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tossicologia umana e forense

Tossicologia
Università degli Studi dell'Insubria
133 pag.

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INTRODUZIONE ALLA TOSSICOLOGIA:
Classicamente la tossicologia è definita come la “scienza dei veleni” dove VELENO = qualsiasi agente chimico
o fisico che può causare morte immediata o danno permanente anche in piccole quantità. Si tratta di una
definizione obsoleta infatti man mano che si è evoluta la comprensione degli effetti tossici legati alle sostanze,
viene definita come una scienza multidisciplinare che studia gli effetti indesiderati delle sostanze chimiche
(xenobiotici) e/o fisiche sugli organismi viventi → AGENTI TOSSICI possono essere sia agenti chimici
comunemente chiamati xenobiotici ma anche agenti fisici come le radiazioni. Tossicologia studia questi aspetti
sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo tenendo conto di due variabili fondamentali che determinano
la tossicità di un agente: DOSE ed ESPOSIZIONE (in termini di intensità, frequenza e durata).
La tossicologia è una scienza antichissima dal momento che i papiri egiziani sono considerati la più antica fonte
di informazioni relative alla tossicologia. Nel papiro di Eber (1552 a.C.) sono elencati tutti i veleni allora
conosciuti che ovviamente erano esclusivamente sostanze tossiche di origine naturale derivate da piante o
animali come belladonna e oppio ma si tratta comunque della prima evidenza di uno studio in ambito
tossicologico. Gli antichi greci hanno contribuito ad approfondire le conoscenze in ambito tossicologico.
Ippocrate (400 a.C.) descrisse molti veleni e i principi di tossicologia clinica che riguardavano la biodisponibilità
ed il sovradosaggio. Inoltre, i greci avevano una conoscenza approfondita dei veleni, addirittura risale
all’Antica Grecia il primo tentativo di trattare un avvelenamento tentando di ridurre l’assorbimento a livello
del tratto gastrointestinale. Fino al Rinascimento rimase forte la convinzione che le sostanze tossiche avessero
effetto solo a livello del tratto gastrointestinale, non era ancora stato compreso che in realtà le sostanze si
distribuiscono a tutti gli organi del corpo. In ambiente romano, Dioscoride, medico greco alla corte
dell’imperatore Nerone, fece il primo tentativo di classificazione dei veleni accompagnato da descrizioni ed
illustrazioni. La sua suddivisione tra veleni animali, vegetali e minerali è rimasta come modello di riferimento
per 16 secoli e ancora oggi è un valido modello di classificazione (→ costituisce la base per la moderna
farmacopea). Fino a questo momento le conoscenze si limitavano a un elenco di sostanze e ai loro effetti
sull’organismo, i primi studi osservazionali per quanto riguarda l’effetto tossico nell’uomo risalgono al
Rinascimento quando Caterina de Medici, con un approccio assolutamente non etico, iniziò a sperimentare le
tossine sull’uomo e a valutarne gli effetti. Con la scusa di dar da mangiare ai poveri somministrava sostanze
tossiche di cui valutava rapidità dell’insorgenza della risposta tossica, efficacia (in termini di potenza), effetti
(quindi segni e sintomi clinici) e a che livello e come tali effetti si manifestavano. Caterina de Medici è stata
quindi la prima a studiare la tossicologia dal punto di vista dei suoi effetti sull’uomo. Sempre nel Rinascimento
ha operato Paracelso ((1493-1541 d.C.), considerato il padre della tossicologia moderna perché a partire dai
suoi studi la tossicologia è diventata una scienza vera e propria. Per primo Paracelso ha focalizzato la propria
attenzione sulla struttura chimica dell’agente tossico e sul rapporto tra struttura chimica della molecola e
tossicità. Questo approccio viene tutt’oggi utilizzato perché, partendo dalla struttura chimica di una molecola,
possiamo verosimilmente prevedere quali saranno i suoi effetti tossici. Soprattutto nel caso di una molecola
di neosintesi, la relazione tra struttura e funzione viene utilizzata per stabilire a quali tipi di test tossicologici
sottoporre la molecola stessa per valutarne la sicurezza. Inoltre Paracelso, che era un medico laureatosi
all’università di Ferrara, è stato il primo a stabilire che la sperimentazione è un elemento essenziale per
esaminare le risposte degli organismi viventi alle sostanze chimiche e quindi doveva essere utilizzata per
distinguere effetto terapeutico da effetto tossico. Ha anche introdotto il concetto di DOSE: non si può dire se
una sostanza sia tossica o abbia un beneficio in termini assoluti, quello che determina l’effetto tossico o
benefico è la dose → la dose è il primo fattore che permette di definire la tossicità o meno di una sostanza.
Tra ‘700 e ‘800 ha operato anche il padre della tossicologia forense, Mattia Giuseppe Bonaventura Orfila
(1787-1853), un medico spagnolo che cercò di identificare le prove chimiche dell’avvelenamento in reperti
autoptici facendo una serie di analisi chimiche che fornissero una prova legale di avvelenamento
(TOSSICOLOGIA ANALITICA).
La tossicologia iniziò a evolversi rapidamente: nell’800 si è iniziato a studiare il meccanismo di funzionamento
di alcune sostanze tossiche, è stato identificato per la prima volta da Claude Bernard il sito d’azione del curaro
(aspetto scientifico che si concentra sul meccanismo d’azione del veleno e non più osservazionale). Nel 1945,
Rudolph Peters ha cominciato a studiare il meccanismo d’azione di gas a base di arsenico riuscendo a
sviluppare un antidoto che viene ancora oggi utilizzato noto come British Anti-Lewisite che rappresenta una
miscela di agenti chelanti.

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In ambito tossicologico, per agenti la cui tossicità è nota o per agenti di nuova sintesi, si hanno a disposizione
una serie di studi tossicologi da effettuare prima della messa in commercio MA molte delle evidenze che
riguardano alcuni composti sono arrivate in seguito a grossissimi disastri ambientali. Uno dei più famosi è
l’incidente che nel 1952 ha colpito il villaggio di Minamata: l’industria chimica giapponese Chisson
Corporation, dal 1932 al 1968 (quindi dopo la comparsa degli effetti tossici sulla popolazione perché l’azienda
negava la correlazione tra riversamento di mercurio ed effetti tossici) riversò i suoi reflui nella baia di fronte
al villaggio di Minamata, determinando un accumulo sul fondale di metil-mercurio, che entrava così a contatto
con molluschi e crostacei. Il metil-mercurio ha risalito la catena alimentare fino ad entrare in contatto con
l’uomo a dosaggi estremamente elevati: oltre ai decessi sono anche nati un sacco di bambini con
caratteristiche fisiche tipiche dell’intossicazione da mercurio (atassia, disturbi neurologici, parestesie a mani
e gambe e tutto questo porta a coma e a morte) → avvelenamento da mercurio prende il nome di malattia di
Minamata. In quelle acque si è tornati a pescare solo nel 1997. Situazione analoga si è verificata nel 2001 in
Italia: le acque di Priolo (Siracusa) avevano assunto una colorazione rossa perché una ditta dell’ENI riversava
rifiuti contenenti mercurio nei tombini che portavano al mare. Anche in questo caso sono aumentati
esponenzialmente i bambini nati malformati in quegli anni.
QUINDI obbiettivo del tossicologo è quello di capire quali sostanze sono tossiche e quali meccanismi d’azione
ne mediano la tossicità in modo da cercare di trovare una soluzione. La cosa migliore sarebbe evitare o
comunque ridurre al massimo l’esposizione in modo da non raggiungere l’effetto tossico (quindi la
prevenzione). Quando effetto tossico è in corso il tossicologo deve trovare un antidoto (antidotismo) per
limitare o contrastare l’effetto tossico stesso. La tossicologia è una scienza che incorpora informazioni e
metodologie provenienti da molte discipline che vengono interconnesse tra loro: farmacologia, fisiologia degli
organi, chimica e biochimica, epidemiologia (= osservare quello che succede nell’uomo a seguito
dell’esposizione a determinate sostanze), immunologia, genetica, patologia… Queste conoscenze hanno poi
una serie di applicazioni: formulazione e messa in commercio di farmaci, regolamentazione dell’uso di
determinate sostanze, tutela dei lavoratori (in questo contesto il concetto di esposizione è fondamentale:
mentre per i farmaci effetti collaterali sono quasi sempre legati a un eccessivo dosaggio che determina un
effetto acuto, il problema per i lavoratori è che possono essere esposti a dosi basse ma per lunghi periodi di
tempo e anche questo ha delle implicazioni), nel contesto ambientale e agricolo (sostenibilità ambientale,
trasmissione della tossicità o di residui tossici nella catena alimentare che potrebbero arrivare all’uomo).
Obbiettivo della tossicologia è quindi quello di valutare il RISCHIO connesso all’esposizione a determinate
sostanze. La tossicologia ha tre indirizzi principali:
→ Descrittivo: si occupa di caratterizzare e valutare gli effetti tossici degli agenti su animali da esperimento e
modelli sperimentali in vitro per ottenere informazioni che aiuteranno a valutare il rischio che l’esposizione a
specifici agenti comporta per l’uomo e per l’ambiente. La sperimentazione animale per quanto riguarda gli
studi tossicologici è infatti fondamentale anche se ci sono dei limiti per quanto riguarda la traslazione
dall’animale all’uomo. In alcuni ambiti come quello cosmetico si ha la possibilità di valutare la tossicità in vitro
grazie a riproduzione in 3D del derma e dell’occhio che hanno potuto sostituire il modello animale. Fa parte
della tossicologia descrittiva anche la tossicologia comportamentale ossia la tossicologia che studia gli effetti
delle sostanze a livello comportamentale nell’animale e anche nell’uomo
→ Molecolare: si tratta dell’aspetto più complicato ma anche quello che dà più spunti. In particolare si occupa
di:
- Investigare e scoprire il meccanismo d’azione delle sostanze tossiche in modo da poter intervenire in
caso di intossicazione ma anche per provare a produrre sostanze chimiche che siano più selettive e quindi
meno tossiche per l’uomo migliorando la tossicità di sostanze immesse sul mercato (la SELETTIVITÁ è un
aspetto molto importante: sostanza deve colpire in modo specifico un organismo e preservarne un altro,
aumentando i benefici e riducendo i rischi connessi all’esposizione)
- identificare risposte avverse in animali da esperimento che potrebbero non essere rilevanti per l'uomo.
Ad es effetti cancerogeni sulla vescica indotti dal dolcificante artificiale saccarina: studi meccanicistici
hanno dimostrato che il cancro alla vescica viene indotto a concentrazioni di saccarina talmente elevate
che determinano la formazione di precipitati cristallini nell’urina
- Identificare nuovi usi di agenti ritenuti tossici. Ad es il talidomide può interferire con l’espressione di certi
geni responsabili per la formazione dei vasi sanguigni (angiogenesi) quindi può essere utile nel

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trattamento di alcune malattie infettive (es. lebbra ed AIDS), diverse malattie infiammatorie ed alcune
forme di cancro
→ Normativo: tutte le informazioni raccolte su una sostanza tossica devono poi essere elaborate per poter
prendere delle decisioni che siano più armonizzate possibile nel senso che siano volte a proteggere la salute
e siano più uniformi possibile tra le varie nazioni in modo da avere anche una uniformità della risposta
Questi tre indirizzi convergono nella VALUTAZIONE DEL RISCHIO ossia sulla stima a livello quantitativo degli
effetti di una sostanza sull’organismo umano. Ovviamente l’esposizione ad agenti chimici può essere
volontaria (es assunzione di un farmaco) e involontaria (es residui di pesticidi negli alimenti) e tossicologia
deve essere in grado di valutare il rischio sia in un caso che nell’altro facendo particolare attenzione ai residui
(es residui di pesticidi negli alimenti o contaminanti nell’acqua potabile) che potrebbero essere immessi nella
catena alimentare e stabilire poi una SOGLIA DI ESPOSIZIONE che sia più sicura possibile.
Essendo una scienza estremamente ampia, la tossicologia presenta delle aree di specializzazione:
• Tossicologia forense: si occupa degli aspetti medico-legali che riguardano gli effetti nocivi delle sostanze
chimiche sull' uomo e sugli animali. Utilizza metodi analitici per valutare gli effetti tossici per armonizzare
aspetto tossicologico e giuridico (che ha un peso molto rilevante quindi necessità è quella di chiedere
info al tossicologo per poterle applicare in ambito giuridico)
• Tossicologia clinica: si occupa delle malattie causate o chiaramente associate con l'esposizione a sostanze
tossiche. In particolare si occupa di valutare effetti collaterali prevedibili in base agli studi tossicologici
fatti prima dell’immissione in commercio del farmaco sul mercato ma anche di intervenire in caso di
effetti collaterali imprevisti o intossicazione da farmaci (volontarie o involontarie)
• Tossicologia industriale (detta anche occupazionale): valuta i rischi chimici e biologici negli ambienti di
lavoro con l’obiettivo di prevenire gli effetti negativi sulla salute dei lavoratori. In questo caso bisogna
valutare l’esposizione ad agenti presenti nell’ambiente di lavoro
• Tossicologia ambientale: studia l'impatto che hanno gli inquinanti ambientali sugli organismi biologici.
Una sotto-area è l’ecotossicologia che si focalizza in maniera specifica sull' impatto che le sostanze
tossiche hanno sulla popolazione dinamica all' interno dell'ecosistema.
QUINDI il tossicologo deve esaminare la natura degli effetti degli xenobiotici tenendo conto dei meccanismi
d’azione per valutare la probabilità con cui ricorrono i rischi per gli organismi viventi quindi deve valutare il
rischio connesso all’esposizione a un particolare xenobiotico.
→ XENOBIOTICO: deriva dal Greco “xeno” (“straniero”). Questo termine è usato per indicare qualsiasi
sostanza di origine naturale o sintetica estranea a uno specifico organismo (ad es sostanze prodotte dalle
piante come la nicotina non rappresentano uno xenobiotico per la pianta stesso ma lo sono per l’uomo). Lo
xenobiotico quindi è relativo all’organismo cui si riferisce e può essere sia di origine naturale che sintetica. Gli
xenobiotici possono avere sia effetti benefici che tossici (come i farmaci) oppure solo effetti tossici come il
piombo.
→ AGENTE TOSSICO: un qualsiasi agente chimico (che può essere anche uno xenobiotico per quel particolare
organismo) o fisico (→ le radiazioni sono agenti tossici, non xenobiotici) che può produrre un effetto
indesiderabile o negativo su un sistema biologico. Si riferisce a un singolo composto
→ SOSTANZA TOSSICA: singola sostanza o miscela di sostanze (come nel caso della benzina, miscela di agenti
chimici o absesto, un insieme di fibre minerali) che ha proprietà tossiche. Nel caso di miscele la tossicità può
variare in funzione della composizione
→ TOSSINA: sostanza chimica o proteina prodotta da organismi viventi (tossine fungine, vegetali o animali)
quindi si tratta esclusivamente di sostanze naturali. Fanno parte delle tossine anche quelle prodotte dai batteri
(il batterio o il virus in sé non sono considerati tossici bensì organismi tossici, quello che è tossico è la tossina
prodotta. Ad es C. tetani, che produce la tossina tetanica o C. botulinum che produce una tossina
neurotossica).
L’essere umano è continuamente esposto a diverse classi di agenti chimici con potenziale tossico quali:
- agenti chimici industriali che possono essere sostanze di sintesi (quindi sintetizzate deliberatamente per
poter essere immesse sul mercato quindi viene sottoposta a studi tossicologici) ma anche intermedi di
sintesi e prodotti di degradazione (che solitamente non sono sottoposti a studi tossicologici quindi la
risposta è meno prevedibile rispetto all’esposizione alla sostanza tossica in sé)

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- fitofarmaci (insetticidi, erbicidi, fungicidi)
- additivi alimentari, aggiunti agli alimenti per migliorarne la conservazione ma in alcuni casi anche per
migliorarne il sapore o per migliorarne l’aspetto estetico
- farmaci (cui normalmente ci esponiamo su base volontaria)
- Xenobiotici ambientali (metalli, idrocarburi aromatici ad es la benzina)
- Eccipienti come quelli che si trovano nei farmaci e normalmente dovrebbero essere sostanze inerti prive
di una propria attività ma potrebbero creare problemi in persone eventualmente allergiche
La percentuale di esposizione a queste sostanze:
siamo prevalentemente esposti ad agenti chimici di sintesi e in misura minore anche ad altre sostanze →
siamo portati a demonizzare gli agenti chimici di sintesi quando in realtà tutte le sostanze di origine sintetica
prodotte dall’uomo ad oggi devono subire un esame tossicologico rigido e standardizzato. Ogni volta che una
di queste sostanze è immessa sul mercato, è già stata stabilita una dose soglia detta ADI (= Admissible Daily
Intake) entro la quale non si verificano effetti tossici. A differenza delle sostanze di origine sintetica che sono
estremamente controllate, le tossine naturali sono ancora per la maggior parte sconosciute e la loro tossicità
si osserva a seguito di manifestazioni epidemiologiche quindi quando si osservano gli effetti nell’uomo. Essere
esposti per il 79% a sostanze chimiche di sintesi non porta a una tossicità marcata nell’uomo perché quando
siamo esposti a quelle sostanze, sappiamo con certezza quale sia la dose giornaliera ammissibile entro la quale
non si verificano effetti tossici. La dose soglia stabilita viene indicata per cercare di limitare e controllare
l’esposizione ma questo risulta difficile perché dipende dalla frequenza di esposizione, durata, bioaccumulo
che può portare a tossicità ritardata. La demonizzazione delle sostanze chimiche di sintesi porta a maturare
delle false convinzioni e questo è chiaro confrontando i rischi percepiti e i rischi reali di 5 categorie di sostanze:
→ deficienze nutrizionali soprattutto legate alle vitamine rappresentano un rischio maggiore rispetto a una
intossicazione batterica o all’esposizione a tossine di origine biologica. I rischi connessi agli additivi alimentari
sono all’ultimo posto perché anche queste sostanze subiscono una stringente analisi tossicologica prima di
essere messi in commercio e vengono assunti nella dose giornaliera ammissibile.

Altra percezione comune che non è reale è quella secondo la quale l’aumento di inquinamento è associato a
una forte incidenza dei tumori che quindi è aumentata negli ultimi anni. In realtà, escludendo i tumori al
polmone legati al fumo, incidenza di tutte le altre tipologie di tumore è stabile se non in riduzione (grazie
anche a campagne di prevenzione e questo appare evidente nel caso del tumore all’utero delle donne legato
al papilloma virus). Nel 2017 sono stati riportati 180 000 decessi dovuti a tumori maligni contro i 177 000 del
2012 → incidenza è stabile a dimostrazione che la credenza che inquinamento aumenta incidenza della
mortalità dei tumori maligni non è reale. Questa percezione dipende dall’invecchiamento della popolazione
che maschera l’entità del fenomeno. Incidenza dei tumori è in riduzione nelle fasce d’età precoci tra 0 e 19
anni.
Altra percezione falsata è che l’esposizione dell’uomo ad agenti cancerogeni e altre tossine è quasi
completamente dovuta ad esposizione ad agenti di sintesi
quando in realtà siamo maggiormente esposti ad agenti
naturali piuttosto che di sintesi (ad es la quantità di residui di
pesticidi negli alimenti è insignificante rispetto alla quantità di
pesticidi “naturali” prodotti dalle piante. Assumiamo circa
1500mg al giorno di pesticidi “naturali”). Il problema degli
agenti naturali è che non abbiamo degli studi di tossicologia
su cui basarci per stabilire delle soglie. Anche quando beviamo
un semplice caffè, esso contiene una seri di sostanze chimiche
tossiche ma presenti in concentrazioni talmente basse da non determinare una tossicità. Questo per dire che
il nostro organismo entra costantemente in contatto con sostanze tossiche ma disponiamo di una serie di
meccanismi di difesa che permettono di evitare
l’insorgenza di fenomeni tossici dovuti
all’esposizione ad eventuali xenobiotici entro
determinate soglie (per questo non

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sperimentiamo effetti tossici quando beviamo caffè).
La SICUREZZA legata all’esposizione a qualsiasi agente è un concetto relativo. Sicurezza non significa mai
rischio zero, possiamo dire che un prodotto è sicuro se presenta un rischio ragionevole sulla base dei benefici
che ci aspettiamo di avere quindi è sempre un bilanciamento tra beneficio e rischio = qualsiasi sostanza ha un
potenziale tossico, è sempre un bilanciamento tra beneficio e rischio. In quest’ottica non bisogna pensare a
quanto una sostanza è sicura ma quanto il rischio legato all’esposizione a quel tipo di sostanza è ragionevole.
Nella determinazione della sicurezza quindi è estremamente importante il rapporto rischio beneficio tenendo
conto che il rischio zero non esiste, nemmeno per le sostanze comunemente considerate sicure c’è una
sicurezza del 100%. La cosa importante nel rapporto rischio/beneficio è la dose, introdotto da Paracelso che
è stato anche il primo a sfatare il concetto di sicurezza. Egli infatti ha affermato “tutte le sostanze sono
potenzialmente veleni, nessuna sostanza non è un veleno. La differenza tra un veleno è un rimedio è la dose”.
Infatti anche pensando ai farmaci, rispetto alle curve dose - risposta per lo stesso farmaco si può costruire
anche una curva legata alla tossicità. La FINESTRA TERAPEUTICA è la finestra in cui si ottiene un effetto
terapeutico senza incorrere in effetti tossici ma per ogni farmaco esiste la possibilità di avere un effetto tossico
(che per i farmaci è detto EFFETTO COLLATERALE). La dose è definita come la quantità di sostanza cui è esposto
l’organismo e si esprime in quantità per unità di peso (mg/Kg) o per unità di superficie corporea (mg/m2).
Normalmente si utilizza sempre come unità di misura l’unità di peso corporeo perché la stessa dose, che può
risultare efficace nell’adulto, è tossica per il bambino → quantità cui il corpo è esposto deve essere sempre
riferita al peso. Altra variabile importante è il tempo: quando si fanno cicli di più giorni, si indica la dose in
mg/kg al giorno. Possiamo indicare l’esposizione a una determinata sostanza distinguendo tra:
- dose assorbita: quantità effettiva di sostanza assorbita e distribuita nell'organismo. La dose assorbita non
è sempre uguale alla dose cui l’organismo è esposto: più alta è la dose di esposizione maggiore sarà la
dose assorbita ma la dose assorbita è la quantità di sostanza che arriva davvero ad agire col proprio
bersaglio molecolare all’interno dell’organismo → parametro fortemente influenzato dalla
tossicocinetica (ad es parte della sostanza somministrata può essere persa durante l’assorbimento).
Questo determina la BIODISPONIBILITÁ ossia la quantità di sostanza effettivamente disponibile e libera
di interagire con il proprio bersaglio all’interno del corpo.
- dose efficace: quantità di sostanza che raggiunge l’organo bersaglio e determina un effetto biologico
(rispetto alla dose somministrata, prima di raggiungere il proprio bersaglio la quantità di sostanza si
riduce drasticamente). È difficile stabilire questi parametri perché oltre a non poter traslare al 100% gli
studi dall’animale all’uomo, c’è anche un problema di variabilità inter-individuale sulla risposta
all’esposizione a determinate sostanze = non è detto che a parità di dose somministrata, per ogni persona
arrivi all’azione la stessa dose finale perché ci sono una serie di differenze soprattutto a livello del
metabolismo che portano ad avere una dose efficace diversa. In farmacologia la dose efficace si riferisce
agli effetti benefici di un farmaco
- dose tossica: dose che una volta raggiunto il bersaglio induce un effetto tossico. A parità di dose
somministrata, per un individuo si possono osservare effetti tossici mentre in un altro no (ad es nei
metabolizzatori lenti, essendo il metabolismo del farmaco estremamente lento si osserva un accumulo
di farmaco nell’organismo e quindi arriva al bersaglio una dose elevata di farmaco che provoca effetti
tossici). Sono tutti parametri da tenere in considerazione che però possono essere imprevedibili tra un
individui e l’altro a causa di differenze genetiche
Per esprimere la dose tossica in tossicologia ambientale non si possono usare i mg/Kg. In generale per
l’esposizione a liquidi presenti nell’ambiente si parla di mg/L, per i solidi mg/g e per quanto riguarda l’aria
mg/m3 d’aria. Queste unità di misura possono essere anche più piccole quando la sostanza presa in esame ha
una maggiore tossicità → si parla di μg/mL mentre per tossine estremamente tossiche, letali come la tossina
botulinica si parla di parti per milione (ppm), parti per miliardo (ppb) e parti per trilione (ppt). Unità di misura
più piccola indica che minore è la dose di sostanza necessaria a indurre un effetto tossico nell’organismo.
- dose soglia: dose più bassa alla quale è rilevato un effetto tossico. Vengono estrapolate dagli studi nei
modelli animali perché non si possono fare studi tossicologici sull’uomo. Si può stabilire la dose soglia
solo per sostanze che hanno un effetto tossico reversibile mentre nel caso dei mutageni genotossici
(ossia degli agenti in grado di alterare la struttura del DNA) non esiste una dose sicura e quindi una dose

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soglia. Bisogna evitare completamente l’esposizione a queste sostanze perché anche una singola
esposizione può indurre un danno che non sarà più riparabile.
La tossicità è in funzione della dose di agente tossico. Verrebbe da pensare che ci sia un rapporto lineare tra
dose e tossicità (= all’aumentare della dose aumenta anche l’effetto tossico) ma questo non è sempre vero.
In particolare, nel caso dei micronutrienti vale esattamente il contrario ossia al diminuire della dose aumenta
l’effetto tossico (nel caso della vitamina D che non può essere prodotta dall’uomo, una sua carenza è associata
a osteoporosi e fragilità ossea. Lo stesso vale per la vitamina C, il cui ridotto apporto provoca lo scorbuto).
Ovviamente anche in questo caso c’è un range terapeutico rispetto all’effetto tossico.
Altra variabile fondamentale in tossicologia è l’ESPOSIZIONE. Perché si manifestino gli effetti tossici un agente
chimico deve
- entrare in contatto con l’organismo
- interagire con specifici siti di interazione all’interno dell’organismo (= nell’organismo deve essere
presente il bersaglio che media l’effetto tossico della sostanza) a una concentrazione sufficiente
- Essere presente nell’organismo per un tempo sufficientemente lungo e ad un concentrazione
appropriata. Questo punto è evidente in caso di overdose: se si riesce a intervenire in un tempo
ragionevolmente breve, si riesce a prevenire l’effetto tossico (che spesso è la morte)
L’intensità dell’effetto tossico è definita come T = [C] [R] ARC dove [C] è la concentrazione del tossico (o dei
suoi metaboliti), [R] la concentrazione del bersaglio - recettore (bersaglio può essere un recettore ma non
tutte le sostanze tossiche agiscono attraverso un recettore anzi la maggior parte no) e A RC è l’affinità del
tossico per il recettore → nella determinazione della tossicità oltre alla concentrazione del tossico dobbiamo
aggiungere altre variabili.
QUINDI il tossicologo deve considerare:
• la concentrazione di sostanza che induca l’effetto tossico
• il bersaglio e la sua concentrazione. Infatti a parità di dose tossica, se in un organismo è maggiormente
espresso il bersaglio per quel tossico l’effetto tossico è maggiore
• l’affinità dal momento che determina quanto il tossico resterà in contatto con il proprio bersaglio
Nella determinazione degli effetti tossici oltre alla dose bisogna aggiungere l’esposizione in relazione al
bersaglio presente nell’organismo. Bisogna quindi definire la VIA DI ESPOSIZIONE ossia la via con cui l’agente
tossico viene a contatto con l’organismo.
QUINDI i fattori che maggiormente influenzano la tossicità sono:
1. via di esposizione dal momento che a parità di dose, la via di somministrazione può determinare più o
meno un effetto tossico. In particolare, a parità di dose solitamente una sostanza è più tossica se
somministrata endovena (quindi direttamente in circolo) rispetto alla via topica (ossia dermale) che è
quella meno tossica ad eccezione del caso di irritanti che agiscono direttamente sulla pelle (es acidi e
basi forti) in cui la via topica è quella che determina l’effetto tossico maggiore. In ordine di tossicità
crescente: dermale, orale, intradermale, intramuscolare, subcutanea, intraperitoneale, inalazione ed
endovena. La via di esposizione utilizzata nei test di tossicità è quasi sempre quella orale e la sostanza da
testare viene miscelata nel cibo.
2. durata dell’esposizione che è definita
acuta: se inferiore alle 24 ore subcronica: se compresa tra
1 e 3 mesi
subacuta: se inferiore a 1 mese cronica: se superiore a 3
mesi
A volte la stessa sostanza può dare effetti tossici differenti a seconda
che l’esposizione sia acuta o cronica. Ad es il benzene in esposizione
acuta a una dose tossica determina depressione del SNC mentre
un’esposizione cronica al benzene produce leucemia.
Bisogna anche ricordare che mentre per esposizioni da acuta a
subcronica abbiamo la possibilità di estrapolare dati dalle esposizioni
animali, nel caso della cronica è molto più difficile. Se consideriamo
infatti che la durata media di vita di un topo è di 2 anni vs gli 80 di un
uomo è difficile pensare di estrapolare dati in maniera sicura. Per

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questo motivo, purtroppo le tossicità che emergono in seguito a esposizione cronica nell’uomo sono
quelle più difficili da prevedere.
3. frequenza dell’esposizione: insieme alla durata di esposizione bisogna considerare la frequenza di
esposizione ossia quanto spesso l’individuo è esposto a una determinata sostanza. Rappresenta un
parametro molto importante soprattutto per le sostanze tossiche che si accumulano perché in questo
caso maggiore è la frequenza, maggiore è la quantità che si accumula (effetto tossico quindi si manifesta
dopo esposizioni ripetute).
Somministrando 50 unità delle sostanze A, B e C si induce un effetto tossico. Andando però a suddividere le
50 unità in 5 somministrazioni successive di 10 unità, le tre sostanze si comportano in modo diverso. Per tutte
e tre le sostanze alla prima somministrazione non si ha alcun effetto tossico perché tutte e tre sono
ampiamente sotto la dose soglia MA si accumulano in modo diverso:
- la sostanza A non si accumula perché l’organismo è in grado di eliminarla completamente tra
un’esposizione e l’altra quindi si ha la stessa intensità di effetto durante tutte e 5 le somministrazioni
per cui non si osserverà mai un effetto tossico
- la sostanza B viene smaltita al 50% tra una somministrazione e l’altra quindi si ha un certo accumulo
di sostanza nel tempo. Si rimane al di sotto della dose soglia ma verosimilmente alla sesta
somministrazione si osserverà un effetto tossico.
- la sostanza C non viene minimamente eliminata bensì si accumula completamente nell’organismo in
seguito a somministrazioni ripetute quindi già alla quarta somministrazione si ha l’effetto tossico.
La ragione per cui il DDT (para-diclorodifeniltricloroetano, un insetticida) è stato tolto dal mercato è il
bioaccumulo: esso ristagna nell’ambiente e
nell’organismo in maniera impressionante
andandosi ad accumulare moltissimo.
Essendo altamente lipofilo si accumula in
maniera preferenziale nel tessuto adiposo,
che all’interno dell’organismo è
essenzialmente inerte (non si può avere
tossicità a livello dell’adipe) per cui la sostanza
riesce ad accumularsi senza causare alcun
danno all’organismo. Nel caso in cui però un
individuo dovesse subire un rapido calo
ponderale, il tessuto adiposo verrebbe
mobilizzato e quindi il DDT entra in circolo
raggiungendo i propri organi bersaglio ossia il
SNC. Bisogna quindi studiare molto bene se una sostanza si accumula o meno perché gli effetti tossici
possono manifestarsi in maniera imprevedibile.
Esposizione può essere
- ambientale (es. scarichi o residui di produzioni industriali, pesticidi in agricoltura)
- professionale (es. ambienti di lavoro ed è sempre cronica)
- terapeutica (es. autoprescrizioni, errori di dosaggio)
- alimentare (es. frutta e altri alimenti contenenti residui di
fitofarmaci)
- accidentale quindi non siamo consapevoli di quello che
stiamo assumendo (es. incidenti nelle attività di produzione di
farmaci e fitofarmaci) + molti alimenti possono alterare il
funzionamento di un farmaco
- volontaria (es. abuso di farmaci psicoattivi) + nel caso di
politerapia
QUINDI l’esposizione è un fattore molto importante ma anche molto variabile che rende difficile prevedere
l’insorgenza di un effetto tossico.
QUINDI in summa l’eventuale presenza di una manifestazione tossica dipende da: proprietà chimico - fisiche
dell’agente tossico, situazione di esposizione e sensibilità del sistema biologico.

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TIPOLOGIE DI EFFETTI TOSSICI E FATTORI CHE INFLUENZANO LA TOSSICITÁ:
Gli agenti tossici sono in grado di modificare i meccanismi omeostatici dell’organismo determinando tossicità
in molti modi differenti. In particolare, possono variare la natura dell’effetto tossico, potenza, organo bersaglio
e meccanismo d’azione. Comprendere come il tossico interagisce con l’organismo e induce tossicità è molto
importante in tossicologia per prevedere la tossicità dell’agente e a sviluppare dei modi per prevenire
l’esposizione all’agente tossico o in caso di esposizione per rimediare agli effetti tossici. In generale agenti
tossici possono produrre:
→ TOSSICITÁ LOCALE: effetti nocivi sono prodotti zona di contatto tra agente chimico e organismo. In questo
caso non è necessario che l’agente venga assorbito per espletare il suo effetto tossico. Il sito di contatto tra i
più comuni è la pelle ma possono esserlo anche apparato respiratorio, gastrointestinale o gli occhi. Esempio
di tossicità locale è quella che deriva dal contatto con basi e acidi forti come l’acido cloridrico. La tossicità in
questo caso è uno dei rischi dei lab di chimica (di solito addetti utilizzano strumenti di protezione individuale
e sono costantemente monitorati a livello di medicina del lavoro per il rischio associato al contatto con questi
agenti chimici)
→ TOSSICITÁ SISTEMICA: tossicità si verifica in un organo lontano da quello che è stato il punto di contatto
iniziale. In questo caso si presume ci sia stato un assorbimento dell’agente tossico. Quando la tossicità è
sistemica, la tossicocinetica gioca un ruolo chiave perché il farmaco o l’agente tossico deve attraversare tratto
gastrointestinale (in caso di ingestione) e deve attraversare una serie di barriere per raggiungere l’organo
bersaglio.
Le due tipologie di tossicità possono essere indotte anche dallo stesso agente. Un esempio tipico è il piombo
tetraetile che veniva addizionato fino al 1985 nella benzina: effetto locale a livello della pelle e tossicità
sistemica a livello di SNC.
L’organo bersaglio non coincide necessariamente con l’organo in cui viene raggiunta la più alta concentrazione
di agente tossico. Ad esempio il DDT, altamente lipofilo, raggiunge la massima concentrazione nell’organismo
a livello del tessuto adiposo ma qui non produce alcun effetto tossico nonostante la dose raggiunta sia
estremamente elevata, perché non è presente il bersaglio molecolare del DDT (i canali per il sodio). Effetto
tossico si manifesta quando DDT raggiunge organi che contengono il suo bersaglio ossia il SNC → effetto
tossico si manifesta anche a basse dosi se il DDT riesce a raggiungere il cervello. Il suo meccanismo d’azione
si basa sulla sua capacità di ritardare la chiusura dei canali per il sodio dopo che è partito il potenziale d’azione
determinando iper-attivazione del SNC che a livello di sintomatologia clinica si traduce come comparsa di
tremori e convulsioni.
Altro esempio è il piombo: una volta assorbito si concentra nella sua quasi totalità nelle ossa ma gli effetti
tossici si realizzano a carico dei tessuti molli in particolare SNC e rene dove normalmente causa fortissime
coliche.
Effetti tossici possono essere:
- REVERSIBILI: effetto avverso che può essere recuperato nel momento in cui viene meno l’esposizione
alla sostanza
- IRREVERSIBILI: effetto tossico di un agente chimico o fisico che non può essere recuperato bensì persiste
anche nel momento in cui viene meno esposizione a quell’agente tossico. Effetti irreversibili coinvolgono
organi dotati di scarsa o nulla capacità rigenerativa (es soprattutto il SNC che purtroppo non ha alcuna
capacità riparativa soprattutto nell’adulto).
Normalmente la reversibilità dell’effetto dipende moltissimo dal grado di esposizione e dalla capacità del
tessuto colpito di rigenerarsi. Il SNC è un organo in cui molto spesso gli effetti sono irreversibili mentre il
fegato, dotato di straordinaria capacità rigenerativa, è un organo in cui normalmente un insulto acuto viene
velocemente riparato perché il tessuto danneggiato viene velocemente rimpiazzato con nuove cellule
funzionanti. Il fattore che fa si che anche un organo dotato di capacità rigenerative può determinare un effetto
irreversibile è la durata dell’insulto: un insulto acuto viene recuperato velocemente ma quando l’effetto
tossico supera la capacità del tessuto di rigenerarsi possiamo avere tossicità irreversibile. L’etanolo ha un
effetto tossico acuto sul fegato che normalmente sviluppa una reazione infiammatoria detta STEATOSI, che è
una condizione reversibile. Se l’esposizione all’etanolo perdura, si passa alla CIRROSI, uno stato che diventa

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irreversibile perché la capacità degli epatociti di rigenerarsi è inferiore alla tossicità dell’etanolo per cui gli
epatociti vengono sostituiti da tessuto fibroso, che non è funzionante. La deposizione di tessuto fibroso nel
fegato porta un danno permanente alla funzionalità di questo organo.
Alcuni effetti sono considerati irreversibili anche se compaiono dopo qualche tempo dall’esposizione. Ad
esempio gli organofosfati (pesticidi) inibiscono irreversibilmente l’enzima acetilcolina esterasi. L’effetto non è
irreversibile perché termina quando l’organismo sintetizza nuovo enzima ma il danno neuronale che segue
dall’inibizione dell’acetilcolina esterasi permane anche se l’enzima viene prodotto nuovamente dal momento
che il lasso di tempo che intercorre tra effetto tossico di inibizione dell’enzima e produzione di nuovo enzima
è sufficiente a determinare un danno al SNC.
Danno più grave per esposizione ad agenti tossici colpisce il SNC infatti il danno viene considerato irreversibile
dal momento che le cellule nervose non possono dividersi ed essere rimpiazzate. Danni al SNC possono anche
non manifestarsi immediatamente dopo l’insulto ma solo quando sarà morto un numero sufficientemente
alto di neuroni. Ad esempio l’MPTP uccidere selettivamente neuroni dopaminergici a livello della sostanza
nigra quindi in acuto non vediamo sintomi a livello clinico ma quando si arriva a una perdita neuronale
superiore al 50% si manifestano gli effetti della tossicità ma a quel punto il quadro diventa irreversibile.
Effetto tossico può essere:
- IMMEDIATO (o ACUTO): effetto segue immediatamente l’esposizione al tossico.
a. è indotto da esposizione ad alte dosi alla sostanza
b. è facilmente trattabile con gli antigeni disponibili
Esempi di effetto tossico immediato sono quelli da cianuro o quelli legati alle sostanze d’abuso (sostanze
psicoattive) che determinano una quadro da overdose immediato su cui si può da subito intervenire. Se non si
interviene tempestivamente quando c’è esposizione ad altissime dosi con tossicità immediata c’è rischio che
individuo muoia.
- RITARDATO (o CRONICO): gli effetti tossici appaiono molto tempo dopo l’esposizione al tossico.
a. è caratteristico di esposizione prolungata alla sostanza o ripetuta nel tempo
b. effetti che si manifestano a lungo termine sono irreversibili, senza possibilità di intervenire in qualche
modo
Tra gli effetti ritardati derivanti dall’esposizione prolungata a una sostanza tossica troviamo l’insorgenza di
tumori. Esempio famoso di tossicità ritardata indotta da un farmaco è quella del dietilstilbestrolo, un estrogeno
sintetico prescritto tra gli anni 30 e 70 durante la gravidanza per prevenire l’aborto MA bambine e bambini
nati da queste gravidanze durante l’adolescenza sviluppavano tumori del tratto genitale. Sono stati poi fatti
una serie di studi nell’animale per capire se ci fosse associazione causale tra assunzione di questo estrogeno e
comparsa di tumori nella progenie e si è visto che questo estrogeno era direttamente associato alla comparsa
di tumori nella progenie animale. La capacità cancerogena era talmente elevata che l’insorgenza dei tumori si
propagava fino alla terza generazione (quindi non sono i figli ma anche i figli dei figli e i figli dei figli dopo).
Probabilmente questo agente era in grado di introdurre mutagenesi a livello delle cellule germinali e per questo
era in grado di penetrare nelle generazioni
L’AVVELENAMENTO ACUTO:
Può determinare una serie di disfunzioni acute (nel momento in cui si verifica l’esposizione alla sostanza) che
possono essere immediatamente trattate in presenza dell’antidoto ma anche croniche (→ possono verificarsi
entrambe le condizioni come nel caso dell’avvelenamento da radiazioni al altissime dosi: a livello acuto causa
una serie di alterazioni come nausea, vomito, rash cutanei e alterazioni dell’apparato urogenitale quindi
coliche e problemi renali mentre a livello cronico aumenta la possibilità di sviluppare cancro a lungo termine).
Sintomi di avvelenamento acuto si manifestano entro poche ore dall’esposizione all’agente tossico e se non
vengono trattati possono essere fatali. Un esempio di avvelenamento acuto è quello indotto dal morso di
vipera: entro pochi minuti massimo mezz’ora dal morso, si sviluppa un quadro clinico caratterizzato da mal di
testa, nausea, senso di sedazione, vertigine, convulsione e in persone predisposte anche alterazioni della
frequenza cardiaca e se non è trattato può portare alla morte. Se si somministra antidoto entro 1ora dal morso
si riescono a revertire questi effetti. L’antidoto è un insieme di IgG prodotto dal cavallo (viene iniettato veleno
vipera al cavallo, si preleva plasma contenente le IgG e si inietta il plasma QUINDI anche antidoto stesso può
dare fenomeni tossici per quanto riguarda lo sviluppo di allergia perchè essendo prodotto in un’altra specie

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può indurre esso stesso reazioni allergiche che si sviluppano immediatamente quindi possono essere trattate
in maniera tempestiva.
Gli effetti cronici di un avvelenamento invece insorgono a lungo termine, molto tempo dopo l’esposizione alla
sostanza e per dimostrare a livello scientifico che c’è una relazione causale tra l’esposizione a un agente
tossico avvenuta molto tempo prima e gli effetti cronici dopo bisogna riprendere gli studi sul modello animale.
Dimostrare associazione causale è molto importante soprattutto per i farmaci (ditta farmaceutica può andare
incontro a problemi a livello penale). I sintomi tipici e le manifestazioni che si possono sviluppare nel tempo
dopo un avvelenamento sono danni ai tessuti molli (rene, cervello e fegato), cancro (quando gli agenti tossici
hanno un potenziale mutageno) e tossicologia dello sviluppo se l’esposizione alla sostanza con effetto
teratogeno avviene durante la gravidanza. Tutti i danni cronici nel lungo termine sono irreversibili
LA TOSSICITÁ SELETTIVA: capacità di una sostanza di produrre un particolare danno su un organismo (specie
non economica o indesiderabile) senza avere effetti su di un altro (specie economica o desiderabile), anche
se i due vivono in stretto contatto tra loro o sono filogeneticamente vicine. Concetto di tossicità selettiva è
alla base della produzione di pesticidi ma anche di antibiotici. In questo secondo caso è relativamente facile
produrre farmaci che colpiscano selettivamente i batteri perché questi sono molto diversi rispetto all’ospite
→ è sufficiente colpire un elemento strutturale tipico (es peptidoglicano) che non è presente nell’organismo
ospite. Unico effetto collaterale nell’assunzione di antibiotici sono problemi gastrointestinali perché nella flora
batterica intestinali sono presenti batteri. Questo danno è prevedibile e può essere prevenuto o trattato
successivamente senza che arrechi danni particolari all’organismo. MA non sempre però le due specie sono
filogeneticamente così diverse da garantire una altissima selettività del farmaco anzi alcune volte le cellule
che vogliamo colpire sono identiche a quelle che vogliamo preservare come nel caso dei chemioterapici. Ad
oggi non siamo in grado di bloccare selettivamente la replicazione delle cellule tumorali senza colpire le cellule
sane e per questo gli effetti collaterali dipendono dalla poca selettività (quindi ci si sta concentrando sulla
ricerca di molecole espresse dalle cellule tumorali e non da quelle sane in modo da colpire solo quelle).
La tossicità selettiva è un vantaggio che vogliamo sfruttare per la produzione di agenti tossici verso una
particolare specie non economica MA le differenze tra specie rappresentano uno svantaggio quando bisogna
estrapolare dati da animale a uomo infatti mentre per la farmacologia abbiamo a disposizione una serie di
studi clinici che seguono agli studi sull’animale, gli studi tossicologici non possono essere eseguiti sull’uomo
per cui tutti i dati che possiamo collezionare sono estrapolati da studi sull’animale. Il problema è che la risposta
degli animali a una sostanza tossica può differire fortemente da quella dell’uomo e la cosa impressionante è
che anche tra gli animali ci può essere una risposta estremamente eterogenea alla stessa sostanza tossica:
DL50 Ad esempio in caso di tossicità acuto alla diossina (2,3,7,8-
(µg/kg) tetraclorodibenzodiossina; TCDD) in termini di DL50 (= dose in grado di uccidere il
Cavia 0,5 - 2 50% degli animali) espressa in μg/Kg (quindi è altamente tossica) si nota come la
Ratto 22 - 100 risposta di queste diverse specie sia estremamente eterogenea quindi quando si
Topo 114 - 284 arriva alla fase di sperimentazione animale con tale eterogeneità è difficile
Conigli 10 - 115 estrapolare i dati all’uomo. Quando si verifica una situazione del genere,
Gallina 25 - 50 tossicologo si basa sui dati della specie che è risultata più sensibile per aumentare
Cane > 30 - 300 la sicurezza nell’uomo (ossia rendere più sicura possibile la traslazione all’uomo).
In questo caso si sceglierebbe la cavia perché è quella che risponde a dosi più basse
di farmaco. Quando si trasla informazione all’uomo si cerca di prevenire effetti tossici quando non possiamo
testare direttamente. In realtà negli studi preclinici, per estrapolare il dato all’uomo, il valore che troviamo
nell’animale viene diviso per un fattore così da ridurlo ulteriormente in modo da prevenire gli effetti tossici
anche quando non possiamo testare direttamente sull’uomo.
QUINDI ci sono due possibili meccanismi con cui si raggiunge una tossicità selettiva:
- La sostanza è ugualmente tossica per entrambe le specie ma ci sono tra le due specie grosse differenze
nella tossicocinetica → bisogna cercare di capire come avvengono assorbimento, distribuzione,
metabolizzazione, eliminazione alla ricerca di differenze su cui poter lavorare in modo da avere una
maggiore tossicità in una specie piuttosto che nell’altra
- La sostanza agisce su una componente o un sistema biologico/biochimico che non è presente in
entrambe le specie

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FATTORI CHE INFLUENZANO LA TOSSICITÁ DEGLI XENOBIOTICI:
Nell’uomo ci possono essere grandissime differenze nella risposta alle sostanze tossiche determinate in
minima parte da caratteristiche dell’agente tossico mentre per la maggior parte da differenze interindividuali
determinate geneticamente e non:
→ FATTORI CHIMICI RELATIVI ALLO XENOBIOTICO:
- Lipofilia: la maggior parte degli agenti tossici è altamente lipofila e questo è molto importante per la
tossicocinetica della sostanza stessa (di solito lo scopo finale per l’eliminazione di composti è quella di
renderli più idrofili per favorirne l’eliminazione)
- Dimensione, struttura e grado di ionizzazione
- Chiralità: una sostanza tossica che è composta da una miscela di enantiomeri di solito ne presenta uno
più tossico dell’altro. Un esempio è la talidomide
→ FATTORI BIOLOGICI RELATIVI ALL’ORGANISMO:
SPECIE: una differenza che abbiamo è ad esempio che nei roditori i rodenticidi sono molto più tossici rispetto
a quanto non siano nel momento in cui vengono ingeriti dall’uomo perché non sono in grado di eliminare
l’agente tossico con il vomito (roditori non hanno il riflesso del vomito). L’eliminazione dall’apparato
gastrointestinale è invece la prima protezione messa in atto dall’organismo in caso di ingestione di sostanze
tossiche → nei ratti agente tossico rimane nel tratto gastrointestinale quindi maggiore tossicità.
Altre differenze di specie riguardano la tossicocinetica e possono essere sfruttate per raggiungere una
tossicità selettiva. Le due principali differenze riguardano:
- assorbimento a livello cutaneo perché epidermide è molto differente tra una specie e l’altra (ad es pelle
dell’uomo è molto meno permeabile di quella dei roditori quindi è più portata a proteggerci) e a livello
orale a causa del differente pH del tratto gastrointestinale e questo fattore potrebbe essere sfruttato per
raggiungere una certa selettività (quindi potremmo sfruttare pH diverso per favorire assorbimento in una
specie piuttosto che in un’altra)
- distribuzione: variazioni dipendono essenzialmente dalla diversa distribuzione del grasso corporeo tra
specie. Essendo sostanze tossiche lipofile tendono ad accumularsi nel tessuto adiposo per cui una diversa
distribuzione determina diverso accumulo e quindi una diversa tossicità + presenza o meno di sistemi di
uptake specifici negli organi dei due organismi. Questo potrebbe essere un altro modo per determinare
una certa selettività ossia una maggiore tossicità in una specie rispetto a un’altra.
- metabolismo: a questo livello le differenze possono essere sia qualitative (presenza o meno di un enzima
che riesce a modificare la nostra sostanze tossica) che quantitative (quantità di enzima). Ad es
ipotizzando che la sostanza sia intrinsecamente tossica (non ha bisogno di attivazione), nel momento in
cui in uno dei due organismi è presente in quantità maggiore un enzima deportato alla detossificazione,
avrà tossicità minore in quella specie rispetto all’altra. Per quanto riguarda invece la velocità di
metabolizzazione, animali più piccoli come il topo hanno una velocità di metabolizzazione molto più
veloce dell’uomo perché essendo più piccoli esposizione della sostanze tossica avrà conseguenze
maggiore (quindi maggiore velocità di metabolizzazione è un meccanismo protettivo). Alta velocità di
metabolizzazione è bene se la sostanza è già tossica di per sé ma quando la sostanza di per sé non è
tossica bensì è tossico un suo metabolita, questo veloce metabolismo diventa un fattore che favorisce la
tossicità.
- eliminazione: in animali più piccoli come il ratto, la produzione di urina è molto più veloce rispetto
all’uomo (altro meccanismo di protezione) e questo aiuta a ridurre la tossicità che si può verificare in
seguito a esposizione ad agente tossico
ETÁ: nell’uomo ci sono due età considerate più sensibili e suscettibili per quanto riguarda la risposta tossica
che sono bambini e anziani. Queste due categorie rappresentano un problema non solo per le sostanze
tossiche ma anche per i farmaci che normalmente vengono testati su uomo adulto di circa 70kg quindi non
abbiamo studi clinici fatti specificatamente su queste due popolazioni che però sono quelle che più facilmente
possono sviluppare effetti collaterali. Bambini molto più soggetti agli xenobiotici degli adulti per una serie di
ragioni biologiche:
- differenze a livello di assorbimento gastrointestinale: nei bambini assorbimento gastrointestinale è molto
più veloce che nell’adulto perché epitelio intestinale è molto più permeabile (= molto più farmaco viene
assorbito molto più velocemente). Nel caso dei farmaci possiamo bilanciare la dose mentre per tossicità

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ad agenti tossici ambientali, esposizione è involontaria per cui a parità di dose inalata questa sarà molto
più tossica nel bambino per questioni legate al peso (in caso di inquinanti ambientali i bambini sono molto
più sensibili dell’adulto)
- sistemi di disintossicazione (= sistemi enzimatici) nel bambino non sono completamente sviluppati e
questo può dare problemi
- escrezione è più bassa
- sensibilità del SNC durante lo sviluppo: il SNC nel bambino non è ancora completamente sviluppato
(cervello completa il proprio sviluppo nella tarda adolescenza). Il SNC dei bambini però è ancora dotato
di capacità rigenerativa e questo permette un parziale recupero funzionale nei bambini a seguito di un
danno tossico
Altra popolazione fortemente sensibile agli effetti tossici è quella degli anziani dal momento che iniziamo ad
avere un deterioramento a livello di assorbimento, distribuzione, metabolismo ed escrezione. Negli anziani:
• metabolismo è molto più lento per cui una sostanza tossica tende ad accumularsi molto più facilmente
e questo può dar luogo a tossicità soprattutto in caso di esposizione prolungata
• capacità di eliminazione è rallentata e anche questo favorisce accumulo del tossico nell’organismo con
conseguente comparsa di tossicità maggiore
STATO ORMONALE (che determina le differenze di genere nella risposta ai tossici e ai farmaci): nelle donne la
tossicità di una sostanza dipende fortemente dal ciclo mestruale (quindi dalle oscillazioni ormonali che si
verificano mensilmente) ma anche in caso di gravidanza e allattamento quando la mamma può passare la
sostanza tossica al feto. In generale donne sviluppano per la stessa sostanza tossica maggiore tossicità rispetto
all’uomo → un problema spesso sollevato in farmacologia è che i farmaci non vengono quasi mai testati sulle
donne nonostante queste rispondano in maniera diversa sotto moltissimi aspetti:
Parametro Differenze È vero che nelle donne abbiamo
farmacocinetico una maggiore aspettativa di vita
Biodisponibilità per via È maggiore nelle donne (anche maggiore rispetto all’uomo ma questo
orale del 20% rispetto all’uomo) perché è non si traduce in una qualità
fortemente influenzata da ormoni del ciclo migliore della vita in quanto
mestruale + aumenta in gravidanza sono più soggette a malattie
Volume di distribuzione Farmaci liposolubili si distribuiscono meglio rispetto all’uomo per cui usano
nella donna più i farmaci. Per questo la
Farmaci idrosolubili si distribuiscono meglio farmacologia cerca di spingere
nell’uomo verso la possibilità di valutare
Legame alle proteine Maggiore nell’uomo farmaci anche nelle donne
plasmatiche perché sono le principali
Metabolismo Molti enzimi epatici (soprattutto della utilizzatrici
famiglia del citocromo p450) sono
influenzati da estrogeni quindi alcuni di ABITUDINI ALIMENTARI:
questi enzimi possono essere più attivi nella nutrizione adeguata è
donna rispetto all’uomo importante per il
Eliminazione Filtrazione glomerulare a livello del rene è funzionamento dei sistemi di
maggiore nell’uomo difesa necessari a reagire al
contatto con un agente tossico
ma anche per mantenere in buona salute l’organismo. È necessario un corretto apporto di nutrienti essenziali
(carboidrati lipidi e proteine ma anche nutrienti e metalli essenziali) perché importanti per la biosintesi di
moltissimi enzimi detossificanti. Lipidi sono importanti per la sintesi di membrane biologiche ma anche per
ottenere l’energia necessaria per attivare i processi necessari a eliminare agenti tossici. Vitamine (soprattutto
C, E, A) importanti perché possono fornire protezione dallo stress ossidativo, uno dei meccanismi usati per
indurre danno cellulare. Qualità e quantità di cibo possono influenzare assorbimento a livello del tratto
gastrointestinale (presenza di cibo o meno a livello del tratto gastrointestinale determina un diverso
assorbimento del farmaco ed è per questo che nel foglietto illustrativo si indica se deve essere assorbito a
stomaco pieno o vuoto. Anche perché cibo modifica il pH). Questo vale per farmaci ma anche per sostanze
tossiche ad es assorbimento del piombo differisce moltissimo (da 8% a stomaco pieno fino a 60% a digiuno)

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quindi nelle popolazioni malnutrite, esposizione alla stessa sostanza tossica può avere un effetto decisamente
più deleterio.
È noto che possiamo assumere involontariamente sostanze tossiche con la dieta:
- Le cattive abitudini alimentari potrebbero essere responsabili di circa tre tumori su dieci (American
Institute for Cancer Research) a causa dell’assunzione di sostanze tossiche per l’organismo
- In alcuni cibi sono presenti sostanze che favoriscono lo sviluppo della malattia come i nitriti utilizzati per
la conservazione dei salumi (associati alla comparsa del tumore dello stomaco)
- Alimentazione altamente ricca di grassi e proteine favorisce la comparsa di malattie mentre
alimentazione ricca di fibre vitamine e micronutrienti sembra essere protettiva rispetto allo sviluppo di
uno stato di malattia
FUMO: influenza suscettibilità dell’organismo a molte sostanze chimiche tossiche a causa dell’interazione del
tossico coi diversi composti chimici presenti nel fumo di sigaretta. Oltre alla nicotina infatti sono presenti
composti tossici come idrocarburi aromatici policiclici, monossido di carbonio, benzene, cadmio. In
particolare, sembra che possa verificarsi in seguito a esposizione ad agente tossico un effetto sinergico: agente
tossico interagisce con sostanze presenti nel fumo e questo porta a una maggiore tossicità del fumatore.
Aumento della tossicità nel fumatore sembrerebbe anche ascrivibile al fatto che alcuni dei composti presenti
nel fumo di sigaretta possano alterare enzimi metabolici (in particolare sono in grado di indurre o ridurre
attività di alcune isoforme del citocromo p450) → nel fumatore si osserva una maggiore o minore velocità di
trasformazione della sostanza tossica a seconda degli effetti indotti dalle sostanze presenti nel fumo di
sigaretta sugli enzimi epatici che possono essere indotti (e questo facilita eliminazione del tossico se la
sostanza è tossica di per sé ma abbiamo maggiore effetto tossico se ad essere tossico è un metabolita dello
xenobiotico entrato nell’organismo) o inibiti. Oltretutto, il fumo protratto negli anni sembra ridurre
gradualmente i meccanismi di difesa dell’organismo e questo può portare a maggiore difficoltà a smaltire
sostanze tossiche una volta che organismo è entrato a contatti con esse
ALCOL: è un agente aspecifico perché non ha un bersaglio specifico nell’organismo bensì va ad alterare
moltissime funzioni biologiche.
- esposizione cronica determina un’alterazione del pH tissutale (determinando alterazioni
dell’assorbimento nel tratto gastrointestinale), la liberazione di specie radicali altamente reattive quindi
tossiche di per sé e promuove la formazione di a livello del tratto gastrointestinale modificando
assorbimento delle sostanze
- può modificare la suscettibilità agli effetti tossici di numerose sostanze perché riduce la funzionalità degli
enzimi epatici determinando problemi di detossificazione + etanolo compete con alcune specifiche
isoforme del citocromo p450 quindi se composto tossico viene detossificato da questo enzima (utilizzato
anche per detossificazione dell’alcol) siccome alcol ha maggiore affinità per l’enzima, non si ha
detossificazione del tossico e quindi accumulo dell’agente tossico nell’organismo
FATTORI GENETICI: particolarmente importanti nell’uomo e possono influenzare la tossicità modificando
- la risposta al tossico perché bersaglio per la stessa sostanza tossica può essere differentemente espresso
da una persona rispetto all’altra su base genetiche
- la biodisponibilità della sostanza perché fattori genetici influenzano la tossicocinetica e in particolare il
metabolismo (enzimi citocromo p450 hanno il più alto polimorfismo nell’uomo per cui a livello
metabolico siamo estremamente diversi gli uni dagli altri) → in particolari fenotipi esistono forme
enzimatiche non funzionanti o poco funzionanti ma queste differenze sono difficilmente prevedibili.
Alcuni hanno sistemi di riparazione molto più efficiente (quindi non avranno grosse conseguenze a
seguito dell’esposizione alla sostanza tossica) mentre chi ha funzioni metaboliche ridotte o deficitarie a
parità di esposizione hanno un effetto tossico maggiore ma questo non può essere determinato a priori
Sono state create la TOSSICOGENETICA e la TOSSICOGENOMICA: si cerca di identificare individui
geneticamente più sensibili a farmaci e a fattori ambientali con cui possiamo entrare a contatto. Un esempio
riguarda l’incapacità di detossificare il chemioterapico 6- mercaptopurina in una piccola percentuale della
popolazione per ragioni genetiche. I bambini leucemici che presentano questa caratteristica genetica possono
avere seri problemi da una dose standard di farmaco perché sviluppano effetti collaterali gravissimi. Sono ora
disponibili test genetici che possono identificare questi individui prima del trattamento

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LE INTERAZIONI TRA SOSTANZE CHIMICHE:
All’interno dell’organismo, i farmaci e altre sostanze chimiche possono reagire tra loro per cui spesso effetto
tossico potrebbe manifestarsi per un’interazione imprevista tra due sostanze presenti contemporaneamente
all’interno dell’organismo. Due sostanze possono interagire fra loro determinando alterazioni:
• dell’assorbimento
• del legame con specifiche proteine (proteine plasmatiche come l’albumina ma anche proteine più
specifiche presenti nell’organismo che possono interagire sia coi farmaci che coi tossici)
• della biotrasformazione e del metabolismo perché magari due sostanze competono col lo stesso enzima
e quindi sono metabolizzate in maniera diversa
• dell’escrezione di una o di entrambe le sostanze
È importante studiare come i farmaci interagiscono tra loro perché le molecole vengono studiate
singolarmente quindi è difficile stabilire a priori cosa succede in seguito a co-esposizione a più sostanze. Le
interazioni possono essere:
Nelle interazioni tossicodinamiche le due sostanze
competono per lo stesso bersaglio che può essere
recettoriale (se sono due agonisti per lo stesso recettore
abbiamo somma dei due effetti mentre se una sostanza è
agonista e l’altra è antagonista abbiamo un annullamento
degli effetti dell’agonista indotto dalla presenza dell’altra
sostanza) o non recettoriale come può essere un enzima (quindi abbiamo un effetto di potenziamento se si
comportano allo stesso modo o inibizione della risposta data dalle due sostanze presenti
contemporaneamente)

Possibili interazioni (sia farmaco - farmaco, farmaco - agente tossico, tossico - tossico) si dividono in:
- additività: effetto risultante è l’esatta somma degli effetti di due o più sostanze. Questa situazione si
verifica quando le sostanze contemporaneamente presenti nell’organismo hanno lo stesso bersaglio
molecolare sul quale producono lo stesso effetto. l’additività può essere pericolosa perché si rischia che
l’esposizione a due sostanze a dosi che singolarmente non hanno effetto tossico, vadano a sviluppare un
effetto tossico una volta nell’organismo
- potenziamento: una delle due sostanze ha effetto tossico mentre l’altra no. La sostanze che non ha
effetto tossico, se presente insieme a quella tossica, potenzia fortemente effetto tossico dell’altra.
Questo succede perché ad es sostanza non tossica si comporta da inibitore dell’enzima che detossifica la
sostanza tossica. Il potenziamento favorisce l’accumulo di sostanza tossica nell’organismo e l’aumento
del tempo che la sostanza permane nell’organismo e quindi un maggiore effetto tossico della sostanza
- sinergismo: effetto è molto superiore alla somma degli effetti delle singole sostanze somministrate
separatamente. Questo effetto è molto pericoloso e porta solitamente a danni funzionali irreversibili. È
come se le due sostanze tossiche se presenti contemporaneamente aumentino fortemente la reciproca
tossicità (essendo entrambe le sostanze tossiche non è un potenziamento)
- antagonismo: due sostanze interferiscono l’una con l’altra perché lavorano in maniera opposta. In
tossicologia antagonismo è positivo e si studia molto perché rappresenta la base di tutti gli antidoti.
Esistono 4 tipi di antagonismo:
a. Funzionale: si osserva quando due sostanze agiscono su due sistemi di regolazione endogena che
hanno effetti opposti sulla stessa funzione fisiologica come accade in caso di bilanciamento
eccitazione - inibizione a livello di SNC. In caso di overdose da barbiturici infatti si osserva una
fortissima depressione del SNC che viene trattata con uno stimolante come norepinefrina o
adrenalina → si cerca di bilanciare effetto tossico lavorando sul sistema biologico che nell’organismo
fa l’opposto di quello indotto dall’agente tossico stesso. Questo non è un intervento specifico ma si
va semplicemente a lavorare su un sistema diverso per cercare di limitare gli effetti collaterali. Vale
anche al contrario come nel caso di intossicazione acuta da cocaina tratta con benzodiazepine (si
cerca di ripristinare l’inibizione a livello del SNC)

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b. Chimico o di inattivazione: si tratta di un intervento specifico che cerca di sfruttare l’antagonismo
chimico. Per farlo bisogna conoscere il meccanismo di funzionamento della sostanza tossica. Un
esempio è l’uso di chelanti in caso di intossicazione da metalli come arsenico, mercurio, piombo
c. Farmacocinetico: nelle intossicazioni acute, primissimo step è quello di cercare di ridurre
assorbimento inducendo il vomito (mediante assunzione di alcune sostanze), con la lavanda gastrica
oppure con carbone vegetale (che tende a sequestrare la sostanza all’interno dell’intestino evitando
che venga assorbita a livello sistemico) oppure sull’eliminazione renale somministrando dei diuretici
o modificando il pH delle urine. Altra possibilità è quella di ridurre il metabolismo se il responsabile
della tossicità è un metabolita della sostanza tossica o indurre il metabolismo per velocizzare la
detossificazione di una sostanza tossica di per sé
d. Recettoriale: vale solo se l’effetto tossico è indotto dal legame con un recettore come nel caso degli
oppioidi (agonisti specifici del recettore per gli oppioidi) e naloxone, che spiazza oppioidi dal proprio
recettore. Altro esempio è quello di insetticidi organofosfati (inibitori dell’acetilcolina esterasi quindi
acetilcolina interagisce più a lungo con il proprio recettore) e atropina

MECCANISMI DI TOSSICITÁ:
Ogni sostanza tossica può indurre dei danni a livello dell’organismo con meccanismi specifici per la singola
sostanza tossica. Conseguenza dell’interazione tra sostanza tossica con il suo bersaglio a livello di cellule e
tessuti dell’organismo possono essere classificati in 4 tipi:
→ EFFETTI TOSSICI DIRETTI A LIVELLO CELLULARE (quindi si tratta di effetti che si esplicano a livello di singole
cellule)
Quando la sostanza tossica raggiunge l’organo bersaglio e interagisce con il suo bersaglio molecolare, scatena
una serie di eventi biochimici secondari (effetti avversi) che possono avere diversi livelli di intensità e
complessità. Tali eventi biochimici possono indurre nell’organo bersaglio disfunzioni lievi o gravi (solitamente
irreversibili). Entità del danno che una sostanza tossica può indurre a livello del suo organo bersaglio
dipendono dalla dose e dall’esposizione: in generale maggiore è la dose di sostanza tossica che raggiunge
l’organo bersaglio maggiore è la probabilità che si sviluppino effetti avversi anche irreversibili. Altro fattore
che influisce sugli effetti è l’esposizione: se ad esempio organismo è in grado di eliminare la sostanza tossica
velocemente, la persistenza dello xenobiotico a livello del suo organo bersaglio sarà ridotta e quindi anche
effetto tossico osservato alla fine dell’esposizione sarà ridotto anche a livello dell’intero organismo. Quindi a
seconda della durata dell’esposizione e della dose tossica che raggiunge il bersaglio si avrà un danno più o
meno esteso che colpisce le singole cellule di un tessuto ma maggiore è l’estensione del danno cellulare più
questo impatterà sulla funzionalità del tessuto o dell’organo stesso e quindi si osserverà un impatto negativo
sull’intero organismo.
Le conseguenze di un danno cellulare non sono le stesse per tutte le cellule: ci sono cellule molto sensibili ai
danni e cellule che invece rispondono meglio o sono funzionalmente meno attive quindi interazione del
tossico con queste cellule avrà un impatto minore sull’organismo rispetto a quando il tossico interagisce con
cellule molto più attive e che svolgono funzioni particolarmente importanti a livello dell’organismo.
Ad esempio: tessuto adiposo è metabolicamente poco attivo e le funzioni che svolge a livello di organismo
non sono essenziali per cui un danno a questo tessuto ha un impatto diverso rispetto a un danno a livello
epatico o renale o a livello del SNC. Fattori che determinano una maggiore o minore resilienza agli effetti di
una sostanza tossica sono:
- stato metabolico della cellula: più le cellule sono metabolicamente attive, maggiore è la probabilità che
risentano del sanno indotto da una sostanza tossica
- stato di differenziamento cellulare: è più probabile che le cellule che si moltiplicano velocemente
subiscano maggiormente l’effetto negativo di una sostanza tossica ma al tempo stesso hanno maggiore
possibilità di recuperare il danno. Le cellule che si differenziano poco invece di solito, quando
l’esposizione al tossico non si estende per lunghi periodi di tempo, hanno la capacità di adattarsi più
facilmente
- specializzazione: cellule altamente specializzate se danneggiate da una sostanza tossica hanno un grosso
impatto a livello di funzionalità dell’organismo. Ad es epatociti intervengono nel metabolismo delle
sostanze tossiche e dei farmaci, se danneggiati possono avere un effetto a livello di intero organismo

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- disponibilità di substrati metabolici: la malnutrizione riduce la capacità adattativa delle cellule in risposta
a un tossico mentre la disponibilità di tutti i substrati metabolici necessari rende ottimali la capacità delle
cellule di mantenere l’omeostasi e di rispondere a un insulto
Comunque, tutte le cellule dell’organismo, metabolicamente più attive o meno, sono in uno stato di omeostasi
e possono mantenere tale omeostasi entro un certo range ma la capacità adattativa è limitato e differente a
seconda del tipo cellulare considerato. Le risposte adattative servono a cercare di garantire la sopravvivenza
della cellula e quindi garantire il funzionamento della singola cellula e dell’intero organo. Quando una sostanza
tossica arriva a livello delle cellule ci sono due possibili conseguenze:
• se l’esposizione alla sostanza tossica è limitata nel tempo, la cellula può eliminare il danno causato dallo
xenobiotico attraverso meccanismi di bioinattivazione ed escrezione (che superano la parte di
assorbimento ed eliminazione) quindi la cellula può ripristinare l’omeostasi senza avere delle
conseguenze deleterie a livello dell’organismo e degli organi
• se l’effetto tossico supera le risposte adattative della cellula, si innesca un danno progressivo che a un
certo punto diventa irreversibile e come risultato finale porta alla morte della cellula. Più cellule vengono
intaccate a livello dell’organo, più questo impatterà sulla funzionalità dell’organo stesso
Esistono due principali forme di MORTE CELLULARE:
APOPTOSI: definita “suicidio cellulare” o “morte cellulare programmata” perché deriva dall’induzione di
processi all’interno della cellula (= è la cellula che quando sente che c’è un danno in corso decide di attivare
l’apoptosi): la cellula stessa sente che nell’ambiente c’è qualcosa che non va e quindi innesca l’apoptosi. Viene
indotta dall’attivazione di caspasi prima iniziatrici (8 e 9) e poi effettrici (la principale è la caspasi 3), attivate
in maniera consecutiva.
A livello morfologico apoptosi è stata molto ben caratterizzata:
Inizialmente la cellula assume una morfologia rotondeggiante e perde il contatto con le cellule adiacenti.
Questo primo segnale ha due finalità:
a. staccarsi da altre cellule in modo da preservare l’intorno senza innescare fenomeni di apoptosi nelle
cellule adiacenti
b. è un sensore di allarme perché le altre cellule
sentono che c’è qualcosa che non va per cui la cellula
andata incontro ad apoptosi può essere più facilmente
sostituita
Primo evento è la condensazione della cromatina e un
restringimento del citoplasma con frammentazione
nucleare e la formazione di estrusioni della membrana
plasmatica (fenomeno detto ZEIOSI). Queste estrusioni vengono poi circondate da membrana plasmatica a
formare i CORPI APOPTOTICI all’interno dei quali sono presenti anche organelli cellulari. Corpo apoptotici sono
circondati da membrana e possono essere riconosciuti dai fagociti perché nella membrana che riveste i corpi
apoptotici si ha la traslocazione della FOSFATIDIL-SERINA, normalmente sul foglietto citoplasmatico interno
della membrana, verso l’esterno. Questo rappresenta un segnale per i fagociti che raggiungono il sito del
danne e fagocitano i corpi apoptotici che si sono formati. Ci sono due modi di innescare apoptosi:
- via mitocondriale o intrinseca (quasi sempre innescata dalle sostanze tossiche): la maggior parte delle
sostanze tossiche infatti sono altamente lipofile quindi entrano nelle cellule attraversando la membrana
plasmatica e qui determinano una serie di danni quali alterazioni nell’omeostasi del calcio e formazione
di elettrofili deboli, che possono interagire e danneggiare le strutture cellulari, e radicali liberi altamente
tossici. Il sensore principale della via intrinseca è il mitocondrio: perturbazioni dell’omeostasi a livello
intracellulare vengono sentite dal mitocondrio: si ha la formazione di pori sulla membrana mitocondriale
esterna attraverso i quali vengono rilasciate proteine pro-apoptotiche (bax e bak) che raggiungono il
citoplasma e qui attivano la caspasi iniziatrice 9. Questa convoglia sulla caspasi effettrice 3 che determina
condensazione della cromatina e tutti gli eventi morfologici che caratterizzano il processo
- via estrinseca: dipende dall’attivazione di specifici recettori di morte che si trovano sulla membrana
plasmatica i quali interagiscono con ligandi esterni alla cellula. Questa via viene difficilmente attivata da
sostanze tossiche. Attivazione di recettori di morte attiva la trasduzione del segnale che porta
all’attivazione della caspasi iniziatrice 8 e della caspasi effettrice 3 che fa poi partire tutta la via apoptotica

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LA NECROSI:
Si distingue dall’apoptosi sia a livello morfologico sia per le conseguenze che ha a livello cellulare e tissutale.
Nella necrosi si ha un rigonfiamento cellulare e si formano estrusioni della membrana plasmatica ma
osservando queste estrusioni a microscopio, si osserva che a differenza dell’apoptosi (in cui, all’interno dei
corpi apoptotici si trovano gli organelli intatti), non contengono organelli. Queste estrusioni poi si rompono e
rilasciano il proprio contenuto all’esterno della cellula → vengono attirati neutrofili e monociti che innescano
risposta infiammatoria (che invece solitamente non si attiva nella necrosi). L’infiammazione in risposta al
danno tissutale indotto da necrosi, in acuto (quindi quando si risolve velocemente e quindi quando le cellule
che vanno incontro a necrosi non sono una grossa quantità all’interno del tessuto) può essere definita come
una risposta protettiva ossia un tentativo della cellula di risolvere il danno appena si verifica (fenomeno di
riparazione del tessuto danneggiato).
Quando invece si verificano eventi tossici che inducono una necrosi massiva all’interno del tessuto,
l’infiammazione cronicizza (persiste a lungo all’interno del tessuto). L’infiammazione di tipo cronico è spesso
nociva e deleteria per l’organo perché può avere una serie di conseguenze che ne danneggiano la funzionalità.
Solitamente infiammazione cronica è innescata da una esposizione ripetuta al tossico.
L’infiammazione cronica può causare proliferazione dei vasi sanguigni a livello dell’organo interessato per
portarvi più monociti e neutrofili e nel caso in cui il danno persiste, l’infiammazione cronica può portare a
fibrosi = sostituzione delle cellule che vanno incontro a necrosi con cellule fibrotiche che non sono più
funzionanti. La rigenerazione verso fibrosi si osserva ad esempio nel fegato: esso è uno degli organi più
sensibili alle sostanze tossiche perché deputato alla loro metabolizzazione per cui la persistenza del tossico a
livello del fegato è molto elevata quindi si verifica spesso infiammazione cronica in questa sede. Nel fegato,
quando il tessuto rigenera verso fibrosi, gli epatociti andati incontro a necrosi non vengono sostituiti da
epatociti funzionanti bensì da tessuto fibrotico. Questo fa perdere gradualmente la funzionalità del fegato per
cui si ha un effetto negativo a lungo termine a livello funzionale. Infiammazione cronica si associa a
un’estensione del danno quando si verifica necrosi all’interno dei quel tessuto.
APOPTOSI NECROSI
Richiede ore dall’innesco alla conclusione del Morte per necrosi è quasi immediata
processo per fagocitosi
Richiede ATP (quindi un dispendio energetico da Non richiede energia
parte della cellula)
La cellula che va incontro ad apoptosi cerca di Spesso è indotta da eventi molto bruschi come
sopravvivere con questo processo per cui sui tratta cambiamenti nell’omeostasi cellulare molto intensi,
di un processo che entro certi limiti è reversibile repentina deplezione di ATP o rapida perturbazione
quindi se il danno viene risolto la cellula può tornare nell’omeostasi del calcio. Quando innescata
indietro e sopravvivere ed è per questo che gli tendenzialmente la necrosi è un processo
organelli intracellulari vengono preservati fino ai irreversibile perché il danno alla cellula è elevato
corpi apoptotici (la cellula fino alla fine tenta di
sopravvivere, è per questo che processo richiede
ATP)
Mentre la necrosi è un processo irreversibile (quindi una volta innescata nel 99,9% dei casi la cellula va
incontro a morte certa), l’apoptosi può essere inizialmente innescata dalla cellula ma ad un certo punto la
cellula non è più in grado di portare avanti il
processo apoptotico quindi shifta verso la necrosi
(ad es inizialmente la cellula può innescare apoptosi
ma a un certo punto non ha a disposizione
sufficiente energia per portare a compimento il
processo apoptotico quindi shifta verso la necrosi)
→ ci sono cellule che se osservate a microscopio
mostrano caratteristiche sia apoptotiche che
necrotiche. Dopo che il processo apoptotico è stato
innescato si verifica un evento che fa si che la cellula non abbia energia necessaria per portare a compimento
il processo apoptotico.

