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Copyright © Giorgia Fiorella

Cover: Graphicspiper. by Alessia.

Ogni riproduzione, totale o parziale, e ogni diffusione in formato digitale non


espressamente autorizzata dall’autore è da considerarsi come violazione del
diritto d’autore, e pertanto punibile penalmente. Questo libro è un’opera di
fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto
dell’immaginazione dell’autore. Ogni riferimento a luoghi o persone reali,
viventi o defunte, è del tutto casuale.

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PLAYLIST

Saved My Life - Sia


Bird Set Free - Sia
Birds - Imagine Dragons
So Cold (The Good Wife Trailer) - Ben Cocks, Nikisha Reyes-Pile
Lovely (with Khalid) - Billie Eilish, Khalid
Nuvole Bianche - Ludovico Einaudi
Impossible - James Arthur
Say You Won't Let Go - James Arthur
Give Me Love - Ed Sheeran
Before You Go - Lewis Capaldi
Photograph - Ed Sheeran
Demons - Imagine Dragons
Dancing With Your Ghost - Sasha Alex Sloan
Wings - Birdy
Broken - Isak Danielson
Love In The Dark - Adele
My Immortal - Evanescence
Lasting Lover - Acoustic - Sigala, James Arthur
Angel By The Wings - Sia
Beautiful Pain - Esplicito Eminem, Sia
Control - Zoe Wees
Zero - Mahmood
Lonely - Noah Cyrus
Wait - M83
Istruzioni per l’uso.
Per chiunque abbia intenzione di imbattersi in questa avventura, sappiate che
la storia si svolge tra presente e passato, pertanto ho deciso di usare entrambi i
tempi verbali. Quindi le scene al presente vengono narrate al presente, quelle al
passato vengono narrate al passato, e questo perché si tratta di ricordi di Grace.
Sarà la Grace del presente a raccontarvi alcuni momenti precisi.
Ci saranno anche i punti di vista di Michael, ma ci tengo a dirvi già da adesso
che saranno piuttosto particolari e se li trovate confusi è perché sono
volutamente scritti così.
Inoltre, se siete qui per leggere un dark romance brutale, cambiate pure
lettura. Call Me Michael è sì, brutale, ma forse non come credete voi.
Se siete qui per leggere di una storia tranquilla, cambiate pure lettura. Call
Me Michael è si poco dinamica, ma è molto pesante.
Non vi elenco i tw perché sarebbero infiniti e voglio evitare spoiler, però ci
sono cose che potrebbero urtare la sensibilità del lettore.

E adesso vi lascio in pace.


Godetevi pure la lettura.
A tutti i miei lettori.
Che abbiate una vita di sì.
A FERRO E FUOCO

Non t'amo se non perché t’amo


e dall'amarti a non amarti giungo
e dall'attenderti quando non t’attendo
passa dal freddo al fuoco il mio cuore.
Ti amo solo perché io ti amo,
senza fine t'odio, e odiandoti ti prego,
e la misura del mio amor viandante
è non vederti e amarti come un cieco.
Forse consumerà la luce di Gennaio,
il raggio crudo, il mio cuore intero,
rubandomi la chiave della calma.
In questa storia solo io muoio
e morirò d'amore perché t’amo,
perché t'amo, amore, a ferro e fuoco.
- Pablo Neruda

Grazie, Giulia.
PROLOGO

MICHAEL

Attenta, bambolina, attenta...


Le nuvole sono ammucchiate, portano pioggia, e lui se ne sta lì a guardare il
suo riflesso, stoico come sempre.
Aspettate, aspettate... cos'è che aveva detto lo psichiatra?
Oh, giusto. Lui soffre di catatonia. Allora usiamo i termini giusti.
Guarda il suo riflesso, catatonico come sempre.
Guarda il suo riflesso, ma è lei che vede.
La vede quando chiude gli occhi e quando li apre. La vede quando precipita
nei suoi incubi più oscuri e quando si sveglia nelle allucinazioni.
Lei è sempre, sempre... lì, affamata del suo sguardo, padrona di ogni più
infimo pensiero e ingorda di prendersi quegli spazi che ancora non le
appartengono. Lei, che vuole sempre di più e che finisce sempre per
strapparglielo via, quel più.
Ma lui sa, nella più perpetua profondità della sua anima sporca, sa che
scacciarla sarebbe impossibile. Non potrebbe mai farlo. Ci ha provato per una
vita, e ha finito per dedicarle quella vita stessa.
C’è soltanto una cosa che può fare.
Attenta, bambolina, attenta...
«Baker, allontanati subito da quella finestra e tornatene al tuo posto!», urla la
guardia.
Si tratta di Lambert, l’arrogante grasso che si ingozza di ciambelle mentre a
loro poveri pazzi toccano schifezze scongelate e scadute.
Non gli presta ascolto. Preferisce restarsene a osservare la costa frastagliata
di Monterey. Magari lei, adesso, sta pensando al mare. Magari sta pensando a
lui. Magari sta leggendo uno dei libri che tanto le piacciono. Magari… magari…
Mi stai aspettando?
Chissà com’è andata la sua vita, dopo che lo hanno prelevato quel giorno di
sette anni prima.
«Maledizione, Baker, non te lo ripeterò un'altra volta. Allontanati da quella
fottuta finestra e torna a sederti!».
Uno, due, tre, quattro... quanto gli costerebbe un quinto?
Una guardia. Un ufficiale pubblico.
Quindi, quanto gli costerebbe?
Tanto, spera. "Fa' che mi costi tutto", prega.
Attenta, bambolina, attenta...
«Come preferisci, figlio di puttana».
Arriva prima il tintinnio di tutte quelle cianfrusaglie che si porta addosso, poi
il peso della mano di Lambert sulla spalla. Chiude gli occhi. Le mani iniziano a
tremargli. Odia quando lo toccano.
«Ci senti, pazzoide, o devo infilarti questo manganello su per il culo e fartelo
uscire da queste orecchie sporche di merda?».
Il Notturno risuona nell'aria dal vecchio giradischi posto all'angolo. Di solito
si siede proprio al tavolo lì accanto e gioca a scacchi da solo, per tutta la durata
dell'ora di ricreazione. Se non lo trovi lì, allora puoi star certo di beccarlo
attaccato alla finestra, incastrato nella vana speranza di poter andare oltre o perso
tra desideri che non ha mai avuto il coraggio di esprimere.
Il tuo inchiostro me lo ricordo ancora. Mi hai imbrattato l’anima e nemmeno
la vuoi. Ma io te la darò comunque, e poi mi prenderò la tua.
Ma tranquilli, nessuno osa mai cercarlo. Del resto, nessuno l'ha mai
compreso. Nemmeno lei. Tantomeno lui stesso. Gli psichiatri ci hanno provato,
ma hanno fallito anche loro.
Perché l'hai fatto, Michael?
Non ha mai risposto.
Non avrebbe risposto nemmeno per il quinto. E per quelli dopo.
Attenta, bambolina, attenta...
Un colpo secco sui reni, finalmente, lo induce a trattenere il respiro.
Gira il viso, pregno dei suoi occhi vuoti e freddi, e risucchia qualsiasi picco
di adrenalina possa aver raggiunto Lambert. Ha sempre avuto quella capacità: lui
terrorizza, semina paura e inquietudine. Poi se ne ciba. La follia si espande a
macchia d'olio su quel volto di pietra.
«Baker...», lo richiama l'agente, d'improvviso tutta la boria sembra scemata.
Strizza gli occhi. Dice Baker, Baker, Baker… e la situazione peggiora. Lo
sanno tutti che non devono chiamarlo così. Perché lo fanno, allora?
La guardia lo colpisce di nuovo, stavolta nello stomaco, e lui si cala sulle
ginocchia pervaso da un dolore sottile. Ma percepisce il tremolio, fiuta il sangue
come un segugio e ne è così affamato. Sa cosa deve fare. Così quando Lambert
solleva il braccio puntando alla faccia, Michael impone la mano e para il colpo.
Un luccichio selvaggio di puro compiacimento gli fodera le iridi spettrali, e
gode del panico che riveste la guardia che prova a riprendersi la sua arma con
uno strattone, fallendo. E allora risponde.
Stringe la presa sul manganello, lo fa suo e si rialza in piedi. Senza pietà,
glielo infila nella gola, fino in fondo, soffocandolo. Deve essere veloce. Non ha
tempo da perdere. Qualcuno attorno a loro sta già gridando, le altre guardie
arriveranno a breve.
Lambert geme, cerca di ribellarsi, ma più soffre e più lui si sente forte e
vicino all’obiettivo. A un passo dall’oblio, lo libera dall’oggetto dandogli modo
di tornare a respirare, ma soltanto per frantumargli la faccia contro la finestra.
Il vetro scoppia, esplode insieme alla carne di Lambert. Colpisce finché i
pezzi non si intrugliano sotto la pelle, negli occhi, nel naso, ovunque. Gli sbatte
la testa con tutta la forza che ha, pervaso da una disperazione temeraria.
«Fermo, Baker, o sparo!».
Ecco. Sono arrivati. Troppo tardi.
Solleva le mani, lasciando che il corpo morto e grondante di sangue si
afflosci a terra. Sembrano tutti sconvolti.
Oh, se n’è stato buono per così tanto tempo...
Cosa gli è successo? Che gli è preso?
Perché l'hai fatto, Michael?
Sorride quando gli mettono le manette.
Ha il volto sporco del sangue della vittima.
Forse un quinto sarebbe bastato. In caso contrario sarebbe arrivato un sesto,
un settimo e poi i massacri.
Uccidere lo ha sempre saputo fare bene.
«Riderai ben poco, quando riusciremo finalmente a condannarti a morte,
pezzo di merda».
Non aspetta altro.
Attenta, bambolina, attenta... perché sto venendo a prenderti.
UNO

GRACE

«Andiamo, Grace, sono i tuoi diciotto anni!».


Mentre si sfila la gonna della divisa per indossare un paio di jeans, forzo un
sorriso. «Esatto. Miei, ovvero non tuoi. Perciò tocca a me scegliere e la mia
decisione è sempre no».
Elisa sbuffa contrariata, ma per una volta decide di non insistere. Piuttosto
getta i suoi vestiti in una sacca, per poi porgermela. Ha appena concluso gli
allenamenti di cheerleading, e come al solito sono rimasta a guardarla per tutto il
tempo.
La verità è che avrei tanto voluto essere anch’io una cheerleader, ma servono
soldi per farlo e ho le tasche più vuote di un senzatetto. Almeno Elisa mi presterà
la sua divisa per Halloween.
Comunque, il problema ora è un altro: tra due giorni, nonché il primo
novembre, sarà il mio compleanno. I famigerati diciotto anni. Per molti, la
libertà. Per me, una tragedia.
Quando vivi in un orfanotrofio, priva di legami familiari e nessuno a cui
aggrapparti, speri con tutta te stessa di non raggiungere la soglia della maggiore
età. Preghi affinché il domani non arrivi e non ti butti per strada a calci senza
niente in tasca.
Ma per quanto tu possa provarci, il Sole continuerà a sorgere e gli assistenti
sociali verranno a chiederti — ordinarti — di sgomberare la camera.
Se poi ti va bene, puoi anche ricevere un'estensione e la grazia di altri tre
anni. Se. Ma tanto nella vita reale a falliti dalla nascita come me non va mai
bene.
Ridacchio tra me e me, derisoria, e mi sistemo la borsa in spalla, mentre
Elisa si allaccia le scarpe.
«Promettimi almeno che uscirai da quel tugurio», torna all'attacco, sporgendo
il labbro inferiore. «Niente feste o cose simili, giuro, ma almeno un'uscita tra
amici».
«Solo un'uscita. Tra amici. Niente sconosciuti».
«Nessun estraneo», promette, attaccandosi al mio braccio. «Saremo solo io,
te, Ben, Cody e Denver».
Faccio una smorfia alla menzione dei soggetti, ma non fiato. Lo so che Elisa
sta facendo tutto per me, vuole solo che mi diverta anziché starmene rinchiusa a
piangere nella mia stanza in condivisione, peccato che qualsiasi voglia di
festeggiare e brindare alla gioia mi abbia abbandonata già da un pezzo.
Fino a qualche mese prima non ci avrei pensato più di due volte prima di
catapultarmi alla festa di qualche riccone con la casa vuota o sulla spiaggia. Ma
ormai le responsabilità cominciano a pesare troppo e non riesco più ad avere la
testa libera come vorrei.
«Perché quella faccia? Problemi con Denver?».
«No no, è solo che...»
Elisa solleva le sopracciglia scure, fermandosi davanti a me. «Solo che,
cosa?».
«Ecco, lui... lui...». Chiudendo gli occhi, mi passo le mani sulla faccia.
«Dio».
«Grace, guardami», mormora preoccupata, io l’assecondo e mi prende il viso
tra i palmi. «Ti ha costretta a fare qualcosa che non vuoi? Perché, se è così,
dimmelo subito e io vado a spaccare la faccia a quell'idiota, che non mi è mai
piaciuto, tra l'altro».
Spalanco le palpebre, faccio un passo indietro. «Cosa? No, diamine, no. Non
mi ha costretta a fare proprio nulla. Il problema è che io so che lui si aspetta
qualcosa da me. Qualcosa che, però, non sono ancora pronta a concedergli».
«Il fatto che tu non sia pronta non è un problema, Grace. Il problema si
verificherebbe qualora lui non fosse in grado di attenderti. E in tal caso dovresti
mollarlo con un bel calcio nelle palle».
Scoppio a ridere e l'abbraccio d'impeto con le mie esili braccia nel bel mezzo
del corridoio. Elisa, dalla pelle olivastra e la folta chioma bruna, è un'amazzone.
Io invece mi reputo più un folletto, dal basso del mio metro e cinquantacinque
scarso e i capelli quasi bianchi. Eppure siamo come due sorelle, tanto è il bene
che ci lega.
«Ti adoro da morire», mugugno. «E devi stare tranquilla per quanto riguarda
Denver. Me la so gestire io».
Si stacca, lanciandomi un'occhiata d'avvertimento. «Tranquilla un corno. Per
ora lascio stare, ma sappi che non mi dimenticherò di questa storia e starò
addosso a quel coglione come un falco».
«Ceeerto», biascico, poi la trascino verso la mensa. «Adesso però andiamo,
prima che la pausa pranzo finisca».
«Wow, che gran perdita».
Soffoco un'altra risata e, con lei al mio fianco, spalanco la porta d'ingresso.
Elisa non ha tutti i torti. Ho sempre frequentato la St. Gerard High School, di
conseguenza non ho la minima idea di come sia il cibo nelle altre scuole, ma per
quanto mi riguarda il nostro fa ribrezzo. Non sono neppure sicura sia
commestibile.
Facciamo la fila e, al contrario di Elisa che decide di rischiare con il timballo
di maccheroni, io punto al consueto budino al cioccolato confezionato. Non sarà
un pranzo sostanzioso, ma almeno vado sul sicuro.
Poi ci accomodiamo al tavolo con Ben e Cody, interrompendo i loro baci
languidi.
«Eww, ti ho visto la lingua», ridacchio e do una spintarella leggera a Ben.
Cody gli avvolge le spalle con il braccio. «Perché tu come baci? Senza
lingua?».
«No, ma di certo non mi sparo dei limoni vietati ai minori in pieno
pubblico».
Elisa, dopo aver assaggiato il pasto e averlo messo da parte, sbatte le ciglia.
«Oh, piccolina, è facilmente suscettibile!».
Scoppiano tutti a ridere e alzo gli occhi al cielo, ma sorrido comunque.
«Andate al diavolo».
Non sono così pudica o suscettibile come credono. Ma venendo da un istituto
dove maschi e femmine sono divisi per piani e qualunque contatto viene punito
severamente, non sono abituata a determinati atteggiamenti.
Non mi danno fastidio. Anzi, credo di essere... gelosa. Gelosa di vederli
esprimersi con una simile libertà, mentre io sono bloccata da anni di divieti e
false convinzioni. Gelosa di vederli avere qualcosa che io non ho avuto
l’opportunità di avere, e forse mai l’avrò.
«A proposito di Diavolo, avete sentito?», Ben sfoggia un sorrisetto
malizioso.
All'improvviso ogni mio singolo nervo si pietrifica. Una leggera nausea mi
risale su per la gola e lascio perdere il budino, spingendolo verso Elisa. Mi è
passata la fame.
«Di che parli?», domanda il suo ragazzo.
«Michael Baker».
Al solo sentirlo nominare il mio stomaco si contrae, poi si accartoccia come
carta crespa. Cristo Santo. Il cuore mi salta più battiti del previsto, si infossa nei
ricordi fino a impantanarsi in tutti quegli incubi che mi ha causato.
No, Grace, mantieni la calma.
Elisa aggrotta la fronte, prendendo una forchettata di budino, mentre Cody si
sporge in avanti per chiedere: «Lo psicopatico che ha massacrato la famiglia a
dieci anni?».
Stringo le labbra. La lingua freme dal desiderio di parlare, ma resto zitta.
Penso di aver perso la facoltà di parlare di Michael da tempo. Probabilmente non
l’ho mai avuta per davvero.
«Proprio lui, dolcezza».
«E allora? Non è stato rinchiuso in quel manicomio una vita fa?».
«Istituto psichiatrico, Elisa. Non siamo negli anni cinquanta».
«Ma più che altro», si intromette Cody, «Baker è sul serio ancora vivo? Non
si hanno più notizie di lui da una vita».
E come potrebbe mai? Lui è uno che ci è nato in mezzo alla morte.
«Cazzo se è vivo. Qualche giorno fa ha ucciso una delle guardie, in preda a
uno scatto, e stamattina lo hanno trasferito al San Quentin. Vogliono che gli sia
data la pena di morte, per questo stanno facendo girare una petizione».
La notizia, in vista del modo in cui mi ha perseguitato in tutti questi anni,
dovrebbe quantomeno rassicurami, ma non è così. Al contrario, al solo pensiero
che Michael abbia messo piede fuori dal Groove, un peso grande quanto un
macigno mi opprime il petto.
Tranquilla, Grace. È in prigione. Non può farti nulla. Sei al sicuro.
Giusto. Sono al sicuro. Non ho nulla da temere.
Eppure di punto in bianco mi sento scalpitare dentro, il fiato viene sempre
meno e d’istinto mi porto la mano al collo. Ne sfioro la pelle delicata e candida,
mentre loro parlottano riguardo cose che nemmeno sanno.
«Quello è matto da legare. Andava a scuola con mio fratello maggiore e
passava le lezioni a disegnare tombe e omini senza teste. A sette anni».
Ben sorride. «Questo è niente. Da quanto ne so, in prima media ha aggredito
la sua professoressa di inglese perché lo aveva chiamato per nome».
«Già, ho sentito anche io parecchie storie raccapriccianti su di lui», sospira
Elisa. «Che angoscia, però. Chissà cosa gli passa per la testa per fare determinate
cose, chissà quello che ha vissuto, perché lo ha fatto... in fin dei conti è soltanto
un ragazzo».
Un brivido mi serpeggia lungo la schiena. Elisa è sempre stata un po’ come
me, quella comprensiva, quella che si ostina a vedere il buono anche dove non
c’è. Ma stavolta si sbaglia.
Perché no, Michael non è soltanto un ragazzo. Può averne l'aspetto, può
averne l'età, ma io lo so bene che dentro quell'involucro c’è molto più di quanto
si possa immaginare.
«Che cavolo stai dicendo, Elisa? Quel tipo ha stroncato non so quante vite e
ha aggredito un numero non identificabile di persone. Non me ne frega un cazzo
se ha sofferto di bullismo o se il papino lo picchiava da sbronzo. Non firmerò la
petizione soltanto perché quello psicopatico si merita di marcire dietro le sbarre
e soffrire ogni singolo giorno della sua merdosa vita!».
Sussulto bruscamente sul posto, sorpresa da tale foga. Sbarriamo tutti gli
occhi alle parole crude e al tono astioso di Ben. Non credo abbia mai conosciuto
sul serio Michael, o che lo abbia mai visto in giro, eppure il suo odio è quasi
tangibile.
Lo odia anche più di me.
Elisa prende una boccata d'aria e ridacchia per stemperare la tensione. «Però!
L'abbiamo presa un po' troppo sul personale qui, eh?».
«Baker è nato in questa cittadina, ha percorso le stesse strade che
percorriamo noi ogni giorno e ha frequentato le stesse classi dei nostri fratelli e
sorelle maggiori. Quindi sì, me la prendo un tantino sul personale, perché da
alcuni viene perfino visto come un idolo e altri cercano ancora di giustificare le
sue azioni a dir poco disumane. Avrebbero dovuto sbatterlo in galera già anni fa,
anziché darlo per pazzo e regalargli un bel lasciapassare, e infatti ecco il
risultato». Ben si volta nella mia direzione di scatto. «Tu lo hai conosciuto, no?
Sai che ho ragione».
Fosse così facile darti ragione, Ben.
Non riesco a rispondere. Ho le parole incastrate in gola, tant’è che rimango a
fissarlo come un’idiota senza emettere un solo fiato.
È Elisa a intromettersi. «Lasciala fuori da questa storia. Anzi, basta proprio
parlarne. Non sono affari nostri».
Per un lungo e logorante minuto restiamo tutti in silenzio, chi a meditare
sulle parole e chi, come me, a cercare di recuperare il respiro. Se c’è qualcuno
fra di noi che sul serio può arrogarsi il diritto di andare sul personale, quella sono
senz'altro io.
Perciò mi schiarisco la voce, afferro lo zaino e mi sollevo in piedi. «Okay,
uhm, resterei volentieri qui tutta la giornata a chiacchiere con voi, ma devo
tornare al Benetton. Oggi tocca a me lavare i piatti».
Elisa mette il broncio, stringendomi la mano. A giudicare dal suo sguardo
dispiaciuto, che sa più di quanto sappia chiunque altro, mi sta chiedendo se sia
tutto okay, quindi annuisco per rassicurarla.
Lei sospira. «D’accordo. Ci vediamo domani allora e, ti avverto in anticipo,
parleremo del tuo compleanno!».
«È il primo novembre, vero?», chiede Cody, una scintilla di euforia a saettare
fra le retine.
Anche a Ben brillano gli occhi quando confermo. «Figo. Dobbiamo fare
qualcosa di pazzesco per forza».
«È quello che continuo a ripeterle da due settimane, ma la guastafeste vuole
solo roba tranquilla».
«Buuu!».
«Lamentatevi quanto volete, tanto il discorso è già stato chiuso. A domani!».
Roteando gli occhi, sgombero il posto e corro fuori, non volendo protrarre la
discussione.
Avrei ancora un'ultima ora di chimica prima della fine delle lezioni ed è una
stronzata quella dei piatti, ma ho bisogno di fuggire. Ho bisogno di tornare nella
mia camera e sentirmi al sicuro.
Ho bisogno di ripercorrere quei corridoi, di rivivere situazioni e ricordarmi
tutte le ragioni per cui devo odiarlo. Ho bisogno di prepararmi.In caso torni. In
caso gli venga in mente di portare a termine ciò che ha iniziato quasi sette anni
fa.
I polmoni prendono a bruciare, mentre percorro a piedi la zona centrale della
cittadina, ben distante dal molo. Il Sole mi fa sudare il lembo di pelle dietro la
nuca. Per fortuna ho messo la protezione e indosso un cappellino, altrimenti
avrei rischiato di ustionarmi. Cerco di assaporare l'odore dell’aria pulita e
calmarmi, ma nulla sembra funzionare.
Sentir parlare di lui mi ha scosso come un terremoto di magnitudine
catastrofico. Che cosa potrebbe succedere se lo me lo ritrovassi davanti?
Accelero d'impulso il passo e, dopo aver superato le palazzine, inizio a
lanciarmi occhiate furtive attorno e alle spalle. La paranoia sta iniziando a
giocarmi brutti scherzi: sono arrivata addirittura al punto di sentirmi osservata. E
per quando raggiungo lo Pfeiffer Big Sur State Park, dove gli edifici storici
lasciano il posto alle foreste di sequoie e platani, comincio a correre.
Il cuore rimbomba nel petto. Lo sento ruggire come un leone. Per poco non
inciampo in un rametto e una sensazione orribile mi si avvolge con maestria
attorno alle vie respiratorie.
Quegli occhi... quegli occhi di ghiaccio...
No. No. No.
Scuoto la testa. Devo smetterla.
Michael non è qui.
Smettila, Grace.
Deglutendo, rallento la corsa ma tengo comunque un passo veloce. Quella
brutta sensazione non vuole saperne di abbandonarmi. Mi lancio un'altra
occhiata alle spalle, ma le ombre degli alberi hanno voglia di giocare sporco,
perciò impongo a me stessa di finirla e sbrigarmi a raggiungere il Benetton.
Questione di pochi attimi e posso ricominciare a sentirmi al sicuro oltre quel
cancello, così pieno di persone. Dentro di me, sono perfettamente consapevole
che se Michael fosse a piede libero e volesse raggiungermi, non sarebbe di certo
un cancello a ostacolarlo. Ma gli sono scampata via già una volta, proprio tra
quelle mura. Magari riuscirei a sfuggirgli di nuovo.
«Grace!».
«Santo cielo!». Balzo per aria, non appena una manina mi afferra l'indice.
«Reese, per la miseria, mi hai spaventata».
«Ops», ridacchia la piccola, che prende a trascinarmi in direzione del vecchio
edificio grigio a tre piani, tutto in pietra e deprimente. «Mi sei mancata oggi.
Perché tu puoi andare a scuola e io no?».
Le sorrido con dolcezza, carezzandole quella delicata testolina bionda.
«Anche io ho dovuto fare le elementari qui. Vedrai che quando inizierai le
medie, la direttrice ti lascerà andare».
«Uffa, manca ancora così tanto alle medie».
«Passerà prima che tu te ne accorga, Reese». Le scocco un piccolo bacio
sulla testa, poi sciolgo l'intreccio delle nostre mani. «Devo andare in camera. Tu
hai bisogno di qualcosa?».
Apro il portone a due ante, di suggestione storica, e metto piede nell'atrio
antico decorato da quella vecchia carta da parati rosso acido. Poi aggiusto il
colletto del vestitino bianco di Reese. Sembra un angelo.
Lei scuote il capo, intanto che saliamo le scale in legno, dirette al secondo
piano. Il primo è riservato ai ragazzi. «No, volevo solo parlare un po' con te. Mi
sono annoiata tutto il giorno!».
Mi scricchiola lo sterno. «Va bene. Allora andiamo nella sala comune,
forza».
«Non dovevi andare in camera?».
«Ci andrò dopo, non importa. Preferisco stare con te».
«Sì!», esplode in un sorriso tutto sdentato, capace di calmarmi il cuore troppo
agitato. «Mi devi insegnare a giocare a scacchi, ti ricordi?».
«Certo che mi ricordo».
Reese è la mia persona preferita qui dentro. Lasciata dai genitori che aveva
soltanto due anni, ormai fa parte della mia vita. Fa parte di me. È mia sorella
minore, un pezzo di famiglia che devo proteggere a tutti i costi.
Tuttavia, basta mettere piede nella sala comune per capire che c’è qualcosa
che non va. A parte i più piccoli, presi dai loro giochi, la maggior parte dei
presenti se ne sta con la testa china e lo sguardo perso.
Perfino Margot, che di solito è una grandissima stronza, nonché mia
compagna di stanza fin dagli albori, non pronuncia parola. Rimane appollaiata
nella poltrona scucita a rimuginare su chissà cosa.
Alla televisione appesa alla parete il telegiornale, ormai concluso, sta
cedendo il posto a una sitcom famosa, quando Miss Eleonor, con aria grave, mi
si avvicina.
«Grace», soffia, lo sguardo provato. «Hai saputo?».
Aggrotto le sopracciglia, mentre un brutto presentimento mi arroventa la
gola. «Cosa?».
Miss Eleonor sospira, si tortura le dita scheletriche. «Io… io non so come
dirtelo.»
«È una cosa tanto brutta?», emetto una risatina forzata.
Lei apre le labbra sottili, ma non fa in tempo a dire nulla perché la vocina di
Reese ci sovrasta.
«Chi è Michael Baker? Il tuo fidanzato?», cinguetta.
Miss Eleonor sbianca, io sbianco. Mi volto in fretta verso la bambina,
trovandola con il mio cellulare in mano. Non ho idea di quando me l’abbia
sfilato dalla tasca, ma non ho la testa per soffermarmici.
Il telefono si schianta a terra. Mi tappo la bocca, sopprimo il grido che preme
per uscire e spaccare i vetri. Passo a toccarmi il petto, timorosa sia scoppiato. La
testa sta per esplodermi.
«Grace, tesoro, mantieni la calma», prova a tranquillizzarmi Miss Eleonor.
Mi afferra dalle braccia, ma non sento nulla. «Andrà tutto bene. Non è detto
che…»
Cerco di respirare con la bocca, ma è tutto bloccato. Ho tutto in gola.
Cazzo, cazzo, cazzo!
«Oh mio Dio», mugugno. «No, no, no».
«Respira, piccola. Respira. Dì a Ginny che oggi non andrai a lavorare alla
caffetteria e resta qui a riposare, d’accordo?».
Mi sfugge un singhiozzo, non ascolto Miss Eleonor. Raccolgo il cellulare.
Ben: OMG. BAKER È FUGGITO. HALLOWEEN DA BRIVIDO.
Rileggo un’ultima volta, incapace di crederci. Spengo il telefono e mi
asciugo l’unica lacrima sfuggita via. Quindi mi rivolgo a Reese, che mi osserva
confusa.
«Andiamo a giocare».
Michael Baker è a piede libero.
Non si ricorderà di te, Grace.
Anche se ha provato a ucciderti, vedrai che non si ricorderà di te.
Lo spero.
Altrimenti sarà un Halloween di sangue.
DUE

GRACE

Grace: 9 anni.
Michael: 13 anni.

Fissai i due bastoncini a lungo. Margot li stringeva nel suo palmo, senza
poterne rivelare la lunghezza, e attendeva soltanto che io mi decidessi a sfilarne
uno.
Destra o sinistra?
Schiusi le labbra, pronta a rivelare la mia decisione, ma poi cambiai idea.
Cambiai idea un sacco di volte nell'arco di tre secondi.
«Entro l'anno prossimo, Grace», sbuffò Margot, usando quel tono antipatico
e da fanatica che non mi era mai piaciuto. Lei non mi era mai piaciuta. «Scegline
uno e basta, che cavolo!».
Deglutii. «Okay», fiatai e, sotto gli sguardi curiosi degli altri bambini, sfilai il
bastoncino di sinistra.
Avevo preso il rametto corto.
«Oddio, menomale», sospirò di sollievo la mia compagna di stanza, prima di
rivolgermi un sorriso mezzo sdentato. «Tocca a te, dolce Gracie! Avanti, cosa
stai aspettando?».
Cosa stavi aspettando, Grace?
Passai il peso da un piede all'altro, tenendo il mento basso con le ciocche
chiare che mi coprivano il viso.
«I-io non... non voglio farlo». Fu più debole di un sussurro, eppure lo sentii
rimbombare con l'eco all'interno della camera di Jonah, dove ci eravamo tutti
riuniti di nascosto.
Nessuno parlò per quelli che pensai fossero cinque secondi. Dopodiché sentii
afferrarmi dalle spalle, forse era proprio Jonah, mentre Margot mi tappava la
bocca per impedirmi di gridare.
Di sottofondo, udivo le risatine degli altri e lacrime amare vennero a
bussarmi dietro le palpebre. Ero la più piccola fisicamente, una bambolina di
pezza che loro reputavano un fantasma. Ero albina. E non andava bene.
«E invece lo farai, perché il gioco ha stabilito così e noi abbiamo fame!»,
sputò fuori Jonah.
Killian aprì la porta e mi fece lo sgambetto quando venni spinta in avanti.
Caddi sul pavimento, sfregiandomi le ginocchia con le schegge di legno che
fuoriuscivano dalle assi.
Lo sapevo che non avrei mai dovuto credere alla loro falsa gentilezza quando
mi avevano invitata. Lo sapevo, non ero così sciocca, eppure avevo accettato.
Volevo soltanto che mi reputassero loro amica.
Li ascoltai ridere di nuovo di me, non appena Jonah mi puntellò il piede sulla
schiena per indurmi ad avanzare. Calde lacrime mi rigarono le gote, ma mi
rifiutavo di far sentire loro il mio pianto.
«Allora? Ti dai una mossa o dobbiamo spingerti anche giù dalle scale,
fantasmino?».
Quindi mi alzai in piedi e, sempre a testa bassa, camminai con cura verso il
piano inferiore, dove c'erano la cucina e le dispense. Inspirai ed espirai più volte
mentre scendevo le scale e pregavo affinché non cigolassero. Girovagare di notte
per l'istituto e rubare le scorte di cibo era severamente vietato. Se mi avessero
scoperta, sarei stata punita.
Non avevo mai ricevuto una punizione prima. Ero sempre stata una brava
bambina, fin da quando mi avevano portato in quel posto tetro e triste. Otto
mesi, me ne stavo lì a piangere da ben otto mesi.
Ora che la mamma e il papà non c'erano più, mi sentivo sempre scoperta. Ero
vulnerabile senza di loro, senza la mamma che mi pettinava i capelli la sera e il
mio papà che mi baciava la fronte quando mi rimboccava le coperte. Erano state
delle brave persone, i miei genitori, e mi mancavano tanto. Volevo solo poter
tornare a casa con loro e scordarmi di quelle brutte mura, di Margot, Jonah,
Killian e tutti i loro amichetti cattivi.
Ingoiai un singhiozzo e, piano, aprii la porta della cucina. Poi sgusciai tra gli
armadietti fino alle dispense, dove trovai tutto il cibo che usavamo per fare
colazione. Optai per prendere il vasetto di biscotti, visto che ce n'erano in gran
quantità e nessuno ne avrebbe sentito la mancanza. In preda a non so neppure io
cosa, decisi anche di concedermene uno solo per me, in totale solitudine.
Godetti del sapore della marmellata che mi si sciolse sulla lingua e leccai le
briciole che mi erano rimaste sulle dita. Me ne infilai uno nella tasca del
vestitino grigio che mi arrivava fino alle ginocchia; lo avrei mangiato una volta
rimasta sola e lontana da quel gruppetto.
Poi, vasetto sottobraccio, decisi che era giunto il momento di fare ritorno. Per
fortuna nessuno mi aveva ancora scoperta, ma era meglio non giocare con il
fuoco. Qualcuno avrebbe potuto beccarmi da un momento all'altro e dovevo
evitare che accadesse.
Avevo sentito storie orribili riguardo le punizioni. Sulla camera nera. Se
disobbedivi alle regole, la direttrice Caroline ti rinchiudeva lì dentro al buio da
sola per un giorno intero. Si vociferava fosse tana di ratti, altri avevano detto
puzzasse di pipì ed escrementi e poi c'era quella leggenda riguardo a un bambino
entrato e mai uscito.
Il solo pensiero mi fece fremere e stringere le gambe dal terrore. Non volevo
fare quella fine. Non volevo ritrovarmi al buio e non volevo che i topi mi
rosicchiassero le dita dei piedi. Mi sfuggì un piagnucolo e il labbro inferiore
cominciò a tremarmi, non appena poggiai il piede sul primo scalino. Per fortuna
non cigolò. Salii con scaltrezza, stando ben attenta a dove camminavo, mentre il
cuore mi martellava nel petto come un tamburo senza sosta.
Era davvero questa la vita che mi attendeva nell'orfanotrofio se nessuno mi
avesse adottata? Un'esistenza di bulli, prese in giro e paura?
Cercai di regolarizzare il respiro, man mano che superavo i piani, fino a
raggiungere quello maschile, dove sapevo che fossero tutti in attesa del mio
ritorno col bottino. Speravo che quei biscotti sarebbero bastati, poiché fare un
altro viaggio era fuori questione. Le luci erano tutte spente. La sola
illuminazione proveniva dai raggi lunari filtrati dalle finestre e tutto ciò serviva
solo a rendermi ancora più irrequieta. Stavo per farmela addosso.
«Margot?», sussurrai, quando mi ritrovai nelle vicinanze della stanza di
Jonah. Era chiusa. La porta era chiusa. Non c'era più nessuno. «Margot? Jonah?
Killian? Ehi, sono tornata... i-io...», deglutii, sollevando il vasetto. «Io ho preso i
biscotti...»
Alzai il braccio libero, pronta a bussare contro il legno rovinato, quando
improvvisamente la luce del corridoio si accese facendomi sobbalzare sul posto.
Mi pietrificai all'istante. Restai immobile, con ancora il braccio sollevato e la
bocca schiusa, mentre passi urgenti e furiosi si muovevano nella mia direzione.
Poi una mano mi afferrò dai capelli costringendomi a voltarmi e l'espressione
furente della direttrice entrò nella mia visuale un po’ sfocata. Cazzarola. Aveva i
lineamenti taglienti induriti e gli occhi spalancati dalla rabbia, tanto che quasi
me la feci sotto.
«Che cosa stai facendo?», sibilò, lasciandomi andare con uno strattone, e mi
tolse via dalle mani il vasetto di biscotti. «Sei andata a rubarli dalle dispense?».
No, no, no!
Aprii la bocca, pronta a cantare come un pappagallo e confessarle che mi
avevano obbligata, che io non volevo, che avevo dovuto farlo per forza e che mi
dispiaceva tanto, ma alle sue spalle spuntarono quelle ciocche rosse che tanto
disprezzavo e il ghigno malefico più fastidioso che avessi mai visto.
Margot. Avrei dovuto aspettarmelo.
«Sveglia oltre l'orario stabilito, infrazione nel dormitorio maschile e furto
nelle dispense. Hai idea di quanto ti costeranno tutte queste infrazioni,
signorina?», continuò la direttrice, per poi afferrarmi dall'orecchio e tirare. «Mi
ero fatta delle aspettative su di te, Grace Martin, e mi hai delusa. Ringrazio che
la tua compagna si sia preoccupata della tua assenza e sia corsa ad avvertirmi,
altrimenti chissà cos'altro avresti combinato!».
Era una iena già da piccola.
Spalancai le palpebre, scioccata. Era stata tutta una trappola e io ci ero
cascata con entrambe le scarpe. Preoccupata per me, certo. Fremiti di rabbia
sostituirono la paura e un istinto animale mi fece tremare le mani dalla voglia di
strapparle i capelli e scucirle via quel sorrisetto dalla bocca.
«M-ma io...», balbettai, cercando di spiegare e dire la verità, tuttavia la presa
sul mio orecchio si fece più intensa e mugolai dal dolore.
«Nessun ma! Non voglio sentire altro! E adesso vieni con me, senza fiatare.
Vedremo se così ti verrà un altro colpo di testa».
Puntai i piedi, tentai di sottrarmi, piansi come la mocciosa che ero e scossi la
testa più volte, cercando di chiarire la situazione, cercando di scappare
all’inevitabile. Fu tutto inutile e ne guadagnai soltanto un ceffone e,
probabilmente, qualche ora in più di punizione.
La direttrice mi trascinò con forza, mentre il mollettone sulla sua testa
sembrava sul punto di voler cadere, e mise fine alle mie grida con un altro
schiaffo. Ormai avevo perso la sensibilità anche all'orecchio.
«Frignare non ti servirà a nulla», brontolò, graffiandomi il braccio con le sue
unghie. «Questo, invece, ti sarà da lezione. Così la prossima volta che vorrai
infrangere le regole, ci penserai due volte. Avanti, forza! Staccati!».
Si era fermata in un corridoio che non avevo mai visto prima. Avevamo fatto
le scale, superato il piano terra e proseguito ancora più sotto. Il freddo laggiù si
stava di già insinuando nelle mie ossa, oltre il vestitino leggero che indossavo
come pigiama.
Scossi la testa più volte, pregandola, arrivando addirittura al punto di tentare
la fuga perché c'erano dei rumori strani attorno a me, ma la direttrice non ne
voleva più sapere di me e delle mie lamentele. Mi agguantò dai capelli
stringendoseli nel pugno e, sotto le mie urla, spalancò una porta per poi
buttarmici dentro e richiuderla a chiave prima che potessi rendermene conto.
«No, no, no!», urlai a perdifiato, battendo i pugni contro il metallo. Questa
non era fatta di legno. «Non è giusto, non è giusto! È tutta colpa di Margot, e di
Jonah, e di Killian! Non è giusto!».
Scoppiai in un pianto disperato, la gola mi bruciava a causa delle urla e dei
versi strozzati che continuavo a emettere, mentre le nocche e i palmi mi si erano
arrossati a furia di colpire la porta.
«Non è giusto, non è giusto», persistevo nel singhiozzare, abbassai di un tono
la voce ogni volta che ripetevo la frase.
Alla fine mi accasciai e scivolai per terra, abbracciandomi le ginocchia
pallide che tirai al petto. Iniziai a piangere in silenzio, perché a quanto pareva
fare rumore non mi sarebbe servito a nulla. Mi doleva il cuore. Non riesco
tutt’ora a credere che esistano persone, ma soprattutto bambini dotati di una
simile malvagità. Non lo vedevano che mi facevano del male? Come potevano
riderne? Come poteva loro compiacere il mio dolore?
Mi asciugai gli occhi e le guance con fastidio, perché no, non se le
meritavano le mie lacrime. Non si meritavano neppure la rabbia o la sofferenza
che provavo. Li odiavo. Sapevo che l'odio era qualcosa di forte, qualcosa che
andava ben oltre il semplice bisticcio; era un sentimento che non andava a
braccetto con ciò che mi avevano insegnato i miei genitori, che erano stati dei
paladini dell’amore.
Ma era anche vero che i miei genitori ormai non c'erano più. Ero rimasta sola
e sempre da sola avrei dovuto sbrigarmela.
Lentamente, comunque, cominciai a calmarmi. Non avevo idea di quanto
tempo fosse passato prima che il pianto si placasse, ma iniziai a regolare il
respiro e darmi un'occhiata attorno. Era per davvero tutto buio. C'era puzza di
chiuso e di muffa, ma nessuna pipì o altri escrementi. E per il momento neppure
nessun topo che volesse mordermi le dita.
Stavo per sospirare dal sollievo, quando lo sentii. Ogni mio singolo nervo si
paralizzò e il terrore tornò ad affacciarsi sulle mie spalle. C'era qualcuno lì con
me. Ne sentivo il respiro lento, adagio e profondo. Mi aveva ascoltata per tutto
quel tempo senza dire nulla?
Deglutii. «C-c'è... c'è qualcuno? I-io mi dispiace se... se ti ho disturbato...»
Avvertii soltanto uno scricchiolio di assi, come un cambio di posizione, ma
nessuna risposta. Il mio battito accelerò.
«N-non volevo darti fastidio, ma», inspirai di scatto, quando sentii un
fruscio. Si stava muovendo. «Ma, ecco, pensavo non ci fosse nessuno. Scusami
ancora».
Sbattei le ciglia, cercando di sforzarmi e adattare la vista al buio, ma tutto ciò
che riuscivo a vedere era il nulla cosmico. Per di più il mio astigmatismo non era
molto d’aiuto. L'unico raggio di Luna, che arrivava da un buco in cima alla
parete, illuminava uno strappo che andava dalla mia bocca fino alla spalla destra.
Nient'altro.
«Come ti chiami? Sei un ragazzo o una ragazza?», azzardai a fare domande,
dopo aver recuperato una dose di coraggio che non credevo di avere. «E perché
non mi rispondi? Mi stai spaventando».
Altri scricchiolii. Altri fruscii. Si muoveva con lentezza, a dimostrazione che
non gliene fregava proprio nulla della mia paura. Poi quel poco di luce venne
oscurato da una figura e due scarpe toccarono le punte delle mie.
Timorosa, sollevai il viso e riconobbi la statura di un ragazzino più grande di
me. Forse anche più grande di Jonah e Killian. Aveva i capelli corti sparati
ovunque, ma non riuscivo a vedere altro all'infuori dei contorni. Trattenni il fiato
quando lo vidi inginocchiarsi di fronte a me, dando possibilità a quel taglio di
diamante di illuminargli una ciocca di capelli. Biondo. Era biondo.
«Che stai facendo?», sussurrai.
Non sapevo per quale ostica ragione, visto che non aveva fatto nulla per
convincermi del contrario, tuttavia la paura aveva smesso di scorrermi addosso.
Adesso ero più... incuriosita da tutto quello. Intrigata.
Fredde mani si avvolsero dietro le mie caviglie sottili, per sorreggersi, e un
fremito di disagio mi schiuse le labbra. Se si accorse del mio imbarazzo, non lo
diede a vedere e, comunque, se ne fregò.
«Perché non è giusto?».
Come un lenzuolo di seta, quel mormorio mi scivolò sulla pelle delicata.
Inumidii le labbra. «Perché mi hanno obbligata a rubare in cucina. Io non
volevo farlo. Ma qui mi odiano tutti e vogliono solo farmi del male. Non ci
voglio più restare in questo posto del cavolo».
Lui sbuffò una risatina cupa, uno spiffero di vento che si abbatté sulle mie
guance. Era più vicino di quanto pensassi, eppure non avvertivo alcun fastidio.
«Sono soltanto dei bambini dispettosi. Ignorali e sarai più forte di loro»,
mormorò, insidioso, poi fece scivolare le dita ruvide sul mio mento per
stringerlo. «Il male è ben altro, bambolina».
Aggrottai le sopracciglia. «Bambolina?».
«Sei bella come una bambolina».
Fui sicura di essere arrossita. Nessuno mi aveva mai detto che ero bella, al
contrario, e non avevo idea di quanto riuscisse a scorgere del mio volto, ma
apprezzai lo stesso.
«Da quando le bamboline sono albine?».
«Da quando sono vere».
Lì per lì non compresi cosa volesse intendere. Forse un giorno l’avrei capito
o magari me l’avrebbe spiegato. Fatto sta che appurai fin da subito che lui era
diverso, non era come gli altri.
«Il mio nome è Grace».
«So chi sei, Grace Martin». L'alito caldo raggiunse il mio collo e sentii la
morbidezza delle sue labbra accostarsi al mio orecchio. «Io so tutto. Io vedo
tutto, anche se voi non vedete me».
Sbarrai le palpebre al tono minaccioso, eppure macchiato da una tale
malinconia da farmi mordere l'interno guancia.
Anche se voi non vedete me.
Questo significava che era lì da tanto tempo? Che se ne stava sempre
rinchiuso? E se fosse stato quel bambino mai tornato indietro?
E poi aveva i capelli biondi. Non eravamo così tanti al Benetton ed ero
abbastanza certa che nessun ragazzo avesse quella chioma. Perciò mi sarei
ricordata di lui se l'avessi visto.
Una nota di empatia mi scosse lo stomaco e, d'istinto, portai una mano sulla
sua, ancora stretta attorno al mio mento, soltanto per lasciargli una piccola
carezza. Per fargli capire che non sarebbe più stato solo. Che da quel momento
in poi, io l'avrei visto. Nessun bambino meritava di stare da solo.
«Che stai facendo?». Fu il suo turno di girare la domanda e sorrisi appena.
«Una carezza».
«Una... carezza», ripetette, quasi fosse la prima volta che sentiva quella
parola e volesse custodirsela con cura. «Una carezza».
«Sì, una carezza. Bella, vero? La mia mamma me le faceva sempre».
Forse avevo appena detto la cosa sbagliata, perché si discostò con uno scatto
e indietreggiò, ridandomi uno spazio che non volevo.
Era la prima volta dopo tanto tempo che riuscivo a parlare con qualcuno
senza ricevere scherni o spinte. Senza sentirmi dare del fantasma. Non importava
che l'unico scorcio che avessi fossero solo due ciuffi biondi. Ciò che contava era
godermi il mio momento di pace. E finalmente riuscivo a percepire di nuovo
quel calore che mi era tanto mancato.
Non volevo che finisse.
«No, per favore, non te ne andare», mormorai.
«Dovresti volerlo invece». La sua voce si era fatta più tenebrosa, dura. Aveva
perso ogni sua sfumatura di dolcezza.
«E perché?».
«Sono pericoloso. Così dicono. Così pensano. Così credono».
«E lo sei per davvero?».
«Non so rispondere a questa domanda», ammise. Poi rise a bassa voce, ma
non gli chiesi cosa lo divertisse così tanto.
Mi premurai piuttosto di fargli un'altra domanda. «E chi sei me lo sapresti
dire?».
«Saprei dirti tante cose, Grace, peccato che tu ancora non sia pronta»,
ridacchiò, di nuovo quell'oscurità maligna impressa in suoni armoniosi.
Dopodiché aggiunse: «Mi chiamano tutti Michael Baker, ma tu chiamami
Michael, bambolina. Soltanto Michael».
Stavo per chiedergli per quale motivo avesse specificato quel "soltanto
Michael", poiché era ovvio che avrei usato il suo nome. Ma non me la sentii di
indagare troppo. Il discorso era già stato fin troppo pesante. E, infondo, sapevo
fin dal principio che a prescindere da tutto per me sarebbe stato sempre Michael.
Perciò infilai una mano nella tasca del mio vestitino e ne tirai fuori un dolce
bottino di guerra.
«Allora... Chiamami Michael, ti va un biscotto alla marmellata?».
TRE

GRACE

Quando conobbi Michael avevo soltanto otto anni e fu del tutto un caso del
destino a farci incontrare. Dovevo scontare una punizione e, nella foga, la
direttrice sbagliò stanza in cui chiudermi. Mi aveva gettata in quello spazio
fatiscente privo di luce, riservato al pericoloso Michael Baker, colui che aveva
ucciso padre e madre a soli dieci anni, inconsapevole di ciò che avrebbe
scatenato.
Nessuno ne ha mai saputo il motivo, il perché abbia fatto una cosa simile.
Questa è una notizia che spetta solo a chi di dovere esserne a conoscenza, fatto
sta che all'epoca credevo che Michael non fosse così cattivo. Credevo che fosse
un'innocua vittima della vita. Che se aveva fatto una cosa del genere, allora
doveva essergli stato fatto di peggio.
Solo in seguito ho compreso che esistono situazioni più grandi di noi. La
comprensione arriva fino a un certo punto, ha un limite che non può essere
superato. La verità è che ricondurre l’esistenza a concetti blandi come buono o
cattivo è fin troppo superficiale. Soprattutto per uno come Michael che non ha
mai avuto la concezione di giusto o sbagliato, Michael agisce e basta. Può
accarezzarti e poi piantarti un coltello nel cuore senza porsi alcun tipo di
problema.
La mattina del trentuno, per ovvie ragioni, le scuole restano chiuse e, in vista
di Halloween, il sindaco ha deciso di imporre il coprifuoco. La notizia di un
assassino a piede libero, per di più durante una notte come quella dove tutti
girano mascherati, ha scombussolato l'intera cittadina.
Ha scosso me. Non ho chiuso occhio per l'intera nottata, troppo concentrata
nell'osservare l'ambiente che mi circondava. Temevo che Michael potesse
sbucare da un momento all'altro e non volevo che mi cogliesse di sorpresa.
A rigor di logica, la giornata in istituto l’ho passata come uno straccio. A
pranzo è stato sul serio il mio turno di lavare i piatti e, tra una sciacquata e l'altra,
mi sono fatta scappare non so quanto sbadigli.
Dopodiché ho trascorso l'intero pomeriggio a giocare con Reese nella sala
ricreativa. Le sto insegnando l’arte degli scacchi, ma ne ha ancora di strada da
fare per poter realizzare partite meritevoli di essere chiamate tali. D’altronde, io
sono la prima che ne ha ancora da imparare in merito.
Poi abbiamo disegnato. Non sono mai stata brava a farlo e nemmeno Reese
da quello che ho potuto vedere, ma comunque ci siamo divertite.
«Queste siamo noi due», le ho detto, indicandole due omini con i capelli
biondi.
«Lo attaccherò alla parete sul mio letto. Però dovremmo fare i tuoi capelli
più bianchi, non credi?».
«Come faccio a fare dei capelli bianchi su un foglio bianco?».
«Bella domanda».
Quel piccolo demonio è un concentrato di disastri, ma se c'è una cosa in cui è
dannatamente brava, quella è di sicuro farti venire il mal di testa. Reese ha una
lingua lunga e non chiude mai il becco. L'adoro soprattutto per la parlantina
vivace che ha, ma passare un intero pomeriggio con lei è da matti. Rischi di farti
scoppiare il cervello.
Ragione per cui, dopo averla smollata a un bambino della sua stessa età,
arrivato lì da poco, sono corsa a rintanarmi nella mia stanza. Peccato che nulla
vada mai come previsto.
«Che cazzo, Margot!», sbotto e richiudo la porta di scatto.
«Resta fuori, Gracie!», mugola in un mezzo ansimo, mentre uno dei tanti
ragazzi con cui ha una tresca continua a sbattersela contro il muro della mia
stanza.
Mi strofino le mani lungo il viso. Odio Margot per ragioni che non hanno
nulla a che vedere con il suo spirito libertino, ma non esiste che me ne rimanga
qua fuori ad attendere i suoi porci comodi.
«Ti avverto, sto per entrare e non me ne frega niente dell'uccello in bella
vista del tuo giocattolo!».
«No, non ci provare!».
«Vuoi scherzare, Margot? Faccio quello che voglio!».
Riabbasso la maniglia e compio il mio ingresso trionfale, mentre il ragazzino
si sbriga a ricoprirsi il culo con un paio di boxer blu. Non lo degno di un misero
sguardo, piuttosto fisso gli occhi in quelli neri di Margot che se ne sta appoggiata
alla parete mezza svestita.
Di contro, accompagnata dalle sue guance rosse e le labbra gonfie, lei mi sta
trucidando con lo sguardo.
«Ehm... ci vediamo, Margot», biascica imbarazzato il tipo, che
probabilmente ha qualche annetto in meno di noi, prima di defilarsi.
«Sei contenta adesso?», sibila la stronza, incrociando le braccia al petto. Ha
ancora la gonna tirata sulla pancia e gli slip allentati, ma se ne frega. «Cosa ci
hai guadagnato nel rovinarmi la scopata? Te lo dico io: niente. Resterai
comunque la solita sfigata, vergine e gelosa».
«Certo, Margot, il mio unico obiettivo nella vita è assicurarmi che tu non
faccia sesso», sbuffo una risata, poi apro l'armadio e comincio a tirarne fuori i
miei pochi effetti personali. «Credimi, sei l'ultimo dei miei pensieri al momento.
Se vuoi scopare, lo fai lontano dal mio letto».
La divisa da cheerleader blu e bianca spicca sul copriletto, insieme ai libri di
scuola, i vestiti che uso ogni giorno, le creme solari e i miei medicinali. Inizio a
gettare tutto alla rinfusa dentro al mio borsone, cercando di non farmi trascinare
troppo dalle emozioni.
«Che stai facendo?», domanda Margot, d'improvviso dimentica di quello che
è appena successo. «Te ne vai?».
«Preparo la mia roba. Domani compio diciott'anni, te ne sei dimenticata?».
«E quindi? Puoi fare la richiesta di altri tre anni, Grace. Io l'ho fatto e, infatti,
sono ancora qui».
Sollevo le sopracciglia. «Mi stai sul serio chiedendo di rimanere? Tu?».
«No. Ti sto solo dicendo che non c'è bisogno di fare la vittima
melodrammatica come tuo solito, e con quel pazzo in giro non è sicuro che tu te
ne stia per strada».
Un fremito mi formicola lungo le mani, tuttavia inghiotto qualsiasi timore.
Non voglio che veda quanto ancora mi faccia tremare il solo pensiero. Non
voglio che veda quanto sto soffrendo, con queste piaghe che sanguinano la notte.
D’istinto mi copro le orecchie con i capelli e volto la testa nella sua direzione,
scoprendo che si è data una sistemata. Adesso ha un aspetto quasi decente.
«Non mi avrebbero mai accettata. La direttrice mi detesta e tu lo sai. E poi
dovrei fare a prescindere almeno sei mesi fuori di qui, richiesta o meno».
Non le dico che temo Michael possa presentarsi qui, che mi sento più al
sicuro lontana da un posto che conosce fin troppo di noi. Margot sospira,
annoiata dalle mie repliche taglienti, sicché agita la mano e si siede sul mio letto.
«Non durerai granché lì fuori da sola, Gracie. Sei sempre stata la più fragile,
soprattutto in questo momento. Ricordi?».
Indurisco le mandibola. Devo imporre a me stessa di non prenderla a schiaffi.
Prendo un respiro profondo, afferro la mia collana d'argento e me la lego al
collo. Il ciondolo a forma di re riflette la luce della lampadina.
«Io ricordo soltanto di una cerchia di bulli che se la prendeva con la nuova
arrivata, con l’albina di turno. Per il resto non preoccuparti, Margot, mi sono
fatta le ossa. So vedermela da sola».
«Visto? Come sempre devi fare la vittima. Svegliati, Grace! È successo anni
fa e abbiamo pagato per ciò che abbiamo fatto. Qualcuno più di altri».
«Stai zitta, maledizione!», sbotto, stanca di quel suo blaterare senza sosta.
«Tu non hai pagato proprio niente, Margot. La tua vita è andata avanti come se
niente fosse e sei ancora qui, a tormentarmi e rendermi impossibile respirare. Ti
dispiacerebbe lasciarmi in pace almeno il mio ultimo giorno? Sto chiedendo
troppo?».
La osservo inspirare a fondo e stringere le labbra in una linea retta. Poi
scuote il capo, facendo ondeggiare la sua chioma rossa, e calpesta i piedi in
direzione della porta.
«Come vuoi, stronza», sputa, brusca. «Ma lascia che ti dica un'ultima cosa:
sei stata tu a fartelo amico. Non io. Non gli altri. Tu, Grace. Eppure guarda come
è andata a finire».
Il tonfo della porta che si chiude risuona in concomitanza con il mio singulto.
Stringo gli occhi per impedire a quell'infimo senso di colpa di sopraffarmi.
Per quanto possa odiare Margot, ha ragione: sono stata io. Gliel'ho porta io
quella mano a Michael, sono stata io a dargli uno scorcio della mia luce per
permettergli di uscire dal buio. L'ho trascinato io nelle nostre vite e ciò che è
successo dipende soltanto da me.
Premo la base del naso tra indice e pollice, la piccola vescica sotto l’unghia
mi carezza la pelle. Cerco di regolare il respiro e reprimere tutto il casino che
vuole tanto ribaltarmi.
Andiamo, Grace, hai una missione da portare a termine.
Alzo lo sguardo sul soffitto e rimango in quella posizione, finché le lacrime
non cessano di battere dietro le retine. Poi torno al mio borsone e finisco di
riempirlo. Le mani mi tremano ancora e l'inquietudine non ha alcuna intenzione
di mollarmi, tuttavia continuo. Non permetterò mai alla direttrice e il suo ghigno
soddisfatto di svegliarmi, insieme agli assistenti sociali. Non permetterò loro di
buttarmi fuori a calci in culo.
A denti stretti, infilo la divisa bianca e blu che avevo lasciato sul letto, quindi
indosso un cardigan per coprire le braccia e applico un trucco scuro e rossetto
rosso. Maledetto Halloween. E maledetta Elisa.
Scrivo un veloce biglietto, dove prometto a Reese che ci rivedremo presto, in
cui le assicuro che non la sto abbandonando. Tornerò a riprendermela, prima o
poi. Il cuore scricchiola quando apro la finestra e lancio il borsone sul manto
erboso. Dopodiché inizio a calarmi lungo le spesse radici che corrono lungo la
parete.
E poi corro. Corro, corro e corro, fino a farmi bruciare i polmoni. Fino a
tossire per la fatica. Sto dicendo addio al Benetton. Dopo anni di odio, prese in
giro e privazioni. Ce l’ho fatta. Non so cosa ne sarà della mia vita, la paura
dilaga in me, ma combatterò fino all'ultima briciola di speranza.
Spifferi perfidi si inoltrano oltre la mia pelle troppo scoperta mentre i rami
della foresta frustano con forza, ma non mi fermo. Scaccio di nuovo quella
sensazione di qualcuno che mi sta osservando, intanto che il buio della notte cala
attorno a me.
Dove vai, bambolina?
Spalanco le palpebre, ma continuo a correre. Ormai le mie gambe hanno vita
propria. La mia testa rimugina, scavalca ricordi e mi getta addosso voci che
voglio solo dimenticare.
Eppure sembrava così reale...
Di questo passo finirò per impazzire. Non rallento neppure quando mi ritrovo
a calpestare il cemento della via principale. I ragazzini gironzolano vestiti da
diavoli, zombie, vampiri, chi in vena di recuperare i dolcetti e chi dispettoso di
fare guai.
Nessuno fa caso a me, ognuno perso nella propria fantasia, ignari di chi
possa esserci in agguato sotto la maschera. Sono ancora all'incirca le nove di
sera, a breve scatterà il coprifuoco e tutti si stanno riducendo all'ultimo per
divertirsi e godersi gli ultimi momenti.
Quando raggiungo la St. Gerard mi brucia il petto e ho il fiato corto, difatti
mi piego in avanti per recuperare le energie. La brezza della sera soffia contro la
gonnellina che indosso, ma non me ne curo.
Raddrizzo la schiena e riprendo ad avanzare. Il cortile del liceo è illuminato
soltanto dai due lampioni centrali, mentre l'ingresso vanta un faro che funziona a
intermittenza. Inquietante, cazzo.
Raggiro l'entrata principale per dirigermi verso la palestra, dove so che c’è
un altro ingresso. Grazie a Ben e ai suoi tentativi, abbiamo scoperto che la
serratura è rotta, quindi useremo tutti quell’accesso. Stringo con maggiore forza
la tracolla del borsone, provando a ignorare la tensione che grava sulle mie
spalle fragili, e spingo la maniglia. La porta cigola e devo insistere un po', ma
alla fine riesco nell'impresa.
«Elisa?», richiamo. «Ben? Cody?». Passo dopo passo, mi do un'occhiata in
giro. La tribuna è vuota, così come l'area di gioco. «Ehilà? Denver? Ma c'è
qualcuno?».
Alzo gli occhi al cielo e mi dirigo verso gli spogliatoi. L'accordo è che Elisa
e gli altri dovessero arrivare intorno alle sette, per assicurarsi che nessun altro
abbia avuto la nostra stessa idea, e poi attendermi. Magari con qualche bottiglia.
Le opzioni, allora, sono due: o stanno facendo gli stronzi e mi stanno tenendo
uno scherzo. O stanno facendo gli stronzi e sono sul serio in ritardo.
Sbuffo, accendo le luci fredde e lascio cadere il borsone su una panca, poi
tiro fuori il cellulare.
«Merda». Dimentico sempre che non prende alcunché negli spogliatoi.
Ucciderò Elisa. Non solo mi ha letteralmente costretta a riunirci in vista del
mio compleanno, nonostante il coprifuoco e i pericoli in allerta, ma si è anche
permessa di lasciarmi qui da sola in attesa.
Okay, sarei uscita comunque per rifugiarmi da qualche parte, visto che non
voglio svegliarmi l'indomani al Benetton e starmene in attesa. Però avrei potuto
optare per passare la nottata in qualche motel o roba simile.
Durante gli anni, consapevole del destino a cui sarei andata in contro, tra un
lavoretto e l'altro, ho messo qualcosina di parte. Abbastanza per cavarmela per
un paio di mesi, nell'attesa di riuscire a capire come mettermi in piedi e
sopravvivere. Lavoro anche nella caffetteria di Ginny a pomeriggi alternati,
magari potrei chiederle altri turni.
Stringendo le labbra, scuoto il capo; non mi va più di pensare a quello che mi
aspetta. Voglio solo godermi un momento per me. Ma, Cristo, Elisa me la
pagherà cara.
Mi inoltro per i corridoi della scuola e aspetto che compaiano le famose
tacchette sul cellulare. Le suole delle mie scarpe ticchettano a contatto con il
pavimento lucido.
«Dove diavolo sei? Sto iniziando a incazzarmi, Eli!», intimo, inviandole una
nota vocale quando non risponde alle chiamate.
La preoccupazione si fa strada dentro di me, più passa il tempo e più non
ricevo alcuna risposta. Da nessuno di loro. Svolto per l'ennesimo corridoio, dove
gli armadietti proiettano le loro ombre, e all'improvviso sento una porta sbattere.
Inspiro di scatto. Mi fermo, paralizzata. Cos’è stato?
Sobbalzo quando, quello che sembra un pugno, colpisce le ante degli
armadietti e un fischiettio inquietante si riversa nell’aria. Non può essere di certo
Elisa, diamine, lei neppure sa fischiare.
È l'istinto a guidarmi: ricomincio a correre. Corro come una matta verso la
prima uscita di emergenza, quella vicino alla mensa. Mi ci getto contro, salvo
poi scoprire che è chiusa. Che qualcuno l'ha chiusa.
Il sangue si gela nelle mie vene.
«Cazzo», sibilo, nel frattempo uno strano ululato si libra nell'aria e... è
sempre più vicino.
Poi risatine, e passi, e risatine, e ancora colpi, e di nuovo ululati. Stridii,
come lame che strusciano.
Boom. Boom. Boom.
Il cuore batte, frenetico, e le gambe riprendono a muoversi allo stesso ritmo.
Entro nella mensa, scoprendola in disordine, con tutte le sedie disseminate
ovunque, e le scavalco in preda all’agitazione. Raggiungo l'altro accesso della
stanza, proprio quando iniziano ad aprirsi le stesse porte da cui sono entrata io.
Ma nell'attimo esatto in cui faccio per uscire, una mano mi tappa la bocca e
un'altra si avvolge attorno al mio fianco.
«Bu», sussurra una voce, e io urlo.
Urlo più forte che posso e carico una gomitata nelle costole del mio
assalitore, facendolo imprecare.
«Ma che cazzo, Grace!».
Mi volto e gli assesto un'altra manata sulla testa. Sono furiosa, maledizione.
Furiosa e terrorizzata a morte.
«Piccola, basta!».
«Vaffanculo, Denver!», sbotto, pronta a picchiarlo ancora, se non fosse per la
presa di Cody. «Vaffanculo a tutti, mi avete spaventata da morire!».
«Già, quello era lo scopo, bella», ridacchia quello che credo sia Ben. Non ne
sono proprio sicura, visto che indossa un lungo lenzuolo e grandi occhiali da
sole. «E comunque è stata tutta un'idea di Cody. Ci eravamo stufati di aspettarti».
«Fanculo, baby, fai proprio schifo come partner», pronuncia la voce alle mie
spalle, le braccia ancora strette attorno a me. «Che bisogno c'era di dare la colpa
a me? Tanto vi siete dimostrati tutti d'accordo».
«Sì, beh, quando ho accettato non pensavo che mi sarei ritrovato pieno di
lividi», borbotta Denver, mostrandomi il suo trucco da zombie.
Giocatore di football zombie, per la precisione. Wow, originale. Proprio
come me, in effetti. Forse è per quello che siamo una specie di coppia. Anche se
voglio ancora prenderlo a pugni.
Digrigno i denti. «Ah no? E cosa vi aspettavate, baci e carezze?».
«Andiamo, fatti una risata», si intromette Elisa, tenendo una bottiglia di Jack
in mano, intanto che Cody mi lascia andare. «Era solo uno scherzo. Sai anche tu
che doveva succedere».
Assottiglio le palpebre, quindi le strappo la bottiglia di mano e ne bevo un
sorso generoso nonostante il suo sguardo di rimprovero. L’esofago mi va in
fiamme. «E questa dove te la sei rimediata, Mercoledì Addams? Non credo
proprio che alla stazione di servizio abbiano creduto a quel documento falso da
quattro soldi che ti sei fatta da sola».
«Il fratello di Cody ci augura buon Halloween», ammicca.
«Oh, maddài, non dirmi che ti scopi mio fratello!».
«Io non ho detto niente», ridacchia lei e, per quanto possa avercela con loro,
finisco per ridere anche io.
Una mano mi tira bruscamente indietro e due braccia avvolgono i miei
fianchi. Poi Denver mi bacia la guancia, lo lascio fare. Mi piacciono le
attenzioni.
«Pace?», mormora al mio orecchio, prima di mordermi il lobo, e mugolo un
cenno di assenso.
Lascio che l'alcol mi bruci di nuovo la gola, prima che Elisa me lo strappi via
con impeto, mentre Denver distende un palmo sul mio basso ventre.
«Forza, andiamo a imbrattare l'ufficio del preside», propone Ben, sfregandosi
le mani dall'eccitazione.
Elisa sbatte le ciglia, perplessa. «Per quale ragione vorresti deturpare l'ufficio
di tuo padre?».
«Uhm, pronto? Proprio perché è mio padre possiamo farlo. Usa un po' il
cervello, stellina. È ovvio che abbiamo il culo di già parato».
«Ma così non è più divertente», protesta Denver contro la mia tempia e,
incredibilmente, lo appoggio. «Facciamo in questo modo. Io e Grace ci
occupiamo della palestra, voi tre della mensa. Sono i luoghi dove si riuniscono
più persone».
«Visto, Elisa? Non è difficile! Se ti sforzassi, scopriresti che ce l'hai perfino
tu un po' di materia grigia».
«Ben», lo riprende Cody, il mietitore. «Lasciala un po' in pace, dài».
«Sì, Ben, lasciami in pace, cazzo». Lei riduce lo sguardo a una fessura e lo
punta al ragazzo alle mie spalle. «E tu, stai ben attento a ciò che fai. Ricordati
che io ti osservo sempre».
«Ricevuto, Mercoledì», scherza. «Ora possiamo andare? Perfetto, ciao».
Non attende neppure una risposta. In un lampo, mi fa girare tra le sue braccia
e l'attimo dopo gli sto penzolando sulla spalla a testa in giù.
Ma cosa...
«Denver!», strillo. «Mettimi giù!».
«A dopo, ragazzi!», urla lui, dandomi una pacca sul sedere. «E adesso ci
penso io a te, piccola».
«Ci vediamo dopo!», grida Elisa in risposta, mi limito a scuotere la mano.
Stringo il bordo della giacca di Denver tra le dita e arriccio le labbra a ogni
sussulto. «È davvero necessario? No, perché fino a prova contraria sono
perfettamente in grado di camminare da sola».
«Lo so, ma sai quanto mi piace fare il troglodita», sogghigna, mordendomi la
coscia, e sobbalzo. «Quanto cazzo sei morbida. Voglio mangiarti tutta».
«Purtroppo devo metterti al corrente che sono contro il cannibalismo».
E non sono affatto morbida.
Denver scoppia a ridere, dopodiché mi fa scivolare lungo il suo corpo,
impedendomi di allontanarmi di un solo centimetro. Siamo arrivati in palestra, in
prossimità del primo canestro del campo da basket, e le luci sono tutte spente.
Fisso lo sguardo in quello di Denver. Il suo nocciola è fuso, puro liquido
destinato a infiammarsi, e so che ha tutte le intenzioni di trascinarmi in
quell’incendio. Mi avvolge i fianchi nella sua presa, avvicina il volto al mio e
sospira sulle mie labbra.
«Non dovremmo fare i vandali e imbrattare questo posto?», deglutisco,
inclinando il capo all'indietro.
Denver solleva l'angolo della bocca, in quel sorrisetto che ha sempre fatto
andare su di giri tutte le ragazze. Tutte, tranne me. Le sue mani scivolano fino al
mio fondoschiena, e non capisco cosa ci trovi di così tanto eccitante visto che
sono più ossa che altro.
«Stavo pensando più a un altro tipo di divertimento», mugola, stringe la
presa e mi sbatte contro il suo corpo.
Prima che possa rendermene conto, la mia schiena si addossa alla parete e le
braccia di Denver mi stanno alzando a suo gusto e piacimento.
Inspiro, sentendolo tra le mie cosce. «E... e se facessimo un gioco?».
«Mmh». Nasconde il viso nell'incavo del mio collo, dove comincia a
seminare baci bagnati e languidi. Il mio disagio aumenta a dismisura, ma lui
pensa solo a spingersi contro di me e gemere. «Stavolta niente giochi, piccola.
Solo io e te».
Il sorriso mi trema sulle labbra, mentre dita fredde mi accarezzano le natiche
e il suo bacino comincia a strusciarsi contro il mio.
«Denver», lo richiamo appena comprendo che non si fermerà. Lui mi bacia
per farmi stare zitta. «Denver, no...»
«Shh, non avere paura», sussurra sulla mia bocca, prima di lambirla con la
lingua, e infila una mano tra i nostri corpi per sfiorarmi attraverso le culotte.
«Rilassati, piccola. L'ho già fatto altre volte. Ti farò stare bene. Fidati di me».
Impongo a me stessa di mantenere la calma. D'altronde, che problemi ho?
Probabilmente sono l'unica ragazza della St. Gerard ancora vergine e quello
davanti a me è il più figo della scuola, colui che tutte vogliono ma che ha scelto
me. Per quale dannata ragione devo respingerlo? Perché non posso essere
normale e aprirgli le gambe senza fare troppe lagne?
Eppure, quando lo sento sbottonarsi i jeans e abbassare la lampo, quando lo
avverto nel mio interno coscia, pronto ad abbassarmi ciò che lo separa dalla
meta, il mio corpo reagisce di vita propria.
«No, Denver, no», protesto, dimenando le gambe. «Smettila, non voglio farlo
così!».
«Rilassati, cazzo», sbuffa, supera la soglia delle culotte per toccarmi con le
dita. «Lo sai che ti amo, vero? Non ti farò del male, Grace. Sono pazzo di te dal
primo anno, voglio solo farti godere».
«No, no, no», dico senza fiato.
Percepisco i suoi polpastrelli tastare la mia carne, premere per farsi spazio e
mi salgono le lacrime agli occhi. Faccio pressione sulle sue spalle per spingerlo
via, sto annaspando nel panico e non so cosa fare. Come ci si comporta in queste
situazioni? Come si fa a lottare contro il senso di impotenza e farsi valere?
«Fermati», fiato, tirandogli i capelli e cercando di bloccargli il polso, ma lui
ridacchia come se fosse soltanto uno scherzo. Come se stessi solo giocando a
fare la difficile. «Ti prego, Denver, fermati!»
Si avvicina, per baciarmi forse, quando un pallone arriva a tutta forza e lo
colpisce dietro la testa. Di riflesso mi dà una testata sul naso, facendomi male
cane, e candido sangue mi cola sulla bocca. Maledizione, ho il naso troppo
sensibile.
«Cazzo!», sbotta lasciandomi cadere a terra, poi si volta.
Nonostante il dolore, sospiro dal sollievo e cerco di asciugarmi il sangue
dalla faccia. Devo andarmene alla svelta da qui. Non solo perché voglio mettere
quanti più metri possibili tra me e questo stronzo, ma ho una brutta sensazione
cucita sotto l’epidermide. Soprattutto quando un faro si accende dall'altro lato
del campo e mi ferisce le iridi.
«Ehi, stronzo, fatti avanti!», ringhia Denver, avanzando in quella direzione.
«Se credi che abbia paura, ti sbagli di grosso!».
Mi appoggio alla parete, trattengo il fiato, intanto che denso liquido rosso mi
macchia tutta la divisa. Elisa si incazzerà tantissimo, ma in questo momento me
ne importa meno di niente.
«Allora? Dove ti nascondi, sfigato? Ora non ti va più di giocare?».
Rimango nella stessa posizione. So che dovrei dare ascolto alla mia testa a
scappare via, ma non vedo più Denver. C’è soltanto questa fottuta luce accecante
che mi sta distruggendo gli occhi. Non oso chiamarlo. Ho il respiro incastrato
nelle corde vocali, e l’unico suono che sento è lo scalpiccio di scarpe che
strusciano. Un suono stridulo, quasi fastidioso, finché uno stridio sinistro non mi
fa sussultare.
Il cuore mi batte più forte, striscio all’indietro e poi sussulto quando un colpo
secco, come un tonfo, mi fa accapponare la pelle. D’improvviso, cala il più tetro
dei silenzi e brividi di paura mi ricoprono da capo a piedi.
Affondo i denti nel labbro inferiore. «Denver?». Nessuna risposta. «Ragazzi,
se è un altro dei vostri scherzi, giuro che me ne vado e chiudo la nostra amicizia
per sempre!».
Maledizione, Grace, certo che è un altro dei loro scherzi!
È quasi mezzanotte, il tuo compleanno. Vogliono solo spaventarti.
Emetto un respiro più rapido, e lentamente mi rialzo in piedi. «Avanti, non ci
casco più! Potete uscire allo scoperto!».
Dentro tremo. Deglutisco, mi fermo al centro del campo e attendo. Non so
cosa nell'esattezza, ma io aspetto. E non devo attendere molto, perché di punto in
bianco una palla rotola in fretta fino ai miei piedi.
Peccato che quando abbasso lo sguardo non ho bisogno di una seconda
occhiata per capire che quella non è una palla. No.
È la testa di Denver. Recisa. Ho la cazzo di testa di Denver ai miei piedi che
mi sta fissando.
Sgrano le palpebre e, d'istinto, grido a squarciagola con tutto il fiato che ho
in corpo, mentre il principio di un infarto mi fa esplodere il petto.
«Oh mio Dio», singhiozzo, portandomi una mano alla bocca per strozzare
l'ennesimo urlo, e indietreggio. «Oh mio Dio!».
Scappa, bambolina.
La sua voce rimbomba nel mio cervello e nemmeno mi importa che sia reale
o meno. Scappo davvero.Corro verso lo spogliatoio, dove ho lasciato il mio
borsone con tutto il necessario al suo interno. Le lacrime bruciano lungo le
guance e il terrore mi chiude la gola.
Non posso andare nei corridoi, non posso portarlo — perché so che è lui, non
si tratta di una coincidenza — da Elisa e gli altri. Non commetterò lo stesso
errore due volte. Anche se... cazzo, Denver.
Singhiozzo, precipitandomi alla borsa che macchio di sangue, e la apro in
fretta, prima di passare al setaccio.
«Dov'è», piagnucolo, arrivo al punto di rovesciarla. «Merda, merda...
dov'è...»
Il tintinnio dell'acciaio mi riscuote e allungo la mano, pronta a recuperare il
mio coltello e usarlo, quando un braccio si avvolge attorno alla mia vita e un
palmo mi tappa naso e bocca. Strillo come una pazza contro la pelle e mi agito
su un petto robusto, mentre lui intensifica la presa.
No, no, non deve andare così! Non deve andare così!
«Ciao, bambolina», sussurra al mio orecchio. Il respiro viene meno. «Ti sono
mancato?».
La testa gira, lui non vuole farmi prendere ossigeno. Me ne sta privando.
Provo a prenderlo a gomitate, provo la tecnica del peso morto o di pestargli il
piede, ma niente sembra funzionare. Le palpebre si fanno pesanti. No, no, non
così!
Combatti, Grace, non arrenderti. Combatti!
«Te l'avevo detto che sarei venuto a riprenderti», biascica, la sua voce dura
sembra più distante. «Tanti auguri, Grace».
Poi... il buio.
QUATTRO

GRACE

Grace: 9 anni.
Michael: 13 anni.

