rigonfi, dipinti con disegni geometrici ben
tracciati, solitamente in nero. Questo vasellame presenta notevoli somiglianze con il vasellame dipinto dell’Asia
occidentale e dell’Europa sudorientale. Alcuni ritrovamenti isolati, che hanno portato alla luce esemplari simili
nel Turkestan russo, possono suggerirci il cammino forse percorso da queste influenze per penetrare in Cina.

La seconda variante culturale del tardo neolitico si sviluppò nella Grande Pianura e nelle regioni costiere
meridionali. Essa deve il suo nome ai caratteristici vasi neri e lucidi, ed è chiamata anche cultura di Lung-shan.
La cultura del vasellame nero ha molti elementi in comune con la cultura che caratterizza l’età neolitica in tutta
l’Asia orientale, e sembra sia stata la diretta antenata della cultura Shang, la prima dei tempi storici della Cina.
Molti degli animali e delle colture tipici delle popolazioni del periodo del vasellame nero sono infatti gli stessi
dell’epoca Shang; comuni sono anche le pratiche divinatorie.

Gli Shang:
la cultura storica del bronzo degli Shang, che ebbe il suo centro intorno ad An-yang dal 1400 al 1100 AC circa,
fu il frutto composito di molteplici influenze. Nei pressi di An-yang, i luoghi della cultura Shang ricoprono quelli
del vasellame nero. Questa zona della Cina del Nord sembra quindi essere stata una specie di crocevia
culturale, nel quale si riversarono tutte le influenze, da quelle dei popoli nomadi a quelle dei popoli agricoli.
Probabilmente, il reciproco contatto di queste culture contrastanti contribuì a rendere, in questa zona, lo
sviluppo della civiltà più rapido che in qualsiasi altra parte dell’Asia orientale.
La cultura Shang mette in evidenza elementi che non si ritrovano nelle primitive culture archeologiche di questa
regione, come la metallurgia del bronzo, che rappresentò la gloria degli Shang. Lo sesso sembra potersi dire
della coltivazione del grano, come dell’utilizzazione del carro trainato da cavalli e da alcuni tipi di armi di bronzo,
di forme di vasellame e di disegni artistici.
Inoltre, lo sfondo di legno intagliato di molti dei lavori artistici che sono stati conservati in bronzo, pietra e osso,
e il grande ripetersi di motivi venatori, in particolare di animali della foresta, ci fanno pensare che l’originaria
dimora degli Shang fosse appunto la foresta, nei territori boschivi della Cina del Sud.

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I più antichi testi cinesi che ci sono stati tramandati gettano poca luce sulle età anteriori. Nei secoli seguenti,
invece, i cinesi scrissero molto sulle origini della loro civiltà e sugli inizi della loro storia.
Da queste fonti scaturisce il quadro confuso di una società di tipo patriarcale, tribale o di clan. Dal nome del
clan si era sviluppato il hsing, o nome della famiglia, che precedeva sempre il nome della persona, invece di
seguirlo come il cognome. La successione avveniva spesso tra fratelli più che tra padre e figlio, mentre un altro
elemento di grande importanza era l’esogamia, tanto che ancora oggi i cinesi ritengono che le persone che
portano lo stesso cognome non dovrebbero sposarsi.
In una società fondata sul clan anche le credenze religiose tendevano a focalizzarsi su questa base, mentre
anche il culto degli antenati risale a queste epoche primitive. Le credenze animistiche erano largamente diffuse.
Com’era naturale in una società basata su una economia agricola, grande importanza veniva attribuita alle
teorie cosmologiche e relative al ciclo delle stagioni, alle divinità delle messi, alla fertilità del suolo e al cielo. In
una società di questo tipo l’autorità era fortemente caratterizzata in senso religioso e il sovrano era in certo
modo anche sommo sacerdote e regolatore del calendario. Fin dall’inizio i cinesi ebbero un forte senso della
storia e l’ideale dell’unità politica. Ignari delle grandi civiltà esistenti a occidente, essi considerarono la Cina
come l’unico paese civile, circondato da ogni lato dai “4 barbari”. Chiamarono quindi la loro terra il “Paese
centrale”, o Chung-kuo, espressione spesso tradotta come “il Regno del Centro”. Anche il termine t’ien-hsia,
che significa “tutto ciò (che sta) sotto al cielo”, fu usato dai cinesi per indicare il mondo civile conosciuto e in
seguito finì per designare “L’impero”.

Molte sono le versioni di questa pseudostoria primitiva; pur presentando tra loro molte differenze, tutte seguono
un modello generale: all’inizio vi era il creatore, P’an-ku, al quale fecero seguito 3 serie di fratelli: 12 sovrani
Celesti, 11 sovrani Terrestri e 9 sovrani Umani, rappresentanti insieme la triade del pensiero cinese: il cielo, la
terra e l’uomo. Questi 3 gruppi furono denominati i 3 Huang.
Questi furono a loro volta seguiti dai 5 Ti, tra i quali erano compresi l’Imperatore Giallo (Huang Ti), e i reggitori
modello, Yao e Shun.
Questi mitici sovrani, insieme ad altre figure minori, furono gli eroi della cultura, cioè gli individui dotati di poteri
soprannaturali ai quali si attribuiva il merito di aver fornito gli elementi basilari della civiltà conosciuta dai cinesi
antichi. Vi erano tra loro il primo costruttore di case, l’eroe che diede all’uomo il fuoco, gli iniziatori della pesa,
della caccia e dell’agricoltura, l’inventore del calendario, il rivelatore dell’arte medica e l’eroe che inventò i
caratteri cinesi.
La moglie dell’Imperatore Giallo sviluppò la sericoltura, poiché la lavorazione della seta è lavoro tipicamente
femminile. Yao introdusse un nuovo ideale politico scegliendo come successore Shun, che non era suo
consanguineo ma eccelleva per la virtù, invece del figlio meno degno. Il suo esempio fu seguito da Shun che
scelse come ministro Yu; egli unificò inoltre il sistema dei pesi e delle misure e sottomise le popolazioni
barbariche.

Sebbene Yu fosse considerato l’eroe al quale si doveva l’imbrigliamento delle acque e l’apertura di canali, egli
rappresenta anche un aspetto nuovo, e più credibile, della tradizione, in quanto fu il fondatore di una dinastia
chiamata Hsia, che nella cronologia più tradizionale viene fatta risalire agli anni tra il 2205 – 1766 AC.
L’ultimo dei sovrani Hsia fu così depravato che il popolo si ribellò sotto la guida di un certo T’ang, che fu anche
il fondatore della seconda dinastia, quella degli Shang (1766-1122 / 1523 – 1027 AC). I sovrani Shang sono
noti con nomi tratti dai simboli ciclici del calendario, e con loro la successione tra fratelli fu quasi altrettanto
comune quanto quella tra padre e figlio. Molto spesso essi trasferirono la capitale da una località all’altra.
L’ultimo sovrano Shang, come l’ultimo dei Hsia, fu un uomo perverso, dalla vita privata corrotta e dal governo
tirannico. Tra coloro che maggiormente patirono il suo dispotismo fu uno dei subordinati, il re Wen, del
principato di Chou, il quale, malgrado le continue ingiurie, non volle mai ribellarsi. Fu invece suo figlio e
successore, il re Wu, che alla fine rovesciò gli Shang (1122 / 1027 AC), fondando la terza dinastia cinese,
ovvero la dinastia Chou. Il re Wu fu notevolmente aiutato nel governo dal fratello, il duca di Chou, che dopo la
successione del giovane figlio di Wu si astenne dall’impadronirsi del trono e divenne invece il saggio e illuminato
consolidatore della dinastia.

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Il tratto rilevante dei ritrovamenti di An-yang consisteva nei caratteri delle iscrizioni; si trattava di iscrizioni in
lingua cinese, che rappresentavano una prima forma del sistema di scrittura ancora oggi dominante nella civiltà
dell’Asia orientale.
Una delle principali caratteristiche delle lingue sinitiche alle quali appartiene il cinese, è la struttura tornale. Ciò
significa che sillabe che hanno lo stesso suono si distinguono tra loro per il tono col quale vengono pronunciate.
Nel moderno mandarino vi sono 4 toni che possono essere approssimativamente essere classificati come
“piano”, “ascendente”, “discendente-ascendente”, “discendente”.
Un’altra caratteristica delle lingue sinitiche consiste nel fatto che una percentuale relativamente alta delle loro
parole è formata da monosillabi non flessivi.
La scrittura, nell’antico Occidente come in Cina, si sviluppò originariamente dalle immagini.

Nel periodo Shang il sistema di scrittura cinese aveva ormai superato la fase dei semplici segni pittografici ed
era in realtà moto sviluppato e complesso. Le popolazioni del periodo Shang disponevano di più di 2mila
caratteri diversi. In seguito, la lingua subì un ulteriore sviluppo con l’aggiunta di 50mila caratteri e varianti, ma
gli elementi essenziali per la formazione dei caratteri erano già presenti nella scrittura del periodo Shang.
I caratteri Shang sono in generale molto diversi dalle moderne forme; la maggior parte di essi, tuttavia, sono
stati identificati come i prototipi dei caratteri ancora usati. Di regola si scriveva dall’alto in basso, e venivano
usati pennelli e tavolette di bambù. Naturalmente, molti erano nella scrittura Shang i pittogrammi spesso
estremamente stilizzati, nei quali però la figura era molto più riconoscibile di quanto non accada per le loro
forme moderne.

Il sistema di scrittura cinese presenta certi inconvenienti. Per acquistarne la padronanza è necessario un
maggior impiego di tempo e fatica. L’importanza attribuita al lavoro mnemonico per l’apprendimento di tutti
questi caratteri può anche aver avuto un’influenza limitatrice nell’educazione cinese, ponendo in primo piano
l’abilità mnemonica e svalutando il talento creativo.
D’altra parte, questo sistema di scrittura presenta alcuni vantaggi, la complessità e le qualità grafiche
conferiscono ai caratteri una loro vitalità.
Nell’antichità i caratteri cinesi avevano indubbiamente un valore magico. Le preghiere in Cina non erano rivolte
direttamente agli dei, ma scritte. Nella civiltà dell’Asia orientale la parola scritta ha sempre avuto la priorità su
quella parlata. La natura magica della scrittura è forse una delle regioni per le quali i popoli dell’Asia orientale
hanno avuto la tendenza a dare al sapere libresco e all’educazione formale un’importanza maggiore. Non è un
fatto casuale se le percentuali di analfabetismo in Asia orientale sono molto più basse.
Il sistema di scrittura cinese è molto più interessante esteticamente. Nell’Asia orientale una bella scrittura è
stata sin dall’antichità la caratteristica delle persone colte. La calligrafia è una grande arte, la diretta antenata di
tutte le arti grafiche, poiché il pennello per scrivere è lo stesso dell’artista.
Un altro grande vantaggio del sistema di scrittura cinese è rappresentato dal fatto che esso supera facilmente
tutte le differenze dialettali. Tutti i cinesi colti, anche se parlano dialetti reciprocamente incomprensibili, possono
leggere gli stessi libri e sentire come propria la lingua scritta classica.

La cultura Shang:
I più importanti ritrovamenti di An-yang sono costituiti, oltre alle iscrizioni, dai bronzi. Come la scrittura, anche i
bronzi ci pongono di fronte a un dilemma. La metallurgia del bronzo fu probabilmente introdotta dall’Asia
occidentale, ma gli esemplari Shang rivelano un così alto grado di sviluppo e una tale perfezione che è legittimo
ritenere che i cinesi avessero praticato questo tipo di artigianato per un periodo di tempo abbastanza lungo.
I bronzi Shang sono per la maggior parte di due tipi: armi e casi lavorati, usati per le cerimonie e i sacrifici
religiosi. I vasi sono spesso di notevoli dimensioni e di rara bellezza; una bellezza accresciuta da una patina a
varie sfumature di verde che è il risultato dell’azione chimica del terreno nel quale sono rimasti per tremila anni.
Sia i vasi da cerimonia che le armi sono spesso decorati con disegni molto elaborati, incisi e talvolta in rilievo.
La forma angolare di molti vasi e le linee molto nette del disegno fanno pensare all’uso di stampi di legno.
I disegni dei bronzi e le forme dei vasi sembra siano da considerare come un elemento tipico dell’Asia orientale.
I tripodi di bronzo, per esempio, ci ricordano il tripode concavo li del periodo neolitico. Alcuni vasi avevano la

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forma di animali, come l’elefante, che ancora vivevano a quel tempo nella Cina del Nord. Il principale elemento
figurativo è ora noto col nome di t’ao-t’ieh o maschera di animale. Si tratta della veduta frontale di una testa di
animale, che ha il suo centro nel naso ed è fornita di occhi, di corna, e di orecchie prominenti e di altri elementi
che sporgono simmetricamente da ogni lato.

Sui bronzi Shang sono state trovate varie iscrizioni, ma la maggior parte degli esempi della scrittura di quel
periodo sono le incisioni scoperte sulle scaglie o sui gusci di tartaruga, sulle scapole di animali da pascolo e
altre ossa piatte. Esse erano usate a scopo divinatorio e per questo vengono comunemente chiamate “ossa
oracolari”, mentre questo tipo di divinazione va sotto il nome di scapulomazia. Una piccola scanalatura veniva
incisa su un lato dell’osso, che era poi esposto al calore dalla parte dell’incisione finché si producevano delle
incrinature dalle quali l’indovino ricavava una risposta affermativa o negativa alle sue domande. Forse, come in
tutti gli oracoli, l’indovino manipolava il procedimento facendo sì che le incrinature apparissero dove egli voleva.
Ciò che caratterizza le ossa oracolari Shang è che circa un decimo di esse recano incisa la domanda
dell’indovino, alcune anche la risposta e talvolta persino le eventuali conseguenze. Le domande riguardavano
questioni come i sacrifici e gli altri rapporti dell’uomo con gli spiriti, i raccolti, il tempo, la guerra, la caccia, la
pesca.
Gli Shang, quindi, facevano frequenti sacrifici agli spiriti ed usavano generalmente gli animali, ma talvolta anche
un liquore, probabilmente una specie di birra, che veniva cosparso sul terreno. Si compivano sacrifici alla terra,
al vento e a varie altre divinità piuttosto vaghe della natura, nonché ai punti cardinali. Una delle divinità era
chiamata Ti o Shang Ti. Una serie di mitici sovrani della Cina era nota col nome di Cinque Ti, probabilmente
Shang Ti non è che un “primo antenato”.

L’economia Shang era per la maggior parte agricola, anche se gli aristocratici dedicavano molto del loro tempo
alla caccia. Poiché il bronzo era raro e costoso, gli attrezzi agricoli erano di legno e di pietra. Anche le punte
delle frecce erano generalmente di osso o di pietra e venivano inastate su canne di bambù. Questa pianta, che
si presa a molti usi, è rimasta una risorsa caratteristica e inestimabile di tutta l’Asia orientale. Anche la giada era
molto apprezzata dagli Shang, e piccole conchiglie venivano usate come una moneta primitiva. Queste
conchiglie, provenienti dalle acque del Sud, sono state apprezzate in molte parti del mondo, anche perché, per
la loro vaga rassomiglianza all’organo femminile, si ritenevano fornite di qualità magiche.
Sembra che gli Shang abbiano dato vita a una specie di città-stato con alcuni domini nelle immediate vicinanze.
Probabilmente essi esercitarono anche una certa autorità su altre comunità, simili ma più piccole, sparse su
buona parte della Grande Pianura.
Naturalmente, la cultura Shang si estese a una zona piuttosto ampia, ma i confini dell’unità politica
propriamente detta erano relativamente ristretti, perché gli Shang furono spesso in guerra con le popolazioni
vicine e con i nomadi invasori. D’altra parte, tale unità era abbastanza ampia da consentire loro di mettere in
campo eserciti di tremila o anche cinquemila uomini.
Gli Shang erano governati da una dinastia di sovrani ereditari. Le tombe di costoro erano delle enormi fosse,
riempite con grandi quantità di terra battura. Era costume seppellire insieme al cadavere suppellettili di valore e
arnesi vari, presumibilmente affinché il defunto ne facesse uso nell’altra vita.
Gli edifici della città degli Shang erano grandi e imponenti; lo stile architettonico non era essenzialmente diverso
da quello della Cina moderna.
Le case della popolazione invece sembra non fossero diverse dalle grotte del periodo neolitico. La frattura fra
governanti e governati è illustrata dal criterio casuale che gli Shang avevano adottato per i sacrifici umani,
scegliendo generalmente i multipli di dieci. Si racconta che molte delle vittime di tali sacrifici erano prigionieri di
guerra o, più in particolare, appartenevano alle tribù nomadi occidentali.

Il monopolio della metallurgia del bronzo, le armi di bronzo e i costosi carri da guerra possono aver dato alla
classe dominante un grande potere sugli altri membri dello stato nel periodo Shang, a partire dalla famiglia che
porta di per sé all’autoritarismo. Lo sviluppo di uno stato centralizzato, assolutistico, può essere incoraggiato
dal bisogno costante di una difesa unificata contro i nomadi loro vicini.

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Un altro elemento che spiega il sorgere di uno stato autoritario in Cina può essere la necessità di immani sforzi
comuni per mantenere il Fiume Giallo entro i suoi argini. Per portare a termine questi lavori, pochi uomini
dovettero dirigere gli sforzi di grandi masse.
Questa particolare teoria si adatta al mito dell’eroe Yu, che per primo in Cina regolò il corso delle acque.

I primi Chou:
Le popolazioni Chou, che sottomisero gli Shang, erano originarie della valle del Wei, a ovest della grande ansa
del Fiume Giallo. Sembra che inizialmente essi fossero stanziati ai limiti settentrionali della valle e che, prima di
conquistare lo stato degli Shang, si siano spostati verso il centro della valle.
Questa zona era situata ai confini della civiltà Shang, con la quale i Chou sembra avessero in comune la lingua
e gli elementi basilari della cultura. Nello stesso tempo, la loro vicinanza ai “barbari” pastori dell’Ovest e del
Nord rafforzò il loro spirito guerriero.
La conquista dello stato Shang a opera dei Chou, che la tradizione fa risalire all’anno 1122/1027 AC, non
segna una brusca rottura nel processo di emersione della cultura cinese. Il sistema di scrittura seguitò quindi a
evolversi, la scapulomanzia venne ancora praticata.
Diversamente da quanto era accaduto con gli Shang, sotto i Chou la successione si trasmise da padre in figlio
e non da fratello a fratello. I sovrani Chou, che assunsero il vecchio titolo Shang di Wang, venivano seppelliti
sotto piramidi formati da blocchi di terra, ma nelle zone che si estendevano al di là della Grande Pianura le
popolazioni continuarono a seguire la vecchia pratica Shang dell’inumazione in fosse.
Sotto i Chou, non fu interrotta neanche la produzione dei grandi vasi sacrificali di bronzo, molti dei quali
vennero ricoperti da lunghe iscrizioni. I primi bronzi Chou, tuttavia, presentano talvolta disegni più rozzi di quelli
Shang, mentre nelle fasi successive la elaborata decorazione diventa più povera e lineare, forse perché i
particolari avevano perduto del loro originario significato religioso ed erano diventati elementi meramente
tradizionali.
La principale divinità Chou, identificata con lo Shang Ti dei loro predecessori, era T’ien. T’ien finì per significare
“Cielo”, ma in origine fu una divinità antropomorfica, poiché il carattere che lo rappresentava non era che il
disegno di un uomo. I sovrani Chou si chiamarono “Figli del Cielo”, e giustificarono la conquista dello stato degli
Shang con la pretesa di aver ricevuto il “Mandato dal Cielo”. Essi erano perciò gli intermediari tra l’uomo e la
natura.

Le principali pratiche cerimoniali dello stato avevano il loro centro nel tempio degli antenati dei sovrani, ogni
comunità aveva il proprio terrapieno dove venivano compiuti i sacrifici al suolo fonte di vita.

L’impero conquistato dal re Wu e consolidato dal duca di Chou si estendeva sulla maggior parte della Grande
Pianura, ma, in questo periodo, per lo stato primitivo delle comunicazioni fu impossibile governare una zona
così ampia. Infatti, i sovrani Chou, mentre mantennero il loro diretto controllo sulla valle del Wei, delegarono
l’autorità sui territori orientali a un gran numero di vassalli. Costoro erano per la maggior parte diretti
discendenti dei sovrani o loro parenti, ma vi erano anche uomini di fiducia non legati alla dinastia da vincoli di
parentela o aristocratici locali che riconoscevano la signoria del re.
La tipica unità di governo locale era formata, come nei periodi precedenti, dalla città murata e dalla campagna
circostante. Non si sa con certezza quante fossero queste unità, forse più di 50 o 70.

Anche la società dei Chou, come quella degli Shang, era profondamente divisa; l’aristocrazia guerriera
manteneva una posizione di predominio sulle masse contadine e sugli schiavi, in gran parte impiegati nei lavori
domestici.
Nell’ambito del suo dominio ogni signore godeva di un potere illimitato. In origine l’organizzazione della società
fu probabilmente molto semplice. Al di sotto del signore ereditario vi era l’aristocrazia guerriera, anch’essa
ereditaria, e, infine, la massa dei contadini che con il lavoro mantenevano l’intera comunità. Scrittori di
un’epoca più tarda affermano che in questo periodo 8 famiglie contadine, ciascuna con il proprio podere,
coltivavano insieme un appezzamento centrale, i cui frutti erano destinati al signore. Tale sistema è chiamato
sistema del “campo pozzo”.

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CAP. 3 – LA CINA CLASSICA: L’ETA’ D’ORO DEL PENSIERO CINESE

Sviluppo economico e culturale sotto i Chou orientali:


Non sappiamo per quanto tempo i primi Chou siano riusciti a mantenere l’effettivo controllo degli estesi territori
conquistati; in ogni caso, il loro potere si estinse per sempre nel 771 AC, allorché i “barbari”, alleati con stati
ribelli cinesi, distrussero Hao, la capitale dei Chou. La tradizione raccontava che il sovrano, facendo accendere
una lunga successione di fuochi, aveva più volte chiamato a raccolta gli eserciti dei suoi vassalli al solo scopo
di divertire la sua concubina favorita, e che quanto l’aiuto fu realmente necessario, i fuochi vennero accesi ma
nessuno rispose.
Dopo questo disastro, la stirpe reale venne ristabilita a Loyang, che era stata la capitale ausiliaria fin dai primi
anni della dinastia. Situata nello Ho-nan, vicino alle zone più popolate, essa era più sicura dagli attacchi dei
“barbari”. I sovrani Chou, tuttavia, non esercitarono più alcun reale potere politico o militare. Fino all’estinzione
dello stato, che avvenne nel 256 AC, furono loro concesse soltanto alcune attribuzioni religiose e onori
meramente formali.

Il periodo dinastico che precede il 771 AC viene chiamato dai cinesi periodo dei Chou occidentali, dalla località
in cui era situata la capitale; dopo quella data, la dinastia è chiamata dei Chou orientali.
In realtà altre due sottounità vengono comunemente usate per quanto riguarda il periodo dei Chou orientali. La
prima è rappresentata dal cosiddetto periodo delle “Primavere e Autunni” (722-481 AC), e la seconda
corrisponde al periodo degli “Stati combattenti” (403-221 AC).
Il periodo dei Chou orientali rappresenta nella storia cinese una fase romantica e avvincente. Durante questi 5
secoli vi fu soltanto una parvenza di autorità centrale, ma la storia dei singoli stati e gli innumerevoli racconti di
eroi, di saggi e di furfanti ci vengono offerti da opere letterarie del tardo periodo Chou. Ma quel che più conta,
questa fu una dinamica età di sviluppo, durante la quale si assistette a un grandioso spirito creativo.

Nel secolo 8° AC, la Cina era tecnologicamente molto lontana dal livello dell’Asia occidentale e dei paesi del
Mediterraneo. Il ferro non era stato ancora conosciuto. Nel 3° secolo, tuttavia, la Cina aveva probabilmente
raggiunto il livello tecnologico del resto del mondo civile, le armi di ferro avevano sostituito quelle di bronzo e
l’aratro con punte di ferro provocò una rivoluzione agricola. Inoltre, negli ultimi secoli del periodo Chou, i
raccolti aumentarono notevolmente grazie a una irrigazione su vasta scala e ad altri progetti di controllo delle
acque.

Già a partire dal secolo 3° AC, la popolazione della Cina costituiva forse il più grande aggregato umano del
mondo. L’aumento della popolazione fu accompagnato da un rapido sviluppo del commercio e da un enorme
accrescimento della ricchezza. Col progredire del periodo Chou si sente parlare sempre più spesso di ricchi
commercianti. Questa nuova classe in ascesa si rivelò come un elemento di disgregazione del vecchio ordine
aristocratico, il quale, forse per autodifesa, si fece propagatore di una teoria che divideva la società in 4 classi:
al vertice, il guerriero-amministratore, quindi il contadino o produttore principale, a sua volta seguito
dall’artigiano o produttore secondario; infine, il mercante, che per gli aristocratici aveva una funzione
economica molto dubbia che così rimase nei successivi 2 millenni.
Con lo sviluppo del commercio le città si trasformarono in centri di affari. Pezze di seta e metalli preziosi in
lingotti vennero presto usati come mezzi di pagamento. Più tardi si iniziò a coniare il rame. Le prime monete
erano rozze imitazioni di oggetti in metalli prezioso, ma verso la fine del periodo Chou fu introdotta una piccola
moneta rotonda di rame munita di un buco quadrato che serviva per infilarla. Verso la fine del periodo Chou
apparvero anche altri oggetti caratteristici della cultura cinese, come i bastoncini, usati a partire dal 3° secolo
AC.

L’evolversi dell’uso del cavallo da sella tra le popolazioni di pastori dell’Eurasia sembra aver avuto effetti
profondi sulla società cinese. La maggior mobilità che tale innovazione diede a questi popoli rese più rapide le
comunicazioni tra le civiltà agricole dell’Asia orientale e occidentale. Nel tardo periodo Chou, le invenzioni e le
scoperte compiute nelle zone indiana e mediterranea filtrarono con facilità e rapidità in Cina, colmando il divario

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tecnologico fino ad allora esistente. Anche nel campo delle arti figurative, per esempio, la tendenza occidentale
al ritratto stilizzato, trasmesso dalle popolazioni nomadi, sostituì il tipo di disegno del periodo Shang.
L’uso del cavallo fece delle popolazioni di pastori stanziate a nord della Cina una forza militare molto più
temibile che in precedenza. Questa minaccia suscitò un più tenace sforzo difensivo, e durante il tardo periodo
Chou gli stati della Cina del Nord cominciarono a erigere grandi mura lungo le loro frontiere settentrionali.
Questo sistema difensivo, quando venne in seguito unificato, diventò la Grande Muraglia cinese.

Di pari passo con il progresso economico e tecnologico, si ebbe nel periodo dei Chou orientali un rapido
sviluppo sia del processo di unificazione politica sia dell’area culturale cinese in generale. La costruzione delle
mura e il controllo delle acque mise in evidenza sia i progressi politici che quelli economici e tecnologici.
Circa 10 degli innumerevoli staterelli nella Grande Pianura, già nel secolo 8° erano riusciti a costruirsi in unità
più vaste ed efficienti e a esercitare sugli altri il loro predominio. Nei secoli successivi, tuttavia, questi stati
perdettero gradualmente la loro supremazia. Una delle ragioni di questa decadenza è da ricercare nella
vicinanza reciproca; essi disponevano, per espandersi, di uno spazio minore di quello degli stati situati alla
periferia dell’area culturale cinese. Un’altra ragione consiste forse nel loro eccessivo attaccamento alla
tradizione. Le innovazioni nelle tecniche politiche, militari ed economiche vennero per la maggior parte
introdotte dagli stati periferici, meno oppressi dal peso del passato e stimolati dalla sfida rappresentata da una
rapida espansione territoriale.

Lo stato di Ch’i è una tipizzazione dello sviluppo di quegli stati periferici. Più importane è la posizione geografica
dello stato, situato lungo il limite orientale della Grande Pianura, e quindi con buone possibilità di espansione,
anzitutto mediante l’incorporazione dei “barbari”.
Nei secoli 7° e 6° AC lo stato di Ch’i estese il suo territorio di almeno 6 volte, stabilendo il suo controllo su una
zona paragonabile per espansione a una moderna provincia cinese. Pressappoco nello stesso periodo lo stato
di Ch’i cominciò a modernizzare le sue strutture politiche. Le principali innovazioni vengono attribuite al duca
Huan e al suo grande consigliere Kuan Chung, più noto nella storia col nome di Kuan-tzu, ossia Maestro Kuan.
Modernizzazione politica significava centralizzazione. Si racconta che lo stato di Ch’i divise la sua popolazione
in unità geografiche e amministrative controllate dall’apparato governativo centrale. Venne istituito un sistema
fiscale uniforme e si riorganizzarono le forze armate, imponendo alle varie sottounità di fornire soldati
all’esercito centrale, anziché continuare a fare assegnamento sulle schiere di armati reclutate dai gruppi
familiari.
Si diede inizio anche a una attiva politica economica tentando di stabilire un controllo dei prezzi, di regolare i
pesi e le misure e di incoraggiare il commercio. Anche i primi monopoli statali del sale e della produzione del
ferro, che diventeranno in Cina il principale sostegno economico del governo centralizzato, vengono
tradizionalmente attribuiti all’iniziativa di Kuan-tzu.

Uno dei principali aspetti di questa centralizzazione del potere fu lo sviluppo di un ordinato sistema di imposte
agrarie. Il possesso individuale della terra cominciò a sostituire l’antico sistema dell’uso in comune; molti
contadini diventarono quindi possedenti, ma d’altra parte alcuni decaddero allo stato di servi.
La centralizzazione del potere si accompagno allo sviluppo della codificazione e alla comparsa di un nuovo ceto
burocratico che a poco a poco soppiantò la vecchia aristocrazia nella sua funzione di collaboratrice del
sovrano. il rinnovamento della classe dirigente è da associare a una diffusione della cultura e dell’educazione.
Cominciarono a venire alla ribalta uomini che, pur non appartenendo alle grandi famiglie, vennero impiegati
nell’amministrazione.

Con un’evoluzione quasi simile a quella dello stato di Ch’i, altri stati si estesero diventando potenti ai margini
dell’area culturale cinese. Lo stato di Ch’in si costituì nella valle del Wei dopo la fuga dei Chou, diventando la
grande potenza dell’estrema zona Occidentale.
Lo stato di Chin non riuscì tuttavia a stabilire un potere saldo come quello dello stato di Ch’i e nel 453 AC il suo
territorio venne suddiviso tra 3 famiglie principesche: gli Han, i Wei e i Chao. La legittimità della successione di

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questi 3 stati ribelli venne riconosciuta dalla dinastia Chou nel 403 AC, data che viene assunta come inizio del
periodo degli Stati combattenti.
All’estremità settentrionale, intorno all’odierna Pechino, sorse lo stato di Yen, probabilmente di origine
“barbarica”. Dal nome di questo stato deriva il nome letterario di Pechino: Yen-ching, “la capitale di Yen”.

In modo analogo, stati di evidente origine “barbarica”, anche se si proclamarono discendenti dei sovrani Chou
o degli antichi eroi cinesi, sorsero a sud. Lo stato di Ch’u era già una grande potenza. Fatto significativo, i
sovrani Ch’u assunsero fin dall’inizio il titolo di wang, ossia re, indicando con ciò che essi non intendevano
accettare la vuota teoria della supremazia Chou.
Nel 6° secolo AC, due altri stati “barbarici” meridionali assunsero il ruolo di grandi potenze, lo stato di Wu,
intorno Nanchino e Shanghai, e lo stato di Yueh. Entrambi seguirono l’esempio dello stato di Ch’u, attribuendo
ai loro sovrani il titolo di wang. Questi stati meridionali, situati in una zona di grandi laghi e fiumi navigabili,
divennero potenze fluviali e poterono disporre di flotte oltre che di eserciti.
La grande espansione dell’area culturale cinese durante il periodo dei Chou orientali avvenne quindi mediante
l’incorporazione di elementi di origine “barbarica”, in parte con la conquista ma soprattutto con l’adesione
volontaria di unità politiche un tempo considerate estranee alla civiltà.
I “barbari” probabilmente appartenevano a gruppi non-cinesi, nel senso che parlarono inizialmente altre lingue
sinitiche, simili a quelle che ancora sopravvivono sulle montagne della Cina del Sud Ovest.

Nei primi anni dei Chou orientali, i piccoli stati situati al centro dell’area culturale tennero in grande
considerazione principi come la legittimità e l’osservazione del li, o giusta condotta, conforme cioè ai valori
stabiliti della convivenza civile. Sebbene lo stato di guerra fosse continuo, rigide norme di condotta venivano
osservate, anche in battaglia.
Particolarmente radicata era la convinzione che le famiglie nobili, alle quali spettava la responsabilità dei
sacrifici ancestrali, dovessero essere perpetuate. Attribuendo tanta importanza alla legittimità, gli stati centrali
più deboli cercarono di contenere la minaccia delle potenze periferiche.
Col progredire del periodo, una condotta conforme alle regole della guerra divenne, sul campo, motivo di
onore, mentre la legittimità si ridusse a una finzione come quella dell’autorità Chou. Gli stati conquistati, che
fino a quel momento erano stati trasformati in satelliti, vennero ora annessi come nuove province controllate dal
potere centrale dello stato vincitore.
Nel 4° e 3° secolo AC, tutti i sovrani degli stati principali seguirono l’esempio di Ch’u assumendo il titolo di
wang, e proclamando quindi che non intendevano più a lungo riconoscere neanche la formale legittimità di
Chou. Seguì un periodo di lotte all’ultimo sangue.
Naturalmente, si tentò di stabilizzare la situazione politica e di limitare le guerre; molto spesso si iniziarono
trattative bilaterali o multilaterali tra gli stati. I matrimoni tra membri di famiglie principesche divennero uno
strumento per rafforzare gli accordi stabiliti. Il principale problema dei più antichi ma più piccoli stati cinesi,
durante i primi anni del periodo dei Chou orientali, fu quello di difendere la loro indipendenza dalla crescente
potenza dello stato meridionale di Ch’u.

Gli stati della Grande Pianura manifestarono quindi la tendenza a unirsi contro lo stato di Ch’u, nel tentativo di
difendere il principio di legittimità contro l’usurpazione dei “barbari”. Una lega venne effettivamente formata nel
651 AC, quando, nel corso di una grande conferenza, i rappresentati di Chou e degli altri stati centrali
riconobbero il dico Huan, il grande sovrano di Ch’i, come egemone della confederazione cinese. Il sistema
egemonico, tuttavia, diede alla Cina una stabilità molto breve e sporadica, che finì per coincidere con la durata
della vita di quello gra i capi che era abbastanza forte da riuscire a stabilirsi come egemone.
Nel corso del 6° secolo si ebbe a tratti una certa effettiva stabilità mediante un sistema di equilibrio di potere tra
lo stato di Chin, a nord, e lo stato di Ch’u, a sud; ma nel frattempo si era rapidamente sviluppato lo stato di Wu,
che nel 482 venne riconosciuto come la potenza militare dominante in Cina, ma che nel 473 venne annientato
e annesso dallo stato di Yueh. Con la distruzione del grande stato di Wu e l’assunzione della carica di egemone
da parte del sovrano di Yueh, il più meridionale e il più “barbarico” degli stati cinesi, il tentativo di impedire un

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mutamento radicale della situazione e di arginare la potenza dei “barbari” con il sistema dell’egemonia venne
completamente frustrato.
Non vi furono infatti altri tentativi colti a organizzare un ordine interstatale nella antica Cina. Il sistema brutale
della conquista diventò la regola.
Lo stato di Chin cessò di essere una grande potenza disgregandosi nel 453, e lasciando gli stati di Ch’i a
oriente, di Ch’in a occidente e di Ch’u nel Sud come principali contendenti nella lotta per la supremazia. Lo
stato di Ch’u distrusse quello di Yueh nel 334 e il piccolo stato centrale di Lu nel 249. Lo stato di Ch’in
sconfisse senza difficoltà lo stesso stato di Chou nel 256. Infine, dopo una serie di grandi campagne condotte
tra il 230 e il 221 AC, Ch’i sottomise i rimanenti stati indipendenti unificando per la prima volta la Cina.

Malgrado l’instabilità politica del medio e basso periodo Chou, fu questa la più grande età del pensiero cinese.
La rapida crescita geografica culturale e istituzionale risvegliò curiosità nuove e accese l’immaginazione degli
uomini. La trasformazione dell’organizzazione politica e sociale rendeva necessari nuovi ideali e nuove norme di
condotta.
Inoltre, il rapido progredire delle invenzioni umane andava distruggendo le convinzioni tradizionali e, di
conseguenza, cominciavano dovunque a porsi nelle coscienze i fondamentali problemi concernenti il significato
e il fine della vita umana e della società.
A partire da questo periodo l’interesse filosofico dei cinesi si accentra sull’uomo, considerato come animale
politico e sociale. In questo senso, si tratta di un interesse prevalentemente “umanistico”, in netto contrasto
con l’importanza attribuita al divino e al mondo ultraterreno dalle filosofie dell’India e di mole zone di civiltà
mediterranea. I cinesi del periodo Chou avevano come supreme divinità Shang Ti e T’ien; pur credendo
nell’esistenza di un gran numero di spiriti e di esseri soprannaturali, essi portarono la loro attenzione
prevalentemente sull’uomo e sui suoi rapporti con l’ambiente sociale circostante. Più che attribuire importanza
all’individuo, i cinesi presero in considerazione l’uomo in quanto membro della società.
La particolare funzione svolta dai filosofi nel periodo Chou fu nello stesso tempo un prodotto e uno degli
elementi che contribuirono al sorgere di questa filosofia dell’orientamento umanistico e terreno. I filosofi erano
prima di tutto dei politici pratici. La crescente complessità degli affari di governo rendeva necessari i servigi
degli uomini di cultura.
I grandi pensatori costituirono il fior fiore della burocrazia del talento in ascesa e diventarono naturalmente gli
onnipotenti consiglieri dei sovrani ereditari. I filosofi riuscirono a circondarsi di gruppi di discepoli e diventarono
quindi dei maestri. I discepoli dei grandi pensatori andarono gradualmente formando delle scuole di filosofia
dalle quali l’insegnamento emerse alla fine nei testi filosofici del periodo Chou.
Sebbene i filosofi fossero spesso audaci innovatori, molti furono tra loro quelli che si ispirarono a una supposta
età d’oro primitiva, l’interesse per il passato considerato come modello del presente, fu sempre in Cina
particolarmente vivo.

Non è possibile elencare i classici cinesi senza prima ricordare i classici cinesi senza prima ricordare un’altra
caratteristica del pensiero della Cina, per l’ordine e l’equilibrio. Per i cinesi i “classici” non sono un’espressione
per designare la letteratura, bensì un complesso di opere specificate e associate alla tradizione confuciana
dominante. I classici costituiscono la prima delle 4 suddivisioni tradizionali della letteratura cinese.

Il primo dei Cinque Classici è lo Shih ching o Classico delle poesie. Il Classico delle poesie comprende 305
poesie. Molte sono semplici poesie d’amore; altre poesie politiche o inni rituali di maggiore lunghezza. Tutte
sono caratterizzate da un modello metrico e ritmico e da una rima così rigorosi che non si tratta di canti
popolari, ma dei prodotti di una tradizione letteraria elaborata.

Lo Shu-ching o Classico dei documenti, comprende documenti e discorsi semistorici che risalgono ai primi
secoli del periodo Chou, ma il testo è in gran parte considerato come il frutto di successive contraffazioni.

Lo I-ching o Classico dei mutamenti, è costruito sugli 8 trigrammi e sui 64 esagrammi che si svilupparono come
sistema di divinazione accanto alla scapulomanzia. Gli 8 trigrammi, che vengono rappresentati nell’arte asiatica

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orientale, sono formati da tutte le permutazioni possibili di combinazioni a 3 linee di linee continue o spezzate.
Se si usano 6 linee invece di 3, le combinazioni possibili diventano 64.
Si trattava, in altre parole, di un manuale di divinazione. Sotto i vari esagrammi, il Classico dei mutamenti
comprende popolari formule augurali e un gran numero di altri presagi, alcuni molto chiari, altri enigmatici.

Il Ch’un ch’iu o Annali della primavera e dell’autunno, è un breve resoconto cronologico dei principali eventi
occorsi alla corte dello stato di Lu, o ad essa attribuiti, tra gli anni 722 e 481 AC. Il titolo ha dato origine al nome
col quale il relativo periodo è ora noto, si tratta di un testo chiaro e interamente cronachistico.

L’ultimo dei Cinque Classici, il Li chi o Memoriale dei riti, è una miscellanea di materiali più antichi che
concernevano il cerimoniale e i riti. Le forme cerimoniali costituivano un elemento essenziale nella concezione
confuciana dell’ordine sociale.

Oltre ai Cinque Classici, si sente molto spesso parlare dei 13 Classici. Essi comprendono i 5 Classici, tra i quali
Annali della primavera e dell’autunno, sono però considerati come 3 opere diverse poiché si tiene conto anche
dei cosiddetti commenti che generalmente accompagnano il testo principale.
Più di 1000 anni dopo la fine del periodo Chou, 4 testi relativamente brevi furono scelti e considerati come le
fonti più autentiche degli insegnamenti confuciani. Tali testi, noti col nome di Quattro Libri, sono i Dialoghi o
Analetti di Confucio, il Mencio e due capitoli del Memoriale dei riti: il Grande Studio e Dottrina del mezzo.

Il Confucianesimo:
È significativo il fatto che il primo uomo che, per quanto ne sappiamo, fu in Cina insegnante di professione e
filosofo, sia poi sempre stato considerato nell’Asia orientale come il più grande di tutti i maestri e filosofi.
Confucio (551-479 AC): la sua vita e insegnamento hanno prodotto una vasta messe di scritti, la maggior parte
assolutamente fantasiosi. Il poco che sappiamo del vero Confucio si ricava dagli Analetti (Lun yu). Quest’opera
in gran parte costituita da risposte dello stesso Confucio a domande che gli vengono rivolte, e introdotte
dall’espressione: “Il Maestro disse”.
Originario dello stato di Lu, Confucio non era per nascita destinato a raggiungere posizioni di potere, ma
essendo un uomo di cultura discendeva probabilmente da una famiglia della piccola nobiltà. Durante tutta la
sua vita aspirò a un alto incarico politico, ma non riuscì mai a realizzare questo suo desiderio. Da giovane
ricoprì probabilmente piccole cariche e più tardi aveva raggiunto importanti posizioni politiche, ma insoddisfatto
di questa situazione, per circa un decennio peregrinò da uno stato all’altro cercando invano un incarico. Alla
fine tornò nello stato di Lu, ma solo per morirvi. Alla sua occasionale occupazione d’insegnante la storia attribuì
invece un successo senza eguali.

A prima vista le concezioni confuciane sembrano poco stimolanti e piatte, egli non esercita l’attrazione
intellettuale. Per questo il sistema di dottrine che egli insegnò non diede origine ad una religione nel senso
occidentale del termine. Egli riconosceva gli spiriti e il Cielo (T’ien), dal quale mostrò talvolta di considerarsi
come investito di una missione, ma non ebbe mai molto interesse per l’ultraterreno. Questa mancanza di
considerazione per il mondo ultraterreno suscitò più tardi una forte corrente agnostica in seno alla tradizione
confuciana, in netto contrasto con il prevalente interesse per il divino tipico dell’India e Occidente.
Confucio condivise le tendenze del suo tempo con il suo interesse predominante per i problemi politici.
Egli proclamò di essere prima di ogni altra cosa un devoto studioso dell’antichità, un trasmissore della
saggezza del passato, e si rivolse quindi in particolare ai primi anni del dominio Chou considerandoli una età
d’oro di pace. Riteneva che l’anarchia del suo tempo avrebbe potuto avere termine soltanto se gli uomini
fossero ritornati all’ordine politico e sociale che si supponeva creato dai fondatori della dinastia, il re Wen e il
duca di Chou.
Secondo Confucio, per ritornare all’antica via tutti gli uomini avrebbero dovuto assolvere la loro funzione
assegnata in una statica società autoritaria. Questa concezione è sinteticamente espressa nella famosa
massima: “Il governante deve essere un governante e il suddito un suddito; il padre deve essere un padre e il
figlio un figlio”.

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Se l’insegnamento confuciano si fosse limitato a principi come questi, egli non sarebbe stato molto più di un
ultraconservatore. In realtà, la sua grande innovazione apparentemente inconsapevole era rappresentata dalla
concezione che identificava fondamentalmente le questioni politiche con i problemi etici. Egli non contestava il
diritto a governare, acquisito ereditariamente dai grandi signori, ma insisteva sul fatto che loro primo dovere era
quello di dare un corretto esempio di condotta ispirata a profondi motivi etici. In un periodo nel quale la forza
era il diritto, egli sostenne che la virtù del governante e l’assenso del popolo, e non la potenza, dovevano
costituire l’unica misura del successo politico.
Il principale intendimento di Confucio, durante tutta la sua vita, fu quello di infondere nell’animo dei governanti i
suoi principi etici, e la sua principale attività quella di educare i discepoli secondo tali principi, in modo che essi
potessero diventare dei funzionari virtuosi. Egli dedicò la sua vita alla formazione della loro personalità. Il suo
ideale era il chun-tsu, “figlio del governante” o “gentiluomo”.

Confucio insistette molto sulle virtù che il “gentiluomo” doveva possedere. Esse erano: chih (rettitudine o
integrità interiore), i (senso di giustizia), chung (coscienziosità verso gli altri o lealtà), shu (altruismo o
reciprocità) e soprattutto, jen (amore o umanità).
Confucio riteneva che le qualità del “gentiluomo” non potevano limitarsi a queste virtù interiori. Il “gentiluomo”
doveva possedere anche il wen, che significa “cultura”, “raffinatezza”, e il li, che significa alla lettera “rituale”,
vale a dire consapevolezza della dignità che gli era propria e conoscenza dell’etichetta.

La moderazione e l’equilibrio sono forse le ragioni principali del definitivo trionfo del confucianesimo in Cina.
L’educazione confuciana, fondata sua sulle virtù interiori che sul comportamento esteriore, produsse uomini
preparati all’arte di governo.
Un’altra ragione del trionfo fu la sua tempestività. Le necessità politiche stavano lentamente sviluppando in
Cina una burocrazia di intellettuali che avvertiva il bisogno di una filosofia, Confucio la elaborò. Senza mettere
in dubbio la legittimità del potere ereditario egli riteneva, in quanto uomo di educazione superiore, di avere il
diritto di consigliare i regnanti sul modo di ben guidare se stessi e i loro governi.

Il Taoismo:
dopo il confucianesimo, la più importante corrente di pensiero cinese è il taoismo. Sebbene non fosse una
scuola filosofica omogenea, il taoismo del tardo periodo Chou si pose in netto contrasto con il confucianesimo.
Infatti fu prevalentemente una filosofia di protesta, la ribellione dell’uomo comune contro il crescente dispotismo
dei governanti, e la ribellione dell’uomo comune, dotato di intelligenza e sensibilità, contro la rigidità crescente
dei moralisti, che proseguivano la lunga strada aperta da Confucio.
Mentre sia i moralisti che i governanti cercavano di costringere gli uomini entro gli schemi dei modelli sociali, i
taoisti presero fermamente le difese dell’indipendenza dell’individuo, la cui sola preoccupazione doveva essere
quella di adattarsi al grande modello della natura. Il modello della natura era il Tao, alla lettera “strada” o “via”;
a questo termine, usato da Confucio per indicare il sistema sociale che egli propugnava, il taoismo diede una
interpretazione metafisica.

L’interesse degli agricoltori cinesi per il loro ambiente naturale, i culti della fertilità degli antichi sovrani e la
concezione che faceva dei governanti gli intermediari tra la natura e l’uomo possono aver trovato la loro
espressione filosofica nel tentativo del taoismo di adattare armonicamente la vita umana ai cicli della natura.
Il misticismo dei taoisti costituiva un importante elemento e nucleo principale delle loro concezioni, può aver
avuto la sua origine negli antichi sciamani. Costoro, con procedimenti di auto ipnotismo, avevano comunicato
direttamente con gli spiriti; i taoisti, attraverso “l’immobilità e la dimenticanza” e i “digiuni della mente”,
potevano sperimentare ipnosi estatiche durante le quali raggiungevano la condizione di “veri uomini” cogliendo
direttamente l’unità dell’universo. Tali pratiche furono probabilmente influenzate dalle concezioni indiane dello
yoga; i taoisti, come gli indiani, davano grande importanza agli esercizi respiratori per raggiungere lo stato di
trance.
I primi rappresentanti di questa tendenza del pensiero furono probabilmente gli eremiti.

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Come tutti gli altri mistici, gli antichi taoisti ebbero difficoltà ad esprimere le loro idee essenziali. Come essi
dicono, “Colui che sa non parla e colui che parla non sa”. Il Tao è fondamentalmente un “non-essere”, senza
nome e senza forma; “non può essere udito, visto, espresso”, ma è nella sua essenza, la totalità dei processi
naturali ai quali l’uomo deve conformarsi. Malgrado il divenire costante, il Tao è unitario e non conosce le
distinzioni.
La relatività di tutte le cose e la dipendenza di ogni qualità dal suo opposto sono temi costanti del pensiero dei
taoisti, che scrivono: “l’acqua, che è vita per i pesci, è la morte per l’uomo”.
L’uomo che può trascendere le distinzioni mondane e umane e divenire uno col Tao è “al di là di ogni male”.
Dall’unione col Tao egli ricava il Te individuale, o “forza” mistica.
Il mezzo per stabilire l’unione con la Via della natura è la dottrina del wu-wei, o “non azione”. Con ciò i taoisti
intendono un’attività conforme alla natura: “Non fare niente e non c’è niente che non sarà fatto”; il che significa
che ogni cosa si compirà spontaneamente. L’elemento che i taoisti prediligono è l’acqua, che sebbene sia la
più soffice tra le cose, può consumare le più ruvide. Se lasciato a se stesso, l’universo procede con regolarità
secondo il suo ordine proprio. Gli sforzi dell’uomo per cambiare o migliorare la natura non fanno che
distruggere questo ordine provocando il caos.

Malgrado il loro misticismo naturalistico, i taoisti furono abbastanza sensibili agli interessi prevalenti nel loro
tempo da delineare un quadro della società perfetta. Come altri filosofi cinesi loro contemporanei, assunsero
come modello un’età d’oro primitiva, che costituiva per loro un periodo di conoscenza perfetta.
Il primitivismo, l’ideale dei taoisti, veniva espresso con il termine p’u, che indicava in origine il ceppo di legno
non intagliato. La conoscenza può soltanto corrompere e suscita desideri che non possono essere soddisfatti. I
taoisti sostenevano la necessità dell’abbandono della scrittura e il ritorno a una supposta fase primitiva. Il
simbolo della perfezione fu per loro il bambino.
I taoisti lodavano il contadino, che, sebbene a conoscenza del sistema della ruota per l’irrigazione, preferiva
attingere acqua al pozzo trasportandola a braccia perché comprendeva che l’impiego di attrezzi troppo
ingegnosi avrebbe avuto influenze negative sullo spirito dell’uomo.
L’ideale politico dei taoisti era un piccolo stato dal quale si potessero udire i galli e i cani dello stato vicino, ma
con una popolazione così soddisfatta della sua condizione che nessuno si sarebbe preoccupato di visitare
questo stato vicino.

Le Cento Scuole
Il confucianesimo e il taoismo non sono le sole filosofie fiorite in Cina nel tardo periodo Chou:

I naturalisti
Una di queste scuole, che può essere chiamata naturalistica, comprende filosofi che tentarono di spiegare i
fenomeni naturali sulla base di alcuni principi cosmici.
Una delle principali concezioni dei naturalisti è rappresentata dal fondamentale dualismo della natura: yang,
principio maschile, positivo di luce e calore; yin, principio femminile, negativo, di oscurità e freddo.
Contrariamente al dualismo del mondo mediterraneo, nel quale il bene e il male sono in perpetuo conflitto, yin e
yang sono complementari e si equilibrano reciprocamente. Quanto più grande è il dominio del yang, tanto più
presto dovrà sottomettersi al yin.

Secondo un’altra concezione fondamentale del pensiero dei naturalisti, la natura è costituita dalle varie
combinazioni dei “cinque elementi”: il legno, il metallo, il fuoco, l’acqua e la terra.
Così, si diceva che il metallo taglia il legno, il fuoco fonde il metallo, l’acqua spegne il fuoco, la terra prevale
sull’acqua e il legno sulla terra.
In seguito, la dottrina dei “cinque elementi” portò allo sviluppo di una pseudoscienza molto diffusa. La storia
venne spiegata mediante la successione degli elementi. Nello stesso modo veniva trattata la medicina, in base
a principi come: l’acqua estingue la febbre (il fuoco) e simili.

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I dialettici
Un altro gruppo di filosofi, conosciuto anche come la Scuola dei Nomi, è costituito dai dialettici. Essi tentarono
di stabilire un sistema logico attraverso una analisi rigorosa del significato delle parole in modo da evitare le
incertezze inerenti alla lingua. Il loro sforzo venne stimolato e a lungo andare forse anche frustrato dalla
ambiguità del cinese, che essendo privo di inflessioni normalmente non riesce ad esprimere le distinzioni di
genere e numero.

Mo-tzu
Una scuola filosofica più antica è quella di Mo-tzu, che nacque nel periodo della morte di Confucio.
Mo-tzu fu un rigoroso utilitarista; chiese l’adozione di misure dirette ad arricchire il paese, ad accrescere la
popolazione e a dare ordine allo stato e criticò con veemenza tutto ciò che non contribuiva al raggiungimento di
questi fini. Il cibo, il vestiario e le abitazioni dovevano essere limitati allo stretto necessario; la musica e i
cerimoniali li dei confuciani erano considerati unitili e vani. Egli non dava alcuna importanza all’espressione
estetica e sosteneva la necessità di estinguere ogni emozione.

La panacea che Mo-tzu offriva per la realizzazione di questa sua utopia utilitaristica era la dottrina dell’amore
universale. I confuciani, accettando il sistema familiare e la complessa struttura della società, stavano
formulando in questo periodo una teoria dell’amore differenziato, dipendente dai rapporti specifici stabiliti tra gli
individui. Mo-tzu pensò che gli interessi generali sarebbero stati meglio rispettati se “ognuno avesse amato gli
altri come amava se stesso”.

Mencio
Fu un ardente campione della causa confuciana ed entrò in polemica contro gli oppositori, in particolare contro
Mo-tzu.
Con ogni evidenza, Mencio pensava di trasmettere semplicemente la Via degli antichi di Confucio; in realtà egli
aggiunse nuovi ed importanti elementi alle dottrine del Maestro. Una delle sue concezioni basilari affermava
che l’uomo è buono per natura; e con ciò intendeva dire che vi è in ogni uomo un sentimento morale innato che
può essere portato a completo sviluppo per mezzo delle virtù confuciane.
L’innata bontà dell’uomo, pensava Mencio, può essere sviluppata da uno sforzo interiore di auto elevazione.
Cominciando da coloro che sono più vicini e cari, e quindi spontaneamente fanno sorgere un sentimento di
amore (jen), gli uomini devono sforzarsi consapevolmente di estendere il loro amore alle persone più lontane.

Sul piano politico, affermò che il principio guida nell’arte di governo non doveva essere l’interesse ma la
giustizia. Egli credeva fiduciosamente che se un sovrano avesse mostrato di essere un uomo perfettamente
morale, l’intero paese si sarebbe inevitabilmente posto sotto la sua guida. Questa era la “Via dei Re”, non la
politica di conquista o dominazione del paese con la forza.

Il governo del sovrano veramente morale, sosteneva Mencio, doveva essere caratterizzato dalla benevolenza
verso il popolo, benevolenza che egli avrebbe manifestato educandolo e assicurandogli un certo benessere
economico. Infatti, il “Mandato dal Cielo”, la fondamentale giustificazione del potere, si manifestava soltanto
attraverso l’accettazione del sovrano da parte del popolo; se il popolo uccideva o deponeva il sovrano, era
chiaro che quest’ultimo aveva perduto l’appoggio del Cielo.

Hsun-tzu
È noto soprattutto per la sua decisa opposizione al presupposto basilare di Mencio, ossia che l’uomo è per
natura buono. Egli riteneva che la natura umana trova la sua origine in un Cielo impersonale e amorale; le
emozioni dell’uomo e i suoi naturali desideri sono fonte di conflitti e, di conseguenza, cattivi. Questa condizione
può essere modificata dall’educazione. Tutti gli uomini sono uguali per la loro natura malvagia, ma sono
suscettibili di miglioramento attraverso l’educazione. L’insegnante svolge una funzione estremamente

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importante e deve quindi essere onorato. Il processo educativo “comincia con la recitazione dei classici e
termina con l’apprendimento del li”.

I legalisti
Queste tendenze autoritarie e la concezione pessimistica della natura umana espresse da Hsun-tzu furono
ulteriormente sviluppate da un gruppo di filosofi e di politici pratici conosciuti col nome di legalisti.
I legalisti consideravano la natura umana come incorreggibilmente egoista e fonte di inevitabili conflitti. I
moralisti e i benefattori, che ostentavano benevolenza per i desideri umani, non erano altro in realtà che
perpetuatori del caos. Una severa legislazione e dure punizioni, anche se sgradite al popolo, erano per loro i
soli mezzi atti a stabilire quell’ordine e quella sicurezza che tutti desideravano sopra ogni altra cosa.
Il richiamo degli altri filosofi alla Via degli antichi fu dai legalisti ignorato: epoche diverse richiedevano metodi
diversi. Poiché il popolo era stupidamente egoista e i ministri badavano indegnamente solo al loro interesse, il
sovrano non poteva fare affidamento sulle loro qualità morali, ma doveva imporsi su tutti nello stesso modo con
un sistema definito di pene e ricompense.

Per i legalisti il diritto era la volontà del sovrano. sebbene negassero validità ai diritti di successione, esclusi
quelli del regnante, essi sostenevano la monarchia ereditaria e tutto il loro sistema filosofico mirava ad
appoggiare il sovrano nell’opera di consolidamento della sua posizione e del suo potere. Consideravano
scontato che l’obiettivo dei governanti fosse la costituzione di uno stato prospero e militarmente forte. L’intera
popolazione doveva essere costretta a un lavoro produttivo e ogni sforzo compiuto al fine di dare al popolo uno
spirito bellicoso e familiarità con il mestiere delle armi. I mercanti, gli intellettuali e le altre categorie sociali non
produttive e prive di spirito guerriero non dovevano essere tollerati. L’unica nobiltà riconosciuta era per loro
quella fondata sui meriti requisiti in battaglia.

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CAP.4 – IL PRIMO IMPERO CINESE: LE DINASTIE CH’IN E HAN

È un fatto significativo che lo stato di Ch’in abbia avuto il suo centro nella valle del Wei, dove era sorta in
passato la potenza dei Chou. La zona presentava alcuni vantaggi strategici. La sola via di accesso alla valle,
separata dal resto della Cina da una catena di monti, passava infatti attraverso una stretta lingua di terra,
situata tra il fiume e le colline, in prossimità della grande ansa del Fiume Giallo. Era quindi assai facile
difendersi.
La valle del Wei aveva inoltre il vantaggio di essere una zona periferica. Vi era quindi spazio per estendersi a
spese dei “barbari” e verso le popolazioni agricole meno progredite.
Inoltre, il contatto con i “barbari” permise loro di conservare a lungo costumi bellicosi.

Un’altra ragione del successo dello stato di Ch’in fu la larga applicazione delle nuove tecniche di organizzazione
politica e militare. Il primo grande balzo in avanti verso una posizione di predominio fu compiuto sotto la guida
di Shang Yang, che fu il funzionario più influente dello stato di Ch’in dal 361 al 338 AC.
Egli stabilì un rigido sistema di pene e ricompense, costrinse l’intera popolazione a svolgere lavori “produttivi”,
introdusse il sistema della mutua responsabilità e cercò di sostituire le grandi famiglie ereditarie con
un’aristocrazia nuova e puramente onorifica, scelta per i meriti militari.
La più importante delle riforme di Shang Yang fu il tentativo di portare l’intero territorio dello stato sotto il diretto
controllo del governo centrale.
Nel 350, Shang Yang divise l’intero territorio di Ch’in in 31 prefetture e pose ciascuna di esse sotto la direzione
di un funzionario dipendente dal governo centrale e noto col nome di prefetto (ling), applicando in tal modo, per
la prima volta a tutto il regno, il sistema centralizzato che impediva il rafforzarsi dei grandi domini ereditari.
All’epoca di Shang Yang, lo stato di Ch’in non era ancora annoverato tra le maggiori potenze, i cosiddetti “Sei
Stati”, ossia quelli di Chao, Wei e Han (I 3 stati successori di Chin), di Ch’i, Yen e Ch’u. comunque, nel 318 AC,
Ch’in riuscì a distruggere le forze congiunte dei cinque stati settentrionali e, 6 anni dopo, lo stato meridionale di
Ch’u.

L’unificazione della Cina fu infine compiuta da un re Ch’in che salì al trono ancora ragazzo nel 246 AC. Nei
primi anni del suo regno, il paese fu amministrato da Lű Pu-wei, un uomo di notevole valore che aveva costruito
la sua fortuna facendo il mercante nell’Est.
Dopo la caduta di Lű Pu-wei, nel 237, e la sua morte, avvenuta due anni dopo, acquistò grande influenza uno
dei suoi uomini di fiducia, Li Ssu, che era entrato al servizio dei Ch’in nel 247.

L’unificazione della Cina, ad opera degli eserciti Ch’in, avvenne con rapidità. Tra il 230 e il 221 caddero
successivamente gli stati di Han, Chao, Wei, Ch’u, Yen e Ch’i; nel 221 il re di Ch’in riuscì quindi a creare quello
che egli considerava un impero universale ed eterno. Assunse quindi il titolo di Shih Huang-ti, ossia “Primo
Imperatore”, adottando per il nuovo termine “imperatore” due caratteri usati per le divinità (Shang Ti) e per i
mitici imperatori-saggi dell’antichità (i 3 Huang e 5 Ti).

Il Primo Imperatore estese il sistema centralizzato dello stato di Ch’in a tutte le terre conquistate. La Cina fu
divisa in 36 comandi militari, e questi furono a loro volta suddivisi in prefetture. Alla testa di ogni comando
furono posti un governatore civile (shou), un governatore militare (chűn-wei) e un terzo funzionario, con funzioni
ispettive (chien-yu-shih), che rappresentava il governo centrale e aveva l’incarico di fare da equilibratore tra i
primi due.
Nello stesso tempo, il sistema Ch’in di possesso privato della terra veniva esteso a tutto l’impero, insieme al
sistema fiscale.
Il Primo Imperatore provvide anche al disarmo di tutti gli eserciti, tranne il proprio, e ordinò il trasferimento di
tutta l’aristocrazia ereditaria cinese, alla capitale, Hsien-yang, vicina all’area dov’era sorta l’antica capitale dei
Chou, Hao.

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Il Primo Imperatore cercò di consolidare le sue vaste conquiste per mezzo della centralizzazione
amministrativa, ma unificò anche pesi, misure e sistema monetario.

Sembra che Li Ssu abbia anche unificato il sistema di scrittura, dato che molti tipi diversi di calligrafia e di
composizione si erano sviluppati nei vari stati. Il risultato di questi sforzi e dell’influenza unificatrice dello stato
centralizzato fu che tanto i caratteri quanto lo stile della composizione cinese vennero fissati nel II secolo AC, in
quelle che sono le loro forme moderne.
Cresciuti sotto l’influenza della filosofia legalista, i sovrani Ch’in non ebbero scrupoli nella loro politica di
controllo del pensiero. Antichi libri come il Classico dei documenti, il Classico delle poesie, le opere dei filosofi,
sembravano loro contrarie alla sicurezza dello stato.
Nel 213 AC, Li Ssu procedette quindi alla distruzione delle opere indesiderabili con una specie di inquisizione
letteraria nota in seguito col nome di “Incendio dei libri”. Gli unici testi risparmiati furono quelli di utilità
immediata, come le opere di medicina, di divinazione e di agricoltura, le memorie storiche dei Ch’in.

Il suo sforzo per sopprimere le dottrine pericolose contribuì a mettere fine all’età d’oro del pensiero cinese,
insieme alle violente guerre che caratterizzarono il breve periodo del dominio Ch’in.
Questa decadenza trova però la sua ragione fondamentale nella natura stessa dell’impero, che, in quanto stato
organizzato e centralizzato, aveva lasciato alla libertà e varietà delle opinioni uno spazio più ristretto di prima.

Nonostante questo declino intellettuale, l’unificazione ebbe come conseguenza lo sprigionarsi di una grande
energia fisica. Potendo contare, con l’arruolamento dei contadini, su riserve militari quasi illimitate, i Ch’in
esercitarono un potere maggiore. Il Primo Imperatore seppe realizzare un sistema di grandi strade, lungo le
quali fece innalzare lapidi di pietra a ricordo delle sue gesta. I suoi eserciti incorporarono nell’impero molte delle
popolazioni “barbariche” del Sud, penetrarono nella parte settentrionale dell’attuale Vietnam e stabilirono il
dominio dei Ch’in lungo le coste meridionali della Cina.
Per la prima volta, la mappa della Cina cominciava ad avvicinarsi ai suoi attuali confini.
Per rendere sicuri i confini dalle incursioni dei nomadi, Meng T’ien, il più grande generale al servizio del Primo
Imperatore, mobilità al lavoro coatto enormi quantità di uomini, allo scopo di costruire un sistema di mura
difensive oltre la frontiera settentrionale. Incorporando i tronconi in precedenza eretti, si allungò così la Grande
Muraglia.

Essa doveva costituire una permanente linea divisoria tra le popolazioni agricole cinesi a sud e i “barbari”
nomadi a nord. Dal punto di vista militare, essa formava una barriera difensiva efficiente se adeguatamente
presidiata.

Gli Han ricevono il “Mandato”


Il successo della politica di accentramento del potere adottata dal Primo Imperatore contribuì alla fine
prematura della dinastia. L’amministrazione era così controllata al centro che un colpo al vertice aveva
ripercussioni in tutto il paese.
Il Primo Imperatore fu un uomo attivo; esaminava al giorno una lunga serie di documenti scritti ed era senza
tregua in viaggio attraverso l’impero. Ma sembra fosse anche un megalomane, ossessionato dall’idea di poter
raggiungere l’immortalità fisica con l’ausilio di pratiche magiche.

Nel 210 AC, quando il Primo Imperatore morì, Li Ssu e il capo degli eunuchi, Chao Kao, divulgarono la notizia
solo dopo aver macchinato il suicidio dell’erede legittimo. Essi posero quindi sul trono un giovane e inesperto
figlio del sovrano, attribuendogli il titolo di Secondo Imperatore (Erh-shih Huang Ti). Lo stesso Li Ssu cadde
vittima degli intrighi di Chao Kao, che tolse di mezzo anche il Secondo Imperatore, ma a sua volta venne
eliminato dal successore di questi. Nel 206 AC, la dinastia Ch’in fu completamente estinta.

Il rapido collasso dei Ch’in non deve essere solo attribuito agli intrighi di corte.

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Una ragione molto più importante è rappresentata dal fatto che al nuovo impero mancava l’appoggio della
maggior parte della popolazione, sulla quale il potere del sovrano gravava con durezza. Molti erano coloro che
in un modo o nell’altro avevano continuato a mantenersi fedeli agli antichi principati e alle famiglie reali.

Del resto, la rapidità e la grandezza stessa del trionfo Ch’in furono anche elementi di debolezza.
I sovrani avevano rapidamente esteso le frontiere della Cina e mobilitato le risorse umane del paese per
realizzare un programma di costruzioni: palazzi, strade, canali e la Grande Muraglia. Ma con l’andar del tempo
avevano approfittato oltre il lecito della pazienza delle masse contadine. I continui arruolamenti per le
campagne militari e per i lavori di costruzione fecero sembrare il nuovo ordine meno desiderabile.
Il popolo cinese abbandonò semplicemente la dinastia.
Nel 209 AC, soltanto 1 anno dopo la morte del Primo Imperatore, scoppiò un ammutinamento tra i soldati di
stanza e seguì una serie di ribellioni in tutto il paese.
Nel 206, il più forte dei ribelli, Hsiang Yu, un aristocratico, che aveva tra i suoi ascendenti alcuni generali dello
stato di Ch’u, distrusse l’ultimo degli eserciti lealisti e pose fine alla dinastia Ch’in. L’anno precedente, la
capitale, Hsien-yang, si era arresa senza opporre resistenza a uno dei suoi generali, Liu Pang, e la città era
stata successivamente saccheggiata e incendiata da Hsiang Yu.

Molte delle bande ribelli erano capeggiate da soldati disertori o da banditi, che avevano però abbracciato la
causa dell’una e dell’altra tra le antiche dinastie reali. Così, Hsiang Yu attribuì il titolo di imperatore a un
membro della vecchia famiglia reale di Ch’u, permettendo la divisione del territorio tra le altre dinastie reali e i
vari generali ribelli e riservando a se stesso soltanto il titolo di Re Egemone.
Questo compromesso con il sistema precedente e il tentativo di ricostituire i vecchi stati si rivelarono però
soluzioni irrealistiche.
La dinastia Ch’in era riuscita a distruggere il vecchio ordine, che ormai non poteva più essere restaurato.
Lo stesso Hsiang Yu esautorò l’imperatore Ch’u, che aveva prima elevato al trono, e si trovò ben presto
impegnato in una lotta mortale contro il suo ex alleato Liu Pang per il completo controllo del paese.

Liu Pang, nel 202 AC, riuscì a sconfiggere il suo rivale, più brillante dal punto di vista militare ma politicamente
meno abile. Assunse quindi il titolo di imperatore e stabilì la sua capitale a Ch’ang-an, nelle immediate vicinanze
dell’antica capitale dei Ch’in. Liu Pang chiamò inoltre la propria dinastia Han, nome derivato dall’alta valle del
fiume Han, dove egli aveva ricevuto da Hsiang Yu il titolo di re di Han nel 206, data che viene tradizionalmente
assunta come anno di fondazione della dinastia.
Le ribellioni contro la dinastia Ch’in, motivate in parte dal desiderio di restaurare il vecchio ordine, completarono
invece la rottura col passato.
Inoltre, le guerre che li avevano portati alla vittoria furono probabilmente ancora più rovinose, per le vecchie
tradizioni, i vecchi testi e le vecchie filosofie, delle drastiche misure della dinastia Ch’in.

Il successo degli Han dove i Ch’in avevano fallito, ossia nella edificazione di un organismo politico duraturo, si
deve probabilmente attribuire all’evoluzione dei tempi e alla grande accortezza di Liu Pang e dei suoi seguaci.
Uomini di umili origini e non aristocratici orgogliosi, si mossero con maggiore cautela nel consolidare il loro
potere, non gravarono eccessivamente i contadini di tasse e concessero maggiore spazio dei dottrinari legalisti
Ch’in alla diversità di interessi e di opinioni.
Il nuovo ordine imperiale sembrava migliore del precedente e le memorie al vecchio regime cominciarono a
farsi più vaghe. In altre parole, la dinastia Han aveva ricevuto il consenso del popolo, ossia il “Mandato dal
Cielo”.
L’impero fondato da Liu Pang durò poco più di due secoli senza interruzioni; poi, dopo una temporanea caduta,
fu ricostituito e durò per altri due secoli prima della sua definitiva rovina.
Nel periodo che precedette la prima caduta, Wang Mang, il più eminente statista del tempo, usurpò il trono
nell’anno 8 DC, dando inizio a una dinastia denominata Hsin (Nuova); ma nonostante i grandi sforzi per ridare
vita a un potere centralizzato, il suo regno si concluse nel 23 DC, nel caos e nella rivoluzione, e due anni dopo
un discendente della famiglia Han di Liu riuscì a riunificare il paese. L’impero che questi fondò durò fino al 220

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DC e viene solitamente chiamato impero degli Han posteriori, per distinguerlo da quello degli Han anteriori di
Liu Pang. I due imperi Han abbracciano quindi insieme i 4 secoli che vanno dal 206 AC al 220 DC.

Liu Pang, è noto con l’appellativo postumo di Kao Tsu (“Alto Progenitore), affrontò molti gravi problemi
nell’opera di consolidamento del potere. Il nuovo impero era minacciato dai dissensi interni e dagli attacchi
esterni, e passarono alcuni decenni prima che il dominio degli Han fosse saldamente stabilito.
Quasi tutti i primi sovrani Han non fecero che continuare il sistema di governo Ch’in. Kao Tsu e i suoi
successori permisero, infatti la ricostituzione di regni vassalli e di marchesati. Vaste zone dell’impero erano così
lontane dalla capitale che non si poteva sperare che recassero un efficace contributo al governo centrale.
Sembrava ragionevole delegare le responsabilità di governo e la riscossione delle tasse, nelle zone lontane, a
vassalli dell’imperatore.

Questo parziale ritorno alle divisioni dei secoli precedenti fu dovuto alla necessità di una ritirata tattica. Gli
imperatori Han dovettero comunque dedicare i primi 50 anni di vita della dinastia a liquidare la minaccia che
tale politica comportava per il potere centralizzato. Kao Tsu, infatti, spese gran parte dei suoi pochi anni di
regno all’eliminazione dei 7 re che egli aveva creato e che non erano membri della famiglia imperiale; alla sua
morte, nel 195 AC, egli decretò che per l’avvenire soltanto ai membri del clan imperiale fosse riservato tale
rango.

La dinastia Han dovette fronteggiare fin dall’inizio una seconda minaccia, quella rappresentata dalla famiglia
dell’imperatrice. Molte erano le mogli degli imperatori cinesi, ma quando il figlio di una di loro veniva
riconosciuto come erede al trono, la madre riceveva il titolo di imperatrice; con l’ascesa al trono del figlio, costei
diventata spesso, in quanto imperatrice vedova, la figura dominante della corte. Questo fatto si verificò per la
prima volta con l’imperatrice Lu, che divenne la vera padrona della Cina dopo la morte di Kao Tsu.
Tale situazione permise all’imperatrice Lu di esercitare il potere con l’aiuto dei membri della sua famiglia. Per un
momento, essa parve in grado di usurpare il trono a vantaggio dei suoi familiari, ma alla sua morte, uno dei
vecchi e fedeli luogotenenti di Kao Tsu massacrò l’intera famiglia Lu e pose sul trono uno dei figli di Kao Tsu,
Wen Ti (“l’imperatore colto”).

L’impero Han dovette affrontare un’altra minaccia, quella dei nomadi alle frontiere settentrionali. I nomadi
furono chiamati dai cinesi hsiung-nu. Costretti di quando in quando dalla necessità di approvvigionarsi e spinti
dalla natura militare aggressiva della loro società tribale, costituirono una costante minaccia, particolarmente
nei periodi di guerra civile e debolezza.

Malgrado queste difficoltà, i sovrani Han riuscirono gradualmente a stabilire un potere saldo e estremamente
centralizzato, e la Cina conobbe una grande prosperità dopo secoli di guerre quasi ininterrotte.
Si può concludere che gli Han esercitarono il loro dominio su aggregati umani molto più numerosi di quelli che
riconobbero l’autorità di Roma. E anche se molte di queste popolazioni vissero in regni economicamente
indipendenti, esse rimasero strettamente controllate dalla capitale da permettere agli Han l’accumulazione di
un notevole surplus durante i primi decenni della dinastia.
Il grande successo di questo primo sforzo per stabilire un governo centralizzato in Cina permise alla dinastia
Han di mitigare alcune delle più drastiche disposizioni del sistema Ch’in; le pene e le imposte agrarie vennero
ridotte, mentre alcuni alleggerimenti venero introdotti nel sistema del lavoro coatto o corvée. Le corvées erano
per il potere centrale un sostegno più importante delle imposte. Ogni agricoltore era costretto a dedicare ogni
anno un mese di lavoro alle opere locali lungo le strade, sui canali, nei palazzi, mentre con minore frequenza
doveva allontanarsi per vari periodi al fine di prestare servizio militare nei presidi di frontiera o nella capitale.

Organi di governo speciali furono istituiti per l’amministrazione dell’esercito e delle province, per le funzioni civili
del governo centrale e per la casa imperiale. Insieme ad altre persone di rango elevato, i funzionari facevano
parte di una gerarchia divisa in 18 gradi, l’appartenenza alla quale conferiva il diritto alla riduzione della
condanna nel caso di reati, e nei gradi più alti, all’esenzione fiscale.

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La classe dei mercanti era esclusa dal governo. La dinastia Han, come in precedenza i Ch’in e molti altri regimi
dispotici fondati sulla classe agraria, nutriva un forte pregiudizio nei riguardi dei mercanti, considerati, dal punto
di vista economico, come parassiti. A coloro che esercitavano il commercio era proibito acquistare terre, il
mezzo più sicuro per investire capitali, ed esistevano inoltre nei loro riguardi discriminazioni di vario altro
genere. Di conseguenza, la classe sociale agiata e colta, era costituita principalmente dai ricchi proprietari
terrieri.
Con la dinastia Han anteriori assistiamo quindi a una trasformazione: uno dei principali strati sociali era quello
dei ricchi proprietari terrieri, essi erano in una certa misura esenti dalle imposte, e in quanto capi locali con
interessi su scala nazionale, costituivano il legame tra il governo centrale e i distretti rurali.
L’altro strato era quello dei contadini, che mantenevano i proprietari con le rendite, tasse e corvées.
Al di sopra e al di sotto dei 2 strati principali esistevano altri due gruppi minori: una piccola aristocrazia
ereditaria, formata dai membri della famiglia imperiale, e infine dei contadini quasi ridotti in servitù e schiavi
domestici. Questi gruppi sociali non costituivano delle caste, un colpo di fortuna poteva precipitare un
aristocratico a schiavo e viceversa.
I primi 60 anni di dominio Han costituirono un periodo di ripresa nazionale e di consolidamento dinastico, cui
fece seguito un improvviso slancio espansivo. Questo slancio espansivo si ebbe durante il lungo regno di Wu Ti
(l’”Imperatore Marziale”), che si protrasse dal 141 all’87 AC.
Uomo di illimitata energia, Wu Ti sovraintese personalmente al funzionamento dell’apparato governativo.
Wu Ti governò direttamente servendosi di un segretario di palazzo. Da questo momento l’esercizio del potere in
Cina fu caratterizzato dalla tendenza all’alternarsi di periodi di governo personale da parte di imperatori
dinamici con altri durante i quali l’alta burocrazia mantenne il controllo dello stato.
Nel primo caso, una particolare linea politica poteva essere perseguita con vigore e coerenza, ma poiché
l’imperatore era al di sopra di ogni critica, non vi poteva essere limite alle sue follie. Wu Ti non fece eccezione,
trattò duramente e ingiustamente i suoi generali e funzionari. Quando il governo era controllato dai burocrati, vi
era forse la tendenza ad agire con minore decisione, ma l’equilibrio e la stabilità erano maggiori.

Al fine di mobilitare le risorse materiali e umane dell’impero per la sua politica di espansione, Wu Ti inasprì il
sistema legislativo e amministrò la giustizia con maggiore rigore. Il “lavoro schiavo” dei detenuti divenne una
fonte importante di manodopera sia per scopi militari che per le costruzioni. Grazie a questo lavoro,
l’imperatore riprese l’importante programma di costruzione di canali, collegando direttamente la capitale al
fiume Giallo. Inoltre, Wu Ti diede inizio a una lunga serie di guerre esterne.
Queste guerre, in particolare quelle dirette contro i hsiung-nu, furono per lo più presentate come azioni
difensive. In realtà, malgrado il pregiudizio verso i mercanti, gli Han furono spinti anche dal desiderio di stabilire
il loro controllo sul ricco commercio tra l’Oriente e l’Occidente che passava attraverso l’Asia centrale.
La conquista delle popolazioni debolmente organizzate fu facile.

Le più grandi guerre condotte da Wu Ti furono quelle contro i hsiung-nu alla frontiera settentrionale. La
conseguenza di queste guerre fu che la Cina per la prima volta stabilì il suo controllo sulle immense steppe
dell’Asia centrale. Wu Ti inviò un esercito dopo l’altro, le perdite umane furono enormi ma la potenza dei
nomadi fu lentamente fiaccata finché nel 52 AC, il capo del ramo meridionale dell’orda dei hsiung-nu si
sottomise alla dinastia Han e andò a Ch’ang-an a rendere omaggio all’imperatore.

Un altro obiettivo della politica di Wu Ti fu quello di aggirare i hsiung-nu. A oriente, il perseguimento di questo
obiettivo portò, nel 108 AC, alla conquista dello stato coreano di Choseon, che si stendeva sulla Corea del
Nord e sulla Manciuria meridionale. Nella sua capitale, Pyeongyang, l’odierna capitale della Corea del Nord, su
stabilito il comando militare di Lo-lang.
A occidente, la politica di aggiramento portò ad un prolungamento della Grande Muraglia verso occidente,
attraverso i deserti fino a Yumen, “La Porta di Giada”, ossia fino a comprendere la zona che divenne la grande
sporgenza del Kansu, via di comunicazione tra la Cina e l’Asia centrale.

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Il governo di Wu Ti fu nella pratica essenzialmente dispotico e costituì un perfetto esempio di monarchia
legalista. Tuttavia, durante il suo regno il confucianesimo divenne la filosofia dominante alla corte cinese. In
realtà, il trionfo del confucianesimo fu il risultato di un lento processo che durò per tutto il dominio Han, e il
sistema dottrinale che ne scaturì fu una sintesi di filosofie antiche e superstizioni correnti.

Nessuna delle scuole di pensiero del periodo anteriore ai Ch’in sopravvisse durante la dinastia Han. Le
concezioni che ebbero più lunga vita furono quelle che esercitarono maggiore richiamo sulle masse incolte e
superstiziose.
Tra le concezioni che continuarono ad avere grande influenza durante la dinastia Han sono da ricordare quelle
dei naturalisti. Strettamente collegata a queste concezioni era la credenza che i fenomeni naturali eccezionali
fossero da considerare come segni e presagi che riflettevano il carattere del sovrano o predicevano il futuro. Su
queste idee, si accentrò l’interesse degli studiosi di corte, i quali forse fabbricarono talvolta dei falsi presagi per
obiettivi politici particolari o per piegare il sovrano alla loro volontà.

La tradizione del taoismo riuscì a sopravvivere.


I metodi per allungare la vita e più tardi la ricerca di una rozza immortalità fisica diventarono i temi dominanti
delle tendenze taoistiche. I maghi della costa dello Shantung presero a considerare con crescente interesse le
visite ai “favolosi immortali” e svilupparono la concezione secondo la quale gli uomini potevano raggiungere
questo genere di immortalità mediate la ricerca di un elisir della vita, convertendo il cinabro in oro. Si tratta di
un episodio significativo poiché è il primo chiaro esempio nella storia di ciò che poteva diventare l’alchimia.
Anche varie altre credenze popolari, come il culto degli antenati e i sacrifici alla divinità della natura,
sopravvissero tra le masse. I culti della natura si identificarono sempre più con il taoismo e diedero
gradualmente origine ad una ricca mitologia che influenzò notevolmente le arti di quel tempo.

Su un piano intellettuale, gli uomini di studio dedicarono tutta la loro attività, nel primo secolo del dominio Han,
a ricostruire, per quanto possibile, le opere del passato. Dopo che il bando col quale i Ch’in avevano colpito le
opere storiche e filosofiche fu abrogato formalmente dagli Han nel 191 AC, alcuni dei più vecchi studiosi
riuscirono a ricostruire i testi.
Gli studiosi del periodo Han hanno rivelato scarsa disposizione filosofica, ammassando senza distinzione tutte
le vecchie opere, considerate come espressioni egualmente valide del pensiero dell’antichità. In generale, essi
hanno mostrato anche scarsa sensibilità storica oltre alla tendenza di accettare i miti e le fantasie degli scritti
anteriori al periodo Ch’in come autentici fatti storici e considerare l’unità politica del loro tempo come una
situazione già caratteristica delle età passate.

Il trionfo del confucianesimo nel periodo Han non si espresse soltanto nell’adozione dell’etichetta da parte degli
intellettuali; un fatto molto più importante fu l’incorporazione di questi intellettuali al governo.
Kao Tsu ebbe sempre grande disprezzo per il formalismo dei letterati, ma avvertì anche la necessità di affidare
il governo a uomini di cultura. Fin dal 201 AC incaricò uno studioso di predisporre il cerimoniale di corte, e nel
126 emise un bando col quale invitava gli uomini di lettere a prestare i loro servizi. I suoi successori seguirono il
suo esempio stabilendo vari tipi di esami scritti per candidati che rispondevano ai bandi.
Una innovazione molto più importante fu la creazione, avvenuta nel 124 AC, di una specie di università
imperiale, dove 50 allievi ufficialmente designati, e destinati a prestare servizio nell’amministrazione, dovevano
compiere i loro studi sotto la guida degli Eruditi.
Sembra inoltre che a partire dall’anno 1 DC circa un centinaio di persone all’anno siano entrate a far parte della
burocrazia dopo aver superagli gli esami presieduti dai letterati ufficiali. Così una larga parte della bassa
burocrazia venne selezionata secondo una definita educazione confuciana e a spese del governo.
Nello stesso tempo il confucianesimo cominciava così ad essere riconosciuto come filosofia ufficiale dello stato.

L’incorporazione del confucianesimo nello stato legalista è per molti aspetti un fenomeno strano. Il paese,
anche se conquistato con le armi, poteva essere governato soltanto con il pennello e con la scrittura, ovvero da
uomini di cultura. Il conquistatore legalista aveva bisogno dell’amministratore e di conseguenza, fu creato per

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quest’ultimo, un posto di responsabilità e di onore al governo. Il risultato fu che gli uomini di cultura e di
pensiero divennero sostenitori più che oppositori di uno stato che li innalzava ad una posizione favorevole.
Quel che più conta, un passo avanti verso lo sviluppo di una efficiente burocrazia fu compiuto con il sistema
della preparazione e della selezione dei futuri funzionari. In breve, la Cina stava cominciando a sviluppare un
tipo moderno di sistema amministrativo basato sul merito.

L’espansione della potenza cinese durante il periodo Han e il grande aumento della popolazione ebbero le loro
ripercussioni sulla vita e cultura del tempo.
Il commercio con l’estero contribuì probabilmente alla grande prosperità del paese e alla sua cultura.
Grazie al commercio con l’estero, i cinesi si procurarono pietre preziose, merci di lusso tropicali come l’avorio,
cavalli, vetro, lana e manufatti di lino dell’Asia occidentale. Ma nessuna di queste importazioni aveva per la Cina
l’importanza che negli altri paesi si attribuiva al principale prodotto di esportazione cinese, ossia la seta, che
danneggiò l’economia dell’impero romano.

I cinesi del periodo Han conoscevano già le macchie solari ed avevano costruito un rudimentale sismografo per
registrare le scosse telluriche altrimenti impercettibili. Al tempo degli Han posteriori fu inventato il mulino ad
acqua e nello stesso periodo i cinesi introdussero l’uso del collare, che accrebbe il rendimento del cavallo come
animale da tiro.
Due delle più grandi invenzioni cinesi, la carta e la porcellana, hanno avuto i loro inizi nel periodo Han, ci vollero
più di mille anni prima che la conoscenza della fabbricazione della carta giungesse in Europa dalla Cina.

La letteratura Han ebbe un carattere prevalentemente erudito e didattico, ma proprio in questo periodo
cominciò a svilupparsi una nuova e importante forma poetica, quella nota col nome di fu.
A causa della sua irregolarità di metro e rima, tipica dei suoi lunghi versi, gli studiosi occidentali hanno spesso
chiamato il fu “prosa poetica” o “prosa rimata”; in realtà, si tratta di una ricca forma poetica caratterizzata da
una grande esuberanza linguistica, anche se gli autori insistettero spesso sui medesimi temi: le capitali della
Cna, le bellezze del paesaggio o le grandi cacce imperiali.

La letteratura del periodo Han ebbe nel campo storiografico le sue maggiori realizzazioni, trattandosi di una
civiltà che attribuiva alla storia una così grande importanza. Nessun popolo ha prestato maggior interesse dei
cinesi al proprio passato, nessun popolo ha mostrato come loro la consapevolezza di essere attore sulla scena
della storia o la loro grande considerazione per il futuro giudizio dei posteri.

Gran parte dell’antica letteratura cinese era di genere storico. Al tempo di Wu Ti apparve una storiografia dalla
prospettiva molto più vasta e culturalmente molto più evoluta. Si tratta dell’opera di Ssu-ma Ch’ien, Memorie
Storiche.
Ssu-ma Ch’ien sostenne di continuare a ampliare quella che si riteneva fosse la più grande realizzazione di
Confucio, ossia la sistemazione delle memorie del passato.
Egli si limitò a una coincisa e chiara descrizione dei fatti, evitando le drammatizzazioni spesso immaginarie. Il
suo metodo consiste nel citare, con leggere modifiche, le fonti che egli considera come più attendibili; per
quanto riguarda i fatti dubbi, come le diverse tradizioni risalenti alla remota antichità, egli si limita a riprodurre
l’una accanto all’altra le diverse versioni, non ritenendosi in grado di risolvere da solo il problema.
Quello di Ssu-ma Ch’ien fu il tentativo di scrivere una storia universale e egli giunse più vicino di chiunque altro.
Le Memorie storiche comprendono 130 grossi capitoli.
I primi 12, sono noti col nome di “Annali fondamentali” e comprendono le memorie degli avvenimenti occorsi
durante i regni delle principali dinastie cinesi a partire dagli imperatori mitologici includendo i sovrani delle
dinastie Hsia, Shang e Chou, pochi altri re del tardo periodo Chou, gli imperatori Ch’in, Hsiang Yu e infine gli
imperatori Han fino a Wu Ti.
La terza parte del libro comprende 8 saggi su argomenti che non sono suscettibili di collocazione cronologica,
su riti, musica, calendario, astrologia, pesi, misure.

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Gli ultimi 70 capitoli comprendono quelle che vengono chiamate le “biografie”, comprendono saggi geografici
sugli altri popoli e paesi del mondo.

Abbastanza stranamente, nel momento in cui Ssu-ma Ch’ien compiva un grande passo in avanti nella
storiografia, si faceva un passo indietro nella periodizzazione storica. Durante il regno di Wu Ti divenne
consuetudine calcolare il tempo secondo periodi annui arbitrariamente definiti e indicati in base al loro valore
magico, metodo associato all’interesse che gli Han avevano per i simboli e prodigi. Il periodo annuo poteva
durare a lungo se la situazione era stabile o essere considerato chiuso dopo pochi mesi per il verificarsi di
qualche sciagura o presagio favorevole.

Il tempo rese alla fine inadeguata anche l’opera di Ssu-ma Ch’ien. La seconda grande opera della nuova
storiografia fu redatta da una famiglia di studiosi. Iniziata da Pan Piao, essa fu in gran parte scritta dal figlio, Pan
Ku, e completata dalla sorella, Pan Chao, che è in Cina il primo esempio di letterato donna.
La Storia degli Han (anteriori) divenne il prototipo di tutte le successive storie dinastiche della Cina. Ben presto
venne introdotto il principio secondo il quale ogni nuova dinastia aveva il dovere di continuare le memorie del
passato redigendo un resoconto ufficiale della dinastia precedente. Se il lavoro risulta soddisfacente, veniva
approvato da una ordinanza dell’imperatore che lo collocava tra le “storie modello”.

Alla consuetudine di raccogliere le memorie del passato secondo il criterio dinastico si deve quella
interpretazione tradizionale che fa della storia cinese una serie di cicli dinastici che si ripetono. La mancanza di
una fede nel progresso e la credenza in una età d’oro esistita nella antichità hanno rafforzato questa tendenza,
giacchè ciò che di meglio si poteva attendere da una storia così concepita era il ripetersi delle glorie del
passato.
Dopo aver letto la storia di una dinastia, lo studioso già può capire che con la successiva le cose non
cambieranno.
Gli storici cinesi, influenzati dalla dottrina confuciana dei fondamenti etici del governo, hanno sempre messo in
evidenza i fattori personali nella spiegazione del ciclo dinastico. Così, fondatori di dinastie che, come Kao Tsu,
sostennero con successo di aver ricevuto il “Mandato del Cielo”, non sono presentati soltanto come uomini
eccezionali, ma come veri e propri superuomini, se non come semidei; mentre gli ultimi sovrani, quelli che
perdettero il “Mandato”; non sono descritti come uomini sfortunati o deboli, bensì come malvagi e corrotti,
come ad esempio gli ultimi re delle dinastie Hsia e Shang.
In effetti, le famiglie imperiali finivano inevitabilmente per degenerare. Il fondatore di una dinastia doveva essere
un uomo di grande abilità e forza, e lo slancio che egli inizialmente imprimeva all’organismo sociale durava
probabilmente per alcune generazioni. I successivi sovrani, educati in una corte dominata dal fasto e dagli
intrighi, erano di carattere assai debole. Di solito una dinastia produceva tra i suoi ultimi rappresentanti un
uomo energico, ma in generale la capacità di tutte le dinastie imperiali mostrò una costante tendenza al
declino.
Lotte per la successione e intrighi di corte tra fazioni rivali caratterizzarono la storia di quasi tutte le dinastie
dall’inizio alla fine.

I fattori personali non possono affatto considerarsi come il principale elemento del ciclo dinastico. Infatti,
l’usurpazione di Wang Mang non significò la fine del primo ciclo dinastico, ma l’inizio del collasso del governo
centrale Han che avvenne durante il suo regno. Un elemento molto più importante della storia della dinastia è
rappresentato dall’andamento fiscale, dall’efficienza amministrativa e dalla potenza militare.
La ricchezza del governo centrale permette la costruzione di grandi palazzi, strade, canali, mura. Il clan
imperiale, la nobiltà e la burocrazia aumentano di numero e si vanno abituando ad un genere di vita sempre più
fastoso.
I successi militari estendono le linee difensive dell’impero, che diventano più costose. Territori più estesi
vengono sfruttati, insieme ai contadini che li coltivano, per l’utilità personale delle classi dominanti, mentre il
numero di coloro che pagano le tasse al governo centrale diminuisce sempre di più. A causa dell’aumento delle
spese, che spesso si accompagna ad una diminuzione delle entrate, ogni dinastia si trova in difficoltà

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finanziarie. Vengono così le guerre, che liquidano il vecchio regime e aprono la strada alla fondazione di una
nuova dinastia.

Il programma messo in atto da Wu Ti per la costruzione di canali e le guerre esterne portarono la dinastia al
culmine della potenza, ma provocarono anche una crisi fiscale.
La più importante tra le misure economiche fu la reintroduzione del sistema dei monopoli di stato o delle licenze
per la produzione. Il ristabilimento del monopolio governativo della coniatura delle monete di rame, oltre a
costituire una nuova fonte di entrate, fu un provvedimento utile perché unificò la circolazione monetaria.
Un altro importante provvedimento fu il sistema di “compensazione” introdotto nel 110 AC; il governo
acquistava le eccedenze prodotte in zone ricche e in tempi di abbondanza per venderle in regioni povere e in
periodi di carestia. Egli inoltre riuscì a tassare il commercio, sottoponendo a speciali imposte tutte le spedizioni
terrestri e marittime e costringendo gli artigiani e i mercanti a pagare una tassa sul capitale.

Nel frattempo si era andato ponendo un problema più serio. La popolazione era aumentata a tal punto che il
contadino medio aveva a disposizione meno terra da coltivare dei suoi antenati. Inoltre, era aumentata la
proporzione di contadini installati nelle tenute, esenti da imposta, dei grandi proprietari; di conseguenza, i
contadini che nelle altre zone pagavano le tasse erano ora costretti ad assumersi un onere fiscale più grave,
mentre gli appezzamenti a loro disposizione si erano ridotti. Le entrate dello stato erano in diminuzione e con
esse declinavano le istituzioni del potere centrale. A partire dal 22 AC, si assistette a una serie di grandi rivolte,
tra i lavoratori schiavi delle ferriere governative.

Fu in questa congiura che Wang Mang si impadronì del potere e tentò di risalire la corrente. L’alone di pietà
confuciana nel quale cercò di avvolgere le sue azioni si trattò di un espediente per ottenere l’appoggio della
burocrazia ormai confuciana.
Tuttavia, il ritorno di Wang Mang allo stato ideale confuciano dei Chou era una questione di nomi e dottrine. Le
sue riforme si collocarono nel solco della tradizione legalista, egli tentò di rafforzare la burocrazia e cercò di
risolvere la crisi finanziaria.
La più importante delle riforme di Wang Mang fu il suo attacco contro il principale problema economico del
momento. Erano tanti i contadini stanziati su terre esenti da imposta che il numero di quelli rimasti sui registri
fiscali non potevano sostenere il governo centrale. Egli decretò la soppressione delle grandi tenute private,
ordinando nel 9 DC che la terra fosse divisa tra i contadini che pagavano le imposte; anche la schiavitù privata
venne abolita.

Tra l’altro, lo sforzo di Wang Mang accelerò il collasso. Già indebolito dall’erosione fiscale e amministrativa, il
governo aveva ora perduto l’appoggio delle famiglie ricche. Al disastro contribuì una serie cattiva di raccolti, la
rottura degli argini del Fiume Giallo e il dissesto idrico della valle del Wei. Le ribellioni divennero frequenti, una
grande insurrezione contadina scoppiò nello Shantung nel 18 DC e si estese ben presto a tutto l’impero. Questi
ribelli si chiamarono Sopraccigli Rossi, dal segno del riconoscimento che avevano adottato.

I Sopraccigli Rossi desolarono il paese, ma mancarono dell’esperienza amministrativa e delle conoscenze


necessarie per sostituire un loro governo a ciò che stavano distruggendo. Il compito di ricostituire il potere
passò quindi nelle mani di persone più colte. Alcuni discendenti degli imperatori Han, o uomini che portavano il
loro stesso cognome, quello di Liu, si unirono ai ribelli sostenendo di essere gli unici eredi legittimi della
dinastia. Si trattò di grandi proprietari terrieri che sarebbero stati sostenitori del governo centrale. Fu uno di
questi uomini, e non uno dei Sopraccigli Rossi, che alla fine riuscì ad impadronirsi del trono di Wang Mang. Nel
frattempo, le linee difensive lungo i confini si erano sgretolate e i nomadi invasero le regioni di frontiera,
uccidendo Wang Mang nel 23 DC.

L’uomo che nel 25 DC uscì infine vittorioso dalla lotta tra i contendenti che seguì la caduta di Wang Mang fu Liu
Hsiu, il quale, in quanto discendente dei sovrani della precedente dinastia, fece rivivere il nome degli Han. Liu
Hsiu, scelse come capitale la vicina città di Loyang. L’allontanamento da Ch’ang-an era giustificato dalla sua

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distruzione dai ribelli e l’economia agricola della valle del Wei si era impoverita con la rovina del suo sistema
idrico.

Liu Hsiu, al quale fu conferito il titolo postumo di Kuang Wu Ti (“Splendente Imperatore Marziale”), dedicò i 3
decenni del suo regno (25-57 DC) al consolidamento del potere portando a termine la “restaurazione”, ossia il
ristabilimento di un forte governo centralizzato dopo i disordini di una grande insurrezione. Dotato di grande
energia, Kuang Wu Ti domò i Sopraccigli Rossi e altri ribelli, distrusse il potere dei piccoli principi imperiali,
ricostituì una forte amministrazione centrale sul modello dei suoi predecessori e liberò tutti cloro che erano
caduti in schiavitù durante il precedente periodo di torbidi. Inoltre, non dovette affrontare il problema finanziario
che si presentò a Wang Mang. Le guerre avevano annientato l’aristocrazia Han anteriore e buona parte dei
grandi possedimenti. La nuova dinastia non era più gravata dal pesante fardello rappresentato da una grande
famiglia imperiale e della classe dominante. Di conseguenza, le entrate discali erano più che sufficienti alle
necessità del governo.

Come per la dinastia Han anteriore, furono necessari parecchi decenni prima che il nuovo regime raggiungesse
l’apice della potenza. Fortunatamente per i cinesi, i hsiung-nu non formavano più un organismo politico unitario
e costituivano quindi una minaccia inferiore. I hsiung-nu meridionali si erano sottomessi a Kuang Wu Ti,
stanziandosi nelle marche settentrionali di confine come difensori delle frontiere dell’impero. Anche i piccoli stati
dell’Asia centrale sembravano aver preferito il dominio cinese a quello degli hsiung-nu settentrionali.

Gli Han posteriori non riuscirono mai a raggiungere la posizione finanziaria che aveva caratterizzato gli Han
anteriori. Il fondatore della dinastia e molti dei suoi sostenitori provenivano dai ranghi dei ricchi proprietari
terrieri e la forza di questa classe non venne mai intaccata. Troppe delle grandi tenute del I secolo AC erano
sopravvissute nel periodo Han e la loro posizione era intaccabile. Nel periodo Han, l’ammontare dell’imposta
fondiaria era di solito pari a 1/3 dei raccolti. Essi pagavano quindi un’imposta irrilevante, quando la pagavano, e
potevano vivere con rendite esorbitanti estorte ai contadini; essi accrescevano le entrate con il controllo del
commercio e salvaguardavano i loro patrimoni col monopolio delle alte cariche di corte. Sebbene il governo
centrale tentasse di costituire una burocrazia fondata sul merito, la grande maggioranza dei funzionari
prendeva possesso della carica grazie ai privilegi ereditari, al clientelismo o alla aperta manipolazione degli
esami ufficiali.
La distribuzione territoriale della popolazione fiscale e soggetta a corvées costituiva un problema ancora più
grave. Dopo gli Han anteriori, in tutta la Cina del Nord, la zona meglio situata per sostenere il governo centrale,
il numero delle persone registrate subì una diminuzione.
Il governo centrale fu costretto, per mantenersi, a imporre tributi sempre più gravosi al decrescente numero di
contadini soggetti a imposta. L’onere diventò alla fine insostenibile. Molti contadini furono costretti a fuggire
verso il Sud, dove il fisco era meno rigoroso, oppure nelle tenute dei grandi proprietari, dove le rendite erano
meno onerose delle tasse che gravavano sui contadini liberi. Il risultato fu un esodo inevitabile e questo indebolì
la forza della dinastia.

Come al tempo della dinastia Han anteriore, il maggiore pericolo per la famiglia imperiale venne dai parenti
delle imperatrici, che videro sensibilmente aumentati il loro potere e la loro ricchezza mediante le vantaggiose
relazioni che intrattenevano a corte.

Furono però i generali che diedero il colpo di grazia. Il crollo del sistema fiscale, che si reggeva sui contadini,
ebbe come conseguenza la rovina del sistema del lavoro coatto, che provocò a sua volta la fine degli eserciti
reclutati con arruolamenti nelle campagne. Vennero allora le truppe di mestiere, che tendenzialmente si
trasformarono in forze private agli ordini dei generali che le comandavano. Questi generali erano di solito grandi
proprietari terrieri e la loro azione fu l’aspetto nuovo della minaccia che le grandi famiglie rappresentavano per
l’impero centrale.
Dopo lo scoppio delle ribellioni popolari, i generali diventarono praticamente dei signori della guerra
completamente indipendenti nelle loro rispettive zone di comando e esautorarono del tutto il governo centrale.

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Secondo la teoria del ciclo dinastico, uno dei 3 stati successori o qualche nuovo gruppo ribelle avrebbe dovuto
ora riunificare il paese e dare inizio ad un nuovo ciclo di 2 secoli di governo unificato; ma in Cina si stava
verificando un fenomeno più profondo.
Le condizioni necessarie per una efficiente amministrazione imperiale, come l’elevato gettito fiscale per il
funzionamento degli organi centrali di governo, una funzionale amministrazione dei territori dell’impero e la
coesione del gruppo dominante, non poterono essere contenuti. Sia in Oriente che in Occidente, gli imperi si
rivelarono incapaci di fronteggiare i problemi risultanti dall’aumento della popolazione e dal rapido sviluppo
economico e istituzionale che la loro stessa esistenza aveva reso possibili.

Il declino del primo impero cinese può essere attribuito alle difficoltà finanziarie del regno di Wu Ti, che si
aggravarono nel I secolo AC, quando le grandi famiglie consolidarono il loro dominio su tenute sempre più
estese. A partire da questo momento il declino fu rapido, e gli Han posteriori non riuscirono ad adottare misure
capaci di arrestarlo. Durante tutto questo periodo, infatti, l’amministrazione centralizzata fu il peggiore nemico
di se stessa. Gli imperatori per primi effettuarono grandi concessioni perpetue di terre e di contadini ai loro
parenti, alle favorite, ai generali più eminenti e agli amministratori. L’esempio fu seguito dagli alti funzionari che
mostrarono una ingordigia senza limiti nel ricompensare in egual modo i loro parenti.

A partire dalla fine del II secolo, le grandi famiglie locali erano semplicemente troppo ricche e potenti per poter
essere piegate dal governo centrale; in realtà, esse lo controllavano, e la divisione del paese in 3 regni separati,
che avvenne nel 220 DC, non fu che il riconoscimento dell’impossibilità di ricostituire uno stato unificato.

Fu un periodo di guerre incessanti e si manifestò allora un nuovo aspetto del processo di disintegrazione del
sistema imperiale. La Cina si trovava completamente indifesa di fronte agli attacchi dei nomadi, ma non erano
più uniti sotto un grande impero.
Era stata proprio la sottomissione dei nomadi da parte della dinastia Han a piantare i germi della calata dei
“barbari” sulla Cina. Dopo la loro resa, bande di hsiung-nu erano state stanziate come gruppi tribali lungo i
confini settentrionali. I “barbari” avevano tradizione bellicose, ebbero inoltre una parte di primo piano nelle
armate cinesi.
Così i territori di confine e l’intero sistema difensivo cinese videro la continua infiltrazione di “barbari”. Mentre
l’impero cinese andava alla deriva, le tribù “barbariche” del Nord non ebbero alcuna difficoltà ad entrare nel
cuore della Cina. Naturalmente, furono molti i cinesi che cercarono di sottrarsi alla furia dei “barbari” e alle
condizioni caotiche della Cina del Nord. La conseguenza di questo esodo fu che la popolazione cinese del Sud
aumentò, accelerando il processo di sinizzazione delle popolazioni non-cinesi di questa zona. Tra i profughi del
Nord vi erano potenti gruppi familiari che, una volta giunti nella Cina del Sud, chiesero speciali privilegi e
stabilirono il loro controllo politico nei nuovi luoghi di residenza.
Le bande di hsiung-nu, che nel 304 avevano avvolto la richiesta d’aiuto di uno degli uomini che si
contendevano il potere nello stato dei Chin, misero fine a questa dinastia nel 316. L’anno dopo, nella Cina del
Sud, un principe Chin si proclamò imperatore a Nanchino. La sua dinastia è nota col nome di Chin orientale,
per distinguerla dalla prima dinastia Chin, quella di Loyang, chiamata Chin occidentale.
Divenuta capitale, Nanchino si trasformò in una grande metropoli, dove venne ripresa la vita fastosa degli Han.
Tuttavia, il governo era debole e alla mercé dei suoi generali che più volte sembrarono sul punto di rovesciare
la dinastia. Questi generali erano grandi possedenti e molti di loro appartenevano a famiglie settentrionali
immigrate.

Si succedettero, dal 347, le dinastie Chin orientali, nel 420 Liu Sung, nel 479, Hsiao Tao-ch’eng fondò la
dinastia Ch’i meridionale, ma nel 502 uno dei suoi parenti, Hsiao Yen, usurpò il trono e fondò la dinastia Liang.
Ch’en Pa-hsien, un generale molto influente nella zona del basso Yangtze, ridiede allora vita, nel 557, allo stato
meridionale di Nanchino, alla dinastia Ch’en.

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CAP.5 – LA SFIDA DEI “BARBARI” E LA RICOSTITUZIONE DELL’IMPERO

L’epoca che seguì il crollo degli Han posteriori è chiamata periodo delle 6 Dinastie (Liu ch’ao), dalle dinastie
che si succedettero tra il 222 e il 589 e che fissarono la loro capitale a Nanchino. Questi 3 secoli e mezzo
vengono comunemente considerati come un unico periodo storico, una specie di ciclo dinastico alla rovescia,
nel quale si passa dall’unità a una lunga fase di divisioni, per ritornare a una nuova unità.
Se la storia di questo periodo può essere considerata, secondo una prospettiva che ha come centro i vani
sforzi compiuti dai cinesi per restaurare l’unità Han, un problema più importante è la sfida alla quale fu
sottoposta la civiltà cinese classica e il modo in cui essa riuscì alla fine a superare la crisi incorporando lo
sfidante entro il sistema cinese. Da questa sintesi scaturì una nuova e più ricca civiltà e risorse un impero che
eclissò lo splendore degli anni più gloriosi della dinastia Han. Questa fase storica ebbe inizio nel periodo delle 6
Dinastie, ma raggiunse il suo culmine alla fine del 6° e 7° secolo sotto le dinastie unificate Sui e T’ang.

