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Il libro

“O gni volta spero che tra le tante ragazze che incontro ci sia lei: la mia
anima gemella. A volte ne sono quasi certo, mentre osservo quegli
occhi che mi scrutano, lasciandomi intravedere mari calmi o vorticose
tempeste. Ognuna di loro è un dono prezioso che incendia i miei sensi ma non
scioglie il mio cuore. Sono rimasto molto deluso e ora, l’ho imparato a mie spese, ho
bisogno di trovare un cuore puro. Qualcuna che riesca ancora a stupirmi e a
convincermi che si può amare totalmente, con tutta l’anima.”
Can Divit ha tutto quello che si potrebbe desiderare: è bellissimo, gentile ed è
l’erede di una delle più potenti e ricche famiglie di Istanbul. Le donne farebbero
qualsiasi cosa pur di attirare la sua attenzione, ma un’ombra nel suo passato lo rende
inquieto e gli impedisce di lasciarsi andare all’amore. Ancora non sa che lontano da
lui, nel quartiere popolare dove abita, Sanem, una ragazza semplice e con la testa
piena di sogni, percorre il suo stesso cammino per inseguire l’uomo dei suoi desideri,
il suo albatros.
In questo prequel della popolarissima serie tv DayDreamer - Le Ali del Sogno,
Can apre finalmente il suo cuore e ci svela i segreti del suo passato: il rapporto
conflittuale con la madre Hüma, l’incontro con la giovane Esel, la vera natura dei
suoi sentimenti per Polen. Tra colpi di scena e confessioni inaspettate, per la prima
volta Can ci racconta i suoi giorni, e le sue notti, fino all’incontro nel buio di un
teatro che gli cambierà per sempre la vita.
L’autrice

Roberta Damiata (Palermo), giornalista, è stata direttore di varie testate di gossip,


cronaca e moda. Corrispondente da Londra e opinionista in diverse trasmissioni
televisive Rai e Mediaset, attualmente collabora con il settimanale “F” e con il sito
online de “Il Giornale”. Grande appassionata di serie tv, film e romanzi, vive a Roma
insieme al marito, la figlia e tre gatti.
Roberta Damiata

STAVO CERCANDO TE
La storia di Can prima di Sanem
Stavo cercando te

A Marica M, Paola V, Carla P, Nicoletta V.J,


Arzu Ç, Maria Grazia C, Alice G e a tutto il fandom.
Grazie. Senza di voi non ce l’avrei mai fatta
Prologo

Tutto l’universo cospira affinché chi lo desidera con tutto se stesso possa riuscire a
realizzare i propri sogni.

PAULO COELHO

Nessuno però conosce le strade che le stelle prenderanno per arrivarci...

Ieri (1995)
«Yeter, artık dayanamıyorum…»
Le urla e il suono dei cocci rotti rimbombano nella mia stanza.
“Ho paura, sono solo.”
Le parole di mia madre vengono interrotte dalle lacrime, e i pugni che
papà dà alle porte mi fanno tremare. Sono paralizzato, non riesco a muovere
le mani che tengono stretta la coperta sopra la mia testa.
«Non mi vedrai mai più e non lo vedrai mai più.»
La voce della mamma sembra disperata. Perché dice queste parole?
Sento il suono dei suoi passi veloci. Papà non la ferma. Una porta sbatte, i
vetri delle finestre tremano e poi il silenzio. È ancora buio fuori. Ci fosse un
po’ di luce avrei il coraggio di alzarmi, ma tremo e non per il freddo. Ho
sentito spesso le loro urla, ma questa volta è diverso. Lo capisco dai
singhiozzi di papà: fanno piangere anche me.
“Sono grande. Sono il fratello maggiore. Sono io che devo proteggere
Em, che forse avrà sentito le urla della mamma e si sarà spaventato.”
Mi faccio coraggio, tiro fuori un piede e poi l’altro. Il pavimento
ghiacciato blocca le mie lacrime. Sono in piedi. Mancano pochi passi alla
porta.
“Sono grande, sono coraggioso.”
Giro la maniglia. Anche papà se n’è andato.
“Em, arrivo, non avere paura: ci sono io.”
Entro nella stanza e per fortuna il tappeto mi riscalda il cuore e i piedi,
che ora corrono verso il lettino. È così bella questa cameretta, come il mio
fratellino che di sicuro dorme tranquillo.
«Em, sono qui» sussurro nella penombra «non avere paura, rimarrò a
dormire con te e ci terremo per mano... Em?»
La coperta con le nuvole verdi giace solitaria sul pavimento e
l’orsacchiotto da cui non si separa mai è sparito.
«Emre, dove sei?»
Em non c’è. Anche lui se n’è andato.
1

Istanbul, vista sul Bosforo (2014)


Mi gira la testa. Il locale lungo il Bosforo, uno dei tanti che frequento tutte
le sere, brulica di voci e risate. Ho bevuto troppo, ma in definitiva non è
quello che faccio sempre? Com’è che si chiamava quella con cui parlavo?
Afet? Sì, la bella Afet dai lunghi capelli neri. Non l’avevo già conosciuta da
qualche parte? No, quella era Esin la rossa…
L’acqua scorre lenta e le luci della città che si specchiano sul mare sono
l’unica certezza di questa vita. Chissà chi abiterà in quella casa con la
finestra illuminata. Anche loro avranno una bella figlia dai capelli lunghi?
Chissà quanti amori avranno visto nascere queste luci e quanti bambini
avranno sognato di partire guardando le barche che scivolano sull’acqua.
Ho bisogno di bere ancora. Un altro giro per festeggiare la serata. E pensare
che non volevo neanche uscire stasera.
«Can? Can… dove sei finito?»
Sono uscito in terrazza per schiarirmi le idee, ma la voce di Metin blocca
i miei pensieri: «Il fidanzato della ragazza ti sta cercando» mi dice
concitato.
«Quale ragazza?»
«Quella con cui parlavi poco fa.»
Ricordo di aver chiacchierato di viaggi e cibo vegetariano, con lei e con
il barista. Non sapevo che la ragazza fosse lì con il fidanzato. Non sarebbe
comunque cambiato niente, per me era solo una conversazione a tre. Non
sono interessato a lei.
«Io non ho fatto niente, Metin» rispondo confuso, cercando di
raccogliere le idee.
Ma lui continua: «Questo lo immagino, ormai ti conosco bene, a volte ho
l’impressione che le eviti addirittura». Non ne posso più, la testa comincia a
farmi male. Devo andare via, tornare a casa, fare una doccia.
«Ehi tu, Divit.»
Una voce arriva da dentro il locale.
Esce un ragazzo tatuato, seguito da altri due. Dal modo in cui
camminano mi sembrano ubriachi. Ma anche io non ci sono andato leggero
stasera.
«È lui il fidanzato della ragazza» spiega Metin. «Ti stava cercando.»
«Vieni qui se sei un uomo!» continua a urlare, avvicinandosi minaccioso.
«Can, per favore, non andare. Lascia stare» mi implora Metin. «Vuole
solo difendere la sua donna.»
«Ti farò pentire di averci provato con la mia ragazza» prosegue l’altro.
«Manteniamo la calma, per favore» risponde Metin. «Se ci dici qual è il
problema, ne parliamo.»
«E tu chi sei? Stanne fuori» gli intima l’uomo, dandogli una spinta.
Metin perde l’equilibrio rischiando di cadere.
Sorreggo il mio amico e fisso l’uomo dritto negli occhi. Di sicuro sta
cercando guai. «Chiedi subito scusa» gli ordino, ma lui mi ignora.
«Non ti devi mai più avvicinare alla mia ragazza, hai capito?» La sua
voce si mescola al mormorio dei presenti nel locale e alle luci dei cellulari
che riprendono la scena.
«Quello è Can Divit» interviene il suo amico. «Il rampollo d’oro di
Istanbul.»
«Ragazzi non voglio guai stasera.» Ali, il proprietario del locale, spunta
dalla folla tagliandola in due. «Can, ora basta. Non mi interessa sapere chi
ha cominciato, ma dove ci sei tu ci sono rogne. Sono amico di tuo padre, lui
è come un fratello per me, ma non posso più aiutarti. Vai a casa.»
«Sì, vai a casa da papino, Can Divit. Quando sei nei guai scappi e ci
pensa lui a risolvere tutto, vero? Basta pagare!» gli fa eco il ragazzo con cui
stavo litigando.
Il sangue mi arriva al cervello e i drink che ho bevuto alimentano
l’incendio che sento al centro del petto.
Gli corro incontro e in un lampo sono sopra di lui. Un pugno solo,
sferrato in pieno viso, lui perde l’equilibrio e cadendo batte la testa contro
la ringhiera della terrazza.
Qualcuno mi prende per la schiena e mi trascina a forza fuori dal locale,
cerco di resistere ma non ce la faccio. In lontananza sento le sirene della
polizia. Qualcuno deve averla chiamata. Le voci confuse dei miei amici mi
riportano a una orribile realtà. «Can ma che hai fatto? Can, lo hai ucciso…»

Eyup Police Station, Istanbul


La piccola cella dove mi trovo è fredda. L’effetto dell’alcol sta svanendo
mentre il dolore lancinante alla testa si fa sempre più forte. “Non posso
averlo fatto. Non posso aver ucciso un uomo. Non sono io” continuo a
ripetermi. Mi sembra di essere tornato a due anni fa. La rissa, lo sguardo
annichilito di Esel. Qualcuno ha detto che la storia si ripete, ma spero non
abbia ragione. Penso sempre che sia solo un pugno, e invece a volte non
riesco a controllare la forza.
«Il signor Divit?»
Un agente entra nella cella, facendo un rumore infernale che mi
rimbomba nelle tempie. «Venga, prego.»
Mi prende per un braccio e, mentre mi tiene stretto, attraversiamo un
lungo corridoio pieno di luci al neon. I muri sono scrostati e il pavimento è
sporco. Mi somiglia. Giriamo l’angolo. In lontananza riconosco una figura
familiare: «Papà?».
«Can, figliolo, ma cosa è successo?» mi chiede con la faccia sconvolta.
A pochi metri da lui Emre, pallido come un cadavere, si alza dalla sedia
di legno e si avvicina dicendomi: «Si può sapere che ti è venuto in mente?
Lo potevi ammazzare quello!».
Le sue parole sono inaspettate ma provocano in me un senso di sollievo.
“Allora non l’ho ucciso?” penso. Cerco conferma ma non mi esce neanche
una parola. Lo abbraccerei se l’agente non mi tenesse ancora stretto. Sono
provato dalle luci al neon, che mi fanno lacrimare gli occhi. Sento un nodo
allo stomaco. Che cosa ho fatto?
Mio padre mi guarda fisso. Anche i suoi, di occhi, sono arrossati e ha
l’aria di uno che ha passato una nottataccia.
«Sta arrivando il padre di Metin» mi dice a bassa voce.
Conosco Aycan Avukat da sempre: è uno degli avvocati più in gamba
della città. È lui che si è occupato del divorzio dei miei genitori, è uno dei
migliori amici di mio padre nonché il padre del mio miglior amico Metin.
Mi sento sollevato.
«Come sta lui?» chiedo finalmente a Emre.
«Lo hanno portato in ospedale, ma dicono che se la caverà. Però hai
rischiato di ucciderlo, te ne rendi conto?»
Le parole di mio fratello mi arrivano dritte al cervello come la lama di un
coltello che gira in una ferita aperta. Non le sento però nel cuore, che è
ancora gonfio di rabbia.
«La sua ragazza» cerco di spiegare agitando le mani «è venuta lei da me
mentre parlavo con il barista, abbiamo solo chiacchierato. Non sapevo che
fossero insieme.»
«Devi fare attenzione, lo sai che sei uno dei ragazzi più ambiti di
Istanbul.»
I neon continuano a tormentarmi gli occhi. La situazione è surreale,
perché le parole di Emre sono vere. Ogni volta che entro in un locale
riconosco quegli sguardi mentre passo. Quelli che mi si attaccano addosso e
mi seguono. Essere il figlio di uno degli uomini più ricchi di Istanbul fa la
magia. Non importa come sono, non importa cosa sento, a loro importa solo
chi sono. Prima ci rimanevo male, ora preferisco bere qualche bicchiere in
più per ottenebrare i sensi e isolarmi dal resto del mondo. Metin dice
sempre che rifiuto le donne, ma non è così. Frequento qualche ragazza,
usciamo insieme, ci divertiamo. Mi piace sentirle sciogliersi quando con le
dita accarezzo le loro schiene nude, per poi ascoltarne i sospiri e
immergermi tra i capelli setosi. Le amo tutte in quel momento, le desidero.
Ma poi non riesco ad andare oltre a quel fugace incontro e a passare a una
vera relazione. È come se fossi bloccato.
Ogni volta spero che tra loro ci sia lei: la mia anima gemella. A volte ne
sono quasi certo, mentre osservo quegli occhi che mi scrutano, lasciandomi
intravedere mari calmi o vorticose tempeste. Ognuna di loro è un dono
prezioso che incendia i miei sensi ma non scioglie il mio cuore. Mi piace
guardarle ridere con le amiche e poi, curiose, girarsi verso di me. Amo
vederle arrossire e penso sarebbe bello se quello che vedono i miei occhi lo
vedesse anche il mio cuore. Ma è proprio lui che mi mette in guardia: “Ti
lasceranno di nuovo da solo al buio come quando eri piccolo”. Non voglio
più restare solo la notte in una stanza scura, e anche se proprio loro
potrebbero essere l’antidoto alla mia paura non riesco più a fidarmi. Sono
rimasto molto deluso e ora, l’ho imparato a mie spese, ho bisogno di trovare
un cuore puro. Qualcuna che vada al di là, che riesca ancora a stupirmi e a
convincermi che si può amare totalmente, con tutta l’anima.

Casa di Aziz Divit – Distretto di Beykoz, Istanbul


«Ringrazia tuo padre, Can, è per lui che stanotte hanno chiuso un occhio.
D’ora in avanti per la polizia sei un sorvegliato speciale. Ricordalo.»
Le parole di Aycan sono tranquille e rassicuranti, anche se penso con
rabbia che quel ragazzo aveva toccato un nervo scoperto: sto davvero
danneggiando Aziz? Io lo metto nei guai e lui me ne tira fuori? L’avvocato
mi dà una pacca sulla spalla e poi segue mio padre in giardino. Sono tornato
finalmente a casa. Nonostante siano quasi le quattro è ancora buio, ma tra
poco il sole sorgerà. In questo momento vorrei essere in riva al mare a
guardarlo mentre si alza, fino a dovermi coprire gli occhi con le mani.
Vorrei essere un albatros che lo accompagna lungo il suo percorso, per
riscaldare le mie piume dopo una notte troppo fredda. Volerei rincorrendolo
senza sosta per tutto il giorno, per poi aiutarlo a tuffarsi di notte nel mare.
Da lassù tutto sembra più piccolo. Anche i problemi.

Entro nella mia stanza: sono distrutto. Mi tolgo la camicia e i pantaloni. Ho


bisogno di farmi una doccia. L’acqua calda mi scivola addosso e provo a
lavare via ogni cosa. Ho le mani sulle piastrelle e quella pioggia confortante
cade sulla mia testa schiarendomi le idee. Ripenso a quello che è successo.
“Potevo ucciderlo” continuo a ripetermi. La schiena è indolenzita e la pelle
brucia sotto l’acqua bollente, ricordandomi dolorosamente chi sono.
Rimango così per un tempo infinito durante il quale i miei pensieri girano a
vuoto riportandomi sempre allo stesso punto. Esco dalla doccia e mi
specchio. Ho segni rosso vivo sulle spalle e la mano mi fa ancora male. Mi
ricorda chi sono diventato, ma non chi ero.
Penso a Polen, ai suoi capelli, alle sue risate e agli occhi da cerbiatta.
Sorrido. Lei ora saprebbe calmarmi? Saprebbe come fare? Forse era l’unica
tra tutte che meritava il mio amore. Ma non l’ho mai capito. Eppure mi
manca. Mi manca il suo modo di supportarmi qualunque cosa accada.
Mi lego un asciugamano in vita e vado in cucina. Nonostante sia
tardissimo, in giardino papà sta ancora parlando con Aycan. Sono amici da
sempre e si stanno ritagliando un po’ di tempo per loro. Posso sentire le loro
parole dalla vetrata aperta.
Ho voglia di un tè. Metto l’acqua a bollire ma nel frattempo bevo quella
ghiacciata del frigo, che mi scivola nella gola regalandomi un brivido di
piacere.
«Sì, sono d’accordo» dice mio padre ad Aycan. «Bisogna solo aspettare
che le cose si calmino, poi lo mando all’estero. Non so cosa gli stia
succedendo, è sempre così strano, taciturno, tutte le sere ubriaco. È pur vero
che ne ha passate tante. In azienda, ti devo dire, sa il fatto suo, ma la vita
privata è un disastro. Ti ricordi di Polen, la figlia del mio amico? Pensavo
che con lei le cose funzionassero.»
«Si sono lasciati?» chiede curioso Aycan.
«Non so neanche dirti se siano mai stati insieme. Ora lei è a Londra. Ne
so poco: Can non ne parla mai, ma credo che gli manchi.»
Ha ragione mio padre. Polen mi manca, soprattutto ora che la mia vita ha
preso strade contorte. Ma anche lei non c’è, come non c’è mia madre.

Due risate inconfondibili attirano la mia attenzione.


«Fratellone, come ti senti? Hai finito di fare il bullo?» mi dice Emre
entrando in cucina. Ha una mano dietro la schiena di Aylin, la sua perfida
fidanzata, che indossa una camicia da notte trasparente, e la tiene stretta.
Lei è un’impiegata della Fikri Harika: bella, furba e letale.
«Ciao Can. Emre mi ha raccontato che sei andato fuori di testa» mi dice
scrutando l’asciugamano che porto legato in vita. Non mi piace quella
donna e non sono il solo. Anche mio padre non la ama, a differenza di Emre
che ne è completamente infatuato.
«Come mai in piedi a quest’ora?» le chiedo, conoscendo già la risposta.
«Vi ho sentiti arrivare. Ieri hai interrotto la nostra serata romantica» mi
dice Aylin con un tono di voce suadente.
«Noi torniamo a dormire» mi comunica Emre, guardandola negli occhi
«quindi se hai bisogno ricordati di bussare prima di entrare.»
«Non credo di aver bisogno di nessuno e ora torno in camera mia»
rispondo, salutandoli con la mano alzata. «Stavo facendo del tè ma ve lo
lascio volentieri.»
«Io bevo solo caffè!» replica Aylin guardandomi di sfuggita. I suoi occhi
sono due fessure nere. Assomiglia a quelle pantere che non puoi fare a
meno di osservare anche se sai che sono talmente pericolose da poterti
uccidere. Ma forse l’amore è proprio questo: non aver paura di morire pur
di perderti negli occhi di qualcuno.
2

Residenza Aksu – Istanbul (2002)


Ce l’ho quasi fatta, pochi passi e sono in salvo. Sento il fiato sul collo del
signor Adil che arranca dietro di me.
«Questa volta l’hai fatta grossa, Can! Non ti salverà nessuno» dice con la
voce rotta dal fiatone.
Forse non è stata una buona idea tagliare tutti i fiori del suo giardino,
però avevo perso una scommessa e io mantengo sempre la parola data.
Sono a un isolato da casa, riesco a vedere il muro in lontananza. Ancora
pochi passi e sarò dentro. Da un vicolo spunta il giardiniere del signor Adil.
È grosso, muscoloso e anche lui ringhia il mio nome.
“Sono davvero in trappola.” Mi guardo intorno disperato, in cerca di una
via di fuga, ma sono con le spalle al muro… “Giusto, il muro!”
Mi giro e comincio ad arrampicarmi come un gatto, mentre il signor Adil
e il giardiniere corrono tutti e due nella mia stessa direzione, quasi
scontrandosi. Le piante di rose rampicanti mi graffiano le ginocchia, ma il
loro profumo è talmente forte da non farmi sentire le spine. Le ho viste
uguali al Palazzo di Topkapı, dove viveva il sultano. Forse questa è un’altra
delle sue residenze?
Sono finalmente in cima al muro. Guardo in basso i due con aria di sfida
ed è proprio in quel momento che perdo l’equilibrio e precipito dall’altra
parte. Cado con un tonfo sordo. Il dolore è lancinante. Devo essermi rotto
qualcosa. Cerco di alzarmi ma un suono inconfondibile mi paralizza. Mi
giro lentamente e il cane più grande mai visto in vita mia mi sta fissando e
comincia a ringhiare. Ora la mia scelta è morire sbranato o per mano del
signor Adil. Niente male per uno che ha solo tredici anni.
«Aras, vieni qui.»
Da lontano vedo arrivare di corsa una creatura bellissima. I lunghi
capelli neri sembrano una tempesta mossa dal vento. Ha un vestito bianco e
rallenta il passo quando mi vede. Si avvicina e mi osserva con
un’espressione curiosa, come se fossi una delle prede che sicuramente quel
molosso prenderà ogni giorno.
«Cosa ci fai qui?» mi dice, mentre con la piccola mano tiene fermo
l’animale trattenendolo per il collare. Ha le guance arrossate dalla corsa, ma
è fiera come una guerriera e mi osserva spiazzandomi con due occhi
nocciola che somigliano a foglie d’autunno dai riflessi d’oro.
«Tu sei la figlia del sultano?» chiedo incantato.
«Chi, io? Ma no, come ti viene in mente?»
«Le tue rose somigliano a quelle del Palazzo del Topkapı e pensavo
che…»
Il ginocchio mi fa male e vedo che un rivolo di sangue sta colando fino
ai sandali.
«Ti sei ferito?»
«No, non è niente» mento e cerco di respirare forte l’odore delle rose per
evitare di concentrarmi sul dolore lancinante.
«Ce la fai ad alzarti?»
Mi allunga la mano. Io la afferro come un’ancora di salvezza e mi alzo in
piedi, trovandomi di fronte ai suoi occhi grandi e profondi. Non sento più
alcun male.
«Mi chiamo Esel» dice, «e tu devi essere Can.»
«Sì» rispondo stupito. «Ma come fai a sapere chi sono?»
«Ti vedo spesso, abiti nella villa laggiù» dichiara, indicando con il dito
in direzione di casa mia.
Sento le sue parole ma mi perdo in quelle iridi screziate d’oro. Un senso
di calore mi prende allo stomaco e mi fa dimenticare qualsiasi cosa. Sembra
un angelo. Forse è un angelo.
Mi sorride e il sole sopra le nostre teste pare fare le capriole. Non
capisco cosa mi stia succedendo, ma improvvisamente tutto quello che mi
circonda non ha senso. Le mie guance scottano e ho il desiderio di non
andare mai più via da quel posto.
«Io non ti ho mai vista in giro» balbetto.
«Non vengo spesso qui fuori perché io sono…»
«Eseeeeeel!»
Il cane sfugge alla presa e si dirige abbaiando verso un’altra figura che
corre nella nostra direzione. Man mano che si avvicina vedo che si tratta di
un’altra ragazza. Ha i capelli biondi e anche lei indossa un lungo vestito che
si muove al ritmo dei suoi passi. Quando arriva davanti a me mette le mani
sui fianchi e respira profondamente prima di parlare: «Esel che ci fai qui?
Lo sai che non devi stare in giardino. Il tuo posto è nelle cucine vicino a tua
madre».
«Sì, scusi» risponde Esel, un po’ intimorita da quella ragazza che ha
pressappoco la sua età.
«Tu sei il figlio di Aziz, vero?» chiede la nuova arrivata girandosi verso
di me. Ha gli occhi verdi e le labbra a forma di cuore.
«Sì, sono il figlio di Aziz Divit, e tu?»
«Io mi chiamo Polen. I nostri padri si conoscono dai tempi della scuola.
Sono appena tornata dall’America e penso che ci vedremo spesso, sai?»
mentre conclude la frase si gira nuovamente verso Esel, che nel frattempo è
rimasta immobile come una statua.
«Sei ancora qui?» le dice in modo altezzoso. «Ora ci penso io a curare
Can.»

Casa di Aziz Divit – Distretto di Beykoz, Istanbul (2014)


Lei è sopra di me. Posso sentire il calore del suo corpo, le sue gambe che
scivolano tra le lenzuola. Si inarca offrendomi le labbra color corallo. Le
sento morbide quando si uniscono lievi alle mie, per poi farsi affamate.
Sono inebriato dal suo profumo, che mi arriva sempre più intenso. Il suo
corpo si muove a un ritmo familiare e io la stringo a me come se avessi
paura che fuggisse via.
«Can… ti amo» mi dice la creatura senza volto. E quella che era l’estasi
di un pomeriggio d’estate si spezza come sotto lo scroscio di un temporale
improvviso.
Ti amo. Due parole che io non so riconoscere, che mi spaventano e mi
minacciano. Chissà se anche io potrò innamorarmi… Con le mani le prendo
il volto, che è un fascio di luce, e l’avvicino di nuovo alla mia bocca. I miei
occhi cercano di vedere i suoi ma la luce è troppo accecante. «Chi sei tu?»
chiedo, anche se non voglio che parli, che ripeta ancora quelle parole.
Mi alzo di scatto. Sono nel letto della mia camera. Sono da solo. I raggi
del sole ormai alto illuminano la stanza. È stato un incubo. Il solito incubo.
Un senso di colpa mi prende allo stomaco nei confronti di tutte quelle
ragazze di cui in questi anni non sono riuscito a innamorarmi. Guardo il
telefono e trovo almeno dieci chiamate perse. Che ore sono? Le undici di
mattina e ho dormito pochissimo. Con tutto quello che è accaduto questa
notte non ce l’ho fatta a prendere sonno prima dell’alba.
Devo andare al lavoro. Mi alzo e mi infilo sotto la doccia. Lascio cadere
per terra l’asciugamano con cui mi sono addormentato. Penso che dovrei
imparare ad affrontare tutte le difficoltà della vita con la stessa noncuranza.

Con l’auto entro direttamente nel parcheggio sotterraneo della Fikri Harika,
l’agenzia pubblicitaria di mio padre. Con la mano mi aggiusto i capelli, che
sono ogni giorno più lunghi e cominciano a cadermi scomposti davanti agli
occhi. Quando l’ascensore si apre riconosco il frastuono familiare. La gente
si aggira per l’enorme open space con in mano cartelline colorate. Si sente
ridere, chiacchierare, e da lontano arriva un forte aroma di caffè appena
fatto.
«Buongiorno signor Can» mi saluta la receptionist.
«Ciao… Ya… Ny… Ciao.»
Conosco tutti qui, ma spesso non ricordo i loro nomi. Dovrei andare
nell’ufficio di mio padre, ma non ho voglia di vederlo. Mi fermo da Emre.
«Ben svegliato fratellone. Come va la tua testa?»
«Bene, hai notizie del ragazzo?»
«È ancora ricoverato ma se la caverà. Papà ha detto che ha parlato con il
suo avvocato e gli darà un bel po’ di soldi per non farti denunciare.»
Detesto quelle parole. Detesto che ci sia qualcuno a togliermi dai guai,
ma soprattutto odio chi mente, come la ragazza di quel tizio.
Sono ancora immerso nei miei pensieri quando la nostra conversazione
viene interrotta da una voce familiare. Quella di Aylin.
«Ciao Can, dormivi ancora quando siamo usciti» dice sorridendo
maliziosa «noi alla fine non avevamo più sonno, non è che hai sentito un
po’ di rumore stanotte e ti abbiamo tenuto sveglio?»
Indossa un paio di shorts e un top che le copre appena il seno. Sotto i
capelli corti ondeggiano due enormi orecchini dorati che tintinnano a ogni
passo.
«No Aylin, tranquilla, non faccio caso ai vostri rumori…» le rispondo
guardandola dritta negli occhi. Per tutta risposta lei mi fulmina con lo
sguardo, che addolcisce solo quando si gira verso Emre.
«Stasera ceniamo insieme da me?» gli chiede soavemente, ottenendo in
cambio un sorriso carico di promesse. «Sono già da te» le risponde lui con
occhi innamorati.
«Vi lascio» taglio corto, annoiato da quei toni troppo sdolcinati, e mi
dirigo nell’angolo ristoro che ho soprannominato salvezza, cercando
disperatamente un tè caldo.

È ormai buio quando mio padre entra nel mio ufficio. Ho passato tutta la
giornata saltando da una riunione all’altra. Ci sono sei campagne
pubblicitarie aperte da seguire. Gli occhi ricominciano a bruciarmi.
«Ciao Can, come ti senti figliolo? Oggi non ti ho visto per tutto il
giorno.»
«Sto bene papà» dico mentendo.
«Volevo parlarti. Tra poco ci raggiungerà anche Deren.»

Ed eccola, con i suoi pantaloni stretti, i capelli castani tagliati a caschetto e


l’immancabile tazza di caffè. Deren, una delle donne più in gamba che io
conosca. In teoria è l’assistente di Aylin, ma in pratica è il braccio destro di
mio padre e, di sicuro, colei che conosce tutti i segreti di questa azienda.
Sempre in movimento e deliziosamente nevrotica, ha una grande dedizione
al lavoro e controlla tutto in maniera maniacale, spesso andando anche nel
panico via via che le date di consegna di avvicinano. Proprio questo la
rende unica. Qualcuno di cui ci si può fidare.
«Ciao Can» saluta aprendo la porta a vetri. «Signor Aziz.»
Si siede con noi. Anche a quest’ora della sera un rossetto rosso fuoco le
dipinge impeccabile le labbra carnose. Accavalla le gambe e posa la tazza
del caffè sul tavolo, pronta a fare l’ennesimo resoconto dalla giornata.
«Ho aspettato che tuo fratello e Aylin uscissero» comincia a raccontare
mio padre con tono confidenziale «perché volevo parlarti di qualcosa che
mi preoccupa molto. Deren mi ha fatto notare quanto sia negativa
l’influenza di quella ragazza su tuo fratello. Ma c’è altro…»
«Il signor Aziz ha ragione» interviene Deren. «Non ho ancora prove
certe, ma sono sicura che Aylin abbia intenzione di intrappolare Emre in un
matrimonio. L’altro giorno ho sentito per sbaglio una sua conversazione
telefonica» continua concitata «dove raccontava di essere al lavoro per
raggiungere il suo scopo: “La storia con Emre sta andando a gonfie vele” ha
detto, “lui è innamorato pazzo e molto presto diventerò la signora Divit”.
Ne ho parlato subito con Aziz. Temiamo la cosa avvenga prossimamente.»
«Temo che i suoi sentimenti per Emre non siano sinceri» interviene mio
padre. «Ho paura che sia un’arrampicatrice sociale e che farebbe qualsiasi
cosa pur di fare carriera. Dovrebbe essere un direttore creativo, ma tutte le
cose che fa le prende dagli altri. Non c’è una campagna pubblicitaria che
porti davvero la sua firma. Fa sue le idee dal reparto creativo e non rende
merito agli altri. Giusto Deren? Devo ammettere che ha ingannato anche me
all’inizio. È entrata come una promettente stagista, ma mi sono accorto che
la sua unica abilità è stata quella di mettersi con tuo fratello.»
«L’ho capito perché il reparto dei creativi viene spesso a lamentarsi con
me in segreto» mi rivela Deren agitandosi. «Hanno paura di lei, ma a me
hanno confessato che tutte le idee che propone sono le loro.»
«Can» dice mio padre «non dire niente di questo a tuo fratello: è troppo
preso da quella donna, non capirebbe. La loro relazione è l’unico motivo
per cui lei, per il momento, deve continuare a essere il direttore creativo
della Fikri Harika a discapito di Deren» dice guardandola con la tenerezza
di un genitore. «Vorrei che anche tu la tenessi d’occhio. Scambiatevi le
informazioni tra di voi» aggiunge poi alzandosi. «Conosco le persone come
lei, prima o poi farà un passo falso e in quel momento agiremo compatti per
il buon nome dell’azienda, ma soprattutto per il bene di Emre. Voi due
ragazzi siete molto ricercati per la vostra posizione sociale e non voglio che
soffriate per amore» conclude malinconico, pensando al suo rapporto con
l’ex moglie Hüma. «Ora vi lascio, ho bisogno di una buona cena e di un
liquore molto forte.»

Io e Deren rimaniamo da soli. Siamo seduti uno di fronte all’altra. Lei un


po’ imbarazzata mi guarda e so già cosa vuole chiedermi: «Ehm Can...»
dice arrossendo.
«Sì, Deren?» le rispondo con finta noncuranza.
«Ti va se stasera facciamo la nostra solita cosa?»
La guardo serio e vedo l’imbarazzo sul suo viso. Poi scoppio a ridere,
allentando la tensione: «Per come mi sento in questi giorni non potrei
desiderare altro».
Quando usciamo dall’ufficio una pioggia leggera bagna la città. In
macchina accendo la radio, concentrandomi sulla musica per non pensare a
ciò che mi è appena stato rivelato, e seguo l’auto di Deren che si muove
agile lungo le strade della città. Mi sembra trascorsa un’eternità quando
parcheggio accanto a lei e lascio che mi preceda dentro l’edificio dove c’è il
suo appartamento, pregustando il resto dalla serata.
Ci mettiamo comodi lasciandoci andare a qualche battuta per allentare la
tensione dovuta sia al lavoro sia alla conversazione avuta poco prima con
mio padre, mentre aspettiamo le pizze che abbiamo ordinato. O meglio, lei
ha scelto la pizza, io sono più tradizionale. Per me non c’è niente di meglio
di un lahmacun, la deliziosa pizza turca. Deren è fissata con il cibo europeo:
le ricorda il periodo in cui studiava all’estero prima di tornare a Istanbul
dopo la laurea. Si è laureata a Londra e poi ha frequentato anche un master
in Francia.
So che ha da sempre un debole per me e, nonostante in lei ci sia un
fondo di timidezza, non fa niente per nasconderlo perché ci vogliamo bene.
Mi rilassa guardare un film con lei, passare la serata a ridere e a mangiare.
Lo facciamo spesso, come due vecchi amici.
Anche a casa è ansiosa come in ufficio e passa da una stanza all’altra
cercando di sistemare tutto, agitando le mani mentre parla. «Cosa ne pensi
di Aylin?» le chiedo mentre apparecchia la tavola con le pizze appena
arrivate.
Alza gli occhi e guarda dritta nei miei. «Non posso dirlo chiaramente ad
Aziz, ma credimi, quella donna è pericolosa. Sarebbe capace di fare
qualsiasi cosa. Sono la sua assistente e trova ogni giorno una nuova scusa
per torturarmi. Prendi quello, lascia quello, chiama quell’altro, hai
sbagliato, rifallo da capo. Se non fosse per tuo padre e per l’affetto che ho
per lui non so cosa farei» confessa quasi sollevata.
«Cosa intendi per sarebbe capace di fare qualsiasi cosa?» le dico
prendendo un pezzo di lahmacun e mettendolo tutto in bocca.
«Non lo so, ho la sensazione che abbia un piano in mente e che il
matrimonio con tuo fratello sia solo la parte iniziale. Conoscendola farà di
tutto per realizzarlo.»
«Mmm, mi ricorda mia madre» rispondo sarcastico pulendomi la bocca
con la mano.
«Non parliamo di lavoro stasera» dice, fissandomi la bocca mentre gli
occhi si illuminano. «Piuttosto dimmi di te. Come sta andando con la
fotografia? Sei riuscito poi a farti ammettere all’International Photographers
Association?»
«Ho fatto richiesta» le spiego «ma è difficilissimo, sarei l’unico
fotografo turco a farne parte. Loro si occupano soprattutto di reportage in
zone di guerra che non conosco bene.»
«Meglio così, ci servi in ufficio. Abbiamo un sacco di campagne da
portare a termine e vedo tuo padre sempre più disinteressato.»
«Chi, il signor Aziz? Lui è nato per fare questo lavoro. È come Emre:
prima il dovere…»
«Al piacere ultimamente ci stai pensando tu, mi sembra» mi gela Deren.
«Niente di importante. L’amore è un sentimento sopravvalutato.»
«Anche tu lo sei» risponde interrompendomi. «Mi sono sempre chiesta
cosa ci trovino in te tutte le ragazze che ti corrono dietro, ma soprattutto
perché non ti piace nessuna. Alla prima domanda potrei aver trovato una
risposta: i muscoli, i capelli lunghi e gli occhi neri» dice scherzando. «Ora
però ho troppa fame e trovo molto più attraente questa pizza. Meno male
che ti sei ricordato di ordinarla vegana.»
«Ti adoro Deren» le dico ridendo di cuore.

Mi sveglio di soprassalto. Il solito incubo. La solita lei senza volto. È


ancora notte fonda e sono sul divano di Deren con addosso una coperta che
riesce a malapena a coprirmi le gambe. L’ultima cosa che ricordo è il film
che stavamo guardando insieme. Cerco di riaddormentarmi ma ho tanti
pensieri in testa. Le immagini degli ultimi anni della mia vita mi scorrono
nella mente creandomi un senso di inquietudine. C’è qualcosa in me di
profondamente sbagliato, una parte oscura che mi attanaglia impedendomi
di far uscire i miei veri sentimenti. E poi quell’incubo costante. Quella
donna che popola i miei sogni, che non riesco mai a vedere in volto, ma che
mi attrae irresistibilmente come una luce attrae una falena.
«Che ne dici, facciamo colazione insieme?» la voce di Deren sembra
arrivare da lontano, ma in realtà è proprio vicina a me. Apro gli occhi e
vedo che mi sorride avvolta in un accappatoio bianco.
«Mmm, direi di sì, anche se temo che tu non abbia in casa il tè.»
«No infatti, ma sto preparando il caffè. Vai a farti una doccia, ti aspetto
in cucina.»
Sono contento di essermi fermato da lei. Dopo tutto quello che è
successo la notte precedente avevo bisogno di qualcuno che mi
comprendesse, avevo bisogno di un volto amico. Accendo il telefono e mi
dirigo verso il bagno, ma riesco a muovere solo qualche passo prima che
Deren mi chiami dalla cucina.
«Can vieni qui. Subito per favore!» Il tono di voce è più agitato del
solito.
«Deren, che succede?» Arrivo di corsa e mi vedo: sono in TV mentre do
un pugno al ragazzo della sera prima. Ricordo i cellulari che mi
riprendevano, ormai le immagini sono pubbliche.

“Can Divit, figlio del celebre imprenditore Aziz, si è reso colpevole di un


brutale pestaggio che ha mandato all’ospedale un giovane di venticinque
anni. Secondo le prime ricostruzioni, il noto fotografo e playboy avrebbe
importunato la fidanzata del ragazzo per poi picchiarlo fino a lasciarlo quasi
in fin di vita. Da fonti mediche si apprende che la vittima è al momento
fuori pericolo, con una prognosi di venti giorni a causa del trauma cranico.
Divit, che lavora alla Fikri Harika, l’azienda di famiglia, non è nuovo a
episodi di questo tipo. Un paio di anni fa venne coinvolto in uno scandalo
per un motivo simile. In quell’occasione venne fotografato in atteggiamenti
inequivocabili insieme alla popolare modella turca Esel Atasoy, provocando
la dura reazione del fidanzato di lei, che finì poi in ospedale. Anche in quel
caso lo scandalo venne messo a tacere grazie al suo cognome, ma
l’opinione pubblica si interroga su come sia possibile che episodi del genere
possano accadere e se la sua potente famiglia riuscirà per l’ennesima volta a
impedire al rampollo d’oro di affrontare le proprie responsabilità davanti
alla giustizia.
Passiamo ora alle notizie locali. Aumenta il turismo in Turchia, Istanbul
è la città più visitata…”

È un incubo. Lo so, lo sento dentro di me. Sta succedendo di nuovo, dopo


quel terribile momento con Esel. Lo sanno le mie mani che istintivamente
porto alla testa per frenare i pensieri vorticosi che cominciano a viaggiare
come schegge impazzite. Lo vedo negli occhi di Deren, che ora mi
guardano con un misto tra stupore e incredulità.
«Can» mi chiede, mentre le sue pupille si dilatano «che succede?»
Incateno il mio sguardo al suo e cerco di aprire la bocca, ma le parole
non escono. Mi accarezzo nervosamente i capelli con le mani in un gesto
che ora sa di disperazione. Mi sento un leone in gabbia.
«Can, ti prego, calmati. Ci deve essere una spiegazione. Io so che tu non
sei così, sei l’uomo più gentile e premuroso che io conosca, ma ora devi
calmarti.»
Mi siedo cercando di darle ascolto. Non so cosa fare. Deren mi porge un
caffè.
«Io non bevo caffè, lo sai» le dico, ma lei non accetta obiezioni.
«Oggi sì.»
Dal salone arriva il ronzio del mio telefono. Deren mi guarda e poi,
senza dire nulla, va a prenderlo. Sento che lo afferra e risponde.
«Signor Divit… buongiorno, sono Deren.»
«Deren? Ma io ho chiamato Can.»
«Lo so signor Aziz, ci siamo incontrati questa mattina presto per fare
colazione insieme» gli spiega, mentendo per evitare fraintendimenti e per
mettere entrambi al riparo da possibili pettegolezzi.
«È successo qualcosa di molto grave e ho bisogno di parlare con mio
figlio. Urgentemente.»
«La faccio richiamare subito, signor Aziz, è andato a pagare il conto.»
Quando Deren rientra nella stanza la guardo in faccia senza dire una
parola: ho ancora negli occhi quelle immagini sfocate passate in TV.
«Non potevo fare diversamente» mi dice, quasi leggendomi nel pensiero
«sono abituata a risolvere problemi. È il mio lavoro. Parlare adesso con tuo
padre non avrebbe risolto nulla. Ora però vestiti: andiamo in ufficio,
abbiamo molto lavoro da fare.»
Prima di salire in macchina prendo un tè da un venditore ambulante. Non
c’è niente di meglio per schiarirsi le idee. Me ne rendo conto mentre
sfreccio da casa di Deren verso la Fikri Harika. Ora so esattamente cosa
devo fare. A tante parole l’unica scelta possibile è rispondere con il
silenzio.
3

Residenza Aksu – Istanbul (2002)


Scavalcare il muro della casa del sultano è la cosa che più al mondo mi
rende felice. Non ci abita realmente il sultano, ma dentro c’è comunque una
principessa. Non capisco cosa sia questo strano tormento che dal giorno in
cui ho incontrato Esel mi fa pensare a lei ogni secondo. A volte mi affaccio
alla finestra della mia camera sperando di scorgerla in giardino a giocare.
La immagino con i suoi capelli lunghi correre felice e poi fermarsi per
prendere fiato. Mi sembra di vederla con le guance rosse, il lungo vestito
sporco d’erba e quegli occhi luminosi. Ogni volta che la incontro sento
ancora il brivido di quando mi ha sfiorato per la prima volta con la sua
piccola mano e quel profumo di fiori che la circonda. Vederla però è quasi
impossibile, rinchiusa com’è in quella fortezza dalle alte mura che ogni
giorno provo a superare.
«Can» la voce di mio padre mi fa sobbalzare. «Ti ricordi che stasera
vengono a cena i genitori di Polen? Ci sarà anche lei» mi dice facendomi
l’occhiolino.
È convinto che io mi sia preso una cotta, ma non è così. Polen è
bellissima, ma è Esel che mi fa battere il cuore. Mi basta solo pensarla.
“Se stasera venisse anche lei, se ci fosse e potessi vederla...” ritorno a
volare con la fantasia.
Non so gestire questa sensazione che mi prende allo stomaco e mi blocca
i pensieri. Ovunque vada c’è solo lei nella mia mente. Metin e Akif hanno
capito che sono strano in questo periodo. Prima, andare in giro con loro per
il quartiere era la cosa che mi piaceva di più: correre per le strade polverose
con le biciclette e fare a gara a chi frena all’ultimo momento nella discesa
appena sotto casa mia o tirare sassolini alle finestre e poi scappare veloci
guardando le facce arrabbiate dei proprietari. Ora queste cose mi sembrano
così lontane da me. Tutto il mondo pare sbiadito, senza più colori. Sento il
citofono e mi precipito sotto. Al cancello trovo Metin.
«Ciao Can, oggi ti va di uscire?»
«No Metin, scusa ma devo studiare» mento.
«Ma sei il più bravo a scuola, cosa devi imparare ancora? Dai, facciamo
una gara e vediamo chi arriva prima a casa di Akif!»
Guardo negli occhi il mio amico ed è come se non riuscissi più a
comprendere quello che mi sta dicendo, è come se Esel avesse
completamente cambiato i miei desideri. Ora non penso più alla mamma
lontana, a Emre che sta con lei in Svizzera mentre io sono rimasto qui da
solo. Esel ha riempito il mio mondo.
«Metin» gli propongo, illuminandomi «ti va se oggi ti presento la mia
amica di cui ti parlo sempre?»
Metin mi guarda in modo strano, senza capire: «Ancora quella ragazza
misteriosa? Per fare cosa poi? Le gare in bicicletta? Ma sei pazzo, pensa
che lagna».
«No Metin, niente gare. Andiamo, vedrai che ti diverti.»
Prendo la mia bici e in un lampo siamo davanti casa di Polen. Suono il
campanello.
«Sono Can Divit, signore, c’è Polen?»
Sento il clic del cancello, che si apre lentamente. La stessa cosa fa la
bocca di Metin che chiede stupito: «Ma che cos’è questo posto
meraviglioso?».
«Te l’ho detto che ti sarebbe piaciuto, io la chiamo la casa del Sultano.»
Non appena entriamo, dal lungo vialetto vedo i capelli biondi di Polen,
che ci sta venendo incontro.
«Ciao» le dico quando è vicina a noi. «Mio padre mi ha detto che stasera
vieni a cena da noi, così ho pensato di venirti a trovare un po’ prima per
giocare e poi andare insieme a casa mia.» Da dietro le spalle sento Metin
che mi spinge. «Io sono Metin» dice, allungando la mano verso Polen.
Sembra molto colpito dalla sua bellezza, ma chi non lo sarebbe? Solo io,
che non ho occhi che per Esel.
«Ah, giusto, lui è un mio amico. Ho chiesto anche a lui di venire. Ma
Esel dov’è?» domando imbarazzato.
Polen mi fulmina con lo sguardo e risponde stizzita: «Esel è in cucina
con sua madre, la nostra cameriera. Solitamente, come ti ho detto più volte,
non gioca con me».
La sua risposta è gelida, ma il sorriso che le distende le labbra mi
tranquillizza.
«Scherzo, Can. Visto che c’è anche il tuo amico, posso chiederle di
venire a giocare con noi. Sempre se ha finito le sue faccende.»
Il mio cuore fa una capriola. Metin nel frattempo ha ancora lo sguardo
fisso.
«Amico, va tutto bene?»
«Che bella quella ragazza.»
«Chi, Polen?»
Le nostre parole si dissolvono nel vento, perché in quel momento i miei
occhi sono tutti presi da Esel, che è spuntata timidamente dal grande
portone di casa. Ha la testa bassa e tiene le mani strette davanti a sé. Il
cuore mi batte talmente forte che lo sento rimbombare anche nelle orecchie.
Rimango lì impalato con le braccia lungo il corpo, guardando tutto come
fosse al rallentatore, Esel che si avvicina, alza lo sguardo e incrocia il mio.
Mi manca il respiro, ho la bocca secca e non so dare un nome a quello che
provo. Vorrei poterle correre incontro e abbracciarla, anche se fino a pochi
anni prima giocare con una ragazza significava solo aver perso una
scommessa. Ora le perderei tutte pur di rimanere con lei.
«Ciao Esel» balbetto, e il suo volto si illumina del sorriso più bello che
abbia mai visto.
«Ciao Can, sono contenta di rivederti…»
L’aria è densa come nelle giornate più calde d’estate e mi impedisce
quasi di respirare. Qualcuno prende la mia mano e la stringe forte: è Polen,
che con quel gesto taglia il filo che lega i miei occhi a quelli di Esel.
«Ti presento Metin, un amico di Can. Voleva tanto conoscerti, Esel.»
Lei porge la sua mano al mio amico, che si presenta. La mia invece è
prigioniera in quella di Polen. C’è qualcosa che è stato deciso ormai da
tempo e a cui non riesco a oppormi. Questa sensazione mi opprime.
«Facciamo una corsa» propone Polen trascinandomi via «noi ci
nascondiamo… e voi però non ci cercate» aggiunge, girandosi verso Esel e
Metin.

