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PRESENTAZIONE

Miranda è cresciuta in mezzo ai libri. Letteralmente. Da


bambina, infatti, passava ore e ore a vagare tra gli scaffali di
una libreria, giocando alle cacce al tesoro letterarie che il
proprietario, suo zio Billy, organizzava per lei. Grazie a lui,
Miranda ha imparato ad amare quei mondi d’inchiostro
racchiusi tra le pagine, il profumo inconfondibile della carta,
il mosaico variopinto delle copertine. Un giorno, però,
quando lei aveva dodici anni, la madre aveva all’improvviso
tagliato i ponti col fratello e l’aveva portata via, lontano da
lui e dalle sue avventure. Ma ecco che, sedici anni dopo, lo
zio Billy muore, lasciando in eredità a Miranda la libreria. E
non solo. Miranda riceve per posta una copia della
Tempesta, con un’unica frase sottolineata: Siedi: ora devi
sapere di più. Il messaggio è chiarissimo. È l’inizio di una
nuova caccia al tesoro. L’una dopo l’altra, Miranda raccoglie
le molliche di pane disseminate dallo zio, incamminandosi
lungo un sentiero costellato di citazioni letterarie e segreti
taciuti troppo a lungo. E, cercando tra le pagine dei romanzi
che hanno segnato la sua giovinezza, Miranda non solo
scoprirà la verità sullo zio e sulla loro separazione, ma si
renderà conto che quella libreria è la sua casa e il suo
destino...

Delicato e toccante, La libreria del tempo andato è un inno


alla forza dei legami familiari e al potere che hanno i libri di
connetterci con le persone che amiamo. Perché spesso
regalare un libro è un modo per confessare sentimenti che
non riusciamo a esprimere a parole.
Amy Meyerson vive a Los Angeles e insegna Scrittura
creativa alla Southern California University. La libreria del
tempo andato è il suo romanzo d’esordio.
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Titolo originale
The Bookshop of Yesterdays

ISBN 978-88-429-3219-2

In copertina: illustrazione di Luca Tarlazzi


Art director: Giacomo Callo
Graphic designer: Marina Pezzotta

Copyright © 2018 by Amy Meyerson


All rights reserved.

© 2019 Casa Editrice Nord s.u.r.l.


Gruppo editoriale Mauri Spagnol
Prima edizione digitale aprile 2019

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.


È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
LA LIBRERIA DEL
TEMPO ANDATO
«Ciò che è passato è il prologo.»
WILLIAM SHAKESPEARE, La tempesta
1

L’ultima volta che vidi mio zio, mi comprò un cane. Una


cucciolina di golden retriever con gli occhi tristi e il naso a
forma di cuore. Non ebbi nemmeno il tempo di darle un
nome. Correva per il salotto con la promessa di tante
avventure assieme, e un momento dopo non c’era più.
Sarebbe stato lo stesso con lo zio Billy. Mi fece ciao-ciao con
la mano mentre usciva in retromarcia dal mio vialetto. Poi
non lo avrei più visto.
La mamma non aveva mai voluto un cane. L’avevo
implorata, garantendole che sarei stata io a portarlo a
passeggio tutti i giorni, a spazzolare il tappeto del salotto
dopo qualunque incidente, ma lei non sentiva ragioni. Non
era questione di tappeti o di scarpe che il cane avrebbe
rovinato. E neanche d’affetto. Non dubitava del fatto che
avrei amato il cane. L’avrebbe amato anche lei, ovviamente,
ma avere un animale domestico – come qualunque altro
rapporto – richiede più responsabilità che amore. Stavo
entrando negli anni dell’adolescenza, dei fidanzatini e degli
amici che contavano più della paghetta, più dei cani, più
della famiglia. Era un argomento chiuso. Niente cani. Lo
sapevo. E lo sapeva anche lo zio Billy.
Era un regalo per il mio compleanno, il dodicesimo. I miei
genitori avevano affittato una sala giochi a Culver City, con
tanto di gabbia d’allenamento per il baseball. Era l’inizio del
1998. Festeggiavamo sempre in gennaio, perché io ero nata
a fine dicembre.
I miei amici si erano raggruppati dietro la rete per fare il
tifo, mentre io mi scostavo il casco dalla faccia e
timidamente entravo nella gabbia. Il papà mi aveva dato il
suo consiglio dell’ultimo momento: piedi alla stessa
larghezza delle spalle, gomito destro in su. Mi aspettavo che
la mamma mi raccomandasse di stare attenta, e invece era al
bar a fare una telefonata.
«Va bene, Miranda, puoi farcela», mi aveva detto il papà,
dopo un colpo mancato.
La mamma era comparsa al suo fianco e gli aveva
bisbigliato qualcosa all’orecchio.
Io avevo mulinato la mazza, ma la palla era già schizzata
dietro il piatto.
«Ormai dovresti avere imparato a non contare su di lui»,
aveva detto il papà alla mamma. Poi si era rivolto a me.
«Miranda? Occhi aperti.»
Avevo udito la mamma mormorare: «Ha promesso di
venire».
«Non è il momento di parlarne», aveva replicato lui, a
voce altrettanto bassa.
«Non dovrebbe fare promesse, se poi non le mantiene.»
«Suze? Non adesso.»
Tentavo di concentrarmi a piegare bene il gomito e le
ginocchia, come mi aveva insegnato il papà, ma i loro
bisbigli mi distraevano. C’era una sola persona che li
spingesse a parlarsi sottovoce come in quel momento. Mi
davano un fastidio tremendo, quando parlavano di Billy in
quel modo, come se stessero cercando di proteggermi da lui,
come se fosse stato una persona pericolosa. Mi ero voltata
verso di loro, dando la schiena al lanciapalle. Erano
appoggiati alla rete e ognuno aspettava che l’altro
abbassasse gli occhi.
Prima ancora dell’impatto, avevo sentito il suono. Uno
schiocco incredibilmente alto, seguito da una vampa alla
spalla. Avevo gridato, cadendo a terra. Altre due palle mi
erano sfrecciate accanto alla testa. Il papà aveva urlato a
qualcuno di spegnere la macchinetta ed era corso dentro la
gabbia assieme alla mamma.
«Tesoro, stai bene?» Mia madre mi aveva sfilato il casco e
mi aveva scostato dalla fronte i capelli sudati.
Il dolore mi aveva tolto il fiato. Ansimavo sulla fredda
spianata di cemento, incapace di rispondere.
«Miranda, parlami», aveva detto lei, un po’ troppo
concitata.
«Sto bene», avevo replicato, tra i respiri affannosi. «Credo
di aver bisogno di un po’ di torta.»
In altre circostanze, quella frase li avrebbe fatti ridere, e
invece continuavano a scambiarsi sguardi preoccupati e
contrariati, come se anche il bernoccolo sulla mia spalla
fosse stato da imputare a Billy. La mamma aveva sbuffato
verso il papà ed era andata a passo furioso al bar a prendere
la mia torta di compleanno.
«Sta bene?» avevo chiesto al papà, mentre la guardavamo
parlare con l’adolescente dietro il bancone.
Lui mi aveva arruffato i capelli. «Una fettina di torta e
tornerà come prima.»
Dopo aver divorato la torta, quando ormai il sacchetto di
ghiaccio che la mamma mi aveva fatto premere alla spalla si
era squagliato bagnandomi il davanti della maglietta, avevo
raggiunto i miei amici nella sala giochi, ignorando le fitte al
braccio mentre facevo rotolare la pallina dello Skee-Ball
lungo la stretta pista. Tra un tiro e l’altro, lanciavo
un’occhiata ai miei genitori. Stavano ripulendo i resti della
mia torta di compleanno, la mamma strofinava furiosamente
la tovaglia di plastica finché il papà non l’attirò a sé,
stringendola tra le braccia, accarezzandole i capelli e
parlandole all’orecchio. Non capivo come mai fosse tanto
agitata. Capitava spesso, che Billy annunciasse una sua
visita e poi non si presentasse. Non ricordavo neppure
l’ultima volta che era venuto a una mia festa di compleanno.
Se c’era un terremoto in Giappone o in Italia, lui saltava sul
primo aereo assieme agli altri sismologi, ingegneri e
sociologi. Di solito non aveva il tempo di avvisarci della sua
partenza. Ma io non ne ero delusa, anzi, ero orgogliosa:
avevo uno zio importante, che salvava vite. Era stata la
mamma a insegnarmi a considerarlo così. Dopo una recita,
una gara di dibattiti, o una grigliata domenicale senza Billy,
lei mi diceva: «Tuo zio vorrebbe essere qui, ma sta rendendo
il mondo un posto più sicuro». Era il mio supereroe – Capitan
Billy – che salvava l’umanità, non coi superpoteri ma col suo
supercervello. E anche dopo, una volta diventata troppo
grandicella per credere ai supereroi, avevo continuato a
credere in lui. Pensavo che ci credesse anche la mamma, e
invece eccola lì, a piangere per una festa di compleanno.

Quella sera, io e la mia migliore amica Joanie eravamo


andate a letto presto. Ero mezza addormentata, con la testa
ovattata, ma il suono del campanello non era un sogno, e
nemmeno i passettini e i bisbigli di sotto. Mi ero alzata di
soppiatto e dal corridoio avevo visto la mamma in fondo alla
scala, alla porta d’ingresso, con la vestaglia di satin che
fasciava la sua figura minuta. Fuori, in veranda, c’era Billy.
Stavo per correre giù, per saltargli in braccio. Cominciavo
a essere troppo grande per salutarlo in quel modo, eppure
anche da adulta immaginavo di rompergli la schiena col peso
del mio affetto. Ma sull’orlo del primo gradino mi ero
bloccata nel sentire le parole di mia madre.
«Cosa cazzo hai nella testa? Sono le tre del mattino.»
Mi ero sentita raggelare. Era raro che la mamma alzasse
la voce. E non diceva mai parolacce.
«Che faccia tosta! Presentarti qui in piena notte e dare la
colpa a me? Hai un bel coraggio!»
Ero rimasta come paralizzata. La sua rabbia era
spettacolare, non avevo mai visto niente del genere.
«Sei stato tu a metterci in questa situazione», aveva
ripreso, sforzandosi di abbassare la voce. «Hai sentito? L’hai
voluto tu. Non azzardarti a incolpare me.»
Billy si era voltato, mentre la mamma continuava la sua
lavata di capo sull’orario, dandogli dello stronzo, del
narcisista e altre parole che non capivo. Quando lui mi aveva
scorto in cima alla scala, era arrossito e gli occhi si erano
fatti vitrei. La mamma aveva seguito il suo sguardo, si era
accorta di me, era impallidita e d’un tratto pareva
vecchissima. Io fissavo un punto a metà tra le loro facce
espressive. Il motivo del bisticcio non era il mio compleanno.
Era successo qualcos’altro.
«Miranda, torna a letto», mi aveva detto la mamma. Poi,
vedendomi esitare: «Subito».
Ero tornata di filato in camera, turbata e inspiegabilmente
imbarazzata da ciò che avevo visto.
Joanie si era svegliata, sentendomi rientrare nel letto con
lei. «Che ora è?»
«Le tre passate.»
«Come mai arriva gente a quest’ora?»
«Non so.»
Joanie si era rigirata borbottando qualcosa d’incoerente.
Non riuscivo a riprendere sonno. Nel cervello mi
saettavano le parole della mamma: Che faccia tosta, Stronzo,
Non azzardarti a incolpare me e L’hai voluto tu. La luce del
sole filtrava dalle tende, mentre l’alba diventava mattina.
Ero rimasta sveglia per tutta la notte, eppure non arrivavo
proprio a capire quale fosse la decisione di Billy, o la colpa
che dava alla mamma, o il significato di quella scena cui
avevo assistito.

Quella mattina, il papà aveva portato me e Joanie a fare


colazione fuori.
«Dov’è la mamma?» gli avevo chiesto, mentre salivamo in
macchina.
«Ha un po’ di sonno da recuperare.»
Mia madre non dormiva mai oltre le sette, ma il tono del
papà scoraggiava ulteriori domande.
Quand’eravamo tornati a casa, la mamma era ancora in
vestaglia, coi capelli ramati scompigliati intorno al viso, e
univa schegge di cioccolato a un impasto. Di solito,
l’ingrediente fondamentale di tutte le sue ricette era il canto.
La sua voce melliflua si contesseva alla crostata o alle
lasagne, addolcendo le ciliegie o il pomodoro. Ma ora,
mentre continuava a rigirare l’impasto dei biscotti, in cucina
regnava un penoso silenzio.
Sentendomi entrare, aveva alzato lo sguardo. Aveva gli
occhi gonfi, le guance pallide. «Com’era la colazione?»
«Il papà ci ha lasciato ordinare tre pancake diversi.»
«Ah, sì?» Era tornata a dedicarsi alla terrina d’impasto.
«Che gentile.»
Avrei voluto che si mettesse a cantare, uscisse dalla
trance, ma continuava a fissare l’impasto che sbatteva
contro i lati della terrina, e mi domandavo se i biscotti
sarebbero stati buoni anche senza l’ingrediente segreto.

Billy non si era fatto vivo per qualche settimana, poi era
venuto a portarmi fuori per il mio compleanno. Non avevo
idea di dove. Il bello delle giornate con Billy era proprio
questo: qualunque mia proposta – un pomeriggio al pontile o
alle montagne russe Six Flags – non sarebbe mai stata
all’altezza dell’avventura che lui aveva in serbo per noi.
Il fiato affannoso della vecchia BMW di Billy era risuonato
in tutta la casa. Avevo atteso il rumore familiare della
portiera che si chiudeva, della mamma che correva ad
accoglierlo alla porta, tempestandolo di domande. Dove
andiamo? Ci saranno altri bambini? Ci sono scarpate o
burroni? Cinture di sicurezza? Giubbotti di salvataggio?
Sembrava che le risposte di Billy non bastassero mai a
tranquillizzarla.
Ma quel pomeriggio, quando lui aveva suonato il clacson,
la mamma si era limitata a gridare: «C’è Billy!» da dietro la
porta della camera da letto.
«Non vieni a salutarlo?» avevo chiesto, alzando la voce.
«Oggi no.»
Avevo esitato a uscire di casa. La porta della camera era
rimasta chiusa. Pazienza: tanto Billy non suonava il
campanello, aspettava in macchina col motore acceso.
«To’, la mia bambina preferita», aveva detto Billy,
quand’ero salita a bordo. Mi chiamava sempre così: la sua
bambina preferita. Una cosa melensa, che mi avrebbe messa
in imbarazzo, se a dirla fossero stati i miei genitori. Detta da
Billy, mi faceva sentire come la bambina che volevo
continuare a essere, ma che non potevo più essere, perché a
dodici anni sarebbe stata una vergogna. Eravamo usciti dal
vialetto e, vedendo casa mia rimpicciolire in lontananza, mi
ero domandata se la mamma ci stesse guardando dalla
finestra della camera.
«Vedrai che sorpresa ho per te.» Billy mi aveva lanciato
uno dei suoi sorrisoni esagerati.
L’avevo scrutato, in cerca di una traccia della tensione che
avevo visto sul volto di mia madre. Billy sembrava contento.
«Una sorpresa?» Non l’avrei mai ammesso davanti alla
mia amica, ma le sorprese di Billy mi elettrizzavano ancora,
più che rubare i rossetti in negozio, più che andare in
macchina con la sorella maggiore di Joanie, che sfrecciava a
tutta velocità sulla Highway 1.
«Ehi, mi prenderesti la cosa che sta lì dentro?» Billy aveva
indicato il vano portaoggetti.
Sopra il libretto di circolazione c’era una busta nera,
abbastanza grande da poter contenere i biglietti per gli
Universal Studios o per un concerto all’Hollywood Bowl. Ma,
se fosse stato un regalo del genere, Billy non me l’avrebbe
consegnato con tanta noncuranza. Gli avrebbe tolto tutto lo
spasso. I doni, dovevo guadagnarmeli risolvendo i suoi
enigmi.
Avevo strappato la busta e letto ad alta voce l’indizio: «’La
mia bandiera è blu, bianca e rossa, ma non sono il Paese di
casa tua. Ti sembrerà una...’» Kmf{? Non sapevo come
pronunciarlo. «’Ma nel punto più vicino disto meno di
quattro chilometri dal suolo americano’.» Avevo tirato a
indovinare: «La Francia?»
Billy mi aveva guardato con aria scettica.
«Il Canada?»
«La bandiera canadese è bianca e rossa, non ha il blu.
Però, fuochino... Cioè, ghiaccio, più che altro.»
«La Russia?» avevo buttato là, incerta.
«CeolzÅ!» aveva risposto lui, con una pronuncia perfetta.
«Mi porti in Russia? C’è stato un terremoto?» Già
immaginavo noi due in colbacco, a marciare nella neve per
ispezionare una remota cittadina funestata da un sisma.
«Mi sa che la tua mamma mi farebbe decapitare», aveva
detto Billy.
Non appena aveva tirato in ballo mia madre, avevamo
smesso di parlare. Sapevo che tutti e due avremmo sempre
ricordato lo sguardo che ci eravamo scambiati, mentre
litigava con lei in piena notte.
«Sei in rotta con lei?»
«Niente di cui tu debba preoccuparti.» Stava per
aggiungere qualcosa, ma poi ci aveva rinunciato e aveva
rallentato fino a fermarsi davanti a un edificio di Venice
Boulevard che aveva tutta l’aria di essere inagibile. «Be’,
vediamo un po’ quell’indizio.»
«Il posto è questo?» Avevo contato le serrande abbassate.
Di solito le sue avventure si svolgevano in parchi nazionali o
in vetta a una montagna, purché lontano dalle spiagge.
Questo edificio c’entrava qualcosa con la Russia?
«CeolzÅ!» Era sceso dall’auto e, con un inchino, mi aveva
fatto cenno di andare verso il portone di metallo. Non era
chiuso a chiave, e lui me lo aveva tenuto aperto.
«Ma abbiamo il permesso?» Avevo esitato, sbirciando il
locale buio alle sue spalle. Sembrava chiuso.
«Oggi non è aperto, ma il gestore mi deve un favore. È più
divertente avere il museo tutto per noi, non trovi?» Era
entrato e mi aveva fatto segno di seguirlo. «Fidati.» Era la
sua espressione più ricorrente. Fidati. E io mi fidavo sempre.
La prima sala era fiocamente illuminata. Lungo le pareti
austere c’erano espositori in vetro. Da altoparlanti nascosti
usciva una musica lirica soffusa. Nella teca accanto alla
porta c’erano animali imbalsamati: pipistrelli, talpe e piccoli
roditori. In quella accanto, gemme luccicanti.
«È ispirato alle Wunderkammer del XIX secolo», mi aveva
spiegato Billy. «Scienza, arte e natura, tutte assieme, per le
menti a tutto tondo.»
«Wunderkammer.» Avevo saggiato la parola sulla lingua,
aspettando che la sua magia mi colpisse.
Lo sguardo di Billy vagava verso un espositore nell’angolo
opposto, pieno di statuine: elefanti dipinti, pagliacci, un
presentatore circense, acrobati. La targa diceva: CIRCO
RUSSO.
Avevo dato un’occhiata dietro il vetro, in cerca di un
elemento estraneo, una statuetta fuori contesto, un indizio
tracciato sul piccolo tendone da circo. E in effetti l’indizio
c’era, appiccicato col nastro adesivo sul retro della teca.

Come la fibra che ho nel nome, il mio titolo è umile


eppure nobile, ma non lo devo alla lana ruvida che
porto, bensì a un fiume del Northumberland.

Billy aveva riso nel vedere la mia espressione confusa. Mi


aveva scompigliato i capelli e condotto alla sala successiva,
tanto strabordante quanto la prima era sobria: qui, le pareti
erano ricoperte di ritratti di cani in vestitini sgargianti, più
un dipinto scolorito che raffigurava un uomo con barba e
cilindro – tale barone Tweedmouth – e, accanto, una targa
con una breve biografia del nobiluomo, affarista scozzese e
membro della Camera dei Comuni.
«Pare che, nel 1858, Lord Tweedmouth abbia assistito a
uno spettacolo circense russo, con una fantastica esibizione
di cani da pastore del Caucaso, e che a fine serata abbia
cercato di comprarne un paio», aveva spiegato Billy. «Ma
l’ammaestratore non voleva dividerli dai compagni. Così, a
quanto si racconta, Tweedmouth li acquistò tutti quanti, e li
allevò fino a sviluppare una nuova razza: il retriever.» Aveva
mosso un braccio verso un mobile d’archivio accanto al
ritratto. «Aprilo. È lì apposta.»
Avevo scartabellato tra le riproduzioni delle carte del
barone, con un’idea abbastanza precisa di dove voleva
andare a parare Billy. Era questo a piacermi, nelle avventure
con lui: indovinavo quasi sempre il traguardo della ricerca,
ma lui mi permetteva di arrivarci solo dopo la sua lezioncina.
Quando mi aveva visto scartare una copia del pedigree
dell’allevamento di Tweedmouth, mi aveva fermato. «Gli
storici hanno trovato quei documenti negli anni ’50 e hanno
capito che la storia del circo era solo una diceria.» Aveva
puntato il dito su una descrizione del fiuto sensibile dei
retriever. «Vedi? Venivano usati come cani da traccia già
prima del 1858, quindi non possono essere i discendenti di
quei pastori del Caucaso.» Aveva fatto scivolare il
polpastrello lungo la pagina, seguendo il pedigree dei cani di
Tweedmouth. «Aveva già dei retriever, e li ha usati per
ricavarne il compagno di caccia ideale.»
«Significa quello che penso io?» Saltellavo come se mi
scappasse la pipì.
«Dipende da cosa pensi.»
Avevo girato il foglio e scritto sul retro avevo visto l’indizio
successivo: Non chiamarmi bellezza, né dea, né la più
graziosa della cucciolata. I nomi da animale domestico ti
sembreranno tutti uguali, ma ce n’è uno solo che abbia quel
certo nonsoché.
Avevo esaminato tutti i ritratti dei cani fino a trovare una
femmina di tweed water spaniel. Al suo fianco, una targhetta
spiegava che si trattava di Belle, accoppiata con Nous – uno
yellow retriever – per creare il golden retriever.
«Non mi dire! Non mi diiireee!» Saltellavo, abbracciando
Billy e strillando cose incomprensibili.
«Ehi, ehi, un momento. Prima devi trovarla.»
Avevo esplorato la sala strapiena di oggetti, in cerca di
una busta che potesse contenere l’indizio successivo. Appesa
alla parete opposta, c’era la fotografia recente di un golden
retriever, appesa in mezzo a quelle dei suoi antenati. Aveva
una cornice nera, semplice, leggermente distaccata dal
muro. Avevo infilato la mano e trovato una schedina
bibliotecaria con un indirizzo di Culver Boulevard.
Fuori, senza nemmeno aspettare che gli occhi si
riabituassero alla luce, mi ero incamminata lungo Venice
Boulevard, oltrepassando altri edifici apparentemente
inagibili e officine di carrozzieri.
«Miranda, rallenta!» mi aveva gridato Billy, ansando e
correndo per raggiungermi.
Al semaforo tra Culver e Venice, avevo continuato a
saltellare sul bordo del marciapiede come fanno i corridori
per non perdere il battito. «Un cane, un cane, un cane, un
cane», dicevo. Non appena era scattato il verde, avevo
attraversato sparata.
La risata di Billy mi seguiva come una scia, mentre
oltrepassavo di corsa l’albergo storico e la fila di ristoranti di
Culver Boulevard. L’indirizzo era quello di un negozio di
animali, a pochi isolati da lì. Il padrone vendeva cocorite, ma
allevava anche golden retriever, mi aveva spiegato Billy, col
fiatone.
Dentro c’era un vago profumo di nocciole. Dietro il
bancone, un omone quasi calvo leggeva il giornale. Non
appena ci aveva visto, era sparito nel retrobottega ed era
ricomparso con un cucciolo di golden retriever. Avevo preso
delicatamente la cagnolina dalle sue mani. Era calda e aveva
un odore dolce, di fattoria. Era un po’ assonnata, all’inizio,
ma quando me l’ero stretta al petto e avevo strofinato le
guance contro il suo pelo setoso aveva ripreso vitalità e mi
aveva dato bacetti appiccicosi. Mi ero ingegnata per tenerla
in braccio, ma lei era troppo entusiasta per star ferma,
perciò l’uomo mi aveva suggerito di lasciarla correre per il
negozio. La guardavamo fiutare gli angoli polverosi e
saltellare contro i supporti metallici delle gabbiette degli
uccelli. Billy mi aveva passato un braccio intorno alle spalle
e io ero sul punto di dirgli che era la persona cui volevo più
bene al mondo. Poi mi era tornata in mente mia madre. «Ne
hai parlato con la mamma? È d’accordo?»
Billy aveva preso in braccio la cagnolina e aveva riso
mentre lei si gettava contro la sua faccia. «Come potrebbe
dire di no a questo musino?»
«No, davvero, zio Billy. Dice che non posso avere un
cane.»
«Ma tu lo vuoi, no?»
«Più di ogni altra cosa.»
Billy aveva posato a terra la cagnolina e mi aveva cinto
con un braccio. «Certe volte la tua mamma ha bisogno di
una spintarella, per vedere le cose con chiarezza. Quando
capirà quanto vuoi bene a questo cane, di sicuro non dirà di
no. Fidati.»
Già mentre lo diceva – Fidati – sapevo che non avrei
dovuto. Mia madre non mi avrebbe mai lasciato tenere il
cane. Ma volevo credere nel potere di Billy, la magia per cui
tutto sarebbe andato bene, solo perché me l’aveva garantito
lui. E volevo che ci credesse anche la mamma.

«Joanie morirà d’invidia», gongolavo, lungo la strada di casa.


«Una cucciolina! Zio Billy, questo è il più bel regalo di
compleanno di sempre.»
Billy aveva fermato l’auto davanti a casa mia e teneva in
braccio la cagnolina mentre io scaricavo dal sedile
posteriore l’armamentario canino. Quando mi ero avvicinata
per prenderla, Billy non l’aveva mollata. Le aveva dato una
grattatina dietro le orecchie, improvvisamente serio. «Mi
dispiace che tu abbia assistito a quella scena tra me e la tua
mamma.»
«Non importa», avevo detto, incerta.
«Sì che importa. I rapporti tra me e lei... Comunque vada
a finire, sappi che non è colpa tua.»
La cagnolina si agitava tra le sue mani. Avevo tentato di
prenderla, per correre in casa in modo che Billy smettesse di
parlare, ma lui la teneva stretta. A me non era nemmeno
passato per la testa, che potesse essere colpa mia. Fino a
quel momento.
«Tienila lontana dalle scarpe di tua madre, e vedrai che
conquisterà anche lei.» Billy mi aveva porto la cagnetta. «Ci
vediamo presto.»
Avevo deciso di credere a queste ultime parole, più ancora
che a quelle altre, nefaste, che le avevano precedute.
L’avremmo visto presto. Sarebbe andato tutto bene.
«Mamma!» avevo gridato, entrando di corsa. «Mamma,
vieni, presto! Non indovinerai mai cosa mi ha regalato
Billy!»
Mia madre aveva spalancato di scatto la porta della
camera da letto ed era sfrecciata nel corridoio sopra
l’ingresso. Era in vestaglia. Aveva profonde occhiaie. «Oh,
Gesù, Miranda!» Si era posata una mano sul petto. «Mi hai
fatto prendere un colpo. Credevo che fosse successo chissà
cosa.»
«Guarda...» Avevo sollevato la cagnolina verso di lei.
Il suo volto era diventato una maschera immobile che
fissava un punto a metà tra me e la cucciolina uggiolante.
«Non puoi tenere quella roba.» Era scesa di corsa di sotto e
me l’aveva strappata di mano. «La riportiamo subito al
negozio.»
«Ma se non l’hai ancora conosciuta!»
La cagnetta le aveva leccato la faccia. «Vedi, che dolce?»
«Non c’entra, e lo sai», aveva detto la mamma.
La cucciolina aveva abbaiato.
«Pensavo che vedendola avresti cambiato idea.»
«Miranda, ne abbiamo già parlato. Abbiamo troppo da
fare, per occuparci di un cane.»
«Me ne occuperò io. Tu non dovrai fare niente.»
«Troppa responsabilità.»
«Non sono più una bambina. Non sta a te, dirmi quanta
responsabilità assumermi.»
Il mio tono ci aveva lasciato impietrite entrambe.
Mia madre aveva atteso che io mi calmassi, ma, quand’era
diventato chiaro che non intendeva discuterne, avevo salito
la scala pestando i piedi e strillando: «Non mi lasci mai fare
niente!» Pur rendendomi conto di essere melodrammatica, di
dimostrare una prematura isteria adolescenziale, avevo
sbattuto la porta così forte da far tremare il pavimento della
camera.
La mamma l’aveva spalancata. «Non sbattere.» La sua
voce era tranquilla, gli occhi dorati erano tersi e furiosi. «Hai
infranto le regole. Sapevi di non avere il permesso di portare
a casa un cane. Non hai il diritto di fare questi capricci.»
Sapevo che aveva ragione lei, ma avevo l’età alla quale
non importa chi ha ragione, perché si vuole solo fare il
proprio comodo. «Dov’è il cane?» avevo detto, notando che
lei non l’aveva più in mano.
«Cazzo!» La mamma si era precipitata di sotto facendo
moine per attirare la cagnolina. «Miranda? Dov’è che ti ha
portato Billy, a prendere questo cane?»
«Non te lo dico!» avevo strillato. Poi, non ottenendo
risposta, avevo confessato: «In un negozio di animali a
Culver City». Non le avevo detto che là si vendevano solo
uccelli.
Dopo che la mamma se n’era andata con la cucciolina,
avevo chiamato Billy per raccontargli tutto. Non rispondeva
al telefono dell’auto, così avevo provato su quello di casa.
«Non ci crederai», avevo urlato alla segreteria telefonica.
«La mamma è andata a restituire il cane, quella stronza.»
Dopo aver riattaccato mi sentivo come se qualcuno mi
avesse preso a pugni in pancia. Non avevo mai dato della
stronza alla mamma. Lo avevo ripetuto alla casa deserta:
«Sei una stronza!» Avevo continuato a pronunciare quella
parola, sperando che mi suonasse giusta. E invece no.
Ero rimasta in camera per tutto il pomeriggio. Avevo
sentito la mamma rientrare in casa. Avevo sentito il papà
tornare dal club di tennis. Li sentivo che parlavano in cucina.
Sapevo che lei gli stava raccontando tutto, e che lui sarebbe
venuto su da me, per fare da paciere.
Alle sei e mezzo, il papà bussò.
«Non ho fame.»
Lui aprì la porta e si sedette accanto a me sul bordo del
letto. «Lo so, sei arrabbiata. Ne abbiamo già parlato. Non è il
momento di prendere un cane.»
«Queste sono solo stron...»
Il papà mi fulminò con lo sguardo.
«Non sarà mai il momento.»
«Può darsi, ma tu devi accettarlo, Mimi. Siamo una
famiglia. Le decisioni si prendono assieme. Dai, vieni di
sotto. Faremo una bella cenetta. Credo che sarà l’ideale per
tutti.» Mi fece un cenno d’incoraggiamento, un gesto che
conoscevo bene. Io avrei preso la decisione giusta. Non
l’avrei deluso.
A tavola, guardai la mamma punzecchiare con la forchetta
il petto di pollo senza prenderne un boccone. Non sapevo
cosa dirle. Volevo scusarmi per averle dato della stronza,
anche se non mi aveva sentito.
E invece fu lei a spezzare il silenzio. «Mi dispiace per la
lite. Billy non avrebbe dovuto metterti in quella posizione.
Non è stato giusto, da parte sua.»
Infilzai un pezzetto di pollo, me lo cacciai in bocca e
masticai con rabbia. Dunque era questa, la piega che voleva
dare alla faccenda. La colpa non era mia. E di sicuro non era
sua. Era tutta di Billy. Era stato lui a decidere di comprarmi
il cane, allo stesso modo in cui era stata sua la scelta –
qualunque essa fosse – che lei gli aveva rinfacciato la notte
della mia festa di compleanno.
«Quindi anche questo ’l’ha voluto lui’? Non devo
’azzardarmi a dare la colpa a te’?»
Non dimenticherò mai la sua espressione addolorata,
quando si rese conto che alludevo alla lite cui avevo
assistito, e che stavo ritorcendo le sue parole contro di lei.
«Può anche non essere colpa di nessuno», disse il papà.
«Tutti noi possiamo assumerci la responsabilità delle nostre
azioni.»
«Mi dispiace di aver sbattuto la porta», dissi io, ma ormai
il danno era fatto.
La mamma annuì: accettava le mie scuse. E accettava ciò
che era cambiato durante quella cena.

Più tardi riprovai a chiamare Billy.


«Io, con la mamma, ho chiuso!» gridai alla segreteria
telefonica. «Resterò arrabbiata con lei per sempre.»
Dato che Billy non mi richiamava, immaginai che non
volesse rischiare che fosse mia madre ad alzare la cornetta.
Ritentai il giorno dopo. Anche stavolta non rispose, perciò
dissi alla segreteria: «Ti chiamo domani alle quattro e un
quarto in punto. Vedi di esserci, così parliamo». Ma non era
in casa neppure il pomeriggio seguente. L’unico altro posto
in cui sapevo di poterlo contattare era Prospero Books.
A lato del suo lavoro sui terremoti, Billy possedeva una
libreria di quartiere, non a Pasadena, dove abitava, ma a
Silver Lake. Diceva che per lui la sismologia era un mestiere,
mentre Prospero Books era un divertimento. Una volta gli
avevo chiesto perché non avesse fatto del divertimento un
mestiere, e lui mi aveva risposto che si sentiva in dovere di
proteggere la gente, perché dai terremoti sapeva ricavare
insegnamenti che ad altri sfuggivano.
Nei pomeriggi in cui non mi organizzava una caccia al
tesoro, mi portava alla libreria, e questa era una forma tutta
particolare d’avventura. Mentre camminavamo nel labirinto
di scaffalature, lui m’invitava a prendere un libro, uno
qualunque, ma scegliendolo con cura, perché potevo averne
uno solo. Era stato lì che avevo conosciuto Anna dai capelli
rossi, Mary Lennox e, più recentemente, Kristy, Claudia,
Stacey e le loro amiche del Club delle baby-sitter.
A rispondere al telefono fu una voce maschile che non era
quella di mio zio. «Prospero Books, dove i libri contano più di
un ducato.» Probabilmente era il gestore, Lee, ma non
volevo impegolarmi in una conversazione con lui, sul fatto
che fosse uno scandalo che io non avessi ancora letto Are
You There God? It’s Me, Margaret.
«C’è Billy?»
«Credo che sia al laboratorio. Farà un salto qui domenica.
Vuole lasciare un messaggio?»
Riattaccai prima che Lee mi riconoscesse.
Alla domenica mancavano cinque giorni. Non potevo
aspettare così tanto, perciò riprovai a chiamarlo a casa
quella sera, quando la mamma era già a letto e il papà era in
salotto a guardare il telegiornale.
«Billy? Sono la tua bambina preferita», dissi in tono
lacrimoso alla segreteria telefonica. «Li senti, i miei
messaggi? Ho un gran bisogno di parlarti.»
Dopo qualche altro tentativo, cominciai a spaventarmi.
«Ci ho provato, a tenere il cane», piagnucolai alla
segreteria. «Te l’assicuro, ho fatto tutto quello che potevo,
ma sai com’è la mamma. La conosci. Per favore, non essere
arrabbiato con me. Richiamami.»
Non richiamò, e il sabato capii che era inutile telefonargli
di nuovo. Il suo silenzio la diceva lunga. Almeno per un po’,
non sarebbe venuto alle grigliate domenicali. E neanche a
prepararmi una nuova avventura.
Decisi che dovevo vederlo. Se mi avesse guardato negli
occhi, non sarebbe riuscito a bandirmi dalla sua vita. Sapevo
dove sarebbe andato domenica. Sapevo che l’avrei trovato
da Prospero Books.

Joanie mi aiutò a organizzare il tragitto attraverso la città.


