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IL PRINCIPE NERO
Romanzo
1991 by David A. Gemmell
I miei ringraziamenti vanno alla mia editor Deborah Beale, che mi ha dato spunti per la
mia ispirazione, alla mia precedente editor Liza Reeves, per aver indicato a Parmenion il
sentiero da seguire, ed a quello attuale, Oliver Johnson, che ha gettato i ponti.
Ringrazio anche Alan Fisher, Vikki Lee France, Valerie Gemmell, Stella Graham, Edith
Graham, Tim Lenton, Jean Maund, Tom Taylor e Charon Wood per l’aiuto fornitomi
durante tutta l’elaborazione del progetto.
LIBRO PRIMO
352 A.C.
PELLA, MACEDONIA, ESTATE
Il bambino dai capelli dorati sedeva solo come di consueto, chiedendosi se quel
giorno suo padre sarebbe morto. Ad una certa distanza da lui, dall’altra parte dei
giardini reali, la sua nutrice stava parlando con le due sentinelle che lo sorvegliava-
no durante le ore diurne; i due soldati, guerrieri dall’espressione temprata,
evitavano di guardarlo e si agitavano con fare nervoso se soltanto si avvicinava.
Alessandro era però abituato a tale reazione, e anche se aveva soltanto quattro
anni ne comprendeva il motivo.
Ricordò con tristezza quel giorno di tre settimane prima in cui suo padre aveva
percorso il sentiero di quello stesso giardino, vestito per la guerra con la corazza
che scintillava sotto il sole. Il suo aspetto era così splendido che Alessandro si era
proteso per toccare le piastre di ferro lucente bordato d’oro e i sei leoni dorati che
decoravano il petto della corazza, ma allorché la sua mano di era avvicinata Filippo
di era affrettato a ritrarsi.
– Non mi toccare, ragazzo! – aveva ingiunto, con voce secca.
– Non ti farei mai del male, padre – aveva sussurrato il principe, sollevando lo
sguardo su quel volto incorniciato dalla barba nera, su cui l’occhio destro ormai
cieco spiccava come un enorme opale sotto la fronte segnata da una profonda cica-
trice.
– Sono venuto a salutarti – aveva borbottato Filippo, – e a raccomandarti di
essere buono. Assimila bene le tue lezioni.
– Vincerai? – aveva chiesto il bambino.
– Si tratta di vincere o di morire, ragazzo – aveva risposto il re,
inginocchiandosi per guardare in faccia il figlio, e sebbene la sua espressione fosse
rimasta severa aveva dato l’impressione di rilassarsi. – Ci sono quelli che pensano
che io non possa vincere, perché ricordano il modo in cui Onomarchus mi ha scon-
fitto l’ultima volta che ci siamo scontrati. Tuttavia – aveva proseguito, con voce
ridotta ora a un sussurro, – quando quella freccia mi ha devastato l’occhio,
all’assedio di Metone, hanno detto che sarei morto, e quando la febbre mi ha
colpito in Tracia c’è stato chi ha affermato che il mio cuore aveva smesso di
battere. Io però sono un Macedone, Alessandro, e non muoio facilmente.
– Non voglio che tu muoia. Io ti voglio bene – aveva dichiarato il bambino.
Per un momento appena il volto di Filippo si era addolcito e il suo braccio si
era sollevato come per protendersi verso il figlio, ma poi quel momento era passato
e lui si era rialzato in piedi.
– Sii buono – aveva raccomandato. – Io... penserò a te.
Un suono di risa infantili riportò al presente i pensieri di Alessandro. Oltre le
mura del giardino poteva sentire gli altri bambini del palazzo che giocavano fra
loro, e con un sospiro si chiese di quale gioco si trattasse... la Caccia alla
Testuggine, forse, o magari il Tocco di Ecate. A volte li osservava dalla finestra
della sua stanza: un bambino veniva scelto per interpretare la parte di Ecate, la Dea
della Morte, e inseguiva gli altri, cercandoli nei loro nascondigli e toccandoli per
renderli propri schiavi. Il gioco continuava fino a quando tutti i bambini erano stati
trovati e sottomessi dalla Morte.
Alessandro rabbrividì nonostante il calore del sole. Nessuno avrebbe mai
chiesto a lui di partecipare ad un simile gioco.
Abbassò lo sguardo sulle proprie piccole mani: non era stata sua intenzione che
il cane morisse, lui voleva bene a quel cucciolo e si era sforzato terribilmente,
concentrandosi ogni volta in modo che la sua mente fosse calma quando lo
accarezzava. Un giorno però l’animale gli era saltato addosso per gioco, gettandolo
a terra, e in quel momento la mano di Alessandro era scattata in avanti, battendo un
leggero colpo sul collo del cane. La bestia era crollata al suolo all’istante, con gli
occhi vitrei e le zampe che si contraevano, ed era morta nell’arco di pochi
secondi... ma la cosa peggiore era stata che il suo corpo si era decomposto di lì a
poco, pervadendo di fetore i giardini.
– Non è stata colpa mia – avrebbe voluto protestare Alessandro, ma sapeva che
non era così, sapeva di essere maledetto.
Gli uccelli cominciarono a cantare in alto fra gli alberi e lui sorrise nel sollevare
lo sguardo su di essi. Chiudendo gli occhi verdi, il bambino lasciò che quel canto
lo pervadesse, riempiendogli la mente e fondendosi con i suoi pensieri, e ben
presto ogni singolo trillo cominciò ad acquisire un significato che lui poteva
decifrare. Non si trattava di parole, ma di sentimenti, di paure e di rabbie... gli
uccelli si stavano lanciando a vicenda striduli avvertimenti.
– Il mio albero! – cantò Alessandro, sollevando lo sguardo. – Il mio albero!
Andate via! Andate via! Il mio albero! Il mio albero! Vi ucciderò se restate!
– I bambini non dovrebbero cantare parole di morte – lo ammonì in tono severo
la sua nutrice, avvicinandosi al punto in cui lui era seduto ma fermandosi come
sempre fuori della sua portata.
– È ciò che gli uccelli stanno dicendo – replicò Alessandro.
– Ora dovresti tornare dentro. Il sole è molto caldo.
– Dall’altra parte del muro i bambini stanno ancora giocando – obiettò lui. – E
poi mi piace stare seduto qui.
– Devi fare ciò che ti viene detto, giovane principe! – scattò la donna.
Una fiamma si accese negli occhi di Alessandro, e a lui parve quasi di sentire
dentro di sé la voce oscura che lo incitava a fare del male alla nutrice, a ucciderla.
Deglutì a fatica e si costrinse a sedare l’ira crescente.
– Vengo – assentì in tono sommesso, poi si alzò in piedi e si diresse verso la
donna, che però si trasse bruscamente di lato per lasciarlo passare e lo seguì con
passo lento mentre lui tornava nelle proprie stanze. Alessandro attese che la nutrice
se ne fosse andata, poi sgusciò nel corridoio e corse fino all’appartamento di sua
madre, spingendo il battente per sbirciare all’interno .
Olympias era sola e quando lui entrò gli sorrise, spalancando le braccia per
accoglierlo. Il bambino venne avanti con irruenza e s’infilò nel suo abbraccio,
nascondendo il volto contro il morbido seno materno. Mentre si stringeva con forza
alla madre pensò che non c’era nessuna che fosse bella quanto lei.
– Sei molto accaldato – osservò Olympias, spingendogli indietro i capelli dorati
e accarezzandogli la fronte, poi riempì una coppa di acqua fresca e gliela porse,
osservandolo bere avidamente.
– Oggi le tue lezioni sono andate bene? – domandò.
– Non ci sono state lezioni, madre. Stagra è malato. Se avessi un pony,
morirebbe?
Il bambino scorse l’espressione addolorata che apparve sul volto della madre
quando lei lo trasse a sé, battendogli qualche colpetto affettuoso sulla schiena.
– Non sei un demone, Alessandro. Hai grandi talenti e sarai un grande uomo.
– Ma il pony morirebbe.
– Credo che potrebbe morire – ammise Olympias. – Quando sarai più grande
imparerai però a controllare il tuo... talento. Abbi pazienza.
– Non voglio uccidere nulla. Ieri ho indotto un uccello a volarmi sulla mano e
vi è rimasto sopra a lungo prima di volare via. Non è morto, davvero!
– Quando tuo padre tornerà a Pella andremo tutti al mare e navigheremo sulle
barche. Ti piacerà. La brezza là è fresca, e potremo anche nuotare.
– Sta per tornare? – domandò Alessandro. – Alcuni dicono che morirà nel
combattere contro i Focesi. Dicono che la sua fortuna si è esaurita e che gli dèi lo
hanno abbandonato.
– Zitto! – sussurrò sua madre. – Non è saggio esprimere ad alta voce simili
pensieri. Filippo è un grande guerriero... ed ha con sé Parmenion.
– Ma i Focesi lo hanno sconfitto già una volta in passato, due anni fa –
insistette il bambino. – Duemila Macedoni sono morti in quella battaglia. E adesso
gli Ateniesi fanno razzie lungo le nostre coste e i Traci si sono rivoltati contro di
noi.
– Senti troppe cose, Alessandro – sospirò Olympias, annuendo.
– Non voglio che lui muoia... anche se io non gli piaccio.
– Non lo devi dire! Mai! – esclamò sua madre, afferrandolo per le spalle e
scuotendolo con forza. – Mai! Lui ti ama, sei suo figlio e il suo erede.
– Mi stai facendo male – sussurrò Alessandro, con le lacrime agli occhi.
– Mi dispiace – si scusò Olympias, traendolo fra le proprie braccia. – Ci sono
tante cose che vorrei poterti dire, poterti spiegare. Ma sei così giovane.
– Capirei – garantì il bambino.
– Lo so, ed è per questo che non te ne posso parlare.
Per un po’ rimasero in silenzio, Alessandro rilassato e assonnato fra le braccia
della madre.
– Li posso vedere – mormorò il bambino, con voce impastata di sonno. – C’è
una pianura coperta di fiori porpora e gialli, e c’è mio padre nella sua armatura
dorata. È fermo accanto al suo castrato grigio, Achea. E ci sono i nemici... oh,
madre, sono migliaia. Posso vedere i loro scudi. Guarda! Ecco l’effigie di Sparta, e
là c’è il Gufo degli Ateniesi e... quello è un emblema che non conosco ma posso
individuare i simboli di Pherai e di Corinto... sono così tanti. Come può mio padre
sconfiggerli tutti?
– Non lo so – sussurrò Olympias. – Cosa sta succedendo, adesso?
– La battaglia sta cominciando – rispose il bambino.
IL CAMPO DI CROCO, ESTATE
Il generale spartano poteva avvertire la crescente ansia degli uomini alle sue
spalle. Come tutti i guerrieri, sapevano che l’equilibrio della battaglia poteva
mutare da un momento all’altro ed era già in forse. Se la cavalleria di Filippo fosse
stata respinta, Onomarchus si sarebbe servito della sua fanteria più numerosa per
dividere il centro macedone e avrebbe ancora potuto ottenere la vittoria.
Parmenion guardò verso sinistra. Un contingente di fanteria era emerso dal
bosco in cui era nascosto e adesso Nicanor e i suoi cinquecento uomini lo stavano
impegnando in combattimento. Dal punto in cui si trovava Parmenion era
nell’impossibilità di valutare il numero di avversari che Nicanor e i suoi uomini
stavano cercando di contenere, quindi lo Spartano mandò in loro aiuto altri
duecento cavalieri.
– Guarda laggiù! – gridò uno dei suoi uomini, indicando la linea di colline sulla
destra, sulla cui cresta erano apparsi centinaia di cavalieri.
Adesso Filippo e i suoi Compagni erano presi fra l’incudine e il martello.
I Focesi si lanciarono alla carica...
E il braccio di Parmenion scattò verso l’alto.
– Avanti, per la Macedonia! – gridò lo Spartano, poi estrasse la spada e spronò
lo stallone al galoppo, dirigendosi verso il fianco focese. Alle sue spalle i rimanenti
ottocento Tessali snudarono le loro ricurve sciabole da cavalleggeri e si
scagliarono dietro di lui lanciando le loro grida di guerra.
Le due forze si scontrarono sul fianco della collina sovrastante la massa di
guerrieri che stava combattendo per ottenere il controllo del centro del campo di
battaglia.
Vedendo che la sua cavalleria era stata intercettata Onomarchus impartì nuovi
ordini ai suoi uomini, che cercarono coraggiosamente di formare intorno a lui un
muro di scudi, ma adesso i Macedoni stavano esercitando pressione su tre lati:
Theoparlis e le sue guardie al centro, Coenus e il Quinto Reggimento sulla sinistra
dove stavano respingendo a poco a poco gli Spartani, e il re sulla destra impegnato
ad aprirsi a colpi di spada un varco sanguinoso fra i nemici.
Dovunque c’erano cadaveri che venivano calpestati dalle falangi in armatura
pesante e non si poteva più scorgere un solo fiore sul terreno devastato dallo
scontro.
Filippo aveva però cessato da tempo di pensare alla bellezza dei fiori distrutti.
In sella ad un terzo cavallo si stava creando un varco fra gli scudi dei Focesi; la sua
spada calò sul volto di un guerriero che subito scomparve sotto gli zoccoli della
cavalleria macedone... adesso Onomarchus era vicino, tanto da scagliare contro
Filippo un giavellotto che volò oltre la sua testa.
D’un tratto i Focesi cedettero e fuggirono in tutte le direzioni, sentendo che la
sconfitta era ormai prossima. Vedendo i propri sogni di conquista distrutti,
Onomarchus estrasse la spada e rimase ad attendere la morte mentre Theoparlis e
le sue guardie facevano irruzione attraverso l’ultima linea di difesa; Onomarchus si
girò per fronteggiare l’attacco, e in quel momento una sarissa gli trapassò il
gonnellino di cuoio, frantumandogli il fianco e lacerando l’arteria dell’inguine.
Adesso che il suo condottiero era morto, l’esercito focese si diede alla fuga e i
contingenti mercenari provenienti da Atene, da Corinto e da Sparta impegnarono
combattendo la ritirata attraverso il Campo di Croco.
Filippo smontò da cavallo accanto al corpo del suo nemico e tagliò la testa di
Onomarchus, infilandola sulla punta di una sarissa e levandola in alto perché tutti
potessero vederla.
La battaglia era finita, la vittoria era sua... Filippo si sentì assalire da una
profonda stanchezza, con le ossa che dolevano e il braccio destro che bruciava per
il lungo sforzo. Lasciando cadere la sarissa si tolse l’elmo e si sedette per terra, con
lo sguardo che vagava sul campo di battaglia su cui centinaia di uomini e decine di
cavalli giacevano senza vita, un numero che continuava a salire per opera della
cavalleria macedone che stava dando la caccia ai Focesi in fuga. Parmenion guidò
il cavallo verso il punto in cui Filippo era seduto e smontò, inchinandosi davanti al
re.
– Una grande vittoria, sire – disse in tono sommesso.
– Sì – convenne Filippo, sollevando lo sguardo dell’occhio sano sul volto dello
Spartano. – Perché non sei venuto quando ti ho mandato a chiamare?
Altri uomini... Attalus, Berin, Nicanor e parecchi ufficiali... erano radunati poco
lontano, e tutti fissarono lo Spartano in attesa della sua risposta.
– Mi avevi chiesto di tenere d’occhio l’andamento della battaglia, sire, ed io ero
certo che Onomarchus avesse degli uomini di riserva... come è risultato essere in
effetti.
– Dannazione a te! – ruggì Filippo, scattando in piedi. – Quando il re da un
ordine, gli si deve obbedienza! Riesci a capire questo semplice dato di fatto?
– Certamente – replicò lo Spartano, con un bagliore negli occhi chiari.
– Sire – intervenne Nicanor, – se Parmenion fosse intervenuto nella battaglia
prima di come ha fatto, tu saresti rimasto intrappolato.
– Taci! – ingiunse Filippo, poi tornò a rivolgersi a Parmenion, continuando: –
Non voglio al mio servizio un uomo che non obbedisce ai miei ordini.
– Questo è un problema facile da risolvere, sire – ribatté freddamente
Parmenion, poi s’inchinò ancora una volta e prese lo stallone per le redini,
allontanandosi a grandi passi dal campo di battaglia.
L’ira di Filippo non si placò per tutto il lungo pomeriggio. Per quanto poco
profonde le sue ferite erano dolorose, il suo umore cupo, e la consapevolezza di
essere stato ingiusto nei confronti di Parmenion aveva stranamente il solo effetto di
aumentare la sua irritazione. Quell’uomo riusciva sempre ad essere così nel giusto!
Nonostante le proteste del suo chirurgo, Bernios, non appena le sue ferite
furono fasciate con bende intrise di vino Filippo andò a sovrintendere al
trasferimento di tutti i Macedoni gravemente feriti in un’area adibita ad ospedale
fuori delle mura di Pagasai, prima di ritirarsi nelle prime ore della sera all’interno
di un palazzo al centro della città deserta. Da lì assistette all’esecuzione di seicento
prigionieri focesi catturati dalla sua cavalleria e quelle morti ebbero l’effetto di
migliorare il suo umore: Onomarchus era stato un potente nemico, un punto di
convergenza per tutti coloro che temevano la Macedonia, ma senza di lui le strade
verso la Grecia centrale erano adesso spalancate.
Al tramonto Filippo si recò nell’androne, un ampio locale con nove divani e
con le pareti decorate da murali eseguiti dall’artista tebano Natiles. Per lo più si
trattava di scene di caccia raffiguranti cavalieri che inseguivano parecchi leoni, ma
Filippo rimase impressionato dall’abilità dell’artista e dalla vivacità dei colori
utilizzati... era evidente che il pittore era un uomo che comprendeva l’arte della
caccia perché i suoi cavalli apparivano reali, i leoni erano snelli e letali, i cacciatori
esprimevano con il loro atteggiamento coraggio e timore al tempo stesso. Filippo
decise che quando la campagna militare si fosse conclusa avrebbe mandato a
chiamare quel pittore, perché scene del genere sarebbero state spettacolari sulle
pareti del suo palazzo di Pella.
I suoi ufficiali affluirono ad uno ad uno con i dettagli delle perdite subite quel
giorno. Theoparlis, comandante delle Guardie, aveva riportato centodieci morti e
settanta feriti, mentre Antipatro riferì che i morti fra i Compagni erano ottantaquat-
tro. Nel complesso i Macedoni avevano perso trecentosette uomini e i feriti erano
duecentoventisette.
I Focesi erano stati praticamente annientati. Duemila erano morti sul campo di
battaglia e almeno un altro migliaio era affogato quando era fuggito fino alla
spiaggia e aveva cercato invano di raggiungere a nuoto le trireme ateniesi in attesa
al largo.
Queste ultime notizie rallegrarono considerevolmente Filippo, che stiracchiò il
proprio corpo possente sul divano coperto di seta e trangugiò la quinta coppa di
vino, sentendo al tempo stesso la tensione che evaporava.
– È stata davvero una buona giornata, amici miei – commentò, tornando a
riempire ancora una volta la propria coppa dalla brocca d’oro; l’umore degli altri
pareva però cupo e quando nessuno accennò ad unirsi al suo brindisi lui aggiunse:
– Cosa succede a tutti quanti? È così che festeggiate la vittoria?
Theoparlis... un uomo massiccio con la barba nera e gli occhi scuri... si alzò in
piedi e s’inchinò goffamente.
– Ti prego di scusarmi, sire – replicò, con voce che tradiva l’accento dei
montanari del settentrione. – Desidero andare a vedere i miei uomini.
– Certamente – assentì Filippo.
Dopo Theoparlis anche Nicanor si congedò, poi Coenus e infine Antipatro.
Nell’arco di pochi minuti con Filippo rimase soltanto Attalus.
– Nel nome di Ecate, cosa succede a tutti quanti? – chiese il re, massaggiandosi
l’occhio cieco.
Attalus si schiarì la gola e bevve un sorso di vino prima di sollevare lo sguardo
dei suoi occhi freddi fino a incontrare quello di Filippo.
– Vogliono salutare Parmenion prima che lasci Pagasai – rispose.
Filippo posò la propria coppa e si appoggiò allo schienale del divano.
– Sono stato troppo aspro – ammise.
– Per nulla, sire – azzardò Attalus. – Hai impartito un ordine, che non è stato
obbedito. Adesso potresti doverne impartire un altro.
Filippo fissò il proprio Campione per un momento, poi sospirò.
– Ah, Attalus – mormorò infine. – Assassino una volta, assassino per sempre,
vero? Pensi che dovrei temere l’uomo che ha tenuto la Macedonia al sicuro per
tutti questi anni?
Attalus sorrise, mostrando i denti simili a lapidi tombali.
– Questo spetta a te deciderlo, Filippo – sussurrò.
Il re continuò a fissare il proprio Campione, ricordando il loro primo incontro a
Tebe, diciannove anni prima, quando Attalus era al soldo di suo zio, il Re
Ptolemaos. A quel tempo, per motivi incomprensibili, l’assassino aveva salvato la
vita a Filippo e da allora lo aveva sempre servito fedelmente... però era un uomo
freddo e senza amici.
– Non farò uccidere Parmenion – replicò Filippo. – Va’a chiedergli di venire da
me.
– Credi che lo farà?
– Chiediglielo lo stesso – replicò Filippo, scrollando le spalle.
Attalus si alzò e si congedò con un inchino, lasciando Filippo solo con la
brocca di vino. Il re si accostò alla finestra, da cui poteva ancora vedere le dodici
trireme ateniesi ancorate nel golfo, con la luce della luna che si rifletteva sui loro
scafi lucidi. Quelle erano imbarcazioni snelle ed eleganti, e tuttavia letali in
battaglia, con tre file di remi che potevano lanciarle alla stessa velocità di un
cavallo al galoppo in modo che gli arieti di bronzo posti sulla prua frantumassero il
fasciame delle imbarcazioni più piccole.
– Un giorno – si disse, – anch’io avrò una flotta che possa tenere loro testa.
L’occhio cieco prese a pulsargli dolorosamente e lui volse le spalle alla finestra,
versandosi un’ennesima cappa di vino, poi si accasciò sul divano e ne sorseggiò
lentamente il contenuto in attesa del suo Primo Generale.
– Si tratta soltanto di invidia, Parmenion? – si chiese ad alta voce. – Un tempo
ti volevo bene, ma allora ero più giovane e tu eri come un Dio della Guerra,
invincibile. Ma adesso? Un rumore di passi gli arrivò all’orecchio e lui si alzò in
piedi, portandosi nel centro della stanza.
Parmenion entrò, seguito da Attalus. Filippo si accostò al sicario e gli posò una
mano sulla spalla.
– Lasciaci soli, amico mio – disse.
– Come desideri, sire – replicò Attalus, cupo in volto.
Quando la porta si fu richiusa alle spalle dell’assassino, Filippo si volse verso
Parmenion che era fermo con atteggiamento rigido; il generale aveva accantonato
l’armatura e indossava ora una tunica azzurro chiaro, con un mantello da viaggio
grigio che gli pendeva dalle spalle.
– Come fai ad apparire tanto giovane, Parmenion? – chiese il re, incontrando lo
sguardo degli occhi azzurri dell’alto Spartano. – Il tuo aspetto è quello di un uomo
che si avvicini alla trentina, e tuttavia... quanti anni? Cinquanta?
– Quarantotto.
– C’è forse qualche e cibo speciale che mangi?
– Mi volevi vedere, sire?
– Sei irritato con me, vero? – ribatté il re, costringendosi a sorridere. – Bene,
posso capirlo. Bevi un po’ di vino in mia compagnia. Avanti, bevi.
Per un momento parve che lo Spartano fosse sul punto di rifiutare, ma poi
raccolse la brocca e si riempì una coppa.
– Ora siediti e parla con me – aggiunse il re.
– Cosa vuoi che ti dica, sire? Mi hai dato due ordini, e per obbedire ad uno ho
dovuto disobbedire all’altro. Quando stai combattendo, sono io ad avere il
comando dell’esercito, come tu stesso hai messo bene in chiaro. ‘Intraprendi
qualsiasi azione si renda necessaria,’ mi hai detto. Cosa vuoi da me, Filippo? Il
viaggio fino a Pella è lungo.
– Non voglio perdere la tua amicizia – replicò Filippo, – però tu mi stai
rendendo le cose difficili. Ho parlato d’impulso. Questo soddisfa il tuo orgoglio
spartano?
Parmenion sospirò e la tensione che lo permeava si dissolse.
– Non perderai mai la mia amicizia, Filippo, ma negli ultimi due anni c’è
qualcosa che si è interposto fra noi. Cosa ho fatto per offenderti?
– Quante vittorie sono davvero mie? – controbatté il re, grattandosi la barba
nera.
– Non capisco. Sono tutte tue.
– E tuttavia – sottolineò Filippo, annuendo, – a Sparta si dice a chiunque voglia
ascoltare che è un rinnegato spartano colui che sta portando la Macedonia alla
gloria, mentre in Atene si mormora: ‘Dove sarebbe Filippo senza Parmenion?’ Do-
ve sarei?
– Capisco – commentò lo Spartano, incontrando lo sguardo del re. – Non c’è
nulla che io possa fare riguardo a questo, Filippo. Quattro anni fa un tuo cavallo ha
vinto le Olimpiadi... non eri tu a montarlo, e tuttavia era comunque il tuo cavallo e
la sua vittoria ti ha reso orgoglioso. Io sono uno strategos... questa è la mia
vocazione e la mia vita... mentre tu sei un re, e un re combattente. Un re soldato. I
guerrieri lottano con maggiore vigore perché tu sei al loro fianco e ti amano. Chi
può dire quante battaglie sarebbero state perse senza di te?
– Ma la sola battaglia che ho condotto da solo si è conclusa con una sconfitta.
– E sarebbe successo lo stesso indipendentemente dalla mia presenza – garantì
Parmenion. – I tuoi esploratori paioni sono stati troppo sicuri di sé, non hanno
frugato le montagne come avrebbero dovuto fare. Però c’è qualcosa d’altro, vero?
Il re si avvicinò di nuovo alla finestra e fissò ancora lo sguardo sulle distanti
trireme, rimanendo a lungo in silenzio.
– Mio figlio è affezionato a te – affermò infine, con voce molto bassa. – La
nutrice mi ha riferito che a volte nei suoi incubi chiama il tuo nome e poi si
tranquillizza. Si dice anche che tu puoi abbracciarlo... e non sentire dolore. È vero?
– Sì – sussurrò lo Spartano.
– Quel bambino è posseduto, Parmenion. Si tratta di questo, oppure è un
demone. Non posso toccarlo... ci ho provato, ma è come se carboni ardenti mi
bruciassero la pelle. Come puoi tu tenerlo fra le braccia?
– Non lo so.
Il re scoppiò in un’aspra risata, poi tornò a girarsi verso il suo generale.
– Tutte le mie battaglie erano per lui, perché volevo creare un regno di cui
potesse essere orgoglioso. Lo volevo... lo volevo così tanto. Ricordi quando siamo
andati a Samotracia? Sì? A quel tempo amavo Olympias più della mia stessa vita,
mentre adesso non possiamo sedere nella stessa stanza per più di venti battiti del
cuore senza scambiarci parole rabbiose. E poi guardami... quando ci siamo
incontrati avevo quindici anni e tu eri già un guerriero adulto... quanti anni avevi,
ventinove? Adesso c’è del grigio nella mia barba e il mio occhio destro è una palla
piena di pus che mi causa dolore costante. E per cosa, Parmenion?
– Hai reso forte la Macedonia, Filippo – replicò lo Spartano, alzandosi in piedi,
– e tutti i tuoi sogni dovrebbero essere prossimi a realizzarsi. Che altro vuoi?
– Voglio un figlio che possa stringere fra le braccia, a cui possa insegnare a
cavalcare senza temere che il suo cavallo crolli morto al suolo e mar a davanti ai
miei occhi. Non ricordo nulla di quella notte Samotracia, quando l’ho generato, e a
volte penso che non sia neppure mio figlio.
Ogni traccia di colore svanì dal volto di Parmenion, ma in quel momento il re
non lo stava guardando.
– È ovvio che è tuo figlio – ribatté lo Spartano, impedendo alla paura di
trapelargli dalla voce. – Chi altri potrebbe essere suo padre?
– Qualche demone uscito dall’Ade. Presto mi sposerò di nuovo e un giorno
avrò un erede. Sai, dicono che quando Alessandro è nato il primo suono che ha
emesso è stato un ringhio, simile a quello di una bestia, tanto che per poco la
levatrice non lo ha lasciato cadere. Affermano anche che quando ha aperto gli
occhi le sue pupille erano verticali, come quelle di un gatto egiziano. Non so cosa
ci sia di vero in questo, tutto quello che so è che amo quel bambino... e tuttavia non
posso toccarlo. Ora però basta con questi discorsi. Siamo ancora amici?
– Io sarò sempre tuo amico, Filippo. Lo giuro.
– Allora ubriachiamoci e pensiamo a giorni migliori – ordinò il re.
Fuori della porta Attalus sentì montare la propria ira. In silenzio si allontanò
lungo il corridoio rischiarato dalle torce e uscì nella notte, la cui brezza fresca
riuscì soltanto ad alimentare le fiamme del suo odio.
Come poteva Filippo non vedere il pericolo rappresentato da quello Spartano?
Attalus sputò per terra, ma la sua bocca continuò ad avere il sapore della bile.
Parmenion, sempre Parmenion. Gli ufficiali lo adorano, i soldati lo ammirano.
Non riesci a vedere cosa sta succedendo, Filippo? Stai perdendo il tuo regno a
vantaggio di questo mercenario straniero!
Attalus si arrestò all’ombra di un tempio e si volse.
Potrei aspettare qui, si disse, serrando le dita intorno all’elsa della daga. Potrei
emergere dal buio dietro di lui e piantargli questa lama nella schiena, torcendola
fino a lacerargli il cuore...
Ma se Filippo lo avesse scoperto... l’assassino si ammonì ad avere pazienza.
Quell’arrogante figlio di buona donna avrebbe causato da solo la propria rovina
con le sue assurde idee di onestà e di onore. Nessun re voleva l’onestà, anche se
tutti ne parlavano e sostenevano di preferire un uomo onesto ad un lacchè stri-
sciante. Stupidaggini! Tutto quello che volevano i re era qualcuno che li adorasse e
fosse d’accordo con loro. No, Parmenion non sarebbe durato per molto.
E quando fosse infine giunto il giorno benedetto in cui lui avesse perso il favore
del re sarebbe stato Attalus colui a cui Filippo si sarebbe rivolto, prima per elimi-
nare il fastidioso Spartano e poi per sostituirlo come Primo Generale di Macedonia.
Lo strategos! Cosa c’era di tanto difficile nel vincere una battaglia? Bastava
colpire il nemico con la forza di una tempesta, schiacciando il centro e uccidendo il
re o il generale avversario. Parmenion li aveva però ingannati tutti, inducendoli a
credere che l’arte dello strategos fosse una sorta di meraviglioso mistero. E
perché? Perché era un vigliacco che cercava di restare sempre al di fuori dello
scontro, e lontano dal pericolo. Ma nessuno lo vedeva. Erano tutti ciechi e stolti!
Attalus estrasse la daga, godendo del bagliore argenteo che la luce lunare
creava sulla lama.
– Un giorno questa daga ti ucciderà, Spartano – sussurrò.
IL TEMPIO, ASIA MINORE, ESTATE
Derae era stanca fin quasi al punto dello sfinimento quando l’ultimo supplice
venne portato nella Stanza del Risanamento. I due uomini deposero la bambina
sull’altare e indietreggiarono, tenendo rispettosamente lo sguardo distolto dal viso
della Guaritrice cieca. Derae trasse un profondo respiro per calmarsi, poi posò le
mani sulla fronte della bambina e lasciò che il suo spirito fluisse nelle vene di lei
insieme al sangue, percependo il battito debole e incerto del cuore e trovando
infine la lesione, che era alla base della schiena, dove le vertebre erano spezzate, le
terminazioni nervose schiacciate e le fasce muscolari quasi atrofizzate.
Con estrema attenzione Derae risanò l’osso, eliminando le aderenze e
attenuando la pressione sulle terminazioni nervose infiammate per poi costringere
il sangue a scorrere sui tessuti lesi.
La sacerdotessa tornò infine nel suo corpo e sospirò, barcollando. Subito un
uomo scattò in avanti per assisterla, e la sua mano le sfiorò il braccio.
– Lasciami stare – ingiunse lei, ritraendosi.
– Chiedo scusa, signora – sussurrò l’uomo, ma Derae accantonò quelle scuse
con un cenno della mano e un sorriso.
– Sei tu che devi perdonarmi, Laertes. Sono stanca – replicò.
– Come fai a conoscere il mio nome? – chiese l’uomo, in tono sommesso, e il
suo stupore strappò una risata a Derae.
– Guarisco i ciechi e nessuno si domanda da dove venga il mio Talento. Gli
zoppi vanno via camminando con scioltezza e la gente commenta soltanto: ‘Ah, ma
del resto lei è una Guaritrice.’ Però basta una cosa semplice come conoscere un
nome che non è stato pronunciato ed ecco la meraviglia. Tu mi hai toccata, Laertes,
e nel toccarmi hai rivelato tutti i tuoi segreti. Non temere, però, perché sei un
brav’uomo. Tua figlia ha ricevuto un calcio da un cavallo, giusto?
– Sì, signora.
– Il colpo le ha leso le ossa della schiena. Adesso l’ho liberata dal dolore e
domani, dopo che mi sarò riposata, la risanerò. Per questa notte potete restare qui, e
i miei servi vi porteranno da mangiare.
– Ti ringrazio – replicò Laertes. – Ho di che pagare...
Segnalandogli con un cenno di tacere, Derae si allontanò dall’altare con passo
sicuro e subito due serve aprirono le porte della stanza dell’altare mentre una terza
si avvicinava per prenderla per un braccio nel corridoio al di là della stanza e
condurla nella sua camera.
Una volta dentro, Derae bevve un sorso d’acqua fresca e si adagiò sul suo
stretto giaciglio. C’erano così tante persone malate e sofferenti... ogni giorno le
code davanti al Tempio si facevano più lunghe, a volte si verificavano degli scontri
e molti di coloro che infine arrivavano da lei erano stati costretti a pagare per
raggiungere la stanza dell’altare. Negli anni passati Derae aveva tentato più di una
volta di porre fine a quella situazione, ma nonostante i suoi poteri non poteva
combattere contro la natura umana: la gente fuori del Tempio aveva un bisogno
che soltanto lei poteva soddisfare e dove c’era bisogno c’era anche da ricavare del
profitto. Adesso un mercenario greco di nome Pallas era accampato da tempo
davanti al Tempio con trenta uomini, e si occupava di organizzare le code di attesa,
vendendo ai supplici simboli di ammissione e stabilendo un certo ordine in quel
caos.
Incapace di ostacolare completamente la sua attività, Derae aveva almeno
preteso che lui permettesse ogni giorno il passaggio di cinque persone povere
insieme a dieci che potevano pagare. Il primo giorno Pallas aveva cercato di
ingannarla e lei si era rifiutata di vedere chiunque, così adesso quel sistema fun-
zionava abitualmente e inoltre Pallas provvedeva ad assoldare servitori, cuochi,
cameriere e giardinieri che si occupassero delle esigenze di Derae. Questo aveva
però soltanto l’effetto di irritarla, perché sapeva che l’unico scopo di Pallas era
quello di far sì che lei impegnasse il proprio tempo in modo da fargli guadagnare
denaro risanando i malati, invece che intenta ad attività inutili come il
giardinaggio, che pure le piaceva tanto, oppure cucinare o pulire. E tuttavia,
nonostante le motivazioni del mercenario, questo significava che un numero
maggiore di persone aveva accesso alle sue cure. Derae si chiese se avrebbe dovuto
essere grata a Pallas di questo, ma decise che non aveva motivi di gratitudine,
perché l’avidità era la sua sola fonte di ispirazione, l’oro la sua unica gioia.
Allontanando dalla mente ogni pensiero relativo al mercenario, Derae chiuse gli
occhi ciechi e fluttuò fuori del proprio corpo. In quel volo dello Spirito c’era libertà
e perfino gioia dovuta ad una momentanea felicità per essere svincolata dalle
preoccupazioni. Mentre il suo corpo riposava sul giaciglio Derae volò al di là del
Golfo Termaico, librandosi in alto sopra la sagoma triangolare della Calcide e
proseguì oltre i monti Pierian fino alla Tessaglia, dove il suo spirito era chiamato
dall’amante della sua giovinezza.
Si rese conto di colpo di quanto tempo fosse passato da allora. Erano trascorsi
trent’anni da quando lei e Parmenion avevano giaciuto insieme nella casa estiva di
Senofonte, persi nell’esuberanza della loro passione giovanile.
Lo trovò nella città conquistata di Pagasai, nel momento in cui si accingeva a
lasciare il palazzo. Il suo passo era incerto e lei si accorse che aveva bevuto, ma più
di ogni altra cosa avvertì la tristezza che lo pervadeva. Un tempo Derae aveva cre-
duto che avrebbero trascorso la vita insieme, avvinti da un amore reciproco,
incatenati uno all’altra da desideri che non erano tutti generati dalla carne. Non
tutti...? Ricordò il suo tocco gentile, il calore del corpo di lui sul proprio, la
morbidezza della sua pelle e il potere dei muscoli racchiusi in essa, il calore del suo
sorriso e l’amore nei suoi occhi... e la disperazione sussurrò nella sua anima.
Adesso lei era un’anziana sacerdotessa in un remoto tempio dell’Asia e lui era
un generale del trionfante esercito macedone. E la cosa peggiore era che durante
tutti gli ultimi trent’anni Parmenion l’aveva creduta morta.
Il rammarico seguì la carezza della disperazione, ma Derae accantonò entrambe
le sensazioni e si fece più vicina a lui, fino a sentire il calore del suo spirito.
– Ti ho sempre amato – gli disse. – Nulla ha mai potuto cambiare questo, e
veglierò su di te finché avrò vita.
Parmenion però non poteva sentirla. Una brezza fredda sfiorò il suo spirito e
con un impeto improvviso di timore Derae comprese di non essere sola. Librandosi
in alto nel cielo ammantò il proprio spirito di un’armatura di luce e una spada di
fuoco bianco le apparve in pugno.
– Mostrati! – ingiunse quindi.
La forma di un uomo si materializzò poco lontano. L’uomo era alto, con corti
capelli grigi e una barba arricciata secondo lo stile persiano.
– Sono io, Aristotele – disse, allargando le braccia con un sorriso.
– Perché mi stai spiando? – domandò Derae.
– Sono venuto al Tempio per vederti, ma il suo accesso è sorvegliato da
mercenari affamati di denaro che non mi hanno permesso di entrare. Però noi due
dobbiamo parlare.
– Di cosa dovremmo parlare? Il bambino è nato, lo Spirito del Caos è dentro di
lui e tutti i futuri indicano che recherà tormento al mondo. Avevo sperato di poterlo
aiutare a conservare la sua umanità ma non ci riesco. Il Dio Oscuro è più forte di
me.
– Non è vero – ribatté Aristotele, scuotendo il capo. – Il tuo ragionamento è
errato, Derae. Ora dimmi, come posso fare per venire da te?
– C’è una piccola porta nel muro occidentale – spiegò Derae, con un sospiro. –
Trovati là a mezzanotte e io ti aprirò. Adesso però lasciami in pace per un po’.
– Come desideri – assentì Aristotele, e scomparve.
Nuovamente sola, Derae seguì Parmenion fino all’ospedale da campo,
osservandolo mentre si muoveva fra i feriti discutendo delle loro condizioni con il
chirurgo Bernios, ma non riuscì a trovare la pace che stava cercando e si tornò a
librare nel cielo notturno, fluttuando fra le stelle.
Erano passati quattro anni da quando il magus che si faceva chiamare Aristotele
era venuto al Tempio, e quella sua visita aveva portato alla tragedia. Insieme,
Derae e il magus avevano mandato lo spirito di Parmenion nelle profondità
dell’Ade perché salvasse l’anima non ancora nata di Alessandro, ma i loro sforzi
erano risultati vani. Lo Spirito del Caos si era fuso con l’anima del bambino e il
migliore amico di Derae... il guerriero convertito Leucion... era stato fatto a pezzi
dai demoni inviati per distruggere la stessa Derae.
Tornata al tempio, Derae si alzò dal letto e si lavò con l’acqua fredda,
massaggiandosi il corpo con foglie profumate senza però permettersi di osservare
con gli occhi dello spirito il proprio fisico avanti negli anni perché non tollerava di
vedersi come era adesso... con i capelli d’argento, il corpo sottile e consumato, i
seni afflosciati. Indossato un chitone verde pulito lungo fino ai piedi, sedette
accanto alla finestra in attesa della mezzanotte. Fuori del Tempio i fuochi da
campo ardevano numerosi, accesi dai supplici molti dei quali avrebbero atteso
anche sei mesi prima di riuscire a incontrare la Guaritrice. Parecchi sarebbero
morti prima di poter utilizzare il simbolo di accesso per cui avevano pagato. Una
volta, prima dell’arrivo di Pallas, lei aveva provato a uscire in mezzo ai malati per
guarirne quanti più poteva, ma era stata presa d’assalto e gettata a terra, e la sola
cosa che l’aveva salvata era stato l’intervento del suo amico e servitore Leucion,
che aveva respinto la ressa con il suo randello. Derae soffriva ancora per la morte
del guerriero, che aveva perso la vita per difendere il suo corpo impotente dai de-
moni mandati a distruggerlo.
Immaginò il suo volto... i lunghi capelli argentei legati alla base del collo, il
passo arrogante, il sorriso spontaneo.
– Mi manchi – sussurrò.
Appena prima della mezzanotte, guidata dalla vista dello spirito, sgusciò fino
alla porta occidentale e spinse indietro la sbarra che la sprangava per lasciar entrare
Aristotele. Dopo aver rimesso a posto la sbarra lo accompagnò nella propria stanza,
dove il magus si versò un po’ d’acqua e sedette sul suo stretto giaciglio.
– Ti dispiace se accendo una lanterna? – domandò.
– I ciechi non hanno bisogno di lanterne, ma andrò a prendertene una.
– Non ti preoccupare per questo, signora – replicò Aristotele.
Protendendo la mano, prese una coppa da vino in argento e la sollevò in alto:
subito il metallo si contorse e si ripiegò su se stesso fino a formare un beccuccio da
cui scaturì una fiamma tremolante e sempre più intensa, che ben presto allargò il
proprio chiarore in tutta la stanza.
– Non hai un buon aspetto, Derae – osservò il magus. – I tuoi doveri ti stancano
eccessivamente.
– Vieni allo scopo della tua visita – ribatté lei, in tono freddo.
– No – replicò lui. – Prima dobbiamo parlare dei molti futuri. Ti è mai venuto
in mente che esiste una contraddizione nei nostri viaggi attraverso il tempo?
– Se ti riferisci al fatto che i futuri che vediamo possono mutare, naturalmente
ci ho pensato.
Aristotele sorrise e scosse il capo.
– Ma cambiano davvero? – insistette. – È questo l’interrogativo.
– È ovvio che cambiano. Ricordo come la vecchia Tamis mi abbia raccontato di
aver visto la propria morte in molti futuri. In uno moriva addirittura cadendo da
cavallo, anche se cavalcare era una cosa che detestava.
– Esattamente ciò che intendo – convenne Aristotele. – Ora lascia che ti
spieghi: Tamis ha visto se stessa cadere da cavallo, ma non è così che è morta.
Quindi... chi è caduto da quel cavallo?
Derae sedette su una sedia coperta da un cuscino, fissando il volto del magus
con gli occhi dello spirito.
– Tamis – rispose. – Però i futuri sono stati mutati dagli eventi del passato.
– Ma è proprio in questo che risiede la contraddizione – affermò Aristotele. –
Qui non stiamo parlando di visioni profetiche, Derae. Tu e io... e un tempo anche
Tamis... possiamo viaggiare nei molteplici futuri, osservandoli. Ciò che vediamo
sta accadendo... da qualche parte. Tutti i futuri sono reali.
– Come possono essere tutti reali? – lo derise lei. – Tamis è morta una volta
soltanto... come succederà a me.
– Non posseggo tutte le risposte, mia cara, ma so questo: ci sono molti mondi,
migliaia di mondi tutti simili al nostro. Forse ogni volta che un uomo prende una
decisione con essa crea un mondo nuovo... non lo so, ma so che è follia esaminare
tutti questi mondi alternativi e basare le nostre azioni sugli eventi che si verificano
in essi. Anch’io ho visto Alessandro trascinare il mondo nel caos e nel sangue, l’ho
visto uccidere Filippo e impadronirsi del trono, l’ho visto morire da bambino per
una pestilenza, o per il morso di un cane o per via della lama di un sicario.
Possibile che tu non capisca che nulla di tutto questo ha importanza? Nessuno di
quei futuri è il nostro. Essi sono soltanto echi, riflessi, indicazioni di quello che il
futuro potrebbe essere.
– Un concetto interessante – ammise Derae, dopo aver riflettuto in silenzio su
quelle parole. – Ci penserò sopra. Ora, vuoi venire al punto della tua visita?
Aristotele si distese sul letto, seguendo con lo sguardo il tremolare delle ombre
sul basso soffitto.
– Il punto, come sempre, riguarda la vita del bambino qui nel nostro mondo. Tu
ed io abbiamo condotto Parmenion nell’Ade, dove l’anima di Alessandro si è fusa
con lo Spirito del Caos. Allora abbiamo giudicato che questa fosse una sconfitta,
ma potrebbe risultare non essere tale.
– Uno strano genere di vittoria – lo derise Derae. – Il bambino porta dentro di
sé una grande malvagità che sta crescendo peggio di un cancro, senza che lui abbia
la forza di combatterla.
– Ha però avuto la forza di impedirle di distruggere Parmenion, là nel Vuoto –
obiettò Aristotele. – Evitiamo però di discutere e cerchiamo invece di pensare ad
un modo per aiutare il bambino.
Derae scosse il capo.
– Molto tempo fa ho imparato che è follia cercare di mutare il futuro. Se avessi
saputo allora ciò che so adesso non ci sarebbe stato nessun Principe Demone.
– Io credo invece che ci sarebbe stato, signora – ribatté Aristotele, con voce
sommessa, – ma la cosa non ha importanza. Quel bambino non è diverso da molti
altri che ti vengono portati ogni giorno... soltanto non è menomato nella carne ed è
invece il suo spirito ad essere in tormento. Da solo nessuno di noi due ha il potere
di espellere il demone, ma insieme... e con l’aiuto del ragazzo... potremmo ancora
riuscire a rimandare il Dio Oscuro nel Mondo Sotterraneo.
Derae scoppiò in una risata permeata di amarezza.
– Io risano le ferite, magus, non sono dotata di poteri tali da poter affrontare
Kadmillos e neppure desidero farlo.
– Cosa desideri, signora?
– Soltanto essere lasciata in pace.
– No! – tuonò Aristotele, alzandosi in piedi. – Non intendo accettare una
risposta del genere da una Spartana! Cosa ti è successo, Derae? Non sei un agnello
in attesa di essere macellato, tu appartieni ad una razza di guerrieri, hai lottato con-
tro la Signora Oscura di Samotracia. Dov’è il tuo spirito?
– Adesso cerchi di farmi infuriare – sussurrò Derae, con un sospiro, – ma non ci
riuscirai. Guardami, Aristotele: sto diventando vecchia. Vivo qui e guarisco i
malati, e lo farò fino alla mia morte. Un tempo avevo un sogno, ma ora non più. E
adesso lasciami in pace.
– Io posso ridarti la giovinezza – dichiarò Aristotele, con voce suadente e con
lo sguardo acceso da una promessa. Per un momento lei lo scrutò in silenzio,
inespressiva in volto.
– Allora sei stato tu – affermò infine. – Quando ho risanato Parmenion dal
cancro l’ho visto tornare giovane sotto i miei occhi. Ho pensato che fosse un
effetto del risanamento.
– Anche tu potrai tornare ad essere giovane, potrai ritrovare il tuo sogno.
– Sei un magus... e tuttavia sei uno stolto – ribatté Derae, con voce piatta e
stanca. – Parmenion è sposato e ha tre figli, al suo fianco non c’è più posto per me,
adesso. È possibile che noi si riesca a manipolare i futuri... ma il passato è di ferro.
Aristotele si alzò e si avviò verso la porta. Sulla soglia si volse, come per
aggiungere qualcosa, ma poi scosse il capo e si allontanò nell’oscurità del corridoio
del tempio.
Derae ascoltò i suoi passi svanire in lontananza, poi si lasciò cadere sul letto,
con la promessa di Aristotele che le echeggiava nella mente: ‘Posso renderti di
nuovo giovane.’
Sapeva che il magus si sbagliava... oh, certo, lui poteva operare la propria
magia sul suo corpo, rinforzando i suoi muscoli e tendendo la pelle, ma la
giovinezza era anche una condizione della mente e nessuno, né dio né uomo,
avrebbe potuto ridarle la sua innocenza, la gioia di ogni scoperta fatta, la bellezza
del primo amore... e senza questo a che serviva avere un corpo giovane e
flessuoso?
Sentì le lacrime che prendevano a scorrere, mentre con l’occhio della mente
vedeva di nuovo il giovane Parmenion pararsi solo davanti ai razziatori che
l’avevano rapita e riviveva il momento in cui lui l’aveva tenuta per la prima volta
fra le braccia.
– Ti amo – sussurrò.
E pianse.
Prima di concedersi il lusso del sonno, Derae tracciò le linee di tre incantesimi
protettivi sulle mura, sulla porta e sulla finestra della sua stanza; quegli incantesimi
non avrebbero potuto fermare una veggente della potenza di Aida, ma il loro
disintegrarsi l’avrebbe indotta a svegliarsi in tempo per difendersi.
Erano trascorsi quasi cinque anni da quell’ultimo attacco durante il quale
Leucion era morto per difenderla dai demoni inviati dalla maga, e da allora Derae
aveva sentito parlare ben poco di Aida. L’Oscura Signora aveva lasciato il suo
palazzo di Samotracia ed era tornata sul continente... e secondo le dicerie aveva
viaggiato fino ai confini settentrionali dell’impero persiano, per attendere là che
Alessandro diventasse adulto. Derae rabbrividì.
Il figlio del Caos, che presto sarebbe divenuto un distruggitore di cui la terra
aveva di rado visto l’eguale.
I suoi pensieri si rivolsero a Parmenion e lei si adagiò sul letto, coprendosi con
un sottile lenzuolo di lino bianco. La notte era calda e afosa, e appena un alito di
vento entrava dalla finestra aperta. Cercando il rifugio del sonno Derae immaginò
Parmenion com’era stato tanti anni prima... un giovane amareggiato e disprezzato
dai suoi coetanei, che aveva trovato l’amore fra le tranquille colline di Olimpia.
Momento dopo momento assaporò le gioie inebrianti dei loro cinque giorni
insieme, fermando i propri ricordi appena prima della fatale mattina in cui suo
padre l’aveva trascinata lontano da quella casa e l’aveva rimandata a Sparta coperta
di vergogna. Lentamente, senza quasi accorgersene, scivolò quindi in un nuovo
sogno in cui strane bestie... per metà uomini e per metà cavalli... correvano lungo
sentieri boschivi e numerose driadi splendide e magiche sedevano vicino a ruscelli
scintillanti. Lì c’era la pace. E la gioia.
Però il sogno continuò a svilupparsi e in esso lei vide un esercito in marcia,
città in fiamme e migliaia di morti. I guerrieri portavano mantello e armatura nera
ed avevano uno scudo rotondo su cui spiccava l’emblema di un grande raggio di
sole.
Al centro di quell’orda cavalcava un guerriero con la corazza nera bordata
d’oro, un uomo avvenente dalla barba nera che lei riconobbe all’istante. In lui c’era
però qualcosa di strano, di diverso, e fluttuando più vicino Derae vide che il suo
occhio destro era fatto d’oro, apparentemente fuso, e avvertì il tocco nero della sua
anima che si protendeva come un misto di ghiaccio e di fuoco, per raggelare e
bruciare.
Ritraendosi, cercò di fuggire alla ricerca del bosco incantato in cui vagavano i
centauri, ma non riuscì a muoversi e una nuova visione si creò davanti agli occhi
del suo spirito.
In essa vide un palazzo cupo e pervaso di ombre, e un bambino che piangeva in
una piccola stanza. Il re entrò nella stanza e Derae cercò invano di chiudere occhi e
orecchi alla scena a cui stava assistendo: l’uomo si avvicinò al bambino piangente
stringendo in pugno una lunga daga ricurva.
– Padre, ti prego! – implorò il bambino.
Derae urlò nel momento in cui il coltello trapassava il cuore del piccolo, poi la
scena si fece indistinta e un momento più tardi lei vide il re lasciare la stanza, con
la bocca e la barba che grondavano sangue.
– Adesso sono immortale? – chiese ad un prete dalla testa rasata che era in
attesa fuori della camera.
L’uomo s’inchinò e il suo sguardo velato evitò d’incontrare quello del re.
– Hai aggiunto una ventina di anni alla durata della tua vita, sire, ma quello non
era il Fanciullo Dorato.
– Allora trovatelo! – ruggì il re, con il sangue che gli sprizzava dalle labbra e
andava a macchiare la tunica chiara del prete. Le catene invisibili che trattenevano
Derae davanti alla scena si dissolsero e la Guaritrice fuggì, risvegliandosi nella
propria stanza buia.
– Hai visto? – chiese Aristotele, in tono sommesso.
– Allora è stata opera tua – affermò lei, sollevandosi a sedere e protendendo la
mano verso il boccale d’acqua posato sul tavolo accanto al letto.
– Sono stato io a mandarti là – ammise il magus, – ma quello che hai visto era
reale. Ci sono molti aspetti del Caos, Derae, su molti mondi. Nella Grecia che tu
hai visto c’è già un Re Demone.
– Perché me l’hai mostrato? A che scopo è servito? Aristotele si alzò e si
accostò alla finestra, fissando lo sguardo sul mare rischiarato dalla luna.
– Hai riconosciuto il re?
– Naturalmente.
– Ha ucciso tutti i suoi figli nel tentativo di ottenere l’immortalità e adesso sta
cercando un fanciullo leggendario, Iskander.
– E questo cosa c’entra con me? Sbrigati a parlare, magus, perché sono stanca.
– Nel mondo che hai visto la magia sta svanendo e con essa stanno morendo i
centauri e altre splendide creature. È loro convinzione che giungerà un bambino,
un Fanciullo Dorato che li salverà tutti, e il re è alla ricerca di quel bambino in
quanto è persuaso che se ne mangerà il cuore riuscirà ad ottenere l’immortalità. E
forse ha ragione. – Aristotele scrollò le spalle, poi proseguì: – Ci sono molti modi
per prolungare la propria vita, ma non è questo il punto. I suoi preti possono creare
piccole porte fra i mondi e adesso sono alla ricerca di questo bambino così
speciale. Ed io credo che lo abbiano trovato.
– Alessandro? – sussurrò Derae. – Prenderanno Alessandro?
– Ci proveranno.
– E lo allontaneranno dal nostro mondo? Certo questa è una cosa desiderabile.
– Ritieni che possa essere desiderabile che a un altro bambino venga strappato
il cuore dal petto? – ribatté Aristotele, socchiudendo gli occhi.
– Io non penso nel tuo stesso modo – ribatté Derae, con voce appena udibile. –
Tu non stai facendo questo per la Fonte, e neppure per combattere il Caos.
– No – ammise Aristotele. – Lo faccio soltanto per me, perché la mia stessa vita
è in pericolo. Vuoi aiutarmi?
– Ci penserò su – replicò Derae. – Adesso lasciami in pace.
PELLA, MACEDONIA, ESTATE
Alessandro sollevò il capo e fissò l’uccello azzurro e grigio appollaiato sui rami
più bassi dell’alto cipresso. La minuscola creatura si lisciò le piume e piegò il capo
da un lato, fissando il bambino dai capelli dorati.
– Vieni da me – sussurrò Alessandro, e l’uccello saltellò lungo il ramo,
spiccando poi il volo e passando sopra la testa del bambino.
Alessandro attese, immobile come una statua e intensamente concentrato.
Tenendo gli occhi chiusi poteva seguire il volo dell’uccello, che superò il muro del
giardino e poi descrisse un cerchio, tornando indietro verso il palazzo e scendendo
in basso, sempre più vicino al suo braccio proteso. Due volte gli passò accanto in
volo radente, ma al terzo passaggio il bambino sentì i piccoli artigli dell’uccello
cercare un appiglio intorno al suo indice e alla fine aprì gli occhi, abbassando lo
sguardo sulla creatura.
– Siamo amici, allora? – chiese, con voce gentile. Ancora una volta l’uccello
piegò la testa da un lato, e lui poté avvertire la tensione e la paura che lo
pervadevano mentre sollevava lentamente la mano sinistra per accarezzarlo sul
dorso.
All’improvviso sentì insorgere dentro di sé il potere di uccidere, che divenne
sempre più forte fino a fargli accelerare il battito del cuore e a destare un tremito
nel suo braccio. Trattenendo disperatamente l’impulso, Alessandro si mise a
contare ad alta voce, ma quando arrivò a sette percepì lo spaventoso fluire della
morte lungo il braccio.
– Vola! – comandò, e il passero si librò subito nell’aria. Alessandro si accasciò
nell’erba, mentre il desiderio di morte svaniva rapido com’era sorto.
– Non mi arrenderò – sussurrò fra sé. – Arriverò a dieci, e poi a venti. E un
giorno lo bloccherò per sempre.
Mai, replicò una voce oscura proveniente dal suo cuore. Non mi sconfiggerai
mai. Tu sei mio, ora e sempre.
Alessandro scosse il capo e si alzò in piedi, costringendo la voce ad allontanarsi
e ricacciandola sempre più in profondità dentro di sé. Il sole stava cominciando a
calare in direzione dei monti distanti e il bambino si spostò nella fresca ombra del
muro occidentale; da lì poteva vedere le sentinelle di guardia alle porte, con la loro
armatura splendente e l’elmo di bronzo che scintillava come se fosse stato d’oro...
due uomini alti, severi, orgogliosi e irritati perché erano stati lasciati indietro
mentre il loro re andava in battaglia.
Poi le guardie scattarono sull’attenti sollevando la lancia in posizione verticale,
e il bambino si sentì pervadere dall’eccitazione quando esse salutarono qualcuno
che si trovava oltre le porte. Alessandro cominciò a correre lungo il sentiero.
– Parmenion! – gridò con voce acuta, disturbando decine di uccelli annidati fra
gli alberi. – Parmenion!
* * *
Il generale ricambiò il saluto delle sentinelle e si addentrò nei giardini,
sorridendo nel vedere il bambino di quattro anni che gli correva incontro con le
braccia protese. Lo Spartano si inginocchiò e il piccolo si catapultò nel suo
abbraccio.
– Abbiamo vinto, vero, Parmenion? Abbiamo schiacciato i Focesi.
– Lo abbiamo fatto, giovane principe. Ora però bada di non graffiarti contro la
mia armatura.
Allontanando le braccia del bambino dal proprio collo, Parmenion allentò i
lacci di cuoio dei paraorecchi dorati del suo elmo e se lo sfilò, lasciandolo cadere
sull’erba, Alessandro sedette accanto all’elmo, passando le piccole dita sulla cresta
bianca di crini di cavallo.
– Mio padre ha combattuto come un leone. Lo so, perché ho visto tutto. Lui ha
attaccato il fianco nemico e tre cavalli sono stati abbattuti sotto di lui nel corso
della lotta. Poi ha tagliato la testa al traditore, Onomarchus.
– Sì, ha fatto tutto questo, ma te ne parlerà lui stesso quando arriverà a casa.
– No – replicò Alessandro in tono sommesso, scuotendo il capo. – Non lo farà.
Non parla spesso con me e io non gli piaccio, perché uccido le cose che tocco.
Parmenion si protese e strinse a sé il bambino, arruffandogli i capelli.
– Ti garantisco che lui ti ama, Alessandro. Però se ti fa piacere ti parlerò io
della battaglia.
– So tutto della battaglia, davvero. Però mio padre dovrebbe stare attento ai
fendenti al collo: a causa dell’occhio cieco è costretto a girare la testa più di quanto
sia opportuno fare e questo espone le vene della sua gola. Dovrebbe farsi fare un
collare di cuoio e di bronzo.
– Sei molto saggio – commentò Parmenion, annuendo. – Vieni, andiamo
dentro. Ho sete a causa del viaggio, e il sole è troppo caldo.
– Posso salire sulle tue spalle? Posso?
Lo Spartano si alzò agilmente in piedi e prese il principe per le braccia,
sollevandolo in alto. Il bambino emise uno strillo eccitato quando lui se lo sistemò
sulle spalle, prima di raccogliere l’elmo e di avviarsi verso il palazzo. Le guardie lo
salutarono ancora una volta e le nutrici del principe si lasciarono cadere in
ginocchio al suo passaggio.
– Mi sento come un re – trillò Alessandro. – Sono più alto di qualsiasi uomo!
Olympias uscì nel giardino seguita dalle sue serve, e nel vederla lo Spartano
trasse un profondo respiro. Con i suoi capelli rossi e ricci e gli occhi verdi, la
regina era l’immagine della Derae che lui aveva amato tanti anni prima. Olympias,
che indossava un abito di seta asiatica color verde mare, trattenuto sulla spalla da
una spilla d’oro che aveva la forma di un raggio di sole, scoppiò in una risata nel
vedere il generale spartano con il suo fardello. Parmenion s’inchinò e Alessandro
emise uno strillo di finto terrore quando perse quasi il suo appiglio.
– Ti saluto, signora. Ti ho portato tuo figlio.
Olympias venne avanti e baciò Parmenion su una guancia.
– Sei sempre un visitatore gradito – replicò quindi, prima di rivolgersi ai
servitori per ordinare vino e frutta per l’ospite, che accompagnò nelle proprie
stanze. Dovunque c’erano preziosi tendaggi di seta, divani coperti di broccato,
sedie fornite di cuscini, e le pareti erano decorate da splendidi dipinti raffiguranti
scene omeriche. Parmenion si tolse Alessandro dalle spalle e lo posò su un divano,
ma il bambino si affrettò a scendere e a impossessarsi della mano del generale.
– Guarda, madre, posso tenere Parmenion per mano. Non senti dolore, vero,
Parmenion?
– Nessun dolore – garantì lo Spartano.
– Lui ha salvato la vita a mio padre, conducendo una controcarica a danno della
cavalleria focese. Non hanno potuto ingannarti, vero, Parmenion?
– No – convenne il generale.
Due serve lo aiutarono a liberarsi della corazza e una terza gli portò un boccale
di vino misto ad acqua fresca, poi una quarta ragazza entrò nella stanza con una
ciotola di frutta che depose davanti a lui prima di inchinarsi e di uscire di corsa.
Lo Spartano attese che le serve fossero state congedate, quindi sollevò la coppa
in un brindisi alla regina.
– La tua bellezza si accresce di anno in anno – affermò.
– Un grazioso complimento, amico mio – annuì lei, – ma adesso parliamo di
cose più serie. Hai perso il favore di Filippo?
– Il re afferma che non è così – replicò Parmenion.
– Ma questa non è una risposta.
– No.
– Lui è geloso di te – intervenne Alessandro, in tono sommesso.
– Non dovresti parlare di cose che non capisci – lo rimproverò sua madre,
sgranando gli occhi per la sorpresa. – Sei troppo giovane per sapere quello che
pensa il re.
Alessandro sostenne il suo sguardo senza replicare, e la regina riportò la propria
attenzione su Parmenion.
– Allora non ci lascerai, vero? – chiese.
– Dove andrei, mia signora? – ribatté lo Spartano, scuotendo il capo. – La mia
famiglia è qui. Penso che trascorrerò l’autunno nella mia tenuta. Mothac mi ha
riferito che là c’è molto da fare.
– Come sta Phaedra? L’hai già vista? – domandò Olympias, mantenendo neutro
il tono di voce.
– Non ancora – rispose Parmenion, scrollando le spalle.
– L’ultima volta che l’ho vista stava bene, anche se la nascita di Ettore le ha
causato qualche problema ed è stata debole per un po’ di tempo.
– E gli altri bambini?
A quella domanda lo Spartano ridacchiò.
– Philotas si caccia continuamente nei guai, ma la colpa è di sua madre che lo
vizia e gli concede tutto. Nicci è di indole più gentile; ha appena due anni ma segue
Philo dappertutto, perché lo adora.
– Phaedra è molto fortunata – commentò Olympias. – Deve essere molto felice.
Parmenion finì il proprio vino e si alzò in piedi.
– Ora devo andare a casa – affermò.
– No! No! – strillò Alessandro. – Hai promesso di parlarmi della battaglia.
– E le promesse devono essere mantenute – aggiunse la regina.
– È vero – ammise il generale. – Avanti, giovane principe, poni le tue domande.
– Quante perdite macedoni ci sono state?
Protendendosi in avanti, Parmenion arruffò i capelli dorati del bambino.
– Le tue domande volano verso il bersaglio come frecce, Alessandro. Abbiamo
perso poco più di trecento uomini e altri duecento sono feriti gravemente.
– Dovremmo avere un numero più elevato di chirurghi
affermò il bambino. – I morti non dovrebbero essere più numerosi dei feriti.
– La maggior parte dei morti sono i guerrieri che sono rimasti feriti all’inizio
della battaglia e che si sono dissanguati prima che i chirurghi potessero
raggiungerli – spiegò lo Spartano. – Però tu hai ragione nell’affermare che
abbiamo bisogno di un numero maggiore di abili medici. Ne parlerò con tuo padre.
– Quando sarò re non subiremo simili perdite – promise il ragazzo. – Sarai il
mio generale, Parmenion?
– A quel tempo sarò forse un po’ troppo vecchio, mio principe. Tuo padre è
ancora un uomo giovane... e un guerriero possente.
– Io sarò ancora più possente – garantì il bambino.
L’incontro con la regina e con suo figlio continuò a turbare Parmenion mentre
questi cavalcava verso nord alla volta delle sue vaste tenute sulla Piana di Ematia.
Tutti sapevano che quel bambino era posseduto, e Parmenion ricordava al tempo
stesso con timore e con orgoglio la battaglia combattuta per la sua anima nella
Valle dell’Ade, cinque anni prima.
Quello era stato un tempo di miracoli. Parmenion, morente a causa di un
tumore al cervello, era sprofondato nel coma... soltanto per riaprire gli occhi in un
mondo di incubo, un luogo grigio, spettrale, contorto e spoglio. Là aveva
incontrato il magus, Aristotele, e insieme alla morta maga Tamis avevano cercato
di salvare l’anima non ancora nata di Alessandro.
Concepito sulla mistica Isola di Samotracia, quel bambino avrebbe dovuto
diventare il contenitore umano del Dio Oscuro Kadmillos, destinato a portare il
caos e il terrore nel mondo, ma nella Valle dei Dannati era stata ottenuta una
piccola vittoria: l’anima del bambino non era stata distrutta dal male ma si era fusa
con esso, un insieme di Luce e di Oscurità in lotta perenne.
Povero Alessandro, pensò Parmenion. Un bambino intelligente, bello e
sensibile, e tuttavia costretto a ospitare lo Spirito del Caos.
– Sarai il mio generale, Parmenion?
– Sì, mio principe – aveva desiderato rispondere lo Spartano. – Guiderò i tuoi
eserciti attraverso il mondo intero.
Ma cosa sarebbe successo se il Dio Oscuro avesse vinto? Se il principe della
bellezza fosse diventato il Principe Demone?
Il castrato baio superò la cresta dell’ultima collina prima della tenuta e
Parmenion tirò le redini, indugiando a fissare dall’alto la sua casa. La pietra bianca
della grande dimora padronale brillava sotto la luce del sole, circondata da una
macchia di cipressi che sembrava montare la guardia su di essa; lontano sulla si-
nistra sorgevano le case più piccole dei servitori e dei braccianti, mentre sulla
destra c’erano le stalle, i recinti e i pascoli che ospitavano la mandria sempre più
numerosa di cavalli da guerra di Parmenion.
Il generale si riparò gli occhi con la mano, scrutando il cortile della casa
padronale: Phaedra era seduta accanto alla fontana con Philo e Nicci accanto a sé e
il piccolo Ettore fra le braccia. Parmenion si sentì assalire da un senso di
depressione e diresse il cavallo verso est, addentrandosi nella pianura e aggirando
la casa padronale per puntare verso le stalle.
Seduto nel fieno, Mothac stava accarezzando il lungo collo della giumenta,
sussurrandole parole di conforto. L’animale emise un grugnito e lottò per
sollevarsi, e Mothac si alzò insieme ad esso.
– Ancora nessun movimento – osservò il suo assistente, Croni, un magro
Tessalo che si teneva poco più indietro, pronto a fornire assistenza durante la
nascita del puledro.
– Brava ragazza – sussurrò Mothac alla giumenta. – Te la caverai benone.
Questo non è certo il primo, vero, Larina? Hai già generato tre splendidi stalloni.
Accarezzando il muso e il collo della giumenta, Mothac lasciò scorrere le mani
lungo il suo dorso e si andò ad affiancare al Tessalo.
Ormai la giumenta era in preda alle doglie da parecchie ore ed era quasi sfinita,
un ritardo che il Tebano sapeva essere una cosa insolita, in quanto la maggior parte
delle giumente partoriva in fretta e con pochi problemi.
In passato Larina aveva sempre partorito con facilità, generando puledri
robusti, ma questa volta l’avevano fatta coprire da uno stallone della Tracia, Titan,
una bestia enorme alta più di diciassette palmi.
La giumenta emise un altro grugnito e tornò ad adagiarsi sul fieno. Spingendo
da parte il Tessalo, Mothac insinuò con delicatezza una mano nel canale del parto
per tastare il sacco delle acque.
– Attento, padrone – sussurrò Croni, scuotendo poi il capo con una risatina
quando il Tebano gli rispose con un’imprecazione.
– Sì! Sta arrivando. Posso sentire le zampe.
– Davanti o di dietro? – domandò Croni, con nervosismo, in quanto entrambi
sapevano che una nascita podalica avrebbe probabilmente causato la morte del
puledro.
– Non riesco a stabilirlo, però si sta muovendo. Aspetta! Sento la testa. Per
Zeus, è davvero grande.
Ritraendo la mano Mothac si sollevò e si stiracchiò, perché negli ultimi due
anni la schiena gli si era irrigidita sempre di più, mentre le spalle avevano
cominciato a dolere per l’artrite.
– Va’ a prendere un po’ di grasso, Croni, perché temo che il puledro la stia
lacerando.
Il Tessalo raggiunse di corsa la casa padronale e ricomparve pochi minuti più
tardi con un secchio di grasso animale che veniva in genere spalmato sugli zoccoli
dei cavalli per impedire che si crepassero e si spaccassero. Mothac prese il secchio
e ne annusò il contenuto.
– Questo non serve a nulla perché è quasi rancido – grugnì. – Prendi un po’ di
olio di oliva... e sbrigati!
– Sì, padrone.
Croni tornò con una grossa anfora e Mothac immerse le mani nel suo
contenuto, spalmando d’olio il canale del parto e poi anche la testa e gli zoccoli del
puledro. La giumenta si tese per imprimere una nuova spinta e il sacco fetale si
fece più vicino ad emergere.
– Così va bene, Larina, piccola mia – mormorò Mothac. – Ancora un po’ e ci
siamo.
I due uomini rimasero in attesa per qualche tempo accanto alla giumenta e
finalmente il sacco affiorò, pallido e semitrasparente: le zampe anteriori del
puledro erano appena visibili attraverso la membrana.
– La devo aiutare, padrone? – chiese Croni.
– Non ancora. Dalle un po’ di tempo, ormai è un’esperta in queste cose.
La giumenta grugnì e il sacco si spostò ulteriormente verso l’esterno, mentre un
fiotto di sangue vivido si riversava sulla membrana e gocciolava nel fieno. Ora la
giumenta stava sudando profusamente e mostrava segni di disagio, quindi Mothac
si spostò in modo da poter afferrare con delicatezza le zampe anteriori del puledro,
tirandole verso di sé. Le membrane si sarebbero infatti rotte da un momento
all’altro ed era di vitale importanza che per allora la testa del puledro fosse emersa,
altrimenti sarebbe soffocato. Mothac continuò a tirare con delicatezza, mentre il
Tessalo si accostava alla testa della giumenta e le parlava con voce sommessa e
confortante.
Ci fu una spinta convulsa, poi il sacco affiorò completamente e cadde nel fieno;
subito Mothac provvide a liberare la bocca e le narici del puledro dalle membrane,
pulendo il suo corpo con manciate di paglia asciutta. Il nuovo nato, che era un ma-
schio dal pelo nerissimo ed era il ritratto del padre in tutto e per tutto, perfino nella
chiazza bianca a forma di stella sulla fronte, sollevò la testa e fu scosso da un
brivido violento.
– Aya! – esultò Croni. – Hai un figlio, Larina! Un cavallo degno di un re! E che
dimensioni! Non ho mai visto un puledro tanto grande.
Entro pochi minuti il puledro cercò di sollevarsi e Mothac lo aiutò a issarsi
sulle zampe, guidandolo verso la giumenta. Sebbene fosse esausta, Larina si
sollevò a sua volta e dopo parecchi tentativi privi di successo il nuovo nato riuscì a
trovare le mammelle e cominciò a nutrirsi.
Mothac accarezzò ancora una volta il dorso della cavalla e uscì sotto la luce del
sole per lavarsi le mani e le braccia in un secchio d’acqua. Il sole era alto nel cielo
e lui raccolse il cappello di feltro per coprirsi la testa calva e sensibile ai raggi
solari.
Era stanco ma si sentiva in pace con il mondo, una sensazione che gli rimaneva
sempre dopo la nascita di un puledro... la consapevolezza della creazione di una
nuova vita, del progredire dell’esistenza.
– La perdita di sangue è notevole, padrone, e la giumenta potrebbe morire –
avvertì Croni, raggiungendolo.
Mothac abbassò lo sguardo sul piccolo Tessalo e notò la sua preoccupazione.
– Resta con lei, e se fra due ore continuerà a perdere sangue vienimi a cercare.
Mi troverai sul pascolo occidentale.
– Si, padrone – rispose Croni, poi sollevò lo sguardo verso le colline e
aggiunse: – Guarda, il signore sta tornando a casa. Scrutando nella direzione
indicata, Mothac individuò il cavaliere... la figura era ancora troppo lontana per
essere riconoscibile ma il vecchio Tebano non ebbe difficoltà a identificare la
cavalcatura di riserva di Parmenion, un vivace castrato baio con il muso bianco.
Sospirando, Mothac scosse il capo.
Saresti dovuto andare prima a casa, Parmenion, pensò tristemente.
Parmenion era leggermente ubriaco e a proprio agio per la prima volta da mesi.
Le ampie porte dell’androne erano aperte al vento di settentrione e una brezza
leggera filtrava fra i tendaggi, lasciando la camera immersa in una piacevole
frescura. Non era una stanza grande, conteneva appena tre divani, e le pareti erano
prive di dipinti o di decorazioni perché Mothac amava vivere semplicemente e non
aveva mai ospiti, ma nella sua casa c’era un calore di cui Parmenion sentiva la
mancanza quando era lontano dalla tenuta.
Sei felice? – domandò d’un tratto lo Spartano.
– Stai parlando a me o a te stesso? – ribatté Mothac.
– Per gli dèi, sei davvero acido stanotte. Stavo parlando a te.
– Sono abbastanza felice. Questa è la vita, Parmenion. Guardo le cose crescere,
l’orzo e il grano, i cavalli e il bestiame, e ciò mi rende parte della terra. Sì, sono
appagato.
Parmenion annuì, con espressione grave.
– Deve essere una sensazione piacevole – commentò; subito dopo sogghignò e
si sollevò a sedere più eretto. – Senti ancora la mancanza della Persia e del palazzo
che avevamo là?
– No. Questa è la mia casa – ribatté il Tebano, poi si protese in avanti a
stringere la spalla dell’amico e aggiunse: – Siamo amici da una vita, Parmenion.
Non puoi dirmi cosa ti turba?
Lo Spartano sollevò una mano e la posò sul braccio di Mothac.
– È perché siamo amici che non lo faccio. Cinque anni fa avevo un tumore nel
cervello, che è stato risanato. Adesso però c’è un diverso tipo di cancro nel mio
cuore... no, non un vero tumore, amico mio – si affrettò a spiegare, vedendo la
preoccupazione apparsa negli occhi del vecchio Tebano. – Però è qualcosa di cui
non oso parlare... neppure con te... perché ti graverebbe di un pesante fardello.
Fidati di me, Mothac, sei il mio migliore amico e morirei per te, ma non mi
chiedere di condividere il mio... il mio dolore.
Per un momento Mothac non disse nulla, poi tornò a riempire i loro boccali.
– Allora ubriachiamoci e parliamo di stupidaggini – replicò, costringendosi a
sorridere.
– Sarebbe piacevole. Che doveri ti aspettano domani?
– Ci sono due cavalli azzoppati che devo portare al lago, perché il nuoto aiuta a
rinforzare i muscoli delle zampe, poi dovrò contrattare con un mercante di cavalli
persiano di nome Parzalamis.
– Allora ci vedremo al lago a mezzogiorno – decise lo Spartano.
I due uomini uscirono insieme nella notte e Mothac vide che una lanterna era
accesa nella stalla riservata ai parti. Imprecando sommessamente si diresse verso
l’edificio e Parmenion lo seguì. All’interno Croni, Orsin e altri tre Tessali erano
seduti intorno al corpo della giumenta, Larina; il puledro nero era disteso accanto
alla madre morta.
– Perché non mi avete chiamato? – tuonò Mothac. Croni si alzò in piedi e
s’inchinò profondamente.
– L’emorragia era cessata, padrone, e lei è crollata soltanto pochi momenti fa.
– Dobbiamo procurare al puledro un’altra giumenta da latte.
– Terias è andato a prenderne una, padrone – disse Orsin. Mothac oltrepassò il
ragazzo dai capelli neri e si inginocchiò accanto alla giumenta, posandole la grossa
mano sul collo.
– Eri una splendida fattrice, Larina, la migliore – mormorò.
– È la maledizione di Titan – dichiarò Croni, venendo avanti. – Quella bestia è
un demone, e suo figlio sarà come lui.
– Stupidaggini! – intervenne Parmenion, con voce aspra.
– Domani fate portare Titan nel recinto ed io lo domerò. Poi girò sui tacchi e
lasciò a grandi passi la stalla. Mothac gli corse dietro e lo afferrò per un braccio.
– Non avresti dovuto dirlo – sussurrò. – I Tessali conoscono bene i cavalli, e
quello stallone è pazzo... e lo sei anche tu a voler tentare di cavalcarlo.
– Ho detto che lo farò – borbottò Parmenion. – Non ho ancora visto un cavallo
che io non sia in grado cavalcare.
– Spero che domani tu possa ancora affermare lo stesso – grugnì Mothac.
La morte dello stallone lasciò Parmenion depresso. Non aveva mai visto un
cavallo migliore di quello o con uno spirito più indomito, ma la cosa peggiore era
che l’uccisione dell’animale lo aveva indotto a pensare al piccolo Alessandro.
Quella era un’altra splendida creatura posseduta dal male. Intelligente... forse
addirittura brillante... e tuttavia condannata da una malevolenza nascosta.
Un’orribile immagine continuava ad affiorare nella mente dello Spartano: quella
del bambino che giaceva morto e di grosse larve bianche che gli strisciavano sugli
occhi senza vita.
Costringendosi ad allontanare quella visione dai suoi pensieri lavorò accanto ai
suoi uomini nel pulire i pascoli e nel prendere al laccio i cavalli più giovani per
indurli ad abituarsi alle esigenze dell’Uomo.
Verso mezzogiorno si recò quindi al lago, dove Mothac faceva esercitare le
cavalcature azzoppate o ferite. Gli uomini avevano costruito una zattera di legno
che era ancorata nel centro del piccolo lago, a un tiro di freccia dalla riva e il
cavallo da far esercitare veniva condotto nell’acqua, dove lo si costringeva a
nuotare dietro una barca fino alla zattera, poi la cavezza veniva passata a Mothac
che incoraggiava l’animale a nuotare intorno alla zattera, un esercizio che
aumentava la forza e la resistenza del cavallo senza sottoporre a sforzo i muscoli o
i legamenti danneggiati. Al suo arrivo Parmenion trovò il Tebano che camminava
lungo il perimetro della zattera con la testa calva coperta da un enorme cappello di
feltro, tenendo la cavezza di una giumenta baia che nuotava faticosamente lungo la
piattaforma galleggiante.
Liberatosi della tunica lo Spartano entrò nell’acqua fredda e nuotò lentamente
verso la zattera con lunghe e pigre bracciate. Il contatto con la frescura dell’acqua
era gradevole, ma la sua mente era piena di immagini orribili: larve e occhi,
bellezza e morte.
Issatosi sul bordo della zattera sedette nudo sotto la luce del sole, sentendo la
brezza fresca accarezzargli la pelle umida, e di lì a poco Mothac chiamò la barca,
gettando la cavezza della giumenta al rematore.
– Per oggi basta così – gridò.
L’uomo annuì e riportò la giumenta sulla terraferma, mentre il vecchio Tebano
si sedeva accanto a Parmenion e gli porgeva una brocca d’acqua.
– Quel cappello ha un aspetto ridicolo – commentò lo Spartano.
Mothac sogghignò e si tolse di testa il copricapo floscio.
– Però è comodo – replicò, asciugando il sudore dal bordo del cappello e
tornando a sistemarlo sul cranio calvo.
– È una vergogna che sia dovuto morire – sospirò Parmenion.
– Il cavallo o l’uomo? – scattò Mothac.
– Stavo parlando del cavallo – ammise Parmenion, con un sorriso contrito, –
anche se tu hai ragione e avrei invece dovuto pensare all’uomo. Però Titan doveva
soffrire enormemente, con quelle larve che gli stavano divorando il cervello. Trovo
osceno che una bestia così splendida abbia dovuto essere abbattuta a causa di
creature tanto immonde.