«Sai giocare a scacchi, bambolina?».


Fu quella la prima frase che mi rivolse Michael, quando, per l'ennesima
volta, venni rimessa in punizione.
Lo facevo per lui. Ne combinavo di tutti i colori: non svolgevo i compiti,
rubavo nella dispensa, tiravo i capelli a Margot e lanciavo i temperini in faccia a
Jonah. Qualsiasi cosa, pur di passare del tempo con lui.
A volte capitavo nella stanza accanto alla sua, ma riuscivamo a parlare
attraverso la grata. Altre Michael sgattaiolava nella mia, o altre ancora la
direttrice sbagliava, anche se di rado. Ormai aveva capito quello che stavamo
costruendo noi due, peccato che non me ne importasse granché.
Io e Michael ci eravamo incontrati per un fortuito caso del destino, un banale
errore di distrazione, ma ero stata io a scegliere di tenerlo con me.
Sì, sono stata io a sceglierlo.
Michael, colui su cui viaggiavano storie raccapriccianti e fantasiose, un
povero bambino rinchiuso nella folle solitudine, io l'avevo scelto. Lo avevo fatto
nello stesso momento in cui avevo compreso che era stato l'unico a condividere
un biscotto con me.
In tutto quel viaggio infinito, coperto di incertezze e tentennamenti, avevo
trovato il mio limite, un estremo che mi impediva di varcare la soglia della
sofferenza e gettarmici a capofitto. E quella dolce casa aveva ciuffi chiari e occhi
spettrali, di una bellezza diabolica. Vantava la voce vellutata, quasi una favola
che veniva raccontata ai più temerari bambini.
Seduta sul materasso impolverato e pieno di acari, scossi il capo. «No, non
so giocare. Tu?».
«Vuoi imparare?». Inclinò il capo, inginocchiandosi di fronte a me e
guardandomi dal basso delle sue lunghe ciglia.
«Non abbiamo la scacchiera».
«Rispondi, Grace. Vuoi imparare?».
Strinsi la stoffa della mia gonna scozzese in un pugno. «Sì, mi piacerebbe».
«Bene», pigolò, poi produsse uno scricchiolio di ossa nell'alzarsi in piedi.
«Aspetta un momento».
La piccola finestra posta in alto filtrò abbastanza luce affinché potessi
guardarlo bene. Un po' di ombre gli scavavano le guance e le iridi sapevano di
vuoto, eppure era incantevole. Sembrava disegnato, scolpito direttamente nel
marmo per quanto i suoi lineamenti fossero perfetti. Immaginavo che fosse
l’esatta rappresentazione di bello.
Lo osservai piegarsi in avanti, nella mia direzione, e quasi soffocai quando
mi sovrastò in tutta la sua altezza e presenza ingombrante. Spalancai gli occhi
d'istinto, cercando di farmi piccola piccola.
«Che stai facendo?», squittii, imbarazzata.
Gli sfiorai la linea del collo con la punta del naso. Respirai il suo profumo.
Sapeva di bagnoschiuma da discount, uno di quelli economici che facevano pure
da shampoo, uno uguale al mio, ma su di lui stava bene. Non faceva così schifo
come su di me.
Il calore della sua pelle, intanto che il braccio destro si sporgeva oltre la mia
spalla, mi avvolse come una coperta. Era così rassicurante, avrei voluto davvero
tanto raggomitolarmi contro il suo petto e non lasciarlo andare mai più. Quando
si scostò e mi privò di tutte quelle belle sensazioni, lasciandomi al freddo della
sua assenza, mi mostrò la scacchiera che reggeva tra le mani.
«E questa da dove spunta?», biascicai, confusa.
Michael si strinse nelle spalle. «Da dietro il letto».
«E perché era lì?».
«Perché ce l'ho messa io».
«Io... lasciamo perdere», sospirai. Cavargli di bocca delle risposte chiare e
sensate era una missione fin troppo ardua ed esasperante. «Quindi mi insegni?».
Lui si limitò ad annuire, dopodiché sistemò sul letto la scacchiera, proprio in
mezzo a noi. La aprì, rivelando al suo interno gli scacchi bianchi e neri.
Lentamente, con una certa riverenza e venerazione che ammirai, li dispose in
ordine, stando attento a ogni pedina. Affondò i denti nel labbro inferiore,
davvero concentrato e quasi maniacale.
«La torre», mormorò, indicandola negli angoli. «Può muoversi in orizzontale
o verticale di un qualsiasi numero di caselle, purché non salti sopra agli altri
pezzi. Il cavallo, invece, procede con una sequenza a L, al contrario dell'alfiere
che segue rette diagonali». Poi puntò un altro pezzo. «La regina, o la donna, è
tua amica, bambolina. Devi saperla usare, perché è l'unica che possa muoversi in
qualsiasi senso e in qualsiasi numero di caselle. Il re può muoversi anch'esso in
qualsiasi direzione, ma di una sola casa, ed è colui che devi proteggere. Se
catturato o intrappolato, perdi». Infine passò alla seconda fila. «I pedoni vengono
definiti gli scacchi più deboli, ma in realtà sono essenziali poiché sacrificabili.
Bisogna solo sapersela giocare bene. Loro possono spostarsi di un solo spazio in
avanti, soltanto quando li muovi per la prima volta puoi concederti due passi. Fin
qui tutto chiaro?».
Per una che si trovava davanti a una scacchiera per la prima volta, era di già
un mucchio di roba da ricordare, ma Michael era talmente bravo a modellare la
voce e a spiegare che mi si impresse tutto all'istante.
Perciò annuii. «A cosa servono queste lettere e numeri?».
Sfiorò i bordi in legno. «Nominano la sezione delle caselle. Come in
Battaglia Navale».
«Capito. Giochiamo?».
Michael contrasse la bocca rosea e a cuore, indeciso sul da farsi, ma alla fine
acconsentì. «Sì, deduco che questo sia il modo più veloce per apprendere»,
sussurrò, più a sé stesso che a me. «Inizi tu, hai il bianco».
«Quindi chi ha i bianchi inizia sempre per primo?».
«Esattamente».
«Bene», mormorai, assottigliando le palpebre, e mossi un pedone. «Così?».
«Sì, ma il mio consiglio è di occupare il centro. Ti conferisce un maggiore
potere, poiché hai più libertà di movimento e, di conseguenza, più scelte e mosse
possibili».
«Okay, okay, ci sono».
La sua bocca ebbe uno spasmo. La vidi incresparsi, mangiarsi un sorriso che
avrei voluto scorgere con tutta la dirompente forza del mio affetto, ma mi
accontentai. Era comunque qualcosa di mio, tutto mio, e lo avrei custodito.
Sorrisi io per lui.
Lo feci per tutto il tempo in cui io sbagliavo e lui mi correggeva. Più
andavamo avanti, più Michael spiegava riguardo le varie aperture, che stavano a
significare strategie vincenti. Mi fece provare il Gambetto di Donna, poi la
Difesa Siciliana, la Partita Spagnola, la Partita Inglese, e tante altre ancora.
Parlò riguardo a trucchetti, quale l'arrocco o il pedone che diventava regina.
A un certo punto smisi di capirci, volevo ascoltare la sua voce e basta. Tanto
vinceva sempre lui. Gli bastavano un paio di mosse per mettermi sotto scacco il
re, prima di finire in un clamoroso scacco matto. Ogni volta.
Era unico al mondo. Gli altri bambini o ragazzi non avevano niente a che
vedere con lui, che stracciava la competizione soltanto con uno sguardo. Era
bambino e adulto nello stesso corpo, Michael. Lo avevo capito fin da subito.
Di tanto in tanto si perdeva. Andava via con i pensieri e rimaneva nel vuoto
del suo sguardo. Lo faceva spesso, si incantava a guardare un punto impreciso e
si estraniava dal mondo per un po’. Io ero sempre lì ad aspettarlo, rispettosa dei
suoi momenti. Bisognava attendere un po', ma alla fine tornava ogni volta.
«Sai cosa ci vorrebbe adesso? Una bella fetta biscottata con la Nutella», dissi
all'improvviso, dopo ore passate a giocare.
Michael, perso in qualche suo universo, intanto che rimetteva al proprio
posto gli scacchi, sollevò appena il capo, il necessario per potermi rifilare
un'occhiata.
«È buono?».
«Cavolo se è buono. Non l'hai mai assaggiato?».
Lui scosse la testa. «No, non credo. Non ho mai mangiato dolci, a parte quel
biscotto». Irrigidì la mandibola, finendo per estraniarsi di nuovo con la mente.
Qualcosa si ruppe dentro di me e sospirai. Cosa era successo a quel ragazzo?
Me lo avrebbe mai detto? Ne dubitavo. Io non avevo il coraggio di chiedergli
niente e lui non voleva gettarsi in alcun vortice. Chi mai avrebbe potuto fare del
male a una simile creatura? Quale crudeltà gli aveva macchiato quella pelle di
porcellana?
Avevo tante di quelle domande e nessuna audacia di porgerle.
Semplicemente allungai la mano e tolsi la scacchiera dalle sue, per rimettere in
ordine. Michael si riscosse, ma non disse nulla. Se ne stette seduto a osservarmi,
cercando di scavarmi dentro con quelle pozze di cristallo.
«Mi fai una carezza?».
Fu impossibile reprimere un sorriso. Lo sentii tirarmi gli angoli delle labbra,
volenteroso di esplodere, ma gli concessi di prendersi dello spazio un po' alla
volta, timorosa di spaventare Michael. Lui non era abituato alla felicità.
«Sei ancora più bella quando sorridi, bambolina», aggiunse, appena le mie
dita finirono in quella ragnatela di ciocche bionde. Socchiuse le palpebre. «Non
avere paura di farlo. Non avere paura con me. Non tu».
Qualcosa mi si smosse nella gabbia toracica, smorzandomi il respiro, e le
mani tremolarono. È che... Michael diceva spesso cose del genere, ma usava un
tono talmente distaccato che ti faceva dubitare se avesse davvero pronunciato
tali parole. E probabilmente fin da allora avrei dovuto accorgermi di simili
allarmi.
«Io non ho paura di te, chiamami Michael», sussurrai, tuttavia. «Perché
dovrei avercela?».
Ero una bambina di nove anni senza nient’altro che non fosse lui. Per me
Michael era tutto il mio mondo.
Mi tremò sotto le dita, intanto che spostava il tavoliere per lasciarsi cadere
sul mio grembo. Si appoggiò alle mie gambe a palpebre calate, donandomi ogni
suo respiro.
«Ti ho vista il giorno in cui sei arrivata», fiatò contro i miei polpastrelli che
continuavano a lasciargli carezze, senza rispondere alla mia domanda. Lui
faceva sempre così. «Ero su nella mansarda. Ti eri aggrappata alle sbarre del
cancello e non volevi entrare. Tu piangevi, bambolina, e io mi chiedevo che
sapore avessero le lacrime. Piangevi anche quando ti hanno portata da me.
Piangi spesso. Eppure... quando io sono con te non lo fai mai, no, al contrario,
mi sorridi, Grace. Perché?».
Fu quello il momento in cui mi resi conto che Michael fosse un cumulo di
pezzi rotti e mal incastrati. Lui non riusciva a comprendere lo sfogo del pianto,
non capiva perché le persone sorridessero o piangessero. Non capiva i sentimenti
o le emozioni. Perché nessuno glielo aveva mai insegnato, e nemmeno a oggi
saprei dire se sarebbe mai stato in grado di impararlo.
Mi attorcigliai un ciuffo attorno all'indice e lui chiuse gli occhi, beandosi del
mio tocco. «Tu non mi dai motivi per piangere, Michael. Ti basta come
risposta?».
«Se per te è abbastanza, allora lo è anche per me».
Feci una smorfia alla battuta criptica. Parlava in quel modo vago, non dava
mai una risposta coincisa e diretta. Ogni volta dovevo interpretare le sue parole.
Dio, quanto volevo che sentisse, che provasse, che piangesse. Che smettesse di
essere un dolore costante.
«Dovrei andarmene, bambolina. A breve tornerà la direttrice».
«No, resta ancora un po'. Non so quando potrò tornare di nuovo».
«Ti mancherò?».
«Sì, Michael, mi mancherai. Sei tutto ciò che ho qui dentro, lo sai?».
Incastrò quegli occhi di vetro nei miei laghi ghiacciati, rubandomi ancora una
volta il fiato. «Tu sei tutto ciò che ho io e basta, invece. Qui dentro, fuori,
ovunque. Ma adesso devo andare». Si risollevò, lasciandomi frastornata. «Cerca
solo di non esagerare con i guai».
«Va bene. Promesso».
«Alla prossima punizione, bambolina».
«A presto, Michael».
Rimasi a osservarlo sgattaiolare fuori e correre a proteggersi oltre le mura
della stanza di fianco. La mia colonna, un po' scheggiata e decadente; questo era
Michael a quel tempo.
«Grace?», mi richiamò attraverso la grata.
«Sì?».
«Buonanotte».
CINQUE

GRACE

Freddo. È la prima cosa che sento. Avverto gli spifferi pungolarmi la pelle
nuda ed esposta ancora prima di aprire gli occhi. Un senso di spossatezza mi
intorpidisce gli arti, mentre la puzza di muffa e di chiuso continua a pizzicarmi le
narici. Mi trattengo dall'arricciare il naso.
Ormai sono sveglia da un po'. Ma lui non deve saperlo, perciò continuo a
fingere, cercando di reperire quante più informazioni possibili. Cercando di
dominare il panico, di non pensare, di non ricordare. Se mi lasciassi trasportare
da tutto questo, non uscirei mai viva da qui.
Percepisco il cuore scoppiarmi nella cassa toracica, con i polmoni che si
accartocciano come vecchi giornali. Le ossa mi fanno male. Trattengo le lacrime
dietro le palpebre calate.
Mi ha presa. Non sono riuscita a sfuggirgli, non sono riuscita a farmi valere.
Ho permesso alla paura di avere la meglio, e adesso lui è qui, a pochi metri da
me. Lui è qui, cazzo.
E Denver è morto. Decapitato. Denver è morto. Lo ha ucciso. E la sua testa
mozzata l’ho vista rotolarmi fino ai piedi. Non dimenticherò mai una cosa
simile. Mi tormenterà in tutti i miei incubi, un'aggiunta a quelli che già ho.
E gli altri, gli altri stanno bene? Elisa, Ben, Cody...
La percezione del tempo mi è sfuggita dalle mani, possono essere passate ore
così come giorni.
Concentrati, Grace. Ragioniamo.
Inspiro profondamente. Non avverto alcun peso ai polsi alle caviglie. Posso
muovermi liberamente. Mi ha sul serio lasciata libera?
Probabilmente dovrei ritenermi offesa. Sta sottovalutando la mia
combattività. Dopotutto lui ha ancora in mente quella povera bambina che
correva a rifugiarsi al buio per ogni timore, che andava a piangere da lui per
paura di affrontare una realtà che non le piaceva. Ma io non sono più quella
bambina.
Freddo. Chiuso. Muffa. Vecchio. Libera. Dove diavolo sono finita?
Mi soffermo sull'udito. Michael è sempre stato fin troppo silenzioso, lo so
bene, eppure io... io posso avvertire la sua presenza. Ne sono sempre stata
capace, fin dall'inizio.
Deglutisco. Una perfida inquietudine mi si insinua dietro la nuca, sotto la
pelle, perché percepisco la sua presenza. Acuminando i sensi, posso quasi
sentirmelo addosso, feroce e implacabile, il rancore covato in quasi sette anni di
solitudine ribolle nell'aria fino a scivolarmi sulle labbra.
Poi mi fa dono del suo respiro. Ne trae uno profondo, per farmi capire che sa,
sa che sono sveglia.
Apri gli occhi, Grace. Aprili, studia, panifica. Fuggi!
Per quanto mi sforzi, però, i miei occhi non ne vogliono sapere. Io non ne
voglio sapere. Non voglio guardarlo, non voglio vederlo, non voglio
sprofondare. Non voglio realizzare. Ma lui continua a respirare. Lentamente,
quasi se la stesse godendo, persiste nell'attendermi.
Perciò alla fine, spinta da una dose di coraggio, lo accontento. Piano piano,
schiudo le palpebre. Millimetro dopo millimetro, respiro dopo respiro, apro gli
occhi. Nessuna luce mi investe le pupille, per fortuna. Si tratta di un fascio
appena accennato, proviene da una piccola finestra grande quanto la mia testa e
sbarrata, posta anche troppo in alto per me.
Per il resto, l'oscurità regna sovrana. D'istinto poggio le mani sul pavimento,
ma finisco soltanto per tastare qualcosa di morbido e a molle. Un materasso.
Sono seduta su un materasso sporco e nudo, abbandonato in quella che ha tutta
l'aria di essere una cantina abbandonata, a giudicare dall'odore e dalla stanza
spoglia.
Oltre a un congelatore fuori uso da chissà quanto tempo e delle scale che
conducono a una porta non c’è altro. Altro, che non sia lui. Intrappolata fra
quattro mura, ecco dove sono. Insieme a Michael. Io, Michael, il buio e un
materasso. Come un tempo.
Devo andarmene all'istante. Devo scappare. Prima di finire come Denver, o
di fare la fine di tutti coloro che hanno commesso il grave errore di imbattersi in
Michael.
Oso sbirciare un'occhiata nella sua direzione. Non mi spingo oltre il busto. I
suoi occhi sono troppo pericolosi, spettri senz’anima. Ingoio un altro groppo.
Inizio a sudare freddo, sebbene stia congelando. Indosso ancora la divisa di Eli.
I piedi nudi di Michael, incrostati di sangue e sporchi di terra, si trovano
distanti dalle scale. Più di quanto lo sia io. Lui se ne sta immobile, ha le piante
ferite. Non potrebbe mai fermarmi e, razionalmente, so che è fin troppo facile.
Avrà di sicuro chiuso a chiave la porta, che a occhio mi pare d’acciaio. Sono un
grissino che si regge a malapena in piedi. Non avrò neppure la forza per
spingerla, quella porta, eppure non posso fare a meno di guardarla pervasa dalla
disperazione.
Mi trema la gamba dal desiderio di buttarmici addosso fino a spezzarmi le
ossa, che io da qui me ne devo andare adesso. Non può permettersi di rubare
altro spazio della mia vita, ne ha preso già fin troppo. Dovrei restare ferma e
lasciargli fare quello che vuole? Dovrei forse farmi ammazzare senza opporre un
minimo di resistenza?
Sento i suoi occhi su di me. Il silenzio mi romba nella testa. Finché non
avessi aperto bocca, allora non l'avrebbe fatto nemmeno lui.
Un altro respiro. Un altro ancora. E ancora, ancora, ancora. Poi stringo i denti
e, appoggiandomi alla parete mi alzo con le ginocchia che vibrano dalla fragilità.
Mi macino il cervello a furia di pensare a una soluzione, ma non riesco a
trovarne e questo mi fa infuriare come solo Dio sa cosa.
«Mi hai rapita», biascico, sofferente.
Lui sta zitto.
«Tu… mi hai rapita», assodo di nuovo, la voce esce altalenante.
«Vaffanculo!».
Risalgo con lo sguardo fino al suo volto. Non solo resta ancora una volta in
silenzio, ma appare completamente indifferente alla vicenda. Ha la faccia di
pietra, gli occhi così vuoti che non riesco a scorgerne la fine.
Avanzo come una pazza nella sua direzione, incapace di controllarmi. «Che
diavolo vuoi da me? Fammi uscire, fammi uscire subito e lasciami in pace!».
Michael non fiata, se ne sta immobile a fissarmi senza alcuna emozione,
vitreo, subendosi le mie urla.
«Che cosa vuoi da me, eh?». Mi chino, lo afferro dal colletto della casacca
bianca, la divisa dell'istituto, e lo scuoto. «Parla, cazzo! Che cosa mi hai
trascinata a fare quaggiù se nemmeno apri bocca?!», mi sfugge un singhiozzo, e
lo scuoto così forte che lui sbatte la testa contro la parete.
Voglio ammazzarlo, voglio che abbia paura come ce l’ho avuta io per tanto
tempo e spezzargli il cuore in milioni di pezzi come lui ha fatto con me. E lui
non fiata, maledizione, non si dimena, non combatte, non fa niente. Se ne sta
solo qui, immobile, a guardarmi e a farsi scuotere, ed è proprio adesso che
commetto l'errore di fissare gli occhi in quei pezzi di vetro rotti.
Il fiato viene a mancarmi, le ginocchia tremano e cerco di rinsaldare la presa,
di rafforzare la pressione delle mie mani, ma quelle iridi... quei cristalli
dimenticati, quel luogo sperduto e malinconico sta cercando in tutti i modi di
trascinarmi in un mondo che non desidero ricordare.
Michael. Maledizione, è Michael. La mia casa, il buio che mi sono ostinata a
illuminare, il mio incubo, il mio tormento, la mia salvezza, il mio primo amico.
Il mio errore più grande.
«Rispondimi, cazzo!», gli grido in faccia.
E forse era perso nei suoi strani viaggi o visioni, perché sbatte le palpebre e
una piccola luce gli si conficca nelle retine. Sussulta.
«Grace», sussurra meravigliato e spregevole quanto la morte, soffocandomi
con la sua voce. Una mia lacrima gli ricade sulle ciglia. «Grace, sono io»,
bisbiglia di nuovo. «Bambolina, guardami, sono io».
Per un momento non so più a cosa sia dovuto il dolore che provo.
Tiro su con il naso. «Non osare», sibilo, la crosta sul dorso della mia mano si
riapre e ne cola del sangue visto quanto sto stringendo il pugno. «Non ti
rivolgere a me come se nulla fosse. Non dopo quello che hai fatto!».
Mi ascolta, so che fa attenzione a ogni mia singola parola e al mio tono
instabile, eppure pare fregarsene nel momento in cui sposta il capo e fa per
prendermi la mano sanguinante. «Attenta, Grace. Sei sempre la solita peste».
Quella stessa mano parte da sola. Si schianta sulla sua guancia. Va a
casaccio, non si tratta neppure di un vero schiaffo. Lo colpisco e basta, perché
sento di averne bisogno.
«Non provare a toccarmi», fiato.
Le sue palpebre si spalancano dal terrore, terrore puro, qualcosa che non mi
era mai capitato di vedergli impresso, ma non mi importa. Lo spingo, furente, e
poi indietreggio, col sangue che mi cola fra le dita e intrisa di una nuova
cattiveria che mi infetta il sangue già marcio.
«Ti farò soffrire. Rimpiangerai ogni singolo secondo di avermi portata qui, ti
farò pentire di tutto quello che hai fatto», singhiozzo, lo spingo di nuovo e lui
sbatte il capo ancora una volta. Con forza. «Vaffanculo, Michael Baker, mostro
psicopatico!»
È solo quando dico il suo nome per intero, e cavolo se so quello che sto
provocando, lo so eccome, che lui reagisce. Inizia a tremarmi sotto il mento e i
suoi occhi, di già vitrei, si riempiono di un'oscurità irrimediabile. Ma io ho
bisogno di fargli male, necessito di difendermi, di scontarmi.
Altrimenti non posso combatterlo.
Michael digrigna i denti, serrando le dita attorno ai miei polsi, prima di
spingermi via violentemente. Cado a terra, presa alla sprovvista, mentre lui si
ritira in fretta.
«Stai zitta», mi avverte.
Le ossa strillano dal dolore, i muscoli bruciano e i miei polmoni implorano
pietà. Eppure non mi fermo.
«No!», sbotto. «Non starò zitta. Non ti farò questo favore, non te lo meriti.
L’unica cosa che davvero meriteresti è tornartene da dove sei venuto!».
Il suo petto si solleva e abbassa sempre più in fretta. Lo osservo tirarsi i
capelli, raggomitolarsi su se stesso e stringere i denti, cercando di controllare il
mostro che ha dentro. Ma non può. Perché il mostro non ce l’ha dentro. Il mostro
è lui. Lui e basta. E forse sono peggio di lui, perché più vado avanti a colpire i
suoi punti deboli e più mi sento morire.
«Smettila, Grace», piagnucola, schiacciando la faccia contro le ginocchia.
«Non mi trattare così, per favore. Smettila!».
«Oh, questo è ancora niente». Mi rialzo in piedi, nonostante i dolori. La
rabbia mi sta divorando dall'interno, gli si vuole gettare addosso e sbranarselo.
«Hai capito? Non è niente rispetto a quello che hai fatto tu a me. O alle persone
che sono morte a causa tua. Quanti ne hai uccisi, Michael? Quattro, cinque,
sei?».
«Non me lo ricordo…».
«Te lo dico io. Cinque! Ne hai uccisi cinque! E mi hai portata qui per arrivare
a sei, vero?», mi lascio sfuggire una risatina sprezzante, lui scuote la testa come
un disperato e cerca di tapparsi le orecchie. «Non te lo permetterò, comunque. Se
sarà necessario, ti ucciderò con le mie stesse mani. Non mi incanti più…
Michael Baker».
Strizza le palpebre per non vedere le sue peggiori allucinazioni, ma è tutto
inutile. Quel buio lui ce l’ha nel cuore guasto. Non può sfuggirgli.
«Ti prego, basta», mugugna, sofferente, dandosi una botta sulla tempia.
«Basta, basta!».
«Tu fammi uscire da qui, scompari dalla mia vita e la smetterò!».
Non mi sono mai sentita tanto meschina come ora. La mia indole buona,
quella parte di me che infondo ancora appartiene a lui, si sta struggendo nel
vederlo sgretolarsi e pregarmi di aiutarlo. Ma non lo faccio. Al contrario. Gli
torno vicino per scuoterlo di nuovo e di risposta lui mi rigetta a terra,
bruscamente. La mia nuca si schianta sul pavimento, sbucciandosi e facendomi
piombare per un attimo nel buio.
Smetto di respirare per un paio di secondi.
«Mi dispiace, mi dispiace», ripete in una cantilena disturbante. «Mi dispiace,
bambolina. Ti ho detto di smetterla… io te l’ho detto. Così li fai arrabbiare…»
«Tu e le tue voci del cazzo potete fottervi insieme», ringhio, tornando a
sedere. «Lasciami andare!».
«Non posso!»
«E questo che cazzo significa? Apri immediatamente quella porta o giuro che
ti spacco la faccia, sociopatico che non sei altro!».
«Ti ho detto che non posso!», ribatte, nervoso. «Ho buttato via la chiave!
Siamo confinati quaggiù insieme, che ti piaccia o no, e adesso smettila!».
Spalanco gli occhi. Il mio intero corpo si paralizza. «Che vuoi dire? Mi stai
prendendo in giro, vero? Cosa intendi?».
«Esattamente ciò che ho detto». Si sistema in un angolo buio,
raggomitolandosi al sicuro. «Ora fa' silenzio. Ne ho abbastanza».
Socchiudo le palpebre ed esamino la situazione, mentre un familiare fuoco
ribelle torna alla carica. Vedo soltanto rosso. Il rosso del sangue che spargerò a
breve.
«Tu non hai la minima idea di quello che hai fatto».
Michael solleva impercettibilmente il capo. Un barlume di lucidità, di pura
determinazione gli schizza negli occhi quando incastra lo sguardo nel mio. «E
invece sì. Sei tu quella a non averne la minima idea».
Poi, prima che possa approfondire, torna nel suo mondo folle, oscuro, in cui
l’ho spinto io stessa in precedenza. E come quando ero una piccola stupida, mi
ritrovo ad aspettare che lui torni da me.
SEI

GRACE

Grace: 9 anni.
Michael: 13 anni.

«Hai un cuore buono, Grace. E quando penserai che sia un male, tu


continua a fare del bene».
Me lo diceva sempre la mia mamma. Me lo sussurrava la sera, mentre mi
pettinava quei capelli quasi bianchi che tanto le piacevano, prima di rimboccarmi
le coperte e baciarmi la fronte come solo lei sapeva fare.
Raccontava favole, la mia mamma. Bastava sentirla parlare per immergersi
in storie mai nate e lasciarsi cullare dalla delicatezza di una voce senza fine. Non
perdeva mai quel suo tono così pacato e dolce, lei, nemmeno quando si
arrabbiava. Nemmeno quando non le restavano che lacrime perché crescere una
figlia albina mica è facile.
Non mi poteva portare al mare, al parco di mattina o primo pomeriggio, e per
una come lei che viveva di sole doverlo imparare a odiare solo per me l’aveva
devastata. Mia madre era un angelo. A tutti gli effetti. E un po' la odio, perché se
sono cresciuta in un certo modo, è tutta colpa sua. Perché se solo mi passa per la
testa di comportarmi in una certa maniera, allora un infido verme comincia a
strisciarmi nella pancia.
No, Grace, tu non sei così, mi diceva a ogni stretta di denti, tu sei luce,
Grace, e devi illuminare, non spegnere.
Un paradosso malvagio. Sono luce, quando la luce in realtà è la mia più
grande nemica.
E allora la odiavo, da piccola, quando ancora non capivo. La odiavo così
tanto, per tutte le volte che l'avevo e avrei continuato a deluderla. Perché il
confine tra la bontà e il dolore era sottile, e io balzavo da una parte all'altra senza
sosta. Senza fermarmi mai.
Perché con la bontà le persone ci giocano, si divertono ad accartocciarla e
lanciartela adesso, privi di umanità e sentimento. L'ho imparato a mie spese,
purtroppo. Avevo permesso di farmi grattare la pelle, di raschiarla e togliermi via
ciò che ne era rimasto della mia mamma.
«Palla avvelenata!», esclamò Jonah, adombrato dal suo tipico sorrisetto
crudele, prima di lanciarmi il pallone sullo stomaco. «Troppo lenta, piccola
cessa».
Annaspai, gli occhi strabuzzati e già pieni di lacrime dalla sofferenza, mentre
mi piegavo in avanti per proteggere la mia pancia dolorante. Era già il terzo
colpo nel giro di cinque minuti che ricevevo, e non importava quante volte
venissi eliminata, loro continuavano a salvarmi ogni volta per riportarmi in gioco
e farmi ancora del male.
La nostra insegnante di ginnastica, non che mi aspettassi altro, se ne fregava
alla grande mentre dormicchiava sulla sdraio. L'importante era non fare storie e
piagnucolare.
«Tirati su, Gracie, non fare la solita piagnucolona», sbuffò Margot, in piedi al
mio fianco. «Non è colpa nostra se fai schifo».
I polmoni mi fecero male per la fatica che impiegai per forzarmi di respirare
lentamente. Non dovevo permettere alla rabbia di sopraffarmi, io dovevo restare
calma. Tuttavia strinsi i denti e conficcai le unghie nei palmi delle mani. A
scorrermi nelle vene non era fuoco, quello che mi sentivo dentro sapeva di puro
ghiaccio e lasciai che mi torcesse le labbra di un terrificante gelo.
«Smettila di chiamarmi Gracie, stupida oca», sibilai, fredda come la morte.
La mascella di Margot sembrò toccare la ghiaia, sconvolta, e per un
momento ebbi la sensazione che il mondo si fosse fermato. I palloni smisero di
rimbalzare, le sequoie della foresta cessarono di frusciare e i mormorii si
spensero. C'eravamo soltanto io, la mia placida ira e il rosso spento di Margot.
Lei assottigliò le palpebre, pronta allo scontro, e si avvicinò di un passo. «Ti
fai un paio di punizioni e credi di essere una dura?».
«E tu ti senti meglio a fare la bulletta?».
Margot incrociò le piccole braccia al petto. «Torna a piangere, Gracie, che
quello almeno lo sai fare».
«Mi fai ridere». Gonfiai le guance e le voltai le spalle, perdendomi negli
sguardi confusi e spiazzati degli altri, inclusi Jonah e Killian, coi palloni ancora
stretti fra le mani. «Io non gioco più, mi avete stancata».
Riuscii a fare a malapena due passi, prima di avvertire la spinta di due palmi
sulla schiena che mi fece cadere sulle ginocchia. La pelle nuda si sfregiò a
contatto con la ghiaia, eppure ingoiai il sibilo e ricacciai indietro il pianto.
«Ma chi ti credi di essere? Sei talmente brutta, pallida, un fantasma, che
dovresti ringraziarci di averti fatta entrare nel nostro gruppo!», urlò lei,
lanciandomi la palla dietro la nuca.
Vidi le stelle, intanto che il corpo sobbalzava in avanti, e graffiai i
polpastrelli sui sassolini. Altri lividi da collezione.
«Io non ci voglio stare nel vostro gruppo, e adesso lasciami in pace», fiatai,
provando a rialzarmi.
Gettai un'occhiata alla nostra maestra. Se ne stava bella a sonnecchiare, a
godersi il cielo nuvoloso di Monterey. Un giornalino le copriva la faccia. Si era
del tutto dimenticata di noi, lasciandoci allo sbando. Come sempre, del resto.
«Oh, adesso che hai il tuo nuovo amichetto noi non andiamo più bene. Avete
sentito, ragazzi? Si è stancata di noi, vuole che la lasciamo in pace!».
Ogni mio singolo osso scricchiolò a quelle parole, i muscoli divennero
acciaio solidificato e la testa si perse in un mare di nebbia. Stavolta fui incapace
di rispondere. Di nuovo in piedi, cercai soltanto di lasciarmeli tutti alle spalle.
Non volevo litigare né tantomeno passare per il solito fenomeno da baraccone.
Che trovassero pure altro per divertirsi.
Però Margot osò intraprendere quella strada.
Udii dapprima la risatina di scherno, e poi le parole: «La piccola Gracie che
se la fa con lo strambo rinchiuso. Ho sentito dire che è un pazzo. Beh, non mi
sorprende che siete diventati amici. I rifiuti si riconoscono».
Jonah, Killian, tutti... tutti scoppiarono a ridere. Non sapevo come loro
facessero a sapere di Michael, ma neanche mi importava. Quello che volevo era
che la smettessero di parlare di lui, di denigrare ciò che avevo di più prezioso.
Inspirai a fatica e mi voltai lentamente, ritrovandomela davanti. «Chiudi
quella bocca».
«Altrimenti?».
«Te la faccio chiudere io».
Gli occhi di Margot scintillarono di puro odio, un magma incandescente
destinato a me soltanto, e cercò di intimidirmi attraverso un banale sogghigno
cattivo. Patetica. In quei mesi me ne avevano fatte di cotte e di crude, ormai
conoscevo alla perfezione ogni loro passo. Ci voleva ben più di qualche spinta o
ghigno per incutermi timore.
«Voglio proprio vederti all'opera, ratto di fogna che non sei altro», cantilenò.
«Chi te le ha insegnate queste cose? Quel pazzoide?».
La voce mi tremò, quando pronunciai un sintetico e altrettanto minaccioso:
«Attenta».
Potevo sopportare le sue angherie su di me. Potevo tollerare le pallonate, i
morsi, le manipolazioni, ma non potevo... non potevo sopportare che toccasse
Michael.
Non potevo permetterle di parlare di lui, l'unica cosa bella che mi era
rimasta. Non le avrei permesso di sporcare quello che avevamo, che eravamo.
Quel poco di cuore che mi era rimasto, l'unico stralcio di bontà che continuava a
collegarmi a mia madre, la sua eredità, l'avevo donata a Michael e l'avrei protetta
con tutte le mie forze. A costo della vita.
A muso duro, restai inerme, ritta e fiera, in attesa che si facesse avanti. Ma lei
non lo fece. Margot giocava sporco, dovevo ricordarlo. Perciò fui sorpresa
dall'ennesima pallonata che mi colpì la spina dorsale, facendomi boccheggiare e
inarcare la schiena per attutire il bruciore. Probabilmente era stato Killian.
Margot sfruttò la mia distrazione per colpirmi il naso, altrettanto brutale, e
singhiozzai quando il sangue cominciò a colarmi sulla bocca come un fiume in
piena.
«Attenta a me?», strascicò furente lei, spingendomi all'indietro, intanto che il
sangue mi imbrattava la maglietta a maniche lunghe. «No, attenta tu a quello che
dici. Non vuoi stare nel gruppo? Va bene, eccoti il benservito».
Piccole dita si impigliarono nei miei capelli, tirarono la filigrana quasi
volessero staccarmi ogni singola ciocca dalla testa, e gemetti.
«Chissà se piacerai ancora a quel caso umano dopo che avremo finito con
te», ridacchiò e premette la mano sul naso già ferito, facendomi strillare.
Tuttavia le sue parole furono abbastanza per reagire. Il mio istinto venne
fuori in un grido di battaglia, ferito nel profondo e protettivo nei confronti del
mio, a quel tempo, unico amico. Caricai il capo e le assestai una testata sulla
bocca, spaccandole il labbro. Un dente mi graffiò la fronte, ma me ne fregai
perché l'urlo che emise Margot fu il suono più bello del mondo.
«Ti faccio fuori!», strepitò.
Le mostrai i denti. «Provaci!».
Ci azzuffammo nel vero senso della parola. Rotolammo sulla ghiaia,
strappandoci i vestiti e ferendoci la pelle. Sembravamo due animali, nessuno dei
due disposti a mollare. Le mie unghie le graffiavano la faccia, i denti la
mordevano ovunque potevano, mentre lei rispondeva al fuoco con il fuoco. Il
sangue continuava a sgocciolarmi dal naso, accompagnato da un nuovo taglio sul
sopracciglio.
Per te.Tutto questo era per te.
E tu che mi hai dato in cambio, Michael?
Avevamo entrambe il respiro pesante, eppure niente e nessuno poteva
fermarci. Implacabili, eravamo implacabili mentre ci riempivamo a vicenda di
lividi e squarci. Ma Margot non aveva idea della mia rabbia, sepolta e costretta a
riempire il pozzo in cui l'avevo riposta per mesi e mesi.
Non aveva idea di cosa poteva portarti a fare l'amore intriso di furia. Un
amore solitario, arrabbiato con il mondo. Seduta sul suo stomaco, tirai indietro il
gomito e, riempiendomi dei suoi occhi spalancati dalla paura, incanalai ogni
singola emozione repressa nel pugno che andò a collidere contro la sua
mandibola. Le nocche presero a pulsare, mentre le lacrime e il sangue si
mescolavano sulla mia faccia, sui vestiti sporchi e rotti, sul suo petto.
«Non permetterti mai più di parlare di lui», ringhiai. «Voi, Michael, non ve lo
dovete neppure sognare!».
Singhiozzai e feci per colpirla ancora una volta, infuriata marcia dentro,
colma di un'oscurità che neppure sapevo di avere, ma venni strappata via da lei.
Mi dibattei, perché volevo massacrarle la faccia, strapparle la bocca e toglierle
l'uso della parola.
«Grace Martin!», strepitò la direttrice, agguantandomi. «Basta così! Tutti
dentro, immediatamente!».
«Oddio, Grace, sanguini!», esclamò invece Miss Eleonor. «Stai bene? Sei
ferita?».
Ma io non sentivo niente. Non sentivo nulla che non fosse il rombo del mio
cuore impazzito, delle mie mani su Margot e i suoi gemiti doloranti.
«Ho detto tutti dentro!», gridò ancora la direttrice, indicando l'edificio in
pietra grigio vicino a noi. «Tu invece vieni con me, disgraziata!».
«Miss Caroline, medichiamo la bambina prima…»
«Non adesso, Eleonor. Va’ a occuparti di Margot, tu. Con questa qui me la
vedo io».
Respirando affannosamente, non mi preoccupai di dirle chi aveva iniziato la
rissa, o quello che avevo dovuto subire per arrivare a quel punto di non ritorno.
Percepii a malapena le sue dita torcermi l’orecchio. Tanto non mi avrebbe mai
creduta e i miei compagni avrebbero coperto Margot fino allo sfinimento. Perciò
mi limitai a sorridere come una pazza a tutti quanti, inclusa quella stupida capra
ancora stesa sulla ghiaia. Penso che fu quello il giorno in cui smisi di avere paura
di loro.
«Non so più che cosa fare con te», sbuffò la direttrice, trascinandomi lungo
quei corridoi così familiari. «Sei intrattabile, Grace Martin. Nessuno ti adotterà
mai se continui a comportarti in questo modo».
Era proprio ciò che volevo. Io volevo restare lì, la sola idea di una nuova
famiglia, nuovi genitori confezionati come merce di scambio mi faceva ritorcere
lo stomaco. Mi salì la bile al pensiero.
Le pareti grigie scorsero man mano che procedevamo, poi giù per le scale e
potei iniziare ad annusare il solo puzzo di chiuso, pregno di muffa stantia. Per
me, in qualche modo, quello era l'odore più bello del mondo.
«Te ne starai qui per due giorni, vedremo se così avrai ancora voglia di
attaccar briga. Stasera salterai la cena», sentenziò, aprendo la mia porta. Poi si
chinò alla mia altezza per guardarmi dritta in faccia, i suoi occhi cerulei si
conficcarono nel mio ghiaccio. «Sappi che i tuoi genitori sarebbero delusi
oltremodo da questo comportamento. Si staranno rivoltando nella tomba,
ragazzina».
Una scheggia mi trapassò il petto. E fu più forte di me. Non riuscii a
trattenermi.
Sollevai il mento, impassibile. «Stai zitta, puttana».
Era la prima volta che dicevo una parolaccia, e senz'altro i miei genitori mi
avrebbero rimproverata per come stavo diventando, ma loro erano morti e io,
oltre a Michael, non avevo nient'altro.
Non me ne pentii nemmeno per un istante. Neanche quando le cinque dita di
quella donna dai capelli castani si stamparono sulla mia guancia. O quando,
ancora sanguinante e sporca, mi gettò nella stanza priva di delicatezza. Lo fece
con cattiveria, urlandomi contro, e mi lasciò lì.
La porta si chiuse, rimasi al buio e, soltanto allora, rimasta sola con me
stessa, permisi alla stanchezza di pervadermi. Ero stanca, esausta, al limite.
Scoppiai a piangere, i singhiozzi potenti scossero il mio corpo e mi abbracciai,
stretta stretta.
Ero troppo piccola per poter sopportare tutto quello. Troppo piccola per il
viaggio che stavo affrontando, dove la meta neppure esisteva. Un tormento, ecco
cos’era. Volevo solo avere mia madre lì a ripulirmi dal sangue rappreso e mio
padre con le bende in mano, pronto a curarmi ogni singola ferita, anche la più
superflua, anche quelle che non si possono vedere.
«Sei la più bella e preziosa del mondo, Grace. Perché piangi?».
«Perché nessuno mi vuole bene. Gli altri bambini non giocano mai con me,
papà».
«Ah sì? Allora giocherò io con te. E non è vero che nessuno ti vuole bene».
«Sì che è vero».
«No, non lo è. Io ti amo tantissimo, amore».
«Tu non conti, sei mio papà».
E invece contavi più di chiunque altro.
Non smisi di piangere neppure quando lo sentii respirare sulla mia testa.
Chissà da quanto tempo era lì, e chissà quando era entrato. Non lo sapevo.
Sapevo soltanto che nel momento in cui le sue braccia si avvolsero attorno al
mio corpicino, allora l'universo cominciò a trovare il suo posto.
Michael rimase in silenzio, rispettando il mio di silenzio. Stette solo lì,
abbracciandomi e tenendo insieme i miei pezzi. Perché lui non pretendeva
niente, non chiedeva mai, dava e non dava.
«Li odio», mormorai, schiacciata sul suo petto. Gli avevo macchiato la
maglietta, ma non sembrava importargli. «Li odio così tanto, Michael».
Si irrigidì, infilò il naso fra i miei capelli e respirò. «Una parola», disse.
«Devi solo dirmi una parola, bambolina, e io li ammazzo tutti».
Piansi più forte, e lui mi strinse altrettanto forte. Quanto era serio nel dirlo?
Non lo sapevo ancora e, per qualche ragione, neppure mi importava. Mi aveva
detto che non dovevo paura di lui e io, stupidamente, gli credevo.
Tirai su col naso, avvertivo dolci polpastrelli carezzarmi le braccia. Gliele
avevo insegnate io quelle carezze.
«N-no», singhiozzai. «Voglio solo stare qui con te. Te e basta».
Michael strusciò la bocca sulla mia tempia, mentre continuava a cullarmi.
«Va bene. Siamo soltanto io e te. Io e te, Grace».
Continuò a ripeterlo per tutto il tempo, senza mai lasciarmi andare, proprio
come facevo sempre io con lui nei suoi momenti no.
Io e te. Solo io e te.
Lo disse, ancora e ancora, tra bisbigli e sussurri strozzati. Io e Michael.
Mi baciò la guancia colma di lacrime. «Le tue lacrime sanno di rabbia».
Chiusi gli occhi e lasciai che il mio peso ricadesse tutto su di lui. E avrei
tanto voluto dirgli che le mie lacrime non sapevano solo di rabbia. Era rabbia.
Ma anche amore. Rabbia e amore. Ma se glielo avessi detto, lui non avrebbe
capito. Un sentimento valeva l'altro per Michael. Ancora non era pronto per
quello, forse non lo sarebbe mai stato.
Però on importava, fintanto che saremmo stati io e lui. Io e Michael.
«Io e te», ripetei.
«Io e te», mi fece eco, facendo scivolare la mano lungo la mia spalla. «Ti va
di giocare un po' a scacchi?».
Qualunque cosa, Michael.
Perché eravamo sempre io e te.
E ogni cosa fatta è sempre stata per me e te.
Il mio pezzo di cuore rimasto.
SETTE

GRACE

Attendo per quelle che mi sembrano ore, non posso dirlo con certezza, ma
pare che il Sole sia sul punto di sorgere ormai, quando Michael sbatte le palpebre
e torna alla realtà. Al di là delle circostanze, non è mai piacevole vederlo stare
così male.
E magari fa più male a me che a te.
Lo osservo dapprima rivolgere uno sguardo timoroso all'ambiente
circostante, analizzare ciò che ha intorno, e poi prendere coscienza della mia
presenza. La mia adrenalina si è del tutto spenta. Quello scatto d'ira si è dissolto,
lasciando spazio alla stanchezza. Mi ha consumato le energie, e tutto ciò che
vorrei fare adesso è coricarmi e dormire per ore.
Sono rimasta in allerta per tutto il tempo in cui Michael viaggiava fra le sue
allucinazioni e ricordi più profondi. A mie spese, ho imparato che sono quelli gli
attimi in cui diventa più pericoloso, in cui perde il contatto con il mondo reale e
il resto diviene un contorno astratto delle sue fantasie.
Lo soppeso, mentre lui fa lo stesso con me. Ci esaminiamo come due topi da
laboratorio, due estranei attenti all'attacco dell’altro. Il sangue ricopre entrambi e
non saprei dire che dei due si porti più ferite addosso. Forse lui.
I suoi occhi di vetro percorrono le mie gambe nude, non perdendosi neppure
un dettaglio, neppure un graffio, si soffermano sulla gonnellina blu e bianca della
divisa e storce la bocca.
È più forte di me. «Che c'è? Non è di tuo gusto?».
Michael aggrotta le sopracciglia, più scure dei suoi capelli biondo chiaro, ma
non risponde. Piuttosto riprende a percorrere il suo viaggio. Più sale, più pelle
scoperta vede, più si adombra. Sorvola il mio top con indifferenza. Un velo nero
gli cade sulle retine nel momento in cui scorge alcuni macchie rosse sul mio
corpo. So che pensa di essere stato lui a provocarmele. Eppure continua a
starsene zitto.
Conclude la radiografia una volta raggiunti i miei capelli disordinati,
imperturbabile, privo di una minima facciale. Completamente impassibile.
Perciò è il mio punto di scoprirlo, di assaporarlo dopo anni passati a
immaginarmi come sarebbe cresciuto, a chiedermi se fosse diventato ancora più
bello o se fosse rimasto come era.
Più bello, è diventato più bello. Convengo a tale decisone, solo nel realizzare
che è molto più alto di me. Non che ci voglia molto, comunque. Le sue gambe
sono lunghe, ancora fasciate dai pantaloni bianchi dell’istituto, e la linea della
sua mandibola deve aver subito colpi duri dalla vita, a giudicare da come si è
fatta più marcata, più concreta.
Gli occhi però restano sempre gli stessi. Sempre rotti, sempre spenti, sempre
privi di luce.
Inclina la testa, in quel suo modo inquietante, e di riflesso lo imito. Mi sta
studiando come se fossi la pedina di una scacchiera. Nella sua testa complessa la
partita deve essere cominciata ancora prima di evadere, ne sono certa, e lui è lì
ad attendere che faccia la mia mossa.
«Cosa vuoi fare? Lasciarmi qui a marcire?», sibilo, stringendo la mano a
pugno per impedirmi di esplodere di nuovo. «Tenermi prigioniera e stare a
guardarmi mentre mi consumo lentamente? È questo il tuo intento?».
Assottiglia appena le palpebre, le mie parole lo hanno a malapena scalfito, e
mi lancia un'occhiata annoiata. Stufo di sentire le mie stronzate. Stufo della mia
voce. Stufo della mia rabbia. Perpetua nel silenzio, consapevole che sto
ribollendo nelle vene; mi lascia a cuocere. Non gli permetterò di dirigere il
gioco.
Tiro le ginocchia al petto, maciullandomi l'interno guancia coi denti affamati,
e le abbraccio. La gonna si solleva sulle cosce, e nemmeno mi importa di ciò che
gli servo sotto gli occhi.Tanto non importa nemmeno a Michael, a giudicare dal
modo in cui si è fissato su un punto preciso della mia mascella. Chissà a cosa sta
pensando, è sempre stato impossibile da interpretare.
«I miei amici», prorompo, riprendendomi la sua attenzione. La testa mozzata
di Denver torna a solleticarmi le pupille, la scaccio per conservare la mia
stabilità. «I miei amici, hai fatto loro del male?».
Continua a fissarmi, una vacua domanda impressa nello sguardo. Non sa
nemmeno a chi mi stia riferendo. Maledizione, Michael non sa neppure cosa sia
un amico.
«Una ragazza e due ragazzi. Erano a scuola. Hai fatto loro del male?», ripeto
la domanda, avvertendo la mia voce spezzarsi al solo pensiero che loro possano
aver fatto la stessa fine di Denver. «Rispondimi, cazzo. Hai fatto qualcosa anche
a loro, Michael?».
Forse sarà che ho appena usato il suo nome, che l’ho chiamato soltanto
Michael, come facevo una volta, o forse il mio tono di voce disperato, al limite
del pianto. Non ne ho idea. Ma lui finalmente decide di darmi una risposta.
Prima scuote la testa e poi pronuncia un asciutto: «No».
Un'ondata di sollievo mai provata in vita mia mi investe in pieno,
sgomberandomi dalle spalle un macigno che neppure sapevo di portare. Mi sento
per un attimo meglio, più in pace con me stessa, nel sapere che Elisa, Ben e
Cody sono al sicuro, ovunque siano.
Se fosse successo qualcosa a loro, non me lo sarei mai perdonata. Perché è
tutta colpa mia ogni cosa successa, proprio come aveva detto Margot. Michael
vuole me e butta giù qualunque ostacolo si trovi in mezzo al suo cammino.
Il mio sollievo, comunque, dura poco. Perché Michael, abbozzando un
ghigno a dir poco crudele, complice il luccichio sadico che gli imperla le retine,
infila le dita affusolate in tasca e ne tira fuori un ciuffo di capelli. Capelli rossi.
«Ma mi sono preso una vendetta», decreta, soffiando sui capelli di Margot.
Alcuni ciuffi arrivano fino ai miei piedi, incuranti del mio sangue raggelato
nelle vene. Ogni mio singolo nervo si paralizza, le terminazioni smettono di
funzionare e il cervello non risponde più. Le sinapsi distruggono i collegamenti.
Uno spasmo mi coglie alla sprovvista. Non riesco a spiccicare parola, non
voglio chiedergli cosa significhi e cosa abbia fatto. Tengo gli occhi fissi su
quelle ciocche, giungendo alle mie conclusioni. Il mio cuore si frammenta. I
mille pezzi diventano briciole e poi si sparpagliano nell'aria, lasciandomi vuota
di battito e con un'anima morta nel petto.
«L'hai uccisa?».
Non riconosco la mia voce quando la sento. Non so neppure come ho fatto.
Le parole sono uscite da sole.
«No», biascica, distaccato. La cosa non lo intacca minimamente. «Almeno
credo. Quando l'ho lasciata respirava ancora, purtroppo».
Purtroppo. Purtroppo. Purtroppo.
Il mio corpo trema. Lui voleva ucciderla. È andato a cercarla. Mio Dio. Un
altro brivido di paura mi serpeggia lungo la schiena, sebbene mi trattenga dal
farglielo vedere.
«C-come... come...», farfuglio, frastornata e sconvolta dal rapido avvenire,
dalla successione di cose.
Ho un mare di merda in testa, una bomba pronta a esplodere e farmi
sprofondare nel liquame delle fogne. E magari sarebbe anche meglio piuttosto
che starmene qui insieme a Michael e la sua follia omicida.
«Ti stava seguendo», erompe. «Voleva dire alla direttrice quello che stavi
facendo e dove stavi andando. Non potevo permetterglielo».
Troppe informazioni tutte insieme. Il mio cervello inizia a girare come una
trottola impazzita.
Margot che mi segue. Margot che vuole fare la spia. Michael che doveva
essere lì per saperlo. Michael che mi pedina. Michael che cerca di uccidere
Margot.
Margot che ancora respira.
«E quindi hai ben pensato di ucciderla?», scatto in avanti, ritrovando il mio
coraggio, dissolto in polvere sotto i palmi delle mie mani strette a pugni. «E da
quanto tempo mi stavi seguendo anche tu? Si può sapere che cazzo vuoi da me,
Michael Baker?».
Curva la schiena in avanti all'improvviso, irrigidendo ogni tratto del suo viso
perfetto, e solleva il labbro superiore per far vedere i denti. «Attenta, bambolina,
inizio ad averne abbastanza».
«Non me ne importa niente se ne hai abbastanza, razza di stronzo. Per quanto
mi riguarda puoi anche soffocare nelle tue stesse deviazioni!».
Un lampo gli saetta in quegli occhi di vetro, ma è talmente fulmineo che
devo essermelo immaginato. Dopotutto Michael non prova nulla. E io non devo
aspettarmi niente.
«Falla finita, Grace. Margot è stata il tuo inferno personale, ti ha massacrata
per anni, ti ha reso la vita impossibile e avrebbe continuato a farlo. E comunque
è ancora viva, scaldarsi tanto e soprattutto nella tua posizione non ha senso.
Ringraziami pure dopo».
«Ringraziarti? Come puoi dire una cosa simile? È una persona, una ragazza
che conosco sin da bambina! La mia maledetta compagna di stanza! Non ti fai
nemmeno un po' schifo? Come cazzo fai a guardarti allo specchio, Michael?
Come? Dimmelo!».
«Vuoi sapere cosa le ho fatto? Le ho spaccato la testa con una pietra, nel bel
mezzo del bosco, e avrei anche finito il lavoro se non avessi dovuto correrti
dietro per capire dove stessi andando», ringhia, cattivo fino al midollo. «Sì,
Grace, volevo ucciderla. Non esserne sorpresa. Non te ne ho mai fatto un
mistero. Ho atteso sette anni, sette lunghi anni a rimuginare, e l'unica cosa di cui
mi pento è non aver usato abbastanza forza nel calare quella pietra sul suo
cranio».
Il respiro mi si incastra in gola dinnanzi alla sua ammissione, sputata fuori in
nome della verità più corrosiva. Perché è vero. Michael non ne ha mai fatto un
segreto, non ha mai nascosto la sua indole. La stupida sono stata io a non avergli
mai dato il giusto peso.
Le lacrime riprendono a scendermi lungo le guance, bruciando il sangue
secco e le ferite ancora aperte. Lui ricambia il mio sguardo sofferente e stanco
con noia e indifferenza.
Le ossa dolgono, mentre il mondo fuori continua ad andare avanti incurante
di ciò che sta succedendo dentro di me, dei miei pezzi che si sgretolano uno
dopo l'altro. E stavolta, intanto che implodo, non c’è alcun abbraccio a tenermi
insieme. Michael resta dov’è a guardarmi cadere.
«Tu sei un mostro», sussurro, sconvolta.
«Sì, ma sapevi già anche questo».
Ingoio un singulto. «Non so che intenzioni hai, non so che cosa ti stia
passando per quella testa marcia, ma non starò al tuo gioco. Non sarò una pedina
di qualche tuo perverso schema. Mi hai capita? Io non ci sto. Piuttosto uccidimi,
tanto sei abituato a farlo». Mi asciugo le lacrime con un gesto furioso,
rifiutandomi di versare anche una sola altra lacrima davanti a lui.
Si prende alcuni secondi per analizzarmi. Lo intravedo sbuffare una risatina
di scherno e, vergognandomi di me stessa, cedo all'istinto di schiacciarmi contro
la parete quando lui si alza in piedi e si avvicina a passo felpato.
Combatti, Grace, non fargli annusare la tua paura.
Non fargli percepire il tuo sangue!
Eppure, per quanto mi ostini a ripetermelo, il mio corpo, quel traditore, non
ne vuole sapere di smettere di tremare a ogni metro in meno che ci divide.
Riprendi il controllo di te stessa, Grace. Riprendi le redini, cazzo.
Le ginocchia di Michael scricchiolano quando si piega alla mia altezza,
troppo vicino, troppo ingombrante. Mi sembra di essere piombata alla prima
volta che lo conobbi, io schiacciata al muro e lui in ginocchio davanti a me.
All'epoca ero soltanto una mocciosa piagnucolante. Non sono più quella
bambina.
Tu non ti arrendi.
Armata dalle mie stesse convinzioni, smetto di tremare, mentre lui continua a
respirarmi addosso, a scrutare ogni piccolo tratto del mio viso. Perciò mi faccio
avanti a muso duro, sollevo il mento fiera e indomita, e mi isso anche io sulle
mie stesse ginocchia.
Uno davanti all'altra, anche se io gli arrivo alla gola, occhi negli occhi,
bianco contro nero; uno ad attendere la mossa dell’altra. Qualcosa brilla nel
vetro di Michael, o forse è il riflesso del mio coraggio. Non saprei dirlo. So
soltanto che io non mollo. Io combatto.
Dita ruvide mi avvolgono il mento in una presa brusca, stringendo fino a
farmi male, ma non emetto neppure un gemito di lamento. Rimango immobile a
contrastarlo, masticando e prendendo a morsi tutti gli ignobili brividi che mi
colgono impreparata a questo stupido e disgustoso contatto.
Poi Michael fa scivolare l'altra mano sul mio collo, preme il pollice sulla
gola senza stringere, e le dita che ho sul mento strisciano lungo la mascella,
come fuoco sul ghiaccio, inossidabili. A breve gli staccherò la testa se non la
smette di toccarmi così, scavandomi a fondo.
Risucchio un sospiro fra i denti nel momento in cui piega il capo, ficcandolo
nell'incavo del mio collo, e mi infila una mano fra i capelli. Li scompiglia e
lascia che ci ricadano attorno in una morbida nuvola.
«Michael», ringhio, appoggiando le mani sulle sue spalle per spingerlo
all'indietro e allontanarlo dalla mia pelle scoperta, ma lui non si muove di un
solo millimetro.
Al contrario, rafforza la presa sul mio collo, mentre quel dannato pollice
continua a strofinarsi contro la mia gola. Mi annusa, si cosparge del mio odore,
appropriandosene come se fosse sempre stato suo. E forse un tempo era così,
perché un tempo io ero tutta sua. Ma quel tempo è finito anni prima e non
tornerà mai più.
Denti arrabbiati mi graffiano il lobo e, contro ogni previdenza, finisco per
stringere le sue spalle, avvertendo le ossa pungermi sotto i polpastrelli. Poi lo
morde, facendomi boccheggiare e spalancare gli occhi dalla sorpresa, e proprio
quando sono sul punto di rendergli pan per focaccia, prende a parlare.
«Ci sei già nel mio gioco, bambolina», fiata, strofina il naso dietro il mio
orecchio, la mano che dalla mascella scivola dietro la nuca. «E preparati, perché
sarà una lunga partita. Ho grandi progetti per te».
Con il respiro affannoso, mentre lui graffia, morde e stringe, lascio che le sue
parole colpiscano in profondità, fino a lasciare il segno.
Lentamente, comincio a riprendere il controllo di me stessa, prima della
mente e poi del corpo. Tiro indietro le mani per allacciarle ai suoi polsi,
discostandolo dalla mia pelle. L'intero Universo pare scuotersi a questo
minuscolo contatto. O forse sono semplicemente io.
Il tempo si blocca nel momento in cui Michael allontana la testa, le pupille
dilatate in quegli specchi rotti, e recupera un respiro profondo, sbuffandomi con
forza sulle labbra.
Gli porto le sue stesse mani sotto gli occhi. Stringo più forte, nonostante le
piaghe facciano male, e sbatto le palpebre.
«E va bene, giochiamo pure», mormoro, lo mollo solo per afferrarlo dalle
guance, imprimendogli le unghie nella carne. «Ma toccami di nuovo e giuro che
ti strappo la gola a morsi, Michael Baker», ringhio, prima di spingerlo
all'indietro.
Michael barcolla, preso alla sprovvista, e stringe i denti. «Tu chiamami di
nuovo Michael Baker, bambolina, e io giuro che ti darò una serie di motivi per
cui darmi di nuovo del mostro. Non sfidarmi. Perderesti, lo sai».
Schiocco la lingua sotto al palato, avvertendo una fiamma solitaria scaldarmi
la trachea, salire fino alla lingua e ustionarmi il palato.
«Staremo a vedere», assodo.
Lui solleva l'angolo della bocca, strisciando verso l'angolo da cui è uscito.
«Staremo a vedere», ripete.
Abbasso per un attimo lo sguardo, ed è soltanto adesso che realizzo quanto
accaduto. Gli ho permesso di mettermi le mani al collo, quelle stesse mani che
hanno spezzato vite altrui, che hanno quasi ucciso me, senza temerle un solo
secondo.
C'è qualcosa che non va in me.
Cazzo.
Quanto vorrei che fosse tutto più semplice.
OTTO

GRACE

Grace: 10 anni.
Michael: 14 anni.

