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AD VERAS REVOCATIO

Risveglio alla realtà

Ma gli innamorati, i veri innamorati,


inventano con gli occhi la loro verità.
(Molière)

Ci sono momenti, nella vita, in cui daresti tutto per una cosa sola.
Questo diceva mio padre. Chissà che si credeva, forse un grande pensatore.
Invece era un mediocre filosofo, ma giocava bene a poker perché aveva capito una
cosa: quando incontri quei momenti, quando hai davanti il sogno della tua vita, devi far
finta di niente. La cosa migliore è sedersi, bere qualcosa e aspettare di cambiare idea.
E non importa quanto tempo ci metti.
Secondo mio padre tutti i falliti del mondo, nessuno escluso, sono sempre stati e
saranno sempre accomunati dalla stessa caratteristica: aver ascoltato troppo i propri
desideri, ed averli seguiti fino a perdere se stessi. Io gli ho sempre creduto, finchè
non è arrivata Lei.
Lei.
Luna.

La vedo camminare nei corridoi della scuola, tra due amiche che sembrano pretoriani
di guardia all’Imperatrice. Una per lato, armate fino ai denti di frasi taglienti e di
sorrisetti di scherno. Insormontabili, inattaccabili. Non che mi avvicinerei, se fosse
sola… per carità. Bisogna avere un bell’aspetto, modi da re, quell’aria sicura e un certo
sprezzo del pericolo per queste missioni, e io mi sento decisamente fuori parte.
Passo il mio tempo a guardarla, in autobus, in classe, in palestra. Sembro un bimbo
affamato davanti a una vetrina di dolci. Lei, Luna, mi sorride a labbra strette, mi passa
accanto e se ne va, come si fa per strada con quelli che ti vengono addosso su un
marciapiede troppo stretto, o come in ascensore con uno sconosciuto. Indifferenza
civile, la chiamo io. “Non ti caga”, la chiamano i miei amici. Mah.

Di notte non la sogno. Nemmeno una volta.


Questo mi delude un po’, mi aspetterei sogni erotici o romantici uno dopo l’altro.
Comunque, visto che sogno da sveglio, posso concedere qualche ora di riposo alla
mente, quando fa buio. La mattina mi alzo, e comincio a guardarmi allo specchio per
scegliere quale maglione mi sta meglio. Mi pettino con la riga, mi lustro le scarpe, ed
esco senza mangiare niente. E, puntuale, alla ricreazione un mio compagno mi pesta un
piede per sbaglio, mi macchio una mano d’inchiostro, e sono spettinato dopo solo due
ore di matematica passate con le mani nei capelli per quei logaritmi bastardi. Così,
quando Luna, passa davanti alla mia classe alle undici, nonostante i miei sforzi finisco
per nascondermi dietro un banco pur di non farmi vedere trasandato. E mi sento
bollire dentro. Mah.
A casa, i voti fanno schifo.
Scritto di Fisica, sei meno.
Scritto di Inglese, cinque.
Interrogazione di Storia, sei.
In meno di due settimane sono affondato al livello di quelli che solo poco tempo fa
prendevo in giro. E non me ne frega niente. Mio padre mi guarda accigliato,
sforzandosi di sembrare comprensivo, ma che è incazzato lo capisco lo stesso. Mi
chiede se c’è qualcosa che non va, se ho smesso di studiare o se non ci arrivo, se ho la
testa da un’altra parte. Poi anche se sto zitto intuisce di Lei, e si lancia nelle sue
famosissime interpretazioni di “Io, padre saggio”, con se stesso nei ruoli di
sceneggiatore, attore e regista. Mi prende da parte, mi dice che per certe cose c’è
tempo, che non si può lasciar perdere tutto il resto, che le priorità sono altre. Che non
si possono buttare via anni di sforzi per una cosa sola.
Saprà anche giocare a poker, ma è proprio un coglione.

Oggi è il tredici febbraio, e io vorrei morire.


Giorno maledetto, il tredici febbraio. Almeno per quelli come me So già cosa mi
aspetta, in fondo è la stessa storia tutti gli anni, ma non è questo a farmi tremare di
rabbia. Ci sono abituato.
E’ che quest’anno sarà peggio. Oggi pomeriggio tutti gli amici sono in giro a comprare
“regalini”, “bigliettini”, “fiorellini”, qualunque cosa basta che sia “ini”. Addirittura
sant“ini” di San Valentino, che non sanno nemmeno che Santo sia… Che battuta pietosa.
Oggi sono scarico, perché so che domani sarà terribile entrare a scuola. Tutti
appoggiati al muro con una ragazza cercando di dimostrarle di essere il meglio. Tutti a
fissare negli occhi qualcuna per sentirsi migliori. E io lo SO che non sono il meglio. SO
che non si sentono migliori. Eppure lo fanno lo stesso, e non posso fare a meno di
chiedermi il perché.
Lei, Luna.
Forse, per evitare di stare come sto io. Qui come un fesso a fissare il muro, mentre là
fuori milioni di rose stanno per passare di mano.

