Sei sulla pagina 1di 234

TUTTO IL TEMPO TRA NOI

SARA PURPURA
Copyright © 2017 by Sara Purpura
Prima edizione: Giugno 2017
Foto coppia: Satura_
Creazione grafica: Le muse – Grafica
A mio marito,
la luce nelle mie notti buie.
Viviamo un tempo
che ci è ancora avverso,
nonostante tutto quello
che ci ha preso.
Affrontiamo il domani,
giorno per giorno,
ma senza riuscire
a vedere oltre,
e ci lasciamo sopraffare
di rimpianti e sconforti.
Ma l’amore che ci unisce,
troverà sempre il modo
di emergere con prepotenza,
dando al nostro noi,
tutto il tempo del mondo
per battere sempre,
con più forza
e alla fine,
vincere.

©Lucy Dale
Prefazione
A cura di Giovanna Mazzilli

Leggere un libro di Sara Purpura è sempre un viaggio.


Un viaggio alla scoperta di sentimenti forti, un viaggio che ti permette di
denudare la tua anima, un viaggio che difficilmente scorderai perché vorrai
portartelo dentro per sempre. E con Desmond e Anais il viaggio è stato
difficile, sì, ma incredibile.
Si soffre con loro, si gioisce, si ama e si odia in modo viscerale.
Ecco cosa crea Sara con la sua penna. Rende vivi i personaggi, ti fa
innamorare di loro e ti permette di provare emozioni così forti che, quando
finisci la lettura, ne esci estasiato ma anche malinconico. Perché mentre
Sara scrive, non coinvolge solo la mente e il cuore ma anche un pezzo della
sua anima e questo si nota.
La cosa che non tutti riescono a percepire è che in ogni libro che scrive,
quel piccolo pezzettino è sempre intriso di un qualcosa di differente. Ecco,
questa trilogia è colma di speranza. Desmond ha sempre sperato che la sua
vita cambiasse. Anais ha sempre sperato d’incontrare qualcuno che
riuscisse a comprendere il suo vero io. Ed entrambi hanno sempre sperato di
meritare un amore così forte come il loro. Perché la speranza non ti fa
affondare nell’abisso. Perché sperare, significa avere la forza di attendere
qualcosa di buono che, alla fine, arriverà. E loro non hanno mai smesso di
farlo.
Il viaggio con Des e Anais è stato lungo. La loro storia è durata tre libri,
ma con Tutto il tempo tra noi purtroppo siamo giunti alla conclusione. La
fine è da cardiopalma, ed è una fine che, in fondo, proprio fine non è,
perché questa storia è così bella che sarà ricordata per sempre.
L’amore che lega i due protagonisti è unico e così forte che è in grado di
spezzare le catene che tengono Des legato al suo passato. Quel passato che
si è manifestato con prepotenza e che non ha ancora finito di massacrare la
sua anima. Quel passato che s’insinuerà ancora tra Des e Anais e tenterà di
rovinare il buono che hanno costruito insieme.
Tutto il tempo tra noi vi farà arrabbiare, vi farà sorridere, vi farà venire
voglia di gridare, ma poi vi farà innamorare.
Des e Anais comprenderanno che la felicità non è un dono gratuito, ma
che va conquistata con le unghie e con i denti.
Vi consiglio di leggere questo romanzo con la mente e il cuore svuotati.
Ma non preoccupatevi, grazie a Sara già dalle prime pagine si riempiranno
di nuovo. Non potrete fare a meno di assimilare la loro passione, le loro
emozioni ma soprattutto il loro amore.

Giovanna Mazzilli
1.
Desmond

Il dolore fa più male


se resta in silenzio.

Quando si è adulti, si pensa spesso ai giorni in cui si è stati bambini, con


nostalgia e una punta di tenerezza.
Talvolta, si vorrebbe tornare indietro per rivivere quei giorni, invece io
avrei voluto dimenticarli e non mettere più piede nel mio passato, nemmeno
nei miei sogni.
Ma come sempre accade a chi vuole disperatamente uscire dalla fossa
che gli hanno scavato, il passato ti viene a cercare, specialmente se gronda
sangue e immondizia come il mio. Se sa di piscio e ha la forma di un uomo
barbuto, dalle mani grosse, sporche di terra, che puzzano di erba appena
falciata e di carburante per il tosaerba. Soprattutto se ha il cognome che ha
infestato i tuoi incubi.
Spector.
Allora come oggi, la nausea mi risale dallo stomaco e rimetto tutto nel
water, mentre Violet è seduta di là, ancora sconvolta e in lacrime.
È per questo che non me la sono sentita di mandarla via. Per questo e
perché mi deve delle spiegazioni, porca puttana!
Da quanto sapeva che Jeremiah, il suo patrigno, era il mostro che ha
abusato di me?
Il nostro incontro è stato davvero un caso? O c’era un folle piano dietro
la sua amicizia e il suo interesse nei miei confronti?
Mi accascio, con la schiena contro le piastrelle fredde del bagno, e cerco
di calmare il mio respiro. È come se quel bastardo me lo stesse sottraendo
piano piano.
Vorrei chiamare Anais. Non può immaginare cos’è successo in questa
stanza pochi minuti fa; sento l’urgenza di aggrapparmi a lei perché sto
vacillando pericolosamente, eppure so che devo fare questa cosa da solo. La
mia Honey non c’entra niente con questo schifo e non voglio che il mio
passato la tocchi.
Neanch’io avrei dovuto contaminarla, lo sapevo anche quel giorno di
parecchi mesi fa.
La mia ragione è andata a farsi fottere nel momento in cui ho incrociato i
suoi occhi.
Non la meritavo ed era logico che prima o poi tutto questo sarebbe
tornato a sommergermi come una marea che non ti aspetti, ma da egoista
l’ho ignorato perché la bramavo come un pazzo e ho ascoltato solo quello:
il desiderio di averla.
Quando la stanza smette di girare, mi tiro su. Devo ripulire il casino che
ha fatto quel bastardo davanti al mio appartamento. Qualcuno potrebbe
vederlo, se non è già troppo tardi. E allora dovrò inventarmi una scusa
plausibile per sedare ogni pettegolezzo.
Esco dal bagno con un panno bagnato premuto sulla bocca. Non degno
Violet di uno sguardo e mi dirigo verso la porta, spalancandola.
Afferro il coniglio squarciato e lo getto nella spazzatura, poi recupero un
secchio, lo riempio d’acqua e detersivo e con uno straccio ripulisco il
sangue dalla porta e dal pavimento.
Ecco fatto! Adesso è tutto pulito, ma dentro di me è il caos e adesso non
so che cazzo fare.
Violet tiene lo sguardo basso sui suoi piedi. Si tortura le mani, ma non si
azzarda a dire nulla. Mi dovrebbe sembrare indifesa dopo quello che mi ha
raccontato. Dovrei provare pietà per la bambina violata che è stata e per la
donna che forse ancora oggi subisce le attenzioni di quel porco, eppure
riesco solo a pensare che mi ha mentito e che non potrebbe essere
altrimenti; le nostre strane telefonate, quando io ero a Las Vegas e lei era a
casa, adesso hanno un perché. Mi erano sembrate esagerate, mi avevano
confuso e fatto sentire in colpa, ma adesso il mio istinto mi porta a pensare
che c’entri Spector.
Lego il sacchetto della spazzatura e mi precipito dabbasso per
disfarmene. Mi guardo intorno prima di tornare di sopra, sperando di
scorgere quel maledetto furgone bianco.
L’adrenalina pompa ancora nelle mie vene e l’unica cosa che vorrei
adesso è trovarmi di fronte Jeremiah e finire quello che ho cominciato anni
fa…

La prima settimana in casa Spector non ho capito con chi avevo a che
fare, non l’ho compreso nemmeno la seconda, quando ha infilato la mano
sotto le mie lenzuola e mi ha toccato. Ho finto di dormire. La sua è stata
solo una carezza e, per quanto la cosa mi sembrasse sbagliata, ho lasciato
stare e ho evitato di parlarne con l’assistente che monitorava l’affido. La
terza settimana, ha iniziato a masturbarmi e io mi sono opposto. A quel
punto ho realizzato che da lì in avanti avrei dovuto temere il giovedì.
Oggi è giovedì e, come di consueto, lui rientra a casa tardi.
Quando s’infila dentro la camera in cui dormiamo io e Braden, puzza
più del solito e avverto subito la sua presenza.
«Non stai dormendo, Desmond. Lo so che mi aspetti, piccolo.»
Piccolo… io lo aspetto… è davvero convinto di questo.
Scosta le coperte dal mio corpo e mi sforzo di restare immobile. È
un’impresa cercare di controllare il respiro, alla fine finisco per trattenerlo
e i polmoni cominciano a bruciare implorando sollievo. Intanto prego.
Prego che se ne vada via e che stavolta mi lasci stare. Li sento, i suoi passi,
sulla morbida e linda moquette che sua moglie tiene pulita in modo
maniacale, e so perfettamente verso chi si sta dirigendo.
Lo fa sempre. Si avvicina al letto di Braden, quando scopre il mio
inganno, perché sa che lo fermerò e che mi arrenderò alle sue perversioni
purché lo lasci in pace.
Scatto in piedi, ansimando, stringendo i pugni, ogni emozione e gli
occhi.
Non voglio piangere.
Non avrà anche le mie lacrime.
La prima volta ho pensato potessero bastare a fermarlo, ma più
piangevo, più l’orco godeva e da quel momento non ne ho più versato una.
«Bravo bambino!» lo sento sussurrare e si tocca la patta dei pantaloni
di velluto a costine.
È tutto così sbagliato qui dentro.
Le pareti blu, con le nuvole bianche dipinte, fanno da sfondo a questa
situazione immonda; la lampada accesa sul mio comodino proietta sul
soffitto tante minuscole stelle.
È tutto in ordine: i nostri letti, l’armadio che dobbiamo rassettare ogni
giorno, ma l’unica cosa che vorrei mettere via e chiudere a chiave a
marcire per non rivederla mai più è qui, davanti a me, e mi fa cenno con la
testa di andare verso la porta che dà sul garage, dove lui mi consumerà.
Ogni giovedì.
Si prende un pezzo di me, mentre spero che finisca presto. Mentre prego
un Dio che non esiste affinché afferri un’altra parte della mia umanità fino
a non lasciarmi più niente.
Purché faccia meno male.
Purché la sua faccia smetta di perseguitarmi anche nei sogni.
Lo seguo, scende lui per primo, io mi limito a fissare i miei piedi scalzi
trascinarsi sulle scale di legno come se non mi appartenessero, e per una
frazione di secondo sogno che sia davvero così.
Non sono io questo ragazzino. Non c’è più Desmond perché lui non è
mai nato.
Tira una cordicella e il locale s’illumina. La luce è fioca, proviene da
un’unica lampada che pende dal soffitto. Il suo pick-up rosso è
parcheggiato dentro, nell’aria si sente ancora l’odore del gas di scarico.
Allungo una mano verso il cofano: è caldo. Come pensavo, è appena
rientrato.
«Poggiaci entrambe le mani e abbassa il pigiama» mi ordina. «Sarà
veloce, sono stanco e voglio andare a dormire.»
Ringrazio un Dio a cui non credo, il dolore durerà per poco. In realtà,
quello che vorrei è uccidere l’uomo che abusa di me da un mese e dieci
terribili giorni.
Con oggi sono undici.
Un mese e undici giorni e ancora non è riuscito a consumarmi del tutto.
Chissà se quel Dio approva tutto ciò.
Sento ogni cosa, mentre faccio come mi ha ordinato. Slaccia la cintura e
la butta a terra. Il tonfo e il rumore della fibbia che sbatte sul pavimento mi
fanno trasalire. Accanto al pick-up c’è il suo tavolo da lavoro. Sopra c’è
ogni sorta di chiave inglese e cacciavite, perfettamente disposti a
gradazione.
Comincio a contarli come sempre. Uno, due, tre…
Il suono della zip che si abbassa mi fa stringere gli occhi. Poi li riapro e
lo vedo, sotto un giornale di motori, scorgo il manico di un coltello. Allora
mi sposto leggermente e spero che Jeremiah non se ne accorga o che non
mi dica niente.
Solitamente, a questo punto, è troppo su di giri per ragionare. Sento i
peli ispidi delle sue gambe sfiorare le mie e m’irrigidisco.
«No, tesoro. Farà più male se ti tendi in questo modo.»
Il tono mellifluo della sua voce mi fa ribrezzo, sento la sua erezione
solleticarmi le natiche, poi le sue mani palparmi il sedere ed è in questo
momento che prendo la mia decisione.
Ha il respiro affannato, dalla bocca gli sfugge un gemito e le ginocchia
minacciano di cedermi.
Che mi uccida! Sono già morto.
Afferro il coltello e, girando su me stesso, lo colpisco. Il suo urlo è
agghiacciante, lo soffoca con una mano, con l’altra si tocca il viso, poi la
scosta incredulo. Il sangue gli fuoriesce copioso dalla guancia, gli imbratta
la camicia a quadri e macchia il pavimento. Il taglio è profondo e, mentre
mi osserva con lo sguardo spiritato, la ferita si allarga ancora di più.
Posso davvero uccidere un uomo?
Jeremiah cade in ginocchio e comincia a singhiozzare. Si prostra ai
miei piedi. Il sangue sporca anche quelli e io mi sento perduto.
Osservo le mie mani, ugualmente sporche, e per un attimo m’illudo di
aver riportato la situazione in pareggio, ma non è così.
Jeremiah Spector ha preso la mia vita e tutto ciò che di umano mi era
rimasto. Invece, lui, l’umanità non ce l’ha più da tempo.
Non mi ha ridato nulla in cambio.
Non potrà mai ridarmi nulla in cambio.
Il suono del suo pianto mi fa più paura dell’urlo di poco fa. Capisco di
avere a che fare con un pazzo e che sono l’ossessione di quest’uomo.
Le mie mani cominciano a tremare e sento il gelo scorrermi nelle
viscere.
Le sue lacrime mi fanno capire che mi odia e odia se stesso, perché ogni
giorno gli rammento che mostro disumano sia.
Mi sento fiacco, come se tutta l’energia mi fosse stata risucchiata dal
corpo in un secondo. Mollo il coltello e commetto l’errore più grande della
mia vita: lo lascio vivere.

«Adesso dovresti andartene.»


Fisso Violet, che se ne sta ancora seduta sul divano a torturarsi le mani.
Avrei tante domande da farle, ma in questo momento voglio restare da solo
e riprendere fiato. Quando però la vedo annuire e tirare su con il naso,
realizzo che non mi sto neppure chiedendo se per lei Jeremiah costituisca
un pericolo e, in un attimo, tutte le domande che credevo di poter rimandare
si riaffacciano con prepotenza nella mia mente, così la raggiungo e mi
lascio cadere stanco al suo fianco.
«E va bene!» Mi sfrego con forza gli occhi. Ho un tremendo mal di testa
e reprimo un altro conato di vomito.
«Voglio la verità» capitolo infine, guardandola freddo. «Tutta la verità,
Violet. Ogni cosa o esci dalla mia vita e non rimetterci più piede.»
Alle mie parole sussulta, penso più per il tono cupo che ho usato, poi
afferra il ciondolo che porta al collo e un flashback simile a quello che ho
vissuto pochi attimi fa s’insinua a intermittenza nella mia mente.

«Mamma, ti prego!» urla la bambina trascinata da una donna di mezza


età.
«Vieni con me» la implora, puntando i piedi per terra.
Avrà più o meno dieci anni e l’anziana la strattona in malo modo.
Qualcosa di luccicante le cade dalle mani.
«Il mio ciondolo» urla scalciando. «Nonna, ti prego. Devo riprenderlo.»
Nonna… quella è sua nonna.
«Falla finita, Georgiana!» La donna tenta di portarla verso un’utilitaria
che ha visto giorni migliori, ma lei punta ancora i piedi per terra. «No!»
Una delle due trecce in cui ha acconciato i capelli si disfa. Indossa dei
pantaloncini e la sua ribellione le ha provocato dei graffi alle ginocchia
che adesso sanguinano un po’.
Trattenendola per la maglietta, sua nonna le permette infine di chinarsi.
«Fa’ presto! Dobbiamo andare via.»
La bambina alza gli occhi dalla catenina a sua madre. Ha il volto rigato
di lacrime e le sussurra: «Vieni con me.» Ma quella resta inerme e piange
in silenzio sull’uscio di casa.
Lancio un’occhiata a Brad, che si stringe nelle spalle.
Dove siamo finiti?
L’assistente sociale che ci ha accompagnati fin qui è confusa quanto noi,
ma non ci riporta indietro. Siamo solo gli ennesimi mocciosi da collocare
per qualche mese. C’è un’ordinanza del giudice. La famiglia con cui
staremo è già stata ritenuta idonea. Non è il caso di farsi altre domande.
Appunta solo qualcosa sui suoi fogli, poi ci spinge verso la casa, mentre
l’auto mette in moto e sgomma via.
La donna che la piccola chiamava “mamma” sembra accorgersi solo
ora di noi. Si affretta ad asciugarsi il viso, poi i palmi delle mani sul
grembiule sbiadito a fiori, cercando forse di riprendere il controllo. In
realtà non riesce neppure lontanamente a simulare calma e affabilità.
«Buongiorno, signora Spector. È un brutto momento?» esordisce
l’assistente sociale.
Lei guarda me e Braden come fossimo insetti e deglutisce in maniera
rumorosa.
Ci odia.
Un bambino non dovrebbe avere dimestichezza con quel tipo di sguardi,
ma sono gli stessi che mia madre mi lanciava quando era strafatta e per lei
costituivo un peso; so riconoscerli e il silenzio prolungato che questa donna
ci riserva non fa che acuire la mia sensazione.
«Niente affatto» risponde finalmente. «Accomodatevi, vado a
chiamare mio marito. Non vedeva l’ora che arrivaste.»
Sorride, ma non c’è nulla di cordiale dietro quella smorfia. È piuttosto
un ghigno e per qualche strana ragione mi mette i brividi.

Il dolore fa più male se resta in silenzio.


«Georgiana» sussurro. Violet spalanca gli occhi e comincia a
singhiozzare.
«Ti ricordi…»
«Solo un frammento della prima volta che ti ho visto» mi affretto a
spiegarle. «Non avrei potuto collegarti a quella bambina in nessun modo,
ma tu…»
Lascio la frase in sospeso e le permetto di rispondere alla domanda
implicita.
«Non volevo farti del male, Des.»
«Sapevi chi ero?» La blocco in modo brusco.
Fa un respiro profondo e vedo le sue spalle afflosciarsi. «Sì» risponde
mesta, ma non è come pensi.»
Dalla gola mi risale una risata amara. «E com’è? Spiegamelo» urlo
quasi.
È possibile che non mi sia accorto di niente?
«È co-complicato» balbetta di fronte alla mia reazione.
Come posso mantenere la calma di fronte a queste rivelazioni?
«Non so se sono pronta a parlarne.»
Stringo i pugni sopra le cosce. «Tu…» ringhio. «Tu non sei pronta a
parlarne?»
Scuote la testa con veemenza. «No… io… È complicato» afferma di
nuovo. Sfrega le dita sull’interno del braccio ed è allora che lo vedo: un
buco contornato da un colore violaceo. Un inequivocabile segno. Ciò che
sto ipotizzando non può avere un’altra interpretazione.
Le afferro il braccio e lei si sbilancia in avanti.
«Che cazzo è questo?»
Si ritrae e si stringe nelle spalle. «Niente» mormora.
«Cristo!» impreco e mi alzo. Compio alcuni passi avanti e indietro,
cercando di ragionare. Si droga. Dio! Com’è che non me n’è sono accorto
prima?
«Che diavolo è? Eroina?»
Ha il buon gusto di non dire una parola.
«Perché?» insisto. «Perché ti fai di questa merda?»
Adesso mi guarda e i suoi occhi luccicano di rabbia. «Te lo devo
spiegare davvero?»
Non conosco la sua storia, né in che modo, a un certo punto, si sia
incrociata con la mia, ma in questo momento il rancore mi acceca, voglio
che stia lontano da me, eppure quello che ho appena scoperto condiziona
tutto.
«Fatti aiutare, V.»
«Fottiti!» sibila. «Non voglio la tua pietà.»
«E allora fuori.» Le indico la porta con un cenno del capo, perché non
sono più disposto a tollerare nient’altro. Non sono disposto a farmi carico
anche di questa merda.
«Fuori!» urlo stavolta, quando vedo che non accenna ad alzarsi.
Finalmente scatta in piedi, afferra la sua borsa e singhiozzando scappa
via.
Sono solo.
Solo con tutto lo schifo che mi è piovuto addosso e che adesso mi
circonda.
Solo. Con tutto quello che avevo creduto di aver lasciato in quella casa e
che ora sta percorrendo di nuovo la mia strada, contromano, venendomi
incontro con l’intento di finirmi addosso e distruggermi come non ha potuto
fare allora.
Cerco un bicchiere. Ho bisogno d’acqua, mi sento soffocare. Lo riempio
e butto giù una, due sorsate, ma non mi serve a un cazzo, così mi fiondo in
camera e afferro la bottiglia che tengo nascosta sotto il letto. È Jack
Daniel’s ed è ancora intera. Ogni volta che sono stato sul punto di
scolarmela, quel cappello colorato appeso alla spalliera del mio letto mi è
servito da ammonizione.
Potevo ubriacarmi ovunque, ma non nell’intimo della mia camera, dove
avevo deciso di portare con me un pezzo di Zach.
Stavolta, però, è diverso.
È così fottutamente diverso che svito il tappo e tracanno una generosa
sorsata direttamente dalla bottiglia.
Il liquido scende e ustiona bocca, gola e stomaco. Spero che risalga
presto verso il cervello e incendi i ricordi, riducendoli in cenere. Almeno
per un po’.
Non fa più male come un tempo.
Un’altra sorsata.
Tiro su la bottiglia e me la porto davanti agli occhi. Me ne sono fatto
fuori la metà, ma non mi è bastata per spegnere tutto.
Sento il battito furioso del mio cuore rimbombarmi nelle orecchie.
Non fa più male come un tempo, dannazione!
Sono fermo, sdraiato e impotente, ma mi sento lanciato in una folle
corsa, come se stessi scappando.
Stupido, stupido cervello!
Ancora un goccio.
Il liquore scende, m’intorpidisce gli arti ma le immagini, passate e
presenti, si fanno più che mai vivide, sovrapponendosi, sceneggiando un
incubo a occhi aperti.
Fa male, cazzo! Fa ancora male. Più di allora.
Scaglio, con poca forza, la bottiglia ormai vuota lontano. Rimbalza
contro un mucchio di vestiti abbandonati sulla sedia e cade sulla moquette,
producendo un tonfo sordo.
Nessuno schianto.
Non è andata in pezzi.
Oggi come allora, non sono in grado di distruggere ciò che mi fa male.
Lui è ancora vivo ed è venuto a cercarmi.
2.
Anais

Vivere è la cosa più rara al mondo.


La maggior parte della gente esiste,
ecco tutto.
(Oscar Wilde)

È da quando ho varcato la soglia del mio appartamento che ho una strana


sensazione addosso. Me la sono portata dietro da casa di Desmond e non è
solo perché l’ho lasciato con Violet, la gelosia c’entra in parte e io sono
diventata abbastanza brava a razionalizzare ogni mia reazione, anche
quando sembra puro istinto, come al solito.
La valigia di Breanna giace ancora vicino alla porta della sua camera.
Siamo tornati ormai da settimane e non l’ha ancora disfatta. Non è da lei,
ma ogni tanto la mia amica è semplicemente strana.
Non so dove sia, forse a lezione. Faith e Braden, invece, sono rinchiusi
nella stanza che Faith condivide con Bre e sono abbastanza sicura che non
stiano dormendo.
Ho voglia di un tè e, mentre metto sul fuoco il bollitore, Brad esce dalla
stanza con indosso solo i pantaloni di una tuta. Ha l’aria soddisfatta, i
capelli arruffati, e mi regala un sorriso fraterno. Intanto si accomoda su uno
degli sgabelli che abbiamo messo da questo lato della cucina e, va bene,
definirla una cucina è davvero troppo, ma è il meglio che siamo riuscite a
organizzare.
«Come mai non sei con Des?»
Dritto al punto senza saperlo!
«Be’, eravamo insieme fino a poco fa.» Cerco di eludere la domanda
preparando una tazza. Ci metto dentro un cucchiaino di zucchero e una
bustina di tè.
«E?» Brad non demorde.
Del resto come potrebbe visto che siamo sempre appiccicati?
«E… poi è arrivata Violet» rispondo cercando di dimostrarmi tranquilla.
«Capisco…» è il suo commento criptico. «A te va bene?»
Lancio un’occhiata al mio cellulare. Non c’è nessuna chiamata e nessun
messaggio.
Mi va bene?
Presumo debba andarmi bene per forza.
«In questi mesi Violet per lui è stata un conforto. Non posso essere
ingiusta. È normale che abbia bisogno di chiudere con lei alla sua maniera.»
Braden inarca un sopracciglio. «E qual è la sua maniera?»
Il bollitore fischia e spengo la fiamma.
«Ne vuoi un po’?» gli chiedo.
Lui annuisce e preparo un’altra tazza.
Lo provoco. «Sei suo amico o no?»
«Sono più di un amico. Sono suo fratello, Anais.»
«E allora perché stai insinuando che mi tradirà?»
«Mi hai frainteso» si affretta a spiegare, mentre soffia sul liquido caldo
che gli metto davanti.
«Desmond ti ama più della sua vita, Anais. Nessuno può dirtelo meglio
di me. Negli anni l’ho visto farsi a pezzi e fare a pezzi chi cercava di
tendergli una mano, ed è rinato solo per te.»
Non dice “grazie a te”, ma non me la prendo.
Visti i nostri pregressi e tutti gli errori che ho commesso durante la
nostra storia, sarebbe una menzogna colossale
«Non capisco qual è il punto, Brad.»
Lui sospira e mi guarda, scuotendo il capo.
«Hai aperto il suo cuore e questo significa che Desmond ne darà un
pezzo a tutti, perché è così. Si sacrifica sempre. Fin troppo, cazzo!»
Sussurra le ultime parole. Deglutisce e serra gli occhi.
So a che cosa si riferisce, deve essere straziante convivere con il senso di
colpa per aver permesso a un bambino di farsi violare al suo posto, ma non
posso dire nulla perché Braden non sa ancora che Des mi ha raccontato
tutto.
«Troverà il modo per allontanarla da lui» affermo.
Braden annuisce e beve un po’ del suo tè. «Non ho dubbi, Spero solo che
quella ragazza capisca che deve mettersi da parte.»
La sincerità è una delle doti che apprezzo di più in lui. Non importa
quanto possa fare male la verità, perché Brad te la dirà a costo di farti
soffrire anche se ti vuole bene.
«Lo spero anch’io» affermo.
In fondo, una delle mie paure è che Violet decida di complicare ancora di
più una situazione disastrosa, devo ammetterlo.
Gli eventi delle ultime ore hanno destabilizzato Des. Non lo avevo mai
visto così. Ogni ferita ha ripreso a sanguinare copiosa e non si è
preoccupato nemmeno di nascondermi il suo dolore.
Odio Jeremiah Spector.
Odio il sistema.
Odio i suoi genitori che l’hanno abbandonato ancora prima di morire.
Odio come lo fa sentire il suo passato e il fatto che quell’uomo sia
tornato.
Che cosa vuole da lui?
Vorrei tanto parlarne con Braden, forse riuscirei a sapere delle cose che
dalla bocca di Desmond non usciranno mai; è come se stessi camminando
su un pavimento di cristallo e, in questo momento, ho paura di non essere
abbastanza per Des.
L’arrivo di un messaggio fa evaporare la mia curiosità. Controllo il
telefono ma non c’è nessuna notifica. «Non è il mio» informo Brad.
Il mio amico si alza e infila una mano in tasca, estraendo il suo cellulare.
«È il mio, infatti.»
Lo vedo concentrarsi sul display. Un leggero tic gli anima la mascella;
cerca di non far trasparire nulla ma ipotizzo all’istante che il mittente del
messaggio sia Desmond. Qualunque cosa gli abbia scritto lo ha turbato.
«È lui?»
«No» dice troppo in fretta. «Ma devo andare. Alla confraternita hanno
bisogno di me.»
Si dirige verso la camera di Faith e riemerge in fretta vestito.
Quale emergenza potrebbe mai procurargli quell’aria preoccupata?
Faccio finta di credergli, tanto ho intenzione di chiamare Des, una volta
che sarà uscito di qui. Vaffanculo se sembro una fidanzata gelosa. Ci siamo
appena ritrovati e una tempesta incombe già su di noi. Non ci serve anche
Violet ad alimentare il disastro.
«Devo andare. Mi aspettano.»
Annuisco, poi non riesco più a trattenermi.
Braden è il fratello che Desmond non ha mai avuto, giusto? Fra i due c’è
un affetto che va ben oltre l’amicizia. È viscerale, sincero, simbiotico e
questo ragazzo ha la mia piena fiducia, perché Desmond a sua volta la
ripone in lui al punto da sacrificarsi.
«Risolvi la tua emergenza» gli dico perentoria.
Si blocca con la mano sulla maniglia della porta, ma evita di guardarmi.
Ha le spalle rigide e lo sento inspirare fra i denti.
«Lo farò» mi rassicura. «Puoi contarci, Anais.»
3.
Desmond

La mia vita è al rovescio.

Non ricordo il momento esatto in cui sono caduto in un sonno profondo,


ma chi sta tentando di svegliarmi a suon di ceffoni sulla faccia mi rammenta
perfettamente il motivo del mio stato d’incoscienza.
Mi sono scolato una bottiglia intera di Jack Daniel’s e ciò che è accaduto
dopo è nebuloso.
Una sbronza da whisky significa un mal di testa colossale – che è quello
che ho – e la difficoltà di deambulare o anche solo articolare un “lasciami in
pace, stronzo!” – che è quello che vorrei urlare al tizio che continua a
scrollarmi come un pupazzo. –
«Hai bisogno di una doccia. Svegliati, fratello!»
È la voce di Braden. Di Braden palla al piede Cole.
Da oggi ribattezzerò così il mio fratellino.
Perché non capisce che deve lasciarmi in pace?
Non intuisce mai quand’è il momento di far finta di niente.
Ignorami, Brad!
Cazzo! È sempre stato così difficile per lui e così facile, invece, scavarmi
dentro con un solo sguardo.

«Non guardarmi con compassione, Brad!»


«Non ti sto guardando con compassione, ma come un fottuto eroe. Non
dovevi farlo.»
«Sta’ zitto!»
«No che non sto zitto. Non devi farlo più, Des!»
«Zitto! Torna a dormire adesso.»
«Des?»
«Che altro c’è ancora?»
«Fa male?»
«Un po’…»

Oddio!
«Togliti dai piedi» bofonchio, portandomi una mano sugli occhi. Gira
tutto, mi viene da vomitare,
«Sei verde» m’informa Brad e non fatico a crederlo. Il mio stomaco si è
appena capovolto.
«Ti serve il bagno…»
Impreco, saltando fuori dal letto. «Cazzo, sì» e corro verso il water.
Faccio appena in tempo a chinarmi sulla tazza e rimetto tutto.
Non so cosa sia peggio, se il dolore pulsante alla testa o il mio stomaco
che continua a contrarsi violentemente. Mi sento uno schifo e, quando
finalmente i conati si placano, mi lascio scivolare contro le piastrelle,
spossato.
«Mi servono delle aspirine» biascico, ma Brad mi sta già porgendo un
bicchiere d’acqua e due compresse.
Butto giù tutto e tento di rimettermi in piedi.
«Devi mangiare qualcosa.»
«No.»
«Ti preparo un caffè nero, allora.»
«Voglio solo dormire.»
«Dormirai dopo, Des. Che significava quel messaggio?»
«Che diavolo dici?»
«Violet…» spiega lui.
«Mi ha contattato dal tuo cellulare e mi ha detto di correre da te, perché
avevi bisogno d’aiuto. Aiuto, Des. Tu che chiedi aiuto è una cazzo di
eccezione.»
«Non sono stato io a chiedertelo.»
«Già! Il che mi ha decisamente messo del pepe in culo e sono corso qui,
mollando la tua ragazza super preoccupata nel suo appartamento.
Mentendole. Dannazione, non sapevo nemmeno di che portata fosse
l’emergenza. Poi arrivo qui e ti trovo in queste condizioni. Che diavolo
succede, Des?»
La mia ragazza. Anais. Dovrei dirle addio e invece ho bisogno che resti.
Anche adesso.
La mia vita è andata in pezzi, il muro che ho costruito negli anni fra
passato e presente è crollato. Non ho più nulla a cui aggrapparmi.
Solo lei.
E mi sembra ingiusto, ma in qualche modo necessario, e mi chiedo
perché debba essere così difficile per me chiedere aiuto.
«Va’ via, Brad!»
«No, cazzo. Non me ne vado. Devi piantarla di tenermi fuori dai tuoi
casini. Non sono più il bambino che ti sei messo in testa di proteggere.»
«E va bene» gli urlo in faccia a un palmo dal naso. «Non sei più un
bambino, dici? Bene! Affronta questo, allora! Jeremiah Spector è tornato
direttamente dall’inferno per tirarmici di nuovo dentro.»
«Cosa?»
I suoi occhi adesso sono spalancati e d’un tratto spauriti, perché non c’è
età che conti quando l’orco che ha popolato i tuoi incubi torna a ricordarteli
uno per uno.
«È tornato» mormoro adesso. Il tono della mia voce è dimesso, come se
volessi rimangiarmi ogni parola.
Impreco, quando una fitta lancinante mi colpisce dietro gli occhi.
«Merda!» Per un attimo quasi non ci vedo più e barcollo in avanti.
Braden mi sorregge, ma io mi scosto duramente e mi lascio cadere sul
letto.
«Des…»
«Parleremo» gli prometto stanco. «Ma non adesso.»
Desiste subito. Non avevo dubbi che l’avrebbe fatto.
Come si fa ad affrontare il proprio passato quando è così devastante?
Come si fa quando la tua vita è finalmente andata avanti, quando hai
conosciuto infine l’amore e la speranza di tenere il resto seppellito?
Mi azzardo a dare un’occhiata al mio amico e il terrore mi attanaglia lo
stomaco.
So cosa vedrò, eppure per qualche stupida ragione mi convinco che
adesso sarà diverso.

Sei uno stupido Des!


Credi che lui lo farebbe per te?

Brad si sta torturando il lobo dell’orecchio come faceva quand’era piccolo,


le volte che aveva paura e io non riuscivo a calmarlo. Quando il senso di
colpa lo spingeva a fare cose stupide e, ancora dolorante, dovevo
trattenerlo, perché altrimenti il mio sacrificio non sarebbe servito a niente.
Cristo! Siamo tornati indietro di nove anni.
Lui è ancora quel bambino che cercavo di proteggere. E io sono ancora
quel moccioso violato e che non è stato in grado di uccidere il mostro.
Mi pento immediatamente di avergli detto la verità. Faccio un lungo
respiro, che tuttavia non serve ad allontanare il senso di disagio per averlo
turbato. La realtà è che io e Braden siamo cresciuti e che dovrei smetterla di
trattarlo come un moccioso. Non lo è più. Non posso salvarlo da tutto.
Prima o poi prenderemo strade diverse e non potrò essere al suo fianco. È la
vita. E il solo fatto che stiamo cercando di viverla è straordinario.
«Non pensarci.» Cerco di chiudere il discorso e mi schermo gli occhi
con un braccio. «Risolverò ogni cosa.»
Sento il materasso affondare ai lati del mio corpo, Brad si siede a
cavalcioni su di me e mi scosta il braccio in malo modo: è furioso.
«Col cazzo!» mi urla in faccia. «Che cosa c’entra Violet? E non tentare
di rifilarmi qualche cazzata, Des.»
Potrei disarcionarlo facilmente; tutte le volte che ce le siamo date sono
sempre stato io ad avere la meglio, ma il ragazzo che mi sta minacciando
adesso è diventato un uomo. Lo vedo dal suo sguardo risoluto, da come
serra i pugni pronto a tirarmi fuori, con le unghie e con i denti, dalla
prigione che mi sto di nuovo costruendo intorno.
«Togliti di dosso… Merda!» m’inarco. «Ti racconterò ogni cosa.»
Mi crede. La fiducia non è mai stata un problema fra noi.
Mi tiro su a sedere e mi passo una mano fra i capelli, perché ricordare
tutto è dannatamente difficile.
«Il primo giorno che siamo arrivati dagli Spector» comincio. «Te lo
ricordi?»
Lui annuisce.
«Ricordi anche quella bambina?»
«Quella che stavano trascinando verso un’auto…»
«Proprio lei» confermo.
«Continuava a piangere, implorava sua madre di andare insieme a lei…»
ricorda.
«Quel giorno perse una catenina. Sua nonna le permise di riprenderla»
continuo io, ricostruendo la scena.
«Lo ricordo» e nel mentre annuisce. «Non l’abbiamo più rivista, eppure
avevamo capito che era loro figlia. Ma cosa c’entra questo con… Oh mio
Dio!»
Braden mi osserva con gli occhi spalancati; adesso è il suo turno di
rimettere insieme i pezzi.
«Quella bambina era Violet?»
«Sì, e non chiedermi cosa c’entri con il ritorno di quel bastardo. Non
l’ho ancora capito, ma intendo scoprirlo.»
«Cazzo!» impreca. «Avresti dovuto dirmelo, Des. Da quanto lo sai?»
Deglutisco e la sensazione agghiacciante che mi è scivolata sulla nuca
tutte le volte che ho avvistato quell’uomo nelle vicinanze ritorna violenta a
scuotermi il corpo.
Si lascia cadere di lato e io mi metto a sedere. «Da un po’» ammetto.
«C’era questo giardiniere che curava le aiuole del campus, me lo ritrovavo
sempre vicino e non capivo perché mi sembrasse così familiare. Poi un
giorno, ero con Anais, sdraiato sul prato, e lui era lì, di nuovo.»
Ripercorro gli istanti di rivelazione che hanno preceduto la mia crisi. La
presa di coscienza e lo sgomento che mi hanno piegato.
«Le sue mani, la barba incolta e quella camminata flaccida e
leggermente claudicante… Cristo, era lui e ce l’avevo avuto intorno troppo
spesso per essere solo una coincidenza!»
«Dannazione!» sussurra Brad. «Perché non me l’hai detto?»
«Perché non volevo tirare fuori di nuovo questo schifo. Non volevo che
ne restassi turbato.»
«Tipico di te» sputa fuori con astio.
Si alza e cammina all’indietro, scuotendo il capo.
«Vado da Faith» mi comunica. «Ho bisogno di elaborare questa cosa e,
visto che dubito tu voglia risolverla insieme a me, stasera non tornerò.»
Non rispondo. Ha già capito tutto.
«Mi odi, non è vero?»
Cosa? Che diamine…
«Quante volte hai permesso che ti toccasse per risparmiare me?»
«Non ti azzardare» lo ammonisco.
«No?» urla. «Tu. Tu non ti azzardare! Hai fatto anche troppo, Desmond
Ward, e hai creduto di salvarmi, te lo concedo. Ma non hai la minima idea
di quello che ha significato per me. Sono corroso dai sensi di colpa, mi
guardo allo specchio e vedo un codardo. Ho permesso che quell’uomo ti
uccidesse piano piano senza muovere un dito. Mi chiami ‘fratello’, ma la
realtà è che non ne sono degno, cazzo! Non sono degno di te, è questo il
punto. E con il tuo atteggiamento me lo sbatti in faccia ogni fottuto giorno.»
Nel frattempo, è arrivato alla porta e, senza aggiungere altro, la spalanca
e corre via. La sbatte dietro di sé, uscendo dal nostro appartamento.
Furioso. Perché il peso di cui mi sono caricato in questi anni avrebbe potuto
essere di entrambi e, invece, ho deciso che lui non era in grado di
sopportarlo.
Vorrei chiamare Anais, ma non so come affrontare quello che è appena
successo. Non sono riuscito ancora ad assorbire tutto, mi striscia sul corpo
come tanti serpenti pronti ad attaccarmi, e non voglio trascinarla nei miei
casini quando io per primo non so come farci i conti, così mi preparo in
fretta. Oggi ho gli allenamenti e sono sicuro che il campo sarà una buona
distrazione per non pensare e per trascinarmi fuori dal mio passato. Almeno
per un po’.
Infilo dei pantaloncini da basket e una maglia bianca. Il borsone che
porto in palestra è sempre pronto nel mio armadio. Lo afferro e mi fiondo
fuori dall’appartamento. Non prendo il cellulare e so che è una bastardata
nei confronti della ragazza che amo, ma il solo pensiero di sentire la sua
voce mi mette in soggezione.
Mi sono abituato a essere il suo muro di cinta. Non che lei sia il mio.
Abbiamo appena trovato un equilibrio e non posso permettermi di
distruggerlo. È questo il rischio. Non sono lucido, non sono stabile, mi
sento in procinto di andare in pezzi e, anche se non dovrei pensarlo, anche
se dovrei avere più fiducia in lei, so che Anais non sarebbe in grado di
raccogliere le parti in cui temo di esplodere.
La mia vita è al rovescio.
Esco dal dormitorio, schermandomi gli occhi per via del sole accecante.
M’impedisco di guardarmi intorno come se avessi timore di qualcosa. Ma
non ho paura.
Non sono più un ragazzino e semmai lui mi stesse osservando, nascosto
come il codardo che è, da qualche parte qui intorno, voglio che sappia che
la sua presenza non mi sta piegando. Che so come agire e, se è una persona
intelligente, farà bene a starmi lontano e nascondersi, perché lo troverò e,
quando avverrà, per lui non sarà piacevole.
Mentre percorro i viali acciottolati del campus, questo proposito
s’insinua sempre più a fondo e poi riemerge con prepotenza, togliendomi il
respiro.
Quella volta non ho avuto il coraggio di ucciderlo, eppure non avevo
niente da perdere. Adesso, invece, mi prudono le mani per la voglia di
vendetta che si è nutrita del mio odio per tutti questi anni. Ed è tragicamente
assurdo che arrivi adesso. Adesso che ho un sacco di cose da perdere. Che
ho Anais, che ho degli amici, una famiglia e il mio futuro nel football. Che
perfino il ricordo di Zach non mi è più nemico.
Adesso. Che sono alleato di me stesso come non avrei mai creduto.
La palestra è piena. Sono leggermente in ritardo e il coach mi guarda
storto.
«Problemi, Ward?»
«No, coach» mento. «Mi sono addormentato, chiedo scusa.»
«Be’, muoviti» ringhia. «Ma prima di scendere in campo ho bisogno di
parlarti.»
Annuisco. Lancio un’occhiata a Thompson per capire se sa qualcosa, ma
lui scrolla le spalle.
È evidente che qualsiasi notizia il coach debba darmi sia una
comunicazione interna.
Mentalmente ripasso gli esiti degli ultimi esami. Sono andati bene,
quindi non credo che la mia borsa di studio sia in pericolo, ma c’è un altro
argomento che abbiamo affrontato qualche tempo fa e, nonostante il mio
equilibrio sia parecchio instabile in questo momento, sento l’eccitazione
dell’aspettativa scorrermi nelle vene, facendo pompare più veloce il mio
sangue.
Sì, cazzo! Fa’ che sia una buona notizia.
Finisco di vestirmi. I miei compagni, quelli che hanno sentito l’invito del
coach, mi guardano curiosi, ma fanno finta che la cosa non gli interessi e
non mi chiedono nulla.
Li vedo uscire per dirigersi verso il campo, mentre io afferro il mio casco
e cammino dal lato opposto, in direzione dell’ufficio di Mr. Beckett.
Non appena busso alla sua porta, mi invita a entrare.
Mi stava aspettando e mi sembra anche parecchio ansioso.
«Siediti, Des.»
Des. Raramente il coach si rivolge a noi chiamandoci per nome e non so
se la cosa debba piacermi o meno.
Mi siedo ma resto dritto, in ansia. «Ho combinato qualcosa, coach?»
«No, figliolo. Ho una bella notizia da darti.»
Le sue parole mi fanno rilasciare il fiato che stavo trattenendo.
«Davvero?» Ipotizzo in maniera più concreta quale sia il motivo per cui
sono seduto qui, e via via che osservo il suo viso burbero distendersi in un
sorriso, dentro di me si allenta qualcosa.
«Me lo dica e basta, signore.»
«Vogliono te, Des.»
«Cosa?» balzo in piedi. «Chi?»
«I Bolts» conclude con un sorriso.
«I… Oh cazzo! I… Dio, i Bolts?»
«Sì, ragazzo.»
Quello che vedo brillare nei suoi occhi è orgoglio.
«Ma mi aveva detto che mi stavano osservando. Non pensavo che le
selezioni potessero essere così veloci…»
Sono incredulo. Felice, dannazione! Mi sembra un sogno da cui potrei
svegliarmi da un momento all’altro.
«Desmond, rimettiti seduto ragazzo!»
Lo faccio. Subito. Perché so che la parte più importante viene adesso.
«Ti allenerai con noi per tutto questo anno e finirai il campionato, poi
passerai nella rosa dei loro nuovi giocatori. Questo però non significa che
giocherai fin da subito come titolare in prima squadra. Ne sei cosciente,
vero?»
«Sissignore!»
Non potevo sperare di più.
«Dovrai lavorare sodo.»
«Sissignore!»
«Prendila come una prova. Non dare mai nulla per certo, Des. Possono
buttarti fuori, se vogliono.»
«Ne sono cosciente, signore.»
«Dovrai dimostrare loro ogni giorno quanto cazzo vali.»
Scuoto il capo e deglutisco. «Sarà fatto.»
Non ci credo ancora.
«Ti serve qualcuno che ti rappresenti. Intanto vorrei parlare con tuo
padre.»
Mio padre. Non c’è più, mio padre. Resto spiazzato per un attimo, solo
dopo realizzo che stiamo parlando del coach Davis.
Ho parlato a Mr. Beckett di lui e, anche se non si sono ancora incontrati,
sono sicuro che andranno d’accordo. O si ammazzeranno, visto che hanno
lo stesso carattere fiero e determinato.
«Certo, signore. Sono sicuro che si precipiterà subito qui, non appena gli
darà la bella notizia.»
A quanto pare, non gli sfugge la nota di affetto con cui coloro le mie
parole e mi viene di fronte, poggiando le sue grandi mani sulle mie spalle.
«Gli devi molto, non è così?»
Deglutisco ancora. È una scena che sembra ripetersi e realizzo,
nonostante il mio passato, che nell’ultimo periodo ho avuto parecchie
fortune e ho incontrato gente che, a dispetto delle apparenze, alla fine, ha
sempre creduto in me.
«Devo molto anche a lei, signore.»
Mr. Beckett annuisce greve, poi sposta lo sguardo, imbarazzato.
«Sì, okay… Vedi di non deludermi.»
«Non lo farò.»
«Adesso va’ a farti il culo, mammoletta. Ci aggiorniamo in seguito.»
Lascio il suo ufficio, sollevato e felice. Per un attimo non penso neanche
a quello che è accaduto nelle ultime ore.
So che non posso sfuggirgli. Il ragazzino che sono stato è tornato
indietro e pretende che io resti ad affrontarlo. E lo farò. Non c’è altra
soluzione. Ma al momento ho una fottuta cosa per cui gioire e devo
escogitare un modo affinché il mio passato non irrompa nel mio futuro.
Al mio ingresso in campo si bloccano tutti. Non so se posso ancora dire
nulla. A differenza della prima volta, quando mi aveva avvisato che
qualcuno mi stava tenendo d’occhio, il coach non mi ha ordinato di tenere
la bocca chiusa, ma nel dubbio preferirei non dire niente e per questo sono
grato a tutti perché non chiedono. Almeno per il momento.
Solo Liam si avvicina e mi dà una pacca sulla spalla. «È quello che
penso?» Mi sorride ed è un sorriso sincero, senza ombra di competizione.
A lui posso dirlo. Sto letteralmente scoppiando di gioia.
«Sì, boss. Così sembra» gli confermo.
«Bene, Ward.» I suoi occhi si assottigliano, ma il sorriso resta fermo lì,
sulla sua bocca. «Questo significa che dovrò farti il culo a strisce. Comincia
a riscaldarti. Ian!» Chiama il nostro amico e Sherman si avvicina subito
correndo.
«Facciamo vedere al nuovo astro nascente del football americano che
cosa significa essere ancora una matricola.»
«Oh, per la miseria!» urla il mio amico, stringendomi in un abbraccio
virile che mi toglie il fiato. «Cazzo, Des! È fantastico.»
«Sì, lo è» sorrido come un idiota.
Poi si guardano entrambi intorno e abbassano la voce.
«Merda! Potevamo dirlo?» domanda Liam.
«Be’, mi sembra un po’ tardi per farci questa domanda. Non credi,
capitano?» Lo prendo in giro e lui torna a sorridere.
«Al diavolo! Non è una cosa che si può tenere nascosta. Venite qua,
ragazzi.» Raduna la squadra e fa il suo annuncio.
Il boato con il quale viene accolta la notizia mi assorda e mi ritrovo in un
attimo a essere issato e lanciato in aria un paio di volte.
È incredibile. Sono tutti contenti per me e per un attimo il mondo torna a
girare per il verso giusto.
4.
Anais

La sua è semplicemente
una mancanza incolmabile.

Ho atteso qualche ora, ho cercato di portarmi avanti con lo studio per un


esame, ho mangiato perfino un panino e risposto alle domande di Faith
sugli ultimi eventi, senza dare di matto.
Posso essere fiera di me stessa per come sto gestendo la situazione, ma
ormai è quasi sera e Desmond non si è fatto sentire.
Ho provato a chiamarlo una volta, ma non mi ha risposto e ho deciso di
concedergli spazio, tanto con lui c’è Brad e qualunque cosa sia successa con
Violet, sono certa che tutto sia sotto controllo.
Questo è ciò che mi racconto e sto facendo uno sforzo sovraumano per
obbligare le mie emozioni negative a stare al loro posto, ovvero fuori da me
o in un angolo nascosto della mia mente incasinata.
Devo restare lucida, perché è chiaro che Des avrà bisogno di me e una
ragazza in preda a una delle sue crisi non può essergli di nessun aiuto.
Voglio essere all’altezza, stavolta. Non della situazione, ma di lui.
Voglio essere degna e capace di stargli accanto, adesso che è Desmond
l’anello debole della nostra catena.
«Lo hai sentito?» Faith esce dalla sua camera e si dirige verso la cucina.
Non so che cosa le abbia raccontato Braden, ma è chiaro che sappia
qualcosa. Ciononostante non indaga oltre e io le voglio bene anche per
questo.
«No» sospiro. «Ma con lui dovrebbe esserci Braden, quindi sono più o
meno tranquilla.»
Faith mette sul gas il bollitore per farsi un tè. «Ha chiamato Bre. È in
biblioteca e ha intenzione di restarci finché non si mette in pari con
quell’esame che non ha passato la volta scorsa.»
«Biologia della terra… È complicato» considero.
«Non credo sia per quello. Ha la testa fra le nuvole, per il momento.»
Faith ha ragione. Bre è distante, a volte scontrosa. Non so che le prende.
«Le ho chiesto un’infinità di volte che cosa succede, ma dice che va tutto
bene.»
Le sue parole mi fanno realizzare che pessima amica sia stata nell’ultimo
periodo. Troppo presa da me stessa, da Desmond, da noi, non mi sono
curata affatto di Breanna e Faith, anche se quest’ultima ha Braden e le cose
fra loro sembrano andare a gonfie vele.
«Credi che sia a disagio perché si sente… sola?»
Visto che entrambe abbiamo il ragazzo, la domanda che faccio è logica,
e a quanto pare Faith la pensa come me perché annuisce.
«Potrebbe essere.»
Il fischio del bollitore la fa voltare di scatto.
«Te ne preparo una tazza?» mi chiede guardandomi da sopra la spalla e
mostrandomi una bustina di tè.
«Grazie.»
«Hai mangiato…»
Non lo domanda. Sta fissando la spazzatura e i resti del mio pranzo.
Pochi, a dire il vero.
«Un panino» la informo e, anche se mi dà le spalle, so che sta sorridendo
e di riflesso lo faccio anch’io.
Il mio telefono mi avvisa dell’arrivo di un messaggio e, quando lo
afferro convinta che sia di Des, rimango confusa perché è di mia madre.
SEI A LEZIONE? POSSO CHIAMARTI?
È raro che mi chiami al telefono, ma che mi mandi addirittura un
messaggio è un evento unico.
«È pronto» mi avvisa Faith e poggia una tazza fumante sul tavolo.
«Solo un attimo. Devo fare una telefonata.»
«Va tutto bene?» s’informa, forse notando la mia aria confusa.
«Sì.» Faccio una smorfia. «È… mia madre.»
«Tua madre?»
«Sì, sembra strano anche a me. Arrivo fra un secondo.»
Mi dirigo verso la mia camera e mi chiudo la porta alle spalle. Non so
perché, ma parlare con lei mi mette sempre in ansia.
Ha speso così tanto tempo a cercare di rendermi perfetta, che alla fine, a
furia di evidenziare i miei difetti e mostrarmi come nasconderli, mi sono
convinta di essere sbagliata. Da piccola ero sicura di non meritare il suo
amore e, ancora adesso, ogni tanto me ne sto lì, seduta al buio, cercando di
ricordare l’ultima carezza che mi ha fatto.
Ne ho mai ricevute?
Forse da piccola, sì, ma lo ero troppo per ricordarmene, quindi
puntualmente desisto; per quanto mi scavi dentro, non stano nessuna scena
di me e di lei, insieme, come madre e figlia. Nessun gesto di tenerezza,
nessun sorriso nei miei confronti. Ed è avvilente.
È in quei momenti che il vuoto m’inghiotte e sento il bisogno di
riempirlo, di tornare presente a me stessa attraverso il dolore.
Adesso è più semplice interpretare il mio disturbo. La dottoressa Jackson
mi sta aiutando a tirare fuori tutto pian piano, e la sua pazienza è come un
placebo che blandisce la sofferenza e mi spinge a buttarla via. Ogni ricordo,
ogni parola… come fogli di un libro che divoro perché voglio arrivare al
finale.
Sto per comporre il suo numero, quando il telefono mi squilla fra le
mani.
Tipico di mia madre non potere aspettare più di cinque minuti per una
riposta.
«Pronto?» butto fuori insofferente.
Dovrei imparare a contenere il mio fastidio.
«Anais, ci hai messo un secolo.»
In effetti, no, non devo imparare a contenere proprio un bel niente.
«Stavo facendo una doccia, mamma. Non sto sempre con il telefono in
mano.»
«Dovresti, invece. Visto che non ti degni di telefonare, essere reperibile
per la tua famiglia dovrebbe essere una tua priorità» replica chiaramente
infastidita.
«Be’… Non mi chiamate spesso. A dire il vero, non ricordo neppure
l’ultima volta che lo avete fatto.»
Resta un attimo in silenzio, forse spiazzata dal mio tono.
Sì, mamma. So essere supponente anch’io, adesso.
«Il college ti sta cambiando» riflette gelida.
«Sto solo crescendo…»
«Non lo stai facendo nel modo giusto.»
«Oh, certo! Non avevo dubbi che lo pensassi.»
Finirà mai di volermi fare a pezzi a tutti i costi?
Ogni tanto mi chiedo che cosa diamine le abbiamo fatto io ed Eva per
meritarci un simile atteggiamento.
«Sei sempre stata così?» le chiedo. E sono consapevole di stare tirando
troppo la corda, ma gli ultimi avvenimenti e l’ultimo periodo in generale
hanno fatto emergere una parte di me pronta a combattere per affermarsi e
non intendo obbligarla al silenzio.
Chiamatela terapia. Sì, fa senz’altro parte del processo di esorcizzazione
di cui mi parla sempre la dottoressa.
«Oh, mio Dio! Che cos’è questo tono? Con tua madre, poi. Hai bisogno
di tornare a casa.»
«Sto preparando due esami, mamma. Non sarò a casa prima delle
vacanze di Primavera» le comunico tranquilla e, anche se il pensiero di
tornare a casa non mi provoca nessun entusiasmo, almeno non mi fa più
paura.
«Mi hai chiamato per un motivo particolare?» le chiedo con il chiaro
tentativo di porre fine all’ennesima nostra conversazione pietosa.
La sento sospirare, non di stanchezza né di preoccupazione. È infastidita
e mentalmente segno un punto a mio favore per tutti gli anni in cui ho
incassato ogni critica senza rispondere.
«Si tratta di Eva. Pare abbia un ragazzo.»
Non sento mia sorella da un paio di settimane ma so per certo che me ne
avrebbe parlato se fosse così.
«Ve lo ha detto lei?» chiedo, delusa di venirlo a sapere da mia madre.
«No. È questo il punto.»
«No?» Sono confusa. «E come fai a…»
Poi realizzo. Eva studia a San Francisco ed è chiaro che, essendo la
stessa università nella quale ha studiato mio padre, lui conservi ancora
qualche amicizia. Ed è altrettanto chiaro che quelle amicizie tengano
d’occhio la sua preziosa figlia per lui.
È patetico.
«La state spiando o cosa?» Suono acida, arrabbiata ma, be’, è
esattamente come mi sento, diavolo!
«Vi teniamo d’occhio, Anais. Non vedo cosa ci sia di male.»
«Vi teniamo… Non è possibile. Avete qualche informatore anche qui?»
Ma mentre lo domando, sento che non è possibile. Se mio padre avesse
incaricato qualcuno di portargli mie notizie, avrebbe saputo già di me e di
Desmond, possibilmente anche del nostro viaggio a Las Vegas e a quest’ora
ci sarebbe stata una predica, un provvedimento e chissà che altro, di certo
non l’avremmo passata liscia.
«Senti…» usa il tono perentorio di quando considera chiusa una
questione, il che significa che la nostra telefonata finirà dopo una sua
sfuriata.
«Volevo solo sapere se tua sorella ne avesse parlato con te, ma a quanto
pare ne sei all’oscuro e non ci sei utile per niente.»
«Utile a far cosa?» urlo. Non le permetterò di mettere giù, tenendomi
fuori dalla faccenda.
«Volevamo sapere qualcosa di più su questo ragazzo. A quanto pare non
è uno studente, non c’è nulla che riconduca a lui. Tuo padre è molto
preoccupato.»
Sono allucinata. Stringo il telefono fra le mani, ma vorrei scagliarlo
contro il muro per quanto sono furiosa.
«Magari è il fattorino della pizza» la provoco. «O il postino. Sai, ci sono
dei bei ragazzi che consegnano la posta nei campus.»
«Smettila!»
«No, smettila tu. Smettetela voi, accidenti! Come potete… Dio, non ci
sono parole. Quando mia sorella si sentirà pronta a condividere questa
informazione con noi, vorrà dire che avrà trovato un ragazzo che le piace. E
se le piace, chi se ne frega se è uno studente o un semplice portantino. È la
sua vita. Non potete farci un cazzo di niente» ansimo. «Magari si sta solo
divertendo. È il college, dannazione! È giusto.»
Ormai sono fuori controllo. Stavolta sarò io a mettere giù dopo la mia
sfuriata.
«Ci volete perfette, ma ecco la notizia del giorno: non lo siamo. E questo
a prescindere dai miei chili di troppo, dai nostri voti a scuola o dalla
professione che vogliamo fare da grandi.»
«Anais Kerper» cerca di ammonirmi, ma sono ormai un fiume in piena.
«Che cosa volete fare con quel ragazzo? Rintracciarlo, farlo scappare via
da lei? Magari dargli dei soldi affinché esca dalla vita di Eva… È patetico.
Non tutto quello che pensate sia il nostro meglio lo è e non farò mai la spia
su mia sorella per te, mamma. Mai. Dio, vorrei chiudervi fuori dalla mia
vita» urlo e termino la chiamata, spegnendo il telefono e gettandolo sul
letto.
Ho il respiro corto, l’adrenalina pompa nelle mie vene e il cuore sembra
volermi schizzare via dal petto, ma mi sento… bene.
Qualcuno bussa piano e Faith fa capolino dalla porta. «Posso entrare?»
È chiaro che ha sentito tutto.
«Accidenti!» mi viene vicino e mi poggia una mano sulla spalla. «È
stato…»
La osservo. Mi sta guardando confusa e sta trattenendo un sorriso, la
stronza.
«…Epico» finisco io per lei. Poi scoppiamo a ridere e lo faccio in
maniera incontrollata, tenendomi la pancia e asciugandomi le lacrime dagli
occhi, come se mi stessi liberando da qualcosa e, in effetti, credo sia
davvero così. L’ho appena fatto. Mi sono liberata della ragazzina sempre
pronta a farsi umiliare. E di quella che sua madre ha manipolato in tutti
questi anni.
5.
Desmond

Scorgo nei suoi occhi la consapevolezza di non essere abbastanza e


ciononostante la speranza di diventare tutto.

