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PLAYLIST
Grazie, Giulia.
PROLOGO
MICHAEL
GRACE
GRACE
Grace: 9 anni.
Michael: 13 anni.
Fissai i due bastoncini a lungo. Margot li stringeva nel suo palmo, senza
poterne rivelare la lunghezza, e attendeva soltanto che io mi decidessi a sfilarne
uno.
Destra o sinistra?
Schiusi le labbra, pronta a rivelare la mia decisione, ma poi cambiai idea.
Cambiai idea un sacco di volte nell'arco di tre secondi.
«Entro l'anno prossimo, Grace», sbuffò Margot, usando quel tono antipatico
e da fanatica che non mi era mai piaciuto. Lei non mi era mai piaciuta. «Scegline
uno e basta, che cavolo!».
Deglutii. «Okay», fiatai e, sotto gli sguardi curiosi degli altri bambini, sfilai il
bastoncino di sinistra.
Avevo preso il rametto corto.
«Oddio, menomale», sospirò di sollievo la mia compagna di stanza, prima di
rivolgermi un sorriso mezzo sdentato. «Tocca a te, dolce Gracie! Avanti, cosa
stai aspettando?».
Cosa stavi aspettando, Grace?
Passai il peso da un piede all'altro, tenendo il mento basso con le ciocche
chiare che mi coprivano il viso.
«I-io non... non voglio farlo». Fu più debole di un sussurro, eppure lo sentii
rimbombare con l'eco all'interno della camera di Jonah, dove ci eravamo tutti
riuniti di nascosto.
Nessuno parlò per quelli che pensai fossero cinque secondi. Dopodiché sentii
afferrarmi dalle spalle, forse era proprio Jonah, mentre Margot mi tappava la
bocca per impedirmi di gridare.
Di sottofondo, udivo le risatine degli altri e lacrime amare vennero a
bussarmi dietro le palpebre. Ero la più piccola fisicamente, una bambolina di
pezza che loro reputavano un fantasma. Ero albina. E non andava bene.
«E invece lo farai, perché il gioco ha stabilito così e noi abbiamo fame!»,
sputò fuori Jonah.
Killian aprì la porta e mi fece lo sgambetto quando venni spinta in avanti.
Caddi sul pavimento, sfregiandomi le ginocchia con le schegge di legno che
fuoriuscivano dalle assi.
Lo sapevo che non avrei mai dovuto credere alla loro falsa gentilezza quando
mi avevano invitata. Lo sapevo, non ero così sciocca, eppure avevo accettato.
Volevo soltanto che mi reputassero loro amica.
Li ascoltai ridere di nuovo di me, non appena Jonah mi puntellò il piede sulla
schiena per indurmi ad avanzare. Calde lacrime mi rigarono le gote, ma mi
rifiutavo di far sentire loro il mio pianto.
«Allora? Ti dai una mossa o dobbiamo spingerti anche giù dalle scale,
fantasmino?».
Quindi mi alzai in piedi e, sempre a testa bassa, camminai con cura verso il
piano inferiore, dove c'erano la cucina e le dispense. Inspirai ed espirai più volte
mentre scendevo le scale e pregavo affinché non cigolassero. Girovagare di notte
per l'istituto e rubare le scorte di cibo era severamente vietato. Se mi avessero
scoperta, sarei stata punita.
Non avevo mai ricevuto una punizione prima. Ero sempre stata una brava
bambina, fin da quando mi avevano portato in quel posto tetro e triste. Otto
mesi, me ne stavo lì a piangere da ben otto mesi.
Ora che la mamma e il papà non c'erano più, mi sentivo sempre scoperta. Ero
vulnerabile senza di loro, senza la mamma che mi pettinava i capelli la sera e il
mio papà che mi baciava la fronte quando mi rimboccava le coperte. Erano state
delle brave persone, i miei genitori, e mi mancavano tanto. Volevo solo poter
tornare a casa con loro e scordarmi di quelle brutte mura, di Margot, Jonah,
Killian e tutti i loro amichetti cattivi.
Ingoiai un singhiozzo e, piano, aprii la porta della cucina. Poi sgusciai tra gli
armadietti fino alle dispense, dove trovai tutto il cibo che usavamo per fare
colazione. Optai per prendere il vasetto di biscotti, visto che ce n'erano in gran
quantità e nessuno ne avrebbe sentito la mancanza. In preda a non so neppure io
cosa, decisi anche di concedermene uno solo per me, in totale solitudine.
Godetti del sapore della marmellata che mi si sciolse sulla lingua e leccai le
briciole che mi erano rimaste sulle dita. Me ne infilai uno nella tasca del
vestitino grigio che mi arrivava fino alle ginocchia; lo avrei mangiato una volta
rimasta sola e lontana da quel gruppetto.
Poi, vasetto sottobraccio, decisi che era giunto il momento di fare ritorno. Per
fortuna nessuno mi aveva ancora scoperta, ma era meglio non giocare con il
fuoco. Qualcuno avrebbe potuto beccarmi da un momento all'altro e dovevo
evitare che accadesse.
Avevo sentito storie orribili riguardo le punizioni. Sulla camera nera. Se
disobbedivi alle regole, la direttrice Caroline ti rinchiudeva lì dentro al buio da
sola per un giorno intero. Si vociferava fosse tana di ratti, altri avevano detto
puzzasse di pipì ed escrementi e poi c'era quella leggenda riguardo a un bambino
entrato e mai uscito.
Il solo pensiero mi fece fremere e stringere le gambe dal terrore. Non volevo
fare quella fine. Non volevo ritrovarmi al buio e non volevo che i topi mi
rosicchiassero le dita dei piedi. Mi sfuggì un piagnucolo e il labbro inferiore
cominciò a tremarmi, non appena poggiai il piede sul primo scalino. Per fortuna
non cigolò. Salii con scaltrezza, stando ben attenta a dove camminavo, mentre il
cuore mi martellava nel petto come un tamburo senza sosta.
Era davvero questa la vita che mi attendeva nell'orfanotrofio se nessuno mi
avesse adottata? Un'esistenza di bulli, prese in giro e paura?
Cercai di regolarizzare il respiro, man mano che superavo i piani, fino a
raggiungere quello maschile, dove sapevo che fossero tutti in attesa del mio
ritorno col bottino. Speravo che quei biscotti sarebbero bastati, poiché fare un
altro viaggio era fuori questione. Le luci erano tutte spente. La sola
illuminazione proveniva dai raggi lunari filtrati dalle finestre e tutto ciò serviva
solo a rendermi ancora più irrequieta. Stavo per farmela addosso.
«Margot?», sussurrai, quando mi ritrovai nelle vicinanze della stanza di
Jonah. Era chiusa. La porta era chiusa. Non c'era più nessuno. «Margot? Jonah?
Killian? Ehi, sono tornata... i-io...», deglutii, sollevando il vasetto. «Io ho preso i
biscotti...»
Alzai il braccio libero, pronta a bussare contro il legno rovinato, quando
improvvisamente la luce del corridoio si accese facendomi sobbalzare sul posto.
Mi pietrificai all'istante. Restai immobile, con ancora il braccio sollevato e la
bocca schiusa, mentre passi urgenti e furiosi si muovevano nella mia direzione.
Poi una mano mi afferrò dai capelli costringendomi a voltarmi e l'espressione
furente della direttrice entrò nella mia visuale un po’ sfocata. Cazzarola. Aveva i
lineamenti taglienti induriti e gli occhi spalancati dalla rabbia, tanto che quasi
me la feci sotto.
«Che cosa stai facendo?», sibilò, lasciandomi andare con uno strattone, e mi
tolse via dalle mani il vasetto di biscotti. «Sei andata a rubarli dalle dispense?».
No, no, no!
Aprii la bocca, pronta a cantare come un pappagallo e confessarle che mi
avevano obbligata, che io non volevo, che avevo dovuto farlo per forza e che mi
dispiaceva tanto, ma alle sue spalle spuntarono quelle ciocche rosse che tanto
disprezzavo e il ghigno malefico più fastidioso che avessi mai visto.
Margot. Avrei dovuto aspettarmelo.
«Sveglia oltre l'orario stabilito, infrazione nel dormitorio maschile e furto
nelle dispense. Hai idea di quanto ti costeranno tutte queste infrazioni,
signorina?», continuò la direttrice, per poi afferrarmi dall'orecchio e tirare. «Mi
ero fatta delle aspettative su di te, Grace Martin, e mi hai delusa. Ringrazio che
la tua compagna si sia preoccupata della tua assenza e sia corsa ad avvertirmi,
altrimenti chissà cos'altro avresti combinato!».
Era una iena già da piccola.
Spalancai le palpebre, scioccata. Era stata tutta una trappola e io ci ero
cascata con entrambe le scarpe. Preoccupata per me, certo. Fremiti di rabbia
sostituirono la paura e un istinto animale mi fece tremare le mani dalla voglia di
strapparle i capelli e scucirle via quel sorrisetto dalla bocca.
«M-ma io...», balbettai, cercando di spiegare e dire la verità, tuttavia la presa
sul mio orecchio si fece più intensa e mugolai dal dolore.
«Nessun ma! Non voglio sentire altro! E adesso vieni con me, senza fiatare.
Vedremo se così ti verrà un altro colpo di testa».
Puntai i piedi, tentai di sottrarmi, piansi come la mocciosa che ero e scossi la
testa più volte, cercando di chiarire la situazione, cercando di scappare
all’inevitabile. Fu tutto inutile e ne guadagnai soltanto un ceffone e,
probabilmente, qualche ora in più di punizione.
La direttrice mi trascinò con forza, mentre il mollettone sulla sua testa
sembrava sul punto di voler cadere, e mise fine alle mie grida con un altro
schiaffo. Ormai avevo perso la sensibilità anche all'orecchio.
«Frignare non ti servirà a nulla», brontolò, graffiandomi il braccio con le sue
unghie. «Questo, invece, ti sarà da lezione. Così la prossima volta che vorrai
infrangere le regole, ci penserai due volte. Avanti, forza! Staccati!».
Si era fermata in un corridoio che non avevo mai visto prima. Avevamo fatto
le scale, superato il piano terra e proseguito ancora più sotto. Il freddo laggiù si
stava di già insinuando nelle mie ossa, oltre il vestitino leggero che indossavo
come pigiama.
Scossi la testa più volte, pregandola, arrivando addirittura al punto di tentare
la fuga perché c'erano dei rumori strani attorno a me, ma la direttrice non ne
voleva più sapere di me e delle mie lamentele. Mi agguantò dai capelli
stringendoseli nel pugno e, sotto le mie urla, spalancò una porta per poi
buttarmici dentro e richiuderla a chiave prima che potessi rendermene conto.
«No, no, no!», urlai a perdifiato, battendo i pugni contro il metallo. Questa
non era fatta di legno. «Non è giusto, non è giusto! È tutta colpa di Margot, e di
Jonah, e di Killian! Non è giusto!».
Scoppiai in un pianto disperato, la gola mi bruciava a causa delle urla e dei
versi strozzati che continuavo a emettere, mentre le nocche e i palmi mi si erano
arrossati a furia di colpire la porta.
«Non è giusto, non è giusto», persistevo nel singhiozzare, abbassai di un tono
la voce ogni volta che ripetevo la frase.
Alla fine mi accasciai e scivolai per terra, abbracciandomi le ginocchia
pallide che tirai al petto. Iniziai a piangere in silenzio, perché a quanto pareva
fare rumore non mi sarebbe servito a nulla. Mi doleva il cuore. Non riesco
tutt’ora a credere che esistano persone, ma soprattutto bambini dotati di una
simile malvagità. Non lo vedevano che mi facevano del male? Come potevano
riderne? Come poteva loro compiacere il mio dolore?
Mi asciugai gli occhi e le guance con fastidio, perché no, non se le
meritavano le mie lacrime. Non si meritavano neppure la rabbia o la sofferenza
che provavo. Li odiavo. Sapevo che l'odio era qualcosa di forte, qualcosa che
andava ben oltre il semplice bisticcio; era un sentimento che non andava a
braccetto con ciò che mi avevano insegnato i miei genitori, che erano stati dei
paladini dell’amore.
Ma era anche vero che i miei genitori ormai non c'erano più. Ero rimasta sola
e sempre da sola avrei dovuto sbrigarmela.
Lentamente, comunque, cominciai a calmarmi. Non avevo idea di quanto
tempo fosse passato prima che il pianto si placasse, ma iniziai a regolare il
respiro e darmi un'occhiata attorno. Era per davvero tutto buio. C'era puzza di
chiuso e di muffa, ma nessuna pipì o altri escrementi. E per il momento neppure
nessun topo che volesse mordermi le dita.
Stavo per sospirare dal sollievo, quando lo sentii. Ogni mio singolo nervo si
paralizzò e il terrore tornò ad affacciarsi sulle mie spalle. C'era qualcuno lì con
me. Ne sentivo il respiro lento, adagio e profondo. Mi aveva ascoltata per tutto
quel tempo senza dire nulla?
Deglutii. «C-c'è... c'è qualcuno? I-io mi dispiace se... se ti ho disturbato...»
Avvertii soltanto uno scricchiolio di assi, come un cambio di posizione, ma
nessuna risposta. Il mio battito accelerò.
«N-non volevo darti fastidio, ma», inspirai di scatto, quando sentii un
fruscio. Si stava muovendo. «Ma, ecco, pensavo non ci fosse nessuno. Scusami
ancora».
Sbattei le ciglia, cercando di sforzarmi e adattare la vista al buio, ma tutto ciò
che riuscivo a vedere era il nulla cosmico. Per di più il mio astigmatismo non era
molto d’aiuto. L'unico raggio di Luna, che arrivava da un buco in cima alla
parete, illuminava uno strappo che andava dalla mia bocca fino alla spalla destra.
Nient'altro.
«Come ti chiami? Sei un ragazzo o una ragazza?», azzardai a fare domande,
dopo aver recuperato una dose di coraggio che non credevo di avere. «E perché
non mi rispondi? Mi stai spaventando».
Altri scricchiolii. Altri fruscii. Si muoveva con lentezza, a dimostrazione che
non gliene fregava proprio nulla della mia paura. Poi quel poco di luce venne
oscurato da una figura e due scarpe toccarono le punte delle mie.
Timorosa, sollevai il viso e riconobbi la statura di un ragazzino più grande di
me. Forse anche più grande di Jonah e Killian. Aveva i capelli corti sparati
ovunque, ma non riuscivo a vedere altro all'infuori dei contorni. Trattenni il fiato
quando lo vidi inginocchiarsi di fronte a me, dando possibilità a quel taglio di
diamante di illuminargli una ciocca di capelli. Biondo. Era biondo.
«Che stai facendo?», sussurrai.
Non sapevo per quale ostica ragione, visto che non aveva fatto nulla per
convincermi del contrario, tuttavia la paura aveva smesso di scorrermi addosso.
Adesso ero più... incuriosita da tutto quello. Intrigata.
Fredde mani si avvolsero dietro le mie caviglie sottili, per sorreggersi, e un
fremito di disagio mi schiuse le labbra. Se si accorse del mio imbarazzo, non lo
diede a vedere e, comunque, se ne fregò.
«Perché non è giusto?».
Come un lenzuolo di seta, quel mormorio mi scivolò sulla pelle delicata.
Inumidii le labbra. «Perché mi hanno obbligata a rubare in cucina. Io non
volevo farlo. Ma qui mi odiano tutti e vogliono solo farmi del male. Non ci
voglio più restare in questo posto del cavolo».
Lui sbuffò una risatina cupa, uno spiffero di vento che si abbatté sulle mie
guance. Era più vicino di quanto pensassi, eppure non avvertivo alcun fastidio.
«Sono soltanto dei bambini dispettosi. Ignorali e sarai più forte di loro»,
mormorò, insidioso, poi fece scivolare le dita ruvide sul mio mento per
stringerlo. «Il male è ben altro, bambolina».
Aggrottai le sopracciglia. «Bambolina?».
«Sei bella come una bambolina».
Fui sicura di essere arrossita. Nessuno mi aveva mai detto che ero bella, al
contrario, e non avevo idea di quanto riuscisse a scorgere del mio volto, ma
apprezzai lo stesso.
«Da quando le bamboline sono albine?».
«Da quando sono vere».
Lì per lì non compresi cosa volesse intendere. Forse un giorno l’avrei capito
o magari me l’avrebbe spiegato. Fatto sta che appurai fin da subito che lui era
diverso, non era come gli altri.
«Il mio nome è Grace».
«So chi sei, Grace Martin». L'alito caldo raggiunse il mio collo e sentii la
morbidezza delle sue labbra accostarsi al mio orecchio. «Io so tutto. Io vedo
tutto, anche se voi non vedete me».
Sbarrai le palpebre al tono minaccioso, eppure macchiato da una tale
malinconia da farmi mordere l'interno guancia.
Anche se voi non vedete me.
Questo significava che era lì da tanto tempo? Che se ne stava sempre
rinchiuso? E se fosse stato quel bambino mai tornato indietro?
E poi aveva i capelli biondi. Non eravamo così tanti al Benetton ed ero
abbastanza certa che nessun ragazzo avesse quella chioma. Perciò mi sarei
ricordata di lui se l'avessi visto.
Una nota di empatia mi scosse lo stomaco e, d'istinto, portai una mano sulla
sua, ancora stretta attorno al mio mento, soltanto per lasciargli una piccola
carezza. Per fargli capire che non sarebbe più stato solo. Che da quel momento
in poi, io l'avrei visto. Nessun bambino meritava di stare da solo.
«Che stai facendo?». Fu il suo turno di girare la domanda e sorrisi appena.
«Una carezza».
«Una... carezza», ripetette, quasi fosse la prima volta che sentiva quella
parola e volesse custodirsela con cura. «Una carezza».
«Sì, una carezza. Bella, vero? La mia mamma me le faceva sempre».
Forse avevo appena detto la cosa sbagliata, perché si discostò con uno scatto
e indietreggiò, ridandomi uno spazio che non volevo.
Era la prima volta dopo tanto tempo che riuscivo a parlare con qualcuno
senza ricevere scherni o spinte. Senza sentirmi dare del fantasma. Non importava
che l'unico scorcio che avessi fossero solo due ciuffi biondi. Ciò che contava era
godermi il mio momento di pace. E finalmente riuscivo a percepire di nuovo
quel calore che mi era tanto mancato.
Non volevo che finisse.
«No, per favore, non te ne andare», mormorai.
«Dovresti volerlo invece». La sua voce si era fatta più tenebrosa, dura. Aveva
perso ogni sua sfumatura di dolcezza.
«E perché?».
«Sono pericoloso. Così dicono. Così pensano. Così credono».
«E lo sei per davvero?».
«Non so rispondere a questa domanda», ammise. Poi rise a bassa voce, ma
non gli chiesi cosa lo divertisse così tanto.
Mi premurai piuttosto di fargli un'altra domanda. «E chi sei me lo sapresti
dire?».
«Saprei dirti tante cose, Grace, peccato che tu ancora non sia pronta»,
ridacchiò, di nuovo quell'oscurità maligna impressa in suoni armoniosi.
Dopodiché aggiunse: «Mi chiamano tutti Michael Baker, ma tu chiamami
Michael, bambolina. Soltanto Michael».
Stavo per chiedergli per quale motivo avesse specificato quel "soltanto
Michael", poiché era ovvio che avrei usato il suo nome. Ma non me la sentii di
indagare troppo. Il discorso era già stato fin troppo pesante. E, infondo, sapevo
fin dal principio che a prescindere da tutto per me sarebbe stato sempre Michael.
Perciò infilai una mano nella tasca del mio vestitino e ne tirai fuori un dolce
bottino di guerra.
«Allora... Chiamami Michael, ti va un biscotto alla marmellata?».
TRE
GRACE
Quando conobbi Michael avevo soltanto otto anni e fu del tutto un caso del
destino a farci incontrare. Dovevo scontare una punizione e, nella foga, la
direttrice sbagliò stanza in cui chiudermi. Mi aveva gettata in quello spazio
fatiscente privo di luce, riservato al pericoloso Michael Baker, colui che aveva
ucciso padre e madre a soli dieci anni, inconsapevole di ciò che avrebbe
scatenato.
Nessuno ne ha mai saputo il motivo, il perché abbia fatto una cosa simile.
Questa è una notizia che spetta solo a chi di dovere esserne a conoscenza, fatto
sta che all'epoca credevo che Michael non fosse così cattivo. Credevo che fosse
un'innocua vittima della vita. Che se aveva fatto una cosa del genere, allora
doveva essergli stato fatto di peggio.
Solo in seguito ho compreso che esistono situazioni più grandi di noi. La
comprensione arriva fino a un certo punto, ha un limite che non può essere
superato. La verità è che ricondurre l’esistenza a concetti blandi come buono o
cattivo è fin troppo superficiale. Soprattutto per uno come Michael che non ha
mai avuto la concezione di giusto o sbagliato, Michael agisce e basta. Può
accarezzarti e poi piantarti un coltello nel cuore senza porsi alcun tipo di
problema.
La mattina del trentuno, per ovvie ragioni, le scuole restano chiuse e, in vista
di Halloween, il sindaco ha deciso di imporre il coprifuoco. La notizia di un
assassino a piede libero, per di più durante una notte come quella dove tutti
girano mascherati, ha scombussolato l'intera cittadina.
Ha scosso me. Non ho chiuso occhio per l'intera nottata, troppo concentrata
nell'osservare l'ambiente che mi circondava. Temevo che Michael potesse
sbucare da un momento all'altro e non volevo che mi cogliesse di sorpresa.
A rigor di logica, la giornata in istituto l’ho passata come uno straccio. A
pranzo è stato sul serio il mio turno di lavare i piatti e, tra una sciacquata e l'altra,
mi sono fatta scappare non so quanto sbadigli.
Dopodiché ho trascorso l'intero pomeriggio a giocare con Reese nella sala
ricreativa. Le sto insegnando l’arte degli scacchi, ma ne ha ancora di strada da
fare per poter realizzare partite meritevoli di essere chiamate tali. D’altronde, io
sono la prima che ne ha ancora da imparare in merito.
Poi abbiamo disegnato. Non sono mai stata brava a farlo e nemmeno Reese
da quello che ho potuto vedere, ma comunque ci siamo divertite.
«Queste siamo noi due», le ho detto, indicandole due omini con i capelli
biondi.
«Lo attaccherò alla parete sul mio letto. Però dovremmo fare i tuoi capelli
più bianchi, non credi?».
«Come faccio a fare dei capelli bianchi su un foglio bianco?».
«Bella domanda».
Quel piccolo demonio è un concentrato di disastri, ma se c'è una cosa in cui è
dannatamente brava, quella è di sicuro farti venire il mal di testa. Reese ha una
lingua lunga e non chiude mai il becco. L'adoro soprattutto per la parlantina
vivace che ha, ma passare un intero pomeriggio con lei è da matti. Rischi di farti
scoppiare il cervello.
Ragione per cui, dopo averla smollata a un bambino della sua stessa età,
arrivato lì da poco, sono corsa a rintanarmi nella mia stanza. Peccato che nulla
vada mai come previsto.
«Che cazzo, Margot!», sbotto e richiudo la porta di scatto.
«Resta fuori, Gracie!», mugola in un mezzo ansimo, mentre uno dei tanti
ragazzi con cui ha una tresca continua a sbattersela contro il muro della mia
stanza.
Mi strofino le mani lungo il viso. Odio Margot per ragioni che non hanno
nulla a che vedere con il suo spirito libertino, ma non esiste che me ne rimanga
qua fuori ad attendere i suoi porci comodi.
«Ti avverto, sto per entrare e non me ne frega niente dell'uccello in bella
vista del tuo giocattolo!».
«No, non ci provare!».
«Vuoi scherzare, Margot? Faccio quello che voglio!».
Riabbasso la maniglia e compio il mio ingresso trionfale, mentre il ragazzino
si sbriga a ricoprirsi il culo con un paio di boxer blu. Non lo degno di un misero
sguardo, piuttosto fisso gli occhi in quelli neri di Margot che se ne sta appoggiata
alla parete mezza svestita.
Di contro, accompagnata dalle sue guance rosse e le labbra gonfie, lei mi sta
trucidando con lo sguardo.
«Ehm... ci vediamo, Margot», biascica imbarazzato il tipo, che
probabilmente ha qualche annetto in meno di noi, prima di defilarsi.
«Sei contenta adesso?», sibila la stronza, incrociando le braccia al petto. Ha
ancora la gonna tirata sulla pancia e gli slip allentati, ma se ne frega. «Cosa ci
hai guadagnato nel rovinarmi la scopata? Te lo dico io: niente. Resterai
comunque la solita sfigata, vergine e gelosa».
«Certo, Margot, il mio unico obiettivo nella vita è assicurarmi che tu non
faccia sesso», sbuffo una risata, poi apro l'armadio e comincio a tirarne fuori i
miei pochi effetti personali. «Credimi, sei l'ultimo dei miei pensieri al momento.
Se vuoi scopare, lo fai lontano dal mio letto».
La divisa da cheerleader blu e bianca spicca sul copriletto, insieme ai libri di
scuola, i vestiti che uso ogni giorno, le creme solari e i miei medicinali. Inizio a
gettare tutto alla rinfusa dentro al mio borsone, cercando di non farmi trascinare
troppo dalle emozioni.
«Che stai facendo?», domanda Margot, d'improvviso dimentica di quello che
è appena successo. «Te ne vai?».
«Preparo la mia roba. Domani compio diciott'anni, te ne sei dimenticata?».
«E quindi? Puoi fare la richiesta di altri tre anni, Grace. Io l'ho fatto e, infatti,
sono ancora qui».
Sollevo le sopracciglia. «Mi stai sul serio chiedendo di rimanere? Tu?».
«No. Ti sto solo dicendo che non c'è bisogno di fare la vittima
melodrammatica come tuo solito, e con quel pazzo in giro non è sicuro che tu te
ne stia per strada».
Un fremito mi formicola lungo le mani, tuttavia inghiotto qualsiasi timore.
Non voglio che veda quanto ancora mi faccia tremare il solo pensiero. Non
voglio che veda quanto sto soffrendo, con queste piaghe che sanguinano la notte.
D’istinto mi copro le orecchie con i capelli e volto la testa nella sua direzione,
scoprendo che si è data una sistemata. Adesso ha un aspetto quasi decente.
«Non mi avrebbero mai accettata. La direttrice mi detesta e tu lo sai. E poi
dovrei fare a prescindere almeno sei mesi fuori di qui, richiesta o meno».
Non le dico che temo Michael possa presentarsi qui, che mi sento più al
sicuro lontana da un posto che conosce fin troppo di noi. Margot sospira,
annoiata dalle mie repliche taglienti, sicché agita la mano e si siede sul mio letto.
«Non durerai granché lì fuori da sola, Gracie. Sei sempre stata la più fragile,
soprattutto in questo momento. Ricordi?».
Indurisco le mandibola. Devo imporre a me stessa di non prenderla a schiaffi.
Prendo un respiro profondo, afferro la mia collana d'argento e me la lego al
collo. Il ciondolo a forma di re riflette la luce della lampadina.
«Io ricordo soltanto di una cerchia di bulli che se la prendeva con la nuova
arrivata, con l’albina di turno. Per il resto non preoccuparti, Margot, mi sono
fatta le ossa. So vedermela da sola».
«Visto? Come sempre devi fare la vittima. Svegliati, Grace! È successo anni
fa e abbiamo pagato per ciò che abbiamo fatto. Qualcuno più di altri».
«Stai zitta, maledizione!», sbotto, stanca di quel suo blaterare senza sosta.
«Tu non hai pagato proprio niente, Margot. La tua vita è andata avanti come se
niente fosse e sei ancora qui, a tormentarmi e rendermi impossibile respirare. Ti
dispiacerebbe lasciarmi in pace almeno il mio ultimo giorno? Sto chiedendo
troppo?».
La osservo inspirare a fondo e stringere le labbra in una linea retta. Poi
scuote il capo, facendo ondeggiare la sua chioma rossa, e calpesta i piedi in
direzione della porta.
«Come vuoi, stronza», sputa, brusca. «Ma lascia che ti dica un'ultima cosa:
sei stata tu a fartelo amico. Non io. Non gli altri. Tu, Grace. Eppure guarda come
è andata a finire».
Il tonfo della porta che si chiude risuona in concomitanza con il mio singulto.
Stringo gli occhi per impedire a quell'infimo senso di colpa di sopraffarmi.
Per quanto possa odiare Margot, ha ragione: sono stata io. Gliel'ho porta io
quella mano a Michael, sono stata io a dargli uno scorcio della mia luce per
permettergli di uscire dal buio. L'ho trascinato io nelle nostre vite e ciò che è
successo dipende soltanto da me.
Premo la base del naso tra indice e pollice, la piccola vescica sotto l’unghia
mi carezza la pelle. Cerco di regolare il respiro e reprimere tutto il casino che
vuole tanto ribaltarmi.
Andiamo, Grace, hai una missione da portare a termine.
Alzo lo sguardo sul soffitto e rimango in quella posizione, finché le lacrime
non cessano di battere dietro le retine. Poi torno al mio borsone e finisco di
riempirlo. Le mani mi tremano ancora e l'inquietudine non ha alcuna intenzione
di mollarmi, tuttavia continuo. Non permetterò mai alla direttrice e il suo ghigno
soddisfatto di svegliarmi, insieme agli assistenti sociali. Non permetterò loro di
buttarmi fuori a calci in culo.
A denti stretti, infilo la divisa bianca e blu che avevo lasciato sul letto, quindi
indosso un cardigan per coprire le braccia e applico un trucco scuro e rossetto
rosso. Maledetto Halloween. E maledetta Elisa.
Scrivo un veloce biglietto, dove prometto a Reese che ci rivedremo presto, in
cui le assicuro che non la sto abbandonando. Tornerò a riprendermela, prima o
poi. Il cuore scricchiola quando apro la finestra e lancio il borsone sul manto
erboso. Dopodiché inizio a calarmi lungo le spesse radici che corrono lungo la
parete.