La sfida alla civiltà classica cinese trovò la sua espressione più drammatica come minaccia esterna o
“barbarica”. Orde di nomadi devastarono la Cina del Nord e una religione straniera, il buddismo indiano,
minacciò le basi ideologiche della società cinese. Ma la sfida ebbe forse una origine più interna che esterna. I
barbari riuscirono ad invadere il paese solo perché il sistema politico Han si era sgretolato per le sue stesse
contraddizioni interne. Soltanto perché la sintesi Han di ideologia confuciana, superstizioni pseudoscientifiche e
pratiche legaliste si era rivelata spiritualmente insoddisfacente e politicamente inadeguata, i cinesi accolsero il
buddismo. Infatti, gli uomini di cultura abbandonarono prima il confucianesimo per il taoismo, e quindi si volsero
al buddismo. Inoltre, le invasioni “barbariche” come tali non costituivano una grande minaccia per la civiltà
cinese. Invasioni di più vasta portata si verificheranno più tardi, in quel momento la cultura cinese, in parte
scaturita dall’arricchimento e dal rinvigorimento avvenuti durante il periodo delle 6 Dinastie, sarà riuscita a
eliminare le deficienze manifestate in passato.
Il periodo Han posteriori vide il crollo di un intero ordine sociale e di un sistema politico. Il mutamento è
paragonabile a quello verificatosi nel tardo periodo Chou, quando una società fondata sul clan, nella quale
l’autorità, il rango, la ricchezza e la lealtà politica avevano la loro base in rapporti ereditari e di natura
semireligiosa, cedette il passo a un nuovo ordine sociale nel quale unità familiari più circoscritte, con i loro
possedimenti privati, furono governate da una autorità impersonale, centralizzata e burocratica. A sua volta, il
nuovo ordine politico Han stava ora scomparendo, giacché le più ricche tra queste unità familiari erano riuscite
a costituire domini privati così vasti da rendere possibile il loro controllo sulla società e quasi impossibile il
funzionamento di n governo centralizzato. Questo mutamento sociale era cominciato con le grandi
assegnazioni di terre all’inizio della dinastia Han anteriore; il governo centrale indebolito era sempre meno
capace di arrestare il processo di rafforzamento dei domini privati, e fu quindi facile per i grandi proprietari
sottrarsi agli obblighi fiscali e aggiungere nuove terre a quelle che già possedevano falsificando i registri.
Nel medesimo tempo, le unità familiari più ricche e potenti strinsero legami tra loro per proteggersi
reciprocamente e diedero origine a gruppi familiari più vasti, consolidando il loro controllo sui subordinati. I
contadini impoveriti, per sfuggire agli esattori del governo o ai “barbari”, si misero sotto la protezione dei potenti
proprietari per garantirsi una certa sicurezza economica e a poco a poco si trasformarono in dipendenti
ereditari o “ospiti” (k’o) dei padroni.
Quelli tra i dipendenti e i servi che mostravano particolari inclinazioni per il mestiere delle armi divennero soldati
personali del grande signore terriero, e il sistema degli eserciti privati sostituì gradualmente quello precedente
degli arruolamenti contadini.

Il fallimento del confucianesimo


Anche la sfida agli antichi modi di pensiero cinesi, come quella all’ordine sociale e politico, fu in gran parte
dovuta a un processo di autogenerazione. Lo stesso confucianesimo aveva rafforzato il dominio della
burocrazia e, nei periodi successivi, era riuscito a fondersi in un perfetto equilibrio ideologico con la struttura del
potere essenzialmente legalista del sistema imperiale. Tuttavia, nel momento in cui la minaccia principale al
potere centralizzato veniva portata dalla ricchezza e dalla potenza delle grandi famiglie, le dottrine confuciane
della pietà filiale e della lealtà familiare furono rovinose per lo stato.

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Durante la dinastia Han posteriore il confucianesimo aveva dominato la società cinese. Gli studi classici si
erano diffusi rapidamente e i dotti confuciani erano stati tenuti in grande rispetto e considerazione.
Con il peggioramento della situazione politica, il confucianesimo e le altre forme di filosofia politica che avevano
suscitato un tempo l’interesse generale non incontrarono che una diffusa apatia. In altre parole, il pensiero
cinese cominciava a ritirarsi in sé, allontanandosi dall’ordine sociale. Poiché la società e il governo sembravano
degenerare senza speranza, si ridestava l’interesse per l’antico problema taoista del rapporto tra l’uomo e la
natura della perfezione individuale o salvezza, da raggiungere senza tenere in alcun conto le condizioni della
società esistente. Indubbiamente questa corrente del pensiero taoista, con lo sgretolarsi della struttura politica,
emerse acquistando una posizione di preminenza; il taoismo conobbe un improvviso slancio in tutte le sue varie
manifestazioni.
Il buddismo, dopo aver fatto la sua prima comparsa nella forma di una setta taoista, finirà per superare in
popolarità e influenza lo stesso taoismo. Negando non soltanto l’importanza dell’ordine sociale e politico, ma
anche ogni desiderio per la vita di questo mondo, il buddismo costituiva l’antitesi alla principale tendenza del
pensiero cinese. Il trionfo di una religione estranea rappresentò una sfida più seria alla civiltà cinese.
I filosofi del “ch’ing-t’an”
Gli intellettuali del 3° secolo tendenti al taoismo erano dediti al ch’ing-t’an, espressione tradotta in “discussioni
pure” o anche “dibattiti sulla purezza”. Essi cercavano di conservare questa loro “purezza” mantenendosi
lontani dalle brutture della politica come da ogni altra attività mondana. Le risposte dei membri del gruppo
ch’ing-t’an alle delusioni politica del tempo furono lo sviluppo della sensibilità estetica e l tentativo di dare a ogni
loro impulso una espressione individualistica. Questa fuga nell’edonismo scaturiva naturalmente da un
pessimismo profondo. Allontanandosi dai problemi politici, essi privarono la società di alcune delle sue naturali
guide e contribuirono in tal modo al collasso generale.
I rappresentanti più famosi del gruppo ch’ing-t’an furono i “Sette saggi della foresta del bambù”. Questi ricchi
solitari, amavano impegnarsi in discussioni filosofiche, godersi la natura e bere. Uno dei membri del gruppo
espresse le sue fondamentali opinioni filosofiche tenendo sempre accanto a sé un servo con una bottiglia di
vino in una mano, per calmare la sete del padrone, e un badile nell’altra, per seppellirlo. Le invasioni
“barbariche” obbligarono questi dilettanti ad abbandonare il Nord, ma il movimento ch’ing-t’an continuò nel
Sud, a Nanchino, dove nel 4° secolo i cosiddetti “Otto che comprendono” ostentarono una eccentricità
maggiore dei predecessori settentrionali

L’alchimia e l’immortalità attraverso la pratica dell’“igiene interiore”


Un altro aspetto della rinascita taoista fu l’interesse crescente per l’alchimia come metodo per ottenere l’elisir
della vita. Abbiamo già incontrato concezioni di questo genere al tempo della dinastia Han anteriore, alla corte
di Wu Ti. Il primo libro di alchimia del mondo apparve in Cina attorno al 140 DC e, all’inizio del 4° secolo, Ko
Hung completò il suo monumentale Pao-p’u-tzu, una specie di enciclopedia delle arti per raggiungere
l’immortalità. Nel libro si prescrive una ricetta per ottenere l’oro del mercurio, dal piombo, e si sostiene che i vari
elisir non hanno soltanto il potere di conferire l’immortalità, ma anche numerose altre qualità benefiche.
La ricerca taoista degli elisir portò probabilmente a sperimentare la commestibilità di ogni sorta di sostanze
organiche e inorganiche e contribuì forse alla varietà di gusti tipica cinesi. Un’altra conseguenza fu la scoperta
degli anestetici e di una straordinaria farmacopea. Lo sviluppo della medicina cinese è infatti strettamente
legato al taoismo. In questo campo, la ricerca scientifica cinese è in gran parte scaturita dalla curiosità che
spingeva i maghi e gli alchimisti taoisti a sperimentare sempre nuovi procedimenti.
Un altro movimento taoista che fiorì tra il periodo Han posteriore e il 6° secolo, praticava un culto
dell’immortalità basato su concezioni di igiene interiore. I suoi adepti ritenevano che in ogni corpo umano vi
fossero 3 centri vitali o “campi di cinabro”, 36.000 divinità (formanti un microcosmo dell’universo) e 3 vermi (le
cause delle malattie, vecchiaia e morte). L’obiettivo era quello di eliminare i vermi, nutrire le divinità e purificare i
“campi di cinabro”, creando quindi entro il corpo fisico un corpo puro che sarebbe diventato immortale. Proprio
in questo periodo, i taoisti avevano sviluppato l’idea che il hsien, o immortale, giungeva solo a una forma di
morte interiore, e che in realtà durante questo processo si liberava dell’inutile corpo fisico. I seguaci del culto si
astenevano dal vino e dalla carne, per non recare offesa alle divinità interiori; evitavano i 5 cereali, per non

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nutrire i 3 vermi; purificavano i loro corpi con esercizi respiratori, trattenendo il respiro per periodi di tempo
lunghi, con la convinzione di infonderlo in tutte le parti del corpo.
Dopo il 6° secolo l’interesse si spostò lentamente verso la ricerca di un “elisir interiore”, vale a dire una specie
di trasformazione chimica interna da raggiungersi con la meditazione. La concezione delle divinità venne
abbandonata e l’interesse cominciò a concentrarsi sugli esercizi respiratori. Gradualmente queste pratiche
taoiste si trasformarono in un sistema igienico generale.

Movimenti religiosi popolari


L’aspetto più particolare del risveglio del taoismo durante l’interregno fu il suo evolversi in religione popolare
organizzata, il primo fenomeno del genere apparso in Cina. Il buddismo penetrò in Cina nella forma di setta
taoista, e questa religione indiana, più altamente sviluppata e organizzata, cominciò ben presto a esercitare
una profonda influenza sul taoismo. La concezione del culto collettivo e dell’organizzazione religiosa può essere
stata ricavata dal buddismo.
Le rivolte dei Turbanti Gialli e della banda delle Cinque Misure di Riso, nel 184 DC, furono i primi sintomi del
fatto che il taoismo aveva dato origine a religioni popolari organizzate. Il taoismo popolare portò allo sviluppo di
un pantheon sterminato, che aveva alla sommità una triade di divinità, mentre i gradi più bassi erano occupati
dagli immortali e da personaggi storici. L’idea della divinità si andò inizialmente elaborando come
personificazione di concetti metafisici o naturalistici; è il caso di T’ai I, o “Grande Unità”, che fu un tempo
considerato come il maggiore tra gli dei. In seguito, sotto l’influenza di concezioni buddiste, i taoisti accolsero
l’idea di divinità sovraumane e Yuan Shih T’ien Tsun, il “Dio Celeste dell’Origine Prima” diventò il dio supremo.
Intanto, anche le principali credenze del taoismo si andavano trasformando sotto l’influenza buddista. La
concezione dell’anima indistruttibile del tardo buddismo portò i taoisti a dedicarsi più alla ricerca di una vita
ultraterrena che all’immortalità del corpo e li spinse a considerare le buone opere come un mezzo per
raggiungere il Cielo e sfuggire all’inferno.

La storia della chiesa taoista.


Le autorità Han erano riuscite a distruggere sia i Turbanti Gialli che la banda delle Cinque Misure di Riso come
organizzazioni religiose controllate dal centro, e il movimento religioso taoista non seppe mai più ricostituirsi
come chiesa effettivamente centralizzata. Rimasero comunque le singole comunità. I sacerdoti locali, o tao
shih, erano mantenuti dai doni che ricevevano nel corso di cerimonie religiose chiamate “banchetti” e dal
tradizionale tributo delle cinque misure di riso che riscuotevano fra i membri della comunità.
Durante il periodo delle Sei Dinastie, anche i monasteri e i conventi taoisti si svilupparono naturalmente sul
modello del monachesimo buddista. Un elemento molto più significativo di questa evoluzione fu lo sviluppo
delle sette, anche questa volta sotto l’influenza del buddismo cinese. Si contarono fino ad 86 sette taoiste,
compresa una setta “settentrionale” e due sette “meridionali”.

Il buddismo indiano
La rinascita del taoismo in un periodo di decadenza politica è certamente comprensibile; ciò che può sorprende
è invece la grande popolarità di cui godette il buddismo. La religione indiana era in aperte contraddizioni con le
concezioni e gli ideali più radicati in Cina, e costituì una sfida alla civiltà cinese. Il trionfo del buddismo può
essere spiegato soltanto con il profondo senso di frustrazione avvertito dai cinesi in questo periodo e
l’inconsistenza della filosofia negativistica del movimento ch’ing-t’an e delle rozze sette popolari del taoismo,
incapaci di soddisfare i loro bisogni spirituali. Il buddismo rappresenta il principale legame culturale tra i popoli
dell’Asia orientale e quelli dell’Asia meridionale. Il buddismo indiano era fondato su una serie di premesse che i
cinesi antichi non avrebbero nemmeno compreso. Sebbene in un certo senso rappresentasse una rivolta
contro le differenze di casta dell’induismo, esso aveva accolto alcuni degli altri presupposti fondamentali del
pensiero indiano.
Il buddista è convinto che la vita sia essenzialmente dolore; egli la considera inoltre senza fine, poiché
un’esistenza è legata all’altra dal karma, un termine che letteralmente significa “atto”, ma che implica causalità.
Ogni atto produce quello successivo. Questo processo era considerato come l’origine delle differenze di
condizione sociale e delle ingiustizie del mondo. Il buddista indiano, contrariamente al confuciano cinese, non

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intendeva correggere tali ingiustizie e perfezionare l’ordine sociale, ma soltanto sfuggire al ciclo doloroso della
esistenza.

Il Budda storico e i suoi insegnamenti


Il Budda storico, noto col nome di Sakyamuni, “il maestro del clan Sakya”, visse intorno al 500 AC. Egli era un
principe dello stato di Magadha, nel Nepal. Angosciato dalle sofferenze che scorgeva intorno a sé, egli
abbandonò la moglie e il figlio, ma si accorse che con una vita puramente ascetica non si giungeva a nulla. In
seguito, raccolto in meditazione, raggiunse l’illuminazione, scoprendo la “Media Via” tra gli estremi
dell’autoindulgenza e dell’automortificazione. Egli divenne quindi il Budda, “l’Illuminato” e cominciò a predicare
la sua meravigliosa scoperta a un devoto gruppo di discepoli. L’essenza delle sue concezioni sembra
comunque racchiusa nelle Quattro Nobili Verità: la vita è dolore; l’origine del dolore è il desiderio; la cessazione
del dolore deve essere cercata nella fine del desiderio; la strada che conduce a questo fine passa per il Nobile
Sentiero Ottuplice, vale a dire le regole per un giusto modo di vivere.
L’obiettivo ultimo di tutti questi sforzi era il Nirvana. Il Nirvana non è la fusione con il divino o la salvezza
dell’anima; infatti, il primitivo buddismo non conosceva dei. La personalità umana era considerata come una
combinazione di “cinque aggregati”, vale a dire l’organismo corporeo, e i quattro stati psichici della sensazione,
della cognizione, dell’attività mentale e della coscienza. Cercando il Nirvana il buddista non intendeva
semplicemente spezzare la catena dell’esistenza estinguendo ogni desiderio. Infatti, sebbene letteralmente
significhi “vuoto”, il Nirvana non era considerato una semplice estinzione, ma qualcosa di più, come il tranquillo
fondersi di una goccia d’acqua nel mare.
Dopo una lunga tradizione orale, intorno al 1° secolo AC, il buddismo cominciò a dar origine a una straordinaria
letteratura sacra. Il cannone buddista, cioè il Tripitaka, ovvero “tre cesti”, viene tradizionalmente diviso in
Vinaya o “discipline” per la vita monastica, Sutra o “discorsi”, che costituiscono i principali insegnamenti e
Abhidharma o elaborazioni scolastiche degli stessi insegnamenti.
Il buddismo è una religione universalistica; tutti gli uomini sono uguali per la “legge” buddista. Ebbe larga
diffusione sia nell’Asia orientale sia nell’Asia meridionale e centrale. Nel 3° secolo AC si era già diffuso in tutta
l’India, sotto la protezione del conquistatore Ashoka. Successivamente, mercanti e viaggiatori indiano
portarono gli insegnamenti del Budda lungo le rotte marine, attraverso l’Asia sudorientale e la Cina del Sud.

Il Mahayana e l’Hinayana
Anche le forme più pure di buddismo si divisero in due grandi correnti, abitualmente chiamate Mahayana, o
Grande Veicolo, e Hinayana, Piccolo Veicolo (o Theravada, “la dottrina degli antenati”). L’Hinayana, la
tendenza rimasta più fedele al buddismo originario, è tuttora la religione della Birmania, Siam, Cambogia,
mentre il buddismo della Cina, Corea, Giappone e Vietnam risale in gran parte al Mahayana.
Il Grande Veicolo era tale perché onnicomprensivo. Esso abbracciava molte delle concezioni del pensiero
prebuddistico indiano e accolse rapidamente i culti e le idee religiose dei popoli convertiti. Poiché distingueva
tra verità assoluta e verità relativa, il Mahayana poté tollerare anche idee contraddittorie, considerandole come
gradi diversi di verità corrispondenti a livelli diversi di comprensione dei credenti. Esso sviluppò inoltre un vasto
complesso di speculazioni metafisiche e un ricco pantheon. In luogo della religione senza dio del Budda storico,
i seguaci del Mahayana riconobbero miriadi di Budda simili a dei cicli temporali. Essi svilupparono inoltre un
nuovo tipo di divinità, il Bodhisattva o “Esistenza Illuminata”, che, pur avendo raggiunto l’illuminazione di un
Budda, rimane su questa terra per aiutare gli altri ad ottenere la salvezza, prima di passare a sua volta nel
Nirvana.
Grazie alla concezione del Bodhisattva, dediti alla salvezza delle creature più deboli, il buddismo mahayana
spostò gradualmente il suo interesse dall’illuminazione per mezzo della “forza propria di ciascuno” alla salvezza
mediante “la forza di un altro”. La fede soltanto bastava, anche un cieco atto di fede come la declamazione del
nome di un Budda o di un Bodhisattva.
Anche il significato del Nirvana mutò lentamente, almeno per i credenti meno colti, trasformandosi a poco a
poco nella nozione di salvezza in un paradiso ultraterreno, che cominciò ad essere chiaramente descritto e
rappresentato. L’idea del Bodhisattva inteso come aiuto per la salvezza portò il buddismo mahayana ad
attribuire grande importanza alla carità, ossia alle buone opere per recare soccorso agli altri e contribuire alla

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propria salvezza. Il buddismo si allontanava quindi parzialmente dalla sua originaria tendenza antisociale e
contemplativa. Il concetto di carità rese importante l’attività sociale, mentre la possibilità della salvezza
attraverso la fede toglieva al monachesimo il carattere di necessità.

La penetrazione del buddismo in Cina


La diffusione del buddismo mahayana fu naturalmente facilitata dalla sua tolleranza per gli altri culti e le altre
concezioni religiose. Inoltre, le idee che esso via via assorbiva lo resero molto più accetto ai popoli non indiani.
In questa forma il buddismo esercitò quindi una forte attrazione nella Cina del Nord imbarbarita e in quella del
Sud, frustrata e demoralizzata. Per i superstiziosi rappresentava un nuovo e potente tipo di magia, per gli
uomini di cultura un complesso di idee che incutevano sgomento ma facevano riflettere. Si trattava di una
grande fece universalistica e, se si fa eccezione per le sette taoiste, della prema religione organizzata
conosciuta dai cinesi. Il suo livello morale e intellettuale era estremamente alto. Esso offriva ai credenti una
raffinata letteratura, una arte religiosa, un cerimoniale, richiamo a una pacifica vita monastica in una epoca di
torbidi e la promessa della salvezza personale in un periodo che non sembrava offrire soluzione alcuna ai
problemi terreni dell’uomo.

I primi missionari buddisti


Secondo la tradizione, il buddismo fu introdotto in Cina nel 64 DC, in seguito a un sogno dell’imperatore Ming
Ti. Nel secolo successivo il buddismo cominciò a penetrare nel Vietnam del Nord, lungo il limite meridionale
dell’impero, e i convertiti presero ad erigere, in varie località della Cina, gli stupa, le torri reliquiarie buddiste.
Modificati dall’applicazione di concezioni architettoniche cinesi, gli stupa si sono trasformati col tempo nelle
pagode di pietra, di mattoni o di legno che sono diventate un aspetto tipico dello scenario dell’Asia orientale. I
primi a introdurre il buddismo in Cina furono probabilmente i mercanti che seguivano la rotta costiera
meridionale e la via terrestre settentrionale attraverso l’Asia centrale, ma la religione venne propagata
dall’opera più attiva dei missionari.

Gli studenti-pellegrini cinesi


Una funzione più importante di quella degli stessi missionari, nella diffusione della religione indiana, ebbero però
alla fine i neofiti cinesi, che tra il 3° e 8° secolo affrontarono il lungo viaggio verso l’India per attingere alla fonte
dell’insegnamento buddista. Fu questa la prima grande migrazione studentesca della storia dell’Asia orientale.
Fa-hsien, che partì per l’India seguendo la via dell’Asia centrale nel 399 e ritornò per mare nel 414, si stabilì a
Nanchino, dove tradusse i testi che aveva portato con sé. Egli è particolarmente famoso per il resoconto che ci
ha lasciato dei suoi viaggi. Poiché gli indiani, che avevano scarso interesse per la storia, raramente si
preoccupavano di stabilire la data esatta degli avvenimenti, i resoconti di Fa-hsien e degli altri pellegrini buddisti
cinesi, accuratamente datati, si sono rivelati insostituibili per stabilire la cronologia dell’India e dell’Asia centrale.
Hsuan-tsang, compì il viaggio di andata e ritorno dall’India tra il 629 e il 645, dopo il suo ritorno a Ch’ang-an,
divenne la più grande figura religiosa del suo tempo. Il resoconto dei suoi viaggi è intitolato Hsi-yu chi (Memorie
sui passi occidentali).
La diffusione del buddismo in Cina
Il buddismo fu accolto dapprima negli ambienti dell’alta e ricca società e solo in seguito si diffuse tra le masse
contadine. Sembra che all’inizio i suoi progressi siano stati più rapidi nel Nord “barbarico” che nel Sud,
probabilmente perché i sovrani non cinesi di questa zona non nutrivano alcun pregiudizio nei riguardi di una
religione straniera. I grandi protettori imperiali della nuova regione furono gli imperatori della dinastia
“barbarica” Wei settentrionale (386 – 534). Anche nel Sud non mancarono i protettori imperiali. Il buddismo fiorì
a Nanchino, e Wu Ti, della dinastia Liang, fu un credente così fervido che nel 527 e poi nel 529 e nel 547
rinunciò al trono per prendere gli ordini sacri.

L’età buddista
Il successo del buddismo in Cina durante il periodo delle 6 Dinastie è in parte da attribuire al rapido
compromesso che esso seppe stabilire con il taoismo e il confucianesimo, entrambi tollerati, il primo come una
verità di grado inferiore, il secondo come una filosofia politica e sociale. In seguito, si manifestò tra i cinesi una

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forte tendenza a sintetizzare “le 3 religioni” o ad accettarle l’una accanto all’altra. L’intero periodo che va dalla
metà del 4° secolo alla fine dell’8° potrebbe essere chiamato l’età buddista della storia cinese. Ma si trattò
soltanto di un periodo molto breve. In India, il buddismo aveva già cominciato a declinare. Nell’Asia centrale, fu
spazzato via nel 9° secolo dall’Islam. In Cina, il suo declino fu una conseguenza della ricostruzione dell’impero
cinese, vittoriosa risposta alla sfida dei “barbari”.

I “barbari” e l’idea imperiale cinese


Nel 4° secolo, la Cina del Nord, il cuore dell’impero, era completamente sopraffatta dai “barbari”; la Cina del
Sud sembrava incapace di restaurare l’unità imperiale; l’intero paese stava per cadere sotto l’influenza di una
religione straniera che attribuiva la più grande importanza alla vita ultraterrena, al celibato, all’ideale monastico,
che colpivano alle radici la filosofia cinese e il sistema sociale fondato sulla famiglia. Non è strano che i
conquistatori “barbarici” dell’impero abbiano accolto l’idea di presentarsi come nuovi imperatori. Il loro
desiderio di impadronirsi con la conquista delle grandi tradizioni della Cina imperiale era facilmente prevedibile.
Verso la metà del 5° secolo, i “barbari” invasori della Cina del Nord avevano ricreato una passabile copia del
vecchio impero, e nel 7° secolo non soltanto l’impero cinese era stato completamente restaurato ma era
diventato più ricco e forte che mai.

Ragioni della rinascita dell’impero cinese


Il crollo degli Han era stato molto rapido. Come fu possibile allora la ricostruzione dell’impero cinese?
Forse le dinastie della Cina del Sud riuscirono a conservare la tradizione imperiale. Inoltre, la Cina era, dal
punto di vista geografico, più compatta. Nanchino era più vicina alla Cina del Nord. Di conseguenza, l’influenza
che il Sud esercitò sul resto della Cina più forte e quindi più facile la re-incorporazione di tutto il paese in un
impero rinnovato. Un’altra ragione importante può essere rappresentata dall’intrinseca superiorità della
concezione imperiale Han. Roma non conobbe l’ideale di un governo etico e giusto, esercitato da un
imperatore il quale, investito dal “Mandato del Cielo” che si manifestava nel pronto riconoscimento da parte del
popolo dell’imperatore stesso, governava mediante una burocrazia di intellettuali scelti secondo il criterio del
merito. Questa opzione era più razionale e meno teocratica. L’antico sistema imperiale dovette quindi sembrare
ai cinesi più desiderabile.
Un elemento ancora più decisivo è forse da ricercare nella natura del sistema di scrittura cinese, che non
poteva adattarsi alla lingua dei “barbari”, né rifletteva le differenze regionali. Mentre i “barbari” europei e i popoli
che ereditarono il latino si trovarono ben presto divisi in parecchi gruppi linguistici, i cinesi e i loro invasori
“barbari” rimasero, per quanto riguarda la scrittura, legati al cinese classico quindi a costruire una unità
culturale omogenea.

I “Cinque Barbari” e le 16 Dinastie


Gli invasori seminomadi che si rovesciarono sulla Cina del Nord all’inizio del 4° secolo sono chiamati dai cinesi i
“Cinque Barbari”. Essi erano i turchi hsiung-nu; una tribù ad essi molto affine chiamata chieh; i hsien-pei,
provenienti da Nord Est; i ti e i ch’iang, due gruppi tibetani. I hsien-pei devastarono le terre ai margini della
Grande Pianura nel 281, e i tibetani cominciarono le loro incursioni nel 296; ma la vera e propria invasione
ebbe inizio nel 304, allorché un principe Chin chiese aiuto alle tribù hsiung-nu semisinizzate dello Shansi
settentrionale.
I cinesi hanno chiamato la storia della Cina del Nord tra il 304 e il 439 il periodo delle 16 Dinastie, fu un tumulto
di “barbari” che si contesero il trono Han.

I hsiung-nu delle dinastie Chao anteriore e posteriore


Liu Yuan, il sovrano hsiung-nu dello Shansi settentrionale, che aveva assunto il cognome degli imperatori Han,
si proclamo re Han nel 304. Nel 316, dopo la distruzione della dinastia Chin occidentale, i suoi successori
presero il nome di Chao dello stato che si era costituito nello Shansi settentrionale nel tardo periodo Chou. I
Chou anteriori, comunque, non riuscirono a stabilire il loro dominio su tutta la Cina del Nord. Nel corridoio del
Kansu un generale cinese aveva fondato, nel 313, la dinastia Liang anteriore, mentre nel Nord Est uno dei
generali hsiung-nu, Shih Lo, distrusse nel 329 la dinastia Chao anteriore dando inizio alla nuova dinastia Chao

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posteriore. Nell’ambito della società hsiung-nu, Shih Lo fu un vero e proprio rivoluzionario, giacché,
diversamente dai suoi predecessori, egli non discendeva dagli imperatori hsiung-nu. Da un altro punto di vista,
egli fu meno innovatore dei sovrani della dinastia Chao anteriore, ormai assimilati all’elemento cinese, poiché
ritornò a un tipo più tradizionale di governo tribale. La dinastia Chao posteriore fu a sua volta rovesciata nel 352
dalla tribù mu-jung del gruppo hsien-pei, la quale, sviluppandosi nel Nord Est, assunse il nome di dinastia Yen
anteriore.

I Ch’in anteriori tibetani e gli stati successori


Circa in questo stesso periodo un potente stato tibetano cominciò a svilupparsi nel Nord Ovest. Si tratta dello
stato Ch’in anteriori. Fu Chien, imperatore di questo stato tibetano, non fu ostacolato nel suo governo dalle
divisioni tribali. Egli costituì un’amministrazione modellata su quella cinese e una forte fanteria, formata da
truppe cinesi, da affiancare ai suoi cavalieri nomadi. Molto più potente di tutti gli altri sovrani “barbarici” che
l’avevano preceduto, Fu Chien distrusse, nel 370, la dinastia Yen anteriore nel Nord Est e, 6 anni dopo, i Liang
anteriori del Kansu, riunificando in tal modo la Cina del Nord. Nel 383, si avventurò quindi alla conquista della
Cina del Sud, ma la campagna si concluse in modo disastroso e l’impero di Fu Chien si smembrò.
Nel 384, un generale tibetano si impadronì della capitale, Ch’ang-an, fondando la dinastia Ch’in posteriore.
Nello stesso anno alcuni gruppi tribali mu-hung stabilirono le dinastie Yen posteriore e Yen Occidentale. L’anno
dopo, un altro gruppo hsien-pei proclamò la propria indipendenza nel Kansu meridionale, dando inizio alla
dinastia Ch’in occidentale; nel 386, un generale tibetano fondò nel corridoio del Kansu la dinastia Liang
posteriore. Gli stati che succedettero alla dinastia Ch’in anteriore ebbero vita effimera: i hsien-pei della dinastia
Yen meridionale (398-410) e Yen settentrionale (409-436), i hsiung-nu della dinastia Liang settentrionale (397-
414) e la dinastia dei Liang occidentali (401-421); i hsiung-nu della dinastia Hsia (407-431).

I t’o-pa della dinastia Wei settentrionale.


Tra gli stati tribali, solo uno rivelò una potenza duratura. La sua fondazione fu in gran parte dovuta ad un
gruppo hsien-pei, conosciuto col nome di t’o-pa, nello Shansi settentrionale. In questa zona i t’o-pa diedero
vita, tra il 338 e il 376, allo stato semisinizzato di Tai e, dopo essere stati sottoposti per un certo periodo ai
Ch’in anteriori riaffermarono la loro indipendenza nel 386, assumendo il nome dinastico di Wei settentrionali.
Lo stato Wei settentrionale si rafforzò rapidamente, estese il suo territorio, ricostruendo la Grande Muraglia. Nel
445 e nel 447 gli eserciti dello stato Wei settentrionale penetrarono fino al bacino del Tarim nell’Asia centrale.
Fu questa l’iniziativa che, tra quelle degli ultimi 3 secoli, ricordò più da vicino i successi militari Han. Ma anche
gli sforzi di questa dinastia per conquistare il Sud si conclusero senza successo.
Con il regno di Hsiao Wen Ti (“l’Imperatore Colto e Filiale”, 471-499) il processo di acculturazione era ormai
così inoltrato che la corte dei Wei settentrionali intraprese una consapevole politica di sinizzazione. Nel 493-494
la capitale fu trasportata da Loyang, che era stata la capitale dei Chou orientali e degli Han posteriori. Circa
nello stesso periodo il cinese divenne la sola lingua ufficiale della corte e ai nobili t’o-pa fu imposto l’uso degli
abiti, costumi e cognomi cinesi.

Gli stati succeduti ai Wei settentrionali


La completa sinizzazione della corte provocò, a partire dal 324, alcune serie rivolte tra le forze militari in parte
rimaste allo stato tribale. Il governo centrale divenne preda dell’ambizione delle grandi famiglie, si disintegrò
rapidamente dopo lo scoppio delle rivolte e i generali si impadronirono del potere. Nel 534, la famiglia Kao pose
sul trono un imperatore fantoccio della dinastia Wei orientale del Nord Est e, nel 550, usurpò il titolo dando
inizio alla dinastia Ch’i settentrionale. Lo stesso fece nel Nord Ovest, la famiglia Yu-wen ponendo sul trono, nel
535, un sovrano della dinastia Wei occidentale e impadronendosi quindi del potere nel 557 con l’assunzione del
nome dinastico di Chou settentrionali. Entrambe le famiglie usurpatrici erano probabilmente di origine hsien-pei
e rappresentarono un ritorno al dominio militare “barbarico”. I Chou settentrionali, stanziati nella valle del Wei
con capitale a Ch’ang-an, dimostrarono ancor auna volta la superiorità militare di questa zona sulla Grande
Pianura distruggendo nel 577 i Ch’i settentrionali e riunificando il Nord. Tuttavia, il trono fu usurpato 4 anni dopo
da un generale, Yang Chien, noto nella storia col nome di Wen Ti (“l’Imperatore Colto”), il fondatore della

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dinastia Sui. Yang Chien sostenne di essere di origine cinese, ma in realtà egli apparteneva probabilmente al
gruppo hsien-pei.
Le dinastie Sui e T’ang ricostituiscono l’impero
La funzione svolta dalla dinastia Sui nella storia cinese fu molto simile a quella dei Ch’in 8 secoli prima. Il
fondatore conquistò facilmente, nel 589, lo stato di Ch’en, mettendo fine all’ultima delle dinastie meridionali e
riunificando quindi la Cina dopo quasi 4 secoli di divisione politica. Come i loro predecessori Ch’in, i sovrani Sui
furono eccessivamente ambiziosi. Essi vollero raggiungere troppo rapidamente mete troppo grandiose,
mettendo a dura prova la pazienza e la lealtà dei loro nuovi sudditi. Questo dicasi soprattutto per il secondo
sovrano, Yang Ti, “l’Imperatore Blasonato”, che succedette al padre, probabilmente assassinandolo nel 604.
Avendo perduto il “Mandato del Cielo”; Yang Ti è stato condannato dalla storia, annoverato tra i sovrani
malvagi.
Sotti i due imperatori Sui, la Cina iniziò il suo secondo grande ciclo imperiale. Venne ristabilito su tutto il paese
un forte governo centralizzato; la Grande Muraglia fu ricostruita, vennero scavati lunghi canali, che resero
possibile la prosperità.

Le conquiste dei Sui


E ancora una volta il pendolo della conquista prese a oscillare verso le terre dei “barbari” oltre i confini della
Cina.
A sud, Sui Wen ristabilì il controllo cinese sul Vietnam del Nord e, nel 605, Yang Ti inviò una spedizione contro
lo stato del Vietnam del Sud. Nel frattempo, a nord, la dinastia Sui aveva in parte ristabilito il controllo cinese
sull’Asia centrale e sulle steppe. Nel 552, i t’u-chueh sconfissero i juan-juan, dei quali erano vassalli,
riconquistando l’indipendenza. I t’u-chueh costituirono un forte impero nell’Asia centrale, ma nel 581 si divisero
in 2 tronconi, quello orientale e quello occidentale, e subito dopo alcuni di questi nuclei turchi divisi si
sottomisero alla dinastia Sui. Nel 609 i cinesi soggiogarono anche i t’u-yuhun, una popolazione mista mongolo-
tibetana del Tibet settentrionale, che costituiva una minaccia per la via commerciale del Kansu. Yang Ti,
tuttavia, si alienò le simpatie della popolazione per le continue guerre e l’enorme impiego di manodopera
richiesto dalla costruzione di canali, mura e palazzi. Il prestigio della dinastia ricevette un rode colpo con la
grave sconfitta subita nella campagna del 612 contro il regno coreano di Koguryo che si estendeva tra la Corea
del Nord e la Manciuria meridionale. Nel 615 gu duramente sconfitto dai turchi orientali, l’impero cominciò
allora a smembrarsi e il sovrano fuggì nella Cina del Sud, dove fu assassinato nel 618.

La fondazione della dinastia T’ang


L’uomo che ebbe infine la meglio nella confusione che seguì la caduta della dinastia Sui fu un eminente
funzionario di nome Li Yuan, che era stato al servizio dei Sui. Egli fu indotto alla ribellione dal suo ambizioso
secondogenito, Li Shih-min. sebbene vantasse la propria origine cinese, la famiglia Li aveva ricevuto il titolo
nobiliare al tempo dei Chou settentrionali ed era strettamente imparentata con le grandi famiglie “barbariche”
della Cina del Nord.
Con l’aiuto di alleati turchi, Li Yuan e Li Shih-min occuparono Ch’ang-an nel 617, e in questa città il padre fu
elevato al trono, nel 618, come primo imperatore della dinastia T’ang, noto nella storia col nome di Kao Tsu
(“Alto Progenitore”). Nel 628 l’ordine era stato ristabilito in tutta la Cina. La dinastia così fondata si manterrò in
vita per un intero ciclo di 3 secoli, fino al 907, e sotto di essa la Cina conoscerà forse uno dei periodi di maggior
splendore della storia mondiale.
Nel 626, Kao Tsu abdicò in favore del dispotico figlio. Li Shih-min, noto col titolo postumo di T’ai Tsung,
“Grande Antenato”, regnò fino al 649, e il periodo annuo Chen-kuan (627-650) del suo regno è considerato
come il primo grande saliente dell’età dei T’ang. Sotto il suo abile governo l’amministrazione centrale fu
pienamente ricostituita, vennero scavati altri canali e ricostruiti palazzi; i cinesi ritornarono con decisione alla
politica di sottomissione dei “barbari” delle terre circostanti.

Le conquiste dei T’ang (politica estera)


Nel 624, i turchi, dopo aver rotto i rapporti con l’imperatore che avevano appoggiato al momento della
conquista del trono, invasero il paese giungendo fino a Ch’ang-an; ma nel 630 T’ai Tsung soggiogò le tribù

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orientali assumento egli stesso il titolo di “Khan Celeste” dei turchi (il titolo di Khan era usato dai hsiung-nu per
indicare il capo supremo delle popolazioni turche). Con le grandi campagne del 639-40 e 647-48, T’ai Tsung
strappò ai turchi occidentali il controllo del bacino del Tarim e portò questa regione nell’impero. Questa vittoria
fu ottenuta con l’aiuto delle tribù uighur, e divennero i fedeli alleati dei T’ang. La dominazione cinese fu
gradualmente estesa ai territori dell’alta valle dell’Indo nell’attuale Afghanistan. Anche il Tibet, che era stato
unificato per la prima volta nel 607, cadde sotto il dominio cinese.
Gli eserciti di T’ai Tsung erano stati due volte respinti dallo stato nordcoreano di Koguryo, ma con il suo
successore, Kao Tsung (“Grande Antenato”, 649-683), l’intera penisola cadde sotto la signoria nominale della
Cina. Con una lunga serie di campagne, i T’ang e il regno sud-coreano di Silla sconfissero una coalizione
formata da Koguryeo, dal regno coreano sudoccidentale di Paekche e dal Giappone. Il risultato fu l’unificazione
della Corea, nel 668, sotto il dominio di Silla, che rimase poi un leale vassallo dei T’ang.
Nel 657, l’impero dei turchi occidentali fu infine distrutto con l’appoggio degli uighur. Tuttavia, verso la fine del
regno di Kao Tsung la Cina perdette il controllo del bacino del Tarim, invaso dai tibetani e non lo riacquistò che
durante il regno del successore, l’imperatrice Wu. L’imperatrice Wu è una figura femminile di valore. Fu
dapprima concubina di T’ai Tsung; elevata poi al rango di imperatrice da Kao Tsung, dominò la corte durante
gli ultimi anni del suo regno. Dopo la morte di Kao Tsung, Wu governò per un certo periodo valendosi di due
imperatori fantocci e quindi nel 690 assunse direttamente il titolo di imperatore, per la prima volta per una
donna.

Il regno di Hsuan Tsung


Nel 705, quando già aveva superato gli 80 anni, l’imperatrice Wu fu deposta da una congiura di palazzo che
ristabilì sul trono il primo dei due imperatori fantocci. Costui venne assassinato dalla moglie che cadde però
vittima, nel 710, insieme ai suoi parenti, del figlio del secondo imperatore; questi, dopo aver lasciato regnare il
padre per due anni, assunse direttamente il trono nel 712, emulando in tal modo, come sovrano e come
creatore di sovrani, la fortuna di Li Shih-min. Egli è noto nella storia cl nome di Hsuan Tsung (“Antenato
Misterioso”) e anche con quello di Ming Huang (“Imperatore Illuminato”) e i periodi annui K’ai-yuan (713-742) e
T’ien-pao (742-756) del suo lungo regno (712-756) sono considerati come l’epoca della seconda fioritura della
dinastia.
Le tribù uighur, che si erano ribellate all’imperatrice Wu negli ultimi anni del suo regno, ripresero ora la loro
consueta politica di alleati fedeli dei T’ang.

La rinascita del governo centralizzato: le finanze


La ricostituzione dell’impero non fu soltanto la storia dell’assorbimento dei “barbari” nella Cina del Nord e della
crescente potenza militare. La riunificazione del paese con la forza e il ricostituirsi di un enorme impero furono
soltanto le manifestazioni di superficie di un processo molto più profondo di restaurazione. Durante il periodo
delle 6 Dinastie, il Sud non seppe in alcun modo ridurre l’autonomia delle grandi famiglie che avevano distrutto
l’unità dell’impero Han. Nel Nord, le divisioni tribali dei “barbari” non fecero che accentuare questa instabilità e
l’incapacità di stabilire un sistema di governo capace di piegare la forza delle grandi famiglie. In entrambe le
parti della Cina la società rimase essenzialmente aristocratica, dominata da potenti famiglie di nobile lignaggio.
Il buddismo, inoltre, aveva introdotto un nuovo elemento di disordine economico. I ricchi monasteri si erano
trasformati in vasti domini terrieri, aggiungendosi quindi alle grandi famiglie come rivali del governo centrale
nello sfruttamento del lavoro contadino.

I sistemi del “campo uguale” e dei “tre capi” della dinastia Wei settentrionale
Nel 5° secolo, i sovrani della dinastia Wei settentrionale cominciarono ad affrontare i fondamentali problemi che
avevano provocato la rovina dell’impero Han. La soluzione adottata rappresentò, in un certo senso, un ritorno
ai tentativi di Wang Mang di nazionalizzare la terra. Poiché il gettito fiscale non era molto rilevante e il maggior
onere, rappresentato dalle corveées, era sopportato dai contadini liberi secondo il criterio dell’imposta
personale, il governo, per provvedere alle sue necessità finanziarie, doveva mantenere quanti più contadini
possibile nella condizione di contribuenti, ossia di liberi coloni. In altre parole, era interesse del potere centrale
sottrarre il contadino alla servitù o alla schiavitù.

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Nel 485, Hsiao Wen Ti introdusse il sistema del “campo uguale”, secondo il quale ogni contadino adulto e abile
al lavoro era considerato assegnatario di un appezzamento coltivabile di determinate dimensioni. Le quote
spettanti ad un uomo ed alla moglie dovevano raggiungere insieme un totale di 140 mou, ossia di 19 acri.
Soltanto una piccola parte dell’appezzamento poteva essere dedicata in permanenza alla coltura del gelso per
l’allevamento del baco da seta o ad altri tipi di piantagione. La parte restante doveva essere restituita al
governo alla morte del titolare o quando questi avesse superato i limiti di età. Sebbene il sistema del “campo
uguale” non fosse diretto a privare le grandi famiglie dei loro possedimenti e venisse applicato solo ai liberi
coloni, contribuì ad arrestare il processo di incorporazione delle terre e dei contadini nei grandi domini terrieri e
a rendere stabili le basi finanziarie del governo centrale. Al fine di rafforzare questo complicato sistema di
possesso della terra, Hsiao Wen Ti istituì anche il sistema dei “tre capi”, mediante il quale la popolazione veniva
divisa in gruppi ciascuno dei quali era responsabile della condotta degli altri e del pagamento delle imposte.
Cinque famiglie costituivano un “vicinato”, cinque “vicinati” un “villaggio” e cinque “villaggi” una “associazione”.
Ogni tipo di raggruppamento era posto sotto il controllo di un “capo”.

Il nuovo sistema militare


I sistemi dei “tre capi” e del “campo uguale” si mostrarono efficienti a tal punto che furono ripresi dalle dinestie
che succedettero ai Wei settentrionali nella Cina del Nord; una novità fu poi introdotta dalle dinastie Wei
occidentale (535-557) e Chou settentrionale (557-581). Si tratta del sistema della “milizia”, secondo il quale
tutti i contadini abili erano addestrati alle armi e organizzati in forze regolari. Durante la dinastia T’ang questo
tipo di servizio militare fu poi integrato nel sistema del “campo uguale” e diventò una delle prestazioni che il
contadino, in quanto assegnatario di terre, era tenuto a fornire al governo.
Oltre agli eserciti formati dalle milizie regolari, speciali colonie militari autosufficienti, costituite da soldati-
contadini, furono fondate lungo la frontiera settentrionale e in altre località di importanza strategica.

Il sistema del “campo uguale” sotto le dinastie Sui e T’ang


Con le dinastie Sui e T’ang, il sistema del “campo uguale” fu notevolmente modificato e diventò l’elemento
basilare del regime fiscale. Con le loro conquiste i Sui estesero anche gradualmente il sistema a tutto il paese e
vi compresero a forza anche le grandi famiglie, considerando i loro possedimenti come “terre di rango” loro
assegnate. Secondo il sistema del “campo uguale” in vigore nei primi anni del periodo T’ang, ogni adulto abile
al lavoro di età compresa tra il 21° e il 59° anno era considerato assegnatario di 100 mou di terra (13 acri), dei
quali 1/5 soltanto poteva essere conservato in permanenza come terra “da gelso”. Su questa base economica,
ogni maschio abile al lavoro doveva pagare al governo un’imposta costituita da una quota fissa del raccolto di
cereali, seta, tela di canapa; infine, era tenuto a fornire al governo centrale 20 giornate di lavoro all’anno e a
mettersi in altri periodi a disposizione degli organi di governo locali. Questa corvée veniva talvolta commutata
nel pagamento di una tassa in denaro o in natura.
Vi erano inoltre contadini abili al lavoro, esentati da altre imposte e tributi, che dovevano rispondere a chiamate
periodiche prestando servizio militare a loro spese e senza retribuzioni.
Come al tempo della dinastia Sui, le grandi famiglie e i funzionari furono integrati nel sistema con l’assegnazione
permanente di “terre di rango”, e talvolta appezzamenti più piccoli, le cosiddette “terre di ufficio” corrispondenti
alla carica che il titolare occupava in quel periodo nelle gerarchie di governo.
Per la realizzazione di questo complicato sistema erano necessari in tutto il paese particolareggiati registri delle
terre e della popolazione. Gli esempi che ci restano di tali classificazioni mostrano come ogni area coltivabile
fosse ripartita tra i singoli contribuenti per categorie determinate (come, ad esempio, le “terre permanenti”, le
“terre assegnate” o gli “appezzamenti familiari”).
Il sistema del “campo uguale” durante le dinastie Sui e T’ang non spezzò comunque il potere delle grandi
famiglie. Esso non fu adottato come un mezzo per la confisca dei grandi latifondi, ma fu applicato anzitutto ai
campi dalle terre abbandonati nei periodi di guerra. In realtà, il crollo della dinastia Sui può essere in parte
attribuito proprio al risentimento che le grandi famiglie nutrivano nei riguardi di un regime che stava tentando di
fiaccare la loro forza economica. A questo proposito il compito dei T’ang fu più facile di quello dei Sui, le lotte
che sconvolsero la Cina durante il collasso dei Sui eliminarono o ridussero i possedimenti di molte delle vecchie
famiglie, lasciando alla nuova dinastia un campo d’azione sgombro.

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La prosperità del periodo T’ang
All’inizio del periodo T’ang, il governo centrale poté infatti attingere a un consistente gettito fiscale, che
cominciò ad essere interamente ingoiato dalle spese soltanto dopo che la famiglia imperiale e gli organi di
governo ebbero attraversato un lungo periodo di sviluppo. I cinesi stabilirono in questi anni delle unità di misura
di valore approssimativamente uguale per tutti i principali prodotti dell’economia. Cos’, un filo di mille monete,
un’ “oncia” di argento, uno “staio” di grano, una “pezza” di seta e una misura di bavelle avevano tutti all’incirca
lo stesso valore. Calcolato secondo questa generica “unità”, il gettito fiscale del governo centrale ammontava a
più di 52 milioni di “unità”, dei quali i 4/5 erano il frutto dell’imposta personale dei contadini, mentre il rimanente
costituiva il ricavato dell’imposta fondiaria e di quella “familiare” sulla ricchezza.
Il governo era indubbiamente molto più ricco che al tempo degli Han, e la ragione di questa maggiore ricchezza
è probabilmente in parte da ricercare nei miglioramenti introdotti nell’agricoltura e nell’amministrazione; ma la
spinta principale venne forse dal grande aumento della popolazione che si ebbe nella valle dello Yangtze.

Il primo Grande Canale


Questo stato di cose spiega la grande attività che la dinastia Sui dedicò alla costruzione di canali. Nel 584, il
vecchio sistema di corsi d’acqua tra Ch’ang-an e il Fiume Giallo era stato riattivato. Nel 608, Yan Ti aveva
costruito un canale, che univa il Fiume Giallo alla Zona di Pechino, per provvedere al rifornimento degli eserciti
impegnati nelle campagne contro la Corea e nel 610 aeva continuato i lavori verso sud, nella zona di
Hangchow atraverso le ricche terre del delta dello Yangtze.
Si può considerare il tratto di questa grande rete idrica compreso tra Hangchow e Ch’ang-an come il primo
Grande Canale.

Il fallimento del sistema del “campo uguale”


In teoria, il sistema del “campo uguale” era fondato sulla redistribuzione periodica del grosso delle aree
coltivabili tra i contadini che pagavano le tasse. La popolazione aumentò sensibilmente grazie alla pace interna
e la classe contadina crebbe più rapidamente delle risorse del suolo. Il risultato fu che molti contadini
ricevettero in eredità dal padre una quota di terra molto inferiore ai 100 mou stabiliti. Nello stesso tempo, le
assegnazioni cumulative dell’imperatore e la falsificazione dei documenti da parte di funzionari corrotti ridussero
il totale delle terre disponibili per i contadini soggetti all’imposta.
Nella prima metà del secolo 8°, l’intero sistema si stava disgregando. Hsuan Tsung fece notevoli sforzi per
rimetterlo in sesto, ma non ottenne grandi risultati. Il grave indebolimento del governo T’ang, che si manifestò
verso la fine del suo regno, può in arte essere attribuito proprio al fallimento di questo complicato sistema
fiscale e di possesso della terra.

La rinascita del governo centralizzato: la burocrazia


Dopo il crollo degli Han e le invasioni dei “barbari”, la ricostituzione delle basi finanziarie del governo risolveva
soltanto in parte il problema generale del ristabilimento di uno stato centralizzato. L’altro lato della medaglia era
rappresentato dallo sviluppo di una burocrazia fidata, necessaria per il funzionamento della amministrazione
centralizzata.

La reintroduzione degli esami e il sistema scolastico


I sovrani della dinastia Sui che ereditarono dai “barbari” la tradizione del potere militare centralizzato compirono
uno sforzo risoluto per ricostituire una amministrazione civile effettivamente diretta dalla capitale. A questo
proposito, Wen Ti ridiede vigore alla tradizione confuciana, che era stata parte integrante del sistema imperiale
degli Han. Essa soltanto pareva in grado di offrire la teoria politica, le norme organizzative e le regole del
cerimoniale necessarie alla edificazione di un grande impero centralizzato. Così, la riunificazione dell’impero
andò di pari passo con la rinascita delle concezioni politiche confuciane.
Non soltanto Wen Ti reintrodusse il sistema degli esami, basato su un programma di studi confuciani per i
candidati aspiranti ad entrare nella burocrazia, egli stabilì inoltre il principio che i funzionari delle prefetture e

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sottoprefetture non dovevano far parte dell’aristocrazia lovale, ma essere inviati dal governo centrale, e
sottrasse la milizia contadina al controllo dei funzionari locali mettendola alle dipendenze del governo centrale.
La dinastia T’ang continuò la politica dei Sui, estendendo il sistema degli esami e il numero delle scuole
governative. Sotto la sovrintendenza di un Consiglio dell’Accademia imperiale, furono istituite nella capitale
varie scuole nazionali. Vi erano inoltre istituti di istruzione tecnica dove si insegnavano il diritto, la scrittura e le
matematiche.
Agli esami imperiali potevano partecipare gli studenti delle scuole della capitale, i candidati designati dagli
organi di governo locali e occasionalmente da speciali nomine imperiali. Il Ministero dei riti curava, con un
cerimoniale complicato, lo svolgimento degli esami, che erano di vario genere; quello dei “talenti in fiore” (hsiu-
ts’ai), per gli affari politi correnti, degli “studiosi presentati” (chin-shih, che venivano presentati all’imperatore)
per le lettere, e infine gli esami su argomenti come i classici, il diritto, la calligrafia e la matematica. Gli ultimi 3
erano però considerati come semplici prove tecniche, che aprivano la strada solo a cariche di scarso rilievo;
poiché il diploma di hsiu-tsai aveva temporaneamente perduto la sua importanza, rimanevano come titoli di
accesso agli alti gradi della burocrazia il diploma di chin-shih e quello degli studi classici. Tra questi, il primo
divenne col tempo molto ambito; essendo il più completo, giacché abbracciava l’intero campo della letteratura,
nei successivi periodi della storia cinese fu il diploma più importante.
Il candidato che superava con successo questi esami puramente letterari, e dimostrava perciò la sua attitudine
alle alte cariche, doveva affrontare una seconda serie di esami, che si svolgevano a cura del ministero del
personale, prima di prendere possesso della carica. Essi consistevano in una prova scritta e una prova orale. Il
sistema era completato da esami di merito, che portavano a una valutazione e a una classificazione per le
promozioni e destituzioni.

La sopravvivenza del privilegio aristocratico.


Un sistema così complesso subì una lenta evoluzione e fino al secolo 8° non raggiunse il suo assetto definitivo.
Il sistema in vigore agli inizi del periodo T’an era ancora aristocratico; non vi era un regolare afflusso nei ranghi
della burocrazia di giovani di grande talento e di umili origini. Dopotutto le scuole della capitale erano destinate
ai membri dell’aristocrazia; i candidati designati dagli organi di governo locali erano inoltre scelti dai membri
della burocrazia privilegiata dal governo centrale; gli esami orali e le successive promozioni erano senza dubbio
sensibilmente influenzati da considerazioni di classe e da legami familiari.
Per di più, i grandi funzionari disponevano sempre del privilegio di raccomandare i propri figli e protetti, che
potevano essere ammessi agli alti gradi della burocrazia senza passare attraverso il sistema degli esami.

L’efficienza del sistema degli esami


Ciononostante, anche nei primi tempi della dinastia T’ang, il sistema degli esami contribuì a creare una
burocrazia preparata e per lo meno equivalente a quanto di meglio aveva prodotto l’impero degli Han. Nel
medio periodo T’ang, la concezione di una burocrazia del merito avrà fatto progressi tali da superare il livello
degli Han. Queste furono le origini del sistema del funzionariato del merito, che si rivelerà come una delle più
grandi realizzazioni della civiltà cinese.
Sotto la dinastia T’ang, la maggioranza di coloro che raggiunsero le alte cariche della burocrazia si distinsero
anzitutto per i meriti intellettuali ossia per aver ottenuto il diploma di chih-shih.
Il sistema degli esami non soltanto diede alla Cina la prima burocrazia colta del mondo, scelta secondo il
criterio del merito, ma contribuì anche ad unificare il paese sul piano culturale. Tutti coloro che nutrivano
l’ambizione di entrare a far parte della élite della nazione dovevano procurarsi, solitamente a proprie spese, il
medesimo tipo di educazione classica, dal momento che il sistema degli esami rappresentava la via più
normale verso il successo politico e finanziario. La classe dominante finì quindi per avere una educazione
uniforme. Poiché l’ideologia confuciana costituiva il fondamento di questa educazione, la classe dominante era
imbevuta di principi etici, tra i quali il concetto di lealtà all’autorità esistenze, e di un forte senso del valore del
decoro e dell’etichetta.
Gli uomini di grande levatura intellettuale, singolarmente favoriti dal sistema, divennero quindi i più efficaci
sostenitori del governo, invece di mutarsi in critici. Il sistema inoltre riuscì a procurare all’ordine stabilito

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l’appoggio delle classi inferiori, dal momento che esisteva pur sempre la possibilità che un uomo di umili origini
potesse superare gli esami ottenendo il diploma di chih-shih.
Ma il sistema degli esami aveva anche i suoi difetti. Il prestigio che esso diede agli intellettuali, unito alla
considerazione tradizionale che circondava le cariche politiche, contribuì a mantenere la divisione della società
in 2 strati, distinti per l’educazione, ancora per molto. Inolte, l’importanza che gli esami attribuirono alla
ortodossia fu di scarso stimolo per il pensiero creativo, mentre la limitatezza degli argomenti di studio produsse
una class dirigente non informata sugli altri problemi; il sistema si servì anche a portare al governo uomini con
una cultura troppo scolastica e interessi troppo antiquati, e che per questo non potevano essere dei capi politici
efficienti.

Il governo T’ang
Per il completo sviluppo di una burocrazia colta fondata sul merito fu necessario il lavoro di parecchie
generazioni, ma la dinastia T’ang dovette già nei suoi primi anni creare complessi organi di governo per
l’amministrazione del vasto impero. Si servì quindi delle istituzioni politiche che aveva ereditato dalle dinastie
Wei occidentale, Chou settentrionale e Sui, a loro volta modellate sulle vecchie istituzioni Han. Sotto i T’ang il
sistema legislativo venne accuratamente codificato e diviso in 4 gruppi: le leggi penali (lu), quelle
amministrative (ling), le loro successive rielaborazioni (ko) e le norme di procedura (shih). Il sistema legislativo
fu essenzialmente limitato al campo amministrativo e penale; in scarsa considerazione si tenne il diritto civile,
poiché si pensava che le vertenze tra i sudditi dovessero essere regolate privatamente.

Il governo locale
Wen Ti, della dinastia Sui, aveva abolito i vecchi comandi militari e diviso il paese, in modo più uniforme, in
prefetture e sottoprefetture. I T’ang continuarono il sistema Sui, costituendo inoltre un nuovo organo di
governo, creando per la prima volta delle grandi province al di sopra delle prefetture. Inizialmente essere furono
10 e vennero chiamate tao (“circoscrizioni”, la stessa parola che indica la “via” del taoismo), ma durante il
regno di Hsuan Tsung le più vaste furono divise e quindi diventarono in totale 15.
Per collegare le varie parti dell’impero, i T’ang crearono un complesso sistema di stazioni di posta, che si
irradiava dalla capitale verso le zone periferiche lungo le strade e i corsi d’acqua. Dislocate comunemente a
intervalli regolari, sulle principali vie di comunicazione, queste stazioni davano ricovero e ristoro ai viaggiatori
ufficiali muniti di documenti di riconoscimento governativi e fornivano loro cavalli o imbarcazioni,
i primi sovrani T’ang mostrarono per i mercanti lo stesso disprezzo degli Han; ciononostante, anch’essi
istituirono monopoli commerciali e lucrosi sistemi di controllo dei prezzi ogni qualvolta fu necessario aumentar
ele entrate. Essi compresero chiaramente che l’intera attività economica doveva essere non soltanto
sottoposta al fisco ma anche attentamente regolamentata. A questo proposito vennero istituiti posti di controllo
su tutte le principali strade commerciali del paese, mentre nelle città i quartieri adibiti a mercato furono
sorvegliati dalle autorità governative.

Gli organi centrali di governo


I 3 massimi organi del governo centrale erano la Segreteria imperiale, la Cancelleria imperiale e la Segreteria
per gli affari di stato. La prima, che agiva alle dirette dipendenze dell’imperatore, costituiva la fonte principale
della politica governativa e delle ordinanze imperiali. La Cancelleria imperiale, che era la cittadella del potere
burocratico, aveva il diritto di esaminare le ordinanze e, in caso di disapprovazione, di rinviarle alla Segreteria
affinché le riprendesse in esame. In altre parole, essa esercitava un controllo sull’autorità dell’imperatore. La
Segreteria per gli affari di stato aveva il compito di eseguire gli ordini che erano il risultato dell’attività congiunta
dei primi 2 organi; ad essa erano subordinati i 6 Ministeri, o Uffici del personale, delle finanze, dei riti, della
guerra, della giustizia e dei lavori pubblici. Un ufficio degno di menzione è l’Ufficio dei Censori, un organo
interno di controllo, che costituisce un’altra creazione originale del genio politico cinese. I membri del consiglio
erano funzionari di grande prestigio, il cui principale compito era quello di scoprire casi di tradimento, di
malgoverno, di malversazione e riferirli direttamente all’imperatore. Tra le loro attribuzioni vi era anche quella
della rimostranza, tipica degli antichi letterati; essi potevano cioè indicare all’imperatore le possibili
manchevolezze della sua condotta.

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La capitale
Ch’ang-an era il cuore e il simbolo della grande centralizzazione e del rigoroso equilibrio dell’impero T’ang.
Ch’ang-an era affollata da genti che provenivano da tutte le regioni dell’Asia. La popolazione della capitale, che
comprendeva, oltre alla città, i sobborghi e la campagna circostante, era di circa 2 milioni di persone.
Probabilmente più di 1 milione di persone risiedevano entro le mura, disposte nella forma di un grande
rettangolo.
La pianta della città era tracciata secondo il moderno schema a scacchiera, con 9 grandi arterie che
incrociavano ad angolo retto, da nord a sud, 12 grandi strade disposte orizzontalmente da est ad ovest. Nel
centro settentrionale della città erano situati i palazzi imperiali circondati da mura. La Città Imperiale, ossia gli
edifici governativi, si trovava immediatamente più a sud. La principale porta meridionale del palazzo portava
alla principale porta meridionale della Città Imperiale e immetteva, attraverso l’arteria centrale disposta da nord
a sud, alla principale porta meridionale, formando un grande asse centrale che divideva la città in due zone
amministrative, la sinistra a est e la destra a ovest. In ciascuna delle due zone esisteva un grande mercato
governativo. Il resto della città era diviso in 112 blocchi, molti dei quali a forma rettangolare. Ciascuno dei
blocchi costituiva, entro la città, un “villaggio” amministrativo, diviso da vialetti interni e isolato di notte entro le
proprie mura.

L’assorbimento del buddismo


Un fatto ancora più sorprendente fu l’assorbimento graduale del buddismo nella grande corrente della cultura
cinese e la definitiva neutralizzazione di quelli tra i suoi aspetti che risultarono incompatibili con le concezioni
fondamentali o il sistema sociale dominante in Cina. La religione indiana raggiunse il suo momento di maggior
fortuna grazie alla protezione dei sovrani della dinastia Wei occidentale e durante la prima metà del periodo
T’ang. T’ai T’sung coprì di onori Hsuang-trans, quando il grande pellegrino fece ritorno in Cina, e la pace e la
prosperità del primo periodo T’ang permisero alla chiesa buddista di prosperare economicamente e
intellettualmente.

Lo sviluppo delle sette


La trasformazione del buddismo deve essere considerata anche nei suoi aspetti dottrinali. L’amore degli indiani
per la speculazione filosofica aveva dato origine, in seno al buddismo, a numerose scuole di pensiero; l’amore
dei cinesi per la classificazione portò all’organizzazione di alcune di queste tendenze filosofiche in sette. Alcune
delle sette cinesi non furono altro che trapianti filosofici di scuole di pensiero indiane. La più importante fu la
setta Fa-hsiang (in giapponese, Hosso) introdotta in Cina da Hsuan-tsang, che mise in risalto la concezione
idealistica della scoperta della somma verità attraverso la conoscenza delle sue manifestazioni nelle esistenze.

La setta T’ien-t’ai (Tendai) e Chen-yen (Shingon)


Le sette che prosperarono in Cina furono quelle che misero l’accento su elementi più congeniali al pensiero
cinese. Una di sette, la setta T’ien-t’ai venne fondata da un monaco cinese, Chih-i (538-597), e deve il suo
nome al monte T’ien-T’ai, un frande centro buddista del Chekiang. La sua popolarità era la conseguenza di un
eclettismo tipicamente cinese, nonché dell’amore per il compromesso e della tendenza alla classificazione.
Essa sviluppò la concezione mahayana delle verità relative, considerando le varie e contrastanti dottrine
buddiste come livelli diversi di verità, ognuno di quali valido nella sua propria sfera.
Un’altra setta che nello stesso periodo ebbe grande popolarità fu la setta Chen-yen, la “Parola vera”, una tarda
e degenerata forma di buddismo indiano. Si trattava di una dottrina esoterica o segreta, influenzata dai culti
dell’induismo. La setta Chen-yen insegnava che il Budda eterno, Vairocana, è il principio di ogni cosa, mentre
l’uomo e le altre esistenze fenomeniche non sono che una emanazione di questa divinità. Essa affermava inoltre
che la vera realtà non è esprimibile con parole ma può soltanto essere suggerita da segni magici e simboli.
Gli incantesimi, le formule mafiche e il cerimoniale che caratterizzavano la setta Chen-yen furono facilmente
accolti dai cinesi, ai quali simili procedimenti erano stati resi familiari dal taoismo e dall’importanza che il
confucianesimo attribuiva al rituale.

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Il Ch’an (Zen)
L’ultimo dei movimenti settari si rivelò alla fine come il più significativo. Alludiamo alla setta Ch’an o della
Meditazione, più nota col suo nome giapponese, Zen. Secondo la tradizione, lo Zen fu introdotto da
Bodhidharma, una figura semileggendaria dell’inizio del 6° secolo che, a quanto si racconta, rimase seduto in
meditazione davanti a un muro per 9 anni finché le gambe non gli si paralizzarono. (Le bambole giapponesi,
prive di gambe, chiamate daruma, sono un frutto di questa leggenda). In realtà, lo Zen apparve in Cina soltanto
nel primo periodo T’ang. Con la sua enfasi sulla meditazione e sulla intuizione interiore, o “illuminazione” lo Zen
era molto vicino al buddismo originario.
Lo Zen insegnava che l’unica vera realtà è costituita dalla natura del Budda nel cuore di ogni uomo. Sebbene
avesse attinto alla speculazione indiana il senso dell’ultraterreno e dell’infinito, questo misticismo fu applicato, in
maniera cinese, alla vita terrena dell’individuo. La contemplazione divenne in Cina sinonimo di duro lavoro e di
grande fiducia in sé. Ai testi la setta preferiva l’insegnamento orale, che si svolgeva mediante l’esposizione di
problemi apparentemente privi di senso, intesi a scuotere l’uditore e a svincolarlo dalla sua dipendenza alla
logica corrente.

La funzione del buddismo nella società cinese


Mentre subiva questo processo di neutralizzazione intellettuale, il buddismo veniva anche assorbito nelle
istituzioni sociali. Durante il periodo di disunione politica, i monasteri buddisti svolsero l’importante funzione di
centri di insegnamento e di cultura in una età di torbidi. Essi estesero le loro attività fino a diventare luoghi di
rifugio per i perseguitati e di ristoro per i viandanti, ospedali e bagni pubblici.
L’aspetto più spettacolare della sinizzazione del buddismo fu la sua incorporazione nel quadro economico e
amministrativo dell’impero. Gli estesi domini terrieri dei grandi monasteri buddisti posero lo stato cinese davanti
al solo problema ecclesiastico che avesse mai affrontato. I monasteri venivano costruiti e sussidiati da sovrani o
da ricchi privati e tendevano ad accumulare grandi ricchezze alle donazioni di terre o di beni mobili che
ricevevano da credenti devoti. Essi accrescevano i loro possedimento con l’usura e tutti gli altri procedimenti
legali e illegali. I sovrani più energici compresero che questi mali dovevano essere estirpati e che era
necessario limitare il numero e la ricchezza dei monasteri perché essi rappresentavano, come le grandi
famiglie, un potenziale pericolo per le finanze dello stato. Secondo un’altra concezione cinese, il buddismo,
considerato nel suo aspetto religioso, poteva servire gli interessi dello stato come custode spirituale ed
esecutore delle cerimonie religiose per la dinastia imperiale. Si riteneva inoltre che il governo non potesse
disinteressarsi della costituzione di templi e monasteri capaci di svolgere queste funzioni, ma dovesse al
contrario provvedere ad istituirli. Sorse cioè l’idea che il buddismo non doveva essere controllato dal potere
politico, ma altresì sostenuto come una specie di ramo spirituale della amministrazione.
I T’ang stabilirono che vi doveva essere in ogni prefettura un monastero ufficiale con 30 monaci.
Periodicamente, il governo privò gruppi di monaci della dignità ecclesiastica per ridurre il loro numero entro i
limiti fissati; nel 729, per agevolare questa operazione, venne introdotto il censimento ecclesiastico, che si
doveva svolgere ogni 3 anni. Nel 747, il governo avocò a sé la facoltà di concedere permessi di ordinazione per
limitare il numero dei nuovi monaci, e tutti gli ecclesiastici furono costretti a munirsi di questi documenti ufficiali.
Ma alla fine, sovrani devoti e funzionari governativi violarono spesso le loro stesse disposizioni.

Le persecuzioni
Durante le 6 Dinastie e il periodo T’ang, quando si avvertì più vivamente la minaccia economica del
monachesimo, il buddismo fu talvolta vittima di persecuzioni. Era generale l’avversione per talune pratiche del
buddismo, come l’automutilazione o la cremazione, pratiche che i cinesi consideravano innaturali e immorali
poiché ritenevano il corpo un dono inviolabile che l’uomo aveva ricevuto dagli antenati. Ma le ragioni più
importanti delle persecuzioni furono finanziarie. Periodicamente si faceva strada nei circoli governativi l’idea che
le eccedenze di terra (e di monaci) dei monasteri dovessero essere riscritte sui registri fiscali e le loro grandi
ricchezze confiscate. Diversamente da quanto accadde nel corso delle persecuzioni religiose nel Vicino Oriente
e in Europa, quelle che colpirono il buddismo in Cina furono dirette unicamente contro il clero e il patrimonio
della chiesa, mentre i singoli credenti di rado vennero minacciati. Una persecuzione di breve durata si ebbe nel
446; sotto la dinastia Wei settentrionale, e un’altra nel 574, sotto la dinastia Chou settentrionale.

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Ma la più grande e significativa persecuzione del buddismo si ebbe negli anni 841-845, durante il regno di un
sovrano semifolle della dinastia T’ang, fanatico seguace della dottrina taoista dell’immortalità. Questa terza
grande persecuzione inferse al buddismo, che stava ormai perdendo la sua vitalità, un colpo decisivo. Il sistema
degli esami aveva risvegliato l’interesse per la letteratura classica, associata al confucianesimo, e aveva quindi
segnato una ripresa della filosofia confuciana. Le classi superiori stavano volgendo le spalle al buddismo,
abbandonato sia dai pensatori che dagli artisti per altre forme di espressione. Sopraggiunta quindi in un periodo
di interna decadenza, la grande persecuzione degli anni 841-845 si rivelò decisiva per il futuro del buddismo in
Cina.

Il buddismo lasciò nella civiltà della Cina una traccia poco profonda. I cinesi rifiutarono di accogliere pratiche
come l’ascetismo, la cremazione o l’automutilazione. I contributi duraturi apportati dal buddismo alla civiltà
cinese possono essere considerati più come aggiunte alla precedente cultura. Esso introdusse una quantità di
nuove idee e arricchì il vocabolario cinese con parole nuove. Le sue dottrine della salvezza, karma,
trasmigrazione delle anime, la sua concezione del divino e grande parte della sua mitologia e del cerimoniale
ebbero un posto di rilievo nella elaborazione di una religione popolare, eclettica, e influirono indubbiamente
sulle opinioni correnti intorno ai problemi della vita. L’importanza attribuita dal buddismo alla carità contribuì a
far sorgere una vaga concezione filantropica, mentre il suo rispetto per ogni forma di vita servì a rendere più
umani i costumi e le leggi

Lo sviluppo della cultura cinese – Contatti col mondo interno


Malgrado la disorganizzazione politica e la confusione che caratterizzarono gli anni delle 6 Dinastie, fu questa,
insieme con il primo periodo T’ang, un’epoca di grande fioritura intellettuale. La Cina era pervasa da un
profondo spirito di tolleranza culturale; le invasioni dei “barbari” avevano lasciato il Nord aperto alle influenze
straniere; il buddismo era un veicolo e uno stimolo a più stretti rapporti culturali con le zone più remote; il
commercio, sia continentale che marittimo, tra i vari paesi si stava sviluppando in proporzioni mai raggiunte
prima. Uno dei sintomi di questo contatto è il grande numero degli stranieri allora residenti in Cina.
Sotto i primi T’ang, Ch’ang-an fu letteralmente affollata di stranieri; migliaia di membri delle ambascerie ufficiali
che vi giungevano periodicamente da tutte le regioni dell’Asia, e un numero ancora maggiore di mercanti,
soldati, monaci, imbonitori di ogni sorta attratti da questa città.

Una delle testimonianze dell’importanza che gli stranieri avevano acquistato nella capitale è la diffusione a
Ch’ang-an delle religioni del Vicino Oriente. Penetrarono in Cina lo zoroastrismo, la religione persiana del culto
del fuoco; fu poi la volta della setta nestoriana del cristianesimo e manicheismo. Sebbene queste religioni
fossero praticate quasi sempre da soli stranieri, esse avevano templi in molte città provinciali e nella stessa
Ch’ang-an.

Un altro aspetto dell’internazionalismo di questo periodo è la tendenza mostrata dai popoli vicini a imitare le
istituzioni della società T’ang. Il modello politico e culturale T’ang fu ancora più fedelmente imitato dalle
popolazioni stanziate ad est. I vari regni coreani mostrarono per secoli l’impronta dell’influenza cinese e lo stato
di Silla, dopo aver unificato la penisola nel 668, diventò una vera e propria copia in miniatura dell’impero dei
T’ang. Un ultimo esempio è infine rappresentato dai tentativi compiuti dai giapponesi, nei secoli 7 e 8, per
edificare nelle loro isole un impero simile a quello dei T’ang.

I progressi tecnologici
Malgrado il disordine economico e politico del periodo delle 6 Dinastie, la Cina fece in questi anni, e durante il
regno dei primi T’ang, rapidi progressi tecnologici. Influenze indiane contribuirono allo sviluppo dell’astronomia
e delle matematiche mentre le conoscenze mediche dell’India, trasmesse dai monaci buddisti, si combinarono
con le ricerche sperimentali degli alchimisti taoisti favorendo il progresso della medicina. Fu inventata la polvere
da sparo, che non venne però usata in questo periodo per scopi bellici ma solo per i fuochi d’artificio. Anche
l’aquilone è una invenzione cinese, di questi anni, come la carriola, un mezzo molto utile, che rendeva assai più
rapidi i trasporti sugli stretti sentieri e che penetrò in Europa soltanto secoli dopo. L’uso della sedia fu introdotto

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in Cina durante il periodo delle 6 Dinastie e con l’andar del tempo sostituì i cuscini e le stuoie (quando sono in
casa, i coreani e i giapponesi continuavano invece abitualmente a sedere sul pavimento, secondo la vecchia
usanza cinese). Il tè fu introdotto dall’Asia sudorientale; apprezzato dapprima per le sue qualità medicinali e
come stimolante nel corso delle sedute di meditazione, a partire dal tardo periodo T’ang venne più usato in
tutta la Cina.

Le arti
Nelle arti, e particolarmente nella scultura, l’influenza del buddismo fu ugualmente profonda; la richiesta di
immagini religiose fece di questo periodo la grande età della scultura cinese, e quella che in passato era stata
una forma d’arte minore fu per alcuni secoli circondata da grande prestigio, per poi decadere nuovamente con
il declino del buddismo dopo il periodo T’ang.
Nel periodo T’ang, tuttavia, l’interesse umanistico dei cinesi rese la concezione buddista del divino più intima e
vicina all’uomo, e questo mutamento ebbe la sua ripercussione sulla scultura. Le statue divennero più piene e
aderenti alla realtà, avvicinandosi alle concezioni della bellezza umana dei T’ang. Nel periodo che seguì la fine
della dinastia, il rapido declino del buddismo ebbe le sue ripercussioni sulla scultura, che divenne dapprima
insulta, poi aspra e rozza nella forma. Anche la scultura profana fiorì durante il periodo delle 6 Dinastie e il
periodo T’ang. Grandi complessi monumentali, che generalmente rappresentavano animali favolosi, furono
eretti intorno alle tombe di imperatori e di altri uomini illustri; tra questi i più famosi sono i bassorilievi che
rappresentano i cavalli preferiti di T’ai Tsung.
Poco rimane della pittura cinese. Comunque, Ku K’ai-chih, che fiorì intorno al 400 DC, è onorato come il primo
grande esponente della pittura cinese, mentre il nome di Wang Hsi-chih (321-379) è considerato come il più
grande capo della calligrafia, un’arte da allora tenuta in grande considerazione e che ha esercitato una
profonda influenza sulle tecniche pittoriche.

La letteratura
Durante l’età buddista il talento letterario e l’attività erudita dei cinesi si espressero prevalentemente in opere
religiose. Non esiste infatti una frattura, nello sviluppo della letteratura e della erudizione, tra il periodo Han e
quello delle 6 Dinastie o tra questo e il periodo T’ang. La mitologia buddista ed i racconti fantastici arricchirono
il contenuto della letteratura cinese di questi secoli, ma l’arte dello scrivere rimase in gran parte un monopolio
delle classi superiori, dato il carattere aristocratico del periodo. Il genere poetico fu, dallo stile estremamente
artificioso, ebbe i suoi cultori anche durante il periodo delle 6 Dinastie.
La più importante forma poetica del periodo delle 6 Dinastie fu lo shih, una lirica del verso di 5 sillabe, che
aveva fatto la sua comparsa nel tardo periodo Han. Riflesso della confusione dei tempi, questo tipo di poesia
rivelava l’origine taoista, insistendo sulla corruzione del mondo e riaffermando energicamente i valori
dell’individuo in conflitto con la società.
In questo periodo, l’attività erudita dei buddisti e dei taoisti fu prodigiosa, ma non per questo diminuirono le
storie modello, i commenti ai classici e le altre forme di erudizione tradizionale. Intorno al 500 apparve un’opera
curiosa, il Classico dei mille caratteri (Ch’ien-tzu wen), un sommario della storia cinese e della filosofia
confuciana redatto in mille caratteri, nessuno dei quali ripetuto.
Un nuovo aspetto dell’attività degli eruditi cinesi, che raggiungerà grosse proporzioni, fu la compilazione di
opere a carattere enciclopedico, tra le quali la più antica sembra sta stata una enciclopedia generale, andata
poi perduta, redatta nel 3° secolo per il primo sovrano della dinastia Wei.

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CAP 6 – I TARDI T’ANG E SUNG: L’ETA’ D’ORO DELLA CULTURA CINESE
La transizione della Cina classica al “primo periodo moderno”
Nell’organizzazione politica ed economica, nelle relazioni con il mondo esterno, nelle manifestazioni religiose e
filosofiche, nella struttura sociale e nel campo dell’alta cultura vi sono forse tra i due periodi T’ang minori affinità
di quelle esistenti tra il primo di essi e il precedente periodo delle 6 Dinastie o tra il secondo e la successiva
dinastia Sung (960-1279). I primi T’ang, insieme con le Sei Dinastie, possono essere considerati come l’ultima
fase della storia antica cinese, mentre i tardi T’ang formano con i Sung la prima fase della successiva storia
della Cina, quella che in effetti si potrebbe chiamare il “primo periodo moderno”, giacché la cultura che si andò
sviluppando resterà caratteristica della Cina fino ai primi decenni del 20° secolo. Tutti gli elementi che si sono
rivelati tipici del Regno del Centro hanno fatto la loro comparsa al tempo dei tardi T’ang e sotto la dinastia
Sung. La fase di transizione tra la tarda classicità cinese e il “primo periodo moderno” ha il suo centro intorno al
8° secolo, ossia verso la metà della dinastia T’ang.
Siamo per abitudine portati a credere che grandi mutamenti culturali e sociali si verifichino in periodi di
conquista militare o di decadenza politica. Una simile concezione si adatta alla teoria del ciclo dinastico.
Tuttavia, anche nei periodi di pace e prosperità si possono realizzare dei grandi mutamenti culturali. Non vi è
che la crescita delle forze economiche e sociali che può produrre mutamenti inevitabili, e la crescita della
produzione, del commercio, della cultura, delle istituzioni e della popolazione si realizza più facilmente in tempi
di pace che in periodi di crisi; è ciò che accadde con la dinastia T’ang.
I sovrani delle dinastie Wei settentrionale e Sui, nonché i primi T’ang, avevano risolto i problemi amministrativi e
respinto la sfida dei “barbari” e del buddismo. Essi avevano ricostituito l’impero classico in forma più
perfezionata e a un più elevato livello tecnologico. Un secolo di relativa pace e di prosperità ebbe come
risultato una crescita tale da portare la Cina a un livello di sviluppo estremamente alto. Per la Cina, questo
nuovo livello non subì variazione durante i secoli che seguirono. Essa si trovò sospesa e collocata al di sopra
delle realizzazioni dell’Occidente ma in seguito molto al di sotto dello sviluppo tecnologico occidentale.
Il periodo dei tardi T’ang e dei Sung può essere considerato come una epoca di rinascimento. Si trattò di una
nuova presa di coscienza del significato da parte della letteratura classica del periodo Chou e di un crescente
interesse per i bronzi Shang e per altri elementi caratteristici dell’antica cultura. È da notare però che i cinesi,
con la loro mentalità orientata verso la storia, avevano sempre avuto profonda coscienza dei valori
dell’antichità; di conseguenza, non si manifestò quel fenomeno di riscoperta del passato che si ebbe invece nel
Rinascimento europeo.

L’oscillazione del pendolo


Già abbiamo notato alcuni degli elementi che differenziano il periodo dei tardi T’ang dal primo secolo di dominio
della stessa dinastia. Tra essi è da ricordare il mutamento nelle relazioni tra i cinesi e i popoli vicini: i primi T’ang
videro l’oscillazione del pendolo delle conquiste cinesi, peraltro già iniziate con la dinastia Wei settentrionale,
giungere fino al più lontano punto di espansione. Nella seconda fase della dinastia si assistette invece al
rovesciamento di questa tendenza, che raggiunse il suo culmine con il trionfo mongolo del 1279, quando per la
prima volta nella storia, l’intera Cina cadde sotto la dominazione straniera. Ma nel secondo periodo T’ang il
passaggio dei cinesi dal roto di conquistatori a quello di conquistati si accompagnò a due essenziali mutamenti
sociali che alterarono profondamente i complessi rapporti tra cinesi e “barbari”. Anzitutto, l’aperto spirito
cosmopolitico dei primi T’ang si trasformò gradualmente in un atteggiamento più limitato e sinocentrico. Si
assistette a un declino dello spirito bellicoso, accompagnato dallo sviluppo di tendenze pacifiste. Fino ai primi
T’ang le dinastie cinesi avevano sempre presentato un marcato carattere militaristico, secondo l’antica
tradizione legalista; con i Sung, invece, divenne predominante l’idea del governo civile, che portò a considerare
con crescente disprezzo l’esercizio della professione militare. Già abbiamo detto del tramonto dell’età buddista
al tempo degli ultimi T’ang. Prima della fine della dinastia, il buddismo aveva perduto gran parte del suo vigore,
con l’eccezione della setta Zen che per molti suoi elementi poteva adattarsi a questo “primo periodo moderno”.
In generale, i più grandi intelletti e i migliori talenti artistici del paese abbandonarono il buddismo e il taoismo e
ritornarono alla tradizione confuciana, anche se il confucianesimo risorto al tempo dei tardi T’ang e portato alla
sua piena maturità sotto la dinastia Sung si differenziò a tal punto da quello dei periodi Chou e Han da essere

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chiamato neoconfucianesimo. Fu appunto il neoconfucianesimo dell’epoca Sung che costituì la filosofia
dominante in Cina fino al secolo XX.

Mutamenti economici e sociali


Si è già accennato al radicale mutamento del sistema fiscale, con il passaggio dall’imposta personale a quella
sull’unità fondiaria, che ebbe luogo nel coro del secolo 8°. Esso influì notevolmente sulle finanze governative e
fu accompagnato (e in una certa misura produsse) da importanti sviluppi economici e sociali. Uno di questi
mutamenti è rappresentato dal rapido sviluppo del commercio e di una più avanzata economia monetaria,
come testimoniano i progressi spettacolari del commercio marittimo che si verificarono a partire dal secolo 8°.
Fu infatti in questo periodo che cominciò a svilupparsi, tra la Cina e l’Asia meridionale e occidentale, il primo
grande commercio mondiale marittimo su vasta scala. Questa espansione dell’economia cinese, unita alla
trasformazione del sistema fiscale, che come si è detto abbandonò l’imposta personale sui contadini per
introdurre il criterio dell’imposta sulla unità fondiaria e sul commercio, pose la dinastia Sung e le successive di
fronte a problemi amministrativi e finanziari completamente diversi da quelli affrontati dagli Han o dai primi
T’ang.
La crescita economica contribuì anche a produrre mutamenti sociali significativi. La società Chou era stata
dominata da una aristocrazia militare ereditaria di veneranda antichità, in seguito distrutta dagli imperi Ch’in e
Han; si era quindi formata una nova aristocrazia fondiaria, burocratica e spesso dotata di considerevole
potenza militare personale, che nel periodo compreso tra gli Han e i primi T’ang aveva mostrato la tendenza a
controllare sia il governo sia la società nel suo complesso. Nel corso dei secoli immediatamente successivi, la
forza delle grandi famiglie appartenenti a questa nuova aristocrazia andò comunque declinando ed esse
finirono per essere assorbite da una classe più vasta, comunemente chiamata “gentry”. Anche questa “gentry”,
come la vecchia aristocrazia, doveva in gran parte la sua posizione al possesso della terra. Con il declino della
vecchia aristocrazia si assistette al trionfo del sistema burocratico, o, quando il sistema degli esami raggiunse
con la dinastia T’ang, la sua più completa applicazione, ebbe inizio il tramonto della società aristocratica. Fino
al secolo 7° la burocrazia organizzata, proveniente in gran parte dalla aristocrazia ereditaria, aveva fatto fa
sostegno al dominio di un impero militare di tradizioni aristocratiche. Nei periodi posteriori ai T’ang le dinastie
regnanti vennero ancora fondate da cinesi o da guerrieri “barbari” con la forza delle armi, ma sia il governo sia il
mondo della cultura furono in gran parte dominati da burocrati che dovevano la loro posizione al talento più che
alla nascita. Ciò implicava l’accettazione di un ideale fondamentalmente egualitario. La concezione che
attribuiva il potere a uomini moralmente e intellettualmente superiori era sempre stata parte integrante del
confucianesimo. Un altro mutamento profondo in questo periodo fu lo spostamento del centro geografico della
civiltà cinse dalle terre aride della Cina del Nord a quelle meglio irrigate e più ricche della valle dello Yangtze e
alle regioni a sud del fiume. Nell’epoca classica il Nord era stata la sola zona del paese ad avere importanza, e
fino al primo periodo T’ang il potere rimase in gran parte un monopolio degli uomini del Nord. Al contrario, a
partire dai Sung, la Cina del Sud, e in particolare gli uomini provenienti dal bacino inferiore dello Yangtze,
ebbero spesso un ruolo dominante. Questo mutamento fu la conseguenza dell’avvenuto spostamento del
centro economico del paese dal Nord al Sud.
Un altro mutamento significativo fu lo spostamento del centro di gravità culturale dalle zone rurali alle città. La
nuova classe, la “gentry”, non era necessariamente costretta a vivere nelle tenute né a condurre un modo di
vita rurale; generalmente si confuse infatti nelle città e nei borghi con i mercanti e i funzionari.
Questi diversi sviluppi influirono sull’alta cultura. Si ebbe una notevole diminuzione delle opere di ispirazione
buddista; la crescente introspezione della cultura cinese si espresse in una vigorosa riaffermazione delle
tradizioni letterarie, artistiche e culturali dell’antichità. All’urbanesimo si accompagnarono una crescente
raffinatezza dell’arte, della letteratura e dell’erudizione e una grande espansione della produzione culturale, sia
per la quantità che per il contenuto delle opere.

La crisi e le riforme del merio periodo T’ang


Il lungo regno (712-756) di Hsuan Tsung coincise forse con gli anni cruciali del processo che portò la Cina
dell’antichità al primo periodo moderno. Esso rappresentò la svolta decisiva del ciclo dinastico. Durante il regno
di Hsuan Tsung la dinastia raggiunse il suo secondo grande apice; per ricchezza, grandezza e splendore

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culturale, questo regno eclissò completamente quello di T’ai Tsung, nel secolo precedente. La popolazione era
aumentata così considerevolmente, come la ricchezza dell’impero, ma il costo del mantenimento della famiglia
imperiale e del governo era più che raddoppiato senza un corrispondente aumento delle entrate. L’intero
apparato governativo funzionava con minore regolarità e stava anzi cominciando a mostrare sintomi di paralisi
in settori vitali come quello fiscale o quello della difesa.

Il crollo dei sistemi fiscale e militare


Il rapido aumento di popolazione sotto la dinastia T’ang finì col rendere impossibile la redistribuzione periodica
della terra e l’assegnazione dei 100 mou a ogni famiglia contadina. Prima della fine del secolo 7, la maggior
parte delle aree coltivabili erano state classificate tra i possessi permanenti, e un’ampia porzione delle terre
migliori era stata inglobata, con mezzi legali e illegali, nelle grandi tenute della classe agiata. In tal modo il
maggior onere fiscale gravava su contadini che disponevano di appezzamenti meno estesi che lavoravano una
porzione delle aree più limitata di quella dei loro antenati. L’onere divenne spesso insostenibile e costrinse i
contadini ad abbandonare le loro terre o a trasferirle nelle ricche tenute, giacché il pagamento di una rendita
che ammontava al 50% del raccolto risultava meno oppressivo delle tasse governative. Questo stratagemma
sul piano generale non faceva che aggravare la situazione dei contadini che restavano liberi e sottrarre fondi
alle casse del governo. Il governo dovette ricorrere a nuovi espedienti per aumentare le entrate.
Gli sforzi compiuti durante il regno di Hsuan Tsung per reinscrivere i contadini sui registri fiscali ebbero in parte
successo ma non mutarono la situazione.
L’insignificante imposta fondiaria, che si applicava alle grandi tenute e agli appezzamenti contadini, era stata in
origine introdotta soltanto per provvedere alle scorte di emergenza da accantonare per i casi di carestia. Essa
fu ora gradualmente aumentata fino a diventare una voce regolare nelle entrate governative. Vennero inoltre
stabilire varie imposte nuove e di natura straordinaria, che colpivano sia la terra che il commercio, mentre una
tassa familiare, divisa in 9 categorie a seconda della ricchezza, diventava una delle più importanti basi fiscali del
governo. Naturalmente, il crollo della vecchia struttura fiscale provocò anche il declino della corvée e del
sistema delle milizie, che ne erano parte integrante. Le milizie avevano fornito al governo una forza armata
fedele e poco costosa, pronta a difendere la terra natia, ma il peso del servizio militare era caduto quasi
esclusivamente sui contadini della Cina del Nord, giacché le zone da difendere, ossia la capitale e le frontiere,
si trovavano in questa regione. I contribuenti ricchi evitavano abitualmente il servizio pagando dei sostituti. I
contadini più poveri, sui quali ricadeva l’obbligo militare, disponevano di scarsi mezzi di sostentamento durante
i periodi di ferma ed erano più inclini alla diserzione. Durante la prima metà del secolo 8°, sia la corvée che il
sistema delle milizie decaddero rapidamente. A poco a poco la corvée fu eliminata in quella che era la sua
applicazione più importante, ossia il trasporto sul Grande Canale fino alla capitale della tassa di cereali. Inoltre,
soldati di mestiere sostituirono gradualmente le vecchie milizie. Nel 723 mercenari avevano preso il posto delle
milizie tra le guardie della capitale, mentre anche negli eserciti di frontiera cominciava ad aumentare il numero
dei soldati retribuiti.
Questi mutamenti, mentre da una parte rappresentavano un progresso istituzionale, legalo allo sviluppo
dell’economia monetaria, implicavano dall’altra nuove gravi difficoltà. I soldati di mestiere, abitualmente reclutati
tra la feccia della società o tra le tribù “barbariche”, erano, come difensori della Cina, meno diligenti delle
milizie, che avevano terre da proteggere. Inoltre, a causa della lunga ferma, essi finirono per sviluppare uno
spirito di corpo che li portò ad essere più fedeli ai loro comandanti che alla dinastia.

Le lotte delle fazioni e i comandanti regionali


Un altro problema del regno di Hsuan Tsung fu l’intensificarsi della lotta per il potere tra le fazioni della
burocrazia e della vecchia aristocrazia T’ang, originaria della Cina nordoccidentale. Un secolo di riuscita
applicazione del sistema degli esami aveva creato una burocrazia scelta in base al merito, proveniente da tutte
le regioni del paese, e questo gruppo per la prima volta nella storia rappresentava una seria sfida per la
supremazia che gli aristocratici detenevano nel governo. La burocrazia era diventata particolarmente potente
sotto la protezione dell’imperatrice Wu, anch’essa estranea al gruppo dominante, che aveva preferito affidarsi a
questi uomini nuovi piuttosto che a membri dell’aristocrazia.

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A complicare le cose si aggiunsero i conflitti tra i capi militari provinciali e il governo centrale. Nel corso del 7°
secolo, intendenti imperiali di vario tipo erano stati inviati periodicamente dalla capitale nelle province, e nei
primi anni del regno di Hsuan Tsung alcuni di essi, i comandanti regionali, erano diventati dei funzionari
permanenti che controllavano gli affari civili e militari in vaste regioni di confine. Gli stessi comandanti regionali,
in quanto militari di professione, erano spesso di origine straniera, come gran parte dei mercenari ai loro ordini,
mentre i più lontani avamposti dell’impero erano interamente nelle mani dei “barbari” alleati. Ancora una volta il
“barbaro” sconfitto stava diventando l’erede militare del paese che lo aveva sottomesso.
Questi furono gli elementi che causarono l’improvviso crollo dei T’ang e che portarono il brillante regno di
Hsuan Tsung a una tragica fine. La politica finanziaria del governo era in gran parte abbandonata alla
improvvisazione; pericolose crisi amministrative si manifestarono nei rapporti tra il governo centrale e le regioni
di confine, nonché in seno allo stesso governo centrale; le difese dell’impero dipendevano in larga misura da
generali e soldati stranieri.

Sconfitte esterne e rivolte interne


La svolta inevitabile nelle fortune dei T’ang sopravvenne nell’anno 751, quando gli eserciti imperiali furono
sconfitti dallo stato thai di Nan-chao. Nello stesso anno anche gli arabi sconfissero Kao Hsien-chih, il generale
coreano dei T’ang. Questa battaglia, anche se combattuta in una zona lontana dai centri della potenza araba e
cinese, fu una delle battaglie decisive della storia. Essa costituì infatti il preludio alla fine della dominazione
cinese sull’Asia centrale. La battaglia segnò quindi l’inizio di 5 secoli di progressiva decadenza militare
dell’impero cinese e l’avvio alla conquista araba dell’Asia centrale. In breve, l’intera zona fu definitivamente
convertita all’islamismo e quasi nello stesso tempo le lingue turche cominciarono a sostituire quelle
indoeuropee negli stati delle oasi del bacino del Tarim.
Al disastro finale si accompagnò un dramma personale, che per tradizione gli storici cinesi hanno interpretato
come la causa principale della rovina dell’impero. Nel 745, Hsuan Tsung, più che 60enne, prese come favorita
una donna giovane e bella, moglie di uno dei suoi figli, Yang kuei-fei. Tanto l’imperatore che Yang Kuei-feri
presero sotto la loro protezione An Lu-shan, un giovane generale di origine “barbarica”, violento e presuntuoso.
Yang Kuei-fi fece del generale il proprio figlio adottivo e a quanto si disse, ne divenne l’amante. Con una così
influente protettrice, An Lu-shan fu nominato comandante militare di 3 regioni lungo il confine nordorientale. La
sua ambizione lo pose alla fine in conflitto con il fratello di Yuan Kuei-fei, per il controllo del governo centrale;
nel 755, An Lu-shan si ribellò, impadronendosi facilmente di Loyang, che era considerata la capitale orientale, e
poi della stessa Ch’ang-an. Hsuan Tsung fuggì, ma lungo la strada le truppe ammutinate lo costrinsero ad
assistere impotente all’uccisione di Yang Kuei-fei e del fratello di lei; l’imperatore abdicò in favore di uno dei suoi
figli.
An Lu-shan fu ucciso da suo figlio nel 757. Gli succedette a capo della ribellione un altro generale “barbarico”,
Shih Ssu-ming, che fece però la sua stessa fine. Il nuovo imperatore T’ang venne rimesso sul trono con l’aiuto
degli uighur e di altre truppe “barbariche”, compreso un gruppo di arabi, e la pace fu ristabilita nel 763.

La debolezza dei T’ang dopo An Lu-shan


La ribellione aveva inferto un grave colpo al governo centralizzato. Inoltre, la dinastia dovette interamente
dipendere dalle truppe straniere e non riuscì più ad esercitare un effettivo potere oltre i confini della Cina. Dopo
la rivolta di An Lu-shan, il governo centrale non riuscì più a controllare saldamente nemmeno le province cinesi.
Il sistema dei comandi regionali fu esteso a tutto il paese e gradualmente i comandanti trasformarono le zone
sottoposte al loro controllo in satrapie personali e in qualche caso riuscirono anche a rendere la loro carica
ereditaria. Di tanto in tanto spinti dall’ambizione o irritati dai tentativi del governo centrale di ristabilire la propria
autorità, scelsero la strada della ribellione; la più grave di queste crisi fu quella che, tra il 781 e 786, colpì la
Cina nordorientale.
Anche a corte si intensificarono conflitti tra le fazioni esistenti in seno alla burocrazia e tra i burocrati e gli
eunuchi. Nella loro qualità di comandanti dei reparti della guardia nella capitale, eunuchi onnipotenti poterono
manovrare gli imperatori a loro piacimento e contendere apertamente ai burocrati il controllo degli organi
centrali di governo.

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Per queste ragioni la seconda fase della dinastia T’ang viene spesso descritta come un’epoca di impotenza del
governo centrale e di generale confusione politica e economica. Ma il valore di tali giudizi è sempre relativo.
Durante il suo soggiorno in Cina, tra l’838 e l’847, il diarista giapponese Ennin scrisse di una società prospera e
ben ordinata.
Malgrado le incursioni tibetane e le occasionali rivolte, la Cina godette di un altro secolo di pace,
particolarmente prospero nel Sud, dove non si ebbero in questi anni crisi.

Riforme amministrative: la doppia tassa


Una delle principali ragioni di questa pace è da ricercare nelle nuove basi finanziarie che il governo sviluppò
durante la restaurazione seguita alla rivolta di An Lu-shan. Al ministro Liu Yen (715-780) si attribuisce il merito
di aver ripreso e perfezionato l’indispensabile operazione di trasporto dei cereali dalle valli dello Yangtze alla
capitale, sostituendo completamente la corvée con l’impiego di operai retribuiti. Un altro statista, Yang Yen
(727-781), introdusse una riforma ancora più importante. Nel 780, egli raggruppò le varie imposte personali,
familiari e fondiarie nella tassa doppia, riscossa il sesto e undicesimo mese dell’anno e applicata non alla
persona del contadino, ma all’unità fondiaria.
Da allora in poi, nella storia cinese, l’unità fondiaria divenne la base della tassazione agricola e il problema della
riscossione delle tasse fu molto più semplice. Da quel momento, inoltre, il governo centrale cominciò a essere
meno preoccupato dello sviluppo delle grandi tenute private, che avevano cessato di rappresentare una
minaccia per la struttura finanziaria dello stato. Infatti, l’intero sistema di possesso della terra si era andato
modificando. I grandi proprietari terrieri non erano più i potenti aristocratici di un tempo, che controllavano
enormi tenute esenti dall’imposta, ma dei semplici landlords i cui fondi, gestiti da affittuari, erano soggetti
all’onere fiscale.
Il gettito fiscale prodotto dalla doppia tassa e alle aumentate imposte sulla ricchezza e sulle transazioni
commerciali venne suddiviso tra il governo centrale, gli organi locali e i comandanti regionali, attribuendo a
ciascuno un reddito adeguato alle rispettive funzioni. venne ripresa inoltre una vecchia pratica degli Han, quella
dei monopoli e delle licenze, che divennero, specialmente nel caso di sale, tè, alcolici, una importante fonte di
reddito.

La fase di transizione politica dai T’ang ai Sung


Nonostante il rinnovato vigore di cui il governo T’ang diede prova dopo la rivolta di An Lu-shan nel corso di una
“restaurazione dinastia”, il processo di decadenza riprese presto il suo corso. L’amento della popolazione e la
diminuzione dell’efficienza amministrativa provocarono un crescente pauperismo; di conseguenza, sfavorevoli
condizioni atmosferiche produssero facilmente carestie e un diffuso malcontento, mentre la crescente
indipendenza dei governatori regionali implicava la rovina del governo centralizzato.
Il crollo del regime ebbe inizio nell’anno 874, con le insurrezioni che scoppiarono nella Grande Pianura. Uno dei
capi ribelli, Huang Ch’ao, tipico prodotto dei tempi nuovi in quanto aspirante burocrate deluso, ossia candidato
respinto agli esami imperiali, riuscì a porsi in evidenza anzitutto sfidando il monopolio governativo del sale. Si
spinse poi verso sud saccheggiando, nell’879, la ricca città commerciale di Canton; l’anno dopo riprese la
strada del nord e occupò Ch’ang-an costringendo l’imperatore a fuggire nello Szechwa, come già aveva fatto
Hsuan Tsung. La rivolta fu definitivamente repressa soltanto nell’884 da Li K’o-yung, un generale di origine
turca.
Durante i 10 anni della rivolta, il governo centrale aveva completamente perduto il controllo dei comandanti
regionali, i più forti dei quali si trasformarono in sovrani indipendenti nei rispettivi territori. Nel frattempo, un
conflitto per il controllo della Cina del Nord era scoppiato tra Li K’o-yung e Chu Wen (detto anche Chu Ch’uan-
chung), un luogotenente di Huang Ch’ao passato dalla parte del governo. Alla fine Chu Wen ebbe la meglio; nel
904 creò un imperatore fantoccio, e quindi nel 907 usurpò il trono eliminando i T’ang e dando inizio alla nuova
dinastia Liang posteriore.

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Le 5 Dinastie e i 10 Regni
I 53 anni che seguirono sono noti come il periodo delle 5 Dinastie (Wu-tai) e dei 10 Regni, denominazione che
ha la sua origine nelle 5 sedicenti dinastie che si alternarono con rapida successione nella regione centrale
della Cina del Nord e nei 10 regimi, in gran parte meridionali, che si mantennero.
Questa volta la disintegrazione politica fu quasi totale, ma non si ebbe una sfida alla continuità della civiltà
cinese e non vi fu infatti una frattura culturale. Alcuni regni meridionali furono stabili e conobbero una rapida
crescita economica e culturale. Anche nella Cina del Nord, economicamente prostrata dalle continue guerre, le
incursioni dei “barbari” non ebbero grande effetto. Riguardo al periodo delle 5 Dinastie il fatto più significativo è
la durata, poco più di mezzo secolo soltanto, contro i 3 secoli e mezzo di divisione politica del periodo delle 6
Dinastie. Forse le tradizioni e le tecniche di governo centralizzato erano diventate nel corso del secolo X così
forti che una lunga divisione non era più possibile.
I 10 Regni, alcuni dei quali diedero il nome ai loro sovrani e ad altri imperatori, furono, per la loro maggiore
stabilità, più importanti delle 5 Dinastie: Wu (902-937), T’ang meridionale (937-975), Ching-nan o P’in
meridionale (907-963), Ch’u (927-951), Shu anteriore (907-925), Shu posteriore (934-965), Wu-yueh (907-
978), Min (909-944), Han meridionale (907-971), Han settentrionali (951-979).

Le usurpazioni dei “barbari”


Le 5 “dinastie” che si succedettero nel Nord e che stabilirono le loro capitali a Loyang e, più a est, a Kaifeng,
ebbero tutte vita effimera. La dinastia Liang posteriore di Chu Wen che fu la più longeva, si estinse dopo 16
anni; inoltre, non riuscì mai a ridurre all’obbedienza il generale turco Li K’o-yung. Chu Wen fu assassinato dal
figlio e la dinastia si estinse nel 923 per opera del figlio di Li K’o-yung, che fondò una nuova dinastia, la T’ang
posteriore. Dopo 13 anni, anche questo regime cadde e fu sostituito dalla dinastia Chin posteriore, fondata da
Shih Ching-t’ang, un altro generale di origine turca, genero dell’imperatore.
Shih Ching-t’ang si impadronì del trono nel 936 con l’aiuto dei khitan, una popolazione mongola seminomade e
semi agricola. In cambio del loro aiuto, il nuovo sovrano della Cina del Nord, oltre al pagamento di un tributo,
dovette cedere 16 prefetture di confine intorno Pechino. I khitan fecero di Pechino la loro capitale meridionale,
dando quindi inizio alla sua storia di città capitale.
Quando il successore di Shih Ching-t’ang cessò di pagare il tributo ai khitan, essi distrussero la dinastia Chin
posteriore, nel 946, e col nome dinastico di Liao usurparono il trono cinese.

La fondazione della dinastia Sung


Si giunse inevitabilmente a una nuova usurpazione. Chao K’uang-yin, un eminente generale di origine cinese, fu
inviato nel 960 ad arrestare una nuova incursione dei khitan, ma egli impiegò le sue truppe ai suoi ordini per
impadronirsi del trono. Riuscì a fondare una dinastia su solide basi. Chao K’uang-yin è celebre nella storia col
nome di T’ai Tsu (“Grande Progenitore”) della dinastia Sung, che durò più di 3 secoli, dal 960 al 1279.
Dopo 5 tentativi senza successo, si era almeno giunti a ricostituire un governo stabile nel nord; non molto
tempo dopo la Cina venne riunificata. La riconquista del sud fu relativamente facile. Prima di morire, nel 976,
T’ai Tsu soggiogò con le armi o costrinse alla sottomissione tutti gli altri stati, fatta eccezione per la dinastia Liao
al confine settentrionale, per il regno di Wu-yueh nel Chekiang e per la dinastia Han settentrionale nello Shansi.
Gli ultimi 2 stati furono annessi nel 978 e nel 979 dal fratello e successore di T’ai Tsu, T’ai Tsung (“Grande
Antenato”, 976-997).

Il governo Sung
Il successo di Tai Tsu, che riuscì a stabilire una dinastia vitale, si può in parte attribuire alla durata lunga del suo
regno, protrattosi per 16 anni. Inoltre egli trasmise il trono, forse contro la sua volontà, ad un fratello adulto
anziché ad un figlio bambino. Una ragione ancora più importante del suo successo fu la determinazione con la
quale affrontò il più grave problema politico del momento, ossia il potere quasi illimitato dei comandanti militari.
Tai Tsu riuscì a trasferire i generali più influenti a incarichi di minore importanza o a dimetterli in cambio di
adeguati compensi, e nelle province limitò l’influenza dei comandanti regionali all’ambito di una sola prefettura,
sostituendoli, in caso di morte o di ritiro, con funzionari civili della burocrazia centrale. Egli adottò inoltre il

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sistema di trasferire negli eserciti militari della capitale le migliori unità militari, sostituendole nelle province con i
reparti meno efficienti, e ponendo tutte le forze armate sotto il diretto controllo del governo.
Il successo di T’ai Tsu, che riuscì a realizzare queste fondamentali riforme militare senza provocare serie rivolte,
fu dovuto alla sua straordinaria abilità amministrativa e alla politica generosa e benevola che egli adottò nei
riguardi di coloro che gli erano stati nemici o subordinati. Il suo regno divenne un modello per la generosità di
cui egli diede prova verso i funzionari e per la modestia del tenore di vita, che lo avvicinarono all’ideale politico
confuciano e influenzarono i suoi successori meno abili ma altrettanto coscienziosi.

Debolezza militare: Liao e i Hsi Hsia


La relativa debolezza militare della dinastia Sung fu forse il risultato della politica di T’ai Tsu di indebolimento
delle forze armate provinciali e di subordinazione dell’esercito alle autorità civili, ma un’altra più importante
ragione è da ricercare nei mutamenti sociali e ideologici del periodo.
L’Annam (Vietnam del Nord) non fu reincorporato nell’impero e la dinastia non riuscì mai a stabilire il suo
controllo su alcuna delle zone dell’Asia centrale o delle steppe settentrionali; del resto, non riuscì nemmeno a
riconquistare le 16 prefetture settentironali perdute durante il periodo delle 5 Dinastie a profitto della dinastia
Liao stabilita dai khitan. Le iniziali speranze di riannettere questa regione vennero frustrate da una sconfitta nel
986, e dopo più di 2 decenni di lotte incerte, con il trattato di Shan-yuan, i Sung riconobbero nel 1004 la perdita
definitiva della regione accettando di pagare un tributo annuo ai Liao.
Questo accordo diede inizio ad un periodo più che 30ennale di pace, che fu interrotto soltanto dalla comparsa
di nuovi “barbari”. Tribù tangut di tibetani avevano costituito un forte stato, estendendo poi il loro dominio ad
alcune zone della Mongolia Interna. Dopo aver adottato, nel 1038, il nome dinastico cinese di Hsia (Hsi Hsia),
esse tentarono la conquista della Cina. Alla fine furono respinte, ma nel 1044 stipularono con i Sung un trattato
di pace che contemplava il pagamento di un tributo annuo a loro favore. Nel frattempo, i liao, che avevano
approfittato della invasione dei Hsi Hsia per muovere contro i Sung, avevano accettato nel 1042 di arrestare le
operazioni dietro la promessa di un sostanziale aumento del tributo che già ricevevano. L’equilibrio di queste
3potezne nella Cina del Nord servì a mantenere la pace lungo le frontiere per 80 anni, finché essa non fu
infranta dall’irruzione di un altro popolo “barbarico”.