Fikri Harika – Beşiktaş, Istanbul (2014)


Quando arrivo in agenzia non credo ai miei occhi. È completamente
circondata da giornalisti, operatori e macchine da presa. Di nuovo l’assalto
dei media, come due anni fa.
Sembrano tanti corvi sui fili elettrici, che aspettano la preda prima di
lanciarsi contro di lei tutti insieme. E la preda in questo caso sono io. Cerco
di evitarli ma l’entrata del garage è presa d’assalto. Ho paura di far male a
qualcuno ma devo comunque passare. Uno di loro mi vede e lancia il
segnale a tutti gli altri, che si fiondano sulla mia macchina, circondandola.
«Can, cosa è successo?»
«Can, ci racconti la verità!»
«Si dice che l’abbandono di sua madre l’abbia sconvolta, è per questo
che ce l’ha con il mondo, è così?»
Ascolto queste parole e non posso credere che la mente umana riesca a
pensare cose del genere. Vorrei aprire il finestrino e dirgliene quattro, ma
anche questo, come sempre, verrebbe usato contro di me. Riesco a farmi
spazio sterzando e finalmente imbocco la rampa che porta ai parcheggi.
Anche lì l’entrata è bloccata da molti di loro. Per fortuna la guardia di
sicurezza riconosce la mia auto e mi viene in soccorso.
Non appena entro nella grande hall il rumore familiare di voci e risate si
ferma all’improvviso. Un silenzio pesante mi scende addosso rendendomi
difficile anche solo camminare. Tutti mi guardano carichi di domande, ma
nessuno dice una parola. Deren mi corre incontro. È agitata e il ticchettare
ritmico dei suoi tacchi alti è l’unico rumore che si sente.
«Can, come stai? Hai visto cosa sta succedendo fuori?»
«Sì, l’ho visto, Deren.»
Güliz, la più pettegola dell’agenzia, ha un sorrisetto più furbo dei suoi
vent’anni e mentre cammino commenta sottovoce con un gruppetto di
colleghe.
Arrivo nel mio ufficio con la voglia di sbattere la porta. Purtroppo è di
vetro e non sarebbe una grande idea. Mi sento in trappola. Faccio avanti e
indietro cercando di raccogliere i pensieri, mentre Deren e mio padre
entrano nella stanza.
«Can» mi dice Deren sedendosi «è tutta la notte che abbiamo la stampa
fuori dall’ufficio. Ci stanno attaccando sui social, il telegiornale parla di
noi, ormai non si tratta più di una scazzottata tra ragazzi, qui il discorso è
più ampio…»
«Deren vuole dirti» continua mio padre «che bisogna rilasciare una
dichiarazione ufficiale per spiegare come sono andate realmente le cose.»
«No.»
«No?» chiedono i due all’unisono.
«No. Ci ho pensato bene, non devo spiegare niente a nessuno. Chiudete i
nostri social se volete. Io con il mio l’ho già fatto. L’altra volta, quando
hanno pubblicato le mie foto con Esel, ho parlato con loro e a che cosa è
servito?»
Esel. Quel nome esce dalla mia bocca, ma in realtà proviene
direttamente dal cuore. Per una frazione di secondo la rivedo, bellissima,
con i capelli scompigliati mentre mi abbracciava. Sento ancora il sapore
dolce delle sue labbra e rivedo i suoi occhi perdersi dentro i miei. Ricordo
ancora le sue lacrime il giorno in cui andò via e la mia disperazione perché
non sapevo cosa fare. Ora però non sono più quel ragazzo e so cosa fare.
«Papà» annuncio senza mezzi termini «ho deciso di partire. Raggiungo
Polen a Londra. Possiamo condividere l’appartamento, come facevamo
all’università. Oppure può ospitarmi finché non trovo una casa. Mi
concentrerò sul mio lavoro di fotografo.»
Nessuno ha il tempo di reagire perché, proprio in quel momento, Aylin
spalanca la porta. Fa una pausa e ci guarda a uno a uno prima di spiegare
cosa l’ha portata qui. «Deren ti stavo cercando, ho bisogno di te.»
Deren, ancora sconvolta dalle mie parole, si alza e la precede fuori dalla
stanza, lasciando a lei il compito di chiudere la porta alle loro spalle. Aylin
non aspettava altro per sorridermi sarcastica assottigliando gli occhi. Ha
sicuramente sentito le mie parole e questa situazione, a quanto pare, le piace
molto. Mi tratta come se fossi un nemico da eliminare.
Siamo rimasti da soli io e mio padre. Lui mi scruta a lungo prima di
aprire bocca. Sembra cerchi le parole più adatte per dire quello che pensa.
«Can, sai bene quanto io sia felice di averti qui. Sei un ragazzo in
gamba, ma da qualche tempo a questa parte stai soffrendo troppo. Credo
che cambiare aria ti farà bene. Avrei preferito che rimanessi con noi, per
aiutarmi con Aylin e tuo fratello, ma capisco tu preferisca andartene. Ti
avrei proposto la stessa cosa. Fa’ buon viaggio figliolo.»
«Grazie papà» gli dico stringendolo forte e respirando ancora una volta il
suo profumo, che tante volte quando ero piccolo mi aveva consolato
insieme ai suoi abbracci.
Casa di Aziz Divit – Distretto di Beykoz, Istanbul
Finalmente sono a casa. La giornata è stata infinita ma una nuova energia
mi scorre nelle vene. Mi siedo sul letto e ripenso a tutti gli eventi delle
ultime ventiquattr’ore: ai giornalisti che hanno tentato di raggiungermi con
ogni stratagemma possibile, alle parole di mio padre e agli abbracci di
Deren che non mi lasciava andare via. «Mi raccomando, papà e io teniamo
molto a Emre, fammi sapere cosa scopri su Aylin. È tutto nelle tue mani» le
avevo raccomandato prima di lasciarla andare.
E poi penso a Emre che, incredulo per la notizia che la sua fidanzata gli
aveva già riportato, era entrato nel mio ufficio chiedendomi se ero
impazzito.
Sono sicuro che sia realmente dispiaciuto. Sono suo fratello e il nostro
sangue è il legame più forte, nonostante Aylin stia cercando di separarci.
Cerco di dare un senso a quanto è successo e comincio a fare le valigie, ma
quando mi guardo intorno capisco che non ho bisogno di portare niente.
Tutto quello che vedo fa parte di ciò che ero e che non voglio più essere.
Istintivamente però la mia mano va alla pila di libri sotto la finestra. Sopra
c’è un po’ di polvere che soffio via. Passo in rassegna i volumi fino a che
non trovo quello che cercavo, quello che verrà con me e mi ricorderà la mia
casa anche quando sarò lontano. Sollevo Poesie d’amore del mio amato
Nâzım Hikmet.
Accarezzo la copertina chiara con il pollice e poi la annuso per sentirne
l’odore. Alcune pagine sono ingiallite e le scorro velocemente con le dita.
Questo è l’ultimo regalo di Esel. Ricordo ancora quando mi è arrivato, un
anno dopo che lei se ne era andata.
Era volata via con le lacrime che le rigavano il volto e gli occhi sbarrati
di chi non può credere a una verità troppo dolorosa. Cioè che io la stavo
lasciando. Come i capelli erano stati la prima cosa che avevo visto di lei,
così erano stati anche l’ultima. Una tempesta scura che, questa volta, non si
avvicinava al mio cuore ma lo abbandonava per sempre.
Preso dalla nostalgia stringo istintivamente il libro al petto, ma mi
scivola dalle mani e cade scomposto sul pavimento. È solo quando lo
raccolgo che scopro che all’interno della copertina c’è una busta incollata.
Come ho fatto a non vederla fino a ora? Tipico di Esel e dei suoi strani
modi di comunicare. La stacco delicatamente e riconosco subito la sua
calligrafia.
“Per Can” c’è scritto sopra. Mi siedo sul pavimento appoggiando la
schiena ai piedi del letto. Apro la busta ed estraggo un foglio di carta
piegato più volte, che racchiude un piccolo bocciolo di rosa ormai secco,
ma dai colori ancora vividi e intatti. Lo poggio delicatamente sopra la mia
gamba e apro la lettera...

Caro Mister C,
prima di tornare da te era necessario che il tempo asciugasse le mie lacrime e lenisse il
tuo cuore. Solo adesso posso scriverti un ultimo messaggio, certa che questo sia un
addio solo tra due persone, perché l’amore continuerà a fiorire nelle nostre vite dando
nuova linfa al prato dove ci siamo incontrati per la prima volta.
Lontana da quello che è riuscito a separarci, mi sono piegata al volere che il destino ci
ha riservato. Credo che la vita ci assegni un percorso da cui è impossibile uscire, e il
mio e il tuo seguono strade separate.
Nel mio cuore ora non c’è più nessun dolore, semmai nuova linfa e una nuova vita che
presto nascerà, e che mi farà diventare madre. È il momento di andare avanti. Questo
avvenimento così meraviglioso mi ha fatto capire molte cose. Anche le tue azioni, che
mi sono sembrate così crudeli e dettate dall’orgoglio, in realtà appartengono alla tua
ferrea convinzione di lasciar fuori dalla tua vita le menzogne, e questa è una cosa
bellissima che ti prego di non cambiare mai. Ora ho capito che avevi ragione. Ho capito
quanto quella mia vita, così superficiale, fatta solo di vestiti firmati e soldi, mi avesse
cambiata. Sono riuscita a vedermi con gli occhi con cui mi hai vista tu quella sera e ti
ringrazio per avermi aiutata, anche se dolorosamente, a far cadere quel velo di stupida
vanità e senso di rivalsa nei confronti della vita che mi aveva bendato gli occhi, e a
tornare la ragazza che ero prima che il vortice della fama mi risucchiasse.
Tra qualche settimana mi sposerò, volevo che tu lo sapessi e che fossi felice per me.
Sono certa che lì fuori, in qualche posto sperduto, si nasconda la tua anima gemella e
so che questa volta nessuno potrà farle del male. Difendila, Can, difendila con tutto
l’amore di cui sei capace. Chissà, forse per lei riuscirai a passare sopra a tutto, anche
alla tua integrità, anche alla tua legittima intransigenza.
Il bocciolo di rosa che ho inserito nella busta l’ho raccolto il giorno del nostro primo
incontro, spero manterrà per sempre i colori della nostra primavera.
Esel
Rimango immobile per un tempo infinito rileggendo quelle parole.
Rivivo tutti i momenti trascorsi insieme, le gioie e le paure. Il mio addio.
Ora il cerchio si è chiuso davvero. Ora è il momento di andare avanti.
4

Casa di Sanem Aydın – Beykoz Kundura, Istanbul (2004)


Non mi piace il vestito azzurro che indosso. Mia madre ci tiene tanto ma di
sicuro stava molto meglio a mia sorella Leyla, la principessa bionda che lo
ha indossato per il suo compleanno due anni fa. Oggi invece è il mio, di
compleanno, e io ci tenevo tantissimo a sentirmi carina. Sono una delle
poche bambine del quartiere che lo festeggia, perché a mia madre non
sembra vero di avere un’occasione per poter fare una torta.
Mentre mi pettina i capelli, tirandomeli all’indietro con una spazzola per
farmi la coda, penso che prima o poi le rimarranno tutti in mano per
quanto li tira. Per questo ogni mattina prima di andare a scuola cerco di
sfuggirle e lei mi insegue per tutta casa fino a che non suona Ayhan e io
esco al volo, spettinata. Lei però non si arrende. Si affaccia alla finestra
brandendo la spazzola allo stesso modo del matterello che usa per
minacciarmi quando faccio qualcosa che non va, e mi urla di tornare
indietro: «Saneeeeem, dove vai con quei capelli?».
Io faccio finta di non sentirla e con Ayhan accelero il passo in direzione
della scuola, che è a pochi isolati da casa mia.
«Buongiorno papà» dico passando davanti alla porta della bottega dove
mio padre e quello di Ayhan stazionano sempre per chiacchierare e
sorseggiare del tè. Ogni mattina mi fermo lì con la mia amica del cuore e
lui ci regala un panino dolce appena arrivato dal forno vicino. Mentre mi
abbraccia per salutarmi, spesso mi sussurra: «Anche stamattina sei riuscita
a sfuggire a tua madre? Hai i capelli che somigliano a un cespuglio di
more».
Io sorrido e so che lui mi comprende anche se ogni sera, pur di dar
ragione a mia madre che si lagna della mia trasandatezza, finge di
arrabbiarsi e mi dice: «Se domani non ti fai pettinare, non passare da me a
prendere il panino!». Però poi fa mi l’occhiolino e capisco che non dice sul
serio.
Dunque, il mio vestito azzurro. Non mi piace, ma come seconda figlia
sono destinata a portare tutti gli abiti di mia sorella Leyla. Andrebbe anche
bene, se lei non fosse più alta di me e non avesse gusti completamente
opposti ai miei. Vestitini, rouches, fiocchi, colori tenui. Ma perché deve
vestirsi così? Adoro quando posso invece mettermi un paio di pantaloni e
una maglietta ed essere libera di giocare per il quartiere insieme ad Ayhan,
che avendo un fratello maschio ha la fortuna di indossare tutto quello che
le piace.
Oggi sono circondata da tutti i miei amici. C’è Osman, il fratello di
Ayhan, Muzaffer, il ragazzino più strano del quartiere che ho
soprannominato Zebercet, mia sorella Leyla con la solita espressione da
principessa acida, Ayhan, la mia amica del cuore, e qualche altro
compagno di classe tra cui Cahide, che è la mia compagna di banco anche
se con lei non è che vada proprio d’accordo. Però mia madre tiene alle
formalità e lei è la figlia della più chiacchierona del quartiere. È arrivata
solo da un paio di anni, ma ci è voluto poco perché lei e la sua famiglia
diventassero i più antipatici e insopportabili.
«Sanem, vuoi che tutti ci parlino dietro?»
«No, mamma, ma io non la sopporto.»
«È la tua compagna di banco? Allora verrà alla tua festa. E vedi di
mettere il vestito azzurro, quello che stava tanto bene a Leyla.»
“Ecco, appunto” penso “a Leyla, non a me.”
E poi c’è lui, Sinam, il mio compagno di scuola che tutti noi chiamiamo
Riccio per via dei capelli. Un ragazzino bellissimo, diverso da tutti gli altri
compagni. È gentile e disponibile con tutti. Da quando è arrivato a scuola
sono sempre insieme a lui e ad Ayhan a giocare. Le altre ragazze sono
noiose. Stanno sempre a saltare alla corda, a chiacchierare e a
spettegolare. A me invece piace sentirmi libera, correre e divertirmi senza
pensare che posso farmi male o che sporco il vestito. Mi ricordo il primo
giorno di scuola quando ci siamo conosciuti. Mia madre mi aveva
accompagnata e lasciata poi alla maestra Imran, che ci aveva fatto mettere
in cerchio nel giardino della scuola. Ognuno di noi doveva dire il suo nome.
Mi sentivo un po’ un pesce fuor d’acqua perché Ayhan era in un’altra
classe, ma lui si è avvicinato e prima ancora di presentarsi a tutti ha
allungato la mano e mi ha detto: «Piacere io mi chiamo Sinam». A quelle
semplici parole, le mie guance hanno preso fuoco. In quel momento, ho
avuto il desiderio di scappare ma anche quello di rimanere vicino a lui e
guardarlo a lungo. A volte, quando siamo in classe, mi giro a osservarlo e
quasi sempre scopro che anche lui mi sta guardando e sorride.
Purtroppo non sono la sola a trovarlo carino e simpatico, anzi, molte
bambine della mia classe, e persino della scuola, gli stanno sempre
addosso e vogliono diventare sue amiche. Sono sempre lì a fargli i
sorrisetti, a salutarlo, a chiedergli aiuto per i compiti. Lui è gentile con
tutte, ma con me in modo particolare. Penso a quando inciampo a scuola,
non so perché ma capita spessissimo, e a come ovunque lui si trovi mi corra
subito vicino chiedendomi se mi sono fatta male. Mi sento proprio un
disastro in quei momenti, così il più delle volte mi alzo e scappo via per non
farmi vedere tanto impacciata e lui mi rincorre pensando che si tratti di un
gioco.

Mamma esce dalla cucina e arriva in giardino con una torta a due piani, un
dolce che ha preparato seguendo la ricetta di una delle riviste che vende
nel minimarket. Nonostante cucini solo piatti turchi, per i miei dodici anni
ha fatto un’eccezione con “una di quelle torte che piacciono tanto in
America”.
«In piedi! In piedi!» gridano tutti i miei amici, e così senza farmelo
ripetere troppo salgo sulla sedia davanti al tavolo che abbiamo nel piccolo
giardino di casa. Sono un po’ traballante, ma riesco a resistere fino a che
mia madre non mi posiziona la torta davanti con la candelina accesa. Tutti
iniziano a cantare Happy birthday, la canzoncina che abbiamo imparato fin
dall’asilo durante le lezioni d’inglese.
Ho la torta davanti ma la ghiaia del giardino rende instabile la sedia,
che sento traballare sotto al mio peso. Sto per scivolare tra lo stupore di
tutti quando mi sento afferrare per un braccio. È Sinam, che con una presa
d’acciaio mi riporta in equilibrio tra le occhiatacce di mia madre e di mia
sorella e le risate di tutti gli altri. Mi sorride e io ringrazio di cuore il mio
salvatore, ricambiando il suo sguardo dolce e protettivo. Riparte la
canzoncina e quando arriva a «… happy birthday, Sanem» qualcosa fa
tremare nuovamente la sedia. Questa volta Sinam, che mi è rimasto vicino,
non ce la fa a prendermi e io e il mio vestito azzurro precipitiamo sulla
torta, riducendola a una poltiglia e facendola schizzare da tutte le parti.
Mi rialzo completamente ricoperta di glassa, pan di Spagna e
cioccolato. Ce l’ho ovunque: sul vestito, in faccia, tra i capelli. Mi giro per
cercare di capire cosa sia successo e dietro di me vedo Cahide con un
sorriso perfido stampato in volto. So che è stata lei, ma come faccio a
dirlo? In quel momento vorrei strozzarla. Che figura davanti a tutti, ma non
è la cosa peggiore. Le urla di mia madre possono essere sentite a chilometri
di distanza. Ayhan, la mia amica del cuore, mi viene vicino e cerca di
aiutare togliendomi i pezzi di torta dal viso e dal vestito.
«È stata lei, Cahide» le sussurro facendo volare le briciole di torta che
mi sono finite in bocca.
«Sorellina, ma perché lo avrebbe fatto? In realtà sei scivolata per la
ghiaia.»
Mia madre interviene prendendomi per un braccio e mi porta in casa:
«Sanem, ma possibile che ogni volta combini disastri? Cosa devo fare con
te?».
«Non è colpa mia, è stata Cah…»
«Sì, infatti non è colpa tua ma della tua sbadataggine. Come ti viene in
mente di salire sulla sedia? Vai a cambiarti, mettiti il vestito verde di
Leyla.»
«No, mamma, ti prego, quello verde no!»
Dopo quel disastro con la torta il vestito verde di mia sorella è proprio
la ciliegina sulla torta che non c’è più, penso tristemente.
«Sanem!» mi riporta all’ordine mia madre accompagnando il mio nome
con uno dei suoi sguardi fulminanti.
Non mi resta che pulirmi alla meglio e indossare l’orribile abito
dall’enorme fiocco sulla schiena. Esco di nuovo sentendomi uno dei
ramarri che vedo a casa della nonna, in campagna. Quella perfida di
Cahide, tutta vestita di rosa, sta parlando con Sinam, ma non appena lui mi
scorge la lascia da sola e si avvicina.
«Come stai? Sei molto carina con questo vestito. Non preoccuparti, non
è successo niente. Anzi, è stato divertente.»
Apprezzo molto il suo intervento, ma mi sento a disagio. Per fortuna
Muzaffer sta attirando tutta l’attenzione. È in piedi sulla sedia dalla quale
ero caduta poco prima e spiega a tutti come è successo urlando e
muovendo le mani quasi dirigesse un’orchestra. Tutti sanno che è un
bambino un po’ particolare e ormai alle sue stranezze non fa più caso
nessuno.
«Sorellina» mi chiede Ayhan avvicinandosi «stai bene?»
«Sì, sì» la rassicuro ancora un po’ provata.
«Ho portato una cosa per te» mi dice allungandomi un pacchetto
avvolto in una bella carta rosa.
«Grazie!» la abbraccio e strappo la carta del pacchetto. Dentro c’è una
specie di quaderno con sopra la foto di un grande uccello che sembra un
gabbiano.
«È un diario, Sanem. Sei così brava a scrivere e a raccontare storie!
Così ho pensato che puoi scrivere qui tutto quello che vuoi. So che ti
piacciono gli uccelli e ho scelto questo; non so cosa sia, ma lo trovo
bellissimo.»
Il regalo di Ayhan mi piace moltissimo. Ho sempre sognato di avere un
diario. Mi piace talmente tanto che ho iniziato subito a usarlo. Vorrei
riempirlo di ricordi belli e felici e spero non saranno tutti episodi come la
torta che ho distrutto cadendoci sopra.
Dopo Ayhan, anche Sinam si avvicina a me con un pacchetto rotondo.
Persino senza aprirlo capisco che si tratta di un pallone.
«Visto che giochi sempre a calcio con noi ragazzi, almeno ora puoi
allenarti anche a casa.»
Sono molto felice di quel regalo e lo sto per ringraziare, ma lui mi
interrompe.
«Ti ho portato anche un’altra cosa. Chiudi gli occhi» mi dice
guardandomi fisso. Io lo faccio e lui mi prende una mano e ci posa sopra
qualcosa prima di richiuderla.
Apro gli occhi e la mano e vedo un braccialetto d’argento. Lo avvicino
per guardarlo meglio e noto un piccolo ciondolo a forma di pesciolino.
Sinam sa benissimo che amo giocare a calcio con lui, ma adoro anche il
mare.
Rimango senza parole. Sento le mie guance andare in fiamme per la
sorpresa inaspettata. Lui se ne accorge, prende il braccialetto e me lo
aggancia al polso. Ho il cuore che mi batte forte e girandomi abbraccio
d’istinto Sinam, felice e molto imbarazzata.
Lui però si scosta, arrossisce e indietreggia di qualche passo. Non
capisco la sua reazione, ma in quell’istante si avvicina Cahide e si mette tra
noi due.
«Sanem, anche io ti ho portato un regalo» mi dice. «Scusa per prima,
devo aver inavvertitamente urtato la sedia.»
Non so perché ma non le credo e continuo a pensare che l’abbia fatto
apposta. «Diciamo che alla fine è stata una fortuna» continua «altrimenti
non avresti potuto indossare il secondo vestito di tua sorella. Mi ricordo
che lo aveva lei tempo fa.»
Quelle parole mi colpiscono profondamente, ma se pensa che le darò
soddisfazione si sbaglia di grosso… Apro il regalo che mi ha portato, come
se non avessi sentito quello che ha detto.
Dalla carta viene fuori una delle magliette più brutte viste in vita mia,
tutta fiocchi e perline. Orribile.
«Ho pensato di regalarti questa, almeno proverai la gioia di indossare
qualcosa di diverso rispetto agli abiti di Leyla.»
La sua frecciatina colpisce nel segno, ma non voglio darle
soddisfazione.
«Ti ringrazio» le sorrido. «Ma vestita così non uscirei neanche dalla
porta di casa.» Colpita, si gira e se ne va guardandomi male, mentre
arrivano tutti gli altri con i loro pacchetti colorati.

La festa è finita e a uno a uno i miei amici se ne vanno. Anche Sinam, che
mi saluta da lontano con la mano mentre esce insieme a Cahide, che invece
non mi degna di uno sguardo. Decido di andare a cena a casa di Ayhan e
mia sorella si unisce a noi accettando l’invito di Osman che, come dice
sempre sua sorella, è innamorato di lei. Mi piace molto passare la serata
con loro. I suoi genitori sono come zii per me e dopo quello che ho
combinato con la torta meglio stare un po’ lontana da mia madre.
Dopo cena vado in camera di Ayhan e cominciamo a parlare della festa
e di quello che è successo.
«Sinam è stato molto carino con me» dico, ripensando al suo primo
tentativo di aiutarmi a non cadere, e stringo con le dita il ciondolo a forma
di pesciolino che non ho più tolto dal polso. Poi però ripenso a quando l’ho
abbracciato per ringraziarlo e lui si è scostato. «Perché lo ha fatto,
Ayhan?»
«Non lo so» mi risponde lei. «Ma sei sicura? Magari era solo
imbarazzato.»
«Forse hai ragione.» Lascio cadere l’argomento e penso invece a
Cahide, che con me è stata davvero perfida.
«Ah, Sanem, lasciala stare. Lo sai che è come sua madre: parla, parla.
Non credo che lo abbia fatto apposta a farti cadere, ma che tu non le sia
molto simpatica te lo devo dire.»
«Ma perché Ayhan? Siamo compagne di banco, io sono sempre gentile
con lei, perché mi tratta in questo modo?»
«E chi può saperlo? Ma poi che ti importa?»
«Secondo me c’è qualcosa che non so.»
«Ahhh Sanem, però ora basta! Prima Sinam, poi Cahide, ma che ti
prende? Questo compleanno ti sta facendo male sorellina mia.»
Bussano alla porta e Osman entra seguito da Leyla.
«Che combinate ragazze?» chiede sorridente il fratello di Ayhan.
«Parlavamo del compleanno di Sanem.»
«E del solito disastro che ha combinato» aggiunge Leyla avvicinandosi.
«Sanem sostiene» dice Ayhan «che Cahide l’abbia fatta cadere
volutamente.»
«Ah guarda, non mi stupisce affatto. Se ha preso dal fratello…» Osman
si siede vicino a noi e io mi sporgo verso di lui, incuriosita.
«In che senso?»
«Ti ricordi quello che hanno sospeso dalla scuola lo scorso anno?»
Mi ricordavo vagamente una cosa del genere, ma non sapevo che si
trattasse del fratello di Cahide; in realtà non sapevo neanche avesse un
fratello.
«È un bullo. Ha minacciato alcuni ragazzi della scuola insieme alla sua
banda di amici.»
«È vero» interviene Leyla «una volta sono stata a casa sua per aiutarlo
con alcuni compiti e non ci andrò mai più.»
«Perché, che cosa è successo?» Osman cambia espressione. «Leyla,
dimmi tutto, ci vado io da quello se ti ha fatto qualcosa.»
Io e Ayhan scoppiamo a ridere nel vedere la gelosia di Osman, ma
questo infastidisce Leyla. «Cosa avete da ridere voi due? Sanem, è tardi.
Inizia ad andare a casa, io ti raggiungo tra poco: devo prendere dei libri.»
Il tono di voce da maestrina di mia sorella non ammette repliche e così
saluto Ayhan e mi incammino verso casa. Nel brevissimo tragitto ripenso a
Sinam. Non capisco il suo comportamento: prima mi regala un oggetto così
bello e poi si sposta in maniera brusca. Lui è davvero un mistero, ora me ne
rendo conto. Non ho mai visto i suoi genitori, non so neanche dove abiti in
realtà, e la cosa è strana visto che nel quartiere ci conosciamo tutti.
Sono a pochi passi da casa e in lontananza vedo una figura vicino al
portone. Lo riconosco subito dai capelli ricci: è lui, Sinam.
Non mi ha ancora visto e mentre mi aspetta cammina avanti e indietro
calciando palloni immaginari. Si ferma solo quando mi vede arrivare.
«Sinam? Che ci fai qui?»
«Ciao Sanem» mi dice imbarazzato. «Pensavo di parlarti domani, ma
quando sono tornato a casa questa sera i miei genitori mi hanno dato una
notizia e non potevo aspettare.»
«Ma che notizia? Sembri molto agitato.»
«Ascolta Sanem, io devo dirti una cosa importante…»
«Saneeeeem» la voce stridula di mia madre si palesa quando lei apre la
porta.
Io e Sinam ci geliamo e rimaniamo immobili senza dire una parola.
«Sanem, entra a casa, è tardi!» mi ordina in un tono che non ammette
repliche.
«E tu che ci fai qui?» dice poi rivolgendosi a Sinam. «Vai a casa, è tardi
anche per te.»
«Sì, signora Mevkibe, stavo solo dicendo una cosa importante a Sanem.»
«Gliela dirai domani. Non mi sembra il caso che rimaniate fuori a
quest’ora.»
Sinam abbassa la testa come sconfitto e mi saluta con la mano mentre si
allontana. Io entro in casa e mia madre non perde occasione per
rimbrottarmi.
«Ma ti pare l’ora di mettersi a parlare fuori casa?»
«Mamma, io non sapevo che...»
«Dai dai, vai su in camera. Tua sorella è rimasta da Osman?»
«Sì, mi ha detto che doveva prendere dei libri, ma ora torna.»
«Dei libri? Ma che brava! Dovresti imparare da tua sorella» mi dice
addolcendosi e abbracciandomi. «Ah, la mia figlia piccola che ha compiuto
dodici anni. Che bella che sei. Mi ricordo quando sei nata...»
Mia madre continua con il monologo che sento ogni anno, su quando
ero appena nata e Leyla era piccola e mi guardava nella culla e poi… Una
storia che conosco a memoria. Il mio pensiero va invece a Sinam. Che
voleva dirmi? Perché è tornato a quest’ora? Domani devo assolutamente
scoprire che cosa è successo. E devo raccontare tutto ad Ayhan.
5

Zurigo (2004)
«Mamma, perché stiamo tornando a Istanbul?» la voce di Emre è piena di
aspettativa, mentre sale insieme a Hüma la scaletta dell’aereo che li sta
riportando a casa. Lo attendono due ore e cinquantatré minuti esatti di volo,
che ha diligentemente impostato sul nuovo cronografo che lei gli ha
comprato a Zurigo. A tredici anni, non è più il bambino che era partito con
la mamma anni prima, lasciando il fratello e il papà. Ora è un ragazzino
biondo con gli occhi azzurri, colori rari in Turchia ma molto comuni in
Svizzera, dove di giovani come lui ce ne sono a bizzeffe.
Ha sentimenti contrastanti rispetto a questo ritorno. Da una parte lasciare
i suoi amici è molto doloroso, dall’altra sente la mancanza di Can e la
protezione che suo fratello, pur così diverso da lui, gli dava. Pensa anche a
suo padre e un senso di imbarazzo lo colpisce, come se sua madre, seduta al
suo fianco con in mano un bicchiere di scotch, potesse leggergli i pensieri e
restarne delusa. Lui ama suo padre, ma quello che Hüma gli ha raccontato
durante tutto quel tempo lontano da casa gli ha confuso idee e sentimenti.
«Tuo padre ti vuole bene, ma è più interessato a Can. Ecco perché ti ha
lasciato con me.»
Quella frase, ripetuta mille volte, gli si era cementata nella mente ma
aveva faticato a farsi spazio nel cuore. Gli piaceva pensare che Aziz fosse
orgoglioso di lui, di quel figlio che studia in Svizzera e che ha quasi
dimenticato come si parla in turco, ma che ora, poco più che un ragazzo,
conosce correttamente altre due lingue. Adora immaginare che quella
lontananza sia stata un tormento anche per suo padre e che, non appena si
fossero rivisti, quella lunga separazione sarebbe diventata solo un brutto
ricordo.
Provava nostalgia per la Turchia, nonostante l’avesse lasciata quando era
troppo piccolo per comprendere appieno cosa significasse quella terra per
lui. Anche se non ricordava bene la lingua aveva però vividi ricordi di
alcuni sapori e odori inconfondibili, che custodiva gelosamente nella
memoria nonostante fossero stati pian piano sostituiti dai piatti elaborati e
dai profumi costosi che aveva trovato a Zurigo.
Adesso è quello che si può definire un giovane promettente rampollo
della società europea. Non sfigurerebbe in Inghilterra o in Italia, anche se a
un piatto di sushi o a uno di pasta preferisce le köfte che gli preparava la
tata a Istanbul. Un ricordo lontano ma vividissimo, così come quello delle
carezze di Aziz e dei giochi con Can.
«Non trovo giusto che suo fratello prenda in mano l’azienda di famiglia»
aveva sentito la madre confessare di nascosto a un’amica. Quella frase, un
tarlo che picchiava forte sotto le perfette acconciature, a quanto pare era
diventata un vero e proprio scopo da perseguire visto che stavano tornando:
sicuramente per riconquistare il terreno perduto.
Quando il cronografo gli ricorda che sono passate due ore e quaranta
minuti dalla partenza, la voce del comandante richiama puntuale
l’attenzione dei passeggeri: «Signore e signori, tra qualche minuto
atterreremo all’aeroporto di Istanbul. Siete pregati di allacciare le cinture di
sicurezza e riporre il tavolino in posizione verticale di fronte a voi».
Hüma posa il bicchiere, in cui restano solo poche gocce del liquore che
aveva sorseggiato per tutto il tempo, si lecca le labbra e guarda Emre
scompigliandogli affettuosamente i capelli: «Tesoro ci siamo; andiamo a
riprenderci ciò che ti appartiene».

Giardino degli Aksu – Istanbul


Vedere Esel è lo scopo di ogni mia giornata. Finita la scuola mangio di
corsa e mi precipito sempre a casa di Polen. A volte viene anche Metin, che
con noi si diverte. Però preferisco quando sono da solo e lascio a Esel un
bigliettino in un punto preciso della strada, su un muretto, per avvertirla
dell’ora in cui ci vedremo. Voglio stare con lei, sono sempre impaziente di
ascoltare i suoi discorsi, di vederla ridere e qualche volta anche di prenderle
la mano facendola arrossire. Quando Polen è con noi finisce sempre per
separarci e, sebbene sia impossibile non rimanere incantati dai suoi occhi
verdi, nulla può essere paragonato a quelli nocciola di Esel. Nel grande
giardino della famiglia di Polen ho trovato un rifugio solo per noi due: una
vecchia capanna abbandonata dove un tempo venivano riposti gli attrezzi.
In quell’improvvisato luogo segreto, lontano dagli occhi di tutti, ho
costruito il nostro piccolo mondo portando coperte e cuscini.
Spesso ci arrivo carico di biscotti e cioccolato per farle una sorpresa,
mentre lei di solito è in cucina con la madre a sbrigare faccende. Poi, con la
scusa di andare a studiare in giardino, mi raggiunge il più in fretta possibile
per non farsi vedere da nessuno, soprattutto da Polen, che ha nei suoi
confronti un atteggiamento particolarmente odioso. Non è sempre una
bugia, a volte studio davvero con lei aiutandola a fare i compiti. Essere il
primo della classe è per me un gioco da ragazzi: la mia capacità di
apprendimento è sorprendente, tanto che dopo l’Alta Scuola hanno
consigliato a mio padre di mandarmi in un qualche college all’estero per
perfezionare la mia istruzione.
Altre volte passiamo il tempo a raccontarci cose divertenti, altre ancora
ci sdraiamo sopra le coperte e guardiamo le nuvole e gli uccelli attraverso
l’enorme buco sul tetto del capanno. È in momenti come questi che le mie
mani, prima a farmi da cuscino sotto la testa, scivolano piano lungo i
fianchi di entrambi e le dita si muovono come fossero calamitate dalle sue.
Quando le sfioro le sento dapprima irrigidirsi e poi, lentamente, muoversi
per cercarmi. Quel contatto crea tra noi una sorta di corrente elettrica,
qualcosa che si irradia nei nostri corpi passando dal mio al suo. Il cielo
sopra di noi si sposta e così fanno i nostri occhi, fino a che non incrociamo
l’uno lo sguardo dell’altra e rimaniamo lì immobili, incapaci di fare un
passo in più per paura che anche un solo battito di ali di uno degli uccelli
che volano sulle nostre teste possa rovinare la magia del momento.
È in uno di questi giorni che, tornato dal giardino di Polen dopo aver
incontrato Esel, entro a casa e li vedo. Sono nel salone, abbracciati, occhi
negli occhi. Mio padre e mia madre.
«I’m back» la voce di Emre in inglese mi sorprende alle spalle, mi giro e
rimango senza parole. Chi è questo ragazzo biondo che ho di fronte?
6

Casa di Sanem Aydın – Beykoz Kundura, Istanbul (2006)


Sono passati due anni dall’ultima volta che ho visto Sinam. Oggi è
nuovamente il mio compleanno e, come lo scorso anno, in questo giorno
non riesco a non pensare a lui. Mi capita soprattutto in questa data perché
tutto mi ricorda l’ultima volta che l’ho visto: dai regali ricevuti alla torta,
che due anni fa avevo distrutto cadendoci sopra.
Nonostante sia passato tanto tempo, vorrei capire cosa è successo. Nel
quartiere sono circolate tante chiacchiere, anche se nessuno conosceva
bene la sua famiglia. Alla fine, mese dopo mese, nessuno si ricordava più di
loro e anche a scuola il nome di Sinam è stato velocemente dimenticato. Da
tutti, ma non certo da me.
Farei qualsiasi cosa per sapere dove è finito e soprattutto cosa voleva
dirmi l’ultima sera, quando è venuto sotto casa mia. Ricordo tutto come
fosse successo ieri: la festa, la cena a casa dei genitori di Ayhan, lui che mi
aspettava sotto casa per parlarmi e mia madre che mi ha fatta rientrare.
Ma quello che ricordo ancora meglio è quanto successo qualche giorno
dopo…

