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IMAGINE ME
Tahereh Mafi
 
Traduzione a cura di The Books We Want To Read
Revisione di Juls, Fra, Juliette Ferrars
 

 
 
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INDICE
 
CAPITOLO 1
CAPITOLO 2
CAPITOLO 3
CAPITOLO 4
CAPITOLO 5
CAPITOLO 6
CAPITOLO 7
CAPITOLO 8
CAPITOLO 9
CAPITOLO 10
CAPITOLO 11
CAPITOLO 12
CAPITOLO 13
CAPITOLO 14
CAPITOLO 15
CAPITOLO 16
CAPITOLO 17
CAPITOLO 18
CAPITOLO 19
CAPITOLO 20
CAPITOLO 21
CAPITOLO 22
CAPITOLO 23
CAPITOLO 24
CAPITOLO 25
CAPITOLO 26
CAPITOLO 27
CAPITOLO 28
CAPITOLO 29
CAPITOLO 30
CAPITOLO 31
CAPITOLO 32
CAPITOLO 33
CAPITOLO 34
CAPITOLO 35
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 1
ELLA
JULIETTE
 
Nel cuore della notte, sento gli uccelli.
Li sento, li vedo, chiudo gli occhi e li sento, piume che tremano nell’aria,
piegando il vento, ali che accarezzano le mie spalle quando salgono, quando
scendono. Grida dissonanti suonano e riecheggiano, suonano e
riecheggiano…
Quante?
Centinaia.
Uccelli bianchi, bianchi con striature d’oro, come corone in cima alle loro
teste. Volano. Si librano in cielo con forza, costanti, padroni dei loro destini.
Mi infondono speranza.
Mai più.
Sprofondo nel cuscino, affondando le dita nel cotone, mentre i ricordi si
infrangono su di me.
 
«Ti piacciono?» dice.
Siamo in una stanza, grande, vasta, puzza di sporcizia. Ci sono alberi
dappertutto, così alti che quasi toccano i tubi e le travi del soffitto a pezzi.
Dozzine di uccelli stridono, spiegando le ali. I loro richiami sono forti. Un
po’ spaventosi. Cerco di non sussultare mentre uno di quei grossi uccelli mi
piomba addosso. Indossa un braccialetto verde brillante attorno a una
zampa. Tutti lo hanno.
Non ha senso.
Mi ricordo che siamo al chiuso… pareti bianche, pavimento di cemento
sotto i miei piedi… guardo mia madre, confusa.
Non ho mai visto la mamma sorridere così tanto. Principalmente sorride
quando c’è papà in giro, o quando lei e papà sono fuori in un angolo, a
sussurrare tra loro, ma in questo momento siamo solo io, lei e un gruppo di
uccelli, ed è felice. Decido di ignorare la strana sensazione allo stomaco.
Le cose vanno meglio quando la mamma è di buon umore.
«Sì,» mento «mi piacciono molto.»
I suoi occhi si illuminano. «Lo sapevo. A Emmaline non importa di loro,
ma tu… ti affezioni sempre un po’ troppo alle cose, vero, tesoro? Non sei
come tua sorella.» In qualche modo le sue parole sono cattive.
All’apparenza non lo sembrano, ma suonano come tali.
Aggrotto la fronte.
Sto ancora cercando di capire cosa sta succedendo quando dice…
«Ne avevo uno come animale domestico quando avevo la tua età. Allora
erano così numerosi che non riuscivamo mai a sbarazzarcene.» Ride, la
osservo mentre guarda un uccello durante il volo. «Viveva in un albero
vicino alla mia casa e mi chiamava per nome ogni volta che passavo. Riesci
a immaginarlo?» Il suo sorriso svanisce mentre mi pone la domanda.
Alla fine si gira a guardarmi.
«Ora sono quasi estinti. Adesso capisci perché non potevo permettere che
accadesse.»
«Certo» dico, mentendo di nuovo. Sono poche le cose di mamma che
capisco.
Annuisce. «Sono un tipo di creature speciali. Intelligenti. Possono
parlare, ballare. E ognuno di loro indossa una corona.» Si allontana,
fissando gli uccelli come fissa sempre le cose che fa per lavoro: con gioia.
«I cacatua ciuffo-giallo si accoppiano per la vita» dice. «Proprio come me
e tuo padre.»
 
Il cacatua ciuffo-giallo.
Rabbrividisco improvvisamente, per la sensazione inaspettata di una
mano calda sulla schiena, dita che si trascinano lievemente lungo la spina
dorsale.
«Amore,» dice «stai bene?»
Quando non rispondo, si sposta, le lenzuola frusciano mentre mi attira
nell’incavo del suo corpo che si curva attorno al mio. È caldo e forte e
mentre la sua mano scivola sul mio torace giro la testa verso di lui, trovando
pace nella sua presenza e sicurezza tra le sue braccia. Le sue labbra toccano
la mia pelle, mi sfiora delicato il collo e una scintilla, calda e fredda, mi
arriva fino alle dita dei piedi.
«Sta succedendo di nuovo?» sussurra.
Mia madre è nata in Australia.
Lo so perché me l’ha detto una volta e perché ora, nonostante la mia
disperazione di resistere ai molti ricordi che tornano, non posso
dimenticare. Una volta mi disse che il cacatua ciuffo-giallo era originario
dell’Australia. Era stato introdotto dalla Nuova Zelanda. Ma Evie, mia
madre, non li aveva scoperti lì. Si era innamorata di quegli uccelli a casa, da
bambina, quando uno di loro, diceva, le aveva salvato la vita.
Erano gli stessi uccelli che un tempo perseguitavano i miei sogni.
Gli stessi uccelli, tenuti e allevati, da una donna pazza. Mi sento
imbarazzata nel rendermi conto che mi ero aggrappata a delle sciocchezze,
a delle impressioni sbiadite e sfigurate di ricordi malamente eliminati.
Speravo in qualcosa di più. Sognavo qualcosa di più. La delusione mi
opprime la gola, come una groppo freddo che non riesco a deglutire.
E poi
ancora
Li sento.
Mi irrigidisco contro la nausea che precede la visione, il pugno
improvviso allo stomaco significa che c’è di più, c’è di più, c’è sempre
qualcosa di più.
Aaron si avvicina, mi stringe più forte al suo petto.
«Respira» sussurra. «Sono qui, amore. Va tutto bene.»
Mi aggrappo a lui, stringendo gli occhi mentre la mia testa vaga. Questi
ricordi sono un regalo di mia sorella, Emmaline. La sorella che ho appena
scoperto, appena ritrovato.
E solo perché lei ha lottato per trovarmi.
Nonostante gli sforzi incessanti dei nostri genitori per eliminare dalla
nostra mente le loro persistenti atrocità, Emmaline ha prevalso. Ha
utilizzato i suoi poteri psico-cinetici per restituirmi ciò che mi era stato
rubati: i miei ricordi. Mi ha fatto questo dono, il dono di ricordare per
aiutarmi. Per aiutarla. Per fermare i nostri genitori.
Per sistemare il mondo.
Ma ora, a seguito dello scampato pericolo, questo dono sta diventando
una maledizione. Ogni ora la mia mente rinasce. Cambiata. I ricordi
continuano ad arrivare.
E mia madre morta si rifiuta di tacere.
 
«Passerott,o» sussurra, infilando una ciocca di capelli dietro il mio
orecchio «è ora che voli via adesso.»
«Ma non voglio andare» dico, con voce tremante di paura. «Voglio
restare qui, con te, papà ed Emmaline. Ancora non capisco perché devo
andarmene.»
«Non devi capirlo» dice dolcemente.
Sono ancora più a disagio.
Mamma non urla. Non ha mai urlato. In tutta la mia vita non ha mai
alzato una mano su di me, non mi ha mai sgridato o preso in giro. Non
come il padre di Aaron. Ma lei non ha bisogno di urlare. Qualche volta dice
solo delle cose, cose come il fatto che non devo capire, e c’è un
avvertimento di fondo nelle sue parole che mi spaventa ogni volta.
Sento le lacrime formarsi, bruciare i miei occhi e…
«Non piangere» dice. «Adesso sei troppo grande per quello.»
Tiro su forte con il naso, combattendo le lacrime. Ma le mie mani non
smettono di tremare.
La mamma alza lo sguardo, annuisce a qualcuno dietro di me. Mi giro
appena in tempo per vedere Paris, il signor Anderson, che mi aspetta con la
mia valigia. Non c’è gentilezza nei suoi occhi. Nessun calore mentre mi
volta le spalle, guarda la mamma e non dice neanche ciao.
Dice «Max si è già sistemato?»
«Oh, è pronto da giorni.» La mamma guarda distratta l’orologio.
«Conosci Max» dice sorridendo. «È sempre un perfezionista.»
«Solo quando si tratta dei tuoi desideri» afferma Anderson. «Non ho mai
visto un uomo adulto così invaghito della propria moglie.»
Il sorriso di mamma si allarga. Sembra che stia per dire qualcosa, ma la
interrompo.
«State parlando di papà?» chiedo, con il cuore che batte forte. «Papà ci
sarà?»
Mia madre si gira verso di me, sorpresa, come se avesse dimenticato che
ero lì. Si gira di nuovo verso il signor Anderson. «Come sta Leila,
comunque?»
«Bene» dice. Ma sembra irritato.
«Mamma?» Le lacrime minacciano di nuovo di uscire «Verrà anche
papà?»
Ma lei non sembra sentirmi. Sta parlando col signor Anderson quando
dice «Max ti accompagnerà fino all’arrivo e sarà in grado di rispondere a
tutte le tue domande. Se c’è qualcosa a cui non potrà rispondere
probabilmente sarà perché è oltre il tuo nulla osta.»
Il signor Anderson sembra improvvisamente seccato, ma non dice nulla.
Anche mamma non dice nulla.
Non lo sopporto.
Le lacrime mi colano sul viso ormai, il mio corpo è scosso da tremori e
fatico a respirare. «Mamma?» sussurro «Mamma, per favore,
rispondimi…»
Mi stringe una mano dura e fredda attorno alle spalle e istantaneamente
mi blocco. In silenzio. Non mi sta guardando. Non vuole guardarmi.
«Dovrai occuparti anche di questo» afferma. «Va bene, Paris?»
Il signor Anderson mi fissa negli occhi. Sono così blu. Così freddi.
«Naturalmente.»
Un lampo di calore mi attraversa. Una rabbia improvvisa sostituisce
brevemente il mio terrore.
Lo odio.
Lo odio così tanto che mi fa uno strano effetto quando lo guardo… e
l’improvvisa ondata di emozione mi fa sentire coraggiosa.
Guardo mia madre. Provo di nuovo.
«Perché Emmaline può rimanere?» chiedo, asciugandomi con la rabbia
le guance bagnate. «Se devo andare, non possiamo almeno andare
assieme…»
Mi interrompo quando la vedo.
Mia sorella Emmaline, sta sbirciando da dietro una porta socchiusa. Non
dovrebbe essere qui. Così aveva detto la mamma.
Emmaline doveva essere alla sua lezione di nuoto.
Ma è qui, coi capelli bagnati che gocciolano sul pavimento, e mi fissa
con gli occhi spalancati. Sta cercando di dire qualcosa, ma le sue labbra si
muovono troppo in fretta per poter capire. E poi, dal nulla, sento come un
fulmine elettrico strisciare sulla mia schiena. Sento la sua voce acuta e
strana…
Bugiardi.
 
BUGIARDI.
UCCIDILI TUTTI.      
 
Apro gli occhi ma non riesco a riprendere fiato, il mio respiro è ansante,
pesante. Warner mi abbraccia, mormorando parole rassicuranti, mentre con
una mano mi accarezza il braccio.
Le lacrime mi scorrono sul viso e le asciugo, agitando le mani.
«Odio tutto questo» sussurro inorridita dal tremore nella mia voce. «Lo
odio così tanto. Odio che continui a succedere. Odio cosa significhi per me»
dico. «Lo odio.»
Warner Aaron preme la guancia sulla mia spalla con un sospiro, il suo
respiro mi stuzzica la pelle.
«Anche io lo odio» dice piano.
Mi giro con cautela nella culla delle sue braccia, premendo la fronte sul
suo petto nudo.
Sono passati due giorni da quando siamo fuggiti dall’Oceania. Due giorni
da quando ho ucciso mia madre. Due giorni da quando ho incontrato tutto
ciò che rimaneva di mia sorella, Emmaline. Solo due giorni da quando la
mia vita è stata di nuovo interamente sconvolta, il che sembra impossibile.
Due giorni e le cose sono già in fiamme intorno a noi.
Questa è la nostra seconda notte qui, al Santuario, dove risiede il gruppo
di ribelli guidato da Nouria, la figlia di Castle, e da sua moglie Sam.
Dovremmo essere al sicuro qui. Dovremmo essere in grado di poter
respirare e riorganizzarci dopo l’inferno delle ultime settimane, ma il mio
corpo si rifiuta di stabilirsi. La mia mente è sopraffatta, sotto attacco. Ho
pensato che la corsa dei nuovi ricordi sarebbe terminata, ma le ultime
ventiquattro ore sono state un assalto brutale e mi sembra di essere l’unica a
star lottando.
Emmaline ha donato a tutti noi, a tutti i figli dei Comandanti Supremi, i
ricordi che ci erano stati rubati dai nostri genitori. Uno per uno siamo stati
esposti alla verità sepolta, e uno per uno siamo tornati alla vita normale.
Tutti tranne me.
Gli altri sono passati oltre, hanno riconciliato le loro linee temporali,
hanno dato un senso al tradimento. La mia mente, d’altra parte, continua a
vacillare. Girare. Ma poi, nessuno degli altri ha perso tanto quanto me; non
hanno molto da ricordare. Anche Warner, Aaron, non sta reagendo come me
per ritornare alla sua vita.
Sta iniziando a spaventarmi.
Sento che la mia storia viene riscritta, infiniti paragrafi cancellati e
modificati in fretta. Immagine vecchie e nuove, ricordi, si sovrappongono
uno strato sopra l’altro fino a quando l’inchiostro scorre tramutando le
scene in qualcosa di incomprensibile. Di tanto in tanto i miei pensieri
sembrano allucinazioni e l’attacco è così invasivo che temo stia facendo un
danno irreparabile.
Perché qualcosa sta cambiando.
Ogni nuovo ricordo arriva con una violenza emotiva che mi trascina
dentro di me, riordinando la mia mente. Sento il dolore nei tremori,
malessere, nausea, disorientamento, ma non voglio analizzarlo troppo
profondamente. Non voglio guardare troppo da vicino. La verità è che non
voglio credere alle mie stesse paure. Ma la verità è che sono come una
gomma bucata. Ogni iniezione di aria mi riempie e poi mi sgonfio.
Sto dimenticando.
«Ella?»
Il terrore mi invade, sanguinando dagli occhi. Mi ci vuole un momento
per ricordare che sono Juliette Ella. Ogni volta, mi ci vuole un momento in
più.
Una crisi isterica minaccia di…
La costringo ad andare via.
«Sì» dico, spingendo l’aria nei polmoni. «Sì.»
Warner Aaron si irrigidisce. «Amore, cosa c’è che non va?»
«Niente» mento. Il mio cuore batte troppo forte e veloce. Non so perché
sto mentendo. È uno sforzo inutile; può percepire tutto ciò che sento.
Dovrei solo dirglielo. Non so perché non glielo sto dicendo. So perché non
glielo sto dicendo.
Sto aspettando.
Sto aspettando di vedere se passerà, se i lapsus dei miei ricordi
diventeranno solo difetti che aspettano di essere riparati. Dirlo ad alta voce
lo renderebbe reale ed è troppo presto per dar voce a questi pensieri, per
arrendersi alla paura. Dopotutto è passato un giorno solo da quando è
iniziato. Mi è venuto in mente solo ieri che c’era qualcosa di veramente
sbagliato.
Mi è venuto in mente perché ho commesso un errore.
Più errori.
Eravamo seduti fuori a guardare le stelle. Non ricordavo di aver mai
visto le stelle così… nitide, limpide. Era tardi, così tardi, che non era notte
ma l’inizio del mattino, e la vista era da capogiro. Stavo congelando. Un
vento impavido ci soffiava addosso, riempiendo l’aria di un suono costante.
Ero sazia di torta. Warner profumava di zucchero, di proibito. Mi ero sentita
ubriaca di felicità.
Non voglio aspettare, disse, prendendomi la mano. Stringendomela. Non
aspettiamo.
Sbattei le palpebre. Per cosa?
Per cosa?
Per cosa?
Come avevo potuto dimenticare cosa era successo poche ore prima?
Come avevo potuto dimenticare il momento in cui mi aveva chiesto di
sposarlo?
È stata un’anomalia. Sembrava un’anomalia. Dove una volta c’era il
ricordo, improvvisamente c’era un ricordo mancante, una cavità tenuta
vuota fino a quando un suggerimento non ha riallineato la mia memoria.
Ho recuperato, mi sono ricordata. Warner ha riso.
Io no.
Ho dimenticato il nome della figlia di Castle. Ho dimenticato come siamo
atterrati al Santuario. Ho dimenticato, per un paio di minuti, come sono
fuggita dall’Oceania.
Ma erano tutti errori temporanei, sembravano lacune naturali. Ho sentito
la confusione nella mia mente crescere, l’esitazione aumentare quando i
vaghi ricordi sono tornati, come un’onda. Ho pensato che forse dovevo
essere stanchissima.
Sovraccaricata. Non avevo dato peso alla mia stanchezza fino al
momento in cui ero seduta sotto le stelle e non ricordavo di aver promesso
di passare il resto della mia vita con qualcuno.
Ero mortificata.
La mortificazione mi colpì così forte che pensai sarei morta. Anche
adesso un rossore mi inonda il viso, e sono sollevata che Warner non possa
vedermi al buio.
Aaron, non Warner.
Aaron.
«Non so dire se provi più paura o imbarazzo» dice ed espira piano.
Sembra quasi una risata. «Sei preoccupata per Kenji? Per gli altri?»
Afferro questa mezza verità con tutto il cuore.
«Sì,» dico «Kenji, James, Adam.»
Kenji è stato male questa mattina, molto presto. Sbircio l’inclinazione
della luna dalla nostra finestra e ricordo che è passata la mezzanotte da
molto tempo, il che significa che Kenji è stato male ieri mattina.
In ogni caso, è stato terrificante per tutti noi.
La droga cha Nazeera ha utilizzato su Kenji durante il loro volo dal
Settore 45 verso l’Oceania era una dose troppo forte e da allora ha iniziato a
non stare bene. Alla fine è crollato… le gemelle, Sonya e Sara, lo hanno
controllato e hanno detto che starà bene, ma non prima di aver saputo che
Anderson ha rapito tutti i figli dei Comandanti Supremi.
Adam, James, Lena, Valentina e Nicolàs sono tutti sotto la custodia di
Anderson.
James è sotto la sua custodia.
Sono stati due giorni devastanti e terribili. Sono state due settimane
devastanti e terribili.
Mesi, veramente.
Anni.
In alcuni giorni, non importa quanto indietro vada, non riesco a ricordare
i bei tempi. Alcuni giorni la felicità occasionale di cui godo sembra un
sogno bizzarro. Un errore. Surreale e sfocato, i colori sono troppo chiari e i
suoni troppo forti.
Frammenti della mia immaginazione.
Solo pochi giorni fa ho fatto chiarezza, ricevendo un dono. Pochi giorni
fa il peggio sembrava passato, il mondo mi sembrava pieno di potenziale, il
mio corpo era più forte che mai, la mia mente più piena, più acuta, più
capace di come l’avessi mai percepita.
Ma ora.
Ma ora.
Ma ora mi sento come se mi stessi aggrappando ai bordi sfocati della
sanità mentale, il tempo è un amico sfuggente, mi spezza sempre il cuore.
Aaron si avvicina e mi sciolgo in lui, grata per il suo calore, per la
stabilità delle sue braccia intorno a me. Faccio un profondo respiro,
tremando, e lascio andare tutto, espirando contro di lui.
Inspiro il profumo intenso e inebriante della sua pelle, l’aroma debole di
gardenie che porta sempre con sé. I secondi passano in perfetto silenzio e ci
ascoltiamo respirare a vicenda.
Lentamente, la mia frequenza cardiaca si stabilizza.
Le lacrime si asciugano. Le paure fanno una pausa. Il terrore è distratto
dal passaggio di una farfalla e la tristezza fa un pisolino.
Per un po’ siamo solo io e lui, noi, e tutto il resto è incontaminato, non
toccato dalla malvagità.
Non sapevo di amare Warner Aaron prima di tutto questo, prima che
venissimo catturati dalla Restaurazione, prima che venissimo separati,
prima di conoscere la storia che condividevamo, ma quell’amore era nuovo,
inesperto, le sue profondità ancora non esplorate, non testate. In quella
breve brillante finestra durante la quale i buchi della mia memoria
sembravano pienamente giustificati, le cose tra noi sono cambiate. Tutto tra
di noi è cambiato. Anche adesso, anche con i miei problemi di memoria, lo
sento.
Qui.
Questo.
Il mio corpo contro il suo corpo. Questa è casa mia.
Lo sento irrigidirsi improvvisamente e mi tiro indietro preoccupata. Non
riesco a vedere molto di lui in questa perfetta oscurità, ma sento il delicato
aumento della pressione delle sue braccia quando dice «A cosa stai
pensando?»
Spalanco gli occhi, capendo di dover eliminare la preoccupazione. «Sto
pensando a te.»
«A me?»
Mi avvicino eliminando la distanza tra di noi. Annuisco contro il suo
petto.
Non dice nulla, ma posso sentire il suo cuore battere piano, e alla fine lo
sento espirare. È un suono pesante e irregolare come se avesse trattenuto il
respiro troppo a lungo. Vorrei poter vedere il suo viso. Non importa quanto
tempo passiamo insieme, dimentico sempre quanto può percepire le mie
emozioni, specialmente in momenti come questo, quando i nostri corpi sono
premuti assieme.
Delicatamente gli passo una mano sulla schiena. «Stavo pensando a
quanto ti amo» dico.
Rimane stranamente fermo, ma solo per un attimo. Poi mi tocca i capelli,
le sue dita pettinano lentamente le mie ciocche.
«Hai sentito?» chiedo.
Quando non risponde, mi allontano di nuovo. Sbatto le palpebre davanti
all’oscurità finché non riesco a distinguere il luccichio dei suoi occhi e
l’ombra della sua bocca.
«Aaron?»
«Sì» dice, ma suona un po’ senza fiato.
«Hai sentito?»
«Sì» dice ancora.
«Come ci si sente?»
Sospira. Rotola sulla schiena. Rimane in silenzio per così tanto tempo che
non sono sicura che risponderà. Poi, dolcemente dice…
«È difficile da descrivere. È un piacere così simile al dolore che a volte
non riesco a distinguerli.»
«È terribile.»
«No,» risponde «è meraviglioso.»
«Ti amo.»
Sospira forte. Anche in questa oscurità riesco a vedere la tensione nella
sua mascella, proprio lì, mentre fissa il soffitto.
Mi metto dritta, sorpresa.
La reazione di Aaron è così spontanea che non so come ho fatto a non
notarlo prima. Ma può essere che sia una cosa nuova. Può essere che
qualcosa è cambiato fra di noi. Forse non l’ho mai amato così tanto prima.
Avrebbe senso. Perché quando ci penso, quando penso davvero a quanto lo
amo ora, dopo tutto quello che abbiamo…
Un altro brusco e acuto sospiro. E poi ride, nervosamente.
«Wow» dico.
Si batte una mano sugli occhi. «Questo è vagamente mortificante.»
Sta sorridendo ora, molto vicino al ridere. «Ehi. È…»
Il mio corpo si blocca.
Un brivido violento mi percorre la pelle e la mia colonna vertebrale si
irrigidisce, la mie ossa sembrano trattenute da perni invisibili, la bocca
bloccata aperta nel tentativo di riprendere fiato.
Un fuoco riempie la mia visione.
Non sento niente altro che non sia elettricità statica, grandi rapide, acqua
bianca, vento feroce. Non sento niente. Non penso niente. Non sono niente.
Sono, per un momento infinitesimale …
Libera.
I miei occhi si aprono e chiudono, aprono e chiudono, aprono e chiudono,
come un’ala, due ali, porte oscillanti, cinque uccelli …
Il fuoco mi invade, esplode.
Ella?
La voce risuona nella mia testa con forza, come un dardo nel cervello.
Troppo tardi, mi rendo conto che sto male, mi fa male la mascella, il mio
corpo è sospeso in una posizione innaturale, ma lo ignoro. La voce
riprova…
Juliette?
La rivelazione mi colpisce, come un coltello alle ginocchia. Immagini di
mia sorella mi riempiono la mente: ossa e pelle sciolta, dita palmate, bocca
piena d’acqua, niente occhi. Il corpo sospeso nell’acqua, i capelli lunghi e
castani come uno sciame d’anguille. La sua strana voce incorporea mi
trafigge. Così senza parlare dico
Emmaline?
Le emozioni mi guidano dentro di me, le dita scavano nella carne,
sensazione di graffi sulla mia pelle. Il suo sollievo è tangibile. Posso
sentirlo. È sollevata, sollevata che l’ho riconosciuta, sollevata di avermi
trovata, sollevata, sollevata, sollevata…
Cos’è successo? Chiedo.
Un diluvio di immagini mi inonda il cervello, finché non affonda, finché
non affondo. I suoi ricordi affogano i miei sensi, intasando i polmoni.
Soffoco come i sentimenti che si infrangono dentro di me. Vedo Max, mio
padre, inconsolabile dopo l’omicidio di sua moglie; vedo il Comandante
Supremo Ibrahim, frenetico e furioso, esigere che Anderson riunisca tutti i
ragazzi prima che sia troppo tardi; vedo Emmaline, lasciata sola per un
breve periodo, cogliere un’opportunità …
Ansimo.
Evie ha fatto in modo che solo lei e Max potessero controllare i poteri di
Emmaline e, con Evie morta, i sistemi di emergenza impiantati si sono
improvvisamente indeboliti. Emmaline ha capito che in seguito alla morte
di nostra madre ci sarebbe stata un’opportunità: una breve finestra di tempo
durante la quale poteva riprendere il controllo della propria mente prima
che Max impostasse i nuovi algoritmi.
Ma il lavoro di Evie era stato troppo perfetto, e anche la reazione di Max.
Emmaline ha avuto successo solo parzialmente.
Sto morendo, mi dice.
Sto morendo.
Ogni lampo delle sue emozioni è accompagnato dall’assalto delle torture.
La mia carne si sente ammaccata. La mia colonna vertebrale sembra
liquida, i miei occhi ciechi, brucianti. Sento Emmaline, la sua voce, i suoi
sentimenti, le sue visioni, più forti di prima, perché è più forte di prima.
Riuscire ad accumulare abbastanza potere per trovarmi è la prova che è
almeno parzialmente libera, scatenata. Max ed Evie hanno sperimentato su
Emmaline in modo sconsiderato negli ultimi mesi, cercando di renderla più
forte anche mentre il suo corpo appassiva. Questa, questa è la conseguenza.
Essere così vicino a lei è a dir poco doloroso.
Penso di aver urlato.
Ho urlato?
Tutto in Emmaline è aumentato in modo esponenziale; la sua presenza è
selvaggia, mozzafiato e freme dentro ai miei nervi. I suoni e le sensazioni si
propagano come botte violente dentro la mia visione. Sento un ragno
fuggire attraverso il pavimento di legno. Falene stanche si trascinano
sbattendo le ali contro il muro. Un topo sussulta, si sistema, durante il
sonno. Granelli di polvere si frantumano contro una finestra, schegge di
vetro scivolano via.
I miei occhi svolazzano, scardinati dal mio cranio.
Sento il peso opprimente dei miei capelli, dei miei arti, della mia carne,
mi avvolge come un cellofan, come una bara di cuoio. La mia lingua, la mia
lingua è una lucertola morta arroccata nella bocca, ruvida e pesante. I peli
delle braccia si alzano e ondeggiano, alzano e ondeggiano. I pugni sono
così serrati che le unghie perforano la morbida pelle dei palmi.
Sento una mano su di me. Dove? Sono io?
Sola, dice.
Mi fa vedere.
Una nuova visione, siamo nel laboratorio dove l’ho vista per la prima
volta, dove ho ucciso nostra madre. Mi vedo dal punto di vista di Emmaline
ed è sorprendente. Non riesce a vedere altro che sagome sfocate, ma può
sentire la mia presenza, può distinguere la mia forma, il calore che emana il
mio corpo. E poi le mie parole, le mie stesse parole, scagliate nel mio
cervello…
ci deve essere un altro modo
non devi morire
possiamo superare tutto questo insieme
per favore
rivoglio mia sorella
voglio che tu viva
Emmaline
non ti lascerò morire qui
Emmaline Emmaline
possiamo superare tutto questo insieme
possiamo superare tutto questo insieme
possiamo superare tutto questo
insieme
Una sensazione fredda e metallica inizia a sbocciarmi nel petto. Si muove
attraverso me, su per le braccia, in gola, dentro il mio istinto. Mi battono i
denti. Il dolore di Emmaline si artiglia e si aggrappa con una ferocia che
non riesco a sopportare. E anche la sua tenerezza è disperata, terrificante
nella sua sincerità. È sopraffatta dall’emozione, calda e fredda, alimentata
dalla rabbia e dalla devastazione.
Mi ha cercato, per tutto il tempo.
In questi ultimi giorni Emmaline ha cercato in modo cosciente la mia
mente, cercando di trovare un porto sicuro, un posto per riposare.
Un posto dove morire.
Emmaline, dico, per favore …
Sorella.
Qualcosa nella mia mente si intensifica, cresce. La paura mi attraversa gli
organi. Sto ansimando. Sento odore di terra e foglie umide in
decomposizione sotto le stelle che fissano la mia pelle, il vento soffia
attraverso l’oscurità come un genitore ansioso. La mia bocca è aperta,
mangiando falene. Sono per terra.
Dove?
Non sono più nel mio letto, nella mia tenda, realizzo che sono fuori, nel
territorio non protetto.
Ma quando ho camminato?
Chi ha mosso i miei piedi?
Chi ha spinto il mio corpo?
Quanto lontano sono?
Provo a guardarmi intorno, ma sono cieca, la testa intrappolata in una
morsa, il collo con i tendini sfilacciati. I respiri mi riempiono le orecchie,
aspri e rumorosi, aspri e rumorosi, ansimo, sforzandomi.
Avanti e indietro.
Apro i pugni, le unghie sfregano mentre piego le dita, appiattisco i palmi,
sento l’odore del calore, assaporo il vento, sento la terra.
Terra sotto le mani, in bocca, sotto le unghie. Mi rendo conto che sto
urlando. Qualcuno mi tocca e sto ancora urlando.
Basta, urlo Per favore Emmaline, … per favore, non farlo….
Sola, dice
 
Sola
 
e poi una feroce e improvvisa agonia.
Vengo spinta via.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 2
KENJI
 
È strano chiamarla fortuna.
Sembra strano ma, in qualche modo perverso e contorto, questa è fortuna.
Fortuna che non sono in mezzo all’umidità gelata dei boschi prima che il
sole si preoccupi di sollevare la testa. Fortuna che la parte superiore del mio
corpo sia intorpidita dal freddo.
Fortuna che Nazeera sia con me.
Abbiamo attivato la nostra invisibilità quasi all’istante, quindi lei ed io
siamo temporaneamente al sicuro qui, nel tratto di mezzo miglio di deserto
incontaminato tra i territori sicuri e non. Il Santuario fu costruito su un paio
di acri di terra non regolamentata non lontano da dove mi trovo ed è stato
magicamente nascosto in bella vista solo grazie al talento innaturale di
Nouria di manipolare la luce. All’interno della giurisdizione di Nouria il
clima è in qualche modo più temperato, più prevedibile. Ma qui fuori, nella
natura selvaggia, i venti sono implacabili e aggressivi. Il clima è
pericoloso.
Comunque… Siamo fortunati ad essere qui.
Nazeera ed io eravamo fuori dal letto da un bel po’, correndo
nell’oscurità nel tentativo di ucciderci a vicenda. Alla fine si è rivelato
essere un complicato malinteso, ma anche una sorta di destino: se Nazeera
non si fosse infilata nella mia stanza alle tre mattino per cercare di
uccidermi, io non l’avrei inseguita attraverso la foresta, oltre la
giurisdizione e la protezione del Santuario. Se non fossimo stati così lontani
dal Santuario, non avremmo mai sentito le grida echeggianti e lontane dei
cittadini terrorizzati. Se non avessimo seguito le grida, non ci saremmo
precipitati alla loro fonte. E se non avessimo fatto nulla di tutto questo, non
avrei visto la mia migliore amica urlare fino all’alba.
Mi sarei perso questo. Questo:
J inginocchiata sulla terra fredda, Warner accovacciato accanto a lei,
entrambi sembrano morti mentre le nuvole si scioglievano letteralmente dal
cielo sopra di loro. Sono tutti e due fermi proprio davanti all’ingresso del
Santuario, a cavallo tra il tratto incontaminato di foresta che funge da
cuscinetto tra il nostro campo e il cuore del settore più vicino, il numero
241.
Perché?
Mi sono bloccato quando li ho visti, due figure spezzate e intrecciate, con
gli arti piantati nel terreno. Ero paralizzato dalla confusione, poi dalla
paura, poi dall’incredulità, tutto mentre il vento piegava gli alberi e sferzava
il mio corpo, ricordandomi crudelmente che non avevo avuto la possibilità
di indossare una maglietta.
Se il corso della notte fosse stato diverso, avrei avuto una possibilità.
Se la mia nottata fosse andata diversamente, mi sarei divertito per la
prima volta in vita mia, un’alba romantica e una riconciliazione ritardata
con una bellissima ragazza. Nazeera ed io avremmo riso di come mi aveva
preso a calci nella schiena e quasi ucciso, di come dopo le ho sparato per
questo. Dopo avrei fatto una lunga doccia, dormito fino a mezzogiorno e
mangiato il mio peso in cibo per colazione.
Avevo un piano per oggi: rilassarmi.
Volevo un po’ più di tempo per guarire, per riprendermi dalla mia recente
esperienza di pre-morte, non pensavo di chiedere tanto. Ho pensato che,
forse, dopo tutto quello che avevo affrontato il mondo avrebbe potuto
finalmente darmi un po’ di tregua. Lasciarmi respirare dopo le tragedie.
Nah!
Invece sono qui, travolto dall’orrore, a morire congelato, guardando il
mondo cadere a pezzi intorno a me. Il cielo oscilla selvaggiamente tra i
confini orizzontali e verticali. L’aria si rompe. Gli alberi affondano nel
terreno. Le foglie mi girano intorno. Lo vedo – vivo - e ancora non riesco a
crederci.
Ma scelgo di chiamare tutto questo fortuna.
Fortuna che sto vedendo tutto questo, fortuna che mi sento come se
dovessi vomitare, fortuna che sono riuscito a correre, anche con il mio
corpo ancora malato e ferito, in tempo per avere un posto in prima fila per
assistere alla fine del mondo.
Fortuna, destino, coincidenza, serendipità…
Chiamerò queste sensazioni nauseabonde che affondano nella mia pancia
una fottuto trucco magico se mi aiuterà a tenere aperti gli occhi abbastanza
a lungo per esserne testimone. Per capire come posso aiutare.
Perché nessun altro è qui.
Nessuno tranne me e Nazeera, che sembra fuori di testa ad un livello
impossibile. Il Santuario dovrebbe essere pattugliato in ogni momento, ma
non vedo sentinelle e nessun segno di aiuto in arrivo. Neanche un soldato
dal settore vicino. Nessun curioso o un civile isterico. Niente.
È come se fossimo nel vuoto, su un piano invisibile dell’esistenza. Non
so come J e Warner siano arrivati così lontano senza essere individuati.
Sembrano due che si sono trascinati attraverso il fango; non ho idea di come
siano sfuggiti senza essere visti. E sebbene sia stato possibile, J ha appena
iniziato ad urlare, ed io ho ancora mille domande senza risposta.
Dovranno aspettare.
Lancio un’occhiata verso Nazeera, per abitudine, dimenticando per un
attimo che siamo invisibili. Ma poi la sento avvicinarsi, faccio un respiro
profondo mentre sento la sua mano scivolare nella mia. Mi stringe le dita.
Restituisco la stretta.
Sono fortunato, rammento a me stesso.
È una fortuna che sia qui adesso, perché se fossi stato dentro al letto,
dove avrei dovuto essere, non avrei nemmeno saputo che J era nei guai. Mi
sarei perso il tremore nella voce della mia amica mentre implora pietà. Mi
sarei perso i colori sconvolgenti di questa alba contorta, un pettirosso nel
mezzo dell’inferno. Mi sarei perso il modo in cui J si stringe la testa tra le
mani singhiozzando. Mi sarei perso il forte profumo di pino e zolfo nel
vento, mi sarei perso il dolore asciutto della mia gola, il tremito che mi
attraversa il corpo. Mi sarei perso il momento in cui J ha menzionato il
nome della sorella. Nello specifico non avrei sentito J chiedere a sua sorella
di non fare qualcosa.
Si, questa è decisamente fortuna.
Perché se non avessi sentito nulla di tutto ciò, non avrei saputo a chi dare
la colpa.
Emmaline.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 3
ELLA
JULIETTE
 
Ho gli occhi, due, li sento, li giro avanti e indietro, su e giù nel mio
cranio, ho le labbra, due, le sento, bagnate e turgide, le apro ho i denti,
molti, li conto con la lingua con un dito, dieci, li conto
Unoduetrequattrocinque, di nuovo dall’altra parte, sssstrano avere
una lingua, ssstrano è una sssspecie di cosa, una strana
ssssspeciedicosa
solitudine
si insinua dentro di te
silenziosa
e
ancora,
siede al tuo fianco al buio, ti accarezza i capelli mentre dormi si
avvolge intorno alle tue ossa spremendo, quasi non riesci a respirare,
quasi non riesci a sentire il sangue scorrere nel polso mentre scorre,
scorre sulla tua
pelle
tocca con le labbra i morbidi capelli dietro il tuo
collo
solitudine è una strana specie di cosa, penso che la solitudine sia una
strana specie di vecchia amica in piedi accanto a te allo specchio
urlando che non sei mai e poi mai abbastanza
a volte
semplicemente
non vuole
lasciarmi
andare
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 4
KENJI
 
Evito un cratere nel terreno e mi chino appena in tempo per evitare detriti
volanti a mezz’aria. A distanza un masso comincia a gonfiarsi assumendo
dimensioni astronomiche e nel momento in cui inizia a rotolare nella nostra
direzione stringo la presa sulla mano di Nazeera e mi tuffo per coprirla. Il
cielo si sta squarciando. Il terreno si sta frantumando sotto i miei piedi. Il
sole sfarfalla, lampeggia, oscurità poi luce, ogni cosa è innaturale. E le
nuvole - c’è qualcosa di sbagliato nelle nuvole.
Si stanno disintegrando.
Gli alberi non riescono a decidere se alzarsi o cadere, raffiche di vento
spuntano dal terreno con una potenza terrificante e, improvvisamente il
cielo si riempie di uccelli. È pieno di fottuti uccelli.
Emmaline è fuori controllo.
Sapevamo che i suoi poteri telecinetici e psicocinetici fossero sovrumani
- al di là di tutto ciò che avessimo mai visto - e sapevamo che la
Restaurazione aveva programmato Emmaline per controllare il mondo a noi
conosciuto. Ma questo era tutto ciò che sapevamo – una teoria.
Non l’avevamo mai vista così.
Scatenata.
Sta chiaramente facendo qualcosa a J in questo momento, devastandole la
mente, mentre si scaglia contro il mondo che ci circonda perché il trip di
acido che sto vivendo sta solo peggiorando.
«Torna indietro!» urlo, sopra il frastuono «Chiedi aiuto - porta le
ragazze!»
Un singolo grido per dire che aveva capito e la mano di Nazeera si libera
dalla mia, il suono dei suoi pesanti stivali sul terreno è il mio unico indizio
che sta scappando verso il Santuario. Ma anche ora - specialmente ora - la
tempestività delle sue reazioni mi riempie di sollievo.
È bello avere un compagno di squadra capace.
Mi faccio strada attraverso la foresta, felice di aver evitato gli ostacoli
peggiori, e quando finalmente sono abbastanza vicino da vedere bene la
faccia di Warner esco dalla mia invisibilità.
Sono stremato dalla stanchezza.
Mi ero appena ripreso dall’essere quasi morto a causa delle droghe,
eppure eccomi qui, di nuovo sul punto di morire. Ma quando alzo lo
sguardo, ancora mezzo piegato sulle mani e le ginocchia, capisco che non
ho il diritto di lamentarmi.
Warner sembra stare peggio di quanto mi aspettassi.
Teso, con i pugni chiusi, una vena in tensione in evidenzia sulla tempia.
In ginocchio si aggrappa a J come se stesse cercando di trattenerla, e non mi
ero reso conto fino a questo momento che potrebbe essere lì più che per un
semplice supporto emotivo.
La scena è surreale: sono entrambi praticamente nudi, sporchi, in
ginocchio - J con le mani premute sulle orecchie - e non posso fare a meno
di chiedermi che tipo di inferno li abbia portati a questo momento.
Pensavo di essere stato io ad avere avuto la notte più stramba.
Qualcosa mi sbatte sull’addome e mi piego in due, colpendo il terreno
duro. Scuotendo le braccia, mi metto a carponi e mi guardo in giro per
trovare il colpevole. Quando lo vedo, resto senza parole.
Un uccello morto, a un paio di metri di distanza.
Gesù.
J sta ancora urlando.
Cerco di rialzarmi nonostante un’improvvisa folata di vento - e proprio
quando ho quasi recuperato l’equilibrio, pronto a cancellare i pochi passi
che mi separano dai miei amici: il mondo diventa muto.
Nessun rumore.
Nessun vento ululante, nessun grido di tortura, nessun colpo di tosse,
nessuno starnuto. Questo non è un silenzio normale. Non è quiete, non è
silenzio.
È più di questo.
È niente di niente.
Sbatto le palpebre più volte, giro piano la testa, con un movimento lento,
mentre guardo in giro alla ricerca di risposte, desideroso di vedere apparire
una spiegazione. Sperando che la forza della mia mente sia abbastanza per
far germogliare una risposta dalla terra.
Non lo è.
Devo essere diventato sordo.
Nazeera non è qui, J e Warner sono ancora a pochi passi da me, e io sono
diventato sordo. Sordo al suono del vento, allo scuotere degli alberi. Sordo
al mio respiro affannoso, alle grida delle persone dietro di me. Cerco di
stringere i pugni e ci vuole un’eternità, come se l’aria fosse diventata densa.
Viscosa.
Ho qualcosa che non va.
Sono lento, più lento di quanto non sia mai stato, come se stessi correndo
sott’acqua. Qualcosa mi sta trattenendo di proposito, spingendomi
fisicamente lontano da Juliette, e all’improvviso tutto ha senso. La mia
precedente confusione evapora. Certo… non c’è nessun altro qui. Nessuno
è accorso ad aiutare.
Emmaline non lo permetterebbe mai.
Forse sono riuscito ad arrivare così vicino solo perché era troppo
impegnata per accorgersene subito, per percepirmi qui, mentre ero
invisibile. Mi chiedo cos’altro abbia fatto per mantenere questa zona libera
dai trasgressori.
Mi chiedo se sopravvivrò.
È sempre più difficile pensare. Ci vuole un’eternità per concepire un
pensiero, per muovere le braccia. Per sollevare la testa. Per guardarsi
intorno. Quando riesco ad aprire la bocca, ho dimenticato che la mia voce
non emette alcun suono.
Un bagliore dorato in lontananza.
Individuo Warner muoversi così lentamente che mi domando se
soffriamo entrambi della stessa afflizione. Sta cercando disperatamente di
sedersi accanto a J, che è ancora in ginocchio, piegata in avanti, a bocca
aperta. I suoi occhi sono concentrati, ma se sta urlando, non riesco a
sentirla.
Mentirei se dicessi che non sono terrorizzato.
Sono abbastanza vicino a Warner e J per essere in grado di distinguere le
loro espressioni, ma non va bene; non ho idea se siano feriti, quindi non
conosco l’entità di ciò che stiamo per affrontare. Devo avvicinarmi in
qualche modo. Ma quando riesco a compiere un solo doloroso passo avanti,
un dolore acuto mi esplode nelle orecchie.
Grido senza emettere alcun suono, battendo le mani sulla testa, il silenzio
è improvvisamente - brutalmente - aggravato dalla pressione. Coltelli come
aghi dolorosi fanno crescere la pressione nelle mie orecchie, con
un’intensità che minaccia di schiacciarmi dall’interno. È come se qualcuno
mi avesse riempito la testa di elio, come se nel giro di pochi minuti il
palloncino che è il mio cervello esploderà. E quando penso che la pressione
potrebbe uccidermi, proprio quando penso che non riesco più a sopportare il
dolore, il terreno inizia a rimbombare. A tremare.
C’è una crepa...
E il suono ritorna, come un elastico. Un suono così violento che qualcosa
dentro di me si squarcia e quando finalmente tolgo le mani dalle orecchie
sono rosse, gocciolano. Barcollo mentre la terra rimbomba. Rumori.
Rumori.
Mi asciugo le mani insanguinate sul torace nudo e la mia vista sfarfalla.
Mi getto in avanti per lo stupore, i miei palmi colpiscono il terreno così
forte che mi tremano tutte le ossa. La terra sotto i piedi è diventata
scivolosa. Bagnata. Guardo in alto, socchiudendo gli occhi di fronte
all’improvvisa pioggia torrenziale. La testa continua a dondolarmi come se
fosse montata su una cerniera bel oliata. Una singola goccia di sangue esce
dall’orecchio e atterra sulla mia spalla. Una seconda goccia di sangue mi
esce dall’orecchio e atterra sulla mia spalla. Una terza goccia di sangue
esce…
Un nome.
Qualcuno pronuncia il mio nome.
Il suono è forte, aggressivo. La parola entra vertiginosamente nella mia
testa, espandendosi e contraendosi. Non riesco a focalizzarla.
Kenji.
Mi giro e la testa mi rimbomba.
K e n j i.
Sbatto le palpebre e sembra ci vogliano giorni, intere rivoluzioni intorno
al sole.
Fidato
Amico
Qualcosa mi sta toccando, è sotto di me, mi sta tirando su, ma non è
niente di buono. Non mi muovo.
Troppo
pesante
Provo a parlare ma non ci riesco. Non dico niente, non faccio nulla come
se la mia mente fosse spalancata, mentre dita fredde raggiungono il mio
cranio e scollegano i circuiti all’interno. Sto fermo. Rigido. La voce mi
giunge come un’eco dietro l’oscurità dei miei occhi, pronunciando parole
che sembrano più un ricordo che una conversazione, parole con non
conosco, non capisco
il dolore che porto, le paure che avrei dovuto lasciarmi alle spalle. Mi
abbasso sotto il peso della solitudine, le catene della delusione. Il mio
cuore pesa mille chili. Sono così pesante che non posso essere più sollevata
da terra. Sono così pesante che non ho scelta se non essere seppellita sotto
di essa. Anch’io sono così pesante
Espiro mentre cado.
Le ginocchia si spezzano quando colpiscono il terreno. Il corpo crolla in
avanti. La terra mi bacia il viso, mi dà il benvenuto a casa.
Il mondo diventa improvvisamente buio.
Coraggioso
I miei occhi tremolano. Il ronzio nelle orecchie è simile ad elettricità
opaca e costante. Tutto è immerso nell’oscurità. Un blackout, un blackout
del mondo naturale. La paura si aggrappa alla mia pelle. Mi ricopre.
ma
debole
I coltelli hanno scavato buchi nelle mie ossa che si riempiono
rapidamente di dolore, un dolore così acuto da togliermi il respiro.
Non sono mai stato così speranzoso di smettere di esistere.
Sto fluttuando.
Sono senza peso eppure… appesantita, destinata ad affondare per
sempre. Una luce fioca spezza l’oscurità dietro i miei occhi e nella luce
vedo l’acqua. Il sole e la luna sono il mare, le montagne l’oceano. Vivo in
un liquido che non bevo mai, affogando costantemente in acque
marmorizzate e lattiginose. Il mio respiro è pesante, automatico,
meccanico. Sono costretta a inspirare, costretta a espirare. Il mio respiro
faticoso e tremante è il costante promemoria della tomba che è la mia casa.
Sento qualcosa.
Si trasmette attraverso il serbatoio, metallo opaco contro metallo opaco,
arrivando alle mie orecchie come se provenisse dallo spazio cosmico.
Stringo gli occhi al nuovo insieme di forme e colori, forme sfocate. Stringo
il pugno ma la mia carne è morbida, le mie ossa sono come un impasto
fresco, la mia pelle si sbuccia in scaglie umide. Sono circondata dall’acqua
ma la mia sete è insaziabile e la mia rabbia …
La mia rabbia …
Qualcosa si spezza. La mia testa. La mia mente. Il mio collo.
I miei occhi sono spalancati, il respiro in preda al panico. Sono in
ginocchio, la fronte premuta a terra, le mani sepolte nel terreno bagnato.
Mi siedo dritto, su e indietro, con la testa che gira.
«Che cazzo?» sto ancora cercando di respirare. Mi guardo intorno. Il
cuore mi batte forte. «Cosa… cosa… »
Stavo scavando una fossa per me stesso.
Una sensazione strisciante di terrore mi invade il corpo quando capisco:
Emmaline era nella mia testa. Voleva vedere se fosse riuscita a farmi
suicidare.
Eppure - guardando il miserabile tentativo che ho fatto di seppellirmi
vivo - sento una noiosa e accattivante simpatia per Emmaline. Perché ho
sentito il suo dolore e non è stato per crudeltà.
È stato per disperazione.
Come se sperasse che se mi fossi ucciso mentre era nella mia testa, in
qualche modo sarei stato in grado di uccidere anche lei.
J sta urlando di nuovo.
Mi alzo barcollando, con il cuore in gola, mentre il cielo si apre
rilasciando la sua ira su di me. Non sono sicuro del perché Emmaline abbia
inferto un colpo alla mia mente - coraggioso ma debole - ma ne so
abbastanza per capire che qualsiasi diavolo di cosa sia successa è più di
quello che possa gestire da solo. Al momento, posso solo sperare che nel
Santuario stiano tutti bene - e che Nazeera torni qui in fretta. Fino ad allora,
il mio corpo martoriato dovrà fare del suo meglio.
Mi trascino in avanti.
Anche con il sangue che si secca nelle orecchie, sul mio petto, continuo
ad andare avanti, facendomi forza contro le sempre più instabili condizioni
meteo. La costante successione di terremoti, di fulmini, la tempesta che
diventa rapidamente un uragano.
Quando sono abbastanza vicino, Warner alza lo sguardo.
Sembra scioccato.
Mi viene in mente che si sta accorgendo di me solo ora - dopo tutto
questo - si sta accorgendo che sono qui. Un lampo di sollievo brilla nei suoi
occhi, sostituito rapidamente dal dolore.
E poi lo sento dire una parola, una parola che mai avrei pensato di
sentirgli dire:
«Aiutami.»
Le parole si perdono nel vento, ma l’agonia nei suoi occhi rimane. E da
questo punto di vista, finalmente, capisco la profondità di ciò che ha subito.
All’inizio pensavo che Warner cercasse solo di tenerla ferma, cercando di
essere di supporto.
Mi sbagliavo.
J trema di potere e Warner è immobile su di lei. Tenendola ferma.
Qualcosa - qualcuno - sta fisicamente animando il corpo di Juliette,
muovendo i suoi arti, cercando di portarla in posizione eretta e
possibilmente lontano da qui, ed è solo a causa di Warner che Emmaline
non ha avuto successo.
Non ho idea di come ci sia riuscito.
La pelle di J è diventata traslucida, le vene sono luminose e bizzarre, il
viso pallido. È quasi blu, pronta a rompersi. Il suo corpo emana un basso
brusio, un crepitio di energia, un ronzio di potere. Le afferro un braccio e in
mezzo secondo Warner distribuisce il suo peso fra noi due, e tutti e tre ci
lanciamo in avanti. Colpiamo il terreno così forte che fatico a respirare e
quando finalmente riesco a sollevare la testa guardo Warner con occhi
spalancati senza nascondere il mio terrore.
«Emmaline sta facendo questo» gli dico, urlando.
Annuisce, con il viso cupo.
«Cosa possiamo fare?» gemo «Come può continuare ad urlare in questo
modo?»
Warner si limita a guardarmi.
Mi guarda e l’espressione tormentata nei suoi occhi mi dice tutto quello
che devo sapere. Non può continuare a urlare così. Non può semplicemente
restare qui in ginocchio a urlare per un secolo. Questa merda la ucciderà.
Gesù Cristo, sapevo che non andava bene, ma per qualche ragione non
pensavo fosse così pericoloso.
J sembra sul punto di morire.
«Dovremmo provare a spostarla?» non so nemmeno perché lo chiedo.
Dubito di poter sollevare il suo braccio sopra la mia testa, tanto meno tutto
il suo corpo. Il mio corpo sta ancora tremando, tanto che riesco a malapena
a fare la mia parte per impedire a questa ragazza di alzarsi da sola da terra.
Non ho idea di che tipo di forza di merda stia pompando nelle sue vene in
questo momento, ma J è su un altro mondo. Sembra viva solo a metà, per lo
più aliena. Ha gli occhi chiusi, la mascella fuori posto. Sta irradiando
energia. È fottutamente terrificante.
E riesco a malapena a starle dietro.
Il dolore alle braccia ha iniziato ad insinuarsi nelle spalle e giù per la
schiena, tremo violentemente quando una folata di vento forte colpisce la
pelle nuda e surriscaldata.
«Proviamo» dice Warner.
Annuisco.
Faccio un respiro profondo.
Mi impongo di essere più forte di come sono.
Non so come ci riesco, è a dir poco un miracolo, ma mi tiro in piedi.
Warner ed io riusciamo a tenere Juliette in mezzo a noi, e quando lo guardo
sono sollevato di scoprire che anche lui sta faticando quanto me. Non l’ho
mai visto faticare, non veramente, e sono abbastanza sicuro di non averlo
mai visto sudare. Ma per quanto mi piacerebbe ridere almeno un po’, visto
come si sforza così duramente di tenerla, una nuova ondata di paura mi
invade. Non ho idea da quanto tempo cerchi di trattenerla da solo. Non ho
idea di cosa le sarebbe successo se lui non fosse stato lì a resistere per lei. E
non ho idea di cosa succederebbe ora se la lasciassimo andare.
Realizzare tutto ciò rinnova la mia forza. Mi fa prendere coscienza della
situazione. J ha bisogno di noi in questo momento.
Ciò significa che devo sforzarmi di più.
Stare in piedi ci ha reso un bersaglio in tutta questa follia, e urlo un
avvertimento quando alcuni detriti volano verso di noi. Mi volto
bruscamente per proteggere J, ma colpiscono la mia schiena, il dolore è così
intenso che vedo le stelle. Ero già ferito prima e i lividi sono destinati a
peggiorare. Ma quando Warner mi guarda terrorizzato, nel panico,
annuisco, facendogli capire che sto bene. La tengo.
Un angosciante centimetro dopo l’altro, torniamo indietro, verso il
Santuario.
Stiamo trascinando J come se fosse Gesù, con la testa indietro, i piedi che
strisciano. Ha finalmente smesso di urlare, ma ora è in preda alle
convulsioni, il suo corpo è incontrollabile, e Warner sembra attaccato alla
sanità mentale da un singolo esile filo.
Mi sembrano passati secoli da quando ho vista Nazeera l’ultima volta, ma
la parte razionale del mio cervello sospetta che siano trascorsi solo venti o
trenta minuti. Chissà. Sono certo che stesse provando a fare del suo meglio
per tornare con qualcuno ad aiutarci ma sembra che siano in ritardo. Ogni
cosa sembra sempre in ritardo.
Non ho idea di cosa diavolo stia succedendo.
Ieri, stamattina - un’ora fa - ero preoccupato per James e Adam. Pensavo
che i nostri problemi fossero semplici e immediati: riprendere i ragazzi,
uccidere i comandanti supremi, fare un buon pranzo.
Ma adesso…
Nazeera, Castle, Brendan e Nouria si precipitano di corsa e arrivano da
noi. Guardano fra di noi.
Guardano oltre noi.
Strabuzzano gli occhi, aprono la bocca per parlare mentre ansimano.
Allungo il collo per cercare di capire cosa hanno visto e realizzo che una
marea di fuoco si dirige verso di noi.
Penso di stare per crollare.
Il mio corpo non regge più. Ormai, le gambe sono fatte di gomma. Riesco
a malapena a sostenere il mio peso e quasi per miracolo mi aggrappo a J. In
effetti, una rapida occhiata al corpo di Warner mi permette di realizzare che
probabilmente sta facendo lui gran parte dello sforzo.
Non so come potremo sopravvivere, nessuno di noi. Non riesco a
muovermi. Sicuro come l’inferno non possiamo sfuggire ad un’ondata di
fuoco.
E davvero non capisco tutto quello che succede dopo.
Sento un urlo disumano e Stephan si precipita improvvisamente verso di
noi. Stephan. In un attimo è di fronte a noi, tra di noi. Prende J tra le sue
braccia come se fosse una bambola di pezza e inizia a gridare a tutti di
correre. Castle rimane indietro per spostare l’acqua da un pozzo vicino e,
sebbene i suoi sforzi per spegnere le fiamme non abbiano del tutto successo,
è abbastanza per darci il vantaggio di cui abbiamo bisogno per scappare.
Warner ed io ci trasciniamo di nuovo al campo con gli altri e un minuto
dopo aver attraversato la porta del Santuario, incontriamo una marea
frenetica di volti. Innumerevoli persone urlanti avanzano, grida su grida, in
una confusione isterica che si fonde in una tempesta sonora senza
interruzioni. Logicamente, capisco perché tutte queste persone sono fuori,
preoccupate, piangenti e gridando domande senza risposta gli uni verso gli
altri, ma in questo momento vorrei che andassero tutti all’inferno levandosi
dai piedi.
Nouria e Sam sembrano leggermi nel pensiero.
Abbaiano ordini alla folla e i volti senza nome iniziano a sloggiare.
Stephan ha smesso di correre, ma cammina svelto, sgomitando tra la folla
quando è necessario e gliene sono grato. Quando Sonya e Sara corrono
verso di noi, urlandoci di seguirle nella tenda medica, vorrei quasi lanciarmi
in avanti e baciarle entrambe.
Non lo faccio.
Invece mi prendo un momento per cercare Castle, chiedendomi se si sia
tutto okay. Ma quando guardo indietro, scrutando il tratto di terra protetta,
ho una folgorazione. La disparità tra qui e fuori è del tutto irreale.
Qui il cielo è sereno.
Il tempo si è stabilizzato. La terra sembra essersi ricomposta di nuovo. Il
muro di fuoco che ha cercato di inseguirci sulla via del Santuario ora non è
altro che fumo. Gli alberi sono tornati in piedi, l’uragano è poco più di una
nebbia sottile. La mattinata sembra quasi gradevole. Per un attimo giurerei
di aver sentito un cinguettio di uccelli.
Probabilmente sono fuori di testa.
Crollo in mezzo al sentiero battuto che porta alle nostre tende, il viso
cozza contro l’erba bagnata. L’odore di terra fresca e umida mi riempie la
testa e lo respiro, tutto. È un balsamo. Un miracolo. Forse, penso. Forse
staremo tutti bene. Forse posso chiudere gli occhi, prendermi un momento.
Warner si avvicina al mio corpo steso, i suoi movimenti sono così intensi
che mi sorprendo e mi tiro su, mi metto seduto.
Non ho idea di come riesca ancora a muoversi.
Non indossa nemmeno le scarpe. Niente camicia, niente calzini, niente
scarpe. Solo un paio di pantaloni della tuta. Per la prima volta noto che ha
un taglio profondo sul petto. Diversi tagli sulle braccia. Un brutto graffio
sul collo. Il sangue gli cola lentamente lungo il torace ma lui non sembra
nemmeno accorgersene. Cicatrici su tutta la schiena, sangue sul petto.
Sembra fuori di testa. Ma è ancora in movimento, gli occhi ardenti dalla
rabbia e di qualcos’altro - qualcosa che mi spaventa a morte.
Raggiunge Stephan che sta ancora tenendo J - in piena crisi convulsiva –
e io gattono verso un albero, usando il tronco per sollevarmi da terra. Mi
trascino dietro a loro, sussultando involontariamente a una brezza
improvvisa. Mi volto troppo velocemente, scansionando i boschi alla
ricerca di minacce o di un masso volante, ma trovo solo Nazeera che mi
poggia una mano sul braccio.
«Non ti preoccupare» dice. «Siamo al sicuro entro i confini del
Santuario.»
Sbatto le palpebre, mi guardo intorno, vedo le tende bianche che
avvolgono le solide strutture del semplice campeggio che è questo luogo di
rifugio.
Nazeera annuisce. «Sì… a questo servono le tende. Nouria ha migliorato
la protezione con una specie di luce che ci rende immuni alle illusioni che
crea Emmaline. Tutta la terra è protetta e il materiale riflettente che copre le
tende offre una protezione più sicura al chiuso.»
«Come fai a saperlo?»
«Ho chiesto.»
Sbatto di nuovo le palpebre. Mi sento ottuso. Come se qualcosa si fosse
rotto nel mio cervello. Nel profondo del mio corpo.
«Juliette» dico.
È l’unica parola che mi viene in mente in questo momento e Nazeera non
si prende la briga di correggermi, di dirmi che il vero nome è Ella. Mi
prende solo la mano e la stringe.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 5
ELLA
JULIETTE
 
Quando dormo, sogno il rumore.
La pioggia, prendendosi il suo tempo, sbatte dolcemente contro il
cemento. Si raccoglie tamburellando sul suolo fino a quando diventa
elettricità statica. La pioggia, così brusca, così forte, mi fa sussultare.
Sogno gocce di pioggia che scendono dalle mie labbra, dal naso, cadono
dai rami in piscine poco profonde e torbide. Sento la morte quando le
pozzanghere si frantumano, aggredite dai miei piedi pesanti.
Sento le foglie…
Tremano sotto il peso della rinuncia, piegano troppo facilmente i
rami, li spezzano. Sogno il vento, la sua dforza. Chilometri di vento, acri
di vento, sussurri infiniti che si fondono a creare una brezza unica.
Sento il vento pettinare l’erba selvaggia di montagne lontane, lo sento
ululare confessioni nel vuoto di pianure solitarie. Sento lo sh sh sh di
fiumi disperati che provano a zittire il mondo nell’inutile tentativo di
zittire loro stessi.
Ma
sepolto
nel frastuono
è un singolo urlo, così costante, che passa ogni giorno inascoltato.
Vediamo, ma non capiamo il modo in cui farfuglia ai cuori, serra le
mascelle, trasforma le mani in pugni. È una sorpresa, è sempre una
sorpresa, quando finalmente smette di urlare abbastanza a lungo da
parlare.
Le dita tremano.
I fiori muoiono.
Il sole sussulta, le stelle svaniscono.
Sei in una stanza, in un armadio, in un caveau, senza chiavi…
Solo una voce che dice
Uccidimi
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 6
KENJI
 