La concentrazione del potere nelle mani dell’imperatore


La riduzione del potere dei capi militari locali costituiva soltanto una parte del problema politico di Tai Tsu, che
doveva provvedere anche alla creazione di un forte governo civile sulle rovine del sistema amministrativo dei
T’ang. Egli e i suoi successori resero puramente onorifiche molte delle precedenti cariche e le sostituirono con
un nuovo complesso di uffici amministrativi più direttamente controllati dall’imperatore che non gli organi del
governo T’ang.
Il primo era il Consiglio degli Accademici, in origine una specie di ufficio per la stesura dei documenti, che
divenne ora un importante organo consultivo dell’imperatore. Il secondo, il Consiglio privato, fu sotto i Sung una
delle 3 principali branche amministrative del governo e in pratica agì come Ufficio per gli affari militari.
Questo consapevole sforzo intenso a riunire tutti dell’amministrazione nelle mani dell’imperatore contribuì, da
quel momento, a rendere il governo cinese più decisamente autocratico di prima.
A partire dal secolo X, i regnanti divennero più consapevole dei termini del problema che dovevano affrontare,
quello di riprendere tutto il potere nelle loro mani sottraendolo ai ministri, e perfezionarono via via le misure
adottate per raggiungere questo obiettivo. Ma l’importanza del mutamento stava nella natura del funzionariato
per mezzo del quale essi agivano. Nel corso della prima metà della storia dell’impero cinese gli alti funzionari
erano stati generalmente di condizione aristocratica, avevano potuto disporre di grandi ricchezze private e, di
conseguenza, si erano trovati nella situazione più favorevole per contestare la pretesa del sovrano a un potere
dispotico. A partire dall’epoca dei Sung, la burocrazia, fu in gran parte il prodotto del sistema degli esami; essa
era quindi priva sia della ricchezza personale sia della condizione sociale necessarie a sfidare le tendenze
assolutistiche dell’imperatore.

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Gli organi di governo
Nel periodo Sung, il principale organi politico esecutivo alle dipendenze dell’imperatore fu una specie di
gabinetto non ufficiale formato da un gruppo di consiglieri il cui numero variava da 5 a 9. I principali organi
amministrativi di governo durante il primo periodo Sung furono la Segreteria-Cancelleria, il Consiglio privato (o
Ufficio degli affari militari) e la Commissione finanziaria. Alle dipendenze della Segreteria-Cancelleria vi era un
gran numero di ministeri, di commissioni, di direzioni simili a quelli che dipendevano dalla Segreteria per gli
affari di stato del periodo T’ang.
La Commissione finanziaria dirigeva il tesoro, la contabilità, le imposte, la registrazione delle terre e della
popolazione, i monopoli; di essa il governo centrale si serviva per mantenere un rigoroso controllo delle entrate
fiscali dell’impero. Grazie a ciò e anche a causa dello sviluppo economico generale, le entrate del governo nella
prima metà del secolo XI furono 3 volte superiori a quelle dei T’ang.
Un Ufficio dei Censori vigilava sulla politica generale; esso andò sviluppando col tempo un elaborato sistema di
controllo dell’operato del governo, condividendo questa funzione regolatrice con l’Ufficio della critica politica e
con altri organi simili.
L’amministrazione dell’impero durante la dinastia Sung fu controllata direttamente dalla capitale. Come durante
l’ultima fase del periodo delle 5 Dinastie, Kaifeng fu la capitale. Sebbene scarsamente protetta, essendo situata
sulla Grande Pianura, la città occupava una posizione di grande importanza dal punto di vista economico,
poiché si trovava all’inizio del Grande Canale, nei pressi del punto di confluenza del Canale stesso con il Fiume
Giallo. Quindi, pur essendo ancora una città del Nord, come era probabilmente richiesto dalle necessità della
difesa dell’impero, Kaifeng era più vicina di Ch’ang-an ai ricchi territori coltivati a riso del basso Yangtze. Ma
quel che più conta, la sua posizione eliminava la difficoltà, rappresentata nel precedente sistema di trasporto
tra il Sud e la capitale, dalle distese del Fiume Giallo.
I Sung ripresero, senza modificarlo, il sistema T’ang delle prefetture e sottoprefetture, ma aumentarono il
numero delle province o “circondari”. Questi “circondari” non avevano un funzionario capo ma 4 tipi di
intendenti: fiscale, giudiziario, militare e quello preposto all’immagazzinamento e al trasporto delle merci.

L’amministrazione civile
La forza principale del governo Sung stava nella amministrazione civile. A sua volta questa dipendeva in gran
parte dal sistema degli esami. L’alto livello dell’amministrazione in questo periodo è indicato dalla consuetudine
vigente di proibire i rapporti di servizio tra funzionari legati da vincoli di sangue o di matrimonio e dalla norma
che escludeva i parenti delle imperatrici e delle altre mogli dell’imperatore dalle cariche più elevate.
L’amministrazione era costituita in parte con il trasferimento delle persone più abili dagli altri servizi e
l’autorizzazione concessa agli alti funzionari di nominare figli o parenti, nonché con la vendita delle cariche,
grazie ala quale alcuni membri della classe mercantile potevano entrare a far parte del governo. La fonte di
gran lunga più importante per il reclutamento dei funzionari civili era rappresentata dal sistema degli esami. Tra
il 997 e il 1124 una media di più di 200 persone all’anno furono ammesse nei ranghi dell’amministrazione civile
attraverso gli esami ordinari; poiché i candidati che avevano superato gli esami erano i più capaci e godevano
di maggiore prestigio degli altri funzionari civili, essi monopolizzarono virtualmente le alte cariche della
burocrazia. Infatti, durante la dinastia Sung, molti furono tra i funzionari eminenti gli studiosi di fama e i letterati,
che si erano distinti per la prima volta agli esami ufficiali.

Il sistema degli esami


Come durante il periodo T’ang, esistevano vari tipi di esami su argomenti diversi come il diritto, la storia, i riti e i
classici, nonché quelli per ottenere il diploma di chih-shih nelle lettere. Poiché soltanto quest’ultimo attribuiva
grande importanza all’originalità e capacità di ragionamento e alla composizione, anziché alla pura memoria,
esso godeva di una considerazione molto maggiore di quella accordata agli altri diplomi.
Gli esami furono dapprima banditi sporadicamente, ma dopo il 1065 si tennero regolarmente ogni 3 anni. Si
svolgevano in 3 fasi successive. La prima era rappresentata dagli esami sostenuti presso le prefetture o le
scuole governative. I promossi potevano affrontare gli eami che si svolgevano alla capitale sotto l’egida del
governo centrale. I promossi, venivano poi ammessi all’ “esame di palazzo”, che ne eliminava ancora qualcuno
e stabiliva l’elenco definitivo dei vincitori. La nomina iniziale e la futura promozione dipendevano in gran parte

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dal posto in graduatoria raggiunto in questo esame finale, e gli uomini che occupavano i primi posti di frequente
raggiungevano le più alte cariche di governo in pochi anni.
Generalmente i candidati respinti ripetevano l’esame più volte. Di conseguenza l’età dei promossi poteva
oscillare tra i 20 e 80 anni. Per ricompensare la perseveranza di coloro che erano stati ripetutamente respinti e
probabilmente per evitare che i candidati delusi si trasformassero in elementi di sovversione, come era
accaduto con Huang Ch’ao nel periodo T’ang, i più vecchi, che erano stati più volte respinti, venivano ammessi
nella amministrazione mediante speciali esami facilitati.
La promozione dei funzionari dipendeva da parecchi fattori: la durata del servizio prestato, il metodo di
valutazione del merito, esami speciali per certi incarichi particolari, il posto in graduatoria raggiunto e la
garanzia dei funzionari di grado superiore. Secondo il sistema della garanzia, gli alti funzionari delle prefetture e
dei “circondari” avevano il dovere di proporre per la nomina i giovani funzionari promettenti. Il garante non
poteva raccomandare persone che avessero con lui un legame di parentela ed era responsabile del suo
protetto fino al punto da subire punizioni se costui in seguito si rendeva colpevole di qualche mancanza.
Il sistema dell’amministrazione civile e quello degli esami riuscirono a far entrare al servizio del governo molti
degli uomini di talento e, a quanto sembra, anche a mantenere gli individui più abili lontani dalle attività
sovversive, aprendo loro prospettive più allettanti; la dinastia Sung non conobbe, infatti, ribellioni di grande
portata. L’importanza che il sistema degli esami ebbe nella scoperta di nuovi talenti è suggerita dagli elenchi dei
candidati promossi tra il 1148 e il 1256; più della metà provenivano da famiglie che, considerando la
discendenza paterna, non avevano avuto alcun membro nell’amministrazione. Naturalmente, il sistema degli
esami ammetteva al servizio del governo soltanto persone appartenenti a famiglie relativamente agiate, che
potevano dare un’educazione ai propri figli, oppure provenienti da famiglie più povere ma con tradizioni
culturali.

Decadenza e riforme nel medio periodo Sung


I Sung avevano dato vita a un sistema politico così stabile che l’usurpazione di Chao K’uang-yin fu l’ultima della
storia cinese. Dopo il 960 non si ebbero più casi del genere. Le dinastie vennero ancora distrutte dalle
conquiste straniere o dalle rivoluzioni popolari e i membri della famiglia imperiale si impadronirono del trono
sottraendolo a loro parenti, ma nessun suddito riuscì più a usurpare le prerogative imperiali.

L’aumento della popolazione e la diminuzione del gettito fiscale


L’aumento della popolazione è una delle cause di fondo della decadenza. Durante i primi Sung il numero dei
gruppi familiari registrati era sceso a meno della metà.
L’aumento della popolazione in una economia in rapida espansione era naturalmente un elemento positivo per
l’amministrazione, ma non sembra che, olte un certo limite, esso si accompagnasse a un corrispondente
aumento della produzione. Infatti, più numerose erano le bocche da sfamare, e minore era l’eccedenza di cui
l’esattore poteva disporre per rifornire il tesoro. In altre parole, l’aumento della popolazione oltre questo limite
poteva costituire un fattore di diminuzione anziché di aumento delle entrate governative.
Sebbene, a partire dal medio periodo T’ang, le tasse venissero applicate più in base all’unità fondiaria che
secondo il criterio personale, l’onere fiscale gravava principalmente sul piccolo contadino, che disponeva di
scarse risorse finanziarie. L’aumento della popolazione significava minore disponibilità di terra e un eccesso di
sfruttamento del suolo, col risultato che la diminuzione della produzione pro capite lasciava al contadino, dopo il
soddisfacimento dei bisogni immediati, minori eccedenze per far fronte agli obblighi fiscali. Di conseguenza,
sempre crescente fu il numero dei piccoli contadini ridotti in miseria o costretti come affittuari sulle tenute de
grandi signori. Poiché il numero e la ricchezza delle famiglie di questi ultimi erano in aumento, essi
consumavano naturalmente una parte maggiore della produzione nazionale. Pur essendo le loro tenute
teoricamente soggette all’imposta come i poderi contadini, i grandi signori, grazie ai legami con il governo e alla
condizione privilegiata, riuscivano spesso a sottrarsi, almeno in parte, ai loro obblighi, e di conseguenza,
l’aumento delle loro proprietà era accompagnato da una corrispondente diminuzione delle entrate governative.

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L’aumento delle spese
Comunque, le spese di governo non poterono essere mantenute.
Le difficoltà finanziarie dei Sung sono state da alcuni attribuite al tributo annuo versato ai Liao e ai Hsi Hsia; in
realtà, le somme versate non rappresentavano più del 2% delle entrate governative.
Una ragione più importante del disavanzo dei Sung è il colossale aumento delle spese militari. Il sistema delle
milizie dei primi T’ang, relativamente poco costoso, aveva da tempo cessato di costituire la principale base
militare dell’impero, e T’ai Tsu, per assicurare la pace interna, aveva eliminato il sistema, relativamente
efficiente, delle milizie locali alle dipendenze dei comandanti regionali, concentrando l’intera forza militare in
grandi eserciti di mestiere accentrati nella capitale. Questi mercenari, reclutati in gran parte tra i poveri, non
brillavano, di conseguenza, per le loro qualità belliche.
Gli eserciti cinesi erano inoltre svantaggiati dalla debolezza della cavalleria, giacché l’impero Sung, non
occupando territori della steppa, era povero di cavalli.
Sebbene l’introduzione di nuove tecniche, come l’uso degli esplosivi, desse loro qualche vantaggio, i cinesi
cercarono di colmare queste deficienze qualitative soprattutto aumentando la consistenza numerica degli
eserciti, ossia reclutando sempre nuovi soldati e accrescendo le spese militari.
Un’altra ragione dell’aumento incessante delle spese è da ricercare nel rapido aumento del costo
dell’amministrazione civile, nonché nell’accresciuto numero dei funzionari. Nei primi anni della dinastia si era
sentita la mancanza di personale esperto, ma verso la metà del secolo XI l’amministrazione civile era
sovraffollata; a causa delle difficoltà finanziarie del governo, gli stipendi finirono per diventare inadeguati, e
questo suscitò il risentimento della burocrazia e incoraggiò gli abusi di potere.

Le fazioni burocratiche
Questa situazione contribuì probabilmente alla formazione tra la burocrazia di un fazionalismo. In uno stato
ormai completamente burocratizzato non potevano più sorgere le aspre rivalità che avevano portato alla rovina
le precedenti dinastie, come le lotte tra gli imperatori e i parenti delle loro mogli, tra i letterati burocrati e gli
eunuchi, oppure tra i funzionari civili della capitale e i comandanti militari delle province. Le rivalità incidevano
ora soprattutto all’interno della stessa burocrazia, divisa dapprima tra gruppi provenienti da regioni diverse del
paese e, in seguito, tra sostenitori di linee politiche contrastanti.
La gravità delle lotte politiche si andò accentuando con il deteriorarsi della situazione economica e militare. Si
formarono così, da una parte il gruppo dei tradizionalisti, i quali, favorevoli al sistema di governo che si era
sviluppato nell’ultimo secolo e fiduciosi nel valore ultimo dell’esempio morale, non vedevano la necessità di
drastiche riforme; dall’altra, il gruppo degli innovatori o riformatori, convinti che gli evidenti mali del tempo
richiedessero un deciso intervento.

Le riforme di Wang An-shih


Nel 1069, poco dopo l’ascesa al trono del giovane imperatore Shen Tsung (“Antenato Ispirato”, 1067-1085),
venne nominato primo consigliere l’abile ma dogmatico riformatore Wang An-shih (1021-1086). Egli diede
immediatamente inizio a una serie di radicali riforme, intese a rinsaldare la posizione finanziaria del governo e
ad accrescerne l’efficienza militare. Wang sottrasse alla competente commissione il controllo della politica
finanziaria e impegnò il governo in una serie di manipolazioni economiche.
Il governo intervenne acquistando prodotti tipici di una zona per venderli in altre regioni, e in tal modo facilitò lo
scambio delle merci, contribuì alla stabilizzazione dei prezzi e ne ricavò un certo profitto. Concesse ai coltivatori
prestiti al 20%, un interesse per quel tempo estremamente basso, aiutando i contadini poveri a vivere e a
pagare le tasse e facendo inoltre affluire alle casse dello stato profitti fino a quel momento percepiti dagli usurai.
Vennero redatte nuove mappe catastali per eliminare le vecchie disuguaglianze e stabilire un sistema
proporzionale di imposta fondiaria basato sulla produttività del suolo. Le corvées che ancora restavano, e che
gravavano in massima parte sui contadini poveri, furono trasformate in obblighi fiscali e quindi addossati
prevalentemente alle classi superiori. Wang provvide inoltre a tassare le ricchezze personali, tentò di regolare i
prezzi, estese le agevolazioni creditizie ai piccoli imprenditori creando agenzie di prestito governative che
applicavano tassi di interesse relativamente bassi, fece eseguire i lavori necessari per il controllo delle acque.

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Nel settore militare, egli reintrodusse, col nome di pao-chia, il vecchio sistema della responsabilità collettiva
detto dei “tre capi” in vigore al tempo delle Sei Dinastie e decretò che le varie unità create dal sistema
provvedessero a loro spese all’addestramento e all’armamento di un determinato numero di soldati. Per
formare una forza di cavalleria Wang fece comprare dei cavalli dal governo e li assegnò alle famiglie contadine
della Cina del Nord; almeno un membro di ciascuna famiglia doveva in cambio servire a cavallo negli eserciti
imperiali in caso di necessità.
Anche Wang An-shih, come già Wang Mang al tempo degli Han, sostenne che i classici erano i diretti ispiratori
delle sue riforme, in particolare i Riti dei Chou e alcuni altri testi già magnificati dallo stesso Wang Mang.
Applicò inoltre le sue concezioni al sistema scolastico e a quello degli esami, accrescendo il numero delle
scuole governative per contrastare le ricche accademie private (shu-yuan) che egemonizzavano a quel tempo
l’educazione, e insistette affinché gli esami imperiali si svolgessero con programmi meno strettamente letterari
e più attinenti ai problemi pratici della politica e dell’amministrazione.
Anche Wang An-Shih, come Wang Mang, è stato in volta bollato o esaltato come socialista, ma le sue
concezioni non erano motivate da esigenze di uguaglianza sociale più di quanto lo fossero quelle del suo
predecessore. Alcune delle sue riforme, come l’imposta proporzionale, il credito a basso interesse e il completo
abbandono delle corvée, rappresentavano naturalmente dei passi avanti, sia dal punto di vista economico sia
da quello amministrativo. Altri provvedimenti, come la regolamentazione dei prezzi, il controllo governativo delle
merci e i sistemi della responsabilità collettiva e delle milizie, non erano che riesumazioni di antichi istituti. Altri
provvedimenti, come quello sulla cavalleria, non erano che improvvisazioni.
Sebbene le sue iniziative si siano in gran parte rivelate economicamente favorevoli ai contadini e alle classi più
povere, colpendo gli interessi dei maggiori proprietari terrieri, dei ricchi mercanti e degli usurai, la sua politica
non fu il risultato di una ideologia, ma soltanto il mezzo per far fronte ai particolari problemi del tempo.
Le riforme suscitarono l’opposizione dei gruppi contro i quali erano dirette, ossia i grandi proprietari terrieri, i
ricchi mercanti e gli usurai; anche il grosso della burocrazia, reclutata tra le classi agiate, si schierò
all’opposizione.
Probabilmente l’opposizione burocratica non fu soltanto mossa da interessi di classe, ma forse fu anche la
conseguenza della naturale inerzia amministrativa dello stato burocratizzato, ossia di quella crescente rigidità
che caratterizzerà il governo cinese proprio a partire da questo periodo.
La burocrazia, trincerata dietro il sistema, non era disposta a tollerare bruschi mutamenti che avrebbero potuto
alterare la situazione stabilita. Essa reagì anche energicamente contro la politica di Wang An-shih, sebbene non
presentassero un carattere rivoluzionario e non fossero spesso che una pura ripresa di vecchie consuetudini,
suscitarono un turbine di emozioni partigiane e rimasero, da allora in poi, un argomento di dibattito sempre vivo
nei circoli intellettuali cinesi.
Le riforme non provocarono disastri, ma, sabotate dai burocrati ostili o male seguire dai funzionari favorevoli ma
impreparati a esercitare i necessari controlli economici, essi non diedero grandi risultati.
Nel 1076, lo stesso Wang An-shih fu costretto a dimettersi a causa dei violenti rancori personali che aveva
suscitato, e dopo la morte di Shen Tsung, i tradizionalisti ritornarono al potere cambiando completamente il
programma.
Nei 4 successivi decenni, tradizionalisti e riformatori si alternarono al governo, annullando con le loro lotte i
vantaggi militari e finanziari delle riforme di Wang An-shih.

I Sung meridionali
I Chih conquistano la Cina del Nord
La decadenza finanziaria e amministrativa dei Sung continuò fino al disastro che sopravvenne con il regno di
Hui Tsung (“Eccellente Antenato”, 1100-1125). Pittore di talento e grande mecenate, Hui Tsung si circondò di
una corte brillante e fastosa indebolendo ulteriormente le finanze della dinastia.
Negli ultimi anni del suo regno, l’impero fu sconvolto da insurrezioni contadine, ma il colpo decisivo venne
inferto dall’esterno. Oltre i territori settentrionali occupati dai Liao, tribù tunguse conosciute col nome di jurched
avevano gradualmente raggiunto una posizione di predominio nella Manciuria.
Nel 1114 i jurched si ribellarono ai Liao e l’anno dopo adottarono il nome dinastico cinese di Chin (Kin), che
significa “dorato”. Nell’intento di riconquistare le 16 province di confine occupate dai Liao 2 secoli prima, i Sung

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si allearono incautamente con i Chin. Nel conflitto che seguì gli eserciti cinesi non ottennero alcun successo,
mentre le orde jurched distrussero completamente la potenza dei Liao nel 1125, e quando i Sung si mostrarono
insoddisfatti della divisione del bottino, i Chin continuarono la loro marcia verso sud. Hui Tsung, preso dal
panico, abdicò e il suo successore tentò di mercanteggiare col nemico, ma il tesoro era vuoto. Nel 1125, i Chin
occuparono Kaifeng, la capitale Sung, catturando Hui Tsung e il nuovo imperatore.

L’instaurazione della dinastia Sung meridionale


Di conseguenza, la seconda fase della dinastia, precisamente dal 1127 al 1279, viene comunemente chiamata
dei Sung meridionali, mentre la prima, dal 960 al 1127, è dei Sung settentironali.
I Chin inseguirono gli eserciti cinesi oltre lo Yangtze e occuparono anche le città di Hangchow, ma i molti fiumi
e i canali del Sud rendevano il terreno poco adatto alla cavalleria nomade; per di più, proprio in questo
momento, la morte privò i Chin del loro abile sovrano. per questo, essi abbandonarono il Sud e limitarono il loro
dominio sulla Cina del Nord.
Nel 1153, essi trasferirono la capitale della Manciuria a Pechino (Yen-ching), e lo stato cominciò a subire un
graduale processo di sinizzazione.
Intanto, nel 1135, i Sung meridionali avevano stabilito la loro capitale ad Hangchow. Essi continuarono per
qualche anno a combattere disperatamente per riconquistare il Nord sotto la guida del generale Yo Fei, che è
stato esaltato dai moderni patrioti come simbolo della resistenza nazionale alla dominazione straniera, ma i
grandi proprietari terrieri del Sud erano favorevoli alla pace e la loro fazione, capeggiata da Ch’in Kuei, ebbe
alla fine la meglio. Dopo aver mandato a morte Yo Fei, nel 1141, il gruppo dei pacifisti stipulò con i Chin un
trattato che fissava tra i 2 stati una linea di confine che i Sung si impegnavano a non fortificare; essi si
riconoscevano inoltre vassalli dei Chin, sottomettendosi al pagamento di un tributo annuo.
Le deficienze politiche e militari che si erano manifestate negli ultimi decenni della dinastia Sung settentrionale
si protrassero per tutto il periodo dei Sung meridionali. Il governo rimase debole sul piano militare e dilaniato
politicamente da conflitti delle fazioni.
Esteriormente, la posizione occupata nella storia dai Sung meridionali può sembrare simile a quelle delle
dinastie meridionali che erano succedute agli Han. Anche i Sung furono espulsi dal centro storico della Cina, e
anch’essi mantennero nel Sud in una forma inefficiente e degenerata.
Sebbene il Nord fosse stato ancora una volta conquistato da dominatori “barbarici”, la popolazione e la cultura
della zona non furono seriamente influenzate dalla conquista; non si ebbe una completa trasfusione di sangue
barbarico. Per di più, il Sud non era più l’area sottosviluppata e “semibarbarica”, ma si presentava ora come il
centro economico della Cina e stata rapidamente soppiantando il Nord come centro della cultura cinese. Sotto
i Sung meridionali, il Sud continuò a crescere rapidamente acquistando una posizione di egemonia economica,
intellettuale e culturale sul resto del paese.
La dinastia Sung meridionale regnò su uno stato che, malgrado la limitata estensione del suo territorio, fu sotto
ogni aspetto più ricco di quello dei Sung settentrionali. Grazie alla rapida espansione economica, il governo
poté accantonare per le spese militari somme molto più rilevanti di quelle che i Sung settentrionali avevano
avuto a disposizione: la ricchezza economica permise inoltre alla dinastia di mantenere una burocrazia più
numerosa. La capitale, Hangchow, fu a quanto sembra una città molto più imponente di Kaifeng, e anche dopo
aver subito l’occupazione dei “barbari” suscitò la meraviglia di Marco Polo che la definì “la più nobile città del
mondo e la migliore”.
La decadenza amministrativa proseguì durante tutto il periodo, ma, nonostante ciò, il crollo dello stato non fu
provocato da pressioni interne, anch’esso, come il regime dei Sung settentrionali, fu distrutto da un potente
nemico straniero, i mongoli, e solo dopo molti anni di combattimenti.

La “rivoluzione commerciale”
La storia politica della Cina mostra un rapido declino militare dagli anni di maggior potenza dell’impero, nel
corso del secolo 8, alla conquista della Cina da parte dei mongoli nel secolo 13; ma fu anche un periodo di
grande crescita culturale e istituzionale. All’origine di questa crescita vi sono una grande espansione e uno
sviluppo dell’economia cinese. L’espansione economica fu così grande da essere chiamata “rivoluzione
commerciale” della storia cinese.

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Una delle ragioni di questo sviluppo dell’economia è da ricercare nel generale aumento della popolazione.
Alcune zone del Nord conobbero un relativo spopolamento, ma le statistiche che indicano che la popolazione
della Cina del Sud fu più che triplicata, nel periodo compreso tra i secoli 7 e 11.

I progressi tecnologici
I progressi tecnologici sono un’altra delle ragioni della crescita economica. Il perfezionamento delle industrie
tradizionali portò al miglioramento della qualità e all’aumento della quantità dei tessuti di seta e dei vasi laccati o
di porcellana, stimolando la domanda estera di tali articoli. Un altro passo avanti nella tecnologia fu l’uso della
polvere da sparo a scopi bellici; all’inizio del secolo 11, lo sviluppo delle mine, una specie di granata a mano e
di altri proiettili esplosivi venne a compensare l’inferiorità della cavalleria degli eserciti dei Sung. Le scienze
mediche progredirono con la scoperta, avvenuta nel secolo 14, dell’olio di chaulmoogra per il trattamento della
lebbra. L’abaco cominciò a essere usato nel tardo periodo Sung.
L’espansione economica sottopose inoltre a un intensivo sfruttamento le risorse minerarie disponibili e le
elementari tecniche del tempo.

Lo sviluppo del commercio privato


I primi sovrani T’ang, che nutrivano per le attività mercantili tutto il disprezzo e il sospetto della tradizione,
avevano tentato di controllare e limitare il commercio, e i due grandi mercati di Ch’ang-an, festiti dal governo,
sono i più chiari esempi di questo atteggiamento. Tuttavia, durante i tardi T’ang e sotto i Sung, il commercio
riuscì a sottrarsi alla tutela governativa. I burocrati e i letterati continuarono a trattare i mercanti con sufficienza
ma la società nel suo complesso fu commercializzata. Le attività mercantili si sottrassero alle restrizioni di luogo
e di tempo che erano state imposte dal governo nei precedenti periodi e superarono gli stretti limiti dei vecchi
mercati ufficiali finché, sotto i Sung, le vie principali delle città si riempirono di negozi. Nel 12 secolo, il sistema
fang dei blocchi isolati e cinti da mura entro la capitale era in gran parte scomparso, mentre cominciavano ad
apparire per la prima volta grandi città commerciali, ossia grandi agglomerati urbani che, a differenza delle
antiche città cinesi, erano essenzialmente degli empori commerciali, anziché centri politico-amministrativi.
Il commercio locale nelle zone rurali continuò a essere praticato secondo la consuetudine, con il baratto e lo
scambio di prodotti di uso quotidiano. A un livello superiore, lo scambio interregionale delle derrate era stato in
passato in gran parte regolato dal governo, attraverso l’imposta, i monopoli e le altre misure di controllo
economico, mentre i mercanti privati servivano principalmente per lo scambio dei prodotti di lusso. Sotto i tardi
T’ang e Sung, lo sviluppo del commercio privato fu invece tale da togliere ogni importanza all’intervento
governativo.
Lo sviluppo del commercio fu inoltre accompagnato da una proliferazione di corporazioni mercantili, che si
erano inizialmente costituite come associazioni di mercanti raggruppate, a seconda dell’attività commerciale,
nelle varie strade ei luoghi di mercato.
Ogni corporazione era diretta a un associato, scelto come capo, responsabile di fronte al governo della
esazione delle imposte che gli altri membri erano tenuti a pagare o dal versamento di una quota collettiva nel
caso che un monopolio governativo venisse concesso in appalto alla corporazione stessa dietro pagamento di
una somma determinata. Le corporazioni più importanti erano abitualmente quelle che trasportavano e
vendevano prodotti di prima necessità come i cereali, il sale, il tè, o la seta, oppure quelle che svolgevano
funzioni bancarie di deposito e prestito del denaro.

Il commercio marittimo
Ancor di più di quello terrestre, sembra sia stato il commercio marittimo ad influire sullo sviluppo economico
della Cina durante le dinastie T’ang e Sung. Naturalmente, il grande sviluppo del commercio marittimo in Cina e
in tutta l’Asia meridionale tra i secoli 8 e 13 è un fenomeno che ha cause diverse. Anzitutto, i graduali progressi
nella navigazione. Le imbarcazioni impiegate per queste attività commerciali tra la Cina e il resto dell’Asia erano
ormai grandi vascelli, che navigavano sia a remi sia a vela e che erano talvolta in grado di trasportare centinaia
di uomini.
Inoltre, i cinesi conoscevano la polarità magnetica almeno dal 3° secolo AC e un testo cinese indica
chiaramente che la bussola veniva usata in questo commercio meridionale nel 1119.

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Un altro elemento fu il grande dinamismo di cui diede prova l’Asia occidentale in seguito all’ascesa dell’Islam.
Infatti, il commercio marittimo cinese fu dapprima quasi totalmente nelle mani degli arabi e dei persiani islamici.
La grande attività commerciale che essi dispiegarono in questo periodo attraverso l’Asia meridionale deve
probabilmente essere associata alle grandi manifestazioni di forza che gli eserciti dell’Islam diedero, a
occidente fino alla Spagna e alla Francia, e a oriente, fino ai confini tra la Cina e l’Asia centrale.
Lo spettacolare sviluppo del commercio oceanico cambiò radicalmente l’orientamento della Cina verso il
mondo esterno. Ora, le coste orientali e meridionali divennero gradualmente le principali aree di contatto con il
mondo esterno, mentre le province nordoccidentali cominciarono a decadere alla condizione di remoto
retroterra.
Al tempo dei Sung, il commercio marittimo si concentrò in alcuni grandi porti della costa meridionale e del
basso Yangtze, dove era controllato dalle sovrintendenze alla marina mercantile. Il sistema di limitare il
commercio con l’estero da alcuni porti ufficiali, dove potevano essere riscossi i diritti di dogana, aveva avuto
inizio nel secolo 8 e sotto i Sung, le dogane erano diventate una fonte importante delle entrate governative. I
capitani delle navi dovevano pagare una tassa di ancoraggio, mentre i mercanti offrivano doni ai funzionari e al
governo e pagavano una imposta che ammontava approssimativamente al 10-20% del valore delle vendite, a
seconda della natura delle merci.

Importazioni ed esportazioni cinesi


Un esame delle importazioni e delle esportazioni può servire a chiarire la posizione egemonica che la Cina
occupava nell’economia mondiale del tempo. Gli unici manufatti che essa acquistava in grande quantità erano
tessuti di cotone, ma importava anche cavalli e cuoio dalle steppe, legname pregiato, pietre preziose, spezie e
avorio. Al contrario, le esportazioni cinesi, sebbene comprendessero minerali come l’oro, l’argento, il piombo e
lo stagno, erano costituite per la maggior parte dai raffinati prodotti dell’artigianato.
Le sete cinesi continuavano ad essere molto apprezzate all’estero; grande fu la richiesta di libri, dipinti e altri
oggetti artistici da parte di paesi come la Corea, il Giappone, che dovevano gran parte della loro alta civiltà
all’influenza della Cina.
Ma probabilmente furono le porcellane il prodotto cinese più apprezzato; esse penetrarono in grande quantità
in tutte le zone raggiunte dal commercio oceanico del tempo. La grande importazione di porcellane cinesi in
Europa, che si ebbe dopo l’apertura del commercio oceanico tra l’Occidente e l’Oriente, fu per la Cina soltanto
la continuazione dell’età moderna di un commercio di esportazione su vasta scala i cui inizi risalivano almeno al
secolo 8.

Le comunità di mercanti stranieri


Durante la dinastia T’ang e sotto i primi Sung il commercio marittimo della Cina fu dominato dagli stranieri.
Quello con la Corea e il Giappone, nel corso del 9 secolo, fu in gran parte esercitato da mercanti coreani, che
risiedevano numerosi lungo le coste meridionali della penisola dello Shantung. I persiani e gli arabi, che
controllavano il commercio con l’Asia meridionale e occidentale, si erano stabiliti nei porti della costa
meridionale e del basso Yangtze.
Queste comunità straniere, la cui vita interna era regolata dalle rispettive norme consuetudinarie risiedevano in
determinati quartieri delle città portuali.
Questa situazione si risolveva anzitutto in un vantaggio per le autorità cinesi. Sebbene i gruppi originari dell’Asia
occidentale tendessero a conservare la religione islamica e a costruire in Cina le loro moschee, talvolta essi
furono per altri aspetti, sinizzati.

Lo sviluppo di una economia monetaria avanzata


Uno degli indici più evidenti della crescita economica che la Cina conobbe durante i tardi T’ang e Sung è la
grande espansione del sistema monetario. Le monete di rame erano già apparse nel tardo periodo Chou ed
erano state da quel momento largamente usate; si registrò ora un sensibile aumento del volume del circolante
accompagnato da un grande sviluppo del sistema monetario, divenuto più complesso, e da un corrispondente
aumento delle funzioni della moneta nel commercio e nelle finanze governative.

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Con i Sung meridionali, quando la dinastia, perduto il Nord agricolo dipendeva dal Sud commerciale, le entrate
monetarie del governo fecero cadere in secondo piano le riscossioni di tessuti e cereali.
Nello stesso tempo le entrate governative cominciarono a dipendere sempre più dal commercio. I primi T’ang,
come del resto molti dei precedenti regimi cinesi, si erano affidati quasi esclusivamente alle imposte agrarie.
Durante il tardo periodo T’ang e sotto i Sung, i redditi forniti dai monopoli governativi, in particolare quelli del
sale, del tè e del vino, e dalle varie imposte sul commercio, compresi i diritti di dogana, aumentarono
rapidamente.
Con i Sung meridionali divennero l’elemento principale delle finanze dello stato.
Lo sviluppo dei monopoli e delle tasse sul commercio fu tale che essi poterono, in caso di necessità, eguagliare
o superare il gettito dell’imposta agraria, diventando la principale fonte delle entrate governative e creando una
seconda importante base finanziaria per il governo imperiale. Ciò contribuì a dare ai regimi cinesi che
succedettero alla dinastia Sung una grande stabilità finanziaria.

L’espansione della circolazione monetaria


La grande diffusione dell’uso della moneta, che si ebbe nel tardo periodo T’ang e con la dinastia Sung,
sottopose a un pesante sforzo le risorse monetarie della Cina. Questa situazione è in parte messa in evidenza
dal grande aumento della produzione di monete di rame.
Ma la domanda di moneta continuò a superare largamente la produzione, e il governo dovette costantemente
fronteggiare il problema dell’aumento del volume del circolante. Il monopolio ufficiale delle miniere di rame fu
utilizzato per portare al massimo la produzione e a varie riprese il regime tentò di limitare l’uso del rame alla sola
coniatura delle monete.
Un provvedimento più serio fu quello di proibire l’esportazione delle monete e di imporre una tassa del 50%
sull’esportazione delle monete. Ma i profitti ricavati dall’esportazione di monete in paesi come il Giappone erano
così elevati che non si riuscì ad impedire che mercanti audaci continuassero a praticare il contrabbando.
Un altro metodo per far fronte alla scarsità del circolante fu quello di usare come moneta l’oro e l’argento.

Lo sviluppo della cartamoneta


La soluzione più interessante del problema e nello stesso tempo quella che meglio illustra la crescita di una
economia monetaria avanzata in Cina fu l’introduzione della cartamoneta. Tanto il governo che i grandi
mercanti dovevano trasferire grosse somme di denaro in località molto lontane. Le monete di rame erano
troppo voluminose per essere trasportate facilmente; di conseguenza, per far fronte a queste necessità, si
svilupparono tipi diversi di documenti di credito e di cartamoneta.
Già nell’anno 811 i T’ang emettevano la cosiddetta “moneta volante”, i titoli di credito che servivano a pagare
merci acquistate in zone lontane ed erano rimborsabili alla capitale. Il sistema si sviluppò ulteriormente con la
dinastia Sung, che mise in circolazione vari biglietti di questo tipo.
Grazie alla loro praticità, questi buoni governativi furono adottati anche dai mercanti che desideravano
trasferire i loro crediti, e in tal modo cominciarono a essere usati come moneta.
Nello stesso tempo, i banchieri privati misero in circolazione una moneta di carta di altro tipo, ossia certificati di
deposito convertibili con detrazione del 3% perle spese del servizio. Essendo molto pratici tali certificati
cominciarono a circolare liberamente al loro valore nominale; ve ne furono di vario genere, emessi dai diversi
gruppi di banchieri locali. Quelli dei banchieri di Chengtu nello Szechwan furono tra i più famosi e quando, nel
1024, vennero rilevati dal governo, diventarono la prima vera cartamoneta del mondo.

Il tramonto dell’aristocrazia
Nelle età precedenti una parte della terra era stata divisa in appezzamenti assegnati a contadini liberi che
trasferivano al governo praticamente tutte le loro eccedenze di produzione e di energia; l’altra parte era formata
dalle tenute di famiglie privilegiate e potenti, in grado di proteggere i loro possedimenti dall’azione degli esattori
governativi, esenti dalle imposte, gli aristocratici avevano mostrato la tendenza a controllare la società e il
governo.
L’influenza che i grandi proprietari terrieri esercitavano sulla società era direttamente dipendente dalla loro
ricchezza e dalla forza militare che potevano mettere in campo.

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Dopo la trasformazione del sistema fiscale avvenuta nel secolo 8, il governo non oppose più alcuna resistenza
all’accumulazione privata, e di conseguenza non fu più necessario disporre di grande potenza e influenza per
proteggere i fondi privati. Il risultato fu la comparsa di un gran numero di possidenti piccoli e medi. D’altro lato,
con il nuovo sistema fiscale semplificato, fu per gli aristocratici molto più difficile conservare la loro condizione
di privilegiati di fronte al fisco, mentre la loro influenza sul governo veniva seriamente limitata sia dall’importanza
crescente del sistema degli esami nella selezione dei dirigenti, sia dal successo ottenuto dai Sung nella politica
di concentrazione del potere nelle mani dell’imperatore. Il rapido sviluppo del commercio e il diffondersi
dell’economia monetaria resero inoltre anacronistico il vecchio tipo di dominio fondiario economicamente
autosufficiente.
Per tutte queste ragioni la vecchia aristocrazia venne gradualmente assorbita in una nuova e più numerosa
classe, comunemente chiamata “gentry”.
Sebbene la vecchia aristocrazia terriera andasse scomparendo nel corso di questi secoli, la frattura economica
tra i proprietari terrieri e i contadini restò quasi altrettanto grande quanto in passato. Si assistette, tuttavia, a
una trasformazione significativa nei rapporti fra questi 2 gruppi. I dipendenti del signore, anche sotto la dinastia
Sung, continuarono talvolta a essere legati al suolo; non si trattava comunque di un legame ereditario. Essi
erano in effetti quasi affittuari, che pagavano al signore una rendita corrispondente a circa la metà del raccolto.

La nuova “gentry”
La classe che ne prese il posto, la “gentry”, sebbene fosse ancora per molti aspetti una classe di signori
fondiari, non doveva esclusivamente la sua influenza alla ricchezza fondiaria.
I grandi proprietari terrieri tendevano a spendere denaro piuttosto che ad accumularne. Inoltre, poiché la
consuetudine non riconosceva il diritto di primogenitura, i grandi possedimenti venivano spesso suddivisi
quando una famiglia un tempo prospera era troppo cresciuta di numero con le generazioni. Certamente si
poteva accumulare più rapidamente e più facilmente una fortuna con il commercio e nell’amministrazione
statale piuttosto che con l’agricoltura.
Ma le ricchezze dei membri della “gentry” erano probabilmente molto spesso di origine mercantile.
Vi è poi un’altra ragione per la quale la nuova “gentry” non può semplicemente essere considerata una classe
di proprietari terrieri. Soltanto raramente i grandi signori potevano disporre di un potere militare personale o
anche di maggior influenza in seno al governo centrale semplicemente grazie alla proprietà terriera. La
ricchezza poteva essere trasformata in posizioni di potere nel governo solo attraverso l’educazione e il
raggiungimento delle alte cariche politiche per mezzo del sistema degli esami. In altre parole, la “gentry” in
quanto classe con una influenza politica nazionale, si distingueva particolarmente per la cultura e si qualificava
più per le capacità intellettuali mostrate durante gli esami imperiali che per la ricchezza.
Mentre la ricchezza continuava a essere un elemento importante e le capacità intellettuali avevano assunto un
ruolo di primo piano, nel periodo Sung perdette gran parte del significato il privilegio ereditario. In questa
società economicamente diversificata era aumentata considerevolmente la mobilità sociale.
Così la nuova “gentry” non era in alcun modo una aristocrazia nel senso tradizionale del termine; un ordine
sociale molto più complesso, caratterizzato da una diffusa proprietà terriera e dall’egemonia politica di una
burocrazia scelta in base a modelli di ordine intellettuale.

L’urbanizzazione della società


Un’altra caratteristica della nuova società cinese del tardo periodo T’ang e della dinastia Sung è rappresentata
dalla crescente urbanizzazione. Non si deve pensare che una maggioranza della popolazione avesse
abbandonato le zone rurali. Si trattava di grandi concentrazioni di popolazione, ma la vera urbanizzazione della
società cinese non era tanto una questione numerica quando una conseguenza della posizione di predominio
assunta, a partire da questo periodo, dalle città e dagli abitanti delle città.
I membri della nuova “gentry”, diversamente dalla vecchia aristocrazia, non vivevano nelle tenute, ma
trascorrevano gran parte del tempo nelle città e nei centri abitati.
Dato che molti possidenti e quasi tutti i funzionari e ricchi mercanti risiedevano nelle città, gran parte della
classe dirigente si andò concentrando nelle zone urbane, mentre l’alta cultura finì inevitabilmente per

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urbanizzarsi e per sviluppare interessi e atteggiamenti più caratteristici della gente delle città che delle
popolazioni rurali.
Nell’ambiente cittadino l’alta cultura si fece più varia e sofisticata e cominciò inoltre a diffondersi in strati sociali
più vasti, evoluzione che difficilmente può sorprendere se si tiene presente il carattere più egualitario di questo
periodo e se si considera che il sistema degli esami aveva sensibilmente allargato il gruppo dirigente e dato un
forte impulso alle attività erudite e alle arti.
Il trionfo dello spirito civile sulla mentalità militare fu uno dei tratti più caratteristici della nuova cultura urbana. La
civiltà cinese è sempre stata pacifista in realtà fino ai primi T’ang, accolsero con entusiasmo ogni prova di forza
militare, mentre l’ideale del governo civile si era realizzato soltanto nella misura in cui ogni grande e duraturo
impero era stato costretto a dipendere da una efficiente amministrazione non militare. Con i Sung, invece,
andarono acquistando un’importanza predominante le realizzazioni civili e apparve quella sotterranea tendenza
pacifista che in seguito si assocerà alla civiltà cinese.
Si comprende come i cinesi non siano più riusciti, dopo i Sung, a stabilire sull’Asia orientale quel predominio
militare che avevano avuto ai tempi della dinastia Han. Ma è significativo il fatto che tra le ultime 4 grandi
dinastie soltanto le due di origine “barbarica” abbiano spinto le loro conquiste lontano dai confini della Cina,
mentre i Sung e i Ming mostrarono invece una relativa debolezza nei rapporti con le potenze straniere.
All’idea di una società civile opposto allo spirito militare si accompagnò, tra le classi superiori, la diffusione di
modi di vita urbani e di divertimenti tipici della città.
Alla caccia, che era stato lo sport dell’aristocrazia al tempo dei Chou e degli Han, i membri delle classi agiate
del periodo Sung preferirono la letteratura, le arti, l’erudizione.
Durante il periodo Sung, la vita nelle città era libera e raffinata. I centri urbani avevano cessato di essere dei
semplici agglomerati di villaggi circondati da mura e dominati dal palazzo imperiale. Erano invece i quartieri dei
divertimenti a costituire ora i nuovi centri di vita sociale. In questi quartieri numerose erano le botteghe di vino,
le case da tè, i ristoranti specializzati in vari tipi di cucina.
Anche i difetti tipici delle società urbane fecero la loro comparsa in questo periodo. I proprietari assenteisti e
l’affittanza posero l’agricoltura cinese di fronte a problemi che si perpetuarono fino all’età contemporanea. Un
diffuso pauperismo colpì inoltre il proletariato urbano, che aveva ormai in gran parte perduto anche il ricordo
della propria origine rurale. Fu quindi necessario adottare provvedimenti destinati a migliorare la sorte di questi
strati della società. L’esercito era il messo principale per assorbire la disoccupazione, ma il governo provvide
anche a creare appositi stabilimenti, finanziati da tasse speciali, per l’assistenza ai poveri. Nel tardo periodo
T’ang sorsero anche associazioni private di beneficenza, la cui attività era rivolta agli orfani, ai vecchi indigenti o
al seppellimento di coloro che erano morti in ristrettezze economiche. Talvolta queste attività filantropiche
portarono alla istituzione di veri e propri “patrimoni di carità”, che servivano ad educare e a sussidiare i membri
delle famiglie numerose.

Il peggioramento della condizione della donna


La donna era sempre stata asservita all’uomo, ma il progressivo concentrarsi delle classi agiate nelle città,
dove il lavoro femminile non poteva più conservare l’importanza che aveva avuto in campagna, contribuì
decisamente a un ulteriore peggioramento della sua condizione.
Essa diventò infatti, ancora più di prima, la serva e il trastullo dell’uomo, come testimoniano lo sviluppo del
concubinato, ossia l’acquisto di mogli che avevano posizione di inferiorità rispetto alla prima, e il rafforzarsi, tra
le classi superiori, delle norme sociali contro il matrimonio delle vedove.
Questo declino della condizione della donna è indicato ancora più chiaramente dal diffondersi tra le classi
elevate, appunto durante il periodo Sung, della celebre fasciatura dei piedi; si storpiavano le ragazze per tutta
la vita, mettendo in evidenza la loro inutilità economica.

Lo sviluppo delle arti


Grazie all’estensione dell’impero dei primi T’ang e allo sviluppo del commercio estero sotto i tardi T’ang e Sung,
si andarono moltiplicando i contatti con gli stranieri. Tuttavia, l’alta cultura di questo periodo, anche se talvolta
fu stimolata dalle relazioni con l’estero, non conobbe per questo sostanziali modifiche. Essa fu soprattutto
caratterizzata dal brillante sviluppo di elementi culturali già stabiliti in Cina.

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La pittura
A partire dal periodo Sung, molti cinesi hanno giustamente considerato la pittura come la più grande delle loro
arti.
La pittura buddista, con i suoi marcati elementi iconografici, godette ancora di grande prestigio durante la
dinastia Sung, ma stava rapidamente perdendo terreno nei confronti dell’arte profana, che a sua volta passava
dal ritratto e dalla rappresentazione di eventi umani al paesaggio, nel quale l’elemento umano si riduceva tutt’al
più ad aspetti marginali, o alle nature.
La nuova pittura paesaggistica e naturalistica rivelò una forte tendenza impressionistica; l’artista non intendeva
appresentare realisticamente ogni particolare, bensì concentrare la sua attenzione sugli elementi che riteneva
più rispondenti alla vera essenza del soggetto. Il colore era considerato relativamente poco importante e, di
conseguenza, predominava la pittura monocroma.

La stampa e l’erudizione
Non fu soltanto il sistema degli esami a stimolare lo slancio della cultura e della produzione letteraria. Altri fattori
non meno importanti furono la crescita economica e l’aumentata ricchezza dell’impero, come pure la maggiore
disponibilità di testi resa possibile dalla stampa.

Già al tempo degli Han i cinesi avevano eretto tavole di pietra con la versione ufficialmente riconosciuta dei
classici. Il testo inciso sulla pietra veniva comunemente riprodotto su carta mediante un procedimento detto
appunto di “riproduzione”.

Durante la dinastia Sung le memorie storiche erano ormai diventate talmente numerose che sembrò necessario
compiere un nuovo tentativo per redigere un’unica grande storia generale del passato cinese. Lo Tsu-chih
t’ung chien, opera di Ssu-ma Kuang (1018-1086), costituì il primo tentativo di storia generale dai tempi di Ssu-
ma Ch’ien. Si tratta di una esposizione strettamente cronologica, divisa in 294 capitoli, che copre il periodo dal
403 AC al 959 DC. Il suo titolo, scelto dall’imperatore regnante, rivela chiaramente le concezioni dello storico
cinese giacché, tradotto letteralmente, significa Il Grande Specchio per la guida del governo.

Lo sviluppo della letteratura


Si assistette ad una vera e propria ondata di produzioni poetiche e, anche considerando la sola dinastia T’ang,
furono letteralmente migliaia gli autori che lasciarono il loro nome alla posterità.
Durante il periodo T’ang, la principale tendenza poetica non fu che la continuazione di un genere lirico che era
divenuto popolare al tempo delle 6 Dinastie e che prese il nome di shih, dal Classico delle poesie (Shih-ching).
La poesia lirica cinese raggiunse forse il suo apogeo nel secolo 8, grazie a grandi maestri come Li Po e Tu Fu.
Sebbene fossero contemporanei e amici, essi rappresentano gli estremi opposti della personalità poetica. Li
Po, forse il nome più grande di tutta la poesia cinese, era un vero taoista, amante del vino, girovago, libertino,
disincantato. Il racconto della sua morte, anche se apocrifo, è caratteristico della sua personalità come della
influenza del taoismo sui poeti cinesi. Secondo la tradizione, egli morì annegato, cadendo dalla barca nel
tentativo di raggiungere la luna in un momento di estasi provocata dal vino.
Tu Fu, sebbene fosse soltanto un funzionario di second’ordine, fu invece un idealista grave e scrupoloso.
Perseguitato dalla sorte, egli ebbe profonda coscienza delle sofferenze umane e delle ingiustizie della vita.
Mentre Li Po fu essenzialmente un edonista nella tradizione del taoismo, Tu Fu incarnò il moralismo solenne del
confucianesimo.

Il ritorno alle tradizioni autoctone e il rifiuto delle influenze straniere


Alla base degli sviluppi filosofici dei periodi T’ang e Sung sta un mutamento, egualmente significativo,
nell’atteggiamento verso il mondo esterno. Tale mutamento ebbe luogo durante la lunga e sfortunata lotta
condotta dai cinesi contro i loro nemici nomadi tra i secoli 8 e 13, e fu senza dubbio fortemente condizionato da
questo triste periodo storico; esso è forse anche da porre in relazione con il simultaneo paesaggio dei cinesi
dell’ideale marziale a un ideale pacifista.

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I cinesi del primo periodo T’ang erano ancora aggressivi, espansionisti, pieni di curiosità e tolleranza per il
mondo esterno. Ch’ang-an era una metropoli cosmopolita e le influenze straniere vi erano accolte senza paure
o risentimenti.
Con i tardi T’ang, comunque, cominciò a manifestarsi un crescente sentimento di paura e di rancore verso i
“barbari”. Il buddismo era sempre stato oggetto di critiche in quanto religione straniera.
L’allontanamento degli intellettuali cinesi dal buddismo e il loro ritorno al confucianesimo non fu soltanto la
conseguenza dell’esterofobia crescente in Cina; ma una regione più importante è da ricercare nel successo dei
vecchi ideali politici cinesi.
Il neoconfucianesimo fu il frutto di una vigorosa ripresa delle concezioni confuciane, essendosi rivelato ancora
una volta calido il vecchio ideale dei periodi Chou e Han di una società politicamente orientata.
La necessità di una classe di funzionari colti per il ricostituito stato burocratico aveva portato alla ripresa del
sistema degli esami, che per il governo aveva assunto un’importanza superiore. Il programma di studi
confuciani sul quale gli esami si basavano aveva contribuito a diffondere tra le classi colte le concezioni del
maestro

Le particolarità del neoconfucianesimo


La fioritura neoconfuciana sotto i tardi T’ang e i Sung non fu semplicemente la continuazione delle antiche
concezioni quali si erano manifestate al tempo dei Chou o degli Han. La ripresa dell’interesse per le antiche
idee confuciane costituì una stimolante riscoperta. Ovviamente, per gli studiosi che parteciparono a questo
movimento la società nella quale vivevano era diversa da quella decritta nei classici. Il rituale confuciano
riguardava soltanto pochi iniziati e non aveva più, nella vita popolare, quell’importanza che si riteneva avesse
avuto in passato. I neoconfuciani nutrirono la speranza di poter ripristinare l’antica visione delle cose e di
ricostruire la società ideale confuciana.
Profonde erano, comunque, le differenze esistenti nelle concezioni e nelle aspirazioni dei pensatori
neoconfuciani. Tutti accettavano l’autorità dei classici, ma i testi variavano talmente per il contenuto che
potevano essere citati a sostegno di punti di vista completamente diversi.
Inoltre, il neoconfucianesimo non si limitò a riscoprire l’antica tradizione confuciana. Il buddismo aveva ormai
condizionato le menti spingendole a pensare nei termini metafisici che gli erano propri; una nuova metafisica
era quindi necessaria per sostenere l’etica della tradizione di Confucio.
Per svilupparla i filosofi neoconfuciani si rifecero liberamente alla terminologia del taoismo e alle concezioni del
buddismo.
L’influenza dello Zen, la forma di buddismo intellettualmente dominante a quel tempo, fu particolarmente
profonda.
Quindi, per quanto riguarda le sue origini, il neoconfucianesimo fu il frutto delle filosofie più diffuse del tempo. In
altre parole, esso incorporò nella corrente principale del confucianesimo molte delle concezioni del taoismo e
del buddismo.
Una grande attenzione è stata dedicata alla metafisica neoconfuciana, poiché essa era rappresenta un
elemento sostanzialmente nuovo nella tradizione del Maestro. Si tratta, comunque, di un aspetto relativamente
marginale, in quando il neoconfucianesimo mostrò una naturale tendenza a concentrare prevalentemente il
proprio interesse sull’etica tradizionale e la filosofia politica. Nonostante l’influenza del taoismo e del buddismo, i
neoconfuciani respinsero coscientemente gli elementi centrali delle due religioni rivali, ossia la ricerca taoista
dell’immortalità e l’enfasi del buddismo sul divino e l’ultraterreno.
Il confucianesimo Sung aveva visto sorgere un’altra scuola, della quale Chu Hsi (1130-1200) fu l’unificatore e il
sintetizzatore, che si era presentata come interprete dell’ortodossia neoconfuciana.

La metafisica neoconfuciana
Per la metafisica neoconfuciana della scuola di Chu Hsi, tutte le cose, malgrado la loro grande varietà, hanno
un li o fondamentale principio formale. I li, considerati uniti in un tutto, costituiscono il Supremo che non
conosce limiti di spazio o di tempo.
I li costituiscono lo schema di una barca o di una casa, ma le case e le barche concrete sono di mattoni e di
legno. Perciò ogni cosa è comporta anche di ch’i, alla lettera “strumento”, ossia di ciò che potremmo chiamare

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materia. Elaborate teorie mettevano in evidenza le relazioni esistenti tra il Supremo, i li e i ch’i, i principi del ying
e del yang e i “cinque elementi”, mentre una dottrina particolare, che ricorda le teorie cicliche del buddismo,
illustrava il ciclo dei mutamenti dalla creazione al caos.
L’applicazione di queste teorie alla natura umana suscitò sempre, tra i filosofi cinesi, un interesse molto più
vivo. Durante il periodo Sung giunse all’apice il vecchio conflitto tra la concezione del Mencio, secondo la quale
l’uomo è buono per natura e perciò non ha bisogno che di auto svilupparsi, e quella di Hsuntzu, che al contrario
parlava di natura malvagia dell’uomo e quindi della necessità di rigorosi metodi di controllo e di educazione.
Essi sostennero che il li della natura umana è per sua essenza puro e buono, ed è l’origine delle 5 virtù
fondamentali, che possiamo tradurre come amore, rettitudine, proprietà, conoscenza e fidatezza.
La natura umana è in realtà la manifestazione del suo li attraverso il ch’i o apparenza fisica.

L’etica neoconfuciana
Anche se la metafisica neoconfuciana contribuì a ridare alle dottrine del Maestro la supremazia intellettuale in
Cina, il fulcro del neoconfucianesimo rimase l’applicazione delle teorie alle istituzioni etiche, sociali e politiche
che si erano sviluppate nei secoli.
Anzitutto, l’etica confuciana, particolaristica e accentrata sulla famiglia, metteva in primo piano i 5 rapporti
umani elencati per la prima volta nel Mencio.
In secondo luogo, l’ideale politico confuciano del paternalismo benevolo.
L’autorità del governante come quella del padre era essenzialmente di carattere etico. Il buon governo, ossia il
raggiungimento dell’autentico li o tao del governo, dipendeva dalla moralità o dalla sincerità del governante. La
via migliore per raggiungere il li passava, come aveva detto Mencio, attraverso l’influenza del buon esempio
dato dal governante.
Infine, l’ideale burocratico, ossia la consapevolezza che anche il governante eticamente perfetto aveva bisogno
dell’aiuto di un gran numero di funzionari, moralmente ineccepibili, per per esercitare il suo benevolo
paternalismo. Questo ideale venne istituzionalizzato nel servizio amministrativo con il sistema degli esami,
mediante il quale la burocrazia veniva selezionata nel modo più conveniente. Avendo ricevuto una educazione
conforme ai principi classici della giusta condotta e del buon governo, i funzionari-letterati si assumevano la
responsabilità di consigliare il Figlio del Cielo anche a rischio della loro personale incolumità.
Nella filosofia neoconfuciana gli ideali della burocrazia appaiono come elementi marginali; in realtà essi
costituirono l’essenza di tutta l’etica confuciana.

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CAP.7 – LA CINA E I “BARBARI”: L’IMPERO MONGOLO

La partecipazione dei “barbari” allo stato cinese


3 grandi casate regnanti si succedettero al potere nel corso di 3 periodi dinastici: i Yuan (1271-1368), i Ming
(1368-1644) e i Ch’ing (1644-1912).
Sia i Yuan che i Ch’ing furono dinastie non cinesi fondate con la conquista, e in entrambi i casi piccoli gruppi di
“barbari”, mongoli o manciù tungusi, dominarono il Regno del Centro immensamente più popolato.
Indubbiamente essi governarono con l’aiuto dei cinesi e non fecero grandi sforzi per mutarne i modi di vita; per
questo possono quasi essere considerati, specialmente i manciù, come parti integranti dell’ordine politico
cinesi.
I gruppi tribali stanziati al di là della Grande Muraglia si impadronirono del potere con la forza delle armi
dominando tutto l’impero o una parte di esso, ma adottando invariabilmente le istituzioni politiche tradizionali
del Figlio del Cielo e della sua burocrazia. La stabilità dell’ordine politico cinese consiste, almeno in parte, nella
sua capacità di assorbire i non cinesi, quando costoro erano abbastanza forti da dominare l’impero, senza
giungere a un sostanziale mutamento delle sue strutture fondamentali.

La successione dei dominatori stranieri


L’influenza straniera sulla politica cinese andò acquistando con il trascorrere dei secoli una funzione di primo
piano. Le popolazioni dei Chou che sconfissero gli Shang, siano da alcuni ritenute di origine parzialmente
“barbarica”. Successivamente, gli Han avevano fronteggiato i nomadi hsiung-nu, a quel tempo il nemico
principale.
I “barbari” ebbero quindi continuamente una importante funzione nella vita politica cinese, funzione che andò
per di più via via estendendosi, cosicché la conquista mongola non fu che l’apice di un lungo sviluppo. Questa
sempre presente influenza dei “barbari” sulla vita politica cinese si fondò su un fattore essenzialmente
geografico: la netta contrapposizione tra le steppe e le terre coltivate, tra due modi di vita irriducibilmente
diversi, tra due tipi contrastanti di organizzazione sociale che si adattavano alla diversità delle zone
geografiche.
Alla base del contrasto tra il modo di vita cinese e quello “barbarico” vi era anzitutto una differenza nelle
precipitazioni atmosferiche. L’aridità delle steppe dell’Asia centrale, da dove nessun fiume scorre verso il mare,
ha reso impossibile l’agricoltura estensiva. Mancando di adeguate risorse idriche, gli altipiani del Tibet e le
praterie della Mongolia hanno sempre avuto una popolazione molto sparsa. La superficie delle regioni dell’Asia
centrale ammonta al doppio dell’aria della Cina propriamente detta.

La società della steppa


L’economia
Nella società sparsa delle praterie il principale mezzo di sostentamento era rappresentato dall’allevamento del
bestiame. L’economia del nomade puro era basata sull’allevamento e la pastorizia.
Il suo principale sostegno era il cavallo, usato per il trasporto e il pascolo dei greggi, la caccia e la guerra. Al
cavallo si aggiungevano il cammello per attraversare le regioni desertiche e i buoi per trascinare i carri. Ne
risultava una economia fondata sulla pastorizia e che aveva scarso bisogno dell’agricoltura, almeno finché
poteva mantenere un minimo di rapporti commerciali con le zone agricole.
In tal modo, il nomade della steppa era autosufficiente per quanto riguarda i bisogni più elementari, ma non
poteva essere completamente tagliato fuori dalla civiltà delle popolazioni agricole e dei centri commerciali. Egli
viveva oltre le frontiere di questa civiltà, ma restava ad essa collegato mediante il commercio.
La mobilità era un obbligo per i nomadi, e le loro migrazioni avevano un carattere stagionale, e generalmente
avvenivano per trasportare i greggi e le mandrie dai pascoli estivi, sulle pianure aperte, a quelle invernali, in
luoghi più riparati come le valli tra le montagne.
Il capo di un gruppo tribale chiedeva il diritto di compiere un intero ciclo di migrazioni usando certi territori in
determinate stagioni, e aveva scarso interesse per attività sedentarie.
La mancanza di risorse accumulate era per i nomadi di entrambi i tipi un incentivo periodico non soltanto ad
aumentare il volume del commercio ma anche a tentare la via dell’espansione militare. In quest’ultimo caso,

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essi potevano dapprima combattersi tra loro, ma alla fine univano le forze per attaccare le popolazioni
sedentarie, alle quali potevano strappare grandi quantità di cereali e di armi.

La società
L’organizzazione sociale delle tribù fu uno degli elementi della loro forza militare. I clan erano comandati da capi
che dovevano la loro posizione al valore personale. Una volta invecchiati o fisicamente indeboliti, venivano
sostituiti da capi da più ed energici. I rapporti personali di fedeltà e protezione, che si stabilivano
reciprocamente tra capi maggiori e minori come tra singoli guerrieri, davano vita a un tipo di organizzazione
politica nella quale un capo dalla personalità forte poteva raggiungere abbastanza rapidamente il vertice.
I membri di una simile società sapevano fare di tutto perché erano costretti alla specializzazione. Il pastore-
guerriero-cacciatore della steppa doveva essere pronto a ogni evenienza né poteva limitarsi a una singola
attività. Le donne erano addette alla cura e ai lavori dell’accampamento e anch’esse erano in grado di far fronte
a tutti i problemi della vita nomade, fatta eccezione per la guerra e la politica.
Dal momento che le città non potevano prosperare a causa della scarsa popolazione delle praterie dell’Asia
centrale, l’unica ricchezza accumulata era quella costituita dagli ornamenti d’argento portati dalle donne.
La religione di queste tribù era uno sciamanismo primitivo, praticato dagli stregoni. L’unica grande divinità delle
steppe era il Cielo Eterno.

La minaccia dei nomadi


Dopo la caduta degli Han, la Cina non conobbe soltanto la rottura dell’unità interna ma anche un aumento della
forza d’urto dei “barbari”.
La società nomade delle steppe era in costante contatto con la civiltà sedentaria della Cina su una frontiera che
si allungava seguendo approssimativamente il percorso della Grande Muraglia. Questa fascia di confine, dove
l’agricoltore e il pastore si incontravano, fu sempre una zona instabile; le precipitazioni atmosferiche erano
scarse e l’agricoltura andava incontro a disastri periodici. Il continuo commercio con i nomadi, basato
prevalentemente sui cereali, sulla seta e poi sul tè, che venivano ceduti in cambio di cavalli, aprì facilmente la
strada a rapporti di ordine politico. Da una generazione all’altra i seminomadi di questo territorio di frontiera
potevano stanziarsi come vassalli dei cinesi e anche subire un processo di sinizzazione, nel caso che il governo
cinese fosse abbastanza forte. Al contrario, se questo governo si fosse rivelato inefficiente, la popolazione
mista di cinesi e di “barbari” che risiedeva ella zona avrebbe potuto giurare fedeltà a un capo nomade in
ascesa.
Il segreto dell’ascesa di un capo nomade lungo la fascia di confine stava generalmente nella sua capacità di
apprendere i sistemi amministrativi cinesi. I cinesi finivano sempre per contribuire alla ascesa del dominatore
“barbaro” nella zona di frontiera. Talvolta, il loro potere cresceva a tal punto che essi erano in grado di muovere
dalla regione di confine e d penetrare all’interno della Cina costituendo nuove dinastie.

L’impero khitan
La storia dell’impero Liao dei khitan ci fornisce gli elementi essenziali di un dominio “barbarico”. Dal 10 secolo
all’inizio dell’11, questo regime si estese su gran parte della Manciuria e della Mongolia e sui territori
nordorientali della Cina entro la Grande Muraglia. Esso veniva in tal modo a comprendere parecchie zone
economiche: un’area agricola nella Cina del Nord e nella Manciuria meridionale, le praterie dalla Manciuria
occidentale e della Mongolia.
L’impero, aveva il suo centro geografico e amministrativo nella parte settentrionale dell’odierna provincia di
Jehol, a nord di Pechino.
La parte non cinese di questo regno comprendeva parecchi gruppi tribali. Nella Manciuria orientale vi erano i
tungusi, il cui modo di vita era il frutto di una combinazione di caccia, agricoltura e allevamento dei suini. Tra
queste tribù, vi era nel Jehol la popolazione seminomade dei khitan che, per la lingua, apparteneva a quelle che
furono poi chiamate le popolazioni di lingua mongolica.
Erano queste tribù che vivevano nel centro della zona a economia mista, che aprirono la strada alla
costituzione dell’impero.

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La società tribale dei khitan
Ogni gruppo tribale khitan era comandato da un capo che guidava i suoi uomini in guerra. Ciascun gruppo
aveva i propri antenati e i propri miti tribali. Esse si raccoglievano in confederazioni, alcune subordinate ad alte,
che ogni tanto si scioglievano per dar luogo a nuove unità. Il nucleo iniziale di 18 tribù crebbe fino a
raggiungere la cifra totale di 54.
Il prodotto principale dell’economia dei khitan, nella quale si fondevano la pastorizia e l’agricoltura, era il miglio,
il grano dei poveri, ma la maggior attività era rivolta all’allevamento degli ovini.
Dopo la costituzione del semisinizzato impero Liao, avvenuta nel 947, i cavalli vennero impiegati nel servizio
postale imperiale. Con lo sviluppo dell’impero, le poche industrie e la arretrata tecnologia dei “barbari”
cominciarono a uniformarsi ai modelli cinesi.
Al vertice della società khitan stavano il clan Yeh-lu, diviso in 8 stirpi principali, e il clan Hsiao, dal quale i
maschi Yeh-lu sceglievano regolarmente le loro mogli. In questa società vennero incorporate tribù diverse dai
khitan, che erano state conquistate o che si erano sottomesse volontariamente, e fra esse anche gruppi
sedentari cinesi residenti in villaggi e città agricole. La condizione dei cinesi variava dalla schiavitù alla completa
libertà, attraverso varie forme di servitù e di libertà parziale. I funzionari cinesi venivano regolarmente impiegati
nell’amministrazione civile della popolazione cinese.
Nei gradi più bassi della scala sociale stavano le tribù vinte dello stato di P’o-hai (713-926), nella Manciuria
orientale, sottoposte al trattamento più duro.
Diversamente dal sistema cinese, nel quale i clan tendevano a mantenersi indefinitamente attraverso una
discendenza ininterrotta, molti dei clan khitan erano privi di una denominazione propria e finivano per perdere la
loro identità dopo alcune generazioni. Il sistema cinese, al contrario, serviva a dare unità alla casa regnante.

Il costituirsi della potenza dei khitan


Nel 907 i khitan avevano formato una confederazione di tribù simile a quella costituita in passato dai hsiung-nu.
Nello stesso anno, il loro capo, il cui nome ci è noto soltanto nella trascrizione cinese di Yeh-lu A-pao-chi (827-
926), si proclamò imperatore dei khitan. Dopo aver mantenuto il potere per 3 periodi di 3 anni, secondo il
costume nomade di scegliere come capo il guerriero più abile per un limitato periodo di tempo, egli riuscì a
introdurre il sistema cinese della successione e a dare origine a una dinastia attraverso il riconoscimento del
proprio figlio come legittimo erede.
Il problema della successione scatenò dispute tribale, ma, con l’espansione dell’impero, si poté adottare il
sistema cinese della monarchia ereditaria, che costituì una salda base per l’esercizio del potere.
Oltre alla loro capacità di mantenere una forte autorità centrale, i khitan dovevano il loro impero alla forza della
cavalleria, che dava loro una superiorità militare. Essi comprendevano sia i khitan che altri gruppi tribali nomadi
e persino cinesi.
Penetrando nella Cina del Nord, i guerrieri khitan appresero gradualmente a combinare la forza d’urto della loro
cavalleria con le tecniche di assedio contro le città fortificate.

La dinastia Liao
Nel 947 i khitan avevano esteso il loro controllo verso sud, su 16 prefetture della Cina del Nord, occupando
città e centri abitati. Nello stesso anno assunsero un titolo dinastico cinese e cominciarono a chiamarsi dinastia
Liao (947-1125). Come era accaduto ad altre popolazioni “barbariche”, che avevano approfittato con successo
del collasso dell’impero T’ang, essi erano riusciti a dar vita ad uno stato dualistico che comprendeva elementi
“barbarici” del Nord e cinesi.

Il governo
L’amministrazione politica dei Liao fu organizzata sotto 5 capitali: la capitale suprema, nel Jehol
nordoccidentale; la capitale orientale, a Liao-yang. La capitale centrale, nel Jehol meridionale; la capitale
meridionale, Yen-ching; la capitale occidentale, nello Shansi. Ciascuna capitale era al centro di una rete di
unità territoriali gerarchicamente subordinate e disponeva per la propria difesa di un comando militare, di
piazzeforti e di città fortificate. Per controllare le tribù dell’Asia centrale furono anche dislocate guarnigioni lungo
i confini, specialmente a nord e a nordovest.

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In questo stato dualistico, ciascuna delle parti aveva un primo ministro, una cancelleria e vari ministri. I capi di
entrambi i governi risiedevano nella capitale suprema. Il governo della regione meridionale conservò istituzioni
ereditate dai T’ang, come i Sei Ministeri, l’Ufficio dei Censori e le 3 segreterie amministrative o cancellerie.
Uno degli elementi che contribuirono a conservare la coesione di questo stato dualistico fu la trasformazione
della monarchia Liao in una istituzione di governo di tipo cinese. A-pao-chi e i suoi successori adottarono l’uso
cinese di denominare i periodi annui, provvidero alla nomina di un erede legittimo, fecero di Confucio il supremo
saggio dello stato, fecero uso del cinese parlato e scritto come lingua franca dell’amministrazione e
indossarono abiti cinesi nelle regioni meridionali.
Questo processo di sinizzazione non impedì tuttavia ai khitan di conservare l’antica organizzazione tribale, i riti
e, in particolare, l’originario modo di vestire e di alimentarsi. Diversamente dai precedenti invasori “barbarici”,
essi evitarono di proposito l’uso del cinese parlato, temendo di essere sommersi dalla corrente sinizzatrice. La
loro lingua parlata, di tipo mongolico, andò sviluppando due forme di scrittura: la prima, più semplice, basata
sul sistema alfabetico; la seconda, più complessa, modellata sul cinese.
Anche il confucianesimo del khitan fu soltanto una patina superficiale, non una filosofia. Essi diventarono invece
i grandi protettori del buddismo cinese.
Le realizzazioni dei dominatori Liao furono in generale più di carattere militare e amministrativo che culturale.
Inoltre, le norme che regolavano la vita dei cinesi erano diverse da quelle che si applicavano ai khitan. Il
sistema cinese degli esami fu adottato dopo il 988 per determinare la eleggibilità dei candidati cinesi ai vari
gradi dell’amministrazione. Il governo adottò anche l’uso cinese dell’acquisto dei titoli ufficiali (che dava il diritto
a ricoprire l’incarico relativo) e il sistema che dava ai funzionari la prerogativa di far ammettere
nell’amministrazione i propri figli o protetti, rendendosi garanti del loro operato.

I rapporti con i Sung


Poiché costituivano soltanto 1/5 della popolazione dell’impero, i dominatori khitan dovettero impegnarsi a fondo
per conservare il controllo della società.
Dopo la sua crescita e il suo definitivo costituirsi, nel 947, in dinastia di tipo cinese, lo stato dei Liao entrò in
conflitto a sud con la nascente dinastia Sung, fondata nel 960. In realtà, le incursioni “barbariche”
rappresentarono un elemento di stimolo per l’unità cinese; il primo imperatore Sung era riuscito a raggiungere
una posizione di forza proprio come comandante degli eserciti inviati ad arrestare le invasioni dei khitan. Negli
anni dal 979 al 1004 fu combattuta, sebbene con interruzioni, una guerra di confine tra i Liao e i Sung, che si
concluse con un trattato che imponeva ai Sung il pagamento di un regolare tributo a partire dal 1005.
I cinesi non considerarono mai il pagamento di queste somme come un atto formale di sottomissione ai Liao,
ma piuttosto come un mezzo per assicurarsi la tranquillità delle frontiere. I Sung, per aumentare la propria forza
difensiva, cercarono di creare una cavalleria efficiente e per questo comprarono nel 979 dai khitan i cavalli.
Provvidero inoltre a difendere le frontiere occupando i passi di montagna, mentre delimitarono il confine in
pianura piantando filari di olmi e di salici, scavando canali e fossati o stazionando guarnigioni. La conquista
delle città murate cinesi si rivelò peri khitan un’impresa ardua e, nel complesso, il più vasto impero Sung riuscì a
frenare gli invasori Liao.
La fedeltà della popolazione cinese fu sempre incostante, mentre le altre tribù “barbariche” dell’impero
dovettero essere mantenute continuamente sotto controllo. Alla fine, fu un altro gruppo tribale, quello dei
jurched, a distruggere la potenza dei Liao e a conquistarne l’impero estendendone i confini.

Il regno di Hsi Hsia


Come si è detto, una delle ragioni che forse permisero alla dinastia Sung di resistere ai Liao fu la tripartizione
del potere che in questo periodo si era andata delineando nel Nord Ovest. Una popolazione tibetana, i tangut,
aveva costituito nella zona dell’odierno Kangsu un regno noto col nome di Hsi Hsia.
Dopo aver pagato per molti anni un tributo ai Sung, nel 1038 il sovrano dei tangut, Li Yuan-hao, si dichiarò
indipendente proclamandosi imperatore dei Hsia, e durante buona parte del secolo 11 il suo regno ebbe un
posto di rilievo nelle relazioni tra i Liao e i Sung.

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I tangut modellarono il loro governo e il loro sistema educativo sull’esempio cinese, ma subirono in misura
maggiore l’attrazione del buddismo, che era fiorente nei monasteri lungo l’antica via verso occidente, e ne
fecero la loro religione di stato.

La dinastia Chin dei jurched


Sebbene per molti aspetti simili ai khitan, i jurched si distinguevano da questi per la lingua, poiché
appartenevano al gruppo tunguso più che a quello mongolico delle popolazioni altaiche.
Finchè le tribù jurched furono costrette a pagare il tributo ai Liao e fu loro impedito di scendere nella più
ospitale zona meridionale della Manciuria, esse restarono dei vassalli indocili dei khitan. Naturalmente, l’ascesa
dei jurched dipendeva anzitutto dalla unificazione delle tribù, e quindi da un capo di grande rilievo; il nome di
quest’uomo è noto nella trascrizione cinese, A-ku-ta. Quando, nel 1112, l’ultimo e interro imperatore Liao
compì la sua solita visita nelle regioni nella Manciuria settentrionale, per la caccia e la pesca, ricevette il tributo
dei capi jurched e, durante un banchetto, ordinò loro di esibirsi nelle danze tradizionali. A-ku-ta si rifiutò di
obbedire e poco dopo si ribellò proclamandosi imperatore nel 1115.
Il potere dei Liao crollò e sulle sue rovine A-ku-ta fondò, nel 1122, la dinastia (1122-1234) Chin (“Dorata”), dal
nome del fiume che bagnava la terra d’origine del suo popolo.
Alla rapida disfatta dei Liao contribuì la malaccorta politica dei Sung, “Servirsi dei barbari contro i barbari”. Nel
1120, infatti, essi avevano contratto un’alleanza con i jurched contro i Liao con la promessa di vrsare la somma
annua in argento e seta al nuovo stato jurched. Ma dopo l’estinzione della dinastia Liao, avvenuta nel 1125, la
potenza dei jurched andò via via accrescendosi. In breve, essi occuparono nella Cina del Nord una zona molto
più vasta di quella già controllata dai Liao; nel 1126 si impadronirono di Kaifeng, la capitale Sung. Finalmente,
fu stabilità con i Sung meridionali una linea di confine che coincideva approssimativamente con il corso del
fiume Huai. L’espansione dei jurched continuò verso nordovest fino alle frontiere del regno Hsi Hsia, che finì per
riconoscersi vassallo, come a oriente fece la Corea.

Il governo sotto i Chin


L’impero Chin non fu, come quello dei Liao, confinato ai territori settentrionali, ma controllò una parte molto
maggiore del Regno del Centro e della sua popolazione.
Al momento della conquista, i jurched avevano appena cominciato ad apprendere le tecniche di governo
necessarie a conservare il potere sulla scena cinese. Ereditarono la duplice amministrazione e la cultura irida
che i sovrani khitan avevano sviluppato e furono inevitabilmente spinti a uniformarsi ancora di più al modello
cinese. Dopo aver trasferito la loro capitale principale dalla Manciuria centrale a Yen-ching, costituirono ben
presto uno stato di tipo cinese, centralizzato e burocratico.
I jurched furono fin dall’inizio pienamente consapevoli della loro individualità tecnica. Come i khitan e i tangut,
essi cercarono di mantenere il loro dominio sulla massa dei sudditi cinesi conservando nello stesso tempo la
loro cultura contro la tradizione imperiale ereditata dai T’ang.
La struttura militare dei Chin rappresenta un progresso notevole rispetto ai discontinui arruolamenti dei Sung;
poiché i jurched, come del resto i khitan e altre tribù non cinesi, dovevano essere sempre pronti a scendere in
guerra, ogni loro quotidiana attività era a ciò subordinata.
Ma inevitabilmente i guerrieri che avevano costituito in origine il fondamento della nazione in armi dei jurched,
una volta stabiliti come agricoltori sul territorio cinese, cominciarono a perdere le loro qualità militari. Sebbene
questi gruppi tribali trapiantati non subissero un completo processo di sinizzazione, essi non poterono,
malgrado la politica di protezione attuata a loro favore dai sovrani, continuare a restare dei puri guerrieri,
separati dalla vita cinese che ferveva loro intorno.
Un trattato di pace con i Sung meridionali, stipulato nel 1141, confermò la signoria formale dei Chin, ai quali i
Sung continuarono a pagare il tributo. Il trattato servì inoltre a stabilire dei rapporti più o meno regolare tra i due
stati e contribuì al proseguimento di una attività commerciale su vasta scala tra le due zone. Mentre i nobili
jurched intrigavano a corte frazionandosi in lotte di successione, i sudditi cinesi sviluppavano la loro forza
creativa in occupazioni più pacifiche, come la stampa, la ricerca erudita, la pittura, la letteratura e l’arte
drammatica.

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Ciò che si deve comunque notare è che gli stessi sovrani Chin subirono notevolmente il fascino della grande
cultura dei loro sudditi cinesi, e cominciarono quindi a seguire le norme confuciane, a studiare i classici e a
cimentarsi con la poesia cinese.
Dopo un periodo relativamente pacifico e costruttivo (1161-1189), i Chin finirono per essere coinvolti in guerre
estenuanti, combattute su due fronti, contro i mongoli e i Sung meridionali.
Nel 1215, sotto la pressione dei mongoli, i Chin furono costretti a trasferire la capitale più a sud, da Pechino a
Kaifeng, dove i mongoli distrussero la dinastia nel 1234.

I mongoli
Modelli della conquista “barbarica”
Al tempo dell’invasione mongola, la Cina del Nord aveva quindi già conosciuta tutta una serie di conquistatori
nomadi, e alcuni dei tratti caratteristici delle dinastie stabilite con la conquista erano quindi già evidenti.
1. Gli invasori riuscirono di solito a impadronirsi del potere nella Cina del Nord in periodi di disordine,
quando il declino della precedente dinastia permetteva ai cavalieri nomadi di stabilirsi come
conquistatori su determinati territori.
2. Orgnaizzando il loro sforzo aggressivo, i “barbari” arruolarono immancabilmente consiglieri e guide
cinesi, che riuscivano a reclutare con maggiore dacilità tra le popolazioni della fascia di confine. Nello
stesso modo, forze armate cinesi venivano assorbite tra le corde degli invasori.
3. La superiore forza militare dei “barbari” spesso si espresse con la cavalleria, dotata di un maggior
numero di cavalli di qualità migliore
4. Non appena acquistato il controllo dei territori rurali cinesi, gli invasori adottarono spesso una politica di
tolleranza nei confronti dei notabili locali. La collaborazione dei capi cinesi veniva richiesta per
accrescere il numero dei collettori delle imposte e degli amministratori scelti tra l’elemento cinese.
5. Gli invasori dovettero riconoscere l’impossibilità di imporre immediatamente la propria cultura, cosa
resa del resto più difficile dalla loro grande inferiorità numerica. Essi fecero quindi uso delle istituzioni di
governo cinesi e, dopo un iniziale periodo nel quale si manifestava la loro potenza distruttiva, finirono
per ridare continuità alle forme tradizionali di amministrazione e di vita sociale e culturale.
6. Gli invasori considerarono più saggio conservarsi una patria nei loro territori d’origine oltre la Muraglia.
In questo modo i Liao divisero la regione sottoposta al loro controllo in due zone, la prima entro i confini
della Cina, la seconda al di là della Muraglia, dove la cultura e il modo di vita dei “barbari” potevano
essere più facilmente conservati. In questo modo essi tentarono di difendere la loro individualità etnica e
di evitare l’assorbimento.
7. Il mantenimento dei metodi di governo cinesi coincise con lo stabilirsi di una amministrazione duplice
sino-“barbarica” entro la Muraglia, diretta, almeno a livello locale, in gran parte da cinesi ma sotto il
controllo di conquistatori stranieri.
8. Gli invasori trovarono utile impiegare altri stranieri nella amministrazione.
9. Una volta consolidata la conquista, il compito successivo dei “barbari” era quello di conservare il
controllo della situazione mantenendo una forza militare di riserva. Si dovette quindi provvedere
all’organizzazione di una milizia territoriale, nella quale potevano arruolarsi anche i sudditi cinesi, ma
che rappresentava l’autorità della dinastia straniera.
10. Nello stesso tempo, le dinastie di conquista adottarono verso i gruppi tribali che vivevano nelle steppe
dell’Asia centrale una politica tipica, fondata sul principio del “divide et impera”, che consisteva
nell’aizzare una tribù contro l’altra per proteggersi le spalle e per prevenire il sorgere in quella zona di
eventuali rivali.
11. A lungo andare, per gli invasori fu sempre difficile conservare la propria identità etnica e culturale,
sottoposti alla pressione numerica dei sudditi cinesi; così essi cominciavano con l’assimilare elementi
culturali cinesi, come l’alimentazione, il modo di vestire, i nomi e la lingua.

La conseguenza era generalmente il declino della forza militare e, alla fine, l’assorbimento o l’espulsione da
parte dell’elemento cinese o di qualche nuovo gruppo invasore. Furono questi i tratti caratteristici delle invasioni
“barbariche”; essi si manifestarono durante il periodo della conquista mongola.

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Il sorgere della potenza mongola
Ogni società di pastori, come quella dei mongoli, che erano nomadi, era destinata a soffrire di una cronica
instabilità economica. La mancanza di autosufficienza era un incentivo costante alla penetrazione, per
l’approvvigionamento, nelle zone abitate da popolazioni sedentarie. Inoltre, nella tecnologia militare del tempo,
la cavalleria era diventata l’arma principale, ed era un mezzo di conquista pronto nelle mani dei mongoli. Per
catalizzare tutti questi elementi era necessaria una centralizzazione dinamica dell’autorità politica tra le tribù
della steppa sotto la guida di un capo geniale.
Da un secolo la Cina era divisa tra la dinastia sino-barbarica dei Chin e i poco bellicosi Sung meridionali. Alla
frontiera nordoccidentale della Cina, nell’odierno Kansu, si era stabilito il regno Hsi Hsia dei tangut. Più a
occidente, i turchi uighur si erano insediati nei piccoli stati, intorno alle oasi dell’Asia centrale.
Anche la società arabo-turba del Medio Oriente stava attraversando un periodo di decadenza militare. Contro
questi stati rurali e mercantili, i mongoli scagliarono una forza militare invincibile. Essi erano ormai organizzati
per la conquista e riuscirono sia a sottomettere che ad amministrare territori vastissimi.

La società mongola
Quando nacque Genghiz khan, il creatore dell’impero mongolo, intorno all’anno 1167, le tribù di lingua
mongolica non avevano ancora un nome comune. Alcune erano formate di cacciatori e pescatori che vivevano
in piccoli gruppi ai margini delle foreste della Siberia. Tuttavia, già da tempo la maggior parte delle popolazioni
mongole aveva imparato a vivere a cavallo nella steppa aperta, dove si raccoglievano in piccoli gruppi di poche
famiglie.
Le principali unità politiche e sociali erano costituite dai clan patriarcali. La vita spirituale di ogni membro era
focalizzata sul senso di lealtà al clan. Poiché un insieme di clan, unito da vincoli di sangue, costituiva una unità
più vasta, quella della tribù, l’individuo era tenuto a una analoga lealtà verso il complesso tribale. All’interno di
questa struttura, un mongolo poteva decidere di diventare “fratello giurato” di un altro mediante un patto
personale tra i due nella loro qualità di membri di clan diversi.
Uno dei risultati di questa lotta tribale era che gruppi di famiglie appartenenti a un clan potevano diventare
vassalli di altri clan. Sul piano personale, lo sconfitto poteva diventare servo o “schiavo” del più forte, sebbene i
due continuassero a vivere nello stesso modo. Una gerarchia di tipo feudale, fondata su rapporti di fedeltà, si
era andata così sviluppando tra i mongoli al punto che un uomo dalla personalità particolarmente forte poteva
acquistare una posizione di assoluto predominio.

L’ascesa di Genghiz khan


L’impero creato da Genghiz khan fu quindi il primo rande impero mongolo. Genghiz khan fa la sua comparsa
nella storia anzitutto come organizzatore e unificatore delle tribù mongole.
La sua ascesa fu molto lenta: negli anni della maturità era infatti ancora vassallo di un capo minore. Lo stabilirsi
di legami di lealtà personale risultava da un processo graduale, poiché tra i nomadi doveva in parte fondarsi sul
consenso. Prima di potersi costituire un seguito personale, Temujin dovette impadronirsi della complicata arte
della politica tribale, cosa che richiedeva una produttiva mescolanza di lealtà, emulazione, astuzia, perfidia e
prestanza fisica. Ribellatosi al suo signore, egli sottomise le tribù. Infine, al grande raduno delle tribù mongole, il
khuriltai del 1206, gli venne riconosciuto il titolo di Genghiz khan, “signore universale”, tutti i capi delle tribù e
dei clan mongoli riconobbero la sua supremazia.
Genghiz khan, per assicurarsi un riconoscimento religioso, egli si proclamò investito di una missione divina
conferitagli dal Cielo Eterno, la divinità della steppa. La struttura politica che egli edificò era basata sul principio
familiare: le famiglie formavano i clan, i clan le tribù, le tribù si raggruppavano in unità più vaste e queste ultime
formavano un impero.
Come permanente base di governo egli promulgò un codice imperiale (yasa) al quale doveva sottostare lo
stesso khan e che rappresentò per il suo popolo l’ordine supremo.
Il Grande Yasa fu promulgato nel 1206 e ulteriormente sviluppato durante il successivo ventennio, fino alla
morte di Genghiz avvenuta nel 1227. Esso fu venerato dai discendenti di Genghiz come il frutto della saggezza,

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di ispirazione divina, del fondatore dell’impero. Grazie a questo codice imperiale, l’influenza di Genghiz khan si
estese e durò per generazioni.

La macchina bellica dei mongoli


L’organizzazione militare era naturalmente il segreto principale del successo mongolo. La guardia del corpo di
Genghiz era formata, fin dal 1203, da uomini che vigilavano giorno e notte intorno alla sua tenda. I membri di
questo corpo erano mantenuti sotto una stretta disciplina, venivano severamente puniti se non adempivano
prontamente ai loro doveri ed erano costretti ad un servizio di guardia della durata di 3 giorni. In cambio
godevano di molti privilegi e di un’alta condizione sociale.
Da questo gruppo scelto che si potrebbe paragonare alle moderne accademie ufficiali o ai corpi di
addestramento, Genghiz sceglieva i suoi generali e i suoi alti amministratori, alcuni all’età di 20 anni. Sotto il
loro comando l’esercito veniva organizzato in base a un sistema decimale, mescolando tra loro i membri di clan
diversi.
Il suo successo si spiega anzitutto con le capacità dei suoi guerrieri e la perfetta intesa esistente tra loro. I
cavalieri mongoli erano abituati a stare in sella fin dalla fanciullezza e i ragazzi venivano infatti impiegati come
cacciatori o esploratori. Combattevano agli ordini di capi aristocratici, che si trasmettevano il comando per
eredità e che sottoponevano il gruppo al loro personale controllo mantenendovi la disciplina.
In battaglia, i mongoli usavano colonne di cavalleria, rapidissime negli spostamenti, che cercavano di
circondare e di chiudere le forze nemiche. Erano armati sia di archi leggeri che pesanti.
I mongoli erano anche maestri nello spionaggio e nella guerra psicologica. Tra i mercanti che percorrevano le
vie commerciali le spie erano sempre a portata di mano, cosicché i mongoli avevano poche difficoltà
nell’apprendere le notizie necessarie sulle loro vittime. Passando intere città a fil di spada, essi spargevano
davanti a sé il terrore, che in se stesso era già un’arma.
Sfruttando questo terrorismo, i mongoli facevano anche belle promesse di tolleranza alle minoranze religiose e
di libertà ai mercanti e agli oppressi, a patto che si arrendessero immediatamente.

Le conquiste di Genghiz
Genghiz khan sottomise i Hsi Hsia tra il 1205 e il 1209 e il loro regno venne infine distrutto nel 1227. Nella sua
prima campagna contro l’impero Chin della Cina del Nord, nel 1211-1215, non solo egli distrusse la loro
capitale, ma si assicurò anche i servigi di alcuni cinesi che sapevano come assediare le città e di altri che
avevano imparato a governarle. Il più famoso tra questi esperti dell’amministrazione di tipo cinese fu un
discendente della famiglia reale khitan, Yeh-lu Ch’u-ts’ai (1190-1244) che insegnò ai mongoli come tassare i
contadini, i mercanti, gli artigiani.
Genghiz era volto intanto verso occidente, sottomettendo i Liao occidentali. Inoltre, tribù turche vennero
incorporate nelle orde mongole. Così Genghiz khan, prima della sua morte nel 1227, gettò le fondamenta di un
grande impero eurasiatico conquistando nell’Asia centrale la sua zona base.

La conquista dell’impero Sung meridionale


L’occupazione della Cina fu un processo relativamente lento. Richieste, infatti, più di una generazione, fino al
1279.
Favoriti dalle caratteristiche del terreno, arido e aperto, della Cina del Nord, nel 1223 gli invasori avevano quasi
completamente spinto i Chin a sud del Fiume Giallo. Dopo l’estinzione della dinastia Chin nel 1234, l’incertezza
dei capi mongoli ritardò di un decennio (1241-1251) l’attacco contro il resto della Cina, ma la ripresa della
guerra era soltanto questione di tempo, poiché l’impero Sung meridionale esercitava una attrazione irresistibile.
I Sung meridionali, immemori della catastrofe che si era abbattuta sul regno di Hui Tsung per avere quest’ultimo
aiutato la nuova potenza jurched a battere i Liao ormai sinizzati e indeboliti, ripeterono lo stesso errore
schierandosi con i mongoli contro i Chin. In tal modo contribuirono a rimuovere la barriera protettiva che li
separava da quelli che divennero i loro conquistatori. Ma l’occupazione della Cina del Sud non era
un’operazione facile anche per gli invincibili mongoli. Furono necessari parecchi decenni di guerre intermittenti
ma combattute su vasta scala. Questa è la prova migliore della forza dei Sung meridionali. Sebbene l’impero
Sung fosse retto da una dinastia considerata debole, la conquista della Cina del Sud si rivelò per i mongoli

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molto più difficile di quella degli imperi dell’Asia occidentale, che erano 2 o 3 volte più lontani dal centro della
potenza mongola.
I mongoli dovettero stringere d’assedio le città gemelle di Hsiang-yang (1268-1271). La polvere da sparo era
usata da gran tempo per bombe esplosive. L’arte della guerra si andava così evolvendo, a opera dei mongoli,
verso la nuova età delle armi da fuoco, che avrebbe posto fine all’epoca della supremazia militare dei nomadi.
Gli invasori avevano comunque già aggirato i Sung meridionali a ovest. Nel 1253, erano infatti penetrati nel
regno non-cinese di Nanchao, conquistandolo ed occupando la capitale. In seguito a questa conquista lo
Yunnan divenne per la prima volta parte integrante della Cina; nella Cina del Sud penetrarono, provenienti
dall’Asia centrale, amministratori musulmani e, al loro seguito, la religione islamica, che ebbe poi sempre in
questa zona una salda base; infine, le popolazioni thai di Nan-chao cominciarono il loro esodo verso sud che
portò, nel 1351, alla fondazione dello stato del Siam.
La conquista dell’impero Sung meridionale fu infine portata a termine sotto la guida del più abile dei nipoti di
Genghiz khan, Qubilay (1215-1294), che divenne Gran khan nel 1260 e regnò per 34 anni. Fece di Pechino la
capitale invernale e concentrò la sua attenzione sulla Cina. Nel 1276, le sue truppe discesero lungo lo Yangtzze
e si impadronirono di Hangchow, la capitale dei Sung. Più tardi occuparono Canton e a sudovest di questa città
distrussero nel 1279 i resti della grande flotta dei Sung, eliminando l’ultimo pretendente al trono dei Sung.
Intanto, nel 1271, Qubilay aveva già assunto il nome dinastico cinese di Yuan, che significa “Il principio primo”
o “L’origine”, imponendo quindi per la prima volta a una grande dinastia un nome non derivato da una località o
da una regione. A Genghiz fu attribuito il titolo postumo di T’ai Tsu (“Grande Progenitore”), come era stato fatto
per i fondatori delle case reali Liao e Chin. Qubilay divenne quindi un imperatore di tipo cinese e viene
annoverato negli annali cinesi col titolo postumo di Shih Tsu (“Progenitore Rigenerante”).

Il dominio mongolo in Cina


Per conquistare la Cina del Sud i mongoli dovettero combattere appiedati, manovrare tra le risaie e i corsi
d’acqua, reclutare collaboratori cinesi, trattare con dense popolazioni sedentarie e far fronte a tutta una serie di
nuovi problemi.

La struttura amministrativa
Gli immediati successori di Genghiz khan, dopo aver distrutto lo stato dei Chin, ne suddivisero il territorio e la
popolazione tra i conquistatori secondo il costume nomade. Soltanto gradualmente essi si resero conto che gli
abitanti dei villaggi cinesi conquistati, i mercanti e gli artigiani delle città non potevano essere incorporati nella
società tribale mongola e che si doveva costituire uno stato burocratico.
Yeh-lu Ch’u-ts’ai fu il primo ministro nei territori conquistati della Cina del Nord dopo il 1230. Egli istituì scuole e
bandì esami per ammettere i cinesi nella burocrazia, e questa politica fu continuata dai suoi successori.
La dinastia Yuan riprese la struttura amministrativa dei T’ang e dei Sung, in particolare la ripartizione delle
attività governative sotto la direzione dei 6 Ministeri nella capitale. Durante i 1300 intercorsi tra i primi T’ang e il
1906, questa struttura fondamentale rimase inalterata.
La Cancelleria centrale che costituiva il vertice dell’amministrazione civile fu affiancata dall’Ufficio per gli affari
militari, ereditato dai Sung e dall’Ufficio dei Censori.
Così, i Yuan accolsero e continuarono il principio della ripartizione del governo centrale nei rami civile, militare e
di controllo.
Più importanti furono le innovazioni introdotte dai mongoli dell’amministrazione provinciale. Come conquistatori
essi seguirono l’esempio dei Chin e posero i governi provinciali alle dipendenze dirette della Cancelleria
centrale.

I rapporti mongoli-cinesi
I conquistatori mongoli, come accadde in seguito ad altri conquistatori, ebbero ad affrontare il problema di
governare l’impero alla maniera cinese conservando nello stesso tempo il monopolio del potere. Le masse
cinesi non potevano essere soltanto oppresse con la forza; bisognava piuttosto convincerle ad accettare il
dominio straniero e collaborare con esso. A tale scopo una dinastia di conquista doveva rispettare certe
condizioni; ossia, mantenere l’ordine locale per mezzo di un vigoroso potere centrale, dare ai cinesi di talento la

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possibilità di farsi strada nella vita politica mediante la carriera burocratica, guidare la classe dei letterati-
burocrati incoraggiando in ogni località l’ideologia e la cultura della tradizione confuciana, garantire una
adeguata posizione economica ai grandi proprietari terrieri e ai contadini.
I mongoli non erano adeguatamente preparati a svolgere questi molteplici compiti. Il successo che essi
ottennero all’inizio del periodo Yuan deve pertanto essere in gran parte attribuito alla grande personalità di
Qubilay e all’uso che egli fece dei principi confuciani, nonché all’abilità dei suoi collaboratori nell’applicarli. Lo
stesso Qubilay si familiarizzò con gli usi cinesi e il suo più grande merio è soprattutto di ordine intellettuale,
ossia l’aver assimilato e applicato la filosofia confuciana del governo universale sotto il Figlio del Cielo.
Non era difficile per gli invasori conservare la propria identità in Cina, specialmente se si consdiera, nel caso dei
mongoli, la grande diversità delle istituzioni sociali, delle leggi e degli interessi religiosi. Inoltre, a differenza della
dinastia Wei settentrionale, i tratti non cinesi dei mongoli si andarono costantemente rafforzando attraverso i
contatti con una vasta zona che si stendeva oltre i confini della Cina e comprendeva la loro terra d’origine. Essi
furono inoltre i soli veri nomadi tra i fondatori di dinastie di conquista. La frattura esistente tra mongoli e cinesi
fu perciò all’inizio più profonda sul piano culturale e si perpetuò poi su quello politico.
Di conseguenza, i mongoli della Cina si distinguevano nettamente dai loro sudditi, non soltanto per la lingua e i
costumi, ma anche per la foggia degli abiti, giacché essi continuarono a preferire il cuoio e le pelli dei cavalieri
della steppa.
Il loro codice morale, diverso da quello cinese, dava alla donna una libertà maggiore, che i cinesi ritenevano
immorale; per esempio, mancando di figli maschi, anche le femmine potevano ereditare.
A rendere ancora più completa la separazione tra conquistatori e conquistati si aggiunse la difficoltà di
reclutare gli intellettuali della Cina del Sud nella burocrazia Yuan, soprattutto a causa del disprezzo che essi
nutrivano dal tempo dei Sung per i “barbari” devastatori. Una sopravvivenza di questo stato d’animo si ritrova
nei cronisti cinesi delle età posteriori, che hanno sempre avuto l’ultima parola sui loro conquistatori e hanno
descritto i mongoli come selvaggi primitivi, capaci soltanto di distruzione e di eccessi, come grandi bevitori,
superstiziosi e abbrutiti. Nel 13° secolo, i cinesi si sentirono oltraggiati dal comportamento dei mongoli nella
Cina del Sud. La brutalità della conquista lasciò uno strascico di sospetti reciproci e di cattiva volontà.
Di fronte alle ostilità della popolazione locale, i mongoli, in Cina come negli altri territori conquistati, ricorsero ai
servigi degli stranieri, in particolare dei musulmani dell’Asia centrale e occidentale, impiegati in una specie di
amministrazione civile internazionale. Questo fu possibile grazie al gran numero degli stranieri che giunsero in
Cina in questo periodo.
Adottando la tattica del “divide et impera”, i mongoli costituirono una gerarchia sociale entro la quale essi
rappresentavano la classe superiore e i loro collaboratori non cinesi quella immediatamente subordinata;
seguivano i cinesi del Nord (chiamati “gli uomini di Han”) che erano stati i primi ad arrendersi con l’impero Chin.
Infine, nel grado più basso, gli abitanti del sud (chiamati “meridionali”), che erano i più numerosi.
La classe dominante mongola rimase inoltre rigidamente separata dalla popolazione cinese, evitando
l’assimilazione. I sistemi legislativi che regolavano la vita dei cinesi, dei mongoli e anche dei collaboratori
musulmani non erano gli stessi. Il Gran khan fissò la sua residenza estiva a Shang-tu, a nord della Muraglia,
nella Mongolia Esterna. Egli riuscì a conservare il suo potere più con la forza che con il consenso, e il risultato
fu l’evoluzione del sistema imperiale della tradizione cinese in un dominio straniero estremamente centralizzato
e spietatamente dispotico. L’influenza “barbarica” sul sistema statale cinese, trasmessa da successive dinastie
di conquista, aveva ormai raggiunto il suo più alto grado. L’influenza “barbarica” sul sistema statale cinese,
trasmessa da successive dinastie di conquista, aveva ormai raggiunto il suo più alto grado. Tale influenza
sembra essere stata caratterizzata dalla maggiore importanza attribuita all’elemento militare, da una più grande
enfasi sull’ortodossia e da una minore tolleranza per ogni manifestazione critica.

La vita sotto la dinastia Yuan


La politica amministrativa dei mongoli continuò a essere ostacolata dai letterati cinesi, malgrado le iniziative
imperiali dirette a ottenerne il favore. Appena salito al trono, Qubilay prese a proteggere i templi confuciani e
ordinò la immediata ripresa del culto statale di Confucio. Più tardi esentò dalle imposte i letterati confuciani. Egli
svolse inoltre la funzione, propria dell’imperatore, di incoraggiamento dell’agricoltura, e promosse le opere

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pubbliche, compresi i granai e l’assistenza agli orfani, ai vecchi, ai malati e ai poveri. Ma si trattava di attività
tradizionali che rimasero sempre superficiali.
Quanto al problema più importante, quello del reclutamento del personale per i servizi di governo, Qubilay non
riuscì a ottenere l’appoggio degli intellettuali della Cina del Sud. Il sistema competitivo degli esami aveva
cessato di funzionare nella Cina del Nord dopo il 1237 e nella Cina del Sud dopo il 1274. Fu ripreso soltanto nel
1315, ma ai meridionali veniva assegnato un testo molto più difficile di quelli per i Cinesi del Nord.

Gli sviluppi religiosi


La resistenza opposta dalla classe degli intellettuali era anche dovuta al fatto che i conquistatori accoglievano e
proteggevano le religioni straniere. Molti mongoli avevano abbracciato l’islamismo. In Cina essi seguirono una
politica di tolleranza religiosa. gli stabilimenti religiosi taoisti, buddisti, nestoriani e islamici furono esentati dal
pagamento delle imposte come i templi confuciani, e il clero acquistò diritti sulla terra del luogo nonché
vantaggi economici.
Nel corso dei periodi Chin e Yuan molti nuovi monasteri taoisti sorsero nella Cina del Nord, mentre la vecchia e
ormai stabilita setta del taoismo fiorì, sotto la protezione imperiale, specialmente nella valle dello Yangtze.
Anche il buddismo Ch’an (Zen), dal quale il taoismo continuò ad attingere vari elementi, fu protetto
dall’imperatore. Si assistette in tal modo alla ripresa di vecchie religioni, mentre ricevevano ogni appoggio le
nuove, come l’islamismo e il cristianesimo. Naturalmente, questa crescita delle varie religioni coincise con una
sensibile decadenza delle dottrine neoconfuciane che avevano dominato il periodo dei Sung meridionali.
Dal canto loro, i mongoli, superstiziosi e incolti nella loro tradizione sciamanistica, erano più propensi ad
accogliere la negromanzia tibetana e ad assorbire la degradata forma di buddismo che si era sviluppata nel
Tibet, ossia il lamaismo.
La protezione e i cospicui aiuti finanziari offerti a un culto religioso non potevano certo, agli occhi della classe
colta confuciana, essere controbilanciati dalle iniziative imperiali per rimettere in onore il rituale confuciano. Per
di più l’imperatore non aveva né una linea politica né una burocrazia in grado di svolgere un’opera di patrocinio
dell’arte, della letteratura e del pensiero cinesi. Invece di adempiere alla funzione, propria della classe
dominante, di guida della società cinese, i mongoli mantennero un regime cosmopolita, nel quale alla
burocrazia cinese era riservata una sfera d’azione assai limitata.

La situazione economica
D’altro lato, nell’assicurare alle popolazioni i mezzi di sussistenza, Qubilay ebbe qualche temporaneo successo.
I latifondisti del tempo dei Sung meridionali non vennero espropriati e per questo essi non opposero
generalmente resistenza al mutamento del potere centrale. Il sistema di tassazione della terra e del lavoro
venne sviluppato, insieme agli usuali monopoli governativi. Il ritorno della pace inaugurò un periodo di attività
commerciali e di relativa prosperità, agevolato non soltanto dal ristabilimento dell’ordine e dalla ripresa dei
lavori pubblici, ma anche da contatti commerciali su vasta scala con il resto dell’Asia. Il commercio con l’estero
si svolse principalmente per iniziativa di mercanti musulmani originari dell’Asia centrale. I loro gruppi corporativi
non erano semplici associazioni di mestiere e finirono per svolgere anche la funzione di collettori delle imposte
per conto dei padroni mongoli. Grazie a questa attività, svolta con l’appoggio del governo, le “compagnie”
mercantili, all’interno delle quali ogni membro era garante delle operazioni degli altri, ebbero una funzione
fondamentale nel raccogliere il surplus agricolo dell’impero Yuan incanalando una parte di questo capitale
accumulato verso le attività commerciali in espansione. Appoggiando i conquistatori, i mercanti musulmani
ebbero inoltre la loro parte nei gravi episodi di confusione e di corruzione che accompagnarono il dominio dei
mongoli.
Il commercio venne sostenuto da larghe emissioni locali di cartamoneta, più tardi sostituite da un sistema
monetario unificato su scala nazionale. I mongoli fecero uso di biglietti standardizzati che circolarono non
soltanto in Cina, ma anche in Corea, nell’Asia centrale e in parte dell’Asia sudorientale. Per un certo periodo il
governo Yuan accettò anche cartamoneta in pagamento delle tasse. In tal modo questa innovazione dei Sung
conobbe il suo più alto grado di sviluppo nella Cina tradizionale. Marco Polo, proveniente da un’Europa molto
meno avanzata politicamente, rimase colpito dall’uso della carta come mezzo di pagamento e ne parlò più
volte.

