SARA PURPURA
Copyright © 2017 by Sara Purpura
Prima edizione: Giugno 2017
Foto coppia: Satura_
Creazione grafica: Le muse – Grafica
A mio marito,
la luce nelle mie notti buie.
Viviamo un tempo
che ci è ancora avverso,
nonostante tutto quello
che ci ha preso.
Affrontiamo il domani,
giorno per giorno,
ma senza riuscire
a vedere oltre,
e ci lasciamo sopraffare
di rimpianti e sconforti.
Ma l’amore che ci unisce,
troverà sempre il modo
di emergere con prepotenza,
dando al nostro noi,
tutto il tempo del mondo
per battere sempre,
con più forza
e alla fine,
vincere.
©Lucy Dale
Prefazione
A cura di Giovanna Mazzilli
Giovanna Mazzilli
1.
Desmond
La prima settimana in casa Spector non ho capito con chi avevo a che
fare, non l’ho compreso nemmeno la seconda, quando ha infilato la mano
sotto le mie lenzuola e mi ha toccato. Ho finto di dormire. La sua è stata
solo una carezza e, per quanto la cosa mi sembrasse sbagliata, ho lasciato
stare e ho evitato di parlarne con l’assistente che monitorava l’affido. La
terza settimana, ha iniziato a masturbarmi e io mi sono opposto. A quel
punto ho realizzato che da lì in avanti avrei dovuto temere il giovedì.
Oggi è giovedì e, come di consueto, lui rientra a casa tardi.
Quando s’infila dentro la camera in cui dormiamo io e Braden, puzza
più del solito e avverto subito la sua presenza.
«Non stai dormendo, Desmond. Lo so che mi aspetti, piccolo.»
Piccolo… io lo aspetto… è davvero convinto di questo.
Scosta le coperte dal mio corpo e mi sforzo di restare immobile. È
un’impresa cercare di controllare il respiro, alla fine finisco per trattenerlo
e i polmoni cominciano a bruciare implorando sollievo. Intanto prego.
Prego che se ne vada via e che stavolta mi lasci stare. Li sento, i suoi passi,
sulla morbida e linda moquette che sua moglie tiene pulita in modo
maniacale, e so perfettamente verso chi si sta dirigendo.
Lo fa sempre. Si avvicina al letto di Braden, quando scopre il mio
inganno, perché sa che lo fermerò e che mi arrenderò alle sue perversioni
purché lo lasci in pace.
Scatto in piedi, ansimando, stringendo i pugni, ogni emozione e gli
occhi.
Non voglio piangere.
Non avrà anche le mie lacrime.
La prima volta ho pensato potessero bastare a fermarlo, ma più
piangevo, più l’orco godeva e da quel momento non ne ho più versato una.
«Bravo bambino!» lo sento sussurrare e si tocca la patta dei pantaloni
di velluto a costine.
È tutto così sbagliato qui dentro.
Le pareti blu, con le nuvole bianche dipinte, fanno da sfondo a questa
situazione immonda; la lampada accesa sul mio comodino proietta sul
soffitto tante minuscole stelle.
È tutto in ordine: i nostri letti, l’armadio che dobbiamo rassettare ogni
giorno, ma l’unica cosa che vorrei mettere via e chiudere a chiave a
marcire per non rivederla mai più è qui, davanti a me, e mi fa cenno con la
testa di andare verso la porta che dà sul garage, dove lui mi consumerà.
Ogni giovedì.
Si prende un pezzo di me, mentre spero che finisca presto. Mentre prego
un Dio che non esiste affinché afferri un’altra parte della mia umanità fino
a non lasciarmi più niente.
Purché faccia meno male.
Purché la sua faccia smetta di perseguitarmi anche nei sogni.
Lo seguo, scende lui per primo, io mi limito a fissare i miei piedi scalzi
trascinarsi sulle scale di legno come se non mi appartenessero, e per una
frazione di secondo sogno che sia davvero così.
Non sono io questo ragazzino. Non c’è più Desmond perché lui non è
mai nato.
Tira una cordicella e il locale s’illumina. La luce è fioca, proviene da
un’unica lampada che pende dal soffitto. Il suo pick-up rosso è
parcheggiato dentro, nell’aria si sente ancora l’odore del gas di scarico.
Allungo una mano verso il cofano: è caldo. Come pensavo, è appena
rientrato.
«Poggiaci entrambe le mani e abbassa il pigiama» mi ordina. «Sarà
veloce, sono stanco e voglio andare a dormire.»
Ringrazio un Dio a cui non credo, il dolore durerà per poco. In realtà,
quello che vorrei è uccidere l’uomo che abusa di me da un mese e dieci
terribili giorni.
Con oggi sono undici.
Un mese e undici giorni e ancora non è riuscito a consumarmi del tutto.
Chissà se quel Dio approva tutto ciò.
Sento ogni cosa, mentre faccio come mi ha ordinato. Slaccia la cintura e
la butta a terra. Il tonfo e il rumore della fibbia che sbatte sul pavimento mi
fanno trasalire. Accanto al pick-up c’è il suo tavolo da lavoro. Sopra c’è
ogni sorta di chiave inglese e cacciavite, perfettamente disposti a
gradazione.
Comincio a contarli come sempre. Uno, due, tre…
Il suono della zip che si abbassa mi fa stringere gli occhi. Poi li riapro e
lo vedo, sotto un giornale di motori, scorgo il manico di un coltello. Allora
mi sposto leggermente e spero che Jeremiah non se ne accorga o che non
mi dica niente.
Solitamente, a questo punto, è troppo su di giri per ragionare. Sento i
peli ispidi delle sue gambe sfiorare le mie e m’irrigidisco.
«No, tesoro. Farà più male se ti tendi in questo modo.»
Il tono mellifluo della sua voce mi fa ribrezzo, sento la sua erezione
solleticarmi le natiche, poi le sue mani palparmi il sedere ed è in questo
momento che prendo la mia decisione.
Ha il respiro affannato, dalla bocca gli sfugge un gemito e le ginocchia
minacciano di cedermi.
Che mi uccida! Sono già morto.
Afferro il coltello e, girando su me stesso, lo colpisco. Il suo urlo è
agghiacciante, lo soffoca con una mano, con l’altra si tocca il viso, poi la
scosta incredulo. Il sangue gli fuoriesce copioso dalla guancia, gli imbratta
la camicia a quadri e macchia il pavimento. Il taglio è profondo e, mentre
mi osserva con lo sguardo spiritato, la ferita si allarga ancora di più.
Posso davvero uccidere un uomo?
Jeremiah cade in ginocchio e comincia a singhiozzare. Si prostra ai
miei piedi. Il sangue sporca anche quelli e io mi sento perduto.
Osservo le mie mani, ugualmente sporche, e per un attimo m’illudo di
aver riportato la situazione in pareggio, ma non è così.
Jeremiah Spector ha preso la mia vita e tutto ciò che di umano mi era
rimasto. Invece, lui, l’umanità non ce l’ha più da tempo.
Non mi ha ridato nulla in cambio.
Non potrà mai ridarmi nulla in cambio.
Il suono del suo pianto mi fa più paura dell’urlo di poco fa. Capisco di
avere a che fare con un pazzo e che sono l’ossessione di quest’uomo.
Le mie mani cominciano a tremare e sento il gelo scorrermi nelle
viscere.
Le sue lacrime mi fanno capire che mi odia e odia se stesso, perché ogni
giorno gli rammento che mostro disumano sia.
Mi sento fiacco, come se tutta l’energia mi fosse stata risucchiata dal
corpo in un secondo. Mollo il coltello e commetto l’errore più grande della
mia vita: lo lascio vivere.
Oddio!
«Togliti dai piedi» bofonchio, portandomi una mano sugli occhi. Gira
tutto, mi viene da vomitare,
«Sei verde» m’informa Brad e non fatico a crederlo. Il mio stomaco si è
appena capovolto.
«Ti serve il bagno…»
Impreco, saltando fuori dal letto. «Cazzo, sì» e corro verso il water.
Faccio appena in tempo a chinarmi sulla tazza e rimetto tutto.
Non so cosa sia peggio, se il dolore pulsante alla testa o il mio stomaco
che continua a contrarsi violentemente. Mi sento uno schifo e, quando
finalmente i conati si placano, mi lascio scivolare contro le piastrelle,
spossato.
«Mi servono delle aspirine» biascico, ma Brad mi sta già porgendo un
bicchiere d’acqua e due compresse.
Butto giù tutto e tento di rimettermi in piedi.
«Devi mangiare qualcosa.»
«No.»
«Ti preparo un caffè nero, allora.»
«Voglio solo dormire.»
«Dormirai dopo, Des. Che significava quel messaggio?»
«Che diavolo dici?»
«Violet…» spiega lui.
«Mi ha contattato dal tuo cellulare e mi ha detto di correre da te, perché
avevi bisogno d’aiuto. Aiuto, Des. Tu che chiedi aiuto è una cazzo di
eccezione.»
«Non sono stato io a chiedertelo.»
«Già! Il che mi ha decisamente messo del pepe in culo e sono corso qui,
mollando la tua ragazza super preoccupata nel suo appartamento.
Mentendole. Dannazione, non sapevo nemmeno di che portata fosse
l’emergenza. Poi arrivo qui e ti trovo in queste condizioni. Che diavolo
succede, Des?»
La mia ragazza. Anais. Dovrei dirle addio e invece ho bisogno che resti.
Anche adesso.
La mia vita è andata in pezzi, il muro che ho costruito negli anni fra
passato e presente è crollato. Non ho più nulla a cui aggrapparmi.
Solo lei.
E mi sembra ingiusto, ma in qualche modo necessario, e mi chiedo
perché debba essere così difficile per me chiedere aiuto.
«Va’ via, Brad!»
«No, cazzo. Non me ne vado. Devi piantarla di tenermi fuori dai tuoi
casini. Non sono più il bambino che ti sei messo in testa di proteggere.»
«E va bene» gli urlo in faccia a un palmo dal naso. «Non sei più un
bambino, dici? Bene! Affronta questo, allora! Jeremiah Spector è tornato
direttamente dall’inferno per tirarmici di nuovo dentro.»
«Cosa?»
I suoi occhi adesso sono spalancati e d’un tratto spauriti, perché non c’è
età che conti quando l’orco che ha popolato i tuoi incubi torna a ricordarteli
uno per uno.
«È tornato» mormoro adesso. Il tono della mia voce è dimesso, come se
volessi rimangiarmi ogni parola.
Impreco, quando una fitta lancinante mi colpisce dietro gli occhi.
«Merda!» Per un attimo quasi non ci vedo più e barcollo in avanti.
Braden mi sorregge, ma io mi scosto duramente e mi lascio cadere sul
letto.
«Des…»
«Parleremo» gli prometto stanco. «Ma non adesso.»
Desiste subito. Non avevo dubbi che l’avrebbe fatto.
Come si fa ad affrontare il proprio passato quando è così devastante?
Come si fa quando la tua vita è finalmente andata avanti, quando hai
conosciuto infine l’amore e la speranza di tenere il resto seppellito?
Mi azzardo a dare un’occhiata al mio amico e il terrore mi attanaglia lo
stomaco.
So cosa vedrò, eppure per qualche stupida ragione mi convinco che
adesso sarà diverso.
La sua è semplicemente
una mancanza incolmabile.
Quando torniamo al mio appartamento, non sto più nella pelle. Voglio
baciarla finché ci mancherà il respiro, toccarla come se potessi fonderla a
me, perdermi in lei fino a smarrire me stesso, ma trovo Brad, seduto sul
divano che sta giocando all’Xbox e i miei piani vanno in fumo.
Mi lancia appena un’occhiata.
Non ci vediamo da quanto? Sono giorni che mi evita, esattamente dal
nostro litigio. Ritrovarlo qui, a giocare come d’abitudine con Assassin’s
creed, è strano.
Anche Anais resta di sasso appena lo vede.
È chiaro che sa dei nostri dissapori visto che per giorni è rimasto a
dormire nel suo appartamento. E se non è stato lui a mettere in chiaro a che
punto fosse ormai il nostro rapporto, ci avrà pensato senz’altro Faith.
Quelle due si raccontano ogni cosa.
«Ciao» esordisco.
Lui mi fa un cenno con la testa e continua a giocare.
Noto i resti di un pizza sul tavolo.
«Hai mangiato?» gli chiedo per fare conversazione.
«Sì, paparino.»
Il tono affilato della sua voce è lo stesso di qualche giorno fa. Perfetto!
Non gli è ancora passata. Bene! Neanche a me.
«Cercate di sotterrare le asce, voi due? Che ne dite?» Anais si mette in
mezzo e stringe fra le mani il mio pugno.
Non mi ero neanche accorto di averlo stretto, ma mi sento una bomba a
orologeria e con il suo comportamento da idiota Brad mi sta facendo
esplodere.
Cala il silenzio.
Sono passati degli anni. Anni in cui mi sono ostinato a restare da solo
con questa cosa a divorarmi da dentro. Anni vuoti, riempiti di dolore e
risentimento, ma mai verso Braden. Lui è mio fratello, la mia metà. Io sono
il buio e lui è la luce. Io quello istintivo e lui la mia parte razionale. Io
l’angoscia e lui la gioia di vivere.
Perché ci siamo ridotti a questo?
«Des?» È Anais a chiamarmi e riportarmi al presente.
«Non fissarlo in questo modo» mi ammonisce sussurrando.
«Non… lo sto fissando, cazzo!»
«Okay, ecco quello che faremo.» Toglie il controller dalle mani di Brad e
lo lancia di lato sul divano.
«Ehi!» protesta lui, ma la mia ragazza lo ignora.
«Stasera usciamo. Chiama Faith. Io avverto Breanna.»
«Cosa?» Il mio amico fa per riprendere il controller e Anais lo anticipa.
«Non provarci neanche!»
Quando tenta di fare la dura è così buffa che reprimo a fatica una risata.
«In realtà ci sarebbe una festa organizzata dalla squadra per me.»
«Per te?» mi chiede lei.
La mia ragazza è l’unica a non sapere ancora del mio contratto con i
Bolts e appena ne verrà a conoscenza mi farà il culo per non averglielo
detto subito.
«Be’, sì… ecco, con tutto quello che è successo non ho avuto tempo di
darti la bella notizia.»
Il suo sguardo si accende. «Dimmi che è quello che penso.»
Credevo che se la sarebbe presa, invece mi ama così tanto che riesce a
perdonarmi ogni cazzata.
«A quanto pare firmerò con i Bolts.»
Mi si lancia addosso, urlando di felicità e mi lascio baciare, ben felice
del suo entusiasmo.
«E va bene, dannazione!» Brad sbuffa, ma è tutta scena perché si alza
subito e tira fuori il cellulare dalla tasca dei jeans. Mi punta un dito addosso
e finalmente l’aria fra noi si fa meno pesante. «La adoro. Questa qui ti
rimetterà in riga, coglione! Il che è più di quanto potessi sperare.»
Gli alzo il medio e sorrido. «Probabilmente è il karma, fratellino.
Arriverà anche il tuo momento, non credere.»
8.
Anais
«Des!»
«Che c’è?» urlo dal bagno. Braden sembra eccitato come una
femminuccia a cui stanno per regalare delle bambole.
«C’è che sono le dieci, cazzo! Tira fuori il culo da lì.»
Fra poco Luc arriverà al campus, per cui capisco lo stato di felice
agitazione che lo attraversa. I Davis sono l’unica famiglia che abbiamo mai
avuto e finora non hanno fatto altro che dimostrarci il loro amore
incondizionato.