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Sembra che il tipo di morte cellulare indotta dagli xenobiotici sembra essere dose-dipendente: sembra che a
basse dosi, quando c’è una bassa concentrazione di tossico a livello del bersaglio, prevale apoptosi rispetto
alla necrosi. Quando dose è alta o per esposizione molto più lungo prevale la necrosi. Quando all’interno di
un tessuto o a livello di singole cellule si osserva una modalità di morte mista significa che il danno iniziale che
ha innescato l’apoptosi non si sta risolvendo ma anzi si sta facendo molto più intenso e per questo è molto
più probabile che si sviluppi un effetto deleterio all’intero organo a causa della morte per necrosi.
Sono stati identificati 4 meccanismi innescati dagli xenobiotici che portano a morte cellulare:
1. Danno mitocondriale:
Esso impatta negativamente sulla produzione di ATP ma dato che questa è fondamentale per la vita della
cellula, un danno di questo tipo provoca effetti deleteri. Per innescare morte cellulare non servono grosse
perturbazioni nei livelli di ATP, bastano riduzioni tra il 5 e il 10% e questo fa capire quanto è essenziale ATP
all’interno della cellula. Solitamente un danno mitocondriale porta a morte per necrosi perché la cellula non
ha energia necessaria per portare a termine il processo apoptotico. Danno mitocondriale è tra quelli che
impattano maggiormente a livello di organo perché se le cellule di quell’organo non possono attivare apoptosi
moriranno sicuramente per necrosi → si forma tessuto necrotico che scatena una risposta infiammatoria a
livello dell’organo colpito con effetti negativi sulla funzionalità dell’organo stesso.
Moltissimi composti chimici interferiscono con la sintesi di ATP a livello mitocondriale a diversi livelli della
produzione di ATP:
- interferenza con il trasferimento di protoni a livello della catena di trasporto degli elettroni;
- inibizione del trasferimento di elettroni all’ossigeno lungo la catena di trasporto degli elettroni
- interferenza con l’utilizzazione di ossigeno da parte del trasportatore terminale di elettroni, citocromo
ossidasi.
- inibizione dell’attività dell’ATP sintetasi, l’enzima chiave della fosforilazione ossidativa
- danneggiamento del DNA mitocondriale con alterazione della sintesi di proteine necessarie per la
fosforilazione ossidativa. Tutti gli elettrofili deboli (es radicali liberi) che sono sostanze altamente reattive
danneggiano direttamente il DNA mitocondriale
Comunque, indipendentemente dal meccanismo, l’evento finale è la morte necrotica della cellula per
deplezione di ATP.
Inoltre, il fatto di ridurre la fosforilazione dell’ADP ad ATP determina un accumulo di ADP e derivati che
diventano tossici per la cellula quando si accumulano. Si innescano quindi una serie di eventi che portano a
un aumento di tossicità all’interno della cellula.
Un’altra importante conseguenza della deplezione di ATP è l’ACIDOSI: per cercare di produrre energia la
cellula attiva vie alternative come quella basata sulla lattato deidrogenasi. Questo determina un accumulo di
lattato che determina acidosi, che a sua volta contribuisce alla morte della cellula per necrosi.
Esempio di xenobiotico che causa un danno mitocondriale e una forte tossicità a livello dell’intero organismo
sono i salicilati.
Salicilati sono principi attivi estratti per la prima volta dal salice. Capostipite è acido acetil-salicilico ossia
l’aspirina, brevettata alla fine dell’800 dalla Bayer, un farmaco antinfiammatorio non steroideo (FANS) della
famiglia dei salicilati che ha effetti di tipo analgesico, antinfiammatorio e antipiretico. Sono stati poi scoperti
altri utilizzi dell’aspirina come anticoagulante (cardio-aspirina) perché ha la capacità di inibire la formazione
di trombostani quindi inibisce la cascata della coagulazione (quindi fluidifica il sangue e per questo può essere
usata per la prevenzione dell’infarto del miocardio). Aspirina a dose terapeutiche non è tossica ma diventa
letale quando si sale con la dose. La dose letale per un bambino è di 10g, nell’adulto possiamo assistere a una
serie di reazioni avverse dose-dipendente:
- Fino a 9 compresse: iperpnea = alterazione del ritmo respiratorio tipica dei salicilati perché è un tipo di
respirazione molto lenta e profonda innescata dal farmaco + gastriti e dolori gastrici per danneggiamento
della mucosa dello stomaco
- Da 10 a 15 compresse: persiste iperpnea + sudorazione copiosa (diaforesi) e letargia (estrema
sonnolenza) strettamente correlata all’iperpnea perché la respirazione molto faticosa porta il paziente a
mostrare questa sonnolenza
- > 16 compresse: coma, convulsioni, insufficienza respiratoria, morte

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Intervento tempestivo ha l’obbiettivo di ridurre l’assorbimento quindi si fa una lavanda gastrica e si
somministra carbone attivo, una sostanza adsorbente (non è specifico per l’aspirina) che tende a sequestrare
lo xenobiotico limitandone l’assorbimento.
Ma ad alte dosi, quando la sintomatologia si manifesta, significa che c’è già stato un altissimo assorbimento e
questo ha portato a una riduzione del pH del sangue. MA aspirina è un acido debole quindi in ambiente acido
rimane nella forma indissociata quindi viene riassorbito dal rene → non si riesce a eliminare il farmaco a livello
renale e quindi farmaco rimane nell’organismo. A livello ospedaliero quindi si somministra bicarbonato per
basificare le urine = si cerca di aumentare il pH per fare in modo che acido acetil-salicilico si dissoci e venga
eliminato a livello del tubulo renale. MA sangue acidificato presenta un’elevata concentrazione di protoni
(derivanti dall’acido acetil-salicilico) che reagiscono con lo ione bicarbonato a formare acido carbonico il quale
spontaneamente si dissocia in acqua e anidride carbonica → abbiamo all’interno del sangue un aumento di
CO2 ed è questo il motivo per cui il paziente va in iperpnea = con espirazione lenta e profonda cerca di
eliminare la CO2 dal sangue. Questo fenomeno è definito acidosi metabolica: organismo cerca di eliminare la
CO2 dal sangue attivando l’iperventilazione. MA la presenza di ioni bicarbonato a livello del sangue ha anche
un effetto a livello renale perché il bicarbonato inverte il funzionamento di un trasportatore a livello del tubulo
renale: normalmente questo trasportatore estrude dal sangue cloro mentre in presenza di bicarbonato,
questo trasportatore cerca di eliminare il bicarbonato dal sangue con le urine e lo scambia con ioni cloro (che
vengono riassorbiti). Gli ioni cloro però interferiscono con la contrattilità muscolare. In particolare, l’aumento
della concentrazione di ioni cloro causa iperpolarizzazione delle cellule eccitabili tra cui quelle del miocardio,
portando a un rallentamento dei battiti cardiaci fino al coma e alla morte.
A livello cellulare, il danno più grave indotto dai salicilati avviene sui mitocondri e sulla sintesi di ATP. Il fatto
di avere un pH estremamente acido fa in modo che l’acido acetilsalicilico si trovi nella forma indissociata quindi
possa attraversare facilmente la membrana mitocondriale esterna perché altamente lipofilo e quindi si venga
a trovare nello spazio intermembrana. Qui ci sono molti protoni quindi è acido quindi acido acetilsalicilico
rimane indissociato, attraversa anche la membrana mitocondriale interna e si viene a trovare nella matrice.
Nella matrice mitocondriale il pH è alcalino quindi acido acetilsalicilico si dissocia rilasciando protoni. MA dal
momento che il gradiente protonico tra matrice e spazio intermembrana è la forza che spinge l’ATP sintasi a
sintetizzare ATP, il rilascio di protoni da parte dell’acido acetilsalicilico dissipa il gradiente protonico stesso →
si blocca il passaggio dei protoni secondo gradiente attraverso l’ATP-sintasi e si ha un blocco nella produzione
di ATP (DISACCOPPIAMENTO MITOCONDRIALE). Nel caso dei salicilati questo non avviene nel singolo organo
ma a livello di tutte le cellule del corpo. Quindi disaccoppiamento mitocondriale contribuisce con
iperventilazione e ipereccitazione delle cellule eccitabili a portare al coma e alla morte in caso di overdose di
questi farmaci. La deplezione di ATP o a livello delle singole cellule o quando l’intossicazione è sistemica a
livello di tutte le cellule del corpo può avere conseguente fatali per l’intero organismo
2. Aumento del calcio citoplasmatico:
Calcio libero nella cellula è altamente tossico per cui nelle cellule a riposo viene stoccato all’interno di specifici
organelli oppure è legato a specifiche proteine citoplasmatiche. Essendo così tossico per la cellula, ci sono una
serie di canali ionici voltaggio dipendenti o indipendenti, pompe e trasportatori che ne garantiscono bassi
livelli intracellulari (c’è una differenza di 10 000 volte tra calcio extracellulare e intracellulare e tale differenza
è mantenuta dall’azione di trasportatori e pompe che continuano a estrudere calcio dalla cellula). Anche
minime variazioni nei livelli di calcio intracellulare portano a un danno cellulare che innesca la morte della
cellula per necrosi
3. Stress ossidativo (= produzione di radicali liberi all’interno della cellula)
La perdita dell’omeostasi cellulare può portare alla produzione di ROS e di specie reattive dell’azoto che,
essendo altamente reattive, sono in grado di danneggiare moltissime componenti intracellulari:
• lipidi causando la rottura delle membrane degli organelli interni e della membrana citoplasmatica
• proteine ed enzimi: radicali liberi causano denaturazione delle proteine mentre se reagiscono con il sito
attivo dell’enzima, sono in grado di bloccare la funzionalità dell’enzima. Ad esempio i radicali liberi sono
molto dannosi verso le caspasi che nel sito attivo hanno una cisteina quindi i radicali liberi interagendo
con cisteina bloccano il sito attivo. La cellula quindi non è più in grado di attivare apoptosi per cui un
effetto di questo tipo porta la cellula a morire per necrosi.

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• DNA inducendo potenzialmente anche una serie di mutazioni. Mutagenesi può sfociare in cancerogenesi
(non è detto perché cellula può andare incontro a morte senza replicarsi però potenzialmente i radicali
liberi sono cancerogeni). Moltissime sostanze tossiche, in particolare quasi tutti i metalli di transizione e
i metalli pesanti, sono in grado di generare ROS e specie reattive dell’azoto che sono fortemente instabili
e danneggiano più di una componente cellulare quindi il danno cellulare sarà esteso. Più organelli e più
componenti intracellulari vengono danneggiate, meno è probabile che la cellula sopravviva e quindi più
esteso è il danno indotto da queste sostanze. Danni indotti dall’esposizione spesso cronica a metalli
pesanti sono deleteri per l’organismo
4. Stress a livello del RE con induzione di autofagia:
Mitocondrio è organello più sensibile agli stress indotti da sostanze tossiche ma il RE è indispensabile sia per
la sopravvivenza ma anche per il corretto funzionamento cellulare:
a. RE liscio contiene la maggior parte degli enzimi del citocromo p450 coinvolti nel metabolismo di fase I e
II. Quindi questo organello è fondamentale per i fenomeno di bio-inattivazione e detossificazione legati
agli xenobiotici quindi è molto importante quando parliamo di sostanze tossiche perché il suo corretto
funzionamento assicura che la sostanza tossica venga metabolizzata ed eliminata
b. RE rugoso è importante per lo stoccaggio del calcio (quindi se si verifica un danno a questo livello si ha
rilascio di calcio nel citoplasma e quindi morte della cellula per necrosi) e per la sintesi proteica perché è
sede del ripiegamento post-traduzionale delle proteine. Il RE rugoso funziona come un sistema di
controllo-qualità: ogni volta che ci sono delle modificazioni a livello post-traduzionale che portano a un
errato folding delle proteine queste vengono distrutte in modo che non ci siano proteine mal funzionanti
all’interno della cellula. Alterazioni a questo livello sono tipiche di malattie neurodegenerative in cui si ha
un accumulo di proteine unfolded o missfolded all’interno della cellula
QUINDI quando si hanno alterazioni dell’omeostasi del RE rugoso, si ha un errato “folding” delle proteine. In
questo caso la cellula è in grado di attivare un programma adattativo particolare definito Unfolded Proteine
Response (UPR) (RISPOSTA ALLE PROTEINE NON RIPIEGATE): se la cellula sente che c’è uno stress a livello del
RE rugoso, attiva la UPR che mette in pausa l’attività del RE finché non si risolve il danno e si ripristina
l’omeostasi. Solo a quel punto il programma viene disattivato e il reticolo torna a lavorare normalmente.
Quando lo stress o la tossicità a livello del RE persiste, questo programma blocca completamente la sintesi
proteica e arresta il ciclo cellulare mandando la cellula in apoptosi. La differenza quindi la fa l’esposizione: se
danno persiste verrà indotta morte cellulare piuttosto che risoluzione del danno e sopravvivenza della cellula.
Il processo di UPR è associato a un altro fenomeno fisiologico cellulare che è l’AUTOFAGIA. Non si tratta
propriamente di un meccanismo di morte cellulare bensì fa da ponte tra UPR (che mette in pausa la cellula
come produzione) e apoptosi. Quando si attiva autofagia è come se la cellula si mettesse in “risparmio
energetico”: è in grado di sopravvivere ma con un metabolismo estremamente basso per un periodo limitato
(aspettando che si risolva il danno e si ripristini l’omeostasi) + è in grado di auto sostentarsi come nutrimento
riciclando gli organelli interni. Se danno persiste dall’autofagia si transita verso l’apoptosi (quindi autofagia
serve a prendere tempo per cercare di risolvere il danno). Se danno non viene risolto la cellula decide il suo
destino ed entra in apoptosi (un minimo di metabolismo basale viene mantenuto, poi la cellula attiva autofagia
quindi può ricavare energia dagli organelli interni che vengono disgregati da enzimi lisosomiali e grazie a
queste strategie recupera l’energia necessaria ad avviare e portare avanti apoptosi)
QUINDI le cellule possono innescare diverse meccanismi per cercare di difendersi e sopravvivere, non è detto
che ogni volta che entriamo in contatto con qualcosa di tossico abbiamo qualcosa di visibile a livello delle
cellule. Organismo è in grado di rispondere alla maggior parte degli agenti tossici con cui viene a contatto ogni
giorno (sempre tenendo presente dose ed esposizione che sono fondamentali per determinate il destino
cellulare).

→ EFFETTI TOSSICI DIRETTI A LIVELLO DI INTERI TESSUTI o ORGANI


In questo caso sostanze tossiche non inducono morte cellulare bensì cambiamenti morfologici a livello di interi
tessuti o organi solitamente alterandone la crescita o il differenziamento cellulare. Comunemente si pensa
che la maggior parte dei cambiamenti macroscopici a livello di organi siano associati ad eventi di mutagenesi
e carcinogenesi ma in realtà esistono una serie di cambiamenti a livello macroscopico nelle dimensioni degli
organi e nei tessuti che non sono associati a carcinogenesi quindi sono quasi sempre rimediabili nel tempo.

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→ ATROFIA: prima alterazione morfologica che si può verificare in un tessuto e rappresenta una forma di
adattamento. È caratterizzata da una riduzione complessiva del volume dell’organo o del tessuto mediante
una riduzione del numero o delle dimensioni delle cellule che compongono quell’organo. Tessuto atrofico ha
una dimensione ridotta rispetto a quella fisiologica. Normalmente le cellule di dimensioni ridotte che
compongono il tessuto atrofico, sono vitali ma spesso hanno metabolismo e capacità metabolica ridotta
quindi funzionano ma funzionano peggio di una cellula normale. Si tratta quindi di cellule in autofagia:
organelli interni vengono digeriti dai lisosomi e quindi utilizzati come fonte di sostentamento in un
meccanismo che permette alla cellule di sopravvivere in condizioni di carenza di nutrienti. L’atrofia infatti si
manifesta spesso all’interno di un intero organo per una mancanza di nutrienti, che potrebbe essere dovuta
ad esempio da una perfusione sbagliata (in caso di ischemia organo interessato non è correttamente perfuso
quindi non è raggiunto da un’adeguata quantità di nutrienti e ossigeno) oppure per una alterazione a livello
ormonale (ad esempio terapie con anti-androgeni causano atrofia del tessuto riproduttivo così come terapie
anti-estrogeniche nelle donne causano atrofia degli organi riproduttivi e in particolare dell’utero). Dal
momento che non si tratta di cambiamenti di tipo neoplastico, ripristinando l’apporto di nutrienti o la
stimolazione ormonale normale, possiamo tornare allo stato originario (→ situazioni reversibili)
→ IPERTROFIA: aumento delle dimensioni di un organo per aumento del volume cellulare quindi in questo
caso le cellule che compongono organi ipertrofici hanno dimensioni maggiori del nomale. Di solito questo
aumento è dovuto a un aumento della sintesi delle componenti strutturali all’interno delle singole cellule. Un
esempio di organo che risponde con ipertrofia a brevi esposizioni a sostanze tossiche, è il fegato (ipertrofia
epatocellulare). In particolare, il fegato aumenta di dimensioni perché esso aumenta all’interno delle singole
cellule le componenti strutturali. Questo a livello funzionale nel fegato si manifesta come un aumento della
capacità di metabolizzazione perché le cellule hanno al proprio interno più organelli e quindi hanno una
maggiore potenzialità di metabolizzare gli xenobiotici. QUINDI ipertrofia epatocellulare si manifesta come
un’aumentata capacità funzionale (metabolica) all’interno dell’intero organo ma questo può avere delle
ripercussioni a livello dell’intero organismo perché assunzione dello stesso dosaggio di farmaco potrebbe non
essere più efficace in quanto l’equilibrio è completamente spostato verso la metabolizzazione e quindi il
farmaco non fa in tempo ad espletare la sua funzione a livello del proprio bersaglio molecolare. Questo diventa
un problema anche nel caso di metaboliti (farmaci o sostanze tossiche) che devono essere bio-attivati a livello
del fegato perché si osserverebbe la produzione di una maggiore quantità di sostanza tossica a livello epatico.
Anche iperplasia è reversibile: una volta che l’esposizione viene ridotta si torna a una situazione fisiologica.
→ IPERPLASIA: aumento delle dimensioni di un organo per aumento del numero di cellule che lo compongono.
Non si tratta di cellule neoplastiche mutate ma sono uguali alle originali. Ipertrofia si può verificare a livello di
tutti i tessuti (anche a livello del miocardio ad es ci sono persone con un cuore di dimensioni maggiori rispetto
alle altre) mentre iperplasia si può verificare solo a livello dei tessuti dotati di capacità rigenerativa (quindi mai
si verifica a livello cerebrale e del miocardio). Anche iperplasia è reversibile
→ METAPLASIA: forma particolare di iperplasia perché mentre nell’iperplasia le nuove cellule sono uguali
all’originale, nella metaplasia le nuove cellule che si formano sono un tipo cellulare diverso dall’originario (=
si verifica all’interno di un organo la sostituzione parziale di un tipo cellulare con un altro). Solitamente la
metaplasia è il risultato di un’esposizione cronica: la persistenza della sostanza tossica per lungo tempo può
portare a un diverso differenziamento delle cellule che compongono un tessuto. Non si tratta di tessuto
neoplastico anche se la metaplasia può portare a una provvisoria perdita funzionale. Questo si verifica ad
esempio nei fumatori cronici: epitelio polmonare cigliato, sottoposto continuamente a stress da parte del
fumo di sigaretta, viene sostituito da un epitelio squamoso stratificato che è più resistente al potere irritante
del fumo di sigaretta ma non è efficace nel captare l’ossigeno come quello cigliato. In pratica quindi il polmone
intero cerca di rendersi più resistente al potere irritante della sostanza tossica ma perdiamo parzialmente la
capacità dei polmoni di ossigenare il sangue. Anche in questo caso al cessare dell’esposizione alla sostanza si
può tornare all’equilibrio iniziale e questo è possibile perché non si tratta di neoplasie quindi il corredo
genomico delle singole cellule resta lo stesso. Si tratta proprio di un meccanismo adattativo: la cellula pur non
cambiando il proprio patrimonio genetico si trasforma in qualcosa che ha più probabilità di preservare in
quelle condizioni la funzionalità dell’organo ma comunque si tratta di un processo reversibile: cessa
l’esposizione alla sostanza tossica e quindi si torna allo stato originario.

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→ RIGENERAZIONE: sostituire le cellule danneggiate all’interno dell’organo o tessuto.
Nel caso della fibrosi epatica non si parla di metaplasia bensì di rigenerazione verso fibrosi (che viene indotta
dallo stato infiammatorio persistente a seguito della necrosi dovuta alla persistenza della sostanza tossica a
livello epatico). Gli epatociti che muoiono per necrosi inizialmente vengono sostituiti da epatociti funzionanti
ma se la sostanza tossica permane (es nel caso dell’alcool) vengono sostituiti da tessuto fibroso che però non
è funzionante. In questo caso la transizione è irreversibile e la funzionalità è persa definitivamente. La
rigenerazione quindi può essere di due tipi:
- conservativa: cellule danneggiate vengono sostituite con cellule uguali per cui non si ha perdita della
funzionalità dell’organo.
- non conservativa (= riparazione mediante sostituzione): organo si rigenera sostituendo la tipologia
cellulare (solitamente sostituzione con il tessuto fibrotico) e questo a lungo andare porta a una perdita
di funzionalità come accade nella rigenerazione verso fibrosi del fegato. A seconda dell’estensione della
sostituzione, questo impatterà in modo più o meno grave sull’intero organismo (se c’è una parziale
sostituzione con tessuto fibrotico, si può garantire una certa funzionalità senza causare effetti
estremamente gravi sull’intero organismo. Quando l’esposizione persiste, si arriva a un punto in cui il
tessuto fibrotico supera il tessuto funzionalmente attivo quindi a quel punto ci sarà una perdita di
funzionalità dell’organo (e non c’è nulla da fare se non il trapianto come nel caso della cirrosi, in cui il
tessuto fibrotico ha sostituito la maggior parte degli epatociti). Il fegato è probabilmente l’organo
viscerale più grande che abbiamo per cui quando la fibrosi coinvolge una piccola porzione questo non si
ripercuote sulla funzionalità dell’intero organo, la perdita di funzionalità si osserva quando la fibrosi
colpisce la maggior parte dell’organo
La rigenerazione coinvolge solo tessuti che hanno un potenziale proliferativo che può essere dovuto sia alle
cellule stesse che compongono il tessuto sia per la presenza di cellule staminali. Solitamente la rigenerazione
avviene in tessuto molto attivi dal punto di vista proliferativo quindi solitamente non avviene a livello di SNC:
cellule che muoiono a livello di SNC non possono essere rigenerate. Il danno si accumula fino ad arrivare a
una estensione tale finché l’effetto non è più recuperabile. Nelle malattie neurodegenerative il danno va in
accumulo tanto che i primi segni del Parkinson quando sono già morti il 60% dei neuroni dopaminergici (e non
possono più essere recuperati).

→ REAZIONI ALLERGICHE E DI IDIOSINCRASIA


Questo tipo di reazione per i farmaci è più spesso scatenata dagli eccipienti (che sono di dimensioni
relativamente grandi mentre i principi attivi sono molecole molto piccole). Il termine allergia si riferisce ad
uno stato di alterata reattività del sistema immunitario in risposta a xenobiotici. In medicina si parla di
IPERSENSIBILITÁ e una sostanza in grado di indurre reazione allergica sono definiti ALLERGENI. Tutti gli
allergeni sono definiti IMMUNOGENI ossia sono in grado di funzionare da antigeni all’interno di individui
sensibili e di dare origine alla formazione di anticorpi (fenomeno che si verifica alla prima esposizione alla
sostanza è definito SENSIBILIZZAZIONE). Una caratteristica dell’allergia è che perché si sviluppi una reazione
allergica è necessaria una prima e preventiva esposizione che ha determinato la sensibilizzazione (reazione
allergica non si verifica mai alla prima esposizione ma solo a quelle successivi perché la prima esposizione è
quella che porta alla formazione all’interno di organismi che in una seconda esposizione, riconosceranno
l’antigene scatenando la risposta immunitaria in risposta all’antigene stesso). QUINDI le reazioni allergiche
hanno caratteristiche peculiari:
- si scatenano in seguito a una prima esposizione all’agente (= è necessaria sensibilizzazione ossia una
prima esposizione perché nelle esposizioni successive si manifesti una reazione allergica)
- non sono dose-dipendenti nel senso che la reazione allergica non aumenta all’aumentare della dose di
agente, sono sufficienti anche dosi bassissime della sostanza per innescare una risposta allergica
- non sono geneticamente determinate (= qualsiasi individuo in qualsiasi momento della vita può
manifestare una reazione allergica a un particolare xenobiotico)
La reazione allergica può andare da una reazione locale (confinata al sito di esposizione nel caso ad es della
reattività cutanea) o nei casi più gravi può dare una reazione di tipo sistemico (quando l’allergene viene
ingerito e in questi casi effetti sull’organismo possono essere anche letali se non trattati tempestivamente).

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Sono state identificate 4 tipi di reazioni allergiche con diverse caratteristiche sia come tempi di insorgenza sia
per quanto riguarda le cellule del sistema immunitario che mediano queste diverse risposte:
• TIPO I: è l’unica reazione immediata (insorge istantaneamente dopo 2-30 minuti dall’esposizione sempre
dopo una prima esposizione allo xenobiotico) ed è mediata dalle IgE. Alla seconda esposizione, le IgE
riconoscono l’antigene e si legano a specifici recettori che si trovano su mastociti e basofili attivando
queste cellule che rilasciano granuli contenenti mediatori infiammatori (istamina, eparina e una serie di
proteasi), che scatenano la reazione allergica. Sintomi differiscono a seconda che la reazione sia locale
(ad es a livello cutaneo si manifesta con orticaria o rash cutaneo localizzato + congiuntivite a livello
oculare) o sistemica (se allergene viene ingerito). Nei casi più gravi si può arrivare anche allo shock
anafilattico caratterizzato da un aumento della permeabilità basale e da edema diffuso. Nei casi più gravi
in cui edema porta a un rigonfiamento della trachea si osservano anche difficoltà respiratorie. Questo
tipo di allergia, se leggera viene tratta con antistaminici mentre nei casi di shock anafilattico bisogna
procedere con iniezioni di adrenalina e nei casi di difficoltà respiratorie gravi bisogna somministrare beta
agonisti che possano dilatare le vie aeree superiori. Si tratta dell’unica reazione per cui può avere validità
predittiva il patch test (il test che si fa comunemente a livello cutaneo per valutare la sensibilizzazione a
moltissimi allergeni). Per gli altri tipi di allergia questo test non è predittivo di una risposta allergica
• TIPO II: si scatenano dopo 5-8 ore dall’esposizione e sono definite risposte citotossiche. In questo caso,
alla seconda esposizione all’allergene, il complesso Ag-Ac si lega alla superficie delle cellule del sangue
(solitamente eritrociti o neutrofili) e in questo modo il complesso che si forma (Ag-Ac-cellule) viene
distrutto. Normalmente vengono reclutati i fagociti per la rimozione di queste cellule e questo tipo di
reazione può essere molto grave perché se le cellule cui si lega il complesso Ag-Ac sono i globuli rossi può
dar luogo alla comparsa di anemie emolitiche acute per cui si tratta di reazioni pericolose nei casi di
ipersensibilità più gravi
• TIPO III: vengono attivate (dopo 2 -8 ore dall’esposizione) quando si creano nel sangue dei grossi
complessi Ag-Ac. Normalmente, la stechiometria Ag-Ag è 1:1 mentre in questo caso si formano grandi
complessi insolubili che tendono a precipitare all’interno dei vasi sanguigni. Una volta che il complesse è
precipitato si ha attivazione del complemento e dei macrofagi che creano infiammazione nei vasi
sanguigni creando danni vascolari. Questa situazione è conosciuta a livello medico come MALATTIA DEL
SIERO perché viene scatenata una reazione a livello del sistema circolatorio e il paziente manifesta
febbre, dolori articolari e un grosso rigonfiamento dei linfonodi (quindi è una reazione allergia che rimane
confinata all’interno del circolo sanguigno).
• TIPO IV: insorge mediamente dopo 2-3 giorni dall’esposizione ed è mediata da linfociti T helper ma
esistono casi in cui questo tipo di reazioni si evidenziano anche 5-10 giorni dopo l’esposizione
all’allergene. In questo caso diventa molto difficile identificare allergene che ha scatenato questa
risposta. Tipiche reazioni di questo tipo sono le dermatiti da contatto che sono spesso indotte da sostanze
come nichel. Sono definite anche ERUZIONI FISSE AI FARMACI, si manifestano a livello epidermico, hanno
una manifestazione peculiare rispetto alle altre reazioni allergiche e si verificano molto in persone
costantemente a contatto con sostanze chimiche (es i parrucchieri che utilizzano spesso prodotti
contenenti sostanze irritanti e la continua esposizione determina una cronicizzazione da contatto. Di
solito si manifestano in persone esposte cronicamente a un allergene e hanno una manifestazione
cutanea, non sistemica).
Le reazioni di IDIOSINCRASIA sono reazioni completamente anomale a uno xenobiotico geneticamente
determinate (differenza principale rispetto alle reazioni allergiche) nel senso che sono dei polimorfismi genici
che determinano una risposta a una sostanza completamente diversa da quella che ci si aspetterebbe. La
risposta allo xenobiotico non cambia, cambia l’intensità: questi soggetti rispondono in maniera estremamente
eccessiva o non rispondono del tutto ad alcuni xenobiotici. Ad es abbiamo persone estremamente sensibili a
dosi basse (che normalmente non innescano risposta) oppure persone estremamente resilienti a dosi molto
alte che normalmente in un individuo normale sono tossiche. Le reazioni di idiosincrasia sono quindi reattività
esacerbate in un senso o nell’altro geneticamente determinate (quindi sono presenti nell’individuo fin dalla
nascita).
Un esempio di reazione di idiosincrasia riguarda l’isomiazide in soggetti con un polimorfismo dell’acetil-
transferasi:

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L’isomiazide è il più comune antibiotico per il trattamento della tubercolosi (infezione da Mycobacterium) ed
è stato osservato che tra le persone trattate con isomiazide, ci sono degli individui che non rispondono
minimamente (nel senso che sono completamente insensibili agli effetti del farmaco). Per cercare di capire
perché queste persone non rispondevano assolutamente al trattamento si è visto che presentano un
polimorfismo nel gene per l’acetil-transferasi e quindi il farmaco, una volta nell’organismo, veniva acetilato in
maniera estremamente rapida ma la forma acetilata del farmaco non era attiva e questo portava queste
persone a non rispondere alla terapia. In queste persone il farmaco anche a dosaggi elevati è completamente
inefficace.
Altro esempio riguarda il deficit della glucosio 6-fosfato deidrogenasi:
Gene che codifica per questo enzima si trova sul cromosoma X e normalmente questa mutazione è recessiva
per cui le manifestazioni si verificano più frequentemente nei maschi eterozigoti mentre le femmine sono
portatrici della mutazione. Questo tipo di mutazione è stata funzionale per l’evoluzione infatti colpisce il 7-8%
della popolazione mondiale ma questa mutazione è diffusa in particolare nelle aree dove è endemica la
malaria. Ad es in alcune zone dell’africa la presenza della mutazione può raggiungere il 35% e anche nelle aree
del Mediterraneo l’incidenza è molto alta (contro lo 0,1% ad es del Giappone). Questo non è un caso: dal
punto di vista dell’evoluzione è stata selezionata questa tipologia di mutazioni perché queste persone, pur
essendo fragili dal punto di vista medico perché frequentemente colpite da anemie emolitiche acute se
esposte a stress ossidativi sono più resistenti nei confronti della malaria. Infatti, il plasmodio della malaria, che
sfrutta i globuli rossi per riprodursi, in queste persone non può farlo perché i globuli rossi di queste persone
sono estremamente deboli e quindi quando il plasmodio prova a replicarsi in questi globuli rossi, essi vanno
incontro ad emolisi quindi questi soggetti sono estremamente resistenti alla malaria. Lo sviluppo di anemia
emolitica dipende da un difetto nella glucosio 6P deidrogenasi, l’enzima che catalizza la prima reazione della
via dei pentoso fosfati (quindi produce ribosio 5P necessario per la sintesi di nucleotidi) ma è anche
importantissimo perché produce il NADPH, un cofattore essenziale per molte reazioni metaboliche e perché
detossifica l’acqua ossigenata, un agente in grado di indurre un forte stress ossidativo. Normalmente questo
enzima è presente in tutte le cellule dell’organismo ma, mentre nelle altre cellule ci sono vie alternative per
produrre il NADPH, nei globuli rossi la via della pentoso 6P deidrogenasi è l’unica possibile → i soggetti con un
grosso deficit nella glucosio 6P deidrogenasi, hanno un deficit di produzione del NADPH nei globuli rossi e
questo li rende estremamente sensibili a qualsiasi tipo di stress ossidativo, sia indotto da farmaci che
nell’alimentazione (qualsiasi cosa che abbia un potenziale ossidativo può portare queste persone a sviluppare
anemia emolitica acuta). Nel caso della malaria questa debolezza diventa forza. La gravità del quadro clinico
dipende quanto è ridotta attività enzimatica (riduzione dal 5 al 50%). Nelle forme più gravi (riduzione prossima
al 50%), queste persone hanno un colore cianotico perché un altro effetto secondario del deficit della glucosio
6P deidrogenasi, porta ad avere meta-emoglobinemia nei globuli rossi: nei globuli rossi normali l’emoglobina
lega ferro nella forma ridotta (ferro II) che permette di trasportare l’ossigeno agli organi. Nelle persone che
hanno un grosso deficit enzimatico, non riuscendo a ostacolare i fenomeni di ossidazione a livello del globulo
rosso, emoglobina lega ferro ossidato (ferro III) che perde la capacità di legare l’ossigeno quindi gli eritrociti
di queste persone contengono meta-emoglobina (= emoglobina legata al ferro nella sua forma ossidata) che,
pur circolando, non trasportano ossigeno e questo porta a una riduzione dell’apporto di ossigeno che si può
manifestare con questo colore cianotico. La reazione idiosincrasica in questo caso riguarda lo sviluppo di
anemie (anche molto gravi in soggetti con un forte deficit enzimatico) in risposta a farmaci o a determinati
cibi che a differenza delle persone normali questi soggetti non possono detossificare.

→ MUTAGENESI E CARCINOGENESI
Agenti chimici che inducono cancerogenesi sono quelli più difficili da studiare e da prevedere nei test preclinici
perché la cancerogenesi è un fenomeno che si sviluppa nel lungo termine. Vanno quindi conosciuti per evitare
o limitare al massimo esposizione. Gli agenti chimici possono indurre cancerogenesi con due modalità:
agiscono direttamente sul DNA oppure in modo indiretto mediante induzione di stress ossidativo (radicali
liberi prodotti possono interagire col DNA) oppure l’attivazione di onco-geni/ l’inibizione di geni onco-
soppressori (= agenti chimici possono regolare geni responsabili del controllo del ciclo cellulare).

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MUTAGENESI = mutazione stabile a livello del DNA quindi una volta che si verifica questo tipo di danno non è
reversibile → mentre per le sostanze tossiche viene solitamente stabilito un valore soglia, questo non si può
fare per le sostanze che inducono mutagenesi perché anche una singola esposizione può portare a un
danneggiamento a livello del DNA e a un danno irreversibile. Il danno può avvenire sia sulle cellule somatiche
che germinali: se si sviluppa nelle cellule somatiche il danno è limitato all’individuo esposto se invece la
mutazione coinvolge le cellule germinali, il danno può essere trasmesso alla progenie.
Una singola mutazione a livello del DNA nella maggior parte dei casi non porta allo sviluppo di cancro perché,
per diverse ragioni, questa mutazione non impatta a livello funzionale sull’organismo o sulla cellula stessa.
Spesso una mutazione per potersi manifestare necessita di un’altra interazione con un fattore che porti alla
manifestazione della mutazione stessa → se la mutazione avviene sulle cellule somatiche è possibile che venga
affiancata da altri insulti, successivi alla mutazione stessa, e questo può dar luogo a neoplasie. Solitamente
nelle cellule somatiche di un individuo adulto si verificano mutazioni punti formi che coinvolgono singole basi
(sostituzioni, inserzioni e delezioni).
Nelle cellule germinali, se si sviluppa una mutazione che non è compatibile con la vita, si hanno aborti
spontanei in tutti i casi mentre se la mutazione è compatibile con la vita, questa si manifesta sotto forma di
alterazioni genetiche nella progenie. A livello delle cellule germinali, normalmente si verificano aberrazioni
cromosomiche quali delezioni (= perdita di un pezzo del cromosoma), duplicazioni (= un pezzo del cromosoma
viene duplicato e reinserito), traslocazioni (= si possono avere inversioni quindi un pezzo del cromosoma viene
exciso e reinserito in direzione opposta oppure la traslocazione in cui pezzi di due cromosomi diversi si
scambiano). Questo tipo di alterazioni nella maggior parte dei casi portano ad aborti perché se in un
cromosoma possono esserci anche 2000 geni, mutazioni di questo tipo determinano alterazioni del
patrimonio genetico tali per cui non porta alla nascita, in alcuni casi invece certe alterazioni cromosomiche
sono compatibili con la vita e si associano a malattie genetiche con fenotipi anche piuttosto gravi
Tutti gli agenti mutageni fino a oggi identificati che interagiscono con il DNA e possono quindi cambiare
informazione genetica delle cellule, sono composti in grado di indurre rottura a livello del singolo o del doppio
filamento oppure sono composti in grado di creare degli addotti sul DNA cioè sono sostanze chimiche che
legano il DNA e ne alterano la sequenza. Le principali classi di agenti per le quali è stata chiaramente stabilita
un’azione mutagena sono:
- analoghi delle basi (es bromo-uracile): composti chimici che hanno una somiglianza chimica con le basi
azotate del DNA e quindi vengono utilizzati dalla cellula al posto delle normali basi azotate e vengono
utilizzati per la sintesi del DNA
- agenti in grado di modificare le basi azotate: di solito si tratta di agenti alchilanti, idrossilanti o
deaminanti. Tutti i composti chimici con queste caratteristiche hanno potenzialmente un agenti
mutageno
- agenti intercalanti (es bromuro di etidio usato in lab)
Una singola esposizione o un singolo danno al DNA non portano a cancerogenesi ma se i danni si sommano è
altamente probabile sviluppare neoplasie quindi bisogna monitorare lavoratori a contatto con queste
sostanze.
In seguito a una singola esposizione, il danno può essere riparato oppure le cellule che hanno subito il danno
stesso vengono eliminate. Se la cellula danneggiata riesce a sopravvivere, la mutazione viene ereditata dalle
cellule figlie ma anche in questo caso potrebbe non svilupparsi una neoplasia perché in molti casi la mutazione
può rimanere silente (se la proteina sintetizzata dal gene mutato non è alterata. Questo di solito si verifica
quando all’interno della proteina un amminoacido viene sostituito con uno equivalente). Questo significa che
la mutazione viene mantenuta dalla cellula ed è trasmessa alle cellule figlie ma non dà luogo a eventi
neoplastici perché non ha un impatto negativo sulla funzionalità del prodotto genico. Se invece la cellula che
ha subito l’insulto sopravvive ma la mutazione non è compatibile con la sopravvivenza, è possibile che durante
la replicazione la cellula attivi l’apoptosi. QUINDI in queste situazioni una singola mutazione non causa lo
sviluppo di neoplasie.
Per avere cancerogenesi, è necessario che a seguito della prima mutazione la cellula subisca un altro evento
in grado di alterare l’espressione genica → esposizione successiva ad agenti genotossici è in grado di alterare
l’espressione genica di alcune proteine a livello qualitativo (= porta alla formazione di proteine che non sono

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funzionanti o comunque sono ripiegate in maniera scorretta quindi perdono completamente di funzionalità).
Altra possibilità è che in seguito alla prima mutazione, la cellula venga esposta ad agenti epigenetici che non
cambiano a livello qualitativo la funzionalità del prodotto genico ma sono in grado di modulare in senso
positivo o negativo la quantità dell’espressione genica. In particolare, cancerogeni epigenetici possono:
- indurre l’espressione di oncogeni. Questi geni sono attivati da molti agenti chimici e una cellula con
questo tipo di mutazione può diventare una cellula neoplastica. Normalmente gli oncogeni mutati da
sostanze chimiche con potenziale genotossico sono
a. Fattori di crescita e rispettivi recettori
b. Proteine coinvolte nella trasduzione del segnale
c. Fattori trascrizionali
Cellule con queste mutazioni, rispetto a quelle normali, hanno un’altissima propensione alla proliferazione e
quando una cellula si riproduce velocemente è molto probabile sviluppi mutazioni aggiuntive a quelle già
avvenute (→ altissima capacità proliferativa aumenta la probabilità che la cellula sviluppi ulteriori mutazioni).
Di solito quando c’è già stato un secondo evento mutazionale che ha portato a un’alterazione dell’espressione
di geni oncogeni/oncosoppressori, si sviluppa il processo di cancerogenesi che si manifesta con la formazione
di un nodulo formato da cellule in rapidissima proliferazione e che quindi possono poi acquisire mutazioni
aggiuntive. Il fatto che queste cellule si replichino così velocemente e possono mutare ulteriormente è alla
base della metastatizzazione (cellule accumulano ulteriori mutazioni rispetto alla cellule che le ha originate e
queste ulteriori mutazioni danno a queste cellule dei vantaggi di sopravvivenza e delle potenzialità differenti).
- sopprimere l’espressione di oncosoppressori. La mutazione a livello di oncosoppressori è uno dei
principali eventi osservati nelle cellule tumorali maligne a livello umano, a prescindere dalla tipologia di
neoplasia, il 50% dei tumori maligni umani mostra una mutazione a livello del gene p53, uno di principali
oncosoppressori cellulari.
I geni oncosoppressori inibiscono fisiologicamente la proliferazione cellulare quindi agenti chimici che
silenziano geni oncosoppressori portano le cellule a replicarsi in maniera incontrollata. Normalmente una
cellula mutata viene mandata in apoptosi ma quando si verificano mutazioni a livello di oncosoppressori,
questo non è più possibile quindi la cellula prolifera nonostante sia mutata in senso neoplastico
QUINDI mutazioni a livello di geni oncogeni/oncosoppressori può dar via al processo di cancerogenesi
mediante un’alterazione della proliferazione cellulare perché la cellula non è più in grado di controllare il ciclo
cellulare.
Evento di cancerogenesi quindi è un accumularsi di danni da parte delle sostanze chimiche, è necessario che
ci siano molti danni che si sommano tra loro quindi il fatto che venga monitorata nell’ambiente di lavoro
l’esposizione a sostanze con un potenziale genotossico è molto importante nella regolamentazione. Non basta
una singola mutazioni perché si sviluppi una neoplasia: processo di cancerogenesi è un processo multifasico
che non è completamente irreversibile e in particolare sono state identificate tre fasi nel processo:
INIZIAZIONE, PROMOZIONE e PROGRESSIONE. Gli agenti mutageni possono promuovere cancerogenesi
agendo a livello di iniziazione e promozione mentre la progressione è una conseguenza automatica dei primi
due eventi.
→ INIZIAZIONE: sono stati identificati diversi cancerogeni chimici fisici (radiazioni) o virali (es tumori associati
a papillomavirus, Epstein - Barr) che funzionano da iniziatori. Gli agenti tossici che agiscono nella fase di
iniziazione sono in grado di indurre la comparsa di una o più mutazioni a livello di DNA. Una volta che la cellula
è stata mutata, la mutazione è irreversibile, quello che può accadere è che la mutazione rimanga silente
(quindi non si va avanti nel processo di cancerogenesi) oppure la cellula va incontro ad apoptosi. A livello di
iniziazione, il processo di cancerogenesi può fermarsi oppure può avvenire un secondo evento

PROMOZIONE: avviene una ulteriore esposizione della cellula mutata a una sostanza tossica che può
promuovere la proliferazione della cellula trasformata. La mutazione viene trasmessa alle cellule figlie e
siccome la velocità di proliferazione è elevata, aumenta la probabilità che si accumulino nella progenie
ulteriori mutazioni.

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Le cellule che proliferano incontrollatamente e hanno accumulato mutazioni, entrano nella fase di
PROGRESSIONE, che non dipende dall’azione di agenti esterni bensì sono le cellule stesse che proliferando
così velocemente acquisiscono nuove mutazioni e quindi nuovi fenotipi e possono poi andare a formare le
metastasi e a intaccare altri organi oltre a quello iniziale.
Questo processo spiega perché sia estremamente importante controllare l’esposizione ad agenti mutageni
per evitare accumulo di mutazioni evitando di esposizioni ripetute. Esiste un elenco di agenti con un noto
potenziale mutageno e l'esposizione, soprattutto nell'ambiente di lavoro, viene monitorata in maniera molto
stretta.
Solitamente gli agenti inizianti sono sostanze chimiche che reagiscono direttamente con il DNA inducendo un
evento iniziale di mutagenesi. Possono avere azione diretta nel senso che sono gli agenti stessi che per la loro
struttura chimica inducono mutazioni interagendo direttamente col DNA oppure indiretta nel senso che
richiedono una prima attivazione metabolica per generare composti in grado di agire direttamente col DNA
(quindi in un caso agenti stessi, con la loro struttura chimica, sono in grado di interagire col DNA oppure la
struttura chimica non è in grado di interagire con il DNA ma una volta all'interno dell' organismo possono
subire una attivazione metabolica per cui il prodotto del metabolismo è in grado di interagire col DNA). Questi
composti in cui è il prodotto metabolico a essere cancerogeno sono detti PROCANCEROGENI. Il danno al DNA
può essere riparato e i prodotti metabolici (derivanti dal metabolismo dei procancerogeni) in grado di
danneggiare il DNA possono essere detossificati. Se questo non avviene si ha l’interazione diretta con il DNA
e l’induzione dell’evento mutageno. Questo dovrà essere seguito dall’esposizione a sostanze che promuovono
la proliferazione.
Le sostanze che intervengono nella fase di promozione non inducono un evento di mutagenesi bensì di stimolo
della proliferazione cellulare. Sono sostanze di questo tipo esteri del forbolo, fenoli e stimoli ormonali ma
anche alcuni farmaci. Si viene quindi a creare un clone di cellule mutate che sono spinte verso una
proliferazione incontrollata.
Le sostanze con un potenziale mutageno sono presenti anche nel suolo, aria, acqua e cibo quindi devono
essere costantemente monitorate:
- Tra gli agenti mutageni maggiormente presenti nell'aria troviamo il benzene e idrocarburi aromatici
policiclici e derivati e idrocarburi idrogenati
- Nell'acqua sono stati identificati come mutageni residui di pesticidi che ad oggi non possono più essere
utilizzati (pesticidi sono estremamente lipofili per cui tendono ad accumularsi nell’ambiente), idrocarburi
aromatici policiclici e i trialometani
- Nel suolo sono presenti alcuni metalli pesanti con potenziale mutageno
- Nel cibo, una delle sostanze più potenti cancerogeni noti (nonostante si tratti di una sostanza naturale)
è una micotossina detta AFLATOSSINA, prodotta da una muffa che si forma sui cereali
Per tutelare la salute dei lavoratori, l’INAIL monitora costantemente gli ambienti di lavoro per tutte quelle
sostanze chimiche che sono state chiaramente considerate dei mutageni e quindi stabilisce delle categorie a
rischio. Per molte di queste sostanze sono state identificate sia la tipologia di azione mutagena, sia gli organi
e i tessuti nei quali più probabilmente si può sviluppare neoplasia. Utilizzando queste tabelle, il lavoratore
necessariamente esposto alle sostanze elencate, viene periodicamente sottoposto a controlli medici per
tenere sotto controllo esposizione e tutelare salute. Vengono stilate queste tabelle perché in alcuni casi non
è possibile evitare completamente esposizione a queste sostanze (es persone che lavorano nella metallurgia
o nella cromatura o con vernici) quindi bisogna tenere costantemente monitorata la salute di questi lavoratori.
Tra i mutageni meglio caratterizzati ci sono il cromo, arsenico, nichel, cadmio, benzene, idrocarburi aromatici
policiclici, formaldeide, ammine aromatiche e l’asbesto (o amianto), utilizzato moltissimo fino a pochi anni fa.
Si tratta di un agente cancerogeno che è sia un agente diretto che indiretto quindi è ancora più pericoloso.
Infatti, amianto stesso è in grado di formare addotti col DNA mentre i radicali liberi che si sviluppano in seguito
al suo metabolismo possono interagire col DNA. Problema dell’amianto rispetto a metalli pesanti e idrocarburi
è che l’esposizione non è solo professionale bensì generalizzata dal momento che è stato usato fino agli anni
’80 per la coibentazione di edifici, tetti, navi, treni; come materiale da costruzione per l'edilizia sotto forma di
composito fibro-cementizio nell’edilizia (Eternit) quindi anche persone che non lavorano a stretto contatto
con questo agente sono potenzialmente esposte. Prima che si identificasse il potenziale cancerogeno, veniva

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anche utilizzato come coadiuvante nella filtrazione dei vini e come componente dei ripiani di fondo dei forni
per la panificazione quindi poteva anche essere ingerito con l’alimentazione.
Problema è che per le nuove sostanze chimiche sintetizzate, la valutazione del potenziale mutageno pone
molti dubbi perché è difficile riprodurre in vitro o in vivo un fenomeno che nell’uomo può realizzarsi anche in
40 anni. Si utilizzano dei test validati che permettono, con una certa affidabilità, di stimare o prevedere il
potenziale mutageno delle nuove sostanze chimiche sintetizzate

ADATTAMENTO: capacità dell’organismo di reagire all’insulto dato da sostanze tossiche → meccanismi di


adattamento fanno in modo che in seguito a esposizione cronica a sostanze tossica, organismo possa subire
meno danni e coinvolge risposte atte a preservare o mantenere l’omeostasi biologica malgrado la presenza
cronica dello stimolo tossico. Questo è importante perché consente all’organismo di aumentare la resistenza
allo xenobiotico. Come tutti i meccanismi adattativi, se esposizione o dose sono eccessive, queste sovrastano
le risposte adattative stesse.
TOLLERANZA: stato di diminuita risposta di un sistema dovuta ad una precedente esposizione ad una sostanza
o ad un'altra strutturalmente analoga (cross-tolleranza). Esempio di cross-tolleranza avviene tra alcol e
barbiturici: quando si verificano meccanismi di tolleranza all’alcol (ridotta risposta a seguito dell’ingestione
della stessa dose), in questa persona ci saranno anche una ridotta risposta ai barbiturici perché vengono
attivati meccanismi adattativi che interessano entrambi i composti per cui la risposta dell’organismo è ridotta
sia per una sostanza che per l’altra.
Principali meccanismi che possono essere attivati per indurre tolleranza:
- meccanismi farmacocinetici: già a livello di assorbimento, distribuzione, metabolismo ed escrezione,
l’induzione enzimatica degli enzimi di detossificazione è una risposta di adattamento del nostro
organismo all’esposizione cronica a xenobiotici + induzione della sintesi di proteine intracellulari in grado
di sequestrare lo xenobiotico andando a ridurre la quantità di sostanza che raggiunge organo bersaglio
- riduzione del numero di recettori per quella sostanza (riducendo il numero di recettori espressi in
membrana fa si che la stessa dose di sostanza abbia un effetto ridotto)
- induzione di meccanismi di riparazione in risposta allo stress: si possono indurre gli enzimi deputati alla
riparazione delle proteine ossidasi + up-regolazione di proteine coinvolte nell’attivazione dell’UPR +
induzione, nel caso di agenti elettrofili, di enzimi che possano riparare il DNA
Quindi organismo a diversi livelli, se costretto a interagire con una sostanza tossica per più tempo, può attivare
una serie di meccanismi di difesa che lo
rendono meno sensibile a quella
sostanza

TEST DI TOSSICITÁ:
Test di valutazione della tossicità dei
farmaci sono in continuo sviluppo
perché il sistema regolatorio sta
spingendo moltissimo verso
l’identificazione e la validazione di metodi alternativi alla sperimentazione animale. Prove di tossicità per
quanto riguarda i farmaci sono definite dalle linee guida delle varie agenzie di regolamentazione:
- FDA: Food and Drug Administration che si occupa di regolamentare la sperimentazione negli USA
- EMA: European Medicine Agency a livello Europeo.
I singoli stati vengono recepite le direttive europee e fatte attuare dagli enti regolatori interni di cui il
principale in Italia è l’AIFA (Agenzia Italiana dei Farmaci). L’Europa stabilisce delle linee guida che devono
essere recepite dai paesi facenti parte dell’unione che devono sottostare a queste linee guida ma possono
usare linee guida ancora più stringenti (ad es se l’Unione Europea stabilisce un determinato numero di animali
per il test di cancerogenesi i singoli paesi possono utilizzarne di più ma non di meno).
Obbiettivo raggiunto nella seconda metà del ‘900 è stato quello di armonizzare gli studi tossicologici nei vari
paesi a livello mondiale (soprattutto tra EU e USA) per quanto riguarda le prove tossicologiche sui farmaci.
Questa necessità di armonizzare la regolamentazione degli studi tossicologici sui farmaci si è resa evidente

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dopo due episodi che si sono verificati tra 1930 e 1960 che hanno determinato reazioni gravissime di tossicità
ai farmaci:
- talidomide: commercializzata come sedativo ipnotico ma viste le forte proprietà antiemetiche veniva
ampiamente prescritto alle donne in gravidanza per contrastare le nausee mattutine. A seguito di queste
assunzione sono nati 10 000 - 20 000 bambini focomelici (assenza totale o parziale degli arti)
- antibiotico sulfanilammide: antibiotico commercializzato in compresse e polvere e una ditta farmaceutica
americana ha introdotto una nuova formulazione liquida per lo stesso principio attivi in modo da renderlo
più facilmente somministrabile ai bambini. Nella nuova formulazione è stato usato il dietilglicole (DEG),
agente chimico ancora oggi usato come antigelo nelle macchine insieme a un aromatizzante alla fragola.
Dal momento che il principio attivo era già esistente, non è stato necessario compiere nuovamente studi
di tossicità a livello preclinico ma la messa in commercio di questo farmaco ha provocato centinaia di
morti per insufficienza renale perché il DEG è nefrotossico e tra questi morti molti erano bambini
Dopo questi due episodi è stata evidente la necessità di regolamentare in maniera molto stringente le prove
tossicologiche per quanto riguarda i farmaci per cui ad oggi l’armonizzazione per quanto riguarda la tossicità
dei farmaci, tra USA ed Europa è raggiunta. Le prove tossicologiche per le sostanze chimiche di sintesi sono
ancora lontanissime dall’armonizzazione: mentre l’EU stabilisce linee guida stringenti per cui per ogni
composto chimico di sintesi è necessaria la valutazione tossicologica (alcuni test come quelli di mutagenesi
sono sempre obbligatori), negli USA, solo l’1% di tutti i composti chimici di sintesi a livello industriale viene
sottoposto a prove tossicologiche (quindi industria chimica americana, che produce annualmente 40 000
sostanze di sintesi, sottopone solo l’1% di queste a test tossicologici). Ad esempio, l’amianto, che in Italia dal
1992 è stato bandito completamente e nel 1999 in Europa, negli USA non è mai stato completamente vietato
e anzi dal 2019 è stato reintrodotto come componente nei materiali edilizi. La mancata armonizzazione
dipende dal fatto che i test tossicologici hanno un costo molto elevato quindi incidono moltissimo sul costo
finale del prodotto (uno studio di cancerogenesi per un singolo prodotto costa 1mln di euro) quindi per la
ditta non condurre questi test a livello di costi è un guadagno enorme ed è questo il motivo per cui gli USA
sono un colosso mondiale nell’industria chimica.
Gli studi tossicologici per quanto riguarda i composti chimici di sintesi non possono essere condotti sull’uomo
mentre per i farmaci negli studi clinici di fase I viene fatta una parziale valutazione sull’uomo poiché in questa
fase oltre all’efficacia sull’uomo si testa anche la sicurezza. QUINDI, gli studi tossicologici dei prodotti di sintesi
vengono condotti su animali e su modelli sperimentali validati in vitro. La traslazione dei risultati all’uomo si
basa su due principi:
- Gli effetti prodotti da una sostanza sul modello, quando riproducibili, possono essere traslati all’uomo =
tutte le sostanze cancerogene per l’uomo lo sono, in genere, anche nei modelli sia in vitro che in vivo,
ma non si ha la certezza del contrario perché a livello di metabolismo, i modelli animali specialmente i
roditori hanno un modello un po’ diverso dall’uomo quindi possono dar luogo a metaboliti che nell’uomo
non si sviluppano per cui un effetto cancerogeno per l’animale potrebbe non verificarsi nell’uomo. Salvo
alcune eccezioni, comunque, quando un composto è tossico per un modello lo è anche per l’uomo
- L’esposizione del modello ad alte dosi di agenti tossici è un metodo valido e necessario per evidenziare
eventuali tossicità sull’uomo. Effetto di alte dosi per un breve periodo nei modelli può essere predittivo
dell’esposizione allo stesso agente tossico con dosi ridotte per più tempo nell’uomo
Nonostante questi due principi comunque, la traslabilità rappresenta il limite principale dei test tossicologici
data la necessità di traslare i risultati da animali (modelli più semplici) all’uomo cercando di ottenere dei dati
quanto più predittivi possibili di quello che si verificherà durante l’esposizione dell’uomo a tali sostanze.
Lo scopo dei test tossicologici è quello di definire:
• dose massima del composto tossico che non induce un effetto diretto o indiretto su organi o sistemi
• dose alla quale compaiono effetti tossici e quali effetti tossici compaiono. Nel caso dei farmaci bisogna
mettere in relazione effetto tossico e dose terapeutica ossia stabilire l’indice terapeutico (= range di dosi
di un farmaco che può essere somministrato con effetto terapeutico e non con effetto tossico)
• bersaglio dell’effetto tossico e la conoscenza del bersaglio è importante per migliorare il monitoraggio
della sostanza una volta immessa sul mercato
• la reversibilità o meno degli effetti (tendenzialmente sostanze chimiche che mostrano effetti irreversibili
già negli studi tossicologici si evita di metterle sul mercato o si cercano alternative meno tossiche o che

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permettano di avere un effetto tossico reversibile quindi permettano un intervento se la tossicità si
verifica una passibilità di intervento)
La ricerca di metodi alternativi alla sperimentazione animale si basa sul principio delle tre R:
- Replacement (sostituzione totale o completa del modello animale)
- Reduction (riduzione del numero di animali usati nella sperimentazione)
- Refinement (miglioramento delle condizioni degli animali durante la sperimentazione)
In generale gli studi di tossicità (e in particolare quelli alternativi alla sperimentazione animale) hanno una
serie di vantaggi e svantaggi:
VANTAGGI SVANTAGGI
sono sistemi più semplici DA STUDIARE Sono sistemi estremamente semplici che non fanno fede
soprattutto nel caso di quelli in vitro ed ex alla complessità dell’organismo umano
vivo (che ultimamente sono stati
implementati)
sono riproducibili nella maggior parte dei casi Le condizioni di sperimentazione sono diverse da quelle in
(perché topi e ratti utilizzati sono vivo perché applichiamo direttamente la sostanza tossica
geneticamente identici quindi non si verifica sulle cellule mentre la parte di esposizione dell’organismo e
variabilità che c’è invece nell’uomo e di tossicocinetica sono saltate
potrebbe inficiare la riproducibilità del dato)
si verificano danni precoci non si riescono a valutare effetti citotossici complessi come
eventuali interazioni, specialmente su organi interi
I metodi alternativi presentano costi Ci possono essere delle interferenze con i mezzi di coltura
relativamente contenuti perché condotti utilizzati ma questo problema viene ovviato perché
grazie a tecniche relativamente semplici e essendo sempre riproducibile e uguale si può capire se una
sono più rapidi rispetto a una reazione è dovuta all’interazione con il mezzo di coltura
sperimentazione condotta in toto sul (quindi se è una tossicità legata a un problema
modello animale quindi abbiamo metodologico piuttosto che intrinseca alla sostanza)
sicuramente una serie di vantaggi nella
ricerca di metodi alternativi alla
sperimentazione animali
Le concentrazioni che si usano in vitro sono totalmente
diverse da quelle usate in vivo perché in vivo c’è tutta la
parte di tossicocinetica che poi modula la concentrazione di
sostanza tossica che raggiunge il bersaglio. In vitro per
cercare di ovviare a questo problema si usano dosi molto
più alte per cui partiamo dall’assunto che usando dosi molto
alte che difficilmente verranno raggiunte da un’esposizione
a livello dell’organismo, probabilmente, escludendo un
effetto tossico o lavorando con concentrazioni che non
inducono un effetto tossico in vitro, possiamo escludere
effetto tossico una volta che la sostanza sarà introdotta
nell’organismo
Per tutti questi motivi, prima che un modello venga validato e usato in sostituzione al modello animale sono
necessari molti anni di sperimentazione. L’Unione Europea investe moltissimo in questo tipo di
sperimentazione (ogni anno mette a disposizione molti fondi per la ricerca di metodi alternativi alla
sperimentazione animale). Quando tramite progetti di ricerca viene identificato un possibile metodo
alternativo, prima di validarlo l’Unione Europea appalta il lavoro a tre stati diversi all’interno dell’EU in modo
che si possa valutare la riproducibilità del metodo in lab differenti ed è importante perché anche in questo
caso viene stabilito un cut off: solo metodi alternativi che sono riproducibili all’85% in lab completamente
diversi verranno poi valutati per essere utilizzati al posto della sperimentazione animale. C’è quindi molto
investimento a livello economico per identificazione e implementazione di modelli alternativi alla
sperimentazione animale soprattutto nell’Unione Europea

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1. SCREENING IN SILICO
Per organizzare i test tossicologici in maniera mirata (e quindi ridurre gli animali coinvolti nella
sperimentazione stessa), questi partono dalla definizione della struttura della molecola tramite
caratterizzazione chimica e si fa poi un’analisi della letteratura valutando la struttura e l’attività della molecola
dal momento che molecole con struttura simile possono avere effetti terapeutici simili ma anche effetti tossici
simili → si fa uno screening iniziale in silico per cercare di prevedere quali potrebbero essere gli effetti tossici
quando si va a testare questa molecola. Già in questa prima parte quindi si cerca di escludere le molecole che
verosimilmente hanno un effetto tossico incompatibile con l’immissione sul mercato. Questo permette di
ridurre il numero di animali da usare nella sperimentazione perché questi composti quasi sicuramente tossici
non superano nemmeno questo primo screening in silico (le sostanze che presumibilmente si sanno avere un
effetto tossico non andranno oltre nei test di tossicità).
Le molecole che superano questa prima fase invece vanno incontro a una serie di valutazioni per quanto
riguarda la tossicità:
2. TEST DI TOSSICITÁ ACUTA: rappresentano la parte più importante degli studi di tossicità perché questi
studi permettono di ricavare una serie di parametri fondamentali per stabilire la dose sicura nell’uomo
EUROPA USA
2 specie di roditori (solitamente topi e ratti) Ratti (→ non sono necessarie due specie diverse)
M e F adulti M e F adulti
Più di 3 dosi della sostanza chimica (di solito 6) Adeguato (→ non stabilisce un numero minimo di
dosi)
Numero animali = 10 N = 3 (→ numero di animali inferiori rispetto alle
direttive europee quindi meno stringente)
Controlli = veicolo (che corrisponde al placebo negli Controlli = veicolo
studi clinici umani ossia la sostanza in cui si trova il
composto tossico escludendo il composto stesso)
Una sola somministrazione dopo digiuno di 24 ore Somministrazione orale dopo digiuno di 24 ore
Via di somministrazione obbligatoria è quella orale
ma di solito si sceglie di testare un’altra via di
somministrazione che sarà la via di esposizione
dell’uomo una volta messa in mercato
Osservazione x 14 gg: controllo peso (gg 1, 7 e 14) e Osservazione x 14 gg: controllo peso (gg 1, 7 e 14) e
mortalità mortalità
Controllo tossicità giornaliero: presenza di Controllo tossicità giornaliero: presenza di
alterazioni comportamentali, letargia, consumo di alterazioni comportamentali, letargia, consumo di
cibo ed eventualmente comparsa di mortalità cibo
Esame istologico per valutare gli effetti della Esame istologico
sostanza a livello di tutti gli organi
Anche in questo caso quindi è evidente sia la maggior stringenza dell’Europa rispetto agli USA sia la mancata
armonizzazione tra i due paesi.
I parametri che si valutano negli studi di tossicità acuta sono alterazioni a livello respiratorio, motorio,
insorgenza o meno di convulsioni, misurazione dei riflessi, alterazioni oculari, monitoraggio cardiovascolare,
si valutano i sintomi vegetativi, alterazioni della muscolatura o gastrointestinali, la diuresi e come appare la
pelle e il pelo (che nell’animale è un indice di benessere o effetto tossico della sostanza) → per 14 giorni dopo
la singola somministrazione vengono accuratamente monitorati tutti questi parametri per avere un’idea
dell’effetto tossico indotto dalla singola esposizione.
Gli studi di tossicità acuta permettono di calcolare un parametro che è il corrispettivo tossico del parametro
farmacologico ED50 (= dose efficace nel 50% degli animali) ossia l’LD50 = dose letale per il 50% degli animali
oggetto di sperimentazione. La definizione dell’LD50 non è l’end point di questi studi nel senso che l’obbiettivo
non è quello di indurre la morte degli animali per calcolare l’LD50 dal momento che è stato introdotto un cut
off nel dosaggio massimo da utilizzare: la massima dose somministrata è di 2g/Kg. Essendo un dosaggio molto
alto, se una sostanza a un dosaggio del genere non dà segni di tossicità o letalità è una sostanza che può essere

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considerata verosimilmente sicura (verosimilmente sicura perché poi bisogna sempre traslare nell’uomo).
Quindi non si alza progressivamente la dose fino a indurre la morte degli animali per calcolare l’LD50 bensì ci
si ferma a una dose di 2g/K. Se una sostanza non dà letalità a quella dose, ha un margine di sicurezza
relativamente ampio.
Negli studi di tossicità acuta di solito si utilizza la somministrazione orale perché è quella che potrebbe
verificarsi in seguito a esposizione accidentale e poi si usa sempre la via di esposizione che si prevede sarà
quella nell’uomo. Anche nel caso di inalazione si possono usare sistemi di vaporizzazione della sostanza. Si
cerca di mimare quello che succede quando la sostanza verrà a contatto con l’uomo nell’ambiente
È molto importante anche definire il bersaglio della tossicità perché quando alla sostanza viene assegnata una
categoria di tossicità, le persone che verranno poi esposte ad es in ambienti di lavoro, saranno sottoposte a
controlli medici con un’attenzione particolare verso gli organi bersaglio della tossicità (quindi definire il
bersaglio è importante per un monitoraggio migliore della tossicità una volta che la sostanza sarà immessa sul
mercato). Nel caso ad esempio dei laboratori chimici, quando si utilizzano sostanze che si sanno essere
potenziali cancerogeni, i lavoratori vengono sottoposti annualmente ad esami per valutare la salute del
lavoratore e quando sottoposti a cancerogeni bisogna segnare quando si entra in contatto con la sostanza, a
quale dose e per quanto tempo. Lo stesso vale per coloro che lavorano a contatto con radiazioni (medicina
del lavoro monitora annualmente il lavoratore per controllare eventuali fenomeni di tossicità)
La valutazione della tossicità acuta serve anche a stabilire le dosi da utilizzare negli studi di carcinogenesi: non
si usa in questo caso una dose tossica in acuto perché determinerebbe un accumulo e quindi sicuramente un
effetto tossico. Si usano invece dosi intermedie che vengono appunto definite durante gli studi di tossicità
acuta.
Molto importante anche stabilire la reversibilità dell’effetto per cui sono stati implementati gli studi di
mutagenesi e valutazione del potenziale genotossico per stabilire se gli effetti sono reversibili o irreversibili
(un composto che induce mutagenesi ha effetti irreversibili).
Bisogna cercare di stabilire se ci sono delle differenze di specie (per questo in Europa si usa più di una specie)
e in particolare se ci sono specie più suscettibili di altre e in quel caso stabilire quale è il fattore che incrementa
la sensibilità
QUINDI uno studio di tossicità acuta, che è relativamente breve perché ci sono solo 14 giorni di monitoraggio
dà un’idea degli effetti tossici che si potrebbero verificare sull’uomo e dà anche un’idea chiara circa la
possibilità che il composto possa essere immesso sul mercato con un margine di sicurezza accettabile.
Nella tossicità acuta si hanno spesso effetti quantali (tutto o nulla, non si ha dose-dipendenza), di solito la
tossicità acuta si manifesta nel breve termine (dopo pochi minuti o giorni dalla singola esposizione) per cui se
una sostanza è tossica in acuto lo manifesterà entro i 14 giorni del test (14 giorni dopo una singola
somministrazione sono comunque un intervallo piuttosto ampio).
Dagli studi di tossicità acuta si possono rilevare parametri molto importanti che sono LD50 (dose che induce
mortalità nel 50% degli animali), dose più bassa alla quale non si osservano effetti avversi (NOAEL), la dose più
bassa alla quale si iniziano a vedere effetti avversi, la dose soglia (detta LOAEL e si tratta di una dose ancora
più bassa che viene stimata sulla base della NOEL). Tutti questi parametri si estrapolano dalle curve di tossicità.
Dopo aver estrapolato questi parametri si può calcolare la dose giornaliera ammissibile (ADI) che è quella, a
livello di EU, che deve essere obbligatoriamente indicata per qualsiasi composto chimico immesso sul mercato
e alla quale sarà esposto l’uomo.
VALUTAZIONE DEL POTERE IRRITANTE DI UNO XENOBIOTICO GRAZIE A METODI ALTERNATIVI CHE HANNO
SOSTITUITO LA SPERIMENTAZIONE ANIMALE:
Nella ricerca di metodi alternativi hanno investito moltissimo le aziende cosmetiche perché dal 2005 è stata
vietata la sperimentazione dei cosmetici sui modelli animali e in Europa è vietata la commercializzazione di
cosmetici testati su animali (quindi tutti i cosmetici che utilizziamo sono stati sperimentati con metodi
alternativi). Questo vale per l’EU ma non per gli USA dove la sperimentazione animale è ancora legale. A questa
rivoluzione hanno contribuito molte aziende cosmetiche investendo moltissimi soldi e in questo senso in
Europa soprattutto L’oreal. Quindi grazie alla collaborazione tra enti di regolamentazioni europee e le aziende