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Il commercio fra il Nord e il Sud della Cina fu anche stimolato dalla crescita della nuova capitale. Qubilay, aveva
spostato la residenza del Gran khan a Pechino, dove l’entrata principale della Muraglia sbocca direttamente
sulla Grande Pianura.
I mongoli chiamarono questa loro città la “grande capitale”, Daidu.
La città comprendeva un palazzo, circondato da una doppia cinta di mura, con annessi parchi, tesorerie, un
lago artificiale e un’enorme collina formata dai detriti dell’escavazione del lago.
Per nutrire la popolazione in aumento nella nuova capitale, era necessario trasportare cereali. I Yuan
inaugurarono un servizio di trasporti marittimi intorno alle coste dello Shantung e svilupparono il sistema idrico
interno, come avevano dovuto fare i Sung settentrionali per rifornire la loro capitale, Kaifeng. Un grande
progetto venne posto in opera ma alla fine dovette essere abbandonato. Il problema dei rifornimenti alla
capitale fu infine risolto estendendo il sistema del Grande Canale a nord, dal Fiume Giallo fino a Pechino.
Alla fine dei lavori, sugli argini di pietra del Grande Canale, correva da Hangchow a Pechino una strada
pavimentata per percorrere la quale erano necessari 40 giorni.

Il declino della dinastia


Il nipote di Qubilay, Temur, che gli successe nel 1294, riuscì a mantenere salda l’amministrazione centrale ma
dopo la sua morte, nel 1307, il dominio mongolo in Cina andò rapidamente declinando. Nei 26 anni successivi,
7 sovrani sedettero sul trono del Gran khan, ma nessuno di loro riuscì a vivere oltre i 35 anni. I conflitti interni
tra i principi mongoli sfociarono in un’aperta guerra civile dopo il 1328. L’ultimo imperatore mongolo della Cina,
che regnò dal 1333 al 1367, era un uomo di grande cultura cinese, ma a quanto sembra finì per lasciarsi
interamente assorbire dalle superstizioni della corte.
A questo declino del potere centrale si accompagnò una crisi del regime a causa della inflazione del
cartamoneta; la circolazione cartacea aveva stimolato il commercio nei primi decenni della dinastia, ma le
emissioni si moltiplicarono, senza un’adeguata copertura, fino a 300 milioni di file di monete all’anno.
Naturalmente, i biglietti non furono più accettati in pagamento delle imposte; inoltre, essi vennero cambiati più
volte, ma anche i nuovi biglietti si deprezzarono rapidamente.
Per di più, il Fiume Giallo andava provocando inondazioni, devastazioni e carestie ricorrenti.

Il primo contatto con l’Occidente


Uno dei meriti attribuiti all’impero mongolo è di aver reso possibile un secolo di contatto diretto, sebbene non su
vasta scala, tra la Cina e l’Europa medievale. Il controllo dei mongoli sull’intera rete delle vie commerciali
dell’Asia centrale permise a molti europei di raggiungere la corte cinese. Marco Polo fu soltanto uno dei tanti
che fornirono notizie dirette sul “Cataio” (un nome derivato da “Khitai”, e riferentesi specificamente alla Cina del
Nord).
Nell’Europa del secolo 13, le conquiste mongole, che si erano estese a tutto il mondo conosciuto, fatta
eccezione per gli stati della cristianità occidentale, provocarono un’ondata di terrore. Genghiz khan, il
conquistatore universale venuto dall’Oriente, ne rimase l’eco nella mente degli uomini di stato, la paura
occidentale del “pericolo giallo”.
Il secolo che va all’incirca dal 1240 al 1340, durante il quale l’impero mongolo permise per la prima volta viaggi
sicuri tra la Cina e l’Europa occidentale fu un interludio tra due epoche, nel corso delle quali il controllo arabo-
turco sull’Asia centrale e il Vicino Oriente costituì una barriera tra l’Occidente e la Cina. Durante questo secolo
mongolo i viaggiatori europei raggiunsero il Cataio per diverse strade: attraverso la Russia meridionale e l’Ili,
nella steppa; passando per il Mar Nero e le oasi dell’Asia centrale lungo l’antica Via della Seta; oppure per mare
fino alla Siria e agli stati franchi costituiti con le Crociate, e quindi toccando Baghdad e proseguendo attraverso
l’Asia centrale; infine, seguendo le rotte marine attraverso l’Oceano Indiano e lungo le coste dell’Asia
sudorientale fino a Canton.
Lungo queste vie, battute dai popoli dell’Asia occidentale, molti europei raggiunsero la Cina in questo periodo.
Essi notarono la presenza di molti cristiani di confessione greca ortodossa alla corte del Gran khan,
specialmente artigiani russi o soldati prigionieri.

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Marco Polo
Marco Polo è il solo che abbia lasciato una testimonianza. Partito da giovane verso l’Oriente, egli ebbe
evidentemente una grande predisposizione per l’apprendimento delle lingue straniere; tuttavia, dopo 17 anni
(1275-1292) passati al servizio di Qubilay khan, ricoprendo incarichi nell’amministrazione del sale e compiendo
viaggi ufficiali attraverso le province dello Yunnan e del Fukien, egli conosceva ancora il persiano meglio del
cinese; una prova questa della frattura esistente tra il regime mongolo e la popolazione locale.
Il Milione di Marco Polo, dettato a un uomo di lettere in una prigione genovese, non è un racconto di viaggi, ma
un trattato sistematico e scientifico. Sono stati trovati in latino, italiano, francese e in altre lingue circa 120
manoscritti. La sua fu la prima coerente esposizione della geografia, della vita economica e del governo della
Cina presentata al pubblico europeo.
Marco Polo ebbe una specie di sosia orientale in Rabban Sauma, un monaco nestoriano nato a pechino, che
attraversò l’Asia centrale e giunse alla corte dell’Ilkhan in Mesopotamia nel 1278; egli fu uno degli ambasciatori
inviati dai mongoli in Europa per sollecitare l’aiuto dei cristiani contro l’Islam.
Durante tutto il medioevo queste conoscenze dell’Oriente rimasero comunque elementi di esotismo. Fu
necessario un contatto diretto per mare perché la Cina potesse occupare un posto importante nell’orizzonte
europeo.

Il contatto della Cina con l’Asia occidentale


Comunque, per quasi un secolo sotto i mongoli, l’intera Cina rimase aperta alle influenze straniere, che furono
molto più numerose e profonde che nel passato. Un esempio di questa influenza commerciale nella Cina del 13
secolo ci viene offerta dall’ascesa di un arabo, chiamato alla maniera cinese P’u Shou-keng, che intorno al
1250 divenne funzionario dei Sung con l’incarico di dirigere la sovrintendenza alla marina mercantile nel porto
principale. Grazie al controllo esercitato per molti anni sull’amministrazione delle dogane, egli acquistò grande
ricchezza e influenza e, infine, passò dalla parte dei Yuan conservando la sua carica di alto funzionario.
Tra i viaggiatori medievali, gli arabi, sebbene quasi completamente sconosciuti in Europa, furono quelli che
ebbero maggiore familiarità con l’Asia orientale.
Possiamo supporre che nel periodo della potenza mongola migliaia di cinesi siano stati spinti, dalla guerra o dal
commercio, a percorrere l’impero in ogni direzione, attraverso la Russia, la Persia, la Mesopotamia; la cultura
cinese ha infatti lasciato in queste regioni un’impronta ben definita. Durante il secolo mongolo, che si colloca
alla fine di un millennio nel corso del quale i progressi tecnologici della Cina avevano nel complesso superato
quelli del resto del mondo, molte delle conquiste della civiltà cinese penetrarono a occidente: la polvere da
sparo, la cartamoneta, la stampa, la porcellana, i tessuti, le carte da gioco; a ciò si devono aggiungere varie
scoperte mediche ed elementi artistici.
A sua volta la Cina fu sensibilmente influenzata dalla cultura arabo-turca. L’Islam affondò radici permanenti nel
Regno del Centro, dove sorsero numerose moschee; non altrettanto riuscì a fare la cristianità.

La cultura cinese sotto i mongoli


Comunque, nonostante questo secolo di scambi reciproci, la tradizione culturale tipica del Regno del Centro si
rivelò nel complesso impenetrabile alle influenze provenienti dall’esterno, che rimasero un fenomeno
superficiale, come del resto gli stessi conquistatori mongoli. Alcune istituzioni tradizionali, come il sistema degli
esami, furono mantenute solo parzialmente ma non vennero del tutto soppresse.
Intanto la compilazione delle storie dinastiche ufficiali dei Sung, dei Liao e dei Chin proseguì alla maniera
tradizionale sotto la guida di un mongolo posto a capo dell’ufficio per la storiografia.

Il teatro
Il periodo mongolo vide anche il fiorire di due nuove forme letterarie cinesi, il teatro e il romanzo; entrambe sono
da mettere in relazione all’uso via via crescente, nel corso di questo periodo, del dialetto scritto.
Sia nel teatro che nel romanzo si adottò una forma scritta meno classica e più vicina al linguaggio quotidiano al
fine di raggiungere il pubblico più vasto e meno colto delle città del tempo. Per una ragione analoga anche
l’amministrazione Yuan fece uso, nei documenti ufficiali, di uno stile più dilettale in modo da renderli più
facilmente comprensibili ai molti funzionari privi di una educazione cinese classica.

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Rappresentazioni teatrali, frutto di influenze provenienti dall’Asia centrale, erano divenute uno spettacolo molto
comune all’inizio del secolo 8 alla corte di Hsuan Tsung, che in seguito divenne la divinità protettrice degli attori.
Per quanto riguarda lo stile, il teatro cinese era semi operistico, con musiche d’orchestra che accompagnavano
i numeri canti e le dance. Mancavano del tutto gli scenari e gli oggetti di scena, sostituiti da una grande varietà
di segni convenzionali che diventarono col tempo estremamente elaborati.
Infine, le parti femminili venivano generalmente recitate da uomini, dei quali si apprezzavano particolarmente le
voci in falsetto, le danze e delicati gesti.

Il romanzo
Mentre il teatro si diffuse principalmente nelle capitali, tra le popolazioni rurali andò sviluppandosi, a opera dei
cantastorie, il romanzo cinese, che ebbe la sua origine nei racconti fantastici ispirati dal buddismo del periodo
T’ang; questi si trasformarono in racconti storici o in storie puramente immaginarie d’amore o d’avventura;
elaborati da cantastorie di professione, divennero poi vere e proprie saghe, lunghissime e scarsamente
coerenti.
Il carattere plebeo di questa letteratura è rivelato dalla condizione sociale dei personaggi principali, che
abitualmente non sono dei letterati burocrati, ma uomini di bassa estrazione o di origine militare. Lo stile è molto
più vicino al linguaggio dialettale del tempo piuttosto che alla lingua letteraria tradizionale della burocrazia e
delle opere classiche.

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CAP.8 – LO STATO E LA SOCIETA’ SOTTO I MING

Il “culturalismo” cinese
Il periodo Ming, che si protrasse dal 1368 al 1644, è una delle grandi epoche di ordine politico e di stabilità
sociale della storia dell’umanità.
Il successivo mutamento politico e il passaggio dalla dinastia Ming alla dinastia Ch’ing si attuarono con relativa
facilità. Il declino della potenza Ming fu accompagnato dal diffondersi del banditismo e della devastazione di
estesi territori; nel 1644, i manciù occuparono Pechino e conquistarono poi tutto il paese mettendo fine
all’attività dei seguaci dei Ming. Le istituzioni della società cinese mantennero una notevole continuità durante i
periodi Ming e Ch’ing. L’ordine politico e sociale dei Ming fu così stabile da riuscire a perdurare,
sostanzialmente senza alterazioni, per altri 276 anni, dal 1644 al 1912, sotto una dinastia straniera, quella dei
Ch’ing. Nel corso di questo lungo periodo, dalla metà del 14° secolo all’inizio del 20°, la Cina visse secondo gli
schemi tradizionali. L’economia di villaggio, i rapporti familiari esaltati dai classici, il sistema degli esami per la
selezione dei funzionari, il venerato governo del Figlio del Cielo a Pechino, tutto continuò secondo i modelli
stabiliti, che rappresentavano il legato lasciato al paese dal periodo Sung e dalle epoche precedenti.

Le conseguenze della stabilità


Sotto i Ming e i primi Ch’ing il popolo cinese rimase estraneo alla corrente tumultuosa della storia
dell’Occidente. Fu in questo periodo che la Cina perdette terreno rispetto all’Occidente in molti campi della
cultura materiale e della tecnologia e in talune forme della organizzazione politica e economica.
Il lungo periodo di stabilità relativa di cui godette la civiltà dell’Asia orientale costituisce una delle principali
cause della “arretratezza” che l’hanno caratterizzata dopo il contatto con l’Occidente avvenuto nel secolo
scorso. Questa “arretratezza” è stata a sua volta una delle cause primarie dei tentativi operati dall’Asia
orientale per “modernizzarsi”, tentativi che impediscono tuttora la stabilità delle relazioni internazionali.
Il paragone non deve indurci a condannare i periodi Ming e Ch’ing come età mdi regresso o a sottovalutare le
loro effettive realizzazioni, giacché nei periodi in questione la civiltà cinese conobbe molti e importanti sviluppi;
in questo periodo l’evoluzione fu comunque più lenta e il grado del mutamento inferiore a quello occidentale.
Uno dei fattori che contribuirono a questa stabilità fu la visione cinese della storia come “rinnovamento nella
tradizione”. La classe dirigente, sia per l’educazione ricevuta che per la situazione esistente, era così
tenacemente legata alla tradizione che ogni mutamento poteva essere concepito solo entro i limiti dell’ordine
tradizionale: tutto ciò che di nuovo accadeva doveva essere adattato al ricco patrimonio di esperienze. I cinesi
dei periodi Ming e Ch’ing scorgevano i loro modelli ideali in un lontano passato.

L’etnocentrismo
Questo volgersi alle grandi epoche Han, T’ang e Sung per trarne ispirazione fu accompagnato da un
risentimento profondamente radicato verso i mongoli che avevano conquistato e sottomesso l’impero. La
dominazione straniera suscitò in una parte dei cinesi un atteggiamento di ostilità verso quanto era straniero in
generale e un disprezzo quasi istintivo per tutto ciò che poteva essere bollato come “barbaro”.
La frattura con il mondo esterno e il rifiuto delle influenze straniere si accompagnarono a un sempre più
marcato isolamento della Cina entro i limiti della sua vita interna. A partire da questo momento, una
mescolanza di paura e di disprezzo per il mondo esterno e il totale concentrarsi dell’interesse su modi di vita
esclusivamente cinesi sembrano aver prodotto un etnocentrismo crescente.
Questo atteggiamento ebbe molto in comune con quel moderno complesso di idee di nazionalismo. Il
nazionalismo sembra essere tipico di un gruppo che asserisce vigorosamente la propria individualità e
superiorità in quanto ha ragione di temere l’assimilazione non soltanto politica ma anche culturale da parte di
un altro gruppo. Il nazionalismo sembra quindi strettamente legato a un sentimento generale di rivalità e
insicurezza, nonché di inferiorità. Comunemente esso viene affermato con grande vigore contro vicini
appartenenti a una cultura essenzialmente simile, più tipicamente da parte di una sottospecie culturale, in
particolare un sottogruppo linguistico, contro altre e forse più forti sottospecie della stessa cultura.
Nell’atteggiamento cinese, al contrario, non sono riscontrabili sintomi di un sentimento di inferiorità culturale.

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Così la xenofobia cinese, nella misura in cui esistette, si accompagnò a una completa fiducia nella propria
superiorità culturale, elemento questo chiaramente assente nel nazionalismo.
Un’altra differenza fondamentale è rappresentata dal fatto che il nazionalismo moderno ha tratto la sua forza
dalla identificazione dell’individuo con l’unità politica nazionale, mentre nella Cina dei periodi anteriori al 20°
secolo, l’individuo non avvertì alcuna particolare identificazione con lo stato. Egli poteva accettare una
dominazione straniera pur continuando a considerarsi come appartenente all’unità culturale cinese.

La tradizione di unità
Dietro questo attaccamento al modo di vita cinese si celava un fatto politico di primaria importanza, ossia
l’intero Regno del Centro continuava a essere considerato come un’unità amministrativa governata da
un’autorità centrale. Malgrado la grande vastità, la mancanza di unità era ritenuta un male abnorme e
temporaneo. Se questa unità veniva spezzata, generale si faceva l’attesa della riunificazione. Questa coesione
non può essere attribuita a fattori geografici.
Questo radicato senso della unità trova la sua spiegazione sul terreno istituzionale, con i modi di pensiero e di
comportamento che si erano stabiliti nella società. In breve, lo stato cinese e la sua cultura erano considerati
come elementi complementari. L’estensione dell’uno provoca la diffusione dell’altra.
L’identità di cultura e ordine politico portò la classe dirigente cinese dei periodi Ming e Ch’ing a disinteressarsi
automaticamente di tutto ciò che era straniero e talvolta a considerarlo con ostilità. Una delle principali forme
che questa reazione “culturalistica” al mondo esterno assunse durante i periodi T’ang e Sung, fu il rifiuto del
buddismo, che aveva svolto una funzione così importante nella civiltà cinese nei 5 secoli precedenti. Anche la
resistenza opposta dai letterati alla dominazione mongola fu in gran parte di origine culturale.

La fondazione della dinastia Ming


Il graduale indebolimento del dominio mongolo nel secondo quarto del 14° secolo fu accelerato dalle rivalità
fratricide che sconvolsero il clan imperiale; questi conflitti all’interno del gruppo dirigente mongolo aprirono la
strada ad una grande ribellione. A 15 anni di frequenti carestie in tutta la Cina del Nord dopo il 1333 seguirono
gravi inondazioni del Fiume Giallo; le une e le altre provocarono il depauperamento dei granai e minarono alle
fondamenta l’amministrazione Yuan.
Durante gli anni 1340-50, insurrezioni sporadiche ebbero luogo in quasi tutte le province. Nel 1351-53 dalla
popolazione cinese emersero parecchi grandi capi ribelli, e questo diede inizio a uno dei tipici conflitti
interdinastici per determinare quale dei contendenti dovesse sopravvivere perché più meritevole di ereditare il
“Mandato del Cielo”.
Consolidando il loro potere sul piano locale, questi uomini si proclamarono spesso discendenti degli imperatori
Sung, mentre altri si servirono di un crisma religioso profetizzando l’avvento del Bodhisattva Maitreya, e altri
ancora ricevettero l’appoggio delle società segrete. Tra le società segrete la più famosa fu quella del Loto
Bianco, che sorse come setta del buddhismo T’ein-t’ai nella prima metà del 12° secolo; indirettamente, le sue
origini vengono fatte risalire a un’epoca ancora più antica, al 4° secolo. Come gruppo di opposizione alla
dinastia regnante, questa società dovette per sopravvivere condurre un’esistenza clandestina, giacché il
governo pretendeva possedere il monopolio di ogni organizzazione politica.

L’ascesa di Chu Yuan-chang (Hung-wu)


Alla fine, colui che ebbe la meglio tra tutti questi ribelli-eroi fu Chu Yuan-chang (1328-1398), il cui nome va
collocato accanto a quello di Liu Pang, il fondatore della dinastia Han, poiché anch’egli come quest’ultimo, fu
un uomo di umili origini che grazie alla abilità personale seppe cogliere l’occasione che i tempi gli fornivano
diventando Figlio del Cielo (Probabilmente si affiliò alla società del Loto Bianco, cosa che poi egli stesso smentì;
si trattava di un episodio che non poteva figurare molto dignitosamente negli annali storici).
A poco a poco Chu Yuanchang si formò un seguito personale e, insieme alla sua banda, attraversò lo Yangtze,
impadronendosi nel 1356 di Nanchino, un’ottima posizione strategica poiché vicina all’importantissima zona
economica del delta dello Yangtze. Nel corso del decennio seguente, egli rafforzò il suo potere sconfiggendo i
rivali a est, sul delta dello Yangtze, e costituendo un’amministrazione lovale, civile e militare insieme. Nel 1367,

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Chu Yuanchang controllava tutta la valle dello Yangtze; potè quindi inviare i suoi generali, per terra e per mare,
a occupare le province più a sud.
I comandanti mongoli, che avevano domato una rivolta nella Cina del Nord, erano sempre divisi dalle loro
funeste rivalità. Invece di attaccare i ribelli cinesi nella Cina centrale si fecero l’un l’altro guerra nel Nord Ovest.
Nel 1368, le forze di Chu Yuanchang, lanciate in una grande spedizione contro il Nord, si impadronirono di
Pechino, ma il capo ribelle preferì mantenere la sua capitale a Nanchino. Nello stesso anno, si proclamò primo
imperatore della dinastia Ming (“Luminosa”); scegliendo questo nome, egli seguì l’esempio di Yuan, ossia
adottò un nome dinastico non derivato da una località o da una regione. Il potere mongolo fu scardinato, ma
non distrutto. Le forze Ming occuparono il Nord Ovest e successivamente il Sud Ovest, unificando la Cina
propriamente detta nel 1382.
Chu Yuanchang fu insignito del tradizionale titolo postumo di T’ai T’su (“Grande Progenitore”) riservato ai
fondatori di dinastie, ma è più noto col nome di Hung-wu (“Grande Potenza Militare”). Hung-wu era il nome del
“periodo annuo”, ma avendolo conservato per tutta la durata del suo regno, il primo imperatore Ming lo
trasformò in titolo di regno.

Il regno di Yung-lo
Un altro dei primi sovrani recò un contributo notevole alla organizzazione dell’impero Ming, ossia Yung-lo,
(1403-1424) il cui vero nome era Chu Ti. Quarto figlio di Hung-wu, egli aveva il suo centro di forza a Pechino
quando si ribellò al nipote, che era anche nipote di Hung-wu e aveva ereditato il trono a Nanchino alla età di 16
anni. Chu Ti intraprese una guerra civile che devastò la Cina del Nord e infine riuscì ad impadronirsi di
Nanchino. All’età di 43 l’usurpatore assunse come titolo di regno Yung-lo (“Felicità Eterna”). La struttura
dell’impero all’interno e all’esterno fu in gran parte completata sotto la sua direzione. Nanchino era stata
costruita da Hung-wu come capitale imperiale e circondata da mura.
Nel 1421, Yung-lo trasferì la capitale Ming a Pechino declassando Nanchino al rango di seconda capitale. Egli
fece ricostruire Pechino su un progetto tradizionale ma più vasto di quello dei mongoli. Le mura principali della
città formano un quadrato con nove porte, ciascuna delle quali protetta da una porta esterna e da una
circonvallazione. Al centro della città, con la sua rete di grandi strade, si ergevano le mura della Città Imperiale,
che formavano un quadrato. Entro la Città Imperiale, le alte mura rosse della Città Proibita, ossia il palazzo
imperiale vero e proprio, cinta da un fossato. All’interno del palazzo, da sud a nord, lungo l’asse principale della
pianta della capitale, erano disposte le maestose sale del trono con i tetti dorati che si elevavano da terrazze di
marmo bianco. Questo grande complesso architettonico, creazione della dinastia Ming, costituisce ancora oggi
una testimonianza senza eguali della grandezza dell’impero.
Le mura della città meridionale di Pechino furono costruite nel 16° secolo. Un corto che entrava dalla porta
posta più a sud sull’asse centrale, doveva successivamente passare attraverso 8 porte prima di sboccare sul
grande cortile antistante la prima sala del trono, all’interno della Città Proibita.

L’amministrazione Ming
Gli imperatori Ming conservarono la struttura del governo centrale ereditata dal precedente regime: anzitutto,
una burocrazia civile alle dipendenze dei 6 Ministeri e degli altri organi di governo; in secondo luogo, una
gerarchia militare centralizzata; infine, un corpo separato di censori, incaricati di riferire sull’andamento degli
affari.

L’ufficio dei Censori


Secondo gli occidentali questa istituzione è forse tra tutte la più interessante. La sua “sezione centrale di
investigazione”, con sede nella capitale, era formata da 110 “censori investigativi”. Inoltre, presso ciascun
ministero era aggregato uno speciale corpo di censori che aveva l’incarico di sorvegliare le operazioni del
ministro stesso. I censori provenivano dalla normale burocrazia civile e, in generale, si trattava di giovani
funzionari di rango relativamente poco elevato, scelti per qualità personali come la probità e la rettitudine. Se
inviati nelle province, spesso per un giro di ispezione della durata di 1 anno, normalmente essi erano chiamati a
controllare l’amministrazione della giustizia e le cerimonie, la condizione dei granai e delle scuole, e a ricevere
rapporti dai funzionari e suppliche dalla popolazione. Il loro potere derivava dalla possibilità che essi avevano di

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accedere direttamente al trono, sia per mettere sotto accusa altri funzionari sia per fare rimostranze (a loro
rischio) presso l’imperatore. Oltre alle funzioni di controllo essi erano dotati di competenze giurisdizionali,
potevano agire occasionalmente come giudici e partecipare alla proposta e alla esecuzione della normale
politica amministrativa.
Questi ampi poteri trovavano il loro limite nel fatto che i censori abitualmente rientravano nei ranghi della
burocrazia civile regolare dopo un periodo di carica 9 anni o forse meno; inoltre, come tutti i funzionari, essi
dipendevano dall’arbitrio dell’imperatore. Non protetti da una carica vitalizia né dalla immunità dalla collera del
loro padrone, questi “occhi e orecchi dell’imperatore” erano in realtà dei burocrati in tutto simili ai loro colleghi,
preoccupati per la loro vita, dipendenti dalla valutazione favorevole dei superiori e talvolta sensibili alla
corruzione.

Lo sviluppo dell’autocrazia
Nell’amministrazione centrale, il primo imperatore Ming, forse anche a causa del suo temperamento, instaurò
metodi di governo molto più autocratici. Nel 1380, soffocando un vasto complotto attribuito al primo ministro,
Hung-wu soppresse tale carica, insieme con il massimo organo dell’amministrazione diretto dal primo ministro,
ossia la Cancelleria centrale. A partire da questo momento, il governo dell’imperatore diventerà sempre più
personale e diretto. Questa innovazione istituzionale, trasmessa dal fondatore della dinastia ai suoi successori,
diede agli imperatori dei periodi Ming e Ch’ing un potere anche più autocratico di quello dei Sung.
Nel suo governo personale, Hung-wu si valse dell’aiuto di Grandi Segretari, che lavoravano alle strette
dipendenze dell’imperatore esaminando i numerosi documenti ufficiali e redigendo in risposta gli editti imperiali.
Alla fine, nel secondo quarto del 15° secolo, le loro funzioni vennero in un certo modo istituzionalizzate con la
creazione della Grande Segreteria, una specie di gabinetto superiore in pratica ai 6 Ministeri e agli altri organi di
governo. Ma mentre la loro influenza andava crescendo, i Grandi Segretari, che erano mezza dozzina, rimasero
semplicemente degli aiutanti del sovrano, privi dell’autonomia necessaria per il compimento di atti esecutivi che
in precedenza avevano invece avuto dei primi ministri.
Quella degli eunuchi fu un’altra istituzione chiave dell’autocrazia Ming, come già era accaduto con alcune delle
precedenti dinastie come i T’ang. Alloggiati a palazzo, liberi da ogni legame di lealtà familiare e completamente
dipendenti dal loro padrone, questi funzionari godevano di una posizione unica, essendo più vicini alla persona
dell’imperatore di qualsiasi altro letterato-burocrate. In quanto agenti fidati del sovrano, gli eunuchi avevano
grande influenza come comandanti delle forze militari e ispettori nelle province.
Il periodo Ming fu caratterizzato da tensioni e lotte senza tregua per il controllo del potere che ebbero luogo a
palazzo tra gli eunuchi e i Grandi Segretari e, nella capitale, tra questi gruppi della Corte Interna, come
venivano chiamati, e i grandi funzionari della burocrazia imperiale, o Corte Esterna. Le fazioni burocratiche e le
loro lotte finirono per minare l’amministrazione. Tra l’altro, una delle cause di questi conflitti burocratici fu il
regionalismo. Durante la prima metà del periodo Ming, i ¾ dei Grandi Segretari furono originali della Cina
centrale e meridionale, in particolare del bacino inferiore dello Yangtze, cittadella delle tradizioni conservatrici
Sung, mentre gli eunuchi provenivano per la maggior parte del Nord.

L’amministrazione locale
L’amministrazione civile territoriale dei Ming era ripartita in 15 province, che suddivise più tardi dai Ch’ing,
diventarono 18. Ogni provincia era costituita da unità locali formate a loro volta da unità ancora più piccole: le
prefetture, che nell’impero Ming erano approssimativamente 159; le sottoprefetture, che erano 234; i hsien
(distretti o contee), in totale 1171.
In ciascuna provincia la gerarchia amministrativa locale era formata dai magistrati territoriali, i quali, per una
specie di criterio prudenziale, non potevano prestare servizio nelle loro province d’origine; si voleva cioè evitare
che subissero l’influenza delle parentele e delle amicizie locali. In ordine ascendente questi funzionari erano il
magistrato di distretto, il sottoprefetto e il prefetto. A capo dell’amministrazione provinciale vi erano un
commissario governativo. Esisteva inoltre un commissario giudiziario o giudice, con i suoi dipendenti. Un altro
grande funzionario provinciale era il comandante militare, con una gerarchia di comandi militari ai suoi ordini.
Ogni provincia era quindi sottoposta a una specie di triumvirato, che rifletteva sul piano locale e la triplice
distinzione, amministrativa, militare e di controllo, che caratterizzava l’amministrazione centrale. Infine, venne

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aggiunto al vertice di ciascuna gerarchia provinciale un governatore, con funzioni di coordinazione, ma questo
organo venne però ufficialmente riconosciuto e contemplato dagli ordinamenti soltanto alla fine del periodo
Ch’ing.
Il sistema militare dei Ming, sviluppato da Hungwu durante il periodo della sua ascesa al trono, si fondava sulle
unità della guardia formate da 5600 uomini. Ciascuna unità era divisa in 5 sottounità di 1120 uomini, registrati
come soldati di mestiere.
Esse erano a quel tempo di stanza in zone strategiche sulle frontiere verso l’interno dell’Asia e sulle coste,
lungo il Grande Canale e nella capitale, alle dipendenze di 5 grandi comandi regionali. Le originarie unità della
guardia erano quindi diventate reparti stanziali regionali, o in altre parole guarnigioni, non diverse da quelle
formate da truppe non cinesi costituite dalle dinastie straniere di conquista. Disseminate nei vari territori, esse
non dipendevano però dall’amministrazione civile locale. La condizione di soldato registrato era ereditaria; a
molti soldati vennero assegnate terre da coltivare affinché ne ricavassero i mezzi di sussistenza, e questo nella
speranza di realizzare l’antico ideale di un esercito autosufficiente di soldati-contadini. Ma inevitabilmente, in un
impero in pace non era possibile con questo sistema conservare a lungo una forza militare efficiente, e le
guarnigioni cinesi incontrarono difficoltà maggiori di quelle dei khitan, dei jurched e dei mongoli, nel tentativo di
mantenere un corpo di soldati di professione in una società non bellicosa.
Un’altra grande innovazione fu l’invio dalla capitale di nuovi ispettori itineranti e di commissari speciali incaricati
di trattare gli affari provinciali e, in particolare, di frenare la corruzione e il malgoverno. A questi funzionari
venivano assegnati particolari poteri amministrativi, militari e censori entro zone designate, in modo da conferire
alle amministrazioni territoriali una capacità esecutiva più unificata. Le competenze di questi funzionari diedero
origine, verso la metà del periodo Ming, a due cariche, quella di governatore provinciale e quella di governatore
generale.

La terra, la popolazione e il fisco


Governando la Cina, il più grande aggregato umano del mondo, la burocrazia dei Ming introdusse innumerevoli
distinzioni e categorie, necessarie per amministrare un così grande numero di persone; ma ogni funzionario fu
guidato dal grande piano del regime imperiale presentato in varie pubblicazioni ufficiali, prima fra tutte la
Raccolta di leggi e regolamenti, stampata per la prima volta nel 1511 e sottoposta a continue aggiunte e
modifiche. Sul piano locale, il controllo esercitato dal governo sulla terra e la popolazione fu del tipo
tradizionale, ossia mediante la compilazione di dettagliati registri ufficiali della terra e della popolazione.
Per quanto riguarda le imposte agrarie si seguì la tradizione risalente alla “doppia tassa” inaugurata nel secolo
8°. La “tassa estiva” dei Ming veniva riscossa nell’8 mese sui raccolti cresciuti durante l’inverno e mietuti
all’inizio dell’estate, in particolare il grado invernale. I “cereali d’autunno” venivano riscossi nel secondo mese
come tassa sul raccolto cresciuto durante l’estate precedente e falciato in autunno, soprattutto sulla grande
produzione di riso della Cina centrale e meridionale. Di conseguenza, tra le due riscossioni, quest’ultima era di
gran lunga la più cospicua.
Oltre ai pagamenti in cereali i primi Ming riscuoteva anche, due volte all’anno, un certo numero di lingotti
d’argento e rotoli di seta. Anche le tradizionali entrate fiscali provenienti al monopolio governativo del tè e del
sale furono mantenute. Come avevano fato i Sung e i Yuan, i Ming continuarono ad emettere cartamoneta, che
non fu però convertibile in circolante metallico e andò quindi rapidamente deprezzandosi finché nel 1450
dovette essere abbandonata.
La popolazione fu suddivisa in varie categorie, militari, artigiani e civili; quest’ultima era formata dalla grande
massa sottoposta all’amministrazione civile territoriale. Le persone erano registrate negli elenchi fiscali sotto la
famiglia e la tenuta di cui facevano parte. I gruppi familiari erano classificati in 3, 5 e 9 gradi ed erano tenuti a
fornire prestazioni di lavoro secondo il numero dei maschi adulti registrati di età compresa tra i 16 e i 60 anni.
Tra queste prestazioni era compresa la responsabilità locale della riscossione delle imposte e dei lavori
pubblici. Essa era organizzata in base al sistema li-chia, secondo il quale 110 gruppi familiari vicini costituivano
idealmente una unità (villaggio). All’interno di questa unità, ogni anno, una delle 10 famiglie dirigenti controllava
un decimo delle 100 restanti famiglie formando un chia o “sezione”, che portava la responsabilità
dell’esecuzione delle prestazioni di lavoro locali nel corso dell’anno. Questa funzione veniva svolta
alternativamente dalle altre famiglie dirigenti, con una rotazione che copriva quindi un periodo di 10 anni.

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A un altro tipo di prestazione (“servizio uguale”) erano costretti tutti i maschi adulti. Essa comprendeva lo
svolgimento di compiti prestabiliti negli stabilimenti ufficiali o anche il pagamento di una certa somma per
provvedere al loro mantenimento. Altri tipi di prestazione erano poi quelli cui erano tenuti gli strati più bassi della
popolazione, come il servizio alle stazioni di posta governative e nella milizia locale. Nel complesso, la
burocrazia ufficiale estorceva alla popolazione una grande varietà di pagamenti e di servizi assai gravosi.
Assumendo il potere, i Ming avevano ridotto le oppressive imposte dell’ultimo periodo mongolo, organizzando il
sistema fiscale e le prestazioni di lavoro in modo razionale, stabilendo con cura le distinzioni, applicandole a
tutti e tenendo registri particolareggiati. Ma con l’andare del tempo questo complesso sistema rivelò le sue
deficienze. In teoria, per esempio, esso si basava sul presupposto che il gravame fiscale colpisse
maggiormente i gruppi familiari più vasti, che disponevano di tenute più estese e di un gran numero di maschi
adulti. In pratica, invece, i grandi gruppi familiari mostrarono la tendenza a trasferire l’onere fiscale sulle spalle
dei nuclei più poveri.
Per quanto riguarda il potere legislativo, i Ming mostrarono una analoga tendenza a riapplicare i principi
tradizionali con nuovo vigore e con grande serietà. Invece di uniformarsi semplicemente ai codici ereditati dai
T’ang e dalle dinastie successive, i Ming dapprima li abrogarono e in seguito adottarono solo quegli elementi
che apparvero loro utili, formando un corpo generale di leggi amministrative e penali che fu pubblicato per la
prima volta nel 1397 col titolo di Ta-Ming Lu (Leggi dei grandi Ming).
In tal modo, la burocrazia dei primi Ming costruì fin nei più piccoli particolari l’amministrazione imperiale. Esso
vantava la prerogativa di organizzare, controllare e utilizzare ogni aspetto della società, ma in pratica non
interferiva nella vita quotidiana del popolo cinese. I grandi incarichi burocratici nelle province erano soltanto
duemila circa, e circa 30mila quelli secondari. Se si aggiungono le incombenze minori e i membri della
burocrazia centrale della capitale, il totale dei funzionari civili nell’impero Ch’ing, intorno al 1800, ammontava
soltanto alla cifra approssimativa di 20mila.

Il sistema degli esami e la cultura


Lo spirito che animò l’opera di ripristino delle forme di governo tipicamente cinesi attuata dai Ming, tendeva a
un ritorno alle istituzioni pre-mongole dei periodi T’ang e Sung. Hung-Wu tentò di modellare il suo governo
sull’esempio dei T’ang e giunse a decretare il ritorno ai modi di vestire in uso in quegli anni e nello stesso tempo
a proibire le mode straniere. Al fine di evitare i mali del dispotismo Yuan, egli rese più rigorosi la selezione dei
funzionari e il controllo che si esercitava sulla loro amministrazione locale. A tale scopo applicò le dottrine e le
pratiche tradizionali del confucianesimo, giungendo ben presto al ripristino del sistema degli esami inteso come
centro della vita ufficiale.
Sotto i Ming e i Ch’ing, gli esami erano di 3 gradi: il primo consisteva in un esame preliminare che aveva luogo
nei capoluoghi di distretto e apriva ai candidati la strada ai successivi esami che si tenevano nella città
capoluogo di prefettura ogni 18 mesi. Coloro che superavano questa prova ottenevano il titolo più basso, che
gli occidentali generalmente traducono con i termini “licenza”. Con questo titolo si entrava a far parte della
classe privilegiata dei letterati, che erano esenti da prestazioni di lavoro, non erano sottoposti a punizioni
corporali come la bastonatura con i bambù e godevano di alcune altre prerogative; tutto ciò conferiva loro un
grande prestigio sociale in quanto membri della classe superiore. Ma per conservare questo status il titolato
doveva affrontare altri esami. In tal modo egli poteva raggiungere i gradi più alti della gerarchia, ma se ciò non
fosse accaduto egli sarebbe stato costretto a superare normali esami periodici, che avevano luogo solitamente
ogni 3 anni.
Anche nel secondo grado era necessario superare una prova preliminare per essere ammessi ai grandi esami
triennali, con un complesso di cerimoniale, migliaia di candidati dovevano trascorrere alcuni giorni, chiusi con
carte e pennello nelle lunghe file di celle situate al campo degli esami. I candidati promossi, diventavano
“raccomandati” e acquistavano il diritto di presentarsi agli esami di terzo grado, che si tenevano ogni 3 anni a
Pechino.
I candidati che avevano superato anche questa prova alla capitale diventavano “studiosi presentati” e venivano
convocai a palazzo per essere sottoposti a un’ultima prova da parte dello stesso imperatore. I vincitori
ricevevano quindi il loro rango ufficiale e la nomina alla carica relativa. Da questo momento le eventuali
promozioni dipendevano dal superamento di altri esami, che si svolgevano però all’interno della gerarchia

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burocratica. In tal modo tutti i membri della classe dei letterati o diplomati dovevano costantemente dare prova,
in forma scritta, della loro competenza e conducevano quindi una specie di “vita d’esami”.
Uno dei più grandi vantaggi di questo sistema era rappresentato dal fatto che esso offriva la possibilità di
reclutare i migliori talenti letterari del paese e di convogliarli in una carriera aperta al merito.
Uno dei punti deboli del sistema consisteva invece nel fatto che gli argomenti di studio erano limitati ai Quattro
Libri scelti nel periodo Sung a rappresentare l’ortodossia del confucianesimo, e ai Cinque Classici.
Nel 1417, Yung-lo fece pubblicare le edizioni definitive di queste opere, per escludere ogni interpretazione e
costituire una base comune di preparazione per tutti gli studiosi dell’impero.
Infine, in accordo con la generale inclinazione dei Ming per l’organizzazione formale fu adottato nel 1478 un
determinato modello per la stesura degli elaborati d’esame, che dovevano essere suddivisi in 8 titoli principali,
comprendere non più di 600 caratteri e fare uso dell’equilibrio e della sintesi. Si tratta del famoso stile del
“saggio a otto gambe”.

Il sistema educativo
Tra gli istituti che preparavano i candidati agli esami erano comprese le “scuole” governative, che dovevano
essere costituite nei distretti e nelle prefetture; ma la loro funzione principale era quella di organizzare
periodicamente gli esami locali e non di impartire una educazione sistematica e di fronte agli studenti
agevolazioni di soggiorno. Alla capitale vi era la Direzione dell’Accademia imperiale, dove i diplomati venivano
registrati e talvolta potevano perfezionare la loro preparazione assistendo a lezioni che si tenevano
generalmente due volte al mese.
Al vertice della piramide intellettuale stava l’Accademia Hanlin, un organismo rigorosamente scelto e
comprendente i più eminenti diplomati metropolitani, i quali si svolgevano a corte importanti funzioni
interpretando i classici e redigendo o mettendo per iscritto gli ordini imperiali.
In realtà, la preparazione dei candidati agli esami si svolgeva anzitutto tra le pareti domestiche, cosa che
avvantaggiava i giovani appartenenti a famiglie agiate, che potevano valersi di precettori, ma specialmente i
rampolli delle famiglie di funzionari, nelle quali l’esempio dei parenti e la tradizione familiare costituivano sia un
incentivo sia una guida intellettuale.
Il manuale indispensabile ai principianti, mandato a memoria da milioni di giovani durante i periodi Ming e
Ch’ing, era il famoso Classico dei tre caratteri. A differenza del precedente Classico dei mille caratteri di assai
difficile lettura giacché ciascuno dei mille caratteri veniva usato una volta soltanto, questo più recente manuale
presentava in forma allitterativa un conciso sommario delle conoscenze fondamentali e della dottrina in 356
righe alternativamente rimate, ciascuna delle quali era formata da tre caratteri.
Una più avanzata fonte di educazione erano le accademie private (shu-yuan). Esse costituivano centri di studi
eruditi, di discussioni e di compilazioni. Le accademie vennero istituite generalmente sotto il patrocinio di altri
funzionari o di ricchi mercanti, e talune ricevettero anche l’incoraggiamento e l’appoggio dell’imperatore. Esse
riunivano insieme eminenti studiosi e studenti che ricevevano gratuitamente un alloggio e una educazione.

La produzione letteraria
Il patrocinio imperiale delle lettere fu un mezzo importante per conservare all’imperatore la posizione di capo
della cultura e dello stato confuciano. È a questa tradizione che si deve la grande opera del 1407 Yung-lo-ta-
tien (Enciclopedia del periodo Yung-lo), una raccolta delle principali opere di storia, di politica, etica, geografia,
ereditate dalle età precedenti, compilata da più di 2000 studiosi.
Nei due secoli che seguirono si assistette in tutte le regioni dell’impero a un flusso ininterrotto di pubblicazioni.
Uno studioso (Li Shih-chen) dedicò 26 anni alla compilazione di una materia medica illustrata, che descriveva
quasi 2mila esemplari di animali, vegetali e sostante medicamentose e presentava più di 8mila ricette.
Completata nel 1578, l’opera illustrava l’inoculazione del vaiolo, la distillazione e gli usi del mercurio.

La scuola di Wang Yang-ming


Nel campo della filosofia, la principale deviazione dalla ortodossia Chu Hsi è associata al nome di Wang Shou-
jen (Più noto col nome di Wang Yang-ming, 1472-1529), un alto funzionario che proseguì una delle correnti di
pensiero del periodo Sung, ossia la scuola neoconfuciana dell’idealismo.

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In linea generale, questa scuola idealistica tendeva a negare il dualismo del sistema Chu Hsi, ossia la netta
distinzione tra Cielo e Terra e quindi tra il “Principio celeste” e l’”Umano desiderio”, che essa considerava come
parti di una realtà unica, avvicinandosi quindi al buddismo.
Fondato su questa tradizione, l’insegnamento di Wang Yang-ming rappresentò una specie di rivolta Zen
all’interno del confucianesimo, in quanto, molto più di Chu Hsi, insisteva sulla grande importanza della
meditazione e della conoscenza intuitiva. Esso trovò inoltre un valido appoggio nell’enfasi di Mencio sulla bontà
della natura umana. Wang sostenne “l’estensione della conoscenza intuitiva”, che poteva essere raggiunta
attraverso l’indagine del proprio mondo interiore, del Li che si trova in ciascuno di noi. Il mezzo per raggiungere
questo fine era essenzialmente rappresentato, come nel buddismo Zen, dalla meditazione che conduceva ad
una sorta di illuminazione.

La “gentry”
Gli sviluppi (una amministrazione estesa a tutto l’impero, il sistema degli esami che produceva un flusso
continuo di diplomati, gli studiosi che davano alle stampe opere descrittive) contribuirono a formare e ad
assegnare una funzione ad una classe privilegiata di letterati, ufficialmente riconosciuti ed educati nell’ideologia
confuciana.
I diplomati di ogni grado erano chiamati in cinese shen-shih (funzionari e letterati); mentre in inglese si è usato il
termine “gentry” per indicare sia i diplomati stessi sia il più vasto gruppo delle persone che godevano di una
posizione dominante all’interno della comunità rurale.
Il termine “gentry” richiede un’adeguata definizione. Esso rimane ambiguo perché viene applicato sia agli
individui sia ai gruppi familiari e poiché viene usato attribuendogli un significato sia economico sia politico-
sociale. A rigore, il termine “gentry” è applicabile soltanto agli individui in possesso di un diploma.
Ma in una società come quella cinese tradizionale, dove l’individuo era completamente subordinato alla
famiglia, l’esistenza di “famiglie gentry” (ossia famiglie che abitualmente contavano dei diplomati tra i loro
membri) era inevitabile. Inoltre gli individui entravano a far parte della “gentry” assicurandosi un diploma e non il
semplice possesso della terra; ma in una società popolosa e fondata sull’agricoltura, il possesso della terra era
il principale mezzo economico per affrontare gli studi e per completare il curriculum fino alla acquisizione di un
diploma. Di conseguenza, la combinazione “landlord-gentry” era molto comune.
Uno dei segreti del successo che il sistema degli esami ebbe nel costituire la via principale di avanzamento
sociale è da ricercare nel fatto che il sistema stesso permetteva ad alcuni di percorrere questa via anche senza
l’obbligo degli esami. La condizione di diplomato non era acquisibile soltanto per meriti culturali, ma anche per
altri motivi chiaramente stabiliti; primo tra tutti il privilegio ereditario, grazie al quale il figlio di un alto funzionario
in considerazione dei meriti del padre poteva condividerne la posizione sociale.

Le funzioni della “gentry”


La forza caratteristica del governo confuciano consisteva nel fatto che i membri della “gentry” svolgevano un
gran numero di funzioni pubbliche nelle comunità locali senza essere ufficialmente remunerati. Essi vivevano
comunemente nelle città sedi di mercato o nelle “grandi case” dei villaggi, ma erano sempre in contatto con i
centri amministrativi, dove mantenevano a volte una residenza. In quanto portatori della dottrina confuciana e
uomini di cultura e spesso anche a causa della ricchezza e dell’influenza politica, essi erano responsabili del
buon andamento di molte attività che sono oggi di competenza di funzionari. Raccoglievano fondi e
controllavano la esecuzione di lavori pubblici quali la costruzione e la manutenzione di canali e fossato per
l’irrigazione.
La “gentry” era anche responsabile della moralità pubblica con la conservazione dei templi confuciani locali e
degli altri luoghi del culto e con lo svolgimento delle cerimonie destinate a inculcare nelle masse l’idea di un
comportamento sociale appropriato.
Naturalmente, queste funzioni pubbliche si confondevano con gli affari privati della “gentry”, nei rapporti che
essa intratteneva con la classe contadina, da una parte, e con i funzionari dall’altra.
Naturalmente, la tendenza della “gentry” era quella di appoggiare il governo, ed era interesse del governo
mantenere tra la “gentry” una ideologia fondata su valori come il bene pubblico contrapposto all’opportunismo
egoistico. A tale scopo le dottrine del Maestro venivano citate regolarmente in ogni tempio confuciano, mentre

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il Figlio del Cielo inviava le sue esortazioni morali, che dovevano essere ripetute in ogni comunità. Nel 1397, i 6
ordini imperiali di Hung-wu furono affissi in ogni villaggio. Essi dicevano: “Abbi pietà filiale, rispetta gli anziani e
gli antenati, educa i tuoi figli e procurati pacificamente i mezzi per vivere”.
Così, sotto il patrocinio del capo dello stato, la grande tradizione culturale veniva usata per indottrinare la
“gentry”, come classe egemone locale mentre essa a sua volta se ne serviva per regolare e disciplinare la vita
dei villaggi.

Il dispotismo Ming
I 17 imperatori Ming che a partire da Hung-wu presiedettero alle fortune della dinastia regnarono per un
periodo che si può suddividere in fasi chiaramente delineate:
1. L’epoca iniziale di fondazione e di consolidamento del potere sotto Hung-wu (1368-1398)
2. L’epoca vigorosa di costruzione e di espansione sotto Yung-lo (1403-1424) e i suoi successori, i quali
però a partire dalla metà del secolo, sfruttarono oltre il lecito le risorse imperiali
3. Un secolo di graduale declino del potere imperiale sia all’interno che all’estero
4. Un periodo di riforme nell’ultima parte del secolo 16
5. L’approfondirsi degli squilibri all’inizio del secolo 17 e il crollo finale

L’influenza di Hung-wu
Il primo sovrano Ming regnò per 32 anni lasciando una impronta così profonda nella storia della dinastia che la
sua personalità è da considerare come un fattore particolarmente significativo. Le stesse qualità che gli
avevano permesso di conquistare il trono, ossia l’intelligenza e la prudenza, l’abilità nello sfruttare le
superstizioni popolari, il rispetto per la lealtà degli avversari e l’indefessa attività, gli permisero anche di
diventare un abile amministratore. Ma nei suoi ultimi anni fu manifestamente oppresso da paure e sospetti,
talvolta da allucinazioni, e si abbandonò a violenti scoppi d’ira.
Altri fattori che contribuirono a determinare tale sviluppo sono probabilmente da ricercare nella particolare
situazione del tempo. La concentrazione del potere nelle mani di Hung-wu fu senza dubbio una risposta istintiva
al problema posto dalle necessità di distruggere i dominatori mongoli, dei quali si scorgevano facilmente la
tendenza a fare uso della pura forza e della debolezza derivante dalla mancanza di unità nella loro azione.
Ad ogni modo, la soppressione della carica di primo ministro e della Cancelleria centrale, nel 1380, non lasciò
al governo Ming altra guida che quella dell’imperatore.

L’ascesa degli eunuchi


Un altro gruppo che si mosse nel vuoto di potere lasciato dalla soppressione della carica di primo ministro fu
quello degli eunuchi della Corte Interna. Più volte Hung-wu esortò i suoi funzionari a guardarsi dal potenziale
pericolo rappresentato da costoro e a palazzo fece erigere una lapide di metallo alta 3 piedi con la scritta “Gli
eunuchi non devono avere nulla a che fare con l’amministrazione”. Provvide inoltre a fissarne il numero, il
grado, i titoli e la foggia di vestiario; proibì loro di accedere ai documenti, allontanò quelli che si interessavano
degli affari di stato e decretò che non dovessero ricevere istruzione alcuna.
Ciononostante, l’istituzione degli eunuchi continuò a essere parte integrante della Corte Interna. Col tempo gli
eunuchi cominciarono ad essere considerati un elemento indispensabile del personale degli uffici imperiali al
vertice del potere. Trascorsi i giorni gloriosi di Hung-wu e di Yung-lo, che avevano conquistato il trono sul
campo, vennero gli imperatori cresciuti nella Corte Interna, spesso personalmente legati agli eunuchi che erano
stati compagni della loro fanciullezza o loro precettori. Nel secolo 15 gli eunuchi di palazzo erano uomini di
cultura e svolgevano una funzione importante nell’amministrazione.
Le mansioni che essi svolgevano a palazzo si moltiplicarono, si elevò il loro rango e la loro influenza si estese
alla intera amministrazione. Negli anni tra il 1420 e il 1430 fu istituiva per gli eunuchi una scuola di palazzo,
diretta da alcuni membri dell’Accademia Hanlin.
In un ufficio centrale di Pechino (Il “recinto orientale”), costituito nel 1420 e accessibile soltanto all’imperatore,
essi tennero registri segreti del personale amministrativo; una anticipazione di uno degli aspetti dei moderni
sistemi delle polizie segrete. Gli eunuchi divennero, infatti, una branca separata dell’amministrazione.

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Le punizioni dei funzionari
L’arbitrarietà del dominio imperiale venne dimostrata da un’altra consuetudine largamente in uso sotto i Ming,
quella delle punizioni corporali inflitti agli alti funzionari di corte. Hung-wu aveva dichiarato di voler seguire gli
antichi sistemi: i funzionari non dovevano essere umiliati, bensì mossi dal loro senso della probità e dell’onore;
fu però il primo a seguire l’esempio mongolo, quello di infliggere ai funzionari la punizione dei bambù nel corso
di una pubblica cerimonia.
Inoltre, già il sottoporre i funzionari ad un trattamento simile era contrario alla dottrina confuciana, la quale
affermava che le punizioni sono da riservarsi alle masse ignoranti, mentre l’uomo superiore è mosso dalla forza
dell’esempio morale del sovrano. in ogni caso, il regime dei Ming, famoso per l’esaltazione della lettera dei
classici, è anche divenuto celebre per averne continuamente violato lo spirito.
L’arbitrario assolutismo dell’imperatore e l’imprevedibilità del suo favore andarono di pari passo con un altro
fenomeno tipico della corte dei Ming, i conflitti delle fazioni. Con l’andar del tempo, cricche di funzionari si
trovarono coinvolte in lotte senza fine; divise da un odio accanito, esse nominavano i propri membri a cariche di
governo, quando lo potevano, e accusavano di detentori del potere quando dal potere erano lontane. Queste
rivalità personali e di fazione assorbirono sempre più l’attenzione dei funzionari fino a che la caccia agli onori e
la conquista del potere sembrarono quasi aver eclissato i problemi più seri.

Il sistema del tributo e il Giappone


Dopo aver conquistato il trono, Hung-wu tentò immediatamente di riprendere il grande disegno dello stato
cinese sia all’interno che nelle relazioni con l’estero. A pochi mesi di distanza dalla sua ascesa al potere, nel
1368, inviò ambasciatori negli stati periferici, Corea, Giappone, Anna, Champa, Tibet e altri, ad annunciare la
sua assunzione al trono.
I rapporti con la signoria-vassallaggio stabiliti tra l’imperatore della Cina e i sovrani degli altri paesi erano intesi a
creare un ordine mondiale “confuciano”. In questo modo si esprimeva il “culturalismo” tradizionale, basato sul
presupposto che la Cina non soltanto era il più grande e il più antico degli stati, ma anche il loro progenitore e
la fonte della loro civiltà. Le relazioni tributarie significarono molto di più della semplice presentazione del tributo
e della accettazione del kotow, le “tre genuflessioni e le nove presentazioni”.
Il termine “sistema del tributo” può essere opportunatamente usato per indicare l’elemento fondamentale che
stava alla base delle relazioni con l’estero della dinastia Ming, ossia la superiorità dell’imperatore, il quale con le
sue funzioni universali rappresentava tutto il genere umano di fronte al potere invisibile ma etico del Cielo. In
breve, l’inserimento di potentati stranieri in una gerarchia di superiori e inferiori e l’esprimersi di questo fatto in
un particolare cerimoniale non significavano altro che una estensione al mondo circostante dell’ordine sociale
“confuciano” che il sovrano della Cina cercava di mantenere all’interno. Non si poteva pretendere di essere il
Figlio del Cielo in Cina senza agire come tale anche all’estero e viceversa.
Di conseguenza, al re vassallo veniva conferita una patente ufficiale di investitura insieme a un sigillo da usare
sui suoi memoriali, che dovevano essere datati secondo il calendario cinese, cioè secondo il “periodo annuo”
del sovrano cinese, e non secondo quello dello stato tributario. Il Figlio del Cielo ostentava un interesse paterno
per la tranquillità di questo stato, confermando la successione di nuovi sovrani, offrendo talvolta la sua
protezione militare contro gli attacchi, concedendo solitamente il privilegio del commercio con la Cina e in ogni
caso facendo cadere dall’alto omelie morali ed esortazioni nello stile confuciano.
Non si trattava da parte della Cina di un imperialismo aggressivo, ma piuttosto di un riflesso difensivo del
“culturalismo”: i sovrani stranieri, se avessero inteso stabilire contatti con il Regno del Centro, avrebbero
dovuto accettarne le condizioni, adattarsi ai suoi sistemi e riconoscere la supremazia universale del Figlio del
Cielo. Il commercio ocn la Cina poteva avere enorme importanza per lo stato vassallo e le formalità del tributo
era il prezzo che esso doveva pagare.

Il commercio giapponese e il “tributo”


Il sistema del tributo servì a più di uno scopo. Nel caso del Giappone, il principale intento di Hung-wu fu quello
di indurre il “re del Giappone” a reprimere l’attività dei pirati che compivano scorrerie lungo le coste cinesi. A
tale proposito, egli spedì tre missioni nel 1369-1372 usando di volta in volta lusinghe e intimidazioni.

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L’imperatore usò anche altri mezzi di costrizione come l’imposizione di restrizioni commerciali, ma tutto senza
successo. L’attività dei pirati giapponesi continuò.
“Voi stupidi barbari orientali! – scrisse Hung-lo nel 1380 allo shogun Ashikaga, il dominatore feudale del
Giappone – Vivendo così lontano oltre il mare… siete arroganti e sleali e permettete ai vostri sudditi di fare del
male”. Due anni dopo i giapponesi risposero per le rime: “La Terra e il Cielo sono vasti e non appartengono a
un solo sovrano… il mondo è del mondo e non è proprietà di una sola persona”. Falliti i tentativi di sottomettere
il Giappone al sistema del tributo, per un certo periodo la Cina troncò ogni rapporto.
Quando il sistema del tributo raggiunse la sua massima estensione durante il regno di Hung-lo, il terzo shogun
Ashikaga, Yoshimitsu, inaugurò un breve periodo di vassallaggio del Giappone alla Cina, verso la quale si
espresse in termini molto rispettosi, rivelando in tal modo la sua ammirazione per lo stato progenitore e il suo
interesse per il commercio, nonché l’influenza sinofila dei monaci Zen (Ch’an) alla sua corte. Nel 1401 una
missione giapponese recò un generoso tributo di prodotti tipici comprendente mille once d’oro, cavalli, ventagli,
il tutto accompagnato da una appropriata supplica di Yoshimitsu nella quale egli scriveva: “nella paura e nel
timore, prosternandomi ripetutamente”.
Il Figlio del Cielo rispose graziosamente: “Il Giappone è sempre stato chiamato paese di libri e di poesie ed è
sempre stato nel nostro cuore… conserva un animo leale e obbediente e accetta di conseguenza i principi
fondamentali”.
Nel 1403, Yung-lo ricostituì nelle province costiere meridionali le 3 Sovrintendenze alla marina mercantile che
erano state soppresse nel 1374, e fece costruire alloggiamenti per le missioni incaricate di offrire il tributo. In
questo periodo le ambascerie giapponesi approdarono alle coste della Cina una volta l’anno.
Le molteplici componenti del sistema del tributo sono illustrate dagli accordi commerciali intercorsi tra i Ming e
il Giappone. Seguendo la procedura abituale con i tributari, la corte cinese preparava una serie di contrassegni
di carta numerati, staccati da una matrice e inviati al sovrano vassallo, mentre naturalmente la matrice veniva
conservata. Quando una missione giungeva nel porto cinese designato per offrire il tributo e iniziare relazioni
commerciali, le sue navi, le merci e le persone erano oggetto di specifiche limitazioni, indicate su uno dei
contrassegni numerati che poteva essere verificato sulla corrispondente matrice. A una simile procedura
dovevano sottoporsi, a loro volta, le missioni cinesi all’estero. In tal modo era possibile riconoscere le missioni
ufficiali e tenere lontani gli impostori. Nel caso del Giappone, lo shogun poteva, almeno in teoria, mantenere il
suo monopolio commerciale, mentre i cinesi erano in grado di smascherare i mercanti di frodo.
Nel periodo di più di un secolo compreso tra il 1433 e il 1549, 11 missioni giapponesi giunsero alla corte cinese
con il sistema dei contrassegni numerati, sbarcando nel porto di Ningpo. Ne sorsero problemi di ogni genere:
rivalità in Giappone per entrare in possesso dei contrassegni ufficiali, conflitti in Cina con i turbolenti guerrieri
giapponesi, infine cavillazioni a Pechino sui prezzi da pagare per gli articoli “supplementari” del tributo (ossia le
merci oggetto di transizione), tra le quali erano compresi rame, zolfo, spade giapponesi. Come fecero qualche
tempo dopo i comandanti delle navi della Compagnia delle Indie orientali, anche i membri delle missioni
tributarie trasportarono spesso merci proprie da commerciare privatamente. Inoltre, essi ricevevano
dall’imperatore e dallo shogun doni molto generosi: fini tessuti, lingotti d’argento o monete di rame. Dal canto
loro, i templi buddisti in Giappone non solo trassero profitto dagli scambi culturali con la Cina, ma nutrirono per
questi privilegi commerciali un vivo interesse.

Le spedizioni marittime
Una delle principali iniziative di Yung-lo fu il tentativo di incorporare nel sistema del tributo gli stati dell’Asia
sudorientale e meridionale. Iniziate subito dopo l’avvento del trono di Yung-lo, nel 1405, le spedizioni furono
continuate dai suoi successori fino al 1433, in gran parte sotto la direzione di un eunuco musulmano della
corte, Cheng-ho, il quale essendo musulmano, era il più adatto a trattare con i sovrani islamici dell’Asia
meridionale. La prima flotta tenne il mare nel 1405-1407 e raggiunse l’India; anche la seconda e la terza
navigarono alla volta dell’India rispettivamente nel 1407-1409 e 1409-1411. La quarta spedizione, nel 1413-
1415 circumnavigò l’Asia fino al Golfo Persico.
Queste flotte cinesi veleggiarono più volte lungo tutte le rotte dell’Oceano Indiano quasi un secolo prima che i
portoghesi raggiunsero, nel 1498, l’India. I viaggi di Cheng-ho furono resi possibili anzitutto dallo sviluppo delle
tecniche di navigazione sulle rotte asiatiche.

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Dopo due o tre anni di assenza, queste eccezionali spedizioni fecero ritorno recando alla corte cinese un gran
numero di emissari incaricati di rendere il tributo, di nuove conoscenze e di curiosità. Esse raggiunsero le fonti
del commercio estero cinese, non soltanto lungo le coste dell’Asia sudorientale, ma anche a Ceylon, sulle coste
dell’India e nel Medio Oriente.

I motivi delle spedizioni e della loro fine.


I complessi motivi che costituirono il presupposto di queste spettacolari spedizioni marittime sono ancora
oggetto di controversia. Il regno di Yung-lo fu caratterizzato, come quello del fondatore della dinastia, da un
governo energico e vide il consolidamento delle istituzioni politiche all’interno e una esplosione di energia
espansiva alle frontiere della Cina, sia sul continente in direzione della Mongolia e della Manciuria, sia lungo le
coste verso le regioni meridionali. I viaggi di Cheng-ho furono l’espressione dell’esuberanza di un’epoca di
grande vitalità.
Naturalmente, i motivi personali ebbero la loro parte. Yung-lo aveva strappato il trono al nipote, ma si dice che
quest’ultimo, riuscito a fuggire, fosse scomparso e si temesse quindi di vederlo riapparire d’oltremare a
rivendicarne il trono. Ai capi eunuchi le spedizioni portarono avventura, fama e presumibilmente dei profitti,
anche soltanto maneggiando i fondi del governo. Ma anche gli interessi commerciali entrarono in causa, in
quanto collegati alle rotte stabilite dal commercio delle età precedenti.
Un altro motivo fu probabilmente di indole generalmente politica, ossia il tentativo di comprendere tutto il
mondo conosciuto entro lo schema del sistema cinese del tributo.
L’esame delle cause delle spedizioni Ming ci pone un altro problema, quello di spiegare perché esse furono
improvvisamente interrotte e non vennero più riprese o limitate.
Una delle ragioni che provocarono la cessazione di queste spedizioni dopo il 1433 fu certamente il loro alto
costo in un periodo, il quale le attività espansionistiche dei primi Ming, come le campagne contro i mongoli e la
costruzione della capitale a Pechino, avevano cominciato a intaccare le riserve imperiali. Le grandi flotte di
Cheng-ho divennero forse oggetto di aspre critiche a corte, dove furono considerate avventure costose e
produttive soltanto di racconti. Si trattava inoltre di iniziative promosse specialmente da eunuchi di corte e
quindi guardate con sospetto e ostacolate dai letterati-burocrati.
La potenza marittima cinese, che aveva le sue basi nelle flotte pescherecce e nelle giunche mercantili di centri
costieri, era andata rapidamente crescendo. La forza navale dei Sung meridionali e poi dei Yuan era aumentata
con lo sviluppo del commercio marittimo cinese, come testimoniano le grandi flotte inviate da Qubilay khan
contro il Giappone e l’Asia sudorientale.
Le flotte Ming stavano sviluppando le capacità nautiche e logistiche necessarie a trasportare forze armate e
merci in quantità rilevante in qualsiasi punto dei mari orientali.
Ma dopo il 1433 l’iniziativa di Yung-lo e Cheng-ho fu interrotta e abbandonata. La potenzialità tecnologica
sviluppata da questo lungo lavoro non venne sfruttata dalla politica del governo. Sul trono cinese, la corte Ming
non fu spinta verso il mare da un permanente interesse e non comprese la possibilità che si offrivano a una
potenza marittima. Le spedizioni Ming non ebbero seguito e rimasero degli isolati tours de force, delle semplici
imprese.

L’anticommercialismo dei Ming


Qusto contrasto è significativo per la luce che getta sulla natura della società cinese. Cheng Ho visse e navigò
un secolo e mezzo prima che Drake e gli altri capitani della regina Elisabetta cominciassero a gettare le basi
dell’impero britannico. L’estensione e il volume del commercio interno dell’impero cinese erano superiori a
quella dell’intera Europa; ma, pur avendone intravisto la possibilità, la Cina dei Ming non riuscì a diventare una
potenza marittima. La conseguenza di questo fallimento fu che i mari orientali, e persino le coste cinesi, furono
ben presto dominati da una serie di popoli marinari non cinesi: i giapponesi, portoghesi, spagnoli, olandesi e
infine, gli inglesi e gli americani. Da questo dominio navale e commerciale delle acque dell’Asia orientale da
parte di stati non cinesi emersero poi quelle forze espansionistiche e imperialistiche che alla fine umiliarono il
tradizionale impero cinese e ne provocarono la disintegrazione all’inizio del 20° secolo. Per scoprire le origini di
questo crollo, si può risalire alle concezioni e alle istituzioni anticommerciali dei sovrani e della burocrazia Ming.

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Questo atteggiamento tradizionale viene illustrato dal fatto che l’azione di Cheng Ho, in quanto eunuco di corte,
non conobbe alcuno dei moventi che spinsero più tardi i mercanti europei. Il suo potere e le sue possibilità di
ascesa, anche se egli attraversava l’Oceano Indiano, continuarono a dipendere dall’imperatore alla corte Ming.
Cheng Ho fu evidentemente un organizzatore, un comandante, un diplomatico e un abile cortigiano, non un
commerciante. Le sue spedizioni non portarono alla costituzione di compagnie privilegiate come la Compagnia
delle Indie orientali, autorizzate a fondare colonie o a stabilire governi oltremare. L’emigrazione di mercanti era
già in fase avanzata e in questa zona i cinesi furono in seguito sempre più numerosi degli europei che
sopraggiunsero; ma lo stato cinese, sia sotto i Ming che sotto i Ch’ing, non ebbe mai alcun interesse per queste
possibilità commerciali e coloniali oltremare.
L’indifferenza del governo Ming per il commercio estero si era già manifestata chiaramente nelle relazioni col
Giappone. Mentre il sistema del tributo divenne il principale vicolo del commercio non cinese con la Cina, esso
rimase agli occhi della corte Ming soltanto una istituzione politica.
Questo perché le entrate dei governi Ming e dei primi governi Ch’ing dipendevano soprattutto dall’imposta
fondiaria e non dalle tasse sul commercio. A questo riguardo essi si differenziarono notevolmente dai Sung
meridionali, le cui finanze si erano fondate soprattutto sul commercio estero.
Altri esempi di questo anticommercialismo, spiegano il fenomeno seguendo 3 linee di ricerca: la prima,
essenzialmente istituzionale, ideologica la seconda e strategica la terza.
La spiegazione istituzionale è la più comprensiva; essa risale all’ambiente originario nel quale ebbe origine
l’antica società cinese, sulla Grande Pianura lontano dal mare, dove la classe dominante costituì il proprio
potere usando lo strumento fiscale, incoraggiando l’agricoltura e sottraendo prodotti al coltivatore per
mantenere se stessa e lo stato.
Su questo atteggiamento influì senza dubbio lo sviluppo dell’ideologia, ossia lo stabilirsi della ortodossia
neoconfuciana come matrice del pensiero Ming. Essa riuscì a ridare vigore e a conservare i valori classici,
compreso l’antico disprezzo per il commercio. Di conseguenza, l’iniziativa del commercio con l’estero fu
lasciata ai potenti eunuchi, e questo servì a renderlo ancora più spregevole agli occhi dei funzionari.
Un altro degli elementi da considerare è forse di indole essenzialmente strategica, ossia il fatto che i Ming erano
decisi a impedire il ripetersi della conquista mongola. Come già abbiamo visto, i viaggi di Cheng-ho ebbero fine
nel 1433 probabilmente a causa del risorgere in questo periodo, della minaccia proveniente dall’Asia centrale.
Questo fatto servì ad accentrare l’attenzione dei Ming sul problema del controllo dei “barbari” delle praterie,
che nel corso dei 4 secoli precedenti erano giunti a dominare quasi incontrastati l’orizzonte militare e politico
cinese. Finché la politica dei Ming diede la priorità alla frontiera dell’Asia centrale essa fu portata a trascurare la
frontiera marittima della Cina. Né la potenza sul mare né il commercio con l’estero potevano frenare i mongoli.
L’obiettivo richiedeva invece arruolamenti di soldati e requisizioni di vettovaglie e di mezzi di trasporto terrestri.

Il problema mongolo
La principale preoccupazione di Hung-wu nel campo della politica estera era stata di spezzare la potenza
mongola, e questo rimase l’obiettivo principale della politica estera dei primi Ming. Il problema non consisteva
nel soggiogare e dominare le steppe della Mongolia, ma piuttosto nel distruggere l’unità delle tribù mongole,
ossia la fonte della loro straordinaria potenza militare.
Seguendo la tradizionale politica del “divide et impera”, in linea generale i cinesi tentarono di fare dei
seminomadi più vicini della Mongolia Interna degli alleati di confine contro le tribù della steppa della Mongolia
Esterna, ma ciononostante i mongoli continuarono a costituire una seria minaccia.
All’inizio del XV secolo, le tribù mongole della steppa si divisero in due grandi gruppi. Nella Mongolia orientale,
lungo il Kerulen e altri piccoli corsi d’acqua delle praterie, all’estremo nord della Muraglia, i tatar (Ta-tan in
cinese, nome che gli europei deformarono in “tartari”). Nella Mongolia occidentale, gli oirat. Queste tribù fecero
la loro comparsa nella storia con gli eserciti di Genghiz Khan e dopo la caduta dell’impero Yuan giunsero a
dominare le remote regioni dei monti Altai. La strategia cinese continuava ad essere quella di armare un
gruppo di “barbari” contro l’altro. Bande di mongoli erano ancora in grado di effettuare scorrerie nella Cina del
Nord, ma la loro unità, la principale realizzazione di Genghiz khan, era ormai un ricordo del passato.

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Le spedizioni di Yung-lo
Le vicende dinastiche dei Ming riflettono l’importanza che le relazioni con i mongoli avevano per l’impero
cinese; l’imperatore Yung-lo pose le basi del suo potere nel Nord, a Pechino, guidando spedizioni contro i
mongoli e stabilendo anche valide alleanze tra le tribù della regione di confine. Divenuto imperatore dopo aver
usurpato il trono nel 1403, Yung-lo guidò personalmente cinque grandi spedizioni militari oltre i confini
attraverso la steppa.
Si dice che Yung-lo, nella sua prima campagna contro i mongoli nel 1410, tra i mesi di marzo e settembre egli
riuscì a intimidire gli oirat, comprandoli con doni e assicurandosi la loro neutralità e sconfisse i tatar. In seguito,
però il capo degli oirat approfittò della vittoria cinese per estendere il suo controllo verso est. Tra l’aprile e
l’agosto del 1414, Yung-lo guidò allora un’altra spedizione e questa volta sconfisse gli oirat, sebbene al prezzo
di gravi perdite. In entrambe le spedizioni i Ming usarono contro i mongoli i cannoni.
Dopo pochi anni, però il capo dei tatar, sentendosi abbastanza forte, tornò a compiere scorrerie lungo il confine
cinese. I tatar riuscirono tuttavia a fuggire verso occidente lasciando nelle mani dei cinesi un ingente bottino.
Anche le successive campagne del 1423 e del 1424 non portarono alla cattura del capo dei tatar, e la seconda
si concluse anzi con la morte improvvisa di Yung-lo.

Il ruolo di Pechino
Il trasferimento della capitale da Nanchino a Pechino, effettuato da Yung-lo nel 1421, era stato uno dei sintomi
delle preoccupazioni difensive dei Ming di fronte al pericolo mongolo. Da quel momento la politica e la strategia
imperiali si accentrarono sulla frontiera settentrionale, dove Pechino si ergeva di fronte alla principale porta
d’accesso che congiungeva la Mongolia alla Grande Pianura.
Alcuni storici ritengono che il trasferimento della capitale a Pechino sia da considerarsi un mero accidente
storico, che ebbe però disastrose conseguenze, poiché spostò senza necessità il centro dell’amministrazione
imperiale su una frontiera instabile, in prossimità dei “barbari” e lontano dai centri della produzione e della
popolazione cinese. La capitale della Cina doveva servire anche come capitale della zona non cinese dell’Asia
centrale. I “barbari” rappresentarono una componente militare (e quindi politica) costante dell’impero cinese e
di conseguenza la capitale fu spostata in una regione periferica, verso l’Asia centrale.

Il commercio continentale
Le spedizioni punitive intraprese dai Ming contro i mongoli sono da considerarsi come parte di uno sforzo
inteso a ridurre i nomadi allo stato di tributari. Gli oirat, per esempio, si sottoposero al tributo nel 1408 e da quel
momento inviarono missioni quasi ogni anno; ma, aumentata la potenza della tribù, queste missioni diventarono
per i cinesi un mezzo dissimulato per assicurarsi la tranquillità con il versamento di un sussidio, una specie di
tributo alla rovescia.
Le missioni che giungevano ogni anno a Pechino erano guidate da emissari ufficiali, che si presentavano al
confine muniti dei contrassegni che servivano da lasciapassare. Secondo le regole, tali missioni avrebbero
dovuto comprendere poche decine di persone, ma in pratica le ambascerie oirat all’inizio del 15 secolo
contarono due o tremila membri, tra i quali parecchie centinaia di mercanti dell’Asia centrale. Questa folla di
persone veniva alloggiata e nutrita dalle autorità locali, giacché, come le delegazioni culturali che si invitano
oggi a Pechino, le missioni tributarie erano considerate ospiti del Regno del Centro. Se indugiavano al confine,
gli inviati oirat potevano consumare in un mese generi alimentari, il tutto a spese del governo locale. Arrivati a
Pechino, gli ospiti venivano acquartierati in appositi edifici, approvvigionati e invitati a banchetto una o due
volte.
Come tributo, gli oirat presentavano i loro prodotti tipici, ossia i cavalli e le pellicce. In cambio ricevevano i “doni
di risposta” dell’imperatore; si trattava generalmente di seta e tessuti di raso in quantità stabilite secondo la
qualità dei cavalli e delle pellicce. Alla presentazione del tributo nei recinti saci della Città Proibita seguivano
pochi giorni di libere contrattazioni sul mercato. In questa atmosfera di fruttuosi scambi, i “barbari” accettavano
le “tre genuflessioni e nove prosternazioni” come un atto formale che era parte di una tradizionale cerimonia di
corte.
Ottenuta in questo modo la sottomissione dei nomadi, la Cina doveva però sopportare i loro atti di banditismo
lungo la strada che andava dal confine alla capitale e la loro ubriachezza chiassosa nelle vie di Pechino. Ma per

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i mongoli il viaggio a Pechino era pieno di attrattive ed era fonte di guadagno. I tessuti cinesi si vendevano a
prezzi molto alti nell’Asia centrale, e in seguito aumentò di valore anche il tè cinese in tavolette; a loro volta i
cavalli e le pellicce ei mongoli erano molto apprezzati nella Cina del Nord.

I “predoni settentrionali”
Negli anni tra il 1430 e il 1440, proprio mentre venivano interrotte le spedizioni oltremare, il problema
tradizionale costituito dalle frontiere dell’Asia centrale ritornò in primo piano a causa di una violenta
recrudescenza della minaccia mongola.
Secondo le cronache, i rapporti tra i mongoli e i Ming nel secolo seguente si possono ridurre a un alternarsi di
scorrerie lungo i confini e di missioni tributarie, le une e le altre ugualmente vantaggiose per i nomadi irrequieti e
privi di mezzi. Il saccheggio era per le tribù della steppa un modo di vita, che i cinesi non riuscirono né a mutare
né a controllare. Gli ultimi Ming furono tormentati dai continui attacchi dei “predoni settentrionali” e dei “pirati
meridionali”, i mongoli e i giapponesi.

Conflitti con il Giappone


L’esempio delle missioni tributarie mongole e giapponesi può servirci a comprendere le ragioni che indussero
forse la corte Ming ad applicare in modo relativamente limitato il sistema del tributo oltremare dopo la prima
metà del 15 secolo. Le spese per i doni, il mantenimento e il trasporto delle centinaia di funzionari e di mercanti
che giungevano a Pechino, non erano direttamente compensate, almeno agli occhi dei cinesi, dalle merci che
tali missioni recavano alla capitale. Le umili e ornate dichiarazioni di sottomissione provenienti da remoti sovrani
sembravano un lusso troppo costoso. Gradualmente la corte di Pechino impose sempre maggiori restrizioni al
numero dei vascelli autorizzati a gettare l’ancora (normalmente due o tre) nei porti cinesi e a quello delle
persone cui era permesso raggiungere la capitale. Le missioni provenienti dall’Asia sudorientale divennero
sempre meno frequenti, e soltanto le isole Ryukyu continuarono regolarmente, con frequenza biennale, a
mantenere rapporti tributari, svolgendo in realtà la funzione di intermediari nel commercio sino-giapponese.

I “pirati giapponesi”
Il declino del potere centrale e il diffondersi dell’anarchia in Giappone avevano lasciato campo libero agli
avventurieri del mare, i giapponesi potevano, a seconda delle circostanze, praticare alternativamente il
commercio o il saccheggio. I loro principali punti di approdo alle coste debolmente difese della Cina erano, in
primo luogo, la foce dello Yangtze e la baia di Hangchow, le coste del Kiangsu e del Chekiang, alle quali
giungevano direttamente dal Giappone occidentale.
Prendendo rapidamente terra e attaccando i villaggi con le loro grandi spade, i pirati si rifornivano, prendevano
ostaggi, facevano bottino e quindi ripartivano.
Sebbene siano ricordati negli annali cinesi come i “pirati giapponesi”, questi predoni contavano nelle loro file
molti cinesi delle zone costiere. Contrariamente a quanto accadeva nelle scorrerie dei mongoli, i cinesi disertori
che partecipavano a queste incursioni non erano semplicemente dei consiglieri ma dei partecipanti attivi, e
negli ultimi decenni del dominio Ming, la maggioranza dei “pirati giapponesi” fu in realtà formata da sudditi
cinesi.
La risposta dei Ming ai crescenti disordini lungo le coste fu la proibizione del commercio marittimo. Era questo il
riflesso del disinteresse che la dinastia, fondata sulla terra e caratterizzata da una mentalità prevalentemente
agraria nutriva per il commercio estero. Il risultato di questa iniziativa fu di costringere gli equipaggi e i
comandanti a praticare per vivere il contrabbando o la pirateria, cosa che finì per acuire il problema che si
intendeva risolvere.
Le scorrerie dei pirati si intensificarono gradualmente nel 16° secolo e, dopo il 1550, si trasformarono in vere e
proprie invasioni.
Le incursioni giapponesi lungo la costa della Cina del Sud diminuirono soltanto con la riunificazione politica del
Giappone e nel tardo 16° secolo, ma con le invasioni della Corea negli anni 1590-1600 la concentrazione delle
energie militari del Giappone assunse una nuova forma.

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Le campagne coreane
I Ming vennero a conoscenza dell’intenzione giapponese di invadere la Cina attraverso la Corea da spie che
essi avevano sia in Giappone sia in Corea. Nel 1592, quando iniziò l’attacco, la corte di Pechino fu in dubbio se
inviare una flotta dalle province meridionali a invadere il Giappone o se stanziare un esercito al confine coreano
per osservare gli sviluppi della situazione o per negoziare la pace.
Venne quindi iniziata la mobilitazione mentre si inviavano rifornimenti e fondi in Corea, ma le forze Ming
attraversarono lo Yalu solo quando l’intera penisola fu nelle mani del Giappone. Un esercito penetrò in Corea e
attaccò Pyeongyang alla metà del 1592, subendo una rovinosa sconfitta; per guadagnare tempo Pechino
intavolò allora trattative con il comandante giapponese (Konishi Yukinaga). All’inizio del 1593, un generale
cinese che aveva pacificato i nomadi ribelli a Ning-hsia condusse un esercito oltre lo Yalu e colse di sorpresa il
comandante giapponese costringendolo ad abbandonare Pyongyang. Troppo fiduciosi, i cinesi si spinsero fino
ai sobborghi della capitale, Seoul,l dove caddero in una imboscata e patirono una rovinosa sconfitta. Le corte
spade della cavalleria cinese si rivelarono inefficienti di fronte alle lunghe spade, alle lance e alle armi da fuoco
della fanteria giapponese. Negli anni seguenti fu un alternarsi di scontri sanguinosi e di negoziati di pace finché i
giapponesi si ritirarono nel 1598, dopo aver effettuato un’altra invasione in forze nel 1597.
In questo periodo l’amministrazione Ming era già vicina alla bancarotta, dopo i continui sussidi ai mongoli e la
costruzione e ricostruzione dei palazzi di Pechino che richiedevano l’impiego di un legname che doveva ora
essere trasportato dalle province meridionali e sudoccidentali a causa del disboscamento della Cina del Nord.
Le invasioni giapponesi dalla Corea infersero l’ultimo colpo alle declinanti risorse dei Ming e aprirono la strada,
dopo il 1600, alla diffusione del banditismo all’interno e alla penetrazione degli invasori “barbari” dall’esterno.
Così, sia i “predoni settentrionali” sia i “pirati meridionali” furono il preludio all’attacco diretto sferrato dai
manciù, che provocò la fine della dinastia Ming.

La crescita economica: la “riforma dell’unica sferza”


In linea generale, dal 14° secolo all’inizio del 19° l’economia cinese sembra in costante espansione in quasi tutti
i settori: la popolazione, le aree messe a coltura, il volume del commercio con l’estero, la produzione di beni
artigianali e industriali e forse anche l’impiego della moneta.

La crescita dei trasporti e del commercio


Il problema che preoccupava maggiormente la corte era quello del trasporto dei cereali versati in pagamento
delle imposte dalle risaie e del basso Yangtze alla nuova capitale, Pechino. Finchè la capitale Ming era rimasta
a Nanchino, il problema non aveva assunto aspetti preoccupanti. I cereali per le truppe stanziate lungo il
confine mongolo e in Manciuria potevano essere trasportati per mare navigando intorno alla penisola dello
Shantung, come ai tempi della dinastia Yuan. Ma dopo che Yung-lo ebbe trasferito la capitale a Pechino, i
trasporti per mare vennero sempre più ostacolati dai pirati giapponesi, ed erano in ogni caso troppo costosi.
L’imperatore rimise quindi in funzione, nello Shantung occidentale, il “Canale di collegamento” che non era più
in uso e che in origine Qubilay khan aveva fatto costruire come parte del secondo tronco del Grande Canale, e
vi fece installare quindici chiuse.
Il trasporto dei cereali fino ai depositi di raccolta situati lungo il canale era ancora parte della prestazione di
lavoro che i contadini erano tenuti a fornire; l’obbligo divenne quindi per loro assai gravoso. I successori di
Yung-lo decisero allora di affidare l’incarico del trasporto ad alcuni reparti militari delle guarnigioni locali.
Naturalmente, il commercio tra il Nord e il Sud della Cina fu ulteriormente stimolato dallo sviluppo della capitale
e del sistema dei canali; un analogo incremento si ebbe nel commercio sullo Yangtze e nella Cina del Sud.
L’allargamento del mercato diede vita a una produzione artigianale specializzata e ad attività manifatturiere su
scala relativamente vasta. Un esempio è quello di Ching-te-chen, dove le fornaci imperiali lavoravano grossi
quantitativi di porcellana per il palazzo, per le classi superiori e anche per l’esportazione. Continuando la sua
grande tradizione, l’arte cinese del vasellame aveva sviluppato una nuova tecnica derivante dall’uso di una
speciale creta, nota ora col nome di caolino (“Alta vetta”).
Soochow, capoluogo del Kiangsu, divenne un centro nazionale del commercio, della finanza e della produzione
manifatturiera, in particolare della tessitura e della tintura della seta e di altri tessuti. Il Sungkiang, la regione
vicina, nel retroterra dell’odierna Shanghai, divenne nel tardo periodo Ming il centro della produzione delle

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stoffe di cotone; qui si lavorava il grezzo proveniente dalle altre province, meridionali e settentrionali, dove
veniva poi rinviato il prodotto pronto per la vendita. Nello stesso tempo, si stava sviluppando a Canon la
produzione specializzata di certi recipienti di ferro (pentole basse da cucina e tegami da usare direttamente sul
fuoco), che venivano largamente esportati in tutta la Cina, oltremare e nell’Asia centrale.
Un indice di questo sviluppo commerciale interno è rappresentato dal costituirsi, nel 16° secolo, di numerose
gilde regionali che avevano sedi nei centri principali e specialmente a Pechino.
Queste associazioni furono create soprattutto da funzionari e mercanti provenienti dalla stessa regione
(provincia, prefettura, distretto o città) al fine di poter disporre, in località lontane, e in particolar modo nella
capitale, di un centro che servisse ad agevolare le relazioni commerciali e a fornire aiuto agli affiliati.
Anche il commercio marittimo cinese conobbe, a quanto sembra, un rapido sviluppo nel tardo periodo Ming,
fuori dal quadro del sistema del tributo. Le missioni tributarie provenienti dall’Asia meridionale e sudorientale
divennero sempre meno frequenti, ma aumentò il numero dei mercanti cinesi che intrapresero viaggi oltremare.
In altre parole, il commercio estero non raggiungeva più la Cina per mezzo degli intermediari che, come i
mercanti arabi, avevano avuto una parte preminente durante i periodi Sung e Yuan. Al contrario, erano ora i
mercanti cinesi che portavano i loro prodotti all’estero e facevano ritorno con merci straniere immettendosi
nella corrente del traffico marittimo intorno alle coste della Cina.
Le principali rotte settentrionali delle giunche mercantili andavano da Ningpo, dalla baia di Hangchow e dal
basso Yangtze alla Corea, alla Manciuria meridionale e alla Cina del Nord. Il commercio meridionale scorreva
da Amoy e da Canton verso l’Asia sudorientale lungo due direttrici: quella orientale attraverso le Filippine e, a
est del Borneo, fino alle Molicche (che gli europei chiamarono poi le Isole delle Spezie); quella occidentale, che
raggiungeva il Siam e scendeva lungo la penisola malese fino allo stretto di Malacca. Quando gli europei
entrarono in questi canali del commercio asiatico orientale, dopo che i portoghesi ebbero occupato Malacca
nel 1511 e raggiunto per la prima la volta la Cina nel 1514, essi trovarono giunche mercantili e numerosi
trafficanti cinesi saldamente insediati in ogni porto.
In seguito, gli europei cominciarono a recare un contributo significativo al commercio estero cinese con
l’argento, che proveniva dalle miniere spagnole di recente fondate in America e che fu introdotto in parte da
Manila dopo il 1571, dai mercanti cinesi che lo acquistarono nei loro commerci con gli spagnoli, in parte dal
Giappone alla fine del 16° secolo a opera di mercanti cinesi, portoghesi e olandesi.
Si presume tuttavia che abbiano notevolmente contribuito a diffondere l’uso dell’argento come moneta in tutta
la Cina a partire dal tardo periodo Ming.

Le imposte sulla terra e sul lavoro


Nel corso del 16° secolo, le tradizionali imposte sulla terra e sul lavoro furono gradualmente riformate e
commutate in pagamenti in denaro; nel medesimo tempo vennero introdotte semplificazioni per diminuirne
l’estrema complessità, conglobando in una, molte piccole voci di pagamento. Grazie a quest’ultima modifica
l’intero movimento di riforma si chiamò riforma dell’ “unica sferza”. I-t’iao-pien che significa “riduzione a una
sola voce”.
Una breve esame di questa riforma servirà a indicare i mali che minavano il sistema fiscale Ming e a mostrare
come esso fu reso più razionale ed efficiente durante l’ultimo secolo dell’impero cinese commutando i
pagamenti in natura in pagamenti in denaro. Servirà inoltre a mettere in rilievo la capacità degli amministratori
locali del periodo Ming ad adattare le antiche istituzioni alle nuove condizioni.
I difetti che affliggevano il sistema Ming di imposta sulla terra e il lavoro erano cominciati con la falsificazione dei
registri locali. Sia le tenute che i gruppi familiari venivano classificati per gradi. Ciascuna famiglia era tassata in
base al numero degli acri e alla produttività della terra, nonché al numero dei maschi adulti. Essa veniva
sottoposta inoltre a una nuova classificazione ogni 10 anni circa. L’onere fiscale dipendeva quindi, anzitutto, dal
posto occupato nei registri locali delle terre e della popolazione.
La responsabilità del funzionamento locale del sistema gravava sulle famiglie più influenti, ossia le più ricche,
che si trovavano a turno alla testa del sistema li-chia in ogni gruppo di villaggio costituito da 110 famiglie (li). In
alcune province, esse avevano anche l’incarico di riscuotere le tasse. Tuttavia, il sistema dava
automaticamente alle famiglie più ricche l’opportunità di sottrarsi all’onere fiscale loro imposto con il semplice
espediente della falsificazione dei registri. Grazie alla complicità esistente tra loro e alla corruzione degli

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impiegati e dei piccoli funzionari, gli interessati potevano ridurre i loro oneri rispettivi, purché lo facessero
aumentando quello delle famiglie più povere fino a raggiungere la quota fiscale completa stabilita per la zona in
questione.
Molti erano i metodi che si potevano usare: dissimulare il numero dei maschi adulti, far scomparire
completamente le tenute dai registri oppure assicurarsi negli elenchi fiscali un posto più vantaggioso
registrando terre sotto il nome di un servo o di un affittuario, i quali non erano in grado né di sollevare obiezioni
né di dimostrare la reale situazione.
A causa degli speciali privilegi goduti dalle famiglie ricche, le più povere cercavano spesso protezione
trasferendo il possesso nominale delle loro terre al fine di sfuggire all’onere fiscale, trasferimento che veniva
effettuato dietro pagamento di una ricompensa alla famiglia più ricca.
Il risultato fu che i registri ufficiali, in capo a poche generazioni, persero completamente il loro significato,
mentre la tassazione si era fatta caotica e dipendeva interamente dal gioco degli interessi locali; in breve, un
ricatto organizzato esercitato dai potenti a danno dei più deboli. L’ammontare delle entrate, naturalmente,
diminuì; al vertice, il governo subì delle perdite, alla base, i contadini poveri furono più spremuti che mai, mente
nei gradi intermedi le grandi famiglie e i piccoli funzionari poterono beneficiare della loro complicità reciproca.
La confusione di questa situazione fu ulteriormente aggravata dalla complessità e varietà delle voci fiscali. Per
cominciare, le varie forme di possesso erano molto complesse. I diritti sulla terra potevano appartenere a
persone diverse a seconda che si trattasse del sottosuolo oppure della superficie; i diritti di superficie potevano
essere concessi a un affittuario, che a sua volta aveva la possibilità di subaffittare. L’affittanza assumeva varie
forme. Di conseguenza, gli oneri fiscali sulla terra erano altrettanto complicati.
Ma ancora più complessi erano gli obblighi relativi alle prestazioni di lavoro, che andavano soggetti a
manipolazioni anche maggiori, essendo basati su un elemento meno stabile della terra, ossia il numero dei
maschi adulti tra i 16 e i 60 anni.
Le varie forme di prestazione di lavoro – il sistema li-chia della responsabilità dei gruppi familiari per il
pagamento delle imposte, il “servizio eguale”, ripartito tra le persone, e i molti altri servizi nella loro minuta
varietà – diventarono più onerose con il progressivo corrompersi della intera istituzione. Le richieste di
prestazioni di lavoro gravavano a tal punto sui contadini poveri che famiglie prima, sezioni di villaggio e villaggi
interi poi, cercarono di sottrarsi ai loro obblighi. Poiché le quote fiscali solo raramente venivano diminuite, si
aggravò ulteriormente il peso sulle spalle di coloro che erano rimasti esposti all’esazione, dando origine a un
circolo vizioso.
L’elemento che alla fine paralizzò il funzionamento del sistema fiscale fu la commutazione della imposta agraria
in natura e delle prestazioni di lavoro nel pagamento di una somma di denaro. Sin dall’inizio della dinastia talune
prestazioni di lavoro erano state rese in denaro; ora, via via che questa forma di pagamento si estese alle altre
voci fiscali, gli agenti e i collettori delle imposte ebbero l’opportunità di aggiungere sovrattasse e aggravi, di
commutare prestazioni di lavoro in esagerate somme di denaro.
Il risultato fu l’imprigionamento dei contadini in una gigantesca ragnatela di imposte in denaro, riscosse in ogni
stagione dell’anno per una infinità di ragioni vere o supposte, ingiustamente stabilite e imperfettamente
registrate, senza un piano generale o una forma di controllo o di direzione superiore.

Il movimento di riforma
La riforma dell’“unica sferza” venne gradualmente effettuata, in una zona dopo l’altra, da molti funzionari
provinciali, sottoposti a forti pressioni, nel disperato sforzo di mantenere una struttura fiscale sistematica e delle
riscossioni regolari. Ciò accadde principalmente nel periodo 1522-1619, ossia nell’ultimo secolo di effettiva
amministrazione Ming. La riforma ebbe due aspetti principali: la riduzione delle varie voci fiscali ad una sola o a
poche e il pagamento delle tasse in argento. Poiché questo programma non fu diretto dall’alto e venne
realizzato con iniziative personali a livello locale, esso assunse forme diverse e variò notevolmente da n luogo
all’altro.
Per esempio, una riforma essenziale fu la semplificazione del sistema di classificazione delle terre.
Anche la classificazione dei maschi adulti venne semplificata e si impedirono così le manipolazioni illegali.
Un’altra riforma consistette nell’unificare le imposte fondiarie, combinando antichi oneri come quello sui prodotti
di seta con la tassa dei “cereali d’autunno” e spesso abolendo interamente la “tassa estiva”. Talvolta 30 o 40

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imposte diverse vennero raccolte in due o tre voci. In modo analogo vennero unificate le prestazioni di lavoro.
Inoltre, le due principali categorie fiscali, l’imposta fondiaria e la prestazione di lavoro, vennero talvolta
conglobate in una singola voce.
Nel corso di questo processo la classificazione dei gruppi familiari cominciò ad avere minore importanza,
mentre ne acquistò quella dei maschi adulti. Le aliquote fiscali dei distretti vennero ripartite più semplicemente,
secondo i due criteri abbastanza chiari del numero degli acri di terra e di quello dei maschi adulti, e commutate
in termini monetari in maniera uniforme. Infine, le scadenze per le riscossioni furono unificate così come
l’apparato relativo, e in questo modo si diminuirono le occasioni per estorsioni e frodi.
La riforma introdusse la pratica generale di pagare le imposte in argento anziché in natura, rendendone quindi
più facile il trasporto. Il governo usò quindi le entrate fiscali per corrispondere un salario ai lavoratori reclutati
per eseguire quelle prestazioni di lavoro alle quali in passato la popolazione era costretta.
La riforma abolì inoltre il vecchio sistema del pagamento indiretto attraverso i capi di sezione e di villaggio. Il
contribuente recava ora direttamente la somma che doveva versare allo “scrigno d’argento” del collettore
governativo, gli veniva rilasciata una regolare ricevuta. Il governo provvedeva poi a trasportare alla capitale
l’argento riscosso. Si tratta di una iniziativa intrapresa quando ormai l’amministrazione Ming, sempre meno
efficiente, si era lasciata alle spalle il suo periodo di maggior splendore. Molte dinastie si erano all’inizio fondate
sui servizi e le imposte in natura ed avevano visto il loro sistema fiscale deteriorarsi progressivamente nella
confusione e nella corruzione, finché nell’ultima fase del periodo dinastico un movimento di riforma era
sopraggiunto a ridare vita e semplicità al sistema.
La riforma dell’“unica sferza” è probabilmente un indice della crescita di una economia monetaria: l’afflusso di
metalli preziosi dall’America che stava cominciando, in questo periodo ad accrescere le disponibilità di argento
della Cina tanto come circolante che come mezzo di pagamento per le imposte.

Il crollo del governo Ming


Il dramma degli ultimi Ming presenta molti dei classici tratti di un declino dinastico: sovrani deboli e inetti, favoriti
corrotti che abusano del potere, conflitti di fazione tra i funzionari, bancarotta finanziaria, disastri provocati da
calamità naturali, movimenti di rivolta e, infine, l’invasione straniera.
Nessuna di queste sciagure ha risparmiato gli ultimi decenni della dinastia, dopo la morte di Chang Chu-cheng,
uno dei grandi ministri del tempo, che giunse al potere come Grande Segretario anziano durante il primo
decennio (1573-1582) del regno di Wan-li. Chang era in buoni rapporti con la Corte Esterna e aveva grande
influenza sul giovane imperatore. Egli tentò di aumentare il gettito dell’imposta fondiaria sopprimendo certe
esenzioni fiscali e riducendo i profitti e i privilegi sempre crescenti della classe dei funzionari e della famiglia
imperiale, tra i quali era compresa l’accumulazione di grandi domini terrieri.
Dopo la morte di Chang Chu-cheng nel 1582, l’imperatore Wan-li, che regnò per altri 38 anni fino al 1620,
divenne completamente irresponsabile. Non convocò i ministri per anni, si rifiutò di trattare gli affari di stato e di
provvedere alle necessarie nomine, lasciò che dilagassero mali di ogni sorta e intanto sperperò le risorse
dell’impero. Di conseguenza, la lunga era Wan-li, che è tra l’altro famosa per la cultura e le arti, vide anche un
grave inasprimento della pressione fiscale e l’aumento della corruzione e si concluse alla fine con un disastro.
L’imperatore 15enne che salì al trono nel 1620 era debole e si interessava soprattutto di carpenteria. Egli lasciò
che l’amico intimo della sua nutrice, l’eunuco Wei Chung-hsien (1568-1627), che era stato maggiordomo negli
appartamenti della madre, si impadronisse del governo.
Con Wei Chung-hsien quel vecchio male della corte che erano gli eunuchi si manifestò. Servendosi di un
piccolo esercito di eunuchi per controllare il palazzo e di una rete di spie e di informatori che si estendeva su
tutto l’impero, Wei reclutò tra la burocrazia i peggiori opportunisti, colpì con una purga i suoi nemici nei vari
gradi dell’amministrazione e oppresse le province con nuovi gravami fiscali.

La lotta delle fazioni: il partito Tung-lin


La resistenza confuciana a questa serie di calamità fu condotta principalmente da un gruppo di letterati noto
col nome di partito Tung-lin la cui lunga lotta e la finale sconfitta formano un suggestivo capitolo negli annali
della storia cinese. Nel 1604, essa fu ricostruita e ricostituita da una dozzina di letterati ex funzionari, molti dei
quali avevano ricoperto cariche nella amministrazione ed erano stati poi destituiti nel corso del conflitto delle

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fazioni di corte. Costoro si riunivano in sedute di discussione mensili e in assemblee annuali, scrivevano molto e
tenevano conferenze presso le accademie locali affiliate; in tal modo riuscirono ben presto ad estendere la loro
influenza tra i letterati e i funzionari delle altre zone.
Lo scopo dell’accademia Tung-lin era quello di condurre una crociata morale per ristabilire i principi tradizionali
della condotta confuciana e applicarli alla vita politica. Questi letterati condannavano l’eclettismo filosofico che
era divenuto popolare nel 16° secolo già al tempo di Wang Yang-Ming e che sembrava confondere insieme
confucianesimo, buddismo e taoismo. Essi riaffermavano la dottrina di Mencio, secondo la quale la natura
umana è essenzialmente buona, e mettevano l’accento sulla suprema importanza della integrità individuale. In
questi termini morali, essi denunciavano sia i loro oppositori sia i vari potentati della Corte Interna, Grandi
Segretari e eunuchi.
Essi riuscirono ad acquistare una posizione di predominio negli anni 1620-1623, poco prima che l’eunuco Wei
Chung-hsien si impadronisse del potere.
Nel 1624, un capo Tung-lin, Yang Lien, accusò Wei di 24 crimini, tra i quali era compreso, oltre a vari assassini,
il forzato aborto dell’imperatrice. Wei riuscì a mobilitare i nemici di riformatori e nel 1625-1626 reagì all’accusa
con il terrore e con una purga generale. Furono compilate liste di proscrizione comprendenti circa 700 seguaci
del partito Tung-lin. Moltissimi nomi vennero cancellati dai registri ufficiali. Eminenti personaggi furono
denunciati, condannati, destituiti. Le vittime più famose, Yang Lien e altre 5 persone, vennero poi chiamate “i
sei eroi”. Nel 1627, quando crollò il potere di Wei e dei suoi seguaci, il gruppo Tung-lin era stato praticamente
distrutto.
In realtà, il movimento Tung-lin non costituì un partito organizzato. I suoi aderenti non rappresentavano una
regione o una classe predominante.
Alla fine, il movimento Tung-lin dovette fronteggiare l’incarnazione stessa della immoralità, un eunuco che
aveva sovvertito le sacre funzioni del Figlio del Cielo e assassinato nel nome dell’imperatore gli uomini più
eminenti. Le torbide manovre di Wei Chung-hsien costituirono il punto più basso del lungo declino dell’autorità
della corte, delle risorse finanziarie e della solvibilità dell’amministrazione. Agli occhi della classe colta, che
esprimeva la “opinione pubblica” del tempo, la condotta di Wei non fece che completare la degradazione
morale del regime dei Ming, del quale nulla ormai poteva essere salvato.

La ribellione di Li Tzu-ch’eng
Di solito si dimentica che la dinastia Ming fu distrutta da un ribelle cinese prima di essere sostituita dagli invasori
manciù. Li Tzu-ch’eng (1605-1645) pose le basi della sua forza nello Shansi, ossia nel Nord Ovest, dove
capeggiò un gruppo di banditi. la provincia, a causa della carestia nel 1628 e della paralisi del governo
centrale, era afflitta da un diffuso banditismo. Nel 1631, Li si unì allo zio, che già si era dato alla macchia, e,
facendosi chiamare “Generale impetuoso”, costituì la sua base ai limiti della Grande Pianura.
Da questa località, diresse le sue incursioni.
Almeno due letterati si unirono a lui e lo consigliarono sui mezzi da seguire per procurarsi l’appoggio del
popolo. Essi diffusero canzoni e racconti che parlavano delle sue gesta eroiche, e con il loro aiuto Li distribuì
cibo agli affamati, nominò funzionari, si proclamò il fondatore di una nuova dinastia, conferì titoli a se stesso e
ad altri e giunse anche a battere moneta. Nel 1643, il ribelle aveva fatto di Hsiang-yang sul fiume Han la sua
capitale.
All’inizio del 1644 si impadronì dello Shansi e in aprile calò su Pechino da nordovest occupando la capitale
proprio nel momento in cui l’ultimo imperatore Ming, abbandonato e ridotto alla disperazione, si impiccava in un
padiglione sulla collina che sovrasta la Città Proibita.
Nel frattempo, il suo principale rivale, Chang Hsien-chung, la “Tigre gialla”, aveva acquistato nello stesso
periodo grande forza e reputazione. Dal 1630 circa Chang aveva devastato la Cina del Nord. Alla fine, nel
1644, formò un governo al completo, con i 6 Ministeri e una Grande Segreteria, diretto da autentici diplomati
metropolitani, che bandirono esami e coniarono monete. Ma la principale preoccupazione di Chang Hsien-
chung fu quella di stabilire sul paese il suo controllo militare annientando l’opposizione. Per questo fece largo
uso della politica del terrore specialmente ai danni della “gentry”. Il suo stato rovinò e i manciù lo uccisero nel
1647.

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Il crollo del potere dei Ming deve essere quindi attribuito non tanto alla struttura di queste istituzioni quanto al
loro cattivo funzionamento, provocato dalle pressioni e dalle tensioni che si accumularono.

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CAP.9 – L’APOGEO DELLA CINA TRADIZIONALE SOTTO I CH’ING

L’ascesa delle tribù manciù


La dinastia Ch’ing venne costituita all’inizio del secolo 17°, contemporaneamente alla fondazione delle colonie
americane, e durò fino al 1911. La Cina moderna, sviluppatasi all’ombra di questa dinastia, è stata sfavorita dal
fatto che il periodo Ch’ing ha coinciso con la maggior parte dell’età moderna e il paese è stato quindi dominato
da un regime e da un ordine sociale che hanno subito scarsi mutamenti. Questa lentezza del mutamento è
stata all’inizio una forza e alla fine un elemento di debolezza. Di conseguenza il periodo Ch’ing ha visto sia
l’apogeo che il declino dello stato tradizionale cinese. Nel 18° secolo la popolazione dell’impero era la più
numerosa e il territorio più esteso, tuttavia, il 19° secolo recò disastri senza fine in tutti i campi della vita e del
pensiero cinesi.

L’originaria dimora dei manciù


La storia del successo dei manciù può essere paragonata nelle sue linee generali a quella dei mongoli al tempo
di Genghiz khan. In entrambi i casi un capo energico riuscì, cogliendo il momento opportuno, a unificare il suo
popolo dandogli il senso della propria identità e a metterlo in marcia fino a portare i suoi discendenti a dominare
l’intera Cina. Sebbene diversi sotto molto aspetti, sia i manciù che i mongoli costruirono la loro straordinaria
forza militare in una regione non sottoposta al controllo cinese.
La nazione in armi dei manciù, che dominò per due secoli l’Asia orientale continentale, discendeva dalle tribù
jurched dello stesso gruppo tunguso dei fondatori della dinastia Chin (1122-1234). I manciù costruirono la loro
potenza in una zona ai margini della cultura e della amministrazione cinesi e fu quindi loro possibile accogliere
in modo selettivo l’influenza cinese, senza essere completamente soggiogati o sinizzati. Fatto ancora più
importante, essi furono in grado di apprendere le tecniche di governo nel periodo in cui il sistema
amministrativo dei Ming era manifestamente in declino.

I comandi militari Ming


In questo caso l’organizzazione difensiva dei Ming non poteva limitarsi a un elemento statico come la erezione
di mura, ma doveva fondarsi sull’avvio di rapporti con i “barbari” al fine di estendere l’egemonia politica della
Cina alle tribù e quindi soggiogandole. Un precedente era stato creato da Hung-wu, quando aveva costituito
lungo il confine mongolo delle unità militari. Create nel 1370-1375, esse rappresentarono il primo passo nel
tentativo, coronato da un successo solo parziale, di assorbire i mongoli della frontiera nella amministrazione
civile cinese. In questo processo di assorbimento, i mongoli furono dapprima registrati come “gruppi familiari
militari” e quindi inseriti nelle forze Ming con i loro capi tribali come ufficiali.
Sotto Yung-lo, tale sistema fu applicato con maggior successo alle tribù della Manciuria. Gradualmente, tutte
queste tribù ricevettero lo status di comandi e vennero arruolate come unità militari sotto i Ming.