Nessuno ci aveva mai fatto questo onore e Luc ed Elizabeth hanno fatto
perfino di più. Ci considerano i loro figli.
Anche se abitano vicino, sono ormai due mesi che non li vediamo, per
cui sono emozionato anch’io. E questo è quanto.
Mi stringo un asciugamano in vita ed esco dalla doccia. Non ho il tempo
di fare la barba, quindi la lascio stare. Ormai è un’abitudine e poi ad Anais
piace che la tenga incolta.
Anais…
Sto trattando la mia ragazza di merda, non le ho nemmeno detto di
questa visita. Spero che, anche se al riguardo sono parecchio criptico,
capisca perché la tengo a distanza. Se non lo farà, allora dovrò spiegarle il
piano.
Perché c’è un piano. Voglio dire, dovrei averne uno, è solo che non l’ho
ancora messo a punto.
Quello di cui sono convinto, però, è che l’unico modo per tenere al
sicuro lei è fingere che per me non conti nulla e ciononostante non sono
certo di avere ancora questa carta da giocare.
Jeremiah è venuto a cercarmi, ciò significa che mi sta dietro da un po’ e,
se le mie convinzioni non sono errate, vuol dire che sa tutto di me e Anais,
e che ha capito quanto il nostro legame sia importante.
Per questo Honey è in pericolo.
Il bastardo non esiterà a colpirmi attraverso di lei, sto solo aspettando la
sua mossa e questo mi rende ansioso. Pronto a scattare per niente e fare
cose irrazionali, di cui un giorno mi pentirò. Sono certo anche di questo.
Sto impazzendo.
Come se non bastasse, sono anche stressato per via degli allenamenti.
Sei giorni su sette mi rompo la schiena sul campo da gioco e, se è vero che
tutto questo sfinimento mi dovrebbe far bene perché mi tiene impegnato,
dal punto di vista fisico sono a pezzi e la mia mente non sta meglio per
niente.
Non posso tenere d’occhio la persona che amo.
Braden mi sta dando una mano, ma sono preoccupato anche per lui.
Jeremiah saprà di certo della sua presenza al campus e il mio amico
potrebbe diventare un altro possibile bersaglio per arrivare a me… come
successe allora.
Siamo grandi e grossi, ma nella mente di quel malato siamo ancora i due
ragazzini di cui ha abusato.
Esco dal bagno e lo trovo stravaccato sul letto. «È tutto tuo, madame.»
«Cazzo, ci stai una vita! Cosa fai, ti depili?»
«Non vuoi davvero saperlo…» Gli faccio l’occhiolino e lui mi risponde
con una faccia disgustata.
Evitare Anais non fa bene nemmeno alla mia libido, quindi devo trovare
altre soluzioni.
«Fai schifo! Chiama la tua donna» mi rimprovera, mentre si chiude la
porta alle spalle.
La chiamerei anche subito e me la terrei stretta al petto per sempre, se
solo la nostra merda di vita non fosse così complicata.
Mi vesto in fretta. Indosso una maglia termica blu e quei jeans strappati
sulle ginocchia solo per il gusto di infastidire Elizabeth.
Adoro il suo sguardo di disappunto, perché so che, non appena mi
guarderà negli occhi, ci vorrà solo un secondo prima che torni a sorridermi
con affetto.
È una brava donna e una splendida madre. E Dio le ha riservato un
merdoso tiro mancino strappandole via il figlio, ma la vita è così e spesso
colpisce i buoni.
Controllo il telefono per vedere se Luc mi ha chiamato. Siamo rimasti
d’accordo che sarei andato a prenderlo all’ingresso del campus, ma non c’è
nessuna notifica che lo riguardi. Ce n’è un’altra, però, e il numero è di
Anais.
Desmond. Ward.
La sua vista non manca mai di togliermi il fiato e, visto che sono giorni
che mi evita, significa anche che sono troppe le ore passate senza godere
della sua presenza.
Desmond guarda verso un suo compagno che gli sta dicendo qualcosa e
le labbra gli si incurvano in sorriso furbo che a me sembra sexy da morire.
Non mi resta altro da fare che appostarmi fra gli spalti, durante gli
allenamenti, come una qualsiasi delle ragazzine che sbavano dietro ai
giocatori della squadra.
Ha ignorato il mio messaggio, eppure gli ho scritto che lo amo. Che lo
amo fortissimo. Ed è la nostra frase, accidenti! Quella che ci siamo detti a
Las Vegas, ma non ha sortito alcun effetto.
È vero che in questo ultimo periodo ho fatto di tutto per rispettare gli
spazi che lui mi ha chiesto, ma è stato difficile e, adesso che sembra così
lontano, ho capito di avere sbagliato. Ancora una volta, e nonostante mi
fossi ripromessa di non farlo.
Specialmente dopo l’incontro con Jeremiah. Un fatto di cui non riesco a
mettere al corrente il mio ragazzo.
Se ne sta in mezzo al campo, abbassa la visiera del casco e prende
posizione. Percorro avidamente il suo corpo con lo sguardo. L’attrezzatura
da football che indossa gli fascia le gambe muscolose e la maglia bianca gli
aderisce al torace ampio per via del sudore. Nell’ultimo periodo il suo corpo
è cambiato e non posso che godere di ogni mutamento. Des ha sempre
avuto le spalle larghe ma adesso, grazie agli allenamenti estenuanti a cui si
sottopone, sono enormi, come le sue braccia.
Anche Eva se ne accorge, perché a un certo punto la becco a fissarlo e le
sfugge un fischio di approvazione. «Il ragazzino è cresciuto, vedo!»
Resto zitta perché sono stregata più di lei. Perché ho goduto di quel
corpo che adesso stiamo fissando, e sono innamorata persa del cuore
tormentato del ragazzo che ha catalizzato la nostra attenzione.
Dietro la visiera calata, riesco a vedere i suoi occhi, il suo sguardo è
sempre stato in grado di mettermi soggezione: è profondo, così intenso e,
quando viene attraversato dalle ombre che lo perseguitano, diventa quasi
nero.
Ancora oggi mi mette addosso una smania che non riesco a placare.
Come se ogni volta insieme potesse essere un’occasione. L’ultima.
Irripetibile. E dovessi coglierla per forza. Specie quando in lui si agitano
acque tempestose che lo avvicinano e lo allontanano da me con la stessa
potenza.
«Anais?»
Eva mi riscuote dai mille giri che sta facendo la mia mente.
«Lasciala stare» interviene Breanna. «Fa sempre così se c’è Des nei
paraggi.» Mi prende in giro.
Sorrido perché ha ragione. In sua presenza divento una decerebrata. In
più, in questo momento, sono decisamente in astinenza e arrabbiata. Be’, a
dire il vero sono più in astinenza che arrabbiata, per cui lascio correre ogni
tentativo che la mia amica fa per deridermi.
«Prendetemi in giro quanto volete. Ho bisogno del mio uomo. Adesso.»
Bre sbuffa. Eva, invece, sorride e poggia il mento sulla mano, godendosi
la scena di me che vado in brodo di giuggiole, guardando il quarterback dei
Bruins.
Non riesco a distogliere lo sguardo dal campo e, a quanto pare,
nemmeno mia sorella.
«È probabile che siano gli ormoni della gravidanza a enfatizzare il tutto,
ma sono dei gran fighi» esclama a un certo punto, rapita dai placcaggi.
Soprattutto uno, penso io.
«Probabile» rispondo. «E forse farei meglio a chiamare… Come hai
detto che si chiama?» Lo ricordo benissimo. Voglio solo riportarla al
presente.
«Abel» sospira. «Dio, quanto mi manca!»
«Non potrebbe venire a trovarti?»
«Sì, vorrebbe. Sono io che gli ho chiesto un po’ di spazio.»
«Che stronza!» la rimprovera Bre, facendo sfoggio della sua solita
sincerità.
Eva ha acconsentito a raccontare tutto alle ragazze. Si sono prodigate a
darle dei buoni consigli, ma fra le due Breanna è quella che ci è andata giù
più pesante.
«Quel ragazzo ha il diritto di starti accanto. Accidenti, lo vuole! Hai idea
di quante ragazze si ritrovano nella tua condizione, piantate in asso dal
bastardo di turno?»
Eva abbassa gli occhi sulle sue scarpe e affloscia le spalle. «Lo so, ma
ero confusa.»
«Be’, adesso lo sei ancora?»
Mia sorella stavolta sorride e si accarezza la pancia da sopra il prendisole
giallo che indossa. «No. Non più» mormora con tenerezza.
«E allora chiamalo e non fare più la stronza.»
In quel momento, alcune ragazze sedute due file sopra di noi si mettono
a urlare eccitate e riportiamo lo sguardo sul campo.
I ragazzi hanno finito l’allenamento e qualcuno ha cominciato a
spogliarsi, togliendo la maglietta e restando a petto nudo. Tre per
l’esattezza, e uno di loro è Des.
«Quant’è bello! Guardalo!» grida una.
Non so se stanno parlando di lui, ma da come mi guarda mia sorella
devo comunque avere un’aria piuttosto ostile.
«Desmond Ward. Me lo farei seduta stante» le fa eco l’altra.
«Mettiti in fila. È piuttosto lunga» la rimbecca l’amica.
Faccio per girarmi, ma Bre mi blocca.
«Buona, Nikita. Lasciale sbavare su ciò che è tuo.»
Ma è davvero mio?
Gli ultimi giorni sono stati uno strazio, eppure se penso a noi, non riesco
a ragionare in altri termini. Ci apparteniamo, nonostante l’atteggiamento
altalenante a cui Desmond mi sta sottoponendo.
Col senno di poi non posso nemmeno dargli torto. Jeremiah Spector è un
pericolo anche per me, ed è per questo che non gli ho ancora detto niente.
Sapere che quel bastardo mi ha avvicinato lo getterebbe nel panico e allora
farebbe qualcosa di irreparabile, lo so.
«Accidenti! Da queste parti il mio cognatino è una celebrità.»
Eva mi prende in giro, ma non le presto più attenzione. Riporto il mio
sguardo su Desmond, che sta uscendo dal campo e sorride sereno fra i suoi
compagni. Questa immagine fa sì che anch’io sorrida come una stupida, ma
poi lui si ferma e alza il braccio con la maglia che regge in mano, a mo’ di
saluto verso qualcuno.
Punto lo sguardo verso il destinatario di quel gesto e noto Braden.
Accanto a lui, però, c’è anche Luc Davis e sua moglie Elizabeth.
I suoi genitori… sono qui e non me l’ha detto.
La cosa mi colpisce così tanto che provo una fitta al petto e d’istinto me
lo massaggio, chinandomi un po’ in avanti.
Eva se ne accorge e si porta alla mia altezza. «Tesoro, che succede?»
Continuo a guardare verso gli spalti in cui siede la sua famiglia e mi
sento patetica. Non mi ha voluto con loro e per questo mi rabbuio.
«Ci sono i Davis» mormoro.
Sia Eva che Breanna seguono il mio sguardo.
«E allora?» mi chiede quest’ultima.
«E allora non mi ha detto che sarebbero venuti a trovarlo.»
«Magari è stata una decisione dell’ultimo minuto» cerca di
tranquillizzarmi Eva.
Non ci casco. Lei non ha idea di cosa stiamo passando. Nessuno lo sa
fino in fondo.
«O magari no e io sono davvero stanca dei suoi silenzi.»
Breanna ed Eva restano immobili e zitte e questo mi dà modo di pensare
e agire con lucidità.
«Vado da loro. Poi parlerò con lui» decido.
Non so ancora cosa gli dirò, ma ho bisogno di capire che cosa vuole
farne di noi due.
Mi alzo in piedi e asciugo i palmi sudati delle mie mani sulla minigonna
di jeans che indosso.
Eva mi afferra una mano. «Ne sei sicura? Vuoi fare una scenata davanti
ai suoi?»
«Parleremo quando saremo da soli, Eva. Non sono più una ragazzina.»
Sul viso di mia sorella passa un lampo di consapevolezza. «Lo vedo»
sospira. «Fatti valere e chiamami se hai bisogno. Noi torniamo al
dormitorio.» Lancia un’occhiata a Bre che annuisce e poco dopo vanno via,
mentre io mi dirigo dai Davis.
Neanche loro forse si aspettavano di vedermi, ma sia Luc che Elizabeth
mi abbracciano con affetto. Braden, invece, sembra in imbarazzo.
«Non sapevo che sareste venuti. Des non mi ha detto nulla.»
Non perdo occasione di scoprire la verità e nel profondo spero sia andata
come ha ipotizzato Eva, ma quando Luc Davis mi risponde, ogni speranza
evapora come una nube di fumo. «Era programmato già da un po’ e ho
approfittato di due giorni di ferie per portare Liz a vedere come si erano
sistemati i suoi ragazzi.»
«Certo!» rispondo a disagio.
Perché Des non me l’ha detto?
Siamo davvero arrivati a questo punto?
Brad ha un’espressione contrita. È evidente che ha capito quanto sia
ferita. «Desmond sta arrivando» mi informa.
«Ho fatto il prima possibile…»
Seguo la voce di Des alle mie spalle e mi giro. Sta salendo la gradinata e,
quando alza gli occhi e mi vede, si blocca.
«Anais…»
«Desmond.» Il mio tono è glaciale.
«Ho visto i tuoi e sono venuta a salutare. Ma me ne sto andando.» Faccio
qualche passo e stringo la borsa fra le mani. «È stato un piacere rivedervi. A
presto» mi congedo, ma qualcuno afferra la mia mano prima che possa
letteralmente scappare via.
«Aspetta un secondo.»
«Perché?» sputo fuori, pentendomi del mio tono un attimo dopo.
Fra me e lui c’è una tensione che non può sfuggire a chi ci sta intorno e
Luc decide di concederci un po’ di spazio. «Braden, che ne dici di farci
continuare il giro di stamattina?»
Gliene sono grata e al contempo vorrei girare le spalle al ragazzo che
amo e mandarlo a fanculo per come continua a trattarmi.
Restiamo soli e ancora distanti. Gli spalti vuoti non fanno che
amplificare il silenzio che grava su di noi. Tengo le braccia strette al petto.
Des se ne sta una fila più in basso rispetto alla mia, ma sento i suoi occhi
addosso. Poi finalmente scavalca i sedili e si piazza di fronte a me.
«Mi dispiace.»
«Non… non dirlo» lo blocco, poggiandogli una mano sulla bocca, ma
ignora la mia richiesta e mi attira contro al suo petto abbracciandomi.
Sono arrabbiata e delusa dal modo in cui si ostina a tenermi a distanza,
eppure finisco lo stesso per sciogliermi contro di lui.
«Mi dispiace, Honey» ripete fra i miei capelli. Sta tremando. Ho la
guancia appoggiata sul suo petto e percepisco il ritmo indiavolato del suo
cuore.
Mi bacia sulla testa. «Non ti arrabbiare per favore. Ti prego, Anais,
voglio solo prendermi cura di te e non so come fare per tenerti al sicuro.»
«Tenermi al sicuro significa stare senza di te?»
Scuote il capo, ma in realtà mi sta dicendo che è esattamente quello che
dovrebbe fare.
Urlo quasi. «Allora no. Non voglio stare al sicuro.»
«Hai avuto a che fare con quella feccia anche troppo, lascia che ci pensi
io. È una cosa che riguarda solo me. Porrò fine a tutto e poi tornerò da te.»