Era ormai una settimana che non vedevo Sinam. Dalla sera del mio
compleanno non era più venuto a scuola o a giocare, il pomeriggio, vicino
casa di Ayhan. Ogni mattina uscivo ancora prima da casa, senza neanche
lamentarmi se mia madre mi tirava i capelli per farmi la coda. Anche
Ayhan non capiva tutta questa mia agitazione.
Era sparito nel nulla e nessuno sapeva niente. Ero molto preoccupata,
non sapevo dove abitava e soprattutto non sapevo a chi chiedere. Non mi
ero mai interessata delle assenze degli altri compagni, a meno che non si
trattasse di Ayhan, ma in quel caso conoscevo il motivo prima ancora della
maestra. La cosa mi sembrava così strana, soprattutto dopo quello che mi
aveva detto; anzi, che non mi aveva detto, sotto casa mia. Ho provato anche
a parlare con Cahide, la mia compagna di banco: «Che strano non vedere
Sinam per tutti questi giorni» le avevo detto.
Lei, solitamente scontrosa, era diventata addirittura furente: «Che ti
importa di lui? La devi smettere, Sanem».
Io ero rimasta senza parole, ma se anche avessi voluto replicare non ne
avrei avuto la possibilità perché l’insegnante ci aveva ripreso.
Così mi ero chiesta in silenzio quale fosse il motivo di questo suo
atteggiamento. Ripensavo spesso a quando giocavamo insieme a calcio e
lui sul campo cercava di “smarcarsi” – mi aveva insegnato lui che si
diceva così – venendomi vicino e provando a prendermi la palla. In quei
momenti ci guardavamo dritti negli occhi, muovendo solo le gambe. E io mi
divertivo da morire a toglierla, anche se poi ho pensato che forse era lui
che mi faceva vincere.
Durante la pausa mi sono avvicinata alla maestra e le ho portato il
diario che mi aveva regalato Ayhan: «Maestra Imran, posso chiederle se sa
che uccello è questo?» le ho chiesto, mostrandole la copertina del diario.
«La mia amica Ayhan me lo ha regalato sapendo che amo molto gli uccelli,
ma questo non l’ho mai visto prima. Sembra un gabbiano, ma non lo è.»
La maestra mi ha ascoltato, poi ha spostato lo sguardo sulla copertina
del diario.
«Brava Sanem. Questo sembra un gabbiano, ma invece è un albatros.»
«Anche a Sinam piaceva molto. Vorrei dirglielo, ma sono giorni che non
viene» le ho detto, sperando in una sua spiegazione.
La maestra ha finto di non sentire e ha continuato a parlare: «È uno dei
più grandi volatili marini ed è famoso per le sue enormi ali. Arrivano fino
alla lunghezza di due metri. Praticamente sono il doppio di te, Sanem. Ha il
becco che sembra un uncino» mi raccontava sorridendo, mostrandomi la
forma con il dito «e con quello aggancia le prede. È un tipo molto solitario.
Se ti interessa ti consiglio qualche libro da prendere in biblioteca».
«La ringrazio» le ho risposto. Poi, raccogliendo tutto il coraggio
possibile, le ho chiesto tutto d’un fiato: «Maestra Imran, ma perché Sinam
non sta venendo a scuola?».
Lei si è rimessa gli occhiali e ci ha pensato un po’ prima di rispondermi.
«Sanem, al momento non posso dirti niente. Appena avrò notizie le
condividerò con tutta la classe. Ora vai a giocare e stai tranquilla. Aspetta
solo un secondo che ti scrivo i libri da cercare in biblioteca.»
Mentre tornavo a casa insieme ad Ayhan ho deciso di raccontarle tutto.
E per tutto intendo che ero preoccupata per Sinam perché mi sentivo che gli
era capitato qualcosa di brutto.
«Ayhan.» L’ho interrotta mentre mi stava parlando della sua ennesima
idea da realizzare. «Volevo dirti una cosa, ma devi mantenere il segreto.»
Ayhan si è fermata e mi ha guardata seria: «Sanem, non devi mica
specificarlo, lo sai bene che io ho la bocca cucita» mi ha rassicurato,
facendo segno di chiuderla come una cerniera lampo.
«Come sei esagerata, era un modo di dire. Mi stai confondendo, io devo
dirti una cosa importante» le ho detto stringendo con due dita il bracciale
che portavo al polso. «Sinam...» Mentre pronunciavo quelle parole,
dall’angolo del palazzo che stavamo costeggiando sono usciti cinque
ragazzi. La strada, solitamente piena di gente seduta fuori di casa, quel
giorno era vuota. Forse perché aveva iniziato a cadere una pioggerellina
sottile o forse perché erano tutti a pranzo. Nulla di strano, eppure ho subito
percepito in quei ragazzi qualcosa di preoccupante perché si avvicinano a
noi compatti e silenziosi. «Ayhan...»
«Che c’è Sanem?»
«Ayhan, affretta il passo...»
«Ma perché? Mi stavi dicendo che Si...» le parole le si sono bloccate
sulla bocca quando uno dei ragazzi le si è parato davanti, sbarrandole la
strada. Avranno avuto forse tredici anni e io non li avevo mai visti nel
quartiere.
«Buongiorno ragazze, dove andate?»
Ayhan ha abbassato la testa senza dire niente, mentre io mi sono fatta
coraggio: «Che volete? Lasciateci passare».
La pioggia stava aumentando e sentivo i capelli bagnati. Quelli non si
muovevano, erano fermi davanti a noi e formavano una barriera che ci
impediva di avanzare.
«Che avete di bello in quelle borse?» ha chiesto il ragazzo al centro,
indicando le nostre tracolle.
«I libri di scuola.»
«Mmm, niente di interessante. Invece mi piace tanto il tuo braccialetto»
ha poi detto indicando il regalo di Sinam.
«Sì, è proprio quello» ha annuito il ragazzo vicino, rivolgendosi a un
altro membro del suo gruppo.
Avevo veramente paura; quei ragazzi erano lì per derubarci, ma non
avevamo niente da dargli e io non volevo che prendessero il regalo di
Sinam. Con la mano ho tenuto stretto il ciondolo stringendolo forte, quasi a
proteggerlo. Il ragazzo si è avvicinato mentre gli altri ci avevano già
circondato.
«Saneeem, Ayhaaan!» Qualcuno ci stava chiamando. Mi sono girata di
scatto e ho visto Osman e un paio di amici che correvano verso di noi. Ho
tirato un sospiro di sollievo e ho lasciato il braccialetto visto che la
tensione si era allentata. È stato in quel momento che il più grosso di tutti si
è fatto avanti, strappandomelo dal polso e cominciando a correre insieme
agli altri nella stessa direzione dalla quale erano venuti. Mi sono
accovacciata a terra gridando, sia per lo spavento sia per il dolore che lo
strappo mi aveva provocato. Ho messo la mano sul polso e ho visto un
grosso segno rosso. Ayhan si è inginocchiata vicino a me: «Sanem, come
stai?».
Nel frattempo sono arrivati Osman e i suoi due amici, cercando di
riprendere fiato dopo la lunga corsa. Osman ha abbracciato forte Ayhan e
poi si è avvicinato a me per controllare il braccio: «Hai solo un graffio
Sanem, per fortuna il bracciale era sottile altrimenti ti avrebbe fatto male».
“Ma chi erano quelli?” ho pensato, mentre dai portoni iniziavano a
uscire persone attirate dal mio urlo e dall’arrivo di Osman.
«Che succede?» hanno chiesto tutti.
Una signora è uscita con un bicchiere d’acqua e me lo ha offerto: «Bevi,
Sanem» mi ha detto. Tutto era così confuso intorno a me. Mi sono poi
sentita abbracciare alle spalle. Quando mi sono voltata ho visto mia sorella
Leyla che mi stringeva forte: «Sanem, mi sono spaventata tanto!».
Mi ha baciato la guancia e io ho pensato che quello che era appena
successo doveva essere davvero grave se mia sorella si comportava in quel
modo con me.
Dopo pochi minuti è arrivato anche il padre di Ayhan: «Mi hanno
avvertito che hanno tentato di scipparvi».
Nella confusione mi sono chiesta come avesse fatto il padre di Ayhan a
saperlo, quando era praticamente appena successo. Però il quartiere è così
e la cosa un po’ mi confortava: quei ragazzi sarebbero stati sicuramente
presi in fretta.
«Se ti fosse successo qualcosa, sorellina, come avrei fatto senza di te?»
continuava a ripetermi Leyla.
In quel momento ho pensato che mi volesse veramente bene, anche se
sembrava sempre esasperata da me. Lentamente le persone sono rientrate
nelle proprie abitazioni. Insieme al padre di Ayhan ci siamo incamminati
verso casa, fermandoci prima alla bottega dove papà Nihat ci stava
aspettando preoccupatissimo. Quella sera mia mamma aveva invitato la
famiglia di Ayhan a cena. Eravamo tutti un po’ scossi, soprattutto perché
era la prima volta che in un quartiere tranquillo come il nostro succedeva
una cosa del genere. Nonostante le chiacchiere del pomeriggio, sembrava
che nessuno avesse riconosciuto i ragazzi, che non erano sicuramente della
zona.
«Bisogna fare più attenzione» ha detto il padre di Ayhan.
«Le ragazzine sono abituate a muoversi da sole nel quartiere» ha
replicato per fortuna mia madre «e già da piccole giocavano per la strada
tranquillamente.»
«Cemal ha ragione» l’ha interrotta mio padre «ora è meglio che
rimangano davanti a casa e che tornino da scuola insieme a Osman e a
Leyla.»
La cosa non mi piaceva affatto, adoravo andare e tornare da scuola da
sola insieme ad Ayhan, e avere Osman e Leyla alle calcagna non era una
cosa che amavo. Hanno suonato il campanello e ci siamo guardati sorpresi:
non aspettavamo nessuno.
«Osman, vai tu» gli ha detto zia Asu, la mamma di Ayhan.
Non appena ha aperto la porta abbiamo sentito le urla fin dal giardino.
«Hanno rapito Sanem! Dove l’hanno portata?» Muzaffer è entrato con le
mani alzate, e quando mi ha vista si è inginocchiato per la felicità.
«L’hanno rilasciata, questa è una fortuna. Grazie, grazie alla polizia!»
Subito dopo di lui è entrata sua madre Aysun: «Ma come, Sanem è qui?
Melahat ci ha detto che era stata rapita e che la polizia la stava cercando».
«Melahat, quella pettegola, io la strozzo» ha detto mia madre.
Parlava della parrucchiera del quartiere, che si era da poco trasferita e
aveva aperto il negozio accanto alla nostra casa. Non le sfugge niente di
quello che succede, ma spesso esagera gli eventi, e infatti ora eravamo
certi che la maggior parte delle persone mi pensasse in mano a qualche
rapitore.
«Nessuno è stato rapito!» ha urlato mio padre per riportare la calma.
«Alcuni ragazzini hanno fatto i bulli con Sanem e Ayhan. Domani andremo
alla polizia a denunciare il fatto.»
Aysun, la madre di Muzaffer, sembrava quasi delusa dalla notizia, ma si
è seduta di buon grado accettando il tè che le veniva offerto. Da
germofobica qual è, ha controllato prima il bicchiere per vedere se fosse
perfettamente pulito. Nel frattempo io e Ayhan ci eravamo rifugiate in
camera mia, lasciando Muzaffer e le sue farneticazioni a Osman e Leyla.
«Sanem, io oggi mi sono veramente spaventata. Credo che davvero non
uscirò mai più da sola, lo sai?»
«Anche io ho avuto tanta paura, e poi sono dispiaciuta per il bracciale.
Ci tenevo tantissimo» ho detto toccandomi il polso per sentire la piccola
ferita provocata dallo strappo.
«A proposito, prima che succedesse mi stavi dicendo qualcosa di Sinam,
un segreto... Di cosa parlavi?»
«Ayhan, sono preoccupata: sono cinque giorni che Sinam non viene a
scuola. La sera della mia festa, quando sono tornata da casa tua, l’ho
trovato vicino al mio portone che mi aspettava. Voleva dirmi una cosa...»
«Cosa?» mi ha chiesto Ayhan avvicinandosi.
«Eh, non lo so...»
«Non lo sai?»
«No, mia madre è uscita dalla porta per farmi rientrare.»
«Ahhh, Mevkibe! E ora che farai?»
«Non lo so, speravo avessi tu qualche idea.»
«Una ce l’ho, proviamo a chiederlo alla maestra.»
«Già fatto, Ayhan.»
«Ah. Allora proviamo a chiederlo a Cahide, ho visto che alla tua festa
parlava con lui.»
«Già fatto anche questo.»
«Eh però, Sanem, hai fatto già tutto! Come ti aiuto?»
«Sanem ha bisogno di aiuto? Eccomi, ci sono io!» Muzaffer è entrato in
camera mia. «Di cosa hai bisogno?»
«Ci mancava anche lui» ho detto a bassa voce. «Ci stavamo chiedendo,
Muzaffer, come mai un nostro amico non viene a scuola da qualche giorno.
Ma tu non lo conosci, si chiama Sinam.»
«Certo che lo conosco. Abita dall’altra parte del quartiere ed è andato
via. Non credo tornerà più.»
Io e Ayhan siamo rimaste a bocca aperta.
«Ma che dici Muzaffer? Come fai a saperlo?»
«Questo non posso rivelarlo, ma posso dirvi che Sinam è andato via
insieme ai suoi genitori e forse non tornerà più. Sono andati in Europa a
casa di sua zia, non potevano più rimanere.»

La mattina dopo, quando Ayhan è venuta a prendermi sotto casa insieme a


Osman, non vedevo l’ora di rimanere sola con lei.
«Secondo te è vero quello che ha detto Muzaffer?»
«Oh guarda, Sanem, io non ci capisco niente. Non so come potrebbe
saperlo Muzaffer, però è strana questa storia. Dal giorno del tuo
compleanno sono successe molte cose.»
Ho sperato con tutto il cuore che quello che aveva detto fosse solo una
delle sue stranezze. A scuola quel giorno Cahide sembrava di buon umore,
anche se come sempre non mi ha salutata. La maestra ha fatto l’appello e
quando ci siamo seduti ha cominciato a parlarci.
«Bambini, ieri è successa una brutta cosa a Sanem e Ayhan. Dei ragazzi
hanno tentato di scipparle.»
«E ci sono anche riusciti» ho sentito dire sottovoce da Cahide.
«Per fortuna hanno portato via solo un braccialetto a Sanem. Vi prego
quindi di fare molta attenzione bambini. So che molti di voi tornano a casa
a piedi. Il quartiere è molto tranquillo, ma farvi compagnia e andare
insieme a casa, magari in un bel gruppo, sarà ancora più divertente» ha
detto sorridendo. «Un’ultima cosa prima di iniziare la lezione. Ho aspettato
qualche giorno per esserne sicura, ma questa mattina mi è stato confermato
che il vostro compagno Sinam si è trasferito in Europa, a casa di una
parente. È stata una decisione improvvisa. Ho sentito la mamma e dice che
vi saluta tutti. Siate felici per lui, magari in estate tornerà a trovarci. Ora
prendete il libro a pagina 16. La storia della volpe…»

Da quel giorno sono passati due anni e io non ho mai saputo la verità.
Oggi pomeriggio ci sarà la festa per il mio compleanno ma, come l’anno
scorso, non sarà la stessa cosa senza di lui. Lo dico anche ad Ayhan mentre
come ogni mattina andiamo a scuola. Per fortuna sarà una cosa molto
piccola e soprattutto ho chiesto a mia madre di non fare una torta
monumentale.
7

Residenza Aksu – Istanbul (2007)


«Sei meravigliosa tatlim.»
Attraverso lo specchio Esel vede che sua madre ha gli occhi umidi. Si
gira verso di lei, facendo attenzione che il lungo abito azzurro non si
stropicci.
«Sono una madre tanto felice» le dice Fatoş, prendendole dolcemente il
viso tra le mani prima di aprire un cassetto da cui estrae una coroncina di
fiori freschi. «L’ho intrecciata per te stamattina. Questa sera sarai la più
bella di tutta la festa.»
Qualche piano più su, nella splendida camera di Polen, due cameriere si
affrettano facendo avanti e indietro cariche di vestiti e scarpe.
«No, no, no! Non mi piace questo colore.»
«Signorina Polen, è lei che ha scelto il rosa.»
«Non ho scelto solo quello, ho preso dieci abiti diversi. Portami quello
verde.»
Alzando gli occhi al cielo in cerca di aiuto, la cameriera esce dalla stanza
scendendo di fretta due piani di scale fino ad arrivare alle cucine.
«Fatoş? Dov’è Fatoş? L’avete vista?»
«È nella sua stanza.»
Un altro piano di scale da scendere di corsa e finalmente ecco la porta.
«Fatoş, aprimi per favore.»
«Che succede Alya?»
«La signorina Polen non vuole più l’abito rosa. Per la festa di stasera ha
deciso di indossare quello verde. Lo hai stirato?»
Fatoş fa un lungo sospiro e invita Alya a entrare nella piccola stanza
dove ci sono due lettini e un armadio. La donna si blocca quando vede Esel
davanti allo specchio.
«Tatlim, sei bellissima!» le dice sorpresa. «Quel vestito ti sta un
incanto.»
L’abito è il regalo che tutte le cameriere della casa hanno cucito a turno
per lei. «Piccola Esel, sei il nostro orgoglio. Ti vogliamo tanto bene e
stasera sarai la ragazza più ammirata della festa.»
Le lacrime scendono dalle guance di Fatoş, che le asciuga con il dorso
della mano. «Non so come ringraziarvi sorelle care. Questo è un pensiero
meraviglioso.»
Alya la abbraccia forte. Quando Fatoş era arrivata in quella casa, Esel
era ancora in fasce e anno dopo anno era diventata la figlia di tutte. Una
bambina intelligente, che grazie alla bontà del padrone di casa ha ricevuto
una borsa di studio per poter frequentare le stesse scuole di Polen e che si è
appena diplomata con il massimo dei voti. Alla generosità del capofamiglia
però si è sempre contrapposta la freddezza di sua moglie Irem, la madre di
Polen e Yiğit. Una donna la cui presunzione è pari solo alla bellezza. Altera
e intransigente, non approva il modo in cui suo marito tratta il personale di
servizio. Molte delle cameriere che abitano nella grande villa hanno spesso
pianto per i suoi rimproveri e alcune di loro sono state addirittura mandate
via anche per futili motivi. Dei suoi due figli Polen è la preferita: il suo
piccolo clone sia nell’aspetto che nel carattere.
Irem e Hüma, la madre di Can ed Emre, sono ottime amiche e si
frequentano spesso, da quando l’ex signora Divit è tornata a Istanbul.
Entrambe cullano il sogno segreto che i loro due rampolli, Polen e Can,
possano innamorarsi. Ma, se Hüma aveva sempre notato gli occhi di Polen
illuminarsi ogni volta che vedeva suo figlio, Irem non poteva dire
altrettanto. Anzi, Can non faceva distinzioni e passava il suo tempo non
solo con Polen, ma anche con Esel, una ragazza che lei considerava
socialmente inferiore a lui.
Ovviamente, per due donne come loro, amicizia significa dare una cena
ogni settimana, invitando l’altra per farla ingelosire o per fare a gara a chi
organizzava il party più bello. Questa volta l’aveva spuntata la madre di
Polen, che era riuscita a strappare a Hüma l’organizzazione di uno degli
eventi mondani più importanti dell’anno: il Graduation Ball.
Il ballo di fine anno segna la fine dell’Alta Scuola e mette i ragazzi
davanti alla scelta dell’università. Can, Polen e anche Esel si sono diplomati
quest’anno e organizzare la festa era stato un vero e proprio incubo per il
personale di servizio, viste le altissime aspettative della famiglia Aksu e
soprattutto di Irem.

Alya dà un bacio sulla fronte a Esel e si rivolge a Fatoş: «Hai stirato il


vestito verde della signorina Polen? Portaglielo, fai in fretta».
Fatoş sale di corsa le tre rampe di scale che la separano dalla camera di
Polen ed entra trafelata: «Eccomi signorina!».
«Era ora Fatoş!»
“È nervosa” pensa la donna. Quello che invece non sa è che Polen ha un
piano per quella sera: far capitolare Can, la sua ossessione che lei chiama
amore.
Si era innamorata di quel bambino dagli occhi scuri fin dalla prima volta
che lo aveva visto, e quel sentimento è ancora più forte ora che lui è uno
splendido ragazzo alto e muscoloso, di una bellezza che ricorda un
guerriero.
Polen ha avuto altre storie, compagni di scuola, un ragazzo conosciuto
durante una vacanza estiva, ma anno dopo anno Can è sempre e comunque
rimasto il suo obiettivo. Spesso si chiede perché possa avere chiunque ma
non lui. Can è sempre molto dolce con lei – lo è perfino con Esel,
figuriamoci – ma quando si creano le occasioni per far scattare qualcosa, si
scosta o cambia discorso, o va da Esel. Ha aspettato tanto tempo e quella è
la sera perfetta per riuscire nel suo intento. Se gli altri ragazzi sono stati per
lei solo un divertimento, Can è tutta un’altra cosa: lui deve diventare suo
per sempre.
8

Casa di Aziz Divit – Distretto di Beykoz, Istanbul (2007)


Dai Divit c’è molto fermento. Dopo numerose fughe e ritorni, e un periodo
molto turbolento, Hüma è a casa da alcuni mesi, così come Emre, che ora
ha sedici anni ed è stato per un anno a Londra per perfezionare il suo già
impeccabile inglese. Tra Aziz e sua moglie la tensione è sempre alle stelle.
Ormai il loro rapporto è scandito dai frequenti abbandoni di Hüma e dalle
sfuriate di Aziz. Nonostante ciò, a vederli questa sera sembra siano tornati
uniti come un tempo. L’orgoglio per l’ottimo risultato scolastico di Can li
rende felici per quel figlio così bello e gentile, che al solo passare raduna
intere folle.
Chiuso nella sua stanza, Can continua a non mostrare particolare
interesse per l’ennesimo ritorno della madre: ormai sa che non resta mai a
lungo e ha smesso di fare affidamento su di lei. Nonostante quella
situazione lo faccia ancora soffrire, si sente più sereno quando lei non c’è.
Ha sempre l’impressione che la sua presenza nasconda qualcosa e che lei
abbia sempre un piano da dover realizzare, spesso quello di entrare e
sconvolgere le vite degli altri secondo i suoi desideri. Dentro di sé sa che le
vuole bene, è sempre sua madre, ma non riesce ad arginare quel suo modo
di vedere la vita come una battaglia da vincere per primeggiare, e
soprattutto non sopporta il fatto che consideri le persone delle marionette da
muovere a proprio piacimento. Ora però non vuole pensare ad altro che al
modo per rimanere da solo con Esel. Stasera dichiarerà finalmente i suoi
sentimenti a quella creatura magica che gli ha rapito il cuore. In tutto quel
tempo passato a nascondersi agli occhi del mondo il suo unico pensiero,
l’unico suo scopo era poter arrivare a quel traguardo e poter mostrare il suo
amore alla luce del sole. Sa che molti la considerano socialmente inferiore,
sua madre per prima, ma a lui queste cose non interessano. Il motivo per cui
i due ragazzini, ormai diventati due splendidi adulti, si sono nascosti per
così tanto tempo sono i timori della ragazza, il terrore che la famiglia di
Polen possa in qualche modo trovare inappropriato quell’amore innocente e
mettere in pericolo il lavoro di sua madre, che l’ha cresciuta da sola tra
mille difficoltà.
Can ammira questa sua devozione: per quello che prova per lei ha
aspettato, anche se i baci che si scambiano ultimamente dentro il capanno
stanno diventando sempre più impazienti. Ora però entrambi hanno l’età
giusta e sono desiderosi di andare oltre.
Can ha organizzato tutto. In tasca tiene una piccola scatola di velluto,
che in quel momento gli pesa come fosse piombo. La apre per vederne il
contenuto per l’ennesima volta. Uno zaffiro rosa rotondo gli appare in tutto
il suo splendore. Una pietra così bella che non ha bisogno di altre pietre
vicino a sé. È semplicemente sorretta da un gancio di platino in cui è
infilata una catenina finissima. Un pendente che ha molti significati per lui.
Primo tra tutti far capire al mondo che Esel è sua e che un giorno non
troppo lontano la sposerà e le regalerà un anello, che come da tradizione
sarà legato al suo da un filo rosso e sancirà per sempre la loro unione. Ha
allestito il capanno con una fila di lucine, che accenderà prima dell’arrivo di
Esel. Ha trasformato quel piccolo nido ormai usurato dal tempo in un sogno
per due giovani innamorati. Il luogo giusto per consegnare un regalo così
speciale e un’occasione perfetta per poi mostrarlo al mondo durante quella
festa.
Can è al telefono intento a raccontare tutto questo a Metin, che lo
raggiungerà più tardi, e non si accorge che il suo amico non è l’unico
impegnato ad ascoltarlo. Dietro la porta socchiusa c’è Hüma, che parola
dopo parola sbarra gli occhi inorridita per quello che le sue orecchie stanno
sentendo, benedicendo il cielo di essere arrivata nel posto giusto al
momento giusto.
«Can, tesoro» apre la porta all’improvviso subito dopo averlo sentito
riattaccare.
«Mamma, che ci fai qui? Mi hai spaventato.»
«Sono venuta a vedere cosa hai deciso di indossare. Nel caso, ti ho
portato i gemelli d’oro del nonno.»
«Mamma sai che io non metto quelle cose. Portali a Emre, sicuramente
lui li apprezzerà più di me.»
«Come vuoi Can» conclude Hüma «sei comunque bellissimo, figlio mio.
Sembri un principe... e ora ti manca solo una principessa.» E uscendo,
sottovoce aggiunge: «Non certo una sguattera».

Residenza Aksu – Istanbul


La famiglia di Polen si è davvero superata questa sera. Entrare nel loro
parco è come avventurarsi in un mondo fatato dove volano migliaia di
lucciole. Una tessitura infinita di fili luminosi forma una ragnatela sopra la
testa degli ospiti e brilla più del cielo stellato estivo. Su ogni albero
centinaia di lanterne appese ondeggiano alla tenue brezza, regalando
un’atmosfera incantata. Ai lati del grande tappeto dove passano gli invitati,
cespugli di fiori si alternano a candele poste dentro vasi di vetro in un
susseguirsi di luci e profumi che inebriano non solo gli occhi ma anche i
sensi. Questo percorso magico porta all’ingresso di un enorme gazebo al cui
interno trovano posto decine di tavoli rotondi. Ognuno di loro è decorato al
centro da una torre di fiori, che svetta verso l’alto e forma sulla sommità
una nuvola colorata da cui discendono piccoli fili luminescenti. A
completare il tutto, alla base della composizione si trovano ciotole di vetro
di diverse dimensioni che imprigionano una miriade di candele. Le tovaglie
sono di un bianco accecante, in netto contrasto con i piatti dai colori
polverosi, che vanno dal turchese al verde, mentre i bicchieri di cristallo e le
posate d’argento riflettono la luce tremula delle candele. Guardare il tutto è
come fare un viaggio emozionante per gli occhi e l’anima.

Can ed Emre arrivano per primi e si fermano a guardare il grande arco di


rose che ha trasformato il cancello d’ingresso. Camminano lentamente,
ognuno di loro assorto nei propri pensieri. Can non vede l’ora di incontrare
Esel, mentre Emre pensa a suo padre e a come continui a preferire suo
fratello a lui nonostante i suoi sforzi per essere perfetto. Sua madre glielo
aveva ricordato poco prima, quando era andata a portagli i gemelli del
nonno.
«Aziz mi ha detto che dovevo portarli a Can perché è il figlio maggiore,
ma io ho preferito darli a te, che sai indossarli meglio di chiunque altro.
Non so cosa metterà stasera tuo fratello, ma al contrario di me di sicuro tuo
padre lo approverà.»
Cosa Can ha deciso di indossare, Emre lo vedrà di lì a poco: al contrario
del suo abito blu scuro, che arriva direttamente da una sartoria italiana, lui
ha rovinato lo smoking abbinandolo a una camicia di lino aperta e a un gilet
nero, ma la cosa non lo stupisce quanto stupisce sua madre.
Osservandoli dall’esterno non si può però fare a meno di rimanere
incantati da quei due ragazzi, così diversi ma entrambi capaci di attirare
attenzione, commenti, gelosie e, a loro insaputa, anche trame oscure.

«Sono Hüma, Irem cara, so che sei indaffarata, ma prima di venire da voi
vorrei parlare con Polen. Immagino si stia ancora preparando…»
«Hüma, tesoro, ti pensavo già da noi. Polen ha finito di prepararsi, se
attendi un secondo te la passo. Polen, c’è Hüma al telefono per te!»
A sentire quel nome, Polen si affretta senza badare alla cameriera che le
sta aggiustando lo strascico del sontuoso abito a sirena verde smeraldo.
Con le difficoltà dovute al vestito stretto e ai tacchi alti trotterella fino al
telefono mentre sua madre le fa segno di sbrigarsi e di tagliare corto con
quella rompiscatole.
«Signora Hüma, come sta? È successo qualcosa a Can per caso? Avete
avuto qualche imprevisto?»
«No, al contrario cara. Anzi ti telefono proprio per parlarti di lui. Una
cosa tra donne ovviamente, che rimanga tra di noi…»
«Certamente…»
«Credo che mio figlio ti abbia preparato una sorpresa. L’ho sentito per
caso quindi mi raccomando: tu non dire niente, altrimenti poi …»
«Ma no, si figuri! Ma... che tipo di sorpresa?»
«Questo non posso dirtelo, ma ascolta bene cosa devi fare. Non potrò
spiegartelo di nuovo quando sarò lì.»
Il cuore di Polen fa una capriola. Non solo quello che più desidera si sta
per avverare, ma il fatto stesso che a dirglielo sia la madre di Can rende le
cose estremamente serie.

Esel finisce di truccarsi. Solo un filo di rossetto e po’ di mascara e si guarda


per l’ultima volta allo specchio. Stenta a riconoscersi con quell’abito
azzurro vaporoso e pieno di perline bianche iridescenti. La coroncina di
fiori che sua madre le ha regalato sta d’incanto con i lunghi capelli neri che
le scendono in morbide onde fino a metà della schiena. Fino a quella sera
Esel non si è mai resa conto di quanto la gente rimanga incantata da lei. In
cuor suo è ancora quella bambina timida che ringrazia tutti e ha sempre gli
occhi bassi. Ma ora si sente pronta e, soprattutto, si sente bellissima: un
complimento che Can le ripete sempre e a cui lei non crede mai abbastanza.
Respira a fondo ancora una volta e poi, lisciando con la mano il corpetto e
facendosi coraggio, imbocca le scale che portano all’ingresso principale.

Can è impaziente e sia Metin che Akif, che nel frattempo lo hanno
raggiunto, lo prendono in giro.
«Basta così Akif, ormai non fai più ridere» risponde in maniera seccata.
Ha una mano in tasca ma non è una posa, anche se le ragazze che gli
passano vicino lo pensano e lo guardano ammiccando. Sta proteggendo il
prezioso astuccio di velluto che tra poco donerà a Esel.
Il mormorio delle voci dei presenti si interrompe improvvisamente
quando dal portone, sottobraccio al padrone di casa, scendono Polen e sua
madre. Gli occhi di tutti i presenti sono puntati sulle due donne. Due
bellezze rare di generazioni diverse. Anche Can si gira, attratto dello strano
silenzio carico di ammirazione e, quando vede Polen scendere gli scalini
che separano la casa dal parco, rimane affascinato a sua volta. È bellissima
in quell’abito lungo e aderente, che le fascia il corpo e si apre all’estremità
come la corolla di un fiore. Porta i capelli legati in uno stretto chignon con
due rose bianche appuntate e sorride dispensando grazia e bellezza ai
presenti. Quando lo vede gli fa cenno di avvicinarsi e Can, un po’
imbarazzato, le va incontro e l’aiuta a scendere gli ultimi due gradini
porgendole la mano. La scena, che agli occhi di tutti appare così romantica,
lo mette in realtà di malumore perché attira l’attenzione su di lui: l’ultima
cosa di cui ha bisogno quella sera. Preferirebbe essere invisibile e sparire
portandosi via Esel.

Mentre Polen sta scendendo l’ultimo gradino sorretta da Can, gli ospiti
ammutoliscono nuovamente. Un coro di apprezzamento fa girare entrambi
ed è in quel momento che lui la vede. Esel, senza rendersene conto, esce
subito dopo i padroni di casa mettendo in ombra Polen e qualunque altra
ragazza presente quella sera. I lunghi capelli si muovono leggeri,
incorniciando un viso che sembra il dipinto di un’epoca passata. L’abito
azzurro è una nuvola e lei scende le scale lentamente, quasi al rallentatore,
senza curarsi minimamente dell’effetto che provoca in chi la guarda. La sua
è una bellezza che fa rimanere senza fiato. Can lascia la mano di Polen e
con un gesto istintivo sale le scale e prende Esel per la vita aiutandola a
scendere. La mossa galante non passa inosservata agli occhi dei presenti e
soprattutto a quelli di Polen e di sua madre, che ora lanciano scintille
infuocate.
Nonostante l’irritazione, le due fanno però finta di niente, cercando di
ricomporsi e iniziando a salutare gli ospiti a uno a uno per attirare
nuovamente l’attenzione su di loro.
Hüma, che ha appena varcato il cancello, vede la scena da lontano e
affretta il passo trascinando quasi a forza Aziz, che come un bambino al
parco giochi sta ammirando con il naso all’insù le splendide illuminazioni.
La donna si accosta a Polen e, prendendole la mano con la scusa di voler
ammirare il vestito, l’avvicina a sé sussurrando: «Ricordati cosa ti ho detto
prima al telefono».
Quelle parole calmano Polen, e il sorriso tirato avuto fino a quel
momento si scioglie in un’espressione soddisfatta.

Una volta arrivati sul prato, Can stacca le mani dai fianchi di Esel, notando
gli sguardi curiosi che quel gesto involontario aveva attirato. È già la
seconda volta quella sera e proprio non ci voleva.
«Sei bellissima» le dice sottovoce.
«Grazie, anche tu lo sei.»
«Ora però separiamoci. Raggiungimi tra cinque minuti al capanno, ti
aspetto lì.»
Da lontano Hüma osserva con attenzione la scena mentre conversa
amabilmente con due conoscenti. Si scusa con loro e si avvicina a Esel, che
intanto è andata a chiedere qualcosa da bere al lungo bancone trasparente
allestito per l’occasione.
«Esel.»
«Signora Hüma, buonasera» risponde la ragazza, abbassando subito gli
occhi.
«Esel, tesoro, sei meravigliosa con questo abito. Posso chiederti una
cortesia?»
«Certo signora Hüma.»
«La fodera del mio vestito si è strappata e mi sento molto in imbarazzo,
potresti chiedere a Fatoş se può aiutarmi? So che è molto brava a
rammendare»
«Ma signora Hüma, io non so se…»
«Sarebbe una grande cortesia se mi accompagnassi da lei, te lo chiedo
per favore.»
«Va bene signora Hüma, vedo se mia madre può aiutarla. Viene con
me?»
«No cara, ti raggiungo tra un attimo: devo prendere un bicchiere
d’acqua. Con questo caldo mi sento mancare.»
«Va bene, l’aspetto di sotto.»
Tanto basta a Polen per capire che quello è il momento.
«Quando vedi che parlo con Esel, tu vai verso la fine del parco. Lì
dovrebbe esserci il capanno dove Can ti sta preparando la sorpresa» erano
state le sue parole durante la telefonata.

Hüma si sincera che Polen si stia avvicinando al capanno ed entra in casa.


Invece di recarsi subito nella zona riservata al personale di servizio, sale
una rampa di scale ed entra nella camera padronale, dalla quale esce un
minuto dopo per poi ridiscendere nuovamente verso la stanzetta di Fatoş. Si
ferma solo un secondo per strappare, a malincuore, la fodera dell’abito
color porpora.
«Fatoş, non sai quanto ti sia grata.»
«Non è niente signora Hüma, ci vuole un secondo.»
«Esel, tu che ci fai ancora qui con noi due? Vai fuori, chissà quanti
ragazzi ti stanno aspettando» dice in tono fintamente scherzoso.
«Sì, vai figlia mia, e divertiti.»
«Grazie signora Hüma. Mamma, allora io vado.»
«Ah, questi giovani pronti per innamorarsi. Che emozioni! Avessi io la
loro età!» e, mentre parla con Fatoş, fa scivolare la mano sotto il cuscino
del letto, lasciandoci qualcosa.

«Ciao Can! Sorpresa!» La voce di Polen fa sobbalzare il ragazzo.


«Polen, che ci fai qui?»
«Perché? Stai aspettando qualcuno?»
«No veramente, ma come mai sei qui?»
«Passavo per caso ma… Can! Hai portato qui tu tutte queste cose? Luci,
cuscini… sembra quasi volessi fare una sorpresa a qualcuno» dice Polen
carica di aspettativa.
«Non so chi li abbia portati qui» mente Can «io sono venuto a rilassarmi
un po’. Fuori c’è troppa confusione.»
«Hai ragione, e io sono venuta a farti compagnia» replica lei sedendosi
vicino.

Esel risale di corsa. Ormai sono passati più di cinque minuti e non vuole far
aspettare Can. Non vede l’ora di rimanere da sola con lui. I tacchi sono un
vero e proprio impedimento, così se li sfila velocemente e prosegue a piedi
nudi con il vestito che danza nell’aria mentre scende i gradini che la portano
al prato. Sembra quasi Cenerentola allo scoccare della mezzanotte.
La sua corsa viene però arrestata da un signore in completo scuro: «Esel,
vero?».
«Sì. Lei chi è?»
«Sono Celil Kay, il proprietario della Model International.»
«Come posso aiutarla?»
«Mi avevano detto che era molto bella, ma non pensavo fino a questo
punto. Vorrei che lavorasse per la mia agenzia di modelle.»
Esel non capisce subito cosa quell’uomo voglia da lei, ma la cosa non le
interessa minimamente e con gentilezza glielo comunica: «La ringrazio
davvero molto, ma non credo che lo farò».
«Permetta che le lasci questo» insiste gentilmente Celil Kay, porgendole
un biglietto da visita bianco con solo due lettere – CK – e un numero di
telefono. «Non lo perda» si raccomanda «magari un giorno le tornerà utile.»
Esel prende il biglietto e lo infila nella borsetta da polso salutando
frettolosamente. Ricomincia a correre sollevando la lunga gonna con due
mani per evitare di inciamparci sopra. Quando arriva nei pressi della
capanna rallenta il passo e si avvicina lentamente all’entrata. Da dentro
provengono delle voci, una delle quali inconfondibile: quella di Polen.
«Can, sei stato meraviglioso a prepararmi questa sorpresa.»
Esel cerca di avvicinarsi il più possibile per sbirciare all’interno della
capanna da una delle tante fessure che si erano aperte tra le tavole di legno
ormai consumate. Vede Polen con le braccia al collo di Can, che riesce a
scorgere solo di spalle.
«Io non vorrei che tu…» Le proteste di Can vengono interrotte da Polen,
che senza lasciarlo finire si sporge in avanti, baciandolo inaspettatamente.
Vederli stretti l’uno all’altra provoca una fitta fortissima allo stomaco di
Esel, che comincia a correre senza avere un’idea precisa di dove andare:
l’unica cosa che conta in quel momento è allontanarsi il più possibile da lì.

«Ma che stai facendo?»


Can si sposta di scatto, liberandosi dalle braccia di una Polen sconcertata
e incapace di trattenere le lacrime per quel gesto.
«Perché fai così?» gli urla lei. «Sono anni che sei sempre a casa mia, mi
abbracci, sei gentile e poi… poi mi fai questo? Perché?»
Can non sa cosa rispondere. Non può dirle la verità e in quel momento si
sente terribilmente in colpa per averla rifiutata così bruscamente. Si siede
nuovamente accanto a lei e la abbraccia, cercando di farla smettere di
piangere. Ha l’anima divisa. Esel può arrivare da un momento all’altro e
non vuole che veda questa scena, però non può fare a meno di lasciarsi
intenerire dai singhiozzi di Polen. È senza via d’uscita. La fa alzare in piedi
e con la mano le prende il mento, obbligandola a guardarlo negli occhi.
«Polen, non sei tu, sono io. Non sono pronto. Tu sei la ragazza che tutti
vorrebbero avere, ma per me non è il momento. Lo sai che io ti voglio bene,
vero?»
Polen tira su con il naso. La risposta non la convince molto, ma
l’orgoglio la fa lentamente smettere di piangere. Can la prende per mano, la
fa uscire dal capanno e la accompagna in casa facendola entrare da un
ingresso secondario in modo che nessuno possa vederla in quello stato:
«Ora bevi qualcosa e asciuga bene le lacrime. Io ti aspetto fuori».
Senza bisogno di essere ulteriormente spronata, Polen fa segno di sì con
la testa e chiama a voce alta una delle cameriere.

Can torna più in fretta possibile al capanno, ma è come lo aveva lasciato.


Vuoto. Dov’è finita Esel? Fa nuovamente il giro del parco cercandola
ovunque. Niente, Esel è sparita.
Un senso d’angoscia lo pervade. Può essere ovunque e quello è tutto
fuorché una buona cosa.
Da lontano vede il gruppo dei suoi amici.
«Ragazzi, avete per caso visto Esel?»
«Io no» risponde Metin.
«Io l’ho vista circa mezz’ora fa» gli dice Akif «stava parlando con un
tizio che le ha dato un biglietto. Ci ho fatto caso perché Esel si era tolta le
scarpe.»
«Che tizio? Che biglietto? E perché era senza scarpe? Sei sicuro di star
bene Akif? Non è che hai bevuto troppo?»
L’angoscia si è ormai trasformata in terrore puro: cos’è successo? Dov’è
Esel? E soprattutto, con chi si era fermata a parlare?
«Se qualcuno le ha fatto del male dovrà vedersela con me» dice a voce
alta mentre volta il capo da una parte all’altra non sapendo più dove andare.
Ovunque c’è gente che si diverte mentre lui si sente impazzire. Vede suo
padre e gli corre incontro chiamandolo trafelato: «Papà!».
«Can, che succede?»
«Papà non trovo Esel da nessuna parte. È sparita.»
«Hai provato da sua madre?»
«Fatoş. Giusto. Perché non ci ho pensato prima? Grazie papà, ti voglio
bene.»
«Can, aspetta, devo dirti una cosa. Prima di venire qui ti ho lasciato un
regalo sul letto. Un pensiero per il tuo diploma. Spero ti piaccia.»
«Grazie» gli risponde, tornando indietro per abbracciarlo, e ricevendo in
cambio una pacca sulle spalle.
«Vai figliolo.»
Can non se lo fa ripetere, entra in casa e comincia a scendere a due a due
i gradini. Già dalla prima rampa di scale urla inconfondibili lo fanno
rabbrividire e gli fanno accelerare il passo. Davanti alla porta aperta di
Fatoş ci sono Polen, Hüma e Irem che parlano ad alta voce in preda
all’agitazione.
«Ma che succede?» chiede subito, facendosi largo tra le tre.
All’interno della minuscola camera Esel e sua madre Fatoş sono in
lacrime.
«Sei una ladra!» grida Irem a Fatoş. «Domani mattina farai le valigie e te
ne andrai insieme a tua figlia.»
«Una ladra? Ma che cosa dice signora Aksu?». Can non può credere alle
sue orecchie.
«Ha rubato un gioiello prezioso a mia madre mentre c’era la festa» gli
spiega Polen. «Per fortuna tua madre ha chiesto alla mia di mostrarglielo,
così hanno scoperto che era sparito. È bastato un rapido giro nelle camere
delle cameriere per trovarlo sotto il cuscino del letto di Fatoş.»
Niente di quello che ha appena sentito ha senso per Can. Questa sera
stanno succedendo cose assurde. Cerca con gli occhi lo sguardo di Esel, ma
lei lo evita e il suo pianto silenzioso si tramuta in singhiozzi. Si avvicina per
consolarla, ma lei si gira e, con una rabbia che non le aveva mai visto in
volto, gli urla di andare via. È Polen a prenderlo sottobraccio, sottraendolo a
quella situazione. Lo trascina via per il corridoio con decisione, lasciandogli
solo il tempo di girarsi per vedere un sorriso soddisfatto sul volto di Hüma.

Casa di Aziz Divit – Distretto di Beykoz, Istanbul


Quella che doveva essere la sera più bella della sua vita si era trasformata
forse nella più tragica. Seduto sul letto della sua camera, Can fissa il
pavimento con le mani affondate tra i capelli, cercando di dare un senso a
quanto successo. Accanto a lui il pacchetto che suo padre gli ha lasciato
occhieggia deluso nella sua direzione, forse perché è ancora lì e nessuno lo
sta degnando di uno sguardo.
Decide di aprirlo e rimane senza parole davanti alla Reflex più bella che
abbia mai visto: una full frame con uno degli obiettivi migliori mai prodotti.
Un sogno. Gli torna il sorriso, anche se solo per un secondo. Fotografare è
la sua passione e suo padre lo sa. Quand’era bambino sfogliavano spesso
insieme libri fotografici, ricchi di immagini di paesaggi esotici, e già allora
non era infrequente che Can prendesse in prestito la vecchia compatta del
padre per scattare foto ai suoi amici e ai luoghi che visitava durante i viaggi
estivi. Si metteva la macchina fotografica al collo e sognava di diventare un
vero professionista e di non far altro nella vita che fissare per sempre sulla
pellicola ciò che i suoi occhi vedevano.
Sotto il pacchetto Can trova una busta sulla quale riconosce la calligrafia
di sua madre. La prende tra le mani, indeciso se aprirla o meno. Hüma non
è certo tipo da scrivere lettere. È più brava a parlare, spesso anche a
sproposito. Lancia nuovamente la busta sul letto. Non è quello il momento
per avere altre brutte notizie.
“O forse sì. Ormai cosa altro può succedere?”
Riprende in mano la busta e la apre con uno strappo secco. Dentro trova
un foglio bianco che avvolge un cartoncino: un biglietto di sola andata per
Londra.

Residenza Aksu – Istanbul


Esel non riesce a smettere di piangere, ma non è questo il momento di
rivelare tutto a sua madre. Circondata da altre cameriere intente a
consolarla, Fatoş sta radunando le poche cose che conservano nella stanza
per poi andare via per sempre.
Come aveva potuto Can ingannarla in quel modo? Come aveva potuto
baciare Polen nello stesso luogo magico dove aveva baciato lei per la prima
volta? Quel ricordo era impresso indelebilmente nella memoria di Esel. Due
anni prima, quando aveva compiuto sedici anni, Can le aveva fatto trovare
una sorpresa nel loro rifugio segreto: una torta di compleanno, e lei aveva
spento felice le candeline battendo le mani e poi lo aveva abbracciato forte.
Quel gesto istintivo li aveva bloccati per una frazione di secondo tra
l’imbarazzo e il desiderio. Poi Can aveva guardato la sua bocca e si era
avvicinato esitante, fino a che le loro labbra non si erano unite. A ripensare
a quel tocco, Esel si sente pervadere da un brivido lungo la schiena e le
lacrime cominciano a scendere più copiose e violente. Era rimasta per un
tempo infinito con le labbra incollate alle sue, con le braccia di Can che la
circondavano, legandola in modo indissolubile a lui. Era stato un sogno
meraviglioso, che ora si è trasformato in un incubo.
Polen è sicuramente più bella di lei e la sua posizione sociale è più
adeguata all’erede di una famiglia importante come quella di Can. Nessuno
gli permetterebbe di fidanzarsi con la figlia di una cameriera, a maggior
ragione adesso che è stata accusata di essere una ladra. Esel sa che deve
farsene una ragione. Lei è stata un passatempo. Qualcuno con cui divertirsi
per poi passare oltre. Che stupida è stata. Si gira guardando gli occhi rossi
della madre.
«Fatoş» le viene in aiuto una delle altre cameriere passate a salutarla
«per il momento tu ed Esel potete andare a stare da mia zia. È anziana e
sola, l’ho sentita e sarebbe felice di ospitarvi. Abita a Kuzguncuk, un
quartiere molto tranquillo. Starete bene e tu troverai di sicuro un lavoro lì.
Non è molto quello che posso offrirti, ma spero ti sia utile.»
Fatoş prende il biglietto sul quale l’altra aveva scritto l’indirizzo e
abbraccia forte la donna per ringraziarla. Hanno tutte gli occhi lucidi e si
ripromettono di restare in contatto.
Quell’addio è straziante per Esel. Sia perché il suo cuore è spezzato per
Can sia per l’improvviso allontanamento da quel posto che per tanti anni
era stato la sua casa. Si sente devastata e non sa cosa farà da quel momento
in avanti, né quale sarà la sua strada o chi potrà aiutarla. È il foglietto che
sua madre stringe tra le mani che le riporta alla mente il biglietto da visita
che quell’uomo le aveva dato la sera prima. Lo tira fuori dalla borsetta che
aveva usato durante la festa e se lo rigira tra le dita. Forse qualcuno lassù
sta cercando di mostrarle una via.
9

Casa di Aziz Divit – Distretto di Beykoz, Istanbul (2007)


Passo una settimana intera chiuso in camera. Non apro a nessuno e scendo
solo la notte, quando tutti dormono, per mangiare qualcosa. Una sera in cui
anche mio padre non ha sonno ci incontriamo in cucina.
«Papà…»
«Can, speravo di vederti. Come stai?»
«Insomma.»
«Sì vede, e si sente anche. Da quanto tempo non fai una doccia?»
«Non mi importa» gli rispondo, pronto a sfuggire alle domande e a
rinchiudermi nuovamente nella mia tana.
«Aspetta figliolo, non andare, parliamo un po’.»
«Papà, non voglio parlare, voglio stare da solo.»
«Credo che, qualsiasi cosa sia successa, rimanere chiusi in una stanza
non serva a molto. Non cambia le cose. Quelle cambiano solo se qualcuno
fa in modo che succeda.»
«E cosa dovrei fare secondo te?» rispondo alzando la voce. «Esel è
andata via. Sua madre è stata accusata di essere una ladra e io non la vedrò
mai più. Tu che faresti?»
Mio padre non indietreggia di un passo e anziché ignorare la nota ironica
delle mie ultime parole mi risponde col medesimo tono: «Be’, io ad
esempio cercherei di capire dove sono andate. Ovviamente se la cosa ti
interessa».
«Potrebbero essere ovunque. Sai quanti quartieri ci sono a Istanbul?
Seicento! E se fossero andate in un altro paese?»
«Questo tu non puoi saperlo, ma magari qualcuna delle amiche di Fatoş
sì.»
Mi giro per ribattere ma poi… «Hai ragione! Qualcuna delle cameriere
potrebbe saperlo.»
Quella è la prima notte dalla sera della festa in cui riesco a dormire per
più di tre ore di fila.