Il momento in cui dovrò vedere Anais si avvicina. Non posso continuare


a ignorare le sue telefonate o fare finta di dimenticare il cellulare chissà
dove.
Sono due giorni che continuo a rimandare il nostro incontro. Il massimo
che le ho concesso è qualche messaggio per inventare le mie patetiche
scuse, ma lei non è stupida e, nonostante sia stata poco insistente – e so
quanto le è costato –, mi ha dato spazio e la sto ripagando come il codardo
che sono.
Per fortuna Violet non si è fatta sentire e di Jeremiah non vi è traccia.
Confesso di averlo cercato in ogni giardino o aiuola che ho incontrato per il
campus. E l’ho fatto con rabbia e impazienza, ma anche con il terrore di
trovarlo, perché lo avrei probabilmente aggredito a mani nude e nessuno
sarebbe stato in grado di fermarmi finché non lo avessi ucciso.
Nel frattempo, Braden non è tornato a casa e io ho avuto parecchio
tempo per pensare, ma la mia mente è un immenso gomitolo di lana
ingarbugliato, che si dipana solo fino a un certo punto.
È frustrante.
Avere un obiettivo ed essere a tanto così dal mandarlo a puttane per
qualcosa che ancora oggi non riesco a controllare.
Il telefono squilla e impreco, rigirandomi nel letto e ficcando la testa
sotto il cuscino. Smette, ricomincia daccapo e capisco che il momento è
arrivato. Anais ha smesso di essere comprensiva.
Ma con mia sorpresa, quando afferro il cellulare, constato che non è lei a
chiamarmi bensì Luc, Mr. Davis, e il mio umore si risolleva un po’.
«Pronto?» rispondo.
«Figliolo, scusami se ho insistito. Eri impegnato?»
Il suo tono di voce è sempre così rassicurante e per un attimo considero
di raccontargli tutto e di affidarmi per una volta a qualcuno di cui mi fido.
Perché è così.
Istintivamente mi sono lasciato avvicinare dal coach, riconoscendo in lui
un uomo buono. Ferito, annientato da un grande dolore e per questo forse
un po’ burbero, ma capace di un’enorme generosità da cui ho attinto a piene
mani.
«Mi stavo solo riposando un po’» mento. «Hai sentito il coach?» gli
chiedo più per evitare di confidargli realmente qualcosa.
«Mi ha chiamato ieri e sono molto felice per te. Perché non me lo hai
detto tu?»
Già, perché? Forse perché in queste ore sono stato costretto a riemergere
dal casino che mi ha travolto come la piena di un fiume.
«Ho avuto da fare, suppongo.»
Lo sento sospirare. Mi sto dimostrando una missione difficile. Non
faccio che domandarmi se il suo ragazzo fosse uno di quei figli che non
creano nessun problema. Uno di quelli che rendono orgogliosi i propri
genitori… uno a posto come Zach.
Non ne abbiamo mai parlato. Nemmeno Braden può accontentarlo in tal
senso e a volte vorrei domandargli che cosa gli è passato per la testa quando
ha voluto prenderci con sé. Sapeva in che guaio si stava cacciando. Non è
uno sprovveduto, per cui credo di sì, del resto non ho mai saputo fingere e
gli ho sbattuto in faccia chi ero fin da subito.
Allungo la mano verso la parte alta della testiera del letto e sfioro il
cappello del mio amico Zach, ricevendo da questo tocco una confortante e
inattesa sensazione di pace.
«Be’, con Mr. Beckett siamo rimasti d’accordo di vederci fra un paio di
settimane. Vorrei che ci fossi anche tu, Des.»
Me lo chiede sempre. Mi domando come possa davvero credere che
riuscirei a dirgli di no come un ingrato.
«Tua madr…» si blocca e si schiarisce la voce. «Elizabeth» si corregge.
«Lei vorrebbe tanto vederti. Faresti felice anche me.» La nota di incertezza
nella sua voce mi fa tremare le braccia.
Sono proprio un coglione. Un caso disperato e indegno di loro, che non
riesce a dire quanto gli vuole bene. Spero solo che un giorno se ne
accorgano e di poterli ricompensare in qualche modo. Entrambi. Anche chi
da lassù li ha messi sulla mia strada.
«Ci sarò, Luc» riesco a dire, trattenendo dentro di me la rabbia per
l’individuo imprigionato e che vorrei essere.
Odio così tanto i miei genitori biologici.
Odio il fatto di non riuscire ad accogliere i Davis come tali.
Odio il sistema e i suoi operatori inetti e odio Jeremiah Spector e quello
che continua a farmi.
È un cerchio che resterà aperto e continuerò a girarci intorno,
disorientato, finché non deciderò di chiuderlo e di farlo a modo mio.
«Bene!»
«Bene!» concludo e poi metto giù, prima che cali il solito silenzio
imbarazzante.
Scuoto la testa e mi precipito fuori dal letto, diretto in bagno per una
doccia. La mia intenzione è di chiamare Anais dopo e di parlarle.
Deve sapere che cosa aspettarsi, deve vedere in che stato sono. Non
serve a un cazzo nascondermi in attesa di riprendermi, perché non
succederà. Mi sento fragile e, nonostante Las Vegas, il tatuaggio e noi, non
sono sicuro di poterla costringere a restarmi a fianco. Non sono sicuro di
poterlo pretendere, non in questo momento.
Finisco di fare la doccia, indosso dei jeans e una maglia nera, sbiadita, e
le mando un messaggio per chiederle di raggiungermi.
Mi risponde subito che sta arrivando e realizzo che doveva essere in
attesa. Mi stava dando spazio e ha rispettato i miei tempi, ma me la
immagino consumata dall’ansia, a elemosinare da Brad delle informazioni
su di me, visto come l’ho tagliata fuori.
Cerco di rendere l’appartamento presentabile.
In giro ci sono scatole di cibo da asporto e libri sparsi qua e là. La mia
camera non è messa meglio: è un disastro. Raccolgo i vestiti che ricoprono
ogni superficie una volta libera e li getto in bagno, con il proposito di
recarmi al più presto in lavanderia.
Faccio sparire le due bottiglie ormai vuote di whisky che ho usato come
scacciapensieri e le ficco in fondo alla spazzatura, sperando che Anais non
si accorga di nulla.
Poi aspetto, guardando dalla finestra, in attesa di vederla spuntare dal
viale di fronte.
Quando finalmente appare, trattengo il fiato.
Ci siamo appena ritrovati, Cristo santo! E sono sempre stato io il più
forte dei due. Adesso mi ritroverà a pezzi, e non so che danno questo ci
arrecherà.
Seguo la sua camminata. È veloce. Tiene la testa bassa, i suoi capelli
ondeggiano al ritmo dei suoi passi. Indossa una minigonna di jeans e delle
scarpe da tennis chiare. Un top bianco e una camicia a quadri che le fascia
le forme in maniera maliziosa.
È ancora troppo magra, eppure è una calamita per gli occhi.
Noto con disappunto che qualche ragazzo la guarda, sperando di
incrociare il suo sguardo, ma lei non ne regala a nessuno. Stringe la sua
tracolla e vola da me.
È assolutamente perfetta. Il fascio di luce in grado di illuminare il buio
nel quale sono piombato, questa presa di coscienza mi fa tornare a respirare
e muove le mie gambe in una folle corsa per andarle incontro.
Spalanco la porta di casa e non mi curo nemmeno di richiuderla. Scendo
gli scalini a due a due e in un attimo sono fuori dall’edificio, a pochi passi
da lei.
Non appena mi vede si blocca. Io no. Continuo a correre finché me la
ritrovo davanti e la stringo fra le braccia, tuffando il viso fra i suoi capelli,
inalando quel profumo che per me è casa.
«Dio, mi dispiace, Honey.»
«Non farlo mai più» mi rimprovera, ma il suo tono è intriso di
preoccupazione.
Le prendo il viso fra le mani e sondo il suo sguardo.
«Dobbiamo parlare» la avviso. Ho l’urgenza di farlo prima di tornare a
credere di poterla lasciare fuori da tutto. Il che sarebbe la cosa più sensata
da fare, ma significherebbe allontanarla da me. Di nuovo. E non so se
stavolta sopravvivremmo.
Avvicina il suo viso al mio. «Prima potresti per favore baciarmi?»
Catturo le sue labbra per un bacio disperato, ma che piano piano riesce a
sciogliere un po’ del gelo che mi sta logorando.
Si stacca da me, ansimante. La stessa aria preoccupata di poco fa, ma un
sorriso rassicurante sul volto.
«Adesso sono pronta» mi dice. E annuisco. La prendo per mano e la
conduco nell’appartamento.
Le racconto ogni cosa. Di Violet, del suo passato, di come questo c’entri
con il mio e dell’avvertimento di Jeremiah.
«Credi che sia mai stata vittima di suo padre?»
Anais è sconvolta, ma tiene il punto. Non l’ho mai vista così determinata
a restare al mio fianco.
«Non lo so. L’ho praticamente sbattuta fuori di casa e mi sono rifiutato
di vederla, ma so che dovremmo parlarne, anche perché lui è qui da qualche
parte e il solo pensiero mi fa impazzire.»
Non le dico che ho scoperto che si droga. Mi sento ancora in colpa per
come l’ho trattata. Forse avrei dovuto essere più paziente, nell’inferno che
ho vissuto, probabilmente, ci è finita anche lei. Avrei potuto aiutarla ma non
ce l’ho fatta.
«È ossessionato da te» conclude Anais.
È la stessa cosa che ha detto Violet e sono certo che non sia stata una
frase gettata lì a caso.
«In questi giorni mi sono ubriacato» butto fuori, neanche riesco a
guardarla. «Ho fatto degli incubi e ogni fottuto giorno torno indietro, in
quella casa, in quel maledetto garage, Anais.»
Stavolta alzo lo sguardo e il suo è già colmo di lacrime.
«Ridivento quel ragazzino. In quei momenti non c’è traccia dell’uomo
che ho faticato a diventare. È bene che tu lo sappia.»
Scorgo nei suoi occhi la consapevolezza di non essere abbastanza e
ciononostante la speranza di diventare tutto.
Torno a fissare la moquette. Mi vergogno come un ladro e trasalisco
quando sento la sua mano afferrare la mia.
«No!» Mi divincolo. «Ho bisogno che tu capisca e che dopo… solo dopo
tu decida se restare o no.»
«Questo non è in discussione.» Lo urla quasi, spalancando gli occhi
come se stessi dicendo un’eresia.
«Lo è. È in discussione, merda! In questo momento sono a pezzi.»
Mi sto obbligando a non guardarla.
«E io sono qui» dice portandosi di fronte al mio viso.
Non sa con che cosa ha a che fare, è per questo che è così risoluta. Mi
dispiace dirlo, ma la sua vita, per quanto abbia avuto degli stronzi come
genitori, è stata molto diversa dalla mia.
Come può capire? Come può comprendere di che portata è la situazione
che ha davanti?
Mi chiudo a riccio, nel disperato tentativo di includerla nella mia vita,
senza il rischio di ferirla.
Anais bisbiglia il mio nome, lo sento come in lontananza, finché non
afferra il mio viso per assicurarsi di avere la mia totale attenzione.
I suoi occhi sono così limpidi e determinati a vedermi che provo a
nascondermi di nuovo, ma lei non me lo permette e mi tiene fermo,
aumentando la stretta intorno alle mie guance. Quando si protende a
baciarmi, resto inerme. Non voglio lasciarmi andare, non adesso che
trasformerei la frustrazione in rabbia e il dolore in altro dolore. Colpendo
lei. Ma Anais approfondisce il bacio, spingendo il suo corpo contro il mio e
tutta quella morbidezza mi spinge a toccarla come se fosse la mia cura.
La mia mano risale verso la sua nuca, la osservo come se non fosse un
mio arto. Affonda tra i suoi capelli e poi li impugna, strattonandoli un po’,
finché lei non mugola per quella dolce sofferenza. A questo punto dovrei
fermarmi perché dentro sento montare sensazioni contrastanti e non sono
tutte benevole. Sono prossimo a perdere il controllo e prego Dio di farla
smettere; lo prego affinché Anais capisca che spingere il piede
sull’acceleratore adesso sarebbe un’assurda follia. Ciononostante le succhio
la lingua, poi interrompo il bacio ma senza ritrarmi. Le nostre labbra si
sfiorano ancora come se non potessero separarsi.
«Ho bisogno di spazio» le confesso, perché è la cosa giusta da fare, ma
al contempo prego che sia tanto testarda da restare.
Sono uno schifoso egoista. È questa la verità.
«Non sono più disposta a concedertene.»
Sento il mio cuore battere più veloce. La vena che le pulsa al lato del
collo mi dice che per lei è lo stesso. Ho ancora la mano affondata nei suoi
capelli e avverto il sudore imperlarle la nuca.
«Dillo, Des» mi intima.
«Che cosa?»
«Vuoi lasciarmi?»
Dio, no!
«Voglio solo del tempo per risolvere questa… situazione» tentenno un
attimo, deglutendo.
Che cosa le sto chiedendo? Di aspettarmi? E nel frattempo, io che cosa
farò?
Anais affonda i palmi nel mio petto, all’altezza del cuore, arricciando le
dita come a volerlo prendere.
«Non farlo» m’implora, anche se il tono della sua voce è tagliente e
senza incertezze.
«Stavolta non ne verremo fuori, Des. Non possiamo chiedere di restare
da soli ogni volta che c’è un problema. Non è così che fanno le coppie.»
Chiudo gli occhi e inspiro ferocemente. «Tu non sai che schifo ho
vissuto.»
«Mostramelo, allora!»
«Cosa?» Spalanco gli occhi e vorrei mettere chilometri di distanza fra
noi, ma lei mi trattiene e glielo lascio fare perché in fondo è quello che
voglio.
«Non conosci il mio mondo, Anais.»
«Honey…» mi corregge.
Rivuole indietro la nostra intimità, quella bolla che ci ha sempre tenuti al
riparo.
«Honey» le concedo. «Non puoi chiedermelo. Non voglio che ti avvicini
a questa merda.»
«No» afferma perentoria. «Non capisci. Io voglio avvicinarmi a te, anche
se questo significa avere a che fare con questa merda. Dillo» ripete.
«Dimmi che cosa ti faceva? Come ti ha violato quel mostro?»
Non può chiedermi questo.
Serro le labbra in una linea sottile e tutta la tenerezza che ha tenuto
insieme il mio autocontrollo comincia a crollare. Faccio per staccarmi da lei
e, quando oppone resistenza, ci metto più intenzione e mi divincolo dal suo
abbraccio.
«Lasciami solo» le chiedo dandole le spalle.
«Ti prego, Des.»
«Non…» ringhio, guardandola di traverso. «… cercare di fare la
psicologa con me, dannazione!»
«Lascia che ti aiuti.»
«Non puoi, cazzo!»
Ha il buonsenso di rimanere in silenzio e restiamo così: lei a fissarmi e io
a tentare di fuggire da questa stanza senza sembrare un pazzo.
«Vado agli allenamenti…» capitolo infine.
Anais non fa una piega.
«Va’ via» le ordino stanco e stavolta la vedo vacillare. La maschera cade
e tutta la determinazione di cui si è vestita, venendo qui, decisa ad aiutarmi,
si sfalda dinnanzi ai miei occhi.
Muove alcuni passi verso la porta, poi si ferma poco dopo aver afferrato
la maniglia. «Non potrai fuggire per sempre, Des.»
È questo che crede? Che io stia fuggendo?
«Il problema è proprio il contrario. Non ho più intenzione di farlo e tu ci
finiresti in mezzo. Non potrei mai perdonarmelo.»
Mi guarda da sopra la spalla, si asciuga discretamente una lacrima e nega
con il capo. «Ogni tanto dovresti far decidere me.»
«Non stavolta» affermo risoluto.
«Non stavolta» ripete piano. «Ma ne riparleremo presto.»
Non le permetterò di conoscere questa parte di me, ma le lascio
l’illusione di riuscirci per farla andare via e, nel frattempo, cercare di
riordinare il casino che ho in testa.
6.
Anais

Ci sono dolori che non si ricorda


perché fanno così male.
Esistono e basta.

Arrivo in fondo al viale percependo il suo sguardo addosso. Mi giro e


guardo verso la sua finestra.
Come avevo immaginato è lì, oltre le tende scostate. Perfino da qui
riesco a intravedere il pugno stretto intorno al tessuto, come se si stesse
trattenendo dal raggiungermi. Mi tiene d’occhio, però, incapace di lasciarmi
andare, come se volesse assorbire la mia presenza senza perdersi un attimo.
Lo fa sempre e di solito i suoi occhi mi provocano un brivido caldo capace
di calmarmi o accendermi, ma questa volta no. Questa volta mi hanno
trascinato in fondo a un baratro di inquietudine.
L’ho visto affranto e non sono abituata neanche a questo; malgrado tutti i
pugni in faccia che ha subito, Des non è mai stato così afflitto.
Eppure, mentre svolto l’angolo per andare a lezione, penso che c’è
ancora troppo che non conosco di lui. Ignoro cose del suo passato che non
ha mai voluto condividere. Cose che ora so essere terribili e che stanno
costruendo, una sbarra dopo l’altra, una prigione, in mezzo a cui lui resta
fermo, permettendo ai ricordi di renderlo prigioniero.
Ha parlato come se potesse fare qualcosa di orribile e il mio pensiero,
ora che riesce a essere più razionale, non fa che risuonare come un allarme.
E se volesse uccidere quell’uomo?
Non so se Desmond ne sarebbe capace e questo non fa che esasperare il
mio senso di inadeguatezza, perché non so come aiutarlo. Non ho i mezzi,
mi mancano dei pezzi e non ho idea di come tenere in piedi il ragazzo che
amo.
Ci sono dolori che non si ricorda perché fanno così male. Esistono e
basta e quelli di Des sembrano inestirpabili.
Sono sovrappensiero e non presto attenzione a dove metto i piedi, così
mi ritrovo a sbattere contro qualcuno. La mia tracolla finisce per terra e
anche i libri della persona che ho travolto.
«Oh mio dio, scusa!» mi affretto a dire. «Ero distratta.» Raccolgo prima
la sua roba e, quando mi accorgo che non ricevo nessun tipo di risposta,
alzo lo sguardo e trovo Violet.
«Ciao» mi saluta gelida.
Le porgo i libri e raccolgo la mia borsa.
Adesso che ce l’ho di fronte vorrei tanto farle qualche domanda, farmi
dire di più e scoprire qualcosa.
Ma fin dove posso spingermi per aiutare Des?
Non dovrei forse aspettare che lui sia pronto a dirmi tutto?
Al diavolo! Devo smetterla con i miei dubbi. Mi serve la chiave per
poter aprire uno spiraglio e, anche se mi costa ammetterlo, in questo
momento, Violet è l’unica che possa procurarmela.
«Ciao» esordisco e la vedo quasi tremare. Stringe i suoi libri al petto
come se potessero farle da scudo, e questo mi fa capire che teme una mia
reazione.
«Violet.» Poggio la mano sulla sua e lei segue il mio gesto. «Ho bisogno
di parlarti. Hai un minuto?»
«S-sì… credo.»
«Va tutto bene, voglio solo capire» cerco di rassicurarla.
Se è vero quello che ha raccontato a Desmond, anche lei è una vittima e
il fatto che si guardi intorno con timore me lo dimostra.
«Non qui, però. Vediamoci alla caffetteria» capitola infine e si allontana
a testa bassa.
È chiaro che è impaurita da suo padre… o quel che rappresenta per lei
Jeremiah Spector. Non ne so molto al riguardo, anche le informazioni di
Des sono frammentarie. Mi riesce così difficile pensare che un padre possa
fare certe cose alla propria bambina. Ma forse, la gabbia dorata che mi
hanno costruito intorno i miei, pur essendo una prigione, mi ha tenuto
talmente al sicuro che non potrei comunque concepire una situazione del
genere.
La seguo, credo si stia dirigendo alla caffetteria del campus, quella
vicina al campo di football. Non è una buona idea, Desmond potrebbe
vederci e a quel punto dovrei giustificare perché mi trovo qui con lei, ma
Violet non sembra intenzionata a cambiare i suoi piani ed è lontana da me
di molti metri perché riesca a fermarla e chiederle di andare altrove.
Anch’io mi guardo intorno e rallento il passo. Lascio che entri nel locale
e poco dopo la raggiungo.
La trovo seduta a un tavolino in fondo, uno di quelli situati dietro dei
paraventi che si possono chiudere all’occorrenza. Non sono molti e trovarli
liberi è difficile. Garantiscono un po’ di privacy agli studenti che vogliono
approfittare del Wi-Fi libero per studiare, quindi di solito c’è la fila per
accaparrarsene uno.
Mi avvicino e mi affretto a posizionare bene il paravento con la figura di
Marilyn Monroe, poi mi lascio cadere sui sedili di pelle rossa, posti
tutt’intorno al tavolo.
Violet si sta torturando le mani e tiene gli occhi bassi. Di nuovo.
«Grazie per questa chiacchierata» cerco di far sciogliere il gelo.
«Non sai ancora che cosa sarò disposta a dirti. Non ringraziarmi»
risponde piccata.
La cameriera ci raggiunge e ci chiede se vogliamo ordinare.
Entrambe prendiamo del caffè nero e rifiutiamo il dolce della casa che la
tizia ci propone.
Non siamo qui per un incontro piacevole e il silenzio che cala al di fuori
di quelle poche battute di circostanza fa battere in ritirata la poveretta che
pare aver percepito la tensione.
«Okay» esordisco. «Ho bisogno di… capire» tentenno un attimo.
«Dimmi prima una cosa, Anais.» Adesso Violet mi sta fissando senza
alcun timore e pianta le mani sul tavolo, in una posa ferma che dovrebbe
intimidirmi.
«Se sei qui significa che Des non ti ha raccontato nulla.»
Colpita!
«Non è proprio così.»
Non voglio che pensi che il mio ragazzo non si fidi abbastanza di me.
Non voglio che la sua illazione vada a segno e non sono qui per rimettere in
discussione il rapporto fra me e lui.
«So tutto» chiarisco.
Si tocca distrattamente il braccio e il suo sguardo diventa vacuo. «Non ti
credo. Des non ti ha detto tutto.»
In realtà è così, ma non le darò questa soddisfazione, per cui faccio leva
sulle informazioni che Desmond ha realmente condiviso con me.
«Quell’uomo è…»
«Il mio patrigno, Anais. Jeremiah Spector non è il mio vero padre.»
Rilascio il fiato, sollevata. Non so perché la cosa mi fa sentire in questo
modo. L’orrore che ha vissuto questa ragazza è lo stesso aberrante.
«Ma è come se lo fosse. Questo è bene che tu lo sappia» chiarisce.
Il suo sguardo è così spoglio di emozioni.
Come può dire una cosa del genere?
«Ma lui…»
«Abusava di me. È corretto.»
«Non capisco…»
Sono un continuo balbettare. La mia voce è incerta, trema. Il fiato mi
viene meno e non riesco a concludere una frase.
«E come potresti?» sputa fuori con astio.
«Ti tagli per niente. Sei quella che si ferisce perché mamma e papà non
la guardano come vorrebbe.»
Come fa a sapere queste cose?
Non può avergliele confidate Des. Mi rifiuto di crederlo.
«Be’» continua, sporgendo il busto verso di me. Trema visibilmente.
«Senti questa, Anais Kerper: io avrei pagato per non ricevere certe
attenzioni.»
Lo capisco. Il mio pensiero corre a Desmond e a quello che ha vissuto, e
la vergogna per l’esiguità dei miei problemi mi sommerge come sabbie
mobili.
«Hai ragione» capitolo infine perché, insomma, sta dicendo la verità. Ai
suoi occhi devo apparire come una stupida ragazzina viziata, ed è
l’immagine che per lungo tempo hanno visto in molti prima di Des. Lui non
mi ha mai guardato con quegli occhi, eppure avrebbe dovuto.
Violet sfugge di nuovo al mio sguardo e deglutisce. È evidente che non
si aspettasse questa resa.
«Fammi entrare nel vostro mondo. Desmond vuole tenermene fuori, ma
non posso lasciarlo solo. Ti prego, aiutami.»
Lascio che le mie mani raggiungano le sue e le stringo. Sono fredde.
Maledettamente gelide anche se fuori fa caldo.
Ogni mia barriera crolla, è inutile che mi nasconda, devo mettere da
parte l’orgoglio e la gelosia. Devo chiedere aiuto. Anche alla persona che
mai avrei creduto un giorno di implorare.
I suoi occhi si fissano sul mio gesto, poi sfila lentamente una mano dalla
mia stretta. «Des ne ha uno uguale.»
Si riferisce al mio tatuaggio.
«Sì» confermo soltanto, ma deve avere capito il significato dei simboli
con cui abbiamo deciso di marchiarci. Non ci vuole un genio.
Stringe i denti e la bocca le si appiattisce in una linea dura. Qualsiasi
cosa stia provando in questo istante lo ricaccia indietro e spinge una ciocca
di capelli dietro l’orecchio. Sta tremando ancora, sembra non stare bene.
Non deve essere facile per lei pensare a me e Des insieme, né aprirsi.
Non deve essere facile farlo con me.
Ciononostante intuisco il momento esatto in cui prende la sua decisione.
Sfila anche l’altra mano dalla mia e si passa i palmi sopra i jeans,
inspirando ed espirando piano.
«Non è facile, merda!»
«Lo so.»
«Dio!» Alza lo sguardo al soffitto, le si fa lucido e provo pietà per lei.
«Non lo sai, invece.»
Mi chiedo che cosa abbia passato e mi costringo a restare al mio posto;
l’empatia che provo in questo momento mi spingerebbe ad alzarmi e
andarle vicino, magari abbracciarla per farla sentire meno sola, meno
braccata.
«Posso raccontarti la mia storia» inizia. «Ma non conosco quella di Des.
Presumo che per certi versi siano uguali.»
Fa una smorfia di disgusto e poi torna a parlare. «Mio padre se ne andò
quando avevo sette anni. Mia madre era a pezzi, allo sbando. Non era un bel
matrimonio, il loro, ma credo che per lei avere un uomo fosse necessario. Si
sentiva sola, neanche la mia presenza bastò a farla sentire più forte, anzi.
Accadde il contrario. Divenne così fragile. E tutto sotto gli occhi di una
bambina che non poteva aiutarla. Poi arrivò Jeremiah…» Scuote il capo
come a volere cacciare via un ricordo spiacevole.
«… Per un po’ andò bene. Mi sembrava un uomo buono, si prendeva
cura di lei e di conseguenza di me. Ero felice, mia madre rifiorì e io…» si
ferma. «… Mi lasciai avvicinare dall’orco. Avevo otto anni quando tutto
cominciò.»
Otto anni. Cristo!
«Violet…» Mi porto una mano alla bocca per ricacciare indietro
l’indignazione che minaccia di uscire.
«È stato orribile» specifica. «Non l’ho mai raccontato, nessuno sa tutta la
mia storia. Nessuno sa cosa si nasconde dentro di me. Nessuno mi conosce
davvero, per cui… lasciami finire senza interrompermi, okay?»
Annuisco, mentre arriva la cameriera con i nostri caffè.
Violet afferra la sua tazza e ci soffia su. Attendo. Non ho intenzione di
forzarla in alcun modo. Neanche il timore di essere beccata da Desmond mi
smuoverebbe da qui adesso.
«Ero una bambina molto timida. Mia madre mi raccontava sempre che
fino ai tre anni nessun parente conosceva la mia voce. La scuola mi aiutò a
uscire dal mio guscio, ma per buona parte della mia infanzia sono rimasta
quasi muta.»
Tutto okay fin qui, è una storia difficile come tante, ma so che sta
arrivando la parte più terribile. Quella in cui mi mostrerà il suo incubo a
occhi aperti.
«Jeremiah era così diverso da mio padre. Rendeva la mamma felice e mi
chiamava “principessa”. Mi conquistò a poco a poco. Facevamo molte cose
insieme e senza pensarci troppo cominciai a chiamarlo “papà”, poi un
giorno tutto cambiò.»
Una lacrima rotola giù dai suoi occhi e istintivamente tento di fermarla,
ma lei la asciuga e mi blocca alzando una mano.
«Lo ricordo come se fosse ieri. È una di quelle scene che la notte mi
viene a trovare. Se chiudo gli occhi mi fa tornare ancora lì, in quella casa.
Era inverno e non ero andata a scuola, non ricordo perché, ma mia madre
uscì per andare a fare la spesa e io restai a letto. Jeremiah era in casa.»
Vorrei tapparmi le orecchie. La scena che sta per descrivermi mi farà
male; prenderà corpo dinnanzi ai miei occhi e al posto di Violet a un certo
punto ci vedrò Des. Il mio Des.
Sono quasi tentata di fermare il suo racconto e Violet se ne accorge. «Hai
voluto che riaprissi il cassetto dei ricordi, Anais. Non puoi fermarmi
adesso.»
Ha ragione. L’ho costretta a tornare indietro per capire. «Va’ avanti.»
Stringe lo sguardo. «Jeremiah era ancora a letto…» La sua voce si
abbassa, poi riapre gli occhi e ci vedo dentro il nulla e tutto al contempo.
È straziante.
«Mi chiamò e come una stupida andai. Mi abbracciò come faceva
sempre, ma quella volta fu diverso. Ricordo tutto. È un ricordo così lucido
che fa paura. Mi toccò in parti proibite, lo capivo anche allora, eppure non
riuscivo a capire perché mi sembrasse sbagliato. Lui mi voleva bene, no?
Era il mio papà, ormai. Come poteva farmi del male?»
Prende un sorso del suo caffè e sembra lontana.
Fissa un punto dietro di me. Ha diretto il suo sguardo verso il muro,
come se stesse assistendo a una proiezione della sua spaventosa storia.
«Ho sempre nascosto tutto. Ricordo la sensazione di paura che provavo,
quando sentivo i suoi passi. Iniziavo a gelare da dietro il collo. Il freddo
scendeva fino alla punta dei miei piedi e poi mi paralizzavo. Mi sembrava
di vivere tutto da fuori. Trattenevo il pianto e rimanevo inerme. E dopo mi
chiedevo perché diamine non avessi reagito. Perché, a un certo punto,
intorno ai quattordici anni, quelle attenzioni avessero cominciato a
piacermi. E perché, quando arrivarono quei ragazzini e mia madre mi
mandò via, avessi provato un sollievo smisurato anche se volevo che lei
venisse con me. Ma quando dopo parecchi anni capii che il ricordo di mio
padre per uno di loro era un’ossessione, ne fui semplicemente… gelosa,
Anais. Perché lo amavo. Amavo il mio carnefice, perché anch’io ero
diventata un mostro.»
«Non hai mai provato a confidarti con qualcuno?»
«Mia madre morì che avevo tredici anni. Pensai che la sua morte
avrebbe costretto il mio vero padre a tornare da me, ma non fu così. Mi
erano rimasti solo Jeremiah e mia nonna. Quest’ultima praticamente lo
adorava come un figlio. Non mi avrebbe creduto e il resto lo sai già.
Sviluppai una dipendenza da lui. A quel punto non avrei più potuto
tradirlo.»
Questa sua ultima affermazione mi riporta al presente e a quanto c’entri
Violet con il ritorno di Jeremiah nella vita di Des.
Ho mille domande e provo timore nel porle. Ho paura che scappi via e
che, nonostante mi sia costretta a restare qui, a sentire questa atroce storia,
lei non mi conceda più nulla.
«Violet…» tentenno ancora. «… Devo chiedertelo: cosa c’entri tu con il
ritorno di quest’uomo? E perché hai avvicinato Des quella sera?»
L’aria afflitta di poco fa scompare in un baleno e il cambiamento è
sconcertante.
«Non è stata solo una coincidenza. Non è così?»
Punta i suoi occhi su di me e stavolta dentro vi brilla un lampo di sfida.
«Il confessionale ha chiuso. Da me non avrai un’altra parola.»
La rabbia mi monta dentro a velocità folle. Non credo di aver mai
sperimentato un simile grado di incazzatura.
«Bene!» Mi alzo. Il suo intento è chiaro e non voglio che veda la
frustrazione attraversarmi il viso.
«Sta’ lontano da lui. State… State lontano da lui o vi giuro che ve ne
pentirete.»
Ghigna e sposta la tazza di lato, facendo schioccare la lingua e
mostrandomi il piercing.
«Dovremmo avere paura di te?»
Dovremmo.
Non riesco a capire se sta giocando con me. Se mi vuole fare credere di
essere complice del suo patrigno per farmi impazzire.
Se ripenso al modo in cui si è guardata intorno quando ci siamo
incontrate, non mi sembra possibile, ma se la osservo adesso, vedo il suo
sguardo spiritato e la sua espressione soddisfatta, e penso che questa
opzione non sia poi tanto folle.
«Non puoi essere davvero una persona così spregevole» la accuso.
«E tu non puoi avere la presunzione di sapere che persona sono, per cui
va’ a farti fottere.»
Afferro la mia borsa e vi rovisto dentro. Prendo una banconota da dieci
dollari e la getto sul tavolo.
«Il tuo caffè è pagato.»
Le volto le spalle, pentita di aver provato tenerezza per lei. È subdola e
non me ne frega più niente se quello che ha vissuto l’ha resa ciò che è oggi.
La voglio lontana da Des.
La voglio lontana da noi.
Esco dalla caffetteria quasi correndo e non rallento il passo neppure
quando sono lontana.
I metri che sto cercando di mettere fra me e lei non sono abbastanza. Il
destino di Violet e Des non si è incrociato quando erano bambini. Il fatto
che lo abbia fatto adesso, a distanza di anni, e quando ormai questa storia
poteva essere archiviata, non può essere solo un caso.
Ho il fiatone e una voglia matta di vedere Desmond.
Senza pensarci troppo, mi dirigo verso il campo da football e, mentre
attraverso il portone di ferro che delimita l’area sportiva, sento il chiasso
della squadra, la voce rude del coach e i rumori di una partita.
Si stanno allenando.
Prendo posto fra gli spalti alti, c’è altra gente cui piace venire a vedere
gli allenamenti dell’UCLA Bruins, per cui mimetizzarmi non sarà difficile.
Ho ancora timore che Des mi veda e che possa sentirsi braccato dalla
mia presenza, ed è in questo momento di profondo disagio che, invece, sono
io a individuarlo per primo. Lì, in mezzo a ventidue giocatori, che da dove
sono potrebbero sembrarmi tutti uguali, vedo il leader.
È nel suo universo, il football lo riconcilia con la vita e vorrei avere lo
stesso effetto che questo sport ha su di lui.
Un suo compagno corre ai lati con il pallone fra le mani, poi lo lancia
verso Desmond che lo intercetta senza problemi, correndo verso la end zone
e macinando yards come se fosse la cosa più facile del mondo. Il
touchdown è assicurato e la squadra lo acclama, anche se è una semplice
partita di allenamento.
Me lo immagino sorridere dietro la visiera abbassata del suo casco e
provo un tuffo al cuore.
Non so se lo sta facendo, in realtà. Se tutto questo correre lo ha portato
davvero lontano dai suoi demoni, ma lo spero. E lo faccio perché lo amo e
perché in questo momento farei di tutto per salvarlo.
La partita finisce e così anche l’allenamento.
Vedo uscire tutti dal campo. Il clima è disteso e cameratesco e osservo
gli altri interagire fra loro, ma stavolta si tengono a distanza da Des.
A quanto pare non è riuscito a fingere e devono aver capito che qualcosa
non va.
Non so che fare. Vorrei farmi trovare fuori dagli spogliatoi, ma forse è il
caso che gli dia spazio. Me lo ha chiesto. Dovrei concederglielo almeno per
qualche ora. Così resto seduta qui, con il sole che mi batte sul viso,
chiudendo gli occhi per dar pace alla mia mente che non smette di
arrovellarsi.
Non mi accorgo di nulla, di nessun passo, nessun rumore accanto a me,
tranne quello degli atleti che si stanno allenando nelle altre discipline, poi le
sento: due labbra morbide si posano sulle mie e l’inconfondibile profumo di
Des mi invita a restare ferma per godermi il bacio.
È lui. E lo riconoscerei fra mille uomini, anche bendata.
«Resta così» mormora sulla mia bocca. Poi mi accarezza il labbro
superiore con la lingua e lo sento sospirare. «Sei così bella, Honey.»
«E io ti amo così tanto» gli rispondo, aprendo gli occhi e fissandoli nei
suoi.
«Mi sei mancato» confesso.
Non mi sto riferendo solo alle ore in cui siamo stati fisicamente lontani.
«Ti mancherò ancora molte volte» mi risponde e, così facendo, mi
dimostra che ha capito il senso della mia frase e che non sta cercando di
indorarmi la pillola.
Per Desmond è un momento difficile e, se voglio restargli accanto, dovrò
imparare a farci i conti, insieme a lui.
Gli poggio le mani ai lati della testa e lo obbligo a guardarmi. Indossa
ancora l’equipaggiamento da gioco, è sudato e il suo volto è arrossato dallo
sforzo fisico. «Posso farcela, Des. Non tagliarmi fuori.»
Scuote il capo e abbassa gli occhi; quando chino il mio per riacciuffare il
suo sguardo, qualcosa in lui muta. Des si impadronisce della mia bocca con
un bacio famelico e disperato, senza dolcezza e con molte pretese.
Come se volesse farmi toccare la sua rabbia.
Come se mi stesse sfidando a restare.
Raccolgo la provocazione lasciando che mi consumi, consumandolo a
mia volta, mentre gli mordo il labbro inferiore e gli dico che lo amo e che,
quando tutto questo sarà finito, lo amerò ancora, forse perfino di più.
«Andiamo a casa?» sussurra, allontanandosi da me.
Il tono della sua voce è ancora troppo freddo, ma almeno mi ha permesso
di avvicinarmi.
Dovrà pur contare qualcosa, no?
7.
Desmond

Il passato non è morto, ragazzino.

«Devo darmi una ripulita» le dico.


Puzzo da morire, ho bisogno di una doccia.
C’è un bel sole e Anais sembra goderselo. Lancio un’occhiata a destra e
poi a sinistra. Gli spalti non sono proprio deserti, molti trovano in questo
luogo un posto tranquillo per studiare o leggere, quindi posso stare un po’
più tranquillo.
La riapparizione di Jeremiah nella mia vita è uno spauracchio che mi
sussurra all’orecchio in continuazione.
Sto diventando paranoico. Percepisco la sua presenza ovunque. Anche
poco fa, mentre ero in campo, ho sentito un brivido freddo corrermi lungo
la schiena e l’ho cercato intorno a me come un ossesso, poi ho visto lei e il
battito del mio cuore ha trovato pace.
«Ho delle dispense da studiare» mi indica la sua borsa. «Ne approfitterò
mentre ti fai bello per me.»
Mi sorride e il cielo plumbeo che continuo a immaginare e che sembra
volermi inghiottire si rischiara, come quello che realmente è sopra di noi
adesso.
«Faccio in fretta. Tu aspettami qui.»
«Non vado da nessuna parte.»
È seria e so che con questa frase vuole dirmi qualcosa di più.
Mi allontano lentamente e cammino all’indietro, incapace di staccare gli
occhi dai suoi e da questo attimo di tranquillità che mi sta regalando.
Penso a quanto bello potrebbe essere il nostro futuro se la vita smettesse
di prenderci a calci in culo. E a come il ragazzo che sono potrebbe essere
diverso, se solo si potesse riscrivere il passato di ognuno e ci riuscissi con il
mio.
Urto con la gamba uno dei sedili rossi, così mi decido a darle le spalle e
corro verso gli spogliatoi. Voglio sbrigarmi per correre di nuovo da Honey.
Gli altri hanno quasi finito. Sono rimasti in pochi e, quando mi vedono
arrivare, mi lanciano un’occhiata veloce, ma anche adesso desistono dal
parlarmi.
Non li biasimo. Stamattina sono stato intrattabile. Mi conoscono già da
un po’ e mi hanno lasciato perdere non appena hanno visto che ero pronto a
mordere chiunque mi rivolgesse la parola.
Ora va meglio e mi sento in colpa. Così tento di smorzare la tensione,
che la mia presenza ostile ha creato nella squadra in queste ore.
«Mi avete lasciato un po’ d’acqua calda, spero!»
Thompson è il primo a fissarmi. «Forse no, coglione.»
Ma sta sorridendo e io ricambio.
«Che ne dite, ragazzi?» continua coinvolgendo gli altri. «Se la merita
una doccia calda?»
Il ghigno sui volti dei miei compagni mi suggerisce che ne sto per fare
una freddissima.
E infatti, qualche secondo dopo, mi ritrovo caricato di peso e ficcato
vestito sotto un getto gelido. Ho le palle ghiacciate, ma almeno è tornato il
sereno.
Quando sono soddisfatti di vedermi tremare, mi lasciano fare la doccia
che volevo.
Mi libero degli abiti infradiciati, sposto il miscelatore sull’acqua calda e
lascio che il suo tepore faccia svanire questi ultimi giorni.
Mentre sono sotto la doccia, mi ritrovo a pensare ad Anais e non
all’estenuante allenamento che ho appena concluso o al fatto che non c’è un
solo muscolo del mio corpo che non mi faccia male.
Ci sto dando dentro come un matto e la colpa è in parte sua. La sua pelle
magnifica, i capelli biondo miele che sono diventati la mia ossessione fin da
subito… potrei perdere tutto e il pensiero mi scuote il corpo con un brivido
gelido.
Lascio che l’acqua mi scivoli addosso. Aggrotto la fronte ripensando a
un modo per scovare Jeremiah e metterlo a tacere definitivamente, ma non
ne trovo di leciti e ho troppo da perdere per sporcarmi le mani e rischiare di
finire dentro.
Mentre resto con il capo chino, mi godo il massaggio che il getto pratica
sulle mie spalle tese e sento i miei compagni uscire, uno a uno, finché il
silenzio riempie lo spogliatoio e rimango solo con lo scroscio provocato
dalla doccia.
Un altro fremito mi attraversa il corpo, ma mi costringo a restare fermo e
a non farmi vincere dalla fissazione.
Non so per quanto tempo rimango immobile. Attendo che questa brutta
sensazione passi, lentamente abbandona la mia testa e torno a respirare; so
che devo fare in fretta, l’ho promesso ad Anais, ma è difficile abbandonare
la bolla di pace che finalmente mi ha avvolto, finché il rumore di un
armadietto che si chiude mi fa voltare la testa di scatto.
«Chi c’è?» domando. Nel mentre chiudo l’acqua e mi avvolgo i fianchi
con un asciugamano.
Potrebbe essere qualcuno che è tornato indietro, certo, ma la sensazione
di poco fa mi salta di nuovo addosso e stavolta non ho intenzione di
metterla a tacere.
Adesso il silenzio assoluto amplifica ogni altro suono. Il gocciolio delle
docce rimbomba, il vento che soffia fuori s’infila attraverso gli spifferi e
fischia… Il trambusto di una camminata claudicante mi urla che quell’orco
è qui.
Merda! Allora non mi sbagliavo!
«Spector!» urlo, ispezionando ogni centimetro quadrato dello
spogliatoio. Rischio di scivolare un paio di volte, sono fradicio e, mentre
avanzo, i passi del mostro si fanno più concitati, finché non arrivo
all’entrata e noto che la porta è stata accostata ma è aperta. Mi fiondo
all’esterno, il mio sguardo corre a destra e a sinistra; il corridoio è vuoto e
urlo per la frustrazione.
Torno dentro e tiro un pugno in aria. «Dannazione!»
Il mio respiro è furioso e il cuore sembra volermi balzare fuori dal petto.
La rabbia mi acceca, ma conservo ancora abbastanza lucidità da pensare
che Honey è là fuori e che, se Spector mi ha seguito fin qui, significa che
mi ha tenuto d’occhio per un po’ e che sa dove l’ho lasciata.
Corro verso il mio armadietto, lo apro per recuperare il borsone e il
sangue mi si ghiaccia nelle vene. Ci sono due macchinine: una rossa e una
gialla e vengo scaraventato indietro di nove fottuti anni.

«Ti piacciono le macchinine, eh?»


Non ne ho mai avute, a casa non c’erano i soldi per comprarmi degli
stupidi giocattoli, ma ho sempre desiderato averne una.
Quest’uomo sembra gentile. Nessuno lo è mai stato con noi, e lancio
un’occhiata a Braden per capire se anche lui ha la mia stessa sensazione.
Lo trovo con lo sguardo meravigliato, fisso su quei due modellini. Sono
lucenti, uno rosso e l’altro giallo.
Ci divertiremo a giocare insieme.
«Desmond? Non mi hai risposto, ragazzino.»
«Oh, sissignore! Mi piacciono» mi affretto a dire.
«Bene» mi fa lui. Sorride di nuovo e noto che gli manca un incisivo.
Porta la barba lunga e non me ne sono mai accorto.
«Ho un’idea» continua avvicinandosi. Quando mi arriva di fronte, si
porta al mio livello e apre il palmo della mano, mostrandomi quello che ha
tutta l’aria di poter diventare il mio regalo.
Ha delle mani grandi e sono macchiate di erba e terra.
«Vieni di sotto con me e saranno tue. Potrai regalarne una a Braden, se
vuoi.»
Guardo il mio amico, mio fratello. Gli occhi gli brillano già di
aspettativa.
«Perché dobbiamo andare di sotto?» chiedo.
Non mi piace quel posto, è buio. È l’unico luogo della casa che io e
Brad non siamo stati ansiosi di esplorare.
«Ti insegnerò qualcosa sulle auto. Mi hai detto che ti piacciono, no?»
Annuisco e lui mi mostra ancora quel sorriso sdentato.
È gentile, sì. E mi insegnerà qualcosa sulle automobili.
«Allora vieni con me, ragazzino. Braden, tu puoi andare a dormire,
Desmond farà tardi.»
Lo seguo, mentre apre la porta che dà accesso al garage. Tira una
cordicella e una lampadina illumina una scala di legno.
Ecco dov’era la luce.
Mi giro un’ultima volta verso Brad e gli faccio l’occhiolino.
Domani avremo due nuove macchinine con cui giocare.

Sono le stesse automobiline che ha usato Jeremiah la prima volta per


attirarmi in garage. Le stesse che usava ogni dannata volta, come se fosse
un fottuto segnale segreto fra me e lui.
Non riesco a toccarle.
Non sono nuove. Hanno anche qualche punta di ruggine e a una delle
due manca una ruota.
Il bastardo ha recuperato proprio quelle. Ha conservato ogni cazzo di
cosa come fosse un cimelio.
Chiudo con foga l’armadietto. Il fragore del metallo riverbera per la
stanza e un grido mi s’impiglia in gola.
Devo uscire di qui.
Devo raggiungere Anais.
M’infilo i jeans, sto per mettermi anche la maglietta, ma a quanto pare
non è ancora finita e, quando mi giro, sullo specchio intriso di vapore, c’è
un altro messaggio, stavolta scritto a chiare lettere per fugare ogni dubbio.

Il passato non è morto, ragazzino.

Mi lascio scivolare a terra. Le lacrime minacciano di uscire e mostrare le


mie debolezze, ma in qualche modo riesco a non piangere.
Mi prendo la testa fra le mani e senza neanche accorgermene inizio a
dondolare avanti e indietro, come facevo da piccolo.
È terribile rievocare il dolore di essere abusati. Quando sei solo un
bambino e qualcuno ti stringe a sé, ti dice che ti vuole bene e non te ne ha
mai voluto nessuno, è difficile non crederci. Adesso sarebbe tanto più facile
rimuovere e negare, eppure eccoli qui tutti quegli atroci ricordi, il mio
passato che si sovrappone al presente, mi salta tutto intorno come cavallette
impazzite e poi addosso, spingendomi al tappeto per divorarmi.
La cosa più atroce di tutte è il senso di colpa, la sensazione di confusione
e di sporco che mi accompagnano ancora oggi, dopo tutti questi anni. Solo
Brad sapeva, perché aveva capito. Jeremiah non perdeva occasione di
usarlo per minacciarmi e lo faceva dinnanzi a lui, per terrorizzarlo e
terrorizzare me che non riuscivo a vedere l’unica famiglia che avevo
tremare di paura.
Mi costringo ad alzarmi dal pavimento freddo. Ho ancora i capelli
bagnati che gocciolano sul mio petto e il freddo alle ossa è pari a quello che
questo agguato mi ha lasciato dentro a fortificarsi, come se stesse ergendo
una dannata gabbia di ghiaccio.
Non voglio più essere prigioniero.
Non voglio più sentire tutto questo dolore.
Voglio vivere come mi ero illuso di poter fare una volta uscito dal
sistema. Come stavo iniziando a fare insieme ai Davis e ad Anais.
Afferro la maglietta, infilo le scarpe e corro fuori, verso la mia ragazza,
come un uomo che ha paura di perdere tutto ciò per cui ha lottato. Come
l’uomo che lotterà fino al resto dei suoi giorni perché niente gli venga più
negato.
La vedo lì, dove l’ho lasciata, con il naso tuffato dentro un libro. Una
leggera brezza le muove i capelli. Una ciocca le svolazza davanti agli occhi
e con una mano la risistema dietro l’orecchio.
È bellissima, è mia, è il mio futuro e il senso della mia vita.
Mi vede e il suo volto si illumina.
Non so che aspetto ho in questo momento, spero di riuscire a nascondere
quello che è appena successo, perché voglio che questa storia resti solo mia.
Come posso anche solo sperare che potrebbe affrontare tutto per me?
Non si tratta solo di noi.
Si tratta di ciò che ero prima di lei.
Si tratta dell’uomo che vuole trascinarmi indietro, verso ciò che mi ha
fatto diventare anni fa.
Non voglio farle vedere nessuna delle mie cicatrici, né quanto queste
abbiano ripreso a sanguinare imbrattando tutto ciò che ho costruito con
tanta fatica.
Ficca tutto in borsa e poi scende gli scalini, correndo per raggiungermi.
Osservo le lunghe gambe che gli shorts lasciano nude. Il seno, fasciato
da una semplice canottiera bianca, che dondola un po’ per la corsa. La
camicia scivolata su una spalla… e comprendo – sì, lo faccio adesso – che
non sono disposto a perderla e che per un briciolo di ciò che provo quando
ce l’ho accanto, potrei uccidere, stavolta per davvero.
«Va tutto bene?» mi domanda.
Le stampo un bacio sulle labbra e mento.
«Bene, sì. Andiamo?»
«Dove?» Sorride.
«A casa, Anais Kerper. Ma siccome noi due tecnicamente non ne
abbiamo una, lascio decidere te.» Le faccio l’occhiolino. Non guardarmi
intorno è una sfida contro la mia volontà.
Sono sicuro che il bastardo è qui da qualche parte, ma non metterò fine
alla mia messinscena. Non adesso.
«Casa è dove sei tu, Desmond Ward.»
Attiro a me la mia Honey e inspiro dai suoi capelli. «Sono sicuro di aver
già sentito questa frase da qualche parte» la prendo in giro.
«Anch’io» ridacchia. «Ma è la verità.» Si libera dal mio abbraccio e
comincia a trascinarmi verso l’uscita. «Andiamo da te?»
«Purché questo implichi starti dentro fra non più di dieci minuti» ringhio
abbracciandola da dietro.
«Uhm… vedremo.»
Lascio che mi prenda per mano e lancio un’occhiata veloce alle mie
spalle.
Non si vede nessuno, eppure la presenza di Jeremiah si sente. La
percepisco, come quella di uno spettro che continua a soffiarmi sul collo.
Prendiamo la mia auto, quella che Luc mi ha regalato quindici giorni
dopo l’affido. È una Mustang del ’77, una sua scelta. La prima che mi ha
fatto capire quanto io e lui fossimo simili.
Guidare questa bellezza con la mia ragazza accanto è il Paradiso, ed è
così che dovrebbero essere questi anni al college. È così che dovrebbe
essere la mia vita. Ma quando penso di meritarla, ecco che mi viene
ricordato il contrario.
«Perché hai quel cerotto sul braccio?»
M’irrigidisco quando lo noto.
Cristo! Non può essere… Non può aver ricominciato a…
«Buono, Sherlock! Mi sono bruciata con la piastra per i capelli.»
L’istinto mi suggerisce di chiederle di farmi vedere la bruciatura. La
ragione, però, urla che se lo faccio, la ferirò.
Devo darle fiducia. Se l’è meritata. Ma l’ultimo periodo è stato
travagliato e non le sono stato accanto come avrei dovuto.
«Scusa» mi affretto a dirle. «Sono un pessimo fidanzato.»
Mi sorride. «Già! Infatti mi domando perché continui a piacermi così
tanto.»
«Mi stai prendendo in giro?»
«Non puoi saperlo.» Mi fa l’occhiolino e si sistema sul mio sedile di
pelle, facendo salire gli shorts su quelle gambe per cui potrei morire.
Schiaccio l’acceleratore, scrollando la testa.
«Se devo guidare, faresti bene a non provocarmi» la rimprovero.
«E va bene, guastafeste!»
«A casa» ringhio quasi.
Ma lei mette su un broncio irresistibile. «Prima voglio un gelato.»
E l’aria felice che le illumina il volto quando è con me mi fa sentire un
Dio.
La mia Honey vuole un gelato? Be’, avrà il cazzo di gelato più buono
che ci sia a Los Angeles.
«E gelato sia! Ma prima…» Spingo in avanti le mie labbra e lei mi bacia,
mentre inchiodo a un semaforo rosso e le auto dietro di me fanno impazzare
i loro clacson.
«Mi farai arrestare» borbotto.
«Sei tu che hai provocato me.»
Ridiamo, aspettando che scatti il verde, poi l’espressione di Anais
cambia di colpo e deglutisce vistosamente.
«Ho paura per te.»
Dannazione!
«Non devi.»
Tamburella le dita sulle sue gambe e si morde il labbro.
«Ho paura che tu possa fare qualcosa di stupido. Che lui ti faccia male.»
Riparto, sgommando. Le sue parole sono andate a segno e bruciano sul
mio orgoglio. «Non sono più un bambino.»
«So che non lo sei più. E so che non puoi capire il senso delle mie
parole. Non lo capisco neanch’io, Des. Non voglio ferirti.»
Stringo più forte il volante. «L’hai fatto. Ogni volta che ti preoccupi per
me, per ciò che potrei fare a quel bastardo, ignori totalmente ciò che lui ha
fatto a me.»
Emetto un grugnito di disgusto e lei spalanca gli occhi.
«Non è così e sei ingiusto a pensare una cosa simile. Non passa giorno
che non mi dia pena per quello che hai vissuto.»
«Non voglio la tua pietà, piccola. Sono sopravvissuto» sputo fuori.
«Sono qui.» Rimarco il concetto, battendomi una mano sul petto.
«Sei arrabbiato perché mi preoccupo per te?»
Incrocio un altro semaforo rosso e mi fermo. La osservo. Mi sta
guardando con occhi imploranti e non riesco a resistere oltre.
«Io n- non…»
«Funzionerebbe per tenerti lontano da lui?»
«Cosa?»
«Questa mia preoccupazione. Questo ignorare, come dici tu, ciò che lui
ti ha fatto. Farti incazzare, deluderti… basterebbe a farti desistere
dall’andare a cercarlo?»
«No» rispondo subito. «E sai perché?»
Resta in attesa, con gli occhi pieni di lacrime.
«Perché adesso non sono più solo. Ci sei tu e quel pazzo non esiterà a
colpirti per arrivare a me.»
Intanto scatta il verde e le altre auto suonano i loro clacson per invitarmi
a muovermi. Lo faccio e io e Anais restiamo in silenzio, finché non
arriviamo davanti a una gelateria.
«Ti odio» mormora. «Quando sembra che tu abbia ragione e mi dici
queste cose. Quando mi tratti come la cosa più preziosa che hai… Ti odio.»
«Anch’io.»
Cosa stiamo diventando?
Non abbiamo il controllo sul nostro destino. Siamo succubi delle nostre
reazioni, perché reagiamo in modi differenti che da un certo punto in poi
hanno cominciato a collidere.
Il suo sguardo è fiero, risoluto. Non l’ho mai vista tanto combattiva.
«Tuttavia ti amo più di quanto creda di odiarti, quindi non possiamo
chiudere un bel niente» mi fa presente.
«Lo so.» Un momento di silenzio si dilata fra noi. «Ma sono dentro a
questo casino e, che tu lo voglia o no, non sei compresa nell’equazione.»
«Non faccio che pensare a un modo per tirarti fuori da questa faccenda,
e non me ne viene in mente neanche uno. Non lo so cosa hai passato. Non
so che cosa ti passa per la testa adesso che i ricordi sono tornati a
tormentarti.»
«Ottimo! Perché non voglio che tu sappia un bel niente.»
Non adesso, che sono risoluto a chiudere con il mio passato una volta per
tutte. Forse un giorno, quando tutta questa storia sarà archiviata.
«Allora… questo gelato?» Spero che raccolga il mio tentativo di
cambiare discorso.
«Honey, assecondami» la imploro.
Torna a sorridermi mesta e questa immagine dolcissima provoca il mio
buonumore. «Il gelato, Anais. Così poi potremo andare a casa.»
Cristo! Ho una voglia disperata di perdermi in lei.
«Devi imparare a pazientare» mi provoca, scendendo dall’auto.
«Col cazzo!» borbotto. «Ho pazientato abbastanza.»
«Come hai detto, scusa?» Si sporge verso l’interno dell’auto,
guadagnandosi un’occhiata alle sue tette.
Taccio, altrimenti rischierei di essere davvero sconcio.
«Piccola, che ne dici di finirla qui? Mi stai facendo perdere il controllo.»
«Buono a sapersi.» Ghigna, la mia strega. «Ma prima mi devi un
gelato.»
Esco dalla macchina e sospiro. «Cercherò di tenere le mani a posto, nel
frattempo…»
Mentre entriamo in gelateria, e Anais osserva la vetrina, meditando su
che gusto prendere, realizzo che mi basta averla accanto per ritrovare la
strada di casa.