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siamo riusciti ad avere la possibilità di valutare sia irritazione a livello cutaneo che oculare completamente in
vitro
Prima dell’introduzione di metodi alternativi, l’IRRITAZIONE CUTANEA veniva testata suoi conigli (si rasava il
pelo e si applicava sulla pelle la sostanza per valutare il potenziale irritante) mentre ad oggi viene testata su
modelli in vitro che riproducono in maniera molto fede epidermide. Questi modelli sono commercializzati
come kit con il nome di Epiderm o Episkin e sono delle riproduzioni in miniatura dell’epidermide umana. Grazie
al kit quindi è possibile mettere in contatto la sostanza da testare con piccole porzioni di epidermide ricostruita
in vitro in piastre da 6 pozzetti in modo da valutare il potenziale di irritazione cutanea di qualsiasi sostanza
chimica. Il saggio è semplicissimo da eseguire perché i kit arrivano già preconfezionati quindi basta applicare
la sostanza da testare (si possono valutare diverse concentrazioni) sull’epidermide ricostruita e lasciare in
incubazione per circa 24 ore al termine delle quali si esegue il test dell’MTT. Si tratta di un test di vitalità
cellulare che permette di valutare il danno citotossico quindi le cellule che non sono metabolicamente attive
non si coloreranno. Si basa sulla riduzione di Sali di tetrazolio a formanzano da parte delle cellule vitali che
passa da un colore giallo a uno viola quindi può essere letto allo spettrofotometro quindi più alta l’intensità
della colorazione, maggiore è la vitalità cellulare: riduzione della colorazione sotto al 50% significa che il 50%
delle cellule non è metabolicamente attivo quindi la sostanza è irritante e quindi a questa sostanza deve essere
attribuita una categoria di rischio che la definisce come irritante.
Unione Europea ha stabilito che questo test è sufficiente e attendibile per prevedere un potenziale di
irritazione nell’uomo e dal 2010 ha sostituito completamente il test basato sull’uso di conigli.
Oltre alla vitalità questo test permette di valutare anche altri parametri: per capire se è stata indotta risposta
infiammatoria bisogna valutare il rilascio di citochine a livello del medium di coltura, possiamo fare un esame
più fine, a livello microscopico, per capire se sono state indotte delle alterazioni dell’epidermide e poi ci sono
dei test più costosi ma che possono dare info aggiuntive è ad es il gene-RNA che permette di capire se ci sono
state alterazioni dell’espressione genica negli strati più profondi dell’epidermide (quindi questo test con l’MTT
è sufficiente per capire se una sostanza è irritante o meno ma lo stesso sistema può essere usato per la
valutazione di parametri più fini e quindi approfondire ulteriormente l’eventuale tossicità del composto)
La stessa operazione è stata compiuta anche per la IRRITAZIONE OCULARE. al 2010 si usava il test di Draize
(dal nome dello scienziato che l’aveva ideato), basato sull’utilizzo di conigli perché privi di ghiandole lacrimali
quindi una volta applicata la sostanza tossica sull’occhio non erano in grado di eliminarla ma rimaneva
sull’occhio e si riusciva a stabilire una tossicità. Si valutavano diversi parametri come comparsa di opacità della
cornea, aumento di permeabilità della cornea, passaggio della sostanza tossica negli strati più profondi
dell’occhio, comparsa di congiuntiviti e comparsa di danneggiamenti degli strati cornei o degli strati più interni
dell’occhio. Era uno studio osservazionale: veniva attribuito un punteggio in base alla gravità dell’effetto
tossico che si verificava. Oggi in Europa questo è bandito ed è stato sostituito da tre metodi alternativi:
1. BCOP Test Method in cui si valuta l’opacità e la permeabilità della cornea di origine bovina (di animali
destinati al macello). Si parte dall’occhio di bovino e si dissezionano le cornee dopo aver selezionato le
cornee intatte prive di difformità o danneggiamenti. Le cornee desiderate vengono excise e posizionate
su delle specie di chip che permettono di mettere la cornea in tensione una volta chiuse e hanno due
camere (posteriore e anteriore) che vengono riempite di soluzione salina per mantenere il tessuto
corneale vitale. Dopo il posizionamento delle cornee, i chip vengono messi in incubatore a 32°C per 1ora
e poi si può partire con la valutazione del potenziale irritante della sostanza in esame: test si fa una prima
lettura di opacità delle varie cornee (si legge un basale per uniformare al massimo il test) quindi si
aggiunge la sostanza tossica. Se è una soluzione si aspettano 10 minuti mentre se la sostanza è in polvere
si tiene la sostanza a contatto con la cornea per 4 ore. Al termine dell’incubazione si legge nuovamente
l’opacità della cornea e si valuta se c’è alterazione della permeabilità e questo viene fatto aggiungendo
fluoresceina nella parte anteriore della cornea (che normalmente sta all’esterno). Se non ci sono
alterazioni della permeabilità la fluoresceina non passa nella parte posteriore della camera mentre se la
sostanza tossica ha indotto un danno la fluoresceina è in grado di passare.
2. ICE Test Method: si valutano danni a livello della cornea utilizzando occhi ottenuti da galline. In questo
caso non bisogna excidere la cornea ma si usa tutto l’occhio che anche in questo caso deve essere
selezionato prima per evitare eventuali campioni danneggiati. Occhi selezionati vengono posizionati in

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camere in sequenza che vengono perfuse (liquido salino passa continuamente all’interno delle camere
per mantenere la vitalità del tessuto). In questo caso si misurano opacità, permeabilità, danni più fini
rispetto all’utilizzo della sola cornea di bovino come gonfiore a livello dell’occhio, danni agli strati profondi
mediante analisi a microscopio. Tempo di esposizione è di 10secondi
Paragonando BCOP test e ICE test, vantaggio nell’utilizzare l’occhio del pollo è legato al fatto che
strutturalmente è più simile a quello umano perché a differenza di quello di bovino ha la lamina di Bowman
(uno strato di collagene al di sotto della cornea quindi internamente a ridosso della cornea come nell’uomo)
quindi il dato che si ottiene dovrebbe essere più attendibile. Inoltre, il campione di partenza è più omogeneo
e questo rende il test più riproducibile + essendo
più piccolo il materiale da utilizzare, il quantitativo
di sostanza da testare sarà più basso rispetto a
una cornea da bovino + occhi di gallina sono più
reperibili e più economici
3. Reconstructed human Cornea-like
Epithelium Test Method (EpiOcular): cornea
umana completamente ricostruita in vitro.
Vengono fornite in kit piastre da 6 pozzetti in cui
sono presenti dei chip su cui sono posizionate
cornee umane ricostruite completamente
comparabili con la struttura della cornea umana.
Al termine dell’esposizione, si fa un MTT che è sufficiente a stabilire se la sostanza tossica è irritante o
meno ma il cut off è posto al 60% (se si ha una vitalità inferiore al 60% la sostanza chimica è catalogata
come irritante).
Rispetto agli altri due test vantaggi è che non bisogna fare alcuno screening iniziale (a differenza dell’uso di
cornea bovina o occhio di gallina), è tutto fornito commercialmente e questo velocizza ulteriormente
esecuzione dell’esperimento + altissima riproducibilità + test è molto veloce (a seconda che siano in forma
solida o liquida bastano tra i 30 e i 90 minuti per la valutazione del potenziale irritante) + permette di valutare
effetti sul lungo termine: si toglie agente chimico e si studia se tossicità è ritardata rispetto alla esposizione (si
possono attendere fino a 18 ore dopo esposizione alla sostanza tossica per valutare a livello microscopico se
c’è citotossicità o necrosi negli strati più profondi della cornea).
Svantaggi sono che il costo ovviamente è superiore
Quando si vuole valutare il potenziale irritante di una sostanza chimica, nelle prime fasi di valutazione bisogna
usare il modello EpiOcular (con un semplice MTT permette di stabilire se una sostanza è irritante o meno) e
dopo averlo fatto si può mandare avanti la parte legislativa di approvazione per l’immissione sul mercato della
sostanza. Dal momento che questa parte burocratica è molto lunga, il fatto di aver introdotto questo test
precocemente permette di velocizzare il processo ma anche di ridurne il costo (nel caso in cui l’EU o l’ente
regolatorio non dovesse approvare l’immissione sul mercato è stato fatto solo un test su 3). I test BCOP o ICE
vengono fatti nella fase di accettazione regolatoria.
QUINDI Unione Europea non stabilisce solo quali test ma anche in che ordine farli e quindi permette di far
partire la parte burocratica prima di dover effettuare tutti i test in modo da mandare avanti la pratica
burocratica in maniera molto più snella e veloce e quindi di ridurre i tempi da ricerca e sviluppo fino
all’immissione sul mercato del nuovo prodotto contenente una di queste sostanza.
3. STUDI DI TOSSICOCINETICA (= studio del destino metabolico delle sostanze e viaggio nell’organismo): si
stanno implementando algoritmi per prevedere il destino tossicocinetico delle sostanze chimiche
introdotte nell’organismo senza l’utilizzo di sperimentazione animale. Enti di regolamentazione sono
fiduciosi: pensano che tra 5-10 anni la valutazione tossicocinetica potrà essere fatta completamente
senza utilizzare modelli animali.
4. VALUTAZIONE DELLA GENOTOSSICITÁ e DELLA MUTAGENESI: questi studi vengono fatti completamente
ex vivo
In Europa la valutazione del potenziale genotossico (stabilito grazie agli studi di mutagenesi) delle nuove
sostanze di sintesi è obbligatoria e deve far parte del dossier per la valutazione del pericolo connesso con le

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sostanze chimiche. Gli effetti genotossici sono gli effetti più gravi e irreversibili che possono essere
sperimentati in seguito a esposizione a sostanza tossica per cui la valutazione della genotossicità è
fondamentale per la valutazione del rischio connesso a una sostanza chimica. Obbiettivo degli studi di
mutagenesi è quello di identificare le sostanze che possono indurre danni genetici alle cellule specialmente a
livello delle cellule germinali (quindi a monte si può capire se la sostanza ha una tossicità a livello di
riproduzione e sviluppo) e permette di stabilire il pericolo genotossico legato a una sostanza e stimare il danno
genetico legato a questa sostanza nell’uomo (= si cerca di stabilire in maniera precoce se una sostanza può
provocare danni gravi a livello del DNA e se questi danni possano essere trasmessi alla progenie tramite la
linea germinale). Questi test possono prevedere il potenziale cancerogeno di una sostanza MA mutagenesi e
cancerogenesi non sono la stessa cosa: la cancerogenesi di solito inizia con la mutagenesi per cui una sostanza
con effetto mutageno probabilmente a lungo termine può portare allo sviluppo di cancerogenesi. Per questo
motivo, sostanze che mostrano una tossicità elevata a livello di tossicità normalmente non vanno oltre nella
valutazione tossicologica a meno che non ci sia in termini assoluti una sostituzione a questa sostanza e si possa
escludere una esposizione tale nell’uomo da indurre effetti mutageni. Tutti questi protocolli vengono fatti
nell’Unione Europea mentre negli USA (ma anche in Cina) si testa solo l’1% delle sostanze chimiche immesse
sul mercato quindi non abbiamo idea del potenziale genotossico del 99% delle sostanze.
I test di mutagenesi permettono di predire e identificare potenziali sostanze cancerogene (quando c’è il
dubbio che una sostanza sia cancerogena questo dubbio deve essere risolto con studi sull’animale che testino
la tossicità cronica somministrando sostanza a basse dosi per tutta la vita dell’animale).
La maggior parte dei cancerogeni mostrano una genotossicità in vitro quindi questi test in vitro sono molto
efficaci nel predire il potenziale cancerogeno e gentossico di una sostanza in vivo (→ la traslabilità di questi
test è stata ampiamente dimostrata ed è per questo che si può evitare in questo caso la sperimentazione su
animale)
I test di mutagenesi che sono stati approvati in vitro ed ex vivo permettono di valutare i danni indotti da una
sostanza chimica sia a livello di mutazioni geniche a livello del DNA sia in termini di aberrazioni cromosomiche
(sia in termini di rotture che in termini di numero di cromosomi. Sostanze che alterano i cromosomi hanno
spesso un alto potenziale teratogeno). Permettono anche di stabilire se il danno è a singolo o a doppio
filamento.
Non bisogna eseguire tutti i test riportati, è stata stabilita a livello europeo una batteria standard che è
sufficiente per stabilire in maniera chiara se una sostanza è genotossica o meno. Di solito si fanno tre test in
maniera sequenziale:
1. Test di mutagenesi nei batteri (E. coli o Salmonella)
2. test citogenetico completamente in vitro che permette di evidenziare danno cromosomico
(micronuclei e comet assay)
3. valutazione del danno cromosomico in vivo (si conduce in vivo lo stesso test che nella seconda fase è
stato condotto in vitro. Di solito come modello si usa il topo)

TEST DI AMES: si basa sull’utilizzo di batteri resi


auxotrofi (= vengono mutati in modo che non sono
in grado di sintetizzare alcuni amminoacidi
essenziali e quindi non sono in grado di crescere in
un ambiente in cui quell’amminoacido non è
presente), normalmente vengono usate due
tipologie di campioni:
- ceppi di Salmonella mutati che non sanno
sintetizzare istidina
- ceppi di coli mutati incapaci di sintetizzare
triptofano
Il test si basa sul fatto che se una sostanza è
mutagena e genotossica, con l’aumentare dei cicli

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di riproduzione di questi batteri porterà a delle mutazioni a livello del DNA che permetteranno di revertere il
fenotipo ossia ci saranno una serie di mutazioni casuali che porteranno il batterio in grado di sintetizzare
istidina o triptofano. In sé il test è molto semplice: si mettono batteri in soluzione in un terreno in cui è
presente istidina/triptofano + agente di cui vogliamo valutare il potenziale genotossico. Bisogna aggiungere
istidina nel terreno perché altrimenti il batterio non potrebbe replicare. Se la sostanza è mutagena indurrà
casualmente una serie di mutazioni del DNA generando la comparsa di cloni che sono nuovamente in grado
di sintetizzare istidina. Bastano 48 ore di incubazione poi si piastrano i batteri su un terreno agarizzato privo
di istidina quindi possono riprodursi solo colonie con fenotipo revertito (ossia le colonie che hanno recuperato
la capacità di sintetizzare istidina) e questo test permette di stabilire se la sostanza è mutagena o meno.
Bisogna sempre allestire una piastra controllo perché i batteri possono andare incontro facilmente a
mutazioni spontanee (quindi revertano spontaneamente fenotipo mutato) e poi abbiamo la piastra in cui sono
state piastrate le cellule esposte alla sostanza di cui si vuole valutare il potenziale mutageno. Se non si
osservano alterazioni del numero di colonie che hanno revertito il fenotipo questo primo test è negativo →
possiamo affermare che col test di Ames composto non è mutageno. Attendibilità di questo test è circa
dell’80% (quindi pur essendo un test molto semplice ha un margine di attendibilità molto elevato): se una
sostanza testata con questa maniera reverte il fenotipo delle colonie (quindi si tratta di una sostanza
mutagena) è sicuro all’80% che sia mutagena anche in vivo. Se già il test di Ames mostra effetto mutageno,
gli step successivi confermeranno effetto mutageno.
Limite di questo test è che si introduce la sostanza mutagena così com’è quindi non possiamo valutare
eventuali metaboliti (mentre può succedere che la sostanza non sia mutagena di per sé bensì sia pro-
cancerogena quindi non se ne possono osservare gli effetti se messa nel terreno di coltura così com’è senza
metabolizzazione). Per ovviare a questo problema il test è stato modificato: si esegue il test aggiungendo un
estratto di enzimi microsomali epatici ottenuti dal topo. Bisogna quindi fare la stessa procedura ma prima di
effettuare il tutto bisogna aggiungere al terreno di coltura anche un estratto di microsomi epatici ottenuti dal
topo. Per estrarre tali enzimi, il topo viene trattato con Fenobarbital, un farmaco che causa ipertrofia del
fegato perché induce in maniera molto potente gli enzimi epatici e questo si tramuta in ipertrofia (= aumento
delle dimensioni delle cellule del fegato). Bisogna poi estrarre il fegato, creare un omogenato e poi tale
omogenato arricchito con enzimi epatici viene introdotto nel terreno di coltura
insieme ai batteri e alla sostanza da analizzare. Enzimi epatici metabolizzano la
sostanza in modo da analizzarne non solo il potenziale mutageno ma anche quello di
tutti i metaboliti che si formano. In questa forma il test non è ancora perfetto perché
molte sostanze non vengono metabolizzate solo a livello epatico ma anche a livello
di altri distretti del corpo come il sangue o la pelle. Ad esempio il benzopirene non è
cancerogeno di per sé ma lo è un suo metabolita che si origina a livello della cute per
cui purtroppo questo tipo di sostanze che si originano in distretti diversi dal fegato
non possono essere identificati con il test di Ames per cui la ricerca deve ancora
capire come ovviare al problema e migliorare ulteriormente il test. QUINDI l’attendibilità del test è dell’80%
per cancerogeni e pro-cancerogeni che vengono metabolizzati nel fegato, se vengono metabolizzati in un altro
distretto purtroppo con questo test non possano essere identificati quindi una piccola parte sfugge.
Una volta passato il test di Ames si valutano le aberrazioni cromosomiche con il TEST DEL MICRONUCLEO che
può essere eseguito sia sui linfociti (processando campioni di sangue) oppure sulle colture cellulari (di solito
CHO ossia colture di ovario di criceto cinese). Per quanto riguarda il meccanismo, è lo stesso sia fatto sulla
coltura cellulare che sui linfociti: aggiungiamo alle cellule l’agente per cui vogliamo fare una valutazione
genotossica e le cellule dopo incubazione (72 ore per i linfociti) vengono bloccate in metafase aggiungendo la
citocalasina B (bloccate in metafase quando avviene la divisione dei due nuclei, prima che si formino le cellule
figlie). Cellule vengono piastrate su vetrino e colorate con la colorazione di Giemsa e quello che possiamo
vedere sono i micronuclei:
Nella figura a si vede una cellula normale che si divide formando due nuclei identici e la cellula è pronta a
separarsi mantenendo i due corredi cromosomici identici.

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MICRONUCLEI: piccole porzioni di nucleo circondate da membrana che si trovano nel citoplasma contenti
materiale cromosomico che non si è separato correttamente durante la meiosi → all’interno dei micronuclei
sono presenti frammenti di cromosomi
Presenza di micronuclei indica il danno più grave che si può verificare al DNA ossia la rottura del doppio
filamento quindi il test del micronucleo permette di identificare agenti chimici che inducono rotture del
doppio filamento e questo quasi sempre si tramuta in aberrazioni cromosomiche.
Un’aberrazione del genere se si verifica nelle linee germinali di solito è letale per cui provoca aborti spontanei
Questo test permette di valutare il potenziale genotossico estremamente
grave quindi identifichiamo agenti in grado di provocare una rottura a doppio filamento del DNA con
aberrazioni cromosomiche letali. Una sostanza che mostra un potenziale genotossico del genere non sarà mai
approvata per l’immissione sul mercato.
Il terzo test identifica danni più lievi rispetto alle aberrazioni cromosomiche (rotture del doppio filamento)
infatti la maggior parte delle sostanze chimiche provoca rotture a singolo filamento quindi danni al DNA di più
lieve entità. Per visualizzare questo danno si usa il COMET TEST. Si tratta di una elettroforesi a singola cellula
che permette di valutare la frammentazione del DNA nelle singole cellule. All’inizio si inseriscono in una vial
insieme all’agarosio una linea cellulare e si aggiunge l’agente di cui si vuole valutare il potenziale genotossico.
Le cellule immerse in agarosio vengono posizionate su vetrino e agarosio viene fatto solidificare (→ è una
elettroforesi su gel di agarosio fatta su un vetrino per vedere le singole cellule). Cellule vengono lisate con un
buffer di lisi per togliere le membrane (ma le cellule sono fissate sul gel) quindi si mettono in un macchinario
fatto apposta per i vetrini che segue lo stesso principio della classica elettroforesi: viene fatta partire la corsa
elettroforetica per cui in questo caso non è tutto il campione a scorrere ma solo il DNA.
Quando intatto, il DNA è condensato quindi rimane compattato. Se all’interno del DNA si sono formati dei
frammenti (perché la sostanza genotossica ha frammentato il DNA), il DNA non resta compatto bensì si
formano dei piccoli frammenti che si muovono formando come una coda di una cometa (mentre la testa della
cometa è rappresentata dal DNA intatto).
Si fa un’analisi tramite particolari software di analisi computerizzata che permettono di prendere dei
parametri all’interno della coda della cometa: lunghezza della coda, intensità della colorazione della coda (che
dà idea di quanto è esteso il danno al DNA indotto dalla sostanza). Questo test permette anche di vedere se
la cellula è andata in apoptosi: primo step del processo apoptotico è la frammentazione del DNA ma si tratta
di una frammentazione fisiologicamente controllata per cui una cellula in apoptosi visualizzata col comet assay
è una palla (DNA condensato) con un alone intorno.
Fatti questi tre test si passa alla VALUTAZIONE DELLE ABERRAZIONI CROMOSOMICHE IN VIVO: mentre nel test
in vitro si va a incubare la sostanza direttamente con le cellule, in questo caso la sostanza viene iniettata
nell’organismo e per la valutazione bisogna prelevare le cellule del midollo perché sono quelle che si
riproducono più velocemente e quindi sono le prime a essere danneggiate in caso di sostanze genotossiche
(es agenti chemioterapici che sono agenti genotossici utilizzati per contenere la proliferazione tumorale
provocano danni grossi anche alle cellule non tumorali e i primi danni sono a livello delle cellule del midollo
osseo causando riduzione dei globuli bianchi per questo un paziente tra una chemioterapia e l’altra viene
trattato con fattori di crescita). Le cellule del midollo osseo prelevate vengono piastrate su vetrino e si guarda
se ci sono delle aberrazioni cromosomiche (test è identico ma passiamo dal roditore, quindi, permette di
vedere cosa succede quando la sostanza viene metabolizzata). I danni che si osservano col test dei micronuclei
sono quelli più pericolosi per cui se una sostanza induce questo tipo di danno, difficilmente supererà la
valutazione dell’ente regolatorio e venga poi immessa sul mercato. Visto che i
danni sono così gravi, il test dei micronuclei si fa in vivo e in vitro.
QUINDI questi test permettono di capire se la sostanza è genotossica o meno e
quale meccanismo di genotossicità caratterizza la sostanza (danni a doppio o a
singolo filamento oppure induce apoptosi). Limite di questi nuovi test è che non
valutano un eventuale assorbimento sistemico
Per gli studi di tossicità acuta quindi si è riusciti ad abbassare moltissimo il numero di animali che si usa per la
valutazione: negli anni ’70 per la valutazione di una singola sostanza si usavano circa 150 animali mentre ad
oggi si possono usare 5-8 animali per sostanza testata → si tratta di un grande vantaggio sia in termini etici

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sia in termini economici (riducendo il numero di animali utilizzati si riducono drasticamente i costi). Se per gli
studi di tossicità acuta, per la valutazione della genotossicità di una sostanza e in futuro anche per gli studi di
tossicocinetica si è riusciti ad ottenere una sostituzione quasi completa del modello animale, per gli studi che
prevedono somministrazione ripetuta siamo ancora molto lontani dalla sostituzione perché la
somministrazione ripetuta può determinare un accumulo ma lavorando su sistemi cellulari non si può vedere
questa complessità perché intervengono moltissime variabili quindi è necessario lavorare su un intero
organismo.

5. TOSSICITÁ DELLA RIPRODUZIONE e DELLO SVILUPPO e STUDI DI CARCINOGENESI (= TEST DI TOSSICITÁ
CRONICA)
Nonostante non ci siano test alternativi a disposizione, sono state introdotte comunque delle
regolamentazioni che in qualche modo permettono di ridurre il numero di animali da usare per la valutazione:
• il passaggio successivo alla valutazione della tossicità acuta è la valutazione della tossicità SUBACUTA.
Mentre per la tossicità acuta si fa una singola somministrazione e se ne valutano gli effetti per 14 giorni
consecutivi, nella tossicità subacuta la stessa dose di sostanza viene somministrata ripetutamente per
14-21 giorni. Si utilizzano le informazioni degli studi di tossicità acuta per somministrare una dose che
non si sia dimostrata letale o comunque estremamente tossica in acuto bensì si utilizza una dose
intermedia. Questo tipo di studi permettono di identificare meglio il bersaglio molecolare della sostanza
tossica, di valutare la presenza di biomarcatori dell’effetto tossico (monitorando animale possiamo
vedere se si sviluppa una tossicità che non eravamo riusciti a identificare negli studi di tossicità acuta) e
di capire se possiamo, a livello di espressione di enzimi o biomarcatori, monitorare l’effetto tossico e
quindi monitorare la tossicità una volta che il farmaco sarà immesso sul mercato. Lo scopo principale
degli studi di tossicità subacuta è quello di identificare chiaramente la dose da utilizzare negli studi di
tossicità cronica e subcronica per capire se con la dose scelta si verifica un eventuale accumulo (e nel caso
bisogna ridurre la dose)
• Si passa poi agli studi di tossicità SUBCRONICA. Per sostanze che sono arrivate fino a questo punto questo
test si considera predittivo per i test di tossicità cronica e anche per le fasi cliniche → possiamo arrivare
a valutare la tossicità fino a questo livello e poi fermarci mentre studi di tossicità CRONICA (che coprono
tutta la vita dell’animale) non sono obbligatori se durante i 90 giorni di test di tossicità subcronica non si
osservano eventi tossici che necessitano ulteriori approfondimenti (= studi di tossicità cronica vengono
fatti solo se arrivati a questo punto resta il dubbio che la sostanza possa essere cancerogena. In questo
caso ente regolatorio obbliga a condurre test di tossicità acuta). Nella tossicità subcronica (rispetto alla
tossicità acuta) la dose letale non si dovrebbe mai evidenziare bensì si evidenziano delle alterazioni più
fini (es si guarda si ci sono delle grosse alterazioni del pelo o a livello di consumo del cibo o alterazioni
della funzione respiratoria e gastrointestinale e del comportante mento generale)
Se gli studi vengono condotti correttamente, la letalità si osserva solo nella tossicità acuta mentre gli studi
successivi sono predittivi del comportamento della sostanza tossica una volta che verrà immessa sul mercato.
Se si arriva a questo livello di studio senza dubbi di potenziale cancerogeno della sostanza, lo studio
tossicologico della sostanza si ferma a con una somministrazione della sostanza per 90 giorni (tossicità
subcronica)
• È obbligatorio condurre studi di tossicità CRONICA per confermare o escludere del tutto l’ipotesi che la
sostanza sia cancerogena. Questi studi sono molto lunghi e molto costosi (circa 1mln di euro per
sostanza) quindi se non vi sono ragionevoli dubbi sulla tossicità della sostanza in esame questa
valutazione si evita. Gli studi di tossicità cronica prevedono una somministrazione ripetuta per tutta la
vita dell’animale. Al termine dello studio si fa una valutazione istologica (valutazione di anatomia
patologica nell’animale di tutti gli organi, comparsa di tumori visibili e anche solo di lesioni sospette,
vengono valutati tutti gli animali usati nello studio) per stabilire se la sostanza sia veramente cancerogena
o meno. Gli studi di tossicità cronica sono quelli che incidono maggiormente in termini di tempo e costi
e oltretutto, nonostante la ditta abbia investito in uno studio di questa portata, non è detto che ente
regolatorio approvi poi la sostanza
In presenza di ragionevole dubbio circa la potenziale cancerogenicità di una sostanza, si cerca una sostituzione
della sostanza con un’altra sicura o si cerca di modificare la molecola dal punto di vista chimico nelle fasi

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precedenti per evitare di arrivare, alla fine della sperimentazione, a sottoporre il dossier all’ente regolatorio
e vedersi negata l’immissione sul mercato della sostanza
Mentre per i farmaci dopo la valutazione preclinica si ha la possibilità di testare sull’uomo sicurezza ed
efficacia, per i tossici si passa direttamente all’immissione sul mercato e quindi all’esposizione sull’uomo. La
difficoltà più grande degli studi tossicologici è di traslare in maniera quanto più affidabile possibile
l’informazione dai modelli animali e in vitro alla popolazione. Dal momento però che la popolazione non è
omogenea, sono sempre presenti popolazioni più suscettibili o più resistenti per
cui l’obbiettivo finale (cui contribuisce moltissimo anche la farmacovigilanza) è
quello di garantire un livello di sicurezza accettabile anche nelle popolazioni più
suscettibili. Inoltre, quando si osservano effetti tossici sulla popolazione, bisogna
stabilire se c’è effettivamente causalità tra esposizione alla sostanza ed effetto
tossico. Questo è molto difficile perché nella popolazione intervengono una serie
di variabili e per stabilire eventuale causalità bisogna studiare le CURVE DI
INCIDENZA = si osserva cosa succedeva nella popolazione prima dell’immissione
in commercio di una determinata sostanza. Questo lavoro retrospettivo si fa
quando c’è un chiaro aumento di incidenza di un effetto tossico all’interno di una popolazione.
I parametri più importanti estrapolati dagli studi di tossicità acuta hanno lo scopo di caratterizzare il rischio.
In tossicologia i concetti di rischio e pericolo non sono sovrapponibili:
- PERICOLO: caratteristica intrinseca di ogni sostanza (una sostanza o è pericoloso o non lo è). Se una
sostanza è pericolosa, non significa che sia associata a un rischio di tossicità
- RISCHIO: probabilità che si verifichino effetti tossici in seguito a esposizione alla sostanza → rischio =
pericolo + esposizione (rischio è proporzionale all’esposizione: maggiore è l’esposizione a una sostanza,
maggiori saranno gli effetti tossici nella popolazione)
Il rischio può essere solo stimato perché lavorando su modelli cellulari e animali, non si tiene conto della reale
esposizione della popolazione alla sostanza una volta che questa sarà immessa sul mercato quindi si lavora
esclusivamente in modo probabilistico stimando quale potrebbe essere l’esposizione alla sostanza stessa.
QUINDI stabilire la pericolosità di una sostanza chimica è relativamente facile grazie ai test di tossicità mentre
non è facile stimare il rischio in quanto esso è strettamente legato all’esposizione dell’uomo una volta che la
sostanza sarà immessa sul mercato. Se una sostanza è pericolosa ma non c’è nessuna esposizione, il rischio è
inesistente. Il rischio si sviluppa quando c’è esposizione a una sostanza intrinsecamente pericolosa.
Per poter stabilire il rischio connesso all’esposizione a una determinata sostanza, si parte dal presupposto che
all’aumentare della dose aumenta la probabilità che si verifichino effetti avversi. Questo vale per la maggior
parte delle sostanze tossiche e in questo caso si può stabilire una dose di esposizione ragionevolmente sicura
ma ci sono anche sostanze per cui l’effetto non c’è una dose soglia e il rischio non è dose-dipendente (nel
caso soprattutto di sostanze cancerogene) quindi in questo caso non è facile stabilire una dose sicura perché
una dose sicura non esiste. In questo caso quindi si determina empiricamente un rischio accettabile. Il rischio
è correlato alla dose quando l’evento tossico è direttamente proporzionale alla concentrazione di sostanza
che raggiunge il proprio bersaglio molecolare nell’organismo e solitamente, la concentrazione di sostanza che
raggiunge il bersaglio molecolare è correlata alla dose (quindi maggiore è la dose di esposizione, maggiore è
la concentrazione di sostanza che raggiunge il sito bersaglio e quindi maggiore è la risposta tossica).
In farmacologia come in tossicologia si possono ottenere due tipi di curve dose-risposta che danno
informazioni differenti:
- curve graduali riferite alla risposta nel singolo individuo
- curve quantale che riportano la risposta di un’intera popolazione all’esposizione a una certa sostanza
Nelle prime fasi degli studi di tossicità, le informazioni vengono estrapolate da curve dose-risposta di tipo
graduale ma quando la sostanza è immessa sul mercato, sono molto più informative risposte quantali che
valutano l’effetto in un’intera popolazione quindi come questa popolazione si distribuisce rispetto all’effetto
tossico indotto dalla sostanza.
→ CURVE DOSE-RISPOSTA DI TIPO GRADUALE sono delle sigmoidi semi-logaritmiche (sull’asse delle x si pone
il logaritmo della dose e sulle y la percentuale di intensità della risposta).

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In farmacologia quello che conta è l’efficacia ossia la percentuale di risposta al farmaco mentre in tossicologia,
il parametro principale valutato è la letalità (ossia la percentuale di morte) o, in assenza di letalità, la dose
tossica. I parametri che vengono estrapolati dalle curve graduali sono:
- dose letale 50 (LD50) ossia la dose letale nel 50% degli animali trattati
- dose tossica (TD50) ossia la dose che induce un effetto tossico nel 50% degli animali trattati. Si
estrapola questo parametro se la sostanza tossica non è letale
Per i farmaci le curve graduali vengono sempre messe in relazione con l’EFFETTO TERAPEUTICO (DE50 = dose
efficace 50) ossia l’efficacia del farmaco perché l’obbiettivo è quello di farmaco perché dobbiamo stabilire un
range di dosi sicure quando somministrate all’uomo ma al tempo stesso che inducano una risposta
terapeutica. Quando si parla di farmaci quindi le curve vengono studiate per stabilire la FINESTRA
TERAPEUTICA ossia in quale range di dosi possiamo lavorare per garantire un effetto terapeutico senza che
insorgano effetti tossici. Per i farmaci si mette in relazione la curva relativa all’efficacia del farmaco con o la
curva relativa alla letalità (se farmaco a un certo dosaggio è letale) o la curva della dose tossica 50 → unendo
le curve si riesce a stabilire la dose sicura per un determinato farmaco.
Normalmente si determina l’INDICE TERAPEUTICO ossia il rapporto tra DL50 e DE50 (si ricava paragonando le
curve di efficacia con le curve di tossicità).
Si può anche lavorare con un livello di sicurezza maggiore ossia
il MARGINE DI SICUREZZA, definito dal rapporto tra DL1 (= dose
letale per l’1% degli animali) e DE99 (= dose efficace nel 99%
degli animali) → si massimizza l’efficacia e si minimizza il
rischio di letalità. Se si tiene conto del margine di sicurezza, la
finestra terapeutica di riduce drasticamente.
La stringenza è necessaria nel caso di farmaci per i quali
all’aumentare della dose si verificano fenomeni di mortalità. In
quel caso è più sicuro lavorare con un margine di sicurezza
piuttosto che con un indice terapeutico. Invece nel caso di
farmaci per cui aumentando moltissimo la dose mostrano
effetti tossici che non sono associati a letalità, si utilizza l’indice
terapeutico sapendo che anche in caso di overdose
accidentale non si verifica letalità ma si potrà intervenire (nel
caso in cui gli effetti ovviamente siano reversibili). Per effetti
tossici irreversibili che possono anche diventare letali, è meglio lavorare con un
margine di sicurezza che garantisca di evitare eventi irreversibili una volta che il
farmaco è somministrato nella popolazione. QUINDI più è elevato indice
terapeutico di un farmaco più questo è sicuro e quindi meno probabile è che si
verifichino effetti tossici anche in caso di assunzione accidentale, di overdose o
quando una persona assume più farmaci contemporaneamente si possono
verificare effetti avversi che non si verificano se il farmaco è assunto
singolarmente (tipicamente nel caso degli anziani). Queste interazioni a livello
preclinico non possono essere previste, sono tutti effetti che si osservano nella
fase di farmacovigilanza.
Paragone tra due farmaci che hanno indici terapeutici completamente diversi:
Warfarin: indice terapeutico è bassissimo quindi anche minime variazioni del
dosaggio possono portare all’insorgenza di un effetto tossico
Penicillina: farmaco estremamente sicuro, ha un indice terapeutico
estremamente elevato
Nel caso dei farmaci però abbiamo una valutazione controllata sull’uomo prima
che il farmaco venga messo in commercio mentre nel caso delle sostanze chimiche di sintesi, si parte da
queste curve alla popolazione. Quando si vuole valutare una nuova sostanza chimica di sintesi per la quale
non ci sono a disposizione dati tossicologici in letteratura ai quali ci si possa riferire, il primo punto di partenza
è determinare l’indice di letalità (LD50) e questo rappresenta l’end point primario degli studi di tossicità acuta.

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Ovviamente non si può somministrare all’uomo la dose corrispondente all’LD50 ma bisogna estrapolare dalla
curva la dose che presumibilmente nell’uomo non darà effetti tossici (→ l’unica cosa che si può fare è una
previsione ragionevole). Lo scopo finale degli studi di tossicità è stabilire una DOSE SOGLIA ossia la dose
massima alla quale la popolazione può essere esposta senza che si verifichino effetti tossici.
Il parametro sperimentale utilizzato per stabilire la dose soglia è la
NOAEL = No Observed Adverse Effect Level ed è la dose massima
somministrata nello studio preclinico che non induce alcun effetto
tossico.
In alcuni studi però la NOAEL non si può determinare perché esistono
sostanze che anche a dosi basse danno effetti tossici (in altre parole
non esiste alcuna dose alla quale non si ha effetto tossico). In questo
caso bisogna stabilire la LOAEL = Lowest Observed Adverse Effect Level
ossia la dose minima alla quale si osservano effetti avversi. Anch’essa è
sperimentale (ossia estrapolate dalle curve graduali).
Ad esempio, nei modelli sperimentali anche cambiamenti del peso corporeo, pur non essendo associati a una
forte tossicità, vengono considerati come un’indicazione di effetto
tossico. Nel caso di una sostanza che anche a basse dosi induce un
cambiamento ponderale nell’animale, non si riesce a identificare
la NOAEL ma la LOAEL.
QUINDI per estrapolare i dati all’uomo non lavoriamo mai in
termini di LD50 ma lavoriamo sulle parti iniziali della curva (a livello
di NOAEL e LOAEL). Questo perché in tossicologia si cerca di
garantire il massimo della sicurezza una volta che la sostanza è
immessa sul mercato quindi si lavora sulle dosi più basse perché
sono quelle potenzialmente meno tossiche.
Il problema delle curve dose risposta è che quando estrapoliamo
questi dati, anche in farmacologia, spesso non si tiene conto della
PENDENZA. La pericolosità infatti è stabilita, oltre che dall’LD50,
anche dalla pendenza della curva perché per sostanze tossiche che hanno la stessa LD50 (come in grafico), la
sostanza B sarà molto più pericolosa della A perché abbiamo un aumento dell’effetto tossico estremamente
più veloce rispetto alla sostanza A quindi anche minimi aumenti nella dose di esposizione possono indurre
improvvisamente un effetto tossico. Quindi a parità di LD50 non è detto che due sostanze abbiano la stessa
pericolosità intrinseca.
Ad esempio se una sostanza come la B si accumula, possiamo passare da assenza di effetti tossici alla comparsa
di effetti estremamente tossici, anche letali, con minimi cambiamenti nel dosaggio. Sostanze che hanno una
curva con una pendenza di questo tipo sono molto più pericolose quando introdotte nell’ambiente,
specialmente se si accumulano (e una delle proprietà intrinseche delle sostanze tossiche è la lipofilia e le
sostanze lipofile hanno una fortissima tendenza ad accumularsi sia nell’organismo che nell’ambiente). QUINDI
anche la pendenza della curve, indipendentemente dall’LD50, è un parametro che deve essere valutato ed è
per questo che è molto importante disegnare queste curve. Bisogna estrapolare da queste curve moltissime
informazioni, unirle e farsi un’idea precisa della tossicità intrinseca di una sostanza.
Confrontando l’LD50 di diverse sostanze, ordinate dalla meno tossica alla più tossica, notiamo come la
maggior parte delle sostanze più tossiche finora identificate siano tossine naturali.
Una volta stabilita l’LD50 per ciascuna sostanza, bisogna
poi associarla a una classe di rischio. Le classi di rischio sono
stabilite in base al range di LD50. In altre parole, una volta
che la sostanza viene immessa sul mercato, a questa viene
sempre attribuita una fascia di rischio che è in funzione
dell’LD50 valutata a livello di studi preclinici. Si va da
sostanze estremamente tossiche (quindi con una
LD50 estremamente bassa) a sostanze che poco
probabilmente determineranno tossicità ma il concetto

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di sostanza SICURA non esiste (la sicurezza in tossicologia non esiste, si parla di alta o bassa probabilità che
una sostanza induca effetti tossici). Questo perché l’idea effettiva che la sostanza sia sicura o meno ce
l’abbiamo solo quando la sostanza sarà immessa sul mercato mentre quando un ente regolatorio, in base al
dossier, assegna una classe di rischio a una sostanza, non ha la certezza che la sostanza induca effetti tossici
nella popolazione, comprese le popolazioni più suscettibili. È possibile che nella maggior parte della
popolazione non ci siano effetti tossici ma ci siano popolazioni più suscettibili per la presenza di particolari
polimorfismi genetici o in base a età o patologie per cui non si parla mai di SICURO quando si attribuiscono
classi di rischio alle nuove sostanze chimiche.
Per stabilire la dose alla quale sarà improbabile che la sostanza induca effetti tossici si stabilisce la dose
giornaliera ammissibile (ADI), estrapolata dalle curve partendo dalla NOAEL o dalla LOAEL (a seconda che dallo
studio sia emersa una dose senza effetto o una dose minima a cui si verifica effetto tossico). Si esprime in
mg/kg di peso corporeo e viene calcolata su un individuo di 60kg (si tiene questo parametro di default). Questa
dose deve essere sicura anche se individuo sia esposto tutti i giorni per tutta la vita (ma è difficile in questo
caso fare una previsione verosimile)
ADI =NOEL / SF dove SF = fattori di sicurezza ossia fattori che provano a farci individuare una dose che anche
se una popolazione intera viene esposta a una sostanza per tutta la vita non si osservano effetti avversi. Sono
stati stabiliti 5 fattori di sicurezza che pesano ciascuno 10, alcuni si usano sempre altri no
- A: fattori di sicurezza sempre applicato, è un fattore 10 per estrapolare i dati dall’animale all’uomo
(aggiungiamo un fattore di sicurezza 10 perché c’è un’incertezza, non sappiamo cosa può succedere
nell’uomo). Si usa sempre a meno che non siano disponibili dati sull’uomo in letteratura per studi fatti in
precedenza
- H: fattore 10 utilizzato per cercare di ovviare al problema della variabilità insita nella popolazione umana
(ci sono popolazioni più o meno suscettibili quindi aggiungo un fattore 10 per cercare di avere effetti
tossici minimi nella popolazione suscettibile)
- S: fattore 10 per estrapolare i dati da una esposizione subcronica ad una esposizione cronica (= si
aggiunge 10 quando lo studio si è fermato alla tossicità subcronica)
- L: un fattore di sicurezza tra 1 e 10 per estrapolare dalla LOAEL la NOAEL (quindi si usa per quelle sostanze
tossiche in cui negli studi preclinici non è stata evidenziata una NOAEL e quindi presumibilmente questa
sostanza è più pericolosa di altre)
- D: tale fattore può essere applicato quando il database è incompleto (difficilmente questo fattore di
sicurezza viene usato perché gli enti europei non approverebbero mai una sostanza di sintesi il cui dossier
è incompleto)
Ad esempio, se partiamo da una sostanza tossica per cui è stato fatto uno studio di tossicità subcronica per
cui abbiamo calcolato una LOAEL (no NOAEL) pari a 50mg/kg/day (nell’animale) dobbiamo considerare: 10
per il passaggio da animale a uomo, 10 per la variabilità insita nella popolazione umana,
10 perché non sono stati fatti studi di tossicità cronica e 10 per estrapolare dalla LOAEL la NOAEL quindi ADI
nell’uomo = 50mg/kg/day : (10x10x10x10) = 0,005mg/kg/day. Questo valore rappresenta la dose che può
essere assunta al giorno per tutti i giorni della vita senza dare presumibilmente effetti tossici. QUINDI non solo
lavoriamo nella prima parte della curva costruita con gli studi preclinici ma ci spostiamo ancora di più perché
si cerca di lavorare con il maggior margine di sicurezza possibile.
Nonostante questo tipo di operazione, la mancanza di informazioni riguardo il possibile accumulo resta e non
si potrà sapere finchè la sostanza non verrà immessa sul mercato. Se una sostanza si accumula, la dose
aumenta (ci allontaniamo dall’ADI che è stata stabilita) quindi aumenta anche esposizione e quindi effetto
tossico. Per una sostanza ideale che non si accumula nell’ambiente e nell’organismo, lavorare in questo modo
permette di stabilire una dose che sarà potenzialmente priva di effetti tossici anche se assunta per tutto il
corso della vita. Per cercare di risolvere il problema della tossicologia per cui si può lavorare sperimentalmente
solo a livello di animale e di modelli in vitro per poi estrapolare dei valori dalle curve che permettano una
esposizione sicura sia nell’uomo in generale sia a quella popolazione potenzialmente più suscettibile agli
effetti tossici della sostanza, sono stati introdotti due SF: c’è un primo salto interspecie da animale all’uomo
che è espresso da un fattore di sicurezza 10 ma c’è un altro fattore di sicurezza 10 che tenta di tener conto
della variabilità insita della popolazione umana. Nonostante si faccia un’estrapolazione che tenta di tener
conto di diversi parametri, un rischio connesso alla comparsa di effetti tossici esiste sempre, non possiamo

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mai escludere che una nuova sostanza chimica di sintesi possa mostrare effetti tossici una volta immessa sul
mercato perché lavoriamo solo in senso predittivo, non abbiamo la certezza solo finché la sostanza non è
immessa sul mercato. Problema principale è l’accumulo, che rappresenta tutt’ora una grossa incognita
quando si immette sul mercato una sostanza
Altra cosa importante in tossicologia è utilizzare curve dose-risposta
per diversi parametri specifici che permettano di valutare l’effetto
tossico non tanto sull’intero organismo quanto piuttosto per
valutare se c’è un effetto tossico specifico a livello di alcuni organi.
In questo caso non bisogna valutare la letalità ma piuttosto il livello
di biomarcatori d’effetto. Animale in questi studi viene trattato
come se fosse un paziente quindi vengono estrapolati tutti i
parametri di analisi per stabilire se c’è un organo o un tessuto che
manifesta prima una tossicità (curva d’organo). Capire se c’è un organo che mostra prima degli altri l’effetto
tossico è importante quando si mette in commercio una sostanza perché fornisce un’indicazione in termini di
linee guida per monitorare al meglio la tossicità. Ad esempio, in caso di esposizione professionale a
determinate sostanze (che può durare anche decine di anni), bisogna dettare delle linee guida secondo cui
lavoratore esposto a quella sostanza dovrà fare periodicamente dei controlli specifici della funzionalità
dell’organo primariamente soggetto alla tossicità. Sapendo quali sono i primi effetti tossici che si possono
manifestare riusciamo a garantire una sicurezza dell’operatore in maniera preventiva (la medicina del lavoro
deve sapere a cosa è esposto un lavoratore per stabilire cosa monitorare annualmente in quel lavoratore per
garantirne la sicurezza).
Le curve d’organo si costruiscono sulla base di una serie di biomarcatori d’effetto. Valutazione più semplice si
fa con gli esami del sangue che permettono di valutare livelli ematici di particolari enzimi che possono essere
indicativi in maniera precoce di un danno a livello di un tessuto e danno informazioni sull’attività, funzionalità
e sullo stato di quel tessuto. Ad esempio il fegato, l’organo deputato alla detossificazione, a prescindere dal
bersaglio molecolare della sostanza tossica, sarà uno degli organi più soggetti a danni di tipo tossico e infatti
molte delle manifestazioni di tossicità si verificano a livello epatico. Per valutare danni precoci a livello del
fegato si valutano alanina aminotransferasi (ALT o SGOT) e asparticoaminotransferasi (AST o SGP), valutati
negli esami del sangue. Questi enzimi sono molto predittivi nel senso che diagnosticano in maniera precoce
eventuali danni epatici o eventuali problemi di funzionalità epatica. Alterazioni minime di questi enzimi
indicano uno stress a carico del fegato + vantaggio di questi enzimi è che cambiano molto velocemente (prima
di confermare o meno tossicità epatica bisogna ripetere le analisi in diverse condizioni es digiuno o con una
dieta particolare per escludere che un’alterazione sia dovuta a qualcosa che abbiamo mangiato il giorno prima
degli esami del sangue). Utilizzati molto spesso per prevenire o identificare in maniera molto precoce una
tossicità a livello del fegato.
Tutto quello che abbiamo detto, è relativo alle sostanze tossiche che presentano una soglia d’effetto (danno
un effetto tossico dose -dipendente) ma esistono delle sostanze tossiche che non presentano una soglia
d’effetto (= non c’è una soglia al di sotto della quale non si verifica effetto tossico). Questo è vero soprattutto
per le sostanze che inducono cancerogenesi (comunque non è detto che una singola esposizione non induca
un danno) quindi in questo caso non si possono costruire curve dose-risposta, si possono solo stabilire delle
dosi di esposizione accettabili. A livello di regolamentazione, per le sostanze cancerogene viene considerato
accettabile, per le persone esposte a una sostanza per tutta la vita, il rischio di sviluppare 1 caso di tumore su
1mln di persone esposte (rischio più basso all’incidenza di tumori non legati alla tossicità, bisogna sempre
però stabilire un rischio accettabile) = se una sostanza è cancerogena, è accettabile il rischio che si sviluppi 1
caso di tumore su 1mln di persone esposte a quella sostanza, questo è l’unico cut-off stabilito quando una
sostanza cancerogena immessa sul mercato perché non esistono alternative. A livello di legislazione
soprattutto a livello di EU bisogna cercare un’alternativa alla sostanza cancerogena e in presenza di alternativa
si tende a sviluppare quella e mai la sostanza per cui si è osservato un potenziale cancerogeno. Problema
grosso è che USA non hanno una regolamentazione di questo tipo ma valutano solo l’1% delle sostanze
chimiche immesse sul mercato. Si riesce a stabilire una causalità tra esposizione e tumore solo quando
l’esposizione è a livello mondiale (bisogna stabilire se aumento dell’incidenza di un tipo di tumore in una
determinata popolazione segue un evento di immissione sul mercato di questa sostanza e questo è molto

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difficile). Se sono esposte poche persone una valutazione del genere non si può fare. Normalmente a livello
epidemiologico, quando si verifica un evento tossico in una certa popolazione, si deve tornare indietro e
vedere un picco di incidenza di una tipologia di tumore in una determinata popolazione e bisogna tornare
indietro per capire se il picco coincide con immissione di un prodotto sul mercato (questo è quello che è
successo nel caso della Talidomide cui è stata attribuita focomelia: boom di nascite di bambini focomelici e
andando indietro si è visto che shift della curva si è avuto con immissione sul mercato del farmaco).
Quello che in tossicologia dà effettivamente idea degli effetti nella
popolazione sono le CURVE DI RISPOSTA QUANTALI perché permettono di
osservare gli effetti del tossico o farmaco a livello di popolazione. Non
valutano l’intensità della risposta bensì sono curve curve tutto o nulla.
Normalmente, nella curva quantale si valuta la % di popolazione che
presenta effetto tossico e la popolazione che non la presenta. I tipici grafici
che si ottengono dopo l’immissione di una sostanza sul mercato sono:
da queste curve non si estrapolano i valori di LD50 ecc ma permettono di
stabilire la percentuale di individui che sviluppano una risposta tossica a
parità di esposizione ossia a parità di dose. Sono importanti perché si tratta
di gaussiane (si ha la media al centro e poi ci sono i due estremi della gaussiana): la media è quello che
cerchiamo di prevedere con lo studio preclinico mentre quello che diventa imprevedibile e si può osservare
solo dopo che la sostanza viene immessa sul mercato (e quindi permette di costruire queste curve) sono le
due popolazioni agli estremi ossia popolazioni estremamente resistenti o suscettibili all’effetto tossico.
Individui maggiormente sensibili sono quelli che vanno protetti rivedendo tutto il dossier (c’è un continuo
aggiornamento anche dopo l’immissione sul mercato che può portare anche a modificare l’ADI abbassandola
perché l’obbiettivo è quello di non indurre alcun effetto tossico anche nelle popolazioni più suscettibili).
QUINDI quando una sostanza tossica arriva sul mercato aggiornamento del dossier è continuo così come
l’aggiornamento delle linee guida per le persone esposte. A livello percentuale, vengono considerati soggetti
suscettibili quelli che cadono nel 2,5% finale della curva.
Le curve quantali quindi forniscono due informazioni in più oltre all’esposizione (che si è cercato di prevedere
prima dell’immissione sul mercato):
- la popolazione più suscettibile agli effetti tossici (che non si può stabilire a priori neanche dal modello
animale in quanto non c’è variabilità), indipendentemente dalla dose di esposizione
- la popolazione più resistente agli effetti tossici
Assunto principale è che se riesco a proteggere la popolazione più suscettibile, si riesce a proteggere meglio
anche tutta la popolazione generale. QUINDI tossicologo deve riuscire a individuare la popolazione più
suscettibile perché proteggendo al meglio quella, sarà protetta meglio anche tutta la popolazione generale.
Esistono anche delle eccezioni
alle classiche curve dose-
risposta come nel caso di alcuni
elementi essenziali e vitamine
(micronutrienti) che hanno
curve dose-risposta differenti:
c’è una regione di omeostasi in
cui non si verifica tossicità
mentre dosaggi sia più alti che
più bassi si associano ad eventi
tossici. Per la maggior parte
degli elementi essenziali e delle
vitamine (micronutrienti)
abbiamo solo un range sicuro
in cui non si verifica tossicità

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mentre sia in caso di carenza che di eccesso abbiamo effetti tossici
In questo caso, l’effetto tossico che si verifica quando abbiamo una condizione di assenza o riduzione è molto
differente rispetto a quando si hanno degli eccessi. Ad es nel caso del calcio (che ha una regione di omeostasi
molto piccola compresa tra 8,5 e 10,5 mg/100mL di sangue)
- se si scende sotto gli 8,5mg/100mL abbiamo effetti legati a crisi tetaniche e disturbi neurologici che
possono persistere a lungo.
- se abbiamo eccesso di calcio nel sangue (sopra i 10,5 mg/100mL): stato di fatica, sete intensa,
jjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjj problemi gastrointestinali e sviluppo di calcoli renali e quindi
potenziale danno renale
Per alcune sostanze (soprattutto micronutrienti) quindi abbiamo una curva dose risposta della tossicità
completamente a sé stante e possono insorgere effetti tossici anche al di sotto di una certa soglia. Bisogna
quindi mantenere un range che consenta di mantenere omeostasi di questi micronutrienti all’interno
dell’organismo.
LA FARMACOVIGILANZA:
A differenza delle sostanze di sintesi, i farmaci dopo la fase di test preclinici di tossicità vengono sottoposti a
trial clinici sull’uomo e in questa fase possono emergere ulteriori informazioni riguardo alla tossicità. La fase
clinica però è molto limitata rispetto a quello che sarà l’utilizzo del farmaco sull’intera popolazione per cui
molti degli effetti avversi ai farmaci emergeranno una volta che il farmaco sarà immesso sul mercato e verrà
assunto da una popolazione molto più complessa di quella reclutata negli studi clinici. Farmacovigilanza è
stata istituita nel 1962 in seguito alla tragedia della talidomide e rappresenta un aspetto molto importante
della valutazione della tossicità dei farmaci.
FARMACOVIGILANZA secondo definizione dell’OMS è “l’insieme delle attività correlate all’identificazione,
comprensione e prevenzione degli effetti avversi e di ogni altro possibile problema legato all’uso di farmaci”
→ il suo scopo è quello di valutare, dopo che il farmaco è stato immesso sul mercato, tutte le informazioni
relative alla sua sicurezza e questo è importante per assicurare a tutta la popolazione che il rapporto rischio-
beneficio dei farmaci in commercio si mantenga costante e favorevole nel tempo. Se si vede che i rischi
superano i benefici, enti regolatori possono prendere provvedimenti.
Termine medico per definire la farmacovigilanza è SORVEGLIANZA POST MARKETING = una volta che il
farmaco è immesso sul mercato la sua valutazione di questo farmaco continua per tutta la durata di vita del
farmaco stesso. Gli obbiettivi della farmacovigilanza quindi sono:
- Riconoscere il più rapidamente possibile nuove reazioni avverse ai farmaci in seguito alla sua
somministrazione
- Migliorare ed ampliare le informazioni sulle reazioni avverse dei farmaci sospette (sulla base dell’attività
farmacologica ma non erano state rilevate negli studi clinici) o già note ma anche tutte le manifestazioni
di tossicità che non era assolutamente possibile prevedere durante i trial clinici
- Dare delle indicazioni quindi valutare i vantaggi di quel farmaco su altri o indirizzare alcuni soggetti
particolari su altri tipi di terapia
- Comunicare in maniera tempestiva l'informazione in modo da migliorare la pratica terapeutica
QUINDI è un processo che va da riconoscimento della reazione avversa alla comunicazione al personale
sanitario della reazione stessa.
Inizialmente, la farmacovigilanza si limitava ai farmaci classici mentre ultimamente è stata allargata e include
anche: fitoterapici, medicinali vegetali (medicinali che contengono principi attivi vegetali), medicinali
omeopatici, derivati del plasma (albumina, fibrinogeno…), prodotti biologici (tutti i farmaci biologici, a
differenza di tutti i farmaci di sintesi, sono molecole di grosse dimensioni e generalmente queste molecole
hanno un maggiore potenziale allergico quindi più facile che si sviluppi allergia ai farmaci biologici rispetto a
quelli di sintesi), apparati medici (= protesi e altri apparati biomedicali tipo pompe sottocutanee, valvole
cardiache ecc che stanno strettamente a contatto con l’organismo quindi si valuta se materiali sono inerti, se
vengono attaccati dal sistema immunitario), vaccini (da pochi anni mentre prima no perché non erano
considerati farmaci).
Rientrano negli studi di farmacovigilanza anche

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- le problematiche relative agli errori medici (quindi errori di posologia legati a prescrizioni sbagliate di
farmaci)
- i casi di inefficacia terapeutica di farmaci che si mostravano efficaci nei trial clinici (spesso legata a
polimorfismi tanto che nei foglietti illustrativi possono essere indicati polimorfismi in presenza dei quali
il soggetto non risponde alla terapia)
- l’uso off label di farmaci**
- i casi di avvelenamento acuto o cronico ma anche la mortalità legata all’assunzione di farmaci o a un loro
abuso o uso scorretto
- le interazioni tra farmaco e farmaco/prodotti omeopatici, farmaco e agenti chimici e tra farmaco e
alimenti/bevande. Tra i grossi limiti dei trial clinici troviamo il fatto che i soggetti di sperimentazione
vengono selezionati per cui non si può osservare interazione dal momento che i soggetti non assumono
altri farmaci se non quello oggetto di studio (per cui la tossicità legata alle interazioni si potrà manifestare
solo una volta che il farmaco sarà immesso in commercio e verrà assunto da una popolazione che assume
altri farmaci o prodotti omeopatici)
Quando vengono rilevate eventuali interazioni o possibile tossicità, il foglietto illustrativo del farmaco deve
essere aggiornato. Aggiornamento a livello Europeo da parte degli enti che si occupano di farmacovigilanza
viene fatto ogni settimana
**utilizzo OFF LABEL: impiego nella pratica clinica di farmaci già registrati per una determinata patologia ma
usati in maniera non conforme (per un'altra patologia o per una popolazione di pazienti per cui il farmaco non
era mai stato usato o con un’altra posologia) a quanto previsto dal riassunto delle caratteristiche del prodotto
autorizzato.
In questo caso quindi il medico specialista in ospedale (quasi mai medico di base) ritiene che applicare un
farmaco approvato per una patologia potrebbe essere utile anche nel trattamento di un’altra patologia ma
ovviamente in questo caso la parte degli studi clinici non può essere fatta nuovamente. Utilizzo off label
prevede di somministrare un farmaco già in commercio a una popolazione di pazienti diversa da quella per
cui il farmaco è stato testato quindi non si ha alcuna informazione in termini di sicurezza ed efficacia, si può
intervenire solo tramite la farmacovigilanza (perché monitoraggio viene fatto quando il farmaco è già sul
mercato). Solitamente si usano off label farmaci che sono sul mercato già da diverso tempo quindi si hanno
evidenze scientifiche sulla sicurezza e quindi questo può portare i medici a pensare che anche in altre
situazioni non si verificheranno grossi effetti collaterali ma questo è soltanto un assunto, non si hanno
evidenze scientifiche a riguardo. L’utilizzo off label è diverso dal RIPOSIZIONAMENTO. In questo caso un
farmaco che è già stato messo sul mercato per una determinata patologia viene nuovamente testato a livello
preclinico e clinico (a differenza di quanto avviene per utilizzo off label) per ottenere l’approvazione per
un’altra patologia. Lo scopo di questa operazione è di limitare moltissimo i costi: mentre per un farmaco di
nuova sintesi servono più o meno 15 anni per l’immissione sul mercato e i costi sono di circa 2-3mld di euro,
per il riposizionamento di un farmaco già in commercio ci vogliono 6 anni e circa 300 000mln di euro. Questo
approccio viene particolarmente utilizzato per le malattie orfane (per le quali non c’è nessuna cura) e per le
malattie rare perché si investono meno soldi e si può sperare di arrivare sul mercato con il farmaco in meno
tempo
L’utilizzo off label riguarda l’impiego di un farmaco già in commercio:
• per una patologia o una popolazione che esulino dalle indicazioni terapeutiche autorizzate. Un esempio
in questo senso è quello dell’aspirina. È stata messa sul mercato come FANS con effetti antinfiammatori,
analgesici e antipiretici mentre ad oggi viene usata anche come anticoagulante per la prevenzione
dell’infarto al miocardio (stesso farmaco utilizzato per il trattamento di un’altra condizione patologica)
• con una modalità di somministrazione alternativa: ad esempio se un farmaco messo in commercio per
via endovenosa viene invece somministrato per via orale, bisogna fare un monitoraggio di
farmacovigilanza perché cambia in questo caso tutta la parte di farmacocinetica. Il desametasone (un
glucocorticoide di sintesi) ad esempio è stato messo in commercio con somministrazione per via
parenterale ma è stata in realtà fatta una formulazione orale per poterlo usare nei pazienti pediatrici.
• in un range di dosi differenti da quello che viene normalmente utilizzato
Esempi di utilizzi off label:

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→ Uso in popolazioni speciali (es. bambini, anziani, donne). I bambini non sono mai reclutati nei trial clinici
quindi tutti i farmaci, anche quelli più semplici somministrati nei bambini, non hanno mai subito
precedentemente un iter di valutazione farmacologica clinica ed è come se fossero tutti somministrati off
label (tanto che negli adulti dal 10 al 40% dei farmaci possono avere indicazione off-label mentre nei bambini
utilizzo off-label raggiunge il 90%). MA i bambini (come anche gli anziani), sono una popolazione con
caratteristiche molto differenti dagli adulti sia a livello di farmacocinetica che di sviluppo periferico e del SNC
quindi quando si somministra un farmaco a un bambino non si può escludere a priori che la somministrazione
non interferisca in qualche modo con i processi di neuro-sviluppo in quella popolazione. Per questo motivo è
importante monitorare la tossicità che emerge dall’utilizzo di questi farmaci in questa sottopopolazione di
pazienti.
Altra popolazione considerata speciale è quella dei pazienti psichiatrici. Alcuni antipsicotici messi in
commercio per il trattamento della schizofrenia nei pazienti adulti come il risperidone, possono essere
somministrati ai bambini autistici. Questi nelle forme più gravi mostrano elevata irritabilità e tendenza
all’autolesionismo e si è visto, tramite utilizzo off-label, che la somministrazione di alcuni antipsicotici come il
risperidone riducono questi comportamenti specialmente quelli di autolesionismo. Questo farmaco non era
mai stato testato nella popolazione pediatrica e non si aveva alcun tipo di indicazione per i pazienti autistici
però attualmente è l’unica terapia che riesce a tenere sotto controllo questi sintomi in quella popolazione di
pazienti. Si stanno cercando comunque altri farmaci che permettano di curare i sintomi della patologia
evitando di usare antipsicotici nei bambini siccome questi farmaci hanno tantissimi effetti collaterali (effetto
collaterale principale nei bambini è la sedazione). Oltre al risperidone moltissimi antidepressivi possono essere
utilizzati off label ma bisogna tenere monitorata la situazione dato che questi farmaci determinano un grosso
aumento ponderale
Altra popolazione speciale è quella delle donne durante gravidanza e allattamento. Nei foglietti illustrativi
infatti si indica sempre di consultare il medico perché non abbiamo informazioni cliniche in questo senso. È
vero che nella fase pre-clinica si valuta il potenziale teratogeno delle sostanze ma sottili alterazioni nello
sviluppo del bambino non si evidenziano così bene negli studi preclinici per cui tutti i farmaci somministrati
durante gravidanza e allattamento devono essere monitorati in maniera molto sottile perché non siamo in
grado dagli studi di stabilire al 100% se un farmaco è sicuro o meno. Perfino i classici antinfiammatori se
possibile non vengono prescritti in gravidanza (se si ha mal di testa si consiglia in questi casi di prendere la
tachipirina dal momento che si tratta di un farmaco con una storia lunghissima, un altissimo indice terapeutico
e, se non in caso di sovradosaggio davvero eccessivo, non sono stati descritti effetti avversi). Inoltre, in
gravidanza avvengono cambiamenti fisiologici per quanto riguarda il metabolismo lipidico (infatti spesso in
gravidanza c’è un maggiore rischio di sviluppare iperglicemia e diabete gestazionale) e ci sono dei rischi a
livello cardiovascolare (durante la gravidanza c’è sempre un aumento della pressione arteriosa per cui usando
i classici farmaci antinfiammatori non steroidei si può arrivare a sviluppare ipertensione durante la gravidanza)
→ ci sono moltissime variabili che non possiamo prevedere una volta che il farmaco è arrivato sul mercato
con la valutazione fatta a livello preclinico e clinico
Anche gli anziani sono molto diversi per quanto riguarda gli adulti per quanto riguarda il metabolismo (che è
molto meno efficiente) e questo può portare a effetti avversi non prevedibili dagli studi clinici. Inoltre, gli
anziani di solito utilizzano molti altri farmaci quindi potrebbero esserci problemi di interazione con altri
farmaci e questo è qualcosa di cui non abbiamo informazione finché non si immette il farmaco sul mercato
→ Uso compassionevole: utilizzo off label è frequente in oncologia. In questo caso, infatti, si vanno a trattare
patologie talmente gravi che bisogna rivedere il rapporto rischio-beneficio. In pratica in oncologia si usano
prescrizioni off label se queste possono fornire anche un minimo beneficio al paziente. Nel caso della terapia
del dolore di pazienti oncologici o terminali invece si è autorizzati a usare farmaci come la morfina a un
dosaggio più alto rispetto a quello approvato per altri pazienti.
→ Uso peri-registrativo (o IMPIEGO PRE-MARKETING DI UN FARMACO): Quasi sempre, le fasi cliniche si
concludono con una fase III al termine della quale viene presentato il dossier completo e l’EMA. Tra la
presentazione del dossier e l’effettiva messa in commercio del farmaco passa molto tempo perché l’EMA deve
dare un parere (approvo o non approvo) e, se il farmaco viene approvato, viene registrato dall’EMA e a quel
punto riceve l’autorizzazione per l’immissione in commercio. Può succedere che, per patologie dove il
beneficio supera sempre il rischio a prescindere dai trial clinici (es terapia del dolore e ambito oncologico),

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mentre l’EMA sta ancora valutando il dossier
ma prima dell’autorizzazione all’immissione
in commercio, il farmaco arrivi a livello
ospedaliero. Spesso sentiamo parlare di
farmaci introdotti in un mercato ristretto
(centri ospedalieri specializzati), prima di
essere immessi sul mercato mondiale, per il
trattamento di alcune patologie. Questo fa sì
che alcune informazioni di tossicità che
troviamo anche nel foglietto illustrativo e arrivano alla farmacovigilanza derivano da questa parte di studi (che
non fanno parte né dei trial clinici né della pratica clinica allargata. Si tratta di una pratica clinica ristretta
all’ambito ospedaliero). Ad esempio, per una determinata tipologia di tumore vengono annualmente
aggiornate le linee guida in merito al suo trattamento clinico quindi il primo approccio applicato dai vari centri
è lo stesso. Una sottopopolazione di pazienti risponde positivamente a questo primo trattamento ma
purtroppo c’è anche una seconda sottopopolazione che non risponde → a livello di ricerca ci si concentra su
questa seconda sottopopolazione per cercare una seconda linea di trattamento. Quando si arriva a presentare
il dossier all’EMA per una possibile seconda linea di trattamento, siccome la problematica oncologica è molto
grave e una differenza di mesi o settimane può salvare la vita al paziente, è possibile che la seconda linea di
trattamento proposta venga utilizzata in centri specializzati prima dell’autorizzazione all’immissione in
commercio. Quando si chiede un “secondo parere” significa chiedere a un grosso centro (es a Milano Istituto
Nazionale dei Tumori, IEMA o Humanitas) se in quel momento sta utilizzando un farmaco pre-marketing. Si
parla di USO COMPASSIONEVOLE di un farmaco perché siamo di fronte a situazioni talmente gravi da non
poter aspettare i tempi di immissione sul commercio del farmaco quindi in alcuni centri specializzati, il farmaco
inizia ad essere usato prima. Quindi alcune informazioni di tossicità che magari non erano state evidenziate in
precedenza negli studi clinici e preclinici derivano da questa sperimentazione.
Ci sono ovviamente delle differenze importanti tra l’utilizzo pre o post-marketing:
- Utilizzo pre-marketing è possibile sono a livello ospedaliero (tanto che se si tratta di farmaci da assumere per
via orale vengono date le pastiglie contate o il paziente deve recarsi fisicamente in reparto per assumere il
farmaco)
- Pazienti sono pochi e selezionati (di solito sottopopolazione di pazienti che non ha risposto alla terapia di
prima linea oppure per patologie per cui non c’è a disposizione alcuna altra terapia)
- Le indicazioni di impiego sono precise e limitate (è assolutamente escluso l’utilizzo off-label)
- Periodo di assunzione è breve perché copre il periodo di tempo che l’EMA impiega per valutare il dossier
e registrare il farmaco prima di dare l’autorizzazione all’immissione in commercio
- Paziente viene seguito in maniera precisa e rigorosa, sia a livello di visite che come somministrazione del
farmaco. Per evitare interazioni in questo caso al paziente vengono date indicazioni anche a livello
alimentare
A livello post-marketing invece:
- farmaco può essere prescritto anche a livello ambulatoriale o dal medico di base
- i pazienti diventano numerosi, tutti differenti (non c’è selezione e ci possono essere patologie
concomitanti note o meno)
- le indicazioni di impiego possono essere allargate (nel post-marketing si può avere l’impiego off-label di
un farmaco)
- periodo di impiego è legato alla posologia del farmaco (a volte posologia può essere cronico-
intermittente quindi bisogna prendere il farmaco e fare un periodo di sospensione prima di tornare a
prendere il farmaco perché se si arriva a tolleranza il farmaco non è più efficace)
- l’assistenza al paziente è variabile e dipende da quanto il paziente è in rapporto col medico e viceversa
da quanto il medico monitori il paziente
In questo caso quindi tendenzialmente emergeranno le reazioni avverse più rare.
Normalmente quando un medico sceglie di utilizzare un farmaco off label lo fa basandosi su evidenze presenti
in letteratura perché magari nel frattempo sono stati pubblicati articoli scientifici che sembrano dimostrare
anche solamente in un case-study (= una sola persona ha preso quel determinato farmaco e ne ha tratto

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beneficio) e nel caso in cui non ci siano alternative migliori può prendersi la responsabilità di usare un
determinato farmaco per una determinata popolazione di pazienti o per una determinata patologia.
Comunque, la maggior parte degli utilizzi off-label dei farmaci ha una scarsa evidenza scientifiche, è una
pratica che viene fatta perché il quel momento non si hanno alternative migliori ed è questo il motivo per cui
la probabilità che si verifichino effetti avversi non prevedibili è molto più alta rispetto agli effetti avversi non
prevedibili che si possono verificare per un farmaco utilizzato con la sua indicazione terapeutica e con la
posologia per la quale è stato testato. In questo caso quindi la farmacovigilanza è l’unico strumento di
sicurezza che abbiamo a disposizione.
La farmacovigilanza è necessaria perché i trial clinici hanno dei limiti oggettivi:
Troppo pochi: in uno studio clinico fatto bene nella fase III si testano al massimo 5000 - 6000 soggetti (che
sono tanti dal punto di vista di costo e di design dello studio) ma nel mondo ci sono 8mld di persone tutte
completamente diverse sia a livello genetico sia per quanto riguarda condizioni patologiche, farmaci assunti,
provenienza geografica (che determina polimorfismi molto differenti) MA per poter rilevare una reazione
avversa a un farmaco abbiamo bisogno di una grossa popolazione di pazienti. 1 su 1000 non ha alcuna valenza
sulla comunità scientifica ma se il campione inizia a diventare dell’ordine del milione, il numero di casi di
reazioni avverse, se realmente legate al farmaco, emergeranno → per far emergere tutte le possibili reazioni
avverse legate alla somministrazione di un farmaco abbiamo bisogno di ampliare la popolazione ma questo a
livello di trial clinici questo non può accadere (perché azienda farmaceutica non potrebbe sostenere costi
tanto elevati oppure il farmaco avrebbe un costo tale da non essere fruibile dalla maggior parte della
popolazione)
Troppo semplici: i soggetti che partecipano alle sperimentazioni cliniche sono selezionati in base a criteri di
inclusione ed esclusione che si concentrano su età (si escludono bambini e anziani), non hanno altre patologie
oltre a quella per cui il farmaco si rivolge, non assumono farmaci concomitanti (perché durante gli studi clinici
vogliamo testare la sicurezza del farmaco che stiamo testando, non vogliamo avere interazioni per cui queste
persone stanno prendendo solo quel farmaco) e generalmente si escludono anche le donne.
Troppo mediani: si toglie tutta la popolazione pediatrica, geriatrica e solitamente anche quella femminile
perché generalmente i trial clinici vengono fatti negli uomini. Ultimamente si sta cercando di includere anche
le donne ma bisogna vedere se c’è la stessa risposta altrimenti si rischierebbe di non avere una informazione
chiara sull’efficacia del farmaco. Sono sempre escluse le donne in gravidanza e quelle che stanno allattando
Troppo specialistici: quando un’azienda deve testare un nuovo farmaco deve dare un’indicazione terapeutica
chiara per la quale vuole l’immissione in commercio. Ovviamente questo è un limite perché se si vuole
dimostrare l’efficacia per una particolare indicazione terapeutica, si va a valutare a livello di trial clinici solo i
parametri che interessano per valutare efficacia per quella determinata patologia e non tutte le altre
informazioni. Sarebbe invece interessante fare una valutazione più ampia perché spesso persone arruolate
nei trial clinici, oltre che benefici per quella patologia, possono sperimentare anche benefici per qualcos’altro
che non riguarda quella determinata patologia per cui sarebbe interessante che la ditta farmaceutica annoti
tale informazioni in modo da avere indicazioni per poter usare quel farmaco anche per altre situazioni
patologiche (quindi si danno già delle indicazioni per un eventuale utilizzo off label). Per risolvere questo
problema dell’eccessiva specialità basterebbe che durante i trial clinici venissero annotati gli effetti del
farmaco anche su qualcos’altro per cui il farmaco non viene specificamente testato. Questo potrebbe dare ad
esempio indicazioni per un eventuale utilizzo off-label del farmaco
Troppo brevi: nel caso di pazienti cronici farmaci vengono presi per tutta la vita del paziente mentre i trial
clinici di fase III durano 12-16 settimane e questo lasso di tempo per un farmaco è davvero poco. Molti effetti
collaterali quindi non verranno evidenziati e probabilmente anche valutazione dell’efficacia non potrà essere
valutata con certezza soprattutto per quei farmaci che necessitano di molto tempo per fare effetto
(antidepressivi ad es hanno bisogno almeno di due settimane di trattamento prima di avere un minimo
beneficio)
QUINDI per tutte queste ragioni, uno studio clinico fornisce indicazioni di efficacia e sicurezza ma non sarà
mai in grado di prevedere quello che potrebbe accadere quando il farmaco arriverà sul mercato e quindi sarà
fruibile potenzialmente a 8mld di persone e di questo ne sono consapevoli anche le autorità competenti.
Aumentando la variabilità aumentano il numero di effetti avversi che si possono rilevare e anche la tipologia