M’irrigidisco; le sue parole evocano scenari pericolosi, scene che ho già
vissuto, un assaggio di quanto sia davvero rischioso il suo passato per me,
ma Des viene prima di tutto. È stato chiaro anche quella sera, nonostante la
paura mi abbia fatto schizzare via da quel bastardo che continuava a
sbandierare l’orrore che aveva commesso.
«Che cosa significa che porrai fine a tutto? Non vorrai mica…»
Non riesco nemmeno a dirlo.
«Se sarà necessario» mormora fra i miei capelli e io rabbrividisco.
Mi libero dal suo abbraccio con riluttanza. «Non puoi dire sul serio. Non
puoi fare questo per tenermi al sicuro.»
Lui annuisce e mi afferra con delicatezza il mento fra le dita. «Ti amo,
Anais Kerper, e ti giuro che farò tutto ciò che è in mio potere per darti la
vita che meriti, ma qualsiasi cosa accadrà da qui in avanti la farò anche per
me stesso. Devi capirlo, piccola. Ne ho bisogno.»
Non rispondo e distolgo lo sguardo.
Non può davvero chiedermelo.
«Ti stavo aspettando, Honey, ma non sono sicuro che tu stessi aspettando
il ragazzo che sono stato fino a poco prima di incontrarti. Non sono pronto a
rinunciare a noi, se è quello che ti stai chiedendo, ma per andare avanti
devo chiudere con questa roba o stavolta rischio di uscirne a pezzi.»
Il mio cuore fa una capriola dolorosa e ritorno a soffrire per lui. Gli
afferro la maglia con entrambi i pugni. «Ci sono io con te» e appoggio la
fronte al suo mento, sperando che questa rassicurazione possa
bastargli.
Diglielo, Anais. Digli che hai sfiorato il suo passato e che nonostante ciò
sei ancora qui.
«Non basta, piccola. Devi capirlo» mi ripete.
Diglielo!
«Dovrebbe, se mi ami.»
Resta attonito, mentre alzo gli occhi su di lui e i nostri visi si avvicinano
come attratti da una forza più grande di ogni limite razionale.
«Chiedimi di non baciarti» sussurra.
«Dovrei?» La mia voce è ridotta a un suono roco e affannato.
«Dovresti ascoltarmi, dannazione! Aspettare che io faccia ciò che devo e
se vorrai, poi, riprendermi con te.» Le sue mani si stringono intorno ai miei
fianchi e i nostri corpi entrano in collisione, sprigionando un’energia
primitiva impossibile da ignorare.
Mi solleva il mento con un dito. «Dimmi che hai capito. So che è
difficile, ma fallo per noi.»
Diglielo!
«Non posso.» Le parole escono dalle mie labbra come una supplica.
«Baciami, Des. Illudimi per un minuto che sia tutto a posto, dimmi che
nessuna minaccia incombe su di noi, che il tuo passato è sepolto e che tu
non soffri più. Baciami» lo imploro. «Fammi credere che sia così.»
Mi bacia. Lo fa come se volesse farmi sentire il suo senso di colpa. Lo fa
come se quel bacio potesse bastare a farci dimenticare il resto. Si stacca da
me e sono sicura di avere un’espressione persa, e la sua bocca rovente ed
esigente plana di nuovo sulla mia. Una delle sue mani s’infila fra i miei
capelli, tiene ferma la mia testa per approfondire il contatto nel modo che
più gli piace e mi lascio sopraffare da tutto quello che provo per lui.
Come posso stargli lontano?
Quando si allontana da me, barcollo.
«Basta così, tesoro. Stiamo rischiando.» Mi tiene, ma si guarda intorno
come un ossesso e mi chiedo se non sia davvero così. Se il ritorno di quel
mostro non lo stia rendendo paranoico.
«Starti lontano sarà un inferno.»
«Allora non lo fare, Des. Ti prego.»
«Devo» replica perentorio. «Vienimi incontro, Anais. Non posso farcela
se mi getti addosso il tuo risentimento.»
Scuoto la testa e lui tenta di rassicurarmi.
«Ti amo e sarebbe tutto maledettamente più facile se non provassi quello
che provo per te. Ma lo provo, cazzo! E morirei se ti accadesse qualcosa. Lo
sa anche lui e questo ti ha resa un bersaglio.»
Ha ragione, ma non deve sapere fino a che punto le sue paure siano reali.
Mi stringe le mani. «Fammi spazzare via questa merda. Dammi un po’ di
tempo.»
Non riesco ad accettarlo e per questo non gli rispondo.
Lui sospira. Ha capito che in questa farsa non mi troverà mai d’accordo,
ma non ritorna sui suoi passi.
«Va’ via» mi ordina. «Adesso, Honey. Mi assicurerò che arrivi sana e
salva al dormitorio e che tu sia sempre al sicuro. Non mi vedrai ma ci sarò.
Sarò la tua ombra, ma tu sta’ attenta. Resta concentrata e non ti fidare di
nessuno.»
Quella sera lui non c’era. È questo che dovrebbe capire. Non può essere
onnipresente.
Ciò detto, mi volta le spalle stringendo i pugni e se ne va, lasciandomi
sola a fare i conti con tutto quello che ho appreso e che non riesco a
cambiare.
La sua paura, l’orrore che ha vissuto, sono mostri inattaccabili che ci
stanno facendo già a pezzi.
Serro gli occhi e lascio che la brezza soffi sul mio viso e mi regali un
attimo di tregua. Purtroppo la mente non è intenzionata a cedere e mi
incatena ad altri ricordi, al nostro bacio rovente, alle mie bugie e al fatto che
Bryan e l’adozione di Des ci sembrassero problemi insormontabili.
«Des…»
«Non voleva venirci… Lo ha fatto per me, Anais. Lo ha fatto per me che
stavo rincorrendo te, maledizione! Lo ha fatto per me… Avevo così tanta
fretta di raggiungerti… Perché, Anais? Perché scappi sempre da me?»
«Non lo so…»
«Va’ via. Lasciami solo.»
«Non posso…»
«Devi andartene. Lasciami il tempo di scendere a patti con me stesso.»
«Non posso lasciarti così, Des. Ti prego.»
«Lo hai già fatto un sacco di volte, Honey. Per te ho ammazzato il mio
migliore amico. Credo che possa bastare, non trovi?»
13.
Anais
Tre giorni dopo è ora di tornare a casa, nel nostro quartiere, e anche se il
campus si trova a Los Angeles, vicino a San Diego, la vita da universitari ci
colloca in un mondo parallelo, senza interferenze esterne, come se
vivessimo in un altro Stato.
Le vacanze di Primavera sono arrivate e, mentre preparo una piccola
borsa in cui getto a casaccio qualche cambio, penso al momento in cui non
ho trovato Desmond nel mio letto, dopo la sua incursione in casa mia.
Come una stupida mi sono aggrappata a quegli attimi disperati,
abbeverandomene ingorda, ma non sto bene, è inutile dire il contrario.
Dall’istante in cui si è di nuovo allontanato da me, mi sono spenta; spero
ancora che trovi un’altra soluzione per tenermi al sicuro. Mi auguro che
Jeremiah lo lasci in pace e che possiamo tornare ad amarci senza
nasconderci. Che Violet sia davvero solo una vittima e che questa storia si
chiuda senza ulteriori danni oltre a quelli che ha già provocato, ma non
sono così ingenua da crederci davvero.
Con Anais e gli altri, siamo rimasti d’accordo di passare una giornata in
spiaggia, così il mattino seguente mi sveglio presto per fare colazione con i
miei e poi mi preparo. Vorrei disertare con una scusa, andare a Bakersfield e
procedere con le mie indagini su Jeremiah, ma non posso dare buca ad
Anais. Ci siamo appena riavvicinati e voglio impegnarmi a rispettare la
promessa di non escluderla più. Al momento, la mia parola è l’unica cosa
che abbiamo insieme al nostro amore, e poi ho proprio bisogno di staccare
da tutto e di farmi una bella nuotata.
Il surf mi rende sereno, mi libera dai turbamenti e l’acqua è il mio
elemento, imprevedibile come lo è la mia vita, però riesco a controllarla.
Sono in sintonia con essa e questo mi riconcilia per un attimo con il mondo.
Mentre entro nella mia camera, mi rendo conto che sto fremendo per
porre fine alla mia assurda situazione e che le mie intenzioni, per quanto
avessi deciso di procedere cauto e senza colpi di testa, sono abbastanza
bellicose e prevedono sangue. Molto sangue.
«Hai la faccia di uno che pensa al suicidio.»
Brad compare nel mio campo visivo con l’aria corrucciata e il costume
da bagno fra le mani.
Mi affloscio sul letto e annuisco. «Più a un omicidio, a dire il vero.»
Inspira fra i denti. «Merda, Des! Non scherzare. Quell’espressione non
mi piace.»
«Quale espressione?»
«Quella.» Indica la mia immagine riflessa nel grande specchio a parete,
quello che sto fissando e dal quale guardo lui.
«Be’, sei in mutande, Braden. Non può certo migliorare. Va’ a vestirti,
cazzo.»
Cerco di sdrammatizzare punzecchiandolo, ma non se la beve e si
avvicina. La mia affermazione lo ha turbato.
«Vuoi andare a cercarlo, non è così?»
Abbasso gli occhi immediatamente e la mia reazione vale più di una
risposta.
«Al diavolo, Des!» impreca. «Dovremmo parlare con Luc, coinvolgere
la polizia…»
«Ti ho già detto di no.»
«Non puoi risolvere questa cosa da solo.»
«Voglio solo parlargli.»
«Certo, come no? Hai appena detto che…»
Lo guardo truce. «Pensi davvero che mi sporcherei le mani con una
feccia simile? Adesso?»
«Ti ha fatto troppo male» dice semplicemente. «Non riesci a
dimenticarlo. Dannazione, non ci riesco io e non sono stato danneggiato
quanto te!»
«Sto facendo di tutto per non pensarci. Grazie tante, amico.»
«Stai facendo di tutto per sminuire gli effetti che quel mostro ha avuto su
di te, invece. Ma devi farci i conti, perché dimenticare è impossibile,
fratello.»
«Come osi?» Stringo i pugni pronto a rinfacciargli per l’ennesima volta
quello che ho voluto accadesse solo a me. Sono così ingiusto e incattivito
che torno a guardarmi allo specchio e mi faccio schifo.
«Des, senti…»
«No.» Alzo una mano e blocco qualsiasi cosa voglia aggiungere.
«Finiamola qui e godiamoci questa giornata. Cerca di stare fuori dalle
mie decisioni. Hai detto che sono stato danneggiato ed è vero. Tu no e l’ho
voluto io, è vero anche questo. Devo farci i conti» aggiungo. «Lo sto
facendo a modo mio e tu devi lasciarmi fare.»
Il mio sguardo deve essere talmente duro, che il mio amico lo regge per
un po’, poi scuote il capo e molla il discorso. «Voglio che tu mi prometta
che se andrai a cercarlo me lo dirai.»
«Ti ho appena detto di starne fuori…»
«E io che non ne ho la minima intenzione. Prendere o lasciare, Des. Fai
una cazzata e corro da Luc per dirgli ogni cosa.»
«Cristo! Cosa abbiamo, cinque anni?»
«Risparmia il sarcasmo. Prendere. O. Lasciare.»
«Vaffanculo!» sbotto. «Usciamo di qui prima che ti faccia il culo.»
«Ah, ah!» Braden si allontana verso il bagno. «Adesso chi è che ha
cinque anni?»
17.
Anais
Bakersfield. Abbiamo guidato per più di tre ore e la mia rabbia non è
scemata di una tacca.
La macchina di quel bastardo è parcheggiata lungo il vialetto. C’è solo la
luce della cucina accesa, per il resto la casa è al buio.
Questa casa…
Quante volte l’ho rivista nei miei incubi?
È ancora la stessa, non è cambiato niente. C’è perfino quel buco che io e
Brad abbiamo aperto nella rete di recinzione, quando scappavamo di notte
per respirare un po’ d’aria pulita. Quando il rischio di soffocare era
concreto. Quando l’unica soluzione a cui pensavamo era quella corda, nel
garage del nostro paparino, legata al nostro collo e che poteva porre fine ai
nostri incubi.
Brad ferma la mia auto e io apro subito la portiera, ma lui mi afferra per
un braccio. «Vengo con te.»
«Non è necessario» sibilo.
Fatico a riconoscere la mia voce. Sono fuori di me, ma va bene. Va
fottutamente bene, perché stavolta non ho intenzione di seguire la ragione.
Mi libero dalla sua stretta, ma Braden scende dalla macchina e mi si para
di fronte. «Non puoi affrontarlo in questo stato.»
«Non posso più aspettare. Lo voglio fuori dalla mia vita.»
«E come?» Il mio amico cerca di farmi ragionare, tuttavia vedo ancora
rosso. «Rischi di ucciderlo se non ti calmi.»
«Forse è proprio quello che voglio fare» ammetto con un ghigno e la
cosa più spaventosa è che lo penso davvero.
«Merda, Des!» Braden mi afferra per le spalle e mi costrinse a guardarlo.
«Che cazzo dici, amico?»
Siamo cresciuti insieme. Stessa casa famiglia, stessi problemi, stessi
drammi e stessa anima ferita. Ma in questo momento mi sembra di guardare
un estraneo.
Con il capo indico la casa degli orrori. «Te la ricordi, non è vero?»
Lui deglutisce, abbassa gli occhi sulle sue scarpe, poi scuote la testa e
butta fuori l’aria.
«Ecco cosa faremo.» Mi parla e io continuo a osservare quella finestra
accesa.
«Verrò con te e cercheremo di parlare con quel bastardo.»
Che cazzo sta dicendo?
Gli scoppio a ridere in faccia. «Questa sarebbe la tua soluzione?»
«Siamo in due» puntualizza. «Ci starà a sentire.»
«Io non voglio farmi sentire proprio per un cazzo» ribadisco.
Sento la rabbia scorrermi sotto pelle, non riesco a fermare il tremito che
mi scuote il corpo. Sono un fascio di nervi e non sono lucido.
«Vuoi vendetta» constata. Nemmeno gli rispondo.
«L’ho lasciato vivere, mentre apriva in due il culo di un ragazzino, Brad.
Mentre si prendeva tutto quello che di innocente mi era rimasto.»
Deglutisce di nuovo e osservo i suoi occhi cambiare, riempirsi di
lacrime.
«L’ho lasciato vivere, anche quando me ne sono andato da qui, a pezzi,
lasciandogli i miei sogni in cambio di un corpo abusato nel peggiore dei
modi.»
Ansimo e stringo i pugni fino a conficcarmi le unghie nella carne. «È
tornato e ho saputo che nel frattempo ha continuato a violare altri ragazzini.
Violet, la figlia della donna che avrebbe dovuto amare e a cui continua a
fare del male.
Vuole spedirmi all’inferno e vuole trascinarci dentro tutte le persone che
amo. Credi ancora che speri mi stia a sentire?»
Ha il buongusto di non aggiungere altro, ma so che non è d’accordo con
nessuna delle cose che ho deciso di fare da quando Jeremiah è ripiombato
nella mia vita.
Saliamo i dodici gradini che portano all’ingresso e cerco sotto la statua
di un nano la chiave della porta. Dovrebbe essere qui, se le abitudini di quel
porco non sono cambiate, e infatti la trovo e la stringo con fervore.
Basterebbe una semplice spallata per sfondare questa porta, ma decido di
essere civile e mostrarmi calmo.