Quando torniamo al mio appartamento, non sto più nella pelle. Voglio
baciarla finché ci mancherà il respiro, toccarla come se potessi fonderla a
me, perdermi in lei fino a smarrire me stesso, ma trovo Brad, seduto sul
divano che sta giocando all’Xbox e i miei piani vanno in fumo.
Mi lancia appena un’occhiata.
Non ci vediamo da quanto? Sono giorni che mi evita, esattamente dal
nostro litigio. Ritrovarlo qui, a giocare come d’abitudine con Assassin’s
creed, è strano.
Anche Anais resta di sasso appena lo vede.
È chiaro che sa dei nostri dissapori visto che per giorni è rimasto a
dormire nel suo appartamento. E se non è stato lui a mettere in chiaro a che
punto fosse ormai il nostro rapporto, ci avrà pensato senz’altro Faith.
Quelle due si raccontano ogni cosa.
«Ciao» esordisco.
Lui mi fa un cenno con la testa e continua a giocare.
Noto i resti di un pizza sul tavolo.
«Hai mangiato?» gli chiedo per fare conversazione.
«Sì, paparino.»
Il tono affilato della sua voce è lo stesso di qualche giorno fa. Perfetto!
Non gli è ancora passata. Bene! Neanche a me.
«Cercate di sotterrare le asce, voi due? Che ne dite?» Anais si mette in
mezzo e stringe fra le mani il mio pugno.
Non mi ero neanche accorto di averlo stretto, ma mi sento una bomba a
orologeria e con il suo comportamento da idiota Brad mi sta facendo
esplodere.
Cala il silenzio.
Sono passati degli anni. Anni in cui mi sono ostinato a restare da solo
con questa cosa a divorarmi da dentro. Anni vuoti, riempiti di dolore e
risentimento, ma mai verso Braden. Lui è mio fratello, la mia metà. Io sono
il buio e lui è la luce. Io quello istintivo e lui la mia parte razionale. Io
l’angoscia e lui la gioia di vivere.
Perché ci siamo ridotti a questo?
«Des?» È Anais a chiamarmi e riportarmi al presente.
«Non fissarlo in questo modo» mi ammonisce sussurrando.
«Non… lo sto fissando, cazzo!»
«Okay, ecco quello che faremo.» Toglie il controller dalle mani di Brad e
lo lancia di lato sul divano.
«Ehi!» protesta lui, ma la mia ragazza lo ignora.
«Stasera usciamo. Chiama Faith. Io avverto Breanna.»
«Cosa?» Il mio amico fa per riprendere il controller e Anais lo anticipa.
«Non provarci neanche!»
Quando tenta di fare la dura è così buffa che reprimo a fatica una risata.
«In realtà ci sarebbe una festa organizzata dalla squadra per me.»
«Per te?» mi chiede lei.
La mia ragazza è l’unica a non sapere ancora del mio contratto con i
Bolts e appena ne verrà a conoscenza mi farà il culo per non averglielo
detto subito.
«Be’, sì… ecco, con tutto quello che è successo non ho avuto tempo di
darti la bella notizia.»
Il suo sguardo si accende. «Dimmi che è quello che penso.»
Credevo che se la sarebbe presa, invece mi ama così tanto che riesce a
perdonarmi ogni cazzata.
«A quanto pare firmerò con i Bolts.»
Mi si lancia addosso, urlando di felicità e mi lascio baciare, ben felice
del suo entusiasmo.
«E va bene, dannazione!» Brad sbuffa, ma è tutta scena perché si alza
subito e tira fuori il cellulare dalla tasca dei jeans. Mi punta un dito addosso
e finalmente l’aria fra noi si fa meno pesante. «La adoro. Questa qui ti
rimetterà in riga, coglione! Il che è più di quanto potessi sperare.»
Gli alzo il medio e sorrido. «Probabilmente è il karma, fratellino.
Arriverà anche il tuo momento, non credere.»
8.
Anais

L’immagine che appare davanti ai miei occhi afferra il mio stomaco


e lo mette in subbuglio.
Il cuore fra le mani per stritolarlo
e lasciarmi qui a morire.

Vedere Desmond e Braden ridere e punzecchiarsi è liberatorio. In questi


giorni saperli in conflitto mi ha impensierito e, quando ho avuto
l’opportunità di averli insieme nella stessa stanza, ho colto la palla al balzo
per spingerli a un chiarimento.
È impensabile che non appianino le loro divergenze. So quanto siano
stati male. Almeno Brad.
Visto che dorme da giorni nella stanza di Faith, l’ho avuto intorno
parecchie volte, e in ogni occasione mi è sembrato il fantasma di se stesso.
Lontano, apatico, anche con la mia amica che è la sua dose quotidiana di
adrenalina.
Mi basta guardarli, Desmond e Braden, per capire che non potrebbero
fare a meno l’uno dell’altro. Ciò che hanno vissuto, il modo in cui l’hanno
affrontato, li ha legati a doppio filo. Si completano. Sono così diversi, ma
stupendi allo stesso modo e ricchi dentro in egual misura.
Nonostante siano danneggiati, sono la cosa più bella che mi sia capitata
di vedere, soprattutto quando sono insieme. Quando si guardano, facendo
discorsi che nessun altro potrebbe mai capire.
«Mi cambio in fretta» li rassicuro, infilando la chiave nella serratura del
mio appartamento.
Stanno chiacchierando su qualche idiota rito d’iniziazione cui Brad deve
prendere parte per entrare nella confraternita e nemmeno mi prestano
attenzione. Mi ritrovo a sorridere come una beota di fronte alla loro
ritrovata complicità e spalanco la porta.
«Siamo qui» avverto Faith e Bre, ma mi blocco quando vedo Eva, mia
sorella, seduta nel nostro salotto con una tazza in mano.
Mi viene subito incontro e mi getta le braccia al collo.
«Ah, quanto mi sei mancata, sorellina!»
«Che ci fai qui?» le domando quando molla la presa.
«Non sembri contenta di vedermi.» Mette su un finto broncio che spazzo
via stringendola di nuovo in un abbraccio.
«Che stupida! Certo che sono contenta. Ma non avevi degli esami da
dare prima delle vacanze?»
Si rabbuia e solo adesso noto che ha un’aria stanca, è più pallida del
solito e sembra dimagrita. Molto dimagrita, a dire il vero.
Non ci sentiamo da un po’, ogni volta che tentiamo di videochiamarci
ognuna delle due ha qualche impegno, così dall’ultima volta è passato un
mese.
La telefonata di mia madre mi riecheggia nella mente e faccio due più
due.
«Va tutto bene, Eva?»
No, non va bene per niente ed è scritto nel suo sguardo, ma mia sorella
scuote il capo e si concentra su Des.
«Ehi, tu! Non mi saluti?»
Resto a fissarla mentre abbraccia Desmond e poi passa a Braden. Faith e
Breanna nel frattempo ci hanno raggiunte, agghindate di tutto punto per la
serata; la gioia di rivedere mia sorella allontana momentaneamente la
preoccupazione sul motivo che l’ha portata qui da me.
«Possiamo restare in casa» dice Des, osservandomi. «I ragazzi
capiranno. Se Eva non se la sente di uscire, per me non c’è nessun
problema.»
«Oh! Ma sentilo! Guarda che non sono mica una vecchietta. Le ragazze
mi hanno aggiornato. A quanto pare dobbiamo festeggiare la nuova stella
dei Bolts. Non mi perderei l’evento per nulla al mondo, Ward!»
«Okay, allora» intervengo. «Datemi dieci minuti per cambiarmi. Eva, hai
bisogno di rinfrescarti?»
Mia sorella lancia un’occhiata schifata ai suoi leggings e alla sua maglia
oversize. «Tu che dici?»

Cavolo, hanno fatto le cose in grande!


La casa è addobbata con i colori della squadra, come la prima volta che
mi sono ritrovata a una delle loro feste.
Forse indossare questo miniabito nero monospalla non è stata una grande
idea, ma da quando Des mi ha visto non ha saputo tenere le mani a posto,
ed era da un po’ di tempo che non mi guardava così. Che non mi toccava
come se potessi rompermi. Come se desiderasse me e al diavolo il resto!
Per cui ignoro le occhiate lascive che mi lanciano un paio di ragazzi e
avanzo in mezzo alla folla, trascinata dal mio uomo che invece li fulmina
con lo sguardo.
Da quando Jeremiah è riapparso nella sua vita è più protettivo.
Anche se non se ne fa accorgere, come quando è sparito per giorni, lo
sento. Il suo sguardo, la sua presenza intorno a me a tenermi d’occhio… so
che era lui tutte le volte che mi sono sentita osservata. Altrimenti non avrei
avvertito quella familiare sensazione di calore che solo Des sa farmi sentire.
Qualcuno si sta sbracciando in fondo al locale e attira la nostra
attenzione.
«Sono Thompson e Sherman» ci delucida Desmond. «Cazzo, ma chi è
tutta questa gente?»
A un orecchio esterno il suo tono potrebbe apparire infastidito,
ciononostante so che Liam e Ian sono fra le poche persone che Desmond ha
lasciato avvicinare a sé e solo per questo hanno il mio rispetto.
«Dobbiamo stare con loro?» chiede Bre e sembra che abbia ingoiato del
fiele.
«Sono dei tipi a posto» la rassicura Des.
E lo fa perché, in questo ultimo periodo e nonostante avesse altro per la
testa, neanche a lui deve essere sfuggito quanto Breanna sembri sulle spine.
Qualcosa non va, ma la mia amica non vuole parlarne e questo è strano.
Non è mai stata riservata. Dura sì, a volte cinica, ma non così chiusa,
specie con me e Faith.
Ci facciamo largo fra la folla e Desmond mi cammina appiccicato dietro.
Osservo il suo braccio che mi cinge la vita e, a giudicare da come i tizi che
ci provano abbassano subito lo sguardo, lo immagino lanciare occhiate di
fuoco a chi osa guardarmi.
Del resto io faccio lo stesso con le tipe che lo stanno spogliando con gli
occhi e il solo fatto che l’oggetto del loro desiderio sia mio mi rende
sfacciata, così ancheggio più del dovuto e mi struscio contro di lui,
assecondando il suo evidente apprezzamento.
Questo suo marchiare il territorio non mi infastidisce, al contrario, mi
elettrizza perché so di essere il suo pensiero fisso, forse perfino l’unico ora,
nonostante questo momento sia tutto per lui.
«Non so se essere incazzato nero per questo abito che non copre niente o
arrapato da morire per lo stesso motivo.» Mi dà un bacio sotto l’orecchio e
gemo, sentendo qualcosa muoversi al centro del petto.
Percepisco il suo fiato caldo sul collo, l’intensità della sua voce e la
prova dell’effetto che gli faccio spingere fra le mie natiche… mi sento già
ubriaca e non ho toccato ancora un goccio d’alcol.
Mi fermo e mi giro fra le sue braccia. La bocca a un soffio della sua, che
adesso si esibisce in un sorriso storto. «Stasera puoi essere ciò che vuoi,
Ward.»
Ciò detto, lo bacio senza curarmi di essere in un posto affollato, dove la
maggior parte della gente è ancora troppo sobria per ignorarci.
Che ci guardino! Ci apparteniamo. Nessuno può mettersi fra noi, ma poi
penso a Jeremiah e a tutti i demoni che ha liberato intorno a Des la sua
riapparizione, e quel pensiero sbiadisce piano.
Desmond stacca riluttante le sue labbra dalle mie e si guarda intorno.
«Frena, piccola.»
Ha il respiro corto. Come me.
Stasera non voglio pensare a niente.
Il mio Desmond è ritornato in tutta la sua gloria e ho intenzione di
goderne a pieno.
«Ti stanno già guardando abbastanza. Non c’è alcun bisogno di dare loro
materiale per fantasticare su di te.»
«Fantasticano anche su di te. Non importa» mormoro. «È già un
miracolo se non ti chiedo di tornare a casa.»
Un lampo gli attraversa lo sguardo e lo sento inspirare ferocemente.
«Non provocarmi, Honey...»
Gli sorrido e sbatto gli occhi in maniera innocente. «Io? Provocare te?
Non sia mai, andiamo! È la tua serata.» Lo prendo per mano e
raggiungiamo gli altri, che nel frattempo hanno già salutato Liam e Ian.
«Ed ecco la stella di stasera!» urla Thompson, alzando in aria il suo
bicchiere.
Molti dei ragazzi presenti appartengono in modo chiaro alla squadra, ma
c’è gente che si è semplicemente imbucata alla festa ed è curiosa di capire
che cosa si festeggia.
Liam balza sul palco nel punto dove si è posizionato il dj, afferra un
microfono e fa cenno al tizio di abbassare la musica.
«Bene, gente» esordisce. «So che una buona parte di voi è qui perché
vuole solo bere gratis e divertirsi e ve lo lascerò fare, lo prometto, ma
stasera si festeggia un amico e voglio rendervi partecipi di un grande
traguardo per i Bruins. Des, vieni qui per favore.»
Un po’ restio, lui lascia la mia mano e si avvia verso il palco.
«Sei un coglione.» Leggo il labiale, quando si rivolge al suo capitano
sorridendo e scuotendo il capo. Liam gli cinge le spalle con un braccio e
sembra sinceramente orgoglioso.
Questo ragazzo mi piace.
«Ricordatevi questa bella faccia, ragazzi. Perché presto lo vedrete
giocare con i Bolts e sarà il fottuto quarterback più bravo che abbiano mai
avuto.»
Dalla folla, che finora era rimasta abbastanza in silenzio, si leva un boato
di acclamazione e la squadra raggiunge il palco, sollevando Desmond e
gettandolo per aria un paio di volte al grido degli UCLA Bruins.
La serata va avanti. Scorrono fiumi di alcol e con la scusa continua di un
brindisi per il festeggiato, Desmond è già bello che andato.
Non importa, la situazione è comunque sotto controllo e passo la serata a
ballare insieme alle mie amiche e mia sorella, mentre l’attenzione del mio
ragazzo viene monopolizzata da chi vuole congratularsi con lui e
festeggiare il suo traguardo.
Mi tiene d’occhio, però, anche se il suo sguardo si fa via via più fosco e
meno attento a causa dell’alcol. O almeno credo sia per questo.
«Ho bisogno di andare in bagno» mi avvisa Eva.
«Di nuovo?»
È tutta la sera che ha bisogno di usare i servizi.
Fa spallucce. «Ci vado da sola, tranquilla.»
«Neanche per sogno. Sono già tutti ubriachi.»
Le afferro la mano e tento di richiamare l’attenzione di Des per
avvertirlo che mi sto allontanando, ma la musica è alta e lui è attorniato da
un gruppo di ragazzi.
Desisto. Tanto faremo presto.
Davanti al bagno del piano di sotto c’è una fila interminabile, così
decidiamo di cercarne un altro a quello di sopra; per fortuna ne troviamo
uno poco conteso e dobbiamo aspettare solo una decina di minuti prima di
utilizzarlo.
«La devi fare anche tu?» mi domanda mia sorella.
Annuisco. In effetti non mi ero accorta di averne bisogno, ma sì, adesso
scappa anche a me.
Entriamo insieme e quando lei ha finito, faccio pipì anch’io. «Dio, ma
quanto ho bevuto?»
«Troppo, ragazzina. Dovrò dirlo alla mamma.» Ma sta sorridendo.
«Tu, invece? Come mai solo succhi di frutta?»
Non mi è sfuggito il fatto che Eva non abbia toccato un goccio d’alcol,
nemmeno quando qualche bel ragazzo ha tentato un approccio. Li ha
completamente ignorati. Il che mi riporta alla mente la telefonata di mia
madre, con la quale si informava del presunto ragazzo di Eva, ma sto
aspettando che sia lei a parlarmene.
«Stasera non mi andava. Mi sento lo stomaco sottosopra, sarà per
qualcosa che ho mangiato prima di mettermi in viaggio.»
«Vuoi che torniamo a casa?»
«No!» esclama. «Non pensarci nemmeno. È la serata del mio bel
cognatino, voglio essere presente.»
Mi sistemo e mi lavo le mani. Eva segue il mio gesto ed è allora che nota
il tatuaggio.
«Ehi, che cos’è questa roba?»
«A te che sembra?»
«È un tatuaggio.»
«Già!»
«Il tatuaggio di un anello…»
«Caspita, sei un genio!»
«Proprio su quel dito…»
Sorrido al suo viso riflesso allo specchio.
«E sono sicura che se andrò a controllare troverò la stessa cosa al dito di
Des, non è vero?»
Continuo a sorridere. Anzi, se possibile il mio sorriso un po’ ubriaco si
apre ancora di più.
Eva comincia a saltellare. «Oh, ma è una cosa dolcissima!»
Due colpi impazienti alla porta interrompono la sua reazione.
«Non ci sentiamo da troppo. Devi aggiornarmi su tutto» mi ammonisce.
Ha ragione. Mi è mancata un casino e anch’io ho bisogno di sapere cosa
le è successo nell’ultimo periodo.
Altri due colpi alla porta ed Eva sbuffa. «Dobbiamo uscire prima che la
buttino a terra.»
Ci sarà tempo per parlarci dopo.
Quando torniamo di sotto, fatichiamo a raggiungere il resto della
comitiva. La gente sembra essersi moltiplicata.
Individuo tutti. Faith e Breanna sono con Braden. Liam è poco più in là e
sta ballando avvinghiato a una ragazza. Desmond non c’è e ipotizzo che sia
con Ian, ma noto quest’ultimo intento a salire le scale con una bionda
attaccata al braccio, allora comincio a cercarlo con insistenza fra la folla.
Raggiungiamo i nostri amici e mi rivolgo subito a Brad. «Dov’è Des?»
Lui dovrebbe saperlo, ma appena si accorge della mia presenza e realizza
che cosa gli sto chiedendo, si irrigidisce.
Sposto il mio sguardo su Faith e lei fa lo stesso. Anzi fa di più, abbassa
lo sguardo e ho la matematica certezza che qualcosa non va.
Giro su me stessa, ma la folla crea un muro umano che mi impedisce di
lanciare il mio sguardo lontano.
«Dov’è?» chiedo ancora, rivolgendomi a Braden.
È Breanna a rispondermi e il suo tono non mi piace per niente. «Da
quella parte, Anais.»
Mi indica dove hanno allestito una specie di bar, ma ancora non capisco
il perché dello strano atteggiamento di Brad e Faith. Des starà continuando
a brindare con qualcuno. Del resto è la sua serata.
Nonostante i pensieri rassicuranti che mi impongo, mi muovo come un
automa ed Eva mi viene dietro.
Mentre mi faccio largo fra la calca, penso a quanto sono stupida a
provare questo senso di inquietudine, ma poi davanti a me si apre un varco
e l’immagine che appare davanti ai miei occhi afferra il mio stomaco e lo
mette in subbuglio. Il cuore fra le mani per stritolarlo e lasciarmi qui a
morire.
Desmond è attorniato da ragazze e due di loro gli si stanno strusciando
addosso senza alcun pudore. Quel che è peggio è che lui sembra apprezzare
e le sue braccia avvinghiate ai loro fianchi rappresentano la stessa mano che
ho immaginato stritolare il mio cuore.
I suoi occhi scuri, profondi ma così pieni di vita, sono sempre stati una
calamita per me; adesso, invece, quando si accorge della mia presenza,
tentano di allontanarmi. Provo a scavarci dentro ma mi mostrano il vuoto.
Di nuovo.
Fino a qualche minuto fa andava tutto bene. Che cosa diamine è
successo?
Compio qualche passo in avanti e lui mi fissa. Non fa nulla, non parla e
sono sicura che se lo facesse ora reciterebbe.
Lasciami in pace, sembra dirmi.
Tutti i suoi sguardi persi nel vuoto e i suoi silenzi assordanti. Quei sorrisi
apatici e il tormento sul suo viso riappaiono adesso.
Li guardo.
Li ascolto.
E mi sento morire.
Non so di che pace stia parlando, non ne vedo. All’improvviso tutti i
miei tagli mi sembrano così insignificanti che provo vergogna. Des ha
vissuto cose che non posso capire. Non riesce neppure a gioire del futuro
che gli si prospetta.
Dovrei essere incazzata, delusa dal suo comportamento, eppure non
riesco a fare a meno di pensare che questo ragazzo non è il mio Des.
Vorrei conoscere tutti gli avvenimenti che lo hanno segnato, ma lui me li
nasconde.
So che non mi ha raccontato tutto e questo significa che non ne ha
l’intenzione. Ai suoi occhi sono stata fragile per così tanto tempo, che il
pensiero di fare affidamento su di me deve essergli inconcepibile.
Lo capisco. Ma farò di tutto per dimostrargli che non è così. Che posso
essere ciò di cui ha bisogno.
Lo amo. E questo mi ha resa forte.
Forse l’ho capito in ritardo, ma spero non sia troppo tardi per me. Che
non sia tutto perduto, perché Desmond ha bisogno di Anais, non di Honey,
e io ho bisogno che lui si dia a me.
Mi avvicino e finalmente sembra riemergere dalla stanza oscura in cui si
è barricato.
Osserva le ragazze che lo circondano, quelle che sta ancora stringendo e
se le scrolla di dosso, rabbrividendo.
«Via!» suona categorico, al punto che seppur con riluttanza le tipe fanno
come dice, riservandomi delle occhiate al vetriolo.
Vaffanculo, stronze!
Poi si volta e mi dà le spalle, curvandole e svuotando il contenuto del
suo bicchiere.
«Vuoi che resti?» Eva è accanto a me e ha seguito tutta la scena.
«Me la caverò…» rispondo.
«Sai che in questo momento vorrei picchiarlo, vero?»
Le riservo un sorriso amaro. «Sì, ma non è come pensi.»
Mia sorella sospira e mi dà un bacio sulla guancia. «Fatti valere.» Dopo
si allontana e resto qui, qualche metro distante, con la gente che mi passa
accanto e talvolta mi spintona, ma senza vederla davvero.
Compio alcuni passi cauti, come se ci fosse l’ipotesi di cambiare idea e
tornare a casa per crogiolarmi nella mia rabbia.
È questo quello che si aspetta da me, ma non lo farò.
«Parlami» gli dico carezzandogli i capelli.
A quel contatto s’irrigidisce e scatta in piedi. Barcolla e fa cadere per
terra lo sgabello sul quale era seduto.
«Lasciami in pace, Anais.»
Faccio finta di non aver sentito. «Andiamo a casa.»
Non replica e gli cingo la vita con un braccio per permettergli di
sorreggersi a me. «Aspetta!» Tiro fuori il cellulare dalla sua tasca e digito in
fretta un messaggio a Eva, informandola che stiamo andando via e che va
tutto bene. L’ultima è una bugia ma non c’è bisogno che mia sorella si
preoccupi.
Con il suo metro e ottantacinque e i suoi ottantadue chili di peso, non è
semplice guidare Des verso l’uscita, ma non mollerò per nulla al mondo.
Una volta fuori, procediamo lenti verso il suo dormitorio. Nessuno ci
presta attenzione, sono tutti troppo ubriachi.
«Perché?» mi chiede a un certo punto. Lo sguardo è lucido, l’alcol lo ha
decisamente steso ma c’è di più, i suoi occhi sono persi come quando è in
sé e gli incubi tornano a tormentarlo. Il che mi fa comprendere che il Jack
Daniel’s che ha trangugiato tutta la sera è servito solo a fagocitarli.
«Perché vuoi che ti parli?»
Il suo tono è tagliente. In questi momenti è come se tollerasse a
malapena la mia presenza.
Decido che è meglio non rispondergli. È probabile che domattina non
ricorderà più niente e potremo ripartire da oggi, come se questa serata non
fosse mai esistita.
Finalmente arriviamo nel suo appartamento. Frugo di nuovo nelle sue
tasche e trovo la chiave. Apro la porta e lui mi guida svelto verso il divano.
«No, Des. È troppo piccolo per te» lo ammonisco. «Non puoi dormirci.
Vieni… in camera tua» lo esorto.
Comincio a spogliarlo, tirando le stringhe delle sue scarpe.
«Perché vuoi che ti parli…» domanda ancora e, maledizione! Nel suo
sguardo c’è tanto di quel dolore che potrei annegarci dentro.
«Perché stasera non mi hai rivolto la parola. Hai lasciato che gli altri mi
facessero compagnia mentre tu ti ubriacavi. Non è da te.»
«Non è da te» mi scimmiotta. «Chi cazzo sei, Anais, mia moglie?»
Odio quando fa così. Si nasconde sotto cumuli di macerie e non riesco
più a vedere nulla di lui.
D’istinto mi guardo le dita, osservo la fede che ci siamo tatuati a Las
Vegas e i miei occhi si riempiono di nostalgia.
«Sono solo preoccupata» ribatto mentre gli sfilo via le scarpe.
«Non devi. So badare a me stesso.»
«Stasera non sembrava» replico tagliente.
L’immagine di lui in mezzo a quelle ragazze frustra i miei buoni
propositi rispendendoli indietro.
Vorrei essere più accondiscendente, ma sono ferita. Non so più come
prenderlo, non sembra esserci un modo migliore di un altro per fare breccia
dentro di lui e il tempo scorre senza che riesca a fare nulla.
Tolgo anche l’altra scarpa e gli lancio un’occhiata.
È inerme, se ne sta fermo, con una mano sullo stomaco, l’altra
abbandonata lungo il letto, eppure non dorme ancora.
I suoi abiti puzzano di fumo e alcol e avrebbe bisogno di una bella
doccia. Forse, però, potrei convincerlo a mettersi seduto per sfilargli la
maglietta. Almeno quella, così poi potrò lasciarlo riposare.
«Togliamo questa» dico tirandone un lembo.
Des mi afferra la mano e mi trascina sopra di sé.
«Non riesci a resistere, eh piccola Honey?»
«Voglio solo metterti a letto» provo a obiettare, ma mi sta stringendo con
impeto e divincolarmi è impossibile.
«Tu vuoi solo scopare, invece» ansima al mio orecchio.
«Des, ti prego. Voglio prendermi cura di te. Permettimelo!»
Il suo sguardo si adombra mentre annega nel mio e so che l’ho
infastidito. «C’è un solo modo…»
«Non è vero» continuo a dire. Detesto che pensi di ridurre il nostro
rapporto a questo.
«Lo è. Prendere o lasciare. A te la scelta, Honey.»
Prendere o lasciare.
Come se per me fosse concepibile mollare.
Con una mossa veloce mi posiziona sotto il suo corpo. Si tira un attimo
su e si sfila la maglietta lanciandola di lato. Poi torna su di me, la fronte
appoggiata sulla mia e gli occhi aperti per sondare il mio sguardo. Il respiro
è corto. Ogni battito del suo cuore è in sincronia con il mio e galoppa
furioso. La vista del suo petto nudo non smetterà mai di togliermi il fiato,
ma è quando mi concedo di perdermi nei suoi occhi che realizzo di avere a
che fare con un estraneo.
Non mi sta vedendo. In questo momento potrei essere una di quelle
ragazze che gli stavano appiccicate addosso poco fa.
Nel tentativo di riportarlo da me, gli afferro la mano sinistra e mi porto
l’anulare alle labbra baciando il tatuaggio. Rivoglio il mio Des, ma lui la
ritrae bruscamente e m’infila il pollice fra le labbra.
«Cazzo se sei bella!»
Si spinge contro il mio bacino, la sua erezione preme sulla mia
femminilità e geme, gettando indietro la testa. Sul volto ha un’espressione
di godimento mista a sofferenza e la certezza che Des non è veramente con
me mi striscia addosso come aria gelida.
Mi dilania vederlo in questo stato, saperlo perso in quel luogo oscuro nel
quale l’ha ributtato questa merda. Ringhia al mio orecchio frasi sconnesse
che vorrei non sentire. Mi sta usando e glielo lascio fare, consapevole che
forse, dopo, piangerà fra le mie braccia, pentito di avermi trattato come una
puttana.
«Ti piace, eh?»
No, vorrei urlare, invece resto zitta.
Mi tira su il vestito e mi tocca in mezzo alle gambe senza alcuna
delicatezza, spingendo di lato i miei slip, con urgenza. Il suo fiato sulle
labbra è pesante, sa di whisky, ma mi sbilancio lo stesso in avanti per
cercare le sue labbra.
Me le nega.
«Torna da me» lo prego.
«No» mi ammonisce.
«Torna da me» lo imploro ancora, ma stavolta il mio Des è andato
lontano.
Si porta le dita sotto il naso e annusa a fondo, con lo sguardo allucinato e
un ghigno su quella bocca che amo da morire. «Oh, sì che ti piace. Ti eccita
eccome che io ti prenda così.»
Due lacrime scendono, solcandomi le guance, ma Desmond non le nota
neppure.
È come in trance.
«Piangi pure» sussurra feroce, confutando la mia tesi. Ha visto quanto
sono scossa e non gli fa alcun effetto. Mi gira, mettendomi carponi; subito
dopo si spinge dentro di me, cominciando a martellare il suo membro nel
mio ventre, spoglio dell’amore che prova per me quando è sobrio. Privo di
ogni tenerezza e pieno invece di odio, di disprezzo per se stesso e per quello
che sa diventare in questi momenti di assoluto delirio.
Giro il viso di lato e serro gli occhi, chiudendolo fuori.
Dopo.
Non riesco a non pensarci, perché allora sarà peggio. Quando realizzerà
che cos’ha fatto, la consapevolezza lo investirà come una marea e lo
trascinerà ancora più a fondo, lontano da me.
9.
Desmond

Non riesco più a sentire nulla.


Perché nulla mi è più dovuto.

Sogno di essere sporco. Lo ero spesso da piccolo, mia madre non si


curava di me, ma nei miei incubi – e questo è uno di quelli – non ci sono i
miei abiti sudici, né la moquette macchiata o i piatti sporchi da giorni in
cucina. Non c'è nemmeno la doccia con le tubature arrugginite o le lenzuola
zozze del mio letto. C'è lui. E lo schifo che mi ha appiccicato addosso nel
momento in cui mi ha toccato.
Trattengo la rabbia insieme ai ricordi. Tutte quelle orribili immagini mi
svolazzano intorno come avvoltoi su una carcassa. E mi sento così: morto
dentro, in decomposizione.
Non voglio che nessuno lo veda. Nessuno tranne Anais. Perché lei è qui.
Sento il suo profumo, anche se non riesco ad aprire gli occhi. E mi ha visto.
Lo ha fatto stanotte e ho dato il peggio di me, anche se non ero in me. È
come se l’avessi violata e vorrei trovare la forza di uccidermi con queste
mani.
Cristo! Ho combinato un casino, ma lui era lì e la mia mente è andata in
corto circuito. L’ho visto, in mezzo alla folla, che mi scrutava per un attimo
e, non appena mi sono accorto della sua presenza, è fuggito come il coniglio
che è. L’ho rincorso, finché non mi sono reso conto di stare inseguendo il
nulla, ma ho realizzato anche che il solo fatto di essere insieme ad Anais
mette lei in pericolo.
Sto delirando e preferirei impazzire piuttosto che farmi sconvolgere la
vita di nuovo. La paranoia è aumentata a causa dell’alcol e sono diventato il
merdoso deficiente di un tempo. Quello che usava le ragazze per superare il
trauma e i ricordi. E per una volta, la prima, non ho pensato a lei.
Questa è la cosa che mi sconvolge di più. Il fatto di non aver messo
Anais al primo posto nei miei pensieri è peggio di aver tentato di
dimenticarla dopo la morte di Zach.
Il dolore, se condiviso, si dimezza, è quello che tenta di farmi capire la
mia Honey ogni giorno, ma come posso caricarla di questo peso? Non ci
riesco e, tacendo, sto rischiando di ammattire davvero.
La testa mi pulsa, sento male dappertutto. È quello che mi merito per il
male che le ho fatto.
Avrei bisogno di un altro bicchiere di Jack per alleviare questo
martellare alla testa, ma ho paura di alzarmi e svegliarla e che, una volta
realizzato che stanotte non è stato un incubo, se ne vada lasciandomi fottere
dal mio passato.
Cerco di far piano e mi alzo dal letto. Anais deve essere davvero distrutta
perché non si muove nemmeno. E questo mi riporta a stanotte e a quanto
deve essere stato difficile per lei far finta che quelle ragazze non esistessero
o che non le stessi incoraggiando, flirtando con loro.
Quanto deve essere stato difficile per lei, lasciarmi usare il suo corpo,
senza che le dimostrassi l’amore immenso che provo.
Il risveglio non sarà tranquillo come il suo sonno, non posso davvero
sperare che non voglia parlarne e vorrei darmi un pugno per come l’ho
trattata.
Dovrei lasciarla andare via o cacciarla, ma il vero problema è che per
quanti giri stia compiendo la mia mente per tenerla al sicuro, il mio cuore
non vuole allontanarla.
A volte non si riconosce subito la persona giusta, altre invece è così
lampante che appena te ne rendi conto, è come se l’asse inclinata del tuo
mondo tornasse a posto. Non c’è un tempo o un luogo. Accade come una
deflagrazione che anziché distruggere costruisce un mondo. Il tuo. Un posto
confortevole dove poter essere te stesso nonostante tutto.
È quello che mi è successo con Honey. Ed è esattamente quello che
vorrei significare per lei.
Ma mentre entro in bagno e non riesco a star dritto nemmeno per
pisciare, dubito di potere essere quel posto.
Mi trascino verso la cucina. Da qualche parte deve esserci una bottiglia
di whisky. Per fortuna non devo impegnarmi molto per cercarla, la trovo
subito dietro ad altre bottiglie d’acqua e succhi di frutta. Afferro un
bicchiere e me ne verso un po’, poi mi appoggio contro il bancone e butto
giù una sorsata, sperando che basti a placare questo mal di testa.
Stava andando tutto bene.
Ero sereno e, nella mia vita fatta di eccessi e sbagli, fatta di abusi e
soprusi, non lo sono mai stato. Non un fottuto giorno. Ma poi è riapparso
l’uomo nero e ogni istante è diventato un solo e interminabile momento
buio come ieri… come oggi…
«Non è un po’ presto per cominciare a bere?»
Anais mi viene di fronte. Indossa una delle mie magliette dei Bruins. È
tutta scompigliata dal sonno e si sta ancora stropicciando gli occhi. È così
irresistibile… ed è ancora qui con me.
«Uhm» mugolo, avvicinandomi contro il suo collo e abbandono solo per
un attimo il mio bicchiere di Jack Daniel’s, sperando di farle dimenticare gli
ultimi avvenimenti.
«Puzzi d’alcol, Des. Non puoi fare sul serio.»
Anche se ho torto marcio, se dovrei chiederle perdono in ginocchio e
strisciare come il verme che sono, m’infastidisco. Con i miei casini in testa,
i rimproveri della mia bionda rischiano di farmi perdere del tutto il
controllo.
«Non sono ubriaco» e mi fermo per strusciarmi contro di lei, annusando
il suo profumo di vaniglia, dolce come la mia Honey.
«Te lo giuro. Voglio essere lucido mentre entro dentro di te.»
Anais pare soppesare le mie parole, ma non c’è niente da fare, il suo
spirito da crocerossina spinge per uscire e mi fa fottutamente incazzare.
Mi ha accudito dal primo giorno che Jeremiah è riapparso nella mia vita,
dall’attimo in cui le ho confessato di quei giorni terribili. Sta cercando di
calmare i demoni che torturano la mia anima, ma quelli ogni tanto tornano e
mi chiedono di pagare il conto.
Uno, due, tre…
«Des, potrebbero sentirci…»
Non mi dice che non vuole a causa del mio comportamento di ieri sera e
questo mi fa incazzare ulteriormente, perché ogni sua reazione non è quella
che ipotizzo. Mi tratta con timore, come se potessi andare in pezzi. Come se
quei pezzi fosse sempre pronta a raccoglierli a mani nude. Spinge una mano
contro il mio petto ma sono già partito e, nonostante sia consapevole che
Brad e Faith siano nell’altra stanza e che potrebbero uscire in qualsiasi
momento, non me ne frega un cazzo lo stesso. Così ignoro quel debole
tentativo di rifiuto e la bacio, affondando la lingua dentro la sua bocca e
prendendomi quello che voglio.
«Desmond, ti prego…»
«Oh, piccola! Fammi stare bene. Ho bisogno di stare bene, di
dimenticare tutto per un po’...»
E quel tutto è una madre che amava più la droga che suo figlio; è un
padre fallito e manesco che usava me come pupazzetto antistress; è il
sistema che la vita mi ha mandato per tradirmi ancora; è Jeremiah e le sue
sporche mani su di me; è la mia incapacità di sopravvivere dopo quello.
«No, Des… Smettila!» ansima, tentando di respingermi.
Sbuffo: «Vaffanculo!» e mi allontano in malo modo, tanto che Anais si
ritrova sbilanciata e si aggrappa al bancone.
Il rumore dei bicchieri che tintinnano fra loro mi ricorda che ho lasciato
il mio sul tavolo di legno. Lo recupero e ne tracanno il contenuto.
Perché non se ne va?
Da dove trae la forza di restarmi accanto?
«Mi hai appena mandato a fare in culo?»
Incrocio il suo sguardo ferito e abbasso il mio per la vergogna, ma la
rabbia prende il sopravvento e torno a essere lo stronzo al quale la sto
abituando.
«È da una settimana che non ci vediamo…» le faccio notare.
«Non per colpa mia.»
È vero. Lei avrebbe voluto starmi sempre appiccicata e non gliel’ho
permesso. Gli allenamenti mi stanno impegnando molto. Il coach è stato
chiaro: il contratto che firmerò con i Bolts non è che un piccolissimo passo
verso un traguardo più importante. Non devo sprecarlo.
E poi mi sono nascosto. La verità è questa e lei lo ha capito.
«Cos’è?» inveisco. «Stai cominciando a rinfacciare?»
«Sei tu che hai tirato fuori questo discorso. Io non ti sto rinfacciando
proprio un bel niente.»
Reagisci, cazzo! Dimmi che grande stronzo sono. Perché resti così
calma?
Rimpiango i giorni in cui non aveva il controllo della sua vita. In cui ero
sempre nei paraggi pronto a raccattarla per impedirle di farsi del male.
Adesso non è più così e la cosa, anziché riempirmi di orgoglio, mi dà sui
nervi. Mi ricorda che sono imperfetto e quanto stupido sia stato credendo di
potere essere quello forte fra noi due.
«Quindi non vuoi scopare…» taglio corto.
Nemmeno questo mio commento volgare sembra turbarla, così continuo.
«Hai idea di quanta figa mi venga sbattuta in faccia ogni giorno, Anais?
Lo hai visto ieri sera?»
Niente. La sua espressione rimane stoica e la mia rabbia sale.
«Ah!» impreco e tiro un calcio a una pila di scarpe da ginnastica che si
sparpagliano ovunque. «Vaffanculo!» urlo di nuovo e stavolta la sento
trasalire.
Quando riesco a emergere dalla nebbia che mi ha offuscato il cervello,
mi azzardo a guardarla: si sta stringendo le braccia intorno e sta piangendo.
E come se mi schioccassero davanti due dita per farmi uscire da uno stato
d’ipnosi, torno in me.
E tornare in me fa schifo, perché non faccio altro che ferirla.
Le vado vicino e la stringo al petto, ma lei rimane ferma, rigida, non
ricambia il mio abbraccio e il suo corpo viene scosso dai singhiozzi.
È la reazione che aspettavo e mi rendo conto che con ogni mio
atteggiamento illogico potrei sancire il punto di non ritorno per la nostra
storia. Mi domando quanto ancora questa creatura splendida potrà resistere
prima di stancarsi, e la risposta che mi do mi getta nel panico.
«Mi dispiace, piccola.»
Mi stacco da lei e non la guardo nemmeno. Le volto le spalle e mi dirigo
nella mia camera, col fiato spezzato, il respiro che mi ha ridato impigliato
fra le costole, laddove è difficile persino sentire il mio dannato cuore.
Trascino i piedi, muovendo passi confusi e pesanti. Il frastuono delle
catene a cui mi sono di nuovo legato mi assorda e sovrasta ogni altro suono:
la sua risata, i suoi gemiti quando si perde in me, quel “Des” mormorato
come se fossi il suo mondo.
Non riesco più a sentire nulla. Perché nulla mi è più dovuto.
10.
Anais

Ti ho sempre amato fortissimo.

Quando si è innamorati si spera sempre di rendere felice la persona che


si ama. Per me e per Des non è mai andata così, ci siamo fatti del male nei
modi più disperati e i momenti belli sono stati così rari che ne abbiamo
attinto a piene mani perché sapevamo quanto fossero preziosi.
In quest’ultimo periodo ho deciso di far diventare l’eccezione la regola,
sperando di potere rappresentare per Des una fonte costante di felicità, ma
vederlo in questo stato senza poter fare nulla mi sta gettando nello
sconforto.
Sto lavorando per essere forte, la terapia che affronto con la dottoressa
Jackson è impegnativa. Mi obbliga a scavare dentro me stessa e a sviscerare
tutti i motivi del mio disagio, ma ora che so quanto dura sia stata l’infanzia
di Desmond, quando vado a ritroso per analizzare le mie difficoltà emotive,
ogni cicatrice lasciata sulla mia pelle mi ricorda quanto patetica sia stata la
mia situazione.
Vederlo così confuso è straziante e, per quanto mi sforzi di essere
abbastanza per lui, non riesco a trovare un modo per fargli capire che se
solo si aprisse con me, forse il peso di ciò che ha vissuto diventerebbe più
lieve.
Per qualche ragione non ho trovato ancora il coraggio di impormi. È
come se non avessi diritto di chiedergli di condividere con me quello che ha
passato. Come se dall’alto della mia vita agiata, non potessi avvicinarmi al
suo dolore. E per certi versi è davvero così.
Mi è mancata una madre che mi capisse e un padre che mi sostenesse a
prescindere dalle mie inclinazioni, ma i miei genitori ci sono stati e per
quanto anaffettivi non hanno mai alzato un dito su di me. Così adesso
capisco che mi è toccato il male minore fra i tanti che avrebbero potuto
capitarmi. Il fatto che questo abbia influito in maniera negativa sulla mia
psiche è disarmante e mi mette di fronte alle mie debolezze. Proprio adesso
che dovrei contare solo sulle mie forze. Per lui. Per ciò che abbiamo
costruito con le unghie e con i denti.
Certe volte, però, Desmond sembra essersene dimenticato e mi tiene a
distanza. Dopo quella brutta nottata e il disastroso risveglio del giorno
dopo, si è rifugiato nello sport, ha cominciato ad allenarsi anche con i Bolts
e questo lo tiene impegnato sei giorni su sette. Non parla con nessuno,
nemmeno con Brad e questo ci preoccupa.
È come se la sua mente fosse in costante fermento; ogni tanto
osserviamo i suoi occhi scurirsi e i suoi pensieri si fanno così tangibili che
abbiamo paura possa commettere qualche sciocchezza.
Di Jeremiah sembra non esserci più traccia, ma Brad sospetta che Des
sia andato nella segreteria del campus a chiedere informazioni, sul conto
della ditta di giardinaggio che si occupa della UCLA.
A quanto pare ha rimediato un nome e un indirizzo, Braden li ha visti
appuntati su un foglio di carta, nel loro appartamento, e siamo sicuri che
non intenda fermarsi qui. Andrà a cercare quel bastardo, è solo questione di
tempo. O quel bastardo tornerà a cercare lui e a quel punto potrebbe
succedere di tutto.
Oggi sono andata dalla dottoressa Jackson, per cui adesso mi trovo
dentro un autobus affollato.
Le paranoie di Desmond sono diventate le mie e continuo a sentirmi
osservata, a volte anche seguita; per questo cerco di non restare mai da sola,
specialmente di sera, ma devo recuperare alcuni testi per preparare un
esame e, visto che anche oggi Desmond mi ha dato buca con la scusa degli
allenamenti, non mi rimane granché da fare, a parte cominciare a
organizzare il mio piano di studi.
Il sole di primavera scende piano. Lo seguo attraverso i vetri sudici,
scomparire dietro le case. È passato un altro giorno e penso a quanto
sembrino lontani i momenti a Las Vegas, quando Desmond e io ci siamo
ritrovati. Quando portandomi sul Gran Canyon, mi ha dichiarato il suo
amore.
«Anais, ti ho sempre amato fortissimo.»

Mi manca il suo bisogno di me, quello che faceva sbiadire il resto,


facendo apparire tutto meno importante di noi due insieme.
Ma la nostra storia, così viva e potente, esiste ancora e, anche se in modi
diversi, entrambi ci stiamo aggrappando a essa, nonostante sia offuscata dal
nostro terrore di rovinare tutto. Dalla paura che chi vuole del male a lui
possa volerne anche a me. Dalla sua convinzione che chi ha vissuto una
roba simile, non possa sperare di avere un futuro, né tantomeno di
condividerlo con qualcuno.
Questo catorcio produce uno strano rumore, i sedili sono scomodi e
sporchi. Il caldo mi si appiccica addosso e mi scosto i capelli dalla nuca per
trovare un po’ di sollievo. Mi guardo intorno, la gente sembra non notare
queste cose. Probabilmente stanno tornando a casa, dalle persone che
amano, dopo un’intensa giornata di lavoro.
Come potrebbero essere infastiditi da dettagli così piccoli?
Il problema è dunque mio.
Des si è convinto che mostrando disinteresse nei miei confronti possa
tenere lontano il mostro da me. Sono anche certa abbia pensato mille volte,
che lasciarmi sarebbe la scelta più giusta, almeno finché non avrà risolto la
faccenda con Spector. Sto solo aspettando che trovi il coraggio di farlo,
allora esploderò e tutta la frustrazione di questi giorni verrà fuori a fiumi. E
lui vedrà un’altra Anais, perché non sono disposta a perderlo.
Quando l’autobus arriva alla mia fermata, il sole è ormai tramontato. Ho
a disposizione due ore prima che la biblioteca chiuda, così corro fino
all’entrata e, dopo aver spalancato l’uscio, realizzo che Violet lavora ancora
qui. È probabile che la incontri e la sola idea mi mette a disagio.
Una volta dentro, sospiro. Ormai è fatta. Non posso tornare indietro,
quindi se sarà necessario la affronterò come l’ultima volta.
All’entrata c’è un ragazzo, occupa la postazione in cui di solito siede
Mrs. Nelson. Sta osservando qualcosa sul monitor del PC e sembra lavorare
qui.
Per un momento m’illudo che possa farlo al posto di Violet, così mi
avvicino più serena, per chiedergli dove posso trovare i libri che mi
servono.
«Ciao» esordisco.
Lui alza la testa e mi fa un sorriso cordiale.
«Ciao. Sono Colton. Come posso aiutarti?» mi risponde e nel frattempo
si sistema gli occhiali sul naso. Ha l’aria da nerd e devo ammettere che è un
bel tipo.
«Dovrei prendere in prestito dei libri e vorrei sapere dove trovarli.»
«Certo! Se mi dici i titoli, controllo subito se ci sono, altrimenti
procediamo per argomento.»
Infilo la mano in borsa alla ricerca dell’elenco che ci ha dato il professor
Stewart. «Non ce ne sarà bisogno. Ho una lista.»
«Bene!»
Gliela porgo e, mentre aspetto che avvii la sua ricerca, mi guardo
intorno. A quest’ora la biblioteca è sempre poco frequentata, ma dubito che
Colton sia qui a gestire il suo turno da solo.
«Sei nuovo?» indago.
«Sì.» Sposta il mouse e prende appunti. «Lavoro qui da una settimana.
Mrs. Nelson sta per andare in pensione e ne ho approfittato per guadagnare
qualche credito extra.» Mi fa l’occhiolino e ricomincia a cercare.
«Capisco. E sei… solo?»
A questo punto ho la sua attenzione. Forse si starà chiedendo perché mi
interessi. Magari pensa che stia flirtando con lui e, a giudicare da come si
raddrizza e con lo sguardo percorre il mio corpo, sì, deve essere proprio
così.
«Voglio dire» correggo il tiro. «Fino a poco tempo fa c’era una ragazza.
Non lavora più qui?»
Distoglie lo sguardo. «Se parli della mia strana collega, sì.» Si guarda
intorno circospetto e mi parla a voce bassa. «È in giro da qualche parte.»
Strana. È un eufemismo ma lui non può saperlo e, a dire il vero, mi
sorprende che l’abbia già inquadrata.
Il sangue mi si gela nelle vene e non capisco il perché. Violet non
dovrebbe farmi quest’effetto, ma ho il terrore di incontrarla di nuovo e che
la nostra conversazione si faccia spiacevole come l’ultima volta. Visto come
mi ha trattata, ho ragione.
Credo sia pazza e che abbia anche un piano. Penso sia talmente
ossessionata dal suo patrigno da essere ormai fuori controllo. Oppure finge
per inquietarmi e, in tutti i casi, la mia opinione resterebbe la stessa: è fuori
di testa.
Spingo la fibbia della mia borsa contro il palmo della mano destra. È un
gesto che non faccio da tempo e, quando comincio ad avvertire il dolore,
una morsa di delusione mi si stringe intorno alla gola.
Mollo la presa e il senso di colpa si adagia sul mio cuore
appesantendolo.
Non devo ricascarci. Mai più.
«Ecco qua.» Colton mi porge un foglio. «Qui trovi padiglione, fila e
numero di scaffale. Ala ovest» mi indica. «Troverai tutto. Procedi per
ordine alfabetico.»
Gli sorrido e afferro il foglio. «Grazie.» E intanto spero, vista la
grandezza del posto, di evitare Violet “la stronza”.
Leggo le istruzioni mentre avanzo svelta.
Padiglione quattro… eccolo!
Fila nove… eccola!
Scaffale… ventidue?
Oh, andiamo! Così in alto?
Sbuffo e mi guardo intorno alla ricerca della scala scorrevole. La
individuo alla mia sinistra e comincio a spostarla. Queste ruote avrebbero
bisogno di essere lubrificate, non girano e quest’affare sembra pesare cento
chili. Quando finalmente riesco a salire in cima, faccio come mi ha detto
Colton e cerco i titoli per ordine alfabetico. Sono solo tre libri, quindi non
dovrei impiegarci molto. L’unico problema è che i titoli iniziano per lettere
lontane fra loro, il che significa dover salire e scendere più volte.
Magnifico! Il mio sedere ringrazierà per l’esercizio extra, non gradito.
Da quando non sono più una cheerleader, Pigrizia è il mio secondo
nome. Quei tempi mi sembrano così lontani, eppure se guardo i segni che
ho lasciato sul mio corpo, non lo sono abbastanza per essere dimenticati.
Scuoto la testa e cerco il primo libro. “Istruzioni per rendersi infelici.”
Mi rigiro il tomo fra le mani.
Ottimo! Avrei potuto anche scriverla io, questa roba. Sarei riuscita a
suggerire modi che all’autore sono di certo sfuggiti. Del resto l’esperienza è
il più efficace metodo di apprendimento e in questo campo ne ho fatta
parecchia.
Be’, al diavolo! Il cerchio si è chiuso e spero di essere riuscita a
rimanerne fuori.
Infilo il libro dentro la borsa e passo all’altro: “Intelligenza emotiva.”
Intelligenza… emotiva…
Ah, però! Quindi potrebbe significare che sono estremamente
intelligente. O estremamente stupida. Delle due una, ma propendo
senz’altro per la seconda opzione.
Per il terzo libro devo spostarmi. Dovrebbe essere in fondo alla fila,
quindi mi tocca scendere e trasportare di nuovo la scala.
Vaffanculo, professor Stewart! Dica pure che si è messo in testa di far
lavorare i nostri culi inattivi, nello specifico il mio.
Sto spingendo la scala, quando qualcuno parla facendomi sobbalzare.
«Ti serve aiuto?»
Violet.
Non incontrarla era sperare troppo?
Avevo quasi finito, dannazione!
«Faccio da sola» le rispondo. Nel dirlo la guardo e noto che ha una ferita
sul labbro e un ematoma sul mento.
«Che ti è successo?»
Non so perché lo chiedo. Per come mi ha risposto la scorsa volta non
dovrebbe interessarmi, ma la verità è che questa ragazza mi fa pena perché
è evidente che è stata picchiata e chissà cos’altro. Sono convinta che
Jeremiah ce l’abbia in pugno e che le faccia assaggiare le sue mani spesso,
in modi a cui non voglio neanche pensare.
«Sono caduta.»
«Di faccia…» butto lì.
«Di faccia» conferma lapidaria. «Succede.»
«Già!» capitolo e nel mentre comincio a salire. «Presumo di sì…»
«Presumi» sibila sprezzante.
Quel tono mi blocca. Sa tanto di accusa e prendo la palla al balzo per
provocarla. Così ridiscendo i gradini e mi porto davanti a lei.
«Presumo, sì. Non ho mai avuto di questi… incidenti» pongo l’accento
sull’ultima parola e la vedo irrigidirsi.
«E come potresti averli avuti?»
Nei suoi occhi passa un lampo di dolore, tanto accecante che non si può
non coglierlo. Il suo viso cambia espressione per un attimo e Violet mi
appare così fragile e indifesa che vorrei davvero aiutarla. Nonostante tutto.
«Violet, io…»
«No, Anais. Le cose stanno così: uno, non cercare di aiutarmi. Due, non
pretendere di sapere i fatti miei. Tre, noi due non saremo mai amiche.
Cristo! Sei così patetica che non riesco nemmeno a guardarti senza provare
l’impulso di farti del male» sputa fuori.
Mi colpisce il livore con il quale mi sta parlando e resto in silenzio.
Che butti fuori il resto! Almeno saprò con chi ho a che fare.
«Hai una vita perfetta. Sei bella, probabilmente sei stata anche la ragazza
più popolare al liceo, con i tuoi capelli biondi e quel corpo perfetto. Sei
ricca… si vede. Eppure ti sei inventata un problema perché l’attenzione che
ricevi non ti basta» ansima. «A quelle come te non basta mai» chiosa
sprezzante.
Sto per ribattere perché ne ho abbastanza, ma lei non ha ancora finito. «E
in più hai Des. Hai il suo amore incondizionato, potente. Non ho mai visto
nulla del genere. Nessuno può amare così e questo mi fa rabbia.»
«Be’, dovresti fartene una ragione.» In questo istante so di essere cattiva.
So di avere un’espressione soddisfatta e so che sto infierendo su di lei, ma
non posso farne a meno.
«Dici?» Il ghigno sulla sua faccia è lo stesso che mi ha rivolto qualche
giorno fa e la ferita sul labbro lo fa apparire ancora più diabolico.
«È accecato da ciò che prova per te» continua. «Ma c’è qualcosa che può
riportarlo alla realtà e sono stata ben felice di ricordargliela.»
Stringo i pugni. Sto per picchiarla qui, in una biblioteca semivuota. In
pratica mi sta confessando che c’entra con il ritorno di Jeremiah e, mentre
guardo le ferite sul suo viso, desidero che quel mostro continui a farle del
male, perché è ciò che si merita per quello che sta facendo a Desmond.
«Prima o poi capirà che non potete stare insieme, Anais. Siete così
diversi, così diametralmente opposti. Cosa puoi saperne della vita che ha
condotto Des? Dalla torre d’avorio in cui ti hanno rinchiuso i tuoi, cosa
cazzo credi di potere aver visto, eh?» Fa un passo in avanti, ma non mi
muovo di un millimetro.
«Ma io sì, lo so» abbassa la voce e il suo tono si fa incerto. «Sono come
lui. Io posso capirlo.»
Non voglio darle soddisfazione, tuttavia le sue parole mi fanno male.
Percepisco una verità che non potrò mai comprendere a pieno, il motivo che
mi rende inquieta, eppure… eppure…
«No, hai ragione.» Faccio anch’io un passo in avanti, a separarci c’è una
distanza minima. «Sono stata fortunata, ciò che avete vissuto non mi ha
neppure sfiorata e per questo sono diversa» comincio. «Ma sai una cosa?»
le domando e lei stringe le labbra in una linea dura. «Io amo Desmond
Ward, il presente e il suo merdosissimo passato. Farò di tutto per aiutarlo.
Des è un dono e io gli ho donato me stessa. Questo è quello che tu invece
non puoi capire.»
«Lo amo anch’io» sibila come la serpe velenosa che è.
Esplodo in una risata sprezzante. «Tu lo ami, dici?» Poi divento seria.
«Lo hai ferito, V. Lo hai ridato in pasto al lupo. Cosa credi che succederà
adesso?»
«N-niente.» Ma per la prima volta ha un’incertezza e realizzo quanto
questa ragazza faccia finta di non vedere il guaio che ha combinato,
riconducendo Jeremiah da Des.
«Niente? Quello che sta accadendo non è niente, dannazione! Non è
amore, il tuo… di che diavolo stai parlando?»
«Vaffanculo!» ringhia.
«Vaffanculo tu!» ribatto. «Sta’ lontana da noi, Violet. È l’ultimo avviso
che ti do.»
In quel momento appare Colton. «Va tutto bene qui?»
È abbastanza confuso. Deve aver capito dal tono delle voci che la nostra
non è una conversazione amichevole, ma nonostante la sua presenza,
nessuna delle due sembra disposta ad allontanarsi dall’altra.
«Ragazze?»
«Sì.» Sono la prima a parlare.
Aggiusto la mia borsa sulla spalla e avanzo verso l’uscita. «È tutto
okay.»
Le do la schiena ma so che Violet mi sta guardando, probabilmente
anche Colton ma non m’importa. «Stammi bene, V.»
Poi abbasso il freno a mano con il quale ho condotto ogni nostra
discussione e le mostro il dito medio. «O magari no, stronza!»
Sento i passi di Colton dietro di me. Mi sta seguendo. Per un attimo non
capisco perché, poi ricordo che ho preso dei libri, che vanno registrati e
ancora non l’ho fatto.
Mi fermo e gli do il tempo di oltrepassarmi per riprendere il suo posto
dietro il PC.
Abbozza un sorriso. «Va tutto bene davvero?»
«Sì, non preoccuparti.»
«Te l’avevo detto che era strana.»
Scoppio a ridere, più per la tensione accumulata che per la battuta in sé,
ma questo tizio mi piace perché è dalla mia parte.
Registra il prestito e finalmente posso andare a casa.
È una serata piuttosto fresca, così tiro fuori un golfino dalla mia borsa e
lo indosso. Nel frattempo comincia a cadere una pioggerella leggera che si
fa presto fitta e incessante. I viali sono illuminati dalla luce dei lampioni,
ma quando scorgo un movimento alla mia destra, accelero il passo.
Non dovrei voltarmi a guardare, dovrei solo dirigermi a casa al più
presto, ma lo faccio lo stesso perché la curiosità ha la meglio.
È pur sempre sera e non scorgo niente di anomalo. Il vento agita le
fronde degli alberi e le siepi, eppure la strana sensazione di essere osservata
non mi si scrolla di dosso.
Non appena svolto l’angolo e imbocco il viale che porta al mio
dormitorio, un’ombra enorme emerge dalla piccola stradina che porta
all’area ristoro del lato ovest del campus.
Riconosco la barba, il cappello calato sulla testa e l’andatura moscia
eppure minacciosa. È Jeremiah e non posso credere che sia qui per
aggredirmi.
Ripensando a tutti i timori di Des, però, mi metto in allerta. Mi fermo e
guardo alle mie spalle. La biblioteca dovrebbe essere ancora aperta, ma da
questa distanza il dormitorio è più vicino.
Forse se corressi… ma dovrei passargli di fianco.
Non siamo in un posto isolato, lui lo sa. Potrei avanzare e sperare che sia
qui solo per darmi un’occhiata da vicino. Del resto è un pazzo ossessionato
dal mio ragazzo, non è un’ipotesi tanto assurda. Tento un’analisi clinica del
soggetto, ma mentre cerco di raccapezzarmi in mezzo alle nozioni che
studio ogni giorno, mi rendo conto che proprio il fatto che sia un folle rende
le sue reazioni imprevedibili.
«So chi sei» urlo.
Voglio che capisca. Voglio che sappia che Desmond si fida abbastanza di
me da avermi messo in mano il suo passato, forse questo lo renderà più
vulnerabile. Di solito i carnefici pensano di condividere i loro sporchi
segreti con le vittime, come se questi ultimi li rinchiudessero in una fortezza
inaccessibile agli altri.
Nella maggior parte dei casi è davvero così e lo è stato anche per Des.
Ha segregato il mostro in un posto irraggiungibile, in modo che i ricordi gli
facessero meno male. Non lo ha fatto per proteggerlo, ma per allontanare il
dolore e sopravvivere.
Dal luogo poco illuminato nel quale si trova, Jeremiah mi risponde
schernendomi: «Ah, sì? Si ricorda ancora del suo paparino.»
E il modo in cui dice l’ultima parola mi fa quasi vomitare.
«Sei un mostro!» lo attacco con il mio disprezzo.
«Ma lui mi ama» replica serafico. «Come io amo lui.»
«C-cosa?» balbetto.
Avanza e incespico all’indietro.
«Vuoi sapere com’è spingersi in lui, Anais?»
«No!»
«Fantastico» sputa fuori. «Divino, cazzo.»
Oddio! No, non posso ascoltare una parola di più.
Vorrei mantenere la calma, vorrei non tremare e mostrarmi fredda, ma il
cuore accelera e, nonostante voglia ribattere al suo ghigno malvagio e alle
sue parole orrende, a prevalere è l’istinto di scappare.
«Mi fai schifo» urlo più forte che posso e questo sembra spiazzarlo per
un attimo.
Comincio a correre, lo oltrepasso e non so se mi sta inseguendo. Sento
dei passi dietro di me, ma stavolta perdo il coraggio di guardarmi indietro e
il terrore m’intorpidisce le gambe.
Più forte, Anais. Corri più forte!
I polmoni bruciano, i miei piedi sbattono sull’asfalto bagnato. Sento i
suoi passi pesanti che ogni tanto perdono il ritmo e il respiro mi esce a
singhiozzi.
Arrivo al mio dormitorio zuppa e con il cuore in gola.
«Dannazione!» impreco, cercando di tenere la borsa al riparo dalla
pioggia.
Mi precipito nel mio appartamento con il fiatone e i capelli fradici
appiccicati al volto. La prima cosa che sento sono dei conati di vomito e
non sono di certo i miei.
Sto ancora tremando per la scarica di adrenalina e la folle corsa, ma non
ho il tempo di elaborare il rischio che ho appena corso, perché mi fiondo
subito in bagno.
Eva abbraccia la tazza e rimette tutto, anche se sono sicura abbia la
pancia vuota. Riconosco quegli spasmi. Sono atroci, contorcono lo stomaco,
stringendo una sacca vuota da cui cercano di tirare fuori il nulla.
Mi avvicino e le porto indietro i capelli.
«Cristo tesoro, che ti succede?» le chiedo, ma quando i suoi occhi
incontrano i miei mi accorgo che è ancora sottosopra.
Le lascio il tempo di riprendersi. «Respira» le consiglio quando si
appoggia al muro, esausta.
Afferro un asciugamano, lo bagno e glielo passo sul collo e sul viso. È
così pallida.
«Stai meglio?»
Eva tiene gli occhi chiusi, poi annuisce e si rimette in piedi. «Adesso ho
bisogno di stendermi.»
«Certo!» La aiuto e la porto verso il mio letto, ma sto ancora tremando.
Mi sento svenire. Le tolgo la maglia e gliene prendo una pulita. Poi la invito
a stendersi e la copro con la trapunta.
«Hai un’indigestione?»
Nega col capo.
«Magari hai preso uno di quei virus intestinali. In questo periodo gira
una brutta influenza.»
«Mi durerà per un po’» rantola.
«Non dire sciocchezze. Sei sempre così tragica. Ti passerà in un paio di
giorni.»
«Tre mesi, credo. Il primo trimestre è il più duro.»
«Cosa?»
Che diavolo sta farneticando?
Le tocco la fronte per capire se ha la febbre, ma è freddissima.
«Per alcuni è terribile e vomitano per nove mesi» continua, tenendo gli
occhi chiusi.
«Nove mesi…»
«Sono incinta, Anais. E non so come diavolo dirlo a mamma e papà.»
«Oh, merda!» Salto dal letto e barcollo. «Oddio, Eva!»
Percorro la camera, con una mano sulla bocca e l’altra fra i capelli.
Prima Jeremiah, adesso questa notizia… è troppo da digerire in pochi
minuti.
«Quando? Chi…»
«Si chiama Abel e lo abbiamo scoperto da poco. Non so che fare,
Anais.»
«Oh, tesoro!» La raggiungo abbracciandola, quando mi accorgo che sta
per piangere. Vacillo ancora e sento l’urgenza di essere consolata, che
l’abbraccio di mia sorella riesca a mitigare la paura che sento scorrermi
nelle vene come veleno, ma è Eva ad avere bisogno di me in questo
momento.
«Lo terrai?»
«Non lo so… lui vorrebbe di sì. Anais, perché sei bagnata?»
Merda! Non posso dirle che cosa mi è successo. Non ci riesco.
«Fuori piove e sono venuta a piedi dalla biblioteca, ma lascia perdere»
liquido la sua curiosità quando in realtà vorrei confidarle tutto. «Tu che
cosa vuoi fare?»
Non mi risponde, ma d’istinto si accarezza il ventre e, anche se non ha il
coraggio di ammetterlo, so che non potrebbe mai sbarazzarsi di questo
bambino.
Lo sente già suo.
A un tratto capisco il motivo della sua visita inaspettata. È corsa qui
perché aveva bisogno di me. Il che vuol dire che finché potremo contare
l’una sull’altra non saremo sole. Questa verità non è mai stata chiara come
adesso, eppure sento di dover custodire il segreto di Des e qualsiasi cosa
accadrà a me di riflesso, non potrò mai dirlo a Eva.
«Prenditi del tempo. Sei venuta qui per questo, no?»
«Sì» mormora e i miei occhi si fissano sulla dolce carezza che sta
riservando a suo figlio. Si accorge che la sto osservando e anche il suo
sguardo si posa sulla sua mano.
«Non posso farlo» comincia a singhiozzare. «Andrà tutto a puttane, ma è
il mio piccolino, Anais.»
Annuisco e la stringo fra le braccia. «Andrà tutto bene, invece» la
rassicuro. «E poi magari sarà femmina… avremo un’alleata in più contro la
mamma.»
Eva sorride e tira su con il naso. Sorrido anch’io ed è evidente che sono
sotto shock. Sono troppo calma. Talmente distaccata da ciò che mi è
successo da concentrarmi in maniera totale sulle parole di Eva.
Mi ritrovo a pensare che, nonostante questo bambino possa sembrare un
incidente di percorso, non lo sarà. Porterà gioia. Sarà l’arcobaleno in un
giorno di pioggia, più di quanto entrambe – e per motivi diversi – siamo
disposte ad ammettere in questo istante.
11.
Desmond

Essere capaci di nascondersi è una benedizione, ma a volte si


vorrebbe trovare qualcuno in grado di trovarci lo stesso.

