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E.T.A.

Hoffmann

L’UOMO DELLA SABBIA


Traduzione e cura di Matteo Galli
L'uomo della sabbia

NATHANAEL1 A LOTHAR

Di certo voi tutti sarete in grande apprensione, perché è tanto, davvero


tanto, che non vi scrivo. La mamma, immagino, me ne vorrà e Clara
penserà che stia qui a darmi alla pazza gioia e mi sia scordato il volto del
dolce angelo mio2, che ho impresso così a fondo nel cuore e nella mente. –
Ma così non è; non c’è giorno e non c’è ora che non vi rammenti tutti, nei
miei dolci sogni si affaccia la gentile immagine della mia diletta piccola
Clara, e mi sorride soave con quei suoi occhi così luminosi, come quando
venivo a casa da voi. – Ma come avrei potuto, ahimè, scrivervi nello stato
d’animo straziato che ha turbato fino a ora tutti i miei pensieri! – Qualcosa
di tremendo ha sconvolto la mia vita! – Oscuri presagi di una sorte orribile
che mi minaccia incombono su di me come le ombre di nere nubi, e non c’è
raggio di sole che arrivi a squarciarle. – Ora ti dirò quel che mi è accaduto.
Devo farlo, me ne avvedo, ma al solo pensarci sento montarmi dentro come
una folle risata3. – Oh, carissimo Lothar!, come fare a spiegarti sia pure a
grandi linee che quanto mi è successo qualche giorno fa poteva distruggere
tragicamente la mia vita! Se solo tu fossi qui, potresti rendertene conto di
persona; ora invece mi prenderai per un folle visionario4. In breve, le cose
terribili che mi sono accadute e che mi hanno lasciato un’impressione
esiziale5, alla quale invano tento di sottrarmi, consistono nulla più che in
questo: qualche giorno fa, precisamente il 30 di ottobre, a mezzogiorno
venne a casa mia un venditore di barometri a offrirmi la sua merce6. Non
acquistai nulla e se ne andò di sua spontanea volontà solo quando minacciai
di buttarlo giù dalle scale.
Non ti sarà difficile immaginare che soltanto corrispondenze molto
speciali, profondamente radicate nella mia vita, siano in grado di fornire
una spiegazione a questo accadimento; solo così potrai capire l’effetto
davvero malefico che quello sciagurato mercante ha prodotto su di me7. Ora
vedrò di raccogliere tutte le forze per raccontarti con calma e pazienza
alcune vicende della mia infanzia8: ogni cosa allora si paleserà con la
massima limpidezza al tuo acuto intelletto. Eppure, mentre sto iniziando, è
come se sentissi te che ridi e Clara che dice: ma queste non sono altro che
bambinate! – Ridete, vi prego, ridete pure di me! – Ve ne prego davvero! –
Ma, Dio del cielo!, i capelli mi si rizzano in testa e mi sembra di implorarvi
di deridermi, in preda a una folle disperazione, come quando Franz Moor
scongiura Daniel9. Ma ora basta, cominciamo!
Durante il giorno, fuorché a pranzo, i miei fratelli e io vedevamo poco il
babbo. Il lavoro pareva tenerlo molto occupato. Dopo la cena, che secondo
un’antica consuetudine veniva consumata alle sette, tutti noi, compresa la
mamma, andavamo nella stanza da lavoro di nostro padre e ci mettevamo
intorno a un tavolo. Il babbo fumava e beveva un bicchierone di birra.
Spesso ci raccontava storie meravigliose10, e si accalorava a tal punto che
gli si spegneva di continuo la pipa; porgendogli un tizzo di carta, io avevo
allora il compito di riaccendergliela, e per me era un diletto senza pari.
Capitava spesso però che si limitasse a passarci libri illustrati, e a starsene
zitto e fermo nella sua poltrona, mandando potenti boccate di fumo fino a
ricoprirci tutti come di una coltre di nebbia11. In tali sere la mamma era
molto triste e, ancora non erano suonate le nove, ci diceva: «Su, bambini! –
a letto! a letto!, sta arrivando l’uomo della sabbia12, lo sento già». E davvero
ogni volta io udivo passi lenti e pesanti che facevano rintronare le scale;
non poteva che essere l’uomo della sabbia13. Una volta quei cupi passi e
quel sordo rumore mi parvero particolarmente tremendi, e domandai a mia
madre che ci stava portando via: «Mamma, senti, ma chi è questo uomo
della sabbia tanto cattivo che ogni volta ci manda via dal babbo? Com’è
fatto?». «L’uomo della sabbia non esiste, bambino mio» rispose la mamma
«quando dico che arriva l’uomo della sabbia, voglio solo dire che avete
sonno e non riuscite a tenere gli occhi aperti, come se qualcuno vi avesse
buttato sabbia negli occhi.»14 – Ma quella risposta non mi convinceva, anzi,
nella mia mente di bimbo concepii fermamente l’idea che la mamma
negasse l’esistenza dell’uomo della sabbia, perché non avessimo paura di
lui; io, del resto, lo sentivo con le mie orecchie quando saliva le scale. Preso
dalla curiosità di saperne di più su chi fosse quella creatura e che cosa
avesse a che fare con noi bambini, mi rivolsi infine alla vecchia che si
occupava di mia sorella più piccola chiedendole chi fosse mai quest’uomo
della sabbia. «Ma come Thanelchen» replicò quella «ancora non lo sai? È
un uomo cattivo che viene dai bimbi che non vogliono andare a letto e gli
butta manciate di sabbia negli occhi fino a farglieli schizzare via tutti pieni
di sangue; lui poi li getta nel sacco e li porta sulla mezzaluna in pasto ai
suoi figli, che se ne stanno dentro il nido e hanno becchi ricurvi come quelli
delle civette per poter beccare gli occhi dei bimbi cattivi.»15 L’immagine
dell’uomo della sabbia, crudele e disgustosa, mi si era dunque dipinta
nell’animo; quando la sera sentivo le scale rintronare, tremavo di paura e di
terrore. E la mamma non riusciva a strapparmi altro che il grido: «L’uomo
della sabbia!, l’uomo della sabbia!» balbettato fra i singhiozzi. Dopodiché
correvo nella mia stanza e per tutta la notte ero torturato da quella terribile
apparizione. Ero già abbastanza grande per rendermi conto che tutta la
storia dell’uomo della sabbia con il nido sulla mezzaluna, così come me
l’aveva raccontata la bambinaia, non poteva certo quadrare, tuttavia l’uomo
della sabbia rimase per me un terribile spettro e un vero orrore –
raccapriccio mi coglieva non soltanto a sentirlo salire le scale, ma anche
quando l’udivo spalancare con violenza la porta della stanza di mio padre
ed entrare. Capitava che non si facesse vedere per lunghi periodi, ma poi
ritornava e magari veniva per più giorni di seguito. Tutto questo andò avanti
per anni: avvezzarmi a quel sinistro fantasma non mi fu mai possibile, né
l’immagine di quella crudele figura accennò a impallidire. I rapporti che
intratteneva con il babbo presero a occupare un posto sempre maggiore
nella mia fantasia; un invincibile timore mi trattenne dall’interrogare
direttamente mio padre, eppure con gli anni crebbe sempre più in me la
voglia di sondare da solo – sì, da solo – quel mistero, di vedere quell’uomo
della sabbia tanto favoloso. Quell’immagine mi aveva aperto la strada del
meraviglioso e dell’avventuroso che si annidano con tanta facilità
nell’animo di un bambino16. Nulla mi piaceva di più che ascoltare o leggere
paurose storie di coboldi, streghe, gnomi e così via; ma al primo posto
restava sempre l’uomo della sabbia, che nelle forme più strane e disgustose
io scarabocchiavo con gesso e carboncino sui tavoli, sui mobili e alle pareti,
dappertutto. All’età di dieci anni la mamma mi fece passare dalla camera
dei bambini a una stanzetta che dava sul corridoio, non distante dalla
camera del babbo17. E sempre, quando battevano le nove e in casa si
udivano i passi di quello sconosciuto, dovevamo allontanarci in tutta fretta.
Dalla mia stanzetta lo sentivo entrare da mio padre e subito dopo era come
se per la casa si diffondesse un vapore leggero dall’odore strano. Insieme
alla curiosità crebbe in me la speranza, sostanziata dal coraggio, di riuscire
in qualche modo a conoscere l’uomo della sabbia. Spesso, dopo che la
mamma se n’era andata, scivolavo ratto fuori dalla stanza nel corridoio, ma
non riuscivo a sentire nulla, perché, quando avevo raggiunto un luogo dal
quale avrei potuto scorgerlo, l’uomo della sabbia si era già chiuso la porta
dietro le spalle. Spinto infine da un incoercibile impulso, decisi di
nascondermi direttamente in camera del babbo e di attendere lì l’arrivo
della misteriosa creatura.
Una sera capii, dai silenzi di papà, dalla tristezza della mamma, che
sarebbe venuto l’uomo della sabbia; finsi pertanto una grande stanchezza,
lasciai la stanza già prima delle nove e mi nascosi in un cantuccio
immediatamente fuori. Dall’ingresso giunse un cigolio e si udirono dei
passi lenti, pesanti e rintronanti che attraversavano il corridoio, diretti verso
le scale18. La mamma mi passò accanto rapida insieme ai fratellini. Aprii
piano piano la porta della camera del babbo. Lui, che come al solito se ne
stava seduto silenzioso e immobile con le spalle rivolte alla porta, non si
accorse di me. In un attimo mi ritrovai dentro la stanza e mi sistemai dietro
la tenda di un armadio a giorno dove stavano appesi gli abiti di mio padre.
Vicini, sempre più vicini echeggiavano quei passi. Fuori si sentivano strani
colpi di tosse, un tramestio, un brontolio. Il cuore mi batteva all’impazzata
per la paura e per l’attesa. Vicinissimo all’uscio un passo pesante, un colpo
violento alla maniglia e la porta si spalanca con fracasso! Trattenendo a
forza un grido sbircio fuori con la massima cautela. Eccolo, l’uomo della
sabbia, in piedi in mezzo alla stanza, il chiarore delle luci gli illumina il
volto!19 L’uomo della sabbia, il terribile uomo della sabbia non è altri che il
vecchio avvocato Coppelius20, che ogni tanto viene a pranzo da noi!
Ma neanche la creatura più orribile sarebbe riuscita a incutermi un orrore
più profondo di questo Coppelius. Immaginati un uomo alto, dalle spalle
larghe, con una testa grossa e deforme, la faccia terrea, le sopracciglia
grigie e folte, sotto le quali brillano due pungenti occhi verdognoli da gatto,
un naso grosso e ben pronunciato sopra il labbro superiore. La bocca si
contorce spesso in un riso maligno e allora sulle guance compaiono
macchie rossastre e fra i denti serrati passa uno strano sibilo. Coppelius
arrivava vestito sempre con una giacca grigio cenere di taglio antiquato,
panciotto uguale e calzoni dello stesso genere, le calze invece erano nere e
le scarpe con piccole fibbie d’osso. Il parrucchino arrivava appena a
coprirgli il cocuzzolo con le ciocche appiccicate ritte sopra le grandi
orecchie rosse; teneva l’ampia retina così discosta dalla nuca che si arrivava
a scorgere la fibbia d’argento che gli chiudeva la cravatta increspata. Tutta
la figura era odiosa e repellente, ma a noi bambini ripugnavano soprattutto
quelle sue manacce ossute e pelose: ogni cosa sfiorassero non ci piaceva
più21. Lui se n’era accorto e provava un gran gusto a toccare con questo o
quel pretesto un pezzetto di torta, un frutto candito che la nostra mammina
ci aveva messo di nascosto nel piatto, e a noi allora, i lucciconi negli occhi
per lo schifo e il disgusto, ci passava la voglia e non volevamo più mangiare
quella cosina prelibata che desideravamo tanto. Faceva lo stesso quando
durante le feste il babbo ci versava un bicchierino di vin santo. In quei casi
allungava lesto le mani o magari si avvicinava addirittura il bicchiere a
quelle sue labbra blu e se solo sfogavamo la nostra rabbia con sommessi
singhiozzi, lui se la rideva in modo davvero diabolico. Era solito chiamarci
le bestioline; se c’era lui, non dovevamo aprire bocca, e noi allora
maledivamo quell’uomo brutto e cattivo che di proposito s’ingegnava a
rovinarci anche le gioie più innocue. Anche la mamma pareva odiarlo
quanto noi, quel rivoltante Coppelius; al suo apparire, lei, sempre serena,
dal carattere così allegro e spensierato, si faceva tutta seria e triste. Il babbo
lo trattava come se fosse un essere superiore, di cui vanno sopportati gli
sgarbi e che non si deve in nessun caso contrariare. Bastava solo che
facesse un lieve cenno e subito si provvedeva a cucinargli i suoi piatti
preferiti, a imbandirgli vini di pregio.
Quando vidi dunque questo Coppelius, la mia anima fu colta da orrore e
spavento al pensiero che l’uomo della sabbia non fosse altri che lui; ora
l’uomo della sabbia aveva smesso di essere per me lo spauracchio della
fiaba della bambinaia, quello che porta gli occhi dei bambini in pasto alla
sua nidiata di civette sulla mezza luna – questo no! – ma ugualmente un
mostro odioso e spettrale che dovunque arriva reca con sé pena – angoscia –
eterna rovina nel tempo22.
Ero pietrificato23. Rischiando di essere scoperto e, come ben sapevo, di
essere duramente castigato, me ne rimasi fermo a origliare con il capo fuori
della tenda24. Il babbo accolse Coppelius con solennità. «Forza! – al lavoro»
esclamò quello con voce rauca e gutturale, togliendosi la giacca. Silenzioso
e cupo il babbo si levò la vestaglia ed entrambi indossarono lunghi
grembiuli neri. Non ero riuscito a vedere da dove li avessero presi. Il babbo
aprì l’anta di un armadio a muro, o meglio di quello che avevo sempre
ritenuto un armadio a muro e che invece era piuttosto una nicchia nera25, in
cui era collocato un fornelletto. Coppelius si avvicinò e dal fornello scaturì
scoppiettante una fiamma azzurrognola. Tutt’intorno c’erano strani arnesi di
ogni genere. Oddio! – che aspetto diverso aveva il mio vecchio babbo
quando si chinava sul fornello. Un orrendo spasimo di dolore sembrava
aver sfigurato quei suoi tratti delicati e sinceri in una smorfia diabolica
orribile e disgustosa. Finiva per assomigliare a Coppelius. Questi agitava le
pinze rosse di bragia e dallo spesso vapore traeva masse scintillanti sulle
quali poi vibrava vigorosi colpi di martello. Avevo la sensazione che
dappertutto comparissero volti umani26, ma senza occhi – al loro posto
orribili, profonde cavità nere. «Fuori gli occhi, fuori gli occhi!»27 gridava
Coppelius con voce sorda e tonante. In preda a una paura selvaggia cacciai
un urlo e crollai a terra uscendo fuori dal mio nascondiglio. Coppelius mi
afferrò subito. «Bestiolina! Bestiolina!» belò digrignando i denti. Mi tirò su
a forza e mi gettò sul fornello, tanto che le fiamme già cominciavano a
strinarmi i capelli: «Ora sì che li abbiamo gli occhi – occhi – un bel paio di
occhi di bambino». Così bisbigliava Coppelius e dalle fiamme afferrò con le
mani dei grani di bragia che avrebbe voluto gettarmi nelle pupille. Il babbo
allora levò implorante le braccia e gridò: «Maestro! Maestro! Lasciagli gli
occhi al mio Nathanael, lasciaglieli!». Coppelius scoppiò in una sonora
risata ed esclamò: «E se li tenga i suoi occhi il giovanotto e se le pianga
tutte le sue belle lacrime, ma osserviamo ben bene il meccanismo delle
mani e dei piedi»28. E così dicendo mi afferrò con tale violenza che tutte le
giunture presero a scricchiolarmi e mi svitò le mani e i piedi,
rimettendomeli ora in un modo ora nell’altro29: «No, così non funziona! Era
meglio all’inizio. Il Vecchio sì che sapeva il fatto suo!»30. Così diceva
Coppelius fra i sibili e i sussurri; poi tutto intorno a me si fece nero e buio,
uno spasimo lancinante mi percorse i nervi e le ossa – e non sentii più
nulla31. Un lieve alito caldo mi sfiorò il viso, mi destai come da un sonno di
morte, c’era la mamma china su di me: «È ancora qui l’uomo della sabbia?»
balbettai. «No, bambino mio, è andato via, via e non ti farà più nulla!» così
disse la mamma baciando e abbracciando il suo ritrovato tesoro.
Ma cosa sto qui a stancarti, mio carissimo Lothar! Cosa sto qui a
raccontarti tutti questi dettagli, quando restano da dire ancora tante cose?
Insomma, Coppelius mi aveva scoperto a spiare e mi aveva maltrattato. La
paura e il terrore mi procurarono una febbre violenta che mi tenne a letto
per diverse settimane. «È ancora qui l’uomo della sabbia?» – Furono queste
le mie prime parole sensate, segno della mia guarigione, della mia salvezza.
Mi resta da narrarti solo il momento più tremendo della mia infanzia; ti
convincerai allora che non dipende da un difetto dei miei occhi se tutto mi
appare scialbo, ma che un oscuro destino ha steso sulla mia vita un fosco
velo di nubi che forse solo con la morte riuscirò a strappare.
Coppelius non si fece più vedere; si diceva che avesse lasciato la città32.
Sarà passato un anno e noi, secondo l’antico immutato costume, sedevamo
una sera intorno al tavolo. Il babbo era molto allegro e raccontava aneddoti
divertenti di viaggi compiuti in gioventù. D’improvviso, quando batterono
le nove, sentimmo la porta stridere nei cardini e passi lenti e pesanti come il
ferro rintronarono nel corridoio e poi su per le scale. «Questo è Coppelius»
disse mia madre impallidendo. «Sì! – è Coppelius» ripeté il babbo con voce
fioca e rotta. Gli occhi della mamma si riempirono di lacrime. «Ma babbo,
babbo,»33 gridò «è proprio necessario?» «È l’ultima volta,» replicò lui «è
l’ultima volta che viene, te lo prometto. Ora va’, va’, prendi i bambini! –
Andate, andate a letto! Buonanotte!»
Mi sentivo come schiacciato dentro una pietra gelida e pesante. Mi mancò
il respiro! Siccome ero rimasto impalato mia madre mi prese per un braccio
e disse: «Vieni Nathanael, su, vieni!». Mi lasciai trascinare via ed entrai
nella mia stanza. «Calmati, calmati, mettiti a letto! – dormi – dormi» mi
disse la mamma uscendo, ma, tormentato da un’indescrivibile angoscia
interiore e dall’agitazione, non riuscii a chiudere occhio. Quel Coppelius,
quell’uomo così odioso, così schifoso, mi si parava dinanzi con gli occhi
scintillanti e rideva di me colmo di perfidia, e io invano cercavo di
liberarmi della sua immagine. Sarà stata già mezzanotte, quando risuonò un
botto terrificante, come se qualcuno avesse sparato un colpo di cannone.
Tutta la casa rintronò, davanti alla porta della mia camera si sentì uno
strepito e un fracasso e poi il portone di casa sbattuto con forza. «È
Coppelius» gridai sconvolto e saltai dal letto. Ma proprio allora si udì un
grido lancinante, disperato, mi precipitai nella stanza del babbo, la porta era
aperta, mi avvolse un vapore asfissiante, la serva gridava: «Oddio, il
padrone! Il padrone!». Per terra, davanti al fornello fumigante, mio padre
giaceva morto con il volto nero, ustionato e orribilmente sfigurato, intorno a
lui le mie sorelle gemevano e piangevano e la mamma giaceva lì accanto,
priva di sensi! «Coppelius, diavolo infame, hai ammazzato il babbo!» così
gridai; e persi conoscenza. Quando due giorni dopo mio padre venne
adagiato nella bara, i tratti del suo volto erano tornati miti e delicati, quelli
di sempre. La mia anima si consolò al pensiero che il patto con il diabolico
Coppelius non era bastato a precipitarlo nella dannazione eterna34.
L’esplosione aveva destato i vicini, l’episodio divenne di dominio pubblico
e giunse alle orecchie delle autorità che volevano convocare l’avvocato per
chiedergli conto delle sue azioni. Ma questi era sparito dalla città senza
lasciare traccia. Se ora ti dico, carissimo mio, che quel commerciante di
barometri altri non era che l’infame Coppelius, sono convinto di non
suscitare la tua riprovazione interpretando quell’ostile apparizione come
apportatrice di grande sventura. Era vestito diversamente, ma la figura e i
tratti di quell’uomo sono impressi così a fondo nel mio intimo che non
posso sbagliarmi. Eppoi Coppelius non ha neanche cambiato nome. A
quanto sento, si spaccia qui per un meccanico piemontese35 e si fa chiamare
Giuseppe Coppola. Sono deciso a rivalermi su di lui e a vendicare la morte
del babbo, accada quel che accada. Alla mamma non raccontare nulla della
comparsa dell’orribile mostro. Saluta la mia cara, dolce Clara, le scriverò in
uno stato d’animo più tranquillo. Addio ecc.

CLARA A NATHANAEL

È ben vero che tu non mi scrivi da tanto tempo, ma credo proprio di essere
in cima ai tuoi pensieri. Era a me che pensavi, se, pur volendo spedire la tua
ultima lettera a mio fratello Lothar, hai poi finito invece per indirizzarla a
me invece che a lui36. Con gioia ho aperto la busta e, alle parole: «Oh
carissimo Lothar!», mi sono accorta dell’errore. A quel punto non avrei
dovuto continuare a leggere, bensì dare la lettera a mio fratello. Ma non sei
stato forse proprio tu a rimproverarmi spesso, scherzando come un
bambino, di essere una donna così tranquilla e così posata al punto che, lo
ricordo ancora, una volta dicesti che se mi stesse crollando la casa addosso,
prima di darmi alla fuga in tutta fretta, mi sarei fermata ancora un attimo ad
aggiustare le pieghe di una tendina? Ebbene, devo confessarti che l’inizio
della tua lettera mi ha profondamente sconvolta. Non riuscivo quasi più a
respirare e la vista mi si era annebbiata. Oh, mio amato Nathanael, cosa mai
poteva essere entrato nella tua vita di così tremendo! Separarmi da te, non
rivederti più, il pensiero mi ha trafitto il petto come un pugnale infuocato.
Non riuscivo a smettere di leggere! La descrizione che fai del disgustoso
Coppelius è terribile. Soltanto ora so com’è stata tremenda, violenta la
morte del tuo buon vecchio padre. Quando gli ho riconsegnato la sua
legittima proprietà, mio fratello Lothar ha cercato di calmarmi, ma senza
successo. Quel maledetto venditore di barometri, quel Giuseppe Coppola mi
perseguitava a ogni piè sospinto e quasi mi vergogno a confessare che
addirittura è riuscito con i sogni più bizzarri a turbare il mio sonno salutare,
di solito così tranquillo. Ma ben presto, già il giorno dopo, il tutto ha preso
una piega diversa. Non volermene, adorato mio bene, se magari Lothar
verrà a dirti che sono del mio solito umore allegro e spensierato, nonostante
tutti i tuoi strani presagi sulle cattive intenzioni di Coppelius.
Voglio anzi subito confessarti che secondo me tutti gli avvenimenti terribili
e spaventosi di cui parli sono accaduti soltanto nel tuo animo, mentre invece
il mondo esterno, quello vero e reale vi ha ben poca parte37. Il vecchio
Coppelius sarà pur stato rivoltante, ma da piccoli il vostro disgusto era
provocato semplicemente dal fatto che lui detestasse i bambini.
Com’è naturale, nel tuo animo di bimbo il tremendo uomo della sabbia, di
cui aveva raccontato la bambinaia, finì per fondersi con il vecchio
Coppelius che per te, se anche tu non avessi creduto a quella specifica
figura fantastica, sarebbe comunque rimasto un fantasma, un mostro
pericoloso soprattutto per i bambini. I sinistri maneggi notturni insieme al
babbo altro non erano che esperimenti di alchimia fatti di nascosto38, che la
mamma non guardava di buon occhio, perché vedeva sprecare senza senso
una gran quantità di danaro; e poi, come sempre accade a quelli che si
dedicano a queste ricerche, l’animo del babbo, tutto colmo di fallaci
aspirazioni verso una superiore saggezza, veniva a essere distolto dalla
famiglia. Con ogni probabilità tuo padre morì a causa della propria
imprudenza e Coppelius non ne ha colpa. Ci credi che ieri ho domandato al
nostro vicino, un esperto farmacista, se è possibile che durante esperimenti
chimici si possa verificare un’esplosione che provoca una morte istantanea?
Lui mi ha detto: «Eccome», e mi ha descritto a modo suo, prendendola
larga e con gran dovizia di particolari, come ciò possa accadere e ha
pronunciato tutta una serie di nomi dal suono strano che non mi è riuscito di
tenere a mente. Sento già che le mie parole ti avranno messo di malumore
nei confronti della tua Clara e mi sembra di sentirti dire: in quell’animo
freddo non entra nemmeno un barlume dell’arcano che spesso stringe
l’uomo con braccia invisibili39; lei riesce a scorgere soltanto la variopinta
superficie del mondo e, come il bimbo più ingenuo, eccola lì a gioire del
luccichio dorato del frutto in cui s’annida il veleno mortale.
Ah, mio amatissimo Nathanael!, non credi che anche negli animi sereni,
tranquilli e spensierati possa albergare il presagio di una forza oscura e
ostile che intende produrre rovina nel nostro intimo? Perdonami se io, da
quell’ingenua fanciulla che sono, mi arrischio però a darti una qualche idea
delle mie opinioni intorno a questa lotta interiore. Alla fine non trovo
neanche le parole giuste e tu riderai di me, non tanto perché io pensi
qualcosa di sciocco, ma perché sono così poco versata nel dirlo.
Se esiste una forza oscura e nemica, che a tradimento pone un filo nel
nostro intimo, con cui ci tiene stretti, traendoci su un cammino pericoloso e
rovinoso che noi altrimenti mai avremmo percorso, se una tale forza esiste
deve prendere le nostre stesse sembianze, diventare come noi; poiché solo
in tal modo noi riusciremmo a crederle e le concederemmo lo spazio di cui
ha bisogno per compiere la sua opera segreta. Ma se noi possediamo una
mente abbastanza vigile e resa salda da un’esistenza serena che ci permetta
sempre di riconoscere un influsso estraneo e ostile e di seguire con passo
calmo la strada su cui ci hanno spinto inclinazioni e vocazione, quel potere
sinistro non potrà che soccombere nel vano tentativo di assumere quelle
sembianze che dovrebbero essere la nostra immagine riflessa40. E poi si può
star certi, aggiunge Lothar, che se ci siamo abbandonati a una forza oscura
di natura fisica, essa riesce spesso a sospingere nel nostro intimo le forme
estranee in cui il mondo esterno ci fa imbattere, così che finiamo per essere
noi stessi ad alimentare il nostro spirito che ci parla attraverso quelle forme,
mentre lo crediamo come noi in preda a un bizzarro inganno. È soltanto il
fantasma del nostro io, che per l’intima affinità con il nostro animo e il
profondo influsso su di esso, ci fa sprofondare nell’inferno o ci rapisce in
cielo41. Come vedi, mio amato Nathanael, io e mio fratello Lothar abbiamo
discusso molto a lungo di forze e poteri oscuri, e ora che, non senza fatica,
ho trascritto i punti salienti il tutto mi sembra decisamente profondo. Le
ultime parole di Lothar non le capisco appieno, posso soltanto intuire ciò
che vuol dire, eppure ho la sensazione che sia tutto molto vero. Ti prego,
cancella dalla tua mente sia l’orribile avvocato Coppelius che Giuseppe
Coppola, l’uomo dei barometri. Convinciti che queste figure estranee nulla
possono su di te, soltanto credere nel loro potere negativo può rendertele
davvero ostili. Se da ogni parola della lettera non parlasse l’agitazione che
stai provando, se il tuo stato non prostrasse tutta me stessa, potrei anche
ridere di quell’avvocato-uomo della sabbia e del venditore di barometri
Coppola. Sta’ sereno, sereno!42 Mi sono ripromessa di comparirti dinanzi
come il tuo angelo custode e di bandire con una bella risata l’orribile
Coppola, se ancora dovesse saltargli in testa di venire a turbare i tuoi sogni.
Non ho paura alcuna né di lui, né delle sue manacce pelose, non lascerò né
che l’avvocato mi rovini le mie leccornie, né l’uomo della sabbia gli occhi.
Eternamente mio amatissimo Nathanael ecc. ecc.