«Ti ho portato una cosa».


Michael, impegnato a osservare il vuoto riflesso dal muro ombreggiato, dove
l'intonaco incrostato era sul punto di cadere a pezzi, voltò appena la testa.
Se la mia presenza improvvisa lo aveva sorpreso, così come l'arrivo senza la
direttrice, non lo diede a vedere.
Si limitò a dire soltanto: «È il tuo compleanno, non il mio». Quindi si girò di
nuovo, perso nelle immagini che soltanto lui era in grado di vedere.
Doveva aver avuto un brusco risveglio, o qualcuno doveva avergli dato
fastidio all'ora di pranzo. Michael non pranzava con noi nella sala comune,
piuttosto gli veniva portato il pasto da uno degli addetti alla cucina. E da ciò che
avevo visto, nemmeno si premuravano di preparargli un pasto decente.
Avanzai piano, timorosa di spaventarlo e indurlo a chiudersi ancora di più a
riccio. «Vero, ma non vuoi dirmi quando è il tuo, perciò ho pensato di
festeggiare il mio insieme».
Michael tacque, incurante dell'artiglio che mi graffiò il petto, e continuai ad
avvicinarmi a lui passo dopo passo.
Dovevi soltanto aspettarlo, Grace. Lui torna sempre, lo sai.
Me l'ero svignata dalla lezione di motoria in cortile, approfittando del casino
che si era generato nell'uscire in fila, e avevo fatto una tappa nelle cucine prima
di correre nella sua stanza. O nostra. Non sapevo, infondo ne avevamo due di
camere.
Comunque, non avevo mai fatto prima di allora una cosa del genere e non
sapevo quali sarebbero state le conseguenze se mi avessero scoperta, ma tanto
non mi importava.
Per Michael, questo e altro.
Per Michael, fino alla fine del mondo. E ancora oltre.
Mordendomi il labbro inferiore, mi appostai alle sue spalle ampie. Michael
stava crescendo. Me ne accorgevo settimana dopo settimana e il timore che altri
potessero accorgersene mi faceva stringere lo stomaco.
La paura di cosa sarebbe successo a distanza di quattro anni, quando lui ne
avesse compiuti diciotto e io sarei rimasta ai miei quattordici, aveva di già
cominciato a tormentarmi. Come avremmo fatto a stare separati? Dove sarebbe
andato?
No, non era quello il momento giusto per pensarci. Ci saremmo posti il
problema quando fosse giunto il momento e poi lo avremmo affrontato insieme.
Certo.
Ci credevo davvero.
Il raggio di sole, filtrato dalla piccola finestra in alto, gli illuminò l'angolo
della mandibola, il collo, mezza spalla, scoprendogli la pelle d'alabastro, quel
dolce incarnato così delicato da farti sospirare.
La polvere danzava nell'aria, insieme alla puzza di chiuso e gli acari che
riempivano il materasso dalle lenzuola disordinate. Troppo disordinate.
Doveva essersi agitato nel sonno.
Brutti incubi, Michael?
Potevi parlarmene. Ero lì per te.
«Michael», soffiai, avvolgendo le braccia attorno alla sua vita. «Dove sei
finito?».
Lo sentii irrigidirsi tra le mie braccia, quasi il mio abbraccio lo stesse
soffocando, ma non mollai la presa. Lo avrei strappato via dai suoi tormenti con
la forza, se necessario avrei usato i denti.
Ed ero così tenace, così determinata che lì per lì non mi accorsi di quanto
stesse tremando. O, meglio, non ne compresi il motivo. Io lo stringevo forte,
illusa potesse farlo stare meglio quando invece stavo peggiorando le cose.
Lo mollai di scatto appena emise un verso strozzato, sembrava il pianto di un
animale ferito. Fui costretta a lasciarlo per aggirarlo e piazzarmi di fronte a lui.
Michael mi tremava sotto le ciglia, con gli occhi dispersi in un vuoto abissale, le
labbra che si chiudevano e aprivano alla ricerca di aria.
Qualcosa dentro di me si incrinò, gli argini si ruppero e misi da parte
qualunque precauzione o timore mi fossi auto imposta.
«Michael!», lo richiamai, afferrandolo dalle guance per guardarlo in faccia.
«Michael, sono qui, sono io, la tua bambolina. Guardami, Michael, per favore.
Torna da me», mormorai, imprimendo le dita nella sua carne di porcellana.
C'erano lacrime spezzate in quegli occhi rotti, un dolore tale da
sconquassarmi dentro da cima a fondo ancora adesso. Quando Michael fissò le
pupille nelle mie, per la prima volta ebbi paura del buio che ne intravidi
all’interno.
«Basta abbracci da dietro, ti prego».
Una lacerazione che non augurerei a nessuno. Allora gli feci una carezza,
qualcosa che lui sapeva fosse solo mio. Tracciai strisce delicate, partendo dagli
zigomi fino al collo.
«Te lo giuro, basta. Va tutto bene, Chiamami Michael, non c'è nessuno qui
che possa farti del male», continuai a dirgli, mentre lui piano piano smetteva di
tremare. «Siamo solo io e te, ricordi? Soltanto io e te. Io e te, Michael. Mi hai
capito?».
Non ricordo di preciso per quanto tempo rimasi lì a lottare per lui, a
convincerlo a tornare da me, pronta a scacciare i suoi orrendi demoni. So solo
che ne dovette scorrere di acqua sotto ai ponti prima che la lucidità di Michael
tornasse a riva, restituendomelo del tutto. Almeno per il momento.
Perché sarebbe successe di nuovo, era di già capitato varie volte, e io
pregavo solo di poter essere al suo fianco qualora fosse di nuovo precipitato per
porgergli la mano e tirarlo fuori.Proprio come lui faceva con me.
Avrei voluto che avessi continuato sempre a farlo, Michael.
Restai lì a osservarlo sbattere le ciglia, frastornato dalla realtà, eppure in quel
mare di confusione riuscii a intravedere il barlume di sollievo che gli invase lo
sguardo, che lo indusse a deglutire e ingoiare un groppo amaro.
Avevo ancora i palmi a scaldargli il viso, un’àncora affinché rimanesse con
me, e non fece alcun cenno per farmi capire se gli desse fastidio.
Al contrario, arricciò la bocca e sollevò un palmo per poggiarlo sul dorso
della mia mano destra. Se la schiacciò sulla guancia, abbandonandosi al mio
tocco, e socchiuse le palpebre. Fu il suo modo di ringraziarmi, lo capii senza che
dicesse niente. Non ce n'era bisogno.
«Cosa mi hai portato?», parlò alla fine, la voce più roca del solito.
Nonostante avesse gli occhi chiusi, gli concessi un dolce sorriso a labbra
serrate. «Un desiderio».
Allora Michael aprì gli occhi confuso e, non capendo, ripetè: «Un
desiderio?».
«Sì, hai capito bene». Intrecciai le nostre dita e staccai le mani dal suo viso,
soltanto per trascinarmelo dietro su quel letto sfatto e triste, ma nostro.
Ci accomodammo, fianco a fianco, la schiena appoggiata alla parete
decrepita e usurata, con il freddo della pietra che si infiltrava nelle ossa e le mani
ancora stette fra loro, indissolubili.
Io e Michael, stelle fredde di una galassia inesplorata.
Io e Michael, due anime nel mondo sbagliato.
E ancora oggi, infondo, spero che prima o poi troveremo il mondo fatto per
noi.
«E come?», domandò incuriosito, aggrottando le sopracciglia in un modo
talmente tenero che gli diede tutti i suoi quattordici anni e non l'età che si
ostinava a portarsi addosso.
Mi concessi un attimo per ammirare l'espressione più rilassata, i lineamenti
delicati e docili, adornati dal suo nasino all'insù e ciglia lunghe che
contrastavano con capelli e carnagione.
Due fantasmi, ecco cosa eravamo noi due.
Ma eravamo insieme e tanto ci bastava, allora.
«Così». Intrufolando i polpastrelli liberi nelle lunghe tasche del vestito
grigio, tirai fuori uno dei muffin destinati solo ai rinfreschi per i giorni
d'adozione, quelli a cui avevo smesso di partecipare da mesi. «Sai cos’è?».
Michael scosse la testa, osservò la bontà che stringevo nel palmo come se
fosse un alieno. Mi strappò un altro sorriso.
«I comuni mortali lo chiamano muffin, ma per me è il Santo Graal. Mai
mangiato qualcosa di più buono di questo dolce col cuore di cioccolato».
«Muffin», ripetè, assaggiando il nome, come faceva ogni volta che gli
portavo qualcosa a lui sconosciuto. «Suona bene. Mi piace».
«Ti piacerà ancora di più mangiarlo, vedrai. Le tue pupille gustative mi
ameranno», ridacchiai.
Michael ispezionò il dolce, ancora un po' perplesso, e poi scosse la testa. «Sì,
ma non capisco come questo... muffin possa esaudire un mio desiderio».
«Infatti manca ancora il pezzo forte. Tieni, reggilo tu».
Gli passai il muffin, lo prese e continuò a osservarlo incuriosito,
analizzandolo nel dettaglio. Era buffo.
Continuai a guardarlo di sottecchi, mentre cacciavo fuori una candelina
azzurra e un piccolo accendino.
Michael rimase in silenzio, interessato a ciò che stavo facendo; sembrava un
bambino che andava per la prima volta a Disneyland e non mi sarei mai
dimenticata di quel luccichio che prese a illuminargli le iridi.
Meraviglioso.
«Questa va qui», annunciai, infilando la candelina sulla punta del muffin. Un
po' storta, ma andava bene. «E adesso l'accendiamo. Non ti dà fastidio il fuoco,
vero?».
«No, vai pure».
La fiammella gli scaldò il mento, donandogli un amorevole colorito più
caldo, e accesi la candela.
«E adesso?», chiese.
«Adesso esprimiamo un desiderio e poi soffiamo».
«Ad alta voce?».
«No, devi soltanto pensarlo».
Inclinò il capo, la fiamma vacillò. «Sei sicura che si avvererà qualunque cosa
io possa chiedere?».
«No, non ne sono sicura, ma provare non costa nulla, non credi?».
Poggiai la mano sulla sua, ancora stretta attorno al muffin, e gli dedicai un
piccolo sorriso d'incoraggiamento, al che lui annuì.
«D'accordo, facciamolo. Che devo fare?».
«Per prima cosa, chiudiamo gli occhi». Calammo le palpebre. «Poi pensa a
quello che vuoi, focalizzati sul tuo desiderio e pretendilo».
Non dovetti nemmeno rifletterci più del dovuto su ciò che volevo con tutto il
cuore.
Voglio che tu torni da me ogni volta che te ne vai.
Attesi che Michael comprendesse quale fosse il suo, che vi si soffermasse
quanto voleva. Perché finalmente, finalmente, lui stava provando qualcosa, stava
desiderando, e non potevo sperare niente di meglio di quello.
«Okay, fatto», bisbigliò dopo un po'. «E ora?».
«Ora apriamo gli occhi». I miei fissi nei suoi. «E infine soffiamo».
Spegnemmo la fiamma insieme, i nostri respiri si mescolarono diventando un
tutt'uno come erano destinati ad essere, come dovevano essere, perché noi due
eravamo fatti della stessa sostanza, di pezzi rotti e sogni infranti, ma con desideri
ancora tutti da esprimere.
«Non provare a dirmi che cosa hai desiderato, altrimenti non si avvererà mai.
Devi tenertelo per te», aggiunsi, togliendo la candelina per riporla di nuovo nella
mia tasca.
«E quando potrò dirtelo?».
«Solo quando il tuo desidero si sarà davvero realizzato».
«Va bene, ho capito».
«Però devo confessartelo», sospirai. «La mia parte preferita è questa».
«Ovvero?».
Facendogli un sorrisetto furbo, staccai un pezzetto di dolce e glielo passai
sulle labbra per invitarlo a schiuderle e assaggiare il muffin.
Così passammo i seguenti minuti a sbocconcellare quella delizia. Ne lasciai
più a Michael che per me, considerando quanto già poco aveva avuto dalla vita.
Le nostre dita si sporcarono di cioccolata e sulle bocche si sparsero le
briciole, che non esitai a ripulirgli e assaggiare. Ridacchiai quando lui imitò il
mio gesto, e per un pelo, per pochissimo, non riuscii a rubargli un sorriso.
«Non ho mai festeggiato il compleanno», confessò a un certo punto, quando
ormai ci eravamo stesi di schiena sul materasso, le gambe alzate e appoggiate
alla parete. «In verità, non so quando è il mio compleanno. Io tengo solo il conto
degli anni, tutto qua».
«Oh...», sussurrai, presa in contro piede da quella rivelazione. Sorpresa che
mi stesse raccontando una parte di sé. Dispiaciuta che quella fosse stata la sua
vita. «Allora... immagino che possiamo condividere il mio», deglutii.
«E non ti dà fastidio? È il tuo giorno».
«Vuoi scherzare? Sarei felicissima di condividerlo con te. Renderesti questo
giorno soltanto più prezioso per me, Michael».
Quindi lui chinò la testa, riempiendomi del suo odore, del suo fiato, del suo
calore, e nel momento cui appoggiò le labbra sulla mia guancia il cielo esplose.
Mi sentii sgretolare in mille pezzi, prima di ricompormi con la stessa
potenza. Io nascevo e morivo nell'esatto punto in cui Michael aveva appoggiato
la bocca, privandomi di scelta. Escludendo la remota possibilità di una vita senza
di lui.
Una vita senza te… insopportabile, Michael.
«Grazie, bambolina».
E se pensai di essere sul punto di cedere a un pianto a dirotto, era soltanto
perché ancora non avevo varcato la soglia della mia stanza. Quella che
condividevo con Margot.
Riuscita a scappare dagli occhi e dalle orecchie della direttrice e chicchessia,
una volta stesa sul letto, già pronta a sentire la mancanza di Michael, mi accorsi
del ciondolo che pendeva dalla sbarra della testiera in ferro.
Un piccolo re, uno scacco. Una sua parte.
Senza biglietto, senza auguri, ma più importante di qualsiasi altra cosa al
mondo, perché veniva da lui, e nemmeno mi importava come avesse fatto, da
dove l'avesse presa.
Non importava niente che non fosse Michael. Il mio bellissimo pezzo di
cuore.
Allora sì che piansi tutte le mie lacrime.
E ricordati di tornare sempre da me.
Sempre.
Anche quando sarà sbagliato, tu torna da me.
NOVE

GRACE

«Ho fame».
Ormai è più di un giorno che passo a digiuno e, per quanto possa esserne
abituata visto quanto mi piaceva farmi mettere in punizione da bambina e che
sono io, il gorgogliare del mio stomaco è davvero fastidioso.
E voglio anche capire cosa ne sarà di me. Mi lascerà morire di fame? In tal
caso, lo scoprirò adesso.
Michael, con un'eleganza fuori dal comune, un dono solo suo che mai mi
spiegherò, si alza e a passi fluidi si avvicina al congelatore in disuso, vecchio
quanto questa stessa casa probabilmente.
Lo osservo aprirlo, producendo un cigolio sinistro che mi fa accapponare la
pelle, e tirarne fuori quelle che sembrano barrette energetiche.
In silenzio, voltandosi appena il giusto per inquadrarmi, sempre ferma nello
stesso punto, soppesa la situazione. Ci separano pochi metri, gli basterebbero
cinque passi per raggiungermi.
Non ho idea di cosa veda sul mio volto, forse il disgusto che avverto torcermi
le labbra o il cipiglio causato dalla fame, fatto sta che decide saggiamente di non
avvicinarsi. Si limita a lanciarmi le barrette insieme a una bottiglietta d'acqua.
Si tiene per sé un bottino identico al mio, prima di ritirasi nel suo angolo ben
distante da me.
Galleggiando in punta di piedi su quel silenzio logorante e allo stesso tempo
confortevole, scarto il mio nutrimento e stacco un morso famelico alla barretta.
Non è granché, ma devo farmelo bastare e comunque non sono una che
mangia molto. La vera fame mi ha abbandonata da un bel pezzo. Il vero guaio
giungerà nel momento in cui i miei reni cederanno, smettendola di trattenere la
pipì. Quello sì che sarà umiliante e di già prevedo gli scontri che comporterà.
Felici diciott'anni, eh, Grace?
Beh, almeno ci sono arrivata.
Non riesco a trattenere un sorriso di scherno. Chi l'avrebbe mai detto che,
con il senno di poi, avrei fatto meglio a restarmene chiusa nella mia stanza al
Benetton?
Ripensando a quella che è stata la mia casa per circa dieci anni, intanto che
ingoio a fatica un altro boccone, un dolore sordo viene a bussarmi dietro la
schiena, facendomi incurvare ancora di più le spalle.
Oh, Reese. Dio, chissà come ha appreso la notizia la mia dolce e piccola
Reese. Spero con tutto il cuore che non le sia giunta alcuna voce, all'infuori del
biglietto che le ho lasciato.
Preferisco che mi odi, che pensi me ne sia andata per mia scelta — una
grande verità — invece che un sociopatico mi abbia rapita dopo aver staccato la
tasta al mio ragazzo, o qualunque cosa fosse quest'ultimo.
Scaccio per l'ennesima volta l'immagine degli occhi scuri di Denver
spalancati dal terrore. Rabbrividisco e obbligo me stessa a tornare con la mente
su Reese.
Prego con tutte le mie forze affinché sia al sicuro, magari a lamentarsi con
qualcuno della solita noia che la prende d'assalto o a colorare con i suoi pastelli
speciali.
Una parte di me freme dal desiderio di chiedere a Michael se abbia intravisto
Reese, nei momenti in cui mi ha seguita e spiata, ma quella più saggia sa che è
meglio tacere e non metterla in mezzo.
Non posso permettermi di correre il rischio, di appenderle una spada di
Damocle sulla testa, sicché mando giù il rospo e mi limito alla vana speranza.
Finisco la seconda barretta, gustandomi le scaglie di cioccolato, e per un solo
attimo il ricordo sfocato di un quattordicenne che lo assaggiava per la prima
volta mi destabilizza, offuscandomi la mente.
Schizzi di dita sporche, briciole sul mento e cuori di cioccolata per chi non
ha mai avuto niente e per chi invece aveva perso ciò che aveva, cercano di
prendere il sopravvento, di trascinarmi in perfidi oblii senza via d'uscita.
Stringo gli occhi, bevo un sorso d'acqua con tanta veemenza da farmi male
alla gola e mando giù anche quel tormento. Un colpo di tosse mi smuove la
gabbia toracica, devo aver bevuto con troppo impeto.
«Stai bene?».
«Non ti riguarda».
«Mi preoccupo solo per te».
Questo stronzo, a quanto pare, ama divertirsi con i miei sentimenti.
«Se davvero fosse così, non mi avresti portata quaggiù».
«Se dipendesse da me, Grace, ti porterei in tutti i posti in cui sei mai stata».
Mi si spezza il respiro. Lo odio quando dice queste cose, perché poi gli
credo. «Non sono mai stata da nessuna parte».
«Lo so». Sto per chiedergli cosa intende, come fa a saperlo, ma lui riapre
bocca. «Cosa sono quelle?». Indica le mie croste visibili, e i punti di pelle
squamata.
Sussulto al brusco cambio d’argomento, tuttavia sollevo le spalle. Sono
troppo stanca per litigare adesso. «Il Sole mi fa male alla pelle, lo sai. Non ho
melanina».
«Da piccola, però, non te lo ho mai viste addosso».
«Non sono più piccola e le cose cambiano, Michael».
Giocherello con la bottiglietta, passandomela da una mano all'altra, e sollevo
il mento. Poso lo sguardo su di lui, che se ne sta assorto a fissare un punto fisso
sul pavimento ghiacciato.
Conosco quello sguardo. L’ho visto innumerevoli volte. Michael si è perso
nei suoi ricordi, ma a un'occhiata più attenta mi rendo conto che non si tratta di
nulla di troppo traumatico.
La malinconia falcia i suoi lineamenti freddi e distaccati, sì, ma non scorgo
alcuna sofferenza acuta o terrore sul suo bel viso. Non riesco a mangiarmi le
parole in tempo, la bocca agisce di sua spontanea volontà.
«A che stai pensando?».
Mi mordo la lingua, ormai è troppo tardi per mettere la retromarcia e tornare
indietro.
Quindi affronto le sue iridi, puro ghiaccio condensato e frammentato,
inoltrarsi oltre lo spesso strato dietro cui maschero le mie. Con lui non esistono
mezze misure. Mai grigio, mai alcuna sfumatura: superficie o abisso, luce o
buio.
Michael vede, non guarda.
«Non abbiamo espresso alcun desiderio».
Tieni alte le difese, Grace, non lasciare che la freccia colpisca.
Conficco le unghie nei palmi delle mani. «Cosa ti fa credere che io non
l'abbia fatto?».
«L'hai fatto?».
Non c’è alcuna inflessione particolare nella sua voce bassa, cruda. Soltanto il
solito distacco, quasi annoiato.
«No», ammetto. «Ho smesso di credere che i desideri possano avverarsi
diverso tempo fa».
Gli getto addosso la mia acidità, senza alcuna remora, quando la verità è
un’altra.
Lui però coglie il sottinteso, che la ragione delle mie delusioni ce l'ho proprio
davanti, che lui è la causa di tutti quei sogni che ho cacciato dal cassetto per
gettarli nel cestino.
Lo capisco poiché si irrigidisce e inclina il capo, ciuffi biondi gli sfiorano la
fronte sporca.
«Sei convinta che voglia farti del male, bambolina», assoda, «eppure l'unica
ad aver provocato sangue qui sei tu. Te ne sei accorta?».
«Sì, e ne vado fiera».
Contro ogni pronostico, Michael solleva l'angolo della bocca, arrossata per il
precedente scontro, strappandomi via un battito di troppo. Sembra rilassato, fatto
di una pigrizia compiaciuta che mai gli avevo vista cucita addosso.
Sono costretta ad ammettere che questo vestito nuovo gli dona da matti.
Con l'indice, traccia un punto sul suolo. «Hai appena mangiato il mio pedone
in e5 con il tuo cavallo, Grace. Complimenti».
Qualcosa mi si smuove dentro, animato da uno spirito competitivo, e d'istinto
mi sporgo in avanti. «Il Gambetto di Re è stato un azzardo malsano e folle
perfino per te».
«Non lo definirei azzardato, quanto più necessario».
«Necessario? E perché?».
«Se vuoi davvero saperlo, bambolina, prima devi mettermi sotto scacco».
Allora rimango in silenzio, soppesandolo, confusa dalla strana piega che sta
prendendo il nostro dialogo. Vuota di una rabbia incandescente che invece vorrei
provare con tutta me stessa.
Ma sono davvero esausta, distrutta, completamente a pezzi e lui mi sta
parlando con quella tranquillità disarmante, una quiete che mi aveva riservato di
rado in passato.
Perciò lascio fare.
Resto soltanto in attesa della sua prossima mossa, un pizzico curiosa di tutti i
pensieri che gli staranno saltando in testa. Quella testa complessa.
Michael mi fa attendere un po', propenso a studiare le sue possibili mosse e,
soprattutto, le mie possibili reazioni. Identifica l'andamento della partita sul
pavimento, trascinando strane strisce e traiettorie, un talento che gli ho sempre
invidiato.
Se ne sta a riflettere per tutto il tempo di cui ha bisogno, incurante di me e
della mia impazienza.
Lo sfinimento mi pervade le ossa, eppure, non appena lui torna a degnarmi
della sua attenzione, raddrizzo la schiena. Mi maledico per questo.
Ciononostante, sul suo volto non leggo alcuna traccia di qualche strategia.
Nessuna astuzia.
Faccio del mio meglio per non mostrargli la mia sorpresa e curiosità, tuttavia
quando si alza in piedi e mi raggiunge senza esitazioni, l'ansia comincia ad
arrampicarsi lungo la mia spina dorsale.
Batto le ciglia un paio di volte dinanzi alle sue gambe lunghe che si fermano
davanti a me. Dopodiché si piega sulle ginocchia, il familiare scricchiolio è
come un caldo soffio sulle spalle, ed ecco che il suo viso rientra nel mio campo
visivo.
Mi schiarisco la voce. «Cosa stai facendo?».
Michael stringe le labbra, poi avvolge le dita fredde attorno alle mie caviglie
nude, altrettanto ghiacciate. E sebbene siamo entrambi così gelidi, io provo
soltanto calore.
«Michael, rispondimi. Che diavolo stai facendo?».
«Ti dimostro che non voglio farti del male», dice, il tono di piombo, e i
polpastrelli scivolano fino ai polpacci, prima di ficcarsi nella carne, corrodendo
ogni punto al loro passaggio. «Sono sempre io, Grace. Anche dopo nove anni, io
sono sempre lo stesso bambino con cui hai condiviso un biscotto alla
marmellata. Che tu ci creda o no».
Tremo, tremo sul serio, mentre i polmoni prendono la strada dell'apnea,
mandandomi in asfissia.
Mi costringo a dirottare lo sguardo sulle ciocche rosse di Margot ancora per
terra, mi costringo a ripensare a ciò che ha fatto a Denver, a quello che è
successo in orfanotrofio sette anni prima.
«E infatti non ci credo. Se davvero fossi lo stesso, non mi avresti mai rapita.
Non avresti ucciso tutte quelle persone», dichiaro, inflessibile e monocorde.
«Comprendi ciò che hai fatto, perlomeno?».
Lui non demorde. Piuttosto fa scivolare i palmi ancora più su, nell'incavo
delle ginocchia, e d'impulso stringo le gambe. Si tratta solo di uno stupido
riflesso incondizionato.
«Sei una finta moralista», prorompe, avvicinando il volto al mio, talmente
tanto che il suo respiro mi scalda la bocca. I nasi quasi si sfiorano. «A te non
importa nulla di quel bastardo che ha provato a farti del male o di chiunque altro.
Tu temi per te, Grace. Perché ti ho deluso, ho spezzato ciò che eravamo e non
me lo perdonerei mai, ma non fingere che il motivo del tuo odio sia altro».
Arriva come un'onda, impavida e letale, distruggendo qualunque buon
proposito o scorcio di calma avessi mai potuto intravedere. La mia furia sale,
sferzando di qua e di là per tutto il suo viaggio funesto, lava di un magma fluido
pronta a scagliarsi su quel figlio di puttana e fondergli la pelle.
Mi tiro su, afferrandogli il viso con le mani. Le mie dita premono sulle sue
guance lisce, sfregando l'alabastro, mentre le sue mi graffiano le cosce.
«Chiudi questa cazzo di bocca!», sputo fuori, mostrandogli i denti. «Tu non
sai niente, assolutamente niente di me. Non ti permetto di sentenziarmi in questo
modo orribile. E qualsiasi cosa credi di sapere, allora appartiene alla Grace di
sette anni fa. Una Grace che non mi appartiene più, e sai perché? Perché sei
arrivato tu e le hai spazzato via quelle poche certezze che aveva! E io ti odio per
questo, per la persona disgustosa e disturbata che sei!».
Un brivido mi prende alla sprovvista quando lui si stacca da me di netto,
lasciandomi in bilico, e si allontana di un paio di passi dopo essersi rimesso in
piedi.
Di contro, faccio lo stesso. Seppur poco stabile, mi rialzo e lo fronteggio,
dimostrandogli tutta la mia caparbietà, la mia scintilla che mai lascerò spegnere.
Michael scuote il capo e sbuffa una risatina di scherno. «Io ti conosco meglio
di chiunque altro, persino meglio di te stessa, e tu lo sai». Mi punta l'indice
contro. «Perciò risparmiami queste menzogne. Pensi di ferirmi colpendo i miei
punti deboli? Sei una bambina, Grace. Guardati, ancora porti la mia collana».
Sotto il suo sguardo acceso, paralizzata, mi porto la mano al ciondolo. «Vuoi
combattere prima di arrenderti all'inevitabile? Va bene, sono pronto a parare i
tuoi colpi. Vieni pure qui, ti aspetto a braccia aperte, bambolina. Ma sarà tutto
inutile».
Lacrime salate mi bussano dietro le retine, ma le respingo via brusca. Sbuffo
via il fiato, non riesco a fare respiri controllati, e le mani mi tremano.
Me ne frego delle mie gambe trasformate in gelatina o il groppo fattosi fin
troppo pesante in gola. Avanzo e, incurante di quanto appena detto, gli scaglio
uno schiaffo a tutta forza in pieno viso. Il palmo mi brucia, ma mai quanto la mia
anima.
«Fottiti, Michael», sibilo. «Se davvero credi che bastino due paroline ben
messe per manipolarmi, sei uno stupido. Ma avevi ragione prima, sai? Io non ti
perdonerò mai. E qualunque sia il motivo per cui hai sentito questa necessità di
dovermi rapire, non mi importa. Tu, per quanto mi riguarda, resti un mostro!».
A questo punto, allo schioccare dell'ultimo epiteto che gli affibbio, ogni
traccia di calma o pigrizia gli scompare dalla faccia, su cui si sono incise le mie
cinque dita.
Michael, gli occhi adombrati e il mento abbassato, mi osserva da sotto le
ciglia. «Stai attenta. Non giocare con la follia, bambolina».
Faccia a faccia, uno in piedi davanti all'altro, continuo imperterrita a sferrare
i miei morsi. A cercare di graffiarlo, di fargli del male. «Tu e la tua follia potete
pure andarvene a fanculo insieme. Mostro!».
Mi si accosta a un soffio, il fiato ridotto come il mio. «Ripetilo», ringhia.
«Sei soltanto un mostro».
Michael schiaccia le mie guance fra i suoi polpastrelli, tanto che i denti
grattano l'interno guancia. «Ancora. Dillo con più convinzione, Grace».
Deglutisco. «Sei... tu sei un mostro».
Altre dita si impossessano del retro della mia coscia, scavano la carne,
tenendomi attaccata a lui. Mirano all’interno, ho un tremito che lui accoglie
compiaciuto.
«Oh, inizio quasi a crederci. Avanti, riprovaci», bisbiglia, chinando il capo, e
di netto mi ritrovo con la punta del suo naso che si strofina sull'arteria del mio
collo.
Come diavolo ci sono finita in questa situazione?
Tuttavia, mi impongo di non mollare la partita. E so bene che mi basterebbe
usare il suo cognome per mettere fine a tutto, per spezzarlo un'altra volta e
gettarlo nel connubio di dolore che lo ha sempre contraddistinto.
Non lo faccio. Continuo a giocare seguendo le sue regole.
«Mostro», sillabo.
Michael mi sfiora la congiunzione che divide la natica dalla coscia, persiste
in quel limbo, e calde labbra schioccano un bacio bagnato sulla mia gola,
mandandomi in cortocircuito.
Lui, maledizione, ha sempre avuto la capacità di annebbiare tutto. Di
cancellare qualsiasi cosa. E mi odio per il potere che gli concedo di avere su di
me, ma io... ma io non riesco...
Mi bacia la mandibola, poi la graffia coi denti. «Di nuovo».
Non riesco. Perché lui mi tocca, mi parla e per me è Michael. Solo Michael.
Schiudo la bocca, il termine già pronto a fluttuare come un ansimo tra di noi,
ma il morso che mi lascia sul labbro inferiore me lo rende impossibile.
«Mostro», bofonchio a malapena, sulla sua bocca.
«Ancora», mugola, leccandomene l'angolo.
Ma stavolta non riesco a farlo. Non sono in grado di dire nulla. L'indice di
Michael sfiora la stoffa bagnata delle mie mutandine, smascherandomi.
Mi vergogno di me stessa. Me ne vergogno fino al midollo. Ma non voglio
che smetta di toccarmi.
È Michael. Cazzo, è Michael.
«La prossima volta...», sussurra, fa scorrere di nuovo quel dito sulla mia
intimità, facendomi boccheggiare. «La prossima volta che mi darai del mostro,
Grace, ricordati anche quanto ti sei bagnata per questo mostro».
Si stacca da me, lasciandomi a occhi spalancati e disorientati. Resto inerme,
incapace di realizzare quanto accaduto, sconvolta nel profondo. Il mio cervello
non connette.
Riesco solo a registrare l'azione di Michael che si porta il polpastrello alle
labbra, per assaporare la mia eccitazione.
«Il mio alfiere si è appena divorato il tuo cavallo, bambolina. A te la
prossima».
Demoralizzata, stanca, imbarazzata e umiliata, tutto ciò che sono in grado di
fare è retrocedere e mettermi in difesa in silenzio.
E inizio a pianificare, prendendomi il mio tempo come ha fatto lui.
Cristo, riesco a pensare soltanto alle sue mani su di me, alla sua bocca sulla
mia, a Michael stronzo e bello da morire, al mio Michael e poi al Michael che
odio, quelle due persone che non coincidono. Rischio di impazzire.
Ed è passato soltanto il primo giorno.
Cosa sarebbe successo in quelli a venire?
DIECI

GRACE

Grace: 10 anni.
Michael: 14 anni.

La zuppa bollente mi scivolò giù per i capelli, macchiando i miei vestiti fino
a un attimo prima freschi di lavanderia. Mi ustionò la pelle del collo esposta.
Squittii per il bruciore e mi alzai in piedi di scatto, mentre Killian, con ancora
la ciotola di coccio in mano, se la rideva insieme a Margot e Jonah.
Ben presto, intanto che io mi toglievo i pezzetti di gallina dai ciuffi sporchi e
mi impedivo di piangere, l'intera mensa si unì al coro. Un vero e proprio ululato
esplose nella stanza, aumentando la mia umiliazione.
«Perdonami, non ti avevo vista», sghignazzò Killian. «Anche se non è colpa
mia se sei un fantasma».
I suoi capelli neri sembravano una massa incolta e il piercing, che si era fatto
da solo al sopracciglio di recente, scintillò illuminato dalla luce bianca a led.
Strinsi le dita attorno al cucchiaio, tanto che le nocche già pallide
sbiancarono ancora di più.
«Non hai niente da dire, fantasma?», continuò a punzecchiarmi, e in eco alle
sue parole mi venne gettato addosso un po' di purè. Schizzò tutto sulla mia
guancia. «Ops, anche Jonah deve essere inciampato. Siamo tutti così sbadati,
eh?».
L'odio cominciò a gorgogliare nelle profondità del mio stomaco, un vulcano
in piena eruzione, intenzionato più che mai a distruggere tutto quello che mi
circondava.
Deglutii, lanciandomi un'occhiata attorno. Gli educatori non c'erano, come al
solito, e i volontari della mensa facevano finta di niente, perché quella era
soltanto prassi, semplice routine.
Siamo tutti bravi a girarci dall'altra parte quando ci fa comodo.
Alla fine avrebbero comunque vinto loro, lo sapevo bene; lo avevo capito nel
momento in cui avevo reagito ed ero diventata la carnefice, anziché una vittima
del sistema stanca di subire.
Non importava quante bastonate io ricevessi, non importava quante lacrime
versassi o quanti lividi ricoprissero il mio corpo, io ero soltanto l'ennesima
ragazzina troppo debole e bisognosa di attenzioni.
Allora tanto valeva che la smettessi di comportarmi bene. Se volevano un
vero carnefice io gliel'avrei dato.
Quindi, all'ennesimo alimento che venne scagliato sulla mia faccia, afferrai il
vassoio e lo sbattei con tutte le mie forze sulla guancia di Killian. Il contraccolpo
fece rumore, l'annuncio di una tempesta, il tuono della furia — la cartilagine
vibrò.
Spensi le voci, godei dell'impatto e quasi mi venne una slogatura alla spalla
per l'intensità.
La mensa piombò nel silenzio, l'unico suono a rimbombare fu il grido di
dolore di quel bastardo.
Non feci neppure caso agli occhi spalancati che mi fissavano, pensai
piuttosto a lanciare via il vassoio e a raggiungere Killian stramazzato a terra che
si teneva il volto fra le mani.
«Hai ragione. Sei proprio uno sbadato», biascicai. «Come hai fatto a
inciampare nel mio vassoio?».
«Puttana!», sbottò Jonah, eppure non si alzò dal suo posto.
Lo ignorai. Pensai soltanto a piegarmi sulle ginocchia, analizzando la
maglietta grigia stropicciata, le dita anellate di un quattordicenne e il piccolo
tatuaggio che gli ricopriva il polso. La sua iniziale.
Killian continuava a mugolare e intravidi un paio di gocce rosse colargli giù
per la guancia. Non mi sentivo fiera di quello che avevo fatto, ma neppure in
colpa. Se lo era meritato.
«Questo gioco mi ha stancata», mormorai, e lui si scostò una mano dal volto
per mostrarmi l'angolo della bocca spaccato. Le lacrime gli riempivano la faccia,
confondendosi con il sangue. «Io dico basta, e faresti meglio a dirlo anche tu.
Altrimenti la prossima volta ti rompo i denti, Killian».
Non scambiare le mie ossa fragili per ossa deboli, avrei dovuto aggiungere.
Di tutta risposta, lui torse le labbra in un ghigno disgustato e, risentito dalla
pessima figura che gli avevo fatto fare, mi sputò sul mento. Un grumo
appiccicoso si fuse con tutte le schifezze che di già mi ricoprivano.
Sbuffando, feci scivolare il palmo sul mio viso per raccogliere il cibo e poi lo
spalmai tra i capelli di Killian. «Sta meglio a te».
Mi rialzai in piedi, sotto i suoi insulti e quelli dei suoi amici, e uscii dalla
mensa senza mai voltarmi indietro; diedi loro le spalle, fregandomene di ciò che
avevano da dire o da fare.
Calpestai le suole sul legno scuro del pavimento, percorsi i corridoi lunghi e
vuoti, tristi. Mi diressi nei bagni comuni delle donne, dove trascorsi l’ora
seguente a lavarmi di dosso gli avanzi e la sporcizia.
Mi sciacquai via l'odio, la rabbia, quelle emozioni che detestavo provare e
che non facevano parte di me, ma che dovevo indossare come una maschera se
volevo sopravvivere lì dentro.
Costruire un personaggio, issare mura alte e invalicabili era la mia unica via
d'uscita. Dovevo essere una fortezza inespugnabile.
Io non ero come loro.
Ma essere me stessa mi faceva stare soltanto male.
Insaponando i capelli per la terza volta, la voce di mia madre tornò a
rimbombarmi nei timpani; un tuono di avvertimento, il riverbero della delusione
che avrebbe provato se fosse stata lì.
«E quando penserai che sia un male, tu continua a fare del bene».
Avrei tanto voluto averla al mio fianco, solo per poterle chiedere come
potevo fare del bene a qualcuno che invece prediligeva il male. E poi quale
bene? In quale occasione? In che modo?
Ero troppo piccola per poterlo sopportare. Troppo piccola per poter
comprendere davvero la differenza tra giusto e sbagliato. Troppo piccola per
essere buona come lo era lei.
Scossi il capo, per togliermi dalla testa quei pensieri, e finii la mia doccia. Mi
asciugai alla svelta, infilandomi nel mio accappatoio bianco che mi faceva
sembrare più minuscola di quanto già non fossi, e gettai i vestiti nei panni
sporchi.
In lavanderia prima o poi mi avrebbero maledetto per la quantità di camicie e
gonne che riportavo ogni volta.
Quando tornai nella mia stanza, nella speranza di non trovare Margot al suo
interno perché sarei stata capace di strapparle via i capelli uno a uno, per poco
non saltai per aria nel vederlo steso sul mio letto a contemplare il soffitto.
Fu più efficace della doccia: ogni traccia di ira, odio, risentimento e rancore
balzò via, tutto sostituito dalla sorpresa e da quell'emozione che solo lui era in
grado di provocarmi. Quel sentimento che aveva un nome, un'entità palpabile a
mani nude tanto era potente, che esigeva di esplodere e di divampare.
Qualcosa per cui temevo lui non sarebbe mai stato pronto.
Lo sarai mai, Michael?
Chiusi la porta di scatto, attirando la sua attenzione. «E tu che ci fai qui?».
Michael si tirò su a sedere, accigliato, e mi squadrò. «Hai ancora i capelli
bagnati».
«Succede quando uno si fa la doccia, Michael», ridacchiai, avvicinandomi a
lui. «Ma non hai risposto alla mia domanda».
«Ti verrà il raffreddore o una brutta cervicale in questo modo, Grace».
Niente, era inflessibile e fissato sui miei capelli bagnati. Non smetteva più di
guardarli. Difatti allungò una mano e si rigirò una ciocca fra indice e pollice.
Praline bagnate gli rotolarono giù per il polso di porcellana, costeggiarono le
vene bluastre e morirono nella dolce piega interna del suo gomito.
Gli mostrai la lingua, dispettosa. «Ti preoccupi per me, Michael?».
«Sempre, bambolina». Mi schioccò un bacio sulla tempia, tenero come un
cuore di marzapane. «E infatti, non appena avrai concluso di renderti
presentabile, discuteremo insieme su un paio di cose».
Un brutto presentimento si fece largo in me, inducendomi ad aggrottare le
sopracciglia, e inclinai la testa. «Quali cose?».
«Prima i capelli».
«Non puoi lanciare una bomba e poi aspettarti che non esploda!».
«I capelli, Grace».
Imbronciai le labbra, sperando di riuscire a convincerlo a vuotare il sacco in
qualche modo, peccato che Michael fosse incorruttibile e letteralmente
indifferente a qualsiasi cosa.
Perciò fui costretta a seguire le sue direttive. Ancora stretta nel mio
accappatoio, attaccai l'asciugacapelli di Margot alla presa e iniziai a compiere la
magia.
I miei capelli non erano lunghissimi, un po' spessi e tanti, ma nulla di
incredibile, sicché impiegai meno tempo del previsto per finire.
Nel frattempo Michael mi guardò, senza perdersi una singola mossa, un solo
dettaglio. Ammirò ogni mio gesto, quasi fosse rimasto incastrato tra le mie mani,
in parti di me che neppure io riuscivo a scorgere.
Attraverso lo specchio appeso alla parete porpora, gli sorrisi e spensi il phon.
In risposta, scorsi il luccichio dei suoi occhi spezzati, in quella minuscola
particella di lui ancora viva, ancora mia.
Quando tornai da lui, ben steso sul mio piccolo letto, quello più vicino alla
finestra, lo feci accompagnata da una spazzola.
«Sei con me?», mormorai, recuperando dal comodino al suo fianco un libro
che avevo preso in biblioteca.
«Sì», rispose secco, io mi feci spazio tra le sue gambe e mi accomodai,
dandogli le spalle. Gli porsi la spazzola. «Che devo farci con questa?».
«Visto che ti piacciono tanto i miei capelli, pettinameli».
«Mi piacerebbe», ammise, poggiando la guancia sulla filigrana bianca. «Ma
tu dovrai ascoltarmi e prestarmi attenzione, nel frattempo».
«Promesso».
Misi il libro, una vecchia copia di Jane Eyre, da parte e raddrizzai la schiena
per fargli capire che lo avrei ascoltato sul serio, come del resto facevo sempre. Io
lo ascoltavo anche quando preferiva il silenzio.
Ti ascolto anche quando non vorrei, lo sai?
Maledizione, io ascoltavo i suoi respiri e i suoi battiti, nella vana speranza
che almeno la metà di questi fossero per me proprio come io ne dedicavo ognuno
a lui.
«Mi raccomando, fai piano. La cute è sensibile».
«Certo», biascicò, raccolse i ciuffi tra le sue dita delicate e li fece scorrere tra
i denti della spazzola, piano. «Partiamo dall'inizio. Cosa è successo oggi in
mensa, Grace?».
Tentai di non irrigidirmi, ma fallii. Il solo ricordo di quei bulletti da quattro
soldi e il modo in cui avevo reagito bastava per farmi aggrovigliare le budella.
Tuttavia Michael si premurò di sciogliere i miei nodi continuando a
pettinarmi i capelli, dolcemente. Senza pretese. Mi aspettò.
«Mi hanno lanciato del cibo addosso per umiliarmi, mi hanno chiamata
fantasma e io ho cercato di farmi valere, di rispondere», riassunsi. Non volevo
scendere nei particolari. «Forse ho esagerato, però sono stanca di subire e
permettergli di trattarmi in quel modo».
Michael applicò un po' più di pressione, ma non gli dissi nulla. Potevo
percepire la sua agitazione aumentare, una rabbia gelida salire in superficie.
«Perché ce l’hanno tanto con te, bambolina?».
«Perché sono diversa, Michael», sussurrai. «Non posso giocare al sole,
quando esco devo sempre portare un cappello e mettermi le protezioni. Sono
sensibile alle luci, e forse anche miope. E non ho mai visto il mare, perché se
non lo posso vedere d’estate allora non mi interessa accontentarmi dell’inverno».
«Tu non sei diversa, Grace. Tu sei unica, e io non ti vorrei mai in nessun
altro modo».
Abbassai lo sguardo, timida. «Purtroppo soltanto tu la pensi così».
Però mi basta. Mi basti tu.
«E se vuoi, al mare ci possiamo andare di notte».
«Non importa, tranquillo».
Sospirò. «Sono stati messi in punizione alcuni ragazzi e li ho sentiti parlare
attraverso la grata. So ciò che hanno fatto», confessò e un respiro a stento
trattenuto mi scaldò la nuca. «E non so se la prossima volta sarò in grado di
trattenermi, Grace».
Il tono tormentato e la sofferenza che riuscii a percepirvi mi convinsero a
voltare il viso, a sprofondare nell'artico delle sue iridi. Michael smise di
spazzolarmi i capelli per afferrarmi le guance, i polpastrelli premettero delicati e
soavi.
«Che vuoi dire?», soffiai.
Calò le palpebre e appoggiò la fronte sulla mia, carezzandomi fino agli
zigomi coi pollici. «Io esplodo per te, bambolina», bisbigliò. «Non sono un
ragazzo normale, questo lo so, e c'è qualcosa che non va in me. Ma tu sei la mia
unica luce, Grace, e io non permetterò a nessuno di spegnerti, di portarmi via
l'unica cosa bella che io abbia mai avuto».
Mi si mozzò il fiato. Prima di allora, non mi aveva mai detto parole del
genere, non mi aveva mai aperto il suo cuore in quel modo. Gli occhi mi si
riempirono di lacrime e portai una mia mano sulla sua, intrecciando le dita.
«Michael...»
«Non posso permettere a nessuno di farlo», sussurrò e il mento prese a
tremargli, la voce si fece più fragile. «Lo capisci, vero? Non posso, Grace, non
posso. Se perdo te, io perdo tutto». Stampò la bocca sulla mia guancia. «E se ti
fanno di nuovo del male, do fuoco a questo posto dalle fondamenta. Con tutti
all'interno».
Un brivido percorse la mia schiena, e non sapevo dire se si trattasse di paura
o euforia nel realizzare quanto mi reputasse importante per lui.
Annaspai per alcuni istanti, disorientata da tutto quello, e portai anche l'altra
mano sulla sua. «Lo faresti davvero per me?».
«Senza pensarci due volte, bambolina», sibilò. La determinazione gli indurì i
lineamenti delicati. «Io per te metterei sotto assedio una città intera».
Aprii e chiusi la bocca più volte, la lingua schioccò sotto al palato, eppure
non riuscii a trovare alcuna parola o sillaba in grado di esprimere l'infinito che
stavo provando.
Perché per la prima volta, per la prima volta da quando i miei genitori mi
avevano abbandonata, io mi sentivo al posto giusto, proprio dove dovevo stare;
mi sentivo al sicuro, protetta.
Ma soprattutto... io mi sentivo amata. Più di quanto avrebbe mai potuto fare
chiunque altro.
E non sapendo come poterglielo spiegare, mi girai del tutto e lo abbracciai di
slancio, stringendolo forte. Amandolo fino allo sfinimento in tutta la mia
ingenuità. Come solo una bambina di dieci anni poteva fare.
Che errore.
Perché amarlo consuma, strazia dall'interno, logora le ossa, ma a quel tempo
non potevo mai immaginare una vita diversa per me, un mondo dove io esistevo
senza Michael. Dove non amavo Michael.
E forse non riesco tuttora.
E fu allora che decisi di consegnargli tra le mani il mio bellissimo pezzo di
cuore rimasto. Glielo diedi con calma, con un amore sconfinato che andava oltre
la comprensione e la logica, e chiusi gli occhi.
«Sei tu, Michael», sussurrai. «Sei sempre stato tu e sarai sempre tu».
E io amerò ogni particella di questo sempre.
«A ferro e fuoco, Grace. Bruci e raffreddi. Ma a ferro e fuoco».
Non avevo la piena certezza di quello che voleva dire, ciononostante lo sentii
dentro, dirompente, come una pianta rampicante che risaliva e si addensava in
qualsiasi spazio disponibile e anche non.
«Più di ogni altra cosa al mondo», biascicai.
Ti amavo più di ogni altra cosa al mondo.
E non lo dicevo perché non avevo niente.
Lo dicevo perché tu eri tutto.
Finii per addormentarmi così, abbracciata a Michael che continuava a
ripetere che per me avrebbe fatto qualsiasi cosa, che non avrebbe più permesso a
nessuno di farmi del male.
Mi addormentai e quando al mattino trovai soltanto le coperte fresche ad
avvolgermi, lo amai lo stesso e, inspiegabilmente, ancora di più.
A ferro e fuoco.
UNDICI

GRACE

Gratto l'unghia contro la pietra, fino a tratteggiare un segno, fino a


spezzarmela. Imprimo sulla roccia il tempo, un giorno passato.
I miei occhi sono gonfi di sonno, ho dormito poco, troppo spaventata da
Michael e da me stessa. Il modo in cui gli ho permesso di toccarmi, come il mio
corpo sia andato su di giri al minimo contatto... mi faccio ribrezzo da sola.
Non deve più accadere una cosa simile.
E soprattutto devo trovare uno schema che mi permetta di vincere, di
servirgli uno scacco matto plateale.
Sono in svantaggio, ma so quali armi usare. Sebbene Michael non si sia mai
aperto con me, lo conosco abbastanza da sapere quali siano i suoi punti deboli.
Devo soltanto capire se ho davvero il coraggio di usarli o meno. Perché,
nonostante tutto, io ho dei principi, una maledetta morale con cui faccio a pugni
da anni ormai.
Michael è il male, mi ripeto in un mantra ostinato. Michael non è mai stato
per davvero il mio Michael, quello che mi pettinava i capelli e mi diceva che per
me avrebbe messo sotto assedio una città.
Michael è il male, anche se infondo so benissimo quanto lui sia molto di più
di un’etichetta.
Ricorda quello che ha fatto, Grace. Ricordalo!
Eppure, più lo guardo dormire, persa nei suoi lineamenti mai visti così
rilassati e il tratto morbido delle sue labbra che ho sentito per un attimo sulle
mie, sbiaditi ricordi di vecchi abbracci vengono a trovarmi.
Lo fanno spesso, in realtà, ma da quando sono con lui stanno tentando di
soccombermi, di scavalcare la ragione per dirmi che questo qui è Michael, il mio
Michael, colui a cui ho regalato l'ultimo spiraglio di me, l'unico dolce rimasuglio
di ciò che era Grace un tempo.
Poi, nella mia testa, quei teneri abbracci vengono sostituiti da dita aspre che
mi toccano in modi che mai ho sperimentato, come nessuno mi ha toccata mai.
Un tocco che mi è piaciuto, inutile negarlo, ma di cui mi vergogno.
E se non vuole farmi del male, allora perché mi ha rapita? Che cosa spera di
ottenere? Che sta combinando?
Dio, niente di tutto ciò ha senso.
Scuoto la testa, scacciando via qualunque pensiero e tutte quelle istantanee di
noi due, piccoli anatroccoli sperduti che si erano trovati. Rimuovo ogni cosa.
Piuttosto, intanto che lo osservo dormire, un aspetto tanto intimo quanto
disagevole, comincio a studiare quale potrebbe essere la mia prossima mossa.
Michael è astuto, il suo cervello concepisce schemi al di fuori della mia
logica, e batterlo al suo stesso gioco sarà difficile, quasi impossibile. Ma devo
provarci.
Ucciderò il suo cazzo di Re. Anche se per farlo dovessi sacrificare la Regina,
lo farò.
Quello che ho davanti, rimembro a me stessa, non è il mio Michael. Non lo è,
cazzo.
Tu non sei lui!
Inspiro profondamente e resto a fissarlo, a tenerlo sotto stretta sorveglianza,
finché non si sveglia. Spalanca le palpebre e la prima cosa che fa è cercarmi,
realizzare che sono proprio a pochi passi da lui.
Non diciamo una sola parola. Lui mi scandaglia e si sofferma per un
momento sull'unghia spezzata, sul sangue rappreso e ormai secco sulle mie dita.
Poi passa oltre.
Anche se si è appena svegliato, ha uno sguardo vispo, tipico di chi se ne sta
sempre in allerta, preparato per qualsiasi situazione.
Torna nei miei occhi, confondendo il ghiaccio nell'oceano. Proseguiamo nel
silenzio, nessuno dei due apre bocca quando lui si alza per sgranchire le gambe.
Non parliamo nemmeno durante il "pranzo" improvvisato, composto da un
paio di mele e un succo nutriente.
Alla fine, però, devo cedere io. Sento i reni sprimacciare, sul punto di
implodere. Non ce la faccio più.
Ingoiando l'imbarazzo, mi schiarisco la voce. «Ho urgenza di andare al
bagno».
Michael sbatte le ciglia e non risponde, meditando su chissà cosa. Cristo, lo
detesto quando fa così.
«Mi hai sentita? Devo pisciare!».
«Sì, Grace, ti ho sentita», sbuffa, addirittura annoiato, e muove i piedi verso
l'angolo della cantina, quello più scuro. «Stavo soltanto riflettendo su quante
storie farai stavolta e su quanta pazienza mi sia rimasta a disposizione. Non
molta, comunque».
Un brutto presentimento cola a picco sul mio petto. «Che vuoi dire?». La
voce mi trema.
«Voglio dire che qui c'è una grata che porta al canale di scolo».
Credo di aver sentito male. Sì, di sicuro ho frainteso.
«Scusami?».
Lui, privo di emozioni sul volto di pietra, punta il dito verso il pavimento,
dove deduco ci sia fissata la famosa grata. «Posso anche ripetertelo in una lingua
diversa, bambolina, ma il risultato non cambierà. Hai capito bene».
Non. Posso. Crederci.
Ma che cazzo?
«Vuoi davvero che pisci su una fottuta grata?».
«Io non voglio niente». Si stringe nelle spalle e se ne torna dal suo lato della
stanza. «Fai ciò che più ti aggrada, Grace. Il mio era un suggerimento».
«Ciò che più mi aggrada?», ringhio, sollevandomi di scatto. «Mi ci hai
trascinata tu qua sotto, sei stato tu a rapirmi, e adesso osi dirmi che posso fare
quello che voglio?».
Maledizione, sta per venirmi la bava alla bocca tanta è la furia che mi ribolle
nelle vene. Ipocrita bastardo.
Come si permette?
Quando aggrotta le sopracciglia, confuso, e piega il collo, il mio nervosismo
cresce in una maniera esponenziale. Fulmino le sue iridi chiare.
«Infatti non ti ho detto che puoi fare quello che vuoi, Grace, ma che puoi
urinare dove ti pare».
La mia mandibola tocca terra. È soltanto mattina e stiamo di già
raggiungendo picchi di follia assoluti. Sto ancora sognando, non esistono altre
spiegazioni.
Mi rifiuto, io mi rifiuto a gran voce, di credere che stia realmente accadendo.
Che Michel mi stia suggerendo il posto adatto dove sgomberare la vescica.
Svegliati, Grace.
Svegliati, ti prego.
Ma niente da fare. È tutto reale, così come lo è il rossore che comincia a
propagarsi su per il mio collo, fino alle guance di solito fredde e che ora sento
stranamente accaldate.
«Sto per farti male», minaccio.
«Grazie per avermi avvertito».
Evito di chiedergli da quando abbia quel senso dell'umorismo, proprio lui che
è l'angoscia fatta in persona, e assottiglio le palpebre a uno spiffero di
risentimento.
Avanzo di un passo, pronta a staccargli la testa dal corpo e urinare sui suoi
resti, ma un pensiero improvviso mi arresta. Perché lui si aspetta proprio questo
da me: l’aggressività, la rabbia, la frustrazione.
Michael conosce le mie reazioni. Ha previsto che mi sarei comportata in
questo modo. Il mio passo falso, il pedone messo in posizione, è soltanto frutto
del suo gioco perverso.
Mi farà a pezzi, cazzo.
Quindi, costretta a ribaltare le carte in tavola, determinata più che mai a
distruggerlo, prendo la mia decisione.
Sollevo il mento, pura sfida a dardeggiare nello spazio angusto che ci divide,
e a sopracciglio inarcato infilo le dita al di sotto della gonnellina blu soltanto per
sfilarmi le culotte.
Michael sgrana le palpebre, sconvolto, preso alla sprovvista dal mio gesto, e
tanto mi basta per capire che sto andando nella giusta direzione.
«Prego», bofonchio e gli lancio il mio intimo in faccia, prima di dirigermi
verso quella fottuta grata.
Porca puttana, lo sto facendo sul serio. Che schifo. Che schifo. Che schifo. È
antigienico, disgustoso, umiliante, deplorevole. Mi viene da vomitare.
E sebbene lui non mi stia guardando e ho l'orgoglio che si arrampica come
edera fra le mie costole, mentre mi piego sulle ginocchia e la faccio, lacrime
amare mi pizzicano dietro le retine.
Qualcosa di non identificato si rompe dentro di me. Se prima di adesso non
avevo compreso a pieno cosa significasse la prigionia, ora lo capisco. Lo capisco
dal fatto di non avere nemmeno la libertà di pisciare in un dannato cesso, di non
avere nemmeno la privacy di farlo.
E la voglia di fargli del male, nell'atto di ripulirmi con dei fazzoletti poggiati
sul congelatore, ritorna in tutta la sua prepotenza.
Perché mi sta facendo questo?
Verso dell'acqua nella grata, confidando nel canale di scolo, e mi volto verso
Michael, che se ne sta rannicchiato su sé stesso a fissare un punto morto vicino i
suoi piedi.
Un tormento cieco gli deturpa i lineamenti morbidi, la grinza in mezzo alla
fronte rovina l'armonia del suo bel viso delicato.
«Mi dispiace», mormora di punto in bianco, la voce tesa e sofferente. «Un
giorno capirai, bambolina, ma mi dispiace».
«Va' a farti fottere», bisbiglio, non ho più forze nemmeno per gridare, e
cammino con lentezza nella sua direzione.
«No, mi dispiace», ripete, continuando a fissare quello stupido punto.
È troppo.
«Non mi interessa se ti dispiace, non mi interessa se soffri e non mi interessa
se sei schiavo della tua stessa psicosi», pronuncio, fermandomi proprio davanti a
lui, e mi inginocchio. Mi faccio spazio tra le sue gambe divaricate e gli afferro il
viso. Le mani mi tremano. «Guardami in faccia, Michael. Guardami».
Avverto le sue mascelle scattare, irrigidirsi, strusciano contro i miei
polpastrelli, e probabilmente deve combattere qualche suo demone interiore, ma
alla fine sposta lo sguardo nel mio.
Sprofondo nella sua malinconia, nei frammenti di una persona che non forse
non si è mai sentita tale, e un altro pezzo di me si dissolve.
Perché lui è sempre Michael. E a me fa sempre male, vederlo stare male.
Ma siamo finiti in una situazione più grande di noi e i suoi demoni ora stanno
mangiando anche me. Ci siamo persi nella disperazione, in traumi mai risolti, e
non ci ritroveremo mai.
Chiudo gli occhi e appoggio la fronte sulla sua. «Prima o poi uscirò da qui, e
ti trascinerò all'Inferno di persona, Michael».
«All'Inferno ci sono già stato, Grace. Ci sono nato e cresciuto laggiù. E ogni
tanto ci torno ancora. Ovunque mi porterai, sarà soltanto un lusso a confronto».
Ignoro. Ignoro e vado avanti, perché se mi soffermassi sulle sue parole,
cambierebbe tutto.
«Tu non sai cosa stai scatenando», sussurro. «Non hai idea di quanto mi stai
facendo male. Continui a peggiorare la situazione, Michael. E io non so
nemmeno perché mi stai facendo questo. Perché? Perché, Michael? A me, lo stai
facendo a me. Non ad altri. A me, cazzo. Dimmi perché!». E per quanto non
voglia, un singhiozzo mi sfugge. «Voglio che tu mi dia una spiegazione, la
pretendo!».
Lui non si muove. Un cenno, un tentennamento, un misero respiro di troppo.
Niente, resta immobile come una statua, anche se i nostri nasi si sfiorano, anche
se le bocche vicine continuano a confondere i fiati.
«Per favore, non piangere».
È tutto ciò che dice, ma sembra ugualmente esausto, senza respiro.
«E tu dammi una vera spiegazione», quasi lo imploro.
«Non ho nessuna spiegazione, Grace. Oltre a ripeterti che non ho nessuna
intenzione di farti del male, piuttosto mi taglierei le mie stesse mani, non so che
altro dirti. Devi solo fidarti di me e aspettare».
Riapro gli occhi, guardandolo sbalordita. Gli scoppio a ridere in faccia.
«Fidarmi di te? Come ti salta in mente una cosa del genere? Venderei la mia
anima al Diavolo, anziché darti un briciolo di fiducia».
Lo spingo, allontanandomi alla svelta da lui e dalle sue labbra che si curvano
all'ingiù. Impongo qualche centimetro di distanza, smetto di toccare la pelle
vellutata, e distolgo lo sguardo quando scuote la testa angosciato.
«Sei ingiusta», mormora.
«Oh, questa poi», sbuffo una risatina. «E sentiamo, per quale motivo adesso
sarei ingiusta? Avanti, illuminami».
Intravedo le sue spalle farsi avanti, perciò d'istinto arretro e, per distrarmi dai
suoi occhi, quegli spettri vuoti, mi rimetto l'intimo. Per ricordarmi quanto appena
accaduto.
«Continui a darmi del mostro, a trattarmi come se fossi il peggiore dei mali, a
insultarmi e augurarmi ogni atrocità di questo mondo», soffia, la voce un po'
altalenante, e non riesco a prevedere la sua mano che si chiude attorno al mio
polso per attirarmi di nuovo a sé. «Eppure non mi sembra che il tuo fidanzatino
speciale fosse una persona così buona».
Qualsiasi traccia di rossore possa avermi assalita minuti prima,
all'improvviso si dissolve, portandosi via tutti i colori. Sono certa di essere
appena sbiancata. Presa dal panico, con la mano poggiata sul suo petto, mentre le
sue gambe divaricate mi circondano, stringo il tessuto della sua maglietta in un
pugno.
«Non l'hai detto davvero. Dimmi che stai scherzando».
Una perfida determinazione gli illumina le iridi. «Mai stato così lucido,
Grace».
«Tu sei pazzo», ringhio e tolgo la mano di scatto, agitandomi. «Lasciami.
Lasciami subito, Michael, prima che dia di matto anche io. Non finirà bene,
quindi ascoltami e lasciami».
Di contro, quasi le mie parole lo abbiano soltanto infervorato e invogliato
ancora di più, lui mi blocca anche l'altro polso. Li porta entrambi dietro la mia
schiena, avvolgendomi tutta tra le sue braccia, e mi ritrovo a guardarlo dal basso.
Le mie ginocchia premono tra le sue cosce e se perdessi l'equilibrio finirei
per sdraiarmi del tutto sul suo corpo.
Uno spiffero ci separa, e noto con chiarezza il fuoco che si sta agitando in
lui, una fiamma alimentata in sette lunghi anni in attesa della giusta benzina.
«Qual è la differenza tra me e lui, Grace? A parte le intenzioni, cosa ci
differenzia?».
I miei polmoni cominciano a faticare, l'aria esce troppo in fretta e resta
troppo poco. Il cuore invece batte all'impazzata, per un attimo temo che possa
entrargli dentro per quanto si ostina a sbattere contro la mia cassa toracica.
Riconosce il suo vecchio padrone, l’infame. Ne sente l'odore, ne riconosce il
tocco, lo brama. È sempre stato stupido.
Serro i denti, il mento sollevato resta stabile così come la voce. «La
differenza è che tu sei ancora vivo».
Michael struscia il pollice sul dorso della mia mano, dove ho la crosta, una
calda carezza che gli ho insegnato io. «Un mostro resta tale anche da morto,
bambolina. Te lo richiedo: qual è la differenza?».
Devo liberarmi di lui. Devo smetterla di ascoltarlo. Devo distogliere lo
sguardo. Devo fare così tante cose e non ne faccio nessuna.
Lui mi respira addosso, imprime i polpastrelli nelle mie ossa, si intrufola
oltre i veli e deraglia in profondità. Non posso permetterglielo.
Combattilo, Grace.
Non ti arrendere.
Tu sei più forte di così.
«Mi hai rapita, Michael».
«E lui ti ha quasi violentata, Grace», sospira, un refolo d'aria calda scivola
sulle mie labbra. «Crudele il destino. Se non ti avessi presa, adesso non
staremmo neppure qui a parlarne. Ci hai mai pensato?».
«Dovrei forse ringraziarti?».
«No», sentenzia, secco. «Gli ho calato l'accetta d'emergenza sul collo per mia
scelta, e non me ne pento nemmeno per un istante. Lo farei altre mille volte».
Un conato mi contrae la gola e tento di sottrarmi dalla sua presa, ma me lo
impedisce. La scena di Michael che trancia la testa di Denver scorre nel mio
cervello come una maledetta pellicola, a ripetizione.
Le stesse mani che mi stano toccando hanno compiuto un'oscenità simile.
Dio. È tutto talmente surreale.
Ma se Michael non si fosse intromesso, Denver mi avrebbe davvero stuprata?
Sì. L’avrebbe fatto. Lo stava per fare. Ci era quasi riuscito.
La testa sta per esplodermi. Tutti questi pensieri malati e offuscati si
concentrano in un unico punto, ammassandosi, fino a concepire un masso
informe e pesante da sopportare.
Lui, per fortuna, riprende a parlare, poiché io non ne sono in grado.
«Esistono mali e mali minori, Grace. Io ho sempre cercato di riservarti quello
meno doloroso e non mi scuserò per questo. Non me ne importa niente se muoio
o vivo, non mi importa se lo fanno gli altri. Mi importa solo che lo faccia tu e
sono disposto a fare qualunque cosa per te».
Attacca le labbra sulla mia guancia, la bacia con dolcezza, e io non so se
tremo per la rabbia che mi abbandona o per il senso di colpa. Mi scosta un ciuffo
di capelli dietro l’orecchio, e nemmeno provo disagio quando mi fissa una
piccola porzione di pelle squamata.
Ho sempre coperto le mie orecchie, mi vergono dei brutti segni. Lui invece
mi morsica il lobo, poi lo bacia con tenerezza. Le mie ciglia sfarfallano.
Non riuscirò mai a estirparmelo via.
«E allora per quale motivo mi hai portata qui?».
«Perché sei la ragione della mia vita».
«Michael…»
Uno schiocco sul collo mi fa deglutire, prima di ritrovarmi ad annaspare al
contatto con la sua lingua bagnata, che mi assapora, assaggia e lenisce. Lenisce
le cicatrici, cura i tagli che ci siamo fatti a vicenda.
«Sette anni sono tanti», bofonchia, poi struscia i denti sulla mia arteria, la
succhia, la bacia, e i polpastrelli mi spingono le mani chiuse contro l'osso del
mio bacino. «E ho pensato, Grace. Ho pensato molto. Anche quando c'era
rumore, anche quando c'erano mani non tue, io pensavo. Perciò adesso devi
fidarti di me e lasciarmi fare. E se proprio non riesci a fidarti, allora cerca
almeno di fare buon viso a cattivo gioco».
Mani non tue?
Vorrei chiederglielo, ma so già che non mi risponderà mai.
O almeno, non lo farà a modo mio.
Michael è fatto così. Parla e devi interpretarlo, entrare a tutta forza nel suo
mondo ed estirpare dalle radici il senso di ogni sillaba.
Però è riuscito a trovarmi la via di fuga di cui ho tanto bisogno. Posso fare
buon viso a cattivo gioco. Posso illudermi di avere la situazione sotto controllo e
cercare di strappargli via le verità che non dice.
D'altronde, che cosa ho da perdere ormai?
«Okay», sospiro, ma discosto il collo. Non posso farmi toccare in quel modo
ancora. «Okay. Dimmi solo per quanto tempo mi terrai qui, ovunque siamo».
Michael scioglie la presa, e sfrutta la mano libera per schiacciarmi le guance,
le dita affondano nella mia carne.
«Meno di quanto vorrei», farfuglia, mentre altre dita scorrono sulla mia
coscia, per poi stringerla con possesso. Sussulto e, d'istinto, mi appoggio a lui.
«Ed è per questo che non posso sprecare il mio tempo con te, bambolina».
«Che intendi dire?».
Le sue lunghe ciglia sbattono un paio di volte, e il calore primordiale dei
nostri corpi uniti mi fluttua fino al basso ventre. Corrosivo e letale, così è il filo
che ci lega.
«Intendo dire che», sussurra, la mano sul mento scivola fino al collo e il
pollice scandisce le pulsazioni feroci del mio battito, «sono stanco dei
convenevoli. Mi sei mancata da morire, non so quanto ancora potrò stare con te e
adesso ti bacio fino in fondo».
Non ho neppure modo di elaborare, che la bocca di Michael piomba sulla
mia. E manda tutto in frantumi.
DODICI

GRACE

Grace: 10 anni.
Michael: 14 anni.