E poi corro. Corro, corro e corro, fino a farmi bruciare i polmoni. Fino a
tossire per la fatica. Sto dicendo addio al Benetton. Dopo anni di odio, prese in
giro e privazioni. Ce l’ho fatta. Non so cosa ne sarà della mia vita, la paura
dilaga in me, ma combatterò fino all'ultima briciola di speranza.
Spifferi perfidi si inoltrano oltre la mia pelle troppo scoperta mentre i rami
della foresta frustano con forza, ma non mi fermo. Scaccio di nuovo quella
sensazione di qualcuno che mi sta osservando, intanto che il buio della notte cala
attorno a me.
Dove vai, bambolina?
Spalanco le palpebre, ma continuo a correre. Ormai le mie gambe hanno vita
propria. La mia testa rimugina, scavalca ricordi e mi getta addosso voci che
voglio solo dimenticare.
Eppure sembrava così reale...
Di questo passo finirò per impazzire. Non rallento neppure quando mi ritrovo
a calpestare il cemento della via principale. I ragazzini gironzolano vestiti da
diavoli, zombie, vampiri, chi in vena di recuperare i dolcetti e chi dispettoso di
fare guai.
Nessuno fa caso a me, ognuno perso nella propria fantasia, ignari di chi
possa esserci in agguato sotto la maschera. Sono ancora all'incirca le nove di
sera, a breve scatterà il coprifuoco e tutti si stanno riducendo all'ultimo per
divertirsi e godersi gli ultimi momenti.
Quando raggiungo la St. Gerard mi brucia il petto e ho il fiato corto, difatti
mi piego in avanti per recuperare le energie. La brezza della sera soffia contro la
gonnellina che indosso, ma non me ne curo.
Raddrizzo la schiena e riprendo ad avanzare. Il cortile del liceo è illuminato
soltanto dai due lampioni centrali, mentre l'ingresso vanta un faro che funziona a
intermittenza. Inquietante, cazzo.
Raggiro l'entrata principale per dirigermi verso la palestra, dove so che c’è
un altro ingresso. Grazie a Ben e ai suoi tentativi, abbiamo scoperto che la
serratura è rotta, quindi useremo tutti quell’accesso. Stringo con maggiore forza
la tracolla del borsone, provando a ignorare la tensione che grava sulle mie
spalle fragili, e spingo la maniglia. La porta cigola e devo insistere un po', ma
alla fine riesco nell'impresa.
«Elisa?», richiamo. «Ben? Cody?». Passo dopo passo, mi do un'occhiata in
giro. La tribuna è vuota, così come l'area di gioco. «Ehilà? Denver? Ma c'è
qualcuno?».
Alzo gli occhi al cielo e mi dirigo verso gli spogliatoi. L'accordo è che Elisa
e gli altri dovessero arrivare intorno alle sette, per assicurarsi che nessun altro
abbia avuto la nostra stessa idea, e poi attendermi. Magari con qualche bottiglia.
Le opzioni, allora, sono due: o stanno facendo gli stronzi e mi stanno tenendo
uno scherzo. O stanno facendo gli stronzi e sono sul serio in ritardo.
Sbuffo, accendo le luci fredde e lascio cadere il borsone su una panca, poi
tiro fuori il cellulare.
«Merda». Dimentico sempre che non prende alcunché negli spogliatoi.
Ucciderò Elisa. Non solo mi ha letteralmente costretta a riunirci in vista del
mio compleanno, nonostante il coprifuoco e i pericoli in allerta, ma si è anche
permessa di lasciarmi qui da sola in attesa.
Okay, sarei uscita comunque per rifugiarmi da qualche parte, visto che non
voglio svegliarmi l'indomani al Benetton e starmene in attesa. Però avrei potuto
optare per passare la nottata in qualche motel o roba simile.
Durante gli anni, consapevole del destino a cui sarei andata in contro, tra un
lavoretto e l'altro, ho messo qualcosina di parte. Abbastanza per cavarmela per
un paio di mesi, nell'attesa di riuscire a capire come mettermi in piedi e
sopravvivere. Lavoro anche nella caffetteria di Ginny a pomeriggi alternati,
magari potrei chiederle altri turni.
Stringendo le labbra, scuoto il capo; non mi va più di pensare a quello che mi
aspetta. Voglio solo godermi un momento per me. Ma, Cristo, Elisa me la
pagherà cara.
Mi inoltro per i corridoi della scuola e aspetto che compaiano le famose
tacchette sul cellulare. Le suole delle mie scarpe ticchettano a contatto con il
pavimento lucido.
«Dove diavolo sei? Sto iniziando a incazzarmi, Eli!», intimo, inviandole una
nota vocale quando non risponde alle chiamate.
La preoccupazione si fa strada dentro di me, più passa il tempo e più non
ricevo alcuna risposta. Da nessuno di loro. Svolto per l'ennesimo corridoio, dove
gli armadietti proiettano le loro ombre, e all'improvviso sento una porta sbattere.
Inspiro di scatto. Mi fermo, paralizzata. Cos’è stato?
Sobbalzo quando, quello che sembra un pugno, colpisce le ante degli
armadietti e un fischiettio inquietante si riversa nell’aria. Non può essere di certo
Elisa, diamine, lei neppure sa fischiare.
È l'istinto a guidarmi: ricomincio a correre. Corro come una matta verso la
prima uscita di emergenza, quella vicino alla mensa. Mi ci getto contro, salvo
poi scoprire che è chiusa. Che qualcuno l'ha chiusa.
Il sangue si gela nelle mie vene.
«Cazzo», sibilo, nel frattempo uno strano ululato si libra nell'aria e... è
sempre più vicino.
Poi risatine, e passi, e risatine, e ancora colpi, e di nuovo ululati. Stridii,
come lame che strusciano.
Boom. Boom. Boom.
Il cuore batte, frenetico, e le gambe riprendono a muoversi allo stesso ritmo.
Entro nella mensa, scoprendola in disordine, con tutte le sedie disseminate
ovunque, e le scavalco in preda all’agitazione. Raggiungo l'altro accesso della
stanza, proprio quando iniziano ad aprirsi le stesse porte da cui sono entrata io.
Ma nell'attimo esatto in cui faccio per uscire, una mano mi tappa la bocca e
un'altra si avvolge attorno al mio fianco.
«Bu», sussurra una voce, e io urlo.
Urlo più forte che posso e carico una gomitata nelle costole del mio
assalitore, facendolo imprecare.
«Ma che cazzo, Grace!».
Mi volto e gli assesto un'altra manata sulla testa. Sono furiosa, maledizione.
Furiosa e terrorizzata a morte.
«Piccola, basta!».
«Vaffanculo, Denver!», sbotto, pronta a picchiarlo ancora, se non fosse per la
presa di Cody. «Vaffanculo a tutti, mi avete spaventata da morire!».
«Già, quello era lo scopo, bella», ridacchia quello che credo sia Ben. Non ne
sono proprio sicura, visto che indossa un lungo lenzuolo e grandi occhiali da
sole. «E comunque è stata tutta un'idea di Cody. Ci eravamo stufati di aspettarti».
«Fanculo, baby, fai proprio schifo come partner», pronuncia la voce alle mie
spalle, le braccia ancora strette attorno a me. «Che bisogno c'era di dare la colpa
a me? Tanto vi siete dimostrati tutti d'accordo».
«Sì, beh, quando ho accettato non pensavo che mi sarei ritrovato pieno di
lividi», borbotta Denver, mostrandomi il suo trucco da zombie.
Giocatore di football zombie, per la precisione. Wow, originale. Proprio
come me, in effetti. Forse è per quello che siamo una specie di coppia. Anche se
voglio ancora prenderlo a pugni.
Digrigno i denti. «Ah no? E cosa vi aspettavate, baci e carezze?».
«Andiamo, fatti una risata», si intromette Elisa, tenendo una bottiglia di Jack
in mano, intanto che Cody mi lascia andare. «Era solo uno scherzo. Sai anche tu
che doveva succedere».
Assottiglio le palpebre, quindi le strappo la bottiglia di mano e ne bevo un
sorso generoso nonostante il suo sguardo di rimprovero. L’esofago mi va in
fiamme. «E questa dove te la sei rimediata, Mercoledì Addams? Non credo
proprio che alla stazione di servizio abbiano creduto a quel documento falso da
quattro soldi che ti sei fatta da sola».
«Il fratello di Cody ci augura buon Halloween», ammicca.
«Oh, maddài, non dirmi che ti scopi mio fratello!».
«Io non ho detto niente», ridacchia lei e, per quanto possa avercela con loro,
finisco per ridere anche io.
Una mano mi tira bruscamente indietro e due braccia avvolgono i miei
fianchi. Poi Denver mi bacia la guancia, lo lascio fare. Mi piacciono le
attenzioni.
«Pace?», mormora al mio orecchio, prima di mordermi il lobo, e mugolo un
cenno di assenso.
Lascio che l'alcol mi bruci di nuovo la gola, prima che Elisa me lo strappi via
con impeto, mentre Denver distende un palmo sul mio basso ventre.
«Forza, andiamo a imbrattare l'ufficio del preside», propone Ben, sfregandosi
le mani dall'eccitazione.
Elisa sbatte le ciglia, perplessa. «Per quale ragione vorresti deturpare l'ufficio
di tuo padre?».
«Uhm, pronto? Proprio perché è mio padre possiamo farlo. Usa un po' il
cervello, stellina. È ovvio che abbiamo il culo di già parato».
«Ma così non è più divertente», protesta Denver contro la mia tempia e,
incredibilmente, lo appoggio. «Facciamo in questo modo. Io e Grace ci
occupiamo della palestra, voi tre della mensa. Sono i luoghi dove si riuniscono
più persone».
«Visto, Elisa? Non è difficile! Se ti sforzassi, scopriresti che ce l'hai perfino
tu un po' di materia grigia».
«Ben», lo riprende Cody, il mietitore. «Lasciala un po' in pace, dài».
«Sì, Ben, lasciami in pace, cazzo». Lei riduce lo sguardo a una fessura e lo
punta al ragazzo alle mie spalle. «E tu, stai ben attento a ciò che fai. Ricordati
che io ti osservo sempre».
«Ricevuto, Mercoledì», scherza. «Ora possiamo andare? Perfetto, ciao».
Non attende neppure una risposta. In un lampo, mi fa girare tra le sue braccia
e l'attimo dopo gli sto penzolando sulla spalla a testa in giù.
Ma cosa...
«Denver!», strillo. «Mettimi giù!».
«A dopo, ragazzi!», urla lui, dandomi una pacca sul sedere. «E adesso ci
penso io a te, piccola».
«Ci vediamo dopo!», grida Elisa in risposta, mi limito a scuotere la mano.
Stringo il bordo della giacca di Denver tra le dita e arriccio le labbra a ogni
sussulto. «È davvero necessario? No, perché fino a prova contraria sono
perfettamente in grado di camminare da sola».
«Lo so, ma sai quanto mi piace fare il troglodita», sogghigna, mordendomi la
coscia, e sobbalzo. «Quanto cazzo sei morbida. Voglio mangiarti tutta».
«Purtroppo devo metterti al corrente che sono contro il cannibalismo».
E non sono affatto morbida.
Denver scoppia a ridere, dopodiché mi fa scivolare lungo il suo corpo,
impedendomi di allontanarmi di un solo centimetro. Siamo arrivati in palestra, in
prossimità del primo canestro del campo da basket, e le luci sono tutte spente.
Fisso lo sguardo in quello di Denver. Il suo nocciola è fuso, puro liquido
destinato a infiammarsi, e so che ha tutte le intenzioni di trascinarmi in
quell’incendio. Mi avvolge i fianchi nella sua presa, avvicina il volto al mio e
sospira sulle mie labbra.
«Non dovremmo fare i vandali e imbrattare questo posto?», deglutisco,
inclinando il capo all'indietro.
Denver solleva l'angolo della bocca, in quel sorrisetto che ha sempre fatto
andare su di giri tutte le ragazze. Tutte, tranne me. Le sue mani scivolano fino al
mio fondoschiena, e non capisco cosa ci trovi di così tanto eccitante visto che
sono più ossa che altro.
«Stavo pensando più a un altro tipo di divertimento», mugola, stringe la
presa e mi sbatte contro il suo corpo.
Prima che possa rendermene conto, la mia schiena si addossa alla parete e le
braccia di Denver mi stanno alzando a suo gusto e piacimento.
Inspiro, sentendolo tra le mie cosce. «E... e se facessimo un gioco?».
«Mmh». Nasconde il viso nell'incavo del mio collo, dove comincia a
seminare baci bagnati e languidi. Il mio disagio aumenta a dismisura, ma lui
pensa solo a spingersi contro di me e gemere. «Stavolta niente giochi, piccola.
Solo io e te».
Il sorriso mi trema sulle labbra, mentre dita fredde mi accarezzano le natiche
e il suo bacino comincia a strusciarsi contro il mio.
«Denver», lo richiamo appena comprendo che non si fermerà. Lui mi bacia
per farmi stare zitta. «Denver, no...»
«Shh, non avere paura», sussurra sulla mia bocca, prima di lambirla con la
lingua, e infila una mano tra i nostri corpi per sfiorarmi attraverso le culotte.
«Rilassati, piccola. L'ho già fatto altre volte. Ti farò stare bene. Fidati di me».
Impongo a me stessa di mantenere la calma. D'altronde, che problemi ho?
Probabilmente sono l'unica ragazza della St. Gerard ancora vergine e quello
davanti a me è il più figo della scuola, colui che tutte vogliono ma che ha scelto
me. Per quale dannata ragione devo respingerlo? Perché non posso essere
normale e aprirgli le gambe senza fare troppe lagne?
Eppure, quando lo sento sbottonarsi i jeans e abbassare la lampo, quando lo
avverto nel mio interno coscia, pronto ad abbassarmi ciò che lo separa dalla
meta, il mio corpo reagisce di vita propria.
«No, Denver, no», protesto, dimenando le gambe. «Smettila, non voglio farlo
così!».
«Rilassati, cazzo», sbuffa, supera la soglia delle culotte per toccarmi con le
dita. «Lo sai che ti amo, vero? Non ti farò del male, Grace. Sono pazzo di te dal
primo anno, voglio solo farti godere».
«No, no, no», dico senza fiato.
Percepisco i suoi polpastrelli tastare la mia carne, premere per farsi spazio e
mi salgono le lacrime agli occhi. Faccio pressione sulle sue spalle per spingerlo
via, sto annaspando nel panico e non so cosa fare. Come ci si comporta in queste
situazioni? Come si fa a lottare contro il senso di impotenza e farsi valere?
«Fermati», fiato, tirandogli i capelli e cercando di bloccargli il polso, ma lui
ridacchia come se fosse soltanto uno scherzo. Come se stessi solo giocando a
fare la difficile. «Ti prego, Denver, fermati!»
Si avvicina, per baciarmi forse, quando un pallone arriva a tutta forza e lo
colpisce dietro la testa. Di riflesso mi dà una testata sul naso, facendomi male
cane, e candido sangue mi cola sulla bocca. Maledizione, ho il naso troppo
sensibile.
«Cazzo!», sbotta lasciandomi cadere a terra, poi si volta.
Nonostante il dolore, sospiro dal sollievo e cerco di asciugarmi il sangue
dalla faccia. Devo andarmene alla svelta da qui. Non solo perché voglio mettere
quanti più metri possibili tra me e questo stronzo, ma ho una brutta sensazione
cucita sotto l’epidermide. Soprattutto quando un faro si accende dall'altro lato
del campo e mi ferisce le iridi.
«Ehi, stronzo, fatti avanti!», ringhia Denver, avanzando in quella direzione.
«Se credi che abbia paura, ti sbagli di grosso!».
Mi appoggio alla parete, trattengo il fiato, intanto che denso liquido rosso mi
macchia tutta la divisa. Elisa si incazzerà tantissimo, ma in questo momento me
ne importa meno di niente.
«Allora? Dove ti nascondi, sfigato? Ora non ti va più di giocare?».
Rimango nella stessa posizione. So che dovrei dare ascolto alla mia testa a
scappare via, ma non vedo più Denver. C’è soltanto questa fottuta luce accecante
che mi sta distruggendo gli occhi. Non oso chiamarlo. Ho il respiro incastrato
nelle corde vocali, e l’unico suono che sento è lo scalpiccio di scarpe che
strusciano. Un suono stridulo, quasi fastidioso, finché uno stridio sinistro non mi
fa sussultare.
Il cuore mi batte più forte, striscio all’indietro e poi sussulto quando un colpo
secco, come un tonfo, mi fa accapponare la pelle. D’improvviso, cala il più tetro
dei silenzi e brividi di paura mi ricoprono da capo a piedi.
Affondo i denti nel labbro inferiore. «Denver?». Nessuna risposta. «Ragazzi,
se è un altro dei vostri scherzi, giuro che me ne vado e chiudo la nostra amicizia
per sempre!».
Maledizione, Grace, certo che è un altro dei loro scherzi!
È quasi mezzanotte, il tuo compleanno. Vogliono solo spaventarti.
Emetto un respiro più rapido, e lentamente mi rialzo in piedi. «Avanti, non ci
casco più! Potete uscire allo scoperto!».
Dentro tremo. Deglutisco, mi fermo al centro del campo e attendo. Non so
cosa nell'esattezza, ma io aspetto. E non devo attendere molto, perché di punto in
bianco una palla rotola in fretta fino ai miei piedi.
Peccato che quando abbasso lo sguardo non ho bisogno di una seconda
occhiata per capire che quella non è una palla. No.
È la testa di Denver. Recisa. Ho la cazzo di testa di Denver ai miei piedi che
mi sta fissando.
Sgrano le palpebre e, d'istinto, grido a squarciagola con tutto il fiato che ho
in corpo, mentre il principio di un infarto mi fa esplodere il petto.
«Oh mio Dio», singhiozzo, portandomi una mano alla bocca per strozzare
l'ennesimo urlo, e indietreggio. «Oh mio Dio!».
Scappa, bambolina.
La sua voce rimbomba nel mio cervello e nemmeno mi importa che sia reale
o meno. Scappo davvero.Corro verso lo spogliatoio, dove ho lasciato il mio
borsone con tutto il necessario al suo interno. Le lacrime bruciano lungo le
guance e il terrore mi chiude la gola.
Non posso andare nei corridoi, non posso portarlo — perché so che è lui, non
si tratta di una coincidenza — da Elisa e gli altri. Non commetterò lo stesso
errore due volte. Anche se... cazzo, Denver.
Singhiozzo, precipitandomi alla borsa che macchio di sangue, e la apro in
fretta, prima di passare al setaccio.
«Dov'è», piagnucolo, arrivo al punto di rovesciarla. «Merda, merda...
dov'è...»
Il tintinnio dell'acciaio mi riscuote e allungo la mano, pronta a recuperare il
mio coltello e usarlo, quando un braccio si avvolge attorno alla mia vita e un
palmo mi tappa naso e bocca. Strillo come una pazza contro la pelle e mi agito
su un petto robusto, mentre lui intensifica la presa.
No, no, non deve andare così! Non deve andare così!
«Ciao, bambolina», sussurra al mio orecchio. Il respiro viene meno. «Ti sono
mancato?».
La testa gira, lui non vuole farmi prendere ossigeno. Me ne sta privando.
Provo a prenderlo a gomitate, provo la tecnica del peso morto o di pestargli il
piede, ma niente sembra funzionare. Le palpebre si fanno pesanti. No, no, non
così!
Combatti, Grace, non arrenderti. Combatti!
«Te l'avevo detto che sarei venuto a riprenderti», biascica, la sua voce dura
sembra più distante. «Tanti auguri, Grace».
Poi... il buio.
QUATTRO
GRACE
Grace: 9 anni.
Michael: 13 anni.
GRACE
Freddo. È la prima cosa che sento. Avverto gli spifferi pungolarmi la pelle
nuda ed esposta ancora prima di aprire gli occhi. Un senso di spossatezza mi
intorpidisce gli arti, mentre la puzza di muffa e di chiuso continua a pizzicarmi le
narici. Mi trattengo dall'arricciare il naso.
Ormai sono sveglia da un po'. Ma lui non deve saperlo, perciò continuo a
fingere, cercando di reperire quante più informazioni possibili. Cercando di
dominare il panico, di non pensare, di non ricordare. Se mi lasciassi trasportare
da tutto questo, non uscirei mai viva da qui.
Percepisco il cuore scoppiarmi nella cassa toracica, con i polmoni che si
accartocciano come vecchi giornali. Le ossa mi fanno male. Trattengo le lacrime
dietro le palpebre calate.
Mi ha presa. Non sono riuscita a sfuggirgli, non sono riuscita a farmi valere.
Ho permesso alla paura di avere la meglio, e adesso lui è qui, a pochi metri da
me. Lui è qui, cazzo.
E Denver è morto. Decapitato. Denver è morto. Lo ha ucciso. E la sua testa
mozzata l’ho vista rotolarmi fino ai piedi. Non dimenticherò mai una cosa
simile. Mi tormenterà in tutti i miei incubi, un'aggiunta a quelli che già ho.
E gli altri, gli altri stanno bene? Elisa, Ben, Cody...
La percezione del tempo mi è sfuggita dalle mani, possono essere passate ore
così come giorni.
Concentrati, Grace. Ragioniamo.
Inspiro profondamente. Non avverto alcun peso ai polsi alle caviglie. Posso
muovermi liberamente. Mi ha sul serio lasciata libera?
Probabilmente dovrei ritenermi offesa. Sta sottovalutando la mia
combattività. Dopotutto lui ha ancora in mente quella povera bambina che
correva a rifugiarsi al buio per ogni timore, che andava a piangere da lui per
paura di affrontare una realtà che non le piaceva. Ma io non sono più quella
bambina.
Freddo. Chiuso. Muffa. Vecchio. Libera. Dove diavolo sono finita?
Mi soffermo sull'udito. Michael è sempre stato fin troppo silenzioso, lo so
bene, eppure io... io posso avvertire la sua presenza. Ne sono sempre stata
capace, fin dall'inizio.
Deglutisco. Una perfida inquietudine mi si insinua dietro la nuca, sotto la
pelle, perché percepisco la sua presenza. Acuminando i sensi, posso quasi
sentirmelo addosso, feroce e implacabile, il rancore covato in quasi sette anni di
solitudine ribolle nell'aria fino a scivolarmi sulle labbra.
Poi mi fa dono del suo respiro. Ne trae uno profondo, per farmi capire che sa,
sa che sono sveglia.
Apri gli occhi, Grace. Aprili, studia, panifica. Fuggi!
Per quanto mi sforzi, però, i miei occhi non ne vogliono sapere. Io non ne
voglio sapere. Non voglio guardarlo, non voglio vederlo, non voglio
sprofondare. Non voglio realizzare. Ma lui continua a respirare. Lentamente,
quasi se la stesse godendo, persiste nell'attendermi.
Perciò alla fine, spinta da una dose di coraggio, lo accontento. Piano piano,
schiudo le palpebre. Millimetro dopo millimetro, respiro dopo respiro, apro gli
occhi. Nessuna luce mi investe le pupille, per fortuna. Si tratta di un fascio
appena accennato, proviene da una piccola finestra grande quanto la mia testa e
sbarrata, posta anche troppo in alto per me.
Per il resto, l'oscurità regna sovrana. D'istinto poggio le mani sul pavimento,
ma finisco soltanto per tastare qualcosa di morbido e a molle. Un materasso.
Sono seduta su un materasso sporco e nudo, abbandonato in quella che ha tutta
l'aria di essere una cantina abbandonata, a giudicare dall'odore e dalla stanza
spoglia.
Oltre a un congelatore fuori uso da chissà quanto tempo e delle scale che
conducono a una porta non c’è altro. Altro, che non sia lui. Intrappolata fra
quattro mura, ecco dove sono. Insieme a Michael. Io, Michael, il buio e un
materasso. Come un tempo.
Devo andarmene all'istante. Devo scappare. Prima di finire come Denver, o
di fare la fine di tutti coloro che hanno commesso il grave errore di imbattersi in
Michael.
Oso sbirciare un'occhiata nella sua direzione. Non mi spingo oltre il busto. I
suoi occhi sono troppo pericolosi, spettri senz’anima. Ingoio un altro groppo.
Inizio a sudare freddo, sebbene stia congelando. Indosso ancora la divisa di Eli.
I piedi nudi di Michael, incrostati di sangue e sporchi di terra, si trovano
distanti dalle scale. Più di quanto lo sia io. Lui se ne sta immobile, ha le piante
ferite. Non potrebbe mai fermarmi e, razionalmente, so che è fin troppo facile.
Avrà di sicuro chiuso a chiave la porta, che a occhio mi pare d’acciaio. Sono un
grissino che si regge a malapena in piedi. Non avrò neppure la forza per
spingerla, quella porta, eppure non posso fare a meno di guardarla pervasa dalla
disperazione.
Mi trema la gamba dal desiderio di buttarmici addosso fino a spezzarmi le
ossa, che io da qui me ne devo andare adesso. Non può permettersi di rubare
altro spazio della mia vita, ne ha preso già fin troppo. Dovrei restare ferma e
lasciargli fare quello che vuole? Dovrei forse farmi ammazzare senza opporre un
minimo di resistenza?
Sento i suoi occhi su di me. Il silenzio mi romba nella testa. Finché non
avessi aperto bocca, allora non l'avrebbe fatto nemmeno lui.
Un altro respiro. Un altro ancora. E ancora, ancora, ancora. Poi stringo i denti
e, appoggiandomi alla parete mi alzo con le ginocchia che vibrano dalla fragilità.
Mi macino il cervello a furia di pensare a una soluzione, ma non riesco a
trovarne e questo mi fa infuriare come solo Dio sa cosa.
«Mi hai rapita», biascico, sofferente.
Lui sta zitto.
«Tu… mi hai rapita», assodo di nuovo, la voce esce altalenante.
«Vaffanculo!».
Risalgo con lo sguardo fino al suo volto. Non solo resta ancora una volta in
silenzio, ma appare completamente indifferente alla vicenda. Ha la faccia di
pietra, gli occhi così vuoti che non riesco a scorgerne la fine.
Avanzo come una pazza nella sua direzione, incapace di controllarmi. «Che
diavolo vuoi da me? Fammi uscire, fammi uscire subito e lasciami in pace!».
Michael non fiata, se ne sta immobile a fissarmi senza alcuna emozione,
vitreo, subendosi le mie urla.
«Che cosa vuoi da me, eh?». Mi chino, lo afferro dal colletto della casacca
bianca, la divisa dell'istituto, e lo scuoto. «Parla, cazzo! Che cosa mi hai
trascinata a fare quaggiù se nemmeno apri bocca?!», mi sfugge un singhiozzo, e
lo scuoto così forte che lui sbatte la testa contro la parete.
Voglio ammazzarlo, voglio che abbia paura come ce l’ho avuta io per tanto
tempo e spezzargli il cuore in milioni di pezzi come lui ha fatto con me. E lui
non fiata, maledizione, non si dimena, non combatte, non fa niente. Se ne sta
solo qui, immobile, a guardarmi e a farsi scuotere, ed è proprio adesso che
commetto l'errore di fissare gli occhi in quei pezzi di vetro rotti.
Il fiato viene a mancarmi, le ginocchia tremano e cerco di rinsaldare la presa,
di rafforzare la pressione delle mie mani, ma quelle iridi... quei cristalli
dimenticati, quel luogo sperduto e malinconico sta cercando in tutti i modi di
trascinarmi in un mondo che non desidero ricordare.
Michael. Maledizione, è Michael. La mia casa, il buio che mi sono ostinata a
illuminare, il mio incubo, il mio tormento, la mia salvezza, il mio primo amico.
Il mio errore più grande.
«Rispondimi, cazzo!», gli grido in faccia.
E forse era perso nei suoi strani viaggi o visioni, perché sbatte le palpebre e
una piccola luce gli si conficca nelle retine. Sussulta.
«Grace», sussurra meravigliato e spregevole quanto la morte, soffocandomi
con la sua voce. Una mia lacrima gli ricade sulle ciglia. «Grace, sono io»,
bisbiglia di nuovo. «Bambolina, guardami, sono io».
Per un momento non so più a cosa sia dovuto il dolore che provo.
Tiro su con il naso. «Non osare», sibilo, la crosta sul dorso della mia mano si
riapre e ne cola del sangue visto quanto sto stringendo il pugno. «Non ti
rivolgere a me come se nulla fosse. Non dopo quello che hai fatto!».
Mi ascolta, so che fa attenzione a ogni mia singola parola e al mio tono
instabile, eppure pare fregarsene nel momento in cui sposta il capo e fa per
prendermi la mano sanguinante. «Attenta, Grace. Sei sempre la solita peste».
Quella stessa mano parte da sola. Si schianta sulla sua guancia. Va a
casaccio, non si tratta neppure di un vero schiaffo. Lo colpisco e basta, perché
sento di averne bisogno.
«Non provare a toccarmi», fiato.
Le sue palpebre si spalancano dal terrore, terrore puro, qualcosa che non mi
era mai capitato di vedergli impresso, ma non mi importa. Lo spingo, furente, e
poi indietreggio, col sangue che mi cola fra le dita e intrisa di una nuova
cattiveria che mi infetta il sangue già marcio.
«Ti farò soffrire. Rimpiangerai ogni singolo secondo di avermi portata qui, ti
farò pentire di tutto quello che hai fatto», singhiozzo, lo spingo di nuovo e lui
sbatte il capo ancora una volta. Con forza. «Vaffanculo, Michael Baker, mostro
psicopatico!»
È solo quando dico il suo nome per intero, e cavolo se so quello che sto
provocando, lo so eccome, che lui reagisce. Inizia a tremarmi sotto il mento e i
suoi occhi, di già vitrei, si riempiono di un'oscurità irrimediabile. Ma io ho
bisogno di fargli male, necessito di difendermi, di scontarmi.
Altrimenti non posso combatterlo.