«Des!»
«Che c’è?» urlo dal bagno. Braden sembra eccitato come una
femminuccia a cui stanno per regalare delle bambole.
«C’è che sono le dieci, cazzo! Tira fuori il culo da lì.»
Fra poco Luc arriverà al campus, per cui capisco lo stato di felice
agitazione che lo attraversa. I Davis sono l’unica famiglia che abbiamo mai
avuto e finora non hanno fatto altro che dimostrarci il loro amore
incondizionato.
Nessuno ci aveva mai fatto questo onore e Luc ed Elizabeth hanno fatto
perfino di più. Ci considerano i loro figli.
Anche se abitano vicino, sono ormai due mesi che non li vediamo, per
cui sono emozionato anch’io. E questo è quanto.
Mi stringo un asciugamano in vita ed esco dalla doccia. Non ho il tempo
di fare la barba, quindi la lascio stare. Ormai è un’abitudine e poi ad Anais
piace che la tenga incolta.
Anais…
Sto trattando la mia ragazza di merda, non le ho nemmeno detto di
questa visita. Spero che, anche se al riguardo sono parecchio criptico,
capisca perché la tengo a distanza. Se non lo farà, allora dovrò spiegarle il
piano.
Perché c’è un piano. Voglio dire, dovrei averne uno, è solo che non l’ho
ancora messo a punto.
Quello di cui sono convinto, però, è che l’unico modo per tenere al
sicuro lei è fingere che per me non conti nulla e ciononostante non sono
certo di avere ancora questa carta da giocare.
Jeremiah è venuto a cercarmi, ciò significa che mi sta dietro da un po’ e,
se le mie convinzioni non sono errate, vuol dire che sa tutto di me e Anais,
e che ha capito quanto il nostro legame sia importante.
Per questo Honey è in pericolo.
Il bastardo non esiterà a colpirmi attraverso di lei, sto solo aspettando la
sua mossa e questo mi rende ansioso. Pronto a scattare per niente e fare
cose irrazionali, di cui un giorno mi pentirò. Sono certo anche di questo.
Sto impazzendo.
Come se non bastasse, sono anche stressato per via degli allenamenti.
Sei giorni su sette mi rompo la schiena sul campo da gioco e, se è vero che
tutto questo sfinimento mi dovrebbe far bene perché mi tiene impegnato,
dal punto di vista fisico sono a pezzi e la mia mente non sta meglio per
niente.
Non posso tenere d’occhio la persona che amo.
Braden mi sta dando una mano, ma sono preoccupato anche per lui.
Jeremiah saprà di certo della sua presenza al campus e il mio amico
potrebbe diventare un altro possibile bersaglio per arrivare a me… come
successe allora.
Siamo grandi e grossi, ma nella mente di quel malato siamo ancora i due
ragazzini di cui ha abusato.
Esco dal bagno e lo trovo stravaccato sul letto. «È tutto tuo, madame.»
«Cazzo, ci stai una vita! Cosa fai, ti depili?»
«Non vuoi davvero saperlo…» Gli faccio l’occhiolino e lui mi risponde
con una faccia disgustata.
Evitare Anais non fa bene nemmeno alla mia libido, quindi devo trovare
altre soluzioni.
«Fai schifo! Chiama la tua donna» mi rimprovera, mentre si chiude la
porta alle spalle.
La chiamerei anche subito e me la terrei stretta al petto per sempre, se
solo la nostra merda di vita non fosse così complicata.
Mi vesto in fretta. Indosso una maglia termica blu e quei jeans strappati
sulle ginocchia solo per il gusto di infastidire Elizabeth.
Adoro il suo sguardo di disappunto, perché so che, non appena mi
guarderà negli occhi, ci vorrà solo un secondo prima che torni a sorridermi
con affetto.
È una brava donna e una splendida madre. E Dio le ha riservato un
merdoso tiro mancino strappandole via il figlio, ma la vita è così e spesso
colpisce i buoni.
Controllo il telefono per vedere se Luc mi ha chiamato. Siamo rimasti
d’accordo che sarei andato a prenderlo all’ingresso del campus, ma non c’è
nessuna notifica che lo riguardi. Ce n’è un’altra, però, e il numero è di
Anais.

Mi manchi tanto. Ti amo fortissimo, Ward.

Ti amo fortissimo. E il mio cuore si sgretola.


Manca tantissimo anche a me, ma per il momento devo mettere da parte
tutto e diventare un fottuto cyborg.
Sento il labbro arricciarsi per il disappunto.
Inizio a scrivere una risposta, ma mi blocco subito dopo.
Cosa dovrei dirle? Che la amo più della mia vita? Che stare senza di lei
mi sta distruggendo?
Allora potrei anche dire addio al mio piano, ma non sono pronto a
metterla in pericolo. Non potrei mai.
«Perché guardi il tuo telefono come se volessi disintegrarlo?» domanda
Braden sulla porta del bagno.
Alzo lo sguardo e faccio spallucce. «Niente di importante. Vestiti così
andiamo.»
Non demorde e viene dritto in cucina. «Che succede, Des?»
«Nulla, ma fra un po’ chiamerà Luc e siamo in ritardo. Adesso di chi è la
colpa?»
I suoi occhi saettano dal mio viso al telefono che ho ancora in mano.
Cristo, mi conosce fin troppo bene!
«Me lo diresti se c’è qualcosa che non va?»
Metto giù il cellulare e incrocio le braccia sul petto. «Sì e adesso
muoviti.»
«Non sto scherzando. Niente più bugie. Nessun segreto. Ci siamo dentro
insieme.»
Annuisco soltanto e gli volto le spalle.
Ci siamo dentro insieme, dice. Ma non è mai stato così. La parte schifosa
di questa storia riguarda solo me e lui più di tutti dovrebbe capire che farei
ogni cosa per tenere al sicuro le persone che amo.
Mezz’ora dopo Luc mi sta dando una delle sue poderose pacche sulla
spalla, ed Elizabeth sta aspettando il suo turno di stringermi fra le braccia.
Quando lo fa, inalo il suo profumo di fiori di campo e mi stupisco di
associarlo a casa.
«Ci sei mancato, ragazzo.»
«Oh, perfetto!» scherza Brad. «Perché quello più asociale gode di più
attenzioni?»
Elizabeth ride e va ad abbracciarlo. «Piantala! Ci sei mancato anche tu.»
Me ne resto un attimo in disparte, con le mani ficcate dentro le tasche dei
jeans, mentre osservo questa gente mostrarsi tutto l’affetto possibile. Nel
frattempo sospiro, per la prima volta felice, perché sto guardando una
famiglia, grato che sia la mia.
Questo pensiero è così insolito per uno come me, abbandonato da
bambino da due genitori in vita, poi orfano mai voluto da nessuno.
E mi gira la testa.
È una rivelazione, ed è così sconcertante che arrivi adesso, quando il mio
passato è tornato a toccarmi e minaccia di acciuffarmi per spingermi ancora
nel fango, che quasi mi piega e mi fa cadere in ginocchio.
Vacillo e Luc mi afferra per un braccio.
«Va tutto bene?»
Incrocio il suo sguardo preoccupato e scuoto il capo per riprendermi.
Tornano a galla tutti i precedenti sguardi con cui mi ha avvicinato anziché
respingermi: il primo, quando nella palestra della scuola mi ha studiato con
curiosità e senza alcun pregiudizio. E poi tutti gli altri, con i quali mi ha
sempre rassicurato di riuscire a vedermi e di credere in me. Di volermi,
come poi ha dimostrato davvero desiderando farmi da padre.
«Va tutto bene…» lo tranquillizzo. «È stato solo un capogiro.»
«Stai mangiando?» interviene Elizabeth, ugualmente preoccupata.
«Non bene come a casa, ma sì, mangiamo regolarmente, mamma Liz.»
Mamma Liz…
Questo è l’unico modo che ho trovato dentro di me per chiamarla
“mamma” senza provare disagio. Per fortuna le è bastato. Anche lei mi ha
sempre capito e adesso mi sorride e infila il suo braccio sotto il mio.
«Mostrami il campus e aggiornami sulle ultime novità. Sono così fiera di te,
Des!»
E per un attimo, uno millesimale ed effimero, dimentico tutto e cerco di
rendere orgogliosa mia… madre.
Faccio fare loro il giro del campus; Braden mostra a Luc la sede della
confraternita di cui ormai fa parte, ed Elizabeth non fa altro che
raccomandargli di stare attento e di “non fare cazzate”, parole sue che ci
fanno sorridere perché lei non è mai sboccata, ma a quanto pare sente
l’esigenza di rimarcare il concetto. Poi ci dirigiamo verso il campo da
football. Luc lo conosce già, ma Liz no e ne resta sopraffatta.
«È enorme!» esclama, stringendomi le mani.
«Sì… non è male» replico.
«Non è … male?» Sembra costernata dal fatto che abbia liquidato il suo
entusiasmo con sufficienza.
Luc le cinge le spalle e le scosta la frangetta dagli occhi. «Liz, tesoro,
Desmond giocherà con i Bolts. Il loro sì che è uno stadio enorme, non
questo.»
«Mi prendete in giro?»
«No» rispondiamo all’unisono io e Luc.
«Mamma Liza, lascia stare questi due zoticoni con un pallone al posto
della testa e vieni con me. Ti offro il caffè più buono della UCLA.»
Braden sa che è ora del nostro appuntamento con il coach e la sua idea di
portare Elizabeth altrove non è malvagia. Si annoierebbe nel sentirci parlare
di sport, contratti e campionato, e anche Luc sembra pensarla come me.
«Andiamo a parlare con il tuo coach?»
Annuisco e gli faccio strada.
Mi cammina accanto, per un po’ in silenzio. Ci godiamo questi momenti,
come un padre farebbe con il proprio figlio e viceversa. Con gioia e un po’
di reticenza, perché il college è un luogo in cui un genitore sa di dover
entrare sempre in punta di piedi.
«Ci sono novità?»
Una domanda.
Me la fa come se mi stesse chiedendo del tempo, eppure mi sento messo
al muro perché potrei rispondergli tante cose e invece non intendo farlo.
«A parte i Bolts, nessuna.» Suono evasivo, non lo guardo neppure e lui
se ne accorge.
«Ci sono problemi con Anais?»
Sì, cazzo.
«No, non direi.»
Il suo passo ha un’incertezza, ma la ignoro. «Non diresti…»
Ha ragione, dannazione! Che razza di risposta è?
«Abbiamo qualche problema» ammetto infine. «Niente che però non si
possa risolvere.»
Questa bugia mi fa comodo non solo per tranquillizzare Luc, ma perché
raccontarmela seda quell’attimo infinito di agitazione che mi scuote la
mente da quando cerco di tenerla lontano da me.
«Non vi sarete mica lasciati.»
«No» mi affretto a dire.
Ma non è detto che lei non lo farà nei prossimi giorni, se continuo a
ignorarla.
Questo non glielo dico, però. Me lo tengo per me, e continuo a
ripetermelo a intermittenza così che mi sia chiaro che cosa sto rischiando
con il mio atteggiamento. Rischio di perderla per sempre e con questo
pensiero realizzo quanto poco tempo abbia per risolvere la questione con
Jeremiah.
«Dannazione!» impreco.
Cazzo!
«Che succede, Des?»
«Niente.» Tiro un pugno in aria perché sono uno stupido che non riesce a
controllare le proprie reazioni. Mi sono bastati cinque minuti da solo con lui
per tradirmi.
Dov’è finito il ragazzo ermetico che riusciva a tenere per sé tutto il
veleno che lo stava guastando?
Nessuno mai era riuscito ad arrivare alle mie debolezze. Solo Luc… Luc
e Anais.
Stiamo per oltrepassare una panchina e il mio passo si fa più veloce.
Voglio solo arrivare nell’ufficio del coach e respirare. Adesso non lo sto
facendo e sento i polmoni bruciare, ma evidentemente Luc non è del mio
stesso avviso e l’appuntamento può benissimo andare a farsi fottere.
«Siediti, ragazzo!»
«Cristo!» Mi fermo e so che non posso ignorare quell’ordine.
Lo faccio. Mi siedo e attendo.
«Che cosa succede? E non dirmi ‘niente’. Ti sembro forse uno stupido?»
No, merda! Ma io sì. Sono un coglione.
«Senti, Luc. Non sono ancora pronto a parlarne.»
«E questo lo rispetto, ma al momento hai in ballo troppe cose e, se non
vuoi rinunciare a nessuna di esse, ti conviene chiedere aiuto. Sono qui per
questo, Des.»
«Lo so.» I miei occhi però non lo stanno guardando.
«Davvero? Perché a me non sembra.»
Adesso il suo tono è così ferito che vorrei picchiarmi.
Perché è così difficile aprirmi con qualcuno? Perché lo è farlo con lui,
che è la persona più vicina a un padre che ho?
«Luc, io… È una storia lunga.»
«Ho tutto il tempo.»
«Ed è… dolorosa, merda!»
«Tutto ciò che ti riguarda lo è.»
Accidenti! Detta così fa male, cazzo!
Sono un tale casino…
Poi la sua mano si posa sulla mia e ferma il tremore delle mie gambe.
«Ma questo non significa che non possa sopportarlo, Desmond. Né che tu
debba farlo da solo.»
Le sue parole spezzano qualcosa al centro del mio petto. Lo sento in
maniera distinta, quel “crack” che mi indica la rottura, ma non fa male,
anzi. Avverto un senso di liberazione e mi arrendo.
Sospiro stanco e comincio a raccontargli la mia storia.
«Ero solo un ragazzino quando qualcuno ha abusato di me.»
Lo sputo fuori con meno astio di quanto vorrei. Come se gli stessi
rivelando qualcosa a cui non sarei potuto sfuggire comunque.
Forse è davvero così. Prima o poi il sistema mi avrebbe consegnato nelle
mani di qualche orco e quello che poi ho avuto sarebbe stato lo stesso il mio
merdoso destino.
Butto fuori tutto, tranne il suo nome e il fatto che lui è tornato.
Vedo Luc irrigidirsi, stringere i pugni sulle ginocchia, poi passarsi la
mano sul viso.
Lo vedo scompigliare la sua pettinatura perfetta, infilandoci dentro le
dita più volte.
Lo vedo allentare il nodo della cravatta e sibilare un accorato
“Vaffanculo!”
Non a me, ma a quello che ho vissuto e al bastardo che mi ha obbligato a
viverlo.
«Come si chiama?» chiede con rabbia.
«Non ha importanza, Luc.»
Si alza in piedi e comincia a camminare avanti e indietro. «Sì che ne ha,
cazzo! Chi è? Voglio il suo nome» ansima.
«Non ha più importanza!» urlo e attiro qualche occhiata su di noi.
Luc si ferma. «Non ne ha, Des?»
Il suo sguardo si fa afflitto; cerco di mantenere un’espressione risoluta
ma è difficile non crollare. «No… n-non più. Sto bene adesso.»
Essere capaci di nascondersi è una benedizione, ma a volte si vorrebbe
trovare qualcuno in grado di trovarci lo stesso.
«I tuoi problemi con Anais… C’entra questa storia?»
Annuisco. «Voglio tenerla lontana da questo schifo, ma lei vuole entrarci
a forza perché è convinta di aiutarmi.»
«Ed è una cattiva cosa?»
Non può sapere quanto lo sia. Vorrei dirgli tutto, ma questo
significherebbe raccontargli anche il resto e non voglio che i Davis si
avvicinino a Jeremiah.
«Non è una cattiva cosa, ma l’ho superata. Non ho bisogno che mi faccia
da crocerossina.»
Luc sembra capire il mio punto di vista e resta in silenzio per un
momento che mi pare lunghissimo.
«Senti…» Spezzo questo terribile incantesimo del quale sembriamo
caduti vittime. «Possiamo non parlare più e andare a quell’appuntamento?»
Non mi risponde e annuisce in maniera impercettibile. «Me lo diresti se
ci fosse dell’altro, non è vero?»
«Sì» mento in maniera spudorata. «E te lo dirò se dovesse succedere
dell’altro. Te lo prometto.»
Questo sembra rassicurarlo e, nonostante sia turbato, si alza in piedi e
finalmente mi segue.
L’incontro con il coach Beckett è emozionante e per tutto il tempo lo
spettro della confessione appena avvenuta aleggia distante. Non solo perché
questi due uomini che stimo stanno parlando di me con così tanto affetto,
ma perché il futuro che dipingono davanti ai miei occhi è lontano anni luce
dal mio passato.
«Sarà difficile, ragazzo» mi avverte Luc.
«A volte ti sembrerà di non farcela» continua Mr. Beckett.
Luc mi dà una pacca sulla spalla. «Specie quando ti sentirai carico a
molla ma resterai in panchina.»
«Tu lavora sodo e ti assicuro che un giorno ne varrà la pena» conclude il
coach.
Luc lo guarda annuendo e così faccio anch’io. Ne sono convinto.
«Bene!» Mr. Beckett afferra dei fogli e ce li mette davanti. «Questo è il
contratto che i Bolts hanno intenzione di farti firmare, Des. Mr. Davis, avete
un avvocato?»
«Sì e l’ho già informato sulla questione.»
«Perfetto! Allora leggetelo per bene e fatelo controllare a lui. In questi
giorni Des sarà contattato da un legale della squadra e sarebbe opportuno
che qualsiasi appuntamento gli dia non si presenti da solo.»
«Charles seguirà Desmond.»
Resto in silenzio mentre loro parlano delle prossime mosse e solo adesso
comincio a realizzare la grandezza del piano che il destino ha in serbo per
me. Non posso fallire. E non permetterò a nessuno di intralciarmi.
Ce ne andiamo. Dei discorsi che ho affrontato con Luc poco prima di
entrare nell’ufficio del coach resta un’ombra che offusca appena il sole che
mi sta baciando.
Posso gioire di chi ho l’opportunità di diventare. Quel “nonostante tutto”
non è la mia debolezza, è la mia forza e farò di tutto per togliermi dai piedi
Jeremiah. Devo solo stare attento a non sporcarmi troppo le mani.
So che Luc è ancora turbato da quello che gli ho detto, ma sta
rispettando la mia volontà di non parlarne più e gliene sono riconoscente.
Guarda l’orologio. «Adesso hai gli allenamenti?»
«Dopo pranzo» lo informo.
Mi cinge le spalle e mi sorride. «Bene! Allora vi porto tutti in un bel
posticino e poi assisterò agli allenamenti del mio ragazzo.» L’orgoglio che
gli attraversa lo sguardo è qualcosa a cui non sono abituato. Ma è bello.
È davvero bello, cazzo!
12.
Anais

La sua paura, l’orrore che ha vissuto, sono mostri inattaccabili che


ci stanno
facendo già a pezzi.

Desmond. Ward.
La sua vista non manca mai di togliermi il fiato e, visto che sono giorni
che mi evita, significa anche che sono troppe le ore passate senza godere
della sua presenza.
Desmond guarda verso un suo compagno che gli sta dicendo qualcosa e
le labbra gli si incurvano in sorriso furbo che a me sembra sexy da morire.
Non mi resta altro da fare che appostarmi fra gli spalti, durante gli
allenamenti, come una qualsiasi delle ragazzine che sbavano dietro ai
giocatori della squadra.
Ha ignorato il mio messaggio, eppure gli ho scritto che lo amo. Che lo
amo fortissimo. Ed è la nostra frase, accidenti! Quella che ci siamo detti a
Las Vegas, ma non ha sortito alcun effetto.
È vero che in questo ultimo periodo ho fatto di tutto per rispettare gli
spazi che lui mi ha chiesto, ma è stato difficile e, adesso che sembra così
lontano, ho capito di avere sbagliato. Ancora una volta, e nonostante mi
fossi ripromessa di non farlo.
Specialmente dopo l’incontro con Jeremiah. Un fatto di cui non riesco a
mettere al corrente il mio ragazzo.
Se ne sta in mezzo al campo, abbassa la visiera del casco e prende
posizione. Percorro avidamente il suo corpo con lo sguardo. L’attrezzatura
da football che indossa gli fascia le gambe muscolose e la maglia bianca gli
aderisce al torace ampio per via del sudore. Nell’ultimo periodo il suo corpo
è cambiato e non posso che godere di ogni mutamento. Des ha sempre
avuto le spalle larghe ma adesso, grazie agli allenamenti estenuanti a cui si
sottopone, sono enormi, come le sue braccia.
Anche Eva se ne accorge, perché a un certo punto la becco a fissarlo e le
sfugge un fischio di approvazione. «Il ragazzino è cresciuto, vedo!»
Resto zitta perché sono stregata più di lei. Perché ho goduto di quel
corpo che adesso stiamo fissando, e sono innamorata persa del cuore
tormentato del ragazzo che ha catalizzato la nostra attenzione.
Dietro la visiera calata, riesco a vedere i suoi occhi, il suo sguardo è
sempre stato in grado di mettermi soggezione: è profondo, così intenso e,
quando viene attraversato dalle ombre che lo perseguitano, diventa quasi
nero.
Ancora oggi mi mette addosso una smania che non riesco a placare.
Come se ogni volta insieme potesse essere un’occasione. L’ultima.
Irripetibile. E dovessi coglierla per forza. Specie quando in lui si agitano
acque tempestose che lo avvicinano e lo allontanano da me con la stessa
potenza.
«Anais?»
Eva mi riscuote dai mille giri che sta facendo la mia mente.
«Lasciala stare» interviene Breanna. «Fa sempre così se c’è Des nei
paraggi.» Mi prende in giro.
Sorrido perché ha ragione. In sua presenza divento una decerebrata. In
più, in questo momento, sono decisamente in astinenza e arrabbiata. Be’, a
dire il vero sono più in astinenza che arrabbiata, per cui lascio correre ogni
tentativo che la mia amica fa per deridermi.
«Prendetemi in giro quanto volete. Ho bisogno del mio uomo. Adesso.»
Bre sbuffa. Eva, invece, sorride e poggia il mento sulla mano, godendosi
la scena di me che vado in brodo di giuggiole, guardando il quarterback dei
Bruins.
Non riesco a distogliere lo sguardo dal campo e, a quanto pare,
nemmeno mia sorella.
«È probabile che siano gli ormoni della gravidanza a enfatizzare il tutto,
ma sono dei gran fighi» esclama a un certo punto, rapita dai placcaggi.
Soprattutto uno, penso io.
«Probabile» rispondo. «E forse farei meglio a chiamare… Come hai
detto che si chiama?» Lo ricordo benissimo. Voglio solo riportarla al
presente.
«Abel» sospira. «Dio, quanto mi manca!»
«Non potrebbe venire a trovarti?»
«Sì, vorrebbe. Sono io che gli ho chiesto un po’ di spazio.»
«Che stronza!» la rimprovera Bre, facendo sfoggio della sua solita
sincerità.
Eva ha acconsentito a raccontare tutto alle ragazze. Si sono prodigate a
darle dei buoni consigli, ma fra le due Breanna è quella che ci è andata giù
più pesante.
«Quel ragazzo ha il diritto di starti accanto. Accidenti, lo vuole! Hai idea
di quante ragazze si ritrovano nella tua condizione, piantate in asso dal
bastardo di turno?»
Eva abbassa gli occhi sulle sue scarpe e affloscia le spalle. «Lo so, ma
ero confusa.»
«Be’, adesso lo sei ancora?»
Mia sorella stavolta sorride e si accarezza la pancia da sopra il prendisole
giallo che indossa. «No. Non più» mormora con tenerezza.
«E allora chiamalo e non fare più la stronza.»
In quel momento, alcune ragazze sedute due file sopra di noi si mettono
a urlare eccitate e riportiamo lo sguardo sul campo.
I ragazzi hanno finito l’allenamento e qualcuno ha cominciato a
spogliarsi, togliendo la maglietta e restando a petto nudo. Tre per
l’esattezza, e uno di loro è Des.
«Quant’è bello! Guardalo!» grida una.
Non so se stanno parlando di lui, ma da come mi guarda mia sorella
devo comunque avere un’aria piuttosto ostile.
«Desmond Ward. Me lo farei seduta stante» le fa eco l’altra.
«Mettiti in fila. È piuttosto lunga» la rimbecca l’amica.
Faccio per girarmi, ma Bre mi blocca.
«Buona, Nikita. Lasciale sbavare su ciò che è tuo.»
Ma è davvero mio?
Gli ultimi giorni sono stati uno strazio, eppure se penso a noi, non riesco
a ragionare in altri termini. Ci apparteniamo, nonostante l’atteggiamento
altalenante a cui Desmond mi sta sottoponendo.
Col senno di poi non posso nemmeno dargli torto. Jeremiah Spector è un
pericolo anche per me, ed è per questo che non gli ho ancora detto niente.
Sapere che quel bastardo mi ha avvicinato lo getterebbe nel panico e allora
farebbe qualcosa di irreparabile, lo so.
«Accidenti! Da queste parti il mio cognatino è una celebrità.»
Eva mi prende in giro, ma non le presto più attenzione. Riporto il mio
sguardo su Desmond, che sta uscendo dal campo e sorride sereno fra i suoi
compagni. Questa immagine fa sì che anch’io sorrida come una stupida, ma
poi lui si ferma e alza il braccio con la maglia che regge in mano, a mo’ di
saluto verso qualcuno.
Punto lo sguardo verso il destinatario di quel gesto e noto Braden.
Accanto a lui, però, c’è anche Luc Davis e sua moglie Elizabeth.
I suoi genitori… sono qui e non me l’ha detto.
La cosa mi colpisce così tanto che provo una fitta al petto e d’istinto me
lo massaggio, chinandomi un po’ in avanti.
Eva se ne accorge e si porta alla mia altezza. «Tesoro, che succede?»
Continuo a guardare verso gli spalti in cui siede la sua famiglia e mi
sento patetica. Non mi ha voluto con loro e per questo mi rabbuio.
«Ci sono i Davis» mormoro.
Sia Eva che Breanna seguono il mio sguardo.
«E allora?» mi chiede quest’ultima.
«E allora non mi ha detto che sarebbero venuti a trovarlo.»
«Magari è stata una decisione dell’ultimo minuto» cerca di
tranquillizzarmi Eva.
Non ci casco. Lei non ha idea di cosa stiamo passando. Nessuno lo sa
fino in fondo.
«O magari no e io sono davvero stanca dei suoi silenzi.»
Breanna ed Eva restano immobili e zitte e questo mi dà modo di pensare
e agire con lucidità.
«Vado da loro. Poi parlerò con lui» decido.
Non so ancora cosa gli dirò, ma ho bisogno di capire che cosa vuole
farne di noi due.
Mi alzo in piedi e asciugo i palmi sudati delle mie mani sulla minigonna
di jeans che indosso.
Eva mi afferra una mano. «Ne sei sicura? Vuoi fare una scenata davanti
ai suoi?»
«Parleremo quando saremo da soli, Eva. Non sono più una ragazzina.»
Sul viso di mia sorella passa un lampo di consapevolezza. «Lo vedo»
sospira. «Fatti valere e chiamami se hai bisogno. Noi torniamo al
dormitorio.» Lancia un’occhiata a Bre che annuisce e poco dopo vanno via,
mentre io mi dirigo dai Davis.
Neanche loro forse si aspettavano di vedermi, ma sia Luc che Elizabeth
mi abbracciano con affetto. Braden, invece, sembra in imbarazzo.
«Non sapevo che sareste venuti. Des non mi ha detto nulla.»
Non perdo occasione di scoprire la verità e nel profondo spero sia andata
come ha ipotizzato Eva, ma quando Luc Davis mi risponde, ogni speranza
evapora come una nube di fumo. «Era programmato già da un po’ e ho
approfittato di due giorni di ferie per portare Liz a vedere come si erano
sistemati i suoi ragazzi.»
«Certo!» rispondo a disagio.
Perché Des non me l’ha detto?
Siamo davvero arrivati a questo punto?
Brad ha un’espressione contrita. È evidente che ha capito quanto sia
ferita. «Desmond sta arrivando» mi informa.
«Ho fatto il prima possibile…»
Seguo la voce di Des alle mie spalle e mi giro. Sta salendo la gradinata e,
quando alza gli occhi e mi vede, si blocca.
«Anais…»
«Desmond.» Il mio tono è glaciale.
«Ho visto i tuoi e sono venuta a salutare. Ma me ne sto andando.» Faccio
qualche passo e stringo la borsa fra le mani. «È stato un piacere rivedervi. A
presto» mi congedo, ma qualcuno afferra la mia mano prima che possa
letteralmente scappare via.
«Aspetta un secondo.»
«Perché?» sputo fuori, pentendomi del mio tono un attimo dopo.
Fra me e lui c’è una tensione che non può sfuggire a chi ci sta intorno e
Luc decide di concederci un po’ di spazio. «Braden, che ne dici di farci
continuare il giro di stamattina?»
Gliene sono grata e al contempo vorrei girare le spalle al ragazzo che
amo e mandarlo a fanculo per come continua a trattarmi.
Restiamo soli e ancora distanti. Gli spalti vuoti non fanno che
amplificare il silenzio che grava su di noi. Tengo le braccia strette al petto.
Des se ne sta una fila più in basso rispetto alla mia, ma sento i suoi occhi
addosso. Poi finalmente scavalca i sedili e si piazza di fronte a me.
«Mi dispiace.»
«Non… non dirlo» lo blocco, poggiandogli una mano sulla bocca, ma
ignora la mia richiesta e mi attira contro al suo petto abbracciandomi.
Sono arrabbiata e delusa dal modo in cui si ostina a tenermi a distanza,
eppure finisco lo stesso per sciogliermi contro di lui.
«Mi dispiace, Honey» ripete fra i miei capelli. Sta tremando. Ho la
guancia appoggiata sul suo petto e percepisco il ritmo indiavolato del suo
cuore.
Mi bacia sulla testa. «Non ti arrabbiare per favore. Ti prego, Anais,
voglio solo prendermi cura di te e non so come fare per tenerti al sicuro.»
«Tenermi al sicuro significa stare senza di te?»
Scuote il capo, ma in realtà mi sta dicendo che è esattamente quello che
dovrebbe fare.
Urlo quasi. «Allora no. Non voglio stare al sicuro.»
«Hai avuto a che fare con quella feccia anche troppo, lascia che ci pensi
io. È una cosa che riguarda solo me. Porrò fine a tutto e poi tornerò da te.»
M’irrigidisco; le sue parole evocano scenari pericolosi, scene che ho già
vissuto, un assaggio di quanto sia davvero rischioso il suo passato per me,
ma Des viene prima di tutto. È stato chiaro anche quella sera, nonostante la
paura mi abbia fatto schizzare via da quel bastardo che continuava a
sbandierare l’orrore che aveva commesso.
«Che cosa significa che porrai fine a tutto? Non vorrai mica…»
Non riesco nemmeno a dirlo.
«Se sarà necessario» mormora fra i miei capelli e io rabbrividisco.
Mi libero dal suo abbraccio con riluttanza. «Non puoi dire sul serio. Non
puoi fare questo per tenermi al sicuro.»
Lui annuisce e mi afferra con delicatezza il mento fra le dita. «Ti amo,
Anais Kerper, e ti giuro che farò tutto ciò che è in mio potere per darti la
vita che meriti, ma qualsiasi cosa accadrà da qui in avanti la farò anche per
me stesso. Devi capirlo, piccola. Ne ho bisogno.»
Non rispondo e distolgo lo sguardo.
Non può davvero chiedermelo.
«Ti stavo aspettando, Honey, ma non sono sicuro che tu stessi aspettando
il ragazzo che sono stato fino a poco prima di incontrarti. Non sono pronto a
rinunciare a noi, se è quello che ti stai chiedendo, ma per andare avanti
devo chiudere con questa roba o stavolta rischio di uscirne a pezzi.»
Il mio cuore fa una capriola dolorosa e ritorno a soffrire per lui. Gli
afferro la maglia con entrambi i pugni. «Ci sono io con te» e appoggio la
fronte al suo mento, sperando che questa rassicurazione possa
bastargli.
Diglielo, Anais. Digli che hai sfiorato il suo passato e che nonostante ciò
sei ancora qui.
«Non basta, piccola. Devi capirlo» mi ripete.
Diglielo!
«Dovrebbe, se mi ami.»
Resta attonito, mentre alzo gli occhi su di lui e i nostri visi si avvicinano
come attratti da una forza più grande di ogni limite razionale.
«Chiedimi di non baciarti» sussurra.
«Dovrei?» La mia voce è ridotta a un suono roco e affannato.
«Dovresti ascoltarmi, dannazione! Aspettare che io faccia ciò che devo e
se vorrai, poi, riprendermi con te.» Le sue mani si stringono intorno ai miei
fianchi e i nostri corpi entrano in collisione, sprigionando un’energia
primitiva impossibile da ignorare.
Mi solleva il mento con un dito. «Dimmi che hai capito. So che è
difficile, ma fallo per noi.»
Diglielo!
«Non posso.» Le parole escono dalle mie labbra come una supplica.
«Baciami, Des. Illudimi per un minuto che sia tutto a posto, dimmi che
nessuna minaccia incombe su di noi, che il tuo passato è sepolto e che tu
non soffri più. Baciami» lo imploro. «Fammi credere che sia così.»
Mi bacia. Lo fa come se volesse farmi sentire il suo senso di colpa. Lo fa
come se quel bacio potesse bastare a farci dimenticare il resto. Si stacca da
me e sono sicura di avere un’espressione persa, e la sua bocca rovente ed
esigente plana di nuovo sulla mia. Una delle sue mani s’infila fra i miei
capelli, tiene ferma la mia testa per approfondire il contatto nel modo che
più gli piace e mi lascio sopraffare da tutto quello che provo per lui.
Come posso stargli lontano?
Quando si allontana da me, barcollo.
«Basta così, tesoro. Stiamo rischiando.» Mi tiene, ma si guarda intorno
come un ossesso e mi chiedo se non sia davvero così. Se il ritorno di quel
mostro non lo stia rendendo paranoico.
«Starti lontano sarà un inferno.»
«Allora non lo fare, Des. Ti prego.»
«Devo» replica perentorio. «Vienimi incontro, Anais. Non posso farcela
se mi getti addosso il tuo risentimento.»
Scuoto la testa e lui tenta di rassicurarmi.
«Ti amo e sarebbe tutto maledettamente più facile se non provassi quello
che provo per te. Ma lo provo, cazzo! E morirei se ti accadesse qualcosa. Lo
sa anche lui e questo ti ha resa un bersaglio.»
Ha ragione, ma non deve sapere fino a che punto le sue paure siano reali.
Mi stringe le mani. «Fammi spazzare via questa merda. Dammi un po’ di
tempo.»
Non riesco ad accettarlo e per questo non gli rispondo.
Lui sospira. Ha capito che in questa farsa non mi troverà mai d’accordo,
ma non ritorna sui suoi passi.
«Va’ via» mi ordina. «Adesso, Honey. Mi assicurerò che arrivi sana e
salva al dormitorio e che tu sia sempre al sicuro. Non mi vedrai ma ci sarò.
Sarò la tua ombra, ma tu sta’ attenta. Resta concentrata e non ti fidare di
nessuno.»
Quella sera lui non c’era. È questo che dovrebbe capire. Non può essere
onnipresente.
Ciò detto, mi volta le spalle stringendo i pugni e se ne va, lasciandomi
sola a fare i conti con tutto quello che ho appreso e che non riesco a
cambiare.
La sua paura, l’orrore che ha vissuto, sono mostri inattaccabili che ci
stanno facendo già a pezzi.

Nei giorni successivi, cerco di non cadere in tentazione. Forse il piano di


Des non è poi così malvagio. E forse gli dovrei dare un po’ più di fiducia,
così presto tutta questa faccenda sarà archiviata. Nonostante ciò, però, ho
visto l’ossessione brillare negli occhi di quell’uomo, la venerazione malata
per Des impregnare ogni sua parola e ho capito che non sarà facile
allontanarlo da lui. Sicuramente non lo farà di sua spontanea volontà.
Mangio poco, dormo male e le mie amiche mi osservano preoccupate.
Non mi sfuggono le loro occhiate. Pensano senz’altro che stia regredendo,
che la mia terapia con la dottoressa Jackson stia andando in fumo, ma non è
così. Meglio di tutti saprei riconoscere i sintomi di una ricaduta e in questo
momento mi sento stranamente forte.
Forse è la consapevolezza che tutti si aspettano di vedermi cadere a
darmi la tenacia di non farlo, ma non provo l’esigenza di farmi del male,
perché per una volta il dolore che sento dividermi il petto in due ammorba
persino il mio istinto di ferirmi. E sono certa che non basterebbe un taglio a
farmi stare meglio. Non più.
L'idea che Des riesca a stare senza di me invece mi uccide. Detesto che
esca, in giro chissà dove, che vada avanti con la sua vita ignorandomi. Ma
se non altro, a parte i miei sbalzi d’umore e il mio scarso appetito, riesco a
conservare ancora un briciolo d’orgoglio e davanti a lui, nelle rare volte che
ci incontriamo, mi mostro indifferente.
Decido di andare in spiaggia. Bre e Faith devono studiare, ma Eva
risponde al mio invito con entusiasmo. Così ci prepariamo in fretta e
prendiamo l’autobus per dirigerci verso Venice.
Una volta arrivate, tutti i ricordi che rievoca questo posto mi scorrono
davanti come un film in multicolor. Non è Mission Beach, ma le somiglia
così tanto.

«La smetti di fissarmi come un ebete?»


«Toglilo!»
«Allora? Mi stai imbarazzando.»
«Non devi.»
«Invece sì, non è bello che tu mi fissi.»
«Non ci riesco, Honey. Sei bellissima e... ipnotizzante. Mi piaci, Anais
Kerper.»
«Come fai a dirlo?»
«Mi piaci… Sei strana.»
«Lo so.»
«È preoccupante…»
«Cosa?»
«Quello che mi fai, Honey.»

Serro gli occhi e lascio che la brezza soffi sul mio viso e mi regali un
attimo di tregua. Purtroppo la mente non è intenzionata a cedere e mi
incatena ad altri ricordi, al nostro bacio rovente, alle mie bugie e al fatto che
Bryan e l’adozione di Des ci sembrassero problemi insormontabili.

«Non possiamo. Devo forse ricordarti il perché?»


«Ti prego, fallo.»
«Non puoi dire sul serio. Presto sarai un Kerper.»
«Non necessariamente… Merda!»
«Hai intenzione di non accettare l’adozione?»
«Posso farlo… Chiedimelo!»
«Non puoi dire davvero. Non posso toglierti questa occasione. E se un
giorno ti accorgessi che non ne valevo la pena?»
«Non ho mai pianto.»
«Cosa?»
«Non ho mai pianto, Anais. Nemmeno al funerale dei miei genitori. Non
c’era nessuno, solo io e il prete. L’assistente sociale che mi avrebbe portato
via da lì a poco se ne stava in disparte e io guardavo le loro bare e non
sentivo niente… Mi sono sentito un mostro. Insomma, chi non riesce a
piangere i propri genitori? Eppure mi sono semplicemente spento e ho
annullato il dolore. Poi è giunta la rabbia e mi sono riempito di quella,
diventando di ghiaccio, finché sei arrivata tu col tuo calore. Mi sono sciolto
pian piano e la cosa mi ha fatto maledettamente paura, ma Dio, com’era
bello! Ti ho lasciato entrare, Honey, e adesso tu non fai altro che fuggire.»
«Des, io…»
«Lo ami?»
«Sì, lo amo.»

«Ana?» La voce di Eva mi riporta al presente. «Va tutto bene, tesoro?»


No.
«Sì» rispondo invece. «Mi sono solo lasciata incantare dal paesaggio.
Godiamoci un po’ di sole.»
«È normale essere così vicini a casa e non avere voglia di tornarci?»
«Nel nostro caso, sì» rispondo sincera.
Eva sospira. «Ho intenzione di parlare con mamma e papà durante le
vacanze di primavera.»
«Sarò al tuo fianco» la rassicuro.
«Non la prenderanno bene» constata, però senza alcuna agitazione.
«‘Non la prenderanno bene’ è un eufemismo. Credo che potrebbero far
scoppiare un caso di Stato.»
La cosa sembra divertirla sul serio. Be’… diverte anche me, quindi
fanculo mamma e papà.
«Godiamoci questo attimo di tranquillità» le dico stringendole la mano.
«Al resto penseremo al momento opportuno.»
Comincio a scendere verso la spiaggia, trascinandomi dietro mia sorella
e, quando affondo i piedi nella sabbia calda, sospiro di soddisfazione.
Mi serviva allontanarmi un po’, e nonostante il passato mi abbia
comunque seguito anche qui, conto di riuscire a rilassarmi.
Io ed Eva ci togliamo i copricostume e sorrido notando come il bikini
che le ho prestato le stia piccolo sul seno.
«Mi si stanno gonfiando» sospira, fissandosi il petto.
Le faccio l’occhiolino. «Non mi pare una brutta cosa.»
Fa una smorfia e mette le mani sui fianchi. «Mi gonfierò tutta» sbuffa.
«Questa, invece, è decisamente una brutta cosa.»
La abbraccio. «Sarai bellissima.»
Lei si accarezza il ventre come fa sempre ultimamente e sento l’esigenza di
rassicurarla ancora. «Ne varrà la pena, sorellina.»
Non mi risponde ma sorride e guarda un paio di surfisti sulle loro tavole,
cavalcare le onde che l’oceano oggi sta regalando loro.
Ci stendiamo sulle stuoie. Eva tira fuori il suo Kindle dalla borsa e io
continuo a guardarmi intorno.
Il mio sguardo viene catturato da un promontorio simile a quello da cui
ci siamo affacciati io e Desmond il giorno della commemorazione di Zach.

«Des…»
«Non voleva venirci… Lo ha fatto per me, Anais. Lo ha fatto per me che
stavo rincorrendo te, maledizione! Lo ha fatto per me… Avevo così tanta
fretta di raggiungerti… Perché, Anais? Perché scappi sempre da me?»
«Non lo so…»
«Va’ via. Lasciami solo.»
«Non posso…»
«Devi andartene. Lasciami il tempo di scendere a patti con me stesso.»
«Non posso lasciarti così, Des. Ti prego.»
«Lo hai già fatto un sacco di volte, Honey. Per te ho ammazzato il mio
migliore amico. Credo che possa bastare, non trovi?»
13.
Anais

Lo stringo dentro di me come se ne andasse della mia vita e insieme


planiamo in un mondo dove non esistono mostri da combattere.

In diciott’anni, ci sono state volte in cui ho sperimentato una sensazione


di profondo stordimento. Quando per esempio volevo tagliare fuori i miei
genitori così assenti, ma onnipresenti per quanto riguardava le mie
decisioni, lasciavo che la mente trovasse un modo per sputare via il veleno.
Era a quel punto che accoglievo il dolore come una benedizione, ed entravo
in un mondo di semi incoscienza che in un certo senso mi estraniava da me
stessa. Era un tipo di inerzia che mi faceva andare avanti, ma adesso, pur
non volendo, sento tutto, amplificato come se una cassa stesse
risuonandomi accanto a tutto volume. Il torpore che di solito trova il modo
per avvincermi stavolta non ce la fa e mi lascia a boccheggiare oppressa
dalla portata di tutto ciò che è successo e che, mio malgrado, continua a
succedere fra me e Desmond.
Giorno dopo giorno, la mia concentrazione si rompe. Mi sento così sola,
con i pensieri infranti e il cuore a pezzi e forse venire qui non è stata una
buona idea.
Il dolore si rinnova.
E viene accresciuto da un presente spoglio di nuovo di quell’amore che
mi ha dato e che adesso mi sta togliendo, e che viene nutrito dall’assenza a
cui mi sta obbligando.
Pensavo che superare la morte di Zach ci avrebbe resi invincibili; niente
sarebbe stato più grave della sua perdita e del senso di colpa che ci aveva
allontanati. Ma evidentemente mi sbagliavo.
Un surfista attrae il mio sguardo e mi raddrizzo, schermandomi gli occhi
dal sole per osservarlo meglio. Riconoscerei il suo corpo ovunque e quel
tatuaggio sul suo pettorale… È impossibile che mi stia sbagliando. È Des e
il fatto di trovarmelo qui, nel posto che ho scelto per fuggire, è assurdo.
«Faccio un bagno» avverto Eva che ha il naso tuffato nel suo lettore. Per
fortuna non sembra intenzionata a seguirmi e annuisce senza staccare gli
occhi dal libro.
Entro in acqua, è fredda come al solito e rabbrividisco. Non avevo
preventivato di fare un bagno, ma Des è a pochi metri da me e ne sono
attratta come una calamita.
Lo vedo andare incontro a un’onda con un paio di potenti bracciate, poi
issarsi sulla tavola e domare il muro d’acqua che si alza andandogli
incontro.
Lo spettacolo è mozzafiato e rimane tale anche quando perde l’equilibrio
e cade, per poi riemergere dall’acqua. Scuote la testa e si passa una mano
sul viso e sui capelli.
E finalmente mi vede, nonostante io sia lontana. Si blocca, con le mani
davanti al volto, dopo recupera la tavola da surf e decido di raggiungerlo.
Mi tuffo sott’acqua e nuoto verso lui. Quando riemergo, me lo ritrovo
davanti e i suoi occhi sono talmente ardenti mentre squadra il mio bikini,
che mentalmente segno un punto a mio favore.
Guarda com’è difficile stare lontano da me, vorrei dirgli, ma suonerei
ingiusta perfino alle mie orecchie, per cui decido di tacere.
«Ciao» esordisco con il fiatone per la nuotata.
«Ciao» mi risponde. «Che ci fai qui?»
«Quello che fai tu, presumo.»
«E cosa starei facendo io, per l’esattezza?»
È davvero turbato. Emana ondate di rabbia e di ostilità e si guarda
intorno, ma non ho intenzione di rendergli le cose facili.
Farebbe bene a mettersi l’animo in pace. Mi avrà sempre fra i piedi e
non sarà semplice ignorarmi.
Il suo ampio torace si abbassa e si alza al ritmo di un respiro corto.
«Dimmi almeno che non sei venuta da sola» mi ammonisce.
«C’è Eva con me.»
Sospira sollevato. «Bene!»
«Adesso devo andare. Esci dall’acqua?»
Ma che pretende? Che mi rinchiuda in casa ad aspettare… cosa?
«No. Credo che resterò un altro po’.»
Torna a guardarsi intorno e stringe le labbra in una linea dura. Seguo il
suo sguardo, che si sofferma su un pick-up rosso un po’ malandato. La
barba di qualche giorno e le sue lunghe ciglia brillano di tante minuscole
goccioline, mentre il suo orecchino cattura per un attimo la luce del sole.
Come sempre. Come se si facesse beffe di me, ricordandomi quella prima
volta che l’ho visto.
È bellissimo e le mie mani tremano per la smania di toccarlo.
«Esci dall’acqua, Anais. Ti prego…» sibila. «Sarei più tranquillo.»
«E come?» sbotto. «Posso anche uscire, ma tu stai per andare via e il
pericolo potrebbe essere dietro l’angolo. Come speri di stare tranquillo?»
Lo guardo con gli occhi stretti e lui impreca.
«Ti tengo d’occhio anche quando credi che non ci sia, Anais.»
«Oh, perfetto! Ti sei trasformato in uno stalker?»
«No, cazzo!»
«E allora cosa? A che cosa si è ridotta la nostra relazione?»
«Ti ho già spiegato che…»
«No» lo interrompo. «Quella spiegazione continua a non piacermi. Tu
mi hai semplicemente tagliato fuori.»
In un attimo annulla la distanza che c’è ancora fra noi e mi afferra per la
vita. «Sto cercando di risolvere questa fottuta cosa per tornare da te.»
«Ammesso che io ci sia ancora quando deciderai di tornare» lo provoco,
ritrovandomi a mendicare una sua più piccola reazione.
Mi porta i polsi dietro la schiena e i miei fianchi producono un delizioso
attrito, sfregandosi contro i suoi. Il mio corpo riconosce il suo. I nostri volti
sono talmente vicini che basterebbe un soffio affinché le nostre labbra si
unissero.
Sembra passato così tanto tempo, che quando si scontrano sento le stesse
sensazioni del nostro primo bacio.
Gemo nella sua bocca mentre la sua lingua si avvinghia alla mia. Questo
bacio è in netto contrasto con il suo atteggiamento ingannevole. È sincero,
si insinua in ogni parte di me, pretende di colmare il posto che gli
appartiene da sempre. E nel giro di qualche secondo dimentico perché ero
arrabbiata e sono di nuovo pronta a cedergli tutto, compreso quel cuore che
ha fatto a pezzi ignorandomi come se fosse l’unica soluzione.
Il suo respiro si fa difficoltoso, ansima fra un bacio e l'altro. Gli avvolgo
le mani attorno al collo e schiaccio il seno contro il suo petto. Si scosta un
attimo, ma per fortuna non ha la forza di portare avanti quella decisione e si
fionda di nuovo sulla mia bocca.
Una delle sue mani sale e scende dalla testa alla schiena, poi mi afferra la
parte posteriore di una coscia e la sistema contro il suo fianco.
«Non possiamo… Anais, ti prego, piccola.»
«No?» gli chiedo, ma non intendo spostarmi. Che lo faccia lui, se trova
la forza.
I suoi occhi vengono catturati da qualcosa e fissa di nuovo un punto,
stavolta oltre la mia spalla, irrigidendosi e mollando la presa sulla mia
coscia. «Cazzo!»
Seguo il suo sguardo. Non c’è quasi nessuno in spiaggia, ma quel pick-
up rosso adesso attira la mia completa attenzione.
Uno dei finestrini è aperto, presumo che dentro ci sia qualcuno. Ma chi
starebbe rinchiuso in un’auto con questo caldo?
Jeremiah Spector. Lui potrebbe.
«Non ho altra scelta» sibila Des, poi mi fissa le labbra. «E solo Dio sa
quanto mi costi, dannazione!»
Spinge il mio viso contro il suo collo, come se volesse darmi un rifugio.
«Ti amo» gli dico.
«Cristo, piccola!»
Le sue mani si spostano sui miei fianchi. Mi avvicina a lui, costringe il
mio bacino a entrare a contatto con il suo. L’acqua ci copre fino alla vita,
l’oceano è calmo, come se stesse aspettando in religioso silenzio il nostro
ricongiungimento.
«Dimmi soltanto che non vuoi andare via.»
«Anais, io…»
Prima di concedergli altro, mi stacco da lui prendendogli il viso fra le
mani.
«Devi dirmelo, Des.»
Suona come un ricatto e lo è.
Non sono più disposta a stare a guardare mentre ci mette in gioco con
tanta facilità.
Non voglio eroi in questa storia, ma un uomo che sappia di poter fare
affidamento sul nostro amore. Pretendo di combattere insieme a lui, per
riprenderci quello per cui abbiamo lottato, e voglio che lo capisca e che
finalmente mi guardi con speranza.
Ma non succede nulla di tutto ciò e la mia volontà ridiventa d’acciaio.
Gli lancio un ultimo sguardo colmo di lacrime. Distoglie il suo, ferito, e i
suoi occhi corrono sul punto che fissava poco fa, ma del pick-up rosso che
lo ha turbato non c’è più alcuna traccia.
«Chi era?» chiedo facendo l’ultimo tentativo perché si fidi di me.
Lo vedo piegare il capo, sconfitto. «Nessuno.»
Mi taglia ancora fuori e il dolore che avverto al centro del petto è pari a
quello che ho provato quando è morto Zach. Perché allora avevo capito di
aver perso davvero Des e mi ero convinta che sarebbe stato impossibile
riportarlo da me.
«Nessuno» ripeto atona e nel frattempo mi allontano di un paio di passi.
«Non è niente. Non è nessuno… Va tutto bene, Anais» lo scimmiotto. «Ma
mi stai lasciando, Desmond Ward. Non è così?»
Non mi risponde, punta il suo sguardo verso le onde che cominciano ad
agitarsi e recupera la tavola da surf che ha continuato a galleggiarci intorno
per tutto questo tempo.
Il nostro attimo di pace è finito, lo sa anche l’oceano. Non mi rimane
altro da fare che voltargli le spalle e tornare a riva.