Sgattaiolare nella stanza di Michael era diventato il mio sport preferito.


Ormai la direttrice Caroline, sospettando troppo, anziché rinchiudermi nella
camera buia per punizione, aveva cominciato a spedirmi in biblioteca a rimettere
a posto i libri.
Come se potesse essere sul serio una punizione. A quanto pare, non riusciva
a capire che per me il vero incubo era trascorrere più tempo del previsto con
Margot e gli altri.
Si erano verificati vari episodi dove mi avevano importunata, dove ci
eravamo azzuffati e lasciati cicatrici reciproche, ma non avevo mai detto nulla a
Michael.
Non volevo turbarlo.
Perciò, quel giorno afoso di maggio, visto che tanto non potevo uscire fuori
senza rischiare la vita, indossai il mio vestitino più bello, quello blu che mi
avevano confezionato per il giorno delle adozioni a cui non partecipavo mai, e
corsi fra quei corridoi tetri, fino al mio posto preferito. Da Michael.
Feci attenzione a non far cigolare la porta. Come al solito, l'oscurità riempiva
l'area, illuminata soltanto da quello spiffero in alto. Era abbastanza. L'importante
era che riuscissi a vedere.
Lui se ne stava mezzo sdraiato sul letto a rigirarsi i pollici, gli occhi
puntarono su di me non appena entrai e si accesero di luce.
«Ehi», lo salutai, mettendomi a sedere al suo fianco. «Che stavi facendo?».
«Contemplavo il silenzio».
Aggrottai le sopracciglia, ma non porsi ulteriori domande. Lo disse con una
voce talmente soave e sollevata che non mi andava di rovinargli il buon umore.
Avrei insistito un'altra volta.
«Va bene», assodai, poi gli mostrai il libro che stringevo fra le mani. «Non so
se te l'ho detto, ma ultimamente sto passando un sacco di tempo in biblioteca. Ho
scoperto che mi piace tantissimo leggere. Leggevo già prima, siccome piaceva a
mia mamma, ma non così tanto come ora. Ho vissuto almeno trenta vite diverse
in questo mese».
Interessato, lo osservai drizzare la schiena e sporgersi per osservare la
copertina. Le sue pupille analizzarono la grafica per bene, si soffermarono sul
titolo in verde, sulla strana scacchiera disegnata, sul topino e quell'omino dal
cappello a punta.
«Trenta vite diverse?», ripetè quindi, riportando lo sguardo su di me.
Annuii di slancio, emozionata. «Sì! L'altro giorno, per esempio, ero una
ragazzina dai capelli rossi e la lingua lunga, oggi invece sono un maghetto che
riceve una sfilza di lettere per una scuola speciale, una scuola di magia».
Michael tacque per alcuni secondi, continuando a guardarmi confuso e
incuriosito, dopodiché acciuffò il libro e strofinò le dita sulle lettere che
componevano il chiaro e diretto Harry Potter.
«Questo l'ho portato per te. Io l'ho già letto, devo passare al secondo e non
vedo l'ora», lo informai. «Potremmo parlarne e discuterne una volta che l'avrai
finito, che ne dici?».
I polpastrelli di Michael si bloccarono e il sole scomparve in un battito di
ciglia, quasi avessi premuto un interruttore. Notai i suoi tratti farsi più duri, le
spalle irrigidirsi e il respiro velocizzarsi.
Cosa avevo detto di sbagliato quella volta?
«B-beh... se non vuoi», deglutii, «se non vuoi non fa niente, Michael. Se non
ti piace leggere non posso obbligarti».
Restò in silenzio, gli occhi ancora fissi sul libro e l'indice premuto sulla
copertina, con la tensione che mi si avvolgeva attorno ogni istante di più.
«Dico davvero, non fa niente», balbettai. «Ognuno ha i propri gusti, hobby...
sta' tranquillo...»
«Non sono bravo a leggere», sussurrò all'improvviso. «Riconosco le lettere,
ma non so unirle. Ci metto tanto tempo per decifrare una frase».
Sgranai le palpebre a quella confessione, sconvolta, una rivelazione
totalmente inaspettata, mentre lui sfogliava le pagine ruvide di Harry Potter.
Perché cavolo stavo venendo a scoprire soltanto in quel momento che
Michael non sapeva leggere? E come era possibile?
«Ma tu sei andato a scuola», puntualizzai, confusa.
Compresi che ci stavamo addentrando in un sentiero tortuoso quando le sue
spalle cominciarono a tremolare, anche se di poco. Non mi piaceva portarlo in
quel mondo sperduto e oscuro, di cui aveva tanto paura, ma volevo sapere,
volevo conoscerlo un pochino meglio.
Volevo iniziare a comprendere i suoi demoni, magari prenderli per mano e
aiutarli a trovare la via d'uscita.
«Sì», mormorò, incapace di guardarmi in faccia. «Ho frequentato un paio di
settimane, poi sono stato ritirato. Dicevano che studiavo in privato, mentivano».
Chi, Michael?
Chi mentiva?
I tuoi genitori?
Ti hanno proibito di studiare? E perché?
Dannazione. Quante domande, quanti quesiti, e nessun coraggio di osare.
Perché se stava di già tremando con così poco, non osavo immaginare cosa
sarebbe successo se lo avessi spinto più in là. Molto più in là.
La curiosità mi stava mangiando viva, l'unico freno a tenermi bloccata era la
paura di spezzarlo ancora di più.
«E quando sei venuto al Benetton?», mirai altrove.
Michael sbatté le ciglia e tirò le ginocchia al petto, la schiena appoggiata al
muro. «Il primo giorno mi hanno chiamato Michael Baker. Sono stato chiuso
qui, non esco mai e nessuno entra per più di due minuti. Ci provano a
insegnarmi, ma io… io…».
Un magone mi ostruì la gola, spaccandomi l'anima in dieci parti diverse. Lo
avevano giudicato pericoloso dopo chissà quale episodio, senza prendere in
considerazione il motivo per cui fosse scattato.
Senza pensare che magari, quel povero bambino, aveva soltanto bisogno di
aiuto.
Quanto devi aver sofferto, Michael?
E per me sei uscito.
E mi fai restare.
«Sì, ma tu... tu parli benissimo!», esclamai, ancora sorpresa e incredula da
tutto quello.
«Anche loro parlavano così. È strano?».
Loro chi?
«No, no!», mi sbrigai a rassicurarlo, visto il modo in cui si incupirono le sue
retine, e allungai la mano per intrecciare le nostre dita. «Al contrario, quando
parli mi rilassi tantissimo. Incanti con la tua voce, Michael».
Michael non rispose, piuttosto fece guizzare un muscolo della mascella e mi
restituì il libro, continuando a evitarmi con lo sguardo. Si era perso di nuovo
nelle sue visioni, in universi che io non avrei mai potuto capire appieno.
Strinsi più forte le nostre mani strette, lo strattonai, come a tirarlo a me, a
riprendermelo. Mi sentivo sempre così inutile, impotente, ogni volta che lui
sprofondava e io non potevo far altro che aspettare.
Come si fa a tenere in piedi una persona che pesa più di te quando cade?
Se solo avessi saputo cosa lo annientava in quel modo, magari avrei potuto
trovare una soluzione. Ma lui non cedeva mai. Non ne parlava, non ne discuteva,
quasi volesse stringersi il suo dolore e tenerlo soltanto per sé, spaventato di
doverlo condividere con qualcuno.
«Michael», sussurrai, gli afferrai il viso e lo voltai verso di me. Affondai le
dita nelle guance, fino in fondo, fino a fargli male. «Va tutto bene. Posso
insegnarti io a leggere, se vuoi. Possiamo farlo insieme, non devi aver paura.
Sono qui, okay? Sono sempre qui».
Una calma placida e inquietante si raccolse sui suoi lineamenti, li appiattì,
privandoli di qualsiasi emozione; la sua anima scomparve quando mi fissò dritto
negli occhi, rubandomi la luce.
Mi guardava, ma non mi vedeva.
Non temevo potesse farmi del male, ne ero davvero convinta, allora. Mi
preoccupava che potesse raggiungere lui il punto di non ritorno, sicché presi a
scuotere la testa con veemenza nel momento in cui sciolse la mano dalla mia per
ritirarsi indietro.
«Vattene», mormorò, rauco.
Tese le labbra in una linea retta, una crudele striscia compressa fino al
bianco.
«No», fiatai, tentando di riavvicinarmi. «Non me ne vado. Non finché tu non
ritorni da me, Michael».
Si infilò i polpastrelli in quella filigrana chiara, così simile al Sole che non
potevo vedere, e ne tirò i ciuffi, mentre una risatina marcia si rovesciava
nell'aria. Grattò le pareti, mi si schiantò addosso e usurò le mie costole,
desiderosa di avvelenarmi il cuore.
«Tornare da te», ridacchiò e, piegando il capo all'indietro, espose la gola
contratta. «Non c'è un posto in cui tornare, Grace. Non c'è mai stato. C'è solo da
restare, rimanere dove sono, dove non sono loro».
I miei occhi si allargarono, saettarono da un punto all'altro della stanza buia,
alla ricerca del senso di quello che mi stava dicendo. Per quanto ci provassi, non
riuscivo mai a capire per davvero le sue parole.
Mi sfregai il viso dalla frustrazione e mi alzai in piedi. «Che vuoi dire?
Spiegati!», sbottai alla fine.
Michael guardò la mia figura da sotto le ciglia, impassibile, e sbuffò un'altra
piccola risata. Poi richiuse le palpebre e una contrazione gli smosse il viso, una
pulsazione di sofferenza che si ostinava a combattere.
Incapace di fermarle, le lacrime presero a scorrermi giù per le guance. Perché
dovevo sempre piangere? Era lui quello a stare male, non io. Il mento prese a
tremarmi, proprio come facevano le sue spalle.
Azzardai un passo avanti, ma il sussulto di Michael mi bloccò. Spezzò
qualsiasi tentativo di approccio quando si colpì la tempia da solo.
«Falli smettere», sibilò tra i denti, strizzando le palpebre. Gli si ruppe la
voce, e lo ripetè di nuovo. Ancora. «Ti prego, falli smettere!».
Boccheggiai. Che diavolo stava succedendo? Non l'avevo mai visto così.
Non dovevo spingerlo troppo, non dovevo indagare sul suo passato, non dovevo
osare.
Singhiozzai e mi inginocchiai davanti a lui, avvolgendo le dita attorno alle
sue caviglie fredde. «Che devo fare, Michael? Dimmi che devo fare! Dimmelo e
io lo farò!».
Si sottrasse ancora una volta dal mio tocco, sobbalzando più forte, e spalancò
gli occhi guardandomi con il più vivido dei terrori. «No, non mi toccare. Ti
prego, non mi toccare», mormorò, più fragile di una foglia autunnale. «Non mi
toccare!», alzò poi il tono e indietreggiai di scatto.
«Michael», sussurrai, scioccata.
Mi aggrappai al tessuto del mio vestito blu, mentre lui cascava di lato sul
letto. Si raggomitolò sul materasso, tappandosi le orecchie. Non mi era mai
sembrato tanto piccolo e rotto.
Ogni minuscola particella che componeva la mia essenza esplose, si dissolse
in polvere e cadde a terra, alla ricerca di quella di Michael dispersa in qualche
punto nel mondo per unirsi alla sua in un'altra storia, in una dove eravamo giusti
e a posto. Dove ci potevamo amare senza traumi, senza lacrime e senza dolore.
E ancora lo sto cercando questo posto, Michael.
«È così orribile», biascicò, la voce spezzata e soffocata. «Così orribile là
fuori».
Era per questo che non voleva mai uscire?
Dio, non ci stavo capendo niente. Stava accadendo tutto troppo in fretta.
Passava da un punto all'altro. Sputava fuori grovigli di lettere con un unico punto
comune, che io non conoscevo. Che conosceva soltanto lui. E stargli dietro era
difficile.
Non mi mossi da dove ero. Rimasi lì, per lui. Strusciai le ginocchia sul
pavimento lurido, raggiunsi il suo fianco e, pur non toccandolo, appoggiai la
testa vicino alla sua.
«Allora non usciamo. Rimaniamo qui dentro, al sicuro», mormorai.
Schiuse le palpebre. Un pianto spento gli riempiva le iridi, lacrime secche e
pietrificate dal tempo.
«Le persone sono cattive», bisbigliò. «Fanno del male e se ne vantano,
tagliano e non se ne pentono. Corrono e non si fermano. Uccidono dentro e sono
innocenti. E che senso ha? Che motivo c'è quando ti tolgono tutto?».
Lentamente, spaventata di farlo scappare di nuovo, gli sfiorai con delicatezza
la guancia. In punta di polpastrelli, percorsi la sua pelle, partii dalla tempia fino
alle labbra. Lo accarezzai, come sapevo fare solo io, e continuai finché il suo
respiro non si stabilizzò. Finché non smise di tremare.
Le ginocchia dolevano, eppure non mi importava. Nulla era proporzionale
alla frattura che mi aveva sconquassata nel vederlo ridotto a quel modo.
«Non ti hanno tolto tutto, Michael. Tu hai me, avrai sempre me», affermai.
Le sue ciglia sfarfallarono, l'espressione si ammorbidì e baciò le mie dita.
Tuttavia la sua risposta non fu altrettanto dolce.
«No, mi porteranno via anche te».
Feci scivolare le mani fino ai suoi capelli, li attorcigliai fra le dita e accostai
la guancia alla sua. Pelle su pelle, gli diedi il mio calore per prendermi il suo
freddo. Se avessi potuto, mi sarei fatta carico di tutto il suo dolore, avrei
riempito le mie vene del suo marcio e gli avrei consegnato la felicità a mani
nude.
«Non glielo permetterò, Michael. Te lo prometto. Io sarò sempre tua».
Anche se dovessero separarci mille mari. Sempre tua.
Anche quando ti dirò il contrario.
Sempre tua.
Un braccio si sporse in avanti per avvolgermi dalla schiena e labbra umide si
appiccarono alla mia tempia. Il suo respiro mi scivolò fino allo zigomo.
«Vorrei tanto crederci, bambolina».
E un senso di delusione mi puntellò lo stomaco.
Allora farò di tutto, dissi a me stessa, farò qualsiasi cosa perché tu creda in
noi quanto ci credo io.
Mi aggrappai alla sua maglietta, chiusi gli occhi. «Te lo prometto», ripetei.
«Tu mio, io tua».
Come si dicevano sempre i miei genitori.
Fino all'ultimo respiro e ancora un altro po’.
Michael non rispose.
E quello fece più male di qualunque altra ferita.
TREDICI

GRACE

Usura e sollievo.
Dolore e piacere.
Tormento e gioia.
Rude e carezzevole.
Mi sei mancata da morire.
Le sue labbra morbide, dolci come lo zucchero filato, pungono sulle mie.
Bruciano contro la mia bocca, smussano gli angoli di una rabbia che continua a
contorcerli.
Mi sta baciando. Michael mi sta baciando, anche se io non bacio lui.
Per la prima volta, dopo più di nove anni che ci conosciamo, che ci siamo
scambiati la pelle, le anime e abbiamo finito per plasmarci l'uno all'altra, le
nostre essenze si sono unite per davvero.
Resto immobile, sconvolta e incredula, mentre lui mi stringe più forte che
può, forse temendo il momento in cui la bolla sarebbe esplosa.
È impacciato. Bacia a caso, bacia come chi non ha mai baciato nessuno, ma
bacia dal profondo del cuore. Bacia quasi volesse entrarmi dentro e non uscirne
mai più.
Resto senza fiato, ingorda della sua lingua che lecca i contorni e delle labbra
che succhiano, schioccano e assaporano.
Le sue mani mi tengono dai capelli e dalla schiena, scorrono e si scambiano,
pretenziose di lasciare il segno e approfittare del mio senso di smarrimento.
Michael corre finché può. Ha gli occhi chiusi, al contrario dei miei
spalancati, e piccoli sospiri continuano a sfuggirgli, smaniosi di scivolarmi giù
per il mento.
Mi sei mancata da morire.
Più lui avanza, più io indietreggio.
Ci mangiamo i nostri pedoni a vicenda, uno dopo l'altro.
Più Michael azzarda, più io smetto di ricordare i motivi per cui sia tanto
sbagliato.
Non ricambio il suo bacio, frastornata dal boato che avverto dirompere nel
mio petto; una strana miscela corrosiva mi scorre nelle vene, le mie sinapsi si
sciolgono a ogni suo schiocco di labbra e lo stomaco si contorce su sé stesso.
Fa male. Fa tanto male.
Non dovrei provare queste cose, né tantomeno volerle ricambiare, prendergli
il viso e unire la mia lingua alla sua. Ardo dal desiderio di insegnargli a baciare
una donna come si deve, e prego affinché non smetta di toccarmi, nonostante
tutto.
Mi sei mancata da morire.
Ma la mia morale è più forte di qualunque bisogno. Il cervello ha imparato a
vincere le sue battaglie contro quello stupido del mio cuore impazzito, che si è
sempre lasciato ingannare con troppa facilità.
Perciò, quando Michael mugola, ansimando un candido: «Oh, bambolina...»,
reagisco.
Sollevo le mani, mentre le sue mi sfiorano il fondoschiena, e premo i
polpastrelli nelle sue spalle. Stringo le clavicole, giungo fino alle sue scapole che
tremano al mio passaggio brusco.
Poi affondo i denti nel suo labbro inferiore, tenero. Mordo, non mi do freni e
squarcio la carne fino a macchiarmi la bocca del suo sangue che finisce dritto
sulla mia lingua.
«Grace!», sbotta, sbalordito, e mi stacca da lui ancora sorpreso, toccandosi
con le mani il punto sanguinoso. Un bagliore di quella che assomiglia alla
delusione gli lampeggia nelle iridi. «Smettila di ferirmi».
Un crepitio si insinua nel caos che è riuscito a scatenare poc'anzi dentro di
me. Non posso sopportare il suo sguardo malinconico, quindi indietreggio di un
paio di passi e aggrotto le sopracciglia, mettendomi sulla difensiva.
«Non eri pronto a parare i miei colpi?». Costringo le mie corde vocali a
simulare una risatina di scherno. Sto perdendo il senso della nostra partita,
cazzo. «Sei stato proprio tu a dirmi che mi aspettavi a braccia aperte, Michael.
Quindi qual è il problema adesso? Hai capito che non cederò mai?».
Lui scuote la testa, confuso, e strizzo le palpebre alla vista dei suoi ciuffi
biondi che si scuotono. «No, io...», fiata, disorientato, porta l'indice a tastarsi il
labbro inferiore. «Pensavo avessimo stabilito una tregua, Grace. Qual è il tuo di
problema, invece?».
Okay, gli ho detto un chiaro e deciso okay. Accettando la sua proposta, la
mia via di fuga per non farmi sommergere dal peso del senso di colpa, sebbene
sapessi che fare buon viso a cattivo gioco non si sarebbe rivelato così difficile
come avrebbe dovuto. Ed è proprio questa consapevolezza a rendermi irrequieta.
Mi gratto il sopracciglio. Sento ancora il suo sapore in bocca. Un sapore
tenero, dolce, trattenuto per anni e scoppiato come una bomba in meandri che
dovrebbero soltanto rimanere sepolti e rinchiusi. Lontano e al sicuro dalla sua
portata.
«Mi hai baciata. Non avresti dovuto farlo», gli dico alla fine. «La nostra
tregua non include scambi di saliva».
Uno. Gli è bastato un misero bacio languido, goffo e da principiante per
spezzarmi e rimettermi insieme a suo piacimento. Non posso permettergli di
andare oltre.
Se voglio davvero uscirne integra, devo ricominciare a stabilire paletti e
confinarmi dietro la mia barricata personale.
Perché, guardandolo, non riesco a provare la rabbia che agogno di percepire.
Ormai ho compreso che non mi torcerà neppure un capello. No, mi fa soltanto
male il torace. Mi trema l'anima al cospetto dei suoi occhi fragili.
Per sicurezza, tossendo, impongo un altro passo ancora tra di noi.
«Stai bene?».
«Sì, sto bene. Smettila di preoccuparti!».
«Non posso».
Sospiro. «Hai capito quello che ti ho detto sulla tregua?».
Michael inclina la testa, inquietante come un predatore, e analizza la
situazione. Un rossore non suo gli imporpora le guance, rendendolo soltanto più
bello di quanto già non sia.
«Sì, ho capito. E cosa vorresti che includesse, allora? Dimmelo. Rispetterò
qualsiasi tua proposta, bambolina».
Apro e chiudo la bocca più volte, sconcertata da quanto sta accadendo.
Perché il solo pensiero che smetta di provarci e di toccarmi mi turba tanto?
È malato. Fa a pugni con tutti gli obiettivi e i propositi che mi sono fissata
negli ultimi sette lunghi anni.
È proprio a causa della mia domanda interiore, che incrocio le braccia al
petto e mi schiarisco la voce a mento sollevato. «Voglio che non mi baci mai
più».
«Non ti è piaciuto?».
«No», mento.
Il suo volto si adombra e un peso invisibile gli casca sulle spalle. «Va bene»,
mormora, offeso, e si ripulisce la crosta di sangue sul mento. «Tu però puoi
baciarmi ogni volta che vuoi».
Non osare piangere, Grace.
Ritorna in te.
Inspiro di scatto. Le mie labbra tremolano dalla voglia di tornare sulle sue, e
le cosce si stringono, alla ricerca del suo tocco assente che di già manca al mio
corpo.
«Non devi più toccarmi».
«Io amo toccarti».
«Io odio quando lo fai».
Michael deglutisce e, con un lungo sospiro, alla fine annuisce. Sposta lo
sguardo dal mio, come se soffrisse nel sostenerlo per troppo tempo, e si appoggia
al muro alle sue spalle.
Io resto in piedi al centro della stanza, a farmi forza da sola. A rimembrare a
me stessa le cose orribili che Michael ha fatto.
«Smettila di palesare i tuoi sentimenti nei miei confronti. Non mi
interessano».
E invece non smettere. Dimmi tutto quello che provi, dimmi le tue paure e
parla con me.
La gola si chiude a tali parole, volendomi impedire di dirle, ma fuoriescono
comunque e hanno l'effetto previsto su Michael, che scuote il capo e si strofina
le dita tra i capelli frustrato.
Alza la testa di scatto, riservandomi un'occhiataccia imperdonabile. «Mi stai
davvero chiedendo di reprimere ciò che sei per me? È sciocco da parte tua,
bambolina. Sciocco e futile», borbotta. «Tu sei mia, e io sono tuo. Lo sai. Lo sai
da una vita. Non puoi cancellare la verità, non puoi scegliere tu cosa provare e
non puoi spezzare quello che c’è tra di noi. Tutto questo è ridicolo».
Bastardo manipolatore. Gli restituisco la brutta occhiata, scacciando il
piombo del suo discorso, impedendogli di liquefarsi sulla mia carne.
A gambe tremanti, piuttosto, incurante del mio corpo dolorante e stanco,
avanzo di nuovo, tornandogli vicino affinché possa sentirmi forte e chiaro.
Decisa più che mai a schiacciarlo.
«Non mi interessa ciò che pensi tu», pondero. «E, infine, voglio che tu la
smetta di chiamarmi bambolina».
Resto senza fiato io stessa a ciò che dico. Sudo freddo, rivoli ghiacciati mi
scorrono giù per la schiena mentre strani ringhi mi scuotono la mente, graffiando
e latrando.
È sbagliato. Tutto questo è sbagliato, Grace, urlano strane voci dal profondo
della mia essenza, ma le soffoco alimentata dalla mia medesima sofferenza.
Michael sbarra gli occhi, il panico a tormentargli i lineamenti, e un vortice
d'orrore si diffonde a macchia d'olio sulla sua faccia pietrificata.
Rimango immobile davanti a lui, a dimostrargli quanto sia ferma e
incorruttibile. Lo osservo stringere i denti, mentre una rabbia silente si
impadronisce dei suoi zigomi, della mandibola, e lo costringe ad alzarsi dal
pavimento lercio.
Deglutisco, inclino il collo, intanto che lui incombe e mi sovrasta. Mi toglie
ogni grammo di vantaggio nei suoi confronti, piegando l'oscurità al suo volere.
Come al solito, l’ho spinto troppo oltre. L’ho istigato, spezzando la corda, e
la situazione mi si ritorce contro quando assottiglia le palpebre e avvicina
l'indice al mio mento, senza sfiorarmi.
Tocca senza toccare, Michael.
E il mio corpo lo riconosce, i fili che compongono il mio spirito bramano
dalla voglia di intrecciarsi ai suoi, fino a cucire un unico filamento.
«No», sentenzia, inflessibile. Un sibilo che va a fondersi nel mio respiro.
Annaspo. «No?».
«No», ripete, il suo fiato scalda il viso. «Non ti bacio. Non ti tocco. Non ti
amo. Se vuoi, non ti guardo nemmeno. Ma tu resti mia», soffia, chinandosi
ancora di più, le labbra così vicine alle mie. «Resti mia, Grace».
«Io...»
Scivola, sbuffandomi il fiato sull'arteria. «Per essere più precisi, la mia
bambolina».
Sbatto le ciglia, inerme.
E tutto precipita in un attimo.
Io precipito.
«Fanculo», sbotto, prima di afferrarlo dalla nuca e divorargli la bocca come
Dio comanda.
Fanculo le mie stesse regole.
Fanculo tutto.
Sprofondo nel suo palato, gli artiglio i capelli e mi isso sulle punte, affamata
più di un senza tetto, disidratata come se avessi trascorso un mese nel deserto.
E lui è la mia acqua.
Lui è solo il tutto, e io il niente che ne ha un disperato bisogno.
Michael emette un gemito, a metà tra la sorpresa e il piacere, e pressa le mani
sotto le mie cosce per sollevarmi e tenermi a sé, mentre gli insegno a baciarmi. A
imporsi.
Perché lo odio da morire, ma lo odio ancora di più quando non torna da me.
E c'è soltanto un modo per affievolire tutto quell'odio, quell'ira, la devastazione
che mi alberga dentro: averlo. Semplicemente, averlo.
E farò a pugni dopo con la mia coscienza.
Penserò alle conseguenze più tardi, quando se ne sarebbe di nuovo andato,
lasciandomi in balia dell'attesa.
«Piano», mugolo, leccandogli il labbro inferiore. «Ascolta me, Michael»,
bisbiglio, prima di intrecciare la mia lingua alla sua in un abbraccio senza eguali.
«Ascoltami».
Detto il ritmo e lui è bravissimo a seguirlo. Mi ascolta Michael, ascolta per
bene il groviglio di sudore e passione che stiamo creando. Sposta una mano sulla
mia natica, marchiandomi nella carne e nell'animo, e impiglia le dita libere fra i
miei capelli scompigliati, mentre io intreccio le caviglie dietro la sua schiena.
Solo stavolta.
Solo stavolta.
Solo stavolta.
«Mia», ripete, un mezz'ansimo sulla mia lingua, che succhia e morde come
se ne dipendesse della sua vita, e io sento che infondo è proprio così. «Sempre
mia».
Non nego, ma nemmeno confermo.
Voglio soltanto continuare ad assorbirlo, a prendermi il suo sapore di mela e
barrette energetiche. Voglio stringerlo, perdermi senza pretesa di ritrovarmi.
Ci porta a terra, io a cavalcioni su di lui, con il terreno gelido e duro a farmi
male alle ginocchia e il suo palmo ad avvolgermi il sedere, a spingermi a sé.
«Grace», mormora nella mia bocca, attorcigliandosi i capelli in un pugno alla
base della nuca. «Lo rendi così bello», aggiunge, passando a baciarmi la
mandibola, struscia la bocca fino al lobo dell'orecchio, che mordicchia piano.
«Ci sei tu, loro scompaiono. Oh, Grace».
Gemo e mi strofino contro di lui. La gonnellina copre i bacini, il tessuto delle
culotte è sottile e percepisco a fondo l'attrito con la sua eccitazione.
«Oh dio», farfuglio, mi struscio più forte, sentendo quel calore mai
sperimentato prima scivolarmi nel basso ventre, in un crescendo vertiginoso.
«Oh Dio, Michael».
Non ho più il controllo su di me. È soltanto il desiderio a guidarmi, io non
sono padrona di più nulla.
Michael non è Michael.
Grace non è Grace.
Siamo soltanto due amanti, due anime che si sono incontrate per caso in una
stanza buia e non si sono più lasciate.
E accelero i movimenti, li accentuo, intanto che lui passa a leccarmi il collo,
coi denti che sfregano proprio sull'arteria a sentirmi i battiti impazziti.
«Grace, Grace, Grace», ansima, il fiato troppo veloce, come la mia intimità
che preme sul suo sesso. Probabilmente sto anche bagnando i suoi pantaloni.
«Grace, maledizione».
Morde la mia spalla, schiacciandomi contro di lui. E avverto l'intensità
avvolgermi tra le sue spire, scariche elettriche partono dal mio centro, un
insieme di fluidi, diramandosi in ogni direzione.
Roteo i fianchi, i polpastrelli di Michael, ormai al di sotto della gonna, ad
afferrarmi le natiche talmente forte che mi rimarrà il segno, e torno a baciarlo.
Ci mangiamo i nostri gemiti, le mie imprecazioni e il mio nome sulla sua
lingua. E quando Michael si irrigidisce sotto di me, bloccandosi, nello stesso
medesimo istante un'ondata implacabile mi travolge, sconquassandomi da cima a
fondo.
Fletto le dita, rigiro gli occhi e me ne vado in apnea per un bel po', finché lui
non mi bacia a stampo.
Io il suo primo bacio, Michael il mio primo orgasmo. E in qualche modo, per
quanto possa essere sbagliato, per me è giusto così.
Ciononostante, sebbene sia provata, entrambi con il respiro irregolare e lui
fin troppo rilassato per poterla prendere bene, gli afferro il viso.
Stiamo ancora ansimando e Michael mi guarda come se fossi la sua luce.
Sconvolto, ma emozionato. Mi sento frantumare.
Seduta sulle sue gambe, sporchi di ciò che abbiamo fatto e dei nostri
sentimenti ingombranti, scuoto la testa. «È così che si fa, Michael. E adesso che
hai imparato a baciare una donna, io ho finito». Gli spacco il cuore per
l'ennesima volta, mi alzo. «Grazie per l'orgasmo».
«Grace, ma cosa...»
«Non succederà più», sibilo, scontrandomi con quel famoso dopo. «Non
doveva succedere nemmeno adesso, ma è capitato e non si può tornare indietro.
Questo, però, non cambia nulla tra di noi».
E un disgusto, con cui mai mi aveva guardata, mai rivolto a me, la sua
bambolina, gli torce la bocca.
«Grace, no».
«La mia torre ti ha mangiato l’alfiere. A te la prossima».
Soltanto io so quanto mi distrugge dentro dirlo e fingere fosse tutto frutto di
una strategia. Ma l'importante è tenerlo lontano. È necessario.
Michael schiocca la lingua sotto al palato, poi sposta lo sguardo sulla parete
alle mie spalle. Non parla un po’, minuti forse.
Poi però lo fa.
«E chi è ora il mostro, Grace?», sussurra, gli occhi persi nel vuoto. «Io che ti
amo comunque, o tu che mi ami e riesci lo stesso a uccidermi? Non saprei. Forse
siamo uno peggio dell’altra».
Non rispondo. Il suo tono vacuo, piatto, mi ha appena devastata. Potrei dirgli
che non lo amo, ma non ho più forze per mentire.
«Adesso dormi, per piacere. Sei stanca, lo vedo che lo sei. Domani
torneremo a parlarne».
QUATTORDICI

GRACE

Grace: 10 anni.
Michael: 14 anni.

«Que-ste due per-so-ne mol-to an... anzia-ne sono il pa-dre e la madre del
sign... signo-r B-Bucket. Si chia-ma-no Nonno Joe e Nonna Jo-se-phine».
Michael, a sopracciglia aggrottate, leggeva ad alta voce le parole sotto cui
faceva scorrere il dito per non perdere il segno. Andava avanti imperterrito, e se
ogni tanto gli sfuggiva una sillaba, lui ricominciava dall'inizio. Finché non finiva
il suo capitolo intero, non si rassegnava. Non importava quanto tempo
impiegassimo, lui leggeva e basta.
Io gli portavo un libro, direttamente dalla biblioteca, e lui si impegnava a
fondo per imparare, per rimediare a quella carenza che gli pesava sulle spalle.
Qualche volta mi capitava di doverlo aiutare o correggere, quindi Michael
annuiva, ripeteva ad alta voce e, di nuovo, ricominciava.
Avevamo iniziato a farlo pochi giorni dopo la sua confessione, quel momento
di crisi scolpito nella mia mente a fondo, ed ero ben più che felice di aiutarlo a
sentirsi meno solo grazie ai racconti di cui gli facevo dono.
Il primo libro che Michael aveva letto era stato Il Piccolo Principe.
Era stato anche il mio primo libro, con mamma che me lo spiegava a ogni
paragrafo.
Ricordavo ancora ciò che aveva detto una volta concluso.
Con ancora il piccolo testo stretto al petto, Michael si era voltato verso di me,
il capo inclinato in una tenera curiosità, e arricciando le labbra aveva chiesto:
«Storia carina, ma non ho capito molto. Lui provava affetto verso una... rosa?».
Perciò, sospinta da quell'interesse, mi ero sentita in dovere di regalargli uno
dei miei sorrisi più belli, intrecciando le nostre dita, prima di rispondere. «La
rosa è soltanto una metafora. La cosa importante è il legame, l’amore che unisce
il Piccolo Principe e il suo fiore».
«Vero amore?».
E Michael mi guardava, quasi fosse una parola estranea che voleva imparare,
mentre io continuavo a riservargli ogni singolo straccio del mio immenso
sentimento.
«Sì, il vero amore».
Quello che io provo per te.
A quel punto le sue iridi avevano preso a luccicare, e lui si era fatto più
vicino, volenteroso di saperne di più. «E tu sai com'è fatto? Sei mai riuscita a
toccarlo? Spiegamelo, per favore. Non ho mai incontrato nessuno che sappia
cosa sia l'amore».
Per un paio di attimi avevo tentennato, indecisa sul come poterglielo
raccontare senza dirglielo, ma alla fine era tutto venuto da sé. Mi era bastato
guardarlo e la voce aveva svolto il lavoro. Mi era bastato ricordare i miei
genitori, quello che mi aveva risposto mia madre quando ero stata io a
chiederglielo.
«Mia mamma diceva sempre che non lo puoi toccare l'amore, Michael», un
sussurro flebile, intanto che il mio piccolo cuore gli rotolava sulle mani, per
starsene un po' al caldo. «È lui che tocca te. Ed è prepotente nel farlo. Non è per
niente gentile».
«È cattivo, allora?».
«No, è immenso. Secondo mamma è qualcosa che ti travolge senza chiedere
il permesso, e spesso fa male. Arriva all'improvviso e tu non hai alcuna scelta,
devi soltanto accettarlo».
Ti spacca a metà, l’amore, Michael. Ti ammazza, non ti chiede scusa e poi ti
porta in cima all’universo.
«Ma se è così terribile, perché il Piccolo Principe è felice di tornare da tutto
questo?».
E io mi ero stretta nelle spalle.
Già, perché, Grace? Perché vuole sempre tornare nonostante tutto?
«Perché per quanto possa fare male, ne varrà sempre la pena», avevo
mormorato, assorta nei suoi occhi di cristallo. «Importa solo che l’altra persona
stia bene. Conta questo. Solo questo».
Lui era rimasto assorto per un po', a riflettere, confuso da tutto quello che gli
stavo dicendo, e poi mi aveva posto l'ultima domanda. «E quando finisce?».
«Non finisce». No, non lo faceva. «Se è davvero amore, Michael, non può
finire, perché sono certa che i miei genitori si sarebbero amati per sempre. Penso
che magari può addormentarsi per un po', può perdere la strada per qualche
giorno, a volte si smarrisce in stupidi giri senza senso, ma fidati che non finisce.
Non lo fa mai».
«Sembra spaventoso».
«Lo è, altroché, ma è anche la cosa più bella che possa mai capitarti».
Dopodiché il discorso si era spostato altrove, anche se io avevo perseverato
nel mio misero istante perfetto.
E continuavo a farlo anche mentre lui leggeva la Fabbrica di Cioccolato, con
quel suo nasino che si arricciava troppo spesso e le ciglia a sfarfallare quando
doveva ripetere più di una volta.
«E, oh, co-me de...de...», balbettò, poi mi indicò la parola. «Come si
pronuncia?».
«Desiderava».
Michael annuì e ricominciò. «E, oh, come desiderava po-ter en-tra-re in
quella fabbrica e ve-de-re com'era fatta!», concluse.
D'impulso, mi ritrovai a battere le mani e sorridere, orgogliosa di lui. «Sei
stato bravissimo!».
«Dici? Io sento che sto migliorando, in effetti», appurò, appoggiando il libro
sul letto, proprio di fianco a lui.
Ce ne stavamo sul materasso di schiena, con le gambe appoggiate alla parete
scrostata, uno accanto all'altra, spalla a spalla.
Sapevo che quello era un momento di stallo, prima di recuperare la
scacchiera dal suo nascondiglio e metterci a giocare. Ormai stavo diventando
bravina anche io, seppur battere Michael fosse una missione impossibile.
Tante volte avevo voluto chiedergli dove avesse imparato, chi gli avesse
insegnato, ma ormai avevo capito che porgergli domande sulla sua vita era
soltanto un danno per lui e, se potevo evitare, l'avrei fatto.
Assistere a un altro crollo era fuori discussione. Non avrei mai e poi mai
voluto rivederlo in quello stato di disperazione e orrore. Qualche volta mi
capitava anche di sognarlo la notte. Un vero e proprio incubo.
«Sì, dico. Assolutamente», confermai. «E vedrai, ti piacerà da matti questo
libro. Non vedo l'ora che tu vada avanti per addentrarti nel vivo della storia».
Michael si limitò ad annuire, disperdendosi nei suoi pensieri contorti, e
sbuffò un flebile respiro dalle labbra. In attesa che smettesse di dar credito alle
voci che lo tormentavano, osservai il rivolo di sudore che gli imperlava la
tempia.
Sebbene l'autunno fosse in dirittura d'arrivo, a Monterey faceva ancora un
caldo pazzesco. Soprattutto nella stanza di Michael, che assomigliava più a un
cunicolo senza uscite, dove il calore entrava e non usciva.
Si veniva a creare una cappa impossibile da sopportare, ciononostante lui non
ne voleva sapere di staccarsi da me. Anche se sudaticce, gli piaceva tenere le
nostre mani intrecciate.
Alla fine, dopo un tempo indeterminato, virò il viso nella mia direzione. Un
cipiglio lo adornava. «Domani è il tuo primo giorno di scuola alla St. Gerard».
Un'emozione incontenibile esplose nel mio stomaco. Se n'era ricordato.
Annuii con veemenza, euforica. «Sì, sono agitatissima, ma non sto più nella
pelle. Aspetto questo momento fin dal primo giorno in cui ho messo piede qui
dentro».
«Uscirai fuori».
«Esatto! Ed è proprio per questo motivo che sono tanto eccitata. Finalmente
potrò conoscere nuove persone, vedere nuove facce e allontanarmi per un po' da
questo postaccio».
«E non è pericoloso per te?».
«No, metterò sempre la crema solare, cappelli e occhiali da sole quando ci
sarà bisogno. Vedrai, mi farò tanti amici. Non mi farò fermare da questa stupida
melanina».
Probabilmente dovevo appena aver detto la cosa sbagliata, poiché Michael si
tirò a sedere di scatto, ancora più accigliato.
Cercai di riavvicinarmi a lui, confusa, per chiedergli cosa gli fosse preso, ma
mi privò del suo sguardo e scosse la testa. Piuttosto se ne stette in silenzio a
recuperare la cioccolata dalla tasca, quella che gli avevo portato io.
La mangiucchiò pezzetto dopo pezzetto, perdendosi nel suo vuoto senza
nome, a cui non potevo avere accesso.
«Michael», lo richiamai, sedendomi composta, e sospirai. «Michael, per
favore, guardami».
Rispettavo sempre i suoi silenzi, i vuoti, il freddo, le lacrime che non aveva
mai versato e i pensieri corrosivi che gli correvano per la testa. Perché, alla fine,
poi lui ritornava ogni volta.
Tuttavia quella volta provai a richiamarlo più volte, almeno finché non si
voltò verso di me, rigido e impassibile.
«Che succede? Qual è il problema?».
«Te ne vuoi andare».
Sgranai le palpebre. «Cosa? Io non ho mai detto niente del genere, Michael.
Sono soltanto felice di fare una nuova esperienza e disintossicarmi per un po' da
Margot, da Jonah e da tutti gli altri!».
Lui deglutì e distolse di nuovo lo sguardo, lo puntò sul suo ginocchio
fasciato dai pantaloni blu. «Avevi detto che non ti stavano dando più fastidio».
«Non è questo il punto. Non cambiare discorso. Cos'è che ti preoccupa
tanto?».
Mi abbracciai le ginocchia piegate al petto, delusa che non avesse condiviso
il mio entusiasmo a quella nuova avventura che mi stava aspettando. Chissà
perché, ma mi ero illusa che sarebbe stato felice per me. E invece mi ero
ritrovata davanti un broncio e due retine colme di tristezza e paura.
«Conoscerai nuove persone, l'hai detto tu», affermò.
«E quindi?».
«E quindi io smetterò di rientrare nei tuoi spazi, Grace».
Ciò che disse fece male. Mi sentii ferita. Come poteva anche solo pensarlo?
Comprendevo i suoi timori, davvero, d'altronde Michael era un puzzle di
pezzi usurati e che non combaciavano, ma erano schegge velenose quelle verità.
Curvai le labbra all'ingiù. Dannazione, lui era un punto fondamentale della
mia esistenza, l'incastro perfetto delle mie mani; come avrei potuto togliergli
spazio per dedicarlo ad altri?
Piuttosto ne avrei tolto a me stessa.
«Lo pensi davvero?».
Non rispose, come da programma, e si sfregò il palmo destro sul viso, quasi
fosse esausto.
«Santo cielo, Michael, come puoi sul serio credere una cosa simile?», sputai
fuori, incredula. «Cerco di trascorrere quanto più tempo possibile qui dentro
soltanto per te. Rischio per te. Io faccio di tutto per te. E tu metti in dubbio me
solo perché sono felice di andare a scuola e farmi degli amici?».
Strizzò le palpebre e fece scivolare il palmo fino ai capelli, continuando a
sfregarlo sulla pelle. D'istinto, mi allungai per afferrargli il polso ed evitare che
si facesse del male.
Mi lanciò un'occhiataccia. «Puoi metterla come vuoi, bambolina, ma io so
già come andrà a finire questa storia».
«Non è giusto», biascicai, offesa nel midollo, e mi alzai in piedi, lasciandolo
lì sul letto. «Perché non puoi semplicemente fidarti ed essere felice per me?».
«Perché te ne andrai, Grace!», sbottò, terrorizzato, e indietreggiai al suo tono
di voce alto. «E di me non ne resterà più niente, hai capito? Niente. Ti
dimenticherai di me, capirai che io non ne valgo la pena e tornerò nel buio. E se
dovesse succederti qualcosa fuori di qui? Non potrei essere lì con te, e non potrei
mai sopportarlo».
Deragliò in profondità, si conficcò sotto la pelle e venne a reclamare le poche
briciole che ancora non gli avevo consegnato. Eppure, per qualche ragione, non
fu abbastanza.
Mi tremò la voce quando dissi: «Fidati di me, Michael. Ti ho fatto una
promessa, ricordi? Sempre tua. E questo non potrà mai cambiarlo niente e
nessuno».
Chiuse gli occhi di scatto, come se lo avessi appena colpito, e girò la testa.
Restai in attesa di una sua risposta che non arrivò mai.
Quello fece ancora più male della sua mancata emozione.
Feci a malapena in tempo a vederlo rannicchiarsi sul letto e darmi le spalle,
avvolto dai suoi così familiari fremiti, prima di tirare la maniglia e andarmene.
Te l'ho detto, Michael.
A volte l'amore si smarrisce in stupidi giri senza senso.
Trascorsero ore.
Le lacrime avevano lasciato il segno sul cuscino.
Margot aveva spento la mia sveglia, ma non ce n'era stato bisogno. Tanto non
avevo dormito.
Trascorsero giorni.
Io andai a scuola, senza che lui mi avesse augurato la buona fortuna, senza
che mi avesse detto che sarei stata bravissima.
Avevo cambiato il cuscino.
Trascorsero settimane.
Il cuore sanguinava, ma non piangevo più.
Mi feci degli amici.
Elisa sembrava simpatica.
Avevamo poco in comune, lei era più spigliata, ma mi faceva sentire al
sicuro la sua amicizia.
La St. Gerard era un bel posto.
E nessuno mi tirava i capelli, nessuno mi lanciava il cibo addosso, nessuno
mi dava del fantasma.
L'amore si addormenta, Michael.
Te l'aveva detto o no il Piccolo Principe che La Rosa va annaffiata ogni
giorno, sennò si spegne?
E se tornassi io, tu non capiresti.
Trascorse un mese.
Spille avvelenate mi trapassavano i polmoni.
Respirare era difficile.
Io ed Elisa eravamo diventate compagne di banco.
Lei mi reputava la sua migliore amica, e allora io reputavo lei la mia.
Trascorse un mese e un giorno.
Il cuscino era lindo.
Asciutto.
Ma sotto, mal custodito e stropicciato, tinteggiato d'un verde prato, diceva il
foglio...

Ho imparato a scrivere. C'è voluto un po'.


Sto imparando a essere felice per te. Anche se è difficile.
Ho finito il libro.
Ma a non finire è l'amore, bambolina.
Adesso torni?
È il nostro compleanno. Ti prego.

MICHAEL

E per l'assurdo, lei che si era sempre convinta di averlo aspettato, lei che
aveva creduto di essere l'unica in attesa, non sapeva ancora quanto lui patisse
nella sofferenza più atroce.
Non lo sapeva come si frantumava dentro solo a guardarla. Proprio lui, che
era già rotto di suo.
Non lo sapeva che Michael, fautore di tragedie e ceneri fumanti, l'avrebbe
aspettata per una vita intera.
Nella tempesta e nel fuoco,
nel dolore e nella dolcezza,
nell'inizio e nella fine,
Michael sarebbe sempre stato lì,
passo dopo passo,
a porgerle la mano.

Rompi pure la promessa, Grace. Rompi me.


Rompi noi.
Smettila di chiedermi di tornare. Smettila di restare.
Spezza tutto.
Fallo, se vuoi.
Ma io sarò ancora qui.
Anche se dovessi impiegarci l'eternità,
io sarò sempre qui.

GRACE

E tornai.
QUINDICI

GRACE

Comprendo di avere di fronte un Michael diverso fin dal mio risveglio del
terzo giorno di prigionia.
Tanto per cominciare, si è cambiato. O meglio, ha tolto la maglietta e indossa
dei pantaloncini grigi che, a giudicare dal cartellino che ancora pende dalla tasca,
deve aver preso in prestito da qualche negozio.
Imponendomi di non fissargli il petto nudo, lancio un'occhiata circospetta al
congelatore bianco. Chissà che altro c’è lì dentro.
Finora l’ho visto estrarne solo cibo e acqua. Che vi siano dei cambi anche per
me? Qualche indizio su dove mi trovo?
Le mie congetture vengono archiviate bruscamente quando Michael, che io
ho avuto la prodezza di far incazzare, lancia un paio di boxer in mezzo alla
stanza.
«Ho pensato ti avrebbe fatto piacere prenderti anche il mio sperma, dopo
avermi ringraziato per così poco», prorompe, la voce ruvida di astio e sfida.
Michael non è di certo un agnellino indifeso, devo tenerlo bene a mente,
cazzo. E a quanto pare, non indossa nemmeno le mutande. D'altronde, l'elastico
dei pantaloncini è davvero basso.
Concentrandomi, potrei perfino contargli le vene che confluiscono verso il
basso.
Aggrotto le sopracciglia e mi abbraccio le ginocchia. «Sei disgustoso».
«Non la pensavi così ieri, quando mi gemevi in bocca e ti strusciavi sul mio
cazzo».
Sobbalzo, e non per quello che ha detto, ma per come suona la parola cazzo
detta da lui. Da Michael che non impreca mai con una tale volgarità.
Ma, come ho già detto, questa è un'altra versione di Michael. Più rancorosa,
più graffiata, più diabolica. E non saprei dire se mi ecciti o inquieti di più.
Sbuffo una risatina. «Vuoi che ti chieda scusa?».
«Io non voglio proprio niente da te».
Incasso il colpo tirando indietro la testa. Sta facendo sul serio? Cerca di
rendermi pan per focaccia per ferirmi? La cosa peggiore è che funziona.
Qualcosa dentro di me cigola.
Sbatto le ciglia, distolgo lo sguardo. «Allora non ha senso che tu mi abbia
portata qui».
«Infatti non deve avere senso per te. So io ciò che sto facendo». Si stiracchia,
da perfetto gatto selvatico, poi piega un ginocchio lasciando l'altra gamba stesa.
«Piuttosto, ho un paio di domande per te».
Stiamo sfiorando le soglie del ridicolo. Lui, il mio sequestratore, ha delle
domande per me.
Inarco le sopracciglia, scettica. «Scusami?».
«Quante volte hai pensato a me durante questi anni, bambolina?».
Ed eccolo. Vuole giocare a fare il manipolatore, Michael. Non è diverso, sta
soltanto tentando un altro schema, perché io ho stravolto quello originale.
Ormai ho imparato a stare al suo passo. Sollevo un angolo della bocca.
«Quasi quanto tu hai pensato a me».
«Tanto tempo, allora. Sì, ogni millesimo di secondo di sette anni lo considero
davvero tanto tempo. Tu no?».
«Tantissimo, Michael».
Non ho la minima idea di dove voglia andare a parare, motivo per cui
continuo a reggergli il gioco. Possono sembrare dolci parole le sue, ma dal tono
minaccioso e il sottinteso aspro, contornato dal sorrisetto freddo, comprendo che
ha tutt'altre intenzioni.
«Seconda domanda, Grace. Quanti ragazzi hai baciato?».
Un certo tepore si arrampica lungo il mio collo, la salivazione si riduce a
zero e le ginocchia diventano molli. Me lo ha appena chiesto per davvero o sto
immaginando tutto?
Apro e chiudo gli occhi per un paio di volte, ma lui rimane sempre lì, in
attesa di una risposta. E d'improvviso, l'idea che venga a sapere che ho avuto
delle avventure, l'ipotesi di farlo ingelosire, ingelosire, cazzo, mi fa battere il
cuore.
Sollevo il mento. «Quattro».
Non ho avuto chissà quante avventure nel corso della mia adolescenza,
eppure me ne vanto come se avessi limonato i fratelli Hemsworth.
«Quattro», ripete, schioccando la lingua sotto al palato, e il cuore di già
impazzito si impenna del tutto quando inizia a gattonare. «Bene, facciamo un
rapido calcolo. Uno sono io, un altro non rappresenta più alcun tipo di problema,
e ne rimangono due, bambolina». Si ferma di fianco al congelatore e raccoglie
qualcosa che dalla mia angolatura non posso vedere. «Chi sono?».
Mi agito. Che diavolo sta facendo? E cosa sta passando per quel suo cervello
malato?
«Non sono fatti tuoi!», scatto.
Riemerge dal congelatore con una bottiglia d'acqua più grande di quelle che
usiamo per bere, dei fazzoletti e una maglietta che dice I LOVE MONTEREY.
Nel pugno stringe altro, ma non riesco a capire cosa.
Spalanco gli occhi nel vederlo avvicinarsi a me.
«Certo che lo sono», borbotta. «Magari tu dimentichi le promesse che fai,
Grace, o semplicemente ti piace spezzarle, ma io no. Tu mia, io tuo. Quindi, sì,
se baci un altro ragazzo, per quanto mi riguarda, sono decisamente fatti miei».
«Smettila di dire che sono tua, Michael».
«E tu smettila di illuderti del contrario, bambolina».
A preoccuparmi davvero, è il modo in cui il mio corpo risponde alla sua
sottospecie di ringhio possessivo. Il respiro rimane incastrato in gola e le dita dei
piedi si arricciano, mentre lui, ormai a pochi centimetri da me, si sporge in avanti
per afferrarmi dalla gonna.
Spalanco le palpebre e poggio d'impulso le mani sulle sue. «Che stai
facendo?».
Mi porge la bottiglia d’acqua e apre una mano per mostrarmi cosa stava
stringendo. Un analgesico che conosco bene.
«Prendilo».
Mi paralizzo. «E perché?».
«Ne hai bisogno».
Non mi ricordo più come si faccia a respirare. «Michael».
«L’ho trovato nel tuo borsone. Se ti sei portata dietro tutte quelle confezioni,
un motivo ci sarà, quindi adesso prendilo e smettila di irrigidirti così tanto».
In rigoroso silenzio, soltanto perché ne ho sul serio bisogno, assumo
l’antidolorifico e per poco non mi strozzo con l’acqua quando le sue mani
tornano sotto la mia gonna.
«E ora che stai facendo?».
«Ti spoglio», sentenzia, poi con uno strattone, seguito dal rumore di uno
strappo, mi fa scivolare via il tessuto. «Ti pulisco un po'», aggiunge, servendosi
del mio shock per togliermi anche il top. «E poi ti bacio».
Basta la sua ultima affermazione per farmi riprendere. Drizzo a sedere
composta e lo spingo indietro. «Tu non farai proprio niente. Ti ho già detto che
non mi devi toccare!».
«Sì, prima di travolgermi e farmi venire nei pantaloni». Schiocca la lingua
sotto al palato, quindi scuote la testa e mi afferra dalle caviglie per separarmi le
gambe. «Comunque, non hai ancora risposto. Chi sono i tuoi due baci, Grace?».
Fingo di non averlo sentito e mi concentro su altro che non siano le sue mani
su di me. Mani che mi piace sentire, ma che fanno anche altrettanto male.
Lo scruto meglio. Passo in rassegna il suo fisico asciutto e longilineo, magro
ma non troppo; scolpito nell'alabastro, forgiato da clavicole spesse e spalle a cui
aggrapparsi.
Ciò che mi stupisce, però, è la totale assenza di sporcizia. Michael è pulito.
Quando si è lavato? Probabilmente mentre dormivo.
A bocca chiusa e stomaco in tumulto, lo osservo bagnare il fazzoletto d'acqua
e passarlo sui miei piedi, sulle caviglie, sui polpacci, a sopracciglia aggrottate e
labbra spremute dai denti.
E per qualche motivo, è tenero vederlo prendersi cura di me, nonostante
quello che gli ho fatto, nonostante sappia i problemi che gli crea venire toccato
da qualcuno.
Usa una delicatezza unica quando mi sfiora le croste, stando attento alle
piaghe. E lo vedo che prova dolore per me, per la mia pelle sensibile che è
sempre stata il mio tallone d’Achille.
Dio, sono stata proprio una stronza. E più mi sento in colpa per trattare
Michael in tal modo, più mi faccio schifo nei confronti di chiunque altro. Di
Denver, di Jonah, di Killian, di Margot, dei miei genitori.
Cosa penserebbe mia madre nel vedermi in questa situazione?
E quando penserai che sia un male, tu continua a fare del bene.
La sua voce rimbomba nei miei timpani, quasi fosse la sua risposta, mentre
Michael ripulisce gli aloni sulle mie cosce con estrema cura, privo di malizia,
tenendoci per davvero.
Vale anche lui in quel bene?
Posso far rientrare Michael nella bontà che credo di aver perso?
A discapito del tono di voce, delle frasi confezionate dal veleno e le battute
mirate, i suoi gesti gentili smentiscono tutto. E avrei potuto benissimo ripulirmi
da sola, eppure ha voluto farlo lui.
Tutto questo non è per niente d'aiuto alla mia salute mentale. E odio non
riuscire a odiarlo. Non per davvero, almeno.
Sta strofinando un nuovo fazzoletto sulla mia pancia, quando dico: «Erano
soltanto dei ragazzini della mia scuola. Volevo capire cosa si provasse a baciare
un ragazzo. Il primo tentativo fece schifo, un groviglio di saliva e troppa lingua.
Il secondo andò un po' meglio, ma comunque non mi fece provare niente».
Michael si irrigidisce e, per un momento, sfrega più forte sulla mia pelle,
lasciandomi una macchietta rossa. Se ne accorge subito, gli basta vedere la mia
smorfia, e tanto è sufficiente per fargli bloccare la mano.
«Scusami, non ti voler far male».
Per poco non mi metto a piangere. «Sto bene».
«Non è stato piacevole sentirtelo raccontare», deglutisce, gli tremano le dita,
e lascia cadere a terra il tovagliolo per grattarsi la mascella a scatti. «Ma mi hai
già spezzato in modi peggiori, quindi in fin dei conti questo è stato il male
minore».
È un riflesso: curvo gli angoli delle labbra all'ingiù e lo prendo dal polso, per
impedirgli di ferirsi il viso con le unghie. Non voglio che si ferisca
ulteriormente.
«Sono passati tanti anni, Michael, e io sono un’adolescente. Ho fatto le mie
esperienze, come qualsiasi altra ragazza. Non puoi farmi sentire in colpa anche
per questo».
«Anche? Per cos’altro ti senti in colpa?».
Per volerti così incredibilmente tanto.
Non rispondo, lui sospira.
«Anche in clinica c'erano delle ragazze, sai?», aggiunge, turbato, e distoglie
lo sguardo. «Tossicodipendenti o vittime di altri disturbi, ma comunque c'erano e
le ho rifiutate tutte. E non perché sono io, che vado nel panico quando qualcuno
prova anche solo a guardarmi, ma perché tu sei tu e non avrei mai permesso a
nessun'altra di prendersi qualcosa che ti è sempre appartenuto».
E magari sono più disturbata di lui, poiché il solo pensiero che qualcun’altra
possa baciare Michael, altre mani toccarlo... mi fa andare fuori di testa.
Siamo sempre stati io e lui. Solo noi due. Colmi di promesse mai mantenute,
di mani stretti al buio e la scoperta della banalità.
Io e Michael abbiamo cercato di scoprire cosa significasse essere bambini
insieme. Abbiamo fallito, più volte, ma ci abbiamo provato insieme. Almeno
finché non è andato tutto in malora.
Perciò immaginare una persona in grado di prendere il mio posto, sostituire
ciò che sono stata per lui... mi manca il respiro.
«Michael», sussurro, perdendo sempre di più il punto di vista iniziale. Inizio
a dimenticarmi la lista dei motivi per cui dovrei odiarlo. «Io... io non so
nemmeno se scusarmi sia corretto. Abbiamo fatto un gran casino entrambi, poi
tu mi hai chiusa qua sotto, ti rifiuti di dirmi il motivo e... e non riesco più a
capire cosa sia giusto o sbagliato. Che ti aspetti da me? Che vuoi che faccia?».
Sfila in fretta la mano della mia e indietreggia sulle ginocchia, portandosi i
polpastrelli fra i capelli. «Io non voglio niente da te, Grace. Perché ti rifiuti di
capirlo? Non voglio assolutamente niente da te. Sei tu che mi ferisci, mi baci, mi
fai del male, mi fai del bene. Sorridi, poi piangi. Urli, poi sussurri. Torni e te ne
vai. Aspetti e ti arrabbi. Io volevo solo che stessi bene e invece stai facendo di
tutto per farci a pezzi entrambi».
«Stai dando di matto, Michael. Non volevi niente da me? Mi hai rapita,
cazzo!», sbotto, seppellendo all'istante qualunque granulo di compassione. «E
non fai altro che ripetermi quello che provi per me, quasi dovesse bastarmi
questo per perdonarti di tutto e andare avanti, dimenticare qualsiasi cosa e vivere
la nostra vita insieme felici e contenti. Beh, notizia dell'ultimo momento, tesoro:
non funziona così!».
«Continuo a ripetertelo, perché tu continui a dimenticartene», infuria a denti
stretti, alzandosi in piedi nello stesso momento in cui lo faccio io, ancora in
intimo e alquanto incazzata. «Non pretendo che tu mi perdoni e vada avanti.
Sono il primo a non perdonarsi per quello che è successo, cosa credi? Nessuno ti
sta chiedendo di farlo!».
«Sì, invece. Lo stai facendo, altrimenti non staremmo nemmeno discutendo
adesso!».
«Io ci provo, okay? Ci provo sul serio a fare il meglio per te, Grace, ma se tu
la smettessi di remarmi contro e di confondermi ancora di più la testa, sarebbe
tutto più facile. Ma no, tu devi sempre incasinare tutto, perché ti piace, ti piace
da morire farmi sanguinare le ossa, ti piace sentire il rumore che fanno quando si
spezzano ogni volta che colpisci i miei punti deboli, soltanto per alleviare la tua
stupida coscienza!».
«Stai zitto!», urlo, al limite, e afferro la bottiglia per lanciargliela contro. È
aperta, quindi finisce solo per bagnarlo tutto. «Stai zitto, maledizione! Tu
ammazzi la gente, Michael, e io dovrei sentirmi in colpa per averti offeso?
Vaffanculo, razza di stronzo. E vaffanculo anche alla tregua che pensavo di poter
aver con te!».
I suoi occhi dardeggiano e la mandibola ha un guizzo cattivo, mentre le
narici si allargano per via dei respiri veloci. «No, vaffanculo tu, Grace. Avevi
promesso che non mi avresti mai lasciato, che non avresti mai permesso a
nessuno di portarti via da me», mi punta un dito contro. «E invece te ne sei
andata tu, e io ho trascorso gli ultimi sette anni, sette fottuti e lunghissimi anni,
in un maledetto istituto psichiatrico e nemmeno una misera volta hai ben pensato
di contattarmi o provare a guardare al di là del tuo naso!».
«Non ti azzardare a dare la colpa a me!», ringhio, avanzando a muso duro.
«Non ci provare, Michael!». Lo spingo, lui indietreggia, e io lo spingo, ancora e
ancora, fino a fargli sbattere la schiena contro la parete. «E non ti azzardare a
biasimarmi se ho provato a cancellarti dalla mia vita. Ti hanno rinchiuso perché
hai dei seri problemi che vanno curati, Michael. Mi hai capito? Io. Non c’entro.
Niente. Niente! E se proprio dobbiamo dirla tutta, nemmeno tu hai mai tentato
un contatto con me, quindi non osare addentrarti in questa strada perché me ne
vado fuori di testa!».
«Cosa? Cosa hai detto?! Mi sono preso una condanna a morte per correre da
te! Non ti sembra abbastanza?!».
«Mi sembra troppo, dal momento che nessuno te l’ha chiesto!»
«Bugiarda!».
Le mie mani si inumidiscono a contatto con il suo petto bagnato, e i polsi si
ustionano nel momento in cui le sue dita vi si avvolgono attorno in una brusca
stretta per allontanarmi da lui.
«Stai zitto!»
«Mi hai toccato, Grace», biascica, digrignando i denti a un soffio dal mio
volto. «E mi hai usato».
«E tu hai...»
«Mi hai usato!», sbraita, fuori di sé, rosso in volto e propenso a esplodere,
dandomi uno strattone all'indietro. «Ti ho permesso di toccarmi, Grace»,
infierisce, gli si rompe la voce, i denti serrati fra di loro. «Io ti ho permesso di
toccarmi e tu mi hai usato. Ti ho dato tutto ciò che ne restava di me e l'hai
calpestato come se non valesse niente. Eri l'unica, cazzo, l'unica a cui avrei
permesso di farlo, e tu hai distrutto tutto perché non potevi farne a meno». Mi
spinge all'indietro, impedendomi di sfiorarlo ancora e io traballo. «Ora quello
che non vuole più essere toccato sono io».
La mia rabbia si dissolve in un attimo, a fluttuare nell'aria sono solo le ceneri
e i brandelli delle mie emozioni che vogliono starsene pure loro con Michael e
lontano da me.
Mi si riempiono gli occhi di lacrime e allungo una mano d'istinto, ma la ritiro
subito indietro. «Michael, io…», non finisco la frase perché tossisco.
Ho urlato troppo.
Che cosa gli ho fatto?
«Vestiti e siediti, per favore. Non ti voglio più toccare, ma fallo».
«Michael, aspetta…»
«Non c’è più nulla da aspettare». Ridacchia senza divertimento e guarda
all'insù, scuotendo la testa. «Avevi ragione, sai? L'amore non finisce, Grace. No,
no, non lo fa», sbuffa, massacrandomi. «Ma proprio per niente. È senza fine.
Infinito. E non è quantificabile il dolore che può provocare. Però può cambiare
forma, può perdere colore, incattivirsi e diventare soltanto deludente. Perché, a
quanto pare, non tutti gli amori sono rose rosse».
E io resto senza fiato, precipitando in uno sconforto privo di eguali.
Chiedendomi cosa posso fare per rimettere in sesto il mio cuore e
riprendermi il suo fra le mani, che mi manca di già.
Che stiamo combinando, Michael?
In quale giro senza senso ci siamo persi, stavolta?
E dimmi la strada da percorrere, per favore, che io non so più qual sia.
Esausta, crollo a terra e stavolta lui non mi chiede se sto bene.
SEDICI

GRACE

Grace: 11 anni.
Michael: 15 anni.

