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www.illibraio.it
Titolo originale
The Bookshop of Yesterdays
ISBN 978-88-429-3219-2
Billy non si era fatto vivo per qualche settimana, poi era
venuto a portarmi fuori per il mio compleanno. Non avevo
idea di dove. Il bello delle giornate con Billy era proprio
questo: qualunque mia proposta – un pomeriggio al pontile o
alle montagne russe Six Flags – non sarebbe mai stata
all’altezza dell’avventura che lui aveva in serbo per noi.
Il fiato affannoso della vecchia BMW di Billy era risuonato
in tutta la casa. Avevo atteso il rumore familiare della
portiera che si chiudeva, della mamma che correva ad
accoglierlo alla porta, tempestandolo di domande. Dove
andiamo? Ci saranno altri bambini? Ci sono scarpate o
burroni? Cinture di sicurezza? Giubbotti di salvataggio?
Sembrava che le risposte di Billy non bastassero mai a
tranquillizzarla.
Ma quel pomeriggio, quando lui aveva suonato il clacson,
la mamma si era limitata a gridare: «C’è Billy!» da dietro la
porta della camera da letto.
«Non vieni a salutarlo?» avevo chiesto, alzando la voce.
«Oggi no.»
Avevo esitato a uscire di casa. La porta della camera era
rimasta chiusa. Pazienza: tanto Billy non suonava il
campanello, aspettava in macchina col motore acceso.
«To’, la mia bambina preferita», aveva detto Billy,
quand’ero salita a bordo. Mi chiamava sempre così: la sua
bambina preferita. Una cosa melensa, che mi avrebbe messa
in imbarazzo, se a dirla fossero stati i miei genitori. Detta da
Billy, mi faceva sentire come la bambina che volevo
continuare a essere, ma che non potevo più essere, perché a
dodici anni sarebbe stata una vergogna. Eravamo usciti dal
vialetto e, vedendo casa mia rimpicciolire in lontananza, mi
ero domandata se la mamma ci stesse guardando dalla
finestra della camera.
«Vedrai che sorpresa ho per te.» Billy mi aveva lanciato
uno dei suoi sorrisoni esagerati.
L’avevo scrutato, in cerca di una traccia della tensione che
avevo visto sul volto di mia madre. Billy sembrava contento.
«Una sorpresa?» Non l’avrei mai ammesso davanti alla
mia amica, ma le sorprese di Billy mi elettrizzavano ancora,
più che rubare i rossetti in negozio, più che andare in
macchina con la sorella maggiore di Joanie, che sfrecciava a
tutta velocità sulla Highway 1.
«Ehi, mi prenderesti la cosa che sta lì dentro?» Billy aveva
indicato il vano portaoggetti.
Sopra il libretto di circolazione c’era una busta nera,
abbastanza grande da poter contenere i biglietti per gli
Universal Studios o per un concerto all’Hollywood Bowl. Ma,
se fosse stato un regalo del genere, Billy non me l’avrebbe
consegnato con tanta noncuranza. Gli avrebbe tolto tutto lo
spasso. I doni, dovevo guadagnarmeli risolvendo i suoi
enigmi.
Avevo strappato la busta e letto ad alta voce l’indizio: «’La
mia bandiera è blu, bianca e rossa, ma non sono il Paese di
casa tua. Ti sembrerà una...’» Kmf{? Non sapevo come
pronunciarlo. «’Ma nel punto più vicino disto meno di
quattro chilometri dal suolo americano’.» Avevo tirato a
indovinare: «La Francia?»
Billy mi aveva guardato con aria scettica.
«Il Canada?»
«La bandiera canadese è bianca e rossa, non ha il blu.
Però, fuochino... Cioè, ghiaccio, più che altro.»
«La Russia?» avevo buttato là, incerta.
«CeolzÅ!» aveva risposto lui, con una pronuncia perfetta.
«Mi porti in Russia? C’è stato un terremoto?» Già
immaginavo noi due in colbacco, a marciare nella neve per
ispezionare una remota cittadina funestata da un sisma.
«Mi sa che la tua mamma mi farebbe decapitare», aveva
detto Billy.
Non appena aveva tirato in ballo mia madre, avevamo
smesso di parlare. Sapevo che tutti e due avremmo sempre
ricordato lo sguardo che ci eravamo scambiati, mentre
litigava con lei in piena notte.
«Sei in rotta con lei?»
«Niente di cui tu debba preoccuparti.» Stava per
aggiungere qualcosa, ma poi ci aveva rinunciato e aveva
rallentato fino a fermarsi davanti a un edificio di Venice
Boulevard che aveva tutta l’aria di essere inagibile. «Be’,
vediamo un po’ quell’indizio.»
«Il posto è questo?» Avevo contato le serrande abbassate.
Di solito le sue avventure si svolgevano in parchi nazionali o
in vetta a una montagna, purché lontano dalle spiagge.
Questo edificio c’entrava qualcosa con la Russia?
«CeolzÅ!» Era sceso dall’auto e, con un inchino, mi aveva
fatto cenno di andare verso il portone di metallo. Non era
chiuso a chiave, e lui me lo aveva tenuto aperto.
«Ma abbiamo il permesso?» Avevo esitato, sbirciando il
locale buio alle sue spalle. Sembrava chiuso.
«Oggi non è aperto, ma il gestore mi deve un favore. È più
divertente avere il museo tutto per noi, non trovi?» Era
entrato e mi aveva fatto segno di seguirlo. «Fidati.» Era la
sua espressione più ricorrente. Fidati. E io mi fidavo sempre.
La prima sala era fiocamente illuminata. Lungo le pareti
austere c’erano espositori in vetro. Da altoparlanti nascosti
usciva una musica lirica soffusa. Nella teca accanto alla
porta c’erano animali imbalsamati: pipistrelli, talpe e piccoli
roditori. In quella accanto, gemme luccicanti.
«È ispirato alle Wunderkammer del XIX secolo», mi aveva
spiegato Billy. «Scienza, arte e natura, tutte assieme, per le
menti a tutto tondo.»
«Wunderkammer.» Avevo saggiato la parola sulla lingua,
aspettando che la sua magia mi colpisse.
Lo sguardo di Billy vagava verso un espositore nell’angolo
opposto, pieno di statuine: elefanti dipinti, pagliacci, un
presentatore circense, acrobati. La targa diceva: CIRCO
RUSSO.
Avevo dato un’occhiata dietro il vetro, in cerca di un
elemento estraneo, una statuetta fuori contesto, un indizio
tracciato sul piccolo tendone da circo. E in effetti l’indizio
c’era, appiccicato col nastro adesivo sul retro della teca.
Tutto qui. Nessun: Ciao dal caro vecchio amico del quale ti
eri completamente dimenticata. Nessun: Ecco una cosa che
mi farà sempre pensare a te, tanti baci dal tuo ammiratore
segreto; nessun rimando alla sventurata nave del re,
disegnata in copertina, o a Prospero e alla sua isola
incantata. Solo quelle ponderose parole a inchiostro
talmente scuro da sembrare ancora umido.
La comprensione ci prepara al futuro. L’avevo già sentita,
quella frase. Dal papà? Sarebbe stato da lui, dimenticarsi di
firmare. Se il biglietto avesse contenuto un aforisma
sull’etica del lavoro o una massima di Roosevelt, non avrei
avuto dubbi. Ma questo non era il suo genere di consiglio
paterno. Oltretutto, di solito aggiungeva la sua firma anche
ai biglietti dei regali che mi mandava la mamma. Forse
questa frase era un verso di una canzone, o un’ovvietà da
biscottino della fortuna, o magari proveniva da uno di quei
libri New Age che Joanie citava tra il serio e il faceto.
Senonché, se pensavo alla parola «futuro», non la sentivo
pronunciata dalla voce roca di Joanie, ma cantata
sommessamente, in una ninnananna trasognata che avrebbe
dovuto mettermi a mio agio, e che invece mi dava un
profondo senso di nostalgia, di rimpianto.
Forse era una battuta di Prospero? Non aveva la metrica
shakespeariana, eppure sembrava proprio una cosa che
avrebbe potuto dire lui, rivolgendosi al pubblico per il saluto
finale. Sfogliai il libro. Non trovai sottolineature nell’epilogo,
ma ce n’era una nella seconda scena, quella in cui Prospero
racconta a Miranda la fuga di suo fratello da Milano:
È tempo invece
che io dica di più. La tua mano mi aiuti
a deporre questo mantello di magia. Così.
Là, mia Arte, riposa. [...]
Siedi: ora devi sapere di più.
MIRANDA
«Non preferisci stare qui, dove hai una stanza tutta per te?»
disse la mamma, quando annunciai ai miei genitori che mi
trasferivo a casa di Joanie.
«È troppo scomodo guidare tutti i giorni da un capo
all’altro della città. È più facile, se sto là.»
«Ma Joanie non abita col suo ragazzo? Cosa fai, vai a
reggere il moccolo?»
«Susan... Se lei vuole così...» le disse il papà.
«Domenica ci sarò, per la grigliata», promisi.
«Hai idea di quanto ti fermerai?» mi chiese mia madre.
«Non ancora. Una settimana o due? Vorrei tornare a casa
per il 4 luglio.» C’erano coppie che tenevano a stare assieme
per San Valentino, altre per Capodanno o Natale. Per me era
il 4 luglio. Tenere per mano Jay mentre guardavamo i fuochi
artificiali dal prato ai piedi della gradinata del Museum of
Art, tornare a casa a piedi tra gli aromi della notte, passando
accanto ai festaioli troppo pieni di birra e hot dog. Per la
nostra nazione era un compleanno simbolico – in quella data
il Congresso aveva approvato la Dichiarazione
d’Indipendenza, ma non l’aveva ancora firmata né messa in
atto – eppure io lo adoravo, soprattutto a Philadelphia.
Mia madre si sforzò di sorridere. «Be’, cerchiamo di
goderci la tua presenza, finché possiamo.»
Mentre preparavo la valigia, lei comparve sulla soglia
della mia stanza di una volta e mi guardò ripiegare un
prendisole.
«Lo sai, che puoi tornare quando vuoi. Se il divano di
Joanie ti stufa, la tua camera è sempre qui.»
«Se mi stufo, mi sa che vado a stare alla libreria», dissi,
posando delicatamente il prendisole sopra gli altri vestiti che
avevo già messo in valigia. «C’è un appartamento. Billy
abitava lì.»
«Viveva sopra la libreria? E tu vorresti stare là?»
«È comodo.» Non le dissi che quell’appartamento mi dava
i brividi ogni volta che ci entravo. Erano dovuti in parte al
fatto che Billy ci avesse abitato fino alla morte, ma
soprattutto alla fotografia di Evelyn, con quella sua bellezza
inquietante, che mi costringeva a prendere in esame un lato
di mio zio che preferivo non conoscere.
«E sei sempre dell’idea di tenere il negozio?» mi chiese
mia madre.
«Almeno finché non troverò un compratore fidato.»
«Ricordati solo quanti anni hai ancora davanti a te, e non
vorrei che tu buttassi al vento tutto quanto, per occuparti di
una libreria in fallimento.» Tamburellò con le mani sugli
stipiti, poi si risospinse all’indietro, nel corridoio. «Ci
vediamo domenica sera?» Sorrise, come se non si fosse resa
conto del presagio funesto che mi aveva appena dato.