Non piango. Non mi dispero più. Comincio a sentirmi come


anestetizzata di fronte alla sua risoluzione. Riesco a mantenere il controllo
perfino qualche sera dopo il nostro incontro in spiaggia, quando riporto a
Faith le chiavi dell’appartamento che aveva dimenticato sul tavolo. È
possibile che lo abbia fatto con la speranza di vedere Des, ma ogni pretesto
è buono per ritagliarmi qualche momento con lui e non ho difficoltà ad
ammetterlo.
Lo trovo ancora in casa. Esce dalla sua camera, vestito di tutto punto, in
maglietta nera e jeans, i capelli scompigliati ad arte e quel filo di barba che
mi fa impazzire.
Sta andando avanti e la cosa mi fa rabbia.
Non è mai stato un problema avere ragazze che gli si gettassero ai piedi e
non lo sarà di certo adesso che io sono fuori dai giochi.
Mi costringo a non pensarci. Mi ha detto che mi ama e mi ha chiesto di
aspettarlo, ma ancora una volta le mie insicurezze mi balzano addosso e
riportano a galla vecchie paure.
Mi lancia appena un’occhiata. Afferra il telefonino, poi però mi viene
vicino. «Sto uscendo con i ragazzi» mi fa sapere.
«Dovrebbe riguardarmi?» sbotto acida.
Con la coda dell’occhio vedo Brad e Faith ritirarsi in camera per
lasciarci da soli.
«Lui potrebbe essere lì fuori, Anais. Dovrei uscire da qui adesso, per
dimostrargli che fra noi è finita.»
Mi ha già avvicinata. Sa di noi e sa che ti amo.
«Fallo!»
Non voglio piangere, ma trattenermi sta diventando più difficile.
«Vedo come ti stai occupando della faccenda. Deve costarti molta fatica,
in effetti» lo accuso. Mi dirigo verso la porta perché non voglio che mi veda
in questo stato.
Per lui sembra facile. Vorrà dire che lo sarà anche per me.
«Al diavolo!» sbotto. «Me ne vado io.»
E così faccio, procedendo veloce verso il mio dormitorio, nella speranza
di trovare un po’ di pace nel sonno. Mi guardo intorno.
Resta concentrata, ha detto. Be’, lo sto facendo, per quel che può valere. La
serata è fredda. In giro per il campus si vede solo qualche ragazzo. Le luci
alle finestre degli altri dormitori sono accese… tutto scorre, il che mi fa
pensare che la vita è breve. Non si dovrebbe sprecarla cercando di risolvere
i problemi degli altri, ma quando quegli altri rappresentano il tuo mondo,
come si può considerarlo uno spreco?
Una volta a casa, le mie aspettative restano vane. Mi faccio una doccia,
indosso un pigiama comodo e cado in un sonno discontinuo. A un certo
punto mi risveglio per il movimento del materasso che si abbassa accanto a
me. Mi giro, sveglissima e allarmata, e sorprendo Desmond al mio fianco.
«Che ci fai qui?»
Si è già spogliato, indossa solo i boxer. Scosta le coperte e scivola
accanto a me. È freddissimo e rabbrividisco. Lo sguardo mi scivola sul
quadrante illuminato della sveglia. Sono quasi le tre di notte.
«Solo un paio d’ore» biascica. «Fatti stringere un po’…»
È ubriaco e non sono certa che sia davvero conscio di essere in casa mia,
nel mio letto, con Jeremiah là fuori che potrebbe averlo seguito.
«Des, io…» sussurro mentre si sistema.
Lui si blocca e poi mi abbraccia. «Dimmi che mi stavi aspettando. Che
anche tu stai impazzendo senza di me.»
Scoppio a piangere in maniera inaspettata. Singhiozzo profondamente
senza riuscire a fermarmi.
«Cristo! Non fare così, tesoro.»
Mi stringe e tuffa il viso sul mio collo.
Trattengo il fiato. Adesso percepisco in maniera distinta l'alcol nel suo
fiato e c'è una disperazione nella sua voce che è uguale alla mia.
Il mio primo istinto è quello di mandarlo a farsi fottere, ma mi è mancato
fino a togliermi il fiato e solo adesso riprendo a respirare.
Lascio che mi scosti i capelli dalla nuca. Lascio che mi baci e strusci il
suo bacino contro le mie natiche. Lascio che tiri su la mia camicia da notte
e scosti di lato i miei slip, penetrandomi in un solo colpo.
Ogni stoccata profonda e intensa libera il dolore e ci regala un attimo di
pace. Mi afferra una mano, la sinistra, e se la porta alle labbra per baciare il
nostro tatuaggio, aumentando il ritmo dei suoi fianchi per portarmi fino alla
soglia del piacere.
Lo stringo dentro di me come se ne andasse della mia vita e insieme
planiamo in un mondo dove non esistono mostri da combattere.
Sento la sua voce all'orecchio, profonda e confortante, già preda del
sonno. «Mi sei mancata, Honey.»
Stringo gli occhi, maledicendo le lacrime che mi bagnano le guance,
mentre mi accoglie nell’abbraccio più dolce e struggente che mi abbia mai
concesso. E anche se non è cosciente, mi ritrovo a elemosinare questo
momento, pur sapendo che fra poche ore il mio letto sarà di nuovo vuoto e
freddo e lui ancora lontano a combattere i suoi demoni.
14.
Desmond

La vita è strana. Cambia faccia un'infinità di volte, prima di


mostrarti il suo vero volto.

Sgattaiolo via dal suo appartamento come se volessi nascondere


qualcosa e, in effetti, è così.
Non sarei dovuto venire qui. Non avrei dovuto renderla così vulnerabile
agli occhi di Jeremiah e non avrei dovuto rendermi così debole ai suoi.
Sto aspettando come un condannato che lui faccia la prima mossa. Ho
cercato di scoprire il suo nuovo indirizzo, ma non avevo fatto i conti con la
politica sulla privacy dell’azienda per cui lavora.
Potrebbe abitare ancora a Bakersfield, ma mi sembra improbabile. Non
credo si faccia tutti questi chilometri per venire al lavoro. È già tanto che da
San Diego si sposti a Los Angeles ogni giorno. A meno che non abbia un
appartamento anche qui.
Ho cercato il suo nome su internet, ma pare non avere un cazzo di
telefono, così ho deciso che durante le vacanze di Primavera il mio
obiettivo sarà scovarlo e allora potrà star certo che San Diego, o qualsiasi
sia la zona in cui abita, diventerà il buco dentro al quale lo sotterrerò.
Violet mi sta alla larga, vorrei parlarle ma mi sfugge e questo non fa che
aumentare il mio grado di frustrazione.
È l’unica che potrebbe dirmi qualcosa, ma dubito che sia pronta a farlo.
La sua dipendenza è ciò che molto probabilmente la vincola al suo patrigno.
Sono certo che sia lui a procurarle la droga e, anche se il giorno che ho
scoperto tutto si è mostrata confusa e affranta, sono sicuro che c’entri con il
ritorno di Jeremiah.
Tranne che per il football, mi sembra di girare a vuoto. Nessuno mi
ridarà indietro il tempo perso stando lontano da Anais. Nessuno mi risarcirà
per la sofferenza che le sto causando. Ma quant’è vero Dio, Spector pagherà
per ogni cosa.
Torno di fretta al dormitorio. Brad è nel suo letto ma ronfa alla grande.
Mi farò una doccia prima di recarmi a lezione e poi chiamerò Anais per
scusarmi di essermene andato via. L’ho fatto come un ladro, ma ho avuto
paura. Paura di aver fatto una sciocchezza, anche se non so come il sesso
con la mia Honey possa definirsi uno sbaglio.
Ho maledetto la mia avventatezza e, mentre poco fa la guardavo, stesa
sul suo letto, così perfetta, con i capelli scompigliati e la pelle piena dei
segni che le ho lasciato, ho realizzato che la sto mettendo in pericolo e mi
sono sentito sopraffatto. Sommerso fino al naso da quello che provo per lei
e nello stesso tempo distrutto da ciò che potrei rubarle.
Afferro le chiavi della macchina e scendo le scale più calmo rispetto a
pochi momenti fa.
Non appena individuo la mia auto, però, ho uno strano presentimento, e
più mi avvicino, più mi accorgo che ho ragione.
Il parabrezza è frantumato, i fari sono distrutti e sulla fiancata del
guidatore è scritto “Puttana”.
Quello che sono stato io per Spector per ventidue fottuti mesi della mia
vita.
Passo le dita sulle lettere, probabilmente incise con un cacciavite. Alcuni
studenti vi si sono radunati intorno e mi osservano per sondare la mia
reazione, ma non c’è niente da fare. Non adesso, almeno.
Ho un piano che fa schifo. Sto procedendo a tentoni, cercando di agire
per il bene di tutti, e questo mi rende cauto. A volte fin troppo, visti i
risultati. Ma scioccamente, ho pensato che l’ossessione di Jeremiah nei miei
confronti non fosse più possibile; ho creduto che il suo lavoro al campus
fosse del tutto casuale e mi sono illuso che Violet potesse essere estranea a
tutta questa faccenda, come mi ha detto. In conclusione, mi sono dato del
tempo per metabolizzare la ricomparsa del mostro nella mia vita, e per farlo
ho dovuto raccontarmi delle bugie, pur sapendo che fossero tali, altrimenti
avrei già scovato quel bastardo e lo avrei messo a tacere una volta per tutte.
Tuttavia, mentre osservo lo scempio che ha combinato, capisco di avere
sbagliato e che Jeremiah, in questo frattempo, ha solo acquisito una
maggiore consapevolezza di quanto possa ancora farmi male.
Il vetro del parabrezza non è caduto, così m’infilo in macchina e afferro
il volante, cercando di calmare il mio respiro e la corsa folle del mio cuore.
«Ti ammazzo» mormoro. «Giuro che stavolta ti ammazzo davvero,
maledetto.»
E lo penso sul serio, non come tutte le volte che l’ho immaginato,
avendo timore di rovinare il mio futuro. No. Stavolta sono pronto a finire
quello che ho cominciato anni fa.
Tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans. Sto per comporre il numero di
Braden, non posso andare in giro con l’auto in queste condizioni e ho un
test di Fisica quantistica a cui non posso mancare, ma mi arriva una
chiamata da un numero sconosciuto. Non ho dubbi su chi possa essere e la
certezza mi fa tremare le mani dalla rabbia.
«Che cazzo vuoi?» rispondo.
«Te. Di nuovo.»
La sua voce… la stessa che infestava i miei incubi da bambino. La stessa
che li popola ancora oggi.
«Sei uno sporco schifoso. Perché non mi lasci in pace, eh? Non sono più
un bambino, te ne rendi conto?»
«Sarai sempre il mio bambino, Des.»
Mi guardo intorno. Deve essere qui da qualche parte a osservare la
scena, e la voglia di farlo a pezzi diventa impellente.
«Dove sei? Vieni fuori.»
«Al momento giusto…»
«Ora!» urlo. «È adesso il momento giusto.»
«Sei arrabbiato, Des?»
Il suo tono mellifluo mi fa rimescolare le viscere.
È lo stesso di allora e sto per vomitare.
«Sono furioso… Ricordi cosa stavo per fare quella volta nel tuo lurido
garage?»
Ridacchia. «Ricordo molte delle cose che mi hai fatto, bambino. Sii più
chiaro.»
Puah! Vorrei piegarmi e rimettere tutto, anche il male che mi ha causato,
ma lui è qui da qualche parte e non voglio che mi veda distrutto dai ricordi
che ha rievocato.
«Stavo quasi per ucciderti e puoi star certo che porterò a termine quello
che ho cominciato.»
Dall’altra parte cala il silenzio, segue un lungo sospiro. «Potremmo
andare così d’accordo, noi due. Invece non vuoi proprio mollare. Sei
sempre stato un ribelle.»
Un ribelle che però non ha potuto fare niente per salvarsi, vorrei dirgli,
ma resto zitto.
«Mi piaceva questo lato di te. Eri sempre pronto a mordermi e graffiarmi
come un gattino selvaggio e quella volta, quella che mi stai sbattendo in
faccia per minacciarmi, mi sono eccitato come non mai. Non sei cambiato,
bambino. Non ti ho piegato, Des. Il mostro con te non ce l’ha fatta e la cosa
m’irrita un tantino.»
Sto ansimando. I ricordi mi saltano addosso e mi soffocano.
Come avrebbe potuto un bambino combattere contro una simile
perversione?
Mi sono dato la colpa così tante volte che questa consapevolezza arriva
come una sorta di liberazione.
«Sei malato» sibilo.
«Sì, lo so» ammette candidamente.
«E so anche che potrei continuare a farti le cose più indicibili e tu
resteresti in piedi.»
«Puoi giurarci.»
«Ma» mi blocca «c’è una persona che ti ha messo in ginocchio e che
potrei usare per farti piegare al mio cospetto. Dio, la tua bocca! Te lo ricordi
com’era?»
Le sue parole dovrebbero procurarmi disgusto. Ricordo esattamente
com’era, ogni fottuto momento passato insieme a lui era un incubo a occhi
aperti, ma la persona a cui si sta riferendo è Anais e dentro di me resta
spazio solo per la rabbia.
«Se la tocchi ti ammazzo.»
Sghignazza. Mi sta prendendo per il culo. Si sta facendo beffe di quello
che provo.
Esco dall’auto, guardandomi intorno per capire dove cazzo si è nascosto.
Per porre fine a tutto questo.
«Buono, bambino. Mi farò trovare, non temere. Ma prima voglio
divertirmi con lei. È così innocente. E ti ama» sputa fuori con astio. «Ma
non quanto me.»
Butta giù e resto con il telefonino in mano e gli occhi spalancati senza
vedere niente di ciò che mi sta davanti.
Rivivo tutto, invece, ogni scena, come fossero diapositive, mentre il
pericolo per Honey si fa concreto.
Non è paranoia, la mia, non lo è mai stata perché sapevo con chi avevo a
che fare allora e il mostro non è cambiato.
Mi scrollo il terrore paralizzante dal corpo e compongo il numero di
Braden.
Devo agire. Andare avanti e nel frattempo pensare a un modo per farmi
trovare pronto alla sua prossima mossa, per proteggere la mia ragazza.
Brad è l’unico che può portare l’auto da un carrozziere per farla riparare.
Sono quasi le nove del mattino e fra meno di un’ora dovrò presentarmi
nell’aula del professor Martin, così, nonostante il suo telefono squilli a
vuoto, faccio ripartire la chiamata con l’intento di tirarlo fori dal letto. Mi
ha sempre rimproverato di non saper chiedere aiuto. Be’, stavolta ho
bisogno di lui e non posso chiamare nessun altro, senza fornire spiegazioni.
È per questo che non ho raccontato niente a Luc. Mi obbligherebbe a
coinvolgere la polizia ed è l’ultima cosa che voglio, perché la storia della
mia infanzia mi esploderebbe in faccia e in questo momento è l’ultima cosa
di cui ho bisogno.
Ho già avuto due proposte di interviste da parte del giornale studentesco
e di una testata sportiva. La stampa si sta interessando alla mia carriera e al
mio nome. Non posso darle in pasto fatti così privati.
Finalmente Brad gracchia un “pronto” strascicato al telefono.
«Ti voglio fuori dal dormitorio entro dieci minuti, amico.»
Sento il frusciare delle lenzuola, segno che si sta alzando in fretta. «Che
cazzo succede, Des?»
«Vieni al parcheggio dell’ala est. Il bastardo si è fatto vivo.»
Quando Brad arriva, è ancora confuso dal sonno e dal tono concitato
della mia telefonata, ma appena vede la mia auto, diventa lucido e
incazzato.
«Che facciamo?» chiede. «Chiamiamo la polizia?»
«No. Non ho intenzione di rendere pubblica questa cosa.»
«Ma…»
«Niente ‘ma’, Braden. Non appena il contratto con i Bolts sarà reso
ufficiale, avrò la stampa addosso e non voglio che questa merda esca fuori.
Siamo intesi?»
Devo assicurarmi che abbia capito.
«Okay» capitola alla fine, ma il suo sguardo si fa serio, mentre osserva il
disastro che Jeremiah ha combinato e poi di nuovo me.
«Devo chiedertelo, Des: come hai intenzione di agire? Sono preoccupato
che tu possa fare una sciocchezza.»
E lo capisco. Comprendo quanto possa essere difficile per lui restare a
guardare mentre mi agito, con un detonatore fra le mani, pronto a
schiacciarlo. Per Braden non sono sacrificabile e per me non lo è Anais.
Non è sacrificabile lui e non lo è neppure la mia vita, che finalmente ha
cominciato a girare per il verso giusto.
Fra poco torneremo a casa. Lontano dal football e dalla mia ragazza,
potrò perfezionare il mio piano. Mi muoverò cauto, ma devo portare a
termine quello che ho iniziato quella notte di tanto tempo fa.
«Mi ha chiamato» gli confido.
«Che cosa?»
«Sì, ed è stato piuttosto chiaro sulle sue intenzioni.»
«Des… dovremmo…»
«Ho detto di no, Braden. Niente polizia.»
«D’accordo» si arrende e tanto vale che sappia il resto della storia.
«Mi ha minacciato di colpire Anais.»
«Che cazzo…»
«Niente polizia» ribadisco. «Risolverò tutto.»
Il suo viso è sconvolto e ha l’aria affranta.
Mi guarda come se fossi pazzo, impotente di fronte alla mia risolutezza,
ma è la mia vita e Braden è come un fratello. Non farebbe mai nulla per
venirmi contro.
Questa è la mia vita e, nonostante anche lui ne abbia fatto parte, io sono
quello che Spector ha fatto a pezzi e ho bisogno di chiudere il cerchio a
modo mio.
Ho bisogno che nessun altro sappia che schifo ho vissuto e che Anais
resti il più possibile all’oscuro della perversione di cui sono stato vittima,
quando ero poco più di un bambino.
La vita è strana. Cambia faccia un'infinità di volte, prima di mostrarti il
suo vero volto.
Un tempo temevo di non essere abbastanza perché qualcuno mi amasse;
adesso, invece, soffro per la paura di perdere colei che mi guarda come se
fossi il suo mondo.
La ragazza che amo più del mio prossimo respiro.
15.
Anais

Ha il mio cuore, oggi come ieri, ed è sempre stato capace di amarlo.

Tre giorni dopo è ora di tornare a casa, nel nostro quartiere, e anche se il
campus si trova a Los Angeles, vicino a San Diego, la vita da universitari ci
colloca in un mondo parallelo, senza interferenze esterne, come se
vivessimo in un altro Stato.
Le vacanze di Primavera sono arrivate e, mentre preparo una piccola
borsa in cui getto a casaccio qualche cambio, penso al momento in cui non
ho trovato Desmond nel mio letto, dopo la sua incursione in casa mia.
Come una stupida mi sono aggrappata a quegli attimi disperati,
abbeverandomene ingorda, ma non sto bene, è inutile dire il contrario.
Dall’istante in cui si è di nuovo allontanato da me, mi sono spenta; spero
ancora che trovi un’altra soluzione per tenermi al sicuro. Mi auguro che
Jeremiah lo lasci in pace e che possiamo tornare ad amarci senza
nasconderci. Che Violet sia davvero solo una vittima e che questa storia si
chiuda senza ulteriori danni oltre a quelli che ha già provocato, ma non
sono così ingenua da crederci davvero.

Digito veloce sul mio telefonino:

Dirò di noi ai miei genitori. Non voglio continuare a tenerglielo


nascosto. Vuoi esserci anche tu?

È un messaggio disperato, il mio. Fra tutte le cose che avrei potuto


scrivergli per tentare un approccio, ho buttato lì l’ennesima richiesta per
legarlo a me. Adesso, che siamo nel periodo di crisi più assurdo dai tempi
di Zach e che lui mi ha chiesto di fingere di esserci lasciati, lo sto mettendo
con le spalle al muro.
Sono una sciocca. O forse sono solo stufa di lasciar passare il tempo.
L’unica cosa che abbiamo sempre avuto dalla nostra parte e che adesso
sembra sfuggirci ed esserci nemico.
Ti chiamo fra dieci minuti, è la sua risposta.

Comincio a camminare avanti e indietro per la mia camera. Fuori soffia


un vento caldo che si infrange fra le chiome degli alberi. Qualche ramo
graffia sulla mia finestra e mi sento come quelle fronde agitate dall’aria.
So cosa succederà fra poco. Des mi dirà che vederci è un azzardo, che
devo dargli tempo –dannazione, ancora tempo! – e che devo cercare di
capire che anche per lui è una sofferenza starmi lontano, ma che lo sta
facendo per noi.
Le solite. Assurde. Parole. Che per Desmond hanno un senso e che per
me lo hanno perso quando la sofferenza ha cominciato a scavarmi dentro
fino ad arrivare al cuore.
Sono disposta a sentire tutto, ma esigo di guardarlo negli occhi per dargli
un ultimatum. Non sono più disposta ad andare avanti così.
Sto per chiamarlo, quando il telefono mi squilla fra le mani: è Des.
Rispondo con voce tremante e lui resta un attimo in silenzio, poi finalmente
parla e, come avevo ipotizzato, le prime parole che pronuncia non mi
piacciono per niente.
«Non puoi farlo, Anais. Non ora» mi intima.
La sua voce è incerta, sofferente quanto la mia mentre gli dico di
smetterla.
«Devo vederti» gli ordino. «Adesso. Vieni a prendermi. Andiamo in
spiaggia o dove vuoi tu… ma dobbiamo parlare.»
«Non ho l’auto, Anais. Ti prego, ragiona.»
«Perché non ce l’hai?»
«Me l’hanno rigata nel parcheggio» liquida la mia domanda, ma il suo
tono scende di un’ottava e si fa freddo. «Voglio ripararla prima di tornare
dai Davis.»
«Prendi quella di Brad.»
«Non credo sia il caso» risponde.
Sento la rabbia offuscarmi il cervello e una foschia cala davanti i miei
occhi, come se stessi davvero oltrepassando un banco di nebbia. «Ho
bisogno di parlarti, Des. Sei sordo o cosa?»
Ansimo e il silenzio dall’altra parte dell’apparecchio mi suggerisce che
stavolta l’ho colpito.
Impreca a bassa voce. «Ti mando un sms non appena arrivo al tuo
dormitorio» sibila. «Non scendere prima. Mi sono spiegato?»
«Sì» taglio corto. «Ti sei spiegato benissimo.»
Riattacca senza aggiungere altro e quella che fino a poco tempo fa avrei
giustificato con una freddezza simulata per proteggermi, si trasforma in
gelo. Sentito, architettato per ferirmi e farmi stancare di lui.
Be’, ci sta riuscendo, accidenti!
Mi preparo in fretta. Infilo un paio di shorts di jeans e un top bianco
lavorato a maglia. Infilo le Converse e lego i capelli in una coda di cavallo.
Mi guardo allo specchio. Il riflesso mi rimanda l’immagine di una ragazza
provata da notti insonni, ma non ho il tempo di fare nulla per le mie
occhiaie, perché il telefonino mi comunica l’arrivo di un messaggio.

Sono qui sotto.

Afferro la mia tracolla e mi precipito fuori dalla camera.


Bre e Faith stanno guardando assorte Il trono di Spade. «Sono con Des»
comunico loro.
«Va tutto bene?» mi domanda Bre.
«Te lo dirò quando torno» rispondo criptica e corro verso Desmond.
La prima cosa che noto appena uscita dal dormitorio è la sua auto
completamente distrutta. La fiancata sinistra è carteggiata e resto un attimo
impalata a osservare quello scempio.
Rigata un corno! Qualcuno ci ha messo le mani e ci è andato giù pesante.
«Le domande dopo, Anais» ringhia lui. «Muoviti!»
Mi scrollo di dosso la confusione e mi precipito nell’abitacolo. «Che
diavolo è successo?» Osservo il parabrezza crepato e mi guardo intorno alla
ricerca di altri danni, ma all’interno è tutto a posto.
«Jeremiah» sputa fuori. «E quella di vederci è una gran cazzata, Honey.»
Mi allaccio la cintura e resto zitta.
È arrabbiato, non è il momento di obiettare. Ingrana la prima e parte, il
suo sguardo resta concentrato sulla strada, il suo volto è impassibile; il
silenzio si dilata intorno a noi come succede sempre ultimamente.
Comincia a superare i veicoli più lenti, ma mano a mano che avanziamo
per le vie di Los Angeles, aumenta la velocità e il tachimetro supera il
limite consentito.
«Stai andando troppo veloce» cerco di farlo ragionare, ma sembra non
sentirmi.
«Rischiamo di provocare un incidente» insisto.
Scrolla le spalle e pigia il piede sull’acceleratore. Mi stupisco che
nessuna pattuglia della polizia ci sia già dietro, ma non sarà così ancora per
molto.
Mi gioco l’ultima carta. «Vuoi davvero mettermi in pericolo?»
«Dovrebbe importarmi a questo punto?» Stringe con forza il volante e
serra la mascella. «Ti metti in pericolo da sola ogni fottuto giorno, Anais.»
Un ulteriore sbalzo di velocità mi spinge verso il sedile e urlo. «Des,
rallenta! Sei impazzito?»
Mi accorgo che stiamo andando verso San Diego e, quando lui si chiude
in un ostinato silenzio, faccio lo stesso.
Vuole davvero guidare per quasi due ore?
«Dove stiamo andando?»
Non mi risponde e cala di nuovo il silenzio.
Vaffanculo! Può portarmi dove vuole!
Scivolo sul sedile e lo ignoro, guardando fuori dal finestrino.
Quando stiamo per arrivare a Mission Beach, mi raddrizzo. Non ci
dirigiamo verso la spiaggia, tutt’altro. Desmond guida verso il luogo che ha
sancito la nostra prima disfatta.
Sterza di colpo e si ferma, poi si gira verso di me e mi guarda,
ansimando.
«Hai guidato fin quaggiù, perché?»
«Non ci arrivi?»
Sì, ma non voglio rievocare quei ricordi.
«Non qui, Des. Ti prego» lo supplico.
«Continui a metterti in pericolo» ripete a bassa voce, poi mi attira a sé.
«Ti sembra un fottuto scherzo, Anais?» La sua mano dietro la mia nuca non
ammette tentennamenti, così lo lascio fare. È quello che voglio.
«Qui è dove abbiamo scoperto per la prima volta quanto si può soffrire
per la perdita delle persone che amiamo.»
Mi lecca in fretta le labbra, poi le schiude con la sua lingua. Il gemito
che mi risale dalla gola fa scattare qualcosa di primitivo in lui. Intensifica il
bacio e cerca di assaporare ogni lamento. Mi morde il labbro inferiore. Io
faccio lo stesso.
Il nostro è un incontro di bocche osceno e brutale. Rappresenta il modo
in cui ci sentiamo e restiamo così, a farci del male e a darci piacere per un
tempo che pare infinito, prima che si fermi ed esca fuori dall’auto,
passandosi le mani sul viso e fra i capelli.
«Cazzo!» ruggisce. «Non puoi davvero sperare che me ne stia tranquillo,
mentre rischio di perdere anche te.»
Chiude con forza lo sportello e comincia a camminare avanti e indietro,
tirando un calcio alla ruota, in seguito un altro più violento al paraurti,
finché non decido di raggiungerlo, prima che si faccia male.
«Basta!» urlo.
«Sta’ zitta, Anais!»
«Sei uno stronzo!» sibilo e mi asciugo una lacrima.
Non è il momento di frignare, ma vederlo così fuori controllo è sempre
un colpo al cuore.
«Sono venuta con te per parlarti, Des. Questa cosa ci sta uccidendo e sta
uccidendo ciò che proviamo l’uno per l’altra.»
«Che diamine…» Sussulta. «Questa cosa sta distruggendo ciò che provi
tu per me. Non mettere in discussione ciò che provo io per te. Non te lo
permetto.»
Fa due passi verso di me, mi afferra per un braccio e mi attira al suo
petto. «Ti rendi conto di cosa significhi ignorarti quando l’unica cosa che
vorrei è tenerti stretta a me, così?» sussurra, sporgendosi verso il mio
orecchio. «Non ho mai amato nessuno come amo te e ho il terrore che il
mio passato possa ripercuotersi su di te. Perché non riesci a capirlo? Quante
volte ancora dovrò ripetertelo, eh?»
Ogni volta che mi getta addosso i suoi timori, ho paura che stia per
lasciarmi davvero. «Cosa stai cercando di dirmi?» chiedo con prudenza.
«Dillo, Des. Perché tornando a casa dirò ai miei che ho un ragazzo, che
lo amo più della mia vita e farò loro il tuo nome.»
«Non vuoi proprio darmi tempo…»
«No. Ho bisogno di te. È questo che vuoi sentirti dire?» lo provoco.
«Be’, è così, Desmond Ward. Sono ancora dipendente da te. Non ho ancora
imparato a camminare sulle mie gambe.»
È una bugia bella e buona, lo sappiamo entrambi, ma è l’unica cosa che
mi viene in mente per riportarlo da me.
«Jeremiah» sibila. «Rovinerà tutto.» Scuote la testa e nel mentre mi
accarezza una guancia.
«Non rovinerà un bel niente, se stiamo insieme.»
Cerco di respirare normalmente, stringo gli occhi e poi li riapro,
sperando di guardare le sue iridi e vederci qualcosa che non sia più
rassegnazione.
«È così. Rovinerà tutto, Anais.»
Ne è proprio convinto e non so come fare a persuaderlo del contrario.
Fisso lo sguardo sul suo petto e penso, ma il mio cervello è in tilt.
«Dovresti dimenticarmi…»
«Cosa?» Alzo la testa di scatto. Che cosa diavolo sta dicendo?
I suoi occhi sono così pieni di dolore. Tendo una mano verso di lui e gli
sfioro la mascella.
«Non ho intenzione di dimenticarti. Né ora né mai. Ti amo» sussurro,
asciugandomi una lacrima.
Un’altra e stavolta il rischio che la diga si rompa è concreto.
«Cristo! Ti amo anch’io» sussurra Des e le sue mani si stringono intorno
alle mie guance. «Vorrei essere un altro. Un ragazzo normale, pulito, ma
non lo sono e questo… mi fa impazzire, dannazione!»
«Non importa. Non m’importa» lo imploro sulle labbra di porre fine a
questo tormento.
Scuote la testa e poi mi bacia come se fosse il nostro ultimo bacio, ma
per qualche strana ragione una scintilla di speranza si accende via via che la
sua lingua si avviluppa alla mia.
«Promettimi che staremo attenti» dice infine. «Promettimi che farai ciò
che ti dico, senza riserve. Anche quando il mio comportamento ti sembrerà
esagerato e illogico.»
Annuisco, in preda a una gioia immensa.
«Devi promettere, Anais. Voglio quell’uomo lontano, ma lo voglio
lontano da te più di quanto abbia sperato lo fosse per me stesso. Devi
aiutarmi, piccola. Devo trovare un modo per farlo fuori senza sporcarmi le
mani altrimenti potrò dire addio a te, al football, al nostro futuro. Lo
capisci? Devo restare lucido, ma non posso farlo se dovrò preoccuparmi
costantemente di te. Né lo farò se oserà torcerti anche solo un capello.»
«Farò tutto ciò che mi chiedi» lo interrompo. «Lo capisco, Des.
Davvero. Sono con te. Voglio uscire da questa storia. Voglio che ci
riprendiamo la nostra vita.»
«Devo parlare con Violet.»
«Non ne ricaverai niente» lo avviso.
Gli racconto dei nostri ultimi incontri e di quanto il suo atteggiamento mi
sia sembrato in contraddizione con le sue parole.
«Credo che lui riesca a manipolarla. Violet sa che ciò che sta facendo è
sbagliato, ma non può fare a meno di assecondare le voglie di Spector.»
Annuisce come se ne fosse convinto.
«Che bastardo!» ringhia.
«V. è dalla sua parte, non dobbiamo dimenticarlo.»
«Devo comunque parlarle» afferma.
«Non credi che se lo ignori prima o poi si stancherà e ti lascerà in pace?»
Mi sento una stupida a ipotizzare questo scenario, ma vorrei tanto che
annuisse e che fosse d’accordo con me. Che trovasse possibile ciò che ho
appena detto e allora forse mi sembrerebbe meno ridicolo.
«Ci credi davvero?» domanda invece.
Sospiro. «Non lo so. Mi sento ingiusta perfino a parlartene. Solo tu sai
cosa hai vissuto.»
Gli appoggio le mani sul petto e lo tasto all’altezza del cuore, laddove ha
un tatuaggio.

«Significa che bisogna imparare a convivere con la bestia che abbiamo


dentro» mi ha spiegato una volta.

Desmond deve la sua bestia a quell’uomo immondo e io vorrei


svegliarmi e scoprire che è stato tutto un brutto sogno.
«Promettimi solo che farai come ti dico e io ti prometto che risolverò
questa situazione… in un modo o nell’altro» aggiunge greve.
Non mi piace il suo piano, né il tono con il quale me lo illustra, ma
cos’altro potrei dire?
«Okay» lo rassicuro e lui mi bacia, stavolta dolce e lento, perché
abbiamo di nuovo tempo.
«Allora…» inizia, quando si stacca da me.
«Dovremo parlare col paparino, quindi…»
Sorrido. «Direi che è l’ora.»
«Già!» Mi stringe a sé e finalmente sorride sereno. «Direi anch’io.»
«Quindi sei davvero pronto per affrontare l’ira funesta di Matthew e
Sarah Kerper?» Inarco un sopracciglio e lo guardo divertita mentre finge di
pensarci, poi di rabbrividire.
«Prontissimo, piccola!»
«Bene!» chioso. «Perché sarà una lunga settimana per i miei. Eva gli dirà
che diventeranno nonni e forse, in fin dei conti, sapere di noi due insieme
gli sembrerà il male minore.»
«Ottimo diversivo» scherza Des. Poi si fa serio. «È bello che tu abbia
deciso di restare accanto a tua sorella.»
Anche se a quanto pare Abel ha promesso a Eva di restarle a fianco, non
lo conosco perciò non so se è quello che farà realmente.
«Faccio solo quello che farebbe qualsiasi sorella.»
Des annuisce e sospese fra noi restano mille altre parole. Non le
pronunciamo, ma sappiamo interpretarle alla perfezione: fino a poco tempo
fa non sarei stata quel genere di sorella.
«Sono orgoglioso di te» chiosa. Intanto mi prende in braccio e mi porta
verso il promontorio a cui sono legati i nostri ricordi più dolorosi.
«Costruiamone di nuovi.» Indovina i miei pensieri, mentre mi aggrappo
al suo collo e mi prendo il bacio più passionale che forse mi ha mai dato.
Mi infila le mani tra i capelli, sa di caffè e mi stuzzica con la lingua finché il
contatto diventa indecente. Quando si ritrae, ho il fiatone e il cuore
impazzito.
«Ti amo fortissimo, Anais Kerper.»
Di nuovo quella frase. Potente come allora.
Una brezza tiepida ci avvolge come una coperta calda e respiro sulle sue
labbra. «Ti amo fortissimo anch’io.»
Desmond Ward ha il mio cuore, oggi come ieri, ed è sempre stato capace
di amarlo alla follia.
16.
Desmond

La felicità non ci è dovuta. Possiamo lottare per conquistarla, ma se


ci viene donata, dobbiamo averne cura e goderne come fosse il più
prezioso dei regali.

Tornare a casa felice è una sensazione sconosciuta.


Di solito, se qualcuno mi attendeva, era per usarmi come sacco da boxe
o – più tardi – quando non ero più il figlio indesiderato ma un orfano, come
giocattolo per dare sfogo alle più sporche perversioni.
Non ho mai provato l’emozione di sentirmi parte di qualcosa, né la gioia
di sapere che qualcuno mi aspettava per riabbracciarmi, così, quando io e
Braden troviamo ad accoglierci Luc ed Elizabeth sulla soglia di casa, provo
l’una e l’altra cosa e mi sento felice, per un attimo completo. In questo
momento, se non fosse per lo spauracchio di Jeremiah che rannuvola il cielo
sereno sopra la mia testa, mi sentirei fottutamente grato alla vita.
Non appena entriamo all’interno della villetta a due piani, con
staccionata bianca e dondolo sotto il portico, l’odore di stufato mi solletica
l’olfatto. È lo stesso aroma che sentii quella prima volta, a casa dei Kerper,
la sera in cui arrivai nella loro famiglia, raccattato come un cane randagio.
Oggi, invece, percepisco di essere voluto e sinceramente amato, e questo lo
devo ai Davis.
Ceniamo intorno alla tavola che Liz ha apparecchiato come per le grandi
occasioni e mi diverto a prenderla un po’ in giro.
«Sai che abitiamo dall’altra parte della città, vero?»
«Sì che lo so.»
«E che ci siamo visti solo pochi giorni fa…»
«So anche questo» risponde piccata. «E allora?»
«E allora mancava solo la banda musicale ad accoglierci, mamma Liz.»
«È esagerato» mi dà man forte Brad e questa piccola donnina tutta cuore
si acciglia.
«Niente è esagerato per i miei ragazzi.»
Io e Braden ci scambiamo un’occhiata complice e Luc se la ride perché
sa già cosa stiamo per fare.
Ci alziamo entrambi e la abbracciamo, mentre lei si dimena fra le nostre
braccia ridendo, accusandoci di soffocarla.
La felicità non ci è dovuta. Possiamo lottare per conquistarla, ma se ci
viene donata, dobbiamo averne cura e goderne come fosse il più prezioso
dei regali.
Aiutiamo mamma Liz a rimettere in ordine e poi guardiamo la partita dei
Bolts.
«Stanno facendo un buon campionato, ma gli servirà un quarterback
l’anno prossimo» constata Luc.
«Nelson e Grey sono ancora in ottima forma» replico.
Lui sbuffa e prende un sorso della sua birra. «Nelson si è infortunato e la
ripresa non sta andando come speravano.»
Braden fa spallucce. «L’anno prossimo avranno Des.»
Come se la possibilità che mi lascino giocare al posto di un titolare sia
davvero concreta. «Cerchiamo di tenere i piedi ben piantati per terra,
okay?» mi sento in dovere di far loro presente.
Luc mi osserva in silenzio, poi anche lui scrolla le spalle. «Siamo solo
realisti, Des. Lavora sodo e vedrai se non avremo ragione.»
Ne ho tutta l’intenzione e mi sto spaccando la schiena per fare una bella
figura. Il coach Morris, l’allenatore dei Bolts, non lo dice, né trapela nulla
dal suo viso da sfinge, ma qualche volta l’ho beccato a lanciarmi occhiate
compiaciute in allenamento, quindi è inutile fare il modesto. A quanto pare
sono contenti della loro scelta e farò di tutto perché non se ne pentano.
È cambiato tutto così in fretta e a un tratto la responsabilità del mio
futuro mi soffoca.
«Esco a prendere una boccata d’aria.» Mi alzo e mi fiondo fuori.
Ho bisogno di stare un attimo da solo. Ogni tanto capita di sentirmi
sopraffatto dalle aspettative nei miei confronti, perfino da quelle che
anch’io ho su me stesso.
Specialmente adesso, che una mossa sbagliata potrebbe mandare tutto
all’aria.
La temperatura della sera è frizzante, pesco una sigaretta dal pacchetto
che Luc ha lasciato sul tavolino da caffè in veranda, e me la ficco in bocca
senza accenderla. Mi manca la nicotina e avrei voglia di aspirarne un po’
per trovare un breve conforto.
Lancio un’occhiata intorno a me. La schiera di villette di questo
quartiere è così curata, le loro luci scintillano e le palme costeggiano le
strade che si incrociano formando una T; finalmente mi sento abbastanza
lontano dal mio passato e da quel luogo che ha sempre rappresentato la
tomba di un vivo. La mia: Bakersfield.
È a più di tre ore da qui, ma potrei andare a cercare Jeremiah. Forse è
tornato in quella maledetta casa o forse, come mi ha detto Violet prima che
venissi a sapere che era il suo patrigno, abita qui, a San Diego.
Lavora al campus e la ditta di giardinaggio che l’ha assunto è del posto.
Non sono riuscito a farmi dire nulla quando sono andato a chiedere di lui.
Potrei tornare alla casa famiglia e domandare degli Spector. Potrei
inventarmi di volerli rivedere perché colto da un attacco di nostalgia, ma il
solo pensiero di rimettere piede in quella struttura mi provoca i brividi.
«Va tutto bene, figliolo?» Luc si richiude la porta alle spalle e mi viene
vicino.
«Sì, bene» rispondo distratto.
Fissa la sigaretta che mi pende dalle labbra. Credo mi stia per fare una
paternale, invece mi dice solo: «Hai bisogno di accendere?»
Al diavolo! «Sì» sospiro. «Grazie.»
Ne accende una per sé e poi mi passa l’accendino. Non appena aspiro la
prima boccata di fumo, mi sento immediatamente meglio.
«Era da una vita che non me ne facevo una.»
«Sì, be’, non riprendere l’abitudine» mi ammonisce Luc. «Cos’è
successo alla macchina?»
Avevo preventivato che me lo chiedesse. Era impossibile che non lo
notasse. Il carrozziere ha fatto un ottimo lavoro, ma la riverniciatura di una
Mustang del ’77 si nota.
«Un incidente» rispondo e spero che se la beva. «Ho sbagliato manovra
e ho strisciato un’altra auto.»
«Quindi quei fari sono originali…»
Merda! Non ci ho pensato.
Resto in silenzio. Cos’altro potrei dire?
Sono un coglione.
«Senti, Des» fa lui, portandosi a un palmo dal mio viso. «Ti sto dando
spazio, ma so che qualcosa non va e sto solo aspettando che ti senta
abbastanza tranquillo per parlarmene.»
«Ti ringrazio, Luc.»
«Ma…» mi blocca, alzando una mano. «Non prendermi per un idiota,
perché non lo sono.»
«Sissignore» rispondo immediatamente. Gli ho mancato di rispetto e
vorrei sotterrarmi per la vergogna.
«Hai problemi con qualcuno?»
«No» rispondo troppo presto, tanto da fargli assottigliare lo sguardo, in
cerca di un indizio.
«Sei nei guai?» insiste.
«No, te lo assicuro» enfatizzo e non faccio che peggiorare la situazione.
«Adesso vado a letto» cerco di congedarmi perché non reggo più il suo
sguardo. «È stata una giornata pesante.»
Spengo la sigaretta e lo osservo restare a fumare la sua, assorto.
«Va tutto bene, Luc. Te lo direi se non fosse così.»
Quante bugie, dannazione!
«Okay» dice stanco, sospirando. «Va’ a dormire, Des, ma lavati i denti
prima di dare la buonanotte a Elizabeth. Se scopre che ti ho fatto fumare
farà il culo a entrambi.»
Non mi ha creduto. La delusione che sento nel suo tono affranto mi
squarcia in due, ma non posso dirgli la verità. Non sono pronto. Ancora no.

Con Anais e gli altri, siamo rimasti d’accordo di passare una giornata in
spiaggia, così il mattino seguente mi sveglio presto per fare colazione con i
miei e poi mi preparo. Vorrei disertare con una scusa, andare a Bakersfield e
procedere con le mie indagini su Jeremiah, ma non posso dare buca ad
Anais. Ci siamo appena riavvicinati e voglio impegnarmi a rispettare la
promessa di non escluderla più. Al momento, la mia parola è l’unica cosa
che abbiamo insieme al nostro amore, e poi ho proprio bisogno di staccare
da tutto e di farmi una bella nuotata.
Il surf mi rende sereno, mi libera dai turbamenti e l’acqua è il mio
elemento, imprevedibile come lo è la mia vita, però riesco a controllarla.
Sono in sintonia con essa e questo mi riconcilia per un attimo con il mondo.
Mentre entro nella mia camera, mi rendo conto che sto fremendo per
porre fine alla mia assurda situazione e che le mie intenzioni, per quanto
avessi deciso di procedere cauto e senza colpi di testa, sono abbastanza
bellicose e prevedono sangue. Molto sangue.
«Hai la faccia di uno che pensa al suicidio.»
Brad compare nel mio campo visivo con l’aria corrucciata e il costume
da bagno fra le mani.
Mi affloscio sul letto e annuisco. «Più a un omicidio, a dire il vero.»
Inspira fra i denti. «Merda, Des! Non scherzare. Quell’espressione non
mi piace.»
«Quale espressione?»
«Quella.» Indica la mia immagine riflessa nel grande specchio a parete,
quello che sto fissando e dal quale guardo lui.
«Be’, sei in mutande, Braden. Non può certo migliorare. Va’ a vestirti,
cazzo.»
Cerco di sdrammatizzare punzecchiandolo, ma non se la beve e si
avvicina. La mia affermazione lo ha turbato.
«Vuoi andare a cercarlo, non è così?»
Abbasso gli occhi immediatamente e la mia reazione vale più di una
risposta.
«Al diavolo, Des!» impreca. «Dovremmo parlare con Luc, coinvolgere
la polizia…»
«Ti ho già detto di no.»
«Non puoi risolvere questa cosa da solo.»
«Voglio solo parlargli.»
«Certo, come no? Hai appena detto che…»
Lo guardo truce. «Pensi davvero che mi sporcherei le mani con una
feccia simile? Adesso?»
«Ti ha fatto troppo male» dice semplicemente. «Non riesci a
dimenticarlo. Dannazione, non ci riesco io e non sono stato danneggiato
quanto te!»
«Sto facendo di tutto per non pensarci. Grazie tante, amico.»
«Stai facendo di tutto per sminuire gli effetti che quel mostro ha avuto su
di te, invece. Ma devi farci i conti, perché dimenticare è impossibile,
fratello.»
«Come osi?» Stringo i pugni pronto a rinfacciargli per l’ennesima volta
quello che ho voluto accadesse solo a me. Sono così ingiusto e incattivito
che torno a guardarmi allo specchio e mi faccio schifo.
«Des, senti…»
«No.» Alzo una mano e blocco qualsiasi cosa voglia aggiungere.
«Finiamola qui e godiamoci questa giornata. Cerca di stare fuori dalle
mie decisioni. Hai detto che sono stato danneggiato ed è vero. Tu no e l’ho
voluto io, è vero anche questo. Devo farci i conti» aggiungo. «Lo sto
facendo a modo mio e tu devi lasciarmi fare.»
Il mio sguardo deve essere talmente duro, che il mio amico lo regge per
un po’, poi scuote il capo e molla il discorso. «Voglio che tu mi prometta
che se andrai a cercarlo me lo dirai.»
«Ti ho appena detto di starne fuori…»
«E io che non ne ho la minima intenzione. Prendere o lasciare, Des. Fai
una cazzata e corro da Luc per dirgli ogni cosa.»
«Cristo! Cosa abbiamo, cinque anni?»
«Risparmia il sarcasmo. Prendere. O. Lasciare.»
«Vaffanculo!» sbotto. «Usciamo di qui prima che ti faccia il culo.»
«Ah, ah!» Braden si allontana verso il bagno. «Adesso chi è che ha
cinque anni?»
17.
Anais

Il dolore più grande che una persona


può provare è quello di incolparsi
per tutto il male subito.

Rivedere i miei genitori è stato traumatico come credevo. Soprattutto


perché l’unica persona che mi avrebbe fatto piacere incontrare, Linda, ha
pensato bene di prendersi una settimana di ferie per tornare in Messico dai
suoi cari.
Sono andata a correre, stamattina. Fare il giro dell’isolato mi è mancato.
Da quando sono all’università faccio sempre meno attività fisica e, quando
rientro in casa, ovviamente, ho il fiatone.
Grazie, ciambelle, pizza e take away cinese. Grazie, voglia di mangiare
ritrovata.
Sorrido, perché devo ringraziarla davvero, nonostante qualche chilo a cui
adesso nemmeno bado più.
La porta d’ingresso cigola ancora, come parecchi mesi fa. Sul grande
tavolo all’ingresso ci sono le riviste in abbonamento di mia madre: il
manuale di giardinaggio, quello sugli eventi di Los Angeles e alcune di
moda per restare aggiornate sulle nuove tendenze del momento.
Il rumore dei tacchi alti di Sarah Middleton Kerper echeggia da qualche
parte al piano di sopra. Probabilmente si starà preparando per andare a uno
dei rinomati club a cui è tesserata, sfoggerà il suo cognome, i suoi abiti
griffati e uno dei nuovi gioielli con cui papà la vizia, ma prima faremo
colazione come una famigliola felice.
Vado verso la mia camera, mi faccio una doccia veloce e mi preparo per
scendere di sotto, pronta ad affrontare le domande dei miei amabili genitori.
Probabilmente non avrò neppure il tempo di finire la mia tazza di caffè
che partirà l’interrogatorio per stabilire se io e mia sorella non abbiamo
perso di vista i nostri obiettivi. La sola idea di stare a sentire le solite
prediche di mio padre e il tono accusatorio di mia madre mi innervosisce.
Per fortuna, Eva è arrivata poche ore dopo di me e averla accanto in questo
momento mi rincuora, anche se stiamo per affrontare una degna
simulazione dell’Apocalisse per via del fagiolino che sta crescendo dentro
di lei.
Mio nipote. Non posso ancora crederci.
Quando incrocio il suo sguardo, appena scendo l’ultimo gradino della
scala, so che anche per mia sorella il fatto che io sia qui è importante.
Mentre mi siedo al tavolo della cucina apparecchiato alla perfezione,
guardo mia madre, così rigida dentro il suo elegante tailleur verde bottiglia
(perché va di moda) e mi chiedo se siamo davvero sue figlie.
Voglio dire, se osservo mio padre, che in questo momento sta espletando
il consueto rito di lettura del suo quotidiano, non riesco davvero a capire a
chi appartengano i nostri geni.
«Secondo te siamo state adottate?» bisbiglio, intanto che mia madre
porta in tavola una brocca di succo d’arancia.
«Piantala!» ridacchia Eva.
«Allora…» Finalmente il Dottor Kerper mette da parte il giornale e ci
degna della sua preziosa attenzione. «Come stanno procedendo gli esami?»
«Cominci tu?» mi esorta Eva e la assecondo solo perché immagino che
per lei, al momento, gli esami siano l’ultimo dei pensieri.
«Bene. Devo prepararne un altro al mio rientro e sto seguendo un corso
di Letteratura grazie al quale acquisterò qualche credito.»
«E per il resto?»
Eva si schiarisce la voce. È la prima volta che mio padre si interessa al…
resto. È un cavolo di evento. Peccato, però, che il suo interesse arrivi nel
momento sbagliato, per cui mento.
Bugia numero uno.
«Tutto normale. Ogni tanto esco con Faith e Breanna, ma facciamo le
brave. Mangio» enfatizzo per fugare ogni dubbio, nel caso remoto in cui se
ne stesse preoccupando. «Studio, mi diverto… Sei stato universitario anche
tu, papà. C’è bisogno che ti specifichi altro?»
Appare un attimo spiazzato dal tono impertinente della mia voce e mi
aspetto che mi rimproveri, ma inspiegabilmente abbozza un sorriso e prende
un sorso del suo caffè. «No, immagino di no.»
Mia madre poggia un piatto di pancake davanti a noi, insieme allo
sciroppo d’acero e a quello al cioccolato; non appena ci gira le spalle, io ed
Eva ci scambiamo un’occhiata perplessa.
Lo sciroppo d’acero a tavola non è un’eccezione, per quanto ci abbia
sempre ordinato di usarlo con parsimonia, ma quello al cioccolato sì. I
pancake lo sono altrettanto e comincio a ipotizzare che mamma abbia
bevuto o sia sotto l’effetto di qualche droga. Per avere la prova del nove,
dovrei riempirmi il piatto e versarci su un’abbondante spruzzata di
sciroppo; assecondando la mia curiosità, lo faccio e lei non dice… niente.
Niente.
«Secondo me ha cominciato a drogarsi» bisbiglio ancora verso Eva, che
fa spallucce, e osservo mia madre che si costringe – nonostante gli sforzi –
a non ammonirmi.
«Hai appetito, vedo.» Mio padre sembra compiaciuto e gli regalo un
piccolo sorriso, annuendo e prendendo una forchettata dei miei pancake.
Bugia numero due.
«Sono buonissimi, mamma.» In realtà sono insapore, ma la provoco e lei
regge il gioco.
«Grazie, Anais.»
Che diamine succede?
Non so se sentirmi sollevata da questo cambio di atteggiamento o
inquietata da… questo cambio d’atteggiamento.
Accidenti! Non sembrano neanche più i miei genitori.
Il tempo che ci rimane per la colazione lo impieghiamo parlando del
tempo, di due nuove auto che papà vuole prendere per me e per Eva e del
fatto che alla fine di quest’anno ci regalerà un viaggio da fare insieme. Un
viaggio…
Wow! Cos’è accaduto in questa casa in nostra assenza?
Mamma è ancora un po’ rigida e meno spontanea rispetto a papà, ma
resta in silenzio e lo lascia fare. Ogni tanto abbozza perfino un sorriso che
le toglie dieci anni d’età.
È bellissima quando sorride. Se se ne accorgesse non farebbe altro da
mattina a sera.
Solo quando Eva si mette in spalla la borsa, mio padre nota il telo mare
che spunta fuori e il nostro abbigliamento. «Andate in spiaggia?»
«Sì» rispondiamo in coro.
«Con chi?» chiede mia madre.
«Con i ragazzi» rispondo distrattamente.
Non mi hanno ancora chiesto di Des, ma so che stanno smaniando per
sapere se anche lui è tornato a casa.
Dal canto mio, be’, non vedo l’ora di farglielo sapere.
«Faith e Bre…» risponde Eva.
«E Braden e Desmond» aggiungo io.
Noto che papà stringe la mascella. «A proposito di lui» comincia, ma lo
blocco subito.
«L’ho invitato a cena. Spero che non ci siano problemi.»
Come d’accordo, stasera è la sera. Quella in cui metteremo in chiaro le
cose con i miei genitori una volta per tutte.
«Cos’è quello?»
Mia madre mi afferra la mano e la maschera che ha indossato fino a un
attimo fa cade miseramente per terra.
«Un tatuaggio.»
«E quando te lo sei fatto?»
A Las Vegas, vorrei dirle. E rappresenta dei voti nuziali che un giorno io
e Des pronunceremo davvero, ma per l’ennesima volta mento.
«Nello studio di un tatuatore?» Inarco un sopracciglio, facendo del
sarcasmo.
Mio padre si schiarisce la voce e anche la sua maschera cade, mutando in
un reale sdegno. «Hai fatto il diavolo a quattro per diventare una
psicologa.»
«Cosa c’entra?» rispondo piccata.
«C’entra perché sarai un medico e l’immagine che darai di te ai tuoi
pazienti sarà il tuo biglietto da visita.»
«È un simbolo. Solo un piccolo segno sulla pelle.»
«Inammissibile» replica lui.
«Cosa?» sbotto. «Cosa è inammissibile, papà?»
«Che tu non riesca a prendere sul serio niente» urla.
Nella stanza cala un silenzio carico di recriminazioni. Fatico a trovare le
parole giuste per difendermi, non ne ho più voglia. Non sento neppure il
bisogno di piangere; in altre circostanze – e un tempo – l’unica necessità
che avrei avuto sarebbe stata quella di tagliarmi o ficcarmi due dita in gola
per rimettere i fottuti pancake col fottuto sciroppo d’acero ipocalorico di
mia madre, ma adesso ne avverto un’altra. Voglio Des. Desidero che mi
stringa al petto e che mi dica che va tutto bene.
Che io vado bene.
Che sto andando alla grande e che ho il pieno controllo della mia vita.
Giusto per ricordarmene, visto che la mia famiglia fa di tutto per
seppellire ciò che ho costruito in questi mesi.
L’altra sensazione, invece, quella che mi spinge a salire di sopra e fare
quello che ho sempre fatto, borbotta soltanto, poi si azzittisce del tutto.
«Sto lavorando sodo per realizzare il mio sogno» replico serena. «Non
sarà un tatuaggio a determinare la professionista che diventerò. Un giorno
te ne renderai conto e allora, papà, pretenderò le tue scuse.»
Voglio che vedano che non riescono più a turbarmi, ma dentro, in realtà,
sto ribollendo di rabbia.
Esco di casa e mi obbligo a non sbattere la porta dietro di me. Poco dopo
Eva mi raggiunge e al diavolo la calma! Vorrei urlare.
«Che stronzi!» esclama mia sorella.
Forse è indignata più di me.
«E il bello deve ancora venire» le faccio notare.
Lei fa una smorfia e si accarezza il ventre. «Abel sarà qui fra due
giorni.»
Come mi aveva già annunciato, il suo ragazzo ha insistito per essere
presente quando dirà ai miei del bambino e questo gli fa decisamente
acquistare punti ai miei occhi.
«Bene!» le stringo una spalla. «La supereremo.»
Des posteggia l’auto in fondo al vialetto proprio in questo momento. Il
finestrino è abbassato e posso vedere lo splendido conducente al suo
interno. Porta gli occhiali da sole e una semplice maglietta bianca che gli
valorizza il petto. I muscoli delle braccia si tendono, ora che stringe il
volante fra le mani. Dovrebbe essere tutto meno che affascinante, perché la
sua auto è un disastro e un tempo mi sarei soffermata su quel dettaglio, ma
lui ha la capacità di catalizzare tutta la mia attenzione e ne resto sopraffatta.
Come quella prima volta.
Come ogni volta.
L’orecchino che porta al lobo destro cattura il consueto raggio di sole e
brilla. Al suo fianco c’è Brad, dietro Bre e Faith, ma non riesco a staccare
gli occhi da Des.
Perché mi sta sorridendo e perché ogni volta che mi guarda le nubi
spariscono, così gli attimi di poco fa… puff!
Ci hanno insegnato che la sofferenza ha origine dal cuore, ma non è
sempre così. A volte la mente è la nostra peggiore nemica. Parte tutto da lì.
Ed è lì che il dolore cessa, se si vuole.
La mia è stata un gomitolo ingarbugliato di filo spinato, che si stringeva
intorno ai miei pensieri, soffocandoli. Quando ho trovato finalmente il
coraggio di recidere quei fili d’acciaio, mi sono sentita libera di volare, di
toccare ogni ferita sorridendo. Perché ero sopravvissuta.
La mia vittoria più grande è stata guardare il mio corpo e reprimere la
voglia di farlo a pezzi. E devo il cambiamento a Des, che ha guardato le mie
cicatrici, amando ciò che significavano. Prendendosi il brutto, sapendo di
dover solo aspettare che arrivasse il bello, certo che quest’ultimo ci fosse,
nascosto da qualche parte che non ricordavo più.
Non permetterò alla mia famiglia di riacquistare il potere di distruggere
tutto.
«Andiamo?» mi sprona mia sorella.
Mi riscuoto, la seguo verso il garage e getto un’occhiata a Des che
sembra accigliarsi. So che non gli va a genio il fatto che viaggi con Eva. Mi
vuole accanto, ma non ho voglia di fare a cambio con nessuno, mia sorella
potrebbe avere bisogno di me, la spiaggia è a pochi chilometri da qui e noi
due possiamo resistere separati ancora per un po’.
Prendiamo la Ford di Eva, quel catorcio che lei ama al punto che non ha
voluto mai cambiarlo. È per questo che, quando nostro padre ci ha detto di
volerci regalare delle nuove auto, non si è dimostrata entusiasta. Per me,
invece, sarebbe la prima macchina. Non ho mai avvertito il bisogno di
averne una, c’erano sempre qualche amico o il mio ragazzo, pronti ad
accompagnarmi ovunque. Ma adesso… adesso guidare fa parte di quel
processo di indipendenza che ho avviato.
Passiamo davanti alla villa dei genitori di Bryan e mi domando che fine
abbia fatto. La sua auto, perfettamente pulita e tirata a lucido, è
parcheggiata davanti al maestoso patio adornato di fiori; probabilmente
anche lui è tornato a casa per le vacanze, ma la cosa non mi turba più, non
nel modo in cui mi avrebbe turbato un tempo. Per ricordarmene sfioro
qualcuna delle cicatrici che ho sulle braccia. Non sono più la ragazza
remissiva di una volta e, dopo quello che ha tentato di farmi e la reazione di
Des, dubito che sarebbe così stupido da riaprire quel capitolo.