Mi piaceva la St. Gerard.


Brulicava di studenti di ogni tipo, sia delle medie che del liceo, sciamavano
per i corridoi infiniti e nel cortile dove di solito si riunivano quelli dell'ultimo
anno per pranzare.
Ci confondevamo un po' tutti in quell'ammasso informe, a partire dai tipici
giocatori di football fino ai topi di biblioteca che non si separavano mai dai
propri libri.
E sì, ogni tanto capitava di assistere a litigate teatrali, ma in genere si cercava
di coesistere pacificamente. Dopotutto, l'unica cosa che contava a Monterey, era
accaparrarsi l'onda migliore del Pacifico dopo scuola.
Perché era proprio lì che correvano tutti una volta finite le lezioni. Gli zaini
lasciavano il posto alle tavole e le mute, e i costumi da bagno sostituivano i
vestiti. Io ovviamente non potevo andare, ma poi restavo ad ascoltare i racconti
il giorno dopo.
Ed era proprio questo ciò che mi piaceva tanto della mia scuola. La
possibilità di passeggiare, inalare l’aria pulita e permetterle di baciarmi la pelle
pallida di prima mattina, quando i raggi non erano così forti da potermi creare
problemi.
Gironzolare tra le vecchie case della cittadina, immergermi in quel borgo di
villette, dove le palme si confondevano, mi rendeva felice. Mi faceva sentire più
vicina a Marina, dove ero nata e cresciuta scaldata dall'amore della mia famiglia.
Perciò, ogni giorno che calpestavo la soglia dell'edificio scolastico, lo facevo
tendendo le labbra in sorrisi euforici. Sapendo che non ci sarebbe stata alcuna
Margot a deridermi e nessun Jonah a farmi lo sgambetto. Sapendo che non sarei
stata sola.
«Penso che Tristan abbia una cotta per te», bisbigliò Elisa al mio orecchio
quella mattina, durante la lezione di scienze. «Non fa altro che guardarti».
Arricciai il naso, poi voltai di poco la testa verso il fondo e... sì, in effetti due
occhi nocciola mi stavano proprio fissando. Gli feci un piccolo sorriso
imbarazzato e mi rigirai di scatto.
Elisa ridacchiò, dandomi un colpetto sulla spalla con il gomito. «È il più
carino della classe, Grace!».
Poteva anche avere ciuffi color cioccolata e iridi brillanti come l'ardesia, ma
nulla avrebbe mai potuto contrastare la fredda e crudele perfezione di Michael.
Nessuno, e sottolineo nessuno, era in grado di raggiungere l'effigie della sua
bellezza sinistra.
Nemmeno i ragazzi del quarto anno, che ci reputavano soltanto bambine che
puzzavano ancora di latte, riuscivano a farmi battere forte il cuore come
succedeva ogni volta che pensavo a lui.
Mi strinsi nelle spalle. «Sarà. Ma a me non piace».
«Maddài. Hai detto la stessa cosa di Austin Rogers e lui fa la terza, Grace.
Capito? La terza! Come cavolo fai a restare così indifferente?».
«Austin Rogers è soltanto un pallone gonfiato pieno di soldi. Per quale
ragione dovrebbe piacermi uno come lui?».
Non le dissi che i miei battiti scalpitavano solo per anime spaccate, per un
paio di occhi rotti che sapevano vedere e toccare. E non perché me ne
vergognassi, quanto più volevo che Michael restasse qualcosa di mio, custodito e
protetto nel profondo.
Nessuno avrebbe mai capito ciò che ci legava. Il nostro immenso sentimento,
la vivida dichiarazione di un amore intarsiato nelle ossa, andava tutelato. Per
quanto potesse essere inossidabile, era anche fragile. Spesso traballava e
inciampava, si muoveva su passi instabili, e io avevo il compito di rialzarlo tutte
le volte.
«Sei tremenda», sbuffò la mia amica, prima di dedicarsi all'esercizio sulla
fotosintesi che ci aveva assegnato la professoressa. «Ne riparleremo più tardi».
«Certo, come no».
Elisa mi pizzicò il fianco, saltellai sulla sedia e smorzai una risatina,
restituendole pan per focaccia. Continuammo così per un po', finché l'insegnante
non fu costretta a rimproverarci e a dividerci per il resto della giornata.
Capitava spesso che dovessero separarci, ci distraevamo a vicenda tra scherzi
e chiacchiere, quindi non ne facemmo un dramma. Al contrario, persistemmo
nello stuzzicarci anche a distanza.
Secondo Elisa, avrei potuto conquistare perfino gli studenti delle superiori. Il
mio viso da bambolina affascinava, e la mia lingua biforcuta e colma di paroloni
mi aiutava a sembrare più grande di quello che ero.
Dal mio canto, ci tenevo sempre a farle presente che a me non importava un
fico secco dei ragazzi. Anzi, se proprio dovevo dirla tutta, a me non importava la
maggior parte delle cose che, invece, riempiva la testa delle mie compagne.
Ciò che loro reputavano di vitale importanza, per me erano delle banalità. E
fu soltanto così che venni a scoprire di quanto fossi cresciuta in fretta, di quanto
gli anni che mi portavo addosso fossero troppi rispetto alla mia età anagrafica.
La St. Gerard mi fece riscoprire la bellezza dell'infanzia. Fu utile a rinsaldare
l'ingenuità che mi era stata strappata via, e io permisi a quel balsamo di
scorrermi nelle vene a tutta forza.
Sotto quel tetto, di fianco agli armadietti rossi, lontana dal grigio smorto,
potei finalmente tornare a percepire l'essenza della gioia, piccole chiazze di pace
e sorrisi sbeccati.
E, Dio, quanto avrei voluto tagliarne via un pezzo e regalarlo a Michael.
Quanto avrei voluto potergli stringere la mano e portarlo con me, vederlo
aggirarsi per quei corridoi, iscriversi al club di scacchi, magari fare un po' il
galletto in giro e poi abbracciarmi tra una pausa e l'altra.
Non ti avrebbe neppure guardata se fosse stato un ragazzo normale, Grace.
Era la verità. Un quindicenne, forgiato dalla quotidianità, bello come lo era
lui, avrebbe ammaliato e attratto la folla; e in quel caos, perso nel suo mondo
fatto di amici e voci reali, Michael non mi avrebbe mai notata.
Lui era mio perché capivo le sue crepe e non cercavo di curarle, ma di
accarezzarle. Privo di schegge, non sarebbe mai stato il mio Michael e, del resto,
nemmeno io l'avrei mai voluto se fosse stato diverso.
Durante la pausa pranzo, col vassoio stretto al petto, mentre i pensieri
continuavano a divagare e Margot insieme ai suoi amici sedevano all'angolo
della mensa, io presi posto accanto a Elisa da tutt'altra parte. Ben presto il nostro
tavolo venne occupato dai soliti compagni di corso con cui avevamo stretto di
più, incluso Tristan.
Stavo mangiando una mela rossa, interessata alla discussione che convergeva
verso il nostro insegnante di inglese, che aveva preso la brutta abitudine di
piazzarci test a sorpresa ogni due settimane, quando Tristan aprì bocca.
«Allooora», cantilenò, col suo sguardo da ragazzino. «Com'è il Benetton?».
Un incubo.
Forzai un sorriso, misi da parte il frutto. Solo a sentirlo menzionare mi
passava la fame.
«Come un normale orfanotrofio, penso».
Ridacchiò, un po' in imbarazzo. «Scusa. È che di solito voi ve ne state per i
fatti vostri, di rado parlate con noi. Era soltanto curiosità».
«Voi?».
Probabilmente usai un tono più astioso del previsto, poiché Tristan sussultò
ed Elisa si sentì in dovere di intervenire. In effetti, guardandomi meglio attorno,
notai che l'attenzione dell'intero tavolo si era spostata su di me.
«Voi ragazzi dell'istituto», spiegò Elisa, prima di indicarmi Margot, Jonah e il
loro seguito. «Sei la prima che si separa dal gruppo, se così possiamo
chiamarlo».
«Sì, insomma. Siete una sottospecie di famiglia, no? E lo capisco, del resto
vivete tutti insieme, sarebbe strano il contrario. Ma allargare un po' le proprie
conoscenze non fa mai male a nessuno», si sentì autorizzato a dire la sua Ben.
Sarebbe strano il contrario.
Siete una famiglia.
Quasi scoppiai a ridere in faccia a tutti loro. Che barzelletta era quella? Sul
serio credevano fossimo un'allegra combriccola che si riuniva ogni sera per
cantare canzoncine e scambiarsi abbracci?
Cavolate.
Mi morsi la lingua, impedendomi di parlare a sproposito e sfogare anni di
bullismo e soprusi in un solo fiato durante l'ora di pranzo.
«Ognuno fa quello che vuole, immagino», mi limitai a dire, fingendo
noncuranza e una vocina innocente.
«Giusto», mi appoggiò Elisa, e le sorrisi riconoscente.
«Già», fiatò, invece, Tristan. Meditò per un paio di secondi su qualcosa,
riflessivo, dopodiché sganciò la bomba. «Ho sentito dire che vive lì anche
Michael Baker. È vero?». Si sporse addirittura in avanti, emozionato di saperne
di più, di sfamare la sua curiosità.
Il sangue smise di pompare per un attimo. Fui certa di essere sbiancata,
perché ogni dannato globulo rosso filò via, desideroso di evaporare pur di evitare
il discorso che stava per impattare sulla mia faccia.
Sentii l'intera tavolata trattenere il fiato, le pupille fisse su di me e in attesa.
«M-Michael Baker?», balbettai come una stupida.
«Sì, Michael Baker. Non sai chi è?».
Aprii e chiusi la bocca più volte.
Cosa volevano da lui?
Perché lo conoscevano?
E perché ne parlavano come se fosse un esperimento da laboratorio chimico?
Strinsi i pugni, di già in tensione e infastidita nel sentire il suo nome
fuoriuscire da quella boccaccia. E come si permetteva di chiamarlo Michael
Baker?
Se davvero l'avesse conosciuto, avrebbe saputo quanto lo innervosiva il suo
cognome.
Perciò deglutii e scossi la testa. «No, non so chi sia. Al Benetton non c'è
nessun Michael e io vengo da Marina. Chi è questo ragazzo? E perché vi
interessa tanto?».
La mia improvvisa capacità di mentire, senza battere ciglio, sorprese perfino
me stessa, ma non vi badai granché. Pur di proteggere Michael, sarei stata
disposta a cacciarmi via dal petto ogni briciolo del mio spirito.
Maledizione, ero disposta a morire per Michael. Cosa poteva mai
importarmene di una menzogna?
«Uhm... io non credo sia il caso di parlarne», farfugliò Elisa. «È una cosa
successa anni fa, e ormai non si vede Baker in giro da una vita. Che senso ha
tirarlo di nuovo fuori?».
Aggrottai le sopracciglia. Quale storia?
Ben non fu d'accordo. Piuttosto sbuffò. «Dici così soltanto perché sei
convinta sia una povera vittima di ingiustizie e atrocità. Non riesci ad accettare il
fatto che qualcuno possa semplicemente nascere cattivo».
Fui punta da braci ardenti. Più andavano avanti, più il mio stomaco si
contorceva. Fui costretta a infilare le mani sotto al tavolo, per nascondere i miei
pugni che morivano dalla voglia di abbattersi sulla faccia di Ben e ridurgliela in
poltiglia.
Non mi piaceva affatto il modo in cui continuava a parlare di Michael.
«Ma tu cosa ne sai, stupido idiota?», scattò la mia amica, e l'adorai ancora di
più. «Tappati quella fogna per una buona volta e impara a usare il cervello. Se il
processo si è svolto a porte chiuse e hanno impedito ai giornali di riportare le
notizie, un motivo ci sarà! Tu non credi?».
«I giornali hanno riportato eccome! Se non sbaglio, venne definito un
bambino affetto da psicosi e catatonia. Quindi, io non credo proprio niente.
Riporto solo ciò che è stato».
Passai gli occhi da uno all'altra, quasi stessi seguendo una pallina da ping-
pong, mentre il magone che avevo nella pancia si intensificava attimo dopo
attimo. Una morsa mi strinse la gola.
Respirare cominciò a diventare più difficile, eppure riuscii a stare dietro alle
loro frasi pungenti, colme di un veleno mastodontico.
Affetto da psicosi.
Processo.
Catatonia.
Sì, Michael aveva dei problemi. Soffriva indubbiamente di qualche disturbo
e i suoi traumi rischiavano spesso di soffocarlo. Ma... psicosi? Quella era roba
seria. Ingestibile per una ragazzina di undici anni. Si trattava di una vera malattia
da sottoporre a esperti professionisti.
Affondai i denti nel labbro inferiore e, sorvolando su Elisa e Ben che
continuavano a battibeccare, mi sporsi verso Tristan, colui che aveva tirato fuori
l'argomento.
«Cosa è successo?».
Lui si accigliò. «Come?».
«Michael Baker», gracchiai, sentendomi una schifezza a dover pronunciare
quel Baker che lo faceva tanto stare male. «Cosa ha fatto? Che è successo?».
Tristan titubò, i suoi occhi sfarfallarono per l'intera mensa, fino al vassoio
ancora colmo di cibo. «Sai, Grace, forse Elisa ha ragione, non...»
«Tris», sospirai, ingoiai un groppo amaro e allungai la mano per stringere la
sua sul tavolo di metallo. «Dài, dimmelo. Sono curiosa!».
Le sue guance arrossirono, puntò le nostre dita che si sfioravano e abbozzò
un sorriso impacciato. Diamine, allora gli piacevo sul serio. Mi sentii in colpa,
ma non mollai. Dovevo sapere.
«Ecco, in realtà è una storia un po' contorta e confusa», biascicò. «E
comunque, quando accadde, eravamo tutti ancora piccoli. Avevo circa cinque
anni, più o meno, perciò quello che so mi è stato raccontato o l'ho letto sui
giornali».
D'istinto, pervasa dall'agitazione, rafforzai la stretta delle nostre mani. Lui
avvampò ancora di più, io cercai di controllare il respiro.
«Baker viene da una famiglia di facoltosi tradizionalisti. I tipici benestanti
che si rinchiudono nelle loro perfette villette a schiera nel lato giusto della
cittadina, vanno a messa ogni domenica e fanno studiare i figlioletti da
privatisti».
No, no, Michael non ha mai studiato! Non è vero! Mentivano!, urlava la mia
voce interiore.
Non poteva trattarsi di una casualità. Quindi erano stati davvero i suoi
genitori a ritirarlo dalla scuola e privarlo dell'istruzione. Santo cielo...
«Da quanto si dice in giro, Michael è sempre stato un po' strano. Non usciva,
non parlava. Se ne stava sempre rinchiuso in casa e, se capitava di vederlo per
strada, occasione più unica che rara, lui preferiva rimanersene sulle sue. Finché,
circa cinque anni fa, non diede di matto e accoltellò i suoi genitori mentre
dormivano. Ben trentasette pugnalate a testa, cacchio. Da brividi!».
Smisi di capire. Smisi di ascoltare. Smisi di esistere.
Trentasette.
No, non poteva essere. Non stava dicendo sul serio. Sì, okay, Michael aveva
le sue crisi, veniva reputato pericoloso perché... perché... oh mio Dio.
Mi rifiutavo di crederci. Anche se i miei occhi si riempirono di lacrime e il
mio cuore si schiantò contro le costole, volenteroso di correre al riparo da
Michael e farsi sussurrare la verità, io non volevo crederci.
Devi solo dirmi una parola, bambolina, e io li ammazzo tutti.
Michael... il mio Michael aveva ucciso...
Michael aveva le mani sporche di sangue.
Mani che mi avevano cullata, amata, protetta. No, doveva esserci una
spiegazione.
«È stato sottoposto a processi, visite mediche, sia fisiche che psicologiche.
Ma non ha mai rivelato cosa lo abbia spinto ad agire in quel modo, perciò si è
dedotto che l'unica causa fosse la sua psicosi. Personalmente? Credo ci sia ben
altro sotto. Qualcosa di grosso. Altrimenti non lo avrebbero mai rinchiuso in un
orfanotrofio, piuttosto lo avrebbero spedito dritto dritto in una bella clinica
psichiatrica. Non pensi?».
Non risposi.
Non pensavo.
Non credevo.
Non ragionavo.
Non respiravo.
Non sentivo.
Schiusi le labbra, le richiusi. Perché doveva esserci una ragione. Doveva
esserci un motivo. Lui che con me era prezioso, animo puro e fiore appena
sbocciato. Non poteva fare una cosa così dal nulla, vero?
Vero?
Non poteva!
No!
Elisa mi scrollò, il rumore era più forte di lei che mi richiamava.
Tristan sgranò gli occhi.
E io ebbi la vaga sensazione di palmi che stringevano la mia gola, dei
polmoni che bruciavano e un buio permanente che veniva ad avvolgermi tra le
sue spire.
Sprofondai nel vero e assoluto panico.
DICIASSETTE

GRACE

Lo guardo, immobile e statica come solo chi si è sentita strappare via il cuore
può fare. Come può fare solo chi si è appena sentita scivolare via fra le dita
l'essenza della vita.
Mi hai usato.
Sì, l'ho fatto. Mi sono presa ciò che volevo, senza badare alle conseguenze,
accesa da un odio viscerale derivato da me che, alla fine, non riesco a odiarlo per
davvero. L'ho fatto e subito dopo mi sono resa conto di aver usato non solo lui,
ma anche me stessa.
L'ho fatto, e ho capito di avere davanti il mio Michael.
Michael che anche mentre crolla si assicura che io resti in piedi.
Come si fa a sopravvivere a questo? Come si fa a odiare una persona che ti
ama in questo modo?
Odi te stesso e ami quella persona.
E allora lo guardo, e lo guardo, imprimendomi la sua figura addosso,
scivolando su quel ragazzo intrappolato in orrori che nemmeno posso
immaginare. Sprofondato in una spirale di crudeltà che non conosco. E ce l'ho
spinto io laggiù. Ancora una volta.
Perché non riesco ad accettare ciò che ho fatto.
Anche se, fuggendo per vie traverse, alla resa dei conti non è colpa sua. E lo
so bene, ne sono perfettamente conscia; lui funziona in maniera diversa, Michael
non è normale e tutti quanti ci ostiniamo a pretendere che invece si comporti da
tale, anziché aiutarlo e comprenderlo.
Ma, maledizione, come posso farmi scivolare addosso con tanta facilità
determinate cose?
Non si tratta di incidenti, lui ha agito intenzionalmente. Sebbene dubito che
sia perfettamente capace di intendere e di volere.
Sta tutto lì, in quei meccanismi e punti di fuga che si accavallano fra loro.
Fin dove può arrivare la mia morale? Fin dove posso spingerla a ricoprire il mio
egoismo?
Ho trascorso gli ultimi sette anni a ripetermi che lo detesto, che è un mostro,
che non merita nulla se non il mio disprezzo.
Mi sono preparata, illusa di potercela fare a contrastarlo, conscia del potere
che ha sempre esercitato su di me, ma mi è bastato ritrovarmelo davanti per
ribaltare tutto. Per farmi capire quanto sia stata un'idiota a credere di potercela
fare, di soffocare il legame che ci unisce; a spegnere le mie emozioni.
E lui se ne sta là, davanti a me, tutto accovacciato e stretto a sé stesso, col
viso stravolto dalla sofferenza, gli occhi persi nel vuoto dell'isteria e il respiro
ridotto all'osso. Dondola, a denti stretti, e bisbiglia strane parole a bassa voce,
pregando di smetterla.
«Basta, basta», sussurra senza fiato. «Lasciatemi stare, basta. Basta!».
Strizza gli occhi, dondola e dondola.
Non tutti gli amori sono rose rosse.
No, in pochi lo sono.
Ma l'ha detto: l'amore non finisce.
Sì, può cambiare forma, può diventare di un colore più tetro e rompersi in
mille pezzi diversi. Può voltare la faccia, l'amore.
Però non finisce.
Anche se fa male, non finisce. Non lo fa mai.
Mentre Michael continua a blaterare, a farfugliare a persone invisibili di
lasciarlo in pace, a supplicare a voci inesistenti di non fare così tanto rumore, che
lui non ce la fa più, una lacrima mi riga la guancia. Lo fa per lui, che non sa
piangere.
Ne scende un'altra. Muta dalla rassegnazione.
Ginocchio dopo ginocchio, il tempo messo da parte insieme alla realtà, mi
muovo. Col terrore in gola, avanzo, andando a rincollare quei pezzi che si sono
dispersi, dimentica della partita in atto, mettendo un time out di cui abbiamo un
disperato bisogno.
Mi fermo davanti a lui. Non mi vede, ma non importa.
«Michael», sussurro, intrisa di amarezza e angoscia. «Michael, guardami».
Ora quello che non vuole più essere toccato sono io, rimbomba come un
tuono nelle mie tempie.
Perciò non lo faccio. Anche se vorrei, da morire.
Vorrei soffiargli il mio respiro sulla pelle, per ricordargli che, a prescindere
dal resto, io sono qua. Io ci sono.
Ma lo rispetto.
«Michael», mi si incrina la voce. «Per favore, lo so che ti ho fatto male e ho
sbagliato. Ma smettila di ascoltarli, torna indietro. Chiudi quella porta».
Le sue dita spuntano fra i capelli, quando strizza le palpebre per estraniarsi
dalle allucinazioni. «Io... non voglio», bisbiglia fra i denti. «Non voglio andare».
«Non andiamo da nessuna parte, te lo giuro. Restiamo qui, al sicuro, solo io e
te. Ricordi, Michael? Solo io e te».
È un piagnucolio straziante: «Per favore, basta. Per favore…».
Mi mordo il labbro inferiore fino a farlo sanguinare, trattenendo un
singhiozzo. «È tutto finito. Ascolta la mia voce, Michael. Sei al sicuro, va tutto
bene. Non c'è nessuno qui che possa farti dal male, okay? Sei al sicuro e noi non
ci muoveremo da qui».
E non te ne farò più nemmeno io, promesso.
Che l’ho capito che a farti male, mi faccio male pure io.
È successo tutto all'improvviso. Noi che ci urlavamo contro, lui che moriva
dentro a ogni mia parola, io che soffocavo nella negazione, e poi Michael a terra
a sprofondare negli abissi.
Non posso lasciarlo da solo. Non posso permettere che venga risucchiato dal
buio. Non per colpa mia.
Sono stanca di combatterlo. Sono arrivata allo stremo.
E quando biascica d'urgenza: «Trentasette, trentasette Michael Baker», prima
di sobbalzare e prendere a sfregarsi la pelle, quasi volesse togliersela di dosso,
non sono più in grado di trattenermi.
Spalanco gli occhi e lo aggancio dai polsi, impedendogli di farsi del male,
cercando di trattenerlo per quanto posso.
«Lasciami», ansima, le pupille fisse sulle mani. «Lasciami, lasciami».
«No, ascolta...»
«Non capisci! Lasciami! Devo toglierli via, solo così smetteranno di fare
male. Io devo...»
«Tu devi tornare in te», punto, decisa, stringendo la presa e avvicinando a me
i suoi polsi. Lui segue l'azione, finisce nei miei occhi. «Non ti lascio, Michael.
Sentimi, cazzo. Senti me. Mi dispiace per quello che ho fatto. Mi dispiace che tu
non sia stato il mio primo bacio. Mi dispiace per gli anni che hai dovuto passare
rinchiuso in uno stupido istituto psichiatrico. Ma, soprattutto, mi dispiace per
averti spezzato in tanti modi diversi e non averlo nemmeno capito».
Le sue ciglia sfarfallano. Più vado avanti, come un treno in corsa, più lui
torna a contatto con la realtà. La lucidità inizia a macchiargli le iridi spente, il
fiato è ancora agitato, ma il suo tremore è diminuito.
Non mi fermo. Intreccio le nostre dita. Si incastrano alla perfezione,
privandomi di un battito.
«Lo so che la tua testa va più veloce della mia. Mentre io sono ancora ferma
alla partenza, tu sei già arrivato a destinazione, perciò devi darmi un po' di tempo
per riuscire a capirti. Anche se dubito che ci riuscirò mai per davvero».
Schiude le labbra. «Grace...»
«Sì», mormoro, abbozzando un sorriso che lui va a tastare con i polpastrelli.
«Sono Grace e tu sei Michael. Noi siamo Grace e Michael, chiaro? Siamo
sempre noi, come hai detto tu l'altro giorno. Ogni tanto me lo dimentico, perché
è più comodo così e starti accanto non è facile, lo sappiamo entrambi. E hai
ragione, noi non siamo rose rosse. Noi siamo noi». Lo afferro dal viso. «Ci
fondiamo, ci plasmiamo, ci odiamo, ci amiamo. Distruggiamo e creiamo. Ma io
tua, tu mio, Michael, in qualsiasi circostanza».
Chiude e apre le palpebre un paio di volte, studiandomi a fondo, confuso da
ciò che gli sto dicendo.
Perché non si è visto con i miei occhi. Non si è visto sgretolarsi, briciola
dopo briciola.
Perché non è stato lui a romperlo, a spingerlo nel baratro.
Scuote la testa, a sopracciglia aggrottate. «Che dici? Per favore, Grace, non
confondermi di nuovo la testa. Non mi illudere, è già difficile così per me».
«Hai ragione. Ti ho detto cose orribili, e forse te ne dirò ancora perché sono
spaventata a morte, Michael. Sono terrorizzata da quello che provo per te». A
retine lucide, gli avvolgo il viso tra i miei palmi. «È vero, mi hai rapita e
commesso azioni deplorevoli, ma sei la stessa persona che quando avevo dieci
anni ha imparato a scrivere solo per scrivermi una lettera e che mi ha abbracciata
quando il mondo fuori mi aveva masticata e sputata a terra. E certe cose, per
quanto uno possa sforzarsi, non si possono dimenticare».
Michael sospira, frastornato dal magma di emozioni che gli sto rovesciando
addosso. Gli sto ancora una volta mandando in poltiglia il cervello, ma almeno
ha smesso di ascoltare le sue voci.
Adesso sta ascoltando me.
«Mi farai del male», mormora, piegando gli angoli della bocca all'ingiù. «E
io te lo lascerò fare, perché si tratta di te. E allora mi farai sempre del male».
Possono poche parole messe insieme provocare tante lacrime?
A lui riesce così facile farlo.
Piango sui suoi polsi, gli lavo via la sofferenza con la mia.
«Me ne hai fatto anche tu».
«Non volevo».
«Lo so», sussurro.
«Tu invece volevi, Grace», soffia, abbassando il mento e scrollandosi via il
mio tocco. «E va bene. Non sono arrabbiato con te. Non potrei mai esserlo. Ma
se puoi farne a meno, ti prego, non spezzarmi ancora. Fermati qui».
Avverto un senso di smarrimento mai provato prima, nemmeno durante
quella notte, quando tutto si capovolse. Nemmeno quando lo avevano portato
via, in manette, pronto a essere giudicato.
Nemmeno in sette anni lontani.
Michael sposta lo sguardo, incapace di guardarmi in faccia, e io annaspo alla
ricerca di ossigeno. Sento un buco scavarmi il petto, frugarmi tra le costole alla
ricerca del cuore.
Ma non c’è più. Non c’è più niente. Se l'è preso lui, per riallacciarlo al mio
bellissimo pezzo di cuore rimasto che tiene custodito chissà da qualche parte.
Indietreggio, mi sbilancio all'indietro e scivolo a sedere.«Ti ho scritto delle
lettere», confesso.
Lui si blocca, preso in contro piede. «Cosa?».
«Ti ho scritto delle lettere», ripeto. «Ogni volta che mi mancavi, ogni volta
che mi succedeva qualcosa di importante, ogni volta che l’odio si affievoliva, io
ti scrivevo. Non so perché, se sentissi questo gran bisogno, ma dovevo farlo. E
un po’ mi pento di non avertele spedite tutte, perché si sa che siamo sempre più
bravi a scrivere che a parlare. Che se ti dico una frase sbagliata, non la posso
cancellare purtroppo, però posso dirti che mi dispiace».
Stavolta si lascia toccare, mi permette di sfiorarlo. Gli accarezzo il viso,
strofino i polpastrelli sulle sue guance, sugli zigomi affilati e accolgo il calore
nel momento in cui si abbandona al mio palmo.
«Perché me lo stai dicendo?».
«Perché ho visto cadere e mi sono resa conto di volerti rialzare».
«Ne sei sicura?».
«No. Non so niente, Michael», annuncio. «Ho perso la strada. Non so che
percorso prendere e voglio che mi aiuti a trovarla. Voglio che tu mi riporti a
casa».
Sbatte le ciglia lunghe, le labbra gli fremono e gliele strofino con il pollice,
di cui bacia la punta mandandomi in cortocircuito.
«Non usarmi più», tremola, afferrandomi dai capelli, le sue dita si impigliano
fra le ciocche bianche e io gli finisco addosso. «Se vuoi odiarmi, dimmelo.
Picchiami, urlami contro, insultami, non parlarmi più. Ma non usarmi, Grace».
Faccio scivolare le mani fino alle sue spalle nude, avvolgo la freddezza della
sua pelle mentre la maglietta che indosso si solleva sulle cosce. Gli avvolgo i
fianchi con le mie ginocchia, sedendomi sul suo bacino.
«Va bene». Premo le unghie nelle sue scapole disegnate. «Te lo prometto».
«Non promettere. Non le sai mantenere le promesse».
Ingoio il rospo e accetto la stilettata. Me la merito. Lui ci ha rotti, ma io non
ho fatto nulla per aggiustarci.
Le mani di Michael scorrono sulla mia schiena, attraversano i fianchi e si
fermano sulle anche, a palmi aperti, tenendomi lì. Rabbrividisco, se ne accorge e
i lineamenti rigidi si ammorbidiscono.
«Forse non hai ben capito», sibilo, prendendolo dalla nuca. Gli parlo sulle
labbra, naso a naso: «Io sono qui».
Gli si dilatano le pupille, ingorde di potermi racchiudere tutta, e serra le dita,
l'indice si conficca nel mio inguine, proprio nella congiunzione della coscia,
facendomi ansimare sulla sua bocca.
«Anche se ti ho rapita?».
«In questo momento non me ne frega un cazzo».
«E quando invece ti importerà?».
«Allora ci penseremo».
Irrigidisce la mandibola, tagliente quanto una lama. «Egoista».
«Sì». Affondo i denti nel suo labbro inferiore, lo tiro in uno schiocco, mentre
lui piega le ginocchia per farmi appoggiare la schiena. Il mio sesso preme sul
suo, e un ringhio vibra dal suo petto. «Ma sono sicura che quando mi rivelerai il
motivo, nulla avrà più importanza, Michael, e io mi pentirò di aver sprecato il
nostro tempo».
Perché la verità è che due come noi non hanno futuro, e il tempo non sarà
mai dalla nostra parte. E a tale realizzazione, passa tutto in secondo piano.
Ci siamo solo noi.
Soltanto io e Michael.
«Hai ragione», contempla, stritolandomi il bacino tra le sue mani,
muovendomi sul suo corpo coperto solo da quei maledetti pantaloncini. «Nulla
avrà più importanza, dopo. Se non te. Tu sei stata e sarai sempre più importante
di tutto, bambolina».
Gli sfioro l'addome, seguo le linee che lambiscono il ventre piatto, la leggera
peluria bionda che parte dall'ombelico e finisce giù, sicché gli schiocco un
rumoroso bacio sulla mascella.
«Ti sto toccando, Michael», mormoro, gli bacio la guancia. «E non per
usarti».
«Già», deglutisce sotto le mie labbra. «Hai di nuovo stravolto tutto».
«Non mi scuserò per questo».
«Non farmene pentire».
«Vuoi che ci andiamo più piano?». Sollevo gli occhi su di lui.
«No», fiata, portando i pollici sul mio inguine, strofinandoli in ambo i lati. E
sono creta fra le sue mani, destinata a farmi levigare. «Voglio solo che te ne
importi abbastanza da ricordartene».
E ora potrei dirgli che anche lui, per me, è sempre venuto al di sopra di
qualsiasi altra cosa; che è stato il magnete attorno a cui ho gravitato per anni.
Potrei ricordargli quanto l'amore si ingarbugli nei suoi strani intrecci e che
perdersi vuol dire anche ritrovarsi.
Invece, gli ordino un chiaro: «Chiedimi di che cosa sanno le mie lacrime».
Ingoia un respiro tremante. «Di cosa sanno le tue lacrime, bambolina?».
«Di ferro e fuoco, Michael».
Non so chi dà inizio alla danza. Fatto sta che le nostre bocche si incontrano a
metà strada, rimettendo a posto i pezzi di noi che davamo per dispersi ormai.
DICIOTTO

GRACE

Grace: 11 anni.
Michael: 15 anni.

La direttrice Caroline, posta dall'altro lato della scrivania, mi guardava con il


suo solito disprezzo e odio cieco.
Avevo avuto un attacco di panico davanti all'intera mensa e l'avevano
chiamata per venirmi a riprendere di corsa. Non mi era mai successo prima, di
avere un attacco di panico, intendo. Era stato terribile.
Per un momento mi era sembrato di morire.
«Nemmeno due mesi, Grace», ciarlò, aspra. «Nemmeno due mesi sei durata
senza combinarne una delle tue!».
Spalancai gli occhi, puntandoli sui registri che teneva ben chiusi sulla
scrivania in mogano. La sedia di legno scricchiolò sotto di me, quando mi agitai
un pochino.
Nelle mie orecchie, al posto di quella voce starnazzante, sentivo ancora il
timbro caldo di Tristan che mi raccontava storie tetre che, col senno di poi, non
avrei mai voluto sapere. Non da lui, perlomeno.
Michael aveva ucciso i suoi genitori.
Rabbrividii al pensiero.
Trentasette coltellate. A testa.
Qualcosa mi diceva che non si trattava di un caso, che vi era un significato
intrinseco dietro.
«Ti risulta così difficile riuscire a comportarti bene per una volta? Perché
nutri questo incessante bisogno di dover essere al centro dell'attenzione?».
«Non è vero», farfugliai.
A mente un po' più lucida, sguazzando in ogni ricordo che avevo costruito
negli anni con Michael, capivo già da me che doveva esserci un motivo dietro
alle sue azioni.
Oppure... era stata davvero la psicosi di cui soffriva ed era tutto falso?
Magari gli aveva fatto credere cose che, in realtà, non erano mai accadute.
Poteva aver distorto la sua visione.
Trattenni per un momento il fiato. E se fosse capitata una cosa del genere
mentre stava con me? Avrebbe potuto uccidermi?
Viscidi rivoli di paura presero a strisciarmi nelle vene, mi procurarono la
pelle d'oca e feci guizzare lo sguardo verso la libreria semivuota.
«Sono io a decidere cosa sia vero o meno!», sbottò Miss Caroline, sbattendo
il palmo sulla superficie, al che sussultai. «Non me ne importa niente delle tue
pseudo crisi isteriche da mocciosa. Mi sono stancata del tuo atteggiamento
ribelle e sopra le righe».
Mi aggrappai ai braccioli con le unghie, le nocche sbiancarono, e morsi
l'interno guancia fino a farlo sanguinare. Dovevo solo lasciarla parlare. Se avessi
risposto, le avrei dato soltanto ulteriori motivi per continuare a darmi contro e
farle credere di avere ragione sul mio conto.
Attraversai con lo sguardo le spesse tende bordeaux, che coprivano la grande
finestra, poi finii nei suoi occhietti cerulei pregni di disgusto e rabbia nei miei
confronti.
Cosa ti dava tanto a noia?
Cos'è che ti turbava tanto?
Forse il fatto che non ti temevo.
Già, io non ho mai avuto paura di te.
Non mi hai mai fatto niente.
Mi bastò sollevare il mento, fiera, e fissarla dritta in faccia per farle capire
che non mi avrebbe piegata. Che poteva pensare e dire quello che voleva, tanto a
me non avrebbe toccato nulla.
Ciononostante, nel momento in cui colse il mio guanto di sfida non si adirò e
nemmeno persistette nel rimproverarmi. Al contrario, un perfido rancore intriso
di veleno le torse le labbra sottili e tinte di rosso in un sorrisetto vendicativo.
«Ripensandoci», fiatò, il preludio di un soffio crudele che mi fece graffiare il
legno. «Forse dovresti restare qui per il giorno del Ringraziamento. Sì, penso che
lavare i pavimenti e i bagni insieme a Jonah e Killian ti farebbe bene».
Non risposi. Lasciai che fosse la mia mandibola contratta a farlo. Sapeva che
quei due mi avrebbero dato il tormento e, privi di supervisione, avrebbero
sfogato il loro peggio su di me. Prevedevo di già una giornata di calci e pugni, di
ossa traballanti e occhi neri. Non me ne fregava niente della giornata allo zoo
che eravamo soliti trascorrere, in piena libertà.
Io l'avevo sempre passata a raccogliere giornalini e sassi strani da portare a
Michael, ma farne a meno non mi avrebbe traumatizzata. A farmi venire il cuore
in gola era il pensiero di ritrovarmi da sola insieme a Jonah e Killian.
E quella stronza lo sapeva.
Urtata dal mio silenzio piatto, incrociò le dita scheletriche e aggiunse il
carico da mille: «E non pensare nemmeno per un secondo che potrai andare da
lui».
Schiusi le labbra. Quel poco di colorito che mi ero guadagnata scivolò via
dalle mie guance. Non l'aveva appena detto sul serio...
«Che c'è, Grace? Pensavi che non mi sarei accorta delle tue toccate e fuga
nella camera di Michael Baker?».
Il mio respiro aumentò a dismisura.
Non osare chiamarlo Michael Baker, premeva sulla punta della mia lingua
per uscire, ma morsi le parole. Ingoiai il rospo. Non volevo darle alcuna
soddisfazione.
Lei si discostò un po' il colletto stretto. «Io ho occhi e orecchie ovunque in
questo posto, ragazzina. Quando ne sono diventata direttrice, tu ancora dovevi
nascere. Credevi di potermi fregare? Di poterti fare le tue scappatelle sotto al
mio naso?».
Stai zitta, Grace.
Stai zitta.
Non peggiorare la situazione.
«Hai mai riflettuto sul fatto che se quel ragazzo è stato isolato c'è una ragione
di fondo?». Si protese in avanti, arcigna. Le rughe si ispessirono. «Finora sono
stata clemente. Ho accettato di tenerlo sotto al mio tetto, di sfamarlo con il mio
cibo, di vestirlo con i miei vestiti, perché non mi ha mai creato alcun tipo di
problema, ma tutto questo deve finire. Non puoi salvarlo, Grace. Michael è
perso, è solo questione di tempo prima che abbia un nuovo scatto, faccia del
male a qualcuno e venga rinchiuso in un istituto a dovere. Devi lasciarlo in
pace».
Stai zitta, Grace.
Non farlo.
Non parlare.
Drizzai la schiena. «No».
«No?», mi fece eco, incredula, prima di lasciarsi sfuggire un ringhio. «Forse
non sono stata chiara. La mia non era una richiesta, ma un ordine. Non è un
gioco, e tu non puoi permetterti di mettere il tuo egoismo dinnanzi a una
situazione simile».
Ero conscia che non avrei dovuto farlo. Che sfidare Miss Caroline non era la
scelta giusta da fare. Tuttavia non fui in grado di trattenermi.
Che cavolo ne poteva sapere lei di me e Michael? Come osava infilare il naso
e mettersi a dettare legge, pretendendo di conoscerci?
Che ne sapeva di quanto i nostri battiti andassero all'unisono? O del modo in
cui le nostre anime si intrecciavano senza nemmeno darsi modo di sfiorarsi?
Il mio egoismo...
Ridacchiai, e mi sporsi in avanti anche io, commettendo il mio errore da
stupida ragazzina di undici anni. «E se non lo faccio?».
Una scarica di tensione esplose nell'ufficio, intanto che noi prendevamo a
guardarci negli occhi in un duello silenzioso. Un duello che avrebbe vinto lei alla
fine, perché la gerarchia contava, perché io non ero nessuno mentre Miss
Caroline dirigeva quel posto del Diavolo.
Lei era la burattinaia. Io un misero pupazzo confuso nella marmaglia.
«Se non lo fai», sibilò, incisiva, «uno di voi due se ne andrà. Mi basta una
chiamata, Grace, non provocarmi».
E io mi pietrificai. Il sorrisetto si spense. L'aria diventò statica. Ogni mio
singolo osso divenne di ghiaccio, le articolazioni si tramutarono in ferro e i
polmoni scoppiarono. Non ero più nemmeno sicura di come si respirasse.
Ero una statua di sale, persa nel tempo e in attesa del boia.
«Vedo che ci siamo capite», sentenziò inflessibile, una curva di soddisfazione
a segnarle la bocca. «Adesso tornatene in camera tua. Ho perso già troppo tempo
con te».
Le gambe tremarono quando mi alzai in piedi, insicura di ciò che avevo
appena sentito, e in un gesto di stizza le mostrai i denti.
Se avevo pensato di aver sperimentato il panico nel sapere del passato di
Michael, allora ciò che provai alla sola idea remota di poterlo perdere non
sapevo cosa fosse. Non sapevo come spiegarlo.
Fu come perdere i miei genitori per una seconda volta. A una potenza
triplicata.
«Si fotta», biascicai terrorizzata, ferma dinnanzi a lei e alle sue palpebre
spalancate. «Si fotta lei, il Benetton e i suoi stupidi prediletti. Spero che questo
posto un giorno vada a fuoco per davvero».
«Grace Martin!», strillò, le pareti tremarono, ma io avevo di già imboccato la
porta per sbattermela alle spalle, talmente tanto forte che per un attimo pensai di
averla scardinata.
Se ne andassero tutti a quel paese!
Voleva portarmelo via? Bene, che ci provasse!
La furia mi contorse i pensieri, li mangiò fino a divorarseli, e qualsiasi altra
cosa passò in secondo piano rispetto alla vaga ipotesi di poterlo perdere. Michael
non mi avrebbe mai fatto del male, ne ero certa.
Se in quattro anni non mi aveva mai torto un capello, al contrario, allora
perché avrei dovuto iniziare a temerlo?
Per quale motivo dovevo dare credito a delle voci di corridoio, a persone che
nemmeno lo avevano mai visto di sfuggita, anziché fidarmi di lui che era stato il
fuoco a fondere il mio ferro?
A pugni serrati, con le unghie che mi scavavano i palmi, ripetei la
conversazione nella mia testa un numero indefinito di volte, e persa nel vortice
della mia rabbia neppure mi accorsi di Margot, finché non le finii addosso.
«Cretina, guarda dove vai!».
Non la degnai di uno sguardo quando si affrettò a recuperare da terra
qualsiasi cosa le fosse caduto. Sentii solo lo scricchiolio di una bustina di
plastica.
«Non ti ci mettere anche tu, che oggi non è giornata!», sbottai, aggirandola
per riprendere a camminare.
«Ah, ma sentila, la poveretta ha avuto una brutta giornata! Beh, chi se ne
frega!».
«A posto. Continua a fregartene lontano da me».
Non demorse. Prese a tallonarmi. «Stai andando dal tuo amorevole
Psycho?».
«Sì». Poi un dubbio si impresse nella mia mente e, incurante di Miss Eleonor
che si stava premurando di tenerci sotto controllo, mi voltai verso di lei. «Sei
stata tu?».
Margot aggrottò le sopracciglia ramate e si aggiustò la maglietta scollata. A
tredici anni, con il seno che iniziava a sbocciarle sul petto, aveva cominciato a
metterlo sempre di più in mostra. E poi ero io quella che voleva sempre stare al
centro dell'attenzione? Ma per favore.
«A fare cosa?».
«La spia. Hai detto tu alla direttrice di Michael?».
Sbuffò una risatina. «Tesoro, se non vuoi essere beccata, la prossima volta
usa un po' più di discrezione».
«Rispondimi. Sei stata tu o no?».
«Beh, di certo non diventi la pupilla della direttrice restandotene zitta a
guardare».
Non pensai. Avevo smesso già da una manciata di minuti di farlo.
Sentii solo il vibrare della cartilagine e lo squittio di Miss Eleonor, quando le
mie nocche si infransero sulla mascella di Margot. Sfogai buona parte della mia
rabbia in quel pugno che anelavo di darle da una vita, carico di frustrazione,
angoscia e ingiustizie. Il polso fece male, però fu un dolore piacevole.
«Grace!», strillò l’educatrice, tirandomi indietro. «Si può sapere che ti è
preso?».
Non le prestai attenzione.
«Ma che cazzo...», ansimò dolorante Margot, con gli occhi carbone pieni di
lacrime, la mano premuta sul punto colpito. «Sei fuori di testa?».
«Lasciami in pace», sibilai a denti stretti. «O giuro che ti rompo la faccia».
Le voltai le spalle, lasciandola sofferente e a bocca spalancata, e ripresi a
camminare. Schivai anche Miss Eleonor e il bel discorsetto che voleva di sicuro
tanto farmi.
Piuttosto scesi le scale alla svelta, ero un tornado elettrostatico, un vulcano
sul punto di eruttare, eppure mi bastò aprire la sua porta per farmi scivolare via
tutto e ritornare ad assaporare la freschezza dell'aria.
Mi bastò vederlo seduto a gambe incrociate, la punta della lingua premuta
all'angolo della bocca, penna alla mano e un libro sotto agli occhi.
Rimasi sulla soglia, permisi a fasci di luce di illuminarlo come mai prima di
allora, e per un attimo mi sembrò un angelo dorato nelle sue fattezze più
scultoree e delicate.
Mi aggrappai allo stipite. Le ginocchia traballarono. Lui sollevò il capo, le
pupille che mi fissavano con curiosità da sotto le ciglia, e la mia testa esplose in
un cumulo di caos.
Dio, se ti amavo già.
«Bambolina», mormorò, dolce, così tiepido da sciogliere il mio ghiaccio.
«Vieni». E mi porse la mano.
Lasciai la porta aperta. Volevo continuare a vederlo, a definirne i lineamenti
perfetti, a scorgere le labbra piene e disegnate, così rosee sulla sua pelle
d'alabastro.
Incastonai le dita nelle sue e mi sedetti vicino a lui, nel bel mezzo della
stanza grigia e usurata dal tempo. La muffa ne adornava gli angoli al posto
dell'intonaco.
«Cosa leggi?», sussurrai.
«Le avventure di Oliver Twist. Sembra un po' noi, non credi?».
Abbozzai un sorriso, allungando la mano libera per scostargli un ciuffo più
lungo dalla fronte e liberargli la visuale. «Dickens. Ottima scelta».
«Era tra le tue scelte».
«Lo so», mormorai, poi puntai gli occhi sulle lettere abbozzate agli angoli.
Aveva una pessima grafia. «Che scrivi?».
«Ciò che provo mentre lo leggo».
«E cosa provi?».
Si strinse nelle spalle. Era stranamente di buonumore, più ricettivo del solito.
Leggere gli faceva bene. Spegneva le sue voci, così diceva.
«Solidarietà, credo. Era solo come lo siamo noi».
«Hai ragione».
A quel punto, dovette notare che c'era qualcosa che non andava, perché
intrufolò le sue iridi di ghiaccio frantumato nelle mie. Pura preoccupazione gli
colorava i lineamenti.
«Che è successo? Ti hanno dato fastidio?».
Lo tirai dal braccio prima che potesse alzarsi e combinare un guaio. O
uccidere. Ebbi un brivido.
Si riferiva a quello quando mi aveva detto che non sapeva per quanto ancora
avrebbe potuto controllarsi?
Deglutii e, siccome non potevo farne a meno, gli presi il viso tra le mani.
«Devo farti una domanda, Michael, e tu dovrai rispondermi. D'accordo?».
Aggrottò la fronte e biascicò un confuso: «Okay».
Vagliai in fretta le parole corrette da usare con lui. Nominare i suoi genitori
lo avrebbe fatto disconnettere dalla realtà. Dovevo girarci intorno, senza andare
dritto al punto. Non potevo farlo scappare.
Mi schiarii la gola. «Oggi a scuola mi hanno raccontato delle cose...»
«Chi?».
«Un mio amico, ma non è questo...»
Si sottrasse dalla mia presa, scoccandomi un'occhiataccia. «Amico? Quale
amico?».
«Michael, non è importante adesso», alzai la voce, per tenere il punto e non
dirottare l'attenzione altrove. «Dobbiamo parlare di altro».
«Come si chiama?».
Buttai fuori il fiato, roteando gli occhi al cielo, e mi massaggiai la tempia.
Maledizione, avrei dovuto tenere la bocca chiusa in proposito. Era per quello che
evitavo sempre di parlargli dei miei amici di scuola. Ogni volta si fissava e
dovevamo starne a discutere per ore.
«Non è nessuno, Michael. Sul serio, è solo una persona con cui ho
chiacchierato un po'».
Lui assottigliò le palpebre. «Hai detto amico».
Trattenni un gemito di frustrazione e mi spalmai una mano sul volto. Strizzai
le palpebre, già non ne potevo più, ma tornai alla carica.
Mi feci più vicina, lo ripresi dalle guance e lo tenni davanti a me, occhi negli
occhi, determinata.
«Lascia perdere questa storia», pronunciai. «Devo chiederti una cosa ed è
molto importante per me. Okay?».
Ci volle un po', ma alla fine mollò la presa e sbuffò un: «Okay».
Deglutii. Avevo la bocca secca e un connubio di frasi astratte e senza senso
incastrate nella trachea.
«Ecco... io so che hai fatto una cosa brutta, Michael. No, non ti agitare, va
tutto bene», aggiunsi di fretta quando lo sentii irrigidirsi e provare a scostarsi da
me. «Tu hai... fatto del male a delle persone».
Non rispose, eppure il suo sguardo fermo e impenetrabile, l'immobilità dei
muscoli, furono di sufficiente conferma. Chiusi per un attimo gli occhi.
Va bene, Grace, lo avevamo già messo in conto.
Vai avanti.
«Ciò che voglio chiederti io, però, è se anche loro hanno fatto del male a te.
È così, Michael? Per questo tu... l'hai fatto?».
Lo vidi ingoiare un groppo in gola, mentre un dolore cieco andava a piegargli
la bocca. Un vuoto primordiale se lo prese in tasca, facendogli fare un giro nei
meandri sperduti della sofferenza.
E io mi sentii in colpa per aver tirato fuori il discorso, ma dovevo sapere.
Dovevo. Non potevo lasciar perdere e far finta di niente. Mi bastava avere una
risposta.
Mi rifiutavo di credere che un bambino di dieci anni potesse aver agito solo
per cattiveria. E non mi interessava ciò che dicevano gli altri.
Io conoscevo Michael.
Avvertii uno strattone dentro di me, l'infrangersi del torpore, quando calò le
palpebre e si abbandonò al calore del mio palmo, rifugiandosi nel mio tocco,
come se bastasse quello a far fuggire i suoi demoni.
E allora avrei tanto voluto dirgli di darli a me.
Dammi i tuoi demoni, Michael.
Sono abbastanza forte per reggerli al tuo posto.
Dalli a me, te li custodisco io.
Ti tengo io, non temere.
Fu un sussurro. Fu abbastanza.
«Mi hanno ucciso trentasette volte». Riaprì gli occhi, pura desolazione a
inondargli le retine. «Ma tu non aver paura, ti prego, che con te sono vivo».
Compressi le labbra, lo attirai a me e lo strinsi forte nel mio abbraccio. Lo
tenni sulla mia spalla, con la bocca premuta sulla sua testa.
«Non ho paura. Sono qui, Chiamami Michael».
Eppure, dentro di me, per la prima volta sentii di non essere stata del tutto
sincera.
DICIANNOVE

GRACE

Se mi chiedessero di cosa sa la bocca di Michael sulla mia, risponderei senza


alcun dubbio nuvole e nebbia.
Traspare morbidezza da questo contatto ingenuo; annebbia i pensieri. Baciare
Michael mi fa sentire a casa. La sua lingua tentenna un po' nell'avvolgersi alla
mia, insicuro nei gesti, allora lo agguanto dalla nuca, gli reclino il capo e vado a
fondo, dirigendo il gioco.
Il suo gemito mi riverbera fino alle ossa, inducendomi a succhiargli la punta
della lingua, a godere del suo sapere dolce. Inducendomi a volerne sempre di
più.
Sento dita callose sfregarmi la pelle sotto la maglietta, nell'interno coscia.
Piccoli cerchietti contornano i nostri ansimi, mi tiene stretta, quasi volesse
lasciarmi i lividi per sempre.
«Anche questa volta mi ringrazierai?», biascica, conficcando i denti nel mio
labbro inferiore, prima di inumidirlo. «O mi dirai che si tratta di una strategia?».
Il tono di voce già rauco, profondo, mi tuona nei timpani, convergendo fino
alle mie viscere, tanto che finisco per stringere le gambe. Con le sue mani ancora
in mezzo.
Il dorso sfiora la colpevolezza della mia umidità e lui trattiene il fiato,
irrigidendosi.
Ci stacchiamo per un attimo. Il necessario per guardarci negli occhi,
realizzare che siamo davvero noi, che siamo qui e ora. Appoggio la fronte sulla
sua.
«No, stavolta nessuna strategia. Solo io e te».
Michael socchiude le palpebre, prende un respiro profondo e preme il pollice
nel mio inguine, scavando a fondo; serra la presa, aggrappandosi a me, incurante
dell'incendio che sta per divamparmi nelle vene.
«Non so se riesco a crederti», fiata, il petto che si solleva e abbassa in fretta,
e risale con le mani lungo i miei fianchi, al di sotto della maglietta. «Prima dici
una cosa, poi fai tutt'altro. Sei un continuo sali e scendi, bambolina, ed è difficile
starti dietro».
Mi sfugge una risatina, lui si acciglia. «È difficile stare dietro a me? Per la
maggior parte del tempo non capisco nemmeno la metà delle cose che dici,
Michael».
Nel frattempo, i suoi polpastrelli gelati disegnano un cerchio attorno
all'ombelico. Il basso ventre si contrae da solo.
«Un giorno capirai. Capirai ogni singola cosa. Ti svelerò i miei segreti più
cruenti se sarai in grado di reggerli», promette, piega il capo per strofinare il
naso lungo il mio collo. Le mie ciglia fremono. «Ma adesso...», sospira sulla mia
arteria, prima di leccarla.
Deglutisco. «Adesso?».
Stende il palmo sulla mia vita, massaggia le costole con il pollice e usa l'altra
mano per tratteggiarmi la spina dorsale. Il bordo della maglietta risale fino al
mio bacino, scoprendomi ancora di più.
«Adesso», morde la pelle umida, «ho tutte le intenzioni di farti rimangiare
ogni maledetta offesa».
«Michael», ansimo, quando prende a succhiare quel lembo pulsante e scivola
fin sotto la curva del seno, che tratteggia in punta di dita, un accenno a malapena
sentito che però lascia la brace al passaggio.
«Adesso», calca, spostando i denti sul mio lobo delicato, «terrò fede ai miei
desideri».
Uggiolo nella mia eccitazione, coi suoi graffi che mi mandano in estasi, e gli
stringo i capelli in una presa mortale.
Emette un ringhio famelico, proveniente dal profondo della sua gola, mi
scalda l’orecchio dolorante e al tenero bacino che posa sulla crosta mi scoppia il
cuore.
Finisco per premere la mia intimità sulla sua. Sottili strati di tessuto ci
dividono, e io lo sento in tutto e per tutto.
«Adesso», ripete, percorrendo la curva del seno con l'unghia, «ti faccio stare
bene». E avvolge il mio seno destro a coppa, prima di stringerlo.
Sobbalzo di scatto, lasciando che prenda a seminare i suoi baci bagnati per
tutto il mio collo, e per poco non ho timore che possa strapparmi via i battiti
furiosi dal petto.
Ma no, oh no, Michael dà un colpetto sul mio capezzolo turgido, lo tira tra
indice e pollice causandomi un dolore piacevole, e poi lo massaggia. Ferisce e
lenisce; avvelena e cura.
«Oh», gemo, sorpresa di quanto possa essere piacevole. O forse è solo lui a
renderlo di già così bello.
Mi lancia una veloce occhiata, un tacito consenso, e la maglietta scompare,
lanciata in chissà quale angolo della stanza.
E allora mi vesto del suo respiro, gli permetto di scorrermi sull'epidermide e
scandire le pulsazioni che mi stanno divorando dall'interno, avide di averlo.
Averlo subito. All’istante.
Michael inspira di scatto quando nota la piaga che ho sulla spalla, la macchia
della discordia impressa a fuoco sulla mia pelle pallida. Trattengo il fiato
insieme a lui nel momento in cui vi avvicina l’indice. Non la tocca, forse teme di
ferirmi, e poi ci soffia sopra.
«Ti fa male?».
«Adesso no».
«È a questo che ti servono gli antidolorifici, vero?».
Non soltanto, ma annuisco comunque perché non mi va di rovinare il
momento. Quindi gli faccio un sorrisino timido, e lui emette un nuovo piccolo
sospiro.
«Quanto sei bella, bambolina».
Senza pensarci due volte, lo riprendo dal volto per tornare a baciarlo e la
bolla romantica si spezza. Lui mi afferra anche l'altro seno; la mia carne gli
riempie entrambi i palmi, che si premura di socchiudere a pugno, contento dei
miei gemiti a fior di labbra.
Li unisce tra loro e d'improvviso la sua testa cala in picchiata, mentre la mia
schiena si inarca al contatto di quella bocca incandescente che bacia e lecca.
Ondeggio i fianchi, alla ricerca di un contatto più profondo, e Michael
mugola. Incolla le labbra sulla mia areola, la puntella con la lingua,
percorrendone i contorni.
L'intensità del suo tocco mi sfibra, scarta via le mie reticenze come fossero
cartaccia sporca; anni di separazione e odio vengono depistati, quasi la sua bocca
funzionasse da riparatrice.
Mi avvolge un capezzolo tra le labbra, graffiandolo coi denti, e lo strattona
un po', prima di succhiarlo con voracità.
È la prima volta che permetto a qualcuno di toccarmi in quel modo; che non
mi pongo dubbi, che non mi chiedo se sono pronta o meno.
L’ho atteso per una vita intera.
E lui pare essere del mio stesso avviso nel momento in cui fa scivolare una
mano giù sulla mia pancia, con i polpastrelli che ricoprono il monte di Venere.
«Lo vuoi, Grace?», ansima, sollevando la testa.
Per poco non ho un mancamento. Gli brillano le iridi, più vive di quanto le
abbia mai viste, e le sue labbra sono gonfie e lucide. Un rossore leggero gli
imperla le guance fatte di neve.
È semplicemente bellissimo.
Non devo pensarci due volte. «Sì».
«Bene», mormora, e mi schiocca un dolce bacio a stampo sulle labbra. «Sono
il primo, vero?».
Mi limito ad annuire, intanto che i suoi lineamenti si ammorbidiscono.
Increspa la bocca, trattenendo un sorriso che io mi sento dentro più di qualsiasi
altra cosa.
«Ne sei proprio sicura?», azzarda a chiedere ancora, sfiorandomi attraverso il
cotone delle mutandine. «Poi non si torna più indietro, bambolina. Riflettici un
attimo».
È la sua accortezza la ragione del mio declino.
Di tutta risposta, lo tramortisco con un bacio ingordo. Uno di quelli capaci di
sconvolgere. Sono impetuosa, non gli lascio spazio, spingo la mia lingua nella
sua bocca e l’appiattisco contro la sua.
Gemiamo entrambi e tutto smette di avere senso quando fa scomparire la
mano oltre il tessuto, racchiudendomi tutta nel suo palmo. La nostra bolla ci
avvolge in tutta la sua interezza, riportandoci in quel mondo a sé stante che
abbiamo creato e custodito per tanto tempo.
L'indice scorre nella carne bagnata, cosparge i miei umori ovunque e sospira
sulle mie labbra, tremante di un'emozione inspiegabile.
«Mio Dio», ansimo, scossa da un piacere impossibile da raccontare e far
comprendere.
«Nessun Dio, bambolina», mugola, premendo il polpastrello su un punto
preciso. Lo schiaccia, le gambe mi tremano. «Chiamami Michael e basta».
Conficco le unghie nel suo cuoio capelluto. Ho sentito dire che è bello, ma
non credevo... non credevo così tanto.
Soprattutto quando aggiunge un altro dito per riprendere a fare cerchietti;
parte dal basso e finisce in alto con spinte più decise, e d'impulso vado incontro
alla sua mano per averne di più.
Mi bacia la guancia, affonda il naso nella sua morbidezza e mi inspira. «Ti
piace?».
Lo sollecito ad accelerare il ritmo con un colpo di anche, sta andando troppo
piano per i miei bisogni. «Sì, ma di più... di più, Michael».
Scende a baciare la mia mascella, mordicchiandola un po'. «Abbi pazienza,
Grace. Non c'è fretta». Batte i polpastrelli sul mio fascio di nervi, mentre un
calore primordiale mi risale su per le vertebre. «Ti ho aspettata per tanto tempo.
Non mi farò bruciare dalla frenesia proprio ora. Sarei soltanto uno stupido».
Smorzo un verso, a metà tra la protesta e l'eccitazione, e mi inarco ancora di
più per incitarlo a muovere più in fretta la mano, a riempirmi i seni dei suoi
respiri e della sua bocca.
E lui mi accontenta. Perché, ormai, l’ho capito. Mi si è cristallizzato nel
cervello di prepotenza: io sono la sua priorità. Davvero non c’è nulla che conti
più di me per Michael.
E discuteremo su ciò che è successo, ne parleremo, scavalcheremo i suoi
demoni e lo accompagnerò per mano negli abissi a ripercorrere le strade
dell'Inferno. Risolveremo tutto.
In qualche modo, ce la faremo.
La punta dell'indice si inoltra dentro di me, si impone nella mia fessura di
poco, dando modo alle mie pareti strette di adattarsi. Non è entrato nemmeno di
mezza nocca, eppure sussulto e schiudo le labbra.
Lui lecca la mia gola guizzante, ci sfrega i denti sopra fino alla clavicola, in
attesa che mi rilassi e gli dia modo di procedere, e quando accade spinge più in
profondità. Piano piano. Fino a riempirmi.
«Ti ho sognata», mormora, sotto i miei gemiti, bacia il centro del mio petto
ed estrae il dito per poi rientrare, marcando un crescendo sempre più intenso.
«Ogni singola notte. Ogni singola mattina. Ogni singolo giorno. Ti vedevo
sempre, Grace, e sei stata l'unico appiglio in quel caos. L'unica ragione a tenermi
in vita».
Lo afferro dal viso, incastro i miei occhi nei suoi e gli regalo un sorriso,
mentre lui continua a pompare dentro di me, più veloce e più forte. Lo tengo per
le guance.
«Affronteremo tutto, Michael. Ne usciremo», mugugno, allargo un po' di più
le gambe nel momento in cui aggiunge un ulteriore dito, che mi strappa un
gemito più forte. «Era il mio primo desiderio, sai?».
Aggrotta le sopracciglia, col braccio che si piega tra di noi per continuare a
darmi piacere. Sento le sue dita piegarsi appena, indugiare in un punto specifico
in grado di scuotermi e prendere a sfregarlo con più forza.
Oh, Gesù...
Mi succhia la bocca arricciata. «Cosa, Grace?».
«Che...», ansimo, parlare è difficile, mentre quei tremiti cominciano a
raccogliersi tutti nel mio basso ventre. «Io volevo... volevo che tu...».
«Che io?», mi incalza.
Schiaccia il palmo sul clitoride, lo comprime, intanto che muove le dita in
quel modo... in quel modo che...
«Che tu... tornassi», gemo, strizzo gli occhi e finisco per crollare contro la
sua spalla nuda.
Pianto la fronte sull'osso, mi aggrappo alle braccia con le unghie e vengo
scossa da un brivido, con le sue labbra che mi baciano la nuca.
«Non ho capito, bambolina», mormora, suadente, schiacciando il palmo con
più decisione. Lo fa ondeggiare e spinge le dita ancora e ancora.
Finché non esplodo in un cumulo di pezzi. I miei nervi si contraggono, per
poi sparpagliarsi e distendersi. La vista si annebbia, con gli occhi che si
rovesciano, e gli mordo la spalla. Gli procuro un grugnito di soddisfazione.
Mi accarezza per un altro po', accompagnandomi nel mio viaggio surreale, e
sono incapace di muovermi per almeno cinque minuti buoni, prosciugata.
Questo... questo non è per niente comparabile a ciò che abbiamo fatto due
giorni prima. O il giorno prima. Non saprei. Ho perso il senso del tempo.
Conta solo Michael.
Michael che mi scosta, acciuffandomi dalle guance con quegli stessi
polpastrelli che ormai sanno di me, le schiaccia fino a farmi schiudere la bocca.
Stavolta è lui a travolgermi in un bacio mentre sono ancora intontita
dall'orgasmo.
E un pensiero mi sfiora. Ha detto di non aver mai baciato nessun'altra. Ma
lui... lui l’ha già fatto?
Un senso di inadeguatezza mi pervade. La gelosia mi contorce le viscere. È
stato con altre ragazze? Mentre era rinchiuso? Chi erano?
Sto per chiederglielo, per sottoporlo alle mie domande, quando si stacca per
rivolgermi un'occhiata dolce in grado di sciogliere qualsiasi convinzione.
Rimanderò il mio interrogatorio.
«Era il mio desiderio. Che tu tornassi da me ogni volta che te ne andavi»,
sussurro alla fine.
E lui mi stringe in un abbraccio, baciandomi la testa. «Grazie», mormora.
«Grazie, bambolina».
Sento che sotto c’è molto di più di quello che dice, tuttavia non indago. Ha
detto che un giorno capirò, che mi spiegherà tutto.
Devo solo... aspettarlo.
E sono sempre stata brava a farlo.
Restiamo così per un po'. Appiccicati e abbracciati. Incapaci di lasciarci
andare. Di spezzare la bolla.
Provo anche a toccarlo, a rendergli il favore, ma lui mi afferra dal polso e
scuote il capo. Non la prendo come un'offesa.
A farmi trattenere il fiato è il velo di panico che gli cala per un attimo sugli
occhi. È un attimo, ma io la vedo, quella paura cieca, un terrore assordante. Per
sviare l’argomento lui si alza e va a recuperare un analgesico.
In realtà non ne ho bisogno, non sento molto dolore in questo momento, ma
lui sembra così contento quando si prende cura di me che non posso fare a meno
di sorridergli e ingoiare la pasticca.
«Grazie», mormoro.
«Stai bene?».
Ridacchio, per poi sussultare quando con cura comincia a rivestirmi. Mi fa
mettere dei boxer puliti e una maglietta enorme, facendomi infilare prima le
braccia e poi la testa.
«Perché mi chiedi sempre se sto bene?».
«Perché mi interessa saperlo».
Mi mordo l’interno guancia per non sorridere troppo, mentre lui si rialza in
piedi e si incammina verso l’altro lato della stanza.
Aggrotto le sopracciglia. «Ehi, dove stai andando?».
«Ti lascio riposare».
Mi scricchiola l’anima. Percepisco il respiro farsi più debole alla
realizzazione di come per due notti lui abbia dormito sul pavimento sporco e
lurido, lasciando a me il materasso. E ora, nonostante quello che abbiamo fatto, è
di nuovo pronto a ridarmi i miei spazi senza fare una smorfia.
«Michael?».
«Sì, bambolina?».
«Ti va di dormire con me?».
Lui stringe le labbra in una linea retta, e sebbene io abbia i miei problemi di
vista, li vedo eccome i suoi occhi inumidirsi. «Certo», emette in un respiro
pieno. Gli si gonfia il petto. «Certo che voglio dormire con te».
Brulicante di emozione, viene a stendersi alle mie spalle. Ci corichiamo
insieme, lui davanti me con il braccio avvolto attorno alla mia vita e io
accoccolata nel suo abbraccio. E mentre il buio cala su di noi, io sento per la
prima volta un Michael tranquillo, sereno. In pace.
Questo non ha prezzo.
Magari un giorno lo capirò, ma che è l'amore della mia vita l'ho sempre
saputo. Fin dal primo biscotto.
«Terza domanda, bambolina. Qual è stato il tuo secondo desiderio?».
«Sempre lo stesso. Ogni volta».
Michael mi bacia la testa. «Eccomi».
VENTI

GRACE

Grace: 11 anni.
Michael: 15 anni.