Il controllo dei Ming sulla Manciuria


La politica di Yung-lo fu diretta a estendere l’influenza cinese su questa zona e quindi a eclissare quella della
dinastia Yi di recente fondata in Corea, dato che molte tribù jurched lungo il Tumen erano diventate tributarie
della Corea e fornivano soldati ai suoi eserciti. Ambasciatori dei Ming si recarono quindi presso i jurched
portando doni per convincerli ad accettare la condizione di tributari e sottrarli così all’influenza coreana. In
genere, questi ambasciatori erano jurched entrati al servizio della Cina. Una volta passati dalla parte dei Ming, i
capi tribali ricevevano l’appoggio cinese per ritirare i loro uomini dal territorio coreano. La concessione da parte
dell’imperatore di onori e decorazioni servirono a unire i “barbari” all’impero. Un’altra tattica seguita fu quella di
trasformare i capi tribali quasi in proprietari assenteisti, lasciando che trasferissero la loro residenza nel più
piacevole ambiente di una città cinese del Liao-tung, o anche nella capitale, in modo da sinizzarli
completamente.
Per realizzare il suo programma, Yung-lo inviò anche spedizioni nel bacino inferiore del fiume Amur e, nel 1404,
costituì il lontano comando di Nurgan. Lo scopo non era quello di annettere la regione dell’Amur, ma di
“prevenire una futura minaccia”, ossia una eventuale conquista da parte dei “barbari” del Nord Est.

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Poiché nel 15° secolo si andò aggravando la minaccia dei mongoli, l’obiettivo strategico di Pechino nel Nord Es
fu di impedire a ogni costo l’unificazione dei “barbari”.
Per mantenere l’ordine e la pace tra le tribù mancesi la corte Ming si valse sia dell’etica confuciana sia del
metodo delle pene e delle ricompense. Seguiva l’esortazione a riflettere, a pentirsi e a mutare condotta. Gli
eserciti Ming e coreani svolsero in seguito un’azione congiunta, avendo i sovrani coreani della dinastia Yi
adottato la tradizionale politica di lealtà verso l’imperatore della Cina. Essi eliminarono i capi jurched ma
lasciarono che i loro figli li sostituissero. Nel 1478, a causa della continua e sfrenata attività dei “barbari”,
un’altra spedizione militare Ming e coreana attaccò dai due lati i jurched. Ma le incursioni e le scorrerie delle
tribù non cessarono. Per proteggere le missioni tributarie coreane che attraversavano la Manciuria meridionale,
i Ming costruirono infine tre fortezze, presidiate, e innalzarono altre 45 torri illuminate.
Questo convinse le tribù di Chien-chou a riprendere con molta deferenza l’invio di missioni annuali. Con
l’aumento delle risorse delle tribù, risultato della combinazione della loro economia tradizionale, basata sulla
caccia e sulla pastorizia, con il commercio e l’agricoltura, anche i “barbari” furono in grado di costruire piazze
fortificate, destinate a servire nelle lotte interne tra gruppi tribali.
Fu su questa frontiera che crebbe la potenza dei manciù col progressivo decadere della dinastia Ming. La
difesa della Cina richiedeva la sinizzazione dei “barbari” per trasformarli in leali sudditi dell’impero, ma fu proprio
questa politica che, in un periodo di debolezza imperiale, diede agli stessi “barbari” l’opportunità di fondere la
loro naturale forza militare con tutto ciò che avevano appreso dei modi di vita cinesi. I risultati furono una
formidabile sintesi di istituzioni e un nuovo potere statale.

La costituzione di uno stato manciù sinizzato


Nurhachi (1559-1626), il fondatore dello stato manciù, seguì la tradizione di Genghiz khan aprendosi la strada
verso il potere col pretesto di vendicare la morte del padre e del nonno, uccisi nel 1582 in uno scontro al quale
presero parte il comandante cinese del Liaotung e un capo jurched alleato, che divenne per questo il principale
bersaglio di Nurhachi.
Nurhachi fortificò i territori in suo possesso, sposò la figlia e la nipote di due potenti capi e soppresse il
banditismo, meritandosi l’elogio dei cinesi. Accettò quindi il vassallaggio di capi tribali minori e, nel 1590, ne
guidò più di 100 a presentare il tributo a Pechino. Nel 1595, la corte Ming gli conferì il titolo di “Generale drago-
tigre”, il più ambito tra quelli fino a quel momento attribuiti a un capo jurched.
Naturalmente, l’ascesa di Nurhachi fino a raggiungere una potenza che gli permise di sfidare la dinastia Ming
non fu soltanto una questione militare, ma anche di ordine politico, economico e amministrativo. Furono
necessari 30 anni di trattative e di compromessi, di matrimoni e di alleanze, e anche di sporadici conflitti, per
unire le quattro principali tribù jurched stanziate più a nord. Nel frattempo, egli gettava le basi amministrative ed
economiche del suo dominio.

Le bandiere manciù
Mentre il suo potere si andava consolidando, Nurhachi evitò ogni conflitto con i Ming e le tribù mongole e
rivolse tutta la sua attenzione al problema della unificazione del suo popolo. Fino al 1609 inviò infatti
regolarmente il tributo a Pechino; nel frattempo portava a termine la sua più grande opera, la creazione di
nuove istituzioni amministrative.
Tra queste la più importante fu il sistema delle “bandiere”, introdotto gradualmente dopo il 1601. Compagnie di
300 uomini furono raggruppate dapprima sotto 4 bandiere con i colori giallo, bianco, azzurro e rosso. In seguito
se ne aggiunsero altre 4, con gli stessi colori ma orlate di rosso, fatta eccezione per la bandiera rossa, orlata di
bianco. Nelle unità formate da queste 8 bandiere, e nei loro reparti interni, furono arruolati i membri di tutte le
tribù e in tal modo l’organizzazione tribale venne trasformata in organizzazione burocratica. L’intera
popolazione, compresi i prigionieri, gli schiavi e i servi, venne quindi registrata nelle varie bandiere e sottoposta
quindi alla tassazione, alla coscrizione, al controllo e alla mobilitazione attraverso queste unità amministrative
del nuovo stato. Invece di essere comandate da capi tribali ereditari, le bandiere furono ben presto poste agli
ordini ufficiali nominati dall’alto, ai quali si aggiunsero impiegati incaricati di tenere i conti; il comando supremo
fu però riservato ai discendenti di Nurhachi appartenenti a quello che doveva diventare il clan imperiale.

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La scrittura e l’amministrazione
Un’altra delle realizzazioni di Nurhachi fu lo sviluppo di un sistema di scrittura per scopi amministrativi. In origine
egli si era servito del mongolo, scritto a colonne verticali. Nel 1599, ebbe al suo servizio un interprete che
conosceva 3 lingue, il quale scrisse le parole jurched modificando l’alfabeto mongolo e intraprese la traduzione
di opere cinesi, come la Raccolta di leggi e regolamenti dei Ming relativamente alle questioni penali, nella nuova
scrittura manciù. Questo sistema fu perfezionato nel 1632, con l’aggiunta di segni diacritici (punti e cerchi) alle
lettere mongole. In tal modo, non solo la nuova scrittura rese più facile il disbrigo degli affari di governo, ma
permise anche la rapida adozione della ideologia politica confuciana, particolarmente per ciò che concerneva
le funzioni del sovrano.
Nel 1616 Nurhachi assunse il titolo di imperatore della dinastia Chin posteriore, per continuare la dinastia Chin
che aveva regnato dal 1122 al 1234. Successivamente, nel 1635 il suo successore stabilì che fosse usato il
nome “manciù” per tutte le tribù jurched.
Nurhachi riuscì con l’aiuto cinese a creare una amministrazione civile e nel 1618 attaccò apertamente i Ming,
occupando parte del Liaotung; in questa occasione fece prigioniero un diplomato cinese, Fan Wen-ch’eng,
nativo di quella regione.
Fan divenne il consigliere fidato di Nurhachi e dei suoi successori, una figura chiave della nuova segreteria di
governo. Nel 1625, Nurhachi trasferì la sua capitale a Mukden. Dopo la sua morte, nel 1626, gli fu conferito il
titolo postumo di T’ai Tsu (“Grande Progenitore”), secondo il costume delle dinastie del passato.
A Nurhachi succedettero 2 capi, altrettanto abili e capaci. Il suo ottavo figlio Abahai (1592-1643), valoroso
guerriero ed energico sovrano, eliminò ben presto i fratelli che con lui dividevano il potere e in tal modo gettò le
basi del proprio potere personale. La sua politica aprì la strada alla conquista della Cina del Nord, che venne
però effettuata dall’uomo che detenne il potere dopo di lui, Dorgon (1612-1650), 14° figlio di Nurhachi.
Per consolidare la loro autorità, i primi sovrani manciù dovettero anzitutto subordinare i sistemi di governo della
tradizionale del clan, fondati sulle decisioni di gruppo, al nuovo principio monarchico; e il confucianesimo, con
le sue dottrine e la sua pratica politica, offriva mezzi atti al raggiungimento di questo scopo. I capi del clan
imperiale furono chiamati a far parte di un Consiglio di Stato al quale, in quanto organo del potere centrale,
dovettero subordinarsi. I capi del clan imperiale furono chiamati a far parte di un Consiglio di Stato al quale, in
quanto organo del potere centrale, dovettero subordinarsi. Alla fine il clan imperiale manciù venne
completamente estromesso dall’amministrazione, ma ciononostante i suoi membri rimasero concentrati nella
capitale. La loro più importante funzione politica, dopo la conquista, fu quella di assicurare il trono a sovrani
energici e di evitare che il governo cadesse nelle mani delle donne e degli eunuchi, che avevano portato alla
rovina le precedenti dinastie. Dal canto suo, il sovrano fece di tutto per presentarsi come un perfetto
confuciano.
Il successo dei manciù dipese in gran parte dall’aver essi organizzato il potere statale alla maniera cinese, oltre
che dall’impiego di collaboratori cinesi. Via via che l’organizzazione burocratica sostituiva gli usi tribali si
rendevano necessari in misura sempre maggiore gli uomini di cultura e gli amministratori.
I cinesi entrarono sempre più numerosi al servizio del nuovo regime, attratti dalla prospettiva di far parte di un
forte ed efficiente governo di tipo “confuciano”, entro il quale fosse possibile raggiungere le più alte cariche.

La conquista manciù
I manciù riuscirono a impadronirsi di Pechino nel 1644 anche perché il comandante cinese di Shanhaikuan li
invitò a passare la Muraglia per servirsi del loro appoggio nel gioco della politica dinastica cinese. Ma il rapido e
clamoroso successo degli invasori non deve in alcun modo essere considerato come un fatto storico
accidentale. Con la loro organizzazione militare e amministrativa, i primi sovrani manciù si erano già posti come
i principali pretendenti al trono di Pechino.
Il figlio di Nurhachi, Abahai aveva rapidamente esteso la potenza dello stato manciù. Nel 1627 e nel 1636-
1637, egli attaccò la Corea riducendola alla condizione di stato vassallo.
Nel 1636, Abahai proclamò a Mukden la ondazione della dinastia Ch’ing (“Pura”) seguendo l’esempio dei Yuan
e dei Ming, ossia scegliendo un nome dinastico di significato generale, non indicativo di un certo territorio.
La figura chiave del dramma del 1644 fu un generale cinese al servizio dei Ming, Wu San-kuei (1612-1678),
che era nato nel Liaotung e aveva avuto in precedenza il comando in quella regione. Poiché il ribelle Li Tzu-

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cheng, si avvicinava a Pechino, l’imperatore Ming chiese soccorso a Wu San-kuei, ma la capitale cadde prima
che Wu arrivasse e il generale si ritirò allora a Shanhaikuan mentre Li Tzu-ch’eng avanzava per attaccarlo.
Piuttosto che cadere nelle mani di un bandito cinese ribelle, Wu preferì arrendersi al manciù Dorgon, le cui
bandiere erano in attesa a est del passo. Con le loro forze unite, essi sconfissero poi Li Tzu-ch’eng e lo
costrinsero ad abbandonare Pechino, annientando l’anno dopo le sue forze. Nel corso dei 3 decenni che
seguirono, Wu San-kuei collaborò all’insediamento della dinastia manciù e ne ebbe in cambio un grande potere
personale.
All’invasione Ch’ing i principi Ming opposero soltanto una resistenza individuale e priva di coordinamento. Uno
di loro a Nanchino e altri due sulla costa sudorientale furono sconfitti nel giro di pochi anni. La resistenza più
accanita fu opposta da un nipote dell’imperatore Wan-li, il principe di Kuei, che si andò spostando nelle varie
regioni della Cina del Sud con l’alternarsi delle sue fortune militari e che fu infine costretto a cercare rifugio in
Birmania. Respinte le ultime truppe del passato regine oltre i confini dello Yunnan, Wu San-kuei inseguì questo
ultimo pretendente Ming entro i confini della Birmania, dove il principe di Kuei fu strangolato nel 1662.
Wu si costituì quindi una strapia nello Yunnan e nel Kweichou, stabilì a proprio vantaggio dei monopoli
commerciali e riuscì anche a ottenere delle casse del governo centrale dei Ch’ing 20 milioni di tael all’anno per
mantenere le forze armate. Altre 2 satrapie vennero formate nello stesso periodo.
Per molti anni la Cina del Sud rimase così sotto il controllo di collaboratori cinesi dei manciù, e il loro potere
locale rivaleggiò con quello della corte dei Ch’ing a Pechino. Quando nel 1673 Wu si ribellò ai Ch’ing, il suo
esempio fu ben presto seguito dagli altri due satrapi in quella che è nota come la Rivolta dei 3 Feudatari,
domata soltanto nel 1681.

La conquista di Taiwan
L’ultimo territorio cinese a cadere nelle mani della nuova dinastia fu l’isola di Taiwan, come è chiamata in Cina o
in Giappone, o di Formosa, secondo la denominazione portoghese. Sebbene frequentata nel 16° secolo da
mercanti e pirati provenienti dai paesi più diversi, Taiwan non era stata sottoposta all’amministrazione Ming.
Dopo il 1624 gli olandesi stabilirono sull’isola parecchie basi, tra le quali la più importante (“Il Castello di
Zelanda”) ad Anping, sulla costa sudoccidentale.
L’ultima scintilla della resistenza antimanciù fu mantenuta viva a Taiwan da Cheng Ch’eng-kung (1624-1662) e
dalla sua famiglia. Suo padre aveva fatto fortuna come pirata e avventuriero, a contatto con i portoghesi a
Macao, con i spagnoli a Manila e con i giapponesi nell’isola di Hirado; a Hirado appunto egli sposò una
giapponese e dal matrimonio nacque Cheng Ch’eng-kung. Cheng Ch’eng-kung divenne uno dei favoriti della
corte rifugiata a Nanchino, dalla quale ricevette il cognome imperiale di Chu, donde l’appellativo popolare di
Kuo-hsing-yeh (“Signore dal cognome imperiale”), che gli olandesi deformarono in “Koxinga”. Dal 1646 al
1658, egli controllò gran parte della costa del Fukien dalla sua base nella regione di Amoy.
La tattica impiegata dai Ch’ing per fronteggiare la forza marittima di Koxinga fu una continuazione delle
tradizioni terrestri del passato. Riprendendo la politica usata dai Ming contro i pirati giapponesi, nel 1655 essi
sottoposero a restrizioni il commercio estero nel vano tentativo di tagliare i rifornimenti ai lealisti Ming. Koxinga
reagì nel 1659 attaccando in forze Nanchino; sconfitto, assalì Formosa nel 1661, scacciando gli olandesi nel
1662. La morte di Chen Ch’eng-kung non provocò la fine del regime che egli aveva creato poiché uno dei figli
gli succedette.
I Ch’ing fecero allora ricorso a una misura drastica, quella di costringere la popolazione della cosa a evacuare
le isole e a muovere verso l’interno; si formò in tal modo una fascia di terra spopolata, separata dal resto del
paese da una linea vigilata da pattuglie, per impedire a Formosa l’accesso alle sue fonti continentali di
rifornimento di uomini e vettovaglie, per troncare il commercio della seta, e rendere inefficaci le incursioni del
nemico. L’evacuazione forzata, con tutti i disagi che essa comportò, è un esempio della tradizionale autocrazia
dello stato cinese. Diversamente dalla politica della “terra bruciata” seguita nel 1937-1938 durante la
resistenza anti-giapponese, essa non poté fondarsi su giustificazione di ordine patriottico e quindi riscuotere
l’approvazione di coloro che ne subirono le conseguenze.
Soltanto in parte colpito da queste iniziative dei Ch’ing, il regime di Formosa fu infine coinvolto nella Rivolta dei
Tre Feudatari, che cercò di appoggiare. Domata la rivolta, le forze dei Ch’ing riuscirono infine a occupare
l’isola, nel 1683, con l’aiuto degli olandesi.

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Con la conquista manciù, malgrado il rapido successo del 1644, si protrasse in realtà per due generazioni, dal
1618 al 1683, e fu completata soltanto dal quarto successore di Nurhachi, K’ang-his, il secondo imperatore
Ch’ing che regnò a Pechino (1661-1722). La dinastia raggiunse l’apice della sua potenza soltanto con i 60 anni
di regno di Ch’ien-lung (1736-1795), il quarto sovrano entro la Muraglia.

L’impero Ch’ing nell’Asia centrale


Ben presto i Ch’ing fecero propria la tesi secondo la quale per dominare la Cina era necessario controllare
l’Asia centrale e molto prima della conquista cominciarono a condurre le operazioni necessarie per incorporare
nel nuovo stato le tribù della Mongolia Interna; questo li portò, alla fine del secolo 17°, alla conquista della
Mongolia Esterna e, nel secolo successivo, alla occupazione dell’Ili e del Turkestan cinese, nonché a stabilire
un protettorato sul Tibet. In tal modo, le pretese dei Ch’ing si tradussero in una dominazione effettiva.

Il controllo sui mongoli


I manciù cominciarono nel 1634-1635 con lo sconfiggere i mongoli interni, arruolandoli quindi come vassalli, e
subito dopo come alleati, nelle bandiere mongole. Da quel momento i mongoli entrarono al servizio dei Ch’ing e
per il disbrigo degli affari di corte si usarono indifferentemente il mongolo, il manciù e il cinese. La dinastia offrì
inoltre ogni possibilità ai mongoli di talento, sia accogliendoli nei suoi eserciti sia permettendo loro di
partecipare, come avvenne in molti casi, all’amministrazione della Cina.
Nello stesso tempo i Ch’ing mantennero e rafforzarono tutti i dispositivi che erano serviti ai Ming per tenere in
scacco i “barbari”, ossia assegnarono a ogni tribù una determinata zona geografica, confermarono la
successione dei nuovi capi, conferirono titoli e onori, controllarono i consigli intertribali e le comunicazioni
postali, permisero un commercio regolamentato in determinati luoghi di mercato, concedettero i tradizionali
doni alle missioni tributarie ufficiali. In breve, i Ch’ing continuarono a sfruttare il vantaggio naturale della Cina
come fonte di cultura, di commercio, di oggetti di lusso e conservarono al Figlio del Cielo il suo tradizionale
ruolo di depositario della autorità legittima.

La conquista dell’Ili e del Turkestan


Alla fine del secolo 17°, un discendente del capo oirat Esen giunse al potere sui monti e le praterie a nord del
Turkestan cinese, ossia nella regione dei monti Altai e della valle del fiume Ili, che era stata una delle più
frequentate vie d’accesso dall’Asia occidentale. Questo nuovo capo era Galdan, khan della tribù dzungar, una
delle tribù dei mongoli occidentali.
Di fronte alla minaccia, l’imperatore K’ang-hsi dei Ch’ing mobilità le sue truppe e finalmente, nel 1696, guidò
personalmente, come Yung-lo dei Ming, circa 80mila uomini.
La potenza di Galdan fu distrutta a sud di Urga in una grande battaglia che, grazie alla artiglieria impiegata dai
Ch’ing, fu un po’ il simbolo della fine di un millennio di prevalenza militare dei nomadi. La Mongolia Esterna
ritornò quindi più saldamente sotto il controllo di Pechino.
Ma i mongoli occidentali, e specialmente i dzungar, anche se fermati nella loro espansione verso oriente,
continuarono a essere causa di disordini nelle remote regioni del Nord Ovest. Agli abituali antagonisti tra tribù e
ai conflitti di successione si aggiunsero interessi di natura religiosa e l’influenza mongola nel Tibet, la “terra
santa” del lamaismo. La diffusione del lamaismo fu un elemento assai importante nella evoluzione della vita dei
mongoli e divenne un problema che richiese tutta l’attenzione dei Ch’ing.
Le relazioni tra Pechino e i mongoli occidentali e quelle con il Turkestan cinese vennero regolate in modo
definitivo negli anni 1750-1760, dopo una lunga serie di ribellioni, assassini e migrazioni nella Mongolia Esterna.
Le forze dei Ch’ing, al comando di un generale manciù, Chao-hui, occuparono infine la regione dell’Ili per 3
volte negli anni 1755-1757, annientando praticamente i dzungar. Nell’Ili furono stabilite guarnigioni e colonie
penali e la regione fu posta sotto il controllo di un governatore militare.
Inoltre, il generale Chao-hui soffocò nel 1758-1759 una ribellione musulmana nel Turkestan, gettando le basi di
una dominazione che durerà per un intero secolo. Dopo i precedenti delle dinastie Han, T’ang e Yuan, fu
questo il quarto grande periodo durante il quale il Figlio del Cielo comprese tra i territori sottoposti al suo
governo il bacino del Tarim fino al massiccio del Pamir, che divide l’Asia orientale dall’Asia occidentale.

108
L’incorporazione del Tibet nell’impero
Il Tiber è un paese fondamentalmente limitato dalla sua geografia, la pianura settentrionale è priva di alberi,
arida, fredda e battuta dai venti. Questa regione abitabile degrada verso oriente in un’altra zona, che diventa
più boscosa e adatta alla coltivazione man mano che si avvicina alle province esterne della Cina. Tra il 7° e il 9°
secolo il Tibet costituì una piccola ma potente forza militare in grado di compiere incursioni devastatrici in India
o, in Cina, fino a Ch’ang-an. Nel primo periodo Ming relazioni tributarie con il Tibet divennero regolarmente
registrate a Pechino. Yung-lo, in particolare, ricevette ambascerie, conferì titoli, confermò nomine. Percorrendo
le strade usate dal servizio di posta giunsero e ripartirono da Pechino dei lama tibetani, che talvolta risiedettero
in Cina molto a lungo.

La Setta Gialla del lamaismo


Un lama che non accettò l’invito rivoltogli da Yung-lo e non si recò in Cina fu Tsong-kha-pa, grande riformatore
religioso e fondatore di una nuova setta del lamaismo. Lo scopo delle sue riforme era quello di restaurare la
disciplina monastica nel buddismo tibetano, e per questo egli rafforzò il celibato, impose l’uso di tuniche gialle e
l’introduzione di regole come le riunioni, le confessioni e i ritiri, oltre ad altre pratiche della vita monastica.
Questo movimento riformatore si chiamò “setta virtuosa” ed è generalmente noto come la Setta del Cappello
Giallo.
Al tempo degli ultimi Ming l’influenza della Setta Gialla si diffuse in Mongolia. Il nomadismo, la costante mobilità
e la posizione geografica portarono naturalmente i mongoli a stabilire più stretti contatti con il Tibet che non con
i sedentari cinesi. I mongoli furono coinvolti nella lotta che nel Tibet oppose la Setta Rossa del lamaismo, che
aveva ormai posto salde radici, alla nuova Setta Gialla. Il terzo successore di Tsong-kha-pa, che secondo il
credo lamaista era considerato una reincarnazione del suo primo discepolo, si recò nel 1580 in Mongolia. Fu
dal suo ospite, il principe mongolo Altan khan che questo capo della Setta Gialla ricevette il titolo di Dalai (“Che
tutto abbraccia”) Lama.
Dopo la sua morte si disse che egli si era “reincarnato” in un bimbo mongolo, che era poi il pronipote di Altan
khan. In tal modo i mongoli si trovarono direttamente coinvolti nella politica religiosa del Tibet.

L’ascesa del Dalai Lama


Sotto il quarto Dalai Lama le dottrine della Setta Gialla continuarono a diffondersi. Dietro richiesta dei mongoli
orientali, il Dalai riconobbe la reincarnazione del terzo discepolo di Tsong-kha-pa come patriarca permanente
della chiesa nella Mongolia Esterna, il cosiddetto “Budda vivente”.
Sebbene capo riconosciuto dalla Setta Gialla, soltanto lentamente il Dalai Lama riuscì a costituire nel Tibet un
potere temporale, e lo fece utilizzando con molta abilità l’appoggio dei mongoli e dei manciù. Nel 1641-1642,
una tribù di mongoli occidentali, che era penetrata nella regione a nord del Tibet, intervenne a favore della
Setta Gialla, disperse i seguaci della Setta Rossa, unificò il paese sotto il controllo mongolo e innalzò al trono
spirituale di Lhasa il quinto Dalai Lama (1617-1682). In risposta agli inviti dei Ch’ing, egli inviò nel 1642 e
successivamente altre missioni a Pechino, finché nel 1652 si recò personalmente alla corte dei Ch’ing a offrire il
tributo; esentato dal kotow, ricevette grandi onori e gli abituali simboli dell’investitura, una tavoletta d’oro, il
sigillo e un titolo.
In seguito, il quinto Dalai Lama riuscì a far riconoscere il proprio figlio naturale come reggente, ossia capo
dell’esecutivo, a tutto vantaggio dei conquistatori mongoli. Questi avvenimenti servirono a far convergere sul
Tibet l’attenzione dell’imperatore K’ang-hsi, che naturalmente considerò il Dalai Lama come una delle chiavi per
il controllo della Mongolia, dove i monasteri lamaisti stavano già assorbendo un gran numero di giovani nella
pacifica vita della chiesa.

Il mantenimento del potere dei manciù


Una volta diventati una nazione di conquistatori, il principale problema dei manciù fu quello di mantenersi come
minoranza coesa e capace di conservare il potere. In primo luogo, i manciù dovevano cercare di mantenere il
loro particolare status, i privilegi e le cariche remunerative e di rimanere separati dall’elemento cinese in modo
da conservare la loro coscienza e identità etniche.

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I controlli sociali
Il clan imperiale fu governato da un organo speciale, il Consiglio del clan imperiale, che aveva il compito di
tenere i registri del clan e di provvedere all’educazione, alla disciplina dei suoi membri. I membri del clan erano
suddivisi in 12 ranghi nobiliari, a partire dal più alto, quello principesco. Il rango si trasmetteva per successione,
ma in modo imperfetto, giacché il figlio entrava in possesso di un titolo inferiore di quello del padre, e ciò
costituiva per lui uno stimolo a risalire e dare prova del suo talento. Erano favoriti i matrimoni tra mongoli e
donne manciù per stabilire legami di sangue con l’elemento mongolo.
Oltre al clan imperiale vi era l’aristocrazia manciù, suddivisa in 31 ranghi. I restanti manciù erano membri delle
bandiere; infine, in ordine discendente, vi erano i cinesi e i mongoli arruolati nelle bandiere, che godevano a
loro volta di privilegi minori.
A tutti i manciù era proibito esercitare il commercio, svolgere qualsiasi lavoro manuale e stipulare matrimoni
misti con i cinesi, oppure adottare usi come la fasciatura dei piedi. Il tradizionale sistema del clan venne
conservato, in quanto elemento di coesione sociale, e consolidato mediante il mantenimento della religione
totemica degli sciamani o “stregoni”; di conseguenza, ogni clan ebbe il proprio antenato comune. Si stabilì
l’obbligo della istruzione in lingua manciù, e per mantenere viva questa lingua si provvide alla traduzione di
molte opere cinesi. Ai manciù venne proibito di vestire l’abito cinese, mentre i cinesi furono costretti ad
abbandonare l’acconciatura in uso al tempo dei Ming e ad adottare quella dei manciù, ossia a raccogliere i
capelli in una lunga treccia rasandosi il resto del capo.

I controlli militari
Un’altra iniziativa dei manciù per mantenere il controllo del paese fu di usare la forza delle bandiere come
mezzo per perpetuare la loro supremazia militare.
I reparti delle bandiere furono distribuiti in zone militari separate. Le guarnigioni delle bandiere vennero
dislocate in 3 settori: il primo, formato da una fascia di punti fortificati intorno a Pechino; il secondo, nei
capoluoghi e negli altri punti strategici delle province nordoccidentali, per proteggere il paese dalle incursioni
provenienti dall’Asia centrale; il terzo, nei principali agglomerati urbani abitati da popolazione cinese, e nei punti
strategici del Sud.
La vita tranquilla, il moltiplicarsi delle nascite, l’aumento dei prezzi alla fine del 18° secolo, la mancanza
continuata di impegni militari, la corruzione prodotta dalla necessità di arrotondare gli scarsi stipendi, tutto
contribuì nell’ultima fase della dinastia a fare degli uomini delle bandiere una massa demoralizzata, poco sicura
e inefficiente; ma nel primo secolo e mezzo del dominio Ch’ing essi costituirono una valida forza al servizio degli
interessi della dinastia.
I resti del sistema militare dei Ming, rafforzati da arruolamenti supplementari tra la popolazione cinese servirono
a creare una forza di polizia, l’”Armata dallo stendardo verde”; venne impiegata come forza locale di polizia
cinese per sopprimere il banditismo, ma le sue truppe, raramente concentrate, non ebbero mai la potenza
offensiva delle bandiere.
In generale, il potere militare venne attentamente ripartito tra cinesi e manciù, tra il Consiglio di Guerra, le
truppe della capitale e quelle delle guarnigioni provinciali, tra i grandi funzionari civili e militari di tutto l’impero.
Anche la prerogativa di raccomandare i funzionari per la nomina ai più alti incarichi venne ripartita in modo
analogo, come del resto la responsabilità di riferire sulla condotta dei funzionari. I funzionari militari venivano
regolarmente trasferiti da un luogo all’altro, e mai nelle loro regioni di origine. Queste disposizioni
amministrative, insieme agli scarsi stanziamenti di fondi per il mantenimento delle forze armate, impedirono lo
svilupparsi di poteri militari indipendenti dalla corte.

Il Nord Est
Un’altra iniziativa dei manciù diretta a mantenere il controllo militare della Cina fu quella di conservare nei loro
territori di origine una base isolata dalla cultura e dalla vita cinese. In Cina essi cominciavano infatti ad
apprendere la lingua e ad adottare i modi di vita dei cinesi, mentre i cinesi del Liatung si spingevano verso nord
in direzione della Manciuria. In conseguenza di ciò, nel 1668 la Manciuria settentrionale e centrale venne
chiusa all’immigrazione cinese. La maggior parte della Manciuria, con i suoi territori di caccia, le foreste e i corsi

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d’acqua, venne così lasciata alle popolazioni tribali; nello stesso tempo però Mukden continuò a essere la
capitale sussidiaria, come lo era stata Nanchino al tempo dei Ming.
La chiusura del Nord Est fu voluta dalla corte anche per motivi economici di interesse più immediato. Sulle
colline lungo l’Ussuri e gli altri torrenti della Manciuria centrale veniva raccolta la radice chiamata ginseng,
molto apprezzata perché ritenuta pianta medicinale. All’inizio del 18° secolo, ossia all’apice del sistema
monopolistico, speciali funzionari vendevano ogni anno licenze a circa diecimila raccoglitori di ginseng. La
raccolta delle radici aveva grande importanza sia per il commercio che per il disco, per non parlare della
famiglia imperiale.

Il sistema di governo Ch’ing in Cina


Il successo che portò i Ch’ing a governare il territorio cinese compreso entro la Muraglia fu più un fatto politico
che amministrativo, giacché essi mantennero quasi inalterata la struttura amministrativa dei Ming,
modificandola solo quanto bastava per inserire il potere e il controllo dinastico dei manciù nell’ordine costituito
dello stato. I te elementi essenziali del governo Ch’ing furono, in ordine discendente, la loro fondamentale forza
militare, il potere politico esercitato dal Figlio del Cielo, e il controllo che stabilirono sulla amministrazione
cinese.
Inserendosi al vertice del sistema statale cinse, i dominatori manciù cercarono anzitutto di conciliarsi gli strati
sociali superiori, ossia le famiglie della “gentry” terriera, i più influenti letterati locali e i funzionari Ming. I
landlords e gli amministratori locali, che accettarono di sottomettersi al nuovo regime, vennero in genere
lasciati tranquilli. Come già avevano fatto le precedenti dinastie al momento del loro avvento al trono, anche i
Ch’ing ridussero le aliquote fiscali divenute esorbitanti nel tardo periodo Ming dopo il 1620, ma non si
presentarono come i banditori di una rivoluzione sociale o agraria; al contrario, seppellirono con grandi onori
l’imperatore Ming a Pechino e proclamarono che il loro obiettivo era di reprimere la ribellione e restaurare in
Cina la pace e l’ordine. Questo modo di rivendicare il Mandato del Cielo non ottenne facili riconoscimenti nella
Cina centrale e meridionale, ma servì a persuadere molti dei funzionari locali del Nord ad accettare la nuova
dinastia.

L’amministrazione congiunta
L’amministrazione centrale si trasformò dopo il 1644 in un sistema diarchico sino-manciù. I due popoli erano
rappresentati in proporzioni approssimativamente uguali nei principali uffici della capitale. Così, 6 dei Grandi
Segretari, 3 erano cinesi e 3 manciù. Ciascuno dei 6 Ministeri ebbe due presidenti, un cinese e un manciù, e 4
vicepresidenti, 2 manciù e 2 cinesi.
Analogamente manciù e cinesi si ripartirono la direzione delle amministrazioni provinciali. Questo accorgimento
della responsabilità congiunta o collegiale servì, in primo luogo, a lasciare negli alti incarichi i funzionari cinesi
senza abbandonare loro il completo controllo degli affari, e inoltre impedì che un qualsiasi funzionario, cinese o
non cinese, si arroccasse in una posizione di potere burocratico.
I Ch’ing divisero 3 delle 15 province Ming entro la Muraglia portandole in tal modo a 18. Un unico governatore
fu messo a capo di ogni provincia mentre un governatore generale veniva posto a due province.
Da ogni provincia, posta quindi sotto il controllo di un governatore e di un governatore generale, le questioni
importanti dovevano essere trasmesse all’imperatore da ambedue i funzionari. I 2/3 dei governatori generali
nominati fino al 1735 furono manciù; i governatori furono invece in maggioranza cinesi. Le province vennero
così amministrate al vertice da un governatore cinese e da un governatore generale manciù che agivano
congiuntamente. Ciascuno di loro aveva alle proprie dipendenze alcuni reparti di truppa, ma la principale forza
militare provinciale era di regola costituita dalle bandiere al comando di un generale manciù. I Ch’ing
completarono il loro sistema di controllo nominando un numero uguale di manciù e di cinesi nell’Ufficio dei
Censori.

Il problema della lingua


L’amministrazione congiunta sino-manciù sollevò fin dall’inizio un serio problema di interpretazione e
traduzione. La corte Ch’ing usò nei primi anni la lingua manciù, ma il regime era bilingue. Interpreti cinesi,
abitualmente cinesi arruolati nelle bandiere, ricevettero l’incarico di assistere i grandi funzionari manciù.

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Fino agli ultimi giorni della dinastia, i Ch’ing mantennero a Pechino la complicata procedura di traduzione in
manciù dei documenti cinesi, ma il tentativo di amministrazione bilingue fallì abbastanza presto dato che i
manciù impararono il cinese. Nel 1670, alcuni dei posti di interprete e traduttore furono aboliti perché ormai
inutili. Il grande esame in manciù, che si tenne nel 1653 per promuovere lo studio di questa lingua, suscitò
scarso interesse, finché nel 1838 più nessuno volle affrontare tale impegno.
La soluzione che i Ch’ing finirono per adottare fu di usare le traduzioni in manciù solo a corte, dove
generalmente per ragioni di precisione e semplicità gli affari che riguardavano soltanto i dominatori venivano
trattati in manciù e le questioni in cinese.

L’unità di stato e la cultura


L’inserimento di elementi manciù con funzioni di controllo e sovrintendenza nel sistema amministrativo ereditato
dalla Cina fu soltanto una delle componenti del successo del regime. Un’altra fu il reclutamento degli intellettuali
tramite il sistema degli esami.
I Ch’ing mantennero il sistema degli esami in vigore nel periodo Ming attribuendogli grande importanza. Era
sempre possibile per gli opportunisti e i parassiti essere ammessi a ricoprire incarichi ufficiali, corrompendo in
tal modo il sistema burocratico. Il vero banco di prova per gli imperatori manciù stava nella loro capacità di
sottoporre gli intellettuali al patrocinio del sovrano, in modo da unificare lo stato e la cultura sotto la direzione
unica del Figlio del Cielo.

K’ang-hsi
Questo tipo di direzione politica e culturale si realizzò con l’imperatore K’ang-hsi (1654-1722), un sovrano
grande che regnò per 61 anni, dal 1661 al 1722. Salito al trono all’età di 7 anni, a 13 cominciò a governare
personalmente e a 27 domò la Rivolta dei Tre Feudatari dopo una guerra civile durata 8 anni (1673-1681),
portando quindi a termine l’unificazione del regime. K’ang-hsi guidò grandi eserciti in Mongolia e mantenne tra i
manciù la tradizione del guerriero-cacciatore, stabilendo la sua capitale d’estate a Jehol, a nord della Muraglia.
Scrisse le 16 massime morali, che egli formulò nel 1670, note poi col nome di Editto Sacro e largamente diffuse
e recitate per inculcare nel popolo i principi di una conveniente condotta. In tal modo, K’ang-hsi si rivelò
coraggioso come capo militare, economo come amministratore e giusto come legislatore.
Per quanto riguarda le relazioni con l’estero, K’ang-hsi ebbe rapporti continui con gli europei. Dopo che il
grande gesuita Matteo Ricci (1552-1610) ebbe aperto la strada ai suoi confratelli stabilendosi a Pechino al
tempo degli ultimi Ming nel 1660, missionari europei risiedettero per quasi 2 secoli alla corte imperiale,
operando qualche conversione al cristianesimo. Fino all’inizio del 18° secolo quando essi furono infine costretti,
a causa della cosiddetta Controversia sui Riti, a scegliere tra la suprema autorità del papa e il Figlio del Cielo, i
gesuiti furono i più fidati consiglieri di K’ang-hsi, al servizio del quale posero la loro conoscenza dell’astronomia,
matematiche e lingue straniere. Tuttavia, la loro attività ebbe maggiore importanza in Occidente che in Cina ed
essi non influirono sul corso della storia cinese. I primi contatti che si stabilirono via terra con la Russia e i
trattati di confine con essa stipulati nel 1689 e 1727 servirono soprattutto, dal punto di vista dei Ch’ing, alla
delimitazione di una linea di confine nell’Asia centrale tra gli imperi russo e manciù, a vantaggio specialmente di
quest’ultimo. Infatti, l’influenza russa fu con successo esclusa dall’Asia centrale e contenuta lungo una linea di
confine abbastanza remota.
Ma il principale successo di K’ang-hsi fu quello che egli ottenne con la classe degli intellettuali. Versato nei
classici e dotato di grandi interessi culturali, egli era l’uomo più adatto a diventare il grande patrono dei letterati.
Un certo numero di studiosi eminenti educati durante il tardo periodo Ming, che si ritenevano depositari della
grande tradizione culturale cinese, si rifiutarono di cooperare con i manciù. Tuttavia, nel 1679, K’ang-hsi bandì
un esame speciale per scegliere i compilatori della Storia dei Ming (Ming shih) e riuscì a ottenere l’adesione di
grandi letterati. Egli scelse inoltre eruditi cinesi, calligrafi e artisti che prestarono la loro opera sia nel suo
personale studio imperiale sia nello studio di palazzo.
In questo modo, una serie di importanti opere videro la luce sotto il diretto patrocinio di K’ang-hsi. Tra queste
sono da comprendere, per esempio, il famoso Dizionario di K’ang-hsi, una geografia amministrativa e promosse
inoltre la compilazione di una grande enciclopedia, Ku-chin t’u-shu chi-ch’eng (Sintesi dei libri e delle
illustrazioni dei tempi antichi e moderni).

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Yung-cheng
Mentre K’ang-hsi perfezionò l’unione politica e cultura, toccò al suo successore, Yung-cheng, che regnò dal
1723 al 1736, completare la struttura istituzionale della autocrazia Ch’ing. K’ang-hsi, dall’età di 13 anni, aveva
generato un numero imprecisato di figlie. Quando, dopo il 1700, il figlio designato come legittimo erede diede
segni di squilibrio mentale, scoppiarono tra i suoi fratelli intrighi e rivalità per la successione. Quello che divenne
poi l’imperatore Yung-cheng si impadronì del potere grazie all’appoggio militare di cui disponeva nella città di
Pechino quando K’ang-hsi morì nel 1722, appoggio che gli permise di annunciare audacemente la sua ascesa
al trono.
Il temperamento sospettoso e le aspre rivalità tra fratelli che avevano caratterizzato i due precedenti decenni
spinsero Yung-cheng a prendere tutte le misure necessarie per conservare il potere. Cinque dei suoi fratelli
morirono in prigione. Inoltre, egli sottrasse ai principi imperiali il controllo delle bandiere e istituì una scuola di
palazzo per l’istruzione di giovani principi. Proibì che fosse nominato un solo erede, stabilendo che la questione
della successione doveva essere decisa dall’imperatore prima di morire. Yung-cheng falsificò inoltre gli archivi
imperiali per dare credito alla propria versione dei fatti circa il periodo anteriore alla sua ascesa al trono. Ebbe
anche interesse per il buddismo Ch’an (Zen).
La principale innovazione introdotta dalla nuova dinastia nell’apparato amministrativo dei Ming si ebbe per
iniziativa di Yung-cheng, che nel 1729 istituì il Grande Consiglio, che prese il posto della Grande Segreteria
come centro superiore delle decisioni politiche; la Grande Segreteria continuò ad occuparsi del disbrigo degli
affari correnti, mentre il nuovo Grande Consiglio lavorava a più diretto contatto con l’imperatore e con il palazzo
imperiale, trattava questioni di particolare urgenza e importanza, si serviva di documenti meno protocollari di
quella della Segreteria e di procedure meno complicate. I membri del Consiglio si riunivano abitualmente alla
presenza dell’imperatore ogni giorno all’alba e alle sedute non erano ammessi impiegati o funzionari di rango
inferiore.
Il processo di accentramento del potere nelle mani dell’imperatore si presenta come una tendenza che si
protrae nel corso dei periodi Yuan, Ming e Ch’ing. Mentre durante la dinastia T’ang gli editti imperiali dovevano
portare anche il sigillo del primo ministro, sotto i Ch’ing tutte le decisioni esecutive, legislative e giudiziarie, a
prescindere dal grado di importanza, venivano prese dall’imperatore stesso. I 6 Consigli della capitale, non
trasmettevano direttamente ordini alle province, se non per gli affari di ordinaria amministrazione. Le
amministrazioni provinciali dipendevano invece direttamente dall’imperatore.

Il successo dei manciù


Come fu possibile a un limitato numero di manciù conquistare e governare un popolo più numeroso?
Anzitutto, anche gruppi non cinesi come i manciù erano da considerarsi parte del grande impero “cinese”
dell’Asia orientale non meno dei cinesi stessi. Inoltre, la componente “barbarica”, originaria dell’Asia centrale, di
questo impero svolgeva la particolare funzione di forza armata ed era quindi l’unica in grado di conquistare il
potere e di conservarlo. I manciù erano abbastanza numerosi da fornire uomini per le guarnigioni, il clan
imperiale e l’alta amministrazione, ossia i quadri dirigenti di un impero che comprendeva tanto la Cina quanto
l’Asia centrale. Questa interpretazione è stata in particolar modo sostenuta da studiosi giapponesi e
occidentali.
Altri storici, compresi molti cinesi, sono invece di diversa opinione e sottolineano il fatto che la Cina, anche
sotto i Ch’ing, continuò a essere governata per il 90% da cinesi, rilevando inoltre che il regime fin dall’inizio non
fu omogeneo ma risultò da una sintesi sino-manciù, e che i sovrani poterono conservare il potere soltanto
sottoponendosi a un processo di sinizzazione che li rese in tutto simili ai loro sudditi cinesi.
Queste due interpretazioni non sono compatibili tra loro, né si oppongono a una ulteriore considerazione: lo
stato cinese era una autocrazia nella quale la vita politica veniva monopolizzata dalla classe burocratica e
accentrata nella persona dell’imperatore, mentre la grande massa della popolazione cinese rimaneva
sostanzialmente estranea. Questa situazione fu resa possibile anche dal fatto che l’autorità del governo
imperiale, limitata com’era agli strati alti della società, si faceva sentire solo debolmente e superficialmente nei
villaggi, dove quasi non se ne avvertiva la presenza.

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Anche se lo stato era dominato da una autocrazia straniera, la vita culturale della Cina continuava senza
alterazioni sul piano locale.
Non si deve credere che lo stato mantenesse il suo controllo sulla popolazione con mezzi puramente culturali.
Al contrario, alle disposizioni di ordine militare dei Ming e dei Ch’ing si aggiunsero misure di controllo locale,
che potevano far leva sul timore di punizioni o essere semplicemente esortazioni morali. Si può considerare
come esempio l’importanza che, durante il periodo Ch’ing, venne attribuita al sistema tradizionale del pao-chia,
diretto a mantenere l’ordine locale attraverso la responsabilità reciproca; si tratta di un istituto elaborato dai
legalisti. Così nel periodo Sung, Wang An-shih aveva raggruppato 10 famiglie in un pao, al quale era stata
affidata la responsabilità dell’addestramento militare e dell’ordine locale. Questi e altri sistemi amministrativi
analoghi erano fondati su due presupposti basilari: il gruppo familiare, formato da consanguinei, costituiva
l’unità fondamentale della responsabilità politica, avendo esso il controllo sugli individui; un gruppo di famiglie,
una volta definito come tale, poteva essere tenuto responsabile nella sua totalità della condotta di ogni membro
di ogni famiglia.
L’adozione di questa tradizione dei Ming non si limitò al sistema fiscale li-chia, ma comprese anche il sistema
parallelo di mutua responsabilità entro unità di villaggio, idealmente formate da 100 nuclei familiari, che
valendosi dell’opera di capi scelti cercava di dirigere la condotta morale e legale dei membri.
I Ch’ing ereditarono e perfezionarono il sistema. Idealmente, 100 gruppi familiari formarono un chia e 10 chia
un pao. Il capo di ciascuna unità, scelto dagli abitanti dei villaggi, divenne responsabile della registrazione della
popolazione locale e del mantenimento della pace e ebbe il compito di vigilare sulla esattezza delle indicazioni,
relative agli abitanti della casa e alle loro occupazioni, che ogni famiglia doveva fornire con un cartello a tale
scopo affisso alla porta.

Lealismo Ming dei letterati


Il grande avvenimento che influì sull’atteggiamento degli studiosi del 17° secolo fu il crollo dello stato cinese dei
Ming e la ricomparsa dei “barbari” conquistatori come dominatori della Cina. Il mutamento dinastico suscitò
tutta una serie di problemi morali, come per esempio il modo di rafforzare gli ideali confuciani contro la
corruzione degli eunuchi alla corte degli ultimi Ming.
È inevitabile che i letterati del tardo periodo Ming, che ancora veneravano la cultura T’ang e Sung e provavano
orrore per la tirannia dei mongoli, fossero profondamente turbati da questa nuova conquista straniera. Essi
respingevano l’idea che popolazioni guerriere non cinesi stanziate oltre i confini del Regno del Centro potessero
avere una funzione politica organica come potenziali detentori del potere in Cina. Molti dei più vigorosi
intellettuali rifiutarono di entrare nel servizio dei manciù. Essi cercarono invece di scoprire le ragioni del declino
intellettuale e morale che ritenevano una delle componenti del collasso del vecchio regime e la sola causa del
successo degli invasori “barbari”.
Un lealista Ming che si occupò di questo problema fu Huang Tsung-hsi.
Nel campo del pensiero politico, il principale contributo di Huang è una critica al dispotismo (nel “Progetto di
governo per il principe”). Nella sua opera egli cercò di definire, sulla base delle testimonianze della tradizione, i
principi della saggezza politica necessaria al vero sovrano confuciano.
Secondo Huang, lo sviluppo politico della Cina dopo l’unificazione Ch’ing era entrato in una fase di decadenza,
allontanandosi sempre più dagli antichi ideali.
È molto significativo il fatto che questo studioso si sia limitato sempre e soltanto a considerare i modi più adatti
per guidare l’imperatore nell’esercizio del potere o per frenarne gli eccessi e mai per rovesciarlo. Non esisteva
a suo giudizio alcuna alternativa al Figlio del Cielo come fonte di autorità e di decisione.
Un altro letterato rimasto fedele ai Ming fu Wang Fu-chih. Vi sono studi storici nei quali egli sostiene, come
Huang Tsung-hsi, che il governo è per il popolo, non per il sovrano, anche se il sovrano è essenziale al
governo.
Diverso fu il caso di Ku Yen-wu, un lealista Ming. Percorse in lungo e in largo la Cina del Nord ed ebbe diretta
esperienza dei problemi agricoli, commerciali e monetari. Le sue annotazioni di viaggio e le sue ricerche hanno
dato origine a un’opera geografica su “I vantaggi e gli svantaggi strategici ed economici dei distretti e degli stati
dell’impero” e a un’ampia raccolta di acuti saggi su questioni varie, intitolata “Memoria degli studi quotidiani”.

114
Ku Yen-wu si rifiutò di servire i Ch’ing, elaborò un’acuta teoria sulle cause del crollo del vecchio regime, criticò
le speculazioni sterili e astratte della scuola del neoconfucianesimo Sung dominante nel periodo Ming, la
cosiddetta “Dottrina dei Sung” o “Razionalismo” di Chu Hsi, e in particolare attaccò la corrente metafisica del
neoconfucianesimo, che era stata ulteriormente sviluppata dall’influente filosofo Ming, Wang Yang-ming. Ku
scorse nell’enfasi idealistica posta da Wang sull’intuizione e l’autoeducazione l’influenza del buddismo Ch’an
(Zen) più che quella dei classici e criticò l’accettazione abitudinaria di idee preconcette che ne era il risultato,
nonché la loro propagazione mediante i Quattro Libri e il sistema degli esami, intesi come interpretazione
ortodossa dei classici. Egli avvertì che questo fatto aveva a tal punto confinato il pensiero cinese entro modelli
stabiliti da renderlo incapace di far fronte alla realtà politica.

La “Dottrina degli Han”.


Ku Yen-wu sosteneva la necessità di una conoscenza più diretta attraverso i commentari degli studiosi Han,
che erano stati più vicini allo spirito degli antichi maestri e che erano privi dei pregiudizi metafisici del
neoconfucianesimo. Ku Yen-wu fu così il principale fondatore della grande scuola Ch’ing detta “Dottrina degli
Han”.
Questa nuova tendenza introdusse l’uso del metodo induttivo col quale si cercava di stabilire una verità
partendo da una più numerosa serie di fonti, e non soltanto da pochi testi selezionati, mentre si avanzavano
nuove ipotesi per verificare le verità stabilite.
Questa attività erudita è stata da alcuni interpretata come una manifestazione nella Cina premoderna del
“metodo scientifico”; ma se si usa questo termine gli si deve attribuire un significato restrittivo, applicandolo al
settore limitato degli studi letterari, non al campo delle scienze.
Le molteplici invenzioni e scoperte proto-scientifiche avvenute in Cina sono scaturite più dall’amore per la
natura dei taoisti che dagli studi dei confuciani.

I “Quattro Tesori” di Ch’ien-lung


Tipica della cultura Ch’ing è la sua osmosi con la vita ufficiale, dalla quale fu completamente dipendente. Tai
Chen, per esempio, che era figlio di un mercante di tessuti, si guadagnò da vivere soprattutto come tutore e
commentatore nelle case di alti funzionari. Dopo essere stato respinto per 5 volte agli esami metropolitani,
ricevette infine la nomina imperiale di compilatore, ma ciò avvenne soltanto 4 anni prima della sua morte.
Tai Chen fu uno degli eminenti studiosi incaricati da Ch’ien-lung nel 1773 di compilare una grande raccolta di
manoscritti imperiali chiamata Raccolta completa dei Quattro Tesori, ossia dei 4 rami della letteratura: i classici
(ching), la storia (shih), la filosofia (tsu) e le belle lettere (chi). Questo ambizioso progetto segna l’apice di una
grande tradizione, quella di riunire un gran numero di opere del passato, scelte talvolta per argomenti, e di
ripubblicare nella forma di una raccolta.
La compilazione della grandiosa raccolta dei Quattro Tesori ordinata da Ch’ien-lung richiese una revisione di
tutti i libri rari esistenti a palazzo o nelle altre biblioteche, la scelta delle opere da ricopiare per intero o di quelle
da commentare soltanto e la trascrizione dei materiali così selezionati in volumi rilegati e uniformi.

L’inquisizione letteraria
Il controllo esercitato dall’imperatore Ch’ien-lung sul mondo culturale cinese trovò la sua arma in una specie di
inquisizione letteraria che accompagnò la compilazione dei Quattro Tesori. Le opere furono elencate in un
indice che le destinava alla completa soppressione; altre furono condannate in una espurgazione parziale, in
quanto lavori scritti in un linguaggio sedizioso o ingiurioso. “Nessuna di queste opere – dichiaro Ch’ien-lung –
deve essere trasmessa alle generazioni future; questo per purificare il nostro linguaggio e rendere sincero il
cuore degli uomini”. Con la minaccia di severe punizioni, si ordinò la raccolta di tutte le copie reperibili di tali
opere, raccolta che talvolta venne compiuta con ispezioni effettuate casa per casa o anche con l’offerta di
prezzi molto alti.
Lo scopo essenzialmente pratico della politica totalitaria dell’imperatore era di eliminare gli scritti contrari ai
Ch’ing o favorevoli allo spirito di rivolta, quelle che consideravano con disprezzo le precedenti dinastie
“barbariche” o che trattavano problemi relativi alla difesa o alle questioni di frontiera. Così vennero distrutte
tutte le opere di alcuni autori e quelle che sembravano in generale non letterarie.

115
La cultura cinese nei periodi Ming e Ch’ing
Costringendo la cultura a muoversi entro i limiti e per gli scopi della politica ufficiale, i governi Ming e Ch’ing
attinsero alle risorse umane della “gentry”. Il popolo minuto, che costituiva la massa della società cinese, non
occupa una parte di rilievo nelle testimonianze culturali, che ci sono state trasmesse principalmente dal
pennello di studiosi-funzionari. La grande maggioranza dei cinesi non era formata né da letterati né da
gentiluomini confuciani e aveva assai poco, se non nulla, in comune con la classe dei funzionari. Per la massa
della popolazione erano ancora il taoismo e il buddismo a fornire le principali credenze cosmologiche, mentre la
famiglia e il villaggio continuavano a costituire il centro della vita d’ogni giorno. Quella che conosciamo meglio è
la vita delle classi colte e agiate delle città che avevano tempo e mezzi per godere dei loro giardini o delle loro
collezioni di oggetti d’arte, per praticare la calligrafia e la pittura.
I molteplici e raffinati interessi fecero di questi eredi di una grande tradizione culturale anzitutto dei collezionisti,
dei critici, molti dei quali ebbero grande amore per l’antiquariato e raccolsero collezioni private formate non
soltanto da libri stampati e illustrati, ma anche da opere di calligrafia e di pittura. L’ideale dell’amatore, tipico
dell’uomo di cultura, era la naturale conseguenza della sua educazione classica; coltivando gli studi e gli
interessi estetici egli non cercava mai un tecnicismo e una specializzazione miranti a fini utilitari; la sua cultura
era umanistica e tendeva a cogliere i principi e i valori tipici della tradizione ereditata.
Questa vitalità culturale si manifestava soprattutto nelle città commerciali del delta dello Yangtze, una zona che
si era in gran parte conservata intatta e poteva vantare la propria diretta discendenza dai Sung meridionali.

L’inizio del declino dinastico


Alla fine del 18° secolo erano in corso mutamenti che si adattano bene allo schema del declino dinastico
ciclico.
Così i problemi della Cina del 1800 ricordavano, secondo lo schema ciclico, certi periodi del passato, mentre
quelli che il paese dovette affrontare nel 1850 non avevano precedenti. Inoltre, i fattori umani del governo e
dello spirito burocratico possono sembrare sottoposti a corsi e ricorsi, mentre, d’altra parte, i fattori tecnologici
e istituzionali seguono uno sviluppo che non presenta interruzioni. L’urto con l’Occidente che ebbe luogo nel
secolo 19° fu un fenomeno del tutto nuovo.
Nel 1800 erano apparsi sintomi di decadenza che possiamo ritenere come l’indice di un deterioramento
generale delle condizioni amministrative, fiscali e psicologiche del governo imperiale. Il vero e proprio processo
di declino dinastico si ebbe nei decenni intorno alla metà del secolo, quando le inondazioni e le carestie, le
ribellioni e le invasioni, la bancarotta finanziaria portarono il regime Ch’ing sull’orlo della catastrofe. I preliminari
sintomi di decadenza che apparvero nel 1800 si manifestarono in almeno 3 forme: l’inefficienza militare delle
bandiere; la corruzione dell’alta burocrazia; le difficoltà incontrate dalla popolazione, che aveva subito un forte
aumento, per procurarsi i mezzi di sussistenza.

Le imprese militari
Il declino delle bandiere cominciò soltanto dopo che esse ebbero dominato per quasi 2 secoli l’Asia orientale
continentale. I loro successi fino al 1750 circa avevano portato i Ch’ing a stabilire il loro controllo sulla Cina, la
Mongolia, il Turkestan e il Tibet. Le imprese militari imperiali del tempo di Ch’ien-lungo, ossia le “Dieci grandi
campagne”, furono molto celebrate negli annali ufficiali. Le “Dieci grandi campagne” comprendono operazioni
di carattere strategico effettuate negli anni 1750-1760 per estendere la zona dell’Asia centrale sottoposta al
controllo dei Ch’ing.

La corruzione della burocrazia


Ho-shen, un cortigiano corrotto, incarnò il classico tipo dell’intrigante di corte e la sua influenza malefica ricorda
quella degli infami eunuchi dei periodi precedenti. La sua ascesa fu un sintono della senescenza
dell’imperatore. Con grande prudenza e oculatezza il regime manciù era riuscito ad arrestare il decorso di molti
dei mali che avevano minato il dominio delle dinastie precedenti. L’unico male ineliminabile era la vecchiaia
dello stesso imperatore, che poneva l’intera struttura imperiale nelle mani malferme di un uomo privo di
capacità di giudizio.

116
All’età di 65 anni Ch’ien-lung cominciò a nutrire una forte simpatia per una delle guardie del corpo, un giovane
manciù di 25 anni di bell’aspetto, intelligente e abile che divenne il suo favorito, ebbe la carica di primo ministro
e dilapidò le finanze dello stato durante i 20 anni successivi. Questa la figura di Ho-shen, furfante e
straordinario orditore di intrighi, che in un anno salì dal 5° rango a Grande Consigliere e ministro della famiglia
imperiale. In seguito, egli mise le mani sui principali posti di comando, quelli che permettevano il controllo delle
finanze e del personale, combinò il matrimonio del figlio con la figlia minore dell’imperatore. Godendo della
piena fiducia dell’imperatore, Ho-shen si formò una cricca altrettanto corrotta che controllò tutto l’impero e
diede inizio a una spoliazione sistematica della classe dei funzionari.
Seguendo l’esempio di Ho-shen a Pechino, la corruzione degli ambienti militari andava di pari passo con quella
dell’amministrazione civile. Le bandiere furono sempre meno rifornite, sempre più scarsamente addestrate e
persero ogni capacità bellica. Quando nel 1795 scoppiò la Ribellione del Loto Bianco in una regione di confine
estremamente povera, la prima grande insurrezione contro i manciù che si registrava da più di un secolo, le
bandiere si rivelarono all’inizio assolutamente incapaci di domarla. Ch’ien-lung abdicò formalmente nel 1796,
ma in effetti continuò a governare, per mano di Ho-shen, fino alla sua morte avvenuta nel 1799. Soltanto allora
il suo successore, Chia-ch’ing, poté liberarsi di Ho-shen e tentare di rinvigorire l’esercito e l’amministrazione. La
Ribellione del Loto Bianco alla fine fu domata nel 1804, ma essa aveva già dato il segnale di declino delle
fortune della dinastia Ch’ing.

L’aumento della popolazione


Questa insurrezione popolare, scoppiata alla fine del secolo, giunse dopo un’epoca di pace interna, di
prosperità e di aumento demografico. Ma fu proprio questa crescita che alla fine distrusse la prosperità e la
pace che l’avevano resa possibile.
Il considerevole aumento della popolazione cinese nel corso del secolo 18 trova una delle sue spiegazioni
principali nell’accrescimento delle risorse alimentari reso possibile dalla messa a cultura di nuove terre, spesso
con l’incoraggiamento imperiale, e dalla disponibilità di nuovi raccolti. Il granoturco, la patata dolce, il tabacco e
l’arachide furono introdotti in Cina dalle Americhe nel 16° o all’inizio del 17° secolo. La patata dolce divenne il
cibo dei poveri nella Cina del Sud, poiché poteva essere coltivata su terreno arenoso, non adatto per il riso, e
dava, per unità coltivabile, una resa in calorie alimentari superiore a quella di molti altri raccolti.
Altri fattori alla base dell’aumento demografico sono presumibilmente da ricercare nel miglioramento delle
pratiche igieniche, che influirono sulla salute pubblica, nell’incremento del commercio con l’estero, che si
accompagnò a quello del commercio interno e della produzione artigianale.
La popolazione raddoppiò forse di numero, ma non la classe dei funzionari e i servizi da essa prestati alla
popolazione, né le forze militari che dovevano mantenere la pace e l’ordine. Al contrario, sembra che il governo
Ch’ing, in tutti i suoi aspetti, abbia subito una involuzione proprio nel momento in cui i problemi interni
accrescevano. A causa dell’intervento di fattori esterni assolutamente nuovi, il processo culminò alla fine del
secolo 19° e all’inizio del 20° in un disastro che determinò il crollo di tutto il sistema tradizionale politico e
sociale.

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CAP.10 – LA COREA TRADIZIONALE

La Cina è rimasta una solida unità politica comprendente a maggior parte della zona raggiunta dalla sua
influenza civilizzatrice. L’estensione dell’unità cinese ha impedito fenomeni simili alla ricca diversificazione di
esperienze storiche che ha caratterizzato la civiltà occidentale. Poche sono state le unità politiche che si
possano paragonare alla Cina, e nessuna che abbia avuto simili estensione e durata. Di conseguenza, i cinesi
hanno mostrato la tendenza a considerare la loro storia come assolutamente unica. Gli altri popoli dell’Asia
orientale si sono considerati come immagini così esatte della Cina da credere che nessuna differenza
significativa potesse essere stabilita.

Le steppe e i deserti a nord della Cina e il freddo altopiano tibetano a ovest impedirono l’estendersi in queste
direzioni della civiltà agricola cinese. Questa cortina naturale non cadde mai, se non nelle zone prive di una
caratterizzazione climatica precisa, ossia nei luoghi dove l’agricoltura era possibile: Manciuria, Mongolia, Tibet.
Col tempo gli agricoltori cinesi penetrarono in molte di queste zone recandovi tutto il bagaglio tecnico e
culturale della loro civiltà, oltre a un forte senso di partecipazione all’unità politica cinese.
Diffondendosi verso sud, la civiltà cinese non incontrò alcuna barriera climatica e la sua avanzata fu quindi
costante. Le popolazioni della Cina centrale e della Cina del Sud linguisticamente e culturalmente sono affini ai
cinesi antichi.
L’ondata avanzante della civiltà asiatico-orientale ha incontrato correnti provenienti dall’India e dall’Occidente;
ciò spiega perché le altre zone dell’Asia sudorientale, sebbene adatte per il clima alla coltura del riso e quindi
facilmente assimilabili nella civiltà agricola cinese, non siano mai state assorbite né entro la zona culturale
dell’Asia orientale né nell’Impero cinese.
A est, la civiltà cinese non ha incontrato barriere climatiche né culturali. I territori della Corea e del Giappone si
adattavano a una civiltà agricola, e particolarmente alla coltura intensiva del riso. Gli antichi abitanti di queste
zone erano estremamente diversi, sia per la lingua che per la cultura, dai cinesi della stessa epoca.
Per più di mille anni, le grandi culture della Corea e del Giappone somigliarono a quella della Cina, molte delle
loro opere religiose, filosofiche o letterarie potrebbero essere uscite in pratica dal pennello di scrittori cinesi.

Date le somiglianze strutturali tra il giapponese, il coreano e le lingue altaiche dell’Asia settentrionale sembra
probabile che il coreano e il giapponese abbiano affinità molto strette.
Un altro elemento che contribuisce a distinguere culturalmente la Corea e il Giappone è la loro separazione
geografica dalla Cina. Il Giappone, separato dalla costa cinese, era molto più isolato dalla Cina e ha quindi
conservato tratti distintivi più marcati.
La Corea, con la sua posizione geografica mediana, ha rappresentato un terreno di incontro per influenze e
pressioni provenienti dalla Cina e dal Giappone ma anche dalle zone situate più a nord. Nel passato le influenze
settentrionali vennero dai nomadi di lingua altaica, i mongoli, khitan e manciù.
In passato, gli stessi coreani hanno mostrato spesso la tendenza a ignorare la loro cultura e la loro storia,
entusiasti della civiltà cinese. Inoltre, essi mantennero a distanza l’Occidente, mentre gli occidentali stessi,
affascinati dalla grandezza e dall’antichità della Cina, trascuravano generalmente la variante coreana della
civiltà asiatico-orientale ripiegata all’ombra della Cina.

Il clima della Corea è simile a quello della Cina del Nord, caldo e umido d’estate, ma molto secco e freddo
d’inverno. Soltanto lungo la costa meridionale gli inverni sono relativamente miti.
Quasi tutto il territorio coreano è montagnoso, e soltanto 1/5 del suolo è adatto alla coltivazione. Una grande
barriera di monti lungo la frontiera settentrionale divide la Corea dalla Manciuria, mentre un’altra catena si
protende dalla massa continentale verso sud lungo la costa orientale costituendo la spina dorsale del paese a
forma di lisca di pesce.
In buona parte del Sud si possono ottenere due raccolti all’anno, la maggior produttività agricola della Corea
meridionale e occidentale, insieme alla facilità di accesso alla Cina e al Giappone che esse offrono, hanno fatto
di queste regioni la zona dominante della penisola nel corso della storia.

118
Non vi sono sicure prove di insediamenti umani in Corea durante il paleolitico, ma nel 3° millennio AC numerosi
piccoli gruppi tribali penetrarono in Corea dalla frontiera terrestre settentrionale. Probabilmente le stirpi
nordasiatiche costituivano già l’elemento dominante e il movimento di popolazioni dal nord verso la Corea
nell’epoca storica. Gli odierni coreani sono fisicamente molto simili agli altri popoli mongoloidi dell’Asia
nordorientale.
I cumuli di conchiglie e i luoghi di accampamento dei primi coreani indicano che essi vivevano di caccia e di
pesca e il loro vasellame mostra delle somiglianze con le terrecotte preistoriche della Manciuria, Siberia,
Mongolia e Cina del Nord. Tra i resti neolitici coreani vi sono vasi con disegni “a pettine” e dolmen.

Assai poco sappiamo dell’organizzazione sociale e politica delle primitive tribù coreane, ma sembra che esse
siano state governati da capi aristocratici ereditari. I primi coreani, come i giapponesi, considerarono come
divinità i più impressionanti fenomeni della natura e attribuirono caratteri divini ai loro antenati, talvolta
rappresentati da animali totemici.

Intorno al 4° secolo AC la cultura neolitica, preagricola e tribale della Corea venne sconvolta da influenze
esterne. Nella Corea nordoccidentale le influenze culturali cinesi erano particolarmente forti e fu in questa zona
che si andò delineando la prima vera organizzazione statale nel 3° secolo AC. Questo principato ebbe il nome
di Choseon.
L’influenza cinese in Corea si rafforzò probabilmente in seguito all’afflusso di profughi durante le varie guerre
che precedettero l’unificazione della Cina sotto i Ch’in e la successiva fondazione della dinastia Han. In ogni
caso, un certo Wiman, non si sa se cinese o coreano, al servizio della Cina, usurpò il trono di Choseon intorno
al 190 AC. Dopo aver stabilito la sua capitale a Pyeongyang sul fiume Taedong, egli costituì uno stato molto più
forte del precedente ed esercitò un certo controllo politico su buona parte della penisola.

Come stato semisinizzato, Choseon fu fin dalle origini l’espressione della duplice eredità culturale della Corea,
quella cinese e nordasiatica. Tale duplice eredità ha dato vita a due contrastanti miti sulle origini. Il primo parla
del figlio del creatore divino, che, come il progenitore della dinastia imperiale giapponese, discese sulla terra
con i suoi seguaci. La data scelta per questo evento, il 2333 AC, fa sorgere il sospetto che si tratti di un
tentativo di accostamento al supposto periodo di fondazione della dinastia Hsia, tradizionalmente la prima
dinastia cinese, per sostenere quindi che la Corea era altrettanto antica.
Nella leggenda si parla poi di un orso, animale ritenuto sacro nell’Asia nordorientale e presso gli ainu del
Giappone settentrionale, e di una tigre, animale che occupa un posto di primo piano nel folklore e nell’Arte della
Corea. La tigre e l’orso penetrarono in una caverna dove rimasero per 21 giorni e dove avrebbero dovuto
mutarsi in esseri umani. Solo l’orso vi riuscì trasformandosi in una fanciulla; un figlio chiamato Tangun nacque
dall’unione di questa creatura, frutto di una metamorfosi, e del figlio del creatore divino. Tangun divenne il
fondatore della Corea, dominando le 9 tribù selvagge della penisola e insegnando loro le arti della civiltà.
Sebbene i documenti più antichi che parlano di questa leggenda non risalgano che al 13° secolo DC, essa + il
riflesso dell’antica mitologia coreana e di credenze nordasiatiche primitive.
L’altro mito delle origini è una rappresentazione del debito culturale della Corea alla Cina e parla di Kija, un
supposto discendente della famiglia reale degli Shang. Quando la dinastia fu rovesciata dai Chou nel 1122 AC,
si dice che Kija si rifiutasse di servire il nuovo sovrano emigrando con 5mila seguaci nella Manciuria meridionale
dove fondò lo stato di Choseon.

L’influenza cinese si approfondì ulteriormente con la conquista della Corea operata da Han Wu Ti. L’obiettivo di
Wu Ti era quello di distruggere la potenza dei nomadi hsiung-nu a nord e, a questo proposito, egli intendeva
aggirarli sul fianco in Corea per prevenire una loro alleanza con lo stato di Choseon.
A ogni modo, Wu Ti invase il paese per terra e per mare nel 109 AC, e l’anno seguente distrusse lo stato di
Choseon, costituendo poi 4 vasti comandi militari suddivisi in prefetture, simili alle unità amministrative cinesi.
Nel 75 AC, i 4 comandi originari furono fusi nell’unico comando di Lo-lang, che occupava l’angolo
nordoccidentale della penisola e aveva come capitale Pyeongyang.

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Probabilmente una delle ragioni della prosperità di Lo-lang si deve al fatto che la colonia costituiva una tappa
intermedia nel flusso commerciale tra la Cina e il resto della Corea oltre a quello dal e per il Giappone. La
classe dominante di Lo-lang era per la maggior parte formata da immigrati cinesi, e le tombe che essi
lasciarono nei pressi di Pyeongyang contengono i più bei resti del periodo Han.

Le colonie cinesi in Corea furono mantenute per di più di 4 secoli. Con l’indebolirsi dell’impero Han anche la
popolazione e la prosperità di Lo-lang conobbero una certa decadenza, ma i cinesi erano ancora abbastanza
forti all’inizio del 3° secolo DC da istituire il comando separato di Tai-fang sulla costa occidentale della Corea
centrale. Fu soltanto dopo che i “barbari” settentrionali furono penetrati nella Cina del Nord, all’inizio del 4°
secolo, tagliando le comunicazioni tra i cinesi di Corea e la madrepatria, che il comando di Lo-lang fu
sopraffatto dai coreani nel 313 DC.
Anche se i successivi regni coreani non furono gli eredi politici diretti di queste colonie straniere, essi attinsero
gran parte della loro cultura dal contatto con gli avamposti della civiltà cinese.

Il lungo e stretto contatto con la civiltà cinese tramite gli avamposti fu per le popolazioni del resto della Corea
un importante elemento di stimolo. La loro ricchezza e potenza crebbe costantemente e alcune di esse
cominciarono col tempo a dar vita a unità politiche ampie e organizzate.

Koguryeo fu il primo stato autoctono che sorse in Corea. Quando i cinesi fecero ritorno a Lo-lang, un quarto di
secolo dopo la conquista della Corea operata da Wu Ti, le tribù di Koguryeo si proclamarono indipendenti e il
loro capo assunse il titolo di re.
Documenti cinesi del 3° secolo DC parlano del popolo di Koguryeo come di una aristocrazia tribale guerriera. In
origine vi erano state 5 tribù, ma i capi di una di queste erano riusciti ad affermare il loro diritto ereditario al
trono. Al di sotto dei capi tribali aristocratici vi era una numerosa classe di guerrieri e, infine, la massa dei servi
e degli schiavi, in gran parte originari delle tribù sottomesse. La natura aristocratica della società di Koguryeo
trova espressione nelle maestose tombe dei capi, formate all’inizio da spaziose celle di pietra, decorate con
specchi e riproduzioni di armi in metallo.
Koguryeo distrusse Lo-lang nel 313 annettendo il suo territorio. In pochi decenni anche Tai-fang veniva
sommersa e divisa tra Koguryeo e lo stato di Paekche, che era sorto nella vallata del fiume Han e aveva
unificato l’intera area nel Sud Ovest.
Nel frattempo, un’altra piccola unità tribale, Silla, aveva unificato in modo analogo le tribù della Corea
sudorientale. Ma la zona centrale lungo la costa meridionale tra Paekche e Silla non benne a quel tempo
incorporata in nessuno degli stati, né si consolidò in uno unico stato monarchico. Questa zona, col nome di
Kata, venne chiamata Mimana dai giapponesi. I suoi abitanti stabilirono con lo stato giapponese che si andava
lentamente costituendo una vaga alleanza, forse a causa dei legami commerciali che portavano i giapponesi a
intervenire, o probabilmente perché le popolazioni di Kaya erano strettamente imparentate con le tribù che non
molto tempo prima avevano preso il mare verso il Giappone.
Le date tradizionali di fondazione dei diversi stati coreani sono: Silla 57 AC, Koguryeo 37 AC, Paekche 18 AC,
Kaya 42 DC.
Durante i 3 secoli e mezzo che seguirono la distruzione delle colonie cinesi nel 4° secolo DC, la maggior parte
della Corea venne divisa tra i 3 stati di Koguryeo nel Nord, Paekche nel Sud Ovest e Silla nel Sud Est, noti col
nome di 3 regni.

L’eliminazione delle colonie cinesi dalla Corea non diminuì l’influenza culturale della Cina. Il buddismo fu
ufficialmente introdotto dalla Cina pochi anni dopo, nel 372. Circa nello stesso periodo Koguryeo elaborò un
codice legislativo sul modello cinese, fondò una “università” per l’insegnamento del confucianesimo e della
storia cinese e adottò ufficialmente molte delle tradizioni intellettuali e delle conoscenze scientifiche della Cina.
Un ulteriore passo avanti nel processo di sinizzazione dello stato fu il trasferimento della capitale, nel 427, da
Kungnae, sul medio corso del fiume Yalu, e Pyeongyang, che era stata sede del quartier generale del comando
di Lo-lang.

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Lo stato andò altresì sviluppando una forma di governo più simile a quella cinese, con una complessa gerarchia
di funzionari e con organizzate guarnigioni militari che controllavano le popolazioni soggette. Il vecchio culto
tribale degli antenati fu in gran parte sostituito da un culto statale unificato e dal buddismo.
Sotto la guida di un energico re guerriero, Kwanggaet’o (392-413), lo stato di Koguryeo si andò estendendo in
ogni direzione, ma specialmente verso il sud. Esso costituì in Corea la potenza dominante e sottopose al suo
controllo la maggior parte della penisola.
Una grande stele di pietra, eretta nel 414 sulla riva mancese del fiume Yalu, nella regione dell’antica capitale di
Koguryeo, ricorda le fortunate guerre di Kwanggaet’o.

Anche lo stato di Paekche che sorse nella corea sudoccidentale alla fine del 3° secolo, fu assai prospero,
poiché occupava la zona agricola più densamente popolata. Molti elementi culturali penetrarono nello stato
dalla Cina del Sud e, nel 384, il buddismo fu introdotto a corte da un monaco proveniente dalla Cina. Paekche
ebbe regolarmente la peggio nelle sue guerre contro Koguryeo e, negli anni successivi, contro la crescente
potenza di Silla. Nel 475, fu costretto a trasferire la sua capitale più a sud, dall’area dell’odierna città di
Kwangju, a meridione del fiume Han e nel 538 ancora più a sud, ossia a Puyeo. Spesso Paekche strinse
alleanza con Silla o con il Giappone contro i suoi vicini settentrionali.

Silla, che sorse nel IV secolo, fu nel primo periodo della esistenza uno stato debole e arretrato, in quanto
occupava la zona sudorientale del paese che non era mai stata controllata dagli eserciti cinesi. Dapprima lo
stato fu impegnato duramente per difendersi dagli attacchi di Paekche e dai predoni giapponesi provenienti da
Kaya; alla fine però l’autorità stabilita dalla organizzazione tribale tradizionale e dalla struttura di classe sembra
aver dato a Silla una maggiore coesione e una forza più duratura di Paekche e Koguryeo, organizzate sul
modello cinese.
Lo stato di Silla era costituito da una confederazione di tribù, che avevano stabilito il loro dominio su un certo
numero di altre unità tribali. I membri di queste tribù erano rigidamente divisi in classi ereditarie chiamate
“ranghi di ossa”, determinati per eredità. Soltanto tra i membri delle famiglie del primo e del secondo rango
potevano essere eletti i capi della confederazione e i titolari delle cariche importanti; i membri più giovani di
queste nobiltà erano posti alla testa di bande armate, chiamate hwarang. In queste bande, si dava grande
importanza all’educazione morale e fisica e alle capacità militari.

I pendenti di pietra ricurvi sono inoltre un indice delle strette relazioni culturali esistenti con l’antico Giappone,
dato che il loro disegno è identico a quello del magatama o “gioiello ricurvo”, uno dei 3 simboli dell’autorità della
dinastia imperiale giapponese.
La cultura e le idee cinesi penetrarono comunque gradualmente anche nella lontana Silla, e fu probabilmente
grazie a queste influenze che, nel V secolo, la leadership della confederazione divenne ereditaria nella famiglia
Kim e nel 503 fu adottato anche il titolo di re (wang).
Lo stato di Silla elaborò un codice di tipo cinese, adottò per le alte cariche di governo i titoli in uso nel Regno
del Centro, introducendo il sistema cinese del “periodo annuo” per misurare il tempo e nel 528 la corte di Silla
accolse il buddismo come religione ufficiale.

La riunificazione della Cina, operata nel 589 dalla dinastia Sui, ebbe un effetto profondo sulla situazione
strategica in Corea. Per più di 3 secoli la Cina, divisa e percorsa dai “barbari”, non aveva potuto esercitare che
una scarsa pressione militare sulla Corea. Ora, l’impero ritornava alla politica che era stata degli Han, ossia il
tentativo di aggirare i nomadi settentrionali estendendo il controllo sulla Corea.
Nel 6° secolo i regni coreani erano enormemente più forti dello stato di Choseon al tempo in cui fu sopraffatto
da Wu Ti degli Han, ossia nel 108 AC. Nel 598 Koguryeo respinse un attacco in forze di Wen Ti sei Sui, e 3
spedizioni condotte da Yang Ti contro il medesimo regno tra il 612 e il 614.
Le spedizioni si conclusero in modo così disastroso da contribuire alla caduta della dinastia. T’ai Tsung, la
figura dominante nel periodo di fondazione della dinastia T’ang, non ebbe maggiore fortuna nelle 3 spedizioni
contro Koguryeo. Fu un mutamento strategico a propiziare infine il successo alle forze cinesi. Nel 660 una

121
spedizione navale fu inviata contro Paekche e riuscì a distruggere il regno con l’aiuto di Silla. Le forze congiunte
di Silla e dei T’ang mossero allora contro Koguryeo e nel 668 riuscirono a distruggere questo regno.
L’obiettivo dei sovrani T’ang era quello di incorporare le conquiste coreane.
Poco dopo la sconfitta di Koguryeo scoppiò un conflitto tra forze cinesi e quelle di Silla. Le forze dei T’ang
furono costrette a ritirarsi dalla penisola, dove conservarono soltanto i territori periferici settentrionali; la Cina
dovette inoltre riconoscere Silla come stato tributario ma autonomo. In tal modo, venne evitato un secondo
lungo periodo di colonialismo cinese e la Corea riuscì’ a costituirsi in nazione virtualmente indipendente.

La distruzione di Koguryeo nel 668 e la successiva espulsione dei cinesi segnano l’inizio della unificazione
politica della Corea.

L’annessione a Silla delle popolazioni più sinizzate di Paekche e della parte meridionale di Koguryeo e gli
accresciuti contatti diretti tra Silla e la Cina dei T’ang ebbero come conseguenza un generale assorbimento
della cultura e delle istituzioni cinesi. Ambascerie e missioni tributarie vennero inviate ogni anno da Silla alla
capitale dei T’ang e un gran numero di monaci buddisti e di studenti laici coreani trascorsero lunghi periodi di
studio in Cina.

Il governo di Silla fu riorganizzato secondo lo schema cinese, e si assistette quindi al sorgere di un complesso
sistema di ministeri, uffici e direzioni.
Tuttavia, la società di Silla mantenne la sua natura aristocratica, e ciò contribuì a modificare le istituzioni
politiche di tipo cinese adottate in Corea. In questo periodo il sistema degli esami cominciò a diventare un
elemento determinante del governo e della società; lo stato coreano mantenne, al contrario, l’antica tradizione,
secondo la quale la condizione sociale e le funzioni di ciascuno erano determinate per nascita.

Alla introduzione delle istituzioni politiche cinesi si accompagnò il confucianesimo, che in questo periodo suscitò
tra i coreani scarso interesse. In primo luogo, esso era troppo connesso con il sistema degli esami per
esercitare una grande influenza sui capi aristocratici di Silla, mentre mostrò per il buddismo un entusiasmo
maggiore.
Questo interesse predominante per il buddismo caratterizzò anche il Giappone e le popolazioni di Paekche e
Koguryeo durante il processo di assimilazione della civiltà cinese. La filosofia ottimistica del mahayana meglio si
adattava a queste popolazioni, mentre gli aspetti magici del buddismo esercitarono una forza d’attrazione
ancora più grande.
Il buddismo sembrava offrire allo stato una maggiore forza protettiva e all’individuo una promessa di più ricche
ricompense terrene. Anche l’arte raffinata che lo accompagnò ebbe un grande fascino.
I re di Silla spesero forti somme per erigere bellissimi monasteri buddisti sia intorno alla capitale, Kyeongju, sia
nel resto del paese.
Nel tardo periodo della dinastia, vennero spesso eretti monasteri in alta montagna, in località dove si pensava
che potessero esercitare una influenza benefica sul territorio circostante. Idee come queste trovano il loro
fondamento nelle credenze della geomanzia cinese, che in questo periodo si fusero con il buddismo. Nel secolo
IX, molti monasteri erano diventati così ricchi e potenti, per le donazioni dei re e dei privati, che il governo fu
costretto a stabilire un limite all’estensione dei loro possedimenti.

L’influenza culturale cinese su Silla e i primi stati coreani fu principalmente dovuta al sistema di scrittura.
Gli antichi coreani non conobbero altra forza di scrittura che i caratteri cinesi. Comunque, nonostante questa
deficienza, lo stato di Silla fu caratterizzato da una grande attività letteraria. Vennero compilati resoconti storici.
Alla fine del VII secolo fu sviluppato un sistema, che usava i caratteri cinesi a scopi fonetici per indicare le
appropriate finali flessive necessarie a rendere in coreano i testi cinesi. Questo sistema, chiamato idu, fu per la
prima volta elevato a dignità letteraria da un famoso letterario confuciano di nome Seol Chong.

Negli anni dell’apogeo di Silla, sorse più a nord, uno stato molto simile, quello di Parhae, costituito dai resti della
nazione di Koguryeo. Lo stato di P’o-hai, fondato nel 713, fu come Silla, tributario dei T’ang ma autonomo e

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creò un’amministrazione di tipo cinese. Dopo più di 2 secoli di vita fu distrutto nel 926 dai khitan, che fondarono
poi la dinastia Liao nei territori situati lungo i confini settentrionali della Cina.

Il secolo che seguì l’unificazione della Corea, avvenuta nel 668, fu l’età d’oro dello stato di Silla sia sul piano
politico che nel campo artistico, ma subito dopo ebbe inizio un rapido processo di decadenza. Poiché l’apogeo
e il declino di Silla si svilupparono parallelamente all’ascesa e al crollo dei T’ang, è possibile che gli sviluppi della
situazione in Cina abbiano avuto ripercussioni in Corea.
Nel caso di Silla, il sistema sociale rigidamente aristocratico ed ereditario, costituiva una base inadatta
all’edificazione di uno stato burocratico di tipo cinese. La coesione della vecchia società di Silla cominciò a
scemare alla fine del secolo 8° le bande hwarang perdettero ogni capacità bellica e degenerarono.
I “ranghi di ossa” si divisero in gruppi di famiglie rivali, in lotta per difendere a spese altrui interessi particolari. Il
sistema degli esami, modellato su quello cinese, fu infine introdotto nel 788, probabilmente nel disperato
tentativo di arginare il processo di disintegrazione dell’ordine politico. Gli esami, infatti, resero possibile una
certa mobilità sociale tra i diversi gradi della nobiltà, ma in pratica non ebbero altro effetto perché, i coreani, a
causa del loro forte senso di classe, ammisero agli esami solo i membri dell’aristocrazia.
Il momento critico nelle fortune di Silla sopraggiunse quando, dopo una serie di rivolte, il re fu assassinato nel
780. Con questa morte si estinse la dinastia regnante che discendeva in linea diretta dall’uomo che aveva
unificato la Corea nel 668. Ribellioni e coups d’état si susseguirono rapidamente.

Il crollo del vecchio ordine sociale fu inoltre accompagnato dal risentimento crescente delle classi inferiori. In
seguito al peggioramento delle condizioni di vita, numerosi servi fuggirono dalle tenute nelle quali lavoravano e
si diedero talvolta al banditismo. Alcuni gruppi di persone appartenenti alle classi inferiori si trasformarono in
mercanti indipendenti, e nel secolo IX marinai e commercianti coreani di umile origine giunsero a controllare le
vie commerciali del Mar Cinese Orientale, che univano la Cina, Corea e Giappone.
Prima della fine del IX secolo la forza dell’autorità centrale era andata ulteriormente declinando. Nell’889
insurrezioni contadine scoppiarono in molte regioni e ben presto l’autorità del governo fu limitata alla sola zona
dell’antica capitale di Silla. Nell’892, uno dei ribelli fondò un nuovo stato di Paekche nel territorio dell’antico
stato.
Molti dei capi ribelli erano di umile origine, ma uno di quelli che ebbero maggior successo fu il monaco Kungye.
Spinto dal suo odio accanito per Silla, Kungye fondò nel 901 il nuovo stato rivale di Koguryeo nella Corea
centrosettentrionale. Egli deve del governo di questo stato una copia di quello di Silla, ma nei suoi ultimi anni si
trasformò in un tiranno maniaco e fu assassinato nel 918 da uno dei suoi ufficiali, Wang Keon, che stabilì la
capitale a Kaeseong. Abbreviando il vecchio nome di Koguryeo, Wang Keom chiamò il nuovo stato Koryeo, dal
quale è derivata la denominazione di Corea.
Infine, nel 936, Wang Keon riuscì a distruggere il nuovo stato di Paekche riportando ancora una volta la Corea
sotto un unico governo.

La dinastia Koryeo, fondata da Wang Keon, si mantenne al potere dal 918 al 1392. Durante questo periodo, la
società e l’esperienza storica della penisola sembrano allontanarsi più dal modello cinese.
Poiché il sistema dei “ranghi di ossa” e l’intero ordine sociale tribale erano scomparsi durante le guerre civili
dell’ultimo periodo di Silla, Wang Keon e i suoi successori poterono dar vita a una amministrazione politica
molto più simile a quella cinese.
I titoli postumi coi quali conosciamo i regnanti di Koryeo sono un simbolo della trasformazione avvenuta. Wang
Keon per esempio, è noto con l’appellativo di T’aejo, la forma coreana di T’ai Tsu (“Grande Progenitore”).
La capitale, Kaeseong, era una splendida città anche secondo i modelli cinesi, edificata come Ch’ang-an
secondo una pianta a scacchiera e dominata da un impotente palazzo. In questa città si stabilì nel corso dei
primi decenni della dinastia Koryeo una complessa amministrazione burocratica molto simile a quella dei T’ang,
con 6 ministeri, 9 consigli e tutta una serie di organismi minori.
Nel 958, anche il sistema cinese degli esami fu adottato per la selezione dei funzionari.

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I “ranghi di ossa” erano scomparsi, ma a occuparne il posto era sorta una nuova aristocrazia ereditaria chiusa,
formata sai seguaci di Wang Keon, dai vari capi locali che gli si erano sottomessi e dai resti della classe
dominante di Silla. Gli esami governativi erano teoricamente aperti a tutti, secondo il modello cinese, ma la
mancanza del tempo necessario a un sistematico studio dei classici e una serie di piccole restrizioni ispirate dai
pregiudizi di classe impedivano ai non appartenenti all’aristocrazia di tratte vantaggi pratici da questa
possibilità.
Enorme la frattura esistente tra la classe dei funzionari di Koryeo e il resto della popolazione.
La maggioranza della popolazione era formata dai non nobili (yang-min, “buon popolo”), che con le tasse e le
prestazioni di lavoro mantenevano il governo e l’aristocrazia.
Al di sotto del “buon popolo” stava una vasta classe, quella degli “uomini di bassa estrazione”, (cheonmin), tra i
quali erano compresi gli schiavi veri e propri. Tra i cheonmin erano compresi anche i lavoratori che il governo
impiegava nelle miniere, nelle fabbriche di porcellana e in altre industrie ufficiali.

Oltre alla rigidità delle classi sociali, la Corea è rappresentata dalla arretratezza dell’economia. Nel 9° secolo, i
mercanti coreani avevano svolto una funzione di primo piano nel commercio dell’Asia orientale, ma in seguito la
loro attività divenne insignificante. Se si eccettua la capitale, non esistevano negozi ma solo venditori
ambulanti.
Un altro elemento era la concentrazione della ricchezza e del potere nella capitale; le ricchezze della nazione
affluivano a Kaeseong attraverso i canali del fiscalismo governativo o direttamente attraverso le rendite che i
nobili possidenti, residenti nella capitale, traevano dalle tenute agricole. Questa concentrazione di ricchezza e
di potere può essere stata l’espressione delle profonde distinzioni di classe, oppure fu forse la conseguenza
naturale del processo di acculturazione, nel quale le forti influenze straniere cui era sottoposta la capitale
fecero di questa zona un settore avanzato in contrasto con il resto del paese.

Il buddismo raggiunse il suo apice durante il periodo di Koryeo. Nelle “10 Ingiunzioni” che T’aejo lasciò agli
eredi è chiaramente affermato che il successo della dinastia dipendeva dalla protezione del Budda; i monasteri
celebrarono con cerimonie religiose i giorni anniversari della nascita dei sovrani e le altre festività nazionali.
Molti dei monasteri ricevettero ricche donazioni di terre e in taluni casi riuscirono a costituirsi una propria forza
armata per proteggere i loro beni. In talune occasioni essi prestarono anche denaro o svolsero operazioni
bancarie.

Il buddismo di Koryeo era stato però corrotto dalla assimilazione di credenze diverse. Dalle “10 Ingiunzioni” di
T’aejo apprendiamo che le concezioni geomantiche del taoismo avevano influenzato sensibilmente la
ubicazione dei monasteri e che il sovrano, sebbene molto devoto, riteneva che si dovessero mantenere gli
antichi culti autoctoni accanto ai nuovi riti buddisti. In realtà, il buddismo si era a tal punto mescolato con altre
concezioni, antiche credenze native, geomanzia cinese, miti cosmologici, che stava cominciando a perdere la
sua identità.
In ogni caso, sembra che la scultura buddista abbia subito una rapida decadenza durante il periodo Koryeo e si
stata sostituita da generi artistici più profani.
Anche le più grandi opere letterarie del periodo di Koryeo sono di carattere profano più che buddista. Il frutto
più importante del lavoro di ricerca è rappresentato dall’opera Samguk Sagi (Storia dei Tre Regni), compilata
nel 1145 in cinese da Kim Pu-sik e modellata sulle Memorie storiche di Ssu-ma Ch’ien. L’opera costituisce la
nostra principale fonte per la conoscenza dell’antica storia coreana; solo dettagli secondari sono aggiunti dal
Samguk Yusa (Memorabili dei Tre Regni), compilata da Ir’yeon nel 13° secolo.

L’aristocrazia di Koryeo era in gran parte una classe parassita, che viveva nel lusso e si dedicava a passatempi
artistici e letterari. La capitale fu ripetutamente sconvolta da congiure di palazzo e molti dei sovrani di Koryeo
trovarono una morte prematura. Nei decenni intorno alla metà del secolo XI, una famiglia nobile, quella dei Kim,
riuscì a stabilire la propria supremazia a corte con la politica dei matrimoni con i regnanti. I re di Koryeo, come
era accaduto prima per i capi di Silla, preferivano le unioni con i parenti più vicini allo scopo di consolidare la
famiglia regnante; in tal modo i Kim riuscirono a stabilire legami di parentela molto stretti con la dinastia

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regnante Wang, ma successivamente persero il loro potere perla stessa ragione a vantaggio di una famiglia
che portava il cognome quasi altrettanto comune di Yi.

Nel frattempo si erano chiaramente manifestati i sintomi di squilibri più profondi. La cupidigia dell’aristocrazia
assottigliava le entrate dello stato, mentre si registrarono seri episodi di indisciplina tra i funzionari militari, meno
favoriti della urocrazia civile e ad essa sistematicamente subordinati. Appoggiandosi a bande armate formate
da loro personali seguaci, i militari fecero alcuni tentativi per impadronirsi del potere. I tumulti che ne risultarono
provocarono insurrezioni tra le leve contadine. A sua volta, il disordine causato da queste rivolte popolari diede
la possibilità ai militari di far valere il loro potere a corte.
Nonostante un pronunciamento senza successo da parte di alcuni comandanti già nel 1014, nel 1170 le
guardie di palazzo capeggiate da Cheong Chunbu massacrarono i funzionari civili di corte e posero sul trono un
nuovo re.

I militari, che ora controllavano la capitale, non erano mai stati legati da una unità di intenti. Cheong Chungbu fu
assassinato dai rivali nel 1179, ed ebbe inizio una rapida serie di colpi di stato che si concluse nel 1196,
quando uno dei generali, Choi Chungheon riuscì a stabilire la sua supremazia nella capitale.
Quando Choi Chungheon morì nel 1219, trasmise il potere al figlio, Choi U, che insieme ai suoi eredi, mantenne
la supremazia della famiglia fino al 1258.
La potenza della famiglia Choi si fondava su un esercito privato, e da una massa di uomini di fatto schiavi, pochi
dei quali potevano, con la protezione dei Choi, elevarsi a rango di dipendenti o funzionari governativi.

Come abbiamo visto, Koryeo non fu sottoposto da alcuna pressione militare da parte dei cinesi.
La successiva ascesa dei mongoli rappresentò per la Corea una minaccia ancora maggiore. Nel 1231, lee orde
dei mongoli attraversarono il fiume Yalu, che in questo periodo era diventato la linea di demarcazione del
confine settentrionale coreano, e strinsero d’assedio la capitale.
La corte si sottomise quindi ai mongoli ma dopo il loro ritiro decise di trasferire la capitale nell’isola di Kanghwa,
al largo della costa occidentale, per potersi difendere più efficacemente dalla cavalleria dei nomadi. I mongoli
considerarono questa iniziativa come un atto di ribellione e durante i 25 anni seguenti fecero ripetute scorrerie
nella penisola mettendola a sacco.
I mongoli non riuscirono tuttavia a impadronirsi di Kanghwa e la corte coreana continuò a sopravvivere in un
ambiente relativamente lussuoso. Fu durante questo periodo che si incisero le matrici in legno per il Tripitaka
buddista. Il fatto che il mito di Tan’gun sulle origini della Corea sia riportato dal Samguk Yusa, che risale a
questo periodo, si deve forse attribuire a un acuirsi dello spirito nazionalistico come reazione alla minaccia
mongola.
Nel 1258, l’ultimo dei dittatori della famiglia Choi, venne assassinato, e la Corea si arrese completamente ai
mongoli.
Venne ristabilita nel paese l’autorità del governo centrale, ma al prezzo di una completa subordinazione ai
mongoli, che si annessero, con scarse pretese dai coreani.

Una generazione dopo l’altra, essi ebbero in moglie principesse mongole, che esercitarono grande influenza a
corte, e i regnanti coreani si trasformarono così a poco a poco in un ramo della famiglia regnante mongola.
I 2 vani tentativi compiuti dai mongoli nel 1274 e 1281 per invadere il Giappone comportarono alcune tra le più
dure imposizioni subite dai coreani, che in tutti e due i casi furono costretti a fornire navi e soldati.

Durante i lunghi periodi di guerra civile e di invasioni straniere, nel 12° e 13° secolo, si assistette a una
ristrutturazione delle classi. Nella confusione regnante taluni intraprendenti cheonmin, o “uomini di bassa
estrazione”, riuscirono a entrare tra gli yangmin, mentre alcuni individui abili, che godevano del favore dei loro
padroni, fecero strada fino ad essere ammessi tra la classe dominante. Alcuni, presi dalla disperazione, si
vendettero come schiavi insieme ai loro figli.

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Un altro elemento di eversione, nell’ultimo secolo e mezzo della dinastia Koryeo, furono le scorrerie dei pirati
giapponesi. Questi attacchi ebbero inizio nel 13° secolo. I pirati giapponesi non solo misero a sacco i distretti e
le città costiere della Corea, ma impedirono anche il trasporto per mare.
La dinastia Koryeo era ormai a tal punto dipendente dalla potenza dei mongoli che difficilmente avrebbe potuto
sopravvivere al crollo dell’impero.
Nel 1370, soltanto 2 anni dopo la fondazione dei Ming, Koryeo riconobbe la signoria della nuova dinastia
adottandone i “periodi annui”, ma un grave conflitto scoppiò alla corte coreana tra i sostenitori di una alleanza
con i Ming e i gruppi rimasti fedeli ai vecchi legami con i mongoli. La fazione favorevole ai mongoli riuscì infine
ad avere il sopravvento, gettandosi allo sbaraglio in una guerra contro le armate Ming della Manciuria
meridionale; uno dei più eminenti generali, Yi Seong-gye, comprese che l’iniziativa non era che una folle
avventura e si ribellò.
Si impadronì della capitale, pose sul trono una sua creatura e assunse il completo controllo del governo. Infine,
nel 1392, usurpò il trono ponendo fine alla dinastia Koryeo, che aveva dominato per 474 anni.

Yi Seong-gye divenne immediatamente tributario dei Ming e adottò per il regime l’antica denominazione di
Choseon. Essa si manterrà al potere dal 1392 al 1910.
Fino alla fine di questo periodo la Corea conserò stretti rapporti tributari con la sua grande vicina e le influenze
culturali cinesi furono predominanti.
Yi Song-gye era un militare, che si era anzitutto distinto ricacciando i predoni jurched dal Nord Est e i pirati
giapponesi dal Sud, ma si rivelò anche uomo politico di abilità non comune. Egli realizzò una completa riforma
del sistema di possesso della terra.

Nel 1390, Yi Song-gye confiscò tutte le tenute con un drammatico incendio dei registri terrieri e diede inizio a
una nuova redistribuzione delle terre.
Questa nuova ripartizione fu consapevolmente diretta alla creazione di un forte potere burocratico centrale. Le
terre intorno alla nuova capitale, Seul, furono assegnate alla burocrazia centrale o a coloro che avevano reso al
trono servigi eccezionali. Nelle altre province, le terre vennero in gran parte destinate a sostenere il personale
militare.
Inoltre, Yi Song-gye ricompensò le poche decine di persone che erano state i suoi più intimi collaboratori al
momento della fondazione della dinastia elevandole nello speciale ordine dei “Sudditi di merito”, ai quali egli
fece grandi assegnazioni di terre e di schiavi e conferì importanti privilegi speciali. Una categoria più vasta,
quella dei “Sudditi di merito minore”, ricevette ricompense meno elevate.
Le riforme di Yi Song-gye rappresentarono in una certa misura una ripresa del vecchio sistema T’ang, utilizzato
nel primo periodo di Koryeo secondo il quale la rendita di determinati appezzamenti di terreno veniva assegnata
personalmente a certi funzionari; ma contrariamente alle assegnazioni fatte dai T’ang e dalla dinastia Koryeo, la
maggior parte di queste terre non erano esenti dall’imposta.

Altre significative differenze con la Cina erano la netta frattura sociale esistente tra i yangban e il resto della
popolazione e la complessa struttura delle classi inferiori. In Corea, come in Cina, il sistema degli esami era
diventato la principale via di accesso alle alte cariche dell’amministrazione, ma l’ammissione agli esami era di
regola riservata ai membri delle famiglie yangban, e non esisteva alcuna possibilità di perdere questa
condizione privilegiata o acquistarla. Al di sotto della classe yangban, un piccolo gruppo, chiamato chungin o
“popolo medio”, forniva i funzionari governativi di rango inferiore e specialmente gli esperti in medicina, nelle
scienze e nelle lingue straniere. Ma nonostante l’importanza, soltanto raramente questo “popolo medio”
riusciva a innalzarsi socialmente attraverso il sistema degli esami. Il grosso della società era formato dalla gente
comune (yangmin), sulla quale grava il duplice onere della produzione e dell’imposta.
D’altra parte, il governo garantiva loro il diritto alla terra che coltivavano e una porzione del raccolto,
proteggendoli in qualche modo dallo sfruttamento dei grandi proprietari terrieri.

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La struttura politica fondamentale della dinastia Yi fu costituita durante i primi 25 anni. I principali autori della
nuova amministrazione furono Yi Seong-gye, noto nella storia come T’aejo (Grande Progenitore), il titolo
tradizionalmente attribuito ai fondatori di dinastie, e suo figlio, il terzo sovrano, T’aejong (Grande Antenato).
I principali organi del governo centrale furono il Consiglio di Stato, la Segreteria Reale e i 6 Ministeri, ossia i
Consigli del personale, delle entrate, dei riti, della guerra, della giustizia e dei lavori pubblici, così chiamati dai 6
Ministeri dei T’ang.
Esistevano inoltre 2 Uffici dei Censori, il primo incaricato, almeno in teoria, di vagliare e criticare la politica e il
lavoro dei funzionari, il secondo aveva competenze analoghe nei confronti degli atti dello stesso sovrano.

Il governo dipendeva da una numerosa burocrazia che, come in Cina, era in parte reclutata attraverso il
sistema degli esami. Tale sistema aveva assunto un’importanza crescente durante il periodo Koryo, nonostante
i disordini politi e militari, e Yi Songgye lo riprese.
L’unica grande differenza del modello cinese era la effettiva limitazione del sistema ai membri della classe
yangban. Ogni 3 anni, 700 candidati aspiranti al diploma nei classici e altrettanti al diploma di chinsa, erano
selezionali per mezzo di esami provinciali e l’anno seguente, dopo una prova finale che aveva luogo a Seul,
venivano proclamati 100 vincitori per ciascuno dei 2 diplomi, i quali avevano diritto all’ammissione nella classe
burocratica.

In linea generale la Corea degli Yi seguì il ciclo dinastico della storia cinese. Il secolo 15, ossia il primo secolo
del dominio Yi, fu un periodo di grande vigore e prosperità. L’accrescimento delle terre messe a coltura fu
considerevole e un grande aumento demografico produsse migrazioni su vasta scala dal densamente popolato
Sud al disabitato Nord.

Il consolidarsi del sistema degli esami fece sì che con la fondazione della dinastia Yi, comincia veramente l’età
confuciana della storia della Corea.
Fino agli ultimi anni della dinastia Koryo, i coreani avevano mostrato un interesse limitato al confucianesimo,
dovuto dalla scarsa fortuna ai tempi dei primi regni importanti, ossia nel periodo dei 3 Regni e Silla oltre che per
la popolarità del buddismo.
Al tempo dell’usurpazione di Yi Songgye, le idee confuciane avevano posto salde radici tra i membri della
classe colta. I funzionari che non accettarono il mutamento dinastico abbandonarono le loro cariche
dedicandosi agli studi confuciani e considerandosi come lealisti; poiché essi vissero lontano dalla corte, ebbero
il nome di studiosi delle “Montagne e Foreste”.
Persino Yi Songgye, che era buddista, subì l’influenza dei suoi seguaci confuciani e adottò del confucianesimo
le dottrine che ritenne utili per l’esercizio del potere, compresa la teoria cinese del “Mandato del Cielo”
usandole come mezzi per legittimare la dinastia.
La definitiva adozione del sistema degli esami sotto la dinastia Yi portò a tutti i giovani ambiziosi appartenenti
alle classi superiori di formarsi in una educazione confuciana.
Le fortune del confucianesimo e il successo del sistema degli esami sotto la dinastia Yi si accompagnarono a
un grande sviluppo delle scuole, i cui programmi erano limitati alla lingua cinese e ai testi che il candidato
doveva conoscere agli esami.
Alla base del curriculum educativo stavano le scuole elementari private, che dovettero essere istituite in quasi
tutti i villaggi. Oltre alle scuole elementari, esistevano in ogni distretto quelle governative, istituite ai tempi di
Koryo, che avevano un loro tempio confuciano e preparavano gli studenti per gli esami di diploma. Allo stesso
livello delle scuole governative distrettuali, vi erano le Quattro Scuola (Sahak) della capitale, quasi tutti
appartenenti ai yangban residenti a Seul, e li preparava per gli esami di diploma e per l’ammissione
all’università della capitale.

L’ascesa del confucianesimo portò a un corrispondente declino del buddismo.


Yi Songgye (T’aejo) privò la chiesa buddista del privilegio della esenzione fiscale, proibì la costruzione dei nuovi
edifici e persino il restauro dei templi e stabilì che l’ordinazione dei monaci doveva essere autorizzata dal

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governo; suo figlio, Sejong, bandì i monaci da Seul. In tal modo, la ricchezza e la forza della chiesa buddista
vennero ridotte.

Il 15° secolo fu uno dei più grandi periodi dell’intera storia coreana. Assai numerose furono le opere pubbliche,
per la gran parte in cinese. Tra queste è da ricordare il Koryo sa, Storia di Koryo, completata nel 1451.
Questa attività culturale fu accompagnata da una attività nel settore della stampa, soprattutto allo scopo di
rendere i testi confuciani più accessibili alla classe colta. Molte di queste opere furono stampate con caratteri
mobili, un’invenzione che risale forse ai cinesi ma che in Corea, nel 15° secolo, venne applicata per la prima
volta nella storia mondiale.
La più notevole conquista intellettuale fu l’invenzione di un eccellente sistema fonetico di scrittura coreana.
Questo sistema, è conosciuto col nome di hangeul (che significa “lettere coreane”), fu sviluppato grazie al 4°
sovrano Yi, Sejong, e ufficialmente adottato con decreto reale nel 1466.

Dopo una fase di splendore corrispondente al suo primo secolo di vita, la dinastia Yi cominciò a decadere
secondo il tipico schema dinastico, sul piano dell’efficienza amministrativa che per la coesione interna. La
svolta nel ciclo dinastico non si manifestò con ribellioni e insurrezioni, come accadeva in Cina e come accadde
durante la dinastia Koryo, bensì mediante conflitti delle fazioni in seno alla burocrazia centrale.
Il sistema degli esami era un mezzo eccellente per reclutare candidati nei ranghi della burocrazia, ma l’effettiva
nomina e le promozioni dipendevano dalla protezione degli alti funzionari, che a loro volta erano spesso divisi
da rivalità nella lotta per la fiducia e il favore del sovrano.
Questa lotta per il potere era inoltre inasprita da elementi ideologici. Inevitabilmente esisteva una frattura tra il
modello ideale di condotta confuciana e la realtà della vita burocratica, come del resto tra l’ideale confuciano
delle responsabilità del letterato-funzionario, incaricato di consigliare il sovrano nella natura umana fallibile e
spesso capricciosa di tali sovrani, incapaci comunque di accogliere di buon grado i consigli dei funzionari.
I classici ideali della condotta e dell’amministrazione confuciane potevano sempre essere invocati per criticare
l’operato dei burocrati.
Il moralismo e le denunce divennero quindi uno dei mezzi usati dai gruppi rivali per il potere. Ogni opposizione
rappresentava un atto di slealtà che equivaleva al tradimento.