NATHANAEL A LOTHAR

Mi è molto dispiaciuto che per via dello sbaglio, invero causato dalla mia
distrazione, Clara abbia aperto e letto la mia ultima lettera che avevo invece
indirizzato a te. Lei mi ha poi risposto con parole assai profonde e
filosofiche, con cui dimostra che Coppelius e Coppola esistono solo dentro
di me, fantasmi del mio io che svaniranno all’istante non appena li
riconoscerò come tali. Si stenta a credere che lo spirito rilucente, come in
un sogno delizioso, da quei chiari occhi che sorridono con tanta dolcezza
sappia discettare43 in modo così accorto, così professorale. Nella lettera
riporta anche le tue osservazioni. Avete dunque parlato di me. E tu le dai
anche lezioni di logica, affinché impari a esaminare e distinguere tutto con
la massima sottigliezza. Ma lascia perdere! Del resto, lo so per certo,
Giuseppe Coppola, il venditore di barometri, non è affatto il vecchio
avvocato Coppelius. Ho preso a frequentare i corsi di un professore di fisica
arrivato di recente che come il famoso naturalista si chiama Spalanzani44 ed
è di origine italiana. Già da diversi anni costui conosce Coppola, e per
giunta dalla sua pronuncia si capisce che è davvero piemontese45. Coppelius
era tedesco, anche se, a quanto pare, non un vero tedesco. Non è che mi sia
calmato del tutto. Continuate pure tu e Clara a considerarmi un cupo
sognatore, ma io non riesco a liberarmi dall’impressione che mi fa il
maledetto viso di Coppelius. Sono contento che abbia lasciato la città, come
mi ha detto Spalanzani. Questo professore è un tipo strano. Un omino basso
e paffuto, il volto dagli zigomi pronunciati, un naso sottile, le labbra
carnose e gli occhietti pungenti. Ma meglio di qualsiasi descrizione, basta
che tu abbia presente il Cagliostro ritratto da Chodowiecki in non so più
quale almanacco berlinese46. Ecco, quello è Spalanzani. Giorni fa salgo le
scale e noto che la tendina, di solito tirata davanti alla porta a vetri, lascia
intravedere un piccolo spiraglio. Neanch’io so com’è che mi sia venuto in
mente di dare una sbirciata. In quella stanza era seduta una ragazza alta,
assai snella, perfettamente proporzionata ed elegantemente vestita, le
braccia e le mani conserte su un tavolino dinanzi a sé. Siccome sedeva con
il viso alla porta, potei contemplarne i tratti, belli come quelli di un angelo.
Lei non parve accorgersi di me e più in generale i suoi occhi avevano un
che di fisso, vorrei quasi dire che parevano ciechi, mi dava come
l’impressione che stesse dormendo a occhi aperti47. La cosa mi inquietò
parecchio48 e perciò scivolai ratto nell’aula, che è lì accanto. In seguito
appresi che la persona che avevo visto era Olimpia49, la figlia di Spalanzani,
che lui, con strana malvagità, tiene segregata, in modo che nessuno le si
possa avvicinare. In fondo ci deve sere qualcosa sotto, chissà, forse è
demente o qualcosa di simile. Perché ti scrivo tutto questo? Potevo
raccontarti tutto meglio e in modo più preciso a voce. Sappi infatti che fra
due settimane sarò da voi. Devo rivedere il mio dolce e caro angelo, la mia
Clara. Così si dileguerà il malumore che (devo pur confessarlo) ha preso
possesso di me dopo l’increscioso incidente di quella lettera così giudiziosa.
È per questo che neanche oggi le scriverò.
Mille saluti ecc. ecc.