Istanbul è una città meravigliosa, ma in questo momento smarrirsi nei suoi


vicoli stretti e pieni di case non è un’attività che apprezzo. Ho un indirizzo,
che mi ha dato una delle amiche di Fatoş, ma mi sono perso due volte. È nel
quartiere di Kuzguncuk, tra le case colorate e gli orti dei residenti. Oggi c’è
grande fermento perché stanno girando un dizi, una sorta di serie televisiva
tipicamente turca, ambientata tra le vie più caratteristiche della città.
Fa molto caldo, ma la scena prevede che piova e che i due protagonisti
senza ombrello litighino per un taxi durante l’acquazzone.
«Finiranno sicuramente per innamorarsi” penso. “Succede sempre così
nella finzione. Però la vita è un’altra cosa.”
Finalmente libero, trovo l’indirizzo e suono il campanello. Sembra non
ci sia nessuno e il panico mi artiglia la gola. Quando sto per andare via
un’anziana socchiude il portone: «Chi cerchi, figliolo?».
«Signora, sono Can, Can Divit. Sa se abitano qui due donne, Fatoş ed
Esel?»
«Sì, certo, abitano con me, ma ora non sono in casa. Che cosa vuoi da
loro?»
La notizia mi fa quasi girare la testa dalla felicità: «È importantissimo
che io le veda, soprattutto Esel».
«Se è così importante non ti dispiacerà aspettarla qui fuori allora» tronca
la discussione la donna, salutandomi e richiudendo il portone. Perché è stata
così brusca? Forse pensa che sia qui per conto degli Aksu e per quella
calunnia ridicola? O Esel le ha raccontato qualcosa di brutto? Aspetto fuori,
sperando che lei arrivi. Passano due ore, ho già bevuto tre tè e il venditore
ambulante mi ha detto che oggi sono il suo miglior cliente. Quando sto per
prendere il quarto vedo avvicinarsi una figura familiare. È Esel. Stento
quasi a riconoscerla da quanto è diversa. Mi avvicino e noto che sembra
turbata nel vedermi.
«Esel, finalmente ti ho ritrovata.»
«Can ma... come hai fatto? Chi te lo ha detto?»
«Non è importante. Tu come stai? E Fatoş?»
«Mia mamma sta bene, ha trovato subito un lavoro.»
«Ma che ti è successo? Mi sembri diversa. Perché quella sera mi hai
mandato via? Stavo impazzendo.»
«Oggi ho fatto delle foto, sono truccata, per questo mi vedi diversa.»
«Che foto?» chiedo in allarme.
«Una settimana fa, durante la festa, ho conosciuto una persona
importante. Ha un’agenzia internazionale di modelle e mi ha subito offerto
un contratto. Tra qualche giorno parto.»
«Come parti?»
«Sì, ho deciso, ci ho pensato a lungo. Tra me e te le cose non sarebbero
mai funzionate. Tu hai un altro destino. Io sono figlia di una ladra…»
«Ma Esel, non è vero! Sono sicuro che le cose non stiano in questo
modo… Perché fai così?»
«Ti prego Can, non rendere tutto così difficile.»
Gli occhi di Esel, anche sotto il pesante trucco, sono freddi come non li
ho mai visti. Mi gelano il cuore. Però poi si sporge verso di me,
abbracciandomi e facendomi sciogliere al tocco delle sue mani e mi poggia
la testa sulla spalla. Ma un attimo dopo la risolleva quasi avesse ripreso
padronanza di se stessa.
«Addio, Can.»

Londra, quartiere di Chelsea


Sono appena atterrato a Londra e prendo un taxi per arrivare a Chelsea,
dove c’è l’appartamento che ha affittato mia madre. Non so quanto rimarrò
in questa città, ma accettare il regalo di Hüma e partire mi è sembrata la
cosa più giusta da fare. Il taxi si ferma davanti a una casa azzurra. Apro il
portoncino con le chiavi che l’agenzia mi ha lasciato nella cassetta della
posta. Quando entro trovo subito la porta del mio appartamento, l’1B. La
chiave però non funziona e provo a dare qualche scossone. Sto ancora
cercando di capire se la serratura è bloccata quando qualcuno apre il
battente, e mi trovo di fronte Polen.

«Can, non ho il tè turco. Non l’ho trovato, ma siamo in Inghilterra: qui il tè


è una questione nazionale. Domani vado a prenderlo. Intanto te ne preparo
una tazza di quello inglese?»
Sono seduto nella cucina del mio appartamento a Londra, che solo poco
fa ho scoperto essere anche casa di Polen.
«No, grazie, piuttosto ripetimi ancora una volta come fa questa a essere
anche casa tua.»
«Can, è la decima volta che lo dico! Credimi, io sono più stupita di te.»
«Quindi i tuoi genitori, come regalo per il diploma, ti hanno organizzato
questo viaggio a Londra?» chiedo, di nuovo.
«Esattamente» mi risponde Polen sull’orlo dell’esasperazione. «Dopo la
festa i miei mi hanno dato una busta con dentro il biglietto aereo e alcune
foto dell’appartamento che avevano affittato per me. Mi hanno detto di
venire qui per qualche mese e di decidere se rimanere per l’università.»
«Scusa Polen, perché non me lo hai detto?»
«Perché? Ma hai visto le telefonate che ti ho fatto? Non mi hai mai
richiamata. Alla fine ho deciso di partire comunque. Sai che non c’era più
niente che mi legasse a Istanbul» conclude Polen con tono ironico.
«Esattamente la stessa busta che mi ha fatto trovare mia madre. Credo
che abbiano organizzato tutto loro.»
«Be’, penso proprio di sì. Ti dispiace?»
«Non voglio dire questo, ovviamente, ma potevano avvertirci del fatto
che avremmo condiviso lo stesso appartamento.»
«Ormai siamo qui, e se entrambi abbiamo deciso di partire
evidentemente l’idea di vivere a Londra ci piaceva, quindi io direi di
godercela: abbiamo diciotto anni, non sessanta, sai quanta gente vorrebbe
essere al nostro posto? Non pensi che siamo molto fortunati a essere qui da
soli a fare tutto quello che vogliamo e a costruire il nostro futuro?»
Sono furente con mia madre. Architettare un piano del genere è nelle sue
corde, però le parole di Polen mi fanno riflettere. A trattenermi a Istanbul
era solo Esel, e ora che lei se n’è andata non c’è motivo perché io non possa
iniziare una nuova vita. Mentre riordino i pensieri, lo sguardo va alla
macchina fotografica che mi ha regalato mio padre e che tengo sempre
gelosamente vicino a me. Almeno con questa splendida Reflex è arrivato il
momento di iniziare una relazione seria.
10

Beykoz Kundura, Istanbul (2008)


Sono passati altri due anni. Ho iniziato l’Alta Scuola. Per fortuna Cahide
non è più la mia compagna di classe, anche se continua a essere molto
ostile nei miei confronti. Nonostante abbia la mia età sta frequentando
ragazze molto più grandi e non è ben vista nel quartiere. «Quella
chiacchierona della madre sparla su tutti ma non dice niente a sua figlia…»
commenta mia mamma Mevkibe quando la vede passare davanti alla nostra
bottega.
Quando ci sediamo la professoressa annuncia: «Prima di iniziare la
lezione ho una bella notizia da darvi. Avete un nuovo compagno di classe.
Entra pure Sinam».
Non credo alle sue parole, ma sicuramente ai miei occhi. Eccolo sulla
porta, molto più alto di come me lo ricordassi, ma con il solito bellissimo
sorriso che, non so se è una mia impressione, rivolge soprattutto a me…
Sono quattro anni che non lo vedo, non sapevo che fine avesse fatto e
dove fosse finito, ma è bastato rivederlo sulla porta della classe per
cancellare il tempo in cui lui non c’è stato. E ora eccoci qui, io e lui e
Ayhan, di nuovo insieme. Sinam ha quasi sedici anni, proprio come me, ed è
diventato molto bello. È alto e i suoi capelli ricci si sono allungati
facendolo assomigliare a uno di quei modelli che si vedono nelle pubblicità.
Glielo dico, ancora sbalordita per quel ritorno.
«Ma quale modello» mi risponde lui arrossendo. «Ho solo sedici anni.»
Crede che io lo prenda in giro, ma in realtà penso davvero che lui sia
bello come un modello. Quando dico queste cose Ayhan mi dà dei colpetti,
continuando a sorridere, e poi quando siamo da sole mi rimbrotta: «Sanem
ma che dici?».
«Lo so Ayhan, hai ragione, però lui è davvero bellissimo e per me è un
grande amico.»
«Si vede sorellina, ma fai attenzione! Sinam quando ti guarda ha gli
occhi a forma di cuore» aggiunge, facendomi il segno con le dita per
enfatizzare il concetto, e poi scoppia a ridere. In effetti, devo dire di aver
notato che lui cerca sempre di stare insieme a me. A scuola non c’è una
sola ragazza a cui lui non piaccia. È una gara continua tra le tante che gli
si avvicinano con le scuse più assurde e addirittura gli scrivono dei
biglietti, ma basta che arrivi io e la sua attenzione è solo per me e questo,
non lo nego, mi rende felice. Spesso andiamo sul lungomare, uno dei miei
posti preferiti, dove salgo sugli scogli e cammino mentre lui mi tiene la
mano per paura che cada.
«Alle elementari eri sempre per terra» mi dice prendendomi in giro.
Vorrei dirgli che durante i quattro anni in cui non c’è stato non ho perso
l’abitudine di farmi male di tanto in tanto, ma preferisco stare zitta. Mi
piace che lui mi sorregga, stringendomi la mano ogni volta che ho un
tentennamento, magari per uno scoglio più difficile da oltrepassare. Farei
chilometri così con lui perché è uno di quegli amici che ti fanno sentire
protetta. Non è come gli altri ragazzi, lui è davvero speciale. Gentile e
sempre pronto ad assecondarmi per fare insieme le cose più pazze.
Parliamo tantissimo sui gradini davanti casa, la sera insieme ad Ayhan, e
pensiamo a quello che sarà il nostro futuro.
«Io voglio girare tutto il mondo» racconto spesso «andrò alle
Galapagos…»
«E scriverai il tuo romanzo» mi rispondono gli altri due in coro
scoppiando a ridere. È in quei momenti che ricordo loro la storia
dell’albatros, l’uccello sulla copertina del diario che Ayhan mi ha regalato
per il mio dodicesimo compleanno. L’ho amato così tanto che una volta
finito ne ho comprato uno uguale per poter continuare a scrivere.
«Quando un certo amico se ne è andato» dico facendo finta di guardare
male Sinam «l’insegante mi ha spiegato di quale uccello si trattasse e io ho
fatto così tante ricerche che alla fine è diventato il mio animale preferito.
Ho letto che vive alle Galapagos e che si innamora una sola volta nella
vita, scegliendo un’unica compagna. Un giorno andrò lì e scriverò una
grande storia d’amore proprio come quella che vivono gli albatros.»
«Andrai lì tutta da sola?» mi chiede Sinam facendosi serio, e io in quel
momento non so cosa rispondere e su di noi scende un velo di imbarazzo.
«Sicuramente verrete anche voi due a trovarmi» rispondo per
stemperare quel momento così intenso e carico di aspettative.
Una sera, sul lungomare, io e Ayhan insieme a Osman e Leyla gli
abbiamo raccontato la storia del furto del bracciale e lui è sembrato molto
turbato.
«Non avete mai capito chi erano quei ragazzi?»
«Mai» conferma Osman. «Anche dopo la denuncia alla polizia non si è
saputo niente, probabilmente erano venuti da un altro posto. Per fortuna è
stato un caso isolato e il nostro quartiere ha continuato a essere molto
tranquillo» aggiunge guardando dolcemente Leyla. Vedendoli non posso
fare a meno di notare quanto il fratello di Ayhan sia preso da mia sorella,
che è invece proiettata verso il suo futuro di donna d’affari. In autunno
andrà al college e poi cercherà subito un lavoro. Anche Osman andrà al
college: i suoi genitori, come i miei, tengono molto alla nostra istruzione.
Non ha ancora deciso a quale facoltà iscriversi, ma qualcosa mi dice che
sarà la stessa di Leyla, perché farebbe di tutto pur di starle vicino. Mi
chiedo spesso se qualcuno si innamorerà mai di me in quel modo. Se anche
a me succederà in maniera così intensa e totale da voler scegliere il suo
stesso futuro. Guardo Sinam, e nonostante mi piaccia molto stare con lui,
non riesco ancora a vederlo nel mio orizzonte, anche se insieme stiamo
davvero bene. Lui prende coraggio e fa scivolare la sua mano per prendere
la mia e mi guarda in maniera diversa dal solito, molto più intensa. I suoi
occhi si accendono e quando incontrano i miei mi sento inquieta. Mi alzo di
scatto e tutti mi guardano come fossi impazzita.
«Ehm… C’erano delle formiche sulla sedia» mi giustifico imbarazzata,
facendo finta di toglierle nervosamente.
Nonostante stiamo spessissimo insieme ci sono ancora dei particolari di
Sinam che mi sono oscuri e non riesco a capire. Da quando è tornato gli ho
chiesto mille volte di spiegarmi il motivo della sua partenza, ma su questo
argomento lui è stato sempre poco chiaro. Mi ha parlato di una zia malata
e della necessità dei genitori di raggiungerla subito in Europa.
«Cosa dovevi dirmi quella sera? Me lo sono chiesta per tanti anni.»
Lo vedo in difficoltà mentre muove nervosamente le mani passandole sui
capelli, ma al contrario la sua voce sembra molto tranquilla.
«È passato molto tempo, era di sicuro una sciocchezza, niente di
importante. Mi dispiace se ti è rimasto il dubbio così a lungo» dice
cercando di cambiare discorso, «ma sono contento perché vuol dire che mi
hai pensato tanto.» Mi prende in giro, facendomi sentire in imbarazzo.
«Ma cosa hai fatto in Europa per tutti quegli anni e perché non ti sei mai
messo in contatto con nessuno?»
«Quando sono partito ero troppo piccolo per pensare di mettermi in
contatto con qualcuno» mi dice triste. «Mia madre spesso mi chiedeva se
volessi sentire qualche amico, ma le ho risposto sempre di no: per me è
stato doloroso partire in quel modo, cambiare amicizie, casa, tutto. È stato
molto difficile, anche se alla fine è stato bello. In quel periodo ho viaggiato
tanto con i miei genitori: ci siamo spostati dalla Germania all’Italia, siamo
poi stati in Inghilterra e alla fine abbiamo deciso di tornare qui. Ho
cambiato così tante scuole, visto così tanti luoghi, visi, persone. Però il mio
punto di riferimento è stata sempre la Turchia, con gli amici e gli affetti che
avevo qui e che pensavo non avrei rivisto mai più, proprio come pensavo
non avrei mai più rivisto te…»
Quando mi racconta il suo passato provo tanta tristezza e ho la
sensazione che ci sia molto di più, qualcosa che non può o non vuole dirmi.
Vorrei tanto abbracciarlo in quei momenti, ma le mie mani non riescono a
muoversi, perché quella stretta assumerebbe per lui un significato molto più
profondo della mera consolazione. Aprirebbe la strada a un altro tipo di
sentimento che per me ora sarebbe difficile da gestire, visto il quartiere in
cui vivo con regole forse antiche e superate, ma che continuano a dettare
legge soprattutto in tema d’amore. Ma soprattutto perché, nonostante io lo
trovi bellissimo, lo vedo soltanto come un amico speciale e non sono pronta
a fare il “salto”. Il mio cuore non batte così forte.

All’Alta scuola, al contrario delle elementari, io e Ayhan siamo nella stessa


classe. Mancano pochi giorni al mio compleanno quando mia madre
irrompe in aula con le lacrime agli occhi interrompendo la lezione. Mi alzo
in piedi molto preoccupata e corro verso di lei. «Mamma, che succede?»
«Professoressa, sono venuta a prendere Sanem e Ayhan.»
A quelle parole la mia amica si alza di scatto, altrettanto preoccupata, e
segue mia madre. Nel corridoio incontriamo mio padre, anche lui con gli
occhi rossi per le lacrime. Sta abbracciando Osman, che è all’ultimo anno,
e dietro di loro c’è Leyla in preda ai singhiozzi.
«Cosa è successo?» urlo.
«Si tratta dei genitori di Ayhan» dice mia madre scoppiando a piangere.
Mio padre lascia Osman e si avvicina ad Ayhan, che intanto ha iniziato a
tremare.
«Figliola mia, è successo un brutto incidente d’auto. Tuo padre era
andato a ordinare della carne per la macelleria e tua mamma l’ha
accompagnato. Mentre tornavano un camion ha invaso la loro corsia e…»
Ayhan comincia a singhiozzare e urlare mentre io e mia madre ci
avviciniamo per provare a calmarla e Leyla cerca di consolare Osman. Mi
sembra tutto un terribile incubo. Cemal e Asu, i miei adorati zii adottivi, i
genitori della mia migliore amica, non ci sono più e io mi sento così
impotente, incapace di aiutare la mia amica a sopportare un dolore del
genere.
Tutto è così vorticoso, buio, doloroso. Organizzare il funerale, cercare di
supportare Osman e Ayhan che non smettono mai di piangere. Pensare a
quello che succederà ora che loro non ci sono più. Due persone così buone.
Cemal, il macellaio del quartiere, sempre sorridente e caro amico dei miei.
È come se una parte del mio cuore si fosse spezzata. E poi Asu, la mamma
più dolce del mondo. Quante volte mi sono rifugiata a casa loro per evitare
l’ira della mia, mentre lei per calmarla andava a offrirle del tè caldo e la
faceva sorridere per farle dimenticare che era arrabbiata con me. Ora tutto
questo è svanito e non tornerà più. Come farà Ayhan senza la mamma e il
papà? Cosa ne sarà di loro, chi penserà al loro futuro, alla macelleria?
Dopo qualche ora ci ritroviamo tutti a casa di Ayhan. Le donne del
vicinato hanno portato dei dolci e sono sedute con il velo nero in testa nel
piccolo salone. Io sono con la mia amica nella sua camera. Con noi c’è
anche Muzaffer, seduto in silenzio in un angolo della stanza, con gli occhi
rossi quasi che questo dolore avesse superato la sua indole nevrotica e gli
avesse fatto dimenticare la nuova fissazione che lo segue da qualche tempo:
quella di sposarmi, quando saremo più grandi.
Si apre la porta e sull’uscio vedo Sinam. Anche lui sembra sconvolto. È
serissimo e si precipita sul letto ad abbracciare Ayhan, che si scioglie
ancora di più in lacrime singhiozzando sulla sua spalla. Mentre la
abbraccia, Sinam allunga una mano verso di me e prende la mia,
stringendola forte e guardando con un sorriso dolce la mia faccia gonfia di
pianto.
Muzaffer si alza ed esce dalla stanza salutando tutti: «Non ce la faccio,
devo uscire» confessa, e io un po’ lo invidio. Anche io vorrei uscire a
respirare, non resisto più in quella stanza così piena di dolore. Vorrei
sentire la voce di Asu che ci chiama perché la cena è pronta. Invece no, si
sentono solo i singhiozzi sommessi, le lacrime e il via vai di gente che parla
sottovoce. Rimaniamo in silenzio tutti e tre, con Ayhan sul letto che guarda
il soffitto e noi seduti sul pavimento con le gambe incrociate e la testa
bassa.
Poi finalmente Ayhan si addormenta e io sono felice che la stanchezza
abbia prevalso, almeno per poco, su quel dolore straziante.
Sinam si alza: «Usciamo, lasciamola riposare, ne ha bisogno».
Lo seguo come un automa, scendo le scale e guardo l’enorme folla di
persone che ha invaso la piccola casa. Leyla è in cucina e mette a
ripetizione sui fornelli la Çaydanlık, la teiera turca doppia. Mi viene vicino
e mi abbraccia, mostrandomi tutta la tenerezza e l’amore che questa sorella
spesso così dura prova per me.
Osman ci raggiunge in cucina e sembra un fantasma. I suoi bellissimi
occhi blu sono gonfi e rossi e si aggira senza sapere realmente cosa deve
fare.
«Usciamo» dico a Sinam, preferendo lasciare Osman da solo con Leyla,
che è sicuramente più in grado di me di confortarlo. Anche fuori dalla casa
di Ayhan si è radunata una folla silenziosa. Molti piangono, altri cercano di
farsi coraggio, altri ancora ricordano sommessamente episodi della vita di
Cemal e Asu.
Sinam mi prende per mano: «Allontaniamoci, vieni».
Facciamo un lungo tratto di strada senza dire una parola e ci ritroviamo
davanti al mare. Un posto che spesso ci ha visti felici, sorridenti, e che ora
spero riesca a calmare quel dolore così pesante che mi toglie il respiro.
Arriviamo a una piccola spiaggia, un’insenatura di sabbia dove trova
spazio una serie di piccole barche di legno capovolte. Ci sediamo in mezzo
a due di loro. Sinam mi prende la mano e io gli butto le braccia al collo,
sciogliendomi nel suo abbraccio consolatorio. Comincio a singhiozzare e
con le lacrime bagno la sua felpa blu e i suoi lunghi capelli. Lui rimane
immobile, con entrambe le mani che premono sulla mia schiena e la sua
testa appoggiata alla mia. Non so per quanto tempo rimaniamo così,
abbracciati stretti, cercando di far calmare i miei singhiozzi e di rendere il
mio respiro più rilassato. Ci giriamo quando un rumore sordo attrae la
nostra attenzione e vediamo Cahide che ci sta guardando, ferma al limitare
della spiaggetta. Ci sono anche le sue amiche più grandi schierate vicino a
lei quasi a formare un plotone d’esecuzione. «Si vede quanto tieni alla tua
amica» mi urla. «Mentre lei sta piangendo tu sei qui in compagnia.»
Mi alzo, presa da una rabbia cieca, ma la stretta d’acciaio di Sinam mi
blocca.
«Andatevene» dice Sinam con un tono di voce duro.
Le altre ragazze si allontanano, Cahide rimane ancora un secondo
fissandoci con uno sguardo pieno di odio.
«Sanem, non curarti di loro: sono perfide, persone molto cattive, molto
di più di quello che immagini. Io lo so bene.»
Quando torniamo a casa di Ayhan c’è ancora tanta gente, ma ho la netta
sensazione che gli occhi siano tutti su me e Sinam. La conferma arriva da
mia madre, che mi prende per un braccio e mi porta in un angolo appartato
della casa.
«Sanem, ma che hai combinato?»
Io la guardo e non capisco.
«Che stavi facendo insieme a Sinam?»
La mia mente va subito a Cahide e alle sue amiche. «Che ne sai tu? Chi
te lo ha detto?»
«La madre di Cahide, e lo ha raccontato a tutti: “Mentre qui si piange”
ha detto “c’è Sanem che si diverte a baciare il fidanzato di nascosto, al
mare.”»
«Mamma, ma come puoi credere a questa cosa? Sinam è solo un caro
amico.»
«Certo che non ci credo, ci mancherebbe altro. Ma per il quartiere, per
tutti, l’importante è quello che sembra e non quello che è realmente.
Ovviamente a me lo ha detto anche Melahat, la parrucchiera, e mi ha
riportato tutti i commenti che sono stati fatti.»
Mi sembra davvero di impazzire. Come si può in quel momento essere
così crudeli, così insensibili? Le lacrime cominciano a scendere e poco
lontano vedo Sinam con la faccia trasformata dalla rabbia. La notizia è
arrivata anche a lui e il suo silenzio e la sua impossibilità di intervenire,
per evitare ulteriore scompiglio, urla più del dolore di tutta quella giornata.
Non posso più stare così male, non posso combattere contro gente così
cattiva da inventare bugie in un momento come questo. Cahide mi ha
tormentata fin dalle elementari e non ho mai capito perché, ma ora la cosa
non mi interessa più: le concedo la vittoria. Ho solo sedici anni ma mi
sento molto triste e l’unica cosa a cui penso è di andarmene, di sparire
proprio come ha fatto Sinam.
11

Skomer Island (2010)


La barca che mi sta portando a Skomer Island procede liscia sull’acqua.
Sembra di navigare in un lago e non in mare aperto, al largo delle coste
gallesi del Pembrokeshire: un posto bello da togliere il fiato.
Chiudo il giubbotto con il collo di ecopelliccia per proteggermi dal
freddo e la brezza marina mi scompiglia i capelli costringendomi a tirarli
continuamente indietro con la mano. Sono diretto all’unico Parco Nazionale
costiero britannico. Sono passati due anni e mezzo da quando ho lasciato
Istanbul: quella che inizialmente doveva essere una vacanza si è ben presto
trasformata in un vero e proprio cambiamento di rotta rispetto alla mia vita
precedente. La convivenza con Polen, che tanto mi preoccupava, in realtà
procede molto bene. Siamo coinquilini e ottimi amici, anche se ogni tanto
spunta qualche paparazzo per fotografarci insieme, come avveniva in
Turchia. Qui a Londra lei ha messo un po’ da parte il suo atteggiamento
snob per concentrarsi sullo studio, e mi sono reso conto che è piacevole, a
volte divertente. Si è iscritta alla facoltà di Fisica al King’s College e sta
avendo ottimi risultati. Non male per una ragazza che ha solo ventun anni.
Spesso rimane al college anche la notte, ospite dei suoi nuovi amici, e
questo mi permette non solo di avere la casa tutta per me per intere
settimane, ma anche di stabilire la giusta distanza tra me e lei. Alla fine
vivere sotto lo stesso tetto è piacevole, adoro i nostri pic-nic della domenica
a Hyde Park, fare kayak sul Tamigi, mangiare sushi e scovare i posti dove
fanno il kebab buono come quello di Istanbul.
Ma so che il bacio che mi ha dato nella capanna la sera della festa non è
stato solo un caso o l’emozione del momento. Polen è molto presa da me,
ne sono consapevole. Lo sento dal suo nervosismo quando la abbraccio, dal
modo in cui mi guarda quando pensa che io sia distratto, dalle carezze che
mi dà quando mi addormento sul divano la sera e lei si avvicina per
mettermi la coperta addosso. In quelle occasioni non mi oppongo al tocco
delicato delle sue dita e resto fermo. Ho paura che un nuovo rifiuto possa
ferirla e, nonostante come uomo la trovi bellissima e intelligente, devo
frenare spesso il mio istinto. Non sarebbe giusto per lei.
Il dolore per quanto accaduto con Esel si sta affievolendo, anche se
spesso mi chiedo dove sia, cosa faccia, se qualcuno l’abbia mai più baciata
come facevo io.
L’urto della barca sul molo interrompe i miei pensieri. Rimetto piede
sulla terraferma e mi incammino verso la sommità della costa seguendo un
sentiero fatto di un centinaio di scalini. Arrivato in cima, il panorama è
davvero unico. Continuo a camminare alla ricerca dei puffin, uccelli marini
dal becco variopinto che nidificano su quest’isola insieme a molte altre
specie. Mi bastano pochi passi per restare completamente solo in mezzo alla
natura, che regna sovrana e che mi fa sentire ancora di più un ospite su
questa terra. Sono circondato da meravigliosi giacinti che dondolano al
vento, fiori di un blu incredibilmente acceso. I miei sensi stanno
impazzendo, godendo della luce del sole, del rumore degli uccelli che si
aggirano tra i nidi pieni di uova, del profumo pungente del mare, dei fiori
che mi circondano, senza contare i conigli che mi tagliano la strada
facendomi sussultare.
La mia mano è troppo lenta per riuscire a imprimere sulla pellicola tutto
quello che gli occhi vedono. Il terreno è soffice e sembra di camminare su
un tappeto, nonostante gli scarponi da trekking. Dopo alcune ore arrivo
nella parte sud dell’isola, nel punto chiamato The Wick, un’immensa
scogliera piena di uccelli ammassati l’uno sull’altro. I puffin sono
dappertutto con i loro becchi arancio e il piumaggio nero e sono molto
attenti a che nessuno tocchi i nidi che hanno scavato nel terreno, sulla
scogliera a picco sulle onde. Mi rivedo in loro anche se, penso tristemente,
io non sono riuscito a proteggere il mio, di nido. Scatto decine di foto, forse
centinaia prima di concedermi una pausa per sedermi su quell’erba fresca
ad ascoltare i rumori della natura che mi circonda. Vorrei vivere così per
sempre, con il vento tra i capelli e il mare negli occhi. Lontano dalla folla,
dai dolori, dalle convenzioni. Un uccello libero di decidere dove andare e
chi amare. Un albatros con le sue ali immense, che sceglie una sola
compagna per tutta la vita e vede il mondo sempre dall’alto.
Due giorni dopo sono di ritorno a Londra. Polen mi ha mandato un
messaggio per informarmi che rimarrà tutta la settimana al college per
preparare un esame e io già pregusto la gioia di avere l’appartamento tutto
per me. Arrivo con un taxi e non faccio caso alla persona seduta sui gradini
della casa vicina. La vedo bene solo quando raggiungo il mio portoncino e
infilo la chiave per aprirlo.
«Ciao Can» mi saluta una voce inconfondibile.
«Esel?»
Rimango bloccato con la chiave nella toppa. Non riesco a credere ai miei
occhi. La guardo e stento a riconoscerla. È bellissima, così avvolta in uno
stretto trench nero. Ha accorciato leggermente i capelli, che ora porta con la
riga da una parte, e che le scendono morbidi appena sotto le spalle. Il trucco
appena accennato fa risaltare in modo sorprendente gli occhi nocciola e le
labbra carnose. Non indossa tacchi ma delle semplici ballerine nere. Si alza
dai gradini e mi viene incontro senza aggiungere neanche una parola.
«Come mi hai trovato?» domando, ma lei non mi risponde e mi getta le
braccia al collo lasciandomi incredulo, con il cuore che batte all’impazzata.
La chiudo dentro un abbraccio mentre comincia a piovere. L’acqua che
scende le bagna il volto e la rende ancora più bella. Avvicino le mie labbra
alle sue e lei risponde al mio tocco stringendosi ancora di più a me. Respiro
forte il suo profumo mescolato all’odore della pioggia.

«Vieni dentro» le dico, prendendola per mano quasi avessi paura di vederla
scappare ancora una volta.
Entriamo nel mio appartamento. Lancio lo zaino e il giubbotto in salone
senza mai lasciarla e percorriamo di corsa la manciata di passi che ci
separano dalla mia camera da letto. Arrivati davanti alla porta la prendo in
braccio e comincio a baciarla nuovamente. Non diciamo una parola: i nostri
respiri parlano per noi. L’appoggio delicatamente sul letto sfatto e con una
sola mano mi sfilo la maglietta, rimanendo senza più protezioni né scuse.
Le sciolgo la cinta annodata del trench e lei scalcia via le ballerine
facendole precipitare a terra. Ha un vestito color lavanda che comincio a
sbottonare, rivelando il reggiseno rosa chiaro. Mi fermo un attimo,
incantato da tanta bellezza.
Lei mi guarda e mi implora con gli occhi di baciarla ancora. Allunga le
braccia e affonda le dita tra i miei capelli portando il mio viso verso il suo.
Le mie mani scivolano lungo la sua schiena e quando si appoggia a me
penso che così potrei anche morire.
«Ho frequentato alcuni ragazzi» mi dice sussurrando, quasi a rivelarmi
un segreto «ma nessuno era come te. Non ho mai smesso di pensarti.»
Quelle parole mi fanno immaginare le esperienze che ha avuto e provo un
forte senso di gelosia. Eppure anche io ho avuto le mie storie, passioni
improvvise che hanno fatto parte della mia crescita e che ora mi rendono
ancora più consapevole e grato della situazione che sto vivendo.
Comincio a baciarla e poi salgo verso il collo, che lei tende inarcandosi
all’indietro per farmi assaporare ogni centimetro della sua pelle. Fuori piove
e le gocce che tamburellano sui vetri assomigliano a lacrime di felicità. Esel
chiude gli occhi e il suo respiro si fa più accelerato.
Lei mi bacia ancora più appassionata, come se da quello dipendesse la
sua intera esistenza. Punto i palmi delle mani sul letto e la guardo sotto di
me con il volto imperlato di sudore. Le sposto i capelli accarezzandole la
fronte e lei apre gli occhi perdendosi nei miei.
Non so per quanto tempo rimaniamo immobili, abbracciati senza dire
una parola. Non mi sembra vero. Lei è tornata. È tornata da me.

Con indosso una mia maglietta, Esel siede a gambe incrociate mentre
divora la pizza che abbiamo ordinato, tagliando le fette con le mani.
«Mmm, che buona. Io non posso mangiarla così spesso.»
È un piacere vederla sorridere e ritrovarla più donna rispetto ad appena
un paio di anni prima.
«Perché non puoi mangiarla spesso?»
«Devo stare attenta a non ingrassare, altrimenti chi la sente la mia
agenzia?» mi spiega ridendo. Io invece mi faccio serio e poso la fetta di
pizza che stavo mangiando: «Esel, ho tante domande da farti. Sei
ricomparsa nella mia vita come un miraggio. Come hai fatto a trovarmi?
Perché mi hai lasciato a Istanbul?».
Anche lei posa la sua e si pulisce la bocca con un tovagliolo di carta.
«Qualche giorno dopo che ci siamo lasciati…»
«Che mi hai lasciato» la correggo.
«Va bene, che ti ho lasciato. Sono partita per Parigi dove ho cominciato a
lavorare. Ho avuto tanto tempo per pensare a noi e a quello che è successo
quella sera al capanno. Ti ho visto, Can, ti ho visto con Polen.»
La frase mi arriva come un pugno allo stomaco.
«Lascia che ti spieghi. Io non…»
«Non c’è bisogno che tu mi dica niente. So come sono andate le cose.
Mia madre è rimasta in contatto con le cameriere. Una di loro ha sentito
Polen piangere con la madre e raccontarle cosa era successo.»
«Quindi tu sapevi la verità... Perché non mi hai cercato allora?»
«Avevo iniziato quel nuovo lavoro e mi vergognavo. Ti avevo trattato
male e non sapevo se credevi o meno alla storia del furto.»
«Non ci ho mai creduto Esel» le rispondo, cercando di confortarla «e
ancora oggi mi chiedo chi è stato a organizzare quella messa in scena e
perché.»
«Io qualche idea ce l’avrei. Comunque, tempo dopo mi sono fatta
coraggio e ho provato a contattarti, ma il tuo numero era irraggiungibile.»
«È vero, l’ho cambiato quando mi sono trasferito qui.»
«Poi sono tornata a Istanbul e sono andata a casa tua sperando di trovarti,
ma tua madre mi ha detto che neanche lei sapeva dove fossi e che non eri in
contatto con la famiglia.»
«Hüma…» dico tra i denti.
«Così ho pensato non ci fosse modo di rintracciarti. Stavo per rinunciare,
ma qualche tempo dopo mia madre mi ha chiamata e mi ha detto che Aziz
era andato a trovarla: le aveva portato il tuo indirizzo così che potesse
comunicarmelo. Le ha raccontato che ti eri trasferito a Londra, ma era il
periodo delle sfilate e non potevo muovermi. Sai, ho posato anche per
copertine molto importanti» mi racconta con una punta d’orgoglio, e
vedendo quant’è meravigliosa anche senza un filo di trucco, intenta a
piluccare pezzetti di pizza, penso che sia assolutamente vero e che sia
naturale che la gente impazzisca per lei.
«Dopo le sfilate sono tornata a Istanbul da mia madre e mentre ero lì ho
saputo di essere stata scelta per un’importante campagna pubblicitaria,
qualcosa di grosso, che verrà diffusa in tutto il mondo, e che sarei dovuta
venire a Londra per il primo shooting. Ho pensato fosse un segno del
destino, quindi eccomi qui» conclude allargando le braccia come a voler
sottolineare la sua presenza.
Mi alzo in piedi e la raggiungo dall’altra parte del tavolo. Poggio la testa
vicino alla sua e, guancia contro guancia, l’abbraccio forte da dietro.
«Posso rimanere da te questa sera?» mi chiede, portando languidamente
le braccia dietro di sé per farle scivolare attorno al mio collo. fa la ricerca
erecadl su qualsiasi cercatore e sc.arica lbri premium gra.tis
«Perché, dove altro vorresti andare?»
«Domani riparto, Can.»
La notizia mi gela il sangue nelle vene. La lascio di colpo e le giro
intorno per guardarla in faccia. Lei abbassa gli occhi come faceva quando
era piccola.
«Non ho cambiato idea, Can. Siamo troppo diversi io e te. È vero, ci
sono stati tanti equivoci, tante persone che non volevano vederci insieme,
ma forse avevano ragione.»
«Non mi importa niente degli altri. Non mi importa cosa sia successo, io
non ti lascio andare via…»
«Devi, Can, se mi vuoi bene. Se è vero che mi ami devi lasciarmi andare.
Stai iniziando una nuova vita, ho visto alcuni tuoi scatti pubblicati e sono
meravigliosi. Si vede quanto ami la fotografia. E io, be’, io ho lavorato così
duramente per tutto questo tempo per dare una vita migliore a mia madre,
per riscattarla dall’onta che le hanno ingiustamente gettato addosso. Non
posso fermarmi proprio ora che non sono neanche a metà del percorso. Il
nostro non è un addio, ma un arrivederci. E se ti va di lasciarmi il tuo nuovo
numero… eviterò di girare di nuovo tutta Istanbul per trovarti» aggiunge,
ridendo per spezzare la tensione.
Sono sconvolto dalle parole pronunciate dalla sua bocca, ma so che
arrivano dal profondo del suo orgoglio. La trovo diversa, e non solo
fisicamente. Indurita dalla vita e proiettata verso un futuro che io vedo
troppo superficiale per lei, ma che l’ha indubbiamente salvata quando io
non c’ero a proteggerla, quando il mondo le si è rivoltato contro lasciandole
solo questo appiglio. Intenerito e anche un po’ in colpa, la prendo in braccio
e la porto nella mia stanza mentre lei scalcia, ride e tenta anche di mordermi
un orecchio.
«It ain’t over ‘til it’s over» non è finita fino a che non è finita, le dico
portandola sul letto e ricominciando a baciarla ovunque.