Sembrava di dover andare fino a San Francisco, anziché a
Silver Lake, tante erano le superstrade da prendere. Ma
c’era un autobus che passava da Santa Monica Boulevard
fino a Sunset Junction, senza cambi. Se tutto filava liscio, era
questione di un’ora e mezzo.
Dissi alla mamma che saremmo andate da Joanie, sotto la
sorveglianza delle sorelle adolescenti, relegate nelle loro
camere. Ci ero già andata tante volte e non c’erano mai stati
guai, tanto che mia madre aveva smesso di telefonare a casa
di Joanie per verificare che fossimo lì.
Quando mi accinsi a salire i gradini dell’autobus, Joanie mi
stritolò con un abbraccio. «Sei sicura di cavartela? Ricordati:
è la seconda fermata dopo Vermont Avenue.»
«Grazie, mammina», la canzonai, e lei mi fece una
linguaccia.
C’era meno gente del previsto. Trovai una fila vuota e mi
sedetti accanto al finestrino. Il traffico di Santa Monica
Boulevard era lento. L’autobus oltrepassò Beverly Hills,
West Hollywood e Hollywood, con gli edifici dalle facciate
sporche. All’incrocio con Hyperion Avenue, scesi e
m’incamminai verso il famoso cartello di Sunset Junction,
dandomi un’aria da figlia d’artista o di musicista, com’erano
le ragazze cresciute a Silver Lake. Sull’insegna della libreria
si ergeva Prospero, col bastone nella mano destra e con un
libro nella sinistra, mantello violetto e capelli bianchi
scompigliati dal vento. Mi fermai davanti alla vetrina e
sbirciai dietro i volumi esposti. Ebbi un brivido, lo stesso che
mi veniva ogni volta che vedevo quelle pareti verde lime. Il
mio rapporto con questo negozio era diverso da quello di
tutti gli altri, anche se ci venivano ogni settimana, ogni
giorno. Io ero l’unica che Billy invitasse a scegliere un libro,
uno qualunque, gratis, come se tutti quei volumi stessero
aspettando solo me. Spalancai la porta, sicura che avrei
trovato lo zio e che tutto sarebbe stato come doveva.
Il locale non era ampio, ma i soffitti alti e gli spazi ben
calibrati tra le scaffalature lo facevano sembrare tale. Aveva
un odore unico, diverso da quello della casa di Billy a
Pasadena, e anche da quello di qualunque altra libreria: un
sentore terroso di carta appena tagliata, misto al muschio
bianco del profumo delle belle ragazze che frequentavano il
negozio, e a una traccia di caffè quasi floreale.
«Miranda?» mi chiamò Lee, vedendomi alla porta. «Che
bella sorpresa. Sei con Billy?»
«Credevo che fosse qui.» Non vedevo la sacca di pelle di
Billy sotto la sedia del bancone, né la sua tazza con la faglia
di Sant’Andrea che solcava la California come una cicatrice,
su uno dei tavolini della zona caffè.
Sentii lo sguardo di Lee su di me. Non lo incrociai, perché
sapevo già cosa stava per dire: «Sarà per strada. Provo a
telefonargli».
Disse alla barista di prepararmi qualunque cosa volessi.
Lei mi fece l’occhiolino porgendomi un enorme cookie con le
gocce di cioccolato, come se fosse stato un nostro segreto.
Presi il biscottone, andai a sedermi a un tavolino in un
angolo e osservai Lee che parlava al telefono del bancone.
Lui alzò lo sguardo e, vedendo che lo stavo fissando, fece
una smorfia imbarazzata.
«Oggi non può venire», disse, sedendosi al mio tavolino.
«Mi ha detto di telefonare a tua madre. Sta arrivando.»
«Hai chiamato mia madre?» Elaborai febbrilmente le
bugie per giustificarmi: Volevo prendere l’ultimo volume del
Club delle baby-sitter; Il papà mi ha detto che potevo venire.
Tutte scuse palesemente false, che avrebbero solo fatto
arrabbiare di più la mamma. Le avevo detto che ero da
Joanie, e invece ero venuta a Silver Lake, io, che non potevo
prendere l’autobus nemmeno per andare da un punto
all’altro del nostro quartiere. Ed ero venuta a trovare lo zio,
pur sapendo che avevano litigato. Le avevo disobbedito nel
modo più totale. Praticamente potevo considerarmi morta. In
castigo per l’eternità. Ma il peggio non era questo: a
spezzarmi il cuore era il fatto che Billy non volesse vedermi.
Ricacciai indietro le lacrime. Avevo dodici anni, dunque ero
quasi adolescente, cioè quasi adulta. Troppo grande per
frignare.
Lee si accorse che piangevo. «Ehi, su... Senti, ti va di
venire con me a scegliere un libro?»
«Va bene», dissi, anche se non volevo scegliere proprio
nessun libro. Non con lui. Lo seguii nel reparto per
adolescenti, dove i dorsi erano sgargianti e i titoli
trasparivano dietro il velo delle mie lacrime.
Invece delle letture che cercava di propinarmi di solito,
Lee mi mostrò qualche thriller di R.L. Stine e Christopher
Pike. A ogni proposta scossi la testa. Avevo sempre creduto
che entro il giorno del diploma avrei letto tutti i libri di
Prospero Books. Ora non volevo leggerne neppure uno, mai
più.
Lee doveva telefonare a un cliente, così tornai al mio
cookie con le gocce di cioccolato, senza libri in mano. Feci a
pezzi il biscottone, poi feci a pezzi ognuno dei pezzi. Ero
troppo arrabbiata per mangiare.
I tavolini intorno a me si svuotavano e si ripopolavano. Lee
stava sempre dietro il bancone. Ogni tanto si alzava e dava
un’occhiata al caffè per verificare che fossi ancora lì. Stava
calando il buio e cominciavo a temere che la mamma fosse
talmente furiosa da decidere di non venire a prendermi.
Dopo un tempo che mi parve durare ore, sentii lo
scampanellio della porta, alzai gli occhi e vidi la mamma
perlustrare il caffè affollato. Quando mi scorse, ne fu
visibilmente sollevata. Non appena i nostri sguardi
s’incrociarono, dimenticai la rabbia e corsi tra le sue braccia,
assorbendo il suo calore, il dolce profumo di lillà della sua
pelle, tornando bambina e non badando alla gente che ci
vedeva. «Scusa.»
Mi baciò la fronte. «Sono solo contenta che non ti sia
successo niente.»
Allora capii che il mio piano era fallito già in partenza,
quand’anche avessi trovato mio zio da Prospero Books.
Aveva fatto apposta a non richiamarmi. E io me l’ero presa
con mia madre, però era stata lei a venire in mio soccorso,
non Billy.

Lungo l’Interstate 10, vedevo benissimo che la mamma


avrebbe voluto dirmi quant’ero stata stupida, perché Silver
Lake era pericolosa e poteva succedere di tutto. Invece mi
chiese: «Cosa speravi che sarebbe accaduto, se Billy fosse
stato lì?» Non sembrava arrabbiata, solo curiosa.
«Non so. Vorrei che faceste pace.»
«Non è sempre facile, tra adulti.»
«Perché?»
Le sue mani strinsero il volante. «I rapporti tra me e Billy
sono complicati.»
«In che senso? Cos’è successo quando vi ho visto
litigare?»
Ammorbidì il volto e sviò l’attenzione dalla strada per
guardare me. «È troppo difficile da spiegare.»
«Prova.» Trattenni il fiato. Le stavo dando l’opportunità di
darmi la sua versione. Ero disposta a credere a qualunque
cosa mi avesse detto riguardo a Billy, per terribile che fosse.
Lei strinse le palpebre, come per mettere a fuoco le
vetture davanti a sé. «Sei troppo giovane per capire.» Lo
disse con gentilezza, ma avrebbe fatto meglio a essere
brusca, se voleva ferirmi, anziché proteggermi. Non mi
andava di essere protetta.
«Farete pace?» le chiesi.
«Francamente non lo so.»
Lo sapeva eccome. Qualunque cosa fosse successa tra lei e
Billy, era imperdonabile. Le parole che si erano detti non si
potevano ritirare. In quella lite, ognuno dei due aveva perso
l’altro. O forse si erano già persi da anni? Ormai non ero più
sicura di niente. Quello che era certo – e che mi addolorava
profondamente – era che Billy aveva perso me. Non volevo
essere la sua bambina preferita. Non volevo ascoltare il
motivo per cui aveva fatto chiamare mia madre, anziché
venire a incontrarmi. Quand’anche si fosse ripresentato la
domenica seguente, il nostro rapporto non sarebbe più
tornato quello di prima.
Ma il problema non si pose neppure, perché Billy non
passò da casa nostra la domenica dopo, né quella dopo
ancora. Non venne più a prendermi per un pomeriggio da
Prospero Books. Non ci furono altre avventure con lui.
Per mesi, dopo la sua sparizione, cercai indizi di un suo
imminente ritorno, ma trovavo solo i segni della sua assenza.
I piatti cloisonné che ci aveva portato da Pechino non erano
più in bella mostra in salotto. La foto di noi due all’acquario
venne sostituita con quella del papà che mi spingeva in
altalena. I cupcake del forno cubano di Glendale, che
portava sempre lui, non facevano più da dessert alle nostre
grigliate domenicali.
Quando cominciai le superiori, smisi di cercarlo. Divenne
una figura del passato della mia famiglia, una persona
virtualmente dimenticata. Quando finalmente ebbi di nuovo
sue notizie, era da almeno dieci anni che non pensavo a lui.
E ormai era morto.
Ma la fine di Billy non è l’epilogo della nostra storia. È
solo l’inizio.
2

Avevo sempre saputo che Billy sarebbe tornato da me sotto


forma d’indizio, solo che non pensavo che ci avrebbe messo
quindici anni.
Abitavo a Philadelphia col mio ragazzo. A ventisette anni,
per la prima volta saggiavo le acque della convivenza,
mentre mi dedicavo anima e corpo al mio lavoro
d’insegnante di storia alle medie. Era appena finito l’anno
scolastico, le tesine sul Proclama di Emancipazione e
sull’Underground Railroad erano state corrette e restituite,
le pagelle erano state messe agli atti e, a meno di proteste
da parte di qualche genitore, eravamo ufficialmente in
vacanza. Jay voleva a tutti i costi dare una festa «per
inaugurare l’appartamento», anche se ci abitava già da anni
e l’unico cambiamento apportato era il fatto che adesso ci
vivessi anch’io.
Doveva comprare da bere per la grande serata. C’era un
negozio del monopolio di Stato a pochi isolati da casa nostra,
ma lui insisteva per farsi mezz’ora di macchina fino al
Delaware, per trovare whisky e vodka a prezzo modico ed
esenti da imposte.
«Lo sai, che quello che risparmi in tasse lo spendi in
carburante?» gli feci presente, mentre lui sfrecciava qua e là
per il soggiorno, in cerca delle chiavi.
«È una questione di principio.» Infilò una mano tra i
cuscini del divano e ne ripescò briciole di patatine e
pelucchi, che posò sul tavolino.
«Ma che schifo!» dissi io, dando voce a una cosa già ovvia.
Jay mi soffiò un bacio e continuò l’esplorazione del divano
fino a estrarne le chiavi, che fece tintinnare con aria
trionfale.
«Lo sai che di fianco alla porta c’è un gancio apposta?»
Indicai l’uccellino d’ottone dalle cui zampette spuntava un
uncino, unico mio contributo all’arredo.
«Ah, ecco a cosa serve», mi canzonò lui, tirandomi sul
divano. Mi baciò il collo e le guance, inchiodandomi sul suo
grembo. Già me lo vedevo, al negozio di alcolici del
Delaware, a riempire il carrello con una tale quantità di
bottiglie di plastica da far star male tutti gli invitati.
«Potremmo anche fare una piccola fuga dalla città e
passare il weekend in una baita nel Vermont, tanto per
staccare la spina.»
Jay mollò la presa. Io rimasi seduta sulle sue ginocchia.
«Credevo che volessi una festa», disse.
Feci spallucce. La festa, la voleva lui. Magari l’avessi
voluta anch’io! Ma era già raro che partecipassi ai baccanali
con bevute compulsive dal tramonto all’alba, figuriamoci
darne uno. «Era solo un’idea.»
Jay mi sollevò dal suo grembo e si mise in tasca il
portafogli e le chiavi. «Sarà divertente», mi garantì, dandomi
un veloce bacetto prima di uscire.
Vivevo con lui da tre mesi, eppure quell’appartamento non
mi sembrava «casa mia» più di quanto non mi fosse parso
prima che nella cassettiera di Jay comparissero i miei vestiti
piegati, e il suo frigo vuoto venisse riempito dal mio yogurt e
dal mio pollo alla griglia. Lo stile dell’arredamento era quello
di sua madre, o meglio, quello che lei riteneva adatto a uno
scapolo non ancora trentenne: divano scuro per nascondere
le macchie, poltrone in pelle fortunatamente non reclinabili,
una parete interamente occupata da un televisore, e su
quella opposta una fila di quadri astratti senza pretese. I
pochi oggetti di mia proprietà erano in un piccolo deposito:
un comò d’antiquariato che non avevo venduto assieme al
resto della camera da letto, un tavolino in pietra comprato
da mia madre a New York negli anni ’70, qualche stampa del
Metropolitan Museum of Art che non valeva la pena di
appendere nel nuovo appartamento. Jay non aveva molta
affinità di gusti con sua madre, ma diceva che ci sarebbe
rimasta male se avessimo tolto dalle pareti i quadri che lei
aveva comprato dai suoi amici artisti, e che era più semplice
lasciare la casa così com’era, semmai impuntarsi su altre
cose. Io mi chiedevo come si stesse, a vivere nel continuo
terrore di contrariare la propria madre.
Andai in cucina a fare posto per gli scatoloni di alcolici che
Jay avrebbe portato. La mia posta era impilata senza criterio
accanto al frigorifero: quasi tutte bollette e pubblicità di
corsi di yoga, più due biglietti di ringraziamento da parte di
alunni che, con una scrittura sgraziata, affermavano che ero
la loro insegnante preferita e che non avrebbero mai
dimenticato la nostra gita di classe alla stamperia Franklin.
E poi c’era una busta imbottita, col mio nome vergato con
cura – Miranda Brooks – con una scrittura più elegante della
mia. Senza mittente, ma timbrata a Los Angeles. La palpai.
Un parallelepipedo semirigido, chiaramente un libro. Doveva
essere una delle sorpresine della mamma, anche se la
scrittura non era la sua. Mi mandava sempre qualcosa, per
controbilanciare il dispiacere di sapere che la sua unica
figlia aveva deciso di abitare sulla costa opposta: un libro di
cucina con ricette troppo impegnative per i miei gusti, un
manuale su come arredare casa senza spendere troppo,
dando per scontato – logicamente – che, ora che
l’appartamento di Jay era diventato nostro, sarebbe stato
nostro anche l’arredo.
Aprii la busta e ne estrassi un libro tascabile avvolto in
carta smeraldo satinata, con un biglietto imbustato
appiccicato sopra. Strappai la carta. Era un’opera teatrale
che conoscevo a memoria: La tempesta. Mia madre mi aveva
chiamato Miranda proprio in omaggio al giovane
personaggio femminile più bello e più puro di tutta la
letteratura. In copertina, un’onda minacciava di rovesciare la
nave sulla quale il re e il suo seguito – compreso Antonio,
fratello di Prospero – tornavano dal matrimonio della
principessa. Spesso la mamma mi spediva copie dell’opera
cui dovevo il mio nome, quando le trovava in liquidazione o
in un negozio di anticaglie: un’edizione rara, con tanto di
doratura ai margini, o una versione illustrata degli anni ’50,
o anche una ristampa in miniatura, incassata in un pendente
o una spilla. Ma questo era un comunissimo tascabile, non
era il suo genere di regalo. Senonché, se non proveniva da
lei, non sapevo proprio chi altri potesse avermelo mandato.
Sfilai il biglietto dalla busta. Raffigurava una biondona
stesa in spiaggia, tutta sorridente, con gli occhi nascosti da
occhialoni neri a farfalla e coi capelli a caschetto
scompigliati da un forte vento. Sul cielo terso sopra di lei, a
lettere bianche e lucide come i suoi denti, c’era scritto:
MALIBÙ, CALIFORNIA.
Il messaggio del biglietto non era granché illuminante:

La comprensione ci prepara al futuro.

Tutto qui. Nessun: Ciao dal caro vecchio amico del quale ti
eri completamente dimenticata. Nessun: Ecco una cosa che
mi farà sempre pensare a te, tanti baci dal tuo ammiratore
segreto; nessun rimando alla sventurata nave del re,
disegnata in copertina, o a Prospero e alla sua isola
incantata. Solo quelle ponderose parole a inchiostro
talmente scuro da sembrare ancora umido.
La comprensione ci prepara al futuro. L’avevo già sentita,
quella frase. Dal papà? Sarebbe stato da lui, dimenticarsi di
firmare. Se il biglietto avesse contenuto un aforisma
sull’etica del lavoro o una massima di Roosevelt, non avrei
avuto dubbi. Ma questo non era il suo genere di consiglio
paterno. Oltretutto, di solito aggiungeva la sua firma anche
ai biglietti dei regali che mi mandava la mamma. Forse
questa frase era un verso di una canzone, o un’ovvietà da
biscottino della fortuna, o magari proveniva da uno di quei
libri New Age che Joanie citava tra il serio e il faceto.
Senonché, se pensavo alla parola «futuro», non la sentivo
pronunciata dalla voce roca di Joanie, ma cantata
sommessamente, in una ninnananna trasognata che avrebbe
dovuto mettermi a mio agio, e che invece mi dava un
profondo senso di nostalgia, di rimpianto.
Forse era una battuta di Prospero? Non aveva la metrica
shakespeariana, eppure sembrava proprio una cosa che
avrebbe potuto dire lui, rivolgendosi al pubblico per il saluto
finale. Sfogliai il libro. Non trovai sottolineature nell’epilogo,
ma ce n’era una nella seconda scena, quella in cui Prospero
racconta a Miranda la fuga di suo fratello da Milano:

È tempo invece
che io dica di più. La tua mano mi aiuti
a deporre questo mantello di magia. Così.
Là, mia Arte, riposa. [...]
Siedi: ora devi sapere di più.

Devi sapere di più. La comprensione ci prepara al futuro. Se


non fosse stato per questa comunanza tematica tra le due
frasi, avrei pensato che la sottolineatura fosse opera del
precedente proprietario del libro. E invece... c’era un nesso
tra le parole di Prospero e il messaggio del mittente. Ma non
sapevo quale.
Inserii la frase del biglietto nel browser del mio cellulare.
Comparvero centinaia di riflessioni sull’educazione e sulla
religione, ma nessuna che la riportasse parola per parola.
Non era una citazione dalla Tempesta. Anzi, a quanto potevo
vedere, non era nemmeno una citazione. Eppure ero
convinta di averla già sentita.
Riposi il libro nella cassettiera e appiccicai il biglietto al
frigorifero, sperando che l’illustrazione mi rinfrescasse la
memoria. Il faccione allegro della donna continuò a
osservarmi mentre pulivo il bancone. Aveva gli occhi coperti,
ma seguiva ogni mia mossa. Ogni volta che alzavo lo
sguardo, mi aspettavo che avesse cambiato espressione.
Ovviamente non era così, ma dopo qualche occhiata ai suoi
capelli scompigliati dal vento e al suo sorriso radioso mi
parve quasi che sapesse qualcosa che io ignoravo.

Ora del tramonto, il nostro appartamento era pronto per


l’inizio dei festeggiamenti. Alcuni – nostri colleghi, compagni
di calcio di Jay e miei amici del college – arrivarono in
anticipo, portando insalate, couscous, pollo e dolci.
Ci sedemmo sul pavimento del salotto, coi calici al fianco e
coi piatti di plastica in grembo. Tutti parlavano
animatamente. Era il genere di festa che preferivo, solo
amici intimi, persone per cui non avevo bisogno di chiedermi
come fossero finite a casa nostra. Io ero seduta tra Jay e il
professore di arte. Jay allenava la squadra di calcio delle
superiori e aveva avuto la cattedra di storia all’inizio di
quell’anno, quando il congedo di maternità della
professoressa Anne era diventato permanente. Già prima che
entrasse nei miei ranghi l’avevo notato in lontananza, sapevo
com’erano fatti i suoi polpacci muscolosi sotto i pantaloncini
di maglia, conoscevo i bruschi stridii del suo fischietto
quando voleva richiamare all’ordine i ragazzi. Aveva
quell’aria da fighetto che normalmente non mi attirava, ma
anche un magnetismo che spingeva le colleghe di tutte le età
a ridacchiare tra loro ogni volta che le salutava, un carisma
così potente che la scuola aveva voluto a tutti i costi
assumerlo in pianta stabile. Gli avevano offerto la cattedra di
storia anche se era laureato in Economia e non aveva mai
insegnato in vita sua. Io avevo il compito di «rodarlo»,
dandogli un numero spropositato di lezioni di storia, di sera
e nel fine settimana, parlandogli dei federalisti e dei
repubblicani jeffersoniani, delle controverse elezioni del
1800, del duello tra Hamilton e Burr. Lui faceva sorrisi
scimmieschi mentre gli spiegavo che i candidati si
presentavano autonomamente e che chiunque fosse arrivato
secondo, indipendentemente dal partito, diventava
vicepresidente. Io lo accusavo di non ascoltarmi e lui
ribatteva: «È adorabile, questa tua passione». A quel punto
ero io a fare un sorriso scimmiesco. E poi un sorriso tira
l’altro, e il resto è storia.
Avevo dato per scontato che sarebbe stata una relazione
ufficiosa, che nei corridoi della scuola ci saremmo salutati
dandoci del lei, come se nessuno dei due avesse visto nudo
l’altro, ma poi la segretezza ci era venuta a noia. Avevo
scoperto che Jay era ben più che un paio di gambe atletiche
e un sorriso accattivante. Parlava del calcio come di una
forma d’arte, una metafora della vita. Conosceva per nome
tutti i suoi – ora nostri – vicini di casa, aiutava la vecchia Mrs
Peters a portare la spesa fino al terzo piano, e usciva con la
cagnolina di Trevor quando lui faceva tardi al lavoro. Era in
stretto contatto coi genitori, non perdeva mai la pazienza
con sua madre, le diceva che gli piacevano le polo che gli
comprava lei, anche se restavano a far polvere nell’armadio,
e appendeva gli insipidi quadri di mammà ai muri di casa
sua... ora casa nostra. Era molto legato alla sorella, che
viveva a pochi isolati da lì e che quella sera stava seduta di
fronte a noi, a civettare con un mio compagno di college e
lanciare occhiatine a me e a Jay, non ancora del tutto
abituata alla nostra relazione.
«Com’è andato l’ultimo giorno?» chiesi a Jay. Non mi
andava di parlare di scuola, ma non avevo ancora imparato
come comportarmi con lui in pubblico: passavamo talmente
tanto tempo da soli che faticavo a trattenermi dal saltargli in
braccio quando c’erano altre persone. Non potevo
pretendere che mettesse in piazza le sue emozioni in modo
imbarazzante.
Jay cominciò a descrivermi la sua ultima giornata di
scuola, un murder party ben congegnato, che probabilmente
gli studenti avevano gradito di più della mia lezione su
Abramo Lincoln. Ecco la differenza tra me e Jay: lui sapeva
conquistarseli. Io sapevo come trasmettere qualcosa cui
magari al momento non davano peso, ma che di lì a pochi
anni sarebbe riaffiorato, o almeno, così speravo. Una pia
illusione su cui si basa gran parte del mestiere d’insegnante.
Jay tese una mano per giocherellare con un mio ricciolo e io
gli baciai una guancia, per saggiare la sensazione di
mostrare affetto davanti ad amici e colleghi. Quel bacetto
era l’equivalente fisico di un aggiornamento della situazione
sentimentale su Facebook: non irreversibile, ma comunque
indelebile.
Intorno alle undici cominciarono a presentarsi gli imbucati
– amici di amici di amici – e Jay li accolse tutti. Batté il
cinque con tizi in berretto da baseball e abbracciò ragazze in
sgargianti canotte attillate, che non avevo mai visto. Non
faticavo a immaginare gli scambi di battute tra lui e quei
marcantoni: commenti sulla lega calcistica del sabato
mattina e piagnistei sull’ultima sconfitta dei Phillies. In
compenso, non avevo idea degli argomenti di conversazione
tra lui e le ragazze. Cercai di essere discreta nel guardarle
mentre gli parlavano. Sua sorella mi sorprese a fissarli e sul
suo volto comparve un sorrisetto inequivocabile.
Via via che gli sconosciuti affollavano il nostro
appartamento, il caldo diventava insostenibile. Qualcuno
accese lo stereo a un volume tale che non si poteva più
parlare, e nemmeno pensare: solo ballare. Io rimasi in piedi
lungo la parete con Jay, a guardare le ochette dai vestiti
sgargianti muoversi agili al ritmo elettronico. Le coppiette si
urtavano, e le loro birre schizzavano sul nostro parquet. Il
corpo di Jay irradiava desiderio, avrei voluto perdermi in lui,
girare l’angolo del salotto per entrare nella nostra tana
privata. Batteva il piede contro lo zoccolo della parete e mi
chiese se mi andava di ballare.
Sgusciammo accanto al gruppo delle ragazze. Colpita
dalle loro movenze disinvolte, tentai d’imitarle, ma la danza
mi rendeva troppo consapevole degli ordini che il mio
cervello impartiva al corpo, e dell’incapacità delle gambe di
eseguirli. Nemmeno Jay era un bravo ballerino, e ridemmo
della nostra goffaggine, avvicinandoci centimetro per
centimetro finché il ritmo della canzone non divenne il
nostro, e il suo desiderio si allineò col mio.
Sentii il cellulare vibrare nella tasca. In altre circostanze
l’avrei ignorato, ma il nostro citofono funzionava quando
voleva lui, nonostante le mie innumerevoli segnalazioni
all’amministratore, e magari c’era qualche mio amico che
non riusciva a entrare. Quando vidi che il display diceva
MAMMA, capii all’istante che c’era qualcosa che non andava.
Ci eravamo sentite quella mattina, lei mi aveva dato la
ricetta delle sue polpette al forno, e io non avevo avuto cuore
di dirle che sarebbero state perle ai porci, coi miei coetanei
birraioli. Era normale che ci telefonassimo più di una volta al
giorno, ma non mi avrebbe mai chiamato durante la festa, se
non fosse successo qualcosa.
Orientai il cellulare verso Jay, per fargli vedere che era
mia madre, e ci parlammo a gesti. Lui incassò la testa tra le
spalle, come per chiedermi se ci fossero problemi. Io
sventagliai una mano per scacciare la preoccupazione e gli
segnalai che sarei uscita. Mi feci largo fino alla porta.
«Cosa succede?» le chiesi, una volta raggiunto il
pianerottolo.
«Scusa se ti disturbo in piena festa.»
«Va tutto bene?» Mi sedetti sulla cima della rampa di
scale.
«Ho pensato che preferissi saperlo. Non mi sembrava
giusto non dirtelo subito, perché mi sono detta...»
«Mamma? Così mi spaventi. Cos’è successo?»
«Ho appena ricevuto una telefonata. Per via di Billy.»
A quel nome, tutto l’alcol che avevo in corpo fece effetto
all’improvviso. Billy. Lo zio Billy. All’improvviso ebbi una
vertigine. Non ricordavo nemmeno più da quanto tempo la
mamma non ne parlava. Né da quanto non pensavo a lui.
Sapevo già cosa stava per dirmi, ma attesi di sentirlo con le
mie orecchie.
«È... È mancato. Oggi pomeriggio», disse, in tono
distratto, come se avesse preso un sedativo. Magari era così.
Aveva una calma innaturale.
Nel mio cervello annebbiato lampeggiò un’immagine: lui
seduto al volante della sua auto dopo avermi riportato a casa
per l’ultima volta. Ripartendo aveva fatto un sorriso, che
però era troppo ampio, inquieto. Provai a ricordare
un’occasione più allegra, l’espressione soddisfatta che aveva
quel giorno quando mi aveva regalato il cane, o quella di
quando risolvevo uno dei suoi enigmi, ma continuavo a
vedere il sorriso sforzato di quando mi aveva rivolto l’ultimo
cenno di saluto. Non era riuscito a celarmi la sua tristezza.
«Oh, mamma...» Non sapevo cosa dire. Non avevo idea di
come si sentisse. Non si parlavano da quindici anni, ma
doveva essere molto addolorata.
«Ti lascio tornare alla tua serata.»
«No, mamma, è solo una festa.»
«Vai, divertiti. Ci sentiamo in un altro momento,
d’accordo?»
«Mamma...» dissi, prima che lei chiudesse la telefonata.
«Mi dispiace tanto.»
«Dispiace anche a me.»
Rimasi sul pianerottolo a guardare il suo numero
lampeggiare sul display e poi scomparire. Era una nottata
soffocante. Dopo nove anni a Philadelphia, ancora non mi ero
abituata all’afa che durava anche dopo il tramonto. Ripensai
all’ultima volta che avevamo parlato di Billy: mia madre mi
aveva detto che non sapeva se si sarebbero mai riconciliati.
Ebbene, non l’avevano mai fatto. Dopo allora, mi era capitato
di chiederle di Billy, ma lei l’aveva trasformato in uno
spettro, facendolo sparire dalle storie della sua infanzia e
smettendo di parlare del Temescal Canyon, dove facevamo
escursioni tutti e tre assieme, o delle pittoresche spiagge di
Malibù, le preferite di Billy. Alla fine avevo smesso di fare
domande. Ora Billy era morto, ma già da anni non era più tra
noi. Eppure ero molto addolorata. E si capiva benissimo che
lo era anche mia madre.
Il pianerottolo vibrò sotto i passi tonanti di Jay. Mi faceva
piacere che fosse venuto a cercarmi, ma non ero pronta a
condividere quel momento con lui.
«Ehi», mi disse, con quel suo sorriso che mi faceva
perdere l’equilibrio. Solo che stavolta a darmi la vertigine
era la notizia appena ricevuta, il fatto di ripensare a Billy
dopo tanto tempo. E il suo sorriso si spense. Si appoggiò allo
stipite, in una posa da catalogo di attrezzature da
campeggio. «C’è qualcosa che non va?»
«È morto mio zio.»
Jay si sedette sul gradino e mi strinse a sé. «Cazzo.
Mandiamo tutti a casa?»
«No, non voglio che lo sappiano. È solo che... Non lo
vedevo da – boh? – quindici anni. Mi sembra incredibile che
sia morto.» Anche a dirlo ad alta voce, non riuscivo a
capacitarmene.
«Potrei far partire l’antincendio piazzando un fiammifero
sotto gli spruzzatori. Così scappano tutti.»
Mi costrinsi a ridere. «Non ce li abbiamo, gli spruzzatori.»
«Ah. Be’, allora do fuoco alle immondizie. Niente di
pericoloso.»
Il mio sorriso si fece teso. «Per favore, non ridurre in
cenere casa nostra. No, sul serio, per adesso preferirei non
pensarci.»
Jay non sembrava convinto, ma mi fece alzare e mi
condusse verso la porta. Prima di entrare, mi abbracciò di
nuovo. «Una parola e li faccio sparire tutti.»
Ma, non appena fummo di nuovo in casa, un suo amico lo
attirò in un gruppuscolo che stava per passarsi una canna.
Le pareti si stavano coprendo di umidità. Il divano e il
tavolino erano stati spinti contro la parete per fare spazio
alle danze. Scorgendomi dall’estremità opposta del salotto,
la mia ex coinquilina mi trascinò in un volteggio di corpi che
si appaiavano e membra che s’intrecciavano dondolandosi
con la musica.
Non riuscivo a smettere di pensare a Billy, alle cacce al
tesoro che mi organizzava in giardino, alle nostre avventure
nei parchi e sulle spiagge di Los Angeles, ai regali che mi
portava dall’estero: collane di perline dal Sudamerica,
gingilli elettronici dal Giappone. Chissà che fine avevano
fatto tutte quelle cose? Erano ancora in casa dei miei, o la
mamma le aveva gettate via?
Le braccia di Jay ricomparvero intorno ai miei fianchi,
cullando il mio corpo quasi a ritmo. Tentai di uniformarmi ai
suoi movimenti, ma continuavo a pensare alle parole di mia
madre – Dispiace anche a me – e alla fretta con cui aveva
concluso la telefonata, prima di rivelare le profondità del suo
dolore.
Così come era comparso, Jay scomparve di nuovo, per
accorrere all’altro capo del soggiorno, dove si era rotto
qualcosa. Le mie membra si appesantirono mentre imitavano
le movenze degli altri intorno a me. Jay si chinò a raccogliere
un oggetto e reggendolo delicatamente lo portò in camera da
letto. Alla fine della canzone, le coppiette continuarono a
ballare al ritmo dei dialoghi sbronzi, in attesa dell’attacco
del brano successivo. Chiusi gli occhi e rividi Billy, il suo
sorriso teso. Com’è che mi chiamava? La mia bambina
speciale? No: la mia bambina preferita. Ecco la mia bambina
preferita, diceva, per poi involarmi verso una delle sue
avventure.
La musica riprese. Tentai di lasciarmi trascinare dal ritmo,
ma ero persa nei pensieri su Billy, sulle sue lezioni di
geologia, di biologia e teoria evoluzionistica mascherate da
avventure. Quasi tutto ciò che sapevo sul mondo –
trasformazioni, collisioni, sviluppi, movimenti del pianeta che
influivano sulla vita umana – me l’aveva insegnato lui. Smisi
di muovermi e riaprii gli occhi. Ma certo! Come avevo fatto a
non accorgermene? Le mie gambe sembravano fatte di
piombo, ma le costrinsi a mettersi in movimento e mi feci
largo tra le coppiette volteggianti fino a raggiungere la
cucina. La biondona sul biglietto appiccicato al frigorifero
continuava a sorridermi; ma ora, quello che sapeva lei, lo
sapevo anch’io. La comprensione ci prepara al futuro. Erano
parole di Billy. Me le aveva dette lui, dopo il mio primo
terremoto.
3

Al mattino, quello che restava della festa sembrava la scena


di un film: bicchieri sparsi per il pavimento del salotto, un
borsalino posato sul bracciolo del divano, il ronzio degli
altoparlanti dello stereo lasciato acceso anche dopo che era
finita la musica. Faceva già caldo, l’aria umida conservava
l’afrore della birra versata e dei mozziconi di sigaretta.
«C’è puzza di confraternita.» Jay tossì.
«Mah, non saprei.» All’University of Pennsylvania c’erano
diverse confraternite, ma io preferivo un calice di vino con la
redazione della History Review e i giochi di bevute sui
presidenti e sulle capitali. «La solita nerd», aveva dichiarato
fieramente Jay, quando gli avevo descritto il tipo di feste
universitarie che prediligevo.
«Dai, nerdona, ti offro il brunch.»
Andammo a piedi al locale di cui eravamo subito diventati
clienti abituali. I tavoli lungo il marciapiede erano strapieni,
ma la sala interna, più buia e fresca, era semideserta.
Jay ordinò due Bloody Mary. La vista di quel liquido rosso
punteggiato di pepe fu per me un pugno allo stomaco. In
pochi secondi, lui tracannò il suo e non protestò quando gli
misi davanti il mio. Nonostante la notizia della morte di Billy
e il dolore pulsante alla testa, dato da una notte di troppa
birra e troppo poco sonno, non riuscivo a scuotermi di dosso
il senso di attesa: non sarebbe stato affatto inverosimile se,
prima di morire, lo zio mi avesse spedito qualcosa. E, se
c’era un indizio lasciato da lui, potevo star certa che ce ne
fossero altri. Presi il biglietto dalla mia borsa e lo feci
scivolare sul tavolo. Jay si ripulì le mani prima di sfilarlo con
cura dalla busta.
«L’ho ricevuto ieri da mio zio», gli spiegai.
«E vorrebbe dire...?» mi chiese lui, leggendo l’interno del
biglietto.
«È una cosa che mi ha detto dopo il mio primo terremoto.»
Quella serata era uno dei miei primi ricordi nitidi. I miei
genitori erano usciti e mi avevano lasciato con Billy.
Eravamo rimasti svegli fino a tardi, a guardare Nel
fantastico mondo di Oz. Non mi avevano dato il permesso di
vedere quel film, ma a Billy non l’avevo detto, e lui non si era
domandato se le scene di elettroshock e di una Oz
demoniaca fossero adatte a una bambina di quattro anni. Fin
dalle prime note della minacciosa colonna sonora, avevo
capito che quella notte non avrei dormito. Quando Billy mi
aveva messo a letto, non gli avevo detto di lasciare una luce
accesa, anche perché i faretti proiettavano sulle pareti le
forme mostruose del Re degli Gnomi. Mi giravo e rigiravo, e
dopo un po’ il pavimento si era messo a tremare, come pure
gli oggetti sulle mensole. Il Re degli Gnomi si era
impossessato della mia camera, trasformando i muri in
demoni di pietra pronti a divorarmi. Avevo lanciato un grido,
eppure la stanza non aveva smesso di scuotersi, perciò avevo
strillato più forte. Quando Billy aveva aperto la porta, le
mensole si erano fermate, ma nelle ombre alle pareti c’erano
ancora i diavoli del Re degli Gnomi.
Billy si era seduto sul bordo del letto ad accarezzarmi la
schiena, spiegandomi che era stato solo un piccolo
terremoto. Aveva provato ad accendere la luce, ma non c’era
corrente. Stava per uscire dalla camera, quando gli avevo
gridato di rimanere. «Torno subito, devo solo trovare una
torcia.»
L’avevo pregato di non andare, così lui aveva abbandonato
la sua caccia alla torcia e si era steso accanto a me sul letto.
Ogni volta che stavo per prendere sonno lo sentivo scivolare
via e lo imploravo di restare. Alla fine aveva smesso di
provare ad andarsene e si era addormentato al mio fianco.
Al mattino, il sole aveva inondato la camera e Billy era
sparito. Avevo cercato i segni del terremoto. Aveva ragione
mio zio: era stato piccolo. Nessun oggetto era stato scosso al
punto di spostarsi o rompersi.
Un profumo zuccheroso mi aveva condotto in cucina, dove
Billy stava versando in padella l’impasto dei pancake, che
mia madre rigirava.
«Guarda! Questa sembra proprio un uccellino», le stava
dicendo Billy.
«Mah, se fossi in te, mi terrei il lavoro che ho», l’aveva
canzonato lei.
«Be’? Pensi di saper fare di meglio?»
«Cos’è, una sfida?»
«Accomodati, sorella.»
Così a versare l’impasto si era messa lei, e Billy aveva riso
nel vedere la sua creazione.
«Cosa fate?» avevo chiesto io.
Loro due si erano voltati contemporaneamente,
sorridendo. «Prepariamo la colazione alla nostra bambina
preferita», aveva risposto Billy, sollevandomi e
trasportandomi a tavola.
«La nostra bambina coraggiosa. Il tuo primo terremoto!»
La mamma mi aveva baciato la testa e mi aveva piazzato
davanti un piattino di pancake. Sulla prima, aveva inciso
nell’impasto le parole HO VINTO IO.
Più tardi, Billy aveva bussato alla porta della mia camera,
portandomi un indovinello.
«’Posso essere preceduto da ”auto-” o seguito da
”divertimenti”. Posso essere nazionale o di quartiere’»,
aveva letto, svolgendo un rotolino di carta.
«Eh?» avevo detto io, troppo in fretta.
«Secondo me lo sai, se ci pensi bene.»
Lungo il tragitto avevo tentato di farmi dare la soluzione.
«Dov’è che siamo andati, al tuo compleanno?» mi aveva
chiesto infine, guardandomi dallo specchietto retrovisore.
«A Disneyland.»
«E cos’è Disneyland? Un... Comincia per P. Niente idee?
Un par...»
«Parco!» avevo gridato io.
Billy era entrato nell’autoparco dei Malibu Bluffs.
Appiccicata al cartello del parco c’era una busta col mio
nome. Dentro c’era un altro indovinello: È un frutto e anche
un colore.
«Eh?» avevo chiesto a Billy.
«Sarà la mela?»
«No!»
«Sarà la pera?»
«No!»
«E allora cosa sarà?»
«L’arancio!» avevo gridato io.
E infatti sul tavolo da picnic più vicino a noi c’era
un’arancia. Sotto, avevo trovato un temperino e un foglietto
che m’invitava a tagliare la scorza a grossi pezzi.
Reggendomi la mano che stringeva il coltellino, Billy mi
aveva aiutato in questa nuova fase dell’enigma. Poi aveva
preso tra le dita un pezzo di scorza dalla strana forma.
«Mettiamo che ognuno di questi sia una placca tettonica,
cioè uno di quei piastroni che formano la crosta terrestre.»
Poi aveva preso il frutto sbucciato. «Sotto le placche c’è il
mantello, superiore e inferiore. Quello inferiore è fluido,
come il succo di quest’arancia. E guarda un po’...» Dal
centro della raggiera degli spicchi aveva estratto un foglietto
arrotolato, sul quale c’era l’indizio successivo.