Nulla di più strano e di più bizzarro si può immaginare di ciò che è


accaduto al mio povero amico, il giovane studente Nathanael, e di quello
che, benigno lettore, ho preso a raccontarti.50 Non ti è mai accaduto,
gentilissimo, che qualcosa ti abbia riempito il petto, la mente e i pensieri,
scacciandone tutto il resto? Dentro di te avvertivi un fermento, un bollore, il
sangue infiammato in una vampa cocente ti schizzava dalle vene e ti
colorava le guance. Il tuo sguardo era così strano, quasi a voler afferrare
nello spazio vuoto immagini, invisibili ad altro occhio, e le parole ti si
sfaldavano in cupi sospiri. E gli amici allora lì a domandarti: Ma che cosa vi
è successo, stimatissimo? Che cosa avete, mio caro? E tu che avresti voluto
descrivere le figure del tuo intimo51 con i toni più accesi, le ombre e le luci,
ti sforzavi di trovare le parole, anche solo per cominciare. Ma era come se
qualcuno ti obbligasse a esprimere già con la prima parola tutto quanto di
meraviglioso, stupendo, terribile, divertente, orrendo ti era accaduto: e
appena l’avevi pronunciata tutti dovevano avvertire come una scossa
elettrica52. Ma ciascun vocabolo e tutto ciò che può dire ti pareva scialbo e
gelido e morto. Cerchi e cerchi, e balbetti e t’incagli, e le lucide domande
degli amici s’insinuano, come soffi di vento gelido, nel tuo intimo ardore
fino a estinguerlo. Ma se tu, alla stregua di un ardito pittore53, avessi
schizzato, anche solo con pochi audaci tratti, i contorni dell’immagine che ti
si agitava dentro, con un piccolo sforzo vi avresti potuto aggiungere tinte
sempre più accese e il vivo intreccio di quelle multiformi figure avrebbe
travolto gli amici, i quali, al pari di te, si sarebbero rivisti al centro
dell’immagine sprigionatasi dall’animo tuo! Devo pur confessare, gentile
lettore, che nessuno è venuto a chiedermi la storia del giovane Nathanael;
ma tu sai bene che io appartengo a quella bizzarra genia di autori, i quali, se
solo hanno qualcosa dentro di sé simile a quanto ho appena descritto,
pensano che chiunque si avvicini a loro – anzi in genere un po’ tutto il
mondo – non faccia altro che domandargli: «Che cos’è mai? Carissimo,
raccontate!» E così ho provato un incoercibile impulso a parlarti della
sciagurata vita di Nathanael. I suoi tratti meravigliosi e strani colmarono
tutto il mio animo, ma proprio per questo motivo e per il fatto che io, mio
caro lettore, dovevo renderti subito incline a sopportare cose strambe –
impresa non da poco – mi sono scervellato per iniziare la storia di
Nathanael in modo significativo, originale, avvincente: «C’era una volta», il
miglior attacco per un racconto: ma no! troppo freddo! «Nella cittadina di
provincia di S. viveva», un po’ meglio, quanto meno serve ad avviare il
climax. Oppure direttamente medias in res: «“Ma andate al diavolo” gridò,
collera e orrore nello sguardo selvaggio, lo studente Nathanael, quando il
venditore di barometri Giuseppe Coppola»54. E infatti avevo scritto così, ma
poi mi parve di scorgere nello sguardo selvaggio dello studente un che di
farsesco: questa storia però non ha proprio nulla di divertente. Non mi
venne in mente nessun discorso capace di rendere, sia pur lontanamente, le
fulgide tinte di un’immagine interiore. Decisi pertanto di non cominciare
affatto. Prendi dunque, gentile lettore, le tre lettere che l’amico Lothar mi
ha cortesemente fatto pervenire come il contorno di quelle immagini cui nel
corso del mio racconto tenterò di aggiungere qualche pennellata di colore55.
Forse mi riuscirà, come a un buon ritrattista, di cogliere qualche figura in
modo che tu la trovi rassomigliante all’originale che pure tu non conosci o
che – meglio ancora – tu abbia l’impressione di aver già visto altre volte
quella persona con i tuoi stessi occhi. E allora, o mio lettore, ti convincerai
che non vi è niente di più strano e di più folle della vita reale e che il poeta
in fondo può solo limitarsi a coglierla, come nell’oscuro riflesso di uno
specchio opaco56.
Perché sia chiaro ciò che fin dall’inizio è necessario sapere, a quelle lettere
va aggiunto che, poco dopo la morte del padre di Nathanael, Clara e Lothar,
figli di un lontano parente, morto a sua volta lasciandoli orfani, erano stati
accolti in casa dalla madre di Nathanael. Clara e Nathanael maturarono un
forte affetto reciproco, contro il quale nessuno al mondo aveva alcunché da
eccepire; si erano dunque fidanzati quando il giovane lasciò la città per
proseguire gli studi a G.57 Ed è proprio lì che si trova nella sua ultima lettera
e frequenta le lezioni di Spalanzani, celebre professore di fisica.
Ecco, ora potrei proseguire tranquillo il racconto; ma subito mi si para
dinanzi, così viva, l’immagine di Clara e io non riesco a distoglier lo
sguardo, come del resto mai ho saputo fare, quando lei mi guardava così
sorridente, così soave58. Non si poteva certo dire che Clara fosse bella,
stando almeno all’opinione di tutti quelli che per mestiere si intendono di
bellezza59. Eppure gli architetti elogiavano le pure proporzioni della sua
figura, i pittori trovavano la nuca, le spalle e il petto fin troppo casti e poi
tutti finivano per innamorarsi dei suoi meravigliosi capelli da Maddalena,
ed era un continuo discettare di un colorito alla Battoni60. Uno di loro,
personaggio davvero fantasioso, ebbe a paragonare in modo quanto mai
originale gli occhi di Clara a un lago di Ruisdael in cui si rispecchia il puro
azzurro di un cielo senza nubi, i boschi e i fiori e tutta la vita gaia e
variopinta di un ricco paesaggio61. I poeti e i maestri non si fermavano qui e
dicevano: Macché lago, macché specchio! Possiamo forse guardare la
ragazza, senza che ci irradino dal suo sguardo canti mirabili, suoni celesti, i
quali penetrando nei nostri animi tutto destano e tutto muovono? E se allora
anche a noi non vien fatto di prendere a cantare qualcosa di bello, vuol dire
che siamo ben poca cosa; ed è proprio questo ciò che leggiamo chiaramente
nel sottile sorriso che vibra sulle labbra di Clara se proviamo a canticchiarle
qualcosa che pretenderebbe essere una canzone, mentre invece non ci
rendiamo conto di saper produrre soltanto suoni isolati e confusi. Proprio
così: Clara possedeva la vivace fantasia di un bambino felice, spensierato e
ingenuo, un animo profondo e ricco di grazia tutta femminile,
un’intelligenza limpida e acuta. Le persone complicate, le persone confuse,
con lei non facevano molta strada; senza tante parole, cosa del resto tipica
della sua indole taciturna, il lucido sguardo e quel lieve sorrisetto ironico
dicevano loro: Cari amici! Come potete solo pensare che io abbia a prender
per vere, con tanto di vita e sentimento, queste vostre ombre inconsistenti?
Clara veniva perciò considerata da molti persona fredda, insensibile,
prosaica; altri invece, capaci di concepire la vita con profondità e chiarezza,
amavano quella ragazza così piena di sentimento, comprensiva e ingenua,
ma certo nessuno al pari di Nathanael che incedeva con sereno vigore nei
sentieri della scienza e dell’arte62. Clara era attaccata all’amato con tutta se
stessa; le prime nubi le attraversarono la vita solo quando egli si separò da
lei. Con quale diletto gli volò fra le braccia, allorché, come promesso
nell’ultima lettera a Lothar, egli fece ritorno nella sua città natale ed entrò in
camera della madre. Tutto avvenne come Nathanael aveva immaginato;
nell’istante stesso in cui rivide Clara non pensò più né all’avvocato
Coppelius, né a quella lettera così giudiziosa: ogni dissapore era svanito.
Eppure Nathanael aveva avuto ragione a scrivere all’amico Lothar che la
persona di Coppola, il disgustoso venditore di barometri, aveva prodotto un
effetto davvero malefico sulla sua vita. Tutti se ne accorsero, fin dai primi
giorni si notò che la sua indole era parecchio cambiata. Si lasciava andare a
cupe fantasticherie, assumendo talora atteggiamenti così strani che nessuno
lo riconosceva più. Ogni cosa, la vita intera, tutto era diventato per lui
sogno, presagio; diceva di continuo che ciascuno, credendosi libero, in
realtà non faceva altro che fungere da crudele trastullo a oscure potenze;
inutile, sosteneva, ribellarsi, bisognava soltanto rassegnarsi in tutta umiltà a
ciò che il destino aveva deliberato. Giunse addirittura ad affermare che era
follia pensare che l’uomo possa esser libero di creare nei campi dell’arte o
della scienza: l’entusiasmo che ci rende capaci di creare non proviene dal
nostro intimo ma è dovuto soltanto all’influsso di un qualche principio
superiore al di fuori di noi63.
Agli occhi della giudiziosa Clara tali stati di mistica esaltazione erano
alquanto sgradevoli, ma cercare di contraddirlo pareva impresa vana.
Soltanto quando Nathanael pretendeva di dimostrare che Coppelius fosse il
principio del male, impossessatosi di lui quella volta che aveva spiato da
dietro la tenda, e che quel disgustoso demone avrebbe distrutto la felicità
del loro amore, Clara si faceva tutta seria e diceva: «Sì, Nathanael, hai
ragione, Coppelius è un principio del male, il tuo nemico, può avere effetti
terribili, come una potenza diabolica che ha preso tangibile possesso della
vita, ma soltanto se non lo bandisci dalla tua mente e dai tuoi pensieri.
Fintantoché tu credi a lui, lui esisterà e agirà: la tua fede nella sua esistenza
è la sua sola forza». E allora Nathanael, profondamente adirato che Clara
intendesse collocare l’esistenza di quel demone dentro il suo animo,
avrebbe voluto esporre tutte le sue mistiche teorie di diavoli e potenze
oscure, ma Clara lo interrompeva annoiata, con una qualche osservazione
indifferente, aumentando così ulteriormente la sua ira. E il ragazzo arrivava
a pensare che misteri tanto profondi non si manifestano agli animi freddi e
insensibili, senza essere del tutto cosciente di stare annoverando Clara
proprio fra queste nature inferiori, motivo per cui non voleva desistere dai
tentativi di iniziarla a quei misteri. La mattina presto, quando l’aiutava a
preparare la colazione, le stava accanto e le leggeva passi dai più svariati
testi di mistica, finché lei non lo implorava: «Ma caro Nathanael, e se ti
dicessi che sei tu il principio del male che vuol rovinare il mio caffè?64 Se,
come tu pretenderesti, io lasciassi perdere tutto e ti guardassi negli occhi
mentre leggi, finirei per rovesciare sul fuoco il caffè e voi dovreste
scordarvela la colazione!». Nathanael chiudeva allora il libro con gran
fracasso e pieno di malumore si precipitava nella sua stanza. In passato
aveva dimostrato una particolare abilità nello scrivere gradevoli racconti
pieni di brio che Clara ascoltava con il massimo piacere, ora invece le sue
opere erano così cupe, incomprensibili e senza forma che, malgrado Clara
per riguardo non gli dicesse nulla, egli ben sentiva quanto poco la
intrigassero65. Per lei nulla era più letale della noia; lo sguardo e le parole
rivelavano allora un’invincibile sonnolenza dello spirito. E le opere di
Nathanael erano in effetti parecchio noiose. Il dispetto per l’animo di Clara,
così freddo, così prosaico, crebbe sempre più, né Clara dal canto suo
riusciva a dominare il proprio disagio per quell’oscuro misticismo del
fidanzato, così tetro e noioso; e fu così che, senza che se ne rendessero
conto, i loro animi finirono per allontanarsi sempre più. Come Nathanael
stesso dové confessarsi, l’orrenda figura di Coppelius era sbiadita nella sua
fantasia e spesso faceva fatica a dargli vivo colore nelle sue opere, dove
compariva come un tremendo spauracchio del destino. Alla fine gli venne
l’idea di prendere quel cupo presagio secondo il quale Coppelius avrebbe
finito per distruggere il suo amore felice e di farne il tema di una sua
composizione in versi. Descrisse se stesso e Clara, uniti da amore fedele,
ma era come se talora una mano nera si abbattesse sulla loro vita,
distruggendo ogni gioia. Quando già sono all’altare, ecco infine comparire
il terribile Coppelius e toccare i leggiadri occhi di Clara; quelli schizzano
allora nel petto di Nathanael come scintille di sangue, e ardono, e bruciano,
poi Coppelius afferra lo sposo e lo getta in un fiammante cerchio di fuoco66
che ruota con velocità di tempesta e lo trascina via con fragoroso
frastuono67. È tutto un mugghiare come quando l’uragano frusta impetuoso
le onde schiumanti del mare che s’alzano come neri giganti dal capo bianco
in aspra battaglia. Ma in mezzo a questo selvaggio mugghiare sente la voce
di Clara: «Come fai a non vedermi?68 Coppelius ti ha ingannato, quelli che
ti bruciavano il petto non erano i miei occhi, erano solo le ardenti stille del
tuo sangue. Li ho ancora i miei occhi, basta solo che tu mi guardi!».
Nathanael allora pensa: «Ma questa è Clara e io sono suo in eterno». Ed è
come se questo pensiero s’insinuasse potente nel cerchio di fuoco fino ad
arrestarlo e nel nero abisso si estingue quel sordo frastuono. Nathanael
guarda Clara negli occhi; ma a fissarlo benevola con gli occhi della sua
sposa è la Morte.
Mentre il ragazzo componeva tutto questo, si sentiva molto calmo e
compassato, correggeva e limava ogni verso, e poiché si era sottoposto alla
costrizione del metro, non si arrestò fintantoché tutto non giunse a costituire
un’unità pura e armonica69. Una volta che l’ebbe finito, volle leggere quel
componimento ad alta voce, ma, colto da orrore, da selvaggio spavento,
gridò: «Di chi è questa voce orrenda?»70. Subito dopo tuttavia l’opera tornò
a sembrargli ben riuscita; aveva la sensazione che l’animo freddo di Clara si
sarebbe come infiammato, anche se non aveva ben chiaro per che cosa
Clara dovesse infiammarsi e che senso poi avesse terrorizzarla con le
immagini raccapriccianti che le predicevano un destino terribile, capace di
distruggere il loro amore71. Un giorno erano seduti nel piccolo giardino
della madre, Clara era molto tranquilla, perché il fidanzato negli ultimi tre
giorni, durante i quali aveva lavorato alla sua opera, aveva smesso di
tormentarla con i suoi sogni e i suoi presagi. E anche Nathanael parlava di
cose divertenti con la vivacità e l’allegria di un tempo, tanto che Clara
disse: «Soltanto ora ti sento di nuovo mio. Vedi che siamo riusciti a
scacciarlo, il malvagio Coppelius?». Solo allora Nathanael ricordò di avere
in tasca l’opera che intendeva leggere ad alta voce. Tirò fuori subito i fogli e
iniziò a declamare; Clara, immaginando come al solito qualcosa di noioso,
prese rassegnata a lavorare a maglia. Ma quando tutta quella cupa
nuvolaglia divenne sempre più nera, fece cadere la calza guardando
Nathanael fisso negli occhi. E quello invece continuava inarrestabile a farsi
trascinare dalla sua opera, l’intimo ardore gli colorava le guance di un rosso
acceso e le lacrime gli sgorgavano dagli occhi. Quando finalmente ebbe
terminato, prese ad ansimare in preda a una profonda spossatezza, poi
afferrò la mano della ragazza e come sciolto in una pena inconsolabile
sospirò: «Ah… Clara… Clara». E lei se lo strinse dolcemente contro il seno
e sottovoce, lenta e grave disse: «Nathanael, mio carissimo Nathanael!
Gettala nel fuoco questa favola così bizzarra… dissennata… folle»72. A
quelle parole Nathanael saltò su indignato e, respingendola via da sé, gridò:
«Maledetto automa senza vita!»73. Poi scappò via lasciando la fidanzata
offesa nell’intimo a piangere lacrime amare: «Oh povera me! Non mi ha
mai amata, è per questo che non mi capisce» singhiozzava forte. Sotto il
pergolato sopraggiunse Lothar; e Clara dové raccontargli l’accaduto; per lui
che amava la sorella con tutta l’anima, le accuse pronunciate contro di lei
ebbero l’effetto di una folgore nel cuore, e così tutto il malumore verso
Nathanael, che a lungo si era portato dentro, si infiammò trasformandosi in
collera selvaggia. Corse dall’amico e a muso duro gli rimproverò
l’insensata condotta nei confronti dell’amata sorella; questo, adirato, replicò
con altrettanta durezza. «Pazzo, squilibrato bellimbusto» diceva l’uno.
«Miserabile, volgare filisteo» replicava l’altro. Un duello divenne
inevitabile. Decisero di battersi l’indomani mattina dietro il giardino,
secondo il locale costume accademico, con fioretti appuntiti. Passarono il
tempo ad aggirarsi in preda a un cupo mutismo; Clara, che aveva sentito la
lite furibonda e all’ora del crepuscolo aveva visto il maestro di scherma
portare le armi, presagì che cosa dovesse accadere. Giunti sul luogo dello
scontro, Lothar e Nathanael, tetri e silenti, si erano tolti le giacche e,
l’occhio acceso dalla sete di sangue, già volevano scagliarsi l’uno contro
l’altro, quand’ecco che dalla porta del giardino giunse a precipizio Clara
gridando fra i singhiozzi: «Sciagurati, siete solo dei barbari! Forza, colpite
me prima di aggredirvi; come potrei continuare a vivere su questa Terra se
l’amato avrà ucciso il fratello o il fratello l’amato!». Lothar lasciò cadere il
fioretto, volgendo in silenzio lo sguardo verso il basso, l’animo di
Nathanael, in preda alla più straziante tristezza, tornò invece ad accogliere
tutto l’amore che aveva provato per la dolce Clara nei giorni più radiosi
della giovinezza. L’arma micidiale gli sfuggì di mano ed egli cadde ai piedi
della fidanzata. «Potrai mai perdonarmi, o Clara, mia unica, mia
amatissima! E tu potrai perdonarmi, mio amato fratello Lothar!» Il
profondo dolore dell’amico commosse Lothar; fra mille lacrime i tre,
riconciliati, si abbracciarono giurando di restare per sempre uniti in amore e
fedeltà74.
A Nathanael parve di essersi liberato di un grave peso che l’aveva
prostrato, sentì anzi di aver salvato tutto il suo essere minacciato
dall’annientamento opponendo resistenza alle oscure potenze che lo
avevano tenuto prigioniero. Passati altri tre giorni presso i suoi cari fece
quindi ritorno a G. dove contava di restare ancora un anno e poi tornare per
sempre nella sua città natale.
Alla madre tutto quanto aveva a che fare con Coppelius era stato taciuto; si
sapeva bene che non avrebbe potuto fare a meno di pensare a lui con orrore,
perché, al pari di Nathanael, gli attribuiva la colpa della morte del marito.
Quale fu la meraviglia di Nathanael allorché, volendo rientrare nel suo
appartamento, si accorse che l’intero edificio aveva preso fuoco: solo i muri
maestri emergevano da quel cumulo di macerie. Sebbene l’incendio fosse
scoppiato nel laboratorio del farmacista che abitava al pianterreno e la casa
fosse dunque bruciata dal basso verso l’alto, gli amici di Nathanael erano
stati così bravi e così arditi da fare in tempo a irrompere nella stanza
dell’amico, situata al piano superiore, e porre in salvo libri, manoscritti e
strumenti75. Tutti quegli oggetti, rimasti intatti, li avevano poi portati in
un’altra abitazione, dove avevano preso una stanza che Nathanael provvide
subito a occupare. Non diede peso al fatto di abitare proprio dirimpetto alla
casa del professor Spalanzani, né fu stupito quando vide che la sua finestra
si affacciava direttamente sulla camera dove Olimpia era solita starsene
tutta sola, tanto che poteva riconoscerne distintamente la figura, pur
restando i tratti del suo volto evanescenti e confusi. Notò infine che Olimpia
rimaneva per ore e ore proprio nella stessa posizione in cui egli l’aveva
scorta quella volta attraverso la porta a vetri; se ne stava seduta a un
tavolino senza fare alcunché e pareva guardare verso di lui, con lo sguardo
immobile. E Nathanael fu anche costretto a confessarsi di non aver mai
visto in vita sua una creatura così bella; tuttavia, con Clara nel cuore,
Olimpia, così rigida e impalata, gli rimase piuttosto indifferente. Solo ogni
tanto alzava gli occhi dal suo compendio e lanciava uno sguardo verso
quella statua, nulla più76. Stava scrivendo a Clara, quando sentì bussare
piano piano; che entrassero pure, disse. La porta si aprì e sulla soglia si
affacciò il viso ributtante di Coppola. Nathanael si sentì tremare in tutto il
suo essere; memore di ciò che Spalanzani aveva detto sul conto del suo
connazionale Coppola e anche di ciò che con tanta solennità aveva
promesso all’amata riguardo a Coppelius, l’uomo della sabbia, Nathanael fu
il primo a vergognarsi di quella sua infantile paura dei fantasmi, si fece
coraggio raccogliendo tutte le proprie forze e, con la massima calma e
gentilezza possibili, affermò: «Non compro barometri, caro amico, andate
pure!». Al che Coppola, entrando nella stanza, la bocca enorme sfigurata da
un riso maligno e gli occhietti che brillavano pungenti sotto le lunghe ciglia
grigie77, rispose con voce roca: «Ah, no barometri, no barometri! Ho anche
bei oci… bei oci!»78. Nathanael gridò allora spaventato: «Folle d’un
individuo, e come fai ad avere occhi? Occhi… occhi?». Ma in quell’istante
Coppola aveva messo da parte i suoi barometri e, rovistando nelle ampie
tasche della giacca, aveva tirato fuori occhialini e occhiali che poi aveva
sparso sul tavolo. «Ecco, ecco, occhiali… occhiali a mettere su naso, questi
essere miei oci, bei oci!» E così dicendo continuava a tirare fuori occhiali
su occhiali, e tutto il tavolo prese a lampeggiare, a scintillare in modo
strano. Migliaia di occhi guardavano Nathanael e sbattevano convulsi e lo
fissavano; lui non riusciva ad allontanare lo sguardo da quel tavolo, e
Coppola continuava a metterci occhiali e sempre più selvaggi saltavano e si
confondevano quegli sguardi fiammanti e scagliavano raggi rossi come il
sangue nel petto di Nathanael. Sopraffatto da un folle spavento egli gridò:
«Smetti, smetti, uomo tremendo!». E così dicendo aveva acchiappato
Coppola per il braccio, il quale, malgrado il tavolo fosse già tutto coperto di
occhiali, non cessava di tirarne fuori altri. Con una risata rauca e disgustosa
il venditore si liberò abilmente dalla stretta e con le parole «Ah! No volere
allora ecco bella lente» aveva radunato tutti gli occhiali e li aveva rimessi a
posto, poi da una tasca laterale della giacca aveva estratto una gran quantità
di cannocchiali piccoli e grandi79. Spariti gli occhiali, Nathanael ritrovò la
calma e pensando a Clara si rese conto che tutta quell’orribile apparizione
era frutto della sua fantasia e Coppola non era altro che un onestissimo
meccanico e un ottico e non poteva certo essere il maledetto sosia o la
reincarnazione di Coppelius. E poi i cannocchiali che aveva messo sul
tavolo non avevano alcunché di strano, o almeno nulla di così spettrale
come invece gli occhiali e così, tanto per rimediare, Nathanael decise di
acquistare per davvero qualcosa dal venditore. Prese un piccolo
cannocchiale tascabile di ottima fattura e, per saggiarne la qualità, guardò
attraverso la finestra. Mai in vita sua gli era capitato per le mani uno
strumento che avvicinasse gli oggetti agli occhi in modo così chiaro, nitido
e preciso. Senza volerlo80 guardò nella stanza di Spalanzani: Olimpia
sedeva, come al solito, con le braccia posate sul tavolino e le mani conserte.
Ora soltanto Nathanael ebbe modo di scorgere le forme mirabili del volto
della ragazza81. Solo gli occhi gli parvero proprio di una strana fissità, come
morti. Ma mettendo sempre più a fuoco il cannocchiale, era come se in
quelle pupille sorgessero roridi raggi di luna. Pareva che soltanto adesso le
si fosse accesa la vista e quegli sguardi fiammeggiavano sempre più vivi82.
Nathanael rimase alla finestra come incantato, fermo a contemplare
Olimpia, bella come il cielo83. Un colpo di tosse e un raschio lo destarono
come da un sogno profondo. Alle sue spalle c’era Coppola: «Tre zechini84,
tre ducati». E Nathanael, che si era proprio scordato dell’ottico, pagò tosto
la cifra richiesta. «No detto? Bella lente, bella lente!» domandò Coppola
con quella sua voce rauca e rivoltante e con quel suo sorrisetto falso. «Sì, sì,
sì!» replicò Nathanael contrariato. «Addio, caro amico!» Coppola lasciò la
stanza non senza aver lanciato una serie di strani sguardi torvi all’indirizzo
di Nathanael. E lui lo sentì ridere forte sulle scale. «Embè» pensò Nathanael
«riderà di me, chissà quanto ci avrà guadagnato con quel cannocchiale,
chissà quanto?» Mentre pronunciava sottovoce queste parole fu come se un
profondo sospiro di morte echeggiasse sinistro nella stanza, e dall’angoscia
il respiro di Nathanael quasi si fermò. Ma era stato lui stesso a sospirar così,
se ne rendeva ben conto. Clara ha proprio ragione, si disse, a considerarmi
un folle visionario; ma è curioso. Oddio, molto più che curioso: la sola idea
insignificante di averglielo pagato troppo caro quel cannocchiale continua a
mettermi addosso una strana paura, non riesco proprio a capirne il motivo85.
Dopodiché tornò a sedersi per finire la lettera a Clara, ma gli bastò
un’occhiata in direzione della finestra per convincersi che Olimpia era
ancora là e all’istante, come sospinto da una forza irresistibile, saltò su,
afferrò il cannocchiale di Coppola e fin quando non venne a chiamarlo
Siegmund, suo amico e compagno di studi, per andare al corso del professor
Spalanzani, non riuscì a staccarsi da quello sguardo seducente86. La tenda
davanti a quella stanza tanto fatale rimase chiusa, e anche nei due giorni
successivi non gli riuscì di scorgere Olimpia né lì né nella sua camera,
malgrado non lasciasse quasi mai la finestra e non facesse altro che
guardare attraverso il cannocchiale di Coppola. Il terzo giorno vennero
chiuse addirittura le finestre87. In preda alla più grande disperazione e spinto
dalla nostalgia e da un cocente desiderio, uscì di casa. La figura di Olimpia
gli balenava dinanzi nell’aria, usciva dai cespugli e con i suoi grandi occhi
raggianti lo guardava da un limpido ruscello. L’immagine di Clara era
completamente svanita dal suo animo, egli non pensava ad altro che a
Olimpia e, fra pianti e lamenti, diceva: «Oh, alto e splendido astro del mio
amore, sei sorto ahimè soltanto per subito svanire e lasciarmi in questa notte
buia e disperata?»88.
Stava già ritornando a casa, quando avvertì un gran tramestio in casa di
Spalanzani. Le porte erano spalancate, e stavano portando dentro ogni sorta
di mobili, le finestre del primo piano erano state tolte, le domestiche tutte
indaffarate a spazzare e spolverare con grandi scope di crine, falegnami e
tappezzieri erano dietro a bussare e martellare. Pieno di meraviglia,
Nathanael rimase impalato in mezzo alla strada; fu allora che tutto
sorridente gli si avvicinò Siegmund e disse: «E allora che ne dici del nostro
vecchio Spalanzani?». Nathanael assicurò che non aveva proprio nulla da
dire, perché non sapeva assolutamente niente, notava solo con grande
meraviglia che in quella casa, così tranquilla e anche un po’ tetra, d’un
tratto si era scatenato un gran bel fracasso. Apprese così da Siegmund che
l’indomani Spalanzani intendeva dare una grande festa con musica e danze,
e che aveva invitato mezza università. Un po’ dappertutto girava la voce
che Spalanzani avrebbe presentato per la prima volta la figlia Olimpia, così
a lungo e con tanta ostinazione sottratta agli occhi della gente.
Nathanael recuperò un invito e con il cuore palpitante andò dal professore
all’ora indicata, quando già era tutto uno sferragliar di carrozze e le luci
scintillavano nelle sale addobbate per la festa. Gli invitati erano numerosi e
magnifici. Olimpia comparve abbigliata in modo assai sfarzoso e pieno di
gusto. Non si poteva non ammirare quel volto dalle splendide fattezze, quel
personale. La schiena con quella strana curvatura e il vitino di vespa
sembravano causati solo da un busto un po’ troppo stretto. Nel passo e nel
portamento aveva un che di troppo compassato e rigido che a qualcuno fece
un effetto un po’ sgradevole, ma si finì per attribuirlo alla soggezione che le
incutevano tutti quegli invitati89. Il concerto ebbe inizio. Olimpia suonò il
piano con grande abilità ed eseguì un pezzo di bravura con una voce
limpida, acuta, che pareva di cristallo90. Nathanael ne fu alquanto deliziato;
seduto in ultima fila, alla luce abbagliante delle candele91, non riusciva a
scorgere appieno i tratti di Olimpia. Così, senza volerlo, estrasse il
cannocchiale di Coppola e guardò in direzione della bella pianista92. Ah!
D’improvviso si avvide che lei piena di nostalgia lo stava guardando e che
ogni nota si compiva solo in quello sguardo d’amore che rovente gli
trafiggeva l’anima. Quei sapienti gorgheggi parvero a Nathanael il celestiale
giubilo di un animo trasfigurato nell’amore e quando, dopo la cadenza, il
lungo trillo squillò infine festoso per la sala egli non poté più trattenersi.
Come se ardenti braccia l’avessero avvinto d’un tratto, il dolore e la delizia
lo fecero gridare forte: Olimpia! Tutti si voltarono a guardarlo e alcuni
risero. L’organista del duomo però fece un’espressione ancor più tetra di
prima, limitandosi a dire: «Suvvia suvvia!». Il concerto era terminato e fu la
volta del ballo. Ballar con lei, con lei93! Questa era divenuta per Nathanael
la meta di ogni desiderio, di ogni aspirazione; ma dove trovare il coraggio
di invitare proprio la regina della festa? Eppure! Neanche lui riuscì a capire
bene come fu che, appena iniziate le danze, si era ritrovato vicino a
Olimpia, la quale ancora non aveva ricevuto inviti, e, appena in grado di
balbettare qualche parola, le aveva afferrato la mano. Gelida era la mano di
Olimpia ed egli, sentendosi pervadere da un orrendo brivido di morte, la
fissava negli occhi e quelli rispondevano al suo sguardo con un luccichio
pieno di amore e di desiderio, e in quell’istante fu come se quella fredda
mano prendesse a pulsare, flussi di linfa vitale ad ardere94. E Nathanael,
anch’egli sempre più arroventato dal desiderio d’amore, avvinse in un
abbraccio la bella Olimpia e i due presero a volteggiare in mezzo alle file di
ballerini. Aveva creduto fino ad allora di saper ballare a tempo, ma
l’assoluta esattezza della danza di Olimpia, che lo portava spesso a perdere
il passo, gli fece capire di non avere alcun senso del ritmo95. Tuttavia non
volle danzare con nessun’altra e sarebbe stato capace di uccidere chi avesse
solo osato avvicinarsi per chiedere alla ragazza di danzare96. La cosa
accadde due volte soltanto, con stupore notò che Olimpia però rimaneva
seduta, e così lui tornò a più riprese a invitarla97. Se Nathanael fosse stato in
grado di vedere qualcos’altro a parte la bella Olimpia, non si sarebbero
potuti evitare diverbi e risse incresciose; era evidente infatti che le risatine
sommesse, represse solo a fatica, che serpeggiavano un po’ dappertutto e gli
sguardi alquanto incuriositi fossero tutti rivolti alla bella Olimpia: non si
riusciva proprio a capirne il motivo98. Eccitato dalla danza e
dall’abbondante consumo di vino, Nathanael aveva vinto la sua innata
timidezza. Sedeva accanto a Olimpia, la mano di lei nella sua, tutto
infiammato ed entusiasta le esprimeva il proprio amore con parole che
nessuno comprendeva, né lui né Olimpia. Ma lei chissà, forse sì; perché lo
guardava incessantemente negli occhi e non faceva altro che sospirare:
«Ah… Ah… Ah!»99 e Nathanael allora replicava: «Oh donna splendida,
celeste! Oh, tu raggio del mondo lontano che l’amore promette! Animo
profondo in cui tutto l’esser mio si rispecchia»100, e frasi del genere, ma
Olimpia continuava a sospirare: «Ah, ah!». Il professor Spalanzani passò
per diverse volte dalle parti di quella coppia felice, indirizzandole degli
strani sorrisetti soddisfatti. Pur essendo rapito in altro mondo, d’un tratto
Nathanael ebbe la sensazione che, qui sulla Terra, nelle vicinanze del
professor Spalanzani, ogni cosa prendesse a oscurarsi a vista d’occhio; si
guardò d’intorno e con non poco orrore si rese conto che nella sala ormai
deserta le ultime due candele si erano consumate ed erano sul punto di
spegnersi101. Le musiche e le danze erano da tempo cessate. «Separarci,
separarci» gridò allora in preda alla più selvaggia disperazione, baciò la
mano di Olimpia, si piegò verso la bocca di lei, e gelide labbra toccarono
quelle ardenti di lui! Come quando aveva preso la fredda mano di Olimpia,
si sentì colto da un intimo orrore, gli tornò in mente la leggenda della
fidanzata morta; ma poi la ragazza lo strinse forte a sé e nel bacio le labbra
parvero scaldarsi di vita102. Il professor Spalanzani prese a incedere
lentamente per la sala, i passi mandavano un’eco sinistra e la sua figura,
avvolta di ombre baluginanti, aveva un che di lugubre e spettrale103. «Mi
ami Olimpia? Mi ami? Dimmi solo questo! Mi ami?» Così sussurrava
Nathanael, ma alzandosi Olimpia si limitava a sospirare: «Ah… Ah!». «Sì,
o mio dolce, o mio splendido astro d’amore,» diceva lo spasimante «tu sei
sorta per me e brillerai e per sempre trasfigurerai l’animo mio.»104 «Ah,
ah!» replicava in continuazione Olimpia. Nathanael la seguì e si ritrovarono
di fronte al professore. «Vi siete intrattenuto105 con la mia figliola in modo
straordinariamente vivace» lo apostrofò costui sorridendo. «Bene, bene,
caro signor Nathanael, se trovate gusto a conversare con questa sciocchina,
le vostre visite saranno le benvenute.» Il ragazzo tornò a casa con il petto
tutto colmo dei limpidi raggi del cielo. In società nei giorni successivi la
festa di Spalanzani costituì il principale argomento di conversazione.
Malgrado il professore non avesse lesinato gli sforzi per fare una splendida
figura, le teste matte avevano da raccontare tutta una serie di episodi strani
e disdicevoli accaduti alla festa; in particolare fu tutto un parlare di
Olimpia, rigida come la morte e muta; tutti, nonostante il bell’aspetto,
continuavano a considerarla totalmente idiota ed era proprio questo il
motivo – pensavano – per cui Spalanzani l’aveva tenuta nascosta così a
lungo. Nathanael ascoltò questi discorsi non senza un intimo raccapriccio,
tuttavia tacque; non val certo la pena, pensava, dimostrare a questi
giovinastri che è proprio la loro idiozia a renderli incapaci di riconoscere
l’animo profondo e sublime di Olimpia. «Ma fammi il piacere, fratello,» gli
disse un giorno Siegmund «fammi il piacere e dimmi un po’ com’è
possibile che tu, che sei uno con la testa a posto, ti sia incapricciato di
quella faccia di cera, di quella bambola di legno?» Nathanael avrebbe
voluto lasciarsi andare alla collera, ma dandosi un contegno replicò: «E
dimmelo tu Siegmund come sia potuto sfuggire al tuo sguardo sempre così
pronto a scorgere il bello, al tuo intelletto così vivo, il fascino celestiale di
Olimpia. Ma sia ringraziato il destino che è così, sennò saremmo diventati
rivali e uno di noi due avrebbe finito per rimetterci la pelle»106.
Comprendendo bene in che stato versava l’amico, Siegmund cambiò
abilmente argomento e dopo aver detto che in amore è sempre meglio non
giudicare, aggiunse: «È curioso però che su Olimpia la pensino un po’ tutti
allo stesso modo. A noi tutti è sembrata – non prendertela, fratello! –
stranamente rigida e senz’anima. La sua figura è regolare, e così il suo
volto, questo è vero! E quasi la si potrebbe dir bella se al suo sguardo non
mancasse un raggio di vita, vorrei quasi dire, se non sembrasse privo di
forza visiva. Ha un passo così strano, così misurato, e ogni movimento pare
regolato dalla carica di un congegno meccanico. Le sue esecuzioni, il suo
canto hanno quel ritmo sgradevolmente perfetto e inanimato di una
macchina che canta e anche quando balla fa lo stesso effetto. A noi questa
Olimpia ha fatto un’impressione piuttosto sinistra107, non vorremmo averci
proprio nulla a che spartire, ci è sembrato che facesse solo finta di
comportarsi come un essere vivente, ma che in realtà ci fosse qualcosa
sotto». Nathanael non si lasciò prendere dalle amare sensazioni che quelle
parole di Siegmund volevano comunicargli, rimase invece padrone di sé e
in tono molto serio si limitò a commentare: «Ah come siete freddi e
prosaici; Olimpia potrà anche parervi sinistra. La verità è che solo un animo
poetico108 riconosce uno spirito a lui affine! Soltanto a me si è rivelato il suo
sguardo d’amore, irradiando di sé la mente e i pensieri, soltanto nell’amore
di Olimpia io ritrovo me stesso. A voi potrà anche non piacere che lei non si
lasci andare a piatte conversazioni, come tanti altri esseri vacui. Parla poco,
questo è vero, ma queste poche parole appaiono come gli autentici
geroglifici109 di quel mondo interiore, così pieno d’amore e di una superiore
conoscenza della vita spirituale, che nasce dalla contemplazione di
un’eterna trascendenza. Ma voi tanto non avete sensibilità per tutto questo e
le mie sono tutte parole sprecate». «Dio ti protegga, fratello,» disse
Siegmund con grande dolcezza e con un tono quasi rattristato «ma a me
pare che tu abbia preso una brutta china. Su di me puoi contare, se le cose
dovessero… No, non voglio dire altro!» D’un tratto parve a Nathanael che
il freddo, prosaico Siegmund gli fosse molto vicino, e perciò strinse con
grande cordialità la mano che quello gli aveva offerto.
Nathanael aveva letteralmente scordato che al mondo esisteva una persona
di nome Clara, che fino ad allora aveva tanto amato; la madre, Lothar, tutti
erano svaniti dalla sua memoria, ormai viveva solo per Olimpia, e presso di
lei trascorreva ogni giorno ore intere a fantasticare del proprio amore, di
simpatia che l’ardore trasforma in vita, di affinità elettive della psiche, tutte
cose che Olimpia ascoltava con gran devozione110. Dal fondo più nascosto
del suo scrittoio il ragazzo tirò fuori tutto quanto avesse mai scritto, poesie,
fantasie, visioni, romanzi, racconti, e a queste letture ogni volta aggiungeva
ogni sorta d’improvvisazioni: sonetti, stanze, canzoni, e senza mai stancarsi
le leggeva tutti questi componimenti, uno dopo l’altro, per tutta la
giornata111. Mai gli era capitato di avere un’ascoltatrice tanto straordinaria.
Non ricamava e non faceva mai la calza, non guardava fuori dalla finestra,
non dava da mangiare all’uccellino, non giocava né con il cagnolino né col
suo gattino preferito, non faceva palline di carta o altre cose del genere e
neanche era costretta a vincere gli sbadigli con leggeri e sforzati colpi di
tosse. Insomma, per ore e ore ella guardava incessantemente l’amato negli
occhi, senza muoversi, né agitarsi, con sguardo fisso, uno sguardo che
diveniva sempre più ardente e vivo112. Soltanto quando alla fine Nathanael
si alzava e le baciava la mano o anche la bocca, ella diceva «Ah, ah!», e poi
anche «Buonanotte, mio caro!»113. «Oh, animo sublime, profondo,»
esclamava Nathanael tornato nella sua stanza «tu sola, tu sola mi
comprendi.» E palpitava di intima delizia solo pensando a quale accordo
straordinario rivelavano ogni giorno di più l’animo suo e quello di Olimpia;
gli sembrava infatti che la ragazza gli avesse parlato delle sue opere e in
genere delle sue doti di poeta calandosi nelle profondità dell’animo di lui,
anzi, che quella voce venisse proprio dal suo più intimo sé114. Doveva
proprio esser così, perché, oltre alle parole sopra riferite, la ragazza mai
ebbe a pronunciarne altre. E quando nei limpidi momenti di lucidità, per
esempio la mattina subito dopo il risveglio, Nathanael ricordava la totale
passività e la scarsa loquacità di Olimpia, diceva tuttavia: «Che cosa sono le
parole – parole! – Lo sguardo del suo occhio celestiale dice più di ogni
linguaggio di questa Terra. Può forse una creatura del cielo lasciarsi
costringere nel cerchio angusto tracciato da miseri bisogni terreni?»115. Il
professor Spalanzani, che pareva rallegrarsi assai del rapporto di sua figlia
con Nathanael, diede a costui ogni sorta di segnali inequivocabili della
propria benevolenza e allorché il ragazzo ebbe infine l’ardire di accennargli,
sia pure molto vagamente, a una unione con Olimpia, il professore si fece
tutto raggiante in volto e disse che avrebbe lasciato alla figlia completa
libertà di scegliere. Incoraggiato da queste parole, un desiderio cocente nel
cuore, Nathanael si risolse a implorare Olimpia già l’indomani di
esprimergli con sincerità a chiare lettere quel che da tempo il suo leggiadro
sguardo d’amore gli aveva significato, ossia che voleva esser sua per
sempre. Cercò l’anello, che la madre gli aveva donato quando era partito,
per offrirglielo come segno della sua devozione e di quella nuova vita che
germogliava e fioriva insieme a lei. Nel far questo gli vennero per le mani
le lettere di Clara e di Lothar; indifferente le gettò in un canto, poi trovò
l’anello, se lo mise in tasca e si precipitò di là, da Olimpia. Mentre era per
le scale e poi già sul pianerottolo, avvertì uno strano fracasso che sembrava
provenire dallo studio di Spalanzani. Un pesticciare, uno scricchiolare, uno
sbattere… Colpi alla porta e nel mezzo bestemmie e imprecazioni116.
«Molla, molla! Infame, maledetto! – con tutto il tempo che ci ho perso? –
ah ah ah ah! – non erano questi i patti – io, io ho fatto gli occhi – e io il
congegno117 – poveraccio tu e il tuo congegno – cane maledetto di uno
stupido orologiaio – vattene – Satana – fermo – torcibambole – bestia,
demonio! – fermo – vattene – molla!» Erano le voci di Spalanzani e
dell’orrendo Coppelius118 che si confondevano fra urla e strepiti. Preso da
un’indicibile angoscia Nathanael si precipitò nella stanza. Il professore
aveva afferrato una figura femminile per le spalle, Coppola, l’italiano,
l’aveva presa per i piedi, e non facevano che tirarla ora da una parte ora
dall’altra, litigando furibondi per impadronirsene. Al colmo del più
profondo orrore, Nathanael balzò all’indietro quando riconobbe i tratti di
Olimpia; infiammato, nell’impeto di un’ira selvaggia, voleva liberare
l’amata da quei due forsennati, ma proprio in quell’istante Coppola,
compiendo una mezza giravolta, con forza immane riuscì a strappare la
figura dalle mani del professore, assestandogli proprio con questa un colpo
tremendo che lo fece barcollare e cadere all’indietro, sopra un tavolo sul
quale si trovavano fiale, alambicchi, provette119, cilindri di vetro; tutto finì
in mille pezzi. Dopodiché Coppola se la gettò sulle spalle e con una risata
agghiacciante si fiondò giù per le scale; i piedi della figura ciondolavano da
far paura e li si sentiva sbatacchiare sugli scalini con rumore di legno.
Nathanael pareva di pietra. Aveva visto tutto fin troppo bene, il volto cereo
e pallido come la morte di Olimpia non aveva occhi, al loro posto c’erano
solo due cavità nere120: era una bambola senza vita. Spalanzani si torceva
per terra, le schegge di vetro lo avevano ferito al capo, al petto e alle braccia
e il sangue sgorgava a fiumi. Riuscì tuttavia a raccogliere le forze. «Vagli
dietro, vagli dietro, che cosa te ne stai lì così? Coppelius, Coppelius m’ha
rubato il mio automa migliore121. Vent’anni ci ho lavorato. Con tutta la
fatica che mi è costata. Ah, il congegno… parlava… camminava… mio…
mio… gli occhi… gli occhi ti ha rubato122. Disgraziato, maledetto, vagli
dietro! Riportami Olimpia, eccoteli gli occhi!» Nathanael vide allora un
paio di occhi insanguinati123, posati sul pavimento, che lo fissavano,
Spalanzani li afferrò con la mano sana e scagliandoglieli addosso lo colpì al
petto. Fu allora che, con le sue grinfie di fuoco124, la follia lo colse e gli
entrò nell’anima dilaniandogli la mente e i pensieri. «Ohi! Ohi! Ohi!
Cerchio di fuoco… cerchio di fuoco! E gira cerchio di fuoco… e dai – e
dai! Pupattola di legno, dai bella, pupattola di legno, gira»125, e così dicendo
si scagliò sul professore serrandogli la gola. Avrebbe finito per strozzarlo,
se tutto quel fracasso non avesse richiamato una gran quantità di persone, le
quali fecero irruzione nella stanza e, afferrando l’inferocito Nathanael,
riuscirono a trarre in salvo il professore che subito venne medicato. Pur
impiegando tutte le sue forze Siegmund non riuscì a contenere da solo il
forsennato, il quale con voce tremenda seguitava a urlare: «Pupattola di
legno, gira», menando colpi intorno a sé con i pugni chiusi. Infine con
l’aiuto di molti riuscì a sopraffarlo, gettarlo a terra e legarlo. Le sue parole
sfumarono in un urlo terribile e bestiale. E così in preda a uno spaventoso
accesso di pazzia fu condotto al manicomio.
Prima che io, gentile lettore, seguiti a raccontarti quel che accadde allo
sventurato Nathanael, posso assicurarti che, qualora tu abbia preso a cuore
le sorti di Spalanzani, meccanico e fabbricante di automi, egli è guarito del
tutto dalle sue ferite126. Tuttavia fu costretto a lasciare l’università, perché la
storia di Nathanael aveva suscitato parecchio scalpore e da più parti fu
ritenuto un atto assolutamente illecito quello d’aver spacciato di fronte a
illustri circoli del tè127 (che Olimpia aveva regolarmente frequentato e anche
con successo) una bambola per una persona in carne e ossa. Molti uomini di
legge la considerarono una truffa assai raffinata e dunque da punirsi con
tanta maggior durezza, in quanto attuata contro la società e ideata in modo
talmente astuto che nessuno (con l’eccezione di qualche studente
particolarmente acuto) se n’era accorto, malgrado tutti ora si atteggiassero a
sapientoni, alludendo a una serie di circostanze già a suo tempo parse
sospette. Costoro tuttavia non riuscirono a dimostrare alcunché di sensato.
Si poteva forse considerare sospetto il fatto che, stando alla testimonianza
di un assiduo teista128, a dispetto del più elementare bon ton, Olimpia avesse
più spesso starnutito che sbadigliato? Ebbene, il rumore dello starnuto,
sostenne quell’elegantone, altro non era che la ricarica del congegno
nascosto, si sentiva infatti un gran cigolio… e via di seguito con discorsi del
genere. Il docente di poesia e di retorica pizzicò una presa, chiuse la
tabacchiera, diede un colpetto di tosse, e solenne asserì: «Stimatissimi
signori e signore! Suvvia, ma non si accorgono qual è la questione? Il tutto,
diamine, è un’allegoria, una metafora continuata! Loro mi comprendono,
no? Sapienti sat!129». Ma parecchi di quegli stimatissimi non si placarono
affatto. La storia dell’automa aveva lasciato tracce profonde nei loro animi
e di fatto si diffuse una sfiducia davvero incresciosa nei confronti degli
esseri umani130. Per persuadersi appieno di non amare una bambola di
legno, molti amanti pretesero d’ora innanzi che l’amata cantasse e ballasse
senza alcun senso del ritmo, che se uno leggeva qualcosa ad alta voce lei
facesse la calza, giocasse con il bassottino e cose del genere; soprattutto era
importante però che non si limitasse ad ascoltare, ma che di tanto in tanto
parlasse in modo tale che le parole si fondassero davvero su pensieri e
sentimenti. Molti legami d’amore si rinsaldarono e al tempo stesso si fecero
più teneri, altri invece, piano piano, si sciolsero. «Non ci si può proprio
fidare di nessuno» dicevano un po’ tutti. Ai tè si sbadigliava in modo
incredibile e non si starnutiva mai per non destare sospetti di alcun genere.
Spalanzani, come detto, fu costretto ad andarsene per sottrarsi all’accusa di
introduzione fraudolenta di automa al cospetto del civil consesso e alle
relative indagini131. E anche Coppola era sparito132.
Nathanael si ridestò come da un sogno greve e tremendo, aprì gli occhi e si
sentì pervaso da un indescrivibile senso di delizia accompagnato da un
dolce tepore celestiale. Era disteso sul letto nella stanza della sua casa
paterna, Clara era china su di lui133 e non lontani c’erano anche la madre e
Lothar. «Finalmente, finalmente, o mio caro, amato Nathanael, ora sì che
sei guarito da questa grave malattia. Ora sei di nuovo mio!» Così parlava
Clara con tutta se stessa prendendo il fidanzato fra le braccia. Ma tanta era
la tristezza e tanta la delizia, che il ragazzo sentì lacrime ardenti sgorgargli
dagli occhi, e, mandando un sospiro profondo, disse: «Oh, Clara mia…
mia!». Siegmund, che aveva vegliato costantemente al capezzale dell’amico
nel momento del tremendo bisogno, entrò nella stanza. L’amico gli porse la
mano: «Oh fratello fedele, tu non mi hai abbandonato». Ogni traccia di
follia era scomparsa; con le amorose cure della madre, dell’amata e degli
amici Nathanael riacquistò presto le forze. Nel frattempo la famiglia era
stata baciata dalla fortuna134; un vecchio zio avaro, dal quale nessuno aveva
mai sperato alcunché, era morto e aveva lasciato alla madre, oltre a un
patrimonio non del tutto trascurabile, una piccola tenuta in una amena
regione non troppo distante dalla città. Volevano trasferirsi là, la madre,
Nathanael con la sua Clara – che egli presto avrebbe sposato – e Lothar. Il
ragazzo si era fatto più tenero, più bambino di quanto mai fosse stato e solo
adesso riconobbe appieno la bellezza dell’animo di Clara, puro come il
cielo. Nessuno gli rammentava, neppure per vaghi accenni, il passato.
Soltanto quando Siegmund fece per accomiatarsi da lui, Nathanael esclamò:
«Per Dio fratello! Avevo preso davvero una brutta china, ma al momento
opportuno un angelo mi ha guidato sul sentiero della luce! Eh sì, è stata
proprio Clara!». Siegmund non lasciò che finisse di parlare, nel timore che
potesse risorgere vivido e bruciante il ricordo di eventi che tanto l’avevano
straziato. Era infine venuta l’epoca in cui quelle quattro persone felici
intendevano trasferirsi nella piccola tenuta. Nell’ora del meriggio stavano
passeggiando per le strade della città. Avevano acquistato alcune cose, e
l’alta torre del municipio gettava la sua enorme ombra sopra la piazza del
mercato135. «Senti,» propose Clara «perché non saliamo su di nuovo a
guardare le montagne lontane?» Detto, fatto! Entrambi, Nathanael e Clara,
salirono, la madre, insieme alla domestica, andò a casa e Lothar, che non
aveva voglia di fare tutti quegli scalini, decise di aspettare dabbasso. I due
amanti136, abbracciati sulla loggia più alta della torre, scrutavano i boschi
aulenti, dietro i quali si levava, come una città di giganti, l’azzurra
montagna.
«Ma lo vedi quel buffo cespuglietto grigio che pare proprio si stia
muovendo verso di noi?»137 chiese Clara. Con gesto meccanico Nathanael
mise la mano in tasca; trovò il cannocchiale di Coppola e guardò di sbieco:
dinanzi alla lente c’era Clara!138 D’un tratto sentì un fremito convulso nei
polsi e nelle vene; pallido come un morto fissò Clara, ma subito dopo le
orbite furono invase da torrenti di fuoco che ardevano e sprizzavano,
Nathanael lanciò un grido terribile, come una bestia braccata; poi prese a
saltare e fra orrende risa con tono straziante gridava: «Pupattola di legno
gira. Pupattola di legno gira», e con forza straordinaria afferrò Clara e
voleva scagliarla giù, ma la ragazza, disperata per la paura di morire, si
teneva aggrappata alla balaustra. Lothar udì le urla del forsennato, sentì il
grido di paura di Clara, un orribile presagio lo attraversò, corse su, la porta
della scala secondaria era chiusa. Sempre più alte risuonavano le grida di
dolore di Clara. Fuori di sé per la collera e per il terrore si mise a dare
spallate contro la porta che alla fine cedette. Sempre più flebili divenivano
gli accenti di Clara: «Aiuto… Salvatemi… salvatemi!», e la voce svaniva
nel vento. «È perduta, quel pazzo l’ha uccisa» gridava Lothar. Anche la
porta della loggia era chiusa. La disperazione gli diede una forza enorme:
riuscì a scardinarla. Dio del cielo! Clara, tenuta in pugno da quel pazzo di
Nathanael, penzolava in aria oltre la balaustra; con una sola mano si teneva
abbarbicata alle sbarre di ferro139. Rapido come il fulmine Lothar afferrò la
sorella, la tirò dentro e nello stesso istante tirò un pugno in faccia al pazzo,
il quale ricadde all’indietro mollando la preda che aveva destinato alla
morte140.
Lothar corse giù portando in braccio la sorella svenuta. Era salva.
Nathanael prese ora a girare per la loggia; faceva balzi e gridava: «Cerchio
di fuoco gira. Cerchio di fuoco gira». A quelle urla selvagge si radunò
molta gente; e fra gli altri si levò, enorme, l’avvocato Coppelius che,
appena arrivato in città, si era subito diretto verso la piazza del mercato.
Qualcuno voleva salire per portar via il folle; ma Coppelius ridendo disse:
«Ah, ah, aspettate e vedrete che viene giù da solo», e poi al pari degli altri
guardò su. D’un tratto Nathanael si arrestò come pietrificato, si piegò giù,
vide Coppelius e, con il grido straziante «Ah! Bei oci… bei oci», precipitò
giù dalla balaustra141.
Nathanael giaceva sul selciato con la testa fracassata; Coppelius era sparito
nella calca.
Molti anni dopo, raccontano di aver visto Clara in una lontana regione
insieme a un uomo d’aspetto gentile, mano nella mano davanti alla porta di
una bella casa di campagna con due vivaci ragazzini che le giocavano
davanti. Se ne dovrebbe dedurre che Clara sia infine riuscita a ritrovare
quella tranquilla felicità domestica che tanto si addiceva al suo carattere
allegro e vitale, e che Nathanael, così dilacerato nell’animo, mai avrebbe
potuto donarle142.