Zurigo
«Signora Hüma, come sta? Quanto tempo.»
«Polen, tesoro, sono appena stata da tua madre a prendere il tè. Avevo
così tanta voglia di sentirti... Can non mi chiama mai. Come vanno le cose
tra voi?»
«Siamo amici, signora Hüma. Sempre e solo amici.»
«Che brutta notizia mi stai dando. Come si fa a essere amici di una
creatura come te senza innamorarsi follemente? Non è che studiate troppo,
voi due?»
«In effetti sto sostenendo molti esami di fisica e matematica e Can è
sempre in giro a fare foto, sta lavorando per alcuni giornali molto
importanti e sta seguendo dei corsi, quindi ci vediamo poco.»
«Male! Polen, questo è molto male. Siete amici speciali, dovete stare
spesso insieme, non so se riesco a spiegarmi...»
«Si spiega benissimo signora Hüma. Ce la metterò tutta.»
«Brava, cara. Sei una donna, questo è il tuo superpotere.»
12

Casa “nene” – Anadolu Kavağı, Istanbul (2010)


Sono in mezzo a un meraviglioso bosco. I raggi del sole filtrano dalle foglie
degli alberi creando tutto intorno una luce magica. Dopo tanto tempo mi
sento così felice. Dal sentiero vedo arrivare la mia nene, mia nonna, con un
cesto di vimini sottobraccio. Le vado incontro soddisfatta con le mani
cariche delle erbe raccolte durante la passeggiata.
È ormai un anno e mezzo che sono a casa sua. Sono partita pochi giorni
dopo la morte dei genitori di Ayhan. Dovevo rimanere con lei solo per
pochi mesi, poi, nonostante le insistenze dei miei, non ce l’ho fatta a
tornare nel quartiere. Ho bisogno di stare ancora lontana da quel posto che
amo profondamente, ma che non mi ha supportata nel momento in cui ne
avevo bisogno. È stato tutto così terribilmente tragico e doloroso. Aver
perso i genitori di Ayhan ed essere accusata di poca sensibilità. Non mi ha
ferita l’essere stata sorpresa insieme a Sinam, che come amico mi stava
solo consolando, ma il fatto che tutti abbiano creduto che mentre Ayhan
piangeva per la scomparsa dei suoi, io fossi da qualche altra parte
incurante dei suoi sentimenti. Come ha fatto la gente che mi conosce, che
mi ha vista crescere, a pensare una cosa del genere?
A volte è bello sapere che tutti intorno a te partecipano alla tua vita,
proprio come accade nel quartiere. Quando i genitori di Ayhan sono morti
non c’è stata una sola persona che non abbia cercato di portarle conforto. I
vicini si sono subito prodigati per stare accanto a Osman, che ha deciso di
rinunciare al college per continuare a lavorare in macelleria. Eppure è
bastata la bugia della madre di Cahide perché tutti iniziassero a
chiacchierare, commentare e giudicare il mio comportamento, senza
rendersi minimamente conto che quella non poteva essere la verità. Ho
cambiato scuola e nei primi mesi Ayhan è venuta qui con me, per
allontanarsi anche lei da quella casa piena di ricordi troppo dolorosi.
Osman si è invece trasferito per qualche tempo a casa dei miei genitori e
ha dormito in camera mia per sentire attorno a sé il calore della famiglia
che ha sempre considerato come sua. Quando Leyla è partita per il college,
lui ha deciso di tornare a vivere nella casa dei suoi genitori e Ayhan lo ha
raggiunto per non lasciarlo da solo e aiutarlo con la macelleria.
Nene si avvicina e io rovescio le erbe nel suo cesto. Lei le guarda e con
le sue piccole mani nodose comincia a selezionarle.
«Questa no, questa è un’erbaccia, anche questa. Sanem, come fai a
confondere ancora la pimpinella con la gramigna?» mi chiede sorridendo.
Ho imparato tanto da quando vivo con lei. Quando mio padre mi ha
accompagnato qui per la prima volta, insieme ad Ayhan, lei è uscita di casa
e ci ha abbracciate forte vedendoci con gli occhi gonfi di pianto. Non
appena abbiamo varcato l’ingresso, è andata nella sua camera da letto e ha
aperto un grande cassettone da cui ha tirato fuori un barattolo molto
piccolo. Lo ha svitato davanti a noi e si è sprigionato un odore pungente.
«Passate questa pomata sulle palpebre, non guarisce i dolori
dell’anima, ma almeno aiuterà i vostri occhi.»
Da quel momento ogni giorno è stato una grande scoperta. Abbiamo
fatto lunghe passeggiate in campagna e nei boschi vicino a casa sua. Ogni
tanto si fermava per raccogliere quella che per me e Ayhan era un’erba
qualsiasi, e ci raccontava di cosa si trattasse e cosa curasse. I primi tempi
non ero molto esperta: ricordo quando ho scambiato una pianta di ortica
per un’erba che mia nonna ci aveva cucinato qualche giorno prima. Ho
allungato una mano per prenderla e quando l’ho ritirata era tutta gonfia.
In quell’occasione ho rivisto Ayhan ridere per la prima volta dopo tanto
tempo.
Mia nonna mi ha anche insegnato la cosa più bella del mondo: come
creare i profumi. Ha una tecnica molto particolare e antica che mi ha
spiegato passo a passo: inizia pestando alcuni fiori che raccoglie e poi
aggiunge una parte di crema e una di puro olio di mandorle. Ho
diligentemente appuntato tutte le quantità e ho iniziato a crearne anche io
uno speciale, fatto con i gigli selvatici, fiori molto rari e dal profumo
intenso.
Oggi è anche il giorno della settimana in cui Sinam viene a farmi visita.
I miei genitori non hanno mai creduto alle chiacchiere del quartiere,
sapevano che si trattava solo di un amico, ma mi avevano comunque
proibito di vederlo per non alimentare altri pettegolezzi.
Nonostante questo, prima di decidere di venire a stare dalla nonna ho
parlato tanto con lui.
«Ho bisogno di allontanarmi da qui» gli avevo confidato con tono triste
e lui mi aveva consolata dicendo che la mia decisione era la più giusta, e
aveva promesso di venirmi a trovare ogni settimana. E così ha fatto. È
diventato fin da subito il preferito di mia nonna, che ha mantenuto il
segreto e non ha riferito di queste visite ai miei genitori.
«Ho vissuto per tanto tempo nel quartiere e so come funzionano le cose»
mi ha detto. «Per questo, dopo che tuo nonno è morto, ho preferito
allontanarmi. Ora sono vecchia, ma certe cose non cambiano mai. Le
chiacchiere e le bugie sono la rovina del mondo. Sinam è un bravo ragazzo
e un grande amico: bisogna sempre tenere care le persone come lui e
Ayhan.»
Torniamo insieme verso casa sua e lo troviamo nel vialetto ad aspettarci
con un mazzo di fiori. Spero che non siano per me, la cosa mi metterebbe in
imbarazzo, ma per fortuna quando mi avvicino lui corre incontro a mia
nonna e la abbraccia. «Questi li ho portati per lei, nene.»
Tiro un sospiro di sollievo, anche se un po’ rimango male che per me
non ci sia niente. Lui lo capisce, scoppia a ridere e fa lo stesso gioco che
faceva alle elementari, dicendomi di chiudere gli occhi e di aprire la mano.
Poi la stringe nella sua e quando la riapro trovo il solito cioccolatino.
Nonostante l’abbia fatto centinaia di volte da quando lo conosco,
l’emozione è sempre quella della prima volta. Quante cose ci siamo detti
nei quasi due anni in cui sono rimasta lontana dal quartiere. Quanti sogni,
passeggiate e scherzi abbiamo condiviso. A volte penso che lui sia molto
preso e temo di varcare quella soglia sottile che potrebbe rovinare la nostra
amicizia. È indubbio che per me sia un amico speciale ma nulla di più. Ho
voglia di scoprire il mondo, di viaggiare, anche se la sua presenza per me è
importante.
«Nene, posso portare Sanem a mangiare fuori oggi? Le dispiace se non
rimango con lei?»
«Andate ragazzi. Alla vostra età si può guidare un’auto, un pranzo non
sarà di certo più pericoloso» ci dice sorridendo e rientrando in casa.
Scendiamo a piedi a Anadolu Kavağı, ridendo e spingendoci. Si tratta di
un paesino molto caratteristico, pieno di ristoranti che danno sul mare. Un
antico villaggio di pescatori ora pieno di turisti che si aggirano per le
bancarelle colorate. Scegliamo una piccola trattoria dalla quale possiamo
godere di una bellissima vista sul Bosforo. Davanti a noi è ancorata una
barchetta di legno rosso fuoco, l’unica di quel colore in mezzo a tante altre
bianche e azzurre.
«A volte mi sento come quella barca rossa» dico a Sinam «non so se gli
altri mi considerano strana o unica.»
«Tu per me sei unica» replica sorridendo, e io penso che sia meglio
ordinare.
Mentre aspettiamo che arrivino i nostri piatti comincio a mangiare fette
intere di trabzon, il pane bianco che è sul tavolo.
Restiamo un po’ in silenzio a guardarci e da una televisione accesa
all’interno del locale stanno parlando di una celebrità: “Can Divit, il
rampollo d’oro di Istanbul, è stato avvistato ieri sera in un locale di
Londra. Bello e ricco è uno dei socialite più ricercati e apprezzati dalle
donne. Ci chiediamo chi riuscirà a conquistare il suo cuore, o forse il suo
patrimonio…”.
Sento solo l’audio perché il televisore è troppo lontano per poter vedere
di chi si tratti, ma la cosa mi infastidisce: «Non credo che sopporterei uno
così» dico tutto d’un fiato a Sinam. Lui mi guarda e non capisce. «Niente,
ascoltavo la televisione» aggiungo.
«Cosa farai con il college?» mi chiede invece Sinam.
«Ancora non ho deciso, ma sarà sicuramente qualcosa che riguarda la
natura» rispondo, girandomi prima a guardare il mare da una parte e poi
la grande collina con le rovine dello storico castello dall’altra. Tu invece
cosa hai deciso di fare?»
«Sono a un bivio, Sanem, ci sto pensando da tempo. I miei parenti in
Europa hanno chiesto ai miei di trasferirsi nuovamente lì.»
La notizia mi coglie di sorpresa e mi fa quasi strozzare con il pane:
«Vuol dire che ripartirai?» chiedo con un po’ di timore.
«No, nel senso... non proprio. Sono qui proprio per questo. Ormai credo
che le cose tra noi due siano chiare, Sanem…»
Le sue parole mi agitano, ma lo ascolto in silenzio.
«È da quando giocavi a calcio con me, con i tuoi pantaloncini rossi, che
sono innamorato di te.»
Lo dice con naturalezza, ma le sue parole hanno l’effetto di un pugno
nello stomaco.
«Sono passati tanti anni. Io sono andato via, ma anche quando ero solo
un bambino tu eri sempre nella mia mente. Siamo diventati grandi insieme
e con me sono cresciuti anche i miei sentimenti, le emozioni che mi dai.
Quando Cahide ha detto a tutti che ero il tuo fidanzato, dentro di me ho
sperato che questo potesse un giorno corrispondere al vero.»
Vorrei interromperlo e dirgli che non sono ancora pronta a sentire quelle
parole, che mi sta spaventando, ma non riesco a farlo e comincio a
prendere grossi pezzi di pane per buttarli ai pesci sotto di noi. Quando mi
vede fare così, Sinam si mette a ridere. Abbiamo portato spesso da
mangiare ai gatti randagi del quartiere e agli uccellini in una grande villa
abbandonata. Lui torna serio e continua guardandomi fisso negli occhi:
«Ecco io, Sanem, vorrei che il rapporto tra noi due diventasse qualcosa di
più serio. Voglio che torni nel quartiere come mia fidanzata. Ci ho pensato
tanto e l’unica cosa che mi farebbe rimanere a Istanbul è questa. Sei tu».
Mi sento quasi soffocare da quelle parole, che mi hanno confuso la testa
e che fanno rimbalzare i miei pensieri da una parte all’altra.
Egoisticamente non posso pensare alla mia vita senza Sinam, ma non posso
neanche pensare a lui come al mio fidanzato. Ho quasi diciotto anni e cosa
ho fatto fino a ora nella mia vita? Fidanzarmi in questo momento, per me,
significherebbe mettere da parte i miei sogni. In più non posso dimenticare
un particolare fondamentale: non sono innamorata di lui. Leyla ha deciso
la sua strada, sta frequentando il college e ha intenzione di iniziare a
lavorare; io invece cosa voglio fare? Voglio veramente decidere ora, mentre
do da mangiare ai pesci? La testa comincia a girarmi e lo dico a Sinam,
che si alza e mi viene vicino. Cerca di prendermi la mano, ma la ritraggo
d’istinto e mi sposto leggermente. «Conosco questa sensazione» mi dice
guardandomi serio «l’ho avuta anche io quando mi hai abbracciato il
giorno del tuo compleanno, poco prima che partissi. Ho avuto paura. Ecco
perché, quando ho saputo dai miei che il giorno dopo ce ne saremmo
andati, sono tornato da te. Volevo scusarmi per quell’atteggiamento, per
quello scatto improvviso che sapevo ti aveva ferita. Io però avevo dodici
anni. Tu ora ne hai quasi diciotto, sei una donna, quale è la tua ragione?»
Mi sento in trappola e non posso mentire: «Sinam, abbiamo passato
insieme così tanti anni che l’idea di non vederti più mi è intollerabile. Ma
in questo momento non posso fare un giuramento così importante e che
riguarda tutta la mia vita. Mentirei se lo facessi. Non ho ancora un’idea
precisa dell’amore, ma non assomiglia a quello che provo per te, che è una
cosa enorme ma diversa».
Sinam sembra sconvolto dalla mia risposta, che suona inaspettata anche
alle mie orecchie e che viene dal mio profondo, dal mio desiderio di libertà,
dall’idea di quell’albatros che tanto amo ma che non ha ancora deciso di
scendere sulla terra per trovare la sua compagna.
Quando ero più piccola avevo scritto una lettera d’amore che avevo
chiuso in uno scrigno e nascosto dentro il camino di una bellissima casa
abbandonata dove ogni tanto andavo a giocare.
L’amore che spero di incontrare un giorno nella mia vita mi sta
sicuramente aspettando da qualche parte lì fuori. Però quando l’ho scritta
non ho pensato a Sinam.
Le lacrime mi rigano il volto e vorrei che lui mi abbracciasse per
tranquillizzarmi, dicendomi che quello che mi ha chiesto era uno scherzo e
che tutto rimarrà immutato. Io resterò ancora a casa della nonna a fare
creme profumate e lui verrà ogni settimana a trovarmi come se niente fosse
successo. Capisco dai suoi occhi che non è così e so che sarei egoista ad
abbracciarlo ora: significherebbe ferirlo ancora di più. Mangiamo in
silenzio e cerchiamo di parlare di altro, anche se i nostri pensieri restano
fermi al momento in cui mi ha chiesto di essere la sua fidanzata e io gli ho
detto di no. Risaliamo la collina per tornare a casa di mia nonna
scambiando pochissime parole. Quando lo saluto so che non lo rivedrò più,
e lo sa anche lui. Abbraccia forte nene, che intuisce che deve essere
successo qualcosa.
Non appena sparisce dal vialetto scoppio a piangere e nene mi
abbraccia forte per consolarmi: «Gel demek kolay, git demek zor: è facile
dire vieni, è difficile dire vai».
«Nene, lui voleva fidanzarsi con me ma io non me la sono sentita di
cambiare la mia vita, anche se so che mi mancherà tantissimo.»
«Sanem, tu sei appena sbocciata. Il tuo cuore sa riconoscere la strada
giusta da percorrere, anche se adesso può sembrare la più difficile, piena di
sassi che fanno male a ogni passo.»
«Io voglio molto bene a Sinam, ma non è l’amore che immagino per la
mia vita. Io lo vedo e l’ho sempre visto come un grande amico, un ragazzo
che mi è stato vicino. Sono sempre stata orgogliosa della nostra vicinanza,
del fatto che per lui io fossi una persona speciale, ma credo che l’amore sia
un’altra cosa, nene. Mi sono chiesta spesso quale sarà il futuro del mio
cuore. Io sicuramente mi innamorerò e il mio sarà un amore eccezionale, e
come per gli albatros sarà per sempre. Però non so come farò senza Sinam.
Lui partirà insieme ai suoi genitori e io non lo vedrò mai più.»
Nene mi guarda e mi accarezza dolcemente la testa. «Sanem, ognuno di
noi ha un destino. A volte può sembrare ingiusto, perché prende strade
diverse da quelle che immaginavamo, ma arriva sempre dove i nostri
desideri più profondi vogliono. Se è scritto che tu e Sinam vi incontriate di
nuovo, succederà. Devi lasciarlo andare al suo destino. Lasciarlo libero di
seguire la sua via, il suo percorso, che magari in questo momento non
coincide con il tuo. Devi essere felice perché per tutto questo tempo hai
avuto vicino una persona che ti ha voluto bene, anche se ti ha amato di un
amore diverso da quello che tu provi per lui.»
Le parole di mia nonna sono come una delle sue meravigliose creme che
leniscono il dolore. Ha ragione, ognuno di noi ha un percorso che deve
seguire e la strada del mio cuore non conduce a Sinam. L’abbraccio forte e
la guardo: «Nene, andiamo a raccogliere fiori: ho voglia di creare un
profumo molto speciale oggi».
13

Mister C
150 Kings Road Chelsea SW3
London (Regno Unito)

4 settembre 2011
Caro Mister C
come sta? È stato un vero piacere incontrarla nuovamente e aver passato una splendida
notte nel suo signorile appartamento londinese. Ho perso il suo numero di telefono, così
mi sono affidata alla memoria e alle poste tedesche. Sono in Germania e rimarrò qui
per una settimana intera indossando mille vestiti per la nuova campagna fotografica.
Speravo di andare in Italia (almeno lì c’è il sole), ma a quanto pare è previsto soltanto
tra qualche mese. Avrei tanta voglia di un’altra pizza in cui affondare i denti…
Non mandarmi il tuo numero di telefono.
Scrivimi invece a questo indirizzo:

Esel Atasoy
Fermoposta 6415
Mosca

Tua
Esel
Esel Atasoy
Fermoposta 6415
Mosca

25 settembre 2011
Cara Esel,
non puoi immaginare lo stupore quando ho ricevuto la tua lettera. Pensavo non
esistessero più neanche le cassette postali! Ora dovrò girare tutto il quartiere per
cercarne una e con questo clima sarà estenuante: qui a Londra è sempre molto piovoso,
come sicuramente ricorderai bene. Potrebbe essere un’opzione usare una mail la
prossima volta?
Non sapevo che i tedeschi fossero famosi per i vestiti, pensavo lo fossero piuttosto per le
automobili. Ma, come ho imparato a mie spese, il mondo è imprevedibile. Mentre tu eri
intenta a cambiarti d’abito, io sono stato al gelo delle Falkland, dove sono riuscito a
fotografare un albatros e alcuni pinguini saltarocce. Ti allego la foto di uno di loro, che
mi ricorda tanto te. La tua lettera mi ha fatto venire una gran voglia di pizza, ma credo
che mi asterrò dall’assaggiarla e dall’affondarci i denti, almeno fino a quando non ti
incontrerò nuovamente. Sarà dura resistere fino ad allora. Nel frattempo guarderò la
foto del pinguino e ti penserò.

Tuo
Mister C
P.S. Ho preso appuntamento con un tatuatore. Ho già in mente un disegno speciale che
ti mostrerò la prossima volta. Non prendere freddo a Mosca.

Mister C
150 Kings Road Chelsea SW3
London (Regno Unito)

12 ottobre 2011
Caro signore,
come posso dimenticare la pioggia di Londra che mi ha regalato momenti meravigliosi
con te? L’ho sempre amata, ovunque mi trovassi, ma quella inglese è speciale ed è
quella che più vorrei rivedere, magari dai vetri di una casa nel centro di Londra.
Sarebbe davvero bello. Ora sono in Canada e qui dal cielo scende solo la neve e fa
tanto freddo. Tu conosci per caso qualcuno che potrebbe riscaldarmi un po’ le mani e il
naso, che sono sempre ghiacciati?
Ti ringrazio per la foto del pinguino, in effetti mi somiglia molto. Ho proposto di mettere
lui in copertina al mio posto: chi potrebbe mai accorgersi della differenza? Ti allego
alcuni scatti realizzati da un fotografo che mi ha presentato il mio manager Simon. Qui
sono tutti entusiasti, mi esortano a puntare sempre più in alto, e a non accontentarmi.

Guarda quanto sono carina, alla fine potresti anche innamorarti di me. Mandami la
prossima lettera all’indirizzo qui sotto...
Esel Atasoy
Fermoposta 1024/B
São Paulo (Brasile)

Tua
Esel

Esel Atasoy
Fermoposta 1024/B
São Paulo (Brasile)

3 novembre 2011
Cara Esel,
non ho capito chi sia questo Simon e chi ti abbia presentato, ma di sicuro il tuo
fotografo abita a Londra (per il momento), quindi non confonderti. Come sai è molto
suscettibile e potrebbe venirgli voglia di venire in Brasile per controllare se le foto
vengono realizzate in modo corretto e rispettoso.
Ho aspettato un po’ prima di risponderti per poterti dare due notizie. La prima puoi
vederla da sola nella foto che ho inserito nella busta: è il mio meraviglioso tatuaggio.
Bello, vero? La seconda è che ho iniziato un master in International Marketing. Ti
lascio solo immaginare quanto questo abbia reso euforico Aziz.
Volevo anche farti sapere che ho partecipato a un concorso con la serie di foto sui
pinguini e ho vinto un premio internazionale. I miei lavori sono stati esposti da una
galleria di Londra e il merito è tutto tuo: ogni immagine è stata scattata pensando a te.
Quanto al freddo, conosco una persona che scalderebbe volentieri le tue mani e anche il
tuo naso: se non ricordo male, l’ultima volta lo ha riempito di baci. Mi chiedi se posso
innamorarmi di te? Vorrei scrivere la risposta ma purtroppo devo andare a lezione,
quindi dovrai aspettare la prossima lettera.

Tuo
Mister C

Mister C
150 Kings Road Chelsea SW3
London (Regno Unito)
15 marzo 2012
Mio stupendo Mister C,
perdonami se ci ho messo tanto a risponderti, ma tra shooting, party ed eventi non ho
più un attimo libero. Sto conoscendo famosi fotografi di moda. Poche settimane fa sono
stata scelta come testimonial di una marca di make-up.
Sono andata in Italia dove sono rimasta per una settimana. Ho girato per le vie di
Roma con una Vespa come fossi Audrey Hepburn per testare questo make-up a lunga
durata. Avrei tanto voluto avere qualcuno come Gregory Peck che mi portasse a vedere
i bellissimi monumenti. Soprattutto il Colosseo. Allora sì che come Audrey sarei stata
una vera principessa. Tu hai mai guidato una Vespa? In questi giorni ho mangiato
talmente tanta pasta, dolci e cioccolata che sono sicura tra pochissimo rotolerò invece
di camminare.
Ti saluta Simon: gli parlo spesso di te, anche se ovviamente non gli dico tutto.
Chissà se prima o poi riusciremo a stare di nuovo insieme sotto la pioggia. L’ho scritto
come desiderio sul mio quaderno. Ho messo anche una data. Se ho indovinato, potrei
sempre lasciare la carriera di modella e iniziare quella da veggente. Sarebbe bellissimo
poterti leggere nella mente e sapere cosa pensi di me!
Mi sono spostata ancora, la prossima lettera mandala qui:

Esel Atasoy
Fermoposta 1WS
New York (Stati Uniti)

Tua
Esel

Esel Atasoy
Fermoposta 1WS
New York (Stati Uniti)

2 giugno 2012
“Sì, potrei…”
Già ti vedo con la fronte corrugata che cerchi di capire queste mie parole. Non c’è
bisogno di sforzarsi troppo: questa è la risposta che mancava nella mia ultima lettera.
Ho finito il mio master e sto pensando di tornare a Istanbul.
Non passerà un’altra estate senza che io ti veda.
Tuo
Mister C
Mister C
150 Kings Road Chelsea SW3
London (Regno Unito)

4 luglio 2012
Non passerà un’altra estate senza che io ti veda.
La prossima volta non scrivermi, vieni direttamente qui:

Esel Atasoy
Icadiye Cad. Inci Cayrli Sok
No. 5, Kuzguncuk Mah
Istanbul 34674 (Turchia)

Londra (2012)
«Così hai deciso di partire, Can?»
Io e Polen siamo seduti sul divano nel salone della nostra casa a Londra.
Sto fingendo di essere concentrato su un film, ma la verità è che non voglio
guardarla negli occhi perché le ho appena detto che tornerò a Istanbul. Lei
mi ha ascoltato senza battere ciglio e senza neanche togliere dalle mie
gambe i piedi con i calzettoni che indossa sempre quando è a casa.
«Sì Polen, ho finito il master e ho nostalgia di casa. È da cinque anni che
sono a Londra e se non vado via ora rimarrò qui per sempre. Ho sentito mio
padre: sarebbe felicissimo se entrassi a lavorare alla Fikri Harika. Ho voglia
di mettermi di nuovo alla prova e...»
«Posso farti una domanda?» mi interrompe lei.
«Certo» mi giro senza più cercare di ignorare il suo turbamento.
«Che cosa ho di sbagliato?»
So dove vuole arrivare. Inutile chiederle di cosa stia parlando, lo so
benissimo. Cerco di trovare le parole giuste: «Tu non hai nulla di sbagliato,
Polen. Tu sei perfetta. Ma purtroppo certe cose non funzionano con la
logica».
Polen abbassa lo sguardo con un’espressione triste e non muove neanche
un muscolo. Il silenzio inonda tutta la stanza, ma passano solo pochi
secondi prima che torni a guardarmi determinata.
«Can» mi dice, come se stesse per fare un giuramento «io ci sono e ci
sarò sempre per te. Non sarà oggi e neanche domani, ma prima o poi le cose
tra me e te cambieranno.»
14

Fikri Harika – Beşiktaş, Istanbul (2012)


«Venite tutti qui per favore.»
Aziz esce dal suo ufficio e raggiunge il centro dell’enorme stanza dove
lavorano i creativi. Il chiasso gioioso di quella mattinata assolata e piena di
caffè si ferma bruscamente e tutti si girano a guardare il capo e il suo
sorriso abbagliante.
«Ho una bellissima notizia da darvi» annuncia in tono teatrale,
accompagnandosi con un ampio gesto delle braccia. «Mio figlio, Can Divit,
tornerà a casa!»
Il silenzio si trasforma in un mormorio così fitto da catturare persino
l’attenzione di Emre, che è nel suo ufficio con il direttore commerciale della
Fikri Harika intento a insegnargli i rudimenti di quello che sarà il suo
futuro: dirigere l’azienda. Ha ventun anni e sta ultimando gli studi, ma
quando può, come nel periodo estivo o durante le vacanze invernali, passa il
suo tempo nel suo ambiente naturale: quello lavorativo. Vuole imparare a
diventare un bravo capo, come sogna da sempre, così da dimostrare a suo
padre che il migliore tra i suoi due figli è lui, quello che suda sulle carte
anziché sotto il sole di qualche isola sperduta. D’altronde l’azienda di suo
padre è nota per essere piena di giovani risorse.
Fa scivolare indietro la sedia per alzarsi e apre la porta di vetro mentre si
aggiusta la cravatta.
«Che sta succedendo?» chiede ad Aylin, che sta svolgendo anche lei uno
stage nel reparto creativo. Bellissima e altera è sensualmente appoggiata a
una scrivania e ascolta con interesse le parole di Aziz, facendo dondolare
una lunghissima gamba accavallata. Quando sente la domanda si gira
lentamente, spostando lo sguardo dal patriarca dell’azienda al suo erede. Lo
guarda fisso negli occhi e un sorriso appena accennato le incurva le labbra
vedendolo arrossire violentemente.
Emre non può fare a meno di sentirsi attratto da quella creatura dalle
gambe lunghe, tanto sicura di sé da non avere alcun timore di metterle in
mostra. Esibisce una sensualità così prorompente da fargli venire i brividi
ogni volta che le parla. Lei rappresenta tutto quello che secondo lui le
donne dovrebbero essere: sexy e graffianti, pronte a tutto pur di ottenere
quello che vogliono. Gli ricorda un po’ sua madre, ma cerca di scacciare
quell’immagine in grado di spegnere il desiderio nella frazione di un
secondo. Eppure la desidera, la desidera ardentemente, anche se percepisce
che il suo bisogno parte più dai sensi che dal cuore.
Anche Aylin ne è consapevole e trova divertente far impazzire quel
ragazzo, non ancora uomo, con il suo fascino. Nonostante abbia poco più di
vent’anni, proprio come lei, sarà l’erede di quella grande azienda e la
prospettiva non le dispiace affatto, anzi. Per la sua vita Aylin ha piani
diversi e molto più ambiziosi. Piani in cui Emre potrebbe essere compreso.
Ora però c’è un problema: il ritorno di Can. Non lo ha mai incontrato,
ma ha sentito parlare molto di lui. D’altra parte chi in città non conosce
Can, il primogenito dei Divit? Circolano innumerevoli storie su di lui.
Qualcuno dice che sia fidanzato con Polen Aksu, la primogenita di una
delle famiglie più importanti di Istanbul.
Quand’era ragazzina, Aylin comprava spesso giornali di gossip che
parlavano dell’alta società. Era cresciuta in un quartiere popolare della
periferia di Istanbul e quelle storie erano linfa vitale per evadere dalla
difficile realtà in cui viveva insieme ai genitori. Un giorno, sognava a occhi
aperti, su quelle pagine ci sarebbe stata lei.
Era una delle ragazze più corteggiate del quartiere, ma non degnava di
uno sguardo i venditori di kebab o gli ambulanti con cui era cresciuta e la
cui vita continuava identica a quella dei loro genitori. Per lei il futuro
doveva essere diverso, lontano dalla miseria, dalle tradizioni obsolete, dai
matrimoni tristi e – soprattutto – dai figli da crescere. Aveva la testa, e le
gambe, per fare ben altro nella vita. Una tigre nel corpo di una ragazza di
periferia. L’amore non era nei suoi piani e non lo è neppure adesso: lo
considera un sentimento per gente debole che accetta di vivere in una
capanna, non nell’appartamento di lusso che lei ha sempre sognato. L’unico
amore che può accettare è a cinque stelle, come gli hotel che vorrebbe
frequentare. E il rampollo che la mangia con gli occhi ogni volta che la
guarda, di stelle ne ha abbastanza da risultare interessante.
“Avvistati Can Divit e Polen Aksu, la coppia più bella di Istanbul” era
uno dei suoi titoli preferiti. Trascorreva ore intere a guardare articoli su quei
due “rampolli”, un termine che aveva imparato proprio leggendo quei
giornali pieni di foto rubate.
“Can e Polen all’uscita del liceo in compagnia della fidata cameriera di
lei, Esel, mentre salgono su un grande Suv diretti nei quartieri alti.” Questo
era quello che voleva anche per se stessa. La metropolitana era scomoda per
i tacchi a spillo che amava indossare.
Lungi dal considerarlo solo un sogno impossibile, Aylin si era data da
fare per trasformarlo in realtà: aveva lavorato come cameriera per pagarsi la
scuola serale senza mai demordere. Ogni lira messa da parte era un
mattoncino in più per il raggiungimento del suo obiettivo.
Poi era arrivata la sua grande occasione: uno stage alla Fikri Harika.
Ci sarebbe voluto poco per farsi confermare e rimanere a lavorare lì in
pianta stabile. Cervello e bellezza sono i giusti ingredienti per iniziare la
scalata che la porterà a stringere nuovi contatti e a dare l’idea di essere
indispensabile. Non prima, ovviamente, di aver eliminato a uno a uno
chiunque si porrà davanti alla sua strada. Questo il suo obiettivo per il
futuro.
Ora le mancano solo pochi altri scalini per arrivare al vertice, ma deve
stare attenta a come si muove e, soprattutto, a non fare passi falsi.
Poggia i sandali altissimi sul pavimento e si solleva dalla scrivania con la
stessa grazia pigra di un gatto, diretta verso Emre. Lo vede deglutire. Vuole
sapere di più su quella storia che rappresenta un imprevisto non calcolato,
visto che le ultime informazioni su Can lo davano stabilmente a Londra,
dove aveva iniziato una nuova vita. Quando è abbastanza vicina da potergli
quasi sfiorare il naso con il suo, solleva una mano e gli accarezza il collo
fingendo di togliergli qualcosa dal colletto della camicia. Alza lentamente
gli occhi fino a incrociare i suoi e con parole misurate gli dice: «Sei felice
che torni tuo fratello? Viene a dirigere l’azienda?».
Quel tocco è elettrico e potente come le parole taglienti che l’hanno
accompagnato, parole che lo colpiscono dritto nell’orgoglio facendogli
stringere i denti.
«Non credo, Aylin. La notizia è stata una sorpresa anche per me. Ma
conoscendo mio fratello, rimarrà poco a Istanbul.»
«Ah» risponde lei quasi sospirando «allora sei sempre tu il capo. Molto
bene. Adoro le persone importanti.»
«Ehm… disturbo?» la conversazione ormai languida viene interrotta
dall’arrivo di Leyla, anche lei una nuova leva molto in gamba. Laureanda in
Relazioni Pubbliche, ha deciso di accettare uno stage da segretaria in
quell’azienda così stimolante. Il suo sogno è di iniziare a lavorare il prima
possibile e di diventare con la stessa rapidità una donna d’affari; ad appena
ventun anni ce la sta mettendo tutta per riuscirci, studiando e lavorando.
Con un’espressione visibilmente irritata si rivolge al suo diretto
superiore senza degnare Aylin di uno sguardo.
«Scusi l’interruzione, signor Emre, mi ha detto l’amministrazione che
hanno bisogno di alcune firme per la banca. Qui, accanto a quelle di suo
padre» gli dice addolcendo lo sguardo.
L’atmosfera si raffredda e a Emre basta un secondo per riprendersi
dall’imbarazzo: «Certo Leyla, vieni pure nel mio ufficio».
A quelle parole Aylin si gira, letteralmente, sui tacchi e sfila verso il
proprio ufficio. «Che tenerezza!» mormora a voce abbastanza alta da farsi
sentire da Leyla, che non può fare a meno di pensare a quanto Aylin sia
sfacciata. Le due sono l’esatto opposto. Anche lei è nata e vive in un
quartiere popolare, ma i suoi genitori Mevkibe e Nihat le hanno insegnato
come comportarsi nella vita. Sa che per una donna il rispetto e la dignità
sono i valori principali. Le viene da sorridere pensando a sua sorella Sanem,
il vero disastro di casa. “Con lei mamma e papà si sono impegnati tanto e
non sono riusciti del tutto” si dice, e le vengono in mente tutti i “disastri”
che quella sorella un po’ sopra le righe ha combinato.
Aylin, invece, è tutta un’altra cosa. Non può approvare il suo
comportamento e forse, ma solo forse, questo è dovuto anche a una ragione
“molto personale”. Porge al signor Emre i fogli da firmare soffermandosi
per un secondo sui suoi magnifici occhi azzurri e arrossisce violentemente
dall’emozione. Abbassa lo sguardo rimproverandosi per essere sempre così
trasparente e dopo aver salutato educatamente corre via, dandosi della
stupida per la propria reazione.
Per fortuna Emre non ha notato nulla, troppo preso da altri pensieri.
Raggiunge il padre nel suo ufficio e lo trova con Deren, il suo giovane
braccio destro. «Papà, posso parlarti da solo?» domanda, rivolgendo a
Deren uno sguardo eloquente.
«Ma certo figliolo, hai sentito la bella notizia?»
Aziz fa un cenno a Deren, congedandola, e la segue con lo sguardo
mentre esce dalla porta: «È proprio in gamba questa ragazza. Dovresti
innamorarti di una come lei invece che andare dietro a sogni impossibili e,
aggiungerei, pericolosi».
Il riferimento ad Aylin è chiaro, ma Emre fa finta di non capire e si
appoggia sulla grande scrivania di vetro.
«Perché Can torna a Istanbul? Io non ne sapevo niente.»
«Avrei dovuto dirtelo per primo, ma Can mi ha telefonato poco fa ed ero
così felice che non sono riuscito a trattenermi e ho condiviso la notizia con
tutti. Anche tu eri in ufficio. Lo hai sentito?»
«Sì, ma mi sarebbe piaciuto saperlo in privato» gli ripete Emre
contrariato.
«Dai, non fare il geloso, sai quanto ti ama tuo fratello. E io sono felice di
veder riuniti i miei figli. Tu ultimamente mi stai dando grandi soddisfazioni:
sei in gamba e molto presto raggiungerai alte vette qui in azienda.»
Le parole di Aziz rassicurano Emre. Farebbe qualsiasi cosa pur di avere
un decimo dell’approvazione che suo padre riserva a Can.
Tornato nel suo ufficio decide comunque di fare una telefonata.
«Mamma…»
«Emre, amore, che bello sentirti!»
«Sapevi che Can torna a Istanbul?» le chiede andando subito al sodo.
Dall’altra parte del telefono Hüma rimane interdetta. Come un
navigatore che ricalcola immediatamente la strada per fornire un percorso
alternativo, così lei pensa a tutti i possibili scenari aperti da questa notizia
inaspettata.
«Non ne sapevo niente. Sei sicuro?»
«Certo che sono sicuro! Me lo ha detto ora papà.»
«Vedrai che verrà solo per qualche giorno e poi ripartirà» gli risponde
Hüma senza riuscire a credere alle sue stesse parole. «Figurati, è a Londra
con Polen, perché dovrebbe tornare a Istanbul?» Una domanda che rivolge
più a se stessa che al figlio. «Cerca di stare tranquillo. Ne parleremo di
nuovo questa sera, a casa. Ora però devo proprio lasciarti: sono a fare la
manicure.»
Chiude la comunicazione, lascia cadere in borsa lo smartphone con la
cover tempestata di Swarovski e sfila in malo modo la mano da quella
dell’estetista che le sta limando le unghie. Un attimo dopo si è già
precipitata fuori dal salone di bellezza e sta componendo un altro numero di
telefono.
«Polen, tesoro, come stai?»
«Signora Hüma, buongiorno. Sto bene.»
«Ho saputo che Can sta tornando a Istanbul. Dimmi che è uno scherzo,
cara.»
«No, non è uno scherzo. Sta tornando. Mi ha detto che vuole rimettersi
in gioco nell’azienda di famiglia e che si è stancato di stare qui.»
La notizia fa sbarrare gli occhi a Hüma, che rimane però fredda e cerca
di non alterare il tono di voce squillante e sopra le righe.
«Questa notizia mi rende una madre davvero orgogliosa, ma sei sicura
che non ci sia dell’altro?»
«Che altro?» chiede Polen stupita.
«Tesoro, un giorno sarai madre e conoscerai i tuoi figli così bene come
io conosco i miei. Can non è tipo da tornare per un lavoro, a meno che non
si tratti di fare foto. Perché non indaghi un po’ per me… ma anche per te?»
Chiude la telefonata con queste parole, senza aspettare alcuna risposta,
lasciando Polen con la bocca aperta e la testa piena di domande.
La ragazza rigira il telefono tra le mani, riflettendo per alcuni minuti, poi
si alza dalla sedia di pelle bianca, prende il cappotto ed esce dal suo ufficio.
Mentre sfreccia alla guida di una decappottabile rossa manda un
messaggio a Can: “Sei a casa? Volevo sapere se mangiamo qualcosa
insieme stasera. Cucino io: spaghetti? Puoi andare a prendere un barattolo
di salsa?”.
La risposta arriva dopo un secondo: “Non sono a casa. Ok per gli
spaghetti, prendo io la salsa”.
Polen annuisce soddisfatta e porta entrambe le mani sul volante,
sorpassando l’auto davanti a lei con la velocità e la decisione di un pilota di
Formula 1.
Arrivata in camera di Can, si libera dei tacchi gettandoli sul pavimento.
Vede le valigie sul letto, l’armadio vuoto e un senso di tristezza e
abbandono la tocca nel profondo. Scoppia a piangere e si siede per terra
nascondendo il volto tra le mani.
«Perché? Perché deve farmi questo?» singhiozza sempre più forte, dando
libero sfogo alla sua rabbia «Me la pagherà!»
Non è da lei perdere il controllo in quel modo. Il suo è un mondo
calcolatore e freddo, fatto di numeri e leggi della fisica. Tutto ha un senso e
basta una virgola inserita in posizione errata a stravolgere l’universo. Dov’è
quella virgola che ha sbagliato? Perché i conti non tornano? Ripassa
mentalmente tutta la storia con lui dal giorno del loro arrivo a Londra.
Frammenti di emozioni cominciano a girare come schegge impazzite nella
sua testa.
Dov’è la virgola sbagliata, dove?
Presa da una frenesia furiosa, si alza in piedi e comincia ad aprire uno
dopo l’altro tutti i cassetti, trovandoli semivuoti: «Dove stai? Dove stai?».
Si inginocchia per guardare sotto il letto, spalanca l’armadio, rovista nel
comodino.
“Niente.”
Si concentra poi sui bagagli cominciando dallo zaino: bracciali, collane,
rullini fotografici “Niente”. Foulard, anelli “Niente”. Riviste, libri, polaroid,
provini. Niente. Butta tutto per terra, senza curarsi del fatto che Can possa
rientrare da un momento all’altro, fino a quando poggia sulla moquette
entrambi i palmi delle mani, stremata.
Non le serve molto tempo per riprendersi e tornare in sé: quando si
cresce in una casa come la sua la freddezza è una qualità che si apprende fin
dalla culla. Si aggiusta i capelli legandoli ordinatamente. Riprende le scarpe
dal pavimento e le indossa di nuovo. Solo dopo essersi lisciata la gonna, si
mette a raccogliere tutti gli oggetti che ha sparso per il pavimento, ed è
quando prende in mano una delle Polaroid che la vede.
Crolla nuovamente, questa volta appoggiandosi al letto, e si morde il
labbro tanto forte da farlo sanguinare. Esel le sorride dalla foto e vicino a lei
spunta la faccia di Can, con i lunghi capelli sciolti sul cuscino. Lo stesso
che alzando appena lo sguardo vede sul letto di Can. Quando è stata Esel in
quella casa? Quando è stata scattata quella foto? Lei dov’era? Ci deve
essere dell’altro. Prende lo zaino, lo apre e sparge nuovamente tutto il
contenuto per terra. Eppure non c’è nulla che non abbia visto prima. Allarga
bene il laccio di cuoio per controllare anche all’interno e individua una
tasca chiusa da una zip. Quando la apre scopre una serie di lettere tenute
insieme da un nastro rosso, lo stesso che si usa in Turchia per legare le fedi
degli sposi. Le prende e si mette comoda sul letto per leggerle. Riga dopo
riga, mese dopo mese, capisce cosa è successo in quella casa e in quelle due
vite, di cui una a lei tanto cara. Ne era completamente all’oscuro,
nonostante il nome di Esel fosse stato pronunciato nelle conversazioni con
Can. Ricorda in particolare la volta in cui aveva portato a casa una rivista di
moda per mostrargliela: Esel era in copertina e lei aveva approfittato
dell’occasione per rispolverare la storia del furto. Si sarebbe aspettata
qualche risata da parte di Can, invece quella sera era stato molto scortese
con lei, rispondendo piccato che non era stata Fatoş, la madre di Esel, a
rubare il gioiello. All’epoca non ci aveva dato troppo peso, sapeva quanto
lei e Can erano diversi sotto questi aspetti. Anche quando era piccolo lui
giocava sempre con Esel; lei invece la considerava solo la figlia di una
cameriera.
Rimane stordita e l’effetto domino degli eventi le mostra geometrie e
disegni inaspettati, che inanellandosi uno con l’altro formano il quadro che
spiega la partenza di Can da Londra.
Prende il suo smartphone, fotografa le lettere e le invia sul telefono di
Hüma con un breve messaggio: “È lei il motivo”.
15

Beykoz Kundura, Istanbul (2012)