«Ti incastrerò, figlio di puttana! Ti conviene cancellare quell’audio e, se


c’è un video, ficcartelo su per il culo. Se solo osi divulgarli, ti verrò a
cercare, Miles, e nessuno troverà più la tua patetica carcassa.»

Fremo ancora di rabbia al ricordo, ed Eva sembra accorgersi che il mio


umore cambia.
«Lo hai più rivisto?»
Quando abbiamo parlato al campus, le ho raccontato del piano di Bryan
e di come quest’ultimo stesse quasi per distruggermi la vita; non ho alcun
dubbio che mia sorella strozzerebbe il mio ex se lo vedesse, per questo non
mi stupisce la nota incolore che dà alla sua domanda.
Le rispondo con lo stesso tono glaciale. «No. E farebbe bene a starmi
lontano.»
Se non fosse stato per Faith, che ha registrato la sua confessione, a
quest’ora sarei rovinata per sempre.
Non ci accorgiamo di aver rallentato, finché Des non ci affianca e allora
ci fermiamo.
«Va tutto bene?» chiede dalla sua auto.
Respira pesantemente. I suoi occhi scuri sono concentrati su di me,
tempestosi, poi getta un’occhiata sprezzante alla casa.
So a che cosa sta pensando. Ignoro cosa abbia fatto poi Des con quel
video, se ogni traccia è realmente sparita o se da qualche parte è rimasta una
copia che può finire in rete da un momento all’altro, ma Des allora mi ha
promesso che sarebbe andato tutto bene e io gli credo ancora.
«Non lo so, Ward. Dimmelo tu.» Cerco di stemperare la tensione che ci
striscia addosso, provando a fare dello humour e la sua bocca finalmente si
allarga in un sorriso.
«Fottutamente bene, Kerper. Tu?»
«Fottutamente bene, Ward!»
«Bleah!» esclama Bre. E chi potrebbe essere se non la mia cinica e
disillusa amica?
«La smettete? Mi farete venire il diabete. C’è troppo miele in questa
compagnia.»
Mette il broncio ed Eva rincara la dose di zucchero. «Fra poco arriverà il
mio amore. Dio, quanto mi è mancato!»
«Argh! Voglio scendere. Verrò a piedi.» Fa per uscire dall’auto, ma Des
fa scattare le sicure e scoppiamo a ridere di fronte al goffo tentativo di Bre
di uscire dal finestrino.
Sembra incazzata, inveisce contro tutti, ma in realtà non lo è. È tornata a
essere la solita Breanna e questo ci dà sollievo, perché in quest’ultimo
periodo, come se non bastasse il resto, ci siamo preoccupate anche per lei.
Arriviamo in spiaggia che sono ormai le undici. Il sole è alto e picchia
forte sulla nostra pelle. Le onde sono alte e i ragazzi urlano di gioia alla
prospettiva di fare del magnifico surf, ma Liam riceve una telefonata e i
nostri piani vengono scombinati.
I suoi genitori si sono separati da poco e suo padre ha deciso di mollare
l’attività che aveva a Chicago per aprire un bar a San Diego. Si trova
sull’altro lato della spiaggia e sta andando alla grande, ma pare che due dei
suoi dipendenti oggi gli abbiano dato buca. È in difficoltà e ha chiesto
l’aiuto del figlio.
Per noi un posto vale l’altro purché stiamo un po’ insieme, così
decidiamo di andare con lui e aiutarlo.
Prendiamo immediatamente confidenza con il posto: è delizioso. Grande
ma in qualche modo intimo. Ha un’ampia veranda di legno bianco che si
affaccia sulla spiaggia, dove i clienti possono consumare drink e dell’ottimo
cibo. Io e Faith ci mettiamo a servire ai tavoli e i ragazzi si danno da fare a
preparare coppe di frutta e cocktail dall’aspetto elaborato. Breanna ed Eva,
invece, se la godono in spiaggia. Non avrei permesso a mia sorella di
lavorare comunque e noi siamo già un numero sufficiente per organizzare al
meglio il lavoro. Il padre di Liam si occupa della cucina e i suoi occhi
brillano ogni volta che si posano sul figlio.
Non so quale sia il motivo della sua separazione, immagino possa
accadere che l’amore si spenga pian piano e che non ci sia più nulla da fare
per riaccenderlo, ma per lui non dev’essere un bel momento. Lo ipotizzo
perché ha deciso di mollare tutto e ricominciare in un altro posto, dove
forse i ricordi lo tormenteranno di meno.
«Credo che farò una pausa» mi dice a un certo punto Faith, guardando
verso il bar.
Seguo il suo sguardo corrucciato e mi accorgo che c’è una fila di donne
in bikini che cercano di attirare l’attenzione dei ragazzi.
Per quanto la scena mi faccia innervosire, non posso biasimarle. Des,
Liam e Braden insieme sono una visione mozzafiato.
Poggio l’ultima ordinazione sul tavolo di un cliente particolarmente
zelante e seguo la mia amica verso il bar. Comincio a fremere di rabbia,
quando noto Desmond sorridere a un paio di ragazze, mentre armeggia con
la frutta e i liquori. Non sono mai stata gelosa. Non lo ero di Bryan, ma con
Des questa debolezza viene fuori, violenta. E poi la scena mi ricorda la sera
della festa e quanto il suo autocontrollo sia fragile in questo periodo.
Mi avvicino e lui mi guarda cauto. Gli passo dietro e lo urto poco
gentilmente, con la scusa di prendere due bicchieri.
Non dico nulla.
Non faccio altro perché mi sento ridicola.
Non sta facendo niente di male. Sta solo svolgendo al meglio il compito
che gli hanno assegnato, ma se guardo le ragazze che gli ronzano attorno,
non posso che constatare quanto siano belle. Hanno un fisico straordinario,
sul loro corpo non c’è neanche un segno e Desmond si meriterebbe una
perfezione del genere.
Resto impalata lì, dandogli le spalle, con gli occhi serrati, inspirando ed
espirando per calmarmi, fino a quando una mano che conosco bene non
strappa un bicchiere dalla mia presa.
Sbatto le palpebre per la sorpresa e mi ritrovo a fissare uno sguardo
glaciale.
Desmond mi sta fissando attentamente e i miei occhi non riescono più a
liberarsi dai suoi.
«Che cosa c’è?» domanda piano.
Indietreggio appena e lo guardo storto.
«Assolutamente niente» rispondo.
«Assolutamente, eh?»
Mi sta prendendo in giro ma non ho voglia di sorridergli e, anche se sto
facendo i capricci come una bambina, non riesco ancora a tenere a bada il
senso di inadeguatezza che qualche volta mi bracca.
Mi afferra per un braccio e mi trascina sul retro. Qui siamo soli. La sua
mano calda si poggia sul mio viso, mi stringe il mento con dolcezza e mi
obbliga a guardarlo.
«Sei la creatura più bella che abbia mai visto, Anais Kerper.»
Deglutisco. Riesce a leggermi dentro come nessun altro. Il suo viso è
così serio e determinato che non ho il coraggio di confutare le sue parole.
Mi prende una mano e mi alza il braccio, poi posa un bacio lieve su una
cicatrice al suo interno e rabbrividisco.
«Ti prego, Des. Non qui» lo supplico.
«E allora smettila o ti venererò ogni volta che le tue insicurezze
minacceranno di tornare a galla e fanculo il pubblico che avremo a
guardarci, Honey! Non m’importa.»
«Meriteresti una di quelle ragazze» sussurro.
«Col cazzo!» ribatte. «Dio mi ha dato te. Sono io che non sono sicuro di
meritarti.»
«Des» provo a obiettare, ma lui mi tappa la bocca con un bacio famelico
che mi fa perdere la testa. Dimentico le ragazze poco distanti da noi.
Dimentico che il padre di Liam è qui da qualche parte e potrebbe vederci e
mi lascio trasportare nel mondo di Desmond Ward.
Un mondo che il più delle volte è meraviglioso. Un mondo di cui mi ha
fatto regina.
«Sei completamente matto» lo ammonisco, sorridendo sulle sue labbra,
tuttavia interpreta male la mia frase e torna a baciarmi. Mi dà un bacio vero,
intenso, fuga ogni dubbio in un istante.
«Faccio sul serio, Anais.» I suoi occhi brillano di determinazione. «Mi
piaci così. Mi piaci tutta. Dio, guardami! Impazzisco per te, piccola. Che
cosa non ti è chiaro?»
Riesco solo a scuotere il capo e lui mi attira a sé. «Dimmi che hai
capito.»
«Sono un disastro. Prima o poi ti stancherai di dovermi rassicurare»
piagnucolo contro il suo petto.
«Mai. Sono io che ho combinato un casino. Ti chiedo scusa, ma adesso
sono qui. Sono di nuovo qui e non ho intenzione di andarmene.»
Chiudo forte gli occhi e sospiro, appagata dalle sue parole e dalla
fermezza con la quale le pronuncia. Mi accarezza il volto, la sua
espressione si rabbuia e mi chiedo a che cosa stia pensando.
«Mi sarebbe piaciuto essere stato la tua prima volta, Anais Kerper.»
È evidente che con “cancellare tutto” intenda anche il mio rapporto con
Bryan e lo capisco, perché se penso a ogni donna che l’ha toccato e al
mostro che lo ha rovinato, vorrei far svanire ogni esperienza dalla sua
mente e trasformarla in un foglio bianco da colorare.
«Lo sei stato, Desmond Ward. Sei stata la mia prima volta perfetta. E
sarai senz’altro l’ultimo amore della mia vita.»
Inspira pesantemente. «Cristo, Honey!»
I suoi occhi scintillano di un’emozione profonda e mi bacia fino a farmi
sciogliere, ma Braden e Liam interrompono l’idillio.
Quest’ultimo si schiarisce la voce, in mano regge il telefonino del mio
ragazzo e io mi risistemo i capelli, imbarazzata.
«Scusa, ma continua a squillare, amico. Deve essere importante.»
Desmond lo afferra, mi bacia in fronte e si allontana da me.
«Torno di là» lo informo, poi raggiungo Faith che sta riordinando prima
della chiusura.
È ormai sera. La giornata è volata. Aiutare Liam nel bar del padre è stata
una bella esperienza e si respira un’aria serena. Bre e Faith sono salite dalla
spiaggia e aspettano che finiamo, sorseggiando degli analcolici. I clienti
sono perlopiù andati via. È rimasta solo una coppia che chiede il conto, e
solo adesso realizzo che i ragazzi sono ancora sul retro. All’improvviso,
però, un urlo e uno schianto ci fanno correre verso di loro.
La scena che ci troviamo davanti sembra scomporre solo noi ragazze:
Liam e Brad trattengono Desmond per le spalle. Il mio sguardo si sposta
poco più in là, su un telefonino a pezzi. Deve essere stato quello a produrre
il rumore che ci ha allarmate.
Il padre di Liam esce dal suo ufficio e ci raggiunge. Desmond è
sconvolto, il viso stravolto dalla collera. Sulla sua maglietta c’è uno
squarcio all’altezza del cuore, probabilmente causato dai ragazzi nella foga
di tenerlo a bada. Dalla sua mano fuoriesce del sangue e Faith si affretta a
prendere uno straccio per fermare l’emorragia.
Non riesco ad avvicinarmi, vorrei farlo ma mi tremano le gambe.
Cos’altro è successo?
Che cosa lo ha sconvolto così tanto?
Fisso i volti di ognuno dei presenti: appaiono rassegnati, come se
avessero a che fare con questo Desmond spesso e realizzo che è davvero
così. Che li ha abituati a queste scene. Che li abbiamo costretti ad assistere
ai nostri alti e bassi, pur non raccontando loro abbastanza perché capissero
ciò che ci ha travolti.
Non so che fare, così mi affretto ad andare nel bar per prendere del
ghiaccio.
Quando torno, Faith lo sta medicando. Des tiene lo sguardo basso, ma
respira in maniera furiosa. È ancora lontano dal calmarsi e dovrei esserci io,
accovacciata ai suoi piedi a prendermi cura di lui, ma ho paura di quello che
scoprirei parlandogli.
«L’ha fatto di nuovo.» La sua voce è cavernosa e lontana. Non si sta
rivolgendo a nessuno di noi, parla con se stesso, incredulo, arrabbiato…
deluso.
Ognuna di queste sensazioni dipinge le sue parole.
«Sapevi che sarebbe successo.» Il primo a parlare è Brad, che gli si
avvicina cauto, ma lui sembra non ascoltarlo.
«Di nuovo… Quel bastardo l’ha convinta a firmare le dimissioni e
lasciare l’ospedale. Merda!» impreca alzandosi. La sedia cade all’indietro,
provocando un tonfo sordo.
«Avrei dovuto ammazzarlo quando ne ho avuto la possibilità.
Dannazione, è assurdo!»
Non capisco il suo discorso, non so a chi si riferisca. C’entra Jeremiah,
ma chi è l’altra persona di cui parla?
Brad gli si avvicina e gli sfiora una spalla. «Des… vuoi che andiamo da
lei?»
Lui non si muove, ma annuisce senza guardarlo negli occhi.
«Okay, allora. Andiamo a vedere come sta.»
Braden recupera le chiavi della sua auto e insieme a Liam lo scortano
fino all’uscita.
«Che succede?» trovo finalmente la forza di chiedere. Des posa i suoi
occhi su di me e li riabbassa subito.
«Violet. Jeremiah l’ha… Cristo!» impreca.
Liam dice qualcosa a suo padre, poi si rivolge a Braden. «Aspetto una
tua chiamata. Non lasciarlo da solo.»
L’altro annuisce e trascina Desmond verso l’uscita, sottraendolo a ogni
mia domanda, ma non ne avrei avute altre da fare. Sono sconvolta.
Quando la porta del locale si richiude dietro di loro, il silenzio che cala
su di noi sembra irreale.
È Liam il primo a parlare, mentre suo padre si dilegua nel suo ufficio,
lasciandoci un po’ di privacy.
«Si tratta di Violet. Hanno chiamato da un ospedale di Bakersfield. A
quanto pare lei gli ha dato il numero di Des.»
«Perché?»
È l’unica cosa a cui riesco a pensare e questo fa di me una stronza.
«Non lo so.»
Non so che cosa sappia Liam del passato di Desmond e per questo non
aggiungo altro.
«So tutto» m’informa. «Mi ha raccontato per sommi capi che cosa ha
fatto loro quel bastardo.»
Ecco perché hanno perso così tanto tempo qui dietro. Desmond si è
fidato di Liam e allora lo faccio anch’io.
«È successo ancora. Per questo è così sconvolto?» gli chiedo.
«Giusto stamattina. Pare che l’abbia picchiata e che… Hai capito»
ringhia quasi. «Quel bastardo si è presentato in ospedale come suo padre e
l’ha costretta a firmare le dimissioni e tornare a casa.»
Liam si appoggia al bancone e scuote la testa. «Con lui, capisci? E il
tutto è avvenuto mentre l’infermiera informava Des del ricovero di Violet.»
Non riesco a immaginare cosa debba significare fronteggiare una
situazione del genere. Essere catapultati indietro, in mezzo al lerciume che
Jeremiah Spector rappresenta per questi tre ragazzi.
Dio, qualsiasi ragazzo sarebbe diventato uno sbandato, si sarebbe
piegato alle leggi della strada e si sarebbe crogiolato nella scusa di non
avere una guida, ma non Des. Lui, al contrario, si è forgiato al meglio per
colpire a muso duro la vita che lo ha messo alla prova.
Il dolore più grande che una persona può provare è quello di incolparsi
per tutto il male subito. Io mi ferivo per quello, perché mi sentivo
immeritevole, inadatta, fuori posto. Ogni decisione di mio padre e ogni
parola di mia madre andavano a segno come fossero verità assolute e
piegavano la mia autostima come metallo fuso, plasmandolo a loro
piacimento fino a farmi diventare un’ameba. Ma per Desmond è stato
diverso. Lui ha sempre saputo che faccia aveva il suo male, da quale parte
stava la verità e quale fosse il modo per combatterla.
Ha sempre saputo che l’unico modo per sconfiggere il mostro era
diventare un mostro a sua volta.
18.
Desmond

Il suo volto è scavato e trasformato dal delirio, il suo corpo


consumato e la sua anima… semplicemente lontana, troppo lontana.

Bakersfield. Abbiamo guidato per più di tre ore e la mia rabbia non è
scemata di una tacca.
La macchina di quel bastardo è parcheggiata lungo il vialetto. C’è solo la
luce della cucina accesa, per il resto la casa è al buio.
Questa casa…
Quante volte l’ho rivista nei miei incubi?
È ancora la stessa, non è cambiato niente. C’è perfino quel buco che io e
Brad abbiamo aperto nella rete di recinzione, quando scappavamo di notte
per respirare un po’ d’aria pulita. Quando il rischio di soffocare era
concreto. Quando l’unica soluzione a cui pensavamo era quella corda, nel
garage del nostro paparino, legata al nostro collo e che poteva porre fine ai
nostri incubi.
Brad ferma la mia auto e io apro subito la portiera, ma lui mi afferra per
un braccio. «Vengo con te.»
«Non è necessario» sibilo.
Fatico a riconoscere la mia voce. Sono fuori di me, ma va bene. Va
fottutamente bene, perché stavolta non ho intenzione di seguire la ragione.
Mi libero dalla sua stretta, ma Braden scende dalla macchina e mi si para
di fronte. «Non puoi affrontarlo in questo stato.»
«Non posso più aspettare. Lo voglio fuori dalla mia vita.»
«E come?» Il mio amico cerca di farmi ragionare, tuttavia vedo ancora
rosso. «Rischi di ucciderlo se non ti calmi.»
«Forse è proprio quello che voglio fare» ammetto con un ghigno e la
cosa più spaventosa è che lo penso davvero.
«Merda, Des!» Braden mi afferra per le spalle e mi costrinse a guardarlo.
«Che cazzo dici, amico?»
Siamo cresciuti insieme. Stessa casa famiglia, stessi problemi, stessi
drammi e stessa anima ferita. Ma in questo momento mi sembra di guardare
un estraneo.
Con il capo indico la casa degli orrori. «Te la ricordi, non è vero?»
Lui deglutisce, abbassa gli occhi sulle sue scarpe, poi scuote la testa e
butta fuori l’aria.
«Ecco cosa faremo.» Mi parla e io continuo a osservare quella finestra
accesa.
«Verrò con te e cercheremo di parlare con quel bastardo.»
Che cazzo sta dicendo?
Gli scoppio a ridere in faccia. «Questa sarebbe la tua soluzione?»
«Siamo in due» puntualizza. «Ci starà a sentire.»
«Io non voglio farmi sentire proprio per un cazzo» ribadisco.
Sento la rabbia scorrermi sotto pelle, non riesco a fermare il tremito che
mi scuote il corpo. Sono un fascio di nervi e non sono lucido.
«Vuoi vendetta» constata. Nemmeno gli rispondo.
«L’ho lasciato vivere, mentre apriva in due il culo di un ragazzino, Brad.
Mentre si prendeva tutto quello che di innocente mi era rimasto.»
Deglutisce di nuovo e osservo i suoi occhi cambiare, riempirsi di
lacrime.
«L’ho lasciato vivere, anche quando me ne sono andato da qui, a pezzi,
lasciandogli i miei sogni in cambio di un corpo abusato nel peggiore dei
modi.»
Ansimo e stringo i pugni fino a conficcarmi le unghie nella carne. «È
tornato e ho saputo che nel frattempo ha continuato a violare altri ragazzini.
Violet, la figlia della donna che avrebbe dovuto amare e a cui continua a
fare del male.
Vuole spedirmi all’inferno e vuole trascinarci dentro tutte le persone che
amo. Credi ancora che speri mi stia a sentire?»
Ha il buongusto di non aggiungere altro, ma so che non è d’accordo con
nessuna delle cose che ho deciso di fare da quando Jeremiah è ripiombato
nella mia vita.
Saliamo i dodici gradini che portano all’ingresso e cerco sotto la statua
di un nano la chiave della porta. Dovrebbe essere qui, se le abitudini di quel
porco non sono cambiate, e infatti la trovo e la stringo con fervore.
Basterebbe una semplice spallata per sfondare questa porta, ma decido di
essere civile e mostrarmi calmo.
Parleremo, sì. Poi, però, lo picchierò a sangue e ringrazio Dio che
Braden sia con me, perché se fossi solo forse non riuscirei a fermarmi.
Non appena entriamo, mi coglie una nausea improvvisa. Niente è
com’era. È cambiato tutto, ma la sensazione è la stessa di allora.
A quel tempo ero in prigione, ed è così degradante essere di nuovo qui
che vorrei voltarmi e andare via. Fuggire. Come non ho potuto fare anni fa.
Il soggiorno è vuoto. Sul divano, ora consunto, non c’è nessuno. Il
tavolinetto da caffè è pieno di bottiglie vuote e di cibo andato a male. Noto
un portacenere stracolmo di cicche spente.
Mi dirigo nella camera da letto che Jeremiah condivideva con la madre
di V., ma anche questa è vuota. Deduco che, dopo quello che le è successo
in queste ore, Violet stia riposando nel suo letto, invece no. Quando apro le
porte delle altre camere, non ci trovo nessuno. Quando spalanco quella della
stanza che condividevo con Brad, invece, una marea di flashback mi salta
addosso in modo confuso e un altro conato di vomito mi risale dalle viscere.
Supero a grandi passi Braden, che mi sta seguendo in silenzio. La
parvenza di calma che mi sono cucito addosso scompare e la rabbia
comincia a montare dentro di me finché vedo rosso. Mi dirigo in cucina e ci
trovo lui, il bastardo, intento a tirare una striscia di coca. Lo faceva anche
allora, nel suo merdoso garage, prima di… Puah!
Non riesco a visualizzare alcun ricordo senza sentire la necessità di
strapparmelo dalla mente.
Dall’altro lato del tavolo Violet lo osserva con lo sguardo spiritato, i
capelli aggrovigliati in una massa informe e una vestaglia lurida che copre a
stento la sua nudità.
È nuda, dannazione!
E mando a puttane il mio proposito di non fare nulla di avventato.
Sono entrambi talmente fuori, che non mi hanno sentito aggirarmi per
casa.
Mi lancio su di Jeremiah, imprecando. Non ha modo di parare il colpo
che gli sferro, è troppo sballato, così cade all’indietro e ne approfitto per
sfogare la mia furia su di lui.
Il secondo pugno che gli assesto produce un rumore terrificante. Gli
rompo il naso. Caccia un urlo disumano e il sangue comincia a uscire
copioso, imbrattando le mie mani serrate intorno al suo collo.
È lo stesso sangue di allora, stavolta su mani da adulto.
«Lurido figlio di puttana, ti ammazzo!»
Braden cerca di allontanarmi da lui, ma non ci riesce, perché voglio
finirlo e buttare il suo inutile cadavere in mare. Voglio darlo in pasto ai
pesci. Voglio che di Jeremiah Spector non resti più nulla.
«Des, dannazione, amico!» È la voce di Brad, il suo tono addolorato, la
concitazione che usa a indurmi a voltarmi.
Se ne sta accanto a Violet, che si è rintanata sotto il tavolo. Quest’ultima
piange e trema, sembra una bambina impaurita e torno indietro negli anni, a
quando io ero solo un bambino in balìa dell’orco.
Ripenso alle sue luride carezze, alle favole della buonanotte dopo avermi
violato e al suo sorriso tronfio, quando al mattino mi metteva sul pulmino
per andare a scuola e mi vedeva sussultare non appena mi sedevo sui sedili.
Faceva male, dannazione! E lei ha ricevuto le stesse merdosissime
attenzioni.
Vorrei correre ad abbracciarla, perché la pena che provo per Violet è la
stessa che ho provato per me tutto il tempo che ho vissuto in questa
maledetta casa.
Mi getto di lato, portandomi le mani insanguinate sul volto. Guardo il
corpo riverso accanto a me. Respira ancora, ma se non ci fosse stato Brad…
«Cazzo!»
Cosa stavo per fare?
Stavo per diventare un assassino.
I singhiozzi di V. sono l’unica cosa che riempie il silenzio di questo
posto lugubre come i gesti dell’uomo che ho quasi ucciso per ben due volte.
Quelli e i rantoli di dolore che emette Jeremiah.
Osservo la ragazza con la ciocca rosa che un tempo è riuscita ad
avvicinarmi. Adesso capisco il perché di quella strana connessione, ma
ormai è troppo rovinata. Rischio di rovinare me stesso, a furia di combattere
affinché lui non ci riesca con me, ma non c’è riuscito allora e non
permetterò che la sua perversione mi colpisca adesso.
«Cosa possiamo fare?» mi chiede Brad.
Voleva esserci. Eccolo accontentato! Ho un compito per lui. Un compito
che non gli assegnerei se Jeremiah non fosse svenuto.
«Potresti portarlo in ospedale? Puoi dire che lo hai trovato per strada e lo
hai soccorso» farfuglio, poi sospiro stanco. «Non lo so, Brad, ma ha
bisogno di un medico.» Indico Violet. «E io non posso lasciarla da sola.»
Annuisce e trascina Jeremiah verso la porta. Dovrei aiutarlo. Il bastardo
peserà almeno novanta chili, ma non posso toccare questa feccia, così
osservo il mio amico caricarselo in spalla con fatica e sistemarlo in
macchina. Poi partire e andare via dopo essersi assicurato che per me va
tutto bene.
Non va affatto bene, ma in qualche modo dobbiamo uscire vivi da questa
notte.
Quando l’auto scompare in fondo alla strada, mi domando se non ho
fatto una cazzata.
E se si svegliasse? E se facesse del male a Brad?
Ma poi realizzo che non è più un bambino: è grande e grosso. E
Jeremiah l’ho quasi ammazzato. Al momento è del tutto inoffensivo, quindi
mi avvicino al tavolo e porgo una mano alla ragazza sopraffatta dal dolore e
dalla droga, ma lei osserva il mio gesto senza vederlo, così mi piego e la
afferro per un braccio.
È ancora scossa. Ha la guancia tumefatta e il naso sporco della polverina
bianca che giace ancora sul tavolo, in una striscia mezza consumata. Il suo
corpo è attraversato da tremiti e sta sudando freddo.
Ne so abbastanza per capire che è strafatta e che sarà una lunga nottata.
La accompagno in quella che era la mia camera. Non so quale sia la sua,
deve averne una, ma non ho voglia di mettermi a curiosare in giro per casa.
La metto a letto e solo quando le volto le spalle per andare in salotto, mi
dice qualcosa.
«Mi dispiace, Des.»
Ancora. Sempre e solo “Mi dispiace”.
Resto impalato, con la mano sulla maniglia, incapace di ribattere. Faccio
finta di non sentirla perché non credo a una sola parola di ciò che dice,
eppure stasera ho visto lo stesso lato fragile e oltraggiato che è dentro di
me, che io vivo con rabbia e lei con rassegnazione. Come se fosse
ineluttabile per Violet rispettare il suo carnefice al punto da proteggerlo. È
inconcepibile, ma adesso so perché dipende dal mostro. Le procura la
droga, è questa in realtà la dipendenza di Violet. E io non me ne sono
accorto prima.
Riesco a dormire per un paio d’ore prima che i suoi gemiti mi sveglino.
Mi sono appisolato sulla poltrona malridotta della mia vecchia camera.
Quando riapro gli occhi, Violet è raggomitolata e si sta tenendo lo stomaco.
Si contorce dal dolore ed è fradicia di sudore.
Mi avvicino per cercare di scaldarla, ma è rigida e fredda come un
cadavere.
«Ti prego.» Due parole che mi continua a ripetere come una litania.
«Dammene un po’.» Ma è una preghiera che non posso esaudire.
Alle prime luci dell’alba sono ormai a un passo dall’uscire di casa per
cercarle la roba. È straziante vedere una ragazza così dilaniata dalla sua
dipendenza. Il suo volto è scavato e trasformato dal delirio, il suo corpo
consumato e la sua anima… semplicemente lontana, troppo lontana.
Non l’avrà più indietro, ma almeno posso tentare di salvarla da una
morte certa. Questa speranza mi fa perseguire l’intento di tenerla a galla,
per cui me ne resto immobile, seduto sulla poltrona con le molle saltate,
lurida come le pareti un tempo tinte di azzurro e nuvole bianche, ad
aspettare che passi.
Che le passi.
Che mi passi.
Ma come cazzo può passare tutto questo?
19.
Anais

Andremo sempre in questa direzione:


io verso Des e lui verso di me.

Nei giorni seguenti non vedo Des e nessuno sembra volermi dare sue
notizie. Braden si è chiuso in un ostinato mutismo e tutte le volte che mi
sono spinta fino alla casa dei Davis, mi ha pregato di andare via,
rassicurandomi che Desmond verrà da me quando le acque si saranno
calmate.
Non capisco quali acque abbia agitato e smanio di saperlo. Voglio stargli
accanto. Capire che cosa è successo quella sera. Non riesco a sapere niente
di più e la cosa m’innervosisce.
Il weekend seguente non lo vedo, né lo cerco a dire il vero, perché arriva
Abel, il ragazzo di Eva e oggi diremo ai nostri genitori della gravidanza.
Così per un po’ riesco a non pensare a Des.
Come immaginavamo io e mia sorella, la famiglia Kerper non è allenata
a fronteggiare situazioni critiche, né scandali che coinvolgano le proprie
figlie e, non appena Eva li mette al corrente del bambino, succede una mini
tragedia.
Per fortuna, Abel, che si è rivelato un bravo ragazzo oltre che bello,
gestisce al meglio la situazione e fa l’uomo, promettendo ai miei che si
prenderà cura di Eva, che ha intenzione di sposarla e che le permetterà di
continuare gli studi.
Mia madre non la smette di piangere e mio padre non può far altro che
accettare la cosa, ma per il momento, dice, li vuole entrambi fuori da casa
sua.
Così Eva prepara una valigia e li accompagno all’auto di lui con le
lacrime agli occhi.
«Non piangere, Anais. Starò bene.»
«Mi mancherai» le dico, mentre l’abbraccio.
«Anche tu, da morire» sussurra fra i miei capelli.
Sorrido ad Abel. «L’affido a te.»
Lui annuisce e stringe mia sorella al suo fianco. «Eva è il mio mondo. E
fra poco mi renderà l’uomo più felice della terra. Ne avrò cura, non
temere.»
Li osservo salire in macchina e il peso che è gravato sul mio petto in
questi giorni si solleva pian piano. Mia sorella è diventata grande e spero
solo abbia la vita che merita.
Casa mia è in lutto e la cosa è patetica. Incidenti del genere succedono
spesso e nessuno si comporta come se la propria figlia fosse morta. Ma
evidentemente i miei genitori sono stupidi a tal punto.
Il venerdì seguente arriva troppo lento. Desmond non si fa vedere e non
risponde ai miei messaggi, e la cosa mi rende furibonda.
Mi aveva detto che non sarebbe andato più via e invece è quello che
fatto. Di nuovo. Le sue promesse non valgono più nulla, eppure, quando
una sera si fa vedere al bar dei Thompson, tutto il mio risentimento evapora
di fronte al suo aspetto provato.
Due brutte occhiaie danno al suo volto un’aria stanca, i suoi capelli sono
un disastro e sono certa che negli ultimi giorni, se ha dormito, lo ha fatto
vestito, perché i suoi abiti sono così stropicciati che non potrebbe essere
altrimenti. I ragazzi gli stanno alla larga, tenendo d’occhio a distanza i suoi
movimenti, in silenzio, quasi temano che una mossa azzardata possa farlo
scattare.
Mi lancia appena un’occhiata, poi si accomoda al bancone e ordina una
Guinness.
Sono preoccupata perché si vede che per lui sono stati giorni duri, ma lo
sono stati anche per me e non intendo sottostare più ai suoi sbalzi d’umore.
Dopo più di un’ora, la situazione diventa intollerabile e l’atmosfera tesa.
Si fatica a ingranare. Nessuno sembra propenso a scherzare e per
l’ennesima volta sono io a fare il primo passo verso Des.
Va matto per il cioccolato, anche se evita di mangiarne per via del
football e tutto il resto. I suoi muri sembrano invalicabili e questa è l’unica
maniera che mi viene in mente per avvicinarmi a lui. Così estraggo dalla
mia borsetta una barretta di cioccolata che ho comprato giorni fa per Eva.
La gravidanza l’ha resa golosa e ho preso l’abitudine di viziarla.
Faith fa per fermarmi, ma cosa può succedermi? Desmond è alla sua
terza birra, è vero, e psicologicamente sta male e si vede, ma non mi
farebbe mai del male. Mi fido ciecamente di lui.
Scosto uno sgabello. Des si gira a guardarmi, ma la sua espressione
rimane impassibile.
«Posso?» chiedo.
Liquida la domanda, alzando le spalle strafottente e continua a bere dalla
bottiglia.
Gli altri si guardano straniti, anche Braden, che conosce Des benissimo,
continua a lanciarmi occhiate confuse e non sono più sicura della reazione
che speravo di ottenere.
«Des» comincio. Non ho intenzione di rimproverargli nulla, voglio solo
dirgli qualche parola di conforto, ma intuisco che è esattamente quello da
cui fugge.
Detesta essere compatito e adesso che tutti i nostri amici sono venuti a
conoscenza del suo passato, non vuole che s’interessino alla sua storia.
Chiudendosi a riccio, tiene tutti lontano ed evita che gli vengano poste
domande scomode, così schivo l’argomento e gli concedo un po’ di
normalità. Forse è questo che vuole da me ed è anche il motivo per cui mi
resta lontano: dubita che io sia in grado di dargliela.
«Mi fai compagnia?»
«Non è un buon momento, Honey.»
Quattro fottuti giorni. Ecco quant’è durato questo momento.
Adesso basta.
Estraggo la barretta di cioccolato dalla mia tasca, la scarto e gliela porgo.
La osserva e finisce la sua birra, facendo correre lo sguardo dalla mia
mano al viso.
«Mi stai davvero offrendo del cioccolato?»
«Ne sei goloso.» Faccio spallucce e lui scuote la testa, abbozzando un
sorriso.
Oh, sì!
Spero di riuscire a far sciogliere la morsa di ghiaccio nella quale sembra
imprigionato e non demordo.
Spezzo alcuni quadrati di cioccolato e glieli porgo. «Dividili con me.
Sono capace di finirli tutti e non farebbe bene alla mia dieta.»
Non lo fa subito, soppesa il mio atteggiamento, poi posa la bottiglia
vuota sul bancone e finalmente prende la cioccolata.
«Punto uno, tu non hai bisogno di nessuna dieta, anzi. Sei ancora troppo
magra» mi rimprovera. «Punto due, non mi piace fondente.»
«È al latte.»
Mi sorride e si ficca un pezzo in bocca. Stavolta il suo è un sorriso
aperto. Uno di quei sorrisi che conosco solo io.
Quel gesto alza il sipario su un nuovo Des e lo abbassa sull’orso
taciturno e scontroso che è diventato in questi giorni.
Si gira verso i ragazzi e poi guarda di nuovo me. «Dammi un bacio,
piccola.»
«Non credo che tu lo meriti» flirto, allontanandomi. Ancheggio e
ipotizzo che stia ancora sorridendo.
Poi si rivolge a Brad e Liam. «Ci facciamo una partita a biliardo?»
Il suo tono è ancora un po’ scocciato e distante, ma è un inizio. Dopo
diventerò di nuovo la rompicoglioni che vuole sapere che cos’è successo.
Torno verso le ragazze e Bre mi sorride. «Sei stata geniale.»
«Lo conosco.»
La mia amica sbuffa. «Lo sappiamo, ma al momento sembra così
inavvicinabile!»
«Per lui è difficile far finta che la sua vita sia normale. È abituato a
sentirsi inutile. Un minuto prima vive l’Inferno, un attimo dopo è in
Paradiso. Con Des non ci sono mai mezze misure e ho imparato a restargli a
fianco.»
Faith e Breanna non sanno tutto, per cui faticano ancora a comprendere
le azioni di Des. A dire il vero non capiscono nemmeno le mie, quindi mi
affretto a spiegare. «Desmond non ha mai avuto un’esistenza normale. Per
intenderci… qualcuno che gli offrisse una barretta di cioccolato senza un
secondo fine. Ha vissuto delle cose orribili e devo farci i conti, prima
ancora che ne faccia qualcuno con se stesso.»
Inspiro a fondo e mi torturo le mani. «Sono la prima persona, la prima
ragazza» specifico, «che vede com’è realmente, senza sconti, considerando
ciò che ha passato. Credo che per lui sia importante» concludo.
Le mie amiche finalmente annuiscono. È chiaro che sono preoccupate
per me, ma penso che le mie parole siano servite a tranquillizzarle e il resto
della serata trascorre sereno.
Solo quando mi accompagna a casa – e siamo soli – Des mi parla degli
ultimi giorni.
«Non mi sono allontanato per te. Ma avevo bisogno di starmene un po’
per conto mio.»
A un certo punto del nostro viaggio, ho appoggiato la mia mano sulla
sua, che stringeva il cambio, e siamo rimasti così, anche adesso che l’auto è
spenta e siamo in vena di discorsi importanti.
«Che cosa è successo, Des?»
Stringe gli occhi e reclina il capo all’indietro, finché non trova il
poggiatesta e ci sbatte contro un paio di volte, come a voler rischiarare i
pensieri.
«L’altra sera io e Braden siamo tornati a Bakersfield… in quella casa»
comincia.
«Bakersfield?» chiedo. «Ma è lontano da qui. Ci vorranno almeno…»
«Tre ore» mi informa. «Ci abbiamo trovato lui, intento a tirare della
coca. Violet gli stava di fronte, seduta su una sedia, seminuda, in delirio. Si
droga anche lei. Lo so da un po’.»
«Perché non me l’hai detto?»
«Per lo stesso motivo per il quale ho cercato di allontanarti in questo
frattempo. Ho paura per te, Anais.»
Abbiamo già affrontato questo discorso e non intendo riaprirlo, non
adesso che Des mi ha detto in modo chiaro che questa volta non mi stava
tenendo lontana.
«Che cosa è successo, dopo?»
Mi fissa in maniera intensa e fa scivolare la mano da sotto la mia. «Ho
pestato a sangue Jeremiah e se non fosse stato per Braden l’avrei ucciso.»
Il mio stomaco si aggroviglia. «L’avresti fatto davvero?»
«Sì» conferma senza esitazione. «Braden lo ha portato in ospedale
affinché gli prestassero soccorso. In questi giorni ho aspettato che qualcuno
venisse a notificarmi una denuncia, ma non è arrivato nessuno.
Evidentemente, Jeremiah Spector mi ama troppo per farmi finire dentro»
sibila sprezzante.
«Dov’è Violet?»
«Ho chiamato sua nonna e le ho raccontato tutto, ma mi ha gridato
contro di essere un pazzo. Non mi ha creduto» afferma con la voce rotta.
«Non crederà nemmeno a sua nipote. V. aveva ragione. In questi anni è stata
sola e sono piuttosto certo che debba a quel bastardo la sua dipendenza
dall’eroina.»
Inspiro di colpo. «Eroina?»
Mi ha detto che Violet si droga, ma non pensavo si bucasse.
Lui annuisce e stringe il volante fra le mani. «È una merda. L’ho pregata
di aiutare quella ragazza, lei è l’unica famiglia che ha, Cristo! Potrebbe
cercare una struttura adatta a farla disintossicare, ma mi ha buttato fuori di
casa.»
«Che stronza!»
«Non posso fare niente per Violet» ammette affranto.
«Non credo che voglia essere aiutata.»
«E invece sì. In ogni suo gesto c’è una richiesta d’aiuto, ma ha la testa
troppo incasinata per ammetterlo.»
Forse ha ragione e non insisto oltre. Non so cosa scatti nella mente di un
ragazzo violato, se il caso di Des sia un’eccezione e se quello di Violet
rappresenti invece la regola.
Forse da esperienze del genere non si può uscire tutti interi, ma io non ne
so nulla e taccio, perché per quanto mi sforzi non potrò mai comprendere.
Non potrò mai avvicinarmi tanto da vedere a pieno il dolore dell’abuso.
È quasi mezzanotte quando finiamo di parlare. Osserviamo le luci di
casa mia spegnersi. I miei stanno andando a letto e a me viene un’idea folle.
«Resta con me stanotte.»
«Se ci beccano finirai nei guai.»
«Tu, invece, no?» scherzo.
Fa spallucce. «Io posso gestirla.»
«Anch’io» ribatto risoluta e il suo sguardo si fa dolce.
«Lo so, Anais. So che puoi farlo.»
Mi bacia la mano e in quel gesto ci sono una comprensione e un rispetto
profondi.
Attendiamo una buona mezz’ora, in silenzio, godendoci i rumori della
notte e quella quiete che da un po’ non ci è concessa, poi gli dico di
aspettarmi sul retro, sotto la mia camera. Non si trova molto in alto ed
escogiterò un modo per farlo salire, ma quando arrivo nella mia stanza,
badando a non fare rumore, apro la finestra e lo ritrovo arrampicato sul
cornicione.
Deve aver usato l’albero che sfiora la casa per arrampicarsi.
Si fionda dentro con una grazia felina e, mentre si rimette in piedi, mi
sorride. Gli tolgo una foglia rimasta impigliata fra i capelli e lo prendo in
giro. «Sei un selvaggio.»
«Sì» ansima per lo sforzo, ma i suoi occhi percorrono il mio corpo e si
fanno scuri. «Non sai quanto.»
Accendo la lampada sul comodino, ma poi ci ripenso e la spengo. È già
strano che i miei genitori non mi abbiano fatto nessuna chiamata per
sollecitare il mio rientro a un orario decente, se dovessero sentirmi ancora
sveglia, verrebbero a controllare. Nel dubbio che lo facciano davvero,
chiudo la porta a chiave e torno da Des.
Mi tira immediatamente a sé. Il mio corpo contro il suo e combaciamo
alla perfezione. Sono qui da giorni, ma mi sono sentita un’ospite per tutto
questo tempo. Ora, invece, fra le sue braccia, avverto di essere a casa,
perché sarà sempre così.
Andremo sempre in questa direzione: io verso Des e lui verso di me.
20.
Desmond

La solitudine, a volte, ci fa perdere. Poi, però, può capitare che arrivi


qualcuno in grado di trovarti con un solo sguardo.

È strano che trovi erotico tutto questo. Ma sapere che Matthew e Sarah
stanno dormendo dall’altro lato del corridoio mi mandi su di giri.
L’idea dovrebbe spegnere ogni desiderio, invece non è così. Lo amplifica
e so anche qual è il motivo: Anais. Che sta trasgredendo come mai avrebbe
fatto quando sono arrivato in questa casa e mi mostra sfacciatamente il suo
cambiamento. Un cambiamento che amo, perché con tutto quello che
stiamo passando, la mia Honey non ha vacillato nemmeno per un attimo e
ne sono fiero.
«Ho smesso di preoccuparmi di vederti crollare» sussurro, mentre la
spingo verso il letto pieno di cuscini rosa e peluche.
«Cosa?» chiede, cadendo indietro e sgranando gli occhi.
«Non hai più bisogno di me, Honey. Sei cresciuta. Sei una splendida
donna, adesso.»
Il suo sguardo s’incupisce e poggia il palmo sulla mia guancia. «Invece
ho ancora bisogno di te» si affretta a dire.
«E io di te, piccola. Ma sono stato così assorbito dall’idea di rialzarti
ogni volta, che non ho notato quanto sei diventata forte nel frattempo.»
Il mio desiderio di lei ha raggiunto il culmine e devo sforzarmi per
andarci piano.
«Come si fa ad amarti più di così?»
Uno, due, tre respiri…
«Ho bisogno di sentirti, Anais. Voglio accarezzarti. Non lo faccio da un
pezzo.»
Nell’oscurità della stanza, una lacrima le brilla fra le ciglia. «Sono
d’accordo.»
Ma mentre mi sistemo sul letto e me la stringo contro, si muove fra le
mie braccia e cerca la mia bocca.
Uno, due respiri…
Cristo, è perfetta! E io non sono un Santo.
Mi arrendo alla tentazione; dopotutto i miei propositi erano deboli anche
prima che la sua lingua trovasse la mia; anche prima che i suoi gemiti
riempissero la mia bocca come se non potesse fare a meno di essere toccata
da me.
Annuso il suo profumo, quello che ho rubato qui dentro tempo addietro,
e le mie labbra scivolano dal suo orecchio alla gola e poi a ritroso, perché
questo gesto non mi basta. Le mie dita vagano sul suo seno, poi scivolano
giù, verso le intime pieghe fra le sue gambe e trovo il paradiso.
Non posso fare a meno di tormentarla. Vorrei affondare in lei, dare
subito a entrambi ciò che bramiamo, ma desidero più di ogni cosa sentire il
suo bisogno e voglio che Anais ritrovi il ragazzo di un tempo. La sua
roccia. Il suo rifugio. Voglio che m’implori e mi faccia sentire importante.
L’unico.
«Volevo solo coccolarti un po’» la stuzzico, ma ormai non potrei
fermarmi neppure se me lo chiedesse.
Le mie carezze si fanno più audaci e lei ansima senza controllo. «Non
ho bisogno di coccole. Voglio questo, Des. Ti prego, non smettere.»
È calda fra le mie braccia e mi sento andare a fuoco. Agita i fianchi,
viene incontro alla mia mano e fa rumore. Tanto che sono costretto a
tapparle la bocca con l’altra mano.
Sgrana gli occhi e trema. È vicina e io non intendo fermarmi. Si stringe
intorno alle mie dita e vedo doppio come se stessimo raggiungendo il
piacere insieme.
Il cuore mi batte forte nel petto, lo sento fin dentro le orecchie e nelle
ossa; nel respiro che mi esce fuori a tratti. Inspiro e rallento, poi mi libero
dai vestiti e finalmente mi spingo in lei, lasciando che mi accolga,
pretendendo di stillare ogni goccia di un rinnovato piacere, finché quasi
svengo, quando quest’ultimo mi proietta in orbita e tutto si fa nero per un
attimo di estasi infinita.
Poi rimaniamo sdraiati, il fiato corto, con i nostri corpi incollati per il
sudore. Chiudo gli occhi e mi godo questo momento meraviglioso. «Stasera
cenerò qui e parlerò con i tuoi.»
La sento sussultare, tiene il viso appoggiato sul mio petto e lo avverto
aprirsi in un sorriso pigro. «Con tutto quello che è successo, credevo che
non volessi più farlo.»
Mi tiro su e poggio i gomiti ai lati della sua testa, fissandola negli occhi.
«In mezzo a tutto quello che è successo, ci sei sempre stata tu al primo
posto. Ti amo, Honey.»
«Fortissimo» mi fa eco e stavolta sono io a sorridere come un idiota.
«Fra poche ore i tuoi sapranno di noi, che sei la mia vita e che non
intendo lasciarti andare via da me, Anais Kerper.»
«Devo dire che suona un po’ da stalker.»
«Solo un po’?» la prendo in giro. «Allora vuol dire che dovrò
impegnarmi di più.»
Torno a casa alle prime luci dell’alba, prima che Matt e Sarah si
sveglino.
Lasciare la mia piccola, addormentata nel suo letto, così serena dopo le
ultime ore turbolente, è stato difficile, perché quando siamo insieme tutto
ritorna in ordine e io vorrei vederla sempre così: felice, grata, sicura di noi.
Torno a casa e trovo Luc in veranda, che fuma una sigaretta. Non mi
sorprende, è sempre stato un tipo mattiniero, eppure ho l’impressione che
c’entri qualcosa la mia notte brava.
«Buongiorno» lo saluto.
Aspira una boccata e mi fa cenno con la testa. So che è preoccupato e
probabilmente è rimasto in piedi ad aspettarmi, ma non mi fa nessuna
domanda. Si limita ad attendere che sia io a spiegargli dove diamine sono
stato.
«Ero con Anais.» Non ha senso fingere. «A casa sua» aggiungo e mi fa
un sorriso storto.
«Sei coraggioso!» Mi prende in giro e io faccio schioccare la lingua.
«Ne vale la pena.»
Annuisce e si fa di nuovo serio. «C’è del caffè caldo, se ne vuoi.»
Entro in casa e poi in cucina. Me ne verso un po’ e torno da lui.
Seguendo il consiglio di Braden, ho raccontato a Luc che cosa è
successo a Bakersfield. Mi aspettavo davvero che il bastardo mi
denunciasse e non potevo rischiare che i Davis si vedessero piombare in
casa la polizia senza prima avvisarli.
È stato facile stavolta. Parlare con Luc, intendo.
Da quando l’ho fatto al campus, mi sono sentito sollevato.
Ogni secondo un po’ di più.
E non me l’aspettavo.
La vicenda della scorsa notte non poteva restare un segreto fra me e
Braden, ma il problema è che adesso Luc conosce l’identità di Jeremiah e
questa consapevolezza l’ha reso inquieto, pronto a scattare per farmi
giustizia.
«La prossima volta avvisa, Des.»
Cazzo!
Ha ragione, ma non ci ho proprio pensato. Non sono avvezzo al fatto che
qualcuno si preoccupi per me, né a sentirmi parte di una famiglia.
«Scusa» mormoro. «Devo…»
«Devi farci l’abitudine, lo so» mi rassicura.
«Stanotte, a un certo punto, ho svegliato Brad. Mi ha detto che eri andato
via dal bar con Anais, altrimenti credo che avrei messo sottosopra la città
per cercarti.»
Sorride e l’idea di Luc in auto che mi cerca come se fossi il suo bambino
smarrito mi fa stringere lo stomaco in modo bello.
«Stasera parlerò con i Kerper» lo informo.
Visto che entrambi abbiamo gli occhi lucidi, il mio, in realtà, è un
tentativo per cambiare discorso.
«Come mai?»
«È ora che sappiano che sua figlia sta con me.»
«Non credi che se lo aspettassero?»
«Forse.» Faccio spallucce. «Ma speravano comunque che la morte di
Zach bastasse a tenerci lontano. Faranno bene ad arrendersi all’idea che
questo non accadrà mai.»
Lui annuisce e butta giù un sorso di caffè.
«Non ti ha denunciato» afferma a un tratto, cupo.
Il brusco cambio di discorso mi fa sbattere un paio di volte le palpebre,
ma è evidente che l’argomento “Jeremiah” lo impensierisca molto.
«No» confermo.
«Cosa credi che significhi?»
So benissimo cosa significa, ma per un breve attimo considero di nuovo
di tenerlo per me. Poi guardo l’uomo che si è preso carico del bagaglio che
mi porto dietro, il padre che finalmente posso dire di avere.
Osservo il suo sguardo risoluto e le sue mani che si serrano intorno alla
tazza, come se fosse il collo del mostro che mi ha violato, e sospiro di
gratitudine.
La solitudine, a volte, ci fa perdere. Poi, però, può capitare che arrivi
qualcuno in grado di trovarti con un solo sguardo.
Luc è quel qualcuno.
Non sono più solo e questa convinzione mi fa vedere una prospettiva
diversa del mio futuro, così finisco il mio caffè e rispondo senza mentire:
«Significa che presto verrà a riscuotere il suo debito, papà.»

– TI SEI PENTITO?
– DI COSA?
– DI PARLARE CON I MIEI…
– PERCHÉ ME LO CHIEDI?
– NON SO…
– HONEY…
– DESMOND…
– STO ENTRANDO IN AUTO, PICCOLA. DIECI MINUTI
E SONO DA TE.