Michael digrigna i denti, serrando le dita attorno ai miei polsi, prima di
spingermi via violentemente. Cado a terra, presa alla sprovvista, mentre lui si
ritira in fretta.
«Stai zitta», mi avverte.
Le ossa strillano dal dolore, i muscoli bruciano e i miei polmoni implorano
pietà. Eppure non mi fermo.
«No!», sbotto. «Non starò zitta. Non ti farò questo favore, non te lo meriti.
L’unica cosa che davvero meriteresti è tornartene da dove sei venuto!».
Il suo petto si solleva e abbassa sempre più in fretta. Lo osservo tirarsi i
capelli, raggomitolarsi su se stesso e stringere i denti, cercando di controllare il
mostro che ha dentro. Ma non può. Perché il mostro non ce l’ha dentro. Il mostro
è lui. Lui e basta. E forse sono peggio di lui, perché più vado avanti a colpire i
suoi punti deboli e più mi sento morire.
«Smettila, Grace», piagnucola, schiacciando la faccia contro le ginocchia.
«Non mi trattare così, per favore. Smettila!».
«Oh, questo è ancora niente». Mi rialzo in piedi, nonostante i dolori. La
rabbia mi sta divorando dall'interno, gli si vuole gettare addosso e sbranarselo.
«Hai capito? Non è niente rispetto a quello che hai fatto tu a me. O alle persone
che sono morte a causa tua. Quanti ne hai uccisi, Michael? Quattro, cinque,
sei?».
«Non me lo ricordo…».
«Te lo dico io. Cinque! Ne hai uccisi cinque! E mi hai portata qui per arrivare
a sei, vero?», mi lascio sfuggire una risatina sprezzante, lui scuote la testa come
un disperato e cerca di tapparsi le orecchie. «Non te lo permetterò, comunque. Se
sarà necessario, ti ucciderò con le mie stesse mani. Non mi incanti più…
Michael Baker».
Strizza le palpebre per non vedere le sue peggiori allucinazioni, ma è tutto
inutile. Quel buio lui ce l’ha nel cuore guasto. Non può sfuggirgli.
«Ti prego, basta», mugugna, sofferente, dandosi una botta sulla tempia.
«Basta, basta!».
«Tu fammi uscire da qui, scompari dalla mia vita e la smetterò!».
Non mi sono mai sentita tanto meschina come ora. La mia indole buona,
quella parte di me che infondo ancora appartiene a lui, si sta struggendo nel
vederlo sgretolarsi e pregarmi di aiutarlo. Ma non lo faccio. Al contrario. Gli
torno vicino per scuoterlo di nuovo e di risposta lui mi rigetta a terra,
bruscamente. La mia nuca si schianta sul pavimento, sbucciandosi e facendomi
piombare per un attimo nel buio.
Smetto di respirare per un paio di secondi.
«Mi dispiace, mi dispiace», ripete in una cantilena disturbante. «Mi dispiace,
bambolina. Ti ho detto di smetterla… io te l’ho detto. Così li fai arrabbiare…»
«Tu e le tue voci del cazzo potete fottervi insieme», ringhio, tornando a
sedere. «Lasciami andare!».
«Non posso!»
«E questo che cazzo significa? Apri immediatamente quella porta o giuro che
ti spacco la faccia, sociopatico che non sei altro!».
«Ti ho detto che non posso!», ribatte, nervoso. «Ho buttato via la chiave!
Siamo confinati quaggiù insieme, che ti piaccia o no, e adesso smettila!».
Spalanco gli occhi. Il mio intero corpo si paralizza. «Che vuoi dire? Mi stai
prendendo in giro, vero? Cosa intendi?».
«Esattamente ciò che ho detto». Si sistema in un angolo buio,
raggomitolandosi al sicuro. «Ora fa' silenzio. Ne ho abbastanza».
Socchiudo le palpebre ed esamino la situazione, mentre un familiare fuoco
ribelle torna alla carica. Vedo soltanto rosso. Il rosso del sangue che spargerò a
breve.
«Tu non hai la minima idea di quello che hai fatto».
Michael solleva impercettibilmente il capo. Un barlume di lucidità, di pura
determinazione gli schizza negli occhi quando incastra lo sguardo nel mio. «E
invece sì. Sei tu quella a non averne la minima idea».
Poi, prima che possa approfondire, torna nel suo mondo folle, oscuro, in cui
l’ho spinto io stessa in precedenza. E come quando ero una piccola stupida, mi
ritrovo ad aspettare che lui torni da me.
SEI
GRACE
Grace: 9 anni.
Michael: 13 anni.
GRACE
Attendo per quelle che mi sembrano ore, non posso dirlo con certezza, ma
pare che il Sole sia sul punto di sorgere ormai, quando Michael sbatte le palpebre
e torna alla realtà. Al di là delle circostanze, non è mai piacevole vederlo stare
così male.
E magari fa più male a me che a te.
Lo osservo dapprima rivolgere uno sguardo timoroso all'ambiente
circostante, analizzare ciò che ha intorno, e poi prendere coscienza della mia
presenza. La mia adrenalina si è del tutto spenta. Quello scatto d'ira si è dissolto,
lasciando spazio alla stanchezza. Mi ha consumato le energie, e tutto ciò che
vorrei fare adesso è coricarmi e dormire per ore.
Sono rimasta in allerta per tutto il tempo in cui Michael viaggiava fra le sue
allucinazioni e ricordi più profondi. A mie spese, ho imparato che sono quelli gli
attimi in cui diventa più pericoloso, in cui perde il contatto con il mondo reale e
il resto diviene un contorno astratto delle sue fantasie.
Lo soppeso, mentre lui fa lo stesso con me. Ci esaminiamo come due topi da
laboratorio, due estranei attenti all'attacco dell’altro. Il sangue ricopre entrambi e
non saprei dire che dei due si porti più ferite addosso. Forse lui.
I suoi occhi di vetro percorrono le mie gambe nude, non perdendosi neppure
un dettaglio, neppure un graffio, si soffermano sulla gonnellina blu e bianca della
divisa e storce la bocca.
È più forte di me. «Che c'è? Non è di tuo gusto?».
Michael aggrotta le sopracciglia, più scure dei suoi capelli biondo chiaro, ma
non risponde. Piuttosto riprende a percorrere il suo viaggio. Più sale, più pelle
scoperta vede, più si adombra. Sorvola il mio top con indifferenza. Un velo nero
gli cade sulle retine nel momento in cui scorge alcuni macchie rosse sul mio
corpo. So che pensa di essere stato lui a provocarmele. Eppure continua a
starsene zitto.
Conclude la radiografia una volta raggiunti i miei capelli disordinati,
imperturbabile, privo di una minima facciale. Completamente impassibile.
Perciò è il mio punto di scoprirlo, di assaporarlo dopo anni passati a
immaginarmi come sarebbe cresciuto, a chiedermi se fosse diventato ancora più
bello o se fosse rimasto come era.
Più bello, è diventato più bello. Convengo a tale decisone, solo nel realizzare
che è molto più alto di me. Non che ci voglia molto, comunque. Le sue gambe
sono lunghe, ancora fasciate dai pantaloni bianchi dell’istituto, e la linea della
sua mandibola deve aver subito colpi duri dalla vita, a giudicare da come si è
fatta più marcata, più concreta.
Gli occhi però restano sempre gli stessi. Sempre rotti, sempre spenti, sempre
privi di luce.
Inclina la testa, in quel suo modo inquietante, e di riflesso lo imito. Mi sta
studiando come se fossi la pedina di una scacchiera. Nella sua testa complessa la
partita deve essere cominciata ancora prima di evadere, ne sono certa, e lui è lì
ad attendere che faccia la mia mossa.
«Cosa vuoi fare? Lasciarmi qui a marcire?», sibilo, stringendo la mano a
pugno per impedirmi di esplodere di nuovo. «Tenermi prigioniera e stare a
guardarmi mentre mi consumo lentamente? È questo il tuo intento?».
Assottiglia appena le palpebre, le mie parole lo hanno a malapena scalfito, e
mi lancia un'occhiata annoiata. Stufo di sentire le mie stronzate. Stufo della mia
voce. Stufo della mia rabbia. Perpetua nel silenzio, consapevole che sto
ribollendo nelle vene; mi lascia a cuocere. Non gli permetterò di dirigere il
gioco.
Tiro le ginocchia al petto, maciullandomi l'interno guancia coi denti affamati,
e le abbraccio. La gonna si solleva sulle cosce, e nemmeno mi importa di ciò che
gli servo sotto gli occhi.Tanto non importa nemmeno a Michael, a giudicare dal
modo in cui si è fissato su un punto preciso della mia mascella. Chissà a cosa sta
pensando, è sempre stato impossibile da interpretare.
«I miei amici», prorompo, riprendendomi la sua attenzione. La testa mozzata
di Denver torna a solleticarmi le pupille, la scaccio per conservare la mia
stabilità. «I miei amici, hai fatto loro del male?».
Continua a fissarmi, una vacua domanda impressa nello sguardo. Non sa
nemmeno a chi mi stia riferendo. Maledizione, Michael non sa neppure cosa sia
un amico.
«Una ragazza e due ragazzi. Erano a scuola. Hai fatto loro del male?», ripeto
la domanda, avvertendo la mia voce spezzarsi al solo pensiero che loro possano
aver fatto la stessa fine di Denver. «Rispondimi, cazzo. Hai fatto qualcosa anche
a loro, Michael?».
Forse sarà che ho appena usato il suo nome, che l’ho chiamato soltanto
Michael, come facevo una volta, o forse il mio tono di voce disperato, al limite
del pianto. Non ne ho idea. Ma lui finalmente decide di darmi una risposta.
Prima scuote la testa e poi pronuncia un asciutto: «No».
Un'ondata di sollievo mai provata in vita mia mi investe in pieno,
sgomberandomi dalle spalle un macigno che neppure sapevo di portare. Mi sento
per un attimo meglio, più in pace con me stessa, nel sapere che Elisa, Ben e
Cody sono al sicuro, ovunque siano.
Se fosse successo qualcosa a loro, non me lo sarei mai perdonata. Perché è
tutta colpa mia ogni cosa successa, proprio come aveva detto Margot. Michael
vuole me e butta giù qualunque ostacolo si trovi in mezzo al suo cammino.
Il mio sollievo, comunque, dura poco. Perché Michael, abbozzando un
ghigno a dir poco crudele, complice il luccichio sadico che gli imperla le retine,
infila le dita affusolate in tasca e ne tira fuori un ciuffo di capelli. Capelli rossi.
«Ma mi sono preso una vendetta», decreta, soffiando sui capelli di Margot.
Alcuni ciuffi arrivano fino ai miei piedi, incuranti del mio sangue raggelato
nelle vene. Ogni mio singolo nervo si paralizza, le terminazioni smettono di
funzionare e il cervello non risponde più. Le sinapsi distruggono i collegamenti.
Uno spasmo mi coglie alla sprovvista. Non riesco a spiccicare parola, non
voglio chiedergli cosa significhi e cosa abbia fatto. Tengo gli occhi fissi su
quelle ciocche, giungendo alle mie conclusioni. Il mio cuore si frammenta. I
mille pezzi diventano briciole e poi si sparpagliano nell'aria, lasciandomi vuota
di battito e con un'anima morta nel petto.
«L'hai uccisa?».
Non riconosco la mia voce quando la sento. Non so neppure come ho fatto.
Le parole sono uscite da sole.
«No», biascica, distaccato. La cosa non lo intacca minimamente. «Almeno
credo. Quando l'ho lasciata respirava ancora, purtroppo».
Purtroppo. Purtroppo. Purtroppo.
Il mio corpo trema. Lui voleva ucciderla. È andato a cercarla. Mio Dio. Un
altro brivido di paura mi serpeggia lungo la schiena, sebbene mi trattenga dal
farglielo vedere.
«C-come... come...», farfuglio, frastornata e sconvolta dal rapido avvenire,
dalla successione di cose.
Ho un mare di merda in testa, una bomba pronta a esplodere e farmi
sprofondare nel liquame delle fogne. E magari sarebbe anche meglio piuttosto
che starmene qui insieme a Michael e la sua follia omicida.
«Ti stava seguendo», erompe. «Voleva dire alla direttrice quello che stavi
facendo e dove stavi andando. Non potevo permetterglielo».
Troppe informazioni tutte insieme. Il mio cervello inizia a girare come una
trottola impazzita.
Margot che mi segue. Margot che vuole fare la spia. Michael che doveva
essere lì per saperlo. Michael che mi pedina. Michael che cerca di uccidere
Margot.
Margot che ancora respira.
«E quindi hai ben pensato di ucciderla?», scatto in avanti, ritrovando il mio
coraggio, dissolto in polvere sotto i palmi delle mie mani strette a pugni. «E da
quanto tempo mi stavi seguendo anche tu? Si può sapere che cazzo vuoi da me,
Michael Baker?».
Curva la schiena in avanti all'improvviso, irrigidendo ogni tratto del suo viso
perfetto, e solleva il labbro superiore per far vedere i denti. «Attenta, bambolina,
inizio ad averne abbastanza».
«Non me ne importa niente se ne hai abbastanza, razza di stronzo. Per quanto
mi riguarda puoi anche soffocare nelle tue stesse deviazioni!».
Un lampo gli saetta in quegli occhi di vetro, ma è talmente fulmineo che
devo essermelo immaginato. Dopotutto Michael non prova nulla. E io non devo
aspettarmi niente.
«Falla finita, Grace. Margot è stata il tuo inferno personale, ti ha massacrata
per anni, ti ha reso la vita impossibile e avrebbe continuato a farlo. E comunque
è ancora viva, scaldarsi tanto e soprattutto nella tua posizione non ha senso.
Ringraziami pure dopo».
«Ringraziarti? Come puoi dire una cosa simile? È una persona, una ragazza
che conosco sin da bambina! La mia maledetta compagna di stanza! Non ti fai
nemmeno un po' schifo? Come cazzo fai a guardarti allo specchio, Michael?
Come? Dimmelo!».
«Vuoi sapere cosa le ho fatto? Le ho spaccato la testa con una pietra, nel bel
mezzo del bosco, e avrei anche finito il lavoro se non avessi dovuto correrti
dietro per capire dove stessi andando», ringhia, cattivo fino al midollo. «Sì,
Grace, volevo ucciderla. Non esserne sorpresa. Non te ne ho mai fatto un
mistero. Ho atteso sette anni, sette lunghi anni a rimuginare, e l'unica cosa di cui
mi pento è non aver usato abbastanza forza nel calare quella pietra sul suo
cranio».
Il respiro mi si incastra in gola dinnanzi alla sua ammissione, sputata fuori in
nome della verità più corrosiva. Perché è vero. Michael non ne ha mai fatto un
segreto, non ha mai nascosto la sua indole. La stupida sono stata io a non avergli
mai dato il giusto peso.
Le lacrime riprendono a scendermi lungo le guance, bruciando il sangue
secco e le ferite ancora aperte. Lui ricambia il mio sguardo sofferente e stanco
con noia e indifferenza.
Le ossa dolgono, mentre il mondo fuori continua ad andare avanti incurante
di ciò che sta succedendo dentro di me, dei miei pezzi che si sgretolano uno
dopo l'altro. E stavolta, intanto che implodo, non c’è alcun abbraccio a tenermi
insieme. Michael resta dov’è a guardarmi cadere.
«Tu sei un mostro», sussurro, sconvolta.
«Sì, ma sapevi già anche questo».
Ingoio un singulto. «Non so che intenzioni hai, non so che cosa ti stia
passando per quella testa marcia, ma non starò al tuo gioco. Non sarò una pedina
di qualche tuo perverso schema. Mi hai capita? Io non ci sto. Piuttosto uccidimi,
tanto sei abituato a farlo». Mi asciugo le lacrime con un gesto furioso,
rifiutandomi di versare anche una sola altra lacrima davanti a lui.
Si prende alcuni secondi per analizzarmi. Lo intravedo sbuffare una risatina
di scherno e, vergognandomi di me stessa, cedo all'istinto di schiacciarmi contro
la parete quando lui si alza in piedi e si avvicina a passo felpato.
Combatti, Grace, non fargli annusare la tua paura.
Non fargli percepire il tuo sangue!
Eppure, per quanto mi ostini a ripetermelo, il mio corpo, quel traditore, non
ne vuole sapere di smettere di tremare a ogni metro in meno che ci divide.
Riprendi il controllo di te stessa, Grace. Riprendi le redini, cazzo.
Le ginocchia di Michael scricchiolano quando si piega alla mia altezza,
troppo vicino, troppo ingombrante. Mi sembra di essere piombata alla prima
volta che lo conobbi, io schiacciata al muro e lui in ginocchio davanti a me.
All'epoca ero soltanto una mocciosa piagnucolante. Non sono più quella
bambina.
Tu non ti arrendi.
Armata dalle mie stesse convinzioni, smetto di tremare, mentre lui continua a
respirarmi addosso, a scrutare ogni piccolo tratto del mio viso. Perciò mi faccio
avanti a muso duro, sollevo il mento fiera e indomita, e mi isso anche io sulle
mie stesse ginocchia.
Uno davanti all'altra, anche se io gli arrivo alla gola, occhi negli occhi,
bianco contro nero; uno ad attendere la mossa dell’altra. Qualcosa brilla nel
vetro di Michael, o forse è il riflesso del mio coraggio. Non saprei dirlo. So
soltanto che io non mollo. Io combatto.
Dita ruvide mi avvolgono il mento in una presa brusca, stringendo fino a
farmi male, ma non emetto neppure un gemito di lamento. Rimango immobile a
contrastarlo, masticando e prendendo a morsi tutti gli ignobili brividi che mi
colgono impreparata a questo stupido e disgustoso contatto.
Poi Michael fa scivolare l'altra mano sul mio collo, preme il pollice sulla
gola senza stringere, e le dita che ho sul mento strisciano lungo la mascella,
come fuoco sul ghiaccio, inossidabili. A breve gli staccherò la testa se non la
smette di toccarmi così, scavandomi a fondo.
Risucchio un sospiro fra i denti nel momento in cui piega il capo, ficcandolo
nell'incavo del mio collo, e mi infila una mano fra i capelli. Li scompiglia e
lascia che ci ricadano attorno in una morbida nuvola.
«Michael», ringhio, appoggiando le mani sulle sue spalle per spingerlo
all'indietro e allontanarlo dalla mia pelle scoperta, ma lui non si muove di un
solo millimetro.
Al contrario, rafforza la presa sul mio collo, mentre quel dannato pollice
continua a strofinarsi contro la mia gola. Mi annusa, si cosparge del mio odore,
appropriandosene come se fosse sempre stato suo. E forse un tempo era così,
perché un tempo io ero tutta sua. Ma quel tempo è finito anni prima e non
tornerà mai più.
Denti arrabbiati mi graffiano il lobo e, contro ogni previdenza, finisco per
stringere le sue spalle, avvertendo le ossa pungermi sotto i polpastrelli. Poi lo
morde, facendomi boccheggiare e spalancare gli occhi dalla sorpresa, e proprio
quando sono sul punto di rendergli pan per focaccia, prende a parlare.
«Ci sei già nel mio gioco, bambolina», fiata, strofina il naso dietro il mio
orecchio, la mano che dalla mascella scivola dietro la nuca. «E preparati, perché
sarà una lunga partita. Ho grandi progetti per te».
Con il respiro affannoso, mentre lui graffia, morde e stringe, lascio che le sue
parole colpiscano in profondità, fino a lasciare il segno.
Lentamente, comincio a riprendere il controllo di me stessa, prima della
mente e poi del corpo. Tiro indietro le mani per allacciarle ai suoi polsi,
discostandolo dalla mia pelle. L'intero Universo pare scuotersi a questo
minuscolo contatto. O forse sono semplicemente io.
Il tempo si blocca nel momento in cui Michael allontana la testa, le pupille
dilatate in quegli specchi rotti, e recupera un respiro profondo, sbuffandomi con
forza sulle labbra.
Gli porto le sue stesse mani sotto gli occhi. Stringo più forte, nonostante le
piaghe facciano male, e sbatto le palpebre.
«E va bene, giochiamo pure», mormoro, lo mollo solo per afferrarlo dalle
guance, imprimendogli le unghie nella carne. «Ma toccami di nuovo e giuro che
ti strappo la gola a morsi, Michael Baker», ringhio, prima di spingerlo
all'indietro.
Michael barcolla, preso alla sprovvista, e stringe i denti. «Tu chiamami di
nuovo Michael Baker, bambolina, e io giuro che ti darò una serie di motivi per
cui darmi di nuovo del mostro. Non sfidarmi. Perderesti, lo sai».
Schiocco la lingua sotto al palato, avvertendo una fiamma solitaria scaldarmi
la trachea, salire fino alla lingua e ustionarmi il palato.
«Staremo a vedere», assodo.
Lui solleva l'angolo della bocca, strisciando verso l'angolo da cui è uscito.
«Staremo a vedere», ripete.
Abbasso per un attimo lo sguardo, ed è soltanto adesso che realizzo quanto
accaduto. Gli ho permesso di mettermi le mani al collo, quelle stesse mani che
hanno spezzato vite altrui, che hanno quasi ucciso me, senza temerle un solo
secondo.
C'è qualcosa che non va in me.
Cazzo.
Quanto vorrei che fosse tutto più semplice.
OTTO
GRACE
Grace: 10 anni.
Michael: 14 anni.
GRACE
«Ho fame».
Ormai è più di un giorno che passo a digiuno e, per quanto possa esserne
abituata visto quanto mi piaceva farmi mettere in punizione da bambina e che
sono io, il gorgogliare del mio stomaco è davvero fastidioso.
E voglio anche capire cosa ne sarà di me. Mi lascerà morire di fame? In tal
caso, lo scoprirò adesso.
Michael, con un'eleganza fuori dal comune, un dono solo suo che mai mi
spiegherò, si alza e a passi fluidi si avvicina al congelatore in disuso, vecchio
quanto questa stessa casa probabilmente.
Lo osservo aprirlo, producendo un cigolio sinistro che mi fa accapponare la
pelle, e tirarne fuori quelle che sembrano barrette energetiche.
In silenzio, voltandosi appena il giusto per inquadrarmi, sempre ferma nello
stesso punto, soppesa la situazione. Ci separano pochi metri, gli basterebbero
cinque passi per raggiungermi.
Non ho idea di cosa veda sul mio volto, forse il disgusto che avverto torcermi
le labbra o il cipiglio causato dalla fame, fatto sta che decide saggiamente di non
avvicinarsi. Si limita a lanciarmi le barrette insieme a una bottiglietta d'acqua.
Si tiene per sé un bottino identico al mio, prima di ritirasi nel suo angolo ben
distante da me.
Galleggiando in punta di piedi su quel silenzio logorante e allo stesso tempo
confortevole, scarto il mio nutrimento e stacco un morso famelico alla barretta.
Non è granché, ma devo farmelo bastare e comunque non sono una che
mangia molto. La vera fame mi ha abbandonata da un bel pezzo. Il vero guaio
giungerà nel momento in cui i miei reni cederanno, smettendola di trattenere la
pipì. Quello sì che sarà umiliante e di già prevedo gli scontri che comporterà.
Felici diciott'anni, eh, Grace?
Beh, almeno ci sono arrivata.
Non riesco a trattenere un sorriso di scherno. Chi l'avrebbe mai detto che,
con il senno di poi, avrei fatto meglio a restarmene chiusa nella mia stanza al
Benetton?
Ripensando a quella che è stata la mia casa per circa dieci anni, intanto che
ingoio a fatica un altro boccone, un dolore sordo viene a bussarmi dietro la
schiena, facendomi incurvare ancora di più le spalle.
Oh, Reese. Dio, chissà come ha appreso la notizia la mia dolce e piccola
Reese. Spero con tutto il cuore che non le sia giunta alcuna voce, all'infuori del
biglietto che le ho lasciato.
Preferisco che mi odi, che pensi me ne sia andata per mia scelta — una
grande verità — invece che un sociopatico mi abbia rapita dopo aver staccato la
tasta al mio ragazzo, o qualunque cosa fosse quest'ultimo.
Scaccio per l'ennesima volta l'immagine degli occhi scuri di Denver
spalancati dal terrore. Rabbrividisco e obbligo me stessa a tornare con la mente
su Reese.
Prego con tutte le mie forze affinché sia al sicuro, magari a lamentarsi con
qualcuno della solita noia che la prende d'assalto o a colorare con i suoi pastelli
speciali.
Una parte di me freme dal desiderio di chiedere a Michael se abbia intravisto
Reese, nei momenti in cui mi ha seguita e spiata, ma quella più saggia sa che è
meglio tacere e non metterla in mezzo.
Non posso permettermi di correre il rischio, di appenderle una spada di
Damocle sulla testa, sicché mando giù il rospo e mi limito alla vana speranza.
Finisco la seconda barretta, gustandomi le scaglie di cioccolato, e per un solo
attimo il ricordo sfocato di un quattordicenne che lo assaggiava per la prima
volta mi destabilizza, offuscandomi la mente.
Schizzi di dita sporche, briciole sul mento e cuori di cioccolata per chi non
ha mai avuto niente e per chi invece aveva perso ciò che aveva, cercano di
prendere il sopravvento, di trascinarmi in perfidi oblii senza via d'uscita.
Stringo gli occhi, bevo un sorso d'acqua con tanta veemenza da farmi male
alla gola e mando giù anche quel tormento. Un colpo di tosse mi smuove la
gabbia toracica, devo aver bevuto con troppo impeto.
«Stai bene?».
«Non ti riguarda».
«Mi preoccupo solo per te».
Questo stronzo, a quanto pare, ama divertirsi con i miei sentimenti.
«Se davvero fosse così, non mi avresti portata quaggiù».
«Se dipendesse da me, Grace, ti porterei in tutti i posti in cui sei mai stata».
Mi si spezza il respiro. Lo odio quando dice queste cose, perché poi gli
credo. «Non sono mai stata da nessuna parte».
«Lo so». Sto per chiedergli cosa intende, come fa a saperlo, ma lui riapre
bocca. «Cosa sono quelle?». Indica le mie croste visibili, e i punti di pelle
squamata.
Sussulto al brusco cambio d’argomento, tuttavia sollevo le spalle. Sono
troppo stanca per litigare adesso. «Il Sole mi fa male alla pelle, lo sai. Non ho
melanina».
«Da piccola, però, non te lo ho mai viste addosso».
«Non sono più piccola e le cose cambiano, Michael».
Giocherello con la bottiglietta, passandomela da una mano all'altra, e sollevo
il mento. Poso lo sguardo su di lui, che se ne sta assorto a fissare un punto fisso
sul pavimento ghiacciato.
Conosco quello sguardo. L’ho visto innumerevoli volte. Michael si è perso
nei suoi ricordi, ma a un'occhiata più attenta mi rendo conto che non si tratta di
nulla di troppo traumatico.
La malinconia falcia i suoi lineamenti freddi e distaccati, sì, ma non scorgo
alcuna sofferenza acuta o terrore sul suo bel viso. Non riesco a mangiarmi le
parole in tempo, la bocca agisce di sua spontanea volontà.
«A che stai pensando?».
Mi mordo la lingua, ormai è troppo tardi per mettere la retromarcia e tornare
indietro.
Quindi affronto le sue iridi, puro ghiaccio condensato e frammentato,
inoltrarsi oltre lo spesso strato dietro cui maschero le mie. Con lui non esistono
mezze misure. Mai grigio, mai alcuna sfumatura: superficie o abisso, luce o
buio.
Michael vede, non guarda.
«Non abbiamo espresso alcun desiderio».
Tieni alte le difese, Grace, non lasciare che la freccia colpisca.
Conficco le unghie nei palmi delle mani. «Cosa ti fa credere che io non
l'abbia fatto?».
«L'hai fatto?».
Non c’è alcuna inflessione particolare nella sua voce bassa, cruda. Soltanto il
solito distacco, quasi annoiato.
«No», ammetto. «Ho smesso di credere che i desideri possano avverarsi
diverso tempo fa».
Gli getto addosso la mia acidità, senza alcuna remora, quando la verità è
un’altra.
Lui però coglie il sottinteso, che la ragione delle mie delusioni ce l'ho proprio
davanti, che lui è la causa di tutti quei sogni che ho cacciato dal cassetto per
gettarli nel cestino.
Lo capisco poiché si irrigidisce e inclina il capo, ciuffi biondi gli sfiorano la
fronte sporca.
«Sei convinta che voglia farti del male, bambolina», assoda, «eppure l'unica
ad aver provocato sangue qui sei tu. Te ne sei accorta?».
«Sì, e ne vado fiera».
Contro ogni pronostico, Michael solleva l'angolo della bocca, arrossata per il
precedente scontro, strappandomi via un battito di troppo. Sembra rilassato, fatto
di una pigrizia compiaciuta che mai gli avevo vista cucita addosso.
Sono costretta ad ammettere che questo vestito nuovo gli dona da matti.
Con l'indice, traccia un punto sul suolo. «Hai appena mangiato il mio pedone
in e5 con il tuo cavallo, Grace. Complimenti».
Qualcosa mi si smuove dentro, animato da uno spirito competitivo, e d'istinto
mi sporgo in avanti. «Il Gambetto di Re è stato un azzardo malsano e folle
perfino per te».
«Non lo definirei azzardato, quanto più necessario».
«Necessario? E perché?».
«Se vuoi davvero saperlo, bambolina, prima devi mettermi sotto scacco».
Allora rimango in silenzio, soppesandolo, confusa dalla strana piega che sta
prendendo il nostro dialogo. Vuota di una rabbia incandescente che invece vorrei
provare con tutta me stessa.
Ma sono davvero esausta, distrutta, completamente a pezzi e lui mi sta
parlando con quella tranquillità disarmante, una quiete che mi aveva riservato di
rado in passato.
Perciò lascio fare.
Resto soltanto in attesa della sua prossima mossa, un pizzico curiosa di tutti i
pensieri che gli staranno saltando in testa. Quella testa complessa.