Note

1
Cominciamo dai nomi: Nathanael è di origine ebraica ed equivale sul piano semantico al nome
tedesco (di origine greca) Theodor, uno dei tre prenomi di Hoffmann. C’è fin dall’inizio da chiedersi
se il nome esotico di Nathanael non costituisca una premessa o un correlativo nominale alla sua
stranezza. Ma, soprattutto, non si può non notare la funzione antifrastica del nome: Nathanael come
Theodor vuol dire «dono di Dio» e si fa fatica a vedere il carattere divino di Nathanael. Molto più
semplice il discorso per Clara, titolare all’interno della novella delle istanze della ragione e della
clarté, peraltro nient’affatto aride, bensì contemperate da empatia, saggezza e sentimentalismo.
Quanto a Lothar: il Lothar più noto della letteratura tedesca della Goethezeit è il barone Lothar
(Lotharius) dei Wilhelm Meisters Lehrjahre (Anni di apprendistato di Wilhelm Meister) di Goethe
(1796). Lothar si chiamerà anche uno dei sei confratelli di san Serapione, i personaggi di finzione
ideati da Hoffmann che danno il titolo alla sua terza raccolta di novelle (1819-1821) e che fra un testo
e l’altro discutono e commentano. Lothar, che non fa parte del nucleo storico dei quattro confratelli,
interviene a partire dalla seconda parte, “raccontando” quattro fra novelle e fiabe.
2
La contiguità madre-Clara non è casuale, sottolinea anzi già da subito il carattere edipico del
rapporto fra il protagonista e la fidanzata. Fin dalla sua prima menzione Clara viene angelicata e
medializzata: «Engelsbild» ossia «Engel + Bild», «Immagine + angelo». La stessa cosa accadrà
quando entrerà in scena Olimpia, ciò che la dice lunga sul carattere meramente proiettivo (e in fin dei
conti interscambiabile) rivestito dal femminile nella psiche di Nathanael.
3
L’espressione tedesca è, a differenza di quella italiana, impersonale, o meglio il soggetto è un «es»,
un dato grammaticale che in un testo incentrato sui contorcimenti psicopatologici di un personaggio
non può non fare pensare a una anticipazione della topografia psichica freudiana.
4
Il termine – in tedesco «Geisterseher» – evoca un testo importante della Goethezeit, il romanzo
omonimo incompiuto di Friedrich Schiller, che Hoffmann provvederà a citare in modo esplicito nel
Maggiorasco.
5
L’accumulazione smisurata nell’arco di poche righe di aggettivi negativi («straziato», «tremendo»,
«oscuro», «orribile», «nero», «terribile», «esiziale») situa fin dall’inizio il testo nella sfera
dell’inquietante. Essa dice altresì che Nathanael non governa particolarmente bene i mezzi espressivi,
ciò che per un aspirante scrittore non è esattamente il massimo.
6
La datazione precisa, addirittura con l’indicazione dell’ora esatta, conferisce alla vicenda un
ancoraggio realistico. La scelta delle ore dodici non è casuale: nel folklore il mezzogiorno, al pari
della mezzanotte, è l’ora dei fantasmi. La tragica fine di Nathanael si compirà anch’essa nell’ora del
meriggio.
7
Sia dalla prospettiva di Nathanael che – più avanti – da quella del narratore il testo oscilla fra
psicologia e fatalismo: l’incontro col venditore è una minaccia perché riattualizza il rimosso di
Nathanael, i presunti traumi subiti, oppure è un evento fatale di per sé, perché il male incombe sul
mondo?
8
Volendo datare con precisione questo riferimento si potrebbe immaginare un Nathanael di sette-otto
anni, partendo dal presupposto che l’identificazione fra l’uomo della sabbia e Coppelius di cui si
parlerà più avanti avviene quando lui ha dieci anni. Del resto, stando alla medicina dell’epoca, i
traumi infantili vengono situati in una fase ben posteriore rispetto a quella in cui li colloca la vulgata
freudiana.
9
Seconda citazione schilleriana nel giro di poche righe, qui Die Räuber (I masnadieri): Franz Moor
prega il servo Daniel di deriderlo per scacciare i suoi incubi che grondano senso di colpa. Riso e
sorriso svolgeranno nel testo funzione di Leitmotive (ventiquattro menzioni in tutto!): la presenza di
Coppelius/Coppola sarà sempre accompagnata – proprio fino alla fine! – da una risata maligna,
malvagia, sardonica, stridente, agghiacciante, mentre alla sfera angelicata di Clara verrà attibuito
sempre ed esclusivamente il sorriso dolce e leggiadro, tutt’al più leggermente ironico.
10
Il padre è dunque colui che introduce Nathanael al meraviglioso.
11
La scissione dell’imago paterna in padre buono e padre cattivo che Freud vedrà raffigurata nella
coppia padre di Nathanael/Coppelius e riattualizzata successivamente nella coppia di
artigiani/scienziati Spalanzani/Coppola trova, in realtà, la sua origine in questa scena primaria: è il
padre stesso a presentarsi in duplice veste, introdotta ognuna da un «oft» («spesso»).
12
Figura benigna e protettiva del folklore che porta il sonno ai bambini gettando sabbia negli occhi.
Ancora oggi è totalmente preminente l’accezione positiva – si veda, ad esempio, il titolo di una delle
più famose trasmissioni televisive per bambini, creata nel 1959 dalla televisione della DDR e
proseguita anche dopo la riunificazione. Hoffmann segue la linea nettamente minoritaria del mito, la
quale presenta punti di tangenza col mito dell’orco e dell’uomo nero che spaventa/mangia i bambini.
Le traduzioni italiane del titolo e della figura testimoniano della polisemia: uomo della sabbia, Mago
Sabbiolino, Orco Insabbia.
13
La metafora antropomorfa utilizzata dalla madre dà il via a una serie di contrastanti ipotesi
interpretative. La prima, di natura prevalentemente acustica, è di Nathanael stesso.
14
La seconda: la madre riconduce l’immaginazione (o anche i problemi di acquisizione linguistica:
confusione fra livello letterale e livello traslato, vedi anche nota 78) di Nathanael entro le coordinate
del reale, ossia – sembra un paradosso – nella sfera metaforica.
15
La terza attribuzione è la più inquietante, perché arriva dalla tata che semmai dovrebbe
tranquillizzare il ragazzino ed è introdotta da una – solo in apparenza rassicurante – allocuzione
infantile («Thanelchen»). La confusione che ingenerano le parole della bambinaia è originata dal
fatto che esse da una parte confermano la versione metaforica della madre ma dall’altra invece
statuiscono l’esistenza “reale” della figura conferendole tratti agghiaccianti che introducono nel testo
il Leitmotiv (della perdita) degli occhi.
16
Come detto, in realtà è il padre colui che introduce Nathanael al fantastico. L’esitazione
ermeneutica sul conto del Sandmann incentiva poi l’ulteriore attrazione verso quella sfera che
assume ben presto i tratti di un’ossessione.
17
Il passaggio in un’altra stanza, che corrisponde all’ingresso nell’età puberale, prelude al
disvelamento del mistero.
18
Nathanael non ha ancora visto l’uomo della sabbia (del resto, fin dai racconti della bambinaia,
l’occhio è sottoposto a un divieto, a un tabu) ma ne ha avuto contezza con almeno altri due sensi:
l’olfatto («un vapore leggero dall’odore strano») e soprattutto l’udito (l’arrivo dell’uomo della sabbia
è contrassegnato da rumori inquietanti).
19
La rivelazione avviene grazie a una sorta di riflettore puntato in faccia a Coppelius, primo esempio
di Nachtstück, di pittura notturna di tutto il testo.
20
Molti sono i campi associativi che il nome evoca: a) coppo=cavità oculare, poche righe e si capirà
perché; 2) coppella=forno in cui avviene la coppellazione (=processo per ottenere l’argento dai
minerali di piombo argentiferi), allusione a tutta la sfera alchemica; c) copula sia nel significato
chimico che in quello sessuale. Il nome latinizzato colloca sì l’avvocato – non sappiamo quanto
legittimamente – nella sfera dei dotti, ma al tempo stesso, trattandosi con tutta evidenza non di un
nome reale ma di uno pseudonimo, potrebbe costituire una prova a favore dell’ipotesi di una
corrispondenza identitaria fra l’avvocato e l’ambulante italiano.
21
Nella prima descrizione, fortemente dettagliata e “schierata”, di Coppelius Nathanael – e con lui
Hoffmann – si rivelano in tutto e per tutto figli di un’epoca che aveva fatto della fisiognomica quasi
una scienza esatta (a partire dai Physiognomische Fragmente di Johann Caspar Lavater, usciti fra il
1775 e il 1778): in poche righe Nathanael, ricorrendo a sintagmi standard della letteratura di genere
(vedi alla voce: limiti di Nathanael scrittore), accumula una serie infinita di aggettivi negativi e di
tratti fisici volti ad animalizzare Coppelius. Il giudizio sul personaggio, prima ancora che entri in
scena, è già chiarissimo. Fra i numerosi particolari riportati saltano agli occhi l’abbigliamento fuori
moda, ancien régime, che sottolinea il carattere inquietante del personaggio e la preminenza del
colore grigio che – secondo la vulgata del folklore e della superstizione – condivide col diavolo, cui
lo accomunano anche l’andatura, gli occhi, la risata e gli arcaismi linguistici (anche il padre di
Nathanael assume connotati diabolici quando opera accanto a Coppelius). La giacca grigio cenere la
indossa anche il “diavolo” del Peter Schlemihl (1813) di Adalbert von Chamisso, uno dei testi chiave
del Romanticismo berlinese che Hoffmann conosce a memoria e cita nelle Avventure della notte di
san Silvestro.
22
Ogni volta che l’emozione di Nathanael si riattualizza la sintassi diventa ellittica.
23
Prima occorrenza del Leitmotiv della catalessi ipnotica che ritroviamo in altri punti del testo, per
esempio nella relazione fra Nathanael e Olimpia.
24
Si è conservato un disegno dell’autore che ritrae la scena, il disegno venne riprodotto nel 1823 da
Julius Eduard Hitzig nella biografia dello scrittore pubblicata a immediato ridosso della morte di
Hoffmann. È questa la scena primaria che ha attirato l’attenzione di Freud: Nathanael si ritrova a
spiare un “rapporto intimo” fra il padre umile e devoto e Coppelius, autoritario e – almeno nel
disegno – dotato di bastone fallico. Ciò darebbe luogo a una classica costellazione edipica: Nathanael
«desidera», ama la parte femminile (il padre) e «si augura» la morte della parte maschile (Coppelius)
della coppia. L’infrazione del divieto ancestrale di assistere a un rapporto sessuale “genitoriale” da
parte del ragazzino verrebbe punita con la castrazione che nel testo, secondo una – in termini
freudiani – classica operazione di sostituzione diventa l’atto di privazione degli occhi.
25
La parola tedesca «Höhlung» ricorda le «Höhlen», le cavità oculari che Nathanael vedrà fra un
attimo al posto degli occhi.
26
Pur situandosi nel modo percettivo della soggettività («avevo la sensazione…»), la situazione
lascia pensare che i due personaggi stiano compiendo un esperimento alchimistico volto alla
creazione di esseri artificiali («volti umani»).
27
Quattro almeno i campi associativi di questa esclamazione: quello metallurgico («metallo
incastonato nella pietra che forma piccoli punti», secondo la definizione del vocabolario dei Grimm),
quello magico (gli occhi utilizzati per fabbricare elisir, pozioni oppure pallottole truccate), quello
metaforico classico (occhi=anima), quello metaforico psicoanalitico (occhi=organi genitali).
28
Coppelius si rivela qui adepto, non privo di tratti caricaturali, del meccanicismo di Julien Offray de
La Mettrie che ne L’homme machine (1748) aveva equiparato i corpi a macchine del tutto prive di
sostanza pensante, pura meccanica, appunto, seppur, almeno nel caso del corpo umano, di estrema
sofisticazione. Inutile dire che Hoffmann, come tutti i romantici, ricusava in modo reciso la
negazione di ogni «principio spirituale» e tutte le aberrazioni del razionalismo meccanicista.
29
Viene qua descritto uno dei traumi primari di Nathanael, smontato e rimontato come una bambola
meccanica. Ciò conferisce al futuro amore per Olimpia un ulteriore tratto narcisistico poiché il
protagonista nella bambola meccanica rivede/rivive se stesso.
30
«Il vecchio» è, ovviamente, Dio. Anche Mefistofele nel Prologo in cielo del Faust di Goethe
apostrofa Dio chiamandolo «il vecchio»: «Von Zeit zu Zeit seh ich den Alten gern» («Lo vedo
volentieri, di tanto in tanto, il vecchio», v. 350).
31
È il primo di una lunga serie di svenimenti di Nathanael. Al risveglio: la madre china su di lui.
Prossimamente, dopo un ulteriore stato comatoso post-traumatico: Clara.
32
Nel manoscritto – uno dei pochi conservati di Hoffmann – vi era a questo punto un lungo brano,
poi tagliato dall’autore, che oggettivava il carattere malefico di Coppelius descrivendo i sadici
maltrattamenti ai danni della sorella di Nathanael. In questo modo, con questo taglio la vicenda resta
invece sospesa nell’incertezza fra l’oggettività fattuale e l’immaginazione debordante del
protagonista: l’episodio descritto che ha portato allo “svenimento” è frutto della sua immaginazione o
è realmente accaduto?
33
Come se la madre si mettesse dal punto di vista del figlio traumatizzato, dei figli traumatizzati,
apostrofa il proprio marito chiamandolo padre.
34
Il rapporto fra il padre di Nathanael e Coppelius viene letto dal protagonista alla stregua di un patto
col diavolo: per Nathanael in più di una occasione Coppelius è il diavolo. Il fatto che i tratti del volto
del padre morto non restino sfigurati in una smorfia malefica è segno che l’anima è salva e che
dunque, contrariamente alle illazioni di Nathanael, non vi era alcun patto fra i due.
35
La parola tedesca «Mechanicus» si riferisce a un artigiano che inventa e costruisce strumenti fisici
e matematici, non di rado anche musicali. Il Piemonte nella letteratura tedesca della Goethezeit gioca
un ruolo di una qualche importanza; nel William Lovell (1795-1796) di Ludwig Tieck, il protagonista,
per esempio, viene aggredito da banditi piemontesi.
36
Freud l’avrebbe definita una «Fehlleistung», ossia un atto mancato, compromesso fra intenzione
dichiarata e desiderio rimosso.
37
Clara mostra competenze psicologiche ed empatiche sopra la media che vanno ben oltre il freddo
razionalismo saccente, di cui più avanti l’accuserà Nathanael: pur delegittimando lo statuto fattuale di
quanto il fidanzato racconta, riconosce il trauma subito e prova anche a spiegarne l’origine (omologia
fra i terrifici racconti della bambinaia e la disgustosa figura di Coppelius).
38
Difficile capire se si trattasse di esperimenti alchemici classici (pietra filosofale, trasformazione di
metalli in oro ecc.) o se i due lavorassero a un progetto prometeico di creazione di homunculi e cloni,
come lascerebbero pensare i «volti umani» visti da Nathanael nella scena primaria.
39
Clara sa con chi ha a che fare, ossia con un sedicente artista romantico e dunque prima ancora che
sia lui a farlo oggettiva le obiezioni del fidanzato ricorrendo a un topos, quello dell’«animo freddo»
(equivalente del «cuore freddo», con cui l’artista romantico, pronto a farsi folgorare dall’arcano (il
sintagma tedesco è «Strahl des Geheimnisvollen», ossia «raggio del misterioso»), critica borghesi e
filistei.
40
Il ragionamento di Clara concepisce l’esistenza di un «potere oscuro» che assumerebbe fattezze
simili a quelle del soggetto, una specie di sosia negativo, non molto dissimile dalla costellazione
psichica esposta negli Elisir del diavolo. Ma se la ratio è vigile – e per Clara, nomen est omen, non
può non esserlo – l’avatar non arriva a prendere forma («vano tentativo di assumere quelle
sembianze»).
41
Lothar invece esternalizza il potere oscuro, niente avatar ma «figure estranee» che tuttavia sono e
restano proiezioni e fantasmi del nostro io.
42
La serenità («Heiterkeit») è il valore guida di Clara. «Heiterkeit» sia nel significato di «frohe
Gemütsstimmung» («stato d’animo allegro») sia nel significato di «Klarheit für das Sehen, Erkennen,
Auffassen» («chiarezza nel vedere, conoscere, comprendere»).
43
In tedesco Nathanael usa «distinguieren», un termine piuttosto ricercato del lessico filosofico-
religioso, che significa appunto discettare, disquisire.
44
A parte il fatto che Hoffmann scrive Spalanzani con una sola «l», non è un caso che il professore
porti lo stesso nome dello scienziato realmente esistito, poiché fin dalla scena primaria e per tutto il
resto della novella uno dei grandi temi del testo è la possibilità di generare vita in modo artificiale,
meccanico, anche se uno dei principali apporti scientifici di Lazzaro Spallanzani (1729-1799)
consisté proprio, fin dal 1765, nella confutazione delle teorie allora diffuse circa la plausibilità della
generazione spontanea. Successivamente, invece, si dedicò alla fecondazione artificiale giungendo a
realizzarla nelle rane e nei rospi. La fonte di Hoffmann non è Spallanzani stesso ma è indiretta, ossia
Carl Alexander Friedrich Kluge che nel suo Versuch einer Darstellung des animalischen
Magnetismus als Heilmittel (1811) – testo cui, come vedremo, Hoffmann più volte ricorrerà – aveva,
fra moltissime altre cose, esposto anche le idee del naturalista italiano.
45
Dettaglio non privo di una certa ironia. Nathanael conosce l’inflessione piemontese?
46
Di origine polacca, Daniel Chodowiecki (1726-1801) fu uno dei principali illustratori della vita
borghese del Settecento, autore di centinaia di copertine per libri, almanacchi e tascabili (Hoffmann
lo citerà ancora nel suo ultimo testo, La finestra d’angolo del cugino). L’illustrazione a cui si riferisce
Nathanael fu pubblicata nel «Berliner genealogischer Kalender auf das Jahr 1789» e ritrae
Alessandro conte di Cagliostro (1743-1795), che in realtà si chiamava Giuseppe Balsamo (donde,
forse, il nome di Coppola). La figura di Cagliostro interessò quasi tutti gli scrittori della Goethezeit, a
cominciare da Goethe stesso (a Cagliostro è ispirata la commedia Der Groß-Cophta del 1792, e ancor
prima – durante la tappa siciliana del suo viaggio in Italia – lo scrittore va in cerca delle sue tracce)
proseguendo con Schiller (il già citato Geisterseher trae spunto dalle avventure di Cagliostro), con
Jean Paul e Wieland.
47
A parte il fatto che fin dalla sua prima descrizione di Olimpia, Nathanael tradisce la sua coazione
ad angelicare le donne («engelschönes Gesicht»), la percezione del protagonista appare all’inizio
tutto sommato corretta, lucida.
48
Se vale l’ipotesi freudiana secondo cui la sensazione «unheimlich» insorge allorché l’individuo
torna a imbattersi nel rimosso, ovvero in qualcosa che un tempo gli era familiare, «heimlich»
appunto, ecco che la sensazione provata da Nathanael è dovuta al fatto che, inconsciamente,
Nathanael ritrova in Olimpia quel se stesso della scena primaria, l’essere “artificiale”, l’automa,
smontato e rimontato da Coppelius.
49
In un testo in cui i nomi non sono scelti a caso, Olimpia (italianizzazione di Olympia) sta per la
donna-angelo, che viene dal cielo, dall’Olimpo appunto. Nathanael abbonderà di qui in avanti di una
aggettivazione che rimarcherà l’origine celeste, divina della fanciulla. Poche righe dopo, tuttavia, il
protagonista tornerà a chiamare Clara «mein süßes, liebes Engelsbild» («il mio dolce e caro angelo»,
vedi nota 2).
50
Dopo l’esordio epistolare il racconto viene preso in gestione da un narratore che, con un tipico
espediente allocutorio, spiega nel corso delle prossime righe che cosa lo ha indotto ha propendere per
la scelta iniziale di aprire con tre lettere. L’attacco del narratore è introdotto da due aggettivi chiave
dell’intera raccolta: «seltsam» («strano») e «wunderlich» («bizzarro»). Sulla distinzione fra
«wunderlich» e «wunderbar».
51
Il narratore dell’Uomo della sabbia è – almeno all’inizio – il tipico artista hoffmanniano. Ha un
«inneres Gebilde» («figure del suo intimo») e non riesce a governarlo, a tradurlo in opus perché gli
manca la necessaria lucidità, ciò che si ripercuote anche nella sua fisiognomica, nella sua
patognomica e nelle reazioni corporee.
52
La similitudine, all’epoca, è molto di moda: gli esperimenti di Luigi Galvani sull’elettricità
animale erano molto recenti.
53
I narratori hoffmanniani si situano sempre in un terreno intermediale, muovendosi fra letteratura,
musica e pittura, qui e nelle prossime righe reiteratamente soprattutto quest’ultima. Il «kecker Maler»
(il «pittore ardito») ricorda da vicino il «kecker Meister» («ardito maestro») con cui viene apostrofato
Jacques Callot nella pagina poetologica che funge da introduzione ai Pezzi fantastici alla maniera di
Callot.
54
Il narratore prende in esame e istantaneamente ricusa tre possibili inizi, o topoi dell’esordio come
si direbbe in retorica. Il primo è un incipit fiabesco («C’era una volta»), il secondo è novellistico
(«Nella cittadina di provincia di S.»), il terzo è teatral-mimetico («Ma andate…»).
55
Prosegue la metafora pittorica e al contempo il narratore si legittima in senso documentale citando
le lettere che Lothar gli ha fatto avere. Ciò evidentemente conferisce al testo una struttura
poliprospettica che impedisce l’individuazione univoca di un dato fattuale.
56
In questa che è una delle principali dichiarazioni poetologiche di Hoffmann, che arriva al termine
di una lunga riflessione, che sembra anticipare il postmoderno, sull’opera d’arte nel suo farsi, sui
limiti della rappresentazione, si rinuncia alla possibilità della poesia di restituire mimeticamente il
reale. La negazione della mimesi è quadruplice: specchio, opaco, scuro, riflesso. Vedi Introduzione.
57
Nathanael, Lothar e Clara: Ladislao Mittner lo avrebbe chiamato un classico caso di triangolo
filadelfico, due uomini e una donna, rapporto fraterno e sororale, la ragazza si fidanza con uno, è
amica o sorella dell’altro, i due maschi si amano come fratelli. Come quello fra Lotte, Werther e
Albert anche questo triangolo non funziona.
58
Ennesima excusatio, ennesima retardatio del narratore.
59
Ironia del narratore sui professionisti del ramo. Com’è possibile discettare di «Schönheit»
(«bellezza») in modo professionale, tenuto conto che la parola utilizzata dal narratore è la
prosaicissima «Amt» («ufficio»)?
60
Il 26 agosto del 1798, in visita alla Gemäldegalerie di Dresda, Hoffmann scrive con toni
entusiastici di esser stato deliziato dalla Maddalena penitente di Pompeo Girolamo Batoni (1708-
1787). La visita alla pinacoteca di Dresda rappresenta per Hoffmann – come per molti altri artisti
della Goethezeit che non ebbero i soldi e l’occasione di andare in Italia – un’esperienza decisiva
costituendo una sorta di archivio permanente di pittura italiana cui attingere alla bisogna. Al riguardo
vedi soprattutto La chiesa dei gesuiti a G.
61
Jakob Isaackzoon van Ruisdael (1628/9-1682) fu uno dei paesaggisti olandesi più amati da
romantici tedeschi. Anche di lui – seppur non in modo esplicito – si parla nella Chiesa dei gesuiti a
G. Viene qui introdotto uno dei temi chiave del testo, il tema dello specchio, del carattere meramente
proiettivo del femminile, che adesso riguarda Clara, ovvero gli occhi di Clara, e presto riguarderà
Olimpia. Hoffmann (o meglio il suo narratore, avvezzo, da buon artista romantico, a tutte le più
raffinate tecniche di straniamento ironico) dapprima presenta gli occhi di Clara come schermo
proiettivo dotato di un legame, seppur in larga parte ideale e iperbolico, con la sfera del reale per poi
trasformarli/trasformarla in una musa che attiva e potenzia con il suo semplice sguardo la creatività
dell’artista attivando inespresse potenzialità sinestetiche.
62
Nathanael nella sua fase prepatologica – se mai ce n’è stata una – era dunque, al pari di Clara, un
individuo «heiter» («sereno») e non si sarebbe mai sognato di definirla «prosaisch», aggettivo che,
riferito alla fidanzata, non esiterà invece a usare, non appena questa si dimostrerà insensibile alle sue
creazioni poetiche.
63
È questa l’espressione più compiuta in tutta la novella del fatalismo di Nathanael e della distanza
abissale dalla concezione di Clara che vede l’influsso del male solo come allucinazione frutto di una
interiorità patologica, fantasma del proprio io. Interessante è che agli occhi di Nathanael ciò valga
non solo per il male ma anche per i prodotti dell’arte e della scienza, non frutto di energia, talento e
ispirazione individuale, ma risultanti solo da costellazioni eteronome.
64
L’ironia come strumento terapeutico con Nathanael non funziona per nulla.
65
Anche le opere di Nathanael hanno dunque subito una trasformazione dopo l’insorgere della
patologia: prima erano gradevoli e piene di brio, ora invece sono cupe, incomprensibili e informi, e
dunque noiose, come conferma anche il narratore con uno dei commenti più autorevoli dell’intera
novella. Siamo dunque lontanissimi dall’omologia arte/malattia che tanto piacerà a Thomas Mann e
che pure è di derivazione romantica e in moltissimi esempi anche hoffmanniana. Ciò può significare
una cosa soltanto: Nathanael non può essere definito un artista. Quel che segue ne sarà la riprova.
66
Il cerchio di fuoco sta a simboleggiare per tutta la novella la spirale della follia, come già negli
Elisir del diavolo.
67
Le opere di Nathanael saranno scadenti ma non si può non riconoscergli valore prolettico perché la
scena ideata dal protagonista preannuncia ciò che accadrà nella realtà (della finzione) quando
Coppola e Spalanzani smembreranno Olimpia e getteranno i suoi occhi addosso a Nathanael.
68
In tedesco «erschauen». Non è casuale che – nella finzione della sua composizione poetica –
Nathanael, l’artista autoreferenziale, attribuisca a Clara, l’illuminista ironica, il verbo per eccellenza
dell’estetica hoffmanniana, malgrado essa non faccia altro qui che ribadire l’idea razionalista che
tutto il complesso Coppelius sia solo frutto della sua fantasia.
69
La scelta di usare il metro conferisce alla composizione di Nathanael un tratto formalista e anche
un po’ meccanico («Zwang», «costrizione»). L’«animo poetico» teorizzato da Hoffmann e anche da
Nathanael come condizione imprescindibile per la creazione artistica forse dovrebbe funzionare in
modo diverso.
70
Primo evidente sintomo della schizofrenia di Nathanael, una patologia alquanto diffusa nella
letteratura della Goethezeit, vedi per esempio William Lovell di Ludwig Tieck (1795/96) o Titan di
Jean Paul (1802/04).
71
Fra le molte patologie di cui soffre Nathanael va segnalata anche quella che oggi si chiamerebbe
sindrome bipolare: torna a casa e il “dissapore” è svanito, ma poi cerca di dar corpo poetico ai suoi
fantasmi tentando in tal modo di elaborarli, ma risultandone alla fine letteralmente schiacciato, ora è
cupo e tormentato, ora è sereno, calmo e compassato.
72
Clara non poteva fare proposta più aggressiva, chiamando «Märchen» («fiaba») l’opera di
Nathanael – non tanto nel senso di uno dei generi privilegiati della poesia romantica, ma piuttosto in
senso spregiativo, come testo del tutto privo di logica e raziocinio – e andando addirittura a
scomodare il fuoco che circoscrive tutta la sfera della follia (vedi nota 66). Si noti l’uso in funzione
ritmica (oltreché di climax) dei puntini di sospensione a distanziare gli aggettivi, uno stratagemma
stilistico fra i più usati da Hoffmann.
73
In questa perversa triangolazione amorosa Nathanael parla, nel pieno del furor poeticus, proprio
come tra pochissimo parlerà Olimpia («Ach – Clara – Clara»), poi apostrofa Clara chiamandola
automa, quindi, allorché incontrerà la bambola Olimpia, la scambierà per una ragazza in carne e ossa.
74
È questa la prima, illusoria ricomposizione del conflitto, nonché apparente ricostituzione del
triangolo filadelfico.
75
È già il secondo incendio nella vita di Nathanael, dopo quello che ha portato alla morte del padre,
fuoco di alchimisti nel primo caso, fuoco nel laboratorio del farmacista nel secondo caso. Di nuovo,
inoltre, il Leitmotiv del fuoco potenza distruttrice (reale e metaforica), in un testo che presenta una
rete fittissima di Leitmotive che non ha eguali nella Goethezeit. Che il fatalismo di Nathanael
convinca o meno, fatto sta che il caso/il destino, almeno in questa fase, nella vita dello studente gioca
un ruolo non indifferente (incendio, trasloco coatto, posizione della stanza rispetto alla casa di
Olimpia Spalanzani).
76
Anche la seconda percezione di Nathanael (vedi nota 47) relativamente ad Olimpia si mantiene
corretta: è bella sì, nulla da dire, ma è rigida, fredda, è una statua. Il tutto grazie al fatto che ha «Clara
nel cuore», fuor di metafora: che è vigile, ha la ratio dalla sua.
77
La fisiognomica è la medesima di Coppelius, il lessico animalizzante pure, come l’uso per
descrivere la bocca della parola «Maul» («muso») anziché «Mund» («bocca»).
78
Forse uno dei primi casi in cui trova espressione nella letteratura tedesca il linguaggio
sgrammaticato e la scrittura fonetica dei Gastarbeiter, i lavoratori immigrati. Se Coppola non sa bene
il tedesco, Nathanael non capisce la metonimia (occhi anziché occhiali) usata dal venditore, il che per
un poeta, o sedicente tale, non è esattamente il massimo. Resta ovviamente da chiedersi se l’uso della
metonimia da parte di Coppola sia voluto (se fosse un revenant di Coppelius saprebbe quanto gli
occhi rappresentino un nervo scoperto per il protagonista) o se sia stato un errore oppure un gioco.
Anche qui, come in tutte le scene della novella che li vedono protagonisti, gli occhi saltano,
schizzano e gettano sguardi fiammeggianti.
79
In tedesco l’oggetto si chiama «Perspektiv», un nome che è tutto un programma (estetico), visto
che non sapremo mai che cosa è verità e cos’è invenzione/immaginazione in questa novella, e i
diversi punti di vista si affiancano senza che l’uno sia più legittimato dell’altro. Inutile sottolineare la
valenza fallica dell’oggetto.
80
Nathanael compie qui per la prima volta il gesto meccanico, quasi inconscio, di tirare fuori il
cannocchiale e puntarlo verso un volto. Tornerà a farlo in alcuni momenti topici del testo.
81
Ritorna il verbo «erschauen», l’operazione creatrice tipica dell’artista hoffmanniano, che – anche
grazie al cannocchiale – più che vedere immagina qualcosa che porta comunque dentro di sé e
rispetto a cui la realtà si rivela solo una pretestuosa superficie proiettiva. Anziché potenziare e
rendere più affidabile lo sguardo, la tecnologia (il cannocchiale) distorce la percezione, segno di una
sfiducia “romantica” nei confronti dello scientismo tecnocratico dell’Illuminismo.
82
Lo sguardo tecnologico, fallico e narcisista di Nathanael vivifica gli occhi – ancora pochi istanti
prima definiti – fissi e morti di Olimpia. Si tratta di un motivo fra i più frequenti nella letteratura
romantica tedesca.
83
Il narratore con l’aggettivazione rende giustizia al nome di Olimpia.
84
Così nell’originale tedesco.
85
Come Thomas Mann nel dialogo fra Gustav von Aschenbach e il gondoliere («Pagherà, pagherà»)
ne La morte a Venezia, anche Hoffmann, in questo monologo di Nathanael, sembra intendere il
significato letterale (l’acquisto è stato pagato troppo), ma in realtà allude a quel che presto succederà:
il cannocchiale gli costerà davvero caro!
86
Il salto dalla vivificazione all’apparente fattualità dello sguardo seducente di Olimpia si è già
compiuto nella percezione del protagonista.
87
Un’altra reiterazione di un’esperienza (traumatica) dell’infanzia: la sottrazione allo sguardo
dell’oggetto amato: allora il padre adesso Olimpia.
88
Le metafore patetiche di cui si serve Nathanael, pur ampiamente codificate nell’immaginario
amoroso (stella, notte ecc.), segnalano la distanza sempre più marcata dal reale, tanto che ormai è
preda di visioni, di allucinazioni e Clara è sparita del tutto dal suo mondo interiore.
89
I Leitmotive di cui Hoffmann ha costellato la novella arrivano fino ai più minuscoli dettagli; qui la
parola «Zwang», costrizione, coazione, termine già incontrato a proposito del «metrischen Zwang»
(la «costrizione del metro») cui Nathanael aveva sottoposto la propria composizione poetica; ciò
finisce per aumentare l’omologia Nathanael-Olimpia. Da non sottovalutare neanche la sfumatura
ironica del brano: la rigidità dell’automa viene spiegata in termini di convenzioni sociali.
90
Hoffmann – che aveva già scritto sull’argomento, vedi Die Automate (Gli automi), novella del
1814 poi inclusa nei Confratelli di san Serapione – aveva sicuramente in mente La Musicienne, uno
degli automi più famosi di Pierre Jaquet-Droz e da suo figlio Henri-Louis, costruito nel 1774 e da
allora esposto in molte corti europee. La scena, fintantoché il punto di vista adottato è quello del
narratore, produce segnali contrastanti, espressi tutti attraverso l’aggettivazione e i verbi: la voce è
«limpida» e pare di cristallo, ma è anche «acuta» e «rintrona» (il verbo usato è «gellen», non
esattamente connotato in senso positivo).
91
Un altro Nachtstück, un’altra pittura notturna. Che l’aggettivo usato da Hoffmann sia «blendend»
(«abbagliante» nel duplice senso) non è casuale: Nathanael è preda di un vero e proprio abbaglio.
92
Come se non bastasse all’abbaglio di fondo si aggiunge – estratto con gesto automatico – il
«Perspektiv» (vedi nota 79), ciò che completa il carattere decisamente allucinatorio, autoreferenziale,
sinestetico e ossimorico, della percezione, introdotta dallo «Ach» (vedi nota 73) e culminante nella
nominazione estatica: «Olimpia!».
93
Chissà se Federico Fellini quando decise di concludere il Casanova (1976) con Donald Sutherland
che danza sul Canal Grande con un automa aveva in mente questa scena? O forse più probabilmente
la fonte è il balletto Coppelia di Léo Delibes (1870).
94
Il procedimento è il medesimo di quando, cannocchiale alla mano, lo sguardo di Nathanael aveva
vivificato gli occhi. Adesso non c’è più bisogno del cannocchiale, anche se il punto di partenza è
simile: occhi morti, mano morta. Attraverso la rinnovata vivificazione degli occhi il protagonista
arriva stavolta a vivificare anche la mano. In tedesco tutto il brano pullula di allitterazioni: Nathanael
balbetta («stammelt[e]»), fissa («starrt[e]») Olimpia negli occhi e lei irradia («strahlt[e]») fino a dar
vita a flussi («Ströme») di sangue vitale.
95
In tedesco «der Takt gemangelt», espressione non priva di ambiguità: manca il ritmo, manca il
tatto, manca l’equilibrio…
96
Sembra un’iperbole, ma il duello prima e la scena finale poi ci fanno capire che Nathanael è un
soggetto a rischio anche sul piano della giustizia penale.
97
Il termine tedesco è clamorosamente ambiguo (e dunque ironico): «aufziehen», che vuol dire
«tirare su, invitare ad alzarsi» ma anche «caricare», come si carica un orologio, un congegno
meccanico.
98
È questo il brano dell’intera novella in cui il narratore – che avevamo conosciuto esitante, incerto,
pieno di dubbi sulle sue possibilità di restituire il reale – assume un punto di vista categorico:
Nathanael non si accorge di quel che vede, di quel che invece lui – il narratore – conosce: le reazioni
degli altri, gli sguardi degli altri. Poco dopo, tuttavia, tornerà a dubitare quando si domanderà se
Olimpia comprende le parole di Nathanael: «Worten, die keiner […] vielleicht».
99
Il vocabolario di Olimpia non può che definirsi limitato. A parte «Ach» si segnala solamente un
«Gute Nacht, mein Lieber» («Buonanotte mio caro»). Forse il duo Spalanzani/Coppola,
rispettivamente responsabili per l’automa e per gli occhi, doveva farsi affiancare da un terzo esperto
in questioni linguistiche. Ma il laconismo di Olimpia è evidentemente funzionale a sottolineare il
carattere proiettivo del personaggio, talché il suo «Ach» può di volta in volta colorarsi di entusiasmo,
nostalgia, stupore, a seconda dello stato d’animo del suo interlocutore.
100
Senza rendersene conto fino in fondo e anzi attingendo come al solito a un linguaggio formulare
Nathanael allude qui alla radice marcatamente narcisistica del suo amore.
101
Il progressivo dissolversi dell’ultimo barlume di luce conferma la consequenzialità simbolica di
tutto il testo, di tutta la raccolta, adesso la pittura notturna sta trasformandosi nella notte nera, buia
della follia.
102
Dopo gli occhi e la mano adesso la bocca; e anche in questo caso il modus della percezione è lo
stesso: aveva la sensazione, gli pareva, gli sembrava. La respirazione bocca a bocca cui Nathanael
sottopone le labbra gelide di Olimpia avviene dopo una ricaduta: la mano calda è tornata a
raffreddarsi, di qui il riferimento a un mito del folklore e della letteratura, all’epoca anche recente (si
pensi alla ballata goethiana La sposa di Corinto del 1798), quello della sposa morta il cui corpo viene
riscaldato dall’amore dell’uomo, un amore che contestualmente ne sancisce la maledizione.
103
Altra descrizione che corrisponde perfettamente al genere del Nachtstück. Qui l’effetto
inquietante provocato da Spalanzani è prodotto dall’ombra. In tedesco il sostantivo usato è
«Schlagschatten», un termine tecnico della pittura, ossia «l’ombra ben disegnata gettata da un
oggetto chiaramente illuminato», come recita la definizione del Grimm.
104
Nathanael riprende, quasi alla lettera, le metafore sideree di cui anche alla nota 88. Colpisce la
lucida consapevolezza da parte del protagonista della natura squisitamente narcisistica del sentimento
(«trasfigurerai l’animo mio»).
105
In tedesco «konversieren». Spalanzani come Coppelius parla con lessico latineggiante e
arcaizzante (vedi nota 21).
106
Da buon studente che non disdegna le maschie consuetudini goliardico-ribalde Nathanael ha il
sangue caldo ed è sempre disposto a battersi, come già si è visto nell’episodio del duello sfiorato con
Lothar. Il dialogo delinea una violenta opposizione ermeneutica fra Siegmund (portavoce della
communis opinio) e Nathanael – sempre più isolato – in relazione a Olimpia: «rigida come la morte»,
«muta», «idiota», «faccia di cera», «bambola di legno», «senz’anima» ecc. vs. «animo profondo e
sublime» e «fascino celeste».
107
Seconda occorrenza del termine «unheimlich», qui in un uso colloquiale difficilmente
riconducibile alla valenza freudiana.
108
Espressione formulare hoffmanniana tra le più ricorrenti – dai Pezzi fantastici alla maniera di
Callot in avanti – volta a segnalare la disposizione produttiva, ma anche ricettiva nei confronti
dell’opera d’arte, la comunicazione artistica “funziona” anzi solamente se tale predisposizione è
presente sia nel creatore che nel recettore (Siegmund viene poco dopo non a caso definito come
«freddo» e «prosaico»).
109
Concetto chiave dell’estetica romantica che allude al carattere misterico e in fondo inesprimibile
dell’arte e della conoscenza; qui evidentemente viene utilizzato in chiave ironica visto che viene
applicato ai pallidi fonemi dell’automa e vista anche la proliferazione di genitivi che quasi rischia di
tracimare nel nonsense.
110
Nathanael si rivela aggiornatissimo conoscitore di discorsi circolanti all’epoca, dalla vulgata dello
scienziato, filosofo della Natura e divulgatore Gotthilf Heinrich Schubert (1780-1860) che aveva
tenuto le sue seguitissime lezioni a Dresda ancora negli stessi anni in cui, in piene guerre di
liberazione, vi era passato Hoffmann, fino ad arrivare a uno dei titoli più famosi dell’epoca, il
romanzo di Goethe, uscito nel 1808. Su Schubert vedi le numerose note a lui dedicate a proposito
della Casa desolata.
111
Fra una ragazza qualunque della buona borghesia tedesca e Olimpia c’è una sostanziale omologia:
entrambe obbediscono a delle regole, l’una a quelle della società, l’altra a quelle della meccanica. La
vivificazione dello sguardo è un fenomeno che ormai conosciamo.
112
Il contatto e l’affinità con la musa meccanica scatena la produttività forse altrettanto meccanica e
seriale di Nathanael.
113
Che Olimpia oltre a «Ach» dica solamente «Gute Nacht, mein Lieber» può – di nuovo – essere
letto in chiave ironica. È un «buonanotte» che allude alla notte della ragione nella quale è precipitato
Nathanael.
114
Nell’obnubilamento generale Nathanael mantiene tuttavia un barlume di lucidità dicendo a modo
suo il vero: Olimpia è mera proiezione della propria affezione narcisistica, un dato, questo,
riconducibile anche al semplice fatto meccanico che gli occhi vitrei di Olimpia permettono tale
rispecchiamento.
115
L’inadeguatezza della parola è un altro topos romantico di cui si serve Nathanael, anch’esso
declinato in chiave ironica.
116
In tedesco ci sono quattro infiniti sostantivati, uno via l’altro. Ancora una volta, come
nell’infanzia, si tratta in primis di uno shock acustico e l’ellissi ne rappresenta l’equivalente formale.
Secondo il medesimo schema ellittico è costruito anche il successivo dialogo, di nuovo in linea con la
prospettiva scioccata di Nathanael.
117
Dal dialogo convulso emerge ciò che il lettore da tempo presagisce, che Olimpia è una
coproduzione Spalanzani/Coppola. Spalanzani ha firmato la meccanica, il congegno, Coppola ha
costruito gli occhi.
118
Nathanael vede Coppola ma sente Coppelius. Tutta la scena, traumatica, è raccontata dalla
prospettiva del protagonista che proprio perché vede/sente ritornare il rimosso lascia riaffiorare le sue
paure primordiali relative alla figura di Coppelius e alla sua omologia con Coppola.
119
In tedesco «Retorten». Il termine fa – ancora oggi – pensare alla creazione artificiale di vite
umane, alla clonazione.
120
Tornano le «Höhlen», le cavità dell’incubo infantile di Nathanael (vedi la nota 25).
121
Stavolta è Spalanzani a parlare, statuendo in modo apparentemente definitivo l’omologia fra
Coppelius e Coppola. Ma vale quanto detto alla nota 118: resta plausibile che, poiché il destinatario
delle parole di Spalanzani è lo stesso Nathanael, la percezione sia errata in linea con la propria
ossessione primaria.
122
Quel «ti» (in tedesco: «dir») è da intendersi alla stregua di un dativo etico, dunque metaforico:
Coppola non ha rubato gli occhi a Nathanael – che non a caso sta osservando la scena con i propri,
seppur straziati, occhi – ma ha rubato gli occhi di Olimpia, che erano cari a Nathanael e che
metaforicamente erano gli occhi di Nathanael.
123
Si realizza qui di fatto la sequenza ideata da Nathanael (vedi nota 67).
124
Espressione formulare che Hoffmann utilizza non di rado nel corso della sua opera a denotare la
follia.
125
Cerchio di fuoco=follia, vedi anche la nota 66. Ciò che era un’invenzione del “poeta” Nathanael
diviene adesso bruta realtà.
126
Forse il brano che meglio segnala l’utilizzo di tecniche di straniamento ironizzante da parte del
narratore (e di Hoffmann) che, dopo aver spedito Nathanael al manicomio, postula una qualche
empatia del lettore nei confronti di personaggi minori (Spalanzani) o antagonistici
(Coppola/Coppelius) e si diffonde su questioni metariflessive e giuridiche.
127
La polemica hoffmanniana contro i circoli del tè è un Leitmotiv che percorre tutta la sua opera. I
circoli del tè – spesso accompagnati dall’aggettivo «ästhetisch» («estetici») – rappresentano una sfera
semipubblica che amministra normativamente il gusto e presso la quale gli artisti sono chiamati a
esibirsi, vittime di una prostituzione culturale da Hoffmann a più riprese condannata.
128
Hoffmann gioca qui sull’omofonia e sulla quasi completa coincidenza grafica con «Theist»
(«teista») creando il neologismo «Teeist», quasi che la frequentazione dei circoli del tè sia da
equiparare a un indirizzo filosofico ovvero a un’ideologia.
129
In latino nel testo: per il saggio ciò è sufficiente. Il discorso del professore di poesia e retorica
ironizza da un lato sulle ossessioni tassonomiche degli eruditi ma dall’altro invita al contempo a una
lettura metaforica o addirittura allegorica della vicenda che stiamo finendo di leggere, allegoria per
esempio circa i pericoli di una non corretta interazione fra io e realtà, e circa i pericoli di una
(presunta) arte autoreferenziale.
130
L’episodio produce un paradossale esito antiumanistico. Nathanael finisce al manicomio, ma la
società omologata che lo condanna, lo stigmatizza e lo esclude non è messa molto meglio.
131
Il giurista Hoffmann si prende gioco dei sintagmi formulari del linguaggio giuridico.
132
Come Coppelius anni addietro. Rispetto al manoscritto vi è a questo punto un altro taglio
decisivo, una breve ma significativa frase: «Alla fine lui era davvero l’orribile uomo della sabbia
Coppelius». A dimostrazione ulteriore che la revisione hoffmanniana è tutta volta a produrre
incertezza sullo statuto fattuale di quanto da Nathanael percepito, laddove invece la prima versione
licenziava il lettore con una dose notevolmente maggiore di chiarezza sull’accaduto.
133
Riedizione identica del risveglio dopo la scena primaria della rivelazione di Coppelius/uomo della
sabbia. Hoffmann usa anche lo stesso participio passato («hingebeugt»), la prima volta era la madre
china su di lui (vedi anche la nota 31), adesso Clara.
134
Anche questa scena l’abbiamo già vista, dopo il primo ritorno a casa di Nathanael, e come quella
anche questa si rivelerà illusoria.
135
Il dettaglio – del tutto privo di plausibilità realistica! – dell’ombra enorme (e fallica) del
campanile sull’ora del mezzogiorno la dice lunga sul carattere mitico e sovrannaturale della minaccia
che va adesso a concretizzarsi.
136
Nel manoscritto originale, a partire da qui, Coppelius svolge un’azione molto più attiva
inducendo Nathanael a spiccare il salto.
137
In questa scena di vago sapore shakespeariano (la foresta del Macbeth) Clara contribuisce
involontariamente a riattualizzare il trauma; il «cespuglio grigio» non può non rammentare a
Nathanael le sopracciglia grigie di Coppelius.
138
Per l’ultima volta Nathanael compie il gesto meccanico di estrarre il canocchiale e il campo
visivo viene investito da Clara, ciò che ricorda al protagonista una costellazione analoga con al centro
Olimpia e dunque, indirettamente, la perdita dell’oggetto (!) amato. Di qui la reazione parossistica, in
linea peraltro con quanto postulato dalla medicina dell’epoca, la quale raccomandava di evitare
situazioni che potessero produrre una ricaduta in un soggetto vittima di un trauma psichico. E che il
protagonista riviva il ricordo traumatico dello smembramento di Olimpia lo si capisce dal fatto che
apostrofa Clara dicendo: «Pupattola di legno gira».
139
La scena ricorda da vicino uno dei pochi intertesti di questa altrimenti originalissima novella
hoffmanniana: la sequenza finale di Liebeszauber (Incanto d’amore) di Ludwig Tieck, pubblicato nel
1812 all’interno del Phantasus. Il protagonista impazzito pugnala la fidanzata e si getta nel vuoto
insieme alla vecchia strega.
140
Il duello goliardico nel giardino di casa scongiurato all’ultimo momento si trasforma nel last
minute rescue con scazzottata finale. Se è un luogo comune ormai paragonare la costellazione della
Finestra d’angolo del cugino, l’ultima novella scritta da Hoffmann, con Rear’s Window di Alfred
Hitchcock, allo stesso modo, leggendo queste ultime righe, non può non venire in mente la scena
finale di Vertigo.
141
Forse allora era non il campanile ma la gigantesca figura di Coppelius a produrre l’ombra di cui
alla nota 135. Che Nathanael si lanci nel vuoto gridando «Sköne Oke – Sköne Oke» sembrerebbe
alludere a una sua identificazione con Coppola, quasi che gettandosi verso Coppelius che lo aspetta
nella piazza del mercato il protagonista intenda ricomporre le due identità separate, in una specie di
amplesso finale fra il suo sé femminile (Coppola) e il suo sé maschile (Coppelius).
142
Anche quest’ultima – terza! – prova di idillio biedermeier appare problematica e restituita nei
modi della congettura («raccontano», «se ne dovrebbe dedurre»).
Biografia di Hoffmann