Sono un primo, ma non sono il riso. Ti piaccio


soprattutto quando sono fatta per giocarci.

Avevo seguito lo sguardo di Billy fino all’estremità opposta


della zona picnic. E lì, sotto una panchina, c’era un
secchiello di pasta da modellismo. Assieme l’avevamo
aperto. Sotto il coperchio, sopra la massa informe azzurra,
c’era una lista di cose da fare.
Fase 1: appiattisci la pasta fino a formare un disco.
Fase 2: avvolgila intorno all’arancia.

Ed ecco trasformato il frutto in un globo azzurro.


«Questo è il mantello superiore», mi aveva spiegato Billy.

Fase 3: appiccica la scorza alla pasta.

I pezzi aderivano, ma senza collimare con precisione. Billy


ne aveva avvicinati due. «Le placche si spostano di continuo,
ma sono lente, lentissime. Noi ci accorgiamo del loro
movimento solo quando provocano un terremoto.» Tra i due
pezzi di scorza era spuntato un riccioletto di pasta azzurra.
«Quando convergono in questo modo, formano montagne e
vulcani.» Poi aveva distanziato i due pezzi. «Quando invece
divergono, creano strappi, che sulla terra asciutta formano
laghi e fiumi.» Poi li aveva riavvicinati fino a farli combaciare
in un incastro perfetto. «Siccome hanno i margini
frastagliati, può capitare che restino bloccate lì, l’una contro
l’altra. In quel caso, formano una cosa che si chiama ’faglia’.
Ecco, lungo le faglie c’è una tensione tremenda.» Aveva
continuato a spingere i due pezzi di scorza, fino a
sovrapporne i margini. «E, quando la tensione è troppa,
s’infilano l’una sotto l’altra. Ecco, questo è uno dei modi in
cui nasce un terremoto.»
La Fase 4, l’ultima, prevedeva di salire fino al punto più
alto che riuscissimo a trovare. Billy mi aveva condotto in
cima a un pendio scosceso. Da lassù, dall’altro lato della
Pacific Coast Highway, si vedeva la Pepperdine University. E
lì, con un dito puntato dritto come la canna di un fucile, mi
aveva spiegato che, nel corso del tempo, l’università si era
sollevata e spostata verso ovest rispetto al terreno su cui ci
trovavamo noi.
«È qui che è nato il terremoto?» gli avevo chiesto.
«Lungo questa faglia.»
«Quindi potrebbe capitarne uno proprio qui?» Mi stavo già
preparando al peggio.
Billy aveva riso. «In questi giorni potrebbe esserci qualche
scossa di assestamento, ma non sarà forte come il terremoto
di stanotte.» Mi aveva preso per le spalle, guardandomi negli
occhi. «Non possiamo impedire alla terra di tremare, ma non
devi avere paura: dopo ogni terremoto, noi sismologi
raccogliamo dati sui suoi effetti, e li usiamo in modo che le
case e i ponti possano essere resi più solidi. Così in futuro ci
saranno meno danni.»
«Quindi i terremoti sono utili?» gli avevo chiesto.
«In un certo senso, sì. Ci servono perché così possiamo
comprenderli. E la comprensione ci prepara al futuro.
Ricordatelo. Questo è l’unico modo per essere più sicuri.»
«Mi ricordo che ho passato tutta la settimana a sperare in
una scossa di assestamento, ma non ce ne sono state», dissi
a Jay. «Billy era fatto così. Trasformava ogni cosa in
un’avventura.»
Jay mi restituì il biglietto. «Non capisco. Come mai te lo
ricorda adesso che è morto?» Si pulì gli angoli della bocca e,
notando che non avevo quasi toccato cibo, indicò le mie
uova.
Io annuii, scambiando il mio piatto pieno col suo, vuoto. «È
un’altra delle sue avventure.» Presi dalla borsa la copia della
Tempesta e l’aprii all’atto I, scena 2, dove Prospero racconta
a Miranda le vicende del suo passato. Scorsi con l’indice la
sottolineatura: Siedi: ora devi sapere di più. «Questo è
l’unico passaggio messo in evidenza.» Gli spiegai la storia di
Prospero, del crudele fratello Antonio che l’aveva tradito,
usurpandone il ducato mentre lui era assorto nei suoi studi
di magia. Con l’aiuto del re, Antonio aveva esiliato in mare
Prospero e la giovane Miranda.
«Ti hanno chiamato come un personaggio di
Shakespeare?» disse Jay.
«Non lo sapevi?»
«La tempesta non è esattamente la mia specialità.» Sfogliò
il libro come se fosse stato un baedeker che gli parlava di
me. «E, insomma, cos’è che vuole comunicarti tuo zio?»
«Quando avevo dodici anni, lui e mia madre hanno avuto
una lite furiosa. Lei gli aveva fatto un torto, o almeno, lui
credeva così, non so. Credo che si stia servendo di Prospero
per spiegarmi come sono andate le cose.»
«Miranda... Quando muore una persona cara, si è un po’
frastornati.»
«Cosa vorresti dire?» Quelle parole avevano un tono
difensivo di cui mi pentii subito.
«Che forse stai tentando di dare un senso alla morte di tuo
zio.» Jay tese una mano e mi accarezzò una guancia. Tenne
le labbra strette, in un’espressione di compatimento.
«Conosco mio zio», insistetti. Ma era vero? Non lo vedevo
da quindici anni. Non sapevo niente di come aveva vissuto da
allora, se avesse messo su famiglia, se avesse continuato ad
abitare a Pasadena. Però quel biglietto... E La tempesta...
Sapevo che mi stava conducendo da qualche parte.
La cameriera portò il conto e Jay prese di tasca qualche
banconota spiegazzata fino a raggiungere la cifra necessaria.
Fuori, l’umidità c’investì. Ci fermammo sulla soglia ad
aspettare che gli occhi si abituassero alla luce abbagliante
del pomeriggio.
«Come mai avevano litigato, tua madre e tuo zio?» mi
chiese Jay.
«Lui non si era presentato a una mia festa di compleanno,
ma c’era dell’altro. Non so cosa.»
«Tua madre non te l’ha mai raccontato?»
«Billy era diventato una cosa di cui non bisognava parlare.
Era come se non fosse mai esistito.»
«Che tristezza.»
«Funzionava così.» Ogni famiglia ha i suoi segreti. Il
nostro era Billy. Che fosse una cosa triste o no, non faceva
differenza.
«Le hai detto del biglietto?» Il suo tono paternalistico non
mi piaceva.
«L’avrei solo turbata.»
«Dovresti.»
«Per piacere, non insegnarmi come trattare mia madre.
L’hai vista solo una volta.»
Durante l’ultima visita dei miei genitori a Philadelphia, ci
eravamo messi a tavola tutti e quattro. Davanti ai piattini,
Jay e mio padre avevano parlato di baseball, mentre mia
madre aveva rinnovellato i fasti del gruppo rock che aveva
formato con le amiche di South Street negli anni ’70. Dopo
cena, passeggiando sugli acciottolati della Old City, mia
madre aveva intonato a squarciagola il presunto cavallo di
battaglia del suo complessino, un’esecuzione di rara
intensità, resa ancora più audace dai due bourbon lisci che
aveva ordinato per impressionare Jay. La sua voce era
impastata dall’alcol, eppure ancora abbastanza setosa da
darmi la pelle d’oca. Tutti noi – e anche alcuni passanti – ci
eravamo fermati ad applaudirla. Jay credeva che mia madre
fosse così: una donna impulsiva, che trincava e cantava
quando le pareva. Ma quella non era lei, era solo un
personaggio da interpretare per stare simpatica a lui.
Jay piantò un piede a terra, palesemente turbato dalle mie
parole. «Non intendevo questo.»
Mi trasse a sé, e io ricambiai l’abbraccio, sforzandomi
d’ignorare la pungente frustrazione per il fatto che non
proseguissimo la lite.
Cominciai a seguirlo verso casa, ma non ero pronta a
rientrare in quell’appartamento puzzolente e lurido, così gli
dissi che volevo fare una passeggiata da sola, e lui finse di
non esserci rimasto male.
All’incrocio con Walnut Street, svoltai verso il fiume. In
quell’aria umida e calda, goccioline di sudore mi correvano
giù per le cosce, raccogliendosi dietro le ginocchia. Mi
fermai sulle gradinate di Great Plaza a guardare la gente che
faceva jogging o correva coi rollerblade sul lungofiume.
Presi il cellulare dalla borsa e digitai nel riquadro di ricerca:
Billy Silver, Los Angeles, sismologo, necrologio. Non mi
venivano in mente altre parole-chiave. Furono sufficienti a
trovare la pagina del Los Feliz Ledger, che quella mattina
aveva pubblicato l’annuncio della morte di mio zio:
Losangeleno DOC, sismologo e cacciatore di terremoti,
titolare della libreria Prospero Books, una vera istituzione
nel suo quartiere. Il tutto si concludeva con una mesta
dichiarazione del gestore, che prometteva di tenere vivo il
retaggio di Billy tramite la libreria, e data e luogo del
funerale: martedì pomeriggio al Forest Lawn Memorial Park.
Prospero Books. Avrei dovuto capirlo già nel momento in
cui mi ero resa conto che la copia della Tempesta proveniva
da Billy. Ovviamente qualunque riferimento a quell’opera
alludeva anche alla libreria «dove i libri contano più di un
ducato», dove lui mi aveva portato innumerevoli pomeriggi
quand’ero bambina, dicendomi di scegliere un libro, un libro
qualunque. In qualche modo, la copia della Tempesta che
Billy mi aveva spedito aveva a che fare con la sua libreria.
La presi dalla borsa e rilessi la storia che Prospero
racconta a sua figlia, che è stato Antonio a tradirli. Miranda
deve saperlo, perché solo così capirà il motivo per cui suo
padre ha scatenato la tempesta che ha fatto naufragare
Antonio sull’isola. Da anni Billy aveva smesso di mandarmi i
suoi messaggi in codice, ma ero ancora capace di decifrarli.
Siedi: ora devi sapere di più: queste erano le parole di
Prospero. E quelle di Billy erano: La comprensione ci
prepara al futuro. Allo stesso modo del mago-duca, anche
mio zio mi stava parlando di un tradimento, dell’evento che
aveva causato il suo esilio dalla nostra famiglia. E anche lui
aveva in programma di ritornare, non grazie a incantesimi,
ma con la magia dei suoi enigmi e delle avventure che mi
organizzava quand’ero piccola. Ora non ero più una
bambina, eppure provai lo stesso brivido di eccitazione delle
cacce al tesoro di Billy, di quando il primo indizio conduceva
a un secondo. Stavolta l’entusiasmo aveva anche una punta
di amarezza: questo sarebbe stato l’ultimo contatto tra Billy
e me, l’ultima occasione per scoprire la storia che mia madre
non voleva raccontarmi, la verità su ciò che li aveva divisi.
Ero praticamente libera da impegni per i successivi due mesi
e mezzo, perciò prenotai un volo per lunedì, per andare al
funerale. Non potevo mancare. E non solo perché volevo
trovare l’indizio successivo, ma anche perché era giusto così.
Gli volevo bene, da bambina. Al suo funerale, ci sarei stata.
Avrei reso onore al nostro affetto di un tempo.
Steso diagonalmente sul nostro letto, Jay mi guardò
mettere in valigia l’intero guardaroba estivo. «Ti serve
proprio tutto quel bagaglio?»
Chiusi la cerniera e balzai sul letto accanto a lui. «Se non
ti conoscessi, penserei che ti mancherò.»
«Ma sì che mi mancherai.» Rotolò fino a piazzarsi sopra di
me, con la faccia talmente vicina alla mia che riuscivo a
vedere i puntini della ricrescita della barba lungo la
mandibola.
«Starò via solo un paio di giorni.» Avevo preso un biglietto
di sola andata ma, da quando mi ero trasferita a
Philadelphia, non avevo mai passato un’intera settimana a
Los Angeles. Se ci avevo visto giusto – cioè se Billy mi aveva
lasciato un altro indizio – mi sarebbero bastati pochi giorni
per scoprire il segreto che lui voleva comunicarmi.
«Sei sicura di non volere che ti accompagni al funerale?»
«La prossima settimana hai gli allenamenti.»
«È solo calcio.»
«Solo calcio? Chi sei? Cos’hai fatto al mio ragazzo?» Non
mi ero ancora del tutto abituata a sentirmi pronunciare
quella parola.
Lui mi passò una mano tra i capelli in un modo che non mi
piacque, scompigliandomi i riccioli. «Non sei obbligata ad
andare da sola.»
«Sono solo pochi giorni», dissi io, scuotendo la testa per
liberarla dal suo tocco.
Lui insistette per accompagnarmi in macchina
all’aeroporto, anche se dovette servirsi di un car-sharing,
che costò perfino più del taxi. Si fermò davanti al terminal,
scese e aprì il bagagliaio. «Mi chiami, quando atterri?» mi
chiese, posando il mio trolley sul marciapiede. Mi aspettavo
che mi pregasse di tornare presto, e invece disse: «Prenditi
tutto il tempo che ti serve. Se torni subito qui, ti sentirai in
colpa per non essere rimasta con la tua famiglia».
«Non ti facevo così sentimentale.»
Jay si voltò, palesemente offeso, e mi venne la tentazione
di canzonarlo per la sua sensibilità, ma alla fine lo baciai,
concentrandomi solo su di lui, per lasciargli qualcosa cui
aggrapparsi nei giorni in cui saremmo rimasti separati.

Durante il volo, meditai su cosa dire a mia madre riguardo


alla Tempesta e all’indizio che Billy mi aveva mandato.
Quando avevo annunciato che al funerale ci sarei stata
anch’io, lei mi aveva chiesto: «Perché?» Aveva un tono
talmente incredulo, talmente sbigottito, che non avevo
saputo risponderle.
«Tu non vai?» le avevo chiesto.
«Dovrei?»
Be’, è il tuo unico fratello, avevo pensato. «Ci vado anche
da sola.»
«Sì, sì, va be’», aveva detto lei, con la stessa gelida
indifferenza dei miei alunni.
Se non l’aveva perdonato neppure da morto, se non era
disposta neppure a rendere omaggio all’affetto di un tempo,
come potevo dirle che Billy mi aveva contattato? Il brutto era
che il messaggio di mio zio, qualunque esso fosse,
riguardava qualcosa che mia madre non voleva farmi sapere.
Mi augurai solo di avere le parole giuste da dirle non appena
l’avessi vista di persona.
Al recupero bagagli mi attendeva mio padre, con un
cartello che diceva: PROFESSORESSA MIRANDA. Titolo e
nome di battesimo, com’era consuetudine nella scuola
quacchera in cui insegnavo: professoressa Anne, professor
Tom, professor Jay. Già, Jay. Gli avevo mandato un
messaggio subito dopo l’atterraggio. Lui mi aveva risposto
con l’emoji di un bacio. Detestavo la scioltezza e la
genericità di quei simboli, ma mi piaceva che Jay fosse
disposto a fare lo smielato con me.
Il papà era riluttante a dare abbracci. Sapevo che non
dovevo prendermela: l’unica persona cui riuscisse a
dimostrare fisicamente affetto senza imbarazzi era la
mamma. Li sorprendevo a ballare un lento in cucina mentre
lei cantava una vecchia canzone folk, oppure lo vedevo
sfiorarle distrattamente un piede mentre guardavano un film
di Nora Ephron. Con tutti gli altri si limitava a una stretta di
mano. A me dava perlomeno un abbraccio, ma sempre con
un certo ritegno.
«La mamma dov’è?» gli chiesi, mentre scioglieva
l’abbraccio sghembo. Ogni volta che tornavo a casa, i suoi
capelli erano più sale e meno pepe, la pelle olivastra era più
coriacea, gli occhi azzurri erano più grigi. Mi veniva voglia di
afferrargli una mano e implorarlo di smettere d’invecchiare.
«È andata a letto presto. Dice che ti saluterà domattina.»
Mia madre non perdeva mai l’occasione di venire a
prendermi all’aeroporto. Si faceva largo tra la folla di autisti
di limousine e famiglie multigenerazionali in attesa al
recupero bagagli, in modo che la sua faccia fosse la prima
che vedevo.
«Come sta?»
Mio padre prese il trolley e lo trainò verso l’uscita. «La
conosci. Fa la dura, ma per lei è stato un brutto colpo,
peggio di quanto non si aspettasse.»
Fuori dal terminal degli arrivi, l’aria era greve di gas di
scarico e fumo di sigaretta. Le vetture scattavano le une
verso le altre, tentando di entrare e uscire da anelli di
traffico immobile. Solo alcune palme in lontananza facevano
capire che eravamo a Los Angeles, non in un aeroporto del
Terzo Mondo.
Mio padre sfilò l’auto dal parcheggio a sosta breve e
s’immise nell’anello esterno. «Chi ha vinto la diatriba
Stanton, quest’anno?»
Concludevo ogni anno scolastico allo stesso modo, con la
morte di Lincoln. Pochi istanti dopo la morte del presidente,
il suo amico Edwin Stanton aveva commentato: Now he
belongs to the ages. Oppure to the angels? Il medico di
Lincoln aveva capito ages, mentre il segretario aveva sentito
angels. Dunque, qual era la citazione giusta? La frase di
Stanton consegnava Lincoln alla storia o alle schiere
angeliche? I miei alunni valutavano ognuna delle due
possibilità, prendendo una posizione su quali fossero le vere
parole di Stanton, ma a conti fatti non esisteva una risposta
esatta.
«L’enigma è rimasto tale», dissi al papà. Alla classe
spiegavo che bisogna lasciare aperte varie possibilità
d’interpretazione degli eventi storici, e scegliere quella più
adatta a noi, oggi. «Credo che qualcuno di loro abbia capito.
O almeno, me lo auguro.»
«Più di così non puoi fare. Sta a loro impegnarsi nell’aver
cura del passato.» Inchiodò per non finire addosso a un
autobus della FlyAway che ci stava tagliando la strada.
«Ti ricordi quando Billy è venuto da noi in piena notte?»
«Certo.» Era concentratissimo sull’autobus, che
pretendeva d’infilarsi nel microscopico spazio tra noi e l’auto
davanti.
«La mamma me ne avrà sicuramente parlato, ma non
ricordo proprio perché avessero litigato.»
«Mah?» Ora ci passò davanti anche un SUV. Il papà suonò
il clacson. «Muovetevi!»
«Nel senso che non sai cos’era successo?»
«So solo che Billy si è presentato alla porta, ubriaco,
dicendo a tua madre che non voleva più parlare con lei.»
Insinuandosi tra una vettura e l’altra, imboccò Sepulveda
Boulevard, dove il traffico era già più scorrevole. «E poi ti ha
comprato quel cagnaccio.»
«Ma no che non era ubriaco.» Però poi ripensai al rossore
in volto, agli occhi lucidi. «O sì?»
Il papà svoltò in Ocean Park Boulevard, dove l’aria era
sempre più fresca e salata via via che ci si avvicinava
all’oceano. Abbassai il finestrino e respirai a pieni polmoni.
Ogni volta che tornavo a Los Angeles, mi sembrava sempre
più la città dei miei genitori, un posto dove avevo trascorso
un lungo periodo senza però appartenervi davvero. Non
potevo certo dirlo a mia madre, che attendeva il giorno in cui
anch’io – come lei – sarei tornata a stare in California.
Neanche per sogno. Non mi andava d’insegnare in una
classe di figli di attori e musicisti, registi e produttori
televisivi. Non volevo fare la professoressa di storia
americana in uno Stato che era entrato nell’Unione solo col
Compromesso del 1850. Non ero una losangelena, non avevo
un’anima californiana. Per me, la cosa più vicina alla
nostalgia di casa era l’odore del mare.
Il papà si fermò a un semaforo. «Senti. Non voglio
rovinare il tuo ricordo di lui, ma eri troppo giovane per
accorgerti di certi suoi... lati.»
«In che senso?»
«Niente. Non avrei dovuto dirtelo.»
«E dai, non fare così. Quali lati?»
Uscì da Ocean Park Boulevard ed entrò nel nostro
quartiere. Contemplai il familiare scenario della strada
tranquilla. Conoscevo i colori di tutte le case che
oltrepassavamo, anche se apparivano tutte grigie, nella luce
pallida della sera. Los Angeles non era mai davvero buia,
neppure a tarda notte.
«Capisco che la morte di Billy faccia sorgere parecchie
domande, ma non mi sento in diritto di parlarne per conto di
tua madre.»
«Non è quello che ti ho chiesto.»
«È il suo passato.»
«Il nostro.»
Imboccò il vialetto e la ghiaia scricchiolò sotto gli
pneumatici. Le luci di casa erano spente, tranne quella della
veranda, nel cui bagliore svolazzavano falene.
«Sta a lei decidere cosa raccontarti.» Scese dall’auto per
prendere la mia valigia.
Lo guardai dallo specchietto retrovisore finché non venne
oscurato dallo sportello del bagagliaio. Un attimo prima che
venisse nascosto alla mia vista, nel suo viso avevo colto
qualcosa, un’espressione che su di lui non avevo mai visto, e
che somigliava molto alla paura.
4

Mia madre era già in cucina, quando scesi di sotto in cerca


di un po’ di caffè. I muffin ai mirtilli si stavano raffreddando
sull’isola che divideva la cucina dalla sala da pranzo e dal
soggiorno. Sapevo che pure il frigorifero era strapieno di
cose che lei ricordava che mi piacevano quand’ero ragazza:
crema Cool Whip, fragole, mortadella, latte al cioccolato...
cibi – se così li si può chiamare – che non mangiavo da anni.
«Dove sono gli altri venti ospiti?»
«Miranda!» Mia madre lasciò cadere i guanti da forno e
mi corse incontro. Erano le sette del mattino, ma era già in
pantaloni neri e camicetta corallo, coi riccioli che le
incorniciavano perfettamente il viso, gli occhi evidenziati dal
mascara e dall’ombretto bruno.
«Mi dispiace tanto, mamma.»
Se il papà era riluttante a dare abbracci, mia madre ne
dava anche per lui. Ogni volta mi stringeva come se avesse
tutta l’intenzione di non lasciarmi più andare via. «Sto
bene», mi disse, come per convincere se stessa.
«Posso fare qualcosa?»
Lei indicò il tavolo. «Sederti.» Mi servì un muffin e una
tazza di caffè, come se fosse stata la mia cameriera. Poi si
sedette di fronte a me e mi guardò dividere in due il muffin,
che sprigionò vapore. «È bello averti a casa.» Tese una mano
per scostarmi dalla fronte un ricciolo scompigliato.
«Hai cambiato idea sul funerale?» le chiesi con
noncuranza, sbocconcellando il muffin. «Potrebbe essere un
modo per chiudere il capitolo.»
«L’ho già chiuso anni fa.» Si alzò, andò all’acquaio e
cominciò a lavare la teglia sagomata.
Finii la colazione e le portai il piatto vuoto, piazzandomi
vicinissima, come piaceva a lei. «Non vorrei che poi
rimpiangessi di non esserci andata.»
Chiuse il rubinetto e mi posò sulla guancia una mano
fredda e bagnata. «Come ho fatto ad avere una figlia così
dolce?» Poi si accinse a lavare l’impastatrice. «Davvero,
tesoro, sto bene.»

Forest Lawn era a mezz’ora di macchina da casa dei miei,


ma partii con un anticipo di quindici minuti, per ogni
evenienza. Mi feci prestare la loro auto e dal vialetto li
salutai agitando la mano. Appena prima d’imboccare la
strada, abbassai il finestrino. «Non riesco proprio a
convincerti a venire anche tu?»
«Miranda, vai», disse il papà, con troppa energia.
«Ci vediamo quando torni», aggiunse la mamma.
Mentre facevo retromarcia la osservai, aspettandomi che
una crepa nella sua facciata rivelasse il dolore che copriva
con fondotinta e fard. Agitò la mano per incoraggiarmi a
partire, come se mi fossi fatta bella per il ballo della scuola,
anziché per il funerale del suo unico fratello.
A Forest Lawn, il cancello in ferro battuto faceva pensare
a un esclusivo Country Club della East Coast, anziché a un
cimitero. Pur essendo partita in anticipo, ero arrivata in
ritardo. Di ventidue minuti, per la precisione, che sono
considerati un ritardo perfino a Los Angeles, dove il traffico
è talmente intasato che ogni cosa comincia dieci minuti dopo
l’orario stabilito.
«Il funerale della famiglia Silver?» chiesi.
Il guardiano puntò un dito lungo Cathedral Drive, verso
una collinetta all’estremità opposta del cimitero, lontana dal
settore più elitario, dove c’erano le tombe delle celebrità.
Intorno alla fossa si era raccolta una quarantina di
persone, un gruppo più giovane, vivace ed eterogeneo di
quanto non mi fossi aspettata: jeans e magliette neri, abitini
di maglia attillati. Tirai il colletto del mio vestito nero al
ginocchio, sentendomi vistosamente rétro e East Coast.
Mi piazzai dietro la fila di persone lungo il lato della fossa,
in cerca di un volto familiare. Chissà poi chi mi aspettavo di
trovare. I nonni erano morti prima che io nascessi, o
quand’ero troppo piccola per ricordarmeli. La mamma e Billy
non avevano altri fratelli. I loro zii erano morti sulle spiagge
di Normandia o nel Pacifico. Nessun cugino o lontano
parente, nessun amico che si potesse considerare membro
onorario della famiglia. Eppure scrutai quei volti nella
speranza di riconoscerne qualcuno, forse una ex fidanzata di
Billy di cui mi ero scordata, o magari Lee – il gestore della
libreria – o una delle ragazze graziose che lavoravano al
caffè di Prospero Books, ormai ultraquarantenni. Ma ben
poche facce sembravano più vecchie di me: una cicciottella
sulla sessantina, con occhiali dalla montatura di plastica, e
uno smilzo con pizzetto bianco e lenti bifocali. L’unica
persona che saltasse all’occhio, a parte me, era un tizio in
completo gessato. Evidentemente nemmeno lui era stato
avvisato del carattere informale di quel funerale.
L’assembramento si divise per lasciar passare un tizio in
felpa col cappuccio e pantaloni neri slavati, che si avvicinò al
microfono dietro la fossa, si scostò dalla fronte la voluminosa
frangia e, a occhi bassi, estrasse dalla tasca posteriore una
pagina di quaderno. «C’è una poesia di Dylan Thomas che
piaceva a Billy...» Si schiarì la gola e lesse Non andartene,
docile, in quella buona notte.
Mentre lui leggeva i versi sulla «rabbia per il morire della
luce», io scrutai la lapide di mio zio. Sul granito scuro c’era il
suo nome, Billy Silver, la sua data di nascita – nel 1949 – e
quella di morte, tre giorni prima. Una volta, Thomas
Jefferson aveva scritto che la vita e l’anima della storia
dovevano restare ignote per sempre: solo i fatti – «i fatti
esterni», come li chiamava lui – venivano tramandati alle
generazioni successive. Questi erano i fatti esterni della vita
di Billy, spogliati di qualunque dettaglio che facesse di lui
una persona memorabile. Come mai non veniva sepolto
accanto ai miei nonni, nel Westside? Come mai aveva scelto
questa fossa, in mezzo alle altrettanto anonime lapidi di tale
Evelyn Weston e tal altro Richard Cullen, nell’angolino dei
single di Forest Lawn, quelli che facevano da tappezzeria
perfino da morti?
L’amico di Billy finì di leggere la poesia di Dylan Thomas e
scrutò i presenti con aria solenne. Il suo sguardo passò lungo
le file di persone fino a soffermarsi su di me. Gli occhi erano
limpidi, di un azzurro così innaturale da togliermi il fiato.
Magnifici ma freddi, mi facevano sentire ancora più estranea
di quanto già non fossi. Cosa ci facevo lì? Mi ero convinta di
essere tornata a Los Angeles per senso del dovere, per
buona creanza e per dolore, quando in realtà era per via del
biglietto, della prospettiva di un’ultima caccia al tesoro
organizzata da mio zio. Non c’entravo niente con quella
gente. Non meritavo di stare al fianco di quelle persone belle
e tristi, a piangere la scomparsa di qualcuno che avevo
praticamente dimenticato.
«Vuoi?» Una ragazza mi stava porgendo un bicchiere di
plastica. Era più giovane di me, con fattezze
latinoamericane, braccia nervose, coperte di tatuaggi con
scritte in spagnolo. «C’è whisky e whisky. Ti consiglio il
whisky.»
Presi il bicchiere e la guardai riempirlo generosamente.
Il vecchio col pizzetto andò al microfono e levò verso gli
astanti il suo bicchiere di plastica rossa. Chiuse gli occhi e
intonò Oh Danny Boy. La cicciottella sulla sessantina si
piazzò al suo fianco e gli cinse le spalle con un braccio
lentigginoso, ondeggiando con lui al ritmo della vecchia
ballata. Quando conclusero il canto, l’uomo inclinò il
bicchiere verso la fossa aperta, poi lo levò al cielo, infine se
lo portò alle labbra.
«’Alle serate che non ricorderemo, con gli amici che non
scorderemo’, come diceva Billy», disse la ragazza, inclinando
il suo bicchiere verso il mio. «Sei del quartiere?»
«Quale?»
«Silver Lake. Non ti ho mai visto.»
«No, sono la nipote di Billy.» «Nipote» mi sembrava una
parola straniera, brusca e cruda, eppure non ce n’era
un’altra, per descrivere il mio rapporto con Billy. Già, perché
un rapporto c’era ancora: prima di morire mi aveva mandato
un segno. Aveva pensato a me. «Tu come lo conoscevi?» le
chiesi, imbaldanzita dal fatto di essere una parente, al
contrario di quelle persone.
«Lavoro da Prospero.»
«Ah, Prospero Books», dissi con nostalgia. Non ricordavo
nemmeno da quanto tempo non pronunciavo quel nome,
eppure mi dava la stessa esaltazione di quand’ero bambina:
gli incanti di Prospero, la magia dei suoi libri.
Il whisky cambiò l’atmosfera e tutti avviarono
conversazioni vivaci. Le risate risuonavano su tutto lo
spiazzo aperto. L’uomo in completo gessato annunciò: «Se
volete, ci troviamo tutti da Prospero Books».
«Mi ha fatto piacere conoscerti», disse la ragazza. Mi
aspettavo che m’invitasse alla libreria, e invece si limitò a
rivolgermi un cenno, andò dall’uomo scarmigliato che aveva
letto la poesia di Dylan Thomas, gli disse qualcosa a bassa
voce e tutti e due si voltarono a fissarmi con un’espressione
indecifrabile; o forse ero io a non voler decifrare la cruda
verità del loro sguardo.
Continuai a sorseggiare il whisky anche dopo aver vuotato
il bicchiere, guardando tutti gli altri incamminarsi verso le
auto assiepate al margine della strada.
«Ma tu non sarai Miranda?» L’uomo in completo gessato
si avvicinò, tendendomi una mano. Da vicino si rivelò più
vecchio di quanto non fosse apparso. I capelli biondo-rossicci
erano schiariti dall’ossigeno, non dalla giovinezza. «Speravo
proprio d’incontrarti qui. Sono Elijah Greenberg, l’avvocato
di Billy.»
Stavo per chiedergli come avesse fatto a sapere che ci
sarei stata anch’io. Billy doveva avergli parlato di me. Forse
era al corrente della Tempesta, della caccia al tesoro.
«Mi dispiace tanto per tuo zio.» Mi accompagnò verso le
due auto parcheggiate al margine della strada. «Vieni alla
festa?»
«Festa?»
«Sì, in ricordo di Billy. Lo so, è un po’ strano festeggiare a
un funerale, ma è quello che voleva lui. ’Niente roba
lugubre’», disse con un vocione che doveva essere un
tentativo d’imitazione. «’Non voglio che sia questo, l’ultimo
ricordo che vi lascio.’»
Ci sarei voluta andare, ma avevo ancora nelle orecchie il
tono in cui la ragazza mi aveva detto che le aveva fatto
piacere conoscermi, come se prevedesse di non rivedermi
più. Ripensai alla sua espressione e a quella dell’uomo
mentre mi guardavano da lontano: io, la parente che non si
era mai vista e che era pure arrivata in ritardo. Non mi
andava di sottostare ancora alla loro disapprovazione, per
quanta voglia avessi di andare da Prospero Books. «I miei
genitori mi aspettano a casa.»
«Potresti passare dal mio ufficio domani?» Mi porse un
biglietto da visita. «Ci sarebbe la questione del testamento.»
«Testamento?»
«La tua eredità.»
«Eredità?»
Elijah sbloccò le serrature della sua auto e aprì la portiera
del guidatore. «Domattina alle dieci?»
Annuii, ammutolita. La curiosità mi pervase come una
vampa di febbre. Delirio. Euforia. La presenza di Billy. Ci
avevo visto giusto: il biglietto e La tempesta servivano ad
attirarmi qui, e ora l’indizio successivo mi attendeva
nell’ufficio di Elijah Greenberg, sotto forma di un’eredità.