«Sanem, ti rendi conto?» mi dice Ayhan seduta su una panca di legno sul
lungomare. «Chi se lo sarebbe aspettato?»
«Non riesco a credere che i genitori di Cahide fossero degli strozzini!»
«Nessuno ha mai amato quella famiglia, ma pensare che abbiano messo
nei guai tante persone che conosciamo è una cosa bruttissima.»
Prendo il mio tè e lo sorseggio piano ripensando a quello che è successo
qualche mese prima nel mio quartiere, quando la famiglia di Cahide è
andata via improvvisamente e si è poi saputo che suo padre era stato
arrestato. Nessuno sa dove si siano trasferiti, ma tutti sono molto più
tranquilli.
Nel frattempo io ero già tornata da casa di mia nonna per iniziare il
college. Ho scelto Agraria e forse in questo c’è un po’ lo zampino di nene e
dell’amore per la natura che mi ha trasmesso. La mia vita è ricominciata
senza troppi scossoni. Aiuto i miei genitori al minimarket, mi sveglio presto
la mattina e quando arriva mio padre vado a lezione. Mia sorella Leyla è
stata assunta in una grande azienda e mia madre ha occhi solo per lei: è il
suo orgoglio. Penso spesso a Sinam. Quando sono tornata lui era già
partito, ma ci ho riflettuto a lungo ed è stato meglio così. Sono sicura che
ovunque sia avrà una vita molto felice perché è una persona meravigliosa e
per me è stato un grande amico. Ora che ho vent’anni, se mi guardo
indietro capisco che non poteva essere lui l’amore della mia vita perché
l’ho visto sempre e solo come un amico. Il mio grande amore deve ancora
arrivare, ma penso spesso a come sarà e a dove lo incontrerò. Magari
succederà proprio al college o in chissà quale altro posto. Lo immagino
bellissimo come un guerriero, forte ma con un cuore tenero. Voglio
rimanere con lui per tutta la vita, sapendo che qualsiasi cosa succederà
resteremo sempre insieme. Quando lo vedrò i nostri cuori batteranno
all’unisono e io lo riconoscerò tra mille.
«Sanem, eccomi, arrivo da te.»
Mi giro di scatto riemergendo dai miei pensieri e quasi mi brucio con il
tè che sto bevendo. È arrivato Zebercet, che si siede insieme a noi.
«State parlando di quando ci fidanzeremo?» dice guardandomi.
Io e Ayhan alziamo gli occhi al cielo. La fissazione che Zebercet ha per
me inizia ad esasperarmi.
«No Zebercet» gli dice Ayhan.
«Mi chiamo Muzaffer» la corregge lui risentito.
Scoppio a ridere perché sono io che ho cambiato il nome di Muzaffer in
Zebercet e lui ogni volta si infuria.
«Muzo» continua Ayhan «stavamo parlando dei genitori di Cahide. Suo
padre è stato arrestato perché era uno strozzino, ti rendi conto?»
«Io lo sapevo» risponde lasciandoci a bocca aperta «però avevo
promesso di non dire niente a nessuno.»
«Muzo, ma che dici?» interviene Ayhan prima di essere interrotta
dall’arrivo di Leyla e Osman. Anche loro si siedono con noi.
«Mi sembra assurdo» dice Leyla continuando il discorso che stavamo
facendo «che nessuno nel quartiere ne abbia mai parlato. Per fortuna ci ha
pensato la polizia a risolvere tutto, spero se ne siano andati il più lontano
possibile.»
Ordiniamo altro tè al venditore ambulante e il discorso si sposta sul
lavoro di mia sorella, che è ora impiegata in una grande azienda
pubblicitaria: la Fikri Harika. Quando ne parla le si illuminano gli occhi e
io un po’ la invidio, anche se non vorrei mai fare un lavoro come il suo.
Leyla ha le idee chiare su quello che vuole diventare. Io ancora non lo so,
nonostante abbia scelto di andare al college. Non riesco a capire quale
sarà il mio futuro. Il mio desiderio continua a essere sempre lo stesso:
scrivere il mio romanzo e viaggiare. Mi piace mettere nero su bianco i miei
pensieri più profondi, quello che sento dentro di me, ma è una cosa che la
mia famiglia non capisce.
«Hai la testa piena di sogni» mi dice spesso mia madre, non
comprendendo che i sogni per me sono la vita. Sono una sognatrice. Se mi
giro a guardare il mare, ora che sta facendo buio e le luci della città si
riflettono sull’acqua, il mio sguardo va sempre verso l’orizzonte, quello che
vorrei rincorrere per tutta la vita senza fermarmi mai. Amo profondamente
il mare che sa raccontare storie millenarie, che ha visto nascere amori e
grandi avventure e che con la sua forza, proprio come i sentimenti, può
cullarti o stravolgerti.
«Sanem, quando ci sposeremo…» tutti si girano a guardare Muzaffer
sospirando, sapendo che riprenderà il solito discorso di me e lui insieme.
Un buon motivo per alzarci tutti dalle sedie e dirigerci verso casa di Ayhan.
Quando sono lì mi ricordo che avrei dovuto portare alla mia amica la
crema che avevo preparato per lei. Faccio quindi un salto a casa a
prenderla.
Quando arrivo di corsa, vedo la stessa scena della sera del mio
dodicesimo compleanno: vicino alla porta di casa c’è Sinam. Lo riconosco
subito dai capelli ricci e lunghi e da quel suo modo di camminare che in
tanti anni mi è diventato familiare. Rallento la corsa, indecisa se voltarmi e
tornare indietro. Però la curiosità di rivederlo e sapere come sta è troppo
forte. Quando si accorge di me, come aveva fatto anni prima, si illumina di
un sorriso radioso e mi viene incontro stringendomi entrambe le mani con
le sue. Sono felice di rivederlo, sembra che ci siamo lasciati soltanto il
giorno prima.
«Come stai? E come sta nene?» mi chiede lasciandomi le mani per
abbracciarmi.
«Bene» gli rispondo emozionata, ma soprattutto incredula. «Sei
ritornato?»
«No Sanem, ci siamo trasferiti in Inghilterra. Sono tornato solo per
prendere una cosa importante e parlarti, perché devo spiegarti alcune
cose.»
Mi torna in mente l’ultima volta che ci siamo trovati in una situazione
analoga, quando mia madre ha aperto la porta per farmi rientrare subito. È
vero che non sono più una bambina, ma con lei non si sa mai.
«Spostiamoci» dico a Sinam sorridendo, e ci incamminiamo senza una
meta precisa. Ci sediamo poco lontano sui gradini di fronte a un portone.
«Sono qui, Sanem, per darti una cosa molto importante per me, qualcosa
che rappresenta la nostra amicizia. Ho capito anche io durante questa
lontananza che è solo questo il sentimento che ci lega, anche se
guardandoti non posso fare a meno di emozionarmi ancora.» Arrossisco
come ho sempre fatto di fronte a lui e non dico una parola, ascoltando
curiosa le sue.
«Prima di dartela» precisa «ho bisogno di raccontarti cosa è successo e
di rispondere a tutte le domande che mi hai fatto in questi anni.»
Ho la sensazione che in quel momento si stia per chiudere un cerchio e
non penso più agli amici che mi aspettano a casa di Ayhan. In questo
frangente, come in ogni momento della vita, per me è molto importante
conoscere la verità.
«Il giorno del tuo compleanno, quando sono tornato a casa, i miei
genitori mi hanno detto che saremmo partiti il giorno dopo per andare a
casa di una zia di mia madre, in Europa. Sapevo che stavamo avendo
problemi, ma non avrei mai immaginato che saremmo andati via in quel
modo. Ovviamente non volevo partire ma avevo capito che la situazione era
grave, quindi sono corso da te per avvertirti, ma soprattutto per spiegarti
perché durante il tuo compleanno mi ero ritratto quando tu mi avevi
abbracciato. Lo avevo fatto per Cahide.»
«Cahide? Che c’entra lei ora?»
Tutto comincia a essere confuso, come se fossi la protagonista
inconsapevole di un film che altri avevano sceneggiato per me.
«Lei si era accorta che mi piacevi e mi aveva fatto minacciare da suo
fratello. “Non devi guardare Sanem, o sarà peggio per te” mi aveva detto.
Io ovviamente non mi sono lasciato intimorire, ma il tuo abbraccio mi
aveva colto di sorpresa. In più Cahide era lì vicino e poco prima l’avevo
vista spingere la sedia per farti cadere. Eri così dispiaciuta che non volevo
rovinarti ulteriormente il compleanno. Mi ero ripromesso che il giorno
dopo li avrei affrontati, glielo avevo anche accennato andando via con lei,
ma non è stato possibile perché sono partito.» Si ferma un secondo a
riflettere, quasi stesse cercando il modo giusto per proseguire.
Prende un respiro e continua: «I genitori di Cahide ci avevano prestato
dei soldi. Servivano a mio padre per lavoro, visto che ci eravamo trasferiti
da poco. I miei li avevano poi restituiti, ma quelli ne volevano sempre di più
e sono arrivati a minacciarci. In quel momento mio padre ha avuto paura
per la nostra famiglia e ha deciso che dovevamo allontanarci. Non
conosceva molta gente a cui chiedere aiuto, qui nel quartiere, e aveva
timore di denunciare i colpevoli. L’unico a sapere cosa stava succedendo
era Muzaffer, perché la madre ci aveva affittato la casa dove abitavamo, ma
ha mantenuto il segreto. Poi immagino vi abbia avvertito la nostra
insegnante…».
Sono sconvolta da quello che mi sta raccontando e l’unica frase che
riesco a dire è: «Sì, la signora Imran».
Sinam continua guardando fisso davanti a sé, come se rivivesse quei
momenti. «Dopo esserci spostati in varie parti d’Europa, mio padre ha
deciso di ritornare. Aveva raccolto un po’ di soldi e li ha consegnati al
padre di Cahide insieme ad altri oggetti preziosi per chiudere il debito,
facendosi coraggio e minacciando di denunciarlo se non ci avesse lasciato
stare. Cosa che io avrei fatto subito. Per qualche tempo la minaccia ha
funzionato con lui, ma non con Cahide, che ha continuato a tormentarmi
perché non voleva che ti frequentassi. Non ti ho detto nulla perché non
volevo farti preoccupare. La sera in cui mi hai raccontato che tu e Ayhan
siete state derubate da quei ragazzi ho capito subito che c’erano di mezzo
lei e suo fratello. Così l’ho cercata e messa alle strette. Mi ha confessato di
essere stata lei ad aver chiesto a quei ragazzi, amici di suo fratello, di
prenderti il braccialetto con il ciondolo con il pesciolino perché non voleva
che avessi un mio regalo. Era gelosa in modo ossessivo e mi ha detto che se
avessi continuato a vederti per te sarebbe stato anche peggio. Anche
mettere in giro quelle voci su di noi il giorno della morte dei genitori di
Ayhan è stato un altro tentativo di crearti problemi. Ha raccontato a sua
madre quella bugia su di noi sapendo perfettamente che la tua famiglia ti
avrebbe proibito di vedermi. E infatti sei andata via. È stata una fortuna,
perché non so cos’altro avrebbe potuto fare con la sua cattiveria. Ero
sempre in ansia per te e saperti lontana, da tua nonna, è stato un sollievo.
Poi i miei genitori mi hanno proposto di frequentare il college in Europa,
ma io all’epoca vedevo il mio futuro con te e volevo che ci fidanzassimo.
Quando mi hai detto di no per me è stato un grande dolore, ma mi hai
anche dato la forza di decidere di cambiare le cose. Ho convinto mio padre
a denunciare gli strozzini prima di partire, in modo tale che non potessero
fare anche ad altri quello che avevano fatto a noi. Alla polizia ci hanno
chiesto un elenco degli oggetti, oltre che dei soldi, che gli avevamo dato per
pagare il debito. Tu eri ancora da tua nonna quando sono partito, ma
prima di andarmene ho parlato con Muzaffer chiedendogli di badare a te.»
«Sei impazzito? Zebercet mi è costantemente addosso…»
«Sì, lo so» mi dice lui scoppiando a ridere «anche quella volta mi ha
detto: “Non preoccuparti, tanto io la sposerò”. Muzaffer mi ha avvertito
quando la famiglia di Cahide se n’è andata, e poco tempo dopo anche la
polizia ci ha chiamato per raccontarci come erano andate le cose: ci hanno
detto che non eravamo gli unici ad aver subito quel trattamento da loro.
Sono qui con mio padre per recuperare una parte degli oggetti che ci
avevano sottratto ingiustamente, tra cui uno al quale tenevo in modo
particolare.»
Dalla tasca dei pantaloni tira fuori il bracciale d’argento con il ciondolo
a forma di pesciolino. Non riesco a credere ai miei occhi.
«Quando abbiamo descritto alla polizia le cose che avevamo dato loro
per pagare il debito ho detto che c’era anche questo braccialetto, perché
sapevo che lo aveva Cahide. L’unico polso su cui deve stare è il tuo.» Così
dicendo lo aggancia. Io lo guardo ancora, incredula di rivederlo dopo tanti
anni, ma soprattutto sconvolta per quella storia così assurda.
«Tu ora che farai?» chiedo a Sinam facendo dondolare il braccialetto
per far muovere il ciondolo.
«Stasera stessa io e mio padre torniamo a Londra. Sto studiando
Matematica al college, ma a tempo perso sto posando per alcuni cataloghi
di moda.»
«Ma allora sei diventato un modello, proprio come ti avevo detto io» gli
dico ridendo.
«Sei stata profetica in effetti. In realtà è successo tutto per caso, cercavo
qualche lavoretto da fare, mi ha presentato un mio amico del college e sono
piaciuto.»
Rimaniamo in silenzio, un po’ imbarazzati.
«Ora devo raggiungere mio padre che mi sta aspettando per andare
all’aeroporto» mi dice lui «ma ci tenevo a darti quello che ti era stato
tolto.»
Ci abbracciamo forte. Lo lascio guardandolo mentre mi saluta con la
mano fino a che non sparisce dalla mia vista.
Alle mie spalle la voce di Leyla mi fa sobbalzare: «Sanem, ma dove sei
finita? Eravamo tutti preoccupati».
Le dico dell’arrivo di Sinam e della storia che mi ha raccontato e lei
sbarra gli occhi azzurri, che sembrano ora due grandi fari incorniciati dal
mascara. Ritorniamo verso casa visto che anche gli altri sono rientrati. Mi
chiudo nella mia stanza e mi sdraio sul letto, dove alzo il braccio per
guardare il braccialetto e far dondolare il ciondolo che tintinna allegro.
Mi ritornano alla mente i ricordi di tutti questi anni: la prima volta che
ho incontrato Sinam, il regalo, la sua partenza, le bugie di Cahide e il
giorno in cui gli ho detto che non volevo diventare la sua fidanzata. Aveva
ragione mia nonna, il cerchio si è chiuso. Ora sono pronta per andare
avanti, per cominciare un’altra parte della mia vita. Con la mano sgancio il
piccolo moschettone del bracciale e lo faccio scivolare via. Mi alzo dal
letto e vado davanti all’armadio. In punta di piedi prendo le scatole lì
sopra. Apro la più grande, dove ho riposto un po’ di cose cui tengo. Il libro
che mi fa battere il cuore, Lettere a Milena di Franz Kafka, il pestello per i
fiori, alcuni quaderni delle elementari e qualche storia scritta quando ero
più piccola. Prendo il braccialetto, lo metto all’interno di una scatolina più
piccola e chiudo anche quella grande, rimettendola sopra l’armadio. Mi
sdraio di nuovo sul letto. Domani è il primo giorno della mia nuova vita e
non vedo l’ora di scoprire come sarà.
16

Istanbul (2012)
Esel scende le scale portandosi dietro le raccomandazioni di sua madre
Fatoş: «Vai dal signor Ibrah e prendi la frutta. Non farti dare quella troppo
matura, che fa già molto caldo e si rovina subito. Poi passa a prendere le
medicine per la signora Seyma, le fanno sempre male le ossa e non ho cuore
di sentirla lamentarsi la notte».
Gli anni passati lontana da lei, sapendola sola in giro per il mondo, sono
stati azzerati con un abbraccio e qualche lacrima al suo ritorno. Nonostante
sia la modella più famosa della Turchia e sfili sulle passerelle più
prestigiose, per Fatoş è sempre una bambina a cui far fare le commissioni.
Quella mamma così cara, che nella vita ne ha passate tante, non si rende
conto di cosa la figlia rappresenti per il mondo della moda internazionale e,
soprattutto, non vuole arrendersi al fatto che sia ormai una donna.
Esel era atterrata a Istanbul un paio di giorni prima, trovando l’aeroporto
così pieno di fotografi che solo l’intervento della polizia le aveva permesso
di defilarsi passando da un’uscita secondaria. La cosa l’aveva riempita di
orgoglio: finalmente si sentiva realizzata. Era riuscita nel suo intento, quello
di prendersi una rivincita su tutti quelli che l’avevano fatta sentire inferiore.
Nonostante questo, aveva chiesto all’autista che l’attendeva di fermarsi un
po’ prima rispetto a quella che era diventata la sua casa, dopo che i genitori
di Polen avevano accusato sua madre di furto e le avevano cacciate
entrambe. Grazie al suo lavoro, Esel ora potrebbe acquistare per sua madre
un appartamento di lusso, ma entrambe hanno deciso di restare vicino alla
signora Seyma, che le aveva accolte e trattate come parenti quando si erano
trovate senza neanche un posto dove andare a dormire.
Prima di uscire dal portone Esel guarda fuori per accertarsi che non ci
siano fotografi. Lo fa non tanto per se stessa, perché essere riconosciuta e
fotografata le fa molto piacere e sa che è proprio la notorietà ad aver dato a
lei e alla madre una nuova vita agiata, quanto per preservare la tranquillità
di quel quartiere al quale si è tanto affezionata.
«Mi raccomando» le aveva detto Simon, il suo manager «se vuoi che i
fotografi ti notino indossa occhiali neri, metti un cappellino da baseball e
cerca di coprirti come se fossi in mezzo a una tempesta di neve. In questo
modo sarai visibile più di un faro in mezzo al mare.»
Esel detestava quei mezzucci per farsi notare, ma deve ammettere a se
stessa che è anche grazie al gossip se ora è una delle modelle più amate e
pagate. Finalmente si decide a uscire, senza nessun particolare
travestimento, e comincia a camminare timidamente per le vie del quartiere
portando a termine le varie commissioni. Respira forte i profumi che
pensava di aver dimenticato, ma che non appena le arrivano alle narici
riaccendono ricordi ed emozioni tutte legate a Can. Quell’uomo che, lo
sente, rivedrà presto. Forse è proprio per questo che un altro doloroso nome
le torna alla mente, quello di Simon, uno dei suoi errori più grandi. Simon
rappresenta il suo grande segreto, qualcosa di cui Can non sa nulla.
Avevano avuto prima una relazione professionale, poi personale. Lui le
aveva dato sicurezza perché, a soli diciotto anni, sballottata in un ambiente
competitivo e internazionale, lo aveva visto come una specie di angelo
custode, qualcuno che stesse al suo fianco e che parlasse la sua stessa
lingua. Simon, nato in Inghilterra, si era trasferito con la famiglia in Turchia
quand’era ancora un bambino. Lo aveva conosciuto durante uno shooting,
nel periodo in cui pensava non avrebbe mai più rivisto Can, e lui ne aveva
approfittato, sfruttando la sua solitudine per insinuarsi nella sua vita.

Le si era avvicinato come amico, offrendole una spalla su cui piangere, e


aveva finito per diventare il suo manager e il suo amante: erano stati
insieme in segreto, per qualche tempo, ma lei non poteva raccontarlo o
avrebbe danneggiato la sua immagine. Questa situazione era molto lontana
dagli insegnamenti di sua madre, dai valori di lealtà e correttezza mostrati
da Can durante i loro pomeriggi al capanno. Sapeva che lui era troppo
trasparente per capire queste dinamiche e non le avrebbe mai tollerate. In
realtà a Esel era utile avere Simon nella sua vita, ma non alla luce del sole.
Le faceva comodo presentarsi come una modella single, affidarsi a lui e
farsi coinvolgere in paparazzate organizzate con attori e cantanti, per
popolare le pagine dei giornali e far salire le quotazioni, far decollare i
follower e attirare l’attenzione dei brand più prestigiosi. Il mondo
funzionava così: Esel lo aveva capito presto e aveva deciso di stare al gioco.
Mai più avrebbe permesso a una ragazza arrogante come Polen di trattarla
come aveva fatto per anni, o di umiliare sua madre. Il mondo non era un
acquario di pesci colorati, ma una vasca di squali, e per stare a galla
bisognava attaccare per primi o – come diceva Simon – pensare la prossima
mossa prima dell’avversario.
Poi aveva ritrovato Can, prima nella notte di pioggia inglese e poi con
quelle lettere romantiche. Lui le aveva fatto capire di aver imboccato un
tunnel sbagliato. Per questo aveva deciso di chiudere con le bugie. Di
chiudere per sempre anche dal punto di vista professionale con Simon, che
diventava ogni giorno più spregiudicato. Le aveva consigliato di iniziare
una relazione (una vera relazione) con un regista, per provare a emergere
anche nel mondo del cinema. Di fronte a un’idea così squallida, lei si era
guardata allo specchio e non si era più riconosciuta. Aveva detto a Simon
cosa pensava di lui e lo aveva lasciato per sempre, troncando anche il loro
contratto, noncurante della penale che avrebbe comportato.
Fino ad allora lui aveva gestito la sua carriera rendendo di pubblico
dominio la sua vita e approfittandosi di lei per arricchirsi, ma era il
momento di dire basta.
Al suo primo amore però non aveva avuto il coraggio di raccontare
niente. Si ripeteva che ormai era tutto finito e non voleva dare a Simon più
importanza di quanta meritasse: non era più nessuno per lei. Per convincere
se stessa che quella era la verità, ne aveva scritto distrattamente il nome
nelle lettere che si era scambiata con Can.
Questo segreto la agita molto: sa benissimo quanto Can, pur capace di un
amore senza limiti, sia allo stesso tempo incapace di perdonare la
menzogna. Per questo Esel ha deciso di non raccontargli niente di quella
storia nata per caso e durata sì a lungo, ma vissuta in modo distratto,
superficiale. Dopo essersi inseguiti per così tanto tempo in giro per il
mondo, non sarà certo Simon a rovinarle il lieto fine con Can.

Torna a casa carica di borse perché, oltre alle commissioni affidatele da


Fatoş, ha comprato un’enorme quantità di cibo turco: quanto lo aveva
desiderato mentre mangiava hamburger negli Stati Uniti, pasta in Italia o,
ancora peggio, riso e fagioli in Brasile!
Mentre inserisce la chiave nella toppa vede una busta sporgere dalla
cassetta della posta, così posa per terra gli acquisti pesanti e cerca la piccola
chiave che le consente di aprire la buca delle lettere. Estrae la missiva e
quando vede la scritta “Miss Pinguino” sulla carta color crema, la busta le
scivola dalle mani tremanti insieme alle chiavi, che centrano perfettamente
le uova fresche avvolte nei fogli di giornale.
«Accidenti!» esclama a voce alta, recuperando la busta senza badare al
pacchetto ormai fradicio di tuorli e albumi rotti.

Non passerà un’altra estate senza che io ti riveda.


Era la mia promessa e ho tutta l’intenzione di mantenerla. Visto che sono super famoso
e la mia faccia è sulle copertine di mezzo mondo, ho pensato di invitarti in un posto
tranquillo dove nessun paparazzo (a meno che non lo porti tu) possa fotografarmi. Ci
vediamo dopodomani alle sei allo Shangri-La Bosphorus.
Tuo
Mister C

Una settimana prima


«Il signor Simon Wellington?»
«Si, chi è?»
«Buongiorno, sono l’avvocato Serkan. Avrei bisogno di parlare con lei in
via confidenziale.»
«Di cosa?»
«Una questione delicata. Mi dicono che lei è il manager di Esel, la
famosa modella.»
«Perché vuole saperlo?»
«Avrei bisogno di commissionarle un lavoro.»
«Ah. In questo caso sì, la conosco. Non la sento da un po’, ma ero il suo
manager.»
«Bene. Ha cinque minuti del suo tempo da dedicarmi, magari in cambio
di un’interessante somma di denaro?»
«Se è interessante, mi dica pure.»
Dieci minuti dopo l’avvocato Serkan riattacca il telefono e si asciuga la
fronte imperlata di sudore con un fazzoletto bianco che estrae da una tasca
dell’elegante giacca blu scuro.
«Allora? Cosa ha detto?» gli chiede impaziente la persona seduta di
fronte a lui.
«Lo farà, signora Hüma. Ma io la avverto, le costerà molto. Domani
verrà qui in ufficio per i dettagli, vuole trovare un cospicuo anticipo.»

Casa di Esel Atasoy – Kuzguncuk Mah, Istanbul


«Esel, figlia mia, dove vai così elegante?»
«Ti piace mamma? È un Valentino vintage, l’ho preso a Parigi» racconta
Esel felice, piroettando su se stessa per far ondeggiare l’orlo del vestito e
mostrare la profonda scollatura sulla schiena.
«Morirai di freddo con un fazzoletto così leggero addosso.»
Esel la guarda e le sorride baciandola in fronte. Non le può certo
spiegare che quel fazzoletto costa quanto un anno di stipendio di un
impiegato turco, e che da quando può permetterselo indossa solo abiti molto
costosi. E forse è anche giusto che non lo sappia. Per lei sarebbe comunque
troppo leggero e questo è tutto ciò che conta. La signora Seyma, che ha
ascoltato la conversazione da un’altra stanza, le raggiunge camminando con
l’aiuto di un bastone.
«Tatlim, ha ragione Fatoş: morirai di freddo con quel fazzoletto
addosso.»
«Signora Seyma, anche lei me lo dice? Metterò qualcosa sopra, ma
stasera voglio essere bellissima.»
«Tu sei già bellissima, non hai bisogno di un abito per diventarlo»
continua l’anziana signora. «Con chi esci?»
«Un vecchio amico, qualcuno che non vedo da tanto tempo e a cui sono
molto affezionata. Per questo ho scelto questo abito di Valentino. Elegante,
vero?»
«Se è come dici, non hai bisogno di un abito firmato, ma di un abito
speciale.»
La saggezza di quella donna lascia Esel di stucco e la convince a
rovistare tra le valigie che deve ancora finire di disfare, alla ricerca di
qualcosa con cui cambiarsi. Conosce Can, sa che lui non bada a quello che
per lei è al momento indispensabile: la ricchezza e la fama. Lui, ricco da
sempre, non può certo comprendere a fondo esigenze del genere. Non sa
quello che ha passato lei in tutti quegli anni all’ombra di Polen e in quella
famiglia. Le umiliazioni, gli abiti riciclati con cui doveva frequentare la
scuola in cui Polen era la regina, mentre lei veniva solo considerata una
sguattera. Can non è mai stato in grado di capire tutto questo: lui vede solo
la ricchezza dell’anima delle persone, ma non capisce il dolore di una
bambina che ha subito l’ostentazione della ricchezza altrui come strumento
per ricordarle la sua inferiorità. Lei ormai indossa solo grandi firme, scarpe
costose e borse da sogno che poche possono permettersi. Sentirsi guardata e
spesso invidiata è una sensazione di cui non riesce a fare a meno: è sempre
stata insicura e ha bisogno di trovare negli occhi degli altri l’approvazione
che un tempo non aveva. Quello che stava facendo ora, trovare qualcosa di
particolare, lo fa solo per Can, perché ci tiene molto a lui.
«Speciale, speciale, speciale…» ripete tra sé e sé frugando nei bagagli,
mentre la madre sorregge delicatamente Seyma e la aiuta a sedersi. «Non
c’è niente di davvero speciale qui, solo vestiti costosi.»
La soluzione arriva all’improvviso, rendendola immediatamente
consapevole di cosa dovrebbe indossare: «Dove abbiamo messo le cose
della vecchia casa?».
«Sono tutte in due bauli in soffitta» risponde incuriosita Fatoş, seguendo
con lo sguardo la figlia mentre si precipita in cucina, apre la botola sul
soffitto e sale con una scala fino al sottotetto.
Esel lo trova subito. È ancora bellissimo come se lo ricordava.
«Oh, tatlim!» la madre porta entrambe le mani al viso quando la vede
scendere portando l’abito con sé. «Signora Seyma, questo è il vestito che
indossava la sera della festa che le abbiamo raccontato tante volte.»
«Fammelo vedere meglio.»
L’abito le entra perfettamente e le sta d’incanto, proprio come la sera in
cui lo aveva indossato per la prima volta. Forse è un po’ troppo pomposo
per una cena, ma questo look è un omaggio a lui, e non importa quale sia
l’occasione.
«Questo sì che è speciale» approva soddisfatta la signora Seyma.
«L’amico che incontrerai questa sera è molto fortunato. Sbrigati, tatlim,
l’ultima volta l’ho fatto aspettare fuori dal portone per due ore.»
Esel scoppia a ridere: la signora Seyma ha capito perfettamente chi è
l’uomo che le ha rubato il cuore, e con quell’intuizione dimostra che l’età
non l’ha resa svampita come invece crede sua madre.

Il taxi l’aspetta sotto casa. «Shangri-La Bosphorus» dice Esel al


conducente.
Il vestito è molto ampio e non è facile sistemarsi sul sedile posteriore.
«Signorina, può accomodarsi davanti se vuole» le propone gentilmente
l’autista «le sposto il sedile, così può sedersi più comodamente.»
Esel apprezza quel gesto cortese e prende posto insieme alla nuvola di
tulle e perline che la circonda. Durante il tragitto osserva la sua immagine
nello specchietto retrovisore e non può fare a meno di riflettere su come i
pochi anni appena trascorsi abbiano cambiato il suo viso ma non i suoi
sentimenti. Nota che una macchina li sta seguendo e svolta alla stessa
altezza, percorrendo le medesime corsie preferenziali. La ragazza si chiede
se anche la persona lì dentro abbia un appuntamento importante come il
suo, se stasera vedrà una persona speciale come sta per fare lei. Quando
accostano davanti all’ingresso dell’hotel, la macchina dietro li supera e va
incontro al proprio destino come lei sta andando incontro a Can.
Entra nell’incantevole hall con i pavimenti in marmo e gli enormi vasi di
fiori fucsia.
«Ho una prenotazione per cena a nome Divit.»
Dopo aver controllato, il concierge le chiede di seguirlo verso il
ristorante. Passo dopo passo, il cuore le batte sempre più veloce. Entrano
nella sofisticata sala da pranzo e vanno verso la terrazza dalla quale si gode
una vista sul Bosforo che lascia senza fiato. Seduto a un tavolo
apparecchiato per due c’è Can. Ha una mano sotto il mento ed Esel si
incanta a guardare il profilo perfetto rivolto verso l’acqua illuminata dalle
lanterne e dalla luce della luna. È bellissimo nel suo completo nero. Ha i
capelli tirati indietro e con la mano libera gioca con le collane che porta
sopra la giacca con il collo alla coreana. Non si è accorto del suo arrivo ed
Esel si prende un minuto per assaporare quel volto che ha il fascino di un
antico guerriero.
È il concierge a spezzare l’incanto: «Signore, la sua ospite.»
Lui si gira di scatto e la vede. Ringrazia e si alza in piedi andandole
incontro. Non dice una parola, ma le circonda la vita con un braccio e la
attira a sé. Con l’altra mano prende la sua e se la porta all’altezza del cuore
tenendola prigioniera.
«Oh Esel… Cosa hai fatto al mio cuore stasera?»
Lei non ha risposte a questa domanda: anche se lo vorrebbe, non riesce a
dire niente, perché la bocca di Can cerca la sua e la bacia teneramente
mentre la stringe ancora di più a sé.
«Sei la mia principessa, come quella sera» le sussurra, spostando le
labbra dalle sue prima di tornare a baciarla in modo più appassionato.
Sbirciando dall’altra parte della vetrata, Esel vede molte persone intente a
osservare non solo lo splendido panorama, ma anche loro due. Si siede al
tavolo, imbarazzata per quell’intenso momento di intimità, e Can prende
posto davanti a lei allungando la mano per stringere la sua.
«Esel, sembra un sogno ritrovarmi questa sera con te. Se penso agli anni
di lontananza, ai dolori, alle incomprensioni che ci hanno travolti... Ma tutto
questo è ormai passato. Ora, dopo esserci rincorsi per mezzo mondo, siamo
di nuovo insieme.»
«Can, non sai quanto io sia felice. L’amore che c’è nell’aria stasera mi
toglie il fiato.»
«Ti ho detto che sei bellissima? Questo vestito, i tuoi occhi... tu,
semplicemente.»
Il cameriere si schiarisce educatamente la voce per richiamare
l’attenzione: «Siete pronti per ordinare?».
Non hanno neanche guardato il menu, ma vista l’occasione Can ordina
filetto alla griglia per entrambi e una bottiglia di vino rosso per festeggiare
la serata.
Poco dopo arriva il cameriere con la bottiglia e mentre sta per riempirle
il bicchiere lei lo sposta bruscamente facendo cadere un po’ di vino sulla
tovaglia. Lo guarda stizzita e fa una smorfia: «Faccia più attenzione. E
comunque io non bevo vino, mi può portare dell’acqua naturale?».
Can rimane perplesso, non tanto per la richiesta quanto per il suo
atteggiamento.
«Provvedo» risponde intanto il cameriere mortificato.
Can lo guarda. «Ci scusi, la ringraziamo molto.»
La scruta perplesso, ma Esel gli sorride e tornano alla magia di poco
prima. Can si sta perdendo nei suoi occhi.
«Dunque, dove eravamo? Ah sì, volevo dirti che l’abito è magnifico come
lo era la prima volta che lo hai indossato, ma secondo me manca qualcosa.»
Tira fuori dalla tasca una scatolina di velluto nero e la fa scivolare sulla
tovaglia fino a lei. Esel non si aspetta un gesto del genere. Prende la scatola
e la apre lentamente fino a veder brillare alla luce della veranda uno zaffiro
rosa dal taglio rotondo. Ha un colore particolare che non ha mai visto
prima.
«Posso?»
Can si alza e lei solleva i capelli per aiutarlo a far passare attorno al collo
il gioiello che, una volta agganciato, le scivola sulla pelle nuda del
décolleté.
«È bellissimo» sussurra Esel, toccando il pendente con la punta delle
dita.
Can è ancora dietro di lei e la bacia tra il collo e la spalla, in un punto
che le fa venire i brividi.
Quell’attimo così magico e prezioso si interrompe bruscamente quando
un uomo irrompe attraverso le porte a vetri, brandendo una macchina
fotografica quasi fosse un fucile. Una raffica di clic accompagna il
lampeggiare del flash, immortalando l’espressione smarrita dei due.
Preso alla sprovvista, Can impiega qualche secondo prima di mettersi di
fronte a Esel per nasconderla con il suo corpo. Chiede al fotografo di
andarsene minacciandolo di chiamare la polizia.
«Siamo in un luogo pubblico, amico, e per di più anche all’aperto. Ora è
Esel la tua nuova amichetta?» risponde l’uomo.
«Per favore, se ne vada o sarà peggio per lei» gli intima Can, sentendo
montare la rabbia per quella violenta intrusione.
Esel è terrorizzata non tanto per lo scandalo – vedersi sui giornali
insieme a Can come era successo tante volte a Polen certo non le dispiace –
ma per la reazione che lui potrebbe avere. L’uomo continua a fotografarli
imperterrito sotto gli occhi stupiti di tutti i presenti, fino a quando due
camerieri arrivano correndo dalla sala interna del ristorante, chiedendogli di
andarsene. Solo allora il fotografo alza le braccia in segno di resa:
«D’accordo amico me ne vado».
È in quel momento che fa la sua comparsa sulla terrazza l’ultima persona
che Esel si sarebbe mai aspettata di vedere: Simon, il suo ex manager ed ex
fidanzato, che comincia a inveire verso di lui: «Lasciala subito! Hai finito di
fare i tuoi sporchi giochetti? Hai chiamato tu i paparazzi, vero? Vuoi tornare
sulle copertine facendoti vedere con lei? Hai sbagliato di grosso!».
L’uomo fronteggia Can ed Esel si alza in piedi cercando di frapporsi tra i
due, intenti a guardarsi come due felini pronti a saltarsi alla gola. Non
capisce come quell’uomo possa essere lì.
«Simon, per favore, perché sei qui?»
Can si volta verso di lei con uno sguardo furioso: «Lo conosci?».
Il terrore la prende allo stomaco: in quel momento vorrebbe morire pur
di non rispondere a quella domanda.
«È il mio ex manager...» balbetta.
«Perché non gli dici che sono anche il tuo ex fidanzato? E che mentre vi
divertivate a Londra stavi insieme a me?»
A quelle parole Can sembra perdere la concentrazione e cerca lo sguardo
di Esel, sperando che lei possa tranquillizzarlo dicendogli che quella non è
altro che una vile menzogna.
«È vero» conferma invece lei. «È il mio ex, ma lascia che ti spieghi.»
Il fotografo che si era defilato poco prima, lungi dall’abbandonare la
scena, sta ancora immortalando ogni particolare di quell’acceso confronto.
Scatta foto e fa video con il telefonino. Cattura anche il momento in cui Can
cerca di lasciare la terrazza ostacolato da Simon che gli mette entrambe le
mani sul petto e lo spinge violentemente all’indietro.
«Dove vai? Hai chiamato tu i fotografi e poi te vai? È una fortuna che io
sia venuto a saperlo, Esel. Questo vuole farsi pubblicità alle tue spalle» dice
alla ragazza, avanzando nella sua direzione.
L’istante dopo Can gli è addosso: l’afferra per le spalle e lo spintona via
facendolo sbattere contro la porta a vetri. Simon cade a terra.
Il fotografo si avvicina per riprendere la rissa, superato da alcuni
camerieri che cercano disperatamente di separare i due.
Esel non sa cosa pensare: “È stato davvero Can a chiamare il fotografo?
Ma perché?”.
Gli altri ospiti del ristorante se ne vanno alla spicciolata, mettendo
quanto più spazio possibile tra loro e il caos imperante. Simon si alza in
piedi, stordito.
«Diglielo che li hai chiamati tu e poi l’avresti abbandonata come la
prima volta!»
Can si libera dalla presa dei due camerieri che lo stanno trattenendo e si
avventa nuovamente su Simon, che reagisce alzando le mani per proteggersi
il volto. Questo non lo mette al riparo da un’altra spinta, che lo fa
nuovamente cadere a terra.
«Lei è pazzo!» grida il fotografo da una debita distanza. «Ci chiama per
farle delle foto e poi aggredisce chi vuole solo difendere la propria
fidanzata. Dovrebbero arrestarla!» urla ancora, prima di darsela a gambe.
«Can» anche Esel sta urlando, ed è in lacrime. «Ma che hai fatto? Sei
stato tu a chiamare i fotografi? Perché?»
Can si gira verso di lei e la guarda come se non la riconoscesse: «Mi hai
mentito. Ti sei presa gioco di me e mentre mi scrivevi parole d’amore eri in
giro per il mondo insieme a lui. Questa volta è finita Esel. È finita per
sempre».
«No Can, ti prego, no…» un singhiozzo disperato le spegne le parole in
gola mentre si accascia al suolo, ma Can non si ferma per consolarla. Lui
guarda oltre, ormai lontano, sempre più lontano.
17

Eyup Police Station, Istanbul (2012)


Mi massaggio i polsi indolenziti. Le manette che mi hanno messo sono
troppo strette e ora ho due segni rossi molto evidenti su entrambi i lati.
Penso dovrebbero rimanere indelebili per sempre, per ricordarmi ogni
giorno quanto le bugie e le menzogne lascino il segno. Invece purtroppo
spariranno presto, anche se le ferite impresse nel mio cuore non andranno
più via. Non so se sono più arrabbiato per la bugia di Esel o per la presenza
di quell’uomo, che ha stravolto quella che avrebbe dovuto essere una serata
da ricordare.
“Di certo non la scorderò mai” penso con amara ironia mentre vengo
accompagnato dalla cella all’ufficio del commissario di polizia. Sono tre
giorni che mi trovo qui e non ho idea di cosa stia succedendo fuori.
«Can Divit?»
«Sì?»
«La denuncia a suo nome è stata ritirata. Non è più in stato di fermo, è
libero di andare.»
Fuori dal portone del commissariato mio padre mi viene incontro. Mi
abbraccia forte e non dice una parola. Ricambio il suo abbraccio: è quello di
cui ho più bisogno per placare l’ansia dei miei sentimenti contrastanti.
Saliamo in macchina e l’autista sa già dove deve portarci. Seduto accanto a
me sul sedile posteriore, mio padre mi consegna una grossa busta gialla e
mi fa cenno di aprirla. Tiro fuori un plico di giornali, perlopiù quotidiani e
un paio di settimanali. Comincio a scorrere i titoli che sono uno la fotocopia
dell’altro: Divit saga: Can pesta a sangue il fidanzato della top model Esel,
con cui ha tradito la fidanzata Polen. Devo rileggerli un paio di volte per
capire l’incastro di bugie che i giornalisti hanno costruito intorno alle
immagini scattate dal fotografo dentro il ristorante. Con un moto d’odio
lancio a terra le riviste in maniera così violenta e rabbiosa da far girare
anche l’autista.
«Calmo figliolo» mi dice mio padre, appoggiando la sua mano sulla mia
gamba. «Questa è spazzatura. Io conosco l’uomo buono e gentile che sei. Il
rispetto che hai sempre avuto per le donne e per i loro sentimenti. Ti ho
portato quegli articoli perché in questa storia c’è qualcosa che non torna e
voglio capire di cosa si tratta. Ho assunto un investigatore privato che sta
indagando senza sosta su questa vicenda. Nel frattempo però devi rilasciare
una dichiarazione per la stampa.»
«No, papà, non ho voglia di parlare con nessuno.»
«Non è una richiesta, è un ordine.»
«Stiamo andando alla Fikri Harika dove Deren ha organizzato tutto.»
La grande sala conferenze al piano terra è stracolma di gente. Troupe
televisive, fotografi, giornalisti. Quando arrivo, tutti i dipendenti mi
aspettano schierati di fronte al tavolo di vetro dove devo sedermi, quasi a
formare una barriera contro quell’invasione. C’è anche il padre di Metin,
che mi assiste come avvocato. Prendo posto vicino a lui e tutto il personale
della Fikri Harika si dispone silenziosamente alle mie spalle, come un
esercito che protegge il suo generale. Gli unici che mancano sono Aylin ed
Emre, che vedo a lato della sala mentre stanno osservando tutto.
«Buongiorno, sono Aycan Avukat, l’avvocato del signor Can Divit.
Siamo qui stamattina per rilasciare una dichiarazione in merito alle pesanti
illazioni diffuse negli scorsi giorni a mezzo stampa. Prima di cominciare,
rendo noto che su mandato del signor Divit ho già provveduto a sporgere
querela contro chiunque abbia pubblicato notizie false e altamente lesive
della reputazione del mio cliente.»
Il tono di voce dell’avvocato è duro e nella sala, al contrario di pochi
secondi prima, c’è un silenzio di tomba.
«Il mio assistito, il signor Can Divit, diffida chiunque dal diffondere a
mezzo stampa, web, radio o televisione immagini o notizie prive di
fondamento in merito alla sua persona. Senza alcuna verifica dei fatti,
alcuni giornalisti hanno riportato che, cito testualmente, “Can Divit ha
aggredito con ferocia il signor Simon Wellington, fidanzato della nota top
model Esel, con cui il figlio dell’imprenditore Aziz Divit stava trascorrendo
una romantica cena all’insaputa della fidanzata Polen Aksu, attualmente a
Londra”. Niente di tutto questo corrisponde a verità. Il signor Divit ha
subito una chiara invasione della propria privacy mentre cenava, in un
luogo pubblico e alla presenza di altre persone, con un’amica di vecchia
data: la signorina Esel Atasoy, famosa modella. In quell’occasione è stato
aggredito dal signor Wellington, il cui comportamento e le cui minacce
hanno costretto il mio assistito a difendersi per tutelare la propria immagine
e la propria dignità. A riprova di quanto detto, nella giornata di ieri il signor
Wellington ha ritirato la denuncia facendo cadere tutte le accuse. Non esiste
quindi nessun tipo di imputazione nella quale il signor Divit possa
incorrere.»
Non appena l’avvocato finisce di leggere, i giornalisti lo travolgono con
una tempesta di domande: «Quanto ha pagato la famiglia Divit per far
ritirare la denuncia?».
«È vero che Esel era la cameriera della sua fidanzata Polen e la sua è una
vendetta perché Polen ha rifiutato la proposta di matrimonio?»
«Ha chiamato il signor Divit i fotografi?»
Parola dopo parola, la mia rabbia sale incontrollata, ed è proprio in quel
momento che dalle lunghe scale di legno e vetro vedo scendere Esel
accompagnata da un uomo. La folla si gira verso di lei e per una frazione di
secondo tutti si ammutoliscono per la sorpresa, per poi riprendere ancora
più rumorosamente.
Lei si avvicina, si siede accanto a me e comincia a parlare leggendo un
foglio che gli ha passato l’uomo che è con lei: «Buongiorno a tutti. In
quanto parte lesa dalla campagna diffamatoria, io e il mio avvocato
abbiamo deciso di associarci alla dichiarazione rilasciata dal signor Divit. Io
e Can, il signor Divit» mi indica con la mano, «siamo amici d’infanzia e
abbiamo approfittato del mio breve soggiorno a Istanbul per salutarci.
Siamo stati aggrediti da un fotografo mentre ci trovavamo in una situazione
privata ma assolutamente lecita come una cena. Rendo inoltre noto che il
signor Simon Wellington non è attualmente il mio fidanzato e che la breve
relazione avuta con lui si è interrotta tempo fa. Mi riservo, così come il
signor Divit, di querelare chiunque darà risonanza a notizie prive di
fondamento».
Non si ferma un istante di più: il suo avvocato le fa strada ed entrambi si
allontanano seguiti da un nugolo di giornalisti pieni di domande. Anche il
mio legale mi prende per un braccio e mi allontana, mentre Emre, rimasto
fino ad allora al margine della sala insieme ad Aylin, si avvicina al
microfono ringraziando tutti per la partecipazione e congeda i presenti.

Mio padre mi passa un bicchiere di whisky che sorseggio lentamente. Sono


seduto sul divano nel suo ufficio cercando di riprendermi da quella follia a
cui ho appena assistito. Bussano alla porta a vetri. È Esel. Ingoio il liquore
tutto d’un sorso. Mio padre le fa cenno di entrare: «Esel come stai? Ti
ringrazio molto per essere venuta qui oggi».
«Ci tenevo anche io, signor Divit» risponde lei notevolmente
imbarazzata dalla mia presenza. «Ehm, vorrei salutare Can, se non disturbo
ovviamente.»
«Ma no, figurati. Anzi, ho così tante cose da fare! Spero non vi
dispiaccia se vi lascio.» Si congeda e, mentre se ne va, mi dà una pacca
sulla spalla quando mi passa davanti.
«Can» mi dice Esel con gli occhi umidi «sono venuta a scusarmi. So di
averti mentito e me ne pento, però vorrei che tu capissi…»
«Esel» la interrompo alzandomi nervosamente «non c’è niente di cui
scusarsi: mi hai mentito. Hai giocato con i miei sentimenti e questa è una
cosa che io non posso sopportare.»
Cammino nervoso per la stanza tirandomi indietro i capelli con la mano
e poi mi siedo nuovamente sul divano. Esel è immobile davanti a me con le
lacrime che le scendono silenziose sulle guance. La guardo e, nonostante
provi una tenerezza infinita per la ragazza che è stata il mio primo amore,
non riesco a far riaffiorare i sentimenti che fino a tre giorni fa provavo per
lei. Anche il modo maleducato con cui ha trattato il cameriere me l’ha
mostrata in maniera diversa, tanto da non riconoscerla. È come se la sua
menzogna avesse fatto cadere quel velo con cui io l’avevo vista fino a quel
momento. Rivedo la faccia di Simon che mi viene incontro e mi sbeffeggia,
e immagino le lettere che aspettavo e leggevo con tanto amore scritte con
lui accanto.
Esel si avvicina e si mette in ginocchio di fronte a me: «Can, ti prego,
riproviamoci. Andiamo via da Istanbul, insieme. Ricominciamo da capo.
Lui non è niente per me».
«Esel» le dico, allontanando delicatamente le sue mani «posso anche
perdonarti, ma non provo più gli stessi sentimenti. Per me la verità è il
valore più importante della vita. Ho sempre combattuto affinché trionfasse e
non posso avere vicino a me qualcuno che mi ha mentito. Ora ho capito che
la mia era solo un’illusione, il desiderio di un amore puro che era reale solo
nella mia immaginazione. Siamo ormai troppo diversi, troppo lontani e
devo ammetterlo: quello che pensavo di provare per te non è vero amore.»
Lei mi guarda silenziosa. La sto facendo soffrire, ma credo troppo nella
verità per mentirle.
«Ho riflettuto tanto in questi giorni chiuso in cella. Riavvolgere i ricordi
e scoprirli diversi non è poi così raro e io li ho riletti tutti. Trovandoci un
nuovo significato. Entrambi abbiamo preferito imboccare strade diverse da
quelle dell’amore. Quell’amore che ha avuto un sapore tanto particolare
perché non è stato vissuto alla luce del sole, che ci ha costretti a inseguirci
senza mai capire se si trattasse di un sentimento reale o del nostro desiderio
di rivincita sul destino. Tu non sei più la bambina dai lunghi capelli neri e io
non sono il ragazzo che ti sfiorava le mani nella capanna. Abbiamo vissuto
altre esperienze, abbiamo altri desideri. Siamo il frutto del percorso che
abbiamo scelto e c’è una ragione se nessuno di noi si è voltato indietro per
raggiungere l’altro e procedere uniti. Pensa a come hai trattato il cameriere,
Esel. La ragazza che conoscevo non avrebbe mai usato quel tono. Sei
cambiata. Ci siamo limitati a sperare di incontrarci nuovamente lungo il
cammino, auspicando che le nostre strade diventassero una. Ma non è così
che deve essere. Questo non è l’amore a cui io credo. Ho bisogno di
qualcosa di puro, di assoluto.»
«Ho capito.» Esel si alza e cerca di fermare le lacrime asciugandole con
una mano, senza riuscirci. Si avvia verso la porta e prima di uscire si volta
verso di me. «La verità per te è la cosa più importante. So che non perdoni
le bugie. Lo capisco, ma l’amore, quello vero, dovrebbe essere più potente
di tutto. Tra noi non è stato così, perché non mi ami davvero. Addio, Can.»