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degli effetti avversi. Questo deve portare al continuo aggiornamento dei farmaci messi in commercio grazie
al monitoraggio da parte della farmacovigilanza.
I due strumenti di cui la farmacovigilanza si avvale sono:
- SORVEGLIANZA ATTIVA: parte direttamente dagli enti regolatori che costantemente eseguono un
monitoraggio organizzato e continuo di tutti i farmaci in commercio. Gli enti regolatori prendono i dati
relativi alle varie segnalazioni, li mettono in un database e li analizzano. Per fare questo sono stati anche
stabiliti dei tempi: tutti i database vengono aggiornati su base settimanale per tutti i farmaci in
commercio e a seconda che la segnalazione della reazione avversa sia grave o lieve o moderata. Quindi,
per una reazione lieve o moderata gli enti regolatori hanno 5 giorni per dare una risposta se gli effetti
avversi sono imputabili al farmaco (e quindi la reazione necessita di essere comunicata e necessita di un
intervento di qualche tipo da parte degli enti regolatori). Nel caso delle segnalazioni delle razioni più gravi
ci vuole più tempo perché si richiede l’intervento anche di enti esterni. Generalmente entro 20 giorni
deve essere data una risposta
- SORVEGLIANZA PASSIVA (ha il ruolo principale nella farmacovigilanza): si basa sulle segnalazioni
spontanee dei pazienti. Mentre la sorveglianza attiva probabilmente evidenzierà effetti avversi comuni,
la sorveglianza passiva rappresenta l’unico modo che abbiamo per evidenziare eventi avversi rari (che
colpiscono ad es 1 persona su 10 000) che sono anche quelli più pericolosi perché totalmente
imprevedibili e slegati dall’attività farmacologica. In questo caso è la persona che sta prendendo il
farmaco che deve fare la segnalazione passando attraverso il medico specialista se si tratta di un paziente
ospedalizzato o attraverso il medico di base se si tratta di un paziente privato. Dal punto di vista
burocratico la procedura è stata semplificata sia per il medico che per il paziente
È dunque importante informare correttamente la popolazione circa la possibilità di fare queste segnalazioni.
Un modulo deve essere compilato dal paziente e l’altro dal medico che, tramite un sistema informatizzato, li
invia all’ente ospedaliero sul territorio che li invia poi alla regione, che centralmente li invia all’AIFA la quale
manda il tutto a livello europeo. Esiste infatti un unico database europeo, l’EUDRA VIGILANCE che acquisisce
e analizza tutte le informazioni di farmacovigilanza che arrivano dai vari paesi europei. Questo database
implementa le nuove segnalazioni con quelle già esistenti e si occupa poi di comunicare le informazioni
all’EMA che a sua volta contatta l’OMS. A livello mondiale, il sistema di farmacovigilanza basato sulla
segnalazione attiva è organizzato da un programma internazionale promosso dall’OMS che coordina i centri
di farmacovigilanza che provengono da oltre 130 paesi. Una segnalazione che raggiunge l’Eudra Vigilance è
già stata ampiamente valutata nelle fasi precedenti dall’AIFA e dal Ministero della Salute che possono
richiedere ulteriori informazioni e approfondimenti una volta che arriva una segnalazione (arrivata una
segnalazione, prima di farla arrivare al database e quindi prima di essere certi che la segnalazione è attribuibile
a quel farmaco, ci devono essere degli scambi di informazioni tra AIFA e le regioni, le ASL fino ad arrivare a
informazioni più specifiche come cartella clinica e anamnesi del paziente che ha effettuato la segnalazione)
→ è un sistema fortemente decentrato e normalmente quando l’informazione raggiunge l’Eudra Vigilance ha
superato diversi step e l’AIFA ha ritenuto che quell’informazione dovesse entrare nel database. Nella
farmacovigilanza end point primario è implementare database dell’Eudra Vigilance: tanto più viene
implementato questo database tanto più saremo in grado di evidenziare nuove reazioni avverse relative a uno
specifico farmaco e quindi migliorare l’utilizzo clinico di quel farmaco stesso.
Le segnalazioni spontanee sono importantissime anche perché rilevando gli effetti tossici su un gruppo
ristretto di pazienti è possibile identificare quali fattori di rischio in questi pazienti determinano l’effetto
tossico a quel farmaco (dato che la popolazione che mostra quegli specifici effetti avversi è ristretta si può
capire perché quei soggetti a differenza di altri sviluppino quel tipo di effetti = si può meglio caratterizzare il
substrato biologico di una reazione avversa rara). Inoltre, si possono evidenziare quelle reazioni avverse gravi
che possono essere sia già note che da precedenti segnalazioni sia completamente nuove. La segnalazione di
un evento che non era mai stato verificato prima mette il sistema in uno stato di allerta: se rimane da sola
non viene presa in considerazione ma se ne arrivano altre tutte in concomitanza con l’utilizzo di quello stesso
farmaco o della stessa classe di farmaci, a quel punto si mette in moto tutto il sistema per la valutazione.
Vantaggi della segnalazione spontanea: Limiti della segnalazione spontanea:

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Mostra gli effetti avversi di un farmaco quando questo Non è specifico e oggettivo perché una certa
viene assunto nella vita reale, quando il farmaco viene componente di soggettività, quando un soggetto fa
preso da un paziente, tendenzialmente cronico, a casa una segnalazione, c’è sempre
sua
raccoglie i dati sull’effetto avverso in relazione a un È un sistema che viene usato poco
paziente che ha una sua soggettività per cui può dare (tendenzialmente il cittadino non comunica
anche un’interpretazione di quello che è successo (di eventuali effetti avversi a meno che questi non
solito un paziente, specialmente quelli in terapia siano particolarmente gravi quindi nel momento in
cronica, stanno molto attenti alla loro routine quindi cui il paziente viene ospedalizzato sarà il medico
possono dare informazioni precise riguardo ai farmaci specialista a effettuare la segnalazione)
presi in concomitanza, all’alimentazione…)
sono l’unico modo che abbiamo per identificare Segnalazioni spontanee devono essere valutate
reazioni rare o molto rare che spesso sono molto gravi attentamente e implementate. Bisogna dare
tanto da necessitare di ospedalizzazione seguito alle segnalazioni spontanee solo quando si
raggiunge un campione tale da stabilire relazione
di causalità tra farmaco e reazione avversa
Nonostante la segnalazione spontanea sia un processo lungo, rimane lo strumento migliore per monitorare la
sicurezza di un farmaco. Quando una persona comune sta assumendo un farmaco e avverte qualcosa di
strano, la prima cosa che viene spontaneo fare è guardare il foglietto illustrativo e leggere quali sono gli effetti
avversi riportati più o meno comuni. In assenza di quel sintomo sul foglietto illustrativo, difficilmente il
sintomo verrà attribuito al farmaco ma si cerca un’altra motivazione e per questo spesso le informazioni
presenti sul foglietto illustrativo non vengono implementate perché manca una segnalazione. Sarebbe stato
invece importante segnalare anche le reazioni che non possono essere previste leggendo il foglietto
illustrativo perché se più persone faranno la stessa segnalazione per lo stesso farmaco si potrà valutare la
motivazione per cui è emerso quell’effetto collaterale ed eventualmente implementare le informazioni
presenti sul foglietto illustrativo stesso. In alcuni casi, ad esempio, la reazione avversa potrebbe essere legata
alla presenza di un polimorfismo che rende il soggetto più sensibile quindi se si implementa il sistema di
farmacovigilanza è possibile identificare il polimorfismo responsabile della reazione avversa e sarà quindi
possibile riconoscere a monte (quindi prima che assumano il farmaco), le persone che probabilmente da quel
farmaco trarrebbero più rischi che benefici che saranno indirizzate verso un’alternativa o verso l’utilizzo di un
dosaggio di quel farmaco più basso di quello terapeutico standard. QUINDI la prima segnalazione potrebbe
dare luogo a una serie di eventi che porterebbero al miglioramento della pratica clinica per l’utilizzo di un
determinato farmaco.
In Italia viene segnalato solo il 10% delle reazioni avverse (= solo il 10% delle reazioni avverse confluisce nella
rete della farmacovigilanza). Questo accade perché spesso se la reazione avversa si risolve spontaneamente
si tende ad evitare la segnalazione mentre il 10% delle reazioni che vengono segnalate sono reazioni
veramente gravi (talvolta anche letali) per cui ospedale e ASL hanno bisogno di appoggiarsi a qualcuno che
abbia più informazioni in merito al farmaco. Ideale sarebbe invece che tutte le reazioni avverse, anche quelle
che poi si risolvono, vengano inserite nel database che verrebbe così progressivamente implementato. Queste
informazioni vengono poi elaborate da algoritmi in modo da aumentare progressivamente la sicurezza
nell’assunzione del farmaco stesso. Di solito end point primario di un farmaco è l’efficacia ma anche la
sicurezza è molto importante e di sicuro non c’è niente, la sicurezza è data dal rapporto rischio-beneficio e se
il beneficio è mantenuto stabile si può lavorare, per aumentare la sicurezza, abbassando i rischi e la
farmacovigilanza si propone di fare proprio questo. I motivi della sotto-segnalazione sono:
- scarsa conoscenza della farmacovigilanza e delle norme e procedure di segnalazione (che in realtà sono
semplici, cittadino in sé deve compilare un modulo molto semplice, il più viene fatto dal medico di base
e dalla ASL, il cittadino dà solo l’input iniziale)
- incertezza sull’associazione tra farmaco ed evento avverso, specialmente per reazioni avverse che non si
verificano immediatamente dopo l’assunzione ma si verificano in modo ritardato. Si tende infatti a
pensare che se si verifica un’intossicazione (da farmaco o meno), la reazione avversa si manifesterà 15-
30 minuti dopo l’assunzione ma in realtà non è così e anzi le reazioni avverse ritardate sono quelle più
gravi e che al tempo stesso sono difficili da correlare al farmaco. A volte quindi quando le reazioni sono

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ritardate rispetto all’assunzione del farmaco è difficile stabilire una correlazione per cui una persona nel
dubbio evita di segnalarlo
Nonostante le segnalazioni siano molto scarse, c’è un trend che fa pensare che ci possa essere un aumento
del numero di segnalazioni nel tempo. Questo perché ad oggi c’è molta più consapevolezza e si sta più attenti
rispetto a una volta (quando si andava molto più in fiducia nei confronti del medico) verso la pratica clinica.
Anche paziente che sta prendendo un farmaco è molto più attento alle reazioni del suo corpo in seguito
all’assunzione quindi è più preciso nel rilevare eventuali cambiamenti e nel segnalarli.
Quando dal database emerge un effetto avverso chiaramente imputabile a un determinato farmaco:
- nei casi più gravi OMS (siccome farmacovigilanza è governata a livello mondiale) può decidere di ritirare
il farmaco dal commercio a livello mondiale (è raro che questo accada ma negli ultimi 50 anni sono stati
ritirati dal commercio più di 120 farmaci)
- nei casi più comuni si implementa l’informazione relativa a quel farmaco quindi si modifica
regolamentazione e si introducono delle restrizioni sull’uso di quel farmaco (ad es viene rimossa una
indicazione terapeutica, viene aggiunta una controindicazione, vengono aggiunti messaggi riguardo alle
precauzioni d’uso, vengono aggiunte informazioni su possibili interazioni farmacologiche con altri farmaci
o sostanze chimiche o rimedi omeopatici o farmaci di origine vegetale e viene implementata la parte
riguardo le reazioni avverse) → operazioni tutte volte a migliorare assunzione di quel farmaco nella
pratica clinica
Si definisce EVENTO AVVERSO qualsiasi evenienza medica non voluta che può comparire durante un
trattamento con un farmaco, ma che non necessariamente abbia una relazione di causalità con il trattamento
stesso. Quando una persona sviluppa un sintomo che non aveva mai presentato prima ma non ne conosce
con certezza la causa, è un evento avverso → quando si fa una segnalazione si segnala un evento avverso e si
chiede implicitamente agli enti regolatori di capire se l’evento avverso è legato al farmaco oppure no. Una
REAZIONE AVVERSA è invece una risposta ad un farmaco che sia nociva e non intenzionale e che avviene alle
dosi che normalmente sono usate nell’uomo per la profilassi, la diagnosi o la terapia o che insorga in seguito
a modificazioni dello stato fisiologico (= la reazione avversa è chiaramente imputata al farmaco). QUINDI dopo
le indagini un evento avverso può diventare una reazione avversa qualora venga stabilita con certezza la
causalità tra assunzione del farmaco e manifestazione dell’evento avverso. Si preferisce parlare di reazione
avversa piuttosto che di EFFETTI COLLATERALI perché questi sono solo quelli prevedibili in base all’attività del
farmaco stesso. Ad es quando viene somministrato un vaccino, effetti collaterali che uno si può aspettare solo
una sindrome parainfluenzale perché per la natura stessa dell’agente che ci viene iniettato, effetti collaterali
prevedibili sulla base di quello che viene iniettato è la sindrome parainfluenzale. Altro esempio riguarda tutti
gli antipsicotici: visto il loro target biologico, causano una sedazione e quello rappresenta un effetto collaterale
perché dipende dal bersaglio molecolare stesso del farmaco.
La reazione avversa invece coinvolge anche tutte le reazioni che non possono essere in alcun modo previste
sulla base della molecola che stiamo somministrando (si parla di reazione avversa inaspettata, di solito solo le
più rare ma anche le più gravi). Obbiettivo ultimo della farmacovigilanza non è tanto quello di guardare gli
effetti collaterali bensì di identificare le reazioni avverse inaspettate. Le reazioni avverse vengono classificate
in base:
Alla loro Alla loro Al loro tempo di (comuni: colpiscono FINO A 1 persona su 10, non
gravità: frequenza latenza comuni: fino a 1 persona su 100…)
Lievi Comuni <1/10 Immediate Tutte queste caratteristiche devono essere indicate
Moderate Non Ritardate nel foglietto illustrativo
Gravi comuni<1/100
Rare <1/1000 Più la somministrazione del farmaco è diffusa sulla
Molto rare popolazione, più sarà probabile identificare reazioni
<1/10000 rare e molto rare mentre per i farmaci di nicchia che
vengono assunti da una popolazione ristretta e selezionata, individuare reazioni rare e molto rare è molto
difficile. In questo caso nell’identificazione di reazioni rare e molto rare può aiutare l’utilizzo off-label perché
permette di aumentare la popolazione che assume il farmaco.

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A livello di farmacovigilanza le reazioni immediate sono quelle che solitamente vengono segnalate perchè il
paziente le associa direttamente al farmaco che ha preso mentre quelle ritardate sono più difficili perché un
paziente non riesce ad attribuire effetto avverso al farmaco visto che intervallo di tempo tra assunzione ed
effetto avverso può essere relativamente lungo.
In tossicologia, le reazioni avverse ai farmaci sono state classificate in diverse categorie:
→ Reazioni di tipo A (Augmented): sono dose-dipendenti e prevedibili in funzione delle caratteristiche del
farmaco. Sono le classiche reazioni di sovradosaggio (farmaco viene assunto con una posologia sbagliata) ma
si possono verificare anche per variazioni a livello di farmacocinetica (per molti farmaci c’è indicazione di
assunzione a stomaco pieno o vuoto perché l’assorbimento a livello gastrico cambia drasticamente in un caso
o nell’altro → farmaco che avrebbe dovuto essere assunto a stomaco pieno viene assunto invece a stomaco
vuoto e questo determina un aumento del farmaco che raggiunge il bersaglio e quindi si può avere una
risposta aumentata ma questa risposta farmacologica comunque è la stessa che si osserva nei regimi
terapeutici, solo è molto aumentata). Si tratta di reazioni comuni, prevedibili e quindi evitabili. Di solito sono
note prima dell’immissione in commercio, sono riproducibili con facilità in ambito sperimentale e, sebbene
frequenti, raramente mettono in pericolo la vita del paziente. Possono derivare da un aumento dell’azione
farmacologica, oppure da un’azione del farmaco che si esplica su sistemi diversi da quello dove si intendeva
intervenire; pertanto, sono generalmente gestibili con riduzione della dose o la sospensione del farmaco,
dopo aver considerato gli effetti della terapia concomitante.
→ Reazioni avverse di tipo B (Bizzarre), dose-indipendenti ed imprevedibili (riguardano la variabilità
individuale di ciascuno di noi). Sono difficili da identificare prima che un farmaco sia immesso in commercio,
sono spesso gravi e apparentemente non rappresentano un’estensione dell’azione farmacologica. Sono
spesso di natura allergica, immunologica o idiosincrasica (di solito queste reazioni sono legate ai polimorfismi
genetici quindi una persona può avere una risposta a un farmaco o esagerata o inesistente per cui queste
reazioni sono dette bizzarre). Le reazioni di tipo B risultano imprevedibili e dose-indipendenti (o si scatena la
reazione allergica o non si scatena). In questi casi, oltre alla sospensione immediata del farmaco, si rende
necessario evitarne la somministrazione in futuro
→ Reazioni di tipo C (Chronic): si verificano in seguito alla somministrazione cronica del farmaco e per questo
solitamente sono molto gravi e intrattabili. Fanno parte delle reazioni di tipo C danneggiamenti a carico di
organi che non erano stati previsti negli studi clinici. Quando si manifesta la sintomatologia la compromissione
dell’organo è tale da non poter essere riparata. Sono dose e tempo dipendenti.
→ Reazioni di tipo D (Delayed), reazioni ad insorgenza tardiva e ritardata rispetto alla terapia farmacologica
imputata. In questo caso è molto difficile stabilire una relazione tra il farmaco e la reazione perché passa molto
tempo tra assunzione del farmaco e manifestazione dell’effetto tossico
→ Reazioni di tipo E (End of use = reazioni da sospensione del farmaco): compaiono subito dopo la
sospensione di un farmaco e si correggono in genere con la ri-somministrazione del farmaco, seguita da una
sospensione graduale (effetto rebound: organismo risponde in maniera opposta a come faceva durante
assunzione del farmaco). Classiche reazioni ritardate di tipo E si verificano quando una persona (per negligenza
o ingenuità o incoscienza) smette di prendere uno psicofarmaco senza scalarlo
→ Reazioni di tipo F (Failure = da insuccesso terapeutico, farmaco non ha efficacia terapeutica), spesso legate
a idiosicrasia (ad es isoniazide e acetilatori) ma anche ad interazione fra farmaci. Un esempio è la
concomitante somministrazione di un induttore enzimatico insieme a contraccettivi orali, che può ridurre la
loro efficacia
Le reazioni che possono più facilmente essere identificate nei trial clinici sono quelle di tipo A in quanto legate
all’attività farmacologica della molecola e in quanto dose-dipendenti. Per tutte le altre, specialmente quelle
rare, è importante la segnalazione spontanea.
Fattori che modulano la suscettibilità alle reazioni avverse:
→ fattori di variabilità legata al paziente sia a livello farmacocinetico che farmacodinamico (per quanto
riguarda ad esempio l’espressione di bersagli o di enzimi che sono target di quel determinato farmaco)
→ fattori di variabilità legati al farmaco:
- posologia (quindi dosaggio)

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- indice terapeutico (maggiore è la finestra terapeutica minore è la probabilità di sviluppare tossicità)
- via e modalità di somministrazione
- preparazione farmaceutica (non parliamo solo del principio attivo ma anche di eccipienti, spesso reazioni
avverse sono dovute a qualche eccipiente all’interno della preparazione. Esistono più formulazioni
perché ci possono essere persone che mostrano reazioni avverse non tanto per il principio attivo quanto
piuttosto per gli eccipienti della preparazione)
LE INTERAZIONI FARMACOLOGICHE:
Un’interazione tra farmaci avviene quando si sta assumendo una sostanza chimica, un alimento o un
integratore che può in qualche modo interferire negativamente con l’efficacia o con la sicurezza di un farmaco
(= si verifica un aumento imprevedibile della tossicità). Essendo l’efficacia end point primario, non solo un
aumento della tossicità ma anche una riduzione della efficacia diventa un problema a livello di terapia. Le
interazioni tra farmaci sono molto più comuni nei malati cronici o negli anziani perché sono due categorie di
pazienti che assumono più farmaci contemporaneamente (infatti la frequenza di reazioni avverse aumenta in
maniera impressionante all’aumentare del numero di farmaci prescritti perché c’è il problema legato
all’interazione). Il problema delle interazioni diventa particolarmente pericoloso per i farmaci con basso indice
terapeutico: se il range di dosi che può essere somministrato senza che si verifichino effetti tossici è molto
limitato, anche la minima interazione può spostare il rapporto rischio-beneficio verso il rischio dando luogo
all’insorgenza di reazioni allergiche. Anche nel caso di farmaci con curve molto ripide, per passare dall’effetto
terapeutico a quello tossico basta una variazione minima delle dosi.
Quando si assumono più sostanze contemporaneamente i problemi principali sono legati al metabolismo: una
sostanza più aumentare o ridurre il metabolismo di un’altra.
- Nel caso di sostanze che inducono il metabolismo si ha una perdita di efficacia di un’altra sostanza se
questa agisce direttamente viceversa un aumento dell’efficacia se si sta somministrando un profarmaco
(che verrà più rapidamente convertito nella forma attiva)
- Nel caso invece di sostanze che inibiscono il metabolismo si ha un aumento della biodisponibilità e quindi
della tossicità nel caso di una sostanza che agisce direttamente mentre si ha una diminuzione
dell’efficacia nel caso di un profarmaco (che verrà convertito meno efficacemente nella forma attiva)
Si comportando da inibitori del metabolismo: Allopurinolo, Amiodarone, Cimetidina, alcuni macrolidi, Inibitori
delle monoaminossidasi, alcuni fluorochinoloni, alcuni antimicotici, alcuni agenti per HIV, Metronidazolo,
alcuni inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRIs) e alcune sulfonamidi
Si comportano da induttori del metabolismo: Barbiturici, Carbamazepina, Oxcarbazepina, Fenitoina,
Primidone, Rifampicina, Rifabutina, Etanolo (CYP2E1) e fumo di sigaretta (CYP1A2)
Mentre per tutti i farmaci di prescrizione, la possibilità di interazione è nota (= per tutti i farmaci che vengono
prescritti, medico sa esattamente se per quei farmaci è stata dimostrata un’interazione di qualche tipo)
mentre il problema più grosso della tossicità che può manifestarsi in seguito a interazione è dovuto
all’assunzione di farmaci da banco (ossia i farmaci che possono essere acquistati in farmacia senza prescrizione
medica). Verrebbe da pensare che se si può prendere un farmaco senza prescrizione medica, questo farmaco
è verosimilmente sicuro. Questo tendenzialmente è vero ma è anche vero che molti dei farmaci
comunemente acquistati senza prescrizione, è dimostrata un’interazione con una serie di farmaci da
prescrizione assunti anche per malattie croniche:
- tutti gli antiacidi ad es sono in grado di modificare assorbimento di farmaci da prescrizione
- antagonisti del recettore per l’istamina H2 sono anch’essi antiacidi che inibiscono la produzione HCl nello
stomaco hanno una dimostrata interazione con benzodiazepine e Warfarin (il cui indice terapeutico è
bassissimo)
- anche le persone sotto trattamento cronico per ipotiroidismo (che prendono la levotiroxina), se insieme
a questa prendono un antiacido o comunque qualcosa che altera il pH dello stomaco non hanno effetto
terapeutico del farmaco
- anche per i FANS (aspirina e ibuprofene) sono state dimostrate interazioni con farmaci anticonvulsivanti
come acido valproico, col litio usato per il trattamento del disturbo bipolare e anche con i digitalici (come
la digossina) che lavorano sulla contrazione cardiaca

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In tutti questi casi non abbiamo un controllo se non di farmacovigilanza. Reazioni avverse possono essere
anche estremamente gravi.
Esistono anche evidenze importanti che mostrano come anche alimenti e prodotti omeopatici possano
interagire con i farmaci su prescrizione. Ad es succo di pompelmo è un potentissimo inibitore enzimatico per
cui aumenta in maniera molto elevata la biodisponibilità di alcuni farmaci anche alcuni assunti cronicamente
come immunosoppressori usati dopo i trapianti per evitare il rigetto quindi in questo caso i rischi legati a
un’interazioni con alimenti anche comuni possono dare effetti avversi anche estremamente gravi.
Interazioni con il succo di pompelmo sono state evidenziate e inserite nel foglietto illustrativo di 30 farmaci
come
- calcioantagonisti usati per il trattamento di disturbi cardiaci
- statine
- immunosoppressori (Ciclosporina o Tacrolimus) dati cronicamente a pazienti che hanno subito trapianti
In questi casi non abbiamo niente se non il monitoraggio post marketing e inserire nel foglietto illustrativo
“non assumere in concomitanza con succo di pompelmo”.
L’IPERICO è un rimedio omeopatico per il trattamento di insonnia e inquietudine nervosa ma è anche un
potentissimo induttore enzimatico quindi determina perdita di efficacia di una serie di farmaci che
condividono il metabolismo con esso. Tra questi contraccettivi orali (quindi se la pillola anticoncezionale viene
presa in concomitanza dell’iperico perde di efficacia), immunosoppressori (tanto da provocare rigetto del
trapianto), antivirali, anticoagulanti, ipocolesterolizzanti, broncodilatatori, benzodiazepine… Viste queste
importanti interazioni, il Ministero della Salute nel 2014 ha stabilito il livello massimo di iperico che può essere
assunto come integratore. Inoltre, l’effetto antidepressivo dell’iperico viene potenziato quando assunto
insieme a SSRI (inibitori selettivi del re-uptake della serotonina) e ad antidepressivi triciclici ma aumentano
anche gli effetti collaterali a causa di una interazione farmacodinamica di tipo agonistico (= additivo).
EPATOTOSSICITÁ:
Fegato è l’organo più soggetto all’azione tossica delle sostanze sia per quanto riguarda i farmaci che per le
sostanze chimiche dal momento che è l’organo principalmente deputato dalla detossificazione delle sostanze
che entrano nell’organismo (tutte passano dal fegato). Il danno epatico è una complicanza potenziale di tutti
i farmaci (dal 3 al 10% delle reazioni avverse ai farmaci sono a carico del fegato). Studi su farmaci già in
commercio da molto tempo dimostrano come il 20-30% dei casi di insufficienza epatica acuta sia correlata
all’uso di farmaci (insufficienza che si verifica improvvisamente, di solito per overdose o sovradosaggio di
farmaci, solitamente nel giro di 24-48 ore dall’assunzione). Insufficienza epatica acuta è una condizione
associata a elevata mortalità perché improvvisamente il fegato cessa di funzionare (la mortalità è intorno al
50%). Tra le insufficienze epatiche acute dovute al sovradosaggio di farmaci, il 32% dei casi dipende da
overdose di paracetamolo, un farmaco ragionevolmente sicuro nelle dosi consigliate ma estremamente
tossico a dosi elevate e nei casi più gravi determina insufficienza epatica acuta, coma e morte. I restanti casi
di insufficienza epatica acuta dovuta ai farmaci dipende da reazioni di idiosincrasia, legate al background
genetico di ciascuno per cui sono difficili da prevedere e non dose-dipendenti per cui anche individui che
stanno assumendo il range terapeutico di farmaco possono sviluppare questa reazione.
Negli anni diversi farmaci sono stati ritirati dal commercio per la loro epatotossicità. La tossicità dei farmaci
nei confronti del fegato non è legata a una specifica classi di farmaci bensì qualsiasi farmaco,
indipendentemente dal suo bersaglio nell’organismo, può determinare tossicità epatica. Spesso il danno a
livello epatico dipende dalla formazione di metaboliti reattivi del farmaci (fegato, infatti, è sede della
metabolizzazione dei farmaci e delle sostanze chimiche per cui metaboliti potenzialmente tossici si formano
qui). Ci sono dei fattori che aumentano il rischio di sviluppare tossicità a livello epatico:
- età: negli anziani il rischio di sviluppare tossicità epatica in seguito all’assunzione di farmaci o
all’esposizione a sostanze tossiche è più elevato rispetto al resto della popolazione sia perché il
metabolismo è rallentato sia perché spesso assumono più farmaci contemporaneamente e cronicamente
- sesso: donne sembrano più suscettibili dell’uomo soprattutto per le sostanze che hanno azione tossica
diretta e non tanto per le sostanze i cui metaboliti sono tossici dal momento che il metabolismo epatico
nelle donne è meno efficiente che negli uomini per cui la capacità di detossificazione delle sostanze nelle
donne è inferiore rispetto all’uomo

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- fattori genetici predisponenti e in particolare polimorfismi del citocromo p450 (la capacità di ciascuno di
metabolizzare la stessa sostanze è estremamente diversa)
- interazione tra farmaci: soprattutto per quanto riguarda farmaci che modificano il metabolismo
- patologie concomitanti: è stato scoperto che patologie come l’insufficienza renale e il diabete aumentano
il rischio di sviluppare epatotossicità
- assunzione di alcool: essa altera profondamente la funzionalità del fegato sia in acuto (esposizione acuta
determina induzione degli enzimi della famiglia del citocromo p450 aumentando il metabolismo a livello
epatico e questo diventa un problema nel caso di farmaci o sostanze di sintesi i cui metaboliti sono tossici
perché induzione enzimatica ne aumenta la produzione) che in cronico (perché in questo caso il fegato
funziona meno quindi la capacità di metabolizzazione è compromessa)
- stato nutrizionale: uno stato nutrizionale ottimale previene moltissimi danni indotti da farmaci e sostanze
tossiche. Un fattore predisponente all’epatotossicità è l’obesità perché negli individui obesi si crea una
condizione medica nota come STEATOSI (o fegato grasso), una patologia reversibili a carico del fegato
Per capire come mai il fegato rappresenti il bersaglio dell’azione tossica di moltissime sostanze anche molti
diverse dal punto di vista funzionale bisogna concentrarsi sull’anatomia e sulla fisiologia epatica. Questo
permette di capire anche perché alcune sostanze colpiscano preferenzialmente una zona piuttosto che l’altra
(e questo a livello medico è importante perché sapendo dove il fegato è stato colpito è possibile ipotizzare
quale agente tossico abbia causato il danno stesso oppure se il danno epatico dipende da alterazioni a livelli
diversi dal fegato stesso come l’escrezione biliare).
• Fegato ha un ruolo centrale nella biotrasformazione e detossificazione sia degli xenobiotici (farmaci
inclusi) sia di sostanze tossiche prodotte dall’organismo stesso come l’ammoniaca. Essa è prodotta per
la maggior parte dalla flora batterica intestinale ed è tossica per tutto l’organismo ma soprattutto per il
SNC quindi non appena si forma deve essere detossificata. In caso di danno epatico si verifica una
mancata detossificazione dell’ammoniaca e quindi questa può raggiungere il SNC dove causa
l’encefalopatia epatica, una condizione neurologica grave secondaria a un danno epatico
• Formazione della bile ed escrezione biliare: si tratta di una funzione importante perché permette
l’allontanamento e l’eliminazione degli xenobiotici ma anche perché la bile, una volta rilasciata a livello
intestinale, determina il riassorbimento di alcune vitamine (e questo può avvenire solo se la bile che si
forma nel fegato ha una composizione corretta soprattutto in termini di Sali biliari)
• Omeostasi del glucosio e del colesterolo: danno a livello epatico compromette l’omeostasi di queste
componenti e quindi una serie di patologie sistemiche (ad es aumento del colesterolo circolante, che è a
sua volta un fattore di rischio per le patologie vascolari o l’ipoglicemia)
• Sintesi di fattori della coagulazione e di proteine di trasporto (tra cui albumina): fegato è anche una
ghiandola esocrina.
QUINDI prescindere dall’agente che causa un danno al fegato possiamo avere ripercussioni su tutte queste
funzioni e questo può determinare problemi sistemici. È importante monitorare costantemente gli esami del
sangue di persone che assumono molti farmaci perché lo scostamento di alcuni valori può indicare alterazioni
nella funzionalità epatica e quindi compromissione di diverse funzioni a livello dell’organismo.
Da un punto di vista anatomico, il fegato si trova immediatamente sotto il diaframma, a stretto contatto con
tutti gli organi dell’apparato digerente (stomaco, intestino e pancreas). Esso riceve sangue arterioso
proveniente dal cuore tramite l’arteria epatica e sangue venoso proveniente dall’intestino tramite la vena
porta. Si tratta dell’organo più voluminoso dell’organismo umano (occupa circa il 5% del volume del corpo), è
un organo pieno e si divide in due lobi (destro di dimensioni maggiori e sinistro), è di colore marrone e quando
non ci sono patologie la sua superficie è estremamente liscia perché è rivestito da uno strato di tessuto
connettivo che forma la CAPSULA DI GLISSON. Pesa circa 1,5 Kg ma considerando tutto il sangue al suo interno
può arrivare a 2 Kg. Tutto il parenchima epatico è funzionale e si comporta da enorme filtro sia del sangue
arterioso ossigenato sia del sangue venoso.

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L’unità funzionale del fegato è il LOBULO
EPATICO che può essere rappresentato come
un esagono. I vasi arteriosi e venosi che
raggiungono il fegato si ramificano
moltissime volte a livello di quest’organo e su
ogni angolo dei lobuli, arrivano una
ramificazione dell’arteria epatica, una
ramificazione della vena porta e un dotto
biliare a formare un complesso detto
TRIADE PORTALE. La vena porta e l’arteria
epatica portano il sangue a livello del fegato
perché questo venga filtrato mentre il
dotto epatico comune rilascia la bile che
può essere poi immagazzinata nella
colecisti o immessa nel duodeno. Al centro
di ogni lobulo si trova la VENA-CENTRO
LOBULARE che riceve il sangue che ha attraversato il lobulo epatico e da qui il sangue lascia il lobulo stesso.
Tutti i lobuli che si trovano nel fegato hanno questa struttura peculiare. Gli epatociti, a partire dalla regione
della triade portale, si dispongono in lamine che formano i lati dell’esagono e raggiungono la vena centro-
lobulare. Tra una lamina di epatociti e l’altra si trovano i SINUSOIDI EPATICI, capillari che irrorano tutto il
lobulo. Questo perché a livello lobulare, il sangue arterioso e quello venoso si mescolano a livello della triade
epatica e confluisce nei sinusoidi. All’interno di ciascun lobulo possiamo riconoscere un’unità funzionale più
piccola, l’ACINO (costituito dalla triade portale che arriva fino alla vena centro-lobulare → all’interno di ciascun
lobulo possiamo distinguere sei differenti acini). Gli epatociti delle lamine sono morfologicamente identici fra
loro, hanno tutti un metabolismo estremamente elevato (il 30% del volume degli epatociti che si trovano nei
lobuli è costituito da mitocondri) ma sono specializzati. Si possono riconoscere infatti 3 zone:
- ZONA 1: è la zona più vicina alla triade portale (regione peri-portale), all’inizio della filtrazione del sangue.
In questa zona gli epatociti sono specializzati nei processi di estrazione dei nutrienti e produzione di
proteine (quindi estrazione del glucosio, gluconeogenesi, sintesi di albumina, formazione della bile,
sintesi di fibrinogeno e altri fattori di coagulazione) piuttosto che nei processi di detossificazione.
- ZONA 2: è la zona centrale o mediale. Si trovano qui epatociti in fase G0 che in condizioni fisiologiche non
svolgono un ruolo attivo ma si attivano in caso di danno epatico e assicurano la rigenerazione tissutale.
Quando è necessaria la rigenerazione quindi, non si attivano tutti gli epatociti del fegato bensì solo quelli
che si trovano nella zona 2 dei lobuli. In condizioni fisiologiche, quando il plasma attraversa la zona 2,
non subisce alcuna modificazione perché incontra epatociti quiescenti
- ZONA 3: si trova a ridosso della vena centro-lobulare (prima che le sostanze escano dal fegato). In questa
zona avviene il metabolismo dei farmaci, delle sostanze tossiche e dell’alcool ma anche la β-ossidazione
dei lipidi. Questi epatociti sono estremamente ricchi di REL e quindi di citocromo p450. Il fatto che la
zona di detossificazione si trova vicino alla zona in cui il plasma contenente le sostanze destinate
all’escrezione sta per lasciare l’organo è molto importante perché permette di eliminare quanto più
velocemente possibile, eventuali metaboliti tossici che si formano durante il metabolismo degli
xenobiotici. La maggior parte degli effetti tossici a livello del fegato si verifica nella zona 3.
Queste tre zone si distinguono perché all’interno del lobulo si viene a formare un gradiente di ossigeno: in
prossimità della triade, dove arriva il sangue, c’è una maggiore concentrazione di ossigeno mentre man mano
che il sangue viene filtrato la concentrazione di ossigeno si riduce. Questo gradiente di ossigeno in qualche
modo determina la specializzazione degli epatociti (= pur essendo morfologicamente identici, epatociti delle
zone 1, 2 e 3 svolgono funzioni differenti).
Il sangue che passa attraverso i sinusoidi viene filtrato ma in realtà non c’è una grossa selezione delle
componenti che passano o meno perché l’epitelio che riveste i sinusoidi è fenestrato ed estremamente lasso
per cui passano tutto il plasma e le componenti plasmatiche ad eccezione degli eritrociti → tutto il plasma e
le componenti plasmatiche raggiungono gli epatociti dove vengono processati. Nella zona 1 vengono estratte
le sostanze nutritive che poi vanno a formare la bile mentre nella zona 3, a cui arriva sangue molto meno ricco

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di nutrienti, estrazione è molto più limitata perché sono molto più marcati i processi di detossificazione e
metabolismo. Epatociti sono sicuramente le cellule che rappresentano il maggior numero delle cellule del
fegato (80-90% del volume epatico) ma ci sono anche:
• Cellule endoteliali che rivestono i sinusoidi: epitelio estremamente fenestrato tanto che in alcune regioni
la parete dell’epitelio è discontinua per permettere un passaggio completo del plasma che arriverà a
contatto con gli epatociti.
• Cellule di Kupffer: macrofagi residenti nel fegato e nei lobuli epatici. Queste cellule rappresentano l’80%
di tutti i macrofagi circolanti nell’organismo e la loro funzione a livello epatico è molto importante perché
tutto ciò che entra nell’organismo passa a livello del fegato quindi questi macrofagi si comportano da
sentinelle che in presenza di particelle virali o batteriche si attivano e scatenano infiammazione e risposta
immunitaria
• Tra il sinusoide e la lamina degli epatociti c’è un piccolo spazio chiamato spazio di Disse a livello del quale
si trovano le cellule di Ito o cellule stellate. Si tratta di cellule che fungono da riserva di collagene,
vitamina A e lipidi. In condizioni fisiologiche fungono solo da centro di stoccaggio di queste componenti
ma in caso di rigenerazione, forniscono il collagene necessario affinchè avvenga il processo
I nutrienti e le sostanze da detossificare vengono fatte confluire nei dotti biliari a formare la bile (fluido di
colore giallo che contiene sali biliari, glutatione, fosfolipidi, colesterolo, bilirubina e altri anioni organici,
proteine, metalli, ioni, xenobiotici). Una volta prodotta, questa fluisce nei dotti biliari in senso opposto rispetto
al sangue che scorre nei sinusoidi (va dal centro del lobulo verso la periferia) grazie a contrazioni ATP-
dipendenti dei dotti biliari stessi. Dai dotti biliari la bile si raccoglie e attraverso il dotto epatico comune
raggiunge la cistifellea o il duodeno. Escrezione biliare è solitamente il preludio dell’eliminazione di una
sostanza attraverso le feci ma la bile e in particolare i Sali biliari, prodotti dagli epatociti e aggiunti alla bile nel
fegato, sono estremamente importanti perché promuovono il riassorbimento di alcune sostanze a livello
intestinale. Tra queste sia diverse vitamine come D, K e B12 ma anche metalli pesanti. QUINDI se la bile non
ha una composizione corretta in termini di Sali biliari, il riassorbimento intestinale delle vitamine è impedito
(quindi vitamine vengono escrete) e questo può portare a deficit nutrizionali. Nel caso delle sostanze tossiche
però il riassorbimento intestinale dalla bile è sfavorevole e determina tossicità a causa dell’accumulo. Oltre
che per le vitamine, l’escrezione biliare è importante anche per il riassorbimento dei metalli. Questi possono
essere sia fondamentali per le funzioni dell’organismo come ferro, manganese o zinco (presenti in tracce) per
cui è fondamentale che escrezione biliare e riassorbimento intestinale siano efficienti ma anche per metalli
pesanti come piombo, mercurio e arsenico, che vengono riassorbiti ed è per questo che la tossicità primaria
di queste sostanze ha come bersaglio principale il fegato.
La risposta del fegato a un insulto in termini di rigenerazione dipende da:
- intensità dell’insulto (danno è proporzionale all’intensità)
- tipo di esposizione, che può essere acuta (singola esposizione a una dose estremamente elevata) o
cronica (insulto continuo e ripetuto all’organo che nella maggior parte dei casi, se danno supera la
capacità rigenerativa, determina la CIRROSI)
- popolazione cellulare colpita
Se il danno supera la capacità rigenerativa dell’organo si sviluppa un danno epatico. Ci sono sostanze che
causano un danno generalizzato all’organo ma la maggior parte delle sostanze determina danni epatici in zone
specifiche (ad es zona 3 ma non zona 1). Il danno epatico può non manifestarsi solo a livello del lobulo o degli
epatociti ma anche dei dotti biliari (e anche questo tipo di danni interferisce con la funzionalità epatica). A
seconda del tipo di esposizione il danno può insorgere improvvisamente o in modo progressivo. Tra le
sostanze tossiche che determinano un danno progressivo troviamo l’alcool: il fegato tampona molto bene
l’effetto tossico dell’alcool finchè la sua capacità di detossificazione non è compromessa. Un consumo
continuo di alte dosi di alcool determina un danno epatico progressivo che fino a stadi di danno anche molto
gravi può essere recuperato sospendendo utilizzo della sostanza. Unica condizione patologica irreversibile
indotta dall’alcool è la cirrosi ma per raggiungere questo stadio ci vogliono anni e anni di consumo della
sostanza tossica. Danni al fegato possono essere di due tipi:
→ TIPO A: effetti prevedibili, dose-dipendenti e con un’incidenza più alta. Un farmaco che causa danno di tipo
A al fegato è il paracetamolo. Si tratta di un agente che ha un potenziale epatotossico e la sua tossicità a livello
epatico è dose dipendente (all’aumentare della dose aumenta il danno epatico) + il danno è prevedibile (una

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persona che usa paracetamolo nel range terapeutico non manifesterà alcun danno a livello epatico mentre
un sovradosaggio causa tossicità epatica anche grave ma una volta che il danno epatico è stato ricondotto a
un’overdose di paracetamolo è disponibile un antidoto che antagonizza il danno stesso se si interviene in
tempi rapidi)
→ TIPO B: danni non prevedibili, dose
indipendente, sono rari ma più letali
(hanno una bassa incidenza ma alta
mortalità). Possono essere di due tipi:
a. risposte di idiosincrasia
geneticamente determinate,
improvvise e completamente
inaspettate
b. risposte immuno-mediate: i danni epatici da agenti virali (epatiti) oppure da sensibilizzazione. Questo
secondo caso si riferisce al fatto che si possono creare a livello epatico degli apteni (ossia dei complessi
tra un farmaco/un metabolita/una sostanza di sintesi e una proteina endogena) e il sistema immunitario
attacca questo complesso e si formano degli anticorpi specifici. Quando si assumerà il farmaco una
seconda volta, l’organismo attiva il sistema immunitario e si svilupperà una risposta allergica. Un farmaco
che può determinare una risposta di tipo allergico con danni a livello epatico è il Diclofenac (principio
attivo del VoltAdvance)
A seguito di ESPOSIZIONI ACUTE o SUBACUTE le tre tipologie cliniche di danno epatico sono:
→ STEATOSI = aumento dei lipidi nel fegato. In condizioni fisiologiche il fegato funziona da centro di stoccaggio
dei lipidi ma solitamente mantiene la quota lipidica sotto al 5%. Quando la quota lipidica nel fegato aumenta
sopra il 5% si verifica una condizione medica di steatosi visibile a livello macroscopico sia perché il fegato, nella
sua interezza, assume una colorazione giallognola, sia perché il fegato aumenta le proprie dimensioni.
Accumulo di questi lipidi si può verificare per diversi motivi:
- anomalie nel trasporto di lipoproteine: fegato è fondamentale nel metabolismo del colesterolo e qui
avviene anche la metabolizzazione dei lipidi
- accumulo di acidi grassi per interferenze nel ciclo dei trigliceridi
- alterazioni della β ossidazione delle lipoproteine a livello della zona 3
A livello microscopico, con una biopsia, si può verificare se la steatosi coinvolge tutto il lobulo o solo una sua
parte (ad esempio se si trattasse di uno squilibrio dovuto a un’alterazione dell’ossidazione dei lipidi avremmo
un accumulo preferenziale a livello della zona 3 piuttosto che le altre due).
A livello istologico A = condizione normale mentre nella B si osserva steatosi, caratterizzata dalla accumulo di
vescicole di grasso negli epatociti. In questa condizione la funzionalità del fegato non è compromessa quindi
nonostante accumulo anomalo di grasso, gli epatociti continuano a funzionare. È una patologia
completamente reversibile quindi al cessare dell’esposizione alla sostanza tossica, la steatosi sparisce senza
lasciare danni residui perché non determina la morte degli epatociti.
La steatosi compare in seguito all’esposizione alla maggior parte delle sostanze e ad esempio si tratta di uno
dei primi danni indotti dall’etanolo (che rappresenta la prima causa di steatosi nei paesi industrializzati) e si
manifesta dopo un breve lasso di tempo rispetto all’esposizione al tossico. Oltre all’etanolo tra le cause di
steatosi troviamo:
- Dieta particolarmente ricca di grassi: in questo caso si assumono molti più grassi rispetto a quelli che
possono essere smaltiti dal fegato e quindi i grassi si accumulano nel fegato. Questo è il motivo per cui
in caso di obesità spesso si osserva steatosi
- Dieta ipoproteica: alcuni amminoacidi come la metionina favoriscono l’eliminazione dei lipidi a livello
epatico per cui un deficit nell’apporto di amminoacidi può portare il fegato ad accumulare lipidi
- Carenza di vitamine
- Ingestione di funghi: molti principi attivi presenti nei funghi sono in grado di alterare il metabolismo
lipidico a livello epatico. Queste sostanze inibiscono RNA polimerasi a livello degli epatociti e in molti casi
alterano il trasporto delle lipoproteine perché interferiscono con l’actina (quindi problemi nel trasporto
intracellulare di lipidi).

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- Danni diretti al fegato come quelli causati dal tetracloruro di carbonio (CCl4), una sostanza refrigerante
(freon) che se arriva a livello sistemico viene detossificata a livello del fegato nella zona 3. Il metabolismo
di questa sostanza determina la formazione di un metabolita reattivo (CCl3) che a livello degli epatociti si
complessa con l’acido arachidonico (= interagisce direttamente coi lipidi nella zona 3) per cui si innesca
un processo di perossidazione lipidica con danni alle membrane e ai sistemi di assemblaggio delle
lipoproteine. A livello macroscopico questo processo di manifesta con un accumulo di vacuoli lipidici
specificamente nella zona 3 (come si rileva dalla biopsia).
- Consumo di etanolo: alcool promuove l0accumulo di lipidi a livello dell’organismo e infatti solitamente,
la steatosi epatica dovuta a etanolo si manifesta con steatosi anche a livello di altri organi come pancreas
e cellule dei tubuli renali. La steatosi si manifesta sia nelle persone che bevono cronicamente ma anche
in acuto, dopo un’eccessiva assunzione di etanolo anche per una sola volta, si genera steatosi dopo 3-5
giorni dall’assunzione (steatosi non ha bisogno di lunghe esposizioni per innescarsi)
QUINDI la steatosi può essere anche una condizione secondaria ad altri quadri patologici (non per forza danno
diretto al fegato) e una volta rilevata, bisogna capire se è imputabile a un danno diretto al fegato o meno.
→ ITTERO: manifestazione patologica che nella maggior parte dei casi indica una disfunzione al fegato.
Il 90% della bilirubina prodotta dall’organismo deriva dal catabolismo dell’eme di eritrociti senescenti
(eritrociti circolanti vanno incontro a invecchiamento per cui devono essere eliminati). Questi eritrociti
rilasciano il proprio gruppo eme nel RE dove viene processato a dare bilirubina. La bilirubina è un composto
estremamente tossico per l’organismo per cui all’interno del circolo sanguigno, non appena prodotta, viene
coniugata con l’albumina (non c’è bilirubina libera circolante). Bilirubina coniugata arriva al fegato dove viene
rilasciata dall’albumina e qui viene coniugata con acido glucuronico. In forma glucoronata non è tossica ed
essendo idrosolubile può essere escreta dai dotti biliari nell’intestino. Qui viene modificata da enzimi della
flora batterica intestinale e per la maggior parte è escreta con le feci mentre in minima parte riassorbita a
livello intestinale ed eliminata con le urine. La bilirubina libera invece non è idrosolubile quindi non può essere
eliminata → sia la bilirubina coniugata con albumina che quella libera diffondono rapidamente dal sangue ai
tessuti ma quella coniugata non è tossica, non precipita nei tessuti e viene escreta. La bilirubina libera invece
non può essere eliminata e precipita nei tessuti conferendo loro tipico colore giallo e creando danno ai tessuti
stessi per cui l’ittero quando si presenta deve essere trattato rapidamente.
L’ittero è una condizione patologica caratterizzata da un aumento di bilirubina libera (insolubile) che si
deposita nei tessuti dell’organismo e in particolare nella cute e nella sclera conferendo colorazione gialla a
questi organi. Come la steatosi, ittero può essere indice sia di danno inter-epatico (problema al fegato stesso),
sia preepatico che postepatico. Infatti, considerando come viene prodotta la bilirubina:
PREEPATI aumento del catabolismo dell’eme a causa di
In CO aumento della bilirubina un’alterazione a livello degli eritrociti (quindi a monte,
presenza dipende da prima dei processi che avvengono nel fegato)
di danno INTEREPA un malfunzionamento dell’enzima epatico glucoronil-
TICO transferasi
POSTEPAT Un problema di eliminazione ed escrezione della
ICO bilirubina coniugata dal fegato
QUINDI a fronte della stessa sintomatologia bisogna comprendere se il problema dipende da epatotossicità a
livello dell’organo o se dobbiamo ricercare problema a monte o a valle.
ITTERO PREEPATICO:
Aumento della concentrazione plasmatica di bilirubina libera dipende da un’aumentata distruzione degli
eritrociti per un’alterazione degli eritrociti stessi (ittero emolitico). Le due condizioni principali in cui si verifica
ittero emolitico sono
- situazioni in cui i globuli rossi sono molto fragili come nel caso di soggetti carenti di glucosio 6P
deidrogenasi nei quali gli eritrociti sono estremamente sensibili allo stress ossidativo → anche uno stress
ossidativo minimo, che le persone sane potrebbero tollerare, determina distruzione dei globuli rossi per
cui può verificarsi ittero
- anemie da alleloanticorpi in caso di trasfusione da donatore non compatibile. In questa situazione si ha
la distruzione dei globuli rossi del donatore e questo causa un gravissimo e improvviso ittero preepatico

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per un aumento esponenziale di bilirubina che non fa in tempo ad essere coniugata con acido glucuronico
nel fegato quindi precipita nei tessuti.
ITTERO INTRAEPATICO:
È sempre indicativo di un danno a livello del fegato che causa morte degli eritrociti (si ha una necrosi massiva
degli epatociti quindi si ha una riduzione nella coniugazione della bilirubina). La morte degli epatociti può
dipendere da:
• epatiti: infiammazione cronica a carico del fegato di origine virale o dipendente dall’esposizione ad
alcune sostanze tossiche
• cirrosi epatica: si ha una morte massiva degli epatociti (tanto che viene persa più dell’80% della
funzionalità epatica) quindi la capacità del fegato di coniugare la bilirubina è potentemente inficiata
• avvelenamento da agenti tossici a dosi estremamente elevate che determina ittero improvviso perché si
ha una perdita di epatociti tale da compromettere prepotentemente la funzionalità epatica. Spesso si
verifica in seguito ad avvelenamento da funghi
• deficit ereditario della glucoronil-transferasi: ridotta capacità metabolica del fegato su base genetica
Dal momento che il danno è a livello epatico, si possono avere due problemi nel fegato per quanto riguarda il
metabolismo della bilirubina:
- riduzione nella captazione della bilirubina libera da parte dell’epatocita a causa di un danno delle
membrane epatocitarie (quindi se bilirubina non può essere captata non viene neanche processata)
- alterazioni nella coniugazione con acido glucuronico (problema che si verifica più frequentemente)
quindi il problema è della funzionalità enzimatica degli epatociti
Quando si verifica ittero intraepatico quindi si ha un eccesso di bilirubina libera che dal fegato diffonde
nuovamente nel sangue e si va a depositare nei tessuti. Nei casi più gravi, oltre alla bilirubina libera si trova
nei tessuti anche bilirubina coniugata (questo si può rilevare con un prelievo venoso che indica un aumento
di bilirubina sia libera che coniugata indicando un danno intraepatico che necessita di analisi più specifiche) a
indicazione di un problema non solo a livello epatocitario ma anche di escrezione a livello biliare.
ITTERO POSTEPATICO:
Dipende dalla presenza di un ostacolo che impedisce il transito della bilirubina coniugata nelle vie biliari,
quindi, indica danni o problemi alle vie biliari.
- La causa più frequente è un’ostruzione transitoria delle vie biliari (calcoli biliari = depositi a livello dei
dotti biliari che limitano la fuoriuscita della bile dal fegato). Dal momento che la fuoriuscita della bile dal
fegato è rallentata, si ha riassorbimento della bilirubina nel circolo sanguigno e quindi aumento dei livelli
della stessa
- Compressione delle vie biliari: le vie biliari scendono sotto al fegato nella parte inferiore del corpo per
confluire nel duodeno. Appoggiato al fegato si trova il pancreas (che è in quella posizione perché rilascia
enzimi digestivi nel duodeno + deve stare a stretto contatto col fegato perché secerne insulina e
glucagone) quindi un aumento delle dimensioni del pancreas (ad esempio a causa di una neoplasi) può
determinare ostruzione delle vie biliari quindi ittero postepatico può dipendere da una patologia a carico
di un altro organo
- Stenosi (ossia restringimenti) dei dotti biliari per cui a causa del restringimento del lume la bile ha
difficoltà a passare dal fegato alla colecisti e al duodeno
- Infiammazioni dei dotti biliari come la colangite sclerosante, un’infiammazione delle pareti dei dotti biliari
che ne induce una progressiva riduzione del diametro quindi anche in questo caso si ha difficoltà
nell’eliminare la bile dal fegato
Ittero postepatico può essere diagnosticato facendo analisi del sangue che mostrano un aumento della
concentrazione di bilirubina coniugata (e questo indica quindi che fino a livello di metabolismo epatico tutto
ha funzionato bene, il problema probabilmente è a valle) e bisogna fare poi delle analisi più approfondite per
capire da cosa dipende il problema.
Ittero è una situazione che si verifica spesso nel neonato (ittero neonatale): neonati presentano la pelle di
colore giallognolo ma si tratta di un fenomeno transitorio perché gli enzimi epatici nel neonato sono immaturi,
non completamente sviluppati (soprattutto quelli deputati alla coniugazione). Solitamente, ittero permane
per un paio di settimane dopodiché, il sistema microsomiale epatico va incontro a maturazione completa

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quindi l’ittero si risolve fisiologicamente e non è necessario intervenire con un trattamento farmacologico. Se
invece l’ittero non è transitorio, indica alterazioni genetiche: esistono forme di iperbilirubinemia ereditaria
causate da polimorfismi a carico della glucoronil-transferasi. La gravità della situazione dipende da quanto è
inficiato il funzionamento dell’enzima:
• Sindrome di Crigler-Najar: ittero persistente dipende da deficit della gluronil-trasnferasi. Gravità della
sindrome è direttamente proporzionale alla perdita di funzionalità dell’enzima
• Sindrome di Gilbert: sindrome più frequente e benigna che non dà luogo a ittero persistente bensì
intermittente quindi non ha necessità di trattamenti medici. In questi soggetti, il fegato rispetto a una
persona sana ha ridotta capacità metabolica e una delle manifestazioni di queste condizioni è l’ittero che
però non si manifesta costantemente. Non c’è possibilità di intervenire a livello farmacologico, è
necessario mantenere una dieta leggera perché se si va ad appesantire il fegato aumenta la probabilità
che ittero si manifesti. Questi soggetti sono più sensibili anche ai farmaci perché anch’essi sovraccaricano
il fegato di lavoro. Ittero non dipende da un danno epatico ma è associato a una forma sindromica
benigna
→ COLESTASI:
Riduzione del volume biliare prodotto dagli epatociti, riduzione della secrezione di specifici soluti nella bile o
riduzione della secrezione della bile nei dotti biliari. Queste alterazioni possono essere dovute sia a
un’ostruzione dei dotti biliari sia da agenti tossici che distruggono i dotti biliari. La colestasi dipende da un
danno più grave dell’ittero postepatico, quindi, necessita di trattamento farmacologico. L’alterazione del
normale flusso della bile nel sistema biliare è dovuta a cause intra-epatiche (dato che i dotti biliari si diramano
all’interno del fegato in maniera capillare per confluire a livello della triade epatica per cui danneggiamento
dei dotti biliari può essere all’interno del parenchima del fegato) o extra-epatiche (danno al dotto biliare
comune che dal fegato confluisce nella colecisti e nel duodeno). La gravità della situazione medica è diversa:
- colestasi intra-epatica: danneggiamento dei dotti biliari causato da cirrosi (quando cirrosi si sviluppa e
diventa molto grave può dare problemi di circolazione a livello dell’organo quindi alterazione della
circolazione arteriosa e venosa ma anche della bile nel fegato) o colangiocarcinoma (tumore gravissimo
ma raro). Ittero è un sintomo di queste condizioni cliniche
- colestasi extra-epatica: ridotto passaggio della bile attraverso il dotto biliare comune che ha come
sintomo ittero
La colestasi può essere trattata chirurgicamente mentre la colestasi intra-epatica, essendo i dotti biliari così
ramificati nel parenchima epatico, non si può intervenire chirurgicamente, unica soluzione è il trapianto. Oltre
all’ittero, altri sintomi di colestasi sono prurito e malassorbimento intestinale, in particolare di lipidi e vitamine
liposolubili.
Per individuare la presenza di colestasi bisogna valutare dei parametri plasmatici che indicano un
danneggiamento dei dotti biliari: aumento della fosfatasi alcalina serica (ALP) e della γ-glutamil-transpeptidasi
(GGT) enzimi presenti sulle membrane apicali degli epatociti e delle cellule dei dotti biliari.
LA MORTE DEGLI EPATOCITI:
Le due tipologie di morte cellulari principalmente adottate dalla cellula sono necrosi e apoptosi ma le cellule
del fegato, a differenza degli altri distretti corporei, vanno incontro preferenzialmente a necrosi, solo poche
cellule muoiono per apoptosi. Questo perché il fegato ha una grandissima capacità di rigenerazione ed è la
morte delle cellule epatiche per necrosi (e non per apoptosi) ad attivare questo processo. Questo dipende dal
fatto che la necrosi è accompagnata da infiammazione che induce la rigenerazione del tessuto e la sostituzione
dell’epatocita perso. Gli eventi necrotici a carico degli epatociti possono avere estensione differente
nell’organo (più massiva è la morte degli epatociti, più grave è l’evento tossico che sta colpendo l’organo):
- morte focale: nel parenchima si osservano foci necrotici
- morte zonale (tipo di morte che si verifica maggiormente per le sostanze tossiche): epatociti muoiono
preferenzialmente a livello di una delle tre zone, solitamente zona 1 o 3 (no zona 2 perché qui si trovano
gli epatociti quiescenti responsabili della rigenerazione)
- morte panacinosa: situazione più grave che si verifica quando si ha insufficienza epatica acuta che
determina morte massiva degli epatociti per necrosi, solo poche cellule sopravvivono. Condizione è
estremamente grave e causa insufficienza epatica spesso letale se non si interviene tempestivamente

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QUINDI il fegato sfrutta sempre la sua capacità rigenerativa per cui preferisce innescare la necrosi (e non
apoptosi) per poter attivare il processo di rigenerazione. La capacità rigenerativa del fegato è ancor oggi molto
studiata perché rappresenta un modello. Non è necessario asportare una parte dell’organo perché questo si
rigeneri infatti la rigenerazione è un processo intrinseco che viene sempre sfruttato dall’organo quando deve
rispondere ai continui insulti, anche lievi, cui è esposto. Tuttavia, il processo rigenerativo diventa lampante
quando si verifica un’EPATECTOMIA PARZIALE (ossia quando si rimuove una parte dell’organo). Nel ratto se
viene asportato fino al 68% dell’organo si verifica iperplasia (= aumento delle dimensioni) del tessuto che
rimane dopo asportazione mentre la massa epatica si rigenera completamente fino a tornare identica a quella
iniziale in 10-20 giorni dall’asportazione. Nell’uomo, dopo asportazione fino a 2/3 della ghiandola, si innesca
una rigenerazione che riporta il fegato alle sue dimensioni originali in una settimana. Studi sperimentali hanno
dimostrato che questo processo non è solo un ripristinare quello che è stato perso: quando fegato viene
trapiantato da un animale più piccolo a uno più grande, il fegato aumenta le proprie dimensioni fino a
raggiungere le dimensioni originali per l’animale più grande in cui è stato trapiantato e vale anche il contrario
(da animale più grande a uno più piccolo il fegato riduce le proprie dimensioni fino a raggiungere dimensioni
originali nell’animale più piccolo) e questo dimostra come nel fegato ci siano dei sensori che direzionano il
processo di rigenerazione, che quindi è strettamente regolato. Sappiamo ancora poco di questo processo ma
comprendere quali fattori innescano e guidano il processo può avere degli interessanti risvolti medici. Studi
sperimentali hanno dimostrato che trapiantando tessuto epatico in una sede extraepatica, questo tessuto
rimane quiescente fino a quando non se ne asporta un pezzo e solo a quel punto parte il processo rigenerativo,
quindi, non è chiaro neanche quali siano e da dove provengano i fattori che innescano la rigenerazione
epatica.
Il prodotto della rigenerazione è leggermente diverso dall’organo iniziale: la maggior parte della rigenerazione
si verifica a livello della triade portale (zona 1) mentre la zona 3 è quella in cui avviene la maggior parte del
metabolismo di xenobiotici e sostanze tossiche → un fegato rigenerato ha una capacità metabolica ridotta
rispetto al fegato iniziale. A livello percentuale, fino a 2/3 di asportazione del fegato o a una perdita del 70%
di funzionalità della ghiandola, gli epatociti hanno la capacità di rispondere quindi è importante che ci sia un
residuo di cellule vitali e funzionali perché la rigenerazione è attivata dagli epatociti residui (rigenerazione
epatica è intrinseca all’organo ed è innescata dagli epatociti vivi che sono rimasti nell’organo. Se la parte
rimasta non è sufficiente non possiamo innescare il processo di rigenerazione). Se riuscissimo a capire cosa
producono gli epatociti per innescare la rigenerazione, potremmo indurre rigenerazione anche quando si ha
una perdita di funzionalità superiore al 70% (in questo caso ad oggi unica soluzione è il trapianto). La
rigenerazione epatica è un processo che si verifica in 3 fasi:
1. Reclutamento: epatociti vivi rilasciano dei fattori che promuovono il passaggio dalla fase G0 alla fase G1
degli epatociti presenti nella zona 2. Nella fase di innesco sono stati individuati due fattori: TNF-alfa e IL-
6 e questi sono citochine pro-infiammatorie e si pensa siano rilasciate dalle cellule di Kupfer (macrofagi
residenti) in seguito alla necrosi degli epatociti.
2. Progressione verso la mitosi = proliferazione delle cellule della zona 2 che sono state innescate. Si stanno
studiando i fattori responsabili della proliferazione delle cellule, si pensa che TGF-α abbia un ruolo e
dell’Epatocyte Grow Factor prodotti dagli epatociti residui (ma siamo molto indietro rispetto alla
comprensione dei fattori che stimolano proliferazione). Si tratta di una proliferazione cellulare
strettamente controllata ma non riusciamo a capire come organo si rigenera rigenerando anche la
struttura del lobulo. Probabilmente questo dipende dal rilascio sequenziale di fattori ed è proprio la
sequenza di rilascio che promuove la corretta rigenerazione
3. Arresto della proliferazione: una volta che l’organo ha raggiunto le proprie dimensioni originali, c’è
qualcosa che arresta la proliferazione. Fattore importante è il TGF-beta rilasciato dalle cellule stromali
(no da epatociti) e blocca completamente il processo di rigenerazione. In questa fase non solo viene
bloccata la proliferazione delle cellule ma viene anche ricostituita la struttura del tessuto epatico:

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Nel fegato normale si vedono le unità esagonali con al
centro la vena centro-lobulare (al cui interno si vedono i
globuli tossi) e le triadi epatiche ai vertici. Il fegato
rigenerato non è completamente sovrapponibile a quello
normale (magari la vena centro-lobulare è un
po’decentrata) ma comunque al termine della
rigenerazione l’unità funzionale (quindi il lobulo), oltre
alla morfologia originale, è stato ripristinato. QUINDI fegato rigenerato è funzionante, strutturalmente
mantiene zona 1 e 3, a livello microscopico si possono osservare delle differenze per cui anche a livello
funzionale non sarà al 100% uguale a quello originale. Sarebbe importante capire quali sono i processi che
guidano la rigenerazione perché ci sono delle condizioni patologiche caratterizzate da perdita completa della
funzionalità del fegato. Il danno più grave che si può avere è la cirrosi che rappresenta lo stadio terminale di
un danno epatico cronico (quindi esposizione molto prolungata ad agenti tossici).
Le condizioni (più gravi) che si verificano in seguito a ESPOSIZIONE CRONICA e compaiono dopo molto tempo
sono:
→ CIRROSI
Fegato cirrotico è caratterizzato dalla massiva deposizione di tessuto fibroso che sostituisce il tessuto
funzionale (quindi epatociti) e negli stadi finali tessuto fibroso si deposita anche all’interno dei sinusoidi ossia
i canalicoli che permettono lo scorrere del sangue arterioso dal cuore e venoso QUINDI negli stadi finali, non
solo il fegato non funziona più ma si ha anche un problema per quanto riguarda il flusso sanguigno all’interno
dell’organo (sangue non riesce a scorrere) che determina una forte pressione dalla vena portale proveniente
dall’intestino e quindi la formazione di VARICI intestinali con rilascio del fluido intestinale all’interno
dell’addome o addirittura dello stomaco (si forma quello che viene chiamato SHUNT porto-sistemico: fegato
viene escluso dalla circolazione perché si creano artificialmente delle vie di flusso alternative sia del sangue
che dovrebbe raggiungere il fegato sia della bile all’interno di altri organi dell’addome). Normalmente questa
situazione è mortale.
Architettura di un fegato cirrotico è completamente diversa da quello normale: superficie è coperta da noduli
costituiti dagli epatociti che cercano in qualche modo di proliferare per ripristinare il tessuto perso ma non
riescono formando lobuli internamente ed esternamente. Si parla di cirrosi quando viene persa più dell’80%
della funzionalità dell’organo. Data l’altissima capacità rigenerativa dell’organo, la cirrosi non è una condizione
così frequente tanto che tra gli alcolisti (alcool è l’agente tossico che principalmente induce cirrosi), solo il
10% sviluppa cirrosi conclamata. Probabilmente quello che determina la maggiore o minore probabilità di
sviluppare danno epatico sono differenze a livello genetico (ci sono persone più soggette a danno epatico
quindi se a fattore di rischio di tipo genetico vai ad aggiungere un fattore di rischio di tipo ambientale come
esposizione cronica a etanolo, la probabilità di sviluppare cirrosi diventa maggiore in queste persone rispetto
alla popolazione generale).