KÖNIGSBERG (1776-1796)

Terzo figlio dell’avvocato Christoph Ludwig Hoffmann e di Louise


Albertine Doerffer, Ernst Theodor Wilhelm (a partire dal 1804 il terzo nome
si trasformerà, in omaggio all’amato Mozart, in Amadeus) nasce a
Königsberg il 24 gennaio 1776. I genitori si separano già nel 1778. Il padre
lascia Königsberg portandosi dietro il figlio maggiore, la madre ritorna a
vivere dai suoi insieme a Ernst (il secondogenito era morto poco dopo la
nascita). Saranno soprattutto due fratelli della madre, lo zio Otto Wilhelm,
magistrato in pensione, soprannominato per via delle sue iniziali e della sua
lagnosa pedanteria «o-weh!-Onkel», e la zia Johanna Sophie, a occuparsi
dell’educazione del nipote, date le precarie condizioni psichiche della
madre.
Dal 1781 comincia a frequentare la Burgschule. Nel 1786 conosce Theodor
Gottlieb von Hippel, nipote dell’omonimo autore dei Lebensläufe nach
aufsteigender Linie (Biografie in linea ascendente, 1778-1781) nonché
futuro alto burocrate dello Stato prussiano, cui, nonostante lunghi periodi di
distacco, Hoffmann rimarrà sempre legato da un profondo senso di amicizia
e gratitudine.
Proseguendo così la tradizione familiare, Ernst si iscrive nel 1792 alla
facoltà di Giurisprudenza. Lo studio gli costa non poca fatica, alleviata
soltanto dalle lezioni di musica impartitegli dall’organista del duomo
Christian Wilhelm Podbielski e dalle lezioni di disegno di Johann Christian
Saemann.
Nel 1794 inizia una turbolenta relazione con una sua allieva di musica,
Dora Hatt (detta Cora), una donna di nove anni più vecchia di lui, sposata e
con un figlio. Anche in seguito alle pressioni della famiglia il legame viene
interrotto nel 1796, quando Ernst, un anno dopo il suo primo esame come
giurista e pochi mesi dopo aver iniziato il tirocinio come uditore
(Auskultator) presso il tribunale della sua città lascia Königsberg diretto a
Glogau. Concepisce i primi progetti letterari: i romanzi Cornaro e Der
Geheimnisvolle (L’uomo misterioso) dei quali non resta alcuna traccia.

GLOGAU (1796-1798)

Abita presso un altro fratello della madre, Johann Ludwig Doerffer,


anch’egli magistrato. Seppur controvoglia continua il tirocinio presso il
tribunale della città, giungendo a sostenere il secondo esame da giurista nel
1798. In quello stesso anno si fidanza con la cugina Sophie Konstantine
Wilhelmine, detta Minna, figlia minore di Johann Ludwig. Chiede il
trasferimento a Berlino, dove lo zio è stato nominato giudice dell’Alta
Corte (Obertribunalrat), e l’ottiene. Prima di trasferirsi a Berlino compie
quello che sarà destinato a restare uno dei suoi rarissimi viaggi di piacere:
attraversa la Slesia e parte della Boemia e raggiunge Dresda, dove la visita
alla Gemäldegalerie Alte Meister gli lascerà un’impressione indelebile.
Magnificando le molteplici attrattive di Berlino, ancora due mesi dopo
scriverà a Hippel: «Soltanto un anno fa i tanti quadri che ho visto qui mi
avrebbero provocato meraviglia, ma ora sono quasi fin troppo viziato dalla
galleria di Dresda dove ho visto i capolavori di ogni scuola, ancora mi
faccio prendere dall’entusiasmo quando mi capita di ripensare alla sala
degli italiani».

BERLINO (1798-1800)

Conclude gli studi con il terzo esame che gli apre le porte verso gli alti ruoli
dello Stato. Tramite la fidanzata conosce Jean Paul che, senza grandi
entusiasmi, scriverà quindici anni dopo la prefazione al suo primo libro. Nel
1799 scrive il libretto e la musica di un Singspiel intitolato Die Maske (La
maschera) e lo fa pervenire ad August Wilhelm Iffland, sovrintendente del
Nationaltheater berlinese: l’opera – al pari di numerosissime composizioni
vocali e strumentali prodotte negli anni seguenti – verrà rifiutata. Nel
maggio del 1800, due mesi dopo aver superato il terzo esame, viene spedito
a farsi le ossa a Poznan´ (in tedesco Posen), città polacca di recente
colonizzazione prussiana, con la carica di Assessor presso il locale
distaccamento dell’Alta Corte prussiana.

POZNAN´ (1800-1802)

Si innamora di Marianne Thekla Michaelina Rorer, detta Mischa, figlia del


segretario comunale della città polacca. Scioglie il fidanzamento con la
cugina, ciò che turberà definitivamente i già precari rapporti con la
famiglia. Nel febbraio del 1802, durante una festa di carnevale, si produce
in una serie di caricature dei maggiorenti della gerarchia militare cittadina,
causando notevole scandalo. La carriera del promettente giurista subisce un
brusco arresto: la già avvenuta nomina a Regierungsrat (consigliere
governativo) viene annullata e Hoffmann trasferito d’ufficio nella cittadina
polacca di Plock. In campo artistico le cose vanno leggermente meglio:
seppur soltanto da complessi poco più che improvvisati, a Poznan´ vengono
eseguite per la prima volta composizioni di Hoffmann: si tratta della
versione musicale del Singspiel di Goethe intitolato Scherz, List und Rache
(Scherzo, inganno e vendetta) e della Cantate zur Feier des neuen
Jahrhunderts (Cantata per le celebrazioni del nuovo secolo).

PLOCK (1802-1804)

Nel luglio del 1802 ritorna a Poznan´ per sposare Mischa. Dal 1803
comincia, più che altro per combattere la noia, a scrivere un diario che,
salvo sporadiche interruzioni, proseguirà fino al 1815. Sempre nel 1803
esce in rivista un saggio di drammaturgia intitolato Schreiben eines
Klostergeistlichen an seinen Freund in der Hauptstadt (Scritto di un
monaco al suo amico nella capitale): è il primo testo pubblicato da
Hoffmann. Nel marzo del 1804, grazie anche ai buoni uffici di Hippel,
riesce a farsi restituire la nomina a Regierungsrat e, con essa, ottiene il
trasferimento a Varsavia.

ARSAVIA (1804-1807)
Stringe amicizia con il collega Julius Eduard Itzig (il quale, dopo la
conversione al cattolicesimo, si chiamerà Hitzig), esponente di una nota
famiglia ebraica di Berlino (la cugina Rahel Levin, che si chiamerà in
seguito Rahel Varnhagen von Ense, fu l’animatrice del più importante
salotto letterario della capitale prussiana). Hitzig sarà il primo biografo di
Hoffmann. Nel 1805 nasce la figlia Cäcilia che morirà due anni dopo. Oltre
a svolgere con ottimi risultati le sue mansioni presso il tribunale, diventa
una colonna portante dell’attività musicale della città polacca: anima in
qualità di vicedirettore la locale Musikalische Gesellschaft (Società degli
amici della musica), canta, suona il pianoforte, dirige l’orchestra e,
soprattutto, compone: l’opera Die lustigen Musikanten (Gli allegri
musicanti) tratta da Brentano, il Singspiel Der Kanonikus von Mailand (Il
canonico di Milano), una Messa in re minore, una Sinfonia in mi bemolle
maggiore.
A questa specie di idillio mette fine brutalmente Napoleone che, dopo la
disfatta prussiana di Jena, entra in Varsavia nel dicembre del 1806: gli
impiegati statali vengono posti di fronte alla spiacevole alternativa di
giurare fedeltà all’imperatore oppure lasciare l’impiego. Hoffmann prende
tempo ma poi si licenzia, manda moglie e figlia a Poznan´ e parte per
Berlino in cerca di fortuna.