Lo scambio in chat con Anais mi fa capire quanto sia stato poco


rassicurante in questo periodo. Non posso biasimarla, ha ragione. Quello
che però forse le è sempre sfuggito è che tutte le volte che restavo distante,
lo facevo per lei. Per tenerla al sicuro, prima di comprendere quale sarebbe
stata la prossima mossa del bastardo. Adesso che ho smesso di aspettare
come un condannato a morte che questo avvenga, niente e nessuno potrà
tenermi lontano. E Matthew Kerper non sarà certo un’eccezione.
Quando arrivo alla villa, sogghigno al ricordo di cosa è successo
stanotte.
Sono tranquillo. Non so come dovrebbe sentirsi un ragazzo che conosce i
genitori della sua ragazza, ma presumo di aver già vissuto in qualche modo
l’esperienza. Oggi la renderemo solo ufficiale.
Mi apre Anais ed è splendida. Indossa un vestitino bianco familiare. Ci
rifletto su un attimo e ricordo che è lo stesso che indossava la sera in cui le
tre B – Byron, Barbara e Bryan – ovvero i Miles, sono venuti in questa casa
per cementare la loro amicizia con i Kerper e la possibile parentela per il
fidanzamento fra Anais e quello smidollato del loro figlio.
La sera in cui lei, la mia Honey, aveva lasciato i capelli sciolti per me,
mentre sedeva accanto al suo ragazzo e con il trucco aveva coperto il livido
che quel coglione le aveva provocato. Allora un solo sguardo bastava a
comunicarci tutto e lei riusciva a calmarmi o accendermi.
Sembra passato un secolo e adesso sono qui, fuori posto come allora,
eppure mi tiene ancora stretto a sé, nonostante le cicatrici che il mio passato
ha lasciato a sanguinare.
«Va tutto bene?» mi domanda.
«Benissimo, piccola.»
La tavola è apparecchiata, impeccabile come sempre e nell’aria si respira
un buon profumo. Matthew ci viene incontro. Mi fa un sorriso, ma io
conosco quelli di circostanza e il suo lo è senz’altro.
Non importa. Non sono qui per recuperare un rapporto, ma per mettere le
cose in chiaro.
«Des, che piacere!»
La sua faccia è una maschera di falsità, alla faccia della sorellastra a cui
voleva un bene dell’anima.
Di quale anima parli non è dato saperlo e per un soffio non alzo gli occhi
al cielo, sbuffando.
Mi abbraccia e mi dà una pacca sulla spalla.
Posso giocare al suo gioco. «È un piacere anche per me, Matt.»
«Accomodiamoci. Sarah mi ha detto che sarà pronto fra poco.»
Devo ammettere che se è a disagio non lo dà a vedere. Il fatto che io
sieda accanto a sua figlia non lo destabilizza. Non si è scomposto nemmeno
quando le ho afferrato la mano, per tenerla stretta.
Sarah, invece, è la coerenza fatta persona. Mi ha sempre sopportato
poco. Non è cambiato nulla, ma forse ha ragione Luc. I Kerper si
aspettavano che io e Anais saremmo ritornati insieme e, se avessero voluto
realmente allontanarla da me, avrebbero fatto di tutto per farle cambiare
università. Ma non è successo e questo mi fa ben sperare che siano pronti ad
accettare la nostra relazione.
Mentre Sarah riempie i piatti con l’arrosto, Matt si rivolge a me.
«Allora, Des, so che hai firmato con una grande squadra.»
Non immaginavo che Anais ne avesse parlato ai suoi, per cui
l’affermazione mi coglie impreparato.
«Oh, sì… è una cosa recente.»
«Recente o no, è grandioso. Sono felice per te.»
«Grazie.» Poi mi giro verso Anais e discretamente le chiedo: «Glielo hai
detto tu?»
«No» mormora.
«Da chi l’hai saputo?» domando allora.
Se non è stata Honey a metterlo al corrente, voglio capire come ha fatto
a venirne a conoscenza.
«Sei una sorta di nipote, Des. Sei della famiglia, no? È normale che mi
preoccupi di ciò che fai.»
Sono della famiglia.
Vuole davvero giocarsi questa carta?
Adagio le posate ai lati del piatto e congiungo le mani davanti al mio
viso, poggiando i gomiti sulla tavola.
«Senti, Matt, so cosa stai cercando di fare, per cui diamoci un taglio: io e
tua figlia, la specie di cugina che stai tentando di appiopparmi, la mia quasi
parente, stiamo insieme.»
Lo vedo stringere gli occhi, un tic gli anima la mascella e sono
abbastanza sicuro che stia facendo a pugni con il suo autocontrollo. «Ci
avete già provato e la vostra relazione ha portato a risultati disastrosi. Devo
forse ricordarvelo?»
La morte di Zach.
Quanto può essere meschino un uomo?
«No, non devi ricordarmi un bel niente. Abbiamo sofferto abbastanza,
ma tu non puoi saperlo perché non c’eri. Non per tua figlia» sibilo. «Io e
Anais siamo complicati e la nostra storia non è cominciata nel migliore dei
modi. Se ci metti pure dei genitori inadeguati come voi, il disastro era più o
meno annunciato. Abbiamo rischiato di morire tutti, in un modo o
nell’altro, non solo Zach.»
«Ma sentilo!» Adesso si rivolge a sua moglie, cerca una spalla. È
evidente che le mie parole siano andate a segno.
«Dei genitori inadeguati, dici? Invece i Davis sono esemplari, non è
vero?»
«Non tirare in ballo loro.»
«Ce li tiro eccome, visto che li hai preferiti a noi.»
«Oh, andiamo! Non c’è stata nessuna preferenza. Non siete mai stati in
gara, ma se mai ce ne fosse stata una, non sareste stati in grado di vincerla
comunque.»
«Perché volevi nostra figlia, ed essere adottato da noi non ti avrebbe
permesso di mettere le tue mani su di lei.»
«Sì» ammetto candidamente. «Perché nonostante ciò che pensate, amo
Anais dal primo giorno che ho messo piede in questa casa.»
«Non starete mai bene insieme» s’intromette Sarah.
Anais si irrigidisce. «E tu che cosa ne sai, mamma?»
La madre sobbalza e la sua espressione diventa di pietra. «Non è al tuo
livello.»
«E quale sarebbe il mio livello?» La mia ragazza è furiosa e le stringo la
mano per invitarla a calmarsi.
«Lo sai» infierisce. «Non costringermi a ricordarti da dove proviene
Des.»
Mi domando che cosa direbbero se sapessero la storia legata ai luoghi da
cui provengo. Se sapessero che il corpo del ragazzo che la loro figlia ha
scelto è stato violato così tante volte che fa ribrezzo perfino a se stesso.
Saggiamente non li informo di nulla. La situazione è già abbastanza
complicata così.
«Da dove proviene… Ma ti senti? Des e io staremo insieme, che lo
vogliate o no. Non vi è mai importato del mio benessere e per questo sono
stata così male da pensare a mille modi per farla finita.»
Sarah si porta una mano alla bocca e sembra costernata. Matt è attonito e
mi domando per l’ennesima volta come possano due genitori non essersi
accorti della sofferenza della propria figlia.
Anais porta avanti le braccia e strofina le dita sui tagli, per togliere via la
roba che ci mette sopra per coprirli. «Non li avete mai notati o forse avete
fatto finta di non vederli. Questo è il dolore che avete sedimentato in me in
questi anni» urla, ma non piange. La sua voce è ferma e il mio cuore fa una
capriola.
Non puoi davvero pretendere di essere il suo burattinaio.
Lo avevo urlato a Matt il giorno del Ringraziamento e Anais era rimasta
muta, adesso no. Urla perché ha imparato a lottare per se stessa.
«Questo è lo stesso dolore che Des ha estirpato, amandomi. Facendomi
sentire perfetta, nonostante vi siate impegnati così tanto nel farmi credere il
contrario.»
«Volevamo solo il meglio per te» interviene suo padre.
«Che tu fossi la migliore» aggiunge sua madre.
«Ma io volevo solo essere me stessa» li blocca la mia Honey. «Ogni
figlio commette delle mancanze, delude le aspettative dei propri genitori,
sbaglia. Eppure una famiglia resta grata ogni giorno per quello che ha,
senza sentire l’esigenza di forgiare nessuno a sua immagine e somiglianza.»
«Lo abbiamo fatto?» domanda Matt. «Abbiamo tentato di cambiarti?»
La vecchia Anais si sarebbe sentita in colpa di fronte al tono addolorato
del padre, la mia Honey invece è intenzionata a buttar fuori tutto.
«La verità è che ci avete provato, papà, e ho rischiato di perdermi per
sempre, ma è arrivato Des e non se ne andrà. È bene che lo capiate,
altrimenti, come Eva, uscirò da quella porta e non mi vedrete mai più.»
Sarah sta piangendo in maniera discreta. Matthew abbassa il capo
sconfitto e per la prima volta senza parole.
Avrei bisogno di aggiungere qualcosa, ma lascio che trascorrano alcuni
secondi prima di mettere un punto sulla questione.
«Amo vostra figlia più della mia stessa vita.» Quando sono sicuro di
avere la loro totale attenzione, continuo.
«Non sapevo che cosa fosse l’amore, finché non ho incontrato i suoi
occhi. Anais mi ha visto, quando ero ormai abituato a essere invisibile per
tutti. E mentre eravate troppo presi dai vostri progetti per capire quanto
male stavate facendo a quest’angelo, io l’ho visto e ne sono rimasto
folgorato. Non la lascerò, se è quello che sperate. Ci apparteniamo in un
modo che non so spiegare, ma se anche sapessi farlo, non lo capireste lo
stesso, perché amori come il nostro non vanno spiegati o capiti, vanno visti,
vissuti e invidiati.» Afferro la mano di Anais e le bacio il tatuaggio. Noto il
momento esatto in cui, seguendo il mio gesto, Matt e Sarah individuano lo
stesso segno sulla mia pelle e capiscono.
«Siamo grandi abbastanza per stare insieme con o senza la vostra
benedizione. Sappiate solo che ho intenzione di trattare vostra figlia come
la regina che è.»
Non so quanto di quello che abbiamo detto stasera sia stato realmente
assorbito. Non è arrivata nessuna scusa, nemmeno quando io e Anais ci
siamo alzati per andarcene.
Matthew e Sarah sono rimasti seduti alla loro tavola imbandita, attoniti e
feriti, ma finalmente consapevoli di non poter fare altro che accettare la
nostra storia. Accettarla oppure restarne fuori per sempre. Perché “per
sempre” è esattamente il tempo che ho intenzione di trascorrere con la mia
Honey.
21.
Anais

Quello che abbiamo – drammi, gioie e attrazione compresi – ci rende


indistruttibili.

Le settimane seguenti sono un lento percorso di ritorno alla normalità.


Des non è riuscito a far entrare Violet in una clinica per disintossicarsi e
questo lo turba ancora parecchio, ma torniamo al campus e riprendiamo la
solita routine fatta di lezioni e di allenamenti e Jeremiah – e tutto ciò che gli
ruota intorno – sembra un ricordo, anche se in fondo sappiamo che non è
così.
Le uniche novità, con mio grande piacere, sono che Des chiama “papà”
Mr. Davis e che ha firmato un contratto di cinque anni con i Bolts. E poi c’è
la nostra “pausa cioccolata”, come la battezziamo. Ogni giorno, alle quattro
del pomeriggio, impegni permettendo.
Des sembra rinascere, è più sereno, nonostante ogni tanto si adombri, ma
Spector non si è fatto più avanti, il football lo sta impegnando come mai e
io adoro il pacchetto Desmond Ward completo.
La nostra non è solo una storia d’amore. È anche un’amicizia, un
rapporto simbiotico di quelli che scattano all’improvviso e che diventano
necessari in poco tempo, e lui non sembra più preoccuparsi che ne
diventiamo dipendenti, anzi.
«Ne ho bisogno» mi dice un giorno, intrecciando le sue dita alle mie.
«Ho bisogno di averti così nella mia vita.»
È un ragazzo complicato, ne sono perfettamente cosciente. E, per buona
parte della mia esistenza, anch’io lo sono stata. Complicata come un rebus e
fragile come il vetro, ma ho cominciato a trovare la normalità banale e
adesso accetto i casini di Desmond come se fossero anche i miei, come ha
fatto un tempo lui con me.
Eva è tornata a trovarmi, questa volta con Abel.
Devo ammettere che la gravidanza le dona, o forse è la felicità che la fa
letteralmente risplendere, nonostante il rapporto con i nostri genitori sia
ancora teso.
Queste ultime settimane sono state stressanti per via di alcuni esami.
Non ricordo più quand’è stata l’ultima volta che ci siamo goduti un’uscita
tutti insieme, così, quando Braden ci fa vedere un volantino, decidiamo che
è ora di divertirci un po’.
Pare che da qualche parte, a Venice, suoni un dj bravissimo; ci
procuriamo i biglietti e alle undici siamo già in fila per entrare.
Circa mezz’ora dopo, facciamo il nostro ingresso nel locale. Il posto è
affollatissimo. Ci facciamo largo fra la folla e ci dirigiamo verso l’aria VIP.
Gli unici tavoli disponibili si trovano solo da quella parte e i ragazzi,
Liam e Ian – che hanno preso l’abitudine di unirsi a noi – e Des e Braden,
pagano un supplemento per accaparrarcelo.
L’atmosfera è calda. La musica è quella giusta e molta gente è su di giri,
forse non solo per l’alcol.
Mi sento talmente bene che ho indossato un mini abito rosso con una
profonda scollatura sulla schiena, certa dell’effetto che avrebbe fatto sugli
altri, soprattutto su Des. Infatti, le occhiate che ricevo sono di puro
apprezzamento, ma in quelle del mio ragazzo arde un fuoco in grado di
consumarmi senza neppure sfiorarmi.
«Farò sparire tutti questi abitini sexy dal tuo armadio» mi mormora
all’orecchio, stringendomi il lobo fra i denti.
«Ne comprerò di nuovi» ridacchio.
Le sue dita mi accarezzano la schiena. «Li indosserai solo per me.»
«Sei un tipo esigente.»
«Lo sono.»
«E possessivo, anche.»
«Maledettamente.»
Una cameriera bionda, tutta tette e natiche in bella vista, ci raggiunge
subito.
«Che vi porto, bei maschioni?»
Fissa in maniera spudorata la componente maschile del nostro tavolo ed
Eva la guarda perplessa.
Oh, ma davvero!
Faith si stringe a Braden, mia sorella fa lo stesso con Abel e io lancio
un’occhiata di fuoco a Miss Silicone quando i suoi occhi indugiano più del
dovuto su Des.
«Per me uno Zombie.» Sono la prima a parlare e ordino il drink per cui è
famoso questo posto.
«Sei sicura, bambina? Guarda che è roba forte» mi mette in guardia la
tizia.
«Sicurissima» replico tagliente.
«Bene! Allora mi serve un documento.»
Tiriamo fuori i nostri documenti falsi e lei gli dà un’occhiata veloce.
Anche Bre e Faith fanno la mia stessa ordinazione, Eva invece prende un
analcolico.
Delle due, mia sorella è sempre stata quella più spericolata e vederla così
assennata è strano e allo stesso tempo bellissimo.
Sarà una madre meravigliosa, ne sono certa.
I ragazzi si limitano a delle Guiness, poi finalmente l’oca rifatta se ne va.
«Che roba è quella che hai ordinato?» mi chiede Des accarezzandomi i
capelli, ma a quanto pare non riesce a tenere le mani lontane dalla mia pelle
nuda e le sue dita finiscono di nuovo sulla mia schiena.
«Oh, ne ho sentito parlare da una ragazza al corso di Letteratura. È il
nome di un cocktail africano molto in uso nei Caraibi. È forte. Si dice che
sappia resuscitare i morti, sai?»
Annuisce piano, stringendo gli occhi. «Stasera vuoi proprio essere una
cattiva ragazza…»
«Sì.» Mi mordo il labbro e mi avvicino a lui perché faccia razzia della
mia bocca.
«Che bastardo fortunato!» sento qualcuno dire a un certo punto. Forse è
Ian e Des si allontana da me, non prima di avermi dato un altro piccolo
bacio, stavolta più casto.
Fa l’occhiolino al suo compagno e si raddrizza. «Puoi dirlo forte.»
Miss Silicone ci porta le nostre ordinazioni e, non appena prendo il
primo sorso del mio drink, capisco perché piaccia così tanto. Quando
scende brucia, ma ha un sapore fruttato, delizioso che anche Faith e Bre
sembrano apprezzare.
«Vuoi assaggiarlo?» chiedo a Des.
«No. Domani pomeriggio abbiamo l’ultimo allenamento, prima della
partita contro i Buffaloes. Questa è l’unica cosa che berremo io e i ragazzi.
Non è vero, boss?» Si riferisce a Liam, che però scuote il capo divertito.
«Non ti servirà restare sobrio per segnare un touchdown, Ward.»
«Fottiti!»
«Be’» Liam si guarda intorno e il suo sguardo si posa su Bre, «l’idea non
sarebbe male» sussurra.
Ian è un intrattenitore nato e non fa che parlare. Ci stiamo sbellicando
dalle risate, specie quando inizia a prendere in giro Des.
«Dovevate vederlo il primo giorno che è arrivato. Voglio dire, che il
ragazzo si faccia guardare è chiaro a tutti, non ci piaceva che catalizzasse
l’attenzione delle nostre fan. Così gli abbiamo riempito il casco di farina.
Teso com’era non se n’è nemmeno accorto e, quando l’ha infilato, ah!
Potete immaginare com’è sceso in campo.»
«Coglioni!» gli fa eco Desmond.
«Oh, non ti è andata poi così male» lo rimbecca il capitano. «Abbiamo
avuto riti di iniziazione ben peggiori.»
«Quello non era un rito d’iniziazione. Volevate offuscare il mio fascino.»
Ridiamo tutti, solo Braden ha un’aria infastidita; non vale a niente il
fatto che Faith cerchi di coinvolgerlo. Non riesce proprio a essere socievole
e forse posso immaginare il perché. È evidente che non è abituato a vedere
Desmond interagire in questo modo con gli altri.
Sono sempre stati da soli e guardare il suo amico così integrato in un
gruppo, per lui deve essere spiazzante.
A dire il vero, non so come abbia accettato la mia presenza nella vita del
suo migliore amico, né la dipendenza che Desmond ha sviluppato per me.
Qualche volta ho beccato Brad a osservarci perplesso, ma credo che la
presenza di Faith lo abbia aiutato a non dare di matto.
«Allora, Pasticcino…»
Ian si protende verso Bre, che a quelle parole sembra ingoiare veleno e
strabuzza gli occhi. «Come mi hai chiamato?»
Vorrei scoppiare a ridere ma mi contengo. Anche Des nasconde un
sorriso; si porta il pugno chiuso davanti alla bocca e finge di tossire.
È una serata come tante. Siamo insieme a persone che ci vogliono bene e
sono così felice fra le sue braccia, con i problemi fuori e per il momento
lontani, che non mi rendo conto di essere al mio secondo drink e parecchio
brilla.
«Ho bisogno di una bottiglia d’acqua» urlo per sovrastare la musica, che
dopo una certa ora ha cominciato a pompare dalle casse. Della gente sta già
ballando e la pista si sta riempiendo in fretta.
«Chiamo la cameriera.» Desmond si guarda intorno per cercarla.
«Non pensarci nemmeno. Se osa guardarti ancora come poco fa, potrei
farle molto male.»
«Oh, sei gelosa!» Il suo tono è divertito, ma anche compiaciuto.
Mi tiro su. «Da morire» biascico, perché ormai ondeggia tutto e l’alcol
nel mio corpo si trasforma in euforia. «Sei mio, Des.» Mi riabbasso solo per
mordergli il labbro e lo sento mugolare nella mia bocca.
«Vado al bar» dico.
«Vengo con te.»
Ma non ci arriviamo, perché a un certo punto, mentre mi cammina
davanti, tenendomi per mano, mi trascina verso destra, dopo giù per una
scala che non so dove porti.
«Dove stiamo andando?» chiedo.
«Shhh!»
Si guarda intorno e continuiamo a scendere. Sui tacchi non è facile per
me stargli dietro, poi finalmente avvisto una porta e Des si dirige da quella
parte.
Da qui sotto, la musica si sente ovattata. L’ambiente è un sotterraneo e fa
più fresco che nel locale. Mi porto una mano dietro la nuca per alzare i
capelli e trovare un po’ di sollievo e senza staccarmi gli occhi di dosso, Des
verifica che la porta sia aperta; quando sente l’inconfondibile click, esclama
un “sì” molto soddisfatto.
È fame quella che vedo nei suoi occhi, prima che il buio ci inghiotta.
Poco dopo, trova l’interruttore e alcuni neon si accendono, rivelando un
magazzino di liquori.
«Molto romantico, Ward. Non c’è che dire.»
«Ti meriti cene a lume di candela e fiori ogni giorno, Anais Kerper, ma
adesso ho bisogno di scoparti e il luogo non m’importa.»
Ansimo, mentre la mia intimità si contorce per il bisogno di sentirlo. La
sua bocca plana sulla mia e le sue dita si stringono intorno alle mie guance.
Con il corpo mi fa indietreggiare finché non tocco la parete. Mugolo,
afferrando la sua maglietta. Qualche addetto ai lavori potrebbe arrivare per
recuperare delle bottiglie, ma mi sento senza freni e gli afferro le natiche,
poi mi tiro su il vestitino e avvolgo le mie gambe intorno ai suoi fianchi.
«Cristo, quanto ti voglio!» Il suo respiro è affannato, la sua voce tradisce
la necessità di rivendicarmi. Ma sono già sua dal giorno in cui è arrivato a
casa mia e lo sarò per sempre.
Tremo, per il suo tocco e per le sue parole. Tremo, per l’enfasi che ci
mette, perché anche lui sta facendo lo stesso per l’attesa del piacere.
Tremo. Per quello che già ci stiamo procurando a vicenda solo
sfiorandoci.
A un tratto è in ginocchio.
«Che cosa fai?» ansimo.
«Ti sto venerando, Honey.»
Tengo una mano fra i suoi capelli e l’altra chiusa a pugno per impedirmi
di urlare.
Sembra un uomo con una missione e sono più che felice di lasciargliela
portare a termine.
Non si ferma, neppure quando è ormai chiaro che è riuscito a prendersi
ogni grammo del piacere che ha scatenato e le mie gambe tremano come
due foglie agitate dal vento.
«Fai l’amore con me» lo imploro.
Lentamente si stacca dalle mie pieghe, con le labbra lucide e gli occhi
ardenti. Si passa il dorso della mano sulle labbra e sento la mia femminilità
contrarsi per il bisogno.
Si rialza e si posiziona contro di me, poi si libera di jeans e boxer e si fa
largo nel mio corpo con una spinta poderosa per cui stavolta urliamo
entrambi, completamente smarriti l’uno nell’altra.
È così che riusciamo a ritrovarci, ogni volta che ci perdiamo, e un tempo
ci sembrava troppo poco.
Tutta l’attrazione animale che aleggiava sempre fra noi era qualcosa di
incontrollabile contro cui non riuscivamo a combattere. Ci faceva rabbia.
Non importava quale fosse la portata dei nostri problemi, se dopo io avessi
continuato a tagliarmi e lui a sentirsi inutile. Lasciavamo che quella voglia
ci sbranasse, gareggiando in un macabro gioco da cui uscivamo a brandelli.
Quando finivamo con il sesso, ci restava il vuoto. La terribile sensazione
che avessimo solo quello: dei momenti intensi di cui godere, senza speranza
di vivere altro.
Oggi non è più così. Perché quello che abbiamo – drammi, gioie e
attrazione compresi – ci rende indistruttibili.
«Adesso avrei davvero, davvero bisogno di quel bicchiere d’acqua»
scherzo, mentre cerco di riprendere fiato.
Des ridacchia e si stacca da me. Si guarda intorno. «Qui c’è solo alcol.»
«E io sono già abbastanza sbronza da permettere al mio ragazzo di
trascinarmi in un sotterraneo per fare sesso con me.»
«Ah, ah! Dai pure la colpa ai cocktail che ti sei scolata.»
È così bello il suo sorriso che vorrei restare qui per sempre, nutrendomi
di alcol, Desmond e sesso. Nutrendomi d’amore.
Quando usciamo dal magazzino, ci imbattiamo in un ragazzo dello staff,
o almeno così c’è scritto sulla maglia nera che indossa.
«Ehi, voi due!» ci urla dietro, mentre lo oltrepassiamo, correndo.
Ridiamo in maniera incontrollata. C’è mancato poco e per fortuna non ci
segue. Di certo avrà capito che cosa stavamo facendo, ma chi se ne frega!
Ogni tanto è così bello essere solo due ragazzi.
Di sopra ci attende lo stesso delirio da cui siamo scappati. Se possibile,
mi sembra perfino peggio. Avanziamo verso il nostro tavolo e non ho
neppure il tempo di chiedere a Des di chiamare Miss Silicone per ordinare
dell’acqua che Bre mi trascina di nuovo a ballare.
Sono troppo brilla per dirle di no, troppo sbronza di felicità per non
godermi questa serata fantastica, così lascio che la musica guidi il mio
corpo e che la mia mente entri in modalità “donna sensuale in pista”.
Il mio ragazzo non mi perde d’occhio, sento il suo sguardo rovente su di
me, anche se mi impegno a non guardarlo. Voglio divertirmi e so che, se
incrocerò i suoi occhi, tornerò da lui e gli starò appiccicata per tutta la sera
come una di quelle fidanzate koala, di cui prima o poi ci si stanca.
Quando dopo parecchi balli, decidiamo di fare una pausa, sono assetata
più di prima. Non sto scherzando. Ho bisogno di acqua. Tanta, pura e
freschissima acqua.
«Devo bere» urlo alle ragazze.
«Non stai esagerando?» mi rimprovera Faith.
«Sta’ tranquilla, non ho intenzione di toccare un altro goccio d’alcol.»
Nessuno delle due mi segue quando comincio ad allontanarmi, ma va
bene così. Il bar è vicino e non corro nessun pericolo.
Devo sgomitare un po’, prima di farmi vedere dal barman.
«Ciao, splendore.» Si avvicina e mi fa uno di quei sorrisi
strappamutandine che sono sicura vada a segno spesso. «Cosa ti do?»
«Dell’acqua, grazie.»
«Solo quella?» Inarca le sopracciglia con fare allusivo e lancia una lunga
occhiata al mio corpo. Mi ritrovo a ridacchiare come una stupida. I drink
che ho bevuto mi fanno sentire ancora il loro effetto e gira tutto, tanto che
mi aggrappo al bancone.
Sento delle mani posarsi sui miei fianchi con fare possessivo e
m’irrigidisco, ma poi quella voce, la sua, rimette il mio mondo in equilibrio.
«Solo quello, amico. Torna a fare il tuo lavoro.» Il ringhio che Des
rivolge al ragazzo non lascia spazio ai dubbi e, infatti, il tizio si rabbuia e
sparisce.
«Lo hai davvero invitato a cambiare aria?» lo provoco.
«Sì.»
«Non sei stato molto gentile. Non stava facendo niente» commento.
«Ti stava guardando le tette» sibila. «Le mie tette.»
«Dici?» Mi rimetto a posto il decolleté e il suo sguardo si fa fosco.
«Non sono una bambina, Ward. So badare a me stessa.»
Lancia un’occhiata maliziosa al mio corpo e questa sì che mi accende.
«Lo vedo da me che non sei una bambina» mugugna. Poi ordina una
birra.
Siamo qui da un paio d’ore, nel locale c’è ogni sorta di gente, dagli
universitari ai quarantenni in cerca di avventure; le luci psichedeliche si
riflettono sulle pareti creando delle ombre tremule e la visibilità non è delle
migliori, specie da questa parte, dove il bar è illuminato solo da alcune luci
a led blu. Tuttavia non mi sfugge l’entrata di due tizi dall’aria troppo tirata a
lucido per un venerdì sera. Catalizzano la mia attenzione perché con loro
c’è Violet.
È in forma, almeno così pare. Indossa una minigonna nera molto corta e
un top laminato troppo scollato. Da qui non riesco a vederla in viso, ma mi
sembra anche parecchio truccata, ed è chiaro che stasera sia intenzionata a
farsi guardare.
Faccio cenno a Des di avvicinarsi. «C’è Violet» lo informo, indicandogli
l’ingresso.
Segue il mio sguardo e si irrigidisce. Il barman poggia le nostre
consumazioni sul bancone, per cui siamo costretti a voltarci. Desmond
estrae alcune banconote e le dà al tizio, poi tracanna avidamente la sua
birra. È teso.
«Ehi!» Gli poggio una mano sul braccio e cerco di tranquillizzarlo.
«Se è venuta a ballare vuol dire che sta bene.»
«No.» Scuote il capo. «In posti come questo la gente come lei ci viene
per cercare la droga. Quei due che la accompagnano sono dei fattoni, Anais.
Non sta bene per niente, cazzo!»
Torniamo dai ragazzi, ma le sue parole mi ronzano ancora nelle orecchie.
So cosa significa essere invisibile. Come ci si sente a non sentirsi amati,
eppure non riesco a pensare a quanto a fondo si debba arrivare per lasciarsi
divorare dalla droga a soli diciannove anni.
Noto subito che Faith e Braden sono un blocco di ghiaccio, devono aver
litigato; Eva e Abel amoreggiano e Bre… guarda disgustata Liam.
«Vieni a sederti qui accanto a me» la sta supplicando.
«No, devo andare in bagno» taglia corto. «Vieni?» mi domanda.
In realtà è più o meno una supplica e cui non posso sottrarmi.
«Mi stai lasciando, Pasticcino?» Lo sguardo di Liam brilla di
divertimento.
A quanto pare le piace punzecchiarla, ma da come la fissa quando si
mette in piedi, credo che Breanna gli piaccia parecchio.
«Dio, liberami da questo deficiente!» sbuffa la mia amica, alzando gli
occhi al cielo.
Okay, ci è andata giù pesante in puro stile Bre, ma Liam ha un obiettivo,
non intende mollarlo e scoppia in una fragorosa risata.
«Dio» replica. «Fa’ invece che questo deficiente entri nelle sue grazie.»
«Non se continuerai a chiamarmi ‘Pasticcino’. Ogni volta che lo dici mi
si pietrifica un ovaio, Thompson. Riesci a capirlo?»
«Ricordi il mio cognome…»
«Sono un tipo attento.»
«Presto urlerai anche il mio nome.»
«E tu il mio nei tuoi sogni, e non sarà ‘Pasticcino’.»
Siamo tutti divertiti dalla scena, tutti tranne Faith e Brad che adesso
stanno discutendo in maniera poco discreta.
Cos’hanno quei due?
Mia sorella balza in piedi. «Vengo con voi. La devo fare di nuovo»
sbuffa.
I servizi sono affollati e dobbiamo aspettare un po’ prima che venga il
nostro turno, ma Bre la deve proprio fare, a questo punto anch’io ho
bisogno di svuotare la vescica ed Eva… be’, lei è messa peggio di tutte.
«Con tutto quello che hai bevuto» mi ammonisce Bre, quando vede che
saltello da un piede all’altro per trattenerla.
«Anche tu ci sei andata giù pesante.»
«Se volevo sopravvivere a questa serata, non avevo altra scelta. Mi avete
mollato un coglione, Anais.»
«Oh, ma dai! Non può non piacerti quel ragazzo» esclama Eva.
«Nemmeno se fosse l’unico uomo sulla faccia della terra. È troppo…
grosso. E… sicuro di sé. Troppo… biondo e… allampanato. Bleah!»
«Io lo trovo bello» intervengo.
Ed è vero. Liam Thompson è proprio un bel tipo, ma io ho Des e
nessuno regge il confronto.
«Bello… sì, forse un po’» mi sorprende Breanna.
Sorrido e mi guadagno un’occhiataccia da parte della mia amabilissima
amica.
Le piace Liam. Proprio come avevo intuito.
22.
Desmond

Questo modo disperato che ho di amarla non può essere quello giusto,
ma è l’unico che conosco per dimostrarle quanto è importante.

Vedere Anais fuori controllo, per la prima volta in mesi che la conosco,
mi dà alla testa. E malgrado io stia parlando della stessa testa che non è
sgombra dai pensieri, in questo istante mi sento fottutamente bene.
Ciò che disturba questo attimo di quiete è vedere Violet qui e in
compagnia di gente poco raccomandabile. L’istinto sarebbe quello di
afferrarla per un braccio e portarla via, ma la ragione mi dice che non
concluderei nulla e che, con molta probabilità, il mio gesto attirerebbe
l’attenzione della sicurezza che mi butterebbe fuori in un istante.
Forse ha ragione Anais, V. non vuole essere aiutata, ma non posso
ignorarla e soprattutto non riesco a dimenticare i suoi problemi.
Come se non bastasse, l’atteggiamento scontroso di Braden cancella il
mio buonumore. Continua a lanciare occhiatacce a Liam e Ian e ne riserva
qualcuna anche a me.
So cosa lo indispettisce e, presto o tardi, dovremo parlarne.
Dopo aver fatto un bel viaggio in quello che definirei il fantastico mondo
dei #DesAna – sarebbe un bell’hashtag, no? – ritorno al presente. Purtroppo
la verità è che io, Brad e V. saremmo sempre difficili frazioni, con un
denominatore comune: Jeremiah Spector.
«Allora, Ward! Ho sentito che hai fatto il grande passo.» Eva mi dà una
gomitata e sorride, ma non capisco a che cosa si stia riferendo.
«Ehi, quelle birre stanno facendo già effetto? Anais mi ha detto che hai
firmato il contratto.»
«Ah, quello!»
«Perché, c’è dell’altro?» Stringe gli occhi e sonda la mia espressione.
«No.» C’è così tanto “altro”, in realtà, che non mi basterebbe una vita
per metterla al corrente.
«Sì, ho un contratto. La prossima stagione starò di sicuro in panchina,
ma essere dentro è già qualcosa.»
«Sono contenta per te. Davvero contenta, Des.»
Sento che è sincera, anche se non ci conosciamo molto. Per tutto il
periodo che sono stato dai Kerper lei era al college, ma se Anais le è così
affezionata deve esserci un motivo, considerato il grado di stronzaggine dei
suoi parenti più prossimi.
«E con Anais, invece… Come va?»
Dopo la sua visita al campus e le vacanze di Primavera, che sia
preoccupata per sua sorella è davvero il minimo. Mi sono comportato come
uno squilibrato.
«Benone» dico subito e la mia urgenza non giova alla causa di
tranquillizzarla, così correggo il tiro.
«Stiamo bene. E staremo bene, non preoccuparti.»
Mi giro a cercare la mia ragazza. Sta parlando con Bre. A un certo punto
le dice qualcosa per cui sbotta in una sonora risata, gettando indietro la
testa, e m’incanto.
La mia Honey.
Sapevo cosa mi portavo dietro e non avrei dovuto toccare il suo cuore;
questo modo disperato che ho di amarla non può essere quello giusto, ma è
l’unico che conosco per dimostrarle quanto è importante.
«Non si taglia più» sussurra Eva, avvicinandosi.
«E non lo farà più. Te lo prometto.»
«Ha anche messo su qualche chilo» mi fa notare.
Lo so già, quindi annuisco orgoglioso.
«Sono così felice, Des!»
Be’, anch’io prima della ricomparsa del bastardo. Adesso sembra che il
mio castello dorato sia pronto a crollare.
«E tu come te la passi?» Mi sento in dovere di interessarmi alla sua vita.
È incinta e suo padre l’ha praticamente buttata fuori di casa. Nel suo
sguardo passa un lampo di sofferenza e mi acciglio.
«Qualcosa non va?»
Scuote il capo ma gli occhi le si riempiono di lacrime e mi muovo a
disagio sullo sgabello.
Dove cazzo è il suo ragazzo?
«Eva…»
«Okay, no. Non sto bene, ma non voglio che Anais si preoccupi.» Si
asciuga gli occhi e lancia un’occhiata verso di lei.
«C’entra tuo padre?»
«Non solo.»
La musica suona a un volume assurdo, ed è difficile continuare la
conversazione in queste condizioni. Dovremmo urlare, ma è evidente che
Eva voglia tenere segreti i suoi problemi.
«Ti va di prendere una boccata d’aria?» le propongo.
«Sì» mi dice subito.
Informo Anais che stiamo uscendo qualche minuto dal locale. «Tua
sorella ha bisogno di una boccata d’aria e io di fumare.»
«Va tutto bene?» domanda preoccupata.
«Certo, tesoro. Tieni gli occhi aperti. Saremo di ritorno fra un attimo.»
Annuisce e lancio un’occhiata a Brad per fargli capire di fare attenzione
alla mia ragazza e guardarsi intorno, anziché mettere il broncio come un
moccioso.
«Va’ pure» mi tranquillizza, ma evita di guardarmi.
Io ed Eva ci avviamo verso l’esterno, passando per l’uscita d’emergenza
davanti alla quale c’è meno confusione. Una volta fuori, respiriamo a pieni
polmoni l’aria pungente della sera.
Non c’è quasi nessuno, qualcuno sta fumando poco più in là, ma ci viene
garantita un po’ di privacy.
«Allora?» le domando. «Sputa il rospo, che ti succede?»
«C’è che sono incinta» butta fuori e scoppia in lacrime.
«Accidenti!» La tiro a me e me la stringo al petto. Poi lancio un’occhiata
alla porta dalla quale siamo appena usciti e immagino Anais, venire fuori da
lì e vederci in questa posizione, con sua sorella in lacrime e fra le mie
braccia.
Cerco di essere il più delicato possibile con lei e la scosto piano da me.
«Ricomponiti. Se non vuoi fare preoccupare Anais, sarà meglio che non ti
veda in queste condizioni.»
Eva tira su con il naso, passandosi i palmi sulla faccia per asciugarsi il
viso. Sembra così indifesa. Niente a che vedere con la ragazza che ho
conosciuto in quei pochi giorni dai Kerper. Allora era sicura di sé e dei suoi
obiettivi. Una ribelle ma con uno scopo. Adesso, invece, sembra una
bambina.
«Vuoi tenerlo… il bambino, intendo.»
«Non lo so» piagnucola ancora. «Dio, che disastro!»
Sarei tentato di ricordarle che, se lei e Abel avessero usato le giuste
precauzioni, tutto ciò non sarebbe accaduto, ma mi rimane ancora un po’ di
buonsenso e resto zitto.
«Pensavo che foste d’accordo di tenerlo…»
«Sì.»
«E?»
«E niente. Gli ho chiesto tempo e lui me lo sta dando.»
Ho una veloce visione di Anais al posto di Eva e qualcosa si muove
dentro il mio petto.
Che cazzo di piega sta prendendo la mia mente?
«Andrà tutto in fumo. La laurea, la mia vita. Dio! Ho solo vent’anni,
Des. Mio padre ha ragione.»
«Ehi!» La obbligo a guardarmi. «Sei stata una sprovveduta, perché è così
e lo sai anche tu. A che ti serve piangere adesso?»
Mi osserva ed è risentita. Sono stato duro, me ne rendo conto, ma non
c’è un modo per indorarle la pillola. È ora che smetta di frignare e che pensi
con lucidità a cosa fare della sua vita.
«Lo so benissimo, Des. Sono stata una stupida, ma amo Abel e l’amore a
volte rende stupidi.»
Nessuno lo sa più di me, ma dannazione! Questa ragazza porta un
bambino in grembo e l’idea che possa sbarazzarsene mi fa salire il sangue al
cervello.
«Abel vuole tenerlo.»
Grazie a Dio, quindi non riesco a capire perché sia così sconvolta.
«Mi ha detto che sarà con me qualsiasi cosa io decida…»
Meglio per lui! E mentre realizzo che se così non fosse io e il ragazzo
dovremmo fare una chiacchierata, mi rendo conto che Eva è un altro degli
affetti da inserire nella lista delle persone a cui tengo.
«Anche Anais si è affezionata all’idea.»
«Dovresti farlo» la incoraggio. «Tenerlo, intendo. Tua sorella ti aiuterà.»
«Lo so, è che… non sono abituata a fare affidamento su di lei. Di solito
è…» Si blocca prima di completare la frase, ma intuisco lo stesso che cosa
stava per dire.
Di solito è il contrario, è sempre stata Ana la più fragile delle due, ed
Eva è stata il suo appiglio per molto tempo. Non posso biasimarla se non è
convinta che adesso possa essere il contrario.
«Sono cambiate molte cose. Anais è più forte di quanto immagini.»
«Me ne sono resa conto.»
E dal suo viso traspare lo stesso orgoglio che vorrei brillasse nei miei occhi.
Quando torniamo, si è ormai calmata, ma nel momento in cui ci
avviciniamo al tavolo, noto che la mia ragazza non è al suo posto, così il
mio sguardo scatta sulla pista da ballo, però non è neanche lì.
«Dov’è Anais?»
Liam e Ian fanno spallucce e Braden non mi presta attenzione. A quanto
pare, dopo aver litigato per tutta la sera, lui e Faith hanno chiarito, e adesso
il mio amico sta praticamente sondando le tonsille della sua ragazza.
Avrei voglia di mollargli un pugno.
Dannazione! Gli avevo detto di tenerla d’occhio.
Giro su me stesso ed è allora che la vedo.
È appoggiata al bancone del bar, evidentemente brilla, e un tizio sta
facendo le radiografie alle sue tette. Di nuovo.
Il sangue comincia a pomparmi fin nelle orecchie, ronzandomi dentro le
vene.
Le porge un bicchiere, ma prima ci ficca dentro qualcosa e vedo rosso.
Che diamine…
Poco più in là, al buio, una ragazza dall’aria familiare attira la mia
attenzione. Solo quando mi sporgo in avanti riconosco quella ciocca
colorata fra i capelli: è Violet. Sta guardando la scena senza fare altro. Dei
tizi che poco fa l’accompagnavano non c’è traccia.
Non ho il tempo di elaborare la scena per darle un senso, perché nel
frattempo il coglione si avvicina ad Anais e le dice qualcosa all’orecchio;
lei si irrigidisce, poi afferra il bicchiere con rabbia e butta giù il suo
contenuto.
È un gesto sconsiderato e la collera mi ribolle nel sangue.
Sto sognando. Non può essere altrimenti.
In che razza di universo parallelo sono finito?
Il tipo di prima allunga un braccio e le scosta i capelli dalla fronte. Vorrei
tagliargli quella cazzo di mano, ma lei non si scosta e io non ci vedo più.
Mi accorgo con orrore che Anais sta ingurgitando il contenuto di un altro
bicchiere.
Che cazzo le dice la testa?
Una feroce sensazione di pericolo mi pervade. Faccio lo slalom fra la
folla. Questo posto è diventato un casino, non riesco a procedere di un
metro. Spintono la gente che continua ad accalcarsi davanti a me come se lo
facesse apposta e nel frattempo perdo di vista Anais.
Finalmente, individuo di nuovo la sua chioma bionda e, quando sono a
pochi metri da lei, mi accorgo che stavolta sta sorridendo al tipo che le ha
offerto da bere.
Ma che diamine… È ovvio che ormai è completamente sbronza. Non si
regge quasi più in piedi. Mi scrollo l’ennesimo coglione ubriaco di dosso e
raggiungo la mia meta.
Afferro il tizio per la maglietta e lo sbatto contro il bancone. «Che cazzo
fai?»
«Ehi, amico! Che cazzo fai tu?»
«È la mia donna, coglione! Sta’ alla larga.»
Lo stronzo mi ride in faccia. Il suo fiato è pesante e sa di alcol. «È
proprio una gran figa!»
Afferro il suo bicchiere e lo annuso.
«L’hai drogata, bastardo?»
Non posso esserne sicuro, ma ho visto abbastanza merda nella mia vita
da saltare a questa conclusione.
Quando non mi risponde e ghigna, lo colpisco e sento l’inconfondibile
rumore delle ossa rotte.
Un fiotto di sangue caldo gli fuoriesce dal naso e m’imbratta le mani.
«Io ti ammazzo!»
Indietreggia mentre impreco, prima di caricare, buttandolo a terra,
gridando e sferrandogli altri pugni violenti in faccia. Prova a difendersi, ma
non riesce a evitare nemmeno un pugno, poi resta inerme e comincio a
sentire tutto: il sangue caldo e appiccicoso sulle mani, il rumore rivoltante
dei miei colpi a contatto con il suo viso, il silenzio soffocante della gente
intorno a noi.
Mi accorgo vagamente di aver centrato qualcun altro nella colluttazione,
deve essersi avvicinato nel frattempo e, quando getto un’occhiata intorno a
me, realizzo che si tratta di Violet.
È a terra e si sta tamponando una ferita al sopracciglio.
Questo dovrebbe bastarmi a darmi una calmata, non ho mai picchiato
una donna, ma sono ormai fuori controllo. Tutto quello che ho vissuto fino
a oggi mi piomba addosso, caricandomi a molla. Dovrei prestare soccorso
ad Anais, ma la furia mi acceca e voglio solo ammazzare questo coglione
per quello che le ha fatto e che – sono sicuro – aveva in mente di farle dopo,
quando sarebbe crollata svenuta.
Avverto qualcuno prendermi per le spalle. «Buono, amico. Così lo
ammazzi.» È Thompson.
Quando tento di liberarmi da lui, Sherman mi poggia le mani sul petto e
Braden cerca di calmarmi. «Des, è fuori combattimento. Ti farai arrestare.»
«Deve averla drogata» urlo ancora.
Cosa diavolo ha messo nel suo bicchiere?
«Che cosa hai detto?» mi chiede Brad incredulo. Stringe i pugni e il suo
viso scatta di lato verso la carcassa umana gettata per terra, dolorante.
«Volevi stuprarla!» continuo a inveire. «Verrò a cercarti, bastardo. Puoi
giurarci!»
Due buttafuori si fanno largo fra la folla ammassata intorno a noi, ed è
allora che riprendo il controllo e mi giro verso la mia ragazza.
«Des…» Il suo sguardo è vacuo, come se non riuscisse a mettermi a
fuoco.
«Non mi… non mi sento molto bene.»
Eva la raggiunge, ma non fa in tempo a sostenerla che lei si accascia,
sbatte con violenza la testa contro il bancone e poi crolla a terra come una
bambola di pezza.
Il rumore sordo che fa il suo corpo contro il pavimento è agghiacciante.
La raggiungo, gettandomi vicino a lei per stringerla fra le braccia.
«Anais» urlo, ma non reagisce.
Cristo! Devo portarla subito in ospedale.
«Ho già chiamato l’ambulanza» mi informa il tipo più grosso della
sicurezza.
«Fra poco saranno qui anche gli sbirri» fa l’altro, evidentemente
scocciato dalle ripercussioni che questo avrà sulla serata e anche sul locale.
Non abbiamo l’età per bere alcolici, eppure ce li hanno serviti senza
prestare attenzione ai nostri documenti falsi. In più, a quanto pare, è
piuttosto facile introdurre della droga qui dentro, per cui la polizia non ci
andrà leggera.
Probabilmente neanche con noi, ma al momento è l’ultimo dei miei
pensieri.
Tutto ciò che accade dopo è evanescente, come se qualcuno avesse
spento la luce e mi avesse tappato le orecchie. Adesso sono io a tenere
Anais fra le braccia. È pallida. Troppo. Le accarezzo il viso, le labbra con il
pollice, tentando di dar loro colore. È come morta e io mi sento morire con
lei.
Sembra così fragile fra le mie mani e avverto la disperazione farsi largo,
spintonando, attraverso i miei organi, atrofizzandomi stomaco e cuore ma
non la mente. Quella è vigile e sta pregando Dio che non accada nulla alla
mia Honey.
«Quanto cazzo ci mettono?» grido a qualcuno. Forse a Brad, che si
accerta che l’ambulanza sia stata davvero chiamata. Il suono delle sirene mi
fa tirare un sospiro di sollievo.
Anais mi viene strappata via, adagiata per terra. I paramedici m’intimano
di stare indietro, di farli lavorare, ma Liam deve tenermi buono, perché
l’ultima cosa che voglio è lasciarla.
Osservo la scena che si svolge davanti ai miei occhi come se fossi
sott’acqua. Le controllano il polso, le bloccano il collo con il collare
cervicale, lo stesso che misero a Zach quella volta, poi le infilano una
mascherina per l’ossigeno e la sistemano sulla barella.
Sono vagamente cosciente del silenzio irreale che è calato in questo
posto. Vagamente cosciente di Eva, Faith e Breanna che singhiozzano e
della polizia che si sta occupando del bastardo che ho quasi ammazzato.
«Des, forse è meglio che parli con i poliziotti» mi avvisa Ian.
«Devo andare con lei…»
«È in buone mani, amico. Ci sono le ragazze, potrai raggiungerla dopo»
cerca di farmi ragionare. «Quel bastardo ti denuncerà per aggressione. Devi
dire loro che cos’è successo.»
«Credi che m’importi?»
«Dovrebbe» interviene Brad. «Se finisci dentro, lei rimarrà da sola.»
So cosa sta tentando di dirmi e ha ragione. Con Jeremiah in giro non
posso permettermi di farmi mettere fuorigioco.
E poi c’è Violet. Stasera è venuta qui perché c’eravamo noi. Aveva uno
scopo, non ci sono dubbi, e il fatto che la mia ragazza sia su una barella, in
una cazzo di ambulanza, ne è la prova.
«Dove la state portando?» chiedo a uno dei paramedici.
«Lei è un parente?»
«Sono il suo ragazzo.»
Lancio un’altra occhiata ad Anais e una nuova ondata di rabbia mi
pervade. Il terrore di perderla mi sottomette.
Non posso lasciarla da sola.
Mi giro verso i poliziotti, ma uno di loro mi sta già raggiungendo.
Devo obbligarmi a ignorare il pezzo di merda di cui si sta occupando un
altro paramedico, altrimenti rischio di finire quello che ho iniziato.
Ignoro anche Violet. Non m’importa di vedere il suo volto insanguinato
dalla ferita che si è procurata, probabilmente cadendo. Non m’importa se
sono stato io a causargliela. Se questo fa di me un bastardo, lo accetto.
Questa ragazza non può più godere della mia benevolenza.
Jeremiah.
C’entra con lui più di quanto voglia far credere e non riuscirò mai a
dimenticare la scena di lei che osserva, mentre Honey butta giù quella
merda.
L’ho vista, cazzo!
«Ho una deposizione da fare, agente, ma la mia ragazza sta per essere
trasportata in ospedale e devo andare con lei.»
Il poliziotto annuisce. Ha un’aria paterna che spingerebbe chiunque a
fidarsi di lui. Ha capito la situazione e sembra piuttosto contrariato con il
tipo che aspettano di interrogare. «Lei è il signor?»
«Ward. Desmond Ward» rispondo impaziente. «È possibile chiederle di
seguirmi in ospedale per raccogliere la deposizione?»
«Presumo di sì» mi dice comprensivo.
«Allora la aspetterò. La ringrazio, signore.»
Pochi secondi dopo, siedo accanto alla mia ragazza inerme e attaccata a
una macchina che fa paura, in uno spazio angusto e asettico, mentre le
sirene riecheggiano per le strade di Los Angeles ricordandomi ogni secondo
che cosa stava per accadere.
Le stringo la mano. È fredda.
Mi accorgo che sul suo corpo non ci sono ferite. Non c’è sangue, il suo
splendido volto è intatto, solo troppo pallido. E dannazione!
Quest’ambulanza non va abbastanza veloce.
23.
Anais

Soffoco… non sono morta, ma è come se in questo istante potessi


morire davvero.

Se sono morta perché riesco a sentire queste voci? E i rumori… sento


anche quelli.
Lontani, poi più vicini. È come se non avessi più il controllo del mio
udito. Sono dei bip che arrivano a intermittenza, voci concitate che urlano
di far presto.
Ero con Breanna prima di… non ricordo cos’è successo, ma non posso
fare a meno di chiedermi come stia lei.
Vorrei domandarlo a qualcuno, percepisco di non essere sola e tuttavia
non riesco a pronunciare una sillaba.
Sono avvolta dal buio, sento il corpo pesante; è come se tentassi di
tornare indietro, ma da dove?
Mi tornano alla mente tutti quei discorsi sul trapasso e su come ci si
sente. Un amico di mio padre, una volta, mi raccontò che durante il suo
periodo di coma dopo un incidente, aveva visto il paradiso. Pare che non
avesse nessuna memoria della sua vita terrestre, fluttuava senza peso,
incapace di riconoscere i concetti di tempo e di spazio.
Mi disse anche che per lui quel viaggio era durato per sempre;
cominciato sottoterra, in un luogo buio come adesso sembra il mio, e
consumato in alto, in un posto dove la luce era invece abbagliante e dove
poi arrivarono i colori: tanti, vivaci e di ogni sfumatura presente in natura.
È quello che vivrò fra poco anch’io?
Sono in coma e mi sveglierò, o sono già morta?
Avverto esattamente una sensazione di impotenza, sono intrappolata e
non so come venirne fuori.
Mi giungono pensieri confusi, stralci di una conversazione che non sono
sicura di aver fatto davvero, né so con chi.
«Resta con me, Honey.»
«Dio, è tutta colpa mia. Non avrei dovuto lasciarti sola.»
Des…
Non ricordo cosa è successo, ma so cosa stava succedendo a noi. Ogni
volta che mi guarda, sembra vedermi come qualcosa di irraggiungibile e
che non merita. Vorrei urlargli che solo lui ha visto i miei sorrisi più belli e
questo significa molto di più di tutte le paranoie che lo stanno affliggendo.
Provo ad alzare una mano per cercare il suo volto, ma i bip si fanno più
vicini e rumorosi.
Sento l’agitazione intorno a me. Oltre le palpebre pesanti vedo delle luci,
poi la sensazione di qualcosa di duro, come plastica, che mi viene ficcato
giù per la gola. Il senso di soffocamento è terribile, cerco di ribellarmi, il
mio corpo non risponde a nessun comando però sente tutto.
Soffoco… non sono morta, ma è come se in questo istante potessi morire
davvero.
24.
Desmond

Il mio cuore pompa veloce, ma è come


una pietra che cerca di spaccarmi il petto.

Mi fiondo dentro l’ospedale seguendo i paramedici. Avverto vagamente


la presenza dei ragazzi dietro di me. Sento i loro passi agitati, ma mi non
volto indietro nemmeno una volta. Inciampo su una barella vuota e
l’infermiera che la trasporta mi guarda male. Vaffanculo! Ho il diavolo in
corpo.
Un’altra mi fa cenno di dirigermi verso la sala d’aspetto. «Signore, deve
restare qui. Faccia lavorare i medici, adesso.»
Non replico ma, fregandomene delle buone maniere, comincio a correre
verso il posto in cui hanno portato Anais.
«No!» urla la stessa infermiera.
Col cazzo!
Mi si para di fronte prima che possa fare irruzione dentro la stanza del
pronto soccorso. «Ho detto che deve lasciarli lavorare. Lei è un parente?»
Sto per dirle che è mia moglie, perché l’ho considerata tale da quando ci
siamo tatuati quell’anello al dito, ma interviene Thompson.
«È la sua ragazza.»
La donna annuisce, mentre lancia un’occhiata dentro la stanza.
«Se continua a fare così, la butteranno fuori. Sia ragionevole e
l’aggiornerò ogni mezz’ora.»
«Ogni mezz’ora?» Ho alzato la voce, ma la disperazione mi fa essere
sgradevole e per questo mi becco un’altra occhiataccia, stavolta non solo
dall’infermiera.
Sento una mano sulla spalla. Lo sguardo compassionevole di Braden è
come un pugno in pieno stomaco e rende tutto più vero.
«Non c’è niente che tu possa fare, amico. Dobbiamo solo metterci seduti
e aspettare.»
«Quanto è grave?» chiedo alla donna e mi sento come in trance.
«Non posso dirle altro. Non so perché la sua ragazza è qui. Dia ai medici
l’opportunità di occuparsi di lei e fra un po’ andrò a chiedere notizie.»
Capitolo. Non c’è niente che possa fare e questo non fa che amplificare
la mia smania.
Mi sembra assurdo starmene seduto senza occuparmi di lei, ogni mio
arto trema per lo sforzo di non fare cazzate.
La sala d’attesa non è molto grande, le poltrone sono scomode, i muri
ingialliti dal tempo. Tutto mi sembra lugubre, come se un triste presagio
stesse per abbattersi su di me.
Conosco ogni tipo di droga, quel bastardo deve avergliene dato una dose
enorme, per metterla fuori uso in così poco tempo.
E poi quella caduta, il terribile rumore del suo corpo che piombava
contro il bancone…
Non riesco a stare fermo, le mie gambe si agitano, le muovo in maniera
convulsa. Sembra che mi tremi anche il cuore e forse è davvero così.
«I vostri genitori» mormoro a Eva, che rimane stretta fra Faith e
Breanna. Le ragazze sono sconvolte.
Brad mi siede accanto come gli altri, ma verso in uno stato di pietosa
confusione. Non so che fare, come reagire. La paura mi attanaglia e rende il
mio cervello incapace di ragionare.
«Li ha chiamati Faith. Preoccupati solo di Anais.»

Non so quanto tempo è passato, per quanto mi riguarda sembra essersi


fermato. L’infermiera è venuta da me solo una volta per dirmi che la
situazione va monitorata e che Anais sembra stabile. Non possiamo ancora
vederla e, quando si accorge che sto per dare di nuovo di matto, mi rinnova
la sua promessa di tornare da me ogni mezz’ora per aggiornarmi, ma quella
stupida promessa non mi basta più. Voglio vederla, cazzo! Voglio vedere il
suo sorriso, il suo broncio, l’aria da maestrina che talvolta le viene con me e
quella da ragazzaccia appena prima di fare sesso.
Mi accorgo che è arrivato Luc solo quando si inginocchia davanti a me
per confortarmi e allora sbotto e inizio a piangere. Perché ogni parola, ogni
pacca sulla spalla o sguardo impietosito è una stilettata in pieno petto. È
come se tutti osservassero inermi la gravità della situazione, convinti che
finirà nel peggiore dei modi.
E d’stinto comincio a credere che se loro lo pensano, questa situazione
diventerà reale e non sarà solo il brutto sogno che credo di stare vivendo.
Non posso che pregare. Che Dio la lasci con me, a vivere la vita che
avevamo progettato insieme. Voglio vederla percorrere la navata della
chiesa a cui è legata, nel giorno del nostro matrimonio. Tenere in braccio
nostro figlio, mentre cerca di addormentarlo.
Voglio vederla sorridermi e guardarmi come fa sempre, come se fossi
l’unico al mondo, perché lei per me è l’unica. Voglio vederla invecchiare al
mio fianco, mentre le sussurro che l’amo ancora e che se è vero che si
rinasce, la mia anima scorderà tutto tranne lei e continuerà a cercarla anche
in un’altra vita.
Mi aggrappo a quelle immagini e nel frattempo porto il tatuaggio alle
labbra perché ho bisogno di sentire il nostro legame. Più forte, così
profondo e resistente, che spero basti a tenerla legata a me. In questa vita.
I suoi genitori arrivano nel momento in cui mi alzo e sferro un pugno per
aria.
Matthew e Sarah si avvicinano e abbracciano Eva, distrutti. Li lascio fare
perché vederli vicini, in questo momento di atroce tensione, allontana parte
del terrore che mi attanaglia, ma non riesco a dimenticare che razza di
comportamento i Kerper riservino alle loro figlie. Che razza di
comportamento abbiano riservato ad Anais.
E se fosse troppo tardi per dimostrarle quanto sia importante per loro?
Vorrei urlarglielo. Vorrei dirgli che non hanno il diritto di stare qui a
preoccuparsi, ma cosa ne so io di cosa significhi essere genitori? Di quante
volte un padre rischi per poi fallire veramente nel suo ruolo? Che cosa ne so
di quanto sia difficile ammetterlo e chiedere scusa?
Scusa. A me nessuno lo ha mai chiesto e le colpe dei miei genitori sono
state ben peggiori di quelle dei Kerper.
Matt mi lancia una lunga occhiata e so che cosa sta pensando, ma
onestamente non me ne frega un cazzo. L’altra sera sono stato chiaro. Non è
una cosa che abbiamo potuto evitare.
Sto pensando al futuro e in qualche modo la cosa mi getta ancora di più
nella disperazione. Nella mia vita non mi è mai stato concesso di sperare e
non vedo perché le cose dovrebbero cambiare adesso.
La porta della stanza in cui l’hanno infilata quando siamo arrivati si apre
e ci muoviamo in sincrono, andando incontro a un anziano dottore.
«Siete i familiari di Anais Kerper?»
«Siamo noi» recitiamo all’unisono.
«Sono il dottor Petterson e mi sono occupato della vostra ragazza.»
Il suo volto è stanco, affranto e… sconfitto, ma mi rifiuto di soffermarmi
su quest’ultimo aspetto.
«È arrivata qui con un trauma cranico. L’ematoma che si è creato ha
sottoposto il cervello a una notevole pressione e lo ha spinto verso il basso,
causando un’ernia cerebrale.»
Comincio a sentire le sue parole ovattate. Non capisco cosa sta dicendo,
a un certo punto sento solo un borbottio, ma dal suo viso traspare la gravità
della situazione.
Cristo! Vorrei che non avesse quell’espressione.
L’ultima frase schiocca comunque dentro di me come un colpo di frusta.
«Abbiamo cercato di stabilizzarla, ma i suoi valori sono crollati e
abbiamo dovuto rianimarla. Il mix di droghe che ha preso non ci ha
aiutato.»
«Non l’ha preso volontariamente!» Mi sento in dovere di difendere il
mio angelo. «È stata drogata» specifico.
Il medico annuisce. «Capisco.» Mi guarda e la pena nei suoi occhi è così
palese che mi fa cadere in ginocchio prima ancora che lo dica. Braden mi
poggia una mano sulla spalla e stringe.
È qui con me, eppure per la prima volta, nella mia patetica vita, la sua
presenza non mi basta.
«Siamo stati costretti a indurre il coma farmacologico. Nei prossimi
giorni proveremo a risvegliarla, ma è ancora presto per fare pronostici.
Dobbiamo solo aspettare.»

Ci hanno dato il permesso di vederla.