J sta dormendo.
Sembra così vicina alla morte che riesco a malapena a guardarla. La pelle
è così bianca che sembra cianotica. Le labbra sono così livide da sembrare
viola. In qualche modo, nell’ultimo paio d’ore, ha perso peso. Sembra un
uccellino, giovane piccolo e fragile. I suoi lunghi capelli sono sparsi a
ventaglio intorno al suo viso ed è immobile, una piccola e pallida bambola
con il viso puntato al soffitto. Come se fosse sdraiata in una bara.
Non dico niente di tutto questo ad alta voce, ovviamente.
Anche Warner sembra molto vicino alla morte. Pallido, disorientato.
Malaticcio.
Ed è diventato impossibile parlare con lui.
Questi ultimi mesi di cameratismo forzato mi hanno quasi fatto il
lavaggio del cervello; avevo dimenticato com’era una volta Warner.
Freddo. Tagliente. Stranamente silenzioso.
In questo momento sembra l’ombra si stesso, seduto rigidamente su una
sedia accanto al suo letto. Abbiamo trascinato qui J ore fa e lui ancora non
guarda nessuno. Il taglio sul petto sembra anche peggiorato, ma non fa
niente al riguardo. È scomparso, ad un certo punto, ma solo per un paio di
minuti, ed è tornato indossando i suoi stivali. Non si è preoccupato di
togliere il sangue dal suo petto. Non si è fermato abbastanza a lungo per
indossare una maglietta. Potrebbe facilmente rubare i poteri di Sonya e Sara
per curarsi, ma non fa alcuno sforzo. Si rifiuta di essere toccato. Si rifiuta di
mangiare. Le poche parole che ha pronunciato erano così aspre che ha fatto
piangere tre diverse persone. Nouria alla fine gli ha detto che se non avesse
smesso di attaccare i suoi compagni di squadra, lo avrebbe buttato fuori e
gli avrebbe sparato. Penso sia stata la mancanza di protesta di Warner a
farla desistere.
Non è nient’altro che tormentato.
Il vecchio Kenji avrebbe scrollato le spalle e alzato gli occhi al cielo. Il
vecchio Kenji avrebbe lanciato una frecciatina a TestadiCazzo Warner e,
onestamente, probabilmente sarebbe stato felice di vederlo soffrire in questo
modo.
Ma non sono più quel ragazzo.
Conosco molto bene Warner ora. So quanto ama J e so che si toglierebbe
la pelle di dosso solo per vederla felice. Voleva sposarla, per l’amor di Dio.
E l’ho appena visto quasi morire per salvarla, soffrendo per ore affrontando
i peggiori livelli dell’inferno solo per mantenerla in vita.
Quasi due ore, per essere esatti.
Warner mi ha detto che era fuori con J da quasi un’ora prima che
arrivassi, e sono passati almeno altri quarantacinque minuti prima che le
ragazze riuscissero a stabilizzarla. Ha impiegato quasi due ore di lotta per
tenere lontana Juliette dal male, proteggendola con il proprio corpo, mentre
veniva sferzato dagli alberi caduti, dalle rocce volanti, dai detriti vaganti e
dalla violenza del vento. Le ragazze hanno detto che solo guardandolo
potevano capire che aveva almeno due costole rotte. Una frattura al braccio
destro. Una spalla dislocata. Probabilmente un’emorragia interna. Lo hanno
fatto infuriare così tanto che finalmente si è seduto su una sedia, si è preso il
polso con la mano buona e ha rimesso a posto la spalla. L’unica prova del
suo dolore è stato un lungo respiro acuto.
Sonya ha gridato, precipitandosi in avanti, troppo tardi per fermarlo.
Poi ha rotto la cucitura dei pantaloni alla caviglia, strappato un pezzo di
tessuto e realizzato una specie di fascia per tenere il braccio appeso. Solo
dopo tutto ciò ha finalmente alzato lo sguardo sulle ragazze.
«Ora lasciatemi in pace» ha detto, cupamente.
Sonya e Sara sembravano così frustrate - con gli occhi ardenti dalla
rabbia - che quasi non le riconoscevo.
So che si sta comportando da stronzo.
So che è testardo, stupido e crudele. Ma non ho la forza di arrabbiarmi
con lui in questo momento. Non posso.
Il mio cuore è a pezzi per questo ragazzo.
Siamo tutti in piedi intorno al letto di J, a fissarla. Un monitor nell’angolo
emette un leggero bip. La stanza odora di sostanze chimiche. Sonya e Sara
hanno dovuto iniettarle dei tranquillanti potenti per far riposare il suo corpo,
ma sembrano aiutarla: nel momento in cui si è calmata anche il mondo
esterno l’ha fatto.
La Restaurazione era stata rapida nel capire le cose al volo, operando così
un controllo senza soluzione di continuità dei danni che quasi che non
potevo crederci. Capitalizzarono sul problema, sostenendo che quello che
era successo quella mattina era solo un assaggio delle devastazioni future.
Hanno affermato di essere riusciti a tenerlo sotto controllo prima che
peggiorasse e hanno ricordato alla gente di essere grati per la protezione
fornita loro dalla Restaurazione, che senza di loro il mondo sarebbe stato
molto peggio. Hanno quasi spaventato a morte tutti quanti. Le cose
sembrano molto più tranquille ora. I civili sembrano sottomessi in un modo
in cui non lo erano prima. È incredibile, davvero, come la Restaurazione sia
riuscita a convincere la gente che il crollo del cielo, mentre il sole è
scomparso per un intero minuto fossero cose che normali che potevano
accadere nel mondo.
È incredibile che imbecchino le persone con questo tipo di stronzate, ed è
incredibile che la gente ci creda.
Ma devo essere onesto con me stesso, ammettere che quello che mi
spaventa di più è che se non sapessi la verità, potrei credere anch’io a quella
merda.
Sospiro forte. Trascino una mano sul viso.
Questa mattinata sembra uno strano sogno.
Surreale, come uno di quei quadri con gli orologi che si sciolgono e che
la Restaurazione ha distrutto. Sono così stanco, così stanco, che non ho
nemmeno la forza per essere arrabbiato. Ho solo energia a sufficienza per
essere triste.
Lo siamo tutti, davvero tristi.
I pochi di noi che possono entrare in questa stanza: io, Castle, Nouria,
Sam, Superman (il mio nuovo soprannome per Stephan), Haider, Nazeera,
Brendan, Winston e Warner. Tutti noi, tristi e provati. Sonya e Sara se ne
sono andate per un po’, ma torneranno presto e quando lo faranno saranno
tristi anche loro.
Ian e Lily avrebbero voluto essere qui, ma Warner li ha cacciati. Ha
semplicemente detto loro di andarsene, per ragioni che non ha voluto
divulgare. Non ha alzato la voce. Non ha nemmeno guardato Ian. Gli ha
solo detto di voltarsi e andarsene. Brendan era così sbalordito che gli occhi
gli sono quasi usciti dalle orbite. Ma eravamo tutti troppo spaventati da
Warner per dire qualcosa.
Una piccola parte di me si chiedeva se Warner sapesse (chissà come) di
quella volta che Ian non voleva agire dopo che abbiamo perso lui e J alla
conferenza.
Non lo so. È solo una teoria. Ma è ovvio che Warner si è stufato di
giocare. Ha finito con la cortesia, ha chiuso con la pazienza, è pronto a dare
merda a chiunque tranne a J. Il che significa che la tensione è alta qui
dentro. Anche Castle sembra un po’ nervoso con Warner, come se non fosse
più sicuro nei suoi confronti.
Il problema è che ci siamo sentiti tutti troppo a nostro agio.
Per un paio di mesi ci siamo dimenticati che Warner è terrificante. Ci ha
sorriso tipo quattro volte e mezzo e abbiamo deciso di dimenticare che
fondamentalmente è uno psicopatico con lunga storia di spietati omicidi alle
spalle. Pensavamo si fosse ravveduto. Diventando più morbido. Abbiamo
dimenticato che tollerava ognuno di noi solo a causa di Juliette.
E ora, senza di lei…
Non sembra più a proprio agio.
Senza di lei ci stiamo dividendo. L’energia in questa stanza ci ha
palpabilmente cambiato. Non ci sentiamo più una squadra, ed è spaventoso
quanto velocemente sia successo. Se solo Warner non fosse così
determinato ad essere un a testa di cazzo. Se sono non fosse così ansioso di
indossare la sua vecchia pelle, per alienarsi le simpatie di tutti in questa
stanza. Se solo ci mettesse un po’ di buona volontà, potremmo ribaltare
l’intera situazione.
Sembra improbabile.
Non sono terrorizzato come gli altri, ma non sono nemmeno stupido. So
che le sue minacce di violenza non sono un bluff. Le uniche persone
imperturbabili sono i figli dei supremi. Sembrano a proprio agio con questa
versione di lui. Haider, soprattutto. Quel tizio sembrava sempre nervoso,
come se non avesse idea di chi fosse diventato Warner e non sapeva come
elaborare il cambiamento. Ma adesso? Nessun problema. Super a suo agio
con lo psicopatico Warner. Vecchi amiconi.
Nouria alla fine rompe il silenzio.
Delicatamente, si schiarisce la gola. Un paio di persone alzano la testa.
Warner fissa il pavimento.
«Kenji» dice dolcemente, «posso parlarti un minuto? Fuori?»
Il mio corpo si irrigidisce.
Mi guardo intorno, incerto, come se mi avesse confuso con qualcun altro.
Castle e Nazeera si girano bruscamente verso di me, spalancando gli occhi
sorpresi. Sam, d’altra parte, sta fissando sua moglie, lottando per
nascondere la frustrazione.
«Ehm» mi gratto la testa «forse dovremmo parlare qui» dico. «Come una
squadra?»
«Fuori, Kishimoto.» Nouria è in piedi, ogni traccia di dolcezza è sparita
dalla sua voce, dal suo viso. «Ora, per favore.»
Con riluttanza, mi alzo in piedi.
Guardo di sbieco Nazeera, chiedendomi se ha una sua opinione sulla
situazione, ma la sua espressione è illeggibile.
Nouria mi chiama di nuovo.
Scuoto la testa, ma la seguo fuori dalla porta. Mi guida dietro un angolo,
in un corridoio stretto.
C’è un nauseante odore di candeggina.
J è all’interno della TM - un soprannome ovvio per la loro tenda medica -
che sembra un termine improprio perché l’elemento tenda è del tutto
superficiale. L’interno dell’edificio è molto simile a un vero ospedale, con
camere singole e sale operatorie. La prima volta che sono stato qui ero
sbalordito, perché è super diverso da quello che avevamo al Punto Omega e
nel Settore 45. Ma, prima che arrivassero Sonya e Sara, il Santuario non
aveva guaritori. Il loro lavoro medico era molto tradizionale: praticato da
una manciata di medici e chirurghi autodidatti. C’è qualcosa nel loro
vecchio e pericoloso stile di pratiche mediche che rende questo posto molto
simile ad una reliquia del nostro vecchio mondo. Un edifico pieno di paura.
Qui fuori, nel corridoio principale, posso sentire più chiaramente i suoni
standard di un ospedale: macchine che suonano, carrelli che rotolano,
gemiti occasionali, grida, chiamate dal citofono. Mi appiattisco contro il
muro mentre una squadra di persone mi passa davanti spingendo una barella
lungo il corridoio. Il suo occupante è un uomo anziano collegato a una
flebo, una maschera di ossigeno sul viso. Quando vede Nouria alza la mano
in un debole gesto. Accenna un sorriso.
Nouria gli rivolge in cambio un sorriso luminoso, mantenendolo sul viso
finché l’uomo non viene portato in una stanza. Nel momento in cui è fuori
dalla vista, mi mette alle strette. I suoi occhi lampeggiano, il marrone scuro
della pelle risplende nella luce fioca, come un avvertimento. Mi raddrizzo.
Nouria è sorprendentemente terrificante.
«Cosa diavolo è successo là fuori?» dice «Cosa hai fatto?»
«Va bene, prima di tutto» alzo entrambe le mani «non ho fatto nulla. E ti
ho già detto esattamente cosa è successo… »
«Non mi hai detto che Emmaline ha cercato di entrare nella tua mente.»
Questo mi blocca. «Che cosa? Sì, l’ho fatto. Te l’ho detto letteralmente.
Ho usato quelle esatte parole.»
«Ma non mi hai detto tutti i dettagli» ribatte «Com’è iniziato? Come ti sei
sentito? Perché ti ha lasciato andare?»
«Non lo so» dico, aggrottando la fronte. «Non capisco cosa sia accaduto,
tutto quello che ho sono supposizioni.»
«Allora indovina» dice, socchiudendo gli occhi. «Salvo che… Non è
ancora nella tua testa, vero?»
«Cosa? No.»
Nouria sospira, più per irritazione che per il sollievo. Si tocca le tempie
con le dita in segno di rassegnazione. «Questo non ha senso» dice, quasi a
se stessa. «Perché dovrebbe sforzarsi così tanto per entrare nella mente di
Ella? Perché entrare nella tua? Pensavo che combattesse contro la
Restaurazione. Questo sembra più come se stesse lavorando per loro.»
Scuoto la testa. «Non credo proprio. Quando Emmaline era nella mia
testa mi sembrava più un ultimo disperato tentativo… come se fosse
preoccupata che J non avrebbe avuto il coraggio di ucciderla e sperava che
io lo facessi più velocemente. Mi ha definito coraggioso, ma debole. Tipo,
non lo so, forse suona folle ma sembrava quasi che pensasse, per un attimo,
che se ero arrivato così lontano in sua presenza, forse sarei stato abbastanza
forte per contenerla. Ma poi mi è entrata in testa e ha capito che si
sbagliava. Non ero abbastanza forte da contenere la sua mente e
decisamente non abbastanza forte per ucciderla.» Alzo le spalle. «Così ha
lasciato perdere.»
Nouria si raddrizza. Quando mi guarda, mi guarda scioccata. «Pensi
davvero che sia così disperata da voler morire? Pensi che non si
difenderebbe se qualcuno cercasse di ucciderla?»
«Sì, è tremendo» dico, guardando altrove. «Emmaline è davvero in un
brutto posto.»
«Ma può esistere almeno parzialmente nel corpo di Ella.» Nouria
aggrotta le sopracciglia. «Entrambe le coscienze in una persona. Come?»
«Non lo so» alzo di nuovo le spalle. «J ha detto che Evie ha fatto un
sacco di lavoro sui suoi muscoli, ossa e cose del genere, mentre era in
Oceania la preparava all’operazione In sintesi, fondamentalmente sarebbe
diventata il nuovo corpo di Emmaline. Quindi penso che, in definitiva,
usare J come ospite per Emmaline è quello che aveva sempre pianificato.»
«Ed Emmaline doveva saperlo» dice Nouria, a bassa voce.
È il mio turno di aggrottare la fronte. «Dove vuoi arrivare?»
«Non lo esattamente. Ma questa situazione complica le cose. Perché se il
nostro obiettivo era uccidere Emmaline, e Emmaline ora vive nel corpo di
Ella…»
«Aspetta» il mio stomaco fa una capriola. «È per questo che siamo qui? È
per questo che sei così riservata?»
«Abbassa la voce» dice Nouria bruscamente, guardando qualcosa dietro
di me.
«Non abbasserò la mia fottuta voce» rispondo. «Che diavolo stai
pensando? Cosa stai… Aspetta, cosa stai guardando?» Allungo il collo ma
vedo solo un muro bianco dietro la mia testa. Il cuore mi batte forte, la
mente lavoro troppo velocemente, mi volto indietro per affrontarla.
«Dimmi la verità,» chiedo «è per questo che mi hai messo alle strette?
Perché stai cercando di capire se possiamo uccidere J mentre Emmaline è
dentro di lei? È così? Sei pazza?»
Nouria mi guarda male. «È folle voler salvare il mondo? Emmaline è al
centro di tutto ciò che non va nel nostro universo in questo momento ed è
intrappolata in un corpo che giace in una stanza in fondo al corridoio. Sai da
quanto tempo stiamo aspettando un momento come questo? Non
fraintendermi, non amo questa linea di pensiero, Kishimoto, ma non
sono…»
«Nouria.»
Al suono della voce di sua moglie, Nouria rimane visibilmente immobile.
Fa un passo indietro e finalmente mi rilasso. Leggermente.
Ci voltiamo entrambi.
Sam non è sola. Castle è in piedi accanto a lei, tutti e due sembrano un
po’ più che incazzati.
«Lascialo in pace» dice Castle. «Kenji ne ha già passate abbastanza. Ha
bisogno di tempo per riprendersi.»
Nouria cerca di rispondere, ma Sam la interrompe. «Quante volte ancora
ne dobbiamo parlare?» le dice. «Non puoi escludermi quando sei stressata.
Non puoi semplicemente andare avanti per conto tuo senza dirmelo.» I
capelli biondi le cadono sugli occhi e lei, frustrata, si allontana le ciocche
dal viso. «Sono la tua compagna. Questo è il nostro Santuario. La nostra
vita. Lo abbiamo costruito insieme, ricordi?»
«Sam.» Nouria sospira, stringendo gli occhi. «Lo sai che non sto
cercando di escluderti. Sai che non è…»
«Mi stai letteralmente escludendo. Hai letteralmente chiuso la porta.»
Aggrotto le sopracciglia. Castle e io ci connettiamo con lo sguardo:
sembra che siamo entrati in una discussione privata.
Ottimo.
«Ehi, Sam,» dico «sapevi che tua moglie vuole uccidere Juliette?»
Castle sussulta.
Sam rallenta. Fissa Nouria sbalordita.
«Sì» dico, annuendo «Nouria vuole ucciderla proprio ora, in realtà,
mentre è ancora in coma. Cosa ne pensi?» inclino la testa verso Sam
«Buona idea? Cattiva idea? Vuoi magari dormirci su?»
«Non può essere vero» dice Sam, continuando a fissare sua moglie.
«Dimmi che sta scherzando.»
«Non è così semplice» risponde lei, lanciandomi uno sguardo velenoso, e
quasi mi sento male per essere stato così meschino. In realtà non voglio
farle litigare, ma non importa. Non può suggerire casualmente di uccidere la
mia migliore amica e aspettarsi che io stia calmo al riguardo. «Stavo solo
facendo notare che…»
«Va bene, basta.»
Alzo gli occhi al suono della voce di Nazeera. Non ho idea di quando sia
arrivata, ma ora è improvvisamente di fronte a noi, con le braccia incrociate
al petto. «Non lo stiamo facendo. Nessuna parte della conversazione.
Nessun sottogruppo. Dobbiamo parlare tutti insieme della tempesta
imminente diretta verso di noi e se vogliamo avere qualche possibilità di
combatterla dobbiamo essere uniti.»
«Quale imminente tempesta?» chiedo «Sii più specifica, per favore.»
«Sono d’accordo con Nazeera» dice Sam, socchiudendo gli occhi verso
sua moglie. «Torniamo tutti nella stanza e parliamo. A tutti gli altri. Tutti
insieme. »
«Sam,» prova di nuovo Nouria «non sono…»
«Maledetto inferno.» Stephan si ferma di colpo vicino a noi, le sue scarpe
scricchiolano sul pavimento. Sembra torreggiare sul nostro gruppo, sembra
troppo raffinato e civile per appartenere a questo posto. «Che diamine state
facendo qui fuori?»
Poi, sottovoce, a Nazeera «E perché ci hai lasciato soli con lui? È proprio
stronzo. Ha quasi fatto piangere Haider, proprio adesso.»
Nazeera sospira, chiudendo gli occhi mentre pizzica il ponte del suo naso.
«Haider se le cerca. Non capisco perché si è illuso di pensare che Warner
fosse il suo migliore amico.»
«Potrebbe benissimo esserlo» dice Stephan, aggrottando la fronte. «Come
sai, il livello è piuttosto basso.»
Nazeera sospira di nuovo.
«Se Haider dà l’impressione di essere il meglio, Warner è ugualmente
orribile per tutti» dice Sam. Guarda Nouria. «Tra l’altro, Amir continua a
non voler dire cosa gli abbia detto Warner.»
«Amir?» Castle aggrotta le sopracciglia. «Il ragazzo che sovraintende alle
unità di pattuglia?»
Sam annuisce. «Si è licenziato questa mattina.»
«No.» Nouria sbatte le palpebre, sbalordita. «Stai scherzando.»
«Vorrei fosse così. Ho dovuto dare il suo lavoro a Jenna.»
«Questo è pazzesco» Nouria scuote la testa. «Sono passati solo tre giorni
e stiamo già cadendo a pezzi.»
«Tre giorni?» dice Stephan. «Tre giorni da quando siamo arrivati,
intendevi questo? Non è una cosa molto carina da dire.»
«Non stiamo cadendo a pezzi» dice Nouria all’improvviso. Con rabbia.
«Non possiamo permetterci di cadere a pezzi. Non adesso. Non con la
Restaurazione che sta per arrivare alle nostre porte.»
«Aspetta… cosa?» Sam si acciglia. «La Restaurazione non ha idea di
dove…»
«Dio. È così deprimente» gemo, facendo scorrere entrambe le mani tra i
miei capelli. «Perché ci stiamo prendendo alla gola gli uni con gli altri? Se
Juliette fosse sveglia, sarebbe così incazzata con tutti noi. E sarebbe super
incazzata con Warner per essersi comportato così, per averci allontanato.
Non se ne rende conto?»
«No» dice Castle, a bassa voce. «Ovviamente no.»
Un secco toc toc …
Tutti guardiamo in alto.
Winston e Brendan ci stanno guardando da dietro l’angolo, il pugno
chiuso di Brendan è ad un centimetro dal muro, e batte ancora una volte
forte contro l’intonaco.
Nouria espira rumorosamente. «Possiamo aiutarvi?»
Marciano verso di noi, le loro espressioni sono così diverse che è quasi
… quasi … divertente. Sono come la luce e l’oscurità, questi due.
«Ciao a tutti» dice Brendan, sorridendo vivacemente.
Winston si toglie gli occhiali. Ci guarda in cagnesco. «Che cosa diavolo
sta succedendo? Perché state facendo una riunione qui? Per conto vostro? E
perché ci avete lasciato soli con lui?»
«Non l’abbiamo fatto…» cerco di dire.
«Non stiamo…» dicono Sam e Nazeera allo stesso tempo.
Winston alza gli occhi al cielo. Si rimette gli occhiali. «Sono diventato
troppo fottutamente vecchio per questo.»
«Hai solo bisogno di un caffè» dice Brendon, accarezzando delicatamente
la sua spalla. «Winston non dorme molto bene la notte» spiega al resto di
noi.
Winston si solleva di scatto, diventando immediatamente rosso.
Sorrido.
Lo giuro, è tutto quello che faccio. Sorrido e in una frazione di secondo
gli occhi di Winston si fissano su di me, con uno sguardo mortale che
sembra urlare, Chiudi la bocca Kishimoto, e non ho nemmeno la possibilità
di sentirmi offeso prima che si allontani bruscamente, con le orecchie di un
rosso brillante.
Cala uno scomodo silenzio.
Mi chiedo, per la prima volta, se sia davvero possibile che Brendan non
abbia idea di cosa provi Winston per lui. Sembra ignorarlo, ma chi lo sa.
Non è sicuramente un segreto per il resto di noi.
«Bene» Castle fa un respiro acuto, batte le mani. «Stavamo per tornare
nella stanza per avere una vera e propria discussione. Quindi signori,» fa un
cenno un cenno a Winston e Brendan «non vi dispiace tornare da dove siete
venuti? Stiamo un po’ stretti in corridoio.»
«Giusto» Brendan guarda velocemente dietro di sè. «Ma, uhm, pensi che
potremmo aspettare un minuto o giù di lì? Haider stava piangendo, sai, e
penso che apprezzerebbe un po’ privacy.»
«Oh, per l’amor di Dio» gemo.
«Che è successo?» chiede Nazeera, preoccupata, corrucciando la fronte.
«È meglio che vada a vedere?»
Brendan alza le spalle, la sua faccia bianchissima quasi risplende al neon
delle luci del corridoio buio. «Ha detto qualcosa a Warner in arabo, credo. E
non so esattamente cosa abbia risposto lui, ma sono abbastanza certo che gli
abbia detto di levarsi dalle palle in un modo o nell’altro.»
«Stronzo» mormora Winston.
«È vero purtroppo» Brendan ha un’espressione corrucciata.
Scuoto la testa. «Va bene, okay, so che sta facendo il coglione, ma penso
che possiamo dare a Warner un po’ di tregua, giusto? È devastato. Non
dimentichiamo l’inferno che ha passato questa mattina.»
«Passo» Winston incrocia le braccia, la rabbia sembra sollevarlo
dall’imbarazzo. «Haider sta piangendo. Haider Ibrahim, figlio del
Comandante Supremo dell’Asia. È seduto in un ospedale che piange perché
Warner ha ferito i suoi sentimenti. Non so come puoi difenderlo.»
«Ad essere onesti,» interviene Stephan «Haider è sempre stato un po’
sensibile.»
«Ascoltate, non sto difendendo Warner, sto solo…»
«Ne ho abbastanza» la voce di Castle è forte, acuta. «Tutto questo è
troppo.» Qualcosa mi tira delicatamente il collo, facendomi sobbalzare e
noto che le mani di Castle sono in aria. Come solo lui fisicamente è in
grado volta le nostre teste per guardarlo in viso. Indica di nuovo in fondo al
corridoio, verso la stanza di J. Sento una leggera spinta alla schiena.
«Tornate dentro. Tutti voi. Adesso.»
Haider non sembra diverso quando rientriamo. Nessuna traccia di
lacrime. È in piedi in un angolo, da solo, tenendosi a debita distanza.
Warner è nella stessa posizione in cui l’abbiamo lasciato, seduto
rigidamente accanto a J.
Fissandola.
Fissandola come se fosse in grado di farle riprendere conoscenza.
Nazeera batte le mani, forte. «Va bene,» esordisce «niente più
interruzioni. Dobbiamo parlare di una strategia prima di fare qualsiasi altra
cosa.»
Sam si acciglia. «Strategia per cosa? In questo momento dobbiamo
discutere di Emmaline. Dobbiamo capire gli eventi di questa mattina prima
di poter anche solo pensare di discutere del prossimo passo.»
«Parleremo di Emmaline e degli eventi di stamattina» dice Nazeera. «Ma
per discutere della situazione Emmaline, dovremo parlare della situazione
Ella, che richiederà una conversazione più ampia, una strategia globale…
che si integrerà perfettamente con un piano per riavere indietro i figli dei
supremi.»
Castle la fissa confuso, la stessa confusione sul viso di Sam. «Tu vuoi
parlare dei ragazzi supremi in questo momento? Non è meglio se comin...»
«Idioti» mormora Haider sottovoce.
Lo ignoriamo.
Beh, la maggior parte di noi. Nazeera scuote la testa, mostrando a tutta la
stanza quello stesso sguardo che mi rivolge spesso - quello che esprime la
sua stanchezza generale per essere circondata da idioti.
«Come fate a non vedere che queste cose sono collegate? La
Restaurazione ci sta cercando. Più precisamente, stanno cercando Ella.
Avremmo dovuto restare nascosti, ricordate? Ma l’eclatante dimostrazione
di Emmaline di questa mattina ha appena fatto saltare la copertura sulla
nostra posizione. Abbiamo visto tutti le notizie, avete letto tutti i rapporti
d’emergenza. La Restaurazione si è fortemente impegnata per sottomettere i
cittadini. Questo significa che sanno cosa è successo qui.»
Di nuovo, altri sguardi vuoti.
«Emmaline li ha appena condotti direttamente da Ella» dice. Pronuncia
l’ultima frase molto lentamente, come se avesse paura della nostra
intelligenza collettiva. «Apposta o per caso, la Restaurazione adesso ha
un’idea approssimativa della nostra posizione.»
Nouria sembra colpita.
«Il che significa,» interviene Haider, dall’alto della sua irritante
condiscendenza «che sono molto più vicini a trovarci ora di quanto lo
fossero poche ore fa.»
Tutti si raddrizzano sulle sedie. L’aria è improvvisamente diversa, intensa
in un modo nuovo. Nouria e Sam si scambiano sguardi preoccupati.
È Nouria che parla. «Pensi davvero che sappiano dove siamo?»
«Sapevo che sarebbe successo» dice Sam, scuotendo la testa.
Castle si irrigidisce. «Cosa dovrebbe significare?»
Sam si arrabbia, ma le sue parole sono calme quando dice «Abbiamo
corso un rischio enorme lasciando che la tua squadra restasse qui. Abbiamo
messo a rischio i nostri mezzi di sostentamento e la sicurezza dei nostri
stessi uomini e donne per permette di rifugiarvi in mezzo a noi. Siete qui da
tre giorni e siete già riusciti a rivelare la nostra posizione al mondo.»
«Non abbiamo rivelato nulla. E quello che è successo oggi non è stato
colpa di nessuno…»
Nouria alza una mano. «Fermati» dice, lanciando uno sguardo a Sam,
uno sguardo talmente breve da averlo a malapena notato. «Stiamo di nuovo
perdendo di vista l’obiettivo. Nazeera aveva ragione quando ha detto che
eravamo coinvolti tutti insieme. Infatti, ci siamo riuniti con il preciso scopo
di distruggere la Restaurazione. È quello per cui abbiamo sempre lavorato.
Non siamo mai stati destinati a vivere per sempre in gabbie improvvisate e
in comunità.»
«Lo capisco» risponde Sam, la sua voce ferma smentisce la rabbia nei
suoi occhi. «Ma se davvero sanno in quale settore cercare, potremmo essere
scoperti in pochi giorni. La Restaurazione aumenterà la sua potenza militare
entro un’ora, se non l’hanno già fatto.»
«L’hanno fatto» dice Stephan, sembrando altrettanto esasperato quanto
Nazeera. «Ovviamente, l’hanno fatto.»
«Sono così ingenue, queste persone» dice Haider, lanciando uno sguardo
cupo a sua sorella.
Nazeera sospira.
Winston impreca.
Sam scuote la testa.
«Allora cosa proponi?» dice Winston, ma non sta guardando Nouria o
Sam o Castle. Sta guardando Nazeera.
Lei non esita.
«Aspettiamo. Aspettiamo che Ella si svegli» dice. «Abbiamo bisogno di
sapere il più possibile di quello che le è successo e dobbiamo dare la
priorità alla sua sicurezza sopra ogni altra cosa. C’è un motivo se Anderson
la vuole così disperatamente e dobbiamo scoprirlo prima di intraprendere il
passo successivo.»
«Ma che ne dici di un piano per riavere gli altri ragazzi?» chiede
Winston. «Se aspettiamo che Ella si svegli prima di fare una mossa per
salvarli potrebbe essere troppo tardi.»
Nazeera scuote la testa. «Il piano per i ragazzi deve essere legato al piano
per salvare Ella» dice. «Sono certa che Anderson sta usando il rapimento
dei figli dei Comandanti come esca. Un’esca di merda per portarci allo
scoperto. Inoltre, ha progettato questo piano prima di sapere che anche noi,
accidentalmente, ne fossimo a conoscenza, il che supporta ulteriormente la
mia teoria che sia un’esca di merda. Sperava solo che facessimo un passo
fuori dal nostro rifugio quel tanto che bastava per dargli la posizione
approssimativa.»
«Cosa che abbiamo fatto» dice a bassa voce Brendan, sconvolto.
Mi prendo la testa tra le mani. «Merda.»
«Sembrerebbe che Anderson non avesse nessuna intenzione di fare uno
scambio onesto con gli ostaggi» dice Nazeera. «Come sarebbe possibile?
Non ci hai mai detto dov’erano. Mai detto dove incontrarlo. E ancora più
interessante: non ha mai chiesto degli altri ragazzi. Qualunque siano i suoi
piani, non sembrano richiedere la presenza di tutti noi. Non voleva Warner
o me, Haider o Stephan. Tutto quello che voleva era Ella, giusto?» Guarda
Nouria. «Questo è quello che hai detto. Lui voleva solo Ella?»
«Sì» afferma Nouria. «È vero, ma penso di non capire. Hai appena
spiegato tutte le ragioni per cui dobbiamo andare in guerra, ma il tuo piano
d’attacco prevede di non fare nulla.»
Nazeera non riesca a nascondere la sua irritazione. «Dobbiamo ancora
fare un piano per combattere» dice. «Avremo bisogno di un piano per
trovare i ragazzi, liberarli e poi, alla fine, uccidere i nostri genitori. Ma sto
proponendo di aspettare prima di fare qualsiasi mossa. Sto suggerendo di
eseguire un blocco completo qui al Santuario finché Ella non sarà cosciente.
Non entrare o uscire finché lei non sarà sveglia. Se avete bisogno di
provviste di emergenza, Kenji ed io possiamo usare la nostra invisibilità per
andare in missione e trovare ciò di cui avete bisogno. La Restaurazione avrà
schierato soldati per monitorare ogni movimento in quest’area, ma, fintanto
che restiamo isolati, dovremmo guadagnare un po’ di tempo.»
«Ma non abbiamo idea di quanto tempo ci vorrà perché Ella si svegli»
ribatte Sam. «Potrebbero volerci settimane, potrebbe non avvenire mai… »
«La nostra missione,» dice Nazeera interrompendola «deve essere
incentrata sulla protezione di Ella, a tutti i costi. Se la perdiamo, perdiamo
qualunque cosa. Questo è tutto. Questo è l’intero piano. Mantenere Ella in
vita e al sicuro è la priorità. Salvare i ragazzi è secondario. Inoltre, loro
staranno bene. La maggior parte di noi ha passato di peggio durante
l’addestramento di base.»
Haider ride.
Stephan emette un suono divertito, è d’accordo.
«Ma che mi dici di James?» protesto «E di Adam? Non sono come voi
ragazzi. Non sono mai stati preparati per questa merda. Per l’amor di Dio,
James ha solo dieci anni.»
In quel momento Nazeera mi guarda e per un momento vacilla. «Faremo
del nostro meglio» dice. E anche se le sue parole suonano sinceramente
comprensive, questo è tutto ciò che mi da. Del nostro meglio.
Questo è quanto.
Sento il mio cuore accelerare il battito.
«Quindi dovremmo rischiare di lasciarli morire?» chiede Winston
«Dobbiamo giocare d’azzardo con la vita di un bambino di dieci anni?
Lasciare che rimanga imprigionato e torturato per mano di un sociopatico e
sperare per il meglio? Sei seria?»
«A volte sono necessari dei sacrifici» dice Stephan.
Haider si limita a scrollare le spalle.
«Assolutamente no, neanche per sogno» dico, preso dal panico.
«Abbiamo bisogno di un altro piano. Un piano migliore. Un piano che salvi
tutti e rapidamente.»
Nazeera mi guarda come se fosse dispiaciuta per me.
È abbastanza per raddrizzare la mia spina dorsale.
Mi guardo in giro, il panico si trasforma rapidamente in rabbia verso
Warner, seduto in un angolo, come un inutile sacco di carne. «E tu che
dici?» gli dico «Cosa pensi di tutto questo? Ti va bene lasciar morire i tuoi
stessi fratelli?»
Il silenzio è improvvisamente soffocante.
Warner non mi risponde per molto tempo e la stanza è troppo sbalordita
dalla mia stupidità per interferire. Ho appena infranto un tacito accordo per
fingere che Warner non esista, ma ora che ho provocato la bestia, tutti
vogliono vedere cosa succederà.
Alla fine, Warner sospira.
Non è un suono calmo e rilassante. È un suono aspro e arrabbiato che
sembra solo lasciarlo ancora più ferito. Non alza nemmeno la testa quando
dice «Sono d’accordo con molte cose, Kishimoto.»
Ma ormai sono andato troppo oltre per tornare indietro.
«Questa è una stronzata» dico, stringendo i pugni. «Questa è una
stronzata e tu lo sai. Sei meglio di così.»
Warner non dice niente. Non muove un muscolo, non smette di fissare lo
stesso punto sul pavimento. E so che non dovrei inimicarmelo - so che è
fragile in questo momento, ma non posso farci niente. Non posso lasciar
perdere, non così.
«Allora è così? Dopo tutto che è successo - questo è quanto? Stai
lasciando morire James?» Il cuore mi batte all’impazzata, forte e pesante
nel petto. Sento la frustrazione raggiungere il picco, degenerando. «Cosa
pensi che direbbe J adesso, eh? Come pensi che si sentirebbe sul fatto che
hai lasciato che qualcuno uccidesse un bambino?»
Warner si alza.
Velocemente, troppo velocemente, è in piedi e all’improvviso mi
dispiace. Mi sentivo un po’ “coraggioso” ma ora non provo altro che
rimpianto. Faccio un passo indietro, incerto. Warner mi segue. Ad un tratto
è di fronte a me, studia i miei occhi, ma scopro di non poter reggere il suo
sguardo per più di un secondo. I suoi occhi sono di un verde così pallido
che sono disorientanti nei suoi giorni buoni. Ma oggi, in questo momento…
Sembra fuori di testa.
Quando mi volto, noto che ha ancora del sangue sulle dita. Ha del sangue
sulla gola. Altro sangue tra i suoi capelli dorati.
«Guardami» dice.
«Ehm, no grazie.»
«Guardami» dice di nuovo, a bassa voce questa volta.
Non so perché lo faccio. Non so perché mi arrendo. Non so se c’è ancora
una parte di me che crede in lui e spera di vedere qualcosa di umano nei
suoi occhi. Ma quando finalmente guardo in alto, perdo quella speranza.
Warner ha un’aria fredda. Distaccata. Totalmente sbagliata.
Non capisco.
Voglio dire, anch’io sono devastato, anch’io sono sconvolto, ma non mi
sono trasformato in una persona completamente diversa. E adesso, Warner
sembra una persona completamente diversa. Dov’è il ragazzo che stava per
fare la proposta alla mia migliore amica? Dov’è il ragazzo che ha avuto un
attacco di panico sul pavimento della sua camera? Dov’è il ragazzo che ha
riso così tanto da avere le guance infossate? Dov’è il ragazzo che pensavo
fosse mio amico?
«Cosa ti è successo, amico?» sussurro «Dove sei finito?»
«All’inferno» dice. «Finalmente ho trovato l’inferno.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 7
ELLA
JULIETTE
 
Mi sveglio a ondate, la coscienza mi bagna lentamente. Rompo la
superficie del sonno, ansimando prima di essere trascinata sotto
un’altra corrente
un’altra corrente
un’altra
I ricordi mi avvolgono, legando le mie ossa. Dormo. Quando dormo,
sogno di dormire. In quei sogni, sogno di essere morta. Non posso
distinguere la realtà dalla finzione, non posso distinguere i sogni dalla
verità , non so dire da quanto tempo, potrebbero essere passati giorni o
anni, chi lo sa, chi lo sa, comincio a
m
u
o
v
e
r
m
i
Sogno anche mentre sono sveglia, sogno labbra rosse e dita sottili,
sogno gli occhi, centinaia di occhi, sogno aria e rabbia e morte.
Sogno i sogni di Emmaline.
Lei è qui.
Si è calmata una volta che si è stabilita qui, nella mia mente. È quieta,
si è ritirata. Nascosta da me, dal mondo. Mi sento pesante con la sua
presenza, ma non parla, si limita a degradarsi, la sua mente si
decompone lentamente, lasciando concime al suo passaggio. Mi rende
pesante, pesante coi suoi rifiuti. Sono incapace di portare questo peso,
non importa quanto forte mi abbia reso Evie, sono incapace,
incompatibile. Non sono abbastanza per tenere insieme le nostre menti.
I poteri di Emmaline sono troppi. Ci affogo, soffoco …
boccheggio
quando la mia testa rompe di nuovo la superficie.
Trascino l’aria nei miei polmoni, prego i miei occhi di aprirsi e loro
ridono. Gli occhi ridono dei polmoni che ansimano per il dolore che
rimbalza sulla mia spina dorsale.
 
Oggi c’è un ragazzo.
Non uno dei soliti ragazzi. Non Aaron o Stephan o Haider. Questo è uno
nuovo, uno che non ho mai incontrato prima.
Solo standogli accanto posso dire che è terrorizzato.
Ci troviamo nella stanza grande, piena di alberi. Fissiamo gli uccelli
bianchi, gli uccelli con le striature gialle e la corona in testa. Il ragazzo
fissa gli uccelli come se non avesse mai visto niente di simile prima. Fissa
tutto con sorpresa. O paura. O preoccupazione. Mi fa capire che non sa
come nascondere le sue emozioni. Ogni volta che il signor Anderson
guarda verso di lui, trattiene il fiato. Ogni volta che lo guardo, diventa
rosso. Ogni volta che la mamma gli parla, balbetta.
«Cosa ne pensi?» dice il signor Anderson alla Mamma. Lui prova a
sussurrare, ma questa stanza è così grande che echeggia un po’.
La mamma inclina la testa verso il bambino. Lo studia. «Hai sei anni
adesso?» Ma non aspetta la risposta, scuote la testa e sospira. «È davvero
passato così tanto tempo?»
Il signor Anderson guarda il ragazzo. «Sfortunatamente.»
Lancio un’occhiata verso di lui, il ragazzo in piedi accanto a me,
guarda e si irrigidisce. Le lacrime gli sgorgano dagli occhi e mi ferisce
guardarlo. Fa così male. Odio il signor Anderson. Non so perché a mamma
piace. Non so perché a qualcuno possa piacere. È una persona orribile, fa
del male ad Aaron costantemente. Infatti - ora che ci penso, c’è qualcosa
in questo ragazzo che mi ricorda Aaron.
«Ehi» sussurro e mi volto verso di lui.
Deglutisce, forte. Si asciuga le lacrime con il bordo della manica.
«Ehi» provo di nuovo. «Sono Ella. Come ti chiami?»
Allora il ragazzo alza gli occhi. Sono di un blu scuro e profondo. È il
ragazzo più triste che abbia mai incontrato e solo a guardarlo mi
rattristo.
«Sono A-Adam» dice a bassa voce. Diventa di nuovo rosso.
Prendo la sua mano nella mia. Gli sorrido. «Saremo amici, va bene?
Non preoccuparti per il signor Anderson. Non piace a nessuno. È cattivo
con tutti noi, te lo garantisco.»
Adam ride, ma i suoi occhi sono ancora rossi. La sua mano trema nella
mia, ma non la lascia andare.
«Non so» sussurra. «È piuttosto cattivo con me.»
Gli stringo la mano. «Non ti preoccupare» dico. «Ti proteggerò io.»
Allora Adam sorride. Un vero sorriso. Ma quando finalmente guardo di
nuovo in su, il signor Anderson ci sta fissando.
Sembra arrabbiato.
 
C’è una struttura ronzante dentro di me, una massa di suono che consuma
il pensiero, divorando la conversazione.
Siamo mosche - raccogliamo, brulichiamo - occhi sporgenti e ossa fragili
e svolazziamo nervosamente verso destini immaginari. Lanciamo i nostri
corpi contro i vetri di allettanti finestre, sofferenti per il mondo promesso
dall’altra parte. Giorno dopo giorno trasciniamo ali, occhi e organi feriti
attorno alle stesse quattro pareti; aperte o chiuse le uscite ci sfuggono.
Speriamo di essere salvati da una brezza, speriamo nella possibilità di
vedere il sole.
Passano i decenni, i secoli si accumulano.
I nostri corpi feriti continuano a sbandare nell’aria. Continuiamo a
scagliarci verso la speranza. C’è follia nella ripetizione, nella reiterazione,
nella replica che sottolinea le nostre vite. Ed è solo nei disperati secondi
prima della morte che ci rendiamo conto che le finestre contro le quali
abbiamo sbattuto i nostri corpi erano solo specchi, fin dall’inizio.
CAPITOLO 8
KENJI
 
Sono passati quattro giorni.
Quattro giorni di niente. J sta ancora dormendo. Le gemelle lo chiamano
coma, ma io lo chiamo dormire. Sto scegliendo di credere che J sia davvero,
davvero stanca. Ha solo bisogno di dormire per smaltire un po’ di stress e
starà bene. Questo è quello che continuo a dire a tutti.
Starà bene.
«È solo stanca» dico a Brendan. «E quando si sveglierà sarà contenta che
abbiamo aspettato lei per andare a prendere James. Andrà tutto bene.»
Siamo nella Q, che è l’abbreviazione per tenda silenziosa, è stupido visto
che non c’è mai silenzio. La Q è per default una sala comune. Si tratta di
uno spazio di aggregazione dove le persone del Santuario si ritrovano la
sera e si rilassano. Sono in cucina, appoggiato contro uno sportello.
Brendan, Winston, Ian ed io stiamo aspettando che il bollitore elettrico
fischi.
Tè.
Questa è un’idea di Brendan, ovviamente. Per qualche motivo, non
abbiamo mai potuto mettere le mani sul tè al Punto Omega. Avevamo solo
caffè, ed era seriamente razionato. Solo dopo esserci trasferiti alla base del
Settore 45, Brendan ha capito che potevamo avere del tè, ma anche allora
non era così accanito.
Ma qui…
La sua missione è stata di forzarci a bere tè caldo ogni notte. Non ha
nemmeno bisogno di caffeina, la sua capacità di manipolare l’energia
elettrica mantiene il suo corpo sempre carico - ma sostiene che gli piace
perché trova il rituale rilassante. Quindi, non importa. Ora ci riuniamo alla
sera e beviamo il tè. Brendan ci mette il latte, Winston aggiunge del whisky,
Ian ed io lo beviamo senza zucchero.
«Giusto?» dico, quando nessuno risponde. «Voglio dire, il coma è
fondamentalmente solo un lungo pisolino. J starà bene. Le ragazze faranno
del loro meglio e poi lei starà bene, andrà tutto bene. James e Adam
staranno bene, ovviamente, perché Sam dice di averli visti e dice che
stanno bene.»
«Sam li ha visti e ha detto che erano incoscienti» dice Ian, aprendo e
chiudendo armadietti. Quando alla fine trova quello che stava cercando - un
pacco di biscotti - lo strappa per aprirlo. Non ho nemmeno la possibilità di
prenderne uno prima che Winston lo rubi.
«Questi biscotti sono per il nostro tè» dice brusco.
Ian lo guarda in cagnesco.
Diamo tutti un’occhiata a Brendan, che sembra ignaro delle rinunce fatte
in suo onore. «Si, Sam ha detto che erano incoscienti» dice, prendendo dei
cucchiaini da un cassetto. «Ma ha detto anche che le loro condizioni erano
stabili. Vivi.»
«Esatto» dico, indicando Brendan. «Grazie. Stabili. Vivi. Queste sono le
parole fondamentali.»
Brendan recupera la scatola dei biscotti dalle mani di Winston e comincia
a sistemare piatti e posate, con una spigliatezza che ci sconcerta. Non si
guarda quando dice «È straordinario, non è vero?»
Winston ed io ci guardiamo confusi.
«Non lo definirei straordinario» dice Ian, strappando un cucchiaio dal
vassoio, lo esamina. «Ma immagino che forchette e roba simile siano
piuttosto interessanti per quanto riguarda le invenzioni.»
Brendan aggrotta le sopracciglia. Alza gli occhi. «Sto parlando di Sam,
della sua capacità di vedere su lunghe distanze.» Recupera il cucchiaio dalle
mani di Ian e lo appoggia sul vassoio. «È un’abilità notevole.»
La capacità sovrannaturale di Sam di vedere attraverso lunghe distanze è
ciò che ci ha convinto delle minacce di Anderson, tanto per cominciare.
Diversi giorni fa - quando abbiamo avuto per la prima volta notizia del
rapimento - aveva usato sia le informazioni sia la sua determinazione per
individuare la posizione di Anderson nella nostra vecchia base al Settore
45. Ha passato quattordici ore di fila a cercare, non è stata in grado di
vedere gli altri ragazzi supremi, è riuscita solo a vedere i tremolii di James e
Adam, che sono gli unici a cui tengo, comunque. Quei guizzi di vita -
incoscienti, ma vivi e stabili - non sono molto in termine di rassicurazione,
ma a questo punto sono disposto a prendere qualsiasi cosa.
«Comunque, si. Sam è fantastica» dico, allungandomi contro
l’armadietto. «Il che mi riporta al punto iniziale: Adam e James staranno
bene. E J si sveglierà molto presto e starà bene. Il mondo mi deve almeno
questo, giusto?»
Brendan e Ian si scambiano un’occhiata. Winston si toglie gli occhiali e li
pulisce, lentamente, con l’orlo della camicia.
Il bollitore elettrico fischia ed emette vapore. Brendan lascia cadere un
paio di bustine di tè in una teiera di porcellana e la riempie con l’acqua
calda del bollitore. Poi avvolge la teiera in un canovaccio e la porge a
Winston, e insieme portano il tutto in un angolo della stanza, che
ultimamente abbiamo rivendicato per noi. Non è niente di rilevante, solo un
ammasso di posti a sedere con un paio di bassi tavolini al centro. Il resto
della stanza freme di attività. Molte chiacchiere e attività di socializzazione.
Nouria e Sam sono da sole in un angolo, immerse in una conversazione.
Castle sta parlando a bassa voce con le ragazze, Sonya e Sara. Abbiamo
passato molto tempo qui - in pratica tutti lo fanno - da quando il Santuario è
stato dichiarato ufficialmente isolato. In questo momento siamo tutti in
questo strano limbo: sono successe così tante cose, ma non ci è permesso
lasciare il posto. Non possiamo andare da nessuna parte o fare niente di
niente. Non ancora, comunque. Stiamo solo aspettando che J si svegli.
Da un momento all’altro.
Ci sono un sacco di persone qui, ma solo alcune comincio a riconoscerle.
Faccio un cenno con il capo ad un paio di persone di cui conosco solo il
nome e mi lascio cadere su una poltrona morbida e consumata. Odora di
caffè e legno vecchio, ma sento che comincia a piacermi. Sta diventando
una routine familiare. Brendan, come al solito, finisce di sistemare tutto sul
tavolino. Tazze da tè, piattini e tovaglioli triangolari. Una piccola brocca per
il latte. È davvero preso da questa cosa. Sistema la scatola dei biscotti, che
aveva già disposto sul tavolo e liscia i tovaglioli di carta. Ian lo fissa con la
stessa espressione ogni notte - come se fosse pazzo.
«Ehi» dice Winston in tono brusco. «Smettila.»
«Smettere cosa?» dice Ian, incredulo. «Coraggio amico, non pensi sia un
po’ strano? Fare la cerimonia del tè ogni notte?»
Winston abbassa la voce a un sussurro. «Ti ucciderò se gli rovinerai
questi momenti.»
«Va bene, basta. Non sono sordo, sapete.» Brendan si focalizza su Ian. «E
non mi interessa se molti pensano che sia strano. Mi è rimasto poco
dell’Inghilterra, salvo questo.»
Tacciamo tutti.
Fisso la teiera. Brendan dice che sta macerando.
E poi, all’improvviso, batte le mani. Mi osserva, i suoi occhi blu e i
capelli biondo-cenere mi trasmettono le stesse vibrazioni di Warner. Ma in
qualche modo anche con le sue splendide e fredde tonalità di bianco,
Brendan è l’opposto di Warner perché diversamente da lui, Brendan brilla.
È caldo, gentile, spontaneamente speranzoso e super sorridente.
Povero Winston.
Winston, segretamente innamorato di Brendan e troppo spaventato di
rovinare la loro amicizia per dire qualcosa al riguardo. Pensa di essere
troppo vecchio per Brendan, ma il fatto è che… nessuno diventa più
giovane. Continuo a dirgli che se vuole fare una mossa dovrebbe farla ora,
ora che è ancora fico e lui risponde ah ah ti ucciderò, stronzo e mi ricorda
che sta aspettando il momento giusto. Ma non so. A volte penso che lo terrà
dentro di sé per sempre, e sono preoccupato che potrebbe ucciderlo.
«Allora. Ascolta» dice Brendan delicatamente. «Volevamo parlare con
te.»
Sbatto le palpebre, ritrovando la concentrazione. «Che? Con me?»
Guardo i loro volti. All’improvviso sembrano tutti seri. Troppo seri.
Provo a ridere. «Che succede? È una specie di terapia psicologica?»
«Sì,» dice Brendan «una specie.»
Improvvisamente mi irrigidisco.
Brendan sospira.
Winston si gratta un foruncolo sulla fronte.
Ian dice «Juliette probabilmente morirà, lo sai vero?»
Sollievo e irritazione mi attraversano simultaneamente. Riesco a roteare
gli occhi e allo stesso tempo scuotere la testa. «Smettila, Sanchez. Non
essere quel tipo di ragazzo. Non è più divertente.»
«Non sto cercando di essere divertente.»
Alzo di nuovo gli occhi al cielo, questa volta cercando supporto in
Winston, ma lui si limita a scuotere la testa. Le sue sopracciglia formano un
solco così intenso che gli occhiali gli scivolano sul naso. Li strappa dal suo
viso.
«È una cosa seria» dice. «E anche se si dovesse svegliare… voglio dire,
qualunque cosa le sia successa…»
«Non sarà più la stessa» conclude Brendan per lui.
«Chi lo dice?» rispondo imbronciato. «Le ragazze hanno detto…»
«Fratello, le ragazze hanno accennato a un cambiamento nella sua
chimica. Le hanno fatto dei test per giorni. Emmaline le ha fatto qualcosa di
strano… qualcosa che ha , tipo, alterato fisicamente il suo DNA. Inoltre il
suo cervello è fritto.»
«So cosa hanno detto» scatto irritato. «Ero lì quando ne hanno parlato.
Ma le ragazze volevano solo essere caute. Pensano che sia possibile che
qualunque cosa le sia accaduta abbia lasciato dei danni, ma… è di questo
cha hanno parlato Sonya e Sara. Possono guarire qualsiasi cosa. Tutto
quello che dobbiamo fare è aspettare che J si svegli.»
Winston scuote di nuovo la testa. «Non sarebbero in grado di riparare una
cosa come questa» dice. «Non possono riparare questa specie di
devastazione neurologica. Potrebbero essere in grado di mantenerla in vita,
ma non sono sicuro che saranno in grado di… »
«Potrebbe anche non svegliarsi» dice Ian, interrompendolo. «Proprio mai.
O, nella migliore delle ipotesi, potrebbe restare in coma per anni. Ascolta, il
punto qui è che dobbiamo iniziare a fare dei piani senza di lei. Se vogliamo
salvare James e Adam, dobbiamo andare adesso. So che Sam li ha visti e so
che dice che sono stabili per ora, ma non possiamo aspettare ancora.
Anderson non sa cosa sia successo a Juliette, il che significa che sta ancora
aspettando che l’abbandoniamo. Significa che Adam e James sono ancora
in pericolo… significa che siamo a corto di tempo. E, per una volta,» dice,
prendendo fiato «non sono l’unico che la pensa così.»
Resto a guardarlo, stordito. «Mi stai prendendo in giro, vero?»
Brendan versa il tè.
Winston estrae una fiaschetta dalla tasca e la soppesa in mano prima di
porgermela. «Forse dovresti provare questo stasera» dice.
Lo guardo male.
Alza le spalle e svuota metà della fiaschetta nella sua tazza di tè.
«Ascolta» dice Brendan, con voce gentile. «Ian è una bestia e non
conosce modi gentili, ma non ha torto. È ora di pensare a un nuovo piano.
Vogliamo ancora bene a Juliette, è solo…» si interrompe, aggrotta le
sopracciglia. «Aspetta, è Juliette o Ella? C’è mai stata un’opinione
generale?»
Sono ancora imbronciato quando dico «Io la chiamo Juliette.»
«Ma pensavo che preferisse essere chiamata Ella» dice Winston.
«È in un fottuto coma» dice Ian, bevendo un forte sorso di tè. «Non le
importa come la chiami.»
«Non essere così aggressivo» dice Brendan. «È nostra amica.»
«Vostra amica» mormora.
«Aspetta …. È di questo che si tratta?» mi siedo di fronte a lui. «Sei
geloso perché non è la tua migliore amica, Sanchez?»
Ian alza gli occhi al cielo, distogliendo lo sguardo.
Winston sta guardando il tè con rinnovato interesse.
«D’accordo, bevi il tuo tè» dice Brendan, addentando un biscotto e
facendomi un gesto con il biscotto mezzo mangiato. «Sta diventando
freddo.»
Gli lancio uno sguardo stanco, ma mi obbligo a berne un sorso e quasi
soffoco. Ha un sapore strano stasera. Sto per allontanare la tazza quando mi
rendo che Brendan mi sta ancora fissando, così ne prendo un altro lungo
disgustoso sorso prima di rimettere la tazza sul piattino. Cerco di non
vomitare.
«Ok» dico, sbattendo i palmi delle mani sulle cosce. «Mettiamola ai voti:
chi pensa che Ian non sia infastidito dal fatto che J non si è innamorata di
lui quando è arrivata al Punto?»
Winston e Brendan si scambiano uno sguardo. Lentamente entrambi
sollevano una mano.
Ian alza di nuovo gli occhi al cielo. «Stronzi» mormora.
«La teoria è almeno un po’ dimostrabile» dice Winston.
«Ho una ragazza, idiota» e come se fosse apparsa al momento giusto,
Lily alza lo sguardo dall’altra parte della stanza ed incrocia gli occhi di Ian.
È seduta con Alia e qualche altra ragazza che non conosco.
Lily saluta.
Ian risponde al saluto.
«Si, ma sei abituato ad attirare un certo tipo di attenzione» ribatte
Winston, prendendo un biscotto. Alza lo sguardo ed esamina la stanza.
«Come quelle ragazze, proprio laggiù» dice, indicando con la testa. «Ti
stanno fissando da quando sei entrato.»
«Non l’hanno fatto» dice Ian, ma può fare a meno di dare un’occhiata.
«È vero» Brendan alza le spalle. «Sei un bel ragazzo.»
Winston si strozza con il tè.
«Va bene, basta» Ian alza le mani. «Vi conosco, ragazzi, penso sia stato
divertente, ma dico sul serio. In fin dei conti, Juliette è amica vostra, non
mia.»
Espiro platealmente.
Ian mi lancia uno sguardo. «Quando è arrivata al Punto per la prima
volta, ho cercato di comunicare con lei, di offrirle la mia amicizia ma lei
non ha approfondito. E anche dopo che siamo stati presi in ostaggio da
Anderson,» fa un cenno di ringraziamento a Brendon e Winston «si è presa
tutto il tempo per ottenere informazioni da Warner. Non le è mai importato
un cazzo del resto di noi, e tutto ciò che abbiamo fatto è stato metterci in
gioco per proteggerla.»
«Ehi, non è giusto» dice Winston, scuotendo la testa. «Era in una
posizione orribile…»
«Comunque sia» mormora Ian. Guarda in basso, verso il suo tè. «L’intera
situazione è una sorta di stronzata.»
«Brindiamoci su» dice Brendan, riempiendosi la tazza. «Facciamoci altro
tè.»
Ian mormora un ringraziamento silenzioso e arrabbiato porta la tazza alle
labbra. All’improvviso si irrigidisce. «E poi c’è questo» dice, alzando un
sopracciglio. «Come se ciò non bastasse, dobbiamo occuparci di questo
coglione» fa un gesto con la tazza verso l’ingresso.
Merda.
Warner è qui.
«Lo ha portato lei qui» sta dicendo Ian, ma almeno ha il buon senso di
dirlo a voce bassa. «È grazie a lei che dobbiamo tollerare questo stronzo.»
«Ad essere onesti, originariamente fu un’idea di Castle» sottolineo.
Ian mi mostra il dito medio.
«Cosa ci fa qui?» chiede piano Brendan.
Scuoto la testa ed inconsciamente bevo un altro sorso del mio disgustoso
tè. C’è qualcosa nella sua schifosità che comincia a sembrarmi familiare,
ma non riesco a capirlo.
Alzo di nuovo lo sguardo.
Non ho più detto una parola a Warner da quel primo giorno: il giorno in
cui J è stata attaccata da Emmaline. Da allora è stato un fantasma.
Nessuno lo ha mai visto davvero, nessuno tranne i figli dei Supremi,
penso.
È tornato dritto alle sue radici.
Tuttavia sembra che abbia finalmente fatto una doccia. Niente sangue. E
immagino che si sia guarito da solo, anche se non ho modo di esserne
sicuro, perché è completamente vestito, indossa un vestito che presumo
possa sessere stato preso in prestito da Haider. Un sacco di pelle.
Lo guardo, solo per pochi secondi, mentre si allontana a grandi passi
attraverso la stanza - passando direttamente attraverso le persone e senza
scusarsi con nessuno – diretto verso Sonya e Sara, che sono ferme a parlare
con Castle.
Comunque sia.
Non mi guarda nemmeno più. Non ammette la mia esistenza. Non che mi
importi. Non è che fossimo davvero amici.
Almeno, questo è quello che continuo a ripetermi.
In qualche modo, devo essermi già scolato la mia tazza di tè, perché
Brendan me l’ha riempita di nuovo. Butto giù il resto della tazza in un paio
di sorsi veloci e mi ficco in bocca un biscotto secco. Scuoto la testa. «Va
bene, ci stiamo distraendo» dico, e le parole mi sembrano un po’ troppo alte
anche alle mie stesse orecchie. «Concentriamoci, per favore.»
«Giusto» dice Winston. «Concentrazione. Su cosa dobbiamo
concentrarci?»
«Sulla nuova missione» dice Ian, lasciandosi andare indietro sulla sedia.
Poi conta con le dita «Salvare Adam e James. Uccidere gli altri Comandanti
Supremi. Infine, dormire un po’.»
«Bello e facile» afferma Brendan. «Mi piace.»
«Sapete cosa?» dico. «Penso che dovrei andare a parlargli.»
Winston inarca un sopracciglio. «Parlare con chi?»
«Warner, ovviamente». Il mio cervello si infiamma. Mi sento incoerente.
«Dovrei andare a parlare con lui. Nessuno gli parla. Perché lasciamo che
ritorni a trasformarsi in uno stronzo? Dovrei parlargli.»
«È un’ottima idea» dice Ian, sporgendosi in avanti. «Fallo.»
«Non dargli ascolto» dice Winston, dando una spinta a Ian. «Vuole solo
vedere come ti ucciderebbe.»
«Fottiti Sanchez.»
Ian alza le spalle.
«Una cosa che non c’entra niente» mi dice Winston. «Come va la tua
testa?»
Lo guardo storto, toccandomi la testa con le dita. «Cosa intendi?»
«Voglio dire,» mi risponde «che questo è un buon momento per dirti che
ho versato del whisky nel tuo tè per tutta la sera.»
«Che diavolo?» mi lascio andare sulla sedia, troppo velocemente.
«Perché?»
«Sembravi stressato.»
«Non sono stressato.»
Tutti mi fissano.
«Va bene, come ti pare» dico. «Sono stressato. Ma non sono ubriaco.»      
«No» mi guarda. «Ma probabilmente hai bisogno di essere nel pieno
delle tue facoltà mentali se hai intenzione di parlare con Warner. A quanto
pare. Non sono così orgoglioso per non ammettere che, sinceramente, lo
trovo terrificante.»
Ian alza gli occhi al cielo. «Non c’è niente di terrificante in quel ragazzo.
Il suo unico problema è che è un arrogante figlio di puttana, con la testa
ficcata così in alto su per il culo che può…»
«Aspetta» dico, sbattendo le palpebre. «Dov’è andato?»
Ognuno di noi si guarda intorno, cercandolo.
Lo giuro, cinque secondi fa era proprio là. Giro la testa avanti e indietro
come un personaggio dei cartoni animati, capendo che mi muovo a volte
veloce a volte lento a causa di Winston, l’idiota numero uno barra amico,
ben inteso. Ma nel processo di scansionare la stanza alla ricerca di Warner,
individuo l’unica persona che mi stavo sforzando di evitare:
Nazeera.
Mi getto indietro sulla sedia con troppa forza, quasi mettendomi KO. Mi
piego in avanti, respirando in modo buffo e poi, senza un motivo razionale,
mi metto a ridere. Winston, Brendan e Ian mi stanno fissando come se fossi
pazzo e non posso biasimarli. Non so cosa diavolo ci sia di sbagliato in me.
Non so nemmeno perché mi sto nascondendo da Nazeera. Non c’è niente di
spaventoso in lei, non esattamente. Niente di spaventoso tranne il fatto che
non ci siamo per davvero parlati dall’ultima emozionante conversazione che
abbiamo avuto, poco dopo avermi dato un calcio nella schiena ed io averla
quasi uccisa per questo.
Quando mi ha detto di essere stato il suo primo bacio.
E poi il cielo si è squarciato, Juliette è stata posseduta dalla sorella e il
momento romantico si è interrotto per sempre. Sono passati circa cinque
giorni da quando abbiamo avuto quella conversazione e da allora c’è stato
solo super stress, lavoro e ancora altro stress, quello stronzo di Anderson e
James e Adam tenuti in ostaggio.
Inoltre: sono incazzato con lei.
C’è una parte di me che vorrebbe davvero, davvero portarla in un angolo
privato da qualche parte, ma c’è un’altra parte che non lo permetterà.
Perché è infuriata con lei. Sapeva quanto significasse per me occuparsi di
James e lei, semplicemente, ha scrollato le spalle, senza un briciolo di
compassione. Solo con un po’ di affetto, se devo tirare a indovinare. Ma
non molto. Comunque, ci sto pensando troppo? Penso di starci pensando
troppo.
«Che diavolo hai che non va?» Ian mi sta fissando, attonito.
«Nazeera è qui.»
«E allora?»
«E allora, non lo so, Nazeera è qui,» dico parlando a bassa voce «e non
voglio parlarle.»
«Perché no?»
«Perché mi sento scemo in questo momento, ecco perché no.» Guardo
Winston. «Mi ha fatto questo. Mi ha fatto diventare scemo, e ora devo
evitarla, perché se non lo faccio, quasi certamente dirò o farò qualcosa di
estremamente stupido e fanculo tutto. Quindi ho bisogno di nascondermi.»
«Dannazione» dice Ian, alzando le spalle. «É un vero peccato. Perché sta
venendo dritta qui.»
Mi irrigidisco. Lo fisso. E poi, a Brendan «Sta mentendo?»
Lui scuote la testa. «Temo di no, amico.»
«Merda. Merda. Merda merda merda.»
«Anche per me è bello vederti, Kenji.»
Alzo lo sguardo. Sta sorridendo.
Uffa, così carina.
«Ciao» dico. «Come stai?»
Si guarda intorno. Trattiene una risata. «Sto bene» mi risponde. «E…
tu?»
«Bene. Bene. Grazie per avermelo chiesto. È stato bello vederti.»
Nazeera sposta lo sguardo da me agli ragazzi poi di novo a me. «So che
odi quando te lo chiedo, ma… sei ubriaco?»
«No» dico, a voce troppo alta. Mi accascio ancora di più sulla sedia.
«Non sono ubriaco. Solo un po’… frastornato.» Il whisky sta iniziando a
depositarsi ora, lingue calde e liquide raggiungono il cervello e lo
spremono.
Alza un sopracciglio.
«È stato Winston» dico e lo indico.
Lui scuote la testa e sospira.
«Capito» risponde Nazeera, ma posso sentire la lieve irritazione nella sua
voce. «Bene, questa non è la situazione ideale, ma ho bisogno che tu ti
regga in piedi.»
«Cosa?» allungo la testa. La guardo. «Perché?»
«C’è stato uno sviluppo con Ella.»
«Che tipo di sviluppo?» mi alzo in piedi, improvvisamente sobrio. «È
sveglia?»
Nazeera inclina la testa. «Non esattamente.»
«Allora cosa?»
«Dovresti venire a vedere di persona.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 9
ELLA
JULIETTE
 