Michael mi fa attendere un po', propenso a studiare le sue possibili mosse e,
soprattutto, le mie possibili reazioni. Identifica l'andamento della partita sul
pavimento, trascinando strane strisce e traiettorie, un talento che gli ho sempre
invidiato.
Se ne sta a riflettere per tutto il tempo di cui ha bisogno, incurante di me e
della mia impazienza.
Lo sfinimento mi pervade le ossa, eppure, non appena lui torna a degnarmi
della sua attenzione, raddrizzo la schiena. Mi maledico per questo.
Ciononostante, sul suo volto non leggo alcuna traccia di qualche strategia.
Nessuna astuzia.
Faccio del mio meglio per non mostrargli la mia sorpresa e curiosità, tuttavia
quando si alza in piedi e mi raggiunge senza esitazioni, l'ansia comincia ad
arrampicarsi lungo la mia spina dorsale.
Batto le ciglia un paio di volte dinanzi alle sue gambe lunghe che si fermano
davanti a me. Dopodiché si piega sulle ginocchia, il familiare scricchiolio è
come un caldo soffio sulle spalle, ed ecco che il suo viso rientra nel mio campo
visivo.
Mi schiarisco la voce. «Cosa stai facendo?».
Michael stringe le labbra, poi avvolge le dita fredde attorno alle mie caviglie
nude, altrettanto ghiacciate. E sebbene siamo entrambi così gelidi, io provo
soltanto calore.
«Michael, rispondimi. Che diavolo stai facendo?».
«Ti dimostro che non voglio farti del male», dice, il tono di piombo, e i
polpastrelli scivolano fino ai polpacci, prima di ficcarsi nella carne, corrodendo
ogni punto al loro passaggio. «Sono sempre io, Grace. Anche dopo nove anni, io
sono sempre lo stesso bambino con cui hai condiviso un biscotto alla
marmellata. Che tu ci creda o no».
Tremo, tremo sul serio, mentre i polmoni prendono la strada dell'apnea,
mandandomi in asfissia.
Mi costringo a dirottare lo sguardo sulle ciocche rosse di Margot ancora per
terra, mi costringo a ripensare a ciò che ha fatto a Denver, a quello che è
successo in orfanotrofio sette anni prima.
«E infatti non ci credo. Se davvero fossi lo stesso, non mi avresti mai rapita.
Non avresti ucciso tutte quelle persone», dichiaro, inflessibile e monocorde.
«Comprendi ciò che hai fatto, perlomeno?».
Lui non demorde. Piuttosto fa scivolare i palmi ancora più su, nell'incavo
delle ginocchia, e d'impulso stringo le gambe. Si tratta solo di uno stupido
riflesso incondizionato.
«Sei una finta moralista», prorompe, avvicinando il volto al mio, talmente
tanto che il suo respiro mi scalda la bocca. I nasi quasi si sfiorano. «A te non
importa nulla di quel bastardo che ha provato a farti del male o di chiunque altro.
Tu temi per te, Grace. Perché ti ho deluso, ho spezzato ciò che eravamo e non
me lo perdonerei mai, ma non fingere che il motivo del tuo odio sia altro».
Arriva come un'onda, impavida e letale, distruggendo qualunque buon
proposito o scorcio di calma avessi mai potuto intravedere. La mia furia sale,
sferzando di qua e di là per tutto il suo viaggio funesto, lava di un magma fluido
pronta a scagliarsi su quel figlio di puttana e fondergli la pelle.
Mi tiro su, afferrandogli il viso con le mani. Le mie dita premono sulle sue
guance lisce, sfregando l'alabastro, mentre le sue mi graffiano le cosce.
«Chiudi questa cazzo di bocca!», sputo fuori, mostrandogli i denti. «Tu non
sai niente, assolutamente niente di me. Non ti permetto di sentenziarmi in questo
modo orribile. E qualsiasi cosa credi di sapere, allora appartiene alla Grace di
sette anni fa. Una Grace che non mi appartiene più, e sai perché? Perché sei
arrivato tu e le hai spazzato via quelle poche certezze che aveva! E io ti odio per
questo, per la persona disgustosa e disturbata che sei!».
Un brivido mi prende alla sprovvista quando lui si stacca da me di netto,
lasciandomi in bilico, e si allontana di un paio di passi dopo essersi rimesso in
piedi.
Di contro, faccio lo stesso. Seppur poco stabile, mi rialzo e lo fronteggio,
dimostrandogli tutta la mia caparbietà, la mia scintilla che mai lascerò spegnere.
Michael scuote il capo e sbuffa una risatina di scherno. «Io ti conosco meglio
di chiunque altro, persino meglio di te stessa, e tu lo sai». Mi punta l'indice
contro. «Perciò risparmiami queste menzogne. Pensi di ferirmi colpendo i miei
punti deboli? Sei una bambina, Grace. Guardati, ancora porti la mia collana».
Sotto il suo sguardo acceso, paralizzata, mi porto la mano al ciondolo. «Vuoi
combattere prima di arrenderti all'inevitabile? Va bene, sono pronto a parare i
tuoi colpi. Vieni pure qui, ti aspetto a braccia aperte, bambolina. Ma sarà tutto
inutile».
Lacrime salate mi bussano dietro le retine, ma le respingo via brusca. Sbuffo
via il fiato, non riesco a fare respiri controllati, e le mani mi tremano.
Me ne frego delle mie gambe trasformate in gelatina o il groppo fattosi fin
troppo pesante in gola. Avanzo e, incurante di quanto appena detto, gli scaglio
uno schiaffo a tutta forza in pieno viso. Il palmo mi brucia, ma mai quanto la mia
anima.
«Fottiti, Michael», sibilo. «Se davvero credi che bastino due paroline ben
messe per manipolarmi, sei uno stupido. Ma avevi ragione prima, sai? Io non ti
perdonerò mai. E qualunque sia il motivo per cui hai sentito questa necessità di
dovermi rapire, non mi importa. Tu, per quanto mi riguarda, resti un mostro!».
A questo punto, allo schioccare dell'ultimo epiteto che gli affibbio, ogni
traccia di calma o pigrizia gli scompare dalla faccia, su cui si sono incise le mie
cinque dita.
Michael, gli occhi adombrati e il mento abbassato, mi osserva da sotto le
ciglia. «Stai attenta. Non giocare con la follia, bambolina».
Faccia a faccia, uno in piedi davanti all'altro, continuo imperterrita a sferrare
i miei morsi. A cercare di graffiarlo, di fargli del male. «Tu e la tua follia potete
pure andarvene a fanculo insieme. Mostro!».
Mi si accosta a un soffio, il fiato ridotto come il mio. «Ripetilo», ringhia.
«Sei soltanto un mostro».
Michael schiaccia le mie guance fra i suoi polpastrelli, tanto che i denti
grattano l'interno guancia. «Ancora. Dillo con più convinzione, Grace».
Deglutisco. «Sei... tu sei un mostro».
Altre dita si impossessano del retro della mia coscia, scavano la carne,
tenendomi attaccata a lui. Mirano all’interno, ho un tremito che lui accoglie
compiaciuto.
«Oh, inizio quasi a crederci. Avanti, riprovaci», bisbiglia, chinando il capo, e
di netto mi ritrovo con la punta del suo naso che si strofina sull'arteria del mio
collo.
Come diavolo ci sono finita in questa situazione?
Tuttavia, mi impongo di non mollare la partita. E so bene che mi basterebbe
usare il suo cognome per mettere fine a tutto, per spezzarlo un'altra volta e
gettarlo nel connubio di dolore che lo ha sempre contraddistinto.
Non lo faccio. Continuo a giocare seguendo le sue regole.
«Mostro», sillabo.
Michael mi sfiora la congiunzione che divide la natica dalla coscia, persiste
in quel limbo, e calde labbra schioccano un bacio bagnato sulla mia gola,
mandandomi in cortocircuito.
Lui, maledizione, ha sempre avuto la capacità di annebbiare tutto. Di
cancellare qualsiasi cosa. E mi odio per il potere che gli concedo di avere su di
me, ma io... ma io non riesco...
Mi bacia la mandibola, poi la graffia coi denti. «Di nuovo».
Non riesco. Perché lui mi tocca, mi parla e per me è Michael. Solo Michael.
Schiudo la bocca, il termine già pronto a fluttuare come un ansimo tra di noi,
ma il morso che mi lascia sul labbro inferiore me lo rende impossibile.
«Mostro», bofonchio a malapena, sulla sua bocca.
«Ancora», mugola, leccandomene l'angolo.
Ma stavolta non riesco a farlo. Non sono in grado di dire nulla. L'indice di
Michael sfiora la stoffa bagnata delle mie mutandine, smascherandomi.
Mi vergogno di me stessa. Me ne vergogno fino al midollo. Ma non voglio
che smetta di toccarmi.
È Michael. Cazzo, è Michael.
«La prossima volta...», sussurra, fa scorrere di nuovo quel dito sulla mia
intimità, facendomi boccheggiare. «La prossima volta che mi darai del mostro,
Grace, ricordati anche quanto ti sei bagnata per questo mostro».
Si stacca da me, lasciandomi a occhi spalancati e disorientati. Resto inerme,
incapace di realizzare quanto accaduto, sconvolta nel profondo. Il mio cervello
non connette.
Riesco solo a registrare l'azione di Michael che si porta il polpastrello alle
labbra, per assaporare la mia eccitazione.
«Il mio alfiere si è appena divorato il tuo cavallo, bambolina. A te la
prossima».
Demoralizzata, stanca, imbarazzata e umiliata, tutto ciò che sono in grado di
fare è retrocedere e mettermi in difesa in silenzio.
E inizio a pianificare, prendendomi il mio tempo come ha fatto lui.
Cristo, riesco a pensare soltanto alle sue mani su di me, alla sua bocca sulla
mia, a Michael stronzo e bello da morire, al mio Michael e poi al Michael che
odio, quelle due persone che non coincidono. Rischio di impazzire.
Ed è passato soltanto il primo giorno.
Cosa sarebbe successo in quelli a venire?
DIECI
GRACE
Grace: 10 anni.
Michael: 14 anni.
La zuppa bollente mi scivolò giù per i capelli, macchiando i miei vestiti fino
a un attimo prima freschi di lavanderia. Mi ustionò la pelle del collo esposta.
Squittii per il bruciore e mi alzai in piedi di scatto, mentre Killian, con ancora
la ciotola di coccio in mano, se la rideva insieme a Margot e Jonah.
Ben presto, intanto che io mi toglievo i pezzetti di gallina dai ciuffi sporchi e
mi impedivo di piangere, l'intera mensa si unì al coro. Un vero e proprio ululato
esplose nella stanza, aumentando la mia umiliazione.
«Perdonami, non ti avevo vista», sghignazzò Killian. «Anche se non è colpa
mia se sei un fantasma».
I suoi capelli neri sembravano una massa incolta e il piercing, che si era fatto
da solo al sopracciglio di recente, scintillò illuminato dalla luce bianca a led.
Strinsi le dita attorno al cucchiaio, tanto che le nocche già pallide
sbiancarono ancora di più.
«Non hai niente da dire, fantasma?», continuò a punzecchiarmi, e in eco alle
sue parole mi venne gettato addosso un po' di purè. Schizzò tutto sulla mia
guancia. «Ops, anche Jonah deve essere inciampato. Siamo tutti così sbadati,
eh?».
L'odio cominciò a gorgogliare nelle profondità del mio stomaco, un vulcano
in piena eruzione, intenzionato più che mai a distruggere tutto quello che mi
circondava.
Deglutii, lanciandomi un'occhiata attorno. Gli educatori non c'erano, come al
solito, e i volontari della mensa facevano finta di niente, perché quella era
soltanto prassi, semplice routine.
Siamo tutti bravi a girarci dall'altra parte quando ci fa comodo.
Alla fine avrebbero comunque vinto loro, lo sapevo bene; lo avevo capito nel
momento in cui avevo reagito ed ero diventata la carnefice, anziché una vittima
del sistema stanca di subire.
Non importava quante bastonate io ricevessi, non importava quante lacrime
versassi o quanti lividi ricoprissero il mio corpo, io ero soltanto l'ennesima
ragazzina troppo debole e bisognosa di attenzioni.
Allora tanto valeva che la smettessi di comportarmi bene. Se volevano un
vero carnefice io gliel'avrei dato.
Quindi, all'ennesimo alimento che venne scagliato sulla mia faccia, afferrai il
vassoio e lo sbattei con tutte le mie forze sulla guancia di Killian. Il contraccolpo
fece rumore, l'annuncio di una tempesta, il tuono della furia — la cartilagine
vibrò.
Spensi le voci, godei dell'impatto e quasi mi venne una slogatura alla spalla
per l'intensità.
La mensa piombò nel silenzio, l'unico suono a rimbombare fu il grido di
dolore di quel bastardo.
Non feci neppure caso agli occhi spalancati che mi fissavano, pensai
piuttosto a lanciare via il vassoio e a raggiungere Killian stramazzato a terra che
si teneva il volto fra le mani.
«Hai ragione. Sei proprio uno sbadato», biascicai. «Come hai fatto a
inciampare nel mio vassoio?».
«Puttana!», sbottò Jonah, eppure non si alzò dal suo posto.
Lo ignorai. Pensai soltanto a piegarmi sulle ginocchia, analizzando la
maglietta grigia stropicciata, le dita anellate di un quattordicenne e il piccolo
tatuaggio che gli ricopriva il polso. La sua iniziale.
Killian continuava a mugolare e intravidi un paio di gocce rosse colargli giù
per la guancia. Non mi sentivo fiera di quello che avevo fatto, ma neppure in
colpa. Se lo era meritato.
«Questo gioco mi ha stancata», mormorai, e lui si scostò una mano dal volto
per mostrarmi l'angolo della bocca spaccato. Le lacrime gli riempivano la faccia,
confondendosi con il sangue. «Io dico basta, e faresti meglio a dirlo anche tu.
Altrimenti la prossima volta ti rompo i denti, Killian».
Non scambiare le mie ossa fragili per ossa deboli, avrei dovuto aggiungere.
Di tutta risposta, lui torse le labbra in un ghigno disgustato e, risentito dalla
pessima figura che gli avevo fatto fare, mi sputò sul mento. Un grumo
appiccicoso si fuse con tutte le schifezze che di già mi ricoprivano.
Sbuffando, feci scivolare il palmo sul mio viso per raccogliere il cibo e poi lo
spalmai tra i capelli di Killian. «Sta meglio a te».
Mi rialzai in piedi, sotto i suoi insulti e quelli dei suoi amici, e uscii dalla
mensa senza mai voltarmi indietro; diedi loro le spalle, fregandomene di ciò che
avevano da dire o da fare.
Calpestai le suole sul legno scuro del pavimento, percorsi i corridoi lunghi e
vuoti, tristi. Mi diressi nei bagni comuni delle donne, dove trascorsi l’ora
seguente a lavarmi di dosso gli avanzi e la sporcizia.
Mi sciacquai via l'odio, la rabbia, quelle emozioni che detestavo provare e
che non facevano parte di me, ma che dovevo indossare come una maschera se
volevo sopravvivere lì dentro.
Costruire un personaggio, issare mura alte e invalicabili era la mia unica via
d'uscita. Dovevo essere una fortezza inespugnabile.
Io non ero come loro.
Ma essere me stessa mi faceva stare soltanto male.
Insaponando i capelli per la terza volta, la voce di mia madre tornò a
rimbombarmi nei timpani; un tuono di avvertimento, il riverbero della delusione
che avrebbe provato se fosse stata lì.
«E quando penserai che sia un male, tu continua a fare del bene».
Avrei tanto voluto averla al mio fianco, solo per poterle chiedere come
potevo fare del bene a qualcuno che invece prediligeva il male. E poi quale
bene? In quale occasione? In che modo?
Ero troppo piccola per poterlo sopportare. Troppo piccola per poter
comprendere davvero la differenza tra giusto e sbagliato. Troppo piccola per
essere buona come lo era lei.
Scossi il capo, per togliermi dalla testa quei pensieri, e finii la mia doccia. Mi
asciugai alla svelta, infilandomi nel mio accappatoio bianco che mi faceva
sembrare più minuscola di quanto già non fossi, e gettai i vestiti nei panni
sporchi.
In lavanderia prima o poi mi avrebbero maledetto per la quantità di camicie e
gonne che riportavo ogni volta.
Quando tornai nella mia stanza, nella speranza di non trovare Margot al suo
interno perché sarei stata capace di strapparle via i capelli uno a uno, per poco
non saltai per aria nel vederlo steso sul mio letto a contemplare il soffitto.
Fu più efficace della doccia: ogni traccia di ira, odio, risentimento e rancore
balzò via, tutto sostituito dalla sorpresa e da quell'emozione che solo lui era in
grado di provocarmi. Quel sentimento che aveva un nome, un'entità palpabile a
mani nude tanto era potente, che esigeva di esplodere e di divampare.
Qualcosa per cui temevo lui non sarebbe mai stato pronto.
Lo sarai mai, Michael?
Chiusi la porta di scatto, attirando la sua attenzione. «E tu che ci fai qui?».
Michael si tirò su a sedere, accigliato, e mi squadrò. «Hai ancora i capelli
bagnati».
«Succede quando uno si fa la doccia, Michael», ridacchiai, avvicinandomi a
lui. «Ma non hai risposto alla mia domanda».
«Ti verrà il raffreddore o una brutta cervicale in questo modo, Grace».
Niente, era inflessibile e fissato sui miei capelli bagnati. Non smetteva più di
guardarli. Difatti allungò una mano e si rigirò una ciocca fra indice e pollice.
Praline bagnate gli rotolarono giù per il polso di porcellana, costeggiarono le
vene bluastre e morirono nella dolce piega interna del suo gomito.
Gli mostrai la lingua, dispettosa. «Ti preoccupi per me, Michael?».
«Sempre, bambolina». Mi schioccò un bacio sulla tempia, tenero come un
cuore di marzapane. «E infatti, non appena avrai concluso di renderti
presentabile, discuteremo insieme su un paio di cose».
Un brutto presentimento si fece largo in me, inducendomi ad aggrottare le
sopracciglia, e inclinai la testa. «Quali cose?».
«Prima i capelli».
«Non puoi lanciare una bomba e poi aspettarti che non esploda!».
«I capelli, Grace».
Imbronciai le labbra, sperando di riuscire a convincerlo a vuotare il sacco in
qualche modo, peccato che Michael fosse incorruttibile e letteralmente
indifferente a qualsiasi cosa.
Perciò fui costretta a seguire le sue direttive. Ancora stretta nel mio
accappatoio, attaccai l'asciugacapelli di Margot alla presa e iniziai a compiere la
magia.
I miei capelli non erano lunghissimi, un po' spessi e tanti, ma nulla di
incredibile, sicché impiegai meno tempo del previsto per finire.
Nel frattempo Michael mi guardò, senza perdersi una singola mossa, un solo
dettaglio. Ammirò ogni mio gesto, quasi fosse rimasto incastrato tra le mie mani,
in parti di me che neppure io riuscivo a scorgere.
Attraverso lo specchio appeso alla parete porpora, gli sorrisi e spensi il phon.
In risposta, scorsi il luccichio dei suoi occhi spezzati, in quella minuscola
particella di lui ancora viva, ancora mia.
Quando tornai da lui, ben steso sul mio piccolo letto, quello più vicino alla
finestra, lo feci accompagnata da una spazzola.
«Sei con me?», mormorai, recuperando dal comodino al suo fianco un libro
che avevo preso in biblioteca.
«Sì», rispose secco, io mi feci spazio tra le sue gambe e mi accomodai,
dandogli le spalle. Gli porsi la spazzola. «Che devo farci con questa?».
«Visto che ti piacciono tanto i miei capelli, pettinameli».
«Mi piacerebbe», ammise, poggiando la guancia sulla filigrana bianca. «Ma
tu dovrai ascoltarmi e prestarmi attenzione, nel frattempo».
«Promesso».
Misi il libro, una vecchia copia di Jane Eyre, da parte e raddrizzai la schiena
per fargli capire che lo avrei ascoltato sul serio, come del resto facevo sempre. Io
lo ascoltavo anche quando preferiva il silenzio.
Ti ascolto anche quando non vorrei, lo sai?
Maledizione, io ascoltavo i suoi respiri e i suoi battiti, nella vana speranza
che almeno la metà di questi fossero per me proprio come io ne dedicavo ognuno
a lui.
«Mi raccomando, fai piano. La cute è sensibile».
«Certo», biascicò, raccolse i ciuffi tra le sue dita delicate e li fece scorrere tra
i denti della spazzola, piano. «Partiamo dall'inizio. Cosa è successo oggi in
mensa, Grace?».
Tentai di non irrigidirmi, ma fallii. Il solo ricordo di quei bulletti da quattro
soldi e il modo in cui avevo reagito bastava per farmi aggrovigliare le budella.
Tuttavia Michael si premurò di sciogliere i miei nodi continuando a
pettinarmi i capelli, dolcemente. Senza pretese. Mi aspettò.
«Mi hanno lanciato del cibo addosso per umiliarmi, mi hanno chiamata
fantasma e io ho cercato di farmi valere, di rispondere», riassunsi. Non volevo
scendere nei particolari. «Forse ho esagerato, però sono stanca di subire e
permettergli di trattarmi in quel modo».
Michael applicò un po' più di pressione, ma non gli dissi nulla. Potevo
percepire la sua agitazione aumentare, una rabbia gelida salire in superficie.
«Perché ce l’hanno tanto con te, bambolina?».
«Perché sono diversa, Michael», sussurrai. «Non posso giocare al sole,
quando esco devo sempre portare un cappello e mettermi le protezioni. Sono
sensibile alle luci, e forse anche miope. E non ho mai visto il mare, perché se
non lo posso vedere d’estate allora non mi interessa accontentarmi dell’inverno».
«Tu non sei diversa, Grace. Tu sei unica, e io non ti vorrei mai in nessun
altro modo».
Abbassai lo sguardo, timida. «Purtroppo soltanto tu la pensi così».
Però mi basta. Mi basti tu.
«E se vuoi, al mare ci possiamo andare di notte».
«Non importa, tranquillo».
Sospirò. «Sono stati messi in punizione alcuni ragazzi e li ho sentiti parlare
attraverso la grata. So ciò che hanno fatto», confessò e un respiro a stento
trattenuto mi scaldò la nuca. «E non so se la prossima volta sarò in grado di
trattenermi, Grace».
Il tono tormentato e la sofferenza che riuscii a percepirvi mi convinsero a
voltare il viso, a sprofondare nell'artico delle sue iridi. Michael smise di
spazzolarmi i capelli per afferrarmi le guance, i polpastrelli premettero delicati e
soavi.
«Che vuoi dire?», soffiai.
Calò le palpebre e appoggiò la fronte sulla mia, carezzandomi fino agli
zigomi coi pollici. «Io esplodo per te, bambolina», bisbigliò. «Non sono un
ragazzo normale, questo lo so, e c'è qualcosa che non va in me. Ma tu sei la mia
unica luce, Grace, e io non permetterò a nessuno di spegnerti, di portarmi via
l'unica cosa bella che io abbia mai avuto».
Mi si mozzò il fiato. Prima di allora, non mi aveva mai detto parole del
genere, non mi aveva mai aperto il suo cuore in quel modo. Gli occhi mi si
riempirono di lacrime e portai una mia mano sulla sua, intrecciando le dita.
«Michael...»
«Non posso permettere a nessuno di farlo», sussurrò e il mento prese a
tremargli, la voce si fece più fragile. «Lo capisci, vero? Non posso, Grace, non
posso. Se perdo te, io perdo tutto». Stampò la bocca sulla mia guancia. «E se ti
fanno di nuovo del male, do fuoco a questo posto dalle fondamenta. Con tutti
all'interno».
Un brivido percorse la mia schiena, e non sapevo dire se si trattasse di paura
o euforia nel realizzare quanto mi reputasse importante per lui.
Annaspai per alcuni istanti, disorientata da tutto quello, e portai anche l'altra
mano sulla sua. «Lo faresti davvero per me?».
«Senza pensarci due volte, bambolina», sibilò. La determinazione gli indurì i
lineamenti delicati. «Io per te metterei sotto assedio una città intera».
Aprii e chiusi la bocca più volte, la lingua schioccò sotto al palato, eppure
non riuscii a trovare alcuna parola o sillaba in grado di esprimere l'infinito che
stavo provando.
Perché per la prima volta, per la prima volta da quando i miei genitori mi
avevano abbandonata, io mi sentivo al posto giusto, proprio dove dovevo stare;
mi sentivo al sicuro, protetta.
Ma soprattutto... io mi sentivo amata. Più di quanto avrebbe mai potuto fare
chiunque altro.
E non sapendo come poterglielo spiegare, mi girai del tutto e lo abbracciai di
slancio, stringendolo forte. Amandolo fino allo sfinimento in tutta la mia
ingenuità. Come solo una bambina di dieci anni poteva fare.
Che errore.
Perché amarlo consuma, strazia dall'interno, logora le ossa, ma a quel tempo
non potevo mai immaginare una vita diversa per me, un mondo dove io esistevo
senza Michael. Dove non amavo Michael.
E forse non riesco tuttora.
E fu allora che decisi di consegnargli tra le mani il mio bellissimo pezzo di
cuore rimasto. Glielo diedi con calma, con un amore sconfinato che andava oltre
la comprensione e la logica, e chiusi gli occhi.
«Sei tu, Michael», sussurrai. «Sei sempre stato tu e sarai sempre tu».
E io amerò ogni particella di questo sempre.
«A ferro e fuoco, Grace. Bruci e raffreddi. Ma a ferro e fuoco».
Non avevo la piena certezza di quello che voleva dire, ciononostante lo sentii
dentro, dirompente, come una pianta rampicante che risaliva e si addensava in
qualsiasi spazio disponibile e anche non.
«Più di ogni altra cosa al mondo», biascicai.
Ti amavo più di ogni altra cosa al mondo.
E non lo dicevo perché non avevo niente.
Lo dicevo perché tu eri tutto.
Finii per addormentarmi così, abbracciata a Michael che continuava a
ripetere che per me avrebbe fatto qualsiasi cosa, che non avrebbe più permesso a
nessuno di farmi del male.
Mi addormentai e quando al mattino trovai soltanto le coperte fresche ad
avvolgermi, lo amai lo stesso e, inspiegabilmente, ancora di più.
A ferro e fuoco.
UNDICI
GRACE
GRACE
Grace: 10 anni.
Michael: 14 anni.
GRACE
Usura e sollievo.
Dolore e piacere.
Tormento e gioia.
Rude e carezzevole.
Mi sei mancata da morire.
Le sue labbra morbide, dolci come lo zucchero filato, pungono sulle mie.
Bruciano contro la mia bocca, smussano gli angoli di una rabbia che continua a
contorcerli.
Mi sta baciando. Michael mi sta baciando, anche se io non bacio lui.
Per la prima volta, dopo più di nove anni che ci conosciamo, che ci siamo
scambiati la pelle, le anime e abbiamo finito per plasmarci l'uno all'altra, le
nostre essenze si sono unite per davvero.
Resto immobile, sconvolta e incredula, mentre lui mi stringe più forte che
può, forse temendo il momento in cui la bolla sarebbe esplosa.
È impacciato. Bacia a caso, bacia come chi non ha mai baciato nessuno, ma
bacia dal profondo del cuore. Bacia quasi volesse entrarmi dentro e non uscirne
mai più.
Resto senza fiato, ingorda della sua lingua che lecca i contorni e delle labbra
che succhiano, schioccano e assaporano.
Le sue mani mi tengono dai capelli e dalla schiena, scorrono e si scambiano,
pretenziose di lasciare il segno e approfittare del mio senso di smarrimento.
Michael corre finché può. Ha gli occhi chiusi, al contrario dei miei
spalancati, e piccoli sospiri continuano a sfuggirgli, smaniosi di scivolarmi giù
per il mento.
Mi sei mancata da morire.
Più lui avanza, più io indietreggio.
Ci mangiamo i nostri pedoni a vicenda, uno dopo l'altro.
Più Michael azzarda, più io smetto di ricordare i motivi per cui sia tanto
sbagliato.
Non ricambio il suo bacio, frastornata dal boato che avverto dirompere nel
mio petto; una strana miscela corrosiva mi scorre nelle vene, le mie sinapsi si
sciolgono a ogni suo schiocco di labbra e lo stomaco si contorce su sé stesso.
Fa male. Fa tanto male.
Non dovrei provare queste cose, né tantomeno volerle ricambiare, prendergli
il viso e unire la mia lingua alla sua. Ardo dal desiderio di insegnargli a baciare
una donna come si deve, e prego affinché non smetta di toccarmi, nonostante
tutto.
Mi sei mancata da morire.
Ma la mia morale è più forte di qualunque bisogno. Il cervello ha imparato a
vincere le sue battaglie contro quello stupido del mio cuore impazzito, che si è
sempre lasciato ingannare con troppa facilità.
Perciò, quando Michael mugola, ansimando un candido: «Oh, bambolina...»,
reagisco.
Sollevo le mani, mentre le sue mi sfiorano il fondoschiena, e premo i
polpastrelli nelle sue spalle. Stringo le clavicole, giungo fino alle sue scapole che
tremano al mio passaggio brusco.
Poi affondo i denti nel suo labbro inferiore, tenero. Mordo, non mi do freni e
squarcio la carne fino a macchiarmi la bocca del suo sangue che finisce dritto
sulla mia lingua.
«Grace!», sbotta, sbalordito, e mi stacca da lui ancora sorpreso, toccandosi
con le mani il punto sanguinoso. Un bagliore di quella che assomiglia alla
delusione gli lampeggia nelle iridi. «Smettila di ferirmi».
Un crepitio si insinua nel caos che è riuscito a scatenare poc'anzi dentro di
me. Non posso sopportare il suo sguardo malinconico, quindi indietreggio di un
paio di passi e aggrotto le sopracciglia, mettendomi sulla difensiva.