Quando imboccai l’Interstate 5 per tornare dai miei, sulla


West Coast erano le sette passate, dunque Jay era a casa a
riposarsi dopo gli allenamenti di calcio, oppure era al bar
dietro l’angolo, a bere per scrollarsi di dosso le otto ore
dedicate a ragazzini strafottenti. Decisi di fare un tentativo.
Rispose al quarto squillo. «Ciao, piccola.» Non mi aveva
mai chiamata così. Ogni tanto ero Mi’, o Mimi – da quando
aveva sentito mio padre usare quel diminutivo –, ma mai
«piccola», né «tesoro», né «cara», niente vezzeggiativi da un
tanto al chilo.
«Ciao a te», gli dissi.
«Ho appena finito di pulire la cucina, così la troverai
all’altezza dei tuoi standard.»
L’appartamento aveva raggiunto livelli inusitati d’igiene,
da quando ci abitavo io. «È arrivata la candeggiatrice folle»,
diceva sempre Jay. A inculcarmi quella mania era stata mia
madre, convinta che una casa dovrebbe essere sempre
impeccabile come quando si hanno ospiti a cena.
Jay sospirò. Lo sentii lasciarsi cadere di peso sul divano e
accendere la TV, e mi morsi la lingua per non fargli la solita
ramanzina: qualunque cosa facesse, teneva sempre il
televisore acceso su una partita di calcio, o di football, o di
baseball, o di basket, o addirittura di hockey, se proprio era
disperato. Gli unici momenti che non dedicava allo sport
erano quelli in cui facevamo sesso.
«È un brutto momento?» gli chiesi, fredda.
Se anche si era accorto del mio disappunto, fece lo gnorri.
Il televisore strombazzava trionfalmente. «Oggi Trevor era in
malattia, quindi mi è toccato fare tutto da solo. Ma dico io,
ammalarsi il secondo giorno di lavoro! Vorrei prenderlo
come viceallenatore ma, se mi fa questi scherzetti, col cavolo
che la scuola lo assume.»
Non mi andava di parlare del suo amico Trevor. «Finché
alleni una squadra che vince, la scuola sarà ben disposta ad
accontentarti.» Rallentai. Avevo raggiunto il centro città, un
paio di chilometri dall’imbocco dell’Interstate 10. Non avrei
dovuto chiamare. Jay era nella sua «modalità stravacco», che
non prevedeva di calcolare anche me, neppure quand’ero in
casa, figuriamoci quand’ero all’altro capo di una linea
telefonica. Ognuno di noi due si sforzava di liberarsi delle
abitudini della vita da single. Le mie, però, erano quasi tutte
già archiviate in un deposito di South Philadelphia.
«Scusa, sto facendo lo stronzo. È andata bene, al
funerale?»
«Sono appena venuta via. Non conoscevo nessuno.»
«Ti aspettavi il contrario?»
«No, però ci sono rimasta male lo stesso.»
«Be’, non stava scritto da nessuna parte, che dovessi
conoscere qualcuno. Non prendertela.» Dal Bluetooth
dell’auto sentii l’urlo dei tifosi che proveniva dal suo
televisore.
«Però ci avevo visto giusto: mio zio mi ha lasciato qualcosa
in eredità.»
«Questo significa che non torni domani, immagino.»
«Ah, dovevo tornare domani?» Scossi il volante come se
questo fosse bastato a spostare le macchine, ma ero
incastrata nel traffico, oltre che in quella telefonata.
«Pensavo che saresti venuta a casa dopo il funerale.»
«Me l’hai detto tu, di prendermela comoda.»
«Io?»
«Mi pare che le parole esatte fossero: ’Prenditi tutto il
tempo che ti serve’.»
«E le tue sono state: ’Non ti facevo così sentimentale’»,
ribatté lui.
«Touché.»
Jay rise.
«Ancora qualche giorno. L’avvocato di Billy mi darà
l’indizio successivo, così scoprirò quello che Billy vuole dirmi
sul suo rapporto con mia madre, e sarò a casa prima che tu
abbia il tempo di sentire la mia mancanza.»
«La sento già.»
«Be’, allora prima che tu ti rimangi la promessa di tenere
la casa pulita. Al più tardi nel fine settimana.»
Mia madre insistette per accompagnarmi da Elijah.
«Posso andarci anche da sola», dissi, mentre mi serviva
un’omelette. Le avevo detto che Billy mi aveva nominato nel
testamento, ma non avevo fatto parola dell’indizio che mi
aveva dato, né della caccia al tesoro che mi attendeva. «Se
per te è un peso, ci vado per conto mio.»
«Vengo anch’io. Fine della discussione.» Si tolse il
grembiule e sparì al piano di sopra, per prepararsi.
Guardandola allontanarsi, mi sentii una ragazzina che
stava per essere scoperta ad andare a una festa o a farsi un
tatuaggio senza permesso. Aveva ragione Jay. Avrei dovuto
parlarle dell’indizio, prima di andare lì, prima che Billy
diventasse un segreto.
Lo studio di Elijah era in una traversa di Larchmont
Boulevard, perciò ci ritrovammo nel traffico dell’Interstate
10, ad arrancare verso est. Osservai i suoi occhi che
facevano la spola tra lo specchietto retrovisore, quelli
laterali e la strada intasata davanti a noi. Si strofinò una
guancia, come faceva durante le scene di tensione dei film.
«Per piacere, Miranda, smettila di guardarmi così. Sto bene,
davvero.»
Continuai a osservarla lo stesso, con occhiate discrete che
probabilmente notò. Per quanto ci si mettesse d’impegno,
non stava affatto bene. Non capivo perché volesse
nasconderlo. Azzardai uno sguardo più protratto, pensando –
e non per la prima volta – che non la capivo proprio.
Uscimmo dalla superstrada e imboccammo La Brea
Avenue verso nord, passando lungo i mobilifici e i negozi di
lampade.
«Il funerale è stato piuttosto strano», dissi, pur
rendendomi conto che lei non mi aveva fatto domande a
proposito del giorno precedente.
«Billy è sempre stato un po’ eccentrico», commentò lei,
distrattamente.
«Continuano a tornarmi in mente ricordi di lui.» Stavo
girando intorno all’argomento di cui volevo parlare con lei.
Dovevo raccontarle della Tempesta prima che arrivassimo
allo studio di Elijah e lo facesse lui al posto mio. «Hai
presente quella volta in cui ha impiantato una simulazione in
giardino, per spiegarmi come si formano gli uragani? E
quando ha regolato gli irrigatori a pioggia in modo da creare
un arcobaleno?»
«Con te è sempre stato buono», disse lei, con aria quasi
desolata, come se sentisse la sua mancanza.
«Eravamo tanto legati, poi tutto d’un tratto non l’abbiamo
più visto.»
«Eravamo legati.» Mia madre fece una pausa per
raccogliere le idee. Le ampie facciate dei punti vendita si
ridussero fino a diventare negozietti, caffè e negozi di frozen
yogurt. Fermandosi a un semaforo, aggiunse: «Ma su di lui
non si poteva contare. Era sempre chissà dove. Non sapevo
mai se era vivo o morto, se tornava per cena, se era andato
all’estero. Vivevo nell’ansia. Alla fine non ce l’ho fatta più».
«A far che? In che senso?»
Mia madre si sporse verso di me per leggere i nomi delle
traverse di Larchmont Boulevard. «Aiutami a cercare
Rosewood Avenue.»
Avrei voluto dirle che non poteva svicolare così, avrei
voluto citare le parole di Prospero – Siedi: ora devi sapere di
più – e raccontarle che Billy aveva un piano per rivelarmi il
passato, ma che io preferivo sentirlo prima da lei. Ma non
cedeva mai ai ricatti, neppure velati. Se non voleva parlarmi
del loro dissapore, non avrebbe cambiato idea davanti a
nulla, neppure se le avessi detto che Billy mi aveva
organizzato qualcosa.
Dopo pochi isolati trovammo Rosewood Avenue e
parcheggiammo davanti allo studio di Elijah Greenberg. Il
tempo era quello che la gente del posto chiama
spiritosamente «giugnembre»: in giugno, una foschia
mattutina sembra preludere a una giornata di cielo coperto,
ma poi immancabilmente si dissipa e il pomeriggio di sole
appare ancora più spettacolare, dopo un mattino quasi
novembrino. Quel giorno, tuttavia, scrutando il cielo non vidi
nessun segno di schiarita.
Elijah ci accolse nel suo ufficio, dove ci sedemmo su sode
poltrone in pelle attendendo che lui trovasse la cartella
giusta, tra tutte quelle impilate sulla sua scrivania. Mia
madre batteva il piede distrattamente, scuotendo la gamba
così tanto che sentivo la vibrazione nella poltrona su cui ero
seduta io, lì accanto. Le posai una mano sul ginocchio per
calmarla. Lei trasalì e si voltò verso di me, con
un’espressione impaurita che non mi aspettavo.
Con movimenti lenti e studiati, Elijah aprì la cartella.
«Come sapete, Billy era l’unico proprietario di Prospero
Books.»
Quel nome catturò la mia attenzione. Mi sporsi in avanti,
curiosa di conoscere il seguito.
Elijah si schiarì la gola e lesse il testamento: «’Io, Billy
Silver, lascio l’immobile di 4001 Sunset Boulevard, Los
Angeles, California, fatti salvi eventuali ipoteche o vincoli, a
Miranda Brooks». Mi porse un mazzo di chiavi. «L’immobile
comprende il negozio e l’appartamento al piano superiore.
L’ho già fatto preparare.»
Le chiavi erano fredde e lisce, logorate dall’uso. Mi
aspettavo una mappa, o un indovinello di Billy. Cosa me ne
facevo, di Prospero Books? Insegnavo storia alle medie, non
avevo idea di come si gestisse un negozio normale,
figuriamoci un commercio così specializzato e particolare
come quello librario. Ma erano problemi pratici sui quali non
potevo soffermarmi. Prospero Books. Ricordavo ancora
quell’odore dolce, di antico, e quell’atmosfera in cui
sembrava sempre primavera. Dopo tanti anni avrei ritrovato
tutte quelle cose.
Guardai mia madre, seduta accanto a me, a schiena dritta
come una preda braccata, con gli occhi che dardeggiavano
lungo il testamento, leggendolo a rovescio. Era
perfettamente immobile. Se l’avessi toccata, sarebbe caduta
in mille pezzi.
«Mamma?»
Scosse la testa. «Sì, tutto a posto. Continuiamo.»
Elijah chiuse la cartella e aprì il cassetto sotto il computer.
«In aggiunta al negozio, mi ha pregato di consegnarti
questo.» Mi porse una copia di Jane Eyre.
In copertina c’era la sagoma di Jane, scura su sfondo
beige. Passai un dito lungo il profilo del suo viso. Avevo letto
quel romanzo due volte, alle superiori e all’università,
classificando il rapporto tra Jane e Mr Rochester come uno
dei più begli amori di tutta la letteratura, anche se lui, visto
con gli occhi di oggi, si comporta in modo quantomeno
discutibile. Se fosse stato un libro della serie dei Boxcar
Children, per esempio, o The Westing Game, mi avrebbe
ricordato i pomeriggi passati da Prospero Books con una
bella tazzona di cioccolata calda e con Billy che leggeva
sopra la mia spalla, a rimuginare sugli indizi lasciati da Mr
Westing agli inquilini di Sunset Towers. Ma Jane Eyre? Non
l’avevo mai letto con Billy. Non capivo perché mi avesse
lasciato proprio quello.
Orientai il libro verso mia madre, che si sporse per
leggere il titolo. Rimase impassibile, perciò non ebbi modo di
sapere se la scelta di quel romanzo risultasse oscura anche a
lei.
Il dorso era crepato in più punti, e uno strano
rigonfiamento al centro del volume rivelò che c’era qualcosa
tra le pagine. Una chiave, di quelle vecchie. E nel punto in
cui era stata infilata c’erano alcune frasi sottolineate:

Quando una persona viene a sapere di aver ereditato


una fortuna, non si mette a saltare e a gridare hurrà!,
ma comincia a prendere in considerazione le
responsabilità, a ponderare la situazione. Sulla base di
una gratificazione costante emergono poi alcune
incombenze serie, e si comincia a riflettere sulla propria
benedizione con piglio solenne.
Billy sapeva che sarei stata contenta come una Pasqua, che
mi sarei lasciata prendere dall’entusiasmo? Fortuna.
Responsabilità. Incombenze serie. Piglio solenne. Mi stava
facendo presente che quei miei nuovi averi erano frutto della
sua morte? Scorsi con lo sguardo il resto della pagina e
ricordai il contesto: Jane non saltava dalla gioia
nell’apprendere di avere ereditato una fortuna dallo zio John
Eyre. Lo zio! Il fratello di suo padre, che lei non conosceva.
Jane era costernata perché aveva ottenuto quella ricchezza
solo grazie alla morte di lui, lo zio con cui aveva sognato di
prendere contatto, e ora non ne avrebbe mai avuto modo.
Ma lui l’aveva cercata. Non era stato in grado di
rintracciarla prima di morire. Billy, invece, veniva a cercarmi
solo dopo essere morto. Se ci avesse provato prima, ci
sarebbe riuscito facilmente, in quest’era di internet e
Facebook. Se pensava a me, perché non mi aveva cercato?
Come mai aveva atteso che non ci fosse più nessuna
possibilità di riprendere i contatti?
«Tutto qui?» chiese mia madre a Elijah, con l’impazienza
di una studentessa trattenuta in aula dopo la fine della
lezione.
«Be’, ci sono diversi dettagli da rivedere, a proposito del
negozio. Se andate di fretta, io e Miranda possiamo fissare
un altro appuntamento.»
«Magnifico.» Mia madre mi fece segno di uscire.
«Ti chiamo io», dissi a Elijah. Mentre mi alzavo, la
copertina di Jane Eyre si aprì e notai una scritta sul lato
interno. Un nome in corsivo, quasi sbiadito: Evelyn Weston.
L’avevo già visto, ma in stampatello, inciso sulla lapide
accanto a quella di Billy. Dunque, in fin dei conti, non era
sepolto in solitudine. Ma chi era Evelyn Weston?

Sull’Interstate 10 West, mia madre viaggiava sulla corsia più


a sinistra, appena sotto il limite di velocità. Gli altri
automobilisti ci sorpassavano sulla destra, suonando il
clacson e agitando il pugno.
«Vuoi che guidi io?» le chiesi, pur sapendo che non me
l’avrebbe permesso.
«Ce la faccio, grazie.» Piantò il piede sull’acceleratore e
l’auto scattò nervosamente in avanti.
«Incredibile, che Billy mi abbia lasciato Prospero Books.»
«Imperdonabile.» Mia madre imboccò lo svincolo di Bundy
Drive. «Tutto quel peso sulle tue spalle.»
«Non è un peso. Adoravo quella libreria.»
«Amare una cosa è un conto, averne la responsabilità è
tutto un altro paio di maniche.» Stringeva il volante con
tanta forza da sbiancare le nocche.
«Secondo te come mai mi ha lasciato una copia di Jane
Eyre?»
«Non ne ho idea.» Quel dono sembrava mandarla su tutte
le furie, indipendentemente dal fatto di conoscerne il
significato.
«Era un libro importante, per Billy?»
«Te l’ho appena detto, non ne ho idea.» Accese l’autoradio
su una stazione che trasmetteva canzoni degli anni ’40, un
genere che non le piaceva.
Ascoltammo quelle vocalità melense e quei ritmi
orecchiabili finché lei non imboccò il vialetto d’accesso della
nostra casa in stile revival coloniale spagnolo.
«Scusa, non volevo essere brusca», mi disse, mentre
fermava l’auto. «Credo che Billy non abbia tenuto conto di
quanto ci sarei rimasta male.»
Mi rigirai tra le dita la chiave che avevo trovato tra le
pagine di Jane Eyre. Era quasi interamente nera, tanto era
ossidata. Doveva essere quella di una vecchia cassaforte o di
un portagioie nascosto nell’altra parte della mia eredità,
ossia Prospero Books. E il contenuto doveva essere legato al
nome in corsivo in seconda di copertina. «Conosci una certa
Evelyn Weston?»
Lei trasalì. «Dove hai sentito questo nome?»
«L’ho visto a Forest Lawn. Billy è stato sepolto accanto a
lei.»
«Hai visto la tomba di Evelyn?» Mia madre sembrava
nervosa, improvvisamente agitata.
«Era la moglie di Billy?» Era l’unica spiegazione logica al
fatto che fossero stati seppelliti fianco a fianco.
«Sì», mormorò lei, fissando la casa bianca della nostra
famiglia. Le rughe intorno agli occhi si erano accentuate,
dall’ultima volta che l’avevo vista. Tutti dicevano che le
somigliavo. Avevamo gli stessi capelli ricci, la stessa
corporatura asciutta, ma il suo viso era più allungato, il
castano picchiettato dei suoi occhi era più dorato. Non sarei
mai stata carina come lei.
«L’aveva conosciuta dopo aver smesso di frequentare
noi?»
Mia madre si voltò verso di me, confusa. «Hai visto la sua
tomba, dicevi?»
«Non l’ho osservata granché. Non ricordo che qualcuno mi
abbia mai fatto il suo nome.»
«Erano sposati prima che nascessi tu. È morta da tanto
tempo.»
«E Billy non si è mai risposato? Non ha mai avuto una
famiglia?»
«Voleva solo Evelyn.»
«Come mai ha chiamato la libreria ’Prospero Books’? Per
via di me?» Da bambina credevo che quel nome fosse un
omaggio al mio, come a significare che il negozio viveva e
respirava in virtù di me, e che se non ci fossi stata io avrebbe
cessato di esistere.
«È stata aperta prima che tu nascessi.» Il suo tono rimase
monocorde.
«Quindi sono io che mi chiamo così per via della libreria?»
«Ti ho chiamato così in omaggio a Shakespeare.»
«Ed è un caso che tu e Billy abbiate scelto la stessa
opera?»
«Era la preferita di Evelyn.» Mia madre sorrise,
scuotendosi di dosso la tristezza. «Secondo te, in che
condizioni troveremo la cucina, dopo che tuo padre ha avuto
campo libero per tutta la mattina?» Mi diede un paio di
colpetti su un ginocchio e scese dall’auto.
Mentre la guardavo percorrere il vialetto fino alla porta
d’ingresso, ragionai su quanto avevo appena appreso. Prima
che io nascessi, Billy aveva una moglie di nome Evelyn
Weston, che amava La tempesta. Io ero stata chiamata così
in omaggio al personaggio shakespeariano e a lei. Doveva
avere amato anche Jane Eyre. E mia madre doveva saperlo.
Anche senza aver visto il nome di Evelyn, non poteva non
sapere perché Billy me l’avesse lasciato. Come mai non ci
avevo pensato prima? Mia madre nascondeva qualcosa.

«Non aspettarti la stessa cucina di tua madre», mi mise in


guardia il papà, infornando la parmigiana di melanzane.
«Glielo dici tu, che tra poco ci si mette a tavola?»
La trovai fuori, con un paio di cesoie, intenta a scegliere i
fiori da recidere per la tavola. Alle sue spalle, il cielo si era
acceso di una tinta aranciata orlata di rosa. Il sole al
tramonto non era visibile, ma lasciava un ultimo dono
variopinto.
«Amaranto di sera», disse mia madre, osservando
l’orizzonte. «Non va bene, l’amaranto.»
«È carminio. E ciliegia.» Essendo stata cresciuta da lei,
sapevo distinguere colori di cui tanta gente non conosceva
nemmeno l’esistenza. Era questo il mio talento di figlia di
arredatrice, ma non ero lì per parlare dei toni del rosa e
delle brillanti sfumature dei tramonti californiani. «Il papà
dice che la cena è quasi pronta.» Le lanciai un’ultima
occhiata discreta, domandandomi quando fosse diventata
così – una che esitava prima di rispondere, che quando
rideva si copriva la bocca –, quando avesse smesso di portare
lo smalto scarlatto alle unghie e avesse sostituito il rossetto
cremisi col lucidalabbra alla vitamina E. Ancora ascoltava i
Jefferson Airplane e i Fleetwood Mac, e ogni mattina faceva
dieci minuti di meditazione, ma c’era stato un punto in cui
ogni oggetto rosso in suo possesso si era stinto in un rosa
opaco.
I miei genitori si erano conosciuti a New York, dove
conducevano vite dalle quali si erano poi ritirati prima che
nascessi io. Mia madre – vent’anni, capelli stirati e
minigonne sgargianti – era la cantante delle Lady Loves, un
gruppo tutto al femminile, con ingaggio fisso presso un
locale dell’East Village di cui il papà era il rappresentante
del titolare. Al momento delle presentazioni, il papà aveva
teso la mano e lei l’aveva guardata come se fosse stata
coperta di fango. Seguendo lo sguardo della mamma lungo il
completo giacca e cravatta, giù giù fino ai mocassini, lui
aveva ritirato la mano. «Bella, la vostra esibizione.»
«Ti piace il rock?» aveva detto lei, con lo sdegno di cui
solo i ventenni sono capaci.
«E dai, Suzy, non fare la stronza. Il suo era un
complimento», le aveva detto il titolare.
«Harry? Ma vai a cagare.» Mia madre aveva afferrato uno
degli amplificatori ed era scesa impetuosamente dal palco.
«Non prendertela», aveva detto il titolare al papà. «Suzy
crede di poter prendere tutti a pesci in faccia, solo perché è
una musicista.»
Fin da quel primo incontro, il papà era cotto. Andava a
vedere le Lady Loves tutti i venerdì sera. Gli piaceva
guardare la mamma cantare, in attesa del momento in cui si
sarebbe dimenticata di essere in scena, avrebbe perso la
maschera da dura e rilassato il viso, pervasa dalla dolcezza
della sua stessa voce. Accadeva a ogni esibizione. In quei
momenti, lui vedeva che era proprio giovane, non ancora
temprata dalla vita.
Non era accaduto niente di notevole, la sera in cui la
mamma si era seduta al tavolo del papà. Aveva appena finito
uno spettacolo, aveva scostato una sedia e si era legata i
capelli per lasciare libero il volto. I suoi lineamenti erano
sottili, da ragazzina. Non sorrideva, ma il papà vedeva
benissimo che avrebbe voluto.
«Quante cravatte hai?» gli aveva chiesto.
Quella domanda l’aveva colto alla sprovvista. Ne
possedeva talmente tante che era rarissimo vedergliene
addosso una già usata in un’occasione precedente. Ma
nessuno gli aveva mai chiesto quanto fosse ampia la sua
collezione. Per quello che ne sapeva lui, nessuno ci aveva
mai fatto caso. «Circa duecento», aveva ammesso.
«Che bisogno c’è, di avere duecento cravatte?»
«Nessuno.»
«E allora perché ce le hai?»
Il papà non aveva saputo come spiegarglielo. Aveva perso
i genitori e il fratello minore negli anni dell’università. Gli zii
erano caduti in guerra prima che lui nascesse. I nonni erano
morti da un bel pezzo. Aveva amici d’infanzia, compagni
della facoltà di Legge, colleghi, un flusso costante di
ragazze, ma nessuno che gli facesse un regalo di
compleanno o lo invitasse al cenone del Ringraziamento,
perciò per Natale e a ogni promozione si comprava una
cravatta, per dimostrare di bastare a se stesso. Perciò aveva
risposto: «Sarebbe più strano se avessi duecento paia di
scarpe».
Mia madre aveva ridacchiato e si era allontanata per
aiutare la band a riporre gli strumenti. E, fin da quella prima
risata, era cotta anche lei.

Quando rientrai, il papà era seduto al tavolo da pranzo, a


piegare tovaglioli tentando d’imitare i perfetti origami della
mamma.
«Da’ qua», gli dissi, prendendoglieli di mano. Gli mostrai
come formare tre lunghi lembi e rimboccarli a dovere.
«Visto così, sembra facilissimo.» Si eclissò dietro l’isola
della cucina e si mise a riporre stoviglie nei pensili, con uno
scampanio di pentole.
Intanto, io presi lo smartphone, digitai Evelyn Weston e mi
sforzai di farmi venire in mente qualche altra chiave di
ricerca, ma non ne trovai, perciò premetti INVIO. Tra i
risultati figuravano diverse pagine di LinkedIn, Twitter e
IMDB, ma la Evelyn Weston che cercavo io era morta tanto
tempo prima, in un’epoca in cui non esistevano i social
media e le notizie non circolavano ventiquattr’ore su
ventiquattro. Avrei dovuto cercarla nel modo tradizionale:
parlare con le persone, anziché chiedere alle macchine.
Il papà ricomparve con due candelieri di legno. Le candele
non stavano dritte. «A quanto pare, come intagliatore non
valgo un fico secco.» Quand’era andato in pensione, gli
serviva un passatempo. La manualità non era mai stata il suo
forte. Per qualunque cosa più complessa del cambio di una
lampadina gli serviva un tecnico. Ora, passati da un pezzo i
sessanta, tutto d’un tratto s’incaponiva a fare l’artigiano. La
mamma gli aveva consigliato d’iscriversi a un corso, ma lui
sosteneva che il senso dell’arte stesse anche nell’imparare
da sé, perciò aveva comprato manuali e riviste, e guardava
video su YouTube. Aveva cominciato con una sedia a
dondolo, ma ben presto era retrocesso a una scatola. «Ti ho
mostrato la libreria che ho fatto? Sto giusto dando il
mordente. A non sapere che l’ho costruita io, sembra proprio
fatta in bottega.»
«Tu conoscevi Evelyn, la moglie di Billy?» gli chiesi, più
bruscamente di quanto non intendessi.
«Te ne ha parlato la mamma?» Sembrava sorpreso, ma
non allarmato. D’altra parte, era bravo a trattenere le
emozioni. L’aveva fatto per anni, da buon avvocato.
«Dice che mi ha chiamato Miranda perché Evelyn adorava
La tempesta.» Non era del tutto vero, ma, se fossi riuscita a
fargli credere che la mamma mi aveva detto qualcosa in più,
magari anche lui si sarebbe sbottonato un po’. «Erano
amiche?»
Il papà prese uno dei candelieri e col pollice accarezzò il
legno. «Dai tempi dell’asilo.»
«Sono cresciute assieme?»
Lui annuì, ancora concentrato sul candeliere sgangherato.
«Di cosa è morta Evelyn?»
Mi lanciò un’occhiata. «Come mai me lo chiedi?»
«Fino a oggi, non l’avevo mai sentita nominare. Non
sapevo nemmeno che Billy fosse sposato. Tu sai com’è
morta?»
«Ha avuto convulsioni violente.»
«Era epilettica?»
«Non mi pare.» Guardò fuori dalla portafinestra, nella
direzione della mamma, che era in giardino a ispezionare il
terriccio dei rosai. «Ti dispiacerebbe andare a vedere come
mai ci mette tanto?»
«Ha detto che rientra fra un minuto. Cos’aveva Evelyn?»
Sentendo scattare la suoneria del timer del forno, il papà
corse di nuovo in cucina. Non mi avrebbe detto nulla di
Evelyn, naturalmente. Lui e la mamma erano una cosa sola,
un’unità inscindibile, e certe volte invidiavo il loro rapporto
di coppia. Era ovvio che i segreti di lei fossero anche di lui.
5