Adam lo sento vicino.
Posso quasi vederlo nella mia mente, una forma sfocata, acquerelli
sanguinanti attraverso le membrane, macchiano il bianco dei miei occhi. È
un fiume straripato, petrolio in laghi così oscuri, acqua in oceani così
pesanti, mi affloscio, arrendendomi al peso del mare.
Faccio un respiro profondo e riempio i miei polmoni di lacrime, piume di
uccelli strani svolazzano contro i miei occhi chiusi. Vedo un lampo di
capelli biondo sporco, oscurità e pietre, vedo blu e verde e
Calore, all’improvviso un’esalazione nelle mie vene…
Emmaline.
É ancora qui, sempre galleggiando.
Negli ultimi tempi si è calmata, il fuoco della sua presenza si è ridotto a
braci ardenti. Le dispiace di avermi portato via a me stessa, le dispiace per
l’inconveniente. Le dispiace di aver turbato il mio mondo così
profondamente. Tuttavia, non vuole andarsene. Le piace qui, ama allungarsi
dentro le mie ossa. Le piace l’aria secca e il sapore del vero ossigeno. Le
piace la forma delle mie dita, la brillantezza dei miei denti. Le dispiace, ma
non abbastanza per tornare indietro, quindi sta cercando di essere molto
piccola e tranquilla. Spera di farsi perdonare occupando il minor spazio
possibile.
Non so come faccio a saperlo così chiaramente, tranne che la sua mente
sembra essersi fusa con la mia. La conversazione non è più necessaria. La
spiegazione, superflua.
All’inizio ha respirato ogni cosa.
Eccitata, impaziente: ha preso tutto. La nuova pelle. Gli occhi, la bocca.
La sentivo meravigliarsi della mia anatomia, del sistema che aspirava
attraverso il mio naso. Mi sembrava di vivere quasi in un altro tempo, il
sangue che pompa attraverso un organo semplicemente per far passare i
secondi. Ero poco più che una passeggera nel mio corpo, senza fare nulla
mentre lei esplorava e si decomponeva innescando le scintille, acciaio che
gratta sè stesso, contrazioni sbalorditive di dolore come artigli che scavano,
scavano. Va meglio ora che si è stabilizzata, ma la sua presenza è svanita in
tutto tranne che in una dolorosa tristezza. Sembra voler disperatamente
raggiungere il suo obiettivo prima di disintegrarsi, portando con sé,
inconsapevolmente, le sue briciole e un pezzo della mia mente. Alcuni
giorni sono migliori di altri. Alcuni giorni il fuoco della sua esistenza è così
intenso che mi dimentico di tirare il fiato.
Ma quasi tutti i giorni sono un’idea e niente di più.
Sono schiuma e fumo al chiaro di luna come un guscio. Denti di leone si
raccolgono nella mia cassa toracica, il muschio cresce costantemente lungo
la mia spina dorsale. L’acqua piovana mi inonda gli occhi, mi riempie la
bocca, gocciola lungo i cardini che tengono insieme le mie labbra.
Continuo
ad
affondare.
E poi …
perché ora?
ad un tratto
a sorpresa
il petto si solleva, i polmoni lavorano, i pugni si serrano, le ginocchia si
flettono, il battito cardiaco accelera, il sangue pompa
Galleggio
«Signora Ferrars… Questa è Ella…»
«Il suo nome è Juliette. Chiamala Juliette, per l’amor di Dio.»
«Perché non la chiamiamo come vuole essere chiamata?»
«Giusto. Esattamente.»
«Ma pensavo volesse essere chiamata Ella.»
«Non c’è mai stata un’opinione dominante. C’è stata?»
Lentamente le mie palpebre si sollevano.
Il silenzio esplode, ricoprendo bocche e muri e porte e granelli di polvere.
È sospeso nell’aria, coprendo tutto, per due secondi.
Poi
Grida, urla, un milione di suoni. Cerco di contarli tutti e mi gira la testa,
affogo. Il cuore mi batte forte e veloce nel petto, scuotendomi con
noncuranza, stringendomi le mani, risuonandomi in testa. Mi guardo
intorno veloce, troppo veloce, la testa che sbatte avanti e indietro e tutto
intorno oscilla, gira e rigira.
Tanti volti, sfocati e strani.
Respiro forte, troppo forte, puntini mi appannano la vista, appoggio le
mani sul letto - guardo in basso - sotto di me e strizzo gli occhi
Cosa sono
Chi sono
Dove sono
Di nuovo silenzio, repentino e completo, come una magia, un trucco, un
silenzio cade su tutti, su tutto ed espiro, il panico mi abbandona e mi rilasso,
immergendomi nei rimasugli quando
Mani calde
mi toccano
Familiari.
Improvvisamente mi blocco. I miei occhi restano chiusi. La sensazione si
muove attraverso di me come un incendio, le fiamme divorano la polvere
nel mio petto, infiammano le mie ossa. Le mani si trasformano in braccia
intono a me e il fuoco divampa. Le mie stesse mani sono intrappolate tra di
noi e sento le linee dure del suo corpo attraverso il cotone morbido della sua
camicia.
Un viso appare e scompare dietro i miei occhi.
C’è qualcosa di così sicuro qui, nella sensazione di lui, nel profumo di
lui, qualcosa di completamente suo. Stare vicino a lui mi provoca qualcosa,
qualcosa che non riesco nemmeno a spiegare, non posso controllarlo. So
che non dovrei, so che non dovrei, ma non posso fare a meno di trascinare
la punta delle dita lungo le perfette linee del suo busto.
Sento il suo respiro affannoso.
Le fiamme mi attraversano, mi salgono nei polmoni e inspiro,
trascinando ossigeno nel mio corpo che alimenta solo altre fiamme. Una
delle sue mani mi stringe la nuca, l’altra mi afferra la vita. Un lampo di
calore mi ruggisce lungo la schiena, raggiunge il mio cervello. Le sue
labbra sono sul mio orecchio, sussurrando, sussurrando
Torna alla vita, amore.
Sarò qui quando ti sveglierai.
I miei occhi si spalancano.
Il calore è inumano. Disorientante. Struggente. Mi calma, stabilizza il
mio cuore infuriato. Le sue mani si muovono lungo il mio corpo, tocchi
leggeri lungo le braccia, sui lati del busto. Rievoco il percorso per tornare a
lui con la memoria, le mie mani tremanti tracciano la forma conosciuta
della sua schiena, la mia guancia è premuta contro l’abituale battito del suo
cuore. Il suo profumo, così abituale, così familiare e poi alzo lo sguardo…
I suoi occhi, qualcosa nei suoi occhi
Per favore dice per favore non spararmi per questo
A poco a poco metto a fuoco la testa, la mia testa si assesta sul collo, la
mia pelle si deposita sulle ossa, i miei occhi si fissano negli occhi
disperatamente verdi che sembrano sapere anche troppo, troppo bene.
Aaron Warner Anderson è chino su di me, i suoi occhi preoccupati mi
scrutano, la sua mano è sospesa in aria come se fosse sul punto di toccarmi.
Sobbalza all’indietro.
Mi fissa, senza battere ciglio, il petto che si alza e si abbassa.
«Buongiorno» presumo. Non sono sicura della mia voce, dell’ora e del
giorno, di queste parole che escono dalle mie labbra e dal corpo che mi
contiene.
Il suo sorriso appare sofferente.
«Qualcosa non va» sussurra. Mi tocca la guancia.
Delicatamente, così delicatamente, come se non fosse sicuro se sono
reale, come se avesse paura di avvicinarsi troppo, oh guarda che se ne è
andata, è appena scomparsa. Le sue quattro dita sfiorano i lati del mio viso,
lentamente, così lentamente, prima di scivolare dietro la mia testa,
catturando quel punto in mezzo al mio collo. Il suo pollice sfiora il rossore
della mia guancia.
Il mio cuore implode.
Continua a guardarmi, mi guarda negli occhi per chiedere aiuto, per
orientarsi, per qualche segno di protesta come se fosse sicuro che presto
inizierò a urlare o piangere o scappare, ma non lo farò. Non credo che
potrei anche se volessi, ma non voglio. Voglio restare qui. Restare
paralizzata in questo momento.
Si avvina, di un solo centimetro. L’altra mano si posa a coppa sull’altro
lato del mio viso.
Mi stringe come se fossi fatta di piume. Come se fossi un uccello. Bianco
con striature dorate con una corona in cima alla testa.
Volerò.
Un respiro dolce e tremante lascia il suo corpo.
«Qualcosa non va» dice di nuovo, ma verso la stanza, come se stesse
parlando a qualcun altro. «La sua energia è diversa. Contaminata.»
Il suono della sua voce mi attraversa, avvolgendo il mio corpo. Sento la
mente schiarirsi anche se mi sento strana, come con il jet lag, come se
avessi viaggiato nel tempo. Mi trascino in posizione seduta e Warner si
sposta per accomodarsi con me. Sono stanca e debole per la fame, ma oltre
a qualche dolore generale, mi sembra di stare bene. Sono viva. Respiro e
sbatto gli occhi, mi sento umana e so esattamente perché.
Incontro i suoi occhi. «Mi hai salvato la vita.»
Inclina la testa verso di me.
Mi sta ancora studiando, il suo sguardo è così intenso che arrossisco,
confusa, mi volto dall’altra parte. Nel momento in cui lo faccio, quasi mi
sento accapponare la pelle. Castle, Kenji, Winston, Brendan e un sacco di
altre persone che non riconosco mi stanno fissando, guardano le mani di
Warner su di me, e improvvisamente sono così mortificata che non so cosa
fare di me stessa.
«Ehi, principessa» mi saluta Kenji. «Stai bene?»
Provo a mettermi in piedi e Warner cerca di aiutarmi, il momento il cui la
sua pelle sfiora la mia, un improvviso e destabilizzante fulmine di
sensazioni mi travolge. Inciampo di lato, tra le sue braccia e lui mi attira su
di sé, il calore del suo corpo mi accende di nuovo. Sto tremando, il cuore
batte forte, un piacere nervoso pulsa attraverso il mio corpo.
Non capisco.
Sono sopraffatta da un bisogno improvviso e inspiegabile di toccarlo, di
premere la sua pelle contro la mia finché l’attrito non dà fuoco a entrambi.
Perché c’è qualcosa in lui - c’è sempre stato qualcosa in lui che mi ha
incuriosito e non lo capisco. Mi allontano, sorpresa dall’intensità dei miei
pensieri, ma le sue dita premono sotto il mio mento. Inclina il suo viso
verso il mio.
Alzo lo sguardo.
I suoi occhi sono di una strana tonalità di verde: luminosi, cristallini,
chiari, penetranti nel modo più allarmante. I suoi capelli sono folti, un ricco
taglio dorato. Tutto di lui è perfezione. Pura. Il suo alito è fantastico e
fresco. Lo sento sul mio viso.
I miei occhi si chiudono automaticamente. Lo respiro, sentendomi
improvvisamente frastornata. Un gorgoglio di risate mi sfugge dalle labbra.
«Qualcosa decisamente non va» dice qualcuno.
«Sì. Non sembra stare bene» dice qualcun altro.
«Oh, ok, quindi stiamo veramente solo dicendo cose ovvie ad alta voce?»
dice Kenji.
Warner non dice niente. Sento le sue braccia stringersi attorno a me e i
miei occhi si aprono lampeggiando. Il suo sguardo è fisso nel mio, i suoi
occhi verdi emanano fiamme che danzano e il suo petto si alza e si abbassa
così veloce, così veloce, così veloce. Le sue labbra sono proprio sopra le
mie.
«Ella?» sussurra.
Mi acciglio.
I miei occhi si spostano in alto, verso i suoi, poi di nuovo in basso sulle
sue labbra.
«Amore, mi senti?»
Quando non rispondo, la sua espressione cambia.
«Juliette» dice dolcemente. «Mi senti?»
Lo guardo sbattendo le palpebre. Continuo a sbatterle e sono affascinata
dai suoi occhi. Una tonalità di verde così sorprendente.
«Abbiamo bisogno che tutti lasciate la stanza» dice qualcuno
all’improvviso. «Dobbiamo iniziare ad eseguire dei test, subito.»
Le ragazze, mi rendo conto. Sono le ragazze. Sono qui. Stanno cercando
di portarlo via da me, vogliono allontanarlo da me. Ma le sue braccia sono
d’acciaio intorno al mio corpo.
Si rifiuta.
«Non ancora» dice insistendo. «Non è ancora il momento.»
E per qualche motivo lo ascoltano.
Forse vedono qualcosa in lui, nel suo viso, nei suoi lineamenti. Forse
vedono quello che vedo io, dalla mia prospettiva sconnessa e annebbiata. La
disperazione nella sua espressione, l’angoscia scolpita nei suoi lineamenti,
nel modo in cui mi guarda, come se potesse morire se morissi io.
Con esitazione, alzo una mano, gli tocco il viso con le dita. La sua pelle è
liscia, fredda. Come porcellana. Non sembra reale.
«Cosa c’è che non va?» dico. «Cos’è successo?»
Sembra impossibile, ma Warner diventa ancora più pallido. Scuote la
testa e preme la sua guancia sulla mia. «Per favore» sussurra. «Torna da me,
amore.»
«Aaron?»
Sento il suo respiro fermarsi. Esita. È la prima volta che uso il suo nome
in modo così casuale.
«Sì?»
«Voglio che tu sappia,» gli dico «che non credo che tu sia pazzo.»
«Cosa?» sussulta.
«Non penso che tu sia pazzo» dico. «E non credo che tu sia uno
psicopatico. Non credo che tu sia un assassino senza cuore. Non importa
quello che gli altri dicono di te. Penso che tu sia una brava persona.»
Warner sbatte velocemente le palpebre. Lo sento respirare.
Dentro e fuori.
In modo non uniforme.
Un lampo di dolore, un dolore violento e il mio corpo viene
improvvisamente allontanato. Vedo il luccichio del metallo. Sento il
bruciore della siringa. La mia testa inizia a girare e tutti i suoni iniziano a
fondersi insieme.
«Andiamo, figliolo» dice Castle, la sua voce si espande poi rallenta. «So
che è difficile, ma dobbiamo fare un passo indietro. Noi abbiamo…»
Un suono improvviso e violento mi porta un momento di lucidità.
Un uomo che non riconosco è alla porta, una mano sullo stipite, senza
fiato. «Sono qui» dice. «Ci hanno trovato. Sono qui. Jenna è morta.»
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 10
KENJI
 
Il ragazzo alla porta sta ancora terminando la frase quando tutti entriamo
in azione. Nouria e Sam gli passano davanti di corsa dirette all’atrio,
gridano ordini e comandi - qualcosa sull’avvio del protocollo del Sistema Z,
qualcosa a proposito di radunare i bambini, gli anziani e gli ammalati.
Sonya e Sara premono qualcosa nelle mani di Warner, guardano un’ultima
volta la figura molle e incosciente di J, e poi seguono Nouria e Sam
attraverso la porta.
Castle si accovaccia a terra, chiudendo gli occhi mentre poggia le mani
contro il pavimento, in ascolto. Di sensazioni.
«Undici - no dodici corpi. Lontani circa cinquecento piedi. Immagino che
abbiamo circa due minuti prima che ci raggiungano. Farò del mio meglio
per rallentarli finché non saremo in grado di uscire da qui» alza lo sguardo.
«Signor Ibrahim?»
Non mi rendo nemmeno conto che Haider è qui con noi finché non dice
«È più che sufficiente.»
Attraversa la stanza fino al muro di fronte al letto di Juliette, facendo
scorrere le mani sulla superficie liscia, strappando cornici e monitor mentre
va. Vetro e legno si frantumano in un mucchio sul pavimento. Nazeera
sussulta, improvvisamente diventa immobile. Mi volto, atterrito, per
affrontarla e lei dice:
«Devo dirlo a Stephan.»
Si precipita fuori dalla stanza.
Warner sta slegando Juliette dal letto, rimuovendo gli aghi, fasciando le
sue ferite. Una volta libera le avvolge il corpo nella morbida veste blu
appesa nelle vicinanze e, quasi nello stesso esatto momento, sento il
ticchettio rivelatore di una bomba.
Guardo indietro verso il muro dove si trova ancora Haider. Due esplosivi,
accuratamente distanziati, sono stati fissati all’intonaco, non ho nemmeno il
tempo di digerire questo prima che Haider ci urli di muoverci verso il
corridoio. Warner è già a metà della porta, tenendo J accuratamente avvolta
tra le braccia. Sento la voce di Castle - un grido improvviso - e anche il
mio corpo si solleva e viene lanciato fuori dalla porta.
La stanza esplode.
Le pareti tremano così forte da farmi battere i denti, ma quando i tremori
si placano, torno di corsa nella stanza.
Haider ha fatto saltare solo un muro.
Un perfetto rettangolo di muro. Andato. Non sapevo nemmeno si potesse
fare un’impresa del genere. Pezzi di mattoni e di legno del cartongesso sono
sparsi sul pavimento della stanza di J e i freddi venti notturni soffiano
all’interno, svegliandomi. La luna stasera è eccessivamente piena e
luminosa, un riflettore che brilla direttamente nei miei occhi.
Sono sbalordito.
Haider spiega senza che gli venga chiesto: «L’ospedale è troppo grande,
troppo intricato, avevamo bisogno di un’uscita efficace. La Restaurazione
non si preoccupa dei danni collaterali mentre vuole noi, anzi potrebbero
desiderarli. Ma se vogliamo avere qualche speranza di risparmiare vite
innocenti, dobbiamo spostarci il più lontano possibile dagli edifici centrali e
dagli spazi comuni. Adesso usciamo» grida.
Ma sto vacillando.
Sbatto le palpebre verso Haider, ancora stordito dall’esplosione, con il
sussurro persistenze del whisky nel cervello, e ora questo.
La prova che Haider Ibrahim ha una coscienza.
Lui e Warner mi superano, attraverso il varco nel muro, e iniziano a
correre nei boschi illuminati, Warner con J tra le sue braccia. Nessuno dei
due si preoccupa di spiegare cosa pensano. Dove stanno andando. Che
diavolo accadrà dopo.
Beh, in realtà, penso che l’ultima parte sia ovvia.
Quello che succederà dopo è che Anderson si mostrerà e cercherà di
ucciderci.
Castle e io ci guardiamo: siamo le uniche persone ancora in piedi in ciò
che resta della stanza d’ospedale di J… e dopo inseguiamo Warner e Haider
verso una radura all’estremità opposta del Santuario, il più lontano possibile
dalle tende. Ad un certo punto Warner si stacca dal nostro gruppo,
scomparendo lungo un sentiero così buio di cui non riesco a vedere la fine.
Quando mi muovo per seguirlo, Haider mi abbaia di lasciarlo in pace. Non
so cosa ne ha fatto di Juliette, ma quando torna da noi lei non è più tra le
sue braccia. Dice qualcosa, poche parole, a Haider, sembra francese. Non
arabo. Francese.
Comunque sia, non ho tempo per pensarci.
Sono già passati cinque minuti, secondo i miei calcoli. Cinque minuti, il
che significa che dovrebbero essere qui da un momento all’altro. Dodici
uomini in arrivo. Siamo solo in quattro, qui.
Io, Haider, Castle, Warner.
Sto congelando.
Stiamo in piedi nel silenzio dell’oscurità aspettando la morte e i singoli
secondi sembrano scorrere con una lentezza straziante. L’odore della terra
bagnata e della vegetazione in decomposizione mi riempie le narici, guardo
in basso vedendo un mucchio di foglie sotto i miei piedi. Sono morbide e
leggermente umide, frusciano quando sposto il mio peso.
Cerco di non muovermi.
Ogni suono mi rende nervoso. Un improvviso rumore di rami. Una
brezza innocente. Il mio respiro diventa affannoso.
È troppo buio.
Anche la luce della luna, brillante e forte, non è sufficiente per penetrare
adeguatamente in questi boschi. Non so come combatteremo chiunque sia
se non riusciamo nemmeno a vederlo. La luce è irregolare, si sparge tra i
rami, frantumandosi sulla terra morbida. Guardo in basso, esaminando uno
stretto raggio di luce che illumina i miei stivali e vedo un ragno che corre
intorno all’ostacolo formato dai miei piedi.
Il mio cuore batte forte.
Non c’è tempo. Se solo avessimo più tempo.
È tutto quello a cui riesco a pensare. Ancora e ancora. Ci hanno colti di
sorpresa con la guardia abbassata, non eravamo preparati, non doveva
andare così. La mia testa continua a soffermarsi sui se, sui forse, sui poteva
essere anche se devo affrontate la realtà intorno a me. Anche mentre guardo
dritto nel buco nero che divora il mio futuro, non posso fare a meno di
chiedermi se avrebbe potuto andare diversamente.
I secondi si accumulano. I minuti passano.
Niente.
Il battito rapido del mio cuore rallenta in un malato balbettio di terrore.
Ho perso la mia prospettiva - il mio senso del tempo è deformato dal buio -
ma giuro che sembra che siamo qui da troppo tempo.
«Qualcosa non va» dice Warner.
Sento un sibilo acuto. Haider.
Warner dice a voce bassa. «Abbiamo calcolato male.»
«No» mormora Castle.
È allora che sento le urla.
Corriamo senza esitare, tutti e quattro, precipitandoci verso i rumori.
Strappiamo i rami, districhiamo le caviglie dalle radici troppo cresciute, ci
spingiamo nell’oscurità con la sola forza del puro panico, senza filtri.
Infuriati.
I gemiti squarciano il cielo. Grida violente echeggiano in lontananza.
Voci inarticolate, gemiti gutturali, la pelle d’oca mi sale lungo la pelle.
Stiamo correndo verso la morte.
So che siamo vicino quando vedo la luce.
Nouria.
Ha proiettato un bagliore etereo sopra la scena, mettendo perfettamente a
fuoco i resti del campo di battaglia.
Rallentiamo.
Il tempo sembra espandersi, spezzandosi mentre divento testimone del
massacro. Anderson e i suoi uomini hanno fatto una deviazione. Speravamo
sarebbero venuti dritti verso Warner, verso Juliette. Lo abbiamo sperato. Ci
abbiamo provato. Abbiamo corso il rischio.
Scommessa sbagliata.
E conosciamo la Restaurazione abbastanza bene da capire che stanno
punendo queste persone innocenti per averci ospitato. Macellando intere
famiglie per averci fornito aiuto e sollievo. La nausea mi colpisce con la
forza di una lama, stordendomi, spiazzandomi. Mi accascio contro un
albero. Sento la mia mente disconnettersi, sono vicino all’incoscienza e in
qualche modo mi costringo a non svenire per l’orrore. Per il terrore. Di
crepacuore.
Tengo gli occhi aperti.
Sam e Nouria sono in ginocchio, tengono tra le braccia, vicino al petto, i
corpi insanguinati, le loro grida angosciate perforano questa strana
mezzanotte. Castle è accanto a me, sfiancato. Sento i suoi singhiozzi mezzo
soffocati.
Sapevamo che era possibile - Haider aveva detto che avrebbero potuto
farlo - ma in qualche modo non riesco ancora a credere ai miei occhi. Vorrei
disperatamente credere che sia un incubo. Mi taglierei il braccio destro pur
di fare in modo che sia un incubo. Ma la realtà persiste.
Il Santuario è poco più che un cimitero.
Uomini e donne disarmati trucidati. Da dove sono riesco a contare sei
bambini morti. Occhi aperti, bocche aperte, sangue che gocciola dai corpi
inerti. Ian è in ginocchio, vomita. Winston inciampa all’indietro, sbatte
contro un albero. Gli occhiali gli scivolano dal viso e si ricorda di prenderli
solo all’ultimo momento. Solo i ragazzi supremi sembrano ancora avere la
testa sulle spalle e c’è qualcosa che incute timore nel mio cuore quando me
ne rendo conto. Nazeera, Haider, Warner, Stephan. Camminano tra le
macerie, con i volti immutati e solenni. Non so cosa abbiano visto - ciò di
cui hanno fatto parte - ma questo li rende in grado di stare in piedi qui,
ancora relativamente freddi di fronte a così tanta devastazione umana, e non
credo di volerlo sapere.
Offro a Castle la mano e lui la prende, si rialza. Ci scambiano un solo
sguardo prima di tuffarci nella mischia.
Anderson è facile da individuare, in piedi in mezzo all’inferno, ma
difficile da raggiungere. La sua Guardia Suprema lo circonda, le armi
spianate. Tuttavia, ci avviciniamo. Non importa cosa accadrà, lotteremo
fino alla morte. Questo è sempre stato il piano, sin dall’inizio. Ed è quello
che faremo ora.
Secondo round.
I combattenti ancora in vita sul campo si avvicinano al nostro arrivo, alla
scena che sta prendendo forma, si lanciano un’occhiata gli uni con gli altri.
Siamo circondati da una potenza di fuoco, è vero, ma quasi tutti qui hanno
un dono soprannaturale. Non c’è motivo per cui non dovremmo essere in
grado di combattere. Una folla si raccoglie lentamente intorno a noi- metà
del Santuario, metà del Punto - uomini sani si raccolgono lontano dalle
macerie per formare un nuovo battaglione. Sento una nuova speranza
vibrare nell’aria. Forse, una provocazione. Con attenzione tiro fuori una
pistola dalla fondina laterale.
E proprio mentre sto per fare una mossa…
«Non farlo.»
La voce di Anderson è forte. Chiara. Sfonda il muro di soldati che si
avvicinando a noi con noncuranza, appaiono lucidi come sempre. Ancora
non capisco perché così tante persone rimangano senza fiato quando si
avvicina. Non lo vedo. Non noto il corpo che viene trascinato, e quando
finalmente lo noto, non lo riconosco. Non subito.
Non fino a quando Anderson non strattona la figura in posizione
verticale, spingendo indietro la testa con una pistola, sento il sangue
defluire dal mio cuore.
Anderson preme la pistola alla gola di James e le mie ginocchia cedono.
«È molto semplice» afferma. «Consegnatemi la ragazza e, in cambio, non
giustizierò il ragazzo.»
Siamo tutti congelati.
«Devo tuttavia chiarire che questo non è uno scambio. Non mi sto
offrendo di restituirvelo. Sto solo dicendo che non lo ucciderò qui, sul
posto. Ma se mi consegnate la ragazza, ora, senza combattere, prenderò in
considerazione di permettere alla maggior parte di voi di sparire
nell’ombra.»
«La maggior parte di noi?» dico.
Anderson distoglie gli occhi dai miei e da quelli di molti altri. «Sì, la
maggior parte di voi» dice, il suo sguardo indugia su Haider. «Tuo padre è
molto deluso da te, giovanotto.»
Un singolo colpo di pistola esplode senza preavviso, aprendo un buco
nella gola di Anderson. Si afferra il collo e cade in ginocchio con un grido
soffocato, guardandosi intorno in cerca del suo aggressore.
Nazeera.
Si materializza davanti a lui appena in tempo per saltare in su, nel cielo. I
soldati supremi iniziano a sparare verso l’alto, sparando impunemente un
colpo dopo l’altro, e anche se sono terrorizzato per Nazeera, mi rendo che
ha corso questo rischio per me. Per James.
Faremo del nostro meglio, aveva detto. Non mi ero reso conto che il suo
meglio includeva rischiare la vita per quel ragazzo. Per me. Dio, cazzo la
amo.
Divento invisibile.
Anderson sta lottando per frenare il flusso di sangue alla sua gola mentre
mantiene la presa su James, che sembra essere incosciente.
Al suo fianco rimangono due guardie.
Sparo due colpi.
Entrambe cadono, gridando e stringendosi gli arti, Anderson quasi
ruggisce. Inizia ad artigliare l’aria di fronte a sé, poi armeggia alla ricerca
della sua pistola con la mano ancora rossa dal sangue uscito dalle sue
labbra. Colgo l’occasione per prenderlo a pugni in faccia.
S’impenna all’indietro, più sorpreso che ferito, ma Brendan si muove
rapidamente, battendo le mani creando un tornado, fulmini scoppiettanti di
elettricità avvolgono le gambe di Anderson, paralizzandolo
temporaneamente.
Lui lascia andare James.
Lo prendo prima che tocchi il suolo e mi precipito verso Lily, che sta
aspettando appena fuori dal cerchio di luce di Nouria. Scarico il corpo privo
di sensi tra le sue braccia e Brendan costruisce uno scudo elettrico intorno a
loro. Un attimo dopo, sono spariti.
Il sollievo mi invade.
Troppo velocemente. Sono turbato. La mia invisibilità vacilla per meno
di un secondo, e in un attimo vengo attaccato da dietro.
Ho urtato il suolo con forza, l’aria ha lasciato i polmoni. Mi sforzo per
voltarmi, per alzarmi, ma un soldato supremo mi sta già puntando un fucile
in faccia. Spara.
Castle compare dal nulla, facendo cadere il soldato ai suoi piedi e
fermando i proiettili con un solo gesto. Reindirizza le munizioni dirette al
mio corpo e non mi rendo nemmeno conto di cosa è successo finché non
vedo il tizio cadere in ginocchio. Diventato un colino umano, sanguina
perdendo gli ultimi istanti di vita di fronte a me, tutto sembra
improvvisamente surreale.
Mi tiro su, sento il cuore martellarmi in gola. Castle è già in movimento,
strappando un albero dalle sue radici mentre si avvia. Stephan sta usando la
sua super forza come può per prendere a pugni il maggior numero di
soldati, ma questi non smettono di sparare e lui si muove lentamente, il
sangue macchia quasi ogni centimetro dei suoi vestiti. Lo vedo barcollare.
Gli corro incontro, provo a gridare un avvertimento, ma la mia voce si
perde nel frastuono e le mie gambe non si muovono abbastanza
velocemente. Un altro soldato lo carica, sparando colpi e questa volta urlo.
Haider arriva correndo.
Si getta di fronte al suo amico, buttandolo a terra, proteggendolo con il
corpo e gettando qualcosa nell’aria mentre lo fa.
Un’esplosione.
Vengo sbalzato all’indietro, le orecchie fischiano. Alzo la testa delirante e
individuo Nazeera e Warner, ognuno impegnato in un combattimento a
mani nude. Sento un urlo raccapricciante e mi sforzo di alzarmi, verso il
rumore.
È Sam.
Nouria arriva da lei prima di me, cade in ginocchio e solleva il corpo di
sua moglie da terra. Avvolge un fascio di luce accanto ai loro corpi, spirali
così luminose che sono strazianti da guardare. Un soldato li vicino getta un
braccio sugli occhi mentre spara, gridando e restando fermo anche se la
forza della luce di Nouria inizia a scogliere la carne delle sue mani.
Gli sparo una pallottola tra i denti.
Altre cinque guardie appaiono dal nulla, venendo verso di me da ogni
lato, per un attimo non posso fare ameno di essere sorpreso. Castle aveva
detto che c’erano solo dodici persone, due erano Anderson e James, e ormai
pensavo che ne avessimo eliminati la maggior parte. Mi guardo intono sul
campo di battaglia, dozzine di soldati che attaccano ancora attivamente la
nostra squadra e poi mi volto di nuovo verso i cinque che si dirigono su di
me.
Nuoto nella confusione.
E poi, quando iniziano a sparare, nel terrore.
Divento invisibile, muovendomi furtivamente nell’unico spazio tra due di
loro, voltandomi appena il tempo necessario per aprire il fuoco. Un paio dei
miei colpi vanno a segno, gli altri si sprecano. Metto un nuovo caricatore,
lanciando quello ormai vuoto per terra, proprio mentre sto per sparare di
nuovo sento la sua voce.
«Aspetta» sussurra.
Nazeera mi avvolge le braccia intorno alla vita e salta.
Verso l’alto.
Un proiettile sfreccia oltre il mio corpo. Sento il bruciore quando mi
sfiora il polpaccio, ma il cielo notturno è fresco e tonificante, mi permetto
di fare un respiro profondo, chiudendo gli occhi per un intero secondo.
Quassù le urla si attenuano, il sangue potrebbe essere acqua, le grida
potrebbero essere risate.
Il sogno dura solo un momento.
I nostri piedi toccano di nuovo il suolo e le orecchie si riempiono di
nuovo dei suoni della guerra. Stringo la mano di Nazeera in segno di
ringraziamento e ci separiamo. Mi dirigo verso un gruppo di uomini e
donne che riconosco solo vagamente - gli abitanti del Santuario - e mi
lancio nell’eccidio, esortando uno dei combattenti feriti a tirarsi indietro e
mettersi al riparo. Presto mi perdo nel movimento della battaglia, difesa e
attacco, armi da fuoco. Gemiti gutturali.
Non penso nemmeno ad alzare lo sguardo finché non sento il terreno
tremare sotto i miei piedi.
Castle.
Le sue braccia sono puntate verso l’alto, verso un edificio lì vicino. La
struttura inizia a tremare violentemente, i chiodi volano, le finestre
sussultano. Un gruppo di guardie supreme imbraccia le armi, ma vengono
fermate dalla voce di Anderson. Non riesco a sentire quello che dice, ma
sembra essere di nuovo sé stesso, e i suoi ordini sembrano essere
abbastanza scioccanti da indurre un momento di esitazione nei soldati. Per
un motivo che comprendo le guardie contro cui stavo combattendo si
allontanano improvvisamente.
Troppo tardi.
Il tetto dell’edificio crolla con uno schianto e, con un’ultima violenta
spinta, Castle strappa un muro. Con un braccio spinge da parte i pochi
compagni di squadra ancora in piedi e con l’altro fa cadere il muro di una
tonnellata per terra, dove atterra con un tonfo esplosivo. Schegge di vetro
ovunque, travi di legno scricchiolano mentre si piegano e rompono. Alcuni
soldati supremi scappano, tuffandosi al riparo, ma almeno tre di loro
rimangono intrappolati sotto le macerie. Ci prepariamo tutti per un attacco
di rappresaglia …
Ma Anderson alza un solo braccio.
I suoi soldati si immobilizzano all’istante, con le armi che pendono tra le
mani. Quasi all’unisono si mettono sull’attenti.
In attesa.
Guardo Castle in cerca di ordini, ma ha gli occhi puntati su Anderson,
come il resto di noi. Tutti sembrano paralizzati dalla delirante speranza che
questa guerra possa finire. Guardo di nuovo Castle voltarsi e guardare
Nouria, che sta ancora cullando Sam. Un attimo dopo, Castle alza un
braccio. Una tregua temporanea.
Non mi fido.
Il silenzio avvolge la notte mentre Anderson avanza barcollando, le
labbra macchiate di un rosso vivido, la mano che tiene casualmente un
fazzoletto sul collo. Ne avevamo sentito parlare, ovviamente - della
capacità di guarire sè stesso - ma vederla accadere in tempo reale è un’altra
cosa. È selvaggio.
Quando parla la sua voce rompe il silenzio. Rompe l’incantesimo.
«Basta» dice. «Dov’è mio figlio?»
Dei mormorii si muovono attraverso la folla dei combattenti coperti di
sangue, un mare rosso che si separa lentamente al suo avvicinarsi. Non
passa molto tempo. Warner appare, avanzando nel silenzio, con il volto
macchiato di rosso. Una mitragliatrice bloccata nella sua mano destra.
Alza lo sguardo su suo padre. Non dice niente.
«Cosa ne hai fatto di lei?» chiede Anderson, a bassa voce e sputa sangue
per terra. Si asciuga le labbra con lo stesso panno che sta usando per
tamponarsi la ferita aperta sul collo. L’intera scena è disgustosa.
Warner continua a non dire niente.
Credo che nessuno di noi sappia dove l’ha nascosta. Mi rendo conto che J
è scomparsa.
I secondi passano in un silenzio così intenso che tutti iniziamo a
preoccuparci sul destino della tregua. Vedo alcuni soldati supremi sollevare
le armi in direzione di Warner, e non è passato un solo secondo che un
fulmine spezza il cielo sopra di noi.
Brendan.
Lo guardo, poi guardo Castle, ma Anderson alza di nuovo il braccio per
fermare i suoi soldati. Ancora una volta, si ritirano.
«Te lo chiederò solo un’altra volta» dice Anderson a suo figlio, con una
voce tremante che diventa sempre più forte. «Cosa ne hai fatto di lei?»
Tuttavia, Warner lo fissa impassibile.
È macchiato del sangue di uno sconosciuto, tiene in mano una
mitragliatrice come se fosse una valigetta e fissa suo padre come fisserebbe
il soffitto. Anderson non può controllare il comportamento di Warner - ed è
ovvio per tutti che questa è una battaglia di volontà che finirà per perdere.
Anderson d’altro canto sembra già fuori di testa.
I suoi capelli sono arruffati e spuntano da tutte le parti. Il sangue sul viso
si è coagulato, gli occhi sono infiammati. Sembra così squilibrato - diverso
dal suo solito - che onestamente non ho idea di cosa succederà.
E poi si lancia verso Warner.
È come un ubriaco, selvaggio e arrabbiato, sconvolto in un modo che non
ho mai visto prima. I suoi movimenti sono feroci e forti, instabili ma
studiati. All’improvviso mi ricorda, in uno spaventoso lampo di
comprensione, il padre descritto da Adam. Un violento ubriaco alimentato
dalla rabbia.
Tranne che in questo momento non è ubriaco. No. Questa è pura, genuina
rabbia.
Sembra aver perso il controllo.
Non vuole solo sparare a Warner. Non vuole che qualcun altro spari a
Warner. Vuole ridurlo in poltiglia. Vuole una soddisfazione fisica. Vuole
rompergli le ossa e gli organi interni con le proprie mani. Anderson vuole il
piacere di sapere che lui e solo lui ha distrutto suo figlio.
Ma Warner non gli sta dando quella soddisfazione.
Si scontra con Anderson colpo dopo colpo, con movimenti fluidi, precisi,
si china, evita colpi, si torce e difende. Non perde mai un colpo.
È quasi come se potesse leggere nella mente di Anderson.
Non sono l’unico che è sbalordito. Non ho mai visto Warner muoversi in
questo modo e quasi non riesco a crederci di non averlo mai vista prima.
Sento un’improvvisa ondata di rispetto per lui, per come riesce a bloccare
un attacco dopo l’altro. Continuo ad aspettare che lo metta fuori
combattimento, ma Warner non fa alcuno sforzo per colpirlo; si difende e
basta. E solo quando vedo crescere la furia sul volto di Anderson che
capisco che lo fa apposta.
Non sta reagendo perché sa che è quello che Anderson vuole.
L’espressione fredda e priva di emozioni sul suo volto sta facendo
impazzire suo padre. E più non riesce a scuotere suo figlio, più lui si
arrabbia. Il sangue cola ancora lentamente dalla ferita semi rimarginata sul
collo quando geme, con rabbia, e tira fuori una pistola dalla tasca della
giacca.
«Basta» grida. «È sufficiente.»
Warner fa un cauto passo indietro.
«Dammi la ragazza, Aaron. Dammi la ragazza e io risparmierò il resto di
questi idioti. Voglio solo la ragazza.»
Warner rimane immobile.
«Bene» dice Anderson con rabbia. «Prendetelo.»
Sei guardie supreme iniziamo a muoversi verso Warner e lui non si tira
indietro. Scambio uno sguardo con Winston ed è abbastanza; copro Winston
con la mia invisibilità proprio quando lui alza le braccia, per sfruttare la sua
abilità di allungarsi, e sbatte tre di loro a terra. Nello stesso momento,
Haider tira fuori, da qualche parte all’interno della cotta di maglia che
indossa sotto il cappotto, un machete e lo lancia a Warner, che lascia cadere
la mitragliatrice a terra e lo afferra per l’elsa senza nemmeno guardare.
Un fottuto machete.
Castle è in ginocchio, alza le braccia al cielo per staccare altri pezzi
dell’edificio semidistrutto, ma questa volta gli uomini di Anderson non
gliene danno la possibilità. Corro in avanti, troppo tardi per aiutare Castle
che viene messo KO da dietro e di nuovo mi lancio nella lotta, combattendo
- con le abilità sviluppate da adolescente - per rubare la pistola da un
soldato: un singolo solido pugno sul naso. Un montante pulito. Un duro
calcio al petto. Un buon strangolamento vecchio stile.
Alzo lo sguardo, sperando in buone notizie…
E rimango senza parole.
Dieci uomini si sono avvicinati a Warner e non capisco da dove sono
venuti. Pensavo fossimo scesi a tre o quattro. Mi giro, confuso, torno sui
miei passi giusto in tempo per vedere Warner cadere su un ginocchio e
sollevare il machete in un arco repentino e perfetto, sventrando l’uomo
come un pesce. Si gira, un altro forte colpo colpisce il ragazzo alla sua
sinistra, staccandogli la spina dorsale in una mossa così orribile che devo
distogliere lo sguardo. Nel secondo che mi ci vuole per tornare a guardare,
un’altra guardia ha già caricato in avanti. Warner ruota bruscamente,
spingendo la lama direttamente nella gola del ragazzo e nella sua bocca
aperta per le urla. Con un ultimo strattone tira la lama e l’uomo cade a terra
con un unico morbido tonfo.
I restanti membri della Guardia Suprema esitano.
Mi rendo conto allora che - chiunque siano questi nuovi soldati - hanno
ricevuto l’ordine di attaccare Warner e nessun altro. Il resto di noi è
improvvisamente senza un obiettivo ovvio, liberi di sprofondare a terra,
uscire di scena sfiniti.
Allettante.
Cerco Castle, volendo assicurami che stia bene, e mi rendo conto che
sembra scosso.
Sta guardando Warner.
Warner, che sta fissando il sangue che si accumula ai suoi piedi, con il
petto ansante e il pugno ancora serrato intorno all’elsa del machete. Per
tutto questo, Castle ha sempre pensato che Warner fosse solo un bravo
ragazzo che aveva commesso dei semplici errori. Il tipo di ragazzo che
poteva essere riportato indietro.
Non oggi.
Warner guarda suo padre, la faccia coperta di sangue, il corpo che trema
di rabbia.
«È questo quello che volevi?» grida.
Ma anche Anderson sembra sorpreso.
Un’altra guardia si muove in avanti così silenziosamente che non vedo
nemmeno la pistola che punta in direzione di Warner fino a quando il
soldato non urla e crolla a terra. I suoi occhi si gonfiano mentre si porta le
mani alla gola, dove un frammento di vetro delle dimensioni della mia
mano è infilato nella giugulare.
Mi giro per guardare Warner. Sta ancora fissando suo padre, ma la mano
libera ora gocciola sangue.
Gesù Cristo.
«Prendi me al suo posto» dice Warner, perforando il silenzio con la sua
voce.
Anderson sembra tornare sé stesso. «Cosa?»
«Lasciala. Lasciali tutti. Dammi la tua parola che li lascerai in pace e
tornerò con te.»
Improvvisamente mi fermo. E poi mi guardo in giro, con occhi selvaggi,
per cercare un appiglio che impedisca a questo idiota di fare qualcosa di
avventato, ma nessuno incontra i miei occhi. Tutti sono inchiodati.
Terrorizzati.
Quando sento materializzarsi vicino a me una presenza familiare, il
sollievo mi inonda il corpo. Le prendo la mano, allo stesso tempo prende la
mia, ci stringiamo le dita una volta prima di interrompere la connessione. In
questo momento è abbastanza sapere che è qui, in piedi accanto a me.
Nazeera sta bene.
Aspettiamo tutti che la scena cambi. Sperando in qualcosa che non
sappiamo nemmeno come chiamare.
Non arriva.
«Vorrei che fosse così semplice» dice alla fine Anderson. «Davvero, lo
vorrei. Ma temo che abbiamo bisogno della ragazza. Non è così facile
sostituirla.»
«Hai detto che il corpo di Emmaline si stava deteriorando» la voce di
Warner è bassa, ma chiara. Miracolosamente stabile. «Hai detto che senza
un corpo abbastanza forte per contenerla, sarebbe diventata pericolosa.»
Anderson si irrigidisce visibilmente.
«Hai bisogno di un sostituto» dice Warner. «Un nuovo corpo. Qualcuno
che aiuti a completate l’operazione Sintesi.»
«No» grida Castle. «No, non farlo…»
«Prendimi» dice Warner. «Sarò il tuo surrogato.»
Gli occhi di Anderson diventano di ghiaccio.
Sembra quasi calmo quando dice «Saresti disposto a sacrificare te stesso -
la tua gioventù, la tua salute e tutta la tua vita - per lasciare che quella
ragazza danneggiata e squilibrata continui a camminare sulla terra?» La
voce sale di tono man mano che parla.
«Capisci almeno quello che stai dicendo? Hai ogni opportunità - tutto il
potenziale - e saresti disposto a buttare via tutto? In cambio di cosa?» Urla.
«Conosci il tipo di vita a cui condanneresti te stesso?»
Uno sguardo cupo passa sul viso di Warner. «Penso di conoscerlo meglio
di molti altri.»
Anderson impallidisce. «Perché lo faresti?»
Mi diventa chiaro allora che anche adesso, nonostante tutto, Anderson
non vuole perdere Warner. Non così.
Ma Warner è impassibile.
Non dice niente. Non rivela nulla. Sbatte solo le palpebre, con il sangue
di qualcun altro che gli cola sul viso.
«Dammi la tua parola» dice infine Warner. «Promettimi che la lascerai
stare, per sempre. Voglio che tu le permetta di scomparire, che tu smetta di
seguire ogni sua mossa. Voglio che dimentichi che sia mai esistita» fa una
pausa. «In cambio, puoi avere ciò che resta della mia vita.»
Nazeera sussulta.
Haider fa un passo avanti, arrabbiato, e Stephan gli afferra il braccio, in
qualche modo è ancora abbastanza forte da trattenerlo anche se il suo stesso
corpo sanguina. «È la sua scelta» ansima Stephan, avvolgendo il braccio
libero intorno a un albero per sostenersi. «Lascialo.»
«È una scelta stupida» grida Haider. «Non puoi farlo, habibi. Non essere
idiota.»
Ma Warner sembra non sentire nessuno. Fissa solo Anderson, che appare
sinceramente sconvolto.
«Smetterò di combatterti» dice Warner. «Farò esattamente come vuoi tu.
Tutto quello che vuoi. Solo, lasciala vivere.»
Anderson tace così a lungo da farmi rabbrividire poi …
«No.»
Senza preavviso Anderson alza un braccio e spara due colpi. Il primo a
Nazeera, colpendola in pieno petto. Il secondo ….
A me.
Diverse persone urlano. Inciampo, poi ondeggio, infine crollo.
Merda.
«Trovatela» urla con voce rimbombante. «Bruciate tutto il posto se
dovete.»
Il dolore è accecante.
Mi attraversa a ondate, elettrico e ustionante.
Qualcuno mi sta toccando, muovendo il mio corpo. Sto bene, provo a
dire. Sto bene. Sto bene. Ma le parole non escono. Mi ha colpito alla spalla
penso. Appena sotto il petto. Non ne sono sicura. Ma Nazeera… Qualcuno
deve andare da Nazeera.
«Avevo la sensazione che avresti fatto qualcosa del genere.» Sento dire
da Anderson. «E so che hai usato questi due» - immagino indichi me e
Nazeera - «per farlo.»
Silenzio.
«Oh, capisco» prosegue. «Hai pensato di essere stato in intelligente.
Pensavi che non sapessi che avevi dei poteri» la voce di Anderson suona
improvvisamente alta, troppo alta. Ride. «Pensavi che non lo sapessi? Come
se avessi potuto nascondermi qualcosa. L’ho scoperto il giorno in cui ti ho
trovato in cella con lei. Avevi sedici anni. Pensi che non ti abbia mai fatto
fare dei test dopo? Pensi che non abbia mai saputo in tutti questi anni quello
che potevi fare fino a sei mesi fa?»
Una nuova ondata di paura mi travolge.
Anderson sembra così contento e Warner è tornato tranquillo, non so cosa
significhi tutto questo per noi. Ma proprio quando sto per entrare nel panico
totale, sento un urlo familiare.
È un suono di agonia così orribile che non posso fare a meno di provare a
vedere quello sta succedendo, anche se lampi di luce bianca mi offuscano la
vista.
Do uno sguardo di sfuggita.
Warner è in piedi sopra il corpo di Anderson, la sua mano destra stretta
intorno al manico del machete affondato nel petto di suo padre. Pianta un
piede sulla sua pancia e, rozzamente, estrae la lama.
Il gemito di Anderson è così animalesco, così patetico che quasi mi
dispiace per lui. Warner pulisce la lama sull’erba e la lancia ad Haider, che
la afferra facilmente per l’elsa come lui prima, mentre se ne sta lì a
fissare… me, realizzo. Me e Nazeera. Non l’ho mai visto così, senza
maschere. Sembra paralizzato dalla paura.
«Tienilo d’occhio» grida Warner a qualcuno. Osserva la pistola che ha
rubato a suo padre e, soddisfatto, corre via a cercare la Guardia Suprema.
Degli spari risuonano in lontananza.
La mia vista comincia a offuscarsi.
I rumori svaniscono tutti insieme, perdo la concentrazione. Per un attimo,
tutto ciò che sento è il suono del mio respiro e il battito del mio cuore.
Almeno spero che sia il battito del mio cuore. Tutto ha un odore intenso,
come di ruggine e acciaio. Mi rendo conto, all’improvviso e del tutto
sorpreso, che non riesco a sentire le mie dita.
Alla fine, percepisco suoni attutiti di movimento vicini al mio corpo, di
mani che mi toccano, cercando di muovermi.
«Kenji?» qualcuno mi scuote. «Kenji, mi senti?» Winston.
Emetto un suono con la gola. Le labbra sembrano fuse insieme.
«Kenji?» Continua a scuotermi. «Stai bene?»
Con grande difficoltà apro la bocca, ma non esce alcun suono. Poi, tutto
in una volta. «Ehi, ammmiicco.»
Strano.
«È cosciente» dice Winston. «Ma disorientato. Non abbiamo molto
tempo. Porterò questi due. Vedi se riesci a trovare un modo per trasportare
gli altri. Dove sono le ragazze?»
Qualcuno risponde qualcosa che non capisco. Allungo improvvisamente
la mano buona stringendola sul braccio di Winston.
«Non lasciare che prendano J» cerco di dire. «Non lasciare che…»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 11
ELLA
JULIETTE
 
Quando apro gli occhi, sento l’acciaio.
Legato e modellato sul mio corpo, spesse strisce argentate contro la mia
pelle pallida. Sono in una gabbia dell’esatta dimensione e forma della mia
figura. Non riesco a muovermi. Riesco a malapena ad aprire la bocca o a
sbattere le ciglia; so che aspetto ho solo perché riesco a vederlo riflesso
nell’acciaio inossidabile del soffitto.
Anderson è qui.
Lo noto subito, in piedi in un angolo della stanza, sta fissando il muro
con un’espressione sia contenta che arrabbiata, con uno strano ghigno
stampato in faccia. C’è anche una donna, non l’ho mai vista prima. Bionda,
molto bionda. Alta, lentigginosa e snella. Mi ricorda qualcuno che ho già
visto prima, qualcuno che al momento non riesco a ricordare.
E poi, all’improvviso…
La mia mente si mette al passo con una ferocia quasi paralizzante. James
e Adam rapiti da Anderson. Kenji ammalato. Nuovi ricordi della mia vita
che continuano ad assalire il mio cervello e che si portano via pezzi di me
stessa.
E poi, Emmaline.
Emmaline che si è impadronita della mia coscienza. Emmaline, la cui
presenza era così travolgente che sono stata portata nell’oblio, costretta a
dormire. Ricordo di essermi svegliata alla fine, ma il mio ricordo di quel
momento è vago. Ricordo la confusione, soprattutto. Momenti distorti.
Mi prendo un momento per controllarmi. Il corpo. Il cuore. La mente.
Illesi?
Non lo so.
Nonostante un po’ di disorientamento, mi sento quasi completamente me
stessa. Percepisco ancora dei vuoti oscuri nei miei ricordi, ma mi sento
come se avessi finalmente rotto la superficie della mia coscienza. Ed è in
quel momento che mi rendo conto di non sentire più un solo sussurro di
Emmaline.
Chiudo gli occhi di nuovo, velocemente. Cerco di avvertire la sua
presenza nella mia testa, cercandola con un panico disperato che mi
sorprende.
 
Emmaline? Sei ancora qui?
 
Un dolce calore mi scorre attraverso il corpo come risposta. Un singolo
brivido di vita delicato. Mi rendo conto che deve essere vicina alla fine.
Quasi svanita.
Il dolore mi attanaglia il cuore.
Il mio amore per Emmaline è sia nuovo che antico, così complicato che
non so nemmeno che parole usare per esprimere i miei sentimenti al
riguardo. So solo che provo solo compassione per lei. Per il suo dolore, i
suoi sacrifici, le ferite dello spirito, il suo desiderio di una vita diversa. Non
provo né rabbia né risentimento nei suoi confronti per essersi infilata nella
mia mente, per aver sconvolto violentemente il mio mondo per farsi posto
nella mia pelle. In qualche modo capisco che la brutalità del suo gesto non
fosse nient’altro che una richiesta disperata di compagnia negli ultimi giorni
della sua vita.
Vuole morire sapendo di essere stata amata.
E io, io la amo.
Sono riuscita a vedere, quando le nostre menti si sono fuse insieme, che
Emmaline aveva trovato un modo per dividere la sua coscienza, lasciando
indietro un pezzettino di sé stessa per interpretare il suo ruolo in Oceania.
La piccola parte di lei che si è staccata per trovarmi era la piccola parte di
lei che si sentiva ancora umana, che percepiva il mondo in modo acuto. E
ora, a quanto pare, quella parte umana sta cominciando a svanire.
Le dita callose del lutto si stringono intorno alla mia gola.
I miei pensieri vengono interrotti dal suono brusco dei tacchi sulla pietra.
Qualcuno si sta avvicinando. Sto attenta a non sussultare.
«A quest’ora dovrebbe essere già sveglia» dice la voce femminile. «È
strano.»
«Forse il sedativo che le hai dato era più forte di quello che pensavi»
Anderson.
«Presumo che hai ancora la testa piena di morfina, Paris, che è l’unico
motivo per cui ignorerò la tua affermazione.»
Anderson sospira. Con voce severa dice: «Sono sicuro che si sveglierà da
un momento all’altro.»
La paura fa scattare degli allarmi nella mia testa.
Cosa sta succedendo? chiedo a Emmaline. Dove siamo?
 
Il rimasuglio di un dolce tepore si trasforma in un calore bruciante che mi
infiamma le braccia. Mi viene la pelle d’oca.
Emmaline ha paura.
 
Mostrami dove siamo, dico.
 
Ci vuole più tempo di quello a cui sono abituata, ma molto lentamente
Emmaline mi riempie la testa con immagini della stanza, di pareti d’acciaio
e vetri scintillanti, lunghi tavoli allestiti con ogni sorta di strumento e lame,
attrezzature chirurgiche. Microscopi alti quanto le pareti. I motivi
geometrici nel soffitto brillano di luce calda e luminosa. E poi ci sono io.
Sono mummificata nel metallo.
Sono sdraiata supina su un tavolo splendente, con delle spesse strisce
orizzontali che mi tengono ferma. Sono nuda eccetto per le cinghie
posizionate con attenzione che mi impediscono di essere completamente
esposta.
Mi rendo conto di una cosa con una velocità dolorosa.
Riconosco queste stanze, questi strumenti, questi muri. Persino l’odore di
aria viziata, limone sintetico, candeggina e ruggine. Il terrore si insinua
dentro di me, dapprima lentamente, poi tutto in una volta.
Sono di nuovo alla base in Oceania.
Mi sento improvvisamente male.
Sono in un mondo lontano. Un volo internazionale mi separa dalla mia
famiglia scelta, sono tornata nella casa degli orrori in cui sono cresciuta.
Non ricordo come sono arrivata qui e non so quale devastazione Anderson
si sia lasciato alle spalle. Non so dove siano i miei amici. Non so cosa ne sia
stato di Warner. Non ricordo niente di utile. So solo che tutto questo è
terribilmente, terribilmente sbagliato.
Malgrado ciò, la mia paura sembra diversa.
I miei rapitori (Anderson? Questa donna?) mi hanno sicuramente fatto
qualcosa, perché non riesco a percepire i miei poteri come al solito, ma c’è
qualcosa in questo orribile schema familiare che è quasi confortante. Mi
sono svegliata in catene più volte di quante ne riesca a ricordare e ogni
volta ho trovato una via d’uscita. La troverò anche adesso.
E almeno questa volta non sono sola.
Emmaline è qui. Per quanto ne so Anderson non ha idea che lei sia con
me e questo mi dà speranza.
Il silenzio è rotto da un lungo sospiro.
«Ma perché abbiamo bisogno che sia sveglia?» dice la donna. «Perché
non possiamo eseguire la procedura mentre è addormentata?»
«Non sono le mie regole, Tatiana. Sai bene quanto me che è stata Evie ha
mettere tutto in moto. Il protocollo afferma che il soggetto deve essere
sveglio durante l’iniziazione del trasferimento.»
Come non detto.
Come non detto.
Vengo attraversata da un terrore puro e assoluto, dissipando la mia
sicurezza di prima in un colpo solo. Avrei dovuto capire fin da subito che
avrebbero provato a farmi quello che Evie non è riuscita a fare la prima
volta. Ma certo.
Vengo quasi tradita dal mio panico improvviso.
«Due figlie con la stessa identica impronta genetica» dice Tatiana
all’improvviso. «Chiunque altro penserebbe che sia una coincidenza
assurda. Ma Evie è sempre stata attenta ad avere un piano di riserva, non è
vero?»
«Fin dall’inizio» ribatte tranquillamente Anderson. «Ha fatto in modo
che ci fosse una riserva.»
Le parole sono un colpo che non avrei potuto prevedere.
Una riserva.
Mi rendo conto che è tutto quello che sono sempre stata. Un pezzo di
ricambio tenuto prigioniero. Un’arma di riserva da usare nel caso in cui
tutto il resto fosse fallito.
Frantumatemi.
Rompete il vetro in caso di emergenza.
Mi occorre tutta la forza che ho per rimanere ferma, per trattenermi
dall’ingoiare l’improvvisa ondata di emozioni nella gola. Anche adesso,
persino dalla tomba, mia madre riesce a farmi del male.
«Una fortuna per noi» dice la donna.
«Giusto» risponde Anderson, ma c’è della tensione nella sua voce. Una
tensione che sto iniziando a notare solo ora.
Tatiana inizia a divagare.
Comincia a parlare di quanto fosse stata intelligente Evie a rendersi conto
che qualcuno aveva interferito con il suo lavoro, di quanto fosse stata
intelligente nel capire subito che era stata Emmaline ad aver manomesso i
risultati della procedura eseguita su di me. Evie aveva sempre saputo, sta
dicendo Tatiana, che c’era un rischio nel riportarmi alla base in Oceania e il
rischio, dice, era la vicinanza fisica di Emmaline.
«Dopotutto,» prosegue Tatiana «le due ragazze non sono state così vicine
per quasi dieci anni. Evie temeva che Emmaline avrebbe provato a mettersi
in contatto con sua sorella.» Una pausa. «E lo ha fatto.»
«Dove vuoi arrivare?»
«Il punto,» dice Tatiana lentamente, come se stesse parlando a un
bambino «è che questa situazione sembra pericolosa. Non pensi che sia
molto imprudente mettere le due ragazze sotto lo stesso tetto di nuovo?
Dopo tutto quello che è successo l’ultima volta? Non sembra un po’…
avventato?»
Una stupida speranza mi sboccia nel petto.
Ovviamente.
Il corpo di Emmaline è qui vicino. Forse la voce di Emmaline sparita
dalla mia testa non ha niente a che fare con la sua morte imminente, forse la
sento semplicemente lontana perché si è spostata. È possibile che al rientro
in Oceania le due parti della sua coscienza si siano ricollegate. Può essere
che la sento distante solo perché sta cercando di contattarmi dalla sua vasca,
come ha fatto l’ultima volta che sono stata qui.
Un calore acuto e bruciante lampeggia dietro i miei occhi e il mio cuore
sobbalza per la sua risposta.
 
Non sono sola, le dico. Non sei sola.
 
«Sai bene quanto me che questo era l’unico modo» dice Anderson a
Tatiana. «Avevo bisogno dell’aiuto di Max. Le mie ferite erano troppo
serie.»
«Sembra che tu abbia molto bisogno dell’aiuto di Max ultimamente» dice
freddamente. «E non sono l’unica che pensa che i tuoi bisogni stiano
diventando un ostacolo.»
«Non provocarmi» dice lui a bassa voce. «Non è giornata.»
«Non mi interessa. Sai bene quanto me che sarebbe stato più sicuro
avviare il trasferimento nel Settore 45, migliaia di miglia di distanza da
Emmaline. Abbiamo dovuto trasportare anche il ragazzo, ricordi?
Estremamente sconveniente. Il fatto che hai avuto così disperatamente
bisogno dell’aiuto di Max per la tua vanità è una questione completamente
diversa, che riguarda sia i tuoi fallimenti che la tua inettitudine.»
Cade un silenzio spesso e pesante.
Non ho idea di cosa stia succedendo intorno a me, ma posso solo
immaginare che i due si stiano scambiando delle occhiatacce.
«Evie aveva un debole per te» dice infine Tatiana. «Lo sappiamo tutti.
Sappiamo tutti quanto fosse disposta a ignorare i tuoi errori. Ma Evie è
morta, non è così? E le sue figlie sarebbero due su due se non fosse per i
costanti sforzi di Max di tenerti in vita. Noi altri stiamo esaurendo la
pazienza.»
Prima che Anderson abbia la possibilità di rispondere, una porta si apre
sbattendo.
«Allora?» Una nuova voce. «Avete fatto?»
Per la prima volta Tatiana sembra sottomessa. «Non è ancor sveglia,
temo.»
«Allora svegliatela» ordina la voce. «Non abbiamo più tempo. Tutti i
ragazzi sono stati corrotti. Dobbiamo ancora mettere il resto sotto controllo
e cancellare loro le menti appena possibile.»
«Ma non prima di aver capito cosa sanno,» dice Anderson rapidamente
«e capire a chi potrebbero averlo detto.»
Passi pesanti, veloci e rumorosi entrano nella stanza. Sento un fruscio, un
sussulto breve e improvviso. «Haider mi ha detto una cosa interessante
quando i tuoi uomini lo hanno trascinato qui» dice l’uomo a bassa voce.
«Dice che hai sparato a mia figlia.»
«È stata una decisione puramente pratica» afferma Anderson. «Lei e
Kishimoto erano dei bersagli possibili. Non ho avuto altra scelta che
eliminarli entrambi.»
Ci vuole ogni grammo del mio autocontrollo per non urlare.
Kenji.
Anderson ha sparato a Kenji.
A Kenji e alla figlia di quest’uomo. Deve trattarsi di Nazeera. Oh mio
Dio. Anderson ha sparato a Kenji e Nazeera. Il che renderebbe
quest’uomo…
«Ibrahim, è stato meglio così» i tacchi di Tatiana fanno rumore sul
pavimento. «Sono sicura che sta bene. Hanno quelle ragazze guaritrici, lo
sai.»
Il Comandante Supremo Ibrahim la ignora.
«Se mia figlia non mi viene restituita viva,» dice con rabbia «ti
rimuoverò personalmente il cervello dal cranio.»
La porta si chiude, sbattendo dietro di lui.
«Svegliala» dice Anderson.
«Non è così semplice… C’è un processo …»
«Non lo ripeterò di nuovo, Tatiana» Anderson sta gridando ora,
l’atmosfera si scalda senza preavviso. «Svegliala ora. Voglio sbrigarmi.»
«Paris, devi calm…»
«Ho cercato di ucciderla mesi fa.» Sento il metallo sbattere contro altro
metallo. «Ho detto a tutti voi di finire il lavoro. Se ci troviamo in questa
situazione, se Evie è morta, è perché nessuno mi ha ascoltato quando
avrebbe dovuto.»
«Sei incredibile» scoppia a ridere Tatiana, ma il suono è piatto. «Il fatto
che hai pensato di avere l’autorità di uccidere la figlia di Evie mi dice tutto
quello che ho bisogno di sapere su di te, Paris. Sei un idiota.»
«Fuori» dice lui, furioso. «Non ho bisogno che tu mi stia col fiato sul
collo. Vai a controllare la tua insulsa figlia. Mi occuperò io di questo.»
«Ti senti paterno?»
«Vattene. Fuori.»
Tatiana non dice altro. Sento il rumore di una porta che si apre e si
chiude. Un debole e lontano rintocco di metallo e vetro. Non ho idea di cosa
stia facendo Anderson, ma il cuore mi batte all’impazzata. È arrabbiato e
indignato, non è da prendere alla leggera.
Questo lo so.
E quando sento un’improvvisa e spietata fitta di dolore, urlo. Il panico mi
costringe ad aprire gli occhi.
«Avevo la sensazione che stessi fingendo» dice.
Estrae rozzamente il bisturi dalla mia coscia. Trattengo un altro urlo. Non
ho nemmeno il tempo di riprendere fiato quando, di nuovo, conficca il
bisturi nella mia carne, più in profondità. Grido per l’agonia, i miei polmoni
soffocano. Quando finalmente estrae l’attrezzo per poco non svengo dal
dolore. Emetto respiri affannosi e ansimanti, ho il petto così stretto in una
morsa che non riesco a respirare bene.
«Speravo che avresti udito la conversazione» dice Anderson, con calma,
fermandosi a pulire il bisturi col suo camice da laboratorio. Il sangue è
scuro. Denso. La mia vista si affievolisce. «Volevo che sapessi che tua
madre non era stupida. Volevo che sapessi che era consapevole che
qualcosa era andato storto. Non conosceva esattamente gli errori nella
procedura, ma sospettava che le iniezioni non avevano fatto tutto quello che
dovevano fare. E quando ha sospettato che qualcosa era andato storto, ha
creato un piano d’emergenza.»
Sto ancora ansimando, mi gira la testa. Il dolore alla gamba è feroce, mi
sta offuscando la mente.
«Non pensavi che fosse così stupida, vero? Evie Sommers?» Anderson
per poco non ride. «Evie Sommers non è stata stupida un solo giorno della
sua vita. Anche il giorno in cui è morta, è morta con un piano in atto per
salvare la Restaurazione, perché aveva dedicato la sua vita a questa causa.
Era questo» dice, pungolando la mia ferita. «Tu.
«Tu e tua sorella. Eravate il lavoro della sua vita e non aveva intenzione
di lasciare andare tutto in fumo senza combattere.»
Non capisco, cerco di dire.
«So che non capisci» dice. «Ovviamente non capisci. Non hai mai
ereditato il genio di tua madre, vero? Non hai mai avuto la sua mente. No,
sei sempre stata uno strumento, fin dall’inizio. Quindi ecco tutto quello che
devi capire: ora mi appartieni.»
«No» ansimo. Lotto inutilmente contro le cinghie. «No…»
Sento la puntura e il fuoco contemporaneamente. Anderson mi ha
iniettato qualcosa, qualcosa che brucia in me con un dolore così straziante
che il mio cuore si ricorda a malapena di battere. Comincio a sudare
copiosamente. I capelli mi si attaccano alla faccia. Mi sento subito
paralizzata ed è come se stessi cadendo, sprofondando nelle più fredde
cavità dell’inferno.
 
Emmaline, urlo.
 
Mi tremano le palpebre. Vedo Anderson, immagini lampeggianti di
Anderson, con gli occhi scuri e turbati. Mi guarda come se finalmente mi
avesse messo esattamente dove mi vuole, dove mi ha sempre voluto e
capisco allora, senza capire esattamente il perché, che è entusiasta.
Percepisco la sua felicità. Non so come faccio a saperlo. Lo intuisco dal
modo in cui sta in piedi, dal modo in cui mi guarda. Sembra raggiante.
Questo mi terrorizza.
Il mio corpo fa un ultimo sforzo per muoversi, ma è un tentativo inutile.
Non ha senso muoversi, non ha senso lottare.
Qualcosa mi dice che è finita.
Ho perso.
Ho perso la battaglia e la guerra. Ho perso il ragazzo. Ho perso i miei
amici. Ho perso la voglia di vivere, mi suggerisce la voce.
E poi capisco: Anderson è nella mia testa.
Ho gli occhi chiusi. I miei occhi potrebbero non aprirsi mai più. Ovunque
io sia non sono più al comando. Ora appartengo ad Anderson. Appartengo
alla Restaurazione, a cui sono sempre appartenuta, a cui sei sempre
appartenuta, mi dice, dove rimarrai per sempre. Aspettavo questo momento
da molto tempo, mi dice, e ora finalmente non c’è niente che tu possa fare
al riguardo.
Niente.
Neanche in questo momento capisco. Non subito. Non capisco neanche
mentre sento le macchine avviarsi. Non capisco neanche mentre vedo un
lampo di luce dietro le palpebre. Sento il mio strano respiro riverberare
forte nel cranio. Sento le mie mani tremare. Sento il metallo affondare nella
carne morbida del mio corpo. Sono qui, legata all’acciaio contro la mia
volontà e non c’è nessuno che mi possa salvare.
 
Emmaline, grido.
 
Vengo attraversata da un sussurro di calore come risposta, un sussurro
così sottile, così fugace, che temo di essermelo immaginato.
 
Emmaline è quasi morta, dice Anderson. Una volta che il suo corpo
verrà rimosso dalla vasca prenderai il suo posto. Fino ad allora, questo è il
posto in cui vivrai. Fino ad allora, esisterai qui. Questo è tutto ciò a cui sei
sempre stata destinata, mi dice.
 