– Era soltanto un cavallo – commentò Mothac. – Però io sentirò la mancanza di
Croni. Aveva una famiglia, in Tessaglia. Che cifra devo mandare ai suoi parenti?
– Quello che riterrai opportuno. Gli uomini come hanno preso la sua morte?
– Croni era popolare – rispose Mothac, – ma quelli sono uomini duri e poi tu li
hai impressionati con la tua esibizione. Per Eracle – aggiunse, con una risatina
improvvisa. – Hai impressionato perfino me!
– Non vedrò mai più un altro cavallo come lui – dichiarò con tristezza
Parmenion.
– Penso invece che potresti vederlo, perché il puledro è l’immagine del padre e
diventerà grosso... la sua testa è grande come quella di un toro.
– L’ho visto nella stalla, la scorsa notte, accanto alla madre morta. Non è un
buon presagio per il figlio di Titan... il suo primo atto nella vita è stato quello di
uccidere la madre.
– Adesso sei tu che stai parlando come i Tessali – lo ammonì Mothac, poi
bevve a lungo dalla caraffa d’acqua e si appoggiò all’indietro sulle braccia
possenti. – Cosa c’è che non va fra te e Filippo?
– Lui è un re in cerca di una gloria che non vuole condividere – replicò
Parmenion, scrollando le spalle, – e non posso dire di biasimarlo per questo. Inoltre
ha quel leccapiedi di Attalus che gli versa continuamente veleno nell’orecchio.
– Quell’uomo non mi è mai piaciuto – annuì Mothac, – ma del resto non mi è
mai piaciuto molto neppure Filippo. Cosa farai?
– Cosa posso fare? – sorrise Parmenion. – Combatterò le battaglie di Filippo
fino a quando lui non deciderà di non avere più bisogno di me, poi verrò qui per
invecchiare con i miei figli intorno a me.
– Saresti uno stolto se credessi una cosa del genere... e non sei uno stolto –
grugnì Mothac. – Se lasciassi il servizio di Filippo ogni città della Grecia
richiederebbe i tuoi servigi ed entro una stagione ti troveresti alla testa di un
esercito... e dal momento che esiste un solo grande nemico ti troveresti a guidarlo
contro Filippo. No, Parmenion, quando non avrà più bisogno di te Filippo
incaricherà il suo sicario Attalus di congedarti... con un coltello nella schiena.
– Allora dovrà essere molto abile – ribatté Parmenion, i cui occhi azzurri si
erano fatti gelidi.
– Lo è – gli ricordò Mothac.
– Questa è una tetra conversazione – borbottò Parmenion, alzandosi in piedi.
– Il re ti ha invitato alla parata per la vittoria? – insistette però Mothac.
– No, ma del resto sa che non amo questo genere di eventi.
– Può darsi – commentò Mothac, per nulla convinto. – E dove sarà combattuta
la prossima guerra? Marcerai contro le città della Calcide oppure attraverso la
Beozia per saccheggiare Atene?
– Questo spetta la re deciderlo – rispose Parmenion, con lo sguardo che si
spostava verso le montagne orientali, un particolare che non sfuggì al Tebano.
– Allora si tratterà della Tracia – commentò a bassa voce.
– Tu vedi troppe cose, amico mio, e sono grato agli dèi che la tua lingua sia
guardinga quanto la tua vista è acuta.
– Dove finirà la sua ambizione?
– Non lo so e, cosa più pertinente, non lo sa neppure lui. Non è più l’uomo che
conoscevo un tempo, Mothac, adesso è spinto da una forza incomprensibile. Dopo
la battaglia del Campo di Croco ha fatto giustiziare centinaia di Focesi, e dicono
che sia rimasto a guardare ridendo mentre morivano. Tuttavia, prima di lasciare la
Macedonia l’ho visto pronunciare parecchie sentenze. Quel giorno sapevo che
voleva andare a caccia e che sperava di concludere le udienze entro il primo
pomeriggio, e alla fine ha dichiarato chiuse le procedure, invitando il resto dei
postulanti a tornare un altro giorno. Mentre lasciava il suo seggio di giudice, però,
una vecchia con una petizione gli si è avvicinata ed ha chiesto giustizia. ‘Non ho
tempo, donna, ha risposto lui, girandosi. La donna è rimasta ferma li per un
momento poi, mentre lui si avviava, ha gridato: ‘Allora non hai tempo per essere
re!’ Tutti quelli che si trovavano nelle vicinanze hanno trattenuto il fiato,
chiedendosi se la donna sarebbe stata giustiziata, o magari frustata o imprigionata.
Sai cos’ha fatto Filippo? Ha annullato la caccia ed è rimasto ad ascoltare il suo
caso per il resto della giornata, emettendo perfino un giudizio in suo favore.
Mothac si alzò in piedi e chiamò la barca con un cenno.
– Non ho mai negato che lui sia un grande uomo, Parmenion, ho soltanto
affermato che non mi piace e che non mi fido di lui. E non dovresti fidarti neppure
tu, perché un giorno ordinerà la tua morte. La gelosia genera la paura, e dalla paura
nasce l’odio.
– Un uomo non può vivere in eterno – ribatté Parmenion, a disagio.
PELLA, MACEDONIA, AUTUNNO
– Procederò davanti alle Guardie, in modo che il mio popolo mi veda – dichiarò
Filippo.
– È pura follia! – protestò Attalus. – Che altro posso dire per dissuaderti? A
Pella ci sono sicari che aspettano soltanto un’opportunità del genere per assalirti.
Perché sei tanto deciso a seguire questa linea di azione?
– Perché io sono il re! – tuonò Filippo.
Attalus si appoggiò allo schienale del divano, fissando il suo sovrano con
espressione cupa.
– Pensi di essere un dio? – chiese infine. – Che una fredda lama non possa
trapassare il tuo corpo, squarciare il tuo cuore?
– Non nutro simili illusioni, Attalus – sorrise Filippo, rilassandosi, poi si toccò
la cicatrice sopra l’occhio cieco e aggiunse: – Come potrei averne? Però se non
posso camminare nelle strade della mia stessa capitale allora i miei nemici hanno
vinto davvero. Tu sarai là e sono certo che mi proteggerai.
Attalus scrutò il volto del re senza scorgervi traccia di compromesso e si trovò
a ricordare la prima volta che si erano incontrati, a Tebe, diciannove anni prima. A
quel tempo il re era soltanto un ragazzo, un bambino spaventato in attesa della la-
ma del sicario, e tuttavia nei suoi occhi c’era stato quello stesso intenso bagliore.
Suo zio, il Re Ptolemaos, aveva cercato di avvelenarlo senza dare nell’occhio, ma
il ragazzo si era dimostrato più astuto di lui e aveva salvato la vita anche al fratello
Perdiccas, uccidendo poi Ptolemaos nel suo stesso letto. Era riuscito in queste cose
quando aveva appena tredici anni, e adesso che ne aveva trentadue aveva unito
sotto di sé la Macedonia, creando una nazione temibile.
Attalus sapeva però che l’orgoglio derivante da simili imprese era una lama a
doppio taglio, che poteva portare alla grandezza oppure ad una tomba prematura.
Le spie macedoni infiltrate nella città calcidica di Olynthos avevano riferito che un
gruppo scelto di sicari era stato assoldato per porre fine alla minaccia costituita da
Filippo di Macedonia e non era necessario essere un genio per rendersi conto che
gli assassini avrebbero colpito nel corso della Festa del Ringraziamento, quando il
re, vestito soltanto con una tunica e un mantello, camminava disarmato fra la folla
fino al Tempio di Zeus.
– Pensa ad Alessandro – insistette Attalus. – Se verrai ucciso lui correrà un
enorme pericolo. Tu non hai altri eredi, il che significa che i nobili combatteranno
fra loro per stabilire chi ti debba succedere, e Alessandro verrà di certo ucciso.
Per un momento Filippo esitò, accarezzandosi la barba nera con lo sguardo
fisso al di là dell’ampia finestra, ma quando riportò l’attenzione su di lui Attalus
comprese di aver perso.
– Camminerò in mezzo al mio popolo – ribadì infatti il re. – Ora dimmi,
abbiamo fiori a sufficienza da distribuire lungo il percorso?
– Sì, sire – confermò Attalus, in tono stanco.
– Voglio che vengano sparsi davanti ai miei piedi. La cosa avrà un bell’effetto e
farà impressione sugli ambasciatori. Devono vedere che la Macedonia è con me.
– La Macedonia è con te... indipendentemente da quanti fiori verranno sparsi.
– Sì, sì, ma la cosa deve essere visibile. Gli Ateniesi stanno causando altri
problemi: non hanno le finanze necessarie per avviare loro stessi una campagna
militare e quindi stanno cercando di indurre Olynthos a farlo per loro. Ed io non
desidero una guerra con la Lega Calcidica... per il momento. Ora dimmi, che
aspetto ho?
Attalus si costrinse a frenare la propria irritazione e scrutò il suo re. Di statura
media, Filippo aveva le spalle larghe e possenti, la barba e i capelli neri e ricci
brillavano come il pelo di una pantera, le pagliuzze dorate nel suo unico occhio
verde erano sottolineate dalla corona di dorate foglie di lauro. La tunica era del
vivido azzurro del cielo estivo e il mantello nero come la notte.
– Hai un aspetto splendido... quello di un re da leggenda. Speriamo che sia
ancora tale alla fine di questa giornata.
– Sei sempre così cupo, Attalus – ridacchiò Filippo. – Non ti ho forse reso
ricco? Non sei ancora appagato?
– Lo sarò alla fine di questa giornata.
– Ci vediamo nel cortile – lo congedò Filippo. – Ricordati che non voglio più di
dieci Guardie che camminino alle mie spalle.
Rimasto solo, Filippo si avvicinò al lungo tavolo e stese su di esso una mappa
di pelle di capra. Per troppo tempo le grandi città... Atene, Sparta e di recente
anche Tebe... avevano lottato fra loro per il dominio della Grecia, scatenando una
guerra sanguinosa dopo l’altra a causa delle loro inimicizie reciproche. Atene
contro Sparta, Sparta contro Tebe, Tebe conto Atene, con tutti gli stati minori che
venivano risucchiati in quel vortice di battaglie, in quella danza interminabile di
alleanze infrante, di cambiamenti di schieramento e di fortune mutevoli.
La Macedonia era stata nascostamente dominata a turno da ciascuna di quelle
tre città.
Filippo sapeva che quelle guerre interminabili si perpetuavano da sole perché le
centinaia di città e di centri minori della Grecia settentrionale rendevano tutte
omaggio a padroni diversi, per cui qualsiasi disputa fra esse poteva attirare in
campo poteri più grandi... e finiva inevitabilmente per farlo. All’epoca in cui lui
era salito al potere nella sola Macedonia c’erano più di venti città all’apparenza
indipendenti che sembravano non dipendere da nessun trono ma che erano invece
in rapporto di alleanza con Sparta, con Atene o con Tebe e vantavano ciascuna un
piccolo esercito o un contingente di milizia; molte di esse erano insediamenti
costieri, il che significava un porto sicuro per un esercito invasore. Nel corso dei
sette anni trascorsi da quando era diventato re, Filippo aveva conquistato quelle cit-
tadelle una dopo l’altra, in alcuni casi ricorrendo alla forza... come a Metone, dove
la popolazione era stata venduta schiava... ma più spesso con la coercizione, con la
corruzione o semplicemente con quell’oculata mescolanza delle tre cose che gli
uomini definivano diplomazia.
Essenzialmente, il suo piano era molto semplice: rimuovere qualsiasi minaccia
all’interno del regno mediante l’astuzia o la guerra.
In precedenza aveva stipulato un trattato con Atene che gli aveva permesso di
concentrarsi per annientare i nemici a ovest e a nord, e adesso aveva forgiato stretti
legami con la Tessaglia, a sud, distruggendo l’esercito focese che aveva devastato
la Grecia centrale.
Le nubi di tempesta continuavano però ad addensarsi. L’esercito di Filippo era
infatti piombato sulla città indipendente di Anfipoli, sul confine orientale... una
città che Atene desiderava. Quell’invasione inattesa aveva provocato parecchie
critiche, non ultime quelle di Parmenion.
– Avevi promesso agli Ateniesi che avresti permesso loro di governare quella
città – aveva sottolineato il generale.
– Per nulla. Ho detto loro che non la vedevo come una città macedone... c’è una
differenza.
– Molto piccola – aveva replicato Parmenion. – Hai dato a intendere che avresti
lasciato loro il controllo di Anfipoli, e questo significherà la guerra contro Atene.
Sei pronto a sostenerla?
– Si tratta di un rischio da poco, amico mio, perché gli Ateniesi non sono
abbastanza ricchi da poter impegnare una guerra su vasta scala tanto lontano dalla
loro città. E comunque non posso permettere che Anfipoli diventi una base segreta
di Atene.
A quel punto Parmenion era scoppiato a ridere.
– Qui siamo soli, Filippo, quindi non c’è bisogno di simili frasi altisonanti – gli
aveva ricordato. – Anfipoli è ricca, in quanto controlla le strade commerciali verso
la Tracia e tutta la parte meridionale del fiume Strymon, e tu sei a corto di denaro,
con un esercito che deve essere pagato.
– C’è anche questo – aveva ammesso Filippo, con un sorriso contagioso. – A
proposito, l’esercito non è ancora abbastanza numeroso, quindi voglio che addestri
per me altri diecimila uomini.
Il sorriso era svanito dal volto dello Spartano.
– Hai già un numero di uomini più che sufficiente a garantire la sicurezza del
regno. Da dove potrebbe venire il pericolo? La Tracia è divisa, con tre re in guerra
fra di loro, i Paioni sono finiti e gli Illiri non si eleveranno mai più alla gloria di un
tempo. Adesso stai approntando un esercito per la conquista e non per la difesa...
cos’è che vuoi, Filippo?
– Voglio altri diecimila uomini... e prima che tu mi ponga ulteriori domande,
mio spartano amico, ti posso ricordare che sei stato tu a consigliarmi di tenere
segreti i miei piani? Io sto seguendo il tuo consiglio e nessuno tranne Filippo
conosce le mie intenzioni. E non è sempre stato il mio strategos a spiegarmi quale
sia la natura di un impero, che rimane forte soltanto finché continua a crescere?
– È vero, sire – aveva concesso Parmenion, – ma come per tutte le strategie
esiste una questione di misura. Gli eserciti devono essere riforniti, le linee di
comunicazione devono essere aperte e rapide. Il tuo principale vantaggio nei
confronti di Atene è che i tuoi ordini vengono eseguiti in fretta mentre gli Ateniesi
devono radunare la loro assemblea e discutere per giorni, a volte per settimane, sul
da farsi. Inoltre, al contrario dei Persiani noi non siamo attrezzati per gestire un
impero.
– Allora dobbiamo imparare a farlo, Parmenion, perché il momento della
Macedonia è giunto.
Ora Filippo stava fissando la mappa mentre la sua mente acuta valutava le aree
di massimo pericolo. Parmenion aveva avuto ragione: conquistando Anfipoli e le
altre città indipendenti lui aveva destato la paura nel cuore dei suoi vicini che
adesso erano impegnati ad assoldare mercenari... opliti a Tebe, lanciatori di
giavellotto nella Tracia, arcieri a Creta.
E Atene, nel lontano sud, aveva dichiarato guerra, inviando i suoi agenti nei
regni e nelle città del settentrione per incitarli a insorgere contro l’aggressore
macedone. Adesso che i Focesi erano stati distrutti il gioco si stava facendo
complesso, perché nessun nemico avrebbe osato levare da solo la testa al di sopra
dei propri bastioni e il dilemma di Filippo non avrebbe potuto essere risolto in una
sola battaglia.
I suoi nemici avrebbero atteso un segno di debolezza, poi avrebbero colpito
tutti insieme da Olynthos, il capo delle città della Lega Calcidica. Il dito di Filippo
seguì la sagoma a forma di tridente della Calcide... fra tutte, quelle città potevano
ammassare ventimila opliti armati di lancia, di spada e di scudo, oltre tremila
cavalieri e forse anche settemila o perfino ottomila lanciatori di giavellotto, quindi
una guerra contro Olynthos sarebbe stata costosa e pericolosa, perché il vincitore,
chiunque fosse stato, si sarebbe trovato tanto indebolito da cadere facile preda
dell’aggressore successivo. Era per questo che Olynthos stava facendo affidamento
sui sicari mandati a Pella.
In quel momento il re sentì il rumore dei passi degli uomini della Guardia che
stavamo entrando nel cortile, sotto la sua finestra.
– Oggi cammina con cautela, Filippo – si ammonì.
Parmenion sedeva nell’alcova occidentale del suo androne, con lo sguardo fisso
su un’ape che si stava posando su una rosa gialla in piena fioritura; il bocciolo si
piegò leggermente quando l’insetto s’insinuò al suo interno alla ricerca del polline.
– È tutto quello che ha detto? – chiese lo Spartano.
– Non ti sembra abbastanza? – ribatté Mothac.
Parmenion sospirò e si alzò, stiracchiando la schiena. Erano stati necessari tre
anni per riuscire a infiltrare Mothac nella rete delle spie persiane, e finalmente i
frutti cominciavano a giustificare la fatica. All’inizio infatti i Persiani si erano
mostrati guardinghi, sapendo che il Tebano era amico di Parmenion, ma via via che
le informazioni da lui fornite si erano rivelate accurate avevano cominciato a
fidarsi maggiormente. Questa improvvisa condivisione di un segreto tanto
importante richiedeva però un’accurata riflessione.
– Farò sorvegliare quel servitore e porre altre guardie nel giardino sotto la
finestra di Alessandro – decise Parmenion.
– Ma devi informare il re – osservò Mothac.
– No, questa non sarebbe una cosa saggia. In Persia esiste il notevole timore
che prima o poi Filippo conduca le sue truppe in Asia, e questo sta causando
imprudenza. Quell’aggressione contro Filippo durante la Festa del
Ringraziamento... Olynthos non avrebbe mai agito in maniera tanto impulsiva. No,
anche quella è stata opera dei Persiani, e non ritengo che sia saggio dirlo a
Filippo... però al tempo stesso non voglio che Parzalamis scopra che tu non sei
davvero un traditore.
– Perché è tanto importante? – chiese il Tebano.
– Non voglio trovarti con un coltello fra le costole – spiegò Parmenion, con un
sorriso. – Inoltre non ho il minimo dubbio che un giorno la Persia sarà il nostro
nemico, perché quello è il regno più ricco del mondo e Filippo è assillato da spese
continue: nonostante le miniere e le città che abbiamo catturato in Macedonia non
ci sono ancora ricchezze sufficienti a pagare l’esercito. No, la Persia è l’ultima
preda, quindi è vitale mantenere i contatti con Parzalamis. Però come fare a salvare
il principe... senza compromettere te?
– Che ne diresti se quel servo di Metone avesse un incidente... magari si
rompesse il collo? – suggerì Mothac.
– Troppo ovvio – replicò Parmenion, scuotendo il capo. – E poi gli Ateniesi, di
cui ignoriamo il nome, si limiterebbero ad assoldare qualcun altro. È un problema
spinoso, ma troverò una soluzione.
– Parzalamis non mi ha detto quando Lolon avrebbe colpito. Potrebbe essere
anche stanotte – gli fece notare Mothac.
– Sì – convenne Parmenion, con voce piana, senza permettere che la minima
emozione tradisse la sua preoccupazione. – Domani mi recherò a Pella. Ora dimmi,
come sta il puledro di Titan?
– È ben nutrito da una giumenta da latte ed è forte. Sopravviverà.
– Bene. Ora dovresti andare a casa e riposare. Ho bisogno di riflettere.
– Questo gioco si sta facendo sempre più complesso, amico mio – osservò
Mothac, alzandosi in piedi, – e non mi sento a mio agio nel condurlo.
– Neppure io, ma ci sono dei regni come posta in gioco, e poi nulla resta mai
semplice.
Quando il Tebano se ne fu andato, Parmenion uscì a passeggiare in giardino,
fermandosi accanto alla fontana di marmo al cui centro c’erano tre statue che
rappresentavano rispettivamente la Dea dell’Amore Afrodite, la Dea della
Saggezza e della Guerra Atena e la Regina degli Dèi Era. In mezzo ad esse
spiccava la figura di un giovane avvenente che teneva in mano una mela.
Ci sono dei regni come posta in gioco, e poi nulla resta mai semplice.
Il giovane era Paride, il principe di Troia a cui le tre dee avevano ordinato di
offrire la mela d’oro alla più bella fra loro. Parmenion osservò il volto di pietra del
giovane, decifrando l’emozione che lo scultore vi aveva impresso con squisita
abilità... l’espressione di chi si sente perso: Paride sapeva che se avesse dato la
mela ad una delle tre le altre due lo avrebbero odiato e non avrebbero avuto pace
finché non lo avessero visto morto.
Ci sono dei regni come posta in gioco, e poi nulla resta mai semplice.
Paride aveva offerto la mela ad Afrodite, e lei lo aveva ricompensato facendo
innamorare di lui la donna più bella del mondo e donandogli così la felicità più
completa. Quella donna però era Elena, moglie di Menelao, re di Sparta, e insieme
Atena ed Era avevano cospirato per indurre un esercito greco a cercare vendetta.
Paride aveva visto la propria città conquistata, la sua famiglia uccisa, e lui stesso
era stato abbattuto mentre Troia già ardeva.
Stolto ragazzo, pensò Parmenion. Avrebbe dovuto ignorare la bellezza e offrire
la mela alla più potente. Come aveva potuto Paride pensare che l’Amore da solo
potesse salvarlo? Allontanando quei pensieri dalla mente rimase accanto alla
fontana fino al crepuscolo, concentrandosi sul problema costituito da Parzalamis.
I servi gli portarono cibi e bevande che lui lasciò intatti sulla panca di marmo
su cui sedeva accanto ad un albero in fiore che gli offriva riparo dal sole al
tramonto. Le ore trascorsero senza che riuscisse ad avvicinarsi alla soluzione, e
questo iniziò ad irritarlo.
Rilassa la mente, disse a se stesso. Ripensa ai giorni trascorsi con Senofonte e
ai consigli di cui il generale ateniese era tanto prodigo.
– Se un problema non può essere risolto con un assalto frontale – aveva
affermato Senofonte, – allora tenta con un attacco sul fianco.
Parmenion sorrise nel ricordare quelle parole.
Molto bene, rifletté. Esaminiamo tutto quello che sappiamo. I Persiani vogliono
uccidere Alessandro ed hanno fornito a Mothac due motivazioni: la prima è che i
loro magi ritengono che il bambino sia posseduto, e la seconda è che se Atene
risultasse implicata nel suo assassinio questo scaglierebbe Filippo sulla strada
della vendetta. Quali dati sono in mio possesso?
Il nome dell’assassino.
Parmenion si raddrizzò di scatto sulla persona. Perché Parzalamis aveva
rivelato il nome del sicario? Perché non dire soltanto a Mothac che un servo era
stato pagato per commettere il delitto? In quel modo i rischi sarebbero stati minori.
Possibile che si trattasse di un errore? No, Parzalamis era troppo astuto per lasciarsi
sfuggire involontariamente un’informazione del genere, quindi la risposta era
chiara in maniera raggelante... stavano ancora mettendo Mothac alla prova.
Parzalamis non aveva bisogno di un nascondiglio per gli Ateniesi, aveva invece ne-
cessità di sapere se la sua migliore spia macedone era affidabile. D’altro canto
rivelare quel complotto contro Alessandro era stata una mossa molto pericolosa,
perché se ne fosse venuto a conoscenza Filippo avrebbe di certo dichiarato guerra
alla Persia.
Di conseguenza Parzalamis doveva aver preso adeguate misure per impedire
che la notizia arrivasse all’orecchio del re macedone.
Fu come se un improvviso raggio di luce accecante avesse trapassato le nubi
che avviluppavano i pensieri di Parmenion. Era logico che Mothac fosse stato
seguito... dovevano averlo seguito, e non appena lo avevano visto correre da lui
avevano capito di essere stati traditi.
Consapevole di essere disarmato, lo Spartano scattò in piedi. Adesso a
Parzalamis restava una sola alternativa, quella di eliminare il pericolo facendo
uccidere Mothac e l’uomo con cui lui aveva condiviso il segreto.
Sussurrando un’imprecazione spiccò la corsa per tornare verso la casa e in quel
momento una figura emerse dall’ombra brandendo un coltello che scintillò alla
luce della luna. Schivando il colpo, Parmenion calò il pugno sinistro contro la
faccia dell’assalitore, facendogli perdere l’equilibrio. Un secondo sicario lo afferrò
alle spalle, ma lui si lasciò cadere su un ginocchio e prese l’aggressore per un
braccio, mandandolo a sbattere contro il proprio compagno. Un terzo uomo
sopraggiunse di corsa armato di una spada corta e Parmenion si alzò in piedi
spostandosi sulla sinistra, in modo che la lama gli passò sibilando vicino al fianco
mentre il suo pugno piombava con forza contro il mento dell’assalitore, che
barcollò. Intanto gli altri due si erano rimessi in piedi e stavano avanzando.
Parmenion indietreggiò e tutti e tre gli si scagliarono contro contemporaneamente;
con un urlo selvaggio lo Spartano si lanciò in mezzo a loro a piedi in avanti,
gettando al suolo uno degli assalitori. La spada gli causò una ferita poco profonda
alla coscia e un coltello gli lacerò il cuoio capelluto, ma lui rotolò subito verso
sinistra e il successivo colpo di spada andò ad abbattersi sulle pietre del sentiero,
sollevando una pioggia di scintille. Parmenion sferrò un calcio con la gamba
destra, scagliando al suolo l’uomo armato di spada, poi urtò con la mano una
grossa pietra e si affrettò ad afferrarla e a lanciarla contro la faccia dell’uomo
munito di coltello, che stava avanzando. Il sicario lanciò un grido, con il sangue
che gli spruzzava dal naso fracassato, e lasciò cadere il coltello. Tuffandosi in
avanti, Parmenion riuscì a impadronirsene e si alzò in piedi.
L’assassino con la spada vibrò un selvaggio fendente verso la sua testa, ma lo
Spartano schivò ancora una volta e poi si fece avanti, piantando il coltello nel
ventre dell’uomo e spingendo la lama verso l’alto, nei polmoni. Il sicario crollò al
suolo urlando e i suoi compagni si volsero per fuggire, ma non abbastanza in fretta:
il braccio di Parmenion si sollevò rapido e la lama insanguinata del coltello
fendette l’aria per andarsi a piantare nella schiena di uno di essi. L’uomo barcollò
ma continuò a correre. Raccolta la corta spada lo Spartano si lanciò
all’inseguimento dei guerrieri in fuga, che si diressero alle porte occidentali, dove
erano legate le loro cavalcature. Il primo dei due salì in groppa con un balzo ma il
suo compagno ferito e sanguinante non riuscì a trovare la forza di fare altrettanto. –
Danis, aiutami! – implorò, ma l’altro uomo lo ignorò e spronò il cavallo al
galoppo.
Oltrepassando di corsa le porte, Parmenion calò la spada sul collo del ferito e si
affrettò a prendere le redini della sua cavalcatura, montando e lanciandosi
all’inseguimento del terzo sicario.
Il fuggiasco aveva un buon vantaggio ma non era un abile cavaliere e
Parmenion guadagnò costantemente terreno su di lui. Il cavallo su cui si trovava
era un castrato dalla schiena ossuta, un animale non di razza pregiata ma dotato di
resistenza che gli permise di ridurre a poco a poco le distanze. Il sicario, un uomo
snello e barbuto, si guardò nervosamente alle spalle quando i due cavalli
cominciarono a risalire il fianco della collina, verso est, e all’improvviso la sua
cavalcatura incespicò, scagliandolo a terra. Nonostante il duro impatto, l’uomo si
issò in piedi e si mise a correre, ma Parmenion gli si affiancò al galoppo e gli calò
la spada di piatto sul cranio, scagliandolo nuovamente a terra.
Fermato il cavallo, Parmenion balzò a terra e l’aspirante assassino indietreggiò
davanti a lui.
– Spicciati a parlare – ingiunse lo Spartano. – Ne va della tua vita.
– Non ti dirò nulla, feccia spartana – ribatté l’uomo, indurendosi in volto.
– Una decisione poco saggia – replicò Parmenion, e piantò la spada nel ventre
dell’uomo, che morì senza emettere un suono, crollando sull’erba a faccia in
avanti.
Rimontato sul castrato, Parmenion lo spinse al galoppo oltre i recinti e le stalle,
balzando a terra davanti alla casa di Mothac.
Il Tebano uscì sulla soglia ad accoglierlo, cinereo in volto e con una daga che
gli sporgeva dalla spalla.
– Credo che dovrai rinunciare a mantenere i contatti con Parzalamis –
annunciò, con un grugnito.
Entrando in casa, Parmenion trovò il Persiano che giaceva al suolo con la testa
piegata ad un’angolazione impossibile.
– Mi stava attendendo – spiegò Mothac, – ma non credo che si aspettasse che
un vecchio potesse essere tanto forte. E poi, come tutti quelli della sua specie,
voleva parlare prima di combattere, per spaventarmi, forse per indurmi a
supplicare. Sapeva del mio incontro con te e mi ha definito un traditore... credo che
fosse davvero offeso dalla mia duplicità.
– Dobbiamo tirare fuori quel coltello – disse Parmenion.
– Non c’è tempo, amico mio. Prima che lottassimo mi ha provocato
dichiarando che l’assassinio di Alessandro è previsto per stanotte. Prendi Bessus...
è il cavallo più veloce che abbiamo.
Parmenion si precipitò alle stalle, ma mentre lo stallone lasciava al galoppo la
tenuta si sentì serrare il cuore da un gelido terrore.
Non sarebbe mai riuscito a raggiungere la capitale in tempo...
PELLA, MACEDONIA, AUTUNNO
Lolon s’insinuò nei giardini reali tenendosi nell’ombra degli alberi e stando
costantemente in guardia dalle sentinelle; la sua mano scese verso l’elsa della daga
che portava al fianco, cercando conforto nel contatto con la fredda elsa.
Ancora una volta ricordò a se stesso che il bambino era posseduto, che ciò che
stava per fare non era come uccidere un bambino vero, non era come avevano fatto
i Macedoni con i suoi due figli a Metone, quando le truppe si erano riversate attra-
verso la breccia nelle mura, uccidendo tutti coloro che si paravano sulla loro strada.
I mercenari che difendevano le mura erano stati i primi a morire, insieme ai
membri della milizia cittadina, ma poi era toccato agli abitanti... molti erano stati
abbattuti mentre fuggivano, le donne erano state violentate, i bambini massacrati.
I superstiti erano stati radunati tutti insieme nella piazza principale. Lolon
aveva cercato di proteggere sua moglie, Casa, e i suoi figli, ma cosa poteva fare
contro degli uomini armati? I soldati avevano trascinato via Casa e le altre donne,
uccidendo i bambini e ammucchiando i loro piccoli corpi, poi avevano condotto gli
uomini a nord e le donne ad est, dove erano in attesa alcune navi che le avrebbero
portate ai mercati di schiavi dell’Asia.
La città era stata distrutta, rasa completamente al suolo, ogni abitante superstite
era stato venduto in schiavitù.
Sopraffatto ancora una volta dalla dolorosa angoscia di quei ricordi Lolon si
accasciò sul terreno morbido con gli occhi che gli si riempivano di lacrime. Non
era mai stato ricco, come fabbricante di sandali si era guadagnato appena di che
vivere, patendo spesso la fame lui stesso perché Casa e i bambini potessero
mangiare. Poi erano arrivati i Macedoni con le loro macchine da guerra, le loro
lunghe lance e le loro spade.
Per il tiranno non c’era posto per una città indipendente all’interno della
Macedonia. Oh, no, bisognava piegare il ginocchio o morire.
Vorrei che mi avessero offerto l’opportunità di piegare il ginocchio, pensò.
Adesso però grazie agli Ateniesi aveva l’occasione di ripagare il tiranno con la
sua stessa sanguinosa moneta. Un semplice colpo di coltello e il Principe Demone
sarebbe morto, e allora anche Filippo avrebbe conosciuto l’angoscia della perdita
di una persona cara.
Lolon si sentiva la bocca arida, e la fresca brezza notturna lo fece rabbrividire.
Dapprima lo avevano condotto in Pelagonia, nel nordovest, dove i nuovi
schiavi erano stati messi al lavoro per costruire una serie di fortezze lungo i confini
con l’Illiria. Per un anno Lolon aveva faticato nelle cave di pietra, e aveva
trascorso le sue serate fabbricando sandali per gli altri schiavi, poi il suo lavoro era
stato notato da un ufficiale macedone e da quel momento lui era stato esentato dal
lavoro pesante e gli erano stati concessi un alloggio migliore, coperte calde e cibo
buono. In cambio aveva fabbricato sandali, stivali e scarpe per i soldati.
A Metone i suoi lavori erano stati considerati accettabili, ma fra i barbari
Macedoni lui era addirittura un artista. In effetti il suo talento era aumentato, e con
il tempo lui era stato venduto per una cifra notevole... diventando proprietà di
Attalus, il Campione del Re.
Era stato allora che gli Ateniesi erano venuti da lui. Lolon stava camminando
per il mercato, dove si era recato per ordinare pelle e cuoio, e si era fermato per
bere qualcosa di fresco.
– Di certo ti conosco, amico – aveva detto una voce, e Lolon si era girato.
A parlare era stato un uomo basso e robusto, calvo e privo di barba; Lolon non
aveva trovato nulla di familiare nel suo volto, ma quando aveva abbassato lo
sguardo sui sandali dell’uomo li aveva riconosciuti: li aveva fabbricati due anni
prima... un mese prima dell’arrivo dei Macedoni.
– Sì, mi ricordo di te – aveva risposto con voce spenta.
Con il passare delle settimane aveva visto sempre più spesso quell’uomo,
Gorinus, e all’inizio avevano parlato di tempi migliori, ma poi le cataratte della sua
amarezza si erano aperte e lui aveva espresso apertamente il proprio odio. Gorinus
si era rivelato un buon ascoltatore, ed era diventato un amico.
Un mattino, quando si erano incontrati al mercato, Gorinus gli aveva presentato
un secondo uomo, e tutti e due avevano condotto Lolon in una piccola casa alle
spalle dell’agora. Lì era stato ordito il complotto: Gorinus gli aveva proposto di
uccidere il bambino demoniaco e di andare poi con loro ad Atene.
In un primo tempo lui aveva rifiutato, ma i due avevano alimentato la sua
amarezza, ricordandogli come i Macedoni avessero ucciso i bambini di Metone,
prendendo i più piccoli per le caviglie e fracassando loro la testa contro le mura.
– Sì! Sì! – aveva gridato allora Lolon. – Avrò la mia vendetta!
Adesso era raggomitolato sotto gli alberi, con lo sguardo sollevato verso la
finestra di Alessandro. Sgusciando fuori dall’ombra corse verso il muro con il
cuore che gli martellava selvaggiamente in petto. Insinuatosi all’interno del
palazzo attraverso una porta laterale si addentrò nel corridoio al di là di essa
muovendosi con cautela nel buio, poi salì le scale soffermandosi ogni pochi gradini
per tendere l’orecchio e recepire i movimenti delle sentinelle. Gli Ateniesi gli
avevano assicurato che non c’erano guardie davanti alla porta di Alessandro, ma lo
avevano avvertito che due sentinelle erano poste all’estremità del corridoio.
Arrivato in cima alle scale, lanciò un’occhiata davanti a sé: i soldati erano fermi
a circa venti passi di distanza, intenti a parlare fra loro con voce sommessa, e i loro
sussurri arrivarono nitidi fino all’orecchio dell’assassino in attesa. I due stavano di-
scutendo di un’imminente gara di cavalli, e dal momento che entrambi gli
volgevano le spalle Lolon ne approfittò per attraversare in fretta il corridoio,
addossando la schiena alla porta della stanza di Alessandro.
Lentamente, estrasse la daga.
Alessandro si sedette sul letto e saltò a terra con il sogno ancora nitido nella
mente e i capelli dorati intrisi di sudore. La luce della luna fluiva dalla finestra
aperta, riversando sul soffitto il suo pallido chiarore.
E lui poteva ancora sentire quelle voci, come un sussurro nella sua mente.
– Iskander! Iskander! Vieni da noi!
– No – sussurrò, sedendosi al centro del tappeto di pelle di capra e premendosi
le mani sugli orecchi. – No, non lo farò! Siete un sogno! Non siete reali!
Il tappeto era caldo, e lui vi si distese sopra, fissando il soffitto rischiarato dalla
luna.
Nella stanza c’era qualcosa che non andava. Alessandro si guardò intorno,
dimentico del sogno, ma non riuscì a scorgere nulla di anormale. I suoi soldati
giocattolo giacevano sparpagliati sul pavimento, vicino alle piccole macchine da
assedio, i libri e i disegni erano posati sul tavolino. Alzatosi in piedi, si avvicinò
alla finestra e si arrampicò sul sedile sotto di essa in modo da poter guardare nel
giardino. Sporgendosi oltre il davanzale abbassò lo sguardo... sulla luna.
I giardini erano scomparsi e adesso le stelle splendevano tutt’intorno al palazzo,
sopra e sotto, a destra e a sinistra. In distanza non c’erano montagne o pianure o
colline, non si vedevano vallate o boschi... soltanto l’oscurità di quel cielo onni-
presente.
Il bambino dimenticò le proprie paure, perso nella meraviglia di quel miracolo.
Non gli capitava spesso di svegliarsi di notte, e forse era sempre così e nessuno si
era semplicemente preoccupato di dirglielo. La luna era uno spettacolo incredibile,
non più un disco d’argento ma uno scudo sfregiato e ammaccato che aveva visto
molte battaglie... poteva vedere sulla sua superficie i segni lasciati dalle frecce e
dalle pietre, i tagli e le ammaccature.
E anche le stelle erano diverse, perfettamente rotonde come le pietre lanciate
dai frombolieri, lucenti e pulsanti. In lontananza distinse un movimento, una luce
fugace, un drago con la coda di fuoco... poi essa scomparve. Alle sue spalle la
porta si aprì, ma Alessandro non era consapevole di nulla tranne che della bellezza
di quella notte incredibile.
Lolon vide il bambino alla finestra. Dopo aver richiuso la porta senza far
rumore deglutì a fatica e prese ad avanzare attraverso la stanza; senza volere posò
un piede su uno dei soldatini di legno, che si spezzò con uno schiocco sonoro, e il
principe si girò a lanciargli un’occhiata.
– Guarda – disse. – Non è meraviglioso? Le stelle sono dappertutto.
Lolon estrasse la daga, ma già il bambino si era voltato di nuovo verso la
finestra, protendendosi in fuori nel vuoto sottostante.
Un colpo solo e sarebbe finita. Lolon si tese, puntando la daga verso la piccola
schiena del principe, che non aveva più anni del suo figlio più giovane...
Non pensare in questo modo, si ammonì il sicario. Pensa alla vendetta! Pensa
al dolore che causerai al tiranno!
All’improvviso Alessandro lanciò un grido e cadde in avanti, perdendo
l’appiglio sul davanzale; senza riflettere, Lolon protese di scatto la mano e lo
afferrò per una gamba, tirandolo indietro, al sicuro. Un dolore spaventoso e
devastante lo pervase immediatamente e lui barcollò, serrandosi il petto, poi
l’agonia si condensò in una sfera rovente nel cuore che lo fece crollare in
ginocchio, annaspando per respirare.
– Mi dispiace! Mi dispiace! Mi dispiace! – gemette Alessandro, dimentico ora
delle stelle.
Lolon cominciò a tremare, poi si accasciò per terra a faccia in avanti.
– Vado a chiamare aiuto! – gridò il principe, correndo alla porta e
spalancandola, ma al di là di essa non c’era più il corridoio, né le pareti di pietra o i
familiari tendaggi. Adesso la porta si apriva su una volta fatta di buio notturno,
enorme, cupo e irresistibile. Il bambino barcollò sull’orlo dell’abisso, perdendo
l’equilibrio, e con un ultimo grido disperato precipitò... vorticando fra le stelle.
Le voci giunsero ruggenti fino a lui mentre cadeva attraverso il cielo e sentì il
grido di trionfo del prete.
– Sta arrivando! Il Fanciullo Dorato sta arrivando!
Alessandro urlò, e vide di nuovo il volto dell’uomo che sembrava suo padre...
con un sogghigno malevolo sul volto barbuto e con l’occhio dorato che scintillava
come una sfera di fuoco.
IL TEMPIO, ASIA MINORE
Il cuore dell’uomo era debole, le valvole dure e prive di elasticità. Adesso i suoi
polmoni erano enormi e deformavano la cassa toracica, per cui lui poteva muovere
soltanto pochi passi prima che lo sfinimento l’obbligasse a riposare. Derae sedette
accanto al suo letto e gli posò la mano sul petto, abbassando lo sguardo sui suoi
occhi stanchi.
– Non posso fare nulla per te – disse, guardando la luce della speranza svanire
dagli occhi stanchi dell’uomo.
– Concedimi... soltanto... qualche altro giorno – implorò il malato, con voce
debole.
– Non ti posso dare neppure questo – replicò Derae, prendendogli la mano.
Accanto al letto la moglie dell’uomo si mise a piangere.
– Così... presto... allora? – sussurrò lui.
Derae annuì e il malato lasciò ricadere la testa sul cuscino.
– Per favore, aiutalo! – supplicò la donna piangente, gettandosi in ginocchio
davanti alla Guaritrice.
L’uomo sul letto si tese improvvisamente e si scurì in volto; la sua bocca si aprì
ma da essa non uscì nessuna parola, soltanto un lungo sospiro spezzato.
– No! – urlò la donna. – No!
Derae si alzò in piedi e uscì a passo lento dalla stanza dell’altare, allontanando
con un gesto le serve che si erano accostate per assisterla. I corridoi erano freddi e
lei rabbrividì nel raggiungere la propria stanza.
Un uomo si mosse a bloccarle il passo.
– Lo hanno preso – disse Aristotele.
– Sono stanca e posso esserti di ben poco aiuto, quindi vattene – replicò Derae,
chiudendo gli occhi, poi lo oltrepassò e costrinse il proprio corpo spossato a
proseguire il cammino. Alle sue spalle Aristotele infilò una mano nella sacca che
portava al fianco e ne estrasse una pietra dorata.
Derae continuò a camminare con la mente concentrata sul mercante di cui non
aveva potuto impedire la morte, poi trasse un profondo respiro e l’aria le diede una
sensazione gradevole nei polmoni, un misto di freschezza e di vigore. Mentre la
sua stanchezza evaporava, pensò che stranamente non si era sentita così bene da
anni, e di colpo ricordò quanto fosse fresco il mare, quanto fosse bello correre fino
alla spiaggia e immergersi nell’acqua cristallina, sentendo il calore del sole sulla
schiena.
D’un tratto scoppiò a ridere: era passato davvero troppo tempo dall’ultima volta
che aveva lasciato il tempio per percorrere il sentiero dell’altura. E inoltre aveva
appetito. Era affamata!
Spalancando la porta della sua stanza si avvicinò alla finestra, contemplando il
mare e meravigliandosi per la limpidezza dell’aria. Candidi gabbiani volavano in
cerchio sulle alture e lei poteva distinguere ciascun uccello mentre si librava e si
tuffava; perfino le nubi avevano contorni nettamente definiti. Poi si rese conto che
non stava usando gli occhi dello spirito, che la sua cecità era scomparsa, e abbassò
lo sguardo sulle proprie mani: la pelle era liscia e priva di rughe. Con l’ira che
insorgeva dentro di lei si girò di scatto a fronteggiare il magus che si era fermato in
silenzio sulla soglia.
– Come osi? – infuriò. – Come hai osato farmi questo?
– Ho bisogno di te – replicò Aristotele, entrando nella stanza e chiudendosi la
porta alle spalle. – e poi, cosa c’è di tanto terribile nella giovinezza, Derae? Cosa
temi?
– Non temo nulla – tempestò lei, – tranne le sofferenze che non posso risanare.
Hai visto quell’uomo che hanno portato da me? Era un principe, era gentile e
compassionevole, ma il suo cuore era marcito al di là della mia capacità di risana-
mento. Questo è ciò che temo... vivere abbastanza a lungo da vedere altri mille
come lui. Credi che voglia tornare ad essere giovane? Perché? Per quale scopo?
Tutto ciò che desideravo mi è stato negato per sempre, quindi perché dovrei
desiderare di vivere più a lungo?
Aristotele avanzò ulteriormente nella stanza, con il volto che esprimeva il suo
rammarico.
– Allora se lo desideri riporterò il tuo corpo alla sua precedente... gloria,
vogliamo dire così? Prima però mi vuoi aiutare? Vuoi aiutare Parmenion?
Derae si accostò allo specchio e fissò la propria immagine ringiovanita, poi
emise un profondo sospiro e annuì.
– Andrò, ma dovrai cambiare il mio volto, perché lui non mi deve riconoscere...
hai capito?
– Farò come vuoi tu – promise Aristotele.
Alessandro aprì gli occhi e rabbrividì al contatto del fango freddo con il suo
corpo inzuppato di pioggia. Urlante e sperduto era precipitato attraverso il cielo
pieno di stelle, perdendo conoscenza mentre luci intense e miriadi di colori gli
fiammeggiavano davanti agli occhi... ma adesso non c’erano colori di sorta,
soltanto un gelo che intorpidiva le ossa e il buio della notte montana.
Stava per muoversi quando sentì le voci, e istintivamente si appiattì al suolo,
fissando gli alberi fitti di ombre da cui esse erano giunte.
– Sire, ti giuro che il bambino è qui. L’Incantesimo lo ha preso e lo ha attirato
verso il fianco di questa collina, però ti avevo avvertito che poteva accadere che
non lo trovassimo in questo punto preciso. In ogni caso deve essere nel raggio di
cento passi, in una qualsiasi direzione.
– Trovalo... altrimenti darò il tuo cuore in pasto ai Vores.
Alessandro rabbrividì ancora, anche se questa volta non fu a causa del freddo.
La seconda voce somigliava a quella di suo padre, ma era più profonda e
raggelante. Per il momento non poteva vedere le persone che stavano parlando ma
sapeva che erano sempre più vicine, quindi strisciò in una macchia di cespugli
poco lontana e premette il suo corpo nudo contro il terreno.
Il bagliore di molte torce tremolò fra gli alberi e Alessandro vide l’uomo con
l’occhio dorato sbucare sul fianco montano insieme al prete dalla tunica scura; alle
loro spalle avanzavano una ventina di guerrieri che tenevano alte le torce e stavano
scrutando il sottobosco, frugando dovunque e spingendo di lato la vegetazione con
le lunghe lance.
Il terriccio coperto di foglie era umido e morbido sotto il corpo del bambino,
che vi affondò le dita e poi rotolò in silenzio sulla schiena coprendosi il petto e le
gambe con la terra e la vegetazione marcia. Poteva sentire piccoli insetti che
correvano in preda al panico sulla sua pelle e un verme morbido che gli stava stri-
sciando lungo il polpaccio sinistro, ma ignorò il disagio e si sporcò invece di fango
la faccia e i capelli, disponendosi poi ad attendere l’esito delle ricerche con il cuore
che gli batteva follemente in petto.
– Mille dracme all’uomo che riesce a trovarlo! – gridò il re.
– Aya! – ruggirono i suoi uomini, levando le torce in un gesto di saluto.
Da dove si trovava Alessandro poteva vedere le gambe e i piedi di coloro che lo
stavano cercando: i soldati erano scalzi ma avevano i polpacci protetti da schinieri
di bronzo decorati da un disegno intricato. Su ciascuno di essi spiccava però il
motivo centrale di un raggio di sole stilizzato, e questo sorprese il bambino, perché
il raggio di sole stilizzato era il simbolo della Macedonia, e tuttavia l’armatura
indossata da quegli uomini non era né macedone né frigia... le corazze erano più
elaborate, gli elmi sfoggiavano ali di corvo invece del pennacchio di crini di
cavallo caratteristico dei soldati di suo padre.
Nonostante la paura che lo pervadeva, Alessandro era perplesso: non aveva mai
visto soldati come quelli, né dal vivo né in dipinti o murali.
Un tuono spaventoso scoppiò nel cielo, seguito dal saettare di un lampo
biforcuto.
In quel momento una punta di lancia attraversò i cespugli sopra Alessandro,
separandone i rami, poi la lancia si ritrasse e il soldato si spostò più avanti.
Il bambino rimase dove si trovava finché i suoni intorno a lui non furono
cessati completamente; infine, quando ormai la pioggia aveva smesso di cadere,
spostò il proprio corpo gelato e strisciò fuori dal riparo del cespuglio, alzandosi in
piedi sul pendio montano.
Sollevando lo sguardo fissò le stelle che spiccavano nel cielo ora limpido... e si
rese conto con una fitta di paura che non le conosceva per nulla. Dov’erano
l’Arciere e il Grande Lupo, il Lanciere e la Madre Terra? Scrutò ancora il cielo alla
ricerca della Stella del Nord, ma non trovò nulla che fosse anche remotamente
familiare.
Nel frattempo le ricerche si erano spostate più in basso lungo il pendio alle sue
spalle, quindi lui decise di avviarsi nella direzione opposta.
Gli alberi erano ammantati di oscurità, ma Alessandro si costrinse a soffocare la
propria paura e continuò a camminare addentrandosi maggiormente nel bosco:
qualche tempo dopo avvistò l’altare del suo sogno che sorgeva nudo e spettrale in
una piccola radura, circondato da colonne di pietra spezzate. Era qui che avevano
cercato di attirarlo a loro.
La radura era deserta, ma un piccolo fuoco covava ancora sotto la cenere al
riparo di un’ampia quercia. Il bambino corse verso di esso e s’inginocchiò per
soffiare sulle braci e ridare vita alle fiamme. Si guardò quindi intorno alla ricerca
di un po’ di legna asciutta ma non ne trovò e dovette accontentarsi di sedere
accanto alla fiammella morente, protendendo le mani tremanti verso il suo calore
sempre più tenue.
– Dov’è questo posto? – sussurrò. – Come faccio a tornare a casa? – Le lacrime
gli salirono agli occhi e sentì l’imminente insorgere del panico ma si sforzò di
controllarlo. – Non piangerò – si disse. – Io sono il figlio di un re.
Raccolti alcuni ramoscelli umidi li sistemò fra le ceneri ardenti lungo i contorni
del fuoco poi si alzò e cominciò ad esplorare l’area circostante perché aveva
bisogno di combustibile per le fiamme... senza di esse sarebbe potuto morire per il
freddo. Non avendo trovato nulla vicino all’altare, si addentrò maggiormente nel
bosco, dove l’oscurità era più fitta a causa dei rami che si intrecciavano a formare
un grande tetto a cupola. Il terreno sottostante era però più asciutto e lì Alessandro
trovò parecchi rami spezzati che raccolse fra le braccia per poi tornare al fuoco.
Con pazienza, lavorò per ravvivare la piccola fiamma, badando a non soffocarla
e ad alimentarla con rametti molto piccoli fino a quando il suo corpo tremante
iniziò ad avvertire un calore crescente.
Altre tre volte tornò nel cuore del bosco per raccogliere legna asciutta,
accumulando una scorta che si augurò gli bastasse per il resto della notte. Durante
il quarto viaggio gli parve di sentire un suono nell’oscurità e si fermò per ascoltare.
All’inizio recepì soltanto silenzio, poi un furtivo rumore di passi che lo riempì di
terrore e lo indusse a lasciar cadere la legna per tornare di corsa fino al fuoco,
attraversando a precipizio la radura e accucciandosi accanto alla fiamma per
afferrare un ramo ardente e levarlo in alto sopra la testa.
Dalla foresta emerse un branco di lupi grigi in caccia che venne avanti per
accerchiarlo, con gli occhi gialli che scintillavano e le zanne snudate. Erano bestie
enormi, più grandi anche dei mastini da guerra di suo padre, e lui non aveva armi
di sorta tranne il ramo ardente.
Poteva sentire la loro fame che si abbatteva sulla sua mente, a ondate:
temevano il fuoco, ma il ventre vuoto stava alimentando il loro coraggio.
Alessandro rimase assolutamente immobile e chiuse gli occhi, protendendosi
con il suo Talento e insinuandosi al di là della nebbia di furia e di fame alla ricerca
del capo del branco, toccando il fuoco della sua anima e fondendosi con i suoi
ricordi. Il bambino vide una nascita in una caverna buia, giochi rissosi con fratelli e
sorelle, poi lotte più aspre e battaglie a mano a mano che il lupo cresceva...
cicatrici e dolore, lunghe cacce, vittorie.
Infine aprì gli occhi.
– Tu e io siamo uno – disse al grande lupo grigio, che piegò la testa da un lato e
avanzò verso di lui.
Alessandro rimise il ramo nel fuoco e attese che l’animale si facesse più vicino,
fino a portarsi con le fauci al livello del suo volto, poi si protese lentamente ad
accarezzargli la testa irsuta e il pelo arruffato del collo.
Perplessi, gli altri lupi si agitarono a disagio nella radura.
Il bambino lasciò intanto vagare la propria mente più lontano, setacciando il
pendio montano e i boschi al di là di esso fino a percepire infine un altro cuore che
batteva... quello di un daino addormentato. Alessandro condivise quell’immagine
con il capo del branco e indicò verso sud.
Il lupo si allontanò silenziosamente dal fuoco e il resto del branco lo seguì
mentre Alessandro si lasciava cadere in ginocchio accanto alle fiamme... stanco,
atterrito e tuttavia esultante.
– Sono il figlio di un re – disse ad alta voce, – ed ho vinto la mia paura.
– Hai fatto un lavoro eccellente – commentò una voce alle sue spalle.
Alessandro s’immobilizzò.
– Non avere paura di me, ragazzo mio – affermò ancora l’uomo, entrando nel
suo campo visivo e accoccolandosi accanto al fuoco, – perché non sono un tuo
nemico.
Il nuovo venuto non era alto, aveva corti capelli grigi e una barba fittamente
ricciuta; indosso portava un gonnellino di cuoio e aveva un arco gettato di traverso
sulle larghe spalle. Un cavallo si addentrò nella radura dietro di lui, e sebbene fosse
privo di chabraque o di briglie si avvicinò all’uomo e gli sfiorò la schiena con il
muso.
– Tranquillizzati, Caymal – sussurrò lo sconosciuto, accarezzando il muso dello
stallone. – I lupi se ne sono andati, perché il nostro giovane principe li ha mandati
in cerca di un daino.
– Perché non ho percepito la tua presenza? E come mai i lupi non hanno sentito
il tuo odore?
– La risposta ad entrambe le domande è la stessa: non desideravo essere
trovato.
– Sei un magus, allora?
– Sono molte cose – replicò l’uomo, – ma nonostante tutte le mie virtù ho un
unico, irritante difetto: sono curioso per natura e trovo l’attuale situazione
interessante in maniera irresistibile. Quanti anni hai, ragazzo?
– Quattro.
– Hai fame?
– Sì – ammise Alessandro, – ma vedo che non hai cibo con te.
L’uomo scoppiò a ridere e infilò la mano nella sacca di cuoio che portava al
fianco. La sacca era piccola e tuttavia... sebbene sembrasse impossibile... l’uomo
ne estrasse una tunica di lana che gettò al bambino.
– Quello che vediamo non è sempre l’assoluta verità – affermò. – Mettiti quella
tunica.
Alessandro si alzò in piedi e si sollevò l’indumento sopra la testa, infilandoselo:
la tunica, che era di un tessuto morbido e caldo bordato in cuoio, gli calzò alla
perfezione.
Quando si rimise a sedere, il bambino vide che l’uomo stava girando sulle
fiamme uno spiedo di ferro su cui sfrigolava un pezzo di carne.
– Io sono Chirone – si presentò lo sconosciuto. – Benvenuto nel mio bosco.
– Il mio nome è Alessandro – replicò il bambino, assaporando il profumo della
carne che gli pervadeva i sensi.
– E sei figlio di un re. Di quale re si tratta, Alessandro?
– Mio padre è Filippo, re della Macedonia.
– Meraviglioso! – esclamò Chirone. – E come sei giunto qui?
Il principe gli raccontò del proprio sogno e della notte di stelle seguita dalla
lunga caduta nell’oscurità; mentre lui parlava Chirone lo ascoltò in silenzio, poi gli
pose alcune domande sulla Macedonia e su Pella.
– Ma di certo tu avrai sentito parlare di mio padre – osservò ad un certo punto
Alessandro, sorpreso. – È il più grande re di tutta la Grecia.
– Della Grecia? Davvero interessante. Ora mangiamo.
Chirone sfilò la carne dallo spiedo e la divise in due porzioni, offrendone una al
bambino, che l’accettò con cautela in quanto si aspettava che il grasso bollente gli
scottasse le dita. Sebbene fosse ben cotta, la carne era però appena tiepida e lui la
divorò in fretta.
– Mi riporterai da mio padre? – chiese, quando ebbe finito di mangiare. – Lui
saprà ricompensarti bene.
– Temo che ciò che chiedi esuli perfino dai miei poteri, ragazzo mio.
– Perché? Hai un cavallo, ed io non posso essere troppo lontano da casa.
– Non potresti esserne più lontano di così. Questa non è la Grecia, ma una terra
chiamata Achaea, dove il massimo potere è nelle mani di Philippos, Signore dei
Makedones... il Re Demone. Era lui l’uomo sulla collina, che ha ordinato ai suoi
preti di chiamarti qui e che in questo momento ti sta dando la caccia. Il mio potere
ha bloccato temporaneamente la magia del suo occhio dorato, però... no,
Alessandro, non ti posso riportare a casa.
– Allora sono perduto? – sussurrò il bambino. – Non rivedrò mai più mio
padre?
– Non balzare a conclusioni affrettate – ammonì Chirone, ma lo sguardo dei
suoi occhi grigi evitò quello di Alessandro.
– Perché questo... Philippos mi vuole trovare?
– Non... non lo so con certezza – replicò Chirone.
– Io invece penso che tu non mi stia dicendo la verità – affermò Alessandro,
scoccandogli un’occhiata penetrante.
– Hai perfettamente ragione, giovane principe, ma per ora lasciamo le cose
come stanno. Adesso dormiremo e domani ti porterò a casa mia, dove potremo
riflettere ed elaborare piani.
Il bambino scrutò gli occhi grigi del suo interlocutore, non sapendo se fidarsi di
lui e come arrivare ad una decisione sul suo conto. Chirone lo aveva nutrito e
vestito, non aveva minacciato di fargli del male, ma tutto questo di per sé non dava
nessuna indicazione in merito ai suoi piani a lunga distanza. Il fuoco era caldo, e
Alessandro si sdraiò accanto ad esso per riflettere.
E si addormentò.
Lo svegliò la mano dell’uomo che gli scuoteva con gentilezza una spalla, e gli
ci volle qualche momento per rendersi conto che il potere di uccidere che aveva
imparato a temere tanto non aveva avuto effetto sul magus dai capelli grigi.
– Dobbiamo andare via... e subito – disse Chirone. – I Makedones sono tornati!
– Come lo sai? – chiese Alessandro, con voce assonnata.
– Caymal ha fatto la guardia per noi – rispose il magus. – Adesso ascoltami,
perché è molto importante: stai per incontrare un altro amico... ti sorprenderà, ma
devi fidarti di lui. Devi. Digli che Chirone vuole che lui vada a casa, che i Make-
dones ci sono addosso e che deve fuggire e non combattere. Hai capito?
– Tu dove stai andando? – chiese il bambino, in tono spaventato.
– Da nessuna parte – ribatté Chirone, consegnandogli l’arco e la faretra con le
frecce. – Guarda e impara.
Alzatosi in fretta in piedi raggiunse di corsa lo stallone e si girò in modo da
essere rivolto verso il bambino... la grande testa dell’animale era posata sulla spalla
dell’uomo e i due erano immobili come statue. Alessandro sbatté le palpebre,
sconcertato, perché ora sembrava che un riverbero di calore stesse danzando
intorno alle due figure dell’uomo e del cavallo. Poi il petto di Chirone si fece più
ampio, la testa più grossa, la barba più scura. Grandi fasce di muscoli si
allargarono vibrando sul suo petto mentre le gambe si allungavano e
assottigliavano, i piedi rimpicciolivano fino a mutarsi in zoccoli.
Alessandro rimase a guardare a bocca aperta il magus e il cavallo che
diventavano una cosa sola. Adesso la testa dello stallone era scomparsa e il torso
dell’uomo si levava sopra le spalle dello stallone. Il centauro batté a terra lo
zoccolo anteriore e s’impennò, poi si accorse del bambino e venne avanti al trotto.
– Chi sei? – domandò con voce profonda, simile al tuono udito in lontananza.
Per un momento ancora Alessandro fissò in silenzio quel volto trasformato, in
cui non rimaneva traccia dei lineamenti di Chirone. Adesso gli occhi erano
distanziati e castani, la bocca carnosa, la barba castana e diritta.
– Mi chiamo Alessandro, e ho un messaggio per te da parte di Chirone –
rispose infine il bambino.
– Sei molto piccolo, ed io ho fame.
– Chirone mi ha detto di avvertirti che i Makedones sono vicini.
Gettando indietro il capo il centauro emise un grido possente che era un misto
di furia e di rabbia. Notando l’arco nelle mani del bambino si protese quindi per
prenderlo.
– Dammelo. Ucciderò i Makedones.
– Chirone ha detto anche che devi andare a casa perché ha bisogno di te. Non
devi combattere contro i Makedones.
Il centauro si fece più vicino, piegando il torso in avanti in modo da poter
abbassare lo sguardo sul bambino.
– Sei un amico di Chirone? – chiese.
– Sì.
– Allora non ti ucciderò. Adesso dammi quell’arco, così potrò andare a casa.
– Chirone vuole che mi porti con te – si affrettò a mentire Alessandro,
porgendogli l’arco e la faretra.
– Potrai cavalcarmi, Umano – annuì il centauro, – ma se dovessi cadere
Camiron non si fermerà per te.
Protendendo una mano, issò quindi Alessandro sulla propria groppa e si
allontanò al trotto dalla radura. Privo di appigli, il bambino scivolò e per poco non
cadde.
– Tieniti alla mia criniera – gridò Camiron.
Sollevando lo sguardo, Alessandro scorse i lunghi peli che crescevano sulla
schiena del centauro e si afferrò ad essi con entrambe le mani mentre Camiron si
lanciava al trotto veloce e poi al galoppo, uscendo dagli alberi e addentrandosi allo
scoperto .
Davanti a loro c’erano una cinquantina di cavalieri e subito Camiron piantò gli
zoccoli anteriori nel terreno e si fermò in maniera tanto brusca che per poco non
fece volare a terra il principe. Intanto anche i cavalieri si erano accorti di loro e si
stavano allargando in un ampio cerchio per intrappolarli.
– Uccido i Makedones – dichiarò Camiron, incoccando una freccia nell’arco.
– No! – urlò Alessandro. – A casa! Va’ a casa. Chirone ha bisogno di te.
Con un grugnito, il centauro si lanciò di nuovo al galoppo mentre una freccia
solcava l’aria sopra la sua testa. Senza rallentare l’andatura, Camiron lasciò partire
a sua volta un dardo che si andò a piantare nel petto di un guerriero, gettandolo a
terra. Altre frecce piovvero sui fuggiaschi, e una di esse lacerò i muscoli del fianco
di Camiron, che lanciò un grido di rabbia e di dolore ma continuò a correre.
Adesso erano quasi circondati, e Alessandro avvertì un crescente senso di
disperazione... ma quando ormai sembrava in trappola il centauro deviò verso
destra e scoccò un dardo contro un secondo cavaliere. L’uomo crollò morto e per
un brevissimo istante questo creò un’apertura nello schieramento dei Makedones.
Rapido come il vento di tempesta Camiron lo attraversò con un balzo e si allontanò
sulla pianura fra un rimbombare di zoccoli, mentre i cavalieri sciamavano al suo
inseguimento.
Il centauro aumentò la propria velocità e scoppiò in una risata possente che
giunse fino all’orecchio dei guerrieri, che reagirono urlando imprecazioni.
– Io inganno loro! – esclamò Camiron. – Io sono il più grande.
– Sì – convenne Alessandro, tenendosi aggrappato alla criniera. – Sei grande.
Quanto è lontana la tua casa?
– La via è lunga se cammini – rispose il centauro, – ma non lo è tanto se
Camiron corre. Sei davvero amico di Chirone?
– Sì, te l’ho detto.
– Ed è meglio che sia vero – avvertì il centauro. – Se Chirone non è là... ti
ucciderò e cenerò con il tuo midollo.
IL CONFINE CON LA TRACIA, MACEDONIA
Parmenion tirò le redini del castrato e si girò per guardarsi alle spalle lungo le
colline, in direzione del lontano fiume Axios. Adesso non poteva più scorgere il
cavaliere ma sapeva senza ombra di dubbio che lo stava ancora seguendo... una
cosa che gli riusciva irritante ma che per ora non destava ancora la sua preoc-
cupazione.
Aveva avvistato quel cavaliere, un punto minuscolo sull’orizzonte, il secondo
giorno dopo la sua partenza da Pella e aveva cambiato direzione, deviando a
nordest prima di tornare sulla pista principale; dal riparo di una cima collinare
fittamente boscosa aveva poi visto il misterioso cavaliere mutare direzione a sua
volta.
La distanza era stata troppo grande per permettere di identificare il suo
misterioso inseguitore: tutto quello che Parmenion aveva potuto vedere era che
l’uomo portava un elmo e una corazza di metallo brunito e che montava un alto
pomellato grigio.
Adesso riprese a cavalcare con cautela, perché il confine della Tracia era vicino
e non desiderava scontrarsi con le guardie che lo pattugliavano.
Il terreno si stendeva davanti a lui in una serie di pieghe, di canaloni e di
depressioni, ondulato e punteggiato da una sparsa vegetazione; qua e là
scintillavano alcuni ruscelli poco profondi che nascevano dal fiume Nestos, il corso
d’acqua che attraversava quell’area per poi andare a gettarsi nel mare a nord
dell’isola di Thasos.
Parmenion condusse il suo castrato sauro in un piccolo bosco e smontò accanto
ad un ruscello. Il castrato rimase fermo in silenzio ma rizzò gli orecchi e fece
vibrare le narici nel percepire l’odore piacevole della fresca acqua di montagna.
Parmenion rimosse il chabraque di pelle di leone dalla groppa dell’animale e lo
strigliò con una manciata d’erba secca. Mothac lo aveva incitato a prendere lo
stallone Bessus, ma invece lui aveva preferito quel sauro perché era una bestia dal
passo sicuro e dall’indole affidabile, non eccessivamente veloce ma dotata di una
resistenza spaventosa alla fatica. Accarezzando il muso del castrato, lo condusse al
ruscello e lo lasciò lì a bere senza neppure prendersi il fastidio di impastoiarlo, poi
raggiunse con passo tranquillo un vicino masso e sedette su di esso ad ascoltare il
mormorio del ruscello e il canto degli uccelli nascosti fra i rami.
Sei anni prima aveva seguito quella strada diretto ad ovest verso la Macedonia
e aveva incontrato il magus, Aristotele.
– Vieni a cercarmi quando avrai bisogno di me – gli aveva detto Aristotele.
E mai bisogno avrebbe potuto essere più grave di quello attuale, si disse
Parmenion. Slacciate le cinghie dell’elmo di cuoio se lo sfilò e si passò le dita fra i
capelli intrisi di sudore. Sebbene l’inverno fosse ormai imminente l’aria rimaneva
calda e asciutta e lui poteva sentire il sudore colargli lungo la schiena sotto la
corazza di cuoio.
Phaedra non era riuscita a capire perché si fosse vestito come un mercenario
privo di mezzi, ma la cosa peggiore era stata che gli aveva chiesto apertamente
perché si stesse lanciando in una simile impresa.
– Sei tu il vero potere, in Macedonia – gli aveva sussurrato. – Impadronisciti
del trono e l’esercito ti seguirà... e allora Philo avrà il futuro che gli dèi hanno
previsto per lui. Perché dovrebbe importarti quello che succede a quel bambino
demoniaco?
Parmenion non le aveva risposto. In silenzio aveva sistemato il chabraque sulla
groppa del sauro e aveva lasciato la grande casa senza guardarsi indietro.
Evitando i villaggi della propria tenuta, aveva fatto la prima sosta in una
piccola città che sorgeva all’ombra dei Monti Krousian, dove aveva comprato
alcune scorte di carne secca e di frutta, oltre al grano per il castrato. La cittadina
era in espansione, nuovi edifici erano in fase di costruzione alla sua periferia e
questo testimoniava la crescente ricchezza della Macedonia. Molti dei nuovi
abitanti erano mercenari che si erano comprati un po’ di terra con i guadagni
accumulati combattendo al soldo di Filippo, mentre altri erano ex-soldati mutilati
che avevano ottenuto una buona pensione prestando servizio per il re. L’abitato era
stato un vero alveare di attività e Parmenion se lo era lasciato alle spalle con
piacere, dirigendosi verso la tranquillità della campagna.
Seduto accanto al ruscello, ora lo Spartano stava esaminando ancora una volta i
problemi a cui si trovava di fronte. Non aveva idea di dove fosse stato portato
Alessandro... o del perché... e le sue speranze si fondavano tutte sulla promessa di
un magus che aveva incontrato in carne ed ossa soltanto una volta. E se i Persiani
fossero riusciti a portare di nascosto il bambino fuori della Macedonia?
Supponendo che Alessandro venisse ora tenuto come ostaggio a Susa, che speranze
avrebbe potuto avere un uomo solo di salvarlo? E se non ci fosse riuscito di certo la
sete di vendetta avrebbe indotto Filippo a condurre i suoi eserciti verso est, nel
cuore del regno persiano.
Quei cupi pensieri gli si agitavano nella mente come insetti fastidiosi e lui si
costrinse ad allontanarli e a ricordare il consiglio di Senofonte.
– Quando ti viene chiesto di smuovere le montagne, non guardare le loro
dimensioni. Limitati a spostare il primo sasso.
Il primo sasso era trovare Aristotele.
Concedendo al castrato un po’ di riposo, Parmenion risalì a piedi la cresta della
collima e lasciò vagare lo sguardo sulla pista appena percorsa, alla ricerca del
cavaliere che lo stava seguendo. Un miraggio di calore tremolava però sul territorio
sottostante e questo gli impedì di scorgere qualsiasi segno di movimento.
Ripreso il cammino, lo Spartano cavalcò fino al tramonto e infine si accampò in
una depressione fra le montagne, accendendo un piccolo fuoco a ridosso di un
masso e godendo del calore riflesso contro la pietra. L’indomani sarebbe arrivato al
passo dove aveva incontrato il magus per la prima volta. Pregando fra sé di trovare
là Aristotele ad attenderlo, Parmenion dormì di un sonno agitato.
Due ore prima dell’alba arrivò alle pendici dei Monti Kerkine. Lì la brezza era
più fredda e lui incitò il sauro a risalire il pendio coperto di ghiaia alla volta del
passo, stringendosi al tempo stesso maggiormente il mantello nero intorno al
corpo. Quando arrivò sulla sommità del pendio vide quattro uomini a cavallo che
bloccavano lo stretto passaggio... alle spalle dei quattro c’erano altri due cavalli, e
nello spostare lo sguardo verso le rocce alla sua sinistra Parmenion non faticò ad
individuare due arcieri in attesa con l’arco teso.
– Una bella giornata per cavalcare – commentò un guerriero dal volto bruno
che montava un robusto stallone nero. L’uomo accostò quindi i talloni ai fianchi
dell’animale e si staccò dai compagni, venendo avanti. Il suo volto era tanto duro
da sembrare tagliato con l’accetta e una spessa barba nera non riusciva a
nascondere i segni sulle guance butterate sovrastate da scuri occhi infossati. I
compagni dell’uomo rimasero indietro, attendendo in silenzio con la mano sulla
spada.
– È vero – replicò Parmenion. – Cosa vuoi da me?
– Sei entrato nelle terre della Tracia, Macedone, e richiediamo un pedaggio,
quindi sii tanto gentile da consegnarci il contenuto di quella sacca che porti al
fianco.
– In primo luogo – precisò Parmenion, – io non sono un Macedone, e in
secondo luogo non è necessaria una grande intelligenza per capire che un
mercenario non ha monete quando viaggia verso la Persia. Ne ha soltanto al
ritorno.
– Ah, bene, comunque possiedi un bel cavallo – dichiarò l’uomo, sorridendo. –
Ci dovrà bastare.
Il guerriero si tese improvvisamente e nello stesso istante Parmenion spronò il
castrato al galoppo, evitando così due frecce che solcarono l’aria nel punto in cui
lui si trovava un momento prima. La spalla del castrato andò a sbattere contro lo
stallone che scartò con violenza e scagliò a terra il proprio cavaliere. Estratta la
spada, lo Spartano si lanciò alla carica contro gli uomini rimasti, che però si
sparpagliarono davanti a lui e si gettarono poi al suo inseguimento.
Poco più avanti il passo descriveva una curva verso destra, e non appena fu
nascosto alla vista degli inseguitori Parmenion tirò le redini del sauro e lo fece
tornare indietro nella direzione da cui era venuto. Quella era l’ultima mossa che i
banditi si sarebbero aspettati da lui: quando superarono la curva, supponendo di
vedere la preda in fuga lontano da loro, si trovarono invece a dover sostenere una
carica.
Il castrato si scagliò senza paura in mezzo al gruppo e Parmenion calò la spada
sul collo di uno dei banditi, gettandolo al suolo con il sangue che zampillava dalla
giugulare squarciata; il sauro intanto s’impennò e scalciò contro un secondo av-
versario, il cui cavallo incespicò e cadde.
Urlando un grido di battaglia il capo del gruppo tentò un affondo contro lo
Spartano, che parò il suo fendente e lanciò una risposta che lo raggiunse alla faccia,
lacerandogli la guancia e strappandogli l’occhio destro.
Gli altri banditi si diedero alla fuga e Parmenion smontò, avvicinandosi al
ferito, che stava lottando per rialzarsi con la mano premuta contro l’occhio
devastato nel vano tentativo di fermare il flusso del sangue.
– Figlio di buona donna! – urlò il bandito, sollevando la spada e correndo
contro Parmenion.
Lo Spartano si spostò di lato e vibrò un fendente contro l’inguine
dell’avversario: con un grido d’angoscia l’uomo crollò al suolo e Parmenion lo finì
con un ultimo colpo al collo prima di scavalcare il suo corpo per recuperare le
redini del castrato.
– Ben fatto – commentò una voce familiare, e Parmenion imprecò
sommessamente.
– Cosa ci fai qui, Attalus?
Il Campione del Re balzò agilmente dalla groppa del grigio pomellato e si
diresse verso il punto in cui era in attesa Parmenion.
– Non sei contento di vedermi? Ah, bene, immagino che sia comprensibile.
Però mi hai incuriosito con quei tuoi discorsi di maghi e di rocce ed ho pensato che
sarebbe stato divertente incontrare quell’uomo.
Preferirei dormire con un serpente velenoso piuttosto che subire la tua
compagnia in viaggio, Attalus – ribatté Parmenion, scuotendo il capo. – Torna a
Pella.
Attalus incassò l’insulto con un sorriso, ma un bagliore di malizia apparve nei
suoi occhi freddi.
– Sei noto come un uomo dalla mente acuta, Spartano, ed io ti rispetto per
questo... però adesso non stai riflettendo. Supponi che questo... mago... ti possa
condurre dal bambino, credi che riusciresti a salvarlo da solo? Puoi anche
detestarmi, Parmenion, ma non puoi negare il fatto che sono il migliore spadaccino
della Macedonia.
– Non è questo il punto – scattò Parmenion.
– E allora qual è?
– Non posso fidarmi di te – dichiarò lo Spartano.
– Tutto qui? Per gli dèi, uomo, cosa ti aspetti che faccia... che ti tagli la gola
mentre stai dormendo?
– Forse. Però non ne avrai l’opportunità, perché viaggerò solo.
– Non penso che sia una cosa saggia – intervenne una terza voce.
Entrambi gli uomini si volsero di scatto e videro un individuo dai capelli grigi
che sedeva a gambe incrociate su un masso dalla sommità piatta.
– Ti muovi in silenzio – sussurrò Attalus, facendo scivolare la spada fuori del
fodero.
– È vero, giovane Attalus. Adesso però riponi quella spada... sarebbe una
scortesia assalire un uomo che sta prendendo le tue difese – ribatté Aristotele, poi
spostò la propria attenzione su Parmenion e continuò: – Ritengo che avrai modo di
scoprire che il Campione del Re sarà per te un aiuto nella tua impresa. E puoi
credermi se ti dico che avrai bisogno di aiuto per recuperare il principe.
– Dove lo tengono? – domandò Parmenion.
– In un regno di dannati – rispose il magus, poi saltò giù dal masso e tornò
verso l’erta parete di roccia, scomparendo alla vista.
Ignorando Attalus, Parmenion tirò il castrato per le redini e si avviò per seguire
Aristotele: come in passato, l’apparentemente solida parete di roccia si rivelò
invece priva di sostanza quanto un velo di nebbia e uomo e cavallo si vennero a
trovare in una fredda caverna dove grandi stalattiti pendevano come i denti di un
drago dal tetto a cupola. Trovandosi a disagio in quel luogo umido e freddo, il
castrato cominciò a tremare, e Parmenion gli batté qualche colpetto sul collo,
sussurrandogli parole rassicuranti. Un momento più tardi Attalus attraversò la
parete alle sue spalle.
– Non ti sei ancora divertito abbastanza? – domandò Parmenion.
– Quasi – rispose lo spadaccino. – Dov’è andato?
Parmenion indicò una distante chiazza di dorata luce solare e i due uomini si
diressero da quella parte, emergendo infine dall’ampia bocca di una caverna che
dominava una valle verdeggiante. In fondo al pendio sorgeva una casa cinta da
mura bianche e costruita accanto ad un ruscello montano. Rimontati a cavallo, i
due guerrieri raggiunsero la casa, dove Aristotele li stava aspettando seduto
accanto ad un tavolo carico di cibi e di vino.
– Ed ora veniamo al punto della vostra visita – esordì Aristotele, dopo che
ebbero mangiato. – Il bambino, Alessandro, non è più in questo mondo.
– Vuoi dire che è morto? – sibilò Attalus. – Non ci credo.
– Non è morto – lo corresse pazientemente Aristotele. – È stato attirato
attraverso un portale di accesso ad un mondo parallelo... è stato per questo che le
guardie hanno riferito di aver visto le stelle nel corridoio. Per poterlo salvare vi
dovete recare in quel mondo. Io posso indicarvi la strada.
– Queste sono assurdità – tempestò Attalus, alzandosi in piedi. – Hai intenzione
di restare’ad ascoltare queste idiozie? – chiese quindi allo Spartano.
– Prima di tranciare giudizi guardati intorno – consigliò Parmenion. – Dove
sono le montagne che abbiamo attraversato? E dov’è il fiume Nestos? Non riesci a
vedere che siamo già in un altro mondo?
– Si tratta di un trucco di qualche tipo – borbottò Attalus, girandosi a fissare
l’orizzonte sconosciuto.
Parmenion si disinteressò di lui e tornò a rivolgersi ad Aristotele.
– Perché hanno preso il bambino? – domandò. Aristotele si protese in avanti,
puntellando i gomiti sull’ampia superficie del tavolo.
– Laggiù c’è un re che è ossessionato dal desiderio dell’immortalità. Per
conseguire questo risultato, lui deve però divorare il cuore di una speciale vittima
sacrificale, e i suoi preti gli hanno parlato di un fanciullo dorato... un bambino
speciale.
– Questo mondo... è come il nostro? Potremo orientarci in esso? – chiese
ancora lo Spartano.
– Non posso rispondere esaurientemente a questa domanda – replicò il magus.
– Ci sono grandi somiglianze e tuttavia le differenze sono enormi. Là esistono i
centauri e tutte le altre creature di cui hai sentito parlare come di esseri
esclusivamente mitologici... bestie mannare e Arpie, gorgoni e creature dell’o-
scurità. Quello è un mondo di magia, amico mio, e tuttavia è la Grecia.
– Quel re di cui hai parlato... ha un nome?
– È Philippos, re dei Makedones. E prima che tu lo chieda... sì, lui è Filippo,
l’immagine dell’uomo che voi servite.
– Tutto questo è pazzesco – lo derise Attalus. – Perché resti lì seduto ad
ascoltare questi farfugliamenti?
– Come ti ho già detto, mi farai soltanto piacere se tornerai a Pella – ribatté
Parmenion, con voce fredda. – Quanto a me, mi recherò in quest’altra Grecia e
troverò il principe. Tu verrai con me, Aristotele?
Il magus scosse il capo e distolse lo sguardo.
– Vorrei poterlo fare ma non posso... non ancora.
– È troppo pericoloso per te, mago? – lo derise Attalus.
– In effetti lo è – confermò Aristotele, senza traccia di rancore nella voce. –
Però vi raggiungerò non appena potrò per ricondurvi a casa. Se sopravviverete.
LIBRO SECONDO
352 A.C.
LA FORESTA DI OLYMPUS
Il pugno di Attalus calò con violenza contro il mento di Parmenion, che crollò a
terra. Lo Spartano andò a sbattere duramente contro il terreno, poi rotolò supino e
sollevò lo sguardo sull’infuriato Macedone che incombeva ora su di lui con i pugni
serrati e il sangue che ancora gli filtrava da una lacerazione poco profonda alla
guancia.
– Miserabile figlio di buona donna! – sibilò Attalus. – A cosa stavi pensando,
nel nome dell’Ade? Dieci uomini! Per Eracle, dovremmo essere morti.
Parmenion si sollevò a sedere e si massaggiò il mento, poi si issò in piedi.
– Non stavo pensando – ammise.
– Eccellente! – ringhiò Attalus. – Però non voglio che sulla parete della mia
tomba venga incisa la scritta: «Attalus è morto perché lo strategos non stava
pensando.»