«Sono passate tre settimane. Non sei tornata per ventuno giorni», fu la prima
cosa che mi disse Michael, non appena varcai la soglia della sua camera
solitaria. «Ho fatto qualcosa di sbagliato? Sei stata male?».
Schiusi le labbra, con la sorpresa ad allargarmi gli occhi e brutti tentacoli che
cominciavano a insidiarsi nello stomaco.
Aveva ragione. Erano passati ventuno giorni dall'ultima volta che ci eravamo
visti, da quando avevo appreso la verità e lo avevo sentito sgretolarsi nel mio
abbraccio.
Lo guardai scuotere il capo, privarmi delle sue iridi trasparenti, troppo
impegnate a puntare gli scacchi con cui stava giocando... da solo.
Deglutii il magone, le dita serrate attorno alla maniglia della porta ancora
aperta, mentre le gambe tremavano dal senso di colpa e dal dispiacere.
«Mi dispiace», mormorai. «Io... sono stata impegnata».
Michael sollevò le spalle, consapevole della mia bugia e della barriera che si
stava innalzando tra di noi, e si limitò a sospirare un fragile: «Va bene, non fa
niente».
Poi aggrottò le sopracciglia, infilò la punta della lingua tra i denti e mosse un
pedone, come se non fossi lì, come se non lo stessi pregando in silenzio di
perdonarmi.
Perché... perché il mio problema era che avevo paura. Una tremenda paura.
Ma non di lui.
Io avevo paura di me, della facilità con cui mi lasciavo scivolare addosso
qualunque sua azione, del senso di appartenenza che nutrivo nei suoi confronti e
che mi impediva di essere lucida, oggettiva.
Avevo paura di Miss Caroline che voleva dividerci, del dolore dilaniante che
mi provocava la sua assenza.
Perché se mi importava troppo di Michael, allora non me ne fregava niente
del resto, di niente che non fosse lui. E questo era spaventoso.
Perciò avevo provato, io ci avevo provato davvero a stargli lontana, a issare
una trincea dietro cui ripararmi. Ma a che servono muri quando il proiettile ce
l'hai già nel cuore?
«Per farmi perdonare ti ho portato una cosa», annunciai e, facendomi
coraggio, avanzai nella sua direzione.
Piegò il collo, mi lanciò una rapida occhiata incuriosita, e lo presi come un
invito a continuare e ad accomodarmi. Mi sedetti sul letto, dall'altro lato della
scacchiera, e analizzai la situazione.
Dirigeva i bianchi, che avevano aperto con un Gambetto di Donna, e mi
sbrigai a rispondere con un pedone. Giocai al suo stesso gioco, ricominciai a
camminare prima di mettermi a correre.
«Quale cosa?», domandò alla fine, riportando le pupille sul mio volto.
«Okay, ne sono due, in realtà». Infilai una mano in tasca e ne estrassi un
pezzo di liquirizia. «Questa è la prima e possiamo mangiarla ora, mentre
giochiamo».
Arricciò la bocca di lato, mentre osservava lo strano bastoncino che divisi a
metà strappandone un morso. Gli porsi la sua stecca e lui l'accettò senza fiatare.
L'annusò, e a me scappò una risatina. Era sempre così tenero e dolce con me,
nonostante checché se ne dicessero.
«Sei sicura che sia commestibile?».
«Certo che lo sono. È liquirizia, Michael. Assaggia, avanti. Non te ne
pentirai».
Seppur incerto, avvolse il bastoncino con la lingua, prima di incastrarlo fra i
denti. Masticò per un paio di secondi, sotto il mio sguardo pieno d'aspettativa, e
quando fece una smorfia inasprita, a naso arricciato e occhi strizzati, scoppiai a
ridere.
«Non mi piace», mugugnò, restituendomi la liquirizia restante. «Non devo
mangiarla per forza, vero? No, perché è terribile».
«Eresia. Non sai quello che dici!».
«Preferisco di gran lunga la cioccolata».
Roteai gli occhi, sbuffando. «Non puoi sul serio fare questo paragone,
Michael. È come dire che l'oro vale più del bronzo, è scontato».
«Quindi stai ammettendo anche tu che la liquirizia è disgustosa».
«Addirittura?».
«Mi provoca il voltastomaco».
«Da quando sei così melodrammatico?».
Si morse il labbro inferiore, incurante del mio batticuore forsennato, un
maratoneta sulla Route 66, sul punto di cedere dinnanzi a tale meraviglia.
Perché era pura meraviglia. Non avevo altre parole per descrivere il sorriso
che esprimevano i suoi occhi brillanti. La bocca era chiusa, ma quelle iridi...
Dio, quelle iridi.
«Lasciamo perdere», dichiarò, spostando la torre sulla scacchiera.
Aveva appena mangiato il mio alfiere, ma così facendo fui costretta a
muovere la regina per prendergli la pedina. Dannazione, era impossibile giocare
con lui. Vinceva sempre.
«Qual è l'altra cosa?».
Lo fissai da sotto le ciglia, permisi alla sua voce calda e soffice di riempirmi,
di scaldarmi la pelle — balsamo di tutte le mie sofferenze.
«Finiamo la partita e ti faccio vedere».
Inarcò un sopracciglio, di un biondo più scuro rispetto ai capelli, e la sfida
marcata nel mento aguzzo sollevato mi fece fremere sul posto. Raddrizzai la
schiena.
«Okay».
E con due semplici mosse fece scacco matto.
Due.
Cristo.
Non avevo idea da dove avesse imparato a giocare in quel modo, ma temevo
che tirare fuori l'argomento potesse irritarlo. E sapevo bene cosa succedeva
quando Michael si irritava. Meglio evitare.
Forse un giorno mi avrebbe raccontato tutto di sua spontanea volontà. Non
dovevo mettergli fretta, dovevo solo accettarlo così com'era.
E poi era talmente sereno dopo il breve scambio che c'era stato tra di noi,
come se gli fosse bastato così poco per sentirsi bene. In pace. Mezzo bastoncino
di liquirizia.
Per acquietare le sue nubi grigie era stato sufficiente mezzo bastoncino di
liquirizia. Assurdo. E triste.
Non potevo sopportare una simile afflizione, ciononostante ci sfiorammo le
dita nel rimettere a posto la scacchiera; le nostre mani si scontrarono, palmi su
dorsi e vene che combaciavano.
Ogni tanto le falangi si incastravano e separarle era sempre più difficile.
Volevano restare insieme, due calamite indissolubili.
«Vieni qui, ti faccio un po' di carezze». Senza aggiungere altro, chiuse la
mano a pugno attorno al mio colletto per attirarmi al suo petto. «E, per favore,
non ti agitare. Ti ho già detto che non ti farei mai del male, che non devi mai
aver paura tu con me. Hai capito?».
Boccheggiai per un attimo, neppure mi ero resa conto di come mi fossi
irrigidita al suo tocco improvviso, e obbligai i miei muscoli a stendersi. Mi
rilassai tra le sue braccia, ma forse non lo feci abbastanza perché lui sospirò con
sconforto tra i miei capelli.
Non lo facevo di proposito. Succedeva e basta. Sapevo che non mi avrebbe
mai neppure sfiorata con un solo dito, che se io sentivo un senso di
appartenenza, allora Michael mi reputava il centro pulsante della sua esistenza.
Ero tutto ciò che aveva, l'unico scorcio di luce, l'unica porta della sua camera
buia. Oltre me, non aveva nulla. Probabilmente neppure se stesso.
Perciò no, Michael non mi avrebbe mai fatto del male. Almeno su quello, ne
ero certa. Era la mia sola sicurezza, la speranza a cui aggrapparmi, una via
d'uscita al casino aggrovigliato che eravamo.
E quando Michael cominciò a districarmi i capelli, a massaggiarmi la cute,
soffiarmi sulle guance e baciarmi le tempie, finalmente mi lasciai andare e
cancellai dal cervello tutto. Qualsiasi cosa.
Azzerai il tempo. C'eravamo soltanto noi. Il resto lo lasciai fuori.
«Hai capito?», ripetè tra la filigrana, le labbra strusciarono sullo zigomo per
stamparmi un dolce bacio.
Chiusi gli occhi. «Lo so, Michael, lo so».
«Bene». Caldi polpastrelli mi sfiorarono l'orlo della gonna scozzese, e il suo
torace vibrò sotto la mia schiena. «Dove sei andata vestita cosi?».
«Pranzo di classe, per la fine dell'anno».
«E c'era il tuo amico?».
Ridacchiai e mi accoccolai ancora di più contro il suo petto. Le sue braccia si
serrarono con maggiore forza attorno al mio corpo, le vene bluastre gli
scolpivano la pelle d'avorio.
«Sì, c'erano anche i miei amici. Abbiamo mangiato, chiacchierato, ci siamo
divertiti», gli raccontai, beata delle sue carezze delicate. «E ci siamo scambiati
alcuni regali. Io, per esempio, ho portato un paio di libri e spero vivamente che
Miss Caroline non si accorga delle mancanze in biblioteca».
Michael mi baciò la testa, per comunicarmi che era divertito e che avrebbe
mantenuto il segreto.
«Ma, comunque, questo non ha importanza. La mia spiegazione mi serviva
solo per arrivare al secondo punto della giornata, all'altra cosa che ti ho portato.
Elisa mi ha dato questo». Dalla tasca destra estrassi il vecchio iPod rosa, le
cuffie ancora collegate. «Ti piace la musica?».
«Sì, mi piace molto. Da bambino ascoltavo spesso Chopin e Schubert mentre
giocavo a scacchi. In cantina avevo un giradischi bellissimo con tutti i loro brani
migliori», rivelò e per un momento restai sconvolta nel sentirlo parlare della sua
vita.
Assimilai ogni dettaglio possibile. Michael ascoltava musica classica.
Michael giocava nella sua cantina. Era da lì che non voleva mai uscire? O
magari lo chiudevano laggiù i suoi genitori e ormai si era adattato a vivere così?
Mi morsi la lingua, evitando di porgere domande indiscrete, e sorvolai. Feci
finta che non mi avesse sorpresa sentirlo parlare, che fosse una conversazione
del tutto normale, e alzai le spalle, srotolando le cuffiette.
«Adesso ti faccio ascoltare una canzone, ma ti avverto: non c'è alcun
pianoforte. O, meglio, c'è, però non come sei abituato tu».
«Che canzone?».
«La nostra».
Prima che potesse aggiungere altro, gli ficcai l'auricolare nell'orecchio e io
misi l'altro, poi feci partire l'audio scaricato.
Alle prime note Michael sobbalzò, sorpreso dal suono che gli scivolava
direttamente nel timpano, ma ben presto la melodia malinconica e triste lo
sciolse in una sinfonia di tratti delicati e abbracci morbidi.
Lui stette attento a ogni parola, a ogni sillaba che sembrava essere stata
scritta apposta per noi.
Queste ferite sembrano non guarire
Questo dolore è troppo reale
C'è semplicemente troppo che
il tempo non può cancellare
Gli carezzai le mani in punta di dita, col suo respiro fluido e caloroso a
rosolarmi nell'incavo del collo. Michael schiacciò la faccia contro la mia pelle e
io sollevai la mano per toccargli i capelli.
Quando hai pianto ho asciugato
tutte le tue lacrime
Quando hai urlato ho combattuto
tutte le tue paure
My Immortal continuò a risuonare dentro di noi, che ci lasciammo cullare
dalla dolce armonia. Avevo la gola chiusa. Sì, era decisamente la nostra canzone.
Ho tenuto la tua mano durante
tutti questi anni
Ma tu hai ancora
tutto di me
«Tutto di me», sentii ripetere al mio orecchio.
E quando finì, Michael mi chiese di rimetterla. Ancora e ancora.
Finché non decise che poteva andare bene, e che aveva bisogno di andare
oltre, di scoprire la verità.
«Prima mi hai mentito», disse, togliendosi l'auricolare e cercando il mio
sguardo. «Non sei stata davvero impegnata. Quindi, perché non sei venuta da
me? Sii sincera, bambolina, per favore».
Morsi l'angolo della bocca. Non potevo dirgli tutto, non potevo inculcargli
nella testa ulteriori pensieri negativi o dubbi sul nostro rapporto, perciò optai per
una mezza verità.
«La direttrice ci ha scoperti, Michael. Dobbiamo stare più attenti, altrimenti
manderà via uno di noi due e non... non possiamo. Non possiamo, okay?
Dobbiamo stare insieme, io e te. Non esiste che ci separino».
Lui aggrottò le sopracciglia, una punta di fastidio a imbrattargli i lineamenti
disegnati. «No, non esiste assolutamente. Non ci dividerà mai nessuno, Grace.
Promesso. Ti ha minacciata?».
«Mi ha detto che devo starti lontana e che, se non lo faccio, mi spediranno
altrove. O lo faranno con te».
«Nient'altro?».
«No, mi ha messa in punizione, ma quello non ha nulla a che fare con te».
Mi lanciò uno sguardo severo. «Tu e le punizioni siete una cosa sola, tanto».
«Sì, immagino si possa dire anche così».
Ridacchiai e lo abbracciai di nuovo. Lui ricambiò più forte, prese un
profondo respiro, quasi stesse inalando il mio odore per tenerselo nei polmoni
più a lungo che poteva.
«Già, solo... fa' attenzione, d'accordo? Non metterti troppo nei guai».
«Nooo», cantilenai, divertita. «Puoi stare tranquillo».
Mi baciò la punta del naso, che io arricciai, e poi me la mordicchiò
dolcemente.
Continuammo a punzecchiarci così per un po'. Tra carezze, musica, frasi
scarne e parole premurose.
Ma, alla fine, come sempre dovetti andarmene. Gli lasciai l'iPod, per fargli
ascoltare anche altre canzoni che Elisa si era premurata di scaricare per me, e
sgattaiolai via.
Anche se non me ne importava nulla di Miss Caroline, non volevo che
accadesse qualcosa a Michael, perciò mi premurai di fare attenzione tra un
corridoio e l'altro.
Ignorai bellamente Killian, decorato da un piercing nuovo al labbro inferiore
e cresta bionda fresca di ossigenatura, e Jonah con il suo collo taurino, le
occhiaie e le retine più rosse del fuoco. Se ne stavano entrambi in piedi a
ridacchiare, appoggiati alla parete e a palpebre spalancate.
Erano nel mio dormitorio, quello femminile, e nel corridoio della mia stanza.
Probabilmente stavano aspettando Margot.
Feci finta di niente quando mi richiamarono. Scansai via le loro mani che
provarono a toccarmi per attirare la mia attenzione.
«E levatevi», sbuffai, scontrosa.
«Scappa finché puoi, bella, ma giovedì non ci puoi scappare», ghignò Jonah.
A quindici anni, aveva di già i denti ingialliti dal fumo. Faceva ribrezzo.
E giovedì sarebbe arrivato il famigerato Ringraziamento.
Killian rise. «Almeno ce l'hai avuto il ciclo, bamboccia?».
Aprii la porta della mia stanza. «Ma vaffanculo», borbottai e li chiusi fuori,
tirando con forza la maniglia.
Il rumore brusco prese alla sprovvista Margot, che sobbalzò e mandò all'aria
un po' di polvere.
La vidi sbiancare, i suoi capelli mi sembravano addirittura più flosci e spenti
del solito. E alla vista del disastro, il mento prese a tremarle.
Nel frattempo, incuriosita, mi chinai per raccogliere da terra la bustina di
plastica. Era simile a quella che le era caduta una volta fuori dall'ufficio della
direttrice. Conteneva delle pasticche bianche.
Gliela sventolai sotto al naso. «Cos'è?».
Impiegò un secondo di troppo per riscuotersi, si passò le dita sotto le narici
arrossate e mi strappò via il sacchetto. «Fatti i cazzi tuoi», ringhiò.
«È droga?».
«Cosa non capisci di fatti i cazzi tuoi?».
Incrociai le braccia al petto. «E che droga è?».
«Grace, giuro che se non chiudi quella bocca, io...»
«Cocaina?».
Spalancò le palpebre. «Ti ammazzo. Giuro che ti ammazzo. Sta' zitta!».
«Eroina?». La squadrai. «Mh, no, non credo. Avanti, aiutami, non sono
ferrata in queste cose. Lo sai».
«Io so solo che se non la smetti all'istante, ti ficco tutte queste pasticche in
gola».
«Allettante». Assottigliai le palpebre. «Chissà come la pensa Miss Caroline.
Credo che andrò a chiederglielo. Proprio adesso».
In un attimo Margot scattò come una molla, si avventò su di me e andammo
a sbattere contro la parete. La mia nuca ebbe uno schianto, finii per vedere le
stelle.
«Tu provaci, razza di stronza. Provaci!», sibilò, mettendomi una mano al
collo.
Di contro, sollevai un ginocchio e la presi in piena pancia, facendola piegare
in avanti e mugolare dal dolore.
«Brutto quando qualcuno fa la spia, vero?», sbottai e la spinsi indietro.
«Aspetta di vedere quanto sarà brutta la tua faccia quando avrò finito con te,
invece!».
Fece per aggredirmi di nuovo, ma un urlo seguito da un rumore pesante,
proveniente dall'esterno, ci fece arrestare.
E l'istante dopo fu solo confusione. Scattammo nel corridoio, ci ritrovammo
ammassate tra tutti gli altri ragazzi; una valanga umana che fluì fino alla
scalinata centrale, dove quel legno pregiato e scuro svettava dominante.
E alla base di quella scalinata, ansimante in una pozza di sangue, con la
caviglia destra piegata in un modo raccapricciante, c'era la direttrice Caroline.
Miss Eleonor e altri educatori l’accerchiavano in attesa dell’ambulanza.
«È caduta dalle scale!», bisbigliavano attorno a me. «Quella vecchiaccia è
inciampata. Finalmente si toglie dalle scatole!».
Le voci si sovrapposero, così come le mani, le braccia, le teste... eravamo
tutti ammassati, attaccati.
Eppure... eppure...
Alzai lo sguardo.
E lassù, proprio dal piano e dal corridoio che portava all'ufficio di Miss
Caroline, potei quasi giurare di aver visto ciuffi biondi, occhi di vetro e mani
morte.
Seguite da una scia buia.
VENTUNO

GRACE

Il nostro risveglio non è piacevole.


Gli incubi rincorrono Michael per buona parte del sonno, tanto che a un certo
punto mi artiglia le spalle con le sue unghie. La piaga sanguina, ma non ho il
coraggio di scuoterlo e svegliarlo, sapendo quanto possa essere imprevedibile.
Quindi rimango in silenzio ad accarezzarlo, incurante dei suoi graffi e delle
strette violente con cui marchia il mio corpo. Rimango a sentirlo tremare, a
scostargli i ciuffi sudati dalla fronte pallida.
Ed è in questo momento che mi accorgo di quanto non sia cambiato niente.
Al riparo in quattro mura, noi due da soli, ancora una volta a combattere contro i
suoi demoni. Come tanti anni prima. E a me va bene così.
Lentamente, le strette brusche diventano solo dolci tocchi e il suo respiro mi
soffia sulla bocca, spifferi di una vita che vorrei abbracciare con tutta l’anima.
Continuo a riempirlo di carezze, mentre lui sprofonda in un sonno stavolta beato.
Ci sei ricascata, Grace.
Non sei riuscita a combatterlo.
Già, non ce l'ho fatta. Non ce l'avrei mai fatta. Ed è spaventoso. Malato. Ma
non posso farne a meno, non posso più respingerlo e soffocarlo, non quando ce
l'ho tremante sotto le mani. Lo osservo dormire, ora in pace, e non mi azzardo a
fare un singolo movimento per paura di svegliarlo.
È bellissimo.
Non so quanto tempo passa, forse un’altra ora o poco più quando dischiude
gli occhi. Scruto il modo in cui le ciglia lunghe sbattono, le palpebre che si
sollevano con calma e rivelano due pozze di cristallo, ancora un po' usurate.
«Buongiorno», bisbiglio.
Michael distende i tratti perfetti del suo volto, gli spigoli si sciolgono, quasi
gli bastasse vedermi lì con lui per restare a galla; forse è proprio così.
«Buongiorno, bambolina».
La voce bassa, grondante di grinze rauche, mi fa curvare le labbra in un
sorriso. In automatico mi avvicino di più, mi avvinghio al calore che trasmette
senza neppure rendermene conto.
Michael ha il potere di massacrarmi il cuore e poi cullarmelo. Non ho idea di
come possa farlo, non so perché fra tanti proprio con lui io abbia istaurato un
simile legame.
Semplicemente, fin dalla prima volta in cui l’ho visto ci siamo plasmati,
stabilendo contorni di un unico spirito; una specie di sistema binario,
inscindibile.
A volte ci facciamo male, che il suo dolore è quanto di più letale abbia mai
provato, e altre volte ci amiamo senza misura, curandoci le ferite dell'altro.
Siamo taglio e benda; punto e virgola.
Sporgo l'indice, lo affondo nella sua guancia incavata e traccio un sentiero,
fino alla mandibola disegnata. «Hai avuto un sonno agitato. Adesso come stai?».
Quando aggrotta le sopracciglia, passo a massaggiargliele con il polpastrello.
Sento la sua mano ricoprirmi il fianco, avvolgerlo nel palmo in tutta la sua
interezza.
«L’ho sognato».
Aggrotto le sopracciglia, confusa. «Che cosa?».
«Io e te. La spiaggia. Il Sole. Il rumore del mare. Tutto quello che non
abbiamo avuto e che avrei tanto voluto darti».
«Sembra un sogno meraviglioso, Michael. E sai cos’altro trovo bellissimo?».
Accarezzandomi lo zigomo, quasi temesse di vedermi sbiadire come i suoi
desideri, scuote la testa e resta a guardarmi con i suoi occhioni sempre troppo
spenti e sempre troppo pieni di spettri.
Non fa niente, Michael. Non temere. Guarderò io per te.
«Tu che sogni».
«Hai ragione. Non sono abituato a sognare, ma è davvero un caso curioso».
Aggrotto le sopracciglia. «Cosa?».
«Che sogno soltanto te, in quei rari momenti in cui mi capita di farlo».
Mi si strozza il respiro in gola alla sua confessione. «E cosa faccio? Nei tuoi
sogni, dico, cosa faccio?».
«Mi parli, e il mondo smette di fare rumore».
Inclino la testa, cercando di comprendere le sue parole. Che lui senta delle
voci non mi è estranea come informazione ma...
Ci sei tu, loro scompaiono.
Così ha detto l'altro giorno, ma nemmeno ci avevo badato più di tanto,
impegnata com'ero a spezzarlo per l'ennesima volta. Un puntale di fiele si
interseca fra le costole, facendomi tribolare nel mio senso di colpa.
Pian piano inizio a collegare i pezzi, e più il puzzle prende forma, più il
risultato mi dà la nausea. Non voglio più capire. Non voglio più scoprire cosa gli
sia successo. Con ogni probabilità, non avrei retto il colpo.
«Mi dispiace per come sono andate le cose tra di noi», sussurro. «Mi fa male
pensare al tempo perso e a ciò che invece avremmo potuto fare insieme, sai?».
«È proprio per questo che sono venuto a riprenderti e ci ho portati qui, Grace.
Pur essendo sempre stata tu la mia priorità, mi sono concesso una spilla di
egoismo. Un po' di tempo per me e te che non ne abbiamo mai avuto abbastanza.
Spero soltanto di non aver osato troppo».
«No». Scuoto la testa, piego il ginocchio e incastro la gamba sulle sue,
mentre la sua mano mi scivola sulla coscia nuda. «A spaventarmi è ciò che ne
sarà dopo. Ora va tutto bene ma non sarà per sempre, Michael».
«Lo so bene. Tu, però, non devi preoccuparti di niente. So quello che sto
facendo, Grace, e fidati se ti dico che ne uscirai solo al meglio».
Ne uscirai.
Io.
Non ne usciremo.
Puro panico mi travolge come un'onda funesta, distrugge ogni proposito, e
scatto a sedere col terrore in gola.
«Che cazzo vuoi dire?», sputo, terrorizzata.
L’ho appena ritrovato, non posso perderlo di nuovo.
Michael non si agita. Se ne sta tranquillo, ancora steso, e allunga la mano per
riportarmi su di lui. «Niente, bambolina, non voglio dire niente. Sta' tranquilla».
«No, ormai ti conosco e so che non parli a caso, Michael. Quindi dimmi
subito che cosa intendevi! Dimmelo!».
Ripone i palmi a coppa sulle mie guance, tirandomi il viso affinché possa
guardarlo negli occhi, e la calma che vi trovo è un affronto alla paura che si sta
sedimentando in me.
«Io morirei per te». Accosta la bocca alla mia. «Hai capito, piccola peste?
Morirei. Non mi importa della mia vita, ne di quella di nessun altro che non sia
tu. L’unica cosa che conta è saperti viva, felice e al sicuro. Nient’altro. E non so
che ne sarà di me, ci sono troppe incognite per poterlo affermare con certezza,
ma ti posso assicurare che tu finirai soltanto per splendere, luce quale sei.
Okay?».
Mi trema il mento. Ascoltarlo è doloroso. Non voglio accettare quello che sta
cercando di dirmi, è semplicemente troppo crudele da prendere anche soltanto in
considerazione. In un modo o nell’altro, avremmo trovato una soluzione per
poterne uscire insieme. Altre opzioni non sono seppure contemplate.
Mi lascio adagiare sul materasso, con lui che incombe su di me, e gli stringo
gli avambracci tra i polpastrelli insicuri.
«Nulla è okay senza di te».
Un brillio di tenerezza gli cosparge le iridi, così vicine alle mie. «E invece sì.
Te la sei cavata benissimo durante questi anni».
«E tu come lo sai?».
«L’anima sa».
Il mio cuore ha uno spasmo, col sangue che gli sfugge dal controllo, e
sembra ridursi tutto a un grumo pungente.
«Ti ho odiato tanto».
«Non volevo farti del male». Appoggia la fronte sulla mia, e io mi sento
morire, sapendo dove sta andando a parare. «Non era mia intenzione fare
qualunque cosa abbia cercato di fare».
Ingoio un groppo amaro, al ricordo di quella notte buia, a quel momento che
ci aveva fatti a pezzi e distrutto tutto. No, non mi va di ricordare. Non voglio che
questo nostro momento si rovini, preferisco proteggerlo da vecchi errori e
custodirlo.
«Va bene così, lascia stare».
Il respiro di Michael si mescola al mio quando mi sporgo per schioccargli un
bacio umido. Mi afferra dai capelli, se li aggroviglia fra le dita e si fa spazio tra
le mie gambe, con la maglietta che mi si solleva fino al bacino.
«Dovremmo parlarne, prima o poi», dice, le sue scapole si contraggono sotto
al mio tocco. «Fingere di non vederla non laverà via la macchia».
«Compreremo una tela nuova».
Mi si appanna la vista quando lui ridacchia; un risolino vero, di pancia, così
bello che non me importa più di niente, per davvero. Non me ne frega nulla di
quanto accaduto sette anni prima, tutto ciò che conta è la risata di Michael.
E mi fa male non poterla vedere. È troppo vicino per quello. Ma sentirla per
la prima volta, un suono così gioioso su di lui, ha un effetto devastante su di me.
Come il Sole dopo una vita di notte.
Premo con più forza le labbra sulle sue, gliele schiudo di prepotenza, golosa
di sentire la carne tiepida che tracciano le mie unghie.
Michael geme quando gli lecco la lingua ruvida, brontola quel rombo nella
mia gola, e non perde più tempo: afferra il bordo della maglietta e me la sfila via,
godendosi poi la vista delle mie nudità.
«Sei bellissima», afferma, a guance rosse e capelli scompigliati, prima di
tornare su di me. «Crudele e bellissima».
Sorrido, esaltata dai suoi complimenti, e ricomincio il nostro bacio infinito,
restituisco vita alla danza spietata. Siamo un groviglio di morsi, lingue e
schiocchi.
Dove io mordo, lui succhia.
Dove lui lecca, io bacio.
Struscia la bocca fino al collo, perdendosi in quel connubio di denti, mentre
io piego la testa per dargli più spazio e invoco il suo nome in una nenia senza
fine.
Ansimo, inarco la schiena. Il mio seno si schiaccia contro il suo petto e i
bacini stridono, togliendomi del tutto la ragione. Mi fa impazzire, questo
ragazzo.
«Vuoi fare l'amore con me?».
Mi racchiude tutta nel suo palmo, facendomi sussultare. «E dopo aver fatto
l'amore potremo parlare?».
«Non stai davvero contrattando una cosa simile».
«Sì, voglio fare l'amore con te», ridacchio di nuovo, e so già dal principio
che gli concederei qualsiasi cosa pur di risentire quel suono in loop. «Ma niente
tele nuove. Voglio tenermi stretta quella che già abbiamo. D'accordo?».
«D'accordo». E lui mi penetra con un dito, strappandomi via un mugolio. Lo
infila fino in fondo, fino alla nocca. «Oh...».
Bacia la mia guancia, poi la gola, le clavicole, il seno, i capezzoli. Li raggira
in punta di lingua, con le mie mani che scattano fra i suoi capelli setosi, e
all'ennesimo gemito passa a succhiarmi il destro.
Si diverte a titillarlo, nel frattempo muove l'indice dentro di me lentamente,
lo sfrega contro le pareti e un piacere primordiale mi tinge la vista di rosso.
«Michael», mugolo, il mio sesso sempre più bagnato. «Michael... ti prego...»
«Ti piace?». La sua lingua traccia un cerchio attorno all'ombelico, e avvampo
nel guardarlo dall'alto, man mano che scivola più giù. Sempre più giù. «L'ho
visto fare tante volte, ma tu sei la prima per me. Spero che ti faccia stare bene
come credo».
Non ho modo o maniera di soffermarmi su quanto ha detto, sul significato che
comporta. Michael non me lo permette.
Mi allarga coi pollici, le mie gambe aperte dalle sue spalle, e fa scorrere la
lingua su tutto il mio sesso bagnato e schiuso per lui.
Emetto un gridolino, sobbalzo e mi aggrappo ai suoi capelli. «Cazzo!».
Solleva gli occhi, osservandomi da sotto le ciglia, mentre puntella il naso sul
clitoride e procede in lunghe e lente leccate paradisiache. Non ho mai visto o
provato nulla di più sexy. Potrei venire anche solo così. Standolo a guardare.
Quando tira quel fascio di nervi in un morsetto, dopo averlo succhiato e
baciato, le gambe di gelatina iniziano a tremarmi, con i miei fluidi che vanno a
concentrarsi in un unico punto.
Cristo.
Ma lui si risolleva di scatto sulle ginocchia, lasciandomi spalancata, pronta e
bisognosa.
«Cosa?», mugugno, insoddisfatta. «Perché?».
Tuttavia l’eccitazione mi scorre ancora più furiosa nelle vene nel vedergli le
labbra lucide e piene dei miei umori. Santo cielo.
«Posso…», inspira fra i denti, portandosi le mani sui pantaloncini. «Posso
chiederti di non... non guardarmi e non toccarmi?».
E poi qualcosa si rompe definitivamente dentro di me. Ma al cospetto dei
suoi occhi speranzosi e brillanti, non posso fare a meno di tranquillizzarlo con un
sorriso e calare le palpebre.
Cosa ti hanno fatto, amore mio?
Calo le palpebre, sperando di ricacciare indietro le lacrime, perché so che si
preoccuperebbe soltanto per me se mi mettessi a piangere e questa è l’ultima
cosa che voglio. Il mio unico desiderio è che lui si goda al massimo questo
attimo con me.
Sento il fruscio del tessuto che si adagia sul pavimento, il tocco delle sue
mani che carezzano la pelle nuda delle mie cosce e poi ecco un petto solido che
si preme sul mio.
Riapro gli occhi e lui è qui, a un soffio da me, con l'incertezza dipinta sul
volto. Gli attorciglio le braccia attorno al collo, gli regalo la mia dolcezza con un
soffice bacio a stampo.
«Amami, Michael».
«Dal primo giorno. Sempre».
Resto talmente ebbra e sopraffatta dalla sua ammissione, che noto a
malapena l'attimo in cui guarda in basso per posizionare la sua erezione sulla
mia apertura.
Boccheggio, lui insieme a me, quando la fa scivolare fra le mie labbra, i
nostri fiati si mescolano, i liquidi diventano un tutt'uno.
E Dio, la sua pelle sulla mia... una scarica elettrica mi trapassa da parte a
parte.
«Sei pronta?».
Annuisco, anche se nulla in realtà avrebbe mai potuto prepararmi alla
sensazione che provo quando si spinge dentro di me. È vero, non sono mai
andata al mare pur avendocelo a un passo, eppure so per certo che mi sentirei
allo stesso modo se potessi andarci anche soltanto una volta d’estate. Felice.
Meravigliosamente felice.
Tenendosi sugli avambracci, posti ai lati della mia testa, Michael avanza
gradualmente e mi spacca a metà.
«Se fa male... se fa troppo male», ansima sulla mia guancia, «dimmelo
subito».
Stringo i denti. Brucia da morire e, anche se non posso vederlo, so che non
sarà una passeggiata. Scuoto il capo, sopprimendo il dolore, e piego le ginocchia
per farlo scivolare più dentro. Al movimento, una fitta ardente mi lacera lo
stomaco.
«Va tutto bene, bambolina, va tutto bene». Mi bacia il viso, lecca via lacrime
che nemmeno sapevo di aver versato, e spinge ancora. «Sono quasi tutto dentro,
okay?».
Ce n’è ancora?
Spalanco gli occhi, sul punto di strillare per il male, quando Michael
introduce una mano tra di noi per massaggiarmi il clitoride e aiutarmi a
distendere i nervi.
Dolore e piacere si bilanciano in un modo tutto loro e, con un colpo di reni
secco, entra definitivamente, facendomi urlare.
«Scusa, scusa, lo so. Lo so, ma ora passa tutto, promesso».
Ed è talmente tenero e impacciato che, nonostante il dolore, mi metto a
ridere. Piango e rido in contemporanea. Devo essere io la matta, in realtà.
«Non ti fermare», bisbiglio.
«No», fiata, intrecciando le nostre dita sul materasso, prima di arretrare e
uscire. Mi penetra di nuovo, stavolta in un colpo solo, aprendomi. «Sei...
diamine, sei...»
Gli permetto di allargami maggiormente le gambe, di baciarmi il seno. «S-
sono?».
Si ritira, ancora, sempre con calma, e torna a riempirmi. Si muove
lentamente, ma profondamente. Lo sento quasi nello stomaco.
«Molto stretta». Dandomi una spinta più forte, capace di farmi vedere le
stelle, mi graffia il capezzolo con i denti. «E molto mia».
«E tu sei mio». Gli stringo la faccia tra le mani, riportandola alla mia altezza,
bocca su bocca. «Fin dal primo giorno».
«Sì, maledizione. Sono tutto tuo, bambolina».
Gli occhi di Michael si illuminano e, d'improvviso, sostenendosi sul gomito,
coi polpastrelli che premono e ondeggiano sul mio clitoride, incomincia a
muoversi più in fretta e con più forza. Colpisce in profondità, inarca il bacino per
prendere un punto in alto e allora mi faccio trascinare anche io all'istinto.
La tensione cresce dentro di me, si accumula in fondo alla pancia, tra il
rumore che fanno i nostri bacini a contatto, quello degli umori che si scontrano e
le sue dita che mi stimolano. Roteo i fianchi, lui mi ringhia in bocca e schiaccia
la lingua sulla mia, godendosi le mie urla e i miei gemiti acuti.
«Grace, Grace», ansima, afferrandomi dal seno e stringendolo. «Sì, Grace…»
Arriccio le labbra, con le cosce che si contraggono e le mie pareti interne a
irrigidirsi e stritolarlo nella loro presa mortale; Michael sussulta, tremandomi
sotto le mani, e gli infilzo le unghie nelle scapole.
Si sfila di getto da me e non lo guardo per rispetto, quando si masturba come
un dannato e gocciola tra le mie gambe aperte.
«Andiamo», mugugna, prima di darmi uno schiaffo al clitoride e poi
massaggiarlo in quei cerchietti che mi danno alla testa e... e...
Oh.
La mia vista si annebbia, lo stomaco si accartoccia su sé stesso e tremolii mi
scivolano addosso come ruvide carezze.
È travolgente quando mi penetra di nuovo in fretta, godendosi quel
momento, ed esce solo per venirmi addosso e farmi sua in ogni parte del corpo.
Liquido denso e caldo mi schizza ovunque. Entra ancora un'ultima volta,
spremendosi fino alle gocce, e infine, stremato, crolla sul mio corpo nudo
macchiato dal suo seme.
Il mio respiro deve ancora stabilizzarsi, avverto bruciore in mezzo alle
gambe e il suo sperma è appiccicoso, ma... mi sento completa.
«Stai bene?».
«Sto bene. E tu?».
«Come mai sono stato. Dammi un attimo».
Non lo guardo quando si allontana per prendere dei fazzoletti bagnati.
Attendo il tempo necessario, quello che serve per ricomporsi e rimettersi i
pantaloncini. Torno a fissarlo non appena decide che è arrivato il mio turno.
Come ieri, mi ripulisce e lava come può, poi mi riveste. Non lo so perché ci
tenga così tanto a farlo lui, ma mi fa sorridere. Una volta finito, ritorna al mio
fianco, mi abbraccia, riempie di bacini la mia faccia e intreccia ancora le nostre
lingue affamate.
«Bruci e raffreddi», dico, a corto di fiato.
«Sì, bambolina, è così». Infila il braccio sotto la mia nuca. «Adesso, però, mi
devi ascoltare».
Mi raggelo. «Non voglio parlarne, Michael».
«Infatti mi ascolterai. Perché devi sapere, Grace».
Scuoto la testa. Per quale diavolo di ragione vuole rovinare quello che
abbiamo appena avuto? Perché?
Provo ad alzarmi, ma lui mi ritira subito giù.
«Devi sapere che non ho mai cercato di ucciderti. Non volevo, io...»
Sgrano le palpebre, incredula che stia sul serio aprendo il discorso, e mi
azzittisco, aspettando che continui, che finisca la frase.
E pura sofferenza lascia le sue labbra quando aggiunge: «Volevo aiutarti».
«No, tu volevi uccidermi».
«Non è andata così. Non era quella l'intenzione».
Mi ritiro in piedi come una furia, fregandomene di restare calma e del dolore
che provo in mezzo alle gambe. Gli punto un dito contro, col corpo che mi vibra
dalla spina dorsale.
«A chi importa quale fosse l'intenzione, Michael?», strepito. «Se fosse stato
per te, io sarei morta. Morta, cazzo. Ti è chiaro? Riesci a comprenderlo? O devi
continuare a ricordarmi il motivo per cui dovrei odiarti e scappare via da te?».
«E invece importa, Grace», sbotta in risposta. «Importa perché là davanti a
me, non c'eri tu. C'ero io, e io volevo solo darmi sollievo. Io volevo morire.
Volevo solo smettere di respirare, cazzo!».
Mi immobilizzo, vacua.
E mi preparo ad affrontare una battaglia rimandata per troppo tempo.
«Okay. Vuoi discuterne? Facciamolo, ma sappi che non si torna indietro da
questo».
VENTIDUE

GRACE

Grace: 11 anni.
Michael: 15 anni.

La direttrice si era rotta la gamba in tre punti diversi e aveva avuto


un'emorragia interna. Ragione per cui quel famoso Ringraziamento dovette
passarlo sotto osservazione in ospedale.
A restare al Benetton, senza contare Miss Eleonor, fummo in quattro: io,
Killian, Jonah e... Michael.
Lo stesso Michael che non andavo a trovare dal giorno dell'incidente.
Ovviamente non avevo parlato. Non avrei mai rivelato a nessuno ciò che avevo
visto, ma mi aveva spaventata. Dovevo prendermi un po' di tempo per
metabolizzare. Per cercare di capire cosa ne sarebbe stato di noi.
Non aveva pensato che, forse, così facendo avrebbe solo peggiorato la
situazione? Che adesso Miss Caroline poteva vantare un ulteriore motivo per
dividerci?
Speravo solo che non l'avesse visto, che credesse sul serio di essere
inciampata, altrimenti sarebbero stati guai veri.
Il pensiero che l'avesse fatto a causa mia, dopo ciò che gli avevo detto, mi
faceva raggrinzire le ossa; mi faceva sentire in colpa. Non avrei mai dovuto
metterlo al corrente di una cosa simile. Ero stata una stupida.
Mi dimenticavo troppo spesso che Michael non era un ragazzo normale, non
agiva seguendo la logica comune. Per lui, vita o morte non contavano. Se nutriva
un sottospecie di sentimento, allora quello era tutto nei miei confronti.
Per il resto il nulla più assoluto.
Non avere paura con me. Non tu.
Non io. Perché si trattava di me, ma gli altri non contavano, gli altri non
rientravano in questo privilegio di cui potevo godere soltanto io.
Quando al nostro primo incontro gli avevo chiesto se fosse pericoloso per
davvero, lui aveva ammesso di non saper rispondere alla mia domanda, perché,
compresi finalmente, non lo sapeva realmente.
Non capiva il senso del pericolo.
E, ormai da un bel po', agiva in base a ciò che dicevo o facevo.
Fin quando ce ne stavamo per noi, il mondo non esisteva; il problema
subentrava quando gli altri entravano a far parte della nostra bolla.
Però era pur sempre il mio Michael, e lui non era cattivo come pensavano
tutti quanti, era solo diverso. Bisognava prenderlo con le pinze, bisognava dargli
la luce anziché togliergliela, bisognava consegnargli il cuore e non strapparglielo
via dal petto.
Dovevo solo iniziare a fargli comprendere che c'erano modi e modi per
risolvere una questione. E poi sarebbe andato tutto bene.
Sì, sì, sarebbe andato tutto bene. Per forza.
Con i denti affondati nell'interno guancia, continuai a ripetermelo come un
mantra senza sosta, mentre lavavo il pavimento del corridoio del dormitorio
femminile.
Jonah e Killian avrebbero dovuto occuparsi di quello maschile, eppure,
quando sentii le loro risatine dietro l'angolo, compresi che no, non stavano
assolvendo i loro doveri. Piuttosto, sembravano avere tutte le intenzione di
mantenere la parola data: darmi il tormento e mettermi i bastoni fra le ruote.
Tenni gli occhi bassi, il manico dello spazzolone ben stretto nelle mani, e
strusciai lo straccio sul legno colmo di impronte e segni sbiaditi. Dar loro corda
avrebbe soltanto peggiorato la situazione, senza alcun dubbio. Con ogni
probabilità ignorarli non li avrebbe fatti desistere, ma almeno li avrei irritati un
po'.
«Gracie, Gracie, Gracie», cantilenò la voce maligna e viscida di Jonah. Le
sue Converse usurate si fermarono dinnanzi a me, feci attenzione a non passarci
sopra lo strofinaccio. «Che fai, piccola? Ci ignori?».
Mi morsi la lingua. Morivo dalla voglia di piantargli il bastone in un occhio,
ma dovetti trattenermi. Forse, in fin dei conti, io e Michael non eravamo così
diversi.
«Ehi, Jonah, guarda quant’è carina con quel vestitino grigio da vecchia!».
Strinsi i denti, mentre Jonah scoppiava a ridere alla battuta di Killian. Wow,
davvero divertente. Uno spiccato senso dell'umorismo.
Dita affusolate e tremanti si allungarono nella mia direzione, tentarono di
acciuffarmi i capelli ma mi scostai con uno scatto felino. Jonah rise di nuovo.
Poi diede un calcio al secchio d'acqua sporca, facendolo riversare su tutto il
pavimento. Mi si bagnarono le scarpe di tela, il mio lavoro venne appallottolato
e accartocciato come se non avessi fatto niente.
L'acqua scorse per terra come un fiume, infradiciando anche i bordi dei loro
jeans consunti di seconda o, addirittura, terza mano. Mi si infiammarono le
guance e, quando Killian aggiunse un ridicolo «ops» di scherno, non riuscii più a
resistere. Avevo tollerato anche fin troppo.
«Siete degli stronzi!», sbottai, sollevai lo spazzolone e lo menai sulla faccia
del primo che mi capitò sotto tiro: Jonah. «Giuro che vi faccio piangere, vi
cambio tutti i connotati e poi vediamo se avete ancora voglia di fare i galletti!».
Jonah imprecò dal dolore, una striscia vermiglio gli colò dal naso e frappose
le braccia per proteggersi dalla seconda botta, che comunque non arrivò mai,
perché Killian mi afferrò da dietro e mi imprigionò al suo petto.
«Uhhh, psycho Gracie sa difendersi», ridacchiò al mio orecchio, le sue labbra
mi accarezzarono il lobo ed ebbi un brivido di disgusto. Mi dimenai e scalciai
per sottrarmi dalla sua presa, ma rafforzò la stretta delle braccia. «Io ti consiglio
di startene buona, piccoletta. Al momento non siamo molto in noi e potremmo
non rispondere delle nostre azioni».
A raggelarmi non furono tanto le sue parole, quanto il tono mellifluo che
utilizzò. Non... non... scherzava, vero?
Cioè, voleva solo spaventarmi e intimorirmi, giusto?
Rialzai il capo in direzione di Jonah e, sebbene si tenesse il naso con il palmo
della mano e la mia vista non fosse granché, quegli occhi li vedi eccome.
Sembravano fatti di fuoco per quanto erano rossi.
Ancora stentavo a credere che al Benetton girasse sul serio della droga. Mi
sembrava così... surreale. Qualcosa di estraneo alla realtà. Eppure era vero.
Sebbene mi trovassi incastrata dal corpo di Killian, restai rigida e ferma,
mentre il verme della paura dilagava in me. Che intenzioni avevano?
«Okay, fantasmino, basta cazzate. Abbiamo giocato e scherzato abbastanza»,
mugolò Jonah, togliendosi la mano via dalla faccia. Il suo naso si era di già
gonfiato e arrossato. «Dacci quello che ci devi dare e ci togliamo dalle palle».
«Eh?».
Dovevo aver capito male.
«Margot ti ha lasciato una cosa per noi».
«Margot non mi ha lasciato proprio niente!».
Killian sfregò il naso sul mio collo, causandomi ribrezzo, e mi discostai
quanto potevo. Gli ordinai più di una volta di togliersi e non toccarmi, ma lui si
limitò a ridere e a insistere.
«Non mentire, lo sappiamo che ce l'hai tu», biascicò poi al mio orecchio. «La
domanda, però, è dove. Devo forse perquisirti?».
Per poco non ebbi un conato di vomito. D'impulso gli rifilai una gomitata
nelle costole, usai tutte le mie forze, e la presa da boa constrictor si allentò tanto
da permettermi di sfuggirgli. Di allontanarmi da loro.
«Cazzo!», imprecò Killian, piegandosi in avanti per massaggiarsi il punto
colpito, mentre Jonah avanzava nella mia direzione.
Aveva perso la sua facciata allegra e derisoria. Ora, affilato nei suoi
lineamenti rigidi, sembrava avere l'aria di chi cercava solo uno scontro.
Indietreggiai, deglutendo. Le cose non si stavano mettendo bene per me.
«Smettila di prenderci per il culo, Grace», ringhiò. «Dammi subito la mia
cazzo di roba!».
Sussultai. «Non vi sto prendendo per il culo. Ti ho già detto che Margot non
mi ha lasciato e detto niente. E comunque non voglio averci niente a che fare con
queste cose!».
«Non è che te la sei pippata tutta tu, invece?», ghignò Killian.
«Sì, certo, e poi me la sono anche sparata in vena. Dio, ma ti ascolti quando
parli, stupido idiota?».
Brava, Grace. Ottimo modo di gestire la situazione. Adesso sì che ti
lasceranno in pace.
Non che mi aspettassi altro, Killian non reagì bene all'offesa. Scattò in
avanti, piantandomi uno schiaffo sul volto. Aveva puntato alla guancia,
probabilmente, ma cercando di schivarlo feci scontrare il mio labbro contro i
suoi anelli, che finirono per sfregiarlo e tagliarlo.
Un dolore pulsante mi infiammò la bocca, gli occhi si riempirono di lacrime
a cui non permisi di scendere, e continuai a indietreggiare a spalle tese.
«Beh, ora ti senti meglio? Sei riuscito a ottenere ciò che cercavi? Lascia che
ti risponda io: NO!».
Killian tentò un nuovo assalto, quando Jonah lo afferrò dal braccio per
trattenerlo, studiandomi con i suoi occhietti annebbiati e troppo neri.
«Okay, ti sei divertita, razza di stronza, ma ora diamoci un taglio. Devi darmi
subito la mia fottuta anfetamina prima che ti spezzi gli arti», sibilò, puro fiele.
E, sul serio, se l'avessi avuta non avrei esitato due volte nel lanciargliela in
faccia quella schifezza, ma Margot non mi aveva lasciato proprio un cavolo.
Anzi, sicuramente, quell'arpia lo aveva fatto di proposito per immischiarmi in un
guaio simile. Voleva vendicarsi delle botte e delle minacce.
Oh, Cristo, era proprio una cosa da Margot! Certo, certo che l'aveva fatto
apposta!
Alzai i palmi in segno di pace, cercando di chiarire. «Sentite, a me non frega
niente di questa robaccia. Non me ne faccio nulla. Perciò dovete credermi
quando vi dico che Margot non vi ha pensati. Magari si è tenuta tutto per lei,
no?».
«Magari sì, magari no. O magari ti sei infilata il mio pezzo sotto al tuo
vestitino. Che ne dici se diamo una sbirciatina?».
Un fremito di inquietudine mi colse alla sprovvista. Il solo pensiero che
potessero toccarmi, insudiciarmi coi loro polpastrelli sporchi, mi faceva vibrare
le ossa. Mi spezzava il fiato a metà.
Ormai avevo raggiunto l'angolo, con le dita potevo toccare lo spigolo della
parete che finiva e svoltava a destra per dare accesso alle scale. Ammorbidii le
gambe, cercai di scacciare via la tensione e la paura, in caso avessi dovuto
correre.
Ingoiai un groppo amaro, ignorai le occhiate lascive e allo stesso tempo
vacue che mi stavano lanciando. «Io dico di no. E dico anche che fareste meglio
a tornarvene a svolgere i vostri compiti, perché tanto state facendo solo un buco
nell'acqua. Ve lo ripeto: non ho niente!».
Le suole delle scarpe, zuppe e gocciolanti, finalmente toccarono il rovere
asciutto. Loro erano ancora in quella pozza d'acqua lurida.
Killian sollevò l'indice. «Ultima possibilità, Gracie, dopodiché smetteremo di
essere gentili. Dacci la droga. Subito».
Un guizzo smosse la mandibola tagliente di Jonah, rivelandomi che era già
pronto a scaraventarsi sulla sottoscritta. Killian invece sembrava più un serpente
con il suo sorrisino viscido.
Fui scossa da un altro tremore, col cuore che impazzava nella gabbia toracica
e un sudore freddo a scivolarmi lungo le tempie. Erano di già fatti di chissà cosa
e, a giudicare dal tremolio che avevo intravisto prima, anche in astinenza di
anfetamine. Da quanto tempo si facevano? E Margot, anche lei?
Mio Dio. Con queste cose non si scherzava. Per la prima volta nella mia vita,
mi ritrovai a desiderare che Miss Caroline fosse lì.
Corri, Grace.
Trova l'educatrice. Trova Miss Eleonor.
Dove diavolo era Miss Eleonor?
Non avevo tempo di rifletterci.
Lentamente, flessi le dita attorno al manico dello spazzolone, il mio
appoggio. Gli occhi scorsero la pelle d'oca che riempiva le loro braccia,
scivolarono sulle occhiaie buie, sulla follia che lambiva le pupille, prima di
lanciare uno sguardo alle scale.
Potevo farcela.
«Forse dovreste stapparvi un attimo le orecchie. Non so più come dirvelo:
Margot ha fatto la stronza, non mi ha dato un cavolo!».
«Stronzate!».
Jonah sollevò il piede e non persi ulteriore tempo. Mi bastò solo quel
movimento per decidermi ad agire. Loro erano più grandi di me, sia di stazza che
di età, ed erano in due. Io ero sola e piccola. Non potevo permettermi di sprecare
i pochi vantaggi che avevo.
Gli scagliai con forza lo spazzolone addosso, sorprendendoli, e non persi
tempo ad ammirare i loro volti impreparati. Pensai solo a voltarmi e scappare.
«Ma che cazzo... prendila, coglione!», urlò Jonah.
Le scarpe bagnate scivolavano sul pavimento liscio, producevano tonfi
acquosi, identici a quelli che iniziai a sentire dalle mie spalle. L'adrenalina
schizzò a mille nelle mie vene. Mi diede alla testa, accelerai il passo e per poco
non caddi per le scale. Avevo il cuore in gola.
Non mi fermai neppure a pensare. Il mio unico obiettivo era salvarmi e
tenerli lontani. Puntai alla porta d'ingresso. Uscire fuori e scappare per il bosco
mi sembrò un'ottima idea. Ma qualcuno... forse Killian, non stetti troppo a
guardarlo per non distrarmi, si gettò a capofitto sul corrimano scivolando giù
fino all'atrio dell'entrata. Stravolse i miei piani.
«E adesso dove credi di andare, Gracie?».
I miei piedi decisero da soli quando presero le scale per il piano inferiore.
Per Michael.
Non volevo... non volevo coinvolgerlo, ma, ma io... io non sapevo che altro
fare.
Forse in due contro due saremmo riusciti a gestirli. Speravo che potesse
bastare.
E dove cavolo era l'educatrice? Possibile non sentisse il casino?
Ero sul punto di poggiare il piede sul penultimo gradino quando un treno
merci mi travolse, togliendomi il respiro e il suolo da sotto le scarpe. Impattai a
terra, colpii la fronte con una botta sorda, e il corpo solido di Jonah mi schiacciò
sul pavimento. Il suo petto premeva sulla mia schiena, mi stava spappolando i
polmoni.
«Fine della corsa, puttanella», sogghignò sulla mia nuca.
«Lasciami, lasciami!», strillai, dimenandomi. Il panico gorgogliò da ogni suo
anfratto, sbucò fuori a ondate facendomi lacrimare gli occhi. «Lasciami stare,
vattene! Non vi sto dicendo una bugia, non ho niente!».
«Sta' zitta, cazzo!». Mi afferrò dai capelli, tirò indietro la nuca quasi a
spezzarmi il collo, la gola bruciò dal dolore, e poi mi sbatté la fronte a terra.
Forte. Vidi le stelle. «E stai ferma, smettila di scalciare. Dove ce l'hai, eh? Dove
l'hai nascosta?».
«Vaffanculo, pezzo di stronzo!», gridai come una pazza, pervasa dal dolore e
dall'ansia. «Ti faccio saltare tutti i denti se non ti togli all'istante!».
Gli assestai una testata all'indietro, perché non mi sarei arresa. No. Io non mi
arrendevo. Io combattevo. Avevo smesso da anni di farmi calpestare e subire.
«Porca troia», lo sentii imprecare, poi mi piantò di nuovo la faccia sul legno.
E fui certa di aver udito un crack, seguito da una sofferenza allucinante. Il
sangue sgorgò a fiotti, la vista si annebbiò, mentre Jonah abbaiava a Killian un
chiaro: «Tienila dalle braccia e controlla che non arrivi quella pazza di Miss
Eleonor!».
Percepivo a malapena le loro parole. Sentivo tutto ovattato. Sentivo solo il
dolore. La mia faccia era diventata tutto un male unico.
«Non arriverà. Non riuscirà mai a uscire dall'ufficio della direttrice.
L'abbiamo chiusa dentro, ricordi?».
«Sì, sì, ma non si sa mai. Dài, sbrigati, cazzo. Vieni qui!».
Rumore di passi. Dita fredde che mi afferravano dalle braccia e le puntavano
sopra la mia testa. Continuavo a perdere sangue, non avevo più forze, non avevo
nulla.
Sbattei le ciglia, mi forzai a ricordare le ragioni per cui non potevo mollare, e
tentai un altro scatto. Mi agitai sotto la loro presa, gridai con quanto fiato avevo
in corpo, spinsi i polmoni al limite. E Killian mi calpestò una mano. Strillai più
forte. Lui la schiacciò di nuovo, ridendo.
«Non farla urlare, Kill, che cavolo», sbottò Jonah, scivolando più indietro
sulle mie gambe. «E ora... controlliamo che abbiamo qui».
Mi sentii morire quando afferrò i bordi del mio vestito e lo sollevò fino a
metà schiena.

MICHAEL

Sono io?
Sei tu? Chi è?
O era qualcuno fra i tanti?
Tanto erano tutte così uguali fra loro le grida.
Ricordi le tue?
No, non ricordava. Non pensava nemmeno di saper gridare, Michael, che una
voce lui non l'aveva mai avuta. Un simile lusso non se l'era mai potuto
permettere.
Realtà o finzione?
Presente o passato?
Voce o pensiero?
Fissando la porta, tenne a mente ciò che gli aveva detto uno dei tanti
psichiatri da cui l'avevano spedito anni prima. Anche se alla fine sembravano
tutti pensarla allo stesso modo.
Confondi la realtà, Michael. Hai visioni che nel presente non esistono, senti
e vedi cose che noi non possiamo percepire. Devi imparare a distinguerle.
E lui... era stato reale?
Chi poteva dirlo. Era vero quel ricordo o apparteneva anch’esso alla sua testa
malata? Ed era davvero malata o faceva tutto parte di pensieri ancora più
intricati?
Assurda vita, che non la conosceva e pesava così tanto.
Assurda vita, che brillava solo per chi sapeva accendere la luce.
Storse la bocca. Strizzò gli occhi. Strinse la maniglia.
L'usignolo cantò di nuovo la sua sofferente melodia.
Che strazio dolce.
Avrebbe smesso presto come tutti.
Però… però... che dolcezza librava lì, quanto torpore risuonava da una simile
voce, così differente da quelle che aveva sentito.
La bambina dai capelli neri?
No, no, lei singhiozzava quando gridava.
I suoi suoni striduli rimbalzavano nell’intero e triste cimitero.
Bentornati. Questa notte siamo qui per celebrare...
No.
Annaspò nel suo stesso respiro, si aggrappò alla porta, spalancò gli occhi e li
puntò sulle sue mani. Le sue mani. Vedeva le sue mani pallide.
Non erano al buio.
Perché era giorno.
Ma di giorno, di giorno... mai.
Sicuro, Michael Baker?
Michael Baker, Michael Baker, Michael Baker...
Il pianoforte stonò.
Un'altra corda che saltava.
E l'usignolo smise di cantare.
Perché hai smesso? Soffri? Vorrei aiutarti.
Si sarebbero arrabbiati, gli avrebbero urlato contro e lo avrebbero trattenuto
più del previsto. Era già successo una volta. Ma non... non poteva resistere.
Voleva liberare quella povera creatura disgraziata come lui.
Il dodicesimo rintocco è troppo lontano.
Lasciati aiutare. Lascia che spezzi le catene.
Tornò verso il letto. Sollevò il materasso. Prese il vetro rotto. Graffiava nella
pelle. Tagliava sulla pelle.
Suo fedele amico.
E così aprì la porta.
C'erano solo respiri, più respiri, così come li conosceva lui.
Camminò adagio, sulle piante dei piedi nudi, logorante nel suo silenzio più
atroce, un paradosso rispetto a ciò che avvertiva nella sua crudele testa.
Parlavano tanto di camminare sul filo del rasoio, le persone, senza sapere che
era una beatitudine poterlo fare senza avere la certezza della caduta.
Sfidavano la gravità e la reputavano cosa da niente. Stavano in piedi,
piangenti nel loro egoismo, incuranti di chi poteva respirare solo stando seduto.
Canta ancora, uccellino.
Canta e ti troverò.
Bizzarro, bizzarro...
Ti hanno mai trovato, Michael?
Avrebbe voluto dire che la sua Bambolina l'aveva sempre fatto. Ma era
arrivata tardi.
E tu chi sei, piccolo angelo senza ali?
Avevano i visi scoperti, senza nessuna maschera a coprirli. Insolito mistero.
Soprattutto erano in due. Quale sciagura. Uno era doloroso, due era
insopportabile.
Nemmeno si erano accorti di lui, presi dalla foga di toccare la carne e
inebriarsi del proprio peccato.
«Magari tra poco ci divertiamo anche un pochetto, che dici?», grugnì una
voce tormentata, più scura dell'inchiostro.
Sulla schiena... uno ricopriva la schiena. Stava intrappolando la vittima a
terra. A lei o a lui? Non era importante. Importava altro.
Lo fece con tranquillità. Come quando prendi un pennarello e tracci una
linea.
Strinse ciuffi biondi, che non avevano nulla a che vedere con il suo colore o
quello di Bambolina, e colorò un collo di rosso. Colorò tutto di rosso.
Caldo e intenso rosso.
L'aveva già visto quel tipo di rosso. E ne era stato anche di più.
Sopraggiunse un altro urlo. Non era l'usignolo. Era uno di loro.
«Ma che cazzo», stridulò, piangendo, e strisciò all'indietro. «Che cazzo,
cosa... oh mio Dio, Killian! Oh Dio, tu sei... no, ti prego, stavamo solo
giocando!»
Giocare?
Mai parlato di giocare.
Aggrottò le sopracciglia. Il carnefice continuava a scuotere la testa, pieno di
gocce salate e il moccio che gli imbrattava la bocca.
Anche i tuoi genitori avevano fatto così?
No, no.
«Michael», sussurrò la musica soave.
Oh, che lirica meravigliosa.
Aspetta che togliamo la nota stonata.
Dita fredde gli sfiorarono la caviglia, ma lui aveva già tracciato un'altra linea
netta. Vita o morte, che vuoi che sia. D'altronde si tratta proprio di questo? Una
retta che separa.
Sbatté le ciglia. Il mostro non c'era più.
Ma voltandosi... vide. Deragliò, fino a naufragare nei più reconditi specchi
dell'anima.
E non c'erano più rintocchi, non c'erano più colori, non c'erano più urla.
C'era solo lui. Lui e il suo riflesso.
Chi è Michael?
Eh, sono io.
Io intrappolato.
Io che liberato voglio tornare nella trappola.
Io che voglio respirare e ho bisogno che qualcuno mi tolga l'aria.
«Ti aiuterò», sussurrò, lanciando via il vetro. «Starai bene».
Perdonami per non averlo fatto prima.
Adesso ce l'aveva il coraggio.
Lo avrebbe tenuto per tutto il tempo, quel piccolo bambino. Gli avrebbe
accarezzato i capelli alla fine, gli avrebbe chiuso le palpebre e lo avrebbe salvato
da tutte le altre volte.
Niente Michael Baker per lui.
Nemmeno una volta.
Ti salvo io.
Ma il piccolo Michael era così spaventato... lo capiva. Non si fece intimorire.
Resistette.
Michael piangeva, ricordandogli quegli anni lontani in cui sapeva farlo.
Ti farò restare con le tue lacrime, Michael.
Conservale e tienine cura.
Non permetterò a nessuno di portartele via.
Diceva qualcosa. Ripeteva di essere io.
Diceva: «Sono io, Michael, sono io! Guardami!».
«Sì, sei tu».
Sei tu e ti aiuto.
Strinse le mani attorno a quel gracile collo. Voleva che smettesse di respirare
solo dolore. Voleva che riprendesse a cantare gioia, non strazio.
«Starai bene, vedrai», continuava a sussurrare.
Lui su di lui.
Un corpo sulla schiena.
Un corpo sopra.
Mai più.
Mai mai mai mai mai...
Unghie gli graffiarono il dorso delle mani, ma non sentiva altro che non fosse
il sollievo della brezza mortale addosso.
Sta per finire, Michael?
Lo spero.
Un sussulto si protese al di sotto dei suoi palmi e lui stampò un bacio caldo
su quella fronte familiare. A mente solo quegli occhi rotti.
«Sei salvo. Nessun Michael Baker per te».
E proprio lì, proprio quando ce l'aveva quasi fatta, un dolore sordo gli
esplose sulla tempia, un oggetto infranto sul punto sensibile. Mollò la presa, e un
altro colpo doloroso lo prese alla sprovvista.
Ma prima di chiudere gli occhi e lasciarsi trascinare nell'oblio di tutti i suoi
orrori più brutti, il rivelarsi di un paio di retine del cielo quando era arrabbiato.
Gli occhi di Grace.
E se c'era qualcosa di peggio di Michael Baker, quella era senza alcun dubbio
la consapevolezza di aver fatto del male a Bambolina.
Morire, morire, morire...
Magari ora sì.
Che non mi voglio più svegliare.
Che hai fatto, Michael?
Lasciati cadere.
VENTITRÉ

GRACE

«Li hai uccisi, e poi hai quasi ucciso me», fiato con la gola stretta e gli occhi
persi nel vuoto del passato. «Se non fosse arrivata Miss Eleonor a colpirti e farti
perdere i sensi, ora non saremmo qui».
Sbatto le ciglia, mentre mi scorrono davanti quei frammenti di lui svenuto a
terra, poi preso in custodia e in attesa di processo. Un processo che l’ha
giudicato incapace di intendere e di volere.
Non ho assistito in prima persona agli agenti che lo ammanettavo e lo
portavano via, ma ho ancora ben a mente le sue urla strazianti. Lo avevo sentire
gridare "Tornerò a prenderti, Grace. Tornerò a prenderti!"
E io l'ho presa come una minaccia, allora. Gli ho permesso di infestare i miei
incubi, di impadronirsi dei desideri più orribili. Ora so che vuole soltanto farsi
perdonare, anche se magari non riesce a redimersi lui stesso.
Michael mi afferra dal viso, le sue mani tremano di disperazione, una
frustrazione talmente dilaniante da farmi sanguinare dentro.
«No, no, ascoltami», annaspa, si aggrappa a me quasi non riuscisse a tenersi
in piedi. Ci riporta entrambi a terra, mi abbraccia la vita e conficca la testa sul
mio seno. «Ascoltami, ti prego. Ti prego. Ascoltami, bambolina, per favore, per
favore».
Sono spaesata. Che diavolo sta succedendo? Perché deve essere così fragile?
Finisco sempre per perdere il pugno di ferro con lui.
«Devi tenermi qui, Grace. Tienimi, tienimi».
Spalanco gli occhi. «I-io... io...»
Non aspetta la remota possibilità che possa riuscire a completare una frase di
senso compiuto. Prende la mia mano e se la porta sui capelli, inducendola a
movimenti che sembrano… carezze.
E sotto il mio tocco, i ciuffi morbidi e chiari, lo sento respirare. Lo sento
restare a galla. Lo tengo con le mie carezze, il suo unico appiglio, la sporgenza a
cui aggrapparsi che gli impedisce di scivolare nel suo buio familiare.
Soffio sulle sue ombre per tenerle alla larga da noi, e attendo che mi renda
partecipe del marasma che gli frulla in testa, mentre lui mi sfiora i lividi che ho
sulle gambe.
«Ero nella mia stanza quando ho sentito gridare», sussurra. «Non saprei
spiegarti per quale assurdo motivo, ma è stato come un richiamo. Ne ho sentite
di grida nella mia vita, Grace, ma non avrei mai immaginato che potessi essere
tu. Non tu, Grace. Tu non potevi. Che se fosse successo a te, mi sarei strappato
via il cuore dal petto».
Aggrotto le sopracciglia. «Cosa... cosa stai dicendo? Non capisco. Sii più
chiaro. Stavolta non posso permetterti di fare il criptico, devi sforzarti e parlare
in modo lineare e concreto. Altrimenti temo non ne usciremo mai».
«È difficile riordinare il caos quando non sai nemmeno quale sia l'ordine
giusto».
«Provaci. Ti aiuto io».
Ti tengo io, Michael.
Ti aiuto, non aver paura.
Sempre io e te.
Io e te.
Gli stampo un bacio sulla nuca, mi rabbrividisce sotto le labbra secche. Si
schiaccia a me, rendendomi difficile respirare, entra sotto la pelle scalfendosi nel
profondo. Dove è sempre stato.
«Okay», sussurra, la guancia premuta sul mio petto. «Dicevo… non avevo
capito fossi tu».
«Dopo cos’è successo? Dopo che mi hai sentita gridare, intendo».
«Mi sono fermato a pensare. Di norma, accadeva sempre di notte e perciò
non credevo vi fosse nulla di strano. Te l'ho detto, sono abituato alle grida. Il
problema è che era giorno... e di giorno mai, Grace. Qualcosa non tornava,
capisci?».
No, non capisco, ma gli dico comunque che sì, sto seguendo e lo invito a
proseguire.
«Sembrava tanto un uccello ferito. Il canto di un usignolo lasciato a bruciare.
E quando ha iniziato a stonare, ho deciso che dovevo intervenire. Non avevo
ancora realizzato che...»
«Che?».
«Che eravamo al Benetton, non ero più a casa o al cimitero. E quindi dovevi
per forza essere tu, e nulla di ciò che stavo vedendo e sentendo era reale. Mi
dispiace di non averlo capito, bambolina».
Strizzo gli occhi. Più andiamo avanti, più il discorso si infittisce e più mi
risulta difficile stargli dietro. Semina dettagli qua e là, come se fosse scontato
che io debba già saperli e comprenderli.
Gli passo un braccio sotto al collo, appoggio il mento sulla sua testa e lo
stringo a me, implacabile. Questo momento, invece, è reale. Glielo trasmetto,
cuore a cuore.
«E poi? Che hai fatto? Cosa hai visto?».
«Avevo un pezzo di vetro nascosto sotto al materasso, l'ho preso per
proteggermi, per proteggerti, per proteggerci tutti. E sono uscito fuori dalla
porta».
«Perché avevi un pezzo di vetro sotto al materasso, Michael?», sussurro,
pervasa da una strana inquietudine. «Che ci facevi?».
Non risponde. Ho un fremito, ma lui va avanti come se non avessi parlato,
mentre i più sparpagliati dubbi prendono possesso nella mia mente.
«Li hai portati tu laggiù, da me? Stavi venendo da me?».
«Sì. Volevano qualcosa che io non avevo, erano in astinenza di chissà cosa e
hanno cercato di farmi del male. Non sapevo dove altro andare, non era mia
intenzione coinvolgerti, ma correre da te mi era sembrata la soluzione migliore».
Michael annuisce, solleva la mano fino a ricoprire la mia sulla sua guancia e
intreccia le nostre dita. «Hai fatto bene. Forse avresti dovuto farlo già molto
tempo prima».
«Forse. O forse doveva andare così e basta».
Mi sento meschina, ma la verità è che non mi mancano per nulla Killian e
Jonah. Mi dispiace che siano morti, mi dispiace che Michael si sia macchiato le
mani di altro sangue, tuttavia non riesco a provare dolore per la loro perdita.
Erano stati un tormento per me. Mi avevano reso la vita impossibile.
Avevano azzardato più di quanto avrebbero dovuto. Nessuno si merita la morte,
questo lo so, però è anche vero che nemmeno io mi merito la dannazione per ciò
che è successo.
«Ho visto un corpo sul tuo. Ti stava sulla schiena, come succedeva a me, e
ho pensato che non potevo permetterlo. Che ti stava facendo male, lo stesso male
che mi è stato fatto per tanti anni, e avrei fatto qualsiasi cosa per evitarlo».
Un altro pezzo va al suo posto. Michael che odia gli abbracci da dietro,
Michael che non vuole farsi toccare, Michael che ha paura delle persone,
Michael che mi dice che andrà tutto bene.
Lacrime amare mi tolgono il fiato, si impregnano dietro le retine, mi
riempiono la bocca e stringo la presa su di lui, lo avvolgo nel mio abbraccio
caldo. Gli bacio la nuca, la testa, le tempie, il collo. Lo amo con tutta la
dirompente forza della mia anima sgretolata.
«Sei speciale. Tanto, tanto speciale. Coraggioso, puro e rotto», mi si rompe la
voce. «E io ti amo così come sei. Scusa per non averlo capito prima. Scusa se
non te l'ho mai detto».
Mi sento in frantumi, presuntuosa nel voler tenere insieme i suoi di pezzi. Ma
va bene così.
E ti amo da una vita intera,
e tu non ti sei amato mai.
Michael gira la faccia, scocca un tenero bacio sul mio palmo e si sfrega sulla
mia pelle. «Non piangere, bambolina. Per favore. L'importante è che siamo qui
entrambi. Non vuoi sapere che è successo dopo?».
«Certo, certo che voglio saperlo. Dimmi tutto quello che vuoi, non ti
preoccupare, tanto ascolto ogni cosa».
Lui piega il collo, incastra le lande desolate dei suoi occhi d'acquerello
spento nei miei. E poi mi fa un sorrisino, uno dolce. Uno che non ha mai fatto,
che non gli ho mai visto. Ci resto sospesa in quel connubio di bocca, angoli, vita,
amore.
«È stato come colorare, o come scrivere. Prendi una penna e tracci la linea.
Così ho preso il vetro e ho segnato la mia di linea. E poi si è colorato tutto di
rosso».
Me lo ricordo.
Ricordo bene il polso bianco di Michael che si tingeva di sangue, man mano
che tagliava la gola di Killian.
Ricordo gli schizzi che mi imbrattavano il viso, i capelli, e poi il pavimento.
Ricordo i versi di Killian. Il tonfo del suo corpo che cadeva a terra. Le mie
urla strozzate. Quelle di Jonah, che si trascinava via come il verme che era. Che
lo pregava, gli chiedeva pietà e fingeva che si fosse solo trattato di un gioco.
Mi mordo il labbro inferiore, struscio la punta del naso tra i ciuffi morbidi e
chiari.
«Ho disegnato ben due strisce, Grace. Ho tolto via le note stonate dal tuo
canto, e non mi pento di averlo fatto. Di tutto ciò che ho fatto, e non parlo solo di
quella sera, c'è solo una cosa di cui mi pento».
Sì, aveva tagliato anche la gola di Jonah. Non aveva tentennato, l'avevo fatto
sembrare addirittura semplice, una cosa da niente. Una semplice azione. Prendi e
fai.
E ho di già la vaga sensazione di sapere a cosa si stia riferendo.
Deglutisco, mentre lui alza il viso e si rimette dritto per potermi guardare
negli occhi e starmi davanti. «Ovvero?».
Puro sconforto gli lambisce i tratti del viso, gli arriccia le palpebre, piega gli
angoli della bocca e rughe di sofferenza gli riempiono la fronte.
«Tu, bambolina», mormora, sporge le dita per accarezzarmi la guancia. «Ti
ho guardata, ma non ti ho vista. E questa, temo, sia stata la mia più grave colpa».
Per via dello shock ho rimosso gran parte degli avvenimenti. Mi porto dietro
solo brevi e fugaci scatti di quanto accaduto. Ho a mente pelle bianca, mani sul
mio collo, pupille di ghiaccio e distanti e una voce che continuava a dirmi che
sarei stata bene, che ero salva, che non ci sarebbe stato alcun... Michael Baker
per me.
E forse è meglio così.
Trattengo per un attimo il fiato, poi butto fuori l'aria. «Spiegati bene, per
piacere. Se non hai visto me, allora chi hai visto? So che ti sto chiedendo molto,
Michael, ma per favore, cerca di dirmi il più che puoi. Ne ho bisogno, okay? Ne
ho bisogno. Rendilo più facile».
«Ho visto me», dichiara, getta via le armi e abbassa la muraglia. Dichiara
bandiera bianca. «Ho visto me, ho visto Michael. Aveva cinque anni, gli si
stavano spezzando gli occhi e... ero ancora in tempo. Non era troppo tardi, lo
potevo salvare».
E mentre lui lo salvava, io perdevo l'unica certezza che avessi mai avuto.
Perché se fino a quel momento avevo creduto che Michael non avrebbe mai
potuto farmi del male, che almeno io ero al sicuro con lui, che l'amore che
provava nei miei confronti era più forte dei suoi demoni, allora dopo quella sera
ebbi la smentita di quanto pensavo. E questo aveva fatto più male delle sue mani
attorno al mio collo, della gola che bruciava e i polmoni chiusi.
Ma non era stata colpa sua...
«Mi dicevo che non ci sarebbe stato alcun Michael Baker per lui. Che la
morte sarebbe stato un regalo, un sogno a confronto di tutte le volte in cui
l'avrebbero violato e gli avrebbero tolto la voce. Lo avrei salvato, Grace. Gli
avrei permesso di tenere le sue lacrime, le grida, i sorrisi. Magari non avrebbe
mai assaggiato un biscotto, o un muffin, o saputo quanto belle sono le carezze,
ma sarebbe stato bene e lontano dagli abbracci da dietro, dalle mani che lo
toccavano anche se non voleva e... non sarebbe stato come me...»
Le parole si strozzano, le sue retine si fanno lucide, ma a scoppiare a
piangere sono io.
Perché la vita è più facile quando non sai.
Perché non riesco a gestire l'enorme sofferenza che si porta dentro, non
riesco a sopportare il pensiero di ciò che ha dovuto passare.
E, per l'assurdo, è lui ad abbracciare me, a dirmi che va tutto bene, che non
devo piangere, che…
«Anche se Michael non è salvo, alla fine ho incontrato te. E se per ritrovarti
dovessi rivivere tutto daccapo, lo farei un milione di volte».
Piango ancora più forte, e lui mi stringe altrettanto forte.
«Mi dispiace di averci rotti. Posso sopportare di non avere più un’anima, ma
non di aver ferito la tua».
«Non farlo».
«Che cosa?».
«Sminuirti, Michael. Sei importante quanto me. Okay?».
Gli singhiozzo sul petto, lui mi tiene stretta con i suoi baci candidi e le
carezze sulle spalle, sulla schiena, tra i capelli. «Okay, ma basta piangere».
Tiro su col naso, mi sfrego il pugnetto sotto le palpebre. «S-sono stati i tuoi
genitori, vero? È per questo che hai fatto quello che dovevi».
«No. Loro erano l'arma, non il proiettile».
Mi viene da vomitare. I suoi... i suoi genitori lo vendevano? Lo
prostituivano?
«Ti va di raccontarmi tutto?», bisbiglio.
Michael rimane per un istante in silenzio, medita. Poi risponde: «Ci provo».
VENTIQUATTRO
MICHAEL

Michael: anni di rovina.