«Non eri pronto a parare i miei colpi?». Costringo le mie corde vocali a
simulare una risatina di scherno. Sto perdendo il senso della nostra partita,
cazzo. «Sei stato proprio tu a dirmi che mi aspettavi a braccia aperte, Michael.
Quindi qual è il problema adesso? Hai capito che non cederò mai?».
Lui scuote la testa, confuso, e strizzo le palpebre alla vista dei suoi ciuffi
biondi che si scuotono. «No, io...», fiata, disorientato, porta l'indice a tastarsi il
labbro inferiore. «Pensavo avessimo stabilito una tregua, Grace. Qual è il tuo di
problema, invece?».
Okay, gli ho detto un chiaro e deciso okay. Accettando la sua proposta, la
mia via di fuga per non farmi sommergere dal peso del senso di colpa, sebbene
sapessi che fare buon viso a cattivo gioco non si sarebbe rivelato così difficile
come avrebbe dovuto. Ed è proprio questa consapevolezza a rendermi irrequieta.
Mi gratto il sopracciglio. Sento ancora il suo sapore in bocca. Un sapore
tenero, dolce, trattenuto per anni e scoppiato come una bomba in meandri che
dovrebbero soltanto rimanere sepolti e rinchiusi. Lontano e al sicuro dalla sua
portata.
«Mi hai baciata. Non avresti dovuto farlo», gli dico alla fine. «La nostra
tregua non include scambi di saliva».
Uno. Gli è bastato un misero bacio languido, goffo e da principiante per
spezzarmi e rimettermi insieme a suo piacimento. Non posso permettergli di
andare oltre.
Se voglio davvero uscirne integra, devo ricominciare a stabilire paletti e
confinarmi dietro la mia barricata personale.
Perché, guardandolo, non riesco a provare la rabbia che agogno di percepire.
Ormai ho compreso che non mi torcerà neppure un capello. No, mi fa soltanto
male il torace. Mi trema l'anima al cospetto dei suoi occhi fragili.
Per sicurezza, tossendo, impongo un altro passo ancora tra di noi.
«Stai bene?».
«Sì, sto bene. Smettila di preoccuparti!».
«Non posso».
Sospiro. «Hai capito quello che ti ho detto sulla tregua?».
Michael inclina la testa, inquietante come un predatore, e analizza la
situazione. Un rossore non suo gli imporpora le guance, rendendolo soltanto più
bello di quanto già non sia.
«Sì, ho capito. E cosa vorresti che includesse, allora? Dimmelo. Rispetterò
qualsiasi tua proposta, bambolina».
Apro e chiudo la bocca più volte, sconcertata da quanto sta accadendo.
Perché il solo pensiero che smetta di provarci e di toccarmi mi turba tanto?
È malato. Fa a pugni con tutti gli obiettivi e i propositi che mi sono fissata
negli ultimi sette lunghi anni.
È proprio a causa della mia domanda interiore, che incrocio le braccia al
petto e mi schiarisco la voce a mento sollevato. «Voglio che non mi baci mai
più».
«Non ti è piaciuto?».
«No», mento.
Il suo volto si adombra e un peso invisibile gli casca sulle spalle. «Va bene»,
mormora, offeso, e si ripulisce la crosta di sangue sul mento. «Tu però puoi
baciarmi ogni volta che vuoi».
Non osare piangere, Grace.
Ritorna in te.
Inspiro di scatto. Le mie labbra tremolano dalla voglia di tornare sulle sue, e
le cosce si stringono, alla ricerca del suo tocco assente che di già manca al mio
corpo.
«Non devi più toccarmi».
«Io amo toccarti».
«Io odio quando lo fai».
Michael deglutisce e, con un lungo sospiro, alla fine annuisce. Sposta lo
sguardo dal mio, come se soffrisse nel sostenerlo per troppo tempo, e si appoggia
al muro alle sue spalle.
Io resto in piedi al centro della stanza, a farmi forza da sola. A rimembrare a
me stessa le cose orribili che Michael ha fatto.
«Smettila di palesare i tuoi sentimenti nei miei confronti. Non mi
interessano».
E invece non smettere. Dimmi tutto quello che provi, dimmi le tue paure e
parla con me.
La gola si chiude a tali parole, volendomi impedire di dirle, ma fuoriescono
comunque e hanno l'effetto previsto su Michael, che scuote il capo e si strofina
le dita tra i capelli frustrato.
Alza la testa di scatto, riservandomi un'occhiataccia imperdonabile. «Mi stai
davvero chiedendo di reprimere ciò che sei per me? È sciocco da parte tua,
bambolina. Sciocco e futile», borbotta. «Tu sei mia, e io sono tuo. Lo sai. Lo sai
da una vita. Non puoi cancellare la verità, non puoi scegliere tu cosa provare e
non puoi spezzare quello che c’è tra di noi. Tutto questo è ridicolo».
Bastardo manipolatore. Gli restituisco la brutta occhiata, scacciando il
piombo del suo discorso, impedendogli di liquefarsi sulla mia carne.
A gambe tremanti, piuttosto, incurante del mio corpo dolorante e stanco,
avanzo di nuovo, tornandogli vicino affinché possa sentirmi forte e chiaro.
Decisa più che mai a schiacciarlo.
«Non mi interessa ciò che pensi tu», pondero. «E, infine, voglio che tu la
smetta di chiamarmi bambolina».
Resto senza fiato io stessa a ciò che dico. Sudo freddo, rivoli ghiacciati mi
scorrono giù per la schiena mentre strani ringhi mi scuotono la mente, graffiando
e latrando.
È sbagliato. Tutto questo è sbagliato, Grace, urlano strane voci dal profondo
della mia essenza, ma le soffoco alimentata dalla mia medesima sofferenza.
Michael sbarra gli occhi, il panico a tormentargli i lineamenti, e un vortice
d'orrore si diffonde a macchia d'olio sulla sua faccia pietrificata.
Rimango immobile davanti a lui, a dimostrargli quanto sia ferma e
incorruttibile. Lo osservo stringere i denti, mentre una rabbia silente si
impadronisce dei suoi zigomi, della mandibola, e lo costringe ad alzarsi dal
pavimento lercio.
Deglutisco, inclino il collo, intanto che lui incombe e mi sovrasta. Mi toglie
ogni grammo di vantaggio nei suoi confronti, piegando l'oscurità al suo volere.
Come al solito, l’ho spinto troppo oltre. L’ho istigato, spezzando la corda, e
la situazione mi si ritorce contro quando assottiglia le palpebre e avvicina
l'indice al mio mento, senza sfiorarmi.
Tocca senza toccare, Michael.
E il mio corpo lo riconosce, i fili che compongono il mio spirito bramano
dalla voglia di intrecciarsi ai suoi, fino a cucire un unico filamento.
«No», sentenzia, inflessibile. Un sibilo che va a fondersi nel mio respiro.
Annaspo. «No?».
«No», ripete, il suo fiato scalda il viso. «Non ti bacio. Non ti tocco. Non ti
amo. Se vuoi, non ti guardo nemmeno. Ma tu resti mia», soffia, chinandosi
ancora di più, le labbra così vicine alle mie. «Resti mia, Grace».
«Io...»
Scivola, sbuffandomi il fiato sull'arteria. «Per essere più precisi, la mia
bambolina».
Sbatto le ciglia, inerme.
E tutto precipita in un attimo.
Io precipito.
«Fanculo», sbotto, prima di afferrarlo dalla nuca e divorargli la bocca come
Dio comanda.
Fanculo le mie stesse regole.
Fanculo tutto.
Sprofondo nel suo palato, gli artiglio i capelli e mi isso sulle punte, affamata
più di un senza tetto, disidratata come se avessi trascorso un mese nel deserto.
E lui è la mia acqua.
Lui è solo il tutto, e io il niente che ne ha un disperato bisogno.
Michael emette un gemito, a metà tra la sorpresa e il piacere, e pressa le mani
sotto le mie cosce per sollevarmi e tenermi a sé, mentre gli insegno a baciarmi. A
imporsi.
Perché lo odio da morire, ma lo odio ancora di più quando non torna da me.
E c'è soltanto un modo per affievolire tutto quell'odio, quell'ira, la devastazione
che mi alberga dentro: averlo. Semplicemente, averlo.
E farò a pugni dopo con la mia coscienza.
Penserò alle conseguenze più tardi, quando se ne sarebbe di nuovo andato,
lasciandomi in balia dell'attesa.
«Piano», mugolo, leccandogli il labbro inferiore. «Ascolta me, Michael»,
bisbiglio, prima di intrecciare la mia lingua alla sua in un abbraccio senza eguali.
«Ascoltami».
Detto il ritmo e lui è bravissimo a seguirlo. Mi ascolta Michael, ascolta per
bene il groviglio di sudore e passione che stiamo creando. Sposta una mano sulla
mia natica, marchiandomi nella carne e nell'animo, e impiglia le dita libere fra i
miei capelli scompigliati, mentre io intreccio le caviglie dietro la sua schiena.
Solo stavolta.
Solo stavolta.
Solo stavolta.
«Mia», ripete, un mezz'ansimo sulla mia lingua, che succhia e morde come
se ne dipendesse della sua vita, e io sento che infondo è proprio così. «Sempre
mia».
Non nego, ma nemmeno confermo.
Voglio soltanto continuare ad assorbirlo, a prendermi il suo sapore di mela e
barrette energetiche. Voglio stringerlo, perdermi senza pretesa di ritrovarmi.
Ci porta a terra, io a cavalcioni su di lui, con il terreno gelido e duro a farmi
male alle ginocchia e il suo palmo ad avvolgermi il sedere, a spingermi a sé.
«Grace», mormora nella mia bocca, attorcigliandosi i capelli in un pugno alla
base della nuca. «Lo rendi così bello», aggiunge, passando a baciarmi la
mandibola, struscia la bocca fino al lobo dell'orecchio, che mordicchia piano.
«Ci sei tu, loro scompaiono. Oh, Grace».
Gemo e mi strofino contro di lui. La gonnellina copre i bacini, il tessuto delle
culotte è sottile e percepisco a fondo l'attrito con la sua eccitazione.
«Oh dio», farfuglio, mi struscio più forte, sentendo quel calore mai
sperimentato prima scivolarmi nel basso ventre, in un crescendo vertiginoso.
«Oh Dio, Michael».
Non ho più il controllo su di me. È soltanto il desiderio a guidarmi, io non
sono padrona di più nulla.
Michael non è Michael.
Grace non è Grace.
Siamo soltanto due amanti, due anime che si sono incontrate per caso in una
stanza buia e non si sono più lasciate.
E accelero i movimenti, li accentuo, intanto che lui passa a leccarmi il collo,
coi denti che sfregano proprio sull'arteria a sentirmi i battiti impazziti.
«Grace, Grace, Grace», ansima, il fiato troppo veloce, come la mia intimità
che preme sul suo sesso. Probabilmente sto anche bagnando i suoi pantaloni.
«Grace, maledizione».
Morde la mia spalla, schiacciandomi contro di lui. E avverto l'intensità
avvolgermi tra le sue spire, scariche elettriche partono dal mio centro, un
insieme di fluidi, diramandosi in ogni direzione.
Roteo i fianchi, i polpastrelli di Michael, ormai al di sotto della gonna, ad
afferrarmi le natiche talmente forte che mi rimarrà il segno, e torno a baciarlo.
Ci mangiamo i nostri gemiti, le mie imprecazioni e il mio nome sulla sua
lingua. E quando Michael si irrigidisce sotto di me, bloccandosi, nello stesso
medesimo istante un'ondata implacabile mi travolge, sconquassandomi da cima a
fondo.
Fletto le dita, rigiro gli occhi e me ne vado in apnea per un bel po', finché lui
non mi bacia a stampo.
Io il suo primo bacio, Michael il mio primo orgasmo. E in qualche modo, per
quanto possa essere sbagliato, per me è giusto così.
Ciononostante, sebbene sia provata, entrambi con il respiro irregolare e lui
fin troppo rilassato per poterla prendere bene, gli afferro il viso.
Stiamo ancora ansimando e Michael mi guarda come se fossi la sua luce.
Sconvolto, ma emozionato. Mi sento frantumare.
Seduta sulle sue gambe, sporchi di ciò che abbiamo fatto e dei nostri
sentimenti ingombranti, scuoto la testa. «È così che si fa, Michael. E adesso che
hai imparato a baciare una donna, io ho finito». Gli spacco il cuore per
l'ennesima volta, mi alzo. «Grazie per l'orgasmo».
«Grace, ma cosa...»
«Non succederà più», sibilo, scontrandomi con quel famoso dopo. «Non
doveva succedere nemmeno adesso, ma è capitato e non si può tornare indietro.
Questo, però, non cambia nulla tra di noi».
E un disgusto, con cui mai mi aveva guardata, mai rivolto a me, la sua
bambolina, gli torce la bocca.
«Grace, no».
«La mia torre ti ha mangiato l’alfiere. A te la prossima».
Soltanto io so quanto mi distrugge dentro dirlo e fingere fosse tutto frutto di
una strategia. Ma l'importante è tenerlo lontano. È necessario.
Michael schiocca la lingua sotto al palato, poi sposta lo sguardo sulla parete
alle mie spalle. Non parla un po’, minuti forse.
Poi però lo fa.
«E chi è ora il mostro, Grace?», sussurra, gli occhi persi nel vuoto. «Io che ti
amo comunque, o tu che mi ami e riesci lo stesso a uccidermi? Non saprei. Forse
siamo uno peggio dell’altra».
Non rispondo. Il suo tono vacuo, piatto, mi ha appena devastata. Potrei dirgli
che non lo amo, ma non ho più forze per mentire.
«Adesso dormi, per piacere. Sei stanca, lo vedo che lo sei. Domani
torneremo a parlarne».
QUATTORDICI
GRACE
Grace: 10 anni.
Michael: 14 anni.
«Que-ste due per-so-ne mol-to an... anzia-ne sono il pa-dre e la madre del
sign... signo-r B-Bucket. Si chia-ma-no Nonno Joe e Nonna Jo-se-phine».
Michael, a sopracciglia aggrottate, leggeva ad alta voce le parole sotto cui
faceva scorrere il dito per non perdere il segno. Andava avanti imperterrito, e se
ogni tanto gli sfuggiva una sillaba, lui ricominciava dall'inizio. Finché non finiva
il suo capitolo intero, non si rassegnava. Non importava quanto tempo
impiegassimo, lui leggeva e basta.
Io gli portavo un libro, direttamente dalla biblioteca, e lui si impegnava a
fondo per imparare, per rimediare a quella carenza che gli pesava sulle spalle.
Qualche volta mi capitava di doverlo aiutare o correggere, quindi Michael
annuiva, ripeteva ad alta voce e, di nuovo, ricominciava.
Avevamo iniziato a farlo pochi giorni dopo la sua confessione, quel momento
di crisi scolpito nella mia mente a fondo, ed ero ben più che felice di aiutarlo a
sentirsi meno solo grazie ai racconti di cui gli facevo dono.
Il primo libro che Michael aveva letto era stato Il Piccolo Principe.
Era stato anche il mio primo libro, con mamma che me lo spiegava a ogni
paragrafo.
Ricordavo ancora ciò che aveva detto una volta concluso.
Con ancora il piccolo testo stretto al petto, Michael si era voltato verso di me,
il capo inclinato in una tenera curiosità, e arricciando le labbra aveva chiesto:
«Storia carina, ma non ho capito molto. Lui provava affetto verso una... rosa?».
Perciò, sospinta da quell'interesse, mi ero sentita in dovere di regalargli uno
dei miei sorrisi più belli, intrecciando le nostre dita, prima di rispondere. «La
rosa è soltanto una metafora. La cosa importante è il legame, l’amore che unisce
il Piccolo Principe e il suo fiore».
«Vero amore?».
E Michael mi guardava, quasi fosse una parola estranea che voleva imparare,
mentre io continuavo a riservargli ogni singolo straccio del mio immenso
sentimento.
«Sì, il vero amore».
Quello che io provo per te.
A quel punto le sue iridi avevano preso a luccicare, e lui si era fatto più
vicino, volenteroso di saperne di più. «E tu sai com'è fatto? Sei mai riuscita a
toccarlo? Spiegamelo, per favore. Non ho mai incontrato nessuno che sappia
cosa sia l'amore».
Per un paio di attimi avevo tentennato, indecisa sul come poterglielo
raccontare senza dirglielo, ma alla fine era tutto venuto da sé. Mi era bastato
guardarlo e la voce aveva svolto il lavoro. Mi era bastato ricordare i miei
genitori, quello che mi aveva risposto mia madre quando ero stata io a
chiederglielo.
«Mia mamma diceva sempre che non lo puoi toccare l'amore, Michael», un
sussurro flebile, intanto che il mio piccolo cuore gli rotolava sulle mani, per
starsene un po' al caldo. «È lui che tocca te. Ed è prepotente nel farlo. Non è per
niente gentile».
«È cattivo, allora?».
«No, è immenso. Secondo mamma è qualcosa che ti travolge senza chiedere
il permesso, e spesso fa male. Arriva all'improvviso e tu non hai alcuna scelta,
devi soltanto accettarlo».
Ti spacca a metà, l’amore, Michael. Ti ammazza, non ti chiede scusa e poi ti
porta in cima all’universo.
«Ma se è così terribile, perché il Piccolo Principe è felice di tornare da tutto
questo?».
E io mi ero stretta nelle spalle.
Già, perché, Grace? Perché vuole sempre tornare nonostante tutto?
«Perché per quanto possa fare male, ne varrà sempre la pena», avevo
mormorato, assorta nei suoi occhi di cristallo. «Importa solo che l’altra persona
stia bene. Conta questo. Solo questo».
Lui era rimasto assorto per un po', a riflettere, confuso da tutto quello che gli
stavo dicendo, e poi mi aveva posto l'ultima domanda. «E quando finisce?».
«Non finisce». No, non lo faceva. «Se è davvero amore, Michael, non può
finire, perché sono certa che i miei genitori si sarebbero amati per sempre. Penso
che magari può addormentarsi per un po', può perdere la strada per qualche
giorno, a volte si smarrisce in stupidi giri senza senso, ma fidati che non finisce.
Non lo fa mai».
«Sembra spaventoso».
«Lo è, altroché, ma è anche la cosa più bella che possa mai capitarti».
Dopodiché il discorso si era spostato altrove, anche se io avevo perseverato
nel mio misero istante perfetto.
E continuavo a farlo anche mentre lui leggeva la Fabbrica di Cioccolato, con
quel suo nasino che si arricciava troppo spesso e le ciglia a sfarfallare quando
doveva ripetere più di una volta.
«E, oh, co-me de...de...», balbettò, poi mi indicò la parola. «Come si
pronuncia?».
«Desiderava».
Michael annuì e ricominciò. «E, oh, come desiderava po-ter en-tra-re in
quella fabbrica e ve-de-re com'era fatta!», concluse.
D'impulso, mi ritrovai a battere le mani e sorridere, orgogliosa di lui. «Sei
stato bravissimo!».
«Dici? Io sento che sto migliorando, in effetti», appurò, appoggiando il libro
sul letto, proprio di fianco a lui.
Ce ne stavamo sul materasso di schiena, con le gambe appoggiate alla parete
scrostata, uno accanto all'altra, spalla a spalla.
Sapevo che quello era un momento di stallo, prima di recuperare la
scacchiera dal suo nascondiglio e metterci a giocare. Ormai stavo diventando
bravina anche io, seppur battere Michael fosse una missione impossibile.
Tante volte avevo voluto chiedergli dove avesse imparato, chi gli avesse
insegnato, ma ormai avevo capito che porgergli domande sulla sua vita era
soltanto un danno per lui e, se potevo evitare, l'avrei fatto.
Assistere a un altro crollo era fuori discussione. Non avrei mai e poi mai
voluto rivederlo in quello stato di disperazione e orrore. Qualche volta mi
capitava anche di sognarlo la notte. Un vero e proprio incubo.
«Sì, dico. Assolutamente», confermai. «E vedrai, ti piacerà da matti questo
libro. Non vedo l'ora che tu vada avanti per addentrarti nel vivo della storia».
Michael si limitò ad annuire, disperdendosi nei suoi pensieri contorti, e
sbuffò un flebile respiro dalle labbra. In attesa che smettesse di dar credito alle
voci che lo tormentavano, osservai il rivolo di sudore che gli imperlava la
tempia.
Sebbene l'autunno fosse in dirittura d'arrivo, a Monterey faceva ancora un
caldo pazzesco. Soprattutto nella stanza di Michael, che assomigliava più a un
cunicolo senza uscite, dove il calore entrava e non usciva.
Si veniva a creare una cappa impossibile da sopportare, ciononostante lui non
ne voleva sapere di staccarsi da me. Anche se sudaticce, gli piaceva tenere le
nostre mani intrecciate.
Alla fine, dopo un tempo indeterminato, virò il viso nella mia direzione. Un
cipiglio lo adornava. «Domani è il tuo primo giorno di scuola alla St. Gerard».
Un'emozione incontenibile esplose nel mio stomaco. Se n'era ricordato.
Annuii con veemenza, euforica. «Sì, sono agitatissima, ma non sto più nella
pelle. Aspetto questo momento fin dal primo giorno in cui ho messo piede qui
dentro».
«Uscirai fuori».
«Esatto! Ed è proprio per questo motivo che sono tanto eccitata. Finalmente
potrò conoscere nuove persone, vedere nuove facce e allontanarmi per un po' da
questo postaccio».
«E non è pericoloso per te?».
«No, metterò sempre la crema solare, cappelli e occhiali da sole quando ci
sarà bisogno. Vedrai, mi farò tanti amici. Non mi farò fermare da questa stupida
melanina».
Probabilmente dovevo appena aver detto la cosa sbagliata, poiché Michael si
tirò a sedere di scatto, ancora più accigliato.
Cercai di riavvicinarmi a lui, confusa, per chiedergli cosa gli fosse preso, ma
mi privò del suo sguardo e scosse la testa. Piuttosto se ne stette in silenzio a
recuperare la cioccolata dalla tasca, quella che gli avevo portato io.
La mangiucchiò pezzetto dopo pezzetto, perdendosi nel suo vuoto senza
nome, a cui non potevo avere accesso.
«Michael», lo richiamai, sedendomi composta, e sospirai. «Michael, per
favore, guardami».
Rispettavo sempre i suoi silenzi, i vuoti, il freddo, le lacrime che non aveva
mai versato e i pensieri corrosivi che gli correvano per la testa. Perché, alla fine,
poi lui ritornava ogni volta.
Tuttavia quella volta provai a richiamarlo più volte, almeno finché non si
voltò verso di me, rigido e impassibile.
«Che succede? Qual è il problema?».
«Te ne vuoi andare».
Sgranai le palpebre. «Cosa? Io non ho mai detto niente del genere, Michael.
Sono soltanto felice di fare una nuova esperienza e disintossicarmi per un po' da
Margot, da Jonah e da tutti gli altri!».
Lui deglutì e distolse di nuovo lo sguardo, lo puntò sul suo ginocchio
fasciato dai pantaloni blu. «Avevi detto che non ti stavano dando più fastidio».
«Non è questo il punto. Non cambiare discorso. Cos'è che ti preoccupa
tanto?».
Mi abbracciai le ginocchia piegate al petto, delusa che non avesse condiviso
il mio entusiasmo a quella nuova avventura che mi stava aspettando. Chissà
perché, ma mi ero illusa che sarebbe stato felice per me. E invece mi ero
ritrovata davanti un broncio e due retine colme di tristezza e paura.
«Conoscerai nuove persone, l'hai detto tu», affermò.
«E quindi?».
«E quindi io smetterò di rientrare nei tuoi spazi, Grace».
Ciò che disse fece male. Mi sentii ferita. Come poteva anche solo pensarlo?
Comprendevo i suoi timori, davvero, d'altronde Michael era un puzzle di
pezzi usurati e che non combaciavano, ma erano schegge velenose quelle verità.
Curvai le labbra all'ingiù. Dannazione, lui era un punto fondamentale della
mia esistenza, l'incastro perfetto delle mie mani; come avrei potuto togliergli
spazio per dedicarlo ad altri?
Piuttosto ne avrei tolto a me stessa.
«Lo pensi davvero?».
Non rispose, come da programma, e si sfregò il palmo destro sul viso, quasi
fosse esausto.
«Santo cielo, Michael, come puoi sul serio credere una cosa simile?», sputai
fuori, incredula. «Cerco di trascorrere quanto più tempo possibile qui dentro
soltanto per te. Rischio per te. Io faccio di tutto per te. E tu metti in dubbio me
solo perché sono felice di andare a scuola e farmi degli amici?».
Strizzò le palpebre e fece scivolare il palmo fino ai capelli, continuando a
sfregarlo sulla pelle. D'istinto, mi allungai per afferrargli il polso ed evitare che
si facesse del male.
Mi lanciò un'occhiataccia. «Puoi metterla come vuoi, bambolina, ma io so
già come andrà a finire questa storia».
«Non è giusto», biascicai, offesa nel midollo, e mi alzai in piedi, lasciandolo
lì sul letto. «Perché non puoi semplicemente fidarti ed essere felice per me?».
«Perché te ne andrai, Grace!», sbottò, terrorizzato, e indietreggiai al suo tono
di voce alto. «E di me non ne resterà più niente, hai capito? Niente. Ti
dimenticherai di me, capirai che io non ne valgo la pena e tornerò nel buio. E se
dovesse succederti qualcosa fuori di qui? Non potrei essere lì con te, e non potrei
mai sopportarlo».
Deragliò in profondità, si conficcò sotto la pelle e venne a reclamare le poche
briciole che ancora non gli avevo consegnato. Eppure, per qualche ragione, non
fu abbastanza.
Mi tremò la voce quando dissi: «Fidati di me, Michael. Ti ho fatto una
promessa, ricordi? Sempre tua. E questo non potrà mai cambiarlo niente e
nessuno».
Chiuse gli occhi di scatto, come se lo avessi appena colpito, e girò la testa.
Restai in attesa di una sua risposta che non arrivò mai.
Quello fece ancora più male della sua mancata emozione.
Feci a malapena in tempo a vederlo rannicchiarsi sul letto e darmi le spalle,
avvolto dai suoi così familiari fremiti, prima di tirare la maniglia e andarmene.
Te l'ho detto, Michael.
A volte l'amore si smarrisce in stupidi giri senza senso.
Trascorsero ore.
Le lacrime avevano lasciato il segno sul cuscino.
Margot aveva spento la mia sveglia, ma non ce n'era stato bisogno. Tanto non
avevo dormito.
Trascorsero giorni.
Io andai a scuola, senza che lui mi avesse augurato la buona fortuna, senza
che mi avesse detto che sarei stata bravissima.
Avevo cambiato il cuscino.
Trascorsero settimane.
Il cuore sanguinava, ma non piangevo più.
Mi feci degli amici.
Elisa sembrava simpatica.
Avevamo poco in comune, lei era più spigliata, ma mi faceva sentire al
sicuro la sua amicizia.
La St. Gerard era un bel posto.
E nessuno mi tirava i capelli, nessuno mi lanciava il cibo addosso, nessuno
mi dava del fantasma.
L'amore si addormenta, Michael.
Te l'aveva detto o no il Piccolo Principe che La Rosa va annaffiata ogni
giorno, sennò si spegne?
E se tornassi io, tu non capiresti.
Trascorse un mese.
Spille avvelenate mi trapassavano i polmoni.
Respirare era difficile.
Io ed Elisa eravamo diventate compagne di banco.
Lei mi reputava la sua migliore amica, e allora io reputavo lei la mia.
Trascorse un mese e un giorno.
Il cuscino era lindo.
Asciutto.
Ma sotto, mal custodito e stropicciato, tinteggiato d'un verde prato, diceva il
foglio...
MICHAEL
E per l'assurdo, lei che si era sempre convinta di averlo aspettato, lei che
aveva creduto di essere l'unica in attesa, non sapeva ancora quanto lui patisse
nella sofferenza più atroce.
Non lo sapeva come si frantumava dentro solo a guardarla. Proprio lui, che
era già rotto di suo.
Non lo sapeva che Michael, fautore di tragedie e ceneri fumanti, l'avrebbe
aspettata per una vita intera.
Nella tempesta e nel fuoco,
nel dolore e nella dolcezza,
nell'inizio e nella fine,
Michael sarebbe sempre stato lì,
passo dopo passo,
a porgerle la mano.
GRACE
E tornai.
QUINDICI
GRACE
Comprendo di avere di fronte un Michael diverso fin dal mio risveglio del
terzo giorno di prigionia.
Tanto per cominciare, si è cambiato. O meglio, ha tolto la maglietta e indossa
dei pantaloncini grigi che, a giudicare dal cartellino che ancora pende dalla tasca,
deve aver preso in prestito da qualche negozio.
Imponendomi di non fissargli il petto nudo, lancio un'occhiata circospetta al
congelatore bianco. Chissà che altro c’è lì dentro.
Finora l’ho visto estrarne solo cibo e acqua. Che vi siano dei cambi anche per
me? Qualche indizio su dove mi trovo?
Le mie congetture vengono archiviate bruscamente quando Michael, che io
ho avuto la prodezza di far incazzare, lancia un paio di boxer in mezzo alla
stanza.
«Ho pensato ti avrebbe fatto piacere prenderti anche il mio sperma, dopo
avermi ringraziato per così poco», prorompe, la voce ruvida di astio e sfida.
Michael non è di certo un agnellino indifeso, devo tenerlo bene a mente,
cazzo. E a quanto pare, non indossa nemmeno le mutande. D'altronde, l'elastico
dei pantaloncini è davvero basso.
Concentrandomi, potrei perfino contargli le vene che confluiscono verso il
basso.
Aggrotto le sopracciglia e mi abbraccio le ginocchia. «Sei disgustoso».
«Non la pensavi così ieri, quando mi gemevi in bocca e ti strusciavi sul mio
cazzo».
Sobbalzo, e non per quello che ha detto, ma per come suona la parola cazzo
detta da lui. Da Michael che non impreca mai con una tale volgarità.