– Non succederà di nuovo – promise lo Spartano, ma lo spadaccino non si
lasciò placare.
– Voglio sapere perché è successo questa volta. Voglio sapere perché il Primo
Generale della Macedonia si è lanciato in soccorso di donne che non conosceva
neppure. Sei stato a Metone e ad Anfipoli e in dozzine di altre città che l’esercito
ha messo al sacco, ma non ti ho visto correre per le strade a proteggere donne e
bambini. Cosa c’era di tanto diverso qui?
– Nulla – replicò lo Spartano. – Però tu sei in errore. Io non sono mai stato
presente in quelle città mentre vi si verificavano violenze e uccisioni. Ho
organizzato gli assedi, ma il mio lavoro si è concluso una volta che le truppe hanno
superato le mura. Non cerco di evitare la mia responsabilità per le barbarie che
sono seguite, ma non vi ho mai preso parte né esse sono mai state perpetrate in mio
nome. Quanto alle mie azioni di oggi sono pronto ad ammettere che sono state
ingiustificabili. Siamo qui per salvare Alessandro... ed io ho messo in pericolo la
riuscita della nostra missione. Comunque ti ho garantito che la cosa non si
ripeterà... non posso aggiungere altro.
– Io posso... se mai dovessi decidere di nuovo di agire da pazzo romantico non
ti aspettare di trovarmi al tuo fianco.
– Non me lo aspettavo neppure questa volta – ribatté Parmenion, indurendosi in
volto e incontrando con fermezza lo sguardo dello spadaccino. – E sappi anche
un’altra cosa, Attalus... se mai dovessi colpirmi ancora ti ucciderò.
– Sogna pure – ribatté lo spadaccino. – Non sorgerà mai il giorno in cui potrai
avere la meglio su di me con una spada o con una lancia.
Parmenion stava per ribattere quando parecchie delle donne fuggite poco prima
si addentrarono nella radura venendo verso di loro. La prima a raggiungere i due
guerrieri s’inchinò profondamente davanti a loro e sollevò quindi lo sguardo con
un timido sorriso: la ragazza era snella e bionda di capelli, con occhi violetti e un
volto di una bellezza senza paragoni.
– Vi ringraziamo, signori, per il vostro aiuto – disse, con voce dolce e ritmata,
quasi musicale.
– È stato un piacere – replicò Attalus. – Quali veri uomini avrebbero agito
diversamente?
– Sei ferito – osservò la ragazza, venendo avanti e sfiorandogli il volto. – Devi
permetterci di curare le tue ferite. Abbiamo con noi erbe mediche e polveri
risananti.
Ignorando Parmenion, le donne si raccolsero intorno ad Attalus e lo condussero
fino ad un tronco caduto, sedendogli accanto. Una ragazzina che indossava una
tunica di un azzurro scintillante sedette sulle ginocchia dello spadaccino e gli appli-
cò sulla guancia ferita una larga foglia verde. Quando la rimosse la ferita era
svanita e la pelle appariva liscia e intatta. Un’altra donna ripeté la procedura con il
taglio riportato dal guerriero all’avambraccio sinistro.
Il satiro intanto riapparve al limitare della radura e avanzò saltellando verso
Parmenion offrendogli un boccale di vino. Ringraziandolo, lo Spartano si sedette
per bere e il satiro si allontanò con un sorriso nervoso.
Il tentativo di salvare quelle donne era esattamente ciò che aveva detto Attalus:
un atto romantico, stupido e... considerando il rapporto numerico... suicida, quindi
Parmenion si sentì decisamente depresso mentre sedeva in disparte dagli altri. Ri-
flettendo sull’accaduto ricordò la gioia serena che aveva provato nel guardare le
donne e l’ira improvvisa e violenta che era divampata dentro di lui quando le aveva
sentite urlare. Come se una finestra si fosse aperta in un angolo della sua anima im-
magini spontanee gli affiorarono nella mente e lui vide di nuovo i bambini di
Metone ammucchiati con indifferenza gli uni sugli altri in una macabra collinetta
di cadaveri.
Mentre la città veniva preparata per la distruzione, Parmenion l’aveva
attraversata per sovrintendere alla sua demolizione e si era fermato nella piazza
principale del mercato, dove c’erano i carri che servivano a portare via i morti.
Girandosi verso Nicanor, che era al suo fianco, gli aveva rivolto una semplice
domanda.
– Perché?
– Perché cosa, amico mio? – aveva replicato Nicanor, sconcertato.
– I bambini. Perché sono stati uccisi?
– Le donne vengono vendute come schiave nei mercati asiatici – aveva spiegato
Nicanor, scrollando le spalle, – e gli uomini vengono mandati in Pelagonia perché
costruiscano nuove fortezze laggiù. Non esiste più uno spazio di mercato per la
vendita dei bambini.
– Ed è questa la risposta? – aveva sussurrato il generale. – Che non c’è
mercato?
– Che altra risposta ci dovrebbe essere? – aveva replicato il guerriero.
Parmenion aveva lasciato la città senza guardarsi indietro, deciso a non andare
mai più a verificare le conseguenze di simili vittorie. Adesso, mentre sedeva in
quel bosco incantato, si rese conto di colpo con intensità nauseante di essere un
vigliacco. Come generale, metteva in movimento eventi che portavano a cose
orribili, e si era autoconvinto che il non permettersi di assistere alla brutalità poteva
in qualche modo liberarlo dalla sua parte di colpa.
Continuò a sorseggiare il vino e a poco a poco scoprì che il peso del suo dolore
era troppo intenso per essere tollerato: le lacrime cominciarono a scivolargli lungo
le guance e un senso di profonda disistima di se stesso lo pervase.
Non avrebbe saputo dire quando si era addormentato, ma al risveglio si trovò su
un morbido letto in una camera con le pareti fatte di viticci intrecciati e il soffitto di
foglie.
Sentendosi riposato e privo di angosce, con il cuore leggero, spinse indietro le
coltri e si sollevò a sedere, scoprendo che il suolo era coperto da un tappeto di
muschio, morbido ed elastico sotto i piedi; poiché nei viticci non si scorgevano
porte, si avvicinò e spostò le foglie da un lato con le mani: la luce del sole fiottò
nella stanza, quasi accecandolo, e lui uscì in un’ampia radura cinta da querce. Per
un momento rimase immobile, attendendo che la vista si abituasse alla luce più
intensa, poi si girò nella direzione da cui giungeva un rumore di acqua corrente e
vide una cascata che si riversava su una superficie di marmo bianco per andare a
riempire una polla profonda in cui sedeva un gruppo di donne. Altre donne stavano
nuotando nell’acqua cristallina, ridendo e spruzzandosi a vicenda, riempiendo
l’aria di minuscoli arcobaleni racchiusi nelle gocce d’acqua.
Mentre Parmenion si avviava lentamente verso il gruppo una figura incombente
venne avanti sulla sua destra e lui riconobbe il minotauro chiamato Brontes. La
creatura s’inchinò goffamente, abbassando e risollevando la grande testa taurina.
– Benvenuto nella mia dimora – disse.
– Come sono giunto qui?
– Ti ho portato io.
– Perché?
– Hai bevuto il vino, Umano, ed esso ti ha fatto dormire e sognare. Poi sono
arrivati altri Makedones, e la Signora mi ha ordinato di portarti qui.
– Dov’è Attalus?
– Il tuo compagno dorme ancora... e continuerà a dormire. Vieni, la Signora ti
aspetta.
Con quelle parole il minotauro oltrepassò a grandi passi la cascata, e si avviò
fra gli alberi sulla destra, arrivando infine ad un’altro muro di viticci. Due donne
ferme accanto ad esso aprirono il fogliame per permettere al minotauro di passare,
e nel seguirlo Parmenion si venne a trovare in una sala naturale le cui colonne
erano alti cipressi e il cui tetto era fatto di fiori. Uccelli di ogni genere volavano
tutt’intorno, volteggiando fra i boccioli multicolori.
All’interno della sala c’erano numerose polle circondate da massi di marmo
bianco da cui crescevano enormi fiori rosa salmone e carmini; sentieri di pietra
gialla erano stati creati intorno alle polle e si snodavano sinuosi sul pavimento
coperto di muschio, portando tutti alla piattaforma situata all’estremità opposta.
Ignorando le donne e i satiri che sedevano vicino all’acqua, Brontes continuò a
camminare fino a portarsi davanti alla piattaforma. I suoi fratelli, Steropes e Arges,
erano seduti accanto ad essa, ma Parmenion li degnò a stento di un’occhiata perché
la sua attenzione fu attratta per intero dalla donna nuda che sedeva su un trono
intagliato in un enorme blocco di marmo lucente. I suoi capelli erano bianchi... ma
quello non era il colore stanco e opaco della vecchiaia bensì il candore orgoglioso e
invitto delle nevi montane. Gli occhi erano grigi, il volto senza età, liscio e
morbido ma non giovane, il corpo era snello, i seni piccoli, i fianchi stretti come
quelli di un ragazzo.
Parmenion s’inchinò profondamente e la donna si alzò dal trono, scendendo
dalla piattaforma per prendere lo Spartano per un braccio e condurlo più addentro
nella sala e poi oltre i viticci, in una depressione fra le colline immersa nella luce
del sole.
– Chi sei, Signora? – chiese Parmenion, mentre la donna sedeva sotto un’ampia
quercia.
– Gli uomini mi hanno dato molti nomi – rispose lei. – Più numerosi delle
stelle, credo. Tu però puoi continuare a chiamarmi Signora, perché mi piace il
suono che questa parola assume sulle tue labbra. Ora siedi accanto a me,
Parmenion, e parlami di tuo figlio Alessandro.
Lo Spartano impiegò un istante ad afferrare appieno ciò che la donna aveva
detto, poi un brivido di paura gli pervase l’anima.
– Lui è il figlio del mio re – ribatté, ma sedette lo stesso nell’erba accanto a lei.
– È stato rapito da Philippos ed io sono qui per riportarlo a... suo padre.
La donna sorrise, ma i suoi occhi saggi sostennero lo sguardo di Parmenion.
– Lui è tuo figlio, generato durante una notte di Misteri. È una vergogna che
porti dentro di te... insieme a molte altre colpe e dolori. Io ti conosco, Uomo,
conosco i tuoi pensieri e le tue paure. Con me puoi parlare apertamente.
– Mi dispiace che tu abbia visto così tanto, Signora – replicò Parmenion,
distogliendo lo sguardo. – Mi addolora portare la mia... oscurità... in questo luogo
di bellezza.
Le dita di lei gli sfiorarono il volto, accarezzandogli la pelle.
– Non ti preoccupare per questa vergogna... il tuo senso di colpa è la sola cosa
che ti ha tenuto in vita dopo che hai bevuto il mio vino. Infatti soltanto le persone
buone possono conoscere il rimorso, Parmenion; c’è gentilezza nel tuo cuore,
grandezza nella tua anima... il che è più di quanto si possa dire del tuo compagno.
Gli ho permesso di vivere soltanto perché tu hai bisogno di lui, ma dormirà finché
non ve ne andrete e non vedrà mai la mia terra. – Alzandosi in piedi con agilità, la
donna si avvicinò alla cresta della collina e indugiò a fissare le lontane montagne.
Parmenion la raggiunse e ascoltò mentre lei gli indicava i diversi punti di
riferimento.
– Là, lontano verso ovest, ci sono i Monti Pindos, e quello che attraversa la
pianura, laggiù, è il fiume Peneios. Tu conosci questi posti, perché essi esistono
anche nel tuo mondo, ma più a sud ci sono città che non puoi conoscere: Kadmos,
Thospae, Leonidae. Esse si sono unite in una lega per combattere contro
Philippos... e presto cadranno. Atene è stata distrutta durante la primavera e fra non
molto una sola città continuerà ad opporsi al tiranno: Sparta. Quando avrai trovato
Alessandro, portalo là.
– Prima devo trovarlo – le ricordò il guerriero.
– È presso il magus Chirone e per il momento è al sicuro. Presto però Philippos
scoprirà il suo nascondiglio e la Foresta dei Centauri non sarà un ostacolo
sufficiente a fermare i Makedones.
Girandosi, la donna prese Parmenion per un braccio e lo ricondusse nella sala
di viticci.
– Un tempo – disse con voce sommessa e dolente, – avrei potuto aiutarti nella
tua impresa ma ora non più. Noi siamo il popolo dell’Incantesimo e stiamo
morendo lentamente perché la mostra magia svanisce davanti alle spade scintillanti
dei Makedones. Ti do la mia benedizione, Parmenion, perché non ho altro da
donarti.
– È sufficiente, Signora, ed è un dono di cui non sono degno – replicò lo
Spartano, prendendole la mano e baciandola. – Ma perché me lo elargisci?
– I nostri interessi potrebbero ancora coincidere. Come ti ho detto,
l’Incantesimo sta svanendo, e tuttavia qui esiste una leggenda nota a tutti noi: in
essa si dice che verrà un fanciullo dorato e che la terra tornerà a splendere. Credi
che Alessandro sia quel fanciullo dorato?
– Come posso saperlo?
– Già, come? Un tempo potevo vedere il futuro... non molto, ma quanto bastava
per proteggere il mio popolo... mentre adesso vedo soltanto il passato e le glorie
perdute. E forse mi sto aggrappando a sciocche leggende. Ora dormi... e svegliati
riposato.
Parmenion si destò avvolto nel proprio mantello nel luogo dove si erano
accampati, con i cavalli che pascolavano accanto al ruscello. Attalus stava ancora
dormendo dall’altra parte del fuoco ormai spento, e sul suo volto e sulle sue
braccia non c’era segno di ferite.
Alzatosi, Parmenion si addentrò nel bosco fino a raggiungere la radura: non
c’era più traccia dei corpi, ma il terreno era ancora sporco di sangue secco.
Tornato al campo svegliò Attalus.
– Ho fatto un sogno stranissimo – dichiarò lo spadaccino. – Ho sognato che
abbiamo salvato un gruppo di ninfe. C’era un minotauro, e... e... dannazione,
cominciò già a dimenticare tutto. Detesto dimenticare i sogni – continuò, alzandosi
in piedi e pulendo il mantello dalla polvere. – Però ricordo le ninfe, donne
splendide e belle al di là di ogni descrizione. Cosa mi dici di te? Come hai
dormito?
– Senza sogni – rispose lo Spartano.
Derae guardò Parmenion e Attalus avviarsi verso ovest, poi emerse dall’ombra
degli alberi e si avvicinò al centro del loro accampamento. Adesso i suoi capelli
non erano più rossi ma castano scuro e corti, il volto era più squadrato con il naso
lungo e gli occhi ora erano castani sotto le folte sopracciglia.
– Non sei certo una bellezza – aveva commentato Aristotele, quando si erano
incontrati al Cerchio di Pietre dopo la partenza dei due Macedoni.
– Non avrò bisogno della bellezza – aveva replicato lei, con voce profonda e
quasi rauca.
Poi aveva oltrepassato il portale appena in tempo per vedere Parmenion e
Attalus addentrarsi nel bosco e li aveva seguiti, fermandosi poco lontano dal loro
campo. Inizialmente era stata sua intenzione avvicinarli quella notte stessa, ma
quando aveva proteso il suo Talento e aveva sfiorato l’anima di entrambi aveva
scoperto le loro paure. I due uomini erano a disagio uno in compagnia dell’altro,
perché Parmenion non si fidava del freddo guerriero macedone e Attalus nutriva
antipatia per l’uomo che considerava un arrogante Spartano. Rendendosi conto che
avevano bisogno di abituarsi uno all’altro, si era avvolta nel mantello e si era
addormentata.
Era stata svegliata da un suono di risa e aveva visto i due Macedoni che
strisciavano attraverso il sottobosco. Librandosi dal corpo aveva seguito la scena
dall’alto ed era stata la prima a scorgere i Makedones dal mantello nero che si
stavano dirigendo verso le donne attraverso il bosco.
Quando erano echeggiate le prime urla, Derae era volata da Parmenion, le cui
emozioni erano in conflitto: una parte del suo animo desiderava infatti andare in
soccorso delle donne ma predominante era in lui il desiderio di restare al sicuro e
di pensare soltanto ad Alessandro. D’istinto Derae aveva usato il proprio potere,
pervadendo lo Spartano di una nuova determinazione, e nel momento stesso in cui
lo faceva si era resa conto che si trattava di un errore: uno scontro uno contro dieci
avrebbe infatti significato la morte dell’uomo che lei amava. Trasferendo il proprio
spirito il Attalus ne aveva vagliato rapidamente le intenzioni, scoprendo che non
c’era modo di indurlo ad appoggiare Parmenion nello scontro imminente. La sua
mente era infatti concentrata su un solo pensiero: proteggere se stesso. Non avendo
niente altro su cui fare leva, Derae aveva intensificato le sue paure, suggerendogli
che se Parmenion fosse morto lui si sarebbe trovato intrappolato per sempre in quel
mondo che non era il suo, non avrebbe più rivisto i suoi palazzi e le sue concubine
e avrebbe trascorso il resto della vita come soldato mercenario in un mondo
sconosciuto. In preda ad un’ira devastante, lo spadaccino era andato in aiuto di
Parmenion.
I due guerrieri avevano combattuto splendidamente, ma Derae era rimasta
nauseata dalla strage e quando tutto era finito si era ritirata nel proprio corpo
portando con sé un senso di vergogna.
Quelle morti gravavano infatti sulla sua coscienza: aveva manipolato gli eventi
e questo era contrario a tutte le sue convinzioni. Durante la notte aveva vegliato a
lungo cercando di trovare una spiegazione razionale per le sue azioni. I Makedones
erano decisi a commettere violenze e uccisioni, e se lei non fosse intervenuta le
donne sarebbero state violentate e uccise. Quelle morti non sarebbero però state
causate da lei, mentre ora il sangue dei Makedones pesava sulla sua coscienza.
Cos’avrei potuto fare? si era chiesta. Tanto l’azione che l’inazione avrebbero
portato alla tragedia, perché non c’era stato il tempo di influenzare tutti i
Makedones. E tuttavia lei li aveva influenzati, rallentando i loro riflessi per
concedere un certo vantaggio a Parmenion e ad Attalus.
Con l’animo pieno di dubbi la Guaritrice si era addormentata, sognando i
centauri e un Re Demone. Nel bel mezzo di quei sogni era stata svegliata dal tocco
di una mano e aveva visto una donna nuda dai capelli bianchi seduta su un albero
caduto.
Alle spalle della donna c’era il minotauro che lei aveva scorto nella radura e la
luce della luna ora alta nel cielo si riversava in pieno sulla figura della donna,
facendola apparire quasi eterea.
– Hai agito bene, veggente – aveva affermato la sconosciuta. – Hai salvato le
mie figlie.
– È stato sbagliato da parte mia interferire.
– Sciocchezze. Le tue azioni hanno salvato non soltanto la mia gente ma anche
i due uomini che stai seguendo. Se non si fossero comportati come hanno fatto,
Brontes e i suoi fratelli li avrebbero uccisi nel sonno.
– Perché? – aveva chiesto Derae. – Che male vi hanno fatto?
– Sono Umani, e questo è sufficiente – aveva replicato la donna.
– Cosa vuoi da me?
– Il tuo sangue appartiene all’Incantesimo... è per questo che possiedi il
Talento. Anche Parmenion è un uomo dotato di Potere. Voi siete stranieri in questo
mondo, ed io devo scoprire se siete venuti per compiere azioni buone o malvagie.
– Non aiuterò mai consapevolmente la causa del Caos – aveva risposto Derae, –
ma questo non significa necessariamente che agirò sempre per il bene. Per molti
anni ho lottato contro lo Spirito del Caos, cercando di impedirgli di incarnarsi, e
tuttavia sono stata responsabile della sua nascita.
– Lo so. Parmenion ha generato Iskander e adesso il Re Demone sta cercando il
bambino.
La donna era rimasta in silenzio a lungo, con un’espressione remota sul viso,
poi aveva riportato lo sguardo sulla guaritrice.
– L’Incantesimo sta morendo. Tu puoi aiutare a salvarlo?
– No.
– Neppure io – aveva annuito la donna. – Se però questo bambino è davvero
Iskander... non ho altra scelta – aveva aggiunto, con un sospiro, poi si era girata
verso il minotauro, posando la mano sulla sua spalla possente. – Va’ con lei, Bron-
tes, e aiutala come puoi. Se il bambino non è Iskander torna da me, altrimenti fa’
tutto ciò che devi perché possa arrivare alla Porta.
– Lo farò, madre.
La luce della luna era svanita, e con essa la donna dai capelli bianchi, ma il
minotauro era rimasto e Derae aveva proteso verso di esso il suo spirito...
incontrando però un muro invisibile.
– Non hai bisogno di leggere nei miei pensieri – le aveva detto il mostro, con
voce assurdamente dolce. – Non costituisco un pericolo per te.
– Come è possibile che non ci sia pericolo quando esiste tanto odio? – aveva
ribattuto lei.
Il minotauro non aveva replicato.
IL BOSCO DEI CENTAURI
Alessandro sedeva sotto la calda luce del sole davanti all’imboccatura della
caverna, in alto sulla montagna, con lo sguardo fisso sulla foresta e sulla pianura al
di là di essa. Nonostante le sue paure si sentiva meravigliosamente libero nella
Foresta dei Centauri, perché qui poteva toccare senza uccidere e dormire senza
sogni. Il giorno precedente un uccello di un grigio argenteo si era posato sulla sua
mano ed era rimasto là a crogiolarsi nella sicurezza della sua amicizia, senza che il
potere omicida minacciasse di fluire neppure una volta. Quella era una forma di
beatitudine che Alessandro non aveva mai conosciuto e sebbene sentisse la
mancanza della sua casa, di sua madre e di suo padre, la nostalgia era attenuata
dalla gioia appena scoperta.
– Una bella giornata, giovane principe – commentò Chirone, uscendo
all’aperto.
– Sì, è splendida. Parlami dei centauri.
– Cosa desideri sapere? – replicò il magus.
– Come fanno a sopravvivere? So qualcosa dei cavalli e di quanto devono
mangiare e bere. La gola e lo stomaco sono fatti per digerire erba e grandi quantità
di liquidi, e i polmoni sono enormi. Per questo non riesco a capire come facciano i
centauri a vivere. Hanno due paia di polmoni? E mangiano l’erba? E se è così,
come ci riescono, visto che non possono piegare il collo come fanno i cavalli?
– Una valida domanda, Alessandro – ridacchiò Chirone. – La tua è una mente
che ragiona bene. Hai visto me e Caymal, e per i centauri è lo stesso. Vivono come
uomini e donne, ma hanno formato uno speciale legame con la loro cavalcatura.
Effettuano la Fusione nelle ore diurne, ma al crepuscolo si separano.
– E cosa succede se un cavallo muore? Il centauro ne può trovare un altro?
– No. Se un cavallo muore l’uomo... o la donna... legato ad esso appassisce e
muore nell’arco di un giorno, al massimo due.
– E succederebbe lo stesso a te se Caymal dovesse morire? – insistette
Alessandro.
– No, perché io non sono un vero centauro e la nostra Fusione è il prodotto di
una magia esterna. È per questo che Camiron si sente così isolato. Sperduto, se
preferisci.
Mentre parlava Chirone porse al ragazzo un pezzo di pane dolce, e per un po’ i
due mangiarono in silenzio.
– Come è cominciato tutto? – domandò infine il ragazzo.
– Questa è una domanda di portata enorme, e chi sono io per tentare di
rispondere? – replicò il magus. – Un tempo il mondo era colmo di magia naturale,
che era racchiusa in ogni pietra e sorgente, in ogni albero e collina. Molte migliaia
di anni fa è esistita una razza di uomini che ha saputo controllare quella magia: i
suoi membri si sono aggirati sulla terra come dèi... e in effetti erano dèi, perché
erano diventati quasi immortali. Erano persone intelligenti, piene di
immaginazione e curiose. I loro figli sono stati i Titani, giganti quando decidevano
di esserlo, poeti se preferivano così. Sono seguiti tempi meravigliosi, ma è difficile
descriverli... soprattutto ad un bambino di quattro anni anche se intelligente e
precoce quanto lo sei tu. Immagino che alla tua corte tu abbia avuto modo di
vedere come uomini e donne sono sempre alla ricerca del nuovo... mantelli di
colori diversi, vestiti di forma e disegno differente. Ebbene, nel Vecchio Mondo, i
Titani hanno cercato di dare forme diverse al mantello della vita. Alcuni hanno
desiderato di essere uccelli e di avere ali per volare, altri hanno preferito nuotare
nelle profondità del mare, e ogni sorta di ibridi sono apparsi sulla terra.
Chirone scivolò nel silenzio, con lo sguardo rivolto al passato.
– E cosa è successo allora? – sussurrò Alessandro.
– Quello che succede sempre, ragazzo. C’è stata una grande guerra, un tempo
di stupefacente crudeltà e carneficina, e una grande quantità della magia del mondo
è stata usata in quel terribile confronto. Guardati intorno e osserva gli alberi: sem-
bra impossibile che possano essere abbattuti, ma se l’Uomo si mette in testa di fare
qualcosa ci riesce, non importa quanto essa possa essere distruttiva. Ciò che sto
dicendo è che tutte le cose hanno una fine... perfino la magia. Quella guerra si è
protratta per secoli, e alla sua conclusione nel mondo sono rimasti pochi luoghi di
autentica magia. Questa foresta è uno di essi, ma là fuori nel Nuovo Mondo degli
Uomini le pietre sono vuote, sorgenti e colline non hanno più magia, e così i figli
dei Titani... quelli che sono sopravvissuti... sono attirati verso queste aree di
Incantesimo, trattenuti qui da catene più forti della morte.
– Da come ne parli sembra una cosa molto triste – commentò Alessandro. – La
magia tornerà?
– Forse. Un giorno, come un fiore perfetto, potrebbe spargere i propri semi e
tornare a crescere, ma io ne dubito. E anche se lo facesse – proseguì Chirone, con
un sospiro, – l’Uomo la corromperebbe, perché è così che succede con tutte le co-
se. No, è meglio che scompaia per sempre.
– Ma se dovesse svanire i centauri morirebbero, giusto?
– Infatti, e così anche le ninfe, i satiri, le driadi e i ciclopi. Ma morirebbero
anche i Vores e le gorgoni, le idre e gli uccelli della morte... perché non tutte le
creature nate dall’Incantesimo sono benevole. Ora però basta parlare del mio
mondo. Raccontami qualcosa del tuo – concluse il magus, alzandosi in piedi.
Conversarono ancora per qualche tempo, ma Alessandro riuscì a dirgli poche
cose interessanti e ben presto si accorse di una crescente irritazione nel magus.
– Cosa c’è che non va? – gli chiese alla fine. – La mia mancanza di conoscenza
ti infastidisce?
– Pah! Non si tratta di te, ragazzo – replicò Chirone, alzandosi e avviandosi giù
per il fianco della montagna, ma Alessandro lo rincorse e gli prese la mano.
– Dimmelo! – implorò, e Chirone si fermò, inginocchiandosi davanti a lui con
espressione ora più dolce.
– Ho un sogno, Alessandro, e speravo che tu mi potessi aiutare a realizzarlo, ma
sei molto giovane e sai poche cose. Non è colpa tua, e a dire il vero non riesco a
immaginare nessun altro bambino di quattro anni che sappia tutte le cose che tu co-
nosci.
– Cosa stai cercando?
– Un mondo senza malvagità – rispose tristemente Chirone, – e altre cose
impossibili. Ora aspettami alla grotta, perché ho bisogno di passeggiare per un po’
da solo per riflettere e fare progetti.
Alessandro rimase a guardarlo mentre scendeva lungo il pendio della
montagna, e quando infine il magus fu scomparso fra gli alberi risalì fino
all’imboccatura della grotta e rimase seduto per qualche tempo a godere del calore
del sole.
Alla fine la fame lo costrinse a muoversi e lui attraversò la parete illusoria,
entrando nel palazzo e dirigendosi alle cucine dove mangiò pasticcini di miele e
frutta secca. Non aveva visto traccia di servitori in quel luogo, e tuttavia il cibo
veniva rinnovato ogni giorno. Incuriosito, il bambino uscì nei giardini del palazzo
alla ricerca di segni di vita, ma non c’erano tracce di sorta nel terreno morbido a
parte quelle che lui stesso vi aveva lasciato e alla fine tornò nel palazzo, vagando
senza meta da una stanza all’altra, annoiato e solo.
Per qualche tempo esaminò le pergamene e i libri contenuti in una delle molte
stanze adibite a biblioteca, ma anch’essi risultarono di scarso interesse in quanto
erano scritti con simboli che non era capace di leggere. Infine arrivò in una piccola
stanza rivolta verso occidente nella quale trovò un tavolo circolare coperto da un
panno di velluto. In un primo tempo credette che il tavolo fosse fatto di oro
massiccio, ma nell’esaminare le sei gambe elaborate si rese conto che erano
intagliate nel legno e coperte di lamina dorata. Salito su una sedia tirò di lato il vel-
luto e abbassò lo sguardo sulla superficie nera come il giaietto, tanto scura da non
riflettere la luce, e gli parve di guardare in un enorme pozzo. Protendendo una
mano con esitazione toccò il tavolo... e subito si ritrasse quando onde scure si
allargarono sulla sua superficie, andando a lambire i bordi rialzati.
Affascinato, allungò ancora la mano: quella sostanza era più fredda della neve,
e tuttavia dava una strana sensazione gradevole.
Poi la superficie si rischiarò, diventando azzurra, e una nuvola si spostò su di
essa.
– Ci dovrebbero essere anche gli uccelli! – esclamò Alessandro, scoppiando a
ridere.
Obbedendo alle sue direttive la scena si spostò e lui vide uno stormo di cigni
che volava in formazione nel cielo.
– Meraviglioso! – gridò. – Dov’è la terra?
L’immagine ruotò ancora una volta, dandogli un tale senso di vertigine da
indurlo ad afferrarsi ai bordi del tavolo per sorreggersi. Adesso però poteva vedere
la foresta come da una grande altezza, con gli alberi che aderivano alle montagne
come una coltre di fumo verde.
– Mostrami Chirone! – ordinò il bambino.
Una figura apparve nel suo campo visivo. Il magus era seduto accanto ad un
ruscello, intento a gettare distrattamente dei sassi nell’acqua, e sul volto aveva
un’espressione tanto dolente che Alessandro provò un improvviso senso di colpa
per aver curiosato nella sua solitudine.
– Mostrami Philippos – ordinò.
La superficie del tavolo si oscurò e lui vide un esercito accampato davanti ad
una città che bruciava, le cui fiamme lontane rischiaravano le file di tende scure.
L’immagine si arrestò su un enorme padiglione al centro del campo e mostrò il suo
interno, dove il re era seduto su un nero trono intagliato nell’ebano.
Intorno a lui, inginocchiati ai suoi piedi, c’erano i preti dalla tunica nera; uno di
essi stava parlando, ma il bambino non riuscì a sentire le sue parole. Forme pallide
si muovevano lungo i bordi dell’immagine e Alessandro avvertì un gelido senso di
terrore quando quelle creature da incubo strisciarono in avanti ad attorniare il re.
La loro pelle era bianca come quella di un pesce, gli occhi erano scuri e velati, la
testa calva aveva la sommità rialzata in affilate creste ossee. Ampie ali coperte di
scaglie scaturivano dalle spalle e le mani erano ricurve e dotate di artigli.
– Più vicino! – ordinò il bambino.
Il profilo di una faccia spettrale riempì l’immagine, e Alessandro poté vedere
che i denti all’interno della bocca priva di labbra erano aguzzi e affilati, marci e
tinti di verde vicino alle gengive purpuree. All’improvviso la creatura volse la
testa... e gli occhi scuri dalle pupille verticali fissarono il bambino. – Non mi può
vedere – sussurrò Alessandro.
In quel momento la superficie del tavolo esplose verso l’alto e una mano dotata
di artigli emerse da essa, affondando nella tunica del bambino e graffiando la pelle
sottostante. Il principe si trovò ad essere trascinato in avanti e urlò, artigliando con
le mani il braccio coperto di scaglie.
Il potere omicida scaturì dalle sue dita con una tale potenza che il braccio che lo
aveva catturato venne ridotto istantaneamente in polvere.
Gettandosi all’indietro Alessandro cadde a terra con la mano della creatura
ancora stretta intorno alla tunica. Strappandola via la gettò a terra e si affrettò a
prendere la copertura di velluto, stendendola sul tavolo.
Mentre lo faceva udì un suono simile ad un gemito sommesso, che svanì a poco
a poco in un terribile silenzio. – So dove sei, bambino – disse poi la voce di
Philippos, – e non hai via di scampo.
Alessandro fuggì a precipizio dalla stanza ma nel correre inciampò nel bordo
rialzato di una lastra di pietra e cadde a terra, graffiandosi le ginocchia: le lacrime
cominciarono a scorrere sul suo volto quando quel nuovo dolore andò ad
accrescere le sue paure.
Stanno venendo a prendermi, urlò la sua mente, mentre si precipitava su per le
lunghe scale con il cuore che gli batteva selvaggiamente, fino ad emergere dalla
grotta e sotto la luce del sole.
Scrutando il cielo per timore di veder apparire le creature coperte di scaglie si
lasciò cadere seduto su una roccia, sotto il sole, tremando in maniera
incontrollabile.
Un centauro armato di arco e frecce emerse al trotto dagli alberi, si accorse
della sua presenza e risalì al galoppo il fianco della montagna, andandosi a fermare
davanti a lui. Era l’anziano dalla barba bianca e dai fianchi dorati.
– Perché stai piangendo? – chiese, protendendosi in avanti a toccare con un
pollice la guancia di Alessandro, e asciugando una lacrima.
– I miei nemici stanno per venire a prendermi – spiegò Alessandro, lottando per
arrestare il panico crescente.
– Dov’è il fuoricasta che ti ha portato qui?
– Se n’è andato. Ora sto con Chirone.
Il centauro annuì, con un’espressione pensosa negli occhi scuri.
– Questi nemici di cui parli... sono uomini o sono creature dell’Incantesimo?
– Hanno ali coperte di scaglie. Non sono uomini.
– Vores – sibilò il centauro. – Il loro tocco significa malattia, il loro respiro è
pestilenza. Perché il Re Demone ti sta cercando?
– Mi vuole uccidere – spiegò il bambino. – Vuole vivere in eterno.
Adesso il tremito si era fatto più violento, il sudore gli imperlava il viso e lui si
sentiva in preda alle vertigini e ad un senso di nausea.
– Allora sei Iskander? – domandò ancora il centauro, la cui voce pareva ora
giungere da una grande distanza, come se stesse sussurrando attraverso le volte del
Tempo.
– È così... che loro... mi hanno chiamato – rispose Alessandro.
Poi il mondo parve vorticare e lui scivolò dalla roccia sull’erba morbida: il suo
contatto era fresco contro la faccia, ma il petto gli bruciava e una nebbia scura gli
pervase la mente...
Lasciati cadere l’arco e le frecce, Kytin piegò le zampe anteriori e si chinò per
prendere il bambino fra le braccia. Il piccolo corpo ardeva per la febbre, e nel tirare
di lato la tunica lacerata il centauro imprecò alla vista del segno degli artigli sul
torso snello; il pus cominciava già a filtrare dalle ferite, intorno alle quali la pelle
appariva gonfia e malsana. Lasciando lì le sue armi, Kytin si lanciò al galoppo giù
per il fianco della montagna, seguendo uno stretto sentiero fra gli alberi e
attraversando un ruscello poco profondo.
Altri due centauri vennero ad affiancarglisi.
– Perché hai con te il bambino? – domandò uno di essi.
– Lui è Iskander – replicò Kytin, – e sta morendo! Senza attendere una risposta
riprese a galoppare con i polmoni che bruciavano per lo sforzo di quell’andatura
sostenuta e il respiro che si faceva affannoso e irregolare. Ignorando la stanchezza,
il vecchio centauro continuò la sua corsa addentrandosi sempre più in profondità
nella foresta, ed era quasi il crepuscolo quando arrivò ad un villaggio sulle rive di
un ampio fiume. Le case, perfettamente rotonde e prive di finestre, erano fatte di
legno e di paglia e avevano grandi porte prive di battente; al di là delle costruzioni
si allargavano ampi pascoli e colline prive di alberi su cui si potevano già vedere
alcuni cavalli intenti a nutrirsi mentre gli uomini a cui erano legati sedevano
intorno ai fuochi. Sentendo il Bisogno che cominciava a scendere su di lui, Kytin si
costrinse a resistere e a mantenere la Forma per il bene di Iskander.
Arrestandosi davanti ad una casa rotonda posta un po’ in disparte dalle altre il
centauro chiamò un nome, e quando non ottenne risposta rimase in attesa: sapeva
che lei era dentro, ma non voleva... non poteva disturbarla in quel momento, quindi
aspettò in preda ad un angoscioso timore, sentendo la vita del bambino che
scivolava via come acqua assorbita dalla sabbia.
Alla fine un vecchio pony oltrepassò l’ampia soglia e scrollò la testa,
avviandosi poi al trotto verso le colline.
– Gaea – chiamò allora il centauro. – Vieni fuori, ho bisogno di te.
Una vecchia che si appoggiava ad un bastone uscì zoppicando sulla soglia.
– Sono stanca – disse.
– Questo è Iskander – replicò Kytin, protendendo le braccia. – È stato toccato
da un Vore.
La vecchia abbassò la testa fino ad appoggiarla contro la sommità del proprio
bastone.
– Perché adesso che sono ormai tanto debole? – sussurrò. Per un momento
rimase in silenzio, poi trasse un profondo respiro e si raddrizzò sulla persona,
ordinando: – Portalo dentro, Kytin. Farò tutto il possibile.
Il centauro la oltrepassò e adagiò il bambino svenuto su uno stretto pagliericcio.
Adesso Alessandro aveva le palpebre e le labbra bluastre e non sembrava quasi
respirare.
– Devi salvarlo! – esclamò Kytin. – Devi!
– Taci, stolto – ribatté la donna, – e ritirati nell’intimità della tua casa, perché ti
stanno tremando i fianchi e il Bisogno sta insorgendo. Ora va’, prima di coprirti
pubblicamente di vergogna.
Kytin si allontanò, lasciando la vecchia seduta sul letto accanto al bambino;
prendendogli la mano, Gaea avvertì la febbre che lo devastava.
– Saresti dovuto venire fra noi vent’anni fa – sussurrò, – quando i miei poteri
erano al massimo della loro forza. Adesso sono vecchia e quasi inutile, il mio pony
è prossimo alla morte e non arriverà alla fine dell’inverno. Cosa vuoi che faccia,
Iskander... se davvero sei Iskander?
Il bambino si agitò e si lamentò in preda al delirio.
– Par... menion! – chiamò.
– Taci, piccolo – mormorò Gaea, con voce tranquillizzante, poi aprì la tunica di
Alessandro e posò la mano ossuta e rugosa sulle lacerazioni infette; nell’avvertire il
calore rovente che ne emanava serrò le labbra, borbottando: – È una vergogna che
l’Incantesimo abbia generato simili creature...
Intanto la sua mano stava cominciando a risplendere, con le ossa che
spiccavano come ombre scure sotto la pelle, quasi che una lanterna fosse nascosta
al di sotto del palmo. Fili di fumo si sollevarono contorcendosi dal petto del
bambino e fluirono attraverso le dita allargate della vecchia, e al tempo stesso le
ferite si rimarginarono, con il pus che colava lungo il petto. Il fumo si raccolse in
una sfera uniforme al di sopra di Alessandro, creando una massa compatta e
vorticante.
– Svanisci – sibilò la vecchia, e la sfera esplose liberando un terribile fetore
nella stanza. Alessandro gemette, ma già il colore stava riaffiorando sulle sue
guance pallide e un sospiro più sereno gli sfuggì dalle labbra.
Gaea si alzò e barcollò, protendendosi a prendere il suo bastone. In quel
momento un uomo anziano dalla schiena curva entrò nella stanza.
– È vivo? – chiese con voce sottile, sussurrando le parole fra i denti marci.
– Vive, Kyaris. Lo hai portato qui in tempo. Come puoi essere certo che questo
sia Iskander?
Lentamente, il vecchio raggiunse una sedia vicino ad un braciere acceso e si
sedette, protendendo le mani verso la fiamma.
– Me lo ha detto lui. E poi il Tiranno lo sta cercando, Gaea, per ucciderlo e
diventare immortale. Chi altri potrebbe essere?
– Potrebbe essere un bambino umano... e niente di più. Il Tiranno non è
infallibile e si è già sbagliato altre volte in passato.
– Non questa volta, lo sento.
– Nelle ossa, suppongo – scattò la vecchia. – Giuro che il tuo cavallo ha più
buon senso di te. I Vores lo hanno ferito, il che significa che sanno dove si trova.
Quanto passerà prima che le loro ali sferzino l’aria sopra questa foresta? Eh?
Quanto tempo?
– Se lui è Iskander dobbiamo proteggerlo. È la nostra speranza, Gaea.
– Speranze! Sogni! – sbuffò la vecchia. – Sono come fumo sospinto dalla
brezza. Un tempo anch’io sognavo la venuta di Iskander ma ora non più. Adesso
aspetto che il mio pony muoia, per lasciare a mia volta questo mondo di sangue e
di dolore. Guardalo! Quanti anni ha? Quattro? Cinque? Credi che ci condurrà
lontano dal pericolo? La sua bocca cerca ancora il seno della madre!
Kyaris scosse il capo in un gesto che fece agitare come nebbia i bianchi capelli
lanuginosi intorno al suo volto.
– Un tempo avevi fede, ma adesso sei vecchia e la tua fede ti ha abbandonata.
Anch’io sono vecchio, ma ho ancora speranza: Iskander ci salverà e restaurerà
l’Incantesimo. Lo farà!
– Aggrappati pure a queste sciocchezze, vecchio... ma domani tieni pronti
l’arco e le frecce, perché i Vores verranno qui, e dopo di loro i Makedones. La tua
stupidità ci farà distruggere tutti.
– Meglio morire che vivere senza speranza, Gaea – ritorse Kyaris, alzandosi
faticosamente in piedi. – Io penso ai miei figli, e ai figli dei miei figli, e voglio che
vedano il ritorno dell’Incantesimo. Combatterò contro i Vores e non lascerò che
prendano il bambino.
– Trova uno specchio, vecchio stolto – lo derise Gaea. – Un tempo il nome di
Kyaris-Kytin echeggiava come un tuono nel mondo, ma adesso non sei quasi più in
grado di stare in piedi senza sostegno e anche con la. Fusione non riesci a correre a
lungo.
– Mi dispiace per te – dichiarò Kyaris, poi si accostò al letto e posò una mano
sulla fronte del bambino addormentato. – Dormi bene, Iskander – sussurrò.
– Vendilo a Philippos – consigliò Gaea. – Quello sarebbe un vero atto di
saggezza.
– Non c’è saggezza nella disperazione, donna – rispose lui.
Seduto sulla spiaggia, Attalus poteva avvertire il calore del sole sul volto, e
tuttavia esso era meno intenso di quello della sua ira. Essere costretto a viaggiare
con quel disgustoso Spartano era già abbastanza sgradevole, ma lui si era aspettato
che la loro meta fosse la Tracia o la Calcide e non questo sgomentante luogo di
deformità e di follia.
Ricordando quelle creature volanti rabbrividì: come poteva un guerriero sperare
di fare fronte a simili bestie?
Slacciatosi la corazza si liberò anche dei vestiti ed entrò nel mare, godendo
dell’improvvisa freschezza dell’acqua a contatto con il corpo. Gettandosi in avanti
s’immerse completamente e cominciò a nuotare sott’acqua con scioltezza,
riemergendo ad una certa distanza dalla riva. Piccoli pesci lucenti gli scivolavano
accanto in banchi scintillanti e lui calò con forza la mano nell’acqua, scoppiando a
ridere quando i pesci si sparpagliarono in tutte le direzioni.
Se non altro questa era una realtà che conosceva, e per un po’ si crogiolò in
quel senso di normalità.
Alla fine cominciò a stancarsi del mare e si diresse verso la riva, alzandosi in
piedi sulla sabbia morbida e agitando la testa per liberare dall’acqua i capelli
lunghi.
Alessandro era in attesa accanto alla sua armatura.
– Sei un abile nuotatore – osservò il ragazzo.
Attalus soffocò un’imprecazione. Non gli piaceva quel bambino che si diceva
fosse un demone con ben poco di umano, che poteva uccidere con il solo tocco.
Con un cenno di saluto, si sedette su una roccia per lasciare che il sole gli
asciugasse la pelle.
– Hai paura? – domandò il principe, con un’innocenza disarmante, piegando la
testa da un lato.
– Non temo nulla, mio principe – rispose Attalus, – e chiunque voglia sostenere
il contrario dovrà rendermene conto con la spada in pugno.
– Sei stato molto coraggioso a venire a cercarmi così lontano – annuì
solennemente il bambino. – So che mio padre ti ricompenserà.
– Ho tre tenute e più ricchezze di quante ne possa spendere in tutta una vita –
rise Attalus. – Non ho bisogno di ricompense, Principe Alessandro, ma sarei
disposto a pagare un riscatto degno di un re pur di rivedere la Macedonia.
– La rivedremo. Parmenion troverà il modo di riportarci là. Attalus trattenne a
stento una risposta irosa.
– È bene avere fede nei propri eroi – disse infine.
– Parmenion non ti va a genio, vero?
– Nessun uomo mi va a genio... tranne, Filippo. E tu vedi troppe cose. Sta
attento, Alessandro, perché questo talento può rivelarsi una lama a doppio taglio.
– Non metterti mai contro di lui, Attalus – ammonì il principe, – perché ti
ucciderebbe.
Lo spadaccino non replicò, ma sulle labbra gli affiorò un sorriso di genuino
divertimento. Alessandro rimase in silenzio per un momento, poi sollevò lo
sguardo fino a incontrare quello del Macedone.
– So che si dice che tu sei il miglior spadaccino della nostra terra e anche il più
fidato... assassino... al servizio di mio padre – disse, – ma sappi che se mai
Parmenion dovesse morire in circostanze misteriose sarà da te che io verrò. E la tua
morte seguirà da vicino la sua.
– Non sono venuto in questo mondo per sentire le tue minacce, ragazzo –
sospirò Attalus. – Sono venuto per salvarti. Sei libero di trovarmi antipatico... e
perché non dovresti, so di non essere un uomo gradevole... ma se mai dovessi avere
un motivo per combattere contro Parmenion non saranno le tue minacce a
dissuadermi. Io sono padrone di me stesso e seguo la mia strada. Ricordalo.
– Ricorderemo entrambi – ribatté Alessandro.
– In questo c’è del vero – convenne lo spadaccino.
Parmenion scoprì di essere stato contagiato dall’umore cupo del mago e i suoi
pensieri si fecero tristi mentre lui passeggiava lungo la linea di colline che
dominava la spiaggia. Più in basso poteva vedere Attalus e Alessandro seduti sulla
sabbia bianca e intenti a parlare, e si fermò per un po’ a osservarli.
Mio figlio, pensò improvvisamente, e si sentì assalire da una tristezza violenta
quanto un colpo fisico. Anche Philotas, Nicci ed Ettore erano suoi figli, e tuttavia i
suoi sentimenti nei loro confronti erano ambivalenti, mentre quel bambino dorato...
era tutto per lui. Ancora una volta si ricordò che non c’era nulla da guadagnare dal
rammarico, ma per quanto vere quelle parole non gli offrirono un vero conforto,
perché quell’unico rimpianto continuava a vivere nella sua personale Sala della
Vergogna. Nella notte delle nozze su Samotracia, Parmenion aveva tradito Filippo
mentre questi era in attesa della sua sposa. Non c’era altra parola che tradimento
per descrivere quanto era accaduto: mentre il re giaceva stordito dall’ubriachezza,
Parmenion aveva indossato l’elmo cerimoniale e il mantello di Kadmillos ed era
entrato nella stanza rischiarata dalle torce dove Olympias era in attesa; era stato
Parmenion a salire sul letto e a bloccare le braccia della donna sotto di sé, era stato
lui a sentire la morbidezza delle sue cosce che gli scivolava lungo i fianchi...
– Basta! – esclamò ad alta voce, mentre quel ricordo ridestava in lui il
desiderio.
Si trattava di una forma di duplice tradimento che ancora adesso non riusciva a
comprendere. Il suo orgoglio e il suo intenso senso dell’onore lo avevano indotto a
ritenere che non avrebbe mai tradito un amico, e tuttavia lo aveva fatto... ma la
cosa peggiore, che continuava a tormentarlo, era che anche adesso che la sua mente
era nauseata per la vergogna dell’azione compiuta il suo corpo continuava a reagire
al ricordo con desiderio e piacere.
Era per questo che lui tollerava l’ira di Filippo e le sue occasionali
provocazioni. Il senso di colpa lo legava al re macedone con catene più forti
dell’amore, come se servendo Filippo fedelmente gli fosse possibile pareggiare in
qualche modo i conti e cancellare la vergogna.
– Non ci riuscirai mai – sussurrò.
Olympias era stata così simile a Derae, con il suo corpo snello e i capelli fra il
rosso e l’oro che brillavano alla luce delle torce. Lei aveva cercato di togliergli
l’elmo, lamentandosi che il freddo metallo le faceva male alla faccia, ma
Parmenion le aveva trattenuto le mani premendole contro le morbide coltri e aveva
ignorato le sue preghiere. Poiché Olympias aveva trascorso la prima parte della
notte nel Bosco dei Misteri, inalando il Fumo Sacro, le sue pupille erano
enormemente dilatate e lei aveva perso conoscenza mentre ancora la stava
possedendo... ma questo non lo aveva fermato.
Il senso di colpa era insorto più tardi, quando era tornato di soppiatto nelle
stanze di Filippo, dove il re giaceva nudo su un divano, immerso nel sonno
dell’ubriachezza. Togliendosi l’elmo, Parmenion aveva abbassato lo sguardo
sull’uomo che aveva giurato di servire e aveva avvertito l’acuto dolore del rincre-
scimento. Dopo aver vestito il monarca addormentato con il mantello e l’elmo lo
aveva portato nella camera da letto e lo aveva adagiato accanto ad Olympias.
Tornato nelle sua stanza, aveva cercato di giustificare le proprie azioni. La
nobile Aida, nel cui palazzo erano ospiti, aveva avvertito che se Filippo non avesse
consumato il matrimonio entro quella che lei aveva definito l’Ora Sacra, l’unione
sarebbe stata annullata. Filippo aveva riso di quella condizione perché di fronte ad
una bella donna non aveva mai avuto problemi, e non si era preoccupato della
minaccia. Mentre la lunga attesa notturna si protraeva, però, lui aveva continuato a
svuotare un boccale dopo l’altro di vino forte nonostante gli avvertimenti di
Parmenion. La capacità di Filippo di resistere agli effetti dell’alcool era quasi
leggendaria, e ancora adesso Parmenion era stupito per la facilità con cui in quella
particolare notte il re era crollato in conseguenza del vino bevuto.
In un primo tempo lui aveva cercato disperatamente di svegliare Filippo, ma
poi aveva sbirciato nella stanza in cui Olympias giaceva nuda nell’ampio letto. In
seguito aveva cercato di convincersi che il suo primo pensiero era stato per Filippo
e per la ferita che il suo orgoglio avrebbe riportato il mattino successivo, quando
tutta Samotracia fosse venuta a sapere del suo fallimento sul letto nuziale, ma
aveva mentito a se stesso. Quella giustificazione gli era affiorata nella mente
soltanto più tardi, mentre giaceva sveglio sul suo letto ad osservare il sorgere del
sole.
Adesso viveva in preda ad un tormento costante, a doppia lama come qualsiasi
daga, sia perché temeva che la verità potesse essere scoperta sia perché doveva
sopportare la vista del suo amato figlio che veniva allevato da un altro uomo.
– Spero che tu stia pensando ad un piano per riportarci a casa – commentò
Attalus, sopraggiungendo con passo silenzioso alle sue spalle.
– No, stavo pensando ad altro – ammise Parmenion. – Hai gradito la nuotata?
– Per un po’ mi ha rinfrescato. Dov’è quel mago?
– Tornerà presto. È andato a vedere se i centauri hanno bisogno di aiuto.
Alessandro apparve in quel momento nel loro campo visivo, impegnato a salire
faticosamente i gradini intagliati nell’altura, che erano quasi troppo alti per lui. Nel
vedere Parmenion il bambino agitò una mano in un gesto di saluto e si andò a
sedere accanto a lui. Istintivamente, lo Spartano lo circondò con un braccio, e
subito sentì su di sé lo sguardo acuto di Attalus, anche se lo spadaccino non fece
commenti.
– Dobbiamo arrivare fino al Golfo di Corinto – si affrettò a dire Parmenion, – e
poi a Sparta. Possiamo soltanto sperare che Aristotele escogiti un modo per
raggiungerci là.
– Sperare? – lo derise Attalus. – Preferirei qualcosa di più sostanzioso della
speranza. Ma perché a Sparta? Perché non tornare al Cerchio di Pietre e attendere?
È là che ci ha fatti apparire e di certo si aspetta di recuperarci in quel punto.
– I nemici sono ovunque – gli fece notare Parmenion, scuotendo il capo, – e si
sono serviti della magia per trovare Alessandro. Da soli non potremmo sperare di
sopravvivere contro di loro mentre Sparta è la sola che stia ancora resistendo e là
saremo al sicuro. Aristotele è un magus e saprà ritrovarci.
– Non sono convinto – obiettò Attalus. – Perché non aspettare qui?
– Vorrei che potessimo farlo, ma Chirone ritiene che questo non sia un posto
sicuro. Il braccio del re è lungo, i suoi poteri sono grandi. Stai cominciando a
rimpiangere la tua decisione di accompagnarmi?
– Sto cominciando a rimpiangere il momento in cui abbiamo lasciato il Cerchio
– ridacchiò lo spadaccino. – Però resterò fino in fondo, Spartano.
– Non ne dubitavo.
– Guardate! Una nave! – esclamò Alessandro, indicando il mare dove
un’aggraziata trireme era apparsa nel loro campo visivo, con la vela nera raccolta e
le tre file di remi che si alzavano e si abbassavano ritmicamente nelle scintillanti
acque azzurre. La prua si girò lentamente fino ad essere rivolta verso la riva, e a
mano a mano che la nave continuò ad avvicinarsi fu possibile vedere con chiarezza
un centinaio circa di uomini armati raccolti sul grande ponte.
– Pensi che siano amici? – chiese Attalus, una volta che la nave ebbe toccato
terra e che i guerrieri cominciarono a sbarcare.
– Sono Makedones – rispose Alessandro, – e sono venuti per me.
– Allora alcuni di loro moriranno – ribatté Attalus, in tono sommesso.
Verso l’alba, mentre sedeva immerso nei suoi pensieri, Parmenion vide la
figura mostruosa di Brontes emergere dagli alberi ai piedi del pendio montano. La
creatura avanzò di qualche passo, poi crollò in ginocchio e intorno ad essa l’aria
scintillò di un pallido bagliore tremolante: sotto lo sguardo stupefatto di
Parmenion, la grande testa taurina scomparve quindi per lasciare il posto ai
lineamenti di un giovane dalla pelle chiara e con i capelli del colore del bronzo
lucido.
Sollevando il capo, il giovane si accorse di Parmenion e s’immobilizzò,
rimanendo in quella posizione per qualche istante prima di sedersi all’indietro sui
talloni e di distogliere il volto da quello dello Spartano.
Parmenion uscì sotto la luce della luna e scese lentamente il pendio per andarsi
a sedere accanto a lui.
– È ritenuto scortese assistere al Cambiamento – osservò Brontes, – ma dal
momento che non appartieni a questo mondo non ci si può aspettare che tu
comprenda le nostre usanze.
– Perché hai bisogno di assumere un’altra forma?
– Perché voi Umani mangiate e respirate? Non conosco la risposta, so soltanto
che è così e che è necessario, perché senza il Cambiamento io morirei. E a mano a
mano che l’Incantesimo diminuisce giorno dopo giorno, il Cambiamento diventa
più difficile e doloroso. Questo è ciò che Iskander correggerà: lui riporterà in
essere il Cambiamento.
– A meno che Philippos lo catturi – sottolineò Parmenion.
– Esatto. Come ti proponi di sfuggirgli?
– Attraversando la Foresta di Gorgone.
– Allora siamo tutti morti.
– Adesso sei tu che ti devi fidare di me, Brontes. Io non capisco i vostri misteri
o il potere dell’Incantesimo, ma conosco le regole della guerra e la natura
dell’ostilità.
– Gorgone ti ucciderà, Parmenion. Lui odia gli Umani ancora più di me.
– È su questo che faccio affidamento – ribatté lo strategos. – Noi abbiamo un
detto, Brontes: «Il nemico del mio nemico deve essere mio amico.»
– Gorgone non ha amici. Non ne ha adesso... e non ne ha mai avuti.
– Lo conosci? – domandò Parmenion, in tono sommesso.
– Non ne voglio parlare.
Derae era sveglia, con lo spirito che fluttuava nel cielo notturno alla ricerca di
tracce di osservatori nascosti... però non ce n’erano, e questo la preoccupava.
Quell’assenza di spie significava che avevano paura dei suoi poteri oppure che
avevano in qualche modo trovato il sistema di neutralizzarli e che in quel preciso
momento stavano tenendo d’occhio le grotte? Quello non era un pensiero molto
confortante.
Hai bisogno di dormire, si disse, sdraiandosi e avvolgendosi nel mantello color
ruggine che Aristotele le aveva fornito. Quell’indumento era di spessa lana, caldo
di notte e fresco nel calore del giorno, ma anche dopo che si fu raggomitolata in
esso il sonno rifiutò di arrivare.
Non aveva saputo cosa aspettarsi in quello strano, nuovo mondo, e si era
preparata ad eventuali sorprese, ma Chirone l’aveva lasciata stupefatta in quanto
era quasi il gemello di Aristotele. Lei si era protesa con delicatezza a sfiorare i suoi
ricordi e in quello stesso momento il magus si era reso conto del suo esame, senza
però chiudere i propri pensieri e accogliendola invece con un sorriso mentale.
Non era Aristotele, in lui non c’era nessun ricordo della Macedonia o della
Grecia che lei conosceva, e tuttavia le sale della sua memoria erano vaste e piene di
informazioni su nazioni scomparse, mondi mutati. Quell’uomo aveva vissuto in
Akkady e in Atlantide sotto molte forme... come guerriero e mistico, come semidio
e demone, reso immortale dalla magia delle stesse pietre magiche in possesso di
Aristotele.
– Sei soddisfatta? – le aveva infine chiesto Chirone, riportandola alla realtà.
– Sì – aveva replicato Derae.
Questo era successo in precedenza durante quella giornata, quando Brontes e i
suoi orribili fratelli avevano incontrato i centauri e organizzato l’imboscata che
aveva salvato i due Macedoni. Essendo andato in esplorazione, Brontes aveva visto
l’inseguimento e aveva valutato con esattezza dove si sarebbe concluso. Anche
così i due fuggiaschi si erano salvati a stento e la tensione aveva lasciato Derae
tremante.
– Da dove vieni, mia cara? – le aveva chiesto Chirone, mentre lasciavano il
luogo della battaglia per raggiungere quelle grotte.
– Sono una sacerdotessa... una Guaritrice – aveva risposto lei. – Un amico mi
ha chiesto di venire qui per aiutare Parmenion.
– Questo amico... mi somiglia?
– Effettivamente sì.
– Strano. Mi chiedo quanta parte della nostra storia sia comune. Mi piacerebbe
incontrarlo... pensi che verrà qui anche lui?
– Non lo credo. In questo mondo c’è qualcosa che lo spaventa enormemente.
– Qui ci sono cose che spaventano grandemente anche me – aveva ridacchiato
Chirone. – Conosci Parmenion da molto?
– Ci siamo già incontrati... ma per breve tempo – aveva risposto Derae, in tutta
onestà.
– Questo mi sorprende, perché ho notato che il tuo sguardo non si allontana mai
molto da lui. È soltanto perché si tratta di un attraente guerriero?
– Ci sono alcuni argomenti che faremmo meglio ad evitare, signore – aveva
replicato lei.
– Come desideri – aveva assentito Chirone, e l’aveva Tascata sola, per andare
ad affiancarsi a Brontes, alla retroguardia.
Con il trascorrere della notte Derae dormì di un sonno irrequieto, svegliandosi
al sorgere dell’alba. Di lì a poco il piccolo Alessandro fece capolino nella grotta e
le sorrise.
– Buon giorno – la salutò, entrando nella grotta e accoccolandosi accanto a lei.
– Buongiorno a te, giovane principe. Ti sei svegliato presto.
– Sì. Non ho bisogno di dormire molto. Come ti chiami?
– Mi puoi chiamare Thena.
– Però non è questo il tuo nome, vero?
– Non ho detto che lo è, ho detto soltanto che mi puoi chiamare così.
– Allora tu mi devi chiamare Iskander.
– Lo farò... Iskander. Hai paura?
– No – replicò il bambino, con un ampio sorriso. – Parmenion è qui e non c’è
guerriero più grande di lui in tutta la Grecia... e neppure miglior generale.
– Hai molta fiducia in lui, Iskander. Devi ammirarlo molto.
– Dopo mio padre è l’uomo a cui voglio più bene. Da dove vieni?
– Sono una Guaritrice e vivo in un Tempio oltre il mare, Vicino alle rovine di
Troia.
– Sei sempre stata una Guaritrice?
– No. Un tempo ero soltanto una ragazza che sognava di sposare l’uomo che
amava, ma non era destino che così fosse.
– Perché?
Quella domanda venne posta con tanta semplicità che Derae scoppiò a ridere e
si protese per arruffare i capelli del bambino. Quando però la sua mano stava per
toccarlo avvertì un dolore bruciante al palmo e si ritrasse di scatto.
– Mi dispiace – si scusò Alessandro, con espressione avvilita. – Non era più
successo da molto tempo e credevo di essermene liberato.
Facendo forza su se stessa Derae si protese di nuovo e spinse indietro con le
dita la frangia dorata che ricadeva sugli occhi verdi del bambino; il dolore tornò ad
aggredirla ma questa volta non lo diede a vedere.
– Si è trattato soltanto di un crampo – garantì, ma Alessandro scosse il capo.
– Sei molto gentile, però ti prego di non toccarmi più perché non desidero
vederti soffrire.
Un’ombra scura si parò davanti all’ingresso della caverna, e Parmenion venne a
raggiungerli.
– Eccoti qui – commentò, inginocchiandosi accanto al giovane principe. –
Vieni, dobbiamo prepararci a metterci in cammino.
– Lei si chiama Thena – affermò il bambino, correndo fuori della grotta, – ed è
molto gentile.
– Hai scelto la strada da seguire, strategos? – domandò Derae, incontrando lo
sguardo di Parmenion.
– Sì – annuì lui, sedendole accanto. – Sei certa che non ci siamo già incontrati,
signora?
– Cosa ti induce a supporlo? – ribatté lei.
– Non lo so con esattezza. Il tuo volto non mi è familiare, ma ho la sensazione
di conoscerti.
– Ci siamo incontrati sull’isola di Samotracia – ammise Derae.
– Tu! – sussurrò Parmenion. – Allora eri incappucciata e velata, ed ho pensato
che fossi in lutto.
– Lo ero, e lo sono – ribatté Derae, poi si alzò agilmente in piedi e aggiunse: –
Ora però, come tu stesso hai detto, dobbiamo prepararci a riprendere il cammino.
– Sì, naturalmente. Sai dove ho intenzione di andare? – chiese Parmenion,
alzandosi a sua volta.
– Nella Foresta di Gorgone.
A quelle parole lui sorrise, e questo diede al suo viso un’espressione così
giovanile che Derae fu costretta a distogliere lo sguardo.
– Non c’è altra strada – sottolineò Parmenion.
– Lo so. Qual è il tuo piano?
– Raggiungeremo il limitare della foresta... Brontes dice che ci vorranno tre
giorni... poi lascerò gli altri là e andrò a cercare Gorgone.
– Perché devi correre un tale rischio? Cosa speri di ottenere?
– Non possiamo andare da nessun’altra parte – spiegò Parmenion, mentre il suo
sorriso svaniva. – Allo scoperto verremmo subito abbattuti e non abbiamo dove
nasconderci o dove fuggire. Quella foresta ci offre un rifugio e l’opportunità di ar-
rivare al golfo.
– Brontes sostiene che là si annida una malvagità ancora peggiore dei
Makedones.
– Infatti, ed io gli credo.
– Allora come puoi sperare di trattare con quegli esseri? Cosa puoi offrire loro?
– Il sogno di Iskander: aprire la Porta del Gigante e riportare la magia nel
mondo. Buone o malvagie, quelle sono pur sempre creature dell’Incantesimo.
– Verrò con te.
– È inutile che tu corra dei rischi. Sono capace di contrattare con il Signore
della Foresta.
– In ogni caso io ti accompagnerò. Ho molti talenti che potrebbero risultare
utili.
– Non ne dubito.
Per due giorni il gruppo continuò la marcia diretto ad ovest, salendo sempre più
in alto fra le montagne alla ricerca del lungo passo che scendeva tortuoso fino alla
Foresta di Gorgone che ora si allargava sotto di loro come un oceano di alberi. Il
mattino del terzo giorno, mentre si riparavano da una tempesta improvvisa sotto
una sporgenza di roccia udirono sul sentiero un rumore di zoccoli. Estratta la
spada, Attalus e Parmenion uscirono sotto la tempesta, seguiti da Brontes e da
Chirone.
Uno stallone arrivò al trotto lungo il sentiero e nel vedere il magus sollevò la
grande testa e lanciò un nitrito.
– Caymal! – gridò Chirone, venendo avanti di corsa per accarezzare il collo
dello stallone. – Mi fa piacere rivederti, ragazzo.
Afferrando la criniera dell’animale, il magus balzò quindi sulla sua groppa e
diresse il cavallo verso Parmenion, sotto la pioggia che si andava diradando.
– Andrò avanti in esplorazione e vi raggiungerò prima di notte – disse.
– Sta attento, magus, perché avremo bisogno della tua magia nel caso che i
Vores dovessero tornare – lo ammonì Parmenion.
La tempesta era intanto cessata del tutto e le nubi cominciavano a sfrangiarsi
nel cielo, permettendo alla luce del sole di rischiarare le montagne e al gruppo di
rimettersi in marcia, preceduto dai centauri. Risalendo di corsa il pendio,
Parmenion si riparò gli occhi con una mano e scrutò la pista alle loro spalle.
– Vedi qualcosa? – domandò Attalus, che lo aveva raggiunto.
– Non ne sono certo. Guarda laggiù, oltre i pini. C’è una fenditura nella roccia e
al di là di essa mi è parso di intravedere un uomo che si muoveva.
– Io non scorgo niente. Riprendiamo la marcia.
– Aspetta! – esclamò Parmenion, afferrandolo per un braccio e tirandolo a terra.
– Guarda adesso!
La luce del sole si rifletteva sugli elmi e sulle lance di una fila di uomini che
stava avanzando lungo il pendio parecchi chilometri più ad est, mentre sopra di
essa alcuni Vores volavano in cerchio.
– Quanti sono? – sussurrò Attalus.
– Oltre cinquanta. Per fortuna sono appiedati e questo significa che non
potranno raggiungerci prima di notte, ma anche così dobbiamo affrettarci.
– Perché? Avranno notevoli difficoltà a seguire le nostre tracce nella foresta.
– Prima di entrarvi dobbiamo chiedere il permesso – ribatté Parmenion.
– A chi?
– Ai mostri che vi abitano – spiegò lo Spartano, ritraendosi dal bordo del
costone e spiccando la corsa giù per il passo.
– Mostri? Tu non avevi parlato di mostri – gridò Attalus, correndogli dietro.
– Mi piace sorprenderti, Attalus – sorrise Parmenion, rallentando il passo, poi
però il suo sorriso svanì e lui afferrò il Macedone per una spalla. – Può darsi che io
non torni indietro, e in quel caso tu dovrai fare tutto il possibile per portare
Alessandro a Sparta sano e salvo.
– Verrò con te. Mi sto abituando alla tua compagnia.
– No. Se morissimo entrambi che speranze resterebbero per il bambino? Dovrai
rimanere con lui.
Era ormai il crepuscolo quando il gruppo arrivò ai piedi delle montagne. I
centauri si allontanarono in cerca di un angolo riparato per trasformarsi mentre
Brontes, Steropes e Arges preparavano un fuoco al centro di un gruppo di massi
bianchi. Attalus e Alessandro si sistemarono accanto alle fiamme per riposare ma
la donna chiamata Thena si allontanò da esse per andare a fermarsi accanto allo
Spartano, che stava scrutando la foresta.
– Quando vi entrerai? – gli chiese.
– Preferirei aspettare l’alba, ma i Makedones ci sono alle calcagna e potrei non
avere tanto tempo a disposizione. Nel nome di Ecate, dov’è finito Chirone?
– Sarebbe meglio entrare nella foresta prima che scenda la notte – consigliò
Thena.
– Allora diamoci da fare – annuì Parmenion, poi tornò a grandi passi verso i
massi per esporre il proprio piano agli altri.
– Sei pazzo – tempestò Brontes. – Credevo che ti saresti reso conto della tua
follia. Non capisci? Gorgone ti ucciderà... e se anche non lo farà ti consegnerà a
Filippo.
– Può darsi che tu abbia ragione, amico mio, ma le nostre alternative sono
limitate. Se non sarò tornato entro l’alba dovrai cercare di raggiungere il golfo
come meglio potrai.
Senza aggiungere altro, lo Spartano girò sui tacchi e attraversò il tratto di
terreno scoperto che lo separava dal nero muro di vegetazione. Thena gli si
affiancò immediatamente.
– Ci stanno osservando? – le chiese sottovoce Parmenion.
– Sì. Fra gli alberi ci sono parecchie bestie che ci stanno guardando con
pensieri di morte – rispose lei.
Sentì che Parmenion si era irrigidito, mentre i suoi passi esitavano un poco e la
sua mano si abbassava verso la spada.
– Potremmo tornare indietro – gli sussurrò.
– Sei in grado di leggere nella mente di quelle creature? – domandò lui.
– Sì... per quanto siano menti primitive.
– Puoi parlare loro?
– No, ma le posso influenzare. Cosa vuoi che facciano?
– Che mi portino da Gorgone.
– Molto bene. Conta fino a venti, poi grida il suo nome. Questo mi darà il
tempo di svolgere la mia opera su di loro.
Derae trasse parecchi profondi respiri per calmarsi, poi mandò il proprio spirito
fra gli alberi. La prima creatura che sfiorò... un essere in parte rettile e in parte
gatto... la indusse a ritrarsi. I suoi pensieri erano soltanto immagini di sangue e di
carne lacerata, e in essa vi era ben poca intelligenza, quindi Derae procedette oltre,
arrivando infine ad un Vore seduto in alto fra i rami di un albero, con gli occhi
pallidi fissi sui due umani. Come gli altri, quell’essere aveva la mente piena di
pensieri di morte, ma in esso Derae avvertì anche curiosità.
– Gorgone! – gridò Parmenion. – Voglio parlare con il nobile Gorgone.
Il Vore si tese, incerto su cosa fare, e subito la voce di Derae prese a sussurrare
nel profondo della sua mente, insinuando pensieri nel suo subcosciente.
– Li devo portare dal mio Signore. Lui si infurierà se non lo faccio e mi
ucciderà. Uno di questi altri lo informerà che l’uomo ha chiesto di lui e il Signore
darà a me la colpa.
Allargando le ali il Vore si lanciò in volo e si librò nell’aria ad una ventina di
passi dagli umani.
Derae aprì gli occhi e si protese istintivamente a stringere la mano di
Parmenion mentre la creatura si avvicinava maggiormente, muovendosi a disagio
sul terreno piatto con i suoi piedi muniti di artigli.
– Desideri vedere il mio Signore? – chiese.
– Sì – rispose Parmenion.
– Ti manda Philippos?
– Sono disposto a parlare soltanto con il nobile Gorgone – ribatté lo Spartano.
– Ti guiderò da lui, Umano.
Il Vore si girò e cominciò a camminare goffamente verso gli alberi, costretto a
procedere incurvato a causa delle articolazioni particolari dei piedi; parecchie volte
scivolò, ma sempre le ali si allargarono di scatto per ridargli l’equilibrio.
Continuando a stringere la mano di Derae, Parmenion si avviò dietro la
creatura.
– Cosa stanno pensando gli altri? – sussurrò.
– Uno di essi ha intenzione di balzarti addosso non appena entrerai fra gli
alberi. Attento! Non lo uccidere, me ne occupo io.
Lasciandole andare la mano Parmenion continuò a camminare con le dita
serrate intorno all’elsa della spada. Il sudore gli imperlava il volto e il cuore gli
martellava in petto, e tuttavia non tutti i suoi pensieri erano dominati dal timore,
perché il tocco della mano della donna era stato come un fuoco che gli fosse
penetrato nel sangue, esaltandolo. Gli alberi si fecero più vicini, cupi e minacciosi,
ma dalla foresta non giunse il minimo rumore... non un trillo d’uccelli e neppure lo
squittio di qualche pipistrello.
Una creatura simile ad un rettile spiccò il balzo da un ramo sovrastante e
Parmenion si spostò di scatto da un lato, ma la bestia crollò al suolo e giacque
immobile. Sibilando un avvertimento alle altre creature presenti nelle vicinanze, il
Vore si avvicinò con andatura rigida alla bestia svenuta.
– È morto? – chiese.
– Sta dormendo – rispose Derae.
Il Vore s’inginocchiò accanto alla creatura e le piantò gli artigli nel collo,
staccando la testa di netto.
– Adesso è morto – sibilò, leccando il sangue rimasto sugli artigli.
Lentamente continuarono la marcia. Derae poteva sentire i rumori provocati
dalle altre bestie che procedevano intorno a loro e sui rami sovrastanti, ma non ci
furono ulteriori tentativi di aggressione.
– Dolce Era! – sussurrò d’un tratto.
– Cosa succede?
– Il Signore della Foresta... Gorgone. L’ho sfiorato e ho percepito un odio
incredibile.
– Contro chi è diretto?
– Contro tutti.
Il sentiero si allargò e il Vore li condusse in una vasta depressione dove
ardevano decine di fuochi e dove una figura mostruosa era in attesa seduta su un
trono di teschi. La sua pelle era di un colore verde cupo chiazzato di marrone, la
testa era enorme, la bocca cavernosa e orlata di zanne. Sulla testa, al posto dei
capelli si contorceva una massa di serpenti.
Parmenion avanzò con passo deciso e s’inchinò.
– Morte ai tuoi nemici, sire – disse.
LE COLLINE DI ARKADIA
Lontano verso sud, dall’altra parte del Golfo di Korinthos, nelle basse colline di
Arkadia, una luce intensa brillò per un istante sul marmo delle Tombe degli Eroi,
splendendo come una seconda luna prima di tremolare e di dissolversi.
Un pastorello scorse quella luce e si chiese se annunciasse una tempesta, ma le
sue pecore e le sue capre erano tranquille e non c’erano nubi nel cielo notturno... le
stelle erano nitide, la luna un faro limpido.
Il ragazzo pensò a quella luce ancora per qualche istante, poi accantonò la cosa
e si avvolse nel mantello, spostando lo sguardo sul gregge e scrutando il perimetro
del pascolo per controllare che non ci fosse traccia di lupi o di leoni.
In effetti nelle vicinanze c’era un lupo, ma il ragazzo non lo scorse perché era
annidato dietro una tomba di marmo sulle vicine colline. Anche l’animale vide la
luce, e quando essa scintillò tutt’intorno a lui, abbagliante e spaventosa, ogni
pensiero di cibo svanì dalla sua mente.
Il lupo era vecchio, messo al bando dal branco, e tuttavia un tempo era stato un
capo possente e temibile, astuto e letale. In tutta la sua lunga vita non era però mai
successo che una luce come quella si accendesse intorno a lui, e questo lo lasciò
confuso e incerto. Rimanendo disteso immobile, il lupo sollevò la testa irsuta per
annusare l’aria, e in essa percepì qualcosa che conosceva... e temeva. L’odore
dell’Uomo. Ed era vicino.
L’odore veniva da sinistra; con cautela, il lupo girò appena la testa in quella
direzione, cercando con i suoi occhi gialli un’eventuale traccia di movimento.
Un uomo giaceva su una lastra di marmo, e la sua pelle nuda brillava chiara
sotto la luce della luna... l’uomo gemette e si mosse. Appena pochi momenti prima
il lupo era balzato su quella stessa lastra di marmo per scegliere la sua preda
all’interno del gregge, e allora non aveva avvertito l’odore dell’Uomo. E tuttavia
adesso lui era lì, disteso sul marmo.
Il lupo era sopravvissuto tanti anni grazie alla capacità di distinguere quando
essere cauto e quando mostrare coraggio, e un uomo che appariva dal nulla avvolto
in una luce innaturale non ispirava certo coraggio. Sebbene fosse affamato, il lupo
sgusciò via verso i boschi settentrionali, lontano dall’odore dell’Uomo.
Elmo cominciò a tornare in sé. La pietra era fredda e scomoda sotto la sua
schiena e lui gemette nel riprendere conoscenza, poi rotolò su un fianco e abbassò
le gambe possenti oltre il bordo della lastra, sollevandosi a sedere e stiracchiandosi
con uno sbadiglio. La notte era fresca ma non fredda; nel vedere un lupo che
scendeva correndo il pendio diretto verso gli alberi, Elmo mosse la mano verso la
spada, e soltanto allora si rese conto di essere nudo e disarmato.
– Che posto è questo? – chiese ad alta voce. – Come sono giunto qui?
In quei primi momenti Elmo non si sentì veramente preoccupato. Era un
guerriero... forte, messo alla prova in molte battaglie, sicuro delle sue capacità.
Quando però cercò i propri ricordi si sentì assalire da un timore che rasentava il
panico: non sapeva infatti come fosse giunto in quel posto sconosciuto, ma la cosa
peggiore... molto peggiore... fu rendersi conto con un senso di shock che i corridoi
della sua memoria erano silenziosi e deserti.
– Chi sono? – sussurrò, con il cuore che martellava selvaggiamente.
Elmo. Io sono Elmo.
– Chi è Elmo?
Quel nome gli era di ben poco conforto, perché ad esso non erano abbinati
ricordi passati. Abbassando lo sguardo sulle proprie mani vide che erano ampie e
coperte di calli, con le dita corte e possenti. Gli avambracci erano segnati da molte
cicatrici, alcune irregolari altre provocate da tagli netti... e tuttavia come se le fosse
procurate era un mistero.
Sta’ calmo, si ammonì. Esamina questo posto.
Soltanto allora si rese conto di trovarsi in un cimitero, pieno di statue silenziose
e di tombe di marmo. Respingendo il panico balzò a terra e cominciò ad esplorare
il cimitero: alcune lapidi si erano crepate ed erano cadute, altre erano coperte di er-
bacce, il che significava che nessuno si prendeva cura di quel posto. Un vento
freddo cominciò a sibilare fra le lapidi, strappandogli un brivido.
Dove sono i miei vestiti? si chiese. Di certo non sono arrivato fin. qui nudo
come uno schiavo che lavori nei campi.
Sulla sua sinistra ci fu un bagliore luminoso e nel guardare in quella direzione
per un momento lui ebbe l’impressione di scorgere un guerriero fermo sotto la luce
della luna, che si rifletteva sull’elmo completo che nascondeva tutto il volto e su
una corazza dorata. Si tese, serrando i pugni, ma subito dopo si accorse che là non
c’era nessun guerriero ma soltanto un’armatura disposta su un’intelaiatura di legno.
Vi si avvicinò con cautela, scrutando l’area circostante del cimitero.
L’elmo era di splendida fattura, ma privo di cresta o di piumaggio. La parte
superiore e posteriore era un unico blocco liscio su cui non si scorgeva il minimo
segno del martello dell’armaiolo e non si individuava un solo chiodo. La
protezione per la faccia era stata modellata come la maschera di un volto maschile,
barbuto e severo, con le sopracciglia ricurve e la bocca atteggiata ad un terribile
sorriso. Anche la corazza era di fattura stupenda, con le spalle imbottite di cuoio
rinforzato con il bronzo, il petto modellato a imitare la muscolatura di un uomo
robusto, con i pettorali ricurvi e il plesso solare ben sviluppato. Sotto di essa vi era
un gonnellino di strisce di cuoio bordate di bronzo, e più in basso un paio di stivali
da equitazione di pelle di daino.
E accanto al tutto giaceva una spada riposta nel fodero. Elmo protese la mano
ad estrarre l’arma e contemporaneamente il battito del suo cuore rallentò a mano a
mano che lui ritrovava la propria sicurezza.
La spada era di lucido ferro, con la lama doppia e affilata, e il suo
bilanciamento era perfetto.
D’un tratto si rese conto che l’armatura era sua... doveva esserlo.
Si vestì in fretta, scoprendo che la corazza gli calzava alla perfezione, come
anche gli stivali. Il gonnellino gli aderiva alla vita e la spada scivolava con facilità
in un anello di bronzo sul fianco sinistro. Infine sollevò l’elmo, calandoselo sui
capelli corti. Nel momento in cui esso fu a posto, però, un dolore lancinante gli
pervase i lineamenti, come se un fuoco li stesse bruciando. Con un urlo, cercò di
togliersi l’elmo, ma il metallo fuso gli penetrò nella pelle, gli si riversò nelle narici
e nella bocca e si ancorò alle ossa della sua faccia.
Poi il dolore passò.
Aprendo gli occhi, Elmo si accorse di essere crollato in ginocchio. Rialzatosi,
cercò ancora una volta di togliersi l’elmo, ma esso non si spostò di un millimetro.
In quel momento una brezza sussurrante attraversò il cimitero... e lui ne avvertì la
carezza sulla faccia nello stesso modo in cui l’aveva avvertita poco prima sulle
mani che cercavano di smuovere l’elmo. Sollevando la destra toccò la bocca
metallica, scoprendo che era fredda e tuttavia cedevole. Le dita sondarono più a
fondo, sfiorando la lingua, che era anch’essa metallica ma pur sempre morbida.