INSUFFICIENZA EPATICA, quadro clinico che compare quando viene persa l’80-90% della capacità funzionale
in seguito a distruzione del parenchima epatico. Insufficienza epatica può essere
- acuta quando la distruzione degli epatociti avviene in maniera molto rapida (morte panacinosa) a causa
di intossicazioni da funghi, tossine batteriche (difterica), CCl4, alcuni farmaci, epatite virale fulminante
(soprattutto epatiti B e C perché la causa a monte dell’epatite, che è un’infiammazione acuta del fegato
indotta dal virus dell’epatite e causa morte degli epatociti è proprio una esasperazione esagerata
dell’infiammazione a livello dell’organo a causa dell’attivazione delle cellule di Kupffer). La situazione è
estremamente grave perché si passa rapidamente da una funzionalità del 100% a una del 10% in seguito
all’esposizione a un’altissima dose di agente tossico
- cronica: consegue alle epatopatie croniche con necrosi progressiva e che culminano in cirrosi
Insufficienza epatica, che sia acuta o cronica, è caratterizzata da altissima mortalità e per sopravvivere è
necessario trapianto nel giro di pochi giorni ed è per questo che si sta cercando di capire come funziona la
rigenerazione per intervenire sulle persone che non fanno in tempo a ricevere trapianto.
Conseguenze principali dell’insufficienza epatica:

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• ipoproteinemia: la perdita di funzionalità epatica determina una riduzione del livello di alcune proteine a
livello del circolo sanguigno come l’albumina e questo determina problemi per quanto riguarda la
pressione oncotica nei vasi sanguigni. L’albumina infatti è una proteine di grandi dimensioni per cui una
riduzione della sua concentrazione determina una importante riduzione della pressione oncotica nei vasi
sanguigni e questo può portare alla fuoriuscita di liquido dai vasi provocando edemi a livello di arti o asciti
(= fuoriuscita di liquido a livello addominale).
• riduzione dei fattori di coagulazione per cui in caso di insufficienza epatica si verificano problemi
dell’emostasi e in particolare si verificano frequentemente sanguinamenti generalizzati nell’organismo e
questo è uno dei fattori che può portare a morte
• ittero: dipende sia dal danno intraepatico o dalla presenza di un ostacolo al deflusso della bile ma
aumento della bilirubina libera dipende anche dall’assenza di albumina (dato che la bilirubina, ogni volta
che si forma nei vasi sanguigni, viene sequestrata dall’albumina per non essere tossica. Se abbiamo
riduzione di albumina, ittero è molto più grave).
• iperammoniemia: una delle funzioni principali del fegato è la detossificazione dell’ammoniaca quindi
insufficienza epatica determina aumento del contenuto di ammoniaca nel sangue e questa può
raggiungere il SNC determinando una sindrome neurologica caratterizzata da danno neuronale con
disturbi che partono da confusione mentale, agitazione e convulsioni (quindi c’è una compromissione a
livello del SNC che può portare, nelle forme più gravi, a coma e morte). Non si sa quanto questo danno
neurologico causato da ammoniaca sia reversibile perché le cellule neuronali non hanno nessun tipo di
capacità rigenerativa ma sono estremamente sensibili agli insulti tossici quindi anche se il danno epatico
può essere risolto dal trapianto, il danno neuronale potrebbe persistere.
Per valutare funzionalità epatica e quindi individuare eventuali danni bisogna dosare a livello plasmatico
alcune componenti:
- enzimi: normalmente enzimi epatici sono sequestrati dagli epatociti per cui il livello di enzimi epatici in
un individuo sano è mantenuto in un range preciso considerato fisiologico. Un aumento degli enzimi
epatici nel plasma è di solito indicativo di un danno (che dipende dalla dose perché aumento degli enzimi
nel plasma è dose dipendente: più è alto il livello di enzimi nel plasma, maggiore è il danno epatico) o
una sofferenza. Enzimi di cui di solito si valuta la concentrazione per valutare funzionalità epatica sono
alanina-fosfotransferasi, aspartato-amminotrasferasi, lattico deidrogenasi e fosfatasi alcalina. Inoltre,
quadri patologici diversi alterano in maniera differenziale questi enzimi quindi a seconda di quale enzima
è alterato e con quale intensità, possiamo cercare di capire che tipo di danno può essere presente
nell’organo. Il fatto che ritroviamo nel plasma questi enzimi dipende da una sofferenza epatocitaria che
causa un danno delle membrane degli epatociti (danno a livello delle membrane può portare a fuoriuscita
degli enzimi epatici che verranno quindi ritrovati nel plasma).
- proteine plasmatiche: valutazione delle concentrazione delle proteine plasmatiche sintetizzate dal fegato
(albumina, fibrinogeno, protrombina e lipoproteine) permette di valutare in modo indiretto la presenza
di un danno epatico.
- bilirubina (di solito in presenza di ittero): si valuta la concentrazione di bilirubina nel plasma o nelle urine
(nel caso di ostruzione dei dotti biliari inizialmente si ha uno shift: solitamente bilirubina escreta con la
bile e le feci e solo in minima parte nelle urine ma quando c’è ostruzione a carico delle vie biliari si ha un
aumento della presenza di bilirubina nelle urine quindi viene shiftata la via di eliminazione. In caso di
calcoli biliari bilirubina è escreta preferenzialmente attraverso le urine).
Se da questi due esami emerge un possibile quadro di danno epatico si fa una biopsia: esame istologico
permette di capire che tipo di danno c’è e quanto è esteso, in che regione si verifica quindi se la morte è
zonale (frequente in caso di intossicazione) o focale. Unendo tutti questi dati possiamo avere un’idea della
funzionalità epatica e comprendere quello che può essere il danno o la sofferenza a livello della ghiandola.
→ NEOPLASIE
A livello del fegato sviluppo di neoplasie dipende da un’esposizione cronica a sostanze tossiche in seguito a
un iniziale evento mutageno. Neoplasie a livello epatico necessitano di diversi anni per poter essere osservate
clinicamente. Esistono 3 tipi di tumori epatici e alcuni sono stati chiaramente attribuiti a insulti tossici:
- carcinomi epatocellulari ossia dei tumori maligni che sono stati associati all’esposizione a sostanze
tossiche, soprattutto a tossine come aflatossina e agenti tossici di sintesi

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- colangiosarcoma: tumore maligno che si sviluppa dalle cellule dei dotti biliari che può essere indotto da
sostanze tossiche
- angiosarcoma: raro tumore maligno derivato dalle cellule di rivestimento dei sinusoidi. Può svilupparsi in
seguito a esposizione cronica ad agenti chimici come vinil-cloruro (esposizione tossica a cui sono a rischio
persone che lavorano nella fabbricazione di colle e plastiche), arsenico, biossido di torio (composto
radioattivo usato per la produzione di uranio quindi si trova nelle centrali nucleari e persone che si
trovano in quel contesto hanno maggiore probabilità di sviluppare questo tumore).
Per molte sostanze epatotossiche è stata individuata la tipologia di danno indotta:
Zona Agente tossico Potenziale spiegazione
rappresentativo
Zona 1 Ferro e altri Perché nella zona 1 c’è una concentrazione di ossigeno elevata e i
(preferenzialmente metalli pesanti metalli interagiscono con esso a dare ROS che provocano morte
rispetto alla 3) necrotica degli epatociti + uptake preferenziale dei metalli da
parte della zona 1
Alcool etilico Alti livelli di ossigeno nella zona 1 + bioattivazione ossigeno-
dipendente

Zona 3 CCl4 Nella zona 3 c’è una maggiore quantità di citocromo p450 che
(preferenzialmente trasforma il CCl4 a dare un radicale che reagisce con l’acido
rispetto alla 1) arachidonico a livello delle membrane alterando il metabolismo
lipidico nella zona 3
Paracetamolo Nella zona 3 c’è una maggiore quantità di citocromo p450 che
trasforma il paracetamolo (che non è tossico di per sé) in un
metabolita tossico che può interagire direttamente con elementi
cellulari come acidi nucleici, amminoacidi e membrane + meno
GSH per la detossificazione
Etanolo

Cellule dei dotti Metilen- Esposizione ad alte concentrazioni di metaboliti reattivi nella bile
biliari dianilina
Endotelio dei Ciclofosfamide Maggiore vulnerabilità ai metaboliti tossici e minore capacità di
sinusoidi (chemioterapico mantenere i livelli di GSH. Sinusoidi sono caratterizzati da un
per trattamento epitelio molto permissivo per il passaggio delle sostanze verso gli
di linfomi e epatociti e se epitelio viene ulteriormente alterato come effetto
leucemie) collaterale del farmaco, non c’è più neanche un minimo di
selezione di quello che passa attraverso i sinusoidi, quindi,
possono uscire anche globuli rossi creando un problema di
emostasi a livello sistemico.
Cellule di Ito Vitamina A** Retinolo viene captato dalle cellule stellate che si gonfiano man
mano che accumulano vitamina A e protrudono a livello del lume
dei sinusoidi rischiando di ostruire il lume dei sinusoidi
In generale tutte le sostanze tossiche che colpiscono preferenzialmente la zona 3 rispetto alla 1 sono dei
protossici ossia sostanze che non sono tossiche di per sé ma originano dalla trasformazione metabolica della
sostanza con cui organismo viene a contatto quindi i metaboliti tossici vengono prodotti nel fegato e a questo
livello esplicano il loro effetto tossico. La zona in cui si verifica tossicità è dose-dipendente: un’overdose da
paracetamolo porta a una morte che non influenza la zona 3 ma è più generalizzata.
Il fegato è uno degli organi che risente maggiormente della tossicità di farmaci e sostanze di sintesi perché
- funziona da filtro per cui tutto quello che arriva dal circolo sistemico e da quello portale raggiunge il
fegato e qui viene intrappolato per un certo periodo nel fegato per poter essere processato

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- siccome i sinusoidi hanno un epitelio molto permissivo, tutti gli agenti tossici vengono a contatto con gli
epatociti delle lamine quindi queste cellule sono a contatto diretto con tutti gli agenti tossici portati dal
circolo sanguigno, non sono protette (contatto è necessario perché possa avvenire la biotrasformazione)
- nel fegato c’è un’alta concentrazione di lipidi (dell’ordine del 5%) e siccome la maggior parte delle
sostanze tossiche sono lipofile, c’è una tendenza ad accumularsi in quest’organo quindi questo è un altro
fattore di vulnerabilità
- alcune sostanze tossiche sono in grado di sfruttare alcuni sistemi specifici che si trovano nei sinusoidi per
attraversare lume dei sinusoidi e passare negli epatociti. Una tossina che sfrutta i sistemi di trasporto
presenti nei sinusoidi epatici è la FALLOIDINA (tossina presente nel fungo velenoso Amanita phalloides):
sfrutta il trasportatore per i Sali biliari perché ha elevata affinità per questo trasportatore quindi lo sfrutta
per essere captato negli epatociti e questo fa si che questa tossina abbia una fortissima capacità di
penetrare negli epatociti e causare necrosi degli stessi. Questo meccanismo da un certo punto di vista
dà alla medicina un margine di manovra: si può intervenire antagonizzando il trasportatore trasportatore
per evitare che in caso di avvelenamento falloidina venga trasportata negli epatociti. Di solito si usa un
approccio meccanico che prevede la ligatura del dotto biliare. Questo determina un aumento della
produzione di Sali biliari a livello sistemico e siccome la falloidina sta usando il trasportatore per i Sali
biliari, aumentando la concentrazione di Sali biliari questi per competizione spiazzano la falloidina dal
trasportatore stesso. Altri approcci riguardano la possibilità di sfruttare farmaci come la ciclosporina A
(un immunosoppressore) e la rifampicina (cura della tubercolosi) che sfruttano lo stesso trasportatore
per cui usando questi farmaci possiamo spiazzare la falloidina dal trasportatore e limitare la tossicità da
avvelenamento da parte di questo fungo velenoso.
**La tossicità della vitamina A a livello delle cellule stellate si verifica solo in seguito all’assunzione sistemica
di elevate dosi di retinolo che possono essere prescritte solo dal dermatologo per causare patologie come
psoriasi, problemi di cheratinizzazione della pelle o forme molto gravi di acne (es acne nodulocistica che
determina la formazione di noduli sottocutanei che necessitano di continui interventi). In seguito a
trattamenti cronici con assunzione sistemica di questo tipo di prodotto si può avere danno epatico perché
vitamina A si accumula nelle cellule di Ito che aumentano di dimensioni, protrudono nel lume dei sinusoidi e
possono ostacolare flusso sanguigno dai sinusoidi verso la vena centro-lobulare.
Il paracetamolo è un farmaco da banco che se non viene assunto alle dosi terapeutiche può indurre fortissima
epatotossicità determinando insufficienza epatica acuta. Negli USA più di 50 000 accessi al pronto soccorso
per epatotossicità legata ad overdose di paracetamolo nel 2020 e 100 000 in Gran Bretagna. Nonostante
servano dosi molto elevate per osservare tossicità a livello epatico per intossicazione da paracetamolo e
questo è dovuto a un problema di percezione del rischio sbagliata: uno tende a pensare che un farmaco che
non necessita di prescrizione, l’unico FANS che può essere assunto in gravidanza con un profilo di sicurezza
ragionevole ed è l’unico FANS che può essere utilizzato anche nei bambini → questo crea nella popolazione
generale, l’idea che si tratta di un farmaco sicuro per cui non esiste una dose tossica MA per essendo un
farmaco con un profilo di sicurezza molto elevato, superando la finestra terapeutica si determinano effetti
collaterali molto gravi. Paracetamolo non è tossico di per sé bensì una volta introdotto nell’organismo va
incontro a tre vie di metabolizzazione che si attivano in egual misura: parte del paracetamolo è coniugata con
acido glucuronico ad opera della glucoronil-trasferasi mentre una parte viene sulforonata ad opera della
sulfotransferasi. Queste due molecole non sono più tossiche e possono essere eliminate senza problemi. Una
parte del paracetamolo viene processata dal citocromo p-450 a dare un metabolita tossico, il NAPQI. Si tratta
di un benzochinone in grado di legare acidi nucleici, amminoacidi, membrane e lipidi formando degli addotti
che causano necrosi cellulare preferenzialmente nella zona 3. Quando si forma questo chinone reattivo però,
esso viene immediatamente inattivato negli epatociti per coniugazione con il glutatione (epatociti hanno delle
riserve interne di glutatione usato per detossificare intermedio tossico che si produce durante metabolismo
del paracetamolo) QUINDI a dosi fisiologiche non si ha effetto tossico perché l’unico intermedio tossico che si
sviluppa viene neutralizzato mediante legame con il glutatione. MA in caso di overdose, le riserve di glutatione
necessarie alla detossificazione del benzochinone tossico si esauriscono per cui il chinone tossico non viene
più neutralizzato e va a formare addotti con macromolecole cellulari. Sfruttando il fatto che l’epatotossicità
dipende dalla mancanza di glutatione, è possibile trattare le persone che si presentano al pronto soccorso con
chiara epatotossicità da paracetamolo c’è un antidoto che è la acetilcisteina (principio attivo del fluimucil) che

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permette di introdurre nell’organismo la cisteina necessaria a sintetizzare glutatione (per cui si può dire che
è un precursore per la sintesi di glutatione) in modo da ripristinare le riserve e neutralizzare il NADQI. A fronte
di così tanti accessi per questo tipo di intossicazione le morti sono ridotte perché abbiamo a disposizione un
antidoto efficace che permetta di tamponare il danno epatico (ovviamente bisogna intervenire prima che la
necrosi abbia interessato un numero irrecuperabile di epatociti). Il danno interessa prevalentemente la zona
3 perché è qui che si forma il metabolita tossico. Anche in questo caso c’è una componente genetica perché
le vie di metabolizzazione sono 3 e dipendono dall’attività degli enzimi di coniugazione e se abbiamo
alterazioni genetiche di uno di questi enzimi di coniugazione possiamo avere metabolizzazione con una via
prevalente o meno sulle altre. Ci sono dei fattori di rischio: persone che assumono cronicamente etanolo sono
più a rischio di epatotossicità in generale e quindi anche da paracetamolo dal momento che l’etanolo induce
gli enzimi del citocromo p450.
→ epatociti che stanno morendo o sono già morti per necrosi dopo overdose da paracetamolo. Necrosi
massiva che si può osservare in seguito a overdose

Dosi terapeutiche di tachipirina 500: 500 mg / 70 = 7.1 mg/kg


Nell’adulto la dose soglia per un severo danno epatico è di 150-250 mg/kg (più o meno 20 compresse)
Dose letale: 13-25g

Altra situazione che si può verificare è dovuta alla sensibilizzazione (citotossicità mediata da anticorpi diretti
contro complesso farmaco proteina): alcuni farmaci (come l’alotano, un anestetico generale che non è più in
uso ma anche diclofenac, principio attivo del VolAdvance, un FANS). Normalmente i farmaci non danno
allergia perché sono molecole estremamente piccole ma può succedere che in seguito a una prima
esposizione si formino degli addotti tra farmaco e proteine intracellulari e il fatto che si formi una molecola di
così grandi dimensioni (quale è l’addotto farmaco-proteina) può portare ad attivazione del sistema
immunitario verso il complesso farmaco-proteina (non verso il farmaco da solo) → a seguito di una seconda
somministrazione del farmaco si ha formazione del complesso farmaco proteina e attivazione del sistema
immunitario contro il complesso stesso per cercare di distruggerlo. Questo non si verifica frequentemente e
solo per alcuni farmaci

TOSSICOLOGIA DELLO SVILUPPO:


Si parla in realtà di tossicologia della riproduzione e dello sviluppo perché oltre a gestazione comprende anche
fertilità e produzione di gameti maschili e femminili. Inoltre, sviluppo non si ferma alla gestazione ma continua
anche nel periodo post-natale, durante il quale il corredo enzimatico continua a svilupparsi così come la flora
batterica intestinale e il SNC e il sistema riproduttivo. Lo sviluppo si conclude essenzialmente alla pubertà.
Durante lo sviluppo, la situazione fisiologica dell’individuo è completamente diversa da quella dell’individuo
adulto per cui le conseguenze dell’esposizione a farmaci e ad agenti tossici sono
completamente diverse. Il problema più grosso della tossicologia dello sviluppo è
che, mentre nell’individuo adulto abbiamo la possibilità di studiare l’effetto
terapeutico e tossico sull’individuo con i trial clinici, per quanto riguarda
farmacologia e tossicologia dello sviluppo non abbiamo la possibilità di fare trial
clinici ma solo test di tossicità sull’animale → moltissimi limiti perché il periodo prenatale nell’uomo non
corrisponde a quello degli animali, specialmente i roditori in cui la gestazione è di soli 21 giorni contro i 9 mesi
dell’uomo per cui, soprattutto per l’esposizione ad agenti tossici che persistono, la finestra temporale di
esposizione è difficilmente sovrapponibile tra uomo e animale (però la durata dell’esposizione è molto
importante per determinare gli effetti della sostanza sulla gravidanza e sul prodotto del concepimento). Effetti
avversi possono verificarsi:
a. PRIMA DEL CONCEPIMENTO: tossicità inficia la qualità dei gameti maschili e femminili ma anche lo
stato ormonale, specialmente quello della donna, e questo influenza la buona riuscita dell’impianto, il

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fattore principale che sottende l’infertilità. Problema fondamentale quindi non è tanto la qualità dei
gameti ma piuttosto la riuscita dell’impianto in utero.
b. NEL PERIODO PRENATALE
c. NEL PERIODO POSTNATALE
Quando si verifica un insulto tossico durante questi periodi, può determinare
- perdita preimpianto: agente tossico interferisce con la possibilità dello zigote di impiantarsi in utero e
questo determina mancato inizio della gravidanza
- Morte embrionale
- Ritardo nella crescita
- Teratogenesi sia morfologica (che si manifesta con malformazioni alla nascita) che funzionale (non si
hanno difetti visibili alla nascita bensì difetti funzionali che coinvolgono essenzialmente SNC e sistema
riproduttivo. Effetto tossici possono essere osservati solo dopo il parto mentre in caso di teratogenesi
morfologica, può essere osservata anche durante la gravidanza)
Il fatto che si verifichi un evento piuttosto che un altro dipende strettamente dal tipo di sostanza tossica cui
la donna (e quindi anche il prodotto del concepimento) è esposta durante la gravidanza ma soprattutto il
periodo in cui avviene esposizione. Infatti, per la stessa sostanza tossica/farmaco alla stessa dose, effetto sul
prodotto del concepimento è estremamente diverso a seconda che esposizione si verifichi in un periodo
piuttosto che un altro QUINDI gli studi di tossicità sull’animale non hanno solo l’obbiettivo di stabilire se un
agente chimico (farmaco o agente di sintesi che sia) dia effetti duraturi sul prodotto del concepimento ma
anche se un agente è più o meno tossico a seconda del periodo della gravidanza in cui avviene l’esposizione
e questo è importante soprattutto per i farmaci perché è vero che quando possibile, proprio per carenza di
informazioni, dovrebbero essere evitati in gravidanza ma le donne che soffrono di patologie croniche devono
continuare il trattamento farmacologico per cui bisogna avere informazioni per dare alla donna una terapia
sufficientemente efficace ma anche sicura per il bambino durante la gestazione.
Per parlare delle azioni tossiche di farmaci o sostanze di sintesi bisogna contestualizzare la riproduzione e lo
sviluppo a livello umano: a prescindere da qualsiasi interferenza esterna, la riproduzione nell’uomo ha
un’efficienza estremamente bassa:
- l’infertilità è una situazione piuttosto comune (il 20% delle coppie ha problemi di infertilità
indipendentemente dall’età)
- morti premature post-impianto (30%) mentre una morte prematura a ridosso dell’impianto di solito non
viene nemmeno percepita dalla donna perché impianto si conclude 2 settimane dopo il concepimento
per cui la donna non sa ancora di essere incinta
- Gli aborti spontanei (ossia quelli che non possono essere attribuiti a una causa di tipo tossico)
rappresentano il 15% di tutti gli aborti
- sono frequenti anche anomali alla nascita: difetti maggiori sono meno frequenti (2-3%) mentre quelli
minori di tipo funzionale sono intorno al 14%
- Anomalie neurologiche, osservabili solo dopo la nascita, raggiungono il 15%
QUINDI già fisiologicamente esistono alterazioni già presenti in natura (indotte senza l’intervento di sostanze
tossiche) e questo crea un ulteriore problema perché il compito della tossicologia è quello di riconoscere una
variazione indotta da un farmaco/sostanza tossica su questo tipo di situazione iniziale. In pratica, quando
lavoriamo in una situazione in cui tutto funziona perfettamente, qualsiasi variazione è attribuita
all’esposizione alla sostanza tossica o a una interferenza esterna MA, lavorando in un contesto come quello
della riproduzione e sviluppo in cui la situazione già di per sé non è ottimale, bisogna capire quali siano le
variazioni rispetto alla normalità effettivamente dovute a un agente tossico esterno. Per la gravidanza, non
avendo la possibilità di condurre studi clinici, non si può far altro che basarsi su singoli casti studio = delle
singole persone riportano un’alterazione precisa potenzialmente associata a una sostanza tossica. Bisogna
aspettare poi che la casistica aumenti (quindi bisogna guardare quale è l’incidenza nella popolazione
dell’associazione tra esposizione a una sostanza e un discostamento rispetto alla situazione naturale) → si

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arriva a capire se un farmaco ha un effetto tossico sullo sviluppo solo dopo molto tempo perché bisogna
aspettare di avere una casistica tale da poter stabilire un’effettiva associazione.
A livello NATURALE (non per interferenza con sostanze tossiche) le situazioni responsabili di questo quadro
non ottimale per quanto riguarda la riproduzione e lo sviluppo umano sono:
• difetti genetici
• condizioni materne sia in termini di stato di salute che nutrizionali
• infezioni materne: ci sono infezioni sia virali che batteriche che sono state associate a un maggior rischio
di insuccesso per quanto riguarda lo sviluppo
• interferenze di tipo meccanico che si possono verificare durante la gestazione come una compressione
del cordone ombelicale (che non dipende né da alterazioni genetiche né dalle condizioni della madre) o
un alterato flusso sanguigno all’interno della placenta. Queste due condizioni impediscono passaggio
dell’ossigeno al feto ed ipossia è un agente fisico estremamente teratogeno durante la gravidanza per
cui riduzioni dell’ossigeno anche per poco tempo possono dare luogo a eventi tossici durante la
gravidanza.
• componente ambientale dovuta a xenobiotici e radiazioni anche se in realtà solo il 4-5% delle cause di
insuccesso o non ottimale riuscita di una gestazione dipende da questi fattori.
• Cause sconosciute. Sicuramente quello che causa problemi nella riproduzione dipende da un quadro
multifattoriale (coesistono diversi fattori che sommandosi creano problemi nello sviluppo embrionale e
fetale).
TOSSICITÁ DA FARMACI: uno xenobiotico può indurre effetti tossici in maniera
→ DIRETTA: strettamente legata al meccanismo d’azione del farmaco. Un organismo in via di sviluppo infatti
è molto diverso da quello adulto ad es per molti dei farmaci che possono essere utilizzati non sono presenti i
bersagli molecolari nel feto (e da una parte questo è un fattore di sicurezza) ma ci sono anche sistemi
fortemente espressi nell’embrione e nel feto e questo causa tossicità diretta se la madre sta assumendo
determinati farmaci. Ad es ACE inibitori e sartani assunti da una donna in gravidanza che soffre di ipertensione,
possono agire in modo diretto sul sistema renina angiotensina del bambino, andando ad alterare la pressione
anche nel feto e questo può dar luogo a tossicità durante la gravidanza e ad aborti.
→ INDIRETTA (o MATERNA): molti degli effetti tossici sul feto sono dovuti a metaboliti tossici prodotti dalla
madre (premetabolizzazione materna del farmaco) che passano nel feto e qui inducono un effetto tossico.
Ci sono anche sostanze che possono indurre tossicità con entrambi i meccanismi tra cui l’etanolo (queste due
modalità quindi non sono mutuamente esclusive). La tossicità indiretta è dovuta all’accumulo da parte del
feto di acetaldeide (che è il principale metabolita dell’etanolo) ma ha anche azione diretta soprattutto per la
capacità dell’etanolo di fluidificare le membrane.
La tossicologia dello sviluppo dovrebbe identificare quali sono le sostanze tossiche in questo contesto e capire
se esistono dei livelli sicuri di esposizione ma siccome nel contesto naturale abbiamo un’alta incidenza di
disturbi congeniti, è difficile identificare chiaramente delle sostanze tossiche per lo sviluppo. È molto difficile
identificare una relazione dose-risposta perché per molte sostanze, per carenza di dati, non sappiamo se esista
effettivamente una dose soglia o comunque una dose al di sotto della quale la sostanza può essere considerata
sicura e questo rappresenta un grosso problema perché se per molti farmaci si riuscisse a identificare una
dose soglia, una donna potrebbe continuare una terapia cronica abbassando la dose. Di solito, gli effetti sul
prodotto del concepimento hanno una lunga latenza a seconda della dose cui il feto è esposto ma è difficile
traslare i dati dal modello animale (esposizione dura al massimo 21gg) all’uomo, in cui esposizione può durare
potenzialmente anche 9 mesi.
Possono essere distinti tre periodi critici per la suscettibilità agli effetti tossici di farmaci e agenti chimici:
1. Periodo preimpianto: dal concepimento (unione dei gameti) a metà della terza settimana, quando
avviene impianto in utero

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In queste due settimane, lo zigote è dotato di un’intensissima capacità proliferativa (le cellule in questa fase
sono totipotenti) che la natura compensa con una grande capacità di riparazione = zigote si replica in maniera
velocissima ma è in grado di tamponare (entro certi limiti) degli insulti che possono verificarsi ad opera di
sostanze tossiche. Molti degli zigoti non riescono a impiantarsi in utero ma la perdita non viene percepita dalla
donna perché questo periodo precede un eventuale test di gravidanza positivo. Il fallimento preimpianto non
è definito aborto bensì morte prematura preimpianto (si parla di aborto solo se la perdita avviene dopo
l’impianto). In questo stadio gli effetti di una sostanza tossica sono di tipo tutto o nulla: se si verificano
alterazioni tali da determinare anomalie sul piano genetico o cromosomico, queste determinano
un’interruzione della gravidanza mentre se l’embrione sopravvive e riesce a impiantarsi, qualsiasi sostanza
tossica abbia interferito in questa fase non ha indotto anomalie genetico-cromosomiche tali da causare morte
prematura. Ci sono sostanzialmente due tipi di anomalie embrionali:
- Normalmente le anomalie dannose in questa fase non sono tanto causate da un insulto esterno (perché
questo viene molto ben tamponato dallo zigote perché viene riparato), se non si verifica l’impianto le
anomalie genetico-cromosomiche che portano a morte prematura sono già presenti nei gameti,
specialmente in quelli femminili. Unico fattore di rischio in questo caso è l’età materna (età superiore ai
35 anni si associa a un maggiore rischio di anomalie negli ovociti)
- Anomalie post-zigotiche (che si verificano durante la divisione dello zigote), sono generalmente indotte
da agenti esterni, non dipendono dall’età della madre ed entro una certa soglia possono essere
efficacemente riparate. Tra gli agenti che notoriamente interferiscono con l’impianto traviamo le
radiazioni e in particolare i raggi X
In entrambi i casi comunque l’effetto è tutto o nulla: o si ha interruzione della gravidanza preimpianto o
embrione si impianta e la gravidanza può essere portata avanti. Si tratta di una sorta di protezione che la
natura ha escogitato dal momento che, escludendo le gravidanze programmate, quando una persona non sa
di essere incinta non sta attenta quindi qualsiasi interferenza tossica viene tamponata. Sono state identificate
poche classi di agenti che inducono invece un danno talmente grave da causare perdita preimpianto perché
la maggior parte dei danni viene efficacemente riparata. Si tratta essenzialmente di solventi usati nell’industria
chimica quindi potrebbe esserci un problema di esposizione occupazionale. Agenti estremamente genotossici
in questa fase che sono i chemioterapici che hanno come meccanismo d’azione l’inibizione della sintesi del
DNA e dei microtubuli causando sempre morte preimpianto se esposizione avviene in questa fase e retinoidi
ossia tutti i composti chimicamente correlati alla vitamina A a dosi elevate somministrate per via sistemica. Di
solito si tratta di prescrizioni dermatologiche molto specifiche per trattare condizioni patologiche da
moderato a grave (formi gravi di acne, psoriasi e problemi cronici nella cheratinizzazione della pelle) + agenti
fisici come le radiazioni.
Ricorda: le cellule totipotenti possono originare qualsiasi tessuto sia embrionale sia extraembrionale quindi le
cellule dopo il concepimento possono dare origine a tessuti embrionali ma anche alla placenta e poi man mano
si specializzano in cellule pluripotenti distinte in embrionali (quindi vanno incontro al differenziamento nei tre
foglietti) o extraembrionali. Diventano poi multipotenti quindi possono dar luogo alla formazione di qualsiasi
tessuto all’interno di quel foglietto embrionale fino a diventare unipotenti ossia cellule specializzate che
possono dare esclusivamente origine a una tipologia di tessuto. L’efficienza di riparazione si riduce man mano
che le cellule si specializzano (= una cellula totipotente può ripararsi in maniera molto più efficiente rispetto a
una cellula unipotente o specializzata) e quindi inizia una fase di maggiore suscettibilità agli effetti tossici.
2. Periodo embrionale: periodo di maggiore suscettibilità ai teratogeni morfologici perché in questa fase
avviene organogenesi e va dalla terza all’ottava settimana di gestazione ma a livello medico viene
protratto fino alla 12esima settimana (quindi primo trimestre) quando anche la placenta, che funziona
da barriera, si forma completamente.
Questo periodo è così suscettibile perché la modificazione dell’embrione e il suo sviluppo sono estremamente
veloci quindi abbiamo grossa proliferazione, marcati eventi di migrazione e differenziazione cellulare +
comunicazione cellulare di tipo soprattutto chimico + rimodellamento tissutale con un grosso aumento di

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dimensioni dell’embrione. Inoltre, in questa fase le cellule non sono più totipotenti e non hanno più grosse
capacità riparative quindi effetti tossici possono essere anche estremamente gravi. In questa fase si verificano
essenzialmente alterazioni morfologiche (MALFORMAZIONI = errata generazione di determinati organi). La
maggior parte degli agenti tossici in questa fase non hanno un effetto generalizzato di tipo tutto o nulla bensì
causano danni molto specifici sulla formazione di determinate strutture dell’organismo quindi si parla di
MALFORMAZIONI INDOTTE DA TERATOGENI che possono essere sia farmaci che agenti tossici. È importante
stabilire quali sono le strutture in formazione nei diversi periodi della gravidanza dal momento che gli organi
non si sviluppano simultaneamente e omogeneamente ma hanno delle finestre di sviluppo all’interno della
gravidanza per cui esposizione a una stessa sostanza in un determinato momento può produrre alterazioni
diverse a seconda del momento in cui avviene esposizione per questo è importante determinare quali sono
le strutture che vengono alterate e quali sono i periodi più suscettibili a queste alterazioni.

Esistono farmaci per la cura di malattie croniche come ipertiroidismo o ipotiroidismo che richiedono una
terapia continuativa giornaliera anche durante la gravidanza per cui bisogna poter garantire alla donna terapia
senza che causi danni al feto. Grazie a questo schema, è stato possibile, soprattutto per i farmaci, stabilire una
FINESTRA DI OPPORTUNITÁ ossia una finestra in cui possiamo in qualche modo ricominciare o somministrare
in maniera più sicura un farmaco → per molti farmaci, per patologie frequenti nelle donne in età fertile, si è
riusciti a identificare finestre in cui bisogna sospendere il farmaco ma anche finestre di opportunità in cui
farmaco può essere reintrodotto in maniera sicura senza avere effetti a livello dello sviluppo fetale. Durante
il periodo embrionale, qualsiasi teratogeno determini alterazioni dell’emodinamica e quindi dell’apporto di
ossigeno al feto, causa teratogenesi morfologica. Questo tipo di alterazioni può dipendere sia dall’esposizione
a sostanze esogene sia ad eventi interni alla donna come compressione del cordone ombelicale o problemi
nella vascolarizzazione della placenta.
3. Periodo fetale: secondo e terzo trimestre di gravidanza
La stessa sostanza che nel periodo embrionale dava luogo a teratogenesi morfologica, nel periodo fetale dà
invece origine a teratogenesi funzionale quindi non si sviluppano malformazioni morfologiche degli organi
bensì alterazioni funzionali che si evidenzieranno solo dopo la nascita.

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AGENTE TERATOGENO: qualsiasi agente che, anche con un meccanismo diverso, può dare luogo a
un’alterazione a livello dello sviluppo. Questa definizione da una parte dice che non abbiamo un meccanismo
univoco di teratogenesi (= lo stesso teratogeno con lo stesso meccanismo può dar luogo a problemi diversi a
seconda del momento della gravidanza in cui avviene esposizione ma anche che teratogeni diversi con
meccanismi diversi possono dar luogo a effetti simili se esposizione avviene nello stesso periodo). Sono stati
identificati i principali meccanismi che inducono sicuramente teratogenesi:
- Mutazioni soprattutto associate all’uso di farmaco chemioterapici (→ si apre una disquisizione etica: se
una donna malata di cancro e rimane incinta, a cosa bisogna dare priorità?)
- Radiazioni associate a tools diagnostici (altrimenti non siamo esposti a un livello di radiazioni così elevate
da causare teratogenesi)
- Meccanismi chimici con azione teratogena come alterazioni nel metabolismo dei folati per questo in
gravidanza si suggerisce una supplementazione nutrizionale di folati. Esistono anche altri agenti chimici
che causano teratogenesi perché interferiscono con la comunicazione cellula-cellula che è
particolarmente marcata nella fase embrionale (non c’è invece la comunicazione elettrica che
caratterizza il sistema nervoso adulto). Ad es è stato scientificamente provato che la serotonina ha un
ruolo estremamente importante in questa fase per cui se una donna è trattata con antidepressivi
possono esserci effetti sul feto. Si sta cercando di capire sempre meglio quali meccanismi promuovono
lo sviluppo embrionale e fetale per capire quali sostanze potrebbero interferire con questi meccanismi
ma siamo ancora lontani dall’avere una conoscenza tale da poter fare una prescrizione che risulti sicura
in gravidanza (si sa cosa bisogna assolutamente evitare mentre tutto il resto prevede un compromesso
tra rischio e beneficio cercando di limitare al massimo i danni).
Parlando di tossicità embrionale, caso emblematico è quello della TALIDOMIDE, prodotta da Grünenthal e
commercializzata da metà anni ’50 a inizio anni ’60. Di base ha attività sedativo-ipnotica ma veniva prescritta
alle donne in gravidanza come antiemetico per la sua potente attività antiemetica quindi era molto efficace
nel contrastare le nausee mattutine delle donne in gestazione (durante i primi 3 mesi di gravidanza nausee
sono più marcate per cui esposizione avveniva durante periodo embrionale). La maggior parte dei bambini
nati da queste donne erano focomelici (10 000 bambini focomelici) soprattutto per gli arti superiori in maniera
simmetrica quindi questi bambini mostravano parziale o totale mancanza di entrambi gli arti superiori. La
comunità scientifica è arrivata ad associare effetto teratogeno con esposizione alla talidomide in gravidanza
grazie a un medico tedesco e uno australiano che scrissero all’editore del Luncet una lettera in cui dicevano
che mentre le anomalie congenite in un contesto naturale rappresentano l’1,5% dei nati vivi, negli ultimi mesi
questi medici avevano visto un aumento dell’incidenza di bambini malformati nati da donne cui era stata
somministrata talidomide. QUINDI quello che ha fatto partire la comunicazione da parte di questi medici e ha
fatto poi muovere la comunità scientifica e l’agenzia di controllo è stato che nelle donne che avevano assunto
talidomide, la frequenza di malformazioni saliva dall’1,5% al 20% quindi si trattava di uno scostamento
estremamente elevato rispetto al contesto naturale. La lettera mandata da questi medici può essere
considerata il padre della farmacovigilanza. Questa segnalazione ha portato all’apertura di un’indagine (la
Grünenthal è stata accusata di omicidio colposo) estremamente lunga: segnalazione nel 1961 mentre
sentenza definitiva solo nel 2009. La ditta è stata dichiarata colpevole perché sembra abbia in qualche modo
occultato o non abbia condotto in maniera corretta gli studi su animale e anche durante il processo la ditta ha
falsato o comunque evitato di portare documenti che potevano far pensare a un effetto teratogenico della
talidomide. La tragedia della talidomide ha colpito Canada, Europa e Australia ma non gli USA perché la FDA
non aveva dato l’approvazione per la talidomide perché qualcosa negli studi di tossicità non era chiaro. Da un
certo punto di vista, il problema potrebbe essere legato a un diverso metabolismo della talidomide nell’uomo
e nell’animale infatti la talidomide è un racemo composto di due enantiomeri, R e S di cui enantiomero R è
quello responsabile dell’effetto terapeutico mentre enantiomero S è quello responsabile dell’effetto
teratogeno. Anche se la talidomide era venduta come 100% enantiomero R (quindi quello terapeutico con
effetto antiemetico e sedativo ipnotico), una volta somministrata nell’uomo a causa dell’azione di una

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racemasi endogena, veniva convertita al 50% nell’enantiomero S. Questo evento metabolico non si osservava
invece nei topi e nei ratti per cui in questi animali non era mai stato osservato effetto teratogeno da parte del
farmaco. La negligenza dell’azienda è legata al fatto che quando si fanno studi di tossicità dello sviluppo, si
chiede di sperimentare anche in una specie diversa che solitamente è il coniglio dato che questo è molto più
sensibile agli effetti tossici rispetto al topo e al ratto. Infatti, somministrando il farmaco nel coniglio, si
osservava focomelia. Questa tragedia ha dato al mondo tossicologico e scientifico due spinte importanti:
introduzione della farmacovigilanza (monitoraggio del farmaco anche dopo che è stato messo in commercio
perché è stato chiaramente stabilito che possono esserci limiti nelle sperimentazioni) e ha evidenziato un
grosso limite nella sperimentazione e nella traslazione dall’animale all’uomo che è il fatto che non vi sia una
sovrapposizione del 100% (sostanze tossiche nell’uomo possono non esserlo nell’animale, sostanze tossiche
nell’animale ma non nell’uomo…). Non il 100% dei bambini nati da donne che assumevano talidomide ha
sviluppato focomelia perché si è visto che la talidomide è teratogena solo tra 35esimo e 50esimo giorno di
gravidanza (5 e 7° settimana) quindi solo esposizione in questo periodo causava focomelia ed effettivamente
massimo sviluppo degli arti superiori si verifica in
questo periodo per cui è stata identificata una finestra
più sensibile agli effetti avversi del farmaco.
La ricerca di un’associazione tra esposizione ad agente
tossico ed evento lesivo che si verifica nella popolazione
prevede l’analisi di particolari curve:
→ prescrizione e vendita di talidomide vs incidenza di
focomelia e malformazione fetale: c’è uno shift
temporale tra due curve che hanno andamento
sovrapponibile dal momento che l’esposizione alla
talidomide avviene nel primo trimestre di gravidanza
mentre gli effetti si manifestano solo dopo il parto.
Analisi di queste curve ha fatto nascere il dubbio di una possibile correlazione e ha fatto partire un’indagine
per chiarire eventuale associazione tra talidomide e focomelia.
Recentemente la talidomide è stata immessa nuovamente sul mercato come chemioterapico perché
meccanismo con cui provoca focomelia prevede un blocco dell’angiogenesi (per cui dato che il periodo in cui
avveniva esposizione è quello dello sviluppo degli arti superiori, interferenza da parte della talidomide
sull’angiogenesi determinava blocco dell’apporto di ossigeno agli arti e quindi mancata formazione degli arti
stessi). Siccome angiogenesi a livello oncologico è associata a proliferazione e livello di malignità, è stato
recentemente introdotta per tumori come il mieloma multiplo, la possibilità di usare talidomide in
associazione con desametasone (quindi corticosteroidi).
Un’altra classe di farmaci associata a tossicità fetale ed embrionale è quella degli antiepilettici. Se assunti in
gravidanza possono causare malformazioni come dismorfia a livello facciale, malformazione delle falangi,
difetti cardiaci (che sono il problema maggiore per la qualità e durata di vita del bambino). Il meccanismo con
cui agiscono nell’induzione di teratogenesi è stato identificato: si legano al canale del potassio Rapid Delayed
Rectifier (rettificanti ritardati) quindi in pratica inibiscono la ripolarizzazione durante il potenziale d’azione
cardiaco e questo causa un effetto tossico nel feto perché il bambino, durante il periodo embrionale, ha quello
che viene chiamato cuore primitivo (cuore del bambino inizia a battere in questo periodo ma con un
meccanismo diverso da quello adulto). Il battito cardiaco nell’embrione si basa esclusivamente su correnti di
potassio mediate appunto da canali del potassio rettificanti ritardati che causano ripolarizzazione. Il cuore
primitivo, che in questa fase appare come un tubo cilindrico, ha capacità contrattile mediata solo dai canali
del potassio rettificanti ritardati per cui qualsiasi sostanza che interferisce con questo canale altera il battito
e quindi l’apporto di sangue e ossigeno MA l’emodinamica è un fattore cruciale per cui qualsiasi interferenza
determina teratogenesi → tutti i farmaci antiepilettici causano grave ipossia embrionale per interferenza
diretta col battito cardiaco del bambino. L’ipossia indotta, anche solo per poco tempo, causa teratogene

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anche perché, oltre a ridurre l’apporto di ossigeno al feto, determina un aumento della produzione di ROS e
siccome la capacità di detossificazione embrionale e fetale è ridotta se non nulla (a differenza dell’organismo
adulto che entro un certo range riesce a detossificare le ROS), le ROS possono causare morte necrotica delle
cellule embrionali. QUINDI tutti gli antiepilettici che si legano al canale per il potassio rettificante ritardato
causano teratogenesi con questo meccanismo.
Esiste anche un altro farmaco antiepilettico che causa teratogenesi con un meccanismo diverso che è l’acido
valproico. Viene usato per il trattamento delle convulsioni e del disturbo bipolare ed è stato prescritto in
gravidanza al posto degli antiepilettici che agiscono sul canale del potassio perché non avendo questo
meccanismo d’azione si pensava fosse più sicuro. Acido valproico però inibisce l’enzima istone deacetilasi:
acetilazione causa apertura del DNA, che normalmente è avvolto sugli istoni, e questo permette inserimento
dei fattori di trascrizione e dare inizio alla trascrizione stessa. Dato che acido valproico inibisce l’istone
deacetilasi, inibisce la deacetilazione degli istoni (normalmente una volta che la trascrizione è terminata, le
deacetilasi rimuovono i gruppi acetile sul DNA che si richiude sugli istoni) quindi si ha una continua trascrizione
genica e siccome in un periodo come quello embrionale c’è un’intensissima e regolatissima trascrizione,
interferire con questo meccanismo causa danni molto gravi tanto che acido valproico, con questo
meccanismo, causa dismorfismi del volto, cardiopatie, e una condizione chiamata schiena bifida (= deficit della
saldatura vertebrale che provoca la fuoriuscita del midollo). Nel 2017 (quindi monitoraggio dei farmaci in
gravidanza continua tutt’oggi) si è visto che acido valproico, oltre a essere un teratogeno morfologico, è anche
un teratogeno funzionale perché aumenta di 7 volte il rischio di sviluppare autismo nel bambino. Siccome
questa associazione è stata chiaramente dimostrata, nel 2017 le agenzie regolatorie hanno steso un
comunicato in cui allertano nei confronti dell’acido valproico in gravidanza e affermando quando possibile di
evitarlo e se non è possibile farlo (quindi viene somministrato alle donne in attività fertile) bisogna assumerlo
in associazione con anticoncezionali. Diagnosi completa di autismo si fa intorno ai 3-5 anni quindi non potendo
valutare precocemente azione dell’acido valproico, se questo non può essere sostituito terapia deve essere
fatta in associazione con terapia anticoncezionale per evitare la gravidanza. FDA ma anche agenzie europee
hanno controindicato utilizzo di acido valproico in gravidanza e se dato a donne in età fertile deve essere
accoppiato a terapia anticoncezionale. Per continuare la terapia antiepilettica in gravidanza, si sta
continuando tutt’oggi a studiare e a marzo 2021, durante un congresso annuale di neurologia, sono stati
presentati dei dati che mostrano che due farmaci, lamotrigina e levetiracetam, prescritti a circa 300 donne in
gravidanza che sono state attentamente monitorati, sono ragionevolmente più sicuri di altri. Sono stati scelti
questi due farmaci perché non agiscono né sui canali del potassio né sull’istone deacetilasi bensì agiscono
direttamente a livello sinaptico lavorando sul rilascio presinaptico di neurotrasmettitori → avendo capito
quale è il meccanismo di tossicità diretta nei confronti del feto si è riusciti a selezionare dei farmaci che, con
un meccanismo differente, sembrano avere minore tossicità in gravidanza QUINDI conoscere meccanismi alla
base della tossicità durante lo sviluppo è importante nelle scelte cliniche per avere delle opportunità di
trattamento.
Un altro meccanismo di tossicità ampiamente studiato e la cui tossicità è consolidata è l’antagonismo dei
folati, che causa sempre teratogenesi durante la gravidanza. I folati vengono normalmente assunti con la dieta
in concentrazioni molto basse ma in un individuo adulto in condizioni fisiologiche questo è sufficiente per
l’omeostasi dell’organismo. Durante la gravidanza però la richiesta di folati aumenta poiché questi sono i
precursori per la sintesi di purine e pirimidine (quindi del DNA e dell’RNA) e sono anche precursori per i
processi di metilazione (quindi hanno anche un ruolo epigenetico) e , i tessuti zigotici ed embrionali sono in
rapida proliferazione quindi richiedono una grande sintesi di DNA. Se non c’è un sufficiente apporto di folati,
si può avere danno a livello della proliferazione cellulare nell’embrione per cui le linee guida suggeriscono
fortemente la supplementazione di folati in gravidanza. In particolare un apporto non adeguato di folati
durante la gravidanza, si associa allo sviluppo di due malformazioni principali: spina bifida (mancata saldatura
vertebrale che porta a una fuoriuscita del midollo dalla colonna vertebrale) e labiopalatoschisi (anomala
saldatura del labbro o del palato) che dipendono da una mancata o errata saldatura durante l’organogenesi.

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Non si tratta di situazioni letali, quando si verificano richiedono di operazioni postnatali. Una
supplementazione di folati si è visto ridurre se non azzerare il rischio di sviluppare queste due tipologie di
malformazioni. I folati non possono essere assunti direttamente, bisogna supplementare acido folico che è il
diretto precursore dei folati poiché nell’organismo viene metabolizzato dalla diidrofolato reduttasi. Sono
consigliati 0,4mg al giorno ed è consigliata durante tutto il periodo dell’organogenesi e durante l’impianto.
Supplementazione dovrebbe essere fatta fino allo stadio embrionale quindi fino all’ottava settimana (tutto
primo trimestre di gravidanza). Il meccanismo di tossicità dei folati è assodato quindi si può lavorare su questo
per prevenire la tossicità in maniera sicura. Per quanto riguarda il periodo embrionale non ci sono altri
meccanismi di tossicità assodata.
Una volta superato il periodo dell’organogenesi (dall’ottava settimana in poi) si entra nel periodo fetale
durante il quale effetti teratogeni non portano allo sviluppo di malformazioni perché gli organi sono già stati
tutti abbozzati, quello che può verificarsi è una teratogenesi FUNZIONALE che determina ritardi nella crescita
o un basso peso alla nascita o una nascita pretermine. La differenza rispetto alle malformazioni che si
sviluppano nel periodo embrionale è che sono compatibili con la vita ma, mentre per la teratogenesi
morfologica le malformazioni possono essere osservate a livello diagnostico durante la gravidanza, le
teratogenesi funzionali si evidenziano solo nel postparto mentre è difficile se non impossibile il monitoraggio
durante la gestazione. I teratogeni funzionali colpiscono i due sistemi più sensibili durante il periodo fetale
che sono SNC e sistema riproduttivo e per entrambi questi sistemi non abbiamo possibilità di fare un
monitoraggio in gravidanza. Per quanto riguarda SNC deficit neurologici/ritardo mentale si evidenziano
intorno ai 2-3 anni mentre per quanto riguarda sistema riproduttivo, i difetti si manifestano essenzialmente
durante la pubertà quindi molto tempo dopo la nascita. Un caso di tossicità da farmaco che impatta sul
sistema riproduttivo è associata al DIESTILSILVESTROLO, un estrogeno somministrato alle donne in gravidanza
per prevenire l’aborto e che si è visto indurre tossicità a livello del sistema riproduttivo nelle bambine nate da
queste donne con un aumento dell’incidenza di carcinomi nell’utero durante la pubertà → si tratta di una
tossicità a lunghissima latenza ma nonostante questo, dalla valutazione della casistica, è stato possibile fare
un’associazione diretta con l’assunzione del farmaco. Potenzialmente, tutti gli interferenti endocrini
(estrogeni e androgeni) interferiscono con i livelli ormonali durante la gravidanza per cui possono avere nel
prodotto del concepimento una tossicità a livello del sistema riproduttivo del bambino (quindi bisogna fare
molta attenzione all’assunzione di ormoni in gravidanza). QUINDI durante il periodo fetale si può avere
teratogenesi funzionale e si possono produrre deformazioni a carico di alterazioni delle strutture distali quindi
dita delle mani e dei piedi ma mai malformazioni. Un teratogeno funzionale che ha tossicità anche durante
periodo fetale è etanolo, un teratogeno morfologico e funzionale. I bambini di madri esposte a etanolo
durante la gravidanza possono sviluppare una sindrome definita SINDROME FETALE DA ALCOL (FAS)
caratterizzata da dismorfismo craniofacciale tipico (naso corto e schiacciato, mancata distinzione tra naso e
labbra, morfologia tipica degli occhi e delle palpebre e microencefalia), ritardo nella crescita, ritardo nello
sviluppo motorio e intellettivo. Il quadro completo di questa sindrome (che ovviamente non è trattabile ma
permane per tutta la vita del bambino) è stato osservato in bambini di donne alcoliste che assumevano elevate
concentrazioni di etanolo per tutta la gravidanza. Non si sa se ci sia una dose sicura di etanolo (una dose soglia)
durante la gravidanza quindi nonostante questa sindrome venga osservata solo nelle donne alcoliste, il
suggerimento è quello di non assumere etanolo durante la gravidanza. Etanolo si comporta da teratogeno sia
morfologico che funzionale con tossicità sia diretta (interazione tra etanolo e membrane citoplasmatiche delle
cellule fetali perché un meccanismo aspecifico dell’alcool è di fluidificare le membrane cellulari) che indiretta
ad opera dei metaboliti principali dell’etanolo quindi acetaldeide e acido acetico prodotti dal metabolismo
della madre che attraversano placenta e passano nel feto il quale però non ha gli enzimi per la loro
degradazione quindi si osserva un accumulo di acetaldeide e acido acetico.
QUINDI gli effetti delle sostanze tossiche sul feto possono essere
- diretti (es tossicità indotta da antiepilettici che interferiscono con il canali per il potassio alterando il ritmo
cardiaco, acido valproico che inibisce l’istone deacetilasi e antagonismo dei folati)

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- indiretti (normalmente si tratta di
effetti tossici meccanici che riguardano lo
scambio di fluidi a livello della placenta
quindi alterazioni della vascolarizzazione
che determinano una riduzione
dell’apporto di ossigeno e nutrienti con
ipossia e produzione di ROS)
- effetti sia diretti che indiretti nel
caso dell’etanolo
Esistono quindi delle condizioni materne
chiaramente associate a tossicità fetale:
• diminuzione/mancanza di flusso
ematico a livello uterino e placentare che
determina ipossia nel feto
• anemia poiché implica una minor
efficienza di trasporto dell’ossigeno al feto
attraverso il sangue materno
• carenze nutrizionali perché il feto
dipende in tutto e per tutto dall’apporto di
nutrienti da parte della madre
• alcune tossine batteriche provocano tossicità indiretta come la tossina del toxoplasma (la toxoplasmosi
è stata dimostrata avere tossicità fetale) e alcuni virus come il virus della rosolia (una donna che non ha
avuto la rosolia deve per sicurezza ricevere un vaccino perché in caso di infezione si sviluppano effetti
tossici sul feto)
• patologie come l’ipertensione dato che la pressione alta è un fattore di rischio per le patologie
cardiovascolari creando un duplice problema: abbiamo tossicità fetale di per sé + i farmaci usati per
trattare ipertensione possono avere tossicità sul feto perché possono abbassare la pressione anche a
livello fetale. Inoltre, ipertensione preesistente rischia anche di peggiorare durante la gravidanza:
durante la gravidanza c’è un aumento fisiologico della pressione sanguigna per cui c’è il rischio che in
donne ipertese la patologia si aggravi e per questo motivo si sta cercando di capire quali farmaci
antipertensivi possono essere meno tossici durante la gravidanza. Altra patologia che rappresenta un
fattore di rischio e può indurre tossicità fetale è il diabete: variazioni della glicemia provocano danni al
feto e contemporaneamente i farmaci per controllare la glicemia, specialmente le statine, possono dare
tossicità fetale perché creano ipoglicemia nel feto
• stress rappresenta un fattore di rischio perché porta alla produzione di ormoni dello stress e in
particolare di cortisolo, che è il precursore di tutti gli steroidi per cui quando si verifica una condizione di
stress, l’overproduzione di cortisolo può produrre alterazioni ormonali anche nel feto.
Esistono quindi a monte dei fattori materni di suscettibilità che predispongono verso una tossicità durante lo
sviluppo ai quali dobbiamo associare una serie di possibili altri fattori che possono modulare o sommarsi a
una situazione pregressa. In pratica quindi i fattori materni di tossicità hanno una base genetica, sono legati
allo stato di salute generale e all’età della madre (legata soprattutto al meccanismo dell’impianto e alla qualità
degli ovociti). A questi fattori bisogna aggiungere una serie di elementi che possono entrare a contatto con la
madre durante la gravidanza che possono dar luogo a tossicità indiretta durante il periodo embrionale e fetale.

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Per la tossicità dello sviluppo sono quindi fondamentali i test sperimentali che possono contribuire a
prevedere la tossicità di un farmaco. I test di tossicità dello sviluppo sono obbligatori sui farmaci ma non su
agenti chimici di sintesi potenzialmente tossici in gravidanza (per queste sostanze i test di tossicità si fermano
agli studi di tossicità cronica). È importante studiare la tossicità dei farmaci in gravidanza perché è stato
dimostrato che il 65-90% delle donne assume almeno un farmaco durante la gestazione dal momento anche
in una donna in gravidanza possono insorgere stati patologici che necessitano di farmaci per cui la tossicologia
dovrebbe fornire una chiara indicazione del rapporto rischio - beneficio per tutti i farmaci che potrebbero
essere assunti durante la gravidanza e dei quali non si può fare a meno. Inoltre, la maggior parte dei farmaci
assunti in gravidanza vengono assunti durante il primo trimestre di gravidanza che però è anche il periodo più
sensibile. Questo perché nel primo trimestre si verificano una serie di alterazioni ormonali che danno luogo a
problemi di salute che tendono a risolversi man mano che la gravidanza prosegue (ad es anche la tragedia
della talidomide è stata scatenata perché funzionava come antiemetico quindi riduceva le nausee durante il
primo trimestre di gravidanza + emicrania è comune nel 70% delle gestanti nel primo trimestre ma per la
maggior parte dei FANS è stata dimostrata tossicità e quindi sono stati inclusi nell’elenco dei farmaci
sconsigliati in gravidanza per cui dobbiamo dare la possibilità di trattare comunque gli stati patologici). C’è
anche una certa percentuale di donne, generalmente con una patologia pregressa, che assume assumono più
di un farmaco in gravidanza quindi il problema della tossicità dei farmaci durante la gravidanza non riguarda
una nicchia di persone ma la maggior parte delle donne per cui è importante implementare lo studio degli
effetti tossici dei farmaci durante la gravidanza. Oltretutto, ad oggi c’è un trend all’aumento dell’utilizzo di
farmaci durante la gravidanza. Di solito le ragioni per un’esposizione a farmaci durante la gravidanza sono:
- esposizione inconsapevole soprattutto nella primissima parte della gravidanza. Se insorge un effetto
tossico in questo periodo effetto è tutto o nulla per cui se si verifica tossicità di solito non ci sono effetti
sul prodotto del concepimento.
- continuazione di una terapia in presenza di una terapia preesistente (esistono patologie per cui non è
possibile interrompere la terapia neanche per pochi mesi)
- la gravidanza di per sé causa dei problemi specifici che devono essere trattati. Per es anche in donne che
non soffrono di ipertensione, durante la gravidanza può svilupparsi uno stato di ipertensione che oltre a
essere tossico di per sé è anche un fattore di rischio molto elevato per eventi cardiovascolari.
A complicare ulteriormente il quadro è il fatto che si verificano alterazioni fisiologiche durante la gravidanza
che devono sempre essere prese in considerazione quando si parla di terapia farmacologica durante la
gravidanza. Si verificano infatti alterazioni importanti che modificano anche la farmacocinetica:
- il sistema cardiovascolare: si verifica un grosso aumento della gittata cardiaca per aumentare apporto di
sangue al feto + aumento fisiologico della pressione sistolica (ma non arteriosa) e aumento della
frequenza cardiaca. Questo può anche portare, in donne geneticamente predisposte a problemi
cardiovascolari, uno stato di gravidanza potrebbe sommarsi con un rischio genetico e far emergere
problemi patologici a livello cardiovascolare come la tachicardia (anche farmaci usati per controllare la
tachicardia come i β-bloccanti si sono dimostrati tossici per il feto)
- Durante la gravidanza il volume plasmatico raddoppia e c’è più del doppio del contenuto lipidico e
pensando alla farmacocinetica, dato che la maggior parte dei farmaci e delle sostanze tossiche sono
lipofile, questo può determinare una diversa distribuzione dei farmaci nell’organismo e quindi anche un
diverso accumulo
- C’è un cambiamento nella motilità gastrointestinale: sia motilità gastrica che intestinale si riducono per
cui l’escrezione biliare è ridotta
- C’è un grosso aumento del volume di filtrazione glomerulare quindi abbiamo un aumento dell’escrezione
renale del 50% per cui quando si vuole somministrare un farmaco in gravidanza bisogna considerare che
per lo stesso farmaco la farmacocinetica è differente quindi una donna che sta assumendo un farmaco a

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un certo dosaggio quella dose potrebbe non essere più efficace oppure quella dose potrebbe avere degli
effetti tossici
QUINDI è difficile prevedere la farmacocinetica in gravidanza perché cambiano dei parametri fisiologici
rispetto allo stato basale ma l’obbiettivo sarebbe quello di capire quali farmaci possono essere somministrati
con il miglior rapporto rischio-beneficio, capire se c’è una finestra di opportunità (ossia se c’è un momento
della gravidanza in cui un farmaco che produce tossicità in certe fasi della gravidanza può essere
somministrato in modo ragionevolmente sicuro in certe finestre temporali), a quale dosaggio bisognerebbe
utilizzare un farmaco alla luce delle alterazioni fisiologiche che si verificano, per quale motivo somministrare
un farmaco (se ci sono stati patologici tanto importanti da non poter fare a meno della terapia farmacologica
mentre se ci sono alternative per poter intervenire in caso di stati patologici non gravi) e per quale donna (non
riguarda solo la gravidanza ma qualsiasi situazione perché c’è un background genetico che può influenzare la
tossicità legata a un farmaco nelle diverse persone).
Ad oggi le nostre conoscenze riguardo la tossicità dei farmaci in gravidanza sono scarse dato che non c’è la
possibilità di studiare direttamente la tossicità dei farmaci sulle donni in gravidanza. Alle diverse classi di
farmaci, la FDA ha attribuito una classe di rischio
teratogeno:

CLASSE Farmaci per i quali sono stati condotti studi metodologicamente validi e controllati sull’uomo e
A che non hanno mostrato rischi per il feto nel primo trimestre di gravidanza e non c’è evidenza di
rischio neanche per i trimestri successivi. Appartengono a questa classe farmaci definiti “vecchi”
ossia che sono sul mercato da tanto tempo e quindi c’è una casistica molto ampia (più donne
accidentalmente hanno assunto farmaco, non è stata riscontrata/ è stata riscontrata tossicità
minore nel feto).
CLASSE Gli studi sull’animale non hanno evidenziato rischi per il feto ma non ci sono studi
B metodologicamente validi e controllati sulle donne in gravidanza oppure gli studi su animale
hanno rilevato tossicità che però non è stata confermata tramite studi metodologicamente validi
e controllati in donne al primo trimestre e ai successivi → c’è incertezza su quanto potrà
succedere nell’uomo perché ci sono molti elementi di variabilità quando si trasla dall’animale
all’uomo e questo è il motivo per cui la maggior parte dei medici preferisce non prescrivere
farmaci in gravidanza
CLASSE Farmaci per i quali gli studi sull’animale hanno rilevato tossicità per il feto, non sono stati condotti
C studi metodologicamente validi sull’uomo ma i benefici che derivano dalla terapia farmacologica
possono giustificarne l’utilizzo da parte della donna in gravidanza nonostante potenziali rischi per
il feto (sta al medico la decisione di prescrivere il farmaco o meno perché dipende da quello che
il medico considera come rapporto rischio - beneficio per trattare la patologia della madre)
CLASSE Studi sull’uomo e dati di farmacovigilanza hanno evidenziato rischio per il feto ma i potenziali
D benefici del farmaco per la madre potrebbero giustificarne l’utilizzo della donna in gravidanza
CLASSE Studi sull’uomo e sull’animale hanno dimostrato l’insorgere di anomalie fetali e/o c’è evidenzia
X del rischio per il feto dai dati di farmacovigilanza e in questo caso il rischio in gravidanza supera
qualsiasi possibile beneficio.

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Normalmente i farmaci vengono classificati nelle classi di rischio anche in funzione dei trimestri di gravidanza
per capire se esistono finestre di opportunità (che in realtà per la maggior parte dei farmaci non ci sono). Ad
es i retinoidi sono farmaci che hanno un effetto tossico già a livello di impianto e possono causare tossicità
per tutto il periodo della gravidanza. A seconda della patologia che bisogna trattare, si utilizzano dosaggi di
retinoidi diversi (in particolare per la psoriasi si usano dosaggi maggiori rispetto alla cura dell’acne e in
entrambi i casi la somministrazione è sistemica).
- i retinoidi assunti a livello sistemico a dosi per la cura della psoriasi appartengono alla classe di rischio
X per tutti e tre i trimestri di gravidanza per cui l’utilizzo di questi farmaci in gravidanza ha un rischio
teratogeno che supera il beneficio terapeutico per tutto il periodo della gravidanza
- I retinoidi somministrati a livello sistemico a un dosaggio inferiore per la cura dell’acne rappresenta un
rischio per lo sviluppo fetale nel primo trimestre mentre abbiamo una finestra di opportunità nel senso
che lo stesso farmaco dopo il primo trimestre è ragionevolmente sicuro
Gli antiepilettici appartengono alla classe di rischio D quindi si tratta di farmaci per i quali è stata chiaramente
dimostrata una tossicità fetale ma il beneficio terapeutico potrebbe giustificarne utilizzo durante la
gravidanza. Ovviamente si cerca di utilizzare dei farmaci che hanno un meccanismo d’azione differente
evitando la tossicità legata a un meccanismo diretto come quello degli antiepilettici classici. I farmaci delle
classi D e X (es acido valproico per trattamento dell’epilessia o del disturbo bipolare) sono farmaci ad alto
rischio per cui se somministrati in donne in età fertile, è obbligatorio usare contemporaneamente
anticoncezionali. Quello che fa la differenza è la valutazione del rischio-beneficio: se beneficio terapeutico
supera il potenziale teratogeno per quel farmaco, questo giustifica l’utilizzo del farmaco durante la gestazione
altrimenti il medico sconsiglia utilizzo per precauzione. Quando utilizzo in cui beneficio supera il rischio
possiamo avere dati epidemiologici e questo è il motivo per cui farmaci vecchi sono quelli per cui abbiamo più
info riguardo la tossicità dello sviluppo e questi farmaci sono quelli che possono essere assunti in gravidanza
con un certo margine di sicurezza.
Per ricavare informazioni riguardo la tossicità dei farmaci in gravidanza, si possono fare delle considerazioni
meccanicistiche nel senso che se sappiamo esattamente quale è il meccanismo d’azione di un farmaco
teratogeno, possiamo escludere quel farmaco ma cercare alternative che abbiano un meccanismo diverso ma
lo stesso obbiettivo terapeutico. Non si possono condurre studi clinici sulle donne incinte ma esistono dei casi
studio ossia delle evidenze epidemiologiche provenienti da donne che hanno assunto un determinato farmaco
in gravidanza e ovviamente la casistica aumenta per i farmaci in commercio da più tempo mentre per farmaci
nuovi come quelli biologici o biotecnologici non abbiamo alcuna idea riguardo la tossicità in gravidanza
(essendo farmaci di grosse dimensioni presumibilmente non raggiungeranno il feto quindi non avranno effetti
tossici ma si lavora in cieco valutando il rapporto rischio-beneficio).
Quello che si può fare è condurre studi della tossicità dello sviluppo in modelli animali considerando però che
sicuramente lo studio su animale dà studi di massima riguardo l’effetto tossico (nel senso che dicono se
l’effetto tossico c’è o non c’è e quale può essere il tipo di effetto). Ci sono però sicuramente dei grossi limiti
quando si cerca di traslare questi dati da animale a uomo:
- Grossa differenza nella durata della gestazione (267 giorni vs 21 gg) quindi l’esposizione al farmaco copre
una finestra temporale completamente diversa
- Difficoltà nel sovrapporre i periodi dello sviluppo fetale tra roditore e uomo perché una buona parte dello
sviluppo di topo e ratto si verifica anche dopo il parto (ad es nel ratto i primi 9gg dopo la nascita
corrispondono al terzo trimestre di gravidanza nell’uomo)
La fase più delicata della gestazione umana è il periodo embrionale durante il quale si verifica l’organogenesi
quindi si è cercato di capire quali sono i giorni di gestazione nel ratto che potrebbero essere sovrapposti
all’organogenesi nell’uomo e sembra che il periodo vada da sesto al 17esimo giorno (periodo fetale si protrae
anche dopo il parto nel roditore a differenza dell’uomo).
Un esempio che manifesta i limiti della sperimentazione animale è quello della talidomide che è un potente
teratogeno nell’uomo ma non lo è nel topo o nel ratto. Per questo, a partire dalla tragedia della talidomide, è
diventato necessario condurre studi di tossicità dello sviluppo anche nel coniglio (dopo che è stata aperta

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inchiesta, è emerso che coniglio manifestava alterazioni simili a quelle dell’uomo). Un caso analogo si è
verificato anche per gli ACE -inibitori che presentano un potenziale tossico nell’uomo ma non è stato
evidenziato effetto teratogeno né nel ratto né nel coniglio QUINDI una totale assenza di tossicità nell’animale
potrebbe non essere chiara indicazione di assenza di tossicità nell’uomo (se si osserva tossicità nell’animale
dà un’indicazione sfavorevole nella somministrazione del farmaco in gravidanza ma in assenza di tossicità
nell’animale, farmaco viene somministrato all’uomo e nel caso in cui invece si verifica tossicità abbiamo un
grosso problema).
Gli studi di tossicità della riproduzione e dello sviluppo sono chiamati STUDI DI SEGMENTO perché coprono
diversi segmenti per cercare di coprire sia la parte di riproduzione che quella di sviluppo ma anche la parte
dello sviluppo del sistema riproduttivo durante la pubertà (studi trans-generazionali).
• Studi di segmento 1: studi che riguardano tossicità della riproduzione, quindi, valutano fertilità e capacità
riproduttiva. Farmaco viene somministrato prima dell’accoppiamento (60gg prima il maschio e 15gg
prima la femmina) per far emergere eventuale tossicità a livello della fertilità.
• Studi di segmento 2: studi di teratogenesi. Esposizione durante tutto il periodo di gestazione a partire dal
momento dell’accoppiamento fino all’organogenesi (quindi fino al 22esimo giorno). La somministrazione
è cronica quindi tutti gli animali vengono trattati col farmaco in maniera continuativa. Anche in questo
caso si utilizzano 2 specie animali e le valutazioni vengono fatte su tutti i feti e sulla madre per vedere se
c’è tossicità anche nella gestante. Vengono fatti studi istologici, esami macroscopici esterni ed esame
istologico degli organi interni in modo da monitorare tutti gli effetti teratogeni su tutti gli organi
• Studi di segmento 3: studi per la tossicità perinatale e post-natale. Farmaco viene somministrato sul finire
della gestazione e quindi dell’organogenesi (intorno al 18esimo giorno) e si protraggono dopo la nascita
e durante l’allattamento (che nel roditore dura 21gg)
• Studi di segmento 4: studi trans generazionali per ricercare alterazioni del sistema riproduttivo nelle
generazioni successive. La progenie di una prima nidiata viene fatta accoppiare e si fa la seconda
generazione (generazione che si ottiene dall’accoppiamento di due animali della F1) e poi la terza.
Farmaco somministrato durante la gestazione e prosegue sulla progenie fino alla pubertà (intorno al
35esimo giorno postnatale) per cui sono trattamenti cronici lunghissimi.
Sono tutti studi in vivo in specie animali differenti di solito ratto e coniglio (prima del 1961 bastava invece un
solo modello animale). Gli studi 1, 2 e 3 differiscono per la modalità di somministrazione. Il fatto di dividere
per segmenti è legato alla ricerca di una finestra di opportunità (si cerca di capire se l’effetto tossico si
manifesta preferenzialmente in una fase della gravidanza piuttosto che in un’altra quindi dare delle possibilità
di utilizzo di questo farmaco). Questo tipo di studio è l’unico a disposizione per ricavare qualche dato riguardo
la tossicità nell’uomo.
La possibilità di avere dati epidemiologici è fattibile solo per i farmaci che devono inevitabilmente essere
somministrati in gravidanza per controllare situazioni patologiche estremamente gravi. In quel caso, ogni volta
che un farmaco è somministrato in gravidanza, il medico è tenuto ad aggiornare particolari registri in cui sono
annotati tutti gli effetti della somministrazione di un determinato farmaco in gravidanza e sono importi per
dare indicazioni di massima sugli effetti tossici che si manifestano ma anche sui dosaggi (infatti quello che si
può fare è lavorare sul dosaggio per cercare di capire se c’è una dose ugualmente efficace ma meno tossica a
livello fetale). Altri dati epidemiologici sono legati all’utilizzo inconsapevole di farmaci nella prima fase della
gestazione.
Il problema dei farmaci sconsigliati in gravidanza è che verosimilmente non avremo mai informazioni di
tossicità dello sviluppo nell’uomo.
Esiste un elenco di farmaci per i quali è stata rilevata una certa tossicità nello sviluppo e man mano che avremo
a disposizione più dati epidemiologici questo elenco potrà essere aggiornato. Per ognuno di questi farmaci è
stato identificato anche la conseguenza dell’esposizione sullo sviluppo quindi quale è effetto teratogeno in
seguito all’esposizione a questi farmaci.

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→ Tutti gli ANTICOAGULANTI, anche quelli più blandi come la cardioaspirina, sono sconsigliati in gravidanza
perché possono causare emorragia anche nel feto e sono pericolosi soprattutto nell’ultimo trimestre perché
possono causare emorragie al momento del parto. Questa terapia però è importante per prevenire trombosi
(e quindi ictus) nelle donne a rischio pertanto bisogna continuare la terapia. Il Warfarin, ad esempio, può
attraversare la placenta e arrivare nel feto dove ha effetto teratogeno soprattutto nel primo trimestre mentre
la teratogenesi o comunque la tossicità sull’embrione dal secondo trimestre in poi è dose-dipendente quindi
è stato possibile somministrare il farmaco abbassando la dose a partire dal secondo semestre (è più sicuro
dare una dose più bassa piuttosto che sospendere del tutto la terapia) → c’è una finestra di opportunità da
secondo a terzo trimestre. Si cerca poi di monitorare attentamente la parte finale della gestazione per
eventuale emorragie durante il parto. Grazie agli studi di segmento si è valutata anche la sicurezza del farmaco
durante l’allattamento (durante il quale la terapia può continuare).
→ Ci sono donne in cui il trattamento con PSICOFARMACI dà un’ottima risposta terapeutica ma quando si
sospende la somministrazione si verifica il cosiddetto effetto rebound ossia c’è un aggravamento della
sintomatologia psichiatrica. Inoltre, molti problemi psichiatrici come ansia e depressione possono emergere
durante la gravidanza. Per le benzodiazepine (trattamento dei disturbi d’ansia), nel caso di un utilizzo
sporadico non è stato segnalato nessun tipo di effetto teratogeno, il problema è che hanno un effetto diretto
sul feto perché il bambino alla nascita presenta una sindrome da astinenza da benzodiazepine in quanto il
farmaco è attivo anche sul bambino caratterizzata da problemi respiratori (apnee), ipotermia, ipotonia quindi
un’alterazione del tono muscolare. Per risolvere questo problema si cerca di sostituire le benzodiazepine
durante la gravidanza con quelle ad emivita più breve e si consiglia di sospenderle gradualmente nelle
settimane precedenti il parto per evitare sindrome di astinenza. Le benzodiazepine si trasmettono al bambino
anche con il latte materno e questo può portare sedazione nel bambino perché il farmaco arriva al suo SNC.
Anche per gli antidepressivi è stata osservata una sindrome da astinenza per cui si consiglia di sospendere il
trattamento prima del parto + si è visto che esistono classi di antidepressivi più sicure di altre quindi si consiglia
di shiftare verso questo trattamento. Anche in questo caso gli antidepressivi passano al bambino con il latte
materno causando sedazione che può provocare problemi di sunzione anche durante l’allattamento stesso.
Man mano che aumentano i dati disponibili si hanno più indicazioni sugli effetti di farmaci che sarebbe meglio
non sospendere durante la gravidanza grazie alla compilazione di registri in modo da avere informazioni più
puntuali per poter ampliare in futuro la scelta terapeutica durante la gravidanza.

TOSSICITÁ DEL SISTEMA RESPIRATORIO:


La tossicità in questo caso è legata soprattutto a esposizioni ambientali, specialmente sull’ambiente di lavoro,
e la maggior parte della tossicità del sistema respiratorio è da attribuire ad agenti chimici tossici in seguito a
esposizione prolungate. Tra le categorie a rischio troviamo coloro che sono esposti cronicamente al carbone,
i minatori, coloro che lavorano nelle gallerie o si occupano della sabbiatura dei metalli, i lavoratori di tutte le
ditte di demolizione (che sono tutt’oggi a rischio di asbestosi nonostante amianto sia stato proibito dagli anni
’90). Cancro ai polmoni è stato associato anche ad esposizione cronica alle polveri dei metalli pesanti quindi
tutte le persone che lavorano nella lavorazione dei metalli sono a rischio di sviluppare una patologia
polmonare + tutti noi siamo costantemente esposti ad agenti che aumentano il rischio di sviluppare una
patologia polmonare come l’inquinamento dell’aria. Esposizione ad agenti chimici per inalazione può avere
un effetto tossico locale a livello polmonare ma può anche espletare tossicità a livello sistemico (agente
chimico viene assorbito, raggiunge il circolo sanguigno e raggiunge bersagli molecolari nell’organismo). Per
questo motivo la tossicologia che si occupa di tossicità polmonare può essere divisa in due branche:
- tossicologia inalatoria tutta la tossicità che si verifica in seguito all’esposizione attraverso questa via di
esposizione per cui comprende anche tutta la tossicità che si verifica a livello sistemico in seguito
all’inalazione di una sostanza tossica (come accade per il CO)
- tossicologia dell’apparato respiratorio tossicità degli agenti chimici direttamente sui polmoni (che quindi
rappresentano il bersaglio dell’azione tossica della sostanza)

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Il sistema respiratorio viene generalmente suddiviso in tre porzioni differenti: tratto naso-faringeo, tratto
tracheo-bronchiale e porzione polmonare vera e propria. Fino ai bronchiali polmonari non avvengono scambi
gassosi per cui si parla di vie aeree di conduzione. Lo scambio dei gas si verifica esclusivamente nella porzione
più profonda dei polmoni (tratto polmonare) che comprende bronchioli respiratori, dotti alveolari e alveoli.
Le parti che non contribuiscono allo scambio dei gas sono comunque molto importanti perché svolgono
funzioni di protezione e difesa → in quasi tutti i casi, un agente tossico per indurre la comparsa di una patologia
polmonare o sistemica deve raggiungere le porzioni più profonde del polmone e le vie respiratorie sono molto
importanti per allontanare gli agenti tossici.
La prima porzione con cui un agente tossico viene a contatto è quello nasale che ha la funzione di scaldare e
umidificare l’aria ma ha anche una prima funzione di filtrazione di tutte le particelle e le sostanze tossiche
presenti nell’aria. In genere il tratto nasale è composto da due epiteli: respiratorio e olfattivo. L’epitelio
olfattivo si trova esclusivamente nella parte superiore del naso ed è molto importante in tossicologia perché
non solo si interpone col il bulbo olfattivo e quindi proietta direttamente assoni nel SNC (quindi è responsabile
della percezione degli odori) ma è anche direttamente collegato con aree corticali del cervello deputate alla
memoria ed è questo il motivo per cui quando sentiamo un odore lo associamo a dei ricordi. Questo epitelio
contiene anche enzimi in grado di metabolizzare delle sostanze tossiche e questo può impedirne o facilitarne
l’assorbimento. Ad esempio, il problema di molti solventi è che sono in grado di causare tossicità nel SNC
perché vengono metabolizzati dal sistema olfattivo e attraverso il trasporto assonale retrogrado riescono a
penetrare nel SNC e ad espletare un’azione tossica. Ad es lo XILENE (un idrocarburo usato nella parte finale
delle tecniche di immunoistochimica), viene metabolizzato dalle cellule dell’epitelio olfattivo e può avere
un’azione neurotossica perché viene veicolato direttamente nel SNC.
Le vie aeree di conduzione proseguono dalla laringe ai bronchioli terminali. Epitelio di queste vie è composto
principalmente da due tipologie di cellule:
- cellule cigliate: estremamente importanti perché hanno un movimento oscillatorio ondulatorio e sono
fondamentali per permettere la risalita di sostanze tossiche presenti nell’aria che si vengono a trovare
nel muco (dalle porzioni più profonde dei polmoni sostanze tossiche possono essere risalire grazie al
movimento di queste ciglia ed essere espulse tramite espettorazione con la tosse oppure possono essere
ingerite ed eliminate dal tratto gastrointestinale)
- cellule non cigliate: contribuiscono alla produzione di muco. Il muco non ha soltanto funzione meccanica
di intrappolare le sostanze presenti nell’aria ma ha anche funzione meccanica di intrappolare le sostanze
presenti nell’aria ma ha anche funzione di difesa chimica perché nel muco sono presenti sostanze con
azione antiossidante e siccome uno dei meccanismi con cui le sostanze tossiche causano danno
polmonare diretto è la produzione di ROS, la presenza di sostanze antiossidanti permette al muco di
neutralizzare questi agenti antiossidanti
Nell’ultimo tratto della porzione tracheo-bronchiale si trovano cellule particolari presenti solo nei bronchioli
polmonari che sono le CELLULE DI CLARA. Sono particolari perché hanno un altissimo contenuto di enzimi
metabolizzanti che permettono di processare le sostanze chimiche immesse nell’organismo con la
respirazione.
Fino ai bronchioli terminali si parla di SPAZIO ANATOMICO MORTO perché ha principalmente una funzione di
difesa e non contribuisce agli scambi gassosi. Di solito le porzioni dell’apparato respiratorio vengono divise in
generazioni: fino alla XVII generazione non avvengono scambi gassosi mentre dalla XVII generazione in poi
avvengono gli scambi gassosi. Al di là del fatto di inficiare la fisiologia degli scambi di O2 e CO2, il problema
della tossicologia si verifica quando una sostanza raggiunge l’area respiratoria è che a quel punto non ci sono
meccanismi efficienti per rimuoverla per cui in questa zona si verificano fenomeni di accumulo e
sedimentazione quindi specialmente se l’esposizione è prolungata, le sostanze possono causare danno diretto
ai polmoni oppure essere assorbite dall’epitelio respiratorio e raggiungere il circolo sanguigno, andando a
espletare tossicità a livello sistemico. La regione degli scambi gassosi è costituita principalmente dagli alveoli,

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che rappresentano l’80-90% del parenchima polmonare. Alveoli sono costituiti da due tipi di cellule principali
che rispondono diversamente all’azione tossica:
- pneumociti di tipo I: ricoprono quasi il 90% di tutta la parete alveolare. Sono il bersaglio preferenziale
delle sostanze tossiche nel senso che la necrosi dei pneumociti si verifica quasi completamente a carico
dei pneumociti di tipo I
- pneumociti di tipo II: producono il surfattante, importante per mantenere la tensione superficiale e
favorire gli scambi. In caso di necrosi dei pneumociti di tipo I, gli pneumociti di tipo II sono in grado a
dividersi mitoticamente per sostituire le cellule danneggiate. Generalmente non sono suscettibili
all’azione delle sostanze tossiche perché sono metabolicamente molto meno attivi delle cellule di tipo I
Tra le popolazioni interstiziali troviamo i fibroblasti, responsabili della produzione di collagene e quindi della
sostituzione di epitelio funzionale con epitelio fibrotico e poi monociti, linfociti e macrofagi (tutte cellule del
sistema immunitario) di cui i macrofagi sono i più importanti perché deputati a fagocitare le particelle tossiche
che raggiungono la porzione profonda del tratto respiratorio → ruolo fondamentale per allontanamento delle
sostanze tossiche soprattutto in caso di esposizioni prolungate. Quando l’esposizione è breve, macrofagi sono
in grado di asportare ed eliminare attraverso circolo sanguigno e linfatico le particelle tossiche. Quando invece
esposizione è prolungata, i macrofagi non sono in grado di allontanare le particelle dannose ma anzi possono
contribuire al danno polmonare locale.
È importante stabilire dove una sostanza tossica si deposita nel sistema respiratorio perché la zona di
esposizione coincide con la zona in cui l’agente va ad espletare la sua tossicità.
→ Il sito di deposizione di un gas dipende dall’idrosolubilità del gas stesso: più un gas è insolubile, più andrà a
depositarsi negli strati profondi del sistema respiratorio quindi più facilmente raggiungerà gli alveoli
espletando una azione tossica in situ oppure passare nel sistema circolatorio ed essere assorbita a livello
sistemico. Quindi
- Gas molto solubili come i diossidi di zolfo (componenti dell’inquinamento ambientale), generalmente
non riescono a penetrare oltre il tratto nasale quindi per i mammiferi sono relativamente non tossici
- Gas relativamente insolubili come il diossido di azoto (altro gas che contribuisce fortemente a
inquinamento ambientale), che non è estremamente insolubile ma più insolubile del diossido di zolfo,
riesce a penetrare nelle vie aeree più profonde e rimane confinato nella regione centro-acinale quindi il
suo assorbimento non è così elevato
- I gas che danno più problemi sono quelli estremamente insolubili come CO o acido solfidrico. Questo tipo
di gas non solo possono arrivare nella parte più profonda del polmone ma riescono anche a distribuirsi a
livello sistemico.
La differenza tra gas relativamente insolubili e quelli molto insolubili è che quelli molto insolubili, se hanno un
bersaglio a livello sistemico lontano dai polmoni, sono in grado di raggiungerlo molto facilmente mentre quelli
relativamente insolubili solitamente creano danno a livello polmonare (non possono essere assorbiti a livello
sistemico). Il fatto di causare danno locale o sistemico non determina una maggiore o minore sicurezza, questa
dipende dal tipo di danno che viene indotto. Ad esempio esistono gas come il diossido di azoto che non è
solamente potenziale mutageno ma è anche un agente corrosivo per cui è possibile che si verifichino patologie
polmonari per esposizioni prolungate a dosi elevate.
→ Per quanto riguarda le particelle, quello che determina la deposizione in una zona piuttosto che l’altra nel
polmone è la grandezza delle particelle stesse e a seconda di dove si depositano, determinano danni diversi.
Ad esempio, il carcinoma polmonare che riguarda le vie profonde (zona alveolare del parenchima polmonare)
e non tanto le vie aeree di conduzione per cui di solito le particelle che si depositano in profondità nel polmone
determinano maggiore probabilità che insorga nel tempo una neoplasia.
- Particelle di dimensioni > 10 μm vengono facilmente rimosse dal tratto nasale essendo di dimensioni
relativamente grandi poiché di depositano a questo livello e vengono allontanate con il riflesso dello
starnuto. Ne consegue che particelle di dimensioni superiori ai 10 μm molto difficilmente potranno
indurre una danno al sistema respiratorio e sicuramente non verranno assorbite a livello sistemico.