Parleremo, sì. Poi, però, lo picchierò a sangue e ringrazio Dio che
Braden sia con me, perché se fossi solo forse non riuscirei a fermarmi.
Non appena entriamo, mi coglie una nausea improvvisa. Niente è
com’era. È cambiato tutto, ma la sensazione è la stessa di allora.
A quel tempo ero in prigione, ed è così degradante essere di nuovo qui
che vorrei voltarmi e andare via. Fuggire. Come non ho potuto fare anni fa.
Il soggiorno è vuoto. Sul divano, ora consunto, non c’è nessuno. Il
tavolinetto da caffè è pieno di bottiglie vuote e di cibo andato a male. Noto
un portacenere stracolmo di cicche spente.
Mi dirigo nella camera da letto che Jeremiah condivideva con la madre
di V., ma anche questa è vuota. Deduco che, dopo quello che le è successo
in queste ore, Violet stia riposando nel suo letto, invece no. Quando apro le
porte delle altre camere, non ci trovo nessuno. Quando spalanco quella della
stanza che condividevo con Brad, invece, una marea di flashback mi salta
addosso in modo confuso e un altro conato di vomito mi risale dalle viscere.
Supero a grandi passi Braden, che mi sta seguendo in silenzio. La
parvenza di calma che mi sono cucito addosso scompare e la rabbia
comincia a montare dentro di me finché vedo rosso. Mi dirigo in cucina e ci
trovo lui, il bastardo, intento a tirare una striscia di coca. Lo faceva anche
allora, nel suo merdoso garage, prima di… Puah!
Non riesco a visualizzare alcun ricordo senza sentire la necessità di
strapparmelo dalla mente.
Dall’altro lato del tavolo Violet lo osserva con lo sguardo spiritato, i
capelli aggrovigliati in una massa informe e una vestaglia lurida che copre a
stento la sua nudità.
È nuda, dannazione!
E mando a puttane il mio proposito di non fare nulla di avventato.
Sono entrambi talmente fuori, che non mi hanno sentito aggirarmi per
casa.
Mi lancio su di Jeremiah, imprecando. Non ha modo di parare il colpo
che gli sferro, è troppo sballato, così cade all’indietro e ne approfitto per
sfogare la mia furia su di lui.
Il secondo pugno che gli assesto produce un rumore terrificante. Gli
rompo il naso. Caccia un urlo disumano e il sangue comincia a uscire
copioso, imbrattando le mie mani serrate intorno al suo collo.
È lo stesso sangue di allora, stavolta su mani da adulto.
«Lurido figlio di puttana, ti ammazzo!»
Braden cerca di allontanarmi da lui, ma non ci riesce, perché voglio
finirlo e buttare il suo inutile cadavere in mare. Voglio darlo in pasto ai
pesci. Voglio che di Jeremiah Spector non resti più nulla.
«Des, dannazione, amico!» È la voce di Brad, il suo tono addolorato, la
concitazione che usa a indurmi a voltarmi.
Se ne sta accanto a Violet, che si è rintanata sotto il tavolo. Quest’ultima
piange e trema, sembra una bambina impaurita e torno indietro negli anni, a
quando io ero solo un bambino in balìa dell’orco.
Ripenso alle sue luride carezze, alle favole della buonanotte dopo avermi
violato e al suo sorriso tronfio, quando al mattino mi metteva sul pulmino
per andare a scuola e mi vedeva sussultare non appena mi sedevo sui sedili.
Faceva male, dannazione! E lei ha ricevuto le stesse merdosissime
attenzioni.
Vorrei correre ad abbracciarla, perché la pena che provo per Violet è la
stessa che ho provato per me tutto il tempo che ho vissuto in questa
maledetta casa.
Mi getto di lato, portandomi le mani insanguinate sul volto. Guardo il
corpo riverso accanto a me. Respira ancora, ma se non ci fosse stato Brad…
«Cazzo!»
Cosa stavo per fare?
Stavo per diventare un assassino.
I singhiozzi di V. sono l’unica cosa che riempie il silenzio di questo
posto lugubre come i gesti dell’uomo che ho quasi ucciso per ben due volte.
Quelli e i rantoli di dolore che emette Jeremiah.
Osservo la ragazza con la ciocca rosa che un tempo è riuscita ad
avvicinarmi. Adesso capisco il perché di quella strana connessione, ma
ormai è troppo rovinata. Rischio di rovinare me stesso, a furia di combattere
affinché lui non ci riesca con me, ma non c’è riuscito allora e non
permetterò che la sua perversione mi colpisca adesso.
«Cosa possiamo fare?» mi chiede Brad.
Voleva esserci. Eccolo accontentato! Ho un compito per lui. Un compito
che non gli assegnerei se Jeremiah non fosse svenuto.
«Potresti portarlo in ospedale? Puoi dire che lo hai trovato per strada e lo
hai soccorso» farfuglio, poi sospiro stanco. «Non lo so, Brad, ma ha
bisogno di un medico.» Indico Violet. «E io non posso lasciarla da sola.»
Annuisce e trascina Jeremiah verso la porta. Dovrei aiutarlo. Il bastardo
peserà almeno novanta chili, ma non posso toccare questa feccia, così
osservo il mio amico caricarselo in spalla con fatica e sistemarlo in
macchina. Poi partire e andare via dopo essersi assicurato che per me va
tutto bene.
Non va affatto bene, ma in qualche modo dobbiamo uscire vivi da questa
notte.
Quando l’auto scompare in fondo alla strada, mi domando se non ho
fatto una cazzata.
E se si svegliasse? E se facesse del male a Brad?
Ma poi realizzo che non è più un bambino: è grande e grosso. E
Jeremiah l’ho quasi ammazzato. Al momento è del tutto inoffensivo, quindi
mi avvicino al tavolo e porgo una mano alla ragazza sopraffatta dal dolore e
dalla droga, ma lei osserva il mio gesto senza vederlo, così mi piego e la
afferro per un braccio.
È ancora scossa. Ha la guancia tumefatta e il naso sporco della polverina
bianca che giace ancora sul tavolo, in una striscia mezza consumata. Il suo
corpo è attraversato da tremiti e sta sudando freddo.
Ne so abbastanza per capire che è strafatta e che sarà una lunga nottata.
La accompagno in quella che era la mia camera. Non so quale sia la sua,
deve averne una, ma non ho voglia di mettermi a curiosare in giro per casa.
La metto a letto e solo quando le volto le spalle per andare in salotto, mi
dice qualcosa.
«Mi dispiace, Des.»
Ancora. Sempre e solo “Mi dispiace”.
Resto impalato, con la mano sulla maniglia, incapace di ribattere. Faccio
finta di non sentirla perché non credo a una sola parola di ciò che dice,
eppure stasera ho visto lo stesso lato fragile e oltraggiato che è dentro di
me, che io vivo con rabbia e lei con rassegnazione. Come se fosse
ineluttabile per Violet rispettare il suo carnefice al punto da proteggerlo. È
inconcepibile, ma adesso so perché dipende dal mostro. Le procura la
droga, è questa in realtà la dipendenza di Violet. E io non me ne sono
accorto prima.
Riesco a dormire per un paio d’ore prima che i suoi gemiti mi sveglino.
Mi sono appisolato sulla poltrona malridotta della mia vecchia camera.
Quando riapro gli occhi, Violet è raggomitolata e si sta tenendo lo stomaco.
Si contorce dal dolore ed è fradicia di sudore.
Mi avvicino per cercare di scaldarla, ma è rigida e fredda come un
cadavere.
«Ti prego.» Due parole che mi continua a ripetere come una litania.
«Dammene un po’.» Ma è una preghiera che non posso esaudire.
Alle prime luci dell’alba sono ormai a un passo dall’uscire di casa per
cercarle la roba. È straziante vedere una ragazza così dilaniata dalla sua
dipendenza. Il suo volto è scavato e trasformato dal delirio, il suo corpo
consumato e la sua anima… semplicemente lontana, troppo lontana.
Non l’avrà più indietro, ma almeno posso tentare di salvarla da una
morte certa. Questa speranza mi fa perseguire l’intento di tenerla a galla,
per cui me ne resto immobile, seduto sulla poltrona con le molle saltate,
lurida come le pareti un tempo tinte di azzurro e nuvole bianche, ad
aspettare che passi.
Che le passi.
Che mi passi.
Ma come cazzo può passare tutto questo?
19.
Anais
Nei giorni seguenti non vedo Des e nessuno sembra volermi dare sue
notizie. Braden si è chiuso in un ostinato mutismo e tutte le volte che mi
sono spinta fino alla casa dei Davis, mi ha pregato di andare via,
rassicurandomi che Desmond verrà da me quando le acque si saranno
calmate.
Non capisco quali acque abbia agitato e smanio di saperlo. Voglio stargli
accanto. Capire che cosa è successo quella sera. Non riesco a sapere niente
di più e la cosa m’innervosisce.
Il weekend seguente non lo vedo, né lo cerco a dire il vero, perché arriva
Abel, il ragazzo di Eva e oggi diremo ai nostri genitori della gravidanza.
Così per un po’ riesco a non pensare a Des.
Come immaginavamo io e mia sorella, la famiglia Kerper non è allenata
a fronteggiare situazioni critiche, né scandali che coinvolgano le proprie
figlie e, non appena Eva li mette al corrente del bambino, succede una mini
tragedia.
Per fortuna, Abel, che si è rivelato un bravo ragazzo oltre che bello,
gestisce al meglio la situazione e fa l’uomo, promettendo ai miei che si
prenderà cura di Eva, che ha intenzione di sposarla e che le permetterà di
continuare gli studi.
Mia madre non la smette di piangere e mio padre non può far altro che
accettare la cosa, ma per il momento, dice, li vuole entrambi fuori da casa
sua.
Così Eva prepara una valigia e li accompagno all’auto di lui con le
lacrime agli occhi.
«Non piangere, Anais. Starò bene.»
«Mi mancherai» le dico, mentre l’abbraccio.
«Anche tu, da morire» sussurra fra i miei capelli.
Sorrido ad Abel. «L’affido a te.»
Lui annuisce e stringe mia sorella al suo fianco. «Eva è il mio mondo. E
fra poco mi renderà l’uomo più felice della terra. Ne avrò cura, non
temere.»
Li osservo salire in macchina e il peso che è gravato sul mio petto in
questi giorni si solleva pian piano. Mia sorella è diventata grande e spero
solo abbia la vita che merita.
Casa mia è in lutto e la cosa è patetica. Incidenti del genere succedono
spesso e nessuno si comporta come se la propria figlia fosse morta. Ma
evidentemente i miei genitori sono stupidi a tal punto.
Il venerdì seguente arriva troppo lento. Desmond non si fa vedere e non
risponde ai miei messaggi, e la cosa mi rende furibonda.
Mi aveva detto che non sarebbe andato più via e invece è quello che
fatto. Di nuovo. Le sue promesse non valgono più nulla, eppure, quando
una sera si fa vedere al bar dei Thompson, tutto il mio risentimento evapora
di fronte al suo aspetto provato.
Due brutte occhiaie danno al suo volto un’aria stanca, i suoi capelli sono
un disastro e sono certa che negli ultimi giorni, se ha dormito, lo ha fatto
vestito, perché i suoi abiti sono così stropicciati che non potrebbe essere
altrimenti. I ragazzi gli stanno alla larga, tenendo d’occhio a distanza i suoi
movimenti, in silenzio, quasi temano che una mossa azzardata possa farlo
scattare.
Mi lancia appena un’occhiata, poi si accomoda al bancone e ordina una
Guinness.
Sono preoccupata perché si vede che per lui sono stati giorni duri, ma lo
sono stati anche per me e non intendo sottostare più ai suoi sbalzi d’umore.
Dopo più di un’ora, la situazione diventa intollerabile e l’atmosfera tesa.
Si fatica a ingranare. Nessuno sembra propenso a scherzare e per
l’ennesima volta sono io a fare il primo passo verso Des.
Va matto per il cioccolato, anche se evita di mangiarne per via del
football e tutto il resto. I suoi muri sembrano invalicabili e questa è l’unica
maniera che mi viene in mente per avvicinarmi a lui. Così estraggo dalla
mia borsetta una barretta di cioccolata che ho comprato giorni fa per Eva.
La gravidanza l’ha resa golosa e ho preso l’abitudine di viziarla.
Faith fa per fermarmi, ma cosa può succedermi? Desmond è alla sua
terza birra, è vero, e psicologicamente sta male e si vede, ma non mi
farebbe mai del male. Mi fido ciecamente di lui.
Scosto uno sgabello. Des si gira a guardarmi, ma la sua espressione
rimane impassibile.
«Posso?» chiedo.
Liquida la domanda, alzando le spalle strafottente e continua a bere dalla
bottiglia.
Gli altri si guardano straniti, anche Braden, che conosce Des benissimo,
continua a lanciarmi occhiate confuse e non sono più sicura della reazione
che speravo di ottenere.
«Des» comincio. Non ho intenzione di rimproverargli nulla, voglio solo
dirgli qualche parola di conforto, ma intuisco che è esattamente quello da
cui fugge.
Detesta essere compatito e adesso che tutti i nostri amici sono venuti a
conoscenza del suo passato, non vuole che s’interessino alla sua storia.
Chiudendosi a riccio, tiene tutti lontano ed evita che gli vengano poste
domande scomode, così schivo l’argomento e gli concedo un po’ di
normalità. Forse è questo che vuole da me ed è anche il motivo per cui mi
resta lontano: dubita che io sia in grado di dargliela.
«Mi fai compagnia?»
«Non è un buon momento, Honey.»
Quattro fottuti giorni. Ecco quant’è durato questo momento.
Adesso basta.
Estraggo la barretta di cioccolato dalla mia tasca, la scarto e gliela porgo.
La osserva e finisce la sua birra, facendo correre lo sguardo dalla mia
mano al viso.
«Mi stai davvero offrendo del cioccolato?»
«Ne sei goloso.» Faccio spallucce e lui scuote la testa, abbozzando un
sorriso.
Oh, sì!
Spero di riuscire a far sciogliere la morsa di ghiaccio nella quale sembra
imprigionato e non demordo.
Spezzo alcuni quadrati di cioccolato e glieli porgo. «Dividili con me.
Sono capace di finirli tutti e non farebbe bene alla mia dieta.»
Non lo fa subito, soppesa il mio atteggiamento, poi posa la bottiglia
vuota sul bancone e finalmente prende la cioccolata.
«Punto uno, tu non hai bisogno di nessuna dieta, anzi. Sei ancora troppo
magra» mi rimprovera. «Punto due, non mi piace fondente.»
«È al latte.»
Mi sorride e si ficca un pezzo in bocca. Stavolta il suo è un sorriso
aperto. Uno di quei sorrisi che conosco solo io.
Quel gesto alza il sipario su un nuovo Des e lo abbassa sull’orso
taciturno e scontroso che è diventato in questi giorni.
Si gira verso i ragazzi e poi guarda di nuovo me. «Dammi un bacio,
piccola.»
«Non credo che tu lo meriti» flirto, allontanandomi. Ancheggio e
ipotizzo che stia ancora sorridendo.
Poi si rivolge a Brad e Liam. «Ci facciamo una partita a biliardo?»
Il suo tono è ancora un po’ scocciato e distante, ma è un inizio. Dopo
diventerò di nuovo la rompicoglioni che vuole sapere che cos’è successo.
Torno verso le ragazze e Bre mi sorride. «Sei stata geniale.»