Adesso la sua faccia era di bronzo: l’elmo non si era soltanto unito alla sua
pelle, era diventato parte di lui.
– Cosa mi sta succedendo? – tuonò, con voce che risultò strana ai suoi stessi
orecchi.
– Non sta succedendo nulla – replicò qualcuno, in tono sommesso. – Ti stai
soltanto preparando al compito che ti attende.
Elmo si girò di scatto con la spada in pugno, ma non vide nessuno.
– Dove sei?
– Vicino – rispose la voce. – Non ti allarmare, amico mio.
– Mostrati, amico.
– Non è necessario. Sei sulle colline di Arkadia e l’oggetto delle tue ricerche si
trova a nord, sul Golfo di Korinthos.
– Non sono il tuo schiavo! – urlò il guerriero.
– Non sai cosa sei, la sola cosa che sai è il nome che io ti ho dato – gli fece
notare la voce, in tono equanime e addirittura cordiale. – Però tutte le risposte che
cerchi ti aspettano più avanti. Devi cercare il Fanciullo Dorato.
– E se non lo facessi?
Non ci fu risposta.
– Sei ancora lì? Parlami, dannazione a te!
Ma il cimitero rimase immerso nel silenzio.
Per gran parte della notte le creature della foresta rimasero sedute intorno ai
fuochi da campo, raggomitolate intorno ad essi e immerse in un cupo silenzio
mentre Gorgone sedeva sul suo trono di teschi. Thena si addormentò con la testa
poggiata contro la spalla di Parmenion, ma lo Spartano rimase sveglio perché il
silenzio circostante era innaturale e lui poteva avvertire che quelle creature erano in
attesa di qualcosa... per cui rimase teso e guardingo a mano a mano che le ore
passavano.
Verso l’alba gli esseri si alzarono in piedi e si schierarono su due file a destra e
a sinistra del trono. Adagiata Thena al suolo, Parmenion li imitò, stiracchiando i
muscoli della schiena e degli arti irrigiditi. La tensione si fece ancora più palpabile
quando Gorgone si alzò dal suo trono e si girò a guardare verso est.
Una dozzina di bestie emersero dagli alberi trascinando un prigioniero legato, il
cui corpo era macchiato di sangue e segnato da molte ferite, e Parmenion imprecò
sommessamente.
Il prigioniero era Brontes.
I suoi catturatori... creature in parte rettili e in parte gatti, con il corpo peloso e
la faccia coperta di scaglie... spinsero Brontes fra le due linee in attesa, e subito
coltelli e spade sibilarono nell’aria.
– Un momento! – esclamò Parmenion, avanzando a grandi passi fino a fermarsi
accanto al minotauro legato e prostrato, che sollevò su di lui lo sguardo con
espressione indecifrabile. Con un gesto rapido, Parmenion estrasse la daga e recise
le corde che lo legavano, ordinandogli: – Resta a terra.
Poi si sollevò e fronteggiò il Signore della Foresta.
– Questo è un mio amico... e un mio alleato, ed è sotto la mia protezione –
disse.
– La tua protezione? E chi protegge te, Umano?
– Tu, sire... finché non sarai giunto ad una decisione.
– E così, Brontes – sibilò Gorgone, avvicinandosi al minotauro, – adesso hai un
amico umano. Ricordi ancora l’ultimo che hai avuto? Non impari mai, vero?
Il minotauro non replicò ma abbassò il capo, evitando lo sguardo di Gorgone,
dalla cui gola scaturì un suono che poteva forse essere una risata.
– Era prigioniero sull’isola di Creta – spiegò quindi il Signore della Foresta a
Parmenion, – dove il re lo aveva rinchiuso in un labirinto costruito sotto la città,
nutrendolo con visceri di maiali e altri cibi immondi. Un giorno il re ha gettato un
eroe nel labirinto, ma Brontes non lo ha ucciso, vero, fratello? No, gli ha offerto la
sua amicizia e sono fuggiti insieme. Immagina la sorpresa di Brontes quando
quell’eroe è tornato in patria vantandosi di aver affrontato in uno scontro mortale
un minotauro divoratore di uomini. È diventato re, Brontes? Sì, credo di sì. E come
fanno tutti i re ha trascorso i suoi giorni a dare la caccia alle creature
dell’Incantesimo. È così che costruiscono le loro leggente.
– Uccidimi, ma non mi annoiare a morte – disse Brontes.
– Ah, ma come potrei mai ucciderti, Brontes? Sei sotto la protezione
dell’Umano. Una vera fortuna, per te.
All’improvviso un piede di Gorgone scattò in avanti e andò a colpire Brontes
alla mascella, scagliandolo a terra.
– Di quanti nemici hai bisogno, sire? – domandò Parmenion.
– Non mettere alla prova la mia pazienza, Umano. Questo è il mio regno!
– Non lo metto in dubbio, sire. Ma quando l’Incantesimo sarà restaurato, lo sarà
per tutti i figli dei Titani. Tutti... incluso il mio amico Brontes.
– E se io lo uccidessi?
– Allora dovrai uccidere anche me, perché di certo ti attaccherò.
Gorgone scosse il capo, un gesto che fece contorcere convulsamente i serpenti,
poi s’inginocchiò accanto a Brontes.
– Come dobbiamo interpretare una cosa del genere, fratello? – chiese. – Un
Umano disposto a morire per te... siamo dunque caduti tanto in basso che adesso si
debba meritare la loro compassione? – Sollevò quindi lo sguardo su Parmenion e
scosse nuovamente il capo. – Avrai la mia risposta all’alba. Godi i momenti che
ancora mancano ad essa.
Accostatosi a Brontes, Parmenion lo aiutò ad alzarsi in piedi; il suo petto e la
sua schiena erano segnati da una decina di tagli poco profondi che però
sanguinavano profusamente.
– Cosa è successo? – gli chiese, mentre lo conduceva verso il punto dove Thena
stava ancora dormendo.
– I Makedones ci hanno sorpresi e i centauri sono tutti morti... come anche i
miei fratelli. Io sono riuscito a raggiungere la foresta, ma poi sono stato catturato.
Tutto è perduto, Parmenion.
– Il bambino!
– Il tuo amico lo ha portato via... ma non so se sono riusciti a fuggire.
– Mi dispiace per i tuoi fratelli, amico mio. Avrei dovuto condurre subito tutti
nella foresta e correre il rischio.
– Non biasimare te stesso, strategos. E grazie per aver parlato in mia difesa,
anche se purtroppo questo rimanderà di poco la nostra morte. Gorgone sta
giocando con noi, lasciando crescere la speranza, e all’alba vedrai la sua effettiva
malvagità.
– Ti ha chiamato fratello.
– Non desidero parlarne. Trascorrerò queste ultime ore dormendo, cosa che lo
irriterà profondamente – replicò il minotauro, stendendosi sull’erba e adagiando al
suolo la sua grande testa.
– Lascia che ti curi le ferite – propose Parmenion.
– Non importa. Quando andremo incontro al nostro destino saranno già
risanate. – replicò Brontes, chiudendo gli occhi.
Parmenion sfiorò la spalla di Thena, che si svegliò immediatamente.
– Alessandro è disperso da qualche parte. Puoi trovarlo?
– Qui il mio spirito non si può librare perché l’Incantesimo Oscuro è troppo
potente. Cosa farai?
– Userò la mia astuzia fino all’ultimo, e se non dovesse essere sufficiente
trapasserò il cuore di quel bastardo dalla testa piena di serpenti e ordinerò ai suoi
uomini di arrendersi – ribatté Parmenion, scrollando le spalle.
– Credo che ci riusciresti – sorrise lei.
– Addestramento spartano: non ammettere mai la sconfitta.
– Anch’io sono una Spartana. Siamo un popolo molto stupido – replicò Thena.
Entrambi scoppiarono a ridere, mentre Parmenion le cingeva la vita con un
braccio.
– Rimettiti a dormire – consigliò quindi, tornando serio. – Ti sveglierò all’alba.
– Se non hai nulla in contrario, preferisco continuare a parlare con te. Puoi
raccontarmi qualcosa della tua vita?
– In essa non c’è nulla che possa interessare ad una sacerdotessa.
– Parlami del tuo primo amore, di come l’hai incontrato. È una cosa che mi
piacerebbe ascoltare.
Il bambino dalla testa adorna di corna si portò al centro della radura e lasciò
vagare sull’oscurità della foresta circostante lo sguardo delle sue pupille verticali.
– Venite a me! – chiamò poi, con voce che echeggiò fra gli alberi.
Lentamente, ad una ad una, le bestie uscirono allo scoperto fino a formare in
ampio cerchio intorno a lui; Attalus intanto si fece più vicino al centauro Camiron,
che stava battendo nervosamente il terreno con gli zoccoli e aveva gli occhi castani
dilatati e quasi pervasi dal panico.
– Sta’ calmo – consigliò Attalus.
– Non ho paura – mentì il centauro.
– Allora resta fermo, dannazione a te!
– Voglio andare via, uscire sul terreno scoperto, perché qui non riesco a
respirare. Ho bisogno di Chirone. Devo trovarlo.
– Aspetta! – ordinò Attalus. – Non fare nulla di impulsivo. Se fuggirai ti
abbatteranno e, cosa più importante, abbatteranno anche me.
Altri creature stavano affluendo silenziose, inchinandosi in silenzio davanti ad
Alessandro, e il fetore che si levava da esse era incredibile. Un essere coperto di
scaglie oltrepassò rudemente Attalus, escoriandogli un braccio con la propria pelle
ruvida, ma non mostrò il minimo interesse nei confronti dell’uomo o del centauro,
perché il suo sguardo era fisso sul Fanciullo Dorato.
Sollevami sulla groppa del centauro – ordinò Alessandro, tornando da Attalus.
Lo spadaccino obbedì; Camiron si agitò, a disagio, e quando Alessandro gli
batté un colpetto sulla spalla Attalus vide che adesso le sue unghie erano nere e
appuntite.
– Un corpo così minuscolo – commentò lo Spirito del Caos, fissandosi le mani.
– Ma crescerà. Avanti, cerchiamo Parmenion. Dirigiti a sud, Camiron.
– Non voglio trasportarti. Mi stai facendo male – protestò il centauro.
– I tuoi desideri non mi interessano. Se preferisci, però, puoi morire qui.
Camiron gridò quando una nuova fitta di dolore gli trapassò il corpo.
– Questa è vera sofferenza – affermò lo Spirito del Caos. – Adesso muoviti...
lentamente. Attalus, tu cammina accanto a me, perché i miei servitori sentono
l’odore del tuo sangue e questo desta la loro fame. Stammi vicino.
– Sì, mio principe. Dove stiamo andando?
– Verso la guerra e le stragi. Non ci possono essere due re nella foresta.
Per tre giorni il piccolo gruppo avanzò verso sud attraverso la foresta,
capeggiato da Gorgone e guidato da tre Vores che si libravano di continuo al di
sopra degli alberi per scorgere eventuali segni di inseguimento. Alessandro
viaggiava in groppa a Camiron, il cui umore migliorò nettamente la seconda
mattina.
– Riesco a ricordare – disse il centauro al principe. – È meraviglioso... mi sono
addormentato e svegliato nello stesso posto.
– Bene – commentò il bambino, in tono remoto.
Parmenion camminava spesso accanto al Signore della Foresta, mentre Derae e
Attalus procedevano alla retroguardia dietro il centauro e il suo cavaliere..
Durante i primi due giorni la sacerdotessa parlò ben poco con lo spadaccino,
camminando in silenzio e trascorrendo le serate immersa in una fitta conversazione
con Parmenion. La mattina del terzo giorno, però, Attalus cominciò a rimanere
indietro rispetto al resto del gruppo, fino a porre una trentina di passi fra loro due e
gli altri.
– Stai camminando molto piano – osservò Derae.
– Ti voglio parlare – replicò lui.
– Perché? Cosa sono io per te?
– Mi serve... voglio... un consiglio.
Derae lo scrutò con attenzione e si protese a sfiorare il suo spirito, avvertendo il
complesso miscuglio di emozioni in subbuglio che infuriava dentro di lui e
ritraendosi poi rapidamente.
– In cosa ti posso aiutare? – domandò.
– Sei una veggente, vero?
– Infatti.
– E puoi vedere il futuro?
– Ci sono molti futuri, Attalus, che cambiano di giorno in giorno. Dimmi cosa ti
turba.
– Il Demone ha detto che avrebbe ucciso tanto Parmenion quanto me. Diceva la
verità?
– Cosa faresti se ti dicessi di sì? – chiese Derae, fissando il volto turbato dello
spadaccino.
– Non lo so. Tutti i nemici che sapevo di avere sono morti, una misura che
garantisce sicurezza. Lui però è il figlio del solo amico che io abbia mai avuto, e
non potrei... – Lasciò a mezzo la frase. – Mi vuoi dire il mio futuro?
– No, non sarebbe saggio. Porti dentro di te un grande odio e molta amarezza,
Attalus, e gli eventi del tuo passato ti hanno distorto l’anima. Il tuo amore per
Filippo è la sola qualità positiva che possiedi.
– Vuoi almeno dirmi se il bambino costituisce un pericolo per me?
Derae esitò per un momento soltanto.
– Dammi la mano – ordinò poi.
Attalus obbedì, porgendole la sinistra e lasciando la destra posata sull’elsa della
spada; le sue emozioni si riversarono su Derae con forza e asprezza, quasi
sopraffacendola. Lei vide l’assassinio di sua madre per opera di suo padre e poi il
padre assassinato dal giovane Attalus; poi, negli anni che seguirono, vide il
giovane amareggiato uccidere decine di altre persone con il coltello, l’arco, la
spada o il veleno. Alla fine sospirò e gli lasciò andare la mano.
– Allora? – chiese lui.
– Hai molti nemici – affermò Derae, con voce bassa e dolente. – Sei odiato
quasi da tutti quelli che ti conoscono. Credimi, sicario, in questo momento il
principe è l’ultimo dei tuoi problemi.
– Ma diventerà un nemico, vero?
– Se vivrà – ammise la sacerdotessa, sostenendo il suo sguardo. – Se uno
qualsiasi di noi vivrà.
– Ti ringrazio – mormorò Attalus, oltrepassandola per raggiungere gli altri.
Quella notte, mentre il resto del gruppo dormiva, Derae sedette insieme a
Parmenion sulla cresta di una collina e gli riferì il dialogo avuto con Attalus.
– Credi che tenterà di uccidere il bambino? – domandò Parmenion.
– Non immediatamente. Però è un uomo triste e contorto e in lui c’è ben poco
di buono.
– Lo sorveglierò con cura. Ora però dimmi perché Aristotele ti ha mandata qui.
– Ha pensato che potevo aiutarvi. Non l’ho forse fatto?
– Naturalmente... ma non è a questo che mi riferivo. Perché ha mandato te?
Perché non un’altra?
– La mia compagnia ti riesce così fastidiosa? – controbatté Derae, con un
crescente senso di disagio.
– Affatto. Sei come una brezza fresca in un giorno d’estate e dai riposo alla mia
anima. Non sono abile con le donne, Thena, sono goffo e irritabile – ammise,
ridacchiando. – Le usanze della vostra razza mi sono aliene:
– A sentirti sembra che apparteniamo ad un’altra specie.
– A volte credo che sia così – ammise lui. – Quando ero molto giovane ero
solito osservare Derae mentre correva: mi nascondevo sulla cima di una collina e
guardavo le ragazze che gareggiavano. La loro grazia di movimenti mi faceva
sentire sgraziato e goffo... e tuttavia quei ricordi hanno una certa piacevolezza.
– È gradevole parlare di ricordi piacevoli – replicò lei. – Sono tutto ciò che fa
della vita una gioia. Parlami della tua famiglia.
– Credevo che volessi sentire soltanto ricordi gradevoli – scattò lui,
distogliendo lo sguardo.
– Non ami tua moglie?
– Amare Phaedra? – fece lui, scuotendo il capo. – Mi ha sposato soltanto per
uno scopo... e non desidero parlarne.
– Allora non lo faremo.
– Perché mi hai posto quella domanda? – chiese d’un tratto lui, esibendo un
asciutto sorriso. – Sei una veggente, Thena, conosci già la risposta. – Poi il sorriso
scomparve e la sua espressione s’indurì mentre aggiungeva: – Conosci tutti i miei
segreti?
L’idea di mentire affiorò per un istante nella mente di Derae, che però
l’accantonò.
– Sì – ammise, in tono sommesso.
– Lo pensavo – annuì Parmenion. – Allora sai perché Phaedra mi ha sposato.
– Per liberarsi dello sgradito dono della profezia.
– E? – insistette Parmenion, sostenendo il suo sguardo con occhi ora freddi.
– E perché il suo talento le ha detto che tu avresti generato un re-dio che
avrebbe dominato il mondo. Voleva che quel bambino fosse suo figlio.
– E adesso – aggiunse Parmenion, in tono dolente, – sta allevando il povero
Philotas riempiendogli la mente di glorie future. È una terribile illusione... e io non
posso fare nulla per fermarla. È questo il prezzo che devo pagare per il mio... tradi-
mento?
– Non sei un uomo malvagio – affermò Derae, prendendogli la mano. – Non
lasciare che un solo errore avveleni la stima che hai di te stesso.
– Avrebbe potuto essere tutto così diverso, Thena, se soltanto a me e a Derae
fosse stato concesso di sposarci. Forse non saremmo stati ricchi... ma avremmo
avuto una casa e dei figli. – Issandosi in piedi lasciò vagare lo sguardo sugli alberi
rischiarati dalla luna. – Ma non serve a molto tentare di rimodellare il passato. Non
ci siamo sposati, loro l’hanno uccisa ed io sono diventato Parmenion, la Morte
delle Nazioni. È una cosa con cui posso convivere. Vieni, torniamo al campo.
Forse stanotte dormirò senza sognare.
Entro il quinto giorno il loro viaggio verso sud si fece più lento.
La notte precedente i Vores erano volati via e non erano tornati, e adesso
Parmenion aveva l’impressione che Gorgone si fosse fatto più cauto e andasse
continuamente avanti in esplorazione, lasciando indietro gli altri. Negli ultimi due
giorni Brontes era stato insolitamente taciturno, allontanandosi dai compagni per
sedere in solitudine, con la grande testa taurina appoggiata sulle mani, e Attalus si
era fatto più cupo ad ogni momento che passava, spostando con frequenza sempre
maggiore su Alessandro lo sguardo dei suoi occhi pallidi.
Anche Parmenion avvertiva un crescente senso di disagio. Lì la foresta era più
densa, ben poca luce filtrava attraverso l’intreccio dei rami sopra di loro e l’aria era
pervasa dal puzzo della vegetazione putrescente... però non erano soltanto quell’o-
dore nauseante e la mancanza di luce a tendere i nervi dello Spartano. In quel posto
c’era un’aura di malvagità che penetrava nella mente e pervadeva l’anima di
timore.
Quella notte per la prima volta Parmenion accese un fuoco; Attalus e Thena
sedettero accanto ad esso, lo spadaccino con lo sguardo incupito fisso sulle fiamme
danzanti, ma Brontes si allontanò per andarsi a sedere con la schiena appoggiata ad
una quercia, e questa volta Parmenion lo seguì.
– Stai soffrendo? – chiese lo Spartano.
Brontes sollevò la testa, rivelando un rivoletto di sangue che gli colava dalla
narice destra.
– Ho bisogno... del Cambiamento – sussurrò. – Però non posso... ottenerlo... in
questo posto. Se non lasceremo la foresta entro i prossimi due giorni io morirò.
– Sapevi che sarebbe successo?
– Sì.
– E tuttavia sei venuto con noi? Non so cosa dire, Brontes.
– Iskander è la sola cosa importante – affermò il minotauro, scrollando le
spalle. – Deve arrivare alla Porta del Gigante. Lasciami solo, amico mio. Parlare è
difficile quando si soffre.
Gorgone tornò in quel momento, insinuando la propria mole massiccia fra il
sottobosco. Attraversando di corsa la piccola radura spinse a calci la terra sul
fuoco, sparpagliando una nuvola di scintille che si riversò sulla tunica di Thena.
– Nel nome dell’Ade, cosa stai facendo? – tempestò Attalus.
– Niente fuochi! – sibilò Gorgone.
– Perché? Questa non è forse la tua foresta? – ritorse lo spadaccino. – Cosa
dovremmo temere?
– Tutto – ribatté Gorgone, avviandosi a grandi passi verso Parmenion. – I
Makedones sono entrati nella foresta – riferì, con un bagliore nello sguardo. – Ci
sono oltre mille guerrieri divisi in cinque gruppi. Due sono alle nostre spalle, due
ad est e uno davanti a noi.
– Sanno dove siamo?
– Credo di sì. Molti Vores mi hanno abbandonato per unirsi ai Makedones, ma
del resto nella foresta esiste ben poca fedeltà, Umano. Io domino soltanto perché
sono il più forte e la mia corona è sicura soltanto finché sono temuto. I Vores
temono però di più Philippos, ed è giusto che sia così, perché il suo potere è più
grande del mio.
– Quando arriveremo al mare?
– Fra due giorni... se viaggiamo in fretta. Tre se stiamo attenti.
– Brontes non sopravviverà per tre giorni – affermò Parmenion, scuotendo il
capo.
La bocca di Gorgone si allargò in una parodia di sorriso e i serpenti sulla sua
testa si rizzarono snudando le zanne.
– Che importanza ha? La sola cosa che conta è che Iskander arrivi alla Porta, e
adesso anche questo è in dubbio, La foresta è il mio dominio e la mia forza... e
tuttavia impedire a Philippos di trovarci sta mettendo alla prova i miei poteri fin
quasi ai limite e anche quella donna ossuta si sta sfinendo per schermarci. Però ci
stiamo stancando, Umano, e quando la nostra magia si sarà prosciugata nella
foresta non resterà un solo posto dove nasconderci. Riesci a capire quello che dico?
In questo momento la sacerdotessa e io abbiamo coperto la foresta con una nebbia
spirituale e noi siamo nascosti al suo interno, ma ad ogni ora che passa il Re
Demone assottiglia sempre più le nostre difese e presto il suo potere disperderà la
nostra nebbia come un vento di tempesta e noi saremo pienamente visibili al suo
occhio dorato. Non posso preoccuparmi di un problema insignificante come la vita
di Brontes – concluse Gorgone, sdraiandosi e chiudendo gli occhi, poi aggiunse in
tono sommesso: – Riposeremo per due ore e continueremo la marcia durante la
notte.
Parmenion tornò verso il fuoco spento, accanto al quale Alessandro stava
dormendo serenamente al fianco del centauro Camiron. Toltosi il mantello, lo
Spartano lo stese sul bambino, soffermandosi un momento ad accarezzargli i
capelli.
Attalus socchiuse gli occhi nel notare quel gesto, ma si affrettò a mascherare i
propri sentimenti quando Parmenion lo raggiunse.
– Perché quella bestia è tanto nervosa? – domandò il Macedone, accennando
con la mano in direzione di Gorgone.
– Mille Makedones sono entrati nella foresta.
– Soltanto mille? Certo non dovrebbero costituire un problema per lo strategos.
Cosa farai questa volta? Chiamerai gli uccelli dagli alberi perché ci aiutino? O
forse gli alberi stessi strapperanno dal terreno le loro radici per marciare ai tuoi
ordini?
– La tua ira è diretta contro il bersaglio sbagliato – gli fece notare Parmenion. –
Non sono io il nemico.
– Ah! Allora devo supporre che sei un amico? Che pensiero divertente.
Volgendogli le spalle, Parmenion si accorse che la sacerdotessa li stava
osservando entrambi, e un attimo più tardi la voce di lei gli sussurrò nella mente.
– Un prete di Philippos ci sta osservando. Hanno penetrato le nostre difese e
lui sta ascoltando le vostre parole per poi riferirle al Re Demone.
Senza mostrare di aver sentito quell’avvertimento, Parmenion tornò a voltarsi
verso Attalus.
– So che ti riesce difficile crederlo, Attalus, ma ti ripeto che non sono io il
nemico. E qui, in questo posto spaventoso, sono davvero un amico. Ci fermeremo
in questo punto per altri due giorni, poi punteremo ad est... ritornando verso le
montagne. Una volta fuori della foresta ti sentirai più tranquillo di mente. È la sua
malvagità che ti tormenta, credimi.
– Ciò che mi tormenta non ti riguarda – sibilò Attalus.
– Se n’è andato – trasmise Thena. – Gorgone lo ha respinto.
– Adesso ascoltami bene – sussurrò Parmenion, protendendosi verso il
Macedone. – Ci sono nemici tutt’intorno a noi e se vogliamo sopravvivere
dobbiamo unire lo spirito e le forze. Mi ritieni un tuo nemico? Forse lo sono, ma
qui devo fare affidamento su di te, e tu ti devi fidare di me. Senza questo le nostre
speranze... tenui come sono... risulteranno vane. Siamo stati entrambi minacciati
dallo Spirito del Caos, ma io ho scelto di ignorare le sue parole, perché lui non
conosce il futuro... e io sarò sempre padrone del mio destino. Come lo sarai tu...
perché siamo entrambi uomini forti. Ora... posso fidarmi di te?
– Perché chiederlo? Se anche ti dicessi quello che vuoi sentire non mi
crederesti.
– Ti sbagli, Attalus. Dillo ed io ti crederò.
– Allora ti puoi fidare di me – affermò lo spadaccino, sorridendo. – Questo ti
soddisfa?
– Sì. Ora riposeremo per due ore... poi troveremo un sentiero che porti verso
sudovest.
– Ma hai detto...
– Ho cambiato idea.
– Non ti puoi fidare di lui – trasmise Thena, ma Parmenion la ignorò.
Stendendosi sul terreno freddo chiuse gli occhi. Come aveva detto, tutt’intorno
a loro c’erano nemici letali che li stavano serrando sempre più su tre lati guidati dal
potere malevolo del re dei Makedones. Lo Spartano vagliò i suoi alleati: un
minotauro morente, una sacerdotessa, un assassino dall’animo distorto e un
Signore della Foresta intriso di malvagità.
I suoi pensieri non erano speranzosi quando si addormentò e i suoi sogni furono
pieni di tormento.
Attalus rimase sveglio, con la mente piena di pensieri confusi. La minaccia del
demone continuava a tormentarlo, bruciandogli nella mente con dita di fuoco...
sarebbe stato così facile strisciare fino alla parte opposta dell’accampamento e
passare la daga sulla gola del bambino, neutralizzando la minaccia. E tuttavia quel
bambino era il figlio di Filippo... il solo uomo di cui Attalus avesse mai desiderato
l’amicizia.
Non ho bisogno di amici, si disse, ma quelle parole echeggiarono piatte e prive
di convinzione nella sua mente. La vita senza Filippo non valeva nulla, perché lui
era il sole, era il solo calore che lo spadaccino avesse conosciuto dall’infanzia.
Non c’è bisogno che sappia che hai ucciso suo figlio.
Quello era un pensiero tentatore. Ad un certo punto avrebbe potuto attirare
Alessandro lontano dagli altri e ucciderlo silenziosamente... spezzando così il
cuore a Filippo.
Attalus cambiò posizione, girandosi sul fianco mentre l’oscurità circostante si
faceva più tenue grazie ai sottili raggi lunari che ora trapassavano il fitto fogliame.
Nel cielo si udì un sommesso suono sibilante, simile a quello di un bastone che
fendesse l’aria, e nel sollevare lo sguardo Attalus vide un Vore che si librava verso
terra dall’alto di un pino. La creatura atterrò con leggerezza e prese ad avanzare in
silenzio verso il dormiente Alessandro.
Lo spadaccino non si mosse. Ripiegando le ali, il Vore si chinò sul bambino,
protendendosi...
Ecco la salvezza! pensò Attalus, con esultanza.
Le mani dotate di artigli della creatura scesero verso Alessandro e nello stesso
momento la daga di Attalus solcò l’aria, scintillando sotto la luce della luna prima
di andare a piantarsi nella schiena del Vore. La bestia emise un acuto stridio e
allargò un’ala... l’altra era bloccata dalla daga che l’aveva inchiodata alla schiena.
Intanto Gorgone era balzato in piedi e stava correndo verso il Vore morente, che
crollò prono a terra. Svegliati dalle sue strida, Parmenion e gli altri si raccolsero
intorno al corpo che ancora si contorceva.
Oltrepassando i compagni, Attalus recuperò la daga.
– Attento – avvertì Gorgone, in tono secco. – Il loro sangue è velenoso e basta
un contatto minimo per ucciderti.
Attalus piantò la lama nel terreno e la passò sul muschio prima di riporla nel
fodero; intanto Gorgone girò sul dorso il corpo del Vore.
– Era uno dei miei – disse. – È tempo di andare via.
– Mi hai salvato – affermò Alessandro, avvicinandosi ad Attalus e sollevando
lo sguardo a incontrare il suo.
– Sei sorpreso, mio principe?
– Sì – ammise il bambino.
– E tu? – chiese Attalus a Parmenion.
– Perché dovrei esserlo? – replicò lo Spartano, scuotendo il capo. – Non mi hai
forse dato la tua parola?
– Le parole sono soltanto rumori che svaniscono nell’aria – mormorò Attalus. –
Non riporre in esse la tua fiducia.
– Se questo fosse vero, tu non saresti intervenuto – ribatté Parmenion.
Non sapendo cosa rispondere, Attalus gli volse le spalle, pervaso da un senso di
colpa e di autodisprezzo, chiedendosi come aveva potuto essere tanto stupido.
Tornato al proprio giaciglio raccolse il mantello che aveva usato come coperta e lo
pulì dalla polvere prima di fissarselo nuovamente sulle spalle con la spilla di turkis
donatagli da Filippo.
Gli altri si stavano anch’essi preparando a partire... tranne la sacerdotessa che
era seduta in silenzio sotto un’ampia quercia.
– Statemi vicini – ammonì la voce di Gorgone, – perché là dove andremo il
buio è fitto e i pericoli sono molti.
Thena rimase però ancora seduta sotto l’albero, e Attalus si decise ad andare a
chiamarla.
– Siamo pronti – avvertì.
– Io non verrò con voi – sussurrò la donna.
– Non puoi restare qui.
– Devo.
Parmenion li raggiunse e la veggente sollevò lo sguardo su di lui.
– Andate avanti – disse, costringendosi a sorridere. – Io vi raggiungerò quando
potrò.
– Perché stai facendo questo? – domandò Parmenion, inginocchiandosi accanto
a lei.
– Devo ostacolare i Makedones... e ingannare il Re Demone.
– Come? – volle sapere Attalus.
– Così – rispose lei, indicando verso la parte opposta del campo.
Attalus e Parmenion si girarono... e videro loro stessi, all’apparenza
addormentati accanto ad un fuoco che ora ardeva vivace; dall’altra parte della
radura era visibile la sagoma di Gorgone sdraiata accanto al minotauro Brontes,
mentre Alessandro era raggomitolato contro il centauro dormiente.
– Dovete allontanarvi in fretta, prima che lo spirito di Philippos ritorni –
insistette Derae.
– Non intendo lasciarti in pericolo – protestò Parmenion.
– Siamo tutti in pericolo – ribatté lei. – Andate, ora! Accorgendosi che
Parmenion non intendeva arrendersi, Attalus lo prese per un braccio.
– Basta con le stupidaggini, ricordi? Il bambino deve essere salvato, quindi ora
vieni con noi!
Parmenion si liberò dalla sua stretta ma andò ad affiancarsi a Gorgone.
Quella donna ha un grande potere – osservò il Signore della Foresta, guardando
la propria immagine che pareva dormire a pochi passi di distanza.
Lo Spartano non rispose e Gorgone precedette gli altri nelle profondità della
foresta, seguito da Parmenion e da Brontes mentre Attalus veniva per ultimo, dietro
il centauro e il bambino.
Come Gorgone aveva detto, il sentiero era buio e nelle prime due ore
avanzarono con estrema lentezza, poi la luce dell’alba cominciò a filtrare fra i rami
intrecciati anche se nessun canto di uccelli accolse il nuovo sole e tutto rimase
silenzioso.
Verso metà della mattinata Gorgone, che ancora procedeva in testa alla piccola
colonna, agitò improvvisamente una mano e saettò nel sottobosco, muovendosi con
una rapidità sorprendente per uno della sua mole. Gli altri si affrettarono a imitarlo,
Parmenion dopo aver afferrato Camiron, tirandolo a terra su un fianco. Per un
momento gli zoccoli del centauro si agitarono sferzando l’aria.
– Fermo e zitto! – sibilò lo Spartano.
Da nord giunse il rumore di molti uomini che stavano avanzando nel
sottobosco. Gettandosi prono, Attalus spinse leggermente indietro il cespuglio che
aveva davanti e vide un contingente di soldati emergere dagli alberi a una trentina
di passi di distanza. Gli uomini stavano marciando in fila per uno, con la Plancia
appoggiata con noncuranza alla spalla.
Dopo che si furono allontanati Gorgone lasciò il proprio nascondiglio e il
gruppo riprese la marcia, questa volta deviando verso nord.
– Quanti ne hai contati? – chiese Parmenion, affiancandosi ad Attalus.
– Ottantacinque. E tu?
– Lo stesso. Questo significa che ce ne sono altri davanti a noi – commentò
Parmenion, poi si guardò alle spalle e aggiunse: – Spero che lei riesca a sfuggire
loro.
Attalus annuì ma non replicò.
Derae sedeva sotto la luce della luna, con la mente pervasa di tristezza, in
quanto sapeva con calma certezza che quella era la sua ultima notte di vita. Al fine
di tenere i Makedones lontani da Parmenion lei doveva mantenere attivo
quell’incantesimo, ma per farlo era costretta a restare nella radura, attirando i
guerrieri del Re Demone verso di sé.
La notte era fresca, i tronchi degli alberi vicini erano rivestiti della luce
argentea della luna. Una volpe apparve nella radura, attratta dalla carcassa del
Vore: con cautela girò intorno al corpo, ma poi ne avvertì l’odore putrido e
scomparve di nuovo nel sottobosco.
Derae trasse un profondo respiro. La pietra dorata era calda nelle sue mani, e lei
abbassò lo sguardo su di essa, meravigliandosi della sua bellezza e del suo potere.
Aristotele gliel’aveva data nel Cerchio di Pietre.
– La pietra ti fornirà qualsiasi cosa desideri... entro limiti ragionevoli – le aveva
detto. – Può trasformare i sassi in pane e il pane in sasso. Usala con cautela e
parsimonia.
La pietra era soltanto un frammento dorato solcato da sottili venature nere, ma
a mano a mano che lei manteneva attivo l’incantesimo le linee nere si andavano
inspessendo e il potere della pietra si riduceva.
– Dove l’hai trovata? – aveva chiesto al magus.
– In un’altra epoca – aveva risposto lui, – prima che gli oceani inghiottissero
Atlantide e il mondo cambiasse.
Serrando il pugno intorno alla pietra, Derae spostò lo sguardo sulla figura
addormentata di Parmenion, riflettendo con sorpresa che quei cinque giorni
avevano raddoppiato il loro tempo insieme.
I suoi pensieri tornarono indietro negli anni, e con l’occhio della mente rivide i
giardini della casa di Senofonte vicino a Olimpia, dove lei e Parmenion si erano
baciati e amati, incuranti del pericolo. Cinque giorni: i più lunghi e i più brevi della
sua vita. I più lunghi perché i suoi ricordi indugiavano spesso su di essi, rivivendo
ogni momento appassionato, e i più corti a causa del peso degli anni di solitudine
che erano seguiti.
La veggente Tamis era stata la fonte di tutta la sofferenza che Derae aveva
sopportato, e tuttavia era impossibile odiarla per questo, perché quella vecchia era
stata ossessionata da un sogno, con la mente dominata da una sola ambizione...
impedire la nascita del Dio Oscuro. Percorrendo i sentieri dei molti futuri, Tamis
aveva scoperto l’identità di tutti gli uomini che avrebbero potuto essere usati dal
Caos per generare quel demone. La sola cosa che le serviva era un uomo da usare
come arma contro di loro... una Spada della Fonte.
Al fine di realizzare il suo scopo lei aveva fatto sì che Derae venisse portata
lontano da Sparta e gettata in mare al largo della costa di Troia con le mani legate
dietro la schiena. Quando Parmenion aveva scoperto la sorte che le era toccata
questo aveva scatenato in lui un terribile odio, mutando il suo destino e avviandolo
sul sentiero della vendetta. E tutto era stato progettato da Tamis affinché
Parmenion diventasse l’uomo del destino che lei stava cercando.
Sarebbe stato meglio se fossi morta in mare, pensò Derae. Ma Tamis l’aveva
salvata, e l’aveva tenuta prigioniera nel tempio, riempiendole la mente di
menzogne e di mezze verità.
E per che cosa?
Parmenion aveva ucciso tutti i possibili padri tranne uno. Se stesso.
– Non sentirò la mancanza di questa vita – si disse, ad alta voce.
Poi rabbrividì, quando la paura le sfiorò l’anima. Sollevando lo sguardo dello
spirito vide l’immagine di Philippos librarsi nell’aria al di sopra del campo,
fissandola con il suo occhio dorato e sondando i suoi pensieri. Concentrandosi sui
ricordi del passato, Derae cancellò tutte le paure del presente mentre il potere
dell’Occhio le sussurrava nella mente come un vento gelido.
In lontananza poteva sentire i passi furtivi degli uomini che stavano avanzando
di soppiatto nella foresta, e la sua paura crebbe. Cercò di umettarsi le labbra, ma
scoprì di avere la lingua arida. Intanto il cuore aveva preso a martellarle nel petto.
In quel momento avvertì l’esaltazione di Philippos quando questi abbassò lo
sguardo sul bambino addormentato. L’ira divampò in lei e la indusse a lasciare che
l’incantesimo si dissolvesse, permettendole di godere dello shock e della delusione
di Philippos quando i dormienti svanirono.
Librandosi fuori dal corpo, Derae fronteggiò il Re Demone.
– Ti sono sfuggiti – disse.
Per un momento lui non replicò, poi un sorriso apparve sul suo avvenente volto
barbuto.
– Sei stata astuta, strega, ma nessuno mi sfugge a lungo. Chi sei?
– Il nemico – rispose Derae.
– Un uomo viene giudicato in base alla forza dei suoi nemici, Derae. Dov’è il
bambino?
L’occhio dorato prese a risplendere, ma Derae fuggì verso il rifugio del proprio
corpo, chiudendo la mano intorno alla pietra dorata e schermando i propri pensieri.
– Spero che ricaverai un po’ di divertimento dalle tue ultime ore di vita –
sussurrò la voce del re. – So che i miei uomini lo faranno.
In quel momento i soldati fecero irruzione nella radura, circondandola. Derae si
alzò in piedi... e attese la morte, con la mente pervasa da una calma improvvisa.
Due uomini avanzarono di corsa e l’afferrarono per le braccia mentre un terzo
si venne a fermare davanti a lei.
– Dove sono? – le chiese, stringendole la mano destra intorno alla gola e
affondandole le dita nelle guance.
– Dove non li troverete – replicò lei, in tono gelido. L’uomo lasciò andare la
presa e la colpì con la mano aperta e con una violenza selvaggia, spaccandole un
labbro.
– Credo che saresti saggia a dirmelo – avvertì.
– Non ho nulla da dirti.
– Mi dirai tutto quello che desidero sapere – ribatté il soldato, estraendo
lentamente la daga, poi aggiunse con voce più profonda: – Se non ora, più tardi.
Le sue dita agganciarono il collo della tunica di lei e la daga tagliò con facilità
la stoffa, che lui strappò via in modo da esporre i seni e il ventre. Riposta la daga,
si fece più vicino, facendo scorrere la mano sulla pelle di lei fino a insinuarla a
forza fra le gambe.
Derae sentì le proprie emozioni che venivano soffocate dal crescente desiderio
degli uomini che la circondavano, poi il soldato le sussurrò un’oscenità
nell’orecchio.
Durante tutta la sua vita di adulta, Derae aveva seguito la via della Fonte,
sapendo con fredda certezza che sarebbe morta piuttosto che uccidere, ma nel
momento in cui l’uomo le parlò il suo addestramento si dissolse, portando via con
sé anni di devozione e di dedizione, e tutto ciò che rimase fu la ragazza di Sparta...
nelle cui vene scorreva il sangue di una razza guerriera.
La sua testa si sollevò di scatto e lei incontrò con il proprio lo sguardo del
soldato.
– Muori – sussurrò.
L’uomo sgranò gli occhi mentre la pietra che lei teneva ancora in mano si
faceva improvvisamente più calda, poi il soldato annaspò e crollò al suolo con il
sangue che gli scaturiva dagli occhi, dagli orecchi, dal naso e dalla bocca.
– È una strega! – gridò qualcuno, mentre il corpo senza vita si accasciava
nell’erba.
Gli uomini che trattenevano Derae accentuarono la loro stretta sulle sue
braccia, ma lei sollevò le mani che si trasformarono in due cobra, incappucciati e
sibilanti. I soldati si ritrassero balzando all’indietro e Derae si volse di scatto,
protendendo i serpenti verso di loro. Dalla bocca dei rettili scaturirono due lampi
che scagliarono al suolo i soldati.
Derae tornò a girarsi mentre i Makedones rimasti estraevano le armi e si
scagliavano contro di lei: un lampo di luce abbagliante esplose nella radura,
accecando i guerrieri che incespicarono e caddero al suolo.
Nella confusione che seguì Derae lasciò a grandi passi la radura, addentrandosi
nella foresta.
* * *
La marcia verso sudovest fu lenta, perché negli ultimi giorni i componenti del
gruppo erano stati costretti a nutrirsi di bacche amare e di funghi dal sapore
sgradevole, bevendo l’acqua stantia di polle stagnanti. Parmenion cominciava a
perdere le forze e Attalus aveva già vomitato due volte sul bordo della pista;
soltanto Gorgone pareva instancabile e proseguiva la marcia a grandi passi con
Alessandro appollaiato sulle spalle.
Al tramonto si accamparono sotto una sporgenza di roccia e Gorgone permise
loro di accendere il fuoco, cosa che risollevò un poco il morale dei due Macedoni.
– Una volta attraversato il golfo, quanto impiegheremo a raggiungere Sparta? –
domandò Attalus.
– Altri tre giorni... se troveremo dei cavalli – rispose Parmenion.
– Perché Sparta? – intervenne Gorgone. – Perché non dirigere subito verso la
Porta?
– Là speriamo di incontrare un amico – spiegò lo Spartano. – Un magus di
grande potere.
– È meglio che lo sia... perché Sparta non resisterà a lungo contro Philippos.
Proprio mentre tu entravi nella mia foresta, i Vores a me fedeli mi hanno riferito
che i Makedones stanno marciando verso sud. Korinthos si è dichiarata dalla parte
del Re Demone e Kadmos è stata conquistata e distrutta. Adesso un solo esercito si
oppone a Philippos e non può certo sconfiggerlo. È possibile che Sparta sia già
caduta quando noi attraverseremo il golfo.
– Se questo dovesse risultare vero ci dirigeremo verso la Porta del Gigante –
replicò Parmenion. – Però Philippos non ha ancora affrontato un esercito spartano
e potrebbe scoprire che si tratta di un’esperienza dolorosa.
Verso mezzanotte, quando ormai il fuoco si era ridotto ad un letto di carboni
ardenti, Parmenion fu svegliato da un sonno leggero a causa di movimenti furtivi
nel sottobosco alla sua sinistra. Estratta la spada svegliò Attalus ed entrambi si
allontanarono in silenzio dal fuoco.
I cespugli si aprirono e Camiron trottò verso il campo, portando sulle spalle la
carcassa di un daino. Quando vide i Macedoni il centauro esibì un ampio sorriso.
– Io sono un grande cacciatore – disse. – Guardate cos’ho qui.
Mentre Gorgone si allontanava a grandi passi dal campo, verso est, Attalus
s’impadronì della carcassa, scuoiandola e tagliando le parti migliori con la spada;
entro pochi minuti l’aria fu pervasa dal ricco odore della carne che arrostiva sul
fuoco riattizzato.
– Giuro su Zeus di non aver mai sentito prima un profumo migliore – sussurrò
Attalus, guardando il grasso che gocciolava sulle fiamme.
– Sei magnifico – disse Alessandro al centauro, – e sono molto orgoglioso di te.
Ma che ne è stato degli uomini che ti inseguivano?
– Nessuno è veloce quanto Camiron – rispose il centauro. – Li ho fatti correre
finché i loro cavalli non si sono coperti di schiuma, poi ho deviato verso ovest.
Possente è Camiron. Nessun cavaliere può raggiungerlo.
La carne risultò dura e filacciosa, ma nessuno vi fece caso; Parmenion sentì le
forze che tornavano nei propri muscoli stanchi mentre finiva di divorare la terza
porzione, leccandosi il grasso dalle dita.
– Ti rendi conto – commentò Attalus, sazio, appoggiandosi all’indietro, – che in
Macedonia avremmo fatto frustare il cacciatore che avesse cercato di venderci
della carne tanto dura?
– Sì, ma non è meravigliosa? – ribatté Parmenion.
– Al di là di ogni descrizione – convenne lo spadaccino.
– Ed è opportuno che lo sia davvero – borbottò Gorgone, emergendo dall’oscu-
rità. – Il centauro si è lasciato dietro una pista che anche un cieco riuscirebbe a
seguire e il nemico è già abbastanza vicino da sentire il profumo del vostro
banchetto.
Si issò quindi Alessandro in spalla e si avviò verso sud.
– Ho agito male? – domandò nervosamente Camiron.
– Avevamo bisogno di mangiare – assicurò Parmenion, battendogli un colpetto
sulla spalla. – Hai agito bene.
– Sì, l’ho fatto, vero? – esclamò Camiron, ritrovando la sicurezza di sé.
Rinfrescati, i compagni camminarono per tutta la notte e all’alba raggiunsero
l’ultima linea di colline prima del Golfo di Korinthos. Adesso gli inseguitori erano
vicini e due volte nel guardarsi indietro Parmenion aveva visto la luce della luna ri-
flettersi su un’armatura o su una punta di lancia.
Mentre uscivano dagli alberi Gorgone afferrò una radice sporgente e la strappò
dal terreno, tenendola in alto sulla testa, poi si immobilizzò come una statua e si
mise a cantilenare in un linguaggio ignoto ai Macedoni.
– Cosa sta facendo? – chiese Parmenion a Brontes.
– Sta attingendo alla malvagità della foresta – spiegò questi, volgendo le spalle
alla scena e raggiungendo la cresta della collina per poi abbassare lo sguardo sul
mare rischiarato dall’alba.
Infine Gorgone cessò di cantilenare e con la radice sempre in mano si rimise in
cammino, oltrepassando Brontes e cominciando la lunga discesa verso la spiaggia
sottostante. Gli altri lo seguirono lungo l’erto sentiero la cui pendenza risultò un
ostacolo quasi insormontabile per Camiron, che scivolò e andò a sbattere contro
Brontes, gettandolo a terra. Parmenion e Attalus si portarono allora ai lati del
centauro e gli presero le mani per sorreggerlo.
Finalmente raggiunsero la riva, proprio mentre i primi nemici apparivano in
alto sopra di loro.
– E adesso che si fa? – chiese Attalus. – Ci mettiamo a nuotare?
– No – rispose Gorgone, sollevando di nuovo la radice d’albero sopra la testa.
Chiudendo gli occhi, il Signore della Foresta riprese a cantilenare.
Lanciando un’occhiata alle proprie spalle in direzione del sentiero che scendeva
dall’altura, Parmenion vide che oltre cento guerrieri makedones stavano scendendo
lentamente lungo il pendio insidioso.
In quel momento dalla radice che Gorgone teneva in mano scaturì una voluta di
fumo che si spostò sul mare e affondò fra le onde. Le acque si tinsero di nero e
presero a ribollire, mentre gas giallastri affioravano in superficie e prendevano
fuoco, poi una sagoma scura emerse dalle onde e un’antica trireme con lo scafo
marcio e le vele a brandelli galleggiò ancora una volta sulla superficie del golfo.
Parmenion deglutì a fatica nel guardare la nave che scivolava verso la riva: corpi
ridotti a scheletri erano ancora seduti ai banchi dei remi e altri cadaveri marci
giacevano sui ponti incrostati di conchiglie. Guardandosi alle spalle, lo Spartano
vide che i Makedones erano quasi a tiro di freccia.
La nave si accostò alla spiaggia e una stretta passerella scivolò dal ponte
superiore, andando a posarsi sulla sabbia.
– Se volete vivere salite a bordo! – gridò Gorgone, portando Alessandro sul
ponte. Parmenion e Attalus lo seguirono, poi Camiron risalì al trotto la passerella,
con gli zoccoli che scivolavano sul legno viscido.
Subito la trireme si allontanò sulla spinta delle correnti del golfo, lasciando i
Makedones sulla spiaggia a contemplare con orrore quello spettacolo. Parecchie
frecce e una lancia volarono verso l’imbarcazione ma per lo più i guerrieri nemici
si limitarono a restare immobili a fissare quella nave morta mentre essa scompariva
in una nebbia grigia che si stava levando dal mare scuro come la notte.
Accoccolato sul ponte spazzato dal vento, Alessandro si teneva aggrappato con
la forza della disperazione a un palo di legno mentre la nave spettrale beccheggiava
violentemente sul mare sconvolto dalla tempesta. Un’onda più massiccia delle altre
colpì lo scafo marcio e una sezione del ponte superiore crollò sotto il peso
dell’acqua. Camiron perse l’appiglio intorno all’albero di maestra spezzato e venne
trascinato verso il mare in burrasca. Alessandro urlò, ma nessuno lo sentì a causa
dell’infuriare della tempesta. Vedendo che Camiron era in pericolo, Brontes si
gettò sul ponte sferzato dalla pioggia e afferrò le mani del centauro. Per un
momento parve che il minotauro tornato uomo fosse riuscito nel suo intento, ma
poi la nave rollò e una seconda ondata si riversò su entrambi, scagliandoli tutti e
due in acqua.
Alessandro cercò di alzarsi, nella speranza di raggiungere Parmenion a poppa,
ma scivolò e perse quasi la presa intorno al palo; Thena lo raggiunse e lo tenne
stretto a sé.
– Camiron è caduto in mare! – pianse il principe.
Thena annuì ma non disse nulla. Intanto un’altra sezione di ponte, questa volta
più vicina alla prua, si staccò e scivolò in mare.
Alessandro si protese con lo spirito, nel tentativo di localizzare Camiron.
In un primo tempo non avvertì nulla, ma poi la sua mente fu pervasa dalla
musica più dolce che avesse mai sentito, un canto acuto e gioioso che cancellò ogni
pensiero relativo al centauro. La nave fu scossa da un tremito e il fasciame
putrescente gemette sotto l’assalto della tempesta, ma adesso Alessandro non
sentiva più nulla tranne quel canto etereo proveniente dalle profondità del mare e
lasciò che esso pervadesse i suoi pensieri, attendendo che il suo Talento lo
traducesse. Quell’impresa fu però quasi impossibile perfino per i suoi poteri,
perché il canto non era fatto di parole ma soltanto di emozioni, intense e appaganti.
Protendendosi ulteriormente il bambino ne cercò la fonte, ma il suono giungeva da
tutt’intorno a lui in un’armonia inimmaginabile. Quando aveva ascoltato gli uccelli
che cantavano sugli alberi era stato in grado di concentrarsi su uno solo di essi,
perché erano individualistici, mentre questa musica era diversa: i cantori erano
uniti empaticamente fra loro.
La nave morta cominciò ad affondare, con l’acqua che entrava attraverso i
portelli aperti dei remi: il ponte si spezzò in due e il mare si levò ruggente intorno
al bambino e alla sacerdotessa, strappando le mani di Alessandro dall’appiglio
fornito dal palo.
Thena cercò invano di trattenerlo perché la nave rollò e li scagliò entrambi in
acqua. Alessandro sentì il mare che si chiudeva su di lui ma anche in quel
momento la musica continuò a riempire la sua anima.
Mentre sprofondava sotto le onde avvertì un corpo morbido e stranamente
caldo che gli si affiancava e lo spingeva verso l’alto. La sua testa riemerse in
superficie e lui trasse un profondo respiro, colpendo l’acqua con le mani nel
tentativo di restare a galla. Una forma grigio scuro che aveva una pinna ricurva sul
dorso gli affiorò accanto e Alessandro si afferrò alla pinna, stringendola con tutte le
sue forze. Il delfino diede un colpo di coda e si mise a nuotare verso la riva
lontana, mentre la musica del suo canto si riversava sul bambino, placandone le
paure.
Il rostro della trireme si abbatté sul fasciame della poppa della nave morta e la
violenza dell’impatto fece perdere l’equilibrio a Parmenion. Scivolando sul ponte
reso viscido dalla pioggia si afferrò ad un pezzo di murata e lottò per rialzarsi. In
quel momento vide Gorgone lanciare in aria la radice d’albero, che venne afferrata
dai venti di tempesta e trasportata sul ponte della trireme.
Incastrate una nell’altra, le due navi furono sballottate dalle onde crescenti
mentre i rematori della trireme cercavano di remare all’indietro nel tentativo di
liberare la loro nave da quella ormai condannata. La magia che teneva a galla la
nave morta era però esaurita e il peso del legno intriso d’acqua stava trascinando a
fondo la trireme nemica, abbassandone la prua e facendo progressivamente
sollevare la poppa dall’acqua.
La nave morta rollò, proiettando Parmenion verso il mare, ma lui rimase
aggrappato con decisione con la mano sinistra mentre con la destra armeggiava per
aprire le cinghie della corazza, consapevole che non sarebbe mai riuscito a nuotare
con quel peso addosso. Un’altra onda violenta si riversò sul rottame, afferrando lo
Spartano e scagliandolo oltre la murata.
L’impatto con l’acqua gli strappò l’elmo di testa... ma aveva ancora addosso la
corazza. Costringendosi a restare calmo Parmenion estrasse la daga e tagliò gli
ultimi lacci che tenevano l’armatura al suo posto, poi se ne liberò e risalì in
superficie in tempo per vedere le due navi condannate svanire fra le onde.
Sulla sua destra intravide per un momento Attalus che cercava disperatamente
di tenere la testa sopra il pelo dell’acqua. Abbandonando la daga Parmenion si
mise a nuotare verso il Macedone, ma questi stava già sprofondando a causa
dell’armatura che aveva ancora addosso. Parmenion si tuffò in profondità
scalciando con le gambe possenti per raggiungere lo spadaccino che stava
affogando.
Intorno regnava una fitta oscurità, ma un lampo trapassò il cielo e per un istante
appena Parmenion poté scorgere il Macedone che si dibatteva nell’acqua. Afferrato
Attalus per una spalla della corazza, lo Spartano nuotò verso la superficie, affioran-
do con i polmoni prossimi a scoppiare. Attalus riapparve accanto a lui ma tornò a
sprofondare quasi immediatamente a causa del peso della corazza. Tuffandosi di
nuovo, Parmenion cercò al tatto la daga che Attalus portava al fianco e che per
fortuna era ancora al suo posto, e con essa tagliò i lacci della corazza. La lama
affilata come un rasoio tranciò senza difficoltà il cuoio umido e Attalus abbassò la
testa in modo da sgusciare fuori dall’armatura, spingendola lontano da sé. Libero
dal suo peso, risali da solo in superficie.
Un’onda sollevò in alto i due guerrieri e Parmenion scorse la spiaggia lontana.
Muovendosi lentamente per risparmiare le forze, si mise a nuotare in quella
direzione, sfruttando le correnti per farsi portare in salvo.
Non si guardò indietro per cercare Attalus e non permise alla sua mente di
interrogarsi sulla sorte di Alessandro e degli altri: solo contro la violenza del mare
e della tempesta, ancorò i propri pensieri a un solo obiettivo.
Sopravvivere.
LIBRO TERZO
352 A.C.
LE ALTURE DI ARKADIA
Ektalis sedeva in disparte dai suoi uomini sotto una piccola sporgenza di roccia,
intento a osservare la pioggia che scorreva davanti a lui sulla pietra grigia. Lì era
più asciutto, ma di tanto in tanto il vento gli spruzzava le cortine d’acqua contro le
gambe nude, insinuando la pioggia all’interno degli schinieri di bronzo che lui
aveva indosso. Fissando con aria cupa il golfo sferzato dalla tempesta, Ektalis
desiderò di essere al riparo a Korinthos con sua moglie e i suoi figli.
Lanciò un’occhiata verso sinistra, dove i rimanenti dieci uomini del suo
distaccamento avevano trovato riparo in una grotta poco profonda, poi guardò
verso destra dove i cinque Makedones sedevano all’aperto, intenti a scrutare il
mare.
Guardandoli, sentì l’odio che gli saliva in gola amaro come bile. Disgustosi
barbari! Come poteva una città di cultura come Korinthos aver formato un’alleanza
con il Re Demone era una cosa che esulava dalla sua comprensione, e tuttavia
adesso l’alleanza esisteva e lui cavalcava con le truppe di quel demone.
Se fossi un vero uomo, si disse, ti saresti opposto alla decisione nell’ agora,
quando i consiglieri hanno sottoposto la questione a voto pubblico. Però non lo
hai fatto... e sei rimasto in vita.
Il dibattito era stato rovente e in esso Leman, Parsidian e Ardanas... tutti suoi
buoni amici... avevano parlato in tono eroico, denunciando quell’alleanza. E tutti
erano stati assassinati nell’arco di una giornata dall’assemblea. Adesso era
Philippos ad avere il potere su Korinthos.
Ektalis rabbrividì quando il vento sospinse altra pioggia contro il suo mantello
bianco già fradicio.
– Trova il Fanciullo Dorato – gli aveva detto il suo generale. – È un ordine del
re.
Ektalis avrebbe voluto ribattere che Philippos non era il suo re, ma non lo aveva
fatto e invece aveva salutato e aveva radunato la sua centuria, avviandosi verso
occidente. Dapprima i preti avevano riferito che il bambino era nella Foresta di
Gorgone, ma adesso era arrivato un messaggio in cui si diceva che ora si trovava a
bordo di una nave diretta verso la costa. C’erano dieci baie in cui quella nave si
sarebbe potuta avvicinare alla riva, ed Ektalis aveva ordinato ai suoi uomini di
sorvegliarle tutte.
Poi erano arrivati i cinque Makedones... cupi guerrieri dagli occhi freddi,
orgogliosi e sprezzanti. Ektalis si chiese che motivo avessero di essere tanto
orgogliosi, considerato che appena dieci anni prima si stavano ancora accoppiando
con le loro pecore sulle barbare colline della loro terra natale. Non avevano
cultura... né storia... ma adesso si aggiravano fra gli uomini civili scrutandoli
dall’alto in basso e trattandoli come schiavi.
Trattandoci come schiavi, si corresse, e si rese conto che erano esattamente
questo: gli schiavi dei sogni di un pazzo assassino di bambini.
Una chiazza di azzurro apparve nel cielo verso est e la luce del sole scintillò
sulle distanti colline. Per un momento appena Ektalis sentì il proprio umore
migliorare, poi però vide che i Makedones si stavano alzando in piedi é che uno di
essi indicava verso la riva. Guardando in quella direzione, Ektalis vide un bambino
uscire dall’acqua e si sentì assalire dallo sgomento.
Tutti conoscevano il destino a cui quel bambino era destinato: essere sacrificato
al Re Demone.
La pioggia si stava diradando fino a cessare e le nuvole cominciavano ad aprirsi
quando Ektalis si mosse per raggiungere i suoi uomini, mandandone due a
chiamare i guerrieri inviati nelle altre insenature e guidando il resto del contingente
lungo il sentiero che portava alla spiaggia, per raggiungere i cinque Makedones che
avevano già estratto la spada.
In quel momento agli occhi di Ektalis si offrì una visione che lui avrebbe
ricordato a lungo: un delfino entrò nel suo campo visivo, nuotando verso riva e
sorreggendo una donna nuda che si teneva aggrappata alla sua pinna dorsale. Il
delfino si accostò alla riva fino a permettere alla donna di alzarsi in piedi e di
arrivare a terra camminando nella risacca.
– Sia lode a te, Poseidone, Signore del Profondo – sussurrò un uomo, accanto
ad Ektalis, e gli altri Korinthi si unirono alla preghiera mormorando: – Guarda a
noi con favore, benedici le nostre famiglie e la nostra città.
La dea venne avanti e si inginocchiò accanto al bambino, circondandolo con un
braccio. Intanto i Makedones erano arrivati alla striscia di sabbia e stavano
avanzando verso di lei.
– Fermi! – gridò Ektalis, e quando i Makedones lo ignorarono si mise a correre,
seguito dai suoi uomini.
Uno snello guerriero makedone estrasse la spada, preparandosi a piantarla nel
ventre della donna, ma Ektalis gli si scagliò contro e lo gettò a terra.
– Nel nome di Ecate, cosa credi di fare? – tempestò l’ufficiale dei Makedones,
un guerriero alto e ampio di spalle con una barba a tre punte.
– Lei è una delle figlie di Poseidone, Canus. Non l’hai vista cavalcare le onde
sul dorso di un delfino?
– Stolto! – ribatté Canus, scuotendo il capo. – È una strega, ecco tutto. Ora fatti
da parte.
– No! – insistette Ektalis, estraendo la spada. – Non le farai del male. Prendete
il bambino, ma non dovete toccare la donna.
– Opponendoti a me in questa faccenda ti opponi al mio re – sibilò Canus, con
un bagliore negli occhi scuri. – E questo è tradimento.
– Comunque sia – ritorse Ektalis, cercando invano di reprimere la propria
paura.
Canus si accorse del suo terrore e scoppiò a ridere, un suono sferzante che
lacerò l’animo di Ektalis con maggiore violenza di una lama, facendo dissolvere il
coraggio da lui appena riscoperto.
– Dì una sola parola, capitano, e faremo a pezzi questi cani – dichiarò un
guerriero Korinthio.
Ektalis rimase stupefatto di quelle parole: sapeva che i suoi uomini lo tenevano
in scarsa considerazione... com’era normale che facessero dal momento che lui non
era mai stato un uomo d’azione. Canus si girò e fissò gli otto Korinthi.
– Pensate di potermi ostacolare? Credete che cinque Makedones non possano
uccidervi tutti? Allora riflettete su questo, feccia senza valore: i miei pensieri sono
collegati a quelli del Sommo Sacerdote, e i suoi a quelli del re, per cui lui sa già
tutto quello che sta succedendo qui. Se persisterete, non morirete soltanto voi, ma
anche le vostre famiglie. Avete capito?
Canus vide i Korinthi rilassarsi e allontanare la mano dall’elsa della spada, ma
quando tornò a girarsi per avanzare verso la donna Ektalis si portò con un balzo
davanti a lei.
Canus eseguì un affondo in direzione del Korinthio, che però parò il colpo e
rispose con un rovescio diretto alla faccia del Makedone. Canus si gettò all’indietro
e la spada gli passò accanto senza recare danno, poi scattò in avanti e piantò la pro-
pria lama nel ventre di Ektalis. Il Korinthio comprese che per lui era la fine, ma
con le ultime forze che gli rimanevano calò la spada sul collo di Canus: la lama
attraversò la mascella dal basso in alto, fendendo la bocca e la lingua per poi
piantarsi nel cervello. Il Makedone cadde in avanti e il suo peso strappò l’elsa della
spada dalle mani di Ektalis, che crollò a sua volta in ginocchio, morente.
La dea gli si accostò, estraendogli la spada dall’inguine, ma lui le si accasciò
contro con la vista già velata.
– Mi... dispiace... tanto – sussurrò.
Ignorando gli altri Makedones, Derae adagiò al suolo il morente e fece fluire in
lui il proprio spirito, muovendosi lungo le vene e le arterie fino a raggiungere la
spaventosa ferita che gli aveva devastato la parte inferiore del ventre. Mettendosi
all’opera più in fretta che poteva si concentrò sull’arteria femorale recisa,
chiudendola e decuplicando la sua capacità di cicatrizzarsi, poi passò alla
muscolatura lacerata e dapprima rallentò il flusso del sangue, procedendo poi a
risaldare perfettamente i tessuti. Il gonnellino di cuoio che il Korinthio aveva in-
dosso aveva impedito alla spada di penetrare a fondo e la ferita più grave era quella
all’inguine, ma adesso che era stata sigillata il guerriero sarebbe sopravvissuto.
Derae tornò nel proprio corpo e riaprì gli occhi.
– La donna può vivere – stava dicendo un altro Makedone, – ma il bambino è
nostro.
– Prendetelo e andatevene – ribatté il Korinthio che per primo aveva parlato a
sostegno di Ektalis.
– Il bambino resta – intervenne un’altra voce, profonda e metallica.
Girandosi di scatto, Derae vide sopraggiungere un altro guerriero, con il volto
coperto da un elmo di bronzo e il corpo avvolto in un’armatura che scintillava sotto
la luce del sole. L’uomo avanzò con scioltezza sulla sabbia e quando si fece più
vicino Derae si accorse che il bronzo che gli copriva i lineamenti non era una
maschera ma metallo vivo: palpebre di bronzo su occhi di bronzo, bocca e barba
anch’esse bronzee.
– Chi sei? – chiese il nuovo capo dei Makedones, un guerriero dal volto aspro
chiamato Plius.
– Mi chiamo Elmo. E il bambino è mio.
– Prendetelo! – urlò Plius. I quattro guerrieri si lanciarono contro il nuovo
venuto, ma la spada di Elmo calò sulla gola del primo e si sollevò di scatto a parare
un fendente del secondo. Poi Elmo ruotò su se stesso, sferrando una gomitata con-
tro la faccia di Plius con violenza tale da fracassargli il naso e da scagliarlo
addosso al quarto assalitore. La spada insanguinata si sollevò e ricadde... e un
secondo Makedone morì. Elmo si lanciò quindi contro Plius, che cercò invano di
parare un fendente letale: il dolore dovuto al naso fratturato lo stava infatti
accecando parzialmente e la lama di Elmo lo raggiunse alla gola. L’ultimo
Makedone attaccò a sua volta, ma Elmo si spostò di lato e abbassò la spada sulla
nuca dell’uomo quando questi lo oltrepassò incespicando. Il soldato crollò prono
sulla sabbia e lottò per risollevarsi, ma Elmo lo colpì ancora con un fendente che
gli staccò quasi di netto la testa.
– Il bambino è mio – ripeté allora Elmo, girandosi a fronteggiare i Korinthi.
In quel momento Ektalis tornò in sé e sollevò lo sguardo sul volto di Derae.
– È questa la morte? – chiese.
– No. Sei stato risanato.
– Ti ringrazio, dea.
Sorridendo, Derae lo aiutò a rialzarsi in piedi, e i Korinthi avanzarono per
raccogliersi intorno al loro capitano, sconcertati e stupefatti per la sua guarigione.
Derae intanto spostò la propria attenzione sul nuovo venuto.
– Intendi fare del male al bambino? – chiese.
– No, signora – rispose la voce metallica, – ma ho bisogno di lui.
– A che scopo?
– Per liberarmi dalla maledizione di questo elmo.
– Come sai che lui può fare una cosa del genere?
– Mi è stato detto di cercarlo.
– Da chi?
– Non lo so – confessò il guerriero, in tono stanco. – So così poco.
Derae si protese nella sua mente e verificò che stava dicendo la verità: in lui
non c’erano ricordi antecedenti al momento in cui si era svegliato su quella lastra
di marmo, nel cimitero, e non c’era nessun indizio sulla sua identità.
La sacerdotessa si ritrasse dalla mente dell’uomo e chiamò a sé Alessandro.
– Puoi aiutarlo? – gli chiese.
Per un momento, il bambino rimase in silenzio.
– Non è ancora il momento – sussurrò poi.
Ektalis avvolse il proprio mantello bianco intorno alle spalle della dea nuda
mentre altri due Korinthi spogliavano un Makedone morto della sua armatura e gli
toglievano la tunica, offrendola a Derae. I guerrieri erano tutti silenziosi e pieni di
reverenziale timore: avevano visto una dea emergere dal mare e il loro capitano
morto essere riportato in vita. E avevano assistito mentre un guerriero magico
uccideva i Makedones. Ora nulla sarebbe più stato uguale, e stavano aspettando
che Ektalis parlasse loro.
Lui li trasse in disparte dal guerriero, dalla dea e dal bambino, conducendoli
verso un agglomerato di rocce una ventina di passi più ad ovest.
– Siete stati tutti testimoni del miracolo – disse. – Ho sentito la spada
trapassarmi il ventre e tuttavia adesso non c’è nessuna ferita. E avete visto la figlia
di Poseidone cavalcare il delfino. Ora però cosa dobbiamo fare, fratelli?
Nessuno rispose, perché nessuno lo sapeva. Ektalis annuì, comprendendo le
loro paure: come aveva detto Canus, il loro tradimento era già noto, la loro vita
condannata.
– Gli Spartani si oppongono ancora al Tiranno – suggerì infine. – Che altra
scelta ci resta se non unirci a loro? Si tratta di questo oppure di raggiungere il porto
più vicino per cercare una nave diretta in Egitto e andare laggiù ad arruolarci come
mercenari.
– Che ne sarà delle nostre famiglie? – chiese un giovane soldato.
– Già, che ne sarà? – convenne tristemente Ektalis. – Non abbiamo nessuna
speranza di rivederle, a meno che il Tiranno venga abbattuto.
– Ma gli Spartani non possono vincere – obiettò il guerriero magro e barbuto
che per primo si era schierato con Ektalis.
– Ieri sarei stato d’accordo con te, Samis, ma oggi? Oggi ho visto il potere degli
dèi... ed essi non sono con Philippos. Oggi sono stato ucciso... e tuttavia vivo
ancora. Sono un uomo nuovo, Samis, e non piegherò mai più il ginocchio davanti
al male.
– Cosa mi dici degli altri? – domandò Samis. – Loro non hanno assistito ai
miracoli, e quando arriveranno come faremo a persuaderli a seguirci? Che faremo
se si rivolteranno contro di noi o ci consegneranno al Tiranno?
– Hai ragione – annuì Ektalis. – Dobbiamo nascondere i corpi e rimandare gli
altri al campo. A parte noi, nessuno deve sapere quello che è successo qui.
– Tutto questo è follia... ma sono con te – sorrise improvvisamente Samis. –
Odio quei dannati Makedones, li ho sempre odiati, e se devo morire in battaglia
preferisco farlo uccidendo quella marmaglia.
– Siamo tutti d’accordo? – domandò Ektalis.
– Sì – risposero in coro gli altri sette Korinthi.
– Allora nascondiamo i corpi e torniamo sulla sommità dell’altura.
Parmenion si trascinò fuori dai frangenti e crollò sulla spiaggia. Un’onda gli si
riversò addosso, trascinandolo indietro, ma lui piantò le dita nella sabbia e
resistette al suo risucchio, poi si alzò faticosamente in piedi e si diresse barcollando
verso il riparo di una grotta poco profonda che si apriva nella parete dell’altura,
con la pioggia che gli sferzava il corpo stanco e il vento che gli ululava intorno. La
grotta non era profonda, ma lì il vento era minore e l’interno era asciutto.
Accasciatosi a terra lasciò vagare lo sguardo sul mare in tempesta, ma non
riuscì a scorgere traccia di Attalus.
Poi la pioggia rallentò gradualmente, le nuvole si aprirono e un sottile raggio di
sole apparve verso est, creando a poco a poco un arcobaleno che sembrava un
grande ponte gettato attraverso il Golfo. Ora pareva che le grigie nubi
temporalesche fossero in fuga davanti alla luce solare, e ben presto il cielo tornò ad
essere azzurro e scintillante: entro pochi istanti la tempesta fu soltanto un ricordo,
il mare si fece limpido e caldo, la spiaggia e le alture si ammantarono di sole.
Alzatosi in piedi, Parmenion si diresse verso la riva, scrutando con i propri occhi
acuti le acque scintillanti. Sulla spiaggia erano sparsi parecchi corpi e un altro
galleggiava prono in una pozza di acqua bassa, ma erano tutti marinai della trireme
makedone.
E ora che si fa, strategos? chiese a se stesso. Quale meraviglioso piano puoi
concepire?
Sentendo un rumore alle proprie spalle allungò la mano verso la spada, ma il
fodero era vuoto. Serrando i pugni si girò di scatto... e vide il gigantesco Gorgone
che lo stava osservando con le mani piantate sui fianchi.
– Dovevi darmi la realizzazione del mio sogno – sussurrò il mostro. – Dunque
dimmi, dov’è Iskander?
– Io sono vivo, e lo sei anche tu – replicò Parmenion, fissando quegli occhi
roventi. – Se Iskander è vivo a sua volta, allora lo è anche il sogno, altrimenti è
tutto finito.
– Non avrei dovuto ascoltarti – dichiarò Gorgone. – Avrei dovuto ucciderti,
com’era inizialmente mia intenzione fare, e forse ti ucciderò adesso. Almeno
questo mi darebbe un piccolo piacere.
– No, non lo farebbe – si affrettò a ribattere Parmenion,– perché allora davvero
non ti rimarrebbe nulla. Hai preso la tua decisione, ti sei posto contro Philippos,
per il meglio o per il peggio, e non puoi più tornare indietro. Ora placa la tua ira e
cerchiamo gli altri.
– Vuoi forse che frughi sul fondo del mare? In questo momento i granchi
stanno banchettando con il corpo del bambino. Lui non è Iskander.
Sollevando la testa incorniciata di serpenti, Gorgone emise un ruggito
assordante, denso d’ira e di frustrazione, e Parmenion si tese, aspettando che la
bestia gli si scagliasse contro.
– Adesso puoi vedere la sua vera anima – commentò la voce di Brontes.
Voltandosi, Gorgone vide il minotauro seduto su un masso. Adesso l’uomo era
scomparso e Brontes era di nuovo una creatura dell’Incantesimo, colossale e con la
testa taurina.
– Avrei dovuto sapere che saresti tornato a perseguitarmi, fratello – borbottò
Gorgone. – Quali parole di conforto hai da offrire?
– Non ho nulla da dirti, però l’Umano ha ragione: finché non sapremo per certo
che Iskander è morto dobbiamo andare avanti. Ed io lo farò... anche se questo
significa continuare a subire la tua immonda compagnia.
Gorgone scoppiò a ridere, ritrovando stranamente il proprio buon umore.
– Resterò fino in fondo. Però sappi questo, Umano – aggiunse, rivolto a
Parmenion. – Se il bambino è morto tu lo seguirai nell’Ade.
Parmenion non replicò, perché in quel momento la voce dolce di Thena gli
stava fluendo nella mente.
– Alessandro e io siamo in salvo. Ci troviamo a meno di un’ora di cammino
verso est rispetto a te, mentre Attalus sta dormendo spossato in una baia a ovest di
dove ti trovi. Non riesco a localizzare il centauro.
– Ti ringrazio – disse ad alta voce Parmenion.
– Mi ringrazi perché minaccio di ucciderti? – commentò Gorgone. – Sei un
uomo strano.
– Il bambino è vivo – affermò Parmenion. – L’impresa continua.
– Come lo sai? – chiese Brontes.
– Sono stanco – disse Parmenion, ignorando la domanda, – ma se tu sei ancora
in forze, Brontes, ti sarei grato se potessi raggiungere la baia accanto a questa e
portare Attalus da noi. Sta riposando là.
– È quella strega – dichiarò Gorgone. – È viva, vero?
– Sì – confermò Parmenion, con un ampio sorriso. – È viva.
– È la tua donna? – domandò il Signore della Foresta.
– No.
– Ma ti piacerebbe che lo fosse.
Parmenion si allontanò, ma quelle parole gli rimasero nella mente. Il suo cuore
aveva dato un balzo di gioia quando la voce di Thena gli aveva sussurrato nella
mente, e l’intensità di quell’emozione lo lasciò sorpreso.
Allontana da te simili pensieri, si ammonì. Lei non è una sacerdotessa di
Afrodite, che vende i suoi servigi in cambio di una manciata di argento.
Si distese a terra nella grotta e si concesse di scivolare nel sonno, ma il volto di
lei continuò ad occupargli la mente e i suoi pensieri vagarono lontano da battaglie e
incantesimi, piani e strategie.
Sognò di essere disteso in un boschetto di querce in Arkadia, mentre il sole
tramontava dietro le montagne. Thena giaceva accanto a lui, con la testa posata
sulla sua spalla e lui era sereno, mentre le accarezzava i capelli e la baciava,
Quando però abbassò lo sguardo pieno di amore sul suo volto esso tremolò e mutò,
diventando quello di Derae.
A quel punto un senso di colpa lo trafisse e i sogni si dissolsero.
Elmo fu il primo a vedere i due uomini emergere dagli alberi e dirigersi verso il
gruppo in attesa, e li osservò avvicinarsi tenendo la mano poggiata sull’elsa della
spada; nell’avvistare i nuovi venuti i nove Korinthi si alzarono in piedi, ma il
bambino dai capelli dorati gridò un nome e cominciò a correre verso i due.
Mentre l’uomo che avanzava per primo si chinava in avanti per prendere in
braccio il bambino, Elmo notò che era privo di spada ma che si muoveva come un
guerriero, con scioltezza e con costante equilibrio. Il secondo uomo, un individuo
dagli occhi freddi e chiari, era sicuro e felino nei movimenti.
Il leone e il lupo, pensò Elmo.
L’uomo alto rimise a terra il bambino, arruffandogli i capelli, poi spostò lo
sguardo sui guerrieri in attesa, posandolo infine su Elmo: nei suoi occhi azzurri non
affiorò nessuna espressione quando lui vide la sua faccia fatta di bronzo.
Ignorando i Korinthi in attesa, l’uomo si diresse verso Elmo.
– Chi sei? – chiese. Il suo tono era tranquillo, la domanda era stata pronunciata
senza traccia di arroganza e tuttavia con manifesta autorità, ed Elmo pensò che
quello era un uomo abituato a comandare.
– Vorrei potertelo dire – rispose, – ma non so nulla del mio passato, tranne che
mi è stato detto di trovare il bambino.
– A che scopo?
– Non so neppure questo... ma comunque non per fargli del male.
– Io mi chiamo Parmenion. Se vuoi venire con me dovrai obbedire ai miei
ordini. Se questo non ti aggrada, puoi andartene subito.
– Mi sta bene – assentì prontamente Elmo.
L’uomo annuì con un sorriso, poi si girò verso i Korinthi e selezionò fra loro
Ektalis.
– Ti ringrazio per aver aiutato il bambino – disse. – Tu e i tuoi uomini avete
rischiato molto, ed io applaudo il vostro coraggio. Dal momento che vedo qui
cavalli a sufficienza per tutti noi, ritengo che sarebbe saggio incamminarci verso
sud prima di continuare questa conversazione, perché mentre parliamo il nemico si
sta avvicinando.
Ektalis annuì e impartì l’ordine di montare in sella. Intanto Parmenion si
avvicinò alla donna e le posò la mano sulla spalla, ma Elmo non riuscì a sentire
quello che si dissero mentre si avviavano verso i cavalli. Le cavalcature dei
Makedones erano più piccole dei cavalli dei Korinthi ma erano animali dal petto
ampio e possente, selezionate per la resistenza più che per la velocità. Elmo scelse
un castrato roano, afferrandone la criniera e balzandogli in groppa con un agile
volteggio.
– Sei esperto di cavalli – osservò Parmenion. – Anch’io avrei scelto quello.
Il gruppo cavalcò in silenzio per due ore, dirigendosi a sudest attraverso le
colline ondulate lungo un percorso che evitava villaggi e piccole città e si teneva a
ridosso della linea degli alberi.
Infine, quando il sole cominciava a tramontare, si accamparono in una
depressione riparata.
– Abbiamo bisogno di sentinelle – avvertì Parmenion, chiamando a sé Ektalis.
– Piazzane una sul fianco di quella collina e un’altra fra gli alberi, a nord.
Osservando Ektalis che si allontanava dopo aver salutato, Elmo sorrise: il
saluto era apparso spontaneo, e Parmenion lo aveva accettato come se gli fosse
dovuto.
– Credo che tu sia abituato ad eserciti più grandi di questo – commentò.
– In effetti è così – confermò Parmenion, posando la mano sull’elsa della spada
makedone che portava ora al fianco, – ma questi uomini sono tutto ciò che
abbiamo. Posso vedere la tua spada?
– Certamente – rispose Elmo, sfilando la lama dal fodero e girandola in modo
da porgere al generale l’arma dalla parte dell’elsa.
– È una bella spada. Come ne sei entrato in possesso?
– Quando mi sono svegliato l’ho trovata vicino a me, insieme all’armatura e
all’elmo.
– Cosa ti ha indotto a pensare che fosse tua?
– A questo non so rispondere. Ero nudo e solo... e l’armatura mi calzava alla
perfezione. Soprattutto l’elmo, che come puoi vedere mi si è fuso sul volto.
Parmenion rimase in silenzio per un momento.
– Tu mi preoccupi, guerriero – disse infine, e d’un tratto Elmo si sentì
acutamente consapevole del fatto che l’uomo che aveva dinnanzi teneva ora in
pugno la sua spada. – Come faccio a sapere che non sei stato mandato da
Philippos?
– Non puoi saperlo – ammise Elmo, – ma non lo so neppure io.
– Combatti con abilità, e questo è un bene. Uccidendo quei Makedones hai
procurato di che armarsi ad Attalus e a me, e di questo ti sono grato. Un’azione del
genere fa apparire improbabile che tu possa essere un nemico... improbabile ma
non impossibile.
– Lo accetto, Parmenion. Questo a cosa ci conduce?
– A una situazione di mortale pericolo, comunque stiano le cose – rispose il
generale, restituendogli la spada e allontanandosi.