Il grande conflitto che ebbe inizio in Corea alla fine del 15° secolo si manifestò invece sul problema della
funzione degli organi censori del governo. I funzionari più giovani tentavano di estendere la competenza di tali
organi, mentre i più anziani volevano diminuirne il potere e mantenere nell’amministrazione la tradizionale
struttura gerarchica.
Soltanto con il regno di Seongjong (1469-1494) il problema si presentò in tutta la sua gravità.

La rottura tra i funzionari anziani e giovani si ebbe durante il regno del figlio di Seongjong, Yeonsangun (1494-
1506). Uomo di vedute diverse da quelle del padre, Yonsangun andò gradualmente prendendo posizione a
favore dei funzionari più anziani e rispettabili. Per alcuni anni egli tollerò la presunzione e l’insolenza degli organi
censori, ma alla fine, nel 1498, li colpì, condannando a morte, al bando o all’allontanamento dall’ufficio circa 40
o 50 persone, molte delle quali avevano acquistato fama per il vigore e il coraggio con cui avevano ricoperto i
loro incarichi.
Per due anni il regno fu governato col terrore e centinaia di sfortunati funzionari furono mandati a morte o messi
al bando.
Alla fine Yonsangun fu deposto dai funzionari che ancora restavano a corte e sotto il suo successore,
Chungjong (1506-1544), gli organi censori riacquistarono importanza come strumenti per impedire l’esercizio
dispotico del potere.
Ma la lotta tra i funzionari responsabili dell’amministrazione e i più giovani membri ben presto ricominciò.
Tuttavia, Chungjong cadde sotto l’influenza di un idealista confuciano, Cho Kwangjo. Costui raccolse intorno a
sé un gruppo di giovani, forti del potere degli organi censori, sferrarono un furioso attacco contro le istituzioni
esistenti e gli alti funzionari nel tentativo di ricreare l’ipotetico stato ideale confuciano dell’antichità cinese.

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Questa iniziativa suscitò l’ostilità dei funzionari più anziani e mise in allarme lo stesso sovrano per l’aperta
minaccia che i riformatori rappresentavano per una direzione amministrativa forte.
Si era così creato il precedente per una operazione che verrà in seguito ritentata da individui o da gruppi
burocrati, particolarmente energici, quella di usare gli organi censori come una piattaforma per la conquista del
potere e uno strumento per ridurre al silenzio gli oppositori.

La disputa, inizialmente vertente sulla funzione propria degli organi censori, si risolve in questo periodo con un
generale riconoscimento della loro importanza come cardine del governo. In realtà, tali organi stavano
diventando i principali strumenti al servizio dei gruppi di potere rivali, anche se proprio in questi anni essi
cominciavano a perdere parte della loro influenza. In ogni caso, le rivalità personali e familiari si facevano più
importanti dei problemi in discussione e le divisioni di fazione andavano perpetuandosi quasi in forma ereditaria.
L’approfondirsi della divisione tra le fazioni fu connesso con un significativo mutamento del sistema educativo
avvenuto nel 16° secolo, ossia l’apparire delle accademie private (seoweon).

Gradualmente esse sostituirono le scuole governative locali e quelle della capitale divennero le fondamentali
istituzioni educative del paese.
Nei loro primi anni di vita i sowon contribuirono a suscitare in tutta la Corea una grande rinascita degli studi
confuciani, ma ben presto, poiché impartivano una educazione che rispecchiava le rivalità tra le famiglie e i
gruppi di parte, accentuarono la lotta delle fazioni in seno alla burocrazia.
Negli ultimi anni del 15° secolo, gran parte della burocrazia si trovò divisa in 2 grosse fazioni, note col nome di
“Orientali” e “Occidentali”, dalle località di residenza nella capitale, dei rispettivi capi.
Gli “Orientali” riuscirono infine ad avere la meglio, ma nel 1391 si scissero in “Settentrionali” e “Meridionali”.
I “settentrionali” vittoriosi si divisero a loro volta nelle fazioni “Grande” e “Piccola” prima di essere costretti, nel
1623, a cedere il potere a corte agli “Occidentali”.
A loro volta gli “Occidentali” si frantumarono in parecchie fazioni, tra le quali emersero due grandi gruppi, la
“Vecchia Dottrina” e la “Nuova Dottrina”:
Comunque, alla fine del secolo 17°, si era stabilito tra i 4 gruppi principali un certo equilibrio. Questi 4 gruppi,
noti col nome di “Quattro Colori”, poiché i loro membri portavano abiti di colore diverso, erano la “Vecchia
Dottrina”, “Nuova Dottrina”, “Settentrionali” e “Meridionali”. Essi si cristallizzarono in raggruppamenti ereditari
che rifiutarono di stringere tra loro legami di parentela ma che si intesero ogniqualvolta si trattò di stabilire, in
proporzione alle forze rispettive, il numero dei candidati che dovevano superare gli esami ufficiali e ricevere
incarichi di governo.

Mentre le lotte di fazione aumentavano di intensità nel tardo 16° secolo, la Corea fu colpita dall’esterno da una
massiccia invasione dei giapponesi. Fino a quel momento, la dinastia Yi era relativamente sicura da intrusioni
straniere. Gli shogun Ashikaga, che in una certa misura avevano esteso la loro autorità su tutto il Giappone
feudale nel 1392, ossia nell’anno in cui veniva fondata la dinastia Yi, erano riusciti anche a stabilire un certo
controllo sui pirati giapponesi.
Anche dopo il crollo della autorità degli Ashikaga, nel tardo 15° secolo, si ebbero soltanto sporadici conflitti tra
gli avventurieri giapponesi d’oltremare e i coreani.

Nel tardo 16° secolo si costituì in Giappone un potere centralizzato molto più efficiente di quelli stabiliti in
precedenza.
Hideyoshi, che nel 1590 aveva estero il suo controllo su tutto il Giappone, invitò quindi la Corea ad unirsi al
Giappone in una campagna contro la Cina e a dare libero passaggio alle sue truppe.
Dopo il rifiuto dei coreani, Hideyoshi inviò nel 1592 un esercito alla conquista della penisola, primo passo verso
la realizzazione del suo grande piano. I giapponesi incontrarono in Corea scarsa resistenza a causa del
disgregamento dell’autorità centrale, dell’impotenza del governo.
In un mese l’esercito invasore riuscì ad impadronirsi della capitale e dilagò quindi in tutta la penisola.
La dinastia Ming decise allora di difendere la Corea, stato tributario, scagliando dal Nord tutto il peso della sua
forza militare contro i giapponesi, che dovettero tra l’altro affrontare una minaccia più grave, quella

129
dell’ammiraglio coreano Yi Sun-sin, un maestro nella strategia navale, che sconfisse ripetutamente le flottiglie
giapponesi spezzando le linee di rifornimento.
I suoi pesanti vascelli, chiamati “navi tartaruga” per le sovrastrutture in ferro, sono da alcuni considerati come il
primo esempio al mondo di nave corazzata.

Sottoposti a queste molteplici pressioni, gli invasori furono costretti a intavolare trattative di pace con la Cina.

Le trattative di pace si protrassero per 3 anni senza che esistesse alcuna speranza di giungere a un accordo,
dato che i giapponesi partivano dal presupposto di essere i vincitori della guerra, mentre i cinesi insistevano
affinché il Giappone si riconoscesse come vassallo dei Ming.
Hideyoshi riprese le operazioni all’inizio del 1597. Questa volta i giapponesi incontrarono maggiore resistenza.
I Ming poterono inviare in Corea truppe fresche, ma proprio in quel momento Hideyoshi morì e il corpo di
spedizione giapponese fu precipitosamente costretto a rimpatriare. Gli shogun Tokugawa, che nel 1600
giunsero al potere in Giappone, nel 1606 ristabilirono con la Corea relazioni amichevoli.
Le grandi guerre di Hideyoshi non ebbero in Giappone ripercussioni notevoli, ma per gli altri belligeranti furono
disastrosi. Le operazioni militari richiesero uno sforzo assai gravoso ai vacillanti Ming e, privando la Manciuria
delle sue guarnigioni, contribuirono ad aprire la via alla ascesa dei manciù.
Per la Corea le invasioni di Hideyoshi furono una tragedia. Le armate giapponesi devastarono e
saccheggiarono l’intera penisola, e le truppe cinesi venute in aiuto dei coreani non fecero di meglio. Per 6 anni,
l’amministrazione e l’economia del paese furono sconvolte e la dinastia Yi non si riprese mai completamente dal
colpo.

Per di più, i coreani, in quanto vassalli dei Ming, si trovarono coinvolti nelle guerre tra questi e i manciù, in
ascesa alle frontiere settentrionali della penisola.
Nel 1627, i manciù, per prevenire un eventuale attacco sul fianco, invasero la Corea nordoccidentale e
costrinsero il governo a una neutralità. Ma en presto si giunse alla completa soggiogazione. Alla fine del 1636
l’imperatore manciù attraversò il fiume Yalu con un esercito e all’inizio dell’anno seguente costrinse i coreani ad
abbandonare i Ming e a riconoscersi vassalli dei Ch’ing; per molti anni, tuttavia, i coreani rimasero in cuor loro
fedeli alla dinastia cinese.

Se si considera la dinastia Yi dal punto di vista della storia cinese, può sembrare strano che sia durata così a
lungo. Una delle ragioni che in questo periodo portarono la Corea ad allontanarsi dal modello cinese del ciclo
dinastico può essere forse rappresentata dal fatto che uno stato burocratico a tal punto degenerato poteva
mantenersi a lungo in uno stato più piccolo. Un’altra ragione è forse da ricercare nella fanatica adesione dei
coreani alle concezioni di lealtà mutuate al confucianesimo; infatti, la loro lealtà alla dinastia regnante fu anche
superiore a quella dei cinesi.
Ma la ragione forse più importante della lunga sopravvivenza della dinastia Yi sta forse nel fatto che i manciù si
limitarono ad accettare il vassallaggio dello stato coreano, che forniva loro un saldo punto d’appoggio esterno,
mentre invece, realizzando fino in fondo la loro ambizione, distrussero la dinastia Ming. Forse anche le ultime
dinastie cinesi avrebbero potuto vivere se non fosse per l’alternarsi al potere di invasori stranieri e governanti
indigeni.

In ogni caso, la dinastia Yi si trovò nel secolo 17° in una condizione assai penosa. Anche le lotte tra le fazioni si
placarono, poiché il gruppo della “Vecchia Dottrina” riuscì a ottenere una vittoria duratura sui principali rivali
della “Nuova Dottrina”.

La gravità della situazione che seguì le invasioni giapponesi degli anni 1590 – 1600 è espressa dalle cifre
relative alle terre soggette all’imposta registrate prima e dopo questo periodo. In pochi anni si ha una
diminuzione superiore ai 2/3. Una ragione molto più importante di questa drastica riduzione del numero delle
terre sottoposte al fisco è da ricercare nei trasferimenti illegali di fondi nelle mani di potenti proprietari terrieri
esenti dall’imposta dopo la distruzione dei registri operata dai giapponesi.

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Questa drastica riduzione delle normali entrate fiscali rese quindi necessario il ricorso a nuove fonti di reddito,
che vennero create anzitutto imponendo nuove forme di tassazione alle terre pubbliche rimanenti.
Poiché i potenti proprietari terrieri riuscirono a impedire l’applicazione di queste nuove imposte agli schiavi e
agli altri cheonmin che lavoravano sulle loro terre, il peso delle imposte finì per gravare ancora di più sui
contadini che non godevano della esenzione.
Un ulteriore sintomo della decadenza politica fu il crescente malcontento della classe burocratica, provocato
soprattutto dai magri stipendi corrisposti ai funzionari di rango inferiore e delle ingiustizie che il sistema corrotto
generava.
Ancora più diffusi erano il malcontento e la miseria delle classi inferiori. Cresciute in una povertà senza
speranza, sfruttate dagli esattori o dai grandi latifondisti, le popolazioni erano in preda degli usurai, compresi
quelli governativi. Chiusa nella morsa della burocrazia terriera, l’economia rimase estremamente arretrata. Il
commercio era prevalentemente orientato verso il soddisfacimento dei bisogni di una classe dominante molto
ristretta.

Ma il risultato peggiore della inefficienza del governo fu la sua totale incapacità a proteggere il paese dai cattivi
raccolti. Ne risultò nel corso di questi secoli, una situazione di carestia endemica che provocò pestilenze e
disordini.
Nello stesso tempo, i disordini interni si facevano più frequenti e più gravi. Si diffuse il banditismo e durante il
regno di Yongjo comparvero bande organizzate di briganti che presero di mira i magazzini governativi. Nel
1811, la miseria dei contadini e il malcontento dei funzionari di rango inferiore fecero scoppiare una grande
rivolta organizzata. Nel 1862, insurrezioni su vasta scala si succedettero rapidamente sia nel Nord che nel Sud.

Nessuna di queste sommosse minacciò seriamente il regime, che dovette però far fronte a una sfida più
radicale proveniente da un’altra direzione, ovvero il Cristianesimo che i coreani chiamarono “Dottrina
occidentale”.
Naturalmente, i confuciani lo considerarono una forza sovversiva, che metteva in questione l’intero sistema
tradizionale della lealtà e del culto degli antenati sul quale lo stato si fondava. Le dottrine del cattolicesimo
romano cominciarono a penetrare in Corea in modo significativo nella seconda metà del 18° secolo, quando
furono introdotte dagli emissari di ritorno da Pechino, dove si erano recati a porgere il tributo annuo ai Ch’ing.
In seguito, esso venne diffuso in Corea da missionari cinesi e poi francesi. Molti dei piccoli funzionari scontenti
accolsero ben presto la nuova religione, ma anche alcuni eminenti studiosi confuciani mostrarono interesse per
il cristianesimo, attratti dalle conoscenze scientifiche occidentali.
Naturalmente, il governo, estremamente conservatore, tentò di arrestare la diffusione del cristianesimo.
L’introduzione dalla Cina di libri “sovversivi” fu proibita già nel 1786 e 1801.

Tuttavia, nonostante le pressioni straniere e i lunghi secoli di inefficienza governativa e di sconvolgimenti sociali,
la Corea rimase nel complesso estremamente immobile.
In Cina, la stabilità e la lentezza dei mutamenti si associarono alla forza politica e all’equilibrio sociale. In Corea,
al contrario, questa forza e questo equilibrio furono molto meno evidenti e più profondi invece il ristagno
economico, la corruzione politica e forse anche la sterilità culturale.
Una risposta più attendibile può essere offerta dal paragone tra l’estensione geografica della Corea e quella
della Cina. Applicato a un paese piccolo e culturalmente uniforme, il sistema filosofico e politico cinese,
altamente organizzato ma troppo rigido, produsse un conformismo paralizzante, che la Cina poté evitare grazie
alla maggior estensione, alle grandi differenze geografiche, linguistiche e culturali e ai rapidi mutamenti dinastici
provocate dalle invasioni dei “barbari”.

Più della sua vicina la Corea aveva bisogno di un rinnovamento, ma proprio per questo era meno preparata a
imboccare nuove strade. La sua economia era molto più arretrata, il potere politico logorato, la società
stagnante e quel che è peggio, la creatività intellettuale dei coreani era caduta in un sonno profondo. La Cina

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aveva raggiunto un alto grado di mobilità grazie alla sua forza interna; la Corea era forse anche più immobile, a
cagione della sua interna debolezza.

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C.11 – IL GIAPPONE ANTICO

Mentre la Corea costituì una variante del modello cinese, il Giappone si trasformò in un paese che dal punto di
vista culturale aveva molto in comune con la Cina e la Corea, alle quali però si opponeva sia per le differenze
nelle strutture politiche sia per le esperienze storiche.
Gli stessi giapponesi cercano spesso di spiegare questa loro originalità rispetto al resto dell’Asia orientale
affermando che essa è dovuta alla peculiarità del carattere nazionale.
Probabilmente sia gli uni che gli altri devono il mantenimento della loro individualità culturale, nel mare della
civiltà cinese che li sommerse, a due elementi fondamentali: le loro antiche basi culturali, molto diverse da
quelle della Cina, e il carattere agglutinante delle loro lingue, inassimilabili dalla lingua cinese.

Uno dei principali elementi di differenza tra il Giappone e la Corea è rappresentato dalle loro posizioni
geografiche rispettive. La posizione del Giappone, paese insulare relativamente lontano, può spiegare meglio il
ruolo caratteristico che esso ha assunto nella storia dell’Asia orientale.
Naturalmente, la cultura cinese esercitò sul Giappone minore influenza che sulla Corea a causa della distanza.
Gli eserciti cinesi costituirono colonie in Corea già nel 108 AC, ma la potenza militare e il controllo politico della
Cina non furono mai estesi al Giappone. Di conseguenza, le primitive basi culturali del Giappone furono meno
intaccate di quelle coreane. I mari che lo circondano diedero al Giappone anche una certa libertà dalle
pressioni militari. Il Giappone non sperimentò la catarsi della conquista straniera; le trasformazioni avvennero
quindi abbastanza lentamente e risultarono anzitutto dall’evoluzione interna piuttosto che dalla pressione
esterna.

Un altro risultato interessante dell’isolamento è rappresentato dalla tendenza a conservare la cultura


tradizionale. Ciò che era vecchio e fuori moda non venne spazzato via dalle pressioni straniere, ma conservato
con amore accanto al nuovo. Ciò non significa che i giapponesi siano stati conservatori per il temperamento;
come molti altri popoli, essi si sono interessati alle innovazioni e al progresso dei tempi, ma hanno dimostrato
però anche la capacità di rimanere attaccati agli elementi tradizionali.
Un altro risultato significativo dell’isolamento è rappresentato dalla consapevolezza che i giapponesi hanno di
aver attinto altrove la loro cultura. Giungendo dal mare, le influenze straniere potevano essere più facilmente
identificate e definite. La consapevolezza dell’influenza straniera ha anche incoraggiato il mito, in Giappone
come altrove, che i giapponesi, diversamente da altri popoli, siano stati una nazione di plagiari, anche se la
realtà sembra dimostrare che, proprio grazie al loro isolamento, essi hanno sviluppato autonomamente gran
parte della loro cultura.

Le origini dei giapponesi:


Le scoperte suggeriscono che gruppi umani, che ancora ignoravano l’arte del vasellame, ma i cui attrezzi di
pietra somigliavano a quelli trovati in altri luoghi dell’Asia nordorientale, abitassero le isole forse 6 o 7mila anni
fa. Comunque, la prima grande cultura giapponese si diffuse nell’arcipelago verso il 3° millennio AC; essa viene
indicata col nome di Jomon e nelle sue prime fasi è classificata come mesolitica (intermedia tra paleolitico e
neolitico), poiché i popoli Jomon modellavano il vasellame ma non praticavano l’agricoltura.
Le popolazioni jomon vivevano in profonde fosse e, non conoscendo l’agricoltura, si nutrivano con i prodotti
della caccia oppure di radici, noci e crostacei.
Il nome jomon deriva dal “disegno a corda” che abitualmente adorna la superficie esterna del vasellame tipico
di questa cultura. I vasi, pur non essendo modellati su torni, rivelano, particolarmente nelle fasi più tarde,
grande abilità artistica, immaginazione creativa e ricchezza nei disegni.
Insieme agli utensili lavorati della cultura jomon, essi rivelano inoltre variazioni regionali in particolare tra le due
vaste zone orientale e occidentale che si congiungono nelle montagne tra la pianura del Kanto e del Kinki.

Circa nel 3° o 2° secolo AC, nel Giappone occidentale si sviluppò, chiaramente sotto le influenze del
continente, una nuova cultura, che si diffuse rapidamente dal Kyushu alla pianura del Kanto, sostituendosi alla
più antica cultura jomon. Nota col nome di Yayoi, da uno dei luoghi archeologici nella città di Tokyo, questa

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cultura è caratterizzata da un vasellame modellato al tornio, più armonioso di quello del periodo precedente
anche se privo dei ricchi disegni.
Ma il fatto più importante è che questa cultura è caratterizzata dalla presenza dell’agricoltura.
L’agricoltura del periodo yatoi, consistente soprattutto nella coltivazione del riso in campi irrigati, ha origini
cinesi. Anche la conoscenza dei metalli venne probabilmente introdotta dalla Cina, poiché i più antichi oggetti
di metallo ritrovati nei luoghi yayoi sono specchi di bronzo, probabilmente cinesi, e monete del periodo Han.
Il vasellame si divide in 2 tipi principali, orientale e occidentale, che si incontrano nella fascia centrale del Mar
Interno. A seconda del tipo dei bronzi, la cultura yayoi si divide invece in 3 grandi aree: quella occidentale,
intono al Kyushu, dove sono comuni le armi di bronzo; quella centrale intorno al Kinki, dove sono comuni le
campane di bronzo; e la zona del Kanto, quasi interamente priva sia di campane che di armi di bronzo.

Una nuova cultura si sovrappose alla cultura yayoi intorno al 3° o 2° secolo AC. Vogliamo alludere alla cultura
delle tombe, così chiamata dagli enormi tumuli e, nelle sue fasi più tarde, dalle grandi celle funerarie di pietra
che la caratterizzano. Queste tombe e molti altri più tardi elementi di questa cultura ricordano molto da vicino
l’antica Corea e il suo entroterra, l’Asia nordoccidentale. Indubbiamente la cultura delle tombe è l’espressione
di nuove influenze culturali provenienti dalla Corea.

Come in Corea, le tombe sono l’espressione di una società aristocratica; infatti, i personaggi in esse sepolti
ebbero probabilmente molti uomini al loro comando. Su molti tumuli vi sono cerchi concentrici formati da
vasellame di forma cilindrica, noti col nome di haniwa, alcuni dei quali sormontati da figure di uomini, animali o
case.
Le composizioni haniwa e gli oggetti che si trovano nelle tombe sono la testimonianza di una cultura sempre più
influenzata da elementi continentali. Gli aristocratici erano ovviamente dei guerrieri a cavallo che portavano
elmi e armature, spade e altre armi di ferro.
Il vasellame cotto di questa cultura è molto simile a quello della Corea meridionale della stessa epoca. I
magatama, o gioielli ricurvi, trovati nelle tombe sono identici a quelle che decorano le corone d’oro di Silla,
forse importate dal Giappone.

Un tempo si pensava che le popolazioni yayoi fossero i progenitori dei giapponesi moderni e i popoli jomon
quelli degli ainu, che attualmente vivono in regioni isolate dell’Hokkaido e nelle isole a nord. Gli ainu sono
particolarmente interessanti, poiché l’abbondanza di peli sul viso e sul corpo indica o una provenienza
protocaucasica o, più probabilmente, la sopravvivenza di un tipo umano primitivo che presenza una
mescolanza di caratteristiche etniche varie.
Le prove di cui disponiamo, molto confuse e contrastanti, non ci permettono di fare ipotesi precise. Tutto quello
che possiamo dire è che i primitivi giapponesi, come le loro culture preistoriche, erano chiaramente di origine
mista. Molto più importane di queste vaghe congetture sulle origini etniche e culturali è comunque il fatto
incontestabile che fin dai tempi storici la maggior parte del Giappone è stata abitata da una popolazione
omogenea dal punto di vista etnico e unita da una lingua e da una cultura comuni.

La formazione dello stato giapponese:


Le prime testimonianze cinesi ci forniscono notizie interessanti sull’organizzazione sociale e politica dell’antico
Giappone. La più importante tra queste testimonianze è quella del Wei chih, ossia la parte che tratta della
dinastia Wei negli ufficiali Annali dei Tre Regni (San-kuo-chih), redatto prima del 297 DC; tra le sezioni sulle
popolazioni periferiche, aggiunte in quest’opera alle “Biografie”, vi è un saggio dettagliato sugli abitanti delle
isole giapponesi, che i cinesi chiamavano allora “wa”, termine che può avere avuto il significato peggiorativo di
“nano”.
Riferendosi al periodo di transizione tra la cultura yayoi e quella delle tombe, l’opera descrive inoltre un popolo
osservante delle leggi e amante delle bevande alcoliche, che praticava l’agricoltura, era molto abile nella
filatura e tessitura e esperto nella pesca; un popolo che viveva in una società caratterizzata da rigide distinzioni
sociali, che venivano indicate dai tatuaggi o da altri segni sul corpo e sul viso. Quest’ultima notizia è confermata
dai segni presenti su alcune delle figure haniwa.

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Il Wei chih attribuisce ai wa un notevole grado di organizzazione politica. Si dice che essi siano stati in origine
divisi in 100 paesi, o tribù. Secondo le testimonianze, queste unità erano formate da un numero di gruppi
familiari, alcune governate da re ereditari, altre da regine, il che indica forse una fase di transizione dal
matriarcato al patriarcato.
Sembra che i “paesi” del Giappone occidentale siano stati sotto la signoria di una regina nubile di nome Himiko
che governava nello “Yamatai”, mentre i “paesi” più lontani oltre lo Yamatai, erano indipendenti. Yamatai
sembra essere una versione di Yamato, il distretto della antica capitale degli imperatori giapponesi, e Himiko
probabilmente significa “Principessa del Sole”, nome appropriato a un membro di una stirpe di sovrani che
pretendevano di essere i discendenti di una Dea del Sole.
Il Wei chih afferma che 30 “paesi” dei wa erano in relazioni con la Cina e in modo abbastanza particolareggiato
descrive numerosi scambi di ambascerie tra Himiko e la corte dei Wei negli anni tra il 238 e il 247.

I più importanti documenti sulle origini del Giappone e sulla formazione dello stato giapponese sono comunque
le più antiche testimonianze indigene.
Il Kojiki (Memorie degli avvenimenti dell’antichità) fu compilato nel 712 e il Nihon Shoki (Storia del Giappone)
nel 720. Influenzati dalle idee del secolo VIII gli autori di queste opere rielaborarono la mitologia e le tradizioni
storiche giapponesi per magnificare il prestigio e il potere della famiglia regnante e per divulgare la falsa
immagine di un lungo governo centralizzato e di un’antica tradizione degna di quella cinese; le notizie che essi
forniscono sui primi secoli sono quasi prive di valore storico.
Le informazioni sulla storia antica offerteci dal Kojiki e dal Nihon shoki sono intessute di una gran varietà di miti,
leggende, genealogie, vaghi ricordi storici e idee prese a prestito dalla filosofia e storia cinesi.
Il Nihon Shoki offre una serie di varianti di un mito o di una tradizione. Essi riguardano in gran parte la
procreazione delle divinità della natura dell’antico Giappone, molte delle quali sono tuttora venerate, mentre
alcune sono considerate dagli antichi testi come antenati di eminenti famiglie del primo periodo storico.

Tra le prime divinità vi furono una sorella e un fratello, Izanami e Izanagi, i quali, discendendo sulla terra,
generarono le isole del Giappone e numerose altre divinità. Izanami morì dando alla luce il Dio del Fuoco e
discese agli inferi dove Izanagi la seguì, ma venne cacciato dalla sorella che non voleva si vedesse il suo corpo
in decomposizione.
Altre divinità nacquero dai vestiti che Izanagi si strappò e dalle parti del corpo che egli lavò per purificarsi da
questo episodio. Tra queste divinità vi furono una Dea del Sole di nome Amaterasu, e un Dio della Luna e
un’altra divinità di nome Susa-no-o, che pare rappresentasse le forze distruttrici della natura.
Saliti sulla Pianura dell’Alto Cielo, Amaterasu e Susa-no-o generarono un’altra serie di divinità.
In seguito, quando Susa-no-o rovinò le risaie della sorella, la Dea del Sole, quest’ultima si chiuse in una grotta
lasciando il mondo nelle tenebre. Alla fine, la miriade di numi l’attirò fuori dal suo nascondiglio allettandola con
gli scoppi di allegria provocati dalla danza di una dea. È questo evidentemente un mito che rappresenta
un’eclissi di sole.
Gli dei riuniti cacciarono quindi Susa-no-o sulla terra, dove egli divenne progenitore dei sovrani di Izumo, sulla
costa settentrionale dell’Honshu.
La leggenda dice che Susa-no-o andò in Corea, dove trovò una spada nella coda di un drago, alludendo forse
alla introduzione delle armi di ferro nell’Honshu, di fronte alle coste coreane.

La discendenza del Sole venne fondata da Ninigi, nipote della Dea la Sole, disceso dal cielo nel Kyushu.
Secondo la tradizione, Ninigi portò sulla terra le 3 insegne che ancora oggi costituiscono in Giappone i simboli
dell’autorità dell’imperatore, ossia uno specchio di bronzo (simbolo della Dea del Sole), la spada di ferro di
Susa-no-o e un gioiello ricurvo (magatama).
Secondo la mitologia, il pronipote di Ninigi mosse con grandi forze dal Kyushu, oltre il Mar Interno fino al Kinki,
dove, dopo aver sottomesso le divinità locali, fondò nel 660 AC lo stato giapponese nella regione di Yamato,
intorno alla pianura di Nara, a breve distanza da Osaka. Il titolo attribuito al leggendario fondatore della dinastia
imperiale è quello di Jimmu (“Divino Guerriero”).

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Le tradizioni orali di molti popoli ci hanno conservato accurate genealogie delle case regnanti. Le date relative
ai primi sovrani giapponesi sono assolutamente immaginarie. Sembra probabile che la data del 660 AC sia
stata arbitrariamente fissata intorno al 601 DC calcolando a ritroso 1260 anni, un periodo che secondo le
concezioni cinesi costituiva uno dei grandi cicli della storia. Secondo la tradizione, i regni dei primi 17 sovrani
(compresa una donna, la reggente Jingo) abbracciarono complessivamente un periodo di 1060 anni. Per
contrasto, i regni dei 17 sovrani successivi, la maggior parte dei quali sembra si possano considerare storici,
abbracciano complessivamente un periodo di 126 anni soltanto.
Gli avvenimenti attribuiti ai regni di questi primi sovrani sono quasi egualmente sospetti, e molti dei fatti
particolari stabiliscono semplicemente la discendenza di eminenti famiglie dell’antico Giappone, dalla famiglia
imperiale probabilmente nel tentativo di assicurare la loro lealtà.

La storia delle conquiste di Jimmu a oriente, insieme al racconto di una conquista analoga collocata nel 3°
secolo DC può essere il riflesso di vaghi ricordi di un movimento di popoli conquistatori dal Kyushu lungo il Mar
Interno.
Le più interessanti leggende riguardanti questa conquista sono quelle sul principe Yamato-takeru, il quale dopo
aver soggiogato i “barbari” del Kyushu, intorno al 100 DC, sottomise anche quelli nella pianura del Kanto.
Non è chiaro per quale ragione il gruppo accentrato nello Yamato sia riuscito ad avere la meglio su gruppi simili
di altre zone del Giappone, a meno che non si considerino la posizione strategica centrale dello Yamato, la
relativa vastità delle pianure del Kinki e la loro adattabilità alla coltivazione del riso.
I discendenti della Dea del Sole, che praticavano il culto solare, dedicarono alla loro antenata un grande
tempio, eretto a Ise su un promontorio che guarda verso il mare a oriente dello Yamato.
Secondo la tradizione, lo specchio sacro venne rimosso dalla corte e installato a Ise nel 5 AC sotto il controllo
di una principessa nominata grande sacerdotessa.
Le testimonianze giapponesi parlano di una imperatrice di nome Jingo, reggente dal 200 al 269 DC.
Sia la preminenza di un’imperatrice nella tradizione locale, sia l’origine femminile della dinastia regnante, sia la
presenza di una grande sacerdotessa confermano il racconto del Wei chih di un antico governo femminile in
Giappone.
La leggenda secondo la quale Jingo conquistò la Corea nel primo anno della sua reggenza sembra riferirsi a
fatti storici. Le cronache coreane dicono che nel IV secolo i giapponesi ebbero effettivamente una base nella
zona di Kaya.

Sebbene i sovrani di Yamato esercitassero una certa autorità dalla pianura del Kanto alla Corea del Sud,
sarebbe un errore credere che governassero su uno stato centralizzato. A quel tempo il giappone era formato
da un gran numero di unità semiautonome chiamate uji.
Gli uji giapponesi erano scaturiti dalle sottounità che comprendevano gli antichi “paesi” tribali descritti nel Wei
chih. I membri di ciascun uji ritenevano di avere una discendenza comune e, sotto la guida di un capo,
praticavano il culto della divinità dell’uji, che in alcuni casi, come quello della dinastia imperiale, era considerata
l’originario antenato.
Crescendo in estensione e complessità, l’uji sviluppò talvolta delle unità sussidiarie per lo svolgimento di
specifiche funzioni economiche o di altri servizi.
Queste unità, generalmente chiamate be (o tomo, “dipendenti”), erano anche gruppi ereditari organizzati come
gli uji con capi propri, anche se non erano formate da persone unite tra loro da vincoli di sangue.
I sovrani di Yamato erano semplicemente i capi dell’uji di Yamato, che era riuscito con la conquista a estendere
il suo controllo sugli altri.
L’estensione della potenza di Yamato sembra si debba in gran parte attribuire all’incorporazione di molti uji
minori nel gruppo di Yamato e alla creazione di un gran numero di “corporazioni” sussidiarie. Per esempio, il
gruppo di Yamato comprese i due importanti uji militari degli Otomo (“Grandi dipendenti”) e dei Mononobe
(“Corporazione delle armi”). Vi erano inoltre vari altri gruppi minori, con funzioni economiche o addetti ai servizi.
Tutte queste unità traevano dalla agricoltura i loro mezzi di sussistenza, qualunque fosse la natura delle
prestazioni che dovevano ai sovrani. Le numerose corporazioni formate da lavori agricoli, e generalmente
create in memoria di un membro della famiglia imperiale, contribuivano a estendere i possedimenti agricoli dei

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sovrani di Yamato, spesso a spese dell’uji locale. Poiché in questo periodo la terra era più abbondante della
popolazione, la ricchezza veniva misurata in base al numero dei lavoratori dipendenti anziché dall’estensione
dei possedimenti.

Col tempo il sistema divenne più complesso e confuso.


Vari titoli tradizionali usati dai capi degli uji e delle “corporazioni” finirono per rappresentare gradi gerarchici di
nobiltà che il sovrano poteva conferire o togliere. Questi titoli avevano il nome di kabane, parola che
probabilmente presenta qualche affinità con i “ranghi di ossa” di Silla. In questo processo di formazione di una
nobiltà, gli uji e le “corporazioni” appartenenti al gruppo di Yamato ebbero il sopravvento sugli altri in quanto più
vicini all’autorità politica. Tra le sottounità del gruppo di Yamato quelle che potevano presentarsi come rami
della famiglia imperiale portavano generalmente il titolo di Omi, mentre il titolo di Muraji veniva usato per le
sottounità più importanti, che avevano avuto una origine indipendente e che si proclamavano quindi
discendenti delle divinità celesti che si erano unite alla discendenza del sole nella conquista di Yamato.
Nel V secolo il regime centrale era divenuto così complesso che in ogni regno i più importanti tra gli Omi e i
Muraji ricevettero rispettivamente il titolo di Grande Omi (O-mi) e Grande Muraji (O-muraji), con funzioni di
controllo sugli altri membri delle rispettive categorie. I capi degli uji militari degli Otomi e del Mononobe
monopolizzarono la carica di Grande Muraji, mentre nel 6° secolo la carica di Grande Omi cadde nelle mani
della famiglia Soga.

Una delle principali ragioni dello sviluppo dello stato di Yamato e del suo sviluppo politico e culturale durante il
5° e 6° secolo è rappresentata dal costante flusso migratorio tra la penisola coreana e il distretto della capitale.
Questa corrente migratoria portò in Giappone gruppi numerosi e ben organizzati, guidati da capi che
raggiunsero una posizione preminente tra l’aristocrazia di Yamato poiché possedevano capacità e conoscenze
molto apprezzate nel relativamente arretrato Giappone.

I primi “imperatori”, come la Himiko del Wei chih, svolgevano una duplice funzione, quella di grandi sacerdoti e
di sovrani secolari. In realtà, la distinzione delle attribuzioni del capo dell’uji, religiose, rituali e politiche, non era
ben definita. L’antica parola giapponese che indica il governo, matsurigoto, significa letteralmente “culto”, e
miya vuol dire sia “palazzo” che “tempio”. Anche se in taluni periodi dell’oscuro passato del Giappone il
sovrano di Yamato condivise con la grande sacerdotessa di Ise le attribuzioni religiose, egli conservò la
funzione di grande sacerdote del culto dell’uji, che si sviluppò fino a diventare culto nazionale.

La religione degli antichi giapponesi fu dapprima senza nome e in seguito venne chiamata shinto.
Nome di origine cinese che significa “Via degli dei”, lo shinto appare nelle più antiche testimonianze giapponesi
anzitutto come un complesso di culti locali integrati dalla mitologia ufficiale per stabilire la supremazia del culto
della Dea del Sole di Yamato e la subordinazione dei culti e dei capi degli altri uji.
Ma sotto la superficie, rappresentata da questa serie organizzata di culti, esisteva una corrente religiosa più
vasta. Lo shinto era un semplice culto della natura, del quale la mitologia organizzata e i culti ufficialmente
riconosciuti non erano che una manifestazione esteriore. Di fronte alle meraviglie della natura, gli antichi
giapponesi attribuirono carattere divino a tutte le sue manifestazioni.
Le divinità shinto di ogni tipo venivano chiamate kami, parola che in origine significava soltanto “superiore”. I
kami, che solo raramente sono rappresentati in forma umana, vengono generalmente simbolizzati da oggetti
quali specchi, spade o magatama ogni volta che l’oggetto originario del culto, per esempio un albero o una
cascata, non è presente.
Lo shinto non aveva una filosofia sistematica né un preciso codice morale e metteva l’accento più sulla purezza
rituale che sulle virtù etiche. L’impurità rituale, determinata per esempio dalla sporcizia fisica, dai rapporti
sessuali, ferite, nascite e morti, doveva essere sanata con gli esorcismi, le cerimonie purificatrici. L’amore per la
pulizia dei giapponesi moderni sembra risalire a queste concezioni primitive.
Lo shinto è una religione prevalentemente gioiosa e ottimistica, che non conosce il senso di colpa e il peccato. I
giapponesi ne mettevano in evidenza la bellezza e la generosità. I principali templi sono spesso situati in luoghi

137
di grande bellezza naturale. Di fronte a tutti i templi, grandi o piccoli che siano, si innalzano i torii, una spece di
porta formata soltanto da due colonne verticali e da una o due colonne trasversali.
Nei templi shinto il culto è sempre stato caratterizzato da una grande semplicità; i giapponesi si limitavano cioè
a battere le mani, a genuflettersi e a fare piccole offerte di cibi, sake, abiti, strisce di carta.
Le sue credenze, atteggiamenti e pratiche sono comunque rimasti un elemento fondamentale della cultura
giapponese fino ai tempi moderni.

Come indicano gli specchi di bronzo e le monete del periodo yayoi, la cultura cinese cominciò a influenzare il
Giappone in epoca preistorica.
Il primo elemento della civiltà cinese consapevolmente adottato dai giapponesi fu il buddismo, e ciò si deve
forze al fatto che i giapponesi del 6° secolo potevano senza difficoltà accettare il supposto potere magico del
buddismo, considerandolo ancora più efficace dei culti delle divinità indigene. Comunque, la statua di bronzo
dorato e i sutra, che lo stato di Paekche inviò in dono nel tentativo di ottenere l’appoggio dei giapponesi contro
Silla, diede inizio a un dibattito alla corte Yamato sulla opportunità di introdurre questa religione straniera. (La
data tradizionale di questo evento è secondo il Nihon Shoki il 552, ma probabilmente sarebbe più esatto
situarlo nel 538).

I Nakatomi, come era naturale attendersi da un uji di sacerdoti shinto, si opposero al buddismo. I Mononobe, uji
di guerrieri, assunsero la stessa posizione conservatrice, ma i Soga, rivali dei Mononobe sia nei conflitti per il
controllo della corte sia perché sostenitori di una più energica politica contro Silla in Corea, appoggiarono la
nuova religione. Ai Soga fu concesso venerare in privato la statua buddista, che venne però in seguito gettata
in un canale perché ritenuta causa dello scoppio di una epidemia. Questo episodio si ripeté nel 585, quando il
Grande Omi, Soga no Umako tentò nuovamente di diffondere il culto buddista con monaci e suore di origine
coreana; anche questa volta le statue finirono nel canale.
Nonostante questo, il buddismo venne ben presto adottato ufficialmente dalla corte. L’imperatore, che era
nipote di Umako, si convertì poco prima di morire, nel 587. Nelle guerre di successione che seguirono, i Soha,
sostenuti dall’uji militare degli Otomo, annientarono la potenza dei Mononobe e dei Nakatomi. La vittoria venne
attribuita alla superiorità del buddismo e da allora la posizione della nuova fede a corte fu incontrastata.

La vittoria del 587 sanzionò il predominio dei Soga.


Lo stesso Umako innalzò quindi al trono una sua nipote col titolo di principessa Suiko. Un nipote di Suiko,
principe Shotoku, che era per metà di sangue Soga e aveva sposato una donna di questo uji, ricoprì le funzioni
di reggente (sessho) e finì per esercitare una autorità superiore a quella di Umako.
Il trionfo della fazione pro-buddista a corte sembrava aver aperto la strada a ulteriori adozioni sotto la vigorosa
guida del principe Shotoku, che non solo era un uomo estremamente abile, ma anche un devoto buddista.
Inoltre, egli era favorevole ad altri aspetti della civiltà cinese ed era chiaramente deciso a introdurre il sistema
politico del Regno del Centro in Giappone.
Nel 604, il principe Shotoku emanò quella che è nota come la “Costituzione dei 17 articoli”, un complesso di
regole destinate alla classe dominante che comprendeva concezioni rivoluzionarie. Al sistema degli uji, separati
e ereditari, essa contrapponeva come ideale di governo, i concetti etici confuciani.
Uno dei 17 articoli della “Costituzione” di Shotoku raccomanda il rispetto per i “3 tesori” del buddismo: il
Buddha, la “legge” e le comunità monastiche.
Il concetto della supremazia dell’imperatore è espresso in termini molto chiari: “Un paese non deve avere due
signori, il popolo non può avere due padroni”. Ai capi locali è esplicitamente negato il diritto di imporre tasse e
di esigere corvées. L’ideale di una gerarchia burocratica di funzionari meritevoli viene esaltato insieme a virtù
confuciane come l’armonia, il decoro (li), la sincerità, diligenza, giustizia e servizio pubblico.

Nel 604, Shotoku adottò anche il calendario cinese e in questo periodo, venne scelto il 600 DC come data di
fondazione dello stato giapponese. Un’innovazione più importante fu l’istituzione, nel 603, di un sistema
gerarchico in 12 gradi per i funzionari di corte. Designati col nome di virtù confuciane e distinti da cappelli a vari
colori, i gradi gerarchici rappresentavano una novità rivoluzionaria rispetto al vecchio sistema degli incarichi e

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delle onorificenze ereditarie, in quanto implicavano l’introduzione di una burocrazia del merito nominata dal
sovrano.

Un’altra delle grandi iniziative di Shotoku fu l’invio di una ambasceria alla corte dei Sui nel 607, l’anno seguente
e nel 614. I giapponesi continuarono ad inviare ambascerie anche dopo l’estinzione dei Sui e l’avvento della
dinastia T’ang; 13 furono quelle che riuscirono a raggiungere la Cina tra il 630 e l’838.
I messaggi che Shotoku inviò all’imperatore volevano are del Giappone un impero centralizzato come la cina.
Nel primo egli si rivolgeva, come “Figlio del Cielo nella terra dove il sole sorge”, al “Figlio del Cielo nella terra
dove il sole tramonta”. Nel secondo era “l’Imperatorie dell’Oriente” che si rivolgeva all’”Imperatore
dell’Occidente”. Naturalmente, i cinesi si rifiutarono di tollerare queste arroganti pretese.
L’importanza che l’invio di ambascerie in Cina aveva per gli antichi giapponesi può essere valutata tenendo
presenti il costo e la portata di queste spedizioni.
Tuttavia, il valore delle missioni rese questa impresa conveniente malgrado il grande costo. Questo valore
consisteva negli occasionali scambi commerciali che ne erano la conseguenza, ma piuttosto nelle innovazioni
culturali e tecnologiche di cui le missioni si facevano portatrici. Studiosi di ogni genere accompagnavano le
ambascerie. Costoro, dopo aver studiato in Cina durante l’anno di permanenza della spedizione, facevano
ritorno in Giappone dove diventavano i principali esponenti della cultura e della tecnologia cinesi.

Durante il suo regno, Shotoku riuscì a delineare l’ideale di un governo centralizzato di tipo cinese e a gettare le
basi della sua realizzazione, ma dopo la morte di Shotoku, nel 622, i Soga non presero in campo queste
iniziative. Soga no Emishi, che succedette al padre come Grande Omi nel 626, divenne onnipotente a corte,
insieme al figlio Iruka, cominciò ad assumere prerogative imperiali.
Queste arbitrarie iniziative suscitarono opposizioni ai Soga, che vennero capeggiate da Nakatomi no Kamatari
e da un principe imperiale (Naka-no-oe) che successivamente regnò come imperatore Tenchi (661-671).
Nel 645, costoro eliminarono Iruka ed Emishi e assunsero il controllo del governo. Come ricompensa dei suoi
servigi, Kamatari ricevette il nuovo cognome di Fujiwara, divenendo così il progenitore di una famiglia nobiliare
che in seguito dominò la corte.

Kamatari e Tenchi ripresero immediatamente la politica di adozione delle strutture di governo cinesi. Tale
politica, che si fondava sul lavoro di preparazione svolto da Shotoku, si spinse molto al di là delle realizzazioni di
quest’ultimo. Gli studiosi che erano tornati dalle ambascerie ebbero una parte importante in queste riforme.
Le grandi riforme di Kamatari e Tenchi sono note col nome di Riforme del Taika (Taika no kaishin) dal nome del
“periodo annuo” di tipo cinese, Taika o “Grande Mutamento”, che essi adottarono.
Nel 646 i nuovi governanti emanarono un editto che aboliva tutti i grandi possedimenti privati, includendo sia le
terre che i contadini, e introduceva vari elementi del sistema di governo e di possesso della terra, dei primi
T’ang. Le principali innovazioni consistettero nel porre le amministrazioni provinciali sotto il controllo di
funzionari del governo centrale, nella assegnazione di terre tra i contadini in base ad accurati registri della
popolazione, in un sistema su scala nazionale di strade statali con stazioni di posta e controlli alle barriere, e in
un sistema fiscale uniforme.
Naturalmente, queste grandi riforme non potevano essere realizzate da un giorno all’altro. Infatti, l’editto del
646 era probabilmente una specie di “piano cinquantennale”.

Soltanto all’inizio del secolo 8° prese definitivamente forma il tipo di governo cinese che costituiva l’obiettivo
delle riforme stesse. Nel secolo successivo le istituzioni adottate raggiunsero probabilmente il loro più alto
grado di efficienza; per questo il periodo Nara (710-784), quando la capitale era situata ora dove è la città di
Nara, nella regione di Yamato, è considerato nella storia giapponese come l’apice del processo di sinizzazione.

Lo stabilimento della capitale a Nara rappresentò un grande passo avanti verso la creazione del nuovo modello
statuale. Fino a quel momento tanto l’economia che l’amministrazione politica erano state così semplici da non
richiedere l’esistenza di una vera e propria capitale. I principi imperiali vivevano nei loro possedimenti agricoli e
quando uno di essi veniva scelto come imperatore, normalmente eleggeva a capitale la propria residenza.

139
Lo stabilimento della capitale a Nara o Heijo, come allora veniva chiamata, può quindi essere considerato il
simbolo della adozione del governo centralizzato di tipo cinse. La città si estendeva al limite settentrionale della
pianura di Nara secondo una piana a scacchiera, con il palazzo situato all’estremità settentrionale.

La città non venne mai circondata da mura, perché non c’erano nemici dai quali proteggersi. Dopo il
trasferimento della capitale, la città scomparve. L’odierna Nara ebbe infatti le sue origini da una città medievale
che crebbe intorno ai vecchi monasteri buddisti e ai templi shinto situati ai margini delle colline a est di Heijo.
Nel 784, Kammu (781-806), che fu in questi secoli l’imperatore più potente, decise di abbandonare Heijo, a
quanto pare soprattutto per sfuggire alla oppressiva influenza dei grandi templi e dei monasteri buddisti che
circondavano la città. Egli trasferì la capitale a Nagaoka poche miglia a nord della pianura di Kyoto. Nel 785,
l’assassinio del funzionario incaricato di presiedere alla edificazione della nuova capitale, oltre a rallentare i
lavori, ebbe come conseguenza l’esilio del fratello di Kammu, il principe ereditario, e la sua successiva morte
per fame. Poiché si ritenne che lo spirito vendicativo del principe avesse gettato una maledizione su Nagaoka,
fu scelta una nuova località, Heian, nella parte settentrionale nella pianura di Kyoto, e Kammu stabilì lì la
capitale nel 794.
Anche Heian, come Heijo, non ebbe una vera e propria cinta di mura. Heian, comunque, non scomparve mai.
Essa si trasformò nella moderna città di Kyoto, dove è ancora possibile scorgere chiaramente la primitiva forma
a scacchiera. Kyoto fu per più di un millennio dalla sua fondazione la città capitale. Si potrebbe dire infatti che il
periodo Heian durò fino al 1867.

Il principale obiettivo dei riformatori del Taika era quello di stabilire un saldo e uniforme controllo su tutti i
territori del Giappone e naturalmente sulla loro produzione agricola. Le isole furono divise in “paesi” (kuni),
espressione tradotta normalmente con il termine “provincia”. I kuni furono suddivisi a loro volta in distretti (gun,
termine usato dagli Han per indicare i “comandi militari”), e i distretti in unità di villaggio, ciascuna delle quali
formata da circa 3 villaggi naturali. I contadini vennero ulteriormente organizzati in unità di 5 famiglie,
reciprocamente responsabili della buona condotta e del pagamento delle tasse.
La divisione del Kyushu in nove province e dello Shikoku in quattro diede origine ai nomi con i quali queste isole
sono tutt’ora conosciute giacché essi significano “Nove province” e “4 paesi”.
Fatta eccezione per quelle intorno alla capitale, che formavano una categoria a parte, le province erano
raggruppate in circondari (do), a seconda delle strade mediante le quali esse erano raggiungibili dalla capitale.
La più famosa di queste unità amministrative fu quella del Tokaido, la “Strada del mare orientale”, che
raggruppava le province situate lungo la costa del Pacifico dalla capitale e gran parte della pianura del Kanto.

I governatori delle province erano funzionari del governo centrale. Queste cariche provinciali erano apprezzate
più per la possibilità che esse offrivano di arricchirsi attraverso il controllo dei granai governativi e le percentuali
sulle entrate fiscali che non per il prestigio.
Alla base del tentativo di estendere il controllo del governo centrale a ogni zona del paese vi era soprattutto la
speranza di aumentare e regolarizzare le entrate provenienti dall’agricoltura. L’aspetto più spettacolare
dell’intera riforma fu l’introduzione dei sistemi complicati di pagamento delle tasse e di possesso della terra in
vigore sotto i primi T’ang, che richiedevano la compilazione di registri indicanti in modo particolareggiato l’età e
la condizione della persona, nonché l’uso degli appezzamenti coltivabili. In teoria il governo doveva provvedere
alla redistribuzione periodica della terra in odo che a ciascuna famiglia contadina venisse assegnato un
determinato appezzamento in conformità con il numero dei suoi membri, la loro età e il sesso.
Naturalmente, un sistema così macchinoso non poteva essere applicato in modo facile e rapido in un paese
abituato al sistema decentralizzato degli uji.

Non sembra che il sistema sia stato imposto con lo stesso rigore in ogni parte del Giappone. Come in Cina,
terre esenti o solo parzialmente colpite dall’imposta vennero assegnate a funzionari governativi e ad alcune
altre categorie di persone per il loro rango a corte. Così, sia l’aristocrazia di corte che gli antichi capi locali degli
uji mantennero probabilmente la maggior parte dei loro possedimenti ereditari libere da ogni gravame fiscale.

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Infatti, il nuovo sistema probabilmente servì soprattutto a regolarizzare e ad aumentare le entrate che il governo
percepiva dalle terre già sotto il diretto controllo imperiale.

Nel complesso, i riformatori ebbero maggior successo nella creazione degli organi centrali.
I riformatori adottarono la concezione cinese di un imperatore onnipotente, che venne chiamato Tenno
(“Imperatore Celeste”), regnante in modo uniforme su tutto il paese. Nel medesimo tempo, tuttavia, essi
continuarono a considerare il sovrano come capo supremo, di origine divina, del culto.

Modifiche si ebbero anche nel sistema militare adottato. Secondo il sistema cinese, infatti, parte dell’onere
fiscale dei contadini consisteva nel prestare servizio nell’esercito; all’inizio, questi obblighi militari furono
considerati tra gli aspetti più onerosi dell’intera struttura fiscale. Al Giappone non erano comunque necessari i
grandi eserciti che si potevano reclutare con questo sistema; di conseguenza, fatta eccezione per particolari
zone di difesa situate sulla costa del Kyushu e lungo il confine con gli ainu nell’Honshu settentrionale, gli eserciti
di leva degenerarono presto in reparti di lavoro.

Nel complesso, il governo giapponese nel secolo 8° riproduceva con fedeltà il sistema T’ang, ma notevoli erano
anche le differenze.
I giapponesi non accettarono il sistema degli esami che stava diventando in quel periodo uno dei tratti salienti
del governo e della società cinesi. La loro concezione dell’autorità ereditaria era così radicata che essi non
desideravano affatto dar vita a un sistema nel quale la condizione sociale e il potere di ciascuno sarebbero stati
determinati più dalle capacità letterarie e amministrative che dalla nascita. Al vertice stavano le grandi famiglie
nobiliari.
Dopo l’aristocrazia veniva la gente comune, detta anche “Buon popolo” (ryomin) e, infine, un piccolo gruppo di
“uomini di bassa estrazione” (semmin), che comprendeva gli schiavi e costituiva circa un decimo della
popolazione totale. La stratificazione sociale era così molto simile a quella esistente in Corea circa nello stesso
periodo.

I giapponesi, naturalmente, dovevano affrontare un problema meno complesso per la minore estensione
geografica, ma sotto altri aspetti il loro compito era assai più difficile. La situazione di partenza era quella di un
paese economicamente, politicamente e culturalmente più arretrato. Inoltre, la consuetudine di un governo
ereditario e aristocratico, sia a corte che nelle province, non rappresentava un terreno fertile per lo sviluppo di
istituzioni burocratiche.
Grazie alla adozione di istituzioni modellate su quelle cinesi, il Giappone riuscì a compiere, tra i secoli 7 e 9,
progressi eccezionali. Un paese che non aveva mai avuto una vera e propria città vantava ora una capitale che
contava decine di migliaia di abitanti. Un paese che non possedeva una tradizione architettonica era ora
abbellito con magnifici templi e palazzi.
Inoltre, le aree messe a coltura erano notevolmente aumentate e, malgrado la debolezza militare del governo,
le frontiere si erano estese. Nonostante il declino del sistema modellato sulle istituzioni cinesi il Giappone non
ritornò alla situazione precedente. Mentre le tradizioni aristocratiche ed ereditarie continuarono a mantenersi
forti, gli uji cominciarono a disintegrarsi in unità familiari più piccole, forse perché, con l’applicazione del sistema
cinese, le terre assegnate alle famiglie e l’imposta gravava sulle persone.

I progressi politici ed economici del Giappone nel periodo che va dal 7 al 9 secolo, già abbastanza notevoli,
furono messi in ombra dalle realizzazioni culturali.
Il buddismo fu uno degli aspetti della civiltà cinese che esercitarono un immediato richiamo sui giapponesi.
Anche le arti intimamente legate a questa religione straniera ebbero una parte di primo piano tra le influenze
iniziali. Gli aspetti visibili e tangibili della civiltà cinese, scultura, architettura, pittura, artigianato, erano per i
giapponesi più facili da assorbire che non quelli filosofici, intellettuali o istituzionali.
Molte delle prime opere d’arte buddiste furono ovviamente importate dalla Corea oppure realizzate da artisti
coreani immigrati. Le statue giapponesi, un po’ rigide e angolose, dell’inizio del 7° secolo sono quasi identiche a
quelle coreane, e alcune fra le più belle portarono nomi come “il Kannon di Paekche” (Kudara Kannon).

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I templi e i monasteri buddisti costruiti in Giappone nel corso di questi secoli sono quanto di meglio ci rimane
della architettura classica dei Sui e dei T’ang, dato che sono assai poche le costruzioni in legno di questo
periodo che in Cina hanno resistito al tempo.
La capitale, Nara, venne abbellita da molti grandi templi con maestosi edifici dal tetto ricoperto di tegole e con
pagode a torre. Il Todaiji (“Grande Tempio Orientale”) e il Kofukuji che divenne il tempio di famiglia dei Fujiwara
discendenti dei Kamatari, furono eretti vicino alle colline a oriente della città.

I giapponesi accolsero la filosofia buddista più lentamente dell’arte e del cerimoniale. Già all’inizio del 7° secolo,
il principe Shotoku si era mostrato così profondamente versato nella nuova religione da riuscire a comporre in
buon cinese tre commentari di testi buddisti.
Durante i successivi decenni, le principali scuole filosofiche del buddismo, trasmesse dall’India alla Cina dei
T’ang anteriori, vennero introdotte in Giappone. Imitando i inesi nel loro amore per la classificazione, i
giapponesi le hanno chiamate le 6 sette di Nara.
La prima di tali sette, Sanron, introdotta da un monaco di Koguryeo nel 625, era una filosofia idealistica che
insisteva sulla non realtà dei fenomeni della naturaò
La setta Hosso, anche denominata Yuishiki (“La sola conoscenza”), esprime la sua insistenza sul concetto che
l’unica realtà è rappresentata dalla autocoscienza dell’uomo.
Due altre sette, Jojitsu e Kusha, non ebbero mai esistenza autonoma.
La quinta, Kegon, predicava l’armonia del cosmo sotto il Budda universale, Vairocana, del quale lo stesso
budda storico non era che una manifestazione.
L’ultima setta non era una scuola filosofica, ma attribuì grande importanza alle regole del clero e fu quindi
chiamata setta Ritsu (regola). In questo periodo, il buddismo dominò completamente la corte giapponese.

Aumentando gradualmente la sua influenza, il buddismo tendette ad assorbire i più antichi culti indigeni, come
aveva fatto altrove nel corso della sua diffusione attraverso l’Asia.
In un primo tempo, la nuova religione si concentrò prevalentemente nel distretto della capitale, ma nei secoli 8
e 9 la fondazione di monasteri provinciali, soprattutto nel Kyushu, nella zona del Kanto e persino nel Honshu
settentrionale, accompagnò la diffusione di questa forza missionaria in tutto il paese. Insieme alla religione si
diffusero anche la cultura e la tecnologia continentali, giacché in questo periodo i buddisti non erano soltanto i
maestri dell’educazione in lingua cinese ma si occupavano anche della costruzione di ponti, della messa in
opera di strade e di altre attività pratiche.
La diffusione del buddismo cominciò quindi a influenzare la vita giapponese anche in campi diversi da quelli
dell’arte e della religione. Comunque, la vita giapponese, nel suo complesso, era diventata meno crudele e
bellicosa. Le concezioni indiane contrarie alla uccisione degli animali cominciarono anche a influire sugli usi
alimentari.

I giapponesi adottarono anche gli atteggiamenti cinesi verso l’erudizione e la letteratura. Gradualmente la
padronanza della lingua cinese e l’abilità calligrafica divennero le doti più ambite dagli uomini di cultura. Inoltre i
giapponesi cominciarono, come i cinesi, ad attribuire grande importanza alla compilazione delle memorie del
passato e la redazione delle opere storiche. L’attività storiografica ebbe come risultati il Kojiki, nel 712, e il
Nihon Shoki, nel 720.
È possibile che il Kojiki sia soltanto uno dei molti abbozzi stesi per preparare la storia ufficiale, alla fine
completata col titolo di Nihon Shoki. Il Kojiki riporta con ampiezza le leggende e i miti primitivi, ma finisce per
ridursi a poco più di una somma di genealogie dei sovrani che la tradizione ha collocato tra il 488 e il 628. Al
contrario, il Nihon Shoki, scritto in cinese puro, diventa sempre più particolareggiato via via che si avvicina al
termine, ossia all’anno 689.
L’opera fu seguita dallo Shoku Nihongi (Storia del Giappone continuata), che prese in esame gli anni successivi
fino al 791.

Data la grande importanza che la poesia aveva nella tradizione letteraria cinese, era naturale che anche i
monaci e gli aristocratici giapponesi tentassero di comporre versi in cinese. Un livello poetico molto più raffinato

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è quello delle 4516 poesie, scritte nel secolo precedente il 760 e raccolte nella grande antologia chiamata
Man’yoshu (Raccolta di miriadi di foglie, probabile allusione alla “Miriade di generazioni”); si tratta di laboriose
composizioni in caratteri cinesi, nella maggior parte dei casi usati foneticamente; molti dei sentimenti e delle
immagini riflettono la profonda influenza cinese. Il Man’yoshu è comunque l’espressione del sentimento poetico
della aristocrazia di corte.

Come abbiamo visto, il complicato sistema fiscale e di possesso della terra in vigore sotto i primi T’ang e
adottato dai giapponesi, cominciò a sgretolarsi in Cina dopo un secolo o due. Quindi il sistema degenerò anche
in Giappone.
Probabilmente esso non venne mai applicato integralmente alle zone periferiche del paese, ma anche in quelle
sotto il diretto controllo del governo centrale la mancanza di esperienza amministrativa e il forte senso
dell’autorità ereditaria avevano fin dall’inizio costituito una base inadatta al funzionamento del sistema. In
Giappone, i risultati finali di questo fallimento furono comunque diversi dalle periodiche crisi cinesi. La
prolungata e grave degenerazione delle basi fiscali del governo centralizzato non portò alla conquista di popoli
stranieri né a un mutamento dinastico rivoluzionario.
Questo contrasto con la Cina era la conseguenza delle differenze fondamentali dell’ambiente geografico e della
struttura culturale. Grazie al suo isolamento, il Giappone non aveva vicini pericolosi che potessero minacciare
un governo indebolito.

Fin dall’inizio numerosi terreni agricoli esenti da imposta erano stati assegnati agli aristocratici come
riconoscimento del grado occupato a corte e della posizione nel governo. Gli uffici governativi traevano le loro
risorse da altri appezzamenti e i templi shinto e buddisti ufficialmente riconosciuti disponevano per il proprio
mantenimento di possedimenti analoghi esenti da tasse.
Poiché i potenti nobili e il clero riuscivano in genere a ottenere l’esenzione fiscale per le nuove acquisizioni, il
governo veniva così a perdere le entrate che esse avrebbero potuto rappresentare.
D’altra parte, l’aumento della popolazione e delle spese della corte rendeva necessaria la messa a coltura di
nuove terre e, poiché il governo non era all’altezza del compito, si demandò ad altri lo svolgimento di tale
funzione. Temporanee esenzioni fiscali vennero concesse a chi intraprendeva la bonifica di nuove terre e nel
723 si permise a costoro di conservare le terre per 3 generazioni. Nel 743, si dovette riconoscere che questo
diritto equivaleva in realtà a un possesso permanente e nel 772 venne abolita ogni restrizione alla
incorporazione di terre incolte nei possedimenti privati. Poiché anche i piccoli poderi contadini tendevano a
diventare possessi permanenti della famiglia e la ridistribuzione delle terre non veniva effettivamente attuata.
Nello stesso tempo i grandi possedimenti cominciavano a trasformarsi nei domini privati o feudi che avrebbero
caratterizzato l’economia agricola giapponese nei successivi 6 o 7 secoli.
L’aumento delle esenzioni e delle evasioni fiscali accompagnò la crescita della proprietà privata. Solo i ricchi
disponevano dei capitali necessari per la messa a coltura di nuove terre, di conseguenza i terreni nuovi
rimanevano principalmente nelle mani delle ricche famiglie e delle grandi istituzioni religiose.
Durante i secoli 9 e 10, era diventata una consuetudine per membri ambiziosi dell’aristocrazia centrale cercare
di ottenere, magari comprandole, cariche come quella di governatore provinciale al preciso scopo di costruirsi
fortune personali. di conseguenza, l’effettivo controllo dei registri fiscali era generalmente nelle mani di avidi
arrivisti o degli aristocratici locali.

Il governo centrale si adoperava per arrestare queste pratiche illecite e divenne infatti sempre più difficile
ottenere dalle autorità della capitale il privilegio della esenzione fiscale. Per evitare la diminuzione delle terre
soggette a imposta, furono nominati degli ispettori. Ma neppure questi ultimi si mantennero estranei alle
collusioni; del resto, la loro azione poteva essere ostacolata o frustrata dalla distruzione apparentemente
accidentale dei registri fiscali. La situazione finanziaria continuò a deteriorarsi rapidamente nel corso del 9
secolo.
La diminuzione delle terre sui registri ufficiali aumentava naturalmente gli oneri che gravavano sui contadini
contribuenti. In seguito, diventò un’abitudine per i contadini giapponesi sottrarsi agli esattori ponendosi sotto la

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protezione di domini esenti dalle tasse. Nel 10 secolo, la maggioranza dei contadini e la maggior parte delle
terre agricole erano ormai distribuite tra domini esenti da imposta e praticamente autonomi.

Se le condizioni del governo centrale erano estremamente gravi, non bisogna per questo ritenere che la
situazione fosse analoga nel paese. Bisogna ricordare che, mentre il reddito del governo centrale andava
diminuendo, quello delle famiglie aristocratiche della corte era invece in costante aumento. Grazie a questa
aristocrazia ricca e autosufficiente la corte stessa poteva quindi mantenersi con un certo fasto. La
responsabilità del coordinamento amministrativo che ancora esisteva tra le diverse zone del Giappone ricadde
quindi in gran parte sulle amministrazioni familiari dei nobili della corte che possedevano fondi in molte zone.
Ciò non significa che gli organi del governo centrale stessero scomparendo. Quasi tutte le cariche del vecchio
sistema di tipo cinese vennero mantenute come titoli onorifici e sopravvissero, almeno di nome, fino al 19
secolo.

Il periodo Fujiwara:
mentre erano in atto questi grandi mutamenti nel governo centrale e nelle sue basi finanziarie, la famiglia dei
Fujiwara, discendente di Kamatari, assumeva gran parte del potere e del prestigio appartenenti un tempo agli
imperatori.
Nel secolo 9, i Fujiwara si erano assicurati una parte preponderante delle più alte cariche e stavano
acquistando un’influenza considerevole sulla famiglia dell’imperatore concedendo le loro figlie come imperatrici
o concubine imperiali. Questa solida posizione a corte si basava sulla forza economica della famiglia che
possedeva estesi domini in tutto il paese.

Verso la metà del 9 secolo, il ramo settentrionale (Hokke) della famiglia Fujiwara aveva avuto la meglio sugli
altri stabilendo la propria supremazia a corte. Nell’857 il capo di questo ramo, Yoshifusa, discendente di
Kamatari della sesta generazione, divenne Gran Ministro di stato. L’anno seguente si proclamò reggente per
conto del nipote di 9 anni che egli stesso aveva posto sul trono. Fu questo il primo caso di un imperatore
bambino e di un reggente non appartenente alla famiglia imperiale.
In seguito alla carica di reggente per conto di un imperatore adulto si attribuì il nome di kampaku.
Dopo che Yoshifusa ebbe stabilito la supremazia dei Fujiwara, i membri di questa famiglia monopolizzarono
quasi tutte le più alte cariche di governo e fornirono pressoché tutte le imperatrici e gran parte delle loro
concubine imperiali, ponendo i figli di queste sul trono. Di fatto, il loro controllo del governo centrale fu così
completo che i 3 secoli compresi tra l’857 circa e il 1160 vengono comunemente indicati come il periodo
Fujiwara.
Questa famiglia dominò infatti la corte di Kyoto quasi ininterrottamente dal 9 al 19 secolo.

Talvolta imperatori energici o famiglie elevatesi più tardi sfidarono temporaneamente la loro autorità, ma, se si
eccettuano periodi molto brevi, specialmente fra l’891 e il 1015, i discendenti di Yoshifusa occuparono la carica
di reggente per i minori o quella di kampaku per gli imperatori adulti fino al 1867.

Inoltre, essi eliminarono quasi tutte le altre famiglie nobili, col risultato che l’aristocrazia di corte dei periodi
successivi fu quasi esclusivamente di origine Fujiwara.
Nel 13 secolo i membri di questa famiglia erano diventati così numerosi che incominciarono a essere indicati
con nomi diversi, a seconda dei rami a quali appartenevano, nomi derivati in genere dalle strade dove si
ergevano i loro palazzi.
Fino al 19 secolo i reggenti e i kampaku furono scelti quasi sempre nei 5 rami principali (gosekke): i Konoe
(“Guardie Imperiali”), i Kujo (“Nona strada”), i Nijo (“Seconda strada”), gli Ichijo (“Prima strada”) e i
Takatsukasa (“Ufficio del Falcone”).

Sebbene i Fujiwara, in quanto grandi proprietari terrieri, fossero la famiglia più ricca e più potente di tutto il
paese e dominassero completamente gli imperatori e l’organizzazione del governo centrale, essi non fecero
mai il minimo tentativo per usurpare il trono. Anche quando gli imperatori erano chiaramente e notoriamente i

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fantocci di reggenti e di kampaku che offuscavano interamente il prestigio e la magnificenza imperiale, la
famiglia continuò ad accontentarsi della sua posizione teoricamente secondaria. Questo perché le concezioni
dell’autorità ereditaria e la particolare atmosfera religiosa che circondava la famiglia imperiale erano troppo
sentite.

Il potere e la gloria della famiglia Fujiwara raggiunsero l’apice sotto i Michinaga, che dominò la corte dal 995
fino alla sua morte, avvenuta nel 1027. Michinaga stabilì un brillante esempio per le età successive. La sua
amministrazione familiare (mandokoro) costituì, più dei restanti organi del governo centrale, la vera fonte del
potere nella capitale.

Il figlio e successore di Michinaga, Yorimichi, che ricoprì le cariche di reggente e kampaku tra il 1017 e il 1067,
mantenne la supremazia della famiglia, ma nei suoi ultimi anni di potere dei Fujiwara cominciò a delineare. Una
delle cause di questa graduale decadenza fu forse la minore efficienza del governo centrale. La scomparsa di
un effettivo controllo sulle province provocò un’ondata di disordini e di illegalità.
Per proteggersi, i grandi monasteri situati nell’area della capitale avevano costituito proprie forze armate, che
finirono a loro volta per diventare una fonte di torbidi nella capitale.
Il declino dei Fujiwara fu dovuto anche alle violente rivalità tra i vari rami in cui la famiglia si era ulteriormente
decisa. Questo spezzettamento, causa di debolezza, permise agli imperatori di ritornare sulla scena politica. In
quanto fonte teorica dell’autorità esercitata per tanto tempo dei Fujiwara, la famiglia imperiale era l’unico
gruppo, in seno all’aristocrazia di corte, capace di sfidare la supremazia dei Fujiwara.
L’imperatore Go-Sanjo (1068-1072), che non era nato da un Fujiwara, fu il primo che cercò di ristabilireil
controllo imperale sul paese. Nel 1069 costituì un Archivio di stato e ordinò la confisca dei grandi domini
formatisi dopo il 1045, nonché di quelli risalenti al periodo precedente e privi di titoli giuridicamente validi. L’ex
kampaku Yorimichi rese però vano questo tentativo semplicemente ignorandolo.

Il figlio successore di Go-Sanjo, Shirakawa, seguì l’esempio del padre riaffermando la propria autorità nella
capitale. Dopo aver abdicato nel 1086, egli fece del suo quartier generale il vero centro del potere, malgrado
l’esistenza di un imperatore regnante e del reggente imperiale.
Poiché egli governava dai suoi “appartamenti interni” di imperatore abdicatario, la sua amministrazione venne
indicata col nome di insei o “governo degli appartamenti (interni)”. Per controbilanciare il potere dei Fujiwara,
Shirakawa impiegò nell’insei letterati appartenenti alla piccola nobiltà ed esponenti minori della aristocrazia di
corte che aveva accumulato ricchezze ricoprendo cariche provinciali.
Per circa un secolo dopo la morte di Shirakawa, avvenuta nel 1129, altri imperatori abdicatari, che presero di
solito gli ordini buddisti, mantennero questa forma di governo, che ebbe una sporadica vitalità per un altro
secolo.
Ma, mentre a Kyoto continuava questa lotta tra gli imperatori abdicatari i reggenti e i kampaku Fujiwara, la
posizione della corte imperiale decadeva sempre più fino a perdere anche gli ultimi resti di potere effettivo.

Il periodo Fujiwara, per la costante decadenza dell’autorità del governo centrale, viene solitamente considerato
un’epoca di generale declino; questo giudizio è però applicabile soltanto alle istituzioni politiche centralizzate di
origine cinese, poiché in altri campi la crescita fu notevole. Lo sviluppo del sistema feudale portò a un
considerevole aumento delle terre coltivate. In particolare, nella regione del Kanto, vi fu un notevole incremento
demografico e produttivo. L’alta cultura, prima strettamente confinata alla corte, cominciò a diffondersi
geograficamente in tutto il paese e, socialmente, tra le classi inferiori.
Il periodo Fujiwara fu anzi da questo punto di vista uno dei più brillanti di tutta la storia giapponese. Il governo
centrale si stava disgregando, ma il sistema dei latifondi manteneva in vita una società ricca e raffinata, dotata
di una profonda sensibilità estetica e di grande immaginazione creativa nel campo artistico e letterario.
Nel periodo di Nara, quasi tutte le forme superiori della civiltà, eccezion fatta per i culti dello shinto e la poesia
del Man’yoshi, non erano state che fedeli imitazioni dei modelli cinesi; l’alta cultura del periodo Fujiwara scaturì
invece da una completa e naturale fusione di elementi cinesi, ormai assimilati, con tendenze indigene più
antiche.

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Una delle principali differenze tra il periodo Fujiwara e l’epoca precedente consiste nel rapido declino dei
modelli culturali cinesi. Gran parte degli elementi essenziali della civiltà della Cina erano ormai stati accolti e
stavano subendo modifiche radicali. Gli aristocratici giapponesi, ormai perfettamente padroni della cultura
acquisita, si sentivano ora in grado di emanciparsi dagli schemi cinesi e di introdurre innovazioni in ogni campo.
Per esempio, all’inizio del 10 secolo, i titoli postumi degli imperatori non erano più nomi di tipo cinese (Tenchi,
“saggezza celeste”; Kotoku, “virtù filiale”), ma toponimi locali riferentesi ai palazzi o alle tombe degli stessi
imperatori.

Un altro indice del mutato atteggiamento fu la fine delle ambascerie ufficiali in Cina. Dopo la spedizione dell’838
non vi furono più iniziative del genere per oltre 50 anni. Questo nuovo atteggiamento aveva però ragioni più
profonde come l0impoverimento centrale e la sensazione, in gran parte inconsapevole, dei giapponesi di non
avere più bisogno dell’ispirazione culturale che era stata il frutto più importante di queste ambascerie.

Una delle vie che la cultura giapponese seguì allontanandosi dai modelli cinesi fu l’ulteriore sviluppo del
buddismo. In Giappone, dove si stata disgregando il governo centralizzato di tipo cinese, la filosofia di Confucio
non rappresentò un grande ostacolo per il buddismo, la cui supremazia non venne minacciata seriamente
nemmeno dalle antiche credenze dello shinto. Il Giappone rimase quindi, fino ai tempi moderni, un paese
essenzialmente buddista, mentre la religione indiana decadde sia in Cina che in Corea.
Un altro aspetto della completa assimilazione del buddismo fu la più stretta correlazione dei kami dello shinto
con le divinità buddiste. Questo processo si sviluppò per mezzo di elaborati sistemi che permettevano di
identificare tutte le divinità della religione indigena giapponese con manifestazioni locali degli universali dei
buddisti. Per esempio, si andò delineando la concezione che la Dea del Sole non fosse che una manifestazione
locale di Vairocana, il Budda supremo. Inoltre, molti santuari dello shinto e templi buddisti cominciarono ad
essere amministrati congiuntamente. Soltanto nel 19 secolo lo shinto si separerà dal buddismo ritornando ad
essere completamente autonomo.
Uno sviluppo ancora più importante fu la grande popolarizzazione del buddismo in tutta la società giapponese.
Forse mai prima di allora la sua influenza si era estesa così rapidamente alle classi inferiori; anche per questo
andò progressivamente trasformandosi e allontanandosi da ciò che era stato alle origini, ossia una religione
straniera importata dalla Cina.

L’incorporazione della chiesa buddista nella società aristocratica e nell’economia a base familiare del periodo
Fujiwara fu un altro aspetto importante della sua assimilazione. I templi finirono per possedere alcuni dei
maggiori latifondi e in seguito costituirono proprie unità militari formate da lavoratori agricoli e monaci guerrieri
e destinate a proteggere le terre e i privilegi dei templi stessi.
Le scissioni tra le sette andarono di pari passo con l’irrigidirsi delle divisioni tra le varie famiglie. Le divisioni
settarie erano state piuttosto vaghe e prevalentemente di carattere filosofico, si cristallizzarono dando luogo a
entità amministrative nettamente separate. Le relazioni tra templi e monasteri si conformarono a rigidi schemi
gerarchici, e le grandi sette si scissero in famiglie sacerdotali, a seconda della autorità esercitata, simili alle
famiglie ereditarie della società laica.
Le divisioni e suddivisioni settarie provocarono aspre lotte intestine e con l’autorità centrale, sia per il possesso
delle terre sia per la definizione dei diritti e dei doveri del clero.
Per tutto il periodo che va dalla fine del secolo 11 al 16, eserciti di religiosi marciarono più volte su Kyoto,
portando le armi e i sacri simboli dello shinto, per costringere la corte terrorizzata ad accordare le loro
concessioni desiderate o a pronunciare giudizi a loro favore.
Comunque, se da una parte la forza militare e l’insubordinazione politica dei monasteri erano un chiaro indizio
del declino del governo centrale, dall’altra essi erano l’espressione di una tendenza più importante: il sorgere di
nuovi focolai di forza militare estranei al governo centrale.

La completa assimilazione e modificazione della cultura cinese nel periodo Fujiwara si manifestò tanto nella
religione quanto nell’arte. Nel campo dell’architettura, si andò sviluppando dall’armonioso stile dei T’ang un

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genere che divenne tipico nella costruzione dei palazzi e che fu poi all’origine delle successive forme della
architettura residenziale giapponese. Lo stile Fujiwara fu caratterizzato da leggeri, aerei padiglioni, collegati da
corridoi coperti e situati in luoghi che riproducevano artificialmente con giardini e stagni le bellezze naturali.

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CAP.12 – IL GIAPPONE FEUDALE: L’ALLONTANAMENTO DAL MODELLO CINESE

La formazione di una società semifeudale


Nonostante lo splendore culturale, la società di corte del periodo Fujiwara, essendosi mantenuta a lungo
lontana dalla realtà, era diventata troppo sterile per poter svolgere una funzione creativa. D’altra parte, però,
essa servì a trasmettere gli elementi assimilati dalla civiltà dei T’ang. A partire dal 12° secolo l’attenzione si
sposta quindi dalla vita sempre più stagnante di Kyoto alla società provinciale, meno raffinata ma più dinamica.
Questo mutamento di direzione fu un riflesso dell’aumentata importanza delle zone periferiche. Verso il 1100 il
divario culturale, un tempo notevole, tra la capitale e il resto del paese si era considerevolmente ridotto in
seguito al declino delle fortune della corte e alla crescita della ricchezza e della cultura del Giapponese rurale.
La necessità di trasportare parte dei prodotti agricoli dalle province al distretto della capitale, dove risiedevano i
proprietari, contribuì allo sviluppo di una rete stradale e di corsi d’acqua più efficiente. In diverse località
cominciarono anche a formarsi dei centri di industrie per la fabbricazione della carta o la lavorazione del ferro e
del vasellame. Notevole fu anche la crescita degli scambi con l’estero, che non influenzò esclusivamente la
capitale, come era accaduto in passato, bensì il paese nel suo complesso.

Il sistema delle grandi tenute


La vita nelle province, pur essendo caratterizzata come quella della capitale dalla grande importanza attribuita
alle distinzioni di classe e ai diritti ereditari, presentava dei caratteri peculiari, poiché si accentrava sulle tenute
agricole private o feudi. Queste tenute differivano sensibilmente per le origini storiche, l’organizzazione e
l’estensione. Alcune non erano che grandi fattorie; altre comprendevano migliaia di acri di risaie che si
estendevano su più di una provincia. Le tenute giapponesi erano principalmente formate da risaie che
potevano essere molto sparpagliate. Inoltre, le tenute appartenenti a una singola famiglia erano comunemente
situate in regioni diverse del paese.
La suddivisione di quasi tutto il Giappone in grandi tenute private ricordava in certo modo il precedente
smembramento del paese in Uji locali. La differenza era tuttavia notevole. Le tenute non erano possedute e
dirette da gruppi familiari e pseudofamiliari coesi, e il reddito di una singola tenuta poteva andare ripartito tra
molti gruppi privi di legami di sangue veri o presunti.
Le persone legate alle tenute rientravano generalmente in 3 o a volte 4 categorie sociali distinte, determinate in
base alla funzione che essere svolgevano nella tenuta stessa. La categoria inferiore era formata a coloro che
lavoravano la terra, a loro volta divisi in varie sottocategorie, tra le quali la più bassa era quella dei braccianti.
Al di sopra dei coltivatori venivano gli amministratori delle tenute, rappresentanti dei proprietari spesso assenti
o discendenti di vecchi aristocratici locali che per ottenere protezione avevano incorporato i loro poderi nelle
più vaste tenute.
A un livello superiore stavano i proprietari: potenti famiglie locali, aristocratici di corte e istituzioni religiose
influenti. Se il proprietario non aveva a corte una posizione tale da ottenere per la propria tenuta agevolazioni
fiscali, egli si trovava a dipendere da un’altra categoria di persone, quella dei protettori legali.
Tutti questi gruppi godevano di diritti legali propri a ciascuna categoria, denominati Shiki, che li autorizzavano a
ricevere una percentuale fissa dei prodotti della tenuta o, più spesso, i frutti di determinati appezzamenti della
tenuta stessa. Questi Shiki, potevano venire ereditati sia dagli uomini che dalle donne e non sussisteva il diritto
di primogenitura.

Il potere locale: i Minamoto e i Taira


Nella società provinciale in evoluzione il gruppo più importante risultò costruito non dai coltivatori, alla base
della scala sociale, né dai proprietari assenteisti o dai protettori legali, al vertice, ma da coloro che detenevano
effettivamente il controllo delle tenute, cioè i proprietari residenti nelle province e i vari tipi di amministratori.
Questi capi locali discendevano probabilmente in gran parte dai vecchi aristocratici provinciali degli Uji, che
erano stati trasformati, con l’introduzione del sistema T’ang, in funzionari locali e detenevano in gran parte il
controllo delle province.
Un altro importante elemento del nuovo potere provinciale era costituito dai rami collaterali dell’aristocrazia
della capitale. Nel 9° e nel 10° secolo, membri minori dei Fujiwara e di altre famiglie nobili di Kyoto, come del

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resto discendenti collaterali degli imperatori, avevano spesso cercato di ricoprire cariche provinciali allo scopo
di costituirsi un patrimonio. Costoro, sostenuti da ciò che restava dell’autorità del governo centrale e appoggiati
da dipendenti armati che generalmente li seguivano dalla capitale, riuscirono spesso ad accumulare ricchezze
considerevoli e quindi, talvolta, preferirono stabilirsi in permanenza nelle tenute anziché ritornare a occupare
posizioni relativamente modeste nella capitale. Poiché godevano del prestigio di una ascendenza nobile o
anche imperiale, elemento di somma importanza in un paese con una grande coscienza di classe come il
Giappone, questi aristocratici trapiantati diventarono spesso il fior fiore della nobiltà locale.
I membri della famiglia imperiale che si stabilivano nelle province cessavano ben presto di essere considerati
dei principi e diventavano i capi di famiglie indipendenti. Con l’estendersi della dinastia imperiale e l’esaurirsi
delle finanze governative, fu necessario separare i rami collaterali con l’attribuzione di cognomi loro propri (la
dinastia imperiale non ne aveva alcuno) e rendendoli finanziariamente autosufficienti con la nomina dei loro
membri a funzionari di governo centrale o nelle province.
Minamoto e Taira furono i due cognomi imposti ai figli e ai nipoti separati della famiglia imperiale. I Minamoto
sono anche noti con la pronuncia sinizzata di Genji (“la famiglia Minamoto”) e i Taira con quella di Heike (“la
casa dei Taira”). Il nome di Minamoto fu per la prima volta attribuito nell’814 dall’imperatore Saga e da alcuni
dei suoi figli e fratelli, mente il nome di Taira venne dato uno o due decenni più tardi a un nipote dell’imperatore
Kammu. Entrambi i nomi vennero assegnati in seguito, a varie riprese, ad altri gruppi di principi. La più famosa
delle numerose famiglie Minamoro faceva risalire la propria origine all’imperatore Seiwa (858-876) e fu quindi
nota come la Seiwa Genji.

Lo sviluppo di un’aristocrazia militare rurale


Col graduale declino del governo centrale i capi locali, discendenti dai rami della famiglia imperiale, dalla nobiltà
di corte e dalla vecchia aristocrazia locale, si impadronirono dell’effettivo controllo delle loro rispettive regioni.
Essi amministrarono le tenute in cui il Giappone si era suddiviso anche se queste erano per la maggior arte
possedute o legalmente protette dagli aristocratici di corte o dalle istituzioni religiose della regione della
capitale.
I protettori e i proprietari lontani traevano un reddito fisso delle tenute, ma il controllo che essi esercitarono era
indiretto. In particolare, le questioni riguardanti la difesa militare e il mantenimento dell’ordine, ricadevano
interamente sulle spalle dei capi locali. Di conseguenza, questi ultimi diventarono una classe essenzialmente
militare.
Già nel secolo 11° i capi del Giappone rurale si erano chiaramente trasformati in un’aristocrazia guerriera. I capi
degli Uji del periodo delle tombe a tumulo erano guerrieri a cavallo rivestiti di corazza. Gli Uji erano stati poi
sostituiti, almeno secondo i testi giuridici, da arruolamenti contadini e da unità scelte di guardie della capitale.
Quando le istituzioni militari di tipo cinese cessarono di funzionare, l’aristocrazia rurale riprese quindi il suo
vecchio ruolo militare. L’esercito di leva venne completamente abbandonato nel 792 e sostituito da piccoli corpi
di milizie volontarie reclutati tra l’aristocrazia provinciale.
Di conseguenza, il cavaliere rivestito di corazza, che comparve nel 12° secolo, fu probabilmente di discendente
diretto, funzionalmente se non biologicamente, dall’aristocratico guerriero a cavallo del periodo degli Uji.
Il cavaliere nobile del Giappone del 12° secolo, appoggiato da pochi servi a piedi, costituiva la base della forza
militare. Infatti, nel corso della battaglia, egli tendeva ad agire in modo completamente indipendente,
attaccando un cavaliere nemico di pari grado e affrontandolo in un combattimento individuale.

Le cricche di guerrieri: gli inizi del feudalesimo


Anche se sul piano militare molte erano le somiglianze con il vecchio aristocratico dell’uji, il tipo di società in cui
viveva il cavaliere medievale era assai diverso. In quanto proprietario o amministratore di una tenuta, egli si
trovò giuridicamente a contatto con gruppi ai quali non era legato da vincoli di parentela. I più piccoli e
fondamentali gruppi difensivi erano formati probabilmente dagli uomini armati di un’unica tenuta, reclutati tra gli
amministratori e i coltivatori più benestanti e abili nell’uso delle armi. I raggruppamenti più numerosi erano
probabilmente fondati su rapporti di vicinanza non meno che di parentela. Gli uomini armati di tenute contigue
potevano unire le loro forze per difendersi reciprocamente.

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Una volta costituito, il rapporto tra un capo e i suoi dipendenti o samurai (termine che letteralmente significa
“servitore”) poteva continuare per generazioni. Il capo ricompensava i suoi seguaci con terre o con cariche
onorifiche e redditizie; dal canto loro, i seguaci dovevano servirlo con assoluta lealtà. In origine si trattò
chiaramente di un vincolo di reciproca utilità, ma finì per venire idealizzato come un rapporto etico più che
contrattuale o legale.

Il trionfo della classe militare provinciale


Sembra che le cricche più numerose ed efficienti si siano raggruppate intorno ai rami provinciali della famiglia
imperiale e della nobiltà di corte, ma anche questi gruppi vennero menzionati nelle cronache di Kyoto solo
quando la loro attività interessò direttamente la società della corte. Soltanto le maggiori tra le loro guerre
ebbero una certa risonanza nella capitale e vennero generalmente descritte come conflitti tra ribelli e forze
imperiali; in realtà, si trattò sempre di guerre private tra gruppi di potere locali.
I primi disordini locali su vasta scala di cui ci è giunta notizia si ebbero nel Giappone occidentale e orientale
quasi nello stesso periodo. Un certo Taira no Masakado, che con una serie di battaglie si era reso padrone di
gran parte del Kanto, venne eliminato nel 940 da un rivale appartenente a un ramo locale dei Fujiwara. L’anno
seguente, Fujiwara no Sumitomo, che in origine era stato inviato da Kyoto per annientare i pirati del Mar Interno
ma che si era dato egli stesso alla pirateria, fu confitto e perdette il dominio di queste acque, che aveva
mantenuto per 5 anni.
Nel 1028, un altro Taira scatenò una guerra nel Kanto ma alla fine venne battuto nel 1031 da Yorinobu, un
membro della Seiwa Genji, cioè il ramo Seiwa dei Minamoto.
Fu con guerre come queste che le più forti bande di guerrieri acquistarono prestigio in tutto il paese e
aumentarono notevolmente il loro seguito. Lo sviluppo della Seiwa Genji, la più grande tra le prime cricche, nel
Kanto e nell’Honshu settentrionale è forse dovuto a una più vigorosa sopravvivenza dello spirito tribale in
queste zone relativamente arretrate del paese. Il gran numero di conflitti armati che ebbero luogo nell’Honshu
settentrionale può anche essere stato il risultato del persistere di una più forte tradizione guerriera in questo
territorio di confine. A ogni modo, tali conflitti sono la prova della completa incorporazione della regione
nell’unità politica giapponese.
Queste guerre lontane ebbero scarse ripercussioni a corte. I gruppi militari provinciali avevano comunque
cominciato nel frattempo a fare la loro comparsa nella capitale. Alcuni guerrieri svolgevano già da anni la
funzione di commissari di polizia; nel secolo 11°, gruppi organizzati di aristocratici provinciali vennero chiamati a
Kyoto per mettere la loro forza armata al servizio delle autorità civili locali.

La rivalità tra i Taira e i Minamoto


Una stretta associazione si stabilì tra talune famiglie di corte e alcune delle più potenti cricche militari, legate
alle prime dal sistema delle tenute o in altro modo. Michinaga si appoggiò soprattutto alla Seiwa Genji e questo
gruppo militare si guadagnò l’appellativo di “denti e artigli” dei Fujiwara. I suoi successori e in seguito anche gli
imperatori abdicatari si appoggiarono ai gruppi militari delle province per proteggere queste ultime dai loro
nemici e dai monaci armati del monte Hiei e di altri monasteri.
Verso la metà del 12° secolo le bande di guerrieri che operavano nella capitale entrarono in conflitto per
appoggiare gli intrighi dei loro signori imperiali e dei Fujiwara. Uno dei gruppi era capeggiato da un ramo della
famiglia Taira che discendeva dall’imperatore Kammu ma che, essendosi in seguito stabilito nella provincia di
Ise, era noto col nome di Ise Heike. Questa famiglia aveva acquistato a Kyoto una posizione di supremazia
avendo il suo capo, Masamori, eliminato nel 1108 un membro eminente della Seiwa Genji, Yoshichika. Dopo
questa vittoria, i membri della Ise Heike posero sotto il loro controllo la zona del Mar Interno e, con il figlio e il
nipote di Masamori, Tadamori e Kiyomori, diventarono la principale forza militare al servizio degli imperatori
abdicatari nella capitale.

L’altro gruppo era capeggiato da Minamoro no Tameyoshi, figlio di Yoshichika e discendente dei grandi capi
Minamoto delle prime guerre del Kanto e del Giappone settentrionale. Con l’eliminazione dei rivali che egli
aveva in seno alla propria famiglia, Tameyoshi divenne il capo incontrastato della Seiwa Genji, ormai
saldamente stabilita nella regione del Kanto.

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Quando l’imperatore abdicatario Toba morì nel 1156, tra due dei suoi figli, l’imperatore abdicatario Sutoku e
l’imperatore regnante Go-Shirakawa, ebbe un aspro conflitto per il controllo della corte. Il kampaku, che era il
capo di diritto della famiglia Fujiwara, appoggiò Go-Shirakawa ma il fratello minore geloso prese le parti di
Sutoku. Il gruppo di Sutoku decise di ricorrere a un coup d’état con l’aiuto di tutte le forze militari che fosse
riuscito a raccogliere. Essi ottennero l’appoggio di un gruppo misto di guerrieri dei Minamoto e dei Taira,
capeggiati da Minamoto no Tameyoshi, ma il figlio ed erede di Tameyoshi, Yoshitomo, si aggregò al gruppo
rivale capeggiato da Taira no Kiyomori.

Kiyomori uscì vittorioso dal successivo conflitto. Le forze di Tameyoshi vennero annientate ed egli venne
giustiziato. L’imperatore abdicatario Sutoku fu mandato in esilio e Go-Shirakawa, che abdicò nel 115, si
impadronì del controllo dell’insei e rimase membro dominante della famiglia imperiale fino alla sua morte, nel
1192.
Comunque i guerrieri della parte vittoriosa vennero presto rovesciati.
Yoshitomo, il capo Minamoto di questa parte, si infuriò perché maggiori onori erano stati tributati al capo Taira,
Kiyomori. Entrambi furono appoggiati dagli ambiziosi Fujiwara dei rami collaterali minori. Alla fine, nell’inverno
del 1159-1160, Yoshitomo e i suoi alleati si impadronirono del potere con un altro colpo di stato, mentre
Kiyomori si trovava in pellegrinaggio lontano da Kyoto; ma quest’ultimo ritornò rapidamente, sconfisse i rivali, li
inseguì e li sterminò. Dal “periodo annuo” durante il quale ebbero luogo queste lotte del 1159-60 e del 1156,
sono note coi nomi di guerra di Heiji e guerra di Hogen.

Il governo dei Taira


Queste piccole guerre, che si conclusero con l’eliminazione di tutti i rivali militari di Kiyomori e dei suoi accoliti a
corte, diedero a quest’ultimo l’assoluto predominio militare a Kyoto e l’effettivo controllo di ciò che restava del
governo centrale. Durante i due decenni seguenti egli governò la corte dal suo palazzo di Rokuhara,
all’estremità sudorientale della città, o dalla sua tenuta di Fukuhara, dove trasferì anche la capitale per breve
tempo nel 1180.
In quanto discendente della famiglia imperiale, Kiyomori si adattò senza difficoltà alla pratica consacrata dal
tempo di dominare i superiori senza deporli. Imperatori, imperatori abdicatari, reggenti e kampaku Fujiwara non
cessarono di rivendicare i loro diritti al potere, ma fu Kiyomori la vera fonte di ogni autorità, anche se lasciò
quasi tutte le più importanti cariche governative ai Fujiwara; assunse però personalmente il titolo di Gran
Ministro di stato per qualche mese nel 1167 e fu per breve tempo Ministro Interno, un’alta carica che risaliva
alla fine del 10° e che venne ricoperta anche dal suo abile figlio Shigemori. Ma, quel che più conta, Kiyomori
seguì l’esempio dei Fujiwara maritando le figlie a membri della famiglia imperiale e anche a reggenti Fujiwara.
Nel 1180 egli infine pose sul trono il proprio nipote bambino, l’imperatore Antoku.
Molti dei Fujiwara e alcuni membri della famiglia imperiale non accettarono di buon grado il nuovo potere del
gruppo militare guidato da Kiyomori, ma non erano in condizione di opporsi. Comunque, la Ise Heike non aveva
certo il controllo dell’intero paese. Kiyomori ottenne dalla corte diritti su vaste tenute nella zona del Mar Interno
e investì molti suoi luogotenenti della carica di governatore. Ma assai ridotto fu il controllo esercitato dai Taira
sui grandi stabilimenti religiosi e ancora più debole quello sulle restanti cricche militari delle zone più remote. In
realtà, il prestigio dei Minamoto era ancora più forte nel Kanto e la trasformazione di Kiyomori e dei suoi seguaci
da aristocratici guerrieri rurali in nobili di corte probabilmente indebolì il suo ascendente personale tra la classe
dei guerrieri nel suo complesso, anziché rafforzarlo.

Il trionfo dei Minamoto


Un complotto a Kyoto contro i Taira fu duramente represso nel 1177, ma 3 anni dopo un anziano membro della
famiglia Minamoto, che era sopravvissuto passando dalla parte dei Taira nel 1160, persuase un principe
imperiale insoddisfatto a chiamare alle armi gli ultimi Minamoto del Giappone orientale. Il terzo figlio di
Yoshitomo, Yoritomo, risparmiato nel 1160 per la sua giovane età, era stato esiliato nella penisola di Izu.
Divenuto adulto, egli levò lo stendardo della rivolta contro i Taira nel 1180, ottenendo l’appoggio di molte
famiglie, discendenti sia dai Taira che dai Minamoto, del Giappone orientale. Yoritomo si impadronì ben presto
di gran parte del Kanto, sconfiggendo non solo i rivali locali ma anche le forze inviate contro di lui da Kyoto.

151
Anche uno dei suoi cugini, Yoshinaka, si ribellò e nel 1182 riuscì a impadronirsi di vaste zone lungo la costa
occidentale dell’Honshu; l’anno dopo calò su Kyoto da Nord. I capi Taira abbandonarono la capitale con
l’imperatore bambino Antoku e si stabilirono nello Shikoku, nella regione del Mare Interno che era stata per
molto tempo la base del loro potere.
Yoritomo, che nel frattempo aveva rafforzato il suo controllo sul Kanto, non vide di buon occhio i successi più
spettacolari di Yoshinaka e inviò ingenti forze ad affrontarlo. I capi di questa spedizione furono i due fratelli
minori di Yoritomo, Noriyori e Yoshitsune, quest’ultimo ancora bambino all’epoca della disfatta del padre.
Destinato al chiostro, nel 1174, all’età di 15 anni, era fuggito dal monastero, nelle vicinanze di Kyoto, riparando
nell’Honshu settentrionale. Nonostante la giovane età, egli diede prova di grande talento militare e, nel 1184,
sconfisse rapidamente il pur abile veterano Yoshinaka.
Yoshitsune mosse quindi contro i Taira, che nel frattempo avevano riaffermato il loro predominio su tutto il
Giappone occidentale e sconfitto le forze dei Minamoto inviate ad affrontarli. Infine, nella primavera del 1175, li
annientò, in una grande battaglia navale. Questo scontro famoso ebbe luogo a Danno-ura, all’estremità
orientale del piccolo stretto che separa l’Honshu dal Kyushu. L’imperatore Antoku fu travolto dalla corrente e la
sua spada, una delle tre insegne imperiali, scomparve tra i flutti.

Il primo sistema feudale


Le guerre che si erano susseguite tra il 1156 e il 1185 avevano posto sotto il controllo delle cricche della classe
militare provinciale la capitale prima e in seguito l’intero paese. Nel 1160, Kiyomori era divenuto il padrone
militare di Kyoto e del Mare Interno. Nel 1185, il successo di Yoritomo ebbe ripercussioni più vaste. I
combattimenti su vasta scala che per 5 anni avevano sconvolto il Giappone dal Kanto, a oriente, al Kyushu, a
occidente, avevano anche stabilito il predominio della banda dei guerrieri suoi seguaci in gran parte del paese,
mentre il suo successo senza precedenti era servito a consolidare la solidarietà di questi ultimi. Kiyomori era
riuscito a stabilire il potere della propria banda di guerrieri soltanto nell’ambito del governo imperiale in
decadenza; Yoritomo fu invece in grado di estendere il dominio del suo gruppo a tutto il paese.
Il sistema di governo istituito da Yoritomo si basava su un elemento caratteristico del sistema feudale, ossia una
cricca militare ereditaria la cui coesione era assicurata dalla personale lealtà dei vassalli verso il signore. I
guerrieri che mossero dal Kanto alla conquista del Giappone centrale e occidentale si consideravano
dipendenti di Yoritomo, suoi gokenin o “uomini dalla onorevole casa”, ma anche armati di altre regioni del
paese, attratti dal successo di questo ultimo gruppo o temendo per la propria incolumità, si affrettarono ad
arruolarsi tra i dipendenti di Yoritomo. Così, dopo la disfatta dei rivali Taira, quest’ultimo si trovò a essere il capo
riconosciuto della maggior parte dei guerrieri provinciali del Giappone, e il sistema che egli sviluppò per
controllare questo gruppo divenne ben presto il vero governo.
Sotto due aspetti, tuttavia, il sistema di governo di Yoritomo non fu interamente feudale. Egli non ricompensò
con feudi i suoi dipendenti e il suo governo non sostituì completamente la precedente amministrazione civile.
Questa, almeno, in teoria continuò a funzionare come suprema autorità del paese, mentre i guerrieri di
Yoritomo possedettero o amministrarono grandi tenute in base a diritti che derivavano da Kyoto piuttosto che
dal loro signore. Si tratta comunque di una distinzione assai sfumata. L’autorità di Yoritomo era in effetti l’unico
efficiente sistema di governo e questo gli permise di ricompensare i suoi uomini con terre o incarichi direttivi,
oppure confermando loro i possedimenti e le cariche precedenti.
Un’altra caratteristica non feudale del sistema di Yoritomo fu il permanere di molte grandi tenute nelle mani dei
nobili di corte, della famiglia imperiale e delle istituzioni religiose nel distretto della capitale. Rimanevano inoltre
poche terre pubbliche che ancora pagavano le imposte. Le grandi guerre di un secolo e mezzo prima avevano
trasferito il possesso di molte tenute ai più forti aristocratici provinciali o avevano indotto i proprietari ad affittare
le terre a persone che, con la loro forza militare, potessero garantirne la protezione.

Il sistema degli intendenti e dei protettori


Anche prima del 1185, la maggior parte delle tenute nella regione del Kanto erano possedute o amministrate
da membri della cricca di Yoritomo. La vittoria sui Taira permise a quest’ultimo di insediare i suoi dipendenti in
quasi tutto il Giappone. Le terre confiscate ai Taira vennero assegnate, infatti, ai suoi luogotenenti, e i partigiani
dei vinti furono sostituiti, come amministratori, da uomini del suo seguito, mentre ai proprietari o agli

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amministratori neutrali venne consentito di unirsi ai vincitori. Yoritomo cercò di mettere un certo ordine nel
sistema già nel 1185, nominando come intendente (jito) in ogni latifondo un uomo di fiducia, anche se
l’opposizione della corte di Kyoto gli impedì a quel tempo di insediare suoi uomini in alcune tenute. I Taira
avevano seguito questa politica soltanto in modo parziale; l’obiettivo di Yoritomo era invece quello di applicarla
all’intero paese.
L’intendente, che traeva i mezzi di sussistenza dal proprio shiki, ossia dalla quota spettategli dei prodotti della
tenuta che controllava, aveva soprattutto il compito di sovraintendere alla equa ripartizione dei redditi del fondo
tra il proprietario e i vari aventi diritto. Il suo compito era inoltre di mantenere la pace e l’ordine nel fondo stesso,
fungendo da giudice e svolgendo le altre funzioni di governo locale. Egli riscuoteva una tassa chiamata “riso
dell’intendenza”. Si trattava di una tassa assai esigua, circa un cinquantesimo del raccolto, ma era pur sempre
un riconoscimento del nuovo governo che si era stabilito nel quadro delle vecchie strutture.
Gli intendenti, in quanto membri e incaricati di una cricca militare nazionale, esercitavano poteri molto superiori
a quelli dei precedenti amministratori delle tenute, che venivano nominati dai proprietari e di conseguenza
operavano sotto il controllo più o meno rifido di questi ultimi. Il mutamento dello status della persona preposta al
controllo dei fondi era un sintomo del rapido declino dell’autorità dei proprietari vecchio tipo e degli altri organi
della amministrazione civile durante le guerre che avevano portato al trionfo di Yoritomo. La comparsa
dell’intendente come figura chiave della società provinciale rappresentò un notevole passo avanti verso la
completa feudalizzazione del Giappone.
La posizione di intendente era ereditaria e la tenuta controllata da un intendente e dai suoi discendenti
cominciò ad assumere alcuni degli aspetti caratteristici del dominio feudale, giacché essi lo governavano e lo
controllavano economicamente pur non essendo in teoria dei proprietari.
Gli intendenti, essendo economicamente autosufficienti, fornivano a Yoritomo una amministrazione locale e una
forza militare che non costava nulla. Infatti, in quanto suoi dipendenti personali, essi potevano in ogni momento
essere chiamati alle armi. Essendo gli effettivi controllori dei fondi in cui era stato suddiviso quasi tutto il paese,
essi governavano praticamente la maggior parte della popolazione e controllavano il reddito del governo civile e
della nobiltà di corte. In questo modo gli intendenti costituivano praticamente l’amministrazione, sia militare che
provinciale, del governo di Yoritomo.
Al fine di integrare in qualche modo il sistema degli intendenti, estremamente decentralizzato, Yoritomo nel
1185 designò in ogni provincia un suo dipendente con funzioni di sorveglianza, in seguito noto col nome di
protettore (shugo). Costoro erano responsabili della designazione dei dipendenti della loro zona per il servizio di
guardia e del mantenimento della pace e dell’ordine nelle province; dovevano inoltre servire come comandanti
dei dipendenti locali in tempo di guerra. Spesso avevano anche il titolo di governatori dell’amministrazione
civile.
Esistevano irregolarità sia nel sistema dei protettori che in quello degli intendenti. Alcune province non
disponevano di un protettore e alcuni latifondi erano privi di intendenti, mentre vi erano protettori e intendenti
preposti a province o tenute diverse. Notevoli erano anche le differenze tra una regione e l’altra. La zona del
Kanto, che costituiva la base del potere di Yoritomo, e il territorio che si stendeva tra questa e il distretto della
capitale furono organizzati in modo molto più completo e sottoposti a un controllo più rigoroso che non
l’Honshu settentrionale o la zona a occidente di Kyoto.

Gli organi di governo di Kamakura


All’inizio della ribellione Yoritomo aveva stabilito il suo quartier generale a Kamakura e nel Kanto. Anche dopo la
presa di Kyoto egli rimase a Kamakura, nei pressi della sua base, contribuendo così ad evitare che la sua
cricca venisse parzialmente assorbita dall’aristocrazia di Kyoto. In effetti il successo di Yoritomo, ossia tanto
l’ascendente che si era guadagnato sui membri rivali della sua stessa famiglia quanto il sistema politico, più
duraturo di quello dei Taira, che egli riuscì a instaurare, derivò forse soprattutto dalla più forte base locale del
suo potere e dalla decisione di mantenere la sede del governo nei territori orientali. Egli non cercò neppure di
ottenere alte cariche nella amministrazione di Kyoto e costituì invece un governo indipendente a Kamakura.
Gli organi centrali di questo governo erano quasi altrettanto semplici quanto quelli istituiti nelle province.
Un consiglio amministrativo (Mandokoro, come venne chiamato nel 1191) fungeva da organo esecutivo
centrale. Il consiglio dei dipendenti (Samurai-dokoro), istituito da Yoritomo nel 1180, proprio all’inizio della sua

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ribellione, regolava le questioni relative ai dipendenti stessi, assegnando compiti militari e decidendo le pene e
le ricompense. Il consiglio di inchiesta (Monchujo) era invece un tribunale di ultima istanza che amministrava il
diritto consuetudinario della famiglia che si era sviluppato tra i Minamoto. Questi consigli funzionavano come
comitati, emanando solo decisioni unanimi, il che impediva che uno qualsiasi dei membri diventasse una fonte
indipendente di autorità e assicurava a tutti protezione sotto l’ala della responsabilità collettiva.
Teoricamente, le leggi che il consiglio di inchiesta faceva rispettare avevano valore solo per i membri della
famiglia Minamoto e i molti dipendenti ad essa legati dal vincolo di lealtà; in pratica tali leggi erano diventate le
sole che contassero in Giappone in quanto erano le sole appoggiate da un potere effettivo. Di conseguenza,
anche nobili di corte e guerrieri si recarono a Kamakura per sottoporsi alla giustizia che il consiglio di inchiesta
amministrava severamente ma equamente, tenendo in debita considerazione i precedenti e le testimonianze
documentate.
Alla fine, nel 1232, la legge di famiglia dei Minamoto venne incorporata in un codice redatto dal consiglio
amministrativo e denominato Codice Joei (Joei shikimoku) dal “periodo annuo” durante il quale venne
compilato; esso conteneva norme generali riguardanti la condotta della classe militare, era basato
sull’esperienza amministrativa acquisita dal governo di Kamakura nei 4 decenni precedenti e divenne ben
presto il sistema legislativo vigente in tutto il Giappone.