«Lo conosco.»
La mia amica sbuffa. «Lo sappiamo, ma al momento sembra così
inavvicinabile!»
«Per lui è difficile far finta che la sua vita sia normale. È abituato a
sentirsi inutile. Un minuto prima vive l’Inferno, un attimo dopo è in
Paradiso. Con Des non ci sono mai mezze misure e ho imparato a restargli a
fianco.»
Faith e Breanna non sanno tutto, per cui faticano ancora a comprendere
le azioni di Des. A dire il vero non capiscono nemmeno le mie, quindi mi
affretto a spiegare. «Desmond non ha mai avuto un’esistenza normale. Per
intenderci… qualcuno che gli offrisse una barretta di cioccolato senza un
secondo fine. Ha vissuto delle cose orribili e devo farci i conti, prima
ancora che ne faccia qualcuno con se stesso.»
Inspiro a fondo e mi torturo le mani. «Sono la prima persona, la prima
ragazza» specifico, «che vede com’è realmente, senza sconti, considerando
ciò che ha passato. Credo che per lui sia importante» concludo.
Le mie amiche finalmente annuiscono. È chiaro che sono preoccupate
per me, ma penso che le mie parole siano servite a tranquillizzarle e il resto
della serata trascorre sereno.
Solo quando mi accompagna a casa – e siamo soli – Des mi parla degli
ultimi giorni.
«Non mi sono allontanato per te. Ma avevo bisogno di starmene un po’
per conto mio.»
A un certo punto del nostro viaggio, ho appoggiato la mia mano sulla
sua, che stringeva il cambio, e siamo rimasti così, anche adesso che l’auto è
spenta e siamo in vena di discorsi importanti.
«Che cosa è successo, Des?»
Stringe gli occhi e reclina il capo all’indietro, finché non trova il
poggiatesta e ci sbatte contro un paio di volte, come a voler rischiarare i
pensieri.
«L’altra sera io e Braden siamo tornati a Bakersfield… in quella casa»
comincia.
«Bakersfield?» chiedo. «Ma è lontano da qui. Ci vorranno almeno…»
«Tre ore» mi informa. «Ci abbiamo trovato lui, intento a tirare della
coca. Violet gli stava di fronte, seduta su una sedia, seminuda, in delirio. Si
droga anche lei. Lo so da un po’.»
«Perché non me l’hai detto?»
«Per lo stesso motivo per il quale ho cercato di allontanarti in questo
frattempo. Ho paura per te, Anais.»
Abbiamo già affrontato questo discorso e non intendo riaprirlo, non
adesso che Des mi ha detto in modo chiaro che questa volta non mi stava
tenendo lontana.
«Che cosa è successo, dopo?»
Mi fissa in maniera intensa e fa scivolare la mano da sotto la mia. «Ho
pestato a sangue Jeremiah e se non fosse stato per Braden l’avrei ucciso.»
Il mio stomaco si aggroviglia. «L’avresti fatto davvero?»
«Sì» conferma senza esitazione. «Braden lo ha portato in ospedale
affinché gli prestassero soccorso. In questi giorni ho aspettato che qualcuno
venisse a notificarmi una denuncia, ma non è arrivato nessuno.
Evidentemente, Jeremiah Spector mi ama troppo per farmi finire dentro»
sibila sprezzante.
«Dov’è Violet?»
«Ho chiamato sua nonna e le ho raccontato tutto, ma mi ha gridato
contro di essere un pazzo. Non mi ha creduto» afferma con la voce rotta.
«Non crederà nemmeno a sua nipote. V. aveva ragione. In questi anni è stata
sola e sono piuttosto certo che debba a quel bastardo la sua dipendenza
dall’eroina.»
Inspiro di colpo. «Eroina?»
Mi ha detto che Violet si droga, ma non pensavo si bucasse.
Lui annuisce e stringe il volante fra le mani. «È una merda. L’ho pregata
di aiutare quella ragazza, lei è l’unica famiglia che ha, Cristo! Potrebbe
cercare una struttura adatta a farla disintossicare, ma mi ha buttato fuori di
casa.»
«Che stronza!»
«Non posso fare niente per Violet» ammette affranto.
«Non credo che voglia essere aiutata.»
«E invece sì. In ogni suo gesto c’è una richiesta d’aiuto, ma ha la testa
troppo incasinata per ammetterlo.»
Forse ha ragione e non insisto oltre. Non so cosa scatti nella mente di un
ragazzo violato, se il caso di Des sia un’eccezione e se quello di Violet
rappresenti invece la regola.
Forse da esperienze del genere non si può uscire tutti interi, ma io non ne
so nulla e taccio, perché per quanto mi sforzi non potrò mai comprendere.
Non potrò mai avvicinarmi tanto da vedere a pieno il dolore dell’abuso.
È quasi mezzanotte quando finiamo di parlare. Osserviamo le luci di
casa mia spegnersi. I miei stanno andando a letto e a me viene un’idea folle.
«Resta con me stanotte.»
«Se ci beccano finirai nei guai.»
«Tu, invece, no?» scherzo.
Fa spallucce. «Io posso gestirla.»
«Anch’io» ribatto risoluta e il suo sguardo si fa dolce.
«Lo so, Anais. So che puoi farlo.»
Mi bacia la mano e in quel gesto ci sono una comprensione e un rispetto
profondi.
Attendiamo una buona mezz’ora, in silenzio, godendoci i rumori della
notte e quella quiete che da un po’ non ci è concessa, poi gli dico di
aspettarmi sul retro, sotto la mia camera. Non si trova molto in alto ed
escogiterò un modo per farlo salire, ma quando arrivo nella mia stanza,
badando a non fare rumore, apro la finestra e lo ritrovo arrampicato sul
cornicione.
Deve aver usato l’albero che sfiora la casa per arrampicarsi.
Si fionda dentro con una grazia felina e, mentre si rimette in piedi, mi
sorride. Gli tolgo una foglia rimasta impigliata fra i capelli e lo prendo in
giro. «Sei un selvaggio.»
«Sì» ansima per lo sforzo, ma i suoi occhi percorrono il mio corpo e si
fanno scuri. «Non sai quanto.»
Accendo la lampada sul comodino, ma poi ci ripenso e la spengo. È già
strano che i miei genitori non mi abbiano fatto nessuna chiamata per
sollecitare il mio rientro a un orario decente, se dovessero sentirmi ancora
sveglia, verrebbero a controllare. Nel dubbio che lo facciano davvero,
chiudo la porta a chiave e torno da Des.
Mi tira immediatamente a sé. Il mio corpo contro il suo e combaciamo
alla perfezione. Sono qui da giorni, ma mi sono sentita un’ospite per tutto
questo tempo. Ora, invece, fra le sue braccia, avverto di essere a casa,
perché sarà sempre così.
Andremo sempre in questa direzione: io verso Des e lui verso di me.
20.
Desmond
È strano che trovi erotico tutto questo. Ma sapere che Matthew e Sarah
stanno dormendo dall’altro lato del corridoio mi mandi su di giri.
L’idea dovrebbe spegnere ogni desiderio, invece non è così. Lo amplifica
e so anche qual è il motivo: Anais. Che sta trasgredendo come mai avrebbe
fatto quando sono arrivato in questa casa e mi mostra sfacciatamente il suo
cambiamento. Un cambiamento che amo, perché con tutto quello che
stiamo passando, la mia Honey non ha vacillato nemmeno per un attimo e
ne sono fiero.
«Ho smesso di preoccuparmi di vederti crollare» sussurro, mentre la
spingo verso il letto pieno di cuscini rosa e peluche.
«Cosa?» chiede, cadendo indietro e sgranando gli occhi.
«Non hai più bisogno di me, Honey. Sei cresciuta. Sei una splendida
donna, adesso.»
Il suo sguardo s’incupisce e poggia il palmo sulla mia guancia. «Invece
ho ancora bisogno di te» si affretta a dire.
«E io di te, piccola. Ma sono stato così assorbito dall’idea di rialzarti
ogni volta, che non ho notato quanto sei diventata forte nel frattempo.»
Il mio desiderio di lei ha raggiunto il culmine e devo sforzarmi per
andarci piano.
«Come si fa ad amarti più di così?»
Uno, due, tre respiri…
«Ho bisogno di sentirti, Anais. Voglio accarezzarti. Non lo faccio da un
pezzo.»
Nell’oscurità della stanza, una lacrima le brilla fra le ciglia. «Sono
d’accordo.»
Ma mentre mi sistemo sul letto e me la stringo contro, si muove fra le
mie braccia e cerca la mia bocca.
Uno, due respiri…
Cristo, è perfetta! E io non sono un Santo.
Mi arrendo alla tentazione; dopotutto i miei propositi erano deboli anche
prima che la sua lingua trovasse la mia; anche prima che i suoi gemiti
riempissero la mia bocca come se non potesse fare a meno di essere toccata
da me.
Annuso il suo profumo, quello che ho rubato qui dentro tempo addietro,
e le mie labbra scivolano dal suo orecchio alla gola e poi a ritroso, perché
questo gesto non mi basta. Le mie dita vagano sul suo seno, poi scivolano
giù, verso le intime pieghe fra le sue gambe e trovo il paradiso.
Non posso fare a meno di tormentarla. Vorrei affondare in lei, dare
subito a entrambi ciò che bramiamo, ma desidero più di ogni cosa sentire il
suo bisogno e voglio che Anais ritrovi il ragazzo di un tempo. La sua
roccia. Il suo rifugio. Voglio che m’implori e mi faccia sentire importante.
L’unico.
«Volevo solo coccolarti un po’» la stuzzico, ma ormai non potrei
fermarmi neppure se me lo chiedesse.
Le mie carezze si fanno più audaci e lei ansima senza controllo. «Non
ho bisogno di coccole. Voglio questo, Des. Ti prego, non smettere.»
È calda fra le mie braccia e mi sento andare a fuoco. Agita i fianchi,
viene incontro alla mia mano e fa rumore. Tanto che sono costretto a
tapparle la bocca con l’altra mano.
Sgrana gli occhi e trema. È vicina e io non intendo fermarmi. Si stringe
intorno alle mie dita e vedo doppio come se stessimo raggiungendo il
piacere insieme.
Il cuore mi batte forte nel petto, lo sento fin dentro le orecchie e nelle
ossa; nel respiro che mi esce fuori a tratti. Inspiro e rallento, poi mi libero
dai vestiti e finalmente mi spingo in lei, lasciando che mi accolga,
pretendendo di stillare ogni goccia di un rinnovato piacere, finché quasi
svengo, quando quest’ultimo mi proietta in orbita e tutto si fa nero per un
attimo di estasi infinita.
Poi rimaniamo sdraiati, il fiato corto, con i nostri corpi incollati per il
sudore. Chiudo gli occhi e mi godo questo momento meraviglioso. «Stasera
cenerò qui e parlerò con i tuoi.»
La sento sussultare, tiene il viso appoggiato sul mio petto e lo avverto
aprirsi in un sorriso pigro. «Con tutto quello che è successo, credevo che
non volessi più farlo.»
Mi tiro su e poggio i gomiti ai lati della sua testa, fissandola negli occhi.
«In mezzo a tutto quello che è successo, ci sei sempre stata tu al primo
posto. Ti amo, Honey.»
«Fortissimo» mi fa eco e stavolta sono io a sorridere come un idiota.
«Fra poche ore i tuoi sapranno di noi, che sei la mia vita e che non
intendo lasciarti andare via da me, Anais Kerper.»
«Devo dire che suona un po’ da stalker.»
«Solo un po’?» la prendo in giro. «Allora vuol dire che dovrò
impegnarmi di più.»
Torno a casa alle prime luci dell’alba, prima che Matt e Sarah si
sveglino.
Lasciare la mia piccola, addormentata nel suo letto, così serena dopo le
ultime ore turbolente, è stato difficile, perché quando siamo insieme tutto
ritorna in ordine e io vorrei vederla sempre così: felice, grata, sicura di noi.
Torno a casa e trovo Luc in veranda, che fuma una sigaretta. Non mi
sorprende, è sempre stato un tipo mattiniero, eppure ho l’impressione che
c’entri qualcosa la mia notte brava.
«Buongiorno» lo saluto.
Aspira una boccata e mi fa cenno con la testa. So che è preoccupato e
probabilmente è rimasto in piedi ad aspettarmi, ma non mi fa nessuna
domanda. Si limita ad attendere che sia io a spiegargli dove diamine sono
stato.
«Ero con Anais.» Non ha senso fingere. «A casa sua» aggiungo e mi fa
un sorriso storto.
«Sei coraggioso!» Mi prende in giro e io faccio schioccare la lingua.
«Ne vale la pena.»
Annuisce e si fa di nuovo serio. «C’è del caffè caldo, se ne vuoi.»
Entro in casa e poi in cucina. Me ne verso un po’ e torno da lui.
Seguendo il consiglio di Braden, ho raccontato a Luc che cosa è
successo a Bakersfield. Mi aspettavo davvero che il bastardo mi
denunciasse e non potevo rischiare che i Davis si vedessero piombare in
casa la polizia senza prima avvisarli.
È stato facile stavolta. Parlare con Luc, intendo.
Da quando l’ho fatto al campus, mi sono sentito sollevato.
Ogni secondo un po’ di più.
E non me l’aspettavo.
La vicenda della scorsa notte non poteva restare un segreto fra me e
Braden, ma il problema è che adesso Luc conosce l’identità di Jeremiah e
questa consapevolezza l’ha reso inquieto, pronto a scattare per farmi
giustizia.
«La prossima volta avvisa, Des.»
Cazzo!
Ha ragione, ma non ci ho proprio pensato. Non sono avvezzo al fatto che
qualcuno si preoccupi per me, né a sentirmi parte di una famiglia.
«Scusa» mormoro. «Devo…»
«Devi farci l’abitudine, lo so» mi rassicura.
«Stanotte, a un certo punto, ho svegliato Brad. Mi ha detto che eri andato
via dal bar con Anais, altrimenti credo che avrei messo sottosopra la città
per cercarti.»
Sorride e l’idea di Luc in auto che mi cerca come se fossi il suo bambino
smarrito mi fa stringere lo stomaco in modo bello.
«Stasera parlerò con i Kerper» lo informo.
Visto che entrambi abbiamo gli occhi lucidi, il mio, in realtà, è un
tentativo per cambiare discorso.
«Come mai?»
«È ora che sappiano che sua figlia sta con me.»
«Non credi che se lo aspettassero?»
«Forse.» Faccio spallucce. «Ma speravano comunque che la morte di
Zach bastasse a tenerci lontano. Faranno bene ad arrendersi all’idea che
questo non accadrà mai.»
Lui annuisce e butta giù un sorso di caffè.
«Non ti ha denunciato» afferma a un tratto, cupo.
Il brusco cambio di discorso mi fa sbattere un paio di volte le palpebre,
ma è evidente che l’argomento “Jeremiah” lo impensierisca molto.
«No» confermo.
«Cosa credi che significhi?»
So benissimo cosa significa, ma per un breve attimo considero di nuovo
di tenerlo per me. Poi guardo l’uomo che si è preso carico del bagaglio che
mi porto dietro, il padre che finalmente posso dire di avere.
Osservo il suo sguardo risoluto e le sue mani che si serrano intorno alla
tazza, come se fosse il collo del mostro che mi ha violato, e sospiro di
gratitudine.
La solitudine, a volte, ci fa perdere. Poi, però, può capitare che arrivi
qualcuno in grado di trovarti con un solo sguardo.