Senza parole, Parmenion abbassò lo sguardo sul proprio cadavere. Nella foresta
aveva avuto modo di osservare i risultati della magia di Thena quando lei aveva
creato l’immagine illusoria del gruppo addormentato intorno al fuoco da campo, e
in un certo senso quella era stata una vista quasi divertente, che aveva attenuato la
tensione e la paura, mentre questa era una cosa reale. L’uomo che giaceva morto ai
suoi piedi era il suo gemello, e Parmenion avvertì la sensazione angosciosa di aver
subito una perdita. L’aspetto peggiore fu però che quella tragedia destò in lui con
nauseante violenza la consapevolezza della propria mortalità: il Parmenion che
giaceva là era stato un uomo animato da speranze, sogni, ambizioni, e tuttavia era
stato abbattuto nel fiore degli anni, con il corpo devastato e spezzato.
Lo Spartano trasse un profondo, tremante respiro.
– Dobbiamo rimuovere il corpo prima che arrivino i Makedones – avvertì
Thena.
– Perché? – domandò Parmenion, riluttante a toccare quel suo alter ego.
– Perché non devono sapere che è morto. Avanti! Caricalo sul tuo cavallo.
Con mani tremanti, Parmenion sollevò il cadavere e se lo issò su una spalla per
poi trasferirlo sulla groppa del castrato e montare a sua volta a cavallo... l’animale
era robusto, ma non avrebbe comunque potuto sopportare quel doppio peso per
molto tempo. Parmenion si girò verso Thena, che si era seduta su un masso.
– Conduci il mio cavallo nel bosco – ordinò lei. – Io ti raggiungerò entro il
crepuscolo.
– Non puoi restare qui. Ti uccideranno.
– Non mi vedranno neppure. Quando arriverai nel bosco, spoglia il corpo delle
sue armi e seppelliscilo, poi indossa la sua armatura. Ora va’.
Parmenion assestò uno strattone alle redini del castrato e si avviò verso ovest.
– Aspetta! – chiamò però Thena, raccogliendo in fretta la spada e l’elmo del re
rimasti a terra e porgendoglieli. – Ora va’... abbiamo poco tempo.
Il terreno era compatto e cosparso di rocce, e gli zoccoli del castrato lasciarono
su di esso ben poche tracce mentre Parmenion si allontanava. Guardandosi alle
spalle, lo Spartano vide che Thena si era rimessa a sedere in silenzio, in attesa dei
Makedones; riprese quindi a cavalcare sforzandosi di ignorare il cadavere, ma il
suo sguardo era attratto di continuo da esso. Ora il corpo aveva cessato di
sanguinare, ma l’intestino aveva ceduto e il puzzo era intenso. Pensando che non
c’era nessuna dignità nella morte, Parmenion diresse il cavallo verso l’inizio del
bosco e si addentrò fra gli alberi.
Una volta là seguì le istruzioni di Thena, spogliando il cadavere e scavando una
fossa poco profonda nel terriccio in cui lo fece quindi rotolare. Il corpo ricadde
sulla schiena, con gli occhi vacui che fissavano lo Spartano senza vederlo e la
bocca aperta e floscia.
– Non ho una moneta per il traghettatore – disse Parmenion al re morto, – ma
eri un uomo coraggioso e sono certo che riuscirai a trovare i Campi Elisi anche
senza di essa. .
Si affrettò quindi a ricoprire il cadavere e infine si sedette per terra, tremante.
Dopo un po’ raccolse la spada del re e non rimase per nulla sorpreso di scoprire
che era la stessa che lui aveva vinto oltre trent’anni prima in un’altra Sparta. Quella
era la leggendaria lama di Leonida. il Re Guerriero, forgiata alla perfezione e af-
filatissima.
Leonida! Un glorioso nome del passato e tuttavia anche il nome del primo
nemico di Parmenion, il fratello di Derae in nome del quale Parmenion aveva
subito provocazioni e percosse, odio e violenza.
Quell’era della sua vita si era conclusa a Leuctra, dove il piano di battaglia di
Parmenion aveva annientato lo schieramento spartano portando alla morte del re e
alla liberazione di Tebe dalla dittatura spartana. La fine di quella battaglia aveva
visto anche la fine del potere spartano in Grecia.
Parmenion ricordava bene il giorno in cui aveva vinto quella spada. Si era
trattato della finale dei Giochi del Generale, nel corso dei quali i giovani di Sparta
impegnavano battaglie di tattica e di strategia servendosi di modelli intagliati nel
legno. Quel confronto finale si era svolto a casa di Senofonte, il generale ateniese
rinnegato che era diventato un intimo amico del re spartano Agisaleus.
Certo che suo nipote Leonida avrebbe vinto la finale, il re aveva offerto come
premio per il vincitore quella leggendaria spada... ma Leonida non aveva vinto, era
invece stato schiacciato dall’odiato mezzosangue, umiliato davanti ai suoi pari e al
suo re.
E la spada era andata a Parmenion.
Dopo la sconfitta spartana di Leuctra, però, era stato proprio Leonida che era
venuto a trattare le condizioni per il recupero dei caduti dal campo di battaglia, ed
era stato a Parmenion che lui si era dovuto presentare.
Nella sconfitta Leonida si era mostrato dignitoso, orgoglioso e forte... e sulla
scia di un momentaneo impulso che non era mai riuscito a capire a fondo,
Parmenion gli aveva restituito la spada, ponendo fine per sempre alla loro
inimicizia.
E tuttavia adesso era seduto in una foresta di un mondo alieno tenendo in mano
la copia esatta di quell’arma.
Che accadrà ora? si chiese, ma conosceva già l’ineluttabile risposta: il Re
Parmenion era stato ucciso, lasciando il nemico trionfante e l’esercito spartano
senza un capo.
Il Re Demone aveva vinto.
Derae attese che Parmenion non fosse più in vista prima di procedere a rilassare
la mente, affilando i propri poteri e protendendosi alla ricerca dei Makedones che
stavano venendo a reclamare il corpo del loro nemico.
Individuati i cavalieri, che distavano ancora quasi un chilometro, si concentrò
sul loro capo Theoparlis... un uomo massiccio dagli occhi scuri, forte e coraggioso,
il cui cuore era incupito dagli amari ricordi della schiavitù e delle torture subite nei
primi anni della sua vita. Derae fluttuò nel suo subconscio e lo preparò
silenziosamente, poi procedette a fare lo stesso con gli altri, ad uno ad uno.
Quando infine riaprì gli occhi i Makedones stavano avanzando verso le rocce
allargandosi a ventaglio e scrutando dietro ogni masso. Infine i guerrieri si
fermarono e scesero da cavallo, cominciando le ricerche.
Consapevole che fino a quel momento nessuno si era accorto di lei, Derae
trasse un profondo respiro e si alzò in piedi. – Lui non è qui – disse in tono
sommesso.
L’uomo più vicino sussultò e indietreggiò, perché ciò che stava vedendo non
era una donna alta e ossuta vestita con un chitone trasandato. No, i suoi occhi
sgranati per la meraviglia e il timore stavano contemplando la vista di una regale
guerriera che aveva un elmo dorico spinto indietro sulla testa e indossava una
corazza dorata; un gufo appollaiato sulla sua spalla chiudeva di continuo i grandi
occhi per difendersi dalla luce solare.
I venti guerrieri si raccolsero in silenzio davanti ad Atena, Dea della Saggezza e
della Guerra, che puntò verso Theoparlis la lancia dorata che stringeva in pugno.
– Torna dal tuo re – gli disse, con voce permeata di autorità, – e digli che
Parmenion vive.
– Ci ucciderà tutti, signora, accusandoci di mentire – protestò Theoparlis.
– Estraete la spada – ordinò Derae, con voce ora sommessa, e quando l’ebbero
fatto aggiunse: – Ora guardate.
Le lame presero a contorcersi, mutandosi in altrettanti serpenti, e con un grido
di orrore e di spavento gli uomini le gettarono lontano... tutti tranne Theoparlis.
– È ancora una spada – affermò, pallido in volto e con la mano che tremava.
Il serpente s’irrigidì e scomparve, ridiventando una lama.
– In effetti è così, Theoparlis, e tu sei un uomo forte – affermò Derae. – Del
resto la magia non era stata creata per farti del male ma per permetterti di andare
dal tuo re e di convincerlo. Lui non ha forse l’Occhio con cui può leggere nella
mente di un uomo? Saprà che non stai mentendo.
– Come ha potuto lo Spartano sopravvivere a una simile caduta? – insistette il
Makedone.
Derae puntò un dito verso l’uomo accanto a Theoparlis.
– Raccogli la spada – ordinò, e quando l’uomo ebbe obbedito aggiunse: – Ora
passati la lama sul palmo della mano.
– No! – urlò l’uomo, ma la spada si sollevò animata da vita propria e la sua
mano sinistra si aprì per riceverla. – No! – gridò ancora il soldato, mentre il ferro
affilato gli tagliava la carne e il sangue prendeva a sgorgare dalla ferita.
– Ora solleva la mano perché tutti possano vedere – ordinò Derae. – Questa non
è un’illusione. Theoparlis, tocca il sangue. Il Makedone obbedì.
– È reale? – insistette Derae.
– Sì, signora.
– Ora guarda... e impara.
Derae chiuse gli occhi. Il taglio era poco profondo e regolare, e fu questione di
pochi momenti accelerare il saldarsi dei tessuti e ottenere il risultato di dieci giorni
di convalescenza in un tempo pari ad altrettanti battiti del cuore. Quando riaprì gli
occhi, gli altri soldati erano raccolti intorno al ferito con lo sguardo fisso sulla sua
mano sporca di sangue.
– Pulisci quel sangue – disse Derae, e l’uomo obbedì servendosi di un angolo
del mantello. Sulla mano restava soltanto una tenue cicatrice.
– Adesso sapete come ha fatto il re a sopravvivere – dichiarò Derae. – Io l’ho
risanato perché lui è caro agli dèi. La prossima volta che lo vedrete sarà nel giorno
della vostra morte... se così lui vorrà che sia.
– Il suo esercito è stato distrutto – osservò Theoparlis.
– Dovete ancora affrontare la potenza di Sparta.
– Cinquemila uomini non possono tenere testa a tutte le forze di Makedon.
– Lo vedremo. Ora andate e riferite a Philippos quanto vi ho detto. E portategli
l’avvertimento di Atena... se marcerà contro Sparta morirà.
Theoparlis s’inchinò e indietreggiò verso il proprio cavallo, seguito dai suoi
uomini.
A quel punto Derae lasciò svanire l’illusione e i guerriero ebbero l’impressione
che la dea fosse improvvisamente scomparsa mentre la sacerdotessa si avviava
senza essere notata verso occidente e verso il lontano bosco.
Trovò Parmenion seduto accanto alla tomba coperta da poco.
– Prenderai il suo posto? – gli chiese.
– Non lo so, Thena – rispose lui. – Ci stavamo dirigendo verso Sparta perché
pensavamo che fosse un luogo sicuro e che lì Aristotele avrebbe potuto
rintracciarci. Ma adesso gli Spartani non hanno più un condottiero e i Makedones
potrebbero marciare senza ostacoli fino alla loro città.
– Che alternative ci sono?
– Potremmo dirigerci verso la Porta e lasciare che Alessandro adempia al suo
destino... se tale esso è.. sperando che Aristotele sia là per riportarci a casa prima
dell’arrivo dei Makedones – replicò lo Spartano, scrollando le spalle.
– E il Re Demone?
– Lui non è un mio problema, Thena, e questo non è il mio mondo – dichiarò lo
Spartano, ma il suo tono mancava di convinzione e mentre parlava il suo sguardo si
posò sulla tomba. – Dimmi tu cosa è giusto – sospirò, alzandosi.
– Lo stai chiedendo a me... oppure a lui? Quell’uomo era il tuo alter ego,
Parmenion. Domanda a te stesso cosa vorresti se i ruoli fossero invertiti.
Preferiresti vedere la tua città conquistata e il tuo popolo reso schiavo o sperare che
il tuo gemello ottenga quello che tu non sei riuscito a fare?
– Conosci già la risposta a questa domanda. Però bisogna pensare ad
Alessandro.
– La situazione è la stessa di prima: abbiamo bisogno di Sparta perché trattenga
i Makedones e dia ad Alessandro il tempo di arrivare alla Porta... e chi meglio del
loro re guerriero potrebbe garantire che gli Spartani riescano in questo compito?
– Ma io non sono lui. Mi sembra sbagliato, Thena. È possibile che lui avesse
una famiglia... una moglie, dei figli e delle figlie che si accorgeranno che non sono
lui. E anche se non lo facessero, di certo questo sarebbe un insulto alla sua
memoria.
– Lo riterresti un insulto alla tua se fosse lui a combattere per te?
– No – ammise Parmenion. – Però la cosa non mi appare ancora accettabile. E
poi cosa mi dici di Attalus e dei Korinthi? Loro sapranno che io non sono il re
spartano.
– Attalus sa come deve agire. Adesso però tu e io dobbiamo andare a Sparta,
perché ci sono molte cose da fare e poco tempo per provvedere ad esse, in quanto
Philippos marcerà sulla città entro pochi giorni.
– Perché proprio io? – gridò improvvisamente Parmenion, imprecando. – Sono
venuto qui per salvare mio figlio, non per farmi coinvolgere in una guerra che non
mi riguarda.
Per un momento Derae non disse nulla, poi si accostò allo Spartano e gli posò
una mano sul braccio.
– Conosci già la risposta a quella domanda, mio caro. Perché tu? Perché sei qui,
soltanto per questo. Ora andiamo, perché il tempo scarseggia.
Parmenion si accostò alla tomba.
– Non ti ho mai conosciuto – mormorò, – ma gli uomini parlavano bene di te.
Farò tutto il possibile per la tua città e per il tuo popolo.
In fretta indossò l’armatura ammaccata del sovrano morto e si affibbiò al fianco
la spada di Leonida, poi si voltò verso Derae e sorrise.
– Ci sono molte cose da fare – gli ricordò lei.
– Allora cominciamo – ribatté Parmenion.
Per due ore cavalcarono verso sud, poi deviarono ad est sulle colline ondulate e
al tramonto si accamparono in un insediamento in rovina e deserto. Parmenion
accese un fuoco a ridosso delle pietre di un muro crollato e rimase seduto in
silenzio a fissare le fiamme, senza che Derae disturbasse le sue riflessioni.
– La guardia del re era impegnata a ritirarsi combattendo – osservò d’un tratto
Parmenion. – È riuscita a salvarsi?
– Lo scoprirò – rispose Derae, e qualche momento più tardi annuì. – La guardia
ha perso oltre un terzo dei suoi componenti ma adesso sta difendendo uno stretto
passo e resiste ancora contro i Makedones.
– Devo raggiungere quegli uomini entro l’alba. Se riuscirò a convincere il
capitano della guardia che c’è una possibilità di salvezza potremmo ancora farcela.
– Ma anche così puoi vincere contro il Re Demone? – sussurrò Derae.
– Ho combattuto in molte guerre, signora, e non ho mai perso. Non lo dico con
arroganza, ma io sono uno strategos, e se esiste un modo per sconfiggere Philippos
lo troverò. Oppure verrò sepolto in una tomba senza nome come... come il mio
gemello. Non posso fare di più.
– Sai che non sei obbligato a combattere questa guerra? Non si tratta del tuo
mondo, della tua città. Potresti raggiungere la Porta del Gigante e aspettare là
Aristotele.
– No, non potrei farlo.
– Perché?
– Da quando sono giunto qui non ho sentito parlare che bene del re spartano –
spiegò Parmenion, scrollando le spalle. –Perfino le creature dell’Incantesimo
hanno una buona opinione di lui e affermano che ha dato loro delle terre dove non
vengono cacciate. Quell’uomo era tutto quello che io vorrei essere, ma le nostre
vite hanno preso strade diverse. Io sono diventato un mercenario girovago, pieno di
amarezza e di odio, con l’arte della guerra come mio unico talento. Lui è diventato
re... e un uomo migliore di me.
– Non è così. Anche tu sei gentile, nobile e generoso di spirito.
– Io sono la Morte delle Nazioni, Thena, non il padre di una di esse.
– La donna che ti ha dato quel titolo sbagliava... ha sbagliato in tutto ciò che ha
fatto, ha manipolato la tua vita e ti ha causato dolore, alimentando il tuo odio. Tu
però ti sei elevato al di sopra di tutto questo.
– La conoscevi? – domandò Parmenion, sorpreso.
– Ero... una sua discepola. Faceva tutto parte di un suo piano... un sogno che lei
aveva. Ai suoi occhi tu eri il guerriero destinato ad opporsi al Dio Oscuro, ma la
sua è stata una visione vana e autodistruttiva, e lei è morta sapendolo. Qui però non
ci sono stati amarezza e odio. Riesci a capire? Lui non era diverso da te, era un
uomo coraggioso e nobile, intelligente e premuroso, ma lo è anche il Parmenion
che io conosco. Adesso il respiro di Derae era affannoso, il suo volto arrossato;
volgendo le spalle a Parmenion, la donna di stese e si avvolse nel mantello, ma
Parmenion le si accostò e le posò una mano sulla spalla.
– Sei irritata con me – osservò in tono sommesso.
– No, non sono irritata – ribatté lei. – Ora lasciami dormire, perché sono molto
stanca.
Lo sentì tornare vicino al fuoco, e infine chiuse gli occhi.
IL PASSO DI TEGAEA
Leonida gridò un ordine e si ritrasse dalla fila mentre i guerrieri ai suoi lati
serravano i ranghi e aspettavano con gli scudi alti e la corta spada protesa.
Indietreggiando di corsa di parecchi passi, Leonida si arrampicò su un alto masso e
guardò verso la gola.
I Makedones stavano trascinando di lato i cadaveri in modo da preparare la
strada per un’altra carica. Sforzando lo sguardo, Leonida scorse altre truppe che si
stavano ammassando, riconoscibili come le Guardie del Re a causa del raggio di
sole dorato presente sulla corazza nera.
Così alla fine mandano i loro uomini migliori, pensò. Ma del resto gli Spartani
avevano già tenuto testa agli Illiri, ai Traci e alle altre unità mercenarie. Quanti
attacchi avevano fronteggiato? Venti? Trenta? Leonida ne aveva perso il conto...
gli bastava sapere che il campo di battaglia era coperto di sangue nemico. I soldati
del Tiranno erano caduti a centinaia, e centinaia d’altri sarebbero morti.
In quel punto il passo era stretto, misurava meno di settanta passi e le tre file di
Spartani stavano mantenendo le loro posizioni. A stento. Leonida imprecò
sommessamente. La luna era alta nel cielo limpido e non c’era nessuna possibilità
di ritirarsi mantenendo lo schieramento di battaglia, ma d’altro canto difendere
quel passo era un’impresa condannata in partenza, perché in quel momento la
cavalleria dei Makedones doveva gi essere in cammino sulle alture per aggirarli e
circondarli. Entro il mattino successivo sarebbero stati in trappola.
Leonida era stanco, si sentiva appesantito dal torpore che segue la sconfitta. La
battaglia era praticamente già vinta quando quei dannati Kadmiani avevano ceduto.
Bastardi senza coraggio! L’ira divampò dentro di lui, infondendo nuova energia ai
suoi muscoli stanchi, ma ciò che lo faceva infuriare non era il fragile coraggio dei
Kadmiani... no, la sua ira era diretta principalmente contro il sacerdote di Apollo,
Soteridas, che aveva dichiarato infausto il momento scelto per quella battaglia... e
un esercito spartano non poteva marciare senza la benedizione del dio.
Adesso sarebbe parso che Soteridas avesse avuto ragione e tuttavia Leonida,
come ogni altro Spartano che era con lui, sapeva che se l’intero esercito fosse stato
presente i Makedones sarebbero stati fatti a pezzi. Invece i contingenti alleati erano
stati schiacciati e il re ucciso.
Leonida chiuse gli occhi. Ucciso... non riusciva quasi a crederci.
I tamburi nemici scandirono l’ordine di avanzare e Leonida balzò giù dal masso
per correre a riprendere il proprio posto in prima fila, accanto al gigantesco Nestus;
un rivolo di sangue scorreva da una ferita sulla guancia del guerriero, e c’era una
lacerazione nella sua corazza.
– Eccoli che arrivano – borbottò Nestus, con un sorriso. – Evidentemente
gradiscono essere uccisi.
Leonida non replicò.
I Makedones si lanciarono contro gli Spartani, facendo echeggiare nel passo le
loro grida di guerra, e in quel momento le montagne vibrarono per un rombo
soffocato, simile allo scoppio di un tuono distante.
Sollevando lo sguardo verso l’erta parete rocciosa sulla sua sinistra, Leonida
vide cadere parecchie pietre delle dimensioni di un pugno, poi scorse sulla
sommità del passo, al di sopra dei Makedones, una figura in armatura dorata che
stava esercitando pressione contro un masso posto in equilibrio precario su uno
stretto costone. L’enorme roccia scivolò giù dal costone, trascinando quasi il
guerriero con sé, poi precipitò per una ventina di metri prima di andare a sbattere
contro una seconda sporgenza rocciosa, strappandola dalla superficie dell’altura.
– Una valanga! – urlò un guerriero makedone, e altri raccolsero il suo grido.
La carica nemica esitò e si arrestò quando i guerrieri delle prime file si
voltarono nel tentativo di uscire dal passo, poi una massiccia lastra di arenaria
piombò su di loro e Leonida vide parecchi uomini scomparire sotto di essa, con il
corpo schiacciato al punto da essere irriconoscibile. Il panico si diffuse fra le file
nemiche mentre lottavano per sfuggire a quella pioggia di morte, e intanto un
secondo lastrone di roccia calò su di loro, uccidendo una ventina di guerrieri.
Una soffocante nube di polvere si sollevò dal terreno, e il vento che soffiava da
nord la sospinse verso le forze dei Makedones ancora in attesa all’imboccatura del
passo.
Sforzandosi di vedere attraverso la polvere, Leonida scorse per un momento
sulla cresta del passo il guerriero con l’armatura dorata... e il suo morale si
risollevò immediatamente.
– Il re! – urlò. – Il re è vivo!
La figura sull’altura agitò la mano, indicando verso sud, e Leonida comprese
immediatamente: i Makedones erano in preda al disordine, uccisi a centinaia dalla
frana, e quello era il momento di ritirarsi.
– Schieramento su sei file! – si affrettò a ordinare.
Con prontezza gli Spartani si incolonnarono e lasciarono il passo marciando in
ordine serrato; Leonida venne raggiunto dal suo luogotenente, Learcus.
– Era davvero il re? – chiese questi.
– Credo di sì. È stato lui a provocare la valanga.
– Zeus sia lodato! Allora abbiamo una probabilità di farcela.
Leonida non rispose. Una probabilità? Tutto quello che restava ad affrontare il
Tiranno era l’esercito spartano... cinquemila combattenti senza cavalleria, arcieri o
lanciatori di giavellotto, mentre schierati contro di loro ci sarebbero stati oltre
ventimila fanti makedones e diecimila cavalieri. La loro sola speranza sarebbe stata
una battaglia difensiva combattuta per tenere un costone o un passo, ma fra Tegaea
e Sparta c’erano soltanto colline irregolari e pianure, una terra aperta davanti al
conquistatore.
Parmenion troverà una soluzione, si disse. Ci riuscirà. Però sapeva che quella
era la voce dell’affetto e della lealtà, e il suo umore s’incupì.
Anche se da bambini erano stati nemici, lui aveva sempre avuto molta stima di
quel mezzosangue, e con il passare degli anni la stima aveva ceduto il posto a una
sorta di reverenziale rispetto. Adesso erano più che fratelli. Ma quale piano poteva
escogitare un generale, anche uno abile come Parmenion, per contrastare le
capacità demoniache di Philippos?
Il passo si allargò, e mentre uscivano sulla pianura i soldati videro due cavalieri
dirigersi al galoppo verso di loro.
– Il re! – gridò qualcuno, e subito gli Spartani estrassero la spada, battendola
contro lo scudo di bronzo in segno di saluto. Quando i cavalieri furono più vicini
Leonida andò loro incontro correndo.
– Benvenuto, sire! – esclamò.
Per un momento il re rimase in silenzio, inespressivo in volto, poi sorrise.
– Mi fa piacere vederti, Leonida.
La sua voce era controllata e in lui c’era una tensione che Leonida non riuscì a
comprendere. D’altronde gli ultimi due giorni erano stati difficili, e il re aveva
subito un’amara sconfitta.
– Quali sono i tuoi ordini, sire?
– Dirigersi a sud verso Sparta ad andatura da battaglia, perché la cavalleria
nemica è vicina – replicò Parmenion.
Leonida s’inchinò, poi spostò lo sguardo sulla donna dal volto severo che
accompagnava il re, e che incontrò con decisione il suo sguardo; Parmenion non
accennò però a fare presentazioni di sorta e questo sorprese Leonida, che
comunque non avanzò commenti e tornò in testa alla colonna.
La marcia continuò fino a due ore prima dell’alba, quando il re ordinò una sosta
e segnalò a Leonida di approntare il campo in un boschetto sui pendii di
un’ondulata catena di colline. I soldati spartani si portarono al riparo degli alberi e
si lasciarono cadere a terra con sollievo, stendendo il corpo stanco sull’erba.
Leonida dispose le sentinelle, ordinando di tenere gli occhi aperti per
individuare eventuali presenze nemiche, poi si diresse verso il punto dove il re
sedeva insieme alla donna.
– Ti credevo morto, sire – affermò, sedendo di fronte a Parmenion.
– Ci è mancato poco – replicò il re. – Al passo ti sei battuto bene. Quali sono le
nostre perdite?
– Ottantadue morti nella battaglia sulla pianura e altri trenta nel passo. Epulis,
Karas e Ondoumenos sono tutti morti.
Il re annuì ma non mostrò dolore, e Leonida riuscì a stento a contenere la
propria sorpresa, perché Ondoumenos era stato uno degli amici più intimi del suo
sovrano.
– La cavalleria nemica è entrata nel passo ma non ha continuato l’inseguimento
– proseguì il re. – Riposeremo qui per due ore poi ci rimetteremo in cammino verso
sud.
– Come fai a sapere queste cose, sire?
– Ti chiedo scusa, amico mio – sorrise il re. – La preoccupazione che mi
occupa la mente mi ha fatto dimenticare le buone maniere. Lascia che ti presenti la
veggente Thena, una donna dai molteplici talenti... durante la battaglia mi ha salva-
to la vita.
– Per questo hai la mia gratitudine, signora – affermò Leonida, inchinandosi. –
Senza il re saremmo perduti. Da dove vieni?
– Dall’Asia – rispose Thena, mentre Parmenion si stendeva sull’erba e
chiudeva gli occhi, poi aggiunse: – Il re è stanco. Possiamo passeggiare e parlare
un poco?
– Certamente – assentì Leonida, perplesso; il comportamento del re stava
cominciando a preoccuparlo.
Insieme a Thena, si avviò a passo lento verso il limitare del bosco, dove
sedettero entrambi su un tronco abbattuto, lasciando vagare lo sguardo sulla
pianura.
– Il re è caduto da un costone e ha picchiato con violenza la testa – disse Thena.
– Ho visto l’ammaccatura sull’elmo, signora, e sono sorpreso che sia soprav-
vissuto.
– È un uomo forte.
– Il migliore fra gli uomini, signora.
– Sì, ne sono certa. Lo conosco da poco tempo... parlami di lui.
– Di certo anche in Asia devono aver sentito parlare di Parmenion.
– Volevo sapere qualcosa di lui come uomo. Dicono che sia di sangue misto...
come è diventato re?
– Era il Primo Generale di Sparta, e quando tre anni fa Agisaleus è stato ucciso
durante la Grande Guerra Ateniese, gli efori hanno eletto lui al suo posto.
– Ma Parmenion non ha legami con le casate reali – osservò Thena.
– Questo non è esatto, signora, perché ha contratto un buon matrimonio –
ridacchiò Leonida.
– Matrimonio?
– La mia è una casata di nobile lignaggio e io avrei potuto ottenere il trono, ma
nei giorni cupi di una guerra all’apparenza persa sapevo che avevamo bisogno di
un uomo migliore di me. Quell’uomo era Parmenion, quindi lo abbiamo inserito
nella nostra famiglia dandogli in sposa mia sorella Derae.
Lo shock fu sconvolgente. Derae sentì il battito del proprio cuore che accele-
rava mentre le mani cominciavano a tremarle, e quando Leonida si protese verso di
lei comprese che la sua espressione l’aveva tradita.
– Ti senti bene, signora? – domandò il guerriero, con voce piena di
preoccupazione.
Lei però non riuscì a rispondere. Un mondo alternativo in cui Philippos
dominava e Parmenion era il re di Sparta! Come aveva potuto essere tanto stolta da
non immaginare che ci fosse anche una sua gemella?
– Ti prego di lasciarmi sola, Leonida, perché ho molte cose su cui riflettere –
disse, costringendosi a sorridere. Sconcertato, il guerriero si alzò e si inchinò,
allontanandosi. Rimasta sola, Derae sentì il peso del dolore che calava in pieno sul
suo animo.
– Perché sei triste? – domandò Tamis.
Riscuotendosi bruscamente dai propri pensieri, Derae trovò lo spirito della
vecchia che si librava davanti a lei.
– Non sono in grado di parlarne – sussurrò, – ma ti permetto di condividere i
miei ricordi. In essi troverai tutte le risposte.
– Non vorrei invadere la tua intimità – mormorò Tamis.
– Non mi darai disturbo – garantì Derae. – Apprezzerei anzi un tuo consiglio.
– Molto bene – replicò la vecchia, e Derae avvertì un fugace calore quando lei
si fuse con la sua mente, fluendo lungo i pensieri in direzione del passato. Infine la
veggente si ritrasse e domandò: – Cosa vorresti che ti dicessi?
– Io lo amo – replicò Derae, scrollando le spalle. – Mi pare di averlo amato per
tutta la vita, e tuttavia abbiamo avuto soltanto cinque giorni insieme, oltre a quelli
vissuti qui... dove lui non sa chi sono. Non posso sopportare di vederli insieme.
Non posso.
– Ma in questa Sparta le cose sono diverse – le disse Tamis, in tono gentile. –
Qui non c’è stato nessun salvataggio, non sono esistiti quei cinque giorni di
passione. In questo mondo Derae amava un uomo di nome Nestus, ma è stata
costretta a rinunciare a lui per sposare Parmenion. Ora vivono insieme con
freddezza reciproca... e senza amore.
– Lei non lo ama? Non posso crederlo.
– Come ti ho detto, qui lui non l’ha salvata, e si sono incontrati soltanto poche
volte prima del matrimonio. Inoltre Derae era fidanzata con Nestus, che adorava...
e credo che lo ami ancora.
– Allora a cosa è servito tutto? – sussurrò Derae. – Perché è dovuto succedere?
Perché la Tamis che io ho conosciuto ha dovuto interferire?
– Lei ha causato molte sofferenze a te e al tuo Parmenion e non la voglio
giustificare... ma se non avesse agito così allora la mia visione non si sarebbe
realizzata. Lo strategos non sarebbe venuto in aiuto del mio mondo.
– Cosa stai dicendo?
– Supponiamo che il tuo Parmenion non fosse mai diventato la Morte delle
Nazioni. Come avrebbe allora potuto aiutare la Sparta di questo mondo? Non
sarebbe mai venuto qui, perché non ci sarebbe stato un Alessandro da seguire e da
salvare. Riesci a capire?
Derae scosse il capo, con la mente che vorticava.
– Allora sostieni che la Tamis del mio mondo ha agito nel modo giusto? Non
posso crederlo!
– Mi hai fraintesa – ribatté la vecchia, scrollando le spalle. – Nel contesto del
tuo mondo lei ha sbagliato, perché le sue azioni hanno portato alla nascita dello
Spirito del Caos e hanno distrutto i tuoi sogni d’amore... ma qui? Qui il bambino
potrebbe essere davvero Iskander e la sola speranza dell’Incantesimo.
– Tutto ciò va al di là della mia comprensione, Tamis.
– Ma si riduce a un concetto molto semplice, mia cara: ogni azione che
facciamo ha molte conseguenze, alcune buone e altre cattive. Considera per
esempio la tua vita. Quando sei stata rapita, da ragazza, questo ha fatto incontrare
te e Parmenion... un’azione malvagia dall’esito positivo. E sebbene la mia gemella
abbia sbagliato nell’allontanarti da Sparta, tu sei poi diventata una Guaritrice.
Nessuno di noi sa a cosa porteranno le sue azioni, "il che costituisce il motivo per
cui i seguaci della Fonte non devono usare le armi del male. Tutto ciò che facciamo
deve essere governato dall’amore.
– Ritieni che l’amore non possa condurre al male?
– Certo che può, perché l’amore crea la gelosia, e dalla gelosia nasce l’odio.
Però l’amore sa anche conquistare, e le azioni ispirate dall’amore portano armonia
più spesso di quanto rechino discordia.
– E dobbiamo affrontare Philippos con l’amore? – controbatté Derae.
– Io non lo odio – rispose Tamis. – Provo per lui una grande pietà. Però non
sono stata io a portare qui Parmenion... anche se avrei potuto farlo... e neppure ho
usato i miei poteri per causare la morte di Philippos, altra cosa che mi sarebbe stata
possibile. non l’ho fatto perché non so quale sia al riguardo la volontà della Fonte.
– Mi sembra un comportamento evasivo – dichiarò Derae, – perché non ti puoi
sottrarre alla semplice realtà di fatto che il mio Parmenion è qui e che è un
guerriero. Lui tenterà di combattere contro Philippos e in quella battaglia
moriranno migliaia di persone. Questo non significa usare le armi del male?
– Forse – assentì la vecchia. – Ma non posso usare la mia volontà per cambiare
il mondo. Tutto quello che posso fare è mantenere i miei principi di fronte al male
che lo pervade. Quando un cancro si diffonde nel corpo e il chirurgo lo estirpa ta-
gliando la carne, agisce forse a vantaggio del male? Eppure arreca dolore al
corpo... questa è un’azione malvagia? Agli occhi della saggezza mondana tutti i
principi possono essere fatti apparire stolti. Una volta c’era una città sotto assedio.
Il re nemico ha detto che avrebbe risparmiato la città se gli abitanti avessero preso
un solo neonato e lo avessero sacrificato a lui sui bastioni. La città non poteva
resistere contro le sue truppe e si è discusso a lungo se la morte di un solo neonato
non sarebbe stata meglio che vedere tutti i neonati della città uccisi quando gli
assalitori avessero varcato le mura.
– Cos’hanno fatto?
– Hanno rifiutato.
– E poi?
– Sono stati massacrati. Non è sopravvissuto nessuno.
– Dove vuoi andare a parare, Tamis?
– Questo è un interrogativo a cui tu devi rispondere, mia cara. Credi che quella
gente abbia sbagliato?
– Non sono in grado di dirlo. Però il neonato che avrebbero dovuto sacrificare è
morto comunque.
– Sì.
– Allora perché hanno rifiutato?
– Hanno capito che non si allontana un male maggiore lasciando che se ne
commetta uno minore – sospirò Tamis. – Il male è una forza che cresce, Derae, e
se si cede ad esso una volta poi lo si fa ancora... e ancora. Tu avresti ucciso quel
neonato?
– No, naturalmente no.
– Neppure per salvare la città?
– No.
– Allora perché ti meravigli che quella gente abbia a sua volta opposto un
rifiuto?
– Perché sono abituata alla malvagità dell’Uomo e comprendo la natura
dell’egoismo e del compromesso. Sono stupefatta che un’intera città abbia
dimostrato una simile nobiltà di spirito.
– Avevano un grande condottiero, mia cara. Si chiamava Epaminonda ed era il
migliore amico del Re Parmenion. Il popolo lo amava per la sua virtù, ed è morto
per lui.
– Che ne è stato del re nemico?
– Sta marciando conto Sparta, Derae... quell’uomo è Philippos.
– Non resterò qui ad assistere – decide Derae. – Andrò a sud fino alla Porta del
Gigante perché non voglio vedere Parmenion con sua... moglie, e non voglio
neppure aspettare di vederlo morire.
– Pensi che fallirà?
– Come potrebbe vincere, Tamis?
La vecchia non trovò nulla da rispondere.
La notizia della sconfitta era già arrivata in città e i soldati non trovarono
nessuna folla ad attendere il loro rientro quando marciarono in formazione lungo la
Strada del Commiato e fino al palazzo dalle colonne di marmo.
– Restami vicino – sussurrò Parmenion a Leonida, quando oltrepassarono le
porte separandosi dai guerrieri di ritorno agli alloggiamenti. – Non ho mai visto
l’interno di questo palazzo e non sarebbe certo d’aiuto se finissi per perdermi in
esso.
– Al piano terra ci sono sei androni – rispose Leonida, con un sorriso divertito,
– e davanti a te ci sono le cucine. Il tuo appartamento è in cima alla prima rampa di
scale, sulla destra. Parmenion annuì, lanciando un’occhiata ai dipinti dai colori
vivaci che decoravano le pareti: dovunque c’erano scene di lotta e perfino il
mosaico del pavimento mostrava guerrieri spartani in schieramento da battaglia.
– Sparta non cambia, neppure su un altro mondo – commentò con un sorriso.
Un anziano servitore venne verso di loro e si inchinò.
– Priastes – sussurrò Leonida.
– Bentornato a casa, sire – salutò Priastes. – Ti ho preparato un bagno e qualche
rinfresco.
Poi il vecchio si inchinò ancora e si diresse verso la scala, seguito da Parmenion
e da Leonida; le scale erano decorate da statue di eroi spartani del passato, ma
Parmenion non riconobbe nessuno di loro. Arrivato al piano superiore, Priastes
svoltò in un ampio corridoio e aprì una porta che dava accesso ad una serie di
stanze rivolte verso est. Entrando a sua volta, Parmenion seguì il servitore fino ad
una piccola camera dove una vasca da bagno rivestita in bronzo era stata riempita
di acqua calda e profumata; là Priastes slacciò le cinghie della corazza di
Parmenion, che si spogliò rapidamente.
Il bagno fu una delizia e il calore dell’acqua ebbe l’effetto di rilassargli i
muscoli stanchi; Priastes versò del vino annacquato in una coppa d’oro e l’assaggiò
prima di porgerlo al suo re.
– Ti ringrazio, Priastes. Puoi andare – disse Parmenion, adagiandosi
maggiormente nella vasca.
Dopo che il vecchio se ne fu andato con un inchino, il nuovo re procedette a
lavarsi dalla polvere del viaggio e infine emerse dalla vasca, accettando
l’asciugamano che Leonida gli porgeva e avvolgendoselo intorno alla vita prima di
uscire sulla balconata a cui dava accesso la finestra principale. Una brezza fresca
gli accarezzò il corpo ancora umido, strappandogli un brivido.
– Adesso mi sento meglio – commentò, rivolto a Leonida.
– È sempre saggio liberarsi dall’odore di sudore e di cavallo prima di incontrare
la propria moglie – rispose questi, soppesando con cura le parole.
– Moglie? Quale moglie?
Leonida trasse un profondo respiro. La veggente Thena gli aveva permesso di
conoscere la vita di Parmenion in quell’altro mondo chiamato Grecia, e aveva
assistito con dolore al modo in cui lui aveva perso la sua donna.
– Questa non sarà una cosa facile per te, Parmenion. In questo mondo sei
sposato con mia sorella Derae.
– Lei è qui? Nel palazzo?
– Naturalmente. Però sappi questo: Derae non ti ama. Doveva sposarsi con
Nestus, ma il dovere le ha imposto di sposare invece te per darti una connessione
che ti permettesse di salire al trono.
Parmenion abbassò lo sguardo sulle proprie mani: stavano tremando.
– Non credo di poterlo sopportare – sussurrò. – Tu non sai...
– Lo so – replicò Leonida, in tono altrettanto sommesso. – Credimi, lo so.
Adesso però abbiamo imboccato una strada da cui non è possibile tornare indietro.
Sii forte, amico mio. Lei non vorrà passare del tempo con te e potrai evitarla.
Ripetia te stesso che non è la donna che hai amato, che questo è un mondo diverso.
Ora – proseguì, cambiando argomento, – quali sono i tuoi piani di battaglia?
Parmenion scosse il capo, cercando senza successo di allontanare dalla mente il
pensiero di Derae.
– Non intendo discuterli nei dettagli. Senza la presenza di Thena non ho modo
di sapere se siamo osservati.
– C’è la nostra veggente, Tamis. È vecchia, ma un tempo i suoi poteri erano
molto grandi. Devo ordinarle di venire qui?
– Non ancora. Se è davvero tanto potente vedrà il mio... inganno. No. Convoca
prima gli efori, che voglio vedere oggi stesso, e chiedi a Tamis di venire da me
domattina. Ora dimmi, quali fra gli efori si sono opposti alla battaglia contro
Philippos?
– Chrisophus e Soteridas, che sono praticamente i capi del consiglio.
Chrisophus è tanto ricco che molti uomini vivono sotto il suo patronato, e Soteridas
è il capo sacerdote del Tempio di Apollo... è stata la sua lettura dei presagi che ha
impedito all’esercito al completo di marciare con noi.
– Puoi trovare dieci uomini dalla mente aperta e che sappiano tenere la bocca
chiusa?
– Certamente – rispose Leonida. – Ma perché?
– Voglio che durante l’incontro perquisiscano la casa di Chrisophus e di
Soteridas.
– Cosa speri che vi trovino?
– Mi auguro che non trovino nulla, ma devo prendere in considerazione la
possibilità che uno di quei due... o anche entrambi... possa essere al soldo di
Philippos. Tu e i tuoi uomini dovrete cercare prove di contatti con i Makedones...
lettere, oro makedone... qualsiasi cosa.
– Faremo come dici.
– E manda anche dei cavalieri a tenere d’occhio le mosse dell’esercito
makedone.
– Sì... sire – assentì l’avvenente Spartano, poi s’inchinò e accennò a ritirarsi.
– Leonida!
– Sire?
– Farò del mio meglio per essere degno di... lui.
– Non ne dubito, amico mio. Ed io sarò al tuo fianco.
Dopo che Leonida se ne fu andato, Parmenion tornò a riempire la propria coppa
di vino e indugiò a contemplare il quartiere orientale della città. Da lì poteva
vedere il mercato dove i venditori di cibo stavano già montando i loro banchi;
parecchi messaggeri correvano lungo le strette vie, portando notizie di convogli di
merci o di nuove spedizioni ai mercanti. Oltre il palazzo, alcuni spazzini stavano
ripulendo le strade dalla sporcizia del giorno precedente, che affluiva in esse dalle
condutture d’argilla presenti in ogni casa. E in alto sopra la città, sulla collina
dell’acropoli, la statua di Zeus lasciava vagare lo sguardo sulle montagne... severa,
orgogliosa e minacciosa.
Leonida gli aveva detto che nella città vivevano poco meno di quarantamila
persone, più della metà delle quali erano schiavi o servitori, e fu quindi con il
morale piuttosto basso che Parmenion cominciò a riflettere sulla battaglia
imminente.
Sapeva che non era sufficiente tenere numericamente testa ai Makedones... il
suo gemello ci era quasi riuscito. No. La chiave di tutto risiedeva nella qualità degli
uomini... e nella sorpresa. Ma come si poteva cogliere di sorpresa un uomo che
conosceva le intenzioni dell’avversario? Philippos gli stava forse già leggendo
nella mente?
Non era un pensiero confortante.
I Makedones stavano arrivando, ma quanto tempo avrebbero impiegato a
raggiungere la città? Avevano sostenuto una battaglia appena pochi giorni prima,
quindi era probabile che Philippos concedesse alle sue truppe di riposare e di
godere dei frutti della vittoria, delle spoglie e del bottino. Quanti giorni avevano?
Cinque? Tre?
Philippos non avrebbe ritenuto gli Spartani una seria minaccia perché sapeva
che disponevano di soli cinquemila uomini. E l’aggiunta di un esercito di schiavi
non lo avrebbe preoccupato minimamente.
La porta alle sue spalle si aprì e un dolce profumo pervase l’aria.
Comprendendo all’istante chi fosse entrato, Parmenion si girò lentamente con il
cuore che palpitava e la bocca improvvisamente arida.
Derae era ferma davanti a lui, vestita con un lungo abito bianco bordato d’oro. I
suoi capelli rossi erano raccolti lontano dal volto in un complicato insieme di
trecce, gli occhi erano verdi, la pelle del colore dell’oro brunito. Il respiro si bloccò
nella gola di Parmenion quando lei gli si avvicinò: dopo tutti quegli anni si trovava
di nuovo faccia a faccia con la donna che aveva amato e perso.
– Derae – sussurrò.
– Hai coperto Nestus di vergogna – disse lei, con gli occhi pieni di furia, – ed io
ti odierò finché avrai vita!
* * *
Mentre Priastes andava a prendergli da mangiare, Parmenion si vestì e uscì di
nuovo sulla balconata. Era evidente che il Parmenion di questo mondo era stato un
uomo buono, gentile e paziente... altrimenti perché avrebbe permesso ai suoi
servitori di rivolgerglisi in maniera così informale? Perché avrebbe tollerato l’in-
subordinazione di Nestus? E adesso c’era un vecchio che desiderava soltanto
morire al fianco di colui che amava come un figlio.
– Sei stato un uomo migliore di me – sussurrò Parmenion, con un sospiro,
sollevandolo sguardo sul cielo striato di nubi.
Sotto la balconata e oltre le mura del palazzo, Sparta cominciava a svegliarsi.
Numerosi schiavi erano diretti verso il mercato e le botteghe aprivano una dopo
l’altra, i mercanti intenti a disporre le loro merci sui tavoli davanti ad esse.
Quella città era così simile alla sua... di colpo si rese conto che qui non
esistevano né Senofonte né Hermias. Unico amico che lui avesse avuto nella Sparta
del suo mondo, Hermias gli era stato al fianco quando tutti gli altri avevano
manifestato soltanto odio e disprezzo per lui; Hermias, che era morto a Leuctra,
combattendo dalla parte opposta alla sua.
– Gli efori sono arrivati, sire – avvertì Leonida.
– Prima lascialo mangiare – intervenne in tono secco Priastes, sopraggiungendo
alle spalle dell’ufficiale spartano.
– È come una lupa con i suoi cuccioli – commentò Leonida, sorridendo.
– Attento a come parli, ragazzo, se non vuoi che questo vecchio ti tagli la
lingua – ammonì Priastes, posando davanti al re un vassoio d’argento.
Parmenion mangiò in fretta, accompagnando le focacce al miele con il vino
annacquato, poi congedò Priastes e si rivolse a Leonida.
– Non conosco gli efori, quindi voglio che li saluti tutti per nome – disse.
– Lo farò. Gli uomini che ho scelto sono già diretti a casa di Chrisophus e di
Soteridas, ed io li raggiungerò non appena la riunione sarà iniziata.
– Se dovessi trovare qualcosa di incriminante torna a palazzo e unisciti a noi.
Non dire però nulla, limitati a indicare il colpevole.
– Farò come vuoi tu.
– Bene. Ora accompagnami dagli efori.
I due uomini lasciarono l’alloggio del re e scesero lungo la scala decorata da
statue per poi imboccare un lungo corridoio. I servi si inchinarono al loro
passaggio e le sentinelle disposte nei giardini reali scattarono sull’attenti quando
videro sopraggiungere i due uomini, che infine arrivarono ad una porta a due
battenti davanti alla quale erano di guardia due soldati armati di spada e di scudo.
Entrambi i guerrieri salutarono, poi posarono la lancia e spinsero i battenti,
aprendoli.
Parmenion entrò in un vasto androne. Divani erano distribuiti lungo le pareti e
il pavimento era decorato da uno splendido mosaico raffigurante il dio Apollo che
cavalcava un enorme leopardo. Gli occhi del dio erano zaffiri, quelli del leopardo
erano fatti di smeraldi. Dodici colonne su ciascun lato sostenevano il tetto e gli
arredi erano decorati in oro. All’ingresso di Parmenion i sei efori si alzarono in
piedi e Leonida andò loro incontro per salutarli, mentre Parmenion ascoltava i
nomi che venivano pronunciati.
– Dexipus, giuro che diventi ogni giorno più grasso. Da quanto tempo non ti fai
più vedere sul terreno di addestramento?... Ah, Cleander, ci sono finalmente notizie
di quella spedizione di merci? Faccio affidamento su di essa per pagare i miei
debiti di gioco... Cosa vorrebbe dire che non so giocare, Lycon? Ho soltanto avuto
sfortuna con i dadi, ma mi rifarò.
Senza parlare, Parmenion si diresse intanto verso il grande divano addossato
alla parete settentrionale e si distese su di esso, ascoltando con attenzione la
conversazione. Subito gli si avvicinò un uomo alto e ampio di spalle, che portava
una semplice tunica azzurra stretta in vita da una cintura di cuoio nero bordata di
filo d’argento. I suoi capelli erano grigi come il ferro, i suoi occhi di un azzurro
incredibile.
– Sono lieto di vederti vivo, sire – dichiarò l’uomo, con voce fredda e profonda.
– Anche noi ne siamo stati più che grati, Soteridas – intervenne Leonida,
venendo ad affiancarglisi. – Infatti se il re non avesse causato quella valanga
adesso nessuno di noi sarebbe qui.
– L’ho sentito dire – replicò Soteridas, – ma si è trattato di una così piccola
vittoria di fronte ad una così vasta sconfitta.
– È vero – convenne in tono sommesso Parmenion, incontrando con fermezza
lo sguardo del suo interlocutore. – Ma del resto la sconfitta era garantita... non è
così, Soteridas?
– Cosa intendi dire, sire?
– Non l’avevi forse predetta? Non hai affermato che i presagi erano contro di
noi? Ora basta con le chiacchiere inutili e cominciamo la riunione.
Così dicendo Parmenion lasciò vagare lo sguardo sui presenti e Soteridas tornò
a sedersi accanto a Chrisophus, un uomo bruno dalla mascella volitiva e
pronunciata che indossava una tunica di un verde scintillante e portava intorno alla
gola una spessa collana d’oro.
– Oggi – esordì Parmenion, – abbiamo un solo interrogativo a cui rispondere:
che ne sarà ora di Sparta?
Contemporaneamente Leonida si congedò con un inchino e lasciò la stanza, le
cui porte si richiusero alle sue spalle.
– Di certo esiste una sola risposta – dichiarò Chrisophus, allargando le mani. –
Dobbiamo venire a patti con Philippos, perché ora non possiamo più opporgli
resistenza.
– Sono d’accordo – aggiunse Soteridas. – Il re di Makedon è imbattibile... come
perfino il nostro strategos ha avuto modo di scoprire.
– Mi secca votare a favore di una simile linea di azione – ribatté Dexipus, un
tozzo guerriero dalla carnagione scura, stempiato e barbuto, – ma non vedo come
gli si possa resistere. Con il numero di uomini di cui dispone potrebbe avvolgerci
sui fianchi e costringerci a formare il quadrato, impiegando poi soltanto lanciatori
di giavellotto e arcieri per finirci.
– Io dico di combatterlo lo stesso – ruggì Cleander.
Parmenion rimase stupito di sentire una voce così possente scaturire da un
corpo tanto scheletrico, in quanto Cleander era magro al punto da apparire
emaciato, con la pelle giallastra e gli occhi velati. – Che altro possiamo fare,
fratelli? Non abbiamo di fronte un re nemico ma con una forza demoniaca ela resa
non ci salverà dagli orrori che vengono da un uomo del genere. Meglio morire in
battaglia.
– Con tutto il rispetto, Cleander – ribatté Chrisophus, – tu stai già morendo in
ogni caso. Tutti noi siamo addolorati della tua malattia, ma comunque tu hai meno
da perdere di chiunque altro in città... le donne e i bambini, per esempio.
– Sì, sto morendo, ma non è per questo che dico che bisogna combattere. I
nostri bambini non saranno maggiormente al sicuro di quelli di Kadmos. Qui siamo
di fronte alla forza del male e non ci possono essere compromessi.
– In ogni guerra ci sono molte esagerazioni – replicò Chrisophus, – e il nemico
viene sempre dipinto come una bestia. Philippos è un re guerriero... imbattuto e
invincibile... ma è soltanto un uomo e nulla di più.
– Non sono d’accordo – intervenne un’altra voce, e nel girarsi per vedere chi
avesse parlato Parmenion scoprì che si trattava del più giovane fra gli efori,
Lycon... un uomo avvenente sui venticinque anni con i capelli e gli occhi scuri. –
Io ho incontrato il re dei Makedones, ho visto cosa ha fatto a Metone e a Platea. E
sono d’accordo con Cleander: dobbiamo combatterlo.
A quel punto scoppiò un’accesa discussione.
– Basta! – ruggì Parmenion, poi si rivolse ad un uomo alto e massiccio dalla
folta barba nera che sedeva in fondo alla stanza. – Tu non hai ancora parlato,
Timasion. Non hai un parere da offrire?
– Sono indeciso, sire – ammise Timasion, scrollando le spalle. – Il mio cuore
dice di combattere, la testa di trattare. Posso chiedere cosa rivelano i presagi?
Soteridas si alzò e s’inchinò prima al re e poi agli altri efori.
– Oggi abbiamo sacrificato una capra al Padre Zeus. Il fegato era macchiato, il
ventre canceroso. Morte e distruzione faranno seguito a qualsiasi tentativo di
muovere guerra a Philippos. Gli dèi sono contro di noi.
– Come lo erano a Mantinea? – azzardò Parmenion.
– Esattamente, sire – convenne il capo sacerdote.
– È stata una battaglia interessante – commentò Parmenion. – Abbiamo infranto
il loro attacco e quasi sbaragliato il centro nemico, ma perfino trecento Spartani
non possono ottenere una vittoria da soli. Naturalmente, è ancora più interessante
avanzare supposizioni su cosa sarebbe potuto succedere se l’attacco fosse stato
condotto da cinquemila Spartani.
– Gli dèi si sono mostrati contrari ad una cosa del genere – gli fece notare
Soteridas.
– Così tu ci hai riferito. Trovo strano che gli dèi di... Achaea... abbiamo scelto
di schierarsi dalla parte del Re Demone, ma del resto io non sono un veggente e
non sta a me mettere in discussione la saggezza di Zeus. Dimmi, Chrisophus, in
che modo placheresti il re dei Makedones per salvare Sparta?
– Non puoi prendere in considerazione una cosa del genere! – tempestò
Cleander.
– Silenzio! – tuonò Parmenion. – Desidero sentire Chrisophus. Il tuo turno di
parlare verrà ancora in seguito, Cleander.
Chrisophus si alzò in piedi e prese la parola con voce suadente e in toni
confortanti, affermando che avrebbero mandato una delegazione di ambasciatori a
Philippos offrendogli amicizia fraterna e pace duratura e portandogli dei doni.
L’abilità di cavaliere di Philippos era ben nota, e lo stesso Chrisophus gli avrebbe
donato i suoi migliori stalloni della Tracia; in questo modo si sarebbe evitata la
guerra e Sparta si sarebbe trovata ad essere alleata con la nazione più potente del
mondo.
L’eforo continuò a parlare ancora per qualche tempo, sottolineando infine che
Philippos, essendo un re guerriero, avrebbe inevitabilmente condotto i propri
eserciti a nord e ad ovest, cercando di conquistare le città achaee ed etrusche in
Italia. Ancora più ad ovest si allargavano le favolose terre dei Galli, dove gli edifici
erano fatti di oro e di gemme e si diceva che i re fossero immortali.
– Chiedendo la pace adesso – suggerì infine, – otterremo in effetti di liberare
prima l’Achaea dalla presenza di Philippos. Naturalmente, mi offro di guidare la
delegazione che andrà da lui – concluse, riadagiandosi sul suo divano.
– Naturalmente! – sbuffò Cleander.
In quel momento Leonida rientrò nella stanza. Parmenion, il solo uomo che
fosse rivolto verso l’ingresso, rimase in attesa del suo segnale, e quando lui indicò
Chrisophus e Soteridas rispose annuendo. Intanto alcuni uomini armati entrarono
nella stanza e andarono lentamente e schierarsi dietro i divani su cui sedevano i
traditori. Chrisophus deglutì a fatica, arrossandosi in volto.
– Cosa succede, sire? – chiese Cleander.
– Sii paziente – replicò il re. – Ci troviamo sull’orlo dell’abisso. Una forza di
grande malvagità si aggira sulla terra e noi abbiamo avuto la possibilità di liberare
il mondo dalla sua presenza, ma siamo stati ostacolati perché gli agenti di Philippos
sono dappertutto.
Fece una pausa, lasciando che il suo sguardo si posasse sui due traditori, e sentì
l’ira montargli dentro. Quei due uomini avevano causato la morte del re spartano e
di migliaia di altri combattenti sul campo di Mantinea e la sola cosa che desiderava
era attraversare la stanza per piantare la spada nel loro cuore immondo, però si
costrinse a calmarsi e riprese a parlare.
– La corruzione è insita nella natura dell’Oscurità, e gli uomini deboli o avidi
sono sempre suscettibili ad essere corrotti. Chrisophus e Soteridas hanno tradito la
loro città, il loro popolo e il loro re, hanno avviato trattative segrete con Philippos e
hanno cospirato perché il Re Demone fosse vittorioso a Mantinea. Non so cosa sia
stato loro offerto in cambio di questo tradimento e non m’importa saperlo. Hanno
tentato di condannarci tutti e i loro crimini sono scritti nel sangue.
Soteridas rimase seduto, pallidissimo in volto, mentre Chrisophus si issò in
piedi.
– Ciò che ho fatto è stato per Sparta – ribatté. – Non si tratta di tradimento
perché la vittoria finale di Philippos è sempre stata un dato di fatto scontato che
soltanto uno stolto cercherebbe di negare. Io sono il solo uomo che può salvare la
città perché Philippos si fida di me e mi concederà condizioni eque. Senza di me
non potete sopravvivere. Pensateci!
– Ci ho già pensato – affermò Parmenion. – Sparta combatterà... e vincerà. Ma
tu... e il tuo prete leccapiedi... non vivrete abbastanza da vedere la sua vittoria.
Leonida!
– Sire?
– Rimuovi dalla stanza queste... creature e portale nel luogo delle esecuzioni.
Provvedi subito e bada che i loro corpi siano lasciati in tombe senza nome.
Chrisophus si ritrasse dalle guardie alle sue spalle e avanzò sul pavimento di
mosaico.
– Non siate stolti! – gridò. – Io vi posso salvare!
Improvvisamente tirò fuori una daga dalla tunica e si lanciò contro Parmenion,
ma il re scattò in piedi con la spada già fuori del fodero, affondando la lama nella
lucida tunica verde dell’eforo traditore. Con un gemito Chrisophus si accasciò
all’indietro e Parmenion liberò con uno strattone la spada dal suo corpo, mentre il
sangue fiottava dall’arteria femorale recisa e inzuppava la seta verde. Chrisophus
crollò in ginocchio con le mani strette intorno al ventre, poi si rovesciò su un
fianco; subito parecchi soldati provvidero a trascinare via il corpo lasciando una
scia di sangue sul pavimento di mosaico. Soteridas era intanto rimasto
assolutamente immobile, inespressivo in volto, e non reagì neppure quando due
soldati lo presero per le braccia e lo portarono via.
– Per gli dèi, sire – sussurrò Cleander. – Non ci posso credere. Apparteneva a
una vera famiglia spartana, una nobile casata... una discendenza di eroi.
– Giudicare un uomo soltanto dai suoi natali è pura follia – ribatté Parmenion. –
Ho conosciuto figli di vigliacchi che erano estremamente valorosi e figli di ladri a
cui si poteva affidare il tesoro di una nazione. Il tradimento non è una caratteristica
che si trasmette con il sangue, Cleander, è una cosa che si annida nell’anima.
– Adesso cosa facciamo, sire? – domandò Leonida.
– Adesso? Ci prepariamo alla guerra.
A due giorni di cavallo a sudovest della città, Attalus sollevò una mano per far
fermare il gruppo e lasciò vagare lo sguardo sull’impervio panorama circostante...
roccioso ed erto, con una rada vegetazione e solcato da una rete di ruscelli. Durante
il viaggio avevano aggirato i pochi villaggi presenti in quella terra inospitale, ma si
erano fermati in parecchie fattorie isolate dove avevano ottenuto cibo e grano per i
cavalli.
Attalus era a disagio, perché sapeva che i cacciatori erano sempre più vicini.
Elmo era stato il primo ad avvistare gli inseguitori, sul finire del giorno precedente,
quando il sole al tramonto aveva strappato qualche riflesso alla punta delle lance di
un’unità di cavalleria che si trovava circa un’ora più indietro rispetto a loro. La
foschia causata dalla calura aveva impedito ad Attalus di distinguere i singoli
cavalieri, ma erano di certo almeno una cinquantina.
Ektalis si venne ad affiancare al Macedone e indicò una nube di polvere visibile
verso ovest.
– Cavalieri – disse il Korinthio. – Probabilmente Messeni, e sono al servizio del
Tiranno.
Il gruppo deviò verso sudest e cavalcò fino a notte inoltrata. I cavalli però erano
stanchi e quando la luce della luna infine scomparve dietro un banco di nubi
inatteso Attalus fu costretto a ordinare una sosta. Senza accendere il fuoco, si
accamparono in mezzo ad alcuni massi sul fianco di una collina, e dopo che Ektalis
ebbe disposto le sentinelle i fuggiaschi si prepararono a dormire. Tutti ma non
Attalus.
Elmo lo trovò seduto in disparte con lo sguardo fisso sulla pista, verso nord.
– Dovresti riposare – consigliò il guerriero.
– Non posso. Pensieri, piani, paure mi ronzano nella mente come vespe
infuriate.
– Quanto sono ancora distanti i boschi dell’Incantesimo? – chiese Elmo, il cui
volto metallico brillava in maniera strana sotto la luce della luna.
– Un altro giorno di viaggio... o almeno così afferma Brontes.
– In questo caso abbiamo due possibilità – commentò Elmo. – Riuscire o
morire.
– Molto confortante – scattò Attalus.
– Per me lo è – ribatté Elmo, con un sorriso, e tornò fra i massi per dormire.
Il silenzio circondò il Macedone e un vento freddo gli sussurrò sul volto. Per
un’ora rimase seduto in solitudine, infelice e avvilito, poi il rumore di un cavallo
che si avvicinava al passo lo riscosse dalle sue riflessioni. Alzandosi in piedi con
agilità estrasse la spada, chiedendosi perché le sentinelle non avessero dato
l’allarme. Poi il cavallo si addentrò fra i massi e Thena si lasciò scivolare a terra.
Riposta la spada, Attalus andò a raggiungerla.
– Dov’è Parmenion? – chiese.
– A Sparta, dove sta radunando un esercito.
– Perché? Dovrebbe essere qui con noi e lasciare che il re spartano combatta da
solo le sue battaglie.
– Parmenion è il re spartano.
– Che follia è questa?
– Ho sete. Procurami un po’ d’acqua, poi parleremo – replicò Thena, allonta-
nandosi per andare a sedersi sul fianco della collina.
Attalus fece come lei aveva chiesto e le sedette accanto mentre beveva, poi la
donna gli espose con lentezza gli eventi che avevano portato alla decisione di
Parmenion e i problemi che questi si trovava davanti.
– Ma non c’è nessuna speranza di vittoria – protestò Attalus. – Non sono uno
strategos, Thena, ma perfino io so che il primo obiettivo di una battaglia è quello
di contenere i fianchi nemici, perché altrimenti si viene accerchiati e distrutti. E
cinquemila uomini non possono contenere l’esercito che ho visto su quella pianura.
– Lo so – ammise lei, in tono stanco.
– Stai dicendo che Parmenion morirà laggiù? Perché? In nome di Ecate,
perché?
– È un uomo d’onore.
– Onore? Cosa c’entra l’onore con questo? Non deve nulla a quella gente, e il
suo dovere è verso Alessandro e verso il suo re.
– Ma Alessandro è affidato a te... e Parmenion si fida di te.
– Dannazione a lui! Crede di essere un dio e di poter sconfiggere chiunque gli
sbarri la strada? Philippos lo distruggerà.
– Parmenion vuole che tu conduca Alessandro nei boschi e che trovi Brontes –
replicò Thena, massaggiandosi gli occhi stanchi. – Una volta là discuteremo di un
piano che lui ha elaborato.
– Se questo piano prevede che io e Alessandro si torni in Macedonia allora lo
appoggerò... ma non ti aspettare che raggiunga la città o prenda parte a qualsiasi
battaglia perduta in partenza contro il Re Demone.
In quel momento un vento freddo sfiorò la schiena di Attalus e una voce
sibilante gli fece accapponare la pelle.
– Davvero saggio da parte tua – sibilò la voce. Attalus si girò di scatto con la
spada in pugno. Davanti a lui si librava una forma pallida che sembrava forgiata
con la nebbia e che si condensò progressivamente fino a diventare quella di un
uomo ampio di spalle, barbuto e possente, il cui occhio destro brillava come oro.
Intanto Thena rimase seduta in disparte, in silenzio.
– Ah, Attalus – sussurrò Philippos, – è davvero strano trovarti schierato contro
di me, perché tutto nel tuo cuore e nella tua anima mi dice che mi dovresti
appartenere, che dovresti marciare al mio fianco. Io ti posso offrire ricchezze,
donne, imperi, ma tu mi sei ostile, e per cosa? Per un bambino che un giorno ti
ucciderà. Dallo a me e porrò fine alla minaccia che lui costituisce per te.
– Io non sono al tuo servizio – ribatté Attalus, con voce rauca.
– No, sei al servizio di una mia versione meno potente. Tu segui un uomo,
mentre qui potresti seguire un dio. Quest’idea ti piace, vero? Sì, posso leggerlo nel
tuo cuore. Palazzi, Attalus, nazioni intere sotto il tuo dominio. Potresti essere re.
– Le sue promesse non hanno valore – ammonì Thena, ma le sue parole
suonarono acute e vacue.
– Lui lo sa – ribatté Philippos. – Sa che sto dicendo la verità, che guerrieri con
le sue doti si procureranno sempre l’odio e l’invidia di uomini inferiori. Perfino
Filippo un giorno gli si rivolterà contro ma qui, con me, potrà avere quello che la
sua anima desidera. Non è così, Attalus?
– Sì – ammise lo spadaccino. – Potrei servirti bene.
– Allora fallo. Portami il bambino oppure aspetta che arrivino i cavalieri. In un
modo o nell’altro io ti ricompenserò. La figura del Re Demone tremolò e
scomparve.
– Non possiamo sconfiggerlo – disse Attalus, rivolto a Thena. – Non possiamo.
– Cosa farai?
– Lasciami solo, Thena, ho bisogno di riflettere.
– No, questo è ciò di cui non hai bisogno. Invece hai bisogno di usare le tue
emozioni. Lui ha definito Filippo un uomo inferiore. Sei d’accordo su questo?
– Non ha importanza che io sia d’accordo o meno. Nella vita si può soltanto
vincere o perdere, e Philippos è un vincitore.
– Vincere o perdere? La vita non è una gara – ribatté Thena. – Un uomo che
non perde mai una battaglia ma conclude i suoi giorni solo e senza amore non ha
vinto... una verità di cui sei consapevole, qualsiasi cosa tu possa dire per sostenere
il contrario, altrimenti non avresti servito Filippo con tanta fedeltà. Sii onesto con
te stesso, Attalus, tu gli sei affezionato.
– Sì, è vero – gridò lo spadaccino, – e questo mi rende stolto quanto lo è
Parmenion. Però qui potrei essere re.
– Certamente. Tutto quello che devi fare è tradire Filippo e far assassinare suo
figlio.
Per un momento Attalus rimase in silenzio, a testa china.
– Ho già tradito altri in passato – mormorò infine. – Non è tanto difficile.
– Ah, ma hai mai tradito un amico? – intervenne Elmo, emergendo dall’ombra.
– Non ho mai avuto amici – ribatté Attalus.
– Cosa mi dici di questo... Filippo?
– Si fida di me – sospirò Attalus. – Sa cosa sono e cosa ho fatto, e tuttavia si
fida di me e mi definisce perfino un amico. – D’un tratto scoppiò in una risata
piena di amarezza. – E lo sono. Morirei per lui... e probabilmente lo farò.
– Bene – commentò Elmo, – se la discussione è finita, ora vorrei tornare a
morire.
– Non tradirò il bambino – affermò Attalus, rivolto a Thena.
Lei si alzò e gli si venne a fermare davanti.
– Sei un uomo migliore di quanto tu sappia – disse, fissando i suoi occhi chiari.
– Sono ciò che sono – replicò Attalus, scuotendo il capo.
Derae lo seguì con lo sguardo mentre tornava fra i massi per sdraiarsi in
disparte e protese fugacemente il proprio Talento per placare le sue paure e
permettergli di trovare rifugio nel sonno.
Stranamente, si sentiva rincuorata. Philippos aveva commesso un errore. Aveva
decifrato l’animo di Attalus, interpretando bene ciò che vi aveva trovato, ma aveva
comunque sbagliato e quella era la prima crepa nell’armatura di invincibilità del Re
Demone. Il Tiranno aveva fallito.
Derae non riusciva quasi a crederci... fra tutti gli uomini che potevano essere
corrotti l’amareggiato Attalus dall’animo pieno di odio avrebbe dovuto essere la
vittima più facile, e tuttavia aveva resistito alle promesse di Philippos anche se il
lato più oscuro del suo carattere aveva desiderato poterle accettare.
La sacerdotessa si sedette, appoggiando la schiena contro un masso. Nel
momento stesso in cui Philippos era apparso lei aveva congiunto la propria mente a
quella di Attalus con l’intenzione di sostenerlo e di aiutarlo, ma non ce n’era stato
bisogno perché all’interno del Macedone c’era un singolo, minuscolo filo che
scintillava nell’oscurità della sua anima: il suo attaccamento a Filippo.
Derae si chiese da dove nascesse quel sentimento. Attalus era capace di
commettere qualsiasi malvagità, e tuttavia si era dimostrato incorruttibile.
– È una bella notte – commentò Elmo, sedendosi accanto a lei.
– Credevo che avessi bisogno di dormire.
– Il sonno senza sogni è simile alla morte, signora – annuì lui.
Non hai ancora ricordato nulla della tua vita?
– No.
– Sembri molto calmo. A me non piacerebbe essere derubata del mio passato.
Elmo sorrise, mostrando denti di bronzo all’interno della bocca metallica.
– Io però non so quale sia, o meglio fosse, il mio passato, e da questa mancanza
di conoscenza deriva una certa tranquillità. Forse ero un uomo malvagio, forse nel
mio passato ci sono azioni che mi farebbero provare vergogna.
– Non percepisco malvagità di sorta in te, Elmo.
– Però è il mondo a modellarci, Thena, e il male genera male. Se un uomo
cresce con l’odio nel cuore, allora le sue azioni saranno governate dall’odio... come
nel caso di Attalus, forse. Io non ho ricordi. Non ho forma.
– Il nucleo del tuo essere è immutato – replicò lei. – Hai salvato Iskander,
rischiando la vita, e sei in grado di capire il significato dell’amicizia e della lealtà.
– Ma il bambino mi può liberare da questo... incantesimo, e ciò mi fornisce un
egoistico motivo per combattere per lui.
– La mia vita è stata lunga – affermò Derae, – più di quanto riveli questo corpo
giovanile, e l’esperienza mi ha insegnato che il male prospera quando uomini e
donne sono deboli... e tu non sei debole. Fidati di me. Non dico che tu sia un uomo
mite o un santo... la tua abilità con la spada confuta questa possibilità. Però non sei
malvagio.
– Lo vedremo – rispose soltanto Elmo.
Attalus piantò la spada nel corpo di un assalitore, liberandola poi con uno
strattone e spingendo il cadavere oltre i massi. Intanto però un secondo uomo che
si era arrampicato sulla barriera lanciò un giavellotto contro il Macedone; questi si
gettò da un lato e il proiettile andò a trafiggere la schiena di un guerriero korinthio
che combatteva al fianco di Elmo.
Recuperato l’equilibrio, Attalus si scagliò contro l’uomo che aveva lanciato il
giavellotto, ma questi era già scomparso alla vista.
– Venite, figli di cani! – urlò lo spadaccino. – Dove siete?
I Messeni si erano però ritirati dal fortino di massi, trascinandosi dietro i feriti.
Voltandosi di scatto, Attalus scrutò i difensori: tre Korinthi erano morti e altri
quattro erano seriamente feriti. La sacerdotessa era impegnata a risanare le ferite
più pericolose e Alessandro era seduto accanto a lei, tranquillo e con il giovane
volto privo di espressione.
– Quanti? – chiese lo spadaccino, asciugandosi il sangue che gli colava da un
taglio poco profondo sulla fronte e avvicinandosi ad Elmo.
– Ne abbiamo uccisi dodici e un’altra mezza dozzina non sarà più in grado di
combattere.
– Non basta – borbottò Attalus.
– Presto ne uccideremo ancora – ribatté Elmo.
– Cominci a piacermi – ridacchiò lo spadaccino. – È una vergogna che noi si
debba morire qui.
– Non siamo ancora morti – gli fece notare il guerriero.
– Non potremo tenere questa posizione per molto – intervenne Ektalis,
raggiungendoli. – Siamo già troppo pochi per difenderla.
– Lo vedo da me! – scattò Attalus. – Stai forse suggerendo di arrenderci?
– No, sto soltanto sottolineando ciò che è ovvio: un altro attacco in massa ed
entreranno nel cerchio... e una volta dentro non li potremo contenere.
– Hai un piano?
– Potremmo tentare la fuga. Una volta nei boschi avrebbero difficoltà a
seguirci.
Attalus salì sul masso più vicino e diresse lo sguardo verso la foresta che
cominciava ad appena un chilometro di distanza. Era così vicina... eppure era come
se quegli alberi si trovassero dall’altra parte dell’oceano perché oltre trenta
guerrieri erano in attesa più in basso, e le loro cavalcature erano di razza Attica... di
parecchi palmi più alte dei cavalli korinthi e makedoni, e molto più veloci.
– Non copriremmo neppure metà di quella distanza – replicò, rivolto ad Ektalis,
– e una volta sulla pianura ci eliminerebbero uno alla volta.
– Allora non ci resta che combattere e morire – commentò il Korinthio.
Attalus si limitò ad annuire, reprimendo una risposta rabbiosa. Erano sfuggiti al
primo gruppo di cavalieri ma erano poi stati intercettati e bloccati dal secondo.
Elmo aveva avvistato quel cerchio di massi e si erano asserragliati dietro di essi per
opporre resistenza.
E avevano fallito quando erano ormai in vista dei boschi! Attalus sentì
insorgere la propria ira. Era tutta colpa di Parmenion, se fosse rimasto con loro non
sarebbe successo tutto questo e invece no, lui doveva giocare all’eroe.
– Ne stanno arrivando altri – avvertì Elmo.
Guardando verso nord Attalus scorse una nube di polvere che preannunciava
almeno altri cinquanta cavalieri messeni.
– Che vengano pure tutti qui – esclamò con un’imprecazione. – Che differenza
fa? Trenta erano comunque troppi, quindi tanto vale che siano cento, o centottanta.
E imprecò ancora.
Sotto di loro, i Messeni attesero l’arrivo dei compagni, poi Attalus vide i due
ufficiali nemici allontanarsi dagli uomini per discutere della strategia da seguire.
Intanto il sole stava cominciando a tramontare tingendo di fiamma il cielo sulle
lontane montagne.
– Porterò Alessandro nel bosco – disse Thena, a bassa voce, avvicinandosi ad
Attalus.
– Ti prenderanno – obiettò lui.
– Non ci vedranno – spiegò lei, in tono stanco, – però non posso fare lo stesso
per te e per gli altri. I miei poteri sono logorati, ma perfino al massimo della loro
potenza non avrei potuto celare alla vista un gruppo così numeroso.
Attalus le volse le spalle, con l’animo che ribolliva di una furia omicida.
– Prendilo! – disse. – Prendilo, maledizione a te.
Per un momento ancora la sacerdotessa rimase immobile, poi si ritrasse e
condusse Alessandro ai cavalli, issando il principe su uno di essi e montando dietro
di lui. I Korinthi la osservarono senza parlare mentre Elmo venne avanti con passo
tranquillo, arrestandosi accanto al cavallo.
– Dove stai andando? – chiese in tono sommesso.
– Nei boschi. Nessuno mi fermerà.
– Il bambino è importante per me. Se dovessimo perderlo morirei senza un
passato.
– Lo so. Ma il suo destino è più grande dei tuoi desideri.
– Non per me, signora.
– Allora devi fare una scelta, Elmo – ribatté lei, con voce neutra e con
espressione serena. – Puoi estrarre la spada e fermarmi, ma allora il Re Demone
avrà il bambino, perché non potete difendere questa collina dai cavalieri che la
circondano.
– Questo è vero, signora – ammise il guerriero. – Va’ in pace. – Sollevò quindi
una mano per battere un colpetto sulla gamba di Alessandro e aggiunse: – Spero
che tu abbia successo nella tua impresa, ragazzo. Mi seccherebbe morire per
niente.
Alessandro annuì, ma non rispose.
Thena diede quindi uno strattone alle redini e il cavallo uscì dal cerchio di
massi, avviandosi lentamente giù per il pendio della collima. Attalus, Elmo e i
Korinthi guardarono la donna cavalcare in piena vista in direzione dei Messeni,
senza che nessuno si muovesse per intercettarla o mostrasse di vederla mentre
attraversava il loro campo e proseguiva alla volta degli alberi. Poi Attalus tirò fuori
una pietra per affilare dalla sacca che portava alla vita e cominciò a passarla sulla
sua spada.
– Bene, se non altro abbiamo frustrato gli intenti del nemico – commentò Elmo.
– Questa è davvero una grande consolazione per me – sibilò Attalus.
– Sei sempre così sgradevole? – ribatté il guerriero.
– Soltanto quando sto per morire.
– Capisco. Allora non pensi che possiamo vincere?
Attalus si girò di scatto, in preda ad una furia che rasentava la follia, ma quando
vide l’ampio sogghigno sul volto metallico e l’espressione beffarda negli occhi di
bronzo la tensione lo abbandonò di colpo e lui sorrise a sua volta con sincero buon
umore.
– Che ne dici di fare una scommessa? – propose.
– Su cosa?
– Scommetto che ucciderò un numero maggiore di avversari.
– Ma con che cosa scommettiamo? Io non ho denaro.
– Neppure io, quindi che ne dici di scommettere mille pezzi d’oro?
– Tu però hai già abbattuto tre uomini contro i miei due – gli fece notare Elmo.
– Penso che dovemmo ripartire da zero e contare gli avversari soltanto a
cominciare dal prossimo attacco.
– Allora siamo d’accordo?
– Assolutamente – confermò Elmo.
– Stanno arrivando! – gridò Ektalis.
Parmenion si svegliò poco prima dell’alba, nella stanza immersa nel buio più
totale tranne per un solo raggio di luna che filtrava dalla finestra della balconata.
Era solo... e aveva freddo. Sollevandosi a sedere si massaggiò la pelle delle spalle
per reagire a quel gelo degno del più cupo inverno e lasciò scorrere lo sguardo per
la stanza alla ricerca di una coperta o di un mantello. Il solo calore che poteva
avvertire era quello che derivava dalla collana che portava intorno alla gola.
Qualcosa si mosse al di là del raggio di luce lunare, e Parmenion si alzò di
scatto dal letto, estraendo la spada dal fodero.
– Fatti vedere! – ordinò.
Una figura spettrale venne avanti alla luce della luna, e lo shock di Parmenion
fu enorme: a parte l’occhio dorato quell’uomo era Filippo... con i capelli e la barba
dello stesso nero lucido come quello del pelo di una pantera, con i movimenti
sicuri e decisi. Però non era Filippo, e Parmenion si ritrasse di fronte allo spirito
del Re Demone.
– Mi temi? È saggio da parte tua – affermò l’uomo. – Però ti opponi a me, e
questo è stolto. Io conosco tutte le tue azioni, conosco i tuoi pensieri, i tuoi piani
sono per me come un libro aperto. Perché persisti in questa lotta insensata?
– Cosa vuoi qui? – ribatté Parmenion.
– C’è un bambino con i capelli dorati. Fallo portare da me e risparmierò te e la
tua città. Lui non significa nulla per te, non appartiene neppure a questo mondo. È
un demone e porta dentro di sé un seme di malvagità che deve essere distrutto.
– Un demone, dici? Allora di certo dovrebbe essere tuo amico, non credi,
Philippos?
– Io sono un uomo, Parmenion – ribatté Philippos, con voce disinvolta e
amichevole, mentre il suo occhio dorato brillava alla luce pallida della luna. – Le
azioni che compio sono dettate dalla mia volontà, e tu dovresti capirlo, perché sei
tu stesso un guerriero e un ottimo generale, tanto che sei arrivato vicino a
sconfiggermi. Questo è tutto ciò che sono, Parmenion, un re guerriero che sta
costruendo un impero. È stato così fin dall’alba dei tempi, e gli uomini grandi
cercheranno sempre il potere. Guardami! Vedi forse un demone?
– Vedo un uomo che ha massacrato i propri figli per cercare di diventare un
dio. Vedo un uomo posseduto da un demone. Non cercare di persuadermi,
Philippos, perché non sono corruttibile.
– Un bambino soltanto in cambio di un’intera città? Un bambino che non è
neppure spartano? Sei pazzo o soltanto stupido?
– I tuoi insulti non hanno importanza per me – dichiarò Parmenion. –’E poi ti
sbagli, io non ti temo. Ho imparato molte cose nel corso dèlla battaglia di
Mantinea: ho imparato che sei un generale scadente, privo di abilità strategiche. Fai
affidamento sul tuo Occhio magico per ottenere la vittoria, ma senza di esso non
saresti nulla. Entro pochi giorni affronterai la potenza di Sparta e allora conoscerai
la sconfitta e la morte, perché adesso io so come ucciderti, Philippos.
– Ora sono certo che sei pazzo. Io sono invulnerabile e invincibile. Nessuna
lama e nessun veleno noti all’uomo possono togliermi la vita. Schiera pure sul
campo i tuoi cinquemila uomini e il tuo esercito di schiavi, di vecchi e di bambini,
e vedremo come se la caveranno contro la potenza di Makedon! Questa volta
nessuna falsa dea ti salverà: ordinerò che tu venga preso vivo e ti farò scuoiare
sotto i miei occhi.