Questo è tutto ciò che sarai mai.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 12
KENJI
 
Nessuno viene al funerale.
Ci sono voluti due giorni per seppellire tutti i corpi. Castle si è affaticato
così tanto che praticamente si è quasi sentito male dopo aver scavato così
tanta terra. Il resto di noi ha usato le pale. Ma non eravamo in tanti a
lavorare e ora non siamo abbastanza per partecipare a un funerale.
Tuttavia, l’alba mi trova qui, appollaiato su un masso, seduto sopra la
valle dove abbiamo seppellito i nostri amici. I nostri compagni di squadra.
Il mio braccio destro è in un’imbragatura, la testa mi fa un male cane, il mio
cuore è del tutto a pezzi.
Per il resto, sto bene.
Alia mi si avvicina da dietro, è talmente silenziosa che quasi non la noto.
Non la noto quasi mai. Ma ci sono troppi pochi corpi dietro ai quali può
nascondersi ora. Mi faccio più in là sulla roccia e lei si sistema accanto a
me, insieme guardiamo il mare di tombe sottostanti. Ha in mano due denti
di leone. Me ne offre uno. Lo prendo.
Insieme, lasciamo cadere i fiori, guardandoli mentre volteggiano
dolcemente nel baratro. Alia sospira.
«Stai bene?» le chiedo.
«No.»
«Già» annuisco.
Passano dei secondi. Una leggera brezza mi scompiglia i capelli sul viso.
Fisso il sole nascente, sfidandolo a bruciarmi gli occhi.
«Kenji?»
«Sì?»
«Dov’è Adam?»
Scuoto la testa. Faccio spallucce.
«Pensi che lo troveremo?» chiede, praticamente sussurrando.
Alzo lo sguardo.
C’è un desiderio nel suo tono… qualcosa di più che normale
preoccupazione. Mi volto completamente per incontrare i suoi occhi, ma lei
non mi guarda.
Improvvisamente arrossisce.
«Non lo so» le dico. «Lo spero.»
«Anch’io» dice dolcemente.
Appoggia la testa sulla mia spalla. Guardiamo avanti, in lontananza.
Lasciamo che il silenzio divori i nostri corpi.
«Hai fatto un ottimo lavoro, comunque» faccio un cenno verso la valle
sotto di noi. «È bellissimo.»
Alia ha davvero superato sé stessa. Lei e Winston.
I monumenti che hanno progettato sono semplici ed eleganti, realizzati
con le pietre provenienti dalla terra stessa.
Ce ne sono due.
Uno per le vite perse qui, al Santuario, due giorni fa. L’altro per le vite
perse lì, al Punto Omega, due mesi fa. L’elenco dei nomi è lungo.
L’ingiustizia di tutto questo urla dentro di me.
Alia mi prende la mano. La stringe.
Mi rendo conto che sto piangendo.
Distolgo lo sguardo, sentendomi stupido, e Alia mi lascia andare, mi dà
spazio per rimettermi in sesto. Mi asciugo gli occhi, con forza eccessiva,
arrabbiato con me stesso per essere andato in pezzi. Arrabbiato con me
stesso per essere rimasto deluso. Arrabbiato con me stesso per essermi
lasciato tentare dalla speranza.
Abbiamo perso J.
Non siamo nemmeno sicuri di come sia esattamente successo. Warner è
praticamente in stato comatoso da quel giorno e ottenere informazioni da lui
in quello stato è stato impossibile. Ma pare che non abbiamo mai avuto
davvero una possibilità, alla fine. Uno degli uomini di Anderson aveva la
capacità soprannaturale di clonarsi e ci abbiamo messo troppo tempo a
capirlo. Non siamo riusciti a capire perché le loro difese improvvisamente
raddoppiavano o triplicavano anche se le stavamo mettendo fuori
combattimento. Ma si è scoperto che Anderson aveva una scorta
inesauribile di finti soldati. Warner non riusciva a superarlo. Era l’unica
cosa che continuava a ripetere, ancora e ancora…
Avrei dovuto saperlo, avrei dovuto saperlo
…e nonostante il fatto che Warner incolpi se stesso per la svista, Castle
dice che è proprio grazie a Warner se qualcuno di noi è ancora vivo.
Non avrebbero dovuto esserci sopravvissuti. Quello era stato l’ordine di
Anderson. Il comando che aveva dato dopo che ero caduto.
Warner ha scoperto il trucco appena in tempo.
La sua abilità di sfruttare il potere del soldato ed usarlo contro di loro è
stata la nostra unica salvezza, a quanto pare, e, quando il tizio si è reso
conto di avere concorrenza, ha preso quello che poteva ed è corso via.
Il che significa che è riuscito a catturare Haider, privo di sensi, e Stephan.
Significa che Anderson è scappato.
E J, ovviamente.
Significa che hanno preso J.
«Dovremmo tornare indietro?» mi domanda Alia a bassa voce. «Castle
era sveglio quando sono venuta via. Ha detto che voleva parlarti.»
«Sì» annuisco, alzandomi in piedi. Mi rimetto in sesto. «Qualche
aggiornamento su James, a proposito? Sono già consentite visite?»
Alia scuote la testa. Si alza anche lei. «Non ancora» dice. «Ma presto si
sveglierà. Le ragazze sono ottimiste. Fra i suoi poteri curativi e i loro, sono
certe che saranno in grado di fargli superare tutto.»
«Sì» dico, facendo un respiro profondo. «Sono sicuro che hai ragione.»
Sbagliato.
Non sono sicuro di niente.
La devastazione rimasta dopo l’attacco di Anderson ci ha buttati tutti a
terra. Sonya e Sara lavorano tutto il giorno. Sam è stata gravemente ferita.
Nazeera è ancora priva di sensi. Castle è debole. Centinai di altri stanno
provando a guarire.
Un’oscurità seria è scesa su tutti noi.
Abbiamo lottato duramente, ma abbiamo preso troppi colpi. Eravamo
troppo pochi tanto per cominciare. Non potevamo fare nient’altro.
Questo è quello che continuo a ripetermi, comunque.
Cominciamo a camminare.
«Sembra peggio, non è vero?» dice Alia. «Peggio dell’ultima volta.» Si
ferma all’improvviso e seguo la linea del suo sguardo, studiando la scena
davanti a noi. Gli edifici demoliti, i detriti lungo i sentieri. Abbiamo fatto
del nostro meglio per ripulire il disastro, ma se guardo nel posto sbagliato al
momento sbagliato riesco ancora a vedere il sangue sui rami spezzati degli
alberi. Frammenti di vetro.
«Sì» dico. «In qualche modo, questo è molto peggio.»
Forse perché la posta in gioco era più alta. Forse perché non abbiamo mai
perso J prima. Forse perché non ho mai visto Warner così perso e abbattuto.
Warner arrabbiato era meglio di questo di adesso. Almeno quello arrabbiato
aveva ancora la voglia di lottare dentro di sé.
 
Alia ed io ci separiamo quando entriamo nella tenda della mensa. Lei ha
messo a disposizione il suo tempo, andando da un letto all’altro per
controllare le persone, offrendo acqua e cibo dove necessario, e quindi la
tenda della mensa è attualmente il suo luogo di lavoro. L’enorme ambiente
è stato trasformato in una sorta di casa di cura. Sonya e Sara stanno dando
la priorità agli infortunati gravi; le ferite minori vengono trattate nel modo
tradizionale da ciò che resta del personale originale di medici e infermieri.
La stanza è stata riempita da un capo all’altro con quelli di noi che stanno
guarendo da ferite lievi o riposando dopo un intervento importante.
Nazeera è qui, ma sta dormendo.
Mi lascio cadere su una sedia vicino alla sua branda, controllandola come
faccio ogni ora. Non è cambiato niente. È ancora sdraiata immobile come
una pietra, l’unica testimonianza di vita proviene dal monitor vicino e dai
movimenti delicati del suo respiro. La sua ferita era peggiore della mia. Le
ragazze dicono che starà bene, ma pensano che dormirà almeno fino a
domani. Malgrado ciò, guardarla mi uccide. Vederla cadere è stata una delle
cose più difficili a cui abbia mai dovuto assistere.
Sospiro, passandomi una mano sul viso. Mi sento ancora di merda, ma
almeno sono sveglio. Pochi di noi lo sono.
Warner è uno di quelli.
È ancora sporco di sangue secco e si rifiuta di farsi aiutare. È cosciente,
ma è sdraiato supino fissando il soffitto dal giorno in cui è stato trascinato
qui. Se non sapessi che non è possibile, penserei che sia un cadavere.
Controllo anche lui ogni tanto, assicurandomi di vedere quel leggero
movimento del petto, solo per essere certo che stia ancora respirando.
Penso che sia sotto shock.
A quanto pare, una volta che si è reso conto che J non c’era più, ha fatto a
pezzi il resto dei soldati rimasti a mani nude.
A quanto pare.
Non lo prendo per vero, ovviamente, perché la storia sembra troppo
sinistra rispetto a ciò che considero credibile, ma da allora ho sentito ogni
tipo di stronzata su Warner in questi ultimi due giorni. È passato dall’essere
relativamente consequenziale a diventare veramente terrificante, fino ad
assumere lo status di supereroe… in trentasei ore. Un colpo di scena che
non mi sarei mai aspettato, le persone qui sono improvvisamente
ossessionate da lui.
Credono che ci abbia salvato la vita.
Ieri uno dei volontari, mentre mi controllava le ferite, mi ha detto che ha
sentito dire di aver visto Warner sradicare un intero albero con una mano
sola.
Traduzione: probabilmente ha rotto il ramo di un albero.
Qualcun altro mi ha detto di aver sentito da un amico che l’ha sentito da
una ragazza che lo avevo visto salvare un gruppo di bambini dal fuoco
amico.
Traduzione: probabilmente ha spinto un gruppo di bambini a terra.
Un’altra persona mi ha detto che Warner ha ucciso da solo quasi tutti i
soldati supremi.
Traduzione…
Ok, quest’ultima cosa è un po’ vera.
Ma so che Warner non stava cercando di fare un favore a nessuno di noi.
Non gliene frega un cazzo di essere un eroe.
Stava solo cercando di salvare la vita di J.
«Dovresti parlargli» dice Castle e mi spavento così tanto che lui
indietreggia, spaventandosi anche lui per un attimo.
«Mi dispiace, signore» dico, cercando di rallentare il battito del cuore.
«Non avevo visto che era qui.»
«È tutto a posto» dice Castle. Sta sorridendo, ma ha lo sguardo triste.
Esausto. «Come te la passi?»
«Così come ci si può aspettare» dico. «Come sta Sam?»
«Così come ci si può aspettare» risponde. «Nouria è in difficoltà,
ovviamente, ma Sam dovrebbe essere in grado di recuperare in pieno. Le
ragazze dicono che era principalmente una ferita superficiale. Il suo cranio
era fratturato, ma sono fiduciose di poter rimettere tutto a posto, com’era
prima.» Sospira. «Staranno bene entrambe. Col tempo.»
Lo studio per un momento, vedendolo come non l’avevo mai visto prima:
Vecchio.
I capelli di Castle sono sciolti, gli pendono sul viso, e qualcosa riguardo
al non avere il suo solito stile, ovvero capelli legati ordinatamente alla base
del collo, mi fa notare cose che non avevo mai visto prima. Nuovi capelli
grigi. Nuove rughe intorno ai suoi occhi, sulla fronte. Ci mette più tempo
per alzarsi rispetto a prima. Sembra stanco. Sembra come se sia stato
mandato al tappeto, troppe volte.
Un po’ come tutti noi.
«Detesto che questa cosa sembra averci allontanato» dice, dopo un lungo
silenzio. «Ma ora Nouria ed io, entrambi leader della resistenza, abbiamo
subito gravi perdite. L’intera faccenda è dura per lei, come lo è stata per me.
Ha bisogno di più tempo per riprendersi.»
Faccio un bel respiro.
Sentir menzionare quel periodo buio ispira dolore nel mio cuore. Non mi
permetto di soffermarmi troppo sul guscio d’uomo in cui si era trasformato
Castle dopo che avevamo perso il Punto Omega. Se lo faccio, le emozioni
prendono il sopravvento, rendendomi furioso. So che stava soffrendo. So
che c’era tanto altro in ballo. So che è stata dura per tutti. Ma per me,
perdere Castle in quel modo, anche se temporaneamente, è stato peggio che
perdere tutti gli altri. Avevo bisogno di lui e sembrava che avesse
abbandonato anche me.
«Non so» dico, schiarendomi la gola. «Non è proprio la stessa cosa, vero?
Quello che abbiamo perso… Voglio dire, abbiamo perso letteralmente tutto
nei bombardamenti. Non solo la nostra gente e la nostra casa, ma anni di
ricerca. Attrezzatura importante. Di particolare valore» esito, cercando di
essere delicato. «Nouria e Sam hanno solo perso metà della loro gente e la
loro base è ancora in piedi. Questa perdita non è così grande.»
Castle si volta, sorpreso. «Non è una competizione.»
«Lo so» dico. «È solo…»
«E non vorrei che mia figlia conoscesse lo stesso dolore che abbiamo
provato noi. Non hai idea di quanto abbia già sofferto nella sua breve vita.
Di certo non ha bisogno di provare ancora più dolore per meritare la tua
compassione.»
«Non intendevo questo» dico velocemente, scuotendo la testa. «Volevo
solo far notate che…»
«Hai già visto James?»
Lo fisso a bocca aperta, piena di parole ancora non dette. Castle ha
cambiato argomento così in fretta che è stato come un colpo di frusta. Non è
da lui. Non è da noi.
Castle ed io non abbiamo mai avuto problemi a parlare. Non abbiamo
mai evitato argomenti difficili e conversazioni delicate. Ma, se devo essere
onesto, le cose sono un po’ cambiate ora. Forse da quando ho scoperto che
Castle mi ha mentito, per tutti questi anni, riguardo a J. Forse, ultimamente,
sono stato un po’ meno rispettoso. Oltrepassando il limite. Forse tutta
questa tensione arriva da me… forse sono io che lo respingo, senza
rendermene conto.
Non lo so.
Voglio sistemare qualunque cosa stia succedendo tra noi, ma ora sono
troppo distrutto. Tra J, Warner, James e Nazeera priva di sensi… La mia
testa si trova in uno stato così strano che non sono sicuro di avere tempo per
molto altro.
Quindi lascio perdere.
«No, non ho visto James» dico, cercando di sembrare ottimista. «Sto
aspettando il via libera.» L’ultima volta che ho controllato James era nella
tenda medica con Sonya e Sara. James possiede anche lui la capacità di
guarire, quindi dovrebbe stare bene, fisicamente, lo so, ma ne ha passate
così tante ultimamente. Le ragazze volevano assicurarsi che fosse
completamente riposato, nutrito e idratato prima di autorizzare visite.
Castle annuisce.
«Warner se n’è andato» dice dopo un momento, un’affermazione illogica.
«Cosa? No, l’ho appena visto. Lui…» mi interrompo alzando lo sguardo,
aspettandomi di trovare la vista familiare di lui sdraiato come una carcassa
sulla sua branda. Ma Castle ha ragione. Se n’è andato.
Cerco la sua figura isolata nella stanza. Non lo vedo.
«Penso ancora che dovresti parlargli» dice Castle, tornando alla sua
dichiarazione di apertura.
Mi irrito.
«Sei tu l’adulto» sottolineo. «Sei tu quello che voleva che si rifugiasse in
mezzo a noi. Quello che credeva che sarebbe potuto cambiare. Forse
dovresti parlargli tu.»
«Non è quello di cui ha bisogno e lo sai.» Castle sospira. Volta lo sguardo
verso la stanza. «Perché hanno tutti così paura di lui? Perché tu hai così
paura di lui?»
«Io?» Spalanco gli occhi. «Non ho paura di lui. O, voglio dire, in ogni
caso, non sono l’unico che ha paura di lui. Però diciamolo,» mormoro
«chiunque abbia due cellule cerebrali da sfregare insieme dovrebbe avere
paura di lui.»
Castle inarca un sopracciglio.
«Tranne te, ovviamente» aggiungo frettolosamente. «Per quale motivo
dovresti aver paura di Warner? È un ragazzo così simpatico. Ama i bambini.
È un gran chiacchierone. Oh, e bonus: non uccide più le persone in modo
professionale. No, ora uccidere le persone è solo un hobby appagante.»
Castle sospira, visibilmente irritato.
Mi scappa un sorriso. «Signore, sto solo dicendo che in realtà non lo
conosciamo, giusto? Quando Juliette era nei paraggi…»
«Ella. Il suo nome è Ella.»
«Uhm, sì. Quando c’era lei, Warner era tollerabile. A malapena. Ma ora
che lei non c’è più, lui si sta comportando proprio come il ragazzo che
ricordo quando mi sono arruolato, il ragazzo che era quando lavorava per
suo padre e gestiva il Settore 45. Che motivo avrebbe per essere leale o
gentile con noi?»
Castle apre la bocca per rispondere, ma proprio in quel momento arriva la
mia salvezza: il pranzo.
Un giovane volontario passa sorridendo e distribuendo delle semplici
insalate in ciotole di carta stagnola. Prendo il cibo offerto e le posate di
plastica con un entusiastico grazie e prontamente apro il coperchio della
ciotola
«Warner ha ricevuto un colpo molto duro» dice Castle. «Ha bisogno di
noi ora più che mai.»
Lo guardo. Mi metto in bocca una forchettata di insalata. Mastico
lentamente, decidendo cosa rispondere, quando vengo distratto da un
movimento in lontananza.
Alzo lo sguardo.
Brendan, Winston, Ian e Lily sono riuniti in un angolo intorno a un tavolo
improvvisato, tutti con in mano una ciotola di carta stagnola. Ci stanno
invitando ad unirci a loro.
Faccio un gesto con una forchettata di insalata. Parlo con la bocca piena.
«Volete unirvi a noi?»
Castle sospira anche mentre si alza, lisciando l’invisibile piega dei
pantaloni neri. Guardo Nazeera che dorme ancora e raccolgo le mie cose.
Razionalmente so che starà bene, ma si sta riprendendo da un duro colpo al
petto, non tanto diverso da quello di J, e mi fa male vederla così
vulnerabile. Soprattutto per una ragazza che una volta mi ha riso in faccia
alla prospettiva di essere sopraffatta.
Mi spaventa.
«Andiamo?» dice Castle, guardandosi alle spalle. È già avanti di qualche
passo e non ho idea di quanto tempo sono stato qui, a fissare Nazeera.
«Oh, giusto» rispondo. «Arrivo.»
 
Nel momento in cui ci sediamo al loro tavolo, so che qualcosa non va.
Brendan e Winston sono seduti in modo rigido, fianco a fianco, e Ian si
limita a guardarmi per mezzo secondo quando mi siedo. Trovo tutto
particolarmente strano, considerando il fatto che mi hanno invitato loro.
Pensavo sarebbero stati felici di vedermi.
Dopo qualche minuto di imbarazzante silenzio, Castle parla. «Stavo
appunto dicendo a Kenji,» dice «che dovrebbe essere lui a parlare con
Warner.»
Brendan alza lo sguardo. «È un’ottima idea.»
Gli lancio un’occhiataccia.
«No, davvero» dice, scegliendo con cura un pezzo di patata da infilzare.
Aspetta… dove hanno preso le patate? Tutto quello che ho avuto io è stata
un’insalata. «Qualcuno deve assolutamente parlare con lui.»
«Qualcuno deve decisamente farlo» dico irritato. Stringo gli occhi sulle
patate di Brendan. «Dove le hai prese?»
«È quello che mi hanno dato» risponde, alzando gli occhi sorpreso.
«Naturalmente, sono felice di condividerle.»
Mi muovo in fretta, piegandomi sulla sedia per infilzare una patata dalla
sua ciotola. Me la ficco in bocca prima ancora di tornare seduto e sto ancora
masticando quando lo ringrazio.
Sembra vagamente disgustato.
Immagino di essere un po’ un uomo delle caverne quando non c’è Warner
a tenermi in riga.
«Comunque, Castle ha ragione» interviene Lily. «Dovresti parlare con
lui, e presto. Penso che sia una specie di mina vagante in questo momento.»
Infilzo un pezzo di lattuga e alzo gli occhi al cielo. «Posso almeno
pranzare prima che iniziate tutti a saltarmi alla gola? Questo è il primo vero
pasto che mangio da quando mi hanno sparato.»
«Nessuno ti sta saltando alla gola» Castle si acciglia. «E pensavo che
Nouria avesse detto che hanno ristabilito i normali orari del pranzo ieri
mattina.»
«Vero» dico.
«Ma ti hanno sparato tre giorni fa» dice Winston. «Il che significa…»
«D’accordo, d’accordo, calmati, detective Winston. Possiamo cambiare
argomento, per favore?» Addento un altro pezzo di lattuga. «Non mi piace
questo.»
Brendan posa coltello e forchetta. Pesantemente.
Mi raddrizzo.
«Vai a parlargli» ripete di nuovo, questa volta con un tono che non
ammette repliche e che mi sorprende.
Ingoio il cibo. Troppo velocemente. Per poco non soffoco.
«Dico sul serio» dice Brendan, aggrottando la fronte mentre tossisco fino
a cacciar fuori un polmone. «Questo è un momento duro per tutti noi e tu
sei più in confidenza con lui di chiunque altro qui. Il che significa che hai la
responsabilità morale di scoprire cosa sta pensando.»
«La responsabilità morale?» La tosse si trasforma in una risata.
«Sì. La responsabilità morale. E Winston è d’accordo con me.»
Alzo lo sguardo, inarcando le sopracciglia verso Winston. «Ci credo che
è d’accordo con te. Scommetto che Winston è sempre d’accordo con te.»
Winston si aggiusta gli occhiali. Infilza il cibo alla cieca e mormora
sottovoce, «Ti detesto.»
«Oh, davvero?» indico Winston e Brendan con la forchetta. «Che diavolo
sta succedendo qui? Questa energia è super strana.»
Quando nessuno mi risponde, do un calcio a Winston sotto il tavolo. Lui
si volta dalla parte opposta, mormorando sciocchezze prima di fare un
lungo sorso dal bicchiere.
«Va bene» dico lentamente. Prendo il mio bicchiere d’acqua. Faccio un
sorso. «Sul serio. Cosa sta succedendo? Voi due state facendo piedino sotto
il tavolo o qualche altra merda?»
Winston diventa rosso come un pomodoro.
Brendan raccoglie le sue posate e, guardando il piatto, dice, «Su avanti,
diglielo.»
«Dirmi cosa?» chiedo, guardandoli entrambi. Quando nessuno risponde,
guardo Ian come a chiedere Che diavolo?
Lui si limita a fare spallucce.
Ian è più silenzioso del solito. Lui e Lily hanno passato molto tempo
insieme ultimamente, il che è comprensibile, ma significa anche che non
l’ho visto molto negli ultimi due giorni.
Castle si alza all’improvviso.
Mi dà una pacca sulla schiena. «Parla con il signor Warner» dice. «È
vulnerabile in questo momento e ha bisogno dei suoi amici.»
«Sei…?» faccio finta di guardarmi intorno, dietro le spalle. «Scusa, a
quali amici ti riferisci? Perché per quanto ne so, Warner non ne ha.»
Castle stringe gli occhi a fessura. «Non farlo» dice. «Non negare la tua
intelligenza emotiva a favore di meschine lamentele. Non sei così ingenuo.
Sii migliore. Se ci tieni a lui, sacrificherai il tuo orgoglio per parlargli. Per
essere certo che sta bene.»
«Perché devi farlo sembrare così drammatico?» dico, distogliendo lo
sguardo. «Non è un grosso problema. Sopravvivrà.»
Castle mi appoggia una mano sulla spalla. Mi costringe a guardarlo.
«No» dice. «Potrebbe non farlo.»
Aspetto che Castle se ne vada prima di posare la forchetta. Sono irritato,
ma so che ha ragione. Borbotto un saluto generale ai miei amici mentre mi
alzo dal tavolo, ma non prima di aver notato Brendan sorridere trionfante
verso di me. Sono sul punto di rispondergli male, ma poi noto, con un
sussulto, che Winston ha assunto una strana tonalità di rosa che
probabilmente è visibile dallo spazio.
E poi, capisco: Brendan tiene la mano di Winston da sotto il tavolo.
Sussulto, in maniera udibile.
«Chiudi il becco» dice Winston. «Non voglio ascoltarti.»
Il mio entusiasmo si spegne. «Non vuoi sentire le mie congratulazioni?»
«No, non voglio sentire il tuo te lo avevo detto.»
«Si, ma te lo avevo fottutamente detto, vero?» Un’ondata di felicità mi
travolge, evocandomi un sorriso. Non sapevo di esserne ancora capace.
Gioia.
«Sono così felice per voi» dico. «Veramente. Avete appena reso migliore
questa giornata di merda.»
Winston alza lo sguardo, sospettoso. Ma Brendan mi sorride.
Punto il dito nella loro direzione. «Ma se voi due vi trasformate in Adam
e Juliette, giuro su Dio che perderò la testa.»
Brendan spalanca gli occhi. Winston diventa viola.
«Scherzo!» dico. «Sto scherzando! Ovviamente sono super felice per voi
due!» Dopo un battibaleno, mi schiarisco la gola. «No, ma sul serio, però.»
«Vaffanculo, Kenji.»
«Già» ribatto, puntando il dito a mo’ di pistola verso Winston. «Avete
capito bene.»
«Kenji» sento la voce di Castle. «Attento a come parli.»
Mi giro, sorpreso. Pensavo che Castle fosse andato via. «Non sono stato
io!» grido di rimando. «Per la prima volta, giuro, non sono stato io!»
Vedo solo la sua nuca quando si volta, ma in qualche modo capisco che è
ancora infastidito.
Scuoto la testa. Non riesco a smettere di sorridere.
È ora di riorganizzarsi.
Raccogliere i pezzi. Andare avanti. Trovare J. Trovare Adam. Abbattere
la Restaurazione, una volta per tutte. E la verità è che avremo bisogno
dell’aiuto di Warner. Il che significa che Castle ha ragione, devo parlare con
lui. Merda.
Guardo indietro, ai miei amici.
Lily ha la testa sulla spalla di Ian, che sta cercando di nascondere un
sorriso. Winston mi mostra il medio dito, ma sta ridendo. Brendan si porta
alla bocca un altro pezzo di patata e mi scaccia.
«Forza, allora vai.»
«Va bene, va bene» dico. Ma proprio mentre mi sto avviando, vengo
salvato ancora una volta.
Alia arriva da me correndo, col volto raggiante di una felicità che
raramente ho visto su di lei. È trasformativo. Diavolo, è brillante. È facile
non notarla a volte, Alia è silenziosa sia con la presenza che con la voce.
Ma quando sorride in quel modo…
È bellissima.
«James è sveglio» dice, quasi senza fiato. Mi stringe il braccio così forte
che a momenti mi blocca la circolazione.
Ma non importa.
Sono teso da almeno due settimane ormai. Preoccupandomi tutto il tempo
per come stava James e se stava bene. Quando l’altro giorno l’ho visto per
la prima volta, legato e imbavagliato da Anderson, ho sentito le ginocchia
cedere. Non avevamo idea di come stava o di che tipo di trauma aveva
subito. Ma se le ragazze gli permettono di avere visite…
Deve essere un buon segno.
Invio un ringraziamento silenzioso a chiunque stia ascoltando. Mamma.
Papà. Fantasmi. Sono grato.
Alia mi sta trascinando lungo il corridoio e, anche se il suo sforzo fisico
non è necessario, glielo lascio fare. Sembra così entusiasta che non ho il
coraggio di fermarla.
«James è ufficialmente pronto a ricevere visite» dice. «E ha chiesto di
vedere te.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 13
ELLA
JULIETTE
 
Quando mi sveglio ho freddo.
Mi vesto al buio, indossando una fredda tenuta da combattimento e stivali
lucidi. Mi lego i capelli in una coda da cavallo stretta ed eseguo una serie di
abluzioni efficienti nel piccolo lavandino della mia camera.
Denti spazzolati. Viso lavato.
Dopo tre giorni di rigoroso addestramento, sono stata selezionata come
candidata per essere un soldato supremo, sono onorata dalla prospettiva di
essere al servizio del nostro comandante del Nord America. Oggi è la mia
migliore opportunità per dimostrare che merito la posizione.
Mi allaccio gli stivali, facendo il doppio nodo.
Soddisfatta, tiro la chiusura a sgancio rapido. La serratura cigola mentre
si apre e lo spiraglio della mia porta lascia passare un anello di luce che mi
colpisce la vista. Mi volto dal bagliore per guardarmi al piccolo specchio
sopra il lavandino. Sbatto le palpebre, concentrandomi.
Pelle pallida, capelli scuri, occhi strani.
Sbatto di nuovo gli occhi.
Un lampo di luce cattura il mio sguardo nello specchio. Mi volto. Il
monitor adiacente alla mia capsula del sonno è stato buio tutta la notte, ma
ora lampeggia con informazioni:
Juliette Ferrars, a rapporto
Juliette Ferrars, a rapporto
 
Mi vibra la mano.
Guardo in basso, con il palmo rivolto verso l’alto, una morbida luce blu
irradia dalla pelle sottile del mio polso.
 
a rapporto
 
Apro la porta.
L’aria fresca del mattino invade la camera, tremando contro il mio viso. Il
sole sta ancora sorgendo. La luce dorata si diffonde ovunque, distorcendo
brevemente la mia vista. Gli uccelli cinguettano mentre mi arrampico sul
fianco della ripida collina che protegge la mia camera dai venti sferzanti.
Mi trascino oltre la cima.
Immediatamente vedo il comprensorio in lontananza.
Le montagne vacillano nel cielo. Un enorme lago luccica nelle vicinanze.
Mi spingo contrastando le sferzate selvagge e violente del vento mentre
cammino verso la base. Senza un motivo apparente, una farfalla si posa
sulla mia spalla.
Mi fermo.
Prendo l’insetto dalla camicia, pizzicandole le ali in mezzo alle dita. Si
dibatte disperatamente mentre lo studio, scrutandone il corpo orribile
mentre lo rigiro nella mano. Lentamente, aumento l’intensità del mio tocco,
e il suo svolazzare si fa più disperato, le ali si spezzano contro la mia pelle.
Strizzo gli occhi. La farfalla si dimena.
Un basso ronzio risuona dal suo corpo, un ronzio leggero che potrebbe
passare come un urlo. Aspetto pazientemente che la creatura muoia, ma
batte sole le ali più forte, resistendo all’inevitabile. Irritata, chiudo le dita,
schiacciandola nel pugno. Mi pulisco la mano contro uno stelo di grano
troppo cresciuto e proseguo.
È il cinque di maggio.
Tecnicamente siamo in autunno in Oceania, ma le temperature sono
irregolari, incoerenti. Oggi il vento è particolarmente arrabbiato, il che lo
rende insolitamente freddo. Il naso mi diventa insensibile mentre mi faccio
strada attraverso il campo; quando vedo un misero raggio di sole mi ci
avvicino, scaldandomi sotto i suoi raggi. Ogni mattina e ogni sera faccio
questa strada di due miglia fino alla base. Il mio comandante dice che è
necessario.
Non ha spiegato perché.
 
Quando finalmente raggiungo il quartier generale, il sole si è spostato nel
cielo. Alzo lo sguardo verso quella stella morente mentre apro la porta
d’ingresso e, nel momento in cui metto un piede dentro, vengo assalita dal
profumo di caffè bruciato. Silenziosamente percorro il corridoio, ignorando
i suoni e gli sguardi degli operai e dei soldati armati.
Una volta davanti alla porta del suo ufficio mi fermo. Ci vogliono solo un
paio di secondo prima che si apra.
Il Comandante Supremo Anderson mi guarda dalla sua scrivania.
Sorride.
Saluto.
«Entra, soldato.»
Lo faccio.
«Ti stai adattando bene?» dice, chiudendo una cartelletta sulla scrivania.
Non mi chiede di sedermi. «Sono passati alcuni giorni dal tuo trasferimento
dal 241.»
«Si, signore.»
«E?» Si sporge in avanti, unendo le mani davanti a sé. «Come ti senti?»
«Signore?»
Inclina la testa verso di me. Prende una tazza di caffè. L’acre profumo di
quel liquido scuro mi irrita il naso. Lo guardo prenderne un sorso e la
semplice azione mi evoca un sussulto di emozione. La sensazione preme
sulla mia mente in un lampo di memoria: un letto, un maglione verde, un
paio di occhiali neri, poi niente. La miccia non riesce ad accendere una
fiamma.
«Ti manca la tua famiglia?» mi chiede.
«Non ho famiglia, signore.»
«Amici? Un ragazzo?»
Una vaga irritazione mi assale; la metto da parte. «Nessuno, signore.»
Si rilassa sulla sedia, il suo sorriso si allarga. «È meglio così, ovviamente.
È più facile.»
«Sì, signore.»
Si alza in piedi. «Il tuo lavoro in questi ultimi giorni è stato notevole. La
tua formazione è stata un successo, ancora di più di quanto ci
aspettassimo.» Poi mi guarda, aspettando una reazione.
Mi limito a fissarlo.
Prende un altro sorso di caffè prima di posare la tazza accanto a un fascio
di carte. Gira intorno alla scrivania e si ferma di fronte a me, fissandomi.
Un passo avanti e l’odore del caffè mi travolge. Inalo il profumo amaro
delle nocciole e i miei sensi ne vengono inondati, lasciandomi vagamente
nauseata. Tuttavia, fisso dritto.
Più si avvicina, più divento consapevole di lui.
La sua presenza fisica è solida. Categoricamente maschile. È un muro di
muscoli in piedi davanti a me e nemmeno con il completo che indossa
riesce a nascondere le curve sottili e scolpite delle braccia e delle gambe.
Ha un viso duro, la linea della mascella così affilata che riesco a vederla
anche con la vista sfuocata. Profuma di caffè e qualcos’altro, qualcosa di
pulito e profumato. È inaspettatamente piacevole; mi riempie la testa.
«Juliette» dice.
Una punta di inquietudine mi trafigge la mente. È più che insolito per il
Comandante Supremo chiamarmi per nome.
«Guardami.»
Obbedisco, alzando la testa per incontrare i suoi occhi.
Mi fissa, con espressione impetuosa. I suoi occhi sono di una strana
tonalità di blu, e c’è qualcosa in lui, la sua fronte accentuata, il suo naso
affilato, che scuote un antico sentimento nel mio petto. Il silenzio ci
sovrasta, curiosità non dette ci uniscono. Mi scruta il viso così a lungo che
comincio a ispezionarlo anch’io. In qualche modo so che è un’occasione
rara; non potrebbe darmi la possibilità di guardarlo in questo modo mai più.
La sfrutto.
Catalogo le linee deboli che gli increspano la fronte, le esplosioni di stelle
intorno agli occhi. Sono così vicina che riesco a vedere la grana della sua
pelle, ruvida ma non ancora coriacea, la sua ultima rasatura è evidenziata da
un microscopico taglietto alla base della mascella. I suoi capelli castani
sono folti e spessi, gli zigomi alti e le labbra di una tonalità scura di rosa.
Mi tocca il mento con un dito, sollevandomi il viso. «La tua bellezza è
eccessiva» dice. «Non so a cosa stesse pensando tua madre.»
La sorpresa e la confusione mi travolgono, ma al momento non mi viene
in mente che dovrei aver paura. Non mi sento minacciata da lui. Le sue
parole sembrano frettolose. Quando parla intravedo una leggera
scheggiatura sull’incisivo inferiore.
«Oggi» dice. «Le cose cambieranno. Mi seguirai da qui in avanti. Il tuo
dovere sarà proteggere e servire i miei e solo i miei interessi.»
«Sì, signore.»
Le sue labbra si incurvano leggermente. C’è qualcosa lì, dietro i suoi
occhi, qualcosa di più, qualcosa di diverso. «Capisci,» prosegue «che ora mi
appartieni.»
«Sì, signore.»
«I miei ordini sono la tua legge. Non obbedirai a nessun altro.»
«Sì, signore.»
Fa un passo avanti. Le sue iridi sono così blu. Una ciocca di capelli scuri
si curva sul viso. «Sono il tuo padrone.» dice.
«Sì, signore.»
È così vicino che riesco a sentire il suo respiro sulla mia pelle. Caffè,
menta e qualcos’altro, qualcosa di appena accennato, fermentato. Alcol,
realizzo.
Fa un passo indietro. «Mettiti in ginocchio.»
Lo fisso, pietrificata. L’ordine è abbastanza chiaro, ma sembra un errore.
«Signore?»
«In ginocchio, soldato. Ora.»
Scrupolosamente, acconsento. Il pavimento è duro e freddo e la mia
uniforme è troppo rigida per rendere comoda questa posizione. Eppure
rimango in ginocchio così a lungo da notare un ragno curioso che cammina,
guardandomi da sotto una sedia. Fisso i lucidi stivali di Anderson, le curve
muscolose dei suoi polpacci, evidenti anche attraverso i pantaloni. Il
pavimento odora di candeggina, limone e polvere.
Quando mi ordina di farlo, alzo lo sguardo.
«Ora dillo» dice a bassa voce.
Lo guardo, sbattendo le palpebre. «Signore?»
«Dimmi che sono il tuo padrone.»
La mente mi si svuota.
Una sensazione sorda e calda mi avvolge, una penetrante paralisi mi
blocca la lingua, mi inceppa la mente. La paura mi travolge, affogandomi, e
combatto per riemergere in superficie, gremendo la strada per tornare al
presente.
Incontro i suoi occhi.
«Sei il mio padrone» dico.
Il suo sorriso rigido, si curva. La gioia incendia i suoi occhi. «Bene» dice
a bassa voce. «Molto bene. È strano ma credo che tu possa diventare la mia
preferita.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 14
KENJI
 
Mi fermo davanti alla porta.
Warner è qui.
Warner e James, insieme.
A James è stata assegnata un’area privata del MT, che altrimenti è piena e
angusta, e loro due sono qui, Warner seduto su una sedia accanto al letto,
James seduto contro una pila di cuscini. Sono così sollevato di vedere che
sta bene. I suoi capelli biondo sporco sono un po’ troppo lunghi, ma i suoi
luminosi occhi azzurri sono aperti e vivaci. Tuttavia, sembra un po’ più che
stanco, il che probabilmente spiega la cannula intravenosa collegata al suo
corpo.
In circostanza normali, James dovrebbe essere in grado di guarire sé
stesso, ma se il suo corpo è esausto il processo è difficoltoso. Doveva essere
malnutrito e disidratato. Le ragazze, probabilmente, stanno facendo il
possibile per accelerare il processo di guarigione. Provo un sollievo
immediato.
James starà meglio. È un ragazzino così forte. Dopo tutto quello che ha
passato…
Supererà anche questo. E non sarà solo.
Guardo di nuovo Warner, sembra solo leggermente migliorato dall’ultima
volta che l’ho visto. Dovrebbe davvero lavarsi il sangue dal corpo. Non è da
lui trascurare le basilari regole dell’igiene, il che dovrebbe essere sufficiente
per capire che è vicino a un completo esaurimento nervoso, ma almeno per
ora sembra stare bene. Lui e James sono intenti a conversare.
Resto fermo davanti alla porta ad origliare. Capisco solo dopo che dovrei
concedere loro un po’ di privacy, ma a quel punto sono troppo coinvolto
emotivamente per andarmene. Sono quasi certo che Anderson abbia detto a
James la verità su Warner. Oppure, non lo so esattamente. Non riesco a
immaginare una scena in cui Anderson riveli allegramente a James che
Warner è suo fratello, o che lui è suo padre. Ma in qualche modo riesco a
capire che James lo sa. Qualcuno gliel’ha detto. Lo capisco dallo sguardo
sul suo viso.
È il loro momento da vieni da Gesù.
È il momento in cui Warner e James hanno un faccia a faccia, non come
estranei, ma come fratelli. Surreale.
Ma stanno parlando a bassa voce e riesco a cogliere solo poche parole
mozzate della loro conversazione, quindi decido di fare qualcosa di
riprovevole: divento invisibile e mi introduco nella stanza.
Ma non appena lo faccio, vedo Warner irrigidirsi.
Merda.
Lo vedo guardarsi intorno, con occhi attenti. I sensi allertati.
Lentamente, faccio qualche passo indietro.
«Non stai rispondendo alla mia domanda» dice James, prendendogli un
braccio. Warner se lo scrolla di dosso, socchiudendo gli occhi verso un
punto a pochi passi da dove mi trovo.
«Warner?»
Con riluttanza, Warner si volta guardando quel bambino di dieci anni.
«Sì» dice distratto. «Voglio dire… Cosa stavi dicendo?»
«Perché non me l’avevi mai detto?» dice James, sedendosi più dritto. Le
lenzuola gli cadono di dosso, fermandosi sul suo grembo. «Perché non mi
hai mai detto niente prima? Per tutto il tempo che abbiamo vissuto
insieme…»
«Non volevo spaventarti.»
«Perché avrei dovuto essere spaventato?»
Warner sospira, guarda fuori dalla finestra quando dice, a bassa voce
«Perché non sono famoso per il mio fascino.»
«Non è giusto» dice James. Sembra sinceramente turbato, ma la sua
stanchezza evidente gli impedisce di reagire. «Ho visto cose peggiori di te.»
«Sì. Adesso lo capisco.»
«E nessuno me lo ha detto. Non posso credere che nessuno me l’abbia
detto. Nemmeno Adam. Ero così arrabbiato con lui» James esita. «Lo
sapevano tutti? Kenji lo sapeva?»
Mi irrigidisco.
Warner si volta di nuovo, questa volta fissando il punto preciso dove mi
trovo quando dice, «Perché non glielo chiedi tu stesso?»
«Figlio di puttana» mormoro, dissolvendo la mia invisibilità.
Warner per poco non sorride. James spalanca gli occhi.
Questo non era l’incontro che speravo.
Tuttavia, il viso di James mostra un grande sorriso che, sinceramente, fa
miracoli per la mia autostima. Getta via le coperte e cerca di saltare fuori
dal letto, a piedi nudi e ignaro dell’ago conficcato nel braccio, e in quei due
secondi e mezzo provo sia gioia che terrore.
Urlo un avvertimento, correndo in avanti per impedirgli di strapparsi la
pelle, ma Warner mi batte. È già in piedi, spingendolo indietro non troppo
delicatamente.
«Oh» James arrossisce. «Scusate.»
Lo raggiungo comunque, stringendolo in un lungo ed eccessivo
abbraccio, e il modo in cui si aggrappa a me mi fa pensare di essere il primo
a farlo. Cerco di respingere un impeto di rabbia, ma non ci riesco. È un
bambino di dieci anni, per l’amor di Dio. Ha passato l’inferno. Com’è
possibile che nessuno gli ha dato la rassicurazione fisica di cui ha quasi
certamente bisogno in questo momento?
Quando finalmente ci separiamo, James ha le lacrime agli occhi. Si
asciuga il viso e mi volto, cercando di concedergli un po’ di privacy, ma
quando mi siedo ai piedi del letto colgo un lampo di dolore negli occhi di
Warner. Dura solo mezzo secondo, ma è abbastanza per farmi provare
dolore per lui. È abbastanza per farmi pensare che potrebbe essere di nuovo
umano.
«Ehi» dico, rivolgendomi direttamente a Warner per la prima volta.
«Allora cosa, uhm… Cosa ci fai qui?»
Warner mi guarda come se fossi un insetto. Il suo sguardo abituale. «Cosa
pensi che faccia qui?»
«Veramente?» dico, incapace di nascondere la mia sorpresa. «È così
perbene da parte tua. Non pensavo che saresti stato così… emotivamente…
responsabile.» Mi schiarisco la gola. Sorrido a James, che ci sta fissando
con curiosità. «Ma sono felice di sbagliarmi, fratello. E mi dispiace di averti
giudicato male.»
«Sono qui per avere informazioni» dice freddamente Warner. «James è
una delle poche persone che potrebbe essere in grado di dirci dove si trova
mio padre.»
La mia compassione si trasforma rapidamente in polvere.
Prende fuoco.
Si trasforma in rabbia.
«Sei qui per interrogarlo?» dico, quasi gridando. «Sei pazzo? Il ragazzo si
è appena ripreso da un trauma incredibile e tu stai cercando di estorcergli
delle informazioni? Probabilmente è stato torturato. È un bambino, cavolo.
Cosa diavolo ti prende?»
Warner resta composto dopo la mia teatralità. «Non è stato torturato.»
Questo mi blocca.
Mi rivolgo a James. «Non ti hanno torturato?»
Scuote la testa. «Non esattamente.»
«Uhm» ho il viso corrucciato. «Voglio dire, non fraintendermi, sono
contentissimo, ma se non ti ha torturato, cosa ti ha fatto esattamente
Anderson?»
James fa spallucce. «Per lo più mi ha lasciato in isolamento. Non mi
hanno picchiato,» dice, massaggiandosi distrattamente le costole «ma le
guardie erano piuttosto severe. E non mi davano molto da mangiare.» Fa di
nuovo spallucce. «Ma, onestamente, la parte peggiore era non poter vedere
Adam.»
Prendo di nuovo James tra le braccia, lo tengo stretto. «Sono così
dispiaciuto» dico, teneramente. «Deve essere stato orribile. E non ti hanno
fatto vedere Adam per niente? Neanche una volta?» mi tiro indietro. Lo
guardo negli occhi. «Sono veramente dispiaciuto. Sono sicuro che sta bene,
piccolo ometto. Lo troveremo. Non preoccuparti.»
Warner emette un suono. Sembra quasi una risata.
Mi volto arrabbiato. «Ma che diavolo ti prende?» dico. «Tutto questo non
è divertente.»
«Davvero? Trovo la situazione esilarante.»
Sto per ribattere, dicendo qualcosa che non si dovrebbe dire di fronte a un
bambino di dieci anni, ma quando guardo James, mi blocco. Sta scuotendo
rapidamente la testa verso di me, con il labbro inferiore tremolante. Sembra
che stia per piangere di nuovo.
Mi volto di nuovo verso Warner. «Va bene, cosa sta succedendo?»
Warner quasi sorride quando mi dice, «Non sono stati rapiti.»
Le sopracciglia quasi mi volano in fronte. «Cosa dici?»
«Non sono stati rapiti.»
«Non capisco.»
«Ovviamente, non capisci.»
«Non è il momento, fratello. Dimmi cosa sta succedendo.»
«Kent ha rintracciato Anderson da solo» afferma Warner, il suo sguardo
si sposta su James. «Ha offerto la sua fedeltà in cambio di protezione.»
Il mio corpo si affloscia. Per poco non cado dal letto.
Warner continua: «Kent non mentiva quando ha detto che avrebbe
provato ad ottenere l’amnistia. Ma ha tralasciato la parte sull’essere un
traditore.»
«No. Non è possibile. Non è fottutamente possibile.»
«Non c’è stato alcun sequestro di persona» continua Warner. «Nessun
rapimento. Kent ha barattato sé stesso in cambio di protezione per James.»
Questa volta cado davvero dal letto. «Barattato sé stesso… Come?»
riesco a tirarmi su dal pavimento, inciampando nei miei piedi. «Cos’ha
barattato Adam? Anderson conosce già tutti i nostri segreti.»
È James che dice a bassa voce «Ha dato loro il suo potere.»
Lo fisso, sbattendo le palpebre come un idiota.
«Non capisco» dico. «Come puoi dare a qualcuno il tuo potere? Non puoi
semplicemente farlo. Giusto? Non è un paio di pantaloni che puoi togliere e
passare a qualcun altro.»
«No» ribatte Warner. «Ma è qualcosa che la Restaurazione sa fare. In
quale altro modo pensi che mio padre abbia preso i poteri curativi di Sonya
e Sara?»
«Adam ha detto loro quello che s-sa fare» dice James, con voce rotta.
«Ha detto loro che può usare il suo potere per spegnere quello di un’altra
persona. Ha pensato che per loro p-potesse essere utile.»
«Prova a pensare alle possibilità» dice Warner, stupito. «Immagina come
potrebbero armare un potere come quello per un uso globale, come
potrebbero renderlo così potente da eliminare effettivamente ogni singolo
gruppo ribelle. Riducendo la loro Innaturale opposizione a zero.»
«Cristo.»
Penso di stare per svenire. Mi sento davvero male. Ho le vertigini. Come
se non potessi respirare. Come se fosse impossibile. «Assolutamente no»
dico, praticamente sputando le parole. «Non c’è modo. Non è possibile.»
«Una volta ho detto che l’abilità di Kent era inutile» dice Warner, a bassa
voce. «Ma ora capisco di essere stato uno sciocco.»
«Non voleva farlo» dice James. Sta piangendo copiosamente ora, lacrime
silenziose scendono sul suo viso. «Lo giuro, lo ha fatto solo per salvarmi.
Ha offerto l’unica cosa che aveva, l’unica cosa che pensava volessero, per
tenermi al sicuro. So che non voleva farlo. Era solo disperato. Pensava di
fare la cosa giusta. Continuava a dirmi che mi avrebbe tenuto al sicuro.»
«Correndo tra le braccia dell’uomo che ha abusato di lui per tutta la sua
vita?» mi prendo i capelli tra le mani. «Questo non ha senso. Come fa
questo… Come... Come?»
All’improvviso capisco, alzo lo sguardo.
«E poi guarda cosa ha fatto» dico, sbalordito. «Anderson ti ha usato come
esca comunque. Ti ha portato qui per usarti come leva. Ti avrebbe ucciso,
anche dopo tutto ciò a cui Adam ha rinunciato.»
«Kent era un idiota disperato» dice Warner. «Il solo fatto che era disposto
a fidarsi di mio padre per il benessere di James ci dice esattamente quanto
fosse distrutto.»
«Era disperato, ma non è un idiota» dice James con rabbia, con gli occhi
che si riempiono di nuovo di lacrime. «Mi vuole bene e stava solo cercando
di tenermi al sicuro. Sono così preoccupato per lui. Sono terrorizzato che gli
accada qualcosa. E ho tanta paura che Anderson gli abbia fatto qualcosa di
orribile» James deglutisce forte. «Cosa facciamo ora? Come riavremo
indietro Adam e Juliette?»
Stringo gli occhi, provo a fare dei respiri profondi. «Ascolta, non ti
preoccupare di questo, ok? Li riavremo indietro. E quando lo faremo
ucciderò Adam io stesso.»
James sussulta.
«Ignoralo» dice Warner. «Non intendeva dirlo.»
«Si, dicevo sul serio.»
Warner fa finta di non avermi sentito. «In base alle informazioni che ho
raccolto prima che tu arrivassi,» dice con calma «sembra che mio padre
stesse trattenendo tutti nel Settore 45, proprio come diceva Sam. Ma non è
lì adesso, di questo ne sono certo.»
«Come puoi essere certo di qualcosa in questo momento?»
«Perché conosco mio padre» dice. «So cos’è più importante per lui. E so
che quando è partito da qui, era gravemente e orribilmente ferito. C’è un
solo posto dove potrebbe essere andato in quello stato.»
Lo sguardo, sbattendo le palpebre. «Dove?»
«In Oceania. È tornato da Maximillian Sommers, l’unica persona capace
di rimetterlo a posto.»
La rivelazione mi strazia. «Oceania? Per favore, dimmi che stai
scherzando. Dobbiamo tornare in Oceania?» gemo. «Dannazione. Ciò
significa che dobbiamo rubare un altro aereo.»
«Noi,» dice irritato «non faremo niente.»
«Certo che…»
Proprio in quel momento entrano le ragazze. Strabuzzano gli occhi
vedendo me e Warner. Due paia di occhi si aprono e si chiudono
guardandoci.
«Cosa ci fate qui?» chiedono contemporaneamente.
Warner si alza in piedi in un istante. «Stavo proprio andando via.»
«Penso che intendessi che stavamo proprio andando via.» dico, brusco.
Warner mi ignora, fa un cenno verso James e si dirige alla porta. Lo sto
seguendo fuori dalla stanza prima che mi ricordi improvvisamente…
«James» dico, girandomi. «Starai bene, lo sai, vero? Troveremo Adam e
lo porteremo a casa sano e salvo. Il tuo compito d’ora in poi sarà rilassarti,
mangiare cioccolato e dormire. Ok? Non preoccuparti di nulla. Hai capito?»
James mi guarda, sbattendo gli occhi. Annuisce.
«Ottimo» faccio un passo avanti per dargli un bacio sulla testa. «Ottimo»
dico di nuovo. «Andrà tutto bene. Si sistemerà ogni cosa. Mi assicurerò che
vada tutto bene, ok?»
James mi fissa. «D’accordo» dice, asciugandosi le ultime lacrime.
«Ottimo» dico per la terza volta e annuisco, fissando ancora il suo visino
innocente. «Ok, succederà presto. Va bene?»
Finalmente James sorride. «Va bene.»
Gli sorrido di rimando, dandogli tutto che ho, e poi schizzo fuori dalla
porta, sperando di raggiungere Warner prima che cerchi di salvare J senza
di me.
 
 
 
 
CAPITOLO 15
ELLA
JULIETTE
 
È un sollievo non parlare.
Qualcosa è cambiato tra noi questa mattina, qualcosa si è rotto. Anderson
sembra rilassato di fronte a me in un modo inusuale, ma non è compito mio
interrogarlo. Sono onorata di aver ottenuto questa posizione, di essere il suo
più fidato soldato supremo e questo è tutto ciò che conta. Oggi è il mio
primo giorno di lavoro ufficiale e sono felice di essere qui, anche quando lui
mi ignora completamente.
In effetti, mi piace.
Trovo conforto nel fingere di scomparire. Esisto solo per seguirlo mentre
si sposta da un’attività all’altra. Resto in piedi, guardando dritto davanti a
me. Non lo guardo mentre lavora, ma sento la sua presenza costantemente.
Occupa tutto lo spazio disponibile. Sono in sintonia con ogni suo
movimento, con ogni suo rumore. È il mio lavoro ora conoscerlo
completamente, anticipare i suoi bisogni e le sue paure, proteggerlo con la
mia vita e servire interamente i suoi interessi.
Quindi ascolto, per ore, i dettagli.
Lo scricchiolio della sedia quando si appoggia allo schienale, per
riflettere. I sospiri che gli sfuggono mentre digita. La sedia in pelle e i
pantaloni di lana che si incontrano, quando si sposta. Il tonfo sordo della
tazza di ceramica che colpisce la superficie della scrivania in legno. Il
tintinnio del cristallo, quando versa veloce il bourbon. Il profumo acuto e
dolce del tabacco e il fruscio della carta velina. La sequenza dei tasti. Una
penna che graffia. L’improvviso sfrigolare di un fiammifero. Lo zolfo. I
tasti in sequenza. Lo scatto di un elastico. Il fumo, che mi fa lacrimare gli
occhi. Una pila di carte messa insieme, come un mazzo di carte. La sua
voce, profonda e melodica, in una serie di telefonate così brevi che non
riesco a distinguerle. Non sembra aver mai bisogno di usare il bagno. Non
penso ai miei bisogni e lui non mi chiede nulla. Un’altra sequenza di tasti.
Di tanto in tanto mi guarda, studiandomi, e tengo gli occhi fissi davanti a
me. In qualche modo, percepisco il suo sorriso.
Sono un fantasma.
Aspetto.
Sento poco. Imparo poco.
Infine…
«Vieni.»
È in piedi, fuori dalla porta e mi affretto a seguirlo. Siamo in alto,
all’ultimo piano del complesso. Il corridoio gira intorno a un cortile interno,
al centro è posizionato un grande albero, coi rami appesantiti da foglie rosse
e arancioni. Colori autunnali. Senza muovere la testa, guardo fuori da una
delle tante finestre che abbelliscono i corridoi e la mia mente registra
l’incongruenza delle due immagini. Fuori, le cose sono uno strano
miscuglio di verde e desolazione. Dentro, questo albero è caldo e sfumato
di rosa. Un perfetto fogliame autunnale.
Mi scrollo di dosso il pensiero.
Devo camminare due volte più veloce per stare al passo con Anderson.
Non si ferma per nessuno. Uomini e donne in camice da laboratorio si
fanno da parte mentre ci avviciniamo, mormorando scuse al nostro
passaggio, e sono sorpresa dalla sensazione vertiginosa che mi assale. Mi
piace la loro paura. Mi piace questo potere, questa sensazione di dominio
impenitente.
La dopamina mi inonda il cervello.
Accelero, affrettandomi a tenere il passo. Mi viene in mente solo ora che
Anderson non guarda mai indietro per assicurarsi che lo stia seguendo e mi
chiedo cosa succederebbe se si accorgesse che sono scomparsa. E poi,
altrettanto rapidamente, il pensiero mi sembra bizzarro. Non ha motivo di
voltarsi indietro. Non vorrei mai scomparire.
Oggi il comprensorio sembra più affollato del solito. Gli annunci
risuonano attraverso gli altoparlanti e l’aria intorno a me si riempie di
fervore. Alcuni nomi vengono chiamati, delle richieste vengono fatte. Le
persone vanno e vengono.
Prendiamo le scale.
Anderson non si ferma mai, non sembra mai senza fiato. Si muove con la
forza di un uomo più giovane, ma con il tipo di sicurezza acquisita solo con
l’età. Si porta dietro una certezza sia terrificante che ambiziosa. I volti
impallidiscono quando lo vedono. La maggior parte distoglie lo sguardo.
Alcuni non possono fare a meno di fissarlo. Una donna per poco non sviene
quando viene sfiorata dal suo corpo e Anderson non interrompe nemmeno il
passo alla scenata.
Sono affascinata.
Gli altoparlanti crepitano. Una robotica e morbida voce femminile
annuncia una situazione di codice verde con tanta calma che non posso fare
a meno di essere sorpresa dalla reazione collettiva. Sono testimone di
qualcosa simile al caos mentre le porte si aprono sbattendo all’interno
dell’edificio. Sembra accadere tutto in sincronia, un effetto domino che
riecheggia lungo i corridoi di tutto il comprensorio. Uomini e donne in
camici da laboratorio scattano e sciamano a tutti i livelli, bloccando le
passerelle mentre si muovono freneticamente.
Tuttavia, Anderson non si ferma. Il mondo gira intorno a lui, facendogli
posto. Rallenta quando lui accelera. Non tiene conto di nessuno. Di niente.
Mi faccio un appunto.
Infine, raggiungiamo una porta. Anderson preme la mano contro lo
scanner biometrico, quindi scruta in una telecamera che legge i suoi occhi.
La porta si apre.
Sento odore di qualcosa di sterile, come un antisettico, e nel momento in
cui entriamo nella stanza l’odore mi brucia il naso, facendomi lacrimare gli
occhi. L’ingresso è insolito; un breve corridoio nasconde alla vista il resto
della stanza. Mentre ci avviciniamo sento il bip di tre monitor, a tre diversi
livelli di decibel. Quando giriamo l’angolo, le dimensioni della stanza si
quadruplicano. Lo spazio è vasto e luminoso, la luce naturale si combina
con l’incandescente bagliore bianco delle lampadine artificiali sul soffitto.
C’è poco nella stanza se non un letto singolo e una figura legata sopra. Il
segnale acustico non arriva da tre macchine, bensì da sette, che sembrano
tutte essere collegare al corpo incosciente di un ragazzo. Non lo conosco,
ma non può essere molto più grande di me. Ha i capelli quasi rasati a zero,
una soffice peluria marrone interrotta soltanto dai fili che gli perforano il
cranio. Il lenzuolo è tirato su fino al collo, quindi non posso vedere molto di
più del suo viso immobile, ma vederlo lì così legato, mi ricorda qualcosa.
Vengo travolta da un lampo di ricordo.
È vago, distorto. Cerco di rimuovere gli strati nebulosi, ma quando riesco
a intravedere qualcosa, una caverna, un uomo nero e alto, una vasca piena
d’acqua, sento un pizzico di rabbia acuta ed elettrizzante che mi fa tremare
le mani. Mi disancora.
Scatto facendo un passo indietro e scuoto la testa in una frazione di
secondo, cercando di ricompormi, ma ho la mente annebbiata, confusa.
Quando finalmente mi rimetto in sesto, mi rendo conto che Anderson mi sta
guardando.
Lentamente, fa un passo avanti, socchiudendo gli occhi verso di me. Non
dice niente, ma sento, senza sapere perché, che non mi è permesso
distogliere lo sguardo. Devo mantenere il contatto visivo per tutto il tempo
che desidera. È brutale.
«Hai sentito qualcosa quando sei entrata qui» dice.
Non è una domanda. Non sono sicura che richieda una risposta.
Tuttavia…
«Niente di importante, signore.»
«Importante» dice, un accenno di sorriso gioca con le sue labbra. Fa
qualche passo verso una delle enormi finestre, stringe le mani dietro la
schiena. Per un po’ resta in silenzio.
«Molto interessante» dice alla fine. «Non abbiamo mai discusso di cos’è
importante.»
Sento la paura crescere, strisciando lungo la mia spina dorsale.
Sta ancora fissando fuori dalla finestra quando dice a voce bassa, «Non
mi devi nascondere nulla. Tutto ciò che senti, ogni emozione che provi,
appartiene a me. Hai capito?»
«Sì, signore.»
«Hai sentito qualcosa quando sei entrata qui» ripete. Questa volto il suo
tono è pesante per qualcosa, qualcosa di oscuro e terrificante.
«Sì, signore.»
«E cos’era?»
«Ho provato della rabbia, signore.»
A questo punto si volta. Inarca le sopracciglia.
«Dopo la rabbia, mi sono sentita confusa.»
«Ma rabbia» dice facendo un passo avanti. «Perché rabbia?»
«Non lo so, signore.»
«Riconosci questo ragazzo?» dice, indicando il corpo prono senza
nemmeno guardarlo.
«No, signore.»
«No.» Stringe la mascella. «Ma ti ricorda qualcuno.»
Esito. I sussulti mi minacciano e cerco di allontanarli. Lo sguardo di
Anderson è così intenso che riesco a malapena a guardarlo negli occhi.
Guardo di nuovo il viso del ragazzo addormentato.
«Sì, signore.»
Anderson restringe gli occhi. Aspetta che io dica qualcos’altro.
«Signore» dico piano. «Mi ricorda lei.»
Inaspettatamente, Anderson si irrigidisce. La sorpresa si dipinge sul suo
volto e improvvisamente, sorprendentemente…
Scoppia a ridere.
È una risata così genuina che sembra scioccarlo molto di più di quanto
sconvolga me. Alla fine, la risata si trasforma in un sorriso. Anderson si
infila le mani in tasca e si appoggia al telaio della finestra. Mi fissa con
un’espressione quasi affascinata, ed è un momento così puro, così
incontaminato dalla malizia che mi colpisce per quanto è bello.
Più di quello.
Lo guardo, qualcosa nei suoi occhi, nel modo in cui si muove, nel modo
in cui sorride, solo vederlo all’improvviso mi provoca una scossa al cuore.
Un calore antico. Un caleidoscopio di farfalle morte si solleva a una breve
e secca raffica di vento.
Mi fa sentire male.
Lo sguardo di pietra ritorna sul suo viso. «Quello. Proprio lì.» Disegna un
cerchio nell’aria con il dito indice. «Quello sguardo sul tuo volto. Cos’era?»
Spalanco gli occhi. Una sensazione di disagio mi invade, riscaldandomi
le guance.
Per la prima volta esito.
Si muove rapidamente, venendo verso di me in modo così arrabbiato che
mi chiedo se ho la capacità di restare immobile. Rozzamente, mi prende il
mento con la mano, mi solleva il viso. Non ho segreti quando è così vicino.
Non posso nascondere niente.
«Ora» dice, a voce bassa. Arrabbiato. «Dimmelo. Ora.»
Interrompo il contatto visivo, cercando disperatamente di raccogliere i
miei pensieri e ringhia per obbligarmi a guardarlo.
Mi costringo ad incontrare i suoi occhi. E poi mi odio, odio la mia bocca
per aver tradito la mia mente. Odio la mia mente per quello che ho pensato.
«Lei… lei è estremamente bello, signore.»
Anderson abbassa la mano come se fosse stato ustionato. Indietreggia,
sembrando per la prima volta…
A disagio.
«Stai…» Si ferma, aggrotta la fronte. E poi in un attimo la rabbia
annebbia la sua espressione. La sua voce è praticamente un ringhio quando
dice, «Mi stai mentendo.»
«No, signore.» Odio il suono della mia voce, il panico ansimante.
I suoi occhi mi mettono a fuoco. Deve vedere qualcosa nella mia
espressione che lo fa riflettere, perché la rabbia evapora dal suo volto.
Mi guarda sbattendo le palpebre.
Poi dice attentamente: «In mezzo a tutto questo…» indica la stanza, la
figura addormentata legata alle macchine «…di tutte le cose che potevano
venirti in mente, stavi pensando… che mi trovi attraente.»
Un caldo traditore mi inonda il viso. «Sì, signore.»
Anderson aggrotta le sopracciglia.
Sembra che stia per dire qualcosa e poi esita. Per la prima volta sembra
disarmato.
Passano alcuni secondi di un silenzio torturante e non sono sicura di
come procedere.
«È inquietante» dice alla fine Anderson, perlopiù tra sé e sé. Si preme
due dita all’interno del polso e si porta il polso alla bocca.
«Sì» dice a bassa voce. «Dì a Max che c’è stato uno sviluppo insolito. Ho
bisogno di vederlo subito.»
Anderson mi lancia una breve occhiata prima di congedarsi, con un
singolo cenno della testa, l’intero scambio è mortificante.
Si avvicina al ragazzo legato al letto e dice, «Questo giovane uomo fa
parte di un esperimento in corso.»
Non sono sicura di cosa dire, quindi non dico niente.
Anderson si china sul ragazzo, giocando con alcuni fili, e poi si
irrigidisce all’improvviso. Mi guarda di sottecchi. «Riesci a immaginare
perché questo ragazzo faccia parte di un esperimento?»
«No, signore.»
«Ha un dono» dice Anderson, raddrizzandosi. «È venuto spontaneamente
da me e si è offerto di condividerlo.»
Sbatto le palpebre, ancora incerta su come rispondere.
«Ma ci sono molto di voi Innaturali che dilagano su questo pianeta» dice
Anderson. «Moltissimi poteri. Moltissime abilità diverse. I nostri manicomi
pullulano di loro, invasi dal potere. Ho accesso a quasi tutto ciò che voglio.
Allora cosa lo rende speciale, eh?» Inclina la testa verso di me. «Quale
potere potrebbe avere che sia più grande del tuo? Più utile?»
Di nuovo, non dico niente.
«Vuoi saperlo?» chiede, con un accenno di un sorriso sulle labbra.
Sembra un trucco. Considero le mie opzioni.
Infine dico, «Voglio saperlo solo se vuole dirmelo, signore.»
Il sorriso di Anderson sboccia. Denti bianchi. Piacere genuino.
Sento il petto scaldarsi alla sua lode silenziosa. L’orgoglio mi fa
raddrizzare le spalle. Distolgo lo sguardo, fissando il muro in silenzio.
Tuttavia, vedo Anderson voltarsi di nuovo verso il ragazzo, valutandolo
con un singolo sguardo attento. «Questi poteri erano comunque sprecati su
di lui.»
Prende il touchpad inserito in uno scomparto del letto del ragazzo e inizia
a toccare lo schermo digitale, scorrendolo alla ricerca di informazioni. Alza
lo sguardo, una volta, verso i monitor che registrano i segnali vitali e
corruga la fronte. Alla fine sospira, passandosi una mano tra i capelli
perfettamente sistemati. Penso siano meglio scompigliati. Più caldi. Più
morbidi. Familiari.
L’osservazione mi spaventa.
Mi volto bruscamente e guardo fuori dalla finestra, chiedendomi
all’improvviso se mai mi sarà permesso di usare il bagno.
«Juliette.»
Il tono rabbioso della sua voce mi provoca palpitazioni. Mi raddrizzo in
un attimo. Guardo fisso davanti a me.
«Sì, signore» dico, quasi senza fiato.
Mi rendo conto che non mi sta nemmeno guardando. È fermo, sta
digitando qualcosa sul touchpad quando, con calma, dice, «Stavi sognando
ad occhi aperti?»
«No, signore.»
Rimette il touchpad al suo posto, sento il clic metallico quando si
connette.
Alza lo sguardo.
«Sta diventando fastidioso» dice a bassa voce. «Sto già perdendo la
pazienza con te e non siamo nemmeno arrivati alla fine del primo giorno.»
Esita. «Vuoi sapere cosa succede quando perdo la pazienza con te,
Juliette?»
Mi tremano le dita; stringo i pugni. «No, signore.»
Tende la mano. «Allora dammi ciò che mi appartiene.»
Faccio un passo avanti, incerta, e la sua mano tesa si gira con il palmo
verso l’alto, fermandomi sul posto. Stringe la mascella.
«Mi riferisco alla tua mente» dice. «Voglio sapere a cosa stavi pensando
quando hai perso la testa abbastanza a lungo da guardare fuori dalla
finestra. Voglio sapere cosa stai pensando in questo esatto momento. Vorrò
sempre sapere cosa stai pensando» dice bruscamente. «In ogni momento.
Voglio ogni parola, ogni dettaglio, ogni emozione. Ogni singolo pensiero
libero e svolazzante che ti passa per la testa, lo voglio» dice, avvicinandosi
a me. «Capisci? È mio. Tu sei mia.»
Si ferma a pochi centimetri dalla mia faccia.
«Sì, signore» dico, la voce mi viene meno.
«Lo chiederò una volta sola» prosegue, facendo uno sforzo per contenere
il tono di voce. «E se mi renderai di nuovo difficile ottenere le risposte di
cui ho bisogno, sarai punita. È chiaro?»
«Sì, signore.»
Un muscolo guizza sulla sua mascella. Stringe gli occhi a fessura. «Cosa
stavi sognando ad occhi aperti?»
Ingoio. Lo guardo. Distolgo lo sguardo.
A bassa voce dico:
«Mi chiedevo, signore, se mi permetterà mai di usare il bagno.»
Il viso di Anderson sbianca improvvisamente.
Sembra sbalordito. Mi guarda ancora un attimo prima di dire
insipidamente: «Ti stavi chiedendo se potevi usare il bagno.»
«Sì, signore.» Avvampo.
Anderson incrocia le braccia sul petto. «È tutto?»
Mi sento quasi costretta a dirgli quello che pensavo sui suoi capelli, ma
trattengo l’impulso. Vengo travolta dal senso di colpa per la mia debolezza,
ma la mia mente è placata da uno calore strano e familiare e
improvvisamente non mi sento affatto colpevole per essere stata onesta solo
in parte.
«Sì, signore. È tutto.»
Anderson inclina la testa verso di me. «Nessuna nuova ondata di rabbia?
Nessuna domanda su cosa stiamo facendo qui? Nessuna preoccupazione per
il benessere del ragazzo,» lo indica «o per i poteri che potrebbe avere?»
«No, signore.»
«Capisco» dice.
Lo fisso.
Anderson fa un respiro profondo e si apre un bottone della giacca. Si
passa le mani nei capelli. Inizia a camminare.
Mi rendo conto che si sta agitando e non so cosa fare al riguardo.
«È quasi divertente» dice. «Questo è esattamente quello che volevo,
eppure, in qualche modo, sono deluso.»
Emette un respiro profondo e acuto e si volta.
Mi studia.
«Cosa faresti,» dice, facendo un cenno verso sinistra «se ti chiedessi di
buttarti giù da quella finestra?»
Mi volto, esaminando la grande vetrata che incombe su entrambi.
È un’enorme finestra circolare che occupa metà del muro. I colori si
diffondono per terra, creando una bellissima opera d’arte astratta sul
pavimento levigato di cemento. Mi avvicino alla finestra, faccio scorrere le
dita sugli ornamenti di vetro. Guardo in basso, scorgendo il verde
sottostante. Siamo ad almeno centocinquanta metri dal suolo, ma la distanza
non mi ispira paura. Potrei saltare facilmente senza farmi male.
Alzo lo sguardo. «Lo farei con piacere, signore.»
Fa un passo avanti. «E se ti chiedessi di farlo senza usare i tuoi poteri? E
se il mio semplice desiderio fosse che tu ti buttassi giù?»
Vengo travolta da un’ondata di calore bollente e bruciante, chiudendomi
la bocca. Legandomi le braccia. Non riesco ad ordinare alle mie labbra di
aprirsi contro questo terrificante assalto, ma posso immagine che tutto
questo sia parte di una sfida.
Anderson sta provando a testare la mia fedeltà.
Sta cercando di farmi cadere in trappola disobbedendo. Il che significa
che devo mettere alla prova la mia lealtà.
Ci vuole una quantità straordinaria della mia forza soprannaturale per
combattere le forze invisibili che mi tengono chiusa la bocca, ma ci riesco.
E quando alla fine parlo, dico:
«Lo farei con piacere, signore.»
Anderson fa un altro passo avanti, con gli occhi che scintillano con
qualcosa… Qualcosa di completamente nuovo. Qualcosa simile alla
meraviglia.
«Lo faresti davvero?» dice dolcemente.
«Sì, signore.»
«Faresti qualunque cosa io ti chieda? Qualsiasi cosa?»
«Sì, signore.»
Anderson mi sta ancora guardando quando porta di nuovo il polso alla
bocca e dice a bassa voce:
«Vieni qui. Adesso.»
Abbassa il polso.
Il cuore inizia a battermi forte. Anderson si rifiuta di distogliere lo
sguardo dal mio, i suoi occhi diventano sempre più blu e luminosi ad ogni
secondo che passa. È quasi come se sapesse che solo con gli occhi riesce a
turbare il mio equilibrio. E poi, senza preavviso, mi afferra il polso. Mi
rendo conto troppo tardi che sta controllando le mie pulsazioni.
«Troppo veloci» dice dolcemente. «Come un uccellino. Dimmi, Juliette.
Hai paura?»
«No, signore.»
«Sei emozionata?»
«Io… io non lo so, signore.»
La porta si apre e Anderson mi lascia il polso. Per la prima volta da pochi
minuti, Anderson distoglie lo sguardo da me, interrompendo finalmente
quella dolorosa e invisibile connessione tra di noi. Il mio corpo si rilassa per
il sollievo e rapidamente mi ricordo di tornare sull’attenti.
Un uomo entra nella stanza.
Capelli scuri, occhi scuri, pelle pallida. È giovane, più giovane di
Anderson penso, ma più vecchio di me. Indossa un auricolare. Sembra
esitante.
«Juliette,» dice Anderson «questo è Darius.»
Mi volto per guardarlo.
Darius non dice niente. Sembra paralizzato.
«Non avrò più bisogno dei servizi di Darius» dice Anderson, guardando
verso di me.
Darius sbianca. Anche da dove mi trovo, riesco a vedere il suo corpo
cominciare a tremare.
«Signore?» dico confusa.
«Non è ovvio?» dice Anderson «Vorrei che ti sbarazzassi di lui.»
Comincio a capire. «Certamente, signore.»
Nel momento in cui mi volto in direzione di Darius, lui urla; è un suono
acuto e agghiacciante che mi irrita le orecchie. Fa un passo in direzione
della porta e lo aggiro velocemente allungando il braccio per fermarlo. La
forza del mio potere lo fa volare dall’altra parte della stanza, il suo corpo
sbatte forte contro l’acciaio della parete.
Si accascia a terra con un lieve gemito.
Apro il palmo. Urla.
Il potere scorre attraverso me, infuocando il mio sangue. La sensazione è
inebriante. Deliziosa.
Alzo la mano e il corpo di Darius si solleva dal pavimento, con la testa
ciondolante all’indietro in agonia, con il corpo percosso da spranghe
invisibili. Continua a urlare e il suono mi riempie le orecchie, inondandomi
il corpo di endorfine. La mia pelle ronza per l’energia. Chiudo gli occhi.
Poi chiudo il pugno.
Nuove urla invadono il silenzio, echeggiando nello spazio vasto e
cavernoso. Sento un sorriso fare capolino sulle mie labbra e mi perdo nella
sensazione, nella libertà del mio potere. Provo gioia nell’usare la mia forza
così liberamente, finalmente libera di lasciarla andare.
Beatitudine.
Spalanco gli occhi, ma mi sento drogata, follemente felice quando vedo il
corpo sospeso che inizia a tremare. Il sangue gli schizza dal naso, gorgoglia
nella sua bocca ansimante. Sta soffocando. È quasi morto. E ho appena
iniziato a…
Il fuoco abbandona il mio corpo all’improvviso facendomi inciampare
all’indietro.
Darius cade a terra con un tonfo da far schiantare le ossa.
Un vuoto disperato mi brucia dentro, mi sento svenire. Alzo le mani
come se stessi pregando, cercando di capire quello che è successo,
sentendomi improvvisamente vicina alle lacrime. Mi volto, cercando di
capire…
Anderson mi sta puntando un’arma addosso.
Lascio cadere le mani.
Anderson lascia cadere l’arma.
Sento il potere tornare dentro di me e faccio un respiro profondo e grato,
trovando sollievo nella sensazione mentre mi inonda i sensi, riempiendomi
le vene. Sbatto le palpebre più volte, cercando di schiarirmi la mente, ma è
il patetico, agonizzante piagnucolio di Darius a riportarmi al presente. Fisso
il suo corpo martoriato, le pozze di sangue poco profonde sul pavimento.
Mi sento vagamente infastidita.
«Incredibile.»
Mi volto.
Anderson mi sta fissando con uno stupore nudo e crudo. «Incredibile»
ripete. «È stato incredibile.»
Lo fisso, confusa.
«Come ti senti?» mi domanda.
«Delusa, signore.»
Aggrotta la fronte. «Perché delusa?»
Guardo Darius. «Perché è ancora vivo, signore. Non ho completato il
compito.»
Il viso di Anderson si apre in un sorriso ampio ed elettrizzante. Sembra
giovane. Sembra gentile. Sembra bellissimo.
«Mio Dio» dice dolcemente. «Sei perfetta.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 16
KENJI
 