Il titolo di shogun
Il governo di Yoritomo fu puramente privato, che agli inizi operò senza neppure un legame teorico col vecchio
regime. Le sue istituzioni centrali erano costituite dagli organi tradizionali di una amministrazione familiare e il
controllo che esso esercitava sulle province dipendeva interamente dalla lealtà personale di un ristretto gruppo
di dipendenti della famiglia.
Soltanto nel 1192 la posizione di questo governo privato divenne formalmente riconosciuta quando la corte
nominò Yoritomo Seiji-tai-shogun, “generalissimo vincitore dei barbari”, titolo già attribuito talvolta a grandi
generali a partire dall’epoca delle guerre contro gli ainu della fine del secolo 8°. Yoritomo era già stato
riconosciuto intendente generale e protettore generale del sistema che egli stesso aveva creato, ma il titolo di
shogun gli attribuiva ora uno status ben definito nel governo di Kyoto. In qualità di “generalissimo” gli venne
delegata la autorità militare dell’imperatore e il suo governo divenne così in un certo senso un governo militare
provvisorio per conto dell’amministrazione di Kyoto.
Il titolo di shogun divenne tradizionale per i dittatori militari ereditari; la loro amministrazione militare, o
shogunato, venne chiamata, in contrasto con il governo civile di Kyoto, Bakufu o “Governo della tenda”. Quella
istituita da Yoritomo viene indicata normalmente col nome di shogunato o bakufu di Kamakura, dalla città nella
quale egli risiedeva.

Lo shogunato di Kamakura
Sembra comunque che tale governo si adattasse bene alle necessità del tempo in quanto funzionò con alterne
vicende per circa un secolo e mezzo.

La fine dei Minamoto e l’ascesa degli Hojo


Il primo grave problema che lo shogunato di Kamakura dovette affrontare fu la prematura estinzione della
famiglia shogunale, sulla quale si accentrava il sistema dei vincoli di lealtà personali. il fatto che lo shogunato
riuscisse a sopravvivere a questo disastro è una prova dell’abilità con la quale Yoritomo e i suoi colleghi
avevano costruito il loro governo. Si tratta inoltre di una ulteriore testimonianza della capacità dei giapponesi di
governare tramite regnanti fantoccio. Lo shogunato Minamoto poté sopravvivere alla estinzione della famiglia
poiché il potere era già passato in altre mani.
Lo stesso Yoritomo contribuì in uguale misura al trionfo della famiglia e alla sua fine. Egli aveva in grande
sospetto i suoi parenti più stretti ed era particolarmente geloso dei successi militari del fratello, Yoshitsune.
Quando quest’ultimo si recò a Kamakura per riferire, dopo la vittoria sui Taira, Yoritomo si rifiutò di riceverlo.
Yoshitsune fu ben presto spinto alla ribellione e alla fine fuggì nell’Honshu settentrionale mettendosi sotto la
protezione della famiglia Fujiwara che aveva costruito il Chusonji a Hiraizumi. Nel 1189, venne però ucciso dal
nuovo capo di questa casata, timoroso della collera di Yoritomo. Il tradimento non salvò però Hiraizumi, l’ultimo

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importante centro di un potere militare indipendente. Nello stesso anno Yoritomo marciò verso il Nord e
annientò i Fujiwara di Hiraizumi portando così per la prima volta tutto il Giappone sotto il controllo di un unico
capo militare.
Di conseguenza, quando egli stesso morì nel 1199, i soli membri del ramo principale dei Minamoto che gli
sopravvissero furono i suoi due giovani figli.
L’amministrazione di Kamakura, comunque, venne mantenuta in vita dal principale seguace di Yoritomo,
sebbene a prezzo di ripetuti e cruenti conflitti intorno ai due eredi di Yoritomo e ai tre figli del maggiore di essi.
Infine, uno dei gruppi rivali riuscì a stabilire la propria supremazia, i vincitori della lotta per il potere shogunale
furono i membri della famiglia Hojo, discendente dai Taira, alla quale apparteneva la moglie di Yoritomo, che
egli aveva rapito durante il suo esilio nell’Izu. Come molte altre famiglie, gli Hojo avevano adottato come loro
cognome il nome di una località. Tre successive generazioni di questa famiglia, Tokimasa, la figlia di Masako
(moglie di Yoritomo) e il figlio di Yoshitoki, nonché il figlio di quest’ultimo, Yasutoki, furono i principali autori del
consolidamento del governo id Kamakura e della continuità del sistema di Yoritomo.
Nel 1203 la vedova di Yoritomo, Masako, e suo padre, Tokimasa, eliminarono alcuni dei loro principali rivali e
costrinsero all’abdicazione il figlio primogenito e successore di Yoritomo, Yoriie. Yoriie venne assassinato l’anno
dopo, manifestamente a opera di sicari di Tokimasa. Quest’ultimo, tuttavia, venne destituito nel 1205 dal figlio
di Yoshitoki, che procedette quindi all’eliminazione degli altri rivali.
Nel 1203, Tokimasa aveva assunto il titolo di reggente shogunale (shikken), e Yoshitoki ne seguì l’esempio. In
tal modo gli Hojo fecero un ulteriore passo avanti nel processo di delega formale del potere. Per il resto del
periodo di Kamakura la situazione fu all’incirca la seguente: un imperatore, il cui potere era passato nelle mani
di un reggente, il quale a sua volta aveva perso il controllo della corte a vantaggio di un imperatore abdicatario,
mentre il potere effettivo era stato trasferito a uno shogun, a sua volta soppiantato da un reggente della famiglia
Hojo.

La guerra dello Shokyu


Lo shogunato di Kamakura dovette affrontare il grave problema della ribellione di alcuni gruppi scontenti. Già si
è accennato alla distruzione della famiglia Fujiwara dell’Honshu settentrionale nel 1189. Nel 1204, venne inoltre
domata una piccola sommossa degli ultimi Taira di Ise; una nuova minaccia, assai più grave, venne pochi anni
dopo dalla corte imperiale.
Go-Toba, posto sul trono da Yoshinaka nel 1183 e divenuto capo dell’insei dopo il suo ritiro nel 1198, diede
prova di grande energia costituendosi una forza armata composta di uomini provenienti dalle tenute imperiali
ed estendendo considerevolmente il suo potere nella regione della capitale nel corso della sanguinosa lotta tra
gli Hojo e i loro rivali di Kamakura. Nel 1221, Go-Toba dichiarò Yoshitoki ribelle, quest’ultimo inviò allora ingenti
forze, al comando del fratello Tokifusa e del figlio maggiore Yasutoki, che domarono rapidamente la “ribellione”
dell’imperatore abdicatario.
Questo episodio, noto col nome di guerra dello Shokyu (o Jokyu) dal “periodo annuo” ebbe conseguenze assai
vantaggiose per lo shogunato, giacché da quel momento non vi furono più dubbi sull’identità dell’effettivo
detentore del potere. Go-Toba e i suoi due figli, imperatori abdicatari, furono inviati in esilio e la maggior parte
degli altri capi della rivolta messi a morte. Yasutoki e Tokifusa rimasero a Kyoto per sorvegliare la corte,
ricoprendo la carica di rappresentanti shogunali per tutto il Giappone occidentale e rafforzando così il controllo
esercitato dal governo Kamakura su quella parte del paese. Poiché i due rappresentanti risiedevano nei palazzi
settentrionale e meridionale di Rokuhara, le loro cariche furono note in seguito col nome di “rappresentanti di
Rokuhara” (Rokuhara tandai). Tuttavia, nonostante il rigoroso controllo militare esercitato su Kyoto, gli Hojo
mostrarono sempre un grande rispetto per il trono in quanto fonte di ogni autorità legittima.
La guerra dello Shokyu permise inoltre agli Hojo di nominare intendenti o anche semplicemente di impadronirsi
di molte tenute della aristocrazia di corte, rimasta fino a quel momento estranea al sistema di Kamakura. In
questo modo essi estesero la loro autorità, procurandosi inoltre i mezzi per ricompensare i loro seguaci con
nuovi onori e ricchezze. L’accesso a queste risorse fu particolarmente importante per la coesione del regime di
Kamakura in quanto, essendo trascorsa una generazione dalla vittoria iniziale, l’aumento naturale della classe
dei dipendenti aveva lasciato molti di costoro senza cariche o redditi adeguati.

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Dopo la guerra dello Shokyu gli Hojo governarono il Giappone con severità e giustizia, per più di un secolo.
Gran parte del merito del successo duraturo del governo degli Hojo dovrebbe essere attribuito a Yasutoki che,
succedendo al padre, occupò la carica di reggente shogunale dal 1224 al 1242. Nel 1225 egli istituì un
Consiglio di Stato che fu il principale organo amministrativo e consultivo. Nel 1226, costringendo il monastero
Kofukuji di Nara ad abbandonare le pretese avanzate durante una controversia, insegnò ai turbolenti monaci
dei grandi monasteri del distretto della vecchia capitale a rispettare l’autorità di Kamakura; infine, nel 1232,
come abbiamo visto, codificò le leggi dello shogunato.

Le invasioni dei mongoli


Nel 1247, la sconfitta dei Miura, una potente famiglia rivale, provò che per il regime di Kamakura non si era
ancora del tutto liberato dalle discordie interne. A partire dal 1266, Qubilay, il conquistatore mongolo dei Sung
meridionali, inviò a più riprese delle ambascerie per costringere i giapponesi a entrare in rapporti tributari con la
Cina. La corte di Kyoto fu presa dal panico, ma Tokimune, reggente shogunale dal 1268 al 1284, rifiutò
orgogliosamente di piegarsi ai mongoli.
Infine, nel 1274, l’imperatore Yuan inviò dai porti della Corea un contingente misto di mongoli e coreani. Dopo
aver annientato i difensori delle isole di Tsushima e Iki, l’esercito mongolo incominciò a sbarcare nella baia di
Hakata nel Kyushu settentrionale. Il governo di Kamakura si affrettò a inviare rinforzi e i suoi dipendenti del
Kyushu attaccarono immediatamente gli invasori. Il primo scontro non si risolse tuttavia in una netta vittoria
mongola, giacché durante la notte gli invasori ripresero il mare malgrado il tempo cattivo, e fecero ritorno in
Corea con gravi perdite causate sia dalla tempesta che dalle spade giapponesi.
Dopo questo primo insuccesso, Khubilai chiese nuovamente ai giapponesi di riconoscere la sua signoria, ma
Tokimune fece uccidere tutti gli inviati mongoli. Il governo di Kamakura con grande energia schierò le sue forze
per parare un altro attacco e per cinque anni i dipendenti del Kyushu lavorarono alla costruzione di una
muraglia intorno alla baia di Hakata.
Nell’estate del 1281 i mongoli inviarono dalla Corea e dalla Cina un secondo contingente formato da cinesi,
mongoli e coreani. I giapponesi erano però pronti ad affrontarla. Anche se gli invasori si impadronirono di
numerose località del Kyushu settentrionale, la muraglia che circondava la baia di Hakata serrò la loro
cavalleria in una stretta testa di ponte in questa zona di grande importanza strategica. I mongoli vennero
bloccati nella baia per quasi due mesi; nel frattempo le più agili imbarcazioni giapponesi fecero strage delle
giunche degli invasori nelle strette acque della baia. Inoltre un tifone distrusse gran parte della flotta mongola e
fece arenare le navi superstiti che furono facile preda dei giapponesi.
Il governo di Kamakura mantenne le sue difese per i due decenni successivi, ma i mongoli non ritornarono più.
La fortuna dei giapponesi fu che tali invasioni ebbero luogo proprio in questo periodo, giacché uno o due secoli
prima o dopo la mancanza di coesione militare avrebbe impedito loro di fronteggiare tali attacchi con tanto
successo. Gli stessi giapponesi hanno quasi sempre considerato la loro vittoria sui mongoli non come un
incidente storico ma come la conseguenza della “unicità” del Giappone, confermata dal kamikaze o “vento
divino”, che contribuì a sconfiggere il nemico.

La cultura della prima età feudale


Le invasioni mongole furono una chiara testimonianza degli accresciuti rapporti col continente. Questi contatti
naturalmente recarono nuove influenze, ma, nel corso di questo periodo, la cultura giapponese anziché
ritornare ai modelli cinesi si avviò verso una ancora più decisa autonomia.

L’etica feudale
Il carattere particolare della classe militare differiva radicalmente sia da quello dell’aristocrazia di Kyoto sia da
quello della burocrazia confuciana cinese. Per questi guerrieri feudali due ideali si elevavano sugli altri: la virtù
militare e la lealtà personale. Essi si gloriavano delle loro capacità belliche e consideravano come un feticcio la
loro meravigliosa spada. Oggetto di un culto feticistico per il guerriero medievale erano anche l’onore e la
discendenza da una stirpe militare; prima di gettarsi nella mischia, egli usava invocare il proprio nome e quello
degli antenati e schernire i nemici vantando le proprie gesta e quelle della famiglia. Motivo di orgoglio erano per
lui una vita stoica, il disprezzo dei guadagni meschini e, soprattutto, la valentia fisica. Egli preferiva la morte alla

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cattura o al disonore. La pratica del suicidio in caso di sconfitta ebbe inizio probabilmente come mezzo per
evitare la tortura e la decapitazione, ma, nelle guerre della fine del 12° secolo cominciò ad essere
istituzionalizzata col nome di seppuku, o sventramento, un metodo assai doloro ma molto rispettato.
Nella società feudale, la lealtà personale al signore era una virtù ancora più importante del coraggio. Il valore
attribuito a questo vincolo fu probabilmente rafforzato dagli insegnamenti confuciani, sorti in Cina in un periodo
durante il quale assai forti erano i legami di lealtà personale, ma fu anzitutto la conseguenza delle necessità del
tempo. Senza la lealtà personale tutto il sistema feudale sarebbe crollato.
Il dipendente doveva al signore una lealtà assoluta e indiscussa, anche fino alla morte. Quando la lealtà, come
spesso accade, entrò in conflitto con gli interessi personali, si rivelò inevitabilmente come l’anello più fragile
della catena feudale. La storia cruenta di Yoritomo e dei Minamoto è la prova della scarsa importanza che si
poteva talvolta attribuire al principio della lealtà anche in seno alla stessa famiglia, mentre gli annali degli Hojo
sono una testimonianza della forza e della efficacia che questo legame poteva avere.
Il codice del guerriero giapponese, o bushi, al quale in tempi più moderni venne dato il nome di Bushido, la “Via
del guerriero”, presentava punti sia di somiglianza che di contrasto con il codice del cavaliere europeo. Per
esempio, nel Bushido non vi è traccia di culto per la donna; le donne non godevano di speciali privilegi, anche
se nella prima età feudale non furono neppure relegate nella condizione di inferiorità. Esse dovevano dar prova
dello stesso coraggio e della stessa lealtà dei loro uomini e potevano ereditare non solo gli shiki ma anche
cariche nella cricca militare di Kamakura. Alcune di esse, come Masako, ebbero persino ruoli politici di primo
piano.

La rinascita del buddismo nel periodo di Kamakura


La prima età feudale in Giappone fu un periodo di fede ardente e di grande fervore religioso. I militari
giapponesi erano sinceri credenti buddisti. Ma, anche se il buddismo risvegliò in loro della pietà e anche della
clemenza per i nemici, essi non manifestarono mai la tendenza a identificare la loro etica feudale con la fede
buddista.
Il fervore buddista del primo periodo feudale sembra essere scaturito in parte dall’ininterrotto stato di guerra di
quegli anni, che spinse gli uomini a desiderare ardentemente una salvezza dai dolori del mondo. In alcuni
ambienti della corte di Kyoto la nostalgia per il buon tempo antico si mescolò al crescente interesse per la
religione. Si assistette anche a un vigoroso slancio del sentimento religioso, di un genere positivo e ottimistico,
tra le classi inferiori fino a quel momento oppresse. La rinascita religiosa del periodo di Kamakura coincise
quindi con una grande diffusione del buddismo, come nuova forza dinamica, tra la popolazione nel suo
complesso e non fu soltanto una annoiata fuga dalla società degli aristocratici di corte.
Da un punto di vista moderno, il feudalesimo appare come un sistema gerarchico e repressivo, ma nel
Giappone del 12° secolo sembra si sia accompagnato da un certo grado di liberalizzazione sociale. L’antica
società giapponese era stata completamente dominata dall’alto da una ristretta aristocrazia di corte. Il
feudalesimo, oltre a porre in primo piano la più numerosa e decentrata classe dei guerrieri, sembra aver anche
elevato le classi inferiori a una posizione più sicura e importante.
La classi inferiori, come pure la nuova aristocrazia dei guerrieri, cominciarono ad avere una parte nella cultura
giapponese; naturalmente il militare figurava ora in modo preminente sia nella letteratura che nell’arte, ma
anche il popolano cominciò a fare la sua comparsa. I rotoli dipinti del periodo di Kamakura abbondano di
descrizioni della vita dell’uomo della strada o della risaia.
La rinascita religiosa fu un indice ancora più significativo della crescente importanza dei guerrieri e delle classi
inferiori, in quanto fu essenzialmente una rivolta di questi due gruppi sociali contro le vecchie sette
aristocratiche e gerarchiche. Vi fu una nuova e improvvisa fioritura settaria, in parte ispirata da recenti influenti
cinesi. Questi nuovi capi religiosi non erano più aristocratici di corte, ma principalmente uomini di umili origini,
discendenti di guerrieri minori o anche di estrazione popolare, che preferivano predicare e svolgere la loro
missione tra le classi inferiori.

Le sette Zen
La rinascita religiosa del Giappone nella prima età feudale ebbe però un altro aspetto. Lo Zen, la scuola della
meditazione, che era diventata la principale setta religiosa cinese all’epoca dei Sung. Lo Zen fu introdotto in

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Giappone come movimento settario da alcuni monaci che avevano compiuto i loro studi in Cina. Lo Zen traeva
le sue origini da uno degli elementi più antichi ed importanti del buddismo indiano, ma aveva accolto le dottrine
taoiste dell’educazione del carattere individuale e della stretta identificazione personale con l’ordine della
natura, oltre alle tendenze contrarie all’intellettualismo e alle scritture, tipiche dello stesso taoismo. Lo Zen
poneva l’accento sulla trasmissione diretta e personale della verità del maestro senza tener conto dei testi, su
una individualistica indipendenza da ogni autorità, su rigorosi metodi di meditazione, su una rigida disciplina del
carattere e sulla salvezza, da raggiungersi nella più tradizionale forma di illuminazione buddista, ossia
attraverso l’autocoscienza e la disciplina del carattere.
L’importanza attribuita dallo Zen all’autodisciplina, all’educazione del carattere erano elementi che esercitavano
grande attrazione sul guerriero giapponese medievale poiché corrispondevano al suo bisogno di forza interiore.
Nello Zen egli poteva trovare la forza richiesta dal suo codice di coraggio fisico e di lealtà assoluta.

Lo shinto e le antiche sette buddiste


Non si deve credere che le nuove forme di buddismo avessero offuscato i più antichi movimenti religiosi. I culti
dello shinto continuarono a svilupparsi con una certa continuità. Il magnifico tempio di famiglia dei Taira di Ise a
Itsukushima sul Mar Interno e il tempio Tsurugaoka a Kamakura, dedicato a Hachiman, il nume tutelare dei
Minamoto, diventarono famosi luoghi di culto. Persino le sette di Nara, ormai in declino, diedero nuovi segni di
vita. Inoltre, con la decadenza della corte di Kyoto, i monasteri buddisti sparsi per tutto il Giappone
acquistarono sempre maggiore importanza come centri artistici e culturali.
Questa rinascita del buddismo ebbe il suo riflesso nell’arte; il 13° secolo conobbe infatti una seconda grande
fioritura della scrittura buddista.

Il crollo del sistema di Kamakura


Il sistema politico creato da Yoritomo, per quanto meno centralizzato e organizzato del governo di Nara, diede
probabilmente al Giappone una direzione più efficiente ed ebbe sicuramente una forza militare molto superiore.
Nel 13° secolo, la produzione agricola era aumentata considerevolmente, le vie di comunicazione migliorate e il
commercio e le manifatture in netta espansione; l’intera economia aveva raggiunto un livello molto alto, rispetto
al passato, e grande era stato il progresso culturale della nazione.
Una rapida crescita culturale, politica ed economica caratterizzò inoltre le successive fasi di questo periodo
feudale. Sembra infatti che la decentralizzazione di potere e la diversificazione della società feudale siano stati
dei fattori di sviluppo graduale più efficienti del sistema di controllo politico, basato su un’organizzazione più
complessa. D’altra parte, il sistema politico feudale, che si fondava su legami personali di lealtà, era mal
preparato a sostenere i mutamenti economici e sociali resi possibili proprio dalla sua meno rigida
organizzazione. L’instabilità politica fu, infatti, un elemento caratteristico del Giappone.

Il declino dello shogunato


Anche se il sistema di Kamakura dimostrò di poter regire meglio dei suoi successori alla sfida rappresentata dai
mutamenti storici, esso si trovò in serie difficoltà quando già un secolo dopo la sua fondazione. Il suo declino
presenta alcune delle caratteristiche del ciclo dinastico cinese. L’energia e la coesione dei fondatori del sistema
scemarono via via con le successive generazioni. La giustizia venne amministrata con maggiore lentezza e
minor rigore, mentre in seno alla famiglia Hojo si moltiplicarono i contrasti. La tradizionale importanza attribuita
dai guerrieri del Kanto alla semplicità dei costumi e alla frugalità scomparve, in parte a causa dei sempre più
frequenti contatti con il lusso della corte di Kyoto. La permanenza dei guerrieri in questa città, lo stabilirsi a
Kamakura dei nobili Fujiwara e in seguito dei principi imperiali con il titolo di shogun, portò naturalmente a una
fusione delle due società ed ebbe conseguenze negative per i guerrieri, il cui amore per il lusso della corte non
si conciliava con le effettive disponibilità finanziarie.
Comunque, le principali ragioni del declino dello shogunato di Kamakura si possono semplicemente ridurre a
due sole, la crescita stessa del regime e l’usura del tempo. La lealtà dei vassalli, che aveva permesso di
superare la crisi provocata dalla estinzione della famiglia di Minamoto, cominciò a scemare col passare delle
generazioni. La devozione personale dei membri della vecchia cricca guerriera di Yoritomo difficilmente poteva
essere eguagliata dalla lealtà dei loro discendenti verso i suoi insignificanti successori.

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Ciò che restava della loro lealtà venne ulteriormente indebolito dalle invasioni mongole, giacché molti di essi
furono soggetti per anni a pesanti obblighi militari e alla fine non vi fu un bottino, nella forma di tenute o di
intendenze, da ripartire tra i vincitori, come sarebbe invece accaduto nel caso di una guerra interna.
L’impoverimento dei dipendenti costituiva un problema altrettanto grave. Durante il secolo di pace interna, che
seguì la breve guerra dello Shokyu del 1221, la classe dei guerrieri crebbe molto più rapidamente del suo
reddito. Poiché il feudalesimo giapponese non aveva ancora adottato un sistema di primogenitura, spesso i
patrimoni venivano divisi tra numerosi figli, ciascuno dei quali ereditava però tutte le prestazioni militari che il
padre aveva corrisposto al governo di Kamakura. Gli shiki di intendente, che potevano fornire un cospicuo
reddito a un vecchio dipendente di Yoritomo, risultavano probabilmente insufficienti se divisi tra i suoi numerosi
discendenti. Per molti dipendenti fu quindi difficile provvedere al proprio sostentamento durante i periodici
servizi di guardia. Di conseguenza, molti si indebitarono e furono costretti a impegnare i loro diritti sui latifondi.
Con l’allentarsi dei legami di lealtà verso il governo di Kamakura e con il generale impoverimento della classe
dei dipendenti alcuni tra i guerrieri locali più fori e ricchi acquistarono via via una posizione di preminenza; da
questi capi i guerrieri minori cominciarono a dipendere economicamente e militarmente e con essi strinsero
nuovi legami di fedeltà. Dopo quattro o cinque generazioni la vecchia cricca di Kamakura si era troppo
ingrandita ed estesa nello spazio per poter continuare a reggersi saldamente come gruppo omogeneo;
cominciò quindi a disgregarsi in un gran numero di unità locali più piccole e compatte.
Alcuni dei nuovi capi erano stato in origine semplici intendenti, ma più spesso protettori provinciali ereditari
nominati dal governo di Kamakura. Poiché costituivano la sola autorità provinciale efficiente, costoro poterono
facilmente rafforzare la loro posizione mentre gli intendenti si impoverivano.
Gradualmente questi capi locali finirono per formare una nuova classe di signori feudali che si collocarono in
una posizione intermedia tra lo shogun e i suoi dipendenti e divennero così i precursori dei signori terrieri noti in
seguito col nome di daimyo, termine che letteralmente significa “grande nome” e che derivava dai “campi del
nome”, uno dei tipi di proprietà privata che costituivano le tenute.

Il tentativo di restaurazione imperiale di Go-Daigo


Nel 1333, l’indebolito sistema di Kamakura cadde vittima di uomini di questo gruppo, che erano stati un tempo i
suoi principali sostenitori. Comunque, la guerra che provocò la fine dello shogunato, si presentò, almeno in
origine, come una sfida della vecchia corte imperiale al governo feudale. Alla fine del secolo 11 gli imperatori
Go-Sanjo e Shirakawa avevano cercato di strappare il controllo della corte ai Fujiwara. Go-Daigo, salito al trono
nel 1318 all’età di 30 anni e quindi nella sua piena maturità, accarezzò la stessa idea anacronistica ossia
l’effettivo controllo del governo da parte dell’imperatore.
Due fratelli di sangue imperiale, Go-Fukakusa (1246-1259) e Kameyama (1259-1274), insieme ai loro rispettivi
discendenti, entrarono in conflitto per stabilire quale dei rami dovesse essere considerato il principale. Lo
shogunato fu coinvolto nella disputa e favorì una politica di avvicendamento al trono dei due gruppi. Go-Daigo,
nipote di Kameyama, era tuttavia deciso a mantenere la successione nell’ambito del proprio ramo e a
controllare la corte come imperatore regnante. Già nel 1324 le sue ambizioni lo coinvolsero in una serie di
complotti contro Kamakura; nel 1331, quando lo shogunato tentò di costringerlo ad abdicare in favore di un
membro del ramo rivale, egli scatenò una rivolta su vasta scala (detta guerra del Genko dal “periodo annuo”);
ma l’insurrezione, lungi dal realizzare gli obiettivi dell’imperatore, segnò l’inizio di un prolungato periodo di
guerre che avrebbero distrutto gran parte della ricchezza e del prestigio che ancora rimanevano alla corte,
rendendo in tal modo impossibile una effettiva restaurazione imperiale.
Go-Daigo, comunque, ebbe all’inizio un considerevole successo. I grandi monasteri del distretto della capitale
gli diedero il loro appoggio contro lo shogunato, mentre l’adesione alla sua causa di alcuni importanti militari
locali fu uno dei primi sintomi della disgregazione della cricca fondata da Yoritomo. Le forze inviate dal Kanto
per soffocare la rivolta riuscirono a catturare Go-Daigo, che fu esiliato nell’isola di Oki.
Da ogni parte del Giappone altri uomini si unirono alla rivolta, quasi sempre attratti dalla prospettiva di
ricompense in caso di vittoria. All’inizio del 1333, Go-Daigo fuggì da Oki e il generale di Kamakura, inviato a
catturarlo, passò improvvisamente dalla sua parte impadronendosi di Kyoto in nome dell’imperatore. Questo
generale, Ashikaga Takauji, in quanto discendente in linea collaterale col ramo Seiwa dei Minamoto, sperava di
eliminare gli Hojo e di impadronirsi della carica di shogun. Quasi nello stesso tempo anche nel Kanto scoppiò

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una rivolta. Nitta Yoshisada, un altro eminente discendente dei primi capi Minamoto, marciò su Kamakura e
distrusse gli Hojo e il loro governo.
Quando Ashikaga Takauji e Nitta Yoshisada, i due principali responsabili della distruzione del potere degli Hojo,
entrarono in conflitto nel Kanto nel 1335 e la corte si schierò dalla parte di Yoshisada, Takauji si volse contro
Go-Daigo; alla fine, eliminò Yoshisada e nel 1336 si impadronì di Kyoto, innalzando al trono un nuovo
imperatore del ramo rivale e facendo quindi prigioniero Go-Daigo sul monte Hiei; quest’ultimo riuscì comunque
a fuggire mettendosi sotto la protezione dei suoi partigiani, che stabilirono la loro capitale a Yoshino sulle
montagne a sud di Nara.

Lo shogunato Ashikaga
Il Giappone aveva ora due corti imperiali rivali: una a nord, a Kyoto, e l’altra a sud, a Yoshino. Takauji tentò
comunque di riunificare il paese secondo lo schema feudale, ossia ricostituendo lo shogunato. Egli si era
proclamato shogun nel 1338, fondando una famiglia shogunale che avrebbe poi mantenuto il potere fino al
1573. Tuttavia, lo shogunato, o Bakufu, Ashikaga, fu a tal punto diverso da quello di Yoritomo da rappresentare
in realtà una seconda grande fase nello sviluppo del feudalesimo giapponese.
Una delle differenze dello shogunato di Kamakura consiste nel fatto che gli Ashikaga non esercitarono mai un
controllo effettivo su tutto il Giappone. In secondo luogo, la massa dei guerrieri giapponesi non era più
considerata come un unico gruppi di dipendenti personali dello shogun Ashikaga. Al contrario, era ormai
riconosciuta la divisione della classe dei guerrieri in un certo numero di gruppi separati di signori e vassalli. Il
problema degli Ashikaga era quindi quello di stabilire qualche forma di controllo su questi signori più che sulla
classe dei guerrieri in generale.

Gli organi di governo


Le forme esterne rendevano lo shogunato Ashikaga simile a quello di Yoritomo, ma la realtà era ormai diversa.
Takauji e i suoi eredi occuparono la carica di shogun, ma trasferirono la capitale da Kamakura a Kyoto. A
differenza dei Minamoto, alcuni di loro assunsero anche alti uffici nella amministrazione civile. Il terzo shogun,
Yoshimitsu (1368-1394), riuscì a salire dalla carica di Ministro Interno, nel 1381, a quella di Ministro della
Sinistra e alla fine, quando abbandonò lo shogunato nel 1394, diventò Gran Ministro di stato.
La stessa struttura amministrativa del governo di Kamakura, ossia un Consiglio amministrativo, un Consiglio dei
dipendenti e un Consiglio di inchiesta, funzionò sotto il controllo dello shogun e del suo amministratore. Inoltre,
già nel 1336, Takauji emanò un complesso di leggi che completavano il Codice Joei di Kamakura. Si tratta del
Codice Kemmu (così chiamato dal “periodo annuo”), che stabiliva la nuova sede del governo e ne descriveva i
modificati organi amministrativi.

Lo shogun e i suoi vassalli


Malgrado questa imponente sovrastruttura, gli Ashikaga non governarono mai effettivamente tutto il Giappone
e neppure gran parte di esso. Lo shogun riprese il sistema, adottato dal governo di Kamakura, di nominare
protettori provinciali, ma molte di queste nomine, specialmente nelle regioni più lontane, si ridussero a poco più
di un riconoscimento dell’effettivo controllo che taluni signori già esercitavano nelle rispettive zone. Tali nomine
non rappresentavano comunque una ricompensa di precedenti servigi e non implicavano quindi una promessa
di lealtà, come al tempo di Yoritomo.
Nel tentativo di ottenere il pieno appoggio dei suoi vassalli, Takauji decretò che metà delle rendite dei grandi
proprietari terrieri andasse alla classe militare. Questo notevole aumento della vecchia tassa di Kamakura,
detta “riso dell’intendenza”, inferse un serio colpo ai proprietari, ma non si risolse in un accrescimento delle
finanze e del potere dello shogunato, in quanto, la maggior parte delle nuove entrate finì nelle mani dei signori
lovali. In effetti, la posizione finanziaria degli Ashikaga non fu mai molto forte, poiché essi dovettero dipendere
quasi esclusivamente dalle loro terre o dalle tasse sul commercio che riuscirono a imporre nelle vicinanze di
Kyoto.
Gli Ashikaga non riuscirono mai a ottenere dai loro supposti vassalli più di una lealtà formale e, in generale, non
ebbero nemmeno la possibilità di ridurli all’obbedienza. Il potere militare che gli Ashikaga riuscirono ad

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esercitare dipese comunque in larga misura dall’appoggio più o meno volontario dei cosiddetti vassalli, che in
pratica non erano altro che alleati.
Durante il periodo Ashikaga le figure-chiave non furono fli shogun, bensì i signori locali (noti in seguivo come
daimyo). Lo sviluppo di questo gruppo e dei suoi centri di potere, nel corso dei secoli 14 e 15, fu un lungo e
lento processo con molte varianti da una regione all’altra. Al tempo del crollo del regime di Kamakura, molti
capi militari locali avevano già acquistato tale potere sugli intendenti delle vicinanze e sui guerrieri minori da
essere in grado, ogni qualvolta cambiavano schieramento, di trascinare con sé i seguaci di questi ultimi fu
questa in realtà la ragione fondamentale del crollo improvviso degli Hojo. Alla fine, con una accurata
amministrazione delle pene e delle ricompense, alcuni di questi capi riuscirono a trasformare i militari che si
trovavano nella loro sfera di influenza in vassalli diretti o in “vassalli ultimi”, ossia vassalli dei loro vassalli
principali. Ma fu un processo che richiese molte generazioni.
Diminuendo l’efficienza del governo centrale, l’autorità locale cominciò a ridursi sempre più a un puro rapporto
di forza. Di conseguenza, durante tutto il periodo Ashikaga si assistette ad avvicendamenti continui nei legami
di fedeltà, e non di rado vassalli, spesso di oscura origine, si innalzarono fino a prendere il posto ei loro antichi
signori. Il rapporto signore-vassallo tendeva quindi a essere un rapporto instabile, ad onta della assoluta lealtà
che avrebbe dovuto unire il vassallo al signore.
Date le circostanze, la solidarietà familiare diventata un imperativo.
Una famiglia di guerrieri non poteva più permettersi di dividere il patrimonio né tollerare che le donne
sottraessero la loro parte. In questa società militare, la donna venne alla fine esclusa dai diritti ereditari e
relegata in quella condizione socialmente e giuridicamente inferiore. Per consolidare il patrimonio e il potere
della famiglia nel corso delle successive generazioni, divenne inoltre necessario l’istituto della primogenitura.
Nell’Europa feudale, il figlio maggiore ereditava la posizione e il patrimonio del padre; in Giappone, quest’ultimo
si riservava invece il diritto di scegliere come erede un qualsiasi figlio o, nel caso non ne avesse, di ricorrere
all’adozione. In ogni caso, qualunque fosse l’origine dell’erede, durante il periodo Ashikaga si stabilì la
consuetudine secondo la quale un solo figlio, naturale o adottivo, poteva ereditare la posizione del padre e la
maggior parte se non tutti i suoi averi.

I periodi di Yoshino e Muromachi


La debolezza dello shogunato Ashikaga e l’instabilità dei gruppi basati sul rapporto signore-vassallo, fecero di
questi anni un ininterrotto periodo di guerre. Dal 1336 al 1392, molti conflitti furono provocati dalla rivalità dei
due rami imperiali di Yoshino e Kyoto.
La maggior parte di coloro che parteciparono a queste guerre non furono probabilmente spinti dalla devozione
a uno dei rami imperiali; l’esistenza di due fonti di autorità legittima in lotta tra loro offriva ai militari ambiziosi
ampie opportunità di perseguire interessi particolari con la forza delle armi, apparentemente a favore di uno dei
contendenti. Molti dei combattenti si comportarono con basso opportunismo, come aveva fatto Takauji nel
1333, e quasi tutti una volta o l’altra cambiarono schieramento.
Go-Daigo morì nel 1339, ma la lotta continuò ancora per mezzo secolo. Takauji, che visse fino al 1358, non
riuscì mai a stabilizzare la situazione nemmeno nelle immediate vicinanze della capitale. Il suo stesso fratello
prese infine le armi contro di lui.
Svanì alla fine la illusoria speranza di una restaurazione del governo imperiale e le due parti si esaurirono nella
lotta. Il terzo shogun, Yoshimitsu (1368-1394, morto nel 1408) riuscì a stabilire il suo controllo militare su buona
parte del paese e nel 1392 poté infine convincere il ramo “meridionale” a rientrare a Kyoto, accettando il
ripristino della politica di avvicendamento al trono dei due rami imperiali, in vigore prima che Go-Daigo
sconvolgesse il sistema. Ma gli Ashikaga non rispettarono il compromesso.
Il governo Ashikaga, che si stabilì dopo la riunificazione delle due corti imperiali nel 1392, viene generalmente
chiamato shogunato Muromachi, dalla zona nella parte nordoccidentale di Kyoto dove in questo periodo
risiedettero gli shogun. Durante i ¾ di secolo che seguirono, gli Ashikaga si sforzarono di mantenere in qualche
modo la pace e l’ordine a Kyoto e nelle vicinanze, ma in pratica non riuscirono a impedire le guerre locali,
neppure nel distretto della capitale, né a esercitare un effettivo controllo sui vassalli più lontani o potenti.
Ciononostante, gli anni tra il 1392 e il 1467, quando le ostilità scoppiarono nuovamente su vasta scala in tutto il

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Giappone, furono il solo periodo durante il quale gli shogun Ashikaga diedero in qualche modo l’impressione di
governare il paese.

La crescita economica del Giappone feudale


Si potrebbe pensare che l’estrema decentralizzazione politica e il costante stato di guerra che caratterizzarono
il periodo Ashikaga arrestassero anche lo sviluppo economico del paese, provocando magari una involuzione;
al contrario, si trattò di un periodo di rapida crescita. La grande espansione delle attività artigianali è una prova
sia dei progressi tecnologici che del miglioramento del livello di vita. Importanti innovazioni tecnologiche si
ebbero anche nel settore dell’agricoltura, dove, a quanto sembra, la produzione per acro venne raddoppiata e
in molte regioni del paese persino triplicata. Il sistema feudale in via di sviluppo si rivelò insomma per
l’economia un elemento di grande stimolo.
I signori locali in ascesa, sottoponendo al loro controllo numerose tenute fino a quel momento economicamente
indipendenti, accrebbero considerevolmente le dimensioni delle unità economiche locali, incoraggiando in tal
modo un più vasto scambio di merci. I mercati, che si tenevano solitamente ogni “settimana” di 10 giorni, si
svilupparono sotto la protezione di questi capi feudali.
La prova più evidente di questa espansione economica fu il graduale passaggio, tra il 12 e 15 secolo, dal
baratto all’uso della moneta nelle transazioni commerciali.
Uno dei primi sintomi dello sviluppo di un’economia monetaria fu, verso la fine del periodo di Kamakura, il
crescente aumento dei debiti contratti dalla classe degli intendenti presso gli usurai, tra i quali si annoveravano
alcuni dei più ricchi guerrieri e anche templi buddisti.

Il sistema degli “za”


Naturalmente, la confusione politica e lo stato di guerra non contribuivano alla crescita del commercio; inoltre,
pesanti restrizioni venivano imposte dalle molte autorità feudali, tutte desiderose di erigere barriere per tassare
il commercio che attraversava i loro domini. I mercanti medievali, tuttavia, riuscirono a superare questi ostacoli
formando associazioni conosciute col nome di Za, specializzate nella produzione e nel trasporto di merci come
la carta, sake, oli vegetali, sale, oppure in certe attività commerciali o professioni come quelle del carpentiere,
fabbro, danzatore o attore. Il loro obiettivo fondamentale era quello di ottenere diritti di monopolio locale per la
produzione e il trasporto di talune merci o per l’esercizio di determinate professioni. Mediante il pagamento di
una data somma, uno Za poteva ottenere dalle autorità esistenti nella sua zona di operazioni non soltanto il
riconoscimento ufficiale e la protezione, ma anche l’esenzione dai dazi.
Esso dava agli artigiani, ai mercanti e ai membri delle professioni più umili una libertà e uno status sociale.
Ora, essi potevano disporre di organizzazioni indipendenti, qualificate a entrare in rapporti contrattuali con le
maggiori autorità feudali. Gli Za, che erano il prodotto di una economia in evidente espansione, stimolarono
ulteriormente la crescita economica.
Le origini degli Za risalgono al 12° secolo, ma essi non diventarono un elemento dominante nell’economia che
nel periodo Ashikaga. Molti sorsero sotto il patrocinio dei santuari dello shinto e dei templi buddisti. A Kyoto,
che malgrado le vicissitudini attraversate durante il periodo feudale continuava a essere una città di alcune
centinaia di migliaia di abitanti ed era il principale centro industriale e commerciale, gli Za operarono spesso
sotto la protezione di ciò che restava della vecchia amministrazione civile, contribuendo col pagamento delle
imposte al mantenimento della aristocrazia di corte, che aveva in ciò la sua principale fonte di reddito.

Lo sviluppo delle città


Il progresso economico del periodo Ashikaga portò, nel 15° e 16° secolo, allo sviluppo di molte città, alcune
delle quali, a differenza delle antiche città del Giappone, furono unicamente dei centri commerciali e non delle
capitali politiche. Le nuove città commerciali crebbero in prossimità dei porti, delle stazioni di posta sulle strade
principali e dei luoghi di mercato, oppure intorno ai maggiori templi, che non solo attiravano pellegrini ma
costituivano spesso centri importanti di attività economica.
Un’altra importante categoria è rappresentata dalle “città castello”.
Agli inizi del 14° secolo i capi militari locali proteggevano le loro basi con fortezze situate in luoghi inespugnabili
sulle montagne; in seguito, col consolidarsi dei loro domini, cominciarono a sorgere roccheforti in punti

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strategici vicino al centro dei domini stessi, su piccole colline o in zone pianeggianti. Nel 16° secolo, le città si
svilupparono intorno ai castelli che godevano della posizione più favorevole e che quindi diventarono
naturalmente i centri della attività economica nelle rispettive zone di dominio militare.
Gli abitanti delle città castello, come del resto quelli dei centri puramente commerciali, godevano spesso di un
considerevole grado di autonomia nella gestione dei loro affari locali.

Il commercio d’oltremare e la pirateria


Uno dei più chiari indici del rapido sviluppo dell’economia durante il periodo feudale fu l’aumento del commercio
con l’estero; il Giappone finì infatti per avere una parte predominante nel grande commercio marittimo che si
svolgeva lungo le coste dell’Asia fin dal secolo 8°. Alla fine del secolo 11°, le navi giapponesi avevano
cominciato ad approdare alle coste coreane; un secolo dopo iniziarono i viaggi in Cina.
Nel corso del 13° secolo i commercianti giapponesi intensificarono le loro attività all’estero. Sembra che il
Grande Budda di Kamakura sia stato in parte finanziato da questo commercio, e i monaci Zen, molti dei quali
erano cinesi o avevano visitato la Cina, favorirono attivamente i contatti con il continente.
Le attività commerciali d’oltremare dei giapponesi spesso si risolvevano in atti di pirateria. Questo era in un
certo senso un sintomo della feudalizzazione dell’economia giapponese. Se si eccettuano i monaci Zen, i
principali organizzatori delle spedizioni commerciali all’estero furono i signori feudali del Giappone occidentale,
mentre gli uomini delle loro navi erano generalmente guerrieri oltre che marinai o commercianti. Di
conseguenza, se le autorità cinesi o coreane non permettevano l’esercizio del commercio o se non si
realizzavano i guadagni previsti, i giapponesi mettevano prontamente mano alle armi per assicurare il successo
economico della spedizione.
In effetti, la pirateria si rivelò più uno stimolo che un impedimento per il commercio internazionale; questo
perché i governi cinese e coreano consideravano il commercio con l’estero come una attività essenzialmente
indesiderabile. Di conseguenza, fu spesso necessario ricorrere all’uso o alla minaccia delle spade giapponesi
per aprire i porti continentali a uno scambio di merci degno di qualche considerazione.
I mercanti-pirati giapponesi, noti col nome di Wako o “predoni giapponesi”, cominciarono a percorrere le acque
coreane nel 13° secolo; un secolo dopo le loro razzie avevano raggiunto proporzioni rilevanti.
Una flotta inviata dai coreani nel 1419 per distruggere i pirati fallì completamente lo scopo. Comunque, l’attività
dei pirati diminuì gradualmente dopo il 1443, quando i coreani firmarono un trattato con il rappresentante del
Kyushu e con i So, signori di Tsushima, che prevedeva l’approdo di 50 navi mercantili all’anno, numero che
venne aumentato in seguito, mentre i giapponesi ottennero anche il diritto di mantenere rappresentante
permanenti in 3 porti della Corea del Sud.

Il commercio con la Cina mediante il sistema dei contrassegni


Nel corso del 14° secolo i commercianti-pirati giapponesi incominciarono a operare lungo la costa cinese. Le
loro razzie costrinsero il primo imperatore Ming a tentare di controllare il Giappone mediante il sistema del
tributo, ma i suoi sforzi non portarono a risultati concreti, in parte a causa dello stato di guerra e della divisione
dell’autorità in Giappone. Comunque, dopo la riunificazione dei due rami imperiali nel 1392, Yung-lo, terzo
imperatore Ming, riuscì a indurre Yoshimitsu, terzo shogun Ashikaga, a stabilire formali relazioni tributarie con la
Cina; era la prima volta che ciò avveniva dopo la fine delle ambascerie presso i T’ang nel secolo 9°. Nel 1404
venne stipulato un accordo in base al quale i giapponesi avrebbero inviato in Cina una missione, formata da
due navi, ogni 10 anni. I contrassegni staccati dalle matrici rappresentavano le credenziali di una missione e
servivano a evitare che commercianti privati o pirati si dichiarassero ambasciatori giapponesi.
Ovviamente i cinesi erano spinti dal desiderio di vedere riconosciuta la loro signoria e dalla speranza di
eliminare la pirateria giapponese mediante un commercio controllato; per il resto essi attribuivano ben poco
valore a questi contatti. I giapponesi, dal canto loro, erano spinti esclusivamente dalla prospettiva del profitto
economico; lo shogunato era ben lieto di tentare di monopolizzare il lucroso commercio con la Cina. A questo
scopo, Yoshimitsu era pronto a proclamarsi “Re del Giappone” e “suddito” dei Ming; infatti, egli e molti sei suoi
successori assunsero un atteggiamento assai umile nei confronti della corte cinese, ricevendone gli inviati con
manifestazioni di grande deferenza.

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La grande influenza, esercitata alla corte Ashikaga dei monaci Zen, che erano in contatto con la Cina, aveva
inoltre contribuito a circondare di grande prestigio la cultura cinese. Di conseguenza la signoria nominale della
Cina venne riconosciuta dagli Ashikaga senza la riluttanza dei capi politici che li precedettero e li seguirono.
Il commercio con il sistema dei contrassegni non corrispose tuttavia alle aspettative degli Ashikaga, né del
resto a quelle dei Ming. Sembra che i giapponesi abbiano inviato, tra il 1404 e il 1410, 6 ambascerie invece
dell’unita prescritta dall’accordo, ma i cinesi non mossero obiezioni per non creare incidenti.
Inoltre, le autorità cinesi non sempre riuscirono a controllare i turbolenti guerrieri giapponesi, specialmente
quando questi non erano disposti ad accettare le condizioni stabilite; con l’indebolirsi del prestigio degli
Ashikaga, il commercio privato divenne quindi sempre più fiorente e la pirateria dilagò.
Le spedizioni effettuate dopo il 1432 non potevano neppure dirsi ambascerie shogunali, in quanto alcune delle
navi erano finanziate da monasteri, da famiglie feudali rivali o anche da mercanti.
Le esportazioni giapponesi comprendevano molte materie prime, come lo zolgo, il rame e i legni pregiati dei
tropici. I prodotti lavorati avevano maggiore importanza e infatti il grosso delle esportazioni era costituito da
spade e lance. Il governo cinese tentò di sopprimere questo traffico di armi, ma le spade giapponesi, di qualità
superiore, erano molto richieste in Cina.

La cultura Zen del periodo Ashikaga


Durante il periodo Ashikaga, alla crescita economica si accompagnarono brillanti sviluppi culturali. Il
trasferimento dello shogunato a Kyoto sembra aver prodotto una fusione completa ed estremamente produttiva
della tradizionale raffinatezza della corte con il vigore delle classi più dinamiche recentemente sorte dal
feudalesimo. I contatti sempre più frequenti con la Cina portarono alla introduzione di nuove influenze esterne,
che ebbero effetti assai stimolanti su una civiltà ormai interamente nipponizzata.
I monaci Zen, che dominavano i contatti con il continente, furono naturalmente i principali trasmissori delle
nuove influenze provenienti dalla Cina. Inoltre, essi contribuirono in tale misura a delineare i nuovi sviluppi
culturali interni che l’intero periodo Ashikaga può essere considerato come un’età di cultura Zen. I monaci
furono infatti tra gli studiosi, gli artisti e gli scrittori più importanti di questo periodo e spesso divennero arbitri del
gusto estetico alla corte shogunale. Essi occuparono anche altre cariche politiche, come consiglieri del
governo, organizzatori delle spedizioni in Cina e estensori dei messaggi degli shogun agli imperatori Ming,
mostrando spesso una completa padronanza delle forme di composizione cinese.
Sebbene acquistasse una posizione egemonica alle corti shogunale e imperiale, lo Zen non riuscì mai a
soverchiare le sette rivali. I movimenti fideistici popolari continuarono la loro spettacolare ascesa tra la
popolazione e i grandi complessi monastici delle più antiche sette conservarono fino al 16° secolo il loro potere
militare e la loro influenza economica in quanto proprietari di vaste tenute e istituti di prestito. La setta Tendai e
le altre sette più antiche erano tuttavia ormai in una fase di decadenza intellettuale e di corruzione religiosa.
In contrasto con la decadenza interna delle vecchie sette, i monasteri Zen recentemente sorti diedero prova di
grande vigore intellettuale e religioso e di notevole forza creativa nel campo artistico. 5 monasteri a Kyoto e altri
5 a Kamakura vennero ufficialmente riconosciuto e posti sotto l’autorità del grande Nanzenji. Questi monasteri
Zen hanno svolto una funzione così importante sul piano culturale che ad alcuni aspetti della cultura Ashikaga è
stata attribuita la denominazione di Gozan o “Cinque Monasteri”:
nella storia giapponese gli shogun Ashikaga, che contribuirono a unificare la classe dei guerrieri, la vecchia
cultura di corte e le nuove influenze provenienti dalla Cina, ebbero in effetti una funzione più importante sul
piano culturale che su quello politico. Questo vale in particolare per Yoshimitsu (1368-1394, morto 1408) e per
Yoshimasa (1443-1473, morto nel 1490), rispettivamente terzo e ottavo shogun. Ai monaci Zen e agli artisti,
agli studiosi e ai letterati che lavorarono alla loro corte siamo debitori di molte delle più alte opere della cultura
Ashikaga.
Dopo aver abbandonato la carica di shogun per prendere gli ordini buddisti, nel 1397 Yoshimitsu si fece
costruire come residenza il Padiglione d’Oro (Kinkakuji) nei sobborghi nordoccidentali di Kyoto. Yoshimasa,
dieci anni dopo il ritiro, avvenuto nel 1473, si fece costruire il Padiglione d’Argento (Ginkakuji) sulle colline
orientali di Kyoto.
Durante l’ultima fase del periodo Ashikaga, in ogni regione del Giappone i signori feudali cominciarono anche a
raccogliere intorno a sé studiosi e artisti laici e dello Zen.

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La cultura Zen del periodo Ashikaga non può essere adeguatamente descritta, come non è possibile tentare di
riassumere la sua filosofia; essa può essere compresa soltanto attraverso una esperienza estetica diretta.
Questa cultura scaturiva da due fonti distinte: la prima, rappresentata dalla filosofia Zen e dalle arti ad essa
collegate, come si erano andate sviluppando nella Cina dei Sung; la seconda, dalla delicata sensibilità,
dall’impressionismo e dall’amore per la forma e il rituale tipici della tradizione estetica indigena. Nella cultura
Ashikaga la concezione originariamente taoista dell’identità dell’uomo con la natura e la ricerca Zen di una
comprensione intuitiva dei principi fondamentali dell’universo sembrano amalgamarsi con la sensibilità dei
giapponesi per le bellezze della natura.
La cerimonia del tè è una delle espressioni più tipiche della cultura Zen del periodo Ashikaga. Vi partecipa un
ristretto gruppo di persone che hanno il gusto dell’arte in una stanza semplice e spoglia, vicina alle bellezze
della natura. Il tè viene preparato e servito con movimenti lenti, aggraziati, quasi ritmici e viene
cerimoniosamente bevuto a piccoli sorsi da un recipiente comune.

L’arte della disposizione dei giardini


Un elemento importante del Padiglione d’Oro e del Padiglione d’Argento erano i giardini che li circondavano, i
laghetti, gli alberi, i cespugli e le pietre che, non meno degli edifici, costituivano parte integrante del disegno
generale. In effetti, l’adesione alla natura portava gli artisti Zen ad attribuire quasi maggiore importanza
all’ambiente naturale. Sotto la loro influenza la disposizione dei giardini fu inclusa in Giappone tra le belle arti.

I “no”
L’espressione più originale e significativa della letteratura del periodo Ashikaga fu il No, le cui origini risalivano
alle danze simboliche eseguite alla corte imperiale; con accompagnamento musicale, sin dal periodo di Nara e
ad analoghe rappresentazioni mimiche che si svolgevano tra la popolazione. Nel 14° secolo queste danze si
trasformarono in semplici rappresentazioni teatrali che, evolvendosi ulteriormente, diedero origine ai No presso
la corte di Yoshimitsu.
La rappresentazione avviene su una scena piuttosto spoglia con due attori principali, il protagonista e un
comprimario, che indossano costumi elaborati e portano maschere che sono delle raffinate opere d’arte. In
modo tipicamente giapponese, gli attori suggeriscono emozioni più che manifestarle. Il culmine della
rappresentazione viene raggiunto con una danza drammatica eseguita dal protagonista. Per quanto riguarda il
contenuto, i No si riferiscono generalmente agli dei dello shinto o a celebri figure della storia buddista o profana
e in genere insistono su talune concezioni del buddismo.

Il tardo periodo Ashikaga


La debolezza dell’autorità politica centralizzata durante il periodo Ashikaga sembra in netto contrasto con la
crescita economica e lo splendore culturale del tempo; in realtà si stavano gettando allora le basi di una più
rigida forma di governo centralizzato. Il crescente potere dei signori locali sprofondava spesso l’intera nazione
in una virtuale anarchia, ma furono proprio i loro domini a costituire il principio di un governo locale assai più
efficiente. Nel tardo periodo Ashikaga le unità locali erano divenute le fondamenta su cui era possibile edificare
una struttura politica più stabile.

La guerra dell’Onin e le sue ripercussioni


Durante tutto il periodo Ashikaga costane fu l’evoluzione delle istituzioni feudali e delle forme sociali ed
economiche ad esse collegate, ma i mutamenti divennero tuttavia molto più rapidi dopo il rollo finale
dell’autorità centralizzata che si ebbe nel 1467 dopo lo scoppio del grande conflitto chiamato, dal periodo
annuo, la Guerra dell’Onin. Una disputa sorta a proposito dell’erede scelto dall’ottavo shogun, Yoshimasa
(1443-1473), e una lunga serie di lotte per la successione avevano avvelenato i rapporti tra gli Shiba e gli
Hatakeyama, due delle famiglie in seno alle quali veniva scelto l’amministratore dello shogun, fornirono il
pretesto a due potenti rivali militari per il definitivo regolamento dei conti. Essi erano Hosokawa Katsumoto,
amministratore dal 1452 al 1464, e Yamana Mochitoyo. Da ogni parte del Giappone i signori feudali si
gettarono con accanimento nella mischia tentando di ottenere vantaggi locali a danno dei propri rivali. Entrambi

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i capi delle fazioni morirono nel 1473 e la guerra giunse a un punto morto concludendosi nel 1477, ma la zona
della capitale era stata completamente devastata e lo shogunato aveva perduto la propria forza politica.
La guerra dell’Onin fu comunque soltanto l’inizio di un secolo di conflitti senza parti nella successiva storia
giapponese. Con la scomparsa degli ultimi resti del potere centralizzato divamparono in tutto il paese le guerre
locali. Molti di questi conflitti non ebbero nulla a che vedere con lo shogunato, ma alcuni di quelli scoppiati nella
zona della capitale manifestarono chiaramente la loro natura di lotte di successione in seno alla famiglia
Ashikaga. Questa fase finale dello shogunato Ashikaga è stata chiamata, età degli “Stati Combattenti”
(Sengoku). Dopo il 1467 il controllo dello shogun sul paese si ridusse rapidamente a un mito quasi altrettanto
vuoto quanto quello del governo imperiale. Lo shogunato divenne una forza così insignificante che la virtuale
deposizione dell’ultimo shogun Ashikaga nel 1573, passò quasi inosservata nel resto del paese.

I daimyo e i loro domini


Il completo declino del potere shogunale durante l’ultimo secolo del periodo Ashikaga fu il riflesso dell’ascesa
dei signori locali, i quali, a partire da questo momento, possono essere chiamati daimyo. I domini governati da
queste famiglie signorili avevano già cominciato a costituirsi agli inizi del 14° secolo e avevano assunto la loro
forma definitiva nel 16°. In questo periodo, i daimyo più forti erano diventati dei signori assoluti nell’ambito dei
rispettivi domini, che essi amministravano in base alle “leggi della (loro) casa” compilate per completare i
vecchi codici Kamakura e Ashikaga. Queste leggi erano in genere estremamente particolareggiate e
caratterizzate da una oppressiva severità. Gli affari privati dei vassalli di un daimyo, come i matrimoni e le
adozioni, erano strettamente controllati, come pure tutti i contatti con gli altri domini. Le pene erano barbare e
applicate senza pietà. I principali vassalli di un daimyo, preposti a feudi minori, e i piccoli dipendenti ereditari
costituivano a loro volta una distinta classe feudale; ma il daimyo, se gli era possibile, teneva saldamente in
pugno entrambi i gruppi.
Nei confronti delle altre classi del suo dominio, il daimyo del 16° secolo fu ancor più dispotico. I suoi redditi
erano costituiti in primo luogo dalle tasse uniformi e dalle prestazioni di lavoro che egli imponeva ai contadini,
che gli fornivano anche il grosso delle truppe. Se fosse stato un buon governante, egli avrebbe adottato quindi
provvedimenti atti ad aumentare la produttività agricola e il gettito fiscale del dominio e si occupava inoltre con
uguale attenzione del controllo e della tassazione dei mercanti, incoraggiando cioè una attività che costituiva
una notevole risorsa economica e un mezzo di trasporto in tempo di guerra. In tal modo la sua “città castello”
poteva diventare una piccola capitale ed il centro della vita economica della regione. I daimyo più abili potevano
essere considerati ad ogni effetto dei “piccoli re”.
Con l’accrescimento del potere dei daimyo diminuì naturalmente il prestigio e la forza dei membri minori
dell’aristocrazia militare. Questo mutamento si accompagnò al declino del cavaliere, che era stato il principale
elemento di forza del sistema di Kamakura. Per quanto grande fosse il suo valore, il singolo guerriero aveva
perduto ogni importanza di fronte al signore terriero che poteva mobilitare ingenti fanterie tra i suoi vassalli e
contadini.
Acquistando via via l’assoluto controllo delle rispettive zone di predominio militare, i daimyo assorbirono nei loro
territori i resti delle vecchie tenute private. La loro incorporazione nei domini dei signori locali fu infatti un
processo notevolmente lento. L’effettivo controllo di un signore sulle terre esistenti nella sua zona soltanto
gradualmente si trasformò in proprietà di fatto dell’intero territorio, che rimaneva però in teoria un feudo
concesso dallo shogun. Analogamente i tributi imposti dal signore alle tenute della sua zona solo a poco a poco
si mutarono in un sistema uniforme di tassazione, mentre il controllo dell’intendente sulla tenuta che
amministrava e gli shiki che gli derivavano dalla carica non si trasformarono che assai lentamente in un sotto
feudo concesso dal signore locale.
Quando, dopo la guerra di Onin, le tenute scomparvero e si esaurì quindi questa fonte di reddito per
l’aristocrazia di Kyoto, la corte imperiale e i nobili si trovarono naturalmente in serie difficoltà.
La corte non fu più in grado di mantenere imperatori abdicatari; i sovrani rimasero quindi sul trono fino alla
morte. Dal 1500 al 1521 e dal 1526 al 1536 non vi fu nemmeno un imperatore regolarmente insediato giacché
la corte non disponeva dei mezzi necessari per compiere le relative cerimonie. La nobiltà di corte si mantenne
in gran parte con le somme che riceveva dai ricchi membri della classe militare in cambio di onorificenze,
oppure da quelle versate dagli Za di Kyoto che desideravano servirsi della protezione derivante dal prestigio del

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trono. Un imperatore fu persino costretto a guadagnarsi da vivere vendendo esemplari della sua artistica
calligrafia.

La caduta delle antiche famiglie e l’ascesa delle nuove


Mentre i domini dei daimyo si trasformavano in unità politicamente e militarmente più definite, anche l’ostilità
che li divideva si fece più marcata. La disfatta portava quasi sempre all’annientamento delle famiglie; di
conseguenza, le casate feudali si elevarono e decaddero con estrema rapidità durante il 16° secolo. Gli Shiba,
gli Hatakeyama, gli Hosokawa e gli Yamana, che fin dal primo periodo Ashikaga avevano avuto una parte di
primo piano nelle guerre della capitale e nei dintorni, persero ogni prestigio.
Nel Giappone orientale, gli Uesugi, che avevano acquistato una posizione di primo piano all’inizio del periodo
Ashikaga e che alla metà del 15° secolo avevano strappato a un ramo degli stessi Ashikaga il predominio nella
zona del Kanto, nel 1546 furono a loro volta esautorati da un vassallo appartenente a un ramo degli Hojo.
Solo gli Shimazu sopravvissero conservando intatta la loro forza in una roccaforte isolata nell’estemo Sud. Essi
furono così l’unica famiglia feudale che ebbe un ruolo molto importante sia nei tempi medievali che in quelli
moderni.
Alla caduta delle vecchie famiglie si contrappose l’ascesa delle nuove quali gli Hojo e i Mori. I domini dei più
forti daimyo si estesero continuamente dandosi una organizzazione sempre più efficiente; alla fine la potenza e
la forza di uno di essi furono tali da permettergli di riunificare il Giappone e di imporre al paese un governo
molto più centralizzato di quelli esistiti in precedenza.

Sintomi di disgregazione del sistema feudale


In questa fase, sia la proprietà fondiaria che il governo si strutturarono secondo uno schema gerarchico: lo
shogun al vertice; quindi, i suoi vassalli teoricamente infeudati, seguiti dai loro vassalli subinfeudati, e così via
fino ai membri inferiori dell’aristocrazia militare. Nel 16° secolo le fondamenta stesse del sistema feudale
avevano cominciato a sgretolarsi. Gli shogun erano diventati una finzione politica; i daimyo più forti tendevano a
trasformare i loro vassalli e dipendenti militari in una specie di corpo burocratico o di esercito mercenario,
mentre vari gruppi emersi di recente, in teoria al di fuori della struttura del governo feudale, cercavano di
assicurarsi una parte del potere.

La scomparsa delle antiche distinzioni di classe


Una delle ragioni fondamentali di questa disgregazione del sistema feudale fu la scomparsa della distinzione
funzionale, un tempo en netta, tra i guerrieri aristocratici e la popolazione. L’umile fante aveva avuto una
funzione assai importante nelle guerre già agli inizi del periodo Ashikaga; i celebri pirati giapponesi erano nello
stesso tempo commercianti e guerrieri; i mercanti degli Za e i cittadini di Sakai possedevano armi e sapevano
come usarle; i più potenti daimyo non si appoggiavano più unicamente ai guerrieri-dipendenti aristocratici ma
mobilitavano tutte le truppe che i loro domini potevano fornire. I soldati di tali eserciti non potevano in nessun
modo essere definiti aristocratici: essi erano soltanto i membri più bellicosi e avventurosi delle classi inferiori, o
anche dei semplici contadini arruolati forzatamente per un certo periodo.
Il dissolversi della distinzione funzionale tra guerrieri e gente del popolo non fu il solo indice del superamento,
nel 16° secolo, delle barriere di classe esistenti nella vecchia società. L’antica aristocrazia di corte era
praticamente estinta o sopravviveva impoverita, mentre la distinzione tra il “buon popolo” e gli “uomini di bassa
estrazione” in seno alle classi inferiori era completamente scomparsa.
Tuttavia, durante il periodo Ashikaga gli “uomini di bassa estrazione” vennero sostituiti nel gradino più basso
della scala sociale da un piccolo gruppo di Eta, comunemente chiamati “patria”.
A quanto sembra erano di diversa origine; tra loro erano infatti compresi i criminali e gli sconfitti in guerra, ma la
maggioranza proveniva probabilmente da gruppi le cui professioni, come la macelleria e la lavorazione del
cuoio, costituivano una violazione delle regole buddiste contrarie alla uccisione degli animali; ciò naturalmente li
esponeva al disprezzo della società. Considerati come esseri inferiori, gli Eta erano costretti a vivere in villaggi
separati o in ghetti nelle città; molti di loro risiedevano nell’aria della vecchia capitale e nel Giappone
occidentale.

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Le unità amministrative di villaggio
La incorporazione delle vecchie tenute nei nuovi domini dei daimyo ebbe effetti profondi sulla società rurale.
Con la progressiva scomparsa delle tenute, con i loro appezzamenti sparsi, i villaggi si sostituirono ad esse
come principali unità di amministrazione locale e di produzione agricola. Questa transizione dalla tenuta al
villaggio come unità fondamentale dell’organizzazione rurale si verificò prima nelle zone centrali,
economicamente e istituzionalmente più progredite delle regioni periferiche, ma alla fine investì tutto il
Giappone.

La forza crescente delle classi inferiori


La crescente importanza militare della fanteria nel 15° e 16° secolo e la tendenza degli aristocratici dei villaggi a
schierarsi dalla parte degli abitanti del villaggio stesso, per la prima volta nella storia del Giappone rendevano
l’uomo del popolo partecipe del potere politico.
Un aspetto di questo sviluppo fu la possibilità che i popolani ebbero di accedere a posti di comando: l’uomo di
umile origine, grazie alle sue capacità militari e amministrative poteva elevarsi dal grado di soldato semplice a
quello di comandante, per diventare vassallo o magari signore.
Un’importanza anche maggiore ebbe l’esercizio del potere militare e politico da parte di gruppi di popolani
guidati dall’aristocrazia rurale.
Questa specie di sfida al sistema feudale diventò sempre più minacciosa col declino dell’autorità centrale. Le
ribellioni di abitanti di villaggi e città avevano cominciato a costituire un serio pericolo per i governanti feudali già
nel 1428. Da allora fino alla fine del periodo Ashikaga le sommosse popolari furono all’ordine del giorno in ogni
parte del Giappone centrale. Generalmente i rivoltosi concentravano i loro attacchi sui banchi di pegno e sugli
usurai, allo scopo di ottenere da costoro, dallo shogunato e da qualche autorità l’esenzione dei debiti. Dopo il
1441 queste sommosse indussero più volte lo shogun a decretare il condono dei debiti ricorrendo ai Tokusei, o
atti di “amministrazione virtuosa”, che diversamente da quelli del periodo di Kamakura non furono diretti a
beneficiare i dipendenti dello shogunato ma semplicemente a placare la gente comune.

La centralizzazione del potere


Questa sfida all’autorità feudale da parte delle classi inferiori accelerò probabilmente il processo di
consolidamento del potere dei daimyo nei loro rispettivi territori. Di fronte a questa sfida, essi dovettero
sviluppare un controllo più esteso ed efficiente sui loro domini per impedire che il sistema feudale fosse
rovesciato da regimi politici a più vasta base popolare. Ma anche il consolidamento del potere dei daimyo
contribuì alla disgregazione del feudalesimo, in quanto poté essere realizzato solo subordinando i diritti feudali
di tutte le classi agli interessi particolari dei daimyo ed estendendo il potere di questi in modo più uniforme su
tutti coloro che vivevano entro i confini dei domini.

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CAP.13 – IL GIAPPONE DEI TOKUGAWA: UNO STATO FEUDALE CENTRALIZZATO

Centralizzazione politica e stimoli esterni


Verso la metà del 16° secolo il feudalesimo giapponese mostrava molti dei sintomi di decadenza. Questa
decadenza si rivelava con la espansione del commercio interno ed estero, l’ascesa delle città commerciali, la
disgregazione della vecchia struttura classista con l’affievolirsi della distinzione funzionale tra i guerrieri-
aristocratici e il popolo, e con la comparsa di raggruppamenti commerciali e religiosi di carattere popolare che
potevano opporsi al potere militare e alla autorità politica dei signori feudali. Ma, quel che più conta, i privilegi
feudali e la condizione di autonomia dei vassalli, dei valvassori e degli elementi feudali minori cominciavano ad
essere sommersi dal crescente assolutismo del più forte daimyo.

La terza fase del feudalesimo giapponese


Ma la riunificazione politica delle isole seguì un corso molto diverso da quello dei nascenti stati nazionali
europei. Il Giappone non conobbe una radicale ristrutturazione delle istituzioni politiche e sociali come accadde
in Europa, alla fine del feudalesimo, con la Riforma, la Controriforma e il mercantilismo. I giapponesi trovarono
una soluzione più semplice e meno rivoluzionaria dei problemi suscitati dalle nuove influenze esterne e dalla
necessità di realizzare l’unità effettiva della società feudale. Essi edificarono sul vecchio ordine feudale, anziché
distruggerlo, e si chiusero alle influenze esterne invece di continuare nella loro espansione commerciale
oltremare.
In tal modo il Giappone, anziché trasformarsi in uno stato nazionale moderno, entrò nella terza grande fase del
suo sviluppo feudale, caratterizzata dall’unità politica e dall’isolamento nazionale. Il paese fu riunificato e
assoggettato a un controllo politico centrale che per certi aspetti non si rivelò meno completo ed efficiente di
quello di ogni altro stato europeo.
Con la scelta di una soluzione semplice e gradualistica dei loro problemi, nel 16° e agli inizi del 17° secolo i
giapponesi furono in grado di realizzare una unità e una stabilità effettive molto più rapidamente dei nuovi stati
nazionali europei. Tuttavia, la stabilità che essi raggiunsero, pur costituendo immediatamente un vantaggio,
risultò forse alla fine un insuccesso, poiché impedì ogni ulteriore sviluppo delle istituzioni economiche, politiche
e sociali. Durante i due secoli seguenti, il progresso tecnologico e istituzionale del Giappone non tenne il passo
con l’Occidente. L’arretratezza tecnologica e istituzionale nei confronti dell’Occidente fu il prezzo che i
giapponesi dovettero pagare nel 19° secolo per la pace e la stabilità politica di cui i loro antenati avevano
goduto per molte generazioni.
Non è facile comprendere perché il Giappone, che per molti aspetti aveva avuto uno sviluppo feudale simile a
quello dell’Europa, prese una direzione storica così diversa durante il 16° secolo. Una delle ragioni potrebbe
essere che il feudalesimo giapponese mantenne tradizioni di unità politica più forti di quelle degli emergenti stati
dell’Europa feudale e gli fu perciò possibile realizzare una effettiva unità senza grandi mutamenti rivoluzionari.
La ben definita unità geografica e la forte coscienza derivante da un lungo periodo di governo unificato in tutto il
Giappone contrastava con l’indeterminatezza di molti confini nazionali europei e con la tradizione di un Impero
Romano universale e poliglotta, anziché di un unico stato chiaramente delimitato. A causa di queste differenze,
la realizzazione di unità nazionali effettive scaturì in Europa da un processo molto più laborioso, poiché fu
necessaria la distruzione del feudalesimo, mentre in Giappone fu possibile costruire uno stato unitario con gli
elementi forniti dallo stesso sistema feudale.
Un’altra ragione è sicuramente rappresentata dalla maggiore lontananza del Giappone dalle potenze rivali. Un
grande aumento dei contatti col mondo esterno nel corso del 16° secolo sembra aver contribuito alla rapida
riunificazione del paese, ma i mari che lo circondavano e la lontananza permisero ai giapponesi, quando agli
inizi del 17° secolo essi cominciarono a temere le influenze straniere, di ristabilire un considerevole grado di
isolamento.

L’arrivo dei mercanti e dei missionari portoghesi


La riunificazione del Giappone fu principalmente il risultato di un lungo processo di evoluzione interna, ma
indubbiamente essa fu in parte dovuta anche dall’improvvisa comparsa dei mercanti e dei missionari europei
nel 16° secolo. La perizia militare e navale delle potenze europee e l’insegnamenti dei missionari costituivano

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una precisa minaccia che richiedeva una reazione unificata. Inoltre, le armi e forse anche altre innovazioni
tecnologiche introdotte dagli occidentali facilitarono la necessaria centralizzazione del potere.
Non appena i portoghesi riuscirono a compiere il periplo dell’Africa raggiungendo quindi l’India nel 1498, essi e
altri esploratori europei incominciarono a dominare le grandi rotte del commercio marittimo. I portoghesi
raggiunsero il Giappone solo mezzo secolo dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza. Il primo gruppo
approdò a Tanegashima, un’isola al largo della punta meridionale del Kyushu, nel 1543. In pochi anni le navi
portoghesi presero a frequentare i porti del Kyushu. Nel 1549 il missionario gesuita Francesco Saverio
incominciò a predicare il cristianesimo nel Giappone occidente e anche a Kyoto.
Sembra che i portoghesi nutrissero un certo disprezzo per gli asiatici con i quali avevano avuto contatti;
provarono però rispetto e simpatia per i giapponesi. Evidentemente furono attratti dalle qualità militari e dal
forte senso dell’onore della classe dei guerrieri, che gli europei potevano comprendere e apprezzare, date le
loro origini feudali. Dal canto loro, i giapponesi provarono rispetto per i missionari gesuiti, uomini di disciplina e
di cultura paragonabili ai preti Zen. In effetti, il cristianesimo apparve loro dapprima semplicemente come una
nuova variante delle dottrine buddiste così popolari in Giappone. Inoltre, sia i portoghesi che i giapponesi
desideravano trarre profitti dal commercio e questi ultimi, data la loro vecchia opinione secondo la quale si
poteva apprendere molto dall’esterno, erano un terreno fertile sia per la religione che per la civiltà materiale dei
portoghesi.
I daimyo del Kyushu, che desideravano attirare il lucroso commercio portoghese nei loro porti, spesso
coprirono di favori i missionari per l’influenza che essi potevano esercitare sui loro compatrioti laici. Alcuni
daimyo, spinto più dal desiderio di profitti economici che da ragioni spirituali, abbracciarono il cristianesimo e
obbligarono la popolazione dei loro domini a fare altrettanto. Il piccolo daimyo di Omura si convertì già nel
1562.
L’intolleranza religiosa dei missionari suscitò ben presto forti opposizioni tra il clero buddista, che riuscì spesso
a indurre le autorità politiche locali a espellere i nuovi venuti o a vietare la loro religione. Molti di coloro che si
erano convertiti per ragioni economiche o che erano stati obbligati a farlo dai loro signori abbandonarono in
seguito la fede. Numerosi erano comunque i sinceri credenti. Quelli del distretto della capitale, dove il
commercio non costituiva uno dei motivi di conversione, furono particolarmente devoti, anche se i gruppi
cristiani numericamente più forti sono quelli del Kyushu.
È difficile spiegarne la ragione; alcuni dei fattori che possono avere contribuito sono la relativa recettività dei
giapponesi alle influenze straniere, la rassomiglianza di taluni aspetti del cristianesimo col buddismo
giapponese, le analogie esistenti tra gli ideali feudali giapponesi e quelli europei e il rispetto reciproco tra
giapponesi e portoghesi.

Le ripercussioni del contatto con gli europei


Il commercio con i portoghesi e le innovazioni tecnologiche da essi introdotte ebbero probabilmente un effetto
più immediato sulla società e il governo giapponesi che non il cristianesimo. L’arrivo delle grandi navi
portoghesi provocò una ulteriore espansione del commercio con l’estero, che a sua volta stimolò la crescita
economica generale contribuendo così ad accentuare gli elementi di disgregazione del vecchio ordine feudale.
Vennero introdotte nuove colture, come il tabacco e la patata, importate dalle Americhe. I giapponesi
provarono grande interesse per i congegni meccanici degli europei e furono affascinati dai portoghesi. Vi fu una
cera e propria mania per tutto ciò che era portoghese; talvolta le persone dal gusto più ricercato adottarono
persino gli abiti europei. Molte parole nuove entrarono nella lingua e alcune, come pan, che vuol dire “pane”,
sono tuttora in uso.
Dato il loro grande interesse per le questioni militari, i giapponesi furono particolarmente attratti dalle armi da
fuoco e dalle tecniche di guerra, specialmente dagli archibugi dei portoghesi giunti a Tanegashima nel 1543;
per molto tempo, infatti, tutte le armi da fuoco ebbero il nome di tanegashima e, due decenni dopo la loro
introduzione, erano ormai divenute l’arma principale nelle guerre giapponesi.
Forse gli occidentali introdussero nuove tecniche edili per la costruzione dei castelli; comunque, il secolo che
seguì l’arrivo degli europei fu il periodo aureo dei castelli giapponesi.
Immediate furono le ripercussioni militari. I daimyo più ricchi, che potevano permettersi le nuove armi e la
costruzione delle nuove fortezze, consolidarono la loro supremazia sui rivali più poveri e meno modernizzati. Le

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innovazioni europee servirono così ad accelerare la centralizzazione del potere politico e militare, che in parte
era già iniziata come reazione alla minaccia costituita dall’arrivo degli europei.

Nobunaga e Hideyoshi riunificano il potere


Gli uomini che riuscirono a riunificare il Giappone furono tre successivi daimyo della regione situata tra il
distretto della capitale e il Kanto, abbastanza vicina alla capitale da consentirne la conquista con relativa
facilità, e tuttavia abbastanza lontana da sfuggire alla caotica divisione del potere tra i signori feudali, i grandi
monasteri e le associazioni religiose o commerciali popolari insediati nella regione intorno a Kyoto. Questi tre
grandi unificatori dapprima si costituirono sicure basi nelle rispettive zone; quindi, riuscirono a dominare il
distretto della capitale e infine estesero il loro controllo a tutto il paese.

L’ascesa di Oda Nobunaga


Il primo dei grandi unificatori fu Oda Nobunaga (1534-1582), erede di un daimyo minore e di origine recente
dell’Owari, dove sorge oggi la grande città di Nagoya sulla più vasta pianura di questa regione. Nobunaga iniziò
la sua ascesa nel 1560 sconfiggendo Imagawa, il più grande daimyo della zona. Dopo aver consolidato il suo
potere sul piano locale con conquiste e matrimoni, egli marciò su Kyoto e se ne impadronì nel 1568 col
pretesto di sostenere la candidatura di un pretendente allo shogunato; riuscì infatti a far riconoscere shogun il
suo protetto, ma il prestigio degli Ashikaga era caduto così in basso che Nobunaga, quando lo shogun
fantoccio si rivelò difficile da manovrare, decise nel 1572, di allontanarlo da Kyoto senza preoccuparsi di
scegliere un successore; ebbe così fine lo shogunato Ashikaga.
Nobunaga passò il resto della vita a consolidare il proprio controllo sulla zona della capitale. Nel 1576 fece
costruire per il suo quartier generale un grande castello, il primo di nuovo tipo, ad Azuchi sui contrafforti delle
colline prospicienti la riva orientale del lago Biwa, distruggendo via via i daimyo vicini o obbligandoli a diventare
suoi vassalli.
Gran parte degli sforzi di Nobunaga furono rivolti all’eliminazione del potere militare della chiesa buddista, sia
quello dei grandi monasteri delle antiche sette sia quello delle congregazioni delle sette fideistiche popolari di
origine più recente. Con la minaccia o con le armi ridusse la forza militare e i possedimenti di molti altri grandi
monasteri, spezzando anche la potenza della Vera Setta o dei gruppi dell’Ikko nel corso di una guerra che durò
10 anni, dal 1570 al 1580.
Prima della fine del secolo, il potere militare dei monasteri buddisti, che aveva caratterizzato la storia
giapponese per cinque secoli, venne definitivamente distrutto. La grande avversione per i buddisti indusse
Nobunaga a favorire il cristianesimo; il suo interessamento e la sua protezione spiegano l’eccezionale successo
dei missionari nella regione della capitale.
Nobunaga non ebbe però molto successo nel tentativo di costringere i grandi daimyo del Giappone orientale e
occidentale a riconoscere la sua signoria. Comunque, durante le campagne nella zona della capitale, fu
protetto alle spalle dalla minaccia dei daimyo del Giappone orientale da un fedele alleato, Tokugawa Ieyasu
(1542-1616), un piccolo vassallo di Imagawa, che si era ribellato al suo signore dopo che questi era stato
sconfitto dallo stesso Nobunaga nel 1560; in seguito Ieyasu consolidò il suo potere nella provincia natale di
Mikawa, annientando i seguaci locali della Vera Setta, e sottrasse a Imagawa la vicina provincia di Totomi. Alla
fine, la pressione esercitata dai signori del Giappone orientale su Nobunaga e Ieyasu si allentò.

L’ascesa di Hideyoshi
Nel 1577, Nobunaga inviò il suo miglior generale, Hideyoshi (1536-1598), alla conquista dell’Honshu
occidentale; nel corso dei cinque anni che seguirono, Hideyoshi fece lenti ma costanti progressi nella lotta
contro la nuova e potente famiglia Mori di questa regione. La sua ascesa è un sintomo della disgregazione delle
barriere di classe in atto in tutto il paese. Soldato di umili origini, solo per la sua personale abilità degli riuscì a
diventare primo generale di Nobunaga e suo vassallo; non avendo un nome di famiglia illustre, adottò nel 1586
il cognome di Toyotomi.
Nel 1582, mentre Hideyoshi era ancora impegnato nelle campagne contro i Mori, Nobunaga venne assassinato
a tradimento da un altro dei suoi grandi vassalli, un uomo che, come Hideyoshi, si era costruito sé la propria
fortuna. Ritornato immediatamente dall’Ovest, Hideyoshi sconfisse il traditore, mentre quattro dei maggiori

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vassalli di Nobunaga si proclamavano tutori del nipote bambino di questi, designato a succedergli; ma in meno
di un anno Hideyoshi sconfisse il suo principale rivale in seno a questo gruppo e stabilì il proprio controllo sul
Giappone centrale. Anche gli ultimi membri della famiglia Oda furono obbligati a riconoscere la sua signoria e
poterono sopravvivere solo come vassalli minori.
Hideyoshi procedette quindi a completare l’opera di riunificazione del paese iniziata da Nobunaga. Nel 1585 i
suoi eserciti distrussero la forza militare di numerosi grandi monasteri a sud della regione della capitale e
costrinsero i più forti daimyo dello Shikoku a sottomettersi. Dopo una battaglia inconcludente combattuta
contro di lui nel 1584, anche Tokugawa Ieyasu si riconobbe, due anni dopo, suo vassallo.
Impadronitosi in questo modo del Giappone centrale, Hideyoshi iniziò la conquista delle zone più lontane. Nel
1586 mosse con un esercito di 250.000 uomini contro gli Shimazu, che erano diventati la principale missione,
permettendo loro generosamente di conservare la maggior parte dei domini all’estremità meridionale dell’isola.
Quindi, si volse verso oriente e nel 1590 piombò sugli Hojo nel Kanto. Dopo due secoli e mezzo di
disgregazione politica, l’intero Giappone veniva infine riunificato sotto l’effettivo controllo di una sola persona.

Il governo di Hideyoshi
Vale la pena rilevare che né Nobunaga né Hideyoshi cercarono mai di assumere il titolo di shogun; tentarono
invece di aumentare il loro prestigio e di legittimare il loro potere mediante una stretta associazione con la corte
imperiale. Essi ricostruirono il palazzo di Kyoto e procurarono agli imperatori, fonte di ogni autorità politica, un
sostegno economico adeguato per quanto modesto. La restaurazione di un effettivo governo centrale pose
così fine ai tristi giorni di miseria degli imperatori e della nobiltà di Kyoto. Sia Nobunaga che Hideyoshi si
limitarono a occupare alte cariche nel vecchio governo civile. Nobunaga ricoprì, infatti, per breve tempo gli
uffici di ministro interno e ministro della Destra, mentre Hideyoshi occupò la più alta posizione di kampaku nel
1585, alla quale rinunciò nel 1591 a favore del figlio adottivo Hidetsugu.
Nel 1583 Hideyoshi fece costruire a Osaka il più grande castello del tempo, con grandiose mura e fossati
interni.
I castelli e i palazzi di Nobunaga e di Hideyoshi erano edifici monumentali e sontuosi. In netto contrasto con i
canoni estetici Zen degli shogun Ashikaga, il gusto di questi grandi militari sembra orientato verso l’imponenza
e la magnificenza. Hideyoshi voleva che ogni cosa fosse realizzata in modo grandioso. Nel 1589, fece infatti
erigere a Kyoto un Budda di bronzo più grande di quelli di Kamakura e di Nara, ma la statua fu distrutta da un
terremoto nel 1592. Anche la cerimonia del tè venne trasformata da Hideyoshi in un avvenimento grandioso. La
cosiddetta cerimonia del tè di Kitano, che ebbe luogo a Kyoto nel 1587, fu un vero e proprio festival delle arti,
che durò dieci giorni.
Per quanto Hideyoshi fungesse in teoria da primo ministro dell’imperatore e si comportasse in pratica come un
monarca assoluto, egli non fece alcun tentativo per ripristinare i vecchi organi della amministrazione civile né
per governare col loro ausilio. Al contrario, controllò il Giappone col vecchio sistema feudale del vassallaggio.
La maggior parte del paese rimase nelle mani dei daimyo, autonomi nei loro domini e esenti anche dalle
regolari tasse necessarie al mantenimento del governo centrale.
Tuttavia, malgrado le divisioni feudali, Hideyoshi poté far pesare la sua autorità su tutto il Giappone. Pur
permettendo generosamente a coloro che erano stati suoi pari o anche suoi rivali di conservare il rango di
daimyo, in genere egli ridusse i loro feudi e talvolta li trasferì a suo piacimento. Inoltre, provvide a separare i
domini dei daimyo meno fidati con i feudi dei suoi più fedeli seguaci.
Nel 1590, Hideyoshi assegnò inoltre gran parte del Kanto a Tokugaya Ieyasu che aveva mostrato la sua lealtà
nella guerra contro gli Hojo. Tuttavia, la vera intenzione non era tanto quella di ricompensare Ieyasu con un
grande dominio, quanto di allontanare il maggiore e più pericoloso dei vassalli dalla vecchia base del suo
potere trasferendolo in una regione dove la incerta fedeltà della popolazione ne avrebbe indebolito la forza.
Per quanto Hideyoshi non imponesse ai vassalli il pagamento di vere e proprie tasse, egli fiaccò la loro forza
economica obbligandoli a contribuire alle spese di governo e imponendo pesanti servizi militari. Di fatto egli si
comportò come il padrone assoluto del paese; fece coniare monete di rame, d’argento e d’oro, riordinò il
sistema monetario: fissò nuove unità di misura agrarie e nuove aliquote fiscali, fece eseguire mappe catastali in
tutto il Giappone; controllò le relazioni con l’estero e i suoi decreti divennero l’unica legge del paese. Egli istituì
inoltre una specie di gabinetto composto da cinque membri che lo assistevano nel governo occupandosi dei

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vari rami dell’amministrazione. Costoro possedevano feudi di media grandezza ed erano uomini degli di ogni
fiducia, poiché si trattò sempre di persone che dovevano la loro fortuna alle capacità personali e ai servigi
prestati a Hideyoshi.
Però può sembrare strano che Hideyoshi, spinto da uno sfrenato desiderio di potere e di gloria, potesse
tollerare la situazione piuttosto paradossale derivata dalla combinazione di un’autorità centralizzata e di
un’autonomia locale. In realtà egli non concepiva altra forma di organizzazione politica che il vassallaggio;
inoltre, il sistema dei daimyo gli permise di riunificare il Giappone e di ristabilire la pace in un periodo di tempo
molto più breve di quello che sarebbe stato necessario costringendo i suoi rivali a una resistenza estrema e non
lasciando loro altra alternativa che la distruzione.
In effetti il desiderio di riportare la pace e la stabilità in Giappone quanto più rapidamente possibile sembra
essere stato uno dei principali moventi di Hideyoshi. Egli riteneva che uno dei modi per raggiungere la stabilità
fosse di arrestare le rapide trasformazioni sociali che avevano avuto luogo nei decenni precedenti e che tra
l’altro avevano reso possibile la sua spettacolare ascesa dalla base al vertice della piramide politica. Forse
proprio perché egli era il solo artefice della sua fortuna, Hideyoshi cercò di impedire che uomini capaci e di
umili origini potessero seguire il suo esempio, naturalmente a danno dei suoi eredi. In ogni caso, tentò, con
decreti governativi, di mantenere separati i guerrieri dai contadini e questi dagli abitanti delle città, accentuando
così differenze funzionali che avevano cominciato ad attenuarsi.
Hideyoshi inaugurò il suo programma nel 1588, ordinando a tutti i contadini di consegnare le spade. Con
questa “caccia alle spade” ristabilì quindi una netta ed evidente distinzione tra gli aristocratici, che potevano
portare armi, e popolani, che dovevano esserne privi. Egli è anche l’autore di una serie di leggi (1591) che
proibivano ai dipendenti militari di lasciare il servizio del loro signore per diventare mercanti o agricoltori e
vietavano agli agricoltori di abbandonare i campi per trasformarsi in mercanti o in lavoratori di altro tipo.

La persecuzione del cristianesimo


La politica di stabilità perseguita da Hideyoshi ci permette anche di comprendere il suo atteggiamento verso i
cristiani. Dapprima egli trattò i missionari con la stessa benevolenza mostrata da Nobunaga e si preoccupò di
mantenere il lucroso commercio con i portoghesi. Poi, nel 1587, ordinò improvvisamente che tutti i missionari
venissero banditi dal Giappone e confiscò il loro “sottofeudo” di Nagasaki. Proibì quindi ai vassalli di
abbracciare il cristianesimo senza il suo benestare o di spingere con la forza alla conversione le popolazioni dei
loro domini, ma non pose alcuna restrizione alla religione delle classi inferiori.
Sembra che questo mutamento di politica sia da attribuire al timore che il cristianesimo diventasse un fattore di
disturbo nella società e una minaccia politica potenziale. Ma, quel che è peggio, il cristianesimo era diventato
un legame e un elemento di intesa tra alcuni daimyo del Kyushu. Inoltre, era così popolare nella stessa Kyoto
che la conversione era diventata una moda raffinata: infatti, molti dei principali luogotenenti di Hideyoshi si
erano fatti battezzare. Sembrava possibile che l’osservanza di questa religione straniera e l’obbedienza dei
vassalli al capo della sua chiesa organizzata potessero avere il sopravvento sulla loro realtà feudale,
compromettendo così il supremo potere di Hideyoshi. Egli dovette quindi pensare che era ormai necessario
mettere un freno alla crescita di questa pericolosa regione.
Per circa un decennio non cercò di far rispettare con molto rigore il bando contro i missionari e si accontentò di
impedire le nuove conversioni; ma alla fine fu spinto a prendere provvedimenti più drastici. Inoltre, Hideyoshi
era venuto a conoscenza del ruolo svolto dai missionari cristiani in altre parti dell’Asia come precursori della
conquista coloniale. Per queste ragioni, decisa improvvisamente nel 1597 (alla fine del 1596 secondo il
calendario giapponese) di far rispettare il suo editto contro i missionari, crocefiggendo sei francescani spagnoli,
tre gesuiti portoghesi e diciassette convertiti giapponesi.

L’invasione della Corea


L’invasione della Corea intrapresa da Hideyoshi nel 1592 fu probabilmente motivata anche dal desiderio di
pace interna. Secoli di guerre quasi incessanti avevano popolato il Giappone di uomini che non conoscevano
che il mestiere delle armi, e probabilmente Hideyoshi pensò che una spedizione all’estero sarebbe servita a
mantenere l’ordine interno. Inoltre, una generosa distribuzione del bottino di guerra, tecnica feudale consacrata
dalla tradizione, era necessaria per mantenere la lealtà dei vassalli. Comunque, l’invasione fu soprattutto

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dovuta alla sfrenata ambizione di Hideyoshi che sembrava dominato dalla brama di conquistare altri mondi. La
grande Cina, non la piccola Corea, era il suo obiettivo finale.
I capi dei due primi corpi di spedizione che raggiunsero la Corea, il fervente buddista Kato Kiyomasa e il
cristiano altrettanto fervente Konishi Yukinaga, che comandava un contingente formato in gran parte da
cristiani, si divisero quasi interamente la gloria delle prime più facili vittorie. Konishi e Kato furono i generali più
influenti anche nella seconda invasione del 1597, ma incontrò una più strenua resistenza e si concluse l’anno
dopo con la morte di Hideyoshi.
Quest’ultimo non riuscì a realizzare nessuno degli obiettivi che si era proposto con l’invasione del continente.
Non diventò il padrone della Cina, che per lui rappresentava il mondo; non vi furono grandi bottini da dividere e
il salasso patito dai militari non impedì ai vassalli di spodestare il suo erede e di battersi tra loro per la
successione. Abbiamo già accennato alle terribili ripercussioni che la guerra ebbe sulla Corea e al logorio cui fu
sottoposta la dinastia Ming. In Giappone essa non ebbe invece effetti duraturi, se non nel campo della cultura. I
giapponesi appresero infatti dagli avversari coreani nozioni tecniche come la stampa, e i vasai coreani portati
prigionieri in Giappone furono i fondatori delle più importanti tradizioni dell’arte della ceramica che si
svilupparono nei secoli seguenti. Per il Giappone, l’unico risultato politico e militare di rilievo che la guerra ebbe
fu l’indebolimento dei daimyo che vi parteciparono, tra i quali alcuni dei più leali vassalli di Hideyoshi, a
vantaggio dei meno fidati, come Tokugawa Ieyasu, rimasti in patria.

Ieyasu fonda lo shogunato Tokugawa


Nel 1595, Hideyoshi si era sbarazzato dell’erede del figlio adottivo, Hidetsugu, a favore di un figlio naturale,
Hideyori, che aveva solo cinque anni alla morte del padre nel 1598. Come era accaduto al tempo del giovane
erede di Nobunaga, cinque dei maggiori vassalli diventarono co-reggenti. Tra cui Tokugawa Ieyasu del Kanto; il
dominio di quest’ultimo era più esteso di quello dello stesso Hideyoshi e almeno due volte più grande di quello
dei suoi rivali del consiglio di reggenza.
Anche all’erede di Hideyoshi, come già a quello di Nobunaga, il consiglio di reggenza non recò molti vantaggi.
Ebbe infatti immediatamente inizio una lotta per il potere tra il membro più forte, Ieyasu, e gli altri, alcuni dei
quali erano fermamente decisi a ostacolare le sue ambizioni.
Alla fine, Uesugi, nell’Honshu settentrionale, sfidò apertamente l’autorità di Ieyasu, nel 1600 marciò contro di
lui. Prima che le due forze si scontrassero, una coalizione di daimyo guidata da Ishida, il più eminente tra i
vecchi membri del gabinetto di Hideyoshi, scese in campo contro Ieyasu nella zona della capitale. Tra i seguaci
di Ishida vi erano Mori e Ukita, del consiglio di reggenza, e Konishi e Shimatzu del Kyushu. Ieyasu invertì la
marcia dirigendosi verso occidente e, dopo scontri preliminari e operazioni di assedio, i due eserciti si diedero
battaglia, all’inizio dell’autunno, a Sekigahara, punto strategico tra le pianure intorno al lago Biwa e a Nagoya.
Alcuni importanti daimyo abbandonarono Ishida e questa defezione permise a Ieyasu di avere il sopravvento;
poco dopo, la resa del castello di Osaka tenuto da Mori pose praticamente fine alla guerra.
Il bakufu, o shogunato, Tokugawa venne fondato ufficialmente soltanto nel 1603, quando Ieyasu ebbe
dall’imperatore il titolo di shogun.
La supremazia dei Tokugawa su tutto il paese venne comunque stabilita con la vittoria di Ieyasu a Sekigahara
nel 1600, ed egli cominciò immediatamente a gettare le basi di un nuovo sistema di governo.

L’assegnazione dei domini ai vassalli


Ieyasu era probabilmente un uomo di grande prudenza. Si rendeva conto che sarebbero stati necessari molti
anni di guerra per distruggere i più potenti e lontani tra i suoi nemici; sapeva inoltre che molti alleati nutrivano
ancora un profondo sentimento di lealtà per l’erede di Hideyoshi. Poiché intendeva ristabilire al più presto la
situazione e ridare la pace al paese, egli adottò quindi la politica di Hideyoshi governando indirettamente per
mezzo del vecchio sistema dei daimyo e trattando con generosità sia coloro che nel 1600 erano rimasti neutrali
sia alcuni dei suoi aperti nemici.
I difensori di Osaka si erano arresi ponendo come condizione che il castello e un vasto dominio rimanessero
nelle mani dell’erede di Hideyoshi. Ieyasu rispettò il patto e promise anche di dare in moglie una delle sue nipoti
al giovane Hideyori.
Come Hideyoshi, Ieyasu procurò che i suoi alleati e i vecchi vassalli detenessero la maggior parte del potere.

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Quasi tutta la zona centrale del paese, dal Kanto, fino all’area della vecchia capitale, in gran parte compresa,
divenne dominio personale di Ieyasu, della sua famiglia o degli uomini che già erano stati suoi vassalli prima
della vittoria del 1600. I daimyo di questa zona interna erano in genere dei piccoli signori a paragone dei più
grandi daimyo delle regioni periferiche, ma insieme a Ieyasu essi costituivano un potente blocco centrale
assolutamente sicuro e militarmente inattaccabile.
Memore del successo di Yoritomo e del fallimento degli Ashikaga nell’opera di creazione dei loro rispettivi
shogunati, Ieyasu decise di mantenere la capitale in quella che era stata la base orientale della sua forza.
Quando nel 1590 aveva ricevuto il Kanto da Hideyoshi, egli aveva stabilito il suo quartier generale sull’area di
una vecchia fortificazione nel villaggio di pescatori di Edo, dove iniziò la costruzione di un grande castello che,
completato nel 1606, superò per imponenza anche quello eretto da Hideyoshi a Osaka.
Qui Ieyasu stabilì il suo quartier generale e per questo il periodo Tokugawa viene anche chiamato periodo di
Edo. La città di Edo, che crebbe intorno alla grande fortezza, fu il primo nucleo della moderna metropoli di
Tokyo.

L’eliminazione dell’erede di Hideyoshi


Ieyasu, memore naturalmente dell’insuccesso di Nobunaga e di Hideyoshi, che non erano riusciti a trasmettere
ai loro eredi una egemonia che avevano conquistato a prezzo di grandi sforzi, dedicò gli anni che gli restarono
al rafforzamento del potere, onde impedire che i Tokugawa subissero la stessa sorte. Nel 1605 rinunciò al titolo
di shogun a favore del terzo figlio fià adulto, Hidetada, che venne scelto più per la sua perseveranza e fedeltà
che per il suo ingegno. Hidetada seguì l’esempio del padre rinunciando al titolo nel 1623 a favore del figlio
adulto, Iemitsu. In tal modo non vi furono lotte di successione né lo shogunato rimase nelle deboli mani di un
bambino. Ieyasu, comunque, detenne il potere effettivo fino alla morte, avvenuta nel 1616, amministrando il
paese dal castello che si era fatto costruire a Sumpu, l’odierna Shizuoka, mentre Hidetada rappresentava a
Edo le forme esteriori del governo shogunale.
Ieyasu si rendeva conto che la vittoria ottenuta nel 1600 non era stata completa. Pur ricevendo attestati di
fedeltà dai suoi vassalli, egli sapeva che molti di loro non gli erano legati da vincoli di lealtà molto saldi e che
l’erede di Hideyoshi a Osaka poteva diventare il simbolo e il fulcro di una eventuale opposizione ai Tokugawa.
Nel 1600, Ieyasu aveva già 57 anni, ma con la sua consueta prudenza seppe attendere finché il potere
shogunale non fu consolidato a tal punto da permettergli in tutta sicurezza di giungere ad una chiarificazione
con Hideyori.
Infatti, nel 1614, si finse offeso per il tenore della iscrizione incisa su una grande campana di bronzo di un
monastero che Hideyori aveva edificato in occasione della restaurazione del Grande Budda fatto fondere dal
padre a Kyoto; proibì l’iscrizione stessa e ben presto costrinse Hideyori a prendere le armi.
Ieyasu aveva preparato così accuratamente l’operazione che nessun grande daimyo osò prestare aiuto a
Hideyori, anche se sotto le bandiere di questi accorsero molti uomini, in gran parte daimyo spodestati e
guerrieri senza signore (chiamati ronin). All’inizio dell’inverno 1614-1615, le forze enormemente superiori dei
Tokugawa non riuscirono a espugnare il castello di Osaka, né con gli assalti né con il fuoco dei cannoni, ma
dopo più di un mese di assedio l’astuto Ieyasu persuase i difensori ad accettare una pace di compromesso che
lasciava a Hideyori il possesso del suo dominio e del castello ma permetteva alle truppe di Edo di colmare il
fossato e smantellare i bastioni esterni. In realtà, gli uomini di Ieyasu colmarono anche qualche fossato interno,
e quando quest’ultimo, venendo meno ai patti, sferrò un nuovo attacco all’inizio dell’estate seguente, i difensori,
costretti a rompere l’assedio per abbandonare il castello smantellato, furono annientati in pochi giorni.
In questo modo la minaccia potenziale rappresentata dall’erede di Hideyoshi aveva cessato di esistere quando
Ieyasu morì nel 1616 all’età di 73 anni.

Il ritorno all’isolamento
La ferma volontà di Ieyasu e dei suoi successori di assicurare la continuità della supremazia dei Tokugawa può
spiegare forse il loro atteggiamento verso il mondo esterno. Essi si comportarono come Hideyoshi,
considerando il cristianesimo una minaccia alla stabilità sociale e un possibile pericolo per la loro egemonia,
anche se in un primo tempo anch’essi furono attratti dalla prospettiva dei progetti che si ricavavano dal
commercio con gli europei.

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In realtà, Ieyasu desiderava mantenere i contatti commerciali. Infatti, anche se non abrogò mai i decreti contro i
missionari emanati da Hideyoshi, egli assunse dapprima nei loro riguardi un atteggiamento non semplicemente
tollerante, ma rispettoso e amichevole. Ieyasu permise comunque ai gesuiti di rinnovare le loro attività nella
regione di Kyoto. Inoltre, desiderando convincere gli spagnoli a stabilire una base commerciale nei suoi
possedimenti del Kanto, concesse ai francescani spagnoli di istituire una missione a Edo.
Tuttavia, quando si accorse di poter svolgere attività commerciali senza dipendere dai missionari cristiani, il suo
atteggiamento verso costoro mutò gradualmente. Nel 1609, un vascello olandese raggiunse l’Hirado (un’isola
al largo della costa nordoccidentale del Kyushu, che aveva avuto sin dagli inizi grande importanza come scalo
del commercio portoghese), dove nel 1613 approdò anche una nave inglese. Sia gli olandesi che gli inglesi
stabilirono regolari missioni commerciali nell’Hirado, ma nessuno dei due paesi protestanti aveva a quel tempo
il minimo interesse per le attività missionarie. Ieyasu finì anche per comprendere che il commercio non andava
necessariamente associato alla religione.

La soppressione del cristianesimo


Come già Hideyoshi, Ieyasu assunse verso i cristiani un atteggiamento sempre più diffidente. Gli spagnoli
avevano inviato poche navi e, più che al commercio, sembravano interessati all’attività missionaria, a compiere
rilevamenti delle coste giapponesi e a fare espellere gli olandesi; protestanti e cattolici si scambiarono violente
accuse, né cessarono le dispute tra i gesuiti e i francescani. Vari informatori europei di Ieyasu e alcuni
giapponesi che avevano avuto il compito di infiltrarsi nel movimento cristiano riferirono allo shogun delle
persecuzioni e delle guerre d’Europa, nonché delle conquiste degli spagnoli e dei portoghesi in Asia e nelle
Americhe, realizzate attraverso l’alleanza della croce con la spada. Inoltre, il cristianesimo era particolarmente
forte tra i sostenitori di Hideyori a Osaka, e Ieyasu scoprì tra l’altro un caso di connivenza e anche un piccolo
complotto contro la sua persona, tramato da alcuni dei suoi stessi vassalli cristiani. Per queste varie ragioni, egli
giunse infine alle conclusioni già tratte da Hideyoshi un quarto di secolo prima: il cristianesimo doveva essere
contenuto in ogni modo per la sicurezza del regime. Ora che Ieyasu controllava saldamente il paese,
l’eliminazione dei cristiani sembrava evidentemente una minaccia meno grave alla pace stabilita che non la loro
permanenza come possibile futuro pericolo per il governo dei Tokugawa.
Nel 1612, Ieyasu cominciò a far rispettare rigorosamente gli editti emanati. Ordinò infatti a tutti i suoi vassalli
cristiani di rinunciare alla loro fede, mandando a morte quelli che non volevano piegarsi. Ordinò inoltre la
chiusura delle chiese e delle altre istituzioni cristiane e infine, nel 1614, tentò di riunire e deportare i missionari e
un certo numero di illustri convertiti giapponesi.
Pur restando fermo nella sua risoluzione di estirpare il cristianesimo, Ieyasu non fece uccidere alcun missionario
straniero; le persecuzioni divennero però più accanite sotto il suo successore, Hidetada, a causa della
perseveranza mostrata dai missionari durante le persecuzioni stesse.
Un fatto più importante, che può forse spiegare anche la ferocia mostrata da Hidetada nelle persecuzioni, fu la
paura. A quanto sembra, egli era letteralmente terrorizzato dalla possibilità di una conquista spagnola con
l’aiuto dei cristiani giapponesi ed era deciso a far rispettare rigorosamente gli editti del padre. I vassalli che, per
una ragione o per l’altra, avevano fino a quel punto protetto i cristiani dei loro domini, furono costretti a unirsi
alla persecuzione e persino Date Masamune, il potente signore di Sendai nell’Honshu settentrionale, che nel
1613 aveva inviato al papa una grande ambasceria giunta a Roma passando per il Messico, fu indotto nel 1620
a mutare atteggiamento verso i cristiani del suo dominio.
Le persecuzioni diventarono sempre più violente e l’impiego di feroci torture costrinse migliaia di giapponesi
convertiti e anche alcuni missionari all’apostasia.
Il cristianesimo riuscì a sopravvivere più a lungo a Nagasaki e nei dintorni, dove la maggior parte della
popolazione era stata convertita. Infine, nel 1637, i contadini ancora in parte cristiani della penisola di
Shimabara e delle vicine isole di Amakusa, insieme ad alcuni ronin, o guerrieri senza signore, si ribellarono alle
autorità feudali locali. Gli iniziali motivi della insurrezione furono l’oppressiva fiscalità e il malgoverno, ma ben
presto essa si trasformò in una grande ribellione cristiana. I ribelli che si dice contassero circa 20mila
combattenti oltre alle donne e i bambini, si rifugiarono in un vecchio castella nella penisola di Shimabara, e fu
necessario un esercito di 100mila uomini, appoggiato dal fuoco di una nave olandese, per costringere alla resa
la fortezza nella primavera del 1638. I difensori furono sterminati e con questo massacro il movimento cristiano

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ebbe praticamente fine in Giappone. I pochi missionari che in seguito riuscirono a mettere piede sulle isole
furono catturati e messi a morte.