– Vedo forse la paura in te, demone? – rise Parmenion. – Che sapore ha?
L’immagine del re tremolò e la sua forma si espanse, i lineamenti si contorsero
e si tesero fino a quando gli occhi diventarono due fessure carminie in un volto
chiazzato di grigio dalla bocca enorme e senza labbra orlata di zanne; ricurve corna
di ariete emersero dai capelli scuri, ripiegandosi a poggiare contro il cranio
deforme, poi la bestia avanzò, ma Parmenion rimase saldo dove si trovava, con la
spada spianata.
– Paura, Umano? – chiese una voce raggelante. – Mi chiedi se conosco la
paura?
Ora Parmenion si sentiva la bocca arida, ma la sua spada era sempre salda,
anche quando la bestia gli si arrestò davanti, torreggiando sul suo corpo snello.
– Io sono il Signore di questo mondo, esso è mio, è sempre stato mio perché
tutto ciò che esiste è nato dal Caos. Tutto, dal più piccolo seme alla stella più
grande. Io camminavo su questo mondo prima che esistessero gli uomini, quando il
terreno bolliva sotto i miei piedi e l’aria era di fuoco, e vi camminerò ancora
quando sarà spoglio e nudo e non si udranno più le lamentose voci degli Umani
sulla sua superficie, perché esso sarà cenere e polvere, oscurità e gelo. Io sarò
ancora qui quando le stelle si consumeranno... e tu credi di potermi insegnare cosa
sia la paura?
– Non a te – ammise Parmenion. – Però lui ha avuto paura, altrimenti tu non ti
saresti mostrato.
– Sei astuto, Umano, ma non pensare che io non sappia che sei un impostore...
ti ho osservato nella foresta, e poi nel mare, quando la nave morta è affondata... ma
fallirai come ha fallito il tuo gemello. Non puoi vincere, e la cosa importante è che
lo sai anche tu.
– Ciò che so è che bisogna opporsi a te e che puoi essere sconfitto, perché il tuo
potere è limitato in quanto dipende dagli uomini che ti servono. Essi possono
morire... e tu puoi essere sconfitto.
– Come ho detto, sei un uomo astuto, Parmenion, ma sei anche condannato.
L’esercito spartano non ti servirà a nulla perché gli schiavi si daranno alla fuga alla
prima carica e allora i tuoi Spartani verranno circondati e annientati. A cosa sarà
allora servita la tua sfida?
Parmenion non rispose perché non c’era nulla da rispondere; invece sollevò la
spada e incontrò lo sguardo del demone. Esso tremolò e scomparve, ma la sua voce
sussurrante echeggiò ancora una volta.
– Farò in modo che tu viva abbastanza a lungo da vedere ogni uomo, donna e
bambino della città essere messo a morte. Sarai l’ultimo a morire. Pensaci sopra,
mortale, perché questo è il tuo futuro!
Parmenion si accasciò sul letto e lasciò che la spada gli sfuggisse di mano
mentre la disperazione si abbatteva su di lui, soffocando le sue emozioni e
annebbiando la sua capacità di giudizio. Come aveva potuto sognare di sconfiggere
una simile creatura.
– Io sono con te – disse una voce, nella sua mente.
– Thena?
– Sì.
– Hai visto?
– Sì, e sono orgogliosa del modo in cui gli hai tenuto testa. Alessandro è al
sicuro. Siamo alla Porta e qui ci sono molte creature dotate di grandi poteri, per cui
adesso Philippos avrebbe bisogno di un esercito per catturare Alessandro.
– Almeno queste sono buone notizie – commentò lo Spartano, sentendosi
assalire da un’ondata di sollievo. – Hai dato a Brontes il mio messaggio?
– Sì, ma non è riuscito a convincere gli altri a venire in tuo aiuto. Hanno timore
dell’Uomo... e a ragione veduta, visto che per secoli sono stati braccati e uccisi,
traditi e ingannati. Adesso tutto quello che vogliono è che l’Incantesimo venga
restaurato. Però Brontes, Elmo e Attalus stanno venendo a raggiungerti. Soltanto
loro.
– Me lo aspettavo, ma anche così è una delusione notevole.
– Rifletti per un momento su un’altra cosa – consigliò Thena. – Philippos non
ha potuto leggere nella tua mente, quindi almeno i tuoi piani sono al sicuro da lui.
A quel punto Parmenion sorrise.
– Ho soltanto un piano, signora, una colossale mossa d’azzardo. Se dovesse
fallire per noi sarà la fine.
– Soltanto uno?
– Non c’è tempo per eccessive sottigliezze, Thena: un solo tiro di dadi è tutto
quello che abbiamo.
– Allora devi farlo funzionare... e ci puoi riuscire, perché sei lo strategos, e la
speranza del mondo.
Parmenion trasse un profondo respiro, cercando di calmarsi.
– È possibile che Philippos non sia in grado di leggere i mieipensieri, ma nel
giorno della battaglia anche altri saranno a conoscenza dei miei piani, e se lui
dovesse scoprire la mia strategia tutto sarà perduto sul serio. C’è qualcosa che puoi
fare per evitarlo?
Ci fu un momento di silenzio.
– Ci penserò sopra – promise infine Thena.
– Mi ha fatto piacere sentirti di nuovo – osservò d’un tratto Parmenion.
– Possa la Fonte di Tutta la Vita essere con te, mio... amico.
– Preferirei avere con me cinquemila cavalieri, signora.
Nestus giaceva sveglio sullo stretto pagliericcio, ascoltando il russare degli altri
soldati. Quaranta uomini dormivano in quella lunga stanza, quaranta soldati
semplici spartani nessuno dei quali era disposto a rivolgergli la parola. Era un
uomo solo, e si sentì assalire dall’amarezza.
Suo padre aveva rifiutato di riceverlo e la notizia della sua vergogna si era
diffusa come il vento per la città, così adesso gli amici lo evitavano nelle strade,
distogliendo il volto e fingendo di non averlo visto.
Sentendosi la bocca arida si alzò dal letto e raggiunse a piedi nudi la stanza
vuota adibita a mensa, dove si versò un boccale d’acqua. Una brezza gelida gli
sfiorò la schiena nuda, strappandogli un brivido.
La vita era stata così piena di promesse per lui appena due anni prima... era
innamorato di Derae, ed era stato progettato per loro uno splendido matrimonio di
cui suo padre era stato molto orgoglioso. Unirsi alla casa reale... diventare cognato
del futuro re. Tutti sapevano che Leonida era l’erede apparente, e Nestus era il suo
migliore amico. Oh, quanto era apparso luminoso e dorato il futuro! Tanto dorato
da annullare perfino la sua frustrazione per essere costretto a prestare servizio agli
ordini di quel mezzosangue che era diventato il Primo Generale di Sparta.
Parmenion...
Adesso più che mai soltanto pensare a quel nome gli faceva salire la bile in gola
e gli faceva martellare il cuore nel petto.
Il ricordo di quella giornata era inciso a fuoco nella sua memoria, per non
essere mai più cancellato: Agisaleus era morto, Leonida doveva diventare re.
Convocato alla presenza del suo amico al Palazzo del Prezzo del Bestiame, lui
aveva gioito al pensiero delle alternative che gli si aprivano davanti. Stava per
essere promosso? Di quale reggimento avrebbe avuto fra breve il comando? Invece
aveva appreso che il suo matrimonio con
Derae era annullato e che la sua sposa... il suo amore... avrebbe dovuto sposare
Parmenion perché il mezzosangue potesse diventare re di Sparta.
– Avrei dovuto ucciderlo allora – sussurrò Nestus, immaginando la propria
spada che scivolava fra le costole di Parmenion, la luce vitale che svaniva dagli
occhi di quel bastardo.
Accasciandosi su una panca accanto ad un lungo tavolo si versò di nuovo da
bere.
Cosa gli restava adesso? La morte dopo il disonore. La distruzione di Sparta e il
massacro dei suoi abitanti. I suoi pensieri si spostarono su Derae e gli parve di
vedere mentre veniva trascinata fuori dal palazzo, violentata e poi massacrata dai
barbari.
La maledizione degli dèi era caduta sulla città perché avevano permesso ad un
mezzosangue di sedere sul trono!
La stanza si fece più fredda, ma Nestus quasi non se ne accorse.
Perché rimanere? Quel pensiero gli affiorò spontaneo nella mente,
sconvolgente per la sua nitidezza.
– E dove altro potrei andare?
A Creta. Hai degli amici su quell’isola... e hai del denaro.
– Non posso abbandonare i miei amici, la mia famiglia.
Loro hanno abbandonato te. Ti evitano quando li incontri per strada.
– Ho sbagliato. Ho estratto la spada contro il re.
Il mezzosangue? Un uomo che ha usato la magia nera per ottenere il trono e
rubare la tua donna?
La magia? Non ci aveva mai pensato prima. Ma certo, doveva trattarsi di
questo: Leonida era stato stregato, altrimenti per quale altro motivo un nobile
spartano avrebbe rinunciato la proprio diritto al trono?
Uccidilo.
– No, no, non posso.
Come gli eroi dei passato, uccidi l’uomo che ti ha rubato la sposa, riprenditi
ciò che è tuo di diritto. Derae ti ama. Salvala e portala lontano dalla città...
portala al sicuro a Creta.
– Al sicuro, sì. Posso salvarla. Lei mi ama, verrà con me e là potremmo essere
felici. Una breve cavalcata fino a Gytheum
e poi su una nave. Sì! Ucciderò quel mezzosangue e reclamerò ciò che è mio!
Sì!
Il gelo scomparve e sulla stanza scese un calore afoso. Quel cambiamento
improvviso strappò un brivido a Nestus, che si alzò in piedi e tornò al proprio letto,
indossando senza far rumore un chitone grigio e sandali alti fino al polpaccio. Poi
prese mantello e spada e lasciò gli alloggiamenti.
La casa di suo padre era buia e silenziosa, e lui entrò da una finestra al piano
terreno, muovendosi furtivamente da una stanza all’altra fino ad arrivare nello
studio di suo padre, dove dietro una cassapanca di legno intagliato era nascosta una
nicchia nelle pietre della parete; in essa c’erano cinque sacche di cuoio piene d’oro.
Prendendone due, Nestus lasciò in fretta la casa e raggiunse le stalle: uno stalliere
che dormiva sul fieno vicino alla porta si svegliò al suo ingresso, ma il pugno
gigantesco di Nestus gli calò sul volto, fracassandogli lo zigomo e facendolo ri-
cadere all’indietro svenuto.
Nestus mise quindi le redini ai due cavalli più veloci, fasciò loro gli zoccoli con
alcuni pezzi di stoffa e li condusse nelle strade rischiarate dalla luna, dirigendosi
verso il Palazzo del Prezzo del Bestiame. Alle porte principali c’erano soltanto due
sentinelle, entrambe a lui note. Lasciati i cavalli legati fuori vista dietro il muro
principale, Nestus si avvicinò a grandi passi alle porte e ai due uomini.
– Cosa vuoi qui? – sibilò uno dei due, poi il pugno di Nestus gli calò sulla
mascella, gettandolo a terra privo di sensi.
Il gigante balzò quindi addosso al secondo soldato, afferrandolo per la gola e
imprimendo un selvaggio strattone che lo sollevò da terra. Il collo dell’uomo si
spezzò con uno schiocco sonoro... Nestus, che non aveva avuto intenzione di
ucciderlo, lasciò cadere il corpo e indietreggiò inorridito.
Uccidi anche l’altro, fu il pensiero che gli affiorò nella mente.
Estratta la spada, la piantò senza esitazione nella gola del guerriero impotente,
poi spalancò le porte del palazzo e salì di corsa le lunghe scale fino al terzo piano,
percorrendo il freddo corridoio che portava all’appartamento della regina.
Adesso il cuore gli batteva rapido e aveva la bocca arida. La porta delle stanze
della regina era socchiusa e lui l’aprì appena quanto bastava per sgusciare dentro;
la luce della luna filtrava intensa attraverso la finestra della balconata, rischiarando
l’ambiente, e la prima cosa che attirò la sua attenzione fu una lucida tunica di seta
verde gettata con noncuranza su un divano. Accostandosi ad essa se la portò al
volto, annusando il profumo di cui era impregnata; il desiderio divampò dentro di
lui mentre raggiungeva senza fare rumore la camera da letto dove Derae giaceva
sulle coltri, soffermandosi sulla soglia a contemplare la sua figura illuminata dalla
luna. La regina era nuda e giaceva sul fianco, con le gambe raccolte e la testa
appoggiata sul braccio sinistro. La fronte di Nestus s’imperlò di sudore mentre lui
ammirava la pelle dorata che sembrava più candida dell’avorio nel chiarore lunare,
e tuttavia morbida e calda, rilucente di vita. Deglutendo a fatica si accostò al letto e
posò la spada insanguinata sulle lenzuola, facendo scivolare la mano sul braccio di
lei, poi lungo la vita e sulla curva del fianco. Derae gemette nel sonno e si girò
supina.
Nestus sorrise, con la mente attraversata da pensieri di gioia futura: una casa sul
mare, servitori, bambini...
Poi Derae si svegliò e lanciò un urlo, affannandosi ad allontanarsi. D’istinto
Nestus si protese ad afferrarla e le sue dita si chiusero intorno ai capelli di lei,
trascinandola indietro.
– Smettila! Sono io, Nestus. Sono venuto a prenderti, a salvarti!
Derae smise di lottare, mettendo infine a fuoco il suo volto.
– Cosa significa... a salvarmi? Sei impazzito? Se ti trovano qui morirai.
– Non m’importa. Stanotte ho ucciso due uomini e ucciderò chiunque altro
cerchi di fermarmi. Ho un piano, Derae: andremo a Creta, dove ho degli amici, e
saremo felici. Prima però ti devi vestire perché c’è poco tempo. Ti spiegherò tutto
lungo la strada.
– Sei pazzo!
– No! Ascoltami. La città è condannata, nulla la può salvare, e questa è la
nostra sola occasione di essere felici. Non capisci? Saremo insieme.
Abbassando lo sguardo, Derae vide la spada sporca di sangue.
– Cos’hai fatto?
– Quello che dovevo fare – rispose lui, sollevando una mano ad accarezzarle il
seno.
Derae si ritrasse.
– Parmenion ti ucciderà per questo – sussurrò.
– Lui è solo nel palazzo e non è mai sorto il giorno in cui mi potesse
sconfiggere in duello. Nessuno può battermi, perché sono il migliore.
Improvvisamente Derae rotolò giù dal letto e anche se Nestus scattò in avanti
per prenderla riuscì a sfuggirgli e a oltrepassare di corsa la porta. Raccolta la spada
Nestus la inseguì, ma Derae era ormai uscita nel corridoio e stava urlando con
quanta voce aveva.
– Parmenion! Parmenion!
Spiccando la corsa dietro di lei, Nestus la raggiunse in cima alle scale e la tirò
indietro per i capelli.
– Sgualdrina! Hai detto che mi amavi, e adesso mi tradisci.
– Non ti ho mai amato! – esclamò Derae, sollevando di scatto la mano e
colpendolo con forza su una guancia. Nestus la scagliò lontano da sé e sollevò la
spada.
– Ti ucciderò! – urlò.
Proiettandosi lontano da lui, Derae fuggì lungo le scale scendendole a due
gradini per volta, ma quando tentò di riprendere l’inseguimento Nestus inciampò e
cadde in avanti, perdendo la stretta intorno alla spada. Stordito, si rialzò e recuperò
l’arma che era caduta su un tappeto ricamato steso ai piedi delle scale, poi ruotò su
se stesso, alla ricerca di Derae.
– Hai la tua spada – disse la voce di Parmenion, in tono sommesso. – Adesso
usala!
Il re era in piedi nel corridoio, nudo, con Derae che si nascondeva dietro di lui.
– Ora morirai, mezzosangue! – sibilò Nestus.
Parmenion si limitò a sorridere, sollevando la spada, e quando Nestus si gettò in
avanti con l’arma spianata per un affondo al ventre si spostò con scioltezza di lato,
parando la lama e protendendo un piede ad agganciare la gamba dell’avversario in
corsa. Nestus colpì il pavimento con violenza ma si rialzò in fretta.
– Sii più attento – consigliò Parmenion, in tono freddo. – L’ira rende incauti.
Nestus caricò di nuovo, questa volta calando la spada in un fendente diretto alla
gola di Parmenion, ma il re si abbassò su un ginocchio e la lama tagliò soltanto
l’aria sopra la sua testa, mentre la sua spada si piantò nell’inguine di Nestus.
Parmenion liberò la propria arma con uno strattone, rialzandosi, e il gigante urlò,
muovendo parecchi passi incespicanti in avanti e poi crollando al suolo con il
sangue che fiottava dall’arteria recisa. Cercò di rialzarsi, ma le forze lo stavano
abbandonando e si accasciò con la faccia contro la fredda pietra del pavimento del
corridoio.
La furia che lo aveva pervaso parve defluire insieme al suo sangue.
Cosa ci sto facendo qui? pensò.
Poi sentì un rumore di piedi in corsa e una voce che gridava.
– Qualcuno ha cercato di uccidere il re!
Doveva trattarsi di questo, era lì per salvare il re dai suoi nemici.
Sì. In preda al sollievo chiuse gli occhi, pensando che suo padre sarebbe stato
molto fiero di lui.
Ritraendosi dal corpo, Parmenion spinse Derae nelle proprie stanze e chiuse la
porta alle loro spalle, lasciando cadere la spada sul pavimento.
– Era posseduto – disse Derae, insinuandosi nel suo abbraccio.
Parmenion la tenne stretta a sé, le mani incrociate alla base della sua schiena, e
nessuno dei due sentì la porta che si apriva o vide entrare Leonida. Per un
momento il guerriero spartano non disse nulla, poi si schiarì la gola.
– Cosa c’è, Leonida? – chiese Parmenion, girandosi senza però lasciar andare
Derae.
– Volevo vedere se eri illeso... sire.
– Oh, Leon, è stato spaventoso – esclamò Derae. – Avresti dovuto vedere i suoi
occhi. Non avrei mai immaginato che Nestus fosse così.
– Ha ucciso due sentinelle – replicò Leonida, con voce fredda. – Però vedo che
tu stai bene, sire, quindi vi lascio... entrambi. Domattina sarò pronto a marciare.
Abbiamo detto cinque giorni, se ben ricordi.
Poi s’inchinò e lasciò la stanza.
– Era di umore strano – sussurrò Derae, stringendosi maggiormente al presunto
marito.
Avvertendo il calore della pelle di lei contro il proprio petto, Parmenion pensò
che nel comportamento di Leonida non c’era nulla di strano: aveva soltanto visto
sua sorella fra le braccia di un impostore.
– Ti amo – disse Derae. – Promettimi che tornerai.
– Come posso farti una simile promessa? – replicò lui, con voce soffocata.
– Basterà che tu lo dica. Non credo che sarai sconfitto. Sei Parmenion, il re di
Sparta. Sei il mio Parmenion.
– Una volta – sorrise lui, tenendola stretta, – qualcuno mi ha detto di pianificare
ogni cosa come se intendessi vivere per sempre ma di vivere ogni giorno come se
fosse l’ultimo che mi restava da passare sulla terra. Facciamolo, trattiamo questa
notte come se fosse l’ultima.
La condusse nella camera da letto e si sdraiò accanto a lei, traendola a sé. Si
amarono con lentezza, perché lui non provava passione... soltanto un disperato
bisogno di avvertire la sua pelle contro la propria, di essere in lei, parte di lei. Poi
sentì la passione che montava, ma rallentò e si ritrasse.
– Perché ti fermi? – domandò Derae, protendendosi ad accarezzargli la guancia.
– Non voglio che finisca. Non ora... non stanotte... mai.
– Lo hai detto con tanta tristezza, mio caro. Non ci dovrebbe essere tristezza.
Non stanotte... non per noi.
Nel parlare, Derae lasciò scivolare le proprie dita lungo la superficie del suo
petto, sui muscoli del ventre e più in basso, accarezzandolo. Lui gemette.
– Ti faccio male? – chiese Derae, in tono serio ma con un’espressione sorniona
negli occhi.
– Sei una dissoluta – ribatté Parmenion, spingendola indietro e rotolando su di
lei, – e ti tratterò come tale.
Scivolando giù dal letto le morse leggermente l’interno della coscia. Con un
grido, lei allargò la gamba per sfuggirgli, ma Parmenion girò la testa... le sue
labbra scivolarono sulla peluria morbida di lei, la sua lingua la penetrò. Derae
gridò ancora,ma lui la ignorò e la tenne ferma quando cercò di dibattersi. Poi
improvvisamente lei si rilassò e cominciò a gemere, inarcando violentemente il
corpo e irrigidendo le gambe... questa volta le sue grida non erano di dolore o di
indignazione ma derivavano dal violento rilasciarsi della tensione che può essere
provocato soltanto dall’orgasmo. Alla fine ricadde accasciata sul letto, con le
braccia allargate.
– È piacevole essere trattata come una dissoluta? – domandò Parmenion,
sdraiandosi accanto a lei.
– È meraviglioso – ammise Derae, – ma promettimi di non rivelarmi mai dove
hai imparato a fare queste cose.
– Lo prometto.
– Ho cambiato idea. Dimmelo.
– Giuro sulla mia anima che non ho mai fatto prima nulla del genere su questo
mondo.
– Non può essere vero.
– Lo giuro. Sei la prima donna di Achaea di cui abbia abusato in questo modo.
Sollevandosi su un gomito, Derae lo fissò per un momento negli occhi, poi
sorrise.
– Ti credo – affermò lentamente, – ma c’è qualcosa che non mi stai dicendo.
– Sei dunque una veggente? – ribatté Parmenion, costringendosi a sorridere per
nascondere il suo improvviso disagio.
– Una volta Tamis mi ha detto che possedevo il Talento, ma che non era
sviluppato. Cosa mi stai nascondendo?
– In questo momento pare che non stia nascondendo proprio nulla – ribatté lui,
abbassando lo sguardo sul proprio corpo nudo.
– Voglio controllare – annunciò Derae. Sollevandosi sulle ginocchia gli baciò il
ventre, spostando la testa verso il basso.
– Oh, no! – protestò Parmenion, protendendosi a trattenerla. – Non puoi farlo!
Non è conveniente.
– Non è conveniente? – ripeté lei, facendo echeggiare la stanza della propria
risata. – Un bacio degno di una regina non dovrebbe essere disprezzato da un re.
Parmenion cercò di discutere, ma soltanto per un momento, perché poi le sue
labbra lo toccarono, la sua bocca scivolò su di lui e ogni obiezione si spense sul
nascere.
Più tardi, mentre sedevano su un divano sorseggiando del vino, sentirono dei
passi nel corridoio oltre la stanza principale e Derae si affrettò a tornare nella
camera da letto mentre Parmenion prendeva la spada e apriva la porta. Fuori
c’erano due soldati, accompagnati da Leonida.
– Cosa succede? – domandò Parmenion.
– Philippos sta marciando di notte, nel tentativo di sorprenderci. Due dei nostri
esploratori sono appena rientrati, avvertendo che i Makedones saranno in vista
della città entro mezzogiorno di domani.
– Saremo pronti ad accoglierli – garantì Parmenion.
– Sì. Mia sorella è ancora con te?
– È qui.
– Posso entrare?
– No, amico mio. Questa... ultima notte... è per noi. Capisci?
– Credo di sì. Ma è una scelta che potrebbe apparire meno saggia alla luce del
sole di domani.
– La mia vita è piena di molti rimpianti, ma se dovessi morire domani almeno
questa notte non sarà uno di essi.
– Non stavo pensando a te – ribatté Leonida.
La verità racchiusa nelle sue parole colpì Parmenion come un pugno. Se lui non
avesse manifestato a Derae il proprio amore il ricordo che la donna avrebbe
conservato di lui sarebbe stato quello di un re dal carattere freddo che non provava
nulla per lei, e il dolore che la sua morte le avrebbe causato sarebbe stato minimo.
E sia che conseguisse la gloria della vittoria o incontrasse la morte e la
sconfitta, Parmenion sarebbe svanito dalla sua vita, perché lo aveva promesso a
Leonida... aveva promesso che sarebbe stato re soltanto per cinque giorni... o fino
alla fine della battaglia.
Poi avrebbe perduto nuovamente Derae...
– Mi dispiace, amico mio – sussurrò Leonida, scorgendo l’espressione disperata
apparsa sul volto del re.
Senza rispondere, Parmenion indietreggiò e chiuse la porta, sostando per un
momento nell’oscurità delle sue stanze.
– Chi era? – chiese Derae, dalla camera da letto.
– Era Leonida – rispose lui, raggiungendola e sdraiandosi al suo fianco. – I
Makedones saranno qui domani.
– Tu li sconfiggerai – dichiarò lei, con voce assonnata. Parmenion le accarezzò
i capelli e trasse il lenzuolo su entrambi. All’alba era ancora sveglio, e sentì
Priastes entrare nella stanza esterna. Alzatosi senza far rumore, lasciò la camera da
letto e si chiuse la porta alle spalle. Il vecchio servitore, che indossava corazza,
elmo e schinieri, si inchinò al suo ingresso.
– Hai un aspetto feroce – sorrise Parmenion.
– Una volta ero un uomo temibile – ridacchiò Priastes, – e rimane in me ancora
qualcosa di quell’uomo, come i Makedones avranno modo di scoprire. Quale
armatura vuoi indossare?
– Una semplice corazza, con schinieri e protezioni per i polsi, perché
combatterò a piedi. E trovami un elmo privo di decorazioni.
– Non desideri spiccare fra i tuoi uomini in battaglia? – chiese Priastes,
sorpreso.
Parmenion si soffermò a riflettere. Il vecchio aveva ragione. In passato lui era
sempre stato un generale al servizio di un monarca, di un satrapo o di una città,
mentre qui era il re e degli uomini si stavano preparando a combattere e a morire
per lui. Era loro diritto vedere il re in azione... e soprattutto era un dovere per
Parmenion, perché il morale delle truppe era una cosa fragile e in più di
un’occasione lui aveva visto Filippo modificare l’andamento di una battaglia con la
sua semplice presenza in armatura dorata e con l’elmo piumato. Gli uomini lo
guardavano cavalcare incontro al pericolo e il loro cuore si gonfiava di orgoglio.
– Hai ragione, Priastes – disse infine. – Portami l’armatura più adorna ed
elaborata che posseggo.
– Il che significa l’elmo dorato con il pennacchio di crini bianchi e le protezioni
per le guance decorate con l’avorio – rise il vecchio. – Un pezzo di grande bellezza
e tuttavia resistente, che ti farà risplendere come il sole e riempirà Apollo di
gelosia.
– Non è mai saggio far ingelosire gli dèi.
– Ah, ma del resto Apollo è più avvenente di te, quindi non gli importerà se la
tua armatura è più splendente.
Un’ora più tardi, quando il sole sbucò sopra le montagne, Parmenion oltrepassò
le porte del palazzo dopo aver incontrato Cleander e gli altri incaricati della difesa
cittadina, e venne accolto da Leonida, da Timasion, da Learcus e dagli altri uffi-
ciali. Essi si inchinarono tutti al suo avvicinarsi, e Parmenion si sentì arrossire.
L’elmo era esattamente come Priastes lo aveva descritto e l’armatura di ferro e di
bronzo rivestita di oro battuto era abbagliante sotto il sole. Perfino le protezioni per
i polsi e gli schinieri erano decorati in avorio e argento, e il mantello bianco che gli
pendeva dalle spalle era intrecciato con fili d’argento che lo facevano scintillare
sotto il chiarore dell’alba.
I soldati lo videro ed estrassero la spada, battendo la lama contro lo scudo in
un’incredibile cacofonia di suoni. Sollevando la mano lui ricambiò il saluto e
lasciò vagare lo sguardo sulle file schierate lungo la Strada del Commiato.
– È arrivato il momento di svelare i tuoi piani? – domandò Leonida,
avvicinandoglisi con un ampio sorriso sul volto.
Parmenion annuì e chiamò a sé gli ufficiali. La collana di Tamis era fredda
contro la sua gola, e lui parlò in tono sommesso e concisamente, osservando le
reazioni. Ascoltarono tutti in silenzio, poi fu Leonida a porre la prima domanda.
– Che accadrà se...
– No, amico mio, niente «se» – lo interruppe Parmenion, sollevando una mano.
– E se il sole si mutasse in fuoco? Se l’oceano si levasse dal suo letto? Non c’è
tempo per simili pensieri. Ho visto il Re Demone in azione e so che abbiamo una
sola possibilità di vittoria. È quindi vitale che le sue truppe di fanteria attacchino
gli Spartani, ignorando inizialmente gli schiavi. Se riusciremo a indurlo a fare
questo avremo una probabilità di successo, altrimenti non ce n’è nessuna. Adesso
prepara i tuoi reggimenti e mettiamoci in marcia.
Osservò quindi con attenzione gli uomini che lo circondavano: nessuno di loro
era contento della sua strategia, e tuttavia anche qui in quest’altra Grecia la
disciplina spartana era inflessibile. Gli ufficiali salutarono e si allontanarono.
Parmenion andò a portarsi in testa alla colonna, con Leonida al suo fianco.
– Prego gli dèi che tu abbia visto giusto, Parmenion – sussurrò il guerriero.
– Speriamo che ti sentano – rispose Parmenion.
L’avanguardia aveva appena lasciato la città quando tre cavalieri
sopraggiunsero al galoppo da sud: Attalus ed Elmo procedevano fianco a fianco,
con il minotauro Brontes appena più indietro, appollaiato goffamente sulla sua
cavalcatura.
Attalus fermò il cavallo accanto a Parmenion e balzò a terra.
– Non ci sarà aiuto dal sud – gli disse, fissando suo malgrado con ammirazione
la splendida armatura che lui aveva indosso.
– Non ne aspettavo. Resta accanto a me.
Intanto anche Brontes ed Elmo erano smontati, lasciando i cavalli liberi di
allontanarsi, e vennero a raggiungere il re.
– Benvenuti, amici miei – salutò Parmenion, porgendo la mano prima a
Brontes.
– Mi dispiace che i miei fratelli dell’Incantesimo non abbiano voluto venire a
combattere con te, Parmenion – affermò il minotauro, – ma non vogliono avere
parte alcuna in quella che vedono come una guerra fra uomini. Forse sarei riuscito
a persuaderli, ma quando ho detto loro che avevi offerto il nuovo Incantesimo
anche a Gorgone questo li ha indisposti ancora di più nei tuoi confronti. Se non
avessi mostrato amicizia per quel demone adesso avresti potuto forse avere un
secondo esercito.
– Ma Alessandro non avrebbe raggiunto la Porta senza l’aiuto di Gorgone – gli
ricordò Parmenion. – Comunque non ha più importanza. Siamo schierati in campo
soli... e in questo c’è una certa forza. – Si rivolse quindi ad Elmo e aggiunse: –
Credevo che saresti rimasto con Iskander. Non è lui la chiave per ritrovare i tuoi
ricordi?
– Mi ha consigliato lui di venire qui – rispose il guerriero dal volto di bronzo. –
Ha affermato che con te troverò la mia risposta.
– E tu cosa mi dici, Attalus? – chiese Parmenion. – Non era necessario che
venissi.
– Mi sono abituato alla tua compagnia... sire, e non volevo mancare alla
battaglia imminente. Il Re Demone mi ha inseguito dovunque su questo mondo.
Ora sarò io a dare la caccia a lui.
– Lo faremo insieme – sorrise Parmenion.
IL CAMPO INSANGUINATO
Philippos stava osservando la battaglia dal suo posto alla testa delle guardie, e
nel vedere con disgusto gli schiavi spartani che assumevano la formazione
sbattendo gli uni contro gli altri e lasciando cadere qua e là qualche scudo sentì
diminuire la propria eccitazione. Di solito le battaglie erano piene di gioia sel-
vaggia e di violente emozioni, ma questa lo lasciava indifferente e quasi annoiato,
perché era più che probabile che gli schiavi cedessero e si dessero alla fuga ancora
prima di venire a contatto con i Regolari.
E ciò che sarebbe seguito si sarebbe ridotto ad un massacro..
Spostando lo sguardo sugli Spartani dal mantello rosso li vide manovrare con
scioltezza per passare dalla formazione offensiva... una compatta falange larga
duecentocinquanta scudi e profonda venti file... ad un più ampio schieramento di
cinquecento scudi per fila. Le loro lance si abbassarono quindi a formare una linea
perfetta che destò un brivido di apprezzamento nel re dei Makedones. Quelli erano
guerrieri!
I suoi uomini spiccarono la corsa e si divisero in due contingenti che deviarono
verso la destra e la sinistra del campo. Sorridendo, Philippos sbirciò fra la polvere
sempre più alta per assistere allo sgomento delle file di schiavi. Frecce e giavellotti
si levarono dai fianchi spartani, piombando sui Makedones lanciati alla carica e
abbattendo decine di uomini, mentre molti altri incespicavano sui loro corpi... ma
la carica risultò inarrestabile.
L’eccitazione andò crescendo nel re di Makedon, le cui mani cominciarono a
tremare: la linea di schiavi sulla destra stava cedendo ancora prima di essere stata
raggiunta dal nemico.
No, non stava cedendo...
Stava cambiando!
All’inizio il re non riuscì a credere ai propri occhi, perché gli schiavi avevano
congiunto con perizia gli scudi a formare la classica falange d’attacco spartana e
stavano avanzando lungo il fianco della collina. Nella fretta di schiacciare il
nemico i Makedones avevano abbandonato la loro formazione perché erano
convinti di dover soltanto spazzare via finti guerrieri, quindi adesso non avevano
più nessuna parvenza di schieramento ed erano un’orda scura che stava correndo su
per ciascun pendio collinare. Philippos spostò lo sguardo verso destra e vide che
anche da quella parte gli schiavi stavano avanzando in formazione perfetta per
affrontare la carica.
Follia, pensò, ma una sottile e gelida scheggia di paura cominciò a crescere
nella sua mente.
C’era decisamente qualcosa che non andava, ma che importanza poteva avere?
Come poteva un branco di schiavi resistere ad un assalto frontale?
La polvere si levò in nubi dense e accecanti, e l’Occhio dorato prese a
risplendere quando lo spirito del Re Demone si librò sulle file di combattenti. I
primi guerrieri makedones arrivarono a contatto con gli schiavi... soltanto per
essere abbattuti con consumata perizia dalle spade che fendettero loro la carne
mentre gli scudi nemici si congiungevano come una diga contro la marea
makedone.
Philippos spostò la sua attenzione sul contingente principale, che continuava a
tenere la propria posizione senza fare il minimo tentativo di andare in aiuto degli
schiavi su nessuno dei due fianchi.
Ora la carica stava perdendo impeto, il campo era cosparso di morti makedones
e gli schiavi stavano continuando ad avanzare mietendo vittime con le spade
grondanti sangue. I Makedones tentarono disperatamente di riformare lo
schieramento, ma gli schiavi non concessero loro l’opportunità di farlo.
E Philippos rimase a guardare quella strage in preda alla confusione.
Stolto! esclamò la voce nella sua mente. Non riesci a capire cosa sta
succedendo?
– Lasciami in pace! – urlò il re.
Parmenion è stato più furbo di te. Gli schiavi sono gli Spartani. Si sono
scambiati mantello ed elmo. E tu hai attaccato in formazione sparsa i più grandi
guerrieri del mondo.
– Cosa posso fare?
Non è ancora tutto perduto. Manda le Guardie contro il centro spartano.
– In che modo questo ci potrà aiutare?
Gli Spartani dovranno sospendere il loro attacco e questo darà alle tue truppe
il modo di riassumere la formazione. Agisci subito, o sarà tutto perduto!
Philippos si riscosse ed estrasse la spada.
– Avanti! – urlò.
E seimila guerrieri scelti, l’orgoglio di Makedon, sollevarono spada e scudo con
espressione cupa e fredda, e si misero in marcia contro gli schiavi schierati intorno
al re spartano.
LA CITTÀ DI SPARTA
Con suo notevole disgusto, Cleander dovette essere trasportato sulla sommità
del tetto da due giovani servitori quando in città arrivò la notizia che la cavalleria
nemica era stata avvistata; i polmoni rovinati dell’eforo erano prossimi al
cedimento totale e lui era stato costretto a rinunciare perfino alla semplice corazza
di cuoio e all’elmo, perché il loro peso era eccessivo per il suo fisico logorato.
Quando i servi arrivarono in cima alla scala e lo issarono sul tetto, la sua
respirazione si era fatta affannosa e irregolare, e un respiro più profondo degli altri
fu seguito da un devastante colpo di tosse che fece spruzzare alcune carminie
gocce di sangue sulle pietre bianche. Cleander si eresse faticosamente sulla persona
e si avvicinò lentamente al basso parapetto che cingeva l’edificio, dalla cui
sommità poteva guardare lungo la Strada del Commiato: sulla sinistra c’era l’agora
cinta da barricate, con i banchi del mercato rovesciati in modo da bloccare tutte le
uscite, mentre sulla destra poteva vedere l’aperta pianura e la nube di polvere che
annunciava l’arrivo del nemico.
Sollevando la mano convocò a sé il suo servitore personale Dorian, un giovane
kadmiano nato al suo servizio. Il giovane aveva con sé un ricurvo corno di bue che
si portò alle labbra, traendone una singola, limpida nota che echeggiò attraverso la
città mentre Cleander lasciava vagare lo sguardo sulla sommità dei tetti dove i
lanciatori di giavellotto e gli arcieri nascosti si stavano facendo vedere, sollevando
la mano in risposta al segnale prima di tornare a scomparire alla vista.
Il sudore stava colando negli occhi di Cleander, e il suo volto era di colore
cinereo sotto l’abbronzatura.
– Sdraiati per un momento, signore – sussurrò Dorian, prendendo il suo
padrone per un braccio.
– Sdraiarmi... significa... morire – rispose l’eforo e si inginocchiò invece vicino
al parapetto.
Il suo corpo carente di ossigeno era devastato dal dolore ma Cleander si
costrinse a resistere: il re gli aveva affidato la difesa della città e lui avrebbe svolto
il suo dovere fino in fondo. Ancora una volta riesaminò la strategia da seguire,
chiedendosi se in essa esistesse qualche pecca che poteva essere scoperta dal
nemico. Lui aveva bloccato tutte le strade tranne la Via dei Re e la parallela Strada
del Commiato: entrambe portavano all’ampia piazza del mercato intorno a cui si
allargavano decine di vicoli tortuosi, che però erano stati a loro volta ostruiti con i
banchi del mercato e con il mobilio prelevato dalle case. Cleander spostò il proprio
pensiero sui comandanti in seconda che aveva selezionato: alcuni lo
preoccupavano un poco, altri parecchio, ma del resto i guerrieri migliori erano
scesi sul campo con Parmenion ed era inutile agitarsi a causa della qualità di quelli
rimasti in città.
Il nemico si stava avvicinando in fretta, tanto che adesso Cleander poteva
vedere il sole riflettersi sugli elmi e sulle lance: i cavalieri che stavano galoppando
alla volta della città erano migliaia, e quella vista fece affiorare il timore nel cuore
del vecchio Spartano. Come avrebbero potuto tenere a bada tanti uomini?
– Padre Zeus, dammi la forza necessaria – pregò, poi sollevò lo sguardo su
Dorian, aggiungendo: – Abbassati, ragazzo, e aspetta il mio segnale.
Altri tre uomini li avevano intanto raggiunti sulla sommità del tetto; due di essi
erano armati di arco e muniti di parecchie faretre di frecce, mentre il terzo si andò a
porre accanto ai venti giavellotti dalla punta di ferro appoggiati al parapetto, sop-
pesandone uno per valutarne il peso e il bilanciamento.
– Aspetta... il segnale – ammonì Cleander, e l’uomo annuì con un sorriso.
Una volta ero un guerriero, pensò Cleander. Se fosse stato quello di un tempo
avrebbe potuto scendere in campo accanto al suo re, munito di elmo e di spada,
gloriandosi della propria forza e della propria potenza. Un altro spasimo di tosse
devastò il suo corpo scheletrico, luci abbaglianti gli danzarono davanti agli occhi e
lui si accorse che stava scivolando di lato. Dorian lo afferrò, tenendolo eretto,
mentre Cleander sentiva la vista che gli si offuscava e l’oscurità che si chiudeva su
di lui. Con un supremo sforzo di volontà la respinse, concentrandosi sulla
cavalleria al galoppo: essa si divise e metà di essa si lanciò su per la Strada del
Commiato.
Nel lontano passato Sparta aveva posseduto alte mura robuste, ma Licurgo, il
leggendario fondatore del credo guerriero, aveva detto agli Spartani che un muro di
guerrieri era meglio di un muro di pietra e le difese cittadine erano state abbattute.
Tale era l’orgoglio di Sparta, tale la forza del suo esercito, che nella sua storia non
era mai successo che un nemico si fosse avvicinato abbastanza da minacciare la
città.
Fino ad ora...
Quando la cavalleria si riversò lungo la Strada del Commiato, Dorian guardò
verso Cleander, ma l’eforo morente scosse il capo. I nemici continuarono ad
avanzare, con i mantelli bianchi che si agitavano in una nube sulle spalle dei
cavalieri. Molti di essi erano Korinthi ed erano armati soltanto di lancia e di spada,
con l’armatura ridotta al minimo perché la loro protezione era basata sulla velocità
della cavalcatura e sul piccolo scudo circolare fissato al braccio sinistro. Cleander
attese che la cavalleria fosse arrivata quasi in fondo alla Strada del Commiato e che
tutta la colonna fosse sparpagliata lungo la via sotto si lui.
– Adesso! – sussurrò.
Un lungo squillo scaturì dal corno e gli uomini si sollevarono in piedi su ogni
tetto, riversando verso in basso i giavellotti in una nera nube di morte che si riversò
devastante sugli invasori. I cavalli crollarono a centinaia, scagliando i loro cavalieri
sull’acciottolato, poi gli arcieri presero a tempestare i superstiti, che non avevano
dove fuggire. Tuniche e mantelli bianchi si tinsero di macchie carminie e le urla
dei morenti echeggiarono per tutta la città. Per un momento Cleander osservò la
strage con occhio spassionato, poi si girò per seguire con lo sguardo l’avanguardia
della colonna avversaria, che stava entrando in quel momento nell’agora, dove
venne accolta con una tempesta di proiettili.
Schiavi armati scavalcarono le barricate e si lanciarono alla carica contro i
demoralizzati invasori, trascinandoli giù da cavallo e abbattendoli con coltelli e
accette.
La cavalleria sconvolta cercò di fuggire, ma la sola via di uscita dalla trappola
era quella da cui era venuta, e adesso era ostruita dai cadaveri di uomini e cavalli.
E così la strage continuò.
Cleander si accasciò sulla sommità del tetto.
La vista gli si oscurò sempre più fino a quando gli uomini che lo circondavano
divennero ombre indistinte, poi una figura luminosa entrò nel suo campo visivo,
dando l’impressione di emergere da una nebbia scintillante. Cleander si alzò, di
colpo libero dal dolore, e fissò negli occhi l’uomo che aveva davanti.
– Non ti sono venuto meno, sire. La città è salva.
– Hai agito bene, cugino – rispose Parmenion, re di Sparta.
Cleander abbassò lo sguardo sul proprio fragile corpo, che giaceva dimenticato
in mezzo al protrarsi del combattimento: era così emaciato e consumato... ed era un
tale piacere essersene liberato. Poi si sentì assalire dalla disperazione. Se il re era lì
con lui, allora...
– Abbiamo perso, sire?
– Non ancora. La battaglia continua. Seguimi.
– L’ho fatto per tutta la vita, sire e lo farò sempre. Ma dove stiamo andando?
– Sul Campo Insanguinato, amico mio, perché là ci sono molti Spartani che
avranno bisogno di una guida prima che questa giornata sia finita.
IL CAMPO INSANGUINATO
Leonida si disimpegnò dalla prima linea e risali di corsa il pendio della collina,
girandosi infine per vagliare l’andamento della battaglia. Il piano di Parmenion
aveva funzionato a meraviglia ma il rapporto numerico era ancora a loro
svantaggio. Certo, i mercenari traci erano fuggiti dal campo, ma i loro ufficiali sta-
vano ora cercando disperatamente di raggruppare i superstiti e quando si fossero
rincuorati sarebbero tornati all’attacco.
Socchiudendo gli occhi per scrutare attraverso la polvere, Leonida vide che
Parmenion stava conducendo gli schiavi contro le guardie, mentre sulla sinistra
Learcus era messo in difficoltà dai Regolari e stava guadagnando ben poco terrena.
Come in tutte le battaglie, i primi a cadere erano stati i meno abili, i deboli, i lenti e
gli inetti: adesso rimanevano soltanto i veri combattenti e non si poteva certo
mettere in discussione il coraggio dei Makedones. Sconvolti e demoralizzati dalla
carica iniziale, stavano ora dimostrando la loro disciplina e l’esito della battaglia
cominciava a poco a poco a volgere in loro favore.
Il campo era cosparso di cadaveri, nella vasta maggioranza Makedoni o
mercenari, ma anche gli Spartani avevano subito delle perdite, e nel vagliare con
occhio esperto il proprio contingente Leonida calcolò che dei duemilacinquecento
uomini che aveva avuto inizialmente ai suoi ordini ne rimanevano ora poco più di
duemila, disposti in una falange di duecento scudi per dieci file.
E contro di loro erano schierati quattromila irregolari illiri, riconoscibili dalla
corazza rossa e dall’elmo adorno di corna... soldati esperti ma privi di disciplina,
motivo per cui il reggimento di Leonida li stava lentamente spingendo indietro,
senza però che essi mostrassero traccia di panico o l’intenzione di ritirarsi.
Era però necessario prendere comunque una decisione.
In quel momento Leonida vide Parmenion guidare i suoi uomini in un attacco
sul fianco contro le guardie... una mossa coraggiosa ma condannata a fallire se non
avesse trovato supporto. Presa una decisione, il giovane ufficiale tornò di corsa
verso la battaglia.
– Ultime cinque file, formare il cuneo! – urlò. – Formazione per dieci!
Le ultime cinque file del suo reggimento si spostarono con scioltezza sulla
sinistra e modificarono lo schieramento fino a disporsi su dieci file di cinquanta
scudi, con Leonida al centro affiancato su ciascun lato da due ufficiali.
– Il re! – tuonò il giovane guerriero.
Gli uomini della prima fila sollevarono lo scudo e cominciarono a marciare,
deviando verso sinistra. Con un’assordante cacofonia di urla di guerra, gli Illiri si
lanciarono contro il lato più debole della falange, il destro. Quello era proprio il
rischio che Leonida aveva accettato di correre, in quanto lo scudo veniva sempre
portato sul braccio sinistro e quando un reggimento deviava verso destra esponeva
all’attacco il fianco destro, perché lo scudo restava rivolto verso l’interno. Però il
giovane non aveva scelta, perché ordinare di assumere la consueta formazione a
quadrato avrebbe rallentato la loro avanzata fino a rendere quasi impossibile ogni
movimento in avanti. Sebbene avessero soltanto la spada con cui tenere a bada gli
assalitori, gli uomini schierati sulla destra erano comunque Spartani e gli Illiri
subirono gravi perdite nel loro tentativo di attraversare la falange.
Leonida sapeva che il peggio doveva ancora venire, perché quando fossero
riusciti a portarsi più avanti gli Illiri avrebbero avuto modo di spostarsi dietro di
loro... la sua sola speranza era che Timasion si accorgesse del pericolo, e con le
truppe rimaste ai suoi ordini lanciasse un contrattacco per difendere loro le spalle.
– Corsa lenta! – gridò Leonida. Non c’erano tamburini a scandire il ritmo, ma
gli Spartani reagirono all’istante e la prima fila si spostò ancora di più verso
sinistra. Lanciandosi un’occhiata alle spalle, Leonida vide che Timasion aveva
ordinato ai suoi uomini di avanzare a riempire la breccia da lui creata, per cui
adesso gli Illiri erano presi fra due fuochi.
Un’apertura apparve davanti al cuneo e Leonida riuscì a vedere Parmenion e i
suoi guerrieri che lottavano per contenere le Guardie. L’enorme minotauro e il
guerriero con il volto di metallo erano circondati dai nemici ma non stavano
cedendo terreno neppure di un passo.
– Il re! – urlò Leonida.
– Il re! – giunse la tonante risposta degli Spartani. Il giovane ufficiale vide
Parmenion scoccare uno sguardo all’indietro da sopra la spalla e ordinare
immediatamente ai suoi uomini di trarsi di lato, in modo da creare uno spazio che
permettesse agli Spartani lanciati alla carica di colpire in pieno il fianco sinistro
delle Guardie. Il fianco nemico si accartocciò sotto l’assalto improvviso e gli
Spartani penetrarono in profondità nel quadrato makedone.
E per la prima volta Leonida ebbe modo di vedere il Re Demone, che si trovava
al centro del suo reggimento con la spada in pugno.
Ora il caos regnava dovunque e la battaglia non seguiva più lo schema standard
delle linee parallele di forze contrapposte: dividendo la destra spartana Leonida
aveva giocato il tutto per tutto al fine di annientare il centro nemico.
Ma lì c’era il Re Demone, e lui era invulnerabile.
Anche nel fitto della mischia, con il braccio che cominciava a sentire il peso
della spada, Parmenion si rese conto che il punto culminante della battaglia era
stato raggiunto: poteva avvertirlo nello stesso modo in cui un corridore sente la
presenza di un rivale che sta silenziosamente riducendo le distanze alle sue spalle. I
Makedones combattevano ancora furiosamente, ma ora in essi c’era una sfumatura
di panico... per anni avevano vinto ogni scontro e quello avrebbe dovuto essere il
loro combattimento più facile ma tale aspettativa era stata crudelmente infranta e
adesso il loro morale era fragile, pronto a incrinarsi.
Parmenion bloccò un selvaggio affondo e calò la propria lama sul collo
dell’avversario in una letale risposta. L’uomo cadde all’indietro e per un momento
Parmenion si venne a trovare fuori dal centro dell’azione. Si girò di scatto,
guardando verso sinistra dove Learcus e il suo reggimento avevano ripreso ad
avanzare a spese dei Regolari. Sulla destra Timasion stava incitando i suoi uomini
a sbaragliare gli Illiri per poter raggiungere il centro del campo.
E tutt’intorno al re gli schiavi stavano tenendo le loro posizioni nonostante le
notevoli perdite... una vista che destò in Parmenion una rinnovata determinazione a
non lasciarsi sconfiggere: quegli uomini meritavano una vittoria.
Adesso però non c’era più spazio per la strategia. Nel cuore della carneficina in
corso sul campo di battaglia c’era spazio soltanto per la forza del braccio unita al
coraggio dello spirito umano. I Makedones combattevano soltanto per conquistare
e saccheggiare, mentre gli schiavi lottavano per conquistarsi la libertà e gli
Spartani per la loro città, la loro casa e il loro onore... una differenza significativa
adesso che ogni formazione si era dissolta e i due eserciti stavano lottando uomo
contro uomo sul campo intriso di sangue.
Un movimento sulla sommità delle colline verso sudovest attirò poi
l’attenzione di Parmenion. In un primo tempo il vorticare della polvere gli rese
difficile identificare di chi si trattasse, ma poi vide la forma gigantesca di Gorgone
discendere il pendio, seguita da centinaia di bestie provenienti dalla sua foresta,
alcune simili a rettili e coperte di scaglie, altre avvolte da un pelo irsuto. Molte
erano armate di rozzi randelli di nodoso legno di quercia ma i più non avevano
armi tranne zanne e artigli. Numerosi Vores volavano in cerchio nel cielo sulle
schiere in lotta, e a un segnale di Gorgone scesero in picchiata sui ranghi dei
Makedones, tempestandoli con i loro dardi dalla punta intrisa di veleno.
I Makedones che si trovavano alla retroguardia videro l’esercito di mostri che si
avvicinava... e cedettero al panico, gettando le armi e fuggendo dal campo. Altri
dotati di maggiore coraggio cercarono di unire gli scudi per fronteggiare il nuovo
nemico.
Le creature della foresta si abbatterono sui Makedones con forza terribile,
lacerando con gli artigli le armature e le cotte di maglia, strappando la carne e
spezzando le ossa come se fossero state rami di legno marcio. Nulla poté arrestare
la loro avanzata.
La difesa delle Guardie collassò su se stessa.
Un momento prima quegli uomini erano un esercito, quello successivo si
trasformarono in un’orda spaventata che cercava disperatamente di fuggire.
Brandendo due mazze di ferro, Gorgone si fece largo fra di loro abbattendo un
uomo dopo l’altro. I suoi occhi pallidi erano pervasi da un intenso bagliore, e
quando il loro sguardo si posava su di essi gli uomini che lui aveva davanti
urlavano e s’immobilizzavano per poi irrigidirsi e ridursi in polvere in pochi attimi.
Vedendo che le Guardie avevano ceduto al panico, anche gli Illiri che ancora
impegnavano il reggimento di Timasion si volsero e si diedero alla fuga.
Adesso soltanto un serrato quadrato di difensori circondava ancora il Re
Demone. Philippos estrasse la spada e attese, reso sicuro dalla propria invincibilità.
Infine Gorgone praticò un varco anche attraverso il muro di scudi che circondava il
re, e uno dei suoi randelli calò con violenza sulla spalla di Philippos. L’arma però
rimbalzò senza recare danno e il re di Makedon fu pronto a scattare in avanti,
affondando la spada nel petto dell’assalitore. Il Signore della Foresta indietreggiò
barcollando, con il sangue che fiottava dalla ferita, e Philippos accennò ad avan-
zare verso di lui... ma Brontes lasciò andare l’ascia e si lanciò in avanti, chiudendo
le braccia enormi intorno al corpo del re. Philippos prese a dibattersi nella sua
stretta, cercando invano di rivolgere la spada contro il nuovo assalitore, ma Brontes
gli bloccò le braccia lungo i fianchi e lo sollevò da terra. Philippos urlò di rabbia
impotente, senza però riuscire a liberarsi.
A quella vista anche le ultime parvenze di resistenza da parte dei. Makedones si
sgretolarono e gli uomini lasciarono cadere la spada, gettandosi in ginocchio e
implorando pietà. I primi ad arrendersi furono abbattuti nonostante le loro
suppliche, ma poi la voce di Parmenion si levò al di sopra del fragore della
battaglia.
– Basta! Lasciateli vivere!
Una strana, innaturale quiete si diffuse sul campo di battaglia. L’esercito finora
invincibile di Makedon stava fuggendo verso sud in assoluto disordine, e al centro
del campo i Makedones rimasti si arrendevano uno dopo l’altro.
Brontes gettò a terra il Re Demone e gli trasse indietro le braccia, chiedendo
qualcosa per legarlo. Un arciere gli offrì la corda di riserva del proprio arco e il
minotauro se ne servì per legare i polsi del monarca sconfitto, poi si rialzò e rimase
a guardare mentre Philippos si sollevava faticosamente in ginocchio.
Elmo venne avanti e si fermò davanti a Philippos, abbassando lo sguardo sul
suo volto; un momento più tardi barcollò e parve prossimo a cadere, tanto che
Attalus gli balzò al fianco, sorreggendolo.
– Stai bene? – domandò il Macedone.
Elmo non rispose... e Attalus vide la superficie del suo volto di bronzo
irrigidirsi e gonfiarsi, tornando a diventare solida. Il guerriero incantato sollevò
lentamente una mano a toccare l’elmo che aveva ora indosso e che non era più
parte della sua faccia. Ma non se lo tolse.
Intanto Parmenion si era affrettato a raggiungere il punto in cui giaceva
Gorgone, con il sangue che fiottava a inzuppare il terreno sconvolto;
inginocchiandosi accanto a lui, lo Spartano gli prese la mano, ma non riuscì a
trovare nulla da dire al Titano morente.
Poi Gorgone aprì gli occhi.
– Sorpreso di vedermi? – chiese.
– Sì, ma sei stato più che il benvenuto, amico mio. Credo che tu ci abbia
salvati.
– No, erano già pronti a cedere – ribatté il Signore della Foresta. Lottò quindi
per sollevarsi ma altro sangue gli scaturì dalla spaventosa ferita al petto. – Non
riesco ad avvertire le gambe. Sto morendo?
– Sì – sussurrò Parmenion.
– Strano... non sento dolore – sorrise Gorgone. – Mi prometti che il mio popolo
avrà anch’esso l’opportunità di usare la Porta?
– Certamente.
– La tua amicizia... ha... un prezzo elevato. Però...
La testa del Signore della Foresta ricadde all’indietro e il suo corpo cominciò a
tremare, poi la pelle del suo volto parve perdere consistenza e i serpenti
rimpicciolirono. Immobile, Parmenion guardò il corpo mutare lentamente,
tornando in punto di morte ad assumere l’aspetto dell’avvenente giovane dai
capelli neri che Gorgone era stato un tempo.
Stanco e addolorato, infine Parmenion si rialzò in piedi. Brontes venne avanti
con passo incespicante, inginocchiandosi accanto al fratello.
– Perché? – gridò. – Perché hai fatto questo? E afferrò per le spalle il corpo di
Gorgone, cominciando a scuoterlo.
– Non ti può sentire – avvertì Parmenion, in tono sommesso.
– Dimmi, Parmenion, perché è venuto? – domandò il minotauro, sollevando lo
sguardo su di lui con i grandi occhi castani pieni di lacrime.
– Per amicizia – rispose con semplicità lo Spartano.
– Non comprendeva il significato di questa parola.
– Invece credo che lo comprendesse... altrimenti perché lui e la sua gente
avrebbero rischiato la vita? Qui non avevano nulla da guadagnare.
– Ma... il mio popolo ha rifiutato di aiutarti, e tuttavia questa... creatura... è
morta per te. Non capisco.
Sollevando la testa taurina, il minotauro urlò il proprio tormento al cielo.
Al suo grido si mescolò la risata sprezzante di Philippos.
– Così va bene – esclamò il re. – Gemi, miserabile mostruosità. Io l’ho ucciso.
Liberami e ucciderò anche te. Vi ucciderò tutti.
Brontes si rialzò di scatto e afferrò la propria ascia. Philippos rise ancora
quando la grande lama gli calò sul volto, senza neppure incidere la pelle.
Elmo venne avanti e si avvicinò a Parmenion.
– Lascialo libero – disse.
Parmenion si girò lentamente verso di lui: adesso la voce non era più metallica
e l’elmo era di nuovo separato dalla pelle.
– Ti è tornata la memoria? – chiese, conoscendo già la risposta.
– Sì. Lasciatelo libero, lo affronterò io.
– Non può essere ucciso.
– Lo vedremo.
– Aspetta! – sussurrò Parmenion, poi si tolse in fretta la collana e la fissò
intorno al collo di Elmo. – Adesso lui non sarà in grado di leggerti nella mente –
spiegò.
Elmo annuì e si allontanò dallo Spartano, estraendo la spada. Brontes guardò
verso Parmenion per ricevere istruzioni.
– Liberalo – ordinò questi.
Il minotauro calò la propria ascia sul laccio che serrava i polsi di Philippos; il
Re Demone barcollò per un momento, poi si raddrizzò e si volse verso Elmo, che
stava avanzando verso di lui con la spada spianata.
– Il primo che morirà – rise, raccogliendo la propria spada, che era caduta nel
corso della sua lotta con Brontes. – Vieni, permettimi di organizzare il tuo viaggio
fino all’Ade.
Elmo non replicò e continuò ad avanzare. Philippos gli si lanciò contro, con la
lama protesa in un affondo destinato a sventrarlo, ma il guerriero parò il colpo e
reagì con una risposta che lacerò la pelle dei bicipite del Re Demone. Philippos si
ritrasse di scatto, guardando con orrore il sangue che filtrava dalla ferita.
– Io non posso essere colpito! – urlò. – Non posso!
Elmo si fermò e sollevò la mano sinistra, togliendosi l’elmo: nel vedere il suo
volto Philippos barcollò e la luce svanì dal suo occhio dorato.
I guerrieri di entrambi gli eserciti stavano fissando la scena come incantati...
perché di fronte al Re Demone c’era un uomo che era il suo gemello, tranne per il
fatto che l’occhio destro non era d’oro ma aveva il colore dell’opale.
– Chi sei? – sussurrò Philippos.
– Filippo di Macedonia – rispose il guerriero.
Il Re Demone tentò un attacco disperato, ma esso venne neutralizzato con
facilità e la lama di Filippo penetrò nella gola del nemico.
– Questo – sibilò Filippo, quando il sangue uscì gorgogliando dalla bocca di
Philippos, – per aver minacciato mio figlio! E questo da parte mia!
La sua spada descrisse un arco lucente, decapitando il Re Demone. La testa
cadde a sinistra e rotolò sul terreno compresso, mentre il corpo si riversò sulla
destra zampillando sangue.
– Questa è morte a sufficienza per te? – domandò Filippo.
Parmenion era fermo accanto a Filippo al centro della vasta folla silenziosa in
attesa davanti alla Porta. In alto sopra di loro la luna splendeva limpida e le stelle
scintillavano come gemme sul velluto, ma al di là della Porta il sole brillava con
un’intensità tale da avviluppare il fianco della collina in una luce dorata.
– Il magus! – esclamò Filippo, indicando Chirone. – È quello il mago che ha
gettato l’incantesimo su di me.
– Non credo che sia lui, sire – replicò Parmenion. – Quello è Chirone, e
appartiene a questo mondo.
– Se vedo altri gemelli finirò per impazzire – borbottò il re.
Nel frattempo Alessandro tornò verso i pilastri e afferrò la sporgenza di pietra
sulla destra, protendendo l’altra mano verso la sporgenza corrispondente. Per un
momento appena rimase immobile, poi gettò la testa all’indietro e un fumo scuro
gli scaturì dalle narici e dalla bocca, per fluire lungo il petto e il braccio proteso. Il
fumo si modellò fino a diventare un altro Alessandro... con la testa adorna di corna
e gli occhi gialli, una bizzarra e deformata immagine speculare. Tenendo la mano
di Alessandro nella sua, lo Spirito del Caos si protese e afferrò la seconda pietra.
In quell’istante una saetta si delineò fra i due pilastri e Alessandro venne
scagliato al suolo in avanti, mentre lo Spirito del Caos fu proiettato in aria.
– La collana! – esclamò la voce di Tamis nella mente di Parmenion. – Mettila
al ragazzo!
Parmenion spiccò la corsa in avanti e si inginocchiò accanto al principe
svenuto. Lanciando un’occhiata verso l’alto, vide che l’immagine fumosa dello
Spirito del Caos stava fluttuando verso di loro e si affrettò a slacciare la collana per
chiuderla intorno al collo di Alessandro. Il fumo calò a rivestire il bambino, ma una
brezza fresca si levò a disperderlo.
– La Porta è aperta? – chiese Alessandro, riaprendo gli occhi. Parmenion
guardò in direzione dei pilastri e annuì.
– Sì – rispose, guardando i primi centauri avanzare fra i pilastri.
– Non riesco ad avvertire il Dio Oscuro – sussurrò il bambino, cercando di
rialzarsi.
– Non è più dentro di te – spiegò Parmenion. – Adesso porti indosso una
collana dotata di un grande potere e nessuna malvagità ti potrà entrare nella mente
finché resterà al suo posto.
Un istante più tardi Filippo si venne a inginocchiare accanto al figlio.
– Ti sei comportato bene, ragazzo – disse, protendendosi verso di lui.
Alessandro abbracciò il padre e Filippo si rialzò tenendolo stretto al petto.
Con un sospiro, Parmenion si risollevò a sua volta, e fissò lo sguardo sulle
creature dell’Incantesimo che stavano lentamente defluendo oltre la Porta e in un
nuovo mondo.
La dea dai capelli candidi gli si avvicinò.
– Qualsiasi cosa il futuro abbia in serbo per te, Parmenion, sii sempre
orgoglioso di questo giorno.
– Lo sarò, signora.
Con un sorriso, la dea si volse e superò la Porta.
In breve dall’alta parte rimasero soltanto Chirone e Brontes; il magus si accostò
a Parmenion e gli porse la mano.
– Mi dispiace di aver perso la maggior parte del vostro viaggio e di esservi stato
di scarso aiuto – disse.
– Hai fatto abbastanza – garantì Parmenion. – Ci hai salvati dai Vores, quel
primo giorno, e come Camiron hai portato Alessandro al sicuro nella Foresta di
Gorgone. Che farai adesso?
– Oltrepasserò la Porta e vedrò cos’ha da offrire quel nuovo mondo. Però ci
sono molte porte, Parmenion, ed ho la sensazione che ci incontreremo ancora.
– Aspetterò con impazienza quel momento.
Chirone si congedò anche da Filippo e da Alessandro, e nel frattempo il
minotauro si avvicinò a Parmenion.
– Non mi dimenticherò di te, Umano – disse.
– Né io di te.
– Hai dato a mio fratello l’occasione di redimersi e credo che lui l’abbia colta, e
basta questo perché io ti sia grato. Possano gli dèi camminare con te, Parmenion.
– E con te – replicò lo Spartano, poi Brontes si avviò oltre i pilastri.
Non appena il minotauro ebbe superato la Porta i pilastri scintillarono ancora
una volta e tornarono a tingersi del freddo grigiore della pietra... e il mondo al di là
di essi tremolò e scomparve.
– Ora che si fa, strategos? – chiese Attalus, accostandosi a Parmenion.
Lo Spartano scrollò le spalle, sentendosi di colpo privo di ogni energia, e si
andò a sedere con le spalle appoggiate al tronco di un vicino albero. Nell’arco di
pochi, brevi giorni aveva attraversato gran parte di una terra sconosciuta,
combattuto una spaventosa battaglia e sperimentato sia pur brevemente come
vivesse un re. Adesso aveva il corpo intorpidito dalla stanchezza, la mente confusa
e svuotata.
Sentì il rumore sommesso dei passi di Thena e sorrise quando lei gli sedette
accanto.
– Che si fa, adesso? – domandò, ripetendo l’interrogativo postogli da Attalus.
– Aspettiamo Aristotele – rispose lei. – Ti è piaciuto essere re?
– Sì – ammise Parmenion. – Là ho trovato il mio amore, Derae.
Sospirò, poi sentì le lacrime che minacciavano di salirgli agli occhi e si schiarì
la gola, distogliendo il volto per un momento.
– Potresti restare – sussurrò Thena.
– No. Il mio destino è al di là di questo mondo. Devo rimanere con Alessandro.
Tu cosa farai?
– Tornerò al mio Tempio. Sono una Guaritrice e c’è gente che ha bisogno del
mio Talento.
– Il tuo tono è così triste, signora, e non dovrebbe esserlo – osservò Parmenion,
prendendole la mano.
– La vita è piena di dolore – replicò lei, – e tuttavia è pur sempre vita. Sei un
brav’uomo e spero che tu possa trovare la felicità.
Alzatasi, si avviò già per la collina e scomparve fra gli alberi. La voce di
Aristotele le echeggiò nella mente, come proveniente da una vasta distanza.
– Le creature hanno oltrepassato la Porta?
– Sì.
– Tutte quante? Fino all’ultima?
– Sì, tutte quante, compreso il tuo gemello.
– Allora aiutami a venire dove ti trovi.
– Come?
– Aggrappati alla mia voce, immagina il mio volto. La Sipstrassi farà il resto.
Derae sentì una forte trazione che veniva esercitata sul suo spirito, tanto che
venne quasi strappato dal corpo. Con un grido, resistette a quella forza ma essa le
causò un devastante dolore che la fece gridare ancora. Improvvisa com’era sorta,
essa poi svanì e una vaga figura prese forma davanti a lei, modellandosi lentamente
in quella di Aristotele. Il magus barcollò e cadde in ginocchio, affondando con un
movimento convulso le dita nel terreno solido sotto il suo corpo.
– È stato un duro viaggio – commentò, – ma sei stata brava, Derae.
– Rimandami indietro – replicò lei, – e nella mia forma.
– Ma di certo vorrai conservare la tua giovinezza – obiettò Aristotele.
– No – rispose Thena-Derae. – Voglio essere com’ero.
Il magus scosse il capo con incredulità, ma sollevò la mano in cui la pietra
dorata brillò per un istante. I capelli della donna tornarono ad essere argentei,
venati di un rosso sbiadito, la pelle del suo volto si accasciò nelle pieghe della
mezz’età e gli occhi tornarono a coprirsi del velo della cecità.
– Come puoi volere questo? – sussurrò Aristotele.
– È ciò che sono – spiegò Derae. – Ora rimandami indietro.
– I saluti sono stati fatti?
– Nella misura in cui era possibile.
Aristotele sollevò la mano e quando la pietra dorata tornò a splendere un
bagliore dorato avviluppò la sacerdotessa, poi la sua figura si dissolse fino a
scomparire.
Rimasto solo, Aristotele si avviò su per la collina verso il punto in cui gli altri
erano in attesa.
– Chirone! – gridò Alessandro. – Sei tornato!
– L’ho fatto – rispose il magus. – Sono venuto a portarvi a casa.
– Quale dei due è questo? – domandò Filippo, con espressione indecifrabile.
– Credo che sia Aristotele – replicò Parmenion, con un sogghigno.
– Ne sei certo?
– Tu che ne pensi, Attalus?
– Sono d’accordo. Questo è Aristotele, sire.
– Bene – commentò Filippo, traendo un profondo respiro. – Razza di figlio di
buona donna! – ruggì poi, avanzando minacciosamente verso il magus.
Aristotele balzò indietro in preda ad un timore e ad una sorpresa improvvisi.
– Doveva essere fatto, sire! – esclamò.
– Perché mi hai tolto la memoria?
– È difficile da spiegare, ma se me ne darai la possibilità ti dirò tutto.
– A me piacerebbe sentire – intervenne Parmenion, in tono sommesso.
– Avanti allora, magus, perché anche a me piacciono le storie interessanti –
sibilò Filippo, ancora infuriato, incrociando le braccia sul petto.
Aristotele si sedette per terra e gli altri si disposero intorno a lui a semicerchio.
– Mi chiamo Aristotele... – cominciò.
– Questo lo sappiamo, dannazione a te! Vieni al dunque! – tempestò Filippo, e
il magus sollevò una mano per chiedere silenzio.
– Lascia che esponga le cose come ritengo opportuno, mio signore, per favore.
Dunque, adesso sono Aristotele... ma un tempo ero Chirone e vivevo qui con il
popolo dell’Incantesimo. È stato qui che ho incontrato per la prima volta
Parmenion ed Elmo, il guerriero senza memoria, e Attalus lo spadaccino. Qui in
questo mondo ho anche visto per la prima volta il Fanciullo Dorato Iskander. Poi...
come avete appena visto... ho oltrepassato la Porta unendomi all’esodo dei figli dei
Titani. Per voi si tratta di pochi momenti, ma per me sono trascorsi quattro secoli
da quando ho lasciato questo regno.
– Poi cosa ti è successo? – domandò Parmenion.
– Ho esplorato molte terre, attraverso molti secoli. Ho trovato altre porte,
sentieri fra i mondi, ed ho viaggiato lontano. Però desideravo la compagnia degli
esseri umani, e così infine mi sono recato in Asia e di lì in Grecia... dove ho sentito
parlare ancora una volta di Parmenion. Mi sono allora reso conto di aver descritto
un grande cerchio nel Tempo: ero arrivato ad un punto antecedente a quello in cui
lui era venuto in Achaea. Questo ha costituito per me un grande problema. Potevo
interferire? Avevo già interferito? Era ovvio che lo avevo fatto, perché quando era
giunto inizialmente in Achaea Parmenion aveva detto a Chirone di essere stato
mandato da un mago di un altro mondo, asserendo che quell’uomo aveva il mio
aspetto. A quel punto mi sono anche reso conto di essere intrappolato in una
ragnatela pericolosa, in quanto dovevo ricreare tutto esattamente com’era successo
se non volevo correre il rischio di cambiare il passato... e magari di distruggere me
stesso. Un grande paradosso, amici miei. Ho mandato Parmenion e Attalus qui in
Achaea, poi sono venuto a cercare te, sire. Non potevo conoscere tutte le avventure
che ti erano capitate, in quanto i miei ricordi di quest’epoca erano offuscati dalla
mia esistenza come Camiron. Capisci il dilemma? Non ti potevo dire nulla...
perché tu non sapevi nulla quando ti avevo incontrato la prima volta. Desideravo
venire con te per aiutarti, ma non ho osato farlo perché alcune leggi sono
immutabili e non è possibile oltrepassare una Porta per andare in un tempo, o in un
luogo, dove si esiste già. Nessun uomo può incontrare se stesso. Quindi tutto quello
che ho potuto fare è stato aspettare, sperare e pregare che gli eventi si modellassero
di nuovo come avevano fatto in passato.
– Per un momento mi era quasi parso di riuscire a capire quello che stavi
dicendo – affermò Filippo, – ma afferrare il senso dei tuoi discorsi è come cercare
di pescare una trota con le mani.
– Comprendo la difficoltà che incontri – replicò Aristotele. – Per te queste
avventure sono nuove, ma per me erano già parte della mia storia personale, erano
già successe, e dovevo fare affidamento su quanto avevo appreso come Chirone. E
tutto quello che lui sapeva era che un guerriero chiamato Elmo era comparso sul
campo di battaglia e aveva ucciso Philippos, e che quell’uomo era il Re di
Makedon in un altro mondo. Chirone... io... sapeva anche che questo re era stato
privato della sua memoria, e così quando mi sono trovato davanti al problema
dall’estremità opposta del Tempo mi sono limitato a ricreare le circostanze.
– È questo che intendo! – sbuffò Filippo. – Proprio quando comincio a capire
perdo di nuovo il filo del discorso. Però rispondi a una domanda: in origine, chi ha
avuto l’idea di togliermi la memoria e di rapirmi?
– È un cerchio, sire, senza principio e senza fine. Non c’è nessuno da
biasimare.
– Nessuno da... ascoltami, magus, io sono un re, e un re ha sempre qualcuno da
biasimare. È così che va il mondo. Tu sei venuto nel mio palazzo e senza neppure
chiedere il mio permesso mi hai rapito. Dammi una sola buona ragione per cui non
dovrei staccarti la testa dalle spalle.
Aristotele allargò le mani e sorrise.
– La sola risposta a cui riesco a pensare, sire, è che se ci provassi potrei
trasformarti in una lucertola e calpestarti.
Filippo rimase in silenzio per un momento, poi si girò verso Parmenion.
– Direi che mi sembra una ragione valida – osservò.
– Sono d’accordo, sire.
– Mi piaci, magus – dichiarò poi il re, – però sei in debito con me. Come farai a
sdebitarti?
– In che modo vorresti essere ripagato, sire?
– Vieni a Pella con noi, come tutore di mio figlio.
– Ti avrei chiesto questo incarico come dono – rise Aristotele, – e sono ben
disposto ad accettarlo come penitenza.
– Bene. Ora portaci a casa.
– Parmenion non ha ancora detto addio alla sua regina – osservò Aristotele,
mentre il suo sorriso svaniva, – e lei lo sta aspettando ai piedi della collina.
Con un sospiro, Parmenion si issò in piedi e si avviò verso gli alberi.
Nell’attesa Derae si era seduta su un albero caduto, ma quando lo vide arrivare si
alzò.
– Saresti partito senza vedermi, senza dirmi addio?
– Sì. So che è un modo di agire da vigliacco, ma sentivo di non poter tollerare
di dire quelle parole. Leonida ti ha spiegato ogni cosa?
– Mi ha detto tutto. Io sono come lei?
– Sotto ogni aspetto – annuì Parmenion.
– Quindi non ero io che amavi – osservò Derae, in tono triste.
– Eri tu – garantì lo Spartano. – In un primo tempo si è trattato di un’immagine,
di un ricordo, ma la donna con cui ho diviso il letto sei stata tu, la donna che amo
sei tu.
– E tuttavia non puoi rimanere?
– No. Devo provvedere ad Alessandro: è il mio dovere e il mio motivo di vita.
Mi perdoni?
Lei annuì e gli scivolò fra le braccia, baciandolo su una guancia prima di
spingerlo lontano da sé con gentilezza.
– Allora va’ – disse. – Va’ adesso... subito. So che un giorno tornerai. Conosco
il tuo segreto, Parmenion, e so perché devi seguire Alessandro, ma il tuo destino è
in Achaea e un giorno tornerai. E mi troverai ad aspettarti, così come mi vedi ora.
Sarò qui.
– Anche se lo desidero con tutto il mio cuore, non te lo posso promettere –
avvertì lui.
– Non ce n’è bisogno. La scorsa notte ho fatto un sogno. Mi è apparso un mago
dalla barba grigia che mi ha detto di trovarmi qui questa notte. Ha detto che saresti
partito per tornare nel tuo mondo, ma anche che avrebbe fatto del suo meglio per
rimandarti da me. Aspetterò.
Parmenion non disse nulla. Indietreggiando di parecchi passi, girò di scatto sui
tacchi e risalì la collina.
Aristotele era in attesa, e non appena lo Spartano gli, giunse accanto sollevò un
braccio.
La Porta si animò ancora una volta...
LIBRO QUARTO
LA CITTÀ DI MIEZA, 337 A.C.
L’uomo chiamato Aristotele sedeva solo nei giardini deserti della scuola,
intento ad osservare le nubi di tempesta che verso nord incombevano sulle vette dei
monti Bora. Un soffio di brezza fredda lo fece rabbrividire e lo indusse a stringersi
maggiormente intorno al corpo il mantello di lana grigia.
Lanciando un’occhiata in direzione della casa, vide sua moglie Pythias intenta a
raccogliere erbaggi nel piccolo orto vicino alla cucina. Presto sarebbe giunto per
lui il momento di andarsene e di lasciarsi alle spalle gli ultimi quattordici anni... di-
cendo addio a Mieza, alla Macedonia, alla Grecia.
Sospirò. L’immortalità era un fardello e tuttavia era come i narcotici dell’Egitto
e non se ne poteva più fare a meno. Essere liberati dalla prospettiva della morte
accentuava soltanto il timore di morire: quanto più a lungo viveva tanto più era op-
presso dalla noia e desiderava la pace della tomba ma al tempo stesso sentiva
aumentare il suo terrore di essa.
E poi c’erano i ricordi...
Erano così tanti... tremila anni prima era quasi impazzito a causa dei ricordi, ma
Pendarric lo aveva salvato insegnandogli a usare più saggiamente le Pietre, e in
questo modo ogni sua vita del passato era stata ridotta ad una singola parola
chiave, chiusa nella sua mente. Gli anni vissuti a Makedon erano divenuti Iskander,
e gli bastava evocare quella parola nella propria sfera cosciente per rivedere il
Fanciullo Dorato e la Porta scintillante, e tutti gli anni precedenti a quel momento.
Adesso però stava arrivando al punto in cui perfino quelle chiavi brillavano nella
sua memoria come stelle, migliaia di migliaia.
C’è qualcosa di nuovo? si chiese.
La risposta gli giunse rapida come una coltellata al cuore.
Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Tutto è vanità.
Sorridendo, attivò la parola chiave di accesso alla vita che aveva condiviso con
il Filosofo... giorni dorati, un tempo in cui c’erano ancora scoperte da fare, sorprese
di cui godere.
Perché sei tanto malinconico? si domandò quindi. Intorno alla panca su cui
sedeva erano sparsi una dozzina di sedili, ora vuoti ma occupati fino a poco prima
dai figli dei nobili macedoni... giovani pieni di speranze e alimentati da molti
sogni. E con loro... sempre al centro del gruppo, come il sole che splendeva sulla
loro vita... c’era Alessandro.
D’un tratto si rese conto di aver trovato il nocciolo del problema.
Alessandro.
Alzatosi in piedi, si avvicinò al cancello settentrionale del giardino, aprendolo e
avviandosi a passo lento lungo le pendici del Monte Bermion. Nel corso dei secoli
aveva conosciuto molti uomini... uomini grandi, uomini saggi, uomini di guerra
sicuri della loro arroganza e pronti ad accantonare il passato. E invece era nel
passato che erano racchiuse tutte le risposte ai misteri della vita, e ogni successiva
generazione involontariamente le nascondeva sempre più in profondità, salvo poi
cercarle nei futuri non ancora scritti.
Avevo grandi speranze per te, Alessandro, pensò. Hai una mente eccellente,
forse la più brillante da quando il Filosofo ha governato su Gerusalemme, e di
certo tale da rivaleggiare con quella di Pendarric all’epoca in cui regnava su
Atlantide.
E tuttavia cosa ti attira? La saggezza? La ricerca del sapere? No. Senti solo gli
squilli di tromba delle guerre e cerchi la Prostituta della Conquista. Anche con lo
Spirito del Caos escluso dal tuo animo sei comunque un uomo, e gli uomini hanno
sempre sete di gloria.
E gli altri ti seguiranno.
Aristotele richiamò alla mente ciascuno di loro, volti giovani e intelligenti,
desiderosi di un futuro che sapevano essere ricco di promesse: Tolomeo, Nearchos,
Philotas, Nicci, Derdas e gli altri. Come tutti i giovani erano entusiasti della loro
forza e sprezzanti nei confronti delle imprese dei loro padri.
Aristotele si fermò, sedendo con le spalle addossate a un masso che lo
proteggesse dal vento. In alto, un falco scese in picchiata dal cielo cadendo come
una pietra fino a piantare gli artigli in un giovane coniglio che stava emergendo
proprio in quel momento dalla tana. La bestiola catturata non cercò neppure di
lottare quando il falco riprese quota tenendola stretta fra gli artigli, e nel mandare il
proprio spirito a sfiorare quello della creatura Aristotele scoprì che era morta.
– Siano dannati tutti i falchi – imprecò ad alta voce.
– Ha delle bocche da sfamare – commentò una voce.
Aristotele sollevò lo sguardo e sorrise nel vedere un’alta figura emergere
dall’ombra degli alberi per venire a sedersi accanto a lui. L’uomo si adagiò a terra
lentamente, sussultando quando il ginocchio artritico rifiutò di piegarsi.
– Pensavo che ti avrei trovato qui – aggiunse Parmenion, togliendosi l’elmo e
passandosi la mano fra i sudati capelli grigio ferro. – Filippo vuole che tu venga a
Pella per le nozze.