«Ehi» dico. «Aspettami!»
Sto ancora inseguendo Warner e, non sorprendendo assolutamente
nessuno, lui non mi aspetta. Non rallenta nemmeno. In effetti, sono
abbastanza sicuro che stia accelerando il passo.
Mi rendo conto, mentre lo raggiungo, che non sentivo l’aria fresca da un
paio di giorni. Mi guardo intorno mentre cammino, cercando di cogliere i
particolari. Il cielo è più azzurro di quanto lo abbia mai visto. Non si vede
una nuvola per chilometri. Non so se questo tempo è tipico della posizione
geografica del Settore 241 o se è solo un normale cambiamento climatico.
In ogni caso, faccio un respiro profondo. L’aria fresca sembra ottima.
Stavo diventando claustrofobico in sala da pranzo, spendendo ore infinite
con i malati e i feriti. I colori della stanza avevano cominciato a mescolarsi
tutti insieme, dalle lenzuola alle brande color frassino e la luce troppo
brillante e innaturale. Anche gli odori erano intensi. Sangue e candeggina.
Antisettico. Mi provocavano giramenti alla testa. Mi sono svegliato con un
gran mal di testa questa mattina, anche se, ad essere onesti, mi sveglio con
un gran mal di testa quasi ogni mattina, ma stare all’aperto sta cominciando
a calmare il dolore.
Chi l’avrebbe mai detto.
È bello qui fuori, anche se fa un po’ troppo caldo con questi vestiti.
Indosso una vecchia uniforme che ho trovato nella mia stanza. Sam e
Nouria hanno sempre fatto in modo che avessimo tutto il necessario, anche
adesso, dopo la battaglia. Abbiamo articoli per l’igiene personale. Vestiti
puliti.
Warner, d’altra parte…
Osservo la sua figura che si allontana. Non posso credere che non si sia
ancora fatto la doccia. Indossa ancora la giacca di pelle di Haider, ma è
praticamente distrutta. Ha i pantaloni neri strappati, la faccia ancora
macchiata con quello che posso solo immaginare sia una combinazione di
sangue e sporcizia. Ha i capelli spettinati. Gli stivali opachi. E in qualche
modo, in qualche modo, riesce ancora a sembrare in forma. Non capisco.
Rallento il passo quando mi avvicino, ma sto ancora camminando
velocemente. Ho il respiro affannato. Sto cominciando a sudare.
«Ehi» dico, tirando la camicia dal petto, dove sta cominciando ad
attaccarsi. Il tempo sta diventando sempre più strano; improvvisamente il
caldo è soffocante. Sussulto guardando in alto, verso il sole.
Qui, all'interno del Santuario, mi sono fatto un'idea migliore dello stato
del nostro pianeta. Notizie flash: La Terra sta ancora fondamentalmente
andando a puttane. La Restaurazione si è solo approfittata di questa merda,
facendo sembrare le cose irreparabilmente pessime.
La verità, invece, è che le cose sono messe male, ma non in modo
irreparabile.
Ah.
«Ehi» ripeto, questa volta poggiandogli una mano sulla spalla. Me la
toglie con un tale entusiasmo che per poco non inciampo.
«Ok, ascolta, so che sei arrabbiato, ma…»
Warner scompare all’improvviso.
«Ehi, dove diavolo stai andando?» urlo, con voce squillante. «Stai
tornando nella tua stanza? Ci vediamo lì?»
Un paio di persone si voltano a guardarmi.
I sentieri normalmente affollati sono piuttosto vuoti in questo momento
perché molti di noi sono ancora convalescenti, ma le poche persone che
indugiando sotto il sole splendente mi lanciano delle occhiatacce.
Come se fossi io lo strambo.
«Lascialo in pace» sibila qualcuno. «È in lutto.»
Alzo gli occhi al cielo.
«Ehi… coglione» grido, sperando che Warner sia ancora vicino
abbastanza per sentirmi. «So che la ami, ma anch'io le voglio bene e
sono…»
Warner riappare così vicino alla mia faccia che per poco non mi metto a
urlare. Faccio un passo indietro improvviso e terrorizzato.
«Se ci tieni alla tua vita,» dice «non ti avvicinare a me.»
Sto per fargli notare che sta facendo il melodrammatico, ma mi
interrompe.
«Non l'ho detto per fare il drammatico. Non l'ho detto nemmeno per
spaventarti. Lo dico in segno di rispetto per Ella, perché so che preferirebbe
che non ti uccidessi.»
Resto zitto per un secondo intero. E poi mi acciglio.
«Mi stai prendendo per il culo? Mi stai decisamente prendendo per il
culo. Giusto?»
Gli occhi di Warner si infiammano. Si elettrizzano. Un tipo spaventoso di
pazzia. «Ogni volta che affermi di capire anche solo una frazione di quello
che provo, vorrei sventrarti. Vorrei lacerarti l’arteria carotidea. Vorrei
strapparti le vertebre, una per volta. Non hai idea di cosa significhi amarla»
dice arrabbiato. «Non potresti nemmeno lontanamente immaginarlo. Quindi
smettila di cercare di capire.»
Wow, a volte odio davvero questo ragazzo.
Devo letteralmente stringere la mascella per evitare di dire quello che sto
pensando davvero in questo momento, cioè che voglio attraversargli il
cranio con un pugno. (Immagino davvero per un momento come sarebbe
frantumargli la testa come una noce. È stranamente soddisfacente). Ma poi
mi ricordo che abbiamo bisogno di questo stronzo e che la vita di J è in
pericolo. Il destino del mondo è in pericolo.
Così trattengo la rabbia e ci riprovo.
«Ascolta» dico, sforzandomi di addolcire la voce. «So che quello che
avete voi è speciale. So che non posso davvero capire quel tipo di amore.
Voglio dire, diamine, so che stavi anche pensando di chiederle di sposarti, e
questo deve essere stato…»
«Le ho fatto la proposta di matrimonio.»
Improvvisamente mi irrigidisco.
Capisco dal tono della sua voce che non sta scherzando. E capisco dallo
sguardo sulla sua faccia, dal flash minuscolo di tristezza nei suoi occhi, che
questa è la mia occasione. Questa è l’informazione che mi mancava. Questa
è la fonte dell’agonia che lo sta facendo affogare.
Analizzo l'area circostante alla ricerca di curiosi. Proprio così. Troppi
nuovi membri del fan club di Warner che si stringono il petto.
«Andiamo» gli dico. «Ti porto a pranzo.»
Warner batte le palpebre, la confusione gli schiarisce temporaneamente la
rabbia. E poi, bruscamente: «Non ho fame.»
«Ovviamente è una stronzata» lo guardo dalla testa ai piedi. Ha un
bell'aspetto, ha sempre un bell'aspetto lo stronzo, ma sembra affamato. Non
solo il tipo normale di fame, ma una fame così disperata che non sente
nemmeno di essere affamato.
«Sono giorni che non mangi niente» gli dico. «E sai meglio di me che
sarai inutile in un tentativo di salvataggio se svieni prima ancora di
arrivare.»
Mi lancia un’occhiataccia.
«Andiamo, fratello. Vuoi che J torni a casa e ti trovi pelle e ossa? Per
come sei ridotto, ti darà un solo sguardo e correrà urlando nella direzione
opposta. Questo non è un bel look. Tutti questi muscoli hanno bisogno di
mangiare» gli do un colpetto sul bicipite. «Dai da mangiare ai tuoi figli.»
Warner si allontana da me ed emette un sospiro lungo e irritato. Il suono
mi fa quasi sorridere. Come ai vecchi tempi.
Credo di star facendo progressi.
Perché questa volta, quando gli dico di seguirmi, lo fa senza protestare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 17
ELLA
JULIETTE
 
Anderson mi porta a conoscere Max.
Lo seguo nelle viscere del complesso, attraverso percorsi tortuosi. I passi
di Anderson riecheggiano lungo i sentieri di pietra e acciaio, le luci
tremolano quando passiamo. Le sporadiche lampadine, eccessivamente
luminose, proiettano ombre intense dalle forme strane. Sento la pelle
formicolare.
La mia mente inizia a vagare.
Un lampo del corpo flaccido di Darius esplode nella mia mente,
causandomi una forte fitta che mi torce lo stomaco. Combatto contro
l'impulso di vomitare, anche se sento il contenuto della mia magra
colazione salirmi in gola. Con fatica, scaccio indietro la bile. Gocce di
sudore mi scivolano sulla fronte, sul retro del collo.
Il mio corpo urla per fermarsi. I miei polmoni desiderano espandersi,
raccogliere aria. Non permetto nessuna delle due cose.
Mi sforzo di continuare a camminare.
Spazzo via le immagini, estirpando i pensieri di Darius dalla mia mente.
Il vortice nel mio stomaco inizia a rallentare, ma mi lascia una sensazione
umida e appiccicosa sulla pelle. Fatico a ricordare cosa ho mangiato
stamattina. Devo aver mangiato male; c’è qualcosa che non va con il mio
stomaco. Mi sento febbricitante.
Sbatto le palpebre.
Sbatto di nuovo gli occhi, ma questa volta per troppo tempo e vedo il
ricordo del sangue che gorgoglia nella bocca aperta di Darius. La nausea
ritorna con una rapidità che mi spaventa. Faccio un respiro profondo, con le
dita che si agitano, desiderose di premere sullo stomaco. In qualche modo,
tengo duro. Tengo gli occhi aperti, sgranandoli fino al limite del dolore. Il
cuore inizia a battermi forte. Cerco disperatamente di mantenere il controllo
sui miei pensieri vorticosi, ma sento la pelle accapponarsi. Stringo i pugni.
Niente aiuta. Niente aiuta. Niente, penso.
niente
niente
niente
Comincio a contare le lampade che incrociamo.
Conto le dita. Conto i miei respiri. Conto i miei passi, misurando la forza
di ognuno che si ripercuote su per le gambe, riverberando intorno ai fianchi.
Mi ricordo che Darius è ancora vivo.
È stato portato via, apparentemente per essere medicato e per tornare al
lavoro di prima. Ad Anderson non sembrava dispiacere che Darius fosse
ancora vivo. Mi stava solo mettendo alla prova, realizzo. Mi ha messo alla
prova, ancora una volta, per essere sicuro che fossi obbediente solamente a
lui.
Faccio un respiro profondo e corroborante.
Mi concentro sulla figura di Anderson che si allontana. Per ragioni che
non riesco a spiegare, guardarlo mi fa stare tranquilla. Mi calma il polso.
Placa il mio stomaco. E da questo punto di vista, non posso fare a meno di
ammirare il modo in cui si muove. Ha una muscolatura impressionante,
spalle larghe, vita stretta, gambe robuste, ma mi stupisco soprattutto per il
suo portamento. Ha un'andatura fiduciosa. Cammina a testa alta, disinvolto,
fluido e senza sforzo. Mentre lo guardo sento un sentimento familiare
aleggiarmi dentro. Si raccoglie nel mio stomaco, provocando scintille di un
flebile calore che manda una breve scossa al mio cuore.
Non lo combatto.
C'è qualcosa in lui. Qualcosa nel suo viso. Nel suo portamento. Mi trovo
ad avvicinarmi inconsciamente a lui, guardandolo quasi troppo
intensamente. Ho notato che non indossa gioielli, nemmeno un orologio. Ha
una cicatrice sbiadita tra il pollice destro e l'indice. Ha le mani ruvide e
callose. I suoi capelli scuri sono ricoperti d'argento, in un modo che è
visibile solo da vicino. I suoi occhi sono di una tonalità verde-blu di acque
basse e cristalline. Insoliti.
Acquamarina.
Ha lunghe ciglia marroni e zampe di gallina. Labbra piene e curve. La
sua pelle diventa più ruvida con l'avanzare della giornata, l'ombra di una
peluria sul viso che accenna a una versione di lui che provo e non riesco a
immaginare.
Mi rendo conto che comincia a piacermi. Mi fido di lui.
All'improvviso, si ferma. Siamo davanti a una porta d'acciaio, vicino a
cui è collegato un tastierino numerico e uno scanner biometrico.
Si porta il polso alla bocca. «Sì.» Una pausa. «Sono qui fuori.»
Sento il mio polso vibrare. Guardo giù, sorpresa, verso la luce blu che
lampeggia attraverso la pelle al mio polso.
Sono stata convocata.
Questo è strano. Anderson è in piedi proprio accanto a me; pensavo che
fosse l'unico ad avere l'autorità di convocarmi.
«Signore?» dico.
Guarda dietro di lui, con le sopracciglia alzate come per dire sì? E
qualcosa che sembra felicità sboccia dentro di me. So che non è saggio
gioire così tanto per così poco, ma i suoi movimenti e le sue espressioni
sembrano improvvisamente più morbidi ora, più disinvolti. È chiaro che
anche lui ha cominciato a fidarsi di me.
Alzo il polso per mostrargli il messaggio. Si acciglia.
Si avvicina a me, prendendomi il braccio lampeggiante tra le mani. La
punta delle sue dita preme contro la mia pelle mentre piega delicatamente
indietro l'articolazione, con gli occhi assottigliati mentre studia la
convocazione. Mi immobilizzo in modo innaturale. Emette un sibilo di
irritazione ed espira, il suo alito mi sbuffa sulla pelle.
Vengo attraversata da un brivido.
Mi tiene ancora il braccio quando parla nel suo polso. «Dì a Ibrahim di
farsi da parte. Ho tutto sotto controllo.»
In silenzio, Anderson inclina la testa, ascoltando da un auricolare che non
è facilmente visibile. Posso solo guardare. Aspettare.
«Non mi interessa» dice arrabbiato, chiudendo le dita inconsciamente
intorno al mio polso. Sussulto, sorpresa, e lui si gira, i nostri occhi si
incontrano, scontrandosi.
Anderson assume un’espressione corrucciata.
Il suo profumo piacevole e maschile mi riempie la testa e lo respiro quasi
senza volerlo. Essere così vicino a lui è difficile. Strano. La mia testa
galleggia nella confusione.
La mia mente viene inondata da frammenti di immagini, un lampo di
capelli dorati, dita che sfiorano la pelle nuda e poi la nausea. Ho le vertigini.
Mi fanno quasi cadere.
Guardo da un'altra parte proprio mentre Anderson mi tira su il braccio,
verso un riflettore, strizzando gli occhi per vedere meglio. I nostri corpi
quasi si toccano e sono all’improvviso talmente vicina che riesco a vedere i
bordi di un tatuaggio, scuro e curvo, che si insinua lungo il bordo della
clavicola.
Spalanco gli occhi sorpresa. Anderson mi lascia andare il polso.
«So già che è stato lui» dice, parlando velocemente, con gli occhi che mi
dardeggiano addosso. «Il suo codice è nel marcatore temporale.» Una
pausa. «Cancella la convocazione. E poi ricordagli che lei fa rapporto solo a
me. Decido io se e quando lui può parlarle.»
Lascia cadere il polso. Si porta un dito alla tempia.
E poi, mi guarda con gli occhi semichiusi.
Il mio cuore sussulta. Mi raddrizzo. Non aspetto più di essere sollecitata.
Quando mi guarda in quel modo, so che è il mio segnale per confessare.
«Lei ha un tatuaggio, signore. Sono rimasta sorpresa. Mi chiedevo cosa
fosse.»
Anderson inarca un sopracciglio verso di me.
Sembra che stia per parlare quando, alla fine, la porta d'acciaio si apre.
Fuoriesce un ricciolo di vapore, dietro il quale emerge un uomo. È alto, più
alto di Anderson, con capelli castani ondulati, pelle marrone chiaro e occhi
chiari e luminosi il cui colore non è immediatamente evidente. Indossa un
camice bianco da laboratorio. Stivali di gomma alti. Ha una mascherina
appesa intorno al collo e una dozzina di penne infilate nella tasca della
camicia. Non fa alcuno sforzo per avanzare o per farsi da parte; se ne sta
sulla porta, apparentemente indeciso.
«Che succede?» dice Anderson. «Ti ho mandato un messaggio un'ora fa e
non ti sei mai presentato. Poi vengo alla tua porta e mi fai aspettare.»
L'uomo, Anderson mi ha detto che il suo nome è Max, non dice niente.
Al contrario, mi studia, con gli occhi che si muovono su e giù sul mio corpo
mostrando un odio non mascherato. Non sono sicura di come gestire la sua
reazione.
Anderson sospira, comprendendo qualcosa che non è ovvio per me.
«Max» dice a bassa voce. «Non puoi fare sul serio.»
Max lancia ad Anderson uno sguardo pungente. «Noi non siamo tutti fatti
di pietra come te.» E poi, distogliendo lo sguardo: «Almeno non
completamente.»
Sono sorpresa di scoprire che Max ha un accento non diverso dai cittadini
dell'Oceania. Deve essere originario di questa regione.
Anderson sospira di nuovo.
«Va bene» dice Max con freddezza. «Di cosa volevi parlare?» Tira fuori
una penna dalla tasca, togliendo il cappuccio con i denti. Allunga la mano
nell'altra tasca e tira fuori un taccuino. Lo apre.
Divento improvvisamente cieca.
Nell'arco di un solo istante l'oscurità mi inonda la vista. Si dissolve.
Ricompaiono immagini nebulose, il tempo accelera e rallenta, a singhiozzo.
I colori mi balzano agli occhi, mi dilatano le pupille. Stelle che esplodono,
luci lampeggianti, scintillananti. Sento delle voci. Una sola voce. Un
sussurro...
 
Sono una ladra
 
Il nastro si riavvolge. Si avvia. Il file si danneggia.
 
Sono
Sono
Io io io
sono
una ladra
una ladra ho rubato
ho rubato questo taccuino equestapennadaunodeidottori
 
«Certo che l'hai fatto.»
La voce acuta di Anderson mi riporta al presente. Il cuore mi batte in
gola. La paura mi preme contro la pelle, provocando brividi lungo le
braccia. I miei occhi si muovono troppo velocemente, vagando in preda
all'angoscia finché non si fermano, infine, sul volto familiare di Anderson.
Non mi sta guardando. Non mi parla nemmeno.
Il sollievo mi travolge quando lo capisco. Il mio interludio è durato solo
un momento, il che significa che non mi sono persa molto più di un paio di
parole. Max si volta verso di me, studiandomi curiosamente.
«Entrate» dice e scompare dietro la porta.
Seguo Anderson attraverso l'ingresso e non appena varco la soglia, un
soffio d'aria gelida mi fa venire i brividi sulla pelle. Non vado molto più
lontana dell'ingresso prima di essere distratta.
Stupita.
L'acciaio e il vetro sono i principali componenti della maggior parte delle
strutture nella stanza, schermi enormi e monitor, microscopi, lunghi tavoli
di vetro pieni di ampolle e provette piene a metà. Tubature a fisarmonica
invadono lo spazio verticale intorno alla stanza, collegando i piani dei tavoli
e il soffitto. Moduli di luce artificiale sono sospesi a mezz'aria, ronzando in
continuazione. La luce qui dentro è così blu che non so come Max riesca a
sopportarla.
Seguo Max e Anderson fino a una scrivania a forma di mezzaluna che
sembra più un centro di comando. Alcuni documenti sono impilati su un
lato del piano superiore in acciaio, ci sono anche degli schermi che
sfarfallano al di sopra. Altre penne sono infilate in una tazza di caffè
scheggiata in cima a un grosso libro.
Un libro.
Non vedo una reliquia del genere da molto tempo.
Max prende posto. Indica uno sgabello nascosto sotto un tavolo vicino e
Anderson scuote la testa.
Continuo a rimanere in piedi.
«Va bene, allora, vai avanti» dice Max, guardandomi di tanto in tanto.
«Hai detto che c'era un problema.»
Anderson sembra improvvisamente a disagio. Non dice nulla per così
tanto tempo che, alla fine, Max sorride.
«Sputa il rospo» dice Max, gesticolando con la sua penna. «Cosa hai fatto
questa volta di sbagliato?»
«Non ho fatto niente di sbagliato» dice aspramente Anderson. Poi si
acciglia. «O almeno credo.»
«E allora cosa c'è?»
Anderson fa un respiro profondo. Infine: «Dice che è... attratta da me.»
Max spalanca gli occhi. Guarda Anderson, poi me e poi di nuovo lui. E
poi, all'improvviso...
Scoppia a ridere.
Sento il mio viso infiammarsi. Guardo dritto davanti a me, studiando le
strane attrezzature impilate sugli scaffali sulla parete lontana.
Con la coda dell'occhio, vedo Max scarabocchiare qualcosa in un
taccuino. Tutta questa tecnologia moderna, ma a lui sembra ancora piacere
scrivere a mano. La considerazione mi sembra strana. Archivio
l'informazione, senza capirne il motivo.
«Affascinante» dice Max, ancora sorridente. Scuote la testa in fretta. «Ha
perfettamente senso, naturalmente.»
«Sono contento che lo trovi divertente» dice Anderson, visibilmente
irritato. «Ma non mi piace.»
Max ride di nuovo. Si appoggia allo schienale della sedia, distende le
gambe incrociando le caviglie. È chiaramente incuriosito, persino
entusiasta, da questo sviluppo che sta sciogliendo la sua fredda corazza.
Mordicchia il cappuccio della penna, meditando su Anderson. C’è un
luccichio nei suoi occhi.
«I miei occhi mi ingannano,» dice «o il grande Paris Anderson ammette
di avere una coscienza? O forse: un senso della morale?»
«Sai meglio di chiunque altro che non li ho mai avuti, quindi temo che
non saprei come ci si sente.»
«Touché.»
«Comunque...»
«Mi dispiace» dice Max, sorridendo ancora di più. «Ma ho bisogno di un
altro momento con questa rivelazione. Puoi biasimarmi per esserne
affascinato? Considerando il fatto indiscusso che sei uno degli esseri umani
più depravati che abbia mai conosciuto e tra i nostri circoli sociali, questo
dice molto…»
«Ah ah ah» dice Anderson senza mezzi termini.
«Penso di essere solo sorpreso. Perché è troppo? Perché è questo il segno
che non vuoi passare? Di tutte le cose...»
«Max, fai il serio.»
«Sono serio.»
«A parte le ovvie ragioni per cui questa situazione dovrebbe turbare
chiunque, la ragazza non ha nemmeno diciotto anni. Neanche io sono così
depravato.»
Max scuote la testa. Alza la penna. «In realtà, ha compiuto diciotto anni
da quattro mesi.»
Anderson sembra in procinto di discutere, e poi...
«Certo» dice. «Stavo ricordando le scartoffie sbagliate.» Mi guarda
mentre lo dice e sento il mio viso diventare ancora più caldo.
Sono allo stesso tempo confusa e mortificata.
Curiosa.
Inorridita.
«In ogni caso,» dice drasticamente Anderson «non mi piace. Puoi
sistemarlo?»
Max si siede in avanti, incrocia le braccia. «Posso sistemarlo? Posso
sistemare il fatto che non può fare a meno di essere attratta dall'uomo che
ha generato i due volti che ha conosciuto più intimamente?» Scuote la testa.
Ride di nuovo. «Quel tipo di impianto non può essere annullato senza
subire gravi ripercussioni. Ripercussioni che ci farebbero rallentare.»
«Che tipo di ripercussioni? In che modo ci farebbero rallentare?»
Max mi guarda. Guarda Anderson.
Anderson sospira. «Juliette» abbaia.
«Sì, signore.»
«Lasciaci da soli.»
«Sì, signore.»
Giro su me stessa e mi dirigo verso l'uscita. La porta si apre anticipando il
mio arrivo, ma esito, a pochi metri di distanza, quando sento di nuovo Max
ridere.
So che non dovrei origliare. So che è sbagliato. So che verrei punita se
venissi scoperta. Questo lo so.
Eppure, non riesco a muovermi.
Il mio corpo si ribella, mi urla di attraversare la soglia, ma un calore
penetrante ha iniziato a diffondersi nella mia mente, attenuando la
costrizione. Sono ancora ferma di fronte alla porta aperta, cercando di
decidere cosa fare, quando sento le loro voci lontane.
«Ha chiaramente un tipo ideale» dice Max. «A questo punto, è
praticamente scritto nel suo DNA.»
Anderson dice qualcosa che non sento.
«È davvero una cosa così brutta?» dice Max. «Forse l'affetto che prova
per te potrebbe andare a tuo favore. Approfittatene.»
«Pensi che abbia un disperato bisogno di compagnia, o che sia così
completamente incompetente, da ricorrere alla seduzione per ottenere ciò
che voglio dalla ragazza?»
Max scoppia a ridere. «Sappiamo entrambi che non sei mai stato alla
disperata ricerca di compagnia. Ma per quanto riguarda la tua
competenza...»
«Non so nemmeno perché sto perdendo tempo con te.»
«Sono passati trent'anni, Paris, sto ancora aspettando che tu sviluppi un
senso dell'umorismo.»
«Sono passati trent'anni, Max, e pensavo che avrei trovato nuovi amici
ormai. Migliori.»
«Sai, neanche i tuoi figli sono divertenti» dice Max, ignorandolo.
«Interessante come funziona, vero?»
Anderson brontola.
Max ride solo più forte.
Io mi acciglio.
Me ne sto lì, cercando senza successo di elaborare le loro interazioni.
Max ha appena insultato un comandante supremo della Restaurazione, più
volte. Come subordinato di Anderson dovrebbe essere punito per aver
parlato in modo così irrispettoso. Dovrebbe essere licenziato, come minimo.
Giustiziato, se Anderson lo ritenesse necessario.
Ma quando sento il suono lontano della risata di Anderson, mi rendo
conto che lui e Max stanno ridendo insieme. È una scoperta che mi spaventa
e mi stupisce:
Devono essere amici.
Uno dei fari si accende ronzando, riscuotendomi dalle mie fantasticherie.
Scuoto velocemente la testa e mi dirigo fuori dalla stanza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 18
KENJI
 
Improvvisamente sono un grande fan delle groupie di Warner.
Mentre stavamo ritornando alla mia tenda, ho detto solo a un paio di
persone che ho avvistato sul sentiero che Warner era affamato, ma che non
si sentiva ancora abbastanza bene da potersi unire a tutti nella sala da
pranzo, e stanno consegnando pacchi di cibo nella mia stanza da allora. Il
problema è che tutta questa gentilezza ha un prezzo. Finora si sono
presentate sei ragazze diverse (e due ragazzi), ognuna delle quali si
aspettava qualcosa in cambio per la loro generosità, precisamente una
conversazione con Warner, che ovviamente non succede mai. Ma di solito si
accontentano di una bella e lunga occhiata.
È strano.
Voglio dire, persino io so, obiettivamente, che Warner non è disgustoso
da guardare, ma tutti questi tentativi sfacciati di flirtare iniziano a sembrare
davvero strani. Non sono abituato a stare in un contesto in cui la gente
ammette apertamente di amare qualcosa di Warner. Al Punto Omega, e
anche alla base nel Settore 45, tutti sembravano essere d'accordo sul fatto
che fosse un mostro. Nessuno ha mai negato la propria paura o il proprio
disgusto abbastanza a lungo da trattarlo come il tipo di ragazzo al quale si
potrebbero fare gli occhi dolci.
Ma la cosa divertente è che sono l'unico ad essere irritato.
Ogni volta che suona il campanello mi dico: ecco, ci siamo, è il momento
in cui Warner perderà finalmente la testa e sparerà a qualcuno; ma lui
sembra che non se ne accorga nemmeno. Di tutte le cose che lo fanno
incazzare, gli uomini e le donne che lo fissano non sembrano essere sulla
lista.
«Quindi questo è, tipo, normale per te, o cosa?» Sto ancora sistemando il
cibo nei piatti nella piccola sala da pranzo della mia stanza. Warner è in
piedi, rigido, in un punto impreciso vicino alla finestra. Ha scelto quel posto
a caso quando siamo entrati e se ne sta lì, a fissare il nulla, da allora.
«Cosa è normale per me?»
«Tutta queste persone,» dico io, indicando la porta «che entrano qui
facendo finta di non immaginarti senza i vestiti. È un giorno normale per
te?»
«Penso che tu ti stia dimenticando,» dice a bassa voce «che sono in grado
di percepire le emozioni per la maggior parte della mia vita.»
Alzo le sopracciglia. «Quindi questo è solo un giorno normale per te.»
Sospira. Guarda di nuovo fuori dalla finestra.
«Non farai nemmeno finta che non sia vero?» Apro un contenitore di
alluminio. Altre patate. «Non vuoi nemmeno fingere di non sapere che il
mondo intero ti trova attraente?»
«È una dichiarazione?»
«Ti piacerebbe, testa di cazzo.»
«Lo trovo noioso» dice Warner. «Inoltre, se prestassi attenzione ad ogni
singola persona che mi trova attraente non avrei mai tempo per nient’altro.»
Per poco non mi cadono le patate.
Aspetto che mi faccia un sorriso, che mi dica che sta scherzando e,
quando non lo fa, scuoto la testa, sbalordito.
«Wow» dico. «La tua umiltà è una fottuta fonte d'ispirazione.»
Alza le spalle.
«Ehi,» proseguo «a proposito di cose che mi disgustano... per caso vuoi,
tipo, lavarti via un po' di sangue dalla faccia prima di mangiare?»
Warner mi lancia un’occhiataccia in tutta risposta.
Alzo le mani. «Ok. Fico. Va bene.» punto un dito verso di lui. «In realtà,
ho sentito che il sangue fa bene. Sai... è organico. Antiossidanti e roba
varia. Molto popolare tra i vampiri.»
«Riesci a sentire le cose che dici ad alta voce? Non ti rendi conto di
quanto tu appaia un perfetto idiota?»
Alzo gli occhi al cielo. «Va bene, reginetta di bellezza, il cibo è pronto.»
«Dico sul serio» dice. «Non ti viene mai in mente di pensare prima di
parlare? Non ti viene mai in mente di smettere di parlare del tutto? In caso
contrario, dovrebbe.»
«Andiamo, coglione. Siediti.»
Con riluttanza, Warner si avvicina. Si siede e fissa, perplesso, il pasto
davanti a lui.
Gli concedo qualche secondo prima di dire...
«Ti ricordi ancora come si fa? O hai bisogno che ti imbocchi io?» Inforco
un pezzo di tofu e lo punto nella sua direzione. «Di' ah. Il tofu sta
arrivando, ciuf ciuf.»
«Un'altra battuta, Kishimoto, e ti spezzo la spina dorsale.»
«Hai ragione.» Metto giù la forchetta. «Ho afferrato. Anch'io sono
irritabile quando ho fame.»
Mi fulmina con lo sguardo.
«Non era una battuta!» esclamo. «Dico sul serio.»
Warner sospira. Prende le posate. Guarda con desiderio la porta.
Non forzo la mia fortuna.
Tengo la faccia sul mio cibo, sono davvero entusiasta di fare un secondo
pranzo, e aspetto che mangi diversi bocconi prima di toccare un tasto
dolente.
«Allora» dico alla fine. «Hai fatto la proposta, eh?»
Warner smette di masticare e alza lo sguardo. Mi colpisce, all'improvviso,
quanto sia giovane. A parte l'ovvia necessità di una doccia e un cambio di
vestiti, sembra che finalmente stia cominciando a liberarsi di una
piccolissima, minuscola parte di tensione. E mi accorgo dal modo in cui
tiene in mano coltello e forchetta ora, con un un po' più di gusto, che avevo
ragione.
Aveva fame.
Mi chiedo cosa avrebbe fatto se non l'avessi trascinato qui dentro e fatto
sedere. Costringendolo a mangiare.
Si sarebbe semplicemente buttato giù?
Sarebbe morto accidentalmente di fame mentre andava a salvare Juliette?
Sembra non avere una vera e propria cura del proprio corpo. Nessuna
attenzione per i suoi bisogni. Mi colpisce, ad un tratto, quanto sia bizzarro.
E preoccupante.
«Sì» dice piano. «Le ho fatto la proposta.»
 
Vengo preso da una reazione istintiva di prenderlo in giro, di suggerire
che il suo cattivo umore ha un senso ora, che probabilmente lei l'ha
rifiutato, ma persino io so di essere migliore di così. Qualsiasi cosa stia
succedendo nella testa di Warner in questo momento è cupa. È una cosa
seria. E devo gestire questa parte della conversazione con attenzione.
Quindi procedo con cautela. «Immagino che lei abbia detto di sì.»
Warner non mi guarda negli occhi.
Faccio un respiro profondo, lo lascio uscire lentamente. Tutto sta
cominciando ad avere un senso ora.
Nei primi giorni dopo che Castle mi ha accolto, la mia guardia era
talmente alta da non riuscire nemmeno a vedere oltre. Non mi fidavo di
nessuno. Non credevo a nulla. Aspettavo sempre che accadesse l'inevitabile.
Lasciavo che la rabbia mi cullasse per farmi addormentare la notte, perché
essere arrabbiato era molto meno spaventoso che avere fede nelle persone,
o nel futuro.
Continuavo ad aspettare che le cose andassero a rotoli.
Ero così sicuro che la felicità e la sicurezza non sarebbero durate, che
Castle mi avrebbe cacciato, o che si sarebbe rivelato un pezzo di merda. Un
violento. Una specie di mostro.
Non riuscivo a rilassarmi.
Mi ci sono voluti anni prima di credere veramente di avere una famiglia.
Mi ci sono voluti anni per accettare, senza esitazione, che Castle mi voleva
bene davvero, o che le cose belle potevano durare. Che avrei potuto essere
di nuovo felice senza timore di ripercussioni.
Ecco perché perdere il Punto Omega è stato così catastrofico.
È stata la concentrazione di quasi tutte le mie paure. Tante persone che
amavo sono state spazzate via da un giorno all'altro. La mia casa. La mia
famiglia. Il mio rifugio. E la devastazione aveva coinvolto anche Castle.
Colui che era stato la mia roccia e il mio esempio; nel periodo
immediatamente successivo era un fantasma. Irriconoscibile. Non sapevo
come ogni cosa si sarebbe messa a posto, dopo quello. Non sapevo come
avremmo fatto a sopravvivere. Non sapevo dove saremmo andati.
È stata Juliette a tirarci fuori dai guai.
Quelli sono stati i giorni in cui io e lei ci siamo avvicinati molto. È stato
quando ho capito che non solo potevo fidarmi e aprirmi con lei, ma che
potevo contare su di lei. Non ho mai saputo quanto potesse essere forte
finché non l'ho vista prendere il comando, sollevarsi e radunarci tutti
quando avevamo toccato il fondo, quando anche Castle era troppo spezzato
per reggersi in piedi.
J ci ha magicamente tirati fuori da una tragedia.
Ci ha portato sicurezza e speranza. Ci ha riuniti al Settore 45, con Warner
e Delalieu, anche di fronte alle opposizioni, al rischio di perdere Adam.
Non se ne è stata seduta ad aspettare che Castle prendesse le redini come il
resto di noi; non c'era tempo per farlo. Invece, si è tuffata proprio in mezzo
all'inferno, completamente inesperta e impreparata, perché era determinata
a salvarci. E sacrificarsi nel contempo, se questo era il costo. Se non fosse
per lei, se non fosse per quello che ha fatto per tutti noi, non so dove
saremmo ora.
Ci ha salvato la vita.
Mi ha salvato la vita, questo è sicuro. Mi ha teso una mano nell'oscurità.
Mi ha tirato fuori.
Ma niente di tutto ciò avrebbe fatto così male se avessi perso il Punto
Omega durante i miei primi anni lì. Non mi ci sarebbe voluto così tanto
tempo per riprendermi e non avrei avuto bisogno di così tanto aiuto per
superare il dolore. Mi fece così male perché finalmente avevo abbassato la
guardia. Mi ero finalmente permesso di credere che le cose sarebbero
andate bene. Avevo cominciato a sperare. A sognare.
A rilassarmi.
Mi ero finalmente allontanato dal mio pessimismo e, quando l'ho fatto, la
vita mi ha piantato un pugnale nella schiena.
È facile, in questi momenti, gettare la spugna. Scrollarsi di dosso
l'umanità. Dire a te stesso che hai cercato di essere felice e guarda cos'è
successo: più dolore. Un dolore peggiore. Tradito dal mondo. Ti rendi conto
allora che la rabbia è più sicura della gentilezza, che l'isolamento è più
sicuro della comunità. Chiudi tutto fuori. Tutti. Ma alcuni giorni, non
importa cosa fai, il dolore diventa così brutto che ti seppelliresti vivo solo
per farlo smettere.
Io lo so. Ci sono passato.
E guardando Warner in questo momento, vedo lo stesso distacco dietro i
suoi occhi. La tortura che caccia la speranza. Quel tipo particolare di odio
per sé stessi che si prova solo dopo aver ricevuto un tragico colpo in
risposta all'ottimismo.
Lo osservo e mi ricordo lo sguardo sul suo viso quando ha spento le
candeline di compleanno. Ricordo lui e J dopo, accoccolati in un angolo
della sala da pranzo. Ricordo quanto fosse arrabbiato quando mi sono
presentato nella loro stanza all'alba, determinato a trascinare J fuori dal letto
la mattina del suo compleanno.
Sto pensando...
«Cazzo.» Getto la forchetta. La plastica colpisce il piatto di stagnola con
un tonfo sorprendente. «Voi due eravate fidanzati?»
Warner sta fissando il cibo. Sembra calmo, ma quando dice «Sì» la voce
è un sussurro così triste da darmi una coltellata al cuore.
Scuoto la testa. «Mi dispiace tanto, amico. Davvero. Non immagini
quanto.»
Gli occhi gli si illuminano per la sorpresa, ma solo per un attimo. Alla
fine, infilza un pezzo di broccolo. Lo fissa. «Questo è disgustoso» dice.
Il che, mi rendo conto, è un codice per: Grazie.
«Sì» dico. «Lo è.»
Che è il codice per: Non preoccuparti, fratello. Sono qui per te.
Warner sospira. Mette giù le posate. Fissa la finestra. Intuisco che sta per
dire qualcosa quando, di colpo, suona il campanello.
Impreco a fior di labbra.
Mi allontano dal tavolo per rispondere alla porta, ma questa volta, la apro
di poco. Una ragazza della mia età è lì in piedi, con un pacco di stagnola in
braccio.
Sorride.
Apro un po' di più la porta.
«Ho portato questo per Warner» dice, sussurrando. «Ho sentito dire che
aveva fame.» Il suo sorriso è così grande che probabilmente è visibile da
Marte. Devo fare un grande sforzo per non alzare gli occhi al cielo.
«Grazie. Prenderò il...»
«Oh» dice lei, mettendo il pacco fuori portata. «Ho pensato che potrei
consegnarglielo personalmente. Sai, giusto per essere sicura che venga
consegnato alla persona giusta.» Sorride a trentadue denti.
Questa volta, alzo davvero gli occhi al cielo.
A malincuore, apro la porta, facendomi da parte per lasciarla entrare. Mi
giro per dire a Warner che un altro membro del suo fan club è qui per dare
una lunga occhiata ai suoi occhi verdi, ma nel secondo che mi ci vuole per
muovermi, la sento urlare. Il contenitore del cibo si schianta a terra, gli
spaghetti e la salsa di pomodoro rossa si rovesciano ovunque.
Mi giro, stordito.
Warner ha spinto la ragazza al muro, con la mano intorno alla sua gola.
«Chi ti ha mandato qui?» dice.
Lei lotta per liberarsi, scalciando forte contro il muro, con grida soffocate
e disperate.
Mi gira la testa.
Sbatto le palpebre e Warner la tiene a terra, in ginocchio. Ha lo stivale
piantato in mezzo alla sua schiena, le tiene le braccia piegate indietro,
chiuse nella sua morsa. Lui gliele piega. Lei grida.
«Chi ti ha mandato qui?»
«Non so di cosa stai parlando» dice, boccheggiando.
Il cuore mi batte all'impazzata.
Non ho idea di cosa diavolo sia appena successo, ma so che è meglio non
fare domande. Rimuovo la Glock nascosta all'interno della cintura e la
punto nella sua direzione. E poi, proprio quando comincio a capire che è
un'imboscata, e probabilmente da qualcuno di qui, dall'interno del
Santuario, noto che il cibo comincia a muoversi.
Tre enormi scorpioni cominciano a spuntare da sotto gli spaghetti e la
vista è così inquietante che mi viene quasi da vomitare e svenire allo stesso
tempo. Non avevo mai visto uno scorpione in vita mia.
Ultime notizie: sono terrificanti.
Pensavo di non aver paura degli aracnidi, ma questi è come se fossero
fatti di crack, come se fossero molto, molto grandi e indossassero tipo
un'armatura trasparente con enormi pungiglioni velenosi da un lato, appena
innescati e pronti ad ucciderti. Le creature fanno una brusca virata e, tutti e
tre, si dirigono dritti verso Warner.
Mi lascio scappare un respiro affannoso nel panico. «Uhm, fratello... non
per, uhm, spaventarti o altro, ma ci sono, tipo, tre scorpioni che si dirigono
dritti verso di t...»
Improvvisamente, gli scorpioni si bloccano sul posto.
Warner lascia cadere le braccia della ragazza e lei si allontana così in
fretta che sbatte con la schiena contro il muro. Warner fissa gli scorpioni.
Anche la ragazza li guarda.
Mi rendo conto che i due stanno combattendo una battaglia di volontà ed
è facile per me capire chi vincerà. Quindi quando gli scorpioni cominciano
a muoversi di nuovo, questa volta verso di lei, cerco di non alzare il pugno
in aria.
La ragazza salta in piedi, con occhi selvaggi.
«Chi ti ha mandato?» le chiede ancora Warner.
Lei ha il respiro affannoso e fissa ancora gli scorpioni spostandosi
nell'angolo più lontano. Si stanno arrampicando sulle sue scarpe.
«Chi?» domanda Warner.
«Mi ha mandato tuo padre.» dice senza fiato. Stinchi. Ginocchia. Gli
scorpioni sulle sue ginocchia. Oh mio Dio, gli scorpioni sulle sue ginocchia.
«Anderson mi ha mandato qui, ok? Richiamali!»
«Bugiarda.»
«È stato lui, lo giuro!»
«Sei stata mandata qui da un pazzo,» dice Warner «se sei stata indotta a
credere di potermi mentire ripetutamente senza ripercussioni. E tu stessa sei
una sciocca se credi che sarò compassionevole.»
Le creature stanno risalendo il suo torso. Si stanno arrampicando sul suo
petto. Lei sussulta. Lo guarda negli occhi.
«Capisco» dice lui, inclinando la testa verso di lei. «Qualcuno ti ha
mentito.»
Lei sgrana gli occhi.
«Sei stata ingannata» dice lui, mantenendo lo sguardo. «Io non sono
gentile. Non perdono. Non mi interessa la tua vita.»
Mentre parla, gli scorpioni si insinuano più in alto sul corpo della
ragazza. Ora sono fermi vicino alla sua clavicola, in attesa, con i
pungiglioni velenosi sotto il suo viso. E poi, lentamente, i pungiglioni degli
scorpioni iniziano a curvarsi verso la pelle morbida della sua gola.
«Richiamali!» grida.
«È la tua ultima possibilità» dice Warner. «Dimmi cosa ci fai qui.»
Lei sta respirando così forte che il suo petto si abbassa e si alza, con le
narici allargate. Guarda tutta la stanza in preda al panico. I pungiglioni degli
scorpioni premono più vicino alla sua gola. Lei si appiattisce contro il
muro, un rantolo sordo le sfugge dalle labbra.
«Che peccato» dice Warner.
Lei si muove in fretta. Veloce come un fulmine. Tira fuori una pistola da
qualche parte dentro la sua camicia e la punta in direzione di Warner e io
non penso nemmeno, reagisco.
Sparo.
Il suono echeggia, si espande, sembra tremendamente forte, ma è un
colpo perfetto. Un foro pulito le attraversa il collo. La ragazza rimane
comicamente immobile e poi crolla, lentamente, a terra.
Il sangue e gli scorpioni si accumulano intorno ai nostri piedi. Il corpo
della ragazza morta è spalmato sul mio pavimento, a pochi centimetri dal
letto dove ho dormito, con gli arti piegati in angoli imbarazzanti.
La scena è surreale.
Alzo lo sguardo. Warner e io ci fissiamo negli occhi.
«Vengo con te a prendere J.» dico. «Fine della discussione.»
Warner guarda me e il cadavere, e poi di nuovo me. «Bene» dice e
sospira.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 19
ELLA
JULIETTE
 
È da almeno quindici minuti che sono fuori dalla stanza a fissare un liscio
muro di pietra levigata prima di controllare il mio polso per verificare se c’è
una convocazione.
Ancora niente.
Quando sono con Anderson non ho molta libertà per guardarmi intorno,
ma stare qui in piedi mi ha dato il tempo di esaminare liberamente
l'ambiente circostante. Il tratto di corridoio è stranamente tranquillo, privo
di medici o soldati in un modo che mi sconcerta. Ci sono lunghe griglie
verticali sotto i piedi dove ci dovrebbe essere il pavimento, e sono qui
abbastanza a lungo da essere entrata in sintonia con gli incessanti
gocciolamenti e i ruggiti meccanici che riempiono il sottofondo.
Guardo di nuovo il mio polso.
Lancio uno sguardo al corridoio.
Le pareti non sono grigie, come pensavo all'inizio. In realtà sono di un
bianco opaco. Le ombre intense le fanno apparire più scure di quanto siano
in realtà, e in effetti fanno apparire l'intero piano più scuro. Le plafoniere
consistono in curiosi gruppi di luci a nido d'ape disposte sia lungo le pareti
che lungo i soffitti. Queste luci dalla forma bizzarra diffondono la luce,
proiettando degli esagoni oblunghi e facendo così sprofondare alcune pareti
nel buio più assoluto. Faccio cautamente un passo in avanti, scrutando più
da vicino un rettangolo di oscurità che prima avevo ignorato.
Mi rendo conto che è un corridoio immerso interamente nell'ombra.
Sento un impulso improvviso che mi spinge ad esplorare le sue
profondità e devo impedirmi fisicamente di fare un passo avanti. Il mio
compito è qui, a questa porta. Non è affar mio esplorare o fare domande, a
meno che non mi sia stato esplicitamente chiesto di esplorare o fare
domande.
Le mie palpebre hanno un fremito.
Vengo travolta dal calore, le sue fiamme sono come dita che mi scavano
nella mente. Il calore mi percorre la colonna vertebrale, mi avvolge il mio
coccige. E poi si dirige verso l'alto, veloce e forte, costringendomi a tenere
gli occhi aperti. Respiro a fatica, voltandomi.
Sono confusa.
Improvvisamente, ha perfettamente senso per me esplorare il corridoio
oscuro. Improvvisamente non sembra esserci più bisogno di mettere in
discussione le mie motivazioni o le possibili conseguenze delle mie azioni.
Ma faccio un solo passo nell'oscurità quando vengo spinta
aggressivamente indietro. Il viso di una ragazza mi osserva.
«Ti serve qualcosa?» dice.
Alzo le mani, poi esito. Potrei non essere autorizzata a fare del male a
questa persona.
Fa un passo avanti. Indossa abiti civili, ma non sembra essere armata.
Aspetto che parli e non lo fa.
«Chi sei?» le chiedo. «Chi ti ha autorizzato a stare quaggiù?»
«Sono Valentina Castillo. Ho autorità ovunque.»
Lascio cadere le mani.
Valentina Castillo è la figlia del comandante supremo del Sud America,
Santiago Castillo. Non so com'è fatta Valentina, quindi questa ragazza
potrebbe essere un’impostore. D'altra parte, se corro un rischio e sbaglio...
Potrei essere giustiziata.
Sbircio intorno a lei e non vedo altro che oscurità. La mia curiosità e il
disagio crescono di minuto in minuto.
Mi guardo il polso. Ancora nessuna convocazione.
«Chi sei?» chiede.
«Sono Juliette Ferrars. Sono un soldato supremo del comandante del
Nord America. Lasciami passare.»
Valentina mi fissa, i suoi occhi mi scrutano dalla testa ai piedi.
Sento un clic sordo, come il suono di qualcosa che si apre e mi giro,
cercando la fonte del suono. Non c'è niente.
«Hai sbloccato il tuo messaggio, Juliette Ferrars.»
«Quale messaggio?»
«Juliette? Juliette.»
La voce di Valentina cambia. Improvvisamente sembra spaventata e
senza fiato, come se fosse in movimento. La sua voce echeggia. Sento i
suoni dei passi che rimbombano sul pavimento, ma sembrano lontani, come
se non fosse l'unica a correre.
«Viste, non c’era molto tempo.» dice, con il suo accento spagnolo che si
fa più marcato. «Questo è stato il meglio che sono riuscita a fare. Ho un
piano, ma no sé si será posible. Este mensaje es en caso de emergencia.
«Hanno portato Lena e Nicolás in questa direzione» dice, indicando
l'oscurità. «Sto cercando di trovarli. Ma se non ci riesco...»
La sua voce comincia a svanire. La luce che le illumina il viso comincia
ad avere delle anomalie, quasi come se lei stesse scomparendo.
«Aspetta...» dico, allungando la mano. «Dove sei...»
La mia mano la attraversa e sussulto. Non ha forma. Il suo viso è
un'illusione.
Un ologramma.
«Mi dispiace» dice, la sua voce comincia a deformarsi. «Mi dispiace.
Questo è stato il meglio che sono riuscita a fare.»
Una volta che la sua forma evapora completamente, mi immergo
nell'oscurità, con il cuore che mi batte forte. Non capisco cosa stia
succedendo, ma se la figlia del comandante supremo del Sud America è nei
guai, ho il dovere di trovarla e proteggerla.
So che la mia lealtà è verso Anderson, ma quel calore strano e familiare
mi preme ancora sulla mente, calmando l'impulso che mi dice di girarmi.
Scopro di essere riconoscente per questo. Mi rendo conto, lontanamente,
che la mia mente è uno strano caos di contraddizioni, ma ho solo un
momento per soffermarmici su.
Questo corridoio è troppo buio per un passaggio agevole, ma avevo
osservato prima che quelle che una volta pensavo fossero scanalature
decorative nei muri erano in realtà porte incassate, quindi qui, invece di fare
affidamento sui miei occhi, uso le mani.
Mentre cammino faccio scorrere le dita lungo il muro, in attesa di
un'interruzione dello schema. È un corridoio lungo, mi aspetto che ci siano
più porte da controllare, ma sembra che ci sia poco in questa direzione.
Niente di visibile al tatto o alla vista, per lo meno. Quando finalmente sento
la figura familiare di una porta, esito.
Premo entrambe le mani contro il muro, pronta a distruggerlo se devo,
quando all'improvviso si apre sotto le mie mani, come se mi stesse
aspettando.
Si aspettava di vedermi.
Entro nella stanza, con i sensi che si acuiscono. Una fioca luce blu pulsa
lungo il pavimento, ma a parte questo, la stanza è quasi completamente
buia. Continuo a muovermi, e anche se non c'è bisogno di usare una pistola,
allungo la mano per prenderla dalla cinghia nella schiena. Cammino
lentamente, con gli stivali morbidi che non fanno rumore, e seguo le luci
lontane e pulsanti. Mentre mi muovo più in profondità nella stanza, le luci
cominciano a sfarfallare.
Le plafoniere, poste in quello schema familiare a nido d’ape, prendono
vita, frantumandosi sul pavimento con inclinazioni di luce insolite. Le vaste
dimensioni della sala cominciano a prendere forma. Fisso l'enorme stanza a
forma di cupola, il serbatoio d'acqua vuoto che occupa un muro intero. Ci
sono scrivanie abbandonate, con le relative sedie di traverso. I touchpad
sono impilati precariamente su pavimenti
e scrivanie, carte e raccoglitori sono accumulati ovunque. Questo posto
sembra spettrale. Deserto.
Ma è chiaro che una volta era in pieno uso.
Gli occhiali di sicurezza sono appesi a una rastrelliera lì vicino. I camici
da laboratorio a un’altra. Ci sono grandi casse di vetro vuote posizionate in
verticale in posti apparentemente casuali e discontinui e, mentre mi muovo
ancora più a fondo nella stanza, noto un bagliore violaceo costante che
proviene da qualche parte nelle vicinanze.
Giro l'angolo ed ecco la fonte:
Otto cilindri di vetro, ciascuno alto quanto la stanza e largo quanto una
scrivania, sono disposti in una linea perfettamente dritta nel laboratorio.
Cinque di essi contengono figure umane. I tre in fondo sono vuoti. La luce
viola proviene dall'interno dei singoli cilindri e, mentre mi avvicino, mi
rendo conto che i corpi sono sospesi in aria, avvolti interamente dalla luce.
Ci sono tre ragazzi che non riconosco. Una ragazza che non riconosco.
L'altra...
Mi avvicino al cilindro e sussulto.
Valentina.
«Che ci fai qui?»
Mi giro, sollevo la pistola e miro in direzione della voce. L'abbasso
quando vedo il volto di Anderson. Istantaneamente il calore intenso si
dissolve dalla mia testa.
La mia mente mi viene restituita.
La mia mente, il mio nome, la mia posizione, il mio comportamento
vergognoso, sleale e sconsiderato. Vengo travolta da orrore e paura,
colorandomi i lineamenti. Come posso spiegare ciò che non capisco?
Il volto di Anderson rimane di pietra.
«Signore» dico in fretta. «Questa giovane donna è la figlia del
comandante supremo del Sud America. Come servitore della Restaurazione,
mi sono sentita in dovere di aiutarla.»
Anderson mi guarda.
Infine dice: «Come fai a sapere che questa ragazza è la figlia del
comandante supremo del Sud America?»
Scuoto la testa. «Signore, ho avuto... una specie di visione. In piedi nel
corridoio. Mi ha detto di essere Valentina Castillo e che aveva bisogno di
aiuto. Conosceva il mio nome. Lei mi ha detto dove andare.»
Anderson fa un respiro, rilasciando la tensione nelle spalle. «Questa non
è la figlia di un comandante supremo della Restaurazione» dice a bassa
voce. «Sei stata fuorviata da un'esercitazione.»
La prolungata mortificazione mi trasmette un nuovo calore in faccia.
Anderson sospira.
«Mi dispiace molto, signore. Pensavo… Pensavo che fosse mio dovere
aiutarla, signore.»
Anderson incontra di nuovo i miei occhi. «Certamente.»
Tengo la testa ferma, ma la vergogna mi pervade dall'interno.
«E?» prosegue. «Cosa pensavi?»
Anderson indica i cilindri di vetro allineati e le persone esposte
all'interno.
«Penso che sia una bella esposizione, signore.»
Per poco Anderson non sorride. Si avvicina, studiandomi. «Davvero una
bella esposizione.»
Deglutisco.
La sua voce cambia, si ammorbidisce. Diventa delicata. «Non mi
tradiresti mai, vero Juliette?»
«No, signore» dico in fretta. «Mai.»
«Dimmi una cosa» dice, alzando la mano verso il mio viso. Il dorso delle
sue nocche mi sfiora la guancia, scendendo lungo la mia mascella.
«Moriresti per me?»
Il cuore mi batte forte nel petto. «Sì, signore.»
Ora afferra la mia faccia nella mano, mi sfiora delicatamente il mento.
«Faresti qualsiasi cosa per me?»
«Sì, signore.»
«Eppure mi hai deliberatamente disobbedito.» Lascia cadere la mano. Il
mio viso sente improvvisamente freddo. «Ti ho chiesto di aspettare fuori»
dice a bassa voce. «Non ti ho chiesto di girovagare. Non ti ho chiesto di
parlare. Non ti ho chiesto di pensare con la tua testa o di salvare chiunque
sostenesse di aver bisogno di essere salvato. Vero?»
«No, signore.»
«Hai forse dimenticato,» dice «che sono il tuo padrone?»
«No, signore.»
«Bugiarda» grida.
Ho il cuore in gola. Ingoio forte. Non dico nulla.
«Te lo chiederò un'altra volta» dice, guardandomi negli occhi. «Hai forse
dimenticato che sono il tuo padrone?»
«S-sì, signore.»
I suoi occhi lampeggiano. «Devo ricordartelo, Juliette? Devo ricordarti a
chi devi la tua vita e la tua lealtà?»
«Sì, signore.» dico, ma sembro senza fiato. Mi sento male per la paura.
Febbricitante. Il calore mi irrita la pelle.
Recupera un coltellino dalla tasca della giacca. Lo dispiega con
attenzione, il metallo luccica alla luce dei neon.
Preme il manico nella mia mano destra.
Prende la mia mano sinistra e la esplora con le sue, tracciando le linee del
mio palmo e le forme delle mie dita, le giunture delle mie nocche. Le
emozioni mi attraversano come un vortice, meraviglioso e orribile.
Preme leggermente sul mio indice. Incontra i miei occhi.
«Questo» dice. «Dammelo.»
Ho il cuore in gola. Nell'intestino. Batte dietro i miei occhi.
«Taglialo. Mettimelo in mano. E tutto sarà perdonato.»
«Sì, signore.» sussurro.
Con mani tremanti, premo la lama sulla pelle tenera alla base del dito. La
lama è così affilata da trafiggere la carne all'istante e, con un grido soffocato
e agonizzante, lo spingo più in profondità, esitando solo quando sento una
resistenza. Coltello contro osso. Il dolore mi esplode dentro, accecandomi.
Cado in ginocchio.
C'è sangue dappertutto.
Respiro così forte che ho dei conati di vomito, cercando disperatamente
di non rimettere né per il dolore né per l'orrore. Stringo i denti così forte da
mandare scosse di dolore verso l'alto, dritte al mio cervello, e la distrazione
mi è di aiuto. Devo premere la mano insanguinata contro il pavimento
sporco per tenerla ferma, ma con un grido disperato, alla fine, taglio l'osso.
Il coltello mi cade dalla mano tremante, tintinnando sul pavimento. Il mio
indice è ancora appeso alla mano da un singolo pezzo di carne, lo strappo
con un movimento rapido e violento. Il mio corpo trema così tanto che a
malapena riesco ad alzarmi in piedi, ma in qualche modo ripongo il dito nel
palmo teso di Anderson prima di crollare a terra.
«Brava ragazza» dice dolcemente. «Brava ragazza.»
È tutto quello che gli sento dire prima di svenire.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 20
KENJI
 
Fissiamo entrambi la scena sanguinosa ancora per un po’ prima che
Warner si raddrizzi improvvisamente ed esca dalla stanza. Metto la pistola
nella cintura dei miei pantaloni e lo inseguo, ricordandomi di chiudere la
porta alle nostre spalle. Non voglio che quegli scorpioni possano liberarsi.
«Ehi» dico, raggiungendolo. «Dove stai andando?»
«A cercare Castle.»
«Fantastico. Va bene. Ma pensi che forse la prossima volta, sai, invece di
andartene senza dire una parola, potresti dirmi che diavolo sta succedendo?
Non mi piace rincorrerti in questo modo. È umiliante.»
«Sembra un tuo problema personale.»
«Sì, ma pensavo che i problemi personali fossero la tua area di
competenza» dico. «Hai almeno tipo qualche migliaio di problemi
personali, giusto? O erano pochi milioni?»
Warner mi lancia uno sguardo cupo. «Faresti bene a pensare alla tua
confusione mentale prima di criticare la mia.»
«Uhm, questo cosa dovrebbe significare?»
«Significa che un cane rabbioso riuscirebbe a fiutare la tua condizione
disperata. Non sei nella posizione di giudicarmi.»
«Scusa?»
«Menti a te stesso, Kishimoto. Nascondi i tuoi veri sentimenti dietro una
sottile patina, facendo il pagliaccio, quando per tutto il tempo stai
accumulando detriti emotivi che ti rifiuti di esaminare. Io almeno non mi
nascondo da me stesso. So quali sono i miei difetti e li accetto. Ma tu» dice.
«Forse dovresti cercare aiuto.»
Spalanco gli occhi fino a farmi male, guardando avanti e indietro tra lui e
il sentiero davanti a me. «Ma stiamo scherzando? Tu stai dicendo a me di
chiedere aiuto per i miei problemi? Cosa sta succedendo?» Guardo su verso
il cielo. «Sono morto? Questo è l'inferno?»
«Voglio sapere cosa sta succedendo tra te e Castle.»
Sono così sorpreso che mi fermo brevemente sul posto.
«Cosa?» Sbatto le palpebre. Ancora confuso. «Di cosa stai parlando?
Non c'è niente che non va tra me e Castle.»
«Sei stato molto più volgare nelle ultime settimane che in tutto il tempo
da quando ti ho conosciuto. C'è qualcosa che non va.»
«Sono stressato» dico, irritandomi. «A volte impreco quando sono
stressato.»
Lui scuote la testa. «Questo è diverso. Stai avendo una quantità insolita di
stress, anche per te.»
«Wow.» Inarco le sopracciglia. «Spero proprio che non ti abbia dato
fastidio usare la tua» faccio le virgolette in aria «capacità soprannaturale di
percepire le emozioni» lascio cadere le virgolette «per capirci qualcosa.
Sono chiaramente molto stressato in questo momento. Il mondo è in
fiamme, cazzo. L'elenco delle cose che mi stressano è così lungo che non
riesco nemmeno a tenere il conto. Siamo nella merda fino al collo. J non c'è
più. Adam ha disertato. Hanno sparato a Nazeera. Hai avuto la testa così
infilata su per il culo che pensavo che non ne saresti mai uscito...»
Lui cerca di interrompermi, ma io continuo a parlare.
«...e, letteralmente cinque minuti fa,» dico «qualcuno del Santuario, ah
che nome esilarante e orribile, ha cercato di ucciderti e l'ho uccisa per
questo. Cinque minuti fa. Quindi sì, credo di stare subendo un'insolita
quantità di stress in questo momento, genio.»
Warner rifiuta il mio discorso scuotendo la testa. «L'uso di parolacce
aumenta in modo esponenziale quando sei irritato con Castle. Il tuo
linguaggio sembra essere direttamente collegato al tuo rapporto con lui.
Perché?»
Cerco di non alzare gli occhi al cielo. «Non che questa informazione sia
rilevante, ma Castle ed io abbiamo fatto un patto qualche anno fa. Pensava
che la mia» faccio di nuovo le virgolette «eccessiva dipendenza dalle
parolacce stesse inibendo la mia capacità di esprimere le emozioni in modo
costruttivo.»
«Così gli hai promesso che avresti moderato il linguaggio.»
«Sì.»
«Capisco. Sembra che tu abbia rinnegato i termini di questo accordo.»
«Perché ti interessa?» gli chiedo. «Perché ne stiamo parlando? Perché
stiamo perdendo di vista il fatto che siamo stati attaccati da qualcuno del
Santuario? Dobbiamo trovare Sam e Nouria e scoprire chi era questa
ragazza, perché era chiaramente di questo campo e loro dovrebbero sapere
ch…»
«Puoi dire a Sam e Nouria quello che vuoi» dice Warner. «Ma io ho
bisogno di parlare con Castle.»
Qualcosa nel suo tono mi spaventa. «Perché?» gli chiedo. «Che cosa sta
succedendo? Perché sei così ossessionato da Castle proprio ora?»
Alla fine, Warner smette di muoversi. «Perché» dice. «Castle ha avuto
qualcosa a che fare con questo.»
«Cosa?» Sento il sangue defluire dal mio corpo. «Non ci credo. Non è
possibile.»
Warner non dice nulla.
«Andiamo, amico, non dire assurdità… Castle non è perfetto, ma non
avrebbe mai...»
«Ehi ... Che diavolo è successo?» Winston, senza fiato e in preda al
panico, viene di corsa verso di noi. «Ho sentito uno sparo proveniente dalla
direzione in cui si trova la tua tenda, ma quando sono andato a controllare,
ho visto... ho visto...»
«Già.»
«Cos'è successo?» la voce di Winston è stridula. Terrorizzata.
In quel preciso momento, altre persone arrivano di corsa. Winston inizia
ad offrire alle persone spiegazioni che non mi preoccupo di modificare,
perché ho la testa ancora piena di tensione. Non ho idea di dove diavolo
voglia arrivare Warner, ma sono anche preoccupato di conoscerlo troppo
bene per negare i suoi pensieri. Il cuore mi dice che Castle non ci tradirebbe
mai, ma il cervello mi dice che Warner di solito ha ragione quando si tratta
di scoprire questo genere di stronzate. Quindi sto impazzendo.
Vedo Nouria in lontananza, con la pelle scura brillante nel sole
splendente, vengo invaso da sollievo.
Finalmente.
Nouria saprà qualcosa di più sulla ragazza con gli scorpioni. Deve
saperlo. E qualsiasi cosa sappia, quasi certamente mi aiuterà ad assolvere
Castle da qualsiasi affiliazione con questo casino. E non appena avremo
risolto questo strano incidente, Warner e io possiamo andarcene da qui e
iniziare a cercare J.
È tutto qui.
Questo è il piano.
Mi fa sentire bene avere un piano. Ma quando siamo abbastanza vicini,
Nouria stringe gli occhi a fessura sia a me che a Warner e il suo sguardo mi
trasmette una nuova ondata di paura che mi attraversa tutto il corpo.
«Seguitemi» dice.
Lo facciamo.
 