Luc è quel qualcuno.
Non sono più solo e questa convinzione mi fa vedere una prospettiva
diversa del mio futuro, così finisco il mio caffè e rispondo senza mentire:
«Significa che presto verrà a riscuotere il suo debito, papà.»
– TI SEI PENTITO?
– DI COSA?
– DI PARLARE CON I MIEI…
– PERCHÉ ME LO CHIEDI?
– NON SO…
– HONEY…
– DESMOND…
– STO ENTRANDO IN AUTO, PICCOLA. DIECI MINUTI
E SONO DA TE.
Questo modo disperato che ho di amarla non può essere quello giusto,
ma è l’unico che conosco per dimostrarle quanto è importante.
Vedere Anais fuori controllo, per la prima volta in mesi che la conosco,
mi dà alla testa. E malgrado io stia parlando della stessa testa che non è
sgombra dai pensieri, in questo istante mi sento fottutamente bene.
Ciò che disturba questo attimo di quiete è vedere Violet qui e in
compagnia di gente poco raccomandabile. L’istinto sarebbe quello di
afferrarla per un braccio e portarla via, ma la ragione mi dice che non
concluderei nulla e che, con molta probabilità, il mio gesto attirerebbe
l’attenzione della sicurezza che mi butterebbe fuori in un istante.
Forse ha ragione Anais, V. non vuole essere aiutata, ma non posso
ignorarla e soprattutto non riesco a dimenticare i suoi problemi.
Come se non bastasse, l’atteggiamento scontroso di Braden cancella il
mio buonumore. Continua a lanciare occhiatacce a Liam e Ian e ne riserva
qualcuna anche a me.
So cosa lo indispettisce e, presto o tardi, dovremo parlarne.
Dopo aver fatto un bel viaggio in quello che definirei il fantastico mondo
dei #DesAna – sarebbe un bell’hashtag, no? – ritorno al presente. Purtroppo
la verità è che io, Brad e V. saremmo sempre difficili frazioni, con un
denominatore comune: Jeremiah Spector.
«Allora, Ward! Ho sentito che hai fatto il grande passo.» Eva mi dà una
gomitata e sorride, ma non capisco a che cosa si stia riferendo.
«Ehi, quelle birre stanno facendo già effetto? Anais mi ha detto che hai
firmato il contratto.»
«Ah, quello!»
«Perché, c’è dell’altro?» Stringe gli occhi e sonda la mia espressione.
«No.» C’è così tanto “altro”, in realtà, che non mi basterebbe una vita
per metterla al corrente.
«Sì, ho un contratto. La prossima stagione starò di sicuro in panchina,
ma essere dentro è già qualcosa.»
«Sono contenta per te. Davvero contenta, Des.»
Sento che è sincera, anche se non ci conosciamo molto. Per tutto il
periodo che sono stato dai Kerper lei era al college, ma se Anais le è così
affezionata deve esserci un motivo, considerato il grado di stronzaggine dei
suoi parenti più prossimi.
«E con Anais, invece… Come va?»
Dopo la sua visita al campus e le vacanze di Primavera, che sia
preoccupata per sua sorella è davvero il minimo. Mi sono comportato come
uno squilibrato.
«Benone» dico subito e la mia urgenza non giova alla causa di
tranquillizzarla, così correggo il tiro.
«Stiamo bene. E staremo bene, non preoccuparti.»
Mi giro a cercare la mia ragazza. Sta parlando con Bre. A un certo punto
le dice qualcosa per cui sbotta in una sonora risata, gettando indietro la
testa, e m’incanto.
La mia Honey.
Sapevo cosa mi portavo dietro e non avrei dovuto toccare il suo cuore;
questo modo disperato che ho di amarla non può essere quello giusto, ma è
l’unico che conosco per dimostrarle quanto è importante.
«Non si taglia più» sussurra Eva, avvicinandosi.
«E non lo farà più. Te lo prometto.»
«Ha anche messo su qualche chilo» mi fa notare.
Lo so già, quindi annuisco orgoglioso.
«Sono così felice, Des!»
Be’, anch’io prima della ricomparsa del bastardo. Adesso sembra che il
mio castello dorato sia pronto a crollare.
«E tu come te la passi?» Mi sento in dovere di interessarmi alla sua vita.
È incinta e suo padre l’ha praticamente buttata fuori di casa. Nel suo
sguardo passa un lampo di sofferenza e mi acciglio.
«Qualcosa non va?»
Scuote il capo ma gli occhi le si riempiono di lacrime e mi muovo a
disagio sullo sgabello.
Dove cazzo è il suo ragazzo?
«Eva…»
«Okay, no. Non sto bene, ma non voglio che Anais si preoccupi.» Si
asciuga gli occhi e lancia un’occhiata verso di lei.
«C’entra tuo padre?»
«Non solo.»
La musica suona a un volume assurdo, ed è difficile continuare la
conversazione in queste condizioni. Dovremmo urlare, ma è evidente che
Eva voglia tenere segreti i suoi problemi.
«Ti va di prendere una boccata d’aria?» le propongo.
«Sì» mi dice subito.
Informo Anais che stiamo uscendo qualche minuto dal locale. «Tua
sorella ha bisogno di una boccata d’aria e io di fumare.»
«Va tutto bene?» domanda preoccupata.
«Certo, tesoro. Tieni gli occhi aperti. Saremo di ritorno fra un attimo.»
Annuisce e lancio un’occhiata a Brad per fargli capire di fare attenzione
alla mia ragazza e guardarsi intorno, anziché mettere il broncio come un
moccioso.
«Va’ pure» mi tranquillizza, ma evita di guardarmi.
Io ed Eva ci avviamo verso l’esterno, passando per l’uscita d’emergenza
davanti alla quale c’è meno confusione. Una volta fuori, respiriamo a pieni
polmoni l’aria pungente della sera.
Non c’è quasi nessuno, qualcuno sta fumando poco più in là, ma ci viene
garantita un po’ di privacy.
«Allora?» le domando. «Sputa il rospo, che ti succede?»
«C’è che sono incinta» butta fuori e scoppia in lacrime.
«Accidenti!» La tiro a me e me la stringo al petto. Poi lancio un’occhiata
alla porta dalla quale siamo appena usciti e immagino Anais, venire fuori da
lì e vederci in questa posizione, con sua sorella in lacrime e fra le mie
braccia.
Cerco di essere il più delicato possibile con lei e la scosto piano da me.
«Ricomponiti. Se non vuoi fare preoccupare Anais, sarà meglio che non ti
veda in queste condizioni.»
Eva tira su con il naso, passandosi i palmi sulla faccia per asciugarsi il
viso. Sembra così indifesa. Niente a che vedere con la ragazza che ho
conosciuto in quei pochi giorni dai Kerper. Allora era sicura di sé e dei suoi
obiettivi. Una ribelle ma con uno scopo. Adesso, invece, sembra una
bambina.
«Vuoi tenerlo… il bambino, intendo.»
«Non lo so» piagnucola ancora. «Dio, che disastro!»
Sarei tentato di ricordarle che, se lei e Abel avessero usato le giuste
precauzioni, tutto ciò non sarebbe accaduto, ma mi rimane ancora un po’ di
buonsenso e resto zitto.
«Pensavo che foste d’accordo di tenerlo…»
«Sì.»
«E?»
«E niente. Gli ho chiesto tempo e lui me lo sta dando.»
Ho una veloce visione di Anais al posto di Eva e qualcosa si muove
dentro il mio petto.
Che cazzo di piega sta prendendo la mia mente?
«Andrà tutto in fumo. La laurea, la mia vita. Dio! Ho solo vent’anni,
Des. Mio padre ha ragione.»
«Ehi!» La obbligo a guardarmi. «Sei stata una sprovveduta, perché è così
e lo sai anche tu. A che ti serve piangere adesso?»
Mi osserva ed è risentita. Sono stato duro, me ne rendo conto, ma non
c’è un modo per indorarle la pillola. È ora che smetta di frignare e che pensi
con lucidità a cosa fare della sua vita.
«Lo so benissimo, Des. Sono stata una stupida, ma amo Abel e l’amore a
volte rende stupidi.»
Nessuno lo sa più di me, ma dannazione! Questa ragazza porta un
bambino in grembo e l’idea che possa sbarazzarsene mi fa salire il sangue al
cervello.
«Abel vuole tenerlo.»
Grazie a Dio, quindi non riesco a capire perché sia così sconvolta.
«Mi ha detto che sarà con me qualsiasi cosa io decida…»
Meglio per lui! E mentre realizzo che se così non fosse io e il ragazzo
dovremmo fare una chiacchierata, mi rendo conto che Eva è un altro degli
affetti da inserire nella lista delle persone a cui tengo.
«Anche Anais si è affezionata all’idea.»
«Dovresti farlo» la incoraggio. «Tenerlo, intendo. Tua sorella ti aiuterà.»
«Lo so, è che… non sono abituata a fare affidamento su di lei. Di solito
è…» Si blocca prima di completare la frase, ma intuisco lo stesso che cosa
stava per dire.
Di solito è il contrario, è sempre stata Ana la più fragile delle due, ed
Eva è stata il suo appiglio per molto tempo. Non posso biasimarla se non è
convinta che adesso possa essere il contrario.
«Sono cambiate molte cose. Anais è più forte di quanto immagini.»
«Me ne sono resa conto.»
E dal suo viso traspare lo stesso orgoglio che vorrei brillasse nei miei occhi.
Quando torniamo, si è ormai calmata, ma nel momento in cui ci
avviciniamo al tavolo, noto che la mia ragazza non è al suo posto, così il
mio sguardo scatta sulla pista da ballo, però non è neanche lì.
«Dov’è Anais?»
Liam e Ian fanno spallucce e Braden non mi presta attenzione. A quanto
pare, dopo aver litigato per tutta la sera, lui e Faith hanno chiarito, e adesso
il mio amico sta praticamente sondando le tonsille della sua ragazza.
Avrei voglia di mollargli un pugno.
Dannazione! Gli avevo detto di tenerla d’occhio.
Giro su me stesso ed è allora che la vedo.
È appoggiata al bancone del bar, evidentemente brilla, e un tizio sta
facendo le radiografie alle sue tette. Di nuovo.
Il sangue comincia a pomparmi fin nelle orecchie, ronzandomi dentro le
vene.
Le porge un bicchiere, ma prima ci ficca dentro qualcosa e vedo rosso.
Che diamine…
Poco più in là, al buio, una ragazza dall’aria familiare attira la mia
attenzione. Solo quando mi sporgo in avanti riconosco quella ciocca
colorata fra i capelli: è Violet. Sta guardando la scena senza fare altro. Dei
tizi che poco fa l’accompagnavano non c’è traccia.
Non ho il tempo di elaborare la scena per darle un senso, perché nel
frattempo il coglione si avvicina ad Anais e le dice qualcosa all’orecchio;
lei si irrigidisce, poi afferra il bicchiere con rabbia e butta giù il suo
contenuto.
È un gesto sconsiderato e la collera mi ribolle nel sangue.
Sto sognando. Non può essere altrimenti.
In che razza di universo parallelo sono finito?
Il tipo di prima allunga un braccio e le scosta i capelli dalla fronte. Vorrei
tagliargli quella cazzo di mano, ma lei non si scosta e io non ci vedo più.
Mi accorgo con orrore che Anais sta ingurgitando il contenuto di un altro
bicchiere.
Che cazzo le dice la testa?
Una feroce sensazione di pericolo mi pervade. Faccio lo slalom fra la
folla. Questo posto è diventato un casino, non riesco a procedere di un
metro. Spintono la gente che continua ad accalcarsi davanti a me come se lo
facesse apposta e nel frattempo perdo di vista Anais.
Finalmente, individuo di nuovo la sua chioma bionda e, quando sono a
pochi metri da lei, mi accorgo che stavolta sta sorridendo al tipo che le ha
offerto da bere.
Ma che diamine… È ovvio che ormai è completamente sbronza. Non si
regge quasi più in piedi. Mi scrollo l’ennesimo coglione ubriaco di dosso e
raggiungo la mia meta.
Afferro il tizio per la maglietta e lo sbatto contro il bancone. «Che cazzo
fai?»
«Ehi, amico! Che cazzo fai tu?»
«È la mia donna, coglione! Sta’ alla larga.»
Lo stronzo mi ride in faccia. Il suo fiato è pesante e sa di alcol. «È
proprio una gran figa!»
Afferro il suo bicchiere e lo annuso.
«L’hai drogata, bastardo?»
Non posso esserne sicuro, ma ho visto abbastanza merda nella mia vita
da saltare a questa conclusione.
Quando non mi risponde e ghigna, lo colpisco e sento l’inconfondibile
rumore delle ossa rotte.
Un fiotto di sangue caldo gli fuoriesce dal naso e m’imbratta le mani.
«Io ti ammazzo!»
Indietreggia mentre impreco, prima di caricare, buttandolo a terra,
gridando e sferrandogli altri pugni violenti in faccia. Prova a difendersi, ma
non riesce a evitare nemmeno un pugno, poi resta inerme e comincio a
sentire tutto: il sangue caldo e appiccicoso sulle mani, il rumore rivoltante
dei miei colpi a contatto con il suo viso, il silenzio soffocante della gente
intorno a noi.
Mi accorgo vagamente di aver centrato qualcun altro nella colluttazione,
deve essersi avvicinato nel frattempo e, quando getto un’occhiata intorno a
me, realizzo che si tratta di Violet.
È a terra e si sta tamponando una ferita al sopracciglio.
Questo dovrebbe bastarmi a darmi una calmata, non ho mai picchiato
una donna, ma sono ormai fuori controllo. Tutto quello che ho vissuto fino
a oggi mi piomba addosso, caricandomi a molla. Dovrei prestare soccorso
ad Anais, ma la furia mi acceca e voglio solo ammazzare questo coglione
per quello che le ha fatto e che – sono sicuro – aveva in mente di farle dopo,
quando sarebbe crollata svenuta.
Avverto qualcuno prendermi per le spalle. «Buono, amico. Così lo
ammazzi.» È Thompson.
Quando tento di liberarmi da lui, Sherman mi poggia le mani sul petto e
Braden cerca di calmarmi. «Des, è fuori combattimento. Ti farai arrestare.»
«Deve averla drogata» urlo ancora.
Cosa diavolo ha messo nel suo bicchiere?
«Che cosa hai detto?» mi chiede Brad incredulo. Stringe i pugni e il suo
viso scatta di lato verso la carcassa umana gettata per terra, dolorante.
«Volevi stuprarla!» continuo a inveire. «Verrò a cercarti, bastardo. Puoi
giurarci!»
Due buttafuori si fanno largo fra la folla ammassata intorno a noi, ed è
allora che riprendo il controllo e mi giro verso la mia ragazza.
«Des…» Il suo sguardo è vacuo, come se non riuscisse a mettermi a
fuoco.
«Non mi… non mi sento molto bene.»
Eva la raggiunge, ma non fa in tempo a sostenerla che lei si accascia,
sbatte con violenza la testa contro il bancone e poi crolla a terra come una
bambola di pezza.
Il rumore sordo che fa il suo corpo contro il pavimento è agghiacciante.
La raggiungo, gettandomi vicino a lei per stringerla fra le braccia.
«Anais» urlo, ma non reagisce.
Cristo! Devo portarla subito in ospedale.
«Ho già chiamato l’ambulanza» mi informa il tipo più grosso della
sicurezza.