La facciata di Prospero Books, coi mattoni a vista, era


identica a come la ricordavo. In compenso era cambiato
tutto ciò che aveva intorno: Sunset Junction, che una volta
era poco più che un vestigio dell’antica rete tranviaria, non
era più soltanto un crocevia, ma una meta con tanto di
caffetterie, locali, negozietti e una formaggeria. Ogni metro
di vetrine su Sunset Boulevard era occupato. I marciapiedi
erano pieni di gente che faceva il brunch sotto le tende
parasole o spingeva passeggini.
Rimasi ferma a fissare la vecchia insegna, ridipinta ma
sempre la stessa: sopra la facciata torreggiava Prospero,
bastone nella mano destra e libro nella sinistra, mantello
viola e capelli bianchi spinti all’indietro dal vento. Anche la
vetrina aveva lo stesso aspetto, solo che esponeva titoli di
Lionel Shriver, Isabel Allende e Michael Pollan anziché le
nuove uscite di anni prima.
L’odore del negozio m’investì non appena entrai. Carta
appena tagliata, muschio bianco, gelsomino, pepe nero, caffè
macinato. Avevo dimenticato il suono della campanella
d’ottone sulla porta e la bacheca di sughero nell’ingresso,
ora coperta di volantini di personal trainer e corsi di pilates.
Il negozio era più piccolo di quello che ricordavo. Il soffitto
era più basso. Gli scaffali erano più assiepati. Sezioni e
sottosezioni. La Narrativa era suddivisa in Letteraria,
Popolare, Proibita, Storica, Classica, Femminista, LGBTQ,
Fantascienza e Fantasy, Mystery, Noir, Lingue straniere e
Piccola editoria. Il verde lime dei mattoni a vista sembrava
ancora fresco. Il blu e l’oro dei tavoli a mosaico erano ancora
luccicanti alla luce brillante della zona caffè. Non vedevo
Lee. Non vedevo nessuno dei poeti in spolverino che
sorseggiavano un espresso, né le belle ragazze in salopette
che presidiavano le scaffalature. Di belle ragazze, ce n’erano
ancora, ma erano più magroline e con meno eyeliner. Ancora
adesso i tavolini erano tutti occupati, ma gli avventori
digitavano vigorosamente sulla tastiera di un laptop, anziché
scrivere su un quaderno. Il negozio ferveva di attività,
propiziate dalla magia dei libri di Prospero.
All’estremità opposta del locale, l’uomo scarmigliato che
aveva recitato Dylan Thomas al funerale di Billy stava
ispezionando uno scaffale, spuntando i titoli elencati su un
foglio. Aveva una maglietta con scritto: SORRIDI, SEI IN
TELEVISIONE.
«Eri al funerale di Billy?» gli chiesi, avvicinandomi.
Lui alzò lo sguardo dal portablocco. I suoi occhi cristallini
mi scrutarono senza riconoscermi.
«Sei tu che hai letto la poesia di Dylan Thomas? Io sono
Miranda.»
Mi scrutò con quegli occhi caramellati, dal guizzo più
clinico che lusinghiero. «La nipotina perduta e ritrovata.»
«In persona.» Feci il sorriso che di solito spingeva gli
estranei a trovarmi carina – carina, mai sexy – ma lui non
ricambiò. Tesi la mano.
Lui la strinse sbrigativamente. «Malcolm», disse, come per
ricordarmi un nome che avrei dovuto conoscere già. Il
telefono squillò, e lui mollò la mia mano per andare al
bancone. «Prospero», rispose. Cambiò tono non appena si
mise a parlare di libri. «Denti bianchi, l’abbiamo finito.
Possiamo ordinarglielo.» Reggendo la cornetta tra la spalla e
il mento, digitò qualcosa sul computer antidiluviano. Quel
bancone non era uno spazio abbastanza privato per tenerlo
così in disordine: un cestino traboccante di bozze rilegate,
scatoloni di libri ancora da aprire, un calendario con nomi di
battesimo e editori annotati su diverse date. «Dovrebbe
arrivare in due giorni. Ha letto Della bellezza? È più simile a
Denti bianchi, rispetto a NW, ma credo che lo troverà... Sì,
ce l’abbiamo... Certo, glielo tengo da parte.»
Passeggiai per il settore letteratura, ascoltando Malcolm
che rispondeva alle domande su Zadie Smith, che non avevo
letto. Su quegli scaffali c’erano tantissimi libri che non
conoscevo, titoli che non avevo mai sentito, sottosezioni
letterarie che non avevo mai pensato di dover separare l’una
dall’altra. Non ricordavo come fossero organizzate quand’ero
bambina. Non avevo mai fatto molta attenzione ai libri per
adulti. Malcolm continuava a parlare delle differenze
stilistiche tra i primi romanzi di Zadie Smith e quelli più
recenti. Camminando tra le file di libri, mi domandai perché
avesse finto di non riconoscermi, quand’era evidente che al
funerale mi aveva notato, visto che mi aveva fissato a lungo.
Ora la sezione Adolescenti aveva cambiato nome in Young
Adult ed era raddoppiata di volume: occupava l’intera
lunghezza di uno degli scaffali più interni. Una volta pensavo
che fosse riservata a me, ma passando in rassegna i dorsi
trovai appena una manciata di titoli che ricordavo.
«Leggi?» mi chiese Malcolm, riapparendo al mio fianco.
«Saggistica, più che altro. Insegno storia.» Mi aspettavo
che mi chiedesse a che livello scolastico, o quale storia,
domande che in qualunque civile conversazione seguivano la
dichiarazione della mia professione. «’Dove i libri contano
più di un ducato’», dissi, dato che lui taceva. Lo vidi confuso.
«È la frase con cui rispondevamo al telefono, quand’ero
bambina: ’Prospero Books, dove i libri contano più di un
ducato’.» Non so perché parlai al plurale. Non avevo mai
risposto io, al telefono di Prospero Books.
«Non ho mai sentito nessuno rispondere al telefono in
quel modo.» Si chinò a estrarre una copia di Noi siamo
infinito che qualcuno aveva erroneamente riposto sotto la
lettera N. La copertina era verde lime, come le pareti di
Prospero Books.
«La foto sembra scattata qui.» Mi avvicinai al muro e
provai a imitare la posa di uno dei giovani attori ritratti in
copertina. Niente, nessuna reazione di Malcolm, neppure
l’accenno di un sorriso. Non che i miei alunni fossero un
pubblico particolarmente caloroso, ma se non altro alzavano
gli occhi al cielo e, se proprio non apprezzavano lo sforzo,
perlomeno me ne davano atto.
«Detesto le copertine tratte dal film.» Ripose il libro sotto
la C, dov’era il suo posto.
«Non sono venuta a chiudere il negozio, se è questo che ti
preoccupa tanto.» Era la spiegazione più logica alla sua
freddezza.
«Chi dice che io mi preoccupi?» rispose, indignato. Lo
immaginai ragazzo, indisponente e cocciuto, forse anche
saputello.
«Billy mi portava qui, da bambina. So quant’è importante
questo posto.»
Malcolm non batté ciglio e concentrò l’attenzione sulla
punta della sneaker sporca che teneva premuta contro il
pavimento in legno usurato. Le assi scricchiolarono sotto il
suo peso.
«Billy non ti aveva detto che avrebbe lasciato il negozio a
me?»
«Me l’ha detto l’avvocato. Non sapevo che Billy avesse
parenti in vita.» Rivolse lo sguardo alle scaffalature e
incrociò le braccia, gesti che chiunque avesse frequentato gli
adolescenti avrebbe riconosciuto come un segnale di
chiusura.
Da uno dei tavoli in fondo, lo smilzo dalle lenti bifocali che
aveva cantato al funerale di Billy gli fece un cenno.
«Con permesso», disse Malcolm, dirigendosi verso la zona
caffè.
«Non sapevi nemmeno se avesse parenti non più in vita?»
gli gridai dietro.
Lui mi lanciò un’occhiata stranita, come se gli avessi
chiesto se dormisse in piedi. Dandomi le spalle, si chinò sullo
smilzo per esaminare uno dei molti libri aperti sul tavolino.
Io continuai a riprendere confidenza col negozio, contando
tutte le sezioni cui non avevo mai fatto caso, i libri che non
conoscevo, le coste variopinte che pretendevano di essere
lette. Nel reparto Noir, da uno scaffale mi sorrideva una
caricatura di Malcolm, con gli zigomi più pronunciati, i
capelli ribelli rimessi in ordine, lo sguardo più gentile, meno
diffidente. Sopra di lui si librava un fumetto che definiva il
noir come linfa vitale di Los Angeles: Chandler era il nostro
Omero e Philip Marlowe il nostro Ulisse. Scrutai il disegno
domandandomi cosa mi stesse dicendo. Era abbastanza
vicino a Billy da leggere al suo funerale. Aveva evitato il mio
sguardo quando gli avevo chiesto se avesse sentito parlare di
me. Sapeva più di quanto non dicesse, sui parenti vivi di
Billy, e probabilmente anche su quelli deceduti.
Nelle scaffalature più interne, la sezione Storia era
suddivisa in Mondiale, Americana e Californiana. I libri non
erano ripartiti soltanto per regione, ma anche per soggetto,
in ordine alfabetico. Di solito le librerie preferivano quello
cronologico, come se la storia fosse stata una sequenza di
episodi individuali, anziché un flusso continuo di eventi in
evoluzione nel tempo, e questo rifletteva l’errore di
prospettiva del metodo d’insegnamento imperante, che
segmentava il passato in compartimenti stagni. Spesso Jay
mi dava dell’inguaribile romantica, in fatto di storia. E
cos’altro potevo essere? Non era giusto ridurre il passato a
una successione di capitoli.
Mi chinai per passare in rassegna i titoli più in basso:
Storia della California, sottosezione Terremoti. Saggi sul
sisma del 1906, sulla faglia di Sant’Andrea, predizioni e
pronostici. Qui, su questo modesto ripiano a livello caviglia,
c’era il Billy della mia infanzia. Estrassi un saggio sul
terremoto di Northridge, una di quelle notti che nel Sud
della California si ricordavano tutti. Io e Joanie ci eravamo
svegliate di soprassalto mentre i libri cadevano dalle
mensole. Quando la camera aveva smesso di scuotersi, mia
madre era entrata di corsa a controllare che non ci fossimo
fatte male, ed ecco che tutto aveva ricominciato a tremare.
Alla fine della prima scossa di assestamento, il papà ci aveva
gridato di uscire all’aperto. L’avevamo seguito al piano di
sotto, dove i pavimenti in legno massiccio erano cosparsi di
vetri rotti. Io e Joanie eravamo scalze, perciò mio padre ci
aveva portato in braccio. In giardino, lo steccato nascondeva
i danni nel terreno confinante, i comignoli caduti dalle case
dei vicini, i cavi elettrici che serpeggiavano in strada. Il papà
aveva acceso la radio e avevamo ascoltato i reporter che ci
fornivano le informazioni mancanti. L’alba schiariva il cielo e
la conta dei morti saliva. La mamma aveva detto al papà di
spegnere la radio. Joanie si aggrappava a me, tremando
come se il terremoto fosse stato all’interno del suo corpo, ma
in me si propagava un calore, un’eccitazione inequivocabile:
la terra si era mossa proprio lì, sotto i miei piedi, e questo
significava che Billy non sarebbe dovuto andare in un Paese
lontano per studiare i danni. Sarebbe rimasto con noi. Ecco
il più bel regalo che mi aveva fatto quand’ero bambina: ogni
volta che la terra tremava, non appena la scossa cessava mi
prendeva un senso di esaltazione. A un certo punto avevo
smesso di associare quella sensazione a Billy, ma non l’avevo
mai persa. Anche da adulta provavo un piacere perverso
ogni volta che il pavimento vibrava assieme al suolo.
Al centro del negozio, su un tavolo in rovere stavano in
bella mostra i Consigli del libraio. Quelli di Malcolm erano
Fiesta, Infinite Jest, Il falcone maltese e Chiedi alla polvere.
Una certa Lucia aveva scelto Roberto Bolaño, Gabriel García
Márquez, Julia Alvarez e Junot Díaz. Tale Charlie optava per
James e la pesca gigante, La straordinaria invenzione di
Hugo Cabret, due titoli di Lemony Snicket e un libro
illustrato di Edward Gorey. Quelli consigliati da Billy erano:
Ritratto di signora, Furore, Tenera è la notte, L’età
dell’innocenza. Me l’aspettavo, che fossero tutti classici, ma
di altro genere: Robinson Crusoe, I tre moschettieri,
Sherlock Holmes. Meditai sui libri di storia americana che
avrei scelto io, gli slogan che avrei scritto sulle donne della
Rivoluzione e sui tenaci collaboratori di Lincoln.
Sfogliai i volumi sul lato del tavolo di Billy, senza ben
sapere cosa cercavo. Avevo ancora in tasca la chiave che lui
mi aveva fatto pervenire tramite Elijah. Immaginavo che
conducesse da qualche parte all’interno di Prospero Books,
ma non vedevo casseforti né vecchi scrigni. Eppure in
negozio doveva esserci qualcosa che mi guidasse alla
serratura giusta. I libri consigliati da Billy erano ancora
come nuovi, a parte Furore, che in seconda di copertina
aveva alcune cifre annotate a matita, a tratto leggero.
Dietro di me, Malcolm si chinò a leggere da sopra la mia
spalla. «Billy usava un codice mutuato dagli Hospital thrift
shop.» Prese il libro dalle mie mani per esaminarlo più da
vicino. Mi spiegò che i primi due numeri, quelli prima del
puntino, indicavano la qualità del libro, e gli altri quattro
erano la data di acquisizione, anche se non si traducevano
univocamente in un’annata. La lettera rappresentava il
mese. La successiva serie di cifre riguardava altri aspetti del
volume – edizione, stampa, carattere – e la lettera finale era
la stagione in cui, in caso di mancata vendita, si sarebbe
dovuto ridurre il prezzo.
«Che complicazione.»
Malcolm chiuse il libro e lo ripose sul tavolo. «A Billy
piaceva così.»
Passai un dito lungo il nome di Billy sul cartoncino dietro i
libri scelti da lui. Uno schizzo del suo volto di mezz’età mi
fissava. Naso sottile, bocca ampia, pettinatura perfetta. Il
sorriso era colmo di malinconia.
«Non sono una nemica», dissi.
«Vedremo.» Per la prima volta sul volto di Malcolm
lampeggiò un sorriso, che svanì con la stessa subitaneità con
cui si era acceso. Era quasi carino, quando non mi guardava
in cagnesco. «Vieni, ti preparo un caffè.»
Attesi a uno dei tavolini a mosaico mentre lui si aggirava
dietro il bancone, e cominciai a digitare un messaggio per
Jay. A tre fusi orari di distanza, avevamo problemi nel
comunicare: lui doveva alzarsi presto per gli allenamenti di
calcio, quindi doveva andare a letto mentre io ero ancora a
cena coi miei. A parte la telefonata dopo il funerale di Billy,
ci eravamo parlati solo via messaggio. Lo misi al corrente
dell’inattesa eredità, dell’indizio successivo, dei miei ricordi
di Prospero Books. Sembra un bel posticino, rispose lui, poi
passò a parlare degli allenamenti. M’inviò un video della
squadra che gridava in coro: «Ci manchi», mimando il gesto
di mandarmi baci, che corredò di frasi altrettanto sdolcinate.
Mi rendevo conto di quanto si fosse esposto, nel convincere
un gruppo di calciatori adolescenti a trasmettere un suo
messaggio romantico, ma avrei preferito che mi chiedesse di
Jane Eyre, o se fossi nervosa nel tornare in quella libreria.
Scattai una foto al negozio e gliela inviai con la didascalia:
Benvenuto da Prospero Books. Lui replicò con una faccina
sorridente. Avrebbe fatto meglio a non rispondermi
nemmeno.
Dietro il bancone del bar, Malcolm s’interruppe per
parlare con la latinoamericana che avevo conosciuto al
funerale di Billy, che ora aveva i capelli raccolti in una
crocchia e portava un grembiule bianco chiazzato di caffè.
Vedendomi guardare verso di loro, la giovane mi fece un
allegro cenno di saluto. Anche Malcolm sollevò lo sguardo,
ma con un’espressione più cauta. Riempì due tazze, le portò
al mio tavolino e me ne porse una.
Presi un sorso. Il caffè era nero e forte, ma lo bevvi
ugualmente: ad aggiungere latte o zucchero mi sarebbe
sembrato di mostrarmi debole.
«Non avete paura?» Indicai la chiave che penzolava
incustodita dal registratore di cassa mentre la ragazza puliva
la macchina del caffè. Era una chiave moderna, in nichel o in
lega. Non somigliava a quella che Billy mi aveva lasciato.
«Abbiamo un plotone di clienti abituali. Magari prendono
solo un caffè, ma ci fanno da occhi e orecchie.»
«Avete una cassaforte, da qualche parte?» Non vedevo
serrature combinabili con la mia chiave.
«Non teniamo contanti. Ho portato l’incasso in banca
stamattina.»
«Non sto chiedendo soldi», dissi.
«È di sopra, in deposito.» Malcolm indicò una porta sul
retro. Poi il suo dito si spostò verso la ragazza dietro il
bancone. «Lei è Lucia. È di turno al pomeriggio. Di mattina
c’è Charlie. Non spaventarti se lo senti qui di sotto all’alba.
Arriva presto, per aprire il negozio.»
Stavo per chiedergli cosa gli facesse pensare che sarei
stata qui prima dell’orario di apertura, ma poi mi ricordai
dell’appartamento di Billy. «Non verrò a stare qui. Cioè, di
sopra. I miei genitori abitano nel Westside.»
«Fai un po’ tu», disse Malcolm.
«Quindi Billy si era trasferito qui sopra? A quanto sapevo
io, stava a Pasadena.» La villa di mio zio era grande e aveva
un colonnato che mi ricordava la Casa Bianca, con la
differenza che non era abitata da una famiglia presidenziale
e da una servitù: c’era solo lui, con troppe camere.
«Quando l’ho conosciuto, viveva già qui.»
«E cioè quando?»
Malcolm socchiuse le palpebre. «Come mai mi sento a un
colloquio di lavoro?»
«Se è così, come ti sembra che stia andando?»
«Non saprei.» Riecco sul suo volto quell’accenno di
leggerezza, che subito sparì.
Mi ero conquistata le simpatie di arroganti ragazzine che
a quattordici anni portavano il wonderbra ed erano più
truccate di me, sapevo ispirare gli alunni a scrivere un tema
di sei pagine su come la sgranatrice di cotone avesse reso il
Sud ancora più dipendente dallo schiavismo, e per cinquanta
minuti di fila riuscivo a persuadere un’intera classe di
seconda media a riporre i cellulari e prestare attenzione,
quindi potevo benissimo vincere la diffidenza di un libraio
ultratrentenne.
«Malcolm?» L’uomo accanto a noi alzò lo sguardo,
rendendosi conto all’improvviso di chi avesse al proprio
fianco.
Malcolm mi presentò a Ray, lo sceneggiatore. «Ray ci
assicura che non ci dimenticherà quando vincerà il suo
primo Oscar.»
«Mah, non so, eh?» Ray fece un sorrisone, come se già
immaginasse la scena. Poi si fece serio. «Gli somigli», mi
disse.
D’impulso mi lisciai i capelli, che avevano lo stesso
castano-rossiccio di mia madre e di Billy. Al margine del mio
campo visivo, Malcolm s’irrigidì.
Lucia pulì un tavolino vicino, poi venne a prendere il caffè
con noi. La sua canotta attillata lasciava scoperti diversi
tatuaggi sulle spalle e all’altezza dello sterno.
Sorprendendomi a leggere una frase in spagnolo
sull’avambraccio, mi spiegò che era una citazione da
Cent’anni di solitudine.
«Non legge narrativa», le disse Malcolm.
«Ma dai, Malcolm, Cent’anni di solitudine lo conoscono
tutti.» Lucia sorrise, come per scusarsi.
«Me l’ha regalato la madre del mio ragazzo.» Il mio
ragazzo. Ancora mi faceva strano, dirlo.
Forse Malcolm notò il mio disagio nel pronunciare quella
parola, perché mi lanciò un’occhiata incuriosita.
«Lo adoro, Márquez», aggiunsi, per strafare. La madre di
Jay aveva lasciato nel nostro salotto Cent’anni di solitudine
quando ci aveva fatto un’improvvisata sperando di
ammazzare l’ora di anticipo sull’appuntamento con un’amica
a una galleria d’arte nelle vicinanze. Il libro era rimasto sul
tavolino per una settimana, poi io l’avevo riposto in libreria
assieme agli altri romanzi che Jay non leggeva mai.
Davanti alla cassa c’era una ragazza con le braccia piene
di libri, e Malcolm accorse a servirla. Io e Lucia lo
guardammo battere i prezzi. Disse qualcosa che la fece
ridere, poi rise anche lui, e a quel punto vidi gli occhi gentili
del suo ritratto nella sezione Noir.
«Non lasciarti mettere in soggezione», mi disse Lucia. «È
affezionatissimo al negozio. Come tutti noi.» Il suo tono era
più cordiale di quello di Malcolm, ma le sue parole
trasmettevano la stessa velata minaccia nell’eventualità che
le mie intenzioni potessero minimamente nuocere a Prospero
Books.

Non riuscii a non pensare a Jane Eyre, mentre salivo la


stretta scala che portava all’angoscioso silenzio del piano
superiore. Della libreria ricordavo ogni angolo polveroso e
ogni aroma, ma non avevo memoria dell’esistenza di un «di
sopra». Di sicuro non ci ero mai stata. C’erano due porte,
una per lato. Provai quella di destra. Era un deposito, pieno
di libri disposti su scaffalature e in scatoloni, e attrezzi per la
pulizia. Dietro tutto quanto, trovai la cassaforte. Era a
combinazione. Non c’era nessun nascondiglio sotto le assi
del pavimento, nessuna serratura accoppiabile alla vecchia
chiave che Billy mi aveva lasciato. Restava solo
l’appartamento.
Con un cigolio aprii la porta, aspettandomi che qualcuno
mi rimproverasse l’intrusione nella vita privata di mio zio.
Non c’era nessuno, perciò azzardai un passo all’interno e
richiusi la porta.
L’ampio soggiorno luccicava di pulviscolo e sole.
Sembrava il paginone centrale di una rivista di design. Un
divano in pelle marrone con un vecchio baule a fare da
tavolino, accanto alla porta un’antica toletta con tre vasi
spaiati disposti lungo il piano. Notai che il baule aveva una
serratura, perciò provai la chiave. Non entrava. E comunque
non era chiuso. Dentro c’erano pile di vestiti ben ripiegati.
Camicie di lino e pantaloni militari, il genere di
abbigliamento che lui portava quando lo frequentavamo.
Dispiegai una button down verde oliva, me la portai al viso e
inspirai a fondo. Aveva un profumo gradevole e fresco, di
borotalco, ma non mi ricordava Billy.
Perlustrai la stanza, in cerca di un’altra serratura. La
cucina era senza porta. Odorava di disinfettante. I banconi
piastrellati e il fornello erano pulitissimi. Il frigorifero era
vuoto, nel freezer c’era una vaschetta da ghiaccio solitaria.
Elijah aveva detto di aver fatto preparare l’appartamento per
me, ed era prevedibile, ma avrei potuto scoprire molte più
cose su Billy se avessi trovato il suo cibo nel frigo e i suoi
rifiuti nel cestino.
La porta della camera era sprovvista di serratura. La
stanza era come il resto della casa – bella ma senza carattere
–, con tanto di mobili in vimini bianchi e, accanto alla porta,
una modesta libreria con edizioni a copertina rigida scolorite
da anni di esposizione al sole. Sulla cassettiera, accanto a un
mazzolino di fiori di campo seccati, c’era la fotografia di una
bionda. La sollevai e soffiai via la polvere depositata sul
vetro. La donna era appoggiata a un masso su una stretta
lingua di sabbia ai piedi di una scogliera, coi capelli fini,
quasi bianchi, che ricadevano sulla spalla destra. La pelle
era traslucida e gli occhi cupi avevano lo stesso verde degli
orecchini. Ma forse ero io a vederli cupi, perché sapevo che
era morta.
Sfilai la fotografia dalla cornicetta per cercare eventuali
scritte. Sul retro era stampato il marchio Kodak, niente frasi
a penna, né date, né nomi. Doveva essere Evelyn. Mia madre
non mi aveva fornito nessun dettaglio sull’aspetto di Evelyn
Weston, ma era esattamente come l’avevo immaginata:
giovane, sui trent’anni, bionda, di una bellezza tormentosa.
Fissai la foto, in cerca d’indizi su dove o quando fosse
stata scattata. Le scogliere mi ricordavano Malibù, che però
aveva innumerevoli anse di spiaggia, e non mi pareva che
fosse una di quelle. Evelyn era struccata. I capelli erano
lunghi e lisci. Gli orecchini di smeraldo erano antichi. La
maglietta bianca poteva risalire a qualunque data dal 1950
al 2000.
Riposi la fotografia nella cornicetta e la collocai sulla
cassettiera, nel punto esatto di prima. Guardandola provai
una profonda tristezza: era l’unica immagine in mostra
nell’appartamento. Doveva essere stato un conforto, per
Billy, rivedere le fattezze di Evelyn ogni giorno. Allo stesso
tempo, vista così, quella foto amplificava il vuoto della vita
privata di mio zio. Mi venne la pelle d’oca. Mi si tesero i
muscoli delle braccia. La sua solitudine mi spaventava. Feci
un’ultima ispezione alla stanza, in cerca di una serratura, ma
non trovandola mi affrettai a uscire, per allontanarmi il più
possibile da quella fotografia.
In soggiorno non c’era nessuna vecchia cassaforte sul
tavolo accanto alla porta d’ingresso, nessuno scrigno sulla
ribaltina in mogano contro la parete di fianco alla cucina. Mi
ricordava quella che i miei genitori tenevano nel corridoio
del piano di sopra, un cimelio ornamentale appartenuto alla
nonna di mio padre. Passai una mano sul legno liscio,
domandandomi se Billy avesse notato la somiglianza tra la
sua ribaltina e la nostra, se ogni tanto, sedendosi qui, avesse
pensato a noi. Provai ad abbassare il piano di scrittura, ma
era bloccato. Con le dita seguii il profilo dell’edera incisa sul
davanti fino a trovare un copritoppa in ottone. La mia chiave
calzava perfettamente. La girai a destra e la serratura
scattò.
La prima cosa che mi colpì fu la puzza di legno vecchio.
L’interno della ribaltina era uno scompiglio di scontrini e
fogliacci color crema. Passai in rassegna le bollette del gas
gualcite e i ritagli ingialliti del Los Angeles Times, sperando
che uno di essi fosse l’indizio successivo, e invece erano
soltanto articoli abbandonati lì. Dietro le vestigia della
quotidianità di Billy, trovai un raccoglitore coi veri cimeli che
aveva tenuto da parte per me: fotografie, una locandina di
una mia recita delle medie, volantini dei miei dibattiti
scolastici. Disposi tutto in ordine cronologico e vidi il
panorama della mia infanzia dispiegarsi davanti a me. La
sequenza cominciava con una foto di me in braccio a Billy,
avvolta in una tutina di cotone color lavanda, lui con
un’espressione tra la stupefazione e il terrore. Poi ce n’era
una di due anni dopo, scattata in un ristorante in penombra,
io e Billy a mangiare lo stesso spaghetto, come in Lilli e il
vagabondo. In un’istantanea del 1991, correvo con un bikini
di paillette. Poi gennaio 1993, il mio settimo compleanno,
l’unica festa alla quale ricordavo che fosse venuto anche
Billy: io e lui in posa con un caprone. Avevo implorato mia
madre di riempire il giardino di animali, domestici o
addomesticati. «Non so, Miranda, non mi sembra igienico»,
mi aveva risposto. Così io ero ricorsa a Billy, e assieme
avevamo perorato la nostra causa stilando un documento nel
quale fornivamo a mia madre un mucchio d’informazioni
sulla capra nana nigeriana, che si riproduceva una volta
all’anno e ne viveva quindici, o sullo zedonk – noto anche
come zonkey, zebrula, zebrinny, zebronkey, zebonkey o
zebadonk – che nonostante i molti nomi era rarissimo,
aggiungendo tutti gli accorgimenti che avremmo preso per
garantire la pulizia (un acquaio mobile e tanto, tanto sapone
antisettico) e citando studi scientifici che dimostravano la
bassissima probabilità di contrarre malattie dalla capra nana
nigeriana della California. Nell’inquadratura, Billy reggeva
la capra come un trofeo.
La foto successiva risaliva alla mia recita di prima media:
Billy che cingeva con le braccia me e Joanie in costume
puritano secentesco: stessa cuffia e stesso abito azzurro, ma
dalla posa si capiva chi fosse Abigail Williams e chi
l’anonima poveretta accusata di stregoneria.
Nell’ultima fotografia c’era il negozio di animali,
esattamente come lo ricordavo: pavimento in linoleum
picchiettato, uccelli variopinti confinati in gabbie metalliche.
Billy mi teneva vicina mentre reggevo la cagnolina davanti
all’obiettivo. Entrambi avevamo un sorriso euforico.
Entrambi sembravamo felici. Di lì a poco sarebbe cambiato
tutto.
Rovistai nella ribaltina in cerca di altre cose che
riguardassero me. Tra estratti conto di carte di credito e
ricevute di distributori di benzina trovai un foglio a righe
ripiegato. La mia scrittura era quasi la stessa di oggi, ma le
parole mi erano estranee.
Ciao, zio Billy!
Sarai sorpreso di ricevere mie notizie. Lo so, è
passata un’eternità! Ieri mi sono diplomata. Pazzesco,
eh? Alla cerimonia, tutti gli altri avevano un sacco di
parenti. Io avevo solo i miei genitori. Così mi sei venuto
in mente tu, che per un periodo avresti potuto far parte
del gruppo.
Mi pensi ancora? A volte mi ricordo quanto ci
divertivamo, assieme. Insomma, volevo farti un salutino.
Se ti va di riscrivermi, a me fa piacere. Non temere, non
lo dico alla mamma. Ah ah!
Con affetto,

MIRANDA

Rileggendo, tentai d’immaginare come si fosse sentito Billy,


nel riceverla. Non mi aveva mai risposto. Me lo sarei
ricordato. Io gli avrei scritto di nuovo, in un carteggio che
forse sarebbe sfociato in qualcosa di più. Di sicuro avrebbe
voluto rispondermi, altrimenti perché conservare la lettera?
Evidentemente sapeva che, per ragioni a me oscure, non
poteva.
Ripiegai lentamente il foglio. Tutto qui? Billy mi aveva
condotto a questa ribaltina solo per mostrarmi che non mi
aveva dimenticato? Che meta deludente, per questa nostra
ultima caccia al tesoro.
Mentre riponevo la lettera nella ribaltina, notai che lungo
un margine c’era una parola scritta a letterine minuscole e
precise: Giù. Lì per lì non ci badai, ma poi rimisi a posto
anche le fotografie e vidi la stessa parola ripetuta sul retro di
ognuna: Giù, giù, giù, giù, giù. E, su quella del negozio di
animali, una frase: Alice scivolava giù. L’indizio.
Corsi in giro per la stanza, in cerca di una libreria o di una
pila di volumi a copertina rigida, o di vecchie edizioni
malandate di Alice nel Paese delle meraviglie. In tutto il
soggiorno non c’era un solo libro.
Feci un respiro profondo, poi tornai in camera. Non avevo
scelta, dovevo rientrare lì. Le coste dei volumi nella libreria
erano talmente sbiadite che il titolo sulla tela si leggeva a
malapena. Piccole donne, Assassinio sul Nilo, Il colore viola,
Il nuovo sesso: Cowgirl, romanzi che non immaginavo in
mano a Billy. Ma c’era un sottile dorso cremisi che quasi
spariva tra Sylvia Plath e Colette. La scritta in foglia dorata
desquamata diceva: Lewis Carroll.
La copertina era discreta. Rossa, con un piccolo ritratto
della protagonista impresso in oro al centro. Passai le dita
lungo i capelli di Alice, il vestitino scampanato, più o meno
come quello di poliestere che avevo portato per tre
Halloween di fila finché non ero più riuscita a chiudere la
cerniera. Billy mi aveva visto in quel costume azzurro?
Ricordava che volevo un coniglietto cui far indossare un
gilet? Aprii il libro.
Alice cadeva giù, giù, giù, su un mucchio di frasche, senza
farsi male. Incuriosita, saggiava diverse porte, ma erano
tutte serrate. Trovava una chiave d’oro, troppo grande per
alcune serrature, troppo piccola per altre. Dietro una bassa
cortina c’era un usciolo. Qui la chiave entrava, ma l’andito
era troppo stretto e non permetteva di raggiungere il
giardino. E qui le parole di Lewis Carroll erano evidenziate
in giallo vivido:

Le erano accadute tante cose straordinarie, che Alice


aveva cominciato a credere che poche fossero le cose
impossibili.

Perciò Alice decideva di essere realista, almeno per quanto


lo si potesse essere dopo aver seguito un coniglio parlante
lungo una galleria buia: cercava istruzioni. Ma invece di un
manuale trovava un’ampolla con scritto: BEVIMI. Continuai a
sfogliare il libro ed ecco tra le pagine una busta con scritto:
Leggimi.
Dentro c’erano diversi fogli piegati. Sul primo, sotto il logo
dell’ospedale Cedars-Sinai, un certo dottor Nazario scriveva
a Billy: Con la presente Le trasmettiamo il Suo referto. La
segreteria La contatterà per fissare la prossima visita. Il
nome del medico era cerchiato in rosso. Gli altri fogli
contenevano i dati clinici di Billy, dai sintomi – affanno e
oppressione al petto – alla diagnosi: stenosi aortica. L’esame
risaliva al marzo di due anni prima.
Rilessi il passaggio evidenziato: ... che poche fossero le
cose impossibili. Ricordavo bene l’edizione illustrata che
avevo da bambina: Alice col vestitino azzurro, in un turbinio
di cuori, quadri, fiori e picche. Mi piaceva pensare che me
l’avesse regalata Billy, e che l’avesse presa da Prospero
Books, e invece l’aveva comprata mia madre nel Westside, in
una libreria per ragazzi. Io e Billy non avevamo mai letto
quel romanzo, nelle sere in cui mi rimboccava le coperte e
mi dava la netta impressione che non ci fosse nulla
d’impossibile. Eppure sapeva che anch’io, come Alice, l’avrei
seguito giù, giù, giù, finché non ci fosse più stato nessun
vuoto in cui cadere.
6

Oltre alla sede principale, il Cedars-Sinai aveva succursali in


tutta la città. Chiedendo informazioni scoprii che il dottor
Nazario lavorava in tre sedi diverse e aveva l’agenda piena
per le successive sei settimane. Tentai di spiegare alla
receptionist che non volevo prenotare una visita, ma solo
parlare di mio zio, e lei si lanciò in un lungo sproloquio sulla
tutela della privacy in ambito sanitario.
«Non c’è un modo per contattare il medico?» le chiesi.
«Può sempre provare a mandargli un’email.»
«La controlla?»
«Non sono la sua segretaria. Vuole l’indirizzo o no?»
Buttai giù due righe al dottor Nazario e le lanciai nella
Rete, nella flebile speranza che le degnasse di una lettura, se
non di una risposta.
Col traffico, ci voleva più di un’ora di macchina per
raggiungere Prospero Books da casa dei miei. Dall’Interstate
10 alla 110 e poi alla 101, attraversando il centro, dove
misteriosamente si frapponeva anche la 5, e il traffico si
agglomerava nell’immenso ingorgo che rendeva famose le
strade di Los Angeles. Quando arrivai al negozio, avrei
voluto vedere la tazza della faglia di Sant’Andrea di Billy di
fianco al computer, la sua malandata borsa di pelle sul
pavimento accanto alla poltroncina da ufficio, Lee che
correva a rispondere al telefono ricordando che da Prospero
Books si dava più valore ai libri che a qualunque altra cosa.
E invece dietro il bancone c’era Malcolm che leggeva.
Appena sentì aprirsi la porta di servizio alzò lo sguardo con
aria speranzosa, ma quando vide che ero io sospirò.
La mattina era più tranquilla del pomeriggio: alle nove,
c’erano solo pochi scrittori dediti al lavoro e una manciata di
persone che attendevano di fare colazione mentre Charlie,
terzo membro del clan di Prospero, schiumava il latte e
macinava il caffè.
Charlie aveva poco più di vent’anni, il GGG tatuato
sull’avambraccio sinistro e la figlia di Wolverine su quello
destro. Si sedette sulla sedia accanto a me e arrotolò una
gamba dei pantaloni, denudando un polpaccio pallido e
lentigginoso. «Qui, pensavo di metterci Willy Wonka. O
magari l’albero di Shel Silverstein, non so.»
«Billy mi ha regalato L’albero quando ho cominciato
l’asilo», ricordai. La settimana prima, Billy doveva andare a
nord, perché un piccolo terremoto aveva scosso i monti
Santa Cruz. Sapeva che ero nervosa, per via della novità
della scuola materna e degli altri bambini che già
immaginavo amici. Gli dispiaceva non esserci, il primo
giorno, così mi aveva regalato L’albero, forse per insegnarmi
qualcosa sull’amicizia o per garantirmi che, comunque
fossero andate le cose all’asilo, lui sarebbe stato il mio
Albero.
«Billy adorava leggere ai bambini», disse Charlie,
riabbassando la gamba dei pantaloni.
«Leggeva anche Alice nel Paese delle meraviglie?» chiesi.
«Ne aveva una vecchia edizione. Quando l’apriva, tutti i
bambini del quartiere correvano qui, come se avessero avuto
una percezione extrasensoriale.»
Estrassi dalla borsa la copia del libro e gliela porsi.
«È questa.» Il suo volto perse ogni leggerezza, mentre
fissava il rosso intenso della copertina rigida.
Riposi il volume nella borsa. «Lavori qui da tanto?»
«Da tre anni. Non pensavo che sarei rimasto tutto questo
tempo, ma sai com’è...»
«No. Com’è?»
Charlie assunse una postura più comoda sulla sedia. «In
quel periodo leggevo Ken Kesey, Henry Miller, cose così. Un
giorno, Billy mi sfila di mano Arancia meccanica e ci mette
La fabbrica di cioccolato. Avevo visto il film, ma non avevo
mai letto il libro. Mi ero dimenticato quanto fosse
perturbante. Cupo, ma non rabbioso. Billy sapeva sempre di
quale libro aveva bisogno una persona. Aveva questa specie
di talento diagnostico, ’biblioterapeutico’, come se i libri
fossero farmaci.»
«O incantesimi», dissi io.
Charlie mi fece l’occhiolino e si alzò per andare a servire
un ragazzino che attendeva al banco.
Io andai a sedermi nel punto più interno, a osservare i
rituali mattutini del negozio. Al tavolino accanto al mio c’era
Ray, lo sceneggiatore, al lavoro. Gli feci un cenno di saluto.
«Miranda, giusto?» disse, sfilandosi le cuffie.
Annuii, come se il fatto di ricordare il mio nome fosse
stato un’impresa titanica.
«Abiti nei dintorni?»
«A Philadelphia. Sono qui solo per qualche settimana.»
«Ecco perché non ti avevamo mai visto.»
«Vieni qui da tanto?»
«Da quattro anni, tutti i giorni. Mi dispiace per Billy. Era
una gran brava persona. È stato lui a presentarmi al mio
agente, Jordan. Se non fosse stato per lui, non farei il lavoro
che faccio.»
Scrutai gli altri tavolini occupati da clienti al lavoro,
domandandomi in che modo mio zio avesse cambiato la loro
vita, se ricordassero lo stesso Billy che ricordavano Charlie e
Ray lo sceneggiatore, il Billy che coi suoi piccoli gesti di
gentilezza aveva reso la loro esistenza un po’ più completa.
Il cellulare mi avvisò che era arrivata un’email. Ero
fortunata: il dottor Nazario aveva davvero letto il mio
messaggio e gli si era appena liberata un’ora. Potevo passare
da lui quel pomeriggio? Digitai un rapido Sì! e uscii. Solo
dopo, imbottigliata nel traffico di Beverly Boulevard, mi resi
conto di non aver nemmeno salutato Malcolm.
Nazario era alto, con una mandibola volitiva e talmente
scolpita da dare l’idea che a baciarlo ci si sarebbe fatti male.
Sembrava uno di quei medici che si vedono in televisione,
più che un vero laureato in Medicina, ma Los Angeles era
così: quasi tutti sembravano la versione famosa di se stessi.
Perfino Malcolm, con quegli occhi accesi e gli zigomi
pronunciati, era più attraente del solito libraio trasandato.
Nazario mi mostrò una lettera. «Billy mi ha autorizzato a
metterla a parte della sua storia clinica.»
Il documento era stato autenticato da Elijah un anno
prima della morte di mio zio.
Il dottor Nazario mi mostrò un cuore di plastica e lo aprì.
«La stenosi aortica è un restringimento anomalo di questa
valvola qui, vede? Quando il passaggio è talmente stretto da
non consentire al sangue di uscire dal ventricolo sinistro e
immettersi nel sistema arterioso, possono insorgere vari
problemi cardiaci. Esistono diverse possibilità di sostituzione
della valvola, ma Billy si è rivolto a me solo quando ha
cominciato ad accusare fortissimi dolori al petto, e a quel
punto l’intervento era troppo rischioso. Gli abbiamo
prescritto diuretici per ridurre l’ipertensione polmonare,
dopodiché l’abbiamo tenuto sotto stretta osservazione. Data
la gravità della stenosi, è stato perfino fortunato a restare al
mondo per altri due anni.»
Scrutai la plastica color pesca del modellino di cuore
finché il dottor Nazario non lo richiuse.
Passò in rassegna il contenuto del faldone di Billy, poi mi
porse una busta. «Mi ha pregato di darle questa», mi disse,
facendomi cenno di uscire.
«Cosa può provocare convulsioni in una persona che non
soffre di epilessia?» gli chiesi, mentre lo seguivo lungo il
corridoio, reggendo in mano la busta col nuovo indizio,
ancora da aprire.
«Le ha avute lei?»
«No, la moglie di Billy. È morta tra convulsioni violente.
Vorrei capire come sia possibile che una donna ancora
giovane perda la vita in quel modo.»
«Be’, le convulsioni possono avere molte cause, anche non
legate all’epilessia. Psicogene, per dirne una.
Tossicodipendenza, tumore cerebrale, malformazione
vascolare del cervello, trauma cranico. Difficile
determinarne una, senza disporre della cartella clinica.»
«... che io non ho. Tra tutte queste cause, ce n’è una più
frequente?»
Il dottor Nazario aggrottò le sopracciglia. «Temo di non
poter azzardare una diagnosi su così pochi dati.»
Lo ringraziai e me ne andai. Anche se non sapeva
indovinare la causa delle convulsioni di Evelyn, la sua
spiegazione confermava i miei sospetti sul fatto che i miei
genitori nascondessero qualcosa. Se la morte di Evelyn fosse
stata legata a un’overdose, mio padre avrebbe perlomeno
accennato a un problema di droga. In caso di tumore,
l’avrebbe detto chiaro e tondo. Se fosse stato un trauma
cranico, avrebbe detto «incidente». Insomma, avrebbe
dovuto nominare la causa ultima. Se Evelyn era morta tra
forti convulsioni, evidentemente c’era qualcosa a monte,
qualcosa di cui mio padre, per un motivo o per l’altro, non
voleva mettermi al corrente.
Fuori dalle porte automatiche del Cedars-Sinai, aprii la
busta che mi aveva dato il dottor Nazario.

La scienza è alla radice di ogni vita, soprattutto della


mia. Sono fatto di fibre, muscoli e cervello, alto due
metri e mezzo, forte, con capelli di un nero lucente e
denti di un candore perlaceo, ma nonostante queste
avvenenze non mi troveresti attraente.

Non riconoscevo questo passaggio. Lo digitai sullo


smartphone e Google mi elencò una serie di articoli sulle
cellule nervose e muscolari, o siti che spiegavano ai bambini
il funzionamento del corpo. Nessun richiamo preciso a
«capelli di un nero lucente» e «denti di un candore
perlaceo». Non era una citazione di un libro, ma un
indovinello.
Alcuni dettagli mi saltarono subito all’occhio: «fibre» era
scritto secondo l’ortografia britannica, fibres, non fibers.
Statura eccezionale, scienza... Alludeva alle memorie o alla
biografia di un grande scienziato? O alla filosofia di Platone
o Aristotele? O a qualcosa di letterario? Ero fuori esercizio;
non indovinavo la risposta.
Riposi l’indizio nella tasca posteriore dei pantaloni ed
esaminai l’altro foglio che il dottor Nazario mi aveva dato –
la lettera che lo autorizzava a parlarmi – in cerca di una
traccia, qualcosa che mi aiutasse a risolvere l’indovinello.
L’unica cosa che risaltava era la firma di Elijah, che aveva
autenticato il documento. Quant’era in confidenza con Billy?
Abbastanza da essere il suo esecutore testamentario. E da
vedersi affidare Jane Eyre. Abbastanza da autenticare la
lettera che mi permetteva di parlare col suo medico.
Abbastanza da sapere cos’aveva Billy in serbo per me. O
almeno, così speravo.