Warner sembra furibondo.
Castle sembra fuori di testa.
Nouria e Sam sembrano nauseate e stanche di tutti noi.
Forse mi sto immaginando delle cose, ma sono abbastanza sicuro che
Sam abbia appena lanciato uno sguardo a Nouria, il cui sottotitolo era
probabilmente Perché diavolo hai dovuto lasciare che tuo padre venisse a
stare da noi? che era così fulminante che Nouria non si è nemmeno
arrabbiata, ha solo scosso la testa, rassegnata.
E il problema è che non so nemmeno da che parte sto.
Alla fine, Warner aveva ragione su Castle, ma si sbagliava anche. Castle
non stava tramando nulla di malvagio; non ha mandato quella ragazza, il
suo nome era Amelia, contro Warner. L'errore di Castle è stato pensare che
tutti i gruppi ribelli condividessero la stessa visione del mondo.
All'inizio non mi è nemmeno venuto in mente che l'atmosfera potesse
essere diversa da queste parti. Diversa dal nostro gruppo del Punto,
perlomeno. Al Punto eravamo guidati da Castle, che era un educatore più
che un guerriero. Prima della Restaurazione era un assistente sociale. Ha
visto tonnellate di bambini che entravano ed uscivano dal sistema, e con il
Punto Omega ha cercato di costruire una casa e un rifugio per gli
emarginati. Tenevamo all’amore e alla comunità al Punto. E anche se
sapevamo che ci stavamo preparando per la lotta contro la Restaurazione,
non sempre abbiamo fatto ricorso alla violenza; Castle non amava usare i
suoi poteri in modo autorevole. Era più come una figura paterna per la
maggior parte di noi.
Ma qui…
Non ci è voluto molto a capire che Nouria è diversa da suo padre. È
abbastanza simpatica, ma è anche una donna d'affari. Non ama passare
molto tempo a chiacchierare e lei e Sam se ne stanno perlopiù per conto
loro. Non sempre consumano i loro pasti con tutti gli altri. Non sempre
partecipano alle cose di gruppo. E quando si arriva al dunque, Sam e Nouria
sono pronte e disposte a dare fuoco a tutto. Diavolo, sembra che non vedano
l'ora di farlo.
Castle non è mai stato davvero quel tipo.
Credo che sia stato un po' colto alla sprovvista quando ci siamo presentati
qui. Si è trovato improvvisamente senza lavoro quando si è reso conto che
Nouria e Sam non avrebbe preso ordini da lui. E poi, quando ha cercato di
conoscere le persone...
È rimasto deluso.
«Amelia era un po' fanatica» dice Sam, sospirando. «Non aveva mai
mostrato tendenze pericolose e violente, naturalmente, ed è per questo che
le abbiamo permesso di rimanere... Ma tutti noi abbiamo capito che i suoi
punti di vista fossero un po' troppo intensi. Era uno dei rari membri che
riteneva che la linea di confine tra la Restaurazione ed i gruppi dei ribelli
avrebbe dovuto essere chiara e precisa. Non si è mai sentita al sicuro con i
figli dei comandanti supremi in mezzo a noi, lo so perché mi ha preso da
parte per dirmelo. Ho fatto una lunga chiacchierata con lei riguardo alla
situazione, ma ora comprendo che non era convinta.»
«Ovviamente» borbotto.
Nouria mi guarda in malo modo. Mi schiarisco la gola.
Sam continua: «Quando tutti tranne Warner sono stati sostanzialmente
rapiti, e hanno sparato a Nazeera, probabilmente Amelia ha pensato che
avrebbe potuto finire il lavoro e sbarazzarsi anche di Warner.» Scuote la
testa. «Che situazione orribile.»
«Dovevi proprio spararle?» mi chiede Nouria. «Era davvero così
pericolosa?»
«Aveva tre scorpioni!» grido. «Ha puntato una pistola a Warner!»
«Cos'altro avrebbe dovuto pensare?"» dice Castle, con delicatezza. Sta
fissando per terra, con i dread lunghi sciolti, mentre di solito sono legati alla
base del collo. Vorrei poter vedere l'espressione sulla sua faccia. «Se non
avessi conosciuto Amelia personalmente, anch’io avrei pensato che
lavorasse per qualcuno.»
«Ripetimi,» dice Warner a Castle «esattamente quello che le hai detto di
me.»
Castle alza lo sguardo. Sospira.
«Lei ed io abbiamo avuto una discussione un po' accesa» dice. «Amelia
era convinta che i membri della Restaurazione non potessero mai cambiare,
che fossero malvagi e sarebbero rimasto malvagi. Le ho detto che non ci
credevo. Le ho detto che pensavo che tutte le persone fossero capaci di
cambiare.»
Alzo un sopracciglio. «Aspetta, vuoi dire che pensi che anche qualcuno
come Anderson è capace di cambiare?»
Castle esita. E so quello che sta per dire, solo guardandolo negli occhi. Il
cuore mi salta nel petto. Per la paura.
«Penso che se Anderson fosse veramente pentito,» dice Castle «anche lui
potrebbe cambiare. Sì. Io ci credo.»
Nouria alza gli occhi al cielo.
Sam si prende la testa tra le mani.
«Aspetta. Aspetta.» Alzo un dito. «Quindi, tipo, in una situazione
ipotetica… se Anderson venisse al Punto a chiedere l'amnistia, affermando
di essere cambiato, tu...?»
Castle mi guarda e basta.
Mi butto sulla sedia con un gemito.
«Kenji» dice dolcemente Castle. «Tu sai meglio di chiunque altro come
funzionavano le cose al Punto Omega. Ho dedicato la mia vita a dare una
seconda e terza possibilità a coloro che erano stati scartati dal mondo.
Rimarresti sbalordito se sapessi quante sono le persone la cui vita è stata
deragliata da un semplice errore che è cresciuto a dismisura, andando oltre
il loro controllo, perché nessuno è mai stato lì per offrire una mano o anche
solo un'ora di assistenza...»
«Castle. Signore» alzo le mani. «Ti voglio bene. Davvero. Ma Anderson
non è una persona normale. Lui...»
«Certo che è una persona normale, figliolo. È questo il punto. Siamo tutte
persone normali, quando ci riduci al minimo. Non c'è niente di cui aver
paura quando guardi Anderson; è umano come te o me. Altrettanto
terrorizzato. E sono sicuro che se potesse tornare indietro e ricominciare la
sua vita, farebbe scelte molto diverse.»
Nouria scuote la testa. «Non puoi saperlo, papà.»
«Forse no» dice piano. «Ma è quello che credo.»
«È questo che credi anche di me?» chiede Warner. «È questo che le hai
detto? Che sono solo un bravo ragazzo, un ragazzo vulnerabile che non
avrebbe mai alzato un dito per farle del male? Che se potessi rifare tutto da
capo, sceglierei di vivere la vita come un monaco, dedicando le mie
giornate a fare carità e buone intenzioni?»
«No» dice bruscamente Castle. È chiaro che sta cominciando ad irritarsi.
«Le ho detto che la tua rabbia era un meccanismo di difesa e che non potevi
cambiare il fatto di essere nato da un padre violento. Le ho detto che nel tuo
cuore sei una brava persona e che non vuoi fare del male a nessuno. Non
intenzionalmente.»
Gli occhi di Warner lampeggiano. «Voglio fare del male alla gente in
continuazione» dice. «A volte non riesco a dormire la notte perché penso a
tutte le persone che vorrei uccidere.»
«Fantastico» annuisco, appoggiandomi allo schienale della sedia.
«Questo è super fantastico. Tutte queste informazioni che stiamo
raccogliendo sono super funzionali e utili.» Conto sulle dita: «Amelia era
una psicopatica, Castle vuole diventare il miglior amico di Anderson,
Warner ha fantasie notturne sull'uccidere persone e Castle ha fatto pensare
ad Amelia che Warner fosse un coniglietto smarrito che cerca di ritrovare la
strada di casa.»
Quando tutti mi fissano, confusi, mi spiego:
«Castle ha praticamente dato ad Amelia l'idea di poter entrare in una
stanza e uccidere Warner! Le ha praticamente detto che Warner è pericoloso
quanto un fagottino.»
«Oh» dicono Sam e Nouria contemporaneamente.
«Non credo che volesse ucciderlo» dice Castle in fretta. «Sono sicuro che
lei...»
«Papà, per favore» la voce di Nouria è acuta e pungente. «Basta.»
Scambia uno sguardo con Sam e fa un respiro profondo.
«Ascolta» dice, provando ad usare un tono più calmo. «Lo sapevamo,
quando sei arrivato qui, che avremmo dovuto affrontare questa situazione
alla fine, ma credo sia ora di parlare dei nostri ruoli e responsabilità da
queste parti.»
«Oh. Capisco» Castle stringe le mani. Fissa il muro. Sembra così triste,
piccolo e anziano. Anche i suoi dread sembrano più argento che nero in
questi giorni. A volte mi dimentico che ha quasi cinquant’anni. La maggior
parte delle persone pensa che abbia, tipo, quindici anni di meno, ma solo
perché ha sempre avuto un aspetto davvero, davvero ottimo per la sua età.
Ma per la prima volta dopo anni mi sembra di cominciare a vedere i segni
dell'età sulla sua faccia. Sembra stanco. Consumato.
Ma questo non significa che non abbia più nessun compito.
Castle ha ancora molto da fare. Molto di più da dare. E non posso
starmene qui seduto e lasciare che venga messo da parte. Ignorato. Voglio
urlarlo a qualcuno. Voglio dire a Nouria e Sam che non possono sbattere
Castle sul marciapiede in questo modo. Non dopo tutto. Non così.
E sto per dire una cosa del genere, quando Nouria riprende a parlare.
«Sam ed io,» dice «vorremmo offrirti un incarico ufficiale come nostro
consigliere senior qui al Santuario.»
Castle solleva la testa di scatto. «Consigliere senior?» Fissa Nouria. Fissa
Sam. «Non mi state chiedendo di andarmene?»
Nouria sembra improvvisamente confusa.
«Andartene? Papà, sei appena arrivato. Sam ed io vogliamo che tu
rimanga per tutto il tempo che vuoi. Pensiamo solo che sia importante che
ognuno di noi sappia cosa stiamo facendo qui, in modo da poter gestire le
cose nel modo più efficiente e organizzato possibile. È difficile per me e
Sam essere efficaci nel nostro lavoro se siamo preoccupate per i tuoi
sentimenti e ci giriamo intorno in punta di piedi, e anche se è difficile avere
conversazioni come questa, abbiamo pensato che sarebbe stato meglio...»
Castle trascina Nouria in un abbraccio così forte, così pieno d'amore, che
sento gli occhi pizzicarmi per l'emozione. Devo distogliere lo sguardo per
un momento.
Quando mi volto, Castle è raggiante.
«Sarei onorato di consigliarvi in ogni modo possibile» dice Castle. «E se
non l'ho detto abbastanza, lasciate che lo ripeta: sono così orgoglioso di te,
Nouria. Così orgoglioso di entrambe» dice, guardando Sam. «I ragazzi
sarebbero stati così orgogliosi.»
Gli occhi di Nouria sono velati dall'emozione. Anche Sam sembra
commossa.
Ancora un minuto e mi servirà un fazzoletto.
«Giusto, bene» Warner è in piedi. «Sono contento che l'attentato alla mia
vita sia riuscito a riunire la vostra famiglia. Me ne vado ora.»
«Aspetta...» Afferro il braccio di Warner e lui mi spinge via.
«Se continui a toccarmi senza il mio permesso, ti taglio le mani dal
corpo.»
Lo ignoro. «Non dovremmo dire loro che stiamo andando via?»
Sam aggrotta le sopracciglia. «Ve ne andate?»
Nouria solleva le sopracciglia. «Voi?»
«Andiamo a prendere J» spiego. «È tornata in Oceania. James ci ha detto
tutto. A proposito, probabilmente dovreste parlare con lui. Ha delle notizie
su Adam che non vi piaceranno, notizie che non mi interessa ripetere.»
«Kent vi ha traditi tutti per salvare sé stesso.»
«Per salvare James» chiarisco, lanciando un'occhiataccia a Warner. «E
questo non è stato bello, amico. Ho appena detto che non volevo parlarne.»
«Sto cercando di essere efficiente.»
Castle sembra sbalordito. Non dice nulla. Sembra solo stordito.
«Parla con James» gli dico. «Lui ti dirà cosa sta succedendo. Ma Warner
e io andiamo a prendere un aereo...»
«Rubare un aereo.»
«Giusto, rubare un aereo, prima della fine della giornata. E, uhm,
sappiate che andiamo a prendere J e torniamo subito, bim bam boom.»
Nouria e Sam mi fissano come se fossi un idiota.
«Bim bam boom?» dice Warner.
«Sì, sai, tipo» batto le mani insieme «boom. Fatto. Facile.»
Warner si allontana da me con un sospiro.
«Aspetta ... Quindi ci andate solo voi due?» chiede Sam. È contrariata.
«Sinceramente, meno sono e meglio è» risponde Nouria al mio posto. «In
questo modo, ci sono meno corpi da occultare, meno azioni da coordinare.
In ogni caso, mi offrirei di venire con voi, ma abbiamo ancora così tanti
feriti di cui occuparci... E ora che Amelia è morta, ci saranno sicuramente
più ripercussioni e sconvolgimenti emotivi da gestire.»
Gli occhi di Castle si illuminano. «Mentre vanno a cercare Ella,» dice a
Nouria e Sam «e voi due state gestendo le cose qui, stavo pensando di
contattare gli amici della mia rete. Fargli sapere cosa sta succedendo e che
ci sono cambiamenti in corso. Posso aiutare a coordinare i nostri
spostamenti in tutto il mondo.»
«È un’ottima idea» dice Sam. «Forse p...»
«Non mi interessa» dice a voce alta Warner e si gira verso la porta. «E
ora me ne vado. Kishimoto, se vuoi venire, tieni il passo.»
«Giusto» dico, cercando di sembrare importante. «Ok. Ciao.» Lancio un
rapido saluto a tutti con due dita e corro dritto verso la porta solo per
sbattere forte contro Nazeera.
Nazeera.
Porca puttana. È sveglia. È perfetta.
È incazzata.
«Voi due non andate da nessuna parte senza di me» dice.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 21
ELLA
JULIETTE
 
Sono una ladra.
Ho rubato questo quaderno e questa penna a uno dei medici, da uno dei
suoi camici da laboratorio mentre non guardava, e ho infilato entrambi nei
pantaloni. É successo poco prima che ordinasse a quegli uomini di venire a
prendermi. Quelli con le strane tute, i guanti spessi e le maschere antigas,
quelle con la plastica scura, come finestre che nascondono gli occhi.
Ricordo di aver pensato che fossero alieni. Ricordo di aver pensato che
dovevano essere alieni perché non potevano essere umani quelli che mi
hanno ammanettato le mani dietro la schiena, per poi legarmi a una sedia.
Mi hanno sfiorato la pelle più e più volte con i taser, per nessun altro
motivo se non quello di sentirmi urlare, ma non l'ho fatto. Ho emesso dei
lamenti, ma senza mai dire una parola. Sentivo le lacrime scorrere giù per
le guance, ma non stavo piangendo.
Credo che li abbia fatti arrabbiare.
Mi hanno dato uno schiaffo per svegliarmi, anche se avevo gli occhi
aperti quando siamo arrivati. Qualcuno mi ha slegato senza rimuovere le
manette e mi ha dato un calcio in entrambe le rotule prima di ordinarmi di
alzarmi. E ci ho provato. Ci ho provato, ma non ci sono riuscita e alla fine
6 mani mi hanno spinta fuori dalla porta e la mia faccia ha sanguinato sul
cemento per un po'. Non riesco proprio a ricordare la parte dove mi hanno
trascinato dentro.
Sento freddo tutto il tempo.
Mi sento vuota, come se non ci fosse niente dentro di me se non questo
cuore spezzato, l'unico organo rimasto in questo inferno. Sento le
pulsazioni riecheggiare dentro di me, sento il martellamento risuonare
intorno al mio scheletro. Ho un cuore, dice la scienza, ma sono un mostro,
dice la società. E io lo so, certo che lo so. So quello che ho fatto. Non
chiedo compassione.
Ma a volte penso ... a volte mi chiedo ... se fossi un mostro, a quest’ora lo
sentirei, o no?
Mi sentirei arrabbiata, feroce e vendicativa.
Conoscerei la rabbia cieca, la sete di sangue e il bisogno di vendetta.
Invece, sento un abisso dentro di me che è talmente profondo, così oscuro
che non riesco a guardarci dentro; non riesco a vedere cosa contiene. Non
so cosa sono o quello che potrebbe succedermi.
Non so cosa potrei fare di nuovo.
 
- Un estratto dai diari di Juliette in manicomio
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 22
KENJI
 
Mi fermo un attimo, lasciando che lo shock di tutto questo si depositi intono
a me e quando finalmente mi rendo conto che Nazeera è davvero qui,
sveglia e che sta bene, la stringo tra le braccia. Il suo atteggiamento
difensivo si scioglie e, all'improvviso, è solo una ragazza, la mia ragazza, e
sento una felicità immensa. Non è assolutamente bassa ma, tra le mie
braccia, sembra piccola. Formato tascabile. Come se fosse sempre stata
destinata a stare qui, contro il mio petto.
É come il paradiso.
Quando finalmente ci separiamo, sorrido come un idiota. Non mi importa
che tutti ci stiano fissando. Voglio solo vivere questo momento.
«Ehi» le dico. «Sono così felice che tu stia bene.»
Prende un respiro incerto e profondo, poi… sorride. Il suo viso cambia
del tutto. Ora assomiglia molto meno a una mercenaria e più a una
diciottenne. Anche se credo che mi piacciano entrambe le versioni, se devo
essere sincero.
«Sono contenta che anche tu stia bene» dice tranquillamente.
Ci fissiamo per un lungo momento prima di sentire qualcuno che si
schiarisce la gola in modo teatrale.
Con riluttanza, mi giro.
Capisco, in un istante, che il verso proveniva da Nouria. Lo capisco dal
modo in cui incrocia le braccia, da come stringe gli occhi. Sam, invece,
sembra divertita.
Ma Castle sembra felice. Sorpreso, ma felice.
Gli sorrido.
L’espressione severa di Nouria si fa più evidente. «Voi due sapete che
Warner se ne è andato, giusto?»
Questo mi toglie il sorriso dalla faccia. Mi giro, ma non c'è nessuna
traccia di lui. Mi volto di nuovo, imprecando sottovoce.
Nazeera mi lancia un’occhiata.
«Lo so» dico, scuotendo la testa. «Cercherà di provare ad andare via
senza di noi.»
Quasi si mette a ridere. «Sicuramente.»
Sto per salutarli tutti, quando Nouria salta in piedi. «Aspetta» dice.
«Non c'è tempo» dico, andando verso la porta. «Warner ci abbandonerà e
io...»
«Sta per farsi una doccia» dice Sam, interrompendomi.
Mi blocco così velocemente che quasi cado. Mi giro, aggrottando le
sopracciglia. «Sta per fare cosa?»
«Sta per fare una doccia» ripete.
Batto le palpebre lentamente, come se fossi stupido, il che, onestamente,
è un po' come mi sento in questo momento. «Vuoi dire che puoi, tipo,
vederlo mentre si prepara a fare la doccia?»
«Non è strano» dice Nouria senza mezzi termini. «Smettila di farlo
sembrare strano.»
Strizzo gli occhi in direzione di Sam. «Cosa sta facendo Warner in questo
momento?» le chiedo. «É già sotto la doccia?»
«Sì.»
Nazeera inarca un sopracciglio. «Quindi stai guardando Warner nudo
sotto la doccia in questo momento?»
«Non sto guardando il suo corpo» ribatte Sam, con tono irritato.
«Ma potresti» dico, sbalordito. «Ecco cosa c'è di così strano. Potresti
semplicemente guardare chiunque di noi fare la doccia completamente
nudo.»
«Sapete una cosa?» dice Nouria con tono acuto. «Stavo per fare qualcosa
che renda le cose più facili a voi ragazzi per avere una via d'uscita, ma
credo di aver cambiato idea.»
«Aspetta...» dice Nazeera. «Rendere le cose più facili come?»
«Volevo aiutarvi a rubare un jet.»
«Ok, va bene, mi rimangio tutto» dico, alzando le mani in segno di scusa.
«Ritiro tutti i miei precedenti commenti sulla nudità. Vorrei anche scusarmi
formalmente con Sam, tutti noi sappiamo che è troppo educata e fantastica
per spiare qualcuno sotto la doccia.»
Sam alza gli occhi al cielo. Le sfugge un sorriso.
Nouria sospira. «Non capisco come tu faccia a gestirlo» dice a Castle.
«Non sopporto tutte le sue battute. Mi porterebbe alla pazzia doverlo
ascoltare tutto il giorno.»
Sto per protestare, quando Castle le risponde.
«Questo solo perché non lo conosci abbastanza bene» dice, sorridendomi.
«Inoltre, non lo amiamo per i suoi scherzi, vero, Nazeera?» I due si fissano
negli occhi per un momento. «Lo amiamo per il suo cuore.»
A questo punto, il sorriso mi svanisce dal viso. Sto ancora elaborando il
peso di quesra dichiarazione, la generosità di una tale dichiarazione, quando
mi rendo conto di aver già perso alcune frasi.
Nouria sta parlando.
«La base aerea non è lontana da qui» sta dicendo. «Credo che questo sia
un buon momento come un altro per farvi sapere che Sam e io stiamo
prendendo esempio da una delle strategie di Ella e assumeremo il controllo
del Settore 241. Rubare un aereo sarà l'ultimo dei problemi ... e, in effetti,
penso che sia un ottimo modo per lanciare la nostra strategia offensiva.» Si
guarda alle spalle. «Cosa ne pensi Sam?»
«Geniale» dice «come al solito.»
Nouria sorride.
«Non avevo capito che fosse questa la tua strategia» dice Castle, che ora
non sorride più. «Non credi che, in base a come le cose si sono svolte
l'ultima volta, f…»
«Perché non ne discutiamo dopo aver mandato i ragazzi in missione? In
questo momento è più importante risolvere la loro situazione e dargli un
vero e proprio commiato prima che sia ufficialmente troppo tardi.»
«Ehi, a proposito» dico subito. «Cosa ti fa pensare che non sia già troppo
tardi?»
Nouria incontra i miei occhi. «Se avessero fatto il trasferimento,
l'avremmo sentito.»
«Sentito come?»
É Sam che risponde: «Perché il loro piano funzioni, Emmaline deve
morire. Non lasceranno che questo accada naturalmente, ovviamente,
perché una morte naturale potrebbe verificarsi in numerosi casi, lasciando
troppi fattori in sospeso. Hanno bisogno di poter controllare l'esperimento
in ogni momento ... ecco perché erano così determinati a mettere le mani su
Ella prima che Emmaline morisse. Quasi certamente uccideranno
Emmaline in un ambiente controllato, e lo faranno in un modo che non lasci
spazio a errori. Anche così, sentiremmo per forza un cambiamento.
Quella differenza infinitesimale… dopo che i poteri di Emmaline si
saranno affievoliti, ma prima che vengano incanalati in un nuovo corpo
ospite, avrà un impatto drammatico sulla nostra visione del mondo. E quel
momento non è ancora arrivato, il che ci fa pensare che Ella sia
probabilmente ancora al sicuro.» Sam alza le spalle. «Ma potrebbe accadere
da un momento all'altro. Il tempo è davvero essenziale.»
«Come fai a sapere così tante cose?» chiede Nazeera, con la fronte
corrugata. «Per anni ho cercato di mettere le mani su queste informazioni, e
non ho trovato niente, nonostante sia stata così vicina alla fonte. Ma sembra
che tu sappia tutto questo quasi per esperienza personale. É incredibile.»
«Non è così incredibile» dice Nouria, scuotendo la testa. «Siamo stati
mirati nella nostra ricerca. Tutti i gruppi ribelli hanno un diverso punto di
forza o principio di base. Per alcuni, è la sicurezza. Per altri, è la guerra. Per
noi, è stata la ricerca. Le cose che abbiamo visto erano là fuori per essere
viste da tutti… ci sono sempre delle falle… ma quando non le cerchi, non le
noti. Ma io le ho notate. Sam le ha notate. É stata una delle cose che ci ha
unite.»
Le due donne si scambiano uno sguardo.
«Eravamo convinte che una parte della nostra oppressione fosse
un’illusione» dice Sam. «E abbiamo inseguito la verità con ogni risorsa a
nostra disposizione. Purtroppo, non conosciamo ancora tutto.»
«Ma ci siamo più vicini di molti altri» dice Nouria. Fa un respiro
profondo, ritrovando la concentrazione. «Faremo la nostra parte mentre
sarete via. Se tutto va bene, quando tornerete avremo portato più di un
settore dalla nostra parte.»
«Pensate davvero di poter realizzare tutto questo in un periodo di tempo
così breve?» chiedo, sgranando gli occhi. «Credevo che non saremmo stati
via più di un paio di giorni.»
Nouria allora mi sorride, ma è un sorriso strano, un indagatore. «Non
capisci?» dice. «Ci siamo. Questa è la fine. Questo è il momento per cui
abbiamo tanto lottato. La fine di un'era. La fine di una rivoluzione.
Finalmente ora abbiamo tutto il vantaggio. Abbiamo persone all'interno. Se
agiamo nel modo giusto, potremmo far crollare la Restaurazione nel giro di
pochi giorni.»
«Ma tutto questo dipende dal fatto che arriviamo a J in tempo» dico. «E
se arrivassimo troppo tardi?»
«Dovrete ucciderla.»
«Nouria» ansima Castle.
«Stai scherzando» ribatto. «Dimmi che stai scherzando.»
«Non scherzo affatto» risponde. «Se arrivate ed Emmaline è morta, con
Ella che ha preso il suo posto, dovrete ucciderla. Dovrete uccidere lei e
quanti più comandanti supremi possibile.»
La fisso a bocca aperta.
«E tutto quello che hai detto a J la notte che siamo arrivati? Tutto quel
parlare di quanto fosse un’ispirazione e di quante persone fossero rimaste
commosse dalle sue azioni... di come lei fosse fondamentalmente un'eroina?
Che fine hanno fatto tutte quelle stronzate?»
«Non erano stronzate» dice Nouria. «Ero sincera su ogni parola. Ma
siamo in guerra, Kishimoto. Non abbiamo tempo per essere sentimentali.»
«Sentimentali? Sei fuori di...»
Nazeera mi mette una mano sul braccio per calmarmi. «Troveremo un
altro modo. Ci deve essere un altro modo.»
«É impossibile invertire il processo una volta che è in corso» dice Sam
con calma. «L'Operazione Sintesi rimuoverà ogni traccia della vostra
vecchia amica. Sarà irriconoscibile. Un super soldato in tutti i sensi. Al di là
della salvezza.»
«Non sto ascoltando» dico con rabbia. «Non sto ascoltando tutto questo.»
Nouria alza le mani. «Questa conversazione potrebbe rivelarsi inutile. Se
riuscirete a raggiungerla in tempo, non avrà importanza. Ma ricordate: se
arrivate lì ed Ella è ancora viva, dovete assolutamente assicurarvi che
uccida Emmaline. La chiave è eliminare Emmaline. Una volta che se ne
sarà andata, i comandanti supremi diventeranno facili bersagli.
Vulnerabili.»
«Aspetta» corrugo la fronte, ancora arrabbiato. «Perché deve essere J a
uccidere Emmaline? Non potrebbe farlo uno di noi?»
Nouria scuote la testa. «Se fosse così semplice, non pensi che sarebbe già
stato fatto a quest'ora?»
Alzo le sopracciglia. «Non se nessuno sapeva della sua esistenza.»
«Sapevamo della sua esistenza» dice Sam tranquillamente. «Sappiamo di
Emmaline da un bel po’.»
Nouria continua: «Perché pensi che abbiamo contattato la vostra squadra?
Perché abbiamo rischiato la vita di uno dei nostri per far arrivare un
messaggio a Ella? Perché pensi che vi abbiamo aperto le nostre porte, anche
quando sapevamo che ci saremmo esposti a un possibile attacco? Abbiamo
fatto delle scelte, una più difficile dell'altra, mettendo a rischio la vita di
tutti coloro che dipendevano da noi.» Sospira. «Ma anche ora, dopo aver
sofferto una terribile perdita, Sam e io pensiamo di aver fatto la cosa giusta.
Riesci a immaginare il perché?»
«Perché siete ... Buone Samaritane?»
«Perché abbiamo capito, mesi fa, che Ella era l'unica abbastanza forte da
uccidere la propria sorella. Abbiamo bisogno di lei tanto quanto voi. E non
solo noi…» Nouria indica con un gesto se stessa e Sam. «Ma il mondo
intero. Se Ella sarà in grado di uccidere Emmaline prima che i poteri
vengano trasferiti, di fatto avrà ucciso la più grande arma della
Restaurazione. Se non uccide Emmaline ora, mentre l'energia scorre ancora
nelle sue vene, la Restaurazione potrà continuare a imbrigliare e trasferire
quel potere in un nuovo ospite.»
«Una volta pensavamo che Ella avrebbe dovuto lottare contro la sorella»
dice Sam. «Ma sulla base delle informazioni che Ella ha condiviso con noi
mentre era qui, sembra che Emmaline sia pronta e disposta a morire.» Sam
scuote la testa. «Anche così, ucciderla non è semplice come staccare la
spina. Ella si scontrerà con il fantasma del genio della propria madre. Evie
avrà indubbiamente pianificato numerose soluzioni alternative per
mantenere Emmaline invulnerabile agli attacchi, da parte degli altri e di se
stessa. Non ho idea di cosa dovrà affrontare Ella, ma posso garantirvi che
non sarà facile.»
«Gesù» mi prendo la testa tra le mani. Pensavo di aver già raggiunto il
picco di stress, ma mi sbagliavo. Quello che sto provando ora è a un livello
completamente nuovo.
Sento la mano di Nazeera sulla schiena e alzo lo sguardo. La sua
espressione sembra incerta quanto la mia e, in qualche modo, mi fa sentire
meglio.
«Fate i bagagli» dice Nouria. «Raggiungete Warner. Ci vediamo
all’ingresso tra venti minuti.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 23
ELLA
JULIETTE
 
Nell'oscurità, immagino la luce.
Sogno i soli, le lune, le madri. Vedo bambini che ridono, che piangono;
vedo sangue, sento odore di zucchero. La luce si frantuma attraverso
l'oscurità che preme contro i miei occhi, spaccando il nulla in qualcosa.
Forme senza nome si espandono e ruotano, schiantandosi le une contro le
altre, dissolvendosi al contatto. Vedo della polvere. Vedo pareti scure, una
piccola finestra, acqua, parole su una pagina…
 
Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non
sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono
pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non
sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono
pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non
sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono
pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non
sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono
pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non
sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono
pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non
sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono
pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non
sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono
pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non
sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono
pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non
sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono
pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza
Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono pazza Non sono
pazza Non sono pazza Non sono pazza
 
Nel dolore, immagino la beatitudine.
I miei pensieri sono come il vento, che precipita, che si raggomitola negli
abissi di me stessa, espellendo, dissipando le tenebre
Immagino l'amore, immagino il vento, immagino capelli dorati e occhi
verdi, e sussurri, risate
Immagino
Me stessa
straordinaria, impavida
la ragazza che ha scioccato se stessa sopravvivendo, che amava se stessa
attraverso la conoscenza, che rispettava la propria pelle, che ha capito il
proprio valore, ha trovato la propria forza
forte
più forte
la più forte
Immagino me stessa
padrona del mio universo
Sono tutto quello che ho sempre sognato
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 24
KENJI
 
Siamo in volo.
Siamo in volo da ore ormai. Ho passato le prime quattro dormendo...
normalmente riesco a addormentarmi ovunque, in qualsiasi posizione... e ho
passato le ultime due a mangiare tutti gli spuntini presenti sull'aereo.
Abbiamo ancora circa un'ora di volo e sono così annoiato che ho iniziato a
pizzicarmi gli occhi con le dita solo per passare il tempo.
Abbiamo avuto un inizio ottimo. Nouria ci ha aiutato a rubare un aereo,
come promesso, schermando le nostre azioni con un lampo di luce ma, ora
che siamo quassù, siamo praticamente da soli. Nazeera ha dovuto
rispondere a qualche domanda alla radio ma, poiché la maggior parte dei
militari non ha idea di quanti casini ci siano già stati, sa ancora come
aggirare le richieste di informazioni da parte dei leader del settore e dei
soldati ficcanaso. Ci rendiamo conto che è solo questione di tempo, però,
prima che qualcuno si renda conto che non abbiamo le autorizzazioni per
stare quassù.
Fino ad allora…
Mi guardo intorno. Sono seduto vicino alla cabina di pilotaggio per
essere a portata d'orecchio di Nazeera, ma sia lei che io abbiamo deciso che
sarei dovuto stare dietro per tenere d'occhio Warner, che è seduto
abbastanza lontano, al sicuro dalle sue occhiate rabbiose. Onestamente, lo
sguardo sul suo viso è così intenso che mi sorprende non abbia iniziato a
invecchiare prematuramente.
Basti dire che non gli piaceva per niente il piano di Nouria.
Voglio dire, non piace neanche a me e non ho alcuna intenzione di
seguirlo fino in fondo, ma Warner sembrava voler sparare a Nouria anche
solo per aver pensato che avremmo potuto dover uccidere J. È rimasto
seduto, rigido, nella parte posteriore dell'aereo da quando ci siamo
imbarcati e ho pensato fosse meglio non avvicinarmi, nonostante la nostra
recente riconciliazione. Semi-riconciliazione? Io la chiamerei
riconciliazione.
Ma in questo momento credo che abbia bisogno di spazio.
O forse sono io… forse sono io che ho bisogno di spazio. Lui è faticoso
da gestire. Senza J in giro, Warner non ha un carattere amichevole. Non
sorride mai. Raramente guarda le persone. È sempre irritato.
Ora come ora, onestamente non riesco a ricordare perché a J piaccia così
tanto.
Infatti, negli ultimi due mesi avevo dimenticato come fosse senza di lei.
Ma questo promemoria è stato più che sufficiente. Troppo, a dire la verità.
Non ne voglio altri. Giuro che non dimenticherò mai più che Warner non è
un tipo divertente con cui passare il tempo. Quel tizio ha addosso così tanta
tensione che è praticamente contagiosa. Quindi sì, gli sto dando spazio.
Finora gli ho dato sette ore di spazio.
Gli lancio un'altra occhiata, chiedendomi come riesca a starsene così
fermo, rigido, per sette ore di fila. Come fa a non essersi stirato un
muscolo? Perché non deve mai usare il bagno? Dove va a finire tutto?
L'unica concessione ottenuta da Warner è che sembra più se stesso. Sam
aveva ragione: si è fatto la doccia. Si potrebbe pensare che stia andando a
un appuntamento, anziché prendere parte a una missione di
omicidio/soccorso. È ovvio che voglia fare una buona impressione.
Indossa alcuni abiti usati di Haider: una giacca verde pallido, pantaloni
coordinati. Stivali neri. Ma poiché questi articoli sono stati scelti da Haider,
la giacca non è una normale. Ovviamente. Questa non ha risvolti, né
bottoni. La forma è tagliata in linee nette che la lasciano aperta, esponendo
la maglietta che indossa sotto: bianca, con lo scollo a V, che mette in mostra
una buona parte del suo petto, più di quanto mi senta a mio agio a guardare.
Eppure, sembra a posto. Un po' nervoso, ma...
«I tuoi pensieri sono molto rumorosi» dice Warner, continuando a fissare
il finestrino.
«Oh mio Dio, mi dispiace tanto» dico, fingendo di essere scioccato.
«Abbasserei il volume, ma dovrei morire per far in modo che il mio
cervello smetta di funzionare.»
«Un problema facilmente risolvibile» borbotta.
«Ti ho sentito.»
«Volevo che mi sentissi.»
«Ehi» dico, accorgendomi di una cosa. «Non ti sembra una specie di
strano dejà vu?»
«No.»
«No, no, dico sul serio. Quante erano le probabilità che noi tre avremmo
di nuovo fatto un viaggio come questo? Anche se l'ultima volta che siamo
partiti per un viaggio simile, alla fine ci hanno sparato mentre eravamo in
volo, quindi... sì, non voglio riviverlo. Inoltre, J non è qui. Così… Ehm…»
Esito. «Ok, mi sto rendendo conto che forse non capisco davvero cosa
significhi dejà vu.»
«È francese» dice Warner, annoiato. «Significa letteralmente già visto.»
«Aspetta, allora so cosa significa.»
«Che tu sappia cosa significa qualcosa mi stupisce.»
Prima di avere la possibilità di difendermi, la voce di Nazeera arriva dalla
cabina di pilotaggio.
«Ehi» chiede. «Siete di nuovo amici?»
Sento il familiare click e lo scorrimento del metallo: un suono che
significa che Nazeera sta lasciando la cabina.
Di tanto in tanto imposta il pilota automatico (o qualunque cosa sia) e mi
raggiunge. Ma è passata almeno mezz'ora dalla sua ultima pausa e mi è
mancata.
Si sistema sulla sedia accanto a me.
Mi sposto velocemente verso di lei.
«Sono così felice che voi due finalmente vi parliate» dice, sospirando
mentre sprofonda nel sedile. «Il silenzio era deprimente.»
Il mio sorriso si spegne.
Lo sguardo di Warner si rabbuia.
«Ascolta» dice, guardando Warner. «So che tutto questo è orribile... che
la ragione stessa per cui siamo su questo aereo è orribile. Ma devi smettere
di essere così. Abbiamo, tipo, ancora trenta minuti di volo, il che significa
che stiamo per andare là fuori, insieme, a fare qualcosa di enorme. Quindi
dobbiamo essere tutti sulla stessa lunghezza d'onda. Dobbiamo poterci
fidare l’uno dell’altro e lavorare insieme. Se non lo facciamo, o se non ce lo
permetti, potremmo finire per perdere tutto.»
Quando Warner non dice nulla, Nazeera sospira di nuovo.
«Non mi interessa cosa pensi Nouria» dice, cercando di usare un tono
gentile. «Non perderemo Ella.»
«Tu non capisci» dice tranquillamente Warner. Non ci ha ancora
guardato. «L'ho già persa.»
«Non puoi saperlo» dice Nazeera con forza. «Ella potrebbe essere ancora
viva. Possiamo ancora ribaltare la situazione.»
Warner scuote la testa. «Era diversa anche prima che venisse presa» dice.
«Qualcosa era cambiato dentro di lei, non so cosa fosse, ma potevo sentirlo.
Sono sempre stato in grado di sentirla, sono sempre stato in grado di sentire
la sua energia, e non era più la stessa. Emmaline le ha fatto qualcosa, ha
cambiato qualcosa dentro di lei. Non ho idea di come sarà quando la
rivedrò. Se la rivedrò.» Fissa fuori dal finestrino. «Ma sono qui perché non
posso fare nient'altro. Perché questo è l'unico modo per andare avanti.»
E poi, anche se so che lo farà incazzare, dico a Nazeera:
«Warner e J erano fidanzati.»
«Cosa?» Nazeera rimane di stucco. I suoi occhi si spalancano. Super
spalancati. Più larghi dell'aereo. Sono così larghi che in pratica riempiono il
cielo. «Quando? Come? Perché nessuno me l'ha detto?»
«Te l'ho detto in confidenza» dice puntualmente Warner, con aria di
rimprovero.
«Lo so.» Scrollo le spalle. «Ma Nazeera ha ragione. Siamo una squadra
ora e, che ti piaccia o no, dovremmo mettere tutte le carte in tavola.
Affrontare le cose.»
«Le carte in tavola? Come il fatto che tu e Nazeera abbiate una relazione
che non ti sei mai preoccupato di menzionare?»
«Ehi» dico. «Stavo per...»
«Aspettate. Aspettate.» Nazeera mi interrompe, sollevando le mani.
«Perché cambiamo argomento? Warner, fidanzato! Oh mio Dio, questo è...
questo è meraviglioso. È una cosa grossa, potrebbe darci un per- »
«Non è una gran cosa.» Mi giro, la guardo con espressione accigliata.
«Sapevamo tutti che una cosa di questo tipo sarebbe successa. Loro due
sono fondamentalmente destinati a stare insieme, lo riconosco anche io.»
Inclino la testa, riflettendo. «Voglio dire, è vero, penso che siano un po’
giovani, ma...»
Nazeera scuote la testa. «No. No. Non è di quello che sto parlando. Non
mi preoccupo dell'impegno vero e proprio.» Si ferma, guarda Warner.
«Voglio dire ... ehm, congratulazioni e tutto.»
Warner sembra più che infastidito.
«Voglio solo dire che questo mi ha ricordato qualcosa. Qualcosa di
perfetto. Non so perché non ci abbia pensato prima. Dio, ci darebbe il
vantaggio ideale.»
«Che sarebbe?»
Ma Nazeera si alza dalla sedia, si dirige verso Warner e, con cautela, la
seguo. «Ti ricordi» gli dice «quando tu e Lena stavate insieme?»
Warner lancia a Nazeera uno sguardo velenoso e dice, con drammatica
freddezza, «Preferirei davvero di no.»
Nazeera respinge la sua dichiarazione con un gesto della mano. «Bene, io
ricordo. Ricordo molto più di quanto dovrei, probabilmente, perché Lena si
lamentava in continuazione con me della vostra relazione. E ricordo, in
particolare, quanto tuo padre e sua madre volessero che voi ragazzi, non
so... vi prometteste l’uno all’altra nell’immediato futuro, per la protezione
del movimento...»
«Promettersi l’uno all’altra?» ripeto corrucciato.
«Sì, come...» Esita, gesticolando con le braccia come se stesse
raccogliendo i propri pensieri, ma Warner si siede improvvisamente più
dritto, sembra capire.
«Sì» dice con calma. L'irritazione è sparita dai suoi occhi. «Ricordo che
mio padre mi disse qualcosa a proposito dell'importanza di unire le nostre
famiglie. Purtroppo, il ricordo di quell’incontro è vago, come minimo.»
«Giusto, beh, sono sicura che i vostri genitori stessero entrambi cercando
di ottenere un vantaggio politico, ma Lena era, e probabilmente è ancora,
sinceramente innamorata di te, ed è sempre stata ossessionata dall'idea di
diventare tua moglie. Mi raccontava sempre di volerti sposare, dei sogni per
il futuro, di come sarebbero stati i vostri figli…»
Osservo Warner per cogliere la sua reazione a questa testimonianza e lo
sguardo nauseato sul suo volto è sorprendentemente soddisfacente.
«... ma ricordo che già allora diceva qualcosa a proposito di quanto fossi
distaccato, chiuso e di come un giorno, quando voi due vi foste sposati,
avrebbe finalmente potuto collegare i vostri profili familiari nel database, il
che le avrebbe garantito l'autorizzazione di sicurezza necessaria per
rintracciare il tuo...»
L'aereo ha una scossa improvvisa e violenta.
Nazeera si ferma, le parole le muoiono in gola. Warner salta in piedi.
Corriamo tutti verso la cabina di pilotaggio.
Le luci lampeggiano, segnalando allarmi che non capisco. Nazeera
scansiona il monitor contemporaneamente a Warner e si scambiano uno
sguardo.
L'aereo ha un altro violento scossone, e vado a sbattere forte contro
qualcosa di affilato e metallico. Lancio una lunga serie di imprecazioni e,
per qualche motivo, quando Nazeera mi aiuta ad alzarmi...
Vado nel panico.
«Qualcuno mi dice cosa diavolo sta succedendo? Che cosa c’è? Ci stanno
sparando dal cielo in questo momento?» Mi guardo intorno, con le luci
lampeggianti, i bip costanti che echeggiano attraverso la cabina. «Fottuti
déjà vu! Lo sapevo!»
Nazeera fa un respiro profondo. Chiude gli occhi. «Non ci stanno
sparando dal cielo.»
«Allora...»
«Quando siamo entrati nello spazio aereo dell’Oceania» spiega Warner
«la loro base ha rilevato la presenza di un aereo non autorizzato.» Guarda i
monitor. «Sanno che siamo qui e non ne sono contenti.»
«Okay, capisco, ma...»
Un altro scossone violento e cado a terra. Warner non sembra nemmeno
spaventato. Nazeera inciampa, ma con grazia, e crolla nel sedile del pilota.
Sembra stranamente avvilita.
«Allora, ehm, okay... cosa sta succedendo?» Ho il respiro affannoso. Il
cuore batte forte. «Sei sicuro che non ci stiano sparando di nuovo dal cielo?
Perché nessuno sta dando di matto? Sto avendo un infarto?»
«Non stai avendo un attacco di cuore, e non stanno ci sparando dal cielo»
dice ancora Nazeera, le dita volano sopra i quadranti, scorrendo sugli
schermi. «Ma hanno attivato il controllo a distanza del velivolo. Hanno
preso il comando dell'aereo.»
«E non puoi contrastarlo?»
Scuote la testa. «Non ho l'autorità per annullare l’ordine di un
comandante supremo.»
Dopo un attimo di silenzio, si raddrizza. Si volta verso di noi.
«Forse non è poi così male» dice. «Voglio dire, non ero esattamente
sicura di come saremmo atterrati qui o di cosa sarebbe successo in seguito,
ma deve essere un buon segno che vogliano farci entrare lì dentro vivi,
giusto?»
«Non necessariamente» dice Warner con voce sommessa.
«Giusto.» Nazeera si acciglia. «Sì, l’ho capito solo dopo averlo detto ad
alta voce.»
«Quindi dobbiamo solo aspettare qui?» Sento il panico cominciare a
svanire, ma solo un po'. «Aspettiamo qui fino a quando non faranno
atterrare l'aereo e poi, quando saremo giù, ci circonderanno di soldati armati
e quando usciremo dall'aereo ci uccideranno e allora... sapete, saremo
morti? Questo è il piano?»
«Quello» dice Nazeera, «oppure potrebbero farci precipitare nell'oceano
o qualcosa del genere.»
«Oh mio Dio, Nazeera, non è divertente.»
Warner guarda fuori dal finestrino. «Non stava scherzando.»
«Okay, ve lo chiedo solo un'altra volta: perché sono l'unico che sta dando
di matto?»
«Perché ho un piano» dice Nazeera. Osserva di nuovo i comandi.
«Abbiamo esattamente quattordici minuti prima che l'aereo atterri, ma è un
tempo più che sufficiente per spiegare a entrambi cosa faremo.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 25
ELLA
JULIETTE
 
Come prima cosa, vedo la luce.
Luminosa, arancione, brillante dietro le palpebre. I suoni iniziano a
emergere poco dopo, ma sono lenti, confusi. Sento il mio stesso respiro, poi
un debole bip. Uno shhhh metallico, una scarica d'aria, suono di risate.
Passi, passi, una voce che dice...
Ella.
Proprio quando sto per aprire gli occhi, una vampata di calore attraversa
il mio corpo, bruciando attraverso le ossa. È violenta, invadente. Preme
forte contro la gola, soffocandomi.
All'improvviso, sono intorpidita.
Ella, dice la voce.
Ella
Ascolta
«Da un momento all'altro.»
La voce familiare di Anderson spezza la nebbia della mia mente. Le dita
si contraggono contro le lenzuola di cotone. Sento il peso inconsistente di
una sottile coperta che copre la metà inferiore del mio corpo. Il pizzicore e
la puntura degli aghi. Un ruggito di dolore. E poi mi rendo conto che non
posso muovere la mano sinistra.
Qualcuno si schiarisce la gola.
«È la seconda volta che il sedativo non funziona come previsto» dice
qualcuno. La voce è estranea. Arrabbiata. «Senza Evie questo posto sta
andando in malora.»
«Evie aveva apportato modifiche sostanziali al corpo di Ella» dice
Anderson e mi chiedo di chi stia parlando. «È possibile che qualcosa nel
suo nuovo quadro fisico impedisca al sedativo di essere assorbito il più
velocemente possibile.»
Una risata senza umorismo. «La tua amicizia con Max ti ha permesso di
ottenere molte cose negli ultimi due decenni, ma una laurea in medicina non
è tra queste.»
«È solo una teoria. Penso che potrebbe essere po-»
«Non mi interessa conoscere le tue teorie» dice l'uomo, interrompendolo.
«Quello che voglio sapere è perché mai hai pensato che sarebbe stata una
buona idea danneggiare il nostro soggetto chiave, quando mantenerne la
stabilità fisica e mentale è fondamentale per...»
«Ibrahim, sii ragionevole» interviene Anderson. «Dopo quello che è
successo l'ultima volta, volevo solo essere sicuro che tutto stesse
funzionando come previsto. Stavo solo testando la sua le-»
«Sappiamo tutti della tua ossessione per la tortura, Paris, ma l'originalità
della tua mente malata ha esaurito il proprio effetto. Non abbiamo più
tempo.»
«Non è così» ribatte Anderson, suonando molto calmo. «Questo è solo un
piccolo contrattempo; Max è stato in grado di sistemarlo subito.»
«Un piccolo contrattempo?» tuona Ibrahim. «La ragazza ha perso
conoscenza. Siamo ancora ad alto rischio di regressione. Il soggetto
dovrebbe essere in una fase di stasi. Ti ho lasciato campo libero con la
ragazza, ancora una volta, perché onestamente non pensavo che saresti stato
così stupido. Perché non ho tempo di farti da babysitter. Perché Tatiana,
Santiago, Azi e io siamo tutti pieni d'impegni, cercando di fare sia il tuo
lavoro che quello di Evie oltre al nostro. In aggiunta a tutto il resto.»
«Stavo facendo bene il mio lavoro» dice Anderson, con tono acido.
«Nessuno ti ha chiesto di intervenire.»
«Dimentichi che hai perso il tuo lavoro e il tuo continente nel momento
in cui la figlia di Evie ti ha sparato in testa e ha rivendicato il tuo posto per
sé. Hai lasciato che un’adolescente si prendesse la tua vita, la casa, i tuoi
figli e i soldati da sotto il naso.»
«Sai bene quanto me che non è una normale adolescente» dice Anderson.
«È la figlia di Evie. Sai cosa è capace di-»
«Ma lei no!» grida Ibrahim. «Parte del motivo per cui la ragazza era
destinata a vivere in isolamento, era perché non avrebbe mai dovuto
conoscere la portata dei propri poteri. Era destinata a compiere una
metamorfosi silenziosa, senza essere scoperta, mentre aspettavamo il
momento giusto per affermarci come movimento. È stata affidata alle tue
cure solo per la tua decennale amicizia con Max... e perché eri uno stratega,
disposto ad accettare qualsiasi lavoro che ti permettesse di fare carriera.»
«È divertente» ribatte Anderson, senza entusiasmo. «Una volta ti piacevo
per il fatto di essere uno stratega, un complice che era disposto a fare
qualsiasi lavoro potesse ottenere.»
«Ti apprezzavo» dice Ibrahim, furioso, «quando portavi a termine il
lavoro. Ma nell'ultimo anno, non sei stato altro che un peso morto. Ti
abbiamo dato numerose opportunità per correggere i tuoi errori, ma non
riesci a fare le cose per bene. Sei fortunato che Max sia stato in grado di
sistemarle così velocemente la mano, ma ancora non sappiamo nulla del suo
stato mentale. E lo giuro, Paris, se ci saranno conseguenze impreviste e
irreversibili a causa delle tue azioni ti porterò davanti alla commissione.»
«Non oseresti.»
«Potresti averla fatta franca con queste sciocchezze mentre Evie era
ancora viva, ma tutti noi conosciamo l'unica ragione per cui sei arrivato così
lontano, e cioè grazie all'indulgenza di Evie nei confronti di Max, che
continua a garantire per te, per motivi a noi incomprensibili.»
«Per motivi a noi incomprensibili?» Anderson ride. «Vuoi dire che non
riesci a ricordare perché mi hai tenuto a portata di mano per tutti questi
anni? Lascia che ti rinfreschi la memoria. Da quel che ricordo, ti piacevo di
più quando ero l'unico disposto a fare i lavori più abietti, immorali e
sgradevoli che hanno contribuito a far decollare questo movimento.» Una
pausa. «Mi hai tenuto qui in tutti questi anni, Ibrahim, perché in cambio ho
mantenuto pulite le tue mani dal sangue. O l'hai dimenticato? Una volta mi
chiamavi il tuo salvatore.»
«Non mi importa se una volta ti chiamavo profeta.» Qualcosa si
frantuma. Metallo e vetro sbattono forte contro qualcos’altro. «Non
possiamo continuare a pagare per i tuoi incauti errori. Siamo in guerra
adesso e, al momento, a malapena in grado di mantenere il comando. Se
non riesci a capire le possibili ramificazioni anche solo di una piccola
battuta d'arresto in questo momento critico, non meriti di stare tra noi.»
Uno schianto improvviso. Una porta che si chiude.
Anderson emette un sospiro, lungo e lento. In qualche modo riesco a
capire, anche dal suono della sua espirazione, che non è arrabbiato.
Sono sorpresa.
Sembra solo stanco.
A poco a poco, la sensazione di calore intorno alla gola scompare. Dopo
qualche secondo, i miei occhi si aprono.
Fisso il soffitto, mentre gli occhi si adattano all’intensa luce bianca. Mi
sento come immobilizzata, ma mi sembra di stare bene.
«Juliette?»
La voce di Anderson è morbida. Molto più dolce di quanto mi aspettassi.
Batto le palpebre e poi, con un certo sforzo, riesco a muovere il collo.
Incrocio il suo sguardo.
Ha un aspetto diverso dal solito. Con la barba lunga. Incerto.
«Sì, signore» dico, ma la mia voce è roca.
«Come ti senti?»
«Indolenzita, signore.»
Preme un bottone e il letto si muove, portandomi in posizione
relativamente dritta. Il sangue scorre dalla testa alle estremità e mi gira un
po’ la testa. Batto le palpebre, lentamente, cercando di sistemarmi.
Anderson spegne le macchine collegate al mio corpo e io osservo,
affascinata.
E poi si raddrizza.
Mi volta le spalle, lo sguardo rivolto verso una piccola finestra posta in
alto. È troppo distante per me per vedere il panorama. Alza le braccia e si
passa le mani tra i capelli con un sospiro.
«Ho bisogno di bere» dice verso il muro.
Anderson annuisce tra sè e sè ed esce dalla porta adiacente. All'inizio,
sono sorpresa di essere lasciata sola, ma quando sento i rumori attutiti di
qualcuno che si muove e il familiare tintinnare di bicchieri, non sono più
stupita.
Sono confusa.
Mi rendo conto allora che non ho idea di dove mi trovi. Ora che gli aghi
sono stati rimossi dal mio corpo, posso muovermi più facilmente e, mentre
mi sposto per osservare lo spazio intorno, capisco che non sono in un’ala
medica, come sospettavo all'inizio. Questa sembra più la camera da letto di
qualcuno.
O forse anche una camera d’albergo.
Tutto è estremamente bianco. Sterile. Sono in un grande letto con
lenzuola bianche e piumino bianco. Anche la struttura del letto è realizzata
in un legno bianco e chiaro. Accanto ai vari carrelli e monitor ormai spenti,
c'è un solo comodino abbellito da un’unica, semplice lampada. C'è una
porta sottile socchiusa e attraverso un raggio di luce riesco a vedere che
funge da armadio, anche se sembra vuoto. Accanto alla porta noto una
valigia, chiusa ma con la cerniera aperta. Uno schermo è montato sul muro
direttamente di fronte a me e, sotto, uno scrittoio. Uno dei cassetti non è
completamente chiuso e attira il mio interesse.
Poi, mi rendo conto che non indosso vestiti. Solo un camice da ospedale,
ma niente vestiti. I miei occhi perlustrano la stanza cercando la mia
uniforme militare, ma non la trovo.
Qui non c'è niente.
In un momento di lucidità, ricordo allora che devo aver sanguinato
dappertutto sui vestiti. Ricordo che ero inginocchiata sul pavimento, nella
pozza del mio stesso sangue in cui sono crollata.
Guardo la mano lesionata. Mi ero ferita solo il dito indice, ma tutta la
mano sinistra è fasciata con delle bende. Il dolore è ridotto a un pulsare
sordo. Lo prendo come un buon segno.
Con delicatezza, comincio a togliere la fasciatura.
Proprio in quel momento, Anderson riappare. La giacca è sparita. La
cravatta, pure. I primi due bottoni della camicia sono slacciati, la curva di
inchiostro nero chiaramente visibile, e i capelli sono spettinati. Sembra più
rilassato.
Rimane sulla porta e prende una lunga sorsata da un bicchiere mezzo
pieno di un liquido ambrato.
Quando mi guarda negli occhi, dico:
«Signore, mi chiedevo dove mi trovassi. Mi chiedevo anche dove fossero
i miei vestiti.»
Anderson beve un altro sorso. Chiude gli occhi mentre deglutisce,
appoggiandosi contro lo stipite della porta. Sospira.
«Sei nella mia stanza» dice, con gli occhi ancora chiusi.
«Questa struttura è vasta e le ali mediche, ce ne sono molte, sono, per la
maggior parte, situate all'estremità opposta della struttura, a circa un miglio
di distanza. Dopo che Max si è occupato di te, gli ho chiesto di metterti qui,
in modo da poterti tenere d’occhio durante la notte. Per quanto riguarda i
tuoi vestiti, non ne ho idea.» Beve un altro sorso. «Credo che Max li abbia
bruciati. Sono sicuro che qualcuno ti porterà presto un cambio.»
«Grazie, signore.»
Anderson non dice niente.
Io non chiedo nient’altro.
Mentre tiene gli occhi chiusi, mi sento più sicura a fissarlo. Approfitto
della rara opportunità di sbirciare più da vicino il suo tatuaggio, ma non
riesco ancora a dargli un senso. Per lo più, lo fisso in viso, non l'ho mai
visto in questo modo: calmo, rilassato. Quasi sorridente. A ogni modo,
intuisco che qualcosa lo preoccupa.
«Cosa?» dice, senza guardarmi. «Cosa c'è adesso?»
«Mi chiedevo, signore, se si senta bene.»
Apre gli occhi. Inclina la testa per guardarmi, ma il suo sguardo è
imperscrutabile. Lentamente, si gira.
Butta giù l'ultimo sorso del drink, appoggia il bicchiere sul comodino, e
si siede su una poltrona vicina. «Ho fatto in modo che ti amputassi il tuo
stesso dito, ieri sera, te lo ricordi?»
«Si, signore.»
«E oggi mi chiedi se sto bene.»
«Sì, signore. Sembra turbato, signore.»
Si appoggia alla poltrona, con aria pensierosa. Improvvisamente, scuote
la testa. «Sai, ora mi rendo conto che sono stato troppo duro con te. Ti ho
fatto passare troppe cose. Testando la tua lealtà, forse troppo. Ma tu e io
abbiamo una lunga storia, Juliette. E non è facile per me perdonare. Di certo
non dimentico.»
Io non dico niente.
«Non hai idea di quanto ti abbia odiata» dice, parlando più al muro che a
me. «Quanto ancora ti odio, a volte. Ma ora, finalmente...»
Si raddrizza, guardandomi negli occhi.
«Ora sei perfetta.» Ride, ma non con gioia. «Ora sei assolutamente
perfetta e devo darti via. Donare il tuo corpo alla scienza.» Si gira di nuovo
verso il muro. «Che peccato.»
La paura si insinua nel mio petto. La ignoro.
Anderson si alza in piedi, afferra il bicchiere vuoto dal comodino, e
scompare un attimo per riempirlo. Quando torna, mi guarda dalla soglia.
Sostengo lo sguardo. Rimaniamo così per un po' prima che dica,
all'improvviso-
«Sai, quando ero molto giovane, volevo fare il panettiere.»
La sorpresa mi invade, spalanco gli occhi.
«Lo so» dice, prendendo un'altra sorsata del liquido ambrato. Quasi si
mette a ridere. «Non è quello che ti aspettavi. Ma ho sempre avuto un
debole per i dolci. Poche persone se ne rendono conto, ma la cottura al
forno richiede precisione e pazienza infinite. È una scienza esigente e
crudele. Sarei stato un eccellente panettiere.» E poi: «Non so bene perché ti
stia dicendo questo. Suppongo sia passato molto tempo da quando ho
sentito di poter parlare apertamente con qualcuno.»
«Può dirmi qualsiasi cosa, signore.»
«Sì» dice a bassa voce. «Comincio a credere che sia così.»
Restiamo entrambi in silenzio, ma non riesco a smettere di fissarlo, la
mente improvvisamente invasa da domande senza risposta.
Altri venti secondi così e finalmente rompe il silenzio.
«Va bene, che cos'è?» La sua voce è secca. Autoironica. «Cos'è che
muori dalla voglia di sapere?»
«Mi dispiace, signore» dico. «Mi stavo solo chiedendo... perché non ci ha
provato? A fare il panettiere?»
Anderson scrolla le spalle, rotea il bicchiere tra le mani. «Quando sono
cresciuto un po’, mia madre mi costringeva a ingerire candeggina.
Ammoniaca. Qualunque cosa riuscisse a trovare sotto il lavandino. Non è
mai stato abbastanza per uccidermi» dice, incontrando i miei occhi.
«Quanto bastava per torturarmi per tutta l'eternità.» Beve l’ultimo sorso.
«Si potrebbe dire che ho perso l'appetito.»
Non riesco a mascherare l'orrore abbastanza velocemente. Anderson ride
di me, dello sguardo sul mio viso.
«Non ha mai avuto un buon motivo per farlo» dice, voltandosi dall'altra
parte. «Mi odiava e basta.»
«Signore» dico. «Signore, io...»
Max irrompe nella stanza. Sussulto.
«Che diavolo hai fatto?»
«Ci sono tante possibili risposte a questa domanda» dice Anderson,
lanciando un’occhiata dietro di sè. «Per favore, sii più specifico. A ogni
modo, cosa ne hai fatto dei suoi vestiti?»
«Sto parlando di Kent» dice Max, arrabbiato. «Che cosa hai fatto?»
Anderson sembra improvvisamente a disagio. Guarda Max, me e poi di
nuovo lui. «Forse dovremmo discutere di questo altrove.»
Ma Max è fuori controllo. I suoi occhi sono così selvaggi che non saprei
dire se è arrabbiato o terrorizzato. «Per favore, dimmi che i nastri sono stati
manomessi. Dimmi che mi sbaglio. Dimmi che non hai eseguito la
procedura su te stesso.»
Anderson sembra allo stesso tempo sollevato e irritato. «Calmati» dice.
«Ho visto Evie fare questo genere di cose innumerevoli volte... e l'ultima,
su di me. Il ragazzo era già stato prosciugato. La fiala era pronta,
appoggiata sul bancone, e tu eri così impegnato con…» mi guarda. «…
comunque avevo tempo, e ho pensato di rendermi utile mentre aspettavo.»
«Non posso crederci…Naturalmente non vedi il problema» dice Max,
afferrandosi una ciocca di capelli. Sta scuotendo la testa. «Non vedi mai il
problema.»
«Sembra un’accusa ingiusta.»
«Paris, c'è un motivo per cui la maggior parte degli Innaturali ha una sola
abilità.» Ora comincia a camminare. «Il manifestarsi di due poteri
soprannaturali nella stessa persona è estremamente raro.»
«E la figlia di Ibrahim?» dice. «Non era un tuo lavoro? Di Evie?»
«No» dice Max con forza. «È stato un errore casuale e naturale. Siamo
rimasti sorpresi dalla scoperta come chiunque altro.»
Anderson diventa improvvisamente rigido, teso. «Quale sarebbe
esattamente il problema?»
«Non è-»
Un improvviso squillo di sirene e Max si interrompe. «Non di nuovo»
sussurra. «Dio, non di nuovo.»
Anderson mi lancia un solo sguardo prima di scomparire dalla stanza e,
questa volta, riappare completamente in ordine. Non un capello fuori posto.
Controlla le munizioni di una pistola prima di metterla via, in una fondina
nascosta.
«Juliette» dice in modo brusco.
«Sì, signore?»
«Ti ordino di rimanere qui. Non importa quello che vedi, non importa
cosa senti, non devi lasciare questa stanza. Non devi fare nulla, a meno che
non ti dia altri ordini. Hai capito? »
«Sì, signore.»
«Max, prendile qualcosa da mettersi» grida Anderson. «E poi tienila
nascosta. Proteggila con la tua vita.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 26
KENJI
 