Ma, come ho già detto, questa è un'altra versione di Michael. Più rancorosa,
più graffiata, più diabolica. E non saprei dire se mi ecciti o inquieti di più.
Sbuffo una risatina. «Vuoi che ti chieda scusa?».
«Io non voglio proprio niente da te».
Incasso il colpo tirando indietro la testa. Sta facendo sul serio? Cerca di
rendermi pan per focaccia per ferirmi? La cosa peggiore è che funziona.
Qualcosa dentro di me cigola.
Sbatto le ciglia, distolgo lo sguardo. «Allora non ha senso che tu mi abbia
portata qui».
«Infatti non deve avere senso per te. So io ciò che sto facendo». Si stiracchia,
da perfetto gatto selvatico, poi piega un ginocchio lasciando l'altra gamba stesa.
«Piuttosto, ho un paio di domande per te».
Stiamo sfiorando le soglie del ridicolo. Lui, il mio sequestratore, ha delle
domande per me.
Inarco le sopracciglia, scettica. «Scusami?».
«Quante volte hai pensato a me durante questi anni, bambolina?».
Ed eccolo. Vuole giocare a fare il manipolatore, Michael. Non è diverso, sta
soltanto tentando un altro schema, perché io ho stravolto quello originale.
Ormai ho imparato a stare al suo passo. Sollevo un angolo della bocca.
«Quasi quanto tu hai pensato a me».
«Tanto tempo, allora. Sì, ogni millesimo di secondo di sette anni lo considero
davvero tanto tempo. Tu no?».
«Tantissimo, Michael».
Non ho la minima idea di dove voglia andare a parare, motivo per cui
continuo a reggergli il gioco. Possono sembrare dolci parole le sue, ma dal tono
minaccioso e il sottinteso aspro, contornato dal sorrisetto freddo, comprendo che
ha tutt'altre intenzioni.
«Seconda domanda, Grace. Quanti ragazzi hai baciato?».
Un certo tepore si arrampica lungo il mio collo, la salivazione si riduce a
zero e le ginocchia diventano molli. Me lo ha appena chiesto per davvero o sto
immaginando tutto?
Apro e chiudo gli occhi per un paio di volte, ma lui rimane sempre lì, in
attesa di una risposta. E d'improvviso, l'idea che venga a sapere che ho avuto
delle avventure, l'ipotesi di farlo ingelosire, ingelosire, cazzo, mi fa battere il
cuore.
Sollevo il mento. «Quattro».
Non ho avuto chissà quante avventure nel corso della mia adolescenza,
eppure me ne vanto come se avessi limonato i fratelli Hemsworth.
«Quattro», ripete, schioccando la lingua sotto al palato, e il cuore di già
impazzito si impenna del tutto quando inizia a gattonare. «Bene, facciamo un
rapido calcolo. Uno sono io, un altro non rappresenta più alcun tipo di problema,
e ne rimangono due, bambolina». Si ferma di fianco al congelatore e raccoglie
qualcosa che dalla mia angolatura non posso vedere. «Chi sono?».
Mi agito. Che diavolo sta facendo? E cosa sta passando per quel suo cervello
malato?
«Non sono fatti tuoi!», scatto.
Riemerge dal congelatore con una bottiglia d'acqua più grande di quelle che
usiamo per bere, dei fazzoletti e una maglietta che dice I LOVE MONTEREY.
Nel pugno stringe altro, ma non riesco a capire cosa.
Spalanco gli occhi nel vederlo avvicinarsi a me.
«Certo che lo sono», borbotta. «Magari tu dimentichi le promesse che fai,
Grace, o semplicemente ti piace spezzarle, ma io no. Tu mia, io tuo. Quindi, sì,
se baci un altro ragazzo, per quanto mi riguarda, sono decisamente fatti miei».
«Smettila di dire che sono tua, Michael».
«E tu smettila di illuderti del contrario, bambolina».
A preoccuparmi davvero, è il modo in cui il mio corpo risponde alla sua
sottospecie di ringhio possessivo. Il respiro rimane incastrato in gola e le dita dei
piedi si arricciano, mentre lui, ormai a pochi centimetri da me, si sporge in avanti
per afferrarmi dalla gonna.
Spalanco le palpebre e poggio d'impulso le mani sulle sue. «Che stai
facendo?».
Mi porge la bottiglia d’acqua e apre una mano per mostrarmi cosa stava
stringendo. Un analgesico che conosco bene.
«Prendilo».
Mi paralizzo. «E perché?».
«Ne hai bisogno».
Non mi ricordo più come si faccia a respirare. «Michael».
«L’ho trovato nel tuo borsone. Se ti sei portata dietro tutte quelle confezioni,
un motivo ci sarà, quindi adesso prendilo e smettila di irrigidirti così tanto».
In rigoroso silenzio, soltanto perché ne ho sul serio bisogno, assumo
l’antidolorifico e per poco non mi strozzo con l’acqua quando le sue mani
tornano sotto la mia gonna.
«E ora che stai facendo?».
«Ti spoglio», sentenzia, poi con uno strattone, seguito dal rumore di uno
strappo, mi fa scivolare via il tessuto. «Ti pulisco un po'», aggiunge, servendosi
del mio shock per togliermi anche il top. «E poi ti bacio».
Basta la sua ultima affermazione per farmi riprendere. Drizzo a sedere
composta e lo spingo indietro. «Tu non farai proprio niente. Ti ho già detto che
non mi devi toccare!».
«Sì, prima di travolgermi e farmi venire nei pantaloni». Schiocca la lingua
sotto al palato, quindi scuote la testa e mi afferra dalle caviglie per separarmi le
gambe. «Comunque, non hai ancora risposto. Chi sono i tuoi due baci, Grace?».
Fingo di non averlo sentito e mi concentro su altro che non siano le sue mani
su di me. Mani che mi piace sentire, ma che fanno anche altrettanto male.
Lo scruto meglio. Passo in rassegna il suo fisico asciutto e longilineo, magro
ma non troppo; scolpito nell'alabastro, forgiato da clavicole spesse e spalle a cui
aggrapparsi.
Ciò che mi stupisce, però, è la totale assenza di sporcizia. Michael è pulito.
Quando si è lavato? Probabilmente mentre dormivo.
A bocca chiusa e stomaco in tumulto, lo osservo bagnare il fazzoletto d'acqua
e passarlo sui miei piedi, sulle caviglie, sui polpacci, a sopracciglia aggrottate e
labbra spremute dai denti.
E per qualche motivo, è tenero vederlo prendersi cura di me, nonostante
quello che gli ho fatto, nonostante sappia i problemi che gli crea venire toccato
da qualcuno.
Usa una delicatezza unica quando mi sfiora le croste, stando attento alle
piaghe. E lo vedo che prova dolore per me, per la mia pelle sensibile che è
sempre stata il mio tallone d’Achille.
Dio, sono stata proprio una stronza. E più mi sento in colpa per trattare
Michael in tal modo, più mi faccio schifo nei confronti di chiunque altro. Di
Denver, di Jonah, di Killian, di Margot, dei miei genitori.
Cosa penserebbe mia madre nel vedermi in questa situazione?
E quando penserai che sia un male, tu continua a fare del bene.
La sua voce rimbomba nei miei timpani, quasi fosse la sua risposta, mentre
Michael ripulisce gli aloni sulle mie cosce con estrema cura, privo di malizia,
tenendoci per davvero.
Vale anche lui in quel bene?
Posso far rientrare Michael nella bontà che credo di aver perso?
A discapito del tono di voce, delle frasi confezionate dal veleno e le battute
mirate, i suoi gesti gentili smentiscono tutto. E avrei potuto benissimo ripulirmi
da sola, eppure ha voluto farlo lui.
Tutto questo non è per niente d'aiuto alla mia salute mentale. E odio non
riuscire a odiarlo. Non per davvero, almeno.
Sta strofinando un nuovo fazzoletto sulla mia pancia, quando dico: «Erano
soltanto dei ragazzini della mia scuola. Volevo capire cosa si provasse a baciare
un ragazzo. Il primo tentativo fece schifo, un groviglio di saliva e troppa lingua.
Il secondo andò un po' meglio, ma comunque non mi fece provare niente».
Michael si irrigidisce e, per un momento, sfrega più forte sulla mia pelle,
lasciandomi una macchietta rossa. Se ne accorge subito, gli basta vedere la mia
smorfia, e tanto è sufficiente per fargli bloccare la mano.
«Scusami, non ti voler far male».
Per poco non mi metto a piangere. «Sto bene».
«Non è stato piacevole sentirtelo raccontare», deglutisce, gli tremano le dita,
e lascia cadere a terra il tovagliolo per grattarsi la mascella a scatti. «Ma mi hai
già spezzato in modi peggiori, quindi in fin dei conti questo è stato il male
minore».
È un riflesso: curvo gli angoli delle labbra all'ingiù e lo prendo dal polso, per
impedirgli di ferirsi il viso con le unghie. Non voglio che si ferisca
ulteriormente.
«Sono passati tanti anni, Michael, e io sono un’adolescente. Ho fatto le mie
esperienze, come qualsiasi altra ragazza. Non puoi farmi sentire in colpa anche
per questo».
«Anche? Per cos’altro ti senti in colpa?».
Per volerti così incredibilmente tanto.
Non rispondo, lui sospira.
«Anche in clinica c'erano delle ragazze, sai?», aggiunge, turbato, e distoglie
lo sguardo. «Tossicodipendenti o vittime di altri disturbi, ma comunque c'erano e
le ho rifiutate tutte. E non perché sono io, che vado nel panico quando qualcuno
prova anche solo a guardarmi, ma perché tu sei tu e non avrei mai permesso a
nessun'altra di prendersi qualcosa che ti è sempre appartenuto».
E magari sono più disturbata di lui, poiché il solo pensiero che qualcun’altra
possa baciare Michael, altre mani toccarlo... mi fa andare fuori di testa.
Siamo sempre stati io e lui. Solo noi due. Colmi di promesse mai mantenute,
di mani stretti al buio e la scoperta della banalità.
Io e Michael abbiamo cercato di scoprire cosa significasse essere bambini
insieme. Abbiamo fallito, più volte, ma ci abbiamo provato insieme. Almeno
finché non è andato tutto in malora.
Perciò immaginare una persona in grado di prendere il mio posto, sostituire
ciò che sono stata per lui... mi manca il respiro.
«Michael», sussurro, perdendo sempre di più il punto di vista iniziale. Inizio
a dimenticarmi la lista dei motivi per cui dovrei odiarlo. «Io... io non so
nemmeno se scusarmi sia corretto. Abbiamo fatto un gran casino entrambi, poi
tu mi hai chiusa qua sotto, ti rifiuti di dirmi il motivo e... e non riesco più a
capire cosa sia giusto o sbagliato. Che ti aspetti da me? Che vuoi che faccia?».
Sfila in fretta la mano della mia e indietreggia sulle ginocchia, portandosi i
polpastrelli fra i capelli. «Io non voglio niente da te, Grace. Perché ti rifiuti di
capirlo? Non voglio assolutamente niente da te. Sei tu che mi ferisci, mi baci, mi
fai del male, mi fai del bene. Sorridi, poi piangi. Urli, poi sussurri. Torni e te ne
vai. Aspetti e ti arrabbi. Io volevo solo che stessi bene e invece stai facendo di
tutto per farci a pezzi entrambi».
«Stai dando di matto, Michael. Non volevi niente da me? Mi hai rapita,
cazzo!», sbotto, seppellendo all'istante qualunque granulo di compassione. «E
non fai altro che ripetermi quello che provi per me, quasi dovesse bastarmi
questo per perdonarti di tutto e andare avanti, dimenticare qualsiasi cosa e vivere
la nostra vita insieme felici e contenti. Beh, notizia dell'ultimo momento, tesoro:
non funziona così!».
«Continuo a ripetertelo, perché tu continui a dimenticartene», infuria a denti
stretti, alzandosi in piedi nello stesso momento in cui lo faccio io, ancora in
intimo e alquanto incazzata. «Non pretendo che tu mi perdoni e vada avanti.
Sono il primo a non perdonarsi per quello che è successo, cosa credi? Nessuno ti
sta chiedendo di farlo!».
«Sì, invece. Lo stai facendo, altrimenti non staremmo nemmeno discutendo
adesso!».
«Io ci provo, okay? Ci provo sul serio a fare il meglio per te, Grace, ma se tu
la smettessi di remarmi contro e di confondermi ancora di più la testa, sarebbe
tutto più facile. Ma no, tu devi sempre incasinare tutto, perché ti piace, ti piace
da morire farmi sanguinare le ossa, ti piace sentire il rumore che fanno quando si
spezzano ogni volta che colpisci i miei punti deboli, soltanto per alleviare la tua
stupida coscienza!».
«Stai zitto!», urlo, al limite, e afferro la bottiglia per lanciargliela contro. È
aperta, quindi finisce solo per bagnarlo tutto. «Stai zitto, maledizione! Tu
ammazzi la gente, Michael, e io dovrei sentirmi in colpa per averti offeso?
Vaffanculo, razza di stronzo. E vaffanculo anche alla tregua che pensavo di poter
aver con te!».
I suoi occhi dardeggiano e la mandibola ha un guizzo cattivo, mentre le
narici si allargano per via dei respiri veloci. «No, vaffanculo tu, Grace. Avevi
promesso che non mi avresti mai lasciato, che non avresti mai permesso a
nessuno di portarti via da me», mi punta un dito contro. «E invece te ne sei
andata tu, e io ho trascorso gli ultimi sette anni, sette fottuti e lunghissimi anni,
in un maledetto istituto psichiatrico e nemmeno una misera volta hai ben pensato
di contattarmi o provare a guardare al di là del tuo naso!».
«Non ti azzardare a dare la colpa a me!», ringhio, avanzando a muso duro.
«Non ci provare, Michael!». Lo spingo, lui indietreggia, e io lo spingo, ancora e
ancora, fino a fargli sbattere la schiena contro la parete. «E non ti azzardare a
biasimarmi se ho provato a cancellarti dalla mia vita. Ti hanno rinchiuso perché
hai dei seri problemi che vanno curati, Michael. Mi hai capito? Io. Non c’entro.
Niente. Niente! E se proprio dobbiamo dirla tutta, nemmeno tu hai mai tentato
un contatto con me, quindi non osare addentrarti in questa strada perché me ne
vado fuori di testa!».
«Cosa? Cosa hai detto?! Mi sono preso una condanna a morte per correre da
te! Non ti sembra abbastanza?!».
«Mi sembra troppo, dal momento che nessuno te l’ha chiesto!»
«Bugiarda!».
Le mie mani si inumidiscono a contatto con il suo petto bagnato, e i polsi si
ustionano nel momento in cui le sue dita vi si avvolgono attorno in una brusca
stretta per allontanarmi da lui.
«Stai zitto!»
«Mi hai toccato, Grace», biascica, digrignando i denti a un soffio dal mio
volto. «E mi hai usato».
«E tu hai...»
«Mi hai usato!», sbraita, fuori di sé, rosso in volto e propenso a esplodere,
dandomi uno strattone all'indietro. «Ti ho permesso di toccarmi, Grace»,
infierisce, gli si rompe la voce, i denti serrati fra di loro. «Io ti ho permesso di
toccarmi e tu mi hai usato. Ti ho dato tutto ciò che ne restava di me e l'hai
calpestato come se non valesse niente. Eri l'unica, cazzo, l'unica a cui avrei
permesso di farlo, e tu hai distrutto tutto perché non potevi farne a meno». Mi
spinge all'indietro, impedendomi di sfiorarlo ancora e io traballo. «Ora quello
che non vuole più essere toccato sono io».
La mia rabbia si dissolve in un attimo, a fluttuare nell'aria sono solo le ceneri
e i brandelli delle mie emozioni che vogliono starsene pure loro con Michael e
lontano da me.
Mi si riempiono gli occhi di lacrime e allungo una mano d'istinto, ma la ritiro
subito indietro. «Michael, io…», non finisco la frase perché tossisco.
Ho urlato troppo.
Che cosa gli ho fatto?
«Vestiti e siediti, per favore. Non ti voglio più toccare, ma fallo».
«Michael, aspetta…»
«Non c’è più nulla da aspettare». Ridacchia senza divertimento e guarda
all'insù, scuotendo la testa. «Avevi ragione, sai? L'amore non finisce, Grace. No,
no, non lo fa», sbuffa, massacrandomi. «Ma proprio per niente. È senza fine.
Infinito. E non è quantificabile il dolore che può provocare. Però può cambiare
forma, può perdere colore, incattivirsi e diventare soltanto deludente. Perché, a
quanto pare, non tutti gli amori sono rose rosse».
E io resto senza fiato, precipitando in uno sconforto privo di eguali.
Chiedendomi cosa posso fare per rimettere in sesto il mio cuore e
riprendermi il suo fra le mani, che mi manca di già.
Che stiamo combinando, Michael?
In quale giro senza senso ci siamo persi, stavolta?
E dimmi la strada da percorrere, per favore, che io non so più qual sia.
Esausta, crollo a terra e stavolta lui non mi chiede se sto bene.
SEDICI
GRACE
Grace: 11 anni.
Michael: 15 anni.
GRACE
Lo guardo, immobile e statica come solo chi si è sentita strappare via il cuore
può fare. Come può fare solo chi si è appena sentita scivolare via fra le dita
l'essenza della vita.
Mi hai usato.
Sì, l'ho fatto. Mi sono presa ciò che volevo, senza badare alle conseguenze,
accesa da un odio viscerale derivato da me che, alla fine, non riesco a odiarlo per
davvero. L'ho fatto e subito dopo mi sono resa conto di aver usato non solo lui,
ma anche me stessa.
L'ho fatto, e ho capito di avere davanti il mio Michael.
Michael che anche mentre crolla si assicura che io resti in piedi.
Come si fa a sopravvivere a questo? Come si fa a odiare una persona che ti
ama in questo modo?
Odi te stesso e ami quella persona.
E allora lo guardo, e lo guardo, imprimendomi la sua figura addosso,
scivolando su quel ragazzo intrappolato in orrori che nemmeno posso
immaginare. Sprofondato in una spirale di crudeltà che non conosco. E ce l'ho
spinto io laggiù. Ancora una volta.
Perché non riesco ad accettare ciò che ho fatto.
Anche se, fuggendo per vie traverse, alla resa dei conti non è colpa sua. E lo
so bene, ne sono perfettamente conscia; lui funziona in maniera diversa, Michael
non è normale e tutti quanti ci ostiniamo a pretendere che invece si comporti da
tale, anziché aiutarlo e comprenderlo.
Ma, maledizione, come posso farmi scivolare addosso con tanta facilità
determinate cose?
Non si tratta di incidenti, lui ha agito intenzionalmente. Sebbene dubito che
sia perfettamente capace di intendere e di volere.
Sta tutto lì, in quei meccanismi e punti di fuga che si accavallano fra loro.
Fin dove può arrivare la mia morale? Fin dove posso spingerla a ricoprire il mio
egoismo?
Ho trascorso gli ultimi sette anni a ripetermi che lo detesto, che è un mostro,
che non merita nulla se non il mio disprezzo.
Mi sono preparata, illusa di potercela fare a contrastarlo, conscia del potere
che ha sempre esercitato su di me, ma mi è bastato ritrovarmelo davanti per
ribaltare tutto. Per farmi capire quanto sia stata un'idiota a credere di potercela
fare, di soffocare il legame che ci unisce; a spegnere le mie emozioni.
E lui se ne sta là, davanti a me, tutto accovacciato e stretto a sé stesso, col
viso stravolto dalla sofferenza, gli occhi persi nel vuoto dell'isteria e il respiro
ridotto all'osso. Dondola, a denti stretti, e bisbiglia strane parole a bassa voce,
pregando di smetterla.
«Basta, basta», sussurra senza fiato. «Lasciatemi stare, basta. Basta!».
Strizza gli occhi, dondola e dondola.
Non tutti gli amori sono rose rosse.
No, in pochi lo sono.
Ma l'ha detto: l'amore non finisce.
Sì, può cambiare forma, può diventare di un colore più tetro e rompersi in
mille pezzi diversi. Può voltare la faccia, l'amore.
Però non finisce.
Anche se fa male, non finisce. Non lo fa mai.
Mentre Michael continua a blaterare, a farfugliare a persone invisibili di
lasciarlo in pace, a supplicare a voci inesistenti di non fare così tanto rumore, che
lui non ce la fa più, una lacrima mi riga la guancia. Lo fa per lui, che non sa
piangere.
Ne scende un'altra. Muta dalla rassegnazione.
Ginocchio dopo ginocchio, il tempo messo da parte insieme alla realtà, mi
muovo. Col terrore in gola, avanzo, andando a rincollare quei pezzi che si sono
dispersi, dimentica della partita in atto, mettendo un time out di cui abbiamo un
disperato bisogno.
Mi fermo davanti a lui. Non mi vede, ma non importa.
«Michael», sussurro, intrisa di amarezza e angoscia. «Michael, guardami».
Ora quello che non vuole più essere toccato sono io, rimbomba come un
tuono nelle mie tempie.
Perciò non lo faccio. Anche se vorrei, da morire.
Vorrei soffiargli il mio respiro sulla pelle, per ricordargli che, a prescindere
dal resto, io sono qua. Io ci sono.
Ma lo rispetto.
«Michael», mi si incrina la voce. «Per favore, lo so che ti ho fatto male e ho
sbagliato. Ma smettila di ascoltarli, torna indietro. Chiudi quella porta».
Le sue dita spuntano fra i capelli, quando strizza le palpebre per estraniarsi
dalle allucinazioni. «Io... non voglio», bisbiglia fra i denti. «Non voglio andare».
«Non andiamo da nessuna parte, te lo giuro. Restiamo qui, al sicuro, solo io e
te. Ricordi, Michael? Solo io e te».
È un piagnucolio straziante: «Per favore, basta. Per favore…».
Mi mordo il labbro inferiore fino a farlo sanguinare, trattenendo un
singhiozzo. «È tutto finito. Ascolta la mia voce, Michael. Sei al sicuro, va tutto
bene. Non c'è nessuno qui che possa farti dal male, okay? Sei al sicuro e noi non
ci muoveremo da qui».
E non te ne farò più nemmeno io, promesso.
Che l’ho capito che a farti male, mi faccio male pure io.
È successo tutto all'improvviso. Noi che ci urlavamo contro, lui che moriva
dentro a ogni mia parola, io che soffocavo nella negazione, e poi Michael a terra
a sprofondare negli abissi.
Non posso lasciarlo da solo. Non posso permettere che venga risucchiato dal
buio. Non per colpa mia.
Sono stanca di combatterlo. Sono arrivata allo stremo.
E quando biascica d'urgenza: «Trentasette, trentasette Michael Baker», prima
di sobbalzare e prendere a sfregarsi la pelle, quasi volesse togliersela di dosso,
non sono più in grado di trattenermi.
Spalanco gli occhi e lo aggancio dai polsi, impedendogli di farsi del male,
cercando di trattenerlo per quanto posso.
«Lasciami», ansima, le pupille fisse sulle mani. «Lasciami, lasciami».
«No, ascolta...»
«Non capisci! Lasciami! Devo toglierli via, solo così smetteranno di fare
male. Io devo...»
«Tu devi tornare in te», punto, decisa, stringendo la presa e avvicinando a me
i suoi polsi. Lui segue l'azione, finisce nei miei occhi. «Non ti lascio, Michael.
Sentimi, cazzo. Senti me. Mi dispiace per quello che ho fatto. Mi dispiace che tu
non sia stato il mio primo bacio. Mi dispiace per gli anni che hai dovuto passare
rinchiuso in uno stupido istituto psichiatrico. Ma, soprattutto, mi dispiace per
averti spezzato in tanti modi diversi e non averlo nemmeno capito».
Le sue ciglia sfarfallano. Più vado avanti, come un treno in corsa, più lui
torna a contatto con la realtà. La lucidità inizia a macchiargli le iridi spente, il
fiato è ancora agitato, ma il suo tremore è diminuito.
Non mi fermo. Intreccio le nostre dita. Si incastrano alla perfezione,
privandomi di un battito.
«Lo so che la tua testa va più veloce della mia. Mentre io sono ancora ferma
alla partenza, tu sei già arrivato a destinazione, perciò devi darmi un po' di tempo
per riuscire a capirti. Anche se dubito che ci riuscirò mai per davvero».
Schiude le labbra. «Grace...»
«Sì», mormoro, abbozzando un sorriso che lui va a tastare con i polpastrelli.
«Sono Grace e tu sei Michael. Noi siamo Grace e Michael, chiaro? Siamo
sempre noi, come hai detto tu l'altro giorno. Ogni tanto me lo dimentico, perché
è più comodo così e starti accanto non è facile, lo sappiamo entrambi. E hai
ragione, noi non siamo rose rosse. Noi siamo noi». Lo afferro dal viso. «Ci
fondiamo, ci plasmiamo, ci odiamo, ci amiamo. Distruggiamo e creiamo. Ma io
tua, tu mio, Michael, in qualsiasi circostanza».
Chiude e apre le palpebre un paio di volte, studiandomi a fondo, confuso da
ciò che gli sto dicendo.
Perché non si è visto con i miei occhi. Non si è visto sgretolarsi, briciola
dopo briciola.
Perché non è stato lui a romperlo, a spingerlo nel baratro.
Scuote la testa, a sopracciglia aggrottate. «Che dici? Per favore, Grace, non
confondermi di nuovo la testa. Non mi illudere, è già difficile così per me».
«Hai ragione. Ti ho detto cose orribili, e forse te ne dirò ancora perché sono
spaventata a morte, Michael. Sono terrorizzata da quello che provo per te». A
retine lucide, gli avvolgo il viso tra i miei palmi. «È vero, mi hai rapita e
commesso azioni deplorevoli, ma sei la stessa persona che quando avevo dieci
anni ha imparato a scrivere solo per scrivermi una lettera e che mi ha abbracciata
quando il mondo fuori mi aveva masticata e sputata a terra. E certe cose, per
quanto uno possa sforzarsi, non si possono dimenticare».
Michael sospira, frastornato dal magma di emozioni che gli sto rovesciando
addosso. Gli sto ancora una volta mandando in poltiglia il cervello, ma almeno
ha smesso di ascoltare le sue voci.
Adesso sta ascoltando me.
«Mi farai del male», mormora, piegando gli angoli della bocca all'ingiù. «E
io te lo lascerò fare, perché si tratta di te. E allora mi farai sempre del male».
Possono poche parole messe insieme provocare tante lacrime?
A lui riesce così facile farlo.
Piango sui suoi polsi, gli lavo via la sofferenza con la mia.
«Me ne hai fatto anche tu».
«Non volevo».
«Lo so», sussurro.
«Tu invece volevi, Grace», soffia, abbassando il mento e scrollandosi via il
mio tocco. «E va bene. Non sono arrabbiato con te. Non potrei mai esserlo. Ma
se puoi farne a meno, ti prego, non spezzarmi ancora. Fermati qui».
Avverto un senso di smarrimento mai provato prima, nemmeno durante
quella notte, quando tutto si capovolse. Nemmeno quando lo avevano portato
via, in manette, pronto a essere giudicato.
Nemmeno in sette anni lontani.
Michael sposta lo sguardo, incapace di guardarmi in faccia, e io annaspo alla
ricerca di ossigeno. Sento un buco scavarmi il petto, frugarmi tra le costole alla
ricerca del cuore.
Ma non c’è più. Non c’è più niente. Se l'è preso lui, per riallacciarlo al mio
bellissimo pezzo di cuore rimasto che tiene custodito chissà da qualche parte.
Indietreggio, mi sbilancio all'indietro e scivolo a sedere.«Ti ho scritto delle
lettere», confesso.
Lui si blocca, preso in contro piede. «Cosa?».
«Ti ho scritto delle lettere», ripeto. «Ogni volta che mi mancavi, ogni volta
che mi succedeva qualcosa di importante, ogni volta che l’odio si affievoliva, io
ti scrivevo. Non so perché, se sentissi questo gran bisogno, ma dovevo farlo. E
un po’ mi pento di non avertele spedite tutte, perché si sa che siamo sempre più
bravi a scrivere che a parlare. Che se ti dico una frase sbagliata, non la posso
cancellare purtroppo, però posso dirti che mi dispiace».
Stavolta si lascia toccare, mi permette di sfiorarlo. Gli accarezzo il viso,
strofino i polpastrelli sulle sue guance, sugli zigomi affilati e accolgo il calore
nel momento in cui si abbandona al mio palmo.
«Perché me lo stai dicendo?».
«Perché ho visto cadere e mi sono resa conto di volerti rialzare».
«Ne sei sicura?».
«No. Non so niente, Michael», annuncio. «Ho perso la strada. Non so che
percorso prendere e voglio che mi aiuti a trovarla. Voglio che tu mi riporti a
casa».
Sbatte le ciglia lunghe, le labbra gli fremono e gliele strofino con il pollice,
di cui bacia la punta mandandomi in cortocircuito.
«Non usarmi più», tremola, afferrandomi dai capelli, le sue dita si impigliano
fra le ciocche bianche e io gli finisco addosso. «Se vuoi odiarmi, dimmelo.
Picchiami, urlami contro, insultami, non parlarmi più. Ma non usarmi, Grace».
Faccio scivolare le mani fino alle sue spalle nude, avvolgo la freddezza della
sua pelle mentre la maglietta che indosso si solleva sulle cosce. Gli avvolgo i
fianchi con le mie ginocchia, sedendomi sul suo bacino.
«Va bene». Premo le unghie nelle sue scapole disegnate. «Te lo prometto».
«Non promettere. Non le sai mantenere le promesse».
Ingoio il rospo e accetto la stilettata. Me la merito. Lui ci ha rotti, ma io non
ho fatto nulla per aggiustarci.
Le mani di Michael scorrono sulla mia schiena, attraversano i fianchi e si
fermano sulle anche, a palmi aperti, tenendomi lì. Rabbrividisco, se ne accorge e
i lineamenti rigidi si ammorbidiscono.