L’ufficio di Elijah era a pochi minuti di macchina dal Cedars-


Sinai.
«Miranda?» Mentre mi faceva entrare, si grattò la testa,
scompigliandosi ancora di più i capelli. Anche stavolta era in
gessato grigio, e mi domandai se fosse lo stesso completo,
oppure se ne avesse tanti identici. «Avevamo un
appuntamento?»
«È un momento inopportuno?» chiesi.
«Ma no, per carità.» Mi fece cenno di accomodarmi. «Sono
tutto tuo.»
Dopo essermi seduta su una delle sue rigide poltrone in
pelle, gli porsi la lettera – autenticata da lui – che
autorizzava il dottor Nazario a mettermi a parte della storia
clinica di Billy.
«Era malato da un po’. Non ricordo quest’autenticazione.»
Elijah mi restituì il foglio.
Gli mostrai l’indovinello. «Billy aveva lasciato al dottor
Nazario anche questo.»
Lui lo scorse rapidamente. «Arguto», disse,
riconsegnandomelo.
«Conosci la risposta?»
«Se l’ha lasciato per te, immagino che volesse che lo
risolvessi tu.»
Lo scrutai con sospetto, e lui ricambiò lo sguardo. «Mio
zio ti ha detto che mi stava organizzando una caccia al
tesoro?»
«No, non ha mai accennato a niente del genere.»
«E nemmeno al motivo per cui ha lasciato il negozio a
me?»
«Non hai avuto la lettera?» disse lui, sorpreso.
«Quale lettera?»
«L’ho spedita io, dopo che è mancato Billy.»
Evidentemente si riferiva alla busta che conteneva La
tempesta.
«Com’è che hai cominciato a lavorare per Billy?»
«Mio padre era il suo avvocato. Quindici anni fa, quand’è
andato in pensione, gli sono subentrato io.» Nel frattempo
era entrata la segretaria, che porse a ognuno di noi una
tazza di caffè tiepido. Elijah ne prese un sorso e fece una
faccia schifata. «Madeline! Ma è quello di ieri? Ne
prepareresti dell’altro?» Mi prese di mano la tazza. «Non
posso lasciarti bere questa roba.»
Mollai la tazza. «Che genere di lavoro faceva tuo padre
per Billy?»
«Lo ha aiutato in una controversia sul fondo fiduciario di
sua moglie. Dopo allora, ogni volta che Billy ha avuto
bisogno di un avvocato, contattava mio padre.»
«Una controversia?»
«Col suocero, mi pare. La moglie aveva rilevato Prospero
Books coi soldi di un fondo fiduciario aperto da lui. Quando
poi è morta, lui ha tentato di rastrellare le sue proprietà.»
«Prospero Books apparteneva a Evelyn?» Eppure era
talmente ovvio, non capivo perché non mi fosse venuto in
mente prima. Mi era sempre parso strano che Billy
possedesse una libreria. D’altro canto, in Billy non c’era
niente che non fosse strano, sorprendente, unico.
Elijah annuì. «Billy non c’entrava niente col negozio,
perciò il suocero non pensava che spettasse a lui. Il
problema non sarebbe sorto se ci fosse stato un testamento,
ma ai giovani non viene mai in mente che sia necessario
farlo, a meno che non siano ricchissimi. Tu l’hai fatto?»
«Non sono ricchissima.»
«Però dovresti, soprattutto adesso che possiedi un
immobile.» Elijah prese in mano le due tazze e con un gesto
mi segnalò che sarebbe tornato subito.
Mentre aspettavo, rilessi l’indovinello di Billy. La scienza è
alla radice di ogni vita, soprattutto della mia. Sono fatto di
fibre, muscoli e cervello... Fibres, con la grafia britannica.
Uno scienziato inglese? Thomas Huxley? Bacone? Darwin?
Nessuno di questi sembrava la risposta giusta. E se Elijah
l’aveva indovinata così in fretta era chiaro che mi sfuggiva
qualcosa. Ecco il problema degli indovinelli: la semplicità. I
più ingegnosi erano quelli che nascondevano meglio la
propria linearità. Continuai a fissare la parola fibres fino a
ridurla a un puro agglomerato di lettere, svuotato del suo
significato. A ogni rilettura, l’indizio diventava più
indecifrabile, perciò lo riposi, imponendomi di non pensarci.
Era l’unico modo di risolvere l’indovinello: guardarlo con
occhi nuovi.
Elijah ricomparve con un faldone e due nuove tazze di
caffè. Me ne porse una. «Sa ancora di nafta, ma almeno è
appena fatto.» Si sedette sulla poltrona in pelle accanto alla
mia e inclinò il faldone verso di me. «È un momento buono
come un altro, per mostrarti cosa ti aspetta.» Aveva
stampato i prospetti dei costi di gestione, delle vendite, delle
paghe e dei costi di fornitura degli ultimi due anni. Lucia e
Charlie prendevano solo tredici dollari l’ora. Malcolm aveva
un fisso mensile, che però non superava il mio stipendio
d’insegnante. «La bella notizia è che l’immobile vale molto di
più di quando è stato acquistato, negli anni ’80, e che il
mutuo sarà estinto tra due anni e mezzo. E le rate sono
irrisorie. In più, Billy non metteva a registro i libri di
seconda mano, quindi la situazione è più rosea di quanto non
sembri da queste cifre.»
«E la notizia brutta?»
«Con la crisi economica, per coprire le spese del negozio,
Billy ha venduto la casa di Pasadena. Io gliel’avevo
sconsigliato. Quei soldi sono bastati per qualche anno, poi ha
dovuto chiedere un fido bancario. Temo che su quel negozio
gravino parecchi debiti, e le vendite non sono più quelle di
una volta.» Sfogliò fino a trovare un tabulato delle vendite,
che avevano un picco in dicembre e uno all’inizio dell’estate,
comunque mai sufficienti a bilanciare i costi. Negli altri
mesi, soprattutto agosto, gli affari crollavano. «Le librerie
non sono come gli altri negozi: non si può alzare il prezzo
della merce per aumentare i profitti. I libri rari possono
essere una fonte di guadagno, ma sono – per l’appunto – rari.
Gliel’ho spiegato diverse volte, ma lui non sentiva ragioni.»
Passò un dito lungo la colonna successiva. «In compenso è
buono il bilancio del caffè, ma sui cappuccini e sui cupcake
si guadagna solo fino a un certo punto.»
«E quindi, stringi stringi...»
«Temo che Prospero Books abbia ben poche possibilità di
restare aperto. Se vendi l’immobile, dopo aver estinto i
debiti di Billy avanzerà ancora qualche soldo.»
«Ma la libreria è aperta da... Da quant’è che esiste?»
«Circa trent’anni. Vorrei poter darti notizie migliori.»
Evidentemente notò il mio sconforto, perché aggiunse: «Se
decidi di vendere, nessuno ti biasimerà. Puoi farti una
vacanzina alle Hawaii, regalata da tuo zio».
Se mi stava consigliando di vendere, montare su un jet per
le Hawaii e sedermi in spiaggia a sorseggiare drink con
tanto di ombrellino pensando alla pacchia di una vacanza
gratis, non conosceva Billy quanto credeva. Non capiva che
mio zio aveva lasciato la libreria a me proprio perché sapeva
che non l’avrei venduta. Sapeva che non avrei permesso che
diventasse un juice bar o una di quelle bottegucce di cui
abbondava Silver Lake.
«Non vendo», gli dissi. «A meno che il compratore non mi
garantisca che resterà una libreria.»
Elijah mi porse il faldone. «Allora sarà il caso che tu trovi
un modo per riportare il bilancio in positivo. In banca c’è
abbastanza da resistere sino alla fine di settembre.
Dopodiché...» Non occorreva completare la frase.
Mentre mi accompagnava all’uscita, gli chiesi: «Come si è
risolta la controversia testamentaria?»
«Il suocero aveva perso in partenza. La libreria, l’aveva
pagata Evelyn, ma in regime di comunione dei beni, perciò
spettava a Billy. Sono tante, le persone che impugnano un
testamento senza averne le basi, e non è mai soltanto una
questione di soldi. Ecco perché il diritto successorio è una
buona specializzazione per un avvocato. Come quello
matrimoniale.» Mi fece un cenno di saluto, mentre uscivo in
strada.
M’incamminai verso l’auto dei miei genitori, calciando i
petali color pervinca sparsi sul marciapiede. Perfino io, che
di finanza non capivo niente, mi rendevo conto di quanto
fosse stato sconsiderato mio zio, a chiedere un fido alla
banca.
Quando raggiunsi la macchina, mi resi conto di aver
dimenticato la regola d’oro dei viali di giacarande: mai
parcheggiare sotto un albero in fiore. Il parabrezza era un
sudario appiccicoso di petali viola. Azionai il tergicristallo e
le spazzole mulinarono lasciando un residuo opaco. Spruzzai
il liquido lavavetri e tentai di ricordare le parole esatte con
cui mia madre aveva risposto alla mia domanda sul nome di
Prospero Books. Mi aveva detto che Evelyn adorava La
tempesta, non che aveva chiamato il negozio in onore di
quell’opera. E non era una risposta mal formulata: non
voleva che io sapessi che la libreria era appartenuta a
Evelyn, allo stesso modo in cui mio padre non voleva che io
conoscessi la vera causa della sua morte.
Presi il cellulare e visitai il sito di Prospero Books. C’era
una homepage, ma nessuna sezione Chi siamo, nessun
motore di ricerca, nessun consiglio di lettura. Solo una
fotografia della facciata, l’orario di apertura, tutti i giorni
dalle 8.00 alle 19.00, il numero di telefono e l’anno di
fondazione: 1984.
C’era un nesso tra Prospero Books e la morte di Evelyn?
Come si spiegava il fatto che il padre di lei avesse impugnato
il testamento? E che Elijah avesse fatto tanto in fretta a
risolvere l’indovinello? Mi serviva un orecchio che mi
ascoltasse, qualcuno che tra una partita e l’altra amasse
guardare un poliziesco.
«Ho solo un minuto», mi disse Jay, rispondendo al
telefono. In sottofondo, le grida dei ragazzi, come se alzare il
volume della voce li avrebbe resi più spiritosi. «Stanno
finendo i due chilometri di corsa. Che bello, sentire la tua
voce.»
«Veramente non l’avevi ancora sentita», gli dissi io.
«Be’, è bello sentirla adesso. Che fai di bello?»
«Sono appena stata dall’avvocato di Billy. Abbiamo
guardato la contabilità...»
«Tyler!» gridò lui. «Piantala, dai!» Poi riavvicinò il
cellulare alla bocca. «Scusa, dicevi?»
«La libreria di Billy è piena di debiti. Un casino totale.»
«Tyler? Devo venire a tirarti le orecchie davanti a tutti? Ti
ho detto di piantarla.» La sua voce si fece più forte, all’altro
capo della linea. «Scusa, Miranda, Tyler sta facendo lo
stronzetto.»
«Perché è uno stronzetto. Di quelli belli svegli.» Tyler era
un mio ex alunno. Stava all’ultimo banco e faceva battute
sconce, ma i suoi temi erano i più belli di tutta la classe.
«Non so cosa fare. Ci rimarrei molto male, se la libreria
chiudesse.»
«Quindi immagino che non sarai a casa per il fine
settimana.»
«Ma mi ascolti? È possibile che mi tocchi chiudere il
negozio di mio zio.»
«Magari è la sua ora.» Lo udii schioccare le dita tre volte.
«Non dire così.»
«Miranda, sono nel bel mezzo di un allenamento.
Possiamo parlarne più tardi?»
«Ma hai capito come mai ci tengo tanto?»
«Più o meno. Sentiamoci stasera. Ti chiamo appena arrivo
a casa.»
«No, io voglio la tua opinione adesso.»
«È solo che... non mi avevi mai parlato di questa libreria.»
Le sue parole ebbero lo stesso effetto di un ceffone. O di un
pugno in pancia. «Senti, i ragazzi hanno quasi finito l’ultimo
giro. Ti chiamo dopo, eh?» Riattaccò senza neanche salutare.
Il tergicristallo era ancora acceso, le spazzole cigolavano
contro il vetro asciutto. Un suono orribile. Unghie sulla
lavagna. Un cadavere trascinato. Non spensi. Continuai ad
ascoltare lo stridio. Aveva ragione Jay: non gli avevo mai
parlato di Prospero Books, nemmeno quando avevo ricevuto
quella copia della Tempesta. Non avevo mai chiesto a mia
madre perché amasse quell’opera, non avevo mai associato il
mio nome a quello della libreria, non avevo nemmeno avuto
abbastanza attenzione verso Billy da rendermi conto che era
sempre stato in lutto, per tutto il tempo in cui l’avevo
frequentato. Mamma e papà nascondevano qualcosa su
Evelyn, su Prospero Books, ma che diritto avevo di scoprire
il loro segreto, io che finora non me n’ero mai interessata?
Jay avrà anche avuto ragione su di me, ma aveva torto su
Prospero Books. La soluzione non era fare spallucce e dire:
Oh, be’, prima o poi ogni cosa ha una fine. Jay non avrebbe
capito, né ora, né mai. Ma tanto non spettava a lui, aiutarmi
a salvare Prospero Books.
7

Durante la mia breve assenza, il caffè si era svuotato e


ripopolato. Ray lo sceneggiatore era ancora lì, ligio nel
rispettare il suo «orario d’ufficio». I tavolini degli altri
scrittori erano ora occupati da adolescenti che parlavano a
voce alta bevendo mocaccino. A cinque dollari e mezzo l’uno,
calcolai quanto incassavamo grazie alle ragazzine e ai clienti
che passavano per un caffè al volo. Il bilancio era
sicuramente all’attivo ma, come diceva Elijah, sui cappuccini
e sui cupcake si guadagna solo fino a un certo punto.
Mi sedetti a uno dei tavolini liberi e aprii il faldone che mi
aveva dato Elijah, con tutti i prospetti finanziari del negozio.
Non sapevo neanch’io cosa stavo cercando, forse il barlume
di un’idea su come risollevare le sorti della libreria, ma in
fondo a ogni pagina vedevo solo perdite, cifre in rosso, che
spaziavano dai duemila dollari dei periodi di vacanza agli
ottomila di agosto. Perfino nella stagione delle feste,
Prospero Books era in piena depressione.
Il mio telefono vibrò. Era un messaggio di Jay, la foto di un
asino con un fumetto che diceva: Sono proprio un somaro.
Non fui abbastanza veloce a rispondergli, ed ecco un nuovo
messaggio: Riuscirai mai a perdonarmi?
Scrissi: Se uno si dà tanta pena per trovare una foto del
genere e darsi del somaro da solo, come si può resistere? Ma
non ero sicura che il tono fosse azzeccato, né che lui mi
conoscesse così bene da andare oltre il mio sarcasmo e
tradurlo in Scuse accettate, perciò aggiunsi: Ti ho già
perdonato.
Al tavolino accanto al mio c’era lo smilzo che avevo visto
al funerale di Billy. Canticchiava sommessamente, e intanto
con un fazzoletto si puliva le lenti bifocali. La melodia era
allegra, senza più traccia della desolazione del canto al
funerale di Billy. Tra il pizzetto bianco, gli occhiali dalla
montatura sottile e le guance dai capillari rotti, era il ritratto
dell’intellettuale eccentrico e in là con gli anni, che avrebbe
potuto essere un amico di mio zio.
Mi presentai come Miranda, nipote di Billy. Lui si presentò
come dottor Howard.
«Mi è piaciuto il brano che ha cantato al funerale.»
«Temo di non rammentarlo neppure. Sa, quando c’è
whisky che gira, il mio bicchiere non è mai vuoto.» Con la
punta dell’indice si diede un paio di colpetti alla testa, poi
annotò qualcosa sul quaderno.
«Lei e mio zio eravate molto amici?»
«Mi ha trasmesso l’arte delle scienze. Io ho trasmesso a
lui l’arte della poesia. Temo che non abbiamo mai compreso
del tutto le reciproche materie, ma ci accomunava la
passione.»
Chiusi il faldone. «Lei ricorda qualche libro di scienze che
Billy amasse in modo particolare? Un testo sui muscoli, o
sulle fibre muscolari? O un trattato di anatomia?»
«L’anatomia era ben modesta cosa per il nostro Billy. Una
volta mi ha fatto dono di una biografia di Charles Richter.
Temo di averla trovata tremendamente tediosa.»
Una biografia di Charles Richter? Non c’entrava niente
con muscoli, fibre e stature eccezionali. Non c’entrava
nemmeno con La tempesta, Jane Eyre e Alice nel Paese delle
meraviglie. Quelle erano celebri opere letterarie, classici che
qualunque lettore conosceva. Questa, invece, era la storia di
un sismologo famoso per avere inventato una scala per
misurare la magnitudo dei terremoti.
«Da quanto tempo frequenta questo locale?» gli chiesi.
Contò sulle dita. «Almeno un paio di lustri.»
«Quindi non ha conosciuto la persona che possedeva il
negozio in origine?»
«Lee?»
«No, Evelyn. La moglie di Billy.»
«Non ho mai saputo che fosse sposato.» Il dottor Howard
si tirò piano il pizzetto, meditando su questa informazione.
«Perché i raggi della luna mi fan solo sognare / la bella
Annabel Lee; / e non brillano stelle senza che io pensi agli
occhi / della bella Annabel Lee.»
«Che bella», gli dissi. «L’ha scritta lei?»
«Oh, lei mi lusinga. Temo che lei non abbia mai fatto
esperienza dell’amore, se non conosce Annabel Lee. Non si
preoccupi, è ancora giovane.» Nel vedere il mio imbarazzo,
ridacchiò. «È Poe, mia cara. Edgar Allan Poe. Quanto amava
la moglie, la bella Annabel Lee!»
La bella Annabel Lee. La bella Evelyn Weston. Magari il
dottor Howard non sapeva di Evelyn, ma capiva che la
passione principale di Billy non era la scienza. Ma da
Prospero Books c’era un’altra persona abbastanza vicina a
Billy da leggere un brano al suo funerale, qualcuno che
conosceva i suoi gusti in fatto di poesie, qualcuno che forse
sapeva della donna sepolta al suo fianco a Forest Lawn.
Malcolm stava leggendo, quasi nella stessa posizione di
quando l’avevo visto al mattino. La mia sedia grattò il
pavimento mentre mi alzavo dal tavolino. Feci un cenno di
saluto al dottor Howard, che lui ricambiò prima di tendere la
mano per prendere uno dei volumi aperti sul tavolino. Io
presi il faldone della contabilità e mi diressi al bancone. Era
il momento di scoprire cosa mi nascondeva Malcolm.
Quando lasciai cadere il faldone sul piano, sussultò, come
se mi fossi avvicinata di soppiatto.
«Se riesci a vendere un libro a ciascuno dei prossimi dieci
clienti che entrano, ti do un aumento.» Sorrisi.
A quel mio tentativo di fare la simpaticona, lui fece una
risatina che era più un colpo di tosse, lanciandomi
un’occhiata inquieta che cominciavo a riconoscere.
«La tua è una diffidenza indiscriminata, o sono io a
ispirartela?»
«La seconda, direi», rispose, con un tono non ostile ma
neppure del tutto amichevole. Chiuse le bozze rilegate che
stava leggendo e le ripose sotto il bancone, poi intrecciò le
dita e si appoggiò al piano di scrittura, preparandosi
spiritualmente a qualunque cosa stesse per accadere.
«Billy ti ha mai parlato di Evelyn?» gli chiesi.
«Evelyn chi?» Non batté ciglio e tenne lo sguardo fisso su
di me. Sarebbe stato un ottimo giocatore di poker.
«Evelyn Weston.»
Fece spallucce, come se quel nome gli suonasse nuovo. E
magari lo era. Non la conosceva neppure il dottor Howard,
che era il cliente abituale di più lunga data. Eppure dalle
dita irrequiete di Malcolm, dal modo in cui trasaliva ogni
volta che mi vedeva, capivo che – Evelyn o non Evelyn – mi
nascondeva qualcosa.
«Billy non ha mai organizzato giochi in negozio? Una
caccia al tesoro, magari? Qualcosa d’interattivo? O con
indovinelli?»
«No, non che io ricordi. Perché?» Continuava a scrutarmi
con quegli occhioni guardinghi. Le iridi erano come gemme
con sfaccettature che catturavano la luce e brillavano.
Subentrò l’istinto, che mi disse di tenergli nascosta la
caccia al tesoro di Billy. «Mah, niente.» Girai verso di lui il
faldone della contabilità.
Lui sfogliò i prospetti finanziari di Prospero Books, i rilievi
di redditività mensile, spese per l’immobile, costi operativi e
– in rosso a fondo pagina – l’utile netto. O meglio, la perdita
netta.
«Lo sapevi, che eravamo messi così male?»
Malcolm cominciò a tirare una pellicina del pollice. «Billy
non mi ha mai mostrato la contabilità.»
«Credevo che tu fossi il gestore.»
«Sì, ma solo per la conduzione quotidiana: forniture,
agenti di vendita, inventari, controllare che il caffè sia a
norma... Dell’amministrazione si occupava lui.» Malcolm tirò
più forte la pellicina fino a strapparla, creando una perlina di
sangue.
«Ti dava un budget?»
«Acquistiamo poche copie alla volta. Se vendono, ne
ordiniamo altre.» Si succhiò il dito sanguinante, poi si rese
conto che lo stavo osservando e nascose la mano sotto il
bancone.
«Ma come fate a permettervi le forniture?»
«I pagamenti si fanno dopo un mese o due, a volte anche
tre. Se il libro non vende, lo rendiamo.»
«Ma anche i resi hanno un costo, no?»
«Eh, già: la spedizione.» Malcolm avvicinò il faldone a sé
per guardare meglio i prospetti. «Te l’ha data l’avvocato,
questa roba? Era da anni che faceva pressioni a Billy. Non
credere a una parola di quello che dice.»
«Il suo mestiere consiste solo nel dare consigli.»
«È un incompetente illetterato, senza nessuna stima per la
parola scritta.»
«La parola scritta è la base dell’avvocatura. Lo sai cosa
sognano di fare i giuristi? I romanzieri.»
«Non i divorzisti. Quell’individuo succhia soldi perfino ai
morti.»
«E allora come mai Billy si fidava di lui?»
«Perché gli dispiaceva mollare le persone.» Malcolm
cambiò espressione, d’un tratto parve chiedere scusa. Anche
se non sapeva di Evelyn, era al corrente di tutte le persone
che Billy aveva dovuto lasciare. Era al corrente di me.
«Faceva meno fatica a tenersi quell’avvocato, che non a
cercarsene uno nuovo», tentò di rimediare alla gaffe. «Hai
presente? Chi lascia la via vecchia per la nuova...»
«... sa quel che lascia, non sa quel che trova», completai
io.
Malcolm abbandonò la conversazione per andare al
computer a rispondere alle email. Non capivo perché
fingesse di non sapere certe cose del passato di Billy, né in
che modo la cosa lo mettesse in una posizione di vantaggio,
né perché io valutassi le sue azioni come se tra me e lui ci
fosse stata una lotta di potere. Meno male che, essendo
professoressa, avevo imparato il valore della mediazione e
del gioco di squadra. Una libreria mi sembrava un luogo
principe in cui coltivare uno spirito comunitario, soprattutto
se era una libreria che entrambi amavamo, una libreria che
nessuno dei due voleva veder fallire.
Gli lasciai il faldone, sperando che in mia assenza
passasse in rassegna la contabilità, che una volta solo
riflettesse sulla sorte che quei numeri profetizzavano. Non
conoscevo il negozio abbastanza bene da sapere come
salvarlo. Mi serviva l’aiuto di Malcolm ma, vedendolo assorto
davanti al voluminoso monitor del computer, riluttante a
guardare il faldone che avevo lasciato aperto, una nostra
collaborazione mi parve impossibile.

Il traffico verso ovest era scorrevole ma, chissà perché, mi


diede l’impressione che la casa dei miei genitori fosse ancora
più lontana. Quando entrai, trovai mia madre sul divano a
guardare un telefilm poliziesco.
«Miranda?» disse, come se non si fosse aspettata di
vedermi. Mise in pausa sul fotogramma di una graziosa
assistente di laboratorio china su un microscopio e mi strinse
un braccio mentre mi oltrepassava per entrare in cucina. «Ti
preparo un boccone.» Se io avessi fame o no, era del tutto
secondario.
Mi sedetti su uno sgabello davanti all’isola della cucina, a
guardarla affettare peperoni e cetrioli. «Il papà dov’è?»
«Mah, secondo te?» Fece un gesto verso il garage, che ora
fungeva da laboratorio di falegnameria. Da dietro la porta
chiusa arrivava il ronzio costante di una smerigliatrice.
Guardai il volto calmo e bello di mia madre concentrarsi
sulla lama del coltello che fendeva la polpa del cetriolo. Un
quadretto domestico, elegante e composto, come se la mia
fosse stata una visita analoga a tutte le altre, come se non
fossi appena tornata dalla libreria del suo defunto fratello.
«Come mai non mi hai detto che è stata Evelyn ad aprire
Prospero Books?»
Lei mi lanciò un’occhiata perplessa. «Ne abbiamo parlato
giusto l’altro giorno.»
«Mi hai detto che il nome del negozio era un omaggio a
lei, non che era stata lei ad aprirlo.»
«Non volevo confonderti.» Dispose le fette di cetriolo su
un piatto e prese dal frigo un Tupperware di salsa allo
yogurt. «L’ho fatta con l’aneto, come piace a te.» Ne versò
un po’ nel piatto, che poi mi piazzò davanti.
Cercai nel suo volto i segni della menzogna, ma era la
solita, la mamma paziente, amorevole e più carina di me. E
riecco il dissidio interiore in cui mi ero trovata con Malcolm:
da una parte il desiderio di credere all’evidenza, dall’altra
l’istinto che mi diceva che qualcosa non quadrava. Di lei mi
ero sempre fidata, ma allora come mai non le avevo ancora
parlato della caccia al tesoro di Billy? Mi stava nascondendo
qualcosa, come anch’io nascondevo qualcosa a lei. «Il
negozio naviga in cattive acque. Le finanze sono un disastro.
Non so cosa fare.»
Lei parve sorpresa. «Ah, non lo vendi?»
«Come faccio a venderlo? Me l’ha lasciato Billy!»
«Tesoro, no, non essere ingiusta con te stessa.»
«Non voglio lasciare il mio lavoro, niente del genere, ma
non posso lasciar affondare la libreria.»
Lei rimise il tappo al Tupperware. «Dammi retta, non puoi
riaggiustare le cose rotte da Billy», disse, rivolta all’interno
del frigorifero.
«Cosa starebbe a significare?»
«Niente.» Mia madre chiuse il frigo e si voltò verso di me.
«È stata una giornataccia. La mia segretaria mi ha messo in
agenda due appuntamenti nello stesso momento e ho dovuto
passare ore a sedare gli animi.» Prese il telecomando e
premette PLAY. «Adesso devo decomprimere, eh?»
Ma fu una giornataccia anche l’indomani, altrettanto
estenuante. E poi il giorno dopo ancora, quando accusò un
mal di testa, seguito a sua volta da una nuova giornata di
stress. Era passata una settimana, dal mio ritorno alla casa
dei miei genitori, e lei era sempre lì, con lo sguardo vuoto,
davanti al televisore. Non ne potevo più, né dei suoi segreti,
né dei miei. E neanche della sua tristezza.

«Non preferisci stare qui, dove hai una stanza tutta per te?»
disse la mamma, quando annunciai ai miei genitori che mi
trasferivo a casa di Joanie.
«È troppo scomodo guidare tutti i giorni da un capo
all’altro della città. È più facile, se sto là.»
«Ma Joanie non abita col suo ragazzo? Cosa fai, vai a
reggere il moccolo?»
«Susan... Se lei vuole così...» le disse il papà.
«Domenica ci sarò, per la grigliata», promisi.
«Hai idea di quanto ti fermerai?» mi chiese mia madre.
«Non ancora. Una settimana o due? Vorrei tornare a casa
per il 4 luglio.» C’erano coppie che tenevano a stare assieme
per San Valentino, altre per Capodanno o Natale. Per me era
il 4 luglio. Tenere per mano Jay mentre guardavamo i fuochi
artificiali dal prato ai piedi della gradinata del Museum of
Art, tornare a casa a piedi tra gli aromi della notte, passando
accanto ai festaioli troppo pieni di birra e hot dog. Per la
nostra nazione era un compleanno simbolico – in quella data
il Congresso aveva approvato la Dichiarazione
d’Indipendenza, ma non l’aveva ancora firmata né messa in
atto – eppure io lo adoravo, soprattutto a Philadelphia.
Mia madre si sforzò di sorridere. «Be’, cerchiamo di
goderci la tua presenza, finché possiamo.»
Mentre preparavo la valigia, lei comparve sulla soglia
della mia stanza di una volta e mi guardò ripiegare un
prendisole.
«Lo sai, che puoi tornare quando vuoi. Se il divano di
Joanie ti stufa, la tua camera è sempre qui.»
«Se mi stufo, mi sa che vado a stare alla libreria», dissi,
posando delicatamente il prendisole sopra gli altri vestiti che
avevo già messo in valigia. «C’è un appartamento. Billy
abitava lì.»
«Viveva sopra la libreria? E tu vorresti stare là?»
«È comodo.» Non le dissi che quell’appartamento mi dava
i brividi ogni volta che ci entravo. Erano dovuti in parte al
fatto che Billy ci avesse abitato fino alla morte, ma
soprattutto alla fotografia di Evelyn, con quella sua bellezza
inquietante, che mi costringeva a prendere in esame un lato
di mio zio che preferivo non conoscere.
«E sei sempre dell’idea di tenere il negozio?» mi chiese
mia madre.
«Almeno finché non troverò un compratore fidato.»
«Ricordati solo quanti anni hai ancora davanti a te, e non
vorrei che tu buttassi al vento tutto quanto, per occuparti di
una libreria in fallimento.» Tamburellò con le mani sugli
stipiti, poi si risospinse all’indietro, nel corridoio. «Ci
vediamo domenica sera?» Sorrise, come se non si fosse resa
conto del presagio funesto che mi aveva appena dato.

Joanie e il suo ragazzo si erano appena trasferiti in un


bungalow a poco più di un chilometro da Prospero Books, a
monte del bacino idrico. Un boschetto di fichi separava la
loro casa in affitto da quella del proprietario. Joanie diceva
che potevo stare da loro per tutto il tempo che mi serviva, e
se fosse ancora stata in quella specie di bunker di West
Hollywood sarei rimasta volentieri da lei per tutta la mia
permanenza a Los Angeles, ma la loro camera da letto era
piccola anche per due persone, figuriamoci tre. Oltretutto,
erano in quella fase simil-luna-di-miele in cui si baciavano
ogni volta che entravano o uscivano da una stanza, nessuno
dei due era ancora infastidito da cosa l’altro sceglieva di
guardare in tv o da come lavava i piatti.
L’avrei voluta anch’io, una fase simil-luna-di-miele. E
invece ero a tre fusi orari da Jay, e comunicavamo digitando
frasi smozzicate nei pochi minuti che riuscivamo a
ritagliarci. Quando finalmente riuscimmo a sentirci per
telefono – lui semiaddormentato, io a tremare al freddo della
sera sulla veranda di Joanie e Chris – parlammo di picnic sul
prato dell’Independence Hall e di quando saremmo andati a
giocare a bocce allo Spruce Street Harbor Park, o dei
musicisti che si sarebbero esibiti nel concerto gratuito del 4
luglio, o della nostra prima estate assieme, piena di notti
umide, falene e ricordi da costruire. Jay non mi chiese di
Prospero Books, e neanche di Billy. E io non gli chiesi cosa
gli riportasse alla mente l’espressione «fibre, muscoli e
cervello». Non gli parlai delle finanze del negozio, non provai
a sfruttare i suoi studi di microeconomia. Oltretutto, erano
passati anni dalla sua laurea, e come studente non era un
granché. Mi sentì battere i denti e mi disse che avrebbe
voluto essere lì a riscaldarmi. Gli risposi che ben presto
avrebbe potuto farlo, anche se le notti di Philadelphia erano
roventi e non avrei avuto bisogno del suo calore.
Al mattino, Joanie si preparò per un provino per un
allestimento di Tre sorelle. Si diede una mano pesante di
eyeliner nero e indossò un lungo abito beige in fibra naturale
al cento per cento.
«Sicura di non volere un po’ più di colore?» le chiesi,
mentre indietreggiava dallo specchio per valutare l’aspetto
generale.
«La sensualità sta nel naturale. Non bisogna fare la figura
di chi si è sforzato troppo.» Joanie prese le sue borse – ogni
volta che usciva di casa, sembrava che stesse partendo per
una vacanza – e io l’accompagnai alla macchina. C’era
un’aria frizzantina, ma il sole filtrava dalla foschia incidendo
pozze scure negli spazi vuoti in mezzo al frutteto. Mi ero
dimenticata del meraviglioso profumo, vagamente floreale e
speziato, delle mattine di Los Angeles.
«Stasera ti porto a cena fuori, come ringraziamento per
l’ospitalità?» Non avevo ancora trovato l’occasione per
parlarle degli indizi che Billy mi aveva lasciato.
«Devo aiutare Jenny. Ha venduto un quadro, o qualcosa
del genere.» L’altra sorella si chiamava Jackie. Joanie, Jenny
e Jackie. Non era un’assonanza studiata: semplicemente, la
madre era troppo svagata e demotivata per farsi venire in
mente tre nomi un po’ meno simili.
«Allora domani?»
«Chris ha la serata libera, facciamo un’uscita romantica.»
Mi strinse la mano. «Non preoccuparti, avremo tutto il
tempo di stare tra noi.» Saltellando tra le radici dei fichi, si
diresse verso la sua auto, ma all’improvviso si fermò. «Non
mi ricordo... Cioè, so che abbiamo studiato assieme il
percorso dell’autobus, ma mi ero dimenticata che la libreria
fosse a Silver Lake.»
«Sei stata da Prospero Books?»
Joanie scosse piano la testa. «Se mi fossi ricordata il
nome...»
«Non è colpa tua, Joanie.»
Chinò solennemente il capo, poi la sua figura snella
scomparve tra i fichi. Non toccava a lei ricordare Prospero
Books. E neanche ricordare Billy.
La cappa di nuvole si era dissipata e la giornata si stava
scaldando. Raccolsi le mie cose e m’incamminai verso il
negozio. In fondo al declivio c’era il luccichio acquamarina
del bacino idrico. Accanto, nell’area per i cani, uomini dai
tatuaggi geometrici fumavano sigarette mentre le loro fidate
bestiole si sfogavano. Un divisorio in cemento separava il
traffico di Silver Lake Boulevard dal percorso pedonale
intorno al lago artificiale. Mi ci appoggiai, lasciandomi
aggrovigliare i capelli dallo spostamento d’aria delle auto.
Presi di tasca l’indovinello.

La scienza è alla radice di ogni vita, soprattutto della


mia. Sono fatto di fibre, muscoli e cervello, alto due
metri e mezzo, forte, con capelli di un nero lucente e
denti di un candore perlaceo, ma nonostante queste
avvenenze non mi troveresti attraente.
Tentai di accostarmi a quel testo come se lo vedessi per la
prima volta, svuotando la mente da ogni preconcetto. Fibre,
muscoli e cervello. Quelle parole significavano qualcosa.
Cercai su Google anatomisti famosi e mi saltò all’occhio un
nome: Leonardo. Billy mi stava conducendo al Codice da
Vinci? Era senz’altro un romanzo di grandissimo successo,
ma sparigliato rispetto alle sue solite scelte, più canoniche.
Le mie riflessioni furono interrotte da uno degli uomini
dell’area per cani, che fece una battuta ad alta voce mentre
schiacciava la sigaretta sotto la scarpa. Ci stavo rimuginando
troppo. E non sapevo come evitarlo. Riposi l’indizio nel
portafogli e proseguii la camminata verso Prospero Books.