Questo era il piano:
Dovevamo diventare tutti invisibili, con Warner che avrebbe sfruttato il
potere mio e di Nazeera, e saltare fuori dall'aereo poco prima che atterrasse.
Nazeera avrebbe poi attivato il proprio potere di volare, rafforzandolo con
l’aiuto di Warner, e tutti e tre avremmo bypassato il comitato di benvenuto
intenzionato a ucciderci. Poi ci saremmo fatti strada direttamente nel cuore
della vasta struttura, per dare inizio alla ricerca di Juliette.
Questo è ciò che accade realmente:
Tutti e tre diventiamo invisibili e saltiamo fuori dall'aereo mentre atterra.
Quella parte ha funzionato. La cosa che non ci aspettavamo, ovviamente,
era che il comitato di accoglienza/omicidio avesse anticipato
scrupolosamente le nostre mosse.
Siamo in aria, volando sopra le teste di almeno due dozzine di soldati
armati fino ai denti e a un tizio che potrebbe essere il padre di Nazeera,
quando qualcuno spara un flash in alto, verso il cielo, con una specie di
pistola a canna lunga. Sembra che stia cercando qualcosa.
Noi.
«Sta cercando tracce di calore» dice Warner.
«Me ne rendo conto» dice Nazeera, frustrata. Prende velocità, ma non ha
importanza.
Qualche secondo dopo, il tizio con la pistola termica grida qualcosa a
qualcun altro, che ci punta contro un’arma diversa, una che disattiva
immediatamente i nostri poteri.
È orribile come sembra.
Non ho nemmeno la possibilità di urlare. Non ho tempo di pensare al
fatto che il mio cuore batta a una velocità pazzesca, oppure che mi tremino
le mani, o che Nazeera, la coraggiosa e invulnerabile Nazeera, sembri
improvvisamente terrorizzata dalla caduta dal cielo. Anche Warner è
scioccato.
Ero già super spaventato all'idea che ci sparassero di nuovo fuori dal
cielo, ma posso dire in tutta onestà che non ero mentalmente preparato a
questo. È un livello di terrore completamente nuovo. Siamo
improvvisamente visibili e stiamo andando incontro alla morte mentre i
soldati sotto di noi ci fissano, in attesa.
Di cosa? penso.
Perché ci fissano mentre moriamo? Perché fare di tutto per prendere il
nostro aereo e farci atterrare qui, in sicurezza, solo per guardarci cadere dal
cielo?
Lo trovano divertente?
Il tempo è strano. Interminabile e inesistente. Il vento è impetuoso contro
i miei piedi, e tutto quello che riesco a vedere è la terra, che si avvicina
troppo veloce, ma non riesco a smettere di pensare a come, in tutti i miei
incubi, non avrei mai creduto di morire così. A causa della gravità. Non
pensavo che questo fosse il modo in cui ero destinato ad abbandonare il
mondo, ed è sbagliato, ingiusto, penso a quanto velocemente abbiamo
fallito, a come non abbiamo mai avuto una possibilità, quando sento
un’esplosione improvvisa.
Un lampo di fuoco, grida discordanti, il suono lontano di Warner che
urla, e poi non sto più cadendo, non sono più visibile.
Succede tutto così in fretta che mi gira la testa.
Il braccio di Nazeera mi avvolge e mi tiene in alto, con un po' di
difficoltà, e poi Warner si materializza accanto a me, aiutandola a
sostenermi. Solo la sua voce acuta e la sua presenza familiare mi ricordano
che esiste davvero.
«Bel colpo» dice Nazeera ansimando, e le parole mi rimbombano nelle
orecchie. «Quanto tempo pensi che abbiamo?»
«Dieci secondi prima che venga loro in mente di iniziare a sparare alla
cieca verso di noi» grida Warner. «Dobbiamo uscire dal raggio d'azione.
Ora.»
«D’accordo» risponde Nazeera.
Evitiamo per un pelo degli spari mentre scendiamo, in diagonale, a terra.
Eravamo già così vicini al suolo che non ci vuole molto ad atterrare nel bel
mezzo di un campo, abbastanza lontani dal pericolo da poter tirare un
momentaneo sospiro di sollievo, ma troppo distanti dalla struttura perché il
sollievo duri a lungo.
Sono piegato, con le mani sulle ginocchia, ansimando, cercando di
respirare per calmarmi. «Che cosa hai fatto? Che diavolo è successo?»
«Warner ha lanciato una granata» spiega Nazeera. Poi, rivolta a lui:
«L'hai trovata nella borsa di Haider, vero?»
«Questa, e altre cose utili. Dobbiamo muoverci.»
Sento il suono dei suoi passi che si allontanano, gli stivali che
schiacciano l'erba e mi affretto a seguirlo.
«Si riorganizzeranno rapidamente» dice Warner. «Quindi abbiamo solo
pochi istanti per escogitare un nuovo piano. Penso che dovremmo
dividerci.»
«No» esclamiamo io e Nazeera all’unisono.
«Non c'è tempo» dice Warner. «Sanno che siamo qui e, ovviamente,
hanno avuto numerose opportunità di prepararsi per il nostro arrivo.
Purtroppo i nostri genitori non sono degli idioti, sanno che siamo qui per
salvare Ella. La nostra presenza, quasi certamente, li ha spinti a iniziare il
trasferimento, se non l’hanno già fatto. Insieme siamo inutili. Bersagli
facili.»
«Ma uno di noi deve restare con te» dice Nazeera. «Hai bisogno di noi
nelle immediate vicinanze se hai intenzione di usare l'invisibilità per
andartene in giro.»
«Correrò il rischio.»
«Non se ne parla» ribatte Nazeera. «Ascolta, conosco questa struttura,
quindi me la caverò da sola. Ma Kenji non la conosce abbastanza bene.
L'intero perimetro misura circa centoventi acri di terreno, significa che ci si
può facilmente perdere se non si sa dove cercare. Voi due restate uniti.
Kenji ti presterà la propria invisibilità e tu puoi essere la sua guida. Io andrò
da sola.»
«Cosa?» dico, in preda al panico. «No, non se ne parla…»
«Warner non ha torto» risponde Nazeera, interrompendomi. «In tre, come
gruppo, siamo davvero un bersaglio più facile. Ci sono troppe incognite.
Inoltre, c'è qualcosa che devo fare e prima riuscirò a raggiungere un
computer, prima le cose andranno lisce per voi due. Probabilmente è meglio
che io affronti questa cosa da sola.»
«Aspetta, cosa?»
«Cosa hai in mente?» chiede Warner.
«Ingannerò i sistemi facendo credere che la tua famiglia e quella di Ella
siano legate» dice a Warner. «C'è un protocollo per questo genere di cose,
già in vigore all'interno della Restaurazione, quindi se riesco a creare i
profili necessari e le autorizzazioni, il database ti riconoscerà come membro
della famiglia Sommers. Ti sarà garantito un facile accesso alla maggior
parte delle stanze ad alta sicurezza in tutto il complesso. Ma non è a prova
di idiota. Il sistema fa una scansione automatica per le anomalie ogni ora.
Se riesce a rilevare le mie stronzate, rimarrete bloccati e denunciati. Ma
fino ad allora... sarete in grado di cercare più facilmente Ella nei vari
edifici.»
«Nazeera» dice Warner, suonando insolitamente impressionato. «È...
fantastico.»
«Meglio» aggiungo. «È stupefacente.»
«Grazie» dice. «Ma devo proprio andare. Prima inizio a volare, prima
potrò cominciare, il che spero significhi che quando raggiungerete la base,
avrò ottenuto qualcosa.»
«Ma cosa succede se ti scoprono?» chiedo. «E se non riesci a farlo?
Come ti troveremo?»
«Non lo farete.»
«Ma...Nazeera...»
«Siamo in guerra, Kishimoto» dice, con un leggero sorriso nella voce.
«Non abbiamo tempo per fare i sentimentali.»
«Non è divertente. Odio questa battuta. La odio tantissimo.»
«Nazeera starà bene» dice Warner. «È ovvio che tu non la conosca poi
tanto bene se pensi che sia facile catturarla.»
«Si è letteralmente appena svegliata! Dopo che le hanno sparato! Al
petto! È quasi morta!»
«È stata una combinazione» dicono Warner e Nazeera all’unisono.
«Ma...»
«Ehi» dice Nazeera, ora è più vicina. «Ho il presentimento che fra circa
quattro mesi sarò follemente innamorata di te, quindi, per favore, non farti
ammazzare, okay?»
Sto per rispondere, quando avverto un’improvvisa folata d'aria. Sento il
suo slancio verso l’alto, verso il cielo e, anche se so che non riuscirò a
vederla, allungo il collo per guardarla andare via.
E in un attimo...
Se n’è andata.
Il cuore mi batte forte nel petto, il sangue mi fischia nelle orecchie. Mi
sento confuso: terrorizzato, eccitato, speranzoso, inorridito.
Tutte le cose migliori e peggiori mi accadono sempre nello stesso
momento.
Non è giusto.
«Porca puttana» dico ad alta voce.
«Andiamo» dice Warner. «Muoviamoci.»
 
 
 
 
 
CAPITOLO 27
ELLA
JULIETTE
 
Max mi fissa come se fossi un’aliena.
Non si è più mosso da quando Anderson se n’è andato; se ne sta
semplicemente lì, rigido e curioso, completamente bloccato. Ricordo lo
sguardo che mi rivolse la prima volta che ci incontrammo, l’ostilità
incontrollata negli occhi, e lo osservo dal mio letto, chiedendomi perché mi
odi così tanto.
Dopo uno scomodo silenzio, mi schiarisco la gola.
È ovvio che Anderson rispetti Max, gli piace anche, quindi decido di
rivolgermi a lui con lo stesso rispetto.
«Signore» dico. «Vorrei davvero potermi vestire.»
Max si riscuote al suono della mia voce. Il suo linguaggio del corpo è
completamente diverso ora che Anderson non è qui, e faccio ancora fatica a
capirlo. Sembra un po' nervoso. Mi chiedo se dovrei sentirmi minacciata da
lui. Il suo affetto per Anderson non mi garantisce che mi tratterà come
qualcosa di diverso da un qualunque soldato.
Un subordinato.
Max sospira. È un suono forte e ruvido che sembra scuoterlo dallo
stupore. Mi lancia un ultimo sguardo prima di scomparire nella stanza
adiacente, da dove sento provenire dei rumori indistinti. Quando riappare,
non ha nulla in mano.
Mi osserva con uno sguardo assente, più irritato di quanto non fosse un
attimo fa. Si infila una mano tra i capelli, che gli restano irti sulla testa.
«Anderson non ha niente che ti vada bene» dice.
«No, signore» dico con attenzione, ancora confusa. «Speravo di poter
ricevere un’uniforme sostitutiva.»
Max si gira, fissando il nulla. «Un’uniforme sostitutiva» dice a se stesso.
«Giusto.» Ma quando prende un respiro lungo e tremante, mi diventa
chiaro che sta cercando di rimanere calmo.
Cercando di rimanere calmo.
Mi rendo conto, all'improvviso, che Max potrebbe avere paura di me.
Forse ha visto quello che ho fatto a Darius. Forse è lui il dottore che l'ha
rattoppato.
Eppure...
Non vedo perché dovrebbe pensare che gli farei del male. Dopotutto, i
miei ordini vengono da Anderson e, per quanto mi riguarda, so bene che
Max è un alleato. Lo osservo attentamente mentre porta il polso alla bocca,
chiedendo tranquillamente che qualcuno gli consegni un nuovo un set di
vestiti per me.
E poi si allontana finché non si ritrova contro il muro. C'è un unico tonfo
acuto mentre i tacchi dei suoi stivali colpiscono il battiscopa, e poi, il
silenzio.
Silenzio.
Esplode, si insedia completamente nella stanza, raggiungendo anche gli
angoli più remoti. Mi sento fisicamente intrappolata dalla quiete. La
mancanza di suoni è opprimente.
Paralizzante.
Passo il tempo contando i lividi sul mio corpo. Non penso di essermi
osservata bene negli ultimi giorni; non mi ero resa conto di quante ferite
avessi. Sembrano esserci diversi tagli freschi sulle braccia e sulle gambe e
sento delle fitte dolorose nel basso ventre. Sposto il colletto del camice
d’ospedale, sbirciando il mio corpo nudo attraverso l'apertura troppo larga.
Pallido. Ammaccato.
C'è una piccola cicatrice fresca che corre verticalmente lungo il lato del
mio busto, e non so cosa possa aver fatto per procurarmela. In effetti, il mio
corpo sembra aver accumulato un’intera costellazione di nuovi tagli e lividi
sbiaditi. Per qualche ragione, non riesco a ricordare dove me li sia fatti.
Alzo lo sguardo, di colpo, quando sento gli occhi di Max su di me.
Mi fissa mentre mi studio, e lo sguardo pungente nei suoi occhi mi rende
diffidente. Mi sollevo, mettendomi seduta.
Non mi sento a mio agio a fargli una qualunque delle domande che si
accumulano nella mia testa.
Così mi osservo le mani.
Ho appena tolto il resto delle bende; la mia mano sinistra è per lo più
guarita. Non c'è nessuna cicatrice visibile dove mi hanno amputato il dito,
ma la pelle è macchiata fino all'avambraccio, per lo più viola e blu scuro e
qualche macchia di giallo. Piego le dita in un pugno, le rilascio. Fa male,
ma solo un po’. Il dolore si affievolisce sempre più.
Le parole successive lasciano le mie labbra prima che io possa fermarle:
«Grazie, signore, per avermi sistemato la mano.»
Max mi osserva, incerto, quando il suo polso si illumina. Guarda il
messaggio, e poi la porta, e mentre si avvia verso l'ingresso, mi lancia
sguardi strani e selvaggi da sopra la spalla, come se avesse paura di darmi la
schiena.
Max inizia a diventare sempre più bizzarro.
Quando la porta si apre, la stanza è inondata di suoni. Le luci
lampeggianti pulsano attraverso la fessura della porta aperta, urla e passi
rimbombano in fondo al corridoio. Sento metallo che si scontra contro altro
metallo, il lontano suono di un allarme.
Il mio cuore accelera.
Sono in piedi prima ancora di potermi fermare, i miei sensi vigili non si
rendono conto del fatto che il camice da ospedale serva a poco per coprirmi.
Tutto quello che sento è un bisogno improvviso e urgente di unirmi al
trambusto, di fare quello che posso per aiutare e trovare il mio comandante
e proteggerlo. È quello per cui sono stato creata.
Non posso starmene qui.
Ma poi ricordo che il mio comandante mi ha dato esplicito ordine di
rimanere qui e l’impulso abbandona il mio corpo.
Max chiude la porta, mettendo a tacere il caos con quel singolo
movimento. Apro la bocca per dire qualcosa, ma lo sguardo nei suoi occhi
mi avverte di non parlare. Mette una pila di vestiti sul letto, rifiutandosi
anche solo di avvicinarsi a me, ed esce dalla stanza.
Mi metto velocemente i vestiti, cambiando il largo camice con il tessuto
inamidato e rigido di un’uniforme militare appena lavata. Max non mi ha
portato nessun indumento intimo, ma non mi preoccupo di segnalarlo; sono
solo sollevata di avere qualcosa da indossare. Sto ancora abbottonando la
pettorina davanti, le mie dita lavorano il più velocemente possibile, quando
lo sguardo mi cade di nuovo sullo scrittoio direttamente di fronte al letto.
C'è un unico cassetto leggermente aperto, come se fosse stato chiuso in
fretta.
L'avevo già notato prima.
Ora non riesco a smettere di fissarlo.
Qualcosa mi spinge in avanti, un bisogno che non riesco a spiegare. È
diventato familiare ora, quasi normale, sentire lo strano calore che mi
riempie la testa, quindi non metto in discussione il desiderio di avvicinarmi.
Qualcosa da qualche parte dentro di me sta urlando di fermarmi, ma ne
sono solo vagamente consapevole. Sento la voce bassa e ovattata di Max
nell’altra stanza; sta parlando con qualcuno con un tono aggressivo e
arrabbiato. Sembra completamente distratto.
Incoraggiata, faccio un passo avanti.
La mano si stringe intorno alla maniglia del cassetto e basta solo un
piccolo sforzo per aprirlo. Ha un meccanismo morbido e scorrevole. Il
legno non emette quasi nessun suono mentre si muove. E sto per sbirciare
all'interno quando...
«Cosa stai facendo?»
La voce di Max trasmette una nota acuta di chiarezza attraverso il mio
cervello, eliminando la confusione mentale. Faccio un passo indietro,
battendo le palpebre. Cerco di capire cosa stavo facendo.
«Il cassetto era aperto, signore. Stavo per chiuderlo.» La bugia mi esce
automaticamente. Facilmente.
Me ne stupisco.
Max chiude bruscamente il cassetto e mi osserva, sospettoso. Batto le
palpebre, incontrando serena il suo sguardo.
Noto allora che ha in mano i miei stivali. Me li lancia addosso: li prendo.
Vorrei chiedergli se ha un elastico per capelli; i miei sono insolitamente
lunghi, ho un vago ricordo che fossero più corti… ma decido di non farlo.
Mi osserva da vicino mentre indosso gli stivali e, una volta che sono di
nuovo in piedi, mi ordina di seguirlo.
Non mi muovo.
«Signore, il mio comandante mi ha dato l'ordine diretto di rimanere in
questa stanza. Rimarrò qui fino a nuovo ordine.»
«Te lo sto dando io il nuovo ordine. In questo preciso momento.»
«Con tutto il rispetto, signore, lei non è il mio comandante ufficiale.»
Max sospira, l'irritazione oscura i suoi lineamenti, si porta il polso alla
bocca. «Hai sentito? Te l'avevo detto che non mi avrebbe ascoltato.» Una
pausa. «Sì. Dovrai venire a prenderla tu stesso.»
Un’altra pausa.
Max sta ascoltando attraverso un auricolare invisibile non diverso da
quello che ho visto usare ad Anderson, un auricolare che ora comprendo
deve essere impiantato nel loro cervello.
«Assolutamente no» dice Max, la sua rabbia è così improvvisa da
spaventarmi. Scuote la testa. «Non la tocco.»
Un altro momento di silenzio, e...
«Me ne rendo conto» dice bruscamente. «Ma è diverso quando ha gli
occhi aperti. C'è qualcosa nel suo viso. Non mi piace il modo in cui mi
guarda.»
Il mio battito cardiaco rallenta.
L'oscurità mi riempie il campo visivo, poi con un guizzo torna la luce.
Sento il cuore che batte, sento il mio inspirare ed espirare, sento la mia
voce, forte, così forte...
C'era qualcosa nel mio viso.
Le parole farfugliano, rallentano…
c'era qqqqualcosa nel mio viso, qqqqualcosa nel mio vis qqqqualcosa nei
miei occhi, il modo in cui la guardavo
Apro gli occhi. Ho il respiro affannoso, sono confusa, e ho a malapena un
momento per riflettere su quello che è appena successo nella mia testa
prima che la porta si apra di nuovo. Un frastuono mi riempie le orecchie:
molte sirene, tante grida, tanti suoni di movimenti urgenti e caotici...
«Juliette Ferrars.»
C'è un uomo davanti a me. Alto. Minaccioso. Capelli neri, pelle scura,
occhi verdi. Posso dire, solo guardandolo, che esercita un grande potere.
«Sono il Comandante Supremo Ibrahim.»
Spalanco gli occhi.
Musa Ibrahim è il comandante supremo dell'Asia. Da ogni punto di vista,
i comandanti supremi della Restaurazione hanno identici livelli di autorità,
ma il Comandante Supremo Ibrahim è ampiamente conosciuto per essere
uno dei fondatori del movimento e uno degli unici comandanti supremi ad
aver mantenuto la posizione fin dall'inizio. È estremamente rispettato.
Così quando dice: «Vieni con me» rispondo...
«Sì, signore.»
Lo seguo fuori dalla porta e nel caos, ma non ho molto tempo per
affrontare il pandemonio prima di fare una brusca virata in un corridoio
buio. Seguo Ibrahim lungo un passaggio stretto e sottile, le luci si
affievoliscono man mano che procediamo. Guardo indietro un paio di volte
per vedere se Max è ancora con noi, ma sembra che sia andato in un'altra
direzione.
«Da questa parte» dice bruscamente Ibrahim.
Facciamo un'altra svolta e, all'improvviso, lo stretto passaggio si apre su
un’ampia area di atterraggio illuminata. C'è una scala in acciaio a sinistra e
uno scintillante ascensore a destra. Ibrahim si dirige verso l'ascensore, e
colloca il palmo della mano contro la porta senza cardini. Dopo un
momento, il metallo emette un bip silenzioso, sibilando, mentre si apre.
Una volta dentro, Ibrahim si tiene a debita distanza. Aspetto che azioni
l'ascensore, scansiono l'interno per vedere se c'è un monitor di qualche tipo,
ma lui non fa niente. Un secondo dopo, senza sollecitazioni, l'ascensore si
muove.
Il viaggio è così tranquillo che mi ci vuole un minuto per capire che si
muove di lato, piuttosto che su o giù. Mi guardo intorno, cogliendo
l'occasione per esaminare più da vicino l'interno e, solo allora, noto gli
angoli arrotondati. Pensavo che fosse rettangolare, ma sembra essere
circolare. Mi chiedo, allora, se ci stiamo muovendo come farebbe un
proiettile, attraversando la terra.
Furtivamente, guardo Ibrahim.
Non dice niente. Non fa trasparire nulla. Non sembra né interessato né
turbato dalla mia presenza, è una novità. Mantiene una sicurezza che mi
ricorda molto Anderson, ma c’è qualcos'altro su Ibrahim, qualcosa di più...
che sembra unico. Anche a un fuggevole colpo d'occhio è ovvio che si senta
assolutamente sicuro di sé. Sono certa che nemmeno Anderson si senta
assolutamente sicuro di sé. È sempre impegnato a testare, provocare,
esaminare e a interrogarsi. Ibrahim, invece, sembra a proprio agio.
Tranquillo. Disinvolto, sicuro di sé.
Mi chiedo come ci si senta.
E poi mi scandalizzo per essermelo chiesto.
Una volta che l'ascensore si ferma, emette tre brevi ronzii. Un attimo
dopo, la porta si apre. Aspetto che Ibrahim esca per primo e poi lo seguo.
Quando oltrepasso la soglia, come prima cosa sono sbalordita dall'odore.
La qualità dell’aria è così scarsa che non riesco nemmeno ad aprire gli
occhi adeguatamente. C'è un odore acre, qualcosa che ricorda lo zolfo;
passo attraverso una nuvola di fumo così spessa che mi fa subito bruciare
gli occhi. Non passa molto prima che tossisca, quindi mi copro il viso con il
braccio, mentre mi sforzo di attraversare la stanza.
Non so come Ibrahim possa sopportare tutto questo. Solo dopo aver
attraversato la nuvola di fumo l'odore pungente comincia a dissiparsi, ma a
quel punto ho perso le tracce di Ibrahim.
Giro su me stessa, studiando l’ambiente che mi circonda, ma non ci sono
segnali a darmi indizi. Questo laboratorio non sembra molto diverso dagli
altri che ho visto. Una grande quantità di vetro e acciaio. Decine di lunghi
tavoli di metallo che si estendono per la stanza, molti coperti da fiale e
provette e da quelli che sembrano enormi microscopi. L'unica grande
differenza è che ci sono enormi cupole di vetro forate nelle pareti, lisce,
semicerchi trasparenti che appaiono più come oblò che come qualsiasi altra
cosa. Man mano che mi avvicino mi rendo conto che sono delle specie di
fioriere, ognuna contenente una vegetazione insolita che non ho mai visto.
Le luci si accendono a intermittenza mentre mi muovo nel vasto spazio, ma
gran parte di esso è ancora avvolto nell'oscurità e sussulto,
inaspettatamente, quando finisco dritta contro una parete di vetro.
Faccio un passo indietro, i miei occhi si adattano alla luce.
Non è un muro.
È un acquario.
Un acquario più grande di me. Un acquario delle dimensioni di un muro.
Non è il primo serbatoio d'acqua che vedo in un laboratorio qui in Oceania,
e comincio a chiedermi perché ce ne siano così tanti. Faccio un altro passo
indietro, cercando ancora di dare un senso a ciò che sto vedendo.
Insoddisfatta, mi avvicino di nuovo. C'è una fioca luce blu nella vasca, ma
non fa molto per illuminare il grande ambiente. Allungo il collo per vedere
la parte superiore, ma perdo l'equilibrio, cercando di fare presa contro il
vetro all’ultimo secondo. È uno sforzo inutile.
Devo assolutamente trovare Ibrahim.
Proprio mentre sto per fare un passo indietro, noto un lampo di
movimento nella vasca. L'acqua trema all'interno, comincia ad agitarsi.
Una mano sbatte forte contro il vetro.
Respiro a fatica.
Lentamente, la mano si ritrae.
Me ne sto lì, affascinata e congelata dalla paura, quando qualcuno mi
stringe il braccio.
Questa volta, quasi mi metto a urlare.
«Dov'eri finita?» dice Ibrahim con rabbia.
«Mi dispiace, signore» dico in fretta. «Mi ero persa. Il fumo era così
spesso che io...»
«Di cosa stai parlando? Quale fumo?»
Le parole mi muoiono in gola. Mi era sembrato di vedere del fumo. Non
ce n’era? È un altro test?
Ibrahim sospira. «Vieni con me.»
«Sì, signore.»
Questa volta, tengo sempre gli occhi su Ibrahim.
E questa volta, quando attraversiamo il laboratorio buIO fino a una stanza
circolare, luminosa e accecante, so di essere nel posto giusto. Perché
qualcosa non va.
Qualcuno è morto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 28
KENJI
 
Quando finalmente raggiungiamo la struttura, sono esausto, ho sete e devo
proprio andare in bagno. Warner non sente nessuna di queste cose, a quanto
pare, perché lui è fatto di uranio o plutonio o qualche altra stronzata, quindi
devo pregarlo di lasciarmi fare una pausa veloce. E con implorarlo intendo
dire che lo afferro per il retro della maglietta e lo costringo a rallentare, e
poi praticamente crollo dietro un muro. Warner si allontana da me e il suo
respiro irritato è tutto ciò di cui ho bisogno per capire che la mia "pausa" è a
mezzo secondo dalla fine.
«Noi non facciamo pause» dice con decisione. «Se non riesci a tenere il
passo, resta qui.»
«Fratello, non ti sto chiedendo di fermarti. Non sto nemmeno chiedendo
una vera pausa. Mi serve solo un secondo per riprendere fiato. Due secondi.
Forse cinque. Non è da pazzi. E solo perché ho bisogno di riprendere fiato
non significa che non voglia bene a J. Significa che abbiamo appena corso
per mille miglia. Significa che i miei polmoni non sono fatti di acciaio.»
«Due miglia» ribatte. «Abbiamo corso per due miglia.»
«Sotto il sole. In salita. Indossi un cazzo di completo. Hai almeno sudato?
Come fai a non essere stanco?»
«Se ancora non l’hai capito, non posso certo insegnartelo.»
Mi trascino in piedi. Ricominciamo a muoverci.
«Non sono sicuro di voler sapere di cosa stessi parlando» dico,
abbassando la voce mentre prendo la pistola. Giriamo l’angolo vicino
all’ingresso, dove il nostro grande e fantasioso piano per entrare
nell’edificio comporta aspettare che qualcuno apra la porta per riuscire a
intrufolarci prima che si chiuda.
Ancora nessuna fortuna.
«Ehi» sussurro.
«Cosa?» Warner sembra infastidito.
«Come le hai fatto la proposta?»
Silenzio.
«Andiamo, fratello. Sono curioso. Inoltre, devo davvero fare pipì, quindi
se non mi distrai in questo momento tutto quello a cui riuscirò a pensare è
quanta pipì devo fare.»
«Sai, a volte vorrei poter rimuovere la parte del mio cervello che
conserva le cose che mi dici.»
Lo ignoro.
«Allora? Come hai fatto?» Qualcuno esce dalla porta e sono teso, pronto
a saltare in avanti, ma non c'è abbastanza tempo. Il mio corpo si rilassa
contro il muro. «Hai preso l'anello come ti avevo detto di fare?»
«No.»
«Cosa? Che significa "no"?» Esito. «Hai fatto qualcosa almeno, tipo,
accendere una candela? Prepararle la cena?»
«No.»
«Comprarle dei cioccolatini? Metterti in ginocchio?»
«No.»
«No? No, non hai fatto nemmeno una di queste cose? Nessuna?» I miei
sussurri si stanno trasformando in urla sussurrate. «Non hai fatto niente di
quello che ti ho detto di fare?»
«No.»
«Figlio di puttana.»
«Che importanza ha?» chiede. «Ha detto di sì.»
Emetto un gemito. «Sei il peggiore, lo sai? Il peggiore. Non la meriti.»
Warner sospira. «Pensavo che fosse già ovvio.»
«Ehi... Non osare farmi provare dispiacere per t...»
Mi interrompo quando la porta si apre all'improvviso. Un piccolo gruppo
di medici (scienziati? Non lo so) esce dall'edificio; Warner e io saltiamo in
piedi e ci mettiamo in posizione. Questo gruppo è composto da un numero
sufficiente di persone, e ci mettono più tempo a uscire, così quando afferro
la porta e la tengo aperta per qualche secondo in più, non sembra succedere
nulla.
Siamo dentro.
E siamo dentro solo da meno di un secondo quando Warner mi sbatte
contro il muro, togliendomi l'aria dai polmoni.
«Non muoverti» sussurra. «Neanche di un centimetro.»
«Perché no?» ansimo.
«Guarda in alto» dice «ma solo con gli occhi. Non muovere la testa. Vedi
le telecamere?»
«No.»
«Ci hanno anticipato» dice. «Hanno previsto le nostre mosse. Guarda di
nuovo in alto, ma fallo con attenzione. Quei piccoli puntini neri sono
telecamere. Sensori. Scanner a infrarossi. Immagini termiche. Cercano
incongruenze nei filmati di sicurezza.»
«Merda.»
«Già.»
«Allora, cosa facciamo?»
«Non lo so» dice Warner.
«Non lo sai?» dico, cercando di non dare di matto. «Come puoi non
saperlo?»
«Sto pensando» sussurra, irritato. «E non ti sento contribuire con qualche
idea.»
«Ascolta, fratello, tutto quello che so, è che ho davvero, davvero bisogno
di p...»
Sono interrotto dal rumore di uno sciacquone. Un attimo dopo, una porta
si apre. Giro la testa di un millimetro e realizzo che siamo proprio accanto
al bagno degli uomini.
Warner e io cogliamo l'attimo, afferrando la porta prima che si chiuda.
Una volta entrati in bagno, ci schiacciamo contro il muro, le spalle contro le
fredde mattonelle. Sto cercando di non pensare a tutti i residui di pipì che
toccano il mio corpo, quando Warner espira.
È un suono breve, ma sembra sollevato.
 
Immagino che questo significhi che non ci sono scanner o telecamere in
questo bagno, ma non posso esserne sicuro, perché Warner non dice una
parola e non ci vuole un genio per capire il perché.
Non siamo sicuri di essere soli qui dentro.
Non riesco a vedere cosa stia facendo, ma sono abbastanza sicuro stia
controllando le cabine in questo momento. È quello che sto facendo anch'io,
in ogni caso. Non è un bagno enorme, sono sicuro che sia uno dei tanti, ed è
giusto vicino all’ingresso/uscita dell’edificio, quindi in questo momento
non sembra esserci molto traffico.
Quando siamo entrambi certi che la stanza sia libera, Warner dice...
«Andremo su, attraverso il condotto di ventilazione. Se ne hai veramente
bisogno, usa il bagno, fallo subito.»
«Okay, ma perché devi sembrare così disgustato? Ti aspetti davvero che
io creda che tu non debba mai usare il bagno? I fondamentali bisogni umani
sono troppo per te?»
Warner mi ignora.
Vedo la porta di una cabina aperta e sento i suoni prudenti mentre si
arrampica nei cubicoli di metallo. C'è una grande presa d'aria sul soffitto
proprio sopra una delle cabine, vedo le sue mani invisibili occuparsi
velocemente della grata.
Rapido, vado in bagno. E poi mi lavo le mani, il più rumorosamente
possibile, nel caso in cui Warner senta il bisogno di fare un commento
infantile sulla mia igiene.
Sorprendentemente, non lo fa.
Invece, dice: «Sei pronto?» E capisco dal suono echeggiante della sua
voce che è già a metà strada verso il condotto di ventilazione.
«Sono pronto. Fammi sapere quando sei dentro.»
Sento movimenti più attenti, il metallo emette dei rumori mentre lui si
muove.
«Sono dentro» dice. «Assicurati di riattaccare la grata dopo essere
salito.»
«Capito.»
«A proposito, spero che tu non sia claustrofobico. E se lo sei... buona
fortuna.»
Faccio un respiro profondo.
Espiro.
E iniziamo il nostro viaggio all'inferno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 29
ELLA
JULIETTE
 
Max, Anderson, una donna bionda e un uomo alto di colore sono tutti in
piedi al centro della stanza, a fissare un cadavere, e alzano lo sguardo solo
quando Ibrahim si avvicina.
Gli occhi di Anderson si posano subito su di me.
Sento il cuore fare un salto. Non so come Max sia riuscito ad arrivare qui
prima di noi e non so se stia per essere punita per aver obbedito al
Comandante Supremo Ibrahim.
La mia mente gira vorticosamente.
«Cosa ci fa lei qui?» chiede Anderson, con espressione selvaggia. «Le
avevo detto di restare nella s...»
«Ho annullato i tuoi ordini,» dice aggressivamente Ibrahim, «e le ho detto
di seguirmi.»
«La mia camera da letto è uno dei luoghi più sicuri di quest’ala» ribatte
Anderson, trattenendo a stento la rabbia. «Ci hai messo tutti a rischio
spostandola.»
«Al momento siamo sotto attacco» risponde Ibrahim. «L'hai lasciata da
sola, completamente incustodita...»
«L'ho lasciata con Max!»
«Max, che è troppo terrorizzato dalla propria creazione per stare anche
solo qualche minuto da solo con la ragazza. Dimentichi che c’è un motivo
se non gli è mai stata concessa una posizione militare.»
Anderson lancia a Max uno sguardo strano e disorientato. In qualche
modo, la confusione sul viso di Anderson mi fa sentire meglio. Non ho idea
di cosa stia succedendo. Non so a chi dovrei rispondere. Non ho idea di
cosa Ibrahim intendesse per creazione.
Max si limita a scuotere la testa.
«I ragazzi sono qui» prosegue Ibrahim, cambiando argomento. «Sono
qui, in mezzo a noi, completamente nascosti. La stanno cercando di stanza
in stanza e hanno già ucciso quattro dei nostri scienziati chiave nella
ricerca.» Annuisce verso il corpo morto: un uomo di mezza età, capelli
grigi, con il sangue che si accumula sotto di sé. «Come è successo? Perché
non sono ancora stati avvistati?»
«Non è stato registrato nulla dalle telecamere» dice Anderson. «Non
ancora, comunque.»
«Quindi mi stai dicendo che questo e gli altri tre morti che abbiamo
trovato finora è stata opera di fantasmi?»
«Devono aver trovato un modo per ingannare il sistema» dice la donna.
«È l'unica risposta possibile.»
«Sì, Tatiana, me ne rendo conto... ma la domanda è come.» Ibrahim si
prende il naso tra pollice e indice. Ed è chiaro che sta parlando con
Anderson quando dice: «Tutti i preparativi che hai affermato di aver fatto in
previsione di un possibile assalto... sono stati tutti inutili?»
«Cosa ti aspettavi?» Anderson non cerca più di controllare la propria
rabbia. «Sono i nostri figli. Li abbiamo allevati per questo. Sarei deluso se
fossero così stupidi da cadere subito nelle nostre trappole.»
I nostri figli?
«Basta» grida Ibrahim. «Basta così. Dobbiamo avviare il trasferimento
ora.»
«Ti ho già detto perché non possiamo» dice con urgenza Max. «Non
ancora. Abbiamo bisogno di più tempo. Emmaline deve ancora scendere
sotto il dieci percento di vitalità perché la procedura funzioni senza
problemi e, in questo momento, è al dodici percento. Un altro paio di
giorni... forse un paio di settimane e dovremmo essere in grado di andare
avanti. Ma tutto ciò che supera il dieci per cento di vitalità significa che c’è
una possibilità che sia ancora abbastanza forte da resis... »
«Non mi interessa» dice Ibrahim. «Abbiamo aspettato abbastanza. E
abbiamo sprecato abbastanza tempo e denaro, cercando di tenere entrambe,
lei e la sorella, vive e sotto la nostra custodia. Non possiamo rischiare un
altro fallimento.»
«Ma l'avvio del trasferimento al dodici percento di vitalità ha un trentotto
percento di probabilità di fallimento» dice Max, parlando in fretta.
«Potremmo rischiare molto...»
«Allora trova altri modi per ridurre la vitalità» scatta Ibrahim.
«Siamo già ai massimi livelli di quello che possiamo fare in questo
momento» dice Max. «È ancora troppo forte, sta combattendo i nostri
sforzi... »
«Motivo in più per sbarazzarsi di lei il prima possibile» dice Ibrahim,
interrompendolo di nuovo. «Stiamo spendendo un’enorme quantità di
risorse solo per tenere gli altri ragazzi isolati da lei, e Dio solo sa quanti
danni abbia già fatto. Si è intromessa ovunque, causando un inutile disastro.
Abbiamo bisogno di un nuovo ospite. Uno sano. E ne abbiamo bisogno
ora.»
«Ibrahim, non essere avventato» dice Anderson, cercando di suonare
calmo. «Potrebbe essere un grosso errore. Juliette è un soldato perfetto, ne
ha dato prova in più occasioni e in questo momento potrebbe essere di
grande aiuto. Invece di rinchiuderla, dovremmo mandarla fuori. Dandole
una missione.»
«Assolutamente no.»
«Ibrahim, non ha tutti i torti» dice l'uomo di colore alto. «I ragazzi non se
l’aspetteranno. Sarebbe l'esca perfetta.»
«Vedi? Azi è d'accordo con me.»
«Io no» Tatiana scuote la testa. «È troppo pericoloso» dice. «Troppe cose
potrebbero andare storte.»
«Cosa potrebbe mai andare storto?» chiede Anderson. «È più potente di
chiunque altro e obbedisce esclusivamente a me. A noi. Al movimento. Voi
tutti sapete bene quanto me che ha dimostrato la propria lealtà più e più
volte. Sarebbe in grado di catturarli in pochi minuti. Tutto questo potrebbe
finire nel giro di un'ora e saremo in grado di andare avanti con la nostra
vita.» Anderson fissa gli occhi su di me. «Non ti dispiacerebbe radunare
qualche ribelle, vero, Juliette?»
«Ne sarei felice, signore.»
«Vedete?» Anderson gesticola verso di me.
Un allarme improvviso esplode, il suono è così forte, quasi doloroso.
Sono ancora saldamente ferma sul posto, così sopraffatta e confusa da
questa improvvisa marea di informazioni che non so nemmeno cosa fare.
Ma i comandanti supremi sembrano improvvisamente terrorizzati.
«Azi, dov'è Santiago?» urla Tatiana. «Sei stato l'ultimo a rimanere con
lui, non è vero? Qualcuno lo chiami... »
«È fuori uso» dice Azi, picchiettando contro la tempia. «Non risponde.»
«Max» dice Anderson bruscamente, ma Max si sta già affrettando fuori
dalla porta, con Azi e Tatiana alle calcagna.
«Vai a recuperare tuo figlio» abbaia Ibrahim ad Anderson.
«E perché tu non vai a recuperare tua figlia?» ribatte quest’ultimo.
Gli occhi di Ibrahim si assottigliano. «Prenderò la ragazza» dice a bassa
voce. «Finirò questo lavoro e lo farò da solo, se necessario.»
Anderson sposta lo sguardo da me a Ibrahim. «Stai facendo un errore»
dice. «È finalmente diventata la nostra risorsa. Non lasciare che il tuo
orgoglio ti impedisca di vedere la risposta davanti a noi. In questo momento
dovrebbe essere Juliette a rintracciare i ragazzi. Il fatto che non l’aspettino
come aggressore li rende bersagli più facili. È la soluzione più ovvia.»
«Sei fuori di testa» grida Ibrahim, «se pensi che sia abbastanza stupido da
correre un tale rischio. Non la consegnerò semplicemente ai suoi amici
come un comune idiota.»
Amici?
Ho degli amici?
«Ehi, principessa» mi sussurra qualcuno all’orecchio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 30
KENJI
 
Warner per poco non mi dà un pugno in testa.
Mi tira indietro, afferrandomi per le spalle, e trascina entrambi attraverso
il laboratorio, troppo luminoso ed estremamente inquietante.
Una volta abbastanza lontani da Anderson, Ibrahim e Robot J, mi aspetto
che Warner dica qualcosa, qualsiasi cosa...
Non lo fa.
Osserviamo in lontananza i toni della conversazione scaldarsi, ma non
riusciamo a sentire cosa dicano. Tuttavia, penso che anche se potessimo
sentire cosa dicono, Warner non presterebbe attenzione. La violenza sembra
aver lasciato il suo corpo. Non riesco nemmeno a vederlo bene ora, ma lo
sento. Qualcosa nei suoi movimenti, nei suoi sospiri silenziosi.
La sua mente è rivolta a Juliette.
Juliette, che sembra la stessa. Anzi, meglio. Ha un aspetto sano, gli occhi
brillano, la pelle è luminosa. Ha i capelli sciolti, lunghi, spessi, scuri... è
come la prima volta che l'ho vista.
Ma non è la stessa. Persino io lo vedo.
Ed è devastante.
Immagino che sia in qualche modo meglio che se avesse sostituito
Emmaline in tutto e per tutto, ma questa strana, robotica versione super-
soldato di J è profondamente preoccupante.
Credo.
Continuo ad aspettare che Warner rompa finalmente il silenzio, per darmi
qualche indicazione dei propri sentimenti e/o delle teorie sull'argomento e
magari, già che c'è, mi offra la propria opinione di professionista su cosa
diavolo dovremmo fare dopo, ma i secondi continuano a passare in perfetto
silenzio.
Alla fine, mi arrendo.
«Va bene, sputa il rospo» sussurro. «Dimmi cosa stai pensando.»
Warner fa un lungo respiro. «Questo non ha senso.»
Faccio un cenno con la testa, anche se lui non mi vede. «Lo capisco.
Niente ha senso in situazioni come queste. Ho sempre la sensazione che sia
ingiusto, sai, come il mondo...»
«Non volevo essere filosofico» dice Warner, interrompendomi. «Voglio
dire che non ha letteralmente senso. Nouria e Sam hanno detto che
l’Operazione Sintesi avrebbe trasformato Ella in un super soldato, e che una
volta che il programma fosse stato avviato, il risultato sarebbe stato
irreversibile. Ma questa non è l’Operazione Sintesi» prosegue.
«L’Operazione Sintesi è letteralmente la condensazione dei poteri di Ella e
Emmaline e in questo momento non c'è...»
«Sintesi» dico. «Ho capito.»
«C’è qualcosa che non va. Hanno fatto le cose nell'ordine sbagliato.»
«Forse sono andati fuori di testa dopo che il tentativo di Evie di
cancellare la mente di J non ha funzionato. Forse avevano bisogno di
trovare un modo per sistemare il fallimento, in fretta. Voglio dire, è molto
più facile controllarla se è docile, vero? Fedele ai loro interessi. È molto più
facile che tenerla in una cella di detenzione, comunque. Farle da babysitter
costantemente. Monitorando ogni suo movimento. Sempre preoccupati che
stia per trasformare magicamente la carta igienica in un coltello e fuggire.
Sinceramente» faccio spallucce, «mi sembra che stiano diventando solo
pigri. Penso che siano stanchi e stufi di J che cerca di scappare lottando.
Questo è letteralmente il percorso di minor resistenza.»
«Sì» dice Warner lentamente. «Esattamente.»
«Aspetta... Esattamente cosa?»
«Qualunque cosa le abbiano fatto, iniziando prematuramente questa fase,
è stata eseguita in fretta. È stata una procedura di riparazione.»
Mi si accende una lampadina. «Il che significa che hanno fatto un lavoro
approssimativo.»
«E se è stato un lavoro superficiale…»
«...ci sono sicuramente dei difetti.»
«Smettila di finire le mie frasi» dice irritato.
«Smettila di essere così prevedibile.»
«Smettila di comportarti come un bambino.»
«Smettila tu di comportarti come un bambino.»
«Ti stai rendendo ridic... »
Warner diventa improvvisamente silenzioso mentre la voce tremante,
arrabbiata di Ibrahim rimbomba in tutto il laboratorio.
«Ti ho detto di toglierti di mezzo.»
«Non posso lasciartelo fare» dice Anderson, la voce aumenta di volume.
«Non hai appena sentito l’allarme? Santiago è andato. Hanno fatto fuori un
altro comandante supremo. Lasceremo che questa storia vada avanti ancora
per molto tempo?»
«Juliette» dice bruscamente Ibrahim. «Vieni con me.»
«Sì, signore.»
«Juliette, fermati» esige Anderson.
«Si, signore.»
Che diavolo sta succedendo?
Warner e io avanziamo un poco per vedere meglio, ma non importa
quanto ci avviciniamo, non riesco ancora a credere ai miei occhi.
La scena è surreale.
Anderson sta proteggendo Juliette. Lo stesso Anderson che ha speso così
tante energie per cercare di ucciderla è ora in piedi davanti a lei con le
braccia in fuori, a proteggerla con la propria vita.
Che diavolo è successo mentre era qui? Anderson ha ricevuto un cervello
nuovo? Un cuore nuovo? Un parassita?
E so che non sono il solo a essere confuso quando sento Warner che
borbotta sottovoce: «Cosa diavolo succede?»
«Smettila di fare lo stupido» dice Anderson. «Stai sfruttando una tragedia
per prendere una decisione non autorizzata, quando sai bene quanto me che
dobbiamo essere tutti d'accordo su qualcosa di così importante prima di
andare avanti.      Ti sto solo chiedendo di aspettare, Ibrahim. Aspetta che
gli altri tornino e lo metteremo ai voti. Lasciamo che sia il consiglio a
decidere.»
Ibrahim punta una pistola contro Anderson.
Ibrahim punta una pistola contro Anderson.
Quasi m’incazzo. Respiro così forte che per poco non faccio saltare la
nostra copertura.
«Fatti da parte, Paris» dice. «Hai già rovinato questa missione. Ti ho dato
dozzine di possibilità di fare le cose per bene. Mi avevi dato la tua parola
che avremmo intercettato i ragazzi prima che mettessero piede nell'edificio
e guarda il risultato. Avevi promesso a tutti noi più e più volte che avresti
sistemato le cose, e invece tutto ciò che hai fatto ci è costato il tempo, il
denaro, il potere, le nostre vite. Tutto.
«Ora tocca a me sistemare le cose» dice Ibrahim, la rabbia rende la sua
voce instabile. Scuote la testa. «Ancora non capisci, vero? Non capisci
quanto ci è costata la morte di Evie. Non capisci quanto il nostro successo
sia stato costruito con il suo genio, i suoi progressi tecnologici. Non capisci
che Max non sarà mai quello che era Evie, che non avrebbe mai potuto
sostituirla. E sembri non capire che non è più qui per perdonare i tuoi
continui errori.
«No» prosegue. «Dipende da me adesso. Tocca a me sistemare le cose,
perché sono l'unico con la testa sulle spalle. Sono l'unico che sembra
cogliere l’enormità di ciò che abbiamo davanti. Sono l’unico che vede
quanto siamo vicini a una completa e totale distruzione. Sono determinato a
fare le cose per bene, Paris, anche se significa portarti davanti al consiglio.
Quindi fatti da parte.»
«Sii ragionevole» dice Anderson, con occhi guardinghi. «Non posso
semplicemente farmi da parte. Voglio che il nostro movimento, ogni cosa
per cui abbiamo lavorato duramente per costruirla…anch'io voglio che sia
un successo. Certamente te ne rendi conto. Devi capire che non ho
rinunciato alla mia vita per niente; devi capire che la mia lealtà è verso di
te, il consiglio, la Restaurazione. Ma devi anche capire che lei vale troppo.
Non posso lasciar perdere così facilmente. Ci siamo spinti troppo oltre.
Tutti noi abbiamo fatto troppi sacrifici per mandare tutto a puttane ora.»
«Non forzarmi la mano, Paris. Non costringermi a farlo.»
J fa un passo avanti, sta per dire qualcosa, ma Anderson la spinge dietro
di sè. «Ti ho ordinato di rimanere in silenzio» dice, guardando indietro
verso di lei. «E ora ti ordino di rimanere al sicuro, a tutti i costi. Mi senti,
Juliette? Mi sen...»
Quando lo sparo rimbomba, non ci credo.
Credo che la mia mente mi stia giocando brutti scherzi. Penso che questo
sia un po’ una specie di strano intermezzo, un sogno bizzarro, un momento
di confusione... continuo ad aspettare che la scena cambi. Si schiarisca. Si
azzeri.
Non è così.
Nessuno pensava che sarebbe andata così. Nessuno pensava che i
comandanti supremi si autodistruggessero. Nessuno pensava di vedere
Anderson abbattuto da uno dei suoi, nessuno pensava di vederlo stringersi il
petto sanguinante e di usare l’ultimo sussulto di respiro per dire:
«Corri, Juliette. Corri…»
Ibrahim spara di nuovo, e questa volta, Anderson tace.
«Juliette» dice «tu vieni con me.»
J non si muove.
È bloccata sul posto, a fissare la figura di Anderson. È così assurdo.
Continuo ad aspettare che si svegli. Continuo ad aspettare che i suoi poteri
di guarigione inizino a funzionare. Continuo ad aspettare quel fastidioso
momento in cui tornerà in vita, stringendo un fazzoletto da taschino sulla
ferita...
Ma non si muove.
«Juliette» dice Ibrahim con tono aggressivo. «Tu risponderai a me ora. E
ti ordino di seguirmi.»
J lo guarda. Il suo viso è vacuo. I suoi occhi sono vacui. «Sì, signore»
dice.
Ed è allora che capisco.
In quel momento so esattamente cosa succederà dopo. Posso sentirlo,
percepisco una strana elettricità nell'aria prima che faccia la sua mossa.
Prima che faccia saltare la nostra copertura.
Warner esce dall’invisibilità.
Se ne sta lì immobile, solo per un momento, giusto il tempo necessario a
Ibrahim per registrare la sua presenza, per gridare, per prendere la pistola.
Ma non è abbastanza veloce.
Warner è a tre metri di distanza quando Ibrahim improvvisamente si
affloscia, iniziando a soffocare e la pistola gli scivola dalla mano, quando i
suoi occhi si gonfiano. Una sottile linea rossa appare in mezzo alla fronte di
Ibrahim, un terrificante rivolo di sangue improvviso che cola lentamente, il
rumore sordo del suo cranio che si apre. È il suono della carne lacerata, un
suono innocuo che mi ricorda quando si taglia un’arancia. E non ci vuole
molto prima che le ginocchia di Ibrahim cedano. Cade a terra , senza grazia,
il corpo crolla su se stesso.
So che è morto perché posso vedere direttamente nel suo cranio. Grumi
di materia cerebrale fuoriescono sul pavimento.
Questo, credo, è il tipo di orribile merda di cui J è capace. Questo è ciò di
cui è sempre stata capace. Solo che è sempre stata una persona troppo
buona per usarla.
Warner, d'altra parte...
Non sembra nemmeno infastidito dal fatto che ha squarciato il cranio di
un uomo. Sembra totalmente calmo riguardo alla materia cerebrale che
gocciola sul pavimento. No, ha occhi solo per J, che lo sta fissando,
confusa. Sposta lo sguardo dal corpo flaccido di Ibrahim a quello di
Anderson e tende le braccia in avanti con un grido improvviso e disperato...
E non succede niente.
Robot J non ha idea che Warner può assorbire i suoi poteri.
Warner fa un passo verso di lei, la scruta con gli occhi prima di sbattere il
pugno sul pavimento. La stanza inizia a tremare. Il pavimento comincia a
spaccarsi. I denti mi tremano così forte che perdo l'equilibrio, sbatto contro
il muro e accidentalmente esco dall'invisibilità. Quando Juliette mi vede,
urla.
Mi tolgo di mezzo, mi lancio in avanti, mi butto in picchiata su un tavolo.
Il vetro si schianta sul pavimento, si frantuma ovunque.
Sento qualcuno gemere.
Sbircio tra le gambe di un tavolo giusto in tempo per vedere Anderson
cominciare a muoversi. Questa volta, in realtà, rimango senza fiato.
Tutto il mondo sembra fermarsi.
Anderson lotta fino a mettersi in piedi. Non sembra che stia bene. Sembra
malato, pallido, un’imitazione di se stesso. Qualcosa è andato storto con il
potere di guarigione, perché sembra solo mezzo vivo, con il sangue che gli
cola da due punti nel petto. Ondeggia quando è in piedi, tossendo sangue.
La sua pelle diventa grigia. Usa la manica per pulirsi il sangue dalla bocca.
J corre verso di lui, ma Anderson alza una mano e la ferma. Il suo volto
tetro registra un momento di sorpresa mentre guarda il cadavere di Ibrahim.
Ride. Tossisce. Asciuga altro sangue.
«Sei stato tu a fare questo?» dice, fissando il proprio figlio. «Mi hai fatto
un favore.»
«Cosa le hai fatto?» chiede Warner.
Anderson sorride. «Perché non lasci che te lo mostri?» Guarda J.
«Juliette?»
«Sì, signore.»
«Uccidili.»
«Sì, signore.»
J avanza proprio nel momento in cui Anderson tira fuori qualcosa dalla
tasca, puntando una nitida luce blu in direzione di Warner. Questa volta,
quando J stende il braccio in fuori, Warner vola, sbattendo forte contro il
muro di pietra.
Cade a terra con un sussulto, senza fiato, e approfitto del momento per
correre in avanti, richiamando la mia invisibilità intorno a noi due.
Mi spinge via.
«Dai, fratello, dobbiamo andarcene da qui. Non è una lotta alla pari...»
«Vai» dice, stringendosi il fianco. «Vai a cercare Nazeera e poi trovate gli
altri ragazzi. Starò bene.»
«Non te la caverai» sibilo. «Ti ucciderà.»
«Anche questo va bene.»
«Non fare lo stupido...»
I tavoli di metallo che ci forniscono l'unico pezzo di copertura volano via,
schiantandosi con forza contro il muro opposto. Lancio un’ultima occhiata a
Warner e prendo la decisione in una frazione di secondo.
Mi butto nella battaglia.
So di avere solo un secondo prima che la mia materia cerebrale si unisca
a quella di Ibrahim sul pavimento, quindi lo faccio valere. Prendo la pistola
dalla sua fondina e sparo tre, quattro volte.
Cinque.
Sei.
Riempio di piombo il corpo di Anderson fino a quando non subisce una
battuta d'arresto per la forza degli spari, cadendo a terra con un secco e
sanguinoso colpo di tosse. J si precipita in avanti ma scompaio, sfrecciando
dietro un tavolo e, una volta che l'arma nella mano di Anderson tintinna sul
pavimento, sparo anche a quella. Si apre e si rompe, prendendo brevemente
fuoco mentre il dispositivo esplode.
J grida, cadendo in ginocchio accanto a lui.
«Uccidili» sussulta Anderson, il sangue gli macchia i bordi delle labbra.
«Uccidili tutti. Uccidi chiunque si metta sulla tua strada.»
«Sì, signore» dice Juliette.
Anderson tossisce. Dalle ferite esce sangue fresco.
J si alza in piedi e si gira, scrutando la stanza, ma mi sto già precipitando
verso Warner, lanciando l’invisibilità su entrambi. Warner sembra un pò
sbalordito, ma è miracolosamente illeso.
Cerco di aiutarlo ad alzarsi, e per la prima volta, non allontana il mio
braccio. Lo sento inspirare. Espirare.
Come non detto, è ferito.
Aspetto che faccia qualcosa, che dica qualcosa, ma sta lì in piedi, a
fissare J. E poi...
Ritira l’invisibilità.
Quasi mi metto a urlare.
J gira su stessa quando lo vede e corre subito in avanti.
Prende un tavolo e ce lo lancia.
Ci tuffiamo fuori dalla traiettoria così velocemente che quasi mi rompo il
naso contro il pavimento. Sento ancora le cose che si frantumano intorno a
noi quando dico:
«A cosa diavolo stavi pensando? Hai appena sprecato la nostra occasione
per uscire di qui!»
Warner si sposta, il vetro scricchiola sotto di lui. Sta respirando
profondamente.
«Ero serio su quello che ho detto, Kishimoto. Dovresti andartene.
Trovare Nazeera. Ma è qui che io devo stare.»
«Vuoi dire che hai bisogno di essere ucciso in questo momento? Qui è
dove devi stare? Ma ti ascolti almeno?»
«C'è qualcosa che non va» dice Warner, trascinandosi in piedi. «La sua
mente è intrappolata, intrappolata dentro qualcosa. Un programma. Un
virus. Qualunque cosa sia, ha bisogno di aiuto.»
J urla, provocando un altro terremoto nella stanza. Sbatto contro un
tavolo e inciampo all'indietro. Un dolore acuto mi colpisce attraverso le
viscere, mi toglie il respiro. Impreco.
Warner ha un braccio contro il muro e si tiene fermo. Posso prevedere
che sta per fare un passo avanti, direttamente nella lotta e gli afferro il
braccio, lo tiro indietro.
«Non sto dicendo di rinunciare a lei, ok? Sto dicendo che ci deve essere
un altro modo. Dobbiamo andarcene da qui, raggrupparci. Trovare un piano
migliore.»
«No.»
«Fratello, non credo che tu capisca.» Guardo J dirigersi in avanti, gli
occhi fiammeggianti, il terreno che si apre al suo passaggio. «Ti ucciderà
davvero.»
«Allora morirò.»
Questo è tutto.
Le ultime parole di Warner prima di andarsene.
Incontra J in mezzo alla stanza e lei non esita prima di colpirlo
violentemente in faccia.
Lui si blocca.
Lo colpisce di nuovo. Si blocca. Lei scalcia. Si abbassa.
Lui non combatte.
Lui non fa altro che imitarla, mossa dopo mossa, andando incontro ai
suoi colpi, anticipando la sua mente. Mi ricorda la lotta con Anderson al
Santuario, come non abbia mai colpito il padre, si è solo difeso. Allora era
ovvio che stava solo cercando di far arrabbiare il padre.
Ma questo...
Questo è diverso. È chiaro che non si sta divertendo. Non cerca di farla
arrabbiare e non cerca di difendersi. La sta combattendo per lei. Per
proteggerla.
Per salvarla, in qualche modo.
E non ho idea se funzionerà.
J stringe i pugni e urla. Le pareti tremano, il pavimento continua ad
aprirsi. Inciampo, sbatto di nuovo contro un tavolo.
E me ne sto qui in piedi come un idiota, a scervellarmi per un indizio,
cercando di capire cosa fare, come aiutare...
«Porca puttana» dice Nazeera. «Che diavolo sta succedendo?»
Un caldo sollievo mi invade velocemente. Devo resistere all'impulso di
tirare il suo corpo invisibile tra le mie braccia. Per nasconderla vicino al
mio petto e impedirle di andarsene di nuovo.
Invece faccio finta di essere indifferente.
«Come sei arrivata qui?» chiedo. «Come ci hai trovati?»
«Stavo hackerando i sistemi, ricordi? Vi ho visto sulle telecamere. Non
siete proprio silenziosi quassù.»
«Giusto. Ottima osservazione.»
«Ehi, ho delle novità, a proposito, ho trova-» Si interrompe bruscamente,
le parole si dissolvono nel nulla. E poi, dopo un istante, dice
tranquillamente:
«Chi ha ucciso mio padre?»
Il mio stomaco si trasforma in pietra.
Faccio un respiro profondo prima di dire: «È stato Warner.»
«Oh.»
«Stai bene?»
La sento espirare. «Non lo so.»
J urla di nuovo e alzo lo sguardo.
È furiosa.
Posso dire, anche da qui, che è frustrata. Non può usare i propri poteri
direttamente su Warner, e lui è troppo bravo a combattere per essere battuto
senza un vantaggio. Ha provato a lanciare oggetti molto pesanti e molto
grandi contro di lui. Qualunque cosa riuscisse a trovare. Attrezzature
mediche prese a caso. Pezzi di muro.
Questo non va bene.
«Non se ne è voluto andare» dico a Nazeera. «Voleva restare. Pensa di
poterla aiutare.»
Sospira. «Dovremmo lasciarlo provare. Nel frattempo, vorrei il tuo
aiuto.»
Mi giro, di riflesso, per guardarla in faccia, dimenticando per un attimo
che è invisibile. «Aiuto per cosa?» chiedo.
«Ho trovato gli altri ragazzi» dice. «Ecco perché sono stata via per così
tanto tempo. Ottenere il nulla osta di sicurezza per voi è stato molto più
facile di quanto pensassi. Così sono rimasta per scavare più a fondo con le
telecamere e ho scoperto dove stanno nascondendo gli altri ragazzi supremi.
Ma non era un bello spettacolo. E potrei aver bisogno di una mano.»
Alzo lo sguardo per dare un’ultima occhiata a Warner.
E a J.
Ma sono spariti.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 31
ELLA
JULIETTE
 
Corri, Juliette.
Corri
più veloce, corri fino a quando le ossa non si rompono, gli stinchi non si
spaccano e i tuoi muscoli si atrofizzano
Corri corri corri
finché non si sentirai più i loro piedi dietro di te
Corri fino a morire.
Assicurati che il tuo cuore si fermi prima che ti raggiungano.
Prima che ti tocchino.
Corri, ho detto.
 