«Forse non hai ben capito», sibilo, prendendolo dalla nuca. Gli parlo sulle
labbra, naso a naso: «Io sono qui».
Gli si dilatano le pupille, ingorde di potermi racchiudere tutta, e serra le dita,
l'indice si conficca nel mio inguine, proprio nella congiunzione della coscia,
facendomi ansimare sulla sua bocca.
«Anche se ti ho rapita?».
«In questo momento non me ne frega un cazzo».
«E quando invece ti importerà?».
«Allora ci penseremo».
Irrigidisce la mandibola, tagliente quanto una lama. «Egoista».
«Sì». Affondo i denti nel suo labbro inferiore, lo tiro in uno schiocco, mentre
lui piega le ginocchia per farmi appoggiare la schiena. Il mio sesso preme sul
suo, e un ringhio vibra dal suo petto. «Ma sono sicura che quando mi rivelerai il
motivo, nulla avrà più importanza, Michael, e io mi pentirò di aver sprecato il
nostro tempo».
Perché la verità è che due come noi non hanno futuro, e il tempo non sarà
mai dalla nostra parte. E a tale realizzazione, passa tutto in secondo piano.
Ci siamo solo noi.
Soltanto io e Michael.
«Hai ragione», contempla, stritolandomi il bacino tra le sue mani,
muovendomi sul suo corpo coperto solo da quei maledetti pantaloncini. «Nulla
avrà più importanza, dopo. Se non te. Tu sei stata e sarai sempre più importante
di tutto, bambolina».
Gli sfioro l'addome, seguo le linee che lambiscono il ventre piatto, la leggera
peluria bionda che parte dall'ombelico e finisce giù, sicché gli schiocco un
rumoroso bacio sulla mascella.
«Ti sto toccando, Michael», mormoro, gli bacio la guancia. «E non per
usarti».
«Già», deglutisce sotto le mie labbra. «Hai di nuovo stravolto tutto».
«Non mi scuserò per questo».
«Non farmene pentire».
«Vuoi che ci andiamo più piano?». Sollevo gli occhi su di lui.
«No», fiata, portando i pollici sul mio inguine, strofinandoli in ambo i lati. E
sono creta fra le sue mani, destinata a farmi levigare. «Voglio solo che te ne
importi abbastanza da ricordartene».
E ora potrei dirgli che anche lui, per me, è sempre venuto al di sopra di
qualsiasi altra cosa; che è stato il magnete attorno a cui ho gravitato per anni.
Potrei ricordargli quanto l'amore si ingarbugli nei suoi strani intrecci e che
perdersi vuol dire anche ritrovarsi.
Invece, gli ordino un chiaro: «Chiedimi di che cosa sanno le mie lacrime».
Ingoia un respiro tremante. «Di cosa sanno le tue lacrime, bambolina?».
«Di ferro e fuoco, Michael».
Non so chi dà inizio alla danza. Fatto sta che le nostre bocche si incontrano a
metà strada, rimettendo a posto i pezzi di noi che davamo per dispersi ormai.
DICIOTTO
GRACE
Grace: 11 anni.
Michael: 15 anni.
GRACE
GRACE
Grace: 11 anni.
Michael: 15 anni.
«Sono passate tre settimane. Non sei tornata per ventuno giorni», fu la prima
cosa che mi disse Michael, non appena varcai la soglia della sua camera
solitaria. «Ho fatto qualcosa di sbagliato? Sei stata male?».
Schiusi le labbra, con la sorpresa ad allargarmi gli occhi e brutti tentacoli che
cominciavano a insidiarsi nello stomaco.
Aveva ragione. Erano passati ventuno giorni dall'ultima volta che ci eravamo
visti, da quando avevo appreso la verità e lo avevo sentito sgretolarsi nel mio
abbraccio.
Lo guardai scuotere il capo, privarmi delle sue iridi trasparenti, troppo
impegnate a puntare gli scacchi con cui stava giocando... da solo.
Deglutii il magone, le dita serrate attorno alla maniglia della porta ancora
aperta, mentre le gambe tremavano dal senso di colpa e dal dispiacere.
«Mi dispiace», mormorai. «Io... sono stata impegnata».
Michael sollevò le spalle, consapevole della mia bugia e della barriera che si
stava innalzando tra di noi, e si limitò a sospirare un fragile: «Va bene, non fa
niente».
Poi aggrottò le sopracciglia, infilò la punta della lingua tra i denti e mosse un
pedone, come se non fossi lì, come se non lo stessi pregando in silenzio di
perdonarmi.
Perché... perché il mio problema era che avevo paura. Una tremenda paura.
Ma non di lui.
Io avevo paura di me, della facilità con cui mi lasciavo scivolare addosso
qualunque sua azione, del senso di appartenenza che nutrivo nei suoi confronti e
che mi impediva di essere lucida, oggettiva.
Avevo paura di Miss Caroline che voleva dividerci, del dolore dilaniante che
mi provocava la sua assenza.
Perché se mi importava troppo di Michael, allora non me ne fregava niente
del resto, di niente che non fosse lui. E questo era spaventoso.
Perciò avevo provato, io ci avevo provato davvero a stargli lontana, a issare
una trincea dietro cui ripararmi. Ma a che servono muri quando il proiettile ce
l'hai già nel cuore?
«Per farmi perdonare ti ho portato una cosa», annunciai e, facendomi
coraggio, avanzai nella sua direzione.
Piegò il collo, mi lanciò una rapida occhiata incuriosita, e lo presi come un
invito a continuare e ad accomodarmi. Mi sedetti sul letto, dall'altro lato della
scacchiera, e analizzai la situazione.
Dirigeva i bianchi, che avevano aperto con un Gambetto di Donna, e mi
sbrigai a rispondere con un pedone. Giocai al suo stesso gioco, ricominciai a
camminare prima di mettermi a correre.
«Quale cosa?», domandò alla fine, riportando le pupille sul mio volto.
«Okay, ne sono due, in realtà». Infilai una mano in tasca e ne estrassi un
pezzo di liquirizia. «Questa è la prima e possiamo mangiarla ora, mentre
giochiamo».
Arricciò la bocca di lato, mentre osservava lo strano bastoncino che divisi a
metà strappandone un morso. Gli porsi la sua stecca e lui l'accettò senza fiatare.
L'annusò, e a me scappò una risatina. Era sempre così tenero e dolce con me,
nonostante checché se ne dicessero.
«Sei sicura che sia commestibile?».
«Certo che lo sono. È liquirizia, Michael. Assaggia, avanti. Non te ne
pentirai».
Seppur incerto, avvolse il bastoncino con la lingua, prima di incastrarlo fra i
denti. Masticò per un paio di secondi, sotto il mio sguardo pieno d'aspettativa, e
quando fece una smorfia inasprita, a naso arricciato e occhi strizzati, scoppiai a
ridere.
«Non mi piace», mugugnò, restituendomi la liquirizia restante. «Non devo
mangiarla per forza, vero? No, perché è terribile».
«Eresia. Non sai quello che dici!».
«Preferisco di gran lunga la cioccolata».
Roteai gli occhi, sbuffando. «Non puoi sul serio fare questo paragone,
Michael. È come dire che l'oro vale più del bronzo, è scontato».
«Quindi stai ammettendo anche tu che la liquirizia è disgustosa».
«Addirittura?».
«Mi provoca il voltastomaco».
«Da quando sei così melodrammatico?».
Si morse il labbro inferiore, incurante del mio batticuore forsennato, un
maratoneta sulla Route 66, sul punto di cedere dinnanzi a tale meraviglia.
Perché era pura meraviglia. Non avevo altre parole per descrivere il sorriso
che esprimevano i suoi occhi brillanti. La bocca era chiusa, ma quelle iridi...
Dio, quelle iridi.
«Lasciamo perdere», dichiarò, spostando la torre sulla scacchiera.
Aveva appena mangiato il mio alfiere, ma così facendo fui costretta a
muovere la regina per prendergli la pedina. Dannazione, era impossibile giocare
con lui. Vinceva sempre.
«Qual è l'altra cosa?».
Lo fissai da sotto le ciglia, permisi alla sua voce calda e soffice di riempirmi,
di scaldarmi la pelle — balsamo di tutte le mie sofferenze.
«Finiamo la partita e ti faccio vedere».
Inarcò un sopracciglio, di un biondo più scuro rispetto ai capelli, e la sfida
marcata nel mento aguzzo sollevato mi fece fremere sul posto. Raddrizzai la
schiena.
«Okay».
E con due semplici mosse fece scacco matto.
Due.
Cristo.
Non avevo idea da dove avesse imparato a giocare in quel modo, ma temevo
che tirare fuori l'argomento potesse irritarlo. E sapevo bene cosa succedeva
quando Michael si irritava. Meglio evitare.
Forse un giorno mi avrebbe raccontato tutto di sua spontanea volontà. Non
dovevo mettergli fretta, dovevo solo accettarlo così com'era.
E poi era talmente sereno dopo il breve scambio che c'era stato tra di noi,
come se gli fosse bastato così poco per sentirsi bene. In pace. Mezzo bastoncino
di liquirizia.
Per acquietare le sue nubi grigie era stato sufficiente mezzo bastoncino di
liquirizia. Assurdo. E triste.
Non potevo sopportare una simile afflizione, ciononostante ci sfiorammo le
dita nel rimettere a posto la scacchiera; le nostre mani si scontrarono, palmi su
dorsi e vene che combaciavano.
Ogni tanto le falangi si incastravano e separarle era sempre più difficile.
Volevano restare insieme, due calamite indissolubili.
«Vieni qui, ti faccio un po' di carezze». Senza aggiungere altro, chiuse la
mano a pugno attorno al mio colletto per attirarmi al suo petto. «E, per favore,
non ti agitare. Ti ho già detto che non ti farei mai del male, che non devi mai
aver paura tu con me. Hai capito?».
Boccheggiai per un attimo, neppure mi ero resa conto di come mi fossi
irrigidita al suo tocco improvviso, e obbligai i miei muscoli a stendersi. Mi
rilassai tra le sue braccia, ma forse non lo feci abbastanza perché lui sospirò con
sconforto tra i miei capelli.
Non lo facevo di proposito. Succedeva e basta. Sapevo che non mi avrebbe
mai neppure sfiorata con un solo dito, che se io sentivo un senso di
appartenenza, allora Michael mi reputava il centro pulsante della sua esistenza.
Ero tutto ciò che aveva, l'unico scorcio di luce, l'unica porta della sua camera
buia. Oltre me, non aveva nulla. Probabilmente neppure se stesso.
Perciò no, Michael non mi avrebbe mai fatto del male. Almeno su quello, ne
ero certa. Era la mia sola sicurezza, la speranza a cui aggrapparmi, una via
d'uscita al casino aggrovigliato che eravamo.
E quando Michael cominciò a districarmi i capelli, a massaggiarmi la cute,
soffiarmi sulle guance e baciarmi le tempie, finalmente mi lasciai andare e
cancellai dal cervello tutto. Qualsiasi cosa.
Azzerai il tempo. C'eravamo soltanto noi. Il resto lo lasciai fuori.
«Hai capito?», ripetè tra la filigrana, le labbra strusciarono sullo zigomo per
stamparmi un dolce bacio.
Chiusi gli occhi. «Lo so, Michael, lo so».
«Bene». Caldi polpastrelli mi sfiorarono l'orlo della gonna scozzese, e il suo
torace vibrò sotto la mia schiena. «Dove sei andata vestita cosi?».
«Pranzo di classe, per la fine dell'anno».
«E c'era il tuo amico?».
Ridacchiai e mi accoccolai ancora di più contro il suo petto. Le sue braccia si
serrarono con maggiore forza attorno al mio corpo, le vene bluastre gli
scolpivano la pelle d'avorio.
«Sì, c'erano anche i miei amici. Abbiamo mangiato, chiacchierato, ci siamo
divertiti», gli raccontai, beata delle sue carezze delicate. «E ci siamo scambiati
alcuni regali. Io, per esempio, ho portato un paio di libri e spero vivamente che
Miss Caroline non si accorga delle mancanze in biblioteca».
Michael mi baciò la testa, per comunicarmi che era divertito e che avrebbe
mantenuto il segreto.
«Ma, comunque, questo non ha importanza. La mia spiegazione mi serviva
solo per arrivare al secondo punto della giornata, all'altra cosa che ti ho portato.
Elisa mi ha dato questo». Dalla tasca destra estrassi il vecchio iPod rosa, le
cuffie ancora collegate. «Ti piace la musica?».
«Sì, mi piace molto. Da bambino ascoltavo spesso Chopin e Schubert mentre
giocavo a scacchi. In cantina avevo un giradischi bellissimo con tutti i loro brani
migliori», rivelò e per un momento restai sconvolta nel sentirlo parlare della sua
vita.
Assimilai ogni dettaglio possibile. Michael ascoltava musica classica.
Michael giocava nella sua cantina. Era da lì che non voleva mai uscire? O
magari lo chiudevano laggiù i suoi genitori e ormai si era adattato a vivere così?
Mi morsi la lingua, evitando di porgere domande indiscrete, e sorvolai. Feci
finta che non mi avesse sorpresa sentirlo parlare, che fosse una conversazione
del tutto normale, e alzai le spalle, srotolando le cuffiette.
«Adesso ti faccio ascoltare una canzone, ma ti avverto: non c'è alcun
pianoforte. O, meglio, c'è, però non come sei abituato tu».
«Che canzone?».
«La nostra».
Prima che potesse aggiungere altro, gli ficcai l'auricolare nell'orecchio e io
misi l'altro, poi feci partire l'audio scaricato.
Alle prime note Michael sobbalzò, sorpreso dal suono che gli scivolava
direttamente nel timpano, ma ben presto la melodia malinconica e triste lo
sciolse in una sinfonia di tratti delicati e abbracci morbidi.
Lui stette attento a ogni parola, a ogni sillaba che sembrava essere stata
scritta apposta per noi.
Queste ferite sembrano non guarire
Questo dolore è troppo reale
C'è semplicemente troppo che
il tempo non può cancellare
Gli carezzai le mani in punta di dita, col suo respiro fluido e caloroso a
rosolarmi nell'incavo del collo. Michael schiacciò la faccia contro la mia pelle e
io sollevai la mano per toccargli i capelli.
Quando hai pianto ho asciugato
tutte le tue lacrime
Quando hai urlato ho combattuto
tutte le tue paure
My Immortal continuò a risuonare dentro di noi, che ci lasciammo cullare
dalla dolce armonia. Avevo la gola chiusa. Sì, era decisamente la nostra canzone.
Ho tenuto la tua mano durante
tutti questi anni
Ma tu hai ancora
tutto di me
«Tutto di me», sentii ripetere al mio orecchio.
E quando finì, Michael mi chiese di rimetterla. Ancora e ancora.
Finché non decise che poteva andare bene, e che aveva bisogno di andare
oltre, di scoprire la verità.
«Prima mi hai mentito», disse, togliendosi l'auricolare e cercando il mio
sguardo. «Non sei stata davvero impegnata. Quindi, perché non sei venuta da
me? Sii sincera, bambolina, per favore».
Morsi l'angolo della bocca. Non potevo dirgli tutto, non potevo inculcargli
nella testa ulteriori pensieri negativi o dubbi sul nostro rapporto, perciò optai per
una mezza verità.
«La direttrice ci ha scoperti, Michael. Dobbiamo stare più attenti, altrimenti
manderà via uno di noi due e non... non possiamo. Non possiamo, okay?
Dobbiamo stare insieme, io e te. Non esiste che ci separino».
Lui aggrottò le sopracciglia, una punta di fastidio a imbrattargli i lineamenti
disegnati. «No, non esiste assolutamente. Non ci dividerà mai nessuno, Grace.
Promesso. Ti ha minacciata?».
«Mi ha detto che devo starti lontana e che, se non lo faccio, mi spediranno
altrove. O lo faranno con te».
«Nient'altro?».
«No, mi ha messa in punizione, ma quello non ha nulla a che fare con te».
Mi lanciò uno sguardo severo. «Tu e le punizioni siete una cosa sola, tanto».
«Sì, immagino si possa dire anche così».
Ridacchiai e lo abbracciai di nuovo. Lui ricambiò più forte, prese un
profondo respiro, quasi stesse inalando il mio odore per tenerselo nei polmoni
più a lungo che poteva.
«Già, solo... fa' attenzione, d'accordo? Non metterti troppo nei guai».
«Nooo», cantilenai, divertita. «Puoi stare tranquillo».
Mi baciò la punta del naso, che io arricciai, e poi me la mordicchiò
dolcemente.
Continuammo a punzecchiarci così per un po'. Tra carezze, musica, frasi
scarne e parole premurose.
Ma, alla fine, come sempre dovetti andarmene. Gli lasciai l'iPod, per fargli
ascoltare anche altre canzoni che Elisa si era premurata di scaricare per me, e
sgattaiolai via.
Anche se non me ne importava nulla di Miss Caroline, non volevo che
accadesse qualcosa a Michael, perciò mi premurai di fare attenzione tra un
corridoio e l'altro.
Ignorai bellamente Killian, decorato da un piercing nuovo al labbro inferiore
e cresta bionda fresca di ossigenatura, e Jonah con il suo collo taurino, le
occhiaie e le retine più rosse del fuoco. Se ne stavano entrambi in piedi a
ridacchiare, appoggiati alla parete e a palpebre spalancate.
Erano nel mio dormitorio, quello femminile, e nel corridoio della mia stanza.
Probabilmente stavano aspettando Margot.
Feci finta di niente quando mi richiamarono. Scansai via le loro mani che
provarono a toccarmi per attirare la mia attenzione.
«E levatevi», sbuffai, scontrosa.
«Scappa finché puoi, bella, ma giovedì non ci puoi scappare», ghignò Jonah.
A quindici anni, aveva di già i denti ingialliti dal fumo. Faceva ribrezzo.
E giovedì sarebbe arrivato il famigerato Ringraziamento.
Killian rise. «Almeno ce l'hai avuto il ciclo, bamboccia?».
Aprii la porta della mia stanza. «Ma vaffanculo», borbottai e li chiusi fuori,
tirando con forza la maniglia.
Il rumore brusco prese alla sprovvista Margot, che sobbalzò e mandò all'aria
un po' di polvere.
La vidi sbiancare, i suoi capelli mi sembravano addirittura più flosci e spenti
del solito. E alla vista del disastro, il mento prese a tremarle.
Nel frattempo, incuriosita, mi chinai per raccogliere da terra la bustina di
plastica. Era simile a quella che le era caduta una volta fuori dall'ufficio della
direttrice. Conteneva delle pasticche bianche.
Gliela sventolai sotto al naso. «Cos'è?».
Impiegò un secondo di troppo per riscuotersi, si passò le dita sotto le narici
arrossate e mi strappò via il sacchetto. «Fatti i cazzi tuoi», ringhiò.
«È droga?».
«Cosa non capisci di fatti i cazzi tuoi?».
Incrociai le braccia al petto. «E che droga è?».
«Grace, giuro che se non chiudi quella bocca, io...»
«Cocaina?».
Spalancò le palpebre. «Ti ammazzo. Giuro che ti ammazzo. Sta' zitta!».
«Eroina?». La squadrai. «Mh, no, non credo. Avanti, aiutami, non sono
ferrata in queste cose. Lo sai».
«Io so solo che se non la smetti all'istante, ti ficco tutte queste pasticche in
gola».
«Allettante». Assottigliai le palpebre. «Chissà come la pensa Miss Caroline.
Credo che andrò a chiederglielo. Proprio adesso».
In un attimo Margot scattò come una molla, si avventò su di me e andammo
a sbattere contro la parete. La mia nuca ebbe uno schianto, finii per vedere le
stelle.
«Tu provaci, razza di stronza. Provaci!», sibilò, mettendomi una mano al
collo.
Di contro, sollevai un ginocchio e la presi in piena pancia, facendola piegare
in avanti e mugolare dal dolore.
«Brutto quando qualcuno fa la spia, vero?», sbottai e la spinsi indietro.
«Aspetta di vedere quanto sarà brutta la tua faccia quando avrò finito con te,
invece!».
Fece per aggredirmi di nuovo, ma un urlo seguito da un rumore pesante,
proveniente dall'esterno, ci fece arrestare.
E l'istante dopo fu solo confusione. Scattammo nel corridoio, ci ritrovammo
ammassate tra tutti gli altri ragazzi; una valanga umana che fluì fino alla
scalinata centrale, dove quel legno pregiato e scuro svettava dominante.
E alla base di quella scalinata, ansimante in una pozza di sangue, con la
caviglia destra piegata in un modo raccapricciante, c'era la direttrice Caroline.
Miss Eleonor e altri educatori l’accerchiavano in attesa dell’ambulanza.
«È caduta dalle scale!», bisbigliavano attorno a me. «Quella vecchiaccia è
inciampata. Finalmente si toglie dalle scatole!».
Le voci si sovrapposero, così come le mani, le braccia, le teste... eravamo
tutti ammassati, attaccati.
Eppure... eppure...
Alzai lo sguardo.
E lassù, proprio dal piano e dal corridoio che portava all'ufficio di Miss
Caroline, potei quasi giurare di aver visto ciuffi biondi, occhi di vetro e mani
morte.
Seguite da una scia buia.
VENTUNO
GRACE
GRACE
Grace: 11 anni.
Michael: 15 anni.
MICHAEL
Sono io?
Sei tu? Chi è?
O era qualcuno fra i tanti?
Tanto erano tutte così uguali fra loro le grida.
Ricordi le tue?
No, non ricordava. Non pensava nemmeno di saper gridare, Michael, che una
voce lui non l'aveva mai avuta. Un simile lusso non se l'era mai potuto
permettere.
Realtà o finzione?
Presente o passato?
Voce o pensiero?
Fissando la porta, tenne a mente ciò che gli aveva detto uno dei tanti
psichiatri da cui l'avevano spedito anni prima. Anche se alla fine sembravano
tutti pensarla allo stesso modo.
Confondi la realtà, Michael. Hai visioni che nel presente non esistono, senti
e vedi cose che noi non possiamo percepire. Devi imparare a distinguerle.
E lui... era stato reale?
Chi poteva dirlo. Era vero quel ricordo o apparteneva anch’esso alla sua testa
malata? Ed era davvero malata o faceva tutto parte di pensieri ancora più
intricati?
Assurda vita, che non la conosceva e pesava così tanto.
Assurda vita, che brillava solo per chi sapeva accendere la luce.
Storse la bocca. Strizzò gli occhi. Strinse la maniglia.
L'usignolo cantò di nuovo la sua sofferente melodia.
Che strazio dolce.
Avrebbe smesso presto come tutti.
Però… però... che dolcezza librava lì, quanto torpore risuonava da una simile
voce, così differente da quelle che aveva sentito.
La bambina dai capelli neri?
No, no, lei singhiozzava quando gridava.
I suoi suoni striduli rimbalzavano nell’intero e triste cimitero.
Bentornati. Questa notte siamo qui per celebrare...
No.
Annaspò nel suo stesso respiro, si aggrappò alla porta, spalancò gli occhi e li
puntò sulle sue mani. Le sue mani. Vedeva le sue mani pallide.
Non erano al buio.
Perché era giorno.
Ma di giorno, di giorno... mai.
Sicuro, Michael Baker?
Michael Baker, Michael Baker, Michael Baker...
Il pianoforte stonò.
Un'altra corda che saltava.
E l'usignolo smise di cantare.
Perché hai smesso? Soffri? Vorrei aiutarti.
Si sarebbero arrabbiati, gli avrebbero urlato contro e lo avrebbero trattenuto
più del previsto. Era già successo una volta. Ma non... non poteva resistere.
Voleva liberare quella povera creatura disgraziata come lui.
Il dodicesimo rintocco è troppo lontano.
Lasciati aiutare. Lascia che spezzi le catene.
Tornò verso il letto. Sollevò il materasso. Prese il vetro rotto. Graffiava nella
pelle. Tagliava sulla pelle.
Suo fedele amico.
E così aprì la porta.
C'erano solo respiri, più respiri, così come li conosceva lui.
Camminò adagio, sulle piante dei piedi nudi, logorante nel suo silenzio più
atroce, un paradosso rispetto a ciò che avvertiva nella sua crudele testa.
Parlavano tanto di camminare sul filo del rasoio, le persone, senza sapere che
era una beatitudine poterlo fare senza avere la certezza della caduta.
Sfidavano la gravità e la reputavano cosa da niente. Stavano in piedi,
piangenti nel loro egoismo, incuranti di chi poteva respirare solo stando seduto.
Canta ancora, uccellino.
Canta e ti troverò.
Bizzarro, bizzarro...
Ti hanno mai trovato, Michael?
Avrebbe voluto dire che la sua Bambolina l'aveva sempre fatto. Ma era
arrivata tardi.
E tu chi sei, piccolo angelo senza ali?
Avevano i visi scoperti, senza nessuna maschera a coprirli. Insolito mistero.
Soprattutto erano in due. Quale sciagura. Uno era doloroso, due era
insopportabile.
Nemmeno si erano accorti di lui, presi dalla foga di toccare la carne e
inebriarsi del proprio peccato.
«Magari tra poco ci divertiamo anche un pochetto, che dici?», grugnì una
voce tormentata, più scura dell'inchiostro.
Sulla schiena... uno ricopriva la schiena. Stava intrappolando la vittima a
terra. A lei o a lui? Non era importante. Importava altro.
Lo fece con tranquillità. Come quando prendi un pennarello e tracci una
linea.
Strinse ciuffi biondi, che non avevano nulla a che vedere con il suo colore o
quello di Bambolina, e colorò un collo di rosso. Colorò tutto di rosso.
Caldo e intenso rosso.
L'aveva già visto quel tipo di rosso. E ne era stato anche di più.
Sopraggiunse un altro urlo. Non era l'usignolo. Era uno di loro.
«Ma che cazzo», stridulò, piangendo, e strisciò all'indietro. «Che cazzo,
cosa... oh mio Dio, Killian! Oh Dio, tu sei... no, ti prego, stavamo solo
giocando!»
Giocare?
Mai parlato di giocare.
Aggrottò le sopracciglia. Il carnefice continuava a scuotere la testa, pieno di
gocce salate e il moccio che gli imbrattava la bocca.
Anche i tuoi genitori avevano fatto così?
No, no.
«Michael», sussurrò la musica soave.
Oh, che lirica meravigliosa.
Aspetta che togliamo la nota stonata.
Dita fredde gli sfiorarono la caviglia, ma lui aveva già tracciato un'altra linea
netta. Vita o morte, che vuoi che sia. D'altronde si tratta proprio di questo? Una
retta che separa.
Sbatté le ciglia. Il mostro non c'era più.
Ma voltandosi... vide. Deragliò, fino a naufragare nei più reconditi specchi
dell'anima.
E non c'erano più rintocchi, non c'erano più colori, non c'erano più urla.
C'era solo lui. Lui e il suo riflesso.
Chi è Michael?
Eh, sono io.
Io intrappolato.
Io che liberato voglio tornare nella trappola.
Io che voglio respirare e ho bisogno che qualcuno mi tolga l'aria.
«Ti aiuterò», sussurrò, lanciando via il vetro. «Starai bene».
Perdonami per non averlo fatto prima.
Adesso ce l'aveva il coraggio.
Lo avrebbe tenuto per tutto il tempo, quel piccolo bambino. Gli avrebbe
accarezzato i capelli alla fine, gli avrebbe chiuso le palpebre e lo avrebbe salvato
da tutte le altre volte.
Niente Michael Baker per lui.
Nemmeno una volta.
Ti salvo io.
Ma il piccolo Michael era così spaventato... lo capiva. Non si fece intimorire.
Resistette.
Michael piangeva, ricordandogli quegli anni lontani in cui sapeva farlo.
Ti farò restare con le tue lacrime, Michael.
Conservale e tienine cura.
Non permetterò a nessuno di portartele via.
Diceva qualcosa. Ripeteva di essere io.
Diceva: «Sono io, Michael, sono io! Guardami!».
«Sì, sei tu».
Sei tu e ti aiuto.
Strinse le mani attorno a quel gracile collo. Voleva che smettesse di respirare
solo dolore. Voleva che riprendesse a cantare gioia, non strazio.
«Starai bene, vedrai», continuava a sussurrare.
Lui su di lui.
Un corpo sulla schiena.
Un corpo sopra.
Mai più.
Mai mai mai mai mai...
Unghie gli graffiarono il dorso delle mani, ma non sentiva altro che non fosse
il sollievo della brezza mortale addosso.
Sta per finire, Michael?
Lo spero.
Un sussulto si protese al di sotto dei suoi palmi e lui stampò un bacio caldo
su quella fronte familiare. A mente solo quegli occhi rotti.
«Sei salvo. Nessun Michael Baker per te».
E proprio lì, proprio quando ce l'aveva quasi fatta, un dolore sordo gli
esplose sulla tempia, un oggetto infranto sul punto sensibile. Mollò la presa, e un
altro colpo doloroso lo prese alla sprovvista.
Ma prima di chiudere gli occhi e lasciarsi trascinare nell'oblio di tutti i suoi
orrori più brutti, il rivelarsi di un paio di retine del cielo quando era arrabbiato.
Gli occhi di Grace.
E se c'era qualcosa di peggio di Michael Baker, quella era senza alcun dubbio
la consapevolezza di aver fatto del male a Bambolina.
Morire, morire, morire...
Magari ora sì.
Che non mi voglio più svegliare.
Che hai fatto, Michael?
Lasciati cadere.
VENTITRÉ
GRACE
«Li hai uccisi, e poi hai quasi ucciso me», fiato con la gola stretta e gli occhi
persi nel vuoto del passato. «Se non fosse arrivata Miss Eleonor a colpirti e farti
perdere i sensi, ora non saremmo qui».
Sbatto le ciglia, mentre mi scorrono davanti quei frammenti di lui svenuto a
terra, poi preso in custodia e in attesa di processo. Un processo che l’ha
giudicato incapace di intendere e di volere.