«Fra poco saranno qui anche gli sbirri» fa l’altro, evidentemente
scocciato dalle ripercussioni che questo avrà sulla serata e anche sul locale.
Non abbiamo l’età per bere alcolici, eppure ce li hanno serviti senza
prestare attenzione ai nostri documenti falsi. In più, a quanto pare, è
piuttosto facile introdurre della droga qui dentro, per cui la polizia non ci
andrà leggera.
Probabilmente neanche con noi, ma al momento è l’ultimo dei miei
pensieri.
Tutto ciò che accade dopo è evanescente, come se qualcuno avesse
spento la luce e mi avesse tappato le orecchie. Adesso sono io a tenere
Anais fra le braccia. È pallida. Troppo. Le accarezzo il viso, le labbra con il
pollice, tentando di dar loro colore. È come morta e io mi sento morire con
lei.
Sembra così fragile fra le mie mani e avverto la disperazione farsi largo,
spintonando, attraverso i miei organi, atrofizzandomi stomaco e cuore ma
non la mente. Quella è vigile e sta pregando Dio che non accada nulla alla
mia Honey.
«Quanto cazzo ci mettono?» grido a qualcuno. Forse a Brad, che si
accerta che l’ambulanza sia stata davvero chiamata. Il suono delle sirene mi
fa tirare un sospiro di sollievo.
Anais mi viene strappata via, adagiata per terra. I paramedici m’intimano
di stare indietro, di farli lavorare, ma Liam deve tenermi buono, perché
l’ultima cosa che voglio è lasciarla.
Osservo la scena che si svolge davanti ai miei occhi come se fossi
sott’acqua. Le controllano il polso, le bloccano il collo con il collare
cervicale, lo stesso che misero a Zach quella volta, poi le infilano una
mascherina per l’ossigeno e la sistemano sulla barella.
Sono vagamente cosciente del silenzio irreale che è calato in questo
posto. Vagamente cosciente di Eva, Faith e Breanna che singhiozzano e
della polizia che si sta occupando del bastardo che ho quasi ammazzato.
«Des, forse è meglio che parli con i poliziotti» mi avvisa Ian.
«Devo andare con lei…»
«È in buone mani, amico. Ci sono le ragazze, potrai raggiungerla dopo»
cerca di farmi ragionare. «Quel bastardo ti denuncerà per aggressione. Devi
dire loro che cos’è successo.»
«Credi che m’importi?»
«Dovrebbe» interviene Brad. «Se finisci dentro, lei rimarrà da sola.»
So cosa sta tentando di dirmi e ha ragione. Con Jeremiah in giro non
posso permettermi di farmi mettere fuorigioco.
E poi c’è Violet. Stasera è venuta qui perché c’eravamo noi. Aveva uno
scopo, non ci sono dubbi, e il fatto che la mia ragazza sia su una barella, in
una cazzo di ambulanza, ne è la prova.
«Dove la state portando?» chiedo a uno dei paramedici.
«Lei è un parente?»
«Sono il suo ragazzo.»
Lancio un’altra occhiata ad Anais e una nuova ondata di rabbia mi
pervade. Il terrore di perderla mi sottomette.
Non posso lasciarla da sola.
Mi giro verso i poliziotti, ma uno di loro mi sta già raggiungendo.
Devo obbligarmi a ignorare il pezzo di merda di cui si sta occupando un
altro paramedico, altrimenti rischio di finire quello che ho iniziato.
Ignoro anche Violet. Non m’importa di vedere il suo volto insanguinato
dalla ferita che si è procurata, probabilmente cadendo. Non m’importa se
sono stato io a causargliela. Se questo fa di me un bastardo, lo accetto.
Questa ragazza non può più godere della mia benevolenza.
Jeremiah.
C’entra con lui più di quanto voglia far credere e non riuscirò mai a
dimenticare la scena di lei che osserva, mentre Honey butta giù quella
merda.
L’ho vista, cazzo!
«Ho una deposizione da fare, agente, ma la mia ragazza sta per essere
trasportata in ospedale e devo andare con lei.»
Il poliziotto annuisce. Ha un’aria paterna che spingerebbe chiunque a
fidarsi di lui. Ha capito la situazione e sembra piuttosto contrariato con il
tipo che aspettano di interrogare. «Lei è il signor?»
«Ward. Desmond Ward» rispondo impaziente. «È possibile chiederle di
seguirmi in ospedale per raccogliere la deposizione?»
«Presumo di sì» mi dice comprensivo.
«Allora la aspetterò. La ringrazio, signore.»
Pochi secondi dopo, siedo accanto alla mia ragazza inerme e attaccata a
una macchina che fa paura, in uno spazio angusto e asettico, mentre le
sirene riecheggiano per le strade di Los Angeles ricordandomi ogni secondo
che cosa stava per accadere.
Le stringo la mano. È fredda.
Mi accorgo che sul suo corpo non ci sono ferite. Non c’è sangue, il suo
splendido volto è intatto, solo troppo pallido. E dannazione!
Quest’ambulanza non va abbastanza veloce.
23.
Anais
Procedo a tentoni, cercando la porta che dà sul tetto. Non devo correre, è
opportuno restare calmo altrimenti qualcuno si insospettirà, ma è difficile
quando l’unica cosa che vuoi è assecondare il tuo bisogno di vendetta.
Affissa sulla parete di un corridoio c’è una planimetria dell’ospedale.
Capisco da che parte andare e mi dirigo a destra, dove individuo una porta
con un grosso maniglione antipanico.
Conto i miei passi, cerco di dare un ritmo rilassato ai miei piedi – specie
quando incontro un gruppo di infermiere – ma il mio cuore è indiavolato e
la mente è in fermento.
Braden è dietro di me, mi segue ciecamente, tuttavia quando
cominciamo a salire le scale, prova a farmi ragionare un’ultima volta.
«Ne sei sicuro?»
«Più della mia stessa vita» gli confermo.
«Sei disarmato, Des. Se lui avesse un’arma?»
«Vedremo.»
Sono talmente accecato dall’ira che non ho considerato questa ipotesi,
eppure dovrei, perché Jeremiah è un uomo pronto a tutto.
Ma che importa ormai?
Voglio che paghi per quello che ha fatto.
Voglio che paghi per i suoi piani, per aver coinvolto la mia Honey nel
suo sporco gioco. Voglio che paghi per avere anche solo pensato di poterla
toccare.
La marmitta di un’auto scoppia giù in strada, l’odore del traffico
cittadino mi arriva pungente alle narici. Siamo fuori, è quasi l’alba, e mi
guardo intorno alla ricerca del bastardo.
«Vieni fuori!» urlo.
Fa la sua apparizione da dietro un muretto. Subito, perché mi stava
aspettando. La sua andatura claudicante lo farebbe apparire inoffensivo a
chiunque, ma so che non è così.
Ha una pistola fra le mani e la cosa stranamente mi fa sorridere.
«Stavolta sei venuto armato» lo provoco. «Non ti bastano più le tue
luride mani per minacciarmi?»
«Ti sei fatto grande e grosso. Ho solo preso delle precauzioni.»
Il suo sguardo scatta su Braden e fischia di approvazione. «Bene bene. Il
piccolo Brad.»
Il mio amico stringe i pugni e il suo sguardo si fa duro. Credo che in
questo momento stia facendo i conti con lo schifo che Jeremiah riesce a
rievocare.
«Sai, ho pensato molto a te, in questi anni. Forse non avrei dovuto
risparmiarti. Avrei potuto avere entrambi.»
«Sei un porco schifoso» sibila Braden.
«Sì, lo sono.» Ride e si rigira la pistola fra le mani. «Ma Des mi era
entrato sottopelle e avrei fatto di tutto perché mi amasse. La sua unica
richiesta era di lasciarti stare.»
Un sudore freddo mi attraversa la schiena. Si è alzato un po’ di vento e
chiudo gli occhi per un secondo, cercando di calmarmi. Ha un’arma, noi no
e, se gliene daremo motivo, sono sicuro che la userà.
Una porta si apre e con orrore mi rendo conto che qualcun altro è salito
fin quassù.
Sento dei passi concitati ed esito un po’, poi mi muovo in quella
direzione, come se potessi scongiurare la reazione di Jeremiah.
«Sta’ fermo!» mi intima infatti.
Ha l’arma puntata verso la porta.
Nel viso di Braden c’è il mio stesso timore di veder comparire qualcuno dei
nostri amici.
«Desmond.» Luc mi sta venendo incontro, sollevato. «Grazie a Dio sei
qui. Quella ragazza… mi ha detto che…» Poi si accorge dell’uomo che lo
tiene sotto tiro e si blocca.
«Così è lui la feccia che ti ha messo le mani addosso.»
«Per servirla, signore.» Jeremiah si fa beffe della sua collera.
«Ho chiamato la polizia. Metti giù la pistola e arrenditi.»
Ma anziché essere intimorito, il bastardo ghigna e agita la pistola per
spaventarci.
Per un attimo la mia mente mi mostra ciò che potrebbe accadere,
illudendo ogni altro senso: il rumore sordo del colpo, dovuto al silenziatore,
poi lo schianto del proiettile contro il corpo di Luc e la polvere da sparo che
odora di morte.
Scrollo e il capo e allontano quell’immagine.
«Che cazzo fai?» urlo. «Vuoi davvero ucciderci? Sei un pedofilo. Un
cazzo di pervertito, ossessionato dai bambini che ha violato, ma non sei un
assassino. Vuoi diventare anche quello?»
«E tu?» Mi sorprende con quella domanda. «Perché sei venuto qui? Non
vuoi forse uccidermi?»
È vero, ma non lo dico. Il suo sguardo è spiritato, probabilmente si è
fatto di coca o chissà che altro.
«Sei il mio bambino, Des. Ti ho sempre amato. Non mi ami anche tu?»
Con la coda dell’occhio noto che Luc trasalisce.
Sono sicuro che, se azzardassi uno sguardo nella sua direzione, vedrei lo
sdegno trasformagli il volto, ma conosco Jeremiah tanto da essere sicuro
che se lo facessi, capirebbe che è importante per me e lo userebbe per
colpirmi.
«Vieni da me, Des. E lascerò andare loro due.»
«Non ti azzardare a toccarlo» lo minaccia Luc.
Lo sguardo del mio aguzzino diventa truce. Torna a puntargli l’arma
contro e spara un colpo fra i suoi piedi. «Stanne fuori. Va’ via, tu non
c’entri con la nostra storia.»
«Non c’entro, dici? Vuoi mettere le mani su mio figlio. C’entro
eccome!»
Merda! No!
L’espressione di Spector adesso è di stupore, poi si tramuta in odio e
osservo con orrore il suo dito muoversi di nuovo sul grilletto.
«Tuo figlio…» sibila.
Mi affretto a dire qualcosa. «Cosa sarei io?» Mi rivolgo a Luc,
deridendolo.
«Non sarai mai mio padre e non sarò mai il figlio che hai perso. Dovevi
lasciarmi stare.»
Lo sgomento che lo attraversa dura un attimo, perché capisce. Grazie a
Dio lo fa e mi regge il gioco.
«Des… ti voglio bene.»
«Davvero? Che grande perdita di tempo!»
Jeremiah sogghigna. È soddisfatto. Riconosce il ragazzo che ero un
tempo, quello che ha rovinato affinché diventasse detestabile, talmente
chiuso in se stesso da non fare avvicinare nessuno, così lui sarebbe stato
l’unico.
È chiaro che s’illude di poter essere l’unico ancora adesso, per cui
continuo a mentire.
«Lasciatemi da solo con lui.»
«Che cosa?» ansima Brad.
So che gli sto chiedendo l’impossibile, ma non c’è un’altra soluzione. A
questo punto spero che le parole di Luc siano vere e che abbia chiamato la
polizia. Sono stato uno stupido a credere di poter gestire questo pazzo da
solo.
La realtà dei fatti comincia a penetrare nella mia mente accecata
dall’odio e inizio a tremare. Non di paura, ma per la smania di ucciderlo.
«Andate via, ho detto!»
Luc e Braden si lanciano un’occhiata, poi annuiscono.
«Trovate una scusa plausibile per gli sbirri, altrimenti lui…» Fa cenno
verso di me, e usa ancora quella maledetta pistola che turba mio padre e il
mio migliore amico.
«Be’, non vorrei farlo, ma se mi costringete non avrò altra scelta.»
Luc compie un passo in avanti e lo ammonisco, scuotendo lentamente il
capo per implorarlo di fare come ha detto.
Con riluttanza li vedo voltarmi le spalle e andare via. Resto solo con
Spector e sento l’adrenalina pomparmi nelle vene.
Il mio pensiero corre ad Anais e quel cuore che sento indurirsi piano si fa
liquido in un istante.
La rivedrò?
Dio, mi auguro di sì!
Ma se non dovesse essere, spero che si riprenda, che il dottore possa
davvero risvegliarla e che viva la sua vita, così come ha imparato a fare,
quando credevamo di avere a disposizione tutto il tempo del mondo.
«Siamo soli, ora. Poniamo fine a questa pagliacciata.» Ansimo, mentre
lo osservo sorridere, al di sotto della barba.
Adesso la porta più lunga, eppure i lividi che gli ho lasciato addosso con
il mio pestaggio sono lo stesso evidenti.
«Credi che sia una pagliacciata, Des?»
«Dipende…» lo provoco. «Sappiamo entrambi come finirà.»
Il suo ghigno si spegne piano. «Sono malato. Cancro alle ossa, hanno
detto. Pare che mi resti poco. Credi davvero che m’importi se mi uccidi?»
No, a questo punto non può importagliene, ma il cancro non è una
punizione sufficiente a scontare gli abomini che ha compiuto.
«Morirò comunque» aggiunge. «E tu verrai con me.»
«Scordatelo!»
«Cosa?»
Lo sto sfidando, ma non ho alternative per sperare di uscire vivo da
questa situazione, quindi cerco di far leva sull’ossessione che ha per me.
«Credi di poterlo impedire?» ringhia.
«Dici di amarmi ma vuoi uccidermi. È un controsenso, te ne rendi
conto?»
«Nessuno deve averti. Non ti avrà lei» sputa fuori.
«Oh, quindi è questo? Non ti piace l’idea che qualcuno mi ami.»
«No» risponde e la sua voce trema un po’.
«Senti…» Comincio ad avvicinarmi e la pistola fra le sue mani per un
attimo vacilla, poi lui rafforza la presa.
«Ho pensato che a un certo punto sarei stato in grado di farti uscire dalla
mia mente. Ho tentato di soffocare il tuo ricordo con ogni mezzo e, quando
è arrivata Anais, mi sono illuso che lei potesse riuscirci. Ma sai una cosa?»
Mi sta ascoltando, resta zitto e mi dà sui nervi. La mia non è una fottuta
dichiarazione d’amore, ma nella sua mente bacata evidentemente appare
così.
«Ti ho chiesto: sai una cosa?» sbraito. «Rispondi, cazzo!»
«Cosa?» urla a sua volta.
«Resterai sempre dentro di me, perché sei come il cancro che ti sta
divorando, Jeremiah Spector. Morirò, oggi o fra cent’anni, ma lo farò
pensando a te, bastardo!»
Fa più caldo, adesso. Il vento si è fermato e sento l’odore pungente del
suo sudore.
È compiaciuto. Sta sorridendo, come se lo avessi liberato da un peso, ma
tiene ancora l’arma puntata su di me.
«Vuoi spararti?» chiedo.