BERLINO (1807-1808)

È questo forse il periodo più nero della vita di Hoffmann. Solo, senza
lavoro, alla disperata ricerca di un qualche editore che gli pubblichi disegni
o composizioni musicali, arriva nella Berlino occupata dai francesi a
ingrossare la fitta schiera dei disoccupati. Nell’agosto del 1807 si decide a
pubblicare il seguente annuncio: «Persona di grande esperienza in campo
musicale, sia sul piano teorico che su quello pratico, autore egli stesso di
notevoli composizioni accolte con plauso nonché direttore di un’importante
istituzione musicale, desidera, avendo egli perduto il proprio impiego a
causa della guerra, di essere assunto presso un qualche teatro ovvero
orchestra privata in qualità di direttore». Gli rispondono da Lucerna e da
Bamberga, opta per quest’ultima. Il posto è libero dal settembre del 1808.
Gli ultimi mesi berlinesi sono segnati da aspra miseria. Nel giugno lascia
Berlino, passa prima da Glogau, quindi da Poznan´ a riprendersi la moglie e
prosegue per Bamberga.

BAMBERGA (1808-1813)

Le speranze riposte in questo nuovo impiego vengono ben presto deluse: il


teatro è in mano a uomini incapaci e insolventi, Hoffmann rassegna
dapprima le dimissioni da direttore d’orchestra, quindi nel 1809 anche da
Theaterkomponist. Si guadagna da vivere dando lezioni di musica e
cominciando una proficua collaborazione con la «Allgemeine Musikalische
Zeitung» di Lipsia, dove usciranno quasi tutte le sue recensioni musicali,
nonché alcuni fra i racconti poi confluiti nei Fantasiestücke in Callots
Manier (Pezzi fantastici alla maniera di Callot), tra questi il primo testo di
finzione pubblicato da Hoffmann, Ritter Gluck (Il cavaliere Gluck). Nel
1810 riprende a collaborare col teatro. Il nuovo direttore Franz von Holbein
– che Hoffmann aveva conosciuto nel corso del suo primo soggiorno
berlinese – lo impiega come autentico factotum: compositore, regista,
scenografo, macchinista. Insieme mettono in scena tre pièce di Calderón e
la Käthchen von Heilbronn (Käthchen di Heilbronn) di Kleist. Conosce
Adalbert Friedrich Marcus, un medico amico di Schelling, che lo mette a
parte delle più attuali tendenze nel campo della medicina, iniziandolo al
magnetismo.
Nel 1811 si innamora perdutamente di una sua allieva, la quindicenne Julia
Marc, la quale l’anno successivo andrà sposa al commerciante amburghese
Johann Gerhard Graepel. Il 1812 è anche l’anno in cui Hoffmann torna a
perdere una sicura fonte di sostentamento, perché Holbein lascia la
direzione del teatro. In rotta di collisione con tutta la buona società di
Bamberga – ai cui rampolli aveva impartito per anni lezioni di musica,
fungendo al contempo da intrattenitore –, disperato per il matrimonio di
Julia, Hoffmann coglie la prima occasione per abbandonare la città e accetta
un nuovo posto come direttore d’orchestra presso la troupe di Joseph
Seconda che fa la spola fra Dresda e Lipsia. Prima di lasciare Bamberga
sottoscrive con l’amico Carl Friedrich Kunz, editore e commerciante di vini
– una combinazione ideale per Hoffmann, che per tutta la vita sarà un
accanito bevitore –, il contratto per i Fantasiestücke.

DRESDA-LIPSIA (1813-1814)

Anche il passaggio in Sassonia non produce gli effetti sperati. Anzi, la


situazione si aggrava: oltre a dover fronteggiare un impresario intrigante,
Hoffmann torna a esser suo malgrado coinvolto dalle vicende della Storia.
Insomma, gli ostacoli di Varsavia e di Bamberga messi insieme. Se a
Varsavia era stato spettatore e vittima del trionfo di Napoleone, a Dresda
diventa spettatore e vittima del suo definitivo affossamento a opera degli
alleati russo-prussiani (al ritorno dalla fallimentare campagna di Russia
Napoleone stabilisce proprio a Dresda il suo quartier generale). Ma, rispetto
a Varsavia, Hoffmann ha ora un’arma in più con cui difendersi dalle
clamorose intromissioni della Storia: la scrittura. Pubblica testi
d’intervento, disegna caricature antinapoleoniche e, fra le altre cose,
concepisce, scrive e ambienta a Dresda il suo Fantasiestück più famoso:
Der goldne Topf (Il vaso d’oro). Comincia inoltre a musicare la Undine
dopo aver convinto, grazie alla mediazione di Hitzig, Friedrich de la Motte
Fouqué a ricavare un libretto dalla sua fiaba. Nella primavera del 1814,
nello stesso periodo in cui si consuma la definitiva rottura con Seconda,
escono i primi due volumi dei Fantasiestücke (il terzo, quello con Der
goldne Topf, uscirà in autunno, il quarto l’anno successivo) che
riscuoteranno notevole attenzione da parte della critica. Su consiglio di
Hippel, chiede di essere riammesso nei ruoli dello Stato e accetta un’offerta
del Ministero della giustizia a Berlino. Lavorerà – per il momento gratis –
presso il Kammergericht (il tribunale camerale).

BERLINO (1814-1822)

Anche grazie a Hitzig – che ha fatto una gran pubblicità ai Fantasiestücke –


riesce subito a entrare in contatto con alcuni fra gli scrittori più importanti
dell’epoca: conosce Fouqué, Chamisso, Tieck, e in seguito anche
Eichendorff e Brentano. Ma il vero amico degli anni berlinesi sarà uno dei
più famosi attori dell’epoca, Ludwig Devrient, in compagnia del quale
Hoffmann trascorrerà intere serate da Lutter und Wegner (il locale più
famoso della Berlino di allora), dilapidando parecchie di quelle che col
tempo diventeranno le sue non disprezzabili entrate (alla morte di
Hoffmann il signor Lutter risulterà essere il suo principale creditore: ma da
vero signore rinuncerà a rivalersi sulla vedova).
In pochissimo tempo diventa un autore famoso e richiesto, anche se il
successo di pubblico e soprattutto di critica dei Fantasiestücke non verrà
più ripetuto. Nel giro di otto anni escono i due romanzi Die Elixiere des
Teufels (Gli elisir del diavolo, 1815-16) e, incompiuto, Lebens-Ansichten
des Katers Murr (Punti di vista sulla vita del gatto Murr, 1819-21), i
Nachtstücke (Notturni, 1816-17), i romanzi brevi Klein Zaches genannt
Zinnober (Il piccolo Zaccheo detto Cinabro, 1819), Prinzessin Brambilla
(La principessa Brambilla, 1820) e Meister Floh (Mastro Pulce, 1822), il
romanzo-saggio Seltsame Leiden eines Theaterdirektors (Le pene curiose di
un direttore di teatro, 1818) e, soprattutto, qualcosa come una quarantina di
novelle, alcune anche di notevoli dimensioni, pubblicate per l’immediato
consumo, al ritmo di quattro-cinque all’anno, in diversi almanacchi.
Ventisette di esse verranno poi raccolte nei quattro volumi di Die
Serapionsbrüder (I confratelli di san Serapione, 1819-21), opera che prende
il titolo da una sorta di club letterario fondato già nel 1814 da Hoffmann
insieme agli amici (ne facevano parte fra gli altri Hitzig, lo scrittore Carl
Wilhelm Salice-Contessa, il medico David Ferdinand Koreff e, per un certo
periodo, Chamisso).
Il 3 agosto del 1816, in occasione del compleanno del re, va in scena la
prima rappresentazione di Undine, con le scenografie curate dall’architetto
Karl Friedrich Schinkel. L’opera riscuote notevole successo, ma dopo una
quindicina di rappresentazioni esce dal programma e non viene più
riproposta, in seguito all’incendio del teatro in cui vanno perdute le
scenografie di Schinkel.
In quello stesso anno Hoffmann, nominato giudice del Kammergericht,
viene a tutti gli effetti reintegrato nell’amministrazione dello Stato. Così
scrive al ministro della giustizia, nella sua relazione annuale del gennaio
1819, il vicepresidente del tribunale von Trützschler: «Il suo straordinario
talento, la sua acutezza e la precisione dei suoi lavori sono noti a Vs.
Eccellenza al pari della accuratezza degli stessi e della veste gradevole in
cui egli sa avvolgere anche le questioni più astratte. I suoi lavori di scrittore,
ai quali talora egli dedica le ore del riposo, non recano alcun danno alla sua
efficienza e la fantasia rigogliosa che rasenta il comico che vi regna
contrasta in modo curioso con la fredda pacatezza e con la serietà che lo
contraddistingue nel suo ruolo di giudice».
Nel clima della più oscura restaurazione, all’inizio di ottobre del 1819, il re
istituisce una commissione speciale d’inchiesta al fine di smascherare e
combattere presunte associazioni eversive, individui sospettabili di alto
tradimento. Trützschler ne diventa capo e Hoffmann membro. I tre anni che
gli restano da vivere saranno così costellati di dissidi, grane, dissapori con
funzionari meschini e reazionari ai quali Hoffmann rifiuta la propria
connivenza, cercando di opporsi all’opprimente clima di caccia alle streghe
che si respira in Prussia. Quando poi decide di farlo con le armi dell’ironia
– in un episodio di Meister Floh – viene accusato di tradimento del segreto
professionale. Un procedimento disciplinare iniziato a suo carico è
interrotto soltanto dalla morte avvenuta per tabe dorsale, dopo una malattia
di qualche mese, il 25 giugno del 1822.

M.G.
INTRODUZIONE AI NOTTURNI
di Matteo Galli

Il seguente saggio è tratto da E.T.A. Hoffmann, Notturni, L’orma


editore, Roma 2014, primo volume dell’HOFFMANNIANA, la collana
che riunisce per la prima volta in Italia tutte le opere del grande
autore tedesco.
Qualche ritocco?

I Notturni di Hoffmann, dunque. Ricostruire la genesi dei Notturni non è


facile, poiché, a differenza di quanto era accaduto in occasione della
pubblicazione dei Pezzi fantastici alla maniera di Callot, la prima raccolta
di Hoffmann uscita anonima, siamo in possesso di scarsissimo materiale
documentario. La ragione va rintracciata nella tormentata biografia
dell’autore. Hoffmann firma il contratto con l’editore di Bamberga, Carl
Friedrich Kunz, per la pubblicazione dei Pezzi fantastici nel marzo del
1813, poco più di un mese prima di lasciare la città francone alla volta di
Dresda e poi di Lipsia. Esiste quindi una fitta corrispondenza fra l’autore e
l’editore, che ci permette di seguire dettagliatamente le diverse fasi del
progetto e che si conclude nel settembre del 1814, quando Hoffmann si
trasferisce a Berlino, dove trascorre gli ultimi otto anni della sua vita.
Diverso è il caso dei Notturni. Poiché l’editore Georg Reimer è berlinese, si
può pensare che la gran parte delle questioni di natura economica,
editoriale, organizzativa sia stata discussa direttamente a voce. Quel poco di
scritto che possediamo lascia intuire che anche per la genesi dei Notturni
valgono, dal punto di vista dei rapporti autore/editore, principi analoghi a
quelli che hanno presieduto alla nascita di altre opere hoffmanniane (ritardi
riguardo ai termini di consegna, continue richieste di anticipi all’editore,
modifiche sostanziali subite dal progetto). Del quale quel che segue è l’atto
fondativo: lettera del 24 novembre 1815 di Hoffmann a Reimer:

A quanto mi dice Hitzig [l’amico e poi primo biografo di Hoffmann], Lei sarebbe intenzionato a
pubblicare un volumetto di racconti col titolo complessivo Notturni, a cura dell’autore dei Pezzi
fantastici alla maniera di Callot, e partendo da questo presupposto mi sono permesso di inviarle
il primo di questi racconti, L’uomo della sabbia, invitandola cortesemente a prenderne visione e
aggiungendoLe che il secondo, Il guardiacaccia, è anch’esso già completato, e un ciclo di quattro
brevi racconti che chiuderà il volume è già ideato. Giudicando sulla base degli Elisir del diavolo,
direi che il volume ammonta a 24 sedicesimi e qualora Lei intendesse pubblicare questa piccola
opera, si potrebbe già procedere alla stampa, lascerei a Lei la scelta se stampare i Notturni già
esistenti con la dicitura primo volumetto, facendone uscire successivamente un secondo, o se la
cosa non sia consigliabile. Quanto all’onorario spero di potermi accordare con Lei facilmente,
visto che le Sue idee al riguardo mi sono note. Pregandola di un rapido riscontro, Le porgo i miei
ossequi,
il Suo devotissimo Hoffmann

Nel febbraio del 1816, tre mesi dopo, Hoffmann non ha tuttavia ancora
consegnato Il guardiacaccia, il racconto che poi si chiamerà Ignaz Denner,
pur avendolo dato per già concluso. Riguardo a ciò egli accampa una serie
di scuse affermando che con certezza potrà consegnare in pochi giorni Il
guardiacaccia ed entro la fine del mese gli altri due, ideati già da tempo e
che necessitano soltanto di qualche ritocco. Il Sanctus, il quarto e ultimo
racconto della prima parte, arriverà tuttavia a Reimer – ed è l’ultima
informazione che possediamo sulla genesi del primo volume – solamente
nel settembre del 1816, un mese dopo che – in occasione del compleanno
del re Federico Guglielmo III – Hoffmann ha finalmente coronato il proprio
sogno di veder messa in scena la sua Undine, libretto: di Friedrich de la
Motte Fouqué, scene: di Karl Friedrich Schinkel, luogo: il Teatro Reale sul
Gendarmenmarkt, la piazza dove affaccia la casa nella quale Hoffmann
trascorrerà gli ultimi anni della sua vita.
Ancora più lacunose le notizie relative al secondo volume, che uscirà
l’anno successivo. Possediamo soltanto una lettera, in cui Hoffmann chiede
al suo bibliotecario di fiducia di fargli pervenire qualche romanzo
settecentesco di stile galante che gli permetta di calarsi nell’atmosfera
rococò del racconto a cui sta lavorando (l’ultima novella del secondo
volume, Il cuore di pietra), e una ricevuta per un anticipo da parte di
Reimer.
Poi, a pubblicazione avvenuta, soltanto poche frasi di accompagnamento a
copie omaggio spedite ad amici e conoscenti. Merita una qualche menzione
soltanto l’accenno ai Notturni contenuto in una lunga lettera al vecchio
editore Kunz dell’8 marzo del 1818: «Le consiglio Il maggiorasco e Il voto,
La casa desolata non vale nulla e Il cuore di pietra è così così». Opinioni di
Hoffmann sul primo volume non ne conosciamo. E anche la storia della
ricezione critica del volume non è particolarmente gloriosa: pochissime
recensioni e molti verdetti, fra i quali spicca quello di Goethe che
consigliava alle fantasie hoffmanniane più l’ausilio del medico che quello
del critico. Delle tre raccolte hoffmanniane questa mediana sarà sempre la
meno studiata, la meno apprezzata, quella che maggiormente contribuirà al
cliché del “Gespenster-Hoffmann”, dello Hoffmann dei fantasmi,
dell’autore di letteratura di genere in odore di trivialità, corriva e seriale.
Per quanto scarsi, i dati fin qui riportati permettono tuttavia qualche breve
osservazione. In primo luogo, come ben si capisce dalla lettera a Reimer,
nel momento in cui Hoffmann propone i Notturni all’editore il progetto
dell’opera è tutt’altro che definito. Lo scrittore accenna a due racconti
lunghi e quattro brevi, questi ultimi ancora tutti da scrivere; i quattro poi si
trasformeranno in due, La chiesa dei gesuiti a G. e Il Sanctus. Il fatto inoltre
che Hoffmann lasci libera scelta a Reimer se limitarsi a un volume o
programmarne fin dall’inizio un secondo, fa pensare che il primo a non
avere le idee chiare in materia fosse proprio lo scrittore.
Prima ancora di capire quanti racconti avrebbe compreso la nuova raccolta,
ciò che soprattutto premeva a Hoffmann era di sfruttare il notevole successo
conseguito con il primo libro, un’opera che nel giro di pochi mesi aveva
fatto di uno squattrinato direttore d’orchestra, sconosciuto e non più
giovanissimo, un personaggio preceduto da un non disprezzabile capitale
simbolico nei circoli intellettuali di Berlino. Hoffmann intendeva dunque
accaparrarsi quanto prima un editore importante – e Reimer, solo pochi anni
prima, era stato l’editore dei due volumi dei Racconti di Heinrich von Kleist
che Hoffmann conosceva a memoria – e di riallacciarsi fin dal frontespizio
all’opera precedente. Reimer, infatti, accetta di pubblicare i Notturni non
come opera di Hoffmann, ma come opera «a cura dell’autore dei Pezzi
fantastici alla maniera di Callot». Se questi ultimi erano usciti anonimi per
l’esplicito desiderio di Hoffmann di esordire pubblicamente col suo vero
nome non con un’opera letteraria ma con una musicale, nel caso dei
Notturni, l’anonimato – divenuto ormai una sorta di segreto di Pulcinella –
nasceva più che altro dall’inconfessata aspirazione di ripetere il lusinghiero
successo dell’opera prima. Tale auspicio giungeva a ripercuotersi fin nel
titolo con la riproposizione del termine Stück (Fantasiestück/Nachtstück).
Nel proporre i Notturni a Reimer, Hoffmann ha dunque fatto, come suol
dirsi, il passo più lungo della gamba, spacciando per già ideata una raccolta
tutta ancora da pianificare. L’unico racconto pronto era, al momento,
L’uomo della sabbia. E poi c’era anche da trovare una qualche collocazione
a un racconto che – caso unico – Kunz aveva rifiutato per i Pezzi fantastici,
ossia quel Guardiacaccia che poi, ampiamente rielaborato, si chiamerà
Ignaz Denner e che Hoffmann inserirà nel primo volume subito dopo
L’uomo della sabbia.
Le premesse da cui partono i Notturni sono dunque piuttosto confuse: un
solo racconto davvero pronto, riciclaggio di materiale di scarto e un numero
imprecisato di nuovi racconti. Si tratta di vedere se questa eterogenea
casualità di materiali sia rimasta tale oppure se Hoffmann sia riuscito a
ricondurre il progetto a una superiore unità. La raccolta offre elementi per
avvalorare sia l’una che l’altra ipotesi. D’altra parte è un po’ la storia di
tutte e tre le raccolte hoffmanniane, malgrado le intenzioni assertive
dell’autore, malgrado l’introduzione poetologica dedicata a Jacques Callot
(per i Pezzi fantastici), malgrado la struttura a cornice e i riferimenti a san
Serapione (nei Confratelli di san Serapione). Nei Notturni: nessun testo
programmatico che affetti una superiore unità. Che probabilmente non c’è
proprio, eppure gli otto testi un po’ di cose in comune le hanno. Vediamone
alcune partendo proprio dal titolo.

Un genere intermediale

Ancora oggi, a quasi duecento anni di distanza dalla pubblicazione della


raccolta di Hoffmann (e con tutta la fortuna letteraria seguente:
D’Annunzio, Tabucchi, Ishiguro, Bolaño), il termine/genere notturni fa
pensare alla musica: i 21 Notturni di Chopin, anni Trenta e primi anni
Quaranta dell’Ottocento, anche se è il compositore irlandese John Field
colui che comunemente viene considerato l’inventore del notturno come
genere musicale. Correva l’anno 1812. C’è da chiedersi se a Hoffmann che
in quell’anno di mestiere faceva ancora soprattutto il direttore d’orchestra a
Bamberga fosse giunta notizia dalla lontana San Pietroburgo dell’avvenuta
pubblicazione. O se invece la genealogia non sia piuttosto un’altra,
riconducibile a un altro medium col quale Hoffmann aveva pure una certa
qual dimestichezza. Forse è proprio così.
Attestato in tedesco per la prima volta nel vocabolario di Caspar Stieler,
uscito nel 1691, il termine Nachtstück viene parafrasato con l’alquanto
impreciso termine latino pictura opaca. È solo nel Deutsch-Italiänisches
Dictionarium di Matthias Kramer (1724) che trova una sua prima definitiva
collocazione nella lingua tedesca, come traduzione dei cinquecenteschi
termini vasariani «pittura di notte», ovvero «quadro di notte» o ancora
«pittura finta di notte», pensiamo a Correggio, pensiamo a Rembrandt. Nel
frattempo, tuttavia, seppur non in Germania ma in Inghilterra, il termine – o
meglio il suo equivalente inglese night-piece – ha trovato per la prima volta
dimora in letteratura in una sezione, The Night-piece to Julia, compresa
nell’opera Hesperides di Robert Herricks (1648). Ci vorranno all’incirca
altri centocinquanta anni prima che la parola venga attestata nella
letteratura, stavolta tedesca, a designare un titolo: Nachtstücke compare
infatti per la prima volta nel titolo di un’opera uscita nel 1795; l’autore è
uno scrittore oggi dimenticato, Johann Franz Ludwig Schwarz, che
pubblicò il volume con lo pseudonimo Ludwig Z. Quando Schwarz
pubblica i Nachtstücke la gran parte dei letterati continua a usare il termine
come genere pittorico – Goethe, per esempio, ancora nel 1792, nella
Campagna di Francia, e l’anno successivo nell’Assedio di Magonza lo usa
in quest’accezione. E anche il principale lessicografo dell’epoca, Johann
Christoph Adelung, definisce il Nachtstück solamente come un genere
praticato da pittori e incisori. L’autore di lingua tedesca che più contribuisce
al – per certi aspetti – definitivo slittamento semantico dalla pittura alla
letteratura (più avanti l’egemonia se la contenderanno letteratura e musica,
come si è visto) è Jean Paul (1763-1825), figura di spicco del campo
letterario della Goethezeit, nonché prefatore controvoglia dei Pezzi
fantastici hoffmanniani. Pur mantenendo un fortissimo legame con le arti
figurative, nell’accezione jeanpauliana il Nachtstück designa non soltanto e
non più un paesaggio notturno, una sequenza notturna; in entrambe le
combinazioni “notturno” comincia a essere inteso – molto più di quanto non
fosse accaduto in passato – in senso traslato, come sinonimo di oscuro,
misterioso, insondabile.
Nei Notturni Hoffmann attua il passo successivo: porta definitivamente a
compimento il processo di metaforizzazione della notte, porta a definitivo
compimento e canonizza il Nachtstück come sottogenere letterario.
Un’operazione, la prima, nella quale Hoffmann si ritrova, per così dire, la
strada spianata, visto che nella ventina d’anni che intercorre tra la
pubblicazione dei romanzi di Jean Paul degli anni Novanta – per esempio
Die unsichtbare Loge (1793), Hesperus (1795) – e i Notturni hoffmanniani,
escono in Germania parecchie opere “notturne”. Fra queste, ve ne sono
almeno tre di capitale importanza (che recano nel titolo il sostantivo
“Nacht”): gli Inni alla notte (Hymnen an die Nacht, 1800) di Novalis, testo
nodale che chiude a doppia mandata il secolo dei Lumi celebrando la
conoscenza prelogica, intuitiva e poetica, le Veglie (Nachtwachen), uno dei
testi centrali del Romanticismo tedesco, uscito anonimo nel 1804, il primo a
statuire un rapporto di analogia fra notte e follia, e, soprattutto, le Idee sul
lato notturno delle scienze naturali (Ansichten von der Nachtseite der
Naturwissenschaft, 1805), di Gotthilf Heinrich Schubert, che ruotano
intorno a tutti quei fenomeni paranormali – dal sonnambulismo alla
telepatia – che svolgeranno un ruolo primario nella raccolta hoffmanniana.
Questo per quanto riguarda la notte. E per la seconda parte del composto,
lo “Stück”, come stanno le cose? Come già in occasione dei Fantasiestücke,
anche per la sua seconda raccolta Hoffmann si avvale appieno della
polisemia del termine, alludendo negli otto testi che compongono il libro
almeno a quattro significati: 1) pezzo musicale (vedi Il Sanctus e Il
maggiorasco), 2) quadro (vedi La chiesa dei gesuiti a G., La casa
desolata), 3) frammento (vedi almeno Il cuore di pietra, Il Sanctus), 4) testo
giornalistico/saggistico (non si parla forse anche in italiano di “pezzo”
giornalistico? Si vedano i tratti saggistici di un po’ tutti i Notturni, ma
soprattutto della Chiesa dei gesuiti a G. e della Casa desolata).

Enciclopedia notturna (I):


pitture di notte

Oltreché un testo di potente originalità, i Notturni si rivelano una sorta di


geniale riepilogo, di enciclopedia notturna, ipertesto che riassume le
caratteristiche salienti della (breve) storia del genere.
Senza dare eccessiva importanza all’intestazione del manoscritto della
prima stesura dell’Uomo della sabbia, che reca la dicitura «16 novembre
1815 notte ore una» – il racconto sarebbe stato dunque scritto di notte,
andrebbe considerato un testo “notturno” già in questo senso; questo dato,
apparentemente secondario, spalancherebbe in realtà tutta una serie di
suggestioni maudits: la dimensione notturna come sfera della scrittura in
opposizione alla dimensione borghese diurna –, si potrebbe partire
semplicemente da uno spoglio statistico delle scene notturne presenti nelle
otto novelle. Nelle quattro novelle del primo volume di notte avvengono
accadimenti di centrale importanza nell’economia della narrazione: la
scoperta del fantomatico «Sandmann», nonché la morte violenta del padre
di Nathanael nell’Uomo della sabbia, la prima comparsa di Denner,
l’assalto alla casa del fittavolo e almeno una delle inquietanti performance
di Trabacchio nella sequenza napoletana in Ignaz Denner, il fondamentale
colloquio fra Berthold e il narratore nella Chiesa dei gesuiti a G., l’incendio
degli accampamenti nella storia moresca raccontata dal viaggiatore
entusiasta nel Sanctus. Passando a quelle del secondo volume, basterà
ricordare l’irruzione notturna nell’abitazione di Unter den Linden da parte
di Theodor nella Casa desolata, larghissime parti del Maggiorasco, il parto
di Cölestine, con il disvelamento della maschera di morte nel Voto. L’unica
novella in cui non sono presenti scene notturne è Il cuore di pietra, ciò che
appare perfettamente in linea con la funzione che quest’ultimo testo riveste
nel quadro dell’intero volume. Fra le sequenze indicate ve ne sono poi
almeno quattro che corrispondono letteralmente all’accezione vasariana di
pittura di notte, ossia di scena notturna, rischiarata in parte da una fonte di
luce artificiale: l’identità fra l’uomo della sabbia e Coppelius viene scoperta
tramite una sorta di riflettore puntato sulla faccia dell’avvocato; l’assalto
alla casa del fittavolo: all’oscurità in cui si muovono i briganti fa seguito
l’improvvisa irruzione dei cacciatori di von Vach armati di torce, ciò che
permette materialmente al protagonista Andres di compiere la sua azione
più “notturna” ossia di scorgere Denner in pericolo e poi di salvarlo; nel
Sanctus sono le fiamme che illuminano la notte. Addirittura didascalica è
infine l’importantissima scena notturna della Chiesa dei gesuiti a G., una
delle chiavi per capire l’intera raccolta, dove è una fiaccola, la fonte di luce
privilegiata nei quadri di notte (basti pensare, per esempio, alla Notte di
Correggio che Hoffmann vide e ammirò già negli anni Novanta a Dresda), a
rischiarare il trompe-l’œil creato da Berthold.