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Possiamo quindi dire che particelle di dimensioni superiori ai 10 μm sono relativamente sicure per quanto
riguarda l’inalazione.
- Particelle che vanno da 10 a 5 μm possono raggiungere la trachea e i bronchi e in questo caso vengono
comunque catturate dal muco ed eliminate tramite il movimento cigliare. Questo tipo di particelle induce
il movimento della tosse quindi particelle di dimensioni tra 5 e 10 μm difficilmente raggiungeranno le
zone più profonde del polmone
- Particelle di dimensioni di 2,5μm: al di sotto di queste dimensioni, abbiamo il fenomeno della
sedimentazione per cui se non vengono intrappolate dal muco, queste particelle possono raggiungere la
parte alveolare determinando potenzialmente delle patologie. Ad esempio le particelle di carbone sono
così piccole che sedimentano negli alveoli e in caso di esposizione prolungate determinano patologie.
Molto pericolose sono anche le fibre di amianto e silice che riescono a raggiungere la parte più profonda
dei polmoni dove svolgono un’azione irritante continua degli alveoli provocando necrosi degli pneumociti
di tipo I che non riesce ad essere compensata dalla capacità mitotica delle cellule di tipo II e questo col
tempo determina la deposizione di tessuto fibroso. Tessuto fibroso non è funzionale agli scambi gassosi
determinando quindi una riduzione della capacità polmonare.
La patologia causata da diverse esposizioni ambientali a questi agenti è graduale nel senso che si parte da
un’iniziale fibrosi sempre accompagnata da una fortissima infiammazione a livello locale con attivazione di
macrofagi, linfociti e monociti e questa infiammazione continua nel tempo può determinare anche lo sviluppo
di neoplasie.
La deposizione delle particelle nelle diverse porzioni del sistema respiratorio può essere influenzata anche da
altri fattori. Ad esempio con una respirazione a riposo, la maggior parte delle particelle che vengono a contatto
col sistema respiratorio viene eliminata senza difficoltà mentre in caso di respirazione forzata (che si verifica
ad esempio durante uno sforzo fisico intenso), tende ad aumentare la sedimentazione delle particelle a livello
alveolare quindi la tipologia di respirazione incide moltissimo su quanto dell’agente tossico viene depositato
a livello polmonare. Per questo, è sempre sconsigliato fare esercizio fisico in prossimità di una strada trafficata
(in questo caso impatto e sedimentazione del particolato che respiriamo è molto maggiore rispetto a una
respirazione a riposo). Generalmente a riposo in una intera giornata la ventilazione è di 9-13 m3 di aria mentre
durante esercizio fisico intenso si può arrivare a 60 m3 di aria quindi non solo inspiriamo molta più aria ma
favoriamo la deposizione nelle più basse vie aeree, quindi, c’è una maggiore probabilità di sedimentazione
negli spazi profondi del sistema respiratorio.
Un altro fattore che promuove la sedimentazione delle particelle è il fatto di trattenere il respiro e questo è
importante soprattutto nelle persone che fumano perché trattenendo il fumo all’interno dei polmoni si ha
una maggiore deposizione delle particelle tossiche contenute nella sigaretta rispetto a una persona che non
trattiene il fumo quindi anche modalità di respirazione può facilitare o promuovere allontanamento delle
sostanze tossiche nell’aria.
È stato anche dimostrato che alcune condizioni patologiche possono favorire la deposizione delle sostanze
tossiche a livello polmonare. Ad esempio, le sostanze che soffrono di bronchite cronica hanno maggiore
rischio di deposizione di sostanze tossiche nel sistema respiratorio perché c’è una forte sbilancio nella
produzione di muco e il muco in eccesso che viene prodotto non viene facilmente espulso dal tratto
respiratorio e può trattenere molte sostanze tossiche nel parenchima polmonare.
Altro fattore che promuove la deposizione delle sostanze tossiche nell’aria è esposizione cronica a materiali
irritanti. Ad esempio il fumo di sigaretta può produrre nel tempo broncocostrizione che di per sé limita la
dilazione dei polmoni e quindi una efficiente eliminazione dei gas. L’accumulo di tossici nel parenchima
polmonare causa le più gravi patologie polmonari che raramente si risolvono bensì cronicizzano. Nel caso di
molte patologie polmonari si manifestano quando il parenchima polmonare è già stato molto inficiato per cui
la reversibilità della patologia è molto improbabile rispetto ad altri situazioni

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Anche a livello di sistema respiratorio, il nostro organismo è dotato di efficienti sistemi di difesa e la principale
difesa polmonare è la CLEARANCE delle particelle. Allontanamento delle particelle dal sistema respiratorio
può avvenire tramite tre tipologie di clearance:
• Clearance nasale: la porzione anteriore del naso è molto più secca perché non presenta un’elevata
concentrazione di muco per cui se una sostanza si deposita nel primo tratto nasale, questa verrà quasi
sicuramente rimossa, non penetrerà nelle vie aeree più profonde. Quando una sostanza raggiunge
l’epitelio mucoso e viene inglobata nel muco, può essere sicuramente espulsa nel caso in cui dovesse
indurre il riflesso dello starnuto o con la deglutizione. In questo caso, se la particella è responsabile di un
danno diretto a livello polmonare e il suo bersaglio è presente esclusivamente nel polmone, una
deviazione delle particelle a livello del tratto gastrointestinale può rappresentare un meccanismo di
difesa. Particelle estremamente solubili nel muco, possono essere assorbite direttamente nell’epitelio
nasale e raggiungono il circolo sanguigno per essere poi rimosse. A livello nasale quindi abbiamo un
meccanismo di difesa che determina allontanamento in termini assoluti dall’organismo ma abbiamo
anche la possibilità di deviare, allontanare le particelle dal tratto respiratorio vero e proprio portandole
a livello gastrointestinale o del circolo sistemico
• Clearance tracheo-bronchiale: tutto il tratto a partire dalla laringe in poi è rivestito da ciglia che sono
costantemente in moto ondulatorio e sono in grado, una volta che le particelle sono state inglobate nel
muco, di far risalire il muco vero laringe e faringe e in questo caso è possibile che le sostanze intrappolate
nel muco vengano espulse con la tosse oppure possono essere inghiottite e passare nel tratto
gastrointestinale. La clearance tracheo bronchiale per particelle tra 5 e 10 μm che riescono a superare il
tratto nasale è piuttosto efficiente. È stato visto infatti che in soggetti sani, anche le particelle che
raggiungono le vie aeree di conduzione vengono eliminate in 24-48 ore (quindi nel caso in cui si verifichi
un accumulo, il nostro sistema respiratorio in 48 ore è in grado di allontanare anche particelle che hanno
superato il tratto nasale). Persone che soffrono di bronchite invece hanno una clearance tracheo-
bronchiale limitata così come anche in caso di infezioni.
• Clearance polmonare: una particella che raggiunge i bronchioli respiratori della XVII generazione, questa
non può essere espulsa all’esterno o nel tratto gastrointestinale. A livello polmonare entrano in azione i
macrofagi che fagocitano le particelle tossiche che vengono poi rimosse dal circolo linfatico. Anche
questo meccanismo di clearance funziona in caso di esposizioni acute e dosaggi non estremamente
elevati anche di particelle di dimensioni di 2,5μm (quindi potenzialmente molto dannose). Particelle
estremamente piccole possono attraversare la membrana epiteliale degli alveoli (che è estremamente
sottile perché il suo compito è di facilitare lo scambio gassoso), entrare nel circolo sanguigno ed essere
allontanate.
Ovviamente questi tre meccanismi di clearance funzionano con meccanismi differenti. In generale, l’unico
vero modo con cui il sistema respiratorio può liberarsi delle sostanze tossiche è espulsione o tramite lo
starnuto delle particelle di diametro più grosso o tramite la tosse. La clearance vale e ha senso solo nel caso
di particelle con un’azione tossica a livello polmonare.
Il danno del parenchima polmonare si verifica di solito con tre modalità diverse:
- aumento dello stress ossidativo: si ha la produzione di radicali liberi a livello del parenchima polmonare
che sono responsabili di molta della tossicità del sistema respiratorio ed è questo il motivo per cui già nel
muco sono presenti sostanze con azione antiossidante (queste sostanze iniziano a proteggere verso lo
stress ossidativo)
- alterazioni dell’omeostasi del collagene: anche a livello polmonare, come nel fegato, in caso di continua
esposizione ad agenti tossici irritanti la capacità rigenerativa degli pneumociti può essere superata
dall’azione dell’agente chimico e questo determina l’attivazione delle cellule interstiziali, in particolare i
fibroblasti, che depositano collagene. Quando gli pneumociti vengono sostituiti da tessuto fibroso, si ha
una riduzione degli scambi gassosi a livello polmonare ma anche una riduzione della capacità di
rimuovere CO2 a livello sistemico determinando sofferenza di altri organi.

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- attivazione del sistema immunitario: a livello fisiologico, in qualsiasi sede dell’organismo, ha azione di
difesa protettiva quando l’attivazione è limitata nel tempo ma quando si ha un’attivazione cronica del
sistema immunitario (= sistema immunitario non si spegne ma l’infiammazione diventa cronica), anziché
essere risolutiva quasi sempre contribuisce alla progressione della patologia. Molte (se non tutte) le
patologie polmonari conosciute sono caratterizzate da una grossissima componente infiammatoria per
attivazione cronica delle cellule interstiziale che supporta danno cellulare nel polmone
Questi meccanismi non si verificano contemporaneamente e se non vengono efficacemente contrastati
dall’organismo danno luogo alla forma più lieve di patologia polmonare che è la BRONCOCOSTRIZIONE, una
condizione in cui la muscolatura liscia che riveste il polmone diventa più rigida quindi la capacità di dilatazione
polmonare è fortemente compromessa. La broncocostrizione sicuramente è indotta da esposizione cronica
ad agenti irritanti, si tratta di una condizione patologica lieve associata però a un maggiore rischio di sviluppare
patologie polmonari dal momento che in questa situazione i meccanismi di clearance polmonare sono
fortemente compromessi per cui il parenchima polmonare è molto più sensibile all’azione irritante delle
sostanze tossiche (broncocostrizione è un fattore predisponente alla comparsa di altre patologie polmonari
perché facilita la deposizione di particelle nei polmoni). Una broncocostrizione limitata nel tempo viene
sperimentata in caso di attacco asmatico: individui asmatici hanno una muscolatura liscia a livello del
parenchima polmonare che reagisce in maniera esagerata anche a stimoli lievi per cui facilmente sviluppano
uno stato transitorio di broncocostrizione quando vengono a contatto con un agente chimico irritante.
L’ipersensibilità degli individui asmatici
si evidenzia anche in seguito a uno
sforzo fisico intenso dal momento che
impatto dell’aria sui polmoni durante lo
sforzo può essere sufficientemente
irritante da indurre un attacco asmatico
(quindi broncocostrizione improvvisa).
Gli atleti che praticano sport di
resistenza sono più soggetti a sviluppare
asma rispetto al resto della popolazione
perché il quantitativo di aria immesso
durante uno sforzo fisico prolungato ha
un forte impatto sul parenchima
polmonare inducendo asma anche in
soggetti cui non era mai stato
diagnosticato prima.
Nell’alveolo normale epitelio è intatto
costituito da pneumociti di tipo I (più
funzionali quindi più soggetti all’azione
tossica), di tipo II e macrofagi che si possono trovare all’interno dell’alveolo ma solitamente sono confinati
nello spazio interstiziale. Quando si verifica un danno acuto (quindi un danno improvviso a livello polmonare)
si ha desquamazione dell’epitelio bronchiale → si desquama un epitelio che già di per sé è sottile facilitando
il passaggio di sostanze tossiche e alterando lo scambio gassoso con il sistema circolatorio. In caso di danno
acuto pneumociti di tipo I vanno incontro a necrosi mentre le cellule di tipo II non subiscono localmente il
danno da agenti tossici e vanno incontro a divisione mitotica per rimpiazzare le cellule necrotiche. Si ha un
forte richiamo di neutrofili e macrofagi nell’alveolo quindi conseguenza di un danno polmonare acuto è sempre
una forte infiammazione delle vie aeree più profonde. Infiammazione rappresenta sempre un primo tentativo
di allontanare l’agente tossico e risolvere il danno quindi in acuto infiammazione potrebbe essere risolutiva
MA il problema sorge se l’esposizione al tossico è prolungata perché infiammazione cronica contribuisce al
danneggiamento del tessuto polmonare → per i polmoni a fare la differenza più che la dose è l’esposizione:

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quando esposizione supera la capacità dell’organismo di allontanare l’agente tossico, facilmente si verificherà
una patologia a livello polmonare.
Patologia polmonare estremamente grave è l’EDEMA: condizione patologica caratterizzata da un aumento
della permeabilità della membrana alveolo-capillare. Si tratta di una membrana estremamente sottile (in
modo da facilitare gli scambi gassosi) per cui se viene danneggiata si ha un ulteriore aumento della
permeabilità che determina accumulo nei polmoni (negli alveoli) di liquidi provenienti dal circolo linfatico e
sistemico. Il danno è estremamente grave e la capacità di risoluzione dipende da quanto viene danneggiato
epitelio alveolare: in presenza di un danno modesto, intervenendo tempestivamente si può risolvere la
situazione ma nella maggior parte dei casi in cui si arriva a osservare edema polmonare, è avvenuta una
fortissima desquamazione dell’epitelio alveolare per cui recupero completo è molto difficile. Inoltre, quando
si verifica un danno acuto di questo tipo, si attivano a livello di organismo dei meccanismi riparativi esagerati
nel senso che in seguito a una desquamazione dell’epitelio polmonare tanto grave da permettere ingresso di
liquidi nei polmoni, interviene un meccanismo riparativo che depone un epitelio esageratamente più spesso
dell’originale che determina una forte riduzione degli scambi gassosi → edema viene risolto ma non si
ripristina una capacità di ventilazione pari a quella iniziale. Tra gli agenti la cui inalazione è stata chiaramente
associata alla comparsa di edema polmonare troviamo HCl e ammoniaca, per questo il laboratorio bisogna
lavorare sotto cappa chimica (perché esposizione in questo contesto è cronica anche se magari a dosi sicure).
Questo perché HCl e ammoniaca causano uno sfaldamento progressivo della barriera epiteliale alveolare. Il
problema è che il danno è progressivo per cui magari all’inizio non si osservano sintomi, la sintomatologia si
manifesta quando la desquamazione dell’epitelio è diventata molto importante (manifestazione improvvisa
che può anche essere fatale).
Il danno polmonare a volte è una conseguenza di una risposta polmonare a un danno acuto: in seguito alla
continua sollecitazione di agenti tossici che causano un danno all’epitelio alveolare, si ha deposizione di
tessuto fibroso a livello polmonare (FIBROSI POLMONARE) = tessuto polmonare viene sostituito con tessuto
fibrotico che non è assolutamente adatto a permettere gli scambi gassosi → perdita della capacità funzionale
del polmone. Inoltre, non solo si ha una riduzione degli scambi gassosi ma si ha anche una maggiore rigidità a
livello polmonare perché il tessuto fibrotico è poco elastico quindi polmone non si può dilatare in maniera
efficiente. Le condizioni di fibrosi sono anche caratterizzate da costante infiammazione immunitaria a livello
locale. QUINDI deposizione di tessuto fibrotico a livello polmonare in pratica ha tre effetti:
- riduzione della capacità funzionale del polmone per via della riduzione della superficie disponibile per gli
scambi gassosi
- irrigidimento della parete alveolare per cui più è estesa la fibrosi più rigido sarà il parenchima polmonare
e quindi meno efficiente la ventilazione
- infiammazione cronica degli alveoli
Altro danno che si può verificare per esposizione cronica a sostanze tossiche è ENFISEMA POLMONARE:
condizione patologica caratterizzata dalla distruzione di alveoli respiratori dovuta a continua disgregazione
delle pareti degli alveoli stessi. Dato che le pareti degli alveoli si disgregano a causa dell’esposizione continua
a una sostanza tossica, si formano dei buchi nel parenchima polmonare in cui si accumulano bolle d’aria. Nei
soggetti affetti da enfisema polmonare, un polmone è molto più espanso, lasso e meno denso e gli scambi
sono molto meno efficienti. Infatti fisiologicamente, man mano che si scende verso gli alveoli, questi sono
molto più stretti in termini di diametro in modo da massimizzare la pressione parziale di ossigeno e quindi
facilitare il rilascio di ossigeno al sistema circolatorio. Quando si verifica enfisema polmonare, aria viene
immessa nei polmoni ma l’epitelio polmonare è molto meno denso rispetto alla situazione fisiologica e questo
sfavorisce gli scambi. Inoltre, dove si verifica la distruzione degli alveoli si formano delle bolle d’aria che
rimangono intrappolate quindi l’aria si accumula nei polmoni senza essere scambiata per cui non solo lo
scambio dei gas è inficiato ma anche la capacità di ricircolo dell’aria. Un fattore di rischio singolo che è stato
associato a una maggiore probabilità di sviluppare enfisema è fumo di sigaretta soprattutto nei grandi
fumatori (che arrivano a 40 sigarette al giorno per diversi anni). Anche in questo caso si osserva a livello

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polmonare una grave infiammazione cronica per la presenza di macrofagi e neutrofili residenti per cui
qualsiasi danno si verifichi a livello polmonare, promuove una fortissima infiammazione a livello dell’organo.
Tra le conseguenze dell’esposizione ad agenti tossici, una delle patologie più gravi è il CANCRO POLMONARE.
Tra i maggiori fattori di rischio singoli troviamo fumo di sigaretta, che aumenta il rischio di sviluppare tumore
al polmone da 10 a 20 volte. Questo rischio rientra se esposizione viene sospesa, il problema è che nel fumo
di sigaretta ci sono una serie di sostanze cancerogene che si comportano sia da iniziatori che da promotori
per cui in persone geneticamente disposte, il fumo può funzionare anche da promotore. Le sostanze
mutagene presenti nella sigaretta in concentrazioni tali da dare un danno polmonare se assunte cronicamente
sono ammoniaca, formaldeide, nitrosammine (ossia le sostanze che si sviluppano nella carne grigliata bruciata
o il nero che si forma quando si riutilizza l’olio per friggere senza cambiarlo), catrame, metalli pesanti e
arsenico. QUINDI non è la nicotina a essere responsabile del cancro ma tutti questi agenti mutageni che
sollecitano il parenchima polmonare. Altre sostanze chiaramente associate allo sviluppo di cancro polmonare
sono amianto, polveri e fumi dei metalli (quindi tutte persone che lavorano in aziende metalmeccaniche sono
a rischio così come coloro che lavorano nell’ambito della saldatura), molti gas di scarico soprattutto delle stufe
a carbone e la silice (anche questa è un minerale associato a un maggior rischio di sviluppare cancro ai
polmoni). Nella maggior parte dei casi si tratta di esposizioni occupazionali e queste persone sono esposte
cronicamente nell’ambiente di lavoro + c’è la possibilità di un’azione sinergica (se una persona è esposta a più
sostanze alla volta aumenta molto il rischio di sviluppare cancro ai polmoni). A differenza di altri tipi di cancro,
quello ai polmoni è subdolo perché non abbiamo biomarcatori a disposizione per cui non è possibile fare una
diagnosi precoce. La latenza è molto lunga e la patologia si manifesta quando ci sono già difficoltà respiratorie
o un espettorato strano ma questo quando si è già in uno stadio avanzato di malattia. Unica analisi possibile
è la spirometria che può evidenziare un deficit funzionale in presenza di un danno funzionale grave (sarebbe
bene avere a disposizione uno screening precoce rispetto alla comparsa di danno funzionale). Cancro alle vie
aeree superiori a differenza del carcinoma polmonare che vede coinvolti gli alveoli è molto meno comune.
Sono state evidenziate nei lavoratori tipologie rare di cancro nel tratto nasale soprattutto per esposizioni a
solventi come alcol isopropilico o in persone esposte alla lavorazione del legno o del cuoio perché ci sono
possibili agenti cancerogeni nelle polveri di questi materiali.
Gli agenti tossici che causano un danno a livello polmonare sono praticamente tutti agenti chimici e si tratta
in particolare di inquinanti ambientali, agenti chimici cui si è esposti nell’ambiente di lavoro e diserbanti.
→ INQUINAMENTO ATMOSFERICO è definito e la presenza nell’aria che respiriamo di sostanze che possono
causare danni a essere umano, animali o vegetazione. Possono essere sia sostanze normalmente presenti
nell’atmosfera che però diventano dannose oltre certi livelli oppure sostanze immesse in atmosfera dall’uomo
in seguito alle lavorazioni industriali soprattutto in ambito siderurgico e petrolchimico, al traffico veicolare e
all’utilizzo di combustibili fossili quali petrolio e carbone. Esistono però anche emissioni naturali che
contribuiscono all’inquinamento atmosferico come incendi (immettono in atmosfera una serie di composti
con potenziale molto tossico come la diossina nel caso di agenti boschivi), eruzioni vulcaniche e attività
vulcaniche sulla crosta terrestre che in genere immettono nell’atmosfera ossidi di zolfo. Anche l’attività del
sottosuolo come le riserve di metano è responsabile dell’immissione di sostanze tossiche che contribuiscono
all’inquinamento atmosferico. Ci sono 5 componenti che sono responsabili del 98% dell’inquinamento
atmosferico:
1. Monossido di carbonio: immesso in atmosfera essenzialmente in seguito ad attività antropogeniche
come traffico veicolare, gas per la cottura dei cibi e impianti di riscaldamento
2. Ossidi di azoto: origine essenzialmente antropogenica, soprattutto gas di scarico delle automobili. A
livello atmosferico vanno incontro a una reazione chimica che genera ozono
3. Ossido di zolfo: deriva dall’attività industriale e vulcanica
4. Materiale particolato = tutte le particelle in sospensione nell’atmosfera di origine antropogenica (non
comprende gas). Possono avere diametro differente e a seconda del diametro possono sedimentare e

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raggiungere parti diverse dell’apparato respiratorio e causare quindi condizioni patologiche differenti.
Sono i composti che attirano più l’attenzione perché sono quelli con il più alto potenziale cancerogeno
5. Piombo: in seguito alla proibizione dell’utilizzo di piombo come additivo alla benzina i suoi livelli in
atmosfera si sono ridotti del 90% quindi rispetto a prima degli anni ’80 oggi il piombo contribuisce in
percentuale molto più bassa all’inquinamento atmosferico
La composizione dell’inquinamento non è uguale ovunque ma a seconda delle zona queste componenti
possono essere presenti in concentrazioni differenti per es in prossimità di aree vulcaniche o di fumarole ci
sarà una prevalenza di ossidi di zolfo mentre a livello urbano, nelle grandi città, ci sarà una grossa prevalenza
di CO e di ossido di azoto con una produzione secondaria di ozono.
Ci si riferisce al materiale particolato con la dicitura PM e in particolare si considera il PM10, che comprende
tutte le particelle di diametro inferiore a 10μm, perché si tratta delle particelle che possono entrare in
contatto con l’apparato respiratorio. Tra 10 e 5μm vengono a contatto solo con le vie aeree superiori quindi
vengono espulse senza creare danni (per quanto riguarda uomo sono pressoché innocue). La parte del PM10
che crea più problema è il PM2.5 (tutte le particelle di diametro inferiore a 2,5μm) perché queste particelle
arrivano agli alveoli, possono sedimentare, molte hanno in potenziale cancerogeno quindi in caso di
esposizione cronica potrebbero avere effetti a lungo termine sulla salute della popolazione. Attenzione delle
autorità sanitarie si sta spostando verso PM2.5 per cercare di capire quali sono le sostanze che compongono
questa sottoclasse del PM10 e quindi come ne può ridurre l’immissione nell’atmosfera. Del PM10
normalmente il 60% è rappresentato da particelle con diametro inferiore a 2.5 μm (= 60% è PM2.5).
La soglia di sicurezza è stata stabilita empiricamente (e non sperimentalmente) in una direttiva del 1999 e
viene considerata sufficientemente sicura: possono essere considerati ragionevolmente sicuri livelli di PM10
inferiori ai 20 μg/m3 di aria con la possibilità di sforare sopra i 50 μg/m3 di aria solo 7 volte all’anno. Nelle aree
urbane PM10 è sempre intorno a 20 - 25 μg/m3 di aria ma ci sono situazioni in cui PM10 è estremamente
elevato per es nelle miniere e nelle gallerie arriva a valori intorno a 4000 μg/m3 di aria per cui in questo caso
rischio è molto maggiore per i lavoratori in queste sedi anche perché sperimentano un sommarsi di fattori di
rischio e agenti che possono lavorare in maniera sinergica per creare un danno all’apparato respiratorio. A
volte PM10 è più alto nelle abitazioni e nei centri commerciali rispetto a quanto non avvenga nelle aree aperte
per un’errata areazione. Le ultime rilevazioni del 2019 hanno mostrato che nei centri commerciali non
adeguatamente areati i valori di PM10 possono raggiungere i 400 μg/m3 di aria (la soglia a rischio è considerata
100 μg/m3 di aria). Nonostante l’allarmismo che c’è ogni tanto verso il PM10, i valori che respiriamo oggi sono
molto più bassi rispetto a quelli della prima e seconda rivoluzione industriale. Valori di PM10 intorno a 20 - 25
μg/m3 di aria rappresentano un rischio per alcune popolazioni ossia bambini, anziani e individui che soffrono
di bronchiti e asma mentre i valori di PM10 settati così come in questo momento per un adulto sano non
rappresentano un grande fattore di rischio. Bisognerebbe però capire cosa succede quando questo
particolato, che resta nell’atmosfera per un tempo che varia a seconda delle dimensioni, precipita perché se
arriva al suolo potrebbe creare problemi alla vegetazione e alla catena alimentare. L’inquinamento ambientale
e il suo impatto sulla salute umana e sull’ambiente è un argomento molto dibattuto dalle autorità e ci sono
moltissimi studi di proiezione riguardo l’andamento dell’inquinamento in futuro. Sono state fatte in
particolare delle previsioni fino al 2050 secondo cui i paesi che fanno parte dell’Organizzazione per la
Cooperazione e lo Sviluppo Economico, che abbracciano una serie di linee guida e condotte, sembra che
avranno anche nel 2050 un PM10 paragonabile a quello attuale. MA i paesi che non sottostanno a queste
regole in materia ambientale, in prospettiva avranno un aumento del numero di morti causati da
inquinamento ambientale e materiale particolato presente in atmosfera. Per migliorare la situazione
bisognerebbe armonizzare la condotta a livello mondiale (alcuni paesi rispettano le regole ma altri emettono
in maniera indiscriminata questi materiali a livello ambientale causando un danno a tutti quindi unico vero
modo per ridurre inquinamento ambientale non è introdurre regole più stringenti ma far applicare le leggi già
presenti a livello mondiale). Oltre alla salute umana, inquinamento ha grossi impatti ambientali anche a causa

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delle piogge acide = presenza nelle piogge di ossidi di azoto e di zolfo che hanno una fortissima azione
corrosiva nei confronti degli edifici.
→ ABSESTO: minerale ampiamente utilizzato negli anni ’90 nell’industria edile (mischiato con il cemento per
sfruttarne le proprietà come isolante termico e acustico), nei cantieri navali soprattutto per produrre navi
militari, per la produzione di tessuti e capi di abbigliamento (fino agli anni ’90 tute dei vigili del fuoco erano
completamente in asbesto per sfruttarne le proprietà ignifughe) → c’è stata sicuramente fino agli anni ’90
un’elevatissima esposizione di diverse categorie di lavoratori all’asbesto. Le categorie più colpite sono state
sicuramente lavoratori impegnati nell’estrazione e lavorazione dell’asbesto, nell’edilizia e nei cantieri navali e
infatti in questi individui è stata rilevata un’incidenza di alcune patologie estremamente più alta rispetto alla
popolazione generale. In realtà, nonostante l’utilizzo di amianto sia proibito dal ’92 in Italia, sono ancora oggi
delle popolazioni che continuano a essere a rischio di esposizione a questo minerale che sono i lavoratori delle
imprese di demolizione perché ad oggi, gli ultimi censimenti hanno evidenziato che sul territorio italiano ci
sono 40mln di tonnellate di amianto da modificare soprattutto negli edifici costruiti prima degli anni ’90. Altro
problema è che amianto continua a essere utilizzato negli USA come materiale edile per cui patologie legate
all’amianto non spariranno in futuro perché negli USA è stato reintrodotto nel 2019. Ad oggi, dopo che in Italia
è stato abolito negli anni ’90, negli USA 10 000 persone all’anno muoiono di mesotelioma pleurico, un tumore
che è stato chiaramente associato all’esposizione all’asbesto. Malattie polmonari chiaramente associate
all’esposizione ad amianto sono 3:
- Asbestosi ossia una forma di fibrosi interstiziale estremamente grave
- Carcinoma polmonare (in caso di esposizione per più di 20 anni). Spesso questo tumore è un’evoluzione
dell’asbestosi
- Mesotelioma pleurico maligno
rischio di sviluppare una o l’altra di queste condizioni dipende dalla lunghezza e dal diametro di queste fibre
(asbestosi: fibre di 2μm, mesotelioma: 5μm e carcinoma polmonare: 10μm). Sebbene la prognosi sia
leggermente diversa, tutte e tre queste patologie sono estremamente gravi e irreversibili (anche asbestosi,
pur non essendo una forma di cancro, è irreversibile e oltretutto tende a progredire anche in seguito alla
sospensione dell’esposizione).
Problema dell’esposizione cronica continua è la continua introduzione di queste fibre nei polmoni per cui la
capacità di clearance polmonare è inferiore all’esposizione alla sostanza → forte attivazione dei macrofagi a
livello alveolare nel tentativo che i macrofagi eliminino le fibre per fagocitosi. Non è però possibile eliminare
tutte le fibre fagocitate e una volta raggiunti gli alveoli per fagocitare le fibre, i macrofagi restano intrappolati
lì senza poter raggiungere il circolo sistemico o linfatico ed eliminare quindi completamente le fibre di asbesto.
MA rimangono intrappolati nell’alveolo in una condizione di attivazione per cui rilasciano una serie di
molecole, soprattutto citochine proinfiammatorie, che stimolano la produzione di collagene e la deposizione
di tessuto fibroso → riduzione dell’elasticità polmonare e dell’efficienza degli scambi gassosi e questa
situazione rappresenta un ulteriore fattore di rischio se l’esposizione dovesse continuare perché la fibrosi
riduce anche la clearance polmonare per cui la capacità del polmone di eliminare le fibre con cui entra in
contatto diventa sempre minore e quindi se l’esposizione continua l’accumulo di fibre diventa sempre più
importante. Inoltre, deposizione di queste fibre a lungo andare può causare danni al DNA (azione mutagena)
di solito a causa della produzione di radicali liberi e questo può dar luogo a un evento di iniziazione
cancerogena. Il MESOTELIOMA PLEURICO è stato sicuramente associato all’esposizione ad asbesto e la cosa
subdola di questo tipo di cancro è che quando compaiono i sintomi (quali dispnee marcate ed altre chiare
alterazioni della funzionalità polmonare) il tumore è già in uno stadio avanzato e ha già invaso i tessuti
circostanti per cui la prognosi è infausta (di solito è inferiore a un anno dalla diagnosi). Si tratta quindi di
situazioni che riguardano una popolazione ristretta ma estremamente gravi e impattanti negativamente sulla
salute per cui è importante controllare il livello di esposizione e sostituire asbesto con fibre sintetiche che
hanno minore tossicità.

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→ SILICE: è un cristallo che rappresenta la componente più abbondante della crosta terrestre dopo l’ossigeno.
Esposizione maggiore riguarda gli addetti all’estrazione e lavorazione della silice ma anche i lavoratori delle
miniere essendo la silice a così alta concentrazione nel suolo. Grossa esposizione anche dei lavoratori che
lavorano nelle cave, in particolare di granito, e quelle impiegate nella sabbiatura dei metalli. I fattori che
influenzano la tossicità della silice sono:
- dimensione delle particelle: particelle più piccole riescono a raggiungere gli strati più profondi del
polmone dove sedimentano
- dose di silice cui siamo esposti perché a seconda della dose e dell’esposizione si possono manifestare due
patologie differenti:
a. Silicosi acuta: causata dall’esposizione a dosi estremamente elevate per un tempo relativamente
breve (di mesi o pochi anni). Patologia si manifesta improvvisamente con dispnea, febbre, tosse e un
forte calo ponderale (= grossissima perdita di peso) → infiammazione non è più solo locale ma
sistemica, estesa. Il problema è che manifestandosi in maniera improvvisa, senza fasi prodromiche o
sintomi più leggere, quando viene diagnosticato non c’è possibilità di trattamento quindi la prognosi
è infausta per cui non si può bloccare il decorso della patologia
b. Silicosi cronica: legata ad esposizioni alla silice per un lungo lasso di tempo (10 anni) solitamente sul
luogo di lavoro. Decorso della patologia è asintomatico per cui tutti i test di spirometria e valutazione
della funzionalità polmonare non evidenziano riduzioni anche quando a livello radiologico la patologia
è evidente. Nel caso dell’asbesto si vedono le fibre intrappolate nei macrofagi o si vedono fibre di
asbesto che producono un rivestimento proteico, come se rimanessero intrappolate negli alveoli
mentre nel caso della silice, si osservano grossi noduli nel polmone in particolare nelle aree superiori
dei polmoni e di solito questi noduli sono circondate da bolle di enfisema ossia bolle d’aria che si
formano a causa della rottura della membrana alveolare. Inoltre, le persone affette da silicosi cronica
hanno un maggiore rischio di sviluppare infezioni polmonari siccome la clearance è fortemente
ridotta (→ sono molto più soggetti al rischio di sviluppare tubercolosi o polmonite per cui la morte
può insorgere in seguito a questi problemi)
La tossicità inalatoria:
La tossicità che si verifica in seguito all’inalazione di alcuni gas si manifesta a livello sistemico. Riguarda
soprattutto i gas asfissianti che sono in grado di privare organismo di ossigeno.
→ MONOSSIDO DI CARBONIO:
C’è un grosso rischio di infezioni involontarie legato a un malfunzionamento degli impianti di riscaldamento
come stufe e scaldabagno. I dati epidemiologici mostrano che si tratta di infezioni abbastanza frequenti e c’è
una differenza tra i vari paesi:
RICOVERI DECESSI Negli USA e in Inghilterra non ci sono ricoveri ma moltissimi
ITALIA 6000/anno 350/anno decessi l’anno poiché le regole di manutenzione ordinaria e per
Lombardia 753 11 quanto riguarda la disposizione degli impianti di riscaldamento
USA - 5600/anno (ad es è necessaria una corretta areazione ove gli impianti di
INGHILTERRA - 1000/anno riscaldamento vengono installati in modo da tamponare eventuali
malfunzionamenti) in Italia sono molto rigide. In altri paesi queste accortezze non vengono prese per cui
quando si verifica un guasto le condizioni di CO che vengono raggiunte sono così elevate da causare il decesso
prima ancora del ricovero. Sul totale dei casi di intossicazione circa il 95% è da attribuire a un difetto degli
impianti di riscaldamento e solo il 5% è da imputare a casi di suicidio. Ciascun gruppo eme della emoglobina
è in grado di legare una molecola di ossigeno per cui ogni molecola di emoglobina può trasportare dai polmoni
ai tessuti 4 molecole di ossigeno. Il legame tra O2 e Hb è cooperativo nel senso che ogni volta che una molecola
di O2 si lega all’Hb, aumenta la probabilità che altro O2 si leghi, probabilmente in seguito a cambiamenti
conformazionali della molecola che rendono più permissivo il legame. Il complesso costituito da emoglobina
e ossigeno è detto ossiemoglobina (HbO2) ed è responsabile del trasporto dell’ossigeno ai tessuti. Il fatto che

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l’ossigeno si leghi all’Hb o venga rilasciato dalla HbO2 dipende esclusivamente dalla pressione parziale di
ossigeno che è
- massima (100 mmHg) nell’alveolo quindi il sangue a questo livello viene ossigenato
- minima nei tessuti dove ossigeno viene rilasciato e l’emoglobina si carica di anidride carbonica che verrà
rilasciata a livello alveolare
Il legame tra ossigeno ed emoglobina è detto SATURAZIONE quindi con il saturimetro si misura quanto
ossigeno è legato all’emoglobina. Per una persona normale, in condizioni di normossia, la saturazione del
sangue arterioso deve essere uguale o superiore al 98%. Perché si manifestino effetti tossici non è necessario
che la saturazione scenda moltissimo: si parla di lieve ipossia quando la saturazione è tra 95 e 90%, sotto al
90% siamo già in una condizione di ipossia moderata ed è importante intervenire. QUINDI la tolleranza del
nostro organismo a variazioni dei livelli di ossigeno è molto bassa per cui anche piccole variazioni possono dar
luogo alla manifestazione di tossicità a livello sistemico e questo è il motivo per cui anche esposizione per
brevi periodi a CO a concentrazioni non estremamente elevate ha effetto tossico. Il problema del CO è che è
completamente inodore e incolore per cui durante intossicazione non ci si rende conto che sta avvenendo. La
maggior parte delle intossicazioni che sfociano in decessi si verificano mentre il soggetto dorme. La tossicità
è dovuta al fatto che il CO ha affinità per l’emoglobina estremamente più elevata dell’ossigeno (circa 240 volte
superiore) per cui se nell’ambiente sono presenti sia CO che ossigeno, emoglobina si legherà
preferenzialmente al CO mentre il legame all’ossigeno è fortemente sfavorito. Per questo, anche a basse
concentrazioni di CO, questo si lega all’emoglobina impedendo il legame dell’ossigeno con essa per cui la
dose-dipendenza nel caso di intossicazione da CO dipende molto dal tempo di esposizione. Una volta che il
CO si lega all’emoglobina, riduce non solo la possibilità che ossigeno si leghi all’emoglobina ma in caso di
competizione sfavorisce legame all’ossigeno a favore del legame con altre molecole di CO (= è sempre
facilitato il legame al CO e sfavorito quello all’ossigeno). Maggiore affinità del CO all’emoglobina rispetto
all’ossigeno sembra legata a una questione di ingombro sterico: il CO lega emoglobina con un legame lineare
mentre l’ossigeno con un legame angolare per cui il legame del CO risulta facilitato.
Le manifestazioni cliniche sono differenti a seconda della percentuale di carbossiemoglobina che si forma:
% Segni e sintomi
HbCO
0 - 10 Nessuno per cui c’è un range di tolleranza intorno al 10% da parte del nostro organismo che varia
a seconda delle condizioni della persona nel senso che un certo livello di HbCO è presente anche
nelle persone sane ma ci sono dei soggetti in cui i livelli sono molto più alti del resto della
popolazione. Ad es i forti fumatori, coloro che soffrono di anemia conclamata o donne in
gravidanza carenti di ferro hanno di base un livello di HbCO più elevato
10 - Cefalea, vasodilatazione periferica, la pelle inizia ad assumere un colore rossi vivo
40
40 - Aumento della frequenza respiratoria e cardiaca
50
50 - Sincope (ossia perdita di conoscenza per un breve periodo di tempo), coma, convulsioni
60 intermittenti
60 - Depressione della funzione respiratoria e cardiaca, possibile morte
70
70 - Morte per insufficienza respiratoria e cardiaca
80
La sintomatologia che dovrebbe far sospettare un’intossicazione da CO è una colorazione rosso viva della
pelle. Questa condizione medica è detta IPOSTASI (non è una condizione che si verifica esclusivamente in caso
di intossicazione da CO ma indica in generale un grave collasso circolatorio per cui i globuli rossi precipitano
seguendo la gravità). Altri segni clinici che però si evidenziano solo quando intossicazione sfocia nel decesso
sono grossissime alterazioni cerebrali perché persone intossicate non hanno più circonvoluzioni sulla

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superficie cerebrale, il cervello risulta piatto e ci sono anche una serie di emorragie cerebrali + i polmoni sono
distesi ed edematosi. Morte di solito si verifica in seguito a collasso circolatorio generalizzato.
Il primo intervento prevede di allontanare il soggetto dalla fonte di intossicazione perché man mano che si
riduce la concentrazione di CO nell’ambiente si riduce la quantità di carbossiemoglobina ed emoglobina può
nuovamente legare ossigeno e trasportarlo ai tessuti. Il tempo di recupero è diverso a seconda che la persona
respiri normalmente ossigeno alla pressione atmosferica o se viene somministrato ossigeno puro:
somministrando ossigeno puro si accelera il recupero e si riducono le conseguenze dell’intossicazione.
Somministrando ossigeno si può ossigenare completamente in sangue in una ventina di minuti per cui si limita
fortemente il danno a livello sistemico. Questa è la terapia maggiormente utilizzata
→ INTOSSICAZIONE DA CIANURO:
Quando pensiamo a cianuro pensiamo agli avvelenamenti ma in realtà, soprattutto nella storia recente, non
ce ne sono moltissimi quindi non hanno grande valenza tossicologica. Quello che ha valenza tossicologica sono
le inalazioni di HCN, un gas che si sprigiona frequentemente in caso di incendio. Questo porta a
un’intossicazione da cianuro identica a quella che si verifica in seguito a ingestione della sostanza, cambia la
via di esposizione → effetti sono sistemici anche se l’esposizione avviene per inalazione. Effetti sistemici
dipendono dalla capacità del cianuro di bloccare la catena di trasporto degli elettroni portando a una
deplezione di ATP (quindi il target è lo stesso dei salicilati, cambia il meccanismo). Il cianuro, per una questione
sterica, ha altissima affinità per il ferro trivalente del citocromo A della catena respiratoria per cui si lega
stabilmente al CytA bloccando completamente il flusso di elettroni attraverso la catena respiratoria → IPOSSIA
ISTOTONICA nel senso che si crea una sorta di condizione ipossica a livello delle singole cellule ed essendo la
catena di trasporto presente in ogni cellula del corpo, una intossicazione da cianuro anche a dosi basse se non
trattata velocemente si rivela letale. Le manifestazioni sono molto simili se non sovrapponibili a quelle che se
manifestano in caso di intossicazione da CO nonostante meccanismo si diverso: cefalea, alterazioni dello stato
di coscienza, sincopi e convulsioni. Differenza sta nella respirazione: intossicazione da cianuro determina una
respirazione molto lenta e profonda mentre intossicazione da CO causa una respirazione molto frettolosa.
Anche in questo caso abbiamo la presenza di aree ipostatiche (= di colore rosso ciliegia molto marcato).
Intervento è completamente diverso dalle intossicazioni da CO: per intossicazioni da cianuro è stato prodotto
un kit di pronto intervento chiamato cyanokit. Esso è composto da due elementi:
- Si interviene somministrando nitrito di sodio o nitrito di amile per ossidare il ferro presente
nell’emoglobina a dare METAEMOGLOBINA artificiale a livello sistemico. Questo perché acido cianidrico
è più affine al ferro trivalente del gruppo eme rispetto al ferro trivalente del citocromo A quindi cianuro
si stacca dal CytA e si lega alla metaemoglobina. La catena di trasporto può ripartire mentre il cianuro
resta sequestrato sulla metaemoglobina. La metaemoglobina nell’organismo viene immediatamente
convertita riducendo il ferro da 3+ a 2+ tramite il NADPH presente in tutte le cellule quindi si formano
emoglobina in grado di legare ossigeno mentre cianuro si trova nuovamente nello stato libero (quindi
tossico)
- Per neutralizzare il cianuro libero bisogna somministrare tiosolfato, un composto che fornisce zolfo
all’organismo. Il cianuro, in una reazione catalizzata dall’enzima endogeno rodanasi, viene coniugato al
tiosolfato e in questa forma è completamente innocuo per l’organismo per cui può essere eliminato per
escrezione renale.
Esiste anche un composto che causa tossicità polmonare ma l’esposizione non è di tipo inalatorio bensì
cutanea o per ingestione che è il PARAQUAT, un diserbante ormai vietato dal 1990. Si tratta di un composto
accettore di elettroni che si riduce formando un intermedio estremamente reattivo che a livello cellulare
produce una serie di radicali liberi tossici e dannosi perché portano a necrosi cellulare. Questo composto è
dannoso esclusivamente a livello polmonare perché, dopo essere entrato nell’organismo ed essersi diffuso a
livello sistemico, sfrutta un trasportatore specifico che si trova sulla membrana degli pneumociti di tipo I e II
che è il trasportatore per le poliammine. Una volta all’interno di queste cellule agisce come accettore di
elettroni: sfrutta il NADPH e si riduce formando un metabolita ridotto molto reattivo che reagisce

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immediatamente con l’ossigeno a formare il radicale superossido, estremamente reattivo soprattutto a livello
delle membrane cellulare, causandone perossidazione e quindi rottura e necrosi cellulare → morte massiva
degli pneumociti a livello polmonare. Inoltre, siccome sfrutta il NADPH cellulare, il Paraquat determina anche
una deplezione delle riserve di NADPH quindi la forma reattiva continua a rigenerarsi e a produrre radicali
liberi finchè le riserve di NADPH cellulari non finiscono. Normalmente è venduto in forma liquida in soluzione
al 20%. Il recupero in caso di intossicazione è possibile solo per un’ingestione o un’esposizione a volumi sotto
i 7mL mentre se si assumono dosaggi superiori (quindi più di 7mL di soluzione al 20%) inizia a verificarsi una
fortissima sofferenza polmonare. Intossicazione risulta quasi sempre fatale se si è esposti a dosi intermedie
visto che la tossicità è molto specifica ed è difficile se non impossibile intervenire farmacologicamente per
allontanare la sostanza dal polmone.
QUINDI la tossicità polmonare ha a che fare soprattutto con agenti chimici tossici e non molto con i farmaci
nel senso che sono pochi i farmaci che possono determinare alterazioni quindi tossicità a livello polmonare.
Un caso di possibile forte broncospasmo indotto da farmaci si può verificare in seguito all’assunzione di
aspirina in pazienti asmatici secondo un meccanismo che non è chiaro (quindi si tratta di un rischio in una
popolazione particolare). Nella popolazione generale, il broncospasmo può essere determinato da alcuni
farmaci antineoplastici come i taxani che sembrano avere questa potenzialità di indurre broncospasmo in
seguito all’assunzione.

NEUROTOSSICITÁ = qualsiasi modificazione in senso negativo nella chimica, struttura o funzione del sistema
nervoso centrale durante lo sviluppo o in età adulta che risulta dall’esposizione ad un agente chimico o fisico.
Il sistema nervoso si divide in:
- SNC costituito da encefalo (racchiuso nella scatola cranica e separato dal circolo sanguigno dalla barriera
ematoencefalica) e midollo spinale allocato nella colonna vertebrale
- SNP costituito dai gangli (ammassi di corpi neuronali a ridosso del midollo spinale) e dai nervi cranici
(ossia i nervi che originano in coppia direttamente dall’encefalo, raggiungono le porzioni testa e collo ad
eccezione del nervo vago che origina dall’encefalo e irradia apparato gastro-intestinale quindi si parla di
intestino come un secondo cervello perché è direttamente connesso da un nervo con l’encefalo) e spinali
Nel sistema nervoso si trovano due popolazioni cellulari principali:
→ NEURONI: sono la principale unità funzionale del sistema nervoso, sono caratterizzati da eccitabilità (ossia
la capacità di generare un impulso elettrico) e la conduttività ossia la capacità di trasmettere questo impulso
verso altre cellule raggiungendo regioni molto lontane dal sito di origine dell’impulso. I neuroni si possono
dividere in
- neuroni sensitivi afferenti: ricevono l’informazione a livello distale dagli organi di senso e la trasmettono
al SNC
- neuroni motori efferenti: neuroni che, dopo l’elaborazione a livello centrale, trasmettono l’informazione
alla periferia. Possono essere somatici (legati al comportamento volontario) o viscerali (sostengono le
funzioni involontarie, fondamentalmente le funzioni vegetative)
Oltre a questi neuroni che trasmettono l’informazione da e verso il SNC, abbiamo anche una vasta popolazione
di interneuroni che si occupano di modulare la risposta: l’informazione che passa da neurone sensitivo a quello
motorio non è mai 1:1 ma è sempre modulata in ampiezza dagli interneuroni. Costituiscono una parte
fondamentale dei circuiti del SNC (mentre non sono presenti nei gangli periferici), la maggior parte sono
inibitori (quindi GABAergici)
→ CELLULE GLIALI: principalmente astrociti, microglia, oligodendrociti (nel SNC) e cellule di Schwann (nel
SNP). Originariamente si pensava che le cellule gliali svolgessero unicamente funzione di collante (infatti glia
= colla) tra i neuroni. In realtà astrociti e microglia hanno funzioni molto importanti che influenzano
profondamente la funzionalità dei neuroni per questo stanno diventando un target terapeutico molto studiato
per cercare di recuperare la funzionalità neuronale in contesti di patologie del SN. Inoltre, le cellule gliali hanno
un ruolo molto importante nella risposta infiammatoria a livello di SNC: nonostante il sistema nervoso centrale

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rispetto ad altri organi risulti protetto, ha un sistema di difesa peculiare per cui anche a livello di SNC si
generano fenomeni infiammatori promossi dalle cellule gliali che da una parte possono contribuire alla
risoluzione di eventi tossici innescati dagli xenobiotici ma, come negli altri organi, quando infiammazione
diventa cronica questa contribuisce al danno neuronale.
La differenza fondamentale tra neuroni e cellule gliali è che le cellule neuronali nell’individuo adulto non si
dividono mitoticamente quindi una volta che muoiono non possono essere rimpiazzate mentre le cellule gliali
possono ancora andare incontro a divisione.
La trasmissione sinaptica può essere di due tipi:
a. chimica: informazione da neurone pre a post-sinaptico è processata da un neurotrasmettitore chimico e
a seconda del tipo di neurotrasmettitore rilasciato si avrà la trasmissione di un segnale eccitatorio o
inibitorio
b. elettrica: si ha un continuum nell’impulso elettrico tra neurone pre e postsinaptico grazie alla presenza
tra i due di giunzioni strette. In questo caso non c’è ritardo sinaptico
Molta della tossicità del sistema nervoso si verifica a livello sinaptico dal momento che molte tossine e
sostanze chimiche di sintesi sono in grado di alterare la trasmissione chimica a livello della sinapsi. In
particolare, nella sinapsi chimica, quando l’impulso raggiunge il neurone presinaptico, si ha la fusione delle
vescicole di neurotrasmettitore con la membrana presinaptica con conseguente rilascio di neurotrasmettitore
nello spazio sinaptico. Il neurotrasmettitore va quindi a interagire con i recettori presenti sulla membrana
postsinaptica innescando una risposta. Il segnale può anche essere ritrasmesso a livello presinaptico perché
ci sono anche recettori sulla membrana presinaptica con cui il neurotrasmettitore può interagire modulando
il proprio rilascio dal neurone presinaptico stesso (meccanismo di feedback che può essere sia positivo quindi
determina aumento del rilascio di neurotrasmettitore che negativo quindi rilascio di neurotrasmettitore è
inibito). A livello della sinapsi chimica quindi ci sono molti modi con cui una sostanza può produrre un effetto
tossico:
- può interferire con il rilascio di neurotrasmettitore
- può interagire con i recettori pre o postsinaptici
- a seguito di esposizione lunghe può avvenire l’internalizzazione/desensitizzazione del recettore. Ad es
nel caso delle sostanze d’abuso, che agiscono stimolando continuamente l’attivazione dei recettori a
livello postsinaptico, la cellula reagisce internalizzando i recettori diventando meno sensibile all’azione
della sostanza stessa. Questo stesso meccanismo porta allo sviluppo della tolleranza verso gli
psicofarmaci: a un certo punto tutti gli psicofarmaci smettono di avere effetto o per ottenere lo stesso
effetto è necessaria una dose maggiore.
Normalmente ogni neurone viene raggiunto da moltissime terminazioni sinaptiche e il risultato è che
l’informazione trasmessa dal neurone pre al neurone postsinaptico è la sommatoria di tutti gli input raggiunti
da quel neurone, non è mai in rapporto 1:1 tra un neurone e l’altro ed è per questo che c’è una grande
variabilità nelle risposte agli stimoli che il cervello è in grado di fornire.
A volte anche le cellule gliali contribuiscono a modulare la trasmissione sinaptica. Ad esempio, le cellule gliali
a livello di sinapsi glutammatergiche possono contribuire a riciclare glutammato evitandone una persistenza
eccessiva nello spazio sinaptico (cosa che renderebbe il glutammato tossico per il neurone tanto da causarne
la morte per iper-attivazione dei recettori AMPA e KAINATO).
Una popolazione cellulare molto studiata a livello di SNC è quella della MICROGLIA, che rappresenta l’insieme
dei macrofagi risiedenti nel SNC derivanti dai monociti circolanti. Inizialmente si pensava avesse solo il ruolo
di “spazzino” vista l’altissima capacità di fagocitosi (= nel momento in cui si verifica un danno neuronale o c’è
una infezione del SNC, microglia fagocita il patogeno o i detriti che si formano in seguito a danno neuronale)
ma ha anche ruoli strutturali perché è in grado di:
- rilasciare fattori di crescita come il BDNF, un fattore neurotrofico in grado di sostenere l’attività
neuronale e talvolta anche la sopravvivenza.
- ruolo importante per il fenomeno del pruning sinaptico ossia il processo che porta allo sviluppo delle
sinapsi così come sono nel cervello adulto. Lo sviluppo neuronale infatti iniziale a livello fetale e continua

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fino a circa i 20 anni. Normalmente, durante la vita fetale e i primi anni di vita, si ha una continua
formazione di sinapsi tanto che il cervello del bambino è caratterizzato da un numero eccessivo di sinapsi
rispetto a quelle che vengono effettivamente usate. Nel periodo dell’adolescenza queste sinapsi in
eccesso vengono tagliate (fenomeno della potatura o pruning) e fagocitate dalla microglia per cui il
cervello adulto dipende moltissimo dalla sua azione.
- importante nella risposta infiammatoria perché quando arrivano nel SNC degli insulti che provocano
infiammazione, un’eccessiva attività della microglia potrebbe tagliare eccessivamente le sinapsi
contribuendo allo sviluppo dei deficit cognitivi che si associano a patologie del SNC.
Gli ASTROCITI formano la rete attraverso cui si formano tutte le connessioni sinaptiche del SN. Insieme alle
cellule endoteliali costituiscono la barriera ematoencefalica. Gli astrociti a ridosso delle cellule endoteliali
hanno un ruolo molto importante nel metabolismo delle sostanze chimiche che raggiungono il cervello:
astrociti metabolizzano queste sostanze attraverso reazioni di ossidazione e coniugazione, rendendo più
idrofile tali sostanze in modo da sfavorirne l’ingresso nel SNC. Anche gli astrociti producono fattori neurotrofici
e partecipano in maniera attiva al metabolismo del glutammato nel SNC. Hanno un’azione simile ai fibroblasti
perché sono in grado di deporre tessuto fibroso cicatriziale nel SN in caso di danno importante che provoca
morte cellulare estesa. Riproducono quindi a livello centrale quello che si verifica a livello periferico.
Gli OLIGODENDROCITI e le CELLULE DI SCHWANN costituiscono la guaina mielinica, una sostanza che ha una
grande componente lipidica ma anche proteica che avvolge gli assoni andandoli a isolare in modo da
accelerare la velocità di conduzione dell’impulso elettrico. La differenza fondamentale tra oligodendrociti e
cellule di Schwann, oltre al fatto che i primi sono nell’SNC e le seconde nell’SNP, è che le cellule di Schwann
sono in grado di riparare eventuali danni della mielina mentre gli oligodendrociti non hanno questa capacità
di rigenerazione per cui si crea un danno irreversibile. Questa differenza è legata al fatto che il SNC risulta
sicuramente più protetto dell’SNP per cui questo sistema di riparazione fa si che in presenza di un agente
tossico in grado di danneggiare le fibre mieliniche, subiranno un effetto tossico maggiore i nervi periferici
piuttosto che centrali ed è per questo che le cellule di Schwann sono in grado di riparare un eventuale danno.
A livello macroscopico la differenza tra le zone di milinizzazione e le zone dove sono presenti solo i corpi
cellulari dei neuroni sono ben evidenti perché si creano zone visibili ad occhio dato che abbiamo una sostanza
grigia formata dai corpi cellulari dei neuroni, dai dendriti e dalla porzione terminale dell’assone e una sostanza
bianca formata dai prolungamenti assonici rivestiti dalla guaina mielinica. La mielina ha un colore bianco,
lucido, per cui può essere distinta a occhio nudo perché ha una differente consistenza e colorazione rispetto
a quella grigia. Qualsiasi tipo di effetto tossico che compisce SN si manifesta come una alterazione
comportamentale quindi a seconda di quale porzione viene colpita dalla tossicità possiamo avere diversi
quadri clinici:
- alterazioni della funzione sensoriale provoca disturbi visivi, tattili, della percezione, allucinazioni
- alterazioni delle funzioni motorie come tremori, convulsioni, stati di iperattività/paralisi e debolezza
- alterazioni delle funzioni fisiologiche come variazioni della temperatura, del peso corporeo, del ciclo
sonno-veglia
- alterazioni della reattività indotte ad es da psicofarmaci si manifestano come agitazione, irritabilità,
eccitabilità/apatia, stato depressivo, comparsa di eventi psicotici
- alterazioni a livello cognitivo di apprendimento e memoria a breve e a lungo termine e stati di confusione
mentale
QUINDI a seconda dei sintomi si può avere un’indicazione di massima circa il bersaglio dell’effetto tossico. Gli
agenti tossici possono colpire il neurone a qualsiasi livello: porzione dendritica, soma, assone e sinapsi
(soprattutto se chimica). Effetti tossici possono colpire anche le cellule gliali ma soprattutto i neuroni sono
interessati dato che sono incapaci di dividersi quindi una volta persi non possono essere rimpiazzati. La glia
invece ha la capacità di dividersi quindi può rispondere al danno da agenti tossici rispetto al neurone che lo
subisce senza riuscire a sopperire a un evento di apoptosi o di necrosi che si verifica. Tutti gli psicofarmaci
sono in grado di indurre effetti neurotossici a livello del SNC, specialmente se vengono abusati senza attenersi
alle indicazioni d’uso. Quando si verifica overdose da psicofarmaci possono verificarsi effetti tossici anche
letali. Gli oppioidi ad esempio, che sono i farmaci di riferimento per il trattamento del dolore, in caso di
overdose causano una forte depressione respiratoria dato che colpiscono il tronco encefalico dove si trova il
centro del controllo del respiro. Oltre ai farmaci ci sono anche una serie di agenti chimici con cui possiamo

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venire a contatto che possono causare tossicità neuronale come i composti organofosforici (insetticidi che
hanno una struttura molto simile ai gas nervini), molti metalli pesanti, solventi e contaminanti ambientali
(tossina botulinica, la più potente conosciuta, ha come bersaglio la sinapsi chimica colinergica quindi causa un
danno al SNC).
Il SNC ha delle caratteristiche che lo rendono più vulnerabile all’azione tossica di farmaci e sostanze chimiche
di sintesi:
• presenza della barriera ematoencefalica: è una componente fondamentale di difesa del SNC che
permette ingresso solo di farmaci/sostanze altamente lipofili mentre farmaci idrofili possono
attraversare questa barriera solo se sono in grado di sfruttare specifici trasportatori. MA per alcuni agenti
tossici, il fatto che il SNC sia un ambiente chiuso può essere un problema perché quando una sostanza
tossica riesce a entrare, rimane intrappolata nel SNC e diventa molto difficile se non impossibile
allontanarla. La barriera ematoencefalica in questi casi rappresenta una trappola per le sostanze tossiche
aggravandone la tossicità
Dato che non è permissiva, la barriera ematoencefalica rappresenta una struttura primaria di difesa del SNC.
È costituita da cellule endoteliali unite tra loro da giunzioni serrate quindi non è permissiva. Oltre alle cellule
endoteliali c’è un rivestimento di cellule gliali e astrociti che non solo rappresentano un impedimento
strutturale ma anche un primo step di metabolismo delle sostanze tossiche. Nelle cellule astrocitarie infatti
sono presenti enzimi, tra cui anche alcuni enzimi del citocromo p450 in grado di indurre una prima
metabolizzazione delle sostanze che raggiungono il SNC. Si tratta di reazioni che promuovono una maggiore
idrofilia delle sostanze che arrivano al fine di sfavorire ingresso delle sostanze stesse nel SNC. In altri casi però,
il metabolismo astrocitario può attivare le sostanze tossiche inducendo tossicità a livello di SN. Inoltre, la
barriera ematoencefalica è un efficiente meccanismi di difesa nell’adulto ma nel bambino non è ancora
completamente sviluppata per cui il loro SN è più suscettibile alla tossicità di alcune sostanze rispetto
all’adulto. Ad es il disastro ambientale che ha portato all’immissione nell’ambiente di mercurio, ha provocato
fortissimi effetti neurotossici nei bambini rispetto agli adulti perché la loro barriera ematoencefalica non era
completamente formata.
• elevato fabbisogno energetico: per funzionare correttamente SNC richiede moltissima energia quindi
anche piccole variazioni dell’equilibrio energetico possono creare seri danni a livello neuronale. I neuroni
infatti rispetto alle altre cellule dell’organismo hanno esclusivamente metabolismo aerobico per cui
possono funzionare solo in presenza di ossigeno. per cui fabbisogno di ossigeno del cervello è molto
maggiore di altri organi del corpo e questo lo rende molto vulnerabile specialmente nei confronti di
sostanze tossiche in grado di ridurre apporto ossigeno a cervello come cianuro e CO.
• è un ambiente altamente lipofilo per la presenza di mielina (costituita essenzialmente da lipidi) per cui le
sostanze lipofile come la maggior parte dei farmaci e delle sostanze chimiche di sintesi sono attratte nel
SNC
• trasmissione dell’informazione da cellula a cellula è finemente regolata per cui anche una minima
variazione, legata all’esposizione a sostanze tossiche, può causare un danno
• peculiare distribuzione nello spazio delle cellule neuronali: i neuroni sono distribuiti nello spazio ma tutta
l’attività metabolica p confinata al soma per cui la vitalità del neurone dipende dalla presenza di un soma
intatto quindi si verifica sempre morte neuronale se il soma viene danneggiato.
La manifestazione comportamentale che segue a una perdita neuronale è complicata perché spesso prima
che si manifestino i sintomi di un danno neurologico, è necessario che si verifichi una grossa perdita di neuroni
mentre se la necrosi neuronale è limitata, può non esserci alcuna alterazione comportamentale. Questo è un
problema perché, specialmente in seguito a esposizione prolungate, quando si manifesta una alterazione del
comportamento (quindi quando si inizia a vedere una sintomatologia neurologica), la perdita neuronale è
stata molto estesa (70-80% dei neuroni) ma siccome i neuroni non hanno possibilità di rigenerarsi o dividersi,
il danno è quasi sempre irreversibile e questo è un problema che impedisce di evidenziare in modo precoce
l’effetto tossico sul SNC.
L’attività metabolica del soma è estremamente elevata ma l’assone è fondamentale per il trasporto delle
vescicole contenenti neurotrasmettitori e recettori che devono raggiungere la sinapsi. Il trasporto assonale

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garantisce la funzionalità dei neuroni per quanto riguarda il trasporto degli impulsi nervosi ma garantisce
anche la sopravvivenza stessa del neurone. Esistono due tipologie di trasporto assonale:
- trasporto assonale veloce: trasporta a livello della sinapsi tutte le vescicole contenenti
neurotrasmettitore e recettori e gli organelli che si formano nel soma (visto che questa è l’unica regione
metabolicamente attiva). Può essere sia anterogrado che retrogrado ed è ATP-dipendente. Qualsiasi
danno al trasporto assonale veloce causa una degenerazione dell’assone che determina perdita della
funzionalità neuronale anche se il neurone in sé non muore in toto.
- trasporto assonale lento: permette di mantenere il citoscheletro intatto a livello assonale garantendo
l’integrità strutturale del neurone e soprattutto dell’assone e di conseguenza anche l’integrità funzionale.
Normalmente questo trasporto è unidirezionale (da soma verso sinapsi).
Il trasporto assonale retrogrado può essere sfruttato da alcune tossine per raggiungere il soma e i dendriti
quindi per risalire lungo il neurone e dare tossicità. Qualsiasi interruzione degli scambi tra soma e sinapsi causa
una degenerazione dell’assone mentre il corpo cellulare può restare intatto quindi il neurone rimane vivo. In
questo caso si verifica un processo detto CROMATOLISI che prevede lo spostamento del nucleo (che di solito
si trova al centro del soma) verso la periferia. In assenza di assone il neurone, pur rimanendo vitale, non può
trasmettere l’impulso nervoso quindi non è funzionale. Dato che è solo l’assone a essere danneggiato si parla
di ASSONOPATIA. Se insulto tossico è moderato, il danno assonale può essere parzialmente recuperato a
seconda di quanto è lungo l’assone (se l’assone è esteso prevalentemente a livello di SNC il danno è
irreversibile mentre se è danneggiata solo una piccola porzione la rigenerazione è possibile e avverrà più
facilmente a livello di SNP che di SNC. Purtroppo però si è visto che normalmente le sostanze tossiche non
hanno grosse vie di mezzo nell’induzione di danno neuronale nel senso che quando un agente tossico riesce
a penetrare nel SNC, il danno che si crea è sempre piuttosto esteso per cui nella maggior parte dei casi le
assonopatie non riescono a essere revertite).
Bisogna tenere presente che lo sviluppo e la maturazione del SNC sono lenti e progressivi e lo sviluppo
completo si raggiunge solo intorno ai 20 anni → durante il periodo postnatale si ha un grosso
rimaneggiamento e in questo periodo, il cervello in via di sviluppo è dotato di una certa capacita di
rigenerazione che viene poi persa nella vita adulta. Esso è dotato di una certa PLASTICITÁ nel senso che è in
grado di reagire agli insulti tossici quando esposizione è acuta e limitata nel tempo (mentre esposizione
prolungate possono provocare difetti nello sviluppo). Un certo grado di plasticità viene mantenuto anche nel
cervello adulto nel senso che il SN è in grado di rispondere strutturalmente e funzionalmente (nell’adulto
soprattutto funzionalmente) agli insulti che si verificano formando dei COLLATERALI: assoni che non vengono
distrutti dall’insulto possono formare nuove sinapsi per sostituire quelle danneggiate in modo da avere un
parziale recupero del danno. In alcuni casi, la risposta può essere basata sull’attivazione funzionale di alcuni
collegamenti tra neuroni che prima non erano attivi (esistono infatti sinapsi dette silenti che in condizioni
fisiologiche non contribuiscono alla trasmissione nervosa ma sembra riescano ad attivarsi in seguito a un
danno sopperendo alla perdita neuronale). Altro meccanismo con cui SNC sembra reagire agli insulti tossici è
una probabile differenziazione di alcune cellule staminali. Sembra infatti che nel SNC ci siano delle piccole
aree in cui sono presenti cellule indifferenziate.
A seconda della porzione di neurone colpita possiamo avere diversi tipi di tossicità:
a. NEURONOPATIE: danneggiamento irreparabile del soma provoca degenerazione del neurone in toto,
morte per necrosi o per apoptosi a seconda dell’agente tossico (ad es morte sempre per apoptosi è
indotta dal TNF-α normalmente rilasciato in seguito a infiammazione sostenuta a livello centrale)
b. ASSONOPATIE: dato che gli assoni si estendono nello spazio rappresentano il bersaglio preferenziale delle
sostanze neurotossiche. Si parla di assonopatia quando si ha una degenerazione totale o parziale
dell’assone senza che il danno colpisca il corpo cellulare. Si verifica cromatolisi ma non degenerazione
completa del neurone. A seconda dell’estensione del danno si può avere totale o parziale rigenerazione
(ma nel secondo caso si ha perdita di funzionalità)
c. MIELINOPATIA: dato che moltissime sostanze tossiche sono lipofile, queste si accumula
preferenzialmente nelle guaine mieliniche andandole a danneggiare. Questo comporta un rallentamento
della trasmissione degli impulsi lungo l’assone. Principale sintomo è rallentamento delle funzioni generali
governate dal SN. Nel caso dell’SNC, gli oligodendrociti non si possono ri-mielinizzare ma per eventi di
tossicità mielinica limitati, oligodendrociti si muovono un pochino lungo l’assone e riparano in modo

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grossolano il danno anche se nella zona danneggiata la trasmissione non è efficiente come nel resto del
SN quindi resta un deficit di trasmissione dell’impulso. A livello di SNP, è possibile la ri-mienilizzazione (se
un agente causa danno alla mielina nei nervi periferici, le cellule di Schwann possono dividersi e
ricostituire la mielina persa)
d. TOSSICITÁ A LIVELLO SINAPTICO: il neurone rimane intatti in tutte le sue parti, si ha una alterazione a
livello della sinapsi che può portare da una parte al blocco della trasmissione da neurone pre a
postsinaptico, dall’altra può verificarsi una eccessiva attivazione della sinapsi chimica danno sia a livello
pre (deplezione di vescicole di neurotrasmettitore per cui neurone presinaptico può spegnersi) che post
sinaptico (danneggiato a livello strutturale)
Il SNP è molto più vulnerabile agli insulti indotti da sostanze tossiche rispetto al SNC dal momento che
- I gangli sensitivi delle radici posteriori mancano di barriera ematoencefalica
- Oltre alla protezione da parte degli astrociti manca anche quella delle cellule endoteliali dato che le cellule
endoteliali che costituiscono i capillari a ridosso dei gangli non hanno tight junction e questo facilita
ulteriormente il fatto che questi corpi neuronali vengano a contatto con sostanze tossiche
- mentre SNC è dotato di una rete linfatica che facilita l’eliminazione di detriti cellulari che si formano
favorendo anche la fuoriuscita delle sostanze tossiche, a livello periferico non abbiamo vasi linfatici per
cui la rimozione di sostanze è più difficoltosa
NEUROPATIE: causate da agenti tossici che provocano la morte del soma e quindi del neurone in toto. La
lesione è estremamente grave, permanente e il danno che viene indotto dall’agente tossico di solito è molto
esteso. Agenti che causano neuronopatia possono avere meccanismi d’azione differenti:
- agenti non selettivi che causano morte neuronale diffusa provocando encefalopatia diffusa che si
manifesta con alterazioni comportamentali generalizzate che coprono sia la sfera sensoriale che
cognitiva. Un esempio di sostanza che non ha uno specifico target neuronale quindi causa encefalopatia
diffusa è l’etanolo. Un altro esempio è il metilmercurio che non ha un bersaglio specifico per cui il quadro
clinico dipende dalla dose e dall’età (più bassa è l’età maggiore è il danno dato che la barriera
ematoencefalica non è del tutto sviluppata). Intossicazione provoca alterazione delle percezioni, danni
cognitivi e motori (atassia cerebellare che determina perdita di coordinamento motorio). Il meccanismo
d’azione è aspecifico ma non è del tutto chiaro, sembra vi sia interazione diretta tra il metallo e le
proteine
- agenti selettivi che causano la morte di specifiche popolazioni neuronali provocando una sintomatologia
più specifica. Agente tossico che induce danni specifici molto gravi è l’MPTP, un agente chimico
identificato per la prima volta come contaminante nella produzione di memperidina, un farmaco
analgesico derivato dell’eroina che ha una breve emivita e quindi un’azione molto breve rispetto ad altri
oppioidi. MPTP induce una sintomatologia che è molto simile se non del tutto sovrapponibile al Parkinson
per cui persone che mostrano intossicazione di MPTP mostrano una immobilità, rigidità, presenza di
tremori molto marcati specialmente degli arti superiori dato che questa sostanza causa degenerazione
dei neuroni dopaminergici della sostanza nigra. MPTP di per sé non è tossico ma quando arriva alla
barriera ematoencefalica viene metabolizzato dalle MAO degli astrociti e si formano due forme ossidate:
MPP+ (che non riesce ad attraversare la barriera ematoencefalica) e MPDP+ che attraversa la BEE e una
volta nel SN viene ossidato a MPP+, una sostanza estremamente reattiva e tossica che sfrutta il
trasportatore della dopamina per entrare in modo specifico nei neuroni dopaminergici di cui causa la
morte. Quando i sintomi si manifestano sono già andati incontro a morte neuronale il 70-80% dei neuroni
dopaminergici della sostanza nigra per cui si tratta di un’intossicazione irreversibile estremamente grave.
Inoltre, MPP+ rimane intrappolato nel SNC perché non riesce ad attraversare la barriera ematoencefalica
in senso contrario per cui la sostanza continua a svolgere il suo effetto tossico e non c’è un antidotismo
per cui è una situazione irreversibile e ingravescente. MPTP spesso viene usato per tagliare diverse
droghe e a livello ospedaliero si sono verificati molti ricoveri di ragazzi molto giovani con una patologia
simil-parkinson rimasti intossicati dall’MPTP (taglia eroina e nuove sostanze di sintesi psicoattive).
ASSONOPATIE: degenerazione completa o parziale dell’assone che, avendo una vasta estensione nello spazio,
è il bersaglio principale delle sostanze tossiche (offre più siti di interazione con le sostanze tossiche) infatti è
il difetto neuronale maggiormente osservato a livello centrale. Effetto tossico sugli assoni centrali è

