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Ci sono momenti, nella vita, in cui daresti tutto per una cosa sola.
Questo diceva mio padre. Chissà che si credeva, forse un grande pensatore.
Invece era un mediocre filosofo, ma giocava bene a poker perché aveva capito una
cosa: quando incontri quei momenti, quando hai davanti il sogno della tua vita, devi far
finta di niente. La cosa migliore è sedersi, bere qualcosa e aspettare di cambiare idea.
E non importa quanto tempo ci metti.
Secondo mio padre tutti i falliti del mondo, nessuno escluso, sono sempre stati e
saranno sempre accomunati dalla stessa caratteristica: aver ascoltato troppo i propri
desideri, ed averli seguiti fino a perdere se stessi. Io gli ho sempre creduto, finchè
non è arrivata Lei.
Lei.
Luna.
La vedo camminare nei corridoi della scuola, tra due amiche che sembrano pretoriani
di guardia all’Imperatrice. Una per lato, armate fino ai denti di frasi taglienti e di
sorrisetti di scherno. Insormontabili, inattaccabili. Non che mi avvicinerei, se fosse
sola… per carità. Bisogna avere un bell’aspetto, modi da re, quell’aria sicura e un certo
sprezzo del pericolo per queste missioni, e io mi sento decisamente fuori parte.
Passo il mio tempo a guardarla, in autobus, in classe, in palestra. Sembro un bimbo
affamato davanti a una vetrina di dolci. Lei, Luna, mi sorride a labbra strette, mi passa
accanto e se ne va, come si fa per strada con quelli che ti vengono addosso su un
marciapiede troppo stretto, o come in ascensore con uno sconosciuto. Indifferenza
civile, la chiamo io. “Non ti caga”, la chiamano i miei amici. Mah.
Dormire male è una prassi, la sera prima di una grande prova. E la prova che mi accingo
ad affrontare, cioè stare cinque ore dentro questa scuola, è titanica. Quindi la
mattina mi alzo con la faccia di un morto, i capelli sparati, voglia di uscire zero e
un’attitudine verso il mondo che è gentile definire omicida.
La prima ora del 14 febbraio è uno strazio: bigliettini e occhiatine ovunque mi giri. In
classe nessuno è interessato al perché Cromwell prese il potere nel 1576 in
Inghilterra.
La seconda ora è peggio: assemblea di classe, e tutti a scrivere dediche sul diario della
più carina della classe: un culo che parla sotto un cervello che, purtroppo, non sa
parlare. Non come Lei, Luna.
Solo i più fortunati si salvano dalla processione verso il diario: sono quelli che la
ragazza ce l’hanno, magari nell’aula a fianco. Ora sono appoggiati alle finestre
mandando messagg“ini” sui loro telefon“ini” alle amate. Il messaggio d’amore parte dal
loro dito, arriva sul display del telefonino, viene sparato in orbita a quaranta
chilometri su un satellite della Omnitel, che lo gira al Centro Smistamento Ripetitori
di Roma, che lo fa rimbalzare verso Milano, che lo indirizza a Piacenza, Parma, Reggio,
Modena, Bologna, nel nostro quartiere, nell’aula accanto alla nostra, a sedici metri da
dove era partito quattro decimi di secondo prima, e dove la fidanzat“ina” sta
studiando Hegel china su un libro grosso così.
Questa è la tecnologia, baby.
Geloso.
Il professore entra in classe per la terza ora. Fisica.
Geloso.
Il moto delle particelle subatomiche…
Geloso.
Stati quantici…
Geloso di Lei, Luna.
Livelli energetici degli elettroni…
Luna. Le sue labbra. I suoi occhi.
…Orbitale quantico? Cos’è un orbitale???
I suoi capelli. La sua voce che mi dice “Ciao”. E’ calda.
La fotodiffusione a scatter…
E’ calda. Dolce. Mi prende la mano e se la mette sul viso. Sorride e arrossisce.
Sorride e mi guarda fisso.
La voglio.
Ora.
Svolto nel corridoio, quasi correndo, sudando gelido. La sua aula si apre. Da lontano
vedo uscire le due pretoriane. Le vedo là in fondo, che aspettano l’Imperatrice. Lei
esce nel momento esatto in cui sto entrando io. Cerca di mormorare uno “scusa”
distratto, ma non la sento nemmeno.
La mia mano prende la sua. Mi giro contro il muro. Le leggo negli occhi che non sa cosa
fare, non ha capito cosa succede. Forse, nemmeno chi sono.
Mi avvicino con forza, le mie labbra sulle sue. Un alito solo, il nostro. Picchietto sui
denti, che si aprono quasi senza resistere. Chiudo gli occhi, aspettandomi il doppio
ceffone pretoriano più violento della Storia del Mondo. Invece sento un ridacchiare
lontano, le pretoriane sono rientrate in classe. I miei occhi chiusi vedono il viso di lei,
rosso come un peperone. La sua mano libera ondeggia lungo un fianco, indecisa se
allontanarmi o stringermi a Lei mentre il suo corpo tenta di riprendere fiato.
Trema tutta, poverina. Ha paura, e tanta. Sento il suo sapore, sento il suo odore, sento
la sua paura e la sua eccitazione, mischiate insieme.
E mi lascio affogare nelle mie emozioni.
Niente.
Non mi gira la testa?
E la musica? Non sento la musica. Non dovrei sentire la musica?
E perché sento tante cose? E l’oblio dei sensi?
E perché per tenere gli occhi chiusi mi devo sforzare?
E perché ragiono tanto? Perché tanti perché?
Sto baciando lei, Luna! Una ragazza. La MIA ragazza!
Una ragazza… Soltanto una ragazza?
Sento un corpo fremere sotto le mie mani… lascio la presa sul polso, le labbra si
staccano e apro gli occhi. C’è lei di fronte a me. Un piccolo passerotto rosso e
spaventato, una ragazza sorpresa e spiazzata, una persona fragile che non sa se
piangere o ridere, se stare zitta a fissarmi o scappare via.
Non può essere… lei è Luna… il mio Amore… il mio amore… amore?
Guardo quegli occhi e li vedo per la prima volta. Verdi, profondi, spalancati. Non reggo
lo sguardo di quegli occhi, che cercano di capire chi sono. Li sento alle mie spalle
mentre mi giro e me ne vado quasi correndo, come sono venuto.
Mentre affronto i pochi metri che mi separano dalla mia classe, metri lunghi eterni, mi
sento un buco vuoto dentro. Un buco che non si può riempire, se non coi sogni. Un buco
che fino ad oggi ho cercato di ignorare. Di nascondere dietro l’idea di un sentimento
inventato.
Sono a metà di questo corridoio, in un intervallo qualsiasi di un qualsiasi giovedì di
febbraio, che ha l’unica sfiga di essere il 14.
E per la prima volta qui e adesso, soltanto qui e adesso, ora che il pensiero di Lei non
mi accompagna più, mi accorgo che sono davvero solo.