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AVVENTURE IN AUTOBUS

Facit indignatio versus, e per cominciare vi racconto una


storia.
Vado in una certa città di Calabria che per ragioni che dirò
non nomino, e partecipo a una bella manifestazione culturale.
Bella, a parte che ha preso la parola sotto le esterrefatte
orecchie di professoroni forestieri un rappresentante della
calabra cultura che con la detta lingua italiana ha lo stesso
rapporto che ho io con il turco arcaico; e che in un filmetto
dove volevano parlare latino ho contato cinque errori
grossolani di pronunzia, e il greco era letto con strambo
itacismo (non preoccupatevi, è roba per addetti ai lavori), il
resto andava benissimo.
Finisce, saluto gli amici, torno verso la stazione centrale,
dove ho lasciato l’automobile, e penso, me incauto!, di andarci
in autobus perché è lontanuccia.
Ne aspetto uno, chiedo all’autista, testualmente “Per la
stazione?”, e quello risponde, o piuttosto bofonchia, le
seguenti testuali parole: “La stazione è l’ultima fermata”, non
una di più, non una di meno.
Io immagino che il mezzo farà qualche giro del centro, roba
di minuti, e, ingenuo, salgo e prendo posto a sedere. Non lo
avessi mai fatto, nel volgere di cinque minuti mi trovo diretto
in tutt’altra zona che il centro; e ancora mi illudo che sarà un
percorso breve; e poi mi accorgo che attraversiamo periferie
lontane; e stiamo salendo, saliamo, saliamo, saliamo, stradine
di campagna, borgate, frazioni, casali, e saliamo, saliamo. È a
questo punto che anche il mio soave ottimismo mostra le prime
crepe, e, spaventato, domando: “Ma dove andiamo?”, e mi si fa
il nome di una frazione che non so dov’è, però mi ricordo che
un dì l’ho sentita nominare come un posto remoto. Protesto
vivacemente, e mi accorgo che l’autista scambia battute con
due donnette le quali ogni tanto sguardano me e sorridono sotto
i baffini: ho il sospetto che trovino la faccenda ridicola, e mi
stiano prendendo in giro, per bontà loro.
Arriviamo dopo mezzora a... no, non lo scrivo, ma è un
luogo che si trova a non meno di 300 metri sul mare, in alta
collina.
Scendono tutti, restiamo soli; l’autista, omaccione alto e
grosso, mi si avventa contro, per fortuna solo verbalmente, e,
d’un tratto divenuto loquace, tenta di convincermi che lui ha
ragione ed io ho torto (“Io ho detto che tutti gli autobus vanno
alla stazione... che ne sapevo io di dove volevate scendere
voi...”: già, alla stazione, ribatto, ma non dopo l’intero giro
della provincia di... di... di...), e quasi riesce a zittirmi,
comunque io, considerate le circostanze e l’ora e il luogo,
ritengo prudente non insistere. Manco posso chiamare i
carabinieri, se mai, perché non so dove mi trovo!
Fin qui, passi. Ora inizia il momento eroico dell’avventura,
perchè il distinto signore, evidentemente credendosi non il
terzo, ma il primo dei fratelli Schumaker, si dà alla pazza gioia
automobilistica, e guida i trenta metri di traballantissimo
autobus con l’allegria disinvolta di una Ferrari Formula 1,
velocità del fulmine in mezzo a stradine strettissime, auto a
destra, auto a sinistra, con presumibile strage di gatti e cani, e
solo per grazia di san Cristoforo risparmia i cristiani.
Quando arrivo, questa volta in cinque minuti, alla desiata
stazione e scendo senza salutare (“au gentilhom gentilhom, au
corsaire, corsaire et demi”), mi verrebbe voglia di baciare la
terra come gli antichi navigatori usciti fuor dal pelago alla riva.
Ora qualche lettore istruito starà ricordando Putnam (la
mancanza di senso civico dei Meridionali) o Blanfield (il
familismo amorale dei medesimi); i soliti postilluministi se la
piglieranno con la Controriforma; Loiero attaccherà i Borbone;
il sindaco di Pizzo invocherà il bisnipotino di Murat; qualche
professore in vena di diarie proporrà un corso di educazione