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irreversibile perché gli oligodendrociti sono incapaci di dividersi e quindi riparare il danno mentre se insulto
avviene a livello periferico, è possibile una parziale rigenerazione se la tossicità è lieve. Le cellule di Schwann
infatti possono rispondere al danno assonico specializzandosi temporaneamente in maniera differente: se in
una situazione fisiologica la funzione principale di queste cellule è di sintetizzare lipidi e proteine che formano
la guaina mielinica, in caso di insulto queste cellule possono de-differenziarsi e assumere quindi un fenotipo
che non è mielinizzante bensì è in grado di proliferare, si ridispongono lungo l’assone e cercano di risolvere
un danno. Questo perché SNP non ha tutte le protezioni presenti a livello di SNC per cui evolutivamente si è
sviluppato questo meccanismo di riparazione. NEUROPATIA PERIFERICA è un effetto collaterale di moltissimi
trattamento chemioterapici. Si manifesta come una riduzione sensoriale o motoria inizialmente nelle parti più
distali del corpo (piedi e mani) quindi crampi, spasmi, movimenti involontari come scatti delle dita di mani e
pedi. Se il danno è più esteso si manifestano anche alterazioni a livello sensoriale per quanto riguarda la
percezione di temperatura e sensibilità.
- se esposizione cessa e il danno indotto non è troppo esteso si può avere recupero totale (perché colpisce
il SNP)
- per esposizioni lunghe danno tende a diventare più grave. Generalmente il danno parte sempre dalla
porzione distale e procede in senso retrogrado (smangia assone avvicinandosi al soma)
In particolare si tratta di un effetto collaterale ai chemioterapici che colpiscono i microtubuli dal momento
che l’integrità assonica (e quindi dal soma alla sinapsi), che dipende da un citoscheletro intatto, è
fondamentale per mantenere vitale e funzionale intero neurone. Ci sono intere classi di farmaci
chemioterapici che lavorano sulla costruzione del citoscheletro per indurre tossicità nelle cellule neoplastiche
quali gli alcaloidi dell’Avinca ossia vincristina e vinblastina usate per il trattamento di linfomi e leucemie
(causano atrofia assonale che provoca degenerazione dell’assone perché bloccano polimerizzazione dei
microtubuli) e i Tassani, farmaci che impediscono la depolimerizzazione dei microtubuli quindi si accumulano
microtubuli all’interno degli assoni, impedendo la sostituzione fisiologica degli assoni necessaria a mantenere
il citoscheletro intatto (impedito trasporto assonale sia veloce che lento). Il danno indotto da questi farmaci è
dose-dipendente quindi per prevenirlo bisogna ridurre la dose di chemioterapico se la manifestazione di
neuropatia si manifesta durante il trattamento in modo però da mantenere efficacia terapeutica per cui lievi
fenomeni di neuropatia si verificano sempre con questi trattamenti. A volte la neuropatia periferica si
manifesta al termine del trattamento
Agente chimico di sintesi che induce assonopatia distale è l’ACRILAMMIDE (usato nella lavorazione carta e
trattamento per la potabilizzazione delle acque come poliacrilamide + nel laboratori di ricerca è la base per la
produzione di gel elettroforetici quindi chi lavora nei lab biologici sono costantemente esposti quindi
monitoraggio sia al quantitativo di acrilamide cui si è esposti sia eventuale tossicità). Colpisce inizialmente
neuroni con assoni più lunghi e parte distalmente (nella porzione del neurone più vicina alla sinapsi) quindi si
ha una degenerazione retrograda (degenerazione dell’assone che parte distale e si avvicina sempre di più al
soma quindi meccanismo di tossicità è più grave per esposizioni più lunghe perché è un meccanismo che
continua con l’esposizione). Sembra avere un effetto diretto che blocca il trasporto assonale veloce
anterogrado e retrogrado (→ ricorda: tutto quello che causa assonopatia ha come target il trasporto assonale
veloce o lento, che sono sempre attivi, anche quando il neurone non è coinvolto nella
generazione/propagazione del potenziale d’azione, perché il metabolismo basale del neurone è sempre molto
alto).
MIELINOPATIE: tossicità interessa la mielina ossia la guaina che riveste alcuni assoni in particolare quelli
deputati alla conduzione veloce dell’impulso elettrico. La mielinopatia è indotta da poche sostanze: alcuni
metalli pesanti come il piombo e lo stagno, in passato anche con esaclorofene (detergente ospedaliero
disinfettante battericida che oggi non è più usato perché esistono sostituti che non hanno questa tossicità).
Danno a livello della mielina può verificarsi
• in profondità quindi tra uno strato di fibre mieliniche e l’altro. La mielina diventa più lassa, si formano
degli spazi vuoti che vengono riempiti di liquido (EDEMA INTRAMIELINICO)
• perdita selettiva di mielina (DEMIELINIZZAZIONE) che ha effetti più negativi e gravi sulla funzionalità
rispetto all’edema perché si creano delle zone scoperte.→
SNP ha una capacità di ricostituire la mielina più pronunciata rispetto al SNC. Oligodendrociti del SNC possono
tamponare piccole perdite di mielina in zone molto confinate e lo fanno ridistribuendosi lungo assone (perché

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non possono replicare) ma le regioni da cui oligodendrociti si spostano presentano una mielina più sottile e
quindi una riduzione della capacità di conduzione.
TOSSICITÁ A LIVELLO SINAPTICO: indotta frequentemente da tossine. Si parla in questo caso di neurotossicità
funzionale perché non è legata a modificazioni strutturali dei neuroni bensì è associata a un’interferenza della
neurotrasmissione a livello della sinapsi. A livello sinaptico l’interferenza può essere:
- recettore mediata: una sostanza agisce direttamente sui recettori postsinaptici alterando la trasmissione
dell’impulso elettrico.
- legata a interazioni della tossina coi canali ionici: la generazione dell’impulso elettrico parte con apertura
dei canali del sodio e depolarizzazione della membrana. Man mano che potenziale d’azione si propaga
lungo l’assone, la trasmissione viene poi bloccata per chiusura dei canali del sodio e apertura dei canali
del potassio che favoriscono la ripolarizzazione della cellula. Tra le tossine che hanno come bersaglio i
canali del sodio troviamo la tetradotossina prodotta in quantità dal pesce palla e da molti altri pesci.
Bloccando i canali del sodio si ha un blocco dell’attività nervosa (per blocco della generazione e
propagazione del potenziale d’azione) e quindi paralisi. Con lo stesso target ma effetto opposto troviamo
le beta-tossine degli scorpioni che bloccano la chiusura dei canali del sodio (quindi non si riesce a bloccare
la propagazione del potenziale d’azione) determinando over-eccitazione del SNC e quindi convulsioni e
tremori. Esistono anche tossine come la tossina del mamba nero che impediscono l’apertura dei canali
per il potassio e quindi la ripolarizzazione → incapacità di bloccare impulso nervoso determinando
tremori e convulsioni.
- alterazione del rilascio di neurotrasmettitore a causa dell’interazione della tossina con il sistema di rilascio
vescicolare o per alterazione dell’omeostasi del calcio (responsabile della fusione delle vescicole con la
membrana presinaptica). Sostanze che interferiscono con la neurotrasmissione e in quanto tali sono
sempre passibili di effetti collaterali come neurotossicità sono tutti gli psicofarmaci dato che per
definizione hanno un target recettoriale nel SN. Questo tipo di tossicità deve sempre essere presa in
considerazione monitorando i pazienti durante il trattamento anche perché ad esclusione delle
benzodiazepine (che possono essere prese al bisogno), tutti gli altri prescritti hanno bisogno di un
trattamento cronico.
→ Trasmissione colinergica come bersaglio della tossicità:
Il sistema colinergico ha come neurotrasmettitore l’acetilcolina ed è un sistema ubiquitario quindi si trova sia
nel SNC che SNP e innerva sia sistema nervoso autonomo che somatico. Acetilcolina interagisce con due tipi
di recettore:
• nicotinico: presente nella placca neuromuscolare quindi in tutto il sistema nervoso somatico, che
controlla i movimenti volontari. Recettore nicotinico nel SNP si trova anche nei neuroni pregangliari che
escono direttamente dal midollo spinale e fanno tappa sui gangli spinali
• muscarinico: acetilcolina rilasciata dalle terminazioni del parasimpatico interagisce con questo tipo di
recettore che quindi è fondamentale per la regolazione degli organi viscerali. Essi effetti opposti:
simpatico determina eccitazione è responsabile delle risposte “combatti o fuggi” mentre parasimpatico
è responsabile delle funzioni vegetative. Mediatore del parasimpatico è acetilcolina mediante interazione
con il recettore muscarinico mentre mediatore del simpatico è il sistema noradrenergico (quindi risponde
all’adrenalina)
In caso di tossicità che si esplica sulla trasmissione colinergica, alterazione della trasmissione del recettore
muscarinico provoca gli effetti più pericolosi che devono essere controllati primariamente, soprattutto per
quanto riguarda il possibile arresto respiratorio che si potrebbe verificare in seguito al blocco della
trasmissione muscarinica a livello del sistema diaframmatico.
Tra le tossine che colpiscono il sistema colinergico troviamo la TOSSINA BOTULINICA, la tossina con la DL50
più bassa quindi ad oggi è il veleno conosciuto più potente al mondo (1 miliardesimo di grammo di questa
tossina se iniettato per via endovenosa uccide in pochi secondi una persona di 70kg). I casi più eclatanti sono
dovuti a intossicazioni alimentari tanto che la causa del botulismo è stata rilevata solo in seguito a diversi casi
di persone che consumavano lo stesso cibo e iniziavano a mostrare gli stessi sintomi → dall’analisi del cibo è
stato possibile rilevare la tossina botulinica (presente soprattutto in contaminazioni della carne). Il
microrganismo responsabile della produzione è C. botulinum ma tossicità non è dovuta a infezione di questo
batterio bensì alla produzione di questa tossina. Unica esposizione che causa tossicità è la via enterale

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(ingestione) mentre non sono mai stati rilevati casi di botulismo da ferita (che si verifica invece con tetano:
tossina riesce ad arrivare a livello centrale perché la tossina infetta i nervi e sfrutta il trasporto assonale
retrogrado fino ad arrivare a livello centrale). Il botulismo è una sindrome neuroparalitica con paralisi flaccida
i cui sintomi dipendono dall’azione della tossina botulinica a livello della sinapsi colinergica: tossina botulinica
impedisce il rilascio dell’acetilcolina a livello sinaptico per cui mancanza di acetilcolina nella placca
neuromuscolare si manifesta come un’incapacità di contrarre i muscoli → sintomatologia è paralisi flaccida =
generale rilassamento muscolare con incapacità dei muscoli di contrarsi. Blocco della trasmissione del
recettore nicotinico a livello scheletrico provoca quindi difficoltà a deglutire, perdita di coordinamento
muscolare e debolezza muscolare ma ovviamente ci sono anche una serie di sintomi muscarinici come perdita
di controllo degli sfinteri, perdita di controllo dell’attività delle ghiandole a livello di salivazione e sudorazione
+ problemi a livello delle pupille (incapacità di reagire allo stimolo luminoso a causa della mancata attività
muscarinica responsabile del restringimento delle pupille). La persona intossicata resta per tutto il tempo
vigile e cosciente perché la tossina botulinica non attraversa la barriera ematoencefalica quindi a livello di SNC
la trasmissione colinergica non è alterata. La morte per intossicazione da botulino avviene per arresto
respiratorio a causa della paralisi dei muscoli respiratori in particolare muscolo diaframmatico e della
muscolatura liscia che riveste i polmoni (si parla di “polmoni d’acciaio” perché i polmoni si irrigidiscono,
perdono la capacità di espandersi e rilasciarsi).
La tossina botulinica può colpire sia l’uomo che gli animali, in particolare gli uccelli. Mentre nell’uomo la
vaccinazione non ha valenza terapeutica (perché i casi di botulismo sono piuttosto rari e perché esistono più
versioni della tossina botulinica ma non ce n’è una preponderante), negli animali è molto importante perché
possono essere infettati da due soli sottotipi (quindi bisogna fare la vaccinazione per entrambi i sottotipi) e
perché oltre alla morte degli animali c’è il problema delle spore e della deposizione delle uova quindi potrebbe
essere che lungo catena alimentare intossicazione degli animali potrebbe diventare un problema per l’uomo.
Esistono 7 sottotipi di tossina botulinica denominati con lettere dalla A alla G:
- tossine A C E hanno come bersaglio molecolare SNAP-25 (tagliano proteina sulla membrana
presinaptica)
- tossine B D G F hanno come bersaglio VAMP (sinaptobrevina che si trova sulle vescicole sinaptiche)
- tossine C hanno come bersaglio la sintaxina
Nel momento in cui si deve verificare fusione delle vescicole presinaptiche con la membrana sinaptica e quindi
rilascio di neurotrasmettitore nella fessura sinaptica, avviene un riconoscimento proteina-mediato. Le
proteine SNAP-25 e SINTAXINA, espresse dalla membrana presinaptica, riconoscono la proteina VAMP
(SINAPTOBREVINA) espressa dalla vescicola presinaptica e a questo punto può avvenire la fusione della
vescicola con la membrana presinaptica e il rilascio di neurotrasmettitore → una interferenza con queste
proteine blocca il rilascio di neurotrasmettitore. QUINDI il risultato dell’azione dei diversi sottotipi è lo stesso
ossia il blocco del rilascio di acetilcolina nella fessura sinaptica ma meccanismo è differente perché è differente
la proteina che rappresenta bersaglio molecolare dell’azione tossica.
La tossina botulinica è composta da due catene: una pesante e una leggera unite insieme da ponti disolfuro.
La catena pesante sembra mediare endocitosi della tossina a livello del terminale presinaptico. Una volta
all’interno del terminale presinaptico, la catena leggera, che è dotata di attività proteolitica, taglia le proteine
bersaglio dell’azione tossica. Entrambe le catene sono importanti per due motivi diversi: catena pesante per
permettere ingresso nel terminale presinaptico e catena leggera per la proteolisi delle proteine bersaglio.
Viene quindi impedita la fusione delle vescicole con la membrana presinaptica e quindi il rilascio di
neurotrasmettitore.
La tossina botulinica è sfruttata anche per usi terapeutici: tramite somministrazione locale per il trattamento
delle condizioni caratterizzate da un eccesso della contrazione muscolare (DISTONIE = alterazioni del tono
muscolare) come:
- blefarospasmo condizione caratterizzata da una contrazione involontaria dei muscoli della palpebra che
causa una progressiva chiusura degli occhi ingravescente (condizione patologica che peggiora nel
tempo). Somministrando dosi molto basse di tossina botulinica si ottiene rilassamento dei muscoli e
quindi mantenere apertura degli occhi migliorando la sintomatologia.
- forme di strabismo che hanno una base patogenetica di tipo muscolare (alterazione del tono muscolare
per eccessiva contrazione): tossina botulinica iniettata localmente promuove rilassamento dei muscoli

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- appianamento delle rughe
Dal 2000 ha avuto anche due applicazioni off label (farmaco esteso ad altre condizioni senza dover condurre
nuovamente studi clinici sulla base del meccanismo d’azione) per curare iperidrosi, iper-salivazione e distonia
cervicale
- iperidrosi è una condizione caratterizzata da eccessiva sudorazione e si è visto che iniezione della tossina
botulinica a livello delle ghiandole sudoripare, lavorando sul recettore muscarinico, è in grado di
migliorare la sintomatologia. Stessa cosa con il recettore muscarinico che innerva le ghiandole salivari
- la distonia cervicale è una condizione in cui si ha una contrazione costante dei muscoli del collo e anche
per questa tipologia di distonia è stato approvato utilizza
In questi casi non si hanno effetti tossici perché la dose di tossina botulinica è estremamente bassa per cui è
praticamente impossibile che si verifichi tossicità sistemica + tossina botulinica ha una bassissima capacità di
diffusione (non diffonde oltre il punto di iniezione se non di pochi cm). Ovviamente azione non è definitiva,
dipende dal turnover delle proteine che vengono colpite dalla tossina stessa. Effetto terapeutico si inizia a
vedere da 2 giorni dall’iniezione mentre effetto sulle distonie è massimo 4-5 giorni dall’infezione e viene perso
dopo 8 settimane. Per il trattamento di iperidrosi e ipersalivazione invece una singola iniezione copre quasi 8
mesi.
Altri composti che interferiscono con la trasmissione colinergica sono gli ORGANOFOSFORICI che bloccano
l’acetilcolina esterasi. Dopo il rilascio di neurotrasmettitore e attivazione dei recettori nicotinici/muscarinici
sul terminale postsinaptico, il segnale deve essere spento. Nel caso dell’acetilcolina spegnimento si ha grazie
alla degradazione del neurotrasmettitore da parte dell’acetilcolina esterasi che è il bersaglio di molte sostanze
tossiche e l’effetto può essere estremamente grave perché si tratta di uno degli enzimi più
veloci conosciuti (idrolizza 3x105 molecole di acetilcolina al minuto = degrada una molecola
di acetilcolina ogni 8 microsecondi) per cui se una sostanza tossica colpisce un enzima così
attivo, effetto tossico può essere estremamente grave a livello di SN. Gli organofosforici
sono stati inizialmente prodotti come potenti insetticidi ma, a differenza di altre classi di
insetticidi, hanno una bassa persistenza nell’ambiente nel senso che si degradano completamente entro 5gg
senza accumularsi. Hanno però una tossicità a livello dell’acetilcolina esterasi che li rende pericolosi anche per
l’uomo. Per un incidente di laboratorio da questi insetticidi è stato generato il primo gas nervino (gas nervini
= composti organofosforici volatili estremamente tossici che se inalati possono portare alla morte in pochi
secondi).
Formula chimica di tutti gli organofosforici è caratterizzata da un fosforo pentavalente legato a diversi
sostituenti ma la tossicità è determinata dal doppio legame P=O che mima quello che si osserva
nell’acetilcolina in cui c’è un carbonio legato con un doppio legame a O che si lega al sito catalitico
dell’acetilcolina esterasi. MA mentre il legame fra acetilcolina e acetilcolina esterasi è debole (si creano legami
H con i gruppi OH presenti a livello dei residui di serina presenti nella tasca esterasica dell’acetilcolina esterasi),
nel caso degli organofosforici, in cui C è sostituito da P, il legame con la tasca enzimatica è di tipo covalente
quindi una volta che si legano, fosforilano l’enzima, organofosforico resta legato impedendo aggancio
dell’acetilcolina per la sia degradazione. Gli insetticidi sintetizzati più recentemente hanno invece un doppio
legame P = S perché nell’uomo una struttura del genere non crea alcun problema a livello di acetilcolina
esterasi mentre negli insetti è presente un sistema enzimatico (assente nell’uomo) che sostituisce, una volta
che insetticida entra a contatto con organismo, zolfo con ossigeno quindi questo migliora la selettività della
tossicità verso gli insetti rispetto all’uomo. Nei gas nervini invece il P=O è mantenuto perché sono sintetizzati
con lo scopo di avere tossicità nell’uomo. I composti organofosforici come i gas nervini sono molto lipofili
quindi il problema non riguarda solo inalazione ma anche la penetrazione di queste sostanze attraverso la
cute per cui come strumento di protezione individuale non bastano le maschere ma è necessario coprire tutto
il corpo perché anche un’esposizione per via cutanea può causare tossicità centrale potenzialmente fatale.
Persone maggiormente esposte agli organofosforici sono gli addetti all’utilizzo di questi insetticidi e le persone
che lavorano nei campi. L’intossicazione da composti organofosforici si manifesta con una sintomatologia
neurologica quindi l’intervento deve essere molto veloce altrimenti la morte per paralisi respiratoria è certa.
Esiste un antidoto in caso di intossicazione che deve essere assunto quando iniziano a comparire i sintomi
neurologici mentre l’arresto respiratorio è difficile da evitare se la sintomatologia è già in corso.

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Organofosforici inizialmente erano stati sintetizzati come insetticidi ma verso la metà degli anni ’30 nella
Germania nazista un chimico tedesco stava lavorando per produrre insetticidi più potenti ma è rimasto
intossicato perché si è generato casualmente un gas volatile che si è diffuso in laboratorio. Questo composto
che è stato generato casualmente è stato il primo esempio di gas nervino, il TABUN, che rappresenta il
precursore di tutti i gas nervini. L’incidente è stato visto come una opportunità di creare un’arma di distruzione
di massa quindi la produzione è stata appaltata alle industrie belliche che hanno cercato di rendere il
composto più letale. Da lì in poi sono state prodotte diverse tipologie di gas nervino. La prima serie sintetizzata
è la serie G, il cui precursore è il SARIN. Molte delle formule chimiche di questi agenti sono coperte da segreto
militare (es quelli della serie B). Problema dei gas nervini è che sono economici e facili da produrre e la morte
sopraggiunge in pochi minuti. Esistono più serie di gas nervini perché il meccanismo d’azione è lo stesso,
quello che cambia tra una serie e l’altra è il tempo che intercorre tra intossicazione e morte per arresto
respiratorio (più questo tempo è lungo maggiore è la possibilità di intervenire per salvare la vita).
Nonostante sia stato fra i primi a essere stato sintetizzato e nonostante esistano gas nervini più potenti, il
SARIN è ancora oggi tra i più utilizzati perché può essere conservato sotto forma di due precursori differenti
che singolarmente non sono tossici, facilitando il maneggiamento di questo gas e lo stoccaggio a patto che i
due precursori vengano mantenuti separati ma quando entrano a contatto viene immediatamente
sintetizzato il gas nervino. Le armi basate sul Sarin sono formate da una testata balistica preparata
permettendo di mantenere separate le due componenti gassose, che si miscelano solo al momento
dell’impatto generando il gas nervino mentre i militare che maneggiano questo tipo di armi sono meno a
rischio. Sarin è stato usato per un attacco terroristico alla metropolitana di Tokyo nel 1995, nel 2013 le milizie
Jiadiste hanno usato Sarin contro la popolazione civile + attacco in Siria nel 2018 in cui si è sempre negato che
è stato utilizzato il Sarin ma sembra di sì.
Dal Sarin in poi si è cercato di migliorare la tossicità e rendere più letali queste sostanze → è stata creata serie
V, 10 volte più potente rispetto alla prima generazione, il cui precursore è il nervino VX, sintetizzata dagli
inglesi che hanno poi venduto la formula agli USA. Recentemente sembra che sia stata sintetizzata una quarta
generazione in Russia e il dubbio si è insinuato dopo il tentato omicidio di una ex spia russa che stava
collaborando con il governo inglese. Questa persona è stata intossicata da un nervino la cui formula non
rientra in quelle conosciute ed esposizione non per inalazione ma per esposizione cutanea. Altissima tossicità
cutanea fa si che utilizzo possa essere mascherato perché non viene inalato ma intossicazione si ha in seguito
di interazione con le mucose (quindi potrebbero essere usati con scopi diversi rispetto alla distruzione di
massa).
Esattamente come gli organofosforici, i gas nervini occupano il sito attivo dell’acetilcolina esterasi perché la
struttura è molto simile all’acetilcolina ma presentano un P=O quindi il legame con la tasca enzimatica è
covalente quindi molto più forte per cui enzima rimane fosforilato e non può accogliere e idrolizzare altro
molecole di acetilcolina. Acetilcolina esterasi è un dimero composto da due subunità: in una tasca è presente
il sito esterasico ossia il sito attivo dell’enzima mentre nell’altra subunità si trova il sito anionico che è
importante perché determina interazione elettrostatica che favorisce il corretto posizionamento delle
molecole di acetilcolina ottimizzando il funzionamento dell’enzima. Una volta che acetilcolina si posizione
viene tagliato il gruppo estere e viene idrolizzata la molecola. Organofosforici sfruttano OH della serina (uno
dei tre aa che compongono il sito esterasico insieme a istidina e acido glutammico). In condizioni normali,
quello che determina attivazione dell’enzima è il legame del neurotrasmettitore sull’OH della serina. In questo
caso si ha una fosforilazione del gruppo OH della serina e il legame è talmente forte che organofosforico resta
agganciato all’enzima.
Nel caso di composti organofosforici usati come insetticidi, per dosi alte si osservano gli effetti già dopo 10
minuti e la morte avviene entro 30 minuti. In caso di esposizione cutanea sintomi compaiono tra le 12 e le 24
ore. Nel caso dei gas nervini invece sintomi compaiono dopo pochi secondi/minuti a seconda della dose (sono
molto più letali degli organofosforici come insetticidi).
La sintomatologia determinata dall’avvelenamento da gas nervini è chiamata sindrome dei rubinetti aperti e
dipende soprattutto dall’iperattivazione del sistema colinergico muscarinico → aumento lacrimazione,
secrezioni nasali, salivazione, sudorazione, perdita di controllo degli sfinteri (minzione involontaria, vomito e
diarrea). Successivamente compaiono i sintomi legati all’attivazione dei recettori nicotinici: fascicolazioni,

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tremori muscolari, barcollamento, tachicardia. Ultimi sintomi a comparire sono quelli centrali che dipendono
dall’attivazione sia del recettore muscarinico che nicotinico e si hanno sintomi psichiatrici e convulsioni. La
morte sopraggiunge sempre per arresto respiratorio, nella maggior parte dei casi per arresto del muscolo
diaframmatico. Recentemente è stato visto che anche le persone che riescono a salvarsi (es poliziotti e
soccorritori che hanno subito una intossicazione più lieve accorsi sui luoghi dove sono stati utilizzati nervini)
ma successivamente mostrano poi sintomi di perdita della memoria perché gas penetra nel cervello dove è
molto più importante il recettore nicotinico ma siccome la terapia è salvavita, si interviene sul recettore
muscarinico.
In caso di avvelenamento, prima di utilizzare antidoto vero e proprio si inietta atropina che è antagonista
dell’acetilcolina in modo da bloccare nell’immediato la sintomatologia muscarinica al fine di evitare l’arresto
respiratorio e il decesso. Si va poi a somministrare per via endovenosa o intramuscolare l’antidoto per gli
organofosforici (sia nervini che insetticidi) che è la PRALIDOSSIMA. Dal momento che il gas nervino/composto
organofosforico è legato in modo covalente al sito esterasico dell’acetilcolina-esterasi, si utilizza pralidossima
che, avendo un N quaternario carico positivamente, è in grado di legarsi velocemente al sito anionico
dell’enzima (sfrutta sito libero nell’altra subunità dell’enzima). Poiché la pralidossima ha un gruppo ossimico
fortemente nucleofilo che va ad impattare con il legame covalente tra composto organofosforico e OH della
serina nella tasca enzimatica, legame covalente si spezza e la pralidossima intrappola il composto
organofosforico → i siti esterasici dell’enzima vengono liberati e l’enzima riattivato. Affinchè questo possa
avvenire, la pralidossima deve essere somministrata entro un certo intervallo dall’intossicazione perché il
legame tra organofosforico e il sito enzimatico dell’acetilcolina esterasi va incontro a un fenomeno detto aging
(c’è un invecchiamento dell’enzima per cui con il passare del tempo aggancio dell’organofosforico nella tasca
del sito esterasico si rafforza perché si creano ulteriori legami tra organofosforico e istidina, altro aa presente
nella tasca). Se legame è troppo forte diventa irreversibile e quindi anche la Pralidossima non è abbastanza
forte per dissociare organofosforico dall’enzima. Limite quindi è la tempistica di intervento. Altro problema è
che la Pralidossima non può attraversare la barriera ematoencefalica per cui tutto quello che può essere un
effetto a livello centrale non viene contrastato quindi anche se la vita viene salvata, i sopravvissuti potranno
mostrare effetti collaterali che emergono nel lungo termine. Siccome bisogna intervenire molto velocemente,
per usi militari è stato prodotto un autoiniettore precaricato in cui sono presenti le giuste quantità di atropina
- pralidossima (nel caso di attacco con nervini si somministra nei muscoli dell’addome o del quadricipite
femorale).

TOSSICOLOGIA FORENSE:
Ogni applicazione della tossicologia in tutte quelle situazioni che hanno o potrebbero avere rilevanza in ambito
giuridico. In particolare, il fulcro dell’aspetto tossicologico in ambito giuridico è studiare presenza ed eventuale
influenza di sostanze esogene (soprattutto velenose e psicotrope) in contesti che potrebbero avere una
rilevanza giuridica e le implicazioni mediche e legali legate all’utilizzo di queste sostanze in queste situazioni.
La ricerca di queste sostanze viene fatta in matrici biologiche. Lo scopo finale della tossicologia ha una grossa
interconnessione con gli aspetti normativi e giuridici perché obbiettivo è quello di capire se una determinata
sostanza, alla concentrazione a cui si ritrova, possa essere la causa di avvelenamento (che non deve
necessariamente aver portato alla morte della vittima ma comunque può avere una certa influenza in
situazioni che hanno implicazioni giuridiche) oppure se un determinato comportamento perseguibile
penalmente possa essere dovuto all’effetto tossico di una sostanza presente nell’organismo (= obbiettivo è
quello di capire se un comportamento violento dipende dalla assunzione di una sostanza psicotropa o se
avvelenamento dipende dalla somministrazione di una sostanza tossica). La cosa complicata è che lo scopo
finale è stabilire un chiaro e inconfutabile nesso di causalità tra l’assunzione di una sostanza
farmacologicamente attiva rinvenuta nelle matrici biologiche (della vittima o del colpevole) sia la causa
dell’evento lesivo. Questo è importante perché nel Codice Penale, qualsiasi reato commesso sotto l’effetto di
sostanza psicoattive rappresenta un’aggravante quindi determina una pena più grave in sede processuale.
La tossicologia forense ha avuto una grande evoluzione nel tempo: inizialmente era strettamente legata alla
medicina legale quindi si occupava di analisi post mortem volte a valutare se la morte fosse dipesa
dall’assunzione di un veleno o una sostanza tossica. Inizialmente quindi analisi forense era limitata a studi su
cadavere in caso di morti legate all’assunzione di droghe o a crimini legati alla somministrazione di droghe o

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veleni. Obbiettivo era quello di stabilire se nei reperti biologici post mortem fossero presenti sostanze tossiche
in concentrazioni tali da determinare la morte dell’individuo. Recentemente invece i compiti del tossicologo
forense si sono ampliati moltissimo: oggi non si studiano più solo cadaveri ma anche soggetti viventi dal
momento che la tossicologia forense si occupa delle analisi per la diagnosi del drug-free o meno (bisogna
stabilire se la persona ha assunto sostanze stupefacenti di recente), le analisi fatte dopo che una persona è
stata fermata per guida in stato di ebrezza al fine di stabilire se una persona fa abitualmente uso di alcol,
analisi per l’antidoping… Tossicologia forense si occupa anche delle analisi di materiali non biologici: tutti i
sequestri fatti nel nostro paese vengono analizzati in un laboratorio di tossicologia forense e questo sta
diventando sempre più importante perché la tipologia di sostanze che oggi viene abusata è molto diversa
rispetto al passato infatti a fianco di droghe classiche come stimolanti, oppioidi, allucinogeni, cannabinoidi, ci
sono anche una serie di altre droghe psicoattive con una struttura chimica completamente diversa dalle
droghe classiche, sintetizzate in laboratori clandestini. Nel caso di queste nuove sostanze non abbiamo a
disposizione test di screening veloci che permettano di valutare la presenza di queste sostanze nel materiale
sequestrato e nei campioni biologici per cui la rilevazione di queste sostanze è estremamente difficile. I
laboratori di tossicologia forense sono strettamente interconnessi con i centri antiveleno presenti sul
territorio nazionale per cui ogni volta che nel materiale sequestrato viene identificata una sostanza non nota
con un potenziale d’abuso, viene fatta partire una comunicazione ai centri antiveleno in modo da aggiornare
le tabelle che elencano tutte le sostanze proibite che vengono ricercate in tutte le matrici biologiche. Tra le
analisi tossicologiche fatte nei laboratori di tossicologia forense:
- Conseguimento o revisione della patente di guida disposta per guida in stato di ebbrezza alcolica o sotto
effetto di sostanze stupefacenti
- Accertamenti su lavoratori le cui mansioni comportano rischi per la sicurezza, l’incolumità e la salute di
terzi
- Certificato di idoneità alla mansione
- Valutazione dell’assenza di consumo di stupefacenti nell’ambito dei programmi di recupero e
riabilitazione e verifica dei trattamenti alternativi alle sanzioni previste dal DPR 309/1990 e s.m.i.
- Selezione del personale all’atto del reclutamento e mantenimento dei requisiti di idoneità al servizio
militare
- Idoneità al rilascio del porto d’armi secondo i criteri stabiliti dal Ministero della Salute
- Affido di minori in caso di separazione dei genitori (essere dru-free è richiesto per legge)
- Richieste di adozione internazionale di minori
QUINDI le applicazioni della tossicologia forense sono ampie e si rivolgono a situazioni che si verificano
quotidianamente

Dal momento che la tossicologia forense è strettamente rapportata ad aspetti normativi con implicazioni
giudiziarie, il tossicologo forense oltre a competenze in ambito farmacologico/tossicologico/chimico deve
avere grosse competenze anche in ambito legale e normativo perché l’interpretazione dei dati estrapolati
dalle analisi deve essere fatta considerando tutti i riferimenti normativi vigenti. Vista l’importanza giuridica di
questo tipo di analisi, i laboratori di tossicologia forense sono molto specializzati e controllati per quanto
riguarda le buone partiche di laboratorio (deve essere affidabile), il personale deve essere altamente
specializzato e la strumentazione e tutta la macchina analitica di laboratorio devono essere sottoposti a uno
stretto sistema di controllo qualità (c’è sempre un responsabile della gestione della qualità che deve
monitorare sia gli strumenti sia il lavoro dei tecnici). Questo perché le analisi che escono da questi laboratori
può diventare oggetto di diatriba in sede processuale
La diagnosi di avvelenamento viene fatta sulla base di 4 criteri fondamentali a panaggio di figure differenti:
- criterio circostanziale verificato da medico legale in collaborazione con polizia giudiziaria = valutazione
delle circostanze dei fatti che si sono verificati al momento del decesso o in cui si è verificato il reato
anche se questo non ha portato alla morte della vittima. Si basa sul reperimento in sede di sopralluogo
di oggetti o tracce correlabili a eventuali veleni (siringe, bicchieri, cucchiai, bustine di carta stagnola,
contenitori di farmaci…) nonché di particolari odori o situazioni logistiche o tecniche rilevanti al fine di
ricavare elementi utili attinenti all’uso di sostanze tossiche. Ci sono delle situazioni in cui è più difficile
stabilire quale possa essere stata la causa di avvelenamento. In caso di intossicazione da HCN e da CO, la

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manifestazione sintomatologica è molto simile quindi bisogna ricercare altre indicazioni che facciano
propendere per l’intossicazione da parte di un agente piuttosto che dell’altro. Quindi, in alcuni casi il
criterio circostanziale indirizza chiaramente le successive analisi mentre in altri casi la situazione è
ambigua quindi bisogna fare ulteriori analisi per capire l’effettiva causa di avvelenamento.
- criterio clinico valutato dal medico legale. Si avvale dell’anamnesi, della documentazione sanitaria e degli
eventuali segni clinici o sintomi rilevati dal medico o riferiti dal soggetto intossicato o da altre persone,
utili all’inquadramento del corteo sintomatologico proprio di ciascuna intossicazione.
- criterio anatomo-patologico svolto dall’anatomo-patologo. Si basa sull’esame macroscopico degli organi
così come essi si presentano per aspetto, peso, consistenza, odore e colore all’esame autoptico, come
dell’aspetto, colore e odore dei fondamentali liquidi biologici (sangue, urine, umor vitreo, liquido cefalo-
rachidiano, etc.) onde correlare tali reperti con quadri caratteristici di precisi avvelenamenti. Ad esempio
l’overdose di eroina causa sempre morte per arresto respiratorio mentre cocaina e anfetamine, essendo
stimolanti, provocano morte per arresto cardiaco. Osservazione macroscopica deve essere confermata
da analisi isto-morfologiche di biopsie dei vari organi per studiare le alterazioni funzionali dovute a
sostanze tossiche che abbiano influito su modificazioni strutturali dei tessuti.
L’indagine autoptica ha evidenziato un quadro di stasi poliviscerale, ed un quadro di edema cerebrale
confermato da successivi esami istologici che hanno confermato l’oggettività macroscopica (edema
polmonare), focalizzando l’attenzione su specifici reperti polmonari altamente dimostrativi di imponente
edema polmonare alveolare ed
interstiziale. Si vedono spazi aerei
dilatati con una forte componente
infiammatoria eosinofila che
circonda spazi aerei + dilatazione
capillare →danno polmonare
causato da overdose di eroina.
- criterio chimico-tossicologico in cui tossicologo forense ha ruolo chiave. Ha lo scopo di studiare sia a livello
qualitativo (quale sostanza) che quantitativo (quanta sostanza) la sostanza rilevata nel campione
biologico. Questo è importante perché per stabilire chiaramente che il decesso è stato causato
dall’assunzione di una determinata sostanza, è necessario dimostrare che la quantità di sostanza
rinvenuta nei liquidi biologici sia sufficiente a determinare il decesso stesso.
→ unendo le informazioni che si ricavano da queste quattro valutazioni svolte indipendentemente, si può
arrivare a escludere o meno una diagnosi di avvelenamento in un contesto che ha una rilevanza giuridica. La
legge stabilisce che nessuno di questi criteri, presi singolarmente, è sufficiente a fare una diagnosi certa di
avvelenamento. Per formulare correttamente la diagnosi è assolutamente necessario il concorso delle
risultanze di tutti i criteri o almeno di quelli che più fondatamente possono dimostrare l’azione sull’organismo
di una sostanze tossica. In ogni caso, è imprescindibile dimostrare il nesso di causalità materiale tra contatto-
assunzione del veleno e le conseguenze negative sull’organismo, anche in correlazione concausale con fattori
estrinseci e intrinseci all’individuo.
Tossicologo forense ha un ruolo anche nell’analisi di campioni di suolo in seguito a disastri ambientali per
capire se è stata liberata una sostanza tossica nell’ambiente e prendere di conseguenza delle precauzioni.
Metodologia dell’indagine chimico-tossicologica:
Tutte le operazioni, dalla raccolta del materiale biologico alla conservazione del materiale dopo le analisi, deve
essere fatto in maniera estremamente controllata. Questo perché dove e come è avvenuto il prelievo, come
è stato conservato il campione e come sono state svolte le analisi rappresenta un prova in sede processuale
per cui qualsiasi errore compiuto in questa catena può essere impugnato dalla difesa. Siccome le analisi
compiute rappresentano una prova in sede giudiziaria, i requisiti richiesti a un laboratorio di tossicologia
forense sono molto più stringenti di tutti gli altri laboratori. Vengono richieste:
• certezza e affidabilità dei risultati
• trasparenza dei risultati nel senso che ci deve essere la possibilità di risalire chiaramente alla
manipolazione dei campioni durante tutte le fasi di analisi + i risultati devono essere riproducibili. Per
questo motivo, il campione viene aliquotato. Durante il processo penale infatti, può essere richiesta dalla
difesa di far analizzare lo stesso campione da un altro laboratorio.

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Per dimostrare la presenza di questi requisiti ogni fase analitica deve essere documentata e tracciabile. Anche
la catena di custodia è importantissima (tutti i campioni, anche se caso viene risolto, devono essere conservati
per almeno 5 anni) poiché ha lo scopo di documentare ogni fase analitica, tracciare ogni fase analitica e
ricondurre ogni campione al paziente da cui proviene → La modulistica predisposta deve rendere tracciabile
in maniera univoca qualsiasi movimentazione del campione dalla raccolta allo smaltimento. Tale modulistica
deve contenere:
- tipologia, caratteristiche e idoneità del campione
- struttura in cui campione viene raccolto e analizzato + data e ora della raccolta
- nome e firma di chiunque abbia avuto in custodia il campione
- identificatore univoco (di solito codice a barre autoadesivo) che accomuni il verbale di prelievo stilato
dalla polizia giudiziaria, la catena di custodia e le diverse aliquote del campione, le analisi di
anatomopatologo e medico legale
QUINDI chiunque ha un contatto col campione compare chiaramente perché hanno un ruolo di responsabilità
nell’analisi tossicologica quindi in sede processuale potrebbero essere chiamati a fornire una testimonianza
Le matrici biologiche normalmente utilizzate per la ricerca di sostanze d’abuso sono:
→ MATRICE EMATICA = plasma, sangue o siero. Il sangue non viene mai conservato in toto perché anche
operazioni semplici come il congelamento possono degradare alcune componenti, soprattutto la parte
corpuscolata. Per questo motivo viene conservata come plasma (rimozione della parte corpuscolata ma
restano i fattori di coagulazione) o siero (plasma decurtato anche dei fattori di coagulazione). Nel caso delle
trasfusioni autologhe (doping), il sangue non viene mai congelato perché si creano lesioni a livello degli
eritrociti che possono essere rilevate in laboratorio. Quindi se il sangue autologo viene congelato, il doping
ematico può essere rilevato. La matrice ematica è quella d’elezione per gli esami di laboratorio ma non è
esente da limitazioni: dato che il tempo di permanenza delle sostanze tossiche d’abuso nel sangue è
bassissimo (perché la clearance ematica di praticamente tutte le sostanze da abuso è estremamente elevata),
il prelievo deve essere eseguito in tempi necessariamente ristretti per evitare risultati falsamente negativi. Ad
es la cocaina ha una clearance ematica di pochissimi minuti quindi se il prelievo viene fatto a 30 minuti
dall’assunzione, può non essere rilevata nel sangue. Il problema viene in parte risolto dalla ricerca di metaboliti
attivi che hanno una permanenza ematica più lunga. Ad es il THC ha un permanenza nel sangue di poche ore
ma il suo principale metabolita attivo può essere rilevato nel sangue anche dopo 24 ore. Lo stesso vale per
l’eroina che ha clearance di pochissimi minuti ma un suo metabolita può essere rilevato dopo 2 ore. Il
vantaggio delle analisi sulla matrice ematica è che se si ritrova una sostanza a concentrazioni elevate, è
possibile capire quale fosse lo stato psicoattivo dell’individuo al momento del prelievo (alta concentrazione di
una sostanza nella matrice ematica è associata sicuramente a un’alterazione dello stato psicofisico al
momento del prelievo).
→ MATRICE URINARIA: molto importante soprattutto associata a quella ematica. Rispetto a quella ematica, la
permanenza delle sostanze d’abuso in questa matrice è più lunga quindi si possono rinvenire campioni positivi
anche se la matrice ematica è negativa. Si possono correlare le concentrazioni urinarie con quelle ematiche:
calcolando empiricamente la clearance renale, si può risalire alla concentrazione di sostanza assunta. Il
problema è che ci sono delle grandi differenza interindividuali per quanto riguarda la clearance renale e a
seconda di questa una sostanza può permanere più o meno a lungo nell’organismo. Ad esempio, per
mascherare i controlli antidoping si possono assumere diuretici, che velocizzano l’eliminazione di sostanze
psicotrope. Estrapolando questo dato e proiettandolo nella vita di tutti i giorni, emerge che una persona che
assume diuretici per controllare ipertensione avrà clearance renale anche per le sostanze d’abuso maggiore
rispetto a chi non assume quei farmaci. L’analisi della matrice urinaria è importante quando i criteri
anatomopatologici suggeriscono l’abuso di una determinata sostanza mentre le analisi ematiche sembrano
smentire. Bisogna comunque associare l’analisi della matrice urinaria con quella di altre matrici perché non
basta stabilire quale sostanza è stata utilizzata ma anche in che concentrazione ma analisi della matrice
ematica non fornisce info né sulla quantità di sostanza assunta né sulle tempistiche di assunzione.
→ MATRICE SALIVARE: concentrazione correla molto bene con la concentrazione ematica ad eccezione dei
cannabinoidi che essendo molto lipofili hanno un assorbimento diverso. QUINDI se una sostanza d’abuso si
trova in una concentrazione elevata a livello salivare in quel momento la concentrazione è elevata anche a

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livello ematico. Di solito è usata per test di screening veloce mentre non può essere usata in sede giudiziaria
per la carenza di kit e metodiche validate di analisi della matrice salivare. Viene usata di routine solo nei
controlli per guida sotto effetto di alcool o stupefacenti. Analisi della matrice salivare deve essere per forza
associata a quella di altre matrici
→ MATRICE CHERATINICA: dà informazioni completamente diverse rispetto alle altre matrici. Il capello
rappresenta la memoria storica a tutte le sostanze cui organismo è stato esposto durante la crescita del
capello stesso perché xenobiotici e sostanza lipofile permangono a lungo nel capello. È quindi possibile fare
una analisi segmentale basata sul fatto che il bulbo pilifero ha un suo ciclo vitale di tre fasi:
1. fase anagenica: fase in cui vengono incorporati gli xenobiotico. Dura da 2 a 7 anni quindi a seconda della
lunghezza del capello, considerando che la crescita del capello nella popolazione è molto simile (1 cm al
mese) e facendo un prelievo di una porzione di capelli dalla cute per una lunghezza di 5cm, possiamo
fare analisi segmentale ossia una valutazione dell’incorporazione nel capello (e quindi dell’assunzione) di
xenobiotici nei mesi precedenti. Analisi segmentale è importante ad es per i tossicodipendenti nelle
comunità di recupero per valutare eventuali ricadute
2. fase catagenica e telogenica, durante le quali gli xenobiotici permangono nel capello ma non possono
esserne inglobati altri
QUINDI la porzione di capello più vicina alla cute dà indicazioni sull’assunzione più recente di xenobiotici o
sostanze d’abuso.
La matrice cheratinica è valida solo sui capelli mentre altre tipologie di peli non vengono valutate perché c’è
variabilità riguardo la velocità di crescita
Ci sono comunque delle limitazioni: l’incorporazione di una sostanza nel capello avviene per trasferimento dal
flusso ematico o dalle ghiandole sebacee che però differisce a seconda della presenza o meno di melanina
vista l’affinità degli xenobiotici per questa sostanza (quindi si ha incorporazione maggiore degli xenobiotici
nelle persone con capelli scuri rispetto a quelle con capelli chiari). Altro problema dell’utilizzo di questa
matrice è che trattamenti aggressivi come decolorazioni, trattamenti liscianti o permanenti può portare alla
perdita di eventuali xenobiotici che erano incorporati nel capello per cui questa analisi non può essere fatta +
variazioni nell’incorporazione legate al metabolismo individuale e alla via di somministrazione
La scelta della matrice biologica dipende da: finalità dell’indagine, tipo di sostanza da identificare, tempi,
metodi e tipologia di assunzione della sostanza, farmacocinetica e farmacodinamica della sostanza di
interesse. Abbiamo quindi a disposizione più matrici biologiche diverse che danno informazioni diverse che
devono essere correttamente interpretate. La valutazione della concentrazione della sostanza tossica in più
matrici può dare info molto più complete rispetto all’analisi su singola matrice
Metodiche analitiche:
Analisi analitica è stratificata ossia fatta step by step partendo da analisi poco sensibili che non possono essere
usate in sede giudiziaria ma che danno una indicazione iniziale su come orientarsi fino ai test di conferma veri
e propri che sono invece molto sensibili:
→ Test speditivi (o test rapidi): possono essere eseguiti in un regime di urgenza oppure on site (ossia quando
si effettua il sopralluogo). Si tratta di tecniche chimiche o immunochimiche su card a lettura visiva o per mezzo
di scanner portatili in dotazione alle forze dell’ordine (etilometro e screening multi-drug rapido). I test speditivi
non hanno alcun valore legale, pertanto devono sempre essere confermati con metodiche di secondo livello.
L’unico test speditivo validato è l’etilometro. Esistono test immunoistochimici non validati usati per le sostanze
d’abuso classiche che danno una indicazione sulla classe di sostanza d’abuso assunta = con questi test non si
può stabilire esattamente quale sostanza d’abuso è stata assunta, si può solo capire se si è positivi o negativi
per una classe di sostanze es stimolanti, oppioidi, cannabinoidi, barbiturici/benzodiazepine.
→ Test di screening (o di I livello): c’è un’alta specificità diagnostica per la classe di sostanze (più dei test
speditivi) ma non si è ancora in grado di stabilire con certezza quale sostanza è stata assunta (quindi permette
solo di stabilire se il campione è positivo o negativo per una certa classe di sostanze). Ai fini della validità
medico legale un risultato negativo rispetto ai cut-off di legge è accettato come tale mentre risultati non
negativi necessitano di conferma con metodiche di III livello (quindi anche in questo caso la positività a questo

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test non ha valore legale). I cut off sono stati stabiliti per legge per tutte le sostanze d’abuso su base scientifica
ossia tenendo conto delle concentrazioni che provocano alterazioni psicofisiche nel soggetto.
→ Test di conferma (o di II livello): sono test di conferma che si basano su metodiche complesse come
l’estrazione degli analiti, la separazione cromatografica in fase liquida o gassosa, l’identificazione puntuale di
una singola sostanza in spettrometria di massa (MS) e la quantificazione di ciascuna sostanza identificata.
QUINDI si tratta di test che hanno elevata specificità per la singola, specifica sostanza. Grazie a questi test si
può quindi stabilire con precisione quale sostanza è stata assunta e in che concentrazione per fare poi un
confronto con il cut off. Solo i risultati dei test di secondo livello hanno una chiara valenza amministrativa e
legale per stabilire se il comportamento di una persona è stato chiaramente provocato dall’assunzione di una
sostanza tossica. Per quanto riguarda la validità medico-legale di questi test:
- campioni con concentrazioni degli analiti di interesse minori dei cut-off prestabiliti vengono considerati
negativi, anche se positivi ai test di screening perché significa che sono state rilevate al di sotto del cut
off (ossia la dose assunta non è in grado di alterare il comportamento di una persona)
- sostanza d’abuso e/o suoi metaboliti presenti in concentrazioni uguali o maggiori del cut-off stabilito:
campione considerato positivo per tale sostanza
Il cut off è definito come il valore di concentrazione di una sostanza, definito in maniera convenzionale, che
stabilisce la negatività o la positività di
un campione riguardo detta sostanza. I valori di cut-off per i test attualmente utilizzati per le matrici urinaria
ed ematica sono stati stabiliti nel 2012 dalle Linee Guida del Gruppo Tossicologi Forensi Italiani (GTFI), i cut-
off GTFI del 2017 per i campioni di matrice cheratinica sono mutuati da quelli raccomandati dalla Society of
Hair Testing americana (SOHT) nel 2012.
La scelta della metodica più opportuna dipende da: situazione di urgenza o meno, caratteristiche di
performance analitiche richieste e necessità di ottenere risultati validi o meno ai fini forensi. In genere tutti e
tre i tipi di test vengono eseguiti perché i test di conferma, che sono i più sensibili, richiedono molto tempo
quindi siccome alcune situazioni di valenza giuridica richiedono rapidità, i test rapidi e i test di primo livello
vengono fatti per velocizzare le analisi in situazioni di urgenza per dare una prima indicazione di massima sul
fatto che ci siano aspetti tossicologici da prendere in considerazione in una situazione perseguibile o meno
penalmente in modo da procedere più rapidamente a livello giuridico. Ci si prenderà poi più tempo per
svolgere i test di conferma.
Applicazioni attuali di tipo penale della tossicologia forense sono: avvelenamento, reati stradali, reati sessuali
e doping sportivo. La legge stabilisce che per tutte queste tipologie di reati, la presenza nelle matrici biologiche
di sostanze d’abuso, psicotrope o tossiche rappresenta sempre una aggravante che influenza la tipologia di
pena inflitta a livello processuale per questo è importante tossicologia forense. Reati stradali commessi sotto
l’effetto di alcol o sostanze stupefacenti prevedono pene molto più severe, lo stesso in caso di omicidio o reati
sessuali. Anche una situazione in cui ruolo del tossicologo è fondamentale è il doping sportivo, un reato
perseguibile penalmente introdotto nel 2000 quindi la valutazione della presenza di sostanze da abuso nei
controlli antidoping è un aspetto molto importante nel lavoro del tossicologo forense.

IL DOPING:
Nonostante l’implementazione dei controlli nella società moderna resta un problema molto diffuso e la
percezione che ne abbiamo è sottostimata perché ci arrivano informazioni solo per i casi più eclatanti (tanto
che le sospensioni per controlli postivi ad antidoping nelle olimpiadi di RIO 2016 hanno interessato le squadre
di quasi tutti i paesi). Un grosso limite è legato al fatto che i controlli vengono fatti sistematicamente solo sugli
atleti professionisti mentre non c’è possibilità di controllare gli atleti amatoriali. Un altro problema riguarda
la rilevazione nei campioni biologici di atleti professionisti, di nuove sostanze con potenziale ergogenico
(quindi in grado di migliorare la performance sportiva) sintetizzate in laboratori clandestini.
Il doping è sicuramente qualcosa che è sempre esistito da quando esistono le competizioni sportive. Nell’era
moderna, il doping riguardava inizialmente la somministrazione di sostanze ergogeniche stimolanti negli

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animali, soprattutto nei cavalli, e successivamente uso di queste sostanze si è esteso anche all’uomo. Negli
anni ’60 si sono verificate diverse morti nel mondo del ciclismo per abuso di anfetamine e questo ha messo in
luce la necessità di armonizzare le regolamentazioni e i controlli tra i vari stati. Oggi doping è un reato penale,
punito fino a 3 anni di reclusione che possono aumentare se abuso di sostanze provoca problemi di salute
nell’atleta che ne fa uso, se ad assumere sostanze sono minorenni e se la persona che somministra le sostanze
o che è complice nell’utilizzo di sostanze per aumentare la prestazione sportiva è un dipendente del CONI. La
sanzione minima è una sospensione dalla competizione per 2 anni e si può arrivare anche a una sospensione
a vita dell’atleta
Nel caso del doping non sono stati stabiliti cut-off, un campione è negativo solo se drug-free per questo molti
controlli risultano positivi a causa dell’assunzione involontaria di sostanze proibite. Questo pone un problema
soprattutto nel caso degli integratori. Essi sono frequentemente utilizzati dagli atleti ma, a differenza dei
farmaci, non sono sottoposti a controlli stringenti in fase di produzione, per cui spesso contengono
contaminanti, soprattutto steroidi anabolizzanti e psicostimolanti → molti dei controlli positivi legati a
un’assunzione non intenzionale della sostanza derivano dal consumo di integratori ma anche dall’utilizzo di
creme contenenti sostanze proibite (perché siccome non c’è un cut-off, anche assorbimento a livello topico
può portare a una positività). In questi casi è importante dimostrare che non c’è stata intenzionalità
nell’assunzione della sostanza
I primi a fare uso di doping furono i greci nelle prime olimpiadi e sostanze ergogeniche erano diffuse anche
tra i gladiatori romani. Ai tempi si utilizzavano essenzialmente sostanze naturali estratte da piante o funghi
ma anche la carne, soprattutto di toro, come fonte di testosterone. Nel tempo c’è stata poi un’evoluzione
dall’utilizzo di sostanze naturali a quello di sostanze di sintesi e il doping nella società moderna ha avuto un
grosso impatto soprattutto a partire dagli anni ’60 quando si è diffuso il consumo di anfetamine nel ciclismo
che ha portato a una serie di morte per infarto durante le gare in diverse competizioni ciclistiche. Il primo caso
con un forte impatto mediatico risale alle olimpiadi di Roma del 1960 quando un ciclista danese è morto
durante una competizione in seguito a utilizzo di anfetamine. L’evento che fece poi effettivamente partire la
macchina dell’antidoping è stato durante il Tour di France del 1967: un ciclista morì stroncato da un infarto in
seguito ad abuso di anfetamine ripreso in diretta televisiva. Da qui in poi è emersa chiaramente la necessità
di controllare l’utilizzo di sostanze d’abuso nelle competizioni sportive.
Nonostante il doping abbia sempre fatto parte dello sport, le sostanze che sono state poi assunte nel tempo
sono cambiate: sostanze più abusate in assoluto prima degli anni ’90 sono state anfetamine (psicostimolanti
abusati negli sport in cui è necessaria una grande resistenza fisica) e steroidi anabolizzanti per aumentare la
massa muscolare soprattutto negli sport di forza (primo steroide anabolizzante sintetico è stato sintetizzato
negli anni ’50 e da lì gli steroidi sono sempre stati utilizzati per il loro altissimo potenziale ergogenico e una
capacità molto elevata di aumentare la massa muscolare). A partire dagli anni ’90 si è diffuso invece il doping
ematico quindi trasfusioni, assunzione di eritropoietina, ormone della crescita + gli steroidi hanno continuato
a rappresentare un grosso problema. Attualmente lo scenario sta cambiando: si stanno diffondendo una serie
di nuove sostanze di sintesi che hanno un potenziale simile alle anfetamine (catinoni sintetici, potenziale simile
alle anfetamine quindi psicostimolanti strutturalmente diverse dalle anfetamine ma molto più potenti) +
problema legato al doping genetico, che potrebbe essere il futuro del doping nello sport
Il problema dei farmaci usati nello sport è legato al fatto che:
- provengono spesso dal mercato clandestino e sono allestiti in laboratori non autorizzati → spesso si tratta
di sostanze di sintesi che hanno una struttura chimica differente rispetto a quelle note classicamente
utilizzate per cui è difficile sia ritrovarle nelle matrici sia identificare degli standard. Infatti, solitamente
la maggior parte delle sostanze ritrovate vengono comparate con degli standard di laboratorio = si
confrontano i picchi che si ritrovano con standard che presentano picchi corrispondenti a sostanze note
mentre in caso di nuove sostanze non si hanno a disposizione degli standard
- nella produzione clandestina, a differenza dei farmaci prodotti a scopo terapeutico, si possono essere
dei contaminanti che possono avere effetti tossici sull’organismo nel breve o nel lungo termine

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La lotta al doping ha una storia lunga e confusa: fino alla fine degli anni ’90, il doping è stato gestito
singolarmente dai diversi stati (a partire dagli anni ’60 ogni stato si è mosso singolarmente) creando un
problema di mancata uniformità sulla legislazione del doping. Ai tempi rispetto a oggi c’era anche un problema
di metodi di rilevazione (oggi abbiamo a disposizione metodi di rilevazione più fini di sostanze nelle matrici
biologiche). Il primo controllo antidoping introdotto sul finire degli anni ’60 in seguito alla morte di alcuni
ciclisti è stato il controllo dell’ematocrito (numero di globuli rossi nel sangue per misurare in modo indiretto
doping ematico) per capire se atleta avesse fatto uso di trasfusioni o di eritropoietina. il grosso problema di
questa tecnica è che ci sono delle differenze intra-individuali importanti per quanto riguarda la produzione di
globuli rossi quindi mettere un cut off al 60% può portare a degli errori di valutazione (in pratica una conta
corpuscolata superiore al 60% veniva considerata doping ematico ma ci sono persone che fisiologicamente
hanno un ematocrito più alto per ragioni genetiche ma ai tempi non era possibile dimostrarlo). Ad oggi invece
i metodi di rilevazione sono cambiati: per le trasfusioni eterologhe si guardano i globuli rossi per capire se il
sangue prelevato è stato congelato determinando dei danni agli eritrociti mentre nel caso dell’eritropoietina
questa viene direttamente cercata all’interno della matrice biologica. Resta il problema delle trasfusioni
eterologhe in cui non si congela il sangue ma lo si conserva in frigorifero. Queste non possono quindi essere
rivelate dai controlli antidoping. Altro problema è che le regole introdotte non sono retroattive quindi tutte
le vittorie e i record stabiliti prima del 2000 con utilizzo di doping sono ancora valide oggi nonostante
chiaramente sotto effetto di doping. Nel 1999 è stato fondato quello che ancora oggi è principale ente
regolatorio per antidoping a livello mondiale che è l’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA). Ha la sua base
amministrativa in Canada e fanno parte di questa agenzia il Comitato Olimpido e Paralimpico e tutte le
principali federazioni sportive di tutti gli stati che hanno aderito a livello mondiale ma anche i governi. Questa
agenzia si occupa di coordinare tutto quello che riguarda l’antidoping nello sport. La fondazione di questo
ente ha permesso di armonizzare i controlli da effettuare, la modalità ed è stata stilata una lista di sostanze
che sono vietate a livello mondiale nello sport. Questa lista viene aggiornata annualmente aggiungendo le
nuove sostanze sintetiche e quelle sequestrate nei laboratori clandestini.
Il doping è definito come la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o
farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni
patologiche con lo scopo di migliorare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare
le prestazioni agonistiche degli atleti. In realtà, oggi la definizione di doping è stata implementata e un atleta
viene sanzionato per doping anche se evita i controlli antidoping senza addurre una chiara giustificazione:
saltare tre controlli consecutivi nell’arco di un anno determina sanzionamento per doping dell’atleta. Anche il
tentativo di alterare i campioni è considerato doping (uno dei metodi per evitare la rilevazione è quello di
alterare i campioni: per quanto riguarda urine, i metodi maggiormente utilizzati sono acidificazione o
basificazione che possono portare a degradazione della sostanza se è presente oppure aggiungere agenti
batterici infettivi alterando il campione e questo diventa un problema in fase di identificazione delle sostanze.
Sangue può essere adulterato dal punto di vista fisico andando ad alterare la parte corpuscolata rendendo il
campione non idoneo alle analisi) così come il fatto di possedere o di distribuire sostanze proibite
nell’ambiente sportivo è considerato doping. Anche terzi che somministrano sostanze agli atleti possono
essere sanzionati per doping (quindi anche tutto il team che circonda atleta è passibile di sanzioni). Subito
dopo la fondazione della WADA hanno iniziato ad essere presi dei provvedimenti:
- immediatamente dopo fondazione è stato introdotto per la prima volta il test di positività
all’eritropoietina alle olimpiadi (dal 2000 in avanti)
- il primo codice armonizzato per l’antidoping è stato stilato nel 2003
- la prima volta che è stata stilata una chiara lista di sostanze proibite nello sport risale al 2004
- in quegli anni è stata scoperta per la prima volta la presenza di laboratori clandestini che sintetizzavano
deliberatamente delle versioni modificate di steroidi e ormoni della crescita per evitare che questi
venissero rilevati nei controlli. Ad es il THG, uno steroide che poteva essere assunto senza essere rilevato,
è stato trovato nella velocista Marrion Jones cui sono state annullate le medaglie che aveva vinto alle

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olimpiadi. Questo, oltre ad aver dato la certezza dell’esistenza di un sistema di produzione clandestino di
sostanze che non venivano rilevate dai controlli antidoping, ha anche aperto gli occhi sul problema che
sostanze come gli ormoni steroidei potessero essere utilizzati anche dalle donne, con problemi ancora
più gravi e difficili da revertire anche dopo che si sospende l’assunzione dato che queste sostanze portano
a sbilanciare completamente gli ormoni nell’organismo
- nel 2012 grazie a finanziamenti della WADA, è stato messo a punto il primo test specifico per rilevare un
abuso di ormone della crescita e questo metodo è stato usato nei giochi di Londra (prima del 2012 invece
non era possibile capire se una persona avesse assunto ormoni della crescita prima di una performance
sportiva)
Al 2012 risale anche uno dei casi di doping più eclatanti della storia che ha coinvolto Lance Armostrong
durante il tour de France. In questo caso assunzione di sostanze non dipendeva dalla sola volontà dell’atleta
ma c’è stato il coinvolgimento dell’intero team, che aveva promosso un programma di doping che coinvolgeva
tutto gli atleti della squadra: agli atleti veniva somministrata eritropoietina in microdosi per aumentare la
resistenza cercando di stare a una concentrazione nelle matrici biologiche borderline rispetto alla possibilità
di rilevamento stessa → dato che coinvolgeva intero team è stata rivista la definizione di doping ammettendo
la possibilità di sanzionare intero team qualora fosse complice dell’utilizzo di sostanze nelle competizioni. Uno
degli ultimi casi eclatanti riguarda una serie di investigazioni condotte dal 2014 grazie alle quali è stato
possibile scoprire che il governo russo aveva promosso un programma di doping in previsione della
partecipazione dei suoi atleti alle olimpiadi di RIO del 2016. La UADA ha deciso quindi di proibire a tutti gli
atleti russi di partecipare ai Giochi di Rio del 2016.
Per la prima volta nel 2004 è stata stilata una lista dettagliata delle sostanze da non utilizzare nello sport.
Questa lista viene revisionata tutti gli anni, pubblicata a ottobre di ogni anno ed entra in vigore il 1° gennaio
dell’anno successivo. Le sostanze della lista sono divise in tre grandi categorie:
→ Sostanze proibite sempre, sia durante la competizione che prima che dopo dal momento che può esserci
un abuso volto a migliorare il recupero o l’allenamento:
- agenti anabolici tra cui agenti che hanno applicazione veterinaria (si tratta di sostanze il cui potenziale
anabolico è estremamente elevato ma non hanno mai avuto applicazione nell’uomo)
- Ormone della crescita e ormoni peptidici
- β-agonisti soprattutto del recettore β2 adrenergico perché aumentano la broncodilatazione e quindi la
performance soprattutto nel caso di sport aerobici
- Modulatori ormonali e metabolici
- Diuretici e altri agenti utilizzati per mascherare l’utilizzo di altre sostanze dopanti (diuretici perché
aumentano clearance renale quindi aumentano escrezione di una sostanza, altri agenti mascheranti sono
i plasma volume expander ossia sostanze di sintesi o analoghi dell’albumina che possono essere usati per
espandere il volume del plasma quindi la sostanza d’abuso viene diluita all’interno del campione)
Tra i metodi che sono sempre proibiti troviamo
- Manipolazione delle componenti del sangue
- manipolazione chimica e fisica dei campioni
- Doping genetico
→ Sostanze che non possono essere usate solo durante la competizione (mentre durante allenamento si) oltre
a quelle di prima che sono sempre proibite: stimolanti, narcotici, cannabinoidi e glucocorticosteroidi (perché
narcotici e glucocorticosteroidi aumentano la soglia del dolore aumentando la resistenza fisica mentre gli
stimolanti sono proibiti perché aumentano la resistenza negli sport che richiedono grande resistenza fisica)
→ Sostanze proibite solo in particolari sport:
- alcol (oggi è stato eliminato dalla lista perché negli anni non è mai stato trovato il campione di un atleta
professionista positivo all’alcol dato che ha un valore nutrizionale pari a zero ma un altissimo potere
calorico + è ergolitico quindi ha un effetto opposto di quello che si richiede durante lo sport)

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- β-bloccanti che hanno particolare rilevanza negli sport in cui ansia e micromovimenti possono peggiorare
le performance (quindi sport in cui la performance è migliore diminuendo le funzioni basali) come tuffi,
nuoto sincronizzato, sport di apnea, freccette…
Oltre a queste sono proibite anche tutte le sostanze non approvate. La WADA obbliga le ditte farmaceutiche,
già durante lo sviluppo clinico e preclinico, a indicare se la molecola che stanno sviluppando potrebbe avere
un potenziale d’abuso sportivo (ossia ha un potenziale ergogenico o potrebbe essere usata per migliorare le
performance in ambito sportivo). La WADA si interfaccia anche con aziende farmaceutiche per cercare di
prevedere in maniera precoce se potrebbero essere immesse sul mercato sostanze potenzialmente d’abuso.
Anche gli atleti possono soffrire di patologie per cui è richiesta l’assunzione di farmaci. Se questi farmaci
contengono sostanze tra quelle vietate è stato introdotto dalla WADA un procedimento detto “esenzione a
fini terapeutici” che permette agli atleti di fare una particolare richiesta di deroga per utilizzare una sostanza
in lista. Il medico invia la documentazione necessaria alla commissione scientifica antidoping istituita dalla
WADA che la valuta e decide se concedere all’atleta di utilizzare questo farmaco anche se in lista o se non
concedere questa deroga. Di solito, è una richiesta che va fatta in anticipo rispetto alla competizione, in caso
di emergenza può essere retroattiva (se un atleta si sente male ed è necessario somministrare una sostanza
lo si fa). Altra possibilità è quella di optare per la somministrazione di altre categorie di farmaci (ad es se un
atleta dovrebbe assumere diuretici per curare ipertensione, si possono usare al loro posto sartani o ACE-
inibitori). Altra cosa importante da considerare è il fatto che moltissimi farmaci da banco contengono sostanze
tra quelle proibite quindi atleti devono fare moltissima attenzione. Ad esempio, la maggior parte dei farmaci
da banco usati per decongestionare le vie aeree superiori contengono efedrina, una molecola molto simile
all’anfetamina. Ha un grossissimo potenziale ergogenico ed è uno stimolante quando utilizzo di questi farmaci
porta a positività ai controlli antidoping. Essendo un farmaco sul foglietto illustrativo è sempre indicato se
farmaco può portare positività ai controlli. Ad oggi efedrina è stata proibita da integratoti ma fino alla fine
degli anni ’80 era una componente centrale di questi integratori per perdere peso (ma oltre agli effetti
anoressizanti dà anche dipendenza).

MANIPOLAZIONE DEL SANGUE E DELLE SUE COMPONENTI:


All’interno della lista delle sostanze e metodi proibiti troviamo la manipolazione del sangue e delle
componenti ematiche. Doping ematico interessa soprattutto sport aerobici e di resistenza. La manipolazione
delle componenti del sangue si riferisce al fatto che sono state prodotto emoglobine ricombinanti che
possono essere iniettate per migliorare il trasporto di ossigeno. Il fattore limitante per il trasporto di ossigeno
ai muscoli (che quindi stabilisce il limite di resistenza durante attività sportiva intensa) dipende infatti dalla
concentrazione ematica di emoglobina = maggiore è emoglobina maggiore è trasporto di ossigeno ai muscoli
e quindi maggiore è la performance. QUINDI il concetto alla base del doping ematico (inteso come trasfusioni
e iniezioni di eritropoietina) è che qualsiasi performance negli sport aerobici in cui è richiesta moltissima
resistenza è limitata dalla capacità di fornire ossigeno ai muscoli dal momento che quando si limita ossigeno
ai muscoli, questi iniziano a produrre acido lattico con un calo drastico della performance negli sport aerobici.
I fattori che influenzano trasporto ossigeno ai muscoli sono
- gittata cardiaca (quindi capacità del cuore di pompare sangue nell’organismo)
- capacità del sangue di trasportare ossigeno, che dipende strettamente dal contenuto di emoglobina
- capacità del muscolo di estrarre ossigeno dal sangue
In un atleta allenato, il fattore limitante è la capacità di trasporto di ossigeno all’interno del sangue dal
momento che
- Problemi della gittata cardiaca dipendono da patologie cardiovascolari incompatibili con esercizio fisico
ad alta intensità
- Capacità dei muscoli di estrarre ossigeno dipende dal numero di fibre muscolari e dal metabolismo delle
fibre muscolari stesse (più le fibre muscolari sono attive più sono in grado di estrarre ossigeno dal sangue)
che sono elevate in un atleta. Anche all’interno dello stesso atleta, a seconda dello sport che pratica, non

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tutti i muscoli hanno la stessa efficienza nell’estrarre ossigeno (ad es nel ciclismo efficienza di estrazione
dell’ossigeno dal sangue è superiore negli arti inferiori rispetto ai superiori).
- La capacità di trasporto di ossigeno dal sangue dipende strettamente dalla quantità di emoglobina: più
emoglobina è presente nel sangue, maggiore è ossigeno trasportato ai muscoli, maggiore è la
performance in termini di resistenza. I livelli di emoglobina sono molto diversi da una persona all’altra,
in una persona impegnata a livello agonistico in uno sport di resistenza sono più alti rispetto a coloro che
praticano sport e normalmente si attestano intorno ai 12-14g/kg di peso corporeo.
In una singola sacca di trasfusione (250mL di sangue) sono presenti da 50 a 70g di emoglobina quindi quando
si va a infondere tale sangue, il contenuto di emoglobina aumenta esponenzialmente. In termini di
performance in uno sport di resistenza, aumento di performance legato alla trasfusione di una singola sacca
di sangue va da 30 sec a 1 min in una corsa di 10km. In pratica, una trasfusione di sangue aumenta il numero
di globuli rossi del 20% all’interno del circolo sanguigno e di conseguenza aumenta anche emoglobina per cui
aumenta in maniera sostanziosa la capacità di trasporto di ossigeno ai muscoli.
Prima dell’introduzione dell’eritropoietina (quindi prima del 1989 quando eritropoietina ricombinante umana
è stata prodotta per la prima volta), trasfusioni di sangue umano erano unica tecnica per aumentare
concentrazione di emoglobina nel sangue. Successivamente, dopo introduzione di eritropoietina, trasfusioni
sono passate in secondo piano perché eritropoietina, rispetto ad autotrasfusione o trasfusione omologa dà
diversi vantaggi. Recentemente sono state reintrodotte le trasfusioni autologhe perché dal 2012 è stato
introdotto un test specifico per evidenziare presenza di eritropoietina esogena nel sangue e nelle urine (quindi
si usano trasfusioni per evitare di risultare positivi ai controlli antidoping). Per quanto riguarda le trasfusioni,
nello sport si utilizzano due pratiche diverse:
• trasfusione omologa: si infonde il sangue di un donatore compatibile con lo stesso gruppo sanguigno e
lo stesso gruppo Rh
• autotrasfusione: si estraggono con una flebotomia tra 500mL e 1L di sangue 5-6 settimane prima della
competizione quindi si introduce nuovamente il sangue estratto al massimo 2 gg prima della
competizione
In entrambi i casi, la trasfusione deve essere fatta a ridosso della competizione perché emoglobina messa in
circolo (quindi i globuli rossi) ha un picco a 24 ore dalla trasfusione stessa, dopodichè la concentrazione scende
molto velocemente quindi al fine di ottenere un miglioramento della performance sportiva la trasfusione deve
essere fatta a ridosso della competizione → questo facilita l’identificazione della pratica della trasfusione nei
controlli antidoping perché generalmente vengono fatti subito dopo la competizione.
Il vantaggio dell’autotrasfusione (e quindi il motivo per cui spesso viene usata) è che se gli esami antidoping
vengono fatti entro 24 ore dalla trasfusione stessa, questa non può essere rilevata perché non ci sono
biomarker che permettano di rilevare uso di questa metodica (dal momento che si introduce nel corpo
qualcosa di identico). Altro vantaggio è che si tratta di un metodo sicuro perché non c’è il rischio di sviluppare
emolisi dovuta a incompatibilità antigenica col donatore. Grosso svantaggio però è che, dovendo estrarre il
sangue 5 settimane prima della competizione, estrazione si ripercuote molto negativamente sull’allenamento.
Grafico di come oscilla la concentrazione di Hb durante una trasfusione
autologa: Hb è ancora oggi un marcatore importante del doping ematico
perché la sua concentrazione nel sangue nello stesso individuo è costante
nel tempo (= concentrazione di emoglobina basale non oscilla) e questa è
una caratteristica molto importante di un biomarker (biomarker ideale è
costante in condizioni fisiologiche sia per rilevare doping ematico che
patologie). Quando si fa un’autotrasfusione si verifica una grossa riduzione
della concentrazione di emoglobina nel sangue, si ha un recupero e poi al
tempo zero si ha la reinfusione che determina il picco nella concentrazione di emoglobina che scende poi
molto rapidamente (per questo reinfusione va fatta nelle 24-48 ore prima della competizione). Prelievo viene
fatto molte settimane prima in modo da dare all’atleta il tempo di recuperare il livello di emoglobina (tramite

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la produzione di nuovi globuli rossi) e, una volta che Hb è tornata al livello basale si può reinfondere il sangue
prelevato → si verifica un picco di emoglobina che migliora drasticamente la performance ma dopo il prelievo
la performance è nettamente peggiore per cui allenamento intendo è impossibile. QUINDI per evitare questi
problemi molti atleti fanno ancora uso di doping omologo. MA utilizzo di una trasfusione omologa è rilevabile
nei controlli antidoping perché al di là degli antigeni principali (gruppo sanguigno ed Rh) ci sono anche
differenze a livello di microstrutture dei globuli rossi che non sono tali da determinare una reazione
immunitaria (che provocherebbe emolisi) ma possono essere rilevate dalle analisi per distinguere tra globuli
rossi del ricevente e del donatore. Oltretutto, trasfusione omologa può anche essere rilevata valutando il DNA
delle popolazioni cellulari presenti (se sono presenti popolazioni cellulari differenti DNA è differente). Altri
svantaggi sono il rischio di patologia e il rischio di reazione emolitica nel caso in cui dovessero esserci errori
nella somministrazione (le trasfusioni si effettuano in ambiente ospedaliero in situazioni di emergenza,
mentre se questo viene fatto per doping non ci sono gli stessi controlli stretti che ci sono in ospedale per cui
è possibile si verifichino errori).
Grafico che mostra come cambia il tempo necessario per una corsa in seguito a
trasfusione di sangue (è stato fatto in questo caso un esercizio incrementale di
resistenza che prevede di aumentare gradualmente velocità nel tempo = corsa
fino allo sfinimento). Test è quindi fatto in condizioni controllati con maschere
che consentono un continuo apporto di ossigeno. Una trasfusione nelle 24 ore
prima della performance è in grado di aumentare in modo significativo il tempo
per cui atleta può svolgere esercizio prima che inizi a produrre acido lattico
(ossia prima che atleta esaurisca la capacità di trasportare ossigeno) → siccome
effetto massimo si osserva 24 ore dopo la trasfusione, bisogna fare trasfusione
prima della competizione. Sicuramente è un effetto potente ma che ha una finestra temporale limitata,
performance infatti torna poi a livello basale.