Dormire male è una prassi, la sera prima di una grande prova. E la prova che mi accingo
ad affrontare, cioè stare cinque ore dentro questa scuola, è titanica. Quindi la
mattina mi alzo con la faccia di un morto, i capelli sparati, voglia di uscire zero e
un’attitudine verso il mondo che è gentile definire omicida.
La prima ora del 14 febbraio è uno strazio: bigliettini e occhiatine ovunque mi giri. In
classe nessuno è interessato al perché Cromwell prese il potere nel 1576 in
Inghilterra.
La seconda ora è peggio: assemblea di classe, e tutti a scrivere dediche sul diario della
più carina della classe: un culo che parla sotto un cervello che, purtroppo, non sa
parlare. Non come Lei, Luna.
Solo i più fortunati si salvano dalla processione verso il diario: sono quelli che la
ragazza ce l’hanno, magari nell’aula a fianco. Ora sono appoggiati alle finestre
mandando messagg“ini” sui loro telefon“ini” alle amate. Il messaggio d’amore parte dal
loro dito, arriva sul display del telefonino, viene sparato in orbita a quaranta
chilometri su un satellite della Omnitel, che lo gira al Centro Smistamento Ripetitori
di Roma, che lo fa rimbalzare verso Milano, che lo indirizza a Piacenza, Parma, Reggio,
Modena, Bologna, nel nostro quartiere, nell’aula accanto alla nostra, a sedici metri da
dove era partito quattro decimi di secondo prima, e dove la fidanzat“ina” sta
studiando Hegel china su un libro grosso così.
Questa è la tecnologia, baby.

Magari il cellulare di Luna è spento.


Comincio a sperarlo. Io il cellulare non ce l’ho (non che se lo avessi le spedirei un
messaggio… per carità) ma qui ce l’hanno tutti, e se Lei ha il telefono acceso, di certo
le stanno arrivando decine, centinaia di pensier“ini” dolci, parol“ine” gentili e tanto
affetto telematico.
L’idea mi fa impazzire di frustrazione. Ci metto un po’ a rendermi conto che non è
perché anch’io voglio il cellulare. E’ perché sono schifosamente, ignobilmente,
fottutamente, ripugnantemente, orrendamente, umanamente geloso.

Geloso.
Il professore entra in classe per la terza ora. Fisica.
Geloso.
Il moto delle particelle subatomiche…
Geloso.
Stati quantici…
Geloso di Lei, Luna.
Livelli energetici degli elettroni…
Luna. Le sue labbra. I suoi occhi.
…Orbitale quantico? Cos’è un orbitale???
I suoi capelli. La sua voce che mi dice “Ciao”. E’ calda.
La fotodiffusione a scatter…
E’ calda. Dolce. Mi prende la mano e se la mette sul viso. Sorride e arrossisce.
Sorride e mi guarda fisso.
La voglio.
Ora.

Mi alzo di scatto e mi lancio verso la porta. Contemporaneamente, il destino fa


suonare la campanella dell’intervallo, e mi risparmia l’ira del professore di fisica,
stupito soltanto della mia fretta ma non offeso. In un altro momento avrei ringraziato
il cielo per la campana, ma adesso non me ne accorgo nemmeno.
Lei, Luna.
Calda.
Mi sorride.
I suoi occhi.
Le sue labbra, dischiuse in un bacio sottile.

Svolto nel corridoio, quasi correndo, sudando gelido. La sua aula si apre. Da lontano
vedo uscire le due pretoriane. Le vedo là in fondo, che aspettano l’Imperatrice. Lei
esce nel momento esatto in cui sto entrando io. Cerca di mormorare uno “scusa”
distratto, ma non la sento nemmeno.
La mia mano prende la sua. Mi giro contro il muro. Le leggo negli occhi che non sa cosa
fare, non ha capito cosa succede. Forse, nemmeno chi sono.
Mi avvicino con forza, le mie labbra sulle sue. Un alito solo, il nostro. Picchietto sui
denti, che si aprono quasi senza resistere. Chiudo gli occhi, aspettandomi il doppio
ceffone pretoriano più violento della Storia del Mondo. Invece sento un ridacchiare
lontano, le pretoriane sono rientrate in classe. I miei occhi chiusi vedono il viso di lei,
rosso come un peperone. La sua mano libera ondeggia lungo un fianco, indecisa se
allontanarmi o stringermi a Lei mentre il suo corpo tenta di riprendere fiato.
Trema tutta, poverina. Ha paura, e tanta. Sento il suo sapore, sento il suo odore, sento
la sua paura e la sua eccitazione, mischiate insieme.
E mi lascio affogare nelle mie emozioni.

Niente.
Non mi gira la testa?
E la musica? Non sento la musica. Non dovrei sentire la musica?
E perché sento tante cose? E l’oblio dei sensi?
E perché per tenere gli occhi chiusi mi devo sforzare?
E perché ragiono tanto? Perché tanti perché?
Sto baciando lei, Luna! Una ragazza. La MIA ragazza!
Una ragazza… Soltanto una ragazza?
Sento un corpo fremere sotto le mie mani… lascio la presa sul polso, le labbra si
staccano e apro gli occhi. C’è lei di fronte a me. Un piccolo passerotto rosso e
spaventato, una ragazza sorpresa e spiazzata, una persona fragile che non sa se
piangere o ridere, se stare zitta a fissarmi o scappare via.
Non può essere… lei è Luna… il mio Amore… il mio amore… amore?
Guardo quegli occhi e li vedo per la prima volta. Verdi, profondi, spalancati. Non reggo
lo sguardo di quegli occhi, che cercano di capire chi sono. Li sento alle mie spalle
mentre mi giro e me ne vado quasi correndo, come sono venuto.

Mentre affronto i pochi metri che mi separano dalla mia classe, metri lunghi eterni, mi
sento un buco vuoto dentro. Un buco che non si può riempire, se non coi sogni. Un buco
che fino ad oggi ho cercato di ignorare. Di nascondere dietro l’idea di un sentimento
inventato.
Sono a metà di questo corridoio, in un intervallo qualsiasi di un qualsiasi giovedì di
febbraio, che ha l’unica sfiga di essere il 14.
E per la prima volta qui e adesso, soltanto qui e adesso, ora che il pensiero di Lei non
mi accompagna più, mi accorgo che sono davvero solo.

Ale, novembre 2002

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