Le parole appaiono, spontaneamente, nella mia mente. Non so da dove
vengono e non so perché le conosco, ma le dico a me stessa mentre vado,
con gli stivali che battono per terra, la testa soffocata da un disordine
caotico. Non capisco cosa è appena successo. Non capisco cosa mi stia
succedendo. Non capisco più niente.
Il ragazzo è vicino.
Si muove più velocemente di quanto mi aspettassi, sono sorpresa. Non mi
aspettavo che riuscisse ad assorbire i miei colpi. Non mi aspettavo che mi
affrontasse così facilmente. Principalmente, sono sbalordita, in qualche
modo è immune al mio potere. Non sapevo nemmeno che fosse possibile.
Non capisco.
Mi sto scervellando, cercando disperatamente di capire come una cosa
del genere possa essere successa- e se fossi io stessa la responsabile
dell'anomalia - ma niente ha senso.
Non la sua presenza. Non il suo atteggiamento. Nemmeno il modo in cui
combatte.
Ovvero: non lo fa.
Non vuole nemmeno combattere. Sembra non avere alcun interesse nel
battermi, nonostante le prove evidenti che siamo alla pari. Si limita solo a
respingermi, facendo soltanto uno sforzo elementare per proteggere se
stesso e ancora non sono riuscita ad ucciderlo.
C'è qualcosa di strano in lui. Qualcosa che mi sta entrando nella pelle. Mi
sconvolge.
Ma si è nascosto quando gli ho tirato un altro tavolo e, da allora, è sempre
scappato correndo.
Sembra una trappola.
Lo so, eppure mi sento obbligata a trovarlo. Affrontarlo. Distruggerlo.
Lo vedo, all'improvviso, in fondo al laboratorio, incontra i miei occhi con
una noncuranza che mi fa infuriare.
Carico in avanti, ma si muove rapidamente, scomparendo attraverso una
porta adiacente.
È una trappola, ricordo a me stessa.
D'altra parte, non sono sicura che sia importante che si tratti di una
trappola. Ho l'ordine di trovarlo. Ucciderlo. Devo solo essere migliore. Più
intelligente.
Quindi lo seguo.
Dal momento in cui ho incontrato questo ragazzo - dal primo momento in
cui abbiamo ha iniziato a scambiarci colpi - ho ignorato le vertiginose
sensazioni che mi attraversano il corpo. Ho cercato di negare la mia pelle
improvvisamente febbricitante, le mie mani tremanti. Ma quando una nuova
ondata di nausea mi fa vacillare, non posso più negare la mia paura:
C'è qualcosa che non va in me.
Catturo un altro scorcio dei suoi capelli dorati e la mia vista si confonde,
si schiarisce, il cuore rallenta. Per un attimo, i miei muscoli sembrano allo
spasmo. C'è un terrore strisciante e tremolante che mi stringe i polmoni e
non lo capisco. Continuo a sperare che la sensazione cambi. Si tranquillizzi.
Scompaia. Ma quando i minuti passano e i sintomi non mostrano segni di
diminuire, comincio ad andare nel panico.
Non sono stanca, no. Il mio corpo è troppo forte. Riesco a sentirlo - sento
i miei muscoli, la loro forza, la loro resistenza - e posso dire che potrei
continuare a lottare così per ore. Giorni. Non sono preoccupata che potrei
arrendermi, non sono preoccupata di collassare.
Sono preoccupata per la mia testa. La mia confusione. L'incertezza che si
diffonde attraverso di me, diffondendosi come un veleno.
Ibrahim è morto.
Anderson, quasi.
Si riprenderà? Morirà? Chi sarei senza di lui? Cosa voleva farmi
Ibrahim? Da cosa stava cercando di proteggermi Anderson? Chi sono questi
ragazzi che ho intenzione di uccidere? Perché Ibrahim li ha chiamati miei
amici?
Le mie domande sono infinite.
Li devo uccidere.
Spingo da parte una serie di scrivanie in acciaio e intravedo il ragazzo
prima che sfrecci dietro l'angolo. La rabbia mi invade, sparando una scarica
di adrenalina al cervello e ricomincio a correre, con rinnovata
determinazione, concentrando la mente. Mi faccio strada attraverso la stanza
poco illuminata, spostando una marea infinita di armamentario medico.
Quando smetto di muovermi, cala il silenzio.
Un silenzio così assoluto da essere assordante.
Mi giro, cercando. Il ragazzo non c'è più. Sbatto le palpebre, confusa,
scansionando la stanza mentre il mio polso accelera con rinnovata paura. I
secondi passano, si accumulano in momenti che sembrano minuti, ore.
Questa è una trappola.
Il laboratorio è perfettamente immobile - le luci sono così perfettamente
tenue - che mentre il silenzio si prolunga, comincio a chiedermi se sono
stata catturata in un sogno. Mi sento improvvisamente paranoica, incerta.
Come se quel ragazzo fosse frutto della mia immaginazione. Come se fosse
tutto uno strano incubo e, forse, mi sveglierò presto e Anderson sarà nel suo
ufficio, Ibrahim sarà un uomo che non ho mai incontrato e domani mi
sveglierò nella mia capsula vicina all'acqua.
Forse, penso, tutto questo è solo un altro test.
Una simulazione.
Forse Anderson sta mettendo alla prova per l'ultima volta la mia lealtà.
Forse il mio compito è quello di stare ferma, di tenermi al sicuro come lui
mi ha chiesto di fare e di distruggere chiunque cerchi di ostacolarmi. O
forse…
Mi blocco.
Percepisco del movimento.
Un movimento così sottile da essere quasi impercettibile. Un movimento
così gentile che avrebbe potuto essere una brezza, tranne che per una cosa:
Sento un cuore che batte.
C'è qualcuno qui, qualcuno immobile, qualcuno furbo. Mi raddrizzo, i
miei sensi si sono acutizzati, il cuore galoppa nel petto.
C'è qualcuno qui, c'è qualcuno qui, c'è qualcuno qui ...
Dove?
Lì.
Appare, come in un sogno, in piedi davanti a me come una statua,
immobile come acciaio. Mi fissa, con occhi verdi del colore del vetro di
mare, il colore del celadon.
Non ho mai avuto la possibilità di vedere la sua faccia.
Non in questo modo.
Il mio cuore batte all'impazzata mentre lo valuto, la camicia bianca, la
giacca verde, i capelli dorati. La pelle come la porcellana. Non si contorce e
non si agita e, per un momento, sono certa di aver avuto ragione, forse non
è niente di più che un miraggio. Un programma.
Un altro ologramma.
Allungo la mano, incerta, la punta delle dita sfiora la pelle esposta della
gola e lo sento fare un respiro affilato e tremolante.
É reale, allora.
Appoggio la mano contro il suo petto, tanto per essere sicura, e sento il
suo cuore che batte sotto il palmo. Veloce, come un fulmine.
Alzo lo sguardo, sorpresa.
È nervoso.
Gli sfugge un altro respiro incerto ma questa volta cerca di riprendere il
controllo. Fa un passo indietro, scuote la testa, guarda il soffitto.
Non nervoso.
È sconvolto.
Dovrei ucciderlo ora, credo. Uccidilo ora.
Un'ondata di nausea mi colpisce così forte da farmi quasi cadere. Faccio
qualche passo incerto all'indietro, sorreggendomi contro un tavolo d'acciaio.
Le mie dita afferrano il freddo metallo, mi ci aggrappo, stringo i denti,
desiderando che la mia mente si schiarisca.
Il calore mi inonda il corpo.
Il calore, un calore opprimente, preme contro i miei polmoni, riempie il
mio sangue. Le mie labbra si schiudono. Mi sento assetata. Alzo lo sguardo,
lui è proprio davanti a me e non faccio niente. Non faccio niente mentre
guardo la sua gola muoversi.
Non faccio nulla mentre i miei occhi lo divorano.
Mi sento svenire.
Studio la linea affilata della sua mascella, il dolce pendio dove il collo
incontra la spalla. Le sue labbra sembrano morbide. Gli zigomi alti, il naso
affilato, le sopracciglia folte, dorate. È fatto benissimo. Mani belle e forti.
Unghie corte e pulite. Ho notato che indossa un anello di giada al mignolo
sinistro.
Sospira.
Si toglie la giacca, piegandola con cura sul retro di una sedia vicina. Sotto
indossa solo una semplice maglietta bianca, i contorni scolpiti delle sue
braccia nude catturano l'attenzione delle luci fioche. Si muove lentamente, i
suoi gesti sono senza fretta. Quando comincia a camminare avanti e indietro
lo guardo, studio la sua figura. Non mi sorprende scoprire che si muove
splendidamente. Sono affascinata da lui, dalla sua forma, dai suoi passi
misurati, dai muscoli perfetti sotto la pelle. Si direbbe che abbia la mia età,
forse un po' più grande, ma c'è qualcosa nel modo in cui mi guarda che lo fa
sembrare più vecchio dei nostri anni messi insieme.
Qualsiasi cosa sia, mi piace.
Mi chiedo cosa dovrei fare con questo, con tutto questo. È un vero test?
Se è così, perché mandare qualcuno come lui? Perché un viso così
raffinato? Perché un corpo così perfettamente levigato?
Era destino che mi piacesse?
Una strana, delirante sensazione si risveglia dentro di me solo al pensiero.
Qualcosa di antico. Qualcosa di meraviglioso. È quasi un peccato, penso,
che dovrò ucciderlo. Ed è il calore, l'inerzia, l'inspiegabile intorpidimento
nella mia mente che mi costringe a dire...
«Dove ti hanno fatto?»
Si spaventa. Non pensavo che si spaventasse. Ma quando si gira a
guardarmi, sembra confuso.
Mi spiego: «Sei insolitamente bello.»
I suoi occhi si allargano. Le sue labbra si separano, premono insieme,
tremano in una curva che mi sorprende. Sorprende lui.
Sorride.
Sorride e io fisso - due fossette, denti dritti, occhi splendenti. Un calore
improvviso e incomprensibile si diffonde sulla mia pelle, mi infiamma. Mi
sento violentemente calda. Come se avessi la febbre.
Infine, dice: «Allora sei lì dentro.»
«Chi?»
«Ella» dice, ma ora parla a bassa voce. «Juliette. Hanno detto che saresti
morta.»
«Non sono morta» dico, mi tremano le mani mentre mi stringo insieme.
«Sono Juliette Ferrars, soldato supremo del nostro Comandante del Nord
America. Chi sei?»
Si avvicina. I suoi occhi si oscurano mentre mi fissa, ma non c'è una vera
oscurità.
Cerco di essere più alta, più dritta. Ricordo a me stessa che ho un
incarico, che questo è il mio momento per attaccare, per eseguire i miei
ordini. Forse io…
«Amore» sussurra.
Il calore mi infiamma la pelle. Il dolore preme contro la mia mente, una
vaga consapevolezza di aver dimenticato qualcosa. Trascurato. L'emozione
trema dentro di me e la elimino.
Fa un passo avanti, mi prende la faccia tra le mani. Penso a rompergli le
dita. Spezzargli i polsi. Il cuore mi batte forte.
Non posso muovermi.
«Non dovresti toccarmi» dico, ansimando le parole.
«Perché no?»
«Perché ti ucciderò.»
Delicatamente, mi inclina la testa all'indietro, le sue mani sono
possessive, convincenti. Un dolore mi blocca i muscoli, mi tiene in
posizione. Gli occhi si chiudono di riflesso. Lo respiro e mi si riempie la
bocca di aromi - aria fresca, fiori profumati, calore, felicità - e mi colpisce
l'idea stranissima che siamo già stati così, che ho già vissuto questo prima
d'ora, che lo conosco da prima e poi lo sento, sento il suo respiro sulla mia
pelle e la sensazione, la sensazione è...
inebriante,
disorientante.
Sto perdendo il controllo della mia mente, cerco disperatamente di
focalizzare il mio scopo, di concentrare i miei pensieri, quando
si muove
la terra si inclina, le sue labbra sfiorano la mia mascella e io emetto un
suono, un suono disperato e inconscio che mi sbalordisce. La mia pelle è
frenetica, bruciante. Quel calore familiare contamina il mio il sangue, la
temperatura raggiunge il picco, il mio viso arrossisce.
«Ti...»
Cerco di parlare ma lui mi bacia il collo e boccheggio, le sue mani sono
ancora strette intorno al mio viso. Sono senza fiato, il cuore che batte forte,
un impulso martellante, la testa rimbomba. Mi tocca come se mi
conoscesse, sa cosa voglio, sa di cosa ho bisogno. Mi sento folle. Non
riconosco nemmeno il suono della mia voce quando finalmente riesco a
dire:
«Ti conosco?»
«Sì.»
Il mio cuore ha un guizzo. La semplicità della sua risposta attanaglia la
mia mente, scavo alla ricerca della verità. Sembra vero. Sembra vero che ho
conosciuto queste mani, questa bocca, questi occhi.
Sembra reale.
«Sì» dice ancora una volta, la sua stessa voce roca per l'emozione. Le
mani mi lasciano il viso e mi smarrisco nella perdita, alla ricerca del calore.
Mi avvicino a lui senza nemmeno volerlo, chiedendo per qualcosa che non
capisco. Ma poi le sue mani scivolano sotto la mia camicia, i suoi palmi
premono contro la mia schiena e la profondità del contatto improvviso,
pelle a pelle, incendia il mio corpo.
Mi sento esplodere.
Mi sento pericolosamente vicino a qualcosa che potrebbe uccidermi e,
tuttavia, mi chino su di lui, accecata dall'istinto, sorda a tutto ma non al
battito feroce del mio cuore.
Si tira indietro, solo di un centimetro.
Le sue mani sono ancora intrecciate sotto la mia camicia, le sue braccia
scoperte avvolte intorno alla mia pelle nuda e la sua bocca indugia sopra la
mia, il calore tra di noi minaccia di incendiarsi. Mi tira più vicino e
trattengo un gemito, perdendo la testa mentre le linee dure del suo corpo
premono sul mio. È ovunque, il suo profumo, la sua pelle, il suo respiro.
Non vedo altro che lui, non sento altro che lui, le mani che si espandono sul
busto, i polmoni si comprimono sotto la sua attenta e bruciante
esplorazione. Mi addentro nelle sensazioni, le dita mi sfiorano lo stomaco,
il fondoschiena. La sua fronte tocca la mia e premo, sulle dita dei piedi,
chiedendo qualcosa, implorando qualcosa...
«Cosa,» boccheggio «cosa sta succedendo...»
Mi bacia.
Labbra morbide, ondate di sensazioni. Un sentimento deborda da un
posto vuoto nella mia mente. Le mie mani cominciano a tremare. Il mio
cuore batte così forte che riesco a malapena a stare ferma quando stimola la
bocca ad aprirsi, entra dentro di me. Sa di caldo e di menta piperita, come
l'estate, come il sole.
Voglio di più.
Prendo il suo viso tra le mani, lo avvicino e lui emette un suono dolce e
disperato dal fondo della gola che manda un picco di piacere direttamente al
mio cervello. Un calore puro, elettrico mi solleva, al di fuori di me stessa.
Mi sembra di galleggiare, mi arrendo a questo strano momento, trattenuta
sul posto da un'antica forma che si adatta perfettamente al mio corpo. Mi
sento frenetica, presa da un bisogno di sapere di più, un bisogno che non
capisco nemmeno.
Quando ci dividiamo, il suo petto è ansimante, il suo viso è arrossato e
dice...
«Torna da me, amore. Torna indietro.»
Faccio ancora fatica a respirare, cerco disperatamente i suoi occhi per
delle risposte. Spiegazioni. «Dove?»
«Qui» sussurra, premendo le mie mani sul suo cuore.
«A casa.»
«Ma io non...»
Lampi di luce mi attraversano la vista. Inciampo all'indietro, mezza cieca,
come se stessi sognando, rivivendo la carezza di un ricordo dimenticato ed
è come un tormento che cerca di essere lenito, è una pentola fumante gettata
in acqua ghiacciata, è una guancia arrossata premuta su un cuscino fresco in
una notte calda e si accumula, si raccoglie dietro i miei occhi, distorcendo la
vista, oscurando i suoni.
Qui.
Questo.
Il mio corpo contro il suo corpo. Questa è la mia casa.
Ritorno in me con un brivido improvviso e violento e mi sento selvaggia,
instabile. Lo fisso, il mio cuore ha le convulsioni, i miei polmoni
combattono per l'aria. Mi fissa a sua volta, gli occhi di un verde così pallido
alla luce che, per un attimo, non sembra nemmeno umano.
Sta succedendo qualcosa nella mia testa.
Il dolore si sta accumulando nel mio sangue, si sta calcificando intorno al
cuore. Mi sento in guerra con me stessa, smarrita e ferita, mi gira la testa
per l'incertezza. «Come ti chiami?» chiedo.
Fa un passo avanti, avvicinando le nostre labbra perché si tocchino. Il
suo respiro mi sussurra sulla pelle e i miei nervi ronzano, fanno scintille.
«Tu conosci il mio nome» dice a bassa voce.
Cerco di scuotere la testa. Mi prende il mento.
Questa volta, non è delicato.
Questa volta è disperato. Questa volta, quando mi bacia, mi fa uscire di
testa, il calore gli viene fuori a ondate. Ha il sapore di acqua di sorgente e
qualcosa di dolce, qualcosa di scottante.
Mi sento frastornata. Delirante.
Quando si stacca sto tremando, i polmoni tremano, i respiri tremano, mi
trema il cuore. Guardo, come in un sogno, come si toglie la camicia e la
butta a terra. E poi è di nuovo qui, è tornato, mi prende tra le braccia e mi
bacia così profondamente che le mie ginocchia cedono.
Mi prende in braccio, sostenendo il mio corpo mentre mi appoggia sul
lungo tavolo d'acciaio. Il freddo del metallo filtra attraverso il tessuto dei
pantaloni, mi fa venire la pelle d'oca lungo la pelle riscaldata e annaspo,
chiudo gli occhi mentre mi divarica le gambe, reclama la mia bocca. Preme
le mie mani sul suo petto, trascina le mie dita lungo il suo busto nudo e
faccio un suono disperato, spezzato, piacere e dolore mi stordiscono, mi
paralizzano.
Mi sbottona la camicia, le sue mani abili si muovono velocemente anche
mentre mi bacia il collo, le guance, la bocca, la gola. Gemo quando si
muove, i suoi baci si spostano lungo il mio corpo, cercando, esplorando.
Spinge da parte le due metà della camicia, la sua bocca ancora calda contro
la mia pelle, poi chiude il distacco tra noi, premendo il suo petto nudo sul
mio e il mio il cuore esplode.
Qualcosa scatta dentro di me.
Si rompe.
Un singhiozzo improvviso e spezzato mi sfugge dalla gola. Lacrime
nascoste mi pungono gli occhi, spaventandomi quando cadono sul viso.
L'emozione sconosciuta cresce in me, espandendomi il cuore,
confondendomi la testa. Mi tira incredibilmente più vicino, i nostri corpi
saldati insieme. E poi preme la fronte sulla mia clavicola, il suo corpo trema
di emozione quando dice...
«Torna indietro.»
La mia testa è piena di sabbia, suoni e sensazioni vorticano nella mente.
Non capisco cosa mi sta succedendo, non capisco questo dolore, questo
incredibile piacere. Sto chiazzando la sua pelle con le mie lacrime e mi tira
solo più forte, premendo i nostri cuori insieme fino a quando il desiderio
affonda i suoi denti nelle mie ossa, lacerando i polmoni. Voglio seppellirmi
in questo momento, voglio tirarlo dentro di me, voglio trascinare fuori me
stessa, ma c'è qualcosa di sbagliato, qualcosa di bloccato, qualcosa si è
interrotto...
Qualcosa di spezzato.
La comprensione arriva con onde delicate, teorie che scorrono e che si
sovrappongono sulle sponde della mia coscienza fino a quando non sono
immersa nella confusione. Consapevolezza.
Terrore.
«Tu sai il mio nome» dice dolcemente. «Mi conosci da sempre, amore. Ti
conosco da sempre. E sono così - sono così - disperatamente innamorato di
te…»
Il dolore inizia nelle orecchie.
Si raccoglie, si espande, aumenta la pressione fino a raggiungere un picco
così acuto che si trasforma, affilandosi, in una tortura che mi ferma il cuore.
Prima cosa divento sorda, rigida. Seconda cosa divento cieca, molle.
Terza cosa, il mio cuore si rimette in moto.
Ritorno in vita con un'improvvisa, terrificante inspirazione che quasi mi
soffoca, il sangue mi arriva alle orecchie, agli occhi, cola dal mio naso. Lo
assaggio, assaporo il sangue in bocca mentre comincio a capire: c'è
qualcosa dentro di me. Un veleno. Una violenza. Qualcosa di sbagliato
qualcosa di sbagliato qualcosa di sbagliato.
E poi, come da chilometri di distanza, mi sento urlare.
C'è una mattonella fredda sotto le mie ginocchia, il materiale ruvido
preme sulle mie nocche. Urlo nel silenzio, il potere aumenta il potere,
l'elettricità carica il mio sangue. La mia mente si sta scindendo da sè stessa,
cercando di identificare il veleno, questo parassita che risiede dentro di me.
Devo ucciderlo.
Urlo, forzando la mia energia verso l'interno, gridando fino a quando
l'esplosivo involucro di energia che ho dentro mi rompe i timpani. Grido
fino a quando non sento il sangue gocciolare dalle orecchie e lungo il collo,
urlo fino a quando le luci del laboratorio non cominciano a scoppiare e a
rompersi. Grido fino a farmi sanguinare i denti, fino a far crepare il
pavimento sotto i miei piedi, fino a quando le ginocchia iniziano a
incrinarsi. Grido fino a quando il mostro dentro di me non comincia a
morire.
E solo allora...
Solo quando sono sicura di aver ucciso una piccola parte di me stessa
finalmente crollo.
Sto soffocando, tossendo sangue, il petto ansima per lo sforzo sostenuto.
La stanza si muove leggermente. Dondola.
Premo la fronte sul pavimento freddo e combatto un'ondata di nausea. E
poi sento una mano familiare e forte contro la schiena. Con una lentezza
atroce, riesco a sollevare la testa.
Una macchia d'oro appare, scompare davanti a me.
Sbatto le palpebre una, due volte, e cerco di sollevarmi con le braccia ma
un dolore acuto e bruciante al polso quasi mi acceca. Guardo in basso,
studiando la strana e nebulosa visione. Sbatto di nuovo le palpebre. Più di
dieci volte.
Finalmente i miei occhi si mettono a fuoco.
La pelle all'interno del mio braccio destro si è aperta. Il sangue mi
imbratta la pelle, gocciola sul pavimento. Dall'interno della ferita fresca,
una semplice luce blu pulsa da un corpo d'acciaio, circolare, i cui bordi
spingono verso l'alto contro la mia carne lacerata.
Con un ultimo sforzo, strappo il meccanismo lampeggiante dal mio
braccio, l'ultima traccia di questo mostro. Cade dalle dita tremanti,
sferragliando sul pavimento.
E questa volta, quando alzo lo sguardo, vedo il suo volto.
«Aaron» sussulto.
Si inginocchia.
Tira il mio corpo sanguinante tra le sue braccia e io mi rompo, vado in
pezzi, i singhiozzi mi spaccano il petto. Piango fino a quando il dolore
cresce a dismisura e raggiunge il picco, piango fino a farmi pulsare la testa
e gonfiare gli occhi. Piango, premendo il mio viso contro il suo collo, le dita
che scavando nella sua schiena, alla disperata ricerca di un appiglio. Di una
prova.
Mi tiene, silenzioso e immobile, trattenendo il mio sangue e le mie ossa
contro il suo corpo anche quando le lacrime si affievoliscono, anche quando
comincio a tremare. Mi tiene stretta mentre il mio corpo trema, mi tiene
quando le lacrime ricominciano, mi tiene tra le sue braccia, mi accarezza i
capelli e mi dice che ogni cosa, tutto, andrà bene.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 32
KENJI
 
Sono incaricato di fare la guardia fuori da questa porta, che, inizialmente,
ho supposto poteva essere un buona cosa - per assistere alla missione di
salvataggio, eccetera - ma più a lungo aspetto qui fuori, sorvegliando
Nazeera mentre hackera i computer che mantengono i ragazzi supremi in
un qualche strano stato di ipersonno, più le cose si mettono peggio.
Questo posto sta cadendo a pezzi.
Letteralmente.
Le luci nel soffitto cominciano a scintillare e a scoppiettare, le scale
imponenti cominciano a gemere. Le enormi finestre che rivestono entrambi
i lati di questo edificio di cinquanta piani cominciano a spaccarsi.
I dottori corrono, urlando. Gli allarmi lampeggiano impazziti, le sirene
squillano. Una voce robotica annuncia una crisi attraverso gli altoparlanti,
come se fosse la cosa più banale del mondo.
Non ho idea di cosa stia succedendo in questo momento, tuttavia dovessi
indovinare, direi che ha qualcosa a che fare con Emmaline. Ma devo solo
stare qui in piedi, appoggiandomi alla porta in modo da non essere
calpestato accidentalmente, aspettando che qualsiasi cosa stia succedendo
finisca. Il problema è che non so se sarà un lieto fine o un finale triste…
Per chiunque.
Non ho più avuto notizie da Warner da quando ci siamo separati, mi sto
sforzando molto, molto duramente per non pensarci. Preferisco scegliere di
concentrarmi sulle cose positive che sono successe oggi, come il fatto che
siamo riusciti a uccidere tre comandanti supremi - quattro se si conta Evie -
e che il geniale lavoro di hackeraggio di Nazeera è stato un successo,
perché senza lei, non avremmo mai fatto grandi progressi.
Dopo il nostro passaggio attraverso le bocchette d'aerazione, Warner ed
io siamo riusciti a scendere nel cuore del complesso, senza essere scoperti.
É stato più facile evitare le telecamere una volta che eravamo al centro di
tutto; le stanze erano più vicine, e anche se avevano un livello di sicurezza
più elevato - molte avevano anche meno telecamere. Quindi, fintanto che
abbiamo evitato certe angolazioni, le telecamere non ci hanno notato e, con
le false autorizzazioni che Nazeera ha creato per noi, ce l'abbiamo fatta
facilmente. É stato grazie a lei che eravamo nel posto giusto - dopo aver
avuto ucciso inavvertitamente un super-importante scienziato - quando tutti
i comandanti supremi hanno cominciato a darsela a gambe.
É stato grazie a lei che siamo riusciti a far fuori Ibrahim e Anderson. Ed è
stato grazie a lei che Warner si è chiuso a chiave con Robot J da qualche
parte. Onestamente, non so nemmeno come mi sento a questo proposito.
Non mi sono permesso di riflettere sul fatto che J potrebbe non tornare mai
più, che potrei non rivedere mai più la mia migliore amica. Se ci penso
troppo, comincio a sentirmi come se mi mancasse il respiro e non posso
permettermi di smettere di respirare in questo momento. Non ancora.
Quindi cerco di non pensarci.
Ma Warner...
Warner uscirà, da tutto questo, vivo e felice, o morto facendo qualcosa in
cui credeva.
E non c’è niente che posso fare.
Il problema è che non lo vedo da più di un'ora e non ho idea di cosa
significhi. Potrebbero essere davvero buone notizie o molto, molto brutte.
Non ha mai condiviso il suo piano con me - sorpresa sorpresa - quindi non
so nemmeno esattamente cosa avesse intenzione di fare una volta che fosse
stato solo con lei. E anche se so bene che non devo dubitare di lui, devo
ammettere che c'è una piccola parte di me che si chiede se sia ancora vivo
in questo momento.
Un assordante lamento interrompe i miei pensieri.
Guardo in alto, verso la sorgente del suono, e mi rendo conto che il
soffitto sta cedendo. Il tetto sta andando in pezzi. I muri stanno
cominciando a sgretolarsi. I lunghi corridoi che girano ad anello intorno ad
un cortile interno dove sorge un massiccio albero dall’aspetto preistorico.
Senza nessun motivo che posso capire, le ringhiere d’acciaio intorno ai
corridoi cominciano a sciogliersi. Osservo in tempo reale mentre l'albero
prende fuoco, le fiamme ruggiscono ad un ritmo sorprendente. Il fumo si
accumula, curvandosi nella mia direzione, cominciando già a soffocare le
stanze, il cuore mi batte forte mentre mi guardo intorno, il mio panico
aumenta. Inizio a picchiare sulla porta, senza curarmi di chi mi sente.
É la fine del fottuto mondo qui fuori.
Sto urlando a Nazeera, implorandola di uscire, di scappare prima che sia
troppo tardi, e ora sto tossendo, il fumo mi entra nei polmoni, sperando
ancora disperatamente che possa sentire la mia voce quando all'improvviso,
violentemente...
La porta si apre.
Vengo sbalzato indietro dalla violenza e, quando alzo lo sguardo con
occhi infiammati, Nazeera è lì. Nazeera, Lena, Stephan, Haider, Valentina,
Nicolás e Adam.
Adam.
Non posso spiegare esattamente cosa succede dopo. Ci sono così tante
urla. Tutti corrono. Stephan fa un buco preciso attraverso il muro che si sta
sgretolando, e Nazeera ci aiuta a volare tutti fuori in sicurezza. Succede
tutto in modo confuso, vedo le cose svolgersi piano piano come un flash,
urlando.
Sembra un sogno. Mi bruciano gli occhi, mi lacrimano.
Sto piangendo per il fuoco, credo. É il calore, il cielo, le fiamme ruggenti
che divorano tutto.
Guardo la capitale dell'Oceania - tutti i suoi 120 acri - in fiamme.
E Warner e Juliette con loro.
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 33
ELLA
(JULIETTE)
 
La prima cosa che facciamo è cercare Emmaline.
Mi avvicino a lei nella mente e risponde subito. Il calore, gli artigli di
calore, che avvolgevano a spirale le mia ossa. Scintille di vita nel mio
cuore. Lei era sempre qui, sempre con me.
Ora capisco.
Capisco che i momenti che mi hanno salvato sono stati dei doni da parte
mia sorella, regali che era in grado di dare solo distruggendo sè stessa in
cambio. Ora è molto più debole di due settimane fa, perché ha sacrificato
così tanto di sé per mantenermi viva. Per evitare che le loro macchinazioni
raggiungessero il mio cuore. La mia anima.
Ora ricordo tutto. La mia mente è focalizzata su un nuovo punto,
perfezionata con una chiarezza che non ho mai sperimentato prima. Vedo
tutto. Capisco tutto.
Non ci vuole molto a trovarla.
Non mi scuso per le persone che disperdo o i muri che infrango lungo il
percorso. Non mi scuso per la mia rabbia o il mio dolore. Non smetto di
muovermi quando vedo Tatiana e Azi; non ne ho bisogno. Gli spezzo il
collo da dove mi trovo. Strappo i loro corpi a metà con un solo gesto.
Quando raggiungo mia sorella, la sofferenza dentro di me raggiunge il
picco. È floscia dentro la sua vasca, un pesce avvizzito, un ragno morente.
É rannicchiata su se stessa nell'angolo più buoi, i suoi lunghi capelli scuri
avvolgono la figura rugosa e cascante. Un debole lamento proviene dal suo
serbatoio.
Sta piangendo.
È piccola. Impaurita. Mi ricorda un'altra versione di me stessa, una
persona che ricordo a malapena, una giovane ragazza gettata in prigione,
troppo distrutta dal mondo per rendersi conto di aver sempre avuto il potere
di liberarsi. Di conquistare la terra.
Ho avuto questo lusso.
Emmaline no.
Vederla così mi fa venire voglia di cadere a pezzi. Il mio cuore si
infiamma per la rabbia, la devastazione. Quando penso a quello che le
facevano - quello che le hanno fatto…
Non farlo.
No.
Faccio un respiro profondo e tremolante. Cerco di riprendermi. Sento
Aaron che mi prende la mano e gli stringo le dita in segno di gratitudine. Mi
rassicura averlo qui. Sapere che è accanto a me. Con me.
Il mio compagno in tutto.
Dimmi cosa vuoi, chiedo a Emmaline. Qualsiasi cosa. Qualunque cosa
sia, la farò.
Silenzio.
Emmaline?
Una paura acuta e disperata mi travolge.
La sua paura, non la mia.
Sensazioni distorte lampeggiano dietro i miei occhi - bagliori di colore,
suoni di metallo levigato - e il suo panico si intensifica. Si irrigidisce. Lo
sento ronzare lungo la schiena.
«Cosa c'è che non va?» lo dico ad alta voce. «Cosa succede?»
Qui
Qui
La sua forma lattiginosa scompare nella vasca, affondando in profondità
sott'acqua. Mi viene la pelle d'oca lungo le braccia.
«Sembra che ti sia dimenticata di me.»
Mio padre entra nella stanza, gli alti stivali di gomma rimbombano
delicatamente contro il pavimento.
Butto subito fuori le braccia, sperando di strappargli la milza, ma è troppo
veloce - i suoi movimenti sono troppo veloci. Preme un singolo pulsante, su
un piccolo telecomando portatile, ed ho a malapena il tempo di prendere un
respiro prima che il mio corpo inizi a contorcersi. Grido, gli occhi accecati
da una violenta luce viola, e riesco a girare la testa solo in piccoli e
strazianti movimenti.
Aaron.
Lui ed io siamo entrambi paralizzati, immersi in una luce tossica emanata
dal soffitto. Annaspo per respirare. Mi agito in modo incontrollato. La testa
mi gira, lavorando disperatamente per pensare a un piano, una scappatoia,
una via d'uscita.
«Sono stupito dalla tua arroganza» dice mio padre. «Mi ha stupito il fatto
che tu abbia pensato di poter entrare qui ed assistere al suicidio di tua
sorella. Pensavi che sarebbe stato semplice? Pensavi che non ci sarebbero
state conseguenze?»
Gira una manopola e il mio corpo si agita più violentemente, sollevandosi
dal pavimento. Il dolore è accecante. La luce lampeggia dentro e fuori i
miei occhi, stordendomi la mente, mi ha intorpidito la capacità di pensare.
Sono sospesa in aria, non più in grado di girare la testa. Spinte
gravitazionali mi schiacciano e mi tirano il corpo, minacciando di farmi a
pezzi.
Se potessi urlare, lo farei.
«Comunque, è un bene che tu sia qui. Meglio farla finita con questa storia
ora. Abbiamo aspettato abbastanza a lungo.» Annuisce, distrattamente, al
serbatoio di Emmaline. «Ovviamente hai visto quanto siamo disperati per
un nuovo ospite.»
NO.
La parola è come un urlo nella mia testa.
Max si irrigidisce.
Alza lo sguardo, fissando esattamente il nulla, la rabbia negli occhi a
malapena tenuta sotto controllo. Mi rendo conto solo allora che può sentire
anche lei.
Naturalmente può farlo.
Emmaline batte contro il suo serbatoio, il suono è smorzato, lo sforzo
sembra solo estenuarla. Eppure, avanza, la sua guancia incavata si
appiattisce contro il vetro.
Max esita, vacillando.
Non è bravo a nascondere le sue emozioni - e la sua attuale incertezza è
facilmente percepibile. É chiaro, anche dalla mia prospettiva disorientata,
che sta cercando di decidere di chi, tra noi due, deve occuparsi per prima.
Emmaline batte di nuovo il pugno, più debole questa volta.
NO.
Un altro urlo nella mia testa.
Con un sibilo soffocato, Max decide per Emmaline.
Lo guardo girare su sé stesso, mentre si dirige verso il serbatoio. Preme la
mano piatta contro il vetro e questo s'illumina di un blu neon. La luce blu si
espande, poi si diffonde nella camera, lentamente, rivelando una serie
intricata di circuiti elettrici. Le venature di neon sono più spesse in alcuni
punti, a volte intrecciate, per lo più sottili. Assomigliano ad un sistema
cardiovascolare non diverso da quello all'interno del mio corpo.
Il mio stesso corpo.
Qualcosa ansima alla vita dentro di me. Ragiono. Razionalizzo i pensieri.
Sono intrappolata qui, ingannata dal dolore pensando di non avere alcun
controllo sui miei poteri, ma non è vero. Quando mi costringo a ricordare,
la sento. La mia energia è ancora vibrante dentro di me. È un sussurro
debole e disperato - ma c'è.
Un po' agonizzante, raccolgo la mente.
Stringo i denti, focalizzo i miei pensieri, contraendo il mio corpo fino al
punto di rottura. Lentamente, intreccio insieme i disparati filamenti del mio
potere, aggrappandomi a loro per la salvezza.
E ancora più lentamente, riconquisto la mano attraverso la luce.
Lo sforzo mi spacca le nocche, la punta delle dita. Il sangue fresco cola
dalla mano e scende lungo il polso mentre sollevo il braccio in un arco lento
e lancinante sopra la testa.
Come da anni luce di distanza, sento un bip.
Max.
Sta inserendo nuovi codici nel serbatoio di Emmaline. Non ho nessuna
idea di cosa significhi per lei, ma non credo sia una buona cosa.
Sbrigati.
Sbrigati, mi dico.
Violentemente, forzo il mio braccio attraverso la luce, trattenendo un urlo
mentre lo faccio. Una ad una, le dita si dispiegano sopra la testa, il sangue
gocciola da ogni dito lungo il polso insanguinato e finisce nei miei occhi.
La mia mano si apre, il palmo rivolto verso il soffitto. Il sangue fresco
serpeggia sul viso mentre guido la mia energia nella luce.
Il soffitto va in frantumi.
Aaron ed io cadiamo a terra, forte, e sento qualcosa che si spezza nella
gamba, il dolore urla attraverso me.
Lo combatto.
Le luci schioccano e urlano, il soffitto di cemento lucido comincia a
cedere. Max si gira, l'orrore si impadronisce del suo volto mentre lancio la
mano in avanti.
Chiudo il pugno.
La vasca di Emmaline si spacca con un improvviso e violento scoppio.
«NO!» grida. Con febbrile fervore, prende il telecomando dal camice da
laboratorio, premendo i bottoni ormai inutili. «No! No, no…»
Il vetro si squarcia con uno sbadiglio arrabbiato, cedendo il passo a un
ultimo, sconvolgente ruggito. Max rimane comicamente immobile.
Sbalordito.
Poi, muore, proprio con quell'espressione sul viso. E non sono io che lo
uccido. É Emmaline.
Emmaline, che tira le sue mani palmate fuori dal buco e preme le dita
sulla testa del padre. Lo uccide con nient'altro che la forza della propria
mente.
La mente che lui le ha dato.
Quando ha finito, il cranio è aperto in due. Il sangue cola dagli occhi
senza vita. I denti cadono dalla faccia, sulla camicia. L'intestino fuoriesce
da una grave lacerazione sul ventre.
Guardo da un'altra parte.
Emmaline crolla a terra. Sta ansimando attraverso l'erogatore fuso al suo
viso. I suoi arti già deboli cominciano a tremare, violentemente, e sta
emettendo suoni che posso solo supporre sono da intendersi come parole
che non è più in grado di pronunciare.
È più anfibia che umana.
Me ne rendo conto solo ora, solo guardandola in viso, con la prova della
sua incompatibilità con la nostra aria, con il mondo esterno. Striscio verso
di lei, trascinandomi dietro la mia gamba rotta e insanguinata.
Aaron cerca di aiutarci, ma quando chiudiamo gli occhi, retrocede.
Capisce che ho bisogno di farlo da sola.
Raccolgo il corpo piccolo e appassito di mia sorella contro il mio,
tirandomi le sue membra bagnate in grembo, premendo la sua testa contro il
mio petto. E le dico, per la seconda volta:
«Dimmi cosa vuoi. Qualsiasi cosa. Qualunque cosa sia, la farò.»
Le sue dita si aggrappano al mio collo, ancorandosi per la salvezza. La
visione mi riempie la testa, una visione di tutto che va in fiamme. Una
visione di questo complesso, la sua prigione, che si sta disintegrando. Vuole
che venga rasa al suolo e restituita alla polvere.
«Consideralo fatto» le dico.
Ha un'altra richiesta. Solo un'altra.
E non dico niente per troppo tempo.
Per favore
La sua voce è nel mio cuore, implorante. Disperata. La sua agonia è
acuta. Il suo terrore è palpabile.
Le lacrime mi sgorgano dagli occhi.
Premo la guancia contro i suoi capelli bagnati. Le dico quanto l'amo.
Quanto sia importante per me. Quanto desidero quello che avremmo potuto
avere. Le dico che non la dimenticherò mai.
Che mi mancherà, ogni singolo giorno.
E poi le chiedo di lasciarmi portare il suo corpo a casa con me quando
avrò finito.
Un dolce calore inonda la mia mente, una sensazione inebriante.
Felicità.
Sì, dice.
Quando è finito, quando ho strappato i tubi dal suo corpo, quando ho
raccolto le sue ossa bagnate e tremolanti contro le mie, quando ho premuto
la mia guancia velenosa sulla sua, quando ho succhiato via quel poco di vita
che le era rimasto in corpo.
Quando è finito, mi raggomitolo intorno al suo cadavere freddo e piango.
Stringo il suo corpo vuoto contro il mio cuore e sento l'ingiustizia di tutto
questo ruggire attraverso di me.
Sento che mi fa a pezzi. La sento prendere una parte di me con lei mentre
muore.
E poi mi metto a urlare.
Grido fino a sentire la terra muoversi sotto i miei piedi, fino a quando
sento il vento cambiare direzione. Grido fino a quando i muri collassano,
finché non sento l'elettricità scintillare, finché non sento le luci prendere
fuoco. Grido fino a che il terreno non si spacca, fino a che tutto cade giù.
E poi portiamo mia sorella a casa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 34
EPILOGO
WARNER
uno
 
Il muro è insolitamente bianco.
Più bianco del solito. La maggior parte delle persone pensa che i muri
bianchi siano vero bianco, ma la verità è che lo sembrano solo e in realtà
non sono bianchi. La maggior parte delle tonalità di bianco sono mescolate
con un po' di giallo, che aiuta ad ammorbidire i bordi aspri di un bianco
puro, rendendolo più un ecru, o avorio. Varie tonalità di crema. Bianco
d'uovo, anche. Il bianco vero è praticamente intollerabile come colore, così
bianco che è quasi osceno.
Questo muro, in particolare, non è così bianco da risultare offensivo, ma
di una sfumatura di bianco abbastanza netta da suscitare la mia curiosità, il
che è a dir poco un miracolo, in realtà, perché sono stato a fissarlo per la
maggior parte dell'ora. Trentasette minuti, per l'esattezza.
Sono tenuto in ostaggio dalla tradizione. Formalità.
«Ancora cinque minuti» dice. «Lo prometto.»
Sento il fruscio del tessuto. Delle cerniere. Un brivido di...
«Quello è tulle?»
«Non dovresti ascoltare!»
«Sai, amore, mi viene in mente ora che ho vissuto sulla mia pelle
situazioni reali da ostaggio molto meno strazianti di questa.»
«Ok, ok, finiamola qui. Metto via. Mi serve solo un secondo per mettermi
il…»
«Non sarà necessario» dico io, girando intorno. «Sicuramente questa
parte, dovrei avere il permesso di guardarla.»
Mi appoggio al muro insolitamente bianco, studiando il modo in cui mi
disapprova, le sue labbra ancora divaricate intorno alla forma di una parola
che sembra aver dimenticato.
«Per favore, continua» dico, facendo un cenno con la testa. «Qualunque
cosa stavi facendo prima.»
Si aggrappa al suo broncio per un momento più lungo del necessario, i
suoi occhi si restringono in uno spettacolo di frustrazione che è puro
imbroglio. Compone questa farsa stringendo un articolo di abbigliamento al
petto, fingendo modestia.
Non mi dispiace, neanche un po'.
La divoro con lo sguardo, le sue curve morbide, la sua pelle liscia. I suoi
capelli sono belli a qualsiasi lunghezza, ma ultimamente sono cresciuti.
Lunghi e folti, setosi contro la sua pelle e se sono fortunato...
contro la mia.
Lentamente, fa cadere la camicia.
All'improvviso mi metto in piedi più dritto.
«Suppongo dovrei indossare questo sotto il vestito» dice, la finta rabbia
già dimenticata. Si agita con un corsetto di stecche d’ossa color crema, le
dita indugiano distrattamente lungo le autoreggenti, bordate di pizzo. Non
riesce a incontrare i miei occhi. È diventata improvvisamente timida, e
questa volta è vero.
Ti piace?
La domanda non formulata.
Ho presunto, quando mi ha invitato in questo camerino, che fosse per
ragioni che vanno oltre la mia comprensione per le variazioni di colore in
un muro insolitamente bianco. Ho presunto che mi volesse qui per farmi
vedere qualcosa.
Per vederla.
Ora capisco che avevo ragione.
«Sei così bella» dico, incapace di reprimere lo stupore nella mia voce. La
sento, la meraviglia infantile nel mio tono e m'imbarazzo più del dovuto. So
che non dovrei vergognarmi profondamente. Di essere commosso.
Eppure, mi sento a disagio.
Inesperto.
Tranquillamente, dice: «Mi sento come se avessi appena rovinato la
sorpresa. Non dovresti vedere niente di tutto questo fino alla prima notte di
nozze.»
Il mio cuore si ferma per un momento.
La prima notte di nozze.
Chiude la distanza tra noi e stringe le braccia intorno a me, liberandomi
dalla mia momentanea paralisi. Il mio cuore batte più forte con lei qui, così
vicino. E anche se non so come facesse a sapere che avevo
improvvisamente bisogno di essere rassicurato dal suo tocco, le sono grato.
Espiro, tirandola completamente contro di me, i nostri corpi si rilassano, si
riconoscono l'un l'altro.
Premo il viso nei suoi capelli, respiro il dolce profumo del suo shampoo,
la sua pelle. Sono passate solo due settimane. Due settimane dalla fine di un
vecchio mondo. L'inizio di un nuovo mondo.
Mi sembra ancora un sogno.
«Sta succedendo davvero?» sussurro.
Un brusco bussare alla porta mi fa drizzare la spina dorsale.
Ella si acciglia al suono. «Sì?»
«Mi dispiace molto disturbarla in questo momento, signorina, ma c'è un
signore qui, che desidera parlare con il signor Warner.»
Ella ed io chiudiamo gli occhi.
«Ok» dice in fretta. «Non ti arrabbiare.»
I miei occhi si restringono. «Perché dovrei arrabbiarmi?»
Ella si allontana per guardarmi meglio negli occhi. I suoi sono luminosi,
belli. Pieni di preoccupazione. «É Kenji.»
Reprimo un picco di rabbia così violento che penso di stare per avere un
ictus. Lasciandomi stordito. «Cosa sta facendo qui?» mi libero dallo
stordimento. «Come diavolo ha fatto a sapere dove trovarci?»
Si morde il labbro. «Abbiamo portato Amir e Olivier con noi.»
«Capisco.» Abbiamo portato con noi delle guardie in più, il che significa
che la nostra uscita è stata pubblicata sul bollettino di pubblica sicurezza.
Ovviamente.
Ella annuisce. «Mi ha trovato poco prima che partissimo. Era
preoccupato… voleva sapere perché stavamo tornando nelle vecchie terre
regolamentate.»
Cerco di dire qualcosa allora, per meravigliarmi ad alta voce
dell'incapacità di Kenji di effettuare una semplice deduzione nonostante
l'abbondanza di indizi contestuali proprio davanti ai suoi occhi… ma lei
alza un dito.
«Gli ho detto,» dice «che stavamo cercando degli abiti di ricambio e gli
ho ricordato che, per adesso, i centri di approvvigionamento sono ancora gli
unici posti in cui fare acquisti di cibo o abbigliamento o» agita una mano,
aggrottando le sopracciglia «qualsiasi altra cosa. Comunque, ha detto che
avrebbe cercato di incontrarci qui. Ha detto che voleva aiutare.»
I miei occhi si allargano leggermente. Sento un altro colpo in arrivo. «Ha
detto che voleva aiutare.»
Annuisce.
«Sorprendente.» Un muscolo ticchetta nella mascella. «E anche
divertente, perché ha già aiutato così tanto… proprio ieri sera ci ha aiutato
molto distruggendo il mio completo e il tuo vestito, costringendoci ad
acquistare l'abbigliamento da un» mi guardo intorno, gesticolando al nulla
«negozio proprio il giorno in cui dovremmo sposarci.»
«Aaron» sussurra. Si avvicina di nuovo. Mi mette una mano sul petto.
«Ci sta malissimo.»
«E tu?» dico, studiando il suo volto, i suoi sentimenti. «Non ti senti male
per questo? Alia e Winston hanno lavorato sodo per farti qualcosa di bello,
qualcosa di concepito con precisione per te...»
«Non m’importa.» Alza le spalle. «É solo un vestito» dico, la voce le sta
venendo meno ora, praticamente spezza le parole.
Sospira, e in quel suono sento il suo cuore spezzarsi, più per me che per
sé stessa. Si gira e apre la zip dell'enorme borsa per abiti appesa a un gancio
sopra la testa.
«Non dovresti vederlo,» dice, tirando fuori dalla borsa metri di tulle «ma
penso che abbia più significato per te che per me, quindi» si volta indietro,
sorride «ti lascerò aiutami a decidere cosa indossare stasera.»
Quasi mi lamento ad alta voce al promemoria.
Un matrimonio notturno. Chi mai si sposa di notte? Solo gli sfortunati. I
disgraziati. Anche se suppongo che ora siamo inclusi tra i loro ranghi.
Piuttosto che riprogrammare l'intera faccenda, l'abbiamo spostata in
avanti di qualche ora, in modo da avere il tempo di acquistare vestiti nuovi.
Beh, ho dei vestiti. I miei vestiti non contano molto.
Ma il suo vestito. Ha distrutto il suo vestito la notte prima del nostro
matrimonio. Come un mostro.
Lo ucciderò.
«Non puoi ucciderlo» dice, tirando ancora fuori manciate di tessuto dalla
borsa.
«Sono certo di non aver detto niente del genere ad alta voce.»
«No,» ribatte «ma lo stavi pensando, non è vero?»
«Con tutto il cuore.»
«Non puoi ucciderlo» dice semplicemente. «Non ora. Mai.»
Sospiro.
Sta ancora lottando per estrarre l'abito. «Perdonami, amore, ma se tutto
questo» faccio un cenno alla borsa degli abiti, all'esplosione di tulle «è per
un solo vestito, temo di sapere già come mi sento al riguardo.»
Smette di tirare. Si gira, con gli occhi spalancati. «Non ti piace? Non l'hai
ancora visto.»
«Ho visto abbastanza per sapere che, qualunque cosa sia, non è un abito
da sposa. É una stratificazione disordinata di poliestere.» Mi inclino verso
di lei, pizzicando il tessuto tra le dita. «Non hanno tulle di seta in questo
negozio? Forse possiamo parlare con la sarta.»
«Non hanno una sarta qui.»
«Questo è un negozio di abbigliamento» dico. Giro il corpetto al
contrario, accigliandomi per i punti di sutura. «Sicuramente ci deve essere
una sarta. Non una molto buona, chiaramente, ma…
«Questi vestiti sono fatti in fabbrica» mi dice. «Per lo più a macchina.»
Mi raddrizzo.
«Sai, la maggior parte delle persone non è cresciuta con dei sarti privati a
loro disposizione» dice, con sorriso che gioca con le sue labbra. «Il resto di
noi ha dovuto comprare i vestiti al negozio. Già pronti. Della misura
sbagliata.»
«Sì» dico rigidamente. Mi sento improvvisamente stupido. «Certo.
Perdonami. Il vestito è molto bello. Forse dovrei aspettare che lo provi. Ho
dato la mia opinione troppo frettolosamente.»
Per qualche ragione, la mia risposta non fa che peggiorare le cose.
Geme, lanciandomi un solo sguardo sconfitto prima di piegarsi sulla
poltroncina del camerino.
Il mio cuore precipita.
Prende il viso tra le mani. «È davvero un disastro, non è vero?»
Un'altra rapida bussata alla porta. «Signore? Il gentiluomo sembra molto
impaziente…»
«Non è certo un gentiluomo» dico in modo brusco. «Digli di aspettare.»
Un momento di esitazione. Poi, a bassa voce: «Sì, signore.»
«Aaron.»
Non ho bisogno di alzare lo sguardo per sapere che non è soddisfatta
della mia maleducazione. I proprietari di questo particolare centro di
approvvigionamento stanno servendo solo noi e sono stati tremendamente
gentili. So di essere crudele. Al momento, non riesco a fare di meglio.
«Aaron.»
«Oggi è il giorno del tuo matrimonio» dico, incapace di incontrare i suoi
occhi. «Ha rovinato il giorno del tuo matrimonio. Il giorno del nostro
matrimonio.»
Si mette in piedi. Sento la sua frustrazione svanire. Si trasforma. Si
mescola alla tristezza, alla felicità, alla speranza, alla paura e infine...
Rassegnazione.
Una delle peggiori sensazioni possibili per quello che dovrebbe essere un
giorno gioioso. La rassegnazione è peggio della frustrazione. Molto peggio.
La mia rabbia si cristallizza.
«Non l'ha rovinato» dice infine. «Possiamo ancora realizzare questo
progetto.»
«Hai ragione» dico, tirandola tra le mie braccia. «Naturalmente hai
ragione. Non importa, davvero. Niente di tutto questo ha importanza.»
«Ma è il giorno del mio matrimonio» risponde. «E non ho niente da
indossare.»
«Hai ragione» Le bacio la testa. «Lo ucciderò.»
Un martellamento improvviso alla porta.
Mi irrigidisco. Mi giro.
«Ehi, ragazzi?» Il martellamento è più forte. «So che siete super incazzati
con me, ma ho buone notizie, lo giuro. Sistemerò tutto. Mi farò perdonare.»
Sto per rispondere quando Ella mi stringe la mano, mettendo a tacere la
mia replica feroce con un solo movimento. Mi lancia uno sguardo che dice
chiaramente…
Dagli una possibilità.
Sospiro mentre la rabbia si assesta all'interno del mio corpo, le spalle si
rilassano. Con riluttanza, mi faccio da parte per permetterle di gestire
questo idiota nel modo che preferisce.
Dopotutto, è il giorno del suo matrimonio.
Ella si avvicina alla porta. Punta il dito, picchiettando sulla vernice
insolitamente bianca mentre parla.
«Sarà meglio che ne valga la pena, Kenji, o Warner ti ucciderà e io lo
aiuterò a farlo.»
E poi, di punto in bianco...
Sto sorridendo di nuovo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 35
WARNER
due
 
Ci riportano al Santuario nello stesso modo in cui ci hanno condotto
ovunque in questi giorni - in un SUV nero, un fuoristrada, a prova di
proiettile - ma l'auto e i suoi vetri fortemente oscurati ci rendono solo più
vistosi, cosa che trovo preoccupante. Ma poi, come Castle ama sottolineare,
non ho una soluzione pronta per il problema, quindi rimaniamo in una
situazione di stallo.
Cerco di nascondere la mia reazione mentre attraversiamo la zona
boscosa appena fuori dal Santuario, ma non posso fare a meno di fare una
smorfia per il modo in cui il mio corpo si blocca, preparandosi alla lotta.
Dopo la caduta della Restaurazione, la maggior parte dei gruppi ribelli è
emersa dai loro nascondigli per ricongiungersi al mondo...
Ma non noi.
Proprio la settimana scorsa abbiamo sgomberato questa strada sterrata per
il SUV, permettendogli ora di avvicinarsi il più possibile all'ingresso non
segnalato, ma non sono sicuro che sia di grande aiuto. Una folla di persone
si è già radunata così stretta intorno a noi che ci stiamo muovendo a non più
di un centimetro alla volta. La maggior parte di loro ha buone intenzioni,
ma urlano e picchiano la macchina con l'entusiasmo di una folla
belligerante, e ogni volta che sopportiamo questo circo devo forzarmi
fisicamente per rimanere calmo. Stare tranquillamente seduto al mio posto e
ignorare l'impulso di togliere la pistola dalla fondina sotto la mia giacca.
É difficile.
So che Ella è in grado di proteggersi - lo ha dimostrato un migliaio di
volte - ma comunque, mi preoccupo. È diventata famosa in misura quasi
spaventosa. In una certa misura, tutti noi lo siamo. Ma Juliette Ferrars,
come è conosciuta in tutto il mondo, non può andare da nessuna parte e non
può fare nulla senza attirare la folla.
Dicono di amarla.
Anche così, restiamo prudenti. Ce ne sono ancora molti in giro per il
pianeta che vorrebbero riportare in vita gli emaciati resti della
Restaurazione, e l'assassinio di un'amata eroina sarebbe l'inizio più efficace
per un tale progetto. Anche se abbiamo livelli di riservatezza senza
precedenti nel Santuario, dove le protezioni di Nouria alla vista e dai rumori
intorno al terreno ci garantiscono la libertà di cui non godiamo da
nessun'altra parte, non siamo stati in grado di nascondere la nostra
posizione precisa. La gente, generalmente, sa dove trovarci, e quella piccola
parte di informazioni li ha nutriti per settimane. I civili aspettano qui -
migliaia e migliaia di loro - ogni singolo giorno.
Per non più di uno sguardo.
Abbiamo dovuto mettere delle barricate. Abbiamo dovuto assumere
sicurezza extra, reclutando soldati armati dai settori locali. Quest'area è
irriconoscibile rispetto a un mese fa. È già un mondo diverso. E sento il mio
corpo irrigidirsi come ci avviciniamo all'ingresso. Ci siamo quasi.
Alzo lo sguardo, pronto a dire qualcosa…
«Non preoccuparti» Kenji fissa i suoi occhi nei miei. «Nouria ha alzato la
sicurezza. Dovrebbe esserci una squadra di persone ad aspettarci.»
«Non so perché tutto questo sia necessario» dice Ella calma, fissando
fuori dal finestrino. «Perché non posso fermarmi un attimo e parlare con
loro?»
«Perché l'ultima volta che l'hai fatto sei stata quasi calpestata» dice Kenji,
esasperato.
«Solo quella volta.»
Gli occhi di Kenji si spalancano con sdegno e, su questo punto, lui e io
siamo pienamente d'accordo. Mi rilasso e lo guardo mentre conta con le
dita. «Lo stesso giorno in cui sei stata quasi calpestata, qualcuno ha cercato
di tagliarti i capelli. Un altro giorno un gruppo di persone ha provato a
baciarti. La gente ti lancia letteralmente addosso i lori figli appena nati.
Inoltre, ho già contato sei persone che si sono pisciate addosso in tua
presenza, il che, devo aggiungere, non è solo sconvolgente, ma poco
igienico, soprattutto quando cercano di abbracciarti mentre si stanno ancora
bagnando.» Scuote la testa. «Le folle sono troppo grandi, principessa.
Troppo forti. Troppo appassionate. Tutti ti urlano in faccia, si azzuffano per
metterti le mani addosso. E la metà delle volte non possiamo proteggerti.»
«Ma ...»
«So che la maggior parte di queste persone sono ben intenzionate» dico,
prendendole la mano. Si gira sul posto, incontra i miei occhi. «Sono, per la
maggior parte, gentili. Curiosi. Sopraffatti dalla gratitudine e vogliono
disperatamente dare un volto alla loro libertà. Lo so,» proseguo «perché
controllo sempre le folle, alla ricerca della loro energia, in cerca di rabbia o
violenza. E anche se la maggior parte di loro è buona» - sospiro, scuoto la
testa - «tesoro, ti sei appena fatta un sacco di nemici. Le folle imponenti e
non controllate non sono sicure. Non ancora. Forse mai.»
Prende un respiro profondo, lo fa uscire lentamente. «So che hai
ragione.» dice tranquillamente. «Ma in qualche modo sembra sbagliato non
poter parlare con le persone per cui abbiamo lottato. Voglio che sappiano
come mi sento. Voglio che sappiano quanto ci teniamo - e quanto stiamo
ancora pensando di fare per ricostruire, per sistemare le cose per bene.»
«Lo farai» dico. «Farò in modo che tu abbia la possibilità di dire tutte
queste cose. Ma sono passate solo due settimane, amore. E ora proprio non
abbiamo le infrastrutture necessarie perché questo accada.»
«Ma ci stiamo lavorando, giusto?»
«Ci stiamo lavorando» dice Kenji. «A tal proposito, in realtà, non che sto
inventando scuse o cose del genere - ma se non mi aveste chiesto di dare la
priorità al comitato di ricostruzione, probabilmente non avrei emesso
l'ordine di abbattere una serie di pericolosi edifici, uno dei quali
comprendeva lo studio di Winston e Alia, che,» - alza le mani- «per la
cronaca, non sapevo fosse il loro studio. E di nuovo, non che mi stia
scusando per il mio comportamento riprovevole o qualsiasi altra cosa, ma
come diavolo avrei dovuto supporre che si trattasse di un atelier? É stato
ufficialmente elencato nei registri come non sicuro, contrassegnato per la
demolizione…»
«Non sapevano che era segnato per la demolizione» dice Ella, un
accenno di impazienza nella sua voce. «Sono entrati in quello studio
proprio perché nessuno lo usava.»
«Sì» dice Kenji, indicandola. «Giusto. Ma, vedete, io non lo sapevo.»
«Winston e Alia sono tuoi amici» gli faccio notare in modo poco gentile.
«Non è affar tuo sapere cose del genere?»
«Ascolta, amico, sono state due settimane davvero frenetiche da quando
il mondo è crollato, ok? Sono stato occupato.»
«Siamo stati tutti impegnati.»
«Ok, basta così» dice Ella, alzando la mano. Sta guardando fuori dal
finestrino, accigliata. «Sta arrivando qualcuno.»
Kent.
«Cosa ci fa qui Adam?» chiede Ella. Si volta indietro a guardare Kenji.
«Sapevi che stava arrivando?»
Se Kenji risponde, non lo sento. Sto sbirciando fuori dal finestrino
oscurato verso la scena esterna, guardano Adam che si fa strada tra la folla
verso la macchina. Sembra che sia disarmato. Grida qualcosa alla marea di
gente, ma non si tranquillizzano subito. Qualche altro tentativo… e si
calmano. Migliaia di volti si voltano a fissarlo.
Faccio fatica a distinguere le sue parole.
E poi, lentamente, si allontana mentre dieci uomini pesantemente armati
e le donne si avvicinano alla nostra macchina. I loro corpi formano una
barricata tra il veicolo e l'ingresso del Santuario, Kenji salta fuori per primo,
invisibile, preparando il terreno. Proietta il suo potere per proteggere Ella, e
io gli rubo l'invisibilità per me stesso. Noi tre - i nostri corpi invisibili - si
muovono con cautela verso l'ingresso.
Solo una volta che siamo dall'altra parte, al sicuro all'interno dei confini
del Santuario, finalmente mi rilasso.
Un poco.
Guardo indietro, come faccio sempre, la folla raccolta appena oltre la
barriera invisibile che protegge il nostro campo. Alcuni giorni me ne sto qui
a studiare i loro volti, alla ricerca di qualcosa. Qualsiasi cosa. Una minaccia
ancora sconosciuta, senza nome.
«Ehi… fantastico» dice Winston, la sua voce inaspettata mi scuote dalle
mie fantasticherie.
Mi giro a guardarlo, scoprendolo sudato e senza fiato mentre si avvicina a
noi.
«Sono contento che siete tornati» dice, ancora ansimante. «Voi sapete
qualcosa sul fissaggio dei tubi? Abbiamo una specie di problema alle fogne
in una delle tende e siamo tutti all'opera.»
Il nostro ritorno alla realtà è rapido.
E umile.
Ma Ella fa un passo avanti, allungandosi verso la - buon Dio, è bagnato?
- mano di Winston e non riesco quasi a crederci. Le avvolgo un braccio
intorno alla vita, tirandola indietro.
«Ti prego, amore. Non oggi. Un altro giorno qualsiasi, forse. Ma non
oggi.»
«Cosa?» guarda indietro. «Perché no? Sono davvero brava con una
chiave inglese. Ehi, a proposito,» dice, rivolgendosi agli altri «lo sapevate
che Ian è segretamente molto bravo ad intagliare il legno?»
Winston ride.
«Solo per te era un segreto, principessa» dice Kenji.
Assume un’espressione corrucciata. «Bene, stavamo sistemando uno
degli edifici più salvabili l'altro giorno e mi ha insegnato ad usare tutto della
sua cassetta degli attrezzi. L'ho aiutato a riparare il tetto» dice, raggiante.
«É una strana giustificazione per aver trascorso le ore prima del tuo
matrimonio a togliere feci da un gabinetto.» Kent gironzola attorno a noi.
Sta ridendo.
Mio fratello.
Che strano.
É una versione di sé stesso più felice e più sana di quanto non lo abbia
mai visto prima. Gli ci è voluta una settimana per riprendersi dopo che
l'abbiamo riportato qui, ma quando ha ripreso conoscenza e gli abbiamo
detto quello che era successo - e rassicurato che James fosse al sicuro - è
svenuto.
E non si è svegliato per altri due giorni.
Da allora è diventato una persona completamente diversa. Praticamente
esultante. Felice per tutti. Un'oscurità ci avvinghia ancora tutti -
probabilmente ci avvinghierà per sempre…
Ma Adam sembra innegabilmente cambiato.
«Volevo solo avvisarvi,» dice «che ora stiamo facendo una cosa nuova.
Nouria vuole che vada là fuori a fare una disattivazione generale prima che
qualcuno entri o esca dalla base. Solo per precauzione.» Guarda Ella.
«Juliette, per te va bene?»
Juliette.
Tante cose sono cambiate quando siamo tornati a casa e questa è stata la
prima. Si è ripresa il suo nome. Lo ha reclamato. Ha detto che cancellando
Juliette dalla sua vita temeva di dare al fantasma di mio padre troppo potere
su di lei. Si è resa conto che non voleva dimenticare i suoi anni come
Juliette - o sminuire la giovane donna che era stata, che aveva lottato contro
ogni possibilità di sopravvivenza. Juliette Ferrars è quella che era, quando
ha conosciuto il mondo, e vuole che rimanga tale.
Ora sono l'unico che può chiamarla Ella.
É solo per noi. Un legame con la nostra storia in comune, un cenno al
nostro passato, all'amore che ho sempre provato per lei, non importa il suo
nome.
La guardo mentre ride con i suoi amici, mentre estrae un martello dalla
cintura degli attrezzi di Winston e finge di colpire Kenji, senza dubbio per
qualcosa che merita. Lily e Nazeera spuntano fuori dal nulla, Lily porta un
piccolo cagnolino avvolto in un fagotto che lei e Ian hanno salvato da un
edificio abbandonato nelle vicinanze. Ella fa cadere il martello con un grido
improvviso e Adam si mette di nuovo in allerta. Prende tra le braccia la
sporca e sudicia creatura, soffocandola di baci anche mentre le abbaia con
una ferocia selvaggia. E poi si gira a guardarmi, l'animale ancora uggiolante
all'orecchio e mi rendo conto che ha le lacrime agli occhi. Sta piangendo
per un cane.
Juliette Ferrars, una delle eroine più temute e più lodate del mondo
conosciuto, sta piangendo per un cane. Forse nessun altro capirebbe, ma so
che questa è la prima volta che ne tiene uno in braccio. Senza esitazione,
senza paura, senza pericolo di causare un qualsiasi danno a una creatura
innocente. Per lei, questa è vera gioia.
Per il mondo, lei è formidabile.
Per me?
Lei è il mondo.
Così, quando scarica la creatura tra le mie braccia riluttanti, la tengo
ferma, senza lamentarmi quando la bestia mi lecca il viso con la stessa
lingua che ha usato, senza dubbio, per pulirsi le zampe posteriori. Rimango
fermo, non rivelando nulla anche quando la bava calda mi gocciola lungo il
collo. Sto fermo mentre le sue zampette sudice scavano nel mio cappotto, le
unghie che afferrano la lana. Sono così immobile, di fatto, che alla fine la
creatura si calma, le sue membra inquiete si posano contro il mio petto.
Guaisce mentre mi fissa, guaisce fino a quando finalmente alzo una mano,
accarezzandogli la testa.
Quando sento Ella ridere, sono felice.
 

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