Enciclopedia notturna (II):


malattia e intertesti

Non è certo la citazione da parte di Hoffmann di exempla pittorici che pur


correttamente e filologicamente rimandano all’origine del genere il motivo
per cui i Notturni sono a tutt’oggi una delle opere più significative del
(tardo) romanticismo tedesco. La ragione è un’altra: siamo in presenza di
un testo di finzione – che non ha davvero eguali nella letteratura coeva –
capace di negoziare una significativa quantità di discorsi circolanti
nell’epoca immediatamente precedente alla sua stesura, discorsi scientifici e
discorsi estetici, soprattutto. Per adesso soffermiamoci su quelli scientifici,
perché anch’essi hanno a che vedere con il complesso “notte”, sia pure,
ovviamente, nella sua accezione traslata.
Si diceva poco fa di Gotthilf Heinrich Schubert. Hoffmann conosce a
menadito le Idee sul lato notturno delle scienze naturali e anche la
Symbolik des Traums (Simbologia del sogno) del 1814, e nei Notturni
provvede spesso talora direttamente talora indirettamente a citarli. Ma
Hoffmann conosce e cita anche studiosi leggermente meno noti come
Heinrich Nudow, Adolph Bartels, Carl Alexander Friedrich Kluge, tutti
autori di opere scientifiche o di divulgazione scientifica che trattano aspetti
all’epoca dibattutissimi come la chiaroveggenza, il sonnambulismo e il
magnetismo animale, ossia fenomeni volti a statuire una relazione
energetico-dialettica diretta fra micro e macrocosmo, fra natura e psiche, fra
anima e corpo. Hoffmann cita tutti costoro ma al contempo va oltre, poiché,
se la teoria del primo romanticismo postulava ancora l’esistenza di una
sorta di stato primigenio in cui le tensioni fra queste polarità si placavano in
una dimensione utopica – fosse essa una presunta età dell’oro oppure
l’infanzia – il romanticismo tardo si rivela assai più scettico circa
l’individuazione di tale dimensione utopica e ben più attento agli aspetti,
appunto, notturni della psiche che sanciscono la fragilità e la vulnerabilità
dell’io dominato da forze irrazionali e inconsce, sicuramente non più
gestibili e guaribili dalla medicina degli umori, dei flussi e dei gangli
praticata ancora sul finire del Settecento, ma probabilmente nemmeno dagli
adepti di Mesmer & co. È di fatto l’inizio della psicosomatica – di cui i
Notturni forniscono abbondante documentazione. Il nume tutelare di questa
svolta epocale è Johann Christian Reil, l’inventore della psichiatria nonché
autore delle Rhapsodien über die Anwendung der psychischen
Churmethode auf die Geisteszerrüttungen, uscite nel 1803. Hoffmann vi
allude reiteratamente e nella Casa desolata lo cita direttamente. Come –
giusto per fare altri esempi – Schnitzler che cita/elabora Freud o Musil che
cita/elabora Mach.
Non si deve credere tuttavia che i testi di Hoffmann siano solo delle mere
applicazioni di teorie scientifiche, narrativizzazione meccanica di discorsi
circolanti. I testi scientifici, allusi o citati, rappresentano una base discorsiva
su cui Hoffmann innesta racconti avvincenti pieni di ipotesi, riflessioni,
dubbi e avvalendosi appieno delle potenzialità di suggestione presso il
pubblico dei lettori, abbondantemente rodati da tanta letteratura
d’intrattenimento dell’epoca, se ne serve per ottenere ciò che più gli
interessa, ossia presentare eventi e situazioni in contraddizione fra loro o
comunque non necessariamente riconducibili a un’univoca spiegazione
razionale, produrre cioè in chi legge un’esitazione sul senso ultimo di ciò
che ha di fronte, quell’esitazione che, secondo Todorov, costituisce in fondo
il principio fondamentale della letteratura fantastica. La rappresentazione
della sfera notturna e della malattia va infatti di pari passo con la costante
ricerca da parte di Hoffmann di effetti di straniamento poliprospettici: nella
Casa desolata gli amici non tralasciano neanche un’occasione di prendersi
gioco di Theodor, dandogli del visionario per quella sua mania di andare
sempre a caccia di misteri e di segrete connessioni, Clara, nell’Uomo della
sabbia, non esita a definire le visioni di Nathanael come fantasmi del suo
io. Il lettore non sa mai a chi dar ragione: Theodor, Nathanael oppure il
viaggiatore entusiasta, che ritroviamo in almeno due racconti, sono davvero
dei visionari, pazzi? Oppure sono i loro contraddittori a essere ottusi e
inguaribili filistei? Coppelius e Coppola sono la stessa persona oppure no?
Siamo solo ancora nella sfera del bizzarro, dello strano oppure siamo già
abbondantemente nella sfera del fantastico, per riprendere la fondamentale
distinzione poetologica fra “wunderlich” e “wunderbar” con cui si apre La
casa desolata? A Hoffmann non interessa una risposta definitiva a un
quesito del genere; certo, un seppur lieve intento polemico nei confronti
della dilagante mania del soprannaturale c’è senz’altro – e a Berlino le
teorie sul magnetismo animale, ad esempio, contavano più adepti che
altrove – ma, come si è detto, ciò che più gli preme è sfruttare questo
campionario di argomenti per produrre incertezza e per produrre suspense.
Come detto, Reil viene citato esplicitamente nella Casa desolata, quando
Theodor, imbattendosi casualmente nella sua opera principale e leggendo il
capitolo dedicato alle idee fisse capisce di aver imboccato una brutta china
e decide di andare dal medico a farsi curare. Ciò che in fin dei conti salva il
Theodor della Casa desolata dal fare la stessa sciagurata fine di Nathanael
nell’Uomo della sabbia è appunto il fatto che Theodor si risolva per tempo
a mettersi nelle mani di uno “specialista” che lo cura. Gli esiti del
trattamento sono in fondo il racconto stesso, in prima persona, nel quale il
protagonista oggettiva la propria vicenda. Racconto come terapia; e la
medesima cosa accadrà nel Sanctus e in parte anche nel Cuore di pietra.
Nathanael al contrario non va dal medico, ricorre invece, e neppur
volontariamente, solo alla fidanzata Clara, alla quale con un atto mancato
invia quella lettera che avrebbe voluto mandare a Lothar. I presupposti da
cui parte Nathanael non sono molto dissimili da quelli di Theodor: le
paure/i traumi ancestrali (l’uomo della sabbia per Nathanael, lo specchio
che ruba l’immagine per Theodor), l’attrazione fatale per le “belle
senz’anima” (la bambola Olimpia, il quadro scambiato per un essere
vivente), la comune incapacità di “vedere” nonostante l’ausilio di strumenti
tecnici (cannocchiali e specchi). Ma, come si è detto, Nathanael non trova la
forza per mettersi in cura; ciò è in primo luogo dovuto al fatto che egli, a
differenza di Theodor, è un artista – o crede di esserlo – e spererebbe di
trovare attraverso l’arte quella salvezza che Theodor trova con l’aiuto del
dottor K. Ma di questo fra un attimo.
Di medici, nei Notturni, ne incontriamo alcuni e ciascuno di loro è presto o
tardi costretto ad ammettere di trovarsi di fronte a pazienti affetti in primo
luogo da guai psichici. Non che questa consapevolezza si riveli sempre di
grande ausilio, anzi i dottori del Voto e del Sanctus, per esempio, mostrano
di non saper andare al di là di questa scoperta. Questi medici, che si
occupano ancora di umori, di flussi e di gangli, non sanno proprio venire a
capo dei loro pazienti i quali evidentemente presentano patologie troppo
complesse per essere trattate con gli strumenti a loro disposizione. Patologie
troppo complesse sul piano sintomatico, troppo complesse sul piano
eziologico, anche se i traumi (infantili) dei protagonisti traggono in larga
parte origine da costellazioni familiari, sistemiche in linea con le – allora –
piuttosto recenti acquisizioni della psicologia sperimentale.

Arte e altri intertesti

Oltre ai medici vi è un’altra categoria professionale piuttosto presente nel


personale dei Notturni: gli artisti appunto. Nell’ordine: un aspirante
scrittore (Nathanael nell’Uomo della sabbia), un pittore (Berthold nella
Chiesa dei gesuiti a G.), una cantante (Bettina nel Sanctus), un flâneur che
scrive (Theodor nella Casa desolata), un pianista dilettante (Theodor nel
Maggiorasco), cui va aggiunto il viaggiatore entusiasta, dilettante e
nevrotico consumatore di sensazioni, presenzialista, figura della modernità
che incontriamo nella Chiesa dei gesuiti a G. e nel Sanctus, che Hoffmann
ripropone dai Pezzi fantastici. E almeno un paio di narratori molto esposti
sul piano poetologico, quello dell’Uomo della sabbia e quello del Cuore di
pietra. Per concludere, visto che siamo a parlare di arte, resta da
menzionare la figura del maltese, da cui Berthold, durante il soggiorno
italiano, si sente raccontare quali caratteristiche dovrebbe possedere un vero
artista. Solo in due racconti invece – Ignaz Denner, Il voto, – niente artisti,
niente dilettanti, niente teorici di estetica, niente narratori facondi.
Se la malattia è il grande tema, forse l’unico grande tema che riguarda
davvero tutti i Notturni, l’altro grande complesso intorno a cui ruota la
raccolta è infatti l’arte. Fughiamo fin da subito ogni dubbio circa il fatto che
le due cose siano fra loro intimamente legate: la malattia come
potenziamento, come condizione per essere artisti, mentre chi è sano è
fondamentalmente stupido e filisteo, insomma la vulgata thomasmanniana?
No, non è affatto così. A Hoffmann questa analogia, questa omologia non
interessa proprio, diciamo che, quanto meno, all’altezza dei Notturni non gli
interessa. Se proprio vogliamo mettere Hoffmann in relazione a Thomas
Mann bisognerebbe semmai interrogarsi sulla dialettica artista/dilettante al
centro dei primissimi racconti dello scrittore di Lubecca. Perché nei
Notturni anche di questo si tratta.
Prendiamo ad esempio Nathanael, il protagonista dell’Uomo della sabbia.
Iscritto a Scienze naturali all’università di Gottinga, dove insegna l’insigne
Spalanzani, esperto di genetica e di automi, il giovanotto scrive. I
riferimenti a sue opere, all’interno dell’Uomo della sabbia, sono due. Il
primo riguarda quella composizione a cui egli lavora nel corso del suo
primo nostos nella quale cerca a suo modo di elaborare le esperienze
traumatiche dell’infanzia, nonché la loro recente riattualizzazione provocata
dall’incontro con Giuseppe Coppola. A giudicare dalle reazioni di Clara, il
testo di Nathanael, scritto peraltro faticosamente in versi, è di una noia
mortale. E se poi si tiene conto che lo scopo di quella composizione è
eminentemente terapeutico, salta agli occhi (!) il fatto che Nathanael non
riesca minimamente nell’intento di liberarsi tramite la scrittura dalle proprie
ossessioni. Al contrario, egli ne diviene sempre più prigioniero, fino
addirittura a prefigurare la sua fine sventurata.
L’altro riferimento all’“artista” Nathanael è successivo all’incontro con
Olimpia, là dove si dice che: «Dal fondo nascosto dello scrittoio Nathanael
tirò fuori tutto quanto avesse mai scritto, poesie, fantasie, visioni, romanzi,
racconti, e ogni giorno a tutto ciò si aggiungeva ogni sorta di cose
improvvisate: sonetti, stanze, canzoni, e senza mai stancarsi egli leggeva a
Olimpia tutte queste cose una dopo l’altra, per ore e ore». Veniamo dunque
a sapere che l’incontro con Olimpia, la musa muta e meccanica, nei cui
occhi egli ritrova tutto il proprio io conoscendo la più alta forma di
narcisistico appagamento, ha enormemente aumentato in lui la
consapevolezza dei propri presunti mezzi artistici, dandogli il coraggio non
solo di recuperare i “fondi di magazzino” ma inducendolo addirittura a
mettersi alla prova nell’arte dell’improvvisazione. Eppure, neanche questa
sorta di definitiva e fiera (auto-)consacrazione come artista serve a granché:
Nathanael finirà per soccombere alle proprie ossessioni. La ragione di
questo fallimento non viene detta esplicitamente, ma appare evidente: la
presunta arte di Nathanael è troppo solipsistica, troppo irrimediabilmente
prigioniera del proprio autismo per riuscire ad avere funzione salvifica.
Attraverso l’exemplum negativo del sedicente artista Nathanael – il cui
linguaggio è infarcito di echi novalisiani, vedi sotto – Hoffmann riesce a
illustrare i rischi non solo di un’arte sostanzialmente autoreferenziale, ma
anche quelli di un’arte che, traendo la propria ispirazione, quasi la propria
legittimazione, soltanto da un congegno meccanico, può finire essa stessa
per diventare produzione meccanica, seriale.
La genialità di Hoffmann consiste nell’aver compreso che le due questioni
sono in strettissima connessione fra loro: un’arte autoreferenziale, un’arte
che non ambisca a farsi mediatrice fra le istanze dell’individuo e quelle del
mondo, rischia costantemente di ridursi a “costruire” splendidi, ben
funzionanti, ma disumani congegni. Insomma, un’arte che non è più arte ma
è pura tecnica.
Chi invece come il Theodor della Casa desolata non solo, lo si è già visto,
si mette in cura senza demandare all’arte alcuna funzione salvifica, ma
riesce a oggettivare tramite il racconto – si badi bene – orale, comunicativo,
performativo, i propri traumi, finisce per trovare una via d’uscita. Come la
trova Bettina, la cantante del Sanctus. Qui Hoffmann ritorna su un
argomento a lui caro fin dai tempi dei Pezzi fantastici, ossia la
mercificazione dell’arte, la prostituzione degli artisti, sottoposti a un
autentico sfruttamento dall’industria culturale, ciò che finisce per avere
effetti patologici, seppur – grazie appunto alla narrazione analogica
orchestrata dal viaggiatore entusiasta con il contrappunto musicale del
maestro di cappella – tutto sommato guaribili e reversibili.
Ma vediamo un altro caso, forse il più vistoso. Tormentato da continui e
laceranti dubbi sul proprio talento d’artista, Berthold, il protagonista della
Chiesa dei gesuiti a G. trova un primo riscontro alle proprie esitazioni,
imbattendosi in quel personaggio enigmatico che è il maltese, l’unico a
esprimere pesanti riserve sulla prima grande opera esposta da Berthold da
tutti ampiamente elogiata. In occasione del loro secondo e ultimo incontro,
il maltese dispiega con una certa verbosità il proprio credo estetico:

Cogliere la Natura in tutta la profondità di un senso superiore che accende ogni essere verso una
esistenza superiore: è questo il sacro fine di ogni arte. E la pura, esatta riproduzione della Natura
può forse condurvi? Che aspetto misero, rigido e goffo ha un manoscritto in una lingua straniera
riprodotto da chi non la conosca e pertanto non sappia decifrare il significato di quei segni che a
fatica ricalca con tanto di ghirigori. E allo stesso modo, i paesaggi del tuo maestro sono solo
corrette copie di un originale scritto in un’altra lingua. L’iniziato ascolta la voce della Natura che
con meravigliosi accenti gli parla dell’insondabile mistero attraverso gli alberi, i cespugli, i fiori,
i monti e le acque, generandogli nel petto religiosi presagi e poi, al pari dello spirito santo,
scenderà su di lui il dono di dare nelle sue opere forma visibile a quelle intuizioni. Contemplando
i panorami degli antichi maestri non hai provato, giovanotto, sensazioni meravigliose? Non ti
sarà certo venuto in mente che le foglie del tiglio, che i pini, i platani potevano essere più fedeli
alla Natura, e lo sfondo più vaporoso e l’acqua più limpida; ma lo spirito che promanava dal tutto
ti ha elevato in una sfera superiore, di cui hai creduto di poter rimirare il riverbero. Studia perciò
la Natura con attenzione e con zelo anche nei suoi aspetti meccanici per acquisire pratica nella
rappresentazione, ma la pratica non scambiarla per arte. Se sarai riuscito a penetrare il senso più
profondo della Natura, ti si riveleranno le sue immagini in tutto il loro alto e splendente fulgore.

Il lungo intervento del maltese consta di una pars construens e di una pars
destruens. La pars construens è concentrata dapprima nella vaga frase
iniziale e quindi sulla novalisiana, primo-romantica concezione di una
pratica artistica vissuta come iniziazione, come sonnambolica rivelazione di
un mondo superiore; la pars destruens è riassunta tutta nella frase: «Studia
perciò la Natura con attenzione e con zelo anche nei suoi aspetti meccanici
per acquisire pratica nella rappresentazione, ma la pratica non scambiarla
per arte». In seguito all’apparizione della donna celeste, scambiata come
messaggera di quel mondo superiore di cui gli aveva parlato il maltese,
Berthold crede dapprima di esser entrato nel ristretto novero degli iniziati,
di aver ricevuto in dono la grazia ma poi la comparsa in carne e ossa della
donna, la consapevolezza di non aver affatto dipinto un ideale, di non essere
ancora una volta riuscito ad affrancarsi dalla mimesi, di essere, secondo
l’espressione appena citata, ancora prigioniero della pratica, lo pone a
confronto col suo terribile scacco.
Le vicende del pittore Berthold illustrano alla perfezione anche tale
consapevolezza in tutte le sue conseguenze. La prima conseguenza è la
probabile eliminazione fisica della donna, di colei, la cui sola esistenza ha
prodotto in Berthold la consapevolezza di non aver saputo andare oltre la
semplice mimesi. La seconda è la decisione di abbandonare qualsivoglia
ambizione nei confronti della vera arte (con la scandalosa affermazione:
«L’ideale non è altro che un sogno infame e menzognero prodotto dal
sangue in fermento») e di volgersi alla pura tecnica, alla pratica, alla
celebrazione dell’ordo matematico, ossia all’esecuzione di trompe-l’œil. La
scrittura non salva Nathanael semplicemente perché è privo di talento e
decisamente malato; la pittura condanna Berthold non perché non abbia
talento ma perché è schiacciato dai modelli, da un super-io estetico
castrante. Che è con tutta evidenza quello del primo Romanticismo.
Anche qui – come nel caso della negoziazione dei discorsi scientifici e
psico-patologici – Hoffmann mostra tuttavia una straordinaria abilità nel
mettere a punto una serie di congegni narrativi altamente dialettici, nei
quali, al contempo, richiama, cita e archivia un orizzonte culturale ed
estetico di recentissima esplosione e legittimazione (da Goethe a Novalis,
da Wackenroder a Tieck, da Schiller a Kleist, solo volendosi limitare alla
letteratura, ma pur con qualche differenza discorsi analoghi si potrebbero
fare per le evidenze all’epoca circolanti nel campo musicale e delle arti
figurative) e attraverso 1) la relativizzazione in termini di prospettiva
narrativa nei confronti di chi è titolare all’interno dei singoli testi di tale
processo di archiviazione; e 2) l’interpolazione, l’interferenza, la
commistione con prodotti provenienti dal segmento basso del campo
letterario (best seller della letteratura d’intrattenimento, mode culturali,
pratiche folkloriche) producono continui effetti di straniamento che non si
possono non definire postmoderni.
Prospettive

Più di metà dei racconti presentano multiple voci narranti ovvero quelle che
i narratologi chiamano narrazioni meta-diegetiche: un narratore di primo
livello cede la parola a un narratore di secondo livello. Insomma i punti di
vista si frantumano e in tal modo – come già si diceva – cominciano a
traballare le evidenze fattuali. Accade nella Chiesa dei gesuiti a G., accade
nel Sanctus, accade nel Maggiorasco, in parte accade in Ignaz Denner.
L’esempio più vistoso resta ovviamente ancora una volta L’uomo della
sabbia. Qui il testo inizia in una modalità settecentesca che più
settecentesca non si può, ossia come romanzo epistolare (che L’uomo della
sabbia sia fra le moltissime altre cose anche una parodia delle Liaisons
dangereuses?), dopodiché ecco farsi avanti un narratore che spiega al lettore
le ragioni di quell’inizio, di quell’attacco: imbarazzo, incertezza, incapacità
di scegliere fra – almeno – tre diverse opzioni a sua disposizione: l’attacco
novellistico, l’attacco fiabesco, l’attacco mimetico. A seguire il narratore –
romantico, entusiasta, con alto gradiente intermediale (si serve
costantemente di metafore pittoriche) – confessa che gli strumenti a sua
disposizione per il racconto e per la restituzione del presunto dato fattuale
sono alquanto limitati e mediati. E lo dice con una allocuzione al lettore fra
le più gnomiche dell’intera raccolta: «E allora, o mio lettore, ti convincerai
che non vi è niente di più strano e di più folle della vita reale e che il poeta
in fondo può solo limitarsi a coglierla, come nell’oscuro riflesso di uno
specchio opaco». Ben quattro limitazioni alla mimesi, due aggettivi e due
sostantivi: oscuro, riflesso, specchio, opaco, ciò che, come detto, produce
esitazione sullo statuto ontologico del reale, sulla fattualità di quanto
raccontato. Un’esitazione che, nell’opera di Hoffmann, permarrà fino in
fondo, anche quando l’autore sembrerà avvicinarsi a modalità percettive
definibili come protorealiste, secondo la vulgata storicistica che vede il
tardo Hoffmann come figura di raccordo con l’Ottocento del realismo
borghese.
La questione dello statuto fattuale del reale è tanto più centrale in quanto
Hoffmann innesta su di essa, in almeno tre racconti (di nuovo nell’Uomo
della sabbia, nella Casa desolata e nel Maggiorasco), un altro interrogativo
fondamentale, quello sui dispositivi tecnologici (soprattutto) della visione in
qualità di potenziali strumenti di certificazione e potenziamento della
percezione. Ebbene ogniqualvolta intervengono tali strumenti tecnologici
(cannocchiali, binocoli, telescopi ecc. ma anche specchi) il risultato
ottenuto va nella direzione diametralmente opposta: le illusioni percettive,
anziché diminuire, aumentano, la realtà – o quel che di essa sembrerebbe
trasparire – risulta, se possibile, ancor più distorta. E più in generale: la
tecnologia non aiuta a meglio decifrare il mondo, a cambiarlo. Polemica,
quella hoffmanniana, che giunge al termine del secolo dei Lumi, pervaso da
una dilagante fiducia nella ragione e nei prodotti tecnologici della ragione e
della scienza, adesso tramutatesi in veicolo di follia, in strumento di
sopraffazione. Dialettica dell’Illuminismo avant la lettre.
I Notturni sono dunque un testo soglia. Soglia fra letteratura alta e
letteratura bassa, soglia fra almeno tre media diversi: letteratura, musica,
arti figurative. Soglia fra discorsi e generi settecenteschi – in ordine sparso:
la scienza sperimentale e la cultura epistolare, il romanzo dei briganti, il
Gartendiskurs, gli istituti giuridici e l’antropologia – e nuovi discorsi e
generi della modernità: la psichiatria, la pittura nazarena, la nascente
industria culturale e la società dello spettacolo, la scrittura romantica
frammentaria, poliprospettica e postmoderna, nuove dinamiche relazionali
fra i sessi, la famiglia come bacino di coltura di traumi e patologie.

Wert-Vakuum

Scorrendo i plot dei Notturni e tenendo conto di quanto detto fin qui non c’è
davvero da stare allegri. Siamo di fronte a un ampio campionario di
individui minati. L’arte? Semmai solo in tenue funzione terapeutica, l’arte
come strumento privilegiato per accedere all’Assoluto, l’utopia del primo
Romanticismo e in fondo ancora del primo Hoffmann (si pensi al Cavaliere
Gluck, al Don Giovanni, al Vaso d’oro) sembra proprio non esistere più.
L’amore, altro paradigma romantico per accedere all’Assoluto? Meglio
lasciar perdere, anche senza scomodare i riti magico-satanici di Ignaz
Denner, si vedano le relazioni d’amore ne L’uomo della sabbia, La Chiesa
dei gesuiti a G., La casa desolata, Il voto e Il cuore di pietra. La Natura?
Non pervenuta. La scienza e la tecnologia? Manipolazione e inganno.
L’Italia, altro mito della Goethezeit? È solo il Paese d’origine di ciarlatani e
delinquenti (Coppola, Trabacchio e il venditore di specchietti nella Casa
desolata), oltreché luogo del definitivo scacco del pittore maudit. Ideali
civili e politici? Nessuno all’orizzonte: più che per combattere in nome di
una qualche idea di libertà, chi per esempio va in guerra – e guerra nei
Notturni e non solo nei Notturni significa guerra contro Napoleone – ci va
solo per andar a trovare la bella morte (nella Casa desolata, nel
Maggiorasco, nel Voto) – e Andres, il perfetto suddito tedesco,
coprotagonista di Ignaz Denner, sa solo servire i suoi padroni. Insomma i
Notturni configurano un autentico Wert-Vakuum, un vuoto di valori, come
avrebbe detto Hermann Broch. D’altronde una campionatura di alcune
espressioni chiave cui danno vita protagonisti e narratori non fa che
confermare questa impressione: un «eterno e tremendo tormento» definisce
la vita il pittore Berthold paragonandosi a Prometeo, sentendosi condannato
a patire i «tormenti della Terra»; di Reutlinger, il protagonista del Cuore di
Pietra, il narratore parla come di un «animo profondo ma straziato da una
ferita mortale». Uno è stato marchiato a fuoco dall’arte, l’altro dall’amore.
Unico possibile bene rifugio in questa waste land valoriale è forse solo
l’ironia, non da intendersi come categoria di poetica trascendentale nel
senso schlegeliano, ma come paradosso, relativizzazione di ogni univocità,
anche di tutta l’univocità negativa, del vuoto. Nei Notturni l’ironia è un
basso continuo, unica possibile salvezza.

Ottica doppia

Lo stile dei Notturni non gode, come suol dirsi, di buona stampa; costanti e
insistiti sono stati i rimproveri da parte della critica di sciatteria, di
convenzionalità, addirittura di vera e propria stereotipia. Quando si è
trattato di spiegarsene le ragioni, si è ricorsi a considerazioni qua e là
senz’altro vere – troppa contiguità dell’autore con la Trivialliteratur, ritmi
produttivi da catena di montaggio, i quali impedivano un approfondito
lavoro di revisione – ma forse un po’ troppo a buon mercato e assai poco
differenziate: L’uomo della sabbia, per esempio, è sul piano stilistico
un’opera di rara accuratezza, la capacità di ammiccare in modo esplicito
oppure criptico praticamente all’intera cultura occidentale non può che
suscitare ammirazione. Non solo: i pochi studiosi che si sono occupati dello
stile di Hoffmann non sono andati al di là di un arido regesto dei sintagmi
da lui abusati. In realtà la tanto vituperata stereotipia della lingua
hoffmanniana si palesa, per così dire, a chiazze. Non la troviamo, per
esempio, nelle sequenze mimetiche; Hoffmann possiede anzi una grande
abilità nel differenziare i registri del parlato, non la troviamo nella estrema
cura degli idioletti e dei linguaggi tecnici (musicali, giuridici). La troviamo
invece – e in una misura che non può non insospettirci – in tutte le sequenze
notturne, quelle in cui i personaggi vengono posti a confronto con il lato
oscuro della propria esistenza o di quella altrui. Incontreremo allora, per
fare qualche esempio, verbi come zittern, beben oppure erbeben
(«tremare», «fremere»), erstarren («farsi di pietra», «impietrire»), tutto il
lessico legato alla paura, ossia i sostantivi Angst («paura»), Schrecken
(«orrore»), Grauen / Grausen («terrore») e i relativi aggettivi (schrecklich,
schreckhaft, furchterlich, grausam, grauenvoll, grausig ecc.); o ancora altri
sintagmi fissi, associati alle manifestazioni della paura, per esempio, le
«eisige Krallen» o le «feurige Krallen» (le «grinfie di gelo», le «grinfie di
fuoco»), per giungere al «mir wurde unheimlich zu Mute» («provai una
sensazione sinistra») che tanto interessò Freud.
Questo campionario di sintagmi fissi non è affatto rivelatore di
un’inguaribile sciatteria, esso ha piuttosto la funzione di fornire al lettore
una rete di “asterischi” che, obbedendo (ben prima di Wagner e Thomas
Mann) a una vera e propria Leitmotivtechnik intertestuale, segnalano in
modo rapido e inequivocabile l’irruzione nella narrazione dell’inquietante
universo notturno. Tale stratagemma è il frutto della consapevolezza da
parte di Hoffmann che lo horror vacui metafisico, estetico, politico da cui
nascono le sue novelle può essere veicolato a un pubblico avido e distratto
solamente o comunque in primo luogo tramite un effetto horror. Chi poi non
sarà solo interessato a questa ritualizzazione del brivido, chi non sarà
completamente assuefatto agli effetti shock, potrà cominciare a scrostare,
penetrando dentro la sotterranea poetica di queste novelle, la superficie
terrifica e gettare uno sguardo verso il vacuum. Con i Notturni Hoffmann
mostra così di perseguire, come si diceva all’inizio, quella che Nietzsche in
riferimento a Wagner chiamò un’«ottica doppia», riesce cioè a soddisfare
sia le richieste non troppo esigenti del grande pubblico che quelle di chi
cerca nella letteratura qualcosa in più del puro svago.
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Edizioni delle opere

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Einleitungen, Anmerkungen und Lesarten von Carl Georg von Maassen,
voll. 1-4, 6-10, Georg Müller, München-Leipzig 1908-1928.

Hoffmann, E.T.A., Werke in 15 Teilen, a cura di Georg Ellinger, Bong,


Berlin-Leipzig 1912, 19282.

Hoffmann, E.T.A., Werke [in 5 volumi senza numeri progressivi e


indicazione dei curatori, con postfazioni di Walter Müller-Seidel e Friedrich
Schnapp, note a cura di Wolfgang Kron, Wulf Segebrecht e Friedrich
Schnapp], Winkler, München 1960-1965. Il volume 5 (suddiviso in 2 tomi),
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Cometa, Michele, Descrizione e desiderio. I quadri viventi di E.T.A.


Hoffmann, Meltemi, Roma 2005.

Cometa, Michele; Montandon, Alain, Vedere. Lo sguardo di E.T.A.


Hoffmann, duepunti, Palermo 2009.

Crescenzi, Luca, Il vortice furioso del tempo. E.T.A. Hoffmann e la crisi


dell’utopia romantica, De Rubeis, Anzio 1992.