Quando un atleta o una persona sana assumono farmaci non necessari o si sottopongono a una
manipolazione, il rapporto rischio-beneficio tende unicamente verso il rischio a livello di salute e tossicità, il
beneficio riguarda solo miglioramento della performance. Il rischio legato alle trasfusioni di sangue per
migliorare performance sportive riguarda infezioni, reazioni allergiche o shock anafilattici durante reinfusione
del sangue, emolisi se non viene rispettata la compatibilità antigenica + rischio, legato al fatto stesso di
aumentare drasticamente la concentrazione di globuli rossi nel sangue perché esso determina un aumento
della viscosità del sangue con un aumento esponenziale del rischio di infarti, ictus ed embolismi. Oltretutto di
solito queste reazioni si verificano quando atleta è a riposo: durante la notte si ha un rallentamento della
circolazione sanguigna, aumentando la probabilità che avvengano eventi letali. Ci sono anche rischi più teorici
che più raramente si verificano legati alla modalità con cui sangue viene conservato: se il sangue non viene
congelato correttamente si verificano le “lesioni da conservazione” = globuli rossi vengono danneggiati
aumentando il rischio di reazioni anafilattiche quando viene reintrodotto il sangue (anche se non viene mai
congelato perché aumenta la probabilità di risultare positivi ai controlli antidoping).
Rivoluzione dell’eritropoietina deriva dal fatto che è sufficiente una iniezione sottocutanea per aumentare in
maniera esponenziale produzione di globuli rossi endogeni (aumentando quindi radicalmente la capacità del
sangue di trasportare ossigeno ai muscoli) evitando le procedure di trasfusione ed estrazione del sangue con
peggioramento della performance in allenamento → dal 1989 al 2012, abuso di questa sostanza è stato molto
diffuso in tutti gli sport di resistenza. La maggior parte delle positività all’eritropoietina si sono verificate nel
ciclismo, nel calcio e nell’atletica. Eritropoietina stimola eritropoiesi ossia la produzione nel corpo di globuli
rossi. Fisiologicamente eritropoiesi è legata all’ipossia ossia alla concentrazione di ossigeno nell’aria: nel

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nostro organismo, a livello dei reni (eritropoietina nell’organismo è quasi totalmente prodotta dal rene, in
minima parte da fegato e cervello) è presente un sensore dell’ossigeno che è il fattore inducibile dall’ipossia
(HIF-1) che, in condizioni fisiologiche di normossia, è una proteina dimerica formata da due subunità, una α e
una β. La subunità β è presente costitutivamente quindi è sempre espressa mentre quella α è inducibile. In
particolare,
- in condizioni di normossia subunità α viene costantemente degradata da una idrossilasi in modo che non
possa dimerizzare con la subunità β
- in condizioni di ipossia, la degradazione della subunità α è bloccata per cui questa è libera di legarsi alla
subunità β e il dimero che si forma trasloca nel nucleo dove attiva la trascrizione di molti geni di cui il
principale è quello che codifica per l’eritropoietina
Eritropoietina, una volta prodotta in condizioni di ipossia, agisce a livello del midollo osseo stimolando la
proliferazione delle cellule eritroidi progenitrici a dare reticulociti, che sono i diretti progenitori dei globuli
rossi che vengono rilasciati in circolo. Eritropoietina infatti interagisce con un recettore presente sulle cellule
eritroidi che, una volta attivato, fa partire il differenziamento di queste cellule portando alla produzione di
globuli tossi.
QUINDI produzione di eritropoietina nell’organismo è legata alla concentrazione di ossigeno nel sangue che
dipende dalla concentrazione di ossigeno nell’aria (in condizioni di carenza di ossigeno la produzione di
eritropoietina endogena aumenta da 10 a 100 volte). È per questo che si pratica allenamento ad alta quota
(in altitudine concentrazione di ossigeno è più bassa e questo stimola produzione di eritropoietina endogena).
Nell’uomo, per arrivare a un livello di ossigeno tale da indurre la produzione di eritropoietina, bisogna salire
oltre i 1800-2000m. Siccome una riduzione di ossigeno nell’aria induce la produzione di eritropoietina ma
riduce drasticamente la performance durante allenamento, atleti sono soliti soggiornare sopra i 2000m per
stimolare la produzione di eritropoietina mentre si allenano scendendo di quota (leaving high, training low).
Questo è consentito, quello che invece è vietato in Italia (ma non è ancora stato proibito dalla WADA), è
l’utilizzo di MACHERE IPOSSICHE: maschere contenenti miscele di gas in cui c’è un basso contenuto di ossigeno
per manipolare artificialmente la concentrazione di ossigeno senza bisogno di salire in quota (= si mima una
condizione di ipossia stimolando la produzione endogena di eritropoietina).
Normalmente la concentrazione di eritropoietina è strettamente regolata perché sia un eccesso che una
riduzione eccessiva della produzione hanno effetti negativi sull’organismo:
- Aumento della produzione di eritropoietina provoca un grosso aumento nella viscosità del sangue (per
aumento della concentrazione di eritrociti) con grossi rischi legati a patologie cardiovascolari, infarti, ictus
o embolie
- Condizioni in cui c’è un’insufficiente produzione di eritropoietina sono caratterizzate da un’anemia
estremamente grave. Eritropoietina prodotta nel 1989 è stata prodotta per trattare queste patologie. In
particolare è stata prodotta per trattare condizioni di anemia grave che si verificano in caso di utilizzo di
chemioterapici , in caso di patologie croniche a livello renale che alterano i livelli di eritropoietina
endogena + somministrazione di eritropoietina come fattore di crescita in caso di statura bassa (nelle
situazioni di nanismo con trattamenti precoci) e nel caso di nascita prematura per stimolare la crescita
in situazioni in cui c’è una disfunzione della crescita dell’organismo.
Negli sport di resistenza, assunzione di eritropoietina per aumentare il trasporto di ossigeno nel sangue
dipende dalla stimolazione da parte dell’eritropoietina della produzione di globuli rossi nel midollo osseo. MA
siccome il recettore per l’eritropoietina oltre che sulle cellule eritroidi è espresso anche sulle cellule di altri
tessuti come il tessuto adiposo → attivazione del recettore sugli adipociti da parte dell’eritropoietina
determina mobilitazione degli adipociti nel tessuto adiposo, aumento del metabolismo dello stesso e quindi
una riduzione della massa grassa che a livello sportivo può dare un vantaggio.
Questo recettore è presente anche sui mioblasti (ossia i miociti indifferenziati): una volta che recettore a
questo livello viene attivato, porta alla proliferazione dei mioblasti e questo è molto importante per la
riparazione del danno muscolare. Per questo, eritropoietina non viene abusata solo durante la competizione

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ma anche per velocizzare il recupero tra una competizione e l’altra migliorando il recupero muscolare o
velocizzando la riparazione di un danno muscolare.
L’eritropoietina prodotta nel 1989 è una eritropoietina ricombinante umana (dopo che il gene per
eritropoietina è stato sequenziato nel 1985). Da lì in poi sono state prodotte altre due generazioni di
eritropoietine sintetiche: darberitropoietina (dEPO) e la Continuous Erythropoietin Receptor Activator (CERA).
Si tratta di forme sintetiche di eritropoietina ricombinante umana che si differenziano per l’emivita: prima
eritropoietina ricombinante umana prodotta emivita di 8-9 ore, dEPO ha emivita più lunga fino alla CERA la
cui emivita è di 150 ore. Indipendentemente da emivita, tutte e tre le generazioni hanno azione principale di
stimolare la maturazione dei globuli rossi determinando sia un aumento dei globuli rossi in circolo sia la
velocità con cui vengono prodotti. Il fatto fi aumentare la velocità con cui eritrociti vengono prodotti rende
necessaria la co-assunzione di ferro insieme all’eritropoietina siccome questo rappresenta un fattore limitante
per la produzione di emoglobina: in condizioni fisiologiche, la velocità di produzione dei globuli rossi è tale per
cui il ferro endogeno sia sufficiente per la sintesi di emoglobina MA quando si assume eritropoietina esogena,
è necessario supplementare col ferro perché altrimenti la velocità di produzione dell’emoglobina non
riuscirebbe a star dietro alla produzione di globuli rossi. QUINDI il concetto è che assumendo eritropoietina e
ferro, si aumenta l’apporto ossigeno al tessuto muscolare quindi si fa in modo che il muscolo lavori in
condizioni aerobiche per più tempo prima che si verifichi una condizione di acidosi, incompatibile con una
attività fisica intensa.
La necessità di produrre forme di eritropoietina sintetiche con emivita maggiore dell’eritropoietina
ricombinante umana dipende dal fatto che questa sostanza è stata prodotta per avere un’applicazione
terapeutica e farmacologica per cui la possibilità di aumentare l’emivita di un farmaco migliora il trattamento
di pazienti cronici (si possono ridurre le iniezioni di eritropoietina anche a 1 volta a settimana rispetto a una
volta ogni 2gg). Nel doping invece non si abusa mai eritropoietina di terza generazione dal momento che
questo aumenterebbe probabilità di essere trovati positivi ai test (più breve è emivita più breve è la finestra
temporale in cui un campione può essere trovato positivo a una sostanza) → la maggior parte dei casi di
positività sono legati all’uso di eritropoietina ricombinante umana perché prelievo del campione deve essere
fatto in una finestra temporale più ristretta per rilevare positività.
Effetti collaterali legati all’utilizzo di eritropoietina ma che si manifestano maggiormente quando viene usata
in ambiente non controllato per aumentare performance nello sport sono sia nel breve che nel lungo termine:
- nel breve termine si possono avere reazioni anafilattiche nel sito di iniezione, si può verificare nausea,
mal di testa e confusione mentale.
- Nel lungo termine si possono verificare situazioni di tromboembolismo (quindi formazione di trombi e
coaguli nel circolo sanguigno a causa dell’aumento della viscosità del sangue), infarto (dal momento che
aumento della viscosità del sangue fa si che il cuore debba pompare molto di più facendo molto più
sforzo. Questo a lungo andare determina ipertrofia ventricolare che rappresenta un fattore di rischio
aggiuntivo per il rischio di infarto) + problemi legati alla supplementazione del ferro (supplementazione
eccessiva di ferro può portare a effetti collaterali a carico del fegato dato che ferro, come la maggior
parte dei metalli pesanti, è epatotossico).
A livello di antidoping, per cercare di contrastare il fenomeno del doping ematico che ha spopolato per tutti
gli anni ’90, la prima cosa che è stata fatta è stata introdurre la “regola di non avvio”, introdotta per la prima
volta nel ciclismo. Si tratta di un metodo indiretto perché non si va a ricercare direttamente la sostanza nel
campione ma si va a valutare la composizione di un campione per capire se è stato fatto uso di doping. Si basa
infatti sulla valutazione percentuale dell’ematocrito (ossia della parte corpuscolata del sangue senza la parte
di siero o di plasma): dal momento che, in un individuo, la percentuale di ematocrito è costante nel tempo ed
è anche un parametro abbastanza uniforme nella popolazione è possibile rilevare variazioni rispetto alla
situazione fisiologica → è stato stabilito un cut off al 50% ossia un ematocrito sotto al 50% si osserva in persone
in condizioni fisiologiche normali che non hanno assunto alcuna sostanza e che non ha fatto uso di trasfusioni
mentre qualsiasi valore di ematocrito superiore al 50% è considerato sospetto di utilizzo di doping ematico.

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Dato che misurare questo parametro è molto
semplice (bisogna estrarre il sangue e precipitarlo
misurando la percentuale dell’ematocrito), si
faceva un controllo a tappeto prima della partenza
e a tutti gli atleti che presentavano ematocrito
superiore al 50% venivano esclusi dalla
competizione. Il grosso limite nella valutazione
dell’ematocrito è legato al fatto che, sebbene i
valori dell’ematocrito all’interno dello stesso sesso
siano relativamente costanti, esistono comunque
delle differenze su base genetica della
concentrazione di globuli rossi nel sangue. Il primo caso che ha portato a ricercare dei metodi più specifici fu
quello di un fondista finlandese il cui valore di ematocrito era molto più elevato del normale (sangue era
naturalmente più ricco di emoglobina e globuli rossi). Questo atleta presentava una mutazione nel gene per
l’eritropoietina endogena superiore di quello che si osservava nel resto della popolazione e questo ha fatto
capire che si può essere geneticamente predisposti ad avere variazioni dell’ematocrito rispetto alla
popolazione generale. Nel 2012 è stato messo a punto un metodo di rilevazione dell’eritropoietina basato
sull’isoelettroforesi ossia sulla separazione dei campioni sia in matrice ematica che urinaria su un gel con un
gradiente di pH in cui le proteine si separano in base al punto isoelettrico. Grazie a questo metodo si riesce a
discriminare tra eritropoietina endogena naturalmente prodotta dall’organismo dalle tre generazioni di
eritropoietina prodotta artificialmente. Dopo questo test, diagnosi può essere confermata con SDS page
(metodo diretto che va a valutare nel singolo campione la presenza della sostanza ed è per questo che viene
comunque utilizzata di più eritropoietina ricombinante umana perché se si usasse eritropoietina di terza
generazione con emivita di 142 ore è più probabile che un campione prelevato risulti positivo).
Risultati all’antidoping per diverse classi di sostanze: nonostante la misurazione dell’ematocrito e nonostante
questo metodo indiretto, andando a vedere tutti i casi di positività per diverse sostanze dopanti, la cosa
impressionante era che a livello di doping ematico le % di positività erano 0 a fronte ad es di una positività del
60% per gli steroidi. Questo è risultato sospetto nel senso che si è iniziato a pensare che le squadre avessero
trovato il modo di eludere i controlli antidoping. Agenzia Mondiale Antidoping ha quindi introdotto qualcosa
che ha reso più pulito il doping nello sport di élite che è il PASSAPORTO BIOLOGICO DELL’ATLETA: anziché
basarsi su qualcosa di standardizzato uguale per tutti, è stato stabilito che per i professionisti fosse introdotto
un passaporto biologico che ad oggi è formato da due moduli, uno steroideo e uno ematico. Passaporto
biologico prevede di fare dei test sequenziali nel tempo, non più solo dopo la competizione o durante
allenamento, atleta deve dare la propria reperibilità in caso di controlli antidoping random. In questo modo si
riescono a monitorare nel tempo diversi parametri ematici ed endocrinologici dell’atleta. Ogni atleta, usando
il passaporto biologico, è il controllo di sé stesso. In questo modo è possibile stabilire dei cut off per il singolo
atleta per cui tutto quello che sta tra il limite basso e quello alto è considerato fisiologico mentre qualsiasi
oscillazione è considerata sospetta. A livello di doping ematico vengono presi come riferimento e registrati
nel passaporto 3 parametri: ematocrito, emoglobina e i reticolociti (diretti precursori del globuli rossi perché
valutando con una semplice analisi del sangue nell’atleta si riesce a capire se c’è stato utilizzo di doping
ematico ma anche cosa è stato utilizzato prima di passare eventualmente a un test più approfondito come
l’SDS page per l’eritropoietina). Quando si fa un’autotrasfusione aumentano emoglobina e globuli rossi
mentre restano uguale i reticolociti quindi una alterazione del passaporto biologico di questo tipo è indicativo
di un abuso di un’autoemotrasfusione. Abuso di eritropoietina invece fa aumentare anche i livelli di reticolociti
quindi si rileva un aumento di tutte e tre le componenti, a quel punto si può fare analisi più specifica per

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trovare eritropoietina nel campione. Esempio reale di come variano le concentrazioni di emoglobina quando
si fa uso di doping ematico o meno: dopo estrazione di sangue si osserva un picco verso il basso e c’è poi un
picco verso l’alto quando viene fatta la reinfusione che supera i valori massimi in condizioni fisiologiche.
Ovviamente, siccome emoglobina è molto stabile, anche oscillazioni molto ampie che però non sforano i due
limiti vengono considerate sospette (atleta non sanzionato ma comunque monitorato attentamente).
Recentemente, infatti, trend è stato quello di fare delle iniezioni di microdosi di eritropoietina ossia iniezioni
di dosi estremamente basse in modo da mantenersi entro i due limiti. Siccome eritropoietina ha una
concentrazione molto stabile nel sangue quindi, qualsiasi oscillazione è considerata sospetta. A livello di
ciclismo, l’introduzione del passaporto biologico nel 2008 ha portato a un aumento della positività al doping
ematico del 300% quindi questo tipo di approccio può aiutare a rilevare in maniera più affidabile il fenomeno
del doping ematico.
Doping ematico riguarda esercizi aerobici e resistenza mentre per spor anaerobici (sport di potenza, velocisti,
di forza…) doping ematico non ha senso, le sostanze maggiormente abusate sono gli steroidi perché sono in
grado di aumentare in maniera significativa la massa muscolare. Una grossa differenza tra doping ematico e
utilizzo di steroidi è che utilizzo di steroidi è molto diffuso in ambienti in cui non è possibile fare controlli
antidoping. Il problema principale è che l’80% delle persone che abusano di steroidi, insieme ad essi prendono
anche altri farmaci per contrastarne gli effetti collaterali e questo ha effetti molto negativi sulla salute.
STEROIDI ANABOLIZZANTI:
Steroidi anabolizzanti possono essere abusati sia negli sport
anaerobici per aumentare la massa muscolare sia nello sport
agonistico/amatoriale/in ambiente non sportivo per scopi
unicamente estetici. Gli steroidi sono sostanze:
- ANABOLICHE: hanno una capacità elevata di aumentare la massa
muscolare e promuovere la crescita ossea in virtù della promozione
della sintesi proteica (steroidi inducono la trascrizione di geni coinvolti nell’aumento della massa
muscolare e del tessuto osseo)
- ANDROGENICHE: sono ormoni in grado di indurre i tratti maschili primari (gonadi) ma anche secondari
(quindi peli, sebo, cambiamenti nella voce dovuti ad azione diretta sulla laringe)
QUINDI caratteristica degli steroidi è che non è ancora stato possibile scindere queste due funzioni: sia steroidi
endogeni che sintetici hanno sempre azione anabolica abbinata ad azione androgenica. MA molti degli effetti
collaterali, soprattutto quelli più gravi sono dovuti alla loro azione androgenica per cui ideale sarebbe separare
potenziale anabolico da quello androgenico perché questo permetterebbe di ridurre gli effetti collaterali che
seguono l’assunzione degli steroidi. Esistono due tipologie di steroidi:
- endogeni il cui precursore è il testosterone. Esistono anche altri steroidi endogeni ma la maggio parte
degli effetti sono dovuti ad azione diretta del testosterone sul recettore degli androgeni. Esistono dei
tessuti dove l’effetto è mediato da un prodotto del testosterone quindi in questi tessuti enzima α-5-
reduttasi trasforma testosterone in un composto che è il diidrotestosterone (DHI), molto più potente del
testosterone.
- Derivati esogeni: chimicamente e farmacologicamente correlati al testosterone ma modificati per
massimizzare l’effetto anabolico minimizzando gli effetti androgenici. Questo è stato fatto parzialmente
ma non è stato finora possibile slegare completamente le due azioni quindi tutti gli steroidi esogeni
presenti sul mercato possiedono ancora entrambe le azioni. Tutto quello che riguarda un effetto tossico
che riguarda esacerbazione dei tratti androgenici è ancora presente
A livello del nostro organismo, la produzione di testosterone è finemente regolata: la produzione parte da
ipotalamo poi ipofisi e gonadi. Produzione parte a livello ipotalamico che produce l’ormone di rilascio delle
gonadotropine. Questo ormone agisce sull’ipofisi che rilascia due ormoni: ormone follicolostimolante (FSH) e
ormone luteinizzante (LH) che agiscono a livello delle gonadi rispettivamente sulle cellule del Sertoli per
stimolare la spermatogenesi e sulle cellule di Leyding per stimolare la produzione di testosterone. QUINDI la

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produzione di testosterone nel nostro organismo si verifica in seguito alla stimolazione da parte dell’ormone
LH delle cellule del Leyding. Una cosa molto importante è che questo meccanismo di produzione di
testosterone endogeno è finemente regolato e il meccanismo regolatorio principale si basa su un meccanismo
a feedback negativo: quando viene prodotto testosterone, il testosterone stesso agisce in maniera retrograda
inibendo la produzione sia dell’ormone di rilascio delle gonadotropine a livello ipotalamico sia a livello di
rilascio dell’ormone LH a livello dell’ipofisi. Nel momento in cui la produzione endogena è sufficientemente
alta da garantire fabbisogno dell’organismo, testosterone stesso agisce inibendo la propria produzione. Altro
fattore che regola la concentrazione di testosterone dell’organismo è il legame alle proteine plasmatiche: tutti
gli steroidi (endogeni e sintetici) si legano a due proteine principali ossia albumina (con un legame aspecifico
a bassa affinità) e la categoria delle proteine globuline che legano ormoni steroidei (= proteine che legano in
maniera altamente specifica con altissima affinità il testosterone) → a livello circolatorio, testosterone si trova
legato alle proteine plasmatiche per il 98% (testosterone libero, quello che può agire sul proprio recettore,
rappresenta solo il 2% di tutta la frazione) e questo legame è diviso in maniera precisa cioè si lega per il 40%
all’albumina e per il 58% alle Sex Hormon Binding Globulin (SHBG). QUINDI variazioni nella concentrazione di
SHBG influenza la concentrazione di testosterone libero. Esistono delle condizioni patologiche in cui si osserva
un aumento della produzione di SHBG come ipogonadismo, ipertiroidismo e cirrosi perché queste globuline
sono prodotte dal fegato e questo determina una riduzione della frazione libera di testosterone circolante.
Con l’avanzare dell’età dell’uomo, a partire dai 50 - 60 anni, si osserva un aumento delle SHBG che determina
la riduzione del testosterone libero (che non dipende quindi da una riduzione della produzione di testosterone
endogeno). Quando si deve valutare lo stato androgenico di un individuo, è importante misurare sia la frazione
legata che quella circolante per avere un’idea della condizione generale dell’organismo perché un calo dei
livelli di testosterone potrebbe essere anche secondario a un problema delle proteine che legano ormoni
steroidei.
Testosterone a basse concentrazioni è presente anche nella donna nella quale viene prodotto dalle ovaie e
dal surrene e fluttua in maniera sincronizzata con il circolo mestruale. Ha funzioni soprattutto per quanto
riguarda la regolazione del ciclo mestruale.
Testosterone nel circolo sanguigno si trova sia legato alle proteine plasmatiche che in forma libera ma solo
questa può diffondere dai vasi sanguigni e raggiungere le cellule bersaglio che presentano il recettore
specifico per il testosterone che è recettore per androgeni. Esso è presente in molti tessuti dell’organismo
dove attivazione del recettore regola la sintesi di particolari geni. Si tratta di un recettore citoplasmatico dato
che testosterone e tutti gli steroidi sono sostanze altamente lipofile per cui possono attraversare la membrana
citoplasmatica e raggiungere il citosol. Qui dimerizza con il recettore e il complesso ormone-recettore trasloca
nel nucleo dove promuove la sintesi proteica di geni in cui il promotore presenta un Hormon Binding Domain.
La promozione della sintesi proteica avviene quindi attraverso una traslocazione diretta del dimero ormone-
recettore nel nucleo.
Il testosterone esogeno ha un grosso limite ossia una bassissima biodisponibilità orale ed endovenoso perché
ha un grosso effetto di primo passaggio: sia che venga introdotto per via orale sia che venga introdotto per
via endovenosa, una grossa porzione viene degradata nel fegato quindi non è disponibile per interazione con
i propri bersagli. Le uniche preparazioni a base di testosterone che vengono usate e garantiscono una
concentrazione ematica tale da indurre un effetto sui target sono le preparazioni topiche (gel e cerotti). Non
esistono invece preparazioni orali o da somministrare per via iniettiva. QUINDI sono state apportate delle
modifiche alla struttura base del testosterone per aumentare emivita e limitare effetto di primo passaggio.
Nel fare questo si è anche tentato di aumentare effetto anabolico e ridurre effetto androgenico → sono stati
preparati steroidi sintetici che sono esteri del testosterone o composti alchilati del testosterone
- Tutti gli steroidi alchilati possono essere somministrati per via orale, emivita è più breve dei composti
esterificati quindi richiedono una somministrazione più frequente
- Steroidi esterificati hanno emivita molto più lunga e possono essere somministrati per via
intramuscolare.

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Preparazioni più utilizzate sono quelle iniettabili che possono essere di due tipi:
• in soluzione oleosa, di solito hanno emivita estremamente lunga perché essendo il soluzione oleosa è
come se si riducesse la distribuzione nei tessuti per cui lo steroide permane attivo più a lungo all’interno
dell’organismo. Le preparazioni oil based di solito hanno una ridotta tossicità epatica ma rispetto ad altre
preparazioni iniezione è particolarmente dolorosa (sito di iniezione rimane dolorante per molto tempo)
• in soluzione acquosa: emivita è più breve di quelle a base d’olio, non creano dolore nel sito di iniezione,
sono sfruttate per il doping perché in soluzione acquosa si possono mischiare altre sostanze. Utilizzo di
più sostanze contemporaneamente agli steroidi infatti è una prassi comune tra coloro che fanno uso di
steroidi (in particolare spesso vengono assunti con la gonadotropina corionica umana, somministrata per
evitare che venga inibita la produzione endogena di testosterone)
Applicazione topica si basa sull’utilizzo di creme, gel, pomate e cerotti ed è l’unica via di somministrazione che
può essere usata per il testosterone. A livello terapeutico è l’unica via di somministrazione che garantisce un
rilascio costante di testosterone nell’organismo. Si usano di solito dosi basse mantenute costanti per più
tempo. Queste preparazioni non vengono usate a scopo di doping perché rilasciano concentrazioni troppo
basse per garantire un aumento della massa muscolare. Positività dovuta all’uso non intenzionale di pomate
contenenti steroidi (molte delle pomate vendute per problemi articolari contengono steroidi e questo può
portare a positività ai controlli). Atleta deve dimostrare che uso non è stato intenzionale e quindi non verrà
sanzionato (atleta è colpevole fino a prova contraria).
Sia gli esteri del testosterone hanno sicuramente un’azione anabolica molto più potente del testosterone
(arrivano anche 30 volte più potenti del testosterone) MA hanno ancora azione androgenica quindi effetti
collaterali legati a una produzione endogena di testosterone non sono ancora stati aboliti. Applicazioni cliniche
degli steroidi anabolizzanti sono due:
1. per la terapia dell’ipogonadismo quindi per disfunzioni gonadiche nell’uomo
2. per il trattamento di disturbi del muscolo scheletrico come atrofie muscolari gravi, solitamente come
conseguenza di gravi patologie come infezioni da HIV, atrofie muscolari secondarie a ustioni
estremamente gravi e per il recupero post-operatorio dopo che paziente è rimasto allettato per molto
tempo
Gli steroidi, vista la loro marcata capacità di aumentare massa e forza muscolare, sono stati usati fino alla fine
degli anni ’80 in maniera indiscriminata a livello sportivo tanto che si sono trovati campioni positivi,
soprattutto nel caso dei velocisti e degli sport di lancio, a qualsiasi steroide in commercio, sia endogeni (quindi
testosterone e diidrotestosterone, precursori del testosterone usati per aumentare indirettamente i livelli di
testosterone endogeno) sia sintetici di cui i due più famosi sono NANDROLONE (somministrato per via
intramuscolare in quanto estere del testosterone) e STRANAZOLOLO (un composto alchilato somministrato in
forma orale). + THG, una forma di steroide prodotta illegalmente allo scopo di eludere i controlli antidoping
Nandrolone è un grande problema anche nelle palestre dove ci sono delle persone che lo assumono per
aumentare la massa muscolare per scopi estetici ma in questo caso il problema è che non ci sono controlli.
Problema più grande è che siccome le persone non sanno bene cosa prendono, ci sono persone che si
presentano in pronto soccorso senza sapere nemmeno cosa hanno preso. Nandrolone è uno steroide
anabolizzante molto potente (20 volte maggiore del testosterone), essendo un estere si somministra per via
intramuscolare ed è sciolto in soluzione oleosa (preparazione oil based). Principale effetto collaterale è che
causa una soppressione massiva della produzione endogena di testosterone: essendo così potente agisce con
un feedback negativo inibendo a livello ipotalamico e ipofisario lo stimolo alla produzione di testosterone.
Altro effetto collaterale molto marcato è la ritenzione idrica: assunzione favorisce la formazione di edemi per
cui spesso le persone che assumono nandrolone prendono anche diuretici e questo crea un ulteriore
problema perché assunzione di diuretici da parte di una persona sana con una pressione normale, può
determinare un calo improvviso di pressione. Nell’ambiente dello sport di livello, da quando sono state messe
a punto le nuove tecniche di spettrometria e cromatografia, non ci sono più stati casi di positività perché il

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nandrolone è individuabile nelle matrici biologiche fino a un anno dall’iniezione (emivita così lunga fa si che
se ne rilevi facilmente utilizzo).
Vista la grande efficacia degli steroidi nell’aumentare la massa muscolare, ci sono stati una serie di laboratori
clandestini impegnati nello sviluppo di steroidi sintetici che non potessero essere rilevati nei controlli
antidoping. Tra i prodotti di questi laboratori troviamo il THG, somministrato per via sublinguale. Siccome non
veniva rilevato nei controlli antidoping, è stato ampiamente abusato finchè un atleta che era andato a fare
controlli aveva dimenticato in spogliatoio una siringa e analisi mostrarono che essa conteneva una sostanza
allora sconosciuta che si è poi rivelata uno steroidi non commercializzato quindi da quel momento la WADA
ha iniziato a porre l’attenzione sui lab clandestini. Ogni anno, fino al 2019, sono state prodotte in laboratori
clandestini almeno 400 sostanze sintetiche con potenziale psicoattivo che vengono immesse sul mercato e ci
restano per un tempo più o meno lungo, quindi produzione clandestina di sostanze psicoattive sia per doping
che a scopo ricreazionale è un problema attuale.
Altra tecnica utilizzata per aumentare la massa muscolare e i livelli endogeni di testosterone è stata utilizzo di
pro-ormoni, sostanze che nell’organismo sono precursori del testosterone. Questo dava (oggi siamo in grado
di rilevare queste sostanze) la possibilità di eludere i controlli antidoping perché si aumentava il pool di
precursori del testosterone con un aumento del testosterone endogeno, che non veniva riconosciuto come
abuso nei controlli antidoping. La potenza di questo approccio in termini anabolici è inferiore rispetto a una
forma iniettabile ma c’era il vantaggio di non essere rilevato all’antidoping. Il problema principale dei pro-
ormoni è che ci sono comunque degli effetti collaterali: aumentando testosterone endogeno effetti
androgenici sono marcati + feedback negativo sulla produzione endogena di testosterone. Altro problema è
che i pro-ormoni spesso sono inclusi negli integratori venduti per aumentare massa muscolare (spesso usati
dagli atleti) ma siccome la produzione industriale di integratori non è regolata come quella dei farmaci, pro-
ormoni possono non essere indicati sull’etichetta per cui una persona che prende questi integratori risulta
positiva ai controlli antidoping e deve quindi dimostrare che la positività è dovuta all’utilizzo di un integratore.
In letteratura molti articoli sembrano dimostrare che in realtà la somministrazione di steroidi non aumenta la
massa muscolare. In realtà, se una persona prende steroidi e non fa attività fisica, non si verifica un aumento
della massa. Per fare in modo che uno steroide naturale o sintetico faccia aumentare la massa muscolare sono
necessarie due cose:
a. bisogna assumere dosaggi molto superiori rispetto a quelli che si usano a livello terapeutico (ad oggi dosi
utilizzate che venivano ritrovate nelle matrici biologiche erano negli agonisti 10 volte superiori ai dosaggi
terapeutici mentre per sollevatori di peso e bodybuilder dosi anche 100 volte maggiori)
b. assunzione deve essere associata all’attività fisica intensa
Se queste due condizioni sono soddisfatte, steroidi portano a un aumento visibile della massa muscolare
associato a moltissimi effetti collaterali sia nel breve che nel lungo termine legati al fatto che il recettore degli
androgeni è presente in moltissimi tessuti come a livello di
- asse ipotalamo-ipofisi-gonadi → effetto collaterale principale è il blocco della produzione endogena di
testosterone. Questo ha effetti gravi a livello sessuale (impotenza e atrofia testicolare) e per persone che
assumono steroidi per lungo tempo, effetti anche sugli organi sessuali possono essere irreversibili. Per
cercare di evitare questo effetto collaterale persone che abusano di steroidi assumono
contemporaneamente gonadotropina corionica umana, che ripristina la produzione endogena di
testosterone. In alternativa steroidi non vengono presi in maniera continuativa con le stesse dosi: si fanno
dei cicli partendo da un dosaggio, si aumenta gradualmente ogni due settimane, si riduce gradualmente
in modo da cercare di recuperare nel periodo di wash out, la produzione endogena di testosterone.
- tessuto mammario e questo provoca un effetto collaterale antiestetico e irreversibile ossia la
ginecomastia: si verifica ipertrofia del tessuto mammario con comparsa di un tessuto mammario che ha
sembianze femminili. Questo non è dovuto ad azione diretta degli steroidi ma a un’azione degli estrogeni:
nella via di produzione del testosterone, ci sono degli step in cui sia il precursore diretto del testosterone
(androstenedione) sia il diidrotestosterone possono essere convertiti in estrogeni da parte degli enzimi

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aromatasi per cui quando si aumenta la concentrazione di androgeni nell’organismo si ha un aumento
anche della concentrazione di estrogeni per l’azione dell’aromatasi. Per evitare questo effetto
indesiderato quindi, coloro che fanno uso di steroidi utilizzano contemporaneamente anche inibitori
degli estrogeni o dell’aromatasi come il Tamoxifen, un inibitore selettivo del recettore per gli estrogeni
commercializzato per il trattamento del tumore al seno positivo al recettore per gli estrogeni. Una volta
che si verifica ginecomastia (se non si usano inibitori degli estrogeni o dell’aromatasi) questa è
irreversibile, unico modo per rimuoverla è la chirurgia perché non si può revertire in altro modo ipertrofia
del tessuto mammario
- reni → ridotta escrezione determinando un aumento della ritenzione idrica
- cutaneo → acne massiva a causa dell’iperproduzione di sebo soprattutto a livello di schiena e spalle.
- SNC dove controllano il comportamento aggressivo per cui aggressività dal punto di vista sportivo
potrebbe essere un valore aggiunto dato che aumenta la voglia di competizione, mentre quando queste
sostanze sono usate con dosaggi alti a scopi estetici si verificano comportamenti aggressivi incontrollati
che possono anche avere esito fatale. Problema a livello neurologico determinato dagli steroidi è duplice:
aumento dell’aggressività quando si utilizzano dosi alte di steroidi ma anche problemi quando si va in
astinenza. Quando una persona ha utilizzato a lungo alte dosi di steroidi, sviluppa una sindrome da
astinenza caratterizzata da episodi di improvvisa violenza e aggressività e questo è determinato dalle
alterazioni dei recettori androgeni che si verificano a livello centrale: è come se quando venisse meno la
stimolazione da parte degli steroidi su questi recettori, questi diventassero costitutivamente attivi per
cui il comportamento diventa aggressivo.
- Altra conseguenza dell’assunzione di steroidi è la calvizie che si manifesta perché effetto avverso degli
steroidi sul bulbo pilifero non è dovuto tanto al testosterone di per sé ma al diidrotestosterone. Si verifica
la morte del bulbo pilifero per cui anche quando si smette di prendere steroidi, questo effetto collaterale
non può essere recuperato.
- Quando gli steroidi sono assunti da adolescenti, questi stimolano la fusione prematura delle placche
ipofisarie delle ossa lunghe MA una volta fuse non può avvenire la crescita per cui uso di steroidi durante
adolescenza blocca lo sviluppo delle ossa lunghe quindi la crescita in altezza. Questo è dovuto alla
conversione dello steroidi in estrogeni e questo effetto è irreversibile.
Eventi avversi a livello cardiovascolare (infarto) sono tra quelli più gravi e associati a un maggior numero di
morti a causa dell’abuso di steroidi. Effetto degli steroidi sul cuore non è dovuto a un effetto diretto a livello
cardiaco ma dipende dal fatto che gli steroidi alterano completamente i livelli di lipoproteine e colesterolo
interferendo a livello epatico con il bilancio tra proteine LDL e HDL. In particolare, steroidi riducono
drasticamente lipoproteine ad alta densità (che vanno a rimuovere colesterolo dalle arterie) e aumentano
lipoproteine a bassa densità. Questo determina un aumento elevato della possibilità che si verifichino infarti.
Questo effetto collaterale è molto maggiore per tutti gli steroidi alchilati rispetto agli esteri.
Effetti sul lungo termine sono legati al potenziale cancerogeno di queste sostanze: è stato dimostrato che
composti alchilati danno maggior rischio di sviluppare un tumore epatico. Sembrerebbe (ma non è stato
confermato) che l’abuso di steroidi possa provocare cancro alla prostata, dato che testosterone stimola
fortemente le cellule prostatiche. Effetto a livello del fegato non si verifica se si utilizzano esteri.
Un fenomeno molto grave è l’utilizzo di steroidi da parte delle donne: tutti gli effetti collaterali nelle donne
sono molto esacerbati perché livelli di testosterone nella donna sono molto bassi per cui qualsiasi interferenza
con equilibrio fisiologico causa effetti collaterali estremamente gravi e imprevedibili. Effetto principale è la
virilizzazione = donne iniziano a sviluppare caratteristiche maschili. Esempio eclatante dell’uso di steroidi da
parte di una donna riguarda un’atleta impegnata nel lancio del peso alla quale sono stati somministrati steroidi
in concentrazioni estremamente elevate dal proprio allenatore dall’età di 16 anni. La somministrazione di
queste concentrazioni di steroidi dai 16 ai 18 anni ha fatto si che questa ragazza sviluppasse caratteristiche
maschili che siccome sono emerse durante lo sviluppo non sono sparite dopo la sospensione della
somministrazione di steroidi per cui questa ragazza ha deciso di cambiare sesso. Ovviamente determinano

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anche problemi del ciclo mestruale e infertilità e quando si interferisce con equilibrio endocrinologico
difficilmente si può recuperare
Test antidoping: per gli steroidi sintetici conosciuti la tecnica molto valida per la rilevazione nelle matrici
biologiche (generalmente urine) è accoppiamento tra cromatografia in fase gassosa e spettrometria di massa.
Questo test non è valido in caso di assunzione di testosterone o precursori per aumentare il pool endogeno
per cui è stato messo a punto un altro metodo ancora oggi utilizzato: dal momento che nell’organismo,
testosterone viene prodotto insieme al suo isomero, l’epitestosterone → vengono prodotti in rapporto 1:1
ma epitestosterone è inattivo, funaziona da riserva o da precursore. Questa caratteristica della produzione
endogena è stata usata per rilevare un eventuale abuso esogeno: quando una persona assume esogenamente
o i precursori o il testosterone stesso aumenta la frazione di testosterone ma non quella di epitestosterone
QUINDI se a livello della matrice urinaria si rileva uno squilibrio nel rapporto tra testosterone ed
epitestosterone, questo è indicativo di un abuso di testosterone. Cut off molto basso: rapporto accettabile è
4 (prima era 6, quello fisiologico è 2). Se rapporto supera 4 c’è una sanzione perché è indice di assunzione di
testosterone esogeno

TOSSICOLOGIA D’ABUSO E DIPENDENZE:


La dipendenza da sostanze in generale è una malattia elencata nel “Manuale diagnostico statistico” per cui è
riconosciuta come un disordine mentale (fino a poco tempo fa la dipendenza da droghe era vista come la
debolezza di una persona mentre si è visto negli ultimi anni che dal punto di vista neurobiologico le droghe
riescono a modificare la funzionalità del cervello per cui una persona che sviluppa una dipendenza arriva a un
punto in cui non è in grado di gestire utilizzo della sostanza non per una questione di volontà ma per un
riarrangiamento dei circuiti cerebrali che porta la persona a cercare in maniera compulsiva la droga).
All’interno del Manuale sono elencati anche una serie di criteri che permettono di diagnosticare il disturbo e
per alcune classi di sostanze esistono dei trattamenti o delle terapie sostitutive che in alcuni di questi pazienti
riescono a gestire il disturbo. Per molte sostanze, come la cocaina, non esiste però antidotismo.
DIPENDENZA viene definita come una malattia mentale estremamente complessa, cronica (non si sviluppa
improvvisamente e non si risolve improvvisamente, richiede molti anni per essere recuperato). Si tratta di un
disturbo caratterizzato da ricadute, anche dopo molti anni di astinenza. Dal punto di vista comportamentale,
si caratterizza da un utilizzo compulsivo e incontrollato della sostanza, fuori dal controllo da parte della forza
di volontà della persona e l’utilizzo persiste anche quando persona è consapevole del fatto che la sostanza è
negativa per la sua vita e la sua salute. Tutte queste caratteristiche, in particolare che utilizzo persista
nonostante effetti avversi indotti sul corpo e sulla vita della persona, distinguono e rendono questo disordine
mentale unico nel suo genere.
La dipendenza è stata classificata come un disturbo mentale perché, grazie a complessi studi di imaging, è
stato scoperto che utilizzo ripetuto di sostanze d’abuso per lungo tempo è in grado di modificare la
funzionalità cerebrale in specifiche aree. Quando si sviluppa una dipendenza conclamata, si osserva il
riarrangiamento dei circuiti cerebrali che si trovano nelle aree corticali (corteccia prefrontale è area che
controlla il comportamento, fondamentale per le funzioni esecutive quindi per prendere decisioni) → la
persona non è più in grado autonomamente di smettere di utilizzare la sostanza ed è a questo punto che un
utilizzo volontario passa ad essere un utilizzo compulsivo quindi si ha necessità di utilizzare la droga
indipendentemente dai suoi effetti. Grazie agli studi di imaging si è visto anche che dopo lunghi periodi di
astinenza (di anni), questi deficit a livello strutturale e funzionale del cervello possono essere recuperati e
questo suggerisce che da questa malattia si può guarire ed è possibile approcciare malattia con interventi
farmacologici (se qualcosa può essere recuperato c’è un margine di manovra per sviluppare trattamenti che
aiutino la persona a risolvere le patologia). Dipendenza si caratterizza quindi per tre aspetti fondamentali:
- utilizzo compulsivo della droga (assunzione non dipende più dalla forza di volontà della persona)
- incapacità di smettere di utilizzare la sostanza nonostante gli effetti negativi sulla salute e sulla socialità

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- le continue ricadute che si possono verificare anche dopo moltissimi anni di astinenza dall’utilizzo della
sostanza
Disturbo non si sviluppa immediatamente: all’inizio sostanza viene assunta a scopo ricreazionale per
sperimentare e per ottenere le proprietà positive della sostanza (gratificazione) ma con il tempo si sviluppa la
necessità di utilizzarla in maniera ripetuta e in questo percorso che porta alla dipendenza ci sono due momenti
fondamentali:
• all’inizio dell’utilizzo questo è sporadico e legato agli effetti gratificanti e piacevoli della sostanza stessa
• l’utilizzo diventa poi giornaliero e continuato: la sostanza non è più assunta per le sue proprietà
gratificanti ma per evitare tutti i sintomi da astinenza (che soprattutto nel caso di alcune sostanze sono
molto spiacevoli) quindi durante la transizione verso la dipendenza utilizzo diventa molto più frequente
per evitare la sindrome astinenziale che è quello che caratterizza anche la maggior parte delle cadute
Tutte le persone che si approcciano a una sostanza iniziano con un utilizzo appropriato che rimane sporadico,
occasionale, magari legato ad alcune situazioni sociali. La maggior parte delle persone che sperimenta droghe
nell’arco della vita si ferma in questa fase (non inizia a usare la sostanza cronicamente) senza sviluppare
dipendenza. C’è però una percentuale di persone, probabilmente per via di polimorfismi genici e di traumi
sperimentati, più predisposte a sviluppare dipendenza (+ più precoce è l’età in cui si inizia ad assumere una
sostanza, più è probabile sviluppare dipendenza). Anche un utilizzo più frequente non è indicativo di uno stato
di dipendenza da quella sostanza bensì di una transizione verso l’abuso (sostanza inizia a essere utilizzata per
molte più volte e in concentrazioni più alte di quelle necessarie. Anche una persona che usa abitudinariamente
una droga è ancora in grado di tornare indietro senza dover ricorrere a terapie comportamentali,
ospedalizzazione o utilizzo di farmaci.
La dipendenza ha delle conseguenze importanti sulla salute e sulla vita dell’individuo e la differenza tra
dipendenza e fasi precedenti è che nella persona che ha sviluppato dipendenza si possono vedere, grazie a
studi di imaging cerebrali, che si sono verificati dei rimaneggiamenti delle strutture e delle connessioni
cerebrali che fanno in modo che la persona non si più in grado di decidere deliberatamente di smettere di
usare la sostanza in modo volontario. Una persona che usa una sostanza senza esserne dipendente invece è
in grado di rendersi conto che non sta usando una sostanza in maniera corretta ma senza l’aiuto di farmaci
può comunque da sola ritornare a un utilizzo normale e non pericoloso della sostanza. Un esempio di
transizione verso la dipendenza è legato all’alcolismo: l’alcol e la nicotina sono due sostanze legali che hanno
un potenziale d’abuso molto elevato. Alcol ad es è in grado di indurre una sindrome astinenziale che è stata
dimostrata essere tanto intensa quanto quella da eroina. Anche una persona che consuma alcol tutti i giorni
(sopra i tre bicchieri al giorno è considerato abuso) può decidere di regredire e ridurre gradualmente utilizzo.
Quando una persona diventa dipendente invece, la droga diventa vitale ed è il primo pensiero che viene in
mente alla persona quando si alza al mattino ma un abuso di questo tipo può anche portare la persona alla
morte.
- la maggior parte della popolazione (circa il 70%) utilizza sostanza in maniera appropriata o non
sperimenterà alcuna sostanza d’abuso per tutta la vita (non utilizzo o utilizzo occasionale). La persona
non è assolutamente dipendente dalla sostanza e in questa fase la salienza (ossia l’importanza che diamo
a uno stimolo, importanza che il nostro cervello attribuisce a uno stimolo) è legata esclusivamente alla
droga = alla droga non viene data importanza eccessiva
- circa il 25% delle persone che fanno uso di sostanze ne abusano nel senso che le utilizzano in maniera
inappropriata, con dei pattern di utilizzo rischiosi o pericolosi. Droga inizia ad assumere una salienza
fondamentale in particolari contesti (le persone che rientrano in questa categoria da abuso usano la
sostanza in maniera esagerata in determinati contesti sociali, droga inizia ad assumere una rilevanza
maggiore di quella che dovrebbe avere). Una piccola percentuale di queste persone svilupperà una
dipendenza
- Si stima che le persone affette da dipendenza siano il 5% e in queste persone la salienza della droga è
totalizzante (nel senso che la droga è legata alla sopravvivenza, assume una rilevanza maggiore a qualsiasi

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altro stimolo che la persona può ricevere durante le sue giornate, la persona non pensa di poter vivere
una vita normale se non assume la sostanza. Si perde completamente il potere decisionale sull’utilizzo
della sostanza, si ha una necessità compulsiva che prende il sopravvento su tutte le sfere della vita della
persona per cui la persona ha bisogno di aiuto)
Il rischio di sviluppare dipendenza si presenta quando la sostanza viene assunta in maniera ripetuta perché,
nonostante le sostanze d’abuso hanno dei meccanismi d’azione differenti, tutte inducono TOLERANZA agli
effetti piacevoli e gratificanti = più una persona utilizza la stessa sostanza più la stessa dose di quella sostanza
avrà un effetto gratificante ridotto → la persona per avere lo stesso effetto gratificante iniziale aumenta la
dose e questo è il primo step alla base dell’eventuale sviluppo di dipendenza. Inizia ad esserci nella persona
la necessità di assumere più sostanza o altre sostanze più pesanti della stessa classe per superare la tolleranza.
Se il consumo di sostanza continua nel tempo la persona sviluppa la necessità di un utilizzo compulsivo di
sostanza quindi non c’è più il desiderio di sperimentare gli effetti gratificanti ma si passa al WANTIG ossia la
persona vuole a tutti i costi la droga. In termine tecnico si parla di CRAVING ossia un bisogno spasmodico di
assumere la sostanza e questo si traduce sempre in un utilizzo compulsivo che porta la persona a non investire
più i suoi sforzi ad altre sfere (persone passa la giornata a pensare al momento in cui assumerà la droga).
Altra caratteristica di tutte le sostanze d’abuso è che possono indurre ricadute e questo è vero per tutte le
sostanze d’abuso, comprese nicotina e alcol (il cui potere d’abuso è paragonabile a quello delle sostanze
illegali).
La neurobiologia della dipendenza cerca di spiegare dal punto di vista cerebrale, strutturale e funzionale quali
sono i rimaneggiamenti che avvengono nel cervello che possono dare una spiegazione a queste fasi:
- liking iniziale
- sviluppo di tolleranza: una volta che vengono identificati i meccanismi d’azione delle varie sostanze si
può capire anche quale è il meccanismo molecolare che porta a tolleranza. Normalmente la tolleranza,
per la maggior parte delle droghe, è di tipo recettoriale quindi caratterizzata dal fatto che quando un
recettore viene stimolato costantemente, nel caso dei recettori accoppiati a proteine G si ha un
disaccoppiamento delle proteine G quindi si ha una ridotta funzionalità recettoriale e nel lungo termine
si ha anche internalizzazione del recettore che fa si che sia necessario assumere più sostanza per ottenere
lo stesso effetto
- transizione verso abuso compulsivo, dipendenza e ricadute: si sono fatti dei passi avanti ma resta ancora
da comprendere quali sono le basi neurobiologiche di queste due fasi della dipendenza e soprattutto
cercare di capire perché alcune persone sperimentano questa transizione mentre altre persone
sembrano essere meno vulnerabili
Per comprendere come funzionano le dipendenze ci sono due situazioni fondamentali:
→ Tolleranza: è il primo step che può portare a un utilizzo non appropriato di una sostanza. La tolleranza si
verifica ogni volta che una persona non risponde più nello stesso modo alla stessa sostanza. Per superare la
tolleranza bisogna assumere più sostanza e questo porta a un’escalation: una persona che usava la sostanza
una volta e a una concentrazione più bassa, inizia a usarla o più spesso o a concentrazioni più alte per
raggiungere lo stesso effetto. Questo è il primo step che porta alla dipendenza
→ Sindromi astinenziali: se una persona si abitua ad assumere una sostanza, quando questa non viene più
introdotta nell’organismo si sviluppa una sintomatologia estremamente spiacevole che non è solo psicologica
ma anche fisica. La persona non riesce a rimanere in astinenza per cui durante le crisi astinenziali assume la
sostanza per bypassare la crisi stessa e questo è quello che fa si che la persona non riesca a smettere a un
certo punto. QUINDI la droga non viene più presa per sperimentare il suo effetto gratificante ma per avere un
beneficio per ridurre la sindrome astinenziale. Ci sono sostanze che inducono sindromi astinenziali più gestibili
(cocaina) e sostanze che determinano invece sindromi astinenziali spiacevoli che portano la persona a ricadere
nell’utilizzo della sostanza (come alcol e oppioidi). Nel caso degli oppioidi, la dipendenza può essere dovuta
anche a una errata prescrizione per utilizzo terapeutico (si tratta di persone a cui viene prescritto un farmaco
che insieme a un potenziale terapeutico ha anche un potenziale d’abuso).

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Il meccanismo della gratificazione che caratterizza tutte le sostanze d’abuso, nonostante il meccanismo
d’azione a livello molecolare sia differente (es cannabinoidi agiscono sul recettore CB1 e CB2, psicostiomolanti
inibiscono il reuptake di dopamina, oppioidi sul sistema oppioide endogeno, nicotina su recettore nicotinico
potenziando la trasmissione colinergica) è stato chiaramente identificato: tutte le sostanze d’abuso attivano
il pathway della gratificazione a livello del SNC. Nel nostro cervello infatti è presente un circuito essenziale per
la sopravvivenza (a livello evoluzionistico siamo programmati per perseguire quello che ci far star bene e
rifiutare quello che è avversivo e nocivo per il nostro organismo) legato al piacere e alla gratificazione. Si trova
nell’area meso-limbica e comprende l’area tegmentale a ridosso del cervelletto che proietta direttamente a
un’altra piccola area nel sistema limbico chiamata nucleus accumben grazie a sinapsi dopaminergiche → ogni
volta che si sperimenta qualcosa di piacevole, aumentano le scariche di dopamina dall’area ventrale
tegmentale verso il nucleus accumbens. Tutte le droghe creano un aumento transitorio di dopamina in
quest’area così come cibo, attività fisica, sesso… Intensità con cui aumenta dopamina però non è uguale per
tutti gli stimoli e le sostanze d’abuso, rispetto agli stimoli fisiologici aumentano dopamina in maniera
esponenziale ed è per questo che una persona è portata a sperimentare nuovamente la sostanza. Tra le
sostanze d’abuso, le anfetamine stimolano in maniera molto potente il circuito della gratificazione così come
gli oppioidi (non tanto la morfina, che è oppioide naturale, ma eroina quindi anche all’interno della stessa
classe ci sono sostanze che inducono stato di piacere transitorio molto più intensamente).
GLI OPPIOIDI:
Ogni anno viene rilasciato un report mondiale del trend di utilizzo di tutte le sostanze a livello mondiale. Negli
ultimi anni, è emerso che la sostanza più utilizzata è la cannabis ma si è registrato un grosso aumento
nell’utilizzo di oppioidi che invece in passato erano al terzo posto (dopo cannabis e anfetamine). La ragione di
questa inversione di trend (epidemia da oppioidi) dipende dal fatto che a partire dai primi anni 2000 c’è stato,
specialmente negli USA, un grande aumento delle prescrizioni di oppioidi per il trattamento del dolore. Gli
oppioidi infatti sono tra i migliori farmaci analgesici ad oggi disponibili ma, visto il loro forte potenziale d’abuso,
dovrebbero essere prescritti solo per situazioni dolorose di una certa entità (dolore legato al cancro, cure
palliative) e acute evitando invece utilizzo cronico. A partire dal 2000 invece negli USA i medici hanno iniziato
a prescrivere oppioidi in maniera eccessiva, non solo per dolore acuto ma anche cronico quindi che richiedeva
un utilizzo ripetuto di oppioidi per motivi legati all’accreditamento degli ospedali (negli USA più un ospedale
prescrive una certa classe di farmaci, più aumenta la probabilità che venga accreditato come centro per il
trattamento del dolore quindi riceve finanziamenti dallo stato quindi per avere accesso a questi
accreditamenti, c’è stato un aumento esponenziale nella prescrizione di oppioidi). Quando il sistema sanitario
si è reso conto che aumento delle prescrizioni hanno portato a un aumento della dipendenza e delle crisi
astinenziali, hanno iniziato a togliere le prescrizioni ai soggetti in cui questo trattamento non era necessario
MA si trattava di pazienti che avevano già sviluppato una dipendenza fisica per cui intorno al 2010 c’è stata
una prima ondata di aumento dei casi di overdose da eroina perché persone che per anni avevano assunto
oppioidi per il trattamento del dolore e che ora si erano visti togliere la prescrizione, per bypassare la sindrome
astinenziale hanno iniziato a usare eroina. Ancora più grande è stata una seconda ondata di overdose che si è
verificata in seguito all’importazione dal Messico di eroina tagliata con il Fentamil, un oppioide sintetico 10
volte più potente dell’eroina per cui a parità di dose, rischio di overdose è molto più alto. La nostra percezione
del problema delle dipendenze è legata alla comunicazione e spesso passa in secondo piano ma anche in Italia
esiste il problema dell’overdose da oppioidi.
Gli oppioidi naturali si estraggono dal papavero da oppio. Esso produce una resina collosa che contiene
moltissimi alcaloidi e tre diverse sostanze appartenenti alla classe degli oppiodi: MORFINA (la più potente
delle tre), CODEINA (5 volte meno potente della morfina, presente nella maggior parte degli sciroppi per la
tosse perché ha un forte effetto nell’inibire il riflesso della tosse. Questa codeina è identica a quella naturale
ma viene prodotta in maniera semi-sintetica a partire dalla morfina perché codeina naturale non potrebbe
coprire fabbisogno mondiale) e TEANINA. Ad oggi, oppio viene coltivato solo in specifiche aree: Afghanistan
è la principale area di produzione (80% di tutti gli oppioidi che circolano a livello mondiale), triangolo d’oro a

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nord della Thailandia e a partire dal 2010 anche un’area nel Messico (che è quella che ha causato aumento
esponenziale di overdose dovute a taglio dell’eroina con il Fentanil. Oppioidi messicani sono più puri ma
tagliati con oppioidi sintetici). Tutti gli oppioidi che circolano in EU vengono importati da Afghanistan e
triangolo d’oro mentre Messico importa negli USA. A differenza della cocaina, oppioidi non vengono trattati
nel sito in cui vengono coltivati nel senso che vengono inviati in forma grezza (trasporto via mare) e in
laboratori clandestini viene processato. Solo l’anno scorso sono stati sequestrati lab clandestini per
lavorazione dell’oppio che viene da Afghanistan in Sicilia e a Marsiglia.
Esistono poi oppioidi semisintetici ottenuti modificando gli oppioidi naturali quali EROINA (forma diacetilata
della morfina) e VINCODIN. Ci sono poi degli oppioidi completamente sintetici di cui i più famosi sono
METADONE, FENTAMIL e CARFENTANIL (10 volte più potente del Fentanil). Esistono poi degli oppioidi sintetici
il cui utilizzo è confinato solo in alcune aree come il Tramadol, oppioide completamente sintetico diffuso in
Africa ma non è ancora arrivato nei paesi occidentali anche se è una sostanza controllata in maniera molto
ravvicinata per evitare che venga importata.
Oltre alla natura (naturale, semi-sintetica, sintetica), oppioidi si dividono anche tra:
- agonisti puri
- agonisti parziali come la Buprenorphina, prodotta per scopo terapeutico. Si affianca al metadone per il
trattamento della dipendenza da oppioidi in quanto ha un potenziale d’abuso inferiore al metadone
stesso
- antagonisti (completamente sintetici): utilizzati nel trattamento dell’overdose e per prevenire le ricadute
MORFINA:
Principale componente attivo dell’oppio, si tratta dell’oppioide naturale più utilizzato come farmaco
analgesico ma ha un forte potenziale d’abuso. Por poterla utilizzare in clinica senza sviluppare dipendenza,
viene somministrata con formulazioni orali o sottocutanee. Questo perché la dipendenza dipende da un
assorbimento veloce per cui le formulazioni assorbite più lentamente rappresentano un modo per ridurre il
potenziale d’abuso di queste sostanze quando devono essere usate in clinica. La morfina non viene utilizzata
come sostanze d’abuso perché ha un potenziale d’abuso elevato ma non elevato quando la sua forma
modificata che è l’EROINA (morfina diacetilata). Eroina è stata sintetizzata per la prima volta dalla Bayer
durante studi volti a sviluppare un oppioide con la stessa efficacia terapeutica della morfina ma con un ridotto
potenziale d’abuso. Si è poi scoperto (dopo che l’eroina è stata commercializzata fino al 1913) invece che
l’eroina ha un potenziale d’abuso molto più elevato della morfina stessa quindi è stata tolta dal commercio.
VINCODIN:
Combinazione tra un oppioide (idrocodone) e un farmaco analgesico non oppioide (Acetaminophen che è la
tachipirina) in modo da combinare azione analgesica dell’oppioide con l’azione antinfiammatoria del farmaco
non oppioide. Rispetto a eroina e morfina potenziale d’abuso è inferiore ma è comunque un potenziale
d’abuso moderato. Necessita come tutti gli oppioidi di prescrizione medica
METADONE:
Oppioide completamente di origine sintetica che si comporta da agonista. La formulazione è orale per cercare
di ridurre il potenziale d’abuso. Rispetto a tutti gli altri oppioidi emivita è molto più lunga e questo è
importante perché l’unica applicazione clinica del metadone riguarda il trattamento della dipendenza da
oppioidi (terapia sostitutiva per evitare che si verifichi una crisi di astinenza esagerata) ed essendo un farmaco
a emivita lunga, può essere somministrato meno frequentemente nel tempo e inoltre permette di evitare il
rush di piacere che può derivare dall’assunzione della sostanza.
Per il trattamento della dipendenza da oppioidi altro approccio fondamentale riguarda l’utilizzo di antagonisti
come il NALOXONE. Esso viene somministrato per via endovenosa e ha un picco di azione molto rapido nel
senso che riesce a bloccare tutti i recettori per gli oppioidi in due minuti evitando la depressione respiratoria
che determina morte in caso di overdose da oppioidi e questo è importante perché la finestra di intervento è
molto limitata (es in caso di overdose da eroina morte sopraggiunge nel giro di mezz’ora mentre per oppioidi

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sintetici come il Fentamil, la finestra d’azione è di soli 10 minuti). Vista epidemia di overdose da oppioidi, negli
USA i poliziotti hanno la facoltà di somministrare naloxone quando si trovano davanti a una situazione di chiara
overdose da oppioidi per cercare di evitare morte per overdose. Il NALTREXONE è un altro antagonista che ha
lo stesso meccanismo d’azione del Naloxone (antagonizza recettore oppioide) ma in questo caso formulazione
è orale ed emivita è molto più lunga quindi viene dato come prevenzione della ricaduta nelle persone
dipendenti da oppioidi: quando una persona riesce a diventare astinente, si può somministrare naltrexone
cronicamente per fare in modo che se la persona dovesse avere una ricaduta (quindi assume nuovamente la
sostanza), non sperimenti il piacere legato all’utilizzo della sostanza stessa e quindi sarà meno probabile che
torni a sviluppare nuovamente dipendenza per quella sostanza dal momento che è la ricerca di gratificazione
che crea dipendenza. Comunque, è possibile intervenire solo sul comportamento e non sui circuiti
neurobiologici responsabili della dipendenza.
Gli oppioidi agiscono sul sistema oppioide, un sistema neurotrasmettitoriale endogeno i cui agonisti
nell’organismo sono encefaline ed endorfine (oppioidi endogeni). All’interno dell’organismo, i recettori per gli
oppioidi sono molto efficaci nel modulare la sensazione dolorifica perché sono molto espressi nelle vie
ascendenti e discendenti del dolore. Sono recettori che si trovano sia a livello pre che post sinaptico che una
volta attivati bloccano la trasmissione dello stimolo dolorifico in modo indiretto ossia modulando la
trasmissione glutammatergica. Sistema oppioide endogeno presenta 4 sottotipi recettoriali: mu, delta, kappa
e KOP. Ognuno di questi recettori ha un suo specifico ligando endogeno ma recettore principale responsabile
sia dell’effetto analgesico maggiore sia di sviluppo della dipendenza è il recettore mu (tutti gli oppioidi sono
agonisti del recettore mu e tutti gli antagonisti sono antagonisti di questo recettore) → non si riesce a slegare
azione analgesica efficace dal potenziale d’abuso (e quindi dallo sviluppo di dipendenza) perché il recettore
che modula effetti analgesici è lo stesso che modula potenziale d’abuso. Lavorando su altri recettori non
abbiamo effetto analgesico (e neanche quello di sviluppare dipendenza). Recettori mu sono molto espressi
anche nel tronco encefalico (che controlla la respirazione) per cui la causa principale di morte per overdose
dipende da iperattivazione del recettore mu a livello del tronco encefalico. Spiazzando agonista dal recettore
mu con un antagonista, è possibile scongiurare il rischio di una crisi respiratoria. Si sta cercando di capire,
essendo tutti questi recettori accoppiati a proteine G, quali sono gli effettori perché se ci fosse un effettore
responsabile dell’effetto analgesico e uno responsabile del potenziale d’abuso si potrebbe pensare di
disegnare oppioidi che attivino preferenzialmente un effettore rispetto all’altro.

Il pattern di utilizzo degli oppioidi tra uso medico e ricreazionale è completamente diverso:
- per utilizzo medico si utilizzano oppioidi con un potenziale d’abuso più basso come la morfina (non si
utilizzano quelli estremamente potenti che comunque hanno potenziale analgesico elevato) con
somministrazione orale o sottocutanea per ridurre assorbimento, aumentare emivita ed evitare picchi
che aumentano la probabilità di sviluppare abuso
- Nel caso di oppioidi usati a scopo ricreazionale, oppioidi vengono fumati, sniffati e iniettati per via
endovenosa o sottocutanea. Di solito si inizia fumando o sniffando la sostanza, dopodichè si sviluppa
tolleranza che per essere bypassata si può aumentare la dose o, nel caso dell’eroina, cambiare via di
somministrazione scegliendo una via che porti più velocemente la sostanza al cervello. Sicuramente la
via di somministrazione più veloce è la via endovenosa.
Effetti degli oppioidi sono dose-dipendenti:
• a dosi basse e moderate (usate per utilizzo medico) si verificano effetti analgesici e depressione
respiratoria che deve essere tenuta sotto controllo (c’è una grossa interazione con altre classi di sostanze
ad es se si assumono contemporaneamente morfina e benzodiazepine si verificherebbe un effetto
sincrono sinergico sulla depressione respiratoria per cui aumenterebbe rischio di sviluppare depressione
respiratoria), costrizione delle pupille, riduzione dei riflessi, confusione, sensazione generale di
rilassamento, riflesso della tosse è soppresso e riduzione della temperatura basale. Questi effetti non

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saranno mai sperimentati da una persona che assume oppioidi a scopo ricreazionale perché non sono
effetti piacevoli, possono essere considerati effetti collaterali della terapia con oppioidi.
• dosi elevate somministrate per via endovenosa o inalatoria: USH ossia una sensazione transitoria di
piacere estremamente elevato associato al picco di dopamina a livello del nucleus accumbens. Esso è
talmente gratificante che la persona vuole assumere nuovamente eroina per rivivere questa sensazione
ma siccome il rush va incontro a tolleranza, la persona tenderà ad assumere dosi più alte o cambierà via
di somministrazione e questo determina un aumento drastico del rischio di overdose. Il rush non potrà
mai essere sperimentato neanche con dosi alte se la somministrazione è orale perché la sostanza assunta
deve raggiungere il SNC molto rapidamente da quando la si assume (più la finestra temporale tra
l’assunzione e l’arrivo al cervello è breve, maggiore sarà la sensazione di piacere sperimentata quindi per
l’abuso le due vie d’élite sono quella inalatoria ed endovenosa). La maggior parte delle persone che fanno
uso di eroina sperimentano almeno una volta una overdose da eroina, queste sostanze sono talmente
potenti nell’indurre dipendenza che anche una persona che sperimenta overdose rischia ricadute
(salienza mantenuta anche in seguito a situazioni estremamente gravi come overdose).
Sintomi dell’overdose da oppioidi sono forte depressione respiratoria, colore cianotico della pelle, miosi
(riduzione impressionante delle pupille che permette di capire subito se overdose è da oppioidi o da
psicostimolanti come cocaina perché nel secondo caso si ha invece fortissima dilatazione delle pupille). I
principali fattori che innescano overdose sono:
- sviluppo di tolleranza che fa si che la persona aumenti progressivamente la dose
- uso intermittente: una volta che si sviluppa tolleranza essa è reversibile quindi dopo un po’ che non si
usa una sostanza i recettori tornano al loro stato fisiologico quindi se si ricomincia prendendo la sostanza
alla stessa dose cui si prendeva prima, non essendoci più tolleranza si sviluppa overdose
- utilizzo di più sostanze contemporaneamente (all’inizio degli anni ’90 speedball = mix di eroina e cocaina
che si usava perché eroina, dopo rush iniziale, lascia il SNC in uno stato di forte depressione quindi
combinando con cocaina, questa riduce effetto deprimente dell’eroina. Problema è che farmacocinetica
di eroina e cocaina sono diverse: emivita della cocaina è brevissima, da mezz’ora a un’ora e mezza mentre
emivita dell’eroina è molto più lunga quindi sono morte tante persone di overdose perché quando finisce
effetto della cocaina che permette di bypassare la depressione respiratoria perché è un eccitante,
permane l’effetto dell’eroina quindi eroina ad alta dose può causare improvvisamente depressione
respiratoria e morte per overdose)
Ci sono anche effetti degli oppioidi che si manifestano a livello periferico perché recettori per oppioidi si
trovano anche a livello gastrointestinale. Recettori mu a livello gastrointestinale, siccome regolano motilità
intestinale, vengono sfruttati per trattare dissenteria (Imodium è un oppioide modificato per evitare che
attraverso BEE quindi esplica i suoi effetti solo a livello sistemico).
La tolleranza agli oppioidi si verifica per tutti i sintomi che riguardano depressione respiratoria, effetto
analgesico ed effetto gratificante. La miosi invece non va in tolleranza. Si sviluppa anche cross tolleranza: una
persona che assume un oppioide e sviluppa tolleranza verso quell’oppioide, la tolleranza che si sviluppa in
realtà è verso l’intera classe di sostanze essendo il meccanismo recettoriale identico (cross tolleranza tra
farmaci della stessa classe)
Il naloxone viene somministrato in caso di overdose per via endovenosa in modo da spiazzare gli oppioidi dal
recettore. Oltre a questo, la FDA ha approvato per la gestione della dipendenza da oppioidi ed eroina una
terapia di mantenimento volta ad evitare sintomi da astinenza che si verificherebbero ogni volta che persona
smette di consumare la sostanza: metadone e buprenorfina + - naltrexone usato per prevenire la ricaduta.
Il METADONE è un agonista puro del recettore oppioide quindi ha lo stesso meccanismo d’azione degli
oppioidi ma è stato formulato per la terapia (si è cercato di ridurre il potenziale d’abuso) quindi durata
d’azione è molto lunga e assorbimento è molto lento. Metadone è elencato nella classe 2 delle sostanze
stupefacenti ossia la classe delle sostanze con un alto potenziale d’abuso ma che hanno una applicazione
clinica. Se metadone è usato in maniera scorretta c’è la possibilità di sviluppare dipendenza da metadone (c’è

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un commercio illegale di metadone nonostante questo venga assunto sotto supervisione clinica). Problema
del metadone è che il 50% delle persone che accedono al trattamento con metadone restano in astinenza
quindi sono in grado di non assumere la sostanza alla fine del trattamento (efficacia nel breve termine del
trattamento di disintossicazione). Quando si toglie il metadone, solo l’8% resta effettivamente astinente
mentre il 42% ricomincia nel tempo a usare oppioidi (efficacia è bassa e limitata a quando il metadone viene
somministrato quindi non è una cura perché problema nel lungo termine non viene risolto).
BUPRENORFINA è un agonista parziale del recettore oppioide introdotta perché ha una proprietà di rinforzo
minore rispetto al metadone ma ha anche efficacia ridotta. Somministrazione è sempre orale, rispetto al
metadone permette di ridurre le visite in ospedale da parte del paziente per ricevere il trattamento (paziente
trattato con metadone deve andare tutti i giorni in ospedale per ricevere il farmaco mentre nel caso della
Buprenorfina persona può andare ogni mese a prendere la fornitura perché essa agisce come agonista
parziale, classe 3 nelle sostanze con potenziale d’abuso che non è così alto, quindi difficilmente persona
sviluppa dipendenza per la Buprenorfina e non può essere commercializzata illegalmente perché potenziale
d’abuso non è tale da avere utilizzo ricreazionale). MA efficacia rispetto al Metadone è ridotta

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