Private Eye Agency, Istanbul


«Signor Divit, sono Ozcan della Private Eye Agency. Ho buone notizie per
lei. Abbiamo ottenuto le informazioni che ci ha chiesto in modo più
semplice di quanto ci aspettassimo: siamo stati fortunati. Nonostante
questo, data la delicatezza della situazione credo sarebbe meglio vederci nel
mio ufficio.»
Meno di un’ora dopo Aziz si siede sulla poltrona di pelle consumata,
perfettamente in linea con l’angusto e buio ufficio della Private Eye
Agency: una delle più abili di Istanbul nel campo delle investigazioni
private.
«Mi scusi per l’attesa» gli dice Ozcan, entrando nella stanza con un
faldone azzurro in mano. «Dunque, signor Divit. Considerato quanto ci ha
raccontato e anche quello che è accaduto in seguito, con l’uscita dei
giornali, abbiamo subito intuito che i fatti non avessero un sapore, come
dire, casuale. Abbiamo quindi rintracciato il paparazzo e gli abbiamo messo
un po’ di pressione, così alla fine ha ammesso di aver ricevuto cinquemila
euro da Simon Wellington per scattare quelle foto. Ci ha anche detto che ha
dovuto seguire Esel giorno e notte aspettando che si incontrasse con suo
figlio Can. Il passo successivo è stato andare in ospedale per chiedere
spiegazioni direttamente al signor Wellington, ma non l’abbiamo trovato.
Aveva firmato per farsi dimettere ed era già uscito. Per fortuna abbiamo
qualche conoscenza nella polizia e siamo stati avvertiti quando è andato a
ritirare la denuncia nei confronti di suo figlio. Abbiamo anche avuto una
soffiata sui precedenti penali di quest’uomo: appropriazione indebita, furto,
piccole truffe. Ci è sembrato strano che una persona del genere rinunci alla
possibilità di ottenere una grossa somma di denaro da una famiglia
importante come la sua, signor Divit. Così abbiamo verificato i suoi conti
bancari e abbiamo trovato un bonifico da cinquantamila euro proveniente
da un ufficio legale di Istanbul, lo studio Serkan. Il nome le dice qualcosa?»
«No, direi di no, noi abbiamo il nostro avvocato di fiducia. Prima d’ora
non ho mai sentito nominare questo Serkan.»
«Non fatico a crederci, non è un grande ufficio.»
«Mi scusi, ma che interesse potrebbe avere uno studio legale a creare
uno scandalo nei confronti della mia famiglia?»
«Lo studio legale nessuno, se non quello di prendere una sostanziosa
percentuale da chi ha commissionato le foto, e a tal proposito premetto che
anche io sono confuso.»
«Che intende dire?»
«La cifra versata proviene da alcuni dei suoi conti privati, signor Aziz,
tra cui uno aperto in una banca di Zurigo. Per l’esattezza, si tratta di cinque
bonifici da diecimila euro l’uno.»
Aziz rimane a bocca aperta. Poi si rende conto della situazione e torna a
sedersi, pronto a scattare di nuovo.
«Mi ascolti bene, signor Ozcan. Nessuno, e dico nessuno, deve venire a
conoscenza di quello che mi ha appena detto. Soprattutto i miei figli. A loro
dirò che l’indagine non ha portato a nulla e che le foto sono state scattate
solo per fare gossip da vendere ai giornali. Mi faccia sapere quanto le devo
per il lavoro svolto… e per il suo silenzio.»
«Perché me lo chiede, se posso permettermi?»
«Perché questo è il peggior colpo basso da parte della mia ex moglie.
Cercherò di tenere i miei figli lontani da lei o li farebbe soffrire ancora. Non
voglio che sappiano la verità. Soprattutto Can ne uscirebbe distrutto, visto il
rapporto già logoro che ha con sua madre.»

Uscito dall’agenzia Aziz risale in macchina e chiede all’autista di prenotare


un tavolo per due in un piccolo ristorante in periferia. Subito dopo chiama
Aycan, il suo avvocato.
«Ciao, sono Aziz, ho bisogno di una cosa molto urgente. Devi
prepararmi due documenti: un patto di riservatezza e uno di divorzio.»
«Di divorzio?»
«Sì. Con Hüma siamo già separati da tempo ed è ora di comunicare al
tribunale della Famiglia che il nostro periodo di prova è fallito. Non ho più
intenzione di tergiversare. Mi servono per domani mattina.»
Non appena riattacca compone subito un altro numero.
«Hüma, sei a casa?»
«No Aziz, sono dal fisioterapista. Sai, il mio dolore al collo…»
«Ti aspetto tra un’ora da Asitane.»

Ristorante Asitane – Fatih, Istanbul


«Aziz, spero tu abbia un buon motivo per avermi fatta venire qui di corsa e
senza neanche aver finito la seduta dal fisioterapista.»
Hüma entra nel giardinetto interno del ristorante con il pavimento di
cemento e gli ombrelloni aperti.
«Hüma, siediti per favore. Non ho solo un buon motivo, ma
cinquantamila. Ti bastano?»
A quelle parole la donna si sente gelare e si siede lentamente di fronte ad
Aziz, che a stento riesce a contenere la propria rabbia.
«Perché hai organizzato quella messa in scena che ha distrutto Can? Che
motivo hai per danneggiare così tuo figlio?»
Hüma non crede alle proprie orecchie e si porta una mano al petto, come
se quelle parole l’avessero ferita fisicamente: non può tollerare quel genere
di accusa.
«Aziz, credimi, ho cercato di salvarlo. Ha lasciato una promettente
carriera a Londra per venire qui a corteggiare Esel, quella sguattera figlia di
una ladra!»
«Hüma! Non ti azzardare a parlare così di lei e di Fatoş!»
«Ho fatto tutto per il suo bene» protesta Hüma.
«Hai uno strano modo di dimostrare il bene che provi per Can, dopo che
lo hai abbandonato a Istanbul da piccolo. Sei una donna ossessiva, gelosa
della felicità degli altri perché tu puoi ottenere qualcosa solo usando il
denaro e questi mezzi meschini.»
Colpita nel vivo, Hüma rimane in silenzio.
«Ora faremo in questo modo» prosegue Aziz, sporgendosi verso di lei
dall’altra parte del tavolo. «Vai a casa e prepara le valigie. Domattina, prima
di ripartire per Zurigo, firmerai l’accordo di divorzio e quello di
riservatezza affinché mai, e dico mai, ti possa venire in mente di rivelare a
uno dei tuoi figli o a chiunque altro quello che hai fatto. In caso contrario,
tutto quello che avrai dopo il divorzio sarà soltanto l’assegno che ti spetta
per legge, e sai che non sono tenuto a mantenerti con lo stesso stile di vita
che avevi quando eravamo sposati.»
Gli occhi azzurri di Hüma sembrano schizzare dalle orbite tanta è la
rabbia che prova in quel momento. Si ripromette di vendicarsi per quello
che le sta facendo Aziz, ma sa che ora non le conviene agitarsi. Per lei è
meglio cominciare da capo e ottenere tutto il possibile da questo divorzio.
E, già che c’è, ordina anche il pranzo.

Fikri Harika – Beşiktaş, Istanbul, due anni dopo (2014)


«Ricontrolliamo la campagna punto per punto. Ci sono da apportare le
ultime modifiche. Poi sinceriamoci che la stampa sia perfetta. Deren,
chiama Akif e chiedigli a che punto è.»
«Sì, Can.»
«Ok ragazzi, ci aggiorniamo.»
Esco dall’ennesima riunione e rientro nel mio ufficio. Trovo tre
telefonate di Metin, ma so già cosa mi vuole dire. Avrà sicuramente
organizzato una serata fuori. Güliz entra nel mio ufficio con in mano
un’enorme pila di riviste: «Signor Can, buongiorno».
«Ciao Güliz, dimmi pure.»
«Stiamo riorganizzando l’archivio come ha chiesto. Per la rassegna
stampa abbiamo pensato sarebbe più comodo digitalizzare tutto, ma ci sono
una serie di riviste sulle quali abbiamo un dubbio. Le ho qui, può dare
un’occhiata per favore?»
«Sì, certo, lasciale pure sopra il tavolo.»
Güliz esegue e con un sorrisetto furbo esce dal mio ufficio. Quando sono
di nuovo solo richiamo Metin.
«Ciao Can, ti ho chiamato almeno tre volte!»
«L’ho visto Metin, ma ero in riunione e avevo lasciato il telefono nel mio
ufficio.»
«Stasera inaugurano un nuovo posto. Lo ha aperto un amico di tuo padre,
quello che ha altri due locali in centro. Io direi di andarci, che ne dici?»
«Non lo so, Metin» rispondo passandomi una mano tra i capelli. «Sono
stanco, oggi è stata una giornata pesante.»
«Dai amico, non farti pregare.»
«Metin, da quando sono tornato usciamo tutte le sere ed è sempre la
stessa storia: alla fine beviamo troppo e il giorno dopo sono a pezzi.»
«Ma dai, sei l’uomo più corteggiato di tutta Istanbul, ovunque sei tu ci
sono ragazze. Non è mica un problema mio se tu non guardi nessuna.»
«Dai amico, facciamo un’altra sera.»
Riaggancio mentre Metin sta ancora insistendo, ma stasera non ho
proprio voglia di fare niente. Sono due anni che mia madre è andata via di
nuovo, senza un motivo, senza una spiegazione. Due anni in cui passo il
mio tempo in una bolla che mi tiene lontano dal dolore. È come se di giorno
e di notte vivessi due vite separate e nessuna delle due mi appartenesse.
Dopo Esel il mio cuore sembra essersi definitivamente chiuso. Vorrei
potermi innamorare ancora, vorrei trovare negli sguardi e negli approcci
discreti di alcune ragazze che incontro nei locali qualcosa capace di
risvegliare i miei sentimenti. Nessuna di loro, però, riesce mai a penetrare la
corazza che mi circonda.
Cerco di scacciare quei pensieri e mi avvicino alla pila di riviste per
decidere quali conservare in archivio. Butto le prime due e così faccio con
la terza dopo averla sfogliata rapidamente. È sulla copertina della quarta
che mi blocco, quella in cui c’è Esel vestita da sposa. Ho saputo la notizia
un anno fa dai giornali di gossip. Questa, invece, è una rivista d’alta moda
che, oltre al servizio esclusivo sull’abito da sposa di Esel, contiene
sicuramente una delle campagne che abbiamo curato. Scorro velocemente
le pagine per arrivare alle foto. Lei è raggiante in un semplice abito bianco
di pizzo. In alcuni scatti è accanto al marito, un modello conosciuto su un
set fotografico.
“Venivo da un periodo molto buio della mia vita” racconta nell’intervista
“ero stata lasciata da un ragazzo che conoscevo da sempre e che pensavo
fosse il grande amore della mia vita. Invece dopo aver conosciuto Sebastian
ho capito che aveva ragione lui e che il nostro era solo un amore
adolescenziale che avevamo idealizzato.”
Sorrido a quelle parole che racchiudono una verità che ho capito prima
di lei. Peccato, penso, che per arrivarci abbiamo dovuto entrambi soffrire
molto. Prendo la rivista, la guardo per l’ultima volta, poi la arrotolo e la
butto nel cestino insieme alle altre.
Il grande amore di Esel è arrivato. Quando toccherà a me?
Compongo il numero di Metin: «A che ora ci vediamo stasera?».
18

Londra (2014)
Quasi quattro ore di sonno. Molto di più di quello che ho dormito
nell’ultima settimana. Il cielo di Londra è stranamente luminoso ma di
sicuro la temperatura è rigida.
Per quanto doloroso, prendere le distanze da Istanbul dopo l’aggressione
di quel ragazzo al locale e la lunga notte passata in cella è la scelta giusta.
Deve esserlo, se persino mio padre ha accettato di buon grado la mia
partenza e non ha cercato di trattenermi. L’aereo atterra dolcemente e
mentre cammino con lo zaino in spalla mi guardo intorno respirando il
profumo di caffè e caramello. All’uscita mi appare un volto conosciuto che
mi sta aspettando. Polen. È molto che non la vedo ma riconosco subito il
suo inconfondibile marchio: i lunghi capelli biondi e gli occhi verdi. Ora ha
venticinque anni, come me, ed è molto diversa da quella ragazza che ho
lasciato in questa stessa città qualche anno fa, una studentessa straordinaria
che si preparava a un brillante futuro. Mi corre incontro, con la coda di
cavallo che dondola e gli shorts di pelle nera che rendono giustizia alle sue
lunghe gambe.
«Polen, che bello rivederti.»
«Can» mi saluta, abbracciandomi forte «non vedevo l’ora che atterrassi,
mi sono quasi congelata qui fuori. Di solito sono le donne a farsi attendere.»
In effetti il freddo è pungente e tiro fuori dal trolley il mio giaccone.
«Ma dove lo hai preso quello?» commenta lei. «Sembra tu abbia
scuoiato un branco di orsetti di peluche.»
Rimango colpito dalla battuta, che mi conferma quanto la donna che ho
davanti sia diversa dalla Polen di un tempo. Ora è più tranquilla, felice e
anche molto affascinante. Puntualizzo, con tono di voce finto-offeso, che in
realtà il mio giaccone mi piace molto.
Prendiamo un taxi che ci porta direttamente al suo grande appartamento.
È davvero stupefacente. Bianco, luminoso, sapientemente organizzato e
pieno di lampade e piante di orchidea di ogni colore.
«Mi sono trasferita qui da poco» mi dice entrando nel grande salone.
«Avevo bisogno di un posto diverso, anche se il nostro mini-appartamento
di Chelsea mi piaceva moltissimo. Te lo ricordi Can?»
«Lo ricordo bene» confermo sorridendo. Rivedendolo con gli occhi di
adesso, il periodo universitario con lei a Londra è stato davvero molto
piacevole.
«Dai, lascia tutto qui, fatti una doccia e andiamo a cena fuori. Giusto il
tempo di cambiarmi e sarò pronta anch’io» mi propone, appoggiando le
chiavi di casa su un piatto di finissima ceramica turchese.
Mi accompagna nella stanza che ha preparato per me e mi dice un’ultima
volta di sbrigarmi prima di chiudersi la porta alle spalle. Rimango stupito
dall’incredibile gusto che ha avuto nell’arredarla. La camera è enorme e ha
una grandissima vetrata attraverso la quale si può ammirare lo skyline di
Londra. I muri grigio chiaro fanno risaltare un gigantesco letto bianco.
Incassata nel pavimento, di fronte all’incantevole vista, c’è una vasca
idromassaggio che mi tenta da morire. Se solo non dovessi uscire! Sui muri
i quadri di pittori contemporanei comprati in chissà quale galleria di Covent
Garden. Anche la doccia è un vero capolavoro: l’insolita forma a spirale mi
accoglie come se stessi entrando in una foresta di cristallo. L’acqua scivola
calda dalle lastre in vetro ricurvo mentre il getto principale proviene dal
soffitto, come una tiepida pioggia monsonica.
Venti minuti dopo esco e mi sento rinato. Le luci della stanza si sono
affievolite e asciugarsi osservando Londra di notte è qualcosa difficile da
dimenticare. Mi guardo allo specchio, un mosaico composto da centinaia di
piccole tessere riflettenti che in quel momento mi sembrano una perfetta
metafora dell’esistenza umana: a loro modo mi ricordano che, nonostante le
fratture inflitte dalla vita, si può continuare a guardare al futuro. Vedo anche
i miei capelli, ormai così lunghi che riesco a tenerli a bada solo legandoli.
Un po’ come i miei pensieri, che però stasera non voglio ascoltare.
«Can sei pronto? Ho già chiamato il taxi» la voce di Polen mi ricorda
che sono in ritardo. «Arrivo.»
In auto si gela e Polen si stringe al mio braccio per riscaldarsi. È
deliziosa come lo è sempre stata. Arriviamo in anticipo al Laurent at Café
Royal di Regent Street e ci sediamo al bar aspettando il nostro tavolo.
Polen si toglie il cappotto e io rimango senza fiato. Ha un abito blu scuro
corto, con la scollatura a forma di cuore che brilla alla luce soffusa del
bancone pieno di liquori. Gli uomini seduti in sala si girano tutti a guardarla
e io provo una gelosia profonda per quegli sguardi indiscreti che la
osservano. Ordiniamo due drink.
«Peccato» le dico con un sorriso che stuzzica la sua curiosità.
«Cosa?»
«Che il tuo abito sia così lungo, se fosse stato un po’ più corto forse
anche i clienti del bar di fronte si sarebbero girati.»
Polen scoppia a ridere e propone un brindisi: «Ai vecchi amici» dice,
alzando il calice.
«Ai cambiamenti» rispondo io.
Dopo tre drink, una bottiglia di vino bianco e una cena a base di sushi ci
rendiamo conto di essere gli unici rimasti nel ristorante. Ci alziamo un po’
brilli di alcol e chiacchiere e chiamiamo un cab per tornare a casa. Il freddo
è ancora più intenso e, mentre aspettiamo che arrivi, abbraccio forte Polen
per scaldarla. Con i tacchi è alta quasi quanto me e nasconde il viso
nell’incavo del mio collo, un po’ ebbra e con la punta del naso rossa per il
gelo.
«Sto sempre molto bene quando sono con te» mi sussurra.
«Anche io Polen» le rispondo guardandola con un misto di desiderio e
tenerezza. È da quando sono atterrato a Londra e l’ho rivista che non riesco
a staccarle gli occhi di dosso e ora la trovo ancora più attraente, così
indipendente e sicura di sé ma allo stesso tempo vulnerabile. Vorrei baciarla
lì, al gelo, mentre la stringo cercando di tenerla al caldo, ma non posso. Lei
prova per me quello che io non ho mai provato per lei. Non sarebbe giusto.
La nostra è stata una storia sbagliata fin dall’inizio, un’amicizia che nel
tempo non è sbocciata in qualcosa di simile all’amore. Distolgo lo sguardo
da lei, per evitare di leggere il desiderio che i suoi occhi mi trasmettono, e
per fortuna il taxi arriva.
Si addormenta sulla mia spalla, cullata dal tepore della macchina, e io
non posso fare a meno di accarezzare quel volto bellissimo e dai lineamenti
perfetti. Se solo mi fossi innamorato di lei invece di Esel. Quanto dolore e
rabbia ci saremmo risparmiati. La sveglio sotto casa e lei si riprende,
scusandosi per essersi appisolata addosso a me. La abbraccio stretta fino al
portone e quando siamo in ascensore l’uno vicino all’altra la tensione tra
noi è palpabile. Sorrido e lei ricambia mentre ci guardiamo in un silenzio
pieno di tante parole mai dette. È come se stasera la vedessi per la prima
volta.
«Polen, vuoi che ti accompagni in camera?» le chiedo entrando.
«No Can, ce la faccio, sono stanca e credo che anche tu lo sia. Ci
vediamo domani mattina. È sabato e possiamo fare quello che vuoi.»
Così mi ritrovo di nuovo solo in una stanza buia, ad ammirare la bellezza
di una città che stasera mi ha mostrato per la prima volta un nuovo lato di
sé. Non sono più il ragazzo tormentato che non vedeva l’ora di tornare a
Istanbul per rivedere Esel, ma un uomo le cui ferite stanno guarendo.
Accendo l’idromassaggio, che si illumina di mille colori e il gorgoglio
dell’acqua che ribolle è davvero rilassante. Mi spoglio e alla sola luce della
vasca mi immergo in quel tepore divino. Londra spiandomi dalla finestra
non poteva darmi benvenuto migliore.
Sono ancora lì quando sento bussare alla porta.
«Polen?»
«Sì Can, sono io. Posso entrare?»
«Certo, vieni pure.»
«Volevo darti la buonanotte» mi dice avvicinandosi «e sapere se hai
bisogno di qualcosa.»
Indossa una lunga vestaglia trasparente che ondeggia a ogni suo passo.
«Vieni qui, Polen» le dico senza riuscire a staccarle gli occhi di dosso, e
lei afferra la mia mano e si siede sul bordo della vasca guardandomi
intensamente. La faccio scivolare dentro l’acqua: «Ho bisogno di te
stanotte».
«Ho desiderato così tanto sentirtelo dire» mi sussurra.

Quando mi sveglio Polen non c’è. Mi alzo di scatto cercando di ricordare


quello che è successo tra me e lei, quella passione esplosa in maniera
travolgente che ci ha impedito di mettere un freno al nostro desiderio.
Eppure di quei sospiri da togliere il fiato e di quei baci ardenti ricordo
poco. Nella mia testa c’è ancora il sogno che ho fatto dopo. Il solito sogno.
La solita lei senza volto. Con lei ho fatto l’amore stanotte, dopo quello che
è successo con Polen.
Londra, Mayfair Park Residence (2014)
«Can, amore, io sto uscendo. Tu che fai oggi?» la voce di Polen mi
raggiunge ovattata sotto la doccia. Dalla sera in cui sono arrivato sono
passati pochi giorni e siamo già ufficialmente una coppia.
«Polen, non ti sento» mento.
«Ti stavo dicendo» ripete, entrando in bagno «che sto andando in ufficio.
Tu cosa fai oggi?»
Ha il cappotto addosso, i capelli legati in uno chignon basso e gli
occhiali da vista con quella montatura nera che mi fa impazzire. Mi affaccio
dalla doccia, le prendo il bavero del cappotto e la attiro a me.
«Can, sei tutto bagnato, ma che fai?»
«Prima ti tolgo il cappotto – le spiego mentre passo all’azione – poi ti
sciolgo i capelli e ti porto con me sotto la doccia.»
«Ma Can!» dice sorridendo con finta ritrosia.
Le poggio le labbra sulle mie e con una mano tiro giù la lampo del
tubino che cade sul pavimento bagnato. Lei risponde al bacio prendendomi
il viso con entrambe le mani. L’acqua tiepida ci piove addosso e io
comincio a percorrerle il collo dandole piccoli morsi. Lei si sfila la
camicetta, poi il reggiseno, e rimane nuda abbracciata stretta a me. Chiude
gli occhi. Respira a fatica ora.
«Can, mi fai impazzire» mi dice quasi singhiozzando.
Ha la pelle liscia e bianchissima. Ho le mani sulle sue spalle e lei si
aggrappa alla mia schiena tirando fuori le unghie come una gatta mentre
cerca la mia bocca.
“Oggi” penso mentre la bacio “farà di sicuro tardi in ufficio.”

È già la quarta volta che passo davanti al portone di un palazzo dove c’è
scritto affittasi. È un po’ che mi tenta. Nei cinque mesi che ho trascorso qui
a Londra ho pensato spesso di aprire un mio ufficio. Prima però vorrei
essere accettato dall’International Photographers Association, anche se la
mia domanda non sembra essere stata presa in considerazione. Sono vicino
alla loro sede, faccio un giro, e alla fine decido di entrare.
«Sono Can Divit. Non ho un appuntamento, sono solo passato per sapere
qualcosa sulla mia richiesta di ammissione.»
«Mi attenda solo un secondo signor Divit.»
L’austera segretaria si alza e io ne approfitto per guardarmi intorno.
Ovunque ci sono splendide foto di volti, paesaggi e animali selvatici.
Ritratti stupendi che fanno venire la pelle d’oca solo a guardarli.
«Signor Divit?»
«Sì, sono io.»
«Sono George Taylor. Vogliamo accomodarci?» Mi fa strada fino al suo
ufficio e torna a parlare di affari solo dopo essersi seduto alla scrivania e
avermi offerto una tazza di tè.
«Dunque. Abbiamo preso seriamente in esame la sua richiesta e devo
dire che siamo rimasti molto colpiti dalle sue immagini. Il problema è che
non abbiamo del materiale scattato sul campo.»
«Cosa intende sul campo?»
«Lei fa dei ritratti meravigliosi e viaggia molto, ma quello che a nostro
parere le manca è l’esperienza nei luoghi dove vengono catturate le
emozioni. È mai stato per esempio nei Balcani?»
«No.»
«In qualche campo profughi?»
«No.»
«Ecco, è questo il tipo di esperienza che vogliamo vedere. Quel tipo di
rapporto con la foto che nasce dalla necessità, dall’esigenza. A volte anche
dalla paura e dall’adrenalina. Come le dicevo, abbiamo presentato i suoi
lavori alla commissione in ben tre sessioni e tutti sono rimasti davvero
molto, molto colpiti dal suo occhio.»
«Ho quasi ventisei anni e ho viaggiato tanto, però l’ho fatto per la mia
passione di conoscere il mondo nei suoi luoghi più sperduti e selvaggi. Non
ho mai viaggiato con gli occhi di chi vuole fotografare la storia, ma è quello
che voglio iniziare a fare da tempo.»
«Benissimo. Per questo vorrei farle una proposta: cosa ne dice di
viaggiare per noi, magari per un anno? Dal Nordeuropa al Sudamerica.»
Questa possibilità mi prende alla sprovvista. Sembra un sogno che arriva
in un momento così particolare. Ho iniziato da poco una relazione con
Polen e lasciarla significherebbe…
«Mi rendo conto che questa idea le possa sembrare un po’ azzardata – mi
dice Taylor facendomi riemergere dai miei pensieri – ma ci saremmo messi
in contatto con lei tra qualche giorno per sottoporle esattamente lo stesso
progetto. Lei ci ha solo battuto sul tempo. Ha per caso uno studio qui a
Londra?»
«Non ancora, ma ho già visto un ufficio prima di venire qui.»
«Bene allora, ci pensi su, ma non troppo.»
«È stato un piacere signor Taylor. Le farò sapere al più presto.»
Esco dalla sede dell’associazione e mi sembra di camminare sulle
nuvole. Sono emozionato, eccitato, e vorrei partire subito. Viaggiare è
qualcosa che fa parte del mio DNA . L’ho fatto da che ho memoria e il mio
desiderio di visitare posti nuovi e sconosciuti non si è mai spento, anzi, si è
rafforzato con il passare del tempo. Con l’associazione posso farlo
guardando quelle realtà della vita che gli altri spesso non vedono o non
vogliono vedere. La guerra, le ingiustizie, la sofferenza.
A questa euforia si contrappone però un pensiero doloroso: Polen. Come
faccio a dirle che non voglio rinunciare a questa opportunità?
19

Mar Baltico, Isola di Bornholm (2017)


Il vento si è alzato ma la cosa non mi preoccupa molto. Anzi, la velocità che
sta prendendo la barca è una benedizione dopo giorni di bonaccia durante i
quali sono stato costretto alla navigazione a motore. Alzare le vele adesso è
come librarsi nell’aria. Gli spruzzi d’acqua mi colpiscono il viso e il sapore
salato del mare mi fa leccare continuamente le labbra. Sono sul mare del
Nord: di fronte a me la Danimarca e, poco più su, la Norvegia. Mi sento
estremamente in colpa nei confronti di Polen. Dopo tanto tempo la nostra
storia stava prendendo la piega giusta, ma invece di restare sono partito alla
ricerca del brivido e dell’adrenalina.
«Ti conosco, Can, è impossibile imbrigliare il tuo corpo, ma io voglio
solo imbrigliare il tuo cuore» aveva chiarito non appena le avevo rivelato la
proposta dell’agenzia. Avrei dovuto viaggiare per un anno, invece il tempo
è volato e ho smesso di contare i mesi. Avevo quasi ventisei anni quando
sono entrato all’International Photographers Association e ora che ne ho
ventotto non è cambiato nulla. Girare il mondo e fotografare per loro è
diventata una necessità vitale. Afghanistan, Cambogia, Serbia, Eritrea,
Sudan, Groenlandia, Finlandia, Alaska.

Mi ricordo ogni aeroporto, ogni tratto d’acqua, ogni persona che ho


incontrato. I campi profughi dove i bambini giocavano in mezzo alla
polvere, ammassati gli uni sugli altri. I più piccoli che spesso si
avvicinavano con un misto di curiosità e timore e che io mi accovacciavo
per tranquillizzare, facendomi toccare il viso e i capelli lunghi. Le foto che
ho scattato in quelle occasioni sono la testimonianza delle loro lacrime,
della paura dipinta sui loro volti e della fame scolpita sui corpi troppo
magri. Non sono mancati neanche foreste vergini, mare in tempesta e
distese di ghiaccio.
Ogni tanto torno a Londra nell’appartamento di Polen, ma solo per pochi
giorni, a volte addirittura per poche ore, e rimango abbracciato a lei
cercando di dimenticare la rabbia per le ingiustizie del mondo.
«Ti amo anche per questo» mi dice ogni volta, toccandomi il petto
all’altezza del cuore. Poi mi toglie la camicia ancora sporca di terra e
avventura e sussulta quando vede le mie spalle piene di lividi. Li bacia a
uno a uno, quasi a voler guarire ogni mia piccola ferita. A volte quel tocco è
così confortevole che vorrei non smettesse mai, altre lo percepisco come
indiscreto, troppo intimo, e mi ritraggo, in preda al turbamento e alle
domande che solleva su di lei, su di noi.
Lei mi chiama amore, io Polen. Lei mi dice «Ti amo», io mi limito a
sorridere. Un confine invisibile ma invalicabile le impedisce di entrare nel
mio cuore con la potenza di un uragano e di farmi venire le farfalle nello
stomaco. La penso spesso, molto più di quello che immaginavo, ma mi
manca davvero? Allora perché ora sono in mezzo al mare e non vicino a
lei? È a domande come queste che non so dare una risposta e che mi
spingono lontano, alla ricerca della verità che governa il mio cuore.
Passare nello stretto del Kattegat mi fa sorridere. Da una parte la
Danimarca, dall’altra la Svezia e io in mezzo. Mi sembra la
rappresentazione visiva del mio destino. Mi fa chiedere da che parte
sceglierò di andare. Da un lato c’è Polen, un porto sicuro, dall’altro la mia
paura di lasciarmi andare. Dove getterei l’ancora? La risposta non è
scontata come immaginavo.
Quando sbocco nel mar Baltico, il vento comincia a preoccuparmi.
Nonostante in questa parte del mondo il clima sia abbastanza regolare, non
bisogna mai fidarsi del mare. In un secondo quello che era un cielo assolato
si addensa di nuvole nere. Sgancio le vele e accendo il motore: lasciare il
mio destino al vento non è sicuro in questo momento. Controllo la radio e
comunico la mia posizione. Mi avvertono che è in arrivo una forte tempesta
e mi consigliano di cercare un approdo il prima possibile. Apro le carte, il
mare si sta ingrossando rapidamente e ho due possibilità: avvicinarmi alla
costa sud della Svezia o dirigermi a Bornholm, una piccola isola della
Danimarca. Decido velocemente per la seconda opzione.
Avvicinarsi alle sue coste risulta più faticoso del previsto: il mare è ormai
impazzito e ho il terrore di non vedere qualche scoglio e di danneggiare
irreparabilmente lo scafo, ma questa volta la fortuna sembra essere dalla
mia parte.
Quando arrivo a terra la situazione non è delle migliori. Il vento e la
pioggia sono sferzanti e creano dei veri e propri mulinelli. Mi incammino
tra le case sbarrate alla ricerca di un riparo o di un posto dove passare la
notte e mi affretto quando vedo in lontananza un edificio con una lanterna
all’esterno. Spero sia un ostello.
Ho lo zaino fradicio. Busso alla porta, ma nessuno mi apre. Scruto dalle
finestre e vedo una flebile luce accendersi. Busso più forte nella speranza di
farmi sentire. Mi apre un signore anziano, alto la metà di me, tanto che per
parlarmi deve alzare il mento. Mi squadra dal basso all’alto, indugiando sul
giaccone ancora grondante nonostante adesso sia al riparo sotto un piccolo
portico.
«Signore, questo è per caso un ostello?» chiedo, rendendomi conto io
stesso di quanto ridicola possa risultare quella domanda, viste le dimensioni
della stanza che intravedo.
«No, non lo è» mi risponde con un accento inglese duro e gutturale.
«Potrebbe indicarmi un luogo dove passare la notte? È un miracolo che
sia riuscito ad approdare senza far ribaltare la barca.»
«Mi chiedo perché andiate per mare con questo tempo. Dico sempre la
stessa cosa anche a mio figlio, ma niente!» sbotta risentito.
Mi stupisco delle parole che mi rivolge e non posso fare a meno di
sorridere. Mentre parliamo ci raggiunge una signora dai capelli bianchi. Gli
fa una domanda in danese, mettendosi al sicuro dietro al marito mentre mi
lancia uno sguardo indagatore. Probabilmente gli ha chiesto chi sono e cosa
voglio.
«Un altro di quei pazzi che vanno in giro in barca quando c’è brutto
tempo, proprio come Peter.»
La signora guarda prima me e poi il marito: «Facciamolo rimanere qui
per stanotte, che ne dici? Mi sembra troppo provato per avere brutte
intenzioni».
«Nella stanza di Peter?» chiede lui.
«Ma sì, certo.»
Tiro un sospiro di sollievo: piccoli e minuti come sono, li prenderei
entrambi in braccio per la felicità.

La mattina dopo il sole è alto e mi sveglio presto. I due padroni di casa sono
già in piedi intenti a cucinare.
«Spero ti fermerai con noi a colazione. Come hai detto che ti chiami?»
«Can, signora.»
«Ecco, Can, io sono Astrid. Aiutami ad apparecchiare: è quasi pronto.»
A tavola il salmone è delizioso con il burro e il pane nero, e Adrian e
Astrid sono una forza della natura. Mi raccontano dei loro due figli: Peter,
che ora è in Svezia a lavorare, e Britt, che vive sulla terraferma danese con
il marito e tre figli.
«Noi siamo voluti rimanere qui, ma a volte ci sentiamo soli. Per questo
ci fa piacere avere ospiti.»
Li ringrazio per la gentilezza e mi accingo a ripartire, ma mentre li sto
salutando Adrian si offre di controllare con me se la barca ha subito qualche
danno. Imbocchiamo una strada diversa rispetto a quella della sera prima e
percorriamo un lungo tratto a piedi, in mezzo a quella che l’uomo definisce
una piccola foresta ma che per me, viste le dimensioni, è poco più di un
bosco. Comincia a parlare senza sosta della sua vita, di come ha conosciuto
sua moglie e della nascita dei figli.
È così loquace e amichevole che dopo aver appurato il perfetto stato
dell’imbarcazione, anziché ripartire decido di accettare l’invito a fermarmi
un’altra notte.
Una settimana dopo sono ancora in questa casetta incantata a mangiare
salmone e patate bollite condite con burro fuso. Mi sento benissimo:
l’amore che i due hanno l’uno per l’altra trapela persino dalle scaramucce e
dai piccoli vizi che condividono. Tra loro non ci sono segreti, lati oscuri o
parole non dette.
Di giorno Adrian mi accompagna nelle mie esplorazioni e con lui
fotografo ogni scorcio di quel borgo dal sapore antico in mezzo al mare. Di
notte, invece, tutti i turbamenti vengono a galla. I miei sogni continuano a
essere abitati da lei, dalla donna che non ha volto e si insinua nella mia
testa.
La vedo in un labirinto di specchi, dove la sua immagine riflessa si
moltiplica all’infinito, mi insegue sussurrandomi che mi ama, per poi
fuggire via non appena il desiderio mi spinge ad afferrarla per scoprirne il
volto.
Anche se ho apprezzato quella pausa imprevista, è arrivato però il
momento di partire. Lo dico ai padroni di casa che, pur dispiaciuti, mi
augurano nuovamente buon viaggio. Sono nella mia camera, lo zaino
appena issato in spalla, quando Astrid lancia un urlo che mi fa correre
nuovamente in soggiorno. Adrian è per terra, privo di sensi, la mano destra
stretta sul braccio sinistro.
«Improvvisamente ha sentito un forte dolore» mi grida la moglie,
angosciata.
Capisco subito di cosa si tratta. Senza perdere tempo inizio a praticargli
un massaggio cardiaco, che non sembra fare effetto. Astrid è nel panico più
assoluto e devo ripeterle due volte di chiamare subito il numero
d’emergenza.
«Non mollare Adrian, non mollare» gli dico, mentre con le mani unite
premo sul suo torace. I minuti sono interminabili, l’ambulanza non arriva
ma io non desisto.
«Uno, due, tre» conto ancora e ancora, e Adrian sembra dare qualche
cenno di ripresa. Non so quanto tempo sia trascorso prima che arrivino i
paramedici che mi danno il cambio e riescono a rianimarlo definitivamente
usando le piastre.
Rimango ancora qualche giorno, fino a quando Adrian non torna
dall’ospedale, per non lasciare sola Astrid. Una mattina la vedo entrare in
camera mia e sedersi sul letto con una scatola in mano.
«Can, sei stato una benedizione per questa casa. Se non fosse stato per te
sarei rimasta sola. Voglio ringraziarti e darti questo» dice mostrandomi un
ciondolo d’ambra.
«Astrid… non posso accettare.»
«La leggenda narra che nel mar Baltico, in un antico castello fatto
d’ambra, vivesse una dea bellissima. Un giorno la dea si innamorò di un
pescatore e anche lui, affascinato dalla sua bellezza, si innamorò di lei. La
loro storia d’amore fu molto contrastata: nessuno accettava che i due
potessero amarsi. Così decisero di scappare via e scomparire per sempre.
Ma il dio del tuono si infuriò. Cacciò il pescatore relegandolo in un luogo
lontano dalla sua amata e imprigionò per sempre la dea nel suo castello. Da
quel giorno la dea, disperata, cominciò a versare lacrime d’ambra nel mare,
così che le onde le portassero sulla riva, permettendo al pescatore di
ritrovarla. Prendi questo ciondolo, ti aiuterà a trovare il tuo amore ovunque
sia nel mondo.»
Lo afferro e lo rigiro tra le mani per ammirarlo: vorrei trovare inciso da
qualche parte il nome del mio amore. Questo renderebbe tutto più semplice
e placherebbe il mio profondo tormento. Ma ovunque io lo guardi non
scorgo niente. Vedo solo la bellissima pietra che, proprio come l’amore, non
so come potrà guidarmi.
Forse il regalo di Astrid è un segno, qualcosa a cui il destino vuole farmi
giungere attraverso una strada tortuosa. Penso questo mentre accendo il
motore della barca e mi allontano dalla piccola isola dove ho lasciato lei e
Peter. Osservarli così uniti e innamorati anche dopo tanti anni è un film che
avevo bisogno di vedere. Mi passano davanti le immagini della
disperazione di Astrid quando Peter era a terra e sembrava senza vita. Io ho
salvato lui e loro hanno salvato il mio cuore, spalancandolo a una brezza
più leggera e spensierata. Un vento che non ha la potenza distruttiva del
mio essere, ma mi culla con la dolcezza di Polen.
Alzo le vele e lo scossone che provocano quando si gonfiano mi fa
sentire a casa. In mezzo al mare sono felice: è il mio ambiente naturale, così
come lo sono le foreste e gli animali. A contatto con la natura riesco a
essere veramente me stesso.
Eppure, anche quando mi trovo nelle zone più sperdute e pericolose, non
riesco a tenere a bada i pensieri che ondeggiano nella mia testa come canne
al vento. Controllo il timone con le mani e guardo le onde che vanno avanti
immutabili, certe di trovare la pace e di morire pacificamente su qualche
spiaggia assolata, per poi rinascere ancora più grandi e potenti. È come se si
muovessero spinte dal desiderio di raggiungere la meta, l’isola felice che le
attende, seguendo un fato dal quale non si può fuggire. Mi chiedo se sia
così non solo per le onde, ma anche per me, e se in questo momento io non
stia solo cercando di sottrarmi al mio destino. È Polen il mio futuro? È lei la
donna senza volto che popola i miei sogni? Non lo so, ma è certo che sono
io a dover dare un volto a quell’amore tormentato e mai soddisfatto. Solo in
quel momento la nostra folle corsa si fermerà e insieme potremo
raggiungere una spiaggia piena di sole.
Londra
Quando arrivo a casa trovo Polen seduta al tavolo del salone intenta a
scrivere. Alza lo sguardo, vede la mia faccia e capisce che qualcosa tra di
noi è cambiato. Si abbassa gli occhiali: «Ciao amore» mi sussurra.
Quelle parole non sono più pesanti, ma volano leggere attraverso l’aria
riempiendo la stanza e tutta la casa come farfalle colorate.
«Te lo avevo detto che ci sarei stata per sempre» mi dice «e come vedi
sono ancora qui.»
In quel momento riavvolgo i ricordi e li trovo mutati. Cambiano volti,
sentimenti, emozioni e come in un puzzle tutte le tessere sembrano prendere
il giusto posto. Arriva un momento dove anche l’inquietudine tace. E ora
nel mio cuore c’è solo silenzio. Mi avvicino a lei, stanco di quella lunga
corsa durata anni, e poso la fronte sulle sue gambe cercando riposo. Lei mi
accarezza i capelli e appoggia la testa alla mia. «Perdonami, Polen» dico
con un filo di voce. «Perdonami per non aver visto tutto l’amore che mi hai
dato, per non essere stato l’uomo che volevi.»
«Mi hai fatto talmente male che non riesco neanche a odiarti. Non sono
gli altri amori che hai vissuto, ma quello che non hai vissuto con me» mi
dice lei, mentre una lacrima le scende lungo la guancia e mi bagna i capelli.
«Non sono più quella che ero, Can. Non sono la stessa persona che hai
abbandonato per tornare a Istanbul. Ora so che per averti devo lasciarti
andare.»
Mi sollevo e comincio a baciarla sul volto dove quella singola goccia ha
lasciato una scia salata. La stringo forte a me e sento il suo cuore battere
all’impazzata. Le sollevo la felpa, e quando gliela sfilo dalla testa il
movimento fa cadere la matita che tratteneva uno chignon improvvisato,
lasciando i capelli biondo cenere liberi di incorniciarle il volto.
È bellissima, con gli occhi verdi che ora mi guardano senza più paura di
vedermi scappare. Scosto i capelli e le abbasso la spallina del reggiseno
cominciando a baciarle la spalla nuda. Lei mi sbottona la camicia e mette
entrambe le mani sul mio petto. Scivoliamo sul tappeto, i nostri vestiti
sparpagliati come foglie d’autunno. Lì rimaniamo, mostrando per la prima
volta il lato più nudo di noi, la nostra anima.
Zurigo
Hüma è davanti allo specchio. Sta provando il vestito che ha comprato per
la cena di questa sera quando il cellulare suona per l’arrivo dell’ennesimo
messaggio. Scocciata per l’interruzione, decide di leggerlo più tardi, ma
cambia idea e si affretta ad aprirlo non appena vede che il mittente è Polen.
“Cara Hüma, come sta? Volevo dirle che aveva ragione: farlo sentire in
colpa ha funzionato. Come mi ha suggerito, gli ho detto che lo avrei lasciato
andare pur di renderlo felice e mi sembra che le cose vadano meglio ora. La
abbraccio.”
Hüma sorride per la prima volta dopo tanto tempo. “Brava bambina”
pensa “tienilo lontano da Istanbul.”
20

Fikri Harika – Beşiktaş, Istanbul (2017)


«Deren, non ti sento, il telefono non prende bene. Sono in aeroporto, sto
partendo per lo Sri Lanka.»
Deren è irritata. Possibile che proprio in quel momento il telefono di Can
dia problemi? Deve raccontargli urgentemente cosa sta accadendo alla Fikri
Harika. D’altra parte era stato lui a chiederle di tenerlo aggiornato.
Sta per ricomporre il numero quando un urlo alle sue spalle la fa
sussultare: «Signora Dereeeeen!».
Si tratta di Cengiz, il tuttofare dell’azienda assunto da poco. Un buffo
ometto con i baffi che saltella agitato.
«Signora Deren, il suo caffè» le dice passando nervosamente da un piede
all’altro.
«Cengiz, ti chiami così giusto? Ma che ti salta in mente? Mi hai fatto
prendere un colpo! Non urlare più, per favore» lo rimprovera Deren alzando
più di lui il tono della voce.
«CeyCey, signora Deren, solo CeyCey, mi chiamano tutti così. Non
vorrei che mi licenziasse.»
Deren alza gli occhi al cielo. Prima Can che non risponde e ora il nuovo
assunto che sembra pazzo. Quell’azienda sta andando fuori controllo. «Cey
Cey, perché dovrei licenziarti se ti abbiamo appena assunto?»
«Non lo so, infatti sarebbe spiacevole se mi licenziasse il primo giorno
di lavoro.»
Deren sente che i suoi nervi stanno per cedere. Per fortuna il telefono
squilla nuovamente.
«Can?»
«Eccomi, Deren, mi sono spostato e ora dovrei riuscire a sentirti. Che
succede?»
«Can, tuo padre ha licenziato Aylin! È successo un putiferio in azienda.»
«Perché, ha combinato qualcosa?»
«Pare che abbia sottratto una grossa somma di denaro dai conti
dell’azienda. Emre non poteva crederci. Ha litigato con Aylin e poi Aziz ha
deciso di licenziarla.»
«Mi sembra un’ottima notizia.»
«Come? Can? Non ti sento bene.»
«Dico che è un’ottima notizia. Deren, la linea è disturbata. Tra dodici ore
atterro a Colombo, ti ricontatto da lì.»
«Can? Can?»
La linea è ormai caduta, Deren rientra nel suo ufficio. Il clima è pesante
come qualche giorno prima, quando Aylin, dopo aver fatto carriera in
ufficio diventando direttore creativo è stata mandata via. I sogni di gloria
che la vedevano mettere una fede al dito di Emre, con cui tempo prima si
era fidanzata, sono stati frenati da Aziz, che licenziandola le ha anche
impedito di sposarsi con suo figlio. Ma lei ha sempre un piano B e ha già
iniziato ad attuarlo.
Se in molti si limitano a spettegolare a bassa voce, CeyCey si aggira
invece freneticamente per l’ufficio ripetendo da ormai ventiquattr’ore: «Ci
licenzieranno, ci licenzieranno tutti!».
Nemmeno le raccomandazioni di Güliz e di Deren, che ogni tanto gli
lancia un urlo per intimargli di stare zitto, sono riuscite a placarlo. La sua
nevrosi è incontrollabile.

Emre, chiuso nel proprio ufficio, deve fare una telefonata importante e
chiede a Leyla, di uscire.
«Ti raggiungo io tra poco.»
«Benissimo signor Emre» annuisce lei, felice come mai prima. Ma non
sa che i pensieri del suo capo sono tutti rivolti sempre alla stessa donna, che
Emre si precipita a chiamare non appena l’assistente esce dalla stanza.
«Aylin? Sei a casa?»
«Emre, amore, sì.»
«Mi raccomando, non chiamarmi quando sono qui. Vengo io da te la
sera.»
«Certo amore, ma mi manchi. Oggi vado a registrare la mia società e poi
ho appuntamento con un paio di clienti che di sicuro conosci bene.»
«Aylin, non esagerare. Ho deciso di aiutarti ma dobbiamo stare molto
attenti.»