Le restrizioni commerciali
Hideyoshi e Ieyasu, pur essendo decisi a impedire lo sviluppo del cristianesimo, non permisero mai che il
problema religioso interferisse seriamente nel commercio con l’estero. Hidetada e il suo successore, Iemitsu,
subordinarono invece definitivamente l’attività commerciale alla loro politica anticristiana. Ciò fu in parte dovuto
ai loro timori, ma si trattò probabilmente anche di una conseguenza del consolidamento del sistema politico
feudale, economicamente basato sull’agricoltura. Col rafforzarsi della supremazia dei Tokugawa il commercio
con l’estero sembrò meno necessario e meno desiderabile. Il governo finì per monopolizzarlo, privando i daimyo
rivali o altri gruppi dei profitti che ne derivavano. Di conseguenza, diventarono sempre più rigide le restrizioni
commerciali, che insieme alle persecuzioni contro i cristiani contribuirono a limitare talmente il contatto con il
mondo esterno che il Giappone finì per ritrarsi in una posizione di quasi completo isolamento.
I portoghesi avevano rappresentato soltanto uno dei fattori della grande espansione del commercio con
l’estero. Infatti, i mercanti cinesi dell’Asia sudorientale, non avevano mai frequentato così assiduamente i porti
giapponesi; dal canto loro, merchant-adventurers giapponesi in questo periodo solcarono i mari in così gran
numero da stabilire quartieri permanenti in varie città delle Filippine, del Vietnam del Sud, della Cambogia e del
Siam. Esistevano anche comunità miste di pirati sino-giapponesi annidate nella loro base di Formosa.
Il commercio dei giapponesi nell’Asia sudorientale, come quello dei cinesi nei porti del Giappone, consisteva
principalmente in uno scambio di argento giapponese contro seta grezza e tessuti di seta cinesi. Anche i
portoghesi, gli spagnoli e gli olandesi si dedicarono prevalentemente al commercio delle sete cinesi, poiché la
domanda di merci europee non era tale da porle in primo piano nei traffici dell’Asia orientale. Date le teorie
mercantilistiche del tempo, gli europei preferivano acquistare sete cinesi pagandole con argento giapponese
piuttosto che con metalli preziosi provenienti dall’Europa o dalle Americhe. Il commercio giapponese divenne
quindi per loro estremamente importante.
Dopo aver stabilito la sua supremazia in tutto il paese, Hideyoshi aveva tentato di controllare anche le attività
giapponesi che commerciavano all’estero, fornendo le navi di credenziali recanti il suo “sigillo rosso”. Ieyasu
adottò la stessa politica e nel corso dei decenni immediatamente successivi il commercio della seta nei porti
giapponesi divenne un monopolio rigorosamente controllato ed esercitato da un gruppo di mercanti
ufficialmente riconosciuti.
Dopo la morte di Ieyasu, questi provvedimenti commerciali, come del resto quelli diretti all’eliminazione del
cristianesimo, divennero sempre più rigorosi.
Le più importanti limitazioni ai contatti con l’estero vennero sancite da una serie di leggi emanate tra il 1533 e il
1639. I mercanti cinesi poterono accedere unicamente a Nagasaki; inoltre, per impedire che i cristiani e le idee
che essi portavano penetrassero nel paese, fu proibito a tutti i giapponesi, pena la morte, di recarsi all’estero o
di fare ritorno in Giappone se già si trovavano oltremare; infine, fu vietata la costruzione di navi di portata
superiore a 500 koku, limitando così la marina mercantile giapponesi ai soli vascelli costieri. In seguito a questi
provvedimenti le intense attività d’oltremare del Giappone cessarono improvvisamente e si lasciò che i
giapponesi residenti all’estero venissero assimilati dalle popolazioni locali.
Nel 1639, i portoghesi, le cui attività commerciali erano ormai molto ridotte rispetto a quelle dei cinesi o degli
olandesi, furono espulsi per sospetta complicità nella rivolta di Shimabara. Alla fine, nel 1641, gli olandesi
furono trasferiti da Hirado a Nagasaki, dove vennero tenuti quasi come prigionieri. Con queste graduali misure il
Giappone riuscì infine a bloccare quasi tutti i canali di comunicazione con l’estero.
Bisogna comunque notare che questo isolamento autoimposto non fu assoluto. I cinesi e gli olandesi poterono
continuare a risiedere a Nagasaki e, nonostante i rigorosi controlli, lo scambio di merci continuò ad essere
considerevole. In realtà, il commercio crebbe a tal punto e sottrasse al Giappone una tale quantità di metalli
che alla fine del 17° secolo fu necessario imporre delle limitazioni. Quando in seguito queste quote vennero
ulteriormente ridotte, i prodotti ittici essiccati, in gran parte provenienti dall’Hokkaido, divennero insieme ai
metalli il principale articolo di esportazione.
In realtà, le relazioni commerciali dei giapponesi con il mondo esterno non si riducevano alle attività dei cinesi e
degli olandesi; continuarono infatti gli scambi con la Corea tramite i So, daimyo di Tsushima, con la Cina e con

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altre zone attraverso le isole Ryukyu. Abitate da una popolazione che culturalmente e linguisticamente è
soltanto una variante del gruppo giapponese, le Ryukyu avevano avuto una funzione molto importante nel
commercio estero giapponese nel 15° secolo.
Grazie a questi molteplici contatti, i giapponesi poterono continuare ad essere informati su ciò che accadeva
all’estero. In particolare, i viaggi annuali a Edo dei rappresentanti della missione olandese di Nagasaki recarono
ai governanti Tokugawa notizie sull’Europa e la sua civiltà. D’altra parte, i rapporti di alcuni dei rappresentanti
olandesi costituivano per l’Occidente, la principale fonte di informazioni sul Giappone.

I risultati dell’isolamento
L’isolamento imposto al Giappone dai Tokugawa non fu quindi completo, anche se ebbe considerevoli
ripercussioni sulla storia e la cultura del paese e forse una influenza altrettanto grande quanto quella prodotta
dall’isolamento originario, conseguenza naturale della posizione geografica. La politica dei Tokugawa riuscì non
soltanto a tenere lontana ogni minaccia militare e politica e ogni idea eversiva, ma anche in gran parte a
bloccare l’azione degli stimoli economici che un commercio più liberale avrebbe prodotto. In ogni caso, il
Giappone fu molto meno aperto alle pressioni e alle influenze sterne.
Il risultato più evidente fu il raggiungimento di quella stabilità che era stato il principale obiettivo di Hideyoshi e
di Ieyasu. Essi avevano cercato di stabilire la pace e l’ordine cristallizzando il sistema sociale e mantenendo lo
status quo nei loro rapporti con i vassalli; in realtà, la loro epoca aveva visto un eccezionale sviluppo della
centralizzazione dello stato, dell’economia e della cultura.
La resistenza opposta al commercio con l’estero e alle altre influenze permise ai successori di Ieyasu di
raggiungere un grado di stabilità che sarebbe stato impossibile con una più dinamica politica estera. La
combinazione piuttosto anacronistica di vassallaggio feudale e di controllo rigorosamente centralizzato, stabilita
al tempo di Hideyoshi e di Ieyasu, si consolidò e andò gradualmente fossilizzandosi. I mutamenti economici e
sociali subirono un notevole rallentamento anche se non vennero mai del tutto bloccati.
Un’altra importante conseguenza di questo isolamento fu che il rallentato ritmo del mutamento permise
all’Europa di superare il Giappone sul piano economico, politico e sociale. Al tempo di Ieyasu, il paese era quasi
allo stesso livello tecnologico e militare dell’Europa e forse più avanzato per quanto riguarda l’integrazione
politica e sociale.
Poiché i secoli 17 e 18 furono un periodo di crescita estremamente rapido per l’Occidente, quando nel 19°
secolo i giapponesi si ritrovarono a diretto contatto con gli europei, dovettero rendersi conto che il loro ritmo più
lento li aveva costretti in una posizione arretrata. La minaccia europea, che senza molte ragioni Hidetada e
Iemitsu avevano paventato nel 18° secolo, si trasformò nel 19° in un pericolo reale proprio a causa della loro
politica di isolamento. Da questo punto di vista la politica dei Tokugawa ebbe quindi per i giapponesi
conseguenze disastrose, poiché li costrinse nel 19° e 20° secolo a subire enormi pressioni per raggiungere
nuovamente il livello dell’Occidente.
L’isolamento, d’altra parte, costringendo i giapponesi a dipendere unicamente dalle proprie risorse, permise
loro di sviluppare in modo più completo una cultura autonoma. Durante questo lungo periodo di pace essi
elaborarono originali tendenze estetiche e letterarie e modi di vita ancora oggi assai radicati. Nonostante i limiti
che impose, il periodo di isolamento si rivelò infatti estremamente fecondo sul piano culturale.

Il sistema dei samurai e dei daimyo


Il sistema politico e sociale dei Tokugawa, che durerà quasi immutato per due secoli e mezzo, si andò
configurando sotto Hideyoshi e Ieyasu e assunse la sua forma definitiva con Hidetada (1605-1623, morto nel
1632) e Iemitsu (1623-1651). Già agli inizi del 17° secolo il sistema era conservatore e sotto alcuni aspetti
reazionario. Il principale obiettivo dei Tokugawa fu quello di arrestare ogni mutamento politico: per questo essi
mantennero, durante un periodo di pace prolungata, gli stessi metodi di governo militari sviluppati in un periodo
di guerre ininterrotte. In altre parole, conservarono quasi tutte le forme di governo feudale sopravvissute alla
decadenza del feudalesimo avvenuta nel corso del 16° secolo. Essi seguirono inoltre l’esempio di Hideyoshi
ostacolando la mobilità sociale ossia reimponendo per legge le rigorose distinzioni di classe che avevano
incominciato ad attenuarsi.

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Le classi sociali
Sebbene gli stessi Hideyoshi e Ieyasu, come del resto la maggioranza dei loro seguaci, avessero cominciato la
loro ascesa partendo dai gradi più bassi della scala sociale, essi riuscirono a impedire il rinnovarsi di episodi
simili, adottando, almeno in teoria, la antica divisione confuciana della società entro quattro classi: i samurai, o
guerrieri-amministratori (dai daimyo fino ai combattenti a piedi); i contadini, ossia i principali produttori; gli
artigiani, cioè i produttori secondari e, infine, i mercanti la cui utilità sociale era considerata dubbia.
In pratica, tuttavia, non si cercò veramente di impedire mescolanze tra le tre classi inferiori, né di costringere i
mercanti relativamente ricchi in una posizione innaturale nel grado più basso della scala sociale. I Tokugawa,
comunque, fecero il possibile per mantenere i samurai distinti dalle altre classi ad esse superiori. Quest’unica
separazione sociale fu resa però estremamente rigida. Non erano possibili i matrimoni tra membri di classi
diverse e un segno evidente della appartenenza al rango più elevato erano le due spade, una lunga e l’altra
corta, che soltanto i samurai avevano il diritto di portare. L’autorità politica doveva essere unicamente nelle
mani dei militari; inoltre, anche il samurai più umile era considerato assai superiore alle altre classi, e tra i suoi
privilegi era compreso, almeno in teoria, il diritto di kirisute (“colpire e andarsene”), ossia di uccidere
immediatamente un uomo del popolo che gli avesse mancato di rispetto.
Se in questi anni fu possibile stabilire una linea di separazione così netta fra i militari e le altre classi, ciò fu in
parte dovuto alla politica di Hideyoshi e Ieyasu che con il trasferimento dei loro vassalli avevano dato a molti
daimyo e ai loro dipendenti militari il controllo di popolazioni con le quali essi non avevano avuto precedenti
contatti. Questo spostamento recise i vecchi legami basati su comuni interessi locali e su relazioni di lunga data
esistenti tra la classe dei dipendenti militari finirono naturalmente per identificarsi con quelli del loro signore e si
stabilì in questo modo una effettiva distinzione di classe.
Questo isolamento della classe dei samurai dal resto della società fu una fonte di gravi problemi per i gruppi
che si muovevano ai margini della classe stessa. I ronin, o samurai senza signore, perché dipendenti di un
signore spodestato o perché non erano riusciti a entrare al servizio del signore del proprio padre in quanto figli
privi di diritti o per altre ragioni, formavano un gruppo fluttuante, che era talvolta causa di disordini. Pur
appartenendo per eredità alla classe dei samurai costoro ne erano praticamente esclusi.
Analogamente, i membri della vecchia classe dei militari aristocratici rurali poterono scegliere tra l’essere
considerati contadini o abbandonare i loro poderi per mettersi al servizio del signore risiedendo nella sua
capitale. Soltanto in alcune zone del Giappone i membri della aristocrazia rurale riuscirono a sopravvivere come
“samurai di villaggio”.
Comunque, in gran parte del Giappone la vecchia aristocrazia rurale venne privata delle sue prerogative militari
e relegata tra le classi inferiori, anche se in genere conservò le proprie ricchezze e le tradizioni di governo
locale.

La base agraria del governo


Un altro aspetto della politica reazionaria adottata agli inizi del periodo Tokugawa fu quasi esclusiva dipendenza
del governo del reddito dell’agricoltura. Per qualche tempo i daimyo del Giappone occidentale avevano tratto
profitto dal commercio con l’estero, che aveva costituito un’importante fonte di reddito anche per Hideyoshi e
Ieyasu. Ma i successori di questi modificarono interamente le cose, spinti non soltanto dalla paura del
cristianesimo, ma forse soprattutto dalla mentalità agricola dei militari, provenienti dalle vaste zone rurali del
Giappone orientale, che una volta ancora erano riusciti a stabilire il loro predominio sul paese. In ogni caso, il
commercio con l’estero venne rigorosamente controllato e limitato, e non si fece molto per tassare il
commercio interno. Il governo finì invece per dipendere dalle imposte agrarie molto più di quanto non fosse
accaduto in periodi precedenti. La limitatezza della base finanziaria finirà per essere una delle più gravi
debolezze del regime Tokugawa.
Accurati registri delle terre permisero ai Tokugawa e ai vari daimyo di imporre tasse uniformi su tutti i terreni
agricoli. Il tasso fiscale variava però da dominio a dominio. Nei primi anni del regime si aggirò generalmente
intorno al 40-50% del raccolto dei terreni coltivati a riso, ma quando nel 18° secolo i daimyo dovettero far fronte
a serie difficoltà economiche, il tasso fiscale aumentò gradualmente, soprattutto per l’imposizione di tasse
supplementari.

179
Il sistema degli “han”
I domini dei daimyo, detti han, erano ben 295 agli inizi del periodo Tokugawa, ma in seguito vennero ridotti a
circa 265. Essi coprivano più di ¾ del territorio del paese e svolgevano quasi tutte le funzioni amministrative
locali, oltre a fornire il grosso dell’esercito. Infatti, ogni han costituiva una unità autonoma di governo locale, che
manteneva una forza autonoma nell’esercito dei Tokugawa, anche se si trattava di una autonomia sottoposta,
in entrambi i settori, all’attento controllo di un forte governo centrale.
I daimyo si distinguevano per il rango, secondo numerosi e vari sistemi di classificazione. Quello più significativo
stabiliva una gerarchia dei signori in base alla capacità produttiva di ciascun han, che veniva misurata in termini
di raccolto di riso tassabile. Questo sistema, come molti altri usati nel periodo Tokugawa, risaliva a Hideyoshi.
Soltanto i signori le cui terre avevano una produzione ritenuta superiore ai diecimila koku potevano essere
annoverati tra i daimyo.
I daimyo si dividevano inoltre in tre grandi categorie politiche. I discendenti collaterali degli shogun Tokugawa,
esclusi dallo shogunato, erano chiamati shimpan (“han imparentati”). Alla seconda categoria appartenevano i
fudai, o daimyo “ereditari”, che comprendevano, con poche eccezioni, i discendenti di coloro che avevano
riconosciuto la signoria di Ieyasu prima del 1600. La terza categoria includeva i tozama, o daimyo “esterni”,
discendenti dei daimyo che nel 1600 erano teoricamente considerati dei pari di Ieyasu. In tal modo gli alleati, i
neutrali e i nemici dei Tokugawa all’epoca della battaglia di Sekigahara vennero compresi nella categoria dei
tozama; in realtà vi furono differenze notevoli e costanti nei loro rapporti coi Tokugawa. D’altra parte, i vecchi
nemici dichiarati, come i Mori del Choshu nell’Honshu occidentale e gli Shimazu del Satsuma nel Kyushu
meridionale, mantennero sempre una tradizione di ostilità che finì per avere conseguenze importanti nel 19°
secolo.
Quasi tutti i grandi signori appartenevano alla categoria dei tozama, i fudai divennero col tempo più numerosi.
I fudai, insieme allo shogun e ai rami collaterali dei Tokugawa, occupavano quasi tutta la zona strategica al
centro del paese, dal Kanto al territorio della vecchia capitale. Alla fine, una serie di piccoli fudai vennero anche
dislocati in tutto il Giappone nei punti strategici intorno ai tozama più pericolosi.
Ciascun daimyo era nel proprio han un autocrate, almeno finché non violava leggi shogunali, e aveva vassalli e
dipendenti minori; i vassalli, a loro volta, potevano avere loro dipendenti e sottofeudi, che nel caso dell’han di un
grande daimyo erano talvolta anche più grandi del dominio assegnato a un daimyo di diecimila koku. Nessuno
di questi valvassori poteva tuttavia rivendicare il rango di daimyo, giacché essi non erano vassalli diretti dello
shogun. La grande maggioranza dei dipendenti minori non possedeva feudi ma riceveva uno stipendio
ereditario, generalmente sacchi di riso che equivaleva in teoria al gettito fiscale ricavato da un koku del
raccolto.
Nell’esercito e nel governo dei daimyo i vassalli e i dipendenti minori svolgevano funzioni ereditarie che
variavano da quelle di consigliere al semplice servizio di guardia alle porte. Quasi tutti, compresi i vassalli
infeudati ma non i dipendenti dei vassalli, vivevano nella capitale dei daimyo o, se si trattava di un grande han,
in altre residenze loro assegnate. In questo modo essi tendevano a perdere il carattere di possidenti terrieri e di
governanti locali feudali e a diventare un gruppo di burocrati e di soldati stipendiati.
Esistevano comunque tra gli han notevoli differenze. Alcuni daimyo, che avevano perduto gran parte delle loro
terre ed erano stati assegnati a feudi minori nei primi anni del regime Tokugawa, ebbero per questo tra le
popolazioni che controllavano, un gruppo relativamente numeroso di samurai; altri, al contrario, specialmente
daimyo fudai e membri collaterali della famiglia Tokugawa, che avevano un numero relativamente ridotto di
dipendenti ereditari ma che erano stati ricompensati con grandi feudi, ebbero nel loro han una percentuale di
samurai molto inferiore.
Le amministrazioni degli han erano generalmente delle copie in miniatura del governo dello shogun, organizzate
dalle “leggi della casa” di ciascun daimyo e in genere modellate, per decreto shogunale, su leggi emanate dal
governo di Edo; inoltre, molte disposizioni shogunali si applicavano direttamente a tutti gli han oltre che al
dominio dello shogun.
Gli han non pagavano tasse al governo centrale, ma contribuivano a sostenerlo in vari modi. I doni offerti in
molte occasioni erano infatti praticamente obbligatori e accuratamente specificati, ma, più che tasse, essi
rimasero essenzialmente una pura forma di tributo rituale. D’altro canto gli han sollevavano lo shogunato da
quasi tutti gli oneri di governo e di difesa locale e dovevano inoltre fornire soldati per il servizio di guardia a Edo

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o in altri punti strategici e in qualsiasi momento potevano essere costretti a servizi militari di altro genere.
Inoltre, gli han dovevano fornire varie prestazioni speciali, come contribuire ai lavori per il castello di Edo e alla
costruzione o riparazione di argini, che naturalmente riducevano le spese del governo centrale e potevano
essere usate come punizione o provvedimento di normale amministrazione per impedire che i daimyo
accumulassero ricchezze eccessive.

Il controllo degli “han”


La forza militare indipendente dei daimyo e la loro autonomia locale ponevano naturalmente un serio problema.
Una coalizione di daimyo poteva, almeno in teoria, avere il sopravvento sullo shogunato sia sul piano
economico che su quello militare. I Tokugawa, comunque, presero le loro precauzioni istituendo un elaborato
sistema di controllo.
Gli shogun legarono le principali famiglie di daimyo ai Tokugawa con la politica dei matrimoni e proibirono alle
stesse famiglie di stringere legami di parentela tra loro e anche di stabilire, a questo proposito, contatti diretti
senza l’esplicita autorizzazione di Edo. Inoltre, i daimyo non potevano aumentare le loro forze militari, costruire
fortificazioni o anche restaurare i castelli senza il benestare del governo centrale. Pur essendo teoricamente
autonomi, essi erano obbligati a modellare le loro istituzioni e leggi su quelle di Edo ed erano pienamente
responsabili dell’amministrazione dei loro han e della soppressione di ogni attività sovversiva; erano tenuti
inoltre a denunciare ogni manifestazione di slealtà degli han vicini; lo shogunato istituì tra l’altro il sistema dei
metsuke (espressione che si potrebbe tradurre con “censore” o “spia”), che sottoponevano a stretta vigilanza
l’attività degli han e talvolta fungevano da agents provocateurs per smascherare gli elementi dissidenti.
L’evidente malgoverno, il più piccolo atto di slealtà, o anche la mancanza di un erede potevano portare alla
confisca dell’intero dominio del daimyo o, più spesso, a una riduzione delle terre o al trasferimento del daimyo e
dei suoi dipendenti in han di minore importanza. Fatta eccezione per i grandi signori tozama, che dovevano
essere trattati con speciale riguardo, la maggior parte delle famiglie di daimyo vennero trasferite almeno una
volta, durante il periodo Tokugawa, o per promozione o per degradazione.
I più importanti meccanismi per controllare i daimyo furono il sistema degli ostaggi e l’avvicendamento dei
daimyo stessi al servizio dello shogun a Edo. Già i signori feudali avevano usato il sistema degli ostaggi per
assicurarsi la lealtà dei vassalli; la pratica venne ripresa dai daimyo, che inviarono le loro mogli e i figli alla corte
shogunale, in un primo tempo volontariamente, e quindi costretti dopo il 1634.

Il sistema “sankin kotai”


La presenza occasionale di un vassallo presso il signore, per rendere omaggio e offrire i servigi, era stata fin
dall’inizio una delle caratteristiche del feudalesimo giapponese; i Tokugawa fecero di questa consuetudine, fino
a quel momento applicata in modo asistematico, un elemento fondamentale della loro struttura di governo.
Essa funzionava già in pratica, anche in questo caso come atto apparentemente volontario, prima della morte
di Ieyasu; le leggi emanate nel 1635 e nel 1642 la trasformarono, col nome di sankin kotai (“servizio a turno”),
in un istituto giuridico rigorosamente definito in ogni particolare.
Fondamentalmente il sistema divideva ciascuna delle varie categorie di daimyo in due gruppi, i quali prestavano
servizio presso lo shogun a Edo alternandosi ogni anno. I due gruppi di daimyo fudai preposti agli han del Kanto
si alternavano invece ogni sei mesi, mentre alcuni daimyo periferici, ai quali erano stati assegnati particolari
compiti di difesa locale, prestavano servizio per periodi ancora più brevi; il sistema conobbe poi altre eccezioni
permanenti o temporanee. Le funzioni pratiche e cerimoniali svolte dai daimyo durante il periodo di servizio
presso lo shogun erano dettagliatamente prescritte, come erano stabiliti i loro acquartieramenti militari a Edo, il
numero e l’equipaggiamento dei membri del loro seguito durante il viaggio tra la città e gli han e infine la strada
che dovevano percorrere.
Il sistema sankin kotai si rivelò estremamente utile per ridurre all’ordine i vassalli dei Tokugawa. Poiché in
qualsiasi momento la metà dei daimyo erano nelle mani dello shogunato, il sistema degli ostaggi si rafforzò e si
ridussero ulteriormente le possibilità di ribellione con la trasformazione dei daimyo stessi in cortigiani dello
shogun; molti di loro, infatti considerarono spesso i periodi di permanenza negli han come una forma di
temporaneo esilio e di lontananza dalle famiglie e dai piaceri della vita di Edo.

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Il sistema sankin kotai rappresentò inoltre per i daimyo un onere economico estremamente gravoso e ridusse
quindi le loro possibilità di rivaleggiare con lo shogunato. Ogni anno ciascun daimyo doveva infatti
intraprendere un costoso viaggio per raggiungere Edo o per far ritorno dalla capitale al proprio han e
provvedere inoltre al mantenere sia gli organi di governo nel dominio sia una residenza con personale
permanente a Edo.
Il sistema sankin kotai contribuì decisamente a completare l’asservimento dei daimyo agli shogun, ma ebbe
anche conseguenze di più vasta potata. Servì infatti a sviluppare una buona rete stradale tra Edo e le altre
regioni del paese; stabilì stretti e stimolanti contatti tra grandi samurai provenienti da ogni parte del Giappone;
infine, favorì notevolmente la commercializzazione dell’economia, poiché i daimyo dovevano convertire in
moneta, da usare in villaggio o alla capitale, una larga parte delle loro rendite in natura. Di conseguenza, se da
una parte il sistema contribuì ad assicurare il successo politico del regime dei Tokugawa, dall’altra provocò a
lungo andare lo sgretolamento dell’economia feudale e quindi il crollo dello stesso regime.

Il governo dei Tokugawa


Nonostante la grande autonomia concessa ai daimyo, lo shogun governò di fatto come un despota, poiché
neppure i daimyo potevano efficacemente opporsi alle sue decisioni. Egli dominò il paese servendosi di una
complicata struttura governativa a carattere dualistico. L’amministrazione shogunale, o bakufu, era infatti da
una parte il governo del dominio del daimyo, posseduto personalmente dallo shogun, e dall’altra il governo
nazionale del Giappone, che si esercitava indirettamente sul resto del paese attraverso il controllo sui singoli
daimyo.

I domini dello shogun e dello shimpan


Nel tardo 17° secolo il dominio personale dello shogun aveva una capacità produttiva agricola di circa 7 milioni
di koku. Le terre dello shogun, note col nome di tenryo, o “dominio celeste”, erano sparse un po’ dovunque in
tutto il paese, ma si accentravano soprattutto intorno a Edo. Esse comprendevano molte delle più importanti
miniere, come quelle d’oro e d’argento dell’isola di Sado, e le città e i centri urbani più popolsi e
strategicamente più importanti, come Edo, Kyoto, Osaka, Nagasaki, Sakai e Yamada (dove erano situati i
santuari di Ise).
Come i daimyo, lo shogun manteneva un gran numero di dipendenti personali di rango inferiore. Quelli che
godevano del diritto di udienza presso lo shogun erano chiamati “uomini eccellenti” (hatamoto), mentre coloro
che ne erano privi e che generalmente percepivano uno stipendio annuo inferiore ai cento koku, erano chiamati
“uomini della onorevole casa” (gokenin). I più importanti tra i diretti dipendenti dello shogun avevano feudi
propri, dove però risiedevano soltanto quelli di rango più elevato.
Lo shogunato era sostenuto dai daimyo dei principali rami collaterali della famiglia, detti shimpan, tra i quali i più
importanti furono quelli dei tre han stabiliti nelle zone strategiche tra il 1609 e il 1619 a Mito, a nordest di Edo, a
Nagoya (Owari), tra Edo e Tokyo, e a Wakayama (Kii) a sud di Osaka. Questi tre rami collaterali, noti col nome
di “Tre casate” (Sanke), discendevano dal settimo, ottavo e nono figlio di Ieyasu; tra i loro membri veniva scelto
lo shogun quanto il precedente era morto senza eredi. Al ramo di Wakayama appartennero infatti l’ottavo
shogun, uomo di notevoli capacità, e il quattordicesimo; il ramo di Mito diede invece il quindicesimo shogun,
che fu anche l’ultimo. Alla metà del 18° secolo tre figli dell’ottavo e del nono shogun vennero scelti per formare
tre nuovi rami collaterali, noti col nome di “Tre signori” (Sankyo), che ebbero la stessa funzione dei precedenti;
a differenza delle “Tre casate”, essi portarono però dei cognomi propri ma non possedettero han autonomi; in
compenso, ricevettero stipendi considerevoli.
Gli altri rami collaterali di daimyo Tokugawa, diciotto alla fine del periodo, ricevettero il nome di Matsudaira, che
era quello originario della famiglia di Ieyasu.

Il governo centrale
Gli shogun Tokugawa, come i loro predecessori, anche se in teoria derivavano ogni autorità dagli imperatori, si
mantennero, insieme ai loro governi, separati dalle corte di Kyoto.
Anche se estranei alla corte di Kyoto, gli shogun la finanziarono con una certa generosità, ma la mantennero
anche sotto una rigorosa sorveglianza. Nel 1615 Ieyasu emanò una serie di leggi per regolare l’attività della

182
corte imperiale. Il suo rappresentante a Kyoto (shoshidai) fungeva da governatore militare della città, oltre a
sorvegliare i daimyo del Giappone occidentale, mentre un gruppo di funzionari shogunali, i Maestri delle
cerimonie di corte (Koke), sottoponevano a un rigoroso controllo le cerimonie e le attività che si svolgevano a
Kyoto.
I servizi prestati dai funzionari del governo dello shogun, reclutati quasi esclusivamente tra i daimyo fudai, gli
“uomini eccellenti” e gli “uomini della onorevole casa” rientravano tra i loro obblighi feudali. Molti uffici erano
ricoperti da due o più persone che si alternavano ogni mese nella assunzione delle responsabilità. Sebbene i
funzionari venissero scelti per le loro capacità, essi non potevano che occupare cariche adeguate alla loro
condizione nella gerarchia feudale. Agli inizi del 18° secolo il sistema ricevette una maggiore mobilità con
l’aumento temporaneo di taluni stipendi o feudi, onde permettere agli amministratori capaci di occupare cariche
più importanti di quelle cui avrebbero altrimenti potuto accedere. Col tempo, tutte le cariche, tranne le più alte,
finirono per comportare specifiche retribuzioni in aggiunta allo stipendio ereditario o al feudo. Era anche
possibile, in casi veramente eccezionali, che a personalità di particolare importanza venisse attribuito in
permanenza un rango nel sistema feudale per permettere loro di avanzare ulteriormente nella burocrazia. Si
ebbe così una selezione in base al merito e anche una certa possibilità di avanzamento mediante promozioni,
ma nel complesso la condizione feudale ereditaria restò il fattore determinante della posizione burocratica.
L’amministrazione shogunale crebbe disordinatamente sul vecchio governo familiare dei Tokugawa. Un gruppo
di undici persone, scelte tra i grandi fudai e i daimyo dei rami collaterali dei Tokugawa (escluse le “Tre casate”),
formavano un consiglio supremo. Il massimo organo amministrativo, che costituiva una specie di gabinetto, era
invece generalmente formato da tre a sei daimyo fudai, anche se talvolta, agli inizi del secolo 17°, essi furono
ben 11. Noti con l’appellativo di anziani (roju, chiamati in origine toshiyori), costoro godevano di grande autorità
nelle questioni di politica nazionale e controllavano le attività di un gran numero di servizi amministrativi. Tra il
1638 e il 1684 uno o due Grandi Anziani (Tairo) furono posti a capo del massimo organo amministrativo e in tal
modo svolsero in un certo senso la funzione di primi ministri, ma in seguito la carica venne ricoperta solo
sporadicamente e per breve tempo, di solito nel corso di particolari periodi di crisi. Inoltre, la carica di anziano e
di Grande Anziano finì per essere riservata soltanto a pochissime famiglie fudai.
Un secondo gabinetto, o piccolo gabinetto, era formato da un gruppo di daimyo fudai (generalmente il loro
numero variava da tre a cinque) chiamati Anziani Minori (Wakadoshiyori), che spesso venivano poi ammessi nel
supremo organo amministrativo.
Costoro controllavano un altro gruppo di uffici amministrativi le cui funzioni riguardavano principalmente i servizi
prestati allo shogun dai suoi diretti dipendenti, vale a dire gli “uomini eccellenti” e gli “uomini della onorevole
casa”. Inoltre, i sei o sette ciambellani (sobashu) e il Grande Ciambellano (Sobayonin), quando se ne nominò
uno, ebbero una considerevole influenza sulle decisioni del governo, specialmente negli ultimi anni, grazie al
loro stretto contatto con lo shogun.
Vi erano poi numerosi uffici e organi amministrativi che operavano sia alle dirette dipendenze dello shogun sia a
quelle dei due consigli di gabinetto. I più importanti erano la Commissione dei templi e dei santuari, che
sovraintendeva agli affari secolari di tutte le istituzioni religiose del paese, e la Commissione delle finanze, le cui
competenze erano quelle di un ministero dell’economia.
Le principali città, Edo, Osaka e Kyoto, erano amministrate da due Commissari cittadini, mentre altri
commissari controllavano Nagasaki e il suo commercio estero.

Il sistema legislativo
Le attività del governo shogunale erano definite da un complesso di leggi e regolamenti. La raccolta più
importante, le Leggi delle casate militari, fu emanata da Ieyasu nel 1615. Si trattava di 13 massime e divieti
generali diretti a regolare l’attività dei daimyo e dell’intera classe militare. Il codice di Ieyasu venne modificato e
ampliato da quasi tutti i suoi successori che emanarono a loro volta delle Leggi delle casate militari.
Innumerevoli furono anche i regolamenti minori e gli editti, che stabilivano i particolari della procedura
amministrativa; esisteva inoltre un severo codice penale che trattava la popolazione con maggior durezza,
rispetto ai samurai. I contadini comunque regolavano abitualmente i loro affari di villaggio in base alle
consuetudini locali, senza correre il rischio di un intervento delle autorità governative. I bandi e i regolamenti più
importanti, come il divieto del culto cristiano, erano però iscritti su tavole erette in luoghi visibili ai passanti.

183
Il sistema etico
Le autorità Tokugawa dovettero affrontare il problema dell’esercizio del potere, durante un periodo di pace
prolungata, per mezzo di una casta militare e di quelli che in origine erano stati eserciti a base locale. Era quindi
necessario conservare l’etica militare e le virtù guerriere per evitare il crollo della classe dominante; ma nello
stesso tempo un eccesso di spirito bellicoso e un ritorno dei guerrieri all’effettivo esercizio della loro professione
potevano turbare la pace conquistata. Per una o due generazioni la turbolenza dei ronin, cioè dei membri della
classe guerriera che non avevano un posto soddisfacente nel nuovo sistema, suscitò serie difficoltà, ma i
Tokugawa riuscirono nel complesso a risolvere brillantemente il problema incoraggiando tra la classe militare il
rispetto di un’etica rigorosa. In tal modo, un codice di comportamento etico (e la filosofia che ne costituiva il
fondamento) non solo diventò uno degli elementi essenziali del sistema Tokugawa, ma venne anche
consapevolmente riconosciuto come tale da coloro che lo stabilirono.

Le arti militari e il “Bushido”


Le prime Leggi delle casate militari, quelle emanate da Ieyasu, incoraggiavano l’istruzione e le arti militari. È
interessante notare come l’istruzione occupasse il primo posto, ma la cosa non è sorprendente se si pensa
all’impronta letteraria data dai cinesi all’intera civiltà dell’Asia orientale. Le arti militari vennero coltivate con
grande serietà. Ciò diventava tanto più necessario in quanto andava acquistando sempre maggior importanza
l’aspetto teorico della guerra, mentre le generazioni che avevano acquisito in questo campo una esperienza
pratica scomparivano gradualmente dalla scena.
Nei vari han vennero istituite scuole per l’insegnamento della professione delle armi, che essendo considerata
più un’arte che una mera tecnica di combattimento, andò acquistando però un carattere sempre più
formalistico. Per esempio, scarsa attenzione si dedicò all’artiglieria; al contrario, si tennero in gran conto le virtù
militari tipiche della guerra medievale, come il maneggio dell’arco e della spada. In altre parole, si tendeva più a
porre l’accento sulla formazione del carattere guerriero che sull’abilità militare pratica. Le arti militari venivano
cioè considerate dei mezzi di elevazione morale, come gli sport. Il jujitsu, o judo, potrebbe essere compreso in
questa categoria di sport militari.
Le arti militari rappresentavano comunque solo una parte del codice di comportamento dei samurai. Nelle
Leggi delle casate militari di Ieyasu erano prescritte altre norme di condotta, quali la lealtà personale,
l’obbedienza, la sobrietà, frugalità, accettazione delle distinzioni di classe; ulteriori elementi vennero aggiunti dai
successivi shogun e alla fine si stabilì un organico e dettagliato complesso di precetti etici. Col tempo questo
codice assunse il nome di Bushido, la “Via del guerriero”, e l’”istruzione” che gli shogun Tokugawa
raccomandarono sempre fu generalmente orientata verso l’apprendimento di questo sistema etico.
Malgrado la cura con cui venne elaborato, il Bushido non era privo di intrinseche debolezze e contraddizioni. In
origine, esso era stato concepito per il sistema sociale e le esigenze etiche di un periodo di continue guerre e,
malgrado alcune successive modifiche, tendenti ad adattarlo a un’epoca di pace e di ordine, non poté
adeguarsi alla struttura sempre più burocratica del governo o all’economia commerciale in rapida espansione. I
governanti del periodo Tokugawa furono quindi costretti a consolidare questo loro sistema ideologico per
mezzo di supporti filosofici estranei all’etica feudale.

Il declino del buddismo e l’ascesa del confucianesimo


È significativo il fatto che questi supporti non vennero cercati nel buddismo, la religione che aveva dominato per
un millennio il pensiero giapponese ma che era ora chiaramente in declino. Esso era riuscito ad opporsi al
militarismo dei grandi unificatori del tardo 16° secolo e come baluardo intellettuale contro il cristianesimo si era
rivelato inefficiente. Ma, quel che è peggio, sia i guerrieri eruditi che i cittadini colti avevano cominciato a
manifestare un certo disdegno, per non dire disprezzo, non solo nei riguardi del clero ma anche verso alcuni
principi fondamentali della religione, proprio come era accaduto alcuni secoli prima alle classi intellettuali cinesi
e coreane, quando esse si erano allontanate dal buddismo.
Ciò non significa che in Giappone la decadenza di questa religione sia stata altrettanto grave quanto in Cina e
in Corea. I giapponesi, o almeno la grande maggioranza, continuarono a credere nel buddismo e molti con
sincero fervore. Questa religione svolse inoltre nuove e importanti funzioni sociali. Iemitsu ordinò infatti che tutti

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i giapponesi venissero registrati come “parrocchiani” di un tempio, allo scopo di controllare i cristiani. Le scuole
dei templi, già molto diffuse durante il periodo Ashikaga, divennero infine i principali istituti di educazione
elementare per le classi inferiori. Ciononostante, il buddismo aveva perduto gran parte della sua forza spirituale
e non godeva più, come in passato, di una posizione di egemonia intellettuale.
Per dare al loro sistema una base filosofica, i governanti Tokugawa non si rivolsero al buddismo ma al
razionalismo confuciano e al suo ideale di un ordine sociale secolare. Ciò fu forse affatto naturale, se si
considera che il confucianesimo attribuiva grande importanza proprio ai problemi che interessavano
maggiormente i fondatori dello shogunato Tokugawa, e precisamente la creazione e il mantenimento di un
ordine sociale e politico stabile sulla base di un saldo codice etico.
Naturalmente il confucianesimo fu in Giappone conosciuto e onorato già nel secolo 7; tuttavia, malgrado la
formale struttura feudale, il sistema politico dei Tokugawa fu per alcuni aspetti molto più vicino alle concezioni
politiche cinesi che non qualsiasi altro precedente regime giapponese. In altre parole, il pensiero confuciano
venne adattato, come mai era accaduto prima, alla situazione giapponese; il periodo Tokugawa divento così, a
paragone con i periodi precedenti, un’epoca confuciana. L’antica concezione di un ordine umano stabilito in
armonia con gli immutabili principi naturali sembrava giustificare le rigide separazioni sociali e l’assolutismo
politico del sistema dei Tokugawa. L’importanza attribuita dal confucianesimo alla lealtà, ai fondamenti etici del
governo e all’ortodossia intellettuale, nonché l’ideale cinese di un regime civile e burocratico, erano
estremamente utili ai governanti. Tali idee davano al loro sistema una solida base filosofica, resa doppiamente
sicura dall’autorità del passato e dal tradizionale prestigio che circondava tutto ciò che era cinese.

Il neoconfucianesimo in Giappone
Il neoconfucianesimo che fiorì in Giappone sotto l’egida ufficiale dei Tokugawa fu la scuola ortodossa che
risaliva principalmente al filosofo del 12° secolo Chu Hsi, noto in Giappone come Shushi. I giapponesi
accettarono infatti la metafisica del cosiddetto neoconfucianesimo, compresa la teoria che faceva risalire
l’essenziale bontà nella natura umana al fondamentale ordine dell’universo. L’importanza che Chu Hsi attribuiva
alla “investigazione delle cose” venne però interpretata in Giappone in modo diverso, ossia non fu come in Cina
una mera ricerca testuale. Molti confuciani del periodo Tokugawa furono infatti medici o botanici e
manifestarono un interesse scientifico per i fenomeni della natura. Comunque, i filosofi giapponesi, come gli
ultimi filosofi cinesi, rivolsero la loro attenzione soprattutto all’etica pratica del confucianesimo; ciò che in
particolare suscitò il loro interesse fu l’importanza che i confuciani attribuivano ai fondamenti morali della
legittimità politica, alla lealtà, a un ordine sociale e familiare concepito gerarchicamente, a un giudizio moderato
basato sul giusto mezzo e in genere a tutte le virtù tradizionali; erano le concezioni che meglio servivano a
controllare i daimyo insoddisfatti e i turbolenti samurai e a evitare radicali sconvolgimenti sociali.
Il neoconfucianesimo era stato introdotto in Giappone dai dotti dello Zen del periodo Ashikaga. L’uomo che
sottopose le nuove idee all’attenzione di Ieyasu fu un monaco di nome Seika (1561-1619). Un suo discepolo,
Hayashi Razan (o Doshun, 1583-1657), nominato consigliere da Ieyasu nel 1608, ebbe una parte di primo
piano nella elaborazione delle leggi e nello sviluppo del sistema politico ed etico dei Tokugawa.
Ieyasu apprezzò gli uomini come Seika e Razan poiché le loro conoscenze si rivelarono estremamente utili non
soltanto per dare una base filosofica al suo sistema politico, ma anche per edificare l’apparato amministrativo e
intrattenere relazioni internazionali con gli altri paesi dell’Asia orientale. Ma l’influenza del confucianesimo non si
limitò a questo. La teoria economica confuciana accentuò inoltre la tendenza dei governanti feudali a
considerare l’agricoltura come l’unica base economica del governo e li incoraggiò sempre più a trascurare il
commercio sia interno che estero.
Il confucianesimo contribuì anche a suscitare nei giapponesi l’interesse per la storia antica, dato che la storia, in
quanto fonte di ogni conoscenza della società umana, costituiva una parte importante della dottrina confuciana.
Il confucianesimo contribuì inoltre a sviluppare tra i samurai vasti interessi culturali, che in seguito produssero
uno slancio di attività intellettuale che offuscò il tradizionale spirito militare di questa classe. In tal modo esso
servì a trasformare i guerrieri-aristocratici in letterati-burocrati, necessari al funzionamento del sistema
Tokugawa. Il confucianesimo favorì anche lo studio e l’uso della lingua cinese. In altre parole, l’”istruzione”
propugnata dagli shogun Tokugawa fu principalmente una cultura di lingua cinese. Di conseguenza,
nonostante l’isolamento autoimposto, fu questo un periodo di profondi studi, intrapresi da numerosi uomini di

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cultura notevolmente influenzati da testi cinesi di vario genere; ancora una volta molti libri vennero scritti in
cinese classico, spesso con una notevole precisione grammaticale e persino con una certa eleganza.

L’etica Tokugawa
Il confucianesimo lasciò comunque la sua traccia più profonda nel campo dell’etica e delle relazioni sociali. Fu
dal confucianesimo, infatti, che derivò la teoria delle quattro classi e l’identificazione del samurai con il letterato-
amministratore cinese. Anziché discutere sulle relazioni tra signore e vassallo, i moralisti Tokugawa misero in
rilievo i cinque rapporti confuciani, dei quali il primo è quello tra governante e ministro.
I canoni etici giapponesi si avvicinarono quindi, come mai prima d’allora, a quelli cinesi; tuttavia, il rigoroso
codice etico che scaturì da questa combinazione della filosofia neoconfuciana con gli ideali e il sistema sociale
del Giappone feudale rimase ben distinto da quello cinese. In primo luogo, la lealtà al signore, cioè all’unità
politica, ebbe sempre in Giappone il sopravvento sulla lealtà familiare. Inoltre, la morale confuciana in generale,
applicata nell’ambito delle rigorose distinzioni di classe della società giapponese, creò tensioni assai più
evidenti che nella società cinese più libera ed egualitaria. L’ordine sociale giapponese sembra essere stato
caratterizzato da una minore spontaneità che a sua volta rese necessario un più accentuato conformismo e di
conseguenza più forti pressioni sociali sull’individuo.
A ciascun membro della classe dei samurai veniva inculcato un profondo senso del dovere verso la famiglia, il
signore e la società, insieme alla convinzione che la sua vita doveva adeguarsi alla sua condizione e agli
obblighi specifici che questa gli imponeva. La vita del samurai finì quindi per essere regolata da concetti come
quello di giri, “dovere” e di on, il debito di gratitudine verso il superiore per la sua “benevolenza”.
Il samurai sviluppò soprattutto il senso della disciplina, essenziale per lo svolgimento dei compiti che gli erano
assegnati nella società e per vivere conformemente ai principi del dovere e dell’onore. Pur non conoscendo la
costrizione esercitata, in Occidente, dal senso del peccato, il giapponese trovò nel proprio senso del dovere
una spinta interiore quasi analoga, che lo portò a fare ogni sforzo per sottrarsi alla vergogna che gli sarebbe
derivata dalla mancata osservanza dei suoi particolari obblighi e per ottenere invece l’onore che circondava chi
era in grado di compiere ciò che la società pretendeva da lui.
Questi atteggiamenti si diffusero dai samurai alle altre classi, e ciò fu in parte il risultato di severe disposizioni e
di dure punizioni. Il vecchio metodo cinese della responsabilità collettiva, usato in Giappone da molti secoli,
venne ora applicato in modo uniforme attraverso il sistema della “unità dei cinque uomini” (gonin gumi), che
inculcò il senso della disciplina e del rispetto del dovere anche negli strati più bassi della società. Di
conseguenza, la disciplina e un vivo senso del dovere e dell’onore divennero in generale i tratti caratteristici del
Giappone del periodo Tokugawa ed ebbero probabilmente un’importanza pari a quella delle elaborate strutture
politiche nel determinare la stabilità del regime.
L’etica Tokugawa non era comunque priva di intrinseche debolezze. Basata su una ortodossia filosofica
straniera e su un sistema sociale interno piuttosto superato, essa non poteva adattarsi perfettamente alla
società del periodo Tokugawa, e probabilmente diventò così rigida e inflessibile proprio a causa della sua
artificiosità. La sua applicazione richiese quindi uno sforzo di volontà e di disciplina molto maggiore di quello
che sarebbe stato necessario se questa etica fosse stata lo specchio fedele delle condizioni economiche e
sociali. Si temette sempre che una modifica di tali concezioni potesse aprire la strada al rifiuto dell’intero ordine.
Così, quanto meno naturale era l’applicazione del codice etico alla società, tanto più meticolosa doveva essere
l’osservanza di ogni dettaglio formale; quanto meno realistiche le relazioni e gli atteggiamenti sociali richiesti da
questo codice, tanto più forte la disciplina e la spinta del senso del dovere in coloro che cercavano di
applicarlo. In questo modo, il sistema etico Tokugawa, che era stato concepito come una solida struttura per
l’ordine sociale e politico risultò sin dall’inizio alquanto restrittivo e divenne col tempo un involucro sempre più
rigido che impedì la crescita della società giapponese.
La rigidità e il formalismo dell’etica Tokugawa sono probabilmente all’origine della tendenza, tuttora presente, a
sacrificare i principi morali e la vera cortesia a vantaggio di una puntigliosa osservanza delle forme e
dell’etichetta.

Il ciclo dinastico nel Giappone dei Tokugawa

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Nonostante le contraddizioni interne, le tensioni e le altre sue lacune, il sistema si rivelò estremamente efficiente
e seppe conservare la pace nel paese e la supremazia della famiglia Tokugawa per due secoli e mezzo. La
rivolta di Shimabara del 1637-1638, l’ultima vera crisi militare prima della metà del 19° secolo, fu anche l’ultima
minaccia militare o politica che le classi inferiori seppero portare alla supremazia dell’aristocrazia feudale. Nei
due secoli precedenti, episodi simili si erano ripetuti con notevole successo locale; sotto i Tokugawa, il potere
militare e politico centralizzato divenne invece così efficiente che i gruppi privati non ebbero più la possibilità di
opporsi. Nella seconda metà del periodo si verificarono sempre più spesso sommosse contadine, ma si trattò
unicamente di tentativi disperati per sfuggire alla oppressione dei debiti, ottenere riduzioni fiscali e eliminare
determinati tipi di malgoverno. Essere non rappresentarono mai uno sforzo organizzato, diretto a rovesciare il
potere della classe militare.

La pace Tokugawa
I pochi incidenti e le catastrofi naturali che turbarono la normale amministrazione del governo dei Tokugawa
non servirono che a mostrare quanto completa fosse la pace che essi avevano stabilito. Breve elenco dei
principali disordini:
nel 1651, quando Ietsuna diventò shogun all’età di dieci anni, Yui Shosetsu, un popolare maestro d’armi di Edo,
organizzò un coup d’etat di ronin insoddisfatti, ma il complotto venne scoperto e i capi messi a morte. Questi
fatti furono in gran parte una conseguenza della situazione di molti samurai, rimasti senza capo per la sconfitta
dei loro signori negli anni precedenti. Dopo il 1652, il problema dei ronin divenne comunque meno grave e non
provocò altri disordini fino agli ultimi anni del periodo Tokugawa.
Il suicidio di alcuni dei principali funzionari di Iemitsu al momento della sua morte, avvenuta nel 1651, portò nel
1663, alla proibizione di questo vecchio costume, conosciuto col nome di junshi (“seguire nella morte). Una
rivolta degli ainu nell’Hokkaido nel 1660 venne repressa dal daimyo di Matsumae, stabilito all’estremità
meridionale dell’isola.
Probabilmente furono i disastri naturali, più che questi avvenimenti, a logorare il regime. Nel 1657, gran parte
della città di Edo fu distrutta da un incendio, il primo e il più grave di quelli che devastarono la città durante il
periodo Tokugawa. Nel 1703, un grande terremoto fece decine di migliaia di vittime nel Kanto, mentre nel 1707
si ebbe un’eruzione del monte Fuji, che fu però anche l’ultima.
L’avvenimento che scosse il paese più di ogni altro durante il periodo Tokugawa, anche se non costituì una
minaccia per il governo, fu però il cosiddetto episodio dei Quarantasette ronin, nel 1702.
Quasi due anni prima, il piccolo daimyo di Ako, nell’Honshu occidentale, aveva impugnato la spada perché
vittima di una grave provocazione e ferito un funzionario shogunale nel castello di Edo. Poiché il solo fatto di
mettere mano alle armi nei recinti del castello comportava la pena di morte, il daimyo fu costretto a suicidarsi e
il suo han venne confiscato. Tuttavia, 47 suoi samurai, ridotti ormai alla condizione di ronin, giurarono di
vendicarsi sul funzionario che aveva causato la rovina del loro signore. Sapendo che costui e le altre autorità
shogunali avrebbero sospettato una iniziativa del genere, essi si separarono e in alcuni casi abbandonarono la
famiglia ostentando una vita di sregolatezze. Quindi, quando pensarono di non essere più sorvegliati, presero
d’assalto la residenza del funzionario a Edo e lo uccisero in una notte nevosa. L’opinione pubblica si schierò
decisamente dalla loro parte, ma alla fine essi furono costretti a suicidarsi per espiare il loro delitto. Il
comportamento dei 47 ronin, è citato spesso come esempio di virtù feudale.

La decadenza morale e la crisi finanziaria del governo


Alcuni elementi del ciclo amministrativo dinastico si manifestarono nel Giappone di Tokugawa.
Il regime, che era stato assai prospero sotto i primi tre shogun, cominciò a incontrare serie difficoltà finanziare
nell’ultima parte del 18° secolo. Le crescenti spese del bakufu e dei singoli daimyo furono ben presto superiori
alle entrate, legate per la maggior parte ai raccolti agricoli dall’aumento non altrettanto rapido. Con l’espediente
dei prestiti forzosi, alcuni daimyo ridussero a volte perfino del 50% degli stipendi dei loro dipendenti,
contribuendo a minare il morale della classe militare, già colpito dall’inevitabile rilassamento dello spirito
guerriero dinastico cinese, il governo degli ultimi shogun fu nel complesso meno autoritario, o quanto meno
piuttosto indeciso. L’amministrazione si era fatta più complessa, ma stava anche diventando sotto alcuni aspetti
meno efficiente. Il lassismo e la corruzione erano un fatto sempre più comune tra i funzionari. Per riempire le

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casse vuote del tesoro si adottarono pessimi provvedimenti quali l’alterazione delle monete; spesso si lasciò
che gli argini dei fiumi, le strade e altre opere pubbliche venissero completamente trascurati, aumentando in tal
modo le probabilità di disastri naturali.
L’aumento demografico è un altro degli aspetti del ciclo dinastico. L’aumento naturale della popolazione in un
periodo di pace aveva sottoposto a considerevoli pressioni le limitate risorse alimentari del paese isolato. Di
conseguenza, le carestie divennero più frequenti e le calamità naturali causarono danni più gravi. Questa
situazione e la necessità da parte del governo di un più elevato gettito discale provocarono a loro volta un
aumento delle agitazioni e dei disordini tra i contadini. L’indebolimento dell’autorità dello shogunato,
l’inefficienza e la fiacchezza amministrativa, le difficoltà finanziarie e le agitazioni popolari, erano presenti in
quasi tutti gli han, naturalmente su scala più ridotta ma spesso in forma accentuata.
L’ultima parte del periodo Tokugawa si riduce a una vicenda alterna di tentativi per arrestare il declino
“dinastico” e di aperte sconfitte. Questi tentativi furono generalmente rappresentati da un ritorno degli anziani
al controllo del governo centrale, dopo un periodo di supremazia dei ciambellani, che in genere appartenevano
a uno strato più basso della società feudale. Essi furono anche caratterizzati dalla ripresa di una politica
economica e etica più tradizionale, ossia dal ritorno alle antiche virtù feudali, da una rigorosa moralità politica
per sanare l’aperta corruzione, da una più marcata dipendenza delle entrate governative dall’agricoltura, da
restrizioni meno severe al commercio con l’estero, da una moneta solida anziché svilita e da un più rigoroso
controllo delle imprese commerciali.
Il primo di questi tentativi fu dovuto all’iniziativa dell’erudito confuciano Arai Hakuseki (1657-1725), che dal
1709 al 1716, sotto due shogun, fu il principale artefice della politica governativa. Hakuseki tentò di riportare
l’ordine e la disciplina. Fu la sua politica a rendere le leggi più pratiche, a stabilire una moneta solida togliendo
dalla circolazione quella deprezzata, a interrompere le esportazioni di argento e di rame, a introdurre una
specie di bilancio nelle finanze shogunali e a risanare la moralità con una maggiore enfasi sul rituale
confuciano.

Le riforme di Yoshimune
Ai tentativi di riforma di Hakuseki seguirono quelli di Yoshimune, ottavo shogun dal 1716 e discendente dal
ramo collaterale di Wakayama. Egli si proponeva essenzialmente un ritorno all’antico spirito guerriero, alle
abitudini frugali e all’efficienza amministrativa del primo periodo Tokugawa o, piuttosto, alla immagine
idealizzata che di questa età si facevano gli uomini del secolo successivo. Poiché il suo sforzo fu almeno in
parte coronato da successo, gli apparve agli occhi degli storici giapponesi come il corrispondente degli energici
imperatori che in Cina facevano la loro comparsa verso la metà del ciclo dando alla dinastia nuovo vigore.
Molti dei tentativi di Yoshimune ebbero effetti positivi. Egli cercò di aumentare la produzione agricola mediante
progetti di bonifica e con la divulgazione di nuove colture, come la patata dolce e la canna da zucchero; ridusse
le spese di governo e tra il 1722 e il 1730 abbreviò anche il periodo di permanenza dei daimyo a Edo. Cercò di
dare solide basi alla moneta, di migliorare l’amministrazione e di elevare il morale della classe dei samurai
inculcando con l’educazione un rinnovato spirito guerriero, maggiori capacità letterarie e un più elevato senso
della autorità responsabile. Egli stesso diede l’esempio conducendo una vita semplice e retta e prodigandosi in
esortazioni.
Molti degli sforzi di Yoshimune finirono comunque, malgrado le sue intenzioni, controproducenti. Per sostenere
le finanze shogunali, egli aumentò infatti la pressione fiscale sui contadini, aprendo così la strada a ulteriori
agitazioni. Il suo tentativo di ritornare alla situazione più rigidamente feudale dell’epoca precedente condusse a
un genere di formalismo che in pratica si rivelò dannoso sia per lo spirito della classe militare che per l’efficienza
amministrativa.
Questa situazione colpì soprattutto la classe militare, che percepivano stipendi ora assai ridotti, principalmente
nella forma di quote fisse di riso, parte del quale era poi venduto per ottenere il denaro necessario ad affrontare
le molteplici spese, specialmente quelle per il servizio a Edo.
Le finanze e lo spirito della classe militare si deteriorarono ulteriormente, mentre l’efficienza del governo veniva
ancor più ridotta dalla corruzione e dalle difficoltà economiche.

La politica di Tanuma

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Tanuma Okitsugu fu in questo periodo una specie di genio del male; era un samurai che aveva ereditato solo
un piccolo feudo, ma con l’appoggio dello shogun diventò dapprima grande ciambellano e poi uno degli anziani
(1769-1786) salendo in questo modo al rango di daimyo. Sotto il decimo shogun, Ieharu (1760-1786), Tanuma
ebbe un grande potere, ma suo figlio, uno degli Anziani Minori, venne assassinato nel 1784, e alla morte di
Ieharu, lo stesso Tanuma fu privato delle sue cariche e di tutti i possedimenti, mentre al suo erede venne
lasciata la quota minima per un daimyo.
Tanuma è stato condannato dalla tradizione perché permise che la consuetudine di offrire doni ai superiori si
mutasse in aperta corruzione, ma la vera causa di questo fatto fu l’impoverimento della burocrazia di Edo. Egli
fu inoltre criticato perché non seppe porre un freno alla vita dispendiosa sia della classe militare che degli
abitanti delle città, né restaurare il governo militare e le virtù feudali delle età precedenti. D’altra parte, anche gli
sforzi operati da Yoshimune in questa direzione non avevano avuto un effetto duraturo. Anche l’aumento delle
carestie e i gravi disordini che si verificarono in questo periodo nelle città e nelle campagne furono imputati a
Tanuma; in realtà avvenimenti come questi sono da attribuire più al generale declino “dinastico” che al
malgoverno di un uomo.
In realtà, Tanuma fu un amministratore energico e di spirito liberale. Dato che non cercò in alcun modo di
ostacolare le tendenze economiche e sociale del suo tempo, come aveva fatto Yoshimune, la sua politica ebbe
spesso effetti più costruttivi e duraturi. Tanuma non nutrì nessuno dei tipici pregiudizi feudali favorevoli alla
economia agricola. Seguì l’esempio di Yoshimune sviluppando l’agricoltura con progetti di bonifica, ma cercò
anche realisticamente di allargare la base delle finanze shogunali fino a includervi i settori non agricoli
dell’economia. Favorì il commercio con l’estero, che in questi anni dipendeva soprattutto dalla esportazione dei
prodotti ittici essiccati dell’Hokkaido, oltre che da un vecchio prodotto, il rame. Programmò un piano estensivo
di colonizzazione e di sviluppo dell’Hokkaido, rese ancora più rigidi certi tradizionali monopoli shogunali, come
quelli dell’oro, dell’argento e del rame, e fece un grande sforzo per aumentare la produzione mineraria. Istituì
inoltre nuovi monopoli, specialmente su articoli importati dall’estero, come il ginseng, che si riteneva pianta
medicinale. Per rendere il governo partecipe dei profitti della classe mercantile impose alle grandi associazioni
di mercanti l’obbligo della autorizzazione ufficiale; tassò sia il commercio che i trasporti, sebbene in modo
disordinato e inefficiente. Cercò anche di fare del governo il principale istituto di prestito a favore dei daimyo in
ristrettezze economiche, ma i capitali necessari vennero soprattutto forniti dai ricchi mercanti. La sua politica
monetaria, come quella di molti altri governanti del periodo Tokugawa, fu principalmente diretta ad accrescere i
profitti del governo attraverso l’alterazione delle monete; tuttavia, egli aggiunse a quelle già in circolazione
un’utile serie di monete d’argento.

La reazione sotto Matsudaira Sadanobu


La caduta di Tanuma fu seguita da un periodo di vigorose riforme conservatrici.
Matsudaira Sadanobu, uno degli anziani tra il 1787 e il 1793, fu la figura più eminente di uesto periodo di
riforma volta al passato. In quanto figlio di uno dei “Tre signori”, egli era stato candidato allo shogunato, ma finì
per diventare daimyo di un ramo collaterale e con questo titolo si guadagnò la fama di abile amministratore
riassestando le finanze del suo han. Sotto il nuovo shogun, Ienari, Sadaobu fece immediatamente destituire
dalla carica gli uomini di Tanuma e capovolse la politica di questi. Fece accantonare scorte per i periodi di
carestia e incoraggiò ogni genere di produzione; diede inizio a una politica di austerità governativa e impose
rigorosi limiti ai consumi di tutte le classi con esortazioni e leggi suntuarie estremamente dettagliate; ridusse
nuovamente il commercio e i contatti con l’estero e si fece promotore di un ritorno a concezioni economiche e
filosofiche più ortodosse. Per salvare dalla miseria gli “uomini eccellenti” e gli “uomini della onorevole casa”
dello shogunato annullò i debiti che essi avevano contratto con gli usurai prima del 1785 e stabilì un tasso
insignificante per gli interessi sui debiti più recenti.
La politica di Sadanobu, nota col nome di “Riforme del Kansei”, dal periodo annuo, contribuì ad alleviare la crisi
economica del paese, sostenne provvisoriamente le finanze shogunali e ristabilì il prestigio e l’autorità feudali.
D’altra parte, essa bloccò lo sviluppo dell’economia commerciale e suscitò forti opposizioni.

Mizuno e le riforme del Tempo


Dopo il ritiro di Sadanobu riapparvero ben presto i vecchi sintomi di decadenza sociale ed economica.

189
Quindi, alla fine di un decennio di gravi carestie, tra il 1841 e il 1843 venne compiuto un ultimo disperato
tentativo di riforma. Sotto la guida di Mizuno Tadakuni, uno degli anziani (1834-1845), venne compiuto un
deciso sforzo per risalire il corso della storia seguendo l’esempio di Yoshimune e Sadanobu.
Mizuno adattò ancora una volta una politica di austerità sia pubblica che privata; intervenne nuovamente con
energia a favore degli “uomini eccellenti” oberati di debiti; tentò di regolare i prezzi e di sciogliere le associazioni
mercantili autorizzate dai suoi predecessori; cercò di consolidare i domini personali dello shogun intorno alle
due città principali, Edo e Osaka; proibì ai contadini di abbandonare le terre e ordinò a quelli immigrati nelle
città di far ritorno ai villaggi. Era già stato questo un elemento-base della politica del primo periodo Tokugawa.
Lo sforzo compiuto nel 1843, per quanto deciso, non riuscì a rallentare il ritmo della urbanizzazione.
La politica di Mizuno, nota col nome di “Riforme del Tempo”, si rivelò del tutto irrealistica alla luce delle nuove
condizioni sociali ed economiche. Anche se l’austerità e la parsimonia diedero qualche risultato, la decadenza
dinastica poteva essere temporaneamente arrestata soltanto da iniziative come quelle intraprese da Tanuma,
cioè monopoli governativi meglio organizzati, aumento del reddito proveniente dai settori non agricoli
dell’economia con l’introduzione di nuove imposte e una più stretta cooperazione tra governo e associazioni
mercantili. Lo stesso shogunato e molti han stavano muovendosi in questa direzione, ma i loro sforzi non furono
forse sufficienti e sicuramente vennero troppo tardi, poiché la ricomparsa in forze degli occidentali nelle acque
giapponesi aveva incominciato a sottoporre il sistema Tokugawa a pressioni senza precedenti nella storia del
paese. La spirale discendente divenne più rapida concludendosi negli anni tra il 1860 e il 1870 con il completo
crollo “dinastico”.

La crescita economica: l’agricoltura e i contadini


La decadenza finanziaria dello shogunato e della classe militare potrebbe indurci a pensare a un declino
economico generale; in realtà il periodo Tokugawa fu un’epoca di costante crescita e di sviluppo dell’economia
nel suo complesso. Infatti, il tramonto delle fortune della classe militare dominante non era il sintomo di una
decadenza generale, bensì dell’incapacità del sistema Tokugawa ad adattarsi con sufficiente rapidità al
mutamento delle condizioni economiche. Se la posizione dei samurai e dei daimyo era in declino, non
altrettanto si poteva dire della situazione economica generale. Mentre le strutture politiche feudali e le basi
agricole delle finanze governative rivelavano scarsi mutamenti, l’economia giapponese considerata nel suo
complesso si andava commercializzando e cominciavano ad apparire i sintomi di un incipiente capitalismo con
caratteri approssimativamente simili a quelli del capitalismo emerso dalle rovine del feudalismo europeo.
Naturalmente la crescita economica venne ostacolata dall’isolamento imposto al paese agli inizi del periodo
Tokugawa. Tuttavia, tale isolamento era tutt’altro che completo sul piano economico. Inoltre, i nuovi tipi di
coltura e i progressi tecnologici introdotti in precedenza dagli europei ebbero un effetto stimolante sulla
economia.
In questa situazione, notevole fu l’espansione dell’agricoltura. Sembra infatti che durante la prima metà del
periodo Tokugawa sia raddoppiato, grazie a opere di bonifica, il totale delle aree messe a coltura; un impulso
analogo ebbero i lavori per l’irrigazione e il controllo delle acque richiesti dalla coltivazione del riso. Ma anche
durante la seconda metà del periodo sostanziali sviluppi si registrarono sia nella rete idrica sia nelle aree messe
a coltura. Nel corso di tutto il periodo si realizzarono inoltre progressi tecnologici nel settore agricolo, che
naturalmente contribuirono ad aumentare i raccolti. Fu introdotto l’uso di attrezzi che riducevano la fatica
dell’uomo e si ebbe un grande aumento, qualitativo e quantitativo, dei tipi di coltura, nonché una considerevole
diffusione dei fertilizzanti commerciali.

La commercializzazione dell’economia rurale


La graduale unificazione e commercializzazione dell’economia durante il periodo Tokugawa produsse anche
una lenta trasformazione dell’agricoltura di sussistenza in agricoltura di scambio, nella quale una parte
significativa delle terre coltivate veniva utilizzata per speciali raccolti destinati alla vendita. Questa
specializzazione provocò un aumento della produzione. Nonostante gli sforzi delle autorità per aumentare
dovunque i raccolti di riso, a partire dal tardo 17° secolo si ebbe un aumento delle colture regionali industriali
come il cotone, i semi di sesamo per l’olio, tabacco, canna da zucchero. Ma quel che più conta, l’agricoltura

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giapponese compì progressi tali durante il periodo Tokugawa che, a quanto sembra, raggiunse nel 19° secolo
un livello superiore di tutti gli altri paesi dell’Asia nel campo della tecnologia agricola.
Gli speciali raccolti regionali e la risultate commercializzazione dell’economia stimolarono lo sviluppo di industrie
locali a livello di villaggio, come quelle della produzione e della tessitura della seta, della filatura e tessitura del
cotone, della tintura, del sake. Queste industrie locali, come quelle delle città in espansione, aumentarono la
domanda di lavoro. Si ebbe di conseguenza una riduzione della sottoccupazione stagionale, che aveva
caratterizzato la vecchia economia del Giappone; inoltre, il salario della manodopera aumentò rapidamente nei
secoli 18 e 19.
La crescente domanda di lavoro e i progressi della tecnologia agricola ebbero una profonda influenza sui
tradizionali modelli di vita agricoli. Da una parte, le famiglie povere potevano ora trovare altri mezzi di
sussistenza fuori dell’agricoltura; dall’altra, era più difficile per i proprietari delle grandi unità agricole mantenere
o reclutare le braccia necessarie al lavoro dei campi. Questi si accorsero inoltre che la manodopera salariata
non forniva prestazioni adeguate alle esigenze crescenti della agricoltura. Di conseguenza, si manifestò una
costante tendenza alla trasformazione delle grandi unità agricole in più piccoli poderi, per la conduzione dei
quali era più che sufficienze un ristretto nucleo famigliare senza l’aiuto di molti salariati.

La contrazione dell’unita familiare


Questo mutamento portò a sua volta alla disgregazione delle grandi famiglie, che avevano caratterizzato in
precedenza le comunità agricole più prospere. Esse comprendevano anche i rami collaterali e i servi ereditari,
e questi membri secondari del gruppo avevano spesso a disposizione dei piccoli poderi entro la tenuta
familiare, che coltivavano di persona ma che non bastavano a fornire adeguati mezzi di sussistenza. Secondo il
nuovo sistema la grande tenuta tendette a frantumarsi in una serie di poderi adeguati alla dimensione dei nuclei
familiari. Naturalmente, il proprietario conservava uno di questi poderi per il mantenimento della famiglia
principale, mentre gli altri venivano dati in locazione agli ex rami della famiglia o anche ai servi ereditari. Nel
corso di questo processo le famiglie secondarie diventarono unità socialmente ed economicamente
indipendenti e il loro legame con i proprietari perse gradualmente il suo carattere di obbligazione sociale per
assumere un significato più chiaramente economico.
Questi mutamenti economici e sociali del Giappone rurale ebbero ripercussioni molto significative sul
successivo sviluppo del paese. La disgregazione del vecchio modello della grande famiglia creò, a una delle
estremità della scala sociale, dei prosperi gruppi di proprietari terrieri, che non dovendo più occuparsi
direttamente dell’amministrazione di tutte le loro terre e fornire aiuto economico ai rami collaterali e ai servi
ereditari, potevano ora consacrare una parte sempre maggiore delle loro energie alle industrie di villaggi. Essi
svilupparono così atteggiamenti e capacità imprenditoriali. All’altra estremità della scala, gli affittuari, nei periodi
loro disponibili, e il gruppo sempre più numeroso degli abitanti privi di terre dei villaggi si abituarono a lavorare
come salariati nelle industrie locali. La transizione da questo tipo di impiego al lavoro nelle città poté realizzarsi
con relativa facilità; gli affittuari e gli abitanti privi di terre dei villaggi costituirono così la riserva alla quale le città
del periodo Tokugawa attinsero, in numero sempre crescente, i loro abitanti e le moderne industrie giapponesi
la abbondante manodopera.

L’aumento della popolazione


Questi mutamenti nel Giappone rurale ebbero probabilmente un’influenza anche sull’aumento della
popolazione. Infatti, durante il secolo 17, la rapida crescita demografica andò di pari passo con il tasso di
incremento produttivo. Nel 1721, venne effettuato il primo censimento nazionale, in seguito aggiornato
generalmente ogni 6 anni, anche se di solito erano esclusi dal computo i samurai e parecchie altre categorie
sociali. Sembra tuttavia che per oltre un secolo, dopo il 1721, il totale della popolazione sia rimasto quasi
stazionario, sebbene la produzione agricola e gli altri settori dell’economia continuassero a espandersi
costantemente.
Le ragioni di questa anomalia non sono del tutto chiare. Una spiegazione potrebbe essere data dal
rallentamento delle operazioni per la messa a coltura di nuove terre, ma essa non tiene conto della crescente
produttività delle terre già coltivate. Un altro fattore fu forse la disgregazione della comunità agricola in unità
familiari economicamente indipendenti. Nel precedente sistema della grande famiglia i nuclei familiari, ricchi e

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poveri, formavano insieme un gruppo cooperativo agricolo e la popolazione totale di un villaggio tendeva così a
svilupparsi con lo stesso ritmo del livello generale della produzione del villaggio stesso. Con il nuovo sistema le
famiglie, ricche o povere, erano economicamente indipendenti, ma le migliorie tecnologiche e la
commercializzazione dell’agricoltura avvantaggiarono soprattutto i ricchi, che disponevano dei capitali
necessari al finanziamento di tali trasformazioni ed erano inoltre favoriti dal sistema fiscale. Le terre dei ricchi,
tecnologicamente più progredite di quelle dei poveri, furono tendenzialmente poco tassate a paragone di
queste ultime, oppresse dal fisco. Questa situazione può spiegare una delle evidenti contraddizioni della
società dei Tokugawa, ossia l’aumento delle agitazioni contadine malgrado l’espansione della produzione
agricola in un periodo demograficamente statico, nonché lo stesso ristagno demografico che caratterizzò gli
anni dopo il 1721. Nonostante la ricchezza rapidamente crescente di un piccolo settore della società di
villaggio, la massa delle famiglie rurali continuò ad essere troppo povera per poter sfamare nuove bocche; così
la popolazione delle campagne rimase statica, nonostante la crescita della produttività generale dei villaggi.

Agitazioni e tumulti contadini


Fatto abbastanza curioso, la pressione esercitata dalla scarsità delle risorse colpì più duramente i contadini che
le producevano, in quanto l’onere finanziario del mantenimento della sovrastruttura feudale ricadeva in modo
sproporzionato sul settore agricolo dell’economia. L’importanza che l’agricoltura aveva sia per gli han sia per le
finanze shogunali produsse uno strano contrasto, quello tra il grande rispetto che la circondava e l’ignobile
trattamento inflitto agli agricoltori. Questi oneri erano molto più gravosi per i numerosi contadini che non per i
pochi ricchi.
Quanto più disperata diventava la situazione finanziaria dei governanti feudali, tanto più onerose erano le
esazioni che colpivano i contadini. In realtà, lo sfruttamento crescente dei gruppi agricoli si traduceva talvolta in
una diminuzione sia della produzione che del gettito fiscale, poiché i contadini esasperati abbondavano i campi
per la più facile vita delle città, mentre le zone agricole, oberate dalle imposte, rimanevano incolte.
La disgregazione delle grandi unità agricole tendeva a liberare i contadini più poveri dalla loro antica
dipendenza dai ricchi, ma, in quanto affittuari o possessori di piccoli fondi, essi vedevano ridursi, rispetto al
passato, il margine di sicurezza economica. Inoltre, la commercializzazione dell’economia aumentò la loro
vulnerabilità. A causa della specializzazione delle colture, dovettero infatti acquistare, pagandoli in danaro, molti
prodotti essenziali, mentre i governanti feudali sempre più spesso rifiutarono di accettare il pagamento delle
imposte in natura. Per queste ragioni, il bisogno di danaro portò spesso il contadino povero a indebitarsi, sia
nelle annate cattive sia nel caso di raccolti troppo abbdonanti, per la conseguente diminuzione del prezzo del
riso. I debiti venivano coperti da ipoteche e, con la preclusione del diritto di riscatto, molte terre coltivabili
possedute dai contadini più poveri passarono nelle mani dei ricchi e talvolta in quelle degli usurai delle città. In
tal modo alla affittanza scaturita dalla disgregazione delle vecchie proprietà familiari si aggiunse quella prodotta
dalle ipoteche senza possibilità di riscatto.
I contadini non conoscevano altra forma di resistenza ai loro oppressori che la fuga o le sommosse, e questa è
forse la ragione dell’aumento delle dimostrazioni organizzate e dei violenti tumulti contadini, diretti a volte contro
i ricchi proprietari e gli usurai, a volte contro le autorità feudali.
Poiché molte decine di migliaia di contadini esasperati parteciparono ai disordini più gravi, non di rado le
autorità furono obbligate a fare delle concessioni. Tuttavia, essendo privi di armi, i contadini non costituirono
mai una seria minaccia militare per il sistema Tokugawa e nella maggior parte dei casi le autorità riuscirono ben
presto a ristabilire la situazione mandando a morte i capi ribelli. Questi tumulti ebbero comunque una parte di
rilievo nella disgregazione economica e politica del sistema Tokugawa nei suoi ultimi anni.

La società contadina
Il gran numero delle agitazioni rurali che ebbero luogo nella seconda metà del periodo Tokugawa ha dato
origine all’assunto che tutti i contadini giapponesi vivessero in un irrimediabile stato di miseria. In realtà, per
quanto riguarda le risorse alimentari, le tasse e la rendita le loro condizioni probabilmente non erano peggiori di
quelle degli altri contadini asiatici del tempo. Sotto molti aspetti erano decisamente superiori alla media. Le
stesse agitazioni nelle zone rurali erano forse un indice dell’aumento del tenore di vita, o quanto meno

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dell’esistenza di prospettive di miglioramenti economici. Molti degli elementi che un tempo si ritenevano tipici
del lussuoso modo di vita cittadino erano diventati infatti molto comuni nel Giappone del 19° secolo.
Inoltre, ai contadini era concessa una considerevole autonomia nella conduzione degli affari locali, almeno
finché restavano politicamente sottomessi e pagavano le tasse.
In particolare, gli strati più alti della popolazione contadina nonostante il disprezzo dei samurai difficilmente
potevano essere considerati una classe oppressa. In gran parte discendenti dell’antica aristocrazia rurale, essi
fornirono ai villaggi una guida capace e consapevole della propria importanza. Il loro grado di istruzione
sorprendentemente elevato e le loro case solide e dall’aspetto prospero erano l’espressione di un tenore di vita
relativamente alto.

La crescita economica: l’urbanesimo e l’economia monetaria


I settori non agricoli dell’economia, l’industria, il commercio e i servizi, conobbero durante il periodo Tokugawa
una espansione ancora più rapida di quella dell’agricoltura, in parte perché dovettero fronteggiare limiti naturali
meno rigidi di quelli imposti al Giappone rurale della geografia stessa del paese. Ma anche lo stesso sistema
Tokugawa ebbe una importante funzione. Il suo orientamento agricolo e il disprezzo per il commercio finirono
paradossalmente per favorire proprio il commercio e l’industria più che non l’agricoltura. Ai pesanti oneri fiscali
gravanti sul contadino si contrapponeva la situazione molto più vantaggiosa dell’abitante della città, che doveva
pagare soltanto i servizi pubblici della città stessa e sottostare a tasse relativamente lievi imposte dal signore
sulle famiglie e sugli affari.
Naturalmente la centralizzazione del sistema politico fu per i settori non agricoli dell’economia un eccezionale
fattore di crescita. I samurai e le loro famiglie costituivano circa il 5-6% della popolazione totale alla fine del
periodo Tokugawa. In ciascun han questa classe amministrativa e militare piuttosto numerosa si raccoglieva in
gran parte nelle capitali dei daimyo; poiché il sistema sankin kotai obbligava circa la metà del daimyo e un buon
numero di membri della classe dei samurai a raggiungere Edo in periodi determinati, per soddisfare le loro
esigenze il commercio e i servizi dovettero essere sviluppati su vasta scala, sia nelle capitali degli han sia a
Edo. Proprio per far fronte a queste esigenze si moltiplicò l’attività dei trasporti costieri, prevalentemente
controllati dai mercanti privati. Un grande traffico marittimo si svolgeva nei porti di Osaka e di Edo, anche se
con battelli di piccolo cabotaggio. I continui spostamenti dei daimyo e di molte migliaia di samurai tra gli han e
la capitale richiedevano inoltre uno sviluppo dei trasporti e dei posti di ristoro lungo le strade principali. Così
l’efficienza del sistema feudale dei Tokugawa stimolò notevolmente l’espansione dei settori non agricoli, e
quindi non feudali, dell’economia.

Lo sviluppo delle città e dei centri abitati


La sproporzionata crescita dell’industria, del commercio e dei servizi è chiaramente indicata da numerosi
elementi, uno dei quali è l’urbanizzazione della società del tempo. Le capitali degli han, più di 250, si
trasformarono in città di dimensioni varianti a seconda del dominio amministrato. Lungo le strade principali
sorsero inoltre innumerevoli agglomerati urbani intorno alle stazioni di posta, mentre grandi città crebbero nella
zona amministrata direttamente dallo shogun. Kyoto rimase un importante centro della produzione artigianale.
Edo, trasformatasi da villaggio di pescatori quale era stata fino al 1590 in un centro con più di mezzo millione di
persone agli inizi del 17° secolo, fu probabilmente la più grande città del mondo nel 18° secolo, quando il
numero dei supi abitanti si avvicinò al milione. Osaka divenne il principale centro commerciale di tutto il
Giappone. Si assistette così a uno sproporzionato aumento della popolazione urbana nel corso del secolo 18°,
ma il numero degli abitanti delle città continuò a salire anche nel periodo successivo, durante il quale il totale
della popolazione sembra essere stato relativamente stabile.
Un altro indice della espansione economica fu il notevole aumento del tenore di vita e il miglioramento delle
prospettive economiche degli abitanti delle città. Il controllo dei consumi, rigoroso ma realistico, stabilito agli
inizi del 17° secolo e che giunse tra l’altro a limitare i tipi di stoffa e i colori dei vestiti degli abitanti delle città,
nonché i cibi che essi potevano mangiare, era diventato irrealistico e reazionario due secoli dopo. Sembra che
in effetti, già prima della fine del periodo Tokugawa, il Giappone avesse raggiunto quell’altro livello di vita che ha
mantenuto fino a oggi, collocandosi in una posizione di avanguardia rispetto a tutti gli altri paesi dell’Asia.

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Naturalmente, non tutti gli abitanti delle città erano dei mercanti facoltosi. Gran parte della popolazione era
formata da gruppi immigrati di recente per sfuggire alla pressione economica cui era sottoposta la vita rurale.
Questi nuovi venuti, servitori, lavoratori a giornata e piccoli negozianti, vivevano ai margini della vita economica
e talvolta, in tempi difficili, soprattutto per l’incessante aumento dei prezzi del riso, fecero ricorso come i
contadini alle agitazioni e alle violenze.
I disordini del 1837 a Osaka assunsero un aspetto quasi rivoluzionario e rappresentarono la prima sfida militare
alle autorità dopo la rivolta di Shimabara, avvenuta due secoli prima.
Molti degli aspetti del modo di vita cittadino si rivelarono altrettanto rovinosi per la società feudale quanto
l’economia mercantile delle città per la base agricola del sistema shogunale. Le distinzioni di classe divennero
meno profonde nella disordinata economia delle grandi città del dominio dello shogun. I contadini fuggiaschi si
trasformarono in proletari urbani; i ronin e i samurai impoveriti decaddero nella condizione di semplici cittadini,
mentre i ricchi popolani cominciarono ad accedere al rango di samurai, a volte acquistando il privilegio da un
daimyo bisognoso, ma più spesso grazie ai loro rapporti ufficiali con gli han o con lo shogunato, per i quali
fungevano da banchieri, da amministratori dei monopoli o da agenti commerciali o finanziari.

Il bisogno di denaro dei samurai e dei daimyo


Un ulteriore indice del progresso economico fu il largo impiego, come mai prima era accaduto, della moneta e
del credito. Anche quando i daimyo e i samurai si trovavano negli han, essi risiedevano nelle città non nelle
tenute, come avrebbe fatto una vera e propria classe feudale; maggiore era per questo il loro bisogno di
denaro, accresciuto inoltre, come abbiamo visto, dal sistema sankin kotai. Per queste ragioni a causa della
generale crescita economica, il riso e gli altri generi di prima necessità cessarono praticamente di essere
impiegati come mezzi di scambio. Le sole grandi eccezioni furono il pagamento delle imposte agrarie e gli
stipendi dei samurai; comunque, nell’ultima fase del periodo Tokugawa anche le imposte agrarie vennero
spesso pagate in moneta.
Lo shogunato coniò monete d’oro, d’argento e di rame, valendosi di speciali monopoli istituiti a questo scopo (il
monopolio d’argento, il Ginza, ha dato il suo nome alla grande via dei negozi dell’odierna Tokyo). Molti daimyo
emisero anche carta moneta, che non ebbe però quasi mai una copertura sufficiente e che, in ogni caso,
poteva avere soltanto impiego locale. Importanza molto maggiore della carta moneta ebbe il credito. Sorsero
infatti agenzie di prestito su pegno e associazioni di mutuo credito, mentre i grandi cambiavalute, specialmente
quelli di Osaka e di Edo, cominciarono a svolgere moderne funzioni bancarie.
L’enorme espansione delle risorse monetarie del paese, mediante questa forma di credito, e le ripetute
alterazioni della moneta, operate dallo shogunato, ebbero una influenza generalmente inflazionistica che può
aver contribuito a sua volta a stimolare la crescita economica.
Molti degli han del Giappone occidentale mantenevano uffici commerciali e magazzini a Osaka per la vendita
delle eccedenze di riso e l’acquisto dei generi di prima necessità di cui avevano bisogno. Gli agenti finanziari,
che risiedevano a Osaka e che naturalmente occupavano un posto molto importante nella vita economica degli
han, furono in un primo tempo soltanto dei samurai fidati, ma spesso in seguito vennero sostituiti da uomini
provenienti dalla classe dei mercanti. Grazie alla presenza dei magazzini degli han e alla sua posizione
strategica all’estremità superiore del Mar Interno, Osaka divenne il grande mercato del riso del Giappone
occidentale, mentre Edo svolgeva la stessa funzione nel Giappone orientale. Verso la fine del 17° secolo questo
commercio aveva conosciuto un tale sviluppo che era ormai possibile la stipulazione di contratti a termine,
mentre una fluttuazione, a Osaka oppure a Edo, del prezzo del riso o di uno qualsiasi degli elementi del confuso
sistema monetario, si rifletteva immediatamente in una variazione dei prezzi nell’altra città.
In questa situazione, la maggior parte dei daimyo e dei samurai si trovavano svantaggiati quando cercavano di
commutare in denaro le rendite agricole feudali e nella misura in cui restavano fedeli agli antichi principi,
disprezzando le questioni finanziarie, diventavano vittime degli astuti affaristi. Inoltre, non meno dei contadini,
essi erano esposti alle fluttuazioni della produzione e dei prezzi del riso. Una annata cattiva poteva incidere sul
gettito fiscale e sugli stipendi mentre raccolti troppo abbondanti potevano provocare un tracollo dei prezzi.
Comunque, le ragioni del costante peggioramento della condizione dei daimyo e dei samurai sono più
profonde. Molti membri di questa classe conducevano semplicemente un genere di vita troppo dispendioso per
i loro mezzi. Il sistema sankin kotai assorbiva gran parte delle rendite dei daimyo.

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Nonostante le leggi suntuarie, in questo periodo di generale aumento del livello di vita crebbero costantemente
le pretese economiche dei samurai e dei daimyo, ma non altrettanto le loro rendite, rimase in gran parte legate
alla produzione risicola, elemento sempre meno importante nell’economia generale del paese.
In effetti, lo stato di tensione esistente nei rapporti tra samurai e contadini e il senso di frustrazione che colpì
entrambi i gruppi durante la seconda metà del periodo Tokugawa possono essere attribuiti alla loro disperata
lotta per la ripartizione della produzione agricola, che non aumentava con la stessa rapidità degli altri settori
dell’economia o del tenore di vita della classe mercantile.
In questa situazione, non ci si può sorprendere se tanto i daimyo quanto i samurai finirono per contrarre pesanti
debiti con i mercanti delle città. Lo shogunato e i singoli han cercarono di ovviare a questo stato di cose
soprattutto con una politica di restrizioni basata su controlli economici e leggi suntuarie.
Si tentò inoltre di imporre nuove tasse ai contadini oppure, di volta in volta, si annullarono o si ridussero con
provvedimenti legislativi i debiti della classe militare. Lo shogun poteva estorcere denaro ai dipendenti diretti e
ai daimyo imponendo tasse speciali, e generalmente i daimyo riducevano a loro volta gli stipendi dei samurai
con l’espediente di prestiti forzosi al tesoro degli han; ma si trattava evidentemente di misure dirette a colpire
soltanto i sintomi, non le cause del male.

Tentativi di rinsaldare le finanze della classe dominante


L’unica soluzione efficace del problema del risanamento delle finanze governative e dei patrimoni personali dei
membri della classe militare consisteva, per lo shogunato e i singoli han, nella creazione di nuove fonti di
ricchezza oltre al riso o alle tasse, oppure in una partecipazione più attiva all’attività dei settori non agricoli
dell’economia. È per questa ragione che le innovazioni di Tanuma furono così significative. In generale, tuttavia,
le tasse imposte al commercio e all’industria dallo shogunato e dagli han furono applicate in modo
frammentario e non si rivelarono molto efficaci. Il più importante tipo di tassazione commerciale, se così la si
può chiamare, fu l’occasionale estorsione ai ricchi mercanti di prestiti forzosi (e generalmente non restituiti)
chiamati goyokin (“denaro per i bisogni del signore”); questa pratica fu iniziata da Tanuma nel 1761. Inoltre, un
mercante poteva essere privato di tutte le sue ricchezze per una grave inosservanza delle leggi suntuarie o per
qualche altro reato.
Sia lo shogunato che gli han ebbero un relativo successo partecipando direttamente al commercio e
sviluppando, oltre alla produzione del riso, nuove fonti di reddito agricolo. Alcuni daimyo svilupparono altre
colture speciali destinate alla vendita oppure, con l’aiuto dei capitali o dei consigli dei mercanti, trasformarono
le industrie artigianali, che impiegavano i contadini nei periodi di tempo disponibili, in monopoli degli han. La
concessione di licenze alle associazioni monopolistiche di mercanti diventò un altro mezzo molto diffuso per
partecipare ai profitti del commercio.
I samurai avevano meno libertà d’azione dei loro signori sul piano economico. Comunque, coloro che
occupavano posti di responsabilità potevano talvolta tratte un utile commerciale dalla carica con le somme che
ricevevano dai mercanti con i quali trattavano gli affari degli han. Nel tardo periodo Tokugawa, alcuni samurai
salvarono la loro situazione economica adottando come eredi figli di mercanti oppure stabilendo legami
matrimoniali con le famiglie dei mercanti loro creditori; tutto ciò naturalmente costituiva un’aperta violazione di
uno dei principi fondamentali del sistema Tokugawa. I samurai più poveri praticarono l’infanticidio per ridurre le
loro passività economiche. Alcuni abbondarono semplicemente i loro diritti feudali, rinunciando ai miseri
stipendi e conducendo un’esistenza meno dura tra la gente del popolo. Molte delle più povere famiglie di
samurai, come quelle contadine, furono obbligate a trovare occupazioni supplementari integrando i loro
stipendi inadeguati con industrie familiari come la fabbricazione di sandali di paglia.

La crescita economica: il commercio e l’industria


La miseria economica dei contadini poveri e il sempre più gravoso indebitamento della classe militare erano più
che controbilanciati dalla rapida crescita economica degli strati mercantili e manifatturieri. Gli “abitanti delle
città”, chiamati chonin, ebbero un incremento demografico nettamente superiore a quello delle altre classi. Pur
essendo, teoricamente relegati all’ultimo gradino della scala sociale, essi controllavano una parte
sproporzionata delle ricchezze del paese. Malgrado i prestiti forzati, le occasionali confische e le leggi suntuarie
che avrebbero dovuto limitare i loro consumi, i mercanti più ricchi avevano un tenore di vita lussuoso e raffinato

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e conducevano affari su vasta scala. Essi controllavano le flottiglie costiere; i loro prestiti ai daimyo spesso
superavano largamente il reddito annuo di questi ultimi; talvolta ebbero praticamente alla loro mercé orgogliosi
samurai fortemente indebitati. Alcuni mercanti non solo accumularono enormi ricchezze ma ebbero persino
una certa influenza politica.

Il mercato nazionale unificato


Grazie alla rapida crescita commerciale del tardo 16° secolo, l’economia giapponese aveva reso anacronistiche
le vecchie e restrittive corporazioni medievali (za) già agli inizi del periodo Tokugawa. Il consolidamento del
dominio dei daimyo aveva portato all’eliminazione delle innumerevoli barriere che nell’età medievale erano
servite per tassare il commercio. Nobunaga e Hideyoshi avevano iniziato questa politica eliminando i dazi nei
vasti territori sotto il loro controllo e abolendo le corporazioni medievali. Inoltre, essi concentrarono i mercanti
nelle capitali shogunali, Azuchi e Osaka, li incoraggiarono a espandere le attività commerciali. Durante il
periodo Tokugawa, il bisogno di denaro dei daimyo portò all’unificazione di quasi tutto il paese in un unico
mercato nazionale.
Nella zona sottoposta al diretto controllo dello shogun lo sviluppo del commercio e dell’industria fu infatti
eccezionale. Dal punto di vista geografico essa costituiva il nucleo centrale del Giappone e comprendeva le
grandi città di Edo, Osaka e Kyoto, nonché gran parte dei territori economicamente più progrediti del paese.
Ma presentava anche altri vantaggi. Esclusi i seguiti e i rappresentanti dei daimyo a Edo e a Osaka, la
popolazione di questa zona comprendeva una percentuale molto bassa di membri della classe militare, forse
non più del 2%, mentre la media nazionale era del 5-6%. Di conseguenza gli abitanti di Osaka e Kyoto e i
contadini di gran parte del territorio dello shogun non dovevano subire il controllo e l’oppressione di una classe
feudale locale.
Un altro vantaggio che il dominio shogunale offriva ai commercianti e ai banchieri consisteva nella tacita
protezione che lo shogun stesso concedeva loro nei rapporti con i daimyo meno ricchi. Infatti, i mercanti e i
banchieri nelle capitali degli han erano quasi completamente alla mercé dei loro signori, mentre quelli che si
trovavano nel dominio dello shogun, anche se altrettanto impotenti di fronte allo shogunato stesso, in quanto
suoi “sudditi” potevano trattare con i daimyo su un piano di quasi parità.

Lo sviluppo delle case commerciali


Nel periodo Tokugawa, i mercanti all’ingrosso dominarono il commercio cittadino. Dapprima il governo proibì
loro di unirsi in associazioni restrittive, ma nella seconda metà del 17° secolo la proibizione venne gradualmente
ridotta e infine soppressa da Yoshimune nel 1721. Da questo momento le associazioni, note col nome di Kamu-
nakama, godettero generalmente di un’autorizzazione ufficiale e vennero normalmente tassate per mezzo di un
sistema di licenze governative. Esse cercarono di stabilizzare i prezzi, di fissare i tassi d’interesse e di istituire
controlli monopolistici, nell’ambito di certe zone sulle merci oggetto delle loro transazioni. Associazioni simili si
costituirono anche tra i manifatturieri, come i tessitori di stoffe preziose di Kyoto.
Molte aziende familiari raggiunsero gradualmente una posizione di grande importanza nella produzione del
sake e di altre derrate, nella vendita al dettaglio del tè, delle stoffe e di altre merci, oppure in operazioni
bancarie. La grande casa Mitsui ci offre un buon esempio: il suo fondatore cominciò la propria attività come
fabbricante di sake a Ise intorno al 1620. Suo figlio aprì un negozio di tessuti a Edo nel 1673, e la ditta ebbe
ben presto delle filiali a Kyoto e Osaka.
Lo sviluppo delle città e del commercio urbano raggiunse probabilmente il suo ritmo più rapido durante il 17°
secolo, periodo che vide anche la maggiore espansione agricola, il più grande incremento demografico e la
fondazione delle maggiori case commerciali urbane come quella dei Mitsui. L’era Genroku, che va dal 1688 al
1704, viene generalmente considerata come il culmine di questo periodo di rapido sviluppo commerciale.
Da questo momento il ritmo di crescita del commercio urbano e dell’incremento demografico subì una netta
diminuzione, anche a causa delle periodiche restrizioni imposte dal governo al fine di riportare l’economia alla
sua base agricola e di ripristinare la solvibilità finanziaria dello shogunato. Ma una ragione più profonda fu forse
l’incapacità mostrata dallo shogunato e degli han nel mantenere la loro forza finanziaria. Poiché i grandi
mercanti cittadini dipendevano in gran parte dello shogunato e dagli han, che erano i principali clienti in quanto
debitori o fornitori di riso e di altre derrate, sui loro affari si ripercosse in una certa misura l’impoverimento

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finanziario del governo. un altro fattore fu probabilmente rappresentato dalle crescenti restrizioni alla libertà del
commercio nella città. Dopo il 1721 le associazioni di mercanti liberamente autorizzate da Yoshimune
garantirono la protezione economica ai propri membri, ma limitarono ovviamente l’ulteriore sviluppo del
commercio.
Non bisogna pensare che questo rallentamento dello sviluppo commerciale nelle città si sia esteso a tutto il
paese. In realtà, durante il 18° secolo, la commercializzazione dell’agricoltura e dell’economia rurale cominciò a
muoversi a un ritmo più rapido. I venditori ambulanti erano ormai penetrati anche nelle zone più remote e si
cominciavano ad aprire negozi in quelle che fino ad allora erano state delle comunità puramente agricole. I
ricchi possedenti terrieri e, nelle zone vicine alle città, anche i ricchi chonin incominciavano a sviluppare le
industrie di villaggio. Il disgregarsi della vasta unità agricola e della grande famiglia che essa aveva mantenuto
permise ai contadini più prosperi di investire la ricchezza e l’energia eccedenti in settori diversi dall’agricoltura.
Le nuove imprese commerciali e industriali delle zone rurali erano, a paragone di quelle urbane, meno
sottoposte al controllo dello shogunato e degli han e meno vincolate dalle associazioni di mercanti. Di
conseguenza esse rimasero in generale più dinamiche e aggressive. Nella prima metà del 19° secolo gli
imprenditori di villaggio incominciarono persino a invadere le grandi città, che erano state per molto tempo una
riserva dei mercanti urbani, appoggiati in questa loro penetrazione dall’attacco sferrato dallo shogunato contro
le associazioni mercantili durante le riforme del Tempo nel 1841-1843. La maggior parte dei commercianti di
provincia continuarono a operare su scala ridotta, ma, considerati come gruppo, contribuirono probabilmente
alla successiva modernizzazione dell’economia giapponese più dei grandi mercanti delle città, ricchi ma assai
prudenti.

La nuova cultura urbana


Gli abitanti delle città sul piano culturale essi si rivelarono inoltre come il gruppo più dinamico ella società
Tokugawa.
Molte delle nuove tendenze letterarie e artistiche furono sviluppate da membri della classe mercantile e da
persone di origine contadina, oppure da samurai che avevano adottato il modo di vita borghese. Gli abitanti
delle capitali degli han, rimasti sotto lo stretto controllo dei daimyo, ebbero in questo campo soltanto una
funzione secondaria, mentre i gruppi che risiedevano nelle grandi città, Edo, Osaka e Kyoto, dominarono la
nuova cultura del periodo Tokugawa, come i monasteri Zen e la corte shogunale avevano dominato la cultura
Ashikaga, o la corte imperiale quella dei periodi precedenti.
Questo non significa che i militari ebbero scarsa importanza sul piano culturale. Al contrario, essi mantennero
viva la vecchia etica feudale ed egemonizzarono l’erudizione e varie altre attività intellettuali, contribuendo
inoltre a conservare molti aspetti della antica cultura, quali il teatro del no, la cerimonia del tè e l’arte di disporre
i fiori.
Anche gli abitanti delle città erano depositari di una ricca tradizione culturale che risaliva all’età medievale.
Anch’essi nutrivano infatti lo stesso profondo senso della disciplina, del dovere e dell’onore che caratterizzava i
samurai; per questo mantennero in vita un loro codice etico e una elaborata etichetta, che non erano soltanto
una semplice imitazione delle classi socialmente superiori; le concezioni etiche confuciane si rivelarono infatti
uno strumento prezioso tanto per le ambiziose famiglie di mercanti quanto per i coscienziosi samurai, e le virtù
che esse suscitarono contribuirono sia al successo negli affari che alla buona condotta del governo.
Gli aspetti etici del sistema Tokugawa divennero quindi parte essenziale della cultura degli abitanti delle città,
che, insieme ai samurai, trasmisero ai giapponesi moderni l’antico senso del dovere e della disciplina nonché il
rispetto e la meticolosa osservanza delle regole e dell’etichetta.

Lo spirito urbano
La rapida espansione commerciale e la ricchezza diedero alla società borghese la possibilità di rinnovarsi e
svilupparsi culturalmente; durante il periodo Tokugawa la vita e le arti degli abitanti delle città furono infatti
caratterizzate da un grande dinamismo e da una profonda originalità. Naturalmente, l’allontanamento dalle
norme stabilite dalla classe militare feudale rappresenta l’aspetto più interessante di questa cultura.
Le città offrivano una libertà sociale impensabile nei villaggi o nella vita dei samurai. I mercanti divennero
sempre più consapevoli dell’importanza del denaro e amanti del lusso e condussero spesso una esistenza

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frivola e persino dissoluta; furono naturalmente questi gli aspetti della vita urbana che attirarono l’attenzione
degli artisti e degli scrittori. Anche la moda cominciava ad acquistare importanza; gli ultimi modelli di
acconciatura femminile oppure la lunghezza delle maniche o la larghezza delle fasce dei kimono (obi),
ricevevano la stessa attenzione che viene loro dedicata nell’Occidente contemporaneo. Le mode maschili
erano imposte dagli attori più noti o da riconosciuti arbitri dell’eleganza, gli “uomini di mondo” più ricchi e
raffinati. Il cittadino, brillante, vanitoso e burlone, assunse un atteggiamento sprezzante nei riguardi dello stolido
contadino e perfino un certo disdegno verso l’ostentata austerità dell’aristocratico.
Indubbiamente, la cultura degli abitanti delle città presentava degli aspetti vistosi, che erano in netto contrasto
con gli ideali estetici dello Zen, ma che furono sempre moderati proprio da questa tradizione estetica, nonché
dalle leggi suntuarie che talvolta rendevano assai pericoloso uno sfoggio senza limiti della ricchezza. Grazie al
loro amore per il lusso, gli abitanti delle città acquistavano un gusto molto sofisticato; essi tendevano a una
eleganza ricercata, non alla ostentazione, ed erano più inclini a una sofisticazione raffinata che alla
appariscente volgarità. Il gusto dei borghesi del periodo Tokugawa combinava abilmente l’amore per i colori e i
disegni audaci con il senso di costrizione e di disciplina tipici dello Zen; ed è stata l’educazione di questo gusto,
non soltanto la tradizione dello Zen, a determinare il profondo senso estetico dei giapponesi.

I quartieri dei divertimenti


I centri della vita sociale e artistica delle città erano i numerosi quartieri di divertimento, nei quali si trovavano le
case di prostituzione, i bagni, i ristoranti, i teatri e vari altri luoghi di ritrovo. I quartieri più famosi erano lo
Yoshiwara di Edo, lo Shimabara di Kyoto e lo Shimmachi di Osaka.
Dato il rigore che caratterizzava la società giapponese, i quartieri dei divertimenti ebbero una grande
importanza nello sviluppo della cultura Tokugawa.
Il ruolo particolare che le case di prostituzione avevano nei quartieri di divertimento era una naturale
conseguenza della condizione della donna e della natura del matrimonio nella società Tokugawa. L’età feudale,
dominata dai guerrieri, aveva lasciato la donna in una posizione nettamente subordinata. Nessuna rispettabile
famiglia di mercanti, in questo non diversi dai samurai, avrebbe potuto pensare di concedere alle donne
qualche libertà sociale; in altre parole, non esisteva una buona società mista. Inoltre, i matrimoni, sia tra le
famiglie dei mercanti che tra quelle della classe militare, venivano combinati dai parenti al solo scopo, del resto
assai importante, di consolidare le fortune familiari e di continuare la discendenza. L’amore romantico e le
scelte personali erano elementi che non meritavano alcuna considerazione. Di conseguenza, gli idilli e la
mescolanza sociale dei sessi erano possibili solo fuori della famiglia, cioè nei quartieri di divertimenti.
I bordelli e le forme più raffinate di prostituzione che da essi si svilupparono non avevano quindi il solo scopo di
permettere rapporti sessuali illeciti, che non rappresentavano di per sé un problema grave in una società che
ignorava ogni concezione puritana. Essi avevano una funzione più importante; dovevano cioè offrire un
piacevole luogo di incontro, possibilmente in una atmosfera romantica. Le donne erano di solito costrette a
servire i tenutari delle case, ai quali erano state vendute dai genitori impoveriti; tuttavia, nei loro rapporti con i
clienti dovevano dare prova di un certo talento, di fascino e persino di rispettabilità. Le più capaci e dotate
diventavano perfette danzatrici o musiche, ma soprattutto piacevoli conversatrici.
Il garbo, la compitezza e le doti fisiche erano gli elementi che determinavano il livello sociale delle prostitute,
che potevano appartenere a categorie diverse, ciascuna delle quali caratterizzata da specifiche regole di
etichetta e rigide prerogative.
Le cortigiane più in vista erano considerate persone di riguardo e spesso dettavano la moda. Non di rado i
ricchi mercanti compravano la libertà delle cortigiane favorite, che diventavano così concubine riconosciute e
talvolta anche mogli legittime. In questo modo, si andò sviluppando la tradizione della geisha moderna o della
“persona compita”.
La vita gaia e stimolante die quartieri dei divertimenti cittadini non era però limitata alla sola classe dei mercanti.
Anche i samurai, ormai divenuti abitanti delle città, frequentavano sempre più numerosi questi quartieri, che in
un certo senso erano loro “vietati”; questo li costringeva, almeno formalmente, a mantenere l’incognito e
talvolta a nascondere il viso dietro una maschera. In questi luoghi, i membri di tutte le classi si incontravano su
un piano di parità ed era soltanto il denaro a determinare il prestigio.

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La libertà e la licenza dei quartieri dei divertimenti contrastavano vivamente con il senso di disciplina che
reggeva la società nel suo complesso. D’altra parte, seppero forse fornire, sul piano culturale, un antidoto
creativo all’austerità, al rigido controllo e alla coscienza morale del sistema Tokugawa. Essi rappresentarono
cioè l’elemento equilibratore, yin, del rigido yang della vita ufficiale. Per questo anche i quartieri dei divertimenti
sono da considerare parte integrande della società Tokugawa, nonostante le molte tensioni e pressioni che si
manifestarono tra il genere di vita che in essi si conduceva e l’ordine ufficiale.
Un motivo ricorrente nella letteratura di questo periodo è il conflitto tra dovere (giri) e i “sentimenti umani”
(ninjo) o passioni. Il caso tipico è l’amore senza speranza di un ricco giovane per una cortigiana, amore in
contrasto con i dover che l’uomo ha verso la famiglia e la società. Nessuno dei due elementi in conflitto ha
decisamente la meglio sull’altro e agli sfortunati amanti non resta che la soluzione del doppio suicidio (shinju).

L’alfabetismo urbano
Dopo la fondazione dello shogunato Tokugawa furono necessari parecchi decenni per il completo sviluppo di
questi fenomeni sociali e delle forme artistiche e letterarie ad essi collegate. Poi, alla fine del secolo 17°, si
assistette a una improvvisa fioritura della cultura borghese. Il nome Genroku, che propriamente indica il
“periodo annuo” compreso tra il 1688 e il 1704 ma che viene applicato inesattamente ai due ultimi decenni del
17° secolo e ai primi del 18° è di solito usato per designare questa prima grande età della cultura urbana.
Il centro della vita borghese durante il periodo Genroku fu Osaka; Kyoto era infatti una comunità meno vitale e
aveva inoltre perduto la sua posizione di supremazia. Edo era invece ancora una città nuova e immatura, dove
risiedevano tra l’altro numerosi daimyo e samurai. Verso la fine del secolo 18° essa divenne comunque la
capitale culturale oltre che politica, del paese. Infatti, durante l’ultimo secolo dello shogunato, questa città di
samurai e di borghesi acquistò tale importanza come centro della vita artistica, letteraria e intellettuale, nonché
dell’attività politica, che continuò ad essere la capitale del Giappone anche dopo la caduta del regime.
Sebbene le figure più tipiche della cultura Tokugawa fossero i prosperi mercanti, dalla cui ricchezza tale cultura
dipendeva, essa abbracciò naturalmente anche gruppi sociali più vasti, che comprendevano i frequentatori dei
quartieri dei divertimenti, molti samurai e ronin e altri cittadini più umili. È difficile stabilire fino a quale livello della
scala sociale essa riuscì a penetrare; quel che è certo è che si diffuse anche negli strati più bassi, come si può
desumere dal grado di alfabetismo della popolazione urbana. Naturalmente, i samurai delle città sapevano
leggere, ma la classe borghese non era certo da meno, e non parliamo soltanto dei grandi mercanti ma anche
delle loro mogli e dei loro impiegati; il saper leggere era considerato necessario in quasi tutte le attività
commerciali. In effetti, se si eccettuano coloro che erano giunti di recente dai distretti rurali, i servi e i lavoratori
più umili, sembra che il grado di alfabetismo degli abitanti delle città fosse assai elevato.
Una conseguenza di questa situazione fu l’eccezionale sviluppo della stampa, in risposta alla accresciuta
domanda pubblica di materiale di lettura.

Questa attività contribuì, insieme alle altre influenze che agirono sulla nuova e dinamica società urbana, al
sorgere di nuove correnti.

Il “kabuki” e il teatro delle marionette


A una ex sacerdotessa dello shinto, che agli inizi del 17° secolo diresse una compagnia di danzatori e attori a
Kyoto, viene generalmente attribuito il merito di aver fondato il kabuki. Nei primi anni, tuttavia, sembra che i
gruppi di attori come quello da lei guidato si interessassero più al sesso che a serie rappresentazioni teatrali,
giacché gli attori, sia maschi che femmine, si davano normalmente anche alla prostituzione. Ben presto, le
autorità, allarmate dall’immoralità del teatro, bandirono le donne dal palco.
La qualità scadente dei primi kabuki rese possibile lo sviluppo di una forma teatrale virale, ossia il teatro delle
marionette, nel quale si recitavano vecchi racconti con accompagnamento, non del classico liuto a quattro
corde, ma di un nuovo strumento simile al banjo, il samisen a tre corde. Alla fine del secolo 17° le
rappresentazioni di marionette divennero estremamente popolari trasformandosi in una nuova grande arte.
Il kabuki dei secoli 18° e 19° deve molto al teatro delle marionette, per stile e repertorio. La più popolare di tutte
le opere del teatro kabuki, Il Tesoro dei fedeli vassalli (Chusin-gura), era la rappresentazione teatrale
dell’episodio dei Quarantasette ronin.

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