– Io non ci sarò, Parmenion – rispose Aristotele, scuotendo il capo.
– Filippo non ne sarà contento.
– La sua ira non mi preoccupa, perché presto percorrerò i Sentieri del Drago
alla volta di altri mondi.
– E Pythias?
– Le lascerò del denaro e non piangerà la mia scomparsa: mi scalda il letto, ma
fra noi c’è ben poco amore. – Il magus sollevò lo sguardo sul volto di Parmenion,
notando i lineamenti affilati e le chiazze scure sotto gli occhi azzurri. – Hai l’aria
stanca, amico mio.
– Ho sessantatre anni – ribatté Parmenion, scrollando le spalle. – Mi aspetto di
essere stanco dopo una lunga campagna militare.
– Di certo adesso potrai riposare. Da quando ha schiacciato gli Ateniesi e i
Tebani a Cheronea, Filippo è diventato in tutto tranne che nel nome il Signore della
Grecia. Dove sono ora i suoi nemici?
– Dovunque – replicò Parmenion, con un asciutto sorriso.
– Lo accetto – ammise Aristotele, sorridendo a sua volta, – ma quello che
intendevo dire è... dove sono i nemici che potrebbero causargli dei danni? Non
sono rimasti altri eserciti da sconfiggere e lui domina dalla Tracia all’Epiro, dalla
Paionia alla Tessaglia. Tutti gli rendono omaggio... perfino Atene... e ho sentito
dire che dopo Cheronea hanno eretto una statua in suo onore. Incredibile!
– In realtà non è incredibile. Gli Ateniesi si aspettavano che noi marciassimo
contro la loro città e la saccheggiassimo, mentre invece Filippo ha rimandato a casa
i loro morti con tutti gli onori militari e ha offerto la pace. Il loro sollievo è stato
immenso.
– Perché li ha risparmiati? Atene è stata per lui una spina nel fianco per anni.
– Filippo non ha mai dimenticato le azioni del suo gemello di Makedon –
spiegò Parmenion, scrollando le spalle, – ed è deciso a non ripetere mai simili
nefandezze. Però ha anche un grande sogno, quello di estendere il proprio regno
verso est.
– Dove potrebbe ancora andare? Non può certo affrontare la potenza della
Persia.
– Non ha scelta. Adesso la Macedonia ha un esercito enorme... cavalleria,
macchine da guerra, mercenari, e tutti hanno bisogno di essere pagati e nutriti.
Dove altro può andare? Il Grande Re domina oltre cento nazioni, tutte ricche.
– Ed ecco la tua risposta – ribatté il magus. – Cento nazioni, tutte dotate di
esercito. Il Grande Re potrebbe schierare in campo contro di voi un milione di
uomini.
– Lo so – ammise Parmenion, in tono stanco.
Aristotele si issò in piedi, porgendo poi la mano a Parmenion per aiutarlo ad
alzarsi; il ginocchio dello Spartano crepitò dolorosamente quando lui stese la
gamba.
– Ultimamente me la cavo meglio in sella a un cavallo – commentò questi.
– Vieni, andiamo a casa, dove potremo bere insieme un bicchiere d’addio.
Fino a notte tarda i due uomini rimasero alzati a parlare nel piccolo androne, sul
retro della scuola. Un braciere di carboni ardenti era acceso nel centro della stanza
e parecchie lanterne proiettavano la loro luce tremolante lungo le pareti. La stanza
era calda, nonostante il vento notturno che scuoteva le imposte dell’unica finestra.
– Sei appagato? – domandò d’un tratto Aristotele, e quando Parmenion sorrise
senza rispondere insistette: – Preferiresti essere rimasto in Achaea?
– Certamente, ma è stupido rimuginare sugli errori del passato.
– Sei saggio a pensarla così – annuì Aristotele. – Come sta Philotas?
– Come al solito – replicò Parmenion, oscurandosi in volto. – Ormai ci
parliamo di rado. La sua arroganza è divorante e tuttavia adula Alessandro come se
fosse il suo schiavo. Io cerco di non permettermi di cedere all’ira nei suoi confronti
perché non è facile per lui essere il figlio di un generale... sente il bisogno di
dimostrare di essere migliore di suo padre.
– Ha una grande ambizione – osservò Aristotele, in tono sommesso.
– Sua madre lo ha alimentato con pensieri di gloria fin da quando è nato, una
cosa che avrei dovuto troncare molto tempo fa.
– Un giorno la sua ambizione potrebbe causare la tua rovina – avvertì
Aristotele. – Lui sogna di diventare re.
– Non accadrà mai, perché non ha né l’ingegno né la forza necessari.
– Lo so, sono stato il suo insegnante per tredici anni. Sarà però un abile
capitano e potrebbe ancora farsi onore.
– Si è comportato bene nella campagna triballiana, ma la gloria è andata tutta
ad Alessandro, cosa che Philotas deve aver trovato difficile da sopportare.
– Non è stato il solo.
– Non credere a tutto quello che senti, magus – consigliò Parmenion, scuotendo
il capo. – Filippo non è geloso di suo figlio, lo ama ed è orgoglioso di ciò che lui
riesce a fare. E lo sono anch’io.
– Dicono che la nuova sposa di Filippo sia già incinta e che presto gli darà un
figlio. Per Alessandro sarà una cosa difficile da accettare.
– Perché? – domandò Parmenion. – Alessandro ha diciotto anni ed è l’erede al
trono... nulla può cambiare questo fatto.
– Suvvia, strategos, non lasciarti accecare dalla fedeltà e usa invece la mente.
Filippo sta per sposare Cleopatra, una Macedone di nobile famiglia e pupilla di
Attalus, mentre tutte le sue altre mogli sono straniere. Non credi che molti nobili
macedoni vedranno in questo bambino che deve nascere il primo vero erede? Tu
stesso sei un mezzosangue e lo è anche Alessandro, dal momento che sua madre è
un’Epirota.
– Non voglio parlare di questo! – scattò Parmenion.
– Allora non ne parleremo – sospirò Aristotele, adagiandosi all’indietro sul
divano. – Finiremo il nostro vino e ci diremo addio.
Nell’oscurità precedente l’alba Aristotele si vestì per il viaggio indossando una
lunga tunica e un pesante mantello, poi entrò in silenzio nella stanza in cui dormiva
Parmenion, accostandosi al letto dello Spartano che era immerso in un sonno pro-
fondo e prelevando da una sacca che portava al fianco una piccola pietra dorata che
accostò al ginocchio destro del dormiente. Lo Spartano si agitò un poco ed emise
un gemito sommesso, ma non si svegliò mentre il potere della Pietra fluiva in lui,
scurendo un poco i suoi capelli grigio ferro e ammorbidendo appena i lineamenti
affinati e tesi.
– Un dono di commiato, amico mio – sussurrò Aristotele, – ma non l’ultimo.
Un giorno tornerò.
Poi oltrepassò la porta e lasciò la casa, raggiungendo il ruscello sulle pendici
montane e una grotta poco profonda nascosta in parte da fitti cespugli. Il nuovo
sole sorse in tutta la sua gloria e Aristotele si soffermò a contemplare lo spettacolo
del suo splendore che si riversava sulla campagna verdeggiante.
– Perché te ne stai andando proprio adesso? – chiese a se stesso, e la risposta gli
affiorò immediata nella mente, aspra e amara. Stavano per giungere giorni di
sangue e il Dio Oscuro era prossimo a riaffermare il suo predominio... poteva
sentire la presenza di quello Spirito che gravava sulla terra come una nebbia
invisibile, vorticando nel cuore degli uomini, fluendo nella loro mente, sussurrando
loro nell’orecchio.
Parmenion pensava che quella collana potesse proteggere a lungo il ragazzo?
Era soltanto metallo, rinforzato dal potere della Pietra Sipstrassi, ma poteva essere
rimossa, strappata dal collo con un solo gesto. E poi?
Poi il Dio Oscuro sarebbe tornato.
Tornerà, si corresse. Nulla potrà fermarlo.
E si rese conto che stava fuggendo, che si stava nascondendo per non assistere
alla grande battaglia ormai imminente.
– Io voglio vivere – disse ad alta voce. – Ho fatto la mia parte, ed è meglio
essere un cane vivo che un leone morto. Però non era convinto.
Lanciando un’ultima occhiata alla campagna macedone, entrò nella grotta.
E non fu più visto nella terra di Grecia.
PELLA, ESTATE, 337 A.C.
L’erba cresceva carminia e grondava sangue sulla terra arida sotto un cielo
del colore della cenere, grigio e privo di vita. Non un uccello volava in esso, non
un alito di vento disturbava la pianura. Filippo s’inginocchiò e protese la mano a
toccare i fili d’erba carmini, sporcandosi le dita di sangue. Tremando si rialzò in
piedi e notò per la prima volta i corpi sparsi tutt’intorno a lui: migliaia e migliaia
di cadaveri, con l’erba che cresceva intorno a loro, da e attraverso il loro corpo.
Rabbrividì. Un uomo giaceva supino, con le erbacce che spuntavano da sotto le
palpebre.
– Che posto è questo? – gridò, ma il suono della sua voce svanì non appena gli
uscì dalle labbra.
– Non ti senti a tuo agio qui?
Voltandosi di scatto, con la spada in pugno, lui si trovò davanti un guerriero in
armatura nera e oro: Philippos, il Re Demone.
– Tu sei morto! – urlò, indietreggiando.
– Sì – ammise il Re Demone.
– Allontanati da me.
– È questo il modo di trattare un fratello? – domandò Philippos, estraendo a
sua volta la spada e venendo avanti.
Filippo gli balzò incontro per affrontarlo e le loro lame si scontrarono con
clangore, poi la spada di Filippo calò sul collo dell’avversario, lasciando una
ferita irregolare da cui zampillò il sangue. Philippos venne scagliato verso destra,
e cadde al suolo prono, poi si sollevò lentamente in ginocchio con la schiena
rivolta al suo nemico. Filippo attese che si rialzasse, e quando il Re Demone si
girò verso di lui lanciò un grido: adesso il volto barbuto gemello del suo era
scomparso e Philippos sfoggiava capelli biondi, occhi verdi come il mare e un
volto di un’avvenenza senza pari.
– Alessandro?
– Sì, padre, Alessandro – rispose il Re Demone, sorridendo e avanzando con la
spada protesa.
– Non mi uccidere! Per favore!
– Tu non potresti uccidermi, padre. No. Ma io ucciderò te.
Corna scure spuntarono dalle tempie di Alessandro, ripiegandosi all’indietro
sugli orecchi; gli occhi cambiarono colore e da verdi si fecero gialli, con le pupille
verticali. Serrando con forza la spada, Filippo attese che il demone che aveva
davanti avanzasse per attaccarlo, poi cercò di eseguire un rapido fendente alla
gola ma scoprì di avere il braccio pesante e di muoversi con lentezza... e vide con
orrore la spada di Alessandro parare la sua e sollevarsi, affilata e lucente, per poi
penetrargli nella gola e attraversargli il cervello come una lingua di fuoco...
Filippo si svegliò con un grido. La donna che gli dormiva accanto si agitò un
poco ma non si svegliò quando il re si sollevò a sedere, con la testa che martellava
e il corpo madido di sudore. La vecchia ferita alla gamba gli pulsava
dolorosamente, ma lui si alzò dal letto e raggiunse zoppicando il divano più vicino.
La caraffa di vino posata su un piccolo tavolo era vuota, e Filippo imprecò nel
lasciarsi cadere sul divano, con la caraffa in grembo.
Il sogno era sempre lo stesso: non poteva sconfiggere Alessandro.
Avrei dovuto ucciderlo quando è nato, pensò.
Un alito di brezza fredda si insinuò nella stanza, facendolo rabbrividire e
inducendolo a tornare sul letto, dove Cleopatra continuava a dormire. Con
tenerezza, le accarezzò i capelli... era così giovane e bella. La sua mano si spostò
fino a posarsi sul ventre della donna, ancora piatto e teso nonostante i tre mesi di
gravidanza: dentro di lei c’era suo figlio... non una creatura posseduta da un
demone e generata dall’oscurità e dalla magia, ma un vero figlio, che crescendo
avrebbe imparato ad amare suo padre e non a progettare il suo assassinio.
Come hai potuto farmi questo, Alessandro? Io ti amavo, avrei rischiato tutto
per te.
In un primo tempo, Filippo aveva ignorato i rapporti su cui Attalus attirava la
sua attenzione... i commenti pieni di adulazione dei Compagni di Alessandro, le
critiche dirette contro il re e i suoi generali... ma con il passare dei mesi si era
convinto sempre più che Alessandro non sarebbe stato contento finché non si fosse
seduto sul trono al suo posto.
E la campagna contro i Triballiani glielo aveva dimostrato. Alessandro credeva
forse che lui fosse uno stolto? Oh, certo, aveva schiacciato il nemico, lo aveva
costretto a pagare un tributo. Ma in nome di chi lo aveva preteso? Non in nome di
Filippo o della Macedonia. No, in nome di Alessandro.
Cucciolo arrogante! Era ovvio che avesse sconfitto i Triballiani, perché aveva
con sé un esercito... il suo esercito!
Ma era ancora suo? Dopo Cheronea gli uomini avevano applaudito il principe
dorato e lo avevano riportato al campo sulle spalle, in trionfo, e dopo la vittoria
contro i Triballiani lui aveva ricompensato ogni guerriero con dieci monete d’oro e
i soldati gli avevano tributato il saluto riservato ai re, battendo la spada contro lo
scudo.
L’esercito era ancora suo?
Certo che lo è, si disse, perché io ho Parmenion. Sì, lo Spartano mi sarà
sempre fedele.
Filippo sorrise e tornò a sdraiarsi, posando la testa sul morbido cuscino coperto
di satin: pensando che il Leone di Macedonia era con lui, scivolò di nuovo nel
sonno.
L’erba cresceva carminia e grondava sangue sulla terra arida sotto un cielo
del colore della cenere, grigio e privo di vita. Non un uccello volava in esso, non
un alito di vento disturbava la pianura...
Le feste previste per il matrimonio erano destinate a durare otto giorni, e furono
qualcosa di cui nessuno a Pella aveva mai visto l’uguale. Il vino venne distribuito
gratuitamente ad ogni famiglia e tutti gli uomini al di sopra dei quindici anni
ricevettero una moneta d’oro coniata apposta per l’occasione, su cui era raffigurata
la testa di Filippo da un lato e quella di Cleopatra dall’altro. Una moneta come
quella rappresentava l’equivalente di mezzo anno di salario per i servitori più
poveri e per i contadini, quindi le celebrazioni furono entusiastiche, sonore e
indimenticabili.
In città erano inoltre in corso competizioni atletiche che si dovevano articolare
nell’arco di dodici giorni, le cui dimensioni e portata erano tali da rivaleggiare con
i Giochi di Olimpia, e la città era affollata al massimo della sua capienza di
cittadini delle aree circostanti e di ospiti provenienti da tutta la regione e venuti per
il matrimonio. Tutti i campioni della Grecia erano presenti ai Giochi e il re offrì a
ciascun vincitore una corona di foglie di alloro fatta dell’oro più puro. Fra i
Macedoni ci furono soltanto due vincitori: Philotas che vinse la corsa su media
distanza, e Alessandro che portò Bucefalo alla vittoria contro cavalieri provenienti
dalla Tracia, da Atene, da Sparta, dalla Tessaglia e da Corinto.
La folla di diecimila persone levò un applauso stentoreo quando Alessandro
attraversò la linea del traguardo sul suo gigantesco stallone, con l’avversario più
vicino a venti lunghezze di distanza. Il principe condusse poi Bucefalo al trotto
lungo tutto il circuito dello stadio, rispondendo agli applausi, e infine si arrestò
davanti alla piattaforma reale, dove Filippo sedeva con Cleopatra al suo fianco e
attorniato dai suoi generali Parmenion, Antipatro, Attalus e Cleitus.
– Una splendida vittoria – commentò Cleitus, contemplando con ammirazione
il giovane cavaliere.
– Chiunque avrebbe potuto vincere, su quel cavallo – borbottò Filippo,
issandosi in piedi. Dopo aver sollevato la corona di alloro posata su un tavolo
accanto a lui in modo che la folla potesse vederla, la porse a Parmenion dicendo: –
Va’ a consegnare al vincitore il suo premio.
Il silenzio scese sulla folla quando il generale si diresse verso il giovane
principe: tutti sapevano che avrebbe dovuto essere il re ad offrire il premio e
mormorii confusi cominciarono a levarsi dalle tribune. Balzando giù dalla groppa
di Bucefalo, Alessandro chinò la testa per ricevere la corona di alloro, e quando
essa venne posata sulla sua testa esibì un ampio sorriso, girandosi e salutando la
folla con un gesto che gli procurò una nuova ovazione.
– Cos’ha mio padre? – chiese poi a Parmenion, senza cessare di sorridere. – Ho
fatto qualcosa che lo ha contrariato?
– Ne parleremo più tardi – rispose Parmenion.
– Verrò a casa tua.
– No, non sarebbe saggio. Mothac ha una piccola casa nel quartiere occidentale,
vicino al Tempio del Risanamento. Fatti trovare dietro il tempio a mezzanotte ed io
ti incontrerò là. Bada di non essere seguito.
Continuando a sorridere, Alessandro afferrò la criniera di Bucefalo e balzò di
nuovo in groppa; Parmenion tornò invece alla piattaforma, e nel salirne i gradini
notò che Attalus stava fissando il giovane principe mentre questi si dirigeva verso i
cancelli di uscita.
Gli anni non erano stati clementi con lo spadaccino. I suoi capelli erano bianchi
e si andavano diradando, il volto era magro e scheletrico, con le guance segnate da
linee profonde e la pelle floscia e rugosa lungo la gola... e tuttavia lui aveva appena
sessant’anni. Accorgendosi che Parmenion lo stava osservando, Attalus sorrise; lo
Spartano rispose con un cenno del capo e andò a prendere posto accanto al re
mentre cominciavano gli incontri di pugilato.
Parmenion attese un’altra ora prima di chiedere al re il permesso di congedarsi
e di lasciare la piattaforma, raggiungendo le grandi tende erette all’esterno dello
stadio dove venivano serviti cibi e bevande. Tutto era gratuito e molti poveri della
città si stavano radunando là, bevendo fino a instupidirsi. Lentamente, lo Spartano
passò attraverso la folla fino a raggiungere la tenda degli ufficiali.
All’interno vide Philotas intento a parlare con il giovane Tolomeo e con il cupo
Craterus; anche i giovani si accorsero di lui, e subito Philotas si staccò dagli altri.
– Ho corso bene – disse. – Mi hai visto?
– Sì. Il tuo tempismo è stato impeccabile.
– Sono veloce quanto lo eri tu?
– Direi di più – ammise Parmenion, – perché io non ho mai avutola forza per lo
scatto finale. Per un momento ho creduto che quello Spartano ti avrebbe raggiunto,
ma lo hai distrutto sull’ultima curva.
Philo rimase per un momento in silenzio, come se fosse sorpreso dal
complimento paterno, poi la sua espressione si addolcì.
– Ti ringrazio, padre. Io... grazie. Vuoi unirti a noi per bere qualcosa?
– No, sono stanco e credo che andrò a casa.
Il giovane tradì una sincera delusione che però si tramutò all’istante in
quell’espressione guardinga e cinica che Parmenion aveva imparato a conoscere
così bene.
– Sì, certo – commentò Philotas. – Avrei dovuto sapere che non avevi tempo da
passare con me. Non è possibile infrangere le abitudini di tutta una vita.
Poi gli volse le spalle, tornando dai suoi compagni.
Parmenion imprecò sommessamente e riprese a camminare. Sapeva che
sarebbe dovuto restare, e si sentì tormentare da un senso di colpa, perché Philo
aveva ragione: lui non aveva mai avuto tempo per lui o per nessun altro dei suoi
figli tranne uno, Alessandro.
Sul retro della tenda degli ufficiali c’era il recinto dei cavalli. Un servitore gli
portò la sua cavalcatura e lui si avviò lentamente attraverso la città e verso la
propria casa. Phaedra non sarebbe arrivata fino all’indomani, il che gli dava
almeno altre due ore di relativa serenità.
Trovò Mothac nel piccolo studio sul retro della casa; il vecchio Tebano era
intento ad analizzare i rapporti provenienti dall’Asia e c’erano pergamene e fogli
sparsi dappertutto sull’ampia scrivania.
– Qualche novità? – chiese Parmenion, togliendosi l’elmo cerimoniale e
posandolo con cura sulla panca accanto a sé.
– Novità? È tutto nuovo – rispose Mothac, – e tuttavia antico quanto gli
attributi di Zeus. Tradimento, doppio gioco, compromesso... nomi nuovi e vizi
antichi. Però devo dire che adoro la diplomazia – aggiunse, sollevando una
pergamena con un sogghigno. – Ho qui una lettera da parte di un uomo di nome
Dupias che mi garantisce di essere un ardente sostenitore di Filippo, e afferma che
tramite la sua mediazione potremmo ricevere un’ottima accoglienza a Tiro, se
l’esercito persiano dovesse esser sopraffatto dai «valorosi Macedoni».
– Sembra promettente – commentò Parmenion.
– Infatti, ma ho un rapporto proveniente da un’altra fonte secondo cui Dupias
sarebbe al soldo dei Persiani.
– Ancora meglio, perché così potremo usarlo per fornire a Dario informazioni
fasulle.
– Sì. La vita è meravigliosamente complessa. Ricordo ancora i vecchi e noiosi
giorni in cui tutto quello che contava era la forza del braccio che brandiva la spada
e il fatto che la causa per cui si combatteva fosse giusta.
– Non è così – ribatté Parmenion. – Sembra soltanto, perché il passato è fatto di
colori accesi e le sfumature di grigio sono tutte svanite. È sempre stato così. Se
adesso ti recassi agli alloggiamenti delle Guardie per parlare con quei giovani tanto
compresi della carica che ricoprono, loro ti parlerebbero della giustizia della causa
per cui si battono e vanterebbero la forza del loro braccio, con gli occhi che
scintillano di gloria. I giovani sono fatti così.
– Lo so, stavo cercando di sdrammatizzare un po’ – sospirò Mothac. – Cosa ti
prende?
– Sta andando tutto a rotoli, Mothac – spiegò Parmenion, scrollando le spalle. –
Credo che Filippo si stia preparando ad assassinare Alessandro.
– Cosa? Non posso crederlo.
– Ieri mi ha detto che non ha intenzione di portare con sé il principe nella
spedizione contro la Persia e che gli affiderà un incarico qui in Macedonia. Questo
cosa ti fa pensare?
Il vecchio Tebano si passò una mano sulla testa calva, grattandosi la sommità
del cranio.
– Filippo è troppo astuto per lasciarsi alle spalle un potenziale nemico... ma
uccidere il proprio figlio? Ne sei certo?
– Ne sono certo.
– Cosa farai?
– Non ne ho idea. Questa notte mi incontrerò con il principe e gli consiglierò di
lasciare Pella.
– Cosa sta succedendo a Filippo? – chiese Mothac. – Il ragazzo gli vuole bene,
su questo non ci sono dubbi. Sai quante spie mi presentano i loro rapporti...
nessuna di loro ha mai suggerito che Alessandro sarebbe disposto a tradire suo
padre.
– Sfortunatamente non si può dire lo stesso dei suoi seguaci – affermò
Parmenion. – Ho visto i rapporti di commenti fatti da Philo e da Nearchos, da
Tolomeo e da Cassander. I giovani adorano Alessandro. E poi c’è quella storia di
Pausanius... una brutta faccenda.
– Se l’è voluto lui – borbottò Mothac. – Pausanius è uno stupido. Filippo ha
sempre apprezzato le attenzioni dei giovani avvenenti, ma nessuno di loro conserva
a lungo il suo affetto. Il ragazzo è stato troppo invadente.
– Può darsi che sia così – convenne Parmenion, – ma è comunque di nobile
nascita e la punizione inflittagli è stata crudele e sconsiderata.
Mothac non replicò. Come poteva? Pausanius aveva goduto per qualche tempo
delle attenzioni del re, e mentre era il suo favorito si era procurato l’inimicizia di
Attalus... facendone l’oggetto di scherzi e battute. Attalus aveva atteso con
pazienza che il giovane perdesse il favore di Filippo, poi aveva ordinato ai soldati
della sua guardia personale di infliggere una battuta al giovane e di abusare di lui.
L’umiliazione era stata feroce, perché il giovane nobile era stato lasciato su un
banco del mercato, nudo e legato. L’incidente aveva avuto molte ripercussioni. I
giovani del seguito di Alessandro erano tutti amici di Pausanius e avevano visto il
trattamento inflittogli come un’ingiustizia, mentre i vecchi nobili di corte avevano
accolto con piacere la sua umiliazione, considerandola una lezione salutare e
meritata per un giovane che consideravano uno spaccone e un fanfarone.
Era inoltre risaputo che Pausanius era un intimo amico di Alessandro. Poco
tempo dopo l’umiliazione subita, il giovane aveva avvicinato il principe e aveva
chiesto giustizia contro Attalus, ma quando il principe gli aveva sottoposto la sua
supplica, Filippo l’aveva respinta definendo l’incidente uno «scherzo» che doveva
essere dimenticato.
Però nei mesi che erano seguiti pochi avevano dimenticato, in quanto
l’accaduto aveva messo in evidenza la misura in cui la stella di Attalus si era
elevata nella corte macedone, e adesso molti uomini si muovevano con cautela
intorno a lui o cercavano apertamente la compagnia dell’assassino di un tempo.
– Può darsi che sia stata una cosa crudele, ma non ti dovrebbe riguardare –
affermò infine Mothac. – Attalus non ha più paura di te e tu hai smesso di figurare
nella lista dei suoi nemici... ed è così che le cose dovrebbero rimanere. Puoi anche
essere il più grande generale della Macedonia, Parmenion, ma adesso Attalus è più
forte di quanto lo sia mai stato.
– Non diventeremo nemici, a meno che abbia intenzione di fare del male ad
Alessandro.
– Se lo farà, sarà per ordine del re – ammonì Mothac, con voce che era appena
un sussurro.
– Lo so – rispose lo Spartano.
IL TEMPIO, ASIA MINORE, 337 A.C.
I giardini del Tempio erano incolti, e la maggior parte delle rose erano morte da
tempo, soffocate dalle ampie foglie dell’edera oppure lasciate in ombra dagli ampi
rami dei molti alberi. L’erba cresceva fra le pietre dei sentieri, spingendo verso
l’alto con la lenta forza della natura fino a distorcerle e a rendere il cammino
insidioso.
Ora le fontane erano silenziose e la loro acqua stagnante, ma a Derae non
importava, perché non aveva più la forza di passeggiare in giardino e lasciava di
rado le proprie stanze alle spalle dell’altare; le rimanevano soltanto due serve,
entrambe donne che aveva risanato molto tempo prima, quando ancora i suoi poteri
non si erano attenuati.
Intorno al tempio non c’erano più le tende lacere piene di malati, di zoppi e di
storpi, non c’era più bisogno di un simbolo di ammissione per vedere la Guaritrice.
Derae poteva ancora risanare tagli poco profondi e piccole infezioni, ma non
era più in grado di ridare la vista ai ciechi o di liberare dal cancro il ventre o i
polmoni dei morenti.
Adesso era lei a soffrire, con gli arti devastati dai dolori dell’artrite e le giunture
gonfie. Se si muoveva lentamente, sorreggendosi con due bastoni, poteva a stento
arrivare alla porta del tempio per sedere sotto il sole pomeridiano, ma poi aveva
bisogno di aiuto per tornare nella propria stanza quando il crepuscolo e la fresca
brezza della sera le irrigidivano le gambe.
Quel giorno Derae sedeva su una panca di marmo, circondata da spessi cuscini,
e godeva del calore del sole sul volto mentre ricordava i giorni in cui il suo potere
era all’apice, in cui i ciechi tornavano a vedere e gli storpi ritrovavano l’integrità
fisica.
Era persa nei ricordi quando Camfitha venne da lei.
– Sta arrivando una carrozza, signora. È nera, ma adorna d’oro, e deve trattarsi
di qualche donna di rango, perché la carrozza è scortata da soldati ed è tirata da sei
stalloni neri. Potrebbe essere la regina.
– Speriamo che abbia soltanto un raffreddore – rispose Derae, con voce
assonnata.
– Devo aiutarti a raggiungere la stanza dell’altare? – domandò Camfitha,
sedendosi accanto alla vecchia.
– No, cara, aspetterò qui. Porta un po’ d’acqua fresca dal pozzo e qualche
frutto. I viaggiatori saranno assetati e avranno bisogno di rinfreschi.
– Presto scenderà il crepuscolo. Ti porterò anche uno scialle.
Derae ascoltò mentre Camfitha si allontanava, facendo echeggiare il corridoio
del proprio passo pesante, e ricordò quando quella donna grassoccia era stata una
bambina snella... snella e attraente, ma con una gamba storta e un piede storpio.
Derae aveva risanato l’arto, e Camfitha aveva giurato di servirla per sempre.
– Non essere sciocca, bambina. Vattene da qui, trovati un brav’uomo e genera
figli forti.
Però Camfitha aveva rifiutato... e quanto lei le era stata grata di questo.
Il rumore degli zoccoli dei cavalli sulle lastre di pietra la riportò al presente.
Adesso era tropo stanca per usare quel che rimaneva del suo Talento per esaminare
i nuovi venuti, ma sembrava che ci fossero almeno una dozzina di cavalieri...
poteva avvertire l’odore dei cavalli sudati misto all’aroma dolce e fumoso del
cuoio lavorato.
La carrozza si era arrestata davanti alle strette porte, e Derae sentì la portiera
del veicolo che veniva aperta e i gradini abbassati fino a toccare terra con un tonfo.
All’improvviso fu assalita da un gelido timore, come se un vento freddo si
fosse levato nel giardino in rovina, e rabbrividì. I soldati si allontanarono, poi ci fu
un sommesso frusciare, come di un serpente che si muovesse fra le foglie e l’erba
secca; un profumo dolce pervase l’aria e il fruscio si fece più vicino... a quel punto
Derae lo identificò come il rumore prodotto dall’abito di una donna.
– Chi sei? – chiese.
– Una vecchia nemica – rispose una voce fredda. Derae tornò di colpo con la
mente al suo primo incontro con l’Oscura Signora, alla loro battaglia spirituale, alle
lance di luce e alle urla dei Nonmorti. Poi rivide il proprio viaggio fino a
Samotracia e i suoi sforzi per impedire il concepimento dello Spirito del Caos.
– Aida?
– Proprio io, e sono sempre la stessa. Il mio corpo è ancora giovane, Derae...
non è vecchio e avvizzito, non sta marcendo intorno alle mie ossa.
– Oserei dire che non si può affermare lo stesso della tua anima.
Aida scoppiò in una risata piena di divertimento.
– Vedo che il cane morente riesce ancora a mordere. Non mi chiedi perché sono
venuta?
– Per uccidermi?
– Ucciderti? No, no, Derae. Presto morirai anche senza il mio aiuto. Ti ho
osservata negli ultimi anni, godendo dello svanire dei tuoi poteri... ma ucciderti?
Perché dovrei farlo? Senza di te il mio prezioso ragazzo non sarebbe mai nato.
– Il tuo prezioso ragazzo è stato sconfitto ed espulso – replicò Derae. – Adesso
Alessandro è un giovane forte e buono.
– Certo che lo è – convenne Aida. – È come io avevo bisogno che fosse. Sono
una donna paziente e i tempi non erano ancora maturi perché il Dio Oscuro
s’incarnasse. Ora però è arrivato il momento.
– Le parole vuote non possono spaventarmi – affermò Derae.
– È naturale che non ti spaventino. Adesso però sono diretta a Pella per il
matrimonio di Filippo con Cleopatra, e non appena sarò là le mie parole
appariranno meno vuote. Credi che una collana d’oro possa proteggere
Alessandro? Un semplice monile? Avrebbe potuto essere rimosso in qualsiasi mo-
mento durante questi ultimi tredici anni, ma era necessario che il ragazzo
diventasse un uomo per crearsi delle amicizie e prepararsi a diventare Colui che
deve venire. – Aida scoppiò di nuovo a ridere, questa volta un suono crudele. – Lo
vedrai nella sua gloria, Derae, e conoscerai la disperazione estrema.
– Non succederà – ribatté Derae, ma le sue parole suonarono prive di forza e di
convincimento. – Parmenion ti fermerà.
– Anche lui è invecchiato, e il suo giorno è trascorso. E Aristotele è fuggito in
mondi remoti e in altre epoche. Non resta più nessuno che mi possa fermare.
– Perché sei venuta qui?
– Per tormentarti – rispose Aida, con soddisfazione, – e per recarti dolore. Per
farti sapere che il Giorno del Dio Oscuro sta sorgendo. Nulla lo fermerà.
– Anche se hai ragione, si tratterà soltanto di un breve tempo. Alessandro non è
immortale, e un giorno morirà.
– Forse, o forse no. Ma che importanza ha? Una volta che la sua carne sarà
stata divorata dagli uccelli o consumata dal fuoco, lo Spirito del Caos sarà
nuovamente libero e i suoi discepoli gli troveranno un altro contenitore adeguato.
Lui è immortale.
– Perché lo servi, Aida? Lo Spirito del Caos porta soltanto dolore e sofferenze,
odio e disperazione.
– Perché? Come puoi chiederlo? Sei seduta li e stai marcendo sotto i miei occhi
mentre io sono ancora giovane grazie alla sua benedizione. Sono ricca, ho molti
schiavi e soldati, il mio corpo gode di tutti i piaceri noti... e di molti che non lo
sono. Quale altro padrone potrebbe darmi tutto questo?
Questa volta fu Derae a sorridere.
– Sono piaceri così privi di valore. Tieniteli pure.
– Privi di valore? Ammetto che hai più esperienza di me quanto a mancanza di
valore – sibilò Aida. – Hai conosciuto soltanto un amante, mentre io ne ho
conosciuti migliaia, uomini e donne... sì, e demoni. Sono stata appagata in modi
che non puoi neppure immaginare.
– Né desidero farlo. E comunque ti sbagli, Aida: tu non hai mai conosciuto un
amante, perché sei incapace di amare, non hai idea di cosa significhi questa parola.
Sei venuta per tormentarmi? Hai fallito, perché se un tempo ti odiavo ora provo
soltanto pietà per te. Mi hai portato invece un dono... e ti ringrazio per questo.
– Allora eccone un altro – sussurrò Aida, alzandosi. – Parmenion sarà ucciso da
suo figlio, Alessandro. Una fredda spada gli trapasserà la carne e tutti i tuoi sogni
si ridurranno in polvere. Rifletti su questo, vecchia megera!
Derae non replicò e rimase assolutamente immobile mentre l’Oscura Signora si
allontanava. Sentì la porta della carrozza che si apriva, i gradini che venivano
ritirati e i cavalli che nitrivano al crepitare della frusta.
– Se ne sono andati? – domandò Camfitha, posando un vassoio d’argento sulla
panca di marmo.
– Sì, se ne sono andati.
– Era la regina?
– No, era soltanto una donna che ho conosciuto in passato.
La casa di Mothac era nel quartiere più povero di Pella, dove lui poteva
incontrare indisturbato i suoi numerosi agenti. L’edificio era a due piani, cinto da
un alto muro; non c’era giardino, ma sul retro della casa, rivolto ad est, si apriva un
piccolo cortile in parte coperto da un tetto di viticci. La casa aveva un solo
androne, disadorno e privo di finestre, nel quale erano disposti tre divani e parecchi
piccoli tavoli. Quella era la stanza in cui Mothac parlava con le sue spie, perché era
impossibile essere uditi dall’esterno.
– Cosa sta succedendo a mio padre? – chiese Alessandro, quando Parmenion lo
fece entrare.
– Non posso dirlo con certezza – replicò il generale, scuotendo il capo.
Nel parlare, lo Spartano si distese su un lungo divano, e Alessandro notò la
stanchezza che lo pervadeva. Essa lo sorprese, perché Parmenion era sempre stato
il suo eroe, all’apparenza indistruttibile. Adesso però aveva l’aspetto di un
sessantenne, con i capelli grigi, il volto segnato e gli occhi azzurri circondati da
ombre scure, e il principe fu costretto a distogliere lo sguardo con un senso di
tristezza.
– A volte – proseguì lo Spartano, – un uomo scopre che i suoi sogni erano più
magici prima di essere realizzati. Credo che questa possa essere una risposta.
– Non ti capisco. Lui è il re più potente di tutta la Grecia. Ha tutto quello che
può aver mai desiderato.
– Esattamente ciò che intendo – sospirò il generale. – Quando l’ho incontrato
per la prima volta a Tebe, era soltanto un bambino che affrontava con coraggio la
prospettiva di essere assassinato. Non desiderava essere re, ma poi suo fratello è
stato ucciso in battaglia e la Macedonia si è trovata di frontealla rovina, quindi
Filippo ha accettato la corona per salvare la nazione. E poco dopo ha cominciato a
concepire sogni di grandezza... non per se stesso, ma per il regno e per il figlio non
ancora nato. Voleva soltanto costruire qualcosa per te.
– Ma lo ha fatto – insistette Alessandro.
– Lo so. Però lungo la strada è successo qualcosa a Filippo e adesso lui non
costruisce più per te ma per se stesso... e quanto più invecchia tanto più vede te, la
tua giovinezza e le tue doti come una minaccia. Ero con lui in Tracia, quando è
giunta notizia della rivolta triballiana. Filippo era pronto a tornare immediatamente
a casa, perché era consapevole del coraggio e dell’abilità di quelle tribù e sapeva
che ci sarebbero voluti mesi di accurate pianificazioni per avviare una campagna
contro di loro. Poi è giunta voce della tua sconvolgente vittoria: li avevi aggirati sul
fianco, eri stato più astuto di loro e avevi vinto la guerra in diciotto giorni. È stata
una cosa magnifica, che mi ha reso orgoglioso di te, e credo che lo fosse anche tuo
padre. Però la tua impresa gli ha mostrato quanto eri prossimo ad essere pronto a
governare.
– Non posso vincere, giusto? – commentò Alessandro, scuotendo il capo. –
Cerco di soddisfarlo eccellendo, ma questo lo porta a temermi. Come mi devo
comportare, Parmenion? Sarebbe meglio se fossi un ritardato mentale, come il mio
fratellastro Arridaeus? Cosa posso fare?
– Credo che dovresti lasciare Pella – consigliò lo Spartano.
– Lasciarla? – ripeté Alessandro, poi rimase in silenzio per un momento e
infine scrutò il volto di Parmenion... ma per la prima volta da quando lo conosceva,
lo Spartano rifiutò di incontrare il suo sguardo. – Ha intenzione di uccidermi? È
questo che stai dicendo? – sussurrò allora il principe.
Cupo in volto, il generale accettò di guardarlo negli occhi.
– Credo di sì. Giorno dopo giorno si sta convincendo... o lo stanno
convincendo... del tuo imminente tradimento. Raccoglie informazioni sul tuo
conto, sulle tue parole e su quelle dei tuoi amici. Ritengo che qualcuno di essi gli
faccia da spia, ma non riesco a scoprire di chi si tratta.
– Uno dei miei amici? – domandò Alessandro, sconvolto.
– Sì... o meglio, qualcuno che si professa tuo amico.
– Credimi, Parmenion, non ho mai parlato contro mio padre o criticato una sua
azione, neppure con i miei amici. Chiunque parla contro di me sta mentendo
oppure distorce la verità.
– Questo lo so, ragazzo! Lo so meglio di chiunque altro. Però dobbiamo trovare
il modo di far sì che se ne renda conto anche Filippo. La cosa più sicura sarebbe
che tu lasciassi la città, poi io potrò fare del mio meglio per convincere il re.
– Non posso andarmene – ribatté Alessandro. – Sono l’erede al trono e sono
innocente. Non intendo fuggire.
– Credi che soltanto gli uomini colpevoli muoiano? – scattò Parmenion. – Credi
che l’innocenza sia uno scudo che possa parare la lama di un assassino? Dov’era
quello scudo stanotte, quando sono arrivati i sicari? Se non fosse stato per Hephai-
stion ti avrebbero ucciso.
– Forse – convenne Alessandro, – però non erano assassini. Volevano la
collana.
Parmenion non disse nulla, ma dal suo volto scomparve ogni traccia di colore e
lui attraversò la stanza fino ad un tavolo su cui erano posati una caraffa di vino e
due coppe poco profonde. Senza neppure offrire al principe da bere, riempì una
coppa e ne vuotò il contenuto in un sorso.
– Avrei dovuto immaginarlo – mormorò.
– Cosa?
– Mi riferisco alla partenza di Aristotele. A quel tempo mi ha turbato, e adesso
so il perché. Molti anni fa... prima che tu nascessi... ho intrapreso un viaggio
pericoloso nel quale lui mi ha accompagnato. Quando è parso che tutto fosse
perduto, Aristotele è fuggito, e nei panni di Chirone ha fatto lo stesso. Non appena
siamo giunti nelle vicinanze della Foresta di Gorgone si è trasformato in centauro
ed è tornato alla sua forma soltanto quando il pericolo è passato.
– Con me ha ammesso di aver avuto paura.
– Sì. In lui c’è una venatura di vigliaccheria a cui non riesce a resistere. È una
cosa che ho sempre visto, ma non lo biasimo per questo. È nella sua natura e lui si
sforza di resistere... però adesso è fuggito di nuovo, e questa notte qualcuno ha
cercato di rubarti la collana.
– Di certo erano soltanto dei comuni ladri.
– Potevano esserlo – ammise Parmenion, – ma ne dubito. Tre uomini in una
strada deserta... cosa ci facevano là? Speravano che qualche ricco mercante uscisse
a passeggio dopo la mezzanotte? E poi la collana non è particolarmente visibile,
soprattutto di notte, e non ha un’aria preziosa. No. Fin da quando siamo tornati da
Achaea ho vissuto nel timore, aspettando il ritorno del Dio Oscuro – concluse il
generale, riempiendo di nuovo la coppa e tornando al suo divano. – Io non sono un
mistico, Alessandro, ma posso avvertire la sua presenza.
– Ma se n’è andato da me – protestò Alessandro. – Lo abbiamo sconfitto.
– No, non se n’è andato... sta aspettando. Tu sei sempre stato il suo contenitore,
e la sola cosa che ti protegge è quella collana.
– Non l’hanno presa – gli fece notare Alessandro.
– Questa volta! ma ci saranno altri tentativi, perché devono essere certi che sia
giunto il momento propizio.
– Negli ultimi anni mi è capitato due volte di rischiare di perderla – disse
Alessandro. – Nella battaglia contro i Triballiani una freccia ha colpito la mia
corazza, l’asta si è spezzata e la punta ha tranciato due fili d’oro. L’ho fatta
riparare, e l’orafo a cui mi sono rivolto non è riuscito a capire perché mi sono
rifiutato di toglierla di dosso mentre lui saldava l’oro, soprattutto considerando che
mi ha bruciato due volte. Poi, mentre stavo cacciando, una taccola è calata su di me
ed ha chiuso gli artigli intorno alla collana. L’ho colpita con la mano facendole
perdere la presa, ma mentre volava via il fermaglio si è aperto e a stento sono
riuscito a tenere la collana al suo posto mentre lo richiudevo.
– Dobbiamo stare in guardia, ragazzo mio – dichiarò Parmenion. – Se non vuoi
lasciare Pella, sei disposto ad acconsentire almeno ad una mia richiesta?
– Certamente. Devi soltanto dirmi di cosa si tratta.
– Tieni Hephaistion con te. Lui è il migliore dei miei giovani ufficiali, ha
l’occhio acuto e una mente pronta. Ti proteggerà le spalle. Accoglilo al tuo fianco,
presentalo come un nuovo Compagno, e con il tempo lui troverà il traditore.
– Sai – commentò Alessandro, con un triste sorriso, – non è accurato descrivere
come un traditore un uomo che riferisce informazioni al re. In effetti, un incontro
segreto fra il generale del re e il principe ereditario sa maggiormente di tradimento.
– C’è chi lo vedrebbe in questa luce – ammise Parmenion, – ma tu e io
sappiamo che non è così.
– Rispondi a questa domanda, Parmenion: da che parte sarai se mio padre
dovesse mettersi contro di me?
– Al suo fianco – replicò lo Spartano, – perché ho giurato di servirlo e non lo
tradirò mai.
– E se mi dovesse uccidere?
– Allora abbandonerò il suo servizio e lascerò la Macedonia. Però dobbiamo
fare in modo che non si arrivi a questo e indurlo a capire che gli sei fedele.
– Non gli farei mai del male... neppure per salvarmi la vita.
– Lo so – affermò Parmenion, alzandosi e abbracciando il giovane. – Ora è
tempo che tu vada. Hephaistion ti sta aspettando alla porta principale.
IL PALAZZO D’ESTATE, AIGAI, 337 A.C.
Parmenion si svegliò poco dopo l’alba senza però sentirsi riposato: i suoi sogni
erano stati pieni di ansia e di disperazione, e al risveglio il suo stato d’animo non
era certo migliore.
Alzatosi dal letto aprì le imposte della camera e abbassò lo sguardo sulla città.
Quando lo guardavano, gli uomini vedevano il più grande generale della
Macedonia, un uomo potente, e tuttavia oggi si sentiva vecchio, stanco e sperduto.
Uno dei suoi figli, Alessandro, stava venendo tradito da un altro, Philotas,
mentre il re che Parmenion amava si stava rapidamente convincendo della
necessità di assassinare il suo erede.
Quello non era però un campo di battaglia dove lo strategos potesse operare
uno dei suoi molti miracoli, questa era una ragnatela di fili avvelenati che stava
avvolgendo la città e il regno, corrompendo tutto quello che toccava. Ma chi era il
ragno?
Attalus?
Senza dubbio lo spadaccino era un uomo freddo e ambizioso, ma Parmenion
non lo credeva capace di manipolare Filippo. Chi altri aveva qualcosa da
guadagnare da quella situazione?
Convocati due servitori, ordinò loro di preparargli il bagno. Appena pochi anni
prima sarebbe innanzitutto uscito di casa per una corsa mattutina, sciogliendosi i
muscoli e rinfrescandosi la mente, ma adesso le sue gambe erano troppo rigide per
un simile consumo di energie. Presa una mela da un vassoio vicino alla finestra
l’addentò, però era troppo matura e dolciastra e la buttò fuori della finestra.
Chi era il ragno?
Non c’erano risposte facili. Il re era ormai entrato nella mezza età ed era
naturale che i giovani volgessero lo sguardo al suo successore. Molti erano a favore
di Alessandro, ma altri sarebbero stati più contenti di vedere sul trono il ritardato
Arridaeus, mentre altri ancora ricordavano che Amyntas era il figlio di Perdiccas,
che era stato re prima di Filippo.
Parmenion si costrinse ad allontanare simili pensieri dalla mente. Conosceva
bene Amyntas e sapeva che il ragazzo non aveva nessun desiderio di portare la
corona e ancor meno ne aveva la capacità. Era un giovane allegro e cordiale, un
ufficiale capace, ma privo di immaginazione o di iniziativa.
No, la risposta era racchiusa dentro Filippo e nella sua crescente diffidenza nei
confronti di Alessandro. Philotas gli stava riferendo menzogne e mezze verità, però
non aveva né l’ingegnosità né l’astuzia di costruire una simile ragnatela.
Parmenion rimase a oziare nel bagno per un’ora, alle prese con quel problema,
ma non era più vicino a risolverlo quando infine Mothac arrivò per discutere con
lui dei messaggi trasmessigli dai suoi agenti nell’Asia Minore.
– Il Grande Re ha rinforzato le sue forze a occidente e ha mandato delle truppe
nelle città greche della costa, ma non molte, circa tremila uomini. È strano – riferì
il vecchio Tebano.
– La Persia è vasta, e lui potrebbe radunare un grande esercito in meno di un
mese – replicò Parmenion. – No, questo è soltanto il suo modo di farci sapere che
sa. Quali notizie ci sono da Tebe?
– Ci sono le solite agitazioni, perché a nessuno piace avere nella Cadmea una
guarnigione di una nazione straniera. Dovresti ricordarlo.
– Infatti – convenne Parmenion, rammentando i propri giorni in quella città,
quando era un contingente spartano a occupare la fortezza nel centro della città.
– A Tebe circola la voce che si potrebbe ricorrere all’oro persiano per assoldare
un esercito mercenario e riprendere la Cadmea.
– Non dubito che il denaro ci sia – replicò Parmenion. – Il Grande Re ne starà
certo spargendo in ogni direzione: a Sparta, ad Atene, a Corinto e a Pherae. Però
questa volta i Persiani falliranno nella manovra e non ci sarà nessuna rivolta alle
nostre spalle.
– Non ne essere troppo certo – borbottò Mothac. – Tebe si è già liberata altre
volte dai conquistatori.
– Ma allora c’era Epaminonda, e c’era Pelopida... e il nemico era Sparta.
Adesso la situazione è diversa. Sparta era costretta a muoversi con cautela per
timore di scatenare una guerra con Atene, mentre ora Tebe si verrebbe a trovare
sola, e le sue forze non sono pari neppure a un quinto dell’esercito macedone.
Mothac grugnì e scosse il capo con rabbia.
– Parli come un macedone! Ebbene, io sono un Tebano e non sono d’accordo
con te. La Sacra Banda si sta riformando e la città tornerà ad essere libera.
Parmenion uscì dalla vasca da bagno, avvolgendosi uno spesso asciugamano
intorno alla vita.
– I vecchi tempi sono passati, Mothac, e tu lo sai. Tebe sarà libera... ma soltanto
quando Filippo deciderà di potersi fidare dei Tebani.
– Quanta arroganza – sibilò Mothac. – Tu sei l’uomo che ha liberato Tebe...
non Epaminonda, ma tu! Ci hai aiutati a riprendere la Cadmea e poi hai elaborato il
piano per sconfiggere l’esercito spartano. Non lo ricordi? Perché adesso le cose
sarebbero tanto diverse? Come fai a sapere che a Tebe non c’è un giovane
Parmenion che sta progettando e complottando?
– Sono certo che c’è – replicò Parmenion, con un sospiro. – Però l’esercito
Spartano non ha mai posseduto più di cinquemila uomini, mentre Filippo può far
affidamento su quarantacinquemila Macedoni e su un numero di mercenari che
ammonta alla metà di quella cifra, ha una foresta di macchine da assedio, di
catapulte e di torri semoventi. Non è la stessa cosa.
– Mi aspettavo che l’avresti pensata così – commentò Mothac, carminio in
volto.
– Mi dispiace, amico mio, ma che altro posso dire? – chiese Parmenion,
avvicinandosi all’amico e posandogli una mano sull’ampia spalla, ma Mothac si
liberò con una scrollata dalla sua stretta gentile.
– Ci sono alcune cose di cui è meglio non parlare – borbottò. – Andiamo avanti
con gli altri problemi.
Raccolte le sue carte cominciò a sfogliarle, ma poi si fermò di colpo, chinando
in avanti la testa calva, e Parmenion vide che aveva le lacrime agli occhi.
– Cosa c’è? Cosa succede? – gli chiese, avvicinandoglisi.
– Moriranno tutti – rispose Mothac, con voce tremante.
– Chi? Chi morirà?
– I giovani della mia città. Insorgeranno con la spada in pugno, e saranno
mietuti.
All’improvviso, Parmenion comprese.
– Li hai aiutati a organizzarsi?
– È la mia città – affermò il vecchio, annuendo.
– Sai quando abbiano intenzione di attaccare la Cadmea?
– No, ma sarà presto.
– Non è detto che finisca con uno spargimento di sangue, Mothac. Manderò
nella Beozia altri due reggimenti e questo indurrà i ribelli a riflettere, però mi devi
promettere di troncare i tuoi rapporti con loro. Promettilo!
– Non posso prometterlo. Lo capisci? Tutto quello che faccio qui mi rende un
traditore, fin dalla battaglia di Cheronea, in cui tu hai schiacciato l’esercito tebano.
Me ne sarei dovuto andare allora, sarei dovuto tornare a casa... ma lo farò adesso.
– No, non te ne andare – replicò Parmenion. – Sei il mio più vecchio amico, e
ho bisogno di te.
– Non hai bisogno di me – ribatté con tristezza il vecchio. – Non hai bisogno di
niente, Tu sei lo strategos, sei la Morte delle Nazioni. Sto diventando vecchio,
Parmenion, e voglio tornare a Tebe per morire nella città dove sono nato ed essere
sepolto accanto al mio amore.
Con quelle parole, Mothac si alzò e lasciò la stanza con passo rigido.
LA CITTÀ DI AIGAI, MEZZ’INVERNO, 337 A.C.
Filippo era ubriaco e di umore eccellente. Intorno a lui c’erano i suoi amici e i
suoi generali... venti uomini che lo avevano servito bene negli ultimi vent’anni... e
insieme stavano festeggiando l’ultima notte delle celebrazioni nuziali. Filippo si
appoggiò all’indietro sulla sedia, lasciando vagare lo sguardo dall’uno all’altro dei
presenti.
Parmenion, Antipatro, Cleitus, Attalus, Theoparlis, Coenus... uomini con cui
valicare le montagne, forti e fedeli, coraggiosi. Un movimento all’estremità del
tavolo attirò la sua attenzione: Alessandro stava sorridendo per uno scherzo del
giovane Tolomeo.
Filippo pensò che probabilmente era uno scherzo a sue spese e il suo buon
umore evaporò.
Subito dopo, però, allontanò quel pensiero con una scrollata di spalle: quella
era una notte di festa e non voleva permettere a nulla di rovinarla.
I servitori portarono via dal tavolo gli ultimi piatti, poi i giocolieri si fecero
avanti per intrattenere il re. Erano Medi, con la barba arricciata e fluenti tuniche di
seta e di satin. Ciascuno dei tre aveva con sé sei spade, ed essi cominciarono a
lanciarle in aria, ad una ad una, fino a quando parve che le lame fossero vive
mentre ruotavano e scintillavano sulla testa dei lanciatori come uccelli metallici.
Poi i Medi si allontanarono uno dall’altro e le spade presero a fendere l’aria fra
loro, muovendosi così in fretta che non sembravano neppure toccare la mano dei
lanciatori. Filippo rimase affascinato da tanta abilità e si chiese vagamente se gli
uomini di quella razza erano altrettanto dotati di talento quando si trattava di usare
la spada in battaglia. Secondo i rapporti di Mothac, il re persiano aveva infatti
tremila guerrieri medi nel suo esercito.
L’esibizione infine si concluse e Filippo fu il primo ad applaudire. Parecchi fra
i compagni di Alessandro si misero a battere le mani e questo indusse il re ad
accigliarsi. Stava diventando una pratica di uso comune battere le mani per
mostrare il proprio apprezzamento, ma per secoli un gesto del genere era stato
considerato un insulto; un tempo, infatti, le mani si battevano a teatro quando la
folla voleva soffocare la voce degli attori scadenti e costringerli a lasciare il
palcoscenico, ma poi gli Ateniesi avevano cominciato invece a batterle alla fine di
un’esibizione per indicare la loro approvazione. A Filippo non piacevano quei
cambiamenti.
I giocolieri furono sostituiti da un lanciatore di coltelli dall’abilità squisita.
Furono approntati sette bersagli e l’uomo, un Tessalo dal fisico snello, li centrò
tutti pur essendo bendato. Filippo gli elargì una moneta d’oro.
Seguirono quindi quattro acrobati, snelli ragazzi della Tracia, e un poeta che
cantò di Eracle e delle sue fatiche. Per tutto il tempo, la coppa di Filippo non
rimase mai vuota.
Verso mezzanotte parecchi fra gli ufficiali più anziani, tra cui Parmenion,
chiesero di potersi ritirare e fecero ritorno a casa, ma Filippo, Attalus, Alessandro e
una dozzina di altri rimasero ancora a bere e a chiacchierare.
Filippo si accorse che i più erano ubriachi, in particolare Attalus, che
consumava di rado dell’alcool. I suoi occhi chiari erano offuscati ma lui aveva sul
volto un sorriso beato che indusse il re a battergli una pacca sulla spalla.
– Dovresti bere più spesso, amico mio – ridacchiò Filippo. – Sei decisamente
troppo serio.
– È vero – replicò Attalus, pronunciando ogni parola con grande attenzione e
concentrazione. – È.... una... sensazione... straordinariamente piacevole – concluse,
alzandosi ed eseguendo un inchino esagerato.
Filippo scoccò un’occhiata in direzione di Alessandro: il ragazzo era
assolutamente sobrio, in quanto stava ancora sorseggiando la stessa coppa di vino
chiesta due ore prima.
– Cosa ti prende? – ruggì il re. – Il vino non ti piace?
– È molto buono, padre.
– Allora bevilo!Lo farò... a tempo debito – rispose il principe.
– Bevilo adesso! – ordinò il re.
Alessandro sollevò il boccale come in un brindisi e ne vuotò il contenuto in un
solo sorso. Subito Filippo convocò un servitore con un cenno.
– Il principe ha la coppa vuota. Stagli accanto e bada che non si svuoti più.
L’uomo si inchinò e portò una caraffa in fondo al tavolo, posizionandosi
accanto ad Alessandro. Soddisfatto di aver avuto la meglio sul giovane, Filippo
tornò a girarsi verso Attalus, ma lo spadaccino si era addormentato sul tavolo, con
la testa appoggiata alle braccia.
– Che significa? – gridò Filippo. – Il re deve essere dunque lasciato a
festeggiare da solo?
Attalus si riscosse.
– Sto morendo – sussurrò.
– Hai bisogno di altro vino – ribatté Filippo, issandolo in piedi. – facci sentire
un brindisi, Attalus!
– Un brindisi! Un brindisi! – esclamarono i presenti. Attalus scrollò la testa e
sollevò la propria coppa di vino, versando sul tavolo metà del suo contenuto.
– A Filippo, alla mia pupilla Cleopatra e al loro figlio non ancora nato – disse,
poi il suo sguardo si posò su Alessandro e lui sorrise, alzando maggiormente la
coppa e aggiungendo: – Alla salute di un erede legittimo!
Sui presenti calò uno sconvolto silenzio. Con il volto tinto di un pallore
mortale, Alessandro scattò in piedi.
– E io cosa sarei, allora? – chiese.
Attalus lo fissò sbattendo le palpebre, non riuscendo a credere di aver usato
davvero quelle parole. Esse erano parse scaturire dalle sue labbra di loro spontanea
volontà, ma adesso che erano state dette non potevano più essere ritrattate.
– Mi hai sentito, assassino figlio di buona donna? – gridò Alessandro. –
Rispondimi!
– Taci! – tuonò Filippo, scattando in piedi. – Che diritto hai di interrompere un
brindisi?
– Non intendo tacere – ritorse Alessandro. – Ho accettato i vostri insulti
abbastanza a lungo, ma questo non intendo tollerarlo. Non m’importa nulla della
successione... puoi lasciare la tua corona anche ad una capra, per quel che
m’interessa... ma qualsiasi uomo che metta in dubbio la legittimità della mia
nascita me ne deve rendere conto. Non intendo restarmene tranquillo e lasciare che
mia madre venga definita una prostituta da un uomo che si è fatto strada al potere
sui cadaveri di coloro che ha pugnalato alla schiena e avvelenato.
– Hai detto anche troppo, ragazzo! – esclamò Filippo, spingendo indietro la
sedia e lanciandosi verso Alessandro, ma il suo piede andò a sbattere contro uno
sgabello e lo fece incespicare; la gamba zoppa cedette sotto il suo peso e lui
cominciò a cadere. Nel tentativo di sorreggersi sollevò di scatto la mano sinistra
verso Alessandro, però le sue dita riuscirono soltanto ad agganciarsi nella collana
che brillava intorno alla gola del principe. Essa si staccò all’istante e Filippo rovinò
addosso al tavolo, battendo la testa contro una sedia nel cadere.
Alessandro barcollò ma si raddrizzò subito. Adesso nella sala non si udiva il
minimo suono e la luce delle lampade era tremolante e incerta a causa di una
brezza fredda che entrava dalle finestre aperte.
Il principe abbassò lo sguardo sul corpo svenuto del padre.
– Eccolo che giace li – commentò, con voce profonda e pervasa di una
freddezza inumana. – L’uomo che vorrebbe conquistare il mondo non è neppure
capace di attraversare una stanza.
Poi indietreggiò verso le porte, seguito da Tolomeo e da Craterus; giunto sulla
soglia girò sui tacchi e si allontanò a grandi passi.
Il nevischio si tramutò in neve, fiocchi gelidi che pungevano come aghi nel
toccare la pelle esposta ad essi. Craterus, Tolomeo e Cassander cominciarono a
staccare dei rami dagli alberi circostanti e cercarono invano di costruire un piccolo
riparo, ostacolati dalle folate di vento.
Alessandro intanto rimase seduto in silenzio accanto al piccolo fuoco, lasciando
che la neve gli si posasse sui capelli e sul mantello mentre teneva lo sguardo fisso
sulle fiamme tremolanti. Con un brivido, Hephaistion si avvolse meglio nel man-
tello di lana. L’umore del principe lo preoccupava: Alessandro sembrava quasi in
trance, incurante del pericolo e apparentemente a proprio agio perfino sotto
quell’improvvisa tempesta.
Sentendo il freddo che gli penetrava nelle ossa, Hephaistion sfregò le mani una
contro l’altra e alitò su di esse per riscaldarle.
– Tutto questo è più di tuo gradimento, vero? – chiese d’un tratto Alessandro.
– Mio signore?
– Il freddo, il cielo aperto, i nemici che si avvicinano. Tu sei un soldato... un
guerriero.
– Mi piacerebbe un clima un po’ più caldo di questo – rispose Hephaistion,
costringendosi a sorridere.
– Ti aggiravi nelle mie stanze come un leone in gabbia, non eri mai a tuo agio.
– Stavo facendo ciò che il mio signore Parmenion mi aveva ordinato.
– Sì, naturalmente. Tu hai dell’adorazione per lui.
– Non adorazione, mio principe, ma ho molto di cui essergli grato. Dopo che
mia madre è stata uccisa, ho dovuto vendere la nostra fattoria all’asta per pagarmi
la quota dell’accademia militare, ma quando ho raggiunto la maggiore età l’atto di
proprietà della fattoria mi è stato restituito. L’aveva comprata Parmenion.
– È un uomo gentile... a quanto ho saputo lui ti ha salvato dai razziatori paioni,
giusto?
– Sì. Come lo sai? Te lo ha detto lui?
– No – replicò Alessandro, – ma mi piace sapere tutto riguardo agli uomini che
mi seguono. Secondo te, perché Attalus è con lui?
– Sono un soldato, non uno strategos – affermò Hephaistion, allargando le
mani. – Quanti uomini hanno con loro? La tua visione te lo ha mostrato?
– Sono soli.
– Mi sembra improbabile, signore – obiettò Hephaistion, sinceramente
sorpreso. – Attalus ha molti nemici, e logicamente adesso dovrebbe annoverarti fra
essi.
– Da che parte sarai se attaccherò Attalus? – chiese Alessandro, protendendosi
in avanti.
– Al tuo fianco!
– E se andrò contro Filippo?
– Stessa risposta. Però non chiedermi di combattere contro Parmenion.
– Ti schiereresti dalla sua parte?
– No... è per questo che non voglio che tu me lo chieda. Alessandro annuì, ma
non disse nulla. Voltando il capo, vide che i suoi tre Compagni si erano infine
raggomitolati sotto un rozzo riparo, ma in quel momento una nuova folata di vento
lo fece crollare loro addosso e il principe scoppiò a ridere. – Questi sono gli uomini
che vorrebbero conquistare il mondo per me – commentò.
I tre si liberarono faticosamente dai resti del loro riparo e si avvicinarono al
fuoco.
– Non avverti il freddo? – domandò Tolomeo ad Alessandro.
– Esso non mi può toccare – rispose il principe. I Compagni cominciarono a
scherzare a proposito dei nuovi poteri di Alessandro ed Hephaistion si appoggiò
all’indietro contro la roccia, chiudendo gli orecchi al loro chiacchiericcio e
lasciando che esso gli si riversasse sopra come il rumore di fondo dello scorrere di
un fiume, fondendosi con lo stridio del vento.
Era al tempo stesso stupefatto e irritato per la conversazione avuta con il
principe, stupito per il modo sorprendentemente facile con cui si era impegnato a
seguirlo e irritato per la pari facilità con cui aveva tradito Parmenion. Che avesse
imparato a rispettare e ad apprezzare Alessandro era comprensibile, perché il
principe era un uomo d’onore e di coraggio... però non si era mai reso conto di
quanto quel rispetto fosse diventato profondo, comprendendo soltanto adesso che
esso rasentava l’amore: Alessandro era il sole, e lui si sentiva riscaldato in sua
compagnia.
Ma non sei affezionato anche a Parmenion? si chiese. La risposta giunse rapida
e netta: certo che gli era affezionato, ma era un affetto derivante da un debito, e i
debiti potevano sempre essere ripagati.
La neve rallentò e il vento cadde, permettendo al fuoco di crepitare con
maggiore decisione, levando lunghe lingue di fiamma a lambire la legna.
Hephaistion aprì il mantello, lasciando che quel calore gli raggiungesse la parte
superiore del corpo.
Poi si accorse che Alessandro lo stava guardando.
– I nostri ospiti stanno per arrivare – affermò il principe. – Voglio che tu li
aggiri e controlli che alle loro spalle non ci sia qualche contingente che li segue a
distanza.
Hephaistion si alzò e s’inchinò, sentendosi la bocca improvvisamente arida.
– Come comandi – rispose.
Ecco che era giunto, il momento del tradimento. Se i Compagni avessero ucciso
Parmenion e Attalus questo avrebbe significato la guerra civile... ma Alessandro gli
aveva concesso una via di uscita. L’ufficiale si sentì assalire da un senso di nausea
mentre si dirigeva verso il cavallo.
Però si allontanò senza guardarsi indietro.
Aida congedò i Sussurratori perché erano serviti allo scopo. L’Oscura Signora
era esultante: aveva avvertito il momento in cui Filippo aveva strappato la collana
ad Alessandro e nel percepirlo aveva sperimentato un impeto emotivo
meravigliosamente simile ad un orgasmo.
Adesso era inginocchiata nella cantina buia sotto la sua casa, con i corpi dei
suoi due ultimi amanti stesi davanti a lei sul pavimento freddo, il sangue che
cominciava a rapprendersi sul loro petto.
Sorridendo, Aida si protese verso il corpo più vicino, tracciando con il dito una
linea di sangue che andava dalla ferita al petto fino al ventre. In tutto l’arco della
storia erano esistite molte forme di pagamento... gli Akkady usavano il cristallo, gli
Ittiti il ferro, i Persiani l’oro... ma per le forze demoniache ignote ai mortali
esisteva una sola forma di pagamento: il sangue, la fonte della vita.
– Morpheus! – chiamò Aida, chiudendo gli occhi. – Euclistes!
Già in quel momento gli assassini si stavano avvicinando a Pella, quindi era di
vitale importanza che le guardie del palazzo venissero impossibilitate a intervenire.
L’Oscura Signora chiamò ancora, e l’oscurità della stanza si accentuò, il freddo
si fece più intenso... poi Aida percepì la loro presenza e sussurrò le parole di
potere. Un momento più tardi i demoni svanirono, e con essi i due cadaveri: adesso
sul pavimento di marmo non restava più neppure una goccia di sangue.
Tremante di eccitazione, Aida si rialzò in piedi. Quella notte sarebbe sorta una
nuova era. Quella notte, il re sarebbe morto.
PELLA, INVERNO, 337 A.C.
Incapace di dormire, Filippo si alzò dal letto e uscì sulla balconata. Il tocco del
freddo vento invernale sul corpo nudo gli strappò un brivido, ma lui rimase dove si
trovava, godendo della sua carezza.
Quanto sono stato stolto, pensò, ricordando come aveva trattato suo figlio.
Come poteva un uomo essere così saggio per quanto riguardava le cose del mondo
e tuttavia tanto cieco riguardo ai valori connessi al frutto della sua carne e del suo
sangue?
Per anni lui aveva tramato e complottato per dominare la Grecia, organizzando
un esercito di agenti e di sovversivi in tutte le principali città, mostrandosi più
astuto di menti come quella di Demostene e di Aischines ad Atene e delle menti
più brillanti di Sparta, di Tebe e di Corinto... e tuttavia lì in Macedonia aveva forse
perso l’amore di suo figlio fraintendendo le sue intenzioni.
Era una realtà frustrante.
Filippo rabbrividì di nuovo e tornò nella propria camera, avvolgendosi in un
caldo mantello di pelo di pecora dotato di cappuccio prima di tornare sulla
balconata.
La sua mente scivolò indietro negli anni, e lui si rivide quando era un ostaggio
a Tebe, in attesa della propria morte... quelli erano stati giorni infelici di solitudine
e di introspezione. Ricordò poi con un intenso senso di orrore il momento in cui
aveva appreso della morte del fratello in una battaglia contro gli Illiri e aveva visto
la forma che il suo destino stava assumendo. Non aveva mai desiderato essere re,
ma quale alternativa restava? La nazione era circondata dai nemici, con l’esercito
annientato e il futuro che prometteva soltanto disperazione.
Abbassò lo sguardo sulla città addormentata e sulle colline al di là di essa: in
molto meno di vent’anni aveva reso la Macedonia una grande nazione, ponendola
fuori della portata di qualsiasi nemico.
Sospirò. La gamba aveva cominciato a pulsargli e lui sedette su una stretta
sedia, massaggiando la cicatrice sopra la vecchia ferita. Le ossa gli dolevano e la
costante sofferenza prodotta dall’occhio cieco lo torturava. Aveva bisogno di bere
qualcosa.
Alzatosi, si girò per rientrare nella camera da letto ma subito si arrestò per la
sorpresa nel vedere una sottile nebbia bianca che stava filtrando da sotto la porta.
Indietreggiò verso il limitare della balconata e la nebbia avanzò verso di lui... ma
una volta fuori della finestra il vento notturno la disperse.
Dentro la stanza essa si stava però riversando sui tappeti e sulle sedie, e sul
letto su cui dormiva Cleopatra. Sotto lo sguardo incredulo di Filippo, la nebbia
svanì lentamente, diventando prima traslucida e poi quasi trasparente prima di
scomparire del tutto. Tornato nella stanza, Filippo raggiunse in fretta il letto su cui
giaceva Cleopatra, protendendo una mano a controllare le pulsazioni della vena del
collo e scoprendo che era soltanto profondamente addormentata. Cercò di
riscuoterla ma non ottenne reazione.
Preoccupato, attraversò zoppicando la stanza e aprì la porta per chiamare le
guardie, ma entrambe erano accasciate nel corridoio con la lancia abbandonata per
terra.
Il re si sentì assalire dalla paura e si liberò del mantello, passando nelle camere
sul retro. La sua armatura dorata era disposta su un’intelaiatura di legno e lui si
affrettò ad affibbiarsi la corazza e il gonnellino di cuoio rinforzato in bronzo, poi
estrasse la spada dal fodero e tornò nella stanza esterna.
Tutto era silenzio. Con la bocca arida, Filippo indugiò sulla soglia, con
l’orecchio teso. Quanti sarebbero stati i sicari?
Non ci pensare, si ammonì, perché questi pensieri portano alla sconfitta e alla
disperazione.
Concentrò allora le proprie riflessioni su Cleopatra e sul bambino che lei
aspettava. Erano al sicuro? Oppure erano anch’essi un bersaglio dei sicari?
Avvicinatosi al letto, sollevò la donna e la depose a terra, avvolgendola in una
coperta e spingendola sotto il giaciglio dove rimase nascosta alla vista.
Sei solo, si rese conto d’un tratto. Per la prima volta da vent’anni non hai un
esercito su cui fare affidamento.
A quel punto l’ira si impadronì di lui, crescendo fino a diventare fredda furia.
Tornato sulla soglia riprese ad ascoltare. Sulla sua destra c’era la scala che
portava alla grande sala e agli androni del piano inferiore, alla sua sinistra il
corridoio che conduceva agli alloggi delle donne. Tratto un profondo respiro
scavalcò le guardie addormentate. Una tenda alla sua sinistra si mosse appena e un
sicario vestito di scuro balzò fuori del suo nascondiglio. Filippo si voltò di scatto,
piantando la spada nel petto dell’uomo e trapassandogli il cuore, poi liberò la lama
con uno strattone e si girò in tempo per affrontare un secondo uomo mascherato e
incappucciato che lo stava assalendo da sinistra. Bloccato un selvaggio affondo,
Filippo assestò una spallata all’uomo e lo gettò a terra... ma alle sue spalle poteva
sentire ora il rumore di parecchi piedi che correvano sui pavimenti coperti da
tappeti. Superato d’un balzo l’uomo abbattuto, spiccò la corsa verso la scala e
qualcuno gli scagliò dietro un coltello che rimbalzò contro la corazza e andò a
lacerargli la pelle dietro l’orecchio.
Raggiunta la sommità della scala, Filippo si arrestò. Lì altre tre guardie erano a
terra, immerse nel loro sonno innaturale. Raccolta una lancia abbandonata al suolo,
il re si girò verso i sette uomini che stavano correndo nella sua direzione lungo il
corridoio, e attese. Quando furono abbastanza vicini trasse indietro il braccio e
contrasse i muscoli per poi scagliare la lancia contro il primo uomo. La punta lo
attraversò completamente, uscendogli dalla schiena, e l’uomo incespicò con il
sangue che gli scaturiva dalla bocca. Senza aspettare che gli altri lo raggiungessero,
Filippo si lanciò giù per le scale, superando i gradini a tre per volta e cercando di
mantenere il peso del corpo sulla gamba sana.
A metà della discesa incespicò e crollò in avanti, perdendo la presa intorno alla
spada mentre rotolava per il resto della scala andando a picchiare la testa contro la
base di una statua. Stordito, lottò per rialzarsi. La spada era a dieci passi di distanza
da lui, ma non c’era nessuna speranza di recuperarla, perché i sei sicari superstiti
gli erano quasi addosso.
Scoccando un’occhiata verso destra vide i corpi di altre due sentinelle e corse
verso di essi. Un sicario gli si lanciò addosso, circondandogli la gola con un
braccio robusto, ma Filippo abbassò la testa e con una torsione lanciò l’uomo
addosso ai compagni che stavano sopraggiungendo. Con la vista appannata,
proseguì con passo barcollante verso le guardie addormentate, spinto dalla
disperata necessità di procurarsi un’arma. Un coltello da lancio gli trapassò la
gamba ma lui ignorò il dolore e si gettò in avanti andando a cadere di traverso sul
corpo della guardia. Ebbe appena il tempo di afferrare una spada prima che i sicari
gli fossero addosso: rotolando su se stesso protese la lama verso l’alto e trafisse
l’inguine di un avversario, ma nello stesso momento uno stivale lo raggiunse alla
tempia e un coltello gli affondò nella coscia. Ruggendo un grido di guerra, Filippo
si sollevò in ginocchio e si scagliò contro gli assassini. La spada gli venne fatta
cadere di mano, ma lui riuscì a chiudere la sinistra intorno alla gola di un sicario...
l’uomo tentò di pugnalarlo ma la lama venne bloccata dalla corazza di Filippo
mentre le dita del re affondavano sempre più nella gola dell’assalitore, serrandosi
come una morsa intorno alla trachea. In quel momento una spada colpì Filippo al
fianco, appena sotto la corazza, e con un urlo lui abbandonò la presa intorno alla
gola dell’assassino. L’uomo indietreggiò barcollando e annaspando per respirare, e
contemporaneamente il pugno del re andò a collidere con il mento di un altro
aggressore. Per un istante, intorno a lui si creò un po’ di spazio e Filippo ne
approfittò per oltrepassare barcollando una soglia aperta. I sicari scattarono per
inseguirlo ma lui era già arrivato nella stanza vuota ed ebbe il tempo di chiudere e
di sbarrare la porta.
Gli assassini di scagliarono contro il battente, che scricchiolò e minacciò di
cedere ai cardini.
Sapendo che non avrebbe tenuto a lungo a bada i nemici, Filippo si volse alla
ricerca di un’arma, ma la stanza in cui era entrato era un piccolo androne. Senza
finestre, conteneva soltanto sei divani coperti di satin, una fila di tavoli e un
braciere pieno di carboni ardenti. In precedenza, quella stessa sera, lui e Cleopatra
erano rimasti seduti lì per qualche tempo a parlare con calma del loro futuro.
Uno dei pannelli della porta cedette e il re si spostò nel centro della stanza, con
il sangue che usciva copioso dalle ferite alla gamba e al fianco... poi l’intera porta
si staccò dai cardini e i cinque assassini superstiti la spinsero di lato, avanzando
verso di lui. Filippo raggiunse di corsa il braciere e allorché uno di essi, più
coraggioso dei compagni, gli si lanciò contro, sollevò il recipiente di ferro e glielo
scagliò contro la faccia. I carboni ardenti colpirono la maschera dell’uomo,
scivolarono nel cappuccio e dentro il collo della tunica nera. Il sicario urlò quando
fumo e fiamme si levarono ad avvilupparlo, poi cadde al suolo con la barba e i
capelli in fiamme, contorcendosi e urlando mentre il fuoco lo avvolgeva del tutto e
nell’aria si diffondeva l’odore acre della carne bruciata.
I quattro assassini superstiti avanzarono lentamente per circondare il re.
Ferito e disarmato, Filippo si dispose ad attendere la morte.
All’improvviso però gli assassini si immobilizzarono, e il re li vide dilatare gli
occhi per la paura e lo shock mentre si ritraevano da lui ad uno ad uno e si giravano
per fuggire dalla stanza.
Filippo non riuscì quasi a credere a tanta fortuna... ma poi una brezza gelida gli
sfiorò la nuca e lo indusse a voltarsi.
La parete opposta tremolò, oscurandosi... e una forma immane e gonfia si
modellò fra il soffitto e il pavimento. Una testa grossolana e distorta si protese a
sbirciare nella stanza con occhi privi di palpebre sotto cui si allargava una bocca
orlata di lunghe zanne ricurve come daghe. Il re sbatté le palpebre, incapace di
credere a quello che stava vedendo e per un momento pensò che si dovesse trattare
di un incubo... ma il dolore delle ferite al fianco e alla gamba era troppo reale.
Sussurrando un’imprecazione, spiccò la corsa verso la porta... appena in tempo
per vedere il battente richiudersi con violenza, tenuto al suo posto da danzanti
sbarre di fuoco. Senza vie di fuga, Filippo tornò a girarsi verso il mostro. La
creatura non aveva braccia, che erano sostituite da enormi serpenti con la testa
grande come un barile di vino e i denti lunghi come spade; dalla loro bocca usciva
un verso sibilante ed essi si contorcevano, protendendosi verso il re.
Indietreggiando, Filippo si venne a trovare a ridosso del cadavere dell’assassino
contro cui aveva scagliato il braciere e si chinò a prendere il suo coltello, che però
appariva un’arma davvero miserevole di fronte alla mostruosità emersa dalla
parete.
Infine la creatura apparve completamente, reggendosi su enormi gambe coperte
di pelliccia e arrivando a sfiorare con la testa l’alto soffitto. Il suo sguardo si mise a
fuoco sull’uomo che aveva davanti e i serpenti che facevano da braccia si protesero
verso di lui.
Non avendo alternative, Filippo avanzò verso il nemico.
Filippo si svegliò immerso nel chiarore del sole estivo che entrava a fiotti dalla
finestra aperta. Stiracchiandosi, si alzò dal letto ascoltando il canto degli uccelli
che saliva dal giardino sottostante la sua stanza. Il profumo dei fiori pervadeva
l’aria, e lui quasi si sentiva di nuovo giovane.
Avvicinatosi ad un lungo specchio di bronzo, indugiò ad osservare la propria
immagine riflessa. Adesso non era più in sovrappeso, i muscoli del ventre erano
duri e tesi, i capelli e la barba, neri e ricciuti, erano lucidi e sani, le cicatrici delle
ferite al fianco e alla coscia erano tenui linee bianche contro la pelle abbronzata.
– Sono nel fiore degli anni – disse alla propria immagine riflessa. Di rado si era
sentito meglio. Adesso la gamba lesa non lo disturbava quasi più, e il dolore
all’occhio era soltanto un ricordo.
I servitori gli portarono la tunica bianca e il mantello cerimoniale, e dopo
essersi vestito lui li congedò, uscendo sul balcone. Il cielo era di un azzurro
meraviglioso, senza che ci fosse una sola nube in vista, e sopra il palazzo un’aquila
dorata si librava sulle correnti d’aria calda.
Era una bella giornata per essere vivo.
La notte precedente Cleopatra gli aveva dato un figlio... un sano bambinetto
con capelli neri come il giaietto, e lui lo aveva sollevato fra le braccia, portandolo
alla finestra e mostrandolo ai soldati e alla folla accalcati in basso. Gli applausi
avevano fatto quasi tremare il palazzo. Oggi la nascita sarebbe stata celebrata
secondo la migliore tradizione macedone, con marce, giochi, parate e
rappresentazioni dei migliori attori della Grecia. Sarebbe stato un giorno
memorabile... e non soltanto per la nascita del nuovo principe.
A mezzanotte, Filippo aveva infatti ricevuto da Parmenion la notizia che le
truppe di avanguardia avevano attraversato l’Ellesponto ed erano giunte in Persia
senza incontrare opposizione. Parecchie città greche dell’Asia, inclusa Efeso, erano
addirittura insorte contro i loro dominatori persiani. Il suo sogno si stava
finalmente realizzando.
Venti anni di pianificazioni, di complotti, di battaglie e ancora di complotti... e
adesso era finalmente arrivato il momento culminante per cui lui aveva tanto
lottato. Atene aveva infine acconsentito a che Filippo diventasse il Capo della
Grecia e tutte le altre città-stato avevano seguito il suo esempio tranne Sparta... ma
Sparta non contava ormai più nulla. Ora l’esercito greco aveva invaso la Persia e
presto lui lo avrebbe raggiunto: avrebbero liberato tutte le città greche, e il re
persiano Dario avrebbe pagato una fortuna in tributi per impedire all’esercito
macedone di addentrarsi ulteriormente nel suo territorio.