Si guarda intorno. «Prima tocca a te. È un bel modo per morire. Rapido e
indolore. Un colpo alla tempia e… Bang! Sei già bello che andato.»
Tira fuori una busta trasparente dalla tasca e la butta fra i miei piedi.
«Ma prima…»
Quando lo guardo con sconcerto, fa spallucce.
Sta per ucciderci entrambi, dannazione! Vuole drogarsi ancora adesso?
«Sempre meglio di farmi avvelenare il sangue con quella roba che mi
hanno proposto i medici. Questa farà sentire meglio entrambi.»
Con la coda dell’occhio noto Luc. Sta scivolando dietro i motori dell’aria
condizionata.
Non se n’è andato, cazzo!
Cerco di spostarmi davanti a Jeremiah per catalizzare la sua attenzione,
ma quando lo faccio, mi accorgo che alla mia sinistra Braden sta facendo lo
stesso.
Ci stanno accerchiando e a questo punto non so se essere incazzato
perché non hanno fatto come gli ho detto, o sollevato dal loro aiuto.
«Hai qualcosa con cui tagliarla?» domando.
Infila di nuovo la mano in tasca e cerca.
Mi inginocchio su un muretto, ma non toccherò questa roba. Nessuno di
noi due fa niente per un po’. Osservo la punta dei suoi scarponi davanti a
me e solo quando il silenzio si fa sudicio di ricordi alzo lo sguardo.
«È più forte di me, anche con la morte che mi soffia sul collo, vederti in
ginocchio mi eccita.»
«Non sono più un bambino.»
«E per tua sfortuna io non sono solo un pedofilo.»
«Hai detto che mi ucciderai.»
Si accarezza sulla patta dei pantaloni e cerco di prendere tempo.
«A che ti servirebbe questo?» sibilo con disprezzo.
«Non lo so» fa spallucce. «A morire felice?»
Gli sputo sulle scarpe. «È più forte di me» gli faccio eco per
sbeffeggiarlo. «Uccidimi adesso e facciamola finita. Preferisco saltare
questo romantico interludio.»
Il suo sguardo cambia e si fa di ghiaccio, mi afferra per i capelli e mi tira
su con forza, tanto che sento sanguinarmi lo scalpo.
«Ti senti tanto migliore di me, eh?» La sua faccia è a un soffio dalla mia
e ogni perversione che quest’uomo mi ha inflitto brucia nella mia mente
come frustate sulla pelle.
«Lo sono» gracchio. «Sono migliore di te. Cento volte migliore di te,
cazzo!»
«Eri un bastardo che nessuno voleva e ti ho accolto nella mia casa
come…»
«Come un figlio?» sghignazzo.
«Le cose che mi hai fatto si fanno a un figlio?»
Non risponde e spero di averlo deconcentrato abbastanza da permettere a
Luc e Brad di fare la loro mossa.
La pistola mi oscilla pericolosamente vicino al viso. Ha il volto
trasfigurato dalla rabbia, è prossimo a perdere il controllo.
«Bene, allora!»
Tira su col naso e stringe la bocca in una linea dura. «Abbiamo appurato
che siamo entrambi degli scarti umani.»
«Tu. Tu lo sei. Io ero solo un bambino.»
«Ma ti ho contaminato come mio padre ha fatto con me» sputa fuori con
astio. «Diventeresti lo stesso uomo che adesso odi. Faccio un favore
all’umanità se ci uccido.»
Ci siamo spinti verso il cornicione che delimita il palazzo e adesso non
so più quale sia la sua intenzione, se spararmi o buttarmi di sotto.
Quando mi punta la pistola alla tempia, stringo gli occhi.
«Ti amo, bambino.»
«E io amo lei» rispondo, spalancando gli occhi, per guardare l’uomo che
ha tentato di distruggermi; capisco per la prima volta che non c’è riuscito e
che io e Anais avremmo potuto avere la vita felice che ci spettava.
«Buon viaggio, Des» sussurra, caricando l’arma.
Braden spunta da destra e il movimento improvviso costa a Jeremiah un
attimo di letale sorpresa.
Gli afferro il braccio con il quale impugna l’arma, inclinandolo fino a
quasi spezzarlo. Cerco di disarmarlo, ma non ci riesco. Urla per il dolore,
tuttavia resta in piedi, seppur barcollante. Sto per caricare un pugno per
metterlo fuori combattimento, ma Luc interviene e gli dà una spinta che lo
fa indietreggiare, poi un’altra con la quale perde del tutto l’equilibrio. In
questo momento realizzo due cose: mio padre indossa dei guanti da
infermiere e ha preventivato di ucciderlo al posto mio.
Osservo con un misto di orrore e sollievo il corpo di Jeremiah cadere
all’indietro. La sua schiena si reclina, formando un arco scomposto. È
completamente sbilanciato e un attimo dopo precipita nel vuoto.
«Buon viaggio a te, coglione!» sussurra Luc, sporgendosi per vedere.
Non ho il coraggio di guardare, Braden nemmeno. Restiamo così,
ansimanti e sconvolti da quello che è appena successo, mentre quel senso di
liberazione che avevo agognato mi scivola addosso, ma come una coltre
pesante.
Non è la sensazione che avevo creduto di provare.
«Dobbiamo andare via da qui.»
Annuisco ancora in trance. È come se scorresse ghiaccio nelle mie vene
e sento freddo. Un terribile freddo simile a quello che ho provato la prima
volta che quell’uomo ha abusato di me.
«È morto. Mi senti, Des?» Luc mi scuote. «È finita, figlio mio.» Mi
abbraccia e parte del gelo che mi attraversa si dissipa.
«È davvero finita.»
26.
Desmond
Senza paura.
«Questa canzone…»
«Ho fatto una playlist pensando a te.»
Ricaccio indietro le lacrime e tiro su col naso.
«Mi rimangio quello che ho detto. Sei uno stronzo.»
«Perché?» domanda indignato.
«Perché stai tentando di farmi piangere» mormoro, poi gli bacio la spalla
e mi sistemo meglio, più innamorata che mai.
Mi assopisco e solo quando sento l’auto fermarsi, apro gli occhi e mi
raddrizzo.
Siamo sul nostro promontorio, quello delle battaglie perse e vinte, quello
degli addii e dei ritorni.
Des mi sta fissando. Pensa lo stesso, lo vedo nei suoi occhi. «Nel bene e
nel male, questo posto ci ha visto amarci in tutti i modi possibili.»
Oddio!
«Perché vuoi farmi piangere per forza?»
«Solo di gioia… Scendiamo.»
Estrae dal bagagliaio un cesto da pic-nic e mi afferra la mano.
Sistema una coperta per terra e poi mi guarda. «Voilà, mademoiselle. Si
accomodi pure.»
Lo faccio, sorridendo e lo osservo tirar fuori due calici, dello
champagne, un contenitore con della frutta, un altro con del formaggio e del
pane bianco.»
«Wow!» esclamo. «Hai fatto tutto da solo?»
Fa spallucce, imbarazzato. «Mi ha aiutato mia madre.»
E una farfalla mi svolazza nel petto.
Sua madre.
Quante cose sono cambiate in così poco tempo?
Vorrei gettarmi fra le sue braccia, ma mi fermo perché desidero godermi
questo momento, perché per tutto il tempo della nostra folle storia, abbiamo
corso come disperati contro un tempo che sembrava dover scadere da un
momento all’altro.
Desmond mi sta fissando ed è serio. Siamo consapevoli che questo
istante sarebbe dovuto arrivare tempo prima, che questo destino avrebbe
potuto risparmiarci un bel po’ di sofferenza, ma che tutto sommato ci ha
regalato la cosa più preziosa.
Ha lasciato entrambe le portiere aperte e l’autoradio accesa, e dalla
macchina risuona forte un’altra canzone. La melodia è struggente e le
parole gocce di verità stillate una dietro l’altra per colpirmi.
«Come si chiama?
«Rise up. È di Andra Day» mi risponde.
Le sue braccia mi stringono, il suo viso è vicino al mio. Mi bacia con
tenerezza e a occhi aperti.
«Non voglio mai più stare lontana da te.»
Mi accarezza i capelli e osserva ogni parte del mio volto. «Mai più.»
«Oh, Des!» esclamo, prima che prenda possesso della mia bocca, poi si
stacca e il suo tono è urgente. «Domani debutterò in squadra e voglio che tu
sia lì, fra gli spalti riservati alle mogli e alle fidanzate, a tifare per il tuo
uomo.»
Ha fatto strada così in fretta! Era convinto di restare in panchina per
mesi, invece il grande giorno è arrivato presto, ma non avevo dubbi.
«Ci sarò.»
Tira fuori una scatolina dalla tasca e me la porge. «So che è presto e…
tutto il resto» comincia e sento il mio cuore tremare. «Siamo giovani,
abbiamo mille progetti su cui lavorare e questo anello», bacia il mio
tatuaggio, «è più di una promessa. Si avvererà, stanne certa. Ma adesso
voglio fare un primo passo con te, Anais Kerper.
Ce ne saranno tanti altri e ho bisogno di sapere che sei pronta a
camminarmi accanto.»
Annuisco come una stupida, incapace di articolare un “sì”.
«Bene!» Si morde il labbro e apre la scatolina, mostrandomi il
contenuto: è una catenina d’oro bianco con un ciondolo a forma di chiave,
tempestato di brillanti.
«Ho ricevuto il primo anticipo e…» tentenna, in difficoltà. Vorrei
rassicurarlo, ma sto trattenendo il fiato e voglio che dica ciò che penso stia
per dire.
«Ho preso una casa per noi due, Honey. Se non ti piace, ne vedremo
altre. O se credi che sia troppo presto, aspetterò, tesoro, ma voglio stare con
te.»
«Des…»
«Dio, lo voglio così tanto e mi ero preparato un discorso degno di te, ma
non ricordo nemmeno una parola, piccola…»
«Des» lo scuoto.
«Che c’è?» ansima.
«Sì.»
«Sì, a cosa?»
«Voglio vivere con te e non vedo l’ora di vedere la nostra nuova casa.»
Spalanca gli occhi e deglutisce. «Non pensi che sia troppo presto?»
«No.» Rido.
Sembra confuso e gli indico la scatolina.
«Pensavi davvero che potessi dirti di no? Certo, per i miei sarà
l’ennesimo shock, ma ormai i Kerper ti vogliono bene. Tutti.»
Sdrammatizzo, consapevole però che sto dicendo la verità.
Dal mio risveglio sono cambiate molte cose. Mio padre e mia madre
sembrano rispettare le mie decisioni e hanno cercato un chiarimento perfino
con Eva. Mia sorella, tuttavia, non tornerà a casa. Lei e Abel hanno
cominciato la loro vita insieme e sembra andare tutto a gonfie vele.
Des scuote il capo, come se volesse rischiararsi i pensieri. «È solo che
non credo alla mia fortuna.»
Oh, il mio bellissimo e tormentato ragazzo!
Come può pensare che lui non sia la mia?
«Allora» lo incito. «Adesso vorrei proprio indossare il tuo regalo.»
Si guarda le mani e si riscuote. «Certo! Che stupido!»
Mi giro e mi allaccia la catenina, sfiorandomi il collo. Una bretellina del
vestitino che indosso mi scivola sulla spalla e lui la rimette a posto,
poggiando un bacio in quel punto che sa mi fa fremere.
«Sei così bella!»
Mi volto per prendergli il viso fra le mani. «Tu. Tu sei bello. Hai
combattuto per te stesso. Hai combattuto per noi.»
«Non ho sempre preso decisioni giuste.»
«Hai preso le migliori che si potessero prendere.»
«Ma non ti ho tenuta abbastanza al sicuro» replica.
«Non sei un supereroe, Desmond Ward. Hai fatto del tuo meglio.»
Annuisce, un po’ scettico. So che si sente in colpa per quello che mi è
accaduto, ma non riesco a capire come faccia a colpevolizzarsi per le azioni
di quel folle.
«Parlami di questa casa» lo incoraggio per cambiare discorso e, infatti, il
suo viso si rallegra.
«È bellissima, spaziosa e con una bella vista sull’oceano.»
Mi tiro su, entusiasta e incredula. «Hai comprato una casa sulla
spiaggia?»
«Sì.»
«Des, sei pazzo! Ti sarà costata un botto.»
Sorride e scrolla le spalle. «Se le cose vanno come credo, riuscirò a
estinguere il debito in un paio di anni.»
«È troppo...»
«Cos’è troppo?» Mi attira a sé e mi stringe, portando le sue labbra a un
soffio dalle mie. «L’oceano è troppo, per averti al mio fianco? Le stelle,
Anais, quelle che guarderemo la sera, accoccolati sulla spiaggia, sono
troppe?» Mi bacia e assaporo le sue labbra come un’assetata, mentre con la
lingua mi fa capire che tutto quello che mi darà non sarà mai troppo.
Si sfila la maglietta e resta a petto nudo. È in quel momento che lo vedo:
un tatuaggio sull’altro pettorale. Un cuore, avvolto dallo stelo di una rosa,
ma quando mi avvicino per toccarlo, mi accorgo che in realtà lo stelo è una
scritta: Amor vincit omnia. E sul bocciolo blu c’è il mio soprannome:
Honey.
Con le dita lo sfioro e lui trasalisce, serra gli occhi e inspira fra i denti,
come se gli avessi fatto male.
«Io… Non ho parole. È bellissimo.»
Una lacrima mi scivola lungo la guancia finché cade sulle mie gambe
nude, su una delle cicatrici al loro interno. Poi un’altra, stavolta bagna un
vecchio taglio che non ero riuscita a incidere più a fondo sui miei polsi.
Nessuno di noi due le asciuga, perché abbiamo imparato che le nostre
fragilità non vanno nascoste o combattute. Vanno solo affrontate insieme.
Appoggio le labbra sulle sue e lo bacio dolcemente, ma lui afferra la
mano che tengo sul suo petto, spingendola contro la sua carne; con l’altra
ghermisce piano la mia nuca, approfondendo il bacio. Mi invita a sdraiarmi.
Esplora le mie curve, la mia bocca, sonda i miei occhi nel solito modo
intenso che mi fa tremare le gambe.
Gemo e Des mi fa eco.
Il tempo si dilata all’infinito, poi si ferma. Resta questo momento in cui
le onde s’infrangono sulla scogliera, come se volessero salire ad
abbracciarci. E il cielo si rischiara. Brilla di un celeste più intenso, il sole gli
fa compagnia e il mio cuore impazzisce.
«Ce lo meritiamo» ansimo sulle sue labbra. Esibisce un sorriso sexy,
finalmente libero da ogni ombra, e il respiro mi s’impiglia in gola.
«Ho passato tutta la vita a desiderare ciò che non potevo avere. Ho
sperato di diventare qualcun altro e dimenticare chi ero e, quando ho
smesso di volere tutto questo, sei arrivata tu. Sei stata la mia rivincita,
Honey. Adesso so che il mondo mi ha preso a pugni al solo scopo di darmi
te alla fine. E sai che c’è?» Mi guarda come se vedesse solo me e sono certa
sia realmente così. «C’è che quei pugni tu li vali tutti. E che questa fine è
l’inizio migliore in cui potessi sperare.»
«Senza paura?» aggiungo soltanto, ormai in singhiozzi.
Annuisce piano, si stende sopra di me e fa leva sui gomiti per non
schiacciarmi. «Senza paura.»
Senza. Paura. Ed è meraviglioso.
Ringraziamenti
Prefazione
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
19.
20.
21.
23.
24.
25.
26.
27.
Ringraziamenti