Non ho assistito in prima persona agli agenti che lo ammanettavo e lo
portavano via, ma ho ancora ben a mente le sue urla strazianti. Lo avevo sentire
gridare "Tornerò a prenderti, Grace. Tornerò a prenderti!"
E io l'ho presa come una minaccia, allora. Gli ho permesso di infestare i miei
incubi, di impadronirsi dei desideri più orribili. Ora so che vuole soltanto farsi
perdonare, anche se magari non riesce a redimersi lui stesso.
Michael mi afferra dal viso, le sue mani tremano di disperazione, una
frustrazione talmente dilaniante da farmi sanguinare dentro.
«No, no, ascoltami», annaspa, si aggrappa a me quasi non riuscisse a tenersi
in piedi. Ci riporta entrambi a terra, mi abbraccia la vita e conficca la testa sul
mio seno. «Ascoltami, ti prego. Ti prego. Ascoltami, bambolina, per favore, per
favore».
Sono spaesata. Che diavolo sta succedendo? Perché deve essere così fragile?
Finisco sempre per perdere il pugno di ferro con lui.
«Devi tenermi qui, Grace. Tienimi, tienimi».
Spalanco gli occhi. «I-io... io...»
Non aspetta la remota possibilità che possa riuscire a completare una frase di
senso compiuto. Prende la mia mano e se la porta sui capelli, inducendola a
movimenti che sembrano… carezze.
E sotto il mio tocco, i ciuffi morbidi e chiari, lo sento respirare. Lo sento
restare a galla. Lo tengo con le mie carezze, il suo unico appiglio, la sporgenza a
cui aggrapparsi che gli impedisce di scivolare nel suo buio familiare.
Soffio sulle sue ombre per tenerle alla larga da noi, e attendo che mi renda
partecipe del marasma che gli frulla in testa, mentre lui mi sfiora i lividi che ho
sulle gambe.
«Ero nella mia stanza quando ho sentito gridare», sussurra. «Non saprei
spiegarti per quale assurdo motivo, ma è stato come un richiamo. Ne ho sentite
di grida nella mia vita, Grace, ma non avrei mai immaginato che potessi essere
tu. Non tu, Grace. Tu non potevi. Che se fosse successo a te, mi sarei strappato
via il cuore dal petto».
Aggrotto le sopracciglia. «Cosa... cosa stai dicendo? Non capisco. Sii più
chiaro. Stavolta non posso permetterti di fare il criptico, devi sforzarti e parlare
in modo lineare e concreto. Altrimenti temo non ne usciremo mai».
«È difficile riordinare il caos quando non sai nemmeno quale sia l'ordine
giusto».
«Provaci. Ti aiuto io».
Ti tengo io, Michael.
Ti aiuto, non aver paura.
Sempre io e te.
Io e te.
Gli stampo un bacio sulla nuca, mi rabbrividisce sotto le labbra secche. Si
schiaccia a me, rendendomi difficile respirare, entra sotto la pelle scalfendosi nel
profondo. Dove è sempre stato.
«Okay», sussurra, la guancia premuta sul mio petto. «Dicevo… non avevo
capito fossi tu».
«Dopo cos’è successo? Dopo che mi hai sentita gridare, intendo».
«Mi sono fermato a pensare. Di norma, accadeva sempre di notte e perciò
non credevo vi fosse nulla di strano. Te l'ho detto, sono abituato alle grida. Il
problema è che era giorno... e di giorno mai, Grace. Qualcosa non tornava,
capisci?».
No, non capisco, ma gli dico comunque che sì, sto seguendo e lo invito a
proseguire.
«Sembrava tanto un uccello ferito. Il canto di un usignolo lasciato a bruciare.
E quando ha iniziato a stonare, ho deciso che dovevo intervenire. Non avevo
ancora realizzato che...»
«Che?».
«Che eravamo al Benetton, non ero più a casa o al cimitero. E quindi dovevi
per forza essere tu, e nulla di ciò che stavo vedendo e sentendo era reale. Mi
dispiace di non averlo capito, bambolina».
Strizzo gli occhi. Più andiamo avanti, più il discorso si infittisce e più mi
risulta difficile stargli dietro. Semina dettagli qua e là, come se fosse scontato
che io debba già saperli e comprenderli.
Gli passo un braccio sotto al collo, appoggio il mento sulla sua testa e lo
stringo a me, implacabile. Questo momento, invece, è reale. Glielo trasmetto,
cuore a cuore.
«E poi? Che hai fatto? Cosa hai visto?».
«Avevo un pezzo di vetro nascosto sotto al materasso, l'ho preso per
proteggermi, per proteggerti, per proteggerci tutti. E sono uscito fuori dalla
porta».
«Perché avevi un pezzo di vetro sotto al materasso, Michael?», sussurro,
pervasa da una strana inquietudine. «Che ci facevi?».
Non risponde. Ho un fremito, ma lui va avanti come se non avessi parlato,
mentre i più sparpagliati dubbi prendono possesso nella mia mente.
«Li hai portati tu laggiù, da me? Stavi venendo da me?».
«Sì. Volevano qualcosa che io non avevo, erano in astinenza di chissà cosa e
hanno cercato di farmi del male. Non sapevo dove altro andare, non era mia
intenzione coinvolgerti, ma correre da te mi era sembrata la soluzione migliore».
Michael annuisce, solleva la mano fino a ricoprire la mia sulla sua guancia e
intreccia le nostre dita. «Hai fatto bene. Forse avresti dovuto farlo già molto
tempo prima».
«Forse. O forse doveva andare così e basta».
Mi sento meschina, ma la verità è che non mi mancano per nulla Killian e
Jonah. Mi dispiace che siano morti, mi dispiace che Michael si sia macchiato le
mani di altro sangue, tuttavia non riesco a provare dolore per la loro perdita.
Erano stati un tormento per me. Mi avevano reso la vita impossibile.
Avevano azzardato più di quanto avrebbero dovuto. Nessuno si merita la morte,
questo lo so, però è anche vero che nemmeno io mi merito la dannazione per ciò
che è successo.
«Ho visto un corpo sul tuo. Ti stava sulla schiena, come succedeva a me, e
ho pensato che non potevo permetterlo. Che ti stava facendo male, lo stesso male
che mi è stato fatto per tanti anni, e avrei fatto qualsiasi cosa per evitarlo».
Un altro pezzo va al suo posto. Michael che odia gli abbracci da dietro,
Michael che non vuole farsi toccare, Michael che ha paura delle persone,
Michael che mi dice che andrà tutto bene.
Lacrime amare mi tolgono il fiato, si impregnano dietro le retine, mi
riempiono la bocca e stringo la presa su di lui, lo avvolgo nel mio abbraccio
caldo. Gli bacio la nuca, la testa, le tempie, il collo. Lo amo con tutta la
dirompente forza della mia anima sgretolata.
«Sei speciale. Tanto, tanto speciale. Coraggioso, puro e rotto», mi si rompe la
voce. «E io ti amo così come sei. Scusa per non averlo capito prima. Scusa se
non te l'ho mai detto».
Mi sento in frantumi, presuntuosa nel voler tenere insieme i suoi di pezzi. Ma
va bene così.
E ti amo da una vita intera,
e tu non ti sei amato mai.
Michael gira la faccia, scocca un tenero bacio sul mio palmo e si sfrega sulla
mia pelle. «Non piangere, bambolina. Per favore. L'importante è che siamo qui
entrambi. Non vuoi sapere che è successo dopo?».
«Certo, certo che voglio saperlo. Dimmi tutto quello che vuoi, non ti
preoccupare, tanto ascolto ogni cosa».
Lui piega il collo, incastra le lande desolate dei suoi occhi d'acquerello
spento nei miei. E poi mi fa un sorrisino, uno dolce. Uno che non ha mai fatto,
che non gli ho mai visto. Ci resto sospesa in quel connubio di bocca, angoli, vita,
amore.
«È stato come colorare, o come scrivere. Prendi una penna e tracci la linea.
Così ho preso il vetro e ho segnato la mia di linea. E poi si è colorato tutto di
rosso».
Me lo ricordo.
Ricordo bene il polso bianco di Michael che si tingeva di sangue, man mano
che tagliava la gola di Killian.
Ricordo gli schizzi che mi imbrattavano il viso, i capelli, e poi il pavimento.
Ricordo i versi di Killian. Il tonfo del suo corpo che cadeva a terra. Le mie
urla strozzate. Quelle di Jonah, che si trascinava via come il verme che era. Che
lo pregava, gli chiedeva pietà e fingeva che si fosse solo trattato di un gioco.
Mi mordo il labbro inferiore, struscio la punta del naso tra i ciuffi morbidi e
chiari.
«Ho disegnato ben due strisce, Grace. Ho tolto via le note stonate dal tuo
canto, e non mi pento di averlo fatto. Di tutto ciò che ho fatto, e non parlo solo di
quella sera, c'è solo una cosa di cui mi pento».
Sì, aveva tagliato anche la gola di Jonah. Non aveva tentennato, l'avevo fatto
sembrare addirittura semplice, una cosa da niente. Una semplice azione. Prendi e
fai.
E ho di già la vaga sensazione di sapere a cosa si stia riferendo.
Deglutisco, mentre lui alza il viso e si rimette dritto per potermi guardare
negli occhi e starmi davanti. «Ovvero?».
Puro sconforto gli lambisce i tratti del viso, gli arriccia le palpebre, piega gli
angoli della bocca e rughe di sofferenza gli riempiono la fronte.
«Tu, bambolina», mormora, sporge le dita per accarezzarmi la guancia. «Ti
ho guardata, ma non ti ho vista. E questa, temo, sia stata la mia più grave colpa».
Per via dello shock ho rimosso gran parte degli avvenimenti. Mi porto dietro
solo brevi e fugaci scatti di quanto accaduto. Ho a mente pelle bianca, mani sul
mio collo, pupille di ghiaccio e distanti e una voce che continuava a dirmi che
sarei stata bene, che ero salva, che non ci sarebbe stato alcun... Michael Baker
per me.
E forse è meglio così.
Trattengo per un attimo il fiato, poi butto fuori l'aria. «Spiegati bene, per
piacere. Se non hai visto me, allora chi hai visto? So che ti sto chiedendo molto,
Michael, ma per favore, cerca di dirmi il più che puoi. Ne ho bisogno, okay? Ne
ho bisogno. Rendilo più facile».
«Ho visto me», dichiara, getta via le armi e abbassa la muraglia. Dichiara
bandiera bianca. «Ho visto me, ho visto Michael. Aveva cinque anni, gli si
stavano spezzando gli occhi e... ero ancora in tempo. Non era troppo tardi, lo
potevo salvare».
E mentre lui lo salvava, io perdevo l'unica certezza che avessi mai avuto.
Perché se fino a quel momento avevo creduto che Michael non avrebbe mai
potuto farmi del male, che almeno io ero al sicuro con lui, che l'amore che
provava nei miei confronti era più forte dei suoi demoni, allora dopo quella sera
ebbi la smentita di quanto pensavo. E questo aveva fatto più male delle sue mani
attorno al mio collo, della gola che bruciava e i polmoni chiusi.
Ma non era stata colpa sua...
«Mi dicevo che non ci sarebbe stato alcun Michael Baker per lui. Che la
morte sarebbe stato un regalo, un sogno a confronto di tutte le volte in cui
l'avrebbero violato e gli avrebbero tolto la voce. Lo avrei salvato, Grace. Gli
avrei permesso di tenere le sue lacrime, le grida, i sorrisi. Magari non avrebbe
mai assaggiato un biscotto, o un muffin, o saputo quanto belle sono le carezze,
ma sarebbe stato bene e lontano dagli abbracci da dietro, dalle mani che lo
toccavano anche se non voleva e... non sarebbe stato come me...»
Le parole si strozzano, le sue retine si fanno lucide, ma a scoppiare a
piangere sono io.
Perché la vita è più facile quando non sai.
Perché non riesco a gestire l'enorme sofferenza che si porta dentro, non
riesco a sopportare il pensiero di ciò che ha dovuto passare.
E, per l'assurdo, è lui ad abbracciare me, a dirmi che va tutto bene, che non
devo piangere, che…
«Anche se Michael non è salvo, alla fine ho incontrato te. E se per ritrovarti
dovessi rivivere tutto daccapo, lo farei un milione di volte».
Piango ancora più forte, e lui mi stringe altrettanto forte.
«Mi dispiace di averci rotti. Posso sopportare di non avere più un’anima, ma
non di aver ferito la tua».
«Non farlo».
«Che cosa?».
«Sminuirti, Michael. Sei importante quanto me. Okay?».
Gli singhiozzo sul petto, lui mi tiene stretta con i suoi baci candidi e le
carezze sulle spalle, sulla schiena, tra i capelli. «Okay, ma basta piangere».
Tiro su col naso, mi sfrego il pugnetto sotto le palpebre. «S-sono stati i tuoi
genitori, vero? È per questo che hai fatto quello che dovevi».
«No. Loro erano l'arma, non il proiettile».
Mi viene da vomitare. I suoi... i suoi genitori lo vendevano? Lo
prostituivano?
«Ti va di raccontarmi tutto?», bisbiglio.
Michael rimane per un istante in silenzio, medita. Poi risponde: «Ci provo».
VENTIQUATTRO
MICHAEL
GRACE
“Ciao, Michael.
Non so perché ti sto scrivendo. In realtà ci stavo pensando da un po’, ma è la
prima volta che lo faccio per davvero e, sul serio, non capisco il motivo. Hai
provato ad uccidermi. Mi hai fatto del male. Mi hai promesso che tornerai.
Perciò no, non dovrei proprio starmene qui seduta sul mio letto a scriverti. Forse
non dovrei nemmeno pensare a te.
Ma è più forte di me. Tu sei più forte di me. E penso che posso odiarti tutto il
tempo, che posso pentirmi di essermi fidata di te, ma magari posso prendermi
questi momenti ogni tanto in cui fingo che non sia successo niente e che siamo
ancora Michael e Grace. Qui e ora siamo noi, okay?
Okay.
Il Benetton è vuoto. Margot mi punzecchia ancora ogni tanto, ma sono
comunque sola e, quando non vado alla St. Gerard, è difficile stare qui dove ogni
cosa mi ricorda di noi. La direttrice Caroline ancora non mi sopporta, ogni scusa
è buona per prendersela con me e l’unica ad avere un minino di cura nei miei
confronti è Miss Eleonor.
Dopo quello che è successo ha sempre un occhio di riguardo verso di me. Lo
capisco. Ho visto due persone morire. E il problema è che non me ne frega
niente di Killian e Jonah e mi manchi tu, ma mi vergogno di questa cosa.
Elisa, Cody e Ben mi hanno chiesto di te una volta. Ormai lo sanno tutti
quello che mi hai fatto. E fidati che non è stato bello per me i primi giorni, con
gli sguardi della gente addosso. Ti odio anche per questo.
A ogni modo, è arrivata una nuova bambina.
Si chiama Reese, ha due anni. E ora devo andare da lei per aiutarla ad
ambientarsi.
Prima, però, brucerò questa lettera.
Alla prossima, Michael”
VENTISEI
GRACE
“Ciao, Michael.
Oggi è stata una giornata strana. Nulla di che, in realtà. È solo uno di quei giorni
che scorre piano e non ti va di fare niente, eppure ti lamenti della noia. Poi ho
capito che dovevo solo scriverti. Se fossi stato qui, sarei venuta da te.
Ma... sai già che non si può.
Quindi ti scrivo. Ancora.
Stavolta, però, sarò breve. Non voglio che diventi troppo un’abitudine. Voglio
solo dirti che a scuola va tutto bene, io e Margot litighiamo ogni tanto ma per
cose stupide, e ho parlato un pochino a Elisa di te.
Le ho detto che sei stato il mio primo amico e il primo amore, per quanto
possa essere in grado di capirci dell’amore una bamboccia come me.
Lei non mi ha giudicata, comunque. Anzi, mi ha detto che le sarebbe piaciuto
conoscerti. È una brava amica, sai? Ti avrebbe voluto bene.
Domani ho il controllo dall’oculista, comunque. Miss Caroline ha fatto un
po’ di storie, ma alla fine ha ceduto. Dall’ultimo banco ormai non vedo più
niente alla lavagna. Chissà come andrà”.
“Ehi, Michael.
Sono tornata. Ho fatto la visita. Mi mancano due gradi e mezzo per occhio e
peggiorerò. Ma Miss Caroline dice che è inutile comprarmi degli occhiali se
tanto poi dovrò cambiarli.”
VENTISETTE
GRACE
“Ciao, Michael.
Sono di nuovo io. E sono in ansia di brutto. Domani sarà il mio primo giorno da
liceale. Ricordi quando dovevo iniziare le medie? Tu non l’avevi presa proprio
benissimo, poi però ti sei fatto perdonare. Custodisco ancora quel biglietto, sai?
L’ho buttato nel cestino tantissime volte e tutte le tantissime volte sono
tornata a riprenderlo. Te lo confesso solo perché in questo spazio siamo sempre
io e te.
Comunque Elisa dice che devo stare tranquilla. Abbiamo fatto un piano di studi
per riuscire a stare in più classi possibili insieme. Sono quasi tutte teoriche, sai
che mi piace leggere e studiare. Ben e Cody invece hanno puntato per la maggior
parte su quelle pratiche.
Non so se esiste un club di scacchi. Mi informerò. Ah, volevo anche dirti che
ormai Miss Caroline non mi mette in punizione da un bel po’. Mi odia sempre,
ma ora è presa dai più piccoli. Immagino sia un ciclo. Ci sono passata io, ora è
arrivato il momento della nuova generazione.
Comunque… anche oggi vorrei che fossi qua.
Mi manchi davvero, Michael, e vorrei anche che non fosse così.
Come faccio a dimenticarmi di te?
A me sembra impossibile...
Forse è il caso che chiuda questa lettera. Anzi, corro a bruciarla adesso.
Ciao, Michael.”
VENTOTTO
GRACE
“Ciao, Michael.
Ora, io lo so che non si dovrebbero fare certe cose, però davvero non riesco più a
vederci un cavolo alla lavagna. Quindi, dal momento che Miss Caroline è una
tirchia che se ne frega della mia salute, io ed Elisa abbiamo rubato delle lenti a
contatto.
Almeno adesso ci vedo. E poi ho iniziato a lavorare alla caffetteria di Ginny,
una simpatica donna sulla cinquantina. Quindi magari le prossime me le compro.
Oh... e c’è un ragazzo che ci prova con me a scuola. Si chiama Denver. Non mi
piace granché, e nemmeno a Elisa, però tutte gli vanno dietro. Non so che fare.
Vabbè, ci penserò.
Senti... adesso devo andare. Reese mi aspetta nei bagni, devo farle la doccia.
Mi manchi.
Ciao, Michael.”
VENTINOVE
MICHAEL
“Ciao, Michael.
Essere albina fa schifo.
Non farò mai un figlio se dovrà vivere come me.
Qualche giorno fa mi sono ustionata al sole e porca vacca se fa male.
Non esco dalla mia camera da giorni e Miss Eleonor mi sta riempiendo di
pomate. Margot mi ha chiesto se voglio una pasticca, e cavolo per un momento
ci ho pure pensato.
Domani Elisa mi aiuterà a prenotare una visita da un dermatologo per vedere
se va tutto bene.
Sai che corro dei rischi.
Ti terrò aggiornato, comunque.
Tu invece spero che stai bene, nonostante tutto.
Vorrei farti sapere che nemmeno oggi ho imparato a odiarti.
Mi manchi.
Ciao, Michael”
Grace: 17 anni.
Michael: 21 anni.
“Ciao, Michael.
Ti ho mentito. La visita non è andata bene. Pensavo che
negare la realtà dei fatti potesse essere la soluzione, pensavo che a furia di
evitare il problema, questo alla fine sarebbe scomparso.
Beh… non è andata così. Le prime croste e piaghe sono comparse. E fanno
malissimo. A volte sanguinano durante la notte, e io faccio fatica a dormire.
Carcinoma a cellule squamose. Bella merda, eh?
È di già abbastanza esteso, mi è entrato in un polmone tanto che respirare fa
schifo, perciò l’operazione chirurgica ora è fuori questione. E poi costerebbe
troppo. Così come la radioterapia, l’ultima spiaggia che mi era rimasta per
salvarmi.
Per di più fra qualche mese faccio diciotto anni e mi sbatteranno fuori dal
Benetton. Non so cosa fare. So soltanto che se non trovo un rimedio, muoio. E io
non voglio morire, Michael. Io voglio fare la radioterapia, voglio guarire e
vivere.
Io voglio rivederti almeno una volta.
Voglio festeggiare almeno un ultimo compleanno con te, esprimere desideri
con te, mangiare un muffin con te e ascoltare un milioni di canzoni con te.
Voglio stare semplicemente con te.
E ti odio perche voglio ancora tutto questo dopo anni. Dopo quello che mi hai
fatto.
Perché probabilmente morirò, eppure il mio unico pensiero sei tu. Uno dei
miei rimorsi più grandi. Già, morirò e io penso solo a te.
E a questo punto vorrei sapere perché l’hai fatto, perché non sei riuscito ad
andare oltre per me. Non mi importa se non riesci ad essere come gli altri, se a
volte fai brutte cose. Non mi importa. Solo… non dovevi farlo a me.
Vorrei che tu mi dicessi che mi ami, vorrei che tu mi sentissi dire che ti amo
più di quanto potrò odiarti mai. Vorrei vedere se ti si illuminano gli occhi se ti
dico che sarò sempre tua, fino all’ultimo respiro e ancora un altro po’.
Ma certe cose accadono solo nelle favole e purtroppo noi siamo reali. Perfino
il Michael a cui mi ostino a scrivere non esiste. È solo la mia testa che ha
bisogno di aggrapparsi a qualcosa, e ogni mia cellula sa che il mio punto
d’appiglio sei sempre stato tu.
Quindi penso che accetterò l’invito a uscire di Denver.
Che io ti devo estirpare via, Michael. Mi devo disintossicare da te, che mi
riempi ogni atomo e sei ovunque dentro di me, più di quanto lo sia io nel mio
stesso corpo. Ho bisogno di scacciarti via dalla mia testa per tornare nel mondo
reale, non posso più restare incastrata in queste lettere. Ho così tante cose da fare
ancora…
E ti devo lasciare andare e godermi il mio ultimo anno di vita. Ti devo dire
addio, e lo sto facendo in quest’ultima lettera. Non te ne scriverò più nessuna.
Magari in una dimensione parallela io non sono io, tu non sei tu, ma siamo
una Grace qualunque e un Michael qualunque che si incontrano e si amano senza
riserve, proprio come faccio io con te. E mi va bene così.
Sei il mio pezzo di cuore, okay?
Ricordatelo sempre, a prescindere da come andranno le cose in futuro.
Adesso andrò a bruciare questa lettera come ho fatto con tutte le altre, che se
non lo faccio subito va a finire che te la mando e ti chiedo di tornare da me.
Addio, Michael”
RINGRAZIAMENTI
Questo è stato il libro più difficile che io abbia mai scritto. Ed è quasi un
paradosso, se penso che è stato anche quello che ho scritto più in fretta.
Grace e Michael mi hanno affidato le loro storie e mi hanno chiesto di
raccontarle, senza risparmiarmi. Mi hanno chiesto di farlo delicatamente, di farlo
con amore, e nel farlo mi sono riempita di insicurezze.
Io lo definisco un dark romance anomalo, perché pur essendo crudo in alcuni
punti, è anche pieno di dolcezza. Lo so che alcuni si aspettavano lo psicopatico
crudele, ma penso che dietro uno stereotipo ci debba sempre essere molto di più.
È stato un viaggio travagliato. Chi segue Call Me Michael dagli inizi, da
Wattpad, sa le pene che mi ha fatto patire. Tra me e questa storia è sempre stato
amore e odio, un po’ il conflitto che prova Grace per buona parte della storia. Ma
non potrei essere più grata di così a loro due, che alla fine mi hanno dato più di
quanto potessi immaginare.
E ad alcuni la loro storia piacerà, ad altri no, ma va bene così. Io sono
comunque fiera di quello che ho scritto, al di là delle paure che posso provare.
E sono fiera anche di tutte le persone che mi hanno accompagnato in questo
viaggio.
A Caterina e Nadia, le mie migliori amiche che mi hanno dato della pazza
quando ho detto loro la trama che avevo in mente. Caterina tutt’oggi ancora non
ha trovato il coraggio di leggere il libro, giusto per dire. Ma la amo comunque.
Nadia l’ha fatto, e so che l’ha fatto solo per me.
A Carlotta che mi è stata vicino in questi mesi. Mi ha incoraggiata e
supportata durante l’editing. Del tipo che ero solo al primo capitolo e i suoi
messaggi erano “Amo, hai quasi finito!!!” Certo.
A Debora, una delle prime lettrici e sostenitrici di questi due. Grazie per
avermi fatto da beta, e per esserci sempre.
A Carola che è sempre disposta a darmi una mano, anche quando le chiedo di
farmi degli edit entro un’ora.
A Eliana, che pure se scompaio per mesi, quando torno c’è e basta.
A Noemi. Ti ho davvero sfinita con le mie paranoie, lo so. Perdonami. Ti
voglio bene.
Francesca sei la migliore pubblicità del mondo. Mi fai morire. E se tante
persone hanno conosciuto Michael e Grace, è anche merito tuo.
Giulia, grazie di tutto. Mi dai la motivazione anche quando non c’è più.
A Sarah, Michelle, Alessia.
Alla mia famiglia.
E questo libro è merito vostro.
Grazie a tutti per essere arrivati fin qui.
A ogni Michael Baker, Grace Martin ed Elisa nel mondo.
MICHAEL
Qualcuno potrebbe dire che a ventitré anni si è nel pieno della propria vita.
Questa è l'età dell'indipendenza sociale, ma non economica, dove fai quello che
ti pare con i soldi dei tuoi genitori.
Ti illudi di avere la tua stabilità, perché magari con quella somma che ti sei
messo da parte con quel lavoretto part-time sei riuscito a pagarti mezza bolletta o
un cellulare nuovo, senza curarti del resto.
Per questo, ci si aspetterebbe da me che io incarni alla perfezione lo
stereotipo del collegiale che pensa solo a divertirsi alle feste. Non che abbia
nulla da recriminare a chi preferisce trascorrere in tal maniera il proprio tempo,
tutt'altro.
Semplicemente io non ero mai stato così.
Lungi da me sopraelevarmi alla massa e calpestare il conformismo, ma che
fossi sempre stato il ragazzo diverso e strano della classe era un dato di fatto e
ormai ben noto.
Non avevo la minima idea in quale categoria mi avessero relegato duranti gli
anni del liceo. Da una parte protendevo per lo scomparto degli sfigati, vista la
mia predisposizione a prendere i voti migliori; dall'altra quello degli inarrivabili,
poiché ero al sessanta percento taciturno e al quaranta… beh, benestante. O
ricco. Dipendeva dai punti di vista. Stando alle voci di pareri esterni, potevo
anche vantare di un discreto profilo estetico.
In ogni caso in parecchi avevano fatto la fila per sedersi al mio tavolo e
chiedermi di studiare a casa mia. E mi veniva quasi da ridere al pensiero che mi
credessero così stupido.
Che grave insulto alla mia intelligenza.
D'accordo che ero timido, però la mia incapacità di iniziare una
conversazione non aveva nulla a che vedere con quella di scindere realtà e
finzione.
Per fortuna era arrivato il college, dove la vita sociale non dipendeva da
canoni così superflui, e Stanford si era rivelata un'ottima scelta. Non troppo
lontano dalla mia famiglia, e non troppo vicino da sentirne la pressione.
I miei quattro anni in medicina generale erano volati, altroché. Tra una
lezione e l'altra, i miei coinquilini che davano feste come se non ci fosse un
domani e mia madre che continuava a chiedermi quando le avessi presentato una
ragazza finalmente, mi ero ritrovato a iniziare la mia specializzazione prima che
potessi rendermene conto.
Ebbene, sono perfettamente consapevole di non avere alle spalle un gran
resoconto della mia vita, che di entusiasmante ha soltanto la pubertà, ma ritengo
necessario fornire una spiegazione del motivo per cui fossi finito a chiudermi in
una camera durante una festa. Per leggere Oliver Twist.
Probabilmente avrei potuto fare di meglio in vista di classici. Dickens non mi
aveva mai fatto venire la pelle d'oca, dovevo ammetterlo, tuttavia Oliver Twist
rientrava nella lista dei miei libri preferiti per ragioni che non riuscivo a
spiegarmi fino in fondo neppure io stesso.
In parole povere, Killian e Jonah stavano dando l'ennesimo party e io mi
stavo nascondendo nella mia stanza, per nulla intenzionato a partecipare
nonostante fossi l'ospite d'onore, in quanto festeggiato.
Avevo già dato in passato, e avevo compreso da tempo che non mi
gratificava affatto stare in mezzo a troppe persone. Soprattutto se prendevo in
considerazione che era la festa di Halloween. Ergo, la casa sembrava sul punto di
scoppiare.
Potevo scorgere le pareti quasi tremare al rimbombo delle casse, dalle cui
esplodeva la musica techno a un volume che andava oltre l’esagerazione. C'ero
abituato. Non mi dava fastidio. Killian e Jonah non giudicavano la mia
personalità silenziosa e tendente alla solitudine, e io mi comportavo in egual
maniera nei loro confronti, dotati di uno spirito più euforico.
Li ritenevo i compromessi di una convivenza pacifica.
Quindi eccomi qui, sdraiato sul mio letto a leggere e leggere, affiancato dalla
placida compagnia di me medesimo.
Tra una pagina e l'altra, riuscii addirittura a scambiare un paio di messaggi
con i miei genitori, che seppure avessero raggiunto una certa età ormai ancora
restavano svegli ogni anno fino alla mezzanotte solo per me.
Mamma:
Tanti auguri al mio bimbo speciale! La mamma ti ama, Michael, ricordatelo
sempre.
Papà:
Buon compleanno, campione. Sono fiero di te.