Matt è rimasto a parlare con il dottore. Sarah sarebbe voluta entrare per
prima, ma Eva l’ha bloccata non appena si è mossa.
«Fa’ andare per primo Des, mamma.»
Lei non sembra contenta ma non piazzerebbe una scenata neppure per
sua figlia.
Siamo stati costretti a indurre il coma farmacologico.
Indotto o meno, per me non fa differenza. Anais è lontano.
Nei prossimi giorni proveremo a risvegliarla, ma è ancora presto per
fare pronostici.
Ho fatto finta di non capire il dottore, ma le sue parole hanno fomentato
la rabbia e mi sono sentito a un passo dal mettergli le mani al collo, come se
la condizione di Anais fosse colpa sua. In alternativa, ho preferito tirare un
pugno al muro, lesionando l’intonaco. La mano mi fa un male cane, è
probabile che sia rotta ma ho rifiutato di farmi vedere.
Dobbiamo solo aspettare.
Aspettare…
Mi avvicino alla porta della stanza e fisso l’uscio chiuso come in trance.
Fra poco la vedrò e ho paura di realizzare che le parole del medico sono
vere e che la mia Honey potrebbe non svegliarsi per un po’. “Per sempre”
non è all’ordine del giorno.
I ragazzi sono con me. Anche se non entreranno vogliono sostenermi.
«Ti serve del tempo?» mi chiede Liam, notando che resto fermo.
«Ho paura» ammetto.
Tre mani si posano sulle mie spalle per farmi coraggio.
«Chi non ne avrebbe?» A parlare è Brad. Ha gli occhi lucidi e un’aria
frastornata.
Tutto questo dramma non si è riversato solo su di me.
Dei colpi di tosse mi inducono a voltarmi. Provengono dalla camera di
fronte a quella di Ana. La porta è aperta. Resto spiazzato nel vedere Violet
lì dentro. Non si accorge di me e, mentre un’infermiera le offre dell’acqua,
sembra confusa.
Non pensavo che la ferita alla fronte fosse così grave, ma a quanto pare
hanno voluto accertarsi che fosse tutto a posto.
Fra i capelli spicca la ciocca colorata, stavolta è rossa come il cuore di
un fuoco ardente. È pallida e sulla fronte porta una benda; è possibile che le
abbiano applicato dei punti di sutura, però non provo nessuna pietà.
Sono come anestetizzato, non sento più nemmeno il dolore alla mano.
Torno a fissare l’uscio ancora chiuso oltre il quale troverò la mia ragazza
e mi faccio forza. Abbasso la maniglia piano, come se la mia cautela
bastasse ad allontanare lo spettro della morte.
La porta si apre ed entro.
La prima cosa che vedo sono i tubi: numerosi e di tutte le dimensioni,
che entrano ed escono dal suo corpo martoriato.
L’odore del disinfettante mi dà la nausea, tutto questo candore è tetro più
del buio.
Deglutisco un paio di volte, ho la gola secca. Il mio cuore pompa veloce,
ma è come una pietra che cerca di spaccarmi il petto. Non c’è nulla di
morbido lì dentro. Fa male e mi squassa in due.
Mi avvicino al suo letto e un nodo di emozioni contrastanti mi stringe la
gola. In realtà è come un cappio intorno al collo, perché questo corpo, che
giace inerme ed esanime davanti a me, non è più quello di Honey.
La tocco: è calda, ma la sua immobilità è inquietante. Mi blocco a fissare
il suo petto che si alza e si abbassa, regolato dal suo respiro.
È viva, cristo! Ma poi la realtà mi investe, atroce com’è, e allora realizzo
che questo non è il suo respiro, ma è quello artificioso di una macchina che
la sta aiutando a non oltrepassare il confine fra la vita e la morte.
Mi accorgo di stare piangendo quando alcune lacrime bagnano la sua
mano; una mano che mi ostino a stringere, come se a un certo punto potessi
percepire un movimento e la vitalità tornare in lei, ma non accade niente e
l’angoscia mi divora.
Comincio a chiamarla. Dapprima, il suo nome sulle mie labbra è un
sussurro, ma lei non si sveglia, le sue palpebre rimangono serrate, il volto
immobile.
«Non ti importa?» stavolta urlo, disperato. «Non ti importa niente se io
verrò con te? Ovunque andrai, Anais. Sarò con te, dannazione!»
Sento la porta aprirsi e i miei amici mi vengono incontro. Cercano di
allontanarmi da lei, ma non voglio. Non posso ancora. Honey deve
ascoltarmi.
Pretendo che percepisca il mio dolore, che capisca cosa mi sta facendo e
che trovi una scintilla dentro di lei per ritrovare la porta di casa.
«Des, per l’amor del cielo, amico!»
Braden piange con me e tenta ancora di tirarmi via dal suo capezzale, ma
sono una statua di cemento.
«La risveglieranno» cerca di farmi ragionare Liam, ma è come se
parlasse un’altra lingua.
«Torna da me! Non puoi farmi questo» continuo a urlare, finché la mia
gola sembra in fiamme e allora mi accascio a terra, versando tutte le lacrime
che non credevo di avere.
Vuoto. È così che mi sento adesso. Non sono niente e nessuno può
aiutarmi.
Liam mi costringe ad alzarmi. «Usciamo di qui.»
Lo seguo, ma sono un uomo a cui è stato strappato il cuore, la brutta
copia di uno stupido robot. Non mi giro nemmeno una volta. Fa troppo
male vederla.
In questo momento Honey non c’è e potrebbe non tornare per un po’;
accettarlo è come puntarsi una pistola alla tempia e avere la forza di
premere il grilletto.
Sulla soglia alzo gli occhi e il mio sguardo viene catturato di nuovo da
Violet. Ha il volto rigato dalle lacrime, deve avermi sentito.
Voglio andarmene, ho bisogno d’aria, ma nelle sue iridi cerulee scorgo il
rimorso e mi fermo a guardarla sconcertato dalla sua falsità. Vuole farmi
credere di provare parte del dolore che è stata lei a infliggerci, ma non me la
bevo.
«Mi dispiace» mormora e io mi raggelo.
Non può essere così meschina.
Altre lacrime scorrono sopra un livido comparso sulla sua guancia. «Mi
dispiace tanto, Des.»
«Sai solo dire questo?»
La rabbia prende il posto del dolore, perché lei è viva e Honey è lontana,
persa chissà dove. Faccio un passo verso la sua stanza. Voglio urlarle il mio
disprezzo, ma Braden comprende le mie intenzioni e rafforza la presa
intorno al mio braccio. «Non sei in te, Desmond. Non adesso, fratello.»
«No.» Mi scrollo la sua mano di dosso. «Lasciami stare. Ti dispiace, hai
detto?»
«Jeremiah la voleva» singhiozza. «E io volevo la droga.» Si strofina il
braccio, laddove è stato più volte bucato, e trema. «Ne ho bisogno, Des. Ti
prego, perdonami.»
«Dov’è lui?» sibilo, mentre la voglia di ucciderlo non può più essere
ricacciata indietro.
Stava per dar luogo alla sua minaccia, stasera, davanti a me. Me
l’avrebbe sottratta e l’avrebbe portata chissà dove. L’avrebbe violentata,
probabilmente, solo per prendersi la sua innocenza, solo per sporcare
l’unica cosa pulita della mia vita.
«Non lo so» mormora e abbassa gli occhi sulle lenzuola, poi il cellulare
sul comodino vibra e prima che lei possa prenderlo, lo afferro e leggo il
messaggio che le è arrivato.
SONO SUL TETTO. DILLO AL MIO BAMBINO.
Cristo!
Le getto il telefono fra le gambe e lei si affretta a leggere il contenuto del
messaggio.
«Non andare, Des» mi supplica.
«Dove?» domanda Brad. «Dove stai andando?» mi segue, quando esco
dalla stanza.
«Vado a finire quello che ho iniziato tempo fa.»
«Col cazzo!»
«Stanne fuori, Brad.»
«No, dannazione!»
«Sta’ zitto, allora. Dobbiamo agire con discrezione. Sono tutti di là,
merda!»
«Va bene.» Finalmente abbassa la voce e mi segue.
La resa dei conti è arrivata.
25.
Desmond

A volte, vivere a colori, significa


accettare anche il bianco e il nero.

Procedo a tentoni, cercando la porta che dà sul tetto. Non devo correre, è
opportuno restare calmo altrimenti qualcuno si insospettirà, ma è difficile
quando l’unica cosa che vuoi è assecondare il tuo bisogno di vendetta.
Affissa sulla parete di un corridoio c’è una planimetria dell’ospedale.
Capisco da che parte andare e mi dirigo a destra, dove individuo una porta
con un grosso maniglione antipanico.
Conto i miei passi, cerco di dare un ritmo rilassato ai miei piedi – specie
quando incontro un gruppo di infermiere – ma il mio cuore è indiavolato e
la mente è in fermento.
Braden è dietro di me, mi segue ciecamente, tuttavia quando
cominciamo a salire le scale, prova a farmi ragionare un’ultima volta.
«Ne sei sicuro?»
«Più della mia stessa vita» gli confermo.
«Sei disarmato, Des. Se lui avesse un’arma?»
«Vedremo.»
Sono talmente accecato dall’ira che non ho considerato questa ipotesi,
eppure dovrei, perché Jeremiah è un uomo pronto a tutto.
Ma che importa ormai?
Voglio che paghi per quello che ha fatto.
Voglio che paghi per i suoi piani, per aver coinvolto la mia Honey nel
suo sporco gioco. Voglio che paghi per avere anche solo pensato di poterla
toccare.
La marmitta di un’auto scoppia giù in strada, l’odore del traffico
cittadino mi arriva pungente alle narici. Siamo fuori, è quasi l’alba, e mi
guardo intorno alla ricerca del bastardo.
«Vieni fuori!» urlo.
Fa la sua apparizione da dietro un muretto. Subito, perché mi stava
aspettando. La sua andatura claudicante lo farebbe apparire inoffensivo a
chiunque, ma so che non è così.
Ha una pistola fra le mani e la cosa stranamente mi fa sorridere.
«Stavolta sei venuto armato» lo provoco. «Non ti bastano più le tue
luride mani per minacciarmi?»
«Ti sei fatto grande e grosso. Ho solo preso delle precauzioni.»
Il suo sguardo scatta su Braden e fischia di approvazione. «Bene bene. Il
piccolo Brad.»
Il mio amico stringe i pugni e il suo sguardo si fa duro. Credo che in
questo momento stia facendo i conti con lo schifo che Jeremiah riesce a
rievocare.
«Sai, ho pensato molto a te, in questi anni. Forse non avrei dovuto
risparmiarti. Avrei potuto avere entrambi.»
«Sei un porco schifoso» sibila Braden.
«Sì, lo sono.» Ride e si rigira la pistola fra le mani. «Ma Des mi era
entrato sottopelle e avrei fatto di tutto perché mi amasse. La sua unica
richiesta era di lasciarti stare.»
Un sudore freddo mi attraversa la schiena. Si è alzato un po’ di vento e
chiudo gli occhi per un secondo, cercando di calmarmi. Ha un’arma, noi no
e, se gliene daremo motivo, sono sicuro che la userà.
Una porta si apre e con orrore mi rendo conto che qualcun altro è salito
fin quassù.
Sento dei passi concitati ed esito un po’, poi mi muovo in quella
direzione, come se potessi scongiurare la reazione di Jeremiah.
«Sta’ fermo!» mi intima infatti.
Ha l’arma puntata verso la porta.
Nel viso di Braden c’è il mio stesso timore di veder comparire qualcuno dei
nostri amici.
«Desmond.» Luc mi sta venendo incontro, sollevato. «Grazie a Dio sei
qui. Quella ragazza… mi ha detto che…» Poi si accorge dell’uomo che lo
tiene sotto tiro e si blocca.
«Così è lui la feccia che ti ha messo le mani addosso.»
«Per servirla, signore.» Jeremiah si fa beffe della sua collera.
«Ho chiamato la polizia. Metti giù la pistola e arrenditi.»
Ma anziché essere intimorito, il bastardo ghigna e agita la pistola per
spaventarci.
Per un attimo la mia mente mi mostra ciò che potrebbe accadere,
illudendo ogni altro senso: il rumore sordo del colpo, dovuto al silenziatore,
poi lo schianto del proiettile contro il corpo di Luc e la polvere da sparo che
odora di morte.
Scrollo e il capo e allontano quell’immagine.
«Che cazzo fai?» urlo. «Vuoi davvero ucciderci? Sei un pedofilo. Un
cazzo di pervertito, ossessionato dai bambini che ha violato, ma non sei un
assassino. Vuoi diventare anche quello?»
«E tu?» Mi sorprende con quella domanda. «Perché sei venuto qui? Non
vuoi forse uccidermi?»
È vero, ma non lo dico. Il suo sguardo è spiritato, probabilmente si è
fatto di coca o chissà che altro.
«Sei il mio bambino, Des. Ti ho sempre amato. Non mi ami anche tu?»
Con la coda dell’occhio noto che Luc trasalisce.
Sono sicuro che, se azzardassi uno sguardo nella sua direzione, vedrei lo
sdegno trasformagli il volto, ma conosco Jeremiah tanto da essere sicuro
che se lo facessi, capirebbe che è importante per me e lo userebbe per
colpirmi.
«Vieni da me, Des. E lascerò andare loro due.»
«Non ti azzardare a toccarlo» lo minaccia Luc.
Lo sguardo del mio aguzzino diventa truce. Torna a puntargli l’arma
contro e spara un colpo fra i suoi piedi. «Stanne fuori. Va’ via, tu non
c’entri con la nostra storia.»
«Non c’entro, dici? Vuoi mettere le mani su mio figlio. C’entro
eccome!»
Merda! No!
L’espressione di Spector adesso è di stupore, poi si tramuta in odio e
osservo con orrore il suo dito muoversi di nuovo sul grilletto.
«Tuo figlio…» sibila.
Mi affretto a dire qualcosa. «Cosa sarei io?» Mi rivolgo a Luc,
deridendolo.
«Non sarai mai mio padre e non sarò mai il figlio che hai perso. Dovevi
lasciarmi stare.»
Lo sgomento che lo attraversa dura un attimo, perché capisce. Grazie a
Dio lo fa e mi regge il gioco.
«Des… ti voglio bene.»
«Davvero? Che grande perdita di tempo!»
Jeremiah sogghigna. È soddisfatto. Riconosce il ragazzo che ero un
tempo, quello che ha rovinato affinché diventasse detestabile, talmente
chiuso in se stesso da non fare avvicinare nessuno, così lui sarebbe stato
l’unico.
È chiaro che s’illude di poter essere l’unico ancora adesso, per cui
continuo a mentire.
«Lasciatemi da solo con lui.»
«Che cosa?» ansima Brad.
So che gli sto chiedendo l’impossibile, ma non c’è un’altra soluzione. A
questo punto spero che le parole di Luc siano vere e che abbia chiamato la
polizia. Sono stato uno stupido a credere di poter gestire questo pazzo da
solo.
La realtà dei fatti comincia a penetrare nella mia mente accecata
dall’odio e inizio a tremare. Non di paura, ma per la smania di ucciderlo.
«Andate via, ho detto!»
Luc e Braden si lanciano un’occhiata, poi annuiscono.
«Trovate una scusa plausibile per gli sbirri, altrimenti lui…» Fa cenno
verso di me, e usa ancora quella maledetta pistola che turba mio padre e il
mio migliore amico.
«Be’, non vorrei farlo, ma se mi costringete non avrò altra scelta.»
Luc compie un passo in avanti e lo ammonisco, scuotendo lentamente il
capo per implorarlo di fare come ha detto.
Con riluttanza li vedo voltarmi le spalle e andare via. Resto solo con
Spector e sento l’adrenalina pomparmi nelle vene.
Il mio pensiero corre ad Anais e quel cuore che sento indurirsi piano si fa
liquido in un istante.
La rivedrò?
Dio, mi auguro di sì!
Ma se non dovesse essere, spero che si riprenda, che il dottore possa
davvero risvegliarla e che viva la sua vita, così come ha imparato a fare,
quando credevamo di avere a disposizione tutto il tempo del mondo.
«Siamo soli, ora. Poniamo fine a questa pagliacciata.» Ansimo, mentre
lo osservo sorridere, al di sotto della barba.
Adesso la porta più lunga, eppure i lividi che gli ho lasciato addosso con
il mio pestaggio sono lo stesso evidenti.
«Credi che sia una pagliacciata, Des?»
«Dipende…» lo provoco. «Sappiamo entrambi come finirà.»
Il suo ghigno si spegne piano. «Sono malato. Cancro alle ossa, hanno
detto. Pare che mi resti poco. Credi davvero che m’importi se mi uccidi?»
No, a questo punto non può importagliene, ma il cancro non è una
punizione sufficiente a scontare gli abomini che ha compiuto.
«Morirò comunque» aggiunge. «E tu verrai con me.»
«Scordatelo!»
«Cosa?»
Lo sto sfidando, ma non ho alternative per sperare di uscire vivo da
questa situazione, quindi cerco di far leva sull’ossessione che ha per me.
«Credi di poterlo impedire?» ringhia.
«Dici di amarmi ma vuoi uccidermi. È un controsenso, te ne rendi
conto?»
«Nessuno deve averti. Non ti avrà lei» sputa fuori.
«Oh, quindi è questo? Non ti piace l’idea che qualcuno mi ami.»
«No» risponde e la sua voce trema un po’.
«Senti…» Comincio ad avvicinarmi e la pistola fra le sue mani per un
attimo vacilla, poi lui rafforza la presa.
«Ho pensato che a un certo punto sarei stato in grado di farti uscire dalla
mia mente. Ho tentato di soffocare il tuo ricordo con ogni mezzo e, quando
è arrivata Anais, mi sono illuso che lei potesse riuscirci. Ma sai una cosa?»
Mi sta ascoltando, resta zitto e mi dà sui nervi. La mia non è una fottuta
dichiarazione d’amore, ma nella sua mente bacata evidentemente appare
così.
«Ti ho chiesto: sai una cosa?» sbraito. «Rispondi, cazzo!»
«Cosa?» urla a sua volta.
«Resterai sempre dentro di me, perché sei come il cancro che ti sta
divorando, Jeremiah Spector. Morirò, oggi o fra cent’anni, ma lo farò
pensando a te, bastardo!»
Fa più caldo, adesso. Il vento si è fermato e sento l’odore pungente del
suo sudore.
È compiaciuto. Sta sorridendo, come se lo avessi liberato da un peso, ma
tiene ancora l’arma puntata su di me.
«Vuoi spararti?» chiedo.
Si guarda intorno. «Prima tocca a te. È un bel modo per morire. Rapido e
indolore. Un colpo alla tempia e… Bang! Sei già bello che andato.»
Tira fuori una busta trasparente dalla tasca e la butta fra i miei piedi.
«Ma prima…»
Quando lo guardo con sconcerto, fa spallucce.
Sta per ucciderci entrambi, dannazione! Vuole drogarsi ancora adesso?
«Sempre meglio di farmi avvelenare il sangue con quella roba che mi
hanno proposto i medici. Questa farà sentire meglio entrambi.»
Con la coda dell’occhio noto Luc. Sta scivolando dietro i motori dell’aria
condizionata.
Non se n’è andato, cazzo!
Cerco di spostarmi davanti a Jeremiah per catalizzare la sua attenzione,
ma quando lo faccio, mi accorgo che alla mia sinistra Braden sta facendo lo
stesso.
Ci stanno accerchiando e a questo punto non so se essere incazzato
perché non hanno fatto come gli ho detto, o sollevato dal loro aiuto.
«Hai qualcosa con cui tagliarla?» domando.
Infila di nuovo la mano in tasca e cerca.
Mi inginocchio su un muretto, ma non toccherò questa roba. Nessuno di
noi due fa niente per un po’. Osservo la punta dei suoi scarponi davanti a
me e solo quando il silenzio si fa sudicio di ricordi alzo lo sguardo.
«È più forte di me, anche con la morte che mi soffia sul collo, vederti in
ginocchio mi eccita.»
«Non sono più un bambino.»
«E per tua sfortuna io non sono solo un pedofilo.»
«Hai detto che mi ucciderai.»
Si accarezza sulla patta dei pantaloni e cerco di prendere tempo.
«A che ti servirebbe questo?» sibilo con disprezzo.
«Non lo so» fa spallucce. «A morire felice?»
Gli sputo sulle scarpe. «È più forte di me» gli faccio eco per
sbeffeggiarlo. «Uccidimi adesso e facciamola finita. Preferisco saltare
questo romantico interludio.»
Il suo sguardo cambia e si fa di ghiaccio, mi afferra per i capelli e mi tira
su con forza, tanto che sento sanguinarmi lo scalpo.
«Ti senti tanto migliore di me, eh?» La sua faccia è a un soffio dalla mia
e ogni perversione che quest’uomo mi ha inflitto brucia nella mia mente
come frustate sulla pelle.
«Lo sono» gracchio. «Sono migliore di te. Cento volte migliore di te,
cazzo!»
«Eri un bastardo che nessuno voleva e ti ho accolto nella mia casa
come…»
«Come un figlio?» sghignazzo.
«Le cose che mi hai fatto si fanno a un figlio?»
Non risponde e spero di averlo deconcentrato abbastanza da permettere a
Luc e Brad di fare la loro mossa.
La pistola mi oscilla pericolosamente vicino al viso. Ha il volto
trasfigurato dalla rabbia, è prossimo a perdere il controllo.
«Bene, allora!»
Tira su col naso e stringe la bocca in una linea dura. «Abbiamo appurato
che siamo entrambi degli scarti umani.»
«Tu. Tu lo sei. Io ero solo un bambino.»
«Ma ti ho contaminato come mio padre ha fatto con me» sputa fuori con
astio. «Diventeresti lo stesso uomo che adesso odi. Faccio un favore
all’umanità se ci uccido.»
Ci siamo spinti verso il cornicione che delimita il palazzo e adesso non
so più quale sia la sua intenzione, se spararmi o buttarmi di sotto.
Quando mi punta la pistola alla tempia, stringo gli occhi.
«Ti amo, bambino.»
«E io amo lei» rispondo, spalancando gli occhi, per guardare l’uomo che
ha tentato di distruggermi; capisco per la prima volta che non c’è riuscito e
che io e Anais avremmo potuto avere la vita felice che ci spettava.
«Buon viaggio, Des» sussurra, caricando l’arma.
Braden spunta da destra e il movimento improvviso costa a Jeremiah un
attimo di letale sorpresa.
Gli afferro il braccio con il quale impugna l’arma, inclinandolo fino a
quasi spezzarlo. Cerco di disarmarlo, ma non ci riesco. Urla per il dolore,
tuttavia resta in piedi, seppur barcollante. Sto per caricare un pugno per
metterlo fuori combattimento, ma Luc interviene e gli dà una spinta che lo
fa indietreggiare, poi un’altra con la quale perde del tutto l’equilibrio. In
questo momento realizzo due cose: mio padre indossa dei guanti da
infermiere e ha preventivato di ucciderlo al posto mio.
Osservo con un misto di orrore e sollievo il corpo di Jeremiah cadere
all’indietro. La sua schiena si reclina, formando un arco scomposto. È
completamente sbilanciato e un attimo dopo precipita nel vuoto.
«Buon viaggio a te, coglione!» sussurra Luc, sporgendosi per vedere.
Non ho il coraggio di guardare, Braden nemmeno. Restiamo così,
ansimanti e sconvolti da quello che è appena successo, mentre quel senso di
liberazione che avevo agognato mi scivola addosso, ma come una coltre
pesante.
Non è la sensazione che avevo creduto di provare.
«Dobbiamo andare via da qui.»
Annuisco ancora in trance. È come se scorresse ghiaccio nelle mie vene
e sento freddo. Un terribile freddo simile a quello che ho provato la prima
volta che quell’uomo ha abusato di me.
«È morto. Mi senti, Des?» Luc mi scuote. «È finita, figlio mio.» Mi
abbraccia e parte del gelo che mi attraversa si dissipa.
«È davvero finita.»
26.
Desmond

Non conta avere lo stesso sangue a scorrere nelle vene,


la vita ti lega lo stesso a chi è destinato
a finire sul tuo cammino.

Luc ci intima di fare alla svelta.


Quando scendiamo dabbasso cerchiamo di non farci vedere da nessuno.
È Luc che ci fa strada. E sempre lui che prova a rassicurarci.
«Si sistemerà tutto.»
Appena vede che scuoto il capo, mi prende il viso fra le mani e mi
obbliga a guardarlo.
«Ci sei, ragazzo? Occhi su di me.»
Sta sudando, sembra sconvolto quanto noi, ma tiene il punto. Obbedisco.
«Bene! Adesso ascoltami. Sono stato io, okay? Tu e Brad non avete
nessuna colpa. Dio!» impreca. «Ne avete mai avuto qualcuna?»
Si guarda intorno, c’è poca gente, perlopiù è personale ospedaliero
troppo impegnato per prestarci attenzione, ma questa non è comunque una
discussione che dovremmo fare in pubblico.
«Adesso abbiamo due opportunità. La polizia sarà qui a momenti e
penseranno a un suicidio. Del resto è l’ipotesi più plausibile. La pistola
abbandonata, quei proiettili sparati a casaccio… C’era della droga lassù»
sussurra. «E giungeranno alla conclusione che Spector si sia drogato prima
di decidere come farla finita. Voglio sapervi tranquilli. Se mai verranno a
interrogarci, la nostra versione sarà la seguente: eravamo nel parco qui
fuori, a mangiare qualcosa. Siamo intesi?»
Io e Braden annuiamo.
Ha ragione, dobbiamo fare la nostra parte, se non vogliamo finire nei
guai e Luc è quello che rischia più di tutti.
«Vi voglio bene, ragazzi. Lo rifarei di nuovo, ma adesso cerchiamo di
uscire fuori da questa storia.»
«Okay» sono il primo a rinsavire.
Li vedo allontanarsi verso la sala d’aspetto e come d’accordo torno verso
la camera di Anais.
Getto uno sguardo nella stanza di Violet. Adesso sta dormendo e chissà
che farà quando saprà che il suo patrigno è morto.
Se lo meritava, cazzo! Si meritava di morire come la bestia che era. Mi
dispiace solo che Luc abbia dovuto fare il lavoro sporco.
Una volta, prima di firmare i documenti per l’adozione, abbiamo parlato
del ruolo che avrebbe avuto da lì in poi nella mia vita.
Un padre ucciderebbe per i suoi figli ed è quello che sento di essere
pronto a fare per te, mi disse.
A quell’affermazione alzai gli occhi al cielo, credendo fosse una
strategia per comprare il mio affetto. Non ero stato cresciuto così. Ero
venuto al mondo e mi ero preso le botte e gli stenti, ma quel giorno mi
dimostrò che si può essere padri in tanti modi diversi. Che non conta avere
lo stesso sangue a scorrere nelle vene, la vita ti lega lo stesso a chi è
destinato a finire sul tuo cammino.
Non sarò mai riconoscente abbastanza a Luc Davis, ma spero che un
giorno diventerò il figlio che merita.
La porta della camera di Violet è socchiusa. Riesco a vedere che dorme e
mi domando cosa accadrà quando saprà di Jeremiah.
La rabbia di poco fa viene sostituita dalla spossatezza. La botta di
adrenalina mi ha sfiancato e adesso mi tremano le gambe.
Sento delle voci provenire dalla stanza di Anais e mi affretto a entrare,
con un nuovo timore ad animarmi il corpo.
E se fosse successo qualcosa in mia assenza?
La situazione, invece, non è cambiata. Lei è ancora immobile, tiene gli
occhi chiusi e mi rendo conto di essere un totale stupido. Sono i medici che
la tengono in coma e non potrebbe tornare da me neppure se volesse.
I suoi genitori stanno parlando con l’agente di polizia a cui avevo chiesto
di seguirmi in ospedale.
Spero che si trovi qui per questo, ma adesso la paura che ci sia dell’altro
è soverchiante e mantenere la calma diventa difficile.
«Agente» esordisco.
«Signor Ward, eccola! Come stavo dicendo ai signori Kerper, mi
dispiace molto per il momento poco felice, ma ho bisogno di sapere che
cos’è successo in quel bar.»
Tiro un sospiro di sollievo, perché non menziona altro e mi tranquillizzo.
L’infermiera che sta controllando la flebo si gira verso di noi. «Vi prego
di uscire. Qui dentro siete in troppi. Il medico ha detto che potete entrare
uno alla volta.»
Facciamo come ci ha detto, solo Sarah resta con sua figlia. Al contrario,
Matthew non accenna a lasciare solo me, e tutto sommato lo capisco. Anche
lui vuole comprendere perché Anais si trovi in queste condizioni, ma
quando il poliziotto mi chiede di raccontargli tutto fin dall’inizio, la mia
lingua s’inceppa, perché penso al corpo di Jeremiah spiaccicato al suolo e a
quello che succederà fra poco.
«Vuole un bicchiere d’acqua?» mi chiede quando vede che faccio fatica
a esprimermi.
«No, sto bene» lo tranquillizzo. «È solo che vederla in quello stato è
terribile.»
Il che è vero. Mi sento dilaniato e, all’improvviso, gli attimi di poco fa
passano in secondo piano.
Un uomo è morto, ma non conta perché non era un uomo. Se questo fa di
me un mostro, vuol dire che lo sono.
«Lo capisco» continua. «Sono l’agente Morris e mi occuperò del vostro
caso. Che cos’è successo là dentro?»
Così gli dico tutto. «Avrà già parlato con i medici, quindi saprà che cosa
è successo. Quello che è accaduto dopo è colpa mia. Me ne assumo la
responsabilità. Quel bastardo voleva drogarla per…»
Stuprarla. È quello che ho pensato. In realtà, non appena fosse svenuta,
l’avrebbe consegnata a Jeremiah.
Evidentemente, l’agente Morris scambia la mia esitazione per un segno
di turbamento e mi concede una pausa. Dal canto mio non ho altro da
aggiungere.
Matt sembra sconvolto. «È perseguibile per legge? Non voglio che quel
bastardo la passi liscia.»
«Lo conosceva?» mi domanda.
«Mai visto.»
«Non ha sporto nessuna denuncia per aggressione, ma se volete andare
fino in fondo, dovrete denunciarlo. Il che probabilmente cambierà la sua
opinione.»
Annuisco.
Se quel ragazzo era un tizio assoldato da Jeremiah, mi domando cosa
sappia e quanto questa cosa possa metterci nei guai.
Matt mi sta fissando. È arrabbiato, ed è chiaro che si aspetti di sentirmi
d’accordo con lui.
«Dobbiamo denunciarlo» afferma.
Ma non deve pregarmi, perché il bisogno di proteggere Anais e di
vendicarla è più pressante di ogni altra paura.
«Volete proseguire?» ci domanda il poliziotto.
«Sì» anticipo Matt.
«Allora dovrò chiedervi di venire in commissariato fra qualche ora.»
Sto per rispondergli, quando la radiolina che ha attaccata sulla spalla lo
avvisa di un’emergenza fuori dall’ospedale.
“Uomo trovato morto fuori dallo Sharp Memorial Hospital. Probabile
suicidio. A tutte le unità in zona, accorrere sul posto.”

Rimani calmo, Des.


Non succederà niente.
Si risolverà tutto, Des.

«Qualche problema?» gli chiede Matt.


«Devo andare» si congeda. «Avviserò la centrale della vostra visita.»
Detto questo ci volta le spalle e a passo spedito si allontana nella
direzione opposta alla nostra.
«Cosa sarà successo?»
Faccio spallucce. «Non ne ho idea.»
Nelle ore successive si svolge tutto in maniera lenta e confusa. Si sparge
la voce dell’uomo trovato spiaccicato al suolo, qualcuno viene ad avvisare
Violet e s’intrattiene nella sua stanza per un po’.
Nessuno viene a chiederci nulla per ore, poi un poliziotto comincia a
raccogliere le testimonianze di chi si trova a questo piano, visto che è
l’unico a dare accesso al tetto.
Quando arriva il mio turno, recito la versione concordata con Luc e
Brad.
Siamo tutti distrutti dalla stanchezza. Stanotte non abbiamo dormito,
sono ormai le dieci del mattino e ci aggiriamo per la sala d’aspetto come
degli zombie.
Dovrei andare a casa a dormire, così mi dicono.
Dovrei anche mangiare, mi dicono anche quello.
Ma l’idea di allontanarmi da Anais non mi piace e, nonostante questo
posto mi ricordi cosa è successo solo poche ore fa, non metterò un piede
fuori da qui senza di lei.
Invito i ragazzi ad andare via. Sono turbati dalla notizia che ha fatto
ormai il giro dell’ospedale. Non si parla d’altro e Liam continua a lanciarmi
delle occhiate sospettose che mi mettono in ansia.
«Andate a casa. Non ha senso restare. Vi farò sapere se succede
qualcosa.» Passeggio avanti e indietro e intanto spero che cedano e che mi
lascino da solo.
Liam mi viene di fronte e mi obbliga a fermarmi. «Stai bene?»
«Sto bene.»
Mi dà una pacca sulla spalla ed è serio. Così mortalmente serio… «Si
risolverà tutto.»
Ho già sentito questa frase e ho il sospetto che Thompson non si riferisca
solo alla salute di Anais. È venuto fuori che l’uomo che si è buttato dal tetto
era il patrigno di Violet, lo stesso che ne ha abusato. La feccia che sa avere
abusato anche di me. È troppo furbo per non giungere a delle conclusioni,
ma saggiamente non chiede nulla.
Trascorro altre ore al capezzale di Anais. Non so quante ne passino, ma è
di nuovo buio.
Ho dormito per un po’, fatto a turno con i Kerper ed Eva, e pregato
affinché quest’agonia finisca il prima possibile.
Stranamente, non ho avuto nessun incubo e non so se ciò faccia di me un
uomo senza coscienza, ma sto cercando di scendere a patti anche con
questo.
Esco in corridoio. «Ho bisogno di un caffè.» C’è solo Sarah e annuisce.
«Matt è andato a prendere del cibo per Eva. Dovresti mangiare anche
tu.»
«Ho solo bisogno di un caffè. Ne vuoi?»
«No, grazie.» Non aggiunge altro ed entra nella stanza.
Mi sento così debole da non riuscire a muovere un passo. Mi manca
l’aria e la vista mi si offusca.
Forse dovrei davvero mangiare. Mi appoggio al muro e cerco di inspirare
a fondo. Lo faccio per un paio di volte, poi la porta alla mia sinistra si apre
e Violet mi fa cenno di entrare.
Quando lo faccio, cerco di interpretare il suo atteggiamento.
È arrabbiata? In lutto?
Non sembra niente di tutto questo e mi invita a sedermi, ma rifiuto.
«Dimmi quello che devi» la incito.
Sospira, chiudendo gli occhi, poi torna a guardarmi.
«Non mi dispiace, Des. Sono sollevata» gracchia. «E non devi
preoccuparti di niente. Ho parlato con la polizia e dubito che scaveranno
oltre dopo la mia deposizione. Archivieranno il caso come suicidio.»
«Non è quello che è stato?» la provoco perché non mi fido, ma ciò che
dice dopo mi spiazza.
«Sì» mormora, senza ombra di esitazione. «Mio padre era un
tossicomane depresso, che stava per perdere il lavoro. Aveva tentato di
uccidersi con la droga tante volte. Stavolta ha scelto la via più semplice per
farla finita» mi recita glaciale la versione che ha dato alla polizia e il suo
sguardo non vacilla neppure per un attimo.
«Grazie» sussurro in maniera impercettibile.
«Ho già parlato con i medici. Mi hanno trovato un posto in una struttura
adeguata. Spero di venirne fuori, Des.»
Un groppo di commozione mi stringe il petto e mi schiarisco la voce
prima di risponderle.
«Ce la farai, V.»
«Come sta lei?»
«Non bene. La tengono in coma. È ancora presto per stabilire i danni.»
Stringe i pugni intorno al lenzuolo e abbassa gli occhi. «Avrei dovuto
fermarlo.»
«Avresti potuto, sì. Ma non eri in te.»
Ride, mentre scaccia una lacrima dal suo viso. «Non sono in me da
molto tempo, ormai.»
Mi sembra così piccola da scomparire in quel letto alto.
«Non ti ha rovinata» sento l’urgenza di dirle.
Perché è fragile e non ha nessuno.
Perché Violet merita di avere una vita migliore e qualcuno che la ami.
Torna a fissarmi. «Ti ho voluto bene davvero.» Il suo sguardo è sincero.
«Spero che un giorno potrai perdonarmi.»
Non le rispondo. È presto perché possa dimenticare il suo ruolo in questa
vicenda, ma non posso perdere di vista la sua storia, perché è simile alla
mia, così terribile e senza fine, e il tormento nei suoi occhi è lo stesso che
ha agitato la mia anima fino a un minuto fa.
«Buona vita, V.»
Mi sorride appena. «Buona vita, Des.»
Ed è l’augurio di due persone scampate alla guerra. Quello di chi sa di
avere un’altra possibilità, l’ultima che non può più sprecare.
Trascorrono tre giorni. Tre fottuti giorni che mi spediscono all’inferno. E
intanto spero. Spero che non sia un biglietto di sola andata e che prima o
poi il dottor Morris entri da questa porta e ci dica che è pronto per
risvegliare Anais.
Quando quel giorno arriva, stento a crederci.
«La situazione è stabile. L’ernia cerebrale si è quasi del tutto riassorbita,
quindi possiamo tentare di risvegliarla per capire se ci sono stati dei danni.
Siamo fiduciosi» conclude.
Sono fiduciosi, ha detto.
Le mani mi tremano e non serve a niente che con me ci siano i ragazzi e
Luc, che i Kerper siano qui per la loro bambina e che Eva mi stia
abbracciando felice. Ho paura.
E se non la riavessi più indietro?
Non importa, realizzo con una velocità sconcertante. Anche se dovesse
essere solo l’ombra di se stessa, mi riprenderò indietro la mia Honey.
Ho il terrore che il dottore mi obblighi a uscire, non voglio lasciare la
mia ragazza da sola. Desidero che veda me, appena aprirà gli occhi.
Perché lo farà: si sveglierà. E mi riconoscerà. Mi parlerà e mi sorriderà
in quel suo modo speciale “rischiaramondo” che fa risplendere il mio.
Il dottore ordina agli infermieri di ridurre in maniera progressiva i
farmaci che le hanno somministrato.
«Ora dobbiamo solo attendere che si risvegli» ci spiega. «La famiglia
può restare, vi prego solo di essere tranquilli e silenziosi.»
Temo che Matt mi dica di andarmene, e a quel punto non posso garantire
di restare tranquillo e silenzioso, ma per fortuna non lo fa e ci apprestiamo a
trascorrere una notte di speranza al capezzale di Anais.
«Mettiti qui, accanto a lei.» Sarah mi indica la poltroncina vicino al letto.
«Vorrà vedere te appena si sveglia.»
Mi sorride. Lo fa davvero e vorrei che la mia Honey fosse cosciente per
vederla.
Afferro la mano della mia ragazza, baciandone il dorso. «Ti stiamo
aspettando, dolcezza. Torna da noi» la incito, anche se so che è troppo
presto per sperare in un risveglio.

Durante la notte non chiudo occhio. Nemmeno Matt.


Eva e Sarah, invece, dormono l’una accanto all’altra, su un letto vuoto.
Alle prime luci dell’alba, afferro di nuovo la mano di Anais e la bacio.
Dio, quanto mi mancano le sue carezze!
«Devo chiederti scusa» sussurra a un tratto Matthew.
«Va tutto bene» lo tranquillizzo.
Fa piacere sentirselo dire, ma non ho un buon rapporto con certe
dichiarazioni e mi sento a disagio.
«No, sul serio» aggiunge. «Solo un cieco non vedrebbe ciò che avete tu e
mia figlia.»
Annuisco e guardo la mia splendida ragazza.
«Grazie per esserti preso cura di lei» aggiunge.
Se sapesse in quanti modi lei si è presa cura di me, invece, riuscirebbe a
capire davvero la grandezza del nostro amore, ma non sono in vena di
confessioni e adesso più che mai voglio che la mia storia venga seppellita.
La polizia ha chiuso il caso “Jeremiah Spector”, archiviandolo come
suicidio. Francamente, la storia di quel mostro non poteva finire
diversamente e ora voglio solo ricominciare a vivere accanto alla ragazza
che amo.
Sto ancora stringendo la sua mano, quando lei compie un piccolo
movimento che mi fa saltare su dalla poltrona.
«Si è mossa.»
«Cosa?»
«Ha mosso le dita, Matt.»
A quest’ora non dovrei urlare, ma è quello che sto facendo, tanto che
Eva e Sarah si svegliano e balzano giù dal letto allarmate.
«Si sta svegliando» spiego a Eva.
Matt si affretta in corridoio. «Chiamo l’infermiera.»
«Forza piccola, sono qui» la sprono e le lacrime bruciano dietro le
palpebre.
Lei muove di nuovo le dita e Sarah si porta le mani alla bocca. «Oddio!
Tesoro mio!»
È la prima volta che la sento riferirsi a sua figlia con affetto e anche Eva
deve pensare lo stesso, perché guarda sua madre, dapprima come le fosse
spuntata un’altra testa, poi con tenerezza.
«Mamma…»
La glaciale Sarah Kerper si scioglie davanti ai miei occhi e scoppia a
piangere, abbracciando Eva.
Forse capiamo davvero l’importanza di ciò che abbiamo quando siamo
sul punto di perderlo.
Forse, non c’è età che tenga né ruolo, per ergere muri invalicabili, e ho
l’impressione che questa donna abbia una storia da raccontare che potrebbe
spiegarci il perché dei suoi atteggiamenti. Tuttavia sono troppo felice per
preoccuparmi di altro, così mi chino su Anais e il leggero tremore dietro le
sue palpebre mi provoca un tuffo al cuore.
«Su, dolcezza!»
Un nuovo tremore e tratteniamo il fiato. L’infermiera, nel frattempo,
entra nella stanza e corre a controllare i parametri. Ci distraiamo a osservare
i suoi gesti, ma quando riporto lo sguardo su Anais, ha gli occhi spalancati e
li sta sbattendo come se non capisse dove si trova.
«Honey» sussurro, baciandole una guancia, con le lacrime ormai fuori
controllo.
I minuti che seguono sono frenetici. Ci viene chiesto di farci da parte per
lasciare lavorare il personale medico. Il dottore arriva subito e, dopo essersi
assicurato che è tutto a posto, ci invita a lasciare la stanza perché deve
estrarre il sondino che ha nutrito la mia ragazza in questi giorni.
Restio, faccio come mi è stato chiesto, ma la mia priorità è che lei venga
liberata da tutti i tubi che l’hanno resa per giorni un vegetale.
Noto che Eva è al telefono e presumo stia parlando con qualcuna delle
ragazze. Questo significa che fra poco arriveranno tutti e la cosa mi fa
sorridere.
Sono stato solo per così tanto tempo, e la vita mi ha ripagato dandomi
una famiglia numerosa. Una famiglia di persone un po’ fuori di testa, ma
presenti l’una per l’altra.
Estraggo il telefonino e compongo il numero di Luc.
«Des?» risponde in allarme dopo due squilli. «Che succede, figliolo?»
«Si è svegliata» ansimo, mentre la commozione stringe le mie corde
vocali.
Poi Eva corre a chiamarmi. «Ha chiesto di te.»
Ha chiesto di te.
Il mio petto si espande e potrebbe contenere due cuori: il mio e il suo.
«Ci vediamo fra poco. Va’ da lei, ragazzo» mi congeda Luc, che ha
evidentemente sentito ogni cosa.
Corro dentro la camera. Il dottore è ancora qui e sta spiegando ai Kerper
cosa pensa delle condizioni di Anais.
«Per fortuna non è stato riportato alcun danno. Dobbiamo solo
monitorare il completo riassorbimento dell’ernia cerebrale, ma sono sicuro
che nel giro di un paio di mesi vostra figlia potrà dirsi del tutto guarita.»
Tiriamo tutti un sospiro di sollievo.
«Adesso non stressatela troppo. Il risveglio è un trauma e il suo è
recente. Vi concedo un saluto. Poi, però, lasciatela riposare.»
Lo ringraziamo e lascio ai Kerper qualche altro minuto con la loro figlia,
ma sto fremendo come un cavallo da corsa per toccarla e vedere di nuovo i
suoi occhi pieni di vita.
Quando finalmente escono dalla stanza, mi stacco dal muro e mi
avvicino piano.
«Ciao» mormora.
E Dio, la sua voce… quanto mi è mancata.
«Ciao, splendore.»
«Non mi sono ancora vista allo specchio, ma sono piuttosto sicura di non
essere granché al momento.»
«E io sono piuttosto sicuro di quel che dico. Non contraddirmi.»
Mi sorride. «Sei un despota.»
«Sono solo pazzo di te. Cristo! Sono morto mille volte in questi giorni.»
«Adesso sono qui.»
Sospiro di gratitudine, ma il mio personale attimo di pace finisce nel
momento in cui mi chiede: «Che cosa è successo?»
Faccio una veloce considerazione su che cosa è bene dirle e cosa no.
«È tutto finito.» Le fornisco una sintesi grossolana, ma non ho voglia di
raccontarle i dettagli. Non adesso che sono così felice di riaverla con me.
«Tutto fin…»
«Honey…» sospiro. «Ti dirò ogni cosa appena sarai guarita e fuori di
qui, ma adesso, tesoro, ho solo voglia di stringerti e dirti quanto mi sei
mancata.»
Il suo volto si apre in un sorriso lento e alza una mano per sfiorarmi il
volto.
«Mi piace ciò che dici. Continua, Ward. E poi? »
«E poi ti amerò ogni giorno, ogni alba un po' meglio, così al tramonto
saprai che l’indomani ti amerò di più.»
«Fortissimo?» mi incita.
Annuisco e sorrido. «Fortissimo, piccola.»
27.
Anais

Senza paura.

È la mattina del mio diciannovesimo compleanno, ed è passato ormai un


mese da quella tragica sera. Desmond mi ha accompagnata a fare una
risonanza magnetica e per fortuna pare che l’ernia cerebrale sia scomparsa
del tutto.
La giornata è ventosa ma soleggiata, trabocca di vita, la stessa che mi è
stata concessa per la seconda volta. E sono felice.
Siamo in auto e lui mi tiene per mano.
Da quando mi sono risvegliata non mi ha lasciata un attimo. Allenamenti
e trasferte permettendo, è sempre con me e la cosa mi va più che bene.
Il vento ci scompiglia i capelli. Protendo il viso verso il sole e mi godo
questo senso di libertà.
Ci sono voluti giorni prima che mi raccontasse ogni cosa di quella notte,
altri per confessarmi il resto, ma da quando l’ha fatto è rinato e anche lui
sembra felice.
Jeremiah Spector è morto. Suicida, ha detto la polizia. Non è così, ma
non ho avuto un solo pensiero triste per lui e mai ne avrò. Non può esserci
compassione per un mostro del genere.
So che ci vorrà del tempo prima che Des sconfigga i suoi demoni, ma
sono sicura che ce la farà, perché non c’è una cosa che questo splendido
ragazzo non sia in grado di fare.
«Ho in serbo una sorpresa per te» mi dice a un tratto, sogghignando.
«Davvero? Cosa?»
«Non posso dirti nulla adesso.»
Gemo. «Ora morirò di curiosità.»
«L’attesa amplifica il piacere.»
«Cazzate!»
Scoppia a ridere. «Da quando sei diventata così sboccata?»
«Da quando mi hai fatto imboccare la strada della perdizione» lo
rimbecco, ma sorrido.
Sospiro e mi sistemo più vicino a lui, appoggiando la testa sulla sua
spalla. «Ti amo con tutto il cuore, Desmond Ward.»
«Stai cercando di corrompermi?» Il suo tono è dolce e leggermente roco,
adesso.
«Forse.»
Ridacchia e per il resto del tragitto restiamo così, in silenzio, godendoci
l’attesa… come ha detto lui.
Chiudo gli occhi e mi lascio cullare dalle note che suonano
dall’autoradio. La canzone è Yours di Ella Henderson.

“E, se mi sono sentita pesante, tu mi hai preso dall'oscurità e le tue


braccia mi hanno tenuta al sicuro…”

«Questa canzone…»
«Ho fatto una playlist pensando a te.»
Ricaccio indietro le lacrime e tiro su col naso.
«Mi rimangio quello che ho detto. Sei uno stronzo.»
«Perché?» domanda indignato.
«Perché stai tentando di farmi piangere» mormoro, poi gli bacio la spalla
e mi sistemo meglio, più innamorata che mai.
Mi assopisco e solo quando sento l’auto fermarsi, apro gli occhi e mi
raddrizzo.
Siamo sul nostro promontorio, quello delle battaglie perse e vinte, quello
degli addii e dei ritorni.
Des mi sta fissando. Pensa lo stesso, lo vedo nei suoi occhi. «Nel bene e
nel male, questo posto ci ha visto amarci in tutti i modi possibili.»
Oddio!
«Perché vuoi farmi piangere per forza?»
«Solo di gioia… Scendiamo.»
Estrae dal bagagliaio un cesto da pic-nic e mi afferra la mano.
Sistema una coperta per terra e poi mi guarda. «Voilà, mademoiselle. Si
accomodi pure.»
Lo faccio, sorridendo e lo osservo tirar fuori due calici, dello
champagne, un contenitore con della frutta, un altro con del formaggio e del
pane bianco.»
«Wow!» esclamo. «Hai fatto tutto da solo?»
Fa spallucce, imbarazzato. «Mi ha aiutato mia madre.»
E una farfalla mi svolazza nel petto.
Sua madre.
Quante cose sono cambiate in così poco tempo?
Vorrei gettarmi fra le sue braccia, ma mi fermo perché desidero godermi
questo momento, perché per tutto il tempo della nostra folle storia, abbiamo
corso come disperati contro un tempo che sembrava dover scadere da un
momento all’altro.
Desmond mi sta fissando ed è serio. Siamo consapevoli che questo
istante sarebbe dovuto arrivare tempo prima, che questo destino avrebbe
potuto risparmiarci un bel po’ di sofferenza, ma che tutto sommato ci ha
regalato la cosa più preziosa.
Ha lasciato entrambe le portiere aperte e l’autoradio accesa, e dalla
macchina risuona forte un’altra canzone. La melodia è struggente e le
parole gocce di verità stillate una dietro l’altra per colpirmi.
«Come si chiama?
«Rise up. È di Andra Day» mi risponde.
Le sue braccia mi stringono, il suo viso è vicino al mio. Mi bacia con
tenerezza e a occhi aperti.
«Non voglio mai più stare lontana da te.»
Mi accarezza i capelli e osserva ogni parte del mio volto. «Mai più.»

“Sorgerò come il giorno, nonostante il dolore.”


Mima con la bocca, cantando questo testo struggente e nel frattempo mi
tiene il viso fra le mani. Le mie sono chiuse intorno ai suoi polsi.

“E ci solleveremo come le onde, nonostante il dolore. Ci solleveremo.


E lo faremo mille volte ancora.”

«Oh, Des!» esclamo, prima che prenda possesso della mia bocca, poi si
stacca e il suo tono è urgente. «Domani debutterò in squadra e voglio che tu
sia lì, fra gli spalti riservati alle mogli e alle fidanzate, a tifare per il tuo
uomo.»
Ha fatto strada così in fretta! Era convinto di restare in panchina per
mesi, invece il grande giorno è arrivato presto, ma non avevo dubbi.
«Ci sarò.»
Tira fuori una scatolina dalla tasca e me la porge. «So che è presto e…
tutto il resto» comincia e sento il mio cuore tremare. «Siamo giovani,
abbiamo mille progetti su cui lavorare e questo anello», bacia il mio
tatuaggio, «è più di una promessa. Si avvererà, stanne certa. Ma adesso
voglio fare un primo passo con te, Anais Kerper.
Ce ne saranno tanti altri e ho bisogno di sapere che sei pronta a
camminarmi accanto.»
Annuisco come una stupida, incapace di articolare un “sì”.
«Bene!» Si morde il labbro e apre la scatolina, mostrandomi il
contenuto: è una catenina d’oro bianco con un ciondolo a forma di chiave,
tempestato di brillanti.
«Ho ricevuto il primo anticipo e…» tentenna, in difficoltà. Vorrei
rassicurarlo, ma sto trattenendo il fiato e voglio che dica ciò che penso stia
per dire.
«Ho preso una casa per noi due, Honey. Se non ti piace, ne vedremo
altre. O se credi che sia troppo presto, aspetterò, tesoro, ma voglio stare con
te.»
«Des…»
«Dio, lo voglio così tanto e mi ero preparato un discorso degno di te, ma
non ricordo nemmeno una parola, piccola…»
«Des» lo scuoto.
«Che c’è?» ansima.
«Sì.»
«Sì, a cosa?»
«Voglio vivere con te e non vedo l’ora di vedere la nostra nuova casa.»
Spalanca gli occhi e deglutisce. «Non pensi che sia troppo presto?»
«No.» Rido.
Sembra confuso e gli indico la scatolina.
«Pensavi davvero che potessi dirti di no? Certo, per i miei sarà
l’ennesimo shock, ma ormai i Kerper ti vogliono bene. Tutti.»
Sdrammatizzo, consapevole però che sto dicendo la verità.
Dal mio risveglio sono cambiate molte cose. Mio padre e mia madre
sembrano rispettare le mie decisioni e hanno cercato un chiarimento perfino
con Eva. Mia sorella, tuttavia, non tornerà a casa. Lei e Abel hanno
cominciato la loro vita insieme e sembra andare tutto a gonfie vele.
Des scuote il capo, come se volesse rischiararsi i pensieri. «È solo che
non credo alla mia fortuna.»
Oh, il mio bellissimo e tormentato ragazzo!
Come può pensare che lui non sia la mia?
«Allora» lo incito. «Adesso vorrei proprio indossare il tuo regalo.»
Si guarda le mani e si riscuote. «Certo! Che stupido!»
Mi giro e mi allaccia la catenina, sfiorandomi il collo. Una bretellina del
vestitino che indosso mi scivola sulla spalla e lui la rimette a posto,
poggiando un bacio in quel punto che sa mi fa fremere.
«Sei così bella!»
Mi volto per prendergli il viso fra le mani. «Tu. Tu sei bello. Hai
combattuto per te stesso. Hai combattuto per noi.»
«Non ho sempre preso decisioni giuste.»
«Hai preso le migliori che si potessero prendere.»
«Ma non ti ho tenuta abbastanza al sicuro» replica.
«Non sei un supereroe, Desmond Ward. Hai fatto del tuo meglio.»
Annuisce, un po’ scettico. So che si sente in colpa per quello che mi è
accaduto, ma non riesco a capire come faccia a colpevolizzarsi per le azioni
di quel folle.
«Parlami di questa casa» lo incoraggio per cambiare discorso e, infatti, il
suo viso si rallegra.
«È bellissima, spaziosa e con una bella vista sull’oceano.»
Mi tiro su, entusiasta e incredula. «Hai comprato una casa sulla
spiaggia?»
«Sì.»
«Des, sei pazzo! Ti sarà costata un botto.»
Sorride e scrolla le spalle. «Se le cose vanno come credo, riuscirò a
estinguere il debito in un paio di anni.»
«È troppo...»
«Cos’è troppo?» Mi attira a sé e mi stringe, portando le sue labbra a un
soffio dalle mie. «L’oceano è troppo, per averti al mio fianco? Le stelle,
Anais, quelle che guarderemo la sera, accoccolati sulla spiaggia, sono
troppe?» Mi bacia e assaporo le sue labbra come un’assetata, mentre con la
lingua mi fa capire che tutto quello che mi darà non sarà mai troppo.
Si sfila la maglietta e resta a petto nudo. È in quel momento che lo vedo:
un tatuaggio sull’altro pettorale. Un cuore, avvolto dallo stelo di una rosa,
ma quando mi avvicino per toccarlo, mi accorgo che in realtà lo stelo è una
scritta: Amor vincit omnia. E sul bocciolo blu c’è il mio soprannome:
Honey.
Con le dita lo sfioro e lui trasalisce, serra gli occhi e inspira fra i denti,
come se gli avessi fatto male.
«Io… Non ho parole. È bellissimo.»
Una lacrima mi scivola lungo la guancia finché cade sulle mie gambe
nude, su una delle cicatrici al loro interno. Poi un’altra, stavolta bagna un
vecchio taglio che non ero riuscita a incidere più a fondo sui miei polsi.
Nessuno di noi due le asciuga, perché abbiamo imparato che le nostre
fragilità non vanno nascoste o combattute. Vanno solo affrontate insieme.
Appoggio le labbra sulle sue e lo bacio dolcemente, ma lui afferra la
mano che tengo sul suo petto, spingendola contro la sua carne; con l’altra
ghermisce piano la mia nuca, approfondendo il bacio. Mi invita a sdraiarmi.
Esplora le mie curve, la mia bocca, sonda i miei occhi nel solito modo
intenso che mi fa tremare le gambe.
Gemo e Des mi fa eco.
Il tempo si dilata all’infinito, poi si ferma. Resta questo momento in cui
le onde s’infrangono sulla scogliera, come se volessero salire ad
abbracciarci. E il cielo si rischiara. Brilla di un celeste più intenso, il sole gli
fa compagnia e il mio cuore impazzisce.
«Ce lo meritiamo» ansimo sulle sue labbra. Esibisce un sorriso sexy,
finalmente libero da ogni ombra, e il respiro mi s’impiglia in gola.
«Ho passato tutta la vita a desiderare ciò che non potevo avere. Ho
sperato di diventare qualcun altro e dimenticare chi ero e, quando ho
smesso di volere tutto questo, sei arrivata tu. Sei stata la mia rivincita,
Honey. Adesso so che il mondo mi ha preso a pugni al solo scopo di darmi
te alla fine. E sai che c’è?» Mi guarda come se vedesse solo me e sono certa
sia realmente così. «C’è che quei pugni tu li vali tutti. E che questa fine è
l’inizio migliore in cui potessi sperare.»
«Senza paura?» aggiungo soltanto, ormai in singhiozzi.
Annuisce piano, si stende sopra di me e fa leva sui gomiti per non
schiacciarmi. «Senza paura.»
Senza. Paura. Ed è meraviglioso.
Ringraziamenti

Questo viaggio, ovvero la stesura di Tutto il tempo del mondo, Tutto il


tempo con te e Tutto il tempo tra noi, è stato un giro sulle montagne russe,
straordinario e spaventoso allo stesso tempo.
Ho dovuto fare un lavoro su me stessa e la cosa mi ha sfiancato,
demotivato e fatto andare in crisi un po’ di volte, ma ne è valsa la pena.
Attraverso questa serie ho affrontato cose che credevo sepolte e finalmente
sono riuscita a trattarle con più maturità rispetto a qualche tempo fa, per cui
grazie, Des e Anais. Grazie di avermi fatto diventare grande.
Parlare di abusi e autolesionismo non è stato semplice e devo dire un
grazie enorme a chi, con tanto coraggio, è riuscito a mettersi a nudo,
raccontandomi di sé. Siete nel mio cuore e nella mia anima, coraggiosi
guerrieri.
Grazie a chi mi è stato accanto durante questo percorso. A Giovanna
Mazzilli, Deborah Fasola, Erika Cotza e Nadia Filippini. Grazie.
A Lucy Dale, che mi ha regalato ancora una volta la sua arte, a tutte le
colleghe e amiche che mi hanno spronato ad andare avanti, mostrandomi
senza invidia il loro entusiasmo.
A Eleonora Pagliaccia e Alessia Silvestri, mie preziose beta, grazie.
Cari figli miei, che sopportate le mie mancanze e i miei scleri, prometto
di prendermi del tempo per voi. La mamma è tornata e la pacchia è finita.
Caro marito, be’… ormai sei abituato, ma mi prenderò del tempo anche
per te. Ce lo meritiamo.
Grazie ai blog, al http://crazyforromance.blogspot.it che dall’inizio cha
curato le anteprime di questa storia, ai gruppi, al mio gruppettino su
Facebook e alle ragazze che mi seguono sempre con affetto.
Tutte, indistintamente, siete nel mio cuore.
Grazie alla mia editor, Miriam Mastrovito, che mi ha aiutato a rendere
più godibile questo libro.
Grazie a tutti per aver partecipato al mio lavoro e a chi deciderà di
partecipare, leggendo di Des e Anais e lasciando una recensione.
Ai miei lettori, che hanno amato con così tanto fervore la mia storia,
grazie. Non credevo avreste accolto i DesAna con tanto entusiasmo, invece
è successo e la cosa mi ha lasciato senza fiato.
Grazie di credere in me come autrice e di stimarmi come persona.
Mi sono care ambedue le cose.
A tutti voi, là fuori, che vi riconoscerete fra queste righe, sappiate che
siete esseri speciali. Imparate a non dubitarne.
Vi voglio bene. Vogliatevene anche voi.
Sommario

Prefazione
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
19.
20.
21.
23.
24.
25.
26.
27.
Ringraziamenti

Potrebbero piacerti anche