Filippo scoppiò a ridere, un suono gioioso che echeggiò nei giardini.
Nei cinque mesi trascorsi da quando il demone per poco non lo aveva ucciso, il
re aveva riscoperto la gioia di vivere. Il volto di Olympias gli apparve per un
momento nella mente, inducendolo ad accigliarsi, ma neppure pensare a lei riuscì a
rovinargli il buon umore.
Un servitore venne ad annunciare che Alessandro stava aspettando fuori.
– Allora fallo entrare! – ordinò Filippo.
Il giovane principe indossava l’armatura nera e argento della Guardia Reale,
con un elmo dal pennacchio bianco in testa.
– Hai un aspetto splendido, padre – salutò, inchinandosi. – Il bianco ti si addice.
– Mi sento bene. Sarà una splendida giornata.
– Senza dubbio. La folla si sta già radunando e la processione è pronta.
– Come lo sono anch’io – annunciò Filippo.
Insieme i due uomini lasciarono il palazzo, oltre le cui grandi porte la parata si
stava formando. C’erano cavalieri di ogni provincia e truppe provenienti da ogni
distretto, c’erano attori e cantori, poeti, giocolieri e acrobati.
Due tori bianchi coperti di ghirlande di fiori vennero condotti in testa alla
processione, come doni per Zeus, il padre degli dèi. I due animali erano seguiti da
venti carri che trasportavano statue intagliate nel legno raffiguranti Artemide,
Apollo, Ares, Afrodite e tutti gli altri dèi della Grecia.
Con una corona di dorate foglie di quercia sulla testa, Filippo si avviò al centro
della processione, attorniato dalle Guardie Reali comandate da Alessandro; dietro
di loro procedevano gli ambasciatori delle città-stato... Atene, Corinto, Tebe e
perfino Sparta... oltre ai rappresentanti della Beozia, di Pherae, dell’Eubea, della
Tracia, dell’Illiria e della Paionia.
Filippo si guardò alle spalle, in direzione delle lontane e torreggianti montagne,
poi guardò davanti a sé la vasta distesa della Piana di Ematia. Macedonia. La sua
terra!
Al contrario di Pella, dove il palazzo del re sorgeva al centro della città, qui
nell’antica capitale esso era eretto sulla cima di un’alta collina con la città che si
allargava ai suoi piedi bianca e lucente. In lontananza Filippo poteva vedere
l’anfiteatro dove si sarebbe rivolto alla folla, e dalla base della collina all’ingresso
dell’anfiteatro la strada era cinta di folla.
I tori bianchi vennero incitati ad avanzare e cominciarono la lunga discesa
verso la pianura, oltrepassando sulla sinistra le tombe nascoste dei re macedoni,
immerse in profondità sotto i fianchi delle colline con gli alberi che crescevano alti
su di esse. Lì giacevano gli antenati di Filippo, con le loro ricchezze celate agli
occhi curiosi di aspiranti ladri.
Un giorno anch’io giacerò in un luogo del genere, pensò, e un brivido gelido lo
assalì nonostante il calore del sole.
La processione si stendeva per quasi mezzo chilometro, e la gente sui due lati
della strada continuava a gettare fiori sotto i piedi dei suoi componenti. Filippo
agitò una mano in direzione del suo popolo, accettandone gli applausi e avvertendo
la forza del suo affetto che gli si riversava addosso.
– Lunga vita al re! – gridò qualcuno, e quel grido venne raccolto da altri lungo
il percorso.
La gamba stava cominciando a dolergli, ma ormai era vicino all’anfiteatro dove
duemila Macedoni e altri dignitari attendevano di vedere il loro re e di ascoltare le
sue parole di gloria futura.
Nessuno sapeva ancora del successo di Parmenion e di Attalus, nell’invadere la
Persia, e Filippo rabbrividì di anticipazione, pensando al discorso che avrebbe
tenuto.
– Macedoni, ci troviamo alle porte di una nuova era. Il potere dei Persiani è
finito, l’alba della libertà attende...
La processione deviò verso sinistra, pronta a entrare nell’arena attraverso le
ampie porte, mentre Filippo e la Guardia Reale si diressero verso destra e verso la
bassa galleria che portava alla piattaforma reale. Nell’ombra della galleria Filippo
si fermò e guardò in direzione degli uomini armati che lo scortavano.
– Non desidero entrare circondato da spade perché mi farebbe apparire come un
tiranno – disse. – Andrò per primo e voi mi seguirete a una distanza di una trentina
di passi.
– Come desideri, padre – acconsentì Alessandro. Filippo entrò nell’ombra del
passaggio, con lo sguardo fisso sul quadrato di luce in fondo ad esso.
LE ROVINE DI TROIA, INVERNO, 335 A.C.
Parmenion spinse Paxus sul ciglio della collina che dominava le colonne
infrante di Troia, e i suoi aiutanti, sei giovani appartenenti a nobili famiglie
macedoni, gli si raccolsero intorno.
– Quello è il posto dove Achille ha combattuto ed è morto – sussurrò Perdiccas,
con voce tremante.
– Sì – confermò Parmenion, – e dove il Re Priamo ha resistito agli eserciti della
Grecia, dove Ettore è stato ucciso e la splendida Elena ha vissuto con l’adultero
Paride. Questo è tutto ciò che resta della gloria che un tempo era Troia.
– Possiamo scendere laggiù, signore? – chiese Tolomeo.
– Certamente, però state attenti, perché nelle vicinanze ci sono numerosi villag-
gi e gli abitanti potrebbero non essere molto amichevoli.
I sei nobili incitarono le cavalcature e scesero al galoppo il pendio in direzione
delle rovine; scorgendo verso sud le mura bianche di un tempio, Parmenion diede
un colpo di tallone a Paxus e si avviò al trotto in quella direzione.
Non c’erano truppe persiane nel raggio di un giorno di cavallo e il suo
avvertimento ai sei giovani era stato decisamente inutile, ma gli piaceva che i suoi
ufficiali fossero costantemente in guardia.
Quando fu vicino al tempio una donna bassa e grassoccia aprì una porta laterale
e gli venne incontro. Tirando le redini, Parmenion fece arrestare lo stallone davanti
a lei.
– Sei tu il Leone di Macedonia, signore? – chiese la donna. Parmenion rimase
sorpreso. Nei dintorni c’erano almeno quindicimila soldati macedoni, fra cui
almeno una dozzina della sua stessa età e statura.
– Mi chiamano così, signora. Perché lo chiedi?
– La mia padrona mi ha mandata a cercarti. Sta morendo.
– Io non sono un Guaritore, ma un soldato. Cosa ti ha detto la tua padrona?
– Di uscire dal Tempio e di avvicinarmi al guerriero che montava lo stallone
grigio. Questo è tutto, signore. Verrai?
Parmenion rabbrividì, assalito da un freddo improvviso nonostante il calore del
sole, mentre qualcosa si agitava nel suo subconscio senza che lui riuscisse però a
metterlo a fuoco. Abbassò lo sguardo sulla donna, chiedendosi se quella fosse una
trappola... possibile che oltre quelle mura bianche ci fossero dei soldati o dei sicari
in agguato?
Dopo un momento decise che i suoi timori erano infondati, perché nella donna
che aveva davanti non c’era traccia di tensione: quella era semplicemente una serva
che stava eseguendo gli ordini della sua signora. Smontando, condusse a mano lo
stallone attraverso la stretta porta, seguendo un sentiero tortuoso attraverso un
giardino incolto.
La sua mente però era ancora turbata.
Cosa c’era di strano in quel posto?
Lì l’atmosfera era tranquilla, armoniosa e riposante, ma i suoi sensi
continuavano ad urlargli un avvertimento e lui si trovò ad essere sempre più teso.
Giunto davanti alle porte principali si fermò e legò le redini dello stallone ad un
ramo d’albero.
– Chi è la tua padrona? – chiese.
– Lei è la Guaritrice, signore – rispose la donna.
Una volta nel Tempio buio, Parmenion venne condotto in una piccola stanza la
cui unica finestra era coperta da una spessa tenda di lana; su uno stretto giaciglio
c’era una vecchia dal volto emaciato e dagli occhi ciechi. Accostandosi alla
finestra, Parmenion trasse indietro la tenda, lasciando che la luce del sole si
riversasse nella stanza.
Quando però abbassò lo sguardo sul volto ora intensamente illuminato della
vecchia il respiro gli si bloccò in gola e lui indietreggiò barcollando, costretto ad
aggrapparsi alla tenda per non cadere. Poi il ricordo nascosto affiorò dai recessi più
profondi della sua mente e vide di nuovo il giardino di Olimpia, dove lui e Derae si
erano abbracciati per la prima volta, poi rivide Derae che giaceva nel suo letto e
sentì nuovamente la sua voce dolce e sommessa.
– Ho sognato di essere in un tempio, e intorno era tutto buio. Dov’è il Leone di
Macedonia?’ ho detto. A quel punto il sole ha ripreso a splendere ed ho visto un
generale con l’elmo dalla cresta bianca. Era alto e orgoglioso, e camminava con
la luce alle sue spalle. Quando mi ha vista...
– Dolce Era! – sussurrò, cadendo in ginocchio. – Non puoi essere tu, Derae!
Non è possibile.
– Sono io – sospirò la vecchia. – Quando mi hanno gettata dalla nave non sono
morta. Ho raggiunto la riva e ti ho atteso qui per anni, pensando che saresti venuto
da me.
– Ti credevo morta – mormorò Parmenion, protendendosi a prenderle la mano
con dita tremanti. – Altrimenti avrei attraversato l’Ade per venire da te.
– Lo so.
– Perché non mi hai fatto pervenire un messaggio?
– Non potevo. Sono diventata una Guaritrice, una sacerdotessa. E quando ho
scoperto dov’eri ti ho visto vivere a Tebe con un’altra donna.
Parmenion non riuscì a trovare nulla da replicare e comunque un nodo che gli
serrava la gola gli impediva di parlare. Rimase quindi seduto in silenzio, stringendo
quella mano gonfia e artritica, mente lei gli parlava degli anni trascorsi nel Tempio,
dei suoi viaggi spirituali oltre il mare, di come avesse salvato lui e Thetis dalla
pestilenza scoppiata a Tebe e lo avesse inseguito e guidato quando era sceso nel
Vuoto per salvare l’anima di Alessandro, procedendo poi a risanare il tumore che
Parmenion aveva nel cervello e a restituirgli in parte la gioventù. Infine gli
raccontò del suo viaggio nel mondo dell’Incantesimo, nei panni di Thena, e a quel
punto Parmenion si lasciò sfuggire un gemito.
– Perché non ti sei rivelata a me?
– Credo che lo avrei fatto... ma poi tu hai trovato quell’altra... me stessa.
Parmenion non riuscì più a contenere le lacrime, e Derae sentì una goccia calda
e morbida caderle sulla mano.
– Oh, mio caro, non essere triste. Ho condotto una vita meravigliosa, risanando
molte persone, e inoltre ti ho seguito e ho vegliato su di te. Io non sento dolore, e
ho custodito i nostri giorni insieme conservandoli caldi e luminosi nei miei ricordi.
– Non morire! – supplicò lui. – Per favore, non morire!
– Questa è una concessione che esula dai miei poteri – replicò Derae, con un
sorriso debole e forzato. – Però non ho mandato Camfitha a cercarti per farti
soffrire, ma per avvertirti. La Signora di Samotracia... Aida, ti ricordi di lei?
– Sì.
– È in Macedonia e intende privare Alessandro della collana del potere, ma
deve essere fermata. Senza quella collana il Dio Oscuro vincerà.
– Lo so, ma non ti preoccupare. Proteggerò Alessandro.
– I poteri di Aida sono molto grandi e tu dovrai stare continuamente in guardia.
– Lo farò – promise lui, con voce stanca. – Ora però dimmi una cosa: esiste un
modo per uccidere lo Spirito del Caos? Lo si può distruggere senza fare del male
ad Alessandro?
– No – rispose Derae, – non può essere ucciso. E anche se Alessandro morisse
lui continuerebbe a vivere... una volta che il corpo in cui è ospite sarà stato
consumato dal fuoco o divorato dai vermi o dagli uccelli, lui sarà nuovamente
libero.
– Ma se lo teniamo a bada non finirà per stancarsi di tentare di possedere
Alessandro? Per lui non sarebbe più semplice cercare un altro umano e catturare la
sua anima?
– Non può farlo – spiegò lei. – Quella notte a Samotracia, in cui tu... –
Interrompendosi, strinse la mano di lui con un sorriso gentile e apologetico, poi
riprese. – La notte in cui Alessandro è stato concepito non è stata scelta a casaccio:
era un momento speciale e denso di empietà. Sono stati pronunciati grandi
incantesimi ed è stato sparso sangue innocente, con l’unico scopo di legare il
bambino concepito alla malvagità di Kadmillos. Così il bambino è diventato la
Porta attraverso cui la Bestia potrebbe passare. Finché avrà vita Alessandro sarà le-
gato a Kadmillos e nello stesso modo il Dio Oscuro non può lasciare Alessandro:
sono incatenati insieme finché il corpo non cesserà di esistere.
– Allora non c’è speranza?
– C’è sempre speranza, mio caro – replicò Derae. – Il male non esiste da solo e
c’è sempre un equilibrio.
Per un momento la voce le venne meno e Parmenion credette che fosse morta.
Dimentico del Dio Oscuro le strinse la mano e la chiamò per nome. Gli occhi
ciechi si riaprirono e lei gli rivolse un debole sorriso.
– Non parliamo più di questo – sussurrò Parmenion. – Raccontami dei tuoi anni
qui, permettimi di dividerli con te.
Rimase a lungo seduto ad ascoltare mentre il sole tramontava, senza neppure
accorgersi che erano sopraggiunti i suoi ufficiali e che adesso erano raccolti in
silenzio sulla soglia per non disturbare il suo manifesto dolore.
Poi, quando le prime stelle della sera cominciavano ad apparire nel cielo, Derae
trasse un ultimo, tremante respiro. E se ne andò...
Non ci furono addii o separazioni piene di lacrime. Un momento prima era
viva, quello successivo la sua anima se n’era già andata.
Quando il suo respiro cessò Parmenion si ritrasse e sulla stanza calò un senso di
pace che nessuno dei presenti avrebbe più dimenticato, una sensazione calda e
confortante, esaltante e piena di amore, che toccava il cuore, la mente e l’anima.
Tolomeo venne quindi avanti per abbracciare il generale, seguito dagli altri.
Con grande gentilezza, i giovani ufficiali accompagnarono lo Spartano affranto
nel giardino, dov’era in attesa il suo cavallo da guerra.
GRANDE FRIGIA, 335 A.C.
Mothac sedeva in silenzio nel morbido bagliore della luce delle lampade, con lo
sguardo fisso nel nulla e l’attenzione rivolta dentro di sé. Le sue emozioni erano
però consumate e perfino il ricordo delle fiamme e delle rovine non riusciva a
destare in lui nuova tristezza.
Cosa ci fai qui? si chiese, e la risposta fu rapida a giungere: Dove altro potrei
andare?
Il vecchio Tebano sentì un rumore di passi nel corridoio e si alzò dal divano,
con la bocca arida.
Parmenion entrò ma non disse nulla e si limitò a riempire due boccali di vino
annacquato, passandone uno a Mothac, che lo vuotò in fretta.
– Tutto è distrutto – disse quindi, riaccasciandosi a sedere.
– Raccontami ogni cosa – lo incoraggiò Parmenion, sedendogli accanto.
– Tebe è un cumulo di rovine: ogni palazzo, ogni casa, ogni statua. Non resta
più nulla.
Parmenion rimase in silenzio, inespressivo in volto.
– Siamo insorti contro l’invasore – continuò Mothac, – ma non siamo riusciti a
riprendere la Cadmea, perché i Macedoni ne hanno chiuso le porte. Nonostante
questo li avevamo intrappolati là, nel centro della città, e per un po’ abbiamo pen-
sato di essere liberi. Però Atene ha rifiutato di riconoscerci come città indipendente
e non abbiamo potuto ottenere aiuto dalle altre città. Perfino Sparta ha rifiutato di
mandare dei soldati. E poi è arrivato Alessandro con un esercito. Ci siamo resi con-
to che non potevamo fronteggiarlo e abbiamo offerto la pace, ma i soldati hanno
attaccato la città e le stragi sono state terribili... uomini, donne e bambini abbattuti,
perché non c’era dove fuggire. I morti sono stati migliaia, e gli altri sono stati cat-
turati per essere venduti come schiavi. A quel punto Alessandro in persona ha dato
l’ordine di radere al suolo la città e le macchine da assedio sono venute avanti...
ogni statua e ogni colonna è stata rovesciata e frantumata nella polvere. Ora Tebe
non c’è più... è tutto scomparso.
– Come sei fuggito?
– Mi sono nascosto in una cantina, ma mi hanno trovato e mi hanno trascinato
davanti ad un ufficiale. Per fortuna si trattava di Coenus, che mi ha riconosciuto e
mi ha dato del denaro e un cavallo veloce. Così sono andato ad Atene e mi sono
pagato un passaggio su una nave diretta in Asia. Perché Alessandro lo ha fatto?
Perché ha distrutto la città?
– Non ti posso rispondere, amico mio. Però sono lieto che tu sia qui.
– Sono così stanco – sussurrò Mothac. – Non ho più dormito bene da... dalla
distruzione. Continuo a sentire le urla e a vedere il sangue. Perché lo ha fatto,
Parmenion? Lo Spartano circondò con un braccio le spalle dell’amico.
– Ora riposa, parleremo ancora domattina – consigliò, prendendo Mothac per
un braccio e accompagnandolo all’ampio letto. – Ora dormi.
Obbediente, Mothac si distese e chiuse gli occhi, addormentandosi entro pochi
secondi, ma poi i sogni ricominciarono e lui gemette, con le lacrime che gli
filtravano da sotto le palpebre chiuse.
Parmenion lasciò la stanza e scese nei giardini rischiarati dalla luna, con le
parole di Tamis che echeggiavano nella sua mente lungo i corridoi del tempo. La
vecchia veggente era venuta da lui a Tebe, quattro decenni prima, proprio alla
vigilia dell’attacco contro la Cadmea allora tenuta dagli Spartani.
– Ti trovi ad un bivio, Parmenion. Davanti a te c’è una strada che porta alla
luce del sole e al riso, e un’altra che porta al dolore e alla disperazione. La città di
Tebe è nelle tue mani come un piccolo giocattolo. Sulla strada del sole essa
crescerà, ma sull’altra sarà distrutta, ridotta in polvere e dimenticata...
La vecchia gli aveva anche consigliato di andare a Troia, ma lui aveva ignorato
le sue parole, convinto che fosse una spia spartana.
E tuttavia se avesse seguito il suo consiglio avrebbe trovato Derae e avrebbero
vissuto insieme per tutta la vita in pace e armonia, non sarebbe esistito un esercito
macedone e lui non avrebbe mai generato Alessandro.
Parmenion sentì la mente che gli vorticava sotto il peso di tutto quello che
aveva appreso. Derae viva... ma ora morta, Filippo ucciso, Attalus assassinato,
Tebe distrutta.
Gli pareva quasi di sentire la risata del Dio Oscuro.
– No – disse ad alta voce, – non lo pensare neppure!
Si sedette su una panca di legno, con la mente pervasa da un susseguirsi di
immagini sovrapposte: Derae, giovane e vibrante... vecchia e morente; Filippo che
rideva e beveva; il Fanciullo Dorato Alessandro nella Foresta dell’Incantesimo;
Attalus, alto e coraggioso, che affrontava il nemico. E dal profondo della sua
memoria affiorò anche l’immagine dello snello e ascetico Epaminonda, seduto in
silenzio nel suo studio, intento a progettare la liberazione di Tebe.
Tanti volti, tanti preziosi ricordi...
E ora erano tutti svaniti. Non riusciva quasi a crederlo. Come poteva Filippo
essere morto?
Tanta vitalità, tanta potenza... ma era bastato un colpo di daga e il mondo era
cambiato!
Che farai ora, Spartano? si chiese, con un brivido. Servirai il figlio come hai
servito il padre? E se il Dio Oscuro fosse tornato davvero? Potresti uccidere
Alessandro?
Estrasse la spada, fissando la lama che scintillava sotto la luce della luna e
immaginando di piantarla nel corpo del nuovo re. Con un brivido gettò l’arma
lontano da sé, poi si alzò e si avvicinò al punto in cui essa era caduta, chinandosi
per recuperarla e pulendola dalla polvere.
Aveva visto i mali che Philippos aveva inflitto al suo mondo, e se Alessandro
fosse diventato un uomo del genere... – Lo ucciderò – sussurrò.
IONIA, PRIMAVERA, 334 A.C.
Alessandro però non venne in Asia perché giunse notizia che le tribù della
Paionia e della Triballia erano insorte nel nord della Grecia e una spedizione
macedone guidata dal nuovo re fu costretta a muovere contro di esse.
La campagna venne condotta in maniera brillante e Alessandro ne uscì
trionfante, ma adesso l’oro persiano stava creando di nuovo agitazione nelle città
meridionali guidate da Sparta, e i semi della rivolta stavano fiorendo.
Ad Atene l’oratore Demostene riprese a parlare contro i Macedoni, e
Alessandro diresse il suo esercito a sud, oltre le rovine di Tebe, ricorrendo ad una
massiccia dimostrazione di forza per imporre l’obbedienza alle città greche. Anche
se coronata da successo, quella manovra sottrasse tempo prezioso, e Parmenion
venne lasciato in Asia per oltre, un anno... a corto di mano d’opera e di scorte,
costretto a giocare a rimpiattino con l’esercito persiano.
Il morale era quindi basso quando Parmenion ed Hephaistion condussero
l’esercito incalzato dal nemico lungo la costa ionica, creando un campo fortificato
in una baia vicino all’isola di Lesbos. Bastioni improvvisati vennero eretti in tutta
fretta, poi i Macedoni si disposero a concedersi un ben meritato riposo mentre il
sole cominciava a scomparire nell’Egeo. Le scorte scarseggiavano, e gli uomini
raccolti intorno ai fuochi da campo ottennero come razioni soltanto una striscia di
carne secca e una fetta di pane stantio a testa.
Hephaistion si tolse l’elmo e si abbassò per passare sotto il telo che formava la
porta della tenda di Parmenion, dove il vecchio generale e il suo amico tebano
Mothac erano seduti per terra, intenti a esaminare mappe e pergamene.
– Gli esploratori sono usciti? – chiese Parmenion, sollevando lo sguardo.
– Sì – rispose Hephaistion.
Parmenion annuì e tornò a concentrarsi sulla mappa.
– Domani ci addentreremo nella Mysia, dove ci sono parecchie piccole città che
ci forniranno cibo e denaro pur di tenerci alla larga.
– Gli uomini cominciano a stancarsi di fuggire – scattò Hephaistion. – Perché
non ingaggiamo battaglia e mostriamo ai Persiani la forza delle lance macedoni?
– Perché non ne abbiamo il potere – ribatté Parmenion. – Memnon adesso ha
quasi cinquantamila guerrieri, ben addestrati e ben armati. Rischieremmo di essere
annientati.
– Non ci credo.
– Credi quello che vuoi.
– Ascoltami, signore – insistette Hephaistion, accoccolandosi accanto allo
Spartano. – Gli uomini si stanno demoralizzando. Abbiamo bisogno di una vittoria.
Parmenion sollevò lo sguardo a incontrare quello del giovane ufficiale.
– Credi che io non voglia una vittoria? Per gli dèi, uomo! Darei il mio braccio
destro per conseguirne una, ma guarda il terreno! – proseguì, indicando la mappa
di pelle di capra. – Una volta che accettassimo di impegnare battaglia i Persiani ci
avvolgerebbero sui fianchi e ci impedirebbero qualsiasi ritirata, e tutto sarebbe
perduto. So che questo non è facile da accettare per un uomo giovane come te, ma
abbiamo meno di mille cavalieri e appena poche centinaia di arcieri, quindi non
possiamo contenere il nemico... ma quello che possiamo fare è tenerlo in
movimento in modo da permettere ad Alessandro di attraversare i Dardanelli con il
suo esercito senza incontrare opposizione. Allora avremo la battaglia che sogni.
– È questo il modo di parlare del Leone di Macedonia? – borbottò Hephaistion,
in tono sardonico. – C’è stato un tempo in cui bastava menzionare il tuo nome per
mettere in fuga il nemico. Però tutti gli uomini invecchiano.
– Se siamo fortunati con gli anni diventiamo più saggi, ragazzo – sorrise
Parmenion. – E l’uggiolare dei cuccioli non ci infastidisce.
Poi tornò a concentrare la sua attenzione sulla mappa ed Hephaistion lasciò la
tenda, soffocando la propria rabbia. Per oltre un’ora si aggirò per il campo,
controllando le sentinelle e parlando con gli uomini, poi salì il tortuoso sentiero che
s’inerpicava su un’altura a oriente e indugiò sotto la luce della luna a guardare
verso est in direzione delle terre favolose dell’Impero Persiano. Tali ricchezze da
mietere! Una tale gloria da conquistare! Oltre la Ionia c’era la Frigia, ricca di
metalli, di argento, d’oro e di ferro. E ancora più oltre Cappadocia, Armenia,
Mesopotamia. E poi il cuore dell’impero: Babilonia, Media e la Persia stessa.
Gli introiti annui della Macedonia erano di ottocento talenti d’argento... una
grande fortuna. Però si diceva che a Babilonia ci fosse una tesoreria secondaria
dell’impero contenente duecentoquarantamila talenti d’oro.
Hephaistion tremò al pensiero di simili ricchezze. C’erano città d’oro e statue di
puro argento e gemme grandi quanto la testa di un uomo. La Persia! Perfino il
favoloso Mida, il cui tocco trasformava tutto in oro, non avrebbe potuto
accumulare in una sola vita tutte le ricchezze della Persia.
Poi la luce intensa della luna gli permise di scorgere un singolo cavaliere che
stava galoppando attraverso la stretta pianura. L’uomo portava l’ampio cappello di
cuoio proprio degli esploratori paioni, quindi Hephaistion agitò le braccia e gridò
per attirare la sua attenzione. Il cavaliere lo vide e fece deviare il cavallo per
risalire la collina.
– Quali notizie ci sono? – gli chiese Hephaistion.
– Il re è a Troia, signore – rispose il cavaliere.
– Ne sei certo? – insistette Hephaistion, sferrando un pugno all’aria per sfogare
l’entusiasmo ma cercando una conferma perché c’erano state molte false voci
relative all’arrivo di Alessandro.
– Ho visto l’esercito io stesso. Ha con sé oltre trentamila uomini.
– Allora la conquista è cominciata! – gridò Hephaistion, esultante.
I MONTI IDA, 334 A.C.
Parmenion aveva creduto che nel suo animo e nel suo cuore non ci fosse più
posto per ulteriore dolore, perché la morte di Derae e l’assassinio di Filippo
avevano sferzato le sue emozioni con fruste di fuoco, lasciandolo svuotato e
intorpidito... ma ora sapeva di essersi sbagliato, perché l’uccisione di Mothac
aveva aperto una nuova, devastante ferita, e il dolore lo stava annientando.
Non c’erano lacrime, ma lo strategos era sperduto e desolato.
I suoi figli Philotas, Nicci ed Ettore gli erano accanto mentre lui sedeva nella
sua tenda dove il corpo di Mothac era stato composto su uno stretto giaciglio,
tenendo la mano ancora calda del morto fra le proprie.
– Vieni via per un po’, padre – disse Nicci, accostandosi a Parmenion.
Lo Spartano sollevò lo sguardo e annuì, ma non si mosse. Il suo sguardo si
spostò invece sui suoi figli: Philo, alto e snello, l’immagine di suo padre; Nicci più
basso, bruno e robusto; e il più giovane, Ettore, così simile alla madre con la
carnagione chiara e grandi occhi innocenti. Adesso erano uomini, e la loro infanzia
era perduta per lui.
– Avevo la tua età, Ettore, quando Mothac è entrato al mio servizio – disse. –
Era un amico fedele e prego che anche voi conosciate una simile amicizia nella
vostra vita.
– Era un brav’uomo – convenne Philo. Parmenion scrutò il suo volto alla
ricerca di qualsiasi traccia della consueta ironia, ma vi lesse soltanto
rincrescimento.
– Sono stato un misero padre per tutti voi – disse improvvisamente,
sorprendendo anche se stesso con quelle parole. – Meritavate molto di più, e
Mothac non ha mai cessato di tormentarmi per le mie manchevolezze. Vorrei...
vorrei... – La voce gli si spense nel silenzio, poi lui trasse un profondo respiro e
sospirò. – Ma del resto non c’è nulla da guadagnare desiderando di poter cambiare
il passato. Lasciate che vi dica però che sono orgoglioso di tutti voi. – Il suo
sguardo si posò su Philo mentre proseguiva: – Abbiamo avuto le nostre... diver-
genze, ma ti sei comportato bene. Al Granicus ti ho visto radunare i tuoi uomini e
guidare la carica al fianco di Alessandro, e ricordo ancora la gara che hai vinto
contro i campioni della Grecia... una corsa vinta con l’abilità e con il cuore.
Qualsiasi altra cosa possa esserci fra noi, Philotas, voglio che tu sappia che il mio
cuore si è gonfiato di orgoglio quando ho visto quella corsa. – Parmenion si volse
quindi verso Nicci ed Ettore, e continuò: – Tutti e due avete dovuto lottare per
superare la difficoltà che vi derivava dall’essere figli del Leone di Macedonia,
perché da voi ci si aspettava sempre di più che dagli altri, ma non una volta vi ho
sentiti lamentarvi e so che gli uomini che servono ai vostri ordini vi rispettano
entrambi. Ormai sto diventando vecchio e non posso tornare indietro negli anni e
vivere la mia vita in maniera diversa. Però qui... adesso... lasciate che vi dica che vi
amo tutti. E che vi chieda perdono.
– Non c’è nulla da perdonare, padre – replicò Ettore, avanzando per abbracciare
Parmenion, mentre Nicci si accostava al padre sulla sinistra e gli posava una mano
sulla spalla. Soltanto Philo rimase in disparte e si avvicinò invece al corpo di
Mothac, sfiorandogli il petto con una mano.
Non disse nulla, non guardò verso suo padre, ma il volto gli tremava e rimase
immobile per un momento, a testa china. Poi, senza una parola, si girò di scatto e
lasciò la tenda.
– Non pensare male di lui – disse Nicci. – Per la maggior parte della sua vita ha
desiderato soltanto conquistare il tuo amore. Dagli tempo.
– Credo che il nostro tempo si sia esaurito – rispose con tristezza Parmenion.
Mothac venne sepolto all’ombra del Monte Ida, in una valletta circondata da
alti alberi.
Poi l’esercito si rimise in marcia verso sud.
L’ISSUS, AUTUNNO, 333 A.C.
Con un’audacia che pochi fra i suoi nemici si sarebbero aspettati, Alessandro
condusse l’esercito alleato lungo la costa meridionale dell’Asia Minore, attraverso
Mysia, Lydia e Caria. Molte città greche gli aprirono immediatamente le porte,
accogliendo i vittoriosi Macedoni come amici e liberatori, e Alessandro accettò i
loro tributi con una manifestazione di grande umiltà...
Che era in netto contrasto con la selvaggia violenza da lui scatenata contro le
città e i villaggi che cercavano di opporglisi. La città ionia di Mileto venne presa
d’assalto dai mercenari traci e sgomentanti storie di uccisioni e di violenze si
diffusero ad est nell’Impero Persiano e ad ovest fra le città della Grecia. Perfino i
nemici di Alessandro stentarono a credere alla portata di simili atrocità.
Si sussurrava addirittura che lo stesso re macedone avesse partecipato
all’assalto, vestito come un comune soldato e incitando i selvaggi Traci a
depravazioni ancora maggiori.
Quando venne a conoscenza di quelle voci, Alessandro s’infuriò e avviò
un’immediata inchiesta la cui conduzione fu affidata ad un generale ateniese. I
superstiti fra gli abitanti di Mileto vennero interrogati e condotti nel campo
macedone, poi ai Traci fu ordinato di schierarsi davanti ai superstiti che cammi-
narono in mezzo a loro, indicando i soldati che ricordavano di aver visto prendere
parte alle atrocità. Entro il tramonto del quinto giorno dall’inizio dell’inchiesta,
circa settanta Traci vennero giustiziati.
La rapidità della sua giustizia procurò ad Alessandro credito presso gli alleati, e
l’esercito macedone riprese il cammino.
Entro la primavera dell’anno successivo, Alessandro raggiunse la satrapia
meridionale di Cilicia, sulle coste del Mare di Cipro.
Nessun esercito persiano gli aveva mosso contro e il Generale Memnon aveva
spostato invece la sua offensiva sul mare... solcando l’Egeo con una forza di
trecento navi da guerra che distruggevano le navi da rifornimento macedoni e
razziavano le città costiere che si erano dichiarate a favore di Alessandro.
Nel porto conquistato di Aphrodesia, Parmenion era impegnato a sorvegliare lo
scarico delle merci di tre navi greche che erano riuscite a superare il blocco
persiano. La prima, una trireme ateniese, portava a bordo una scorta di denaro di
cui c’era un disperato bisogno per pagare le truppe. Alessandro aveva infatti
decretato che non ci dovessero essere razzie nelle terre liberate: tutte le merci
dovevano essere pagate e qualsiasi soldato che fosse risultato colpevole di
saccheggio o di furto sarebbe stato giustiziato all’istante. Si trattava di una buona
politica, perché significava che il re poteva continuare ad essere visto come un
liberatore e non come un invasore, ma al tempo stesso causava un grave problema.
Se dovevano pagare per ottenere cibo, vestiario o donne, i soldati avevano bisogno
di denaro... e di questo Alessandro era a corto.
Fino a quel momento tre spedizioni d’oro erano state intercettate dalla flotta
persiana e nessun Macedone riceveva la paga da oltre tre mesi, con la conseguenza
che l’inquietudine andava crescendo e il morale era basso.
Parmenion contò le casse che venivano scaricate dalla nave e issate su un carro
trainato da buoi, poi montò sul suo stallone e guidò il convoglio verso la tesoreria
cittadina, dove controllò lo scarico delle casse e lasciò infine Tolomeo ed Ettore a
sovrintendere al deposito del tesoro nelle volte sottostanti il palazzo.
Alessandro era in attesa nelle stanze superiori insieme ad Hephaistion e a
Craterus; quando entrò e si inchinò davanti a lui, Parmenion pensò che il re
appariva stanco. Alessandro indossava un’armatura completa di lucido ferro
decorato in oro, ed era seduto su una sedia dall’alto schienale, vicino alla finestra.
– Le monete sono al sicuro, sire – riferì Parmenion, slacciando la cinghia del
sottomento e togliendosi l’elmo. I suoi capelli grigi erano striati di sudore e lui si
diresse verso un tavolo su cui era posata una caraffa di vino annacquato circondata
da sei bicchieri.
– Che notizie ci sono di Dario? – chiese il re, alzandosi per avvicinarglisi.
Lo Spartano aveva proteso la mano verso la brocca, ma si fermò a metà del
gesto.
– Credo che il momento stia arrivando – disse. – Lo scorso anno il Grande Re
ha ordinato la coscrizione di tutti gli uomini abili in tutte le satrapie, ma poi è stato
persuaso che la nostra invasione era soltanto una rapida incursione nell’Asia
Minore al fine di saccheggiare le città ioniche. Adesso si è reso conto del suo
errore, e anche se i rapporti che riceviamo non sono completi come vorrei, pare che
stia ammassando un esercito di grandi dimensioni.
– Dove? – chiese Alessandro, con un bagliore nello sguardo.
– Difficile a dirsi. Le truppe stanno affluendo da tutto l’impero. I rapporti
dicono che un contingente si trova a Mazara, che è a circa tre settimane di marcia
verso nordest rispetto a noi, mentre un altro pare sia a Tarso, a una settimana di
marcia verso est. Un altro ancora si sta raccogliendo in Siria. E potrebbero
essercene altri.
– In quanti marceranno contro di noi? – domandò Hephaistion.
Lo Spartano aveva la bocca arida e si trovò a desiderare di sollevare la brocca
per sentire la forza del vino fluirgli nel corpo.
– Chi può dirlo? – ribatté, allungando la mano verso il vino e scrollando il capo.
– Ma non puoi azzardare una valutazione? – insistette Alessandro.
– Forse duecentocinquantamila uomini – rispose Parmenion, poi si affrettò a
riempire il boccale e a portarselo alle labbra, con l’intenzione di berne solo un
sorso... ma il sapore del vino quasi lo travolse e quando posò il boccale sul tavolo
esso era vuoto.
– Duecentocinquantamila? – ripeté Alessandro, tornando a riempirgli
personalmente il boccale. – Certo è impossibile!
Lo Spartano si costrinse a ignorare il vino e si diresse verso un divano al centro
della stanza; massaggiandosi gli occhi stanchi si sedette e si appoggiò ai cuscini
rivestiti in seta.
– Coloro che non sono mai stati in Asia – cominciò, – trovano difficile
visualizzare le semplici dimensioni dell’impero. Se un uomo giovane decidesse di
cavalcare lentamente lungo i suoi confini arriverebbe al punto di partenza
trasformato in un uomo di mezz’età. Anni e anni di viaggio attraverso deserti e
montagne, valli lussureggianti, immense pianure, giungle e aeree selvagge che si
allargano a perdita d’occhio, tanto che non se ne vede la fine neppure dalla più alta
montagna. – Per un momento Parmenion lasciò scorrere lo sguardo per la stanza,
poi continuò: – Guardate quella caraffa di vino. Se essa è la Grecia, allora questo
palazzo è l’Impero Persiano, così vasto che non è possibile contare i sudditi del
Grande Re... cento milioni, duecento? Neppure lui lo sa.
– Allora come si può conquistare un simile impero? – domandò Craterus.
– Per prima cosa scegliendo il terreno di battaglia – rispose Parmenion, – ma la
cosa più importante è ottenere il sostegno della gente. L’impero è infatti troppo
vasto perché lo si possa conquistare nei panni di invasore, bisogna diventare parte
di esso. Dario si è impadronito del trono avvelenando i suoi rivali, ha già
fronteggiato parecchie guerre civili e le ha vinte, però ci sono molti che non si
fidano di lui. Un tempo la Macedonia era considerata parte dell’impero, e noi
dobbiamo puntare su questo, affermando che Alessandro è qui soltanto per liberare
le città greche, per liberare l’impero dall’usurpatore.
– Stai scherzando, Parmenion – rise Hephaistion. – Quanti Persiani
accetteranno un Greco invasore come un liberatore?
– Più di quanti tu possa credere – intervenne improvvisamente Alessandro. –
Pensaci, amico mio, In Grecia noi abbiamo molte città diverse, ma siamo tutti
Greci, mentre qui ci sono centinaia di diverse nazioni. Che importa agli abitanti
della Cappadocia se non è un Persiano a sedere sul trono? O ai Frigi, ai Siriani o
agli Egiziani? Tutto quello che sanno è che il Grande Re governa da Susa. Hai
ragione, strategos, come sempre – proseguì, rivolto a Parmenion. – Però questa
volta hai superato a te stesso.
E portò a Parmenion un nuovo boccale di vino, che lo Spartano accettò con
gratitudine.
– C’è ancora il problema dell’esercito persiano – fece loro notare Craterus. –
Chi lo comanderà?
– Questo è davvero un problema – ammise Parmenion. – Memnon è un abile
generale e al Granicus lo abbiamo sconfitto soltanto perché non era al corrente
della portata dei rinforzi arrivati con Alessandro e che lo rendevano marginalmente
inferiore dal punto di vista numerico. Ma dovunque si combatta la prossima
battaglia, saremo noi a essere inferiori numericamente nella misura di dieci contro
uno.
– Non ti preoccupare di Memnon – affermò Alessandro, con voce stranamente
piatta e priva di emozione. – È morto due notti fa.
– Non lo sapevo – replicò Parmenion.
– Né mi aspettavo che lo sapessi – ribatté il re. – Ho avuto una visione: il suo
cuore è scoppiato come un melone troppo maturo.
Poi Alessandro si avvicinò alla finestra e fissò lo sguardo sul mare.
Hephaistion lo raggiunse e gli parlò in tono tanto sommesso che Parmenion non
riuscì a cogliere le sue parole. Alessandro annuì.
– Ora il re desidera restare solo – riferì Hephaistion.
Parmenion si alzò e raccolse il suo elmo, ma Alessandro rimase vicino alla
finestra. Sconcertato lo Spartano seguì Craterus fuori della stanza.
– Il re non sta bene? – domandò Parmenion al giovane ufficiale, mentre
uscivano sotto la luce del sole.
Craterus esitò un momento prima di rispondere.
– La scorsa notte mi ha detto che stava per diventare un dio, e non stava
scherzando, Parmenion. Quando però più tardi gli ho ricordato quelle parole, ha
negato di averle mai pronunciate. È stato così... strano, ultimamente. Visioni,
colloqui con gli dèi. Tu hai una grande esperienza di uomini, di battaglie e di
lunghe campagne, signore. Riesci a capire cosa gli sta succedendo?
– Hai parlato con qualcuno di questo?
– No, signore, naturalmente no.
– Sei stato saggio, ragazzo mio. Non dire nulla... neppure ad Hephaistion o a
qualcuno dei tuoi amici. Anche se gli altri dovessero discuterne in tua presenza,
resta in silenzio.
– Credi che lui stia impazzendo? – domandò Craterus, sgranando gli occhi.
– No! – esclamò Parmenion, con maggiore vigore di quanto fosse stata sua
intenzione. – I suoi poteri sono autentici, li aveva già da bambino: la capacità di
vedere gli eventi da una grande distanza e altri... Talenti. Ora sono tornati, ma
creano in lui una terribile pressione.
– Cosa consigli?
– Non ho altri consigli da offrire. Alessandro è destinato alla grandezza, tutto
quello che possiamo fare è sostenerlo e seguirlo. La sua volontà è forte, e spero che
questo suo... malessere... passerà.
– Ma non credi che lo farà?
Senza replicare, Parmenion batté un colpetto sulla spalla del giovane e si
allontanò, immerso in tristi pensieri. Per troppo tempo aveva respinto i dubbi,
allontanato lo sguardo dalla verità. Mothac aveva avuto ragione nell’affermare che
si stava volontariamente coprendo gli occhi davanti a ciò che era evidente.
Lo strategos aveva permesso alle emozioni di mascherare la ragione, si era
intontito la mente con il vino. Quante volte aveva messo in guardia gli ufficiali più
giovani da un atto del genere? Adesso però era costretto ad affrontare a testa bassa
la paura che aveva vissuto tanto a lungo dentro di lui.
Lo Spirito del Caos era tornato.
LA BATTAGLIA SULL’ISSUS, 333 A. C.
Alessandro strinse le cinghie dello scudo di ferro che portava al braccio sinistro
e annodò le redini di Bucefalo, perché da questo momento avrebbe controllato il
cavallo da guerra soltanto con le ginocchia. Philotas gli lanciò un richiamo e nel
girarsi Alessandro vide la cavalleria persiana avanzare fra le pendici collinari sulla
destra... e più in là gli arcieri che già si stavano muovendo per intercettarla.
Schiaritosi la gola, sputò per liberarla dalla polvere ed estrasse la spada, levandola
in alto sulla testa e spronando al tempo stesso Bucefalo verso il fiume. I Compagni
comandati da Philotas, da Cleitus e da Hephaistion si lanciarono dietro di lui.
Frecce e pietre sibilarono accanto alla testa del re mentre questi galoppava ma
nessuno di quei proiettili lo toccò e Bucefalo si addentrò nell’acqua, sollevando
grandi spruzzi.
Migliaia di cavalieri persiani vennero avanti per far fronte all’attacco macedone
e Alessandro fu il primo a entrare in contatto con il nemico: con un deciso fendente
piantò la spada nella spalla di un avversario che cadde urlando nell’acqua ora fan-
gosa e torbida.
I Persiani non avevano un’armatura degna di questo nome, tranne per le
corazze rivestite di broccato, e i Macedoni riuscirono ad aprirsi un varco fino alla
riva opposta.
– Uccidete! Uccidete! Uccidete! – ruggì Alessandro, con voce che echeggiò al
di sopra del clangore della battaglia; mentre si lanciava in avanti una lancia gli
rimbalzò contrò la corazza, strappando una protezione per le spalle decorata in oro.
Alessandro si abbassò per evitare il colpo di sciabola che seguì quello della lancia e
sventrò l’attaccante.
Giunto in cima al pendio, fece quindi arrestare la sua cavalcatura e lanciò una
rapida occhiata verso sinistra: i Greci rinnegati al soldo di Dario avevano lanciato
una contro-carica ai danni della fanteria macedone e le sue forze stavano
impegnando battaglia al centro del fiume poco profondo, prive ora di qualsiasi
formazione, mentre alle spalle dei Greci le guardie reali persiane erano pronte a
seguire i mercenari per sostenere il loro attacco. Immediatamente Alessandro si
rese conto che se anche le guardie fossero entrate nella mischia il centro macedone
avrebbe ceduto e sarebbe stato diviso in due.
Fatto girare Bucefalo, si scagliò quindi al galoppo contro le guardie, con alle
spalle i Compagni che cercavano disperatamente di stargli dietro per dargli il loro
appoggio. Fu una mossa di un coraggio incredibile, e i Macedoni che stavano
lottando nel fiume ebbero l’impressione di vedere il loro re aprirsi da solo un varco
verso il centro dello schieramento persiano.
Un grido possente si levò dalle loro schiere e le falangi accentuarono la loro
pressione in avanti.
Ferito a entrambe le braccia, Alessandro continuò nella propria avanzata perché
aveva infine avvistato il suo nemico, Dario, in piedi su un cocchio dorato tirato da
quattro cavalli bianchi. Il re persiano era alto e biondo, con la barba dorata lunga e
fittamente arricciata. Sulla testa portava una conica corona d’oro inserita su un
elmo d’argento e una sciarpa bianca gli avvolgeva la testa e il collo per poi fluire
su un mantello di filo d’argento.
– Ti vedo, Usurpatore! – tuonò Alessandro. Nel frattempo Hephaistion e i
Compagni erano riusciti a portarsi accanto al re per proteggergli i fianchi, ma
ancora una volta Alessandro incitò Bucefalo ad avanzare. Le guardie persiane
indietreggiarono sotto la ferocia di quella carica, una grande massa di uomini che si
agitava davanti al cocchio del re.
Sul lato opposto del campo Berin e i suoi Tessali erano intanto riusciti a
oltrepassare le file della cavalleria persiana e si stavano precipitando verso destra
per cercare di raggiungere Alessandro.
Sgomenti di fronte a quella strage, i Persiani lottarono per formare un quadrato
compatto intorno a Dario. Alessandro vide il monarca persiano afferrare una lancia
e cercare di voltare il cocchio in modo da fronteggiare il re invasore, ma i cavalli
bianchi cedettero al panico di fronte all’odore del sangue e al clangore della
battaglia e si diedero alla fuga, trascinando il carro dorato lontano dal campo.
Dario lottò per controllare gli animali impazziti ma i suoi sforzi risultarono vani e i
carro si allontanò verso nord.
Vedendo il loro re che sembrava abbandonare in fuga il campo di battaglia,
molti Persiani fecero altrettanto, aprendo ampie falle nello schieramento che
permisero ai Tessali di passare e di congiungersi con Alessandro.
Entro pochi momenti la battaglia divenne una rotta, con i fanti persiani che
correvano verso le colline gettando via spada e scudo per muoversi più in fretta.
Interi reggimenti che ancora non erano entrati nella mischia si ritirarono verso la
relativa sicurezza della città di Issus.
Quando il sole raggiunse lo zenit soltanto gli ultimi superstiti delle guardie reali
di Dario offrivano ancora qualche resistenza, ma furono rapidamente sopraffatte e
uccise. Circa tremila rinnegati Greci deposero le armi e offrirono di arrendersi ad
Alessandro, che però rifiutò.
– Avete tradito la vostra nazione – disse al loro messaggero. – Avete
combattuto dalla parte dell’Usurpatore contro l’esercito greco vendicatore.
– Ma noi siamo mercenari, signore – obiettò il messaggero, pallido in volto
sotto l’abbronzatura. – È il nostro mestiere. Dario ha offerto di assoldarci e lo
abbiamo servito fedelmente. Come puoi chiamarci traditori quando abbiamo
soltanto fatto il nostro lavoro?
– Vi ha pagati per combattere – ritorse freddamente Alessandro, – quindi
combattete. Prendete le armi e guadagnatevi la paga.
– Questa è follia! – esclamò il messaggero, guardandosi intorno per cercare il
supporto dei generali di Alessandro.
– No – sibilò il re. – Questa è follia. – Poi avanzò e piantò la propria daga nella
gola dell’uomo, spingendola in alto sotto il mento e nel cervello. – Ora uccideteli
tutti! – urlò.
Prima che i mercenari avessero il tempo di recuperare le armi Traci e Macedoni
li circondarono e si lanciarono su di loro colpendo e massacrando. Estratta la
spada, Alessandro si gettò nella mischia, piantando la lama nella schiena del
rinnegato più vicino e a quel punto tutto l’esercito calò sui mercenari con un
selvaggio ruggito, continuando la carneficina fino a quando non ci fu più in piedi
un solo soldato nemico.
Ad uno ad uno i Macedoni si ritrassero dalla strage finché soltanto Alessandro
continuò a correre fra i morti alla ricerca di nuove vittime, intriso di sangue e
urlante.
Un terribile silenzio scese sull’esercito mentre gli uomini contemplavano la
frenetica danza di morte del re in mezzo agli uccisi poi Hephaistion, che non aveva
preso parte alla strage, si fece avanti e parlò sommessamente ad Alessandro, che si
accasciò fra le braccia dell’amico e dovette essere aiutato a lasciare il campo di
battaglia.
LINDOS, RODI, 330 A.C.
Aida si sentiva appagata mentre sedeva all’ombra di una tenda con lo sguardo
che vagava sul mare scintillante che si allargava sotto di lei. Quel castello era stato
costruito su un’altura che torreggiava su un piccolo villaggio annidato fra due baie,
ma da dove sedeva Aida poteva vedere soltanto la baia più piccola, una coppa
protetta dall’altura dove le navi potevano gettare l’ancora per sfuggire alle bufere
invernali che infuriavano sull’Egeo.
Una trireme era stata tirata in secca nella baia, con le vele raccolte e le tre file
di remi ritratte, e adesso giaceva sulla spiaggia come un giocattolo; Aida vide
parecchi marinai scendere a terra e poi un ufficiale, che si avviò su per la lunga
salita che portava all’altura e al castello.
Aida trasse un profondo respiro, assaporando la fresca aria di mare. Poteva
sentire il potere del Dio Oscuro sulla propria lingua, avvertire la sua crescente
presenza nell’aria intorno a lei, sospinta fin lì dall’Asia sulle ali dei venti, e si
umettò le labbra crogiolandosi nei sogni del domani ormai prossimo.
C’erano coloro che parlavano del bene e del male. Idee stupide. Esistevano
soltanto forza e debolezza, potere e impotenza, questo era il cuore di tutti i Misteri
che lei aveva così faticosamente appreso durante la sua lunga, lunga vita.
La magia della terra poteva prolungare la vita, estendere le forze, dare
ricchezza all’uomo o alla donna che la comprendeva, ma in cambio richiedeva
sangue e sacrifici, doveva essere alimentata con anime urlanti.
Questa verità era stata compresa fin dai primi raggi di sole della prima alba e
nell’arco di tutta la storia i saggi avevano conosciuto il potere del sacrificio, ma
soltanto i veri iniziati comprendevano la natura del potere liberato con esso.
Certo, si poteva uccidere un bue e ottenere una particella di potere... ma se la
vittima era un uomo il suo terrore prima della morte faceva crescere quella
particella, pervadendola di un’energia oscura e liberando l’Incantesimo nell’aria.
Lo sguardo degli occhi scuri di Aida si spostò verso est, attraverso l’ampia
distesa d’acqua. Migliaia e migliaia di uomini erano morti laggiù un anno prima ad
Arbela, uccisi dal sempre vittorioso esercito macedone. Re Dario era morto,
assassinato dai suoi stessi uomini mentre si ritiravano e Alessandro era stato
incoronato re a Babilonia.
Alessandro, re dei re. Alessandro il dio...
No, non ancora il dio, perché la sua anima mortale continuava a lottare per
tenere a bada il potere che viveva dentro di lui.
Ma non per molto ancora... Aida chiuse gli occhi e il suo spirito si librò
attraverso il mare azzurro e fino alla città di Susa dove Alessandro sedeva su un
trono d’oro tempestato di gemme, vestito ora di sete fluenti e con un mantello di
filo dorato sulle spalle.
– Padrone – sussurrò, aleggiando invisibile nell’aria davanti a lui.
Non ebbe risposta, ma poté avvertire la forza pulsante del dio dentro l’essere
umano. Alessandro era un uomo aggrappato ad una parete di roccia e sospeso nel
vuoto, con le braccia che si stavano stancando e le dita che cominciavano a cedere
ai crampi, e lei poteva avvertire la sua paura. La sua anima si era rivelata più forte
di quanto Aida avrebbe creduto possibile, tenendo lontano il dio dal suo destino... e
che destino! Una volta che avesse assunto il controllo completo del suo ospite, i
suoi poteri sarebbero cresciuti, irradiandosi al di là del fragile guscio umano da lui
abitato e allora la potenza del Caos si sarebbe riversata sulla terra, sarebbe
penetrata in ogni essere vivente, in ogni albero e roccia, in ogni lago e ruscello.
E coloro che lo avevano servito fedelmente avrebbero ottenuto la loro ricom-
pensa: una vita di eterna giovinezza, un’infinità di piacere e un’intensità di
esperienze e di sensazioni che mai erano state sperimentate prima da esseri umani.
Quel giorno benedetto sarebbe sorto presto.
Ogni vittoria, ogni uomo ucciso per mano di Alessandro aggiungeva forza
all’oscurità racchiusa dentro di lui.
Ormai non manca più molto, pensò Aida.
Tornata nel suo corpo si appoggiò all’indietro sul divano e protese la mano
verso un boccale di vino. Adesso il sole si stava abbassando verso occidente e
poteva avvertire il calore dei suoi raggi sulle gambe. Alzandosi in piedi, spinse il
divano più indietro nell’ombra e vi si riadagiò.
Presto il messaggero sarebbe giunto lì, accaldato e stanco per l’erta salita. Lei
aveva scritto ad Alessandro, chiedendogli il permesso di andare a vivere presso la
sua corte dove avrebbe potuto offrirgli il beneficio dei suoi saggi consigli, e una
volta là avrebbe potuto accelerare il processo mescolando gli opportuni narcotici al
vino del re in modo da attenuare la sua volontà di resistere.
Grandi gioie l’attendevano...
Poi i suoi pensieri si spostarono su Derae e lei sentì evaporare il proprio buon
umore. Vecchia stolta! Era stata così acquiescente, era apparsa così contenta di
essere intrappolata in quel fragile guscio artritico.
– Quanto sei contenta adesso? – sussurrò Aida. – Quanto lo sei ora che i vermi
banchettano con la tua carne? Non hai capito nulla. Tutto il tuo risanamento e le
tue opere buone! Ti sei soltanto alimentata dell’Incantesimo del mondo senza dare
nulla in cambio e se fossimo tutti come te l’Incantesimo morirebbe. E che ne
sarebbe allora del mondo? Una vasta massa di umanità senza neppure un brandello
di magia in essa.
Quel pensiero le strappò un brivido. In quel momento una giovane accolita dai
capelli rossi avanzò verso di lei con un profondo inchino.
– C’è un uomo che ti vuole vedere, padrona – disse. – Un ufficiale di
Alessandro.
– Accompagnalo da me – ordinò Aida. – E porta del vino.
La ragazza si allontanò e Aida si dispose ad attendere dopo aver assestato il
proprio abito di seta nera. Un giovane alto dalla barba bruna entrò nel suo campo
visivo, vestito con una corazza nera bordata d’oro e con un elmo dal pennacchio
bianco nella mano sinistra. Il suo volto attraente era abbronzato dal sole Asiatico e
non mostrava la minima traccia di sudore per la lunga salita.
– Mi chiamo Hephaistion, signora – esordì, inchinandosi, – e sono stato
mandato da Alessandro per portarti alla sua corte.
Aida incontrò lo sguardo dei suoi occhi neri e provò per lui un’antipatia
immediata. Anche se disprezzava gli uomini, aveva finito per fare affidamento
sulla loro adorazione, ma questo Hephaistion non era per nulla impressionato dalla
sua bellezza. La cosa la irritò ma non lo diede a vedere e rivolse invece al giovane
ufficiale un abbagliante sorriso.
– Sono onorata che il Grande Re mi inviti a Susa – disse.
– La tua casa è splendida – osservò Hephaistion, annuendo. – Possiamo
passeggiare un poco sulle mura?
Aida detestava la luce intensa del sole, ma era risaputo che Hephaistion era il
più intimo amico di Alessandro e lei non desiderava offenderlo.
– Certamente – rispose quindi.
Preso un cappello nero a tesa larga si alzò e lo accompagnò sul muro
settentrionale, da dove era possibile vedere entrambe le baie di Lindos e osservare i
gabbiani che scendevano in picchiata al di sopra delle piccole barche da pesca che
tornavano dal mare.
– Il re è turbato – disse Hephaistion, – e ritiene che tu gli possa essere di grande
aiuto.
– Turbato? In che modo?
– Ci sono due Alessandro – spiegò in tono sommesso Hephaistion, sedendosi
sul parapetto. – Uno che amo e l’altro che temo. Il primo è un amico gentile, pieno
di comprensione e di interessamento; l’altro è un assassino terrificante e spietato.
– Stai parlando con estrema franchezza, Hephaistion. Ti sembra saggio?
– Credo di sì, mia signora. Vedi, lui mi ha parlato della tua permanenza a Pella
e del... dell’aiuto che gli hai dato.
– Aiuto? – ripeté Aida, sconcertata.
– Di come lo hai aiutato a prendere il trono.
– Capisco.
– Ritengo di sì – convenne Hephaistion, sempre in tono sommesso, fissandola
con i suoi occhi scuri. – Quando ha ricevuto la tua lettera il re mi ha chiesto di
venire da te... per ringraziarti di tutto quello che hai fatto per lui. Mi ha dato due
ordini, uno diverso dall’altro, ma sto cominciando ad abituarmi a questo.
– Quali erano questi ordini.
– Per prima cosa mi ha chiesto di accompagnarti da lui.
– E il secondo ordine?
– Ecco, questo mi pone un problema, ma forse tu potresti aiutarmi.
– Se mi è possibile.
– Come ti ho detto, ci sono due Alessandro, e ciascuno mi ha dato un ordine
diverso. Quale devo eseguire? Quello dell’amico.. o quello dell’uomo che temo?
– È sempre saggio reagire con cautela agli ordini di chi si teme – replicò Aida,
soppesando le parole. – L’amico può perdonare, l’altro Alessandro non lo farà.
– Sei molto saggia, mia signora – annuì Hephaistion, poi si protese in avanti e
la prese per le braccia, sollevandola sul parapetto. – Saggia e bella. Seguirò il tuo
consiglio.
– Allora il nostro rapporto è cominciato bene – commentò Aida, costringendosi
a sorridere.
È vero – convenne Hephaistion, – ed è finito bene.
– Finito? – ripeté Aida, con la bocca improvvisamente arida, sentendo insorgere
il timore dentro di sé.
– Sì, signora – sussurrò Hephaistion. – Perché, vedi, il mio amico mi ha chiesto
di portarti da lui, ma l’altro Alessandro mi ha detto di ucciderti.
– Non è possibile, io sono una sua serva fedele, lo sono sempre stata e lui non
potrebbe mai ordinare la mia morte. Ti sei sbagliato, Hephaistion, e ora mettimi
giù. Ne ho abbastanza di queste assurdità.
– Forse hai ragione – ammise lui. – A volte è così difficile distinguere un
Alessandro dall’altro. Però a Pella tu lo hai aiutato ad assassinare un neonato, lo
hai perfino convinto che ne doveva mangiare il cuore. Non credo che il mio re
abbia bisogno dei tuoi consigli.
– Ascoltami... – cominciò Aida, ma Hephaistion l’afferrò per le gambe e la fece
rovesciare all’indietro nel vuoto. Aida si sentì scivolare oltre il muro.
Molto più in basso le rocce aguzze erano pronte a riceverla, e mentre
precipitava le sue grida echeggiarono sul villaggio.
Il momento era giunto, come sapeva da tempo che sarebbe successo. Philotas
avvertì un’improvvisa morsa gelida che gli serrava il cuore nel rendersi conto che
suo padre aveva sempre avuto ragione fin dall’inizio. Si sentiva la bocca arida, ma
non toccò il vino posato davanti a lui, perché quel giorno voleva avere la mente
limpida.
Alessandro stava ancora parlando, circondato dai suoi ufficiali raccolti intorno
a lui nella sala del trono del palazzo di Susa... cento uomini, guerrieri forti e
coraggiosi, e tuttavia tutti avevano lo sguardo rivolto verso il pavimento di marmo,
non desiderando incontrare lo sguardo degli occhi dipinti del re.
Non così Philotas, che teneva la testa alta e lo sguardo fisso su Alessandro. Le
palpebre del re erano tinte di ocra dorata e le sue labbra erano del colore del
sangue; sulla sua testa posava la corona conica in oro e avorio che era appartenuta
a Dario e il suo corpo era avvolto nelle morbide vesti di seta proprie di un
imperatore persiano.
Philotas si chiese come si fosse giunti a questo.
Alessandro aveva conquistato la Persia e aveva incorporato l’esercito sconfitto
nel proprio, nominando generali e satrapi persiani. L’impero adesso era suo, e lui
aveva perfino sposato la figlia di Dario, Roxanne, per legittimare la propria pretesa
al trono.
Un matrimonio che era soltanto una finzione, perché neppure una volta lui
l’aveva chiamata a dividere il proprio letto.
Lo sguardo di Philotas si spostò sugli ufficiali intenti ad ascoltare il re, notando
la tensione e la paura che trasparivano loro dal volto. Ancora una volta Alessandro
stava parlando del tradimento annidato in mezzo a loro, promettendo di scoprire ed
epurare gli ufficiali infedeli. Soltanto il giorno precedente sessanta soldati
macedoni erano stati frustati a morte per quello che il re aveva definito un
ammutinamento. E qual era stato il loro crimine? Avevano soltanto chiesto quando
sarebbero tornati a casa, dal momento che si erano uniti all’esercito per liberare le
città dell’Asia Minore e non per marciare attraverso il mondo seguendo i capricci
di un re assetato di potere.
Cinque giorni prima, Alessandro aveva avuto una visione in cui gli era stato
detto che i suoi ufficiali erano decisi ad ucciderlo. La visione gli aveva anche
rivelato il nome dei colpevoli e sei uomini erano stati strangolati... uno di essi
Theoparlis, il generale dei Portatori di Scudo. Philotas non aveva mai avuto molta
simpatia per lui, ma la sua fedeltà era leggendaria.
Fin da quando Hephaistion era partito, il re si era comportato in modo strano,
cedendo a crisi improvvise d’ira seguite da lunghi silenzi. In un primo tempo i
generali avevano mostrato di ignorare quei sintomi in quanto era risaputo che
Alessandro era dotato di poteri insoliti e che di solito crisi del genere avevano
breve durata. Adesso però sembrava che il nuovo Alessandro fosse emerso
definitivamente, freddo e terrificante.
All’inizio gli ufficiali avevano discusso fra loro di quella trasformazione, ma da
quando erano cominciate le uccisioni fra i Macedoni era sorto un tale timore che
neppure gli amici s’incontravano più privatamente per paura di essere accusati di
complottare contro l’imperatore.
Tre giorni prima, però, era giunta l’ultima follia.
Parmenion e il Secondo Esercito avevano conquistato la città di Elam... o per
meglio dire il consiglio che governava la città aveva trattato una resa. Parmenion
aveva mandato il tesoro cittadino... circa ottantamila talenti d’argento... ad
Alessandro, a Susa, e la risposta del re era stata l’ordine di uccidere ogni uomo,
donna e bambino della città.
Parmenion aveva ricevuto l’ordine con manifesta incredulità e aveva mandato
un messaggero a verificarne l’autenticità.
Philotas era stato convocato a palazzo insieme a Tolomeo, a Cassander e a
Craterus, e al loro arrivo avevano trovato Alessandro in piedi accanto al corpo del
messaggero.
– Sono circondato da traditori – aveva dichiarato Alessandro. – Parmenion ha
rifiutato di obbedire agli ordini del suo imperatore.
Philotas aveva abbassato lo sguardo sul messaggero, un ragazzo di non più di
quindici anni, notando che la sua spada era ancora nel fodero e che la daga di
Alessandro era piantata nel suo cuore.
– Tu hai sempre parlato contro tuo padre, Philo – aveva continuato Alessandro.
– Avrei dovuto darti ascolto. Nella vecchiaia si è rivoltato contro di me. Contro di
me!
– Cos’ha fatto, sire? – aveva chiesto Tolomeo.
– Ha rifiutato di punire Elam per la sua ribellione.
Philotas si era sentito raggelare, un freddo torpore che gli si diffondeva nel
corpo. Per tutta la vita aveva creduto che un giorno sarebbe stato re... una certezza
radicata e basata sulle promesse della sola persona che lo avesse mai amato, sua
madre Phaedra... ma durante l’ultimo anno la pietra di cui era fatta quella
convinzione aveva cominciato a sgretolarsi lentamente sotto il soffio della fredda
brezza della realtà che aveva frantumato le sue speranze e distrutto i suoi sogni.
Mancando del carisma di Filippo o di Alessandro, e dell’intelletto di Parmenion,
non riusciva neppure a ispirare le truppe che comandava in battaglia. Quella
consapevolezza gli era giunta tardi, ma alla fine perfino lui aveva cominciato a
rendersi conto della follia di sua madre.
Nessun regno. Niente gloria. Suo padre aveva avuto ragione: aveva costruito il
suo futuro su fondamenta di nebbia. Cosa gli rimaneva adesso? Se fosse rimasto in
silenzio Parmenion sarebbe stato ucciso e lui, Philotas, avrebbe continuato a vivere
come generale del re. In caso contrario sarebbe stato arrestato e assassinato... e
Parmenion sarebbe morto comunque. Con la bocca arida e il cuore che batteva in
maniera irregolare si era chiesto cosa doveva fare. Morire o non morire? Che razza
di scelta era quella, per un uomo ancora giovane?
– Allora, Philo? – aveva insistito Alessandro.
Philotas aveva sentito su di sé lo sguardo del re, e aveva rabbrividito.
– Parmenion non è un traditore – aveva però risposto, senza esitazione.
– Allora anche tu sei contro di me? Così sia. Toglietegli le armi. Domani
risponderà del suo tradimento davanti ai suoi compagni.
Craterus e Tolomeo avevano scortato Philotas nelle segrete sottostanti il
palazzo, camminando senza dire una parola fino a quando Tolomeo aveva
allungato la mano per chiudere la porta della cella.
– Tolomeo!
– Sì, Philo?
– Vorrei mandare un messaggio a mio padre.
– Non ti posso aiutare. Il re mi ucciderebbe.
– Capisco.
La stanza era piccola e priva di finestre, assolutamente buia una volta che la
porta era stata sprangata. A tentoni, Philotas aveva raggiunto il pagliericcio e si era
steso su di esso.
Nicci ed Ettore erano morti entrambi, e domano l’ultimo figlio del Leone di
Macedonia li avrebbe raggiunti.
– Vorrei averti conosciuto meglio, padre – aveva mormorato, con voce
tremante.
Nonostante i suoi timori, aveva dormito ed era stato svegliato dal rumore dei
chiavistelli che venivano tirati indietro. Un raggio di luce era penetrato nella cella e
il Macedone aveva sbattuto le palpebre mentre alcuni armati entravano nella stanza
angusta.
– Alzati, traditore – aveva ordinato un soldato, afferrandolo per un braccio e
tirandolo su dal letto, poi lo avevano spinto nel corridoio e scortato nella sala del
trono, dove erano in attesa gli altri ufficiali...
Alessandro sedeva all’imboccatura del tunnel, con in pugno una spada dorata il
cui bagliore rischiarava il grigio suolo sterile del Vuoto. A una certa distanza,
seduto su un masso con lo sguardo fisso su di lui, c’era un altro Alessandro, vestito
con un’armatura d’argento e con il volto avvenente incorniciato da capelli bianchi,
fra i quali due ricurve corna d’ariete si incurvavano dalle tempie.
– Povero Alessandro – lo beffò Kadmillos. – Sei venuto per uccidermi.
Uccidere me? Credevi che quella tua misera spada potesse qualcosa contro uno
spirito che vive da prima del tempo? Guardati intorno, Alessandro... questo è il tuo
futuro. In questo regno di crepuscolo e di cenere non ci sono terre da conquistare,
non c’è gloria.
– Sei un vigliacco – ribatté il re, con voce stanca.
– Le tue parole sono inutili, Umano. Anche se permettessi a quella spada di
colpirmi non morirei perché sono eterno, il cuore vivente del Caos. Tu, invece, fai
pietà. Il tuo corpo vive ancora nel mondo della carne e presto io ne prenderò
possesso, Le droghe che hai ingerito non mi ostacoleranno e per me sarà questione
di pochi momenti annullarne gli effetti. Poi risanerò il tuo polmone rovinato e la
tua gamba azzoppata.
– Avanti, allora, oltrepassami – suggerì Alessandro.
– Non ancora – rise Kadmillos. – Seguirò il sentiero che porta alla tua anima
quando più mi piacerà. Guarda la tua spada, Alessandro, guarda come si sta
spegnendo il suo bagliore. Le ultime tracce di Incantesimo ancora presenti nella
collana sono quasi consumate e quando esse svaniranno la spada scomparirà a sua
volta. Lo sai anche tu, vero?
– Lo so – rispose Alessandro. – Il sacerdote di Zeus-Ammon mi ha avvertito al
riguardo.
– Allora cosa speri di ottenere?
– Un uomo deve combattere per ciò che ritiene sia giusto – replicò Alessandro,
scrollando le spalle. – È nella natura umana.
– Stupidaggini. La natura dell’uomo è fatta di bramosia, del desiderio per
quello che non può avere, dell’impulso di uccidere, di rubare, di saccheggiare. È
per questo che lui è... e resterà... una creatura del Caos. Guarda te stesso! In base a
quale diritto hai condotto i tuoi eserciti in Persia? In virtù di quale diritto hai
imposto il tuo dominio sul mondo? Il tuo nome sarà ricordato come quello di un
uccisore e di un distruggitore... uno dei miei più gloriosi discepoli. Non obbietti
nulla, Alessandro? – rise ancora Kadmillos. – Certo potrai addurre qualche piccola
difesa per le tue azioni.
– Non ho difese – replicò il re. – Ho vissuto in un mondo governato dalla
guerra, in cui chi non conquistava veniva a sua volta sottomesso. Però ho
affrontato i miei nemici sul campo di battaglia, soldato contro soldato, rischiando
la mia vita come gli altri. Non provo vergogna per le mie azioni.
– Oh, ben detto – lo derise Kadmillos. – Vuoi negare le passioni che si
destavano in te quando marciavi in battaglia, il desiderio di strage e di morte che
c’era nel tuo cuore?
– No, ti sbagli – obiettò Alessandro. – Non ho mai desiderato le stragi. La
battaglia sì, lo ammetto: confrontare la mia forza contro quella dei nemici era una
cosa che... mi dava piacere. Però sei stato tu quello che ha tratto soddisfazione dai
massacri indiscriminati.
– La conversazione si è fatta noiosa, Umano – dichiarò Kadmillos, alzandosi in
piedi, – e vedo che adesso la tua spada è soltanto una miserabile ombra, quindi è
ora di porre fine a questo incontro. La tua forma mortale mi aspetta.
Alessandro abbassò lo sguardo sulla spada sempre più inconsistente, e proprio
in quel momento essa svanì dalle sue mani.
– Godi la tua disperazione – sibilò Kadmillos, cambiando forma e tramutandosi
in una nube oscura che fluttuò oltre Alessandro e nella galleria che portava alla
fioca luce che si scorgeva in lontananza.
Adesso il Vuoto era privo di presenze, tranne una nebbia fluttuante che stava
filtrando fra le rocce spoglie. Alessandro sospirò, sentendosi il cuore pesante.
Una figura emerse dalla nebbia e il re vide che si trattava di Aristotele, che
sorrise e si protese a prendergli la mano.
– Vieni, ragazzo mio, non puoi restare qui a lungo. Ora è tempo che io ti
accompagni ai Campi Elisi, dove i tuoi amici ti attendono.
– Ho vinto? Sono riuscito a trattenerlo abbastanza a lungo?
– Ne parleremo mentre camminiamo – rispose il magus.
Lo Spirito del Caos emerse nel corpo di Alessandro. Gli occhi erano aperti e
tramite essi Kadmillos poteva vedere l’alto soffitto dipinto, ma quando cercò di
muoversi scoprì che il corpo era paralizzato, La cosa però non lo preoccupò
particolarmente e lui rivolse i propri poteri all’interno, per cercare il veleno che era
penetrato nelle vene e nei nervi di quel fragile guscio umano.
Stolto mortale, pensò. Come ha potuto credere che un narcotico del genere
potesse frustrare le ambizioni di un dio?
In fretta cominciò ad eliminare gli effetti della droga, e la sensibilità cominciò a
tornare nel corpo, permettendogli di avvertire la brezza fredda che giungeva dalla
finestre e un dolore costante e ovattato causato dalla gamba ferita. Ignorando il
veleno, il dio concentrò allora la propria attenzione sull’arto ferito, ricostruendo il
muscolo danneggiato.
Così andava meglio! Il dolore, di qualsiasi tipo, era un anatema per Kadmillos.
Concentrandosi di nuovo sul veleno, lo eliminò dai polmoni e dal ventre.
Presto, pensò. Presto mi sveglierò.
Sentì delle persone che si muovevano nella stanza, ma il corpo era ancora
bloccato dalla paralisi. Ci fu un rumore di passi, poi un’ombra entrò nel suo campo
visivo e un uomo dalla pelle scura incombette su di lui.
– Gli occhi sono incredibili – commentò. – Era davvero benedetto dagli dèi. È
un vero peccato non poterli salvare.
– Sei pronto a cominciare? – domandò la voce di Tolomeo.
– Sì, signore.
– Allora procedi.
Nel campo visivo di Kadmillos entrò una mano che impugnava un lungo ferro
acuminato dalla punta biforcuta.
– No! – urlò il Dio Oscuro, senza però riuscire ad emettere suono.
Il ferro penetrò nell’apertura della narice sinistra, risalendo fino al cervello.
UNA CITTÀ SUL MARE, DATA IGNOTA
Parmenion lasciò vagare lo sguardo sul porto, dove grandi navi... più grandi di
qualsiasi vascello lui avesse mai visto... erano attraccate ai moli, mentre uomini
abbigliati in modo strano si muovevano sull’ampio ponte di ciascuna. Il suo
sguardo si spostò quindi sugli edifici che circondavano i moli, e lui si meravigliò
per la loro complessa struttura, con i grandi archi che sostenevano enormi tetti a
cupola. In basso, nella stretta strada lastricata, poteva sentire quelli che supponeva
essere negozianti e ambulanti gridare per attirare i clienti, ma la lingua in cui si
esprimevano gli era ignota.
Lo Spartano si girò all’ingresso di Aristotele. Qui il magus aveva un altro nome
e un altro aspetto: i suoi capelli erano lunghi e bianchi, una barba lanuginosa gli
cresceva dal mento e lui indossava una lunga casacca di velluto e calzoni di lana
ricamati.
– Come ti senti? – domandò il magus.
Parmenion volse le spalle alla finestra. Sulla parete opposta c’era uno specchio
di vetro argentato e l’intensità del suo riflesso riusciva ancora a stupire lo Spartano,
anche se aveva guardato in esso molte volte nei cinque giorni da lui trascorsi nella
dimora di Aristotele.
Le sue ferite erano guarite e l’immagine dello specchio gli mostrava un giovane
nel fiore degli anni... alto e snello, con una vita piena davanti a sé. I vestiti che
indossava erano comodi ma a suo parere eccessivamente elaborati. La camicia
bianca con le maniche gonfie striate di seta azzurra aveva un ottimo aspetto ma il
materiale di cui era fatta non era robusto. Sarebbe bastato un solo giorno sotto
l’aspro sole persiano o sotto le piogge della Frigia per rendere quell’indumento
inutilizzabile, come sarebbe successo anche ai ridicoli gambali attillati. E gli
stivali! Erano rialzati sul tallone e questo rendeva camminare una cosa difficile e
disagevole.
– Sto bene, amico mio – rispose, – ma che farò in questo posto? Non ne capisco
le usanze e la lingua che sento nella strada sottostante mi è sconosciuta.
– Non resterai qui – replicò Aristotele. – Adesso che ti sei rimesso in forze ti
accompagnerò in un mondo migliore... uno che credo ti piacerà. Questo riguarda
però il domani, per stanotte mangeremo cibi raffinati e berremo vino forte, e dare-
mo una risposta a tutte le tue domande.
– Hai appreso la verità? Sai cosa è successo?
– Sì – confermò il magus. – Ci è voluto un po’ di tempo, ma credo che scoprirai
che è valsa la pena di attendere.
– Dimmi tutto.
– Abbi pazienza. Simili racconti vanno conservati per le ore serali.
Parmenion attese nella sua camera per la maggior parte del pomeriggio, ma
verso il crepuscolo cominciò ad aggirarsi per la casa alla ricerca del magus. Nella
parte settentrionale dell’edificio scoprì una rampa di scale di legno che portava ad
uno studio all’ultimo piano, intensamente illuminato, dove trovò Aristotele seduto
ad un cavalletto, intento ad abbozzare il ritratto di una donna dai capelli scuri
seduta davanti a lui su una sedia di cuoio dall’alto schienale.
All’ingresso dello Spartano la donna sorrise e disse qualcosa, ma Parmenion
non riuscì a comprendere la lingua in cui si era espressa e si limitò ad inchinarsi.
Posando il carboncino, Aristotele si alzò in piedi e scambiò qualche parola con la
donna, che stiracchiò la schiena e si alzò a sua volta; il magus l’accompagnò alla
porta dello studio e giù per le scale, tornando poi di sopra da Parmenion.
– Non mi ero reso conto che fosse così tardi – si scusò, esprimendosi di nuovo
in greco.
– La somiglianza è notevole – osservò Parmenion, che stava guardando il
ritratto. – Hai un grande talento.
– Secoli di pratica, ragazzo mio. Vieni, andiamo a mangiare. Dopo cena, i due
uomini sedettero comodamente davanti ad una finestra aperta oltre la quale era
possibile vedere le stelle scintillare come diamanti sul velluto.
– Cosa è successo ad Alessandro? – domandò infine Parmenion.
– È morto circa settecento anni fa – rispose il magus, – ma nella morte ha
ottenuto la sua più grande vittoria.
– Com’è possibile?
– Alla fine il Dio Oscuro ha assunto il controllo del suo corpo, ma Alessandro
ha ordinato che esso fosse imbalsamato.
– Che differenza poteva fare?
– Kadmillos era spiritualmente collegato al corpo di Alessandro e poteva
esserne liberato soltanto quando esso fosse stato distrutto dal fuoco o divorato dagli
animali o consumato dal tempo. Ma imbalsamato? Il corpo di Alessandro non
marcirà mai, e Kadmillos è rimasto intrappolato.
‘Quando il re è morto è scoppiata una guerra civile fra i suoi generali. Tolomeo
ha rubato il corpo imbalsamato e lo ha portato in Egitto, ad Alessandria, dove ha
fatto erigere un enorme mausoleo che lo ospitasse. Per secoli gli uomini sono
venuti da tutto il mondo per ammirare la forma ancora perfetta di Alessandro il
Grande... io stesso ho sostato davanti a lui con un imperatore romano cinquecento
anni dopo la morte di Alessandro, e Kadmillos era ancora prigioniero dentro di lui.
Potevo sentire la sua malvagità pulsare attraverso il cristallo che racchiudeva il
corpo.
– È ancora là? – domandò Parmenion.
– No. I barbari hanno messo al sacco Alessandria centinaia di anni fa, ma i
sacerdoti incaricati di custodire il corpo di Alessandro hanno trasportato la bara di
vetro fra le montagne e l’hanno sepolta là, in profondità e lontano dalla vista degli
uomini, per cui adesso nessuno sa dove si trovi. Tranne me, naturalmente... io l’ho
trovata. Il corpo è ancora perfetto e lo Spirito del Caos intrappolato al suo interno...
forse per l’eternità.
– Allora non ci saranno altri re posseduti da demoni che riverseranno la loro
malvagità sul mondo? – sorrise Parmenion.
– Non da questo demone, almeno – rispose Aristotele, – ma ce ne sono altri. Ce
ne saranno sempre altri. I loro poteri non possono però reggere il confronto con
quelli del Dio Oscuro.
– Povero Alessandro – mormorò Parmenion. – La sua vita è stata maledetta fin
dall’inizio.
– Ha combattuto contro quel demone con grande coraggio – replicò il magus, –
ed ha conosciuto amicizia e amore. Che altro potrebbe volere un uomo? Ora però
pensiamo a te...
– Dove posso andare? – chiese Parmenion, con un sospiro. – Cosa ci può essere
per me, Aristotele?
– La vita – ridacchiò il magus. – L’amore. Credo che sia venuto il momento di
dirci addio. C’è qualcuno che ti sta aspettando.
– Chi?
– Chi altri se non Derae?
– Non sono più tornato. E sono passati decenni.
– È soltanto Tempo – ribatté Aristotele, protendendosi in avanti per battere una
pacca sulla spalla dello Spartano. – Non hai dunque imparato nulla?
LA PORTA, SPARTA, 352 A.C.
Fine.