Galli, Matteo, L’officina segreta delle idee. E.T.A. Hoffmann e il suo tempo,
Le Lettere, Firenze 1999.
Magris, Claudio, L’altra ragione. Tre saggi su Hoffmann, Stampatori,
Torino 1978.

Maletta, Rosalba, Der Sandmann di E.T.A. Hoffmann. Per una lettura


psicanalitica, Cuem, Milano 2003.
Tecchi, Bonaventura, Le fiabe di Hoffmann, Sansoni, Firenze 1962.

Nota sulle edizioni italiane

Le linee della vicenda editoriale italiana dell’opera di Hoffmann si


disperdono in rivoli innumerevoli di pubblicazioni d’ogni sorta, non sempre
affidabili filologicamente. Si è preferito non avventurarsi nei meandri delle
più di settanta sigle editoriali che annoverano Hoffmann nel loro catalogo
(il più delle volte con singoli racconti estrapolati arbitrariamente dalle
raccolte). Tra tutte, si segnala almeno l’edizione più sistematica, in tre
volumi, del 1969: E.T.A. Hoffmann, Romanzi e racconti, a cura di Carlo
Pinelli, prefazione di Claudio Magris, traduzioni di Carlo Pinelli, Alberto
Spaini e Giorgio Vigolo, Einaudi, Torino 1969. La presente traduzione dei
Notturni è stata condotta sul terzo volume dell’edizione Nachtstücke. Klein
Zaches. Prinzessin Brambilla. Werke 1816-1820, pubblicata dal Deutscher
Klassiker Verlag, volume a cura di Hartmut Steinecke con la collaborazione
di Gerhard Allroggen. Il terzo volume, che ha inaugurato l’edizione poi
conclusasi nel 2004, è uscito nel 1985. Il testo dei Nachtstücke,
comprendente le pp. 9-345, è curato personalmente da Hartmut Steinecke,
l’editore principale, responsabile anche del relativo apparato (pp. 943-
1037).
E.T.A.pedia
24 voci

Queste ventiquattro voci possono essere intese come un possibile filtro


all’opera di Hoffmann, una soglia sulla quale indugiare prima di
addentrarsi nella lettura o cui tornare durante e dopo il piacere del testo. Si
intende così inserire un elemento di novità nella preparazione degli
apparati critici dell’opera omnia di un classico riconosciuto della
letteratura di ogni tempo.

Affiancate al denso saggio introduttivo, alla ricca messe di note al testo,


alla cronologia della vita e delle opere, alla bibliografia e alla sezione
iconografica, queste voci si prestano a una consultazione rizomatica e
umorale, vicina alle modalità attuali di reperimento della conoscenza cui
ricorriamo grazie ai supporti telematici. Un numero di voci corposo ma
circoscritto a un ambito sempre pertinente concede di limitare la
disorganicità della consultazione senza togliere il gusto della deriva
intellettuale e della flânerie conoscitiva.

La presenza di una specifica voce «Hoffmann» esplicita l’intenzione di


offrire una struttura “a frattale” in cui il particolare rifletta il profilo
universale di una forma. Sarà possibile così conoscere l’autore su tre
distinti livelli: con le poche righe da enciclopedia tascabile della voce a lui
dedicata, leggendo il presente libro comprensivo dei suoi apparati critici e,
infine, attraversando per intero i volumi dell’Hoffmanniana, l'edizione delle
opere complete di E.T.A. Hoffmann a cura delL’orma.

Automi/bambole. Il Settecento è stato il secolo del materialismo


meccanicista di Julien Offray de La Mettrie (L’homme machine, 1747), il
secolo di Pierre-Jaquet Droz (1721-1790), di Wolfgang von Kempelen
(1734-1804), di Jacques de Vaucanson (1709-1782), costruttori di automi,
come il Turco, la Pianista, il Giocatore di scacchi. Ed è stato anche il
secolo dedicato ad approfondite ricerche sulla fecondazione artificiale, fra
gli altri da parte di Lazzaro Spallanzani (1729-1799). Hoffmann è
profondamente attratto da entrambi questi discorsi circolanti nella cultura
europea. E li combina nella sua opera interpolandoli con una originale
raffigurazione delle dinamiche narcisiste e proiettive di creazione/possesso
da parte del soggetto maschile: l’uomo/artista crea e anima il soggetto
femminile, reificato e meccanico, come nei casi di Nathanael/Olimpia
nell’Uomo della sabbia, Berthold/Angiola nella Chiesa dei gesuiti a G.,
Theodor e il quadro nella Casa desolata.

Berlino, capitale del regno di Prussia dal 1701, a cavallo tra il XVIII e il
XIX secolo fu il cuore propulsore del rinnovamento della cultura
germanofona e quindi culla dell’ultima fase del Romanticismo tedesco.
Hoffmann vi soggiornò per due brevi periodi tra il 1798 e il 1808, quando
ancora doveva trovare la propria realizzazione artistica e umana. Vi si
trasferì poi nel 1814 e vi visse fino alla morte, in una città pervasa dal clima
inquisitorio della Restaurazione dove tuttavia pubblicò le sue opere
letterarie, acquistò fama e qualche ricchezza e si affermò tra i protagonisti
dell’ambiente culturale insieme a Fouqué, Chamisso, Tieck, Brentano e
Eichendorff. Nell’ambito della carriera forense, fu a Berlino che raggiunse
il grado di giudice, contraddistinguendosi per «fredda pacatezza» e
«serietà» proprio negli anni in cui, artisticamente, erompeva con la sua
diabolica e profanante fantasia.

Callot. Jacques Callot, incisore francese nato a Nancy nel 1592 e morto
nella stessa città nel 1635. Dopo i primi anni di apprendistato a Roma, nel
1612 si trasferì a Firenze dove soggiornò per nove anni sotto la protezione
di Cristina di Lorena. Qui, presso l’incisore Giulio Parigi incise nel 1616
circa le Tentazioni di sant’Antonio, nel 1617 la serie dei Capricci, ispirata al
teatro, al costume popolare e al carnevale, infine nel 1620 la Fiera
dell’Impruneta. A Firenze sperimentò la tecnica dell’acquaforte che diverrà
una delle sue modalità espressive preferite. Le sue incisioni evidenziarono
un linguaggio artistico personale, a metà strada tra il galante e il grottesco,
non privo di un certo crudo realismo. Tra le sue opere più note figurano le
diciotto tavole in acquaforte intitolate Le miserie della guerra, un ciclo che
illustra con raffinata brutalità episodi della Guerra dei trent’anni.
Ispirandosi al suo gusto compositivo Hoffmann scrisse i racconti dei Pezzi
fantastici alla maniera di Callot (1814), dominati dalla figura del
fantomatico personaggio Johannes Kreisler.
Coppelius è il nome (o meglio, lo pseudonimo) di un avvocato amico dei
genitori di Nathanael, il protagonista dell’Uomo della sabbia di Hoffmann.
Dai tratti grotteschi e diabolici, deformi e ripugnanti, secondo una
connotazione negativa che molto deve alla scienza fisiognomica
settecentesca, sempre vestito di grigio (come il diavolo del Peter Schlemihl
di Chamisso), è in lui che Nathanael proietta le sembianze dell’uomo della
sabbia che funesta la sua infanzia, con i suoi passi lenti e pesanti e la
costante minaccia di cavargli gli occhi e portarli alla sua nidiata di civette
sulla mezza luna se la sera si rifiuta di andare a letto. Figura che appare e
scompare come uno spettro nella vicenda del protagonista, questi, ormai
adulto, si convincerà di rincontrarlo nella città di G. nei panni di Giuseppe
Coppola, un ottico piemontese, venditore ambulante di barometri e
cannocchiali.

Dresda, posta sul fiume Elba, è l’attuale capitale del Land della Sassonia.
Importante centro culturale e artistico fin dal Settecento, è anche una delle
principali città manifatturiere tedesche. Hoffmann vi si recò per la prima
volta nel 1798, quando visitò la Gemäldegalerie Alte Meister, rimanendo
folgorato dalle sale italiane, dove tra gli altri dipinti poté ammirare la
Madonna Sistina di Raffaello. Tornò a viverci tra il 1813 e il 1814. Nel
frattempo la città era stata teatro delle guerre napoleoniche e l’imperatore
francese vi aveva stabilito il suo quartier generale dopo la disastrosa
campagna di Russia. Hoffmann vi pubblicò articoli e vignette satiriche
antifrancesi e ambientò qui la sua fiaba più nota, Il vaso d’oro.

Famiglia/infanzia. Al termine del secolo che ha decretato l’esemplarità


della famiglia borghese, della sfera intima come luogo di protezione
emotiva e affettiva in opposizione alla dispersione e all’anaffettività del
mondo aristocratico e militare, al termine del secolo che ha partorito
Pestalozzi e Rousseau, negli anni in cui l’infanzia è vista come luogo di
purezza originaria e di utopia, Hoffmann assume una posizione largamente
eccentrica, descrivendo la famiglia come origine e sedimento di traumi e
patologie, di ossessioni e nevrosi, che non a caso inviteranno a più riprese
gli interpreti a un approccio psicoanalitico ai suoi testi. Nei Notturni la
patologizzazione del sistema famiglia si riscontra in quasi tutte le novelle.
Hippel. Theodor Gottlieb Hippel (poi, a partire dal 1790, von Hippel),
uomo di Stato prussiano nato a Gerdauen, a est di Königsberg, nel 1775 e
morto a Bydgoszcz (in tedesco Bromberg) nel 1843. Nel 1786, in una casa
di campagna ad Arnau, vicino Königsberg, fa la conoscenza di Hoffmann,
con il quale stringe subito un’amicizia destinata a durare. I due ragazzini
studiano nella stessa scuola e, in seguito, abbracceranno entrambi la carriera
di giuristi. Hippel, che grazie alla sua estrazione nobile fa rapidamente
carriera, aiuterà l’amico in più di un’occasione a uscire da situazioni di
difficoltà, fino a contribuire in maniera cruciale a fargli ottenere un posto
come giudice a Berlino. Hoffmann amava rappresentare se stesso e l’amico
nei panni di Castore e Polluce. Durante lo scandalo sollevato dal racconto di
Hoffmann Mastro Pulce del 1822 Hippel tentò di sfruttare la propria
influenza per difenderlo. Questa lunga fedeltà amicale è testimoniata dalla
presenza di Hippel al capezzale di Hoffmann.

Hitzig. Julius Eduard Hitzig (nato come Isaac Elias Itzig), scrittore, giurista
e editore prussiano nato a Berlino nel 1780 e morto nella stessa città nel
1849. Appartenente alla ricca e influente famiglia ebraica degli Itzig, nel
1799 si convertì al cristianesimo e germanizzò il suo nome (e fu per questo
satireggiato da Heine); nel 1808 fondò una casa editrice e, in seguito,
un’importante libreria berlinese; membro della corte suprema di Berlino a
partire dal 1815, ne diventò in seguito il presidente. Frequentatore del
salotto di Rahel Varnhagen, cofondatore di varie società letterarie tra cui la
Neue Mittwochsgesellschaft (Nuova società del mercoledì) fu molto amico
di Hoffmann (oltre che di August von Kotzebue, Adelbert von Chamisso,
Friedrich de la Motte Fouqué e Willibald Alexis), di cui diventò anche il
primo biografo pubblicando nel 1823, l’anno dopo la scomparsa dello
scrittore, due volumi dal titolo Aus Hoffmanns Leben und Nachlass.

Hoffmann. Ernst Theodor Wilhelm Hoffmann, scrittore, musicista,


disegnatore e giurista tedesco nato a Königsberg il 24 gennaio 1776 e morto
a Berlino il 25 giugno 1822. In onore di Mozart, nel 1813 cambierà il terzo
nome di battesimo in Amadeus, firmandosi da allora E.T.A. Hoffmann.
Parallelamente alla travagliata carriera di avvocato statale in seno al regno
di Prussia e a quella di Kapellmeister e poi di direttore teatrale (oltre che di
accanito bevitore), fu solo nel 1809 che iniziò il suo percorso di scrittore
con il racconto Il cavaliere Gluck, esordendo quindi piuttosto tardi in
un’epoca letteraria dominata invece da folgoranti opere prime giovanili. Tra
i principali esponenti del Romanticismo tedesco, nei suoi scritti creò una
realtà sempre in dialogo con il soprannaturale, un immaginario notturno
dalle tinte inquietanti e grottesche che sonda gli abissi della natura umana.
Considerato tra i padri fondatori della letteratura fantastica moderna,
influenzerà autori quali Poe, Dostoevskij, Baudelaire e Gogol’. Da un suo
racconto Čajkovskij trarrà il balletto Lo schiaccianoci, mentre Freud si
baserà sul suo Uomo della sabbia per illustrare il concetto di “perturbante”.

Kleist. Bernd Heinrich Wilhelm von Kleist (Francoforte sull’Oder, 1777 -


Berlino, 1811), drammaturgo, poeta e scrittore tedesco, vicino al coevo
movimento romantico. Discendente di una famiglia di tradizione militare,
rimase orfano all’età di sedici anni. Divenuto ufficiale, lasciò l’esercito
prussiano per dedicarsi prima agli studi e poi, dopo aver letto Kant ed
essersi disilluso sulle possibilità di conoscere il mondo attraverso gli
strumenti della ragione, si consacrò ai viaggi. Visse a Parigi, in Svizzera,
quindi di nuovo in Prussia. Malato e in miseria, si suicidò insieme all’amica
malata Henriette Vogel. Fu autore di otto drammi e di otto novelle (fra cui
La marchesa di O. e Michael Kohlaas). Nella sua opera l’indagine del
rapporto tra colpa e inconsapevolezza, tra giustizia e fato (come destino
esterno, ma anche come ineludibile necessità interiore e inconscia) si
incastona nel nitore di una narrazione sublime e scolpita, non priva di uno
spiccato gusto per la peripezia avventurosa. Kleist è per Hoffmann modello
di stile e di intreccio al punto che ne leggerà i Racconti fino a impararli a
memoria e nel 1810 ne metterà in scena a Bamberga la Käthchen di
Heilbronn. Omaggi e intertesti kleistiani intessono tutta la narrativa di
Hoffmann.

Königsberg, letteralmente “la collina del re” (dalla fine della Seconda
guerra mondiale – quando fu occupata dall’Armata rossa e quasi tutta la
popolazione tedesca venne espulsa – Kaliningrad, exclave russa tra Polonia
e Lituania), fu in passato la capitale dello Stato di Prussia dell’Ordine
Teutonico, della Prussia ducale e infine della provincia prussiana della
Prussia orientale. La città venne unificata a partire dai conglomerati di
Altstadt, Löbenicht e Kneiphof nel 1724, lo stesso anno in cui vi nacque il
suo più illustre e fedele cittadino, quell’Immanuel Kant che a Königsberg
visse sempre fino alla morte avvenuta nel 1804. Nel 1813 sarà il centro
della ribellione prussiana a Napoleone. Hoffmann vi nacque nel 1776 e vi
trascorse tutta la giovinezza. È qui che conobbe, decenne, l’amico e sodale
di una vita Hippel, che tanta importanza avrà per lui negli anni a venire, ed
è qui che si formò come giurista (con mai alleviata fatica e come esigeva la
tradizione familiare), come musicista e come disegnatore.

Kreisler. Johannes Kreisler è il nome di un personaggio di fantasia creato


da Hoffmann ricorrente in diverse opere. Suo faustiano alter ego, è un
maestro di cappella geniale e stravagante, conflittuale e sensibile, che nella
musica scorge un’ispirazione irresistibile ma anche una forza demoniaca e
soggiogante. Fa il suo esordio nei Dolori musicali del maestro di cappella
Johannes Kreisler (1809), primo testo di una serie di scritti autobiografici e
critici attribuiti proprio a Kreisler che Hoffmann riunirà nel 1814 sotto il
titolo Kreisleriana all’interno della raccolta Pezzi fantastici alla maniera di
Callot. Accompagnerà e ossessionerà Hoffmann in gran parte della sua
opera, fino a trovare la propria consacrazione nel romanzo sperimentale
Considerazioni filosofiche del gatto Murr e biografia frammentaria del
Kapellmeister Johannes Kreisler. Ispirerà a Robert Schumann il ciclo per
pianoforte Kreisleriana (1838), tra le opere fondamentali della musica
romantica.

Lesewut o Lesesucht, letteralmente “furia di leggere” o “dipendenza dalla


lettura”. La precettistica di fine Settecento mise alla sbarra con questo
termine ogni lettura priva di un valore edificante e giustificata dal solo
piacere, designandola come una malattia o come un vizio alla stregua
dell’onanismo. Questa patologizzazione testimonia il passaggio epocale da
una lettura intensiva (un solo libro letto molte volte), legata alla
meditazione della Bibbia e ai testi di devozione, a una lettura estensiva
(molti libri letti una sola volta). Essa reagisce alla nascita di una letteratura
di consumo e di intrattenimento provocata dall’emergere di una classe
borghese e dall’aumento degli alfabetizzati, il cui numero in Germania
quasi raddoppiò dall’anno di nascita a quello di morte di Hoffmann.
Medici. Insieme a quella degli artisti è la categoria professionale più
presente nei Notturni. Hoffmann ha la massima dimestichezza con la
letteratura specialistica dell’epoca, soprattutto con le ricerche di Johann
Christian Reil (1759-1813), l’inventore della psichiatria in terra tedesca, che
infatti viene esplicitamente citato nella Casa desolata. Interessato al
magnetismo animale, Hoffmann fu spettatore come molti suoi
contemporanei dell’ascesa professionale, sociale e performativa del
fenomeno Mesmer. Con l’eccezione del dottor K. della Casa desolata, i
medici dei Notturni non si sono ancora allineati con la svolta epocale della
loro disciplina, la nascita della psicosomatica, lo studio delle relazioni
sistemiche. E infatti, perlopiù, brancolano nel buio e falliscono nei loro
intenti curativi.

Mesmer. Franz Anton Mesmer (1734-1815), medico tedesco attivo in


Austria, Germania e Francia, fondatore della teoria del magnetismo
animale, altrimenti detta mesmerismo, secondo la quale ogni organismo
possiede un fluido individuale che si trova in stretta relazione con un fluido
cosmico. Godette di fama straordinaria (e controversa) come guaritore, ma
le sue teorie non ottennero mai il riconoscimento, pur agognato, della
comunità scientifica. Da attento osservatore delle recentissime acquisizioni
della prassi terapeutica, Hoffmann pone il magnetismo al centro del
racconto La casa desolata e inserisce nel resto dei Notturni, anche in chiave
antimeccanicistica, diverse figure di curatori ispirati alla figura di Mesmer.
È su di lui, ad esempio, che nella più antica novella della raccolta, Ignaz
Denner, disegna in parte la figura di Trabacchio, il medico italiano
chiamato da tutti, significativamente, dottor Prodigio.

Milleottocentonove. È l’anno dell’esordio letterario di Hoffmann. Vengono


pubblicate Le affinità elettive di Goethe, La marchesa di O. di Heinrich von
Kleist e le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana di Friedrich
Schelling. Negli Stati Uniti nasce Poe, nell’impero russo Gogol’ e in
Inghilterra Darwin, mentre a Berlino viene fondata da Wilhelm von
Humboldt la Friedrich-Wilhelms-Universität (poi Humboldt-Universität).
Nel contesto di una Prussia sconfitta da Napoleone, Hoffmann si trova a
Bamberga, dove si è trasferito per dirigere il locale teatro. L’impiego
tuttavia lo delude, così come la gretta umanità che abita la cittadina, e dopo
un anno si dimette sia da direttore d’orchestra che da Theaterkomponist. Per
vivere dà lezioni di musica. Comincia una collaborazione con la
«Allgemeine Musikalische Zeitung» di Lipsia, su cui pubblica il suo primo
racconto: Il cavaliere Gluck. È l’inizio, a trentatré anni, della sua nuova,
fortunata e maledetta carriera di scrittore.

Milleottocentoventidue. Il 25 giugno, in seguito a una malattia durata


alcuni mesi, Hoffmann muore a Berlino mentre è accusato di tradimento di
segreto professionale dalla commissione d’inchiesta di cui è membro (e di
cui aveva tracciato un ritratto sarcastico in un episodio di Mastro Pulce).
Lascia una Prussia regnata da Federico Guglielmo III e un’Europa
fortemente sconvolta dalla Storia: la Rivoluzione francese prima e la
parabola di Napoleone poi ne hanno cambiato per sempre la fisionomia
sociopolitica. Nonostante la Restaurazione sancita nel 1815 con il
congresso di Vienna, i popoli europei hanno già ricominciato a sollevarsi a
partire dai moti del 1820-21, originati in Spagna, facendo nuovamente
tremare le fondamenta delle monarchie. Pochi giorni dopo la morte di
Hoffmann muore anche un altro grande protagonista del Romanticismo
europeo: nel mare di Viareggio scompare il poeta inglese Percy Bysshe
Shelley.

Millesettecentosettantasei. A Königsberg, nella Prussia orientale, il


mercoledì 24 gennaio nasce E.T.A. Hoffmann. È l’anno della dichiarazione
d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. In Europa la Prussia è una
potenza politica e militare, dal 1740 nelle salde mani di Federico II di
Hohenzollern, detto il Grande (a lungo in rapporti con Voltaire che lo
definirà, prima di essere smentito dai fatti, il “re-filosofo”). L’Austria vede
gli ultimi anni di regno di Maria Teresa d’Asburgo, mentre la Francia è
sotto il dominio di Luigi XV e l’Inghilterra sotto quello di Giorgio III.
L’Ancien Régime vive i suoi ultimi anni di gloria prima della Rivoluzione
francese, ma è già scosso dall’irruenza di Mozart e dalle nuove idee
politiche e sociali dell’Illuminismo europeo. Quello stesso anno, a Recanati,
nasce anche il conte Monaldo Leopardi, il cui primo figlio, nato ventidue
anni dopo, cambierà la poesia italiana ed europea.
Napoleone Bonaparte (Ajaccio, 1769 - Sant’Elena, 1821), politico e
militare francese, primo console fino al 1802, primo imperatore francese dal
1804 al 1814 e poi di nuovo per qualche mese nel 1815. Fu per gli
intellettuali tedeschi figura odiata e leggendaria a un tempo: esecutore, nel
duplice senso del termine, delle istanze di emancipazione della Rivoluzione,
novello Messia, incarnazione delle più alte ambizioni di realizzazione del
soggetto borghese, tiranno e ciarlatano. Goethe, gnomico come non mai,
all’indomani dell’incontro a quattr’occhi a Erfurt, nell’ottobre 1808, si
limitò a esclamare: «Voila un homme». Hoffmann si imbatte numerose volte
in Napoleone: a Varsavia, a Bamberga, a Lipsia e a Dresda. Ne avverte e
descrive la fatale onnipresenza, incarnazione della pervasività manipolatrice
della Storia. A lui si ispirano nella fisiognomica e nella gestualità numerosi
suoi personaggi (italiani): magnetizzatori, ambulanti e imbonitori.

Notte. I Notturni di Hoffmann arrivano all’indomani degli Inni alla notte


(Hymnen an die Nacht, 1800) di Novalis (testo nodale che chiude a doppia
mandata il secolo dei Lumi celebrando la conoscenza prelogica, intuitiva e
poetica), dopo le Veglie (Nachtwachen, uno dei testi centrali del
Romanticismo tedesco, pubblicato anonimo nel 1804, nonché il primo a
statuire un rapporto di analogia fra notte e follia) e, soprattutto, a seguito
delle Idee sul lato notturno delle scienze naturali (Ansichten von der
Nachtseite der Naturwissenschaft, 1805) di Gotthilf Heinrich Schubert,
imperniate su tutti quei fenomeni paranormali – dal sonnambulismo alla
telepatia – che svolgeranno un ruolo primario nell’opera hoffmanniana. A
questo substrato pulsante di immaginario Hoffmann aggiunge: la
dimensione notturna come sfera della scrittura in opposizione alla
dimensione borghese diurna, la notte come momento privilegiato di
rivelazioni (traumatiche), la notte come sfera dell’inconscio.

Novalis (1772-1801), pseudonimo di Friedrich Leopold von Hardenberg, fu


un poeta e filosofo tedesco. Di famiglia nobile e di osservanza pietista,
studiò a Jena, Lipsia e Wittenberg. Nel 1794 si innamorò della dodicenne
Sophie von Kühn, alla cui prematura morte scriverà gli Inni alla notte,
arditissimo prosimetro in cui l’immagine della amata defunta arriva a
fondersi con quella del Cristo redentore. Pubblicata nel 1800 sulla rivista
dell’avanguardia romantica, «Athenäum», quest’opera rappresenta in
ambito tedesco la summa di quella sensibilità notturna, composta di
misticismo e tensione verso una poesia assoluta, da cui Hoffmann si sentirà
intimamente interpellato. Alla decisa scelta per l’irrazionale e per «la sacra,
ineffabile misteriosa notte» operata da Novalis corrisponde nell’autore dei
Notturni una presa di posizione molto più ambigua e sfumata che non
rinuncia al “lato diurno” dell’esistenza e alla faticosa chiarezza della
ragione (di cui ad esempio è problematico difensore il prozio nel
Maggiorasco) anche di fronte al fascino (e all’orrore) del buio.

Raffaello Sanzio, pittore e architetto nato a Urbino nel 1483 e morto a


Roma nel 1520, tra i protagonisti assoluti del Rinascimento italiano. Fu un
riferimento costante in tutta la cultura tedesca della Goethezeit, che della
sua opera volle privilegiare, a seconda degli interpreti, ora il carattere
erotico e carnale (la Fleischeslust che gli attribuì nei suoi saggi il pittore
Johann Heinrich Füssli), ora la vena trascendente e celeste (che pervade ad
esempio la Madonna Sistina, l’unica sua opera che, a Dresda, Hoffmann
poté ammirare dal vero). Questa ambivalenza estetica si riverbera sul
dipinto «nello stile di Raffaello» del pittore Berthold che, nel racconto
hoffmanniano La chiesa dei gesuiti di G., impazzisce proprio per
l’incapacità di sanare il conflitto, artistico e interiore, tra visione spirituale e
mimesi corporale.

Romanticismo berlinese. Nella periodizzazione critica tradizionale che


assegna a tre città (Jena, Heidelberg e Berlino) i diversi momenti di
sviluppo del movimento romantico tedesco, quello berlinese rappresenta la
fase ultima che in genere si fa partire dall’inizio della Restaurazione (1815)
per chiudersi con i moti del 1848. Intorno alla capitale della Prussia si
catalizzarono, e a volte cristallizzarono, alcune delle esperienze romantiche
che affondavano le loro radici negli entusiasmi della Rivoluzione francese e
nella turbolenta epoca napoleonica. Ai manifesti programmatici, alla
battaglia teorico-letteraria delle riviste e ai generi spuri e sperimentali come
il prosimetro, l’arabesco e l’apoftegma si affiancano i romanzi biografici o
d’artista e soprattutto le novelle e le fiabe, frutto anche dell’affacciarsi sul
mondo letterario di una generazione di narratori di razza come Achim von
Arnim, Ludwig Tieck e naturalmente lo stesso Hoffmann. Il lato oscuro
della psiche umana, l’esoterismo e i misticismi religiosi, la messa in scena
della riflessione sull’arte e sul suo carattere demoniaco e sacrilego sono
alcuni dei temi che accomunano questa temperie culturale.

Strumenti ottici. Hoffmann incentra costantemente la propria attenzione


sulla questione circa lo statuto fattuale del reale, interfacciandola con un
interrogativo fondamentale: gli strumenti ottici sono davvero potenziali
mezzi di certificazione e perfezionamento della percezione? La risposta è
sempre negativa: ogniqualvolta i personaggi si affidano a dispositivi
tecnologici (cannocchiali, binocoli, telescopi ecc. ma anche specchi) il
risultato va nella direzione diametralmente opposta: le illusioni percettive,
anziché diminuire, aumentano, e la realtà – o quel che di essa sembrerebbe
trasparire – risulta, se possibile, ancor più distorta. Più in generale: la
tecnologia non aiuta a meglio decifrare il mondo né a cambiarlo. La
polemica hoffmanniana giunge al termine del secolo dei Lumi, pervaso da
una dilagante fiducia nei prodotti tecnologici della ragione e della scienza,
adesso però tramutatesi in veicolo di follia, in strumento di sopraffazione. È
un caso di dialettica dell’Illuminismo avant la lettre.
INDICE

L'UOMO DELLA SABBIA


Note

Biografia di Hoffmann
Introduzione ai Notturni
Qualche ritocco?
Un genere intermediale
Enciclopedia notturna (I): pitture di notte
Enciclopedia notturna (II): malattia e intertesti
Arte e altri intertesti
Prospettive
Wert-Vakuum
Ottica doppia
Bibliografia
E.T.A.pedia. 24 voci
Automi/bambole
Berlino
Callot
Coppelius
Dresda
Famiglia/infanzia
Hippel
Hitzig
Hoffmann
Kleist
Königsberg
Kreisler
Lesewut o Lesesucht
Medici
Mesmer
Milleottocentonove
Milleottocentoventidue
Millesettecentosettantasei
Napoleone Bonaparte
Notte
Novalis
Raffaello Sanzio
Romanticismo berlinese
Strumenti ottici

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