Via via che le mie giornate da Prospero Books diventavano


una settimana, scoprii gli schemi di conduzione del negozio, i
quali però non mi condussero al titolo seguente nella caccia
al tesoro di Billy. L’attività della libreria seguiva il sole: lenta
nelle ore mattutine del giugnembre, febbrile nella calura del
pomeriggio, calante al crepuscolo, per stemperarsi nel vuoto
della notte, finché al mattino non ricominciava il ciclo. Era
una vita costante, diversissima da quella che conduceva Billy
quando lo conoscevo io.
Malcolm cominciò ad accettarmi, come si fa con un gatto
randagio, un animale selvatico ma presumibilmente innocuo,
che non vuole andarsene, e quindi alla fine gli si dà un po’ di
latte sperando che non trasmetta la rogna. Mi rivolgeva un
cenno di saluto e manteneva le distanze, parlandomi il meno
possibile – «Ciao», «Grazie», «Arrivo» – ora che avevo
cominciato a sostituirlo al bancone durante la pausa pranzo
o gli appuntamenti con gli agenti di vendita dei vari editori.
In quelle ore silenziose senza Malcolm, esploravo il Booklog,
un software gestionale per librai, per imparare a consultarlo
fino a saper individuare autobiografie che non conoscevo e
romanzi che non avevo letto. Dopo qualche svarione col POS,
riuscii a contattare i clienti da sola. Alla fine della settimana
ero in grado di accettare pagamenti – elettronici o in
contanti – ma i soldi non bastavano mai. Con Malcolm non
parlai più dei problemi economici del negozio, anche perché
intuivo che preferiva fingere che non esistessero, ma ogni
giorno in cui non ne parlavamo era un giorno in cui la
libreria era aperta, le luci erano accese, i salari venivano
pagati e il debito cresceva. Prima o poi sarebbe stato
impossibile continuare a ignorarlo. Mancavano tre mesi e
mezzo alla fine di settembre. Sembravano tanti, ma non lo
erano. La chiusura dell’anno fiscale era lì, come un sicario in
agguato.
Ogni notte, stesa sul soffice divano di Joanie, restavo
sveglia ad ascoltare gli elicotteri in lontananza e le auto che
di tanto in tanto salivano a fatica il ripido pendio della via.
Cercavo d’immaginare denti di un candore perlaceo e capelli
di un nero lucente. Joanie passava quasi tutte le serate in
club privati o locali dove non si potevano usare i cellulari, a
tutela della clientela di celebrità. M’invitava sempre, ma
avevo già avuto abbastanza esperienze di quella cosiddetta
socialità da sapere che mi sarei sentita un pesce fuor
d’acqua. A tarda notte sentivo il suo ragazzo, Chris, rientrare
in punta di piedi dal suo giro di bevute. Gli toccava cenare in
cucina al buio, ora che il suo salotto era diventato la mia
camera da letto. Stavo diventando un incomodo, ma non
potevo tornare dai miei, a respirare i loro segreti e a girare
intorno ad argomenti da non toccare. E non potevo stare
nell’appartamento di Billy, coi fantasmi di una donna che
non avevo mai conosciuto e di uno zio talmente distante che
non riuscivo nemmeno a risolvere un suo indovinello
escogitato apposta per me.
Non mi avvicinavo alla soluzione nemmeno cercando indizi
da Prospero Books. Camminavo su e giù tra gli scaffali,
sfiorando centinaia di libri senza prenderne nessuno.
Malcolm tentava di convincere due ragazzine a comprare
Verso Betlemme e La ragazza interrotta, e io ascoltavo,
quasi sperando che i loro discorsi contenessero la risposta
che mi serviva. Le ragazzine facevano scoppiare palloncini di
gomma da masticare e lo fissavano come se stesse parlando
in greco antico.
«Qualcosa d’interessante non ce l’avete?» chiese una.
Malcolm perorò con audacia la causa di Joan Didion (uno
dei suoi saggi parlava di denti perlacei?) e del disturbo
borderline di Susanna Kaysen (una delle internate era poco
attraente nonostante le sue avvenenze?). Brancolavo in
cerca di qualunque indizio. Le ragazzine continuarono a
guardarlo come un alieno finché non porse loro una copia di
Hunger Games.
«Bella, il film era una figata», commentò una.
«Il libro vi piacerà ancora di più», assicurò lui. Poi, dopo
che se ne furono andate, mi disse: «Anche i bambocci
imparano. Li vorremmo adulti, ma sono adolescenti».
All’arrivo di un fattorino con diverse casse di libri,
Malcolm mi chiamò al bancone. «Tanto vale che tu ti renda
utile.»
Il primo scatolone era pieno di volumi cartonati, di
seconda mano ma in buono stato.
«Li aveva ordinati Billy, prima di... L’usato, non lo
cataloghiamo. Lo esponiamo e basta.» Malcolm mise lo
scatolone dietro il bancone e mi fece cenno di seguirlo verso
il reparto Arte. «Billy aveva fiuto per le cose di valore.»
Sfogliò un volume sul déco a Los Angeles. «Questo, l’ha
pagato tre dollari.» Era prezzato $25. Questa storia sul
talento per gli affari di mio zio era forse un primo segno di
fiducia nei miei confronti, almeno per quanto riguardava
certi marginali dettagli della vita di Billy. Malcolm prese una
copia usata del Nudo e il morto. «Altri libri di seconda mano,
li ha comprati perché gli piaceva il titolo o la persona che
glieli vendeva. Accettiamo l’usato solo se è quasi come
nuovo, ma non abbastanza da sembrare rubato in un altro
negozio. Ci sono librerie che accettano anche quello, ma
Prospero Books no», disse con orgoglio.
Sfogliai il romanzo di Norman Mailer cercando un
personaggio alto due metri e mezzo. Nell’angolo superiore
della pagina del copyright era segnato il prezzo di vendita.
«Più di dieci dollari per un libro usato?»
«10,11, come la data di morte di Mailer: il dieci novembre,
10/11. Se fosse un testo sulla religione, Billy l’avrebbe
prezzato $6,66. Di politica, $9,11. Se il cliente coglieva
l’allusione, lui gli lasciava il libro in omaggio.» Mi ricondusse
al bancone ed estrasse dallo scatolone altri cinque volumi,
poi mi porse il resto. «Quasi tutto l’usato è al piano di sopra.
Se sei in cerca di qualcosa da fare, puoi salire a vedere se
c’è qualche titolo che abbiamo esaurito e portarlo di sotto.»
«Ci vorrà un’eternità, no?» chiesi.
«Sì.» Sorrise, e in quella sua richiesta di manodopera
gratuita mi parve di scorgere una propensione a collaborare
con me. Ma più probabilmente voleva solo tenermi occupata.
«Niente più omaggi», dissi, mentre portavo di sopra lo
scatolone.
Nel deposito, trovai copie di seconda mano di titoli
esauriti, mai portate di sotto nella settimana che avevo
passato da Prospero Books. Negli scaffali già stipati fu
un’impresa trovare spazio ad altri libri indesiderati. Non ne
individuai neanche uno che parlasse di scienziati. Niente che
mi facesse gridare: Eureka!
Eppure avrei già dovuto trovare l’indizio successivo. Avrei
dovuto capire dove mi portavano le scienze, le fibre e una
statura di due metri e mezzo. La soluzione dell’indovinello di
Billy doveva essere qui, da Prospero Books. Ma, essendo –
appunto – una libreria, aveva troppi libri invenduti, troppi
titoli dietro i quali poteva celarsi l’indizio successivo.

Alla fine della settimana, era ora di sgombrare dal bungalow.


Joanie non mi avrebbe mai chiesto di andarmene, ma
percepivo la tensione tra lei e Chris, li sentivo parlottare a
bassa voce dietro la porta della camera da letto. Continuavo
a sentirmi osservata ogni volta che entravo
nell’appartamento di Billy, come se dalle ombre fosse potuto
balzare fuori qualcosa. O qualcuno. Cercai di convincermi
che, se mi fossi trasferita lì, avrei provato meno soggezione
davanti al suo passato. Forse avrei anche risolto
l’indovinello. O almeno, speravo. Ormai avevo esaurito le
alternative.
Joanie mi aiutò a portare la valigia su per le scale cigolanti
dell’appartamento di Billy. Al pianerottolo ci fermammo a
riprendere fiato.
«Pronta?» mi chiese.
Aprii la porta. Il ronzio della plafoniera riverberò nel
salotto spazioso.
«Questa casa è incredibile.» Lo sguardo di Joanie danzava
tra il divano in pelle e la scrivania in mogano. «E tu che lo
descrivevi come una specie di cripta!»
«Ti dispiacerebbe restare qui, stanotte? Ti sembrerò
scema, ma non credo di farcela da sola.» Mi morsi il labbro
inferiore, in attesa di un suo «sì».
Joanie mi strinse un braccio. «Guarda un po’ la
combinazione: nel bagagliaio ho la borsa col pigiama.»
Sfrecciò di sotto e dopo pochi istanti risalì, con una coperta
fatta all’uncinetto da sua nonna, una piccola sacca e un
vasetto di crema ai fanghi vulcanici per il viso, la stessa che
rubavamo a sua madre quand’eravamo alle superiori.
L’abbracciai. «Ti ho mai detto che sei – in assoluto, al
cento per cento – la persona che preferisco al mondo?»
«Me lo dici da quando ti conosco.» Joanie stese la coperta
sul divano in pelle. Le tonalità di verde della lana calmarono
l’atmosfera. La casa non sembrava ancora mia, ma
cominciava a perdere l’aria di Billy.
Ci sedemmo sul divano, in pigiama, a mangiare cibo
thailandese direttamente dal cartone. Era come ai vecchi
tempi, prima che lei andasse a vivere con Chris e io con Jay,
quando restavamo sveglie per tutta la notte a parlare delle
piccole ingiustizie delle rispettive professioni, del modo in
cui il corpo ci aveva tradite e avrebbe continuato a farlo, dei
compagni delle superiori che avevano inspiegabilmente fatto
successo, di tutti i Paesi lontani che volevamo visitare
assieme, e questo bastò a farmi quasi dimenticare la camera
da letto celata dietro quella porta chiusa, la fotografia sulla
cassettiera. Quasi.
Joanie canticchiava mentre scavava nel cartone da
asporto, in cerca di bocconi di pollo.
«Non ti mette neanche un po’ di paura?» le chiesi.
«Cosa, i mobili costosi? La casa è un po’ troppo pulitina
per i miei gusti, ma non è infestata dagli spettri. Li
percepirei.»
«Ah, ti sei calata nel ruolo della spiritista?»
«Più che altro, in quello dell’ingenua.» Joanie lasciò
emergere il sorriso che aveva trattenuto. Da tanto tempo
non la vedevo così felice. «Mi hanno preso. Per fare Irina.»
Raggiante, tutto d’un tratto si mise a parlare delle celebri
attrici scritturate per i ruoli di Ol’ga e Maša, le maggiori
delle Tre sorelle, e del regista che, a suo avviso, era un vero
innovatore. «Sarà una cosa grandiosa.»
«Joanie, ma è fantastico!» Sembravo un po’ meno
entusiasta del dovuto, perciò riprovai: «Sono contentissima
per te». Ma il tono era ancora piatto. Reagivo così, mio
malgrado, ogni volta che lei mi comunicava un suo successo:
l’ammissione alla scuola di recitazione, l’incontro con Chris,
l’inizio della convivenza, la ripresa dei rapporti con le
sorelle. Avevo impiegato parecchio tempo a rendermi conto
che era gelosia, perché la sua vita stava andando avanti
senza di me.
Joanie prese in bocca un paio di spaghetti, assorta nei suoi
pensieri sulle sorelle Prozorov e su Čechov, fantasticherie
che rischiavano di allontanarla del tutto da me, mentre io la
volevo qui, nell’appartamento di Billy, nella caccia al tesoro
e nei dettagli della vita di mio zio che cominciavano a
emergere. Mi avvicinai alla porta della camera. La mia mano
rimase sospesa sopra la maniglia. Feci un respiro profondo e
l’abbassai.
La stanza era chiusa da una settimana e aveva un’aria più
stantia di quanto non ricordassi. Quando aprii gli occhi, la
luce soffusa dei lampioni di Sunset Boulevard tracciò i
contorni dei mobili. Nella penombra sembrava una camera
da letto come tante – anonima, niente da temere – eppure
ebbi un brivido lungo la schiena. Facendomi coraggio, andai
a prendere la foto sulla cassettiera. «Lei è Evelyn», dissi,
mostrandola a Joanie, poi le spiegai quel poco che sapevo di
lei: era un’amica d’infanzia di mia madre, prima che io
nascessi aveva sposato Billy, e poi era morta.
«Che bella», disse Joanie. «Come mai non me ne avevi
parlato?» Aveva un tono quasi offeso, non era solo una mia
impressione. Anche lei temeva di perdermi. Però non era la
stessa cosa: io non ero chiusa in un bozzolo tutto mio. O
almeno, non volevo che fosse così.
Presi l’indovinello dal portafogli e glielo porsi.
Lei dispiegò il foglio, badando a non rovinarlo, come se
stesse scartando un regalo. «’La scienza è alla radice di ogni
vita, soprattutto della mia. Sono fatto di fibre, muscoli e
cervello, alto due metri e mezzo, forte, con capelli di un nero
lucente e denti di un candore perlaceo, ma nonostante
queste avvenenze non mi troveresti attraente.’» Mi guardò
perplessa.
«Me l’ha dato il medico di mio zio.»
Mi aspettavo che mi chiedesse di nuovo come mai non
gliene avessi parlato prima, ma si era già immersa nel
mistero dell’indovinello. Si mise a camminare avanti e
indietro, col mento appoggiato a una mano, come se stesse
recitando una scena dal titolo: Giovane donna pensosa.
«’Denti di un candore perlaceo’ allude sicuramente a
qualcosa. E anche ’alto due metri e mezzo’.» Tese le mani
sopra di sé. «Due metri e mezzo, quant’è? Così? Non è
umano.» Girò per la stanza, braccia in alto e gambe rigide,
come prive di ginocchia, mimando una persona dalla statura
impossibile.
Guardando quella sua camminata sforzata, ebbi
un’illuminazione: una persona dalla statura impossibile,
sovrumana, una persona fatta di scienza... o meglio, creata
dalla scienza.
Corsi di sotto e premetti l’interruttore della luce. Joanie mi
seguì a ruota. Di notte, il negozio aveva un aspetto diverso,
senza la luce naturale era quasi verde-neon. Cercai nella
sezione Classici, sotto la lettera S. Niente. E nemmeno in
Letterature.
«Miranda? Cos’hai?» mi chiese Joanie. «Che idea ti è
venuta?»
Sfrecciai dietro il bancone e attesi che quella lumaca di
computer finisse di brusire e tossicchiare, e che il monitor si
ridestasse dal torpore. Digitai il titolo nel motore di ricerca
del Booklog, ma le mie dita si muovevano goffamente sulla
tastiera, aggiungendo lettere in più, così dovetti cancellare e
ricominciare. «Frankenstein, reparto Fantascienza», gridai a
Joanie.
Lei corse allo scaffale e ne estrasse un volume nero lucido,
con autrice e titolo in bianco: MARY WOLLSTONECRAFT
SHELLEY, Frankenstein, o il moderno Prometeo. Si chinò su
di me mentre aprivo il libro per guardare all’interno.
8

Il California Institute of Technology era a venti minuti di


macchina da Silver Lake. Nel corridoio, seduti per terra
davanti all’ufficio del dottor Cook c’erano due studenti, libri
in grembo.
«Il dottore c’è?» chiesi a quello più vicino alla porta
chiusa.
«C’è la fila», rispose, senza alzare lo sguardo dal testo.
Mi sedetti sul pavimento, a fianco dei due ragazzoni dalla
faccia pulita e, mentre attendevo di parlare col dottor Cook,
risfogliai il capolavoro di Mary Shelley. L’avevo letto alle
superiori e mi ero dimenticata di quanto fosse diverso
dall’immaginario popolare: di solito si parla di Frankenstein
come se fosse il nome della creatura, e per certi versi è
calzante, dato che nel romanzo il vero mostro è Victor
Frankenstein. Ma il giovane scienziato è in primo luogo un
figlio, un fratello, un uomo distrutto, che piange la morte
della madre finché una conferenza sui miracoli della chimica
moderna non lo ispira – anzi, lo travia – alle sperimentazioni
sui cicli della vita.
Avevo trovato il dottor Cook grazie a un volantino tra le
pagine del quinto capitolo, quello in cui Victor Frankenstein
vede per la prima volta il compimento delle sue fatiche: la
creatura che lui immaginava bellissima, e che una volta
concretizzata risulta orripilante. Billy aveva evidenziato le
parole dello scienziato:

Per questo avevo rinunciato al riposo e alla salute.


L’avevo desiderato con intensità smodata, ma ora che
avevo raggiunto la meta il fascino del sogno svaniva,
orrore e disgusto infiniti mi riempivano il cuore...

Il volantino pubblicizzava una conferenza del dottor John


Cook presso l’Aspen Center for Physics, dal titolo Recenti
progressi nella teoria delle stringhe, in occasione di un
convegno tenutosi dal 17 al 20 febbraio 1986. Io non avevo
mai sentito parlare di quell’uomo, ma Google sicuramente sì:
inserendovi il suo nome, avevo ottenuto più di
sessantacinque milioni di risultati. Insegnava fisica delle
particelle al California Institute of Technology fin dalla
seconda metà degli anni ’80, e aveva conseguito la laurea di
primo livello nel 1971, lo stesso anno di mio zio. Nella sua
conferenza doveva esserci qualcosa che aveva ispirato Billy.
Il dottor Cook aveva detto qualcosa che l’aveva rovinato.
Uno per uno, gli studenti sparirono nell’ufficio di Cook e io
rimasi sola in corridoio, con la schiena dolorante a forza di
stare appoggiata al freddo muro di cemento. Controllai il
telefono. L’una passata. Ero lì da più di un’ora.
Probabilmente Jay aveva finito gli allenamenti e stava
percorrendo con la vecchia Volvo di sua madre le sue amate
«scorciatoie» di West Philadelphia, tortuose e mai davvero
più rapide. Quando eravamo diventati entrambi pendolari del
campus, l’avevo accusato di non conoscere le strade. «Il
fatto di non sapere dove mi trovo non significa che mi sia
perso», aveva risposto lui, facendo inversione per tornare
alla via dalla quale avevamo appena svoltato.
«Questa frase starebbe bene solo stampata su una
maglietta», avevo ribattuto io.
E lui: «Ti va di produrle in serie, io e te?»
E io avevo pensato: Con te farei qualunque cosa. Ma
eravamo assieme da pochi mesi, non era ancora il momento
di scambiarsi certe promesse. Per il resto dell’anno
scolastico era stato bellissimo perdersi in macchina con Jay,
accusandolo bonariamente di essersi perso, e lui che
insisteva a negarlo. Perfino nei giorni in cui era costretto ad
ammettere di aver sbagliato strada, si rifiutava di ricorrere
allo smartphone e continuava a vagare alla cieca finché,
chissà come, non ci ritrovavamo a casa.
«Hai già sbagliato strada?» gli chiesi, quando rispose al
telefono.
«In che senso?»
«Stai tornando da scuola. Mi chiedevo se ti fossi perso
un’altra volta.»
«Come mai mi accusi sempre di non avere il senso
dell’orientamento?»
«Non era un’accusa, era un tentativo di fare la simpatica.
Sai, visto che ti prendo sempre in giro perché ti perdi...»
Non riuscivo a credere di doverglielo spiegare.
«Ah, ecco.»
Silenzio. D’un tratto non sapevo più perché l’avevo
chiamato. Volevo raccontargli che ero al California Institute
of Technology, ma lui mi avrebbe domandato cosa ci facessi
lì, e mi sarebbe toccato parlargli del volantino, della
possibilità che il dottor Cook potesse dirmi qualcosa
d’importante su Billy, e Jay mi avrebbe chiesto di nuovo se
non fosse una stranezza, seguire la caccia al tesoro di uno
zio morto che non gli avevo mai nemmeno nominato. Non mi
andava di discutere tutte queste cose con lui, non in quel
momento. «Come sono andati gli allenamenti?»
«Benino. C’è un novellino che comincia la scuola in
autunno, ed è proprio bravo.»
Attesi che mi chiedesse del negozio.
E invece: «Come sta tua madre?»
«Così così.»
«La tratti bene?»
«Io? Sempre!»
Jay soffocò una risata.
La porta dell’ufficio del dottor Cook si aprì e il ragazzo
dalla faccia pulita che era entrato venti minuti prima
s’incamminò lungo il corridoio, con una certa leggerezza
nell’andatura.
«Devo andare», bisbigliai a Jay.
«Mi richiami dopo?» disse lui, senza chiedermi perché
dovessi interrompere la telefonata.
«Certo.» Riattaccai.
Il dottor Cook si sporse dallo stipite per vedere se ci
fossero altre persone in attesa. Era decisamente più paffuto
di come appariva nelle foto su internet, e aveva solo una
vaga rassomiglianza col barbuto biondiccio del volantino.
«Dottor Cook?» chiesi, non appena mi vide.
«Non l’ho mai vista a lezione», disse lui.
Mi alzai dal pavimento e mi spolverai il fondo dei
pantaloni. «Sono la nipote di Billy Silver.»
Lui trasalì, poi assunse un’aria solenne. «Ho saputo. Mi
dispiace tanto.»
«Eravate amici?»
«Da bambini.» Il dottor Cook mi fece cenno di
accomodarmi. Le mensole dell’ufficio erano piene di libri,
molti scritti da lui.
«Non eravate compagni di università?»
«Sì, ma eravamo amici dalle elementari.»
«Ah, allora lei ha conosciuto anche mia madre?»
«Lei le somiglia tantissimo.»
Arrossii. Ogni volta che qualcuno mi diceva che somigliavo
a mia madre, era come se mi stesse dicendo che ero carina.
Mi scrutò come se solo ora si fosse accorto di me. «Per
caso lei si chiama Miranda?»
«Come fa a saperlo?»
Andò in fondo alla stanza ad aprire un mobile d’archivio,
dal quale prese una pila di buste, che cominciò a riporre
l’una dopo l’altra nello stesso cassetto. «È qui, da qualche
parte... Non l’avrò mica buttata via?» Poi scorse sullo
scaffale un’altra pila, più bassa. «Oooh!» A passo strascicato
si riavvicinò porgendomi una busta con scritto: Per Miranda
Brooks, qualora passasse di qui. BS. «Mia moglie lo chiama
’disastro’, ma a me piace pensare che sia ’ordine nel
disordine’. Tutti i grandi scienziati sono ’casinari’.» Con le
dita tracciava le virgolette in aria. «Anzi, se non lo fossero
almeno un po’, ci sarebbe da dedurne qualcosa su di loro.»
Tentai di ricordare se Billy fosse stato disordinato. Non
ero mai stata nel suo ufficio. Se la libreria era pulita,
probabilmente era opera sua.
Il dottor Cook mi guardò aprire la busta.

Ma qualunque cosa fosse successa sapevo che sarei


sopravvissuto. Sapevo, soprattutto, che avrei continuato
a lavorare. Sopravvivere significava rinascere parecchie
volte. Non era facile ed era sempre doloroso. Ma non
c’era altra alternativa se non la morte.

«L’ha spedita Billy, questa lettera?» gli chiesi.


«L’ho ricevuta pochi giorni fa. All’inizio credevo che fosse
uno scherzo, ma è un po’ macabro per il carattere di questo
istituto. Per dire, la scorsa settimana i miei specializzandi
hanno ridipinto il parcheggio, così quando sono arrivato la
mia piazzola era magicamente scomparsa. Ma la lettera di
un morto...» Il dottor Cook scosse la testa. «Ai vecchi tempi,
suo zio era il burlone numero uno.»
«Billy?» Era ovvio. Gli scherzi non sono poi tanto diversi
dalle cacce al tesoro.
«Il campus era pieno di alberi di arance. Billy le definiva
’munizioni ecosostenibili’. Facevano un male... Aveva
costruito un cannoncino ad aria compressa e ogni giorno,
alle dodici in punto, le sparava al Pasadena Community
College. Ma il bersaglio primario delle sue stramberie ero io.
Due volte mi ha murato la porta della camera, al dormitorio.
In un’altra occasione me l’ha svuotata completamente,
trasferendola nella sala da racquetball e ricostruendola lì, fin
nei minimi dettagli. Ah, ma gli ho reso pan per focaccia, sa?»
«Mi pare di capire che foste molto amici.»
«Lo eravamo», disse lui, in tono desolato. «Da tanto
tempo.»
Gli porsi il volantino della sua conferenza ad Aspen. «Billy
mi ha lasciato questo.»
Il dottor Cook lo voltò verso di me, in modo che il suo volto
da giovane fissasse il mio. «Chi l’avrebbe detto, che un tale
bruttone diventasse ancora più brutto?»
«È capitato qualcosa, a quella conferenza?» Billy avrebbe
potuto lasciarmi una foto di loro due da bambini, o da
matricole, o un opuscolo della loro cerimonia di laurea o di
qualche certame scientifico, e invece aveva optato per un
banale volantino di una conferenza sulla fisica delle
particelle, che sembrava scelto a caso, ma di sicuro non lo
era. «C’era anche Billy?»
Cook schioccò le dita e puntò l’indice verso di me. «Sì.» Il
volto si rilassò e lo sguardo si perse nel vuoto. «Sì.» Gli stava
tornando in mente tutto quanto, si vedeva benissimo.
«Dottor Cook?» dissi, per riportarlo coi piedi per terra.
«Cos’è capitato?»
Parve incerto su cosa rivelarmi. Evidentemente, nella
vicenda, non ci faceva una gran figura. «Se dobbiamo
parlare di Aspen, tanto vale che ci diamo del tu.»
«D’accordo. Cos’è capitato, John?» dissi, chiamandolo per
nome, nella speranza d’ispirargli fiducia. «Qualunque cosa
sia, vorrei saperla.» Il dottor Cook – anzi, John – non era del
tutto convinto, perciò annuii per fargli capire che potevo
reggere il colpo.
«Credevo che fosse venuto a darmi sostegno.» Perlustrò
una libreria fino a trovare un libriccino rosso, lo sfogliò e me
lo porse, indicando un articolo intitolato Cancellazioni di
anomalie, tra i cui autori c’era anche lui. «Avevo appena
pubblicato questo, assieme al mio relatore.»
Scorsi le pagine, ma ci avrei capito di più se fossero state
iscrizioni runiche.
«Billy non aveva fatto in tempo a venire, così ero solo. Era
la prima volta che tenevo una conferenza tutta mia, ed ero
nervosissimo.»
Mi spiegò che il nervosismo si era manifestato fisicamente
come tremore alle mani e alla voce, rischiando di farlo
crollare assieme ai risultati di tutte le sue meticolose
ricerche.
«Buongiorno a tutti», aveva esordito, accomodando il
microfono e scrutando il modesto uditorio. «Oggi voglio
parlarvi dei nostri recenti progressi nella modifica di
funzioni d’azione di un campo quantistico.» Il suo cuore
sembrava voler fuoriuscire dal petto, tanto batteva. Calma, si
era detto John. Calma.
«Ed è stato allora che ho visto Billy.»
Se si fosse soffermato a riflettere, avrebbe capito che la
presenza di Billy non aveva senso: lui studiava i terremoti –
catastrofi che tutti capivano, tanto che ne avevano paura –
mentre John era lì per parlare di teoria delle stringhe, una
branca della fisica delle particelle che ben pochi
comprendevano, e in cui quasi nessuno credeva. Ma era
troppo nervoso per ragionare lucidamente. Aveva continuato
a dilungarsi sulle 496 dimensioni del gruppo di gauge,
rivolgendosi soltanto a Billy, come se si fossero trovati nella
camera di John al dormitorio del campus, anziché in una sala
conferenze sconfortantemente spopolata. Sorrideva ogni
volta che il suo sguardo incrociava quello dell’amico. Solo
che Billy non ricambiava i suoi sorrisi. Aveva le guance
talmente scavate da sembrare un teschio, e nei suoi occhi
arrossati John aveva visto il luccichio della morte. Si era
affrettato a concludere il discorso, spiegando come il fibrato
di linee non-triviale diventasse trivializzabile su uno spazio
delle configurazioni, col terrore che fosse accaduto qualcosa
di terribile. Qualcosa che c’entrava con lui, data la presenza
di Billy alla sua conferenza.
Scosse la testa. «In fondo lo sapevo. Dovevo capirlo subito,
che era per via di Evelyn.»
«Evelyn?»
«È sempre stata l’unica cosa cui Billy tenesse davvero.»
Calcò la parola «sempre» come per garantirmi che era
proprio come diceva lui.
«In che senso ’sempre’?»
«Poveraccio. Era disperatamente innamorato di lei, fin
dalle elementari.»
Da bambino, Billy se ne stava sempre rintanato nella sua
camera. Invitava John per chiedergli di aiutarlo a modificare
il trenino elettrico in modo che andasse più veloce, o per
mostrargli il suo serpente che inghiottiva un topo intero.
Stavano lì per ore, nella stanza buia e odorosa, a guardare il
serpente che avvolgeva e svolgeva le spire, come per
prendersi gioco del topo intrappolato.
John rise. «Il serpente, l’aveva chiamato Cleopatra. Non
me lo dimenticherò mai. Gli dicevo sempre che era l’unica
ragazza che sarebbe riuscito a portarsi in camera.»
«Ed Evelyn? Ha conosciuto Cleopatra?»
«Billy era uno sprovveduto, ma non al punto di presentare
un serpente alla ragazzina per cui aveva una cotta. No, lei
restava in giardino con tua madre a giocare a stickball con
gli altri marmocchi normali.»
Ogni tanto si sentiva lo schiocco di una mazza seguito da
un gridolino, un tipo di divertimento che a Billy e John non
era mai stato congeniale. Billy apriva le tendine per
guardare Evelyn, giù in giardino, correre tra le basi seguita
da una scia di capelli biondo-platino.
«Un giorno sposerò quella ragazza», diceva Billy a John
Cook. Ma era come dire: «Un giorno sposerò Marilyn
Monroe», o: «Un giorno sarò il primo uomo sulla luna».
«Tanti auguri», gli rispondeva l’amico.
«Ma Billy era inamovibile. Non avrebbe mai rinunciato a
lei», mi disse John.
Al penultimo anno delle superiori, Evelyn era la più
ammirata della scuola. Alta e magra, come piace ai
ragazzini, la più giovane del gruppo delle cheerleader,
nonché reginetta dei balli d’istituto. Inoltre era stata
accettata nei corsi avanzati. Quando incrociava John in
corridoio, lo salutava, anche se era circondata dalle amiche,
altre ragazze bellissime che non l’avrebbero degnato d’uno
sguardo. Evelyn diceva: «Ciao!» E John la fissava
ammutolito, la qual cosa faceva ridacchiare tutte le belle
amichette, tra cui Suzy.
«Cioè tua madre», spiegò John, come se io non sapessi chi
era Suzy. D’altronde, all’epoca era una persona diversa:
giovane, ammirata e carina, estranea a me. «Bella coppia,
quelle due. Tanto era dolce Evelyn, tanto era terribile Suzy.»
«Mia madre? Siamo sicuri di parlare della stessa
persona?»
John annuì. «Abbaiava in faccia a chiunque la guardasse
per un secondo di troppo, perfino ai professori.» Mi spiegò
che lui e Suzy erano membri del jazz club della scuola. Lui se
ne stava un po’ in disparte, nascosto dietro il contrabbasso,
mentre lei era al centro, a bordo palco, a cantare facendo
ondeggiare i fianchi e facendogli perdere il segno sullo
spartito. «Sbagliavo nota, e lei m’inceneriva con lo sguardo,
come se avessi avuto chissà quali pensieri su di lei.
Terrificante.» Ebbe un fremito.
Mi sentii pervadere da un calore familiare. Adoravo queste
storie su mia madre. Mi davano nostalgia di una versione di
lei che non avevo mai conosciuto. «E, insomma, com’è che
Billy ed Evelyn si sono messi assieme?»
«Lui ha approfittato del fatto di averla sempre a casa
sua.» John mi raccontò che il padre di Evelyn era poco
presente, e la madre non c’era nemmeno, non ricordava il
perché. Billy aveva ancora una camera piena di aeroplanini e
poster di Einstein e Newton, ma in lui c’era stato un
cambiamento importante: era cresciuto di trenta centimetri
e aveva sviluppato i muscoli delle braccia e della schiena. A
scuola, le ragazze non se ne accorgevano. I suoi rapporti con
loro si riducevano ai momenti in cui andava a sbatterci
contro, quando camminava nei corridoi col naso tra le pagine
di un libro. «Ma Evelyn era sempre lì da lui, e Billy ha
approfittato del fatto che lei in scienze era una schiappa.»
Evelyn era seduta in salotto, da sola, a incenerire con lo
sguardo un testo di biologia. Suzy doveva essere in aula di
punizione o al jazz club. Evelyn passava parecchi pomeriggi
nel salotto dei Silver, a leggere mentre attendeva il ritorno
di Suzy.
Dalla porta, Billy l’aveva guardata scuotere la testa per la
frustrazione. «Serve una mano?» le aveva chiesto.
Lei si era portata una mano al cuore. «Mi hai spaventato.»
Lui aveva azzardato un passo nel salotto. «Scusa. Qualora
non te ne fossi accorta, con la biologia ho una certa
familiarità.»
«L’ho notato.»
Era una frase scherzosa, ma a Billy aveva fatto piacere che
lei avesse fatto caso a una sua qualsiasi caratteristica. Si era
seduto così vicino a lei da sentire il profumo di camomilla del
suo shampoo («Come fai a sapere di cosa sa la camomilla?»
gli aveva poi chiesto John, mentre Billy gli dava un resoconto
di quel pomeriggio) e la sua spalla aveva sfiorato quella di
lei, mentre si chinava a leggere. Era un capitolo sui
mitocondri. Billy le aveva preso di mano la matita e aveva
disegnato un ovale su un foglietto, segnando la membrana
interna, la membrana esterna e la matrice.
D’allora in poi, ogni volta che Evelyn aveva problemi con
la biologia, bussava alla porta di Billy, che passava il
pomeriggio a spiegarle la fotosintesi clorofilliana, o la
replicazione del DNA, trascurando i propri studi. «Sei un
genio», gli diceva lei, e Billy lo raccontava poi a John: «’Un
genio’, mi ha definito. Ti rendi conto?» John non aveva mai
avuto cuore di dirgli che Evelyn stava solo ungendo per
benino il povero imbranato che l’aiutava a fare i compiti.
«Ma, qui, la figuraccia la faccio io», disse John. «Chi
andava a pensare che Evelyn s’innamorasse di uno di noi del
club di chimica?» Neppure di uno con l’aspetto di Billy.
Era cominciata a cena. Evelyn era ancora più carina,
quando era in crisi. «Dice che mi boccia, se non finisco il
compito», aveva raccontato a Suzy e ai Silver. «Ma io non ce
la faccio. Lo sapete che le rane sono ancora vive, quando le
mettono sul tavolo? È una cosa disumana!»
«Manifestiamo», aveva suggerito Suzy.
«Ma via, Susan», le aveva detto il padre. «Non credo che
sia il caso d’immischiarti. Ti metti nei guai già abbastanza
spesso.»
Billy aveva soffocato una risatina e Suzy gli aveva lanciato
un involtino.
«Hai provato a spiegare queste cose al professore?» aveva
chiesto Mrs Silver.
«È un insensibile. Dice che la biologia studia anche la
morte, che uno scienziato deve far pace coi cicli della vita.
Ma io non voglio fare la biologa. Non voglio abituarmi alla
morte.» Evelyn si era presa la testa tra le mani, in una posa
che Billy giurava fosse di autentica disperazione.
«E così Billy decide che questa è la sua grande
occasione», mi disse John, gesticolando, mulinando le mani
come per gettare un incantesimo. «Vuole conquistarla con
una strategia impossibile a qualunque giocatore di baseball
o football.»
Gli era costato un weekend d’insonnia. Recluso in camera,
tra i pezzi di aeroplanini sparsi per terra, un barattolo di
vernice verde e disegni in scala. Non aveva il tempo di
ricreare tutta l’anatomia, perciò aveva tracciato su carta
millimetrata gli organi interni e il sistema circolatorio, e li
aveva appiccicati col nastro adesivo al modellino di rana che
aveva costruito in plastica.
Il lunedì mattina, prima dell’inizio delle lezioni, si era
appostato davanti al laboratorio di biologia, con la testa
incassata tra le spalle, spostando il peso da un piede
all’altro, finché non aveva visto Evelyn e il suo codazzo
avanzare lungo il corridoio. Senza Suzy, per fortuna: non era
convinto di riuscire ad arrivare sino in fondo, davanti alla
sorella.
Le altre ragazze erano entrate nelle rispettive aule ed
Evelyn aveva proseguito da sola. Vedendolo gli aveva fatto
un cenno di saluto e gli aveva chiesto: «Mi fai gli auguri,
prima del patibolo? Mi sa tanto che non ce la farò».
«Non occorre.» Billy le aveva porto la rana.
«L’hai fatta tu?» Tenendola nella mano sinistra, Evelyn
aveva sganciato il pannello ventrale. «Ci sono i polmoni e
tutto il resto.»
«Non occorre abituarsi alla morte, per essere scienziati»,
aveva detto lui.
«Evelyn ha comunque avuto un voto negativo, ma per Billy
era una gran fortuna.»
«Non ce li vedo, i miei alunni, a compiere un gesto simile.
E nemmeno il mio ragazzo, a fare una cosa così romantica.»
«Tuo zio sapeva essere cavaliere, quando voleva», disse
John.
«Era venuto alla tua conferenza per dirti che Evelyn era
morta?»
«Ci eravamo persi di vista da anni, ma io c’ero, la prima
volta che ha perso Evelyn, quindi forse ha pensato che io
potessi capirlo.»
«In che senso ’la prima volta’?»
«Si è comportato come se fosse la prima persona al mondo
a essere mollata. Almeno lui ce l’aveva avuta, una ragazza.
Io ho avuto il primo appuntamento poco prima di laurearmi.»
John mi spiegò che Evelyn era stata con Billy per gli ultimi
due anni delle superiori. Il California Institute of Technology
era a meno di un’ora di macchina dalla scuola. Evelyn veniva
spesso qui a trovarlo. Billy la portava a passeggiare per il
campus, indicandole gli aranci prematuramente spogliati dei
loro frutti, le latte di vernice e i mattoni... ovvero i resti degli
scherzi della settimana passata. Per John, all’epoca
ventenne, erano l’incarnazione di un amore durevole.
«Ma l’amore dei giovani è così», disse John. «Troppo
intenso. E altrettanto intense le conseguenze della sua fine.»
O anche di più, nel caso di Billy.
Quand’era stata ammessa al Vassar College, Evelyn aveva
promesso di venire a trovarlo a ogni fine corso, e passare le
estati a Los Angeles. Cos’erano quattro anni, quando li
attendeva un’intera vita assieme? All’inizio si telefonavano
una volta la settimana. Poi, per le vacanze di Natale, le
compagne di dormitorio andavano in settimana bianca in
Vermont, e lei non aveva mai sciato, così sarebbe rimasta
sulla East Coast, «solo per stavolta». Sarebbe tornata in
primavera. Poi c’erano state le manifestazioni a New York e
a Washington e il lavoro estivo presso una rivista. Entro
breve erano esaurite le scuse e cessate le telefonate. Non
era colpa di nessuno, secondo Evelyn. Semplicemente,
avevano preso strade diverse.
L’estate in cui Evelyn aveva troncato con Billy, John aveva
perso il padre. Tornato al college per l’ultimo anno, era così
abbattuto da perdere la concentrazione: non riusciva a
togliersi dalla mente gli ultimi respiri del papà. Sperava che
gli studi lo distraessero, ricordandogli che la vita era fatta di
particelle governate da funzioni matematiche, che il suo
dolore era frutto di equazioni. Gli era sempre piaciuta la
freddezza della fisica, ma ora faticava ad aggrapparvisi,
dopo quel lutto.
Gli era bastata un’occhiata per capire che pure a Billy,
quell’estate, era capitato qualcosa di molto brutto: sembrava
che indossasse un’armatura e ogni passo gli costasse
un’immane fatica. Dopo quello che gli era successo, John
immaginava che Evelyn fosse morta. E invece si erano solo
lasciati.
«Lo so, che quando si perde il primo amore è come se
cascasse il mondo, ma io, col lutto che portavo, credo di non
avergli mostrato la comprensione che cercava.»
Billy stava sempre chiuso nella sua stanza. A chi bussava,
ogni tanto rispondeva, ogni tanto no.
«Forse dovevo essere più paziente con lui, ma, sai, tuo zio
ha sempre pensato più a se stesso che agli altri. No, non
dovrei dire così...»
Gli feci cenno che non ero offesa e repressi l’istinto di
difendere Billy.
«Se non mi chiedeva di mio padre, forse è perché non
sapeva come farlo. Ma io non potevo fargli da spalla in
eterno. La transizione è stata agevole: io studiavo Fisica, lui
Geologia; io sono andato a est per la laurea specialistica, lui
è rimasto qui. Ci sentivamo, ma sporadicamente. Le
occasioni per vedersi erano poche. Anzi, credo di non averlo
più visto fino a quel convegno.»
«Quindi era venuto per parlarti di Evelyn?» chiesi, per
tornare a bomba.
John annuì e riprese il racconto. Non ricordava la
conclusione della sua conferenza, né le strette di mano ai
colleghi che si congratulavano: era tutto concentrato su Billy
e sulla terribile notizia che era venuto a dargli, qualunque
essa fosse. Così, dopo che tutti se n’erano andati, si era
avvicinato a lui. «Cos’è successo?»
«Possiamo parlare da qualche altra parte?» gli aveva
chiesto Billy.
«Così mi spaventi.»
«È Evelyn.» Billy era scoppiato in lacrime e John aveva
capito che stavolta Evelyn era morta davvero. Aveva
ripensato ai biglietti di Natale ricevuti nel corso degli anni:
Billy ed Evelyn seduti in riva al mare, Billy ed Evelyn in
doposcì sulle pendici di Big Bear Mountain... «Mi serve il tuo
aiuto», aveva ripreso Billy.
Erano andati a piedi in Main Street, dove avevano trovato
una casa rosa in stile vittoriano, riconvertita in locale. Si
erano seduti nel patio sul retro. Billy aveva porto a John un
foglio pieno di calcoli. «Mi serve una tua perizia. A meno di
non formare un buco nero, le particelle hanno un numero
limitato di disposizioni possibili... che dunque devono
ripetersi.»
«Vero», aveva detto John, senza ben capire cosa gli stesse
chiedendo il vecchio amico.
«Erano distanze da dimensioni parallele», mi spiegò John.
«Le teorie sul multiverso giravano da un po’, ma non capivo
perché Billy me ne parlasse, ed ero anche sorpreso
dall’ingenuità di quei calcoli. Poteva eseguirli qualunque
liceale con un professore di fisica che sapesse il fatto suo.»
John aveva sorseggiato il caffè, aspettando che l’amico gli
desse una spiegazione su quelle considerazioni tanto banali.
«Dobbiamo partire dal presupposto che le disposizioni
delle particelle siano distribuite a caso tra i regni. Non c’è
ragione di ritenere che il nostro universo si ricrei più
rapidamente di qualunque altro.» Billy aveva indicato la
prima cifra sul foglio spiegazzato. «Entro questa distanza,
possiamo aspettarci di trovare una pezza cosmica, identica
alla nostra, dove la vita si dispieghi nel modo esatto in cui la
conosciamo noi.» Poi aveva indicato un altro numero. «E qui
possiamo aspettarci di trovare una pezza cosmica che sia
una copia della nostra, non una replica esatta.» Il suo dito
era sceso oltre. «Mentre qui esisterà una pezza cosmica
analoga alla nostra, ma con particelle riorganizzate in altri
scenari, altri destini.» Il dito si era fermato su quest’ultima
cifra.
«Certo, Billy, in teoria», aveva detto John. «Il multiverso è
un concetto ipotetico, trascende il nostro orizzonte cosmico.
Non abbiamo prove empiriche.»
Il dito di Billy era ancora piantato sul foglio. «Può esistere
un mondo come il nostro, dove gli eventi hanno però esiti
diversi.»
Osservando il polpastrello di Billy, John si era domandato
se non avrebbe accidentalmente aperto un buco in mezzo a
tutti quei calcoli.
«Anche la matematica opera all’interno di un modello
inflazionario.» Le labbra di Billy si erano allargate in un
sogghigno.
John avrebbe voluto alzarsi e andarsene, o fargli una bella
ramanzina per averlo disturbato, nel gran giorno della sua
fiorente carriera, con elucubrazioni che non stavano né in
cielo né in terra. Ma, ricordando che l’amico era in lutto, si
era imposto di essere paziente. «Billy, rallenta un attimo.
Non ho ben capito cosa mi stai chiedendo.»
«Da qualche parte del multiverso, lei è ancora viva.»
«Billy...» gli aveva detto con delicatezza John. «Non
abbiamo idea di cosa ci sia oltre l’orizzonte cosmico, lo sai.
Quand’anche esistessero dimensioni parallele, in cui i morti
sono ancora vivi, non avremmo modo di saperlo. L’unica
realtà che possiamo conoscere è la nostra.»
«Lo so», aveva detto Billy, mentre John ripiegava il foglio
coi calcoli e glielo riponeva con cura nel taschino della
camicia. «Però mi aiuta, sapere che da qualche parte siamo
ancora felici.»
John era ammutolito. Avrebbe voluto chiedergli cos’era
capitato a Evelyn, ma aveva già tutte le informazioni che gli
servivano: Evelyn era morta e Billy stava cercando un modo
per continuare a vivere con lei. Voleva che John gli desse
man forte coi calcoli, aiutandolo a tenere conto delle
variazioni nei modelli inflazionari. Si era rivolto a lui perché
erano vecchi amici, si erano sempre parlati nel linguaggio
della scienza, e in quei calcoli febbrili era codificato un
dolore che Billy non era in grado di esprimere. John aveva
lasciato qualche dollaro sul tavolo e gli aveva posato una
mano su una spalla. «Vieni, ti offro da bere.»
«Non uscire mai con un uomo in lutto», mi mise in guardia
John. «Lui si rattristerà ancora di più, e tu finirai più ubriaca
che mai.»
Come Victor Frankenstein, anche Billy era ricorso alla
scienza per lenire il dolore. A Frankenstein avrebbe fatto
comodo qualcuno – per esempio l’amico d’infanzia Henry
Clerval – che lo dissuadesse dal ribaltare il ciclo della vita;
Billy aveva John Cook a ricordargli che non poteva
sorpassare la scienza: nessun calcolo matematico avrebbe
fatto risorgere Evelyn. E, quand’anche così fosse stato, tutti
sapevamo a cosa avevano portato le buone intenzioni di
Victor Frankenstein.
«Ci siamo tenuti in contatto solo professionalmente. Non
l’ho più visto.» John raccolse dalla scrivania alcuni libri e una
mela e ripose il tutto in una valigetta. «Mi ha molto
rattristato la notizia di tuo zio.» Mise la borsa a tracolla e io
lo seguii nel corridoio. Scendemmo di sotto, verso l’ingresso
principale.
«Ma perché era venuto alla tua conferenza? Cioè, come
mai aveva deciso di cercarti allora?»
«In quel periodo, il giornale degli ex studenti aveva
pubblicato un articolo su di me. Evidentemente lui l’aveva
visto. Magari, leggendo il titolo della mia conferenza, ha
creduto che lo potessi aiutare», congetturò John.
Io lo seguii fuori dalle porte a vetri, verso il vialetto
ombroso. «Pensi che l’incontro con te l’abbia aiutato a
elaborare il lutto?»
«La tristezza è come un labirinto. Lungo il percorso si
commettono errori, ma prima o poi si trova l’uscita.»
Raggiunta la strada, con un gesto gli feci capire che
andavo a destra per recuperare l’auto. John andava a
sinistra.
«Grazie per avermi parlato di mio zio», gli dissi,
stringendogli la mano.
«Era uno di quelli bravi, lui. Solo che si perdeva nei suoi
pensieri.» John mi fece un cenno di saluto e
c’incamminammo in direzioni diverse.
Quando arrivai all’auto dei miei genitori, rilessi l’ultimo
indizio.