Aeroporto di Colombo, Sri Lanka


Can arriva a Colombo e, uscito dall’aeroporto, sente che i vestiti gli si
incollano alla pelle. Manca poco al periodo dei monsoni. L’aria è densa di
umidità e molto calda. Lui è diretto a nord, nel distretto di Kilinochchi, una
zona poco battuta e selvaggia, dove ci sono ancora segni di una guerra
civile durata venticinque anni. Sono centinaia di migliaia i rifugiati Tamil
che ancora oggi vivono nei campi profughi in India. Un orrore, come
accade per ogni altra guerra che coinvolge persone innocenti la cui unica
colpa è quella di essere nate nel posto sbagliato. Prima di partire chiama
Deren per capire se ci sono novità.
«Ciao Can.»
«Deren, sono arrivato da poco a Colombo e sono diretto a nord. Non so
se il telefono prenderà in quella zona, ma se così non dovesse essere
lasciami un messaggio e ti ricontatto io. Come vanno le cose lì?»
«Ci stiamo riorganizzando. Abbiamo richiamato tutti i clienti per
avvertirli. Tuo padre mi ha nominato nuovo direttore creativo.»
«Brava, te lo meriti.»
«Grazie Can, ma tu quando torni?»
«Non lo so. In Sri Lanka dovrò spostarmi in varie regioni e una volta
tornato a Londra avrò molto da fare, perché sto preparando un progetto sui
campi profughi. Come dicevo, mi farò vivo io.»
«Ricordati che tra qualche mese ci sarà l’anniversario della Fikri
Harika.»
«Bene, allora spegnete le candeline anche per me.»

Distretto Kilinochchi, Sri Lanka (gennaio 2018)


Mi addentro nella foresta per fotografare alcune specie in via di estinzione e
realizzare un servizio sulla conservazione dell’ecosistema. In quest’area
sono stati ritrovati alcuni esemplari di lori gracile, un piccolissimo
mammifero che si credeva estinto. Poi mi sposterò a sud, verso il parco
nazionale di Yala, sulle tracce del più grande mammifero che vive in questa
zona: il leopardo dello Sri Lanka, anche lui a rischio estinzione. Fa
caldissimo e ho la camicia di lino bagnata. Il tasso di umidità deve essere
superiore all’ottanta percento. Ho difficoltà persino a respirare.
Sto provando una nuova attrezzatura fotografica, più ingombrante di
quella che mi porto solitamente dietro, e questo mi sta causando problemi di
movimento. Arriva in una radura impervia, che si affaccia su un burrone
profondo una decina di metri. Da lontano riesco a scorgere alcuni minuscoli
esemplari di lori gracile. Si divertono a saltare da un ramo all’altro mentre i
più piccoli camminano per terra cercando insetti da mangiare. Cerco di
aggirarli per avere una visuale migliore, sempre stando molto attento allo
strapiombo che incombe alle mie spalle. Mi accovaccio per scattare alcune
istantanee e poi mi sposto di lato. Con gli scarponi spezzo inavvertitamente
un ramo secco e il rumore mette in allarme gli animali, che cominciano a
saltare all’impazzata tra i rami per allontanarsi. Il movimento collettivo
scuote rumorosamente le fronde e il panico è tale da far precipitare al suolo
uno dei rami. Alla caduta segue un’esplosione enorme, e l’onda d’urto mi
colpisce in modo così violento da scaraventarmi dentro il burrone. Tutto
dura la frazione di secondo e poi, intorno a me, c’è solo il buio.

Alcune ore dopo…


«Arāliyā inta iḷaiñaṉ iṟantuviṭṭatāka niṉaikkiṟāyā?»
«No, nonna, non credo sia morto, ma è ferito molto gravemente.
Dobbiamo portarlo via da qui» risponde Aralya all’anziana signora che le
parla in tamil.
«Avar oru paḻaiya pōr curaṅkattāl tākkappaṭṭār.»
«Sì, è esplosa una mina antiuomo della guerra civile. Ce ne sono ancora
troppe in giro, per questo ti dico sempre di fare attenzione quando passi da
qui. Per fortuna le ferite non sembrano estese. Mi preoccupa però la testa,
vista l’altezza dalla quale è caduto. Dobbiamo chiamare il dottore il prima
possibile. Prendi il carrello per portare la legna: possiamo usarlo per
trasportarlo fino a casa.»
«Dottore, grazie di essere venuto. Abbiamo sentito l’esplosione di una delle
mine e quando siamo andate a vedere abbiamo trovato questo ragazzo in
fondo al burrone. Pensa sia molto grave?»
«Chi può dirlo? Ho curato ferite più importanti. Di certo ha diverse
fratture, una al polso. Soltanto quando si risveglierà si potrà realmente
capire se ha subito dei danni cerebrali. Ora deve assolutamente riposare.
Aralya, come sai non posso venire qui tutti i giorni, ti lascio le bende
necessarie perché tu possa cambiare frequentemente la medicazione.
Potrebbe avere un po’ di febbre: in quel caso dagli queste pasticche. Una
ogni dodici ore fino a quando la temperatura non si abbassa.»
«Grazie dottore.»
Aralya si mette ai piedi del letto di quello sconosciuto che ha trovato
mezzo morto nella foresta e cerca di capire come e perché sia arrivato in un
posto così sperduto. Prende lo zaino che gli aveva tolto dalle spalle per
portarlo a casa, lo stesso nel quale aveva gettato alla rinfusa i resti della
macchina fotografica che si era rotta durante la caduta. Lo apre cercando di
trovare qualche indizio, magari un numero di telefono o un indirizzo per
avvertire qualcuno, ma non c’è nessun documento, solo un cellulare, alcuni
obiettivi e altre due macchine fotografiche più piccole.
Deve trattarsi di un viaggiatore solitario, pensa. Per fortuna lo
smartphone è rimasto intatto. Prova ad accenderlo per scorrere la rubrica,
ma il codice di sicurezza mette un freno alle sue buone intenzioni. Sospira e
si siede sul pavimento della capanna dove vive con l’anziana nonna quando
le piogge monsoniche non allagano tutto. In quel periodo si spostano al
villaggio, lontano un centinaio di chilometri, e vendono la legna raccolta.
Appartengono alla stirpe degli antichi Vedda, i popoli delle foreste che
discendono direttamente dagli aborigeni. La sua gente abita quei luoghi da
sempre e, nonostante Aralya abbia due figli che vivono stabilmente nel
villaggio e che vede pochissimo, la maggior parte dell’anno rimane nella
foresta con la nonna.
L’uomo sopra il letto si muove e lei si avvicina nella speranza che apra
gli occhi. È imperlato di sudore e il polso fratturato deve fargli molto male
perché si lamenta in continuazione. Gli passa una mano sulla fronte
spostandogli i capelli fradici e sente che scotta molto. Corre nella cucina,
separata dalla stanza da letto solo da una parete di legno, e prende le
pastiglie che il medico le ha dato. Chiede aiuto alla nonna per fargliele
inghiottire. Non è una cosa semplice. La febbre alta lo fa lamentare in
continuazione e spesso delira, pronunciando quelli che sembrano nomi e
frasi sconnesse.
La situazione migliora nel giro di una settimana. L’anziana signora ha
preparato per lui unguenti che passa sulle ferite ogni giorno, rinfrescandogli
la fronte con le foglie di alcuni alberi quando la temperatura si fa troppo
elevata. Aralya cerca di farlo bere frequentemente e nonostante lui non
abbia ancora aperto gli occhi, l’acqua fresca sembra rinfrancarlo e dargli
grande sollievo. Spesso la notte mette una stuoia vicino al suo letto e lo
sente ripetere spesso la stessa domanda: «Chi sei?».
Le prime volte aveva risposto, pensando si fosse svegliato, ma poi aveva
capito che quel mormorio era legato a una realtà diversa, nella quale la sua
mente aveva proiettato quello di sogni o visioni che lei non poteva
comprendere.

Distretto Kilinochchi, Sri Lanka (febbraio 2018)


Sono nella foresta quando qualcosa mi morde il polso. Lascio andare la
macchina fotografica e sollevo la manica del giubbotto mimetico cercando
di capire cosa è stato. Due enormi sanguisughe sono riuscite a superare gli
strati di tessuto e ora sono saldamente attaccate alla mia pelle. Cerco di
staccarle, ma il dolore al polso è lancinante. I parassiti cadono a terra solo
quando le dita di una mano delicata ci passano sopra. Alzo gli occhi per
scoprire a chi appartengano, ma non c’è nessuno.
“Can.”
Una voce mi chiama da lontano e alzando gli occhi la vedo: una
splendida figura femminile, velata, che mi chiede di andare con lei. Quasi
ipnotizzato seguo quella creatura che emana luce ed è così leggiadra che
sembra volare.

«Can, vieni!»
«Chi sei?» le chiedo alzando la voce, ma lei è sempre più lontana e non
riesco più a vederla.
Mi sento circondare da un paio di braccia e percepisco ancora il tocco
delicato della mano che prima mi aveva fatto stare così bene. La prendo, ma
il polso mi fa ancora male. Lei sembra quasi avvolgermi e mi bacia,
dandomi lo stesso sollievo di un po’ di acqua fresca. Quel bacio è così bello
che farei qualsiasi cosa per farlo durare per sempre. Ma non faccio in tempo
a pensarlo che lei è già sparita, lasciandomi solo con una fitta di dolore alla
testa. Nonostante questo provo a rincorrerla, ma lei anticipa ogni mia
mossa. Si ferma sul ciglio del burrone e mi sussurra: «Vieni con me…».
Sono terrorizzato: basta un piccolo passo e precipiterà. Ha paura del
vuoto, ma lei è implacabile e continua a chiamarmi. È ormai vicinissima al
baratro e le urlo di non muoversi. Sto per prenderla e buttarla a terra per
impedirle di cadere. Ancora pochi centimetri e le mie dita la sfiorano
afferrandole il lembo del vestito. È in quel momento che lei si gira e il suo
volto è pieno di luce tanto che non riesco a vederlo. Poi allarga le braccia e
sparisce nel vuoto.
Mi guardo alle spalle ma non c’è più niente. La strada e la foresta da
dove sono arrivato sono sparite come se appartenessero a un passato che
non esiste più. E allora capisco che devo seguirla. Arrivo sul ciglio del
burrone e allargo le braccia lasciandomi andare.
Mi sveglio riempiendo i polmoni d’aria. Vedo tutto sfocato e mi stendo
nuovamente con la testa che mi gira e fa un male atroce. Sento delle voci.
«Arāyā eḻ untirukkiṟāḷ»
«Sì nonna, si è svegliato.»
Una ragazza mi si avvicina cautamente: «Stai calmo, va tutto bene, hai
avuto un brutto incidente».
Mi dice che per quattro settimane ho lottato tra la vita e la morte e ora
sembro aver deciso quale strada percorrere.
Penso al burrone nel quale mi sono gettato e alla donna che ho seguito
nel vuoto. Cerco di mettermi a sedere, ma la testa mi fa troppo male.
La stessa ragazza mi porge un bicchiere d’acqua fresca: «Bevi, ti sentirai
meglio».

Distretto Kilinochchi, Sri Lanka (marzo 2018)


«Deren, come stai?»
«Can, sei tu? Finalmente! Cosa ti è successo? Eravamo tutti
preoccupati.»
«Ho avuto un piccolo incidente, ma ora sto bene.»
«Non sapevamo più che fare, abbiamo contattato anche l’ambasciata.»
«Ho visto le telefonate che sono arrivate da mio padre, da Emre…»
«Sì, ti abbiamo cercato tutti, ma stai bene davvero?»
«Sto bene. Lì cosa succede?»
«Niente di particolare, stiamo prendendo nuovi clienti. A dire il vero
abbiamo anche perso alcune campagne, ma sono cose che capitano.»
«Notizie di Aylin?»
«Per fortuna nessuna. Noi ci vedremo presto, giusto?»
«Non credo, Deren. Tornato a Londra dovrò ultimare il progetto sui
campi profughi e prima ancora ho in programma di partire per la
Cambogia.»
«Ma Can, a maggio c’è la festa per l’anniversario della Fikri Harika! Tuo
padre sta organizzando un evento incredibile e ti vuole qui, ci tiene molto.»
«Non lo so, Deren, al momento voglio tornare a Londra e poi vedrò. Di’
a mio padre e a Emre che li chiamerò tra qualche giorno. Ora sto
organizzando il viaggio di rientro dallo Sri Lanka.»
«Cōṉō ḥpelis ṭi vēṭerṭi peṉ. Kḷi ṭī cōṉōsṭāṭi peṉvōli kāṉ tē.»
L’anziana signora esce dalla capanna e si avvicina parlando in tamil, una
lingua che non comprendo. Nei mesi trascorsi in questa capanna in mezzo
alla foresta ho avuto modo di affezionarmi a lei e a sua nipote, che mi
hanno curato, protetto e aiutato a tornare alla vita.
«Nene, io non comprendo la tua lingua» le dico in turco, abbracciandola
e dandole un bacio sulla fronte.
Dalla radura arriva Aralya con un carretto carico di legna: «Se ho sentito
bene, mia nonna ti ha detto che sei stato molto fortunato».
«Aralya, lascia che ti aiuti, questa legna è troppo pesante per te.»
La donna mi guarda e sorride: «Non fare troppi sforzi, Can, è un
miracolo che tu sia ancora vivo e che ti sia rimesso così presto».
«È tutto merito tuo e di nene. Vorrei poter fare qualcosa per voi.»
«Nīnkaḷ oru nalla maṉitar, uṅkaḷukku oru periya itayam irukkiṟatu,
teyvankaḷ uṅkaḷukku vekumati aḷikkum.»
«Mia nonna dice che sei un uomo buono dal cuore grande e che gli dei ti
premieranno.»
«Mi hanno già premiato facendomi incontrare voi. Mi avete salvato la
vita e ora voglio ricambiare.»
Entro nella capanna e dallo zaino tiro fuori le due macchine fotografiche
rimaste illese: «Aralya, posso farvi delle foto nei prossimi giorni?».
Poco prima della stagione dei monsoni sono pronto a ripartire. Ho
aiutato nene e sua nipote a tornare nel piccolo villaggio dove Aralya ha
potuto riabbracciare felice i suoi figli.
«Spero che non dobbiate più tornare nella giungla per necessità» dico a
entrambe. Nene mi viene vicino stringendo qualcosa nel pugno magro e con
la mano libera mi accarezza teneramente il viso. È molto esile e la sua pelle
è piena di rughe. Devo abbassarmi perché possa sfiorarmi le guance e la
fronte. I suoi occhi però sono quelli di una bambina che nella vita ha
sofferto tanto. Colmi di luce ed energia. Mi apre il palmo della mano e vi
appoggia sopra due piccole pietre rotonde, una bianca e una nera.
«Queste» spiega, parlando sorprendentemente in inglese, anche se
stentato «sono pietre di luna. Le pietre dei viaggiatori» aggiunge, alzando al
cielo un dito sottile. «Esiste una leggenda su queste pietre magiche, piene di
energia. Te le sto donando affinché tu abbia protezione durante tutti i viaggi
che farai nella vita, quelli in terre lontane, certo, ma anche e soprattutto
quelli che riguardano il cuore e la ricerca della felicità. In te c’è un lato
ancora molto oscuro, eṉ makaṉ, che solo il tocco dell’amore potrà
illuminare. Teyvaṅkaḷ uṅkaḷaip pātukākkaṭṭum, che gli dei ti proteggano.»

Hasselblad Award, Museo di Arte Moderna di Göteborg


Un mese dopo il mio rientro sono seduto in platea mentre uno scroscio di
applausi accoglie il presentatore sul palco. Sono molto emozionato. Seduta
accanto a me c’è Polen, che stasera è meravigliosa nel suo lungo abito nero.
Tra i viaggi che ho fatto, l’incidente e il suo lavoro, è la terza volta che la
vedo quest’anno, ma sono felice di stare con lei stasera. Le stringo la mano
nervoso mentre viene aperta la busta che contiene il nome del vincitore di
uno dei premi fotografici più importanti al mondo. Sono arrivato in finale
con una delle foto di nene, scattata nella foresta. Un’immagine in bianco e
nero che la ritrae seduta fuori dalla capanna, intenta a pestare erbe e fiori
che le servivano a preparare l’unguento per il mio polso. Sorrido pensando
che è solo grazie alla sua antica sapienza se ora lo muovo perfettamente.
«Il vincitore di quest’anno è... il fotografo turco Can Divit!»
Ho un tuffo al cuore e mi alzo, lasciando la mano di Polen che accoglie
la notizia applaudendo insieme al resto del pubblico.
Salgo sul palco in preda all’emozione e mi viene consegnata una
medaglia d’oro e un assegno da un milione di corone svedesi, oltre alla
possibilità di allestire una mostra all’Hasselblad Center del museo di Arte
Moderna di Göteborg.
«Buonasera a tutti» dico prendendo la parola. «Sono onorato ed
emozionato di ricevere un riconoscimento così prestigioso. La fotografia
che mi ha condotto fino a qui mi è particolarmente cara perché racchiude
tutto l’amore e la gratitudine che provo verso la donna ritratta. Per molti
mesi l’ho chiamata nonna, nene in turco, un vezzeggiativo che è diventato
anche il nome che ho voluto dare all’opera. Credo che il miglior modo per
ringraziare colei che mi ha ispirato sia quello di donare tutto l’ammontare
del premio al suo villaggio: una piccola realtà ai margini della foresta, nello
Sri Lanka. Così nene, la nipote Aralya e il resto della sua famiglia avranno
la possibilità di stare insieme. In questo modo spero che il suo sorriso
diventi ancora più luminoso di quello che ho catturato nella foto.»
Concludo il mio discorso di ringraziamento e il pubblico si alza in piedi
dedicando un nuovo grande applauso a nene, che porterò per sempre nel
cuore.
Scendo in platea e Polen mi abbraccia forte: «Sono orgogliosa di te,
amore».
Ricambio la stretta con trasporto. Eppure la parola amore non vuole
uscire dalla mia bocca.

Cambogia (17 maggio 2018)


«Can, ma perché non rispondi mai al telefono?»
«Sono settimane che tu, Deren e papà mi state torturando con questa
storia. Vi ho detto che verrò alla festa per l’anniversario della Fikri Harika.
Partirò direttamente dalla Cambogia, quindi qual è il tuo problema?»
«D’accordo, ma a che ora arrivi dopodomani?» mi chiede Emre con
un’esasperazione che è pari solo alla mia.
«Il volo dovrebbe atterrare alle nove del mattino. Vi raggiungo
direttamente in ufficio.»
«Scusa Can, non c’era un volo prima?»
«Emre? Emre? Non ti sento più, la linea è disturbata» mento, pur di far
finire quella conversazione.
«Accidenti!» sento ancora l’esclamazione rabbiosa di Emre.
«Accidenti...» gli faccio eco io dall’altra parte del mondo.
Due giorni, sono solo due giorni, mi ripeto per farmi forza.
21

Casa di Sanem Aydın – Beykoz Kundura, Istanbul


“Che ci faccio qui? In che guaio mi sono messa?”
I tacchi alti mi stanno facendo malissimo e stare dietro a mia sorella,
che oltretutto è anche infuriata con me, è una cosa molto complicata. E
tutto questo per evitare di sposarmi.
Come posso, mi chiedo, avere una famiglia che minaccia di farmi
sposare, e per di più con Zebercet, se non trovo un lavoro vero?
Queste cose succedevano secoli fa. E invece no. Eccomi qui a seguire
Leyla nel suo ufficio, dove stanno cercando personale. Una soluzione a cui
mi ha fatto pensare Ayhan quando le ho raccontato che stasera Zebercet si
presenterà a casa mia per chiedere la mia mano. Me lo ha detto proprio lui
appena ho aperto il negozio stamattina presto. La sua ossessione per me ha
raggiunto livelli insopportabili e non c’è verso di fargli capire che io non lo
sposerò mai. Non è certo lui l’uomo che ho descritto nella lettera rinchiusa
nello scrigno che ho nascosto nella villa abbandonata. Non è lui l’albatros
che mi guarda dal poster che tengo appeso in camera mia. Insomma, non è
e non sarà mai lui. Però quando ho raccontato le sue intenzioni alla mia
famiglia non ho ricevuto alcun supporto: mia madre e mia sorella mi hanno
chiaramente comunicato che dovrò sposarlo.
«Hai la testa piena di sogni. Cresci, figlia mia» è stata la risposta di mia
madre.
È vero, ho la testa piena di sogni, ma che male c’è? Ho provato a
cercare un lavoro, ma ogni volta qualcosa è andato storto: il caffè versato
addosso al proprietario dell’agenzia, la catasta di uova rotte nell’azienda
agricola, aver confuso il giorno del colloquio. Insomma tutte cose che
possono capitare. Leyla non la pensa così, dice che sono un disastro e per
questo si è opposta in tutti i modi all’idea di raccomandarmi nel suo ufficio.
Ha il timore che possa combinare qualcosa che rovini la sua reputazione.
Ho lasciato da mezz’ora il mio quartiere, e già mi manca ora che sono
davanti a un palazzo mostruoso ed enorme che sembra volermi mangiare.
Non sono fatta per lavorare in un ufficio grigio e spettrale, ma soprattutto
non voglio diventare come Leyla che ha la testa piena di numeri e il cuore
che guarda solo alla realizzazione lavorativa. In questo momento vorrei
essere a casa di nene. Lei tirerebbe sicuramente fuori dal grande cassettone
qualche rimedio per l’ansia che sento crescere man mano che cammino
all’interno di questa città di vetro.
Tutti corrono impazziti da una parte all’altra, dando l’impressione di
sapere esattamente cosa fare, mentre io mi aggiro irrequieta tra queste
strane persone vestite in modo bizzarro. La più eccentrica di tutte è quella a
cui mi affida mia sorella raccomandandosi di farmi lavorare sodo: CeyCey.
Un tipo insolito, con baffi e bretelle, che saltella senza sosta da una parte
all’altra. Però è molto simpatico e comincia a raccontarmi un po’ di cose
sull’azienda. Il proprietario è il signor Aziz Divit; poi c’è suo figlio Emre,
che ho incontrato poco prima con Leyla e al quale lei accenna spesso
perché è la sua segretaria personale.
«Quello che sta passando ora» indica qualcuno alle mie spalle «è il
signor Can. Un fotografo molto famoso sempre in giro per il mondo. È
tornato solo per la festa della Fikri Harika.»
Mi giro per capire di chi si tratta ma ha troppe persone intorno e non
riesco a vederlo bene. Non credo di essermi persa nulla, penso, se somiglia
al fratello.
“La festa, giusto.” Poco prima, quando Leyla mi ha presentata a quello
che ora scopro essere il proprietario dell’azienda, sono stata invitata a un
ricevimento al quale non ho nessuna intenzione di andare. Sto già pensando
a che scusa usare con Leyla. In un giorno solo mi trovo lontana dal
quartiere, in mezzo a gente sconosciuta, con i tacchi alti, e per giunta
dovrei andare a un party? Non credo riuscirei a sopportare tutto questo.
Voglio invece passare la serata a casa di Ayhan: ho troppe cose da
raccontarle.

Aeroporto di Istanbul (qualche ora prima)


Avrei preferito atterrare di notte. Istanbul ti strega se la vedi vestita con le
luci della sera. È come una donna meravigliosa, carica di magia, che ti fa
impazzire. Ti perderesti per sempre pur di stare con lei e vivere nello
splendore dei suoi occhi luminosi.
Invece sono le nove e venti di mattina. Il sobbalzo dell’aereo sulla pista
mi riporta al motivo per cui sono qui e non vorrei esserci. Sono sempre e
comunque innamorato di Istanbul, ma la luce del sole mostra anche i suoi
lati meno piacevoli costringendoti a viverli. Da quanto tempo manco?
Neanche me lo ricordo, ma tutto sembra immutato ai miei occhi. Il pilota si
scusa per il ritardo, le hostess si posizionano all’ingresso delle porte e
salutano gentilmente uno a uno i passeggeri che scendono. Faccio un cenno
di ringraziamento con la testa e mi abbasso per uscire dalla porta dell’aereo
che è sempre troppo piccola per me, confondendomi tra uomini d’affari
dalle giacche perfettamente stirate e turisti ansiosi con improbabili cappelli.
Ho con me solo una valigia di cuoio perché ho spedito il resto dei
bagagli a Londra, dove rientrerò tra un paio di giorni. Rimarrò qui solo il
tempo necessario a non deludere mio padre, fare un favore a mio fratello e
rivedere Deren.
Ho ancora addosso i vestiti che portavo nella giungla e specchiandomi
sulla parete di vetro del corridoio penso sia meglio passare da casa anziché
andare direttamente in ufficio, come avevo invece promesso a Emre.

Posso trovarmi in qualsiasi parte del mondo, ma il contatto con l’acqua –


che sia quella di un fiume in un luogo sperduto o della doccia a casa di mio
padre a Istanbul – è qualcosa che mi fa rinascere. L’acqua è il mio
elemento, la mia buona compagna, l’amica fidata che sa guidarmi e
portarmi lontano. La mia via di fuga.
“Purtroppo oggi non posso fuggire” dico tra me e me passandomi
l’asciugamano sui capelli bagnati “tanto vale affrontare ciò che mi aspetta.”
Mi vesto con quello che trovo nel borsone di cuoio e chiamo il taxi.
Guardare dall’esterno la sede della Fikri Harika è sempre una grande
emozione. È un edificio maestoso, che con la sua facciata a vetri mostra alla
città tutta la sua potenza. Appena entro mi avvolge una sensazione calda e
accogliente generata dal vociare allegro dei dipendenti, che come formiche
operose si spostano camminando da una parte all’altra del loft, carichi di
idee e di energia. È un’energia diversa da quella che assorbo dalla natura,
con cui ormai ho stabilito un rapporto simbiotico e che mi ha totalmente
conquistato. Eppure in me convivono entrambe le anime: quella dell’uomo
di città frequentatore di locali alla moda, e quella del viaggiatore solitario
alla ricerca del suo io più profondo.
Tuttavia, mentre dall’entrata mi dirigo verso l’ufficio di mio padre, la
sensazione è che il mio percorso sia ancora lungo. Ho imparato dagli
animali più selvaggi a sviluppare quel sesto senso che li avvisa di un
pericolo imminente e li fa mettere al riparo.
E ora, incrociando quel buffo ometto con i baffi – com’è che si
chiamava? Cey qualcosa – impegnato a fare da cicerone a una ragazza
bruna, o Deren che mi viene incontro con un sorriso di benvenuto,
percepisco comunque qualcosa nell’aria. Qualcosa che allerta i miei sensi, a
dispetto della ragione che sta già facendo il conto alla rovescia per
riprendere l’aereo.
«Aziz, vieni qui» allargo le braccia, stringo mio padre e sprofondo come
un bambino nella sua spalla che mi sembrava così grande quando ero
piccolo e ora riesce a malapena a contenere la mia testa. Eppure il suo
immutato profumo mi rende ancora bisognoso di lui: un profumo che per
me sa di famiglia.
«Se lo avessi saputo prima avrei rimandato la crociera» mi dice
sorridendo, ma io sono contento che parta: mi fa sentire meno in colpa visto
che lo farò anche io.
Di fronte a lui c’è Emre, mio fratello, serio e impeccabile nello smoking
firmato. Granitico nelle sue idee nonostante il passare del tempo, rigido e
ambizioso, ma così familiare da perdonargli tutto.
«Guardati, sembri un figurino» gli dico a braccia aperte, studiandolo da
capo a piedi.
«Noi uomini di città ci vestiamo così, non viviamo nella giungla come
te.»
Incasso il colpo, ma ne arriva subito un altro da parte di mio padre che
insiste affinché al party di stasera io indossi uno smoking. Sono queste le
cose che mi soffocano, le convenzioni, il fatto di dover sottostare a rigidi
protocolli in nome delle apparenze. Lo farò di sicuro, per fargli piacere, ma
a modo mio.
Con la scusa di chiamare Polen esco un secondo dall’azienda per respirare
un po’ di aria fresca. Lei mi raggiungerà stasera direttamente da Londra,
così riusciremo a stare un po’ di tempo insieme.
«Can, amore» mi risponde subito, e quella parola, amore, che nella vita
apre qualsiasi porta, mi serra invece la gola.
«Polen, volevo sincerarmi che fosse tutto a posto.»
«Sto andando in aeroporto. Ci vediamo direttamente a teatro, non faccio
in tempo a passare prima da te.»
«Ok» confermo attaccando, rendendomi conto di quanto quella risposta
così banale non sia adatta a chi non aspetta altro che vederti. Tocco
nervosamente le collane che indosso e strofino tra loro le piccole pietre,
quasi potesse scaturirne un’idea miracolosa che metta ogni cosa al proprio
posto. Ovviamente non è così e decido di rientrare.

Quando torno nel suo ufficio, mio padre è da solo e non ha più il sorriso
contagioso di poco prima, quando ha sfilato in smoking tra le ovazioni dei
dipendenti. Ora è serio e preoccupato e io non capisco cosa possa farlo stare
in quel modo.
«Resta. Torna a vivere qui» mi dice improvvisamente.
«No papà, ne avevamo già parlato» rispondo quasi automaticamente a
quella richiesta opprimente.
«Le cose non vanno molto bene qui» prosegue, senza rendersi conto di
quanto mi manchi l’aria al solo pensiero.
«L’agenzia è in pericolo. Sono certo che ci sia una spia nei nostri uffici.»
«Una spia?» tra le mille motivazioni che mi erano saltate in mente per
giustificare il suo strano comportamento, la presenza di una spia era
davvero l’ultima.
Lui sembra leggermi nella mente e mi spiega la situazione: «Aylin, l’ex
fidanzata di tuo fratello, ha aperto un’agenzia pubblicitaria e ultimamente è
sempre un passo avanti a noi. Facciamo una campagna? Lei ci anticipa.
Prendiamo un cliente? Lei firma prima il contratto. Sono sicuro che
all’interno dell’agenzia ci sia una spia che le passa le informazioni. Ci sono
clienti svaniti nel nulla, così, dal giorno alla notte. Tu lo sai, mi conosci
Can, non sono preoccupato per i soldi, ma tengo alla buona reputazione. E
questo è uno scandalo. Oggi l’ho detto anche a tuo fratello Emre: guarda la
copertina di questa rivista, con il volto di Aylin stampato sopra e la nomina
a pubblicitaria dell’anno!».
«Calmati papà» rispondo più angosciato di quanto voglia mostrare. Sono
lontano anni luce da queste dinamiche, da questi giochetti di potere, da
queste bugie. Però Aylin è una donna perfida, e il fatto che stia facendo
soffrire in questo modo mio padre mi fa star male, perché lei rappresenta
tutto quello contro cui ho sempre combattuto: la menzogna.
«Devi restare, Can. Mi serve aiuto. Sto per partire e non credo che Emre
se ne possa occupare, non se la caverebbe bene come te.»
«Non posso farlo. Emre se la prenderebbe» rispondo secco,
immaginando il ripetersi di scenari già visti in passato.
«Promettimi almeno che ci penserai.»
«D’accordo papà, lo farò» dico cedendo alla sua insistenza.
Güliz interrompe la nostra chiacchierata: «La vostra auto è pronta. Potete
andare se volete».
Ci alziamo entrambi e mi sento sollevato dal fatto che quel discorso sia
stato rimandato. Mi dà modo di riordinare le idee.
«Sai cosa è successo oggi?» mi dice papà mentre ci avviamo verso la
macchina «È arrivata in ufficio una ragazza nuova. L’ha portata Leyla, la
segretaria di Emre, e l’abbiamo assunta come tuttofare. Ha una memoria
fotografica pazzesca, ricordava tutte le pubblicità, i nomi e gli articoli della
rivista dove c’è Aylin in copertina. Mai vista una cosa del genere. Un
talento raro.»
Penso che mio padre sia totalmente impazzito. Dopo l’ometto saltellante
con i baffi ora anche un fenomeno dai poteri mentali. Questa azienda sta
diventando un vero circo.

Teatro Grand Pera Emek Sahnesi, Istanbul


Le battute di Emre mi innervosiscono. Non perde un secondo per
sottolineare il fatto che mio padre sia più affezionato a me. Questo è il suo
pensiero, o meglio il suo chiodo fisso. Lo so, l’ho sempre saputo e non
posso farci niente. A volte ho pensato fosse vero, che avesse ragione. Mio
padre si affida più spesso a me. Per cultura, forse, visto che sono il
primogenito, ma anche perché sono stato con lui più a lungo. Aziz,
nonostante le tate sempre presenti a casa nostra, mi ha fatto non solo da
padre ma anche da madre. Emre, così lontano, non ha vissuto le stesse
esperienze. Non ha avuto un padre che si metteva nel letto con lui quando
aveva la febbre alta o si svegliava in preda agli incubi. Lui è per Aziz il
figlio perfetto su cui fare affidamento. Io sono il figlio che ha cresciuto.
Per fortuna la serata sta per cominciare e con la scusa di mettere lo
smoking mi allontano sia da lui che da mio padre, che continua a insistere
affinché io rimanga a Istanbul.
«Se rimani puoi anche iniziare a convivere con Polen.» Una frase che
ottiene il contrario dell’effetto sperato da lui e mi pone davanti a molti
dubbi, l’ultimo dei quali è quello di restare.
Il teatro dove si svolge la festa è molto elegante ed è uno di quelli che
conserva una corona di palchi sopraelevati, delimitati da balaustre: piccole
nicchie dove in passato chi aveva soldi e potere guardava gli spettacoli in
intimità e solitudine. Io stasera sarò lì insieme a Polen, che ancora non si
vede e nei cui confronti mi sento in colpa da morire.
«Non credo che una collana stia bene sopra il suo smoking, signore» mi
dice la sarta che mi sta aiutando a indossare il completo, aggiustandomelo
praticamente addosso vista la mia ritrosia nel provarlo in anticipo.
«Io invece credo di sì» le dico sorridendo e facendo roteare tra le mani le
mie pietre portafortuna. Apro il palmo e le osservo, piccole e tonde, una
bianca e l’altra nera.
«Questa sera dovrete fare un gran lavoro voi due. Mi aspetto grandi
cose» dico guardandole e affidandomi a loro. Le ripongo nella tasca
pensando di aver ereditato almeno in parte la pazzia di cui prima accusavo
mio padre. Ma se mi sento a mio agio con un paio di collane lunghe sopra
lo smoking e due pietre come amiche fidate, ben venga.

Istanbul sembra non avere nulla da fare stasera se non venire alla festa dei
quarant’anni della nostra azienda. Un fiume di abiti da sera eleganti, tacchi
alti e profumi costosi invadono l’aria. Il personale non solo partecipa al
completo, ma si sta anche impegnando per far sentire a proprio agio gli
ospiti. Riesco a scorgere CeyCey – giusto, così si chiama, CeyCey – poi
Güliz, Deren nervosissima e attenta a ogni dettaglio, e infine Emre che
sorride a tutti come se non avesse altro scopo nella vita. Più che intrattenere
gli ospiti io mi stupisco ogni volta che incontro un volto che non vedo da
tanto tempo, e per ciascuno di loro sfoglio l’album dei ricordi della mia
vecchia vita. Come per Metin, che abbraccio calorosamente. Ha preso il
posto di suo padre ed è diventato il nuovo avvocato della Fikri Harika.
È proprio mentre sto parlando con lui che il brusio della folla si
interrompe e, come fosse annunciata da una musica tenebrosa, appare lei:
Aylin. Temo per mio padre, e gli occhi indagatori dei presenti mi fanno
pensare che faccio bene. Aylin è come un felino, una donna imprevedibile, e
chiunque stia annusando la mia stessa aria è in fremente attesa, impaziente
di vedere quale colpo di scena abbia orchestrato questa volta.
Me la ricordavo diversa. Ha i capelli più corti e tirati all’indietro e ora si
notano molto di più gli occhi taglienti e nerissimi, mentre il rossetto rosso
che le dipinge le labbra la inquadra come la perfetta cattiva di qualsiasi
favola. Saluta tutti e sembra sorpresa di vedermi, ma questo non la distoglie
dal suo intento: rovinare la serata.
Mio padre, nervosissimo, la prende da parte e le chiede il motivo della
sua presenza.
«Ci sono tutti i pubblicitari» risponde lei calmissima.
«Te ne devi andare, sei una ladra» le intima lui, perdendo la pazienza,
ma Aylin non si scompone e gli risponde tagliente.
«Il ladro è lei, Aziz, che con la calunnia mi ha sottratto il fidanzato, la
carriera e un futuro che si prospettava felice.»
Capisco che è il momento di intervenire, ma Emre mi precede di un paio
di passi.
«Ora basta Aylin, vattene» le dice.
Arriva in soccorso anche Deren. Praticamente tutti i supereroi della Fikri
Harika si sono uniti contro il cattivo.
Aylin, per niente preoccupata, si volta nuovamente verso mio padre:
«Aziz, auguri per il traguardo raggiunto dalla vostra azienda. Immagino che
questo sia il suo ultimo anno di lavoro. Buona serata». Così dicendo
sparisce, proprio come era apparsa, seguita da una nuvola di commenti e
chiacchiere.
«Abbiamo dato spettacolo. Fate finta di niente e andiamo a sederci»
ordina il capofamiglia, e noi eseguiamo senza tergiversare. Dopo essermi
sincerato che mio padre sia al sicuro nel suo posto in prima fila, raggiungo
la mia loggia nella speranza che Polen arrivi il prima possibile e che la sua
presenza mi aiuti a scaricare questa tensione pazzesca.
Ho ancora addosso l’adrenalina dell’incontro con Aylin. In meno di
dodici ore dal mio arrivo a Istanbul i problemi mi hanno già sopraffatto. Il
desiderio di mio padre che io resti, la gelosia di mio fratello, Aylin, e ora
anche Polen che non arriva. Ho egoisticamente bisogno di abbracciarla. Di
tenerla stretta e baciarla. Ha il telefono spento e decido di aspettarla seduto
nel nostro palco privato.

Poco lontano…
Non mi sento a mio agio in certi posti sofisticati. Tanta gente e cibo strano
non fanno per me. Per essere felice mi basta un bicchiere di tè turco bevuto
in riva al mare. Ma alla fine ho dovuto cedere.
Mia sorella non ha accettato nessuna delle scuse che ho inventato pur di
non andare alla festa e mi sono dovuta preparare. Non avevo però nessun
vestito adatto per l’occasione ed è stata una grande soddisfazione doverlo
scegliere nell’armadio molto fornito di Leyla. Vedere la sua faccia ribollire
mentre frugavo tra i suoi abiti è stata una bella rivincita che mi ha ripagata
dello sforzo di dover andare a questo noioso party.
Quando arriviamo, Leyla sparisce e non mi degna di uno sguardo. Per
fortuna incontro subito CeyCey, che è più nevrotico di come lo ricordavo e
cammina avanti e indietro facendo innervosire anche Guliz. Sono tutti
elegantissimi e mi sento come un pesce fuor d’acqua.
«CeyCey, che devo fare?»
«Niente» mi risponde «lo spettacolo inizierà tra poco. Noi siamo lassù,
nel settore D.»
«Ti raggiungo lì allora. Devo andare un attimo in bagno.»
In realtà ho bisogno di un secondo per respirare e allentare l’ansia. Mi
specchio e guardando l’abito di Leyla mi sento molto soddisfatta e mi viene
anche un po’ da ridere. Sono persino un po’ truccata, e per me questo è un
evento. Tutto sommato la serata passerà presto ed è meno stressante di
quello che pensavo.
Quando esco non c’è quasi più nessuno e mi affretto per raggiungere gli
altri. Salgo di corsa le scale ed entro in una delle stanze buie. Non c’è
nessuno, eppure dovrebbe essere questo il settore che mi ha indicato
CeyCey. Mi sporgo dalla balaustra per cercare di vedere sotto…
Le luci sono già state spente. Provo a richiamare Polen che non mi
risponde. Decido di aspettarla nel nostro palco. Quando apro la porta per
entrare sono però sollevato: per fortuna è già qui. Sta guardando verso il
basso, oltre la balaustra, forse mi sta cercando ma a causa del buio non si è
accorta che sono alle sue spalle. Le cingo la vita e la faccio girare verso di
me. La sento sussultare come se si fosse spaventata, ma quando la bacio si
tranquillizza all’istante e la sento sciogliersi nel mio abbraccio.
Percepisco qualcosa di insolito, di diverso… e non solo con la mente.
Anche il cuore comincia a battermi all’impazzata e non riesco a staccarmi
da quella bocca neanche per respirare. Resto senza fiato, inebriato da uno
strano profumo che rapisce i miei sensi e mi trasporta lontano. Le mie mani
sono impazienti e scivolano entrambe sulla sua vita, tenendola stretta
affinché ora e per sempre non scappi da me. E lei risponde a quel bacio
come fosse nata per farlo. Sento il suo respiro accelerato e le nostre labbra
incollate in un’armonia perfetta dove lei e io non esistiamo come entità
separate ma ci siamo solo come noi. Lei si stacca un momento e abbassa la
testa per prendere fiato. Ha le braccia lungo i fianchi, quasi mi stesse
affidando la sua vita oltre che il suo corpo. E io la stringo, tenendola
appoggiata al mio petto affinché quella fusione di anime rimanga immutata
e perenne. Sembra un sogno… Invece no, è la realtà e finalmente la
riconosco: lei è la donna che abita le mie notti e che mi chiede
incessantemente di seguirla. È la donna dei miei sogni. Riconosco il suo
corpo anche se non l’ho mai toccato, riconosco la sua figura anche se non
vedo il suo viso. Ora lo so. Ora tutto è chiaro. Vorrei che quei secondi
fossero eterni anziché volare via in un attimo. Perché quella creatura, il mio
amore, si stacca da me come se riprendesse coscienza e si allontana
scomparendo oltre la porta come è solita fare anche nelle mie notti…
“Ma chi ho baciato?” mi chiedo ancora stordito. “Aveva un profumo di
fiori selvatici…” Mi muovo per seguirla, ma attraverso la porta ora aperta
entra Polen. Rimango bloccato.
«Can, amore, scusami per il ritardo. Mi sei mancato, lo sai?» mi dice
teneramente.
Poi mi bacia, ma quelle labbra così familiari sembrano ora estranee e
lontane da me. «Sediamoci, è già cominciato» sono le uniche parole che
riesco a pronunciare, sperando che lo spettacolo e il buio possano farmi
rivivere anche solo per un momento le sensazioni provate con quella
sconosciuta.

Sono stordita e quando apro la porta e rivedo la luce del teatro mi sembra
di essere uscita da un sogno.
“Chi era l’uomo che ho baciato?”
Mi sono persa nel suo profumo senza volto, nelle sue braccia che mi
bloccavano il respiro e nei battiti del cuore che rimbombavano così forte da
superare il rumore della gente e persino dei miei pensieri. Volevo rimanere
per sempre con lui, appoggiata al suo corpo muscoloso, sentendo la barba
che mi solleticava il mento e le labbra forgiate per unirsi alle mie. Ho
dovuto trovare tutta la forza del mondo per staccarmi da lui e allontanarmi
da quella magia che mi aveva stregato i sensi, lasciandomi felice e confusa.
Sicuramente mi ha scambiata per qualcun’altra, ma io mi sento lo stesso
come Cenerentola che lascia il principe allo scoccare della mezzanotte.
Però le sole calzature in tutta questa storia sono le sue, nere e lucide,
l’unico particolare che sono riuscita a vedere prima di scappare via.
Non so come farò a ritrovarlo, ma il destino questa sera mi ha dato un
segno e io sono decisa a seguirlo.
22

Bilgin Sk., Ankara (Turchia)


«Zio Ihsan come stai? Sono Cahide.»
«Ciao Cahide, ho provato tanto a chiamarvi ma non ci sono riuscito.
Avete cambiato numero?»
«Sì zio, dopo l’arresto di papà ci siamo trasferiti ad Ankara e abbiamo
aspettato prima di comunicare con te.»
«Come sta lui?»
«Insomma. La mamma è molto arrabbiata. Non poteva telefonarti dal
suo numero e lo sto facendo io per lei. Mi ha detto di dirti che ci sono
ancora dei conti in sospeso.»
«Sì, sì, conti, ho capito.»
«Ti ho inviato una lettera, ma nel frattempo volevo anticiparti un nome
in particolare.»
«Quale?»
«Nihat Aydin, il padre di Sanem e Leyla. Tra un po’ avrà bisogno di
molti soldi e dovrà vendere il suo negozio perché è nella lista di papà.»
«Non preoccuparti nipote cara. Quando verrà il momento saprò come
fare, tanto è vero che mi chiamo Ihsan lo Sciacallo.»
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di Roberta Damiata
Revisione di Alice Grisa - Zampediverse
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Il libro
L’autrice
Frontespizio
Stavo cercando te
Prologo
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