Quante volte può soffocare una persona prima di morire?


Domanda senza risposta.
Ma andava bene. Andava tutto bene.
Laggiù, sì, laggiù... chiuso, al sicuro, lì andava bene, era salvo. Da solo, che
le persone erano pericolose.
Non aveva memoria di giorni passati al di fuori della sua cantina, alla luce
del Sole, dove i raggi avrebbero potuto scoprirlo e illuminargli la pelle sporca di
altra pelle.
Forse, tempi lontani, quando avevano provato a mandarlo a scuola dopo che
la polizia si era presentata a casa sua. Per un attimo aveva osato sperare che il
dolore avrebbe smesso di bruciare, che erano lì per dire ai suoi genitori che gli
stavano facendo male, che si sentiva sgretolare.
E invece lo avevano spedito in mezzo alla gente, in mezzo ad altre persone
che di quelli come lui, specchi di sé stessi, non sapevano che farsene. Del resto,
cosa ci fai con un guscio vuoto, se non calpestarlo?
Dita, dita contro, sputi addosso, graffi sulla carne e spintoni. Ridevano,
ridevano, ridevano e ridevano. Che avevano da ridere? Perché ridevano di una
bocca silenziosa? Non aveva mai detto nulla per farli ridere, e nemmeno loro gli
avevano mai detto nulla per farlo ridere.
Come si fa a ridere?
Voleva chiedere.
E il coraggio per farlo dove lo aveva lasciato?
Non sapeva dirlo. Forse non ci era nemmeno nato con il coraggio. Forse era
nato per morire e basta.
Che poi, non è così che funziona?
Nasciamo per morire.
Ogni tanto ci aveva provato. A ridere come loro, ovvio. Strideva sulla lingua
una simile risata, raschiava sotto al palato e usurava la gola, ma era quanto più di
liberatorio e suo avesse mai avuto.
Divertente, divertente.
Gli avevano messo dei colori in mano, una volta, il secondo giorno di gente
intorno e piedi calpestati, e allora aveva provato... aveva provato a disegnare ciò
che aveva dentro, che di parlare non se lo sognava neppure. Non avrebbe
nemmeno saputo cosa dire.
Che hai disegnato, Michael?, aveva chiesto la sua maestra. Non ricordava il
suo nome, ma sembrava gentile e Michael non era abituato alla gentilezza.
Lui non aveva risposto. Si era limitato a indicare la croce, le tombe, gli omini
senza teste.
La maestra gentile aveva chiamato a casa, i suoi compagni lo avevano
chiamato pazzo.
Michael non era più tornato a scuola. Meglio studiare da privatista, anche se
poi di fatto non c'era mai stata nessuna lezione.
Si era comportato male?
Non doveva?
I suoi genitori si erano arrabbiati.
Cattivo, cattivo!
Schiaffo.
Bambino cattivo!
Schiaffo.
Indisciplinato!
Schiaffo.
Figlio del Diavolo!
E schiaffo.
Ma nella sua cantina non c'erano più schiaffi. Non c'erano più palmi sulle
guance, lacrime secche e denti feroci.
No. Aveva tutto ciò di cui aveva bisogno. Il vecchio giradischi, Chopin a
ripetizione, la scacchiera e una vecchia bambolina che dovevano aver
dimenticato i precedenti proprietari della casa.
Era la sua unica amica. Capelli gialli come i suoi, forse un po' più bianchi, e
occhi azzurri.
Di che colore hai gli occhi, Michael?
Di cristallo. Di cristallo che si rompe facilmente.
Bambolina non gli puntava il dito addosso, non rideva senza saper ridere,
non lo toccava, non gli diceva che era sbagliato, non gli diceva che il peccato
andava purificato, non gli diceva che era pazzo.
E lui voleva bene a Bambolina. Avrebbe solo voluto che fosse reale. Avrebbe
voluto che giocasse a scacchi con lui.
Avanti, ti insegno io. Ho imparato a giocare guardando un po' di televisione
quando nessuno mi vedeva, ma ti posso insegnare!
E gli si spezzava sempre di più il cuore, perché lei non rispondeva.
E non poteva ricambiare la sua stretta ogni volta che sua madre gracchiava
«Andiamo, Michael. Esci, Michael. Dobbiamo andare, Michael».
Lui usciva, ma poi quando tornava si ritrovava sempre con un pezzo in
meno.
Li perdeva per la strada, glieli strappavano via, e macchiavano quelli che gli
restavano sotto la pelle.
Chi, Michael?
Chi?
Non lo sapeva dire. Erano omini senza testa. E un giorno avrebbe colorato
quelle teste disperse.
Se lo diceva tutti i giorni.
Finirà, finirà, guarirai.
Non finiva mai.
«Michael, muoviti!», urlò sua madre, puntuale e precisa come sempre, al
calar della notte. «Ti consento al massimo un minuto, dopodiché vengo a
prenderti!».
Strinse le sue piccole labbra, strizzò le palpebre e mosse un pedone. Non
voleva lasciare la partita incompleta, l'idea di metterla in pausa in quel modo lo
turbava.
Aggrottò le sopracciglia, chiedendosi se quella volta il silenzio avrebbe
aiutato, magari se non avesse fatto rumore si sarebbero dimenticati di lui.
No. Non lo dimenticavano mai.
«Michael!». Si aggiunse la voce austera e nerboruta di suo padre.
Sospirò. Non voleva andare, ma doveva. Allungò le mani, afferrò Bambolina
e la guardò. Forse era meglio così, che era inanimata e felice, priva di dolore.
«Mi aspetterai?».
Immaginò un sì.
«Giuro che torno subito. Torno sempre, lo sai. Tu, però, aspettami lo stesso».
Un altro sì.
Ed era sul punto di stendere le labbra in un sorriso, una forma che a
malapena conosceva e a cui non era abituato, quando un polso serpeggiò al di
sopra della sua testa. Non li aveva nemmeno sentiti entrare. Avevano invaso il
suo spazio. Avevano toccato il suo posto speciale. Si sentì sprofondare.
«Dio ci ha affidato un compito difficile, ma spesso mi domando se non sia
del tutto impossibile», sibilò il padre, strappandogli via dalle mani Bambolina.
E Michael annaspò. Si sporse in avanti, non riusciva a respirare, gli afferrò le
braccia. Fu tutto inutile. Il Signor Baker la scagliò dall'altra parte della stanza,
l'impatto col muro risuonò nell'aria, gli fece tremare le ginocchia.
«E ora basta fare storie. Siamo di già in ritardo, stasera dovevi essere il
primo». Lo acciuffò dall'orecchio, incurante del buco che gli si stava scavando
nel petto e lo smarrimento totale. Glielo torse, trascinò il fantasma che era su per
le scale, non dandogli modo di accorrere e assicurarsi che Bambolina stesse
bene. «Sei fuorviato, figliolo. Perché non capisci che lo facciamo per te? Il tuo
spirito è danneggiato, la tua anima tentata dal male. Solo la santità può
rigenerarti, riesci a comprenderlo?».
No. Non riusciva a comprenderlo. Non aveva mai capito cosa avesse fatto di
sbagliato. Il motivo per cui venisse ritenuto il demonio. Una gomma da
masticare sotto la suola.
Ciononostante chinò il capo, il labbro stretto fra i denti e i pensieri alla sua
Bambolina che si scontrava contro la parete scrostata. Si era fatta male? Si era
rotta?
Il panico gli chiuse la bocca. Gli impedì di ascoltare la voce di sua madre, di
guardarla in quegli occhi freddi, fatti di corteccia levigata, o di osservarla
sistemarsi i capelli biondi, un po' più scuri dei suoi, in un foulard fiorato.
Non sentiva nulla. Non sentiva niente.
Quando usciva, col dodicesimo rintocco a rimbombargli nelle orecchie, lui
chiudeva a chiave il mondo fuori e restava con la mente nella sua cantina.
Assorbiva le mani, assorbiva il calore e il freddo e il gelo e il fuoco,
assorbiva le urla e i pianti e i sussurri viscidi, e poi li sentiva nei sogni, li vedeva
quando ritornava nel suo angolo e cercava di coprire i rumori con la musica.
Anche se poi mai nulla sembrava essere abbastanza.
Mi stanno strappando via Michael, mi lasciano solo Michael Baker.
E gli vibrava la cartilagine, col cuore che si spaccava per ogni punto diverso
in cui lo avevano toccavano, tutti, mentre i piedi camminavano da soli per le
lapidi. Mamma e papà dietro come due guardiani, come due dannati che gli
spianavano la strada per l'Inferno.
Aveva smesso di respirare.
Non respirava mai quando entrava nel sepolcro. Lì nulla profumava di mare.
Non gli piaceva nemmeno guardarsi attorno. Tanto vedeva sempre le stesse
facce. A partire dalla bambina con i capelli neri che non smetteva un attimo di
singhiozzare, il bambino con gli occhiali troppi grandi per il suo piccolo naso,
fino agli adulti senza faccia.
Avevano delle maschere. Non si volevano far vedere.
Vedeva solo il pastore, al suo altare, che dava inizio alla cerimonia. Tutto di
bianco, avvolto dal nero delle tenebre.
Iniziava sempre così: «Miei fedeli, miei fedeli! Bentornati. Questa notte
siamo qui per celebrare lo Spirito Santo, per tenere lontane le tentazioni di
Satana...»
Nascevano impuri, gli era stato detto. Nascevano col peccato originale
intagliato nell'anima, incastrato in spicchi di ossa difficili da raggiungere, e
doveva essere estirpato via.
Ci provava Michael a dire che lui era nato così e basta, che non lo aveva
scelto di essere cattivo, ma poteva migliorare... poteva diventare bravo, gli
dovevano solo dire come fare e lo avrebbe fatto.
«È questo il modo, figliolo. Quando diventerai grande, devoto e sano,
capirai».
Perciò aveva smesso di provarci.
E l'interruttore era sul punto di spegnersi.
«Michael Baker», iniziava, lui soffocava, «vieni avanti!».
Non respiro.
Non respiro.
Non respiro.
Suo padre, ora mascherato anche lui, lo spinse, gli sibilò sottovoce di
muoversi, a casa avrebbero fatto i conti. Lo spinse più forte. Michael inciampò.
Inciampò nelle articolazioni, nelle viscere accartocciate, nei pensieri tetri e nella
paura di sentirsi spezzare per sempre.
Ma aveva detto Michael Baker, e quando diceva Michael Baker non c'era
soluzione. Quando diceva Michael Baker, lui doveva andare e poi morire.
C'era solo lui, sdraiato sull'altare, il corpo di chissà chi sul suo e un dolore
lancinante.
La prima volta si era sentito lacerare. Aveva avuto cinque anni, o forse sei, i
suoi genitori non gli avevano mai fatto gli auguri e lui non aveva mai capito
quando fosse il suo compleanno.
Aveva avuto cinque anni, o forse sei, e polpastrelli bruschi gli avevano calato
i calzoncini del pigiama, poi gli avevano stretto il coso con cui faceva la pipì.
«Lo spirito è tra noi! Arretra, male e lussuria, arretra Lucifero e peccato!
Serpente ingordo!».
Di nuovo calzoncini calati, di nuovo dolore, corpo diverso.
E con la guancia schiacciata sulla superficie gelata, gli occhi vacui fissi sulla
bambina dai capelli neri — piangeva, piangeva, piangeva, e chissà che
liberazione — un busto caldo gli ricoprì la schiena.
Poi lo sentì. Gli entrò dentro, forte, crudele, una frustata ai polmoni, e prese a
spingersi senza sosta.
Ricordi la prima volta, Michael?
Certo che la ricordo, Michael. È la prima volta che sono morto.
E quella era la trentasettesima. Ora aveva dieci anni, forse. Ma quella restava
la trentasettesima.
L'uomo senza volto tratteneva i grugniti. Dicevano sempre che non
godevano, che non gli piaceva, ma lui sapeva che mentivano. Perché lo sentiva,
lo sentiva furioso, eccitato, perverso, arrabbiato e instancabile.
Si muoveva, gli entrava a fondo, si compiaceva e fingeva di no, e allora
spingeva più forte. E Michael si aggrappava ai bordi con le sue piccole mani.
Se ne andava nella sua cantina, con mani che lo sfibravano, e lui fingeva di
creare schemi, giocava a scacchi, parlava con Bambolina anche se parlare non
gli piaceva e si ripeteva che sarebbe tornato a casa, prima o poi. Non durava per
sempre.
«Assistete alla santità che compie la sua benevolenza!».
Bruciava. Bruciava troppo. Frantumava, gli sembrava che i filamenti di cui
era fatto si sfilacciassero a ogni rude colpo.
Un fievole ansimo gli sciolse l'udito. Lo ridusse in poltiglia, con lo stomaco
che si contraeva come carta crespa e cercava di respingere il corpo estraneo,
ancora illuso di poterci riuscire.
Mi spengo eppure continuo a sentire.
Lo sentì più vigoroso, più veloce, più a fondo. Dilaniò la carne, lacerò tutto,
e Michael sapeva che avrebbe sanguinato, che avrebbe continuato a sanguinare
per tutta la notte. Il suo corpicino era troppo piccolo per poterlo sopportare.
Gli uomini erano più dolorosi delle donne. Almeno stavolta ne era uno solo.
Le nocche strinsero gli angoli dell'altare fino a sbiancare, le pelle si voleva
strappare da sola, e lui era tutto un magari, magari si strappasse via da sola,
magari si portasse via il marcio.
Poi l'uomo smise di spingere, si rilassò, anche se aveva l'affanno, e qualcosa
lo sporcò sul sedere, sulle cosce, sulla schiena. Lo lasciò lì, il pastore disse amen
e gli intimò di ricomporsi.
Nessuno lo aiutava mai a rivestirsi. Non importava quanto facesse male,
quanto fosse instabile sulle sue stesse gambe. Nulla importava.
Michael doveva sempre scendere, alzarsi i calzoncini e tornare al suo posto,
senza fiatare, senza emettere un solo lamento. E poi doveva guardare gli altri
bambini.
Non aveva mai capito se fosse peggio sentirlo o vederlo.
La peggiore era quella bambina. Lei urlava, piangeva, e lui doveva stare zitto
a guardare. Lei chiedeva aiuto e lui non le poteva stringere la mano, non le
poteva dire lo so, lo so, ti capisco, non so il tuo nome ma ti capisco, non so il tuo
nome ma finirà, non so il tuo nome e mi dispiace ma non sei sola.
E gli iniziati... gli iniziati strillavano talmente tanto che sembrava venissero
intinti nella brace ardente.
Lo so, avrebbe voluto dire anche questo, la prima volta che muori è quella
che fa più male. E non smetterà mai di fare male, ma almeno ti abitui e ti puoi
spegnere.
Forse il peggio arrivava quando tornava a casa, quando si doveva lavare da
solo e le lacrime gli riempivano le retine. Gli faceva dolere la testa, gli
annebbiava la vista, eppure non scendevano.
Si gonfiava ma non esplodeva.
Implodeva, Michael, e si sbriciolava dentro, dove nessuno avrebbe mai
potuto soffiare sui resti della sua polvere.
Ma quella sera era diversa.
Quella sera successe.
L'interruttore non si spense.
L'interruttore esplose.
Due passi in cantina, la voce che chiamava Bambolina e lei spaccata a terra.
«No, no, no», sussurrava inginocchiato Michael, la testa in una mano e il
corpo nell'altra. «No, Bambolina, no...»
A chi avrebbe raccontato il suo trentasettesimo Michael Baker?
Spinse i due punti rotti uno verso l'altro, li forzò insieme, ma lei non tornava
a posto, lei non tornava come prima.
Chi le aveva fatto questo?
Papà, papà, papà.
Trentasette, trentasette.
E poi quando sarebbe diventato trentotto? Trentanove? Quaranta?
Cinquanta? Sessantasette?
A chi? A chi?
Chi avrebbe stretto?
Con chi avrebbe parlato?
Lui... lui gliel'aveva portata via...
Anche lei...
La voce.
Il respiro.
I colori.
La maestra gentile.
Le lacrime.
Le docce.
E ora Bambolina.
E poi?
Poi cosa?
Gli scacchi?
La musica?
Michael boccheggiò, si portò le mani al petto, quasi temesse di vedere il
cuore che gli rotolava via per andarsene in un posto sicuro. Fu un'emozione mai
provata. Rabbia. Fu rabbia quella che gli serpeggiò lungo la spina dorsale, che si
arrampicò su per gli anfratti più spigolosi del suo spirito demoniaco.
E un po' lo rimosse ciò che successe dopo.
Ricordava soltanto la cucina, il coltello che usava la mamma per tagliare il
pane che lui non poteva mangiare. Spesso lo lasciavano a digiuno.
Ricordava le scale che scricchiolavano.
La porta di legno del primo piano, di fronte alla sua camera che non usava
mai. Cigolò la porta, ma i genitori non si svegliarono.
Ricordava la lama seghettata, i visi immobili, i petti che si sollevavano e
abbassavano.
Ricordava che loro una faccia non l'avevano. Omini senza teste. E provò
prima con la madre, sollevò la lama e l'abbatté sul collo squarciando la pelle
della gola.
Non venne mai via la testa, non era ancora abbastanza forte. Però morì in
fretta. Il padre ebbe a malapena il tempo di spalancare gli occhi, svegliato dallo
spruzzo di sangue, prima di morire anche lui.
Ricorda di essere impazzito.
Ricorda di aver calato il coltello ovunque, poi.
Trentasette volte. Per ogni morte, per ogni purificazione, per ogni bruciore e
per ogni doccia. Per ogni abbraccio da dietro.
Trentasette. Il letto era tutto rosso, lui non vedeva più, aveva le macchie negli
occhi, e la lama gli scivolava via dalle mani per quanto era zuppa.
Ricorda di essersi accucciato lì all’angolo, dopo. Per tutto il tempo.
Non si era mosso fino a quando qualcuno, forse la vicina, forse i datori di
lavoro, forse chissà chi altro, non aveva chiamato la polizia notando l'assenza
della famiglia.
E Michael era stato trovato così. Fradicio di sangue secco, il coltello in mano
e gli occhi persi per sempre nel vuoto.
«Non è passato, non è passato», sussurrava, sussurrava, le corde vocali non
funzionavano più, lui non funzionava.
E poi era stato tutto troppo.
Giornali.
Psicologi.
Psichiatri.
Assistenti sociali.
Polizia.
Detective.
Ispettori.
Visite.
Il medico che gli analizzava il corpo. Lui che urlava quando gli aveva
abbassato i calzoncini.
No, no, no, basta Michael Baker!
Urlava quando lo avevano bloccato.
Quando il medico gli aveva scattato la foto ai genitali.
I tuoi genitori ti hanno fatto del male, Michael? Ti hanno violato?
Non aveva risposto. Non avrebbe saputo dirlo.
Perché l'hai fatto, Michael?, avevano provato diversamente.
Non aveva mai risposto nemmeno a questo. Qualcosa lo bloccava. Le sue
voci gli dicevano di stare zitto, gli dicevano che se l’avesse fatto sarebbero
tornati a riprenderlo.
Miei cari fedeli, miei cari fedeli.
Benvenuti, bentornati!
Gli chiesero i nomi dei suoi genitori. Michael non rispose. Lui... non li
ricordava più.
All'ennesimo perché, Michael?, arrivò il blackout.
Cadde nel silenzio.
Michael non parlò più.
Venne portato all’orfanotrofio. I sospetti riconducevano tutti ai genitori, lui
era innocente ma le più svariate teorie volavano attorno al caso archiviato.
Un bambino affetto da psicosi.
Un bambino traumatizzato.
Un bambino che aveva bisogno di altri bambini.
Provò il primo giorno.
Provò il secondo.
Andò a scuola.
E quella donna... quella donna disse Michael Baker. Capito? Lei lo chiamò!
Disse proprio così, e lui non voleva, non voleva, non di nuovo.
Per favore, per favore, non di nuovo.
E ricorda di essersi graffiato il viso, ricorda di essere stato riportato
all'orfanotrofio di corsa. Nelle mani, ciuffi biondi strappati via. Nelle mani, un
pezzo di vetro con cui tagliarsi la pelle. Se fosse stato brutto, non lo avrebbe più
toccato nessuno.
Fu lui a scegliere di rinchiudersi. Fu lui a scegliere di starsene al sicuro.
Dove nessuno avrebbe potuto chiamarlo, toccarlo, sfiorarlo.
«Quando vorrai, quando sarai pronto, Michael, la porta sarà sempre aperta»,
gli aveva detto la direttrice.
Gli avevano portato da mangiare. Gli avevano portato la scacchiera. Gli
avevano portato dei vestiti puliti. Donne gentili provavano a interagire, a
insegnarli delle cose, ma lui fingeva di ascoltare.
Ben presto si erano dimenticati di lui.
Andava bene così.
Era tutto ciò che voleva.
Finché in un giorno di primavera, lui ancora stava su in mansarda, un vento
gelido gli sfiorò gli zigomi. L'aria era frizzante.
Si sporse alla finestra.
E furono ciuffi bianchi, occhi dell'Oceano Pacifico quando era arrabbiato e
lacrime, lacrime, lacrime, quelle che non aveva più.
«Bambolina», sussurrò, il cuore si impennava, tornava a formarsi, si ricostruì
pezzo dopo pezzo, a ogni goccia che picchiava l'asfalto. «Bambolina, sei vera».
Quel giorno Michael uscì dalla mansarda.
Scelse una nuova stanza.
E aspettò che lei arrivasse.
Ti aspetto da una vita, sai?, le avrebbe detto, se mai avesse avuto il coraggio.
Ti aspetto da una vita, e ti aspetterò ancora.
Solo, non metterci troppo.
VENTICINQUE

GRACE

Non ho idea di dove io trovi il coraggio e la forza di non rigettare lì ai miei


piedi, di non vomitare pure l'anima. Contenere le lacrime e i tremori, però, è
impossibile.
Più Michael parla, più mi si accappona la pelle. Non voglio ascoltare altro.
Non ce la faccio.
Ho sempre immaginato che gli fosse accaduto qualcosa di terribile, ma
questo... questo è troppo. Al di fuori di qualunque concezione umana, il degrado
più basso e perverso dell'umanità.
Credevo che certe cose accadessero solo nei libri, nei film. E invece no,
invece sono così reali e odierne che perfino un comune vicino di casa, che ci
appare tranquillo e mansueto, può nascondere il più disgustoso degli animi.
La cosa che più fa schifo è il modo in cui hanno archiviato il caso di
Michael. Esistevano le prove, le fotografie del risultato degli abusi subiti, eppure
è bastata la sua paura e l'evidente instabilità per gettarlo in un cestino, come se
non contasse niente ed evitarsi un caso di cronaca nera.
Troppo impegnativo.
E perché spendere tempo dietro a un bambino affetto da psicosi?
Del resto, i suoi genitori erano morti. Non c'era più nessuno da incolpare.
Mastico tra i denti singhiozzi e imprecazioni. Non voglio spostare
l'attenzione su di me. Pretendo che resti lui il centro dei nostri pensieri.
Con la mano ancora dispersa fra i suoi ciuffi biondi, sbiaditi fasci di luce, mi
chino a stampargli un bacio sulla fronte.
Bambolina... io sono la sua bambolina.
Fino all'ultimo respiro e ancora un altro po'.
Non giustifico le sue azioni, ma finalmente posso comprenderne a pieno le
ragioni. A partire dai suoi genitori fino a Denver.
Strizzo gli occhi. Non mi va di pensare a Denver, alla sua testa ai miei piedi,
perché non riesco più a provare il ribrezzo che provavo all'inizio e questo mi
spaventa da morire. Non è normale. Ma Michael è più importante della mia
morale del cazzo.
«Tutto quello che ho fatto, tutto quello che faccio e tutto quello che farò»,
fiata lui, gli occhi vitrei dispersi verso il soffitto, «è solo e soltanto per te. Sei
tutti i libri che vorrei leggere, Grace, e i desideri che non ho mai avuto il
coraggio di esprimere. E non ti ho mai ringraziata, sai? Non come si deve,
almeno».
Struscio la bocca sulla sua guancia, gli sfioro le labbra e ci stampo sopra
piccoli bacini che lo fanno sospirare. Lui mi agguanta dalla nuca, i suoi
polpastrelli delicati mi solleticano la pelle, e mi tira più in basso. Tempia contro
petto, orecchio sul suo cuore. Assomiglia molto al mio: sta per scoppiare.
«Non devi ringraziarmi proprio di niente, Michael. Semmai sono io che devo
scusarmi con te per le cose orribili che ti ho detto, per il modo meschino con cui
ho colpito i tuoi punti deboli. Mi dispiace così tanto, ma non credevo che... non
avrei mai potuto immaginare che tu avessi un passato simile...», mi si spezza la
voce dalla vergogna e il senso di colpa, mentre lui mi massaggia la nuca.
Cristo, l'ho chiamato Michael Baker.
Se solo potessi, tornerei indietro e mi prenderei a schiaffi. Gli ho dato del
mostro, quando i veri mostri se lo sono mangiato. E lui mi ha pregata, mi ha
supplicata, si è stretto e spaccato davanti a me, cadendo nelle ceneri di ricordi e
allucinazioni, e io non ho smesso.
Non. Ho. Smesso.
Ho continuato. Gli ho assestato colpi su colpi, facendolo a pezzi. Non mi
sono fermata nemmeno quando non ne erano rimaste altro che briciole; no, ci ho
soffiato sopra.
L'ho usato.
Stringendolo, scoppio a piangere, che altro non so fare. Stupida, stupida,
stupida.
Come può ringraziarmi?
Non me lo merito. Non me lo sono mai meritato.
Premuroso come nessun altro, mi asciuga il pianto dagli zigomi. «No, peste,
non piangere. Va tutto bene, okay?», sussurra dolcemente, ma io scuoto la testa
perché nulla va bene.
«Mi dispiace, Michael. Mi dispiace tanto. Per favore, perdonami...»
«Ehi», mi riprende, la voce non perde il suo tono soffice, e lui mi accarezza
le guance. «Non è colpa tua. Non c’è niente da perdonarti perché non sono mai
stato arrabbiato con te».
Tiro su col naso. «E allora non c’è nemmeno niente da ringraziare».
Michael è come fuliggine, ciò che ne resta dell'incendio. Il capro espiatorio.
Mai fuoco, mai acqua che ripulisce. Solo fuliggine.
Magari le mie lacrime possono lavarti un po' . Aspetta che ti prendo il cuore.
Aspetta solo un attimo.
«Ma sì, Bambolina. Certo che ti devo ringraziare», mi canzona, il tono
bonario, come se solo il fatto di avermi qui stretta a lui lo faccia stare bene.
«Non te l'ho mai detto, ma tu mi hai insegnato la vita. Ero il vuoto prima che
arrivassi. Ero tante pagine bianche e tu hai preso una penna in mano per
riempirle di te. Ogni volta che entravi nella mia stanza, con il tuo sorriso e un
regalo per me, portavi il Sole, Grace. Mi hai insegnato a respirare in tanti modi
diversi, che è quanto di più prezioso abbia mai imparato. Ti pare poco? Per me è
l'immenso. Non credo che dovresti darlo per scontato. Io non lo faccio. Quindi
grazie, Grace».
Forse è così.
Forse l'ho fatto davvero, inconsapevolmente. Ricordo i suoi occhi emozionati
alla scoperta della dolcezza dei biscotti, il brillio nell'assaporare la cioccolata. La
curiosità di chi non sa nemmeno soffiare su una candelina o l'imbarazzo
nell'apprendere la lettura in ritardo.
Michael che ascoltava la mia musica, Michael che arricciava il naso perché
non gli piaceva la liquirizia.
Michael che mi chiedeva dell'amore. Michel che, senza sapere che cosa
fosse, me l'aveva gettato addosso e scritto con quanto più sentimento avessi mai
potuto percepire su chiunque altro.
Un pensiero fragile quanto intenso mi fa tribolare la gola. «Vorrei tanto
strappare via i tuoi ricordi e cucirtene sulla pelle di nuovi. Tu lo vorresti?».
Sollevo la testa, scontrandomi con occhi confusi e curiosi. Una grinza gli
abbellisce la fronte, tanto che vi passo l'indice sopra, distendendola.
«Se tu lo vuoi così tanto, allora va bene. Fa’ pure».
Gli prendo il viso tra le mani, i palmi adagiati sulle sue guance incavate, e
scuoto la testa. «No, Michael. Questa volta non posso scegliere io per te. Devi
dirmi se desideri nuovi momenti, attimi più belli in cui sprofondare. Sostituire le
tue paure con le speranze, i graffi con le carezze. Lo vuoi o no?».
«Io...», sbatte le ciglia, disorientato, «io non lo so. Non capisco neanche
quello che vuoi dire. Però mi fido di te e se credi che questo potrà farmi stare
meglio, fa’ ciò che devi. Cancella e riscrivi pure, Bambolina».
Questo ragazzo mi affiderebbe la sua vita a occhi chiusi. Se gli chiedessi di
privarsi d'aria per darla a me, lo farebbe senza pensarci due volte. No, non me lo
merito per niente. Come avevano potuto fargli del male? Non avevano intravisto
tutta la dolcezza di cui è fatto?
A tale presa di coscienza, è inevitabile baciarlo. Senza fretta, senza urgenza,
senza frenesia. Lo bacio lentamente, un caldo intreccio di lingue. Schiocchi
profondi risuonano, mentre lo assaporo e godo del nostro naturale contatto.
Come se fossimo stati creati per farlo per l'eternità.
Rinsalda la presa sulla mia nuca, preme i polpastrelli, e stringo le sue ciocche
morbide, tirandogli via un gemito che mi rimbomba sulla lingua.
Restandogli incollata, in quel miscuglio di labbra e saliva, mi sposto a sedere
sulle ginocchia tra le sue gambe aperte. Le sue mani scivolano sui miei fianchi, li
stringono da sopra la stoffa della maglietta, poi da sotto, pelle su pelle, ed è
combustione pura. Non riusciamo a gemere soltanto perché abbiamo le bocche
troppo unite.
Quando Michael comincia a rilassarsi contro di me, ne approfitto per
muovermi un po’ più a lato, stando attenta a non farglielo notare troppo.
Scavalco la sua coscia e, tenendolo dalla nuca, lo costringo a piegarsi un pochino
in avanti.
«Grace», mugola, mi lecca il labbro superiore, concedendomi una boccata
d'ossigeno.
Prendo un respiro profondo. Non devo distrarmi. Quindi scivolo sul suo
collo, gli lascio una scia di baci umidi e languidi. Lui inclina la testa dall’altro
lato, assecondandomi, folgorato dal piacere.
«Che bello», biascica. «Non smettere».
Gli mordo le spalle nude, lecco le clavicole sporgenti, gli incavi, succhio la
base della gola e ingoio ogni suo ansimo, mentre i suoi palmi scendono a
strizzarmi le cosce con possesso, prima di iniziare a disegnare cerchietti pigri e
sensuali. Mi fa girare la testa. È delicato e irruente allo stesso tempo, una combo
micidiale.
«Sto per fare una cosa, ma non devi dare di matto», bisbiglio, spostandomi
ancora di più alla sua destra. Intrufolo un braccio dietro la sua schiena per
crearmi un varco. «Okay?».
Lo sento deglutire, intanto che gli bacio la mandibola. «Okay», inspira di
scatto, afferrandomi dal braccio libero. «E questa cosa, sarebbe?».
Strofino l’indice lungo la sua spina dorsale, risalgo fino alla scapola sinistra e
percepisco il modo in cui si tende quando lo circondo anche con una gamba.
«Grace», mi richiama, agitato. «Grace, aspetta! Che vuoi fare?».
Gli stampo un nuovo bacio sulla spalla, prima di sollevare gli occhi su di lui
e guardarlo da sotto le ciglia. Gli rivolgo un sorriso d'incoraggiamento,
trovandolo a labbra compresse e zigomi tirati.
«È tutto okay, Michael. Hai detto che ti fidi di me, giusto? Allora lasciami
fare. Prometto che ti farò stare bene, che avrò cura di te e cancellerò ogni
macchia di cui sei stato ricoperto. Puoi stringermi mentre lo faccio e, se è troppo,
puoi fermarmi in qualunque momento».
Una caterva di emozioni gli lacera il viso, gli riempie le pupille. Panico,
desiderio, paura, amore, speranza, timore, disagio, tenerezza. Medita per un po',
lasciandomi in bilico, ma alla fine annuisce. Non dice nulla. Si limita a un tacito
permesso, anche se incerto e titubante, con le spalle tese e le ginocchia pronte a
scattare e farlo correre via. Così mi accarezza i capelli, per tenersi ben saldo a
terra.
«Grazie», mormoro, strofinando la punta del naso sul suo collo delicato.
Trema sotto le mie dita, man mano che mi sposto dietro di lui. Per un attimo
mi stritola la coscia, paralizzandosi, e uso ancora più delicatezza. Lo riempio di
carezze, di baci e sussurri gentili. Gli dico che lo amo e che non gli farò del
male.
«È questo un vero abbraccio da dietro, Michael», bisbiglio, avvolgendolo fra
le mie braccia in una stretta morbida.
Lui resta rigido. «I-io... i-io non...».
Non completa la frase, perciò poso le labbra sulla sua nuca e faccio scorrere
le mie dita un po’ ovunque. «Shh, va bene così. Lasciati andare, appoggiati a me
e chiudi gli occhi. Ti tengo io».
Raggiunge la mia mano posata sul suo petto, intreccia le nostre falangi e,
dopo aver preso un respiro profondo, comincia a fidarsi di me. Mi schiaccia con
il suo peso, lasciandosi cadere, e faccio come gli ho appena detto: lo tengo.
A palpebre chiuse, appoggia la testa sulla mia spalla e si abbandona al mio
piccolo corpo che fa del suo meglio per reggerlo. Continua a respirare
profondamente, con la mano ben stretta alla mia, e io gli strofino il naso sulla
tempia che poi bacio teneramente.
Più passa il tempo, più lui si rilassa e più io lo stringo a me, non volendo più
separarmene. Non so per quanto restiamo abbracciati a sconfiggere i suoi
demoni, ma è proprio lui a spezzare il silenzio.
«È bello».
Mi si riempiono gli occhi di lacrime, provo a fare del mio meglio per non
piangere ancora. «Questo significa che posso abbracciarti ancora?».
«Cavolo, sì. Tu puoi fare di me quello che vuoi, Grace. Solo tu, tu, tu e basta.
Non smettere mai più, ti prego, che ho appena trovato un altro modo per
respirare».
«Ne sono felice, Michael».
«Bambolina?».
«Sì?».
«Adesso vorrei abbracciare io te».
NON
Grace: 12 anni.
Michael: 16 anni.

“Ciao, Michael.
Non so perché ti sto scrivendo. In realtà ci stavo pensando da un po’, ma è la
prima volta che lo faccio per davvero e, sul serio, non capisco il motivo. Hai
provato ad uccidermi. Mi hai fatto del male. Mi hai promesso che tornerai.
Perciò no, non dovrei proprio starmene qui seduta sul mio letto a scriverti. Forse
non dovrei nemmeno pensare a te.
Ma è più forte di me. Tu sei più forte di me. E penso che posso odiarti tutto il
tempo, che posso pentirmi di essermi fidata di te, ma magari posso prendermi
questi momenti ogni tanto in cui fingo che non sia successo niente e che siamo
ancora Michael e Grace. Qui e ora siamo noi, okay?
Okay.
Il Benetton è vuoto. Margot mi punzecchia ancora ogni tanto, ma sono
comunque sola e, quando non vado alla St. Gerard, è difficile stare qui dove ogni
cosa mi ricorda di noi. La direttrice Caroline ancora non mi sopporta, ogni scusa
è buona per prendersela con me e l’unica ad avere un minino di cura nei miei
confronti è Miss Eleonor.
Dopo quello che è successo ha sempre un occhio di riguardo verso di me. Lo
capisco. Ho visto due persone morire. E il problema è che non me ne frega
niente di Killian e Jonah e mi manchi tu, ma mi vergogno di questa cosa.
Elisa, Cody e Ben mi hanno chiesto di te una volta. Ormai lo sanno tutti
quello che mi hai fatto. E fidati che non è stato bello per me i primi giorni, con
gli sguardi della gente addosso. Ti odio anche per questo.
A ogni modo, è arrivata una nuova bambina.
Si chiama Reese, ha due anni. E ora devo andare da lei per aiutarla ad
ambientarsi.
Prima, però, brucerò questa lettera.
Alla prossima, Michael”
VENTISEI

GRACE

Quinto giorno insieme a Michael.


Semplicemente bellissimo.
Semplicemente nostro.
Mi ha svegliata ricoprendomi di baci umidi e caldi, piccoli soffi sulla pelle
destinati a infiammarmi, e ora mi sta lavando, fazzoletto e bottiglia d'acqua in
mano. Minuzioso, non che possa aspettarmi altro da lui, ripulisce ogni minuscolo
lembo di pelle, senza perdersi nulla per strada e stando attendo alle mie piaghe.
«Cosa c'è in quel congelatore?», gli chiedo a occhi chiusi, beandomi del suo
tocco delicato.
Passa la salvietta tra le mie clavicole sporgenti, prima di poggiarvi le labbra e
succhiare la mia carne debole.
«Cibo, acqua, alcune magliette se hai freddo», biascica, scivolando
nell'incavo del mio collo, mordicchiandolo. «L'essenziale. Ho fatto un po' di
scorta prima di venirti a prendere».
«Dove e come l'avresti fatta questa scorta? Sentiamo un po'».
Michael sbuffa una risatina, un refolo d'aria che mi si dissolve dietro
l'orecchio. «Non vuoi davvero saperlo. Hai appena smesso di guardarmi come se
fossi qualcosa di abominevole, non ho alcuna voglia di fare marcia indietro».
Allaccio le braccia attorno al suo collo, le dita gli solleticano la nuca, e
finisco per ribaltarci. Mi sistemo su di lui, avvolgendogli il bacino tra le mie
cosce.
Mi pianto nei suoi occhi di ghiaccio, stendo la bocca in un sorriso ironico.
«Ho come l'impressione che ormai non abbia più alcuna importanza ciò che hai
fatto prima di tutto questo. Abbiamo deciso di archiviare il passato e rinchiuderci
nella nostra bolla, no?». Michael annuisce, quindi aggiungo «Ecco, sbrigati a
cantare».
Lui sospira, poi reclina il capo all'indietro, poggiandolo alla parete scrostata,
e disegna cerchietti pigri nell'interno della mia coscia, facendomi ribollire in un
brodo di giuggiole.
«Hai visto sui notiziari come ho fatto ad evadere?».
Sì, l’ho cercato la sera stessa in cui ho appreso la notizia e sono sprofondata
nel panico più assoluto. Mentre lo trasferivano al San Quentin, il pulmino ha
sbandato e si è schiantato contro la roccia della costa di Monterey.
Ovviamente, non si è trattato di un incidente. È stato Michael a distogliere
l'attenzione dell'autista con uno dei suoi scatti. È soltanto un miracolo divino se
non ci ha rimesso la vita lui stesso. Gli agenti di guardia, seduti davanti e in
fondo, in prossimità del parabrezza e dei finestrini, sono rimasti gravemente
feriti, al che lui ne ha approfittato per darsela a gambe levate.
Annuisco, cercando di non soffermarmi troppo sul ricordo dei suoi piedi nudi
insanguinati. Ecco come si è ferito e, ciononostante, ha continuato a camminare
per starmi dietro prima di rapirmi. Un brivido mi percorre la schiena. Ancora
non riesco a capacitarmi di quanto sia sincero ogni volta che mi dice che per me
farebbe di tutto.
«Mi sono fermato a una stazione di servizio nel tragitto e ho rubato ciò che
mi serviva», dice, appuntandomi un ciuffo dietro l'orecchio.
«Hai fatto qualcosa al commesso?».
«Gli ho fatto perdere i sensi. Non potevo permettermi di rischiare che mi
riconoscesse e chiamasse la polizia. Ma non l'ho ucciso, giuro».
«Beh, almeno questo», sospiro, sollevata all'idea che non abbia combinato
ulteriori danni. «Non si può certo dire che tu abbia agito da impreparato».
Michael sfrega i palmi su per le mie gambe, fino ad avvolgermi il bacino e
serrare la presa. Mi avvicina a sé. Stampa un piccolo bacio sul mio labbro
inferiore, poi fa scontrare i nostri nasi.
«Certo che no. Si tratta di te, era fondamentale programmare tutto per il
meglio».
Prima che possa chiedergli cosa intende nello specifico, mi travolge in un
bacio languido, senza fine, affamato. Non ne abbiamo mai abbastanza l'uno
dell'altra. Basta una piccola scintilla per appiccare il fuoco ogni volta.
Inclino la testa quando la sua lingua mi scivola giù per il collo, lo afferro dai
capelli, le dita si impigliano nelle ciocche con le ciglia che sfarfallano.
«Devi smetterla di dirmi queste cose, altrimenti mi fai piangere», ridacchio,
giro il volto per lasciargli un morsetto sulla punta del naso e lui sorride.
Michael sorride, ignaro che non esista niente di più bello della curva
disegnata dalla sua bocca, ad angoli sollevati e piccoli accenni di fossette nelle
guance.
Fossette. Quando sorride gli spuntano le fossette. D'istinto, infilo l'indice in
quella sulla guancia destra.
«Lo so, è solo che non riesco a realizzare che tu sei qui con me e che non mi
odi», mormora, prima di affondare la testa nell'incavo del mio collo. «La sera
che sono venuto a prenderti, avevi un coltello in mano. Capisci che intendo? Un
coltello, Grace. Volevi sul serio pugnalarmi?».
Incredibilmente, pervasa dalla follia e contro ogni aspettativa, scoppio a
ridere stringendolo a me. Il solo pensiero che fino a cinque giorni prima volevo
fargli del male mi fa sentire ridicola.
Sembra una barzelletta. Perché sì, ero davvero convinta che mi sarei difesa,
quando la realtà è che ho sempre desiderato che lui tornasse da me. È un
pensiero orribile, ma l'unico motivo che mi ha spinta a odiarlo è che non mi
aveva riconosciuta. Aveva spezzato la mia certezza secondo cui non sarebbe mai
stato capace di torcermi un capello.
Ora capisco cosa sia successo, riesco a comprendere e so che l'obiettivo non
ero io, ma prima di tutto questo... come potevo sapere?
«E chi può dirlo?». Mi stringo nelle spalle. «Ero spaventata, sconvolta, piena
di odio ed ero convinta che tu volessi uccidermi. Ci avrei provato, di questo ne
sono certa, ma non so se alla fine ce l'avrei fatta davvero».
«Beh, sono contento di averti fermata in tempo, comunque».
«Mi hai fatta svenire».
«Ti ho fatta calmare».
Inarco le sopracciglia, affondo i denti nel labbro inferiore e trattengo una
risatina, sfiorandogli le labbra con le mie. Mi piace quando è così disinvolto,
privo di timori e paure. Mi piace sentire Michael. Solo Michael. Probabilmente è
la conversazione più lunga e spensierata che abbiamo mai avuto.
«Da quando hai questo senso dell'umorismo?».
Michael si riempie i palmi del mio fondoschiena, i polpastrelli affondano
nella carne, e inclina la testa al mio sussulto. «Non so neppure cosa sia il senso
dell'umorismo, Grace».
Giusto. Devo tenerlo a mente e smetterla di dimenticarmi che ciò che pensa,
dice.
Mi aggrappo alle sue spalle spesse, le unghie slittano lungo le clavicole e
girano dietro le scapole, facendomelo vibrare sotto le dita. «Perdonami.
Intendevo dire che sei stranamente rilassato e sereno».
«Non può andare male ogni giorno, no?».
E per qualche motivo, un flebile respiro emozionato abbandona le mie labbra
quando gli rispondo: «Immagino di no».
L'istante a seguire mi ritrovo stesa sul materasso, la sua bocca sulla mia, le
lingue intrecciate e i bacini a stridere tra loro. La maglietta mi si arrotola su per
la pancia, mentre Michael si fa spazio tra le mie gambe e continua a premere il
corpo contro il mio.
Mi riempio gli occhi della sua pelle d'alabastro, della porcellana tagliente di
cui è fatto: il pomo vistoso, le spalle larghe, il petto definito e l'addome piatto.
Osservo le sue braccia flesse ai lati della mia testa, puntellate da quelle arterie e
vene così evidenti, un reticolato spesso e calcato, che mi fa venire voglia di
leccarlo.
«Che fai?», mi chiede, notandomi distratta.
«Ti guardo».
«E perché?».
«Perché sei bellissimo, Michael».
Sorride. Fossette. «Va bene, ma io voglio tornare a baciarti e poi fare l'amore
con te. Che ne pensi?».
Piego un ginocchio, gli avvolgo il fianco con la gamba e lo tiro su di me.
«Penso che stiamo sprecando il fiato».
Le sue mani scorrono dalle mie caviglie fino alle cosce, poi su per la pancia,
si inoltra al di sotto della maglietta e raggiunge il mio seno. Lo strizza a palmi
aperti, facendomi gemere dalla sorpresa e dal piacere, e struscio il mio sesso
eccitato contro la sua erezione.
Oh, Dio...
Mi titilla i capezzoli, affonda la bocca sulla mia gola, la succhia, e spinge tra
le gambe per farmi sentire tutta la sua durezza. Ma prima di fare qualsiasi cosa,
lo afferro dal viso, cerco il suo sguardo.
«Ti va di cancellare un’altra macchia, Michael?».
«A cosa ti riferisci?».
«Voglio guardarti», deglutisco. «E poi voglio toccarti».
Lui resta sospeso su di me, immobile e a labbra schiuse, sorpreso dai miei
desideri. Lo vedo il panico che gli si incastra nelle pupille, perciò gli accarezzo
le guance e sorrido.
«Fidati di nuovo di me, d’accordo? E, come per ieri, puoi fermarmi quando
vuoi».
Michael ingoia un groppo vistosamente, l’agitazione gli imperla di sudore la
pelle, tuttavia annuisce. Lo so che lo fa più per me che per lui. Ma so anche che
devo andarci piano, perché le sue reazioni sono imprevedibili.
Infatti, non appena si tira sulle ginocchia e io provo ad abbassargli i
pantaloni, lui si tende e ferma le mie mani.
«No, aspetta», annaspa, terrorizzato. «Non so se riesco a farlo, Grace. Non lo
so, io...»
«Va bene», lo fermo, e sollevo i palmi in aria per fargli capire che non lo
forzerò. «Facciamo come vuoi tu, promesso».
E forse gli ho appena dato una sicurezza, o una forza di qualche tipo, perché
Michael stringe le labbra in una linea retta e dice: «Ti guido io».
«Cosa?».
«Dammi la mano».
Ho un vago presentimento riguardo quello che vuole fare e il cuore mi si
spacca nel petto. Senza fiatare, lo assecondo. La sua mano racchiude la mia, poi
la dirige verso il bordo dei pantaloni e comincia a farlo scivolare. Lo sento
tremare, ma non si ferma. Con lentezza, si fa spogliare dalle nostre mani. La
stoffa cade a terra.
Quando resta nudo davanti a me, mi sento morire.
«L-lo so. Lo so che non è bello», sussurra, angosciato.
Mi mordo fortissimo la lingua per non scoppiare a piangere come una stupida
per l’ennesima volta. Mio Dio. Ecco cosa ci faceva con quel pezzo di vetro.
Lui… lui si tagliava. Si vede che non lo fa più da tempo, ma i segni gli sono
rimasti addosso in una maniera indelebile. Vorrei accarezzargli le cicatrici con
cui si è deturpato, peccato non me ne dia modo. Mi tiene ferma dal polso, mentre
le mie dita si socchiudono dal desiderio di amarlo soltanto.
«E invece sei tutto bellissimo, Michael. Rovinato e unico, e io ti amo così
come sei».
«Grazie», si limita a dire.
Poi mi permette di toccarlo. Lentamente, mi fa chiudere le dita attorno alla
sua carne rigida. La pelle calda mi ustiona il palmo ed entrambi emettiamo un
sospiro brusco. Sentirlo così, la fiducia che mi sta donando è la cosa più bella del
mondo.
«Tutto bene?», gli chiedo.
«Sì».
Muove la mia mano dalla base fino alla punta, facendomi stringere un
pochino più forte la presa. È la prima volta che tocco un ragazzo in questo modo,
e mi piace da morire. Il mio polso si adatta al suo ritmo incalzante, e percepisco
il suo fiato farsi più corto. Un po’ di liquido perlaceo mi bagna i polpastrelli, e
d’istinto glielo cospargo su tutta la pelle.
«Grace…», ansima.
E lo guardo, perché lui è la mia priorità. Deve essere il centro di tutto,
altrimenti niente ha senso. È ancora teso, ha le labbra compresse e gli occhi
puntati sulle mie dita che lo avvolgono. Sempre tutto guidato e controllato da lui.
Ed è proprio lui a fermare i movimenti. «Okay, basta così», ringhia, rauco.
Non ho tempo o modo di realizzare quanto stia accadendo. Non riesco
nemmeno a chiedergli se gli sia piaciuto. Si getta su di me, la mia schiena sbatte
sul pavimento e spalanco gli occhi. Lancio un urletto quando mi afferra la coscia
e la piega all'indietro, portandosi il polpaccio sulla spalla e aprendomi ancora di
più per lui.
«Michael», piagnucolo, nel sentirlo strusciarsi sulla mia intimità.
Lo osservo ammaliata afferrarsi il sesso, farlo scivolare tra le mie labbra
umide per lui e gemere a bassa voce. Una volta, due, tre. Si strofina con più
forza, fino a premere la punta sul mio clitoride. Mi fa andare fuori di testa. Le
mie pareti si restringono, desiderose di sentirlo dentro e solo dentro, e avvolgerlo
in una morsa.
Si prende soltanto un attimo per guardami negli occhi e chiedermi: «Posso?».
«Certo che puoi».
Michael stringe la base e dirige la punta dentro di me, prima di seppellirsi
fino in fondo. Non credo mi abituerò mai alle sue dimensioni, tuttavia non esiste
sensazione più bella del sentirlo così in profondità. O del suono che fanno i
nostri corpi a contatto, lo schianto che producono, un'armonia così ritmata e
seducente.
Stringendo le dita attorno alla mia gamba sollevata, l'altra mano schiacciata
vicino al mio viso e il suo fiato pesante che mi sbatte sulla faccia, mi perdo nei
suoi movimenti ritmati, nel suo sesso che esce ed entra, gocciolante dei miei
umori. Uniamo le lingue, replichiamo tra le bocche l'atto sessuale.
Più ci baciamo forte, più Michael mi scopa forte.
«Sì, sì, così», ansimo, a schiena inarcata, mordendogli la punta della lingua e
infilandogli le unghie nelle scapole.
Mi afferra il seno, lo stringe nel suo palmo e rallenta. Mi lascia con l'amaro
in gola.
«Ma cosa...», farfuglio, quando mi dà un colpo secco e profondo, capace di
farmi vedere le stelle. «Oh!».
Dà una spinta talmente intensa che ci sposta all'indietro. E ancora. E ancora.
Poi mi solleva anche l'altra gamba sulla sua spalla, provocandomi una morsa
vorace allo stomaco.
Non so se per tutti sia così bello, ma di sicuro per me il sesso con Michael è
meraviglioso.
Si tira sulle ginocchia, dopo avermi scoccato un bacio. «Cazzo», fiata, e
riprende a muoversi con furia, tenendomi ferma dalle anche.
Scivola bruscamente, lo sento concentrato del tutto su di noi e su ciò che sta
facendo, come se mi stesse dando tutto di lui, e forse è proprio così. Perché
anche se è rude, sporco e rozzo, percepisco l'amore.
Un calore primordiale si espande dal mio centro, tanto che mi irrigidisco e lo
stritolo nella mia morsa, strappandogli via ringhi e gemiti, così eccitanti che
credo di essere venuta solo per quei versi. L'ondata è travolgente, mi paralizza
per una manciata di secondi, durante i quali lui non smette di penetrarmi, senza
perdere il ritmo intenso e veloce.
«Oh, oh...», rantola fuori dalla sua bocca, mentre io sono ancora ben sperduta
nel Nirvana, e mi schizza sulla pancia. «Maledizione, aspetta», dice, anche se ha
l'affanno ed è appena venuto.
Non si dà neanche un secondo per riprendersi.
Incredibile, perfino in una situazione simile pensa prima a me. Lo lascio fare.
Sembra gli piaccia prendersi cura della sua Bambolina, e se ciò lo rende felice
per me va bene.
Attento, armato dei suoi preziosi fazzoletti, mi ripulisce del suo seme caldo.
Non mi lascia neppure modo di prenderne un po', lo toglie tutto via. Mi risistema
la maglietta con devozione, temendo quasi di rompermi nonostante ciò che
abbiamo appena fatto, e soltanto adesso si lascia crollare al mio fianco. Le sue
braccia mi circondano.
Mi tiene stretta stretta, quasi temesse di vedermi scivolare via. Mi bacia i
capelli, mi coccola con pigre carezze sulla pancia e sul fianco, e io mi sciolgo
ancora di più.
«Ti ho fatto male?».
«No, al contrario. Mi è piaciuto tantissimo».
«Allora dopo lo rifacciamo».
Scoppio a ridere e premo la fronte sul suo petto. «Quando vuoi, Michael».
Appoggio la mano sulla sua anca, traccio dei piccoli ghirigori e lo sento fremere.
«Te l'ho detto quando: dopo», ripete, e rido di nuovo. «Ora vorrei sentirti
raccontare qualcosa. Stavo pensando che non mi hai mai parlato dei tuoi
genitori, eppure so che li amavi tantissimo».
Mi immobilizzo. Non tanto perché mi sta chiedendo della mia mamma e del
mio papà dopo aver fatto sesso, quanto più temo che possa farlo stare male.
Perciò la mia voce è incerta nel momento in cui gli chiedo un: «Ne sei
sicuro?».
Michael mi sfiora la nuca coi polpastrelli. «Certo. Puoi parlarmi di tutto
quello che vuoi, Grace, basta che tu mi faccia sentire la tua voce».
Deve sul serio smetterla di dire cose simili. Finirà per farmi a pezzi.
«Mhmm, va bene».
All'inizio sono titubante. Un po' perché ho paura che possa dare di matto, un
po' perché fa male a me ricordarli e un po' perché erano genitori bellissimi e non
si meritavano una fine simile.
Gli racconto di mia madre, una donna dolce, a cui tutti dicevano che avessi
tagliato via la faccia. Gli racconto di mio padre, un uomo affettuoso che mi dava
la buonanotte baciandomi la fronte.
«Ti ricordi quando ti ho parlato dell’amore?».
Michael annuisce. «Sì, ovviamente».
«Era quello che mi aveva detto mia madre quando gliel'avevo chiesto io»,
mormoro, accoccolandomi meglio con la testa nell'incavo del suo collo. «Ti ho
regalato le sue parole e la sua dolcezza, perché penso che se l'amore avesse un
nome, sarebbe quello della mia mamma».
«E come si chiamava?».
«Nadine», bisbiglio, lui mi bacia la guancia. «E mio padre Logan».
Non gli dico che sono morti in un incidente stradale, mentre io aspettavo che
venissero a prendermi a casa da una mia vecchia compagna di classe a Marina.
Non gli dico come mi ero sentita morire insieme a loro. Gli dico soltanto che mi
avevano voluto un bene dell'anima, che erano state persone dal cuore grande e
prezioso.
«Al Benetton ovunque mi girassi vedevo soltanto cattiveria, ghigni derisori e
mani pronte a spingermi a terra. Non c'era posto per me e il pezzo di cuore che
mi avevano lasciato i miei genitori. Almeno finché non ho trovato te, Michael».
«Me?».
«Si, tu. Perché sei tu il mio bellissimo pezzo di cuore rimasto, l'ho sempre
pensato, ed è giusto che tu lo sappia».
Michael non risponde. Chiude gli occhi e mi abbraccia forte. Mima sulla mia
fronte un "ti amo" senza dirmelo.
POSSO
Grace: 13 anni
Michael: 17 anni.

“Ciao, Michael.
Oggi è stata una giornata strana. Nulla di che, in realtà. È solo uno di quei giorni
che scorre piano e non ti va di fare niente, eppure ti lamenti della noia. Poi ho
capito che dovevo solo scriverti. Se fossi stato qui, sarei venuta da te.
Ma... sai già che non si può.
Quindi ti scrivo. Ancora.
Stavolta, però, sarò breve. Non voglio che diventi troppo un’abitudine. Voglio
solo dirti che a scuola va tutto bene, io e Margot litighiamo ogni tanto ma per
cose stupide, e ho parlato un pochino a Elisa di te.
Le ho detto che sei stato il mio primo amico e il primo amore, per quanto
possa essere in grado di capirci dell’amore una bamboccia come me.
Lei non mi ha giudicata, comunque. Anzi, mi ha detto che le sarebbe piaciuto
conoscerti. È una brava amica, sai? Ti avrebbe voluto bene.
Domani ho il controllo dall’oculista, comunque. Miss Caroline ha fatto un
po’ di storie, ma alla fine ha ceduto. Dall’ultimo banco ormai non vedo più
niente alla lavagna. Chissà come andrà”.

“Ehi, Michael.
Sono tornata. Ho fatto la visita. Mi mancano due gradi e mezzo per occhio e
peggiorerò. Ma Miss Caroline dice che è inutile comprarmi degli occhiali se
tanto poi dovrò cambiarli.”
VENTISETTE

GRACE

Sesto giorno con Michael.