stradale retribuito... Io penso invece che nelle vicende del rozzo
Automedonte (per i non addetti ai lavori, conducente) si
leggono due interessanti caratteristiche dei Calabresi: la
tracotanza e la dialettica.
La tracotanza: egli, che nella vita non conta un fico secco, la
moglie lo inganna non nell’amore (dev’essere brutta), ma certo
nelle tasche, i figli non lo considerano nemmeno, ma in quel
momento, sbattendo un poveraccio di forestiero nella frazione
di... di... di..., egli una volta almeno nella vita ha dimostrato
tutto il suo potere; poteva farmi del bene dicendomi di scendere
a venti metri dalla mia meta, ha preferito farmi del male:
magari sperava che perdessi il treno e trascorressi la notte
all’addiaccio nella sala d’aspetto, ma ero in auto, e questo, se
se ne accorse, forse gli ha procurato un mal di fegato, del quale
prego il lettore di provare dispiacere per conto mio, ché io per
me non me la sento.
La dialettica: se l’avessero mandato a studiare legge invece
che a guidare un autobus, forse avrebbe fatto meno danni alla
circolazione; certo, sarebbe capace di giurare in tribunale che la
morte dei Santi Innocenti fu un caso di suicidio neonatale. Che
diamine, anche Erode ha il suo bravo “diritto alla difesa”!
Secondo me andrebbe rimproverato a sangue e magari
licenziato. Ma se licenziassimo tutti i maleducati che ci sono in
Calabria, e veramente pure altrove, la disoccupazione, che è già
è gigantesca, salirebbe alle stelle del cielo. Ecco perchè non
nomino la città.
Non sia mai detto però che non tragga qualche
insegnamento anche dalle mie tristi avventure.
Mentre salivo su quella montagna di periferia, e mentre per
altra via scendevo a rotta di collo, ho attraversato stradine e
stradine fitte di case e casette, dovunque nella più assoluta
assenza di qualsiasi pubblica luce. Non dico le luminare di
Natale, dico i lampioni comunali, l’illuminazione che oggi c’è
nel paesino più insignificante. Niente, buio da notte fonda del
1301, mica del 2001 quasi 2002, un buio che sinora non avevo
visto mai in zone abitate. Qua e là, fioche piccole insegne
sopra saracinesche serrate come le porte Scee di Troia
all’arrivo di Agamennone con le sue 1100 navi.
Pensavo tra me e me: ma da queste parti la gente esce mai la
sera? E chi esce, non rischia di tutto? Le donne, le ragazze, i
bambini, si rinchiudono al tramonto come cent’anni fa? E gli
uomini, vuoi vedere che per uscire chiedono il permesso a
qualcuno? Qualcuno? Chi è il qualcuno?
Pensavo: se io fossi il prefetto, il questore, il colonnello
dell’Arma, come elementare misura di ordine pubblico
imporrei subito al sindaco di provvedere ad illuminare anche
quelle abbandonate periferie come fa con il centro
fantasmagorico; se fossi il sindaco, ci avrei pensato già da me.
E invece il sindaco della città, il colonnello, il questore, il
prefetto, non gli passa a nessuno per l’anticamera del cervello.
Eppure, se ne fanno di convegni antimafia; se ne giurano di
guerre a morte alla delinquenza; si sprecano, gli inviti alla
collaborazione con lo Stato! E intanto, secondo me, se in quelle
desolate plaghe a pochi chilometri dal centro qualcuno decide
di far fuori qualcun altro, il cadavere lo scoprono il giorno
dopo gli spazzini.
Alla fine, devo ringraziare il caso e l’indelicato autista per
la scoperta di questa specie di altro pianeta dove non valgono
le regole e i criteri della gente normale, ma si vive al buio, con
tutto quel che segue. La città, non la dico per non far licenziare
il poltrone di cui sopra, e così se la scansano anche le suddette
autorità. A queste, l’invito a fare un giretto anche nelle
selvatiche periferie dei ciechi e dei muti, mica solo ai convegni
dei logorroici e luminosi.
Sconsiglio, ovviamente, di farlo in autobus.
Ulderico Nisticò

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