Ma qualunque cosa fosse successa sapevo che sarei


sopravvissuto. Sapevo, soprattutto, che avrei continuato
a lavorare. Sopravvivere significava rinascere parecchie
volte. Non era facile ed era sempre doloroso. Ma non
c’era altra alternativa se non la morte.

Tentai d’immaginare quelle parole pronunciate da Billy, ma


le sentii con un’altra voce familiare, e con una piccola
modifica: Sarei sopravvissuta. Non era facile. Non c’era altra
alternativa. Erano perfette, nell’inflessione pastosa e
paziente di mia madre. Guardai di nuovo il volantino. 17-20
febbraio 1986, pochi mesi dopo la mia nascita. Evelyn
doveva essere morta tra il 1984 – anno dell’apertura di
Prospero Books – e la conferenza del dottor Cook. Io ero
piccolissima, e mia madre era in lutto. Poi ero cresciuta, e lei
mi aveva nascosto quel lutto. Come mai non mi aveva mai
parlato di Evelyn? Come mai non c’era una sua foto sulla
libreria del nostro salotto, accanto a quelle dei nostri parenti
defunti e mai dimenticati? C’erano i genitori della mamma,
quelli del papà, e anche suo fratello. Per quale motivo non
ricordavamo in quel modo anche Evelyn?
9

Ogni domenica, da quando avevo memoria, i miei genitori


marinavano una fettona di carne, accendevano la carbonella
e concludevano il weekend con l’ennesima grigliata
all’aperto della famiglia Brooks. Col sole o con la pioggia.
Nella salute o nella malattia. Che io fossi a casa o all’altro
capo del continente. Ogni domenica, cascasse il mondo.
Aspettai mia madre in giardino. Lungo il confine del
terreno, le sue rose erano in fiore. Dieci toni diversi di rosa
avevano invaso il prato. A fine giugno, l’albero di avocado
cominciava a caricarsi di frutti, globi verdi, piccoli come
olive.
Il caschetto ricciuto tracciava i contorni delle spalle di mia
madre, che veniva verso di me con due bicchieri di vino. Si
era messa una vecchia polo del papà e un paio di
pantaloncini di tela: la sua divisa da giardinaggio. Provai a
immaginare la Suzy del passato, coi capelli stirati, la
cantante delle Lady Loves coi suoi modi da dura che avevano
stregato il papà e fatto perdere a John Cook il filo della
canzone. Suzy, la cui sola presenza davanti all’aula di
biologia bastava a spingere Billy a infilarsi in tasca la rana
costruita per Evelyn e andarsene, magari per sempre.
Mentre veniva verso di me con due bicchieri di rosato,
vedevo solo la mamma, i morbidi ricci incorniciati dal
cappello da giardinaggio, le guance arrossate dal sole
spietato.
«L’Aloha viene su robusta, quest’anno», le dissi,
prendendo il bicchiere che mi porgeva. Salivano sinuose
lungo lo steccato dietro gli altri rosai, coprendo le assicelle
di petali rosa che sembravano fatti di carta.
«Non ti facevo così esperta da riconoscere l’Aloha.»
«Sono tua figlia da abbastanza tempo da saperla
distinguere dalla Tea ibrida.»
Lei trasalì. L’atmosfera tra noi non lasciava molto margine
al sarcasmo. Avrei voluto che mi scostasse la ciocca appena
ricaduta sul mio viso, ma lei mantenne la distanza.
Il sole, ancora tenace, arrostiva le prime ore della sera.
Trovai rifugio in veranda, dove ci sedemmo al tavolo.
«Come si sta, da Joanie?» mi chiese.
«Adesso sono nell’appartamento di Billy. La casa di Joanie
è troppo piccola per gli ospiti.»
«Non è strano, stare là?»
«Un po’.»
«Puoi sempre tornare a casa, lo sai.»
«Lo so.»
Guardammo il cielo terso, sorseggiando il vino ed evitando
di guardarci negli occhi. Io stavo ancora pensando alla storia
di John Cook, al suo fremito nel ricordare mia madre. Da
ragazzi, John e Billy avevano paura di lei. Ricordavo lo
sguardo intimidito di Billy, quando mia madre gli aveva fatto
quella ramanzina, il giorno del mio dodicesimo compleanno.
La temeva anche da adulto. Io, invece, non avevo mai avuto
paura di lei, né prima, né adesso.
«Perché non parli mai di Evelyn?»
Lei scrutò il contenuto del suo bicchiere, un luccichio
rosato al sole. «Non c’è motivo di parlarne con te.»
«Ma era la tua migliore amica.»
«Era la mia migliore amica», mi fece eco lei.
«E la moglie di Billy.»
«E la moglie di Billy.»
«Non trovi strano che io non l’abbia mai sentita
nominare?»
Mia madre sorseggiò il vino, meditabonda. «Forse.» Diede
un’occhiata all’orologio e si alzò per rientrare in casa. «Cosa
vuoi che ti dica? Non riuscivo a parlarne. Dovevo andare
avanti.» Sgusciò dentro la portafinestra.
La seguii in cucina. «Com’era Billy, dopo che è morta lei?
Mi ricordo che aveva sempre una punta di tristezza.»
«Tu lo vedevi come un mago.» Aprì il forno e sulla griglia
più alta posò una pirofila di patate da gratinare.
«Era per via di Evelyn, che era sempre un po’ triste?»
«In Billy, qualunque cosa era per via di Evelyn.» Lo
sportello del forno mi bloccava la visuale, perciò non vidi
l’espressione di mia madre. Quando lo richiuse, aveva la
faccia arrossata dalla vampa. Regolò il timer sui quaranta
minuti. «Mi faccio un bagno, prima di cena. Glielo dici tu, a
tuo padre, di mettere su la carne tra dieci minuti?» Il suo
sguardo vagò verso il garage, dal quale proveniva lo stridio
di una levigatrice a nastro.
La seguii fino alla scala. «Perché non mi parli?»
Lei si fermò a metà salita e mi squadrò dall’alto. «Tesoro,
ho lavorato in giardino per tutto il pomeriggio. Vorrei
lavarmi, prima di mettermi a tavola.»
«Ma ci siamo solo noi. Puoi presentarti con la terra in
faccia, per quello che c’importa. E coi vestiti da
giardinaggio. O senza niente, e che cavolo! Diventiamo una
famiglia di nudisti.»
Normalmente, questa battuta l’avrebbe fatta ridere.
«Dammi solo un po’ di spazio.» Salì gli ultimi gradini e sparì
dietro la porta della camera da letto. Le pareti fischiarono
mentre l’acqua correva nelle tubature fino alla vasca da
bagno. Immaginai mia madre pucciare il ditone per
controllare la temperatura e mi domandai se pensasse a me,
o a Evelyn. Era sopravvissuta alla morte dell’amica, ma era
chiaro che non l’aveva superata affatto.
Bussai alla porta del garage. «Papà? Papà!» Il frastuono
non cessava. Aprii la porta. Lo vidi all’estremità opposta
della stanza, intento a passare la levigatrice su e giù lungo il
lato di una libreria. Agitai le braccia finché non mi vide,
spense l’attrezzo e spinse gli occhiali protettivi sopra la
testa. «La mamma vuole che la carne la cuocia tu. Si sta
facendo il bagno.» Lui mi lanciò uno sguardo contrariato, e
io per prima notai il tono petulante con cui, non volendo
ammettere la mia colpa, affermai: «Non ho fatto niente di
male, io».
«Non è questione di fare qualcosa di male.» Lui staccò la
spina della levigatrice e la posò sul banco da lavoro, e io lo
seguii attraverso la cucina e il salotto, fino alla veranda. «È
che non hai tatto.»
«Nel volere che mi parli? Che m’includa?»
«Certe volte è meglio mettere una pietra sul passato.»
Girò la manopola della griglia, e l’accendigas incorporato
cliccò più volte, finché dagli ugelli non uscì una fiammata.
«Ma questo va contro le tue convinzioni.»
Nel nostro rapporto, il passato contava molto: il primo
libro che mi aveva regalato era una storia illustrata dei
presidenti degli Stati Uniti. Ogni sera mi rimboccava le
lenzuola e ripassavamo la vita di uno di loro, a cominciare da
Washington – il suo preferito – per finire con Bush padre, in
carica all’epoca.
«Mi prenderesti la carne?» Fece un cenno del mento in
direzione della terrina di fesa di manzo lasciata a marinare
sull’isola della cucina. Quando gliela porsi, mi disse: «Sei
fortunata ad avere madre e padre in vita e ancora assieme.
Non è da tutti». Era raro che parlasse dei suoi genitori, ma
la loro morte era una ferita che portava ogni giorno. «Non
credo che Billy intendesse fare torto a tua madre, lasciando
la libreria a te.» Conficcò un forchettone nel taglio di carne e
lo sollevò dalla terrina, ne lasciò sgocciolare la marinatura,
poi lo sbatté sulla griglia con uno sfrigolio delizioso. «Ma
non ha mai avuto riguardo per gli altri. Pensava solo a se
stesso.»
«E a Evelyn.»
«Cioè, in ultima analisi, ancora a se stesso.»
«Perché tu e la mamma vedete solo il peggio di lui?»
«Perché lo conoscevamo.» Il papà abbassò il coperchio
della griglia e si sedette al tavolo della veranda, di fronte a
me. L’aria era addolcita dalla salsa di soia che sfrigolava
sulla carne. «Eri bambina.»
«Lo so, che lo zio non era irreprensibile come credevo. Ma
io, coi ragazzi, ci passo le giornate, e quelli vedono più di
quanto sembri. Billy aveva un peso addosso. Solo adesso
capisco che era Evelyn.» Ci fissammo come due avvocati a
un patteggiamento. «Quando sono tornata, hai detto che è
morta tra le convulsioni.»
Il papà tossì, tentando di dissimulare la sorpresa. «Ho
detto così?»
«La lite tra la mamma e lo zio c’entrava qualcosa con la
morte di Evelyn?»
Lui guardò attraverso la portafinestra, nel salotto, come
sperando che ricomparisse mia madre.
«Per favore, papà, aiutami a capire perché la mamma non
me ne parla.»
«Evelyn è sempre stata motivo di tensione tra loro», disse
finalmente.
«Era la sua fidanzatina del liceo?»
Se il papà mi avesse chiesto come facessi a saperlo, gli
avrei parlato di John Cook, dell’ultima caccia al tesoro di
Billy, degli indizi che avevo trovato finora e della storia che
stavo ricostruendo pezzo per pezzo. Gli avrei detto tutto.
«Io non c’ero, in quel periodo», disse.
«Ma la mamma te ne ha parlato, no?»
«Sì. Ha disapprovato fin da subito, ma non le hanno dato
retta, né l’uno, né l’altra.»
«Non stava a lei, decidere di separarli.»
Mi aspettavo una nota di disappunto, del tipo: E dai, Mimi!
E invece concordò: «Hai ragione, non stava a lei».
«Cos’è che li ha spinti a rimettersi assieme?» Anche
stavolta attesi che mi domandasse come facessi a sapere che
si erano lasciati. Anche stavolta gli avrei detto tutto, se me
l’avesse chiesto.
«Tua madre.» Si avvicinò alla griglia e sollevò il coperchio
per controllare la carne. Non era ancora ora di girarla,
perciò lo riabbassò. «Non apposta, però. Quando ci siamo
trasferiti a Los Angeles, lei ed Evelyn hanno ripreso i
contatti.»
«Cioè, quando?»
«Sarà stato il ’75 o il ’76. Evelyn si è presentata a un
cocktail del mio studio. Tua madre detestava quelle feste.
Anch’io, francamente.»
Mi raccontò che la mamma se ne sarebbe voluta andare
già nel momento in cui erano arrivati.
«Dopo questo, basta», gli aveva detto all’orecchio, mentre
si accodavano per farsi servire un ginger ale. «Sul serio.
Voglio tornare a casa.»
Il papà era d’accordo, e lei si era eclissata per cercare il
bagno. Lui era rimasto lì col suo drink, nel salotto affollato.
Quasi tutti i presenti erano al terzo martini, le voci degli
avvocati si erano fatte più squillanti e le mogli cominciavano
a togliersi le scarpe a tacco alto. E in quel momento era
comparso Jerry Holdsbrook.
«Si credeva George Hamilton, quello.» Il papà si sedette,
portando le mani dietro la nuca. Era un narratore nato,
faceva le pause giuste e sapeva patinare i passaggi più
asciutti. Amava abbandonarsi ai ricordi, soprattutto quelli
sulla mamma, e per mia fortuna gli piaceva così tanto che
evidentemente non si rese conto che mi stava raccontando
una cosa che lei non voleva farmi sapere. E – sempre per mia
fortuna – mia madre si stava concedendo un lungo bagno,
non era ancora riemersa di sotto, per interrompere
bruscamente la storia. «Lampadatissimo, denti
bianchissimi...»
Era tipico di Jerry Holdsbrook, presentarsi quando
avvocati e consorti erano al terzo bicchiere, quando ai
dialoghi sforzati era già subentrato il chiacchiericcio etilico.
Ed era proprio da lui, arrivare a braccetto con una donna
eterea, troppo bella per lui, alta e bionda, in un completo
monopezzo bianco ben diverso dagli abitini da cocktail neri
delle altre.
Mio padre aveva visto Evelyn veleggiare, come sospesa, e
aveva incrociato lo sguardo di Jerry, il quale aveva levato il
bicchiere verso di lui. Il papà aveva ricambiato il gesto,
pensando: Che stronzo. Poi aveva scrutato il patio, in cerca
della mamma. Non trovandola fuori, aveva controllato la sala
da pranzo e la cucina. Incamminatosi verso la camera, aveva
sentito due voci femminili chiacchierare. Mia madre ed
Evelyn si erano voltate simultaneamente. «Caro, lei è Evelyn,
una mia compagna delle superiori», l’aveva presentata,
stringendole una mano.
«Da allora, sono state di nuovo pappa e ciccia», disse il
papà.
Dopo il cocktail, Evelyn li aveva invitati a un reading
presso la libreria di Pasadena in cui lavorava. Era la sera del
sabato, che di solito era dedicata a una cenetta romantica e
un cinema, ma la mamma gli aveva detto: «Facciamo
qualcosa di culturale, per una volta». E lui aveva
acconsentito, anche se era da settimane che aspettava la
première di Tutti gli uomini del presidente.
Alta e bionda, con quello scollatissimo abitino in
poliestere, Evelyn era facile da individuare: l’intero locale le
orbitava intorno. «Che bello, siete venuti!» aveva detto,
stringendoli entrambi a sé, prendendoli a braccetto e
conducendoli verso lo scrittore.
Si erano messi tutti in cerchio ad ascoltare l’autore che
salmodiava i suoi modelli d’ispirazione: Thomas Pynchon,
James Joyce, Bertolt Brecht e qualche filosofo sociale che il
papà non conosceva. Alla fine della litania, gli altri scrittori
presenti avevano fatto altrettanto, elencando i loro romanzi
di recente pubblicazione, soprattutto quelli che non avevano
riscosso gli elogi che meritavano, e dicendo peste e corna
dei colleghi che avevano conseguito un successo di cui non
erano degni. Il papà aveva sorseggiato il suo ginger ale,
domandandosi se la sua fosse un’avversione ai party in
generale, non solo quelli dello studio.
Il mattino seguente, mia madre l’aveva salutato con un
bacetto per correre a vedersi con Evelyn.
«Ah, l’andazzo è questo? Devo dividerti con lei?» aveva
scherzato il papà.
Ma lei non aveva riso. Lui teneva in grembo pile di
documenti, ogni domenica c’erano carte sparse per tutto il
pavimento del salotto. Cosa pretendeva? Che lei si girasse i
pollici, mentre lui lavorava? Che gli servisse il caffè?
«Salutamela», le aveva detto il papà, mentre ricambiava il
bacetto.
«Evelyn ti stava antipatica?» gli chiesi.
«Non stava antipatica a nessuno. Con tutti quegli eventi
letterari cui ci portava, le cene con gli scrittori in tournée...
Era l’unica a non parlare solo di sé.» Il papà si riavvicinò alla
griglia e, soddisfatto della crosticina che si era formata, girò
la carne per cuocere l’altro lato. «Semmai ero geloso.
Sembrava che tua madre preferisse la sua compagnia alla
mia.» Ovviamente non era vero, e il papà sapeva che sarebbe
stato un errore chiederle di rinunciare a Evelyn.
«Quindi è stata la mamma a farli rimettere assieme?»
«Si era messa in testa di non dover dire a Billy che Evelyn
era riapparsa.»
Quando cenavano dai miei nonni, mia madre si sedeva
davanti a Billy a parlare di Intervista col vampiro, o Gente
senza storia, o Canto di Salomone, o qualunque altro libro
stesse leggendo, senza mai specificare chi gliel’avesse
consigliato, chi le avesse fatto uno sconto in qualche libreria
di casa del diavolo a Pasadena.
«Non credi che dovreste dirglielo, che siete amiche?» le
aveva chiesto il papà, mentre tornavano a casa.
«Tu non c’eri, a quei tempi. Non puoi capire», aveva
ribattuto lei.
«Verrà a saperlo.»
«Non voglio che resti ferito un’altra volta.»
«È meglio se lo scopre da te.»
«Non ci voleva una sfera di cristallo, per capire come
sarebbe finita», disse il papà, riassumendo la sua postura da
cantastorie: gomiti in fuori e busto reclinato.
Mia madre doveva esibirsi in un locale dalle parti del
Sunset Strip. Era il primo ingaggio da quando erano venuti a
Los Angeles, diciotto mesi prima. Aveva fatto audizioni per
un’infinità di gruppi, da alcune tornava ottimista, da altre
abbattuta: com’era possibile che a Los Angeles fosse più
dura che a New York? Ma non erano più i primi anni ’70, alla
gente non serviva il suo sound, né il suo look, qualunque
cosa significassero quelle due parole. Il look si poteva
cambiare, e una buona voce era una buona voce, ma i gruppi
non la pensavano in quel modo. Poi, di sorpresa, ecco una
telefonata: una delle coriste si era presa un’intossicazione
alimentare, e il cantante (nonché agente) chiedeva a mia
madre se quella sera fosse libera.
Lei ne aveva parlato coi genitori e con Evelyn, non perché
si aspettasse che venissero a sentirla, ma perché c’era una
svolta. Era già ovvio, che Evelyn venisse. E i genitori no. Si
erano complimentati per il fatto che le cose cominciassero a
girare per il verso giusto, ma con una marcata esitazione nel
tono, che tradiva la loro contrarietà: era finalmente sposata,
e con un uomo di successo, eppure non aveva ancora
superato quella fase.
E così, eccola, in un angolino del piccolo palcoscenico,
accanto all’altra corista, più alta e più matura. Aveva passato
la giornata con lei, per imparare i ritornelli, tentando di
restare ottimista nonostante quel repertorio così spurio e
convenzionale. Un ingaggio era un ingaggio, e chissà mai chi
c’era tra il pubblico, perfino in un localino come quello. Non
le era venuto in mente che i suoi genitori potessero averne
parlato con Billy, il quale cercava un posto divertente in cui
portare la fidanzata di turno.
Dopo l’esibizione, tutti erano rimasti fuori ad aspettarla.
Billy era raggiante, mentre Evelyn gli rivolgeva la parola. La
fidanzata, lì accanto, li guardava conversare. Mio padre
aveva provato compassione per lei. E poi aveva scorto mia
madre che usciva dal locale, con un’espressione allarmata
nel vederli lì, sul marciapiede.
«Suze!» aveva gridato Evelyn, agitando la mano e
correndo ad abbracciarla. E, solo ora che gli voltava le
spalle, Billy aveva cinto con un braccio la fidanzata e le
aveva dato un bacetto su una guancia. Quando poi Evelyn
aveva sciolto l’abbraccio con mia madre e si era voltata di
nuovo, il papà l’aveva visto allontanare la mano dalla vita
della ragazza. «Non è stata fantastica?» aveva detto Evelyn
ai musicisti.
«Avevo il microfono basso, non mi si sentiva neanche»,
aveva detto lei.
«Sei andata forte», aveva detto Billy, con un tono che il
papà non aveva saputo decifrare. «E che bella sorpresa, che
ci sia anche Evelyn.»
Mia madre era impallidita. «E Jerry dov’è?» le aveva
chiesto. Mio padre l’aveva fulminata con lo sguardo, ma lei
aveva fatto spallucce, come se la sua fosse stata una
domanda innocente.
«Non saprei», aveva risposto Evelyn, adocchiando Billy.
«Al lavoro, penso.»
Dopo poche chiacchiere sforzate, la fidanzata aveva
annunciato che era stanca. Billy aveva salutato mio padre
con una stretta di mano, mia madre con un artefatto bacetto
sulla guancia, ed Evelyn con un abbraccio, che però non era
ben ricambiato: lui aveva tentato di stringerla tutta quanta,
lei si era limitata a battergli una mano sulla schiena.
«Bill, dobbiamo proprio andare», aveva detto la fidanzata,
vedendolo prolungare un po’ troppo l’abbraccio.
«Adesso ti fai chiamare Bill?» l’aveva canzonato Evelyn.
«Dobbiamo crescere tutti, prima o poi», aveva risposto lui.
Lei aveva sorriso, e mio padre non aveva capito perché,
ma era chiaro – tanto a lui quanto alla fidanzata – che tra
Billy ed Evelyn c’era una certa carica emotiva.
«L’ho trovato bene, tuo fratello», aveva detto Evelyn,
mentre Billy e la ragazza si allontanavano. Billy le aveva
lanciato un timido sorriso da sopra la spalla. «Cioè, contento.
Mi sembra contento.»
«Eh, facciamo in modo che lo rimanga», aveva detto mia
madre.
«Suze, io frequento Jerry Holdsbrook.»
Ma non avrebbe continuato a frequentarlo ancora a lungo.
«Ovviamente, con la ricomparsa di Evelyn, la fidanzata era
fuori gioco.» Mio padre sollevò la bisteccona dalla griglia e,
reggendola sopra la terrina di vetro, la portò in cucina per
metterla a raffreddare su un piatto di ceramica.
Guardai il timer del forno. Alle patate restavano sette
minuti di cottura. Ero a corto di tempo.
«Dov’eravamo rimasti?» mi chiese.
«Alla ripresa dei contatti tra Evelyn e Billy.»
«Ah, ecco.»
Alla successiva cena di famiglia, Billy si era presentato da
solo. Per tutta la serata, mia madre aveva tentato di
coinvolgerlo nella conversazione, ma lui evitava il suo
sguardo e ignorava le sue domande. Quando lei gli aveva
chiesto di aiutarla a servire il dolce, lui l’aveva seguita
malvolentieri in cucina e aveva detto: «Un anno? Hai ripreso
i contatti con Evelyn da un anno intero, e non ti è venuto in
mente di dirmelo? In un anno, nemmeno una volta?»
«Cercavo di proteggerti.»
«Non ho bisogno di essere protetto. Devi smetterla di
credere di sapere cos’è meglio per me.» Billy era uscito dalla
cucina come una furia.
«Lo faceva spesso, la mamma? Cercava di proteggerlo?»
«Sempre in buona fede, ma nessuno vuole una sorella che
gli faccia da madre.» Il papà mi porse tre piatti e tre coppie
di posate.
«È già tanto se accettiamo che a farci da madre sia nostra
madre», scherzai.
Lui corrugò la fronte per ammonirmi a non calcare troppo
la mano.
«Insomma, a quel punto Billy ed Evelyn si sono rimessi
assieme?»
«Qualche settimana dopo, alla cena di famiglia si è
presentato con lei.»
Evelyn aveva portato un bouquet per mia nonna e una
bottiglia di scotch per mio nonno. Loro l’avevano ringraziata,
sforzandosi di non mostrarsi sorpresi. Mia madre l’aveva
vista il giorno prima, ed Evelyn non le aveva detto che alla
cena ci sarebbe stata anche lei.
Mentre andava a prendere una birra per Billy, mia madre
l’aveva presa da parte. «Perché non mi hai detto che
venivi?»
«Non era in programma.» Evelyn aveva raccontato che
erano usciti assieme in macchina, e che Billy non voleva che
la gita finisse, così l’aveva invitata alla cena.
«E quindi siete di nuovo assieme?»
«Non lo so.»
Ma mia madre aveva capito che Evelyn lo sapeva eccome.
«E il tuo ragazzo?»
«Jerry non è mai stato il mio ragazzo.»
«Povero Jerry Holdsbrook», dissi io, disponendo i tre
piatti.
«Se tu l’avessi conosciuto, non ti farebbe nessuna pena.»
Mio padre mi lanciò tre tovaglioli, dato che nella piegatura
ero una campionessa. Mi basavo sulla tecnica sopraffina di
mia madre.
«Non capisco perché la mamma non approvava che si
fossero rimessi assieme. Temeva che Evelyn gli spezzasse di
nuovo il cuore?» Collocai i tovaglioli accanto ai piatti, poi
distribuii le posate.
Lui si sedette di fronte a me e scosse la testa. «Il problema
era che tra Billy ed Evelyn c’era un’energia tale, che era
come se non dessero importanza a nessun altro al mondo.
Credo che tua madre si sentisse esclusa.»
Certo, vedevano Billy ed Evelyn alle cene e agli incontri
che lei organizzava con gli scrittori, ma, se prima mia madre
era sempre stata libera di parlare delle sue lezioni di piano,
poi di chitarra e poi di basso, ora lo spazio era riempito dalle
narrazioni di Billy. Una volta, Evelyn gli aveva posato una
mano sulla sua e aveva detto: «Racconta del Perù».
«Non la vogliono sentire, la storia del Perù», aveva
risposto lui, come se l’intera Cordigliera delle Ande fosse
stata l’oggetto di una qualche battuta tra loro.
«Ma sì. La volete sentire, no?» Evelyn aveva sorriso,
incurante del fatto che Billy avesse già monopolizzato
l’aperitivo parlando del suo laboratorio, del problema delle
predizioni a breve termine e di altre cose sulle quali il papà
aveva spento il cervello.
«Certo», aveva detto mio padre, cingendo con un braccio
mia madre, la quale gli aveva rivolto un sogghigno, come a
dire: Ci risiamo!
E Billy si era lanciato in una lunga e tortuosa storia,
durata dall’antipasto al dolce, su un sismologo statunitense
che aveva scatenato il panico predicendo un imminente
fortissimo terremoto in Perù. «Un incosciente assoluto»,
aveva commentato, gesticolando così tanto da rischiare di
rovesciare un bicchiere di vino.
«Assoluto», gli aveva fatto eco mia madre, però lui era
troppo occupato a rimettere in equilibrio il bicchiere per
notare il tono di scherno. Forse l’aveva colto Evelyn, ma
aveva fatto finto di nulla.
Durante quelle cene, Billy non aveva mai fatto domande a
mio padre riguardo al suo studio legale, né a mia madre sul
corso di composizione musicale che stava seguendo, o
dell’agente che aveva conosciuto. Ma avevano continuato a
frequentarsi perché per mia madre la prospettiva di non
passare più il sabato sera con la migliore amica era assai
peggiore.
Nel racconto di mio padre riconobbi il Billy che mi era
stato descritto da John Cook: quello cui non era sempre
chiaro che esistevano anche gli altri.
«Per certi versi, ce l’aveva ancora con tua madre, per aver
tenuto la bocca chiusa riguardo a Evelyn», disse.
«È comprensibile», replicai io, desiderosa di difendere mio
zio. «La mamma voleva solo proteggerlo, ma lui aveva tutto
il diritto di sapere.» E ora mia madre voleva proteggere
anche me. «Le bugie non piacciono a nessuno.»
«Vero.»
Le assi del pavimento del piano di sopra gemettero, ed
entrambi alzammo lo sguardo.
«Ma Billy ha continuato a serbare rancore.»
«Quindi è per questo che hanno smesso di parlarsi?» I
conti non tornavano. Si era arrabbiato con mia madre, ce
l’aveva ancora con lei, ma si era pur rimesso con Evelyn.
Allo squillo del contaminuti, corsi in cucina a sfornare le
patate. Si erano gratinate senza bruciare. Non occorreva
assaggiarle per sapere che la cottura era perfetta.
Al piano di sopra, la porta della camera da letto si chiuse,
senza sbattere ma abbastanza forte da farci capire che la
mamma stava scendendo di sotto.
Tornai a sedermi di fronte al papà. «Cos’ha fatto Evelyn
per allontanarli l’uno dall’altra?»
«Niente. Almeno, non direttamente. Come dicevo, c’era
sempre stata tensione tra l