Ancora nostro.
Ancora bellissimo.
Facciamo di nuovo l'amore, un rituale di passione e tenerezza. Siamo un po'
l'effige della disperazione che si veste di fretta e desiderio.
Una rosa senza petali, io e Michael. Lasciati a marcire in un campo brullo e
mai illuminato dalla luce del Sole, ma non per questo meno bello. Sfioriamo,
appassiamo, eppure quando cadiamo lo facciamo insieme; ci ritroviamo così,
noi, tra i nostri resti.
«È stato brutto, sai?», sussurra a un certo punto, intento a masticare delle
patatine.
Aggrotto le sopracciglia, infilo la mano nel pacchetto e gliene rubo una
manciata. «Che cosa?».
«Passare tutti questi anni in un posto così soffocante. Cercavano di riempirmi
di farmaci, di drogarmi con le loro stupide e finte terapie», biascica, punta lo
sguardo nel vuoto. «Ti curiamo, pazzoide. Dicevano. In realtà intendevano dire
che mi avrebbero depersonalizzato, riducendomi a un vegetale».
Non ho idea da dove sia uscita la sua rabbia improvvisa. Un attimo prima ce
ne stavamo in tranquillità, seduti fianco a fianco sul materasso impolverato, a
mangiucchiare tra un bacio e l'altro dopo aver fatto sesso. Quello dopo gli si è
attorcigliata la lingua nell'acido.
Ciononostante resto ad ascoltarlo, perché sentirlo parlare è sempre una
manna dal cielo. I problemi subentrano quando smette di farlo e inizia a fissare
un punto fisso: è lì che cade nelle allucinazioni. Ma questo non è il caso. Non
ancora, perlomeno. Del resto con Michael non si può mai dire o dare niente per
certo.
Appoggio la guancia sulla sua spalla, piego le ginocchia al petto e gli stringo
il braccio. «Non fatico a credere che debba essere stato orribile. Ti trattavano
male?».
«Definisci male».
Giusto. Quale concezione dà lui al male?
Penso al suo passato. È su quello che si basa, per forza.
Chissà cosa penserebbe dei ragazzi della sua età che ritengono drammi della
vita un follower mancato, o il litigio con un amico. Vorrei che anche per lui
fossero questi i veri problemi.
«Ti offendevano?».
«Mi insultavano molto spesso, sì, ma penso che lo facessero perlopiù perché
mi credevano incapace di comprendere. A volte mi picchiavano anche. E come
dar loro torto, Grace? Sono stato un fantasma per duemilacinquecentosette
giorni».
La realizzazione di quanti giorni abbiamo trascorso lontani, di quanti ne
abbia dovuti passare lui rinchiuso in un covo tossicità, da solo, maltrattato, privo
di contatti col mondo esterno, mi colpisce in faccia.
Ma a colpirmi ancora più forte è il fatto che, anche se avesse potuto, con chi
avrebbe parlato? Michael non aveva nessuno. Durante quegli anni io ho avuto
Elisa, Reese, Cody, Ben. Ho avuto degli amici. Persone con cui parlare. Persone
che mi vogliono bene.
Michael non può dire lo stesso. Lui ha avuto e ha soltanto me. Non mi
stupisce che si sia aggrappato così tanto al nostro rapporto, che mi reputi
l'epicentro del suo terremoto. Lui inizia da me e finisce sempre con me.
Un po' come quando ero una bimba di nove anni, un anatroccolo sperduto
con in testa i canti sull'amore dettati dalla mamma e in faccia soltanto i ghigni e
l'odio di altri bambini. E poi è arrivato lui, dopo mesi di intemperie e angoscia.
L'unico ad avermi porto la mano. A non avermi riservato spinti e sputi.
L'unico ad avermi ricordato che avevo un cuore buono, che non ero fatta di
veleno. E allora ci eravamo convinti di essere il faro l'uno per l'altra, ci eravamo
plasmati, fusi in miscele di deuterio e trizio.
«Tu non sei un fantasma, Michael», sussurro. «Noi non siamo fantasmi».
«Ah no? E cosa siamo?».
«Fiori d'amaranto, Michael. Nonostante tutto, siamo ancora qui a stringerci le
mani. Come potrebbero farlo due fantasmi?».
«Sì, ma non siamo nemmeno immortali».
«La carne non lo è, le ossa non lo sono», mormoro, stendo le gambe e
scivolo con la testa sul suo grembo. Lui intrufola la mano tra i miei capelli,
prendendo a massaggiarmi la cute. «Ma i momenti perfetti, gli strascichi che
abbiamo osato rubare dal tempo per costruire la nostra casa, un posto che
conosciamo solo noi due, resteranno sempre qui nell'aria. Un amore come il
nostro, Michael, va al di là di spazio e tempo. Buca la quarta dimensione. Perciò
no, non sei un fantasma e non lo sono nemmeno io».
Lui resta in silenzio per un po', limitandosi a giocherellare con i miei ciuffi
bianchi e a rigirarseli tra indice e pollice, quasi volesse scolpirsi ogni capello
nella mente.
Poi ripete in un sussurro: «Come fiori d'amaranto. Mi piace. Se mai un
giorno dovessi scrivere un libro, Grace, usalo come titolo».
Stiro le labbra in un sorriso. Sì, l'avrei fatto. Solo e unicamente per lui, la
pulsazione fuori corda del mio battito. La nota stonata di un'orchestra sul
fallimento. Il contrasto della vita. Eppure genuinamente prezioso e oltre ogni
frivolezza.
«Lo leggerei in effetti un libro con quel titolo. Tu come chiameresti il tuo,
Michael?».
«Non saprei. Questa è una domanda che richiede una risposta importante, e
una risposta importante richiede a sua volta tempo di riflettere».
Ridacchio. Mi è sempre piaciuto il suo modo di parlare così ambiguo e
tortuoso. Reclamano una certa attenzione le parole di Michael, ti pregano di
stargli dietro e analizzarle; ti affascinano e ti fanno cadere nella trappola con
tutte e due le scarpe.
«Va bene. Resterò in attesa della tua risposta, allora».
Calo le palpebre, godendomi le carezze di Michael e i suoi piccoli respiri
sulla tempia. Si abbassa solo per lasciarmi un breve bacio sulla testa, poi sulla
guancia, sulla mascella.
«Cosa ci scriveresti nel tuo libro?», domanda dopo un po’.
«La vita che vorrei con te, credo».
«E cosa facciamo in questa vita che vorresti?».
Ancora a occhi chiusi, parlo a cuore aperto. «Tanto per cominciare non ci
incontriamo in orfanotrofio. Magari siamo già più grandi. Sì, sì. Tu frequenti il
college, sei già all’ultimo anno, mentre io sono una matricola».
«E cosa studiamo al college?».
«Tu medicina. Uno come te deve fare una facoltà tosta. Io invece letteratura.
E siccome sarebbe impossibile conoscerci a lezione, ci incontriamo alla festa di
una confraternita».
Michael ridacchia e apro gli occhi per vederlo sorridere. «Io a una festa?».
«Esatto. E proprio perché non ti piace, ti apparti in una stanza da solo, e io
faccio lo stesso».
«E poi?».
«E poi mi guardi e ti innamori di me, facile».
A questo punto ridiamo entrambi, anche se io potrei sul serio mettermi a
piangere. Perché vorrei davvero che potessimo essere due normali studenti e
incontrarci al college. Innamorarci e avere un futuro. Però continuo a sorridere.
Lui è di buonumore adesso, non posso rovinarglielo.
Fa scivolare i polpastrelli giù per il mio collo, dove i calli trovano la mia
collana, quella che mi aveva regalato lui quando eravamo bambini. Spesso mi
dimentico anche di averla, talmente la considero parte di me. Il suo pollice
tratteggia il piccolo ciondolo a forma di Re.
«Non mi hai mai detto dove l'hai presa».
«La chiesi alla direttrice», dice in un respiro delicato, mentre spalanco le
palpebre dalla sorpresa. «Penso avesse paura di me. Acconsentiva sempre a
qualsiasi mia richiesta. Non che ce ne siano state molte, comunque».
«Beh, direi che faceva bene ad aver paura, Michael. L'hai spinta giù dalle
scale».
«Mi aveva fatto arrabbiare. Voleva dividerci, ricordi? E poi ti faceva
piangere in continuazione. Non mi piaceva il modo in cui ti trattava. Oltretutto,
fu lei a metterti in punizione con quei due, pur sapendo i problemi che avevi con
loro».
Non dovrei. No, proprio non dovrei. Eppure mi metto a ridere. La direttrice
si era rotta le ossa perché lo aveva fatto arrabbiare. Da qualche parte nel mio
cervello una vocina mi urla di riprendere le redini, di dirgli che è sbagliato ciò
che ha fatto. Mi urla di smetterla di farmi trascinare dalla sua stessa follia. So
che ha ragione. Il punto è che non voglio. Ed è questa la cosa preoccupante.
Quindi espiro con calma, mi volto supina per poterlo guardare nei suoi occhi
fatti di specchi e cristalli. Le lunghe ciglia gli ombreggiano gli zigomi alti e
affilati, mentre le guance incavate risaltano le sue labbra pronunciate, così rosee
e morbide.
Michael sorride. Fossette. Bel tuffo al cuore.
Ricambio dolcemente, e lui ricalca con le dita la curva del mio sorriso.
«Michael?».
Assorto in ciò che sta facendo, continua a tratteggiare la forma della mia
bocca piegata. I polpastrelli sfregano sulla carne, drappeggiano gli angoli e
segnano tratti incandescenti.
«Sì, Bambolina?».
«Hai ragione. Miss Caroline non era gentile con me, non si sforzava di capire
le difficoltà che stavo affrontando e spesso mi faceva piangere. Ma è così la vita,
sai?».
Si ferma, l'indice rimane in sospeso sulle mie labbra. Aggrotta le
sopracciglia. «Che vuoi dire?».
Piegando il gomito, porto la mano sulla sua e intreccio le nostre dita, prima
di baciargliele. «Voglio dire che ci saranno sempre persone pronte a ferirmi, o
situazioni difficili da accettare. Ci saranno persone con cui non andrò d'accordo,
con cui litigherò e sì, probabilmente mi faranno piangere, perché sono dalla
lacrima molto facile, ma il fatto è proprio questo: ci sono i no e ci sono i sì».
«E come si reagisce ai no?».
«Accettandoli e andando avanti, Michael».
«Non mi piacciono questi no».
«A nessuno piacciono», ridacchio.
Lui sbuffa «E allora perché li dobbiamo accettare e andare avanti?».
«Perché poi i sì diventano bellissimi. Acquisiscono più valore, un po' come il
silenzio dopo tanto rumore».
La grinza sulla sua fronte si fa più evidente, intanto che riflette sulle mie
parole e riprende a massaggiarmi la bocca, disegnandone i contorni. Un raggio,
proveniente dalla finestra in alto, gli squarcia mezza faccia d'alabastro; fascia la
sua mandibola cesellata, il mento arrotondato e la punta del naso dritto che
finisce all'insù. Non smetterà mai di stupirmi la sua bellezza rovinata e
dirompente.
Non è una bellezza tipica o oggettiva. O ti piace o non ti piace. La devi
scorgere nei difetti, a partire dalle occhiaie, le sopracciglia più scure dei capelli,
fino alle guance scavate. O la bocca un po' storta, più tendente a destra. Ha un
fascino tetro e inquietante. Eppure, più lo guardi e più diventa bello.
«Ha senso», dichiara poi, annuendo a palpebre assottigliate. «Sì, ha molto
senso».
Immagino che per qualcuno come lui, che vive unicamente nel rumore, gli
attimi di silenzio siano oro puro.
«Bene. E ora a che pensi?».
«Come fiori d'amaranto», ripete in un sussurro sottovoce, flebile, dicendolo a
sé stesso. «Come fiori d'amaranto, a ferro e fuoco».
«In una vita sbagliata, questi siamo noi».
«Dici che la prossima sarà quella giusta?».
Affondo i denti nel labbro inferiore, la sua mano scivola sul mio collo
lambendolo in piccoli tocchi delicati. Il pollice sfiora l'arteria per ascoltare i miei
battiti, tutti suoi.
«E chi può dirlo, Michael? Forse sì, forse no. Ma se così non fosse, allora
proveremo in quella dopo ancora».
«Fino al nostro sì, immagino».
«Esatto. Ci proveremo sempre, d’accordo?».
«E se non dovessi trovarmi?».
«Ti troverò sempre, Michael. Tu dovrai solo aspettarmi».
Lui sorride, si china a stamparmi il suo sorriso sulle labbra. «Questo lo so
fare bene».
Gli do la mia risata, che ingoia in baci schioccanti e rumorosi. Lui mi dà la
sua, di risata, che custodisco nel profondo, speranzosa di risentirla in tutte le vite
dopo che avremo insieme.
Michael mi avvolge il viso tra i palmi, approfondendo il nostro contatto, e
intreccio le nostre lingue in un abbraccio tutto loro, tutto nostro. Distrugge ogni
più annichilata paura, riducendo i pensieri corrosivi in liquame sciolto.
Ben presto i vestiti volano via, i corpi si uniscono e diventano un unico
ritmo. Siamo un ballo fatto di una sola persona. Inseparabili, io e Michael.
Se mi chiedessero cos’è la felicità, non farei mai il suo nome. Per me è
doloroso, un costante pugno nello stomaco, la tossina radioattiva che ci depreda,
ma in qualche modo ne vale la pena. Perché, come tanti anni prima, non oso
immaginare un'esistenza dove non amo Michael, dove respiro senza Michael.
Tu ci sei, io ci sono.
Tu non ci sei, io non ci sono.
Lui mi tocca, entra dentro di me, si prende le mie macerie e le unisce alle
sue. Facciamo confusione, ci parliamo senza dire nulla e poi ci soffiamo sulle
cicatrici. Che lui di cicatrici ne ha tante. Eppure si preoccupa solo delle mie.
Ogni tanto si perde, ma gli basta una carezza, un bacio, la mia voce nel suo
rumore per ritrovarsi.
Mi muove su di lui e mi guarda come se non vi fosse altro, come se fossi la
sua stella polare. Mi bacia la pelle e mi tocca come se fossi il suo tormento. Poi
veniamo insieme, ci accasciamo l'una sull'altro e con le sue braccia attorno a me
torniamo a parlare.
Stavolta Michael mi chiede dei miei amici, della mia vita al Benetton senza
di lui. E allora gli racconto di Elisa. La mia migliore amica. Gli dico che le ho
parlato un po’ di noi a volte. Gli dico che lo ha sempre difeso, pur non
conoscendolo.
Gli parlo di Cody e Ben, che sono due teste calde a cui piacciono gli scherzi.
Non hanno mai visto bene Michael, però sono sicura che cambierebbero idea se
solo potessero conoscerlo. Anzi, metto la mano sul fuoco che sarebbero capaci di
farlo ridere.
«E poi c'è Reese. La mia piccola e dolce Reese. È arrivata poco dopo che te
ne sei andato, era un piccolo scricciolo senza ali. E mi ricordava tanto me, sai?».
«Deve volerti molto bene, Bambolina».
«È così», sussurro. «E io ne voglio molto a lei. Non sono nemmeno riuscita a
salutarla quando ho deciso di abbandonare l'orfanotrofio, non ne ho avuto il
coraggio. Le ho semplicemente lasciato un biglietto dove le promettevo che sarei
tornata a riprenderla».
Michael mi accarezza la spalla, io mi rannicchio di più contro di lui,
sprofondo nell'incavo del suo collo.
«Lo farai, Grace, ne sono certo».
La sicurezza che traspare dalla sua voce, la malinconia che i suoi occhi mi
gettano addosso... ho un brivido. Aggrotto le sopracciglia. Che intende dire?
Perché ne è così certo? E perché continua a parlare solo di me? Perché non usa
mai il plurale?
Inspiro fra i denti, gli avvolgo le braccia attorno al collo. «Michael», inizio,
ma vengo stoppata da un suo bacio.
«Shhh», sussurra. «Niente Michael. Va tutto bene. Tu tornerai a prenderla,
okay? Un giorno l'adotterai, quando potrai, e poi uscirete insieme alla tua amica
Elisa. Andrete a fare compere, vi divertirete, riderete degli scherzi che vi faranno
Cody e Ben. Ti arrabbierai quando Reese ti risponderà male e combinerà dei
guai, allora chiamerai Elisa per chiederle dei consigli, mentre Cody ti dirà di
lasciarla perdere e Ben lo rimprovererà. Avrete i vostri no e i vostri sì. Ma alla
fine di tutto, Grace, sarai felice».
Sto già piangendo. Per quale ragione mi sta facendo questo discorso?
«Michael», ritento in un singhiozzo, scuotendo la testa. «Michael, per favore,
perché dici così? Io non lo voglio tutto questo. Io voglio solo te. Smettila di dire
certe cose. Troveremo un modo, ce ne andremo dove nessuno potrà mai trovarci
e staremo bene insieme. Reese potrà essere felice anche senza di me, okay?».
Lui sorride, le sue fossette non sono mai state tanto profonde. Le mie lacrime
non sono mai state così tante. Mi stringe il volto tra le mani, mi schiocca un altro
bacio.
«Va bene, Bambolina. Facciamo tutto quello che vuoi. Voglio solo vederti
felice. È sempre stato questo il mio desiderio».
Tiro su col naso. «Q-quale desiderio?».
Lui mi lascia tanti altri piccoli baci. «Il mio desiderio di compleanno, Grace.
Tu felice. Non ho mai chiesto altro».
«E allora stai con me. Rimani con me. Smettila di farneticare e di parlare
come se non potessimo rivederci mai più. Ce ne andremo, va bene? Troveremo
un modo. Ne sono sicura», farfuglio, mi aggrappo alle sue spalle, disperata, e lui
non vuole saperne di togliersi dalla faccia il suo dolce sorriso. «Okay? Dimmi
che è okay. Dimmi che andrà tutto bene».
«Andrà tutto bene. È okay, amore. È okay. Troveremo un modo, te lo
prometto».
Sospiro dal sollievo. Michael mantiene le sue promesse. Lui non è mica
come me. No, no. Lo ha promesso. Posso stare tranquilla.
Magari potremmo trovare qualche strategia per farlo scagionare. Di sicuro ci
sarà una soluzione. Dobbiamo solo cercare meglio, scavare in profondità.
Sarebbe andato tutto bene.
Ce l'avremmo fatta.
Perché senza Michael non esisto. Anche se sono tutti no, lui è il mio sì.
RESPIRARE
Grace: 14 anni.
Michael: 18 anni.

“Ciao, Michael.
Sono di nuovo io. E sono in ansia di brutto. Domani sarà il mio primo giorno da
liceale. Ricordi quando dovevo iniziare le medie? Tu non l’avevi presa proprio
benissimo, poi però ti sei fatto perdonare. Custodisco ancora quel biglietto, sai?
L’ho buttato nel cestino tantissime volte e tutte le tantissime volte sono
tornata a riprenderlo. Te lo confesso solo perché in questo spazio siamo sempre
io e te.
Comunque Elisa dice che devo stare tranquilla. Abbiamo fatto un piano di studi
per riuscire a stare in più classi possibili insieme. Sono quasi tutte teoriche, sai
che mi piace leggere e studiare. Ben e Cody invece hanno puntato per la maggior
parte su quelle pratiche.
Non so se esiste un club di scacchi. Mi informerò. Ah, volevo anche dirti che
ormai Miss Caroline non mi mette in punizione da un bel po’. Mi odia sempre,
ma ora è presa dai più piccoli. Immagino sia un ciclo. Ci sono passata io, ora è
arrivato il momento della nuova generazione.
Comunque… anche oggi vorrei che fossi qua.
Mi manchi davvero, Michael, e vorrei anche che non fosse così.
Come faccio a dimenticarmi di te?
A me sembra impossibile...
Forse è il caso che chiuda questa lettera. Anzi, corro a bruciarla adesso.
Ciao, Michael.”
VENTOTTO

GRACE

Settimo giorno con Michael.


Ancora nostro.
Non più bellissimo.
Il settimo giorno è l'inizio della fine.
Comprendo che si tratta di un giorno diverso dai precedenti fin dall'alba. Me
lo sento dentro, il preludio di una catastrofe immensa. Una specie di sesto senso
che mi gratta le ossa, facendomi respirare male.
Michael non ha dormito bene. Si è agitato per tutto il tempo, preda di incubi
e vecchi ricordi. Mi ha anche graffiato i polsi quando ho cercato dì svegliarlo e
rassicurarlo, e nemmeno a occhi aperti è riuscito a placarsi.
«Non voglio andare, Grace, non voglio andare», ha ripetuto come un disco
rotto per ore e ore, mentre io tossivo pure l’anima per lo sforzo di tenerlo fermo,
e adesso che so cosa significano le sue parole è ancora più difficile restare calma.
«Per favore per favore», e io andavo in pezzi.
«Basta Michael Baker, basta», e lui si frantumava sotto i miei occhi.
Si è scorticato la faccia con le unghie e, per impedirgli di farsi ancora più
male, mi sono messa in mezzo, prendendomi tutti i suoi graffi sulle braccia. Le
mie piaghe e croste hanno ripreso a sanguinare, e soltanto allora si è ridestato:
alla vista del sangue che mi gocciolava giù per il polso.
I suoi lamenti sono diventati una cantilena irrefrenabile di «scusami, Grace.
Mi dispiace, Bambolina, mi dispiace tanto. Scusami».
Dirgli che non fa nulla, che io sto bene, che non mi interessa di quegli stupidi
segni, a me importa solo di lui, è stato inutile. Ciò che dicevo gli entrava da un
orecchio e gli usciva dall’altro.
Mi ha perfino obbligata a prendere un antidolorifico.
C’è davvero voluto molto prima che Michael riprendesse coscienza di sé. Più
del solito. E quando è successo si è limitato ad abbracciarmi. Abbracciarmi e
basta. Nessun bacio. Nessuna carezza. Nessuna frase di circostanza. Solo
silenzio tra noi. Voci messe in pausa che non lasciano presagire a niente di
buono.
Ma i problemi veri arrivano nel momento in cui Michael sporge la testa in
avanti, a sopracciglia aggrottate, prima di alzarsi in piedi e dirigersi verso la
finestra. Confusa, lo osservo aggrapparsi alla mensola in alto. Le sue scapole si
contraggono nell'azione, la spina dorsale risalta nell'avorio. Mi bruciano le
guance quando gli si tendono le spalle nude.
Un basso ronzio scalpita nell'aria. Che cazzo sta succedendo?
L’agitazione mi fa tremare le ginocchia, tanto che è un'impresa alzarmi. Devo
appoggiarmi alla parete alle mie spalle.
«Michael», mormoro, disorientata e spaventata. «Michael», alzo la voce,
«Michael! Che succede?».
Lui getta la testa all'indietro, ciuffi biondi si sparpagliano come un'aureola,
poi espira. Non saprei dire se dal sollievo o dalla sofferenza.
«Okay», sussurra più a sé stesso che a me. «Okay, okay», ripete, prima di
lanciarmi un'occhiata vacua di traverso. «Va tutto bene, Grace».
«Mi spieghi che succede? Parlami, Michael».
In un attimo si fionda su di me. Impatto con la schiena contro al muro, il suo
corpo preme sul mio, mentre le mani mi afferrano dal viso per guardarmi e
imprimersi nel cervello ogni mio singolo lineamento.
Mi trema il labbro inferiore quando addolcisce lo sguardo e gli si distendono
i tratti rigidi, un connubio di spigoli ormai divenuti morbidezze solo mie. I
polpastrelli premono nella mia carne, poi china il capo e appoggia la fronte sulla
mia, respirandomi sulla bocca.
«Ti amo».
Apro e chiudo la bocca più volte senza emettere alcun suono. È la prima
volta che me lo dice in maniera così chiara e limpida.
«Ti amo anche io, Michael». Gli ricopro i dorsi con i miei palmi e spingo la
fronte sulla sua. Sollevo gli occhi per far scontrare le nostre pupille. «Ma adesso
parlami. Cosa c'è che non va?».
«Volevo solo che fossi felice».
«Sì, me l'hai già detto questo e io ti ho messo al corrente di come la penso.
Quindi?».
La sua mandibola ha un guizzo. «Stavi per compiere diciotto anni, Grace».
Maledizione, quanto diavolo è criptico.
Mi acciglio. «Li ho già. Ricordi? Tu mi hai presa la notte stessa del mio
compleanno».
L'angoscia assume le sue fattezze nel momento in cui chiude le palpebre e
toglie via le mani dalla mia faccia, solo per potermi avvolgere le spalle tra le
braccia. Ricambio, cingendogli la vita, e lui appoggia la guancia sulla mia testa.
Lo sento rabbrividire al tocco nudo e freddo dei miei palmi, perciò sfrego le
mani per riscaldarle un minimo e dargli un po' di calore.
«Non sapevo cosa ne sarebbe stato di te», riprende, mandandomi ancora di
più in confusione. «Non lo sapevo, ma non potevo correre il rischio che ti
ritrovassi per strada. Ho passato anni a rimuginare, a farmi ossessionare dal
pensiero di te».
«I-io…»
«E poi è arrivata quella lettera, Bambolina».
Come al solito, semina briciole e si aspetta che sia io a far germogliare i fiori.
Scuoto la testa e, facendo leva sui suoi fianchi, lo spingo di un passo indietro per
mettere un po' di distanza tra noi.
Mi sento sbiancare. «Michael, che cosa hai fatto? Giungi al punto e sii chiaro
per una benedetta volta!».
Puro dispiacere si infrange sul suo volto di porcellana. Gli si incurvano le
labbra all'ingiù, gli occhi, gli zigomi, ogni singola particella. Si allontana del
tutto da me, senza tenere in conto quanto siano instabili le mie gambe.
Soprattutto quando pronuncia: «Stanno arrivando».
All'inizio non capisco, visto che continua a saltare da un argomento all’altro.
«Chi?».
«Al momento c'è solo una pattuglia qui fuori, ma nel giro di cinque minuti
una squadra SWAT sfonderà la porta e piomberà qui».
No.
No. Ho sentito male. Si sta sbagliando. Deve trattarsi solo di un grosso
errore. Una sua allucinazione. Non ci si può fidare di quello che vede Michael.
Stringo i denti, scuoto la testa con talmente tanta veemenza che i capelli mi
frustano la guancia. «No, non è vero. Smettila, non è vero!».
«Grace, per favore, non fare così».
«No! Devi smetterla, Michael!».
Avanza d'un passo, allunga un braccio tentando di acciuffarmi, ma sono più
veloce di lui. Schizzo fuori dal suo raggio d'azione per catapultarmi alla finestra,
che è posta troppo in alto perché possa arrivarci. Salto, salto, salto, ma no, non ci
arrivo, è così fottutamente lontana. Dei crepitii, che sanno tanto di passi sulla
ghiaia, provengono dall’esterno, ma sono certa che siano dei semplici animali.
«Ti prego, Grace, non fare così». Ha la voce intrisa dalla sofferenza, l'unico
motivo che mi spinge a voltarmi di nuovo verso di lui, che sta di già avanzando
nella mia direzione. «Loro sono qui per te, okay? Devi stare tranquilla. Ti ho
promesso che andrà tutto bene e sarà così».
Alcune voci risuonano da fuori, ma il suono dei singhiozzi che mi scuotono
il petto, quando la realtà viene a schiaffeggiarmi, è più forte di qualsiasi altro
rumore.
Continuo a negare col capo, come se così facendo potessi cambiare le sorti.
«No! Non è un cazzo okay!», mi si rompe la voce. Gli do un pugno sul petto, poi
un altro. «No, no, no. Tu avevi promesso che avremmo trovato una soluzione.
L'hai detto ieri, Michael», ingoio un singulto, mentre le lacrime scivolano giù
sulla mia bocca. «L'avevi promesso, l'avevi promesso! Ti odio, l'avevi
promesso!».
Gli premo le mani sul petto e lo allontano bruscamente quando tenta di
stringermi a lui, incredula e terrorizzata che non abbia mantenuto la sua
promessa.
«Starai bene, Grace», mi dice, cercando di agguantarmi di nuovo, ma lo
respingo ancora con le ossa che bruciano e mi appiattisco alla parete prima di
scivolare a terra, singhiozzando come una disperata.
Mi sanguina il cuore, mi fa male la pelle e i polmoni si stanno chiudendo. È
troppo tardi per andarcene. Sono qui. Non possiamo scappare. Avremmo dovuto
farlo la sera prima. Mi prenderanno. Ci divideranno. Lo rinchiuderanno. Me lo
porteranno via. E lui rischia la pena di morte dopo la petizione che è girata sul
suo conto. E poi dobbiamo stare insieme, ma così non possiamo. E Michael è
evaso per salvarmi. E Michael se ne andrà di nuovo.
Mi sento sgretolare. Non riesco...non...
Mi tiro i capelli, incapace di prendere anche respiro, un balbettio senza fine:
«No, no, no, no...»
La vista ormai si è fatta sfocata. Le lacrime mi inzuppano il viso, riempiono
le ciglia di praline. Mi si è anche tappato il naso. Eppure posso percepire
Michael che si inginocchia davanti a me. Mi prende le mani, strattonandole via
dai miei capelli per impedirmi di farmi del male, proprio come faccio sempre io
con lui.
«Una delle prime cose che ti ho detto quando ti ho portata qui, è che ho
grandi progetti per te», sputa fuori, mi asciuga le guance che continuano a
bagnarsi. «E si avvereranno tutti, Grace. Lo so che fa male, mi si sta squarciando
il cuore e mi uccide vederti così, ma tu starai bene e questo è tutto ciò che
conta».
Scrollo la testa, sbando a destra a sinistra. Mi brucia da morire la gola e
ormai il mio corpo si è ridotto a uno spasmo ripetuto. Eppure le lacrime non
finiscono.
«P-perche mi stai facendo questo?», emetto in un gemito strozzato,
permettendogli di abbracciarmi.
Mi tira sul suo grembo, mi avvolge tra le braccia e mi tiene stretta con la
consapevolezza che è per l'ultima volta. Sto per andare in iper ventilazione.
«Perché diventerai un caso mediatico, Bambolina. Si parlerà di te ovunque,
racconterai la nostra storia. Grace Martin, la ragazza rapita dal pluriomicida ed
evaso Michael Baker. Grace Martin, la ragazza sopravvissuta di cui Michael
Baker si era innamorato». Si abbassa e intrufola il naso tra i miei capelli, mentre
mi contorco e piango di più a ogni singola parola che aggiunge. «Lo Stato sarà
obbligato ad aiutarti. Le società delle assicurazioni sanitarie faranno a gara per
dartene una, e...»
«Basta. Per favore, basta...»
«E tu non morirai, Grace. Avrai le cure di cui hai bisogno. Farai la
radioterapia. Vivrai una vita piena di sì. Ma non morirai, okay? Non morirai».
E continua, non sta più zitto. Non gliene frega niente che mi stia sgretolando
fra le sue braccia. Non gli importa che le voci siano aumentate, sono più vicine,
più forti.
Persiste nel dirmi di come ha dovuto uccidere la guardia per ottenere il
trasferimento e riuscire a scappare. Mi rivela che li ha depistati solo per
ritagliarsi un po' di giorni con me.
«Sette giorni, Grace. Un giorno per ogni anno che siamo stati lontani. Il
destino ha deciso di farmi questo regalo e mi va bene così. È anche più di quanto
potessi sperare».
A me non basta, però. Voglio una vita intera con lui. Che me ne faccio di
sette cazzo di giorni?
Non è giusto. Non è giusto per lui. Non se lo merita. Non può finire così.
Non può.
Una porta lontana viene sfondata. Passi, passi, passi. Rimbomba tutto dal
piano di sopra. Dicono vado di sopra, vado di sotto, la porta a destra, di qua, di
qua, di là.
E Michael mi accarezza la schiena.
«Siamo a casa mia, Grace. Questa è la mia cantina. Era così che doveva
andare: io e la mia Bambolina qui sotto, al sicuro dal resto del mondo. Ma
adesso devi fiorire, amore, basta appassire. Come un fiore d'amaranto, no?».
Un'altra porta sfondata. Mi aggrappo a Michael, non voglio lasciarlo andare,
non voglio staccarmi. Voglio solo appiccicarmi a lui e restargli addosso come un
tatuaggio per sempre. Indelebile.
La porta della cantina viene aperta. Tante piccole luci laser, puntini rossi, si
fermano su di noi. Sulla fronte di Michael. Sono in tanti. Ne scorgo almeno in
sei, nelle loro divise nere, giubbotti antiproiettili, maschere e fucili imbracciati.
Mi sento una spettatrice, come se non fossi più nel mio corpo e la mia anima
avesse preso a fluttuare altrove. Non fiatano nemmeno. Si schierano dinnanzi a
noi, rigidi come statue, con ancora quei puntini rossi del cazzo piantati sulla
faccia di Michael.
«Scacco», sussurra lui al mio fianco.
E io mi faccio prendere dal panico.
Col cuore che batte come un forsennato nella gabbia toracica, le confessioni
di Michael a ronzarmi nella testa e la paura di quei fucili, grido. Grido con tutto
il fiato che ho in gola.
«Fermi, fermi!»
Uno di loro si fa avanti, mentre altri due poliziotti scendono. «Mani bene in
vista!».
E grido ancora. Nemmeno so bene cosa sto urlando. Sono fuori di me. Un
concentrato di grida strozzate, sussulti, singhiozzi, lacrime, disperazione e
terrore.
«Non fategli del male, non fategli del male! Non ha fatto niente, per favore,
non fategli del male!».
«Signorina si allontani, è al sicuro adesso».
Non riesco a vedere chi ha parlato. Sto piangendo troppo per poter vedere.
«Vi prego, no! Vi prego, lui è buono, non è cattivo, vi prego. Non fategli del
male, non portatemelo via! No, no, no! Non fatemi questo».
«Signorina Martin, venga subito qui. Si allontani immediatamente!».
«Vi prego», strozzo un gemito, la testa si appanna, mi sento svenire.
Mi porto la mano al petto, sicura di non sentirmelo più. Tossisco per tutta la
fatica, Michael sussurra il mio nome e mi accascio in avanti, esausta.
E poi succede tutto troppo in fretta.
Michael scatta in avanti per afferrarmi e impedirmi di cadere a terra. L'uomo
che è avanzato di un passo, poco prima, fa semplicemente click.
Non so se sia istinto. Forse quando l’amore è così forte, certe cose ti vengono
da sole. Spalanco gli occhi e mi basta un piede in avanti, un piccolo e innocuo
piede in avanti. Poi il dolore mi scoppia nel petto come una bomba atomica.
«NOOOOOO!»
Il mondo rallenta. Cado, non cado, non lo so. So solo che il tempo, per una
volta, per una cazzo di volta, ha il buonsenso di fermarsi almeno per un misero
istante. Il momento che aspetto da tutta una vita, per assurdo, si materializza
proprio dinnanzi alla morte.
«No, no, no», piagnucola Michael su di me, tenendo le mani sul mio petto
per fermare l'emorragia. «No, no, NOO! FATE QUALCOSA, FATE
QUALCOSA!».
Michael piange. Le sue lacrime mi bagnano la faccia. Lui piange. Sta
piangendo. E il fuoco mi divora un atomo per volta, insieme al sangue che mi
inzuppa tutta. Non respiro più. La voragine si avvicina.
«Grace, Bambolina, apri gli occhi. Apri gli occhi. Resta con me, ti prego,
resta con me. Siamo io e te, ricordi? Io e te, sempre io e te, Grace. Apri gli occhi,
Grace. Aprili, aprili, per favore. Amore, ti prego…».
«M-matto...». La bocca mi si riempie di sangue, lo tossisco via e un dolore
atroce mi immobilizza da cima a fondo. «S-scacco... matto...»
Qualcosa mi tocca il braccio. Michael urla. Ma la sua voce pare farsi più
ovattata.
«Non mi lasciare. Dimmi che è okay. Resta qui e guardami», e a singhiozzare
stavolta è lui. «Guardami, Bambolina, sto piangendo. Per te. Sanno di te, queste
lacrime. Guardami, apri gli occhi, resta qui...»
Dice anche altro. Non riesco a sentirlo. Si spegne tutto. Anche il dolore
dilaniante.
I suoni smettono di fare rumore. Gli odori smettono di profumare. I colori
smettono di farsi vedere.
«T-ti a-amo...»
L'aria smette di farsi respirare.
«Grace, aspetta…»
Il sangue smette di farsi assaporare.
«A ferro... e fuoco», esalo.
La vita smette di esserci.
«GRACE, GRACE, NO, GRACE, TORNA QUI, GRA- CE…»
Per fortuna l’ho dato a lui il mio pezzo di cuore. Il proiettile si è beccato solo
il guscio.
Mi raccomando, custodiscilo. Verrò a riprendermelo.
Ci vediamo nella nostra prossima vita, Chiamami Michael.
SENZA
Grace: 15 anni.
Michael: 19 anni.

“Ciao, Michael.
Ora, io lo so che non si dovrebbero fare certe cose, però davvero non riesco più a
vederci un cavolo alla lavagna. Quindi, dal momento che Miss Caroline è una
tirchia che se ne frega della mia salute, io ed Elisa abbiamo rubato delle lenti a
contatto.
Almeno adesso ci vedo. E poi ho iniziato a lavorare alla caffetteria di Ginny,
una simpatica donna sulla cinquantina. Quindi magari le prossime me le compro.
Oh... e c’è un ragazzo che ci prova con me a scuola. Si chiama Denver. Non mi
piace granché, e nemmeno a Elisa, però tutte gli vanno dietro. Non so che fare.
Vabbè, ci penserò.
Senti... adesso devo andare. Reese mi aspetta nei bagni, devo farle la doccia.
Mi manchi.
Ciao, Michael.”
VENTINOVE

MICHAEL

Call me Michael, le avrebbe detto. Se dovessi scegliere un titolo, sceglierei


Call me Michael.
Per tutte le volte che ha ripetuto il suo nome, solo per lui. L'ho notato, sai?
Che dicevi spesso il mio nome. Quasi in ogni frase.
Se solo potesse, glielo direbbe. Ma non può. Non più. Gli è stata strappata
via dalle braccia, sporcate dal suo sangue infinito, che aveva continuato a
sgorgare e sgorgare e sgorgare irrefrenabile, senza sosta.
Ne ha visto di rosso, Michael. Ne ha visto anche di più. Ma quello di Grace
lo ha prosciugato. Lo ha devastato.
«Ti amo, guardami, ti amo, apri gli occhi, ti amo», le ha pianto addosso, e ha
pianto ancora mentre la portavano via. «Per favore, Grace, guardami piangere!
Per favore, dimmi che è okay!».
Grace non l’ha guardato. Grace non gli ha detto che era okay.
Non ha visto le sue lacrime, non saprà mai che erano tutte per lei, che
avevano il sapore della sua dolcezza e dei suoi occhi blu.
Fa più male di trentasette Michael Baker. Fa più male delle voci nella sua
testa.
Hai vinto la partita, Bambolina. Hai vinto contro di me.
Ma a che prezzo?
Un prezzo che non avrebbe mai voluto scontare.
È tutta colpa tua. Sciocco, sciocco...
Se non avesse ceduto alla tentazione di tenersela per un po', se non fosse
stato egoista, se solo l'avesse lasciata nelle sue convinzioni, lo odierebbe ancora
e adesso sarebbe stata sulle prime pagine di tutti i giornali. Viva. Con una buona
assicurazione.
Una lacrima gli scivola giù per la guancia. Si dice che la vita, prima o poi,
venga a chiederti il conto di tutti i tuoi peccati. Stavolta però ha sbagliato
destinatario. Stringe i denti, reprime un singulto e flette le dita attorno alla
penna. Dopo mesi, ha quasi finito. Mancano soltanto un paio di righe.
Il braccio della morte del San Quentin è incredibilmente silenzioso, a
discapito della moltitudine di detenuti. Non gli hanno dato la pena di morte, ma
lo ritengono un elemento troppo pericoloso, perciò lo hanno messo laggiù.
Non gli hanno neppure permesso di partecipare al suo funerale. Non gli
hanno concesso un ultimo saluto. Non fa niente. Oh, si che fa... nono, non fa
niente! Fa, non fa, fa?
Si asciuga un'altra goccia salata prima che possa macchiare la carta e sbavare
l'inchiostro disordinato. Riprendere a scrivere dopo tanto tempo è stato difficile,
ma per lei questo e altro.
Tira su col naso, privo dell'anima che ha spiccato il volo assieme a
Bambolina. Si è portata via ogni granello, ogni briciola, gli ha strappato via
perfino le ossa. Non ne è rimasto niente di Michael. Non che ci sia mai stato
molto.
Con un sospiro tremante, piega i fogli, scrive l'indirizzo sul retro e poi lascia
tutto sul letto. Chissà se giungerà mai a destinazione. Di più, purtroppo, non può
fare. Gli hanno dato due ergastoli. Non uscirà mai da questa cella. Finirà per
marcire con i suoi demoni. Sbuffa una risata amara.
Ingenui, ingenui. La vera gabbia sono io. Finalmente...
Michael cala le palpebre, si alza in piedi al centro della stanza, e tiene le
braccia morbide lungo i fianchi. Non vibra uno spiffero di vento, si muore di
claustrofobia. L'aria è secca, l'ossigeno stantio. Ma la notte brilla.
A capo reclinato immagina le stelle. Un manto bellissimo e infinito, caterva
di perle lucenti dove la più preziosa... sei tu.
Ti ho chiesto cosa fosse l’amore, quando per me l’amore sei tu. Senza
definizioni, soltanto tu.
Cerca di contare le stelle, ma sono tantissime e tutte troppo spente al suo
cospetto, che irradia l'universo soltanto esistendo.
Ho vissuto una vita di no. Ma tu ne sei valsa la pena.
Scoppia a piangere come un bambino, Michael. È capitato spesso negli
ultimi giorni che esplodesse e che poi non riusciva più a smettere.
Può sentirla così bene. Accanto a lui, con le sue piccole mani incastrate fra i
suoi ciuffi biondi. Sente le sue carezze in punta di polpastrelli, i baci umidi sul
viso e il sorriso che gli preme sul collo. Se la vede raggomitolata sul suo letto, a
spiegargli la differenza tra giusto e sbagliato, accompagnata dalle sue risatine e
le guance scarlatte sulla pelle bianca.
Piegando la testa eccola lì, il nasino sporco di cioccolata e le briciole del
muffin sul mento. Nelle orecchie suonano canzoni tristi, poi la loro, e poi la voce
di Grace che gli dice che sarà sempre sua, fino all'ultimo respiro e ancora un
altro po'.
Perché, perché, perché.
Lei gli direbbe che a volte succedono cose brutte. Poi gli porgerebbe un
biscotto alla marmellata. Magari cercherebbe anche di convincerlo a riprovare la
liquirizia, e lui sa già che non avrebbe mai il coraggio di rifiutare qualcosa alla
sua Bambolina.
Fallo, Fallo. Fallo.
Si asciuga il volto, immaginando altre mani e un respiro in più oltre al suo.
Gli sfugge un altro singhiozzo. E che faccio senza di te?
Facile. Non ci sta senza di lei.
Quante volte può soffocare una persona prima di morire? Tante finché
resiste.
E io non resisto più. Basta con l'aria che tu non respiri.
Si schiude in un lento sorriso a mezza bocca, sperando che, ovunque sia,
Grace riesca a vederlo. Riesca a sentirlo sotto le sue dita fatte di piuma.
Attenta, Bambolina, attenta...
Spostare il letto è più difficile del previsto, ma alla fine ce la fa. Fare il nodo
con le lenzuola lo è meno, così come legare le estremità al cavo sul soffitto alto e
poi attorno al suo collo.
Non ha paura. Sorride con le sue fossette. Lo aspettano tante altre vite in cui
cercarla. Sarebbe stato un lungo viaggio.
Ci ameremo a ferro e fuoco in tutte quante, Grace.
Prende una boccata d'aria. Il suo ultimo respiro, il suo addio ai demoni che lo
hanno tormentato. Un respiro profondo e sentito, come mai ha fatto, a discapito
di tutte le volte che ha desiderato glielo togliessero via.
Anche a lui basta un semplice e piccolo piede in avanti. Poi smette di
respirare.
Attenta, Bambolina, attenta... perché sto venendo a prenderti.
18 febbraio.

Ciao, cara Reese.


Non mi conosci, ma io conosco te. Entrambi amiamo la stessa persona.
Mi presento.
Sono Michael Baker, ma tu puoi chiamarmi Michael.
E questa è la mia storia...
DI
Grace: 16 anni.
Michael: 20 anni.

“Ciao, Michael.
Essere albina fa schifo.
Non farò mai un figlio se dovrà vivere come me.
Qualche giorno fa mi sono ustionata al sole e porca vacca se fa male.
Non esco dalla mia camera da giorni e Miss Eleonor mi sta riempiendo di
pomate. Margot mi ha chiesto se voglio una pasticca, e cavolo per un momento
ci ho pure pensato.
Domani Elisa mi aiuterà a prenotare una visita da un dermatologo per vedere
se va tutto bene.
Sai che corro dei rischi.
Ti terrò aggiornato, comunque.
Tu invece spero che stai bene, nonostante tutto.
Vorrei farti sapere che nemmeno oggi ho imparato a odiarti.
Mi manchi.
Ciao, Michael”

“Ehi, sono di nuovo io.


La visita è andata bene. Non ho nulla!”
EPILOGO
Circa sette anni dopo.
Primo novembre.

Il tempo è mite, il cielo limpido.


Nel cimitero vicino l'orfanotrofio, oltre loro due, non c’è nessun altro. Fianco
a fianco, le due donne osservano le lapidi come ogni anno ed esprimono i loro
desideri.
«Vai prima tu, piccola».
Reese non ha mai avuto chissà quali desideri. Da quando Elisa l’ha adottata
due anni prima la sua vita si è ridotta a nient'altro che i problemi di
un'adolescente viziata. E sa bene che quello è un privilegio.
Ha letto la storia di Michael Baker, recapitata all'orfanotrofio dopo la sua
morte, quando era solo una bambina. Non aveva capito molto. L’ha riletta
qualche anno dopo. Ha capito tutto.
Elisa l’ha aiutata a portare alla luce la realtà dei fatti. Insieme hanno svelato
al mondo cosa ha dovuto passato quel povero bambino. Elisa ha raccontato di
cosa ha dovuto passare quella povera bambina dai capelli neri che singhiozzava
sempre. Non è stato facile per lei, ma ce l’ha fatta.
Hanno portato a galla un fatto di cronaca nera che ha insozzato la finta
perfetta società di Monterey. Anni di investigazioni e ricerche, anni di arresti e
bambini affidati agli assistenti sociali, liberati da destini oscuri e macchiati.
Michael, senza saperlo, ha salvato tante vite.
La merda è venuta a galla, scoprendo lo schifo che veniva praticato al buio e
sotto gli occhi di tutti. Il pastore Rogers. È questo il nome dell'artefice e
rappresentante della setta, che ha commesso quegli abomini per anni.
A lui è stata data la pena di morte, mentre gli stupratori sono stati rinchiusi
nelle fosse del San Quentin. Si meritano ogni male.
«È sempre lo stesso, lo sai».
«Sì, ma ripeterlo non fa mai male», le risponde Elisa, fissando con tenerezza
le due tombe vicine.
Michael e Grace.
Un amore che va al di là dello spazio e il tempo.
Reese si china, lasciando un pedone su ciascuna lapide, insieme a un pacco
di biscotti e una nuova copia del Piccolo Principe.
«Credi che Grace lo sapesse che eri stata tu a spedire quella lettera a
Michael?».
Elisa ridacchia. «Oh, ma io non c’entro niente. Fu proprio lei a farlo».
«Che cosa?!».
«Le mancava troppo, alla fine».
Reese sospira, si lascia sfuggire una risatina e poi sussurra: «Vi auguro di
esservi ritrovati».
«Sono certa che è così, tesoro». Le stringe la spalla, poi le scocca un bacio
sulla tempia. «Forza, adesso dobbiamo andare. Zio Ben e zio Cody ci stanno
aspettando per la festa».
Sposta un attimo gli occhi sulla lapide più in fondo. Margot Sanchez. Morta
per overdose l'anno prima. La sua tomba è vuota, spoglia e piena di polvere.
Reese toglie via un fiore d'amaranto da Grace per portarlo a lei.
«Ora possiamo andare».
Grazie, Michael Baker.
Grazie, Grace Martin.
Riposate in pace e vivetevi il vostro amore senza fine.
E grazie, Elisa.
TE

Grace: 17 anni.
Michael: 21 anni.

“Ciao, Michael.
Ti ho mentito. La visita non è andata bene. Pensavo che
negare la realtà dei fatti potesse essere la soluzione, pensavo che a furia di
evitare il problema, questo alla fine sarebbe scomparso.
Beh… non è andata così. Le prime croste e piaghe sono comparse. E fanno
malissimo. A volte sanguinano durante la notte, e io faccio fatica a dormire.
Carcinoma a cellule squamose. Bella merda, eh?
È di già abbastanza esteso, mi è entrato in un polmone tanto che respirare fa
schifo, perciò l’operazione chirurgica ora è fuori questione. E poi costerebbe
troppo. Così come la radioterapia, l’ultima spiaggia che mi era rimasta per
salvarmi.
Per di più fra qualche mese faccio diciotto anni e mi sbatteranno fuori dal
Benetton. Non so cosa fare. So soltanto che se non trovo un rimedio, muoio. E io
non voglio morire, Michael. Io voglio fare la radioterapia, voglio guarire e
vivere.
Io voglio rivederti almeno una volta.
Voglio festeggiare almeno un ultimo compleanno con te, esprimere desideri
con te, mangiare un muffin con te e ascoltare un milioni di canzoni con te.
Voglio stare semplicemente con te.
E ti odio perche voglio ancora tutto questo dopo anni. Dopo quello che mi hai
fatto.
Perché probabilmente morirò, eppure il mio unico pensiero sei tu. Uno dei
miei rimorsi più grandi. Già, morirò e io penso solo a te.
E a questo punto vorrei sapere perché l’hai fatto, perché non sei riuscito ad
andare oltre per me. Non mi importa se non riesci ad essere come gli altri, se a
volte fai brutte cose. Non mi importa. Solo… non dovevi farlo a me.
Vorrei che tu mi dicessi che mi ami, vorrei che tu mi sentissi dire che ti amo
più di quanto potrò odiarti mai. Vorrei vedere se ti si illuminano gli occhi se ti
dico che sarò sempre tua, fino all’ultimo respiro e ancora un altro po’.
Ma certe cose accadono solo nelle favole e purtroppo noi siamo reali. Perfino
il Michael a cui mi ostino a scrivere non esiste. È solo la mia testa che ha
bisogno di aggrapparsi a qualcosa, e ogni mia cellula sa che il mio punto
d’appiglio sei sempre stato tu.
Quindi penso che accetterò l’invito a uscire di Denver.
Che io ti devo estirpare via, Michael. Mi devo disintossicare da te, che mi
riempi ogni atomo e sei ovunque dentro di me, più di quanto lo sia io nel mio
stesso corpo. Ho bisogno di scacciarti via dalla mia testa per tornare nel mondo
reale, non posso più restare incastrata in queste lettere. Ho così tante cose da fare
ancora…
E ti devo lasciare andare e godermi il mio ultimo anno di vita. Ti devo dire
addio, e lo sto facendo in quest’ultima lettera. Non te ne scriverò più nessuna.
Magari in una dimensione parallela io non sono io, tu non sei tu, ma siamo
una Grace qualunque e un Michael qualunque che si incontrano e si amano senza
riserve, proprio come faccio io con te. E mi va bene così.
Sei il mio pezzo di cuore, okay?
Ricordatelo sempre, a prescindere da come andranno le cose in futuro.
Adesso andrò a bruciare questa lettera come ho fatto con tutte le altre, che se
non lo faccio subito va a finire che te la mando e ti chiedo di tornare da me.
Addio, Michael”
RINGRAZIAMENTI
Questo è stato il libro più difficile che io abbia mai scritto. Ed è quasi un
paradosso, se penso che è stato anche quello che ho scritto più in fretta.
Grace e Michael mi hanno affidato le loro storie e mi hanno chiesto di
raccontarle, senza risparmiarmi. Mi hanno chiesto di farlo delicatamente, di farlo
con amore, e nel farlo mi sono riempita di insicurezze.
Io lo definisco un dark romance anomalo, perché pur essendo crudo in alcuni
punti, è anche pieno di dolcezza. Lo so che alcuni si aspettavano lo psicopatico
crudele, ma penso che dietro uno stereotipo ci debba sempre essere molto di più.
È stato un viaggio travagliato. Chi segue Call Me Michael dagli inizi, da
Wattpad, sa le pene che mi ha fatto patire. Tra me e questa storia è sempre stato
amore e odio, un po’ il conflitto che prova Grace per buona parte della storia. Ma
non potrei essere più grata di così a loro due, che alla fine mi hanno dato più di
quanto potessi immaginare.
E ad alcuni la loro storia piacerà, ad altri no, ma va bene così. Io sono
comunque fiera di quello che ho scritto, al di là delle paure che posso provare.
E sono fiera anche di tutte le persone che mi hanno accompagnato in questo
viaggio.
A Caterina e Nadia, le mie migliori amiche che mi hanno dato della pazza
quando ho detto loro la trama che avevo in mente. Caterina tutt’oggi ancora non
ha trovato il coraggio di leggere il libro, giusto per dire. Ma la amo comunque.
Nadia l’ha fatto, e so che l’ha fatto solo per me.
A Carlotta che mi è stata vicino in questi mesi. Mi ha incoraggiata e
supportata durante l’editing. Del tipo che ero solo al primo capitolo e i suoi
messaggi erano “Amo, hai quasi finito!!!” Certo.
A Debora, una delle prime lettrici e sostenitrici di questi due. Grazie per
avermi fatto da beta, e per esserci sempre.
A Carola che è sempre disposta a darmi una mano, anche quando le chiedo di
farmi degli edit entro un’ora.
A Eliana, che pure se scompaio per mesi, quando torno c’è e basta.
A Noemi. Ti ho davvero sfinita con le mie paranoie, lo so. Perdonami. Ti
voglio bene.
Francesca sei la migliore pubblicità del mondo. Mi fai morire. E se tante
persone hanno conosciuto Michael e Grace, è anche merito tuo.
Giulia, grazie di tutto. Mi dai la motivazione anche quando non c’è più.
A Sarah, Michelle, Alessia.
Alla mia famiglia.
E questo libro è merito vostro.
Grazie a tutti per essere arrivati fin qui.
A ogni Michael Baker, Grace Martin ed Elisa nel mondo.

Ps. Continuate a leggere...


IN ANOTHER LIFE

MICHAEL

Qualcuno potrebbe dire che a ventitré anni si è nel pieno della propria vita.
Questa è l'età dell'indipendenza sociale, ma non economica, dove fai quello che
ti pare con i soldi dei tuoi genitori.
Ti illudi di avere la tua stabilità, perché magari con quella somma che ti sei
messo da parte con quel lavoretto part-time sei riuscito a pagarti mezza bolletta o
un cellulare nuovo, senza curarti del resto.
Per questo, ci si aspetterebbe da me che io incarni alla perfezione lo
stereotipo del collegiale che pensa solo a divertirsi alle feste. Non che abbia
nulla da recriminare a chi preferisce trascorrere in tal maniera il proprio tempo,
tutt'altro.
Semplicemente io non ero mai stato così.
Lungi da me sopraelevarmi alla massa e calpestare il conformismo, ma che
fossi sempre stato il ragazzo diverso e strano della classe era un dato di fatto e
ormai ben noto.
Non avevo la minima idea in quale categoria mi avessero relegato duranti gli
anni del liceo. Da una parte protendevo per lo scomparto degli sfigati, vista la
mia predisposizione a prendere i voti migliori; dall'altra quello degli inarrivabili,
poiché ero al sessanta percento taciturno e al quaranta… beh, benestante. O
ricco. Dipendeva dai punti di vista. Stando alle voci di pareri esterni, potevo
anche vantare di un discreto profilo estetico.
In ogni caso in parecchi avevano fatto la fila per sedersi al mio tavolo e
chiedermi di studiare a casa mia. E mi veniva quasi da ridere al pensiero che mi
credessero così stupido.
Che grave insulto alla mia intelligenza.
D'accordo che ero timido, però la mia incapacità di iniziare una
conversazione non aveva nulla a che vedere con quella di scindere realtà e
finzione.
Per fortuna era arrivato il college, dove la vita sociale non dipendeva da
canoni così superflui, e Stanford si era rivelata un'ottima scelta. Non troppo
lontano dalla mia famiglia, e non troppo vicino da sentirne la pressione.
I miei quattro anni in medicina generale erano volati, altroché. Tra una
lezione e l'altra, i miei coinquilini che davano feste come se non ci fosse un
domani e mia madre che continuava a chiedermi quando le avessi presentato una
ragazza finalmente, mi ero ritrovato a iniziare la mia specializzazione prima che
potessi rendermene conto.
Ebbene, sono perfettamente consapevole di non avere alle spalle un gran
resoconto della mia vita, che di entusiasmante ha soltanto la pubertà, ma ritengo
necessario fornire una spiegazione del motivo per cui fossi finito a chiudermi in
una camera durante una festa. Per leggere Oliver Twist.
Probabilmente avrei potuto fare di meglio in vista di classici. Dickens non mi
aveva mai fatto venire la pelle d'oca, dovevo ammetterlo, tuttavia Oliver Twist
rientrava nella lista dei miei libri preferiti per ragioni che non riuscivo a
spiegarmi fino in fondo neppure io stesso.
In parole povere, Killian e Jonah stavano dando l'ennesimo party e io mi
stavo nascondendo nella mia stanza, per nulla intenzionato a partecipare
nonostante fossi l'ospite d'onore, in quanto festeggiato.
Avevo già dato in passato, e avevo compreso da tempo che non mi
gratificava affatto stare in mezzo a troppe persone. Soprattutto se prendevo in
considerazione che era la festa di Halloween. Ergo, la casa sembrava sul punto di
scoppiare.
Potevo scorgere le pareti quasi tremare al rimbombo delle casse, dalle cui
esplodeva la musica techno a un volume che andava oltre l’esagerazione. C'ero
abituato. Non mi dava fastidio. Killian e Jonah non giudicavano la mia
personalità silenziosa e tendente alla solitudine, e io mi comportavo in egual
maniera nei loro confronti, dotati di uno spirito più euforico.
Li ritenevo i compromessi di una convivenza pacifica.
Quindi eccomi qui, sdraiato sul mio letto a leggere e leggere, affiancato dalla
placida compagnia di me medesimo.
Tra una pagina e l'altra, riuscii addirittura a scambiare un paio di messaggi
con i miei genitori, che seppure avessero raggiunto una certa età ormai ancora
restavano svegli ogni anno fino alla mezzanotte solo per me.

Mamma:
Tanti auguri al mio bimbo speciale! La mamma ti ama, Michael, ricordatelo
sempre.
Papà:
Buon compleanno, campione. Sono fiero di te.

Risposi a entrambi, ringraziandoli e ribadendo loro quanto gli volessi bene.


Erano senza dubbio delle brave persone e mi avevano cresciuto al meglio che
potevano, cercando di non farmi mai mancare nulla.
Stavo giusto per ribadire il concetto, in aggiunta a un veloce rimprovero
poiché non vi era alcun bisogno che aspettassero per andare a dormire, che un
colpo secco mi distrasse.
La porta della mia camera venne aperta e poi richiusa con un tonfo secco,
tanto che per un attimo temetti che il colpevole me l'avesse scardinata via.
Sollevai la testa di scatto, sorpreso e già pronto a cacciare via l'intruso di
turno, ma dovetti fermarmi davanti a quei ciuffi bianchi, e occhi così blu da far
invidia a mille laghi ghiacciati. E lacrime. Così tante lacrime che probabilmente
avrebbe finito per allagarmi il pavimento.
Non fa niente.
E fra tutti i pensieri che avrebbero potuto passarsi i collegamenti tra i miei
neuroni, l'unico di rilevanza a quanto pare fu che era bella. Al limite della
meraviglia umana. Anche oltre.
Accidenti, Michael. Ma ti pare il caso?
Non so come fosse possibile, ma quella Dea norrena dai tratti invidiabili non
si era ancora accorta di me. Era troppo presa dall'asciugarsi il viso e insultare
sottovoce un ragazzo, a quanto pareva.
Chiudendo il libro, mi schiarii la voce. «Stai bene?».
Lei sussultò, con il vestitino floreale celeste che l'avvolgeva alla perfezione,
e abbassò in fretta le piccole mani, solo per potermi ben inquadrare intanto che
me ne stavo semi sdraiato sul mio copriletto grigio.
Schiuse le labbra da capogiro, e quando parlò... quando parlò fu la fine per
me. «I-io... scusami, scusami davvero. Non ho visto la luce accesa, non pensavo
ci fosse qualcuno e... perdonami, tolgo il disturbo».
Oh.
La sua voce, maledizione. La musica avrebbe anche potuto far a pezzi la
casa, ma io sapevo fin dal primo istante che sarei potuto rimanere in piedi se solo
lei avesse continuato a parlare.
Disturbo? E come potresti disturbarmi tu, con quel visino?
«Stai bene?», ripetei, perché proprio non ne voleva sapere di smetterla di
piangere.
Non le bruciavano gli occhi? Era davvero un peccato. Mai viste iridi più
belle delle sue. In realtà mai vista niente di bello di lei.
La Bambolina tirò su col naso e poi, lentamente, scosse la testa. I suoi ciuffi
chiari le si strofinarono sulla pelle d'alabastro. «No, non credo».
«Non credi?».
A questo punto, le sfuggì un singhiozzo. «No, non sto bene», si corresse. «Io
e il mio ragazzo ci siamo appena lasciati».
«Mi dispiace».
Non era vero. Solo un idiota avrebbe potuto far piangere un esserino così.
Era minuscola, una tenera cosina che sembrava pregarti di abbracciarla e
stringerla fino a non lasciarla più andare via.
Le tremò il mento e quando si sporse per afferrare la maniglia, l'istinto prese
il sopravvento. «Aspetta!».
«Sì?».
«Puoi restare». Allungai la mano per aprire il cassetto dove riponevo il mio
cibo, senza schiodarle le pupille di dosso. «Non mi dispiacerebbe un po' di
compagnia, sai? È il mio compleanno».
La ragazza si strinse in una smorfia perplessa, forse confusa dalla mia
disponibilità, e poi sputò fuori qualcosa che non mi sarei mai aspettato:
«Davvero? È anche il mio».
«Allora immagino che possiamo dividerci questo». Le mostrai il muffin al
cioccolato che avevo tirato fuori. «Non è una torta, ma meglio di niente. E ho
sentito dire che il cioccolato fa bene ai cuori spezzati».
Lei finì per abbozzare un piccolo sorriso, che per me ebbe la valenza di
migliaia di piccoli soli, e mi ritrovai ad ammirare l'aura eterea e candida che
emanava. Avevo conosciuto tante ragazze, di ogni genere e tipo, ma lei... oh,
porca miseria, a lei bastò sorridermi per entrarmi nelle ossa e non uscirne più.
Non sapevo il suo nome. Non sapevo la sua età. Non sapevo la sua storia.
Non sapevo cosa le piacesse fare e cosa invece odiasse. Non sapevo nulla. Però
riconobbi a priori il rumore del mio cuore selettivo che rombava a ogni passo
che fece nella mia direzione. Lo sentivo fremere dalla voglia malsana di rotolarle
sulle mani e starsene solo con lei.
Avevo l'impressione che sarebbe stata capace di prendersene cura.
«Posso sedermi?». Indicò il mio letto, le guance piene arroventate da uno
strato di rossore delizioso.
«Certo che puoi». Mi mossi più a sinistra, per farlo spazio proprio di fianco a
me, e in un attimo venni invaso da un profumo dolce.
«Perché sei così gentile con me?».
«Perché non dovresti avere occhi così tristi», mormorai, strappandole un
nuovo sorriso disarmante, e acciuffai dal comodino un accendino da collezione.
«Okay, le cose stanno in questo modo: purtroppo non ho una candela, non me ne
volere e prometto che per il prossimo farò di meglio, però abbiamo comunque
una fiamma su cui soffiare».
«È perfetto così».
«Dovremmo chiudere gli occhi?».
«Perché? Vuoi esprimere un desiderio?».
«Siamo in ballo. Balliamo fino in fondo, no?».
Ormai le lacrime le si erano asciugate sulle guance, intanto che mi guardava
vivace da sotto le ciglia. «E va bene, facciamolo».
Lei chiuse gli occhi. Io rimasi incastrato sulle sue ciglia lunghe, il pianto
secco sulla pelle pallida, la bocca grande e rosea, un chiaro invito a riempirla dei
miei denti. Rimasi lì, a contarle i respiri e ogni minima facciale.
La sentii pronunciare i numeri. Uno, due, tre…
Quello che desideri tu. Va bene.
Quando riaprì le palpebre, sembrava rinata. Grazie a me? Non avrei saputo
dirlo con certezza, ma mi piaceva l'idea. Mi piaceva tanto.
Mangiammo il muffin in silenzio. Le lasciai la parte più grande. Ne aveva
più bisogno di me. Si sporcò un po' con le briciole e ridacchiò sottovoce nel
ripulirsi con i polpastrelli.
Era una bimba, a tratti.
Chi come te? Non ne ho viste. Ma sento di averti vista fin da subito. Fin da
sempre.
Poi si appoggiò alla tastiera del letto, assorta da una tranquillità che le
donava, e non potei fare a meno di chiederle: «Non hai voglia di ritornare alla
festa?».
«Dio, no», sbuffò. «Denver è ancora là fuori, non mi va di vederlo per adesso
o penso che potrei staccargli la testa».
«Se ti serve una mano chiedi pure. Sono bravo con il bi- sturi».
La sentii sogghignare. «Se lo meriterebbe. Voleva fare sesso, solo che ancora
non me la sento, ed è corso da un'altra. Con me qui. Ci puoi credere?»
No, non posso proprio.
«E invece ha fatto il cretino», conclusi.
«I miei genitori me l’avevano detto che non è il ragazzo per me, e io ho
preferito illudermi. Sono soltanto una stupida».
«Non metterla in questo modo. Ognuno ha bisogno dei propri tempi, e se hai
creduto a qualcosa tra di voi, è perché lui te l'ha fatto credere», provai a
rassicurarla. «E se vuoi sapere la mia, se fossimo venuti fin qui insieme non mi
sarei schiodato un attimo dal tuo fianco. Sesso o meno».
Per qualche assurda ragione, le si incurvarono gli angoli della bocca all'ingiù.
«Lo dici solo per farmi sentire meglio».
«Lo dico perché è la verità. Non ti conosco, ma posso assicurarti che vali
troppo per un idiota simile».
«Lo dice anche la mia amica Elisa, sai?».
«Mi sembra una persona saggia questa Elisa. Forse dovresti darle ascolto».
Lei ridacchiò, il suo braccio premuto sul mio faceva quasi male per quanto
me lo sentivo fin nelle particelle, e poi appoggiò la testa sulla mia spalla come se
ci conoscessimo da una vita anziché da cinque minuti. Fu piacevole.
«Lo terrò in considerazione per il futuro», scherzò. «Quindi, studi
medicina?», cambiò argomento.
Il commento sul bisturi non le era sfuggito.
«Sì, mi sto specializzando in psichiatria adesso».
Ero sempre restio nel parlare del mio corso di studi, perché le persone poi
tendevano a guardarmi come se fossi un alieno o un genio innaturale. E finivo
per crogiolarmi nel mio imbarazzo patetico.
Lei non fece eccezione, tuttavia si limitò a esclamare un banale: «Wow, tanta
roba», a cui risposi con una semplice alzata di spalle, come a dirle che non era
questa gran cosa alla fine. «Io sono al primo anno di letteratura, ho ancora un
sacco di strada da fare, ma ho già un casino di paura per il futuro. Di non riuscire
a trovare poi il mio posto nel mondo. È strano secondo te? Avere di già paura,
dico».
«La stranezza è ben altro, Bambolina. In pochi riescono realmente a trovare
il proprio posto nel mondo».
«Bambolina?». Lei sollevò il capo per guardarmi incuriosita e fui certo del
bruciore che mi invase il volto.
Neppure mi ero reso conto di averla chiamata in tal modo.
Era stato spontaneo, come se l'avessi già fatto milioni di volte.
«Sei bella come una bambolina».
«E da quando le bamboline sono albine?».
«Da quando sono vere».
Quindi era albina. Avrei dovuto immaginarlo dai suoi colori così chiari. La
osservai aprire e chiudere la bocca morbida più volte, mentre gli occhi le
tornavano a brillare di una luce che non avrebbe dovuto spegnersi.
«Lo prenderò come un complimento», ridacchiò alla fine, tornando nella
posizione precedente.
«Di certo non voleva essere un insulto», assodai. «Comunque... mi chiamo
Michael».
«So chi sei, Michael Baker. Sono abbastanza sicura che lo sappia chiunque
alla Stanford. Avere il campione nazionale di scacchi nello stesso campus non è
mica roba da niente».
Affondai i denti nell'interno guancia per divorare il disagio. Non mi era mai
aggradato mettermi in mostra, d'altronde agivo sempre solo e soltanto per mio
piacere personale. I riconoscimenti non rientravano tra i miei obiettivi.
Però... che cavolo, lei lo disse con quel tono di soddisfazione, quasi
d'orgoglio, come se non potesse fare a meno di provare stima assoluta nei miei
confronti.
«Dài, non è nulla di che», sorrisi, dandole una tenera strusciata di guancia
sulla testolina bionda. «E tu invece? Ti va di dirmi il tuo nome?».
«Grace Martin, ma tu...», si fermò l'attimo necessario per tornare a
guardarmi, armata di due occhioni grandi e meravigliosi come l'oceano. «Tu
puoi continuare a chiamarmi Bambolina. Mi piace».
«Sai, forse potremmo vederci uno di questi giorni e studiare insieme».
«Sì, potremmo. O potremmo vederci e basta».
E io potrei innamorarmi di te.
Perché credo che sei una di quelle che vanno amate solo a ferro e fuoco,
Grace Martin.
«Dammi solo il tempo di dare tutti gli esami e liberarmi al cento per cento»,
aggiunge.
«Tranquilla. So